Mentre cadevo mi hai preso la mano

di Flajeypi
(/viewuser.php?uid=621795)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Non dovresti farlo ***
Capitolo 2: *** Sensi di colpa ***
Capitolo 3: *** Forse sì, forse no ***
Capitolo 4: *** Confessioni ***
Capitolo 5: *** Cadere e rialzarsi, spezzarsi ***
Capitolo 6: *** Fermare il tempo ***
Capitolo 7: *** Qualcosa di buono ***
Capitolo 8: *** Di addii silenziosi e consapevolezze ***
Capitolo 9: *** Il Sole e la Neve ***
Capitolo 10: *** Grazie, angelo ***
Capitolo 11: *** Buon esempio ***
Capitolo 12: *** Farsi degli amici ***
Capitolo 13: *** Ogni notte - Epilogo (Di risvegli notturni e sorrisi spontanei) ***



Capitolo 1
*** Non dovresti farlo ***


Mentre cadevo mi hai preso la mano
A Hunger Games Fanfiction
 


1. Non dovresti farlo

Sto correndo. Sono al Giacimento e corro verso le miniere. Una fila di persone sta scendendo giù, in profondità, ma io voglio fermarle perché so - io lo so – che esploderà tutto. Smetto di correre e cerco di parlare con ognuno di loro e mano a mano ne scorgo i volti: mio padre, Prim, Rue, Finnick, Cinna, Mags…ci sono tutti. Cerco di avvertirli, di dirgli di andare via, di non scendere,  perché tra poco la miniera esploderà, ma non mi sentono, non mi vedono; è come se per loro non esistessi. Urlo, urlo fino a farmi male, ma nessuno mi ascolta.

Mi sveglio.  Madida di sudore e con la gola in fiamme. Ne realizzo il motivo: devo aver urlato davvero a pieni polmoni come nell’incubo. Noto che Ranuncolo mi fissa preoccupato. Quel gattaccio è diventato meno odioso da quando ha capito che la cosa peggiore che potesse accadere è successa: Prim è morta. E non è la sola. Mi scuoto da questi pensieri, mi alzo e mi dirigo verso la doccia, più per cercare un modo per togliermi quelle immagini - quei volti - dalla testa che per lavarmi. Mi spoglio senza guardarmi allo specchio perché guardare le mie sembianze da ibrido di fuoco non fa altro che riportarmi alla mente quell’orribile momento in cui mia sorella è diventata una torcia umana. Anche io lo sono diventata, ma non sono morta. Me ne rammarico ogni giorno, ogni giorno vorrei essere morta al suo posto. Una vita per una vita, mi sembra uno scambio equo, no? Mi infilo nella doccia mentre continuo a rimuginare su questi pensieri e quando ne vengo fuori sento dei rumori provenire dal piano di sotto. Realizzo che sia ormai mattina e che Sae la Zozza sia venuta a controllarmi come al solito ma quando, pulita e vestita, scendo al piano di sotto scopro che Sae non è stata l’unica a passare oggi. Sul tavolo in salotto, in bella mostra, ci sono delle soffici e invitanti pagnotte al formaggio – le mie preferite - di cui soltanto Peeta può essere l’artefice: sono perfette. Ne afferro una e mi dirigo in cucina dove – con una punta di delusione? Non lo so – scopro che ad aspettarmi c’è soltanto Sae la Zozza. Fisso la pagnotta tra le mie mani, quasi come se mi stessi chiedendo se sia reale, e mi guardo intorno; Sae intuisce i miei pensieri : “Le ha portate e poi è andato via. Aveva una faccia strana, chi sa, forse era stanco ed è tornato a dormire”. Ne dubito e so che anche lei lo ha detto senza esserne convinta, sa che anche Peeta, come me, ha incubi orribili ogni notte, forse anche peggiori dei miei, e che dopo ogni incubo è impossibile tornare a dormire. Questa volta ne sono sicura, quello che sento è delusione, perché quando l’ho visto piantare le primule nel mio giardino avevo davvero creduto che il mio ragazzo del pane fosse tornato e, sì, è vero che si è ricordato che le pagnotte al formaggio sono le mie preferite, ma se non è voluto rimanere un motivo ci sarà.
Senza dire una parola, né dandole modo di capire se la stavo ascoltando o meno, poso la pagnotta che avevo in mano sul tavolo della cucina, esco dalla stanza e mi avvio verso l’ingresso, decisa a scoprire il motivo del comportamento di Peeta. Indosso le scarpe, esco, percorro i 22 metri che dividono le nostre case e mi fermo davanti alla sua porta. Sto per bussare quando ritorno in me e capisco che se Peeta vuole allontanarsi da me è libero di farlo e, anzi, così facendo starebbe sicuramente meglio. Magari potrebbe trovarsi una ragazza che lo apprezzi e lo ami come io non so fare, una ragazza come Delly, che non scatenerebbe la sua parte depistata e che potrebbe dargli una famiglia. Io non posso. Così torno sui miei passi, rientro in casa, tolgo le scarpe e prendo posto sul divano nel salotto. Passo la mia giornata così, a fissare il fuoco che Sae ha acceso prima di andare via, e poi le ceneri che ne restano una volta esaurita la legna. E penso che io mi sento proprio così, in cenere, senza la possibilità di tornare indietro né quella di andare avanti perché, si sa, una volta che una cosa viene ridotta in cenere è la fine.

