I
personaggi qui usati,
chiaramente, non ci appartengono.
Ovviamente
non fanno
nulla di quanto qui descritto.
Ovviamente
niente di
quanto qui descritto corrisponde alla realtà dei fatti.
Ovviamente
non s’intende
offendere nessuno (per quanto possa apparire strano, siamo davvero fan
dei
Placebo).
Ovviamente
non ci danno
una lira per perdere il nostro tempo a scrivere ‘ste cose, lo
facciamo perché ci
diverte e perché in modo contorto dimostra
l’affetto che nutriamo verso Brian e
compagni.
Ciò
detto, due note
pratiche per chi volesse leggere la storia che segue.
Le
vicende qui
raccontate si collocano spiritualmente nel periodo immediatamente
antecedente
“They have trapped me in a bottle…”,
tuttavia non si tratta di un vero e
proprio prequel nel senso pieno del termine. Chi si fosse posto domande
oziose
sul come e perché Brian e Stef si siano lasciati e sul come
e perché Vincent
sia entrato nella vita di Stefan, avrà qui una versione del
fattaccio.
Ciò
detto si fa notare
che:
Vincent
Cavendish non è
un personaggio reale ed è di legittima proprietà
dell’Easily Forgotten Love.
Allo
stesso modo anche
Abba “Pongo” Olsdal è
proprietà privata dell’Easily.
Un
bacio e buona lettura
dall’Easily ^_^
**
A
volte le cose finiscono.
-Si
tratta di un favore
personale, Vincent.
…in
realtà, le cose finiscono quasi sempre.
-Di
questo non dubitavo,
Alex, generalmente non mi chiami se non
è un
favore personale.
Solo
che a volte fa male.
-Starò
benone, Steve. E
poi, credimi, continuare a vivere assieme sarebbe stato solo un
problema.
Questa cosa renderà più facile a tutti e due
ricominciare.
Ed
alcune di queste volte, fa così
male
da non avere nemmeno la forza di chiudere e basta.
-Sarà,
ma io vedo tutta
questa storia piuttosto incasinata, Stef. Insomma…tu e Brian
non vi siete davvero
lasciati.
Così
le cose, anche se finite, si trascinano.
E
gli strascichi di una storia finita sono peggio, a volte, di tutto
quello che
di male.
Di
cattivo.
Di
doloroso ci si sia scambiati stando assieme.
Cammina
lungo l’aiuola,
passeggiando sul bordo sottilissimo che la delinea. Al di là
dell’orlo, nel
manto di erba è infisso un cartello che ammonisce dal
calpestare il prato.
Gli
sembra di sfidare
l’autorità dei guardiani del parco, un paio sono
già passati gettandogli da
lontano un’occhiata perplessa ed infastidita. Va bene dover
riprendere i
ragazzini perché si comportano in modo stupido, ma una
persona adulta…!
Sa
che dovrebbe
piantarla, voltarsi nel freddo grigio di Londra e rifare al contrario
lo stesso
percorso. Mollare il parco, il vialetto con l’aiuola
ricoperta di verde umido e
tornare a casa.
Ma
il problema è che non
riesce nemmeno più a chiamarla “casa”.
…vorrebbe
che gli agenti
immobiliari si sbrigassero a trovargli un altro appartamento. E
vorrebbe che si
sbrigassero a vendere quello.
Vorrebbe
addormentarsi
in un letto diverso. Svegliarsi e dimenticare di essere se stesso.
WITHOUT
YOU, I’M NOTHING
Vorrebbe,
in definitiva, sentirsi meno stupido.
E
meno solo.
Il
cellulare squilla nella tasca del cappotto, infila la mano a prenderlo
e guarda
il nome che appare sul display un momento prima di aprire la
comunicazione.
-Alex…
-Brian,
dove accidenti sei? L’intervista era mezz’ora fa.-
ricorda pazientemente la
manager dall’altro lato della comunicazione.
