La ragazza dell'interno 23B

di OpunziaEspinosa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***




!!! AVVISO IMPORTANTE !!!
Di recente ho fatto delle scelte, scelte che hanno ridotto drasticamente il mio già limitato tempo libero, quindi la possibilità di continuare a scrivere fanfiction.
Onestamente non sono ancora pronta a lasciarmi alle spalle Edward e Bella, ma devo farlo, almeno per ora.
Non scomparirò del tutto, continuerò ad essere presente qui su facebook, ma non aggiornerò più La Ragazza dell’Interno 23B.
Grazie a chi mi è stato vicino in questi anni, a chi ha le
tto e commentato le mie storie, a chi mi ha aiutata a migliorare. 
Vi porto nel cuore 
Opu


 




Capitolo 1
 
Di tre cose Edward era certo.
Uno. Non sarebbe tornato all’università, e non si sarebbe laureato in medicina, come suo padre. La sua vera passione era la musica, non la chirurgia. La sola vista del sangue lo inorridiva. Perché continuare a soffrire? Lavorare in un ospedale lo avrebbe reso infelice. Forse ricco, ma infelice. E lui aveva altri piani per sé.
Due. Il suo gruppo avrebbe sfondato. Lui, Emmet, Jasper e Rosalie avevano troppo talento per continuare ad arrancare nell’ombra. Non avrebbero passato il resto della vita a suonare in squallidi locali o nei salotti delle confraternite. Presto o tardi, una casa discografica si sarebbe accorta di loro, ed avrebbe messo i Breaking Dawn sotto contratto.
Tre. Se il moccioso dell’interno 23B non avesse smesso di piangere all’istante, avrebbe buttato giù la porta dei vicini ed assassinato l’intera famiglia.
Ovviamente non l’avrebbe fatto, non era un pazzo psicolabile, e l’unica autopsia a cui aveva assistito lo aveva fatto correre in bagno, a vomitare il latte caldo e muffin al cioccolato che aveva mangiato a colazione. Tuttavia, questa era la terza notte consecutiva che passava in bianco, ed aveva un disperato bisogno di dormire.
Esasperato, Edward chiuse gli occhi e cacciò la testa sotto il cuscino, sperando in questo modo di creare una barriera tra sé e quell’indemoniato che piangeva ininterrottamente da ore, ma non funzionò. Anzi, ebbe l’impressione di ottenere l’effetto contrario.
Vaffanculo, pensò, non mi aveva mai creato tanti problemi neppure la puttana che abitava qui prima di loro. E alcuni clienti di Heidi erano davvero fuori di testa!
Edward non conosceva bene i nuovi vicini. Li aveva incrociati sul pianerottolo il giorno del trasloco, un paio di settimane prima, e poi non li aveva più rivisti. Ad essere onesti, aveva incrociato soltanto lui: un ragazzone alto e grosso, con i capelli e gli occhi scuri, e l’aria perennemente incazzata. Jacob, si chiamava. Si erano presentati, scambiati un paio di convenevoli, e poi Edward aveva raggiunto i ragazzi in sala prove.
Mai e poi mai avrebbe immaginato che quei due avessero già un bambino! Malgrado la stazza, Jacob aveva l’aspetto di uno appena uscito dal liceo. E lei… be’, Edward non aveva ancora incontrato Isabella, e di lei non sapeva nulla, solo il nome di battesimo, che aveva letto sulla cassetta delle lettere giù all’ingresso. Ma se la immaginava altrettanto giovane: a volte, quando giocava con il figlio, la sentiva ridere attraverso la parete, e la sua voce gli sembrava quella di una ragazzina.
Edward si sollevò sui gomiti e, con gli occhi gonfi e doloranti, afferrò l’orologio sul comodino. Le quattro e quaranta… Merda. Tra meno di un’ora e mezza avrebbe dovuto alzarsi per andare al lavoro.
Non aveva un impiego fisso – la musica era tutta la sua vita –, ma il gruppo non gli consentiva né di pagare l’affitto né di comprarsi da mangiare. E poi lui e i ragazzi avevano un accordo: tutto quello che i Breaking Dawn guadagnavano – non molto, ad essere onesti – andava reinvestito nel gruppo.
Edward faceva quello che gli capitava: il cameriere, il barista, il pony‒express, l’imbianchino… Al momento, stava ridipingendo l’appartamento di una vedova sin troppo allegra. Quella vecchia baldracca ci aveva provato almeno un paio di volte, arrivando addirittura a pizzicargli il sedere. Lui era stato sul punto di mollare tutto e rovesciarle la vernice in testa, ma doveva pagare un paio di bollette, ed aveva bisogno di soldi. Così aveva fatto buon viso a cattivo gioco. Aveva finto di essere lusingato dalle attenzioni della vedova, ma con dolce fermezza l’aveva respinta, raccontandole di una fidanzata che amava molto e che non voleva tradire.