Sae ritorna all’ora di cena e mi trova ancora nella stessa posizione in cui mi ha lasciata stamattina. Mi convince a mangiare qualcosa e poi mi mette a letto. Mi sento una bambina, io che cacciavo e mantenevo la mia famiglia, sono uscita viva da due arene, sono stata la Ghiandaia Imitatrice, il simbolo della rivolta, non riesco più a fare niente. Mi lascio vivere, così come faceva mia madre. A questo pensiero, il mio cervello registra lo stimolo per fare un sorriso amaro, ma sono sicura di non aver formulato nessuna espressione sul mio viso. Mi addormento e i soliti incubi vengono a trovarmi.
La mattina, mi sveglio urlante e la prima cosa a cui penso è proprio l’ultimo pensiero che ho fatto prima di addormentarmi: mi sto lasciando vivere. Come mia madre. La donna che non ha mai saputo affrontare il dolore in modo degno. E’ morta anche lei, anche se non fisicamente, per ben due volte: la prima con mio padre e la seconda, stavolta definitivamente, con mia sorella. Ripugnata da questo pensiero mi alzo e decido nuovamente di andare da Peeta. Stavolta busserò e gli parlerò, penso nella mia testa. Mi lavo in fretta, scendo le scale di corsa e ignoro Sae in cucina. Esco e corro fino alla porta di Peeta. Di nuovo, come ieri, non trovo il coraggio di bussare. Mi convinco nuovamente che non ho diritto di rientrare nella sua vita e così,sconfitta da me stessa, ritorno a casa.
I giorni successivi passano tutti così: all’improvviso decido che, sì, posso parlare con Peeta senza creare confusione e subito dopo ritorno sui miei passi e mi riaccomodo sul divano. Non ho controllato, ma credo di aver scavato un solco sulla strada per tutte le volte in cui ho percorso il tragitto tra la mia casa e quella di Peeta senza, tuttavia, riuscire mai a bussare alla sua porta.