Immagina
che dovrebbe provare qualcosa. Tipo un minimo di contrizione per aver
– tanto
per cambiare – mandato a puttane un impegno di lavoro.
-Ah.
Lo
immagina, ma da qui a provare davvero qualcosa il passo è
lungo.
Un
po’ troppo di questi tempi.
Sospiro
di Alex.
-O.k.,
quanto pensi di metterci ad arrivare adesso?- chiede.
-Non
so…una decina di minuti.- risponde guardandosi attorno.
La
quiete sonnacchiosa del parco gli dice che ci vorrà molto
più tempo. Quanto
meno per scrollarsi di dosso il desiderio di restare lì, a
non fare
assolutamente nulla…Nemmeno vivere.
-Bene,
allora muoviti.- ordina lei prima di chiudere la comunicazione.
***
-Non
lo so, Alex, non vedo a cosa dovrebbe servirmi andare da uno
psicologo…
Lo
guarda. Scettica solleva un sopracciglio, ma si astiene da ogni
commento.
Per
Stefan è più facile cogliere la sua
perplessità in quei pochi gesti che in un
milione di parole, benefici del passare tanto tempo a stretto contatto
con una
persona. Sospira, ma insiste lo stesso.
-Pensavo
dovesse essere Brian a farsi vedere da qualcuno.- obietta pacatamente.
La
donna nota comunque la sottile sfumatura di cui si colora
l’espressione. Non è
nel tono usato, quello è talmente inespressivo e piano da
sembrare quasi
disinteressato, ma è nella natura del rapporto che lega quei
due. Da lì trae
origine il fatto che Stefan parli di Brian e dei suoi problemi
– del suo doversi “far
vedere da qualcuno”
– con una naturalezza disarmante. Brian è uno
specchio di acqua per Stefan, ci
vede attraverso, e sul fondo limaccioso di quella
personalità contorta ha visto
qualcosa che lo determina ad
accettare Brian in ogni sfumatura. Per quanto assurda, anormale,
fastidiosa e
pericolosa per il prossimo possa essere.
-Ci
sto lavorando.- ridacchia lei, e torna verso il tavolo con il the.
Stefan
le sorride riconoscente quando gli posa davanti una delle due tazze,
Alex si
volta a recuperare anche il bollitore e lo sistema accanto a loro. Sa
che sarà
una cosa lunga. E difficile.
In
qualche modo per entrambi.
-Ha
fatto scappare anche l’ultimo, vero?- s’informa
intanto Stefan, prendendo a
bere a piccoli sorsi la bevanda troppo calda.
-Avevi
dubbi?- chiede lei storcendo il naso- La risposta è sempre
la stessa “mi
spiace, signorina, non posso continuare a curare il Sig. Molko, per il
semplice
fatto che lui non intende affatto
farsi curare”.- Sospira ancora, sollevando la tazza che
sembra decisamente
grande tra le sue dita sottili.- A volte mi chiedo se non sarebbe stato
meglio
aspettassi ancora un po’ per piantarlo…- ammette a
voce bassa, fuggendo lo
sguardo dell’altro ragazzo.
-Non
sarebbe cambiato nulla.- ribatte paziente Stefan.
Alex
si agita infastidita sulla sedia. Stefan sa che si sente in imbarazzo a
parlarne, perché questa storia è davvero
difficile per tutti loro e non è
nemmeno giusto che ci vadano di mezzo. Ma era inevitabile che
succedesse, e lui
e Brian avrebbero dovuto metterlo di conto a suo tempo, ben prima di
fare
iniziare tutto. Il finale era quasi scontato già allora e,
quindi, sarebbe
stato corretto che ne prendessero atto e si comportassero con
più diligenza per
tutelare gli interessi di chi stava loro intorno. Alex per esempio, ma
anche
Steve. E non è solo un problema di lavoro, è
proprio un problema di amicizia.
-Senti,
Stef!- sbotta lei all’improvviso, appoggiando rumorosamente
la tazza e
fissandolo bellicosa.