Non che lui avesse davvero una fidanzata. Aveva solo ventidue anni, un progetto ambizioso, e tutto il tempo per mettere la testa a posto. E poi piaceva alle donne: perché non approfittarne fintantoché era così giovane? Diventare il toyboy di una cinquantenne piena di soldi, però, non gli interessava, anche se questo gli avrebbe di sicuro garantito una vita più facile.
Quando, sei mesi prima, aveva abbandonato il college, i suoi gli avevano detto chiaro e tondo che non avrebbe vissuto alle loro spalle, in attesa di un ingaggio che non sarebbe mai arrivato. Gli avevano detto che, se voleva fare il musicista, se la doveva cavare da solo. Nella speranza di dissuaderlo ed allontanarlo dal suo sogno strampalato, gli avevano congelato il conto in banca, tagliato tutte le carte di credito, e confiscato l’auto. Ma Edward non si era fatto scoraggiare. Prendendo tutti in contropiede, aveva fatto le valige, abbandonato la villa con piscina dei suoi, e trovato un appartamento a Seattle.
 All’inizio pensò di essere capitato all’inferno. Edward veniva da una famiglia ricca, una di quelle con la cameriera e il giardiniere, ed aveva sempre vissuto nel lusso, circondato da gente per bene. Non era abituato ai palazzi fatiscenti, e alle strade piene di delinquenti e balordi.
La voglia di dimostrare ai propri genitori quanto fosse serio e determinato, però, vinse su tutto. Fece amicizia con Heidi, la prostituta, e con tutti gli altri casi umani del palazzo, realizzando che quell’esperienza lo stava facendo crescere, e gli stava facendo scrivere i pezzi migliori della sua vita.
Ma c’era un limite a tutto, e tre notti consecutive in bianco rappresentavano di sicuro quel limite.
“Ora basta!” esclamò Edward, rotolando fuori dal letto. “Ogni notte la stessa storia!”
Raccolse dal tappeto i jeans e la maglietta che aveva indossato la sera prima, se li infilò, e, inciampando ovunque, si precipitò fuori, sul pianerottolo.
Non vedeva l’ora di trovarsi di fronte a quel Jacob per riempirlo d’insulti. Vuoi dei figli? Accomodati! Ma almeno impara a gestirli, coglione! C’è gente che lavora e ha bisogno di dormire.
Iniziò a bussare furiosamente alla porta del 23B. Pochi secondi dopo, sentì il pianto del moccioso farsi più vicino.
“Chi è?” chiese una voce femminile incerta, quasi impaurita.
Edward lasciò cadere la mano e fece un passo indietro. Per qualche ragione pensava che sarebbe stato Jacob a rispondere, non Isabella. Ma poco importava. In quel momento era pronto a litigare persino con una suora.
“Edward Cullen,” rispose infastidito, “il tuo vicino.”
La porta si aprì di qualche centimetro, e rivelò il volto pallido e minuto di una ragazzina con in braccio un neonato.
Edward ebbe un sussulto, vedendola. Se la immaginava giovane, ma non così giovane.
“Ciao,” disse, quasi impacciato. “Il tuo ragazzo non è in casa?”
Isabella si morse le labbra, nervosa. “Mio marito.”
Edward ebbe un altro sussulto. Quei due erano sposati? Ma se dimostravano a malapena diciotto anni!
“C’è o non c’è?” tornò a chiedere. Aveva voglia di litigare, e di sicuro non poteva farlo con quella ragazzina.
Isabella strinse il bambino a sé ancora più forte. “Perché?” domandò sulla difensiva.
Edward capì dall’espressione del suo viso che Jacob non era in casa, e che forse lei aveva paura.
“No, è che…” Edward posò gli occhi sul bambino che continuava a piangere e a dimenarsi. Tra il moccioso e la madre, non sapeva chi era messo peggio.  “Senti,” sospirò, “a costo di sembrarti maleducato: non c’è un modo per farlo stare zitto? Non dormo da tre giorni per colpa sua…”
L’espressione della ragazza, da diffidente ed impaurita, si fece mortificata. Lasciò cadere la catenella ed aprì la porta. “Mi dispiace,” piagnucolò, riprendendo a cullare il piccolo. “Non riesco a calmarla…”
Calmarla. Quindi era una bambina.
Proprio in quel momento si aprì la porta del 21B, e ne uscì il Signor Volturi, un italoamericano dall’aria poco raccomandabile, seguito dalla moglie in vestaglia e bigodini.
“Allora,” esclamò con forte accento italiano, “qui stiamo cercando di dormire!”
Edward diede uno sguardo schifato alla canottiera bianca sporca di sugo di Volturi, gli sorrise controvoglia, e spinse Isabella in casa. “Sì, sì,” disse, prima di richiudere la porta, “ci scusi, Aro, ha perfettamente ragione. Torni pure a letto.”
Edward tornò a concentrarsi su Isabella, che lo guardava dall’alto in basso, gli occhi scuri sgranati e iniettati di sangue per la mancanza di sonno, la bambina urlante stretto al petto.
Certo che aveva davvero un aspetto orribile. I lunghi capelli neri non vedevano uno shampoo da giorni, e i vestiti che indossava erano stropicciati e sporchi di qualcosa che Edward sospettava essere rigurgito di neonato.
Edward si passò una mano tra i capelli. Si sentiva sfinito come non mai. “Che problemi ha?” chiese, sospirando.
Isabella sembrava sul punto di mettersi a piangere. “Non lo so. Resta buona e tranquilla fino ad una certa ora, poi comincia a piangere.”
“Ha mangiato?” domandò Edward.
“Sì.”
“Ha bisogno di essere cambiata?”
Isabella, seppur stanca, trovò la forza per fulminarlo con lo sguardo. “Certo che no. Lo saprei.”
Edward continuò con il suo breve, e, a quanto pare, inconcludente interrogatorio. “Sta male, è malata?”
Isabella scosse la testa. “No, non credo. Il pediatra dice che sta benone. Si agita solo la notte.”
Edward non sapeva che fare, o cos’altro chiedere. Non sapeva nulla di bambini. E neppure gli interessava saperne qualcosa.
Si guardò intorno, mentre Isabella cullava la bambina che continuava a piangere. “Shhhh…” le sussurrava in un orecchio, riempiendola di tanti, piccoli baci. “Marie, non piangere… per favore… non piangere…”
“Prova a darmela,” disse infine. Non sapeva perché, non aveva mai tenuto in braccio un neonato prima di allora. Ma tanto valeva provare.
Istintivamente Isabella strinse la piccola a sé, allontanandola da lui. “Perché?” domandò sulla difensiva. “Cosa vuoi farle?”
Edward alzò gli occhi al cielo. “Provare a calmarla. Che altro?”
Isabella corrugò la fronte. “Non ci riesco io, che sono sua madre. Come puoi riuscirci tu?”
Edward si stropicciò la faccia, esasperato. “Isabella, non dormo da tre giorni, e credo che anche tu abbia bisogno di riposare. Voglio solo fare un tentativo. Te lo chiedo per favore.”
Isabella lo osservò per qualche istante, i profondi occhi scuri socchiusi, diffidenti. Alla fine si arrese. “Stai attento, però,” disse, porgendogliela. “Non farle male.”
Edward accolse la piccola Marie tra le braccia, e, con estrema cautela, cominciò a cullarla, dirigendosi, senza essere ufficialmente invitato, verso il salotto.
“Quanto ha?” domandò, sedendosi sul divano sfondato.
L’appartamento era piccolo, e un po’ decadente, ma tutto sommato pulito e in ordine.
“Sei mesi,” rispose Bella, sedendosi accanto a lui. “Attento alla testa.”
Edward sistemò meglio la piccola Marie tra le braccia, e poi iniziò a canticchiare la stessa ninna nanna che sua madre gli cantava quando lui e sua sorella Alice erano bambini.
Un paio di minuti dopo, Marie dormiva profondamente tra le sue braccia.
“È un miracolo,” sussurrò Isabella, gli occhi pieni di lacrime per la sorpresa e la commozione. “Sei riuscito a farla addormentare. Come hai fatto?”
Edward si strinse nelle spalle. Non lo sapeva. Sapeva solo che quel silenzio gli era mancato.
“Bene,” disse a voce bassa, per non svegliare la piccola, “missione compiuta. Ora è meglio che torni nel mio appartamento.”
Fece per restituire Marie a sua madre, ma subito la bambina ricominciò ad agitarsi.
“Ok, ok,” disse, stringendola di nuovo a sé. “Stai tranquilla… shhh… tranquilla…”
E Marie smise di lagnarsi.
Edward si guardò intorno smarrito. Tutto questo non stava accadendo a lui. Lui suonava il basso in una band indie‒rock, non faceva la balia!
“Che facciamo?” chiese a Isabella. “Non posso restare qui.”
Lei si strinse nella spalle, imbarazzata. “Potresti dormire sul divano,” propose incerta.
Edward la squadrò da capo a piedi, come se fosse pazza. “Stai scherzando? Vuoi che dorma sul tuo divano con tua figlia in braccio? Non esiste.”
Isabella iniziò a contorcersi le mani. “Non voglio che si rimetta a piangere…” piagnucolò. “Sono così stanca… Edward, per favore…”
Edward sapeva che non era una buona idea. Ma Isabella gli faceva davvero pena. Forse lui non dormiva da tre giorni, ma quella ragazzina non dormiva da settimane.
“Senti, facciamo così,” disse, sospirando, “ora io mi metto su quella poltrona con Marie, e tu dormi un po’ sul divano. Però ti avviso, alle sei e mezza me ne devo andare.”
Isabella gli lanciò uno sguardo pieno di gratitudine che lo colpì diritto al cuore. “Dici sul serio? Lo faresti?”
Edward sorrise. “Tanto ormai, chi dorme più.”
Isabella si distese sul divano, gli occhi stanchi e inquieti fissi su Edward e la piccola Marie.
“Ti posso chiedere una cosa?” le domandò Edward.
Isabella annuì. “Certo.”
“Dov’è tuo marito?”
Isabella abbassò lo sguardo, diventando improvvisamente triste. “Mio marito non abita più qui,” mormorò. “Se ne è andato.”
Edward non seppe cosa replicare.
“Senti,” disse infine, “ora dormi. Ne riparleremo domani.”
Isabella si coprì con una trapunta e si rannicchiò in posizione fetale. Dieci minuti più tardi, dormiva profondamente.
Edward guardò lei, poi la bambina tra le sue braccia, e sospirò profondamente.
In che guaio si stava cacciando?
 