Stefan
la guarda più che ascoltarla, e pensa che è
piccola quasi quanto le sue dita.
Senza trucco ha il viso di una bambina, ed i capelli sono quasi sempre
in
disordine se può evitare di pettinarli. Se fosse
più sottile di così si
spezzerebbe a metà e, decisamente, meriterebbe un uomo che
la amasse davvero,
un matrimonio da favola ed una vita da principessa.
Ed
invece è solo Alex…La piccola, bellicosa,
bellissima Alex. Gli fa decisamente
tenerezza.
Così
sorride.
Lei
se ne accorge e capisce che sprecherà fiato,
s’imbroncia e fa un verso buffo
per indicare che si sta spazientendo. Stefan, richiamato
all’ordine, si scuote
ed annuisce per dirle che ascolterà ubbidiente.
-Beh…-
esordisce Alex. E non sa neppure dove andare, come dimostra il fatto
che si
perda subito dopo aver iniziato. Continua comunque, anche se a fatica,
raccogliendo le idee dal fondo della testa.- Stef,- chiama piano,
affettuosa
nella propria preoccupazione.- ascolta il consiglio di una scema,
parlarne con
qualcuno ti farà solo bene.- sussurra.
A
Stefan viene quasi voglia di abbracciarla. Le sorride ancora.
-Facciamo
a modo tuo.- concede con facilità.
***
Lo
Studio non è in centro, è in una periferia
profumata, con un parco enorme a due
passi dal palazzo e viali alberati in cui passeggiano persone che non
hanno la
fretta consueta della Londra di sempre. Stefan lo apprezza. Anche
perché ha
dovuto lasciare la macchina distante ed ha avuto un bel pezzo di strada
da fare
a piedi, durante il quale pensare lucidamente alla propria vita.
È un lusso di
questi periodi, lo è ancora di più riuscire a
fare quelle riflessioni sotto il
profumo carico delle foglie e dell’erba, senza il frastuono
delle auto ed il
grigio pesante della città.
Così
gli è stato molto più facile sorridere alla
signorina compita che gli ha aperto
la porta, lei gli ha chiesto se voleva del the e poi lo ha rassicurato
che il
dottore sarebbe stato subito da lui ed è uscita dalla
saletta d’attesa, linda
ed ordinata, in cui lo ha rinchiuso con i propri pensieri.
Stefan
si guarda attorno. Gli piace la scelta di colori, sembra un
proseguimento
dell’ambiente esterno: marrone ocra, tendente al rosso, sul
legno chiaro dei
mobili, il gusto profumato di un’antichità un
po’ autentica un po’ riprodotta
con stile, un verde chiarissimo, che si mescola di beige e di rossi
soffusi
sulla tappezzeria e nei tappeti orientali…e libri. Stefan
pensa che non vedeva
così tanti libri dal giorno che ha lasciato casa. Dal giorno
che ha lasciato
Brian.
Brian
legge moltissimo.
…ma
è molto più disordinato.
Sorride.
Lui
i libri li affastella. Li mette uno
sull’altro quando finisce lo spazio a disposizione sugli
scaffali. Anche a
terra. Non ha mai badato al fatto che potessero rovinarsi,
perché Brian i libri
li vive,
gli piace leggerli, sottolinearli, farci segni e note a
margine. E legge qualsiasi cosa. Dai trattati scientifici ai romanzetti
rosa
per signore. C’erano pile intere di libri in casa loro e la
stanza di Brian era
un campo minato di queste pile disordinate, sempre pronte a crollarti
addosso
al minimo movimento sbagliato. Lui non trovava mai nulla di quello che
cercava.
Si arrabbiava e cominciava a creare un disordine anche peggiore.
Disfaceva le
pile, le trasformava in un profluvio casuale di volumi sul pavimento,
ci
zampettava in mezzo alla ricerca inutile di qualcosa ed era capace di
sedersi
sui libri che non poteva spostare per avere spazio a sufficienza per
cercare in
mezzo agli altri.