 


Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale. I personaggi sono proprietà di S.Meyer e non vengono utilizzati a scopi lucrativi. La riproduzione anche solo parziale di questa ff non è autorizzata.
 

Grazie ad Elenri per il bellissimo banner!

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***




!!! AVVISO IMPORTANTE !!!
Di recente ho fatto delle scelte, scelte che hanno ridotto drasticamente il mio già limitato tempo libero, quindi la possibilità di continuare a scrivere fanfiction.
Onestamente non sono ancora pronta a lasciarmi alle spalle Edward e Bella, ma devo farlo, almeno per ora.
Non scomparirò del tutto, continuerò ad essere presente qui su facebook, ma non aggiornerò più La Ragazza dell’Interno 23B.
Grazie a chi mi è stato vicino in questi anni, a chi ha le
tto e commentato le mie storie, a chi mi ha aiutata a migliorare. 
Vi porto nel cuore 
Opu


 
Capitolo 2
 
Quella mattina, come promesso, Edward svegliò Isabella alle sei e mezza. Le piazzò la bambina addormentata in braccio e, quasi senza salutare, imboccò la porta e se ne andò.
Isabella non riuscì neppure a ringraziarlo, o ad offrirgli la colazione.  Il tempo di abituare gli occhi alla luce e di afferrare Marie, e Edward era già scomparso.
Stare su quella poltrona, vegliando il sonno di una figlia non sua e di una perfetta sconosciuta, lo aveva profondamente turbato.
Più il tempo passava ed osservava Isabella dormire, e più stringeva tra le braccia quel batuffolino morbido e profumato, più si sentiva bene ed in pace. Si era persino dimenticato delle tre notti in bianco consecutive, spese ad osservare il soffitto e a pregare che Marie smettesse di piangere; o del suo corpo stanco che implorava un po’ di riposo.
Quando se ne rese conto, si sentì strano e profondamente a disagio: quelli erano sentimenti che non gli si addicevano.
Edward non era egoista. Era uno di quelli che si faceva in quattro per la famiglia e per gli amici più cari. Ma era anche sicuro di sé, cocciuto e determinato, e nell’ordine generale delle cose, i suoi bisogni e le sue aspirazioni venivano al primo posto.
Se non fosse stato così, non avrebbe mai avuto il coraggio di sfidare i propri genitori e di mollare tutto per tentare la carriera del musicista.
Come aveva potuto lasciarsi intenerire da quella ragazzina e da sua figlia? Cosa gli era saltato in mente?
L’istinto gli diceva che aveva sbagliato, che non poteva e non doveva diventare amico di Isabella. Quella ragazza puzzava di guai, e la sua vita era già abbastanza incasinata. Tra tutti i problemi che aveva, non poteva aggiungere una ragazza madre abbandonata dal marito adolescente. Non gli interessava. Forse poteva diventare materia per un paio di canzoni, ma niente di più.
Rientrato nel suo appartamento, si fece una doccia gelata, per svegliarsi e schiarirsi le idee, e poi uscì di casa per andare al lavoro.
L’iPod infilato nelle orecchie, lavorò senza sosta per tutta la mattina, fermandosi solo per bere una birra fresca e per mangiare un panino. Poi, intorno alle due del pomeriggio, disse addio alla vedova, ritirò il cospicuo assegno che gli spettava per averle ridipinto casa, e si rifugiò in sala prove con la speranza di schiacciare un lungo pisolino, o magari passarci l’intera notte, visto che i Breaking Dawn si erano presi la serata libera.
Stanco morto e con i muscoli doloranti, spense le luci e si buttò sul divano senza neppure togliersi gli abiti sporchi di vernice, addormentandosi all’istante.
Si svegliò qualche ora più tardi nel peggiore dei modi.
Dapprima sentì una porta sbattere, poi rumore di passi disordinati, gemiti e risatine soffocate.
Ancora mezzo addormentato, la bocca impastata e gli occhi gonfi, si tirò su a fatica, per cercare di capire cosa stava accadendo.
Nella penombra della stanza, intravide una testa di ricci biondi; poi due corpi avvinghiati contro la parete, intenti a strapparsi gli abiti di dosso e ad esplorare le rispettive gole.
Sorrise tra sé. Jasper Hale, il chitarrista del gruppo, si era portato una ragazza in sala prove. Non era la prima volta che capitava, ma a Edward non dava fastidio, visto che era un’abitudine che condividevano.
Da quando Emmett, il batterista dei Breaking Dawn, aveva messo la testa a posto fidanzandosi con la loro vocalist, Rosalie, lui e Jasper si contendevano il ruolo di musicista sciupa femmine, e la sala prove riscuoteva sempre grande successo tra le donne.
Si voltò verso l’amico e la sua più recente conquista, per avvertirli che non erano soli, e pregarli di darsi una calmata, almeno fino a quando lui non se ne fosse andato.
Per poco non cadde dal divano rendendosi conto che la ragazza che Jasper stava palpeggiando con tanta solerzia era Alice, la sua gemella.
Edward non ebbe il tempo di pensare. Il cervello ancora scollegato per metà, iniziò ad agire.
“Giù le mani da mia sorella!” urlò, scagliandosi contro l’amico.
Durante l’assalto, travolse microfono, leggio, ed un paio di chitarre. Solo la prontezza di riflessi di Alice gli impedì di stringere le mani attorno al collo di Jasper e soffocarlo.
“Edward, che fai!” Alice, infilata tra i due, cercava di spingerlo via con tutte le forze. “Ora basta! Calmati!”
Di contro, Jasper lo osservava con gli occhi sbarrati, le spalle al muro, ed il corpo paralizzato dal terrore.
Edward gliel’aveva detto chiaro e tondo: Alice è off‒limits, Alice non si tocca. Ed invece lui l’aveva portata in sala prove, come una qualsiasi delle sgallettate che rimorchiava dopo i concerti.
“Ti ammazzo, bastardo! Cosa credevi di fare?”
“Edward, non è come pensi…”
“Non me ne frega un cazzo! Ti avevo avvertito!”
“Edward, te lo giuro…”
“Giuri cosa? Che sei innamorato! Ti ammazzo!”
Alice non ce la faceva più a contenere l’ira di Edward da sola: era troppo forte per lei. Così fece l’unica cosa che poteva per metterlo fuori gioco: gli diede un pugno in pancia.
All’istante Edward cadde a terra in ginocchio, le mani strette attorno allo stomaco in cerca d’aria.
Quando si riprese, le lanciò uno sguardo furibondo. “Sei impazzita! Mi hai fatto male!”
Alice si sistemò la camicetta e, con atteggiamento di sufficienza, si liberò la fronte da una ciocca di capelli. “Mi hai costretta. Te la sei cercata.”
Jasper provò ad intervenire. “Edward,” disse timidamente, “non facevamo niente di male…”
Edward lo interruppe con un grugnito. “Tu non mi parlare. E riabbottonati i jeans, per l’amor del cielo!”
Mentre Jasper, mortificato ed imbarazzato, si rifugiava in un angolo a ricomporsi, Alice cominciò a gesticolare furiosamente. “Edward, la vuoi piantare? Cosa credi? Che lui mi abbia portato qui con la forza? Sono stata io a chiederglielo!”
“Lo so che sei stata tu, piccolo demonio!” urlò Edward, rimettendosi in piedi. “Gli hai messo gli occhi addosso il primo giorno che l’hai conosciuto!”
“E lui ha messo gli occhi addosso a me! Che problema c’è! Che ti importa!”
“Mi importa!”
“Perché?”
Edward non riusciva a crederci. Come faceva Alice a non capire? E Jasper era altrettanto idiota?
“E se le cose non vanno?” chiese. “Se lui ti molla, o tu lo molli? Io ci devo lavorare con Jasper! E non voglio che mi tiriate in mezzo alle vostre beghe!”
Alice lo fissava a braccia conserte, inviperita. Sapeva benissimo che Edward aveva ragione, ma era forse più cocciuta di suo fratello: quando voleva una cosa, la doveva avere. E poi Jasper le piaceva sul serio. Uscivano di nascosto da un mese, ormai, ed era quasi certa di essersene innamorata.
Jasper si avvicinò nuovamente. Temeva Edward, e capiva benissimo il suo ragionamento. Quando Emmett e Rosalie si erano messi insieme, avevano discusso della cosa per giorni.
E se non dovesse funzionare, si domandavano, se dovessero lasciarsi? Che ne sarà del gruppo? Continueremo a suonare insieme? Dovremo trovare un altro batterista, o un’altra cantante?
Con Emmett e Rosalie facevano finta di nulla, per non turbarli, e perché sembravano davvero innamorati. Ma questo non impediva loro di preoccuparsi e di pensare al peggio.
Poi era arrivata Alice, e Jasper aveva capito che certe cose non le puoi programmare o razionalizzare: certe cose accadono e basta.
“Edward,” disse, con tutta la diplomazia di cui fu capace, “mi dispiace, sul serio. Non volevo che lo scoprissi in questo modo, ma le cose stanno così: Alice mi piace, ed io piaccio a lei. Usciamo insieme, fattene una ragione.”
Edward strinse i pugni lungo i fianchi e digrignò i denti. Aveva voglia di urlare per la frustrazione, e di spaccare la faccia a Jasper.
Alla fine non fece né l’una né l’altra cosa. Prese il giubbotto e se ne andò sbattendo la porta.
Era talmente arrabbiato che decise di lasciare il furgone e tornare a casa a piedi, per schiarirsi le idee e scaricare la tensione. Quando iniziò a piovere, si maledì in tutti i modi peggiori che conosceva.
Sapeva di aver esagerato, e di essersi reso ridicolo. Ma Alice non conosceva Jasper come lo conosceva lui. Erano amici, e gli avrebbe affidato la propria vita, ma Edward lo aveva visto trascinare in sala prove, o a casa, decine di ragazze, e non voleva che la sua sorellina diventasse una delle tante.
Certo, Alice non era il tipo da farsi mettere i piedi in testa. Era una forza della natura, forse ancora più sicura e determinata di lui.
Malgrado fossero gemelli, fisicamente non si assomigliavano per niente. Lui era alto e muscoloso, con i capelli castano‒rossicci e gli occhi verdi. Lei era bassa e minuta, con i capelli corti neri come la pece e gli occhi altrettanto scuri. Caratterialmente, però, erano due gocce d’acqua. Si adoravano, ed erano migliori amici fin dalla culla.
Alice era l’unica della famiglia a sostenerlo. Era quella che l’aveva incoraggiato a mollare tutto ed andarsene per realizzare i propri sogni. Ed ora lo tradiva in questo modo. Stronza.
Però chissà, forse Jasper aveva ragione. Forse lui non poteva farci niente. Doveva solo lasciare che gli eventi facessero il loro corso. Con un po’ di fortuna, tutto sarebbe andato per il meglio. Alice era meravigliosa, Jasper si sarebbe innamorato di lei, ed i Breaking Dawn avrebbero prosperato da qui all’eternità.
Quando arrivò a casa, zuppo fino al midollo, erano le otto passate, e lui si era parzialmente calmato, anche se non poteva dirsi completamente tranquillo.
Decise di farsi una doccia e di ordinare del cibo cinese. Più tardi, avrebbe chiamato Jasper per scusarsi. Alice no, l’avrebbe fatta penare fino all’indomani: se lo meritava, piccolo diavoletto impertinente.
Passò venti minuti sotto il getto d’acqua bollente, poi si buttò sul letto, l’asciugamano arrotolato attorno alla vita, la pelle ancora umida e calda.
Prima di ordinare la cena, avrebbe schiacciato un pisolino, godendosi quel silenzio inusuale e meraviglioso.
Non fece in tempo a chiudere gli occhi, però, che Marie si mise a piangere. La sentiva strillare oltre la parete, con un’energia che le avrebbe fatto vincere una gara di strilli a mani basse.
Oddio, pensò Edward, che giornata di merda; ci mancava solo questo.
“Marie, amore…” diceva Isabella, “non piangere… fallo per la mamma… piccolina… che succede… stai male…”
Edward immaginava Isabella passeggiare avanti e indietro per la stanza, cullando la figlia piccola.
Come faceva un essere così minsucolo, dolce ed innocuo, a trasformarsi, di punto in bianco, in un essere tanto fastidioso?
“Marie… amore… così disturberai Edward…”
Edward spalancò gli occhi e si irrigidì. Isabella aveva pronunciato il suo nome.
Per qualche minuto, meditò sull’opportunità di uscire di casa e passare la notte fuori. Ripassò mentalmente la lista di amici che potevano ospitarlo sul divano. L’unico era Jasper, che però, in quel momento, era con tutta probabilità impegnato con sua sorella Alice.
Bleah.. che immagine ripugnante.
Cos’altro poteva fare? Buttare soldi in un albergo? Nei paraggi c’erano tutte bettole frequentate da spacciatori e prostitute. Tappi nelle orecchie? Bere fino a perdere conoscenza?
Nel frattempo, Marie continuava a piangere, ed Isabella continuava a tentare di calmarla. “Marie… non piangere… amore, vuoi che Edward ci odi? Se continui a piangere ci odierà di sicuro…”
Quando Isabella iniziò a canticchiare invano la stessa ninnananna che lui aveva cantato a Marie la sera prima, si sentì stringere il cuore.
Oh, al diavolo, pensò.
Si tirò su e diede due piccoli colpi alla parete con le nocche. “Isabella?” chiese, “tutto bene?”
Quelle pareti erano fatte di cartone; lasciavano filtrare qualunque suono.
Isabella esitò un attimo prima di rispondere. “Edward, scusa… Marie ha ricominciato a piangere…”
Edward sospirò. “Vuoi che venga lì, per provare a calmarla, come ieri?”
“Lo faresti?”
Il tono carico di speranza con cui Isabella glielo chiese lo fece sorridere. “Dammi cinque minuti, mi rivesto.”
Edward si infilò un paio di jeans e una maglietta, afferrò il cellulare e il menù del cinese, e bussò alla porta della vicina.
Odiava il suo cuore di panna.