-Stefan
Olsdal?
Si
volta per trovarsi davanti un ragazzo, poco più vecchio di
lui, trenta o
trentuno anni. Ha un viso magro, dai tratti decisi: zigomi alti, naso
dritto e
fronte ampia. Gli occhi sono chiarissimi, con ciglia folte e dorate, la
bocca
sottile e disegnata con precisione. È un viso piacevole,
molto bello, con
un’espressione serena e rilassata, rassicurante. È
alto – anche se non quanto
lui – con un fisico asciutto dai muscoli definiti e magri,
che denota cura di
sé costante e paziente, così come
l’abbigliamento impeccabile – un casual di
classe, portato con disinvoltura ed eleganza – o il taglio
preciso dei capelli
castani – né troppo lunghi né troppo
corti. Riflessi dorati anche lì, nota
Stefan, così come nota il mento e le guance perfettamente
rasate e la mano
curata, che gli viene testa in un gesto di saluto.
-Sì,
sono io.- risponde a quel punto, ricambiando la stretta.
-Io
sono Vincent Cavendish.- si presenta lui.- Vogliamo accomodarci di
là?- chiede
poi sciogliendo le dita ed accennando alla porta da cui è
entrato.
Lascia
che Stefan lo superi, tirando poi l’uscio dietro di
sé e lo segue per
accelerare il passo sul manto soffice di tappeti che copre il parquet
dello
studio. Stefan si concede più tempo, gira intorno lo sguardo
per cogliere
nell’insieme i quadri alle pareti, gli scaffali infiniti di
libri che ricoprono
anche questa stanza, le sculture di bronzo sistemate con cura sulla
scrivania
enorme e pesante e poi lo stereo a parete – così
fuori luogo ed anacronistico –
con i cd ordinatamente disposti sotto, su una mensola apposita.
-Bello
studio, dottore.- si complimenta pianamente lo svedese, mentre accoglie
l’invito
dell’altro a prendere posto in una delle due poltrone davanti
la scrivania.
-Chiamami
pure Vincent.- sorride lui.- Siamo praticamente coetanei.
Stefan
ricambia il sorriso con uno molto più falso ed imbarazzato.
Si sistema sulla
poltrona, che è troppo piccola, ed allunga le gambe davanti
a sé, scivolando
sulla seduta quel tanto che basta a posare le mani intrecciate sul
ventre
piatto sotto la maglietta attillata.
-Immagino
che adesso dovrei dire perché sono qui…-
esordisce a quel punto.
-Perché
Alex ti ci ha mandato.- ridacchia Vincent rubandogli la risposta.- Sa
essere
incredibilmente inopportuna quando vuole, vero?- s’informa
poi, sistemandosi a
sua volta contro lo schienale della sedia e fissandolo accondiscendente
da lì.
Stefan
si rilassa, il sorriso si fa meno forzato ed una punta più
sincero. Inclina il
capo e posa la tempia sul pugno chiuso, contro il bracciolo della
poltrona.
-Conosci
Alex?- realizza.
-Eravamo
compagni di scuola.- confessa Vincent.- Lei era la ragazza
più carina della
scuola.
-E
tu le andavi dietro.- ipotizza Stefan, divertito.
Vincent
ricambia quel divertimento.
-No.-
risponde però.- Io ero già gay allora.- confessa
quindi con semplicità.
***
-Non
posso crederci!
Stefan
ride di Alex ed ottiene come punizione un colpo in testa da un vecchio
e
rovinatissimo pupazzo di peluche, che vorrebbe essere ancora un
leoncino ma è
ormai ridotto a poco più di un gattaccio spelacchiato e
sbiadito di un biondo
inconsistente. Lo svedese lo recupera al volo quando gli rimbalza
addosso e con
cura lo posa accanto a sé sul divano che lo ospita in casa
della manager.
Lei
sparisce dietro la porta della cucina e continua a protestare
imperterrita
mentre mette su l’acqua per il the.
-Io
ti mando da Vincent perché tu parli dei tuoi problemi con
Brian e voi parlate di me?!
-Non
posso crederci io, Alex. Prendersi una cotta per il migliore amico gay
è un
tale clichè!- la deride Stefan impietoso.
Alex
torna in salotto, mani sui fianchi e capelli più arruffati
del solito. Lui la
osserva pacificamente dallo stesso divano, semisdraiato tra i cuscini
affastellati su un lato e con il capo all’indietro sullo
schienale imbottito.
-Punto
numero uno,- inizia
ad elencare lei con
precisione, sfoderando anche le dita per poter tenere il conto sulla
punta
delle unghie smaltate di rosso – che fosse gay l’ho
saputo solo al ballo di fine anno,
quindi un bel po’ dopo essermi presa
una cotta ed ancora dopo averlo invitato ed aver fatto la figura della
scema.
Punto numero due,- prosegue con la stessa flemma metodica- prendersi
una cotta
per l’amico gay non è un clichè, ma un
classico intramontabile. Prova ne è il
fatto che nel gruppo sei tu il mio preferito.
Il
bollitore fischia educatamente richiamando l’attenzione della
donna ed Alex
torna indietro, mentre è il turno di Stefan di uscirsene con
una blanda
protesta a mezza voce.
-Qui
stai mentendo.- afferma- Il tuo preferito è Brian e,
nonostante tutto, lui è
molto meno gay di me.
Alex
armeggia tra tazze e cucchiaini, il rumore delle stoviglie copre il suo
sospiro
paziente, quando torna nuovamente nella stanza lo fa accompagnandosi
all’odore
carico del the aromatizzato. Porge la tazza all’altro e gli
si lascia cadere
accanto appena lui la accetta, ripiegando le gambe al petto e poi sotto
di sé e
puntando gli occhi verdi dritti sul muro di fronte. Il televisore cupo
e nero
la occhieggia dalla parete, rimandandole l’immagine sua
– in tuta e calzerotti
di lana – e di Stefan – in jeans e maglietta a
mezze maniche come non sentisse mai il
freddo.
-Che
ne pensi, allora?- s’informa sbirciando la risposta di Stef
nel riflesso nero.
Lui
la guarda un momento e poi segue il suo sguardo ed incrocia anche lui
quelle
due figure più scure su un fondo già tetro. Ci
rimane impigliato dentro proprio
come lei e si osserva mentre scuote la testa in un gesto che mima
perplessità.
-Mi…piace…-
ammette a fatica.- Ma non vuol dire che mi fidi di lui.
Alex
ride, allontanando la tazza per non farne uscire il contenuto bollente.
-Quindi
devo riferirgli che il tentativo di aggirare le tue difese con la
storia del
“siamo tutti amici” è fallito?-
s’informa lei.
Stefan
gli ricambia la risata con una piccola e soddisfatta.
-Beh,
dai, è stato smaccato!
Alex
sta in silenzio, posa la tazza sulle ginocchia e prende a tirare i
riccioli,
guardandoli allungarsi sulla televisione fino a raggiungere una
lunghezza
invidiabile. Se li stirasse sarebbero quasi indecenti
da portare.
-Vincent
non imbroglia, Stefan.- dice alla fine, stringendosi nelle spalle.-
Puoi
fidarti di lui.
Stefan
si volta ancora e stavolta i loro occhi s’incrociano in
silenzio, quando torna
a guardare i due riflessi alla televisione respira a fondo ed annuisce.
-…magari
però sono io a non voler essere sincero.- ammette a mezza
voce.- L’ultima volta
mi sono fatto un po’ male.