Allora, che mi dite di questo nuovo Edward, musicista squattrinato dal cuore tenero? Io già gli voglio bene *.*
Per chi non se ne fosse ancora accorto, al primo capitolo ho aggiunto il bellissimo banner che la talentuosa Elenri ha creato per questa storia.
Alla prossima!
Opu <3

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***




!!! AVVISO IMPORTANTE !!!
Di recente ho fatto delle scelte, scelte che hanno ridotto drasticamente il mio già limitato tempo libero, quindi la possibilità di continuare a scrivere fanfiction.
Onestamente non sono ancora pronta a lasciarmi alle spalle Edward e Bella, ma devo farlo, almeno per ora.
Non scomparirò del tutto, continuerò ad essere presente qui su facebook, ma non aggiornerò più La Ragazza dell’Interno 23B.
Grazie a chi mi è stato vicino in questi anni, a chi ha le
tto e commentato le mie storie, a chi mi ha aiutata a migliorare. 
Vi porto nel cuore 
Opu


 


Capitolo 3
 
“Che cosa è successo qui?” domandò Edward, guardandosi intorno esterrefatto.
Non c’era più traccia del piccolo appartamento semplice ma ordinato della notte prima. I giocattoli di Marie erano sparsi ovunque; cumuli di panni ― sporchi o puliti, non sapeva dirlo ― ricoprivano il divano; il tavolo era invaso da decine di volantini, buste, ed etichette con stampati degli indirizzi; a terra, una serie di scatoloni e sacchetti di plastica ingombrava il passaggio; il lavello della minuscola cucina a vista era ricolmo di stoviglie sporche; addirittura la tenda dell’unica finestra presente nella stanza era stata strappata dall’infisso, ed ora penzolava in maniera poco elegante, lasciando filtrare la luce al neon intermittente della pizzeria che si trovava sull’altro lato della strada.
“È stata una giornata pesante,” si giustificò Isabella, cercando di sovrastare il pianto isterico di Marie che si contorceva come un’indemoniata tra le sue braccia.
Edward non replicò. Si limitò a squadrarla da capo a piedi, forse in modo troppo diretto. Isabella era stanca, un vero disastro, peggio della notte prima. Inoltre non si era ancora lavata i capelli.
Lei sembrò leggergli nel pensiero, e gli regalò un sorriso tirato. “Marie mi ha dato del filo da torcere, oggi. È così curiosa… Starle dietro è un’impresa. È persino riuscita a staccare la tenda dalla finestra. Ed io non ho neppure trovato il tempo per farmi una doccia…”
Sospirando, Edward infilò il cellulare ed il volantino del cinese in tasca e tese le braccia per accogliere Marie. Moriva di fame, ma era chiaro che la cena avrebbe dovuto aspettare ancora. “Su, dalla a me,” disse. “Magari riesco a calmarla come è successo ieri notte.”
Isabella ebbe un attimo di esitazione. Quello che stava facendo non le sembrava corretto, e la faceva sentire in colpa. In fondo cosa sapeva di quel ragazzo? Nulla, solo che era gentile. E chi, al giorno d’oggi, fa qualcosa per pura gentilezza, apparentemente senza desiderare niente in cambio? Nessuno. Lo aveva imparato a proprie spese in quelle poche settimane a Seattle.
Ma da sola non ce la faceva più, aveva bisogno di una mano. Così, alla fine, la stanchezza vinse sulla diffidenza e sui dubbi, ed Isabella lasciò che Edward prendesse Marie.
Lui cominciò a passeggiare per la stanza, cullando la piccola. “Signorina, così non va bene,” la rimproverò dolcemente, distorcendo la voce in modo buffo, un modo che fece sorridere Isabella. “Stai facendo venire un esaurimento a tua madre! È questo che vuoi? Non vuoi bene alla tua mamma? Certo che le voi bene! E allora devi fare la brava, devi― ”
Marie rispose contorcendosi, strepitando, e rigurgitando una dose consistente di saliva e latte sul braccio di Edward.
“Dio, che schifo!” esclamò lui disgustato, chiudendo gli occhi e facendo una smorfia. “Marie!”
All’istante Isabella cominciò a saltellargli intorno, cercando di riprendersi la piccola. “Santo cielo, Edward, mi dispiace!” Non si era mai sentita tanto imbarazzata e mortificata. “Senti, lasciamo perdere, torna pure di là, mi occupo io di lei. Non ti preoccupare, me la cavo da sola…”
 Edward sospirò. In fondo era solo un po’ di vomito di neonato, giusto? Nulla di grave, o di eccessivamente rivoltante. Poteva farcela.
“Tranquilla, non c’è problema,” disse, avvicinandosi al divano ed afferrando una salvietta dal cumulo di panni. La annusò, diffidente. “Questa è pulita, vero?”
“Sì, certo,” confermò Isabella. “Ho fatto il bucato stamattina. Devo solo sistemare tutto nell’armadio.”
Mentre Edward ripuliva il faccino paffuto di Marie ed il proprio braccio, Isabella sentì una morsa stringerle il cuore. Quello non era compito del vicino di casa. Quello era compito suo, o al massimo di Jake, suo marito, il padre di sua figlia. Ma Jake se ne era andato lasciandole sole, e lei non sapeva neppure dove fosse ora esattamente.
Cos’era successo al ragazzo che giurava di amarla? Al ragazzo che aveva insistito così tanto per convincerla ad uscire con lui?
Era scomparso il giorno stesso in cui lei gli aveva confessato di essere incinta, e dal matrimonio in poi le cose tra loro erano andate sempre peggio.
Persa nei ricordi, Isabella faticò a rendersi conto che Marie aveva smesso di piangere. Edward passeggiava avanti e indietro per la stanza, facendola ballare, volare, e mostrandole un sonaglino che lei provava ad afferrare ridendo come una pazza.