***
Si
sveglia perché dalla stanza accanto arriva un rumore
ovattato e confuso,
coperto ogni tanto da due voci che, pur mantenendosi basse, sono irate
e si
accapigliano per un predominio rabbioso. Si rigira nel letto, ha mal di
testa
perché la notte prima ha dormito male e poco e, per prendere
sonno, ha finito
per concedersi una dose generosa di alcolici. Posa una mano sulla
fronte,
provando un benessere fugace nel premere contro il dolore sordo che gli
pulsa
al di là delle dita, ma poi le lascia scivolare via, lungo i
capelli
cortissimi, e le allarga sul materasso a fare da sostegno mentre
solleva il
busto e ruota le gambe per portarle a terra sulla moquette. Cammina
scalzo,
recuperando da una poltrona una maglietta bianca, ed esce nel salottino
adiacente la camera da letto.
Una
delle due figure la riconosce subito. Lo fa il suo sangue, che sembra
svegliarsi di colpo dal torpore innaturale dell’alcol, e la
sua pelle, che
prende a fremere appena in un solleticare fastidioso. Porta una mano al
braccio
nudo e gratta via quella sensazione, avvicinandosi mentre anche
l’altra figura
diventa più chiara e lui riconosce uno dei camerieri
dell’Hotel dove alloggia.
-Che
sta succedendo?- chiede con voce impastata.
A
voltarsi è quello più basso. Piccolo e magro. Il
viso di sempre, truccato
perché pare che ormai non riesca a farne a meno neppure
quando non sono in
scena su un palco. La vita di Brian Molko sembra essersi trasformata in
un
unico palco, fatto delle recite in cui nasconde le occhiaie dietro il
correttore ed il pallore innaturale dietro il fondotinta. Eppure
è perfetto
come sempre, dal rimmel sulle ciglia già lunghe, al
lucidalabbra chiarissimo
che gli rende la bocca più turgida e bella che mai, sono
perfetti perfino i
capelli corti e sparati dal gel, che gli si aprono attorno come un
ventaglio impossibile
di frecce nere.
È
perfetto lui. Bello come sempre. Bello peggio del solito.
Ed
è la solita tortura trovarselo davanti.
-Stefan!-
sbotta appena lo vede.
Ma
a coprire le voci di entrambi - i pensieri di entrambi - ci pensa
quella
concitata dell’altro uomo, che s’infila tra le loro
con prepotenza incalzante.
-Non
sono riuscito ad impedirgli di entrare, Sig. Olsdal!- si giustifica
affrettatamente. Stefan annuisce distratto ed intontito, cercando di
ricordare
il nome del ragazzo che gli si agita davanti preoccupato.- Mi ha anche
rubato
il passepartout!
-Non
l’ho rubato!- ribatte Brian petulante, facendo apparire tra
le mani una chiave magnetica
attaccata ad una cordicella, la lascia oscillare offrendola
all’uomo, che
gliela strappa di mano senza troppa delicatezza mentre lui arriccia il
naso in
una smorfia ridicola e prosegue- Era un prestito!
-Sì,
sì, va bene.- s’intromette Stefan prima che il
cameriere possa riprendere ad
inveire.- È tutto a posto, Oscar.- lo rassicura, ricordando
il nome ed
utilizzando per spingere l’uomo con educata fermezza verso la
porta della
stanza.- Ti ha restituito la chiave, è entrato nella
stanza…Non c’è nessun
problema.
-È
sicuro, Sig. Olsdal? Aveva detto che non voleva essere disturbato
e…
-Sono
sicuro, Oscar, grazie.- risponde lui pianamente, aprendo il battente ed
aspettando che esca in corridoio.
L’uomo
getta un’occhiata affatto convinta a Brian, che gli ritorce
contro una
linguaccia che Stefan intercetta voltandosi a fissarlo con aria di
disapprovazione paterna, poi il bassista richiude la porta e si volta a
fronteggiare il proprio cantante.
-Tu
la frase “voglio stare un po’ da solo”
non la capisci quando è qualcun altro a
dirlo a te, vero?- domanda colloquiale.
Brian
sbuffa. Gli da le spalle e prende a muoversi nella stanza, ignorando
volutamente la domanda mentre si libera a fatica
dell’ingombro offerto dal
cappotto che ha addosso. Lo abbandona in un mucchio disordinato su un
divano e
poi si lascia cadere proprio lì accanto, incrociando le
braccia sul petto con
aria agguerrita e tornando a puntargli addosso uno sguardo ostinato e
silenzioso.
Stefan
sospira, passandosi ancora la mano tra i capelli, la lascia ricadere
sul fianco
e si dirige verso il telefono posato sul tavolino dietro il divano di
Brian.
-Io
intendo ordinarmi la colazione,- gli annuncia- ti unisci a me o digiuni
per
protesta?- s’informa premendo i tasti per contattare la hall.
-Vuol
dire che posso restare?- arguisce Brian a mezza voce.
-L’unico
modo che ho per metterti alla porta allo stato dei fatti è
farlo fisicamente.- afferma Stefan
pacato,
buttando giù prima che dall’altro lato gli
rispondano.- E questo magari non
sarebbe un problema, ma penso che lederebbe definitivamente quel
po’ di dignità
che ancora hai.- conclude ricomponendo il numero e portando la cornetta
all’orecchio.
Quando
riattacca dopo aver parlato con la signorina alla hall, Brian
è ancora lì, che
lo scruta con quegli occhi troppo verdi, in un silenzio che spaventa
Stefan con
la propria intensità. Storce il naso, muovendosi per
allontanarsi il più
possibile da quella presenza tanto “ingombrante” ed
intanto si informa.
-Non
saresti dovuto essere con Alex agli Studi per una riunione?- chiede
colloquiale.
Brian
si stringe nelle spalle, socchiudendo lo sguardo e lasciando per un
istante Stefan
libero di respirare senza costrizioni. Il bassista si avvicina al
tavolo che
occupa il centro della sala e sposta una sedia per potersi accomodare
lì. Tra
lui e Brian ci saranno forse tre o quattro metri, troppo pochi si dice
mentre
osserva l’altro riaprire gli occhi e tornare a puntarglieli
addosso.
-Non
avevo voglia e non sono andato.- ammette Brian come se fosse una cosa
perfettamente normale.- E poi Alex non ha davvero bisogno di me per
tenere a
bada quella gente…
Stefan
si concede di ridacchiare un po’, dovrebbe rimproverarlo ma
non si sente di
farlo. Tanto per cominciare sarebbe una cosa troppo
“intima”, troppo simile ai
ruoli che ricoprivano quando erano una coppia, per potersela permettere
senza
conseguenze. Così registra la decisione di Brian e non la
commenta che con quel
sorriso divertito.
-E
poi oggi non è mica un giorno qualunque!- afferma intanto
Brian, ritrovando
d’un colpo la stessa euforia infantile con cui ha inscenato
il “litigio” di
poco prima con l’inserviente. Sorride come un bambino ed a
Stefan fa male
davvero e lo spinge a sollevarsi in piedi d’impulso
un’altra volta. Gli gira le
spalle con la scusa di raggiungere il mobile bar ed aspetta che lui
vada avanti
e si spieghi.- Sai che ricorrenza è?- insiste invece il
cantante.
Stefan
trova sul fondo del frigo una bottiglietta d’acqua, la
preleva voltandosi a
guardarlo mentre svita il tappo.
-…no-
ammette pianamente.
Il
sorriso di Brian si vena di una tristezza un po’ troppo
accentuata per poter
continuare a mascherarsi dietro la finzione di plastica di cui si
è ricoperto
prima di uscire di casa. Ma la voce non vacilla lo stesso, il tono
rimane fermo
quando riprende a parlare in modo leggero.
-Un
mese esatto che ti ho promesso che non avrei più toccato
quella merda.- gli
ricorda, puntando felice un dito verso di lui.- Sono stato bravo, no?
“…sei
uno stronzo.”, pensa Stefan distintamente, fissando ora il
dito piccolissimo e
smaltato di nero che gli si pianta dritto all’altezza del
cuore, ora quel viso
di ragazzino trentenne, in cui le occhiaie ed il pallore sotto il
trucco
diventano d’improvviso fin troppo evidenti. Solleva di scatto
la bottiglia e se
la porta alle labbra, rifuggendo quella vista e cercando inutilmente di
sfuggire anche al suono che fa la gola di Brian quando lui inizia a
ridere sommessamente.