“Come è possibile?” chiese Isabella scioccata. Quello che vedeva non era reale, andava al di là della sua comprensione. “Lo hai fatto anche ieri notte… Spiegamelo, come ci riesci?”
Edward si strinse nelle spalle. Era stupito quanto lei, ma in fondo parecchio divertito. “Non ne ho idea. A quanto pare le piaccio.”
Isabella si avvicinò, gli occhi spalancati ed increduli. “Sì, ma… ma è assurdo… non ha senso…”
Edward e Marie stavano bene insieme, era evidente. Ma Edward era un perfetto sconosciuto per sua figlia. Come poteva sentirsi così tranquilla con lui? Tranquilla al punto di smettere di piangere e fare i capricci. Tranquilla al punto di giocare e ridere come una pazza.
“Hai già cenato?” le chiese improvvisamente Edward, distogliendola un’altra volta dalle sue riflessioni. Con una mano reggeva Marie ed il sonaglino, con l’altra estraeva un depliant dalla tasca dei jeans. “Io muoio di fame.”
“No,” balbettò Isabella, “in effetti no.”
“Cinese?”
“Ehm… sì, va bene…”
“Cosa ordino?”
Isabella afferrò il volantino che Edward le tendeva, e rimase di sasso quando lo vide avvicinarsi al tavolo e, con la mano libera, ed in modo piuttosto sbrigativo, iniziare a riordinare per fare spazio alla loro cena. Era così sicuro di sé, così a proprio agio… C’era qualcosa di profondamente sbagliato in quella scena, eppure profondamente rassicurante.
“Allora? Hai deciso?” le chiese. Marie, con le manine tese, gli esplorava la faccia, il naso e la bocca e rideva. Lui la lasciava fare, per nulla infastidito. Sembrava non avesse fatto altro in tutta la sua vita: occuparsi di bambini.
Isabella diede un’occhiata al menù stropicciato, soprattutto ai prezzi. Aveva quasi esaurito il budget settimanale facendo la spesa, quel giorno. Non poteva permettersi di spendere altro denaro. “Ehm… una zuppa di pollo e funghi con mais…”
“Solo questo?”
Isabella annuì, incerta.
“Sei sicura? Cosa hai mangiato oggi a pranzo?”
“Una tazza di cereali con il latte…”
“Nient’altro?”
Non ricevendo alcuna risposta, Edward cominciò a studiarla con attenzione, facendola arrossire violentemente. Lo faceva spesso: la fissava, o la squadrava da capo a piedi, puntandole addosso i suoi profondi occhi verdi. Forse aveva intuito che era senza soldi?
Dopo una manciata di secondi, Edward accostò il cellulare all’orecchio.
“Ciao Linh, sono Edward,” disse quando il take‒away rispose. “Vorrei una zuppa di pollo e funghi con mais, un riso alla cantonese, una doppia porzione di maiale in salsa agrodolce, una doppia porzione di verdure miste saltate, due fette di torta alle mandorle, una birra e una soda. Metti tutto sul mio conto, e di’ a Choni di citofonare al 23B, non al mio interno.”
Perfetto, Edward aveva capito la ragione per cui Isabella non voleva ordinare altro, e lei si vergognò come una ladra.
“Non era necessario,” balbettò imbarazzata, contorcendosi le mani. “Non ho tanta fame…”
Edward fece spallucce, e tornò a far giocare la piccola con il sonaglino. “Quello che avanza lo metti in frigo,” si limitò a rispondere. Sembrava divertirsi un mondo, e Marie con lui. “Mentre aspettiamo la cena ti potresti fare una doccia,” le disse poi. “Resto io con tua figlia.”
Isabella strinse le braccia al petto e si morse le labbra. “Ne sei sicuro?”
Edward si voltò e le sorrise. Il sorriso più dolce e rassicurante che lei avesse mai visto. “Certo, vai pure. Choni non sarà qui prima di mezz’ora.”
Ancora una volta Isabella si chiese se si poteva fidare davvero. Continuava a ripetersi che non sapeva nulla di Edward, e che nessuna madre sana di mente lascia la propria figlia alle cure di un perfetto sconosciuto. Lei lo aveva fatto, la notte prima. Si era addormentata lasciando Marie sola con Edward. Davvero un pessimo esempio di maternità.
Di nuovo Edward le lesse nel pensiero. “Non ti fidi, vero?”
Isabella voleva fidarsi di lui. L’istinto le diceva che poteva farlo, ed anche Marie, che chiaramente lo adorava. La ragione, però, continuava a trattenerla, a farla sentire in colpa.
“Non è che non mi fidi,” confessò, “di sicuro sei un bravo ragazzo, e sei stato molto gentile con noi. Ma se ci pensi bene, alla fine, io ancora non so chi sei…”
Edward soppesò a lungo le parole di Isabella, così a lungo che Isabella pensò di averlo offeso.
Edward, però, non si era offeso. Stava solo cercando di mettersi nei panni di quella ragazzina, di guardarsi, dall’esterno, con gli occhi di lei. Probabilmente, al suo posto, avrebbe avuto gli stessi dubbi, le stesse perplessità. Perché la stava aiutando? Perché si occupava di sua figlia? Perché le offriva la cena?
Neppure Edward sapeva rispondere con esattezza. Sapeva solo che doveva farlo. Voleva farlo. Si sentiva stranamente protettivo nei confronti di Isabella e di Marie. Chiaramente non avevano nessun altro al mondo, erano sole. Come poteva far finta di niente?
“Hai ragione,” le disse infine, per rassicurarla. “Non sai nulla di me, ed io so pochissimo di te. Ma ti giuro che ti puoi fidare. Quando tornerai da quella doccia mi troverai ancora qui, con Marie e la nostra cena. Parleremo, e potrai farmi tutte le domande che vuoi. Allora, che ne dici?”
Isabella lo fissò a lungo negli occhi, senza provare imbarazzo o vergogna, questa volta, solo immensa gratitudine. Non rispose. Si limitò a sorridergli, sapendo che non sarebbe riuscita a proferire parola senza scoppiare a piangere.
 