Abbassa
lo sguardo per ritrovarselo comunque davanti. Serafico e soddisfatto,
la mano
di nuovo accanto, posata sulle gambe accavallate, il viso inclinato,
appoggiato
sul pugno chiuso al bracciolo della poltrona.
-Speravo
di festeggiare.- ammette Brian.
-Non
penso.- soffia fuori Stefan, tornando a piegarsi per infilare la
bottiglia al
proprio posto. Ringrazia la porta quando qualcuno fa suonare il
campanello.
Brian si solleva dal divano e va ad aprire, permettendo allo stesso
cameriere
di prima – che gli getta un’occhiata gelida
avanzando nella stanza e che viene
ripagato da una risatina soffocata in risposta – di entrare
accompagnato da un
carrello pieno.
-Grazie.-
lo congeda Brian accompagnandolo nuovamente oltre la soglia e
sbattendogli la
porta in faccia, per potersi poi allungare subito a sbirciare sotto gli
scaldavivande ordinati sul carrello.- Mmh!- mugola felice.- Croissant.-
annuncia a Stefan, servendosi da uno dei vassoi.
Il
bassista non dice nulla e non si muove. Osserva da lontano Brian mentre
sbrindella la brioche, reggendola con grazia tra le dita
impiastricciate di
zucchero, e ne ingoia i pezzettini piccolissimi in cui la riduce,
talmente
assorto e felice compiendo un’operazione tanto semplice da
sembrare
assolutamente innocuo. Solo che lui continua lo stesso ad averne paura.
Paura
di avvicinarsi, circumnavigare il baluardo offerto dal tavolo del
mobile bar e
doversi trovare a distanza troppo ravvicinata, da soli e senza scuse
per
continuare quel ridicolo balletto di bugie a mezza voce…
-Allora
mi dicesti che ci saresti stato.- riprende a parlare Brian
all’improvviso. Non
lo guarda mentre affonda quel rimprovero tra la paura ed il rimorso che
Stefan
si sente addosso e sotto pelle, continua imperterrito la propria opera
metodica
di distruzione del croissant, ignorando volutamente la marmellata densa
che si
riversa fuori macchiandogli le dita nemmeno fosse un moccioso.- Io ti
ho
creduto.- gli ricorda ancora. Finisce la brioche e cerca sul carrello,
accanto
al vassoio, un tovagliolo con cui pulirsi le mani.- E per quel che mi
riguarda
ho mantenuto la mia promessa.- gli dice continuando a non guardarlo. Si
muove
per raggiungere il divano e raccoglie il cappotto infilandolo
rapidamente.- Ci
vediamo, Stef.- saluta pacatamente uscendo nel silenzio pesante
dell’altro.
***
Lo
Studio ha un colore più tetro quando fuori piove. La luce
non arriva ed il
marrone rossastro diventa meno luminoso e più pesante, come
l’odore di carta e
di antico. È quasi opprimente ed è scoraggiante.
Stefan
ricaccia la sensazione in fondo alla pancia. Dietro di lui Vincent
Cavendish
dice qualcosa in tono basso alla segretaria, lei esce chiudendo la
porta e lui
non fa nessun rumore nel tornare a sedersi alla scrivania che si
frappone tra
loro. Gli solleva addosso quello sguardo troppo chiaro, Stefan ci
affonda
dentro e prova a dimenticare il resto.
-Allora.-
esordisce colloquiale Vincent.
Stefan
prende fiato e continua a ricambiare il suo sguardo in attesa.
-Volevi
sapere perché mi trovo qui.- gli ricorda.
Vincent
sorride e si mette comodo sulla poltrona.
Stefan
contraccambia il sorriso.
-Il
motivo si chiama Brian.- comincia a raccontare.