***
 
Quaranta minuti più tardi Edward e Isabella erano seduti uno di fronte all’altra, intenti a consumare la propria cena, mentre Marie dormiva profondamente nella sua carrozzina.
“Allora, Isabella…”
“Bella,” lo interruppe lei, “chiamami Bella, lo preferisco.”
“Ok, Bella. Cosa vuoi sapere?”
Dunque, che voleva sapere. Tutto, in realtà. Edward la incuriosiva. Innanzi tutto non riusciva a capire perché lui fosse così gentile con loro. E poi si sentiva strana in sua presenza. Provava sentimenti contrastanti. Sentimenti che non si addicevano ad una donna sposata, madre di una bambina di sei mesi. Sensazioni che cercava di ignorare, ma che non riusciva a nascondere, soprattutto quando arrossiva violentemente. Edward era un ragazzo molto attraente, ed era difficile restare immune al suo fascino.
“Non saprei,” gli disse, “parlami un po’ di te. Quanti anni hai, di dove sei, che lavoro fai… cose così.”
Edward ingoiò il boccone che stava masticando e poi bevve un sorso di birra direttamente dalla bottiglia. “Ho ventidue anni, ventitré a giugno, ed ho sempre vissuto a Seattle. Sei mesi fa ho lasciato la facoltà di medicina, i miei se la sono presa e mi hanno cacciato di casa. Per qualche settimana ho dormito sul divano di un amico, poi ho trovato questo appartamento. Fa schifo, ma costa poco. Per mantenermi faccio un po’ di tutto. L’imbianchino, il cameriere, il barista… quello che capita. Il mio vero lavoro, però, è un altro.”
“Quale?” chiese Isabella, sempre più intrigata dalla storia di Edward.
“Il musicista. Suono il basso in un gruppo indie‒rock, i Breaking Dawn, e scrivo la maggior parte dei pezzi.”
“Siete famosi?”
Edward sorrise, fiducioso. “Non ancora, ma lo saremo presto, ne sono sicuro. Tu, invece? Qual è la tua storia?”
Isabella si incupì e smise di mangiare. “Ehi, tranquilla,” le disse Edward, notando il suo improvviso malumore, “non sei obbligata a raccontarmi nulla, se non vuoi.”
Lei scosse la testa, e gli regalò un sorriso timido. Edward era stato gentile ed onesto: gli doveva altrettanto.
“Ho diciotto anni, diciannove a settembre. Diciotto mesi fa ho conosciuto un ragazzo, Jacob. Abbiamo cominciato ad uscire. Lui giurava di amarmi, ed anch’io ero innamorata. O almeno credevo di esserlo. Tre mesi dopo ero incinta. Ci siamo sposati, perché ci sembrava la cosa giusta da fare per Marie. Volevamo che crescesse in una famiglia normale. A Forks, però, non c’era lavoro, così ci siamo trasferiti a Seattle. Jacob ha dei parenti qui. Gli hanno offerto un posto come meccanico nell’officina di famiglia.”
Isabella smise di parlare. Edward attese in silenzio che lei fosse pronta a continuare.
“Abbiamo capito fin da subito di aver commesso un errore. Non facevamo altro che litigare, discutere per ogni più piccola cosa. La vedevamo in modo diverso su tutto. Io volevo che lui si assumesse le proprie responsabilità, che la smettesse di comportarsi come un ragazzino, che si trovasse un lavoro decente e mettesse la testa a posto. Jake mi accusava di soffocarlo, di non lasciargli spazio. Credevo che le cose sarebbero migliorate dopo la nascita di Marie, ma invece sono peggiorate. Usciva ogni sera, ci lasciava sempre sole. Spendeva quasi tutti i soldi che portava a casa. Alla fine se ne è andato.”
“Ed ora dov’è?”
Isabella si strinse nelle spalle. Posò il cucchiaio. L’appetito le era passato del tutto. “Non lo so. Jake non risponde alle mie chiamate. Mi ha mandato un messaggio, però. Dice che ha bisogno di tempo per riflettere. I suoi cugini sostengono che è tornato a Forks, ma io non gli credo. Jake non è mai andato d’accordo con i suoi.”
Edward era sconvolto. Anche a lui era passato l’appetito. “Non hai nessun amico che ti possa aiutare?”
“Pochi, e sono partiti tutti per l’università. Non hanno tempo per me.”
“Ed i tuoi genitori?”
Isabella si lasciò sfuggire una risata amara. “L’ultima volta che ho sentito mia madre è stato per dirle che Marie era nata. Non si è mai presentata per conoscerla. Ora vive da qualche parte in Florida con il suo nuovo fidanzato. Non hanno neppure una vera casa, credo stiano in un motel.”
“E tuo padre, invece?”
“Mio padre non ha mai apprezzato Jake. È sempre stato contrario all’idea che mi sposassi con lui. Lo considerava un poco di buono, ed aveva ragione. Ha smesso di parlarmi quando me ne sono andata di casa.”
Edward lanciò uno sguardo allarmato a Marie. “Stai cercando di dirmi che neppure lui conosce la bambina? Che non l’ha mai voluta incontrare?”
Isabella scosse la testa, gli occhi bassi e lucidi.
Edward era stato cacciato di casa, eppure non aveva mai dubitato del fatto che i suoi gli volessero ancora bene. Era più che altro una questione di principio, e di fiducia. Sapeva che, prima o poi, le cose si sarebbero sistemate, anche se i Breaking Dwan non fossero mai diventati famosi.
Sua madre, ad esempio, lo chiamava una volta alla settimana, di nascosto da suo padre, il più cocciuto dei due. E poi c’era sua sorella Alice, che lo sosteneva ed incoraggiava, ed i suoi amici, ed i membri del gruppo.
Edward non era solo, Bella sì. Bella non aveva più nessuno al mondo, solo Marie.
“Come fai a mantenerti,” le chiese, “i soldi ti bastano?”
Isabella si morse le labbra. Quello era un punto dolente. “Ho trovato qualche lavoretto che posso fare da casa. Correggo bozze per alcune riviste on‒line, imbusto depliant e materiale informativo, faccio biscotti e li vendo ad un chiosco itinerante…” Sospirò, prendendosi la testa tra le mani. La sua vita era un disastro, e non sapeva come uscirne. “No, Edward,” disse con voce tremante, “i soldi non mi bastano. Sto finendo i pochi risparmi che ho messo da parte, e c’è l’affitto, le bollette, i pannolini, il latte in polvere… Marie ha bisogno di un sacco di cose, ed io, io…”
Isabella smise di parlare. Se avesse continuato, avrebbe pianto di sicuro, e non voleva. Non le sembrava dignitoso.
Sollevò gli occhi velati di lacrime. Edward la fissava, un misto di preoccupazione e pena dipinti sulla faccia.
“Ti ho rovinato la serata, eh?” provò a scherzare. “Dimmi la verità: hai voglia di scappare a gambe levate.”
Edward non rispose. Isabella aveva ragione. Una parte di lui voleva andarsene, dimenticare Isabella e sua figlia Marie, non vederle né incontrarle mai più. Gli avrebbero portato solo guai. Un’altra parte di lui, invece, voleva disperatamente occuparsi di loro. Non capiva perché. Isabella aveva un marito, Marie un padre. Lui che c’entrava? Nulla.
Eppure…
“Ehi,” rassicurò Isabella quando vide una lacrima scenderle lungo la guancia, “non piangere. Troveremo una soluzione, d’accordo?”
Isabella annuì, poco convinta.
Ancora non sapeva come, ma Edward l’avrebbe aiutata.

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