L’avvenimento sorprendente che smuove un po’ le cose avviene una sera, circa tre settimane dopo il mio primo tentativo di bussare alla porta di Peeta. Sae, stanca di vedermi seduta sul divano oppure di vedermi correre via e poi ritornare poco dopo con un’espressione – lo realizzo soltanto ora, pensandoci – triste sulla faccia, è riuscita non so come a convincere Haymitch a venire a cena da me. A suo dire, si presenterà abbastanza sobrio. Chi sa cosa gli avrà raccontato per convincerlo a venire e addirittura a non bere, o almeno a non bere molto. Nonostante questi pensieri, sono scettica sul fatto che Haymitch possa tenere fede alla parola data ma, all’ora di cena, con mia grande sorpresa, ecco che sento bussare alla porta. Sae è occupata in cucina, così sono costretta ad alzarmi dal divano per andare ad aprire. Apro la porta con noncuranza ma quando realizzo che ci sono due persone davanti a me, non solo Haymitch come mi aspettavo, resto di sasso. “Peeta…”, mi sfugge in un sussurro prima di riuscire a frenarmi. Lo fisso imbambolata e capisco di avergli fatto lo stesso effetto che lui ha fatto a me. Leggo confusione, sorpresa, preoccupazione e almeno un’altra miriade di emozioni nei suoi occhi. Chi sa lui cosa vede nei miei…
“Sì, sì, piccioncini siete dolcissimi ma io ho fame. Katniss che ne dici di farci entrare? Se avessi saputo che il ragazzo ti avrebbe fatto questo effetto, non l’avrei portato!”, Haymitch interrompe il silenzio che si era creato ed io mi sposto per farli passare. Distolgo lo sguardo dagli occhi di Peeta mentre mi passa affianco, prima di fare qualcosa di stupido come arrossire o mettermi a piangere, e mi concentro per fare un’espressione accigliata e infastidita rivolta ad Haymitch e ai suoi commenti spiacevoli.
Li seguo in cucina, dove scopro che Sae ha cucinato per un esercito e dove, per la prima volta, noto che Peeta tiene in mano un vassoio con una torta. Qualcosa dentro di me vorrebbe convincermi del fatto che l’abbia preparata per me, ma la mia parte razionale sa che il Peeta che avrebbe fatto una cosa del genere è sepolto chi sa dove sotto l’ibrido creato da Capitol City e che raramente – per non dire mai – riesce ad uscire fuori. Mi siedo silenziosamente mentre vedo Sae che apparecchia. Dovrei darle una mano, lo so – in fondo l’ospite sono io, la casa è la mia – ma non riesco a fare altro se non osservare Peeta di sottecchi sperando che non noti il mio sguardo e pensi che io stia soltanto cercando un modo per ucciderlo. A questo pensiero sospiro, mentre sento lo sguardo di Haymitch sulla nuca. Se lo conosco abbastanza, adesso dirà qualcosa e sarà anche qualcosa di molto tagliente.
“Da quando sono arrivato hai già detto una parola e sospirato una volta, vedo che facciamo progressi, eh Ragazza in fiamme?”. Bingo, una delle sue solite frecciatine.
”Visto che sei in vena, che ne dici di aiutare?” Incalza. Non rispondo, mi limito ad alzarmi, a prendere piatti e posate e ad iniziare a sistemarli sulla tavola. Stavolta sento un altro paio di occhi addosso, ma ho il terrore di alzare lo sguardo per verificare i miei sospetti. Poco male, perché la fonte dei miei dubbi prende parola. “Brutte nottate, eh?”, mi sussurra Peeta accennando alle mie occhiaie mentre Haymitch è di spalle. Annuisco, mentre penso che è strano parlare di nuovo con lui dopo tutte queste settimane. E’ strano parlare con lui come se non fosse mai stato depistato e una parte di lui non voglia ucciderti costantemente, Katniss, correggo mentalmente in un dialogo con me stessa.
Sono scossa dai miei pensieri da una indaffarata Sae che mi scansa per appoggiare la pentola sulla tavola. Riempie i piatti mentre noi prendiamo posto, Haymitch alla mia destra e Peeta dall’altro lato del tavolo, il più possibile lontano da me, penso, mentre Sae occuperà il posto alla mia sinistra.
Mangiamo e la cena procede tranquilla, con me che continuo la mia attività di osservatrice e Sae che cerca di fare conversazione, ottenendo sarcasmo da parte di Haymitch e risposte gentili ma concise da parte di Peeta che, puntualmente, chiude ogni argomento -  sospetto senza volerlo perché prima fare conversazione era un suo punto di forza ma ora … ora non saprei dirlo; è imprevedibile.
Mentre sono occupata ad osservarlo senza cercare di farmi notare, capisco che lui tenta di fare lo stesso e non so cosa pensare di questa cosa. Sono confusa e in più ho una strana sensazione: qualcosa mi sfugge, io … io sto dimenticando qualcosa …
“Oh andiamo, la smettete di fare finta di non volervi guardare né parlare?” … o qualcuno. Mentre ero concentrata su Peeta mi ero dimenticata del fatto che Haymitch avrebbe notato la direzione del mio sguardo. “Vi comportate da perfetti imbecilli: uscite di casa, percorrete il vialetto, arrivate alla porta dell’altro e prima di bussare tornate indietro. La ghiandaia di giorno e il fornaio di notte. Ottimo tempismo, lo devo ammettere: siete riusciti a non incontrarvi mai. Ma a parte questo, siete due imbecilli”, sbotta Haymitch. Sto per replicare, offesa dall’epiteto che mi ha affibbiato quando il senso delle sue parole arriva al mio cervello: Peeta mi ha cercata, Peeta ha calcato il vialetto proprio come ho fatto io per queste tre settimane, Peeta … mi illudo già che il mio ragazzo del pane stia tornando da me.
Ci guardiamo, visibilmente imbarazzati, mentre prendiamo coscienza ognuno delle azioni dell’altro e non riusciamo a dire niente. Sento che se non esco in fretta da questa stanza, mi esploderà la faccia a forza di far affluire sangue alle guance. Così mi alzo e con un “prendo una boccata d’aria” mi congedo, uscendo.
Cammino avanti e indietro nel mio giardino per una decina di minuti, fino a che non mi ritrovo davanti alla primule che Peeta ha piantato per me ormai quasi un mese fa.  Mi volto a guardare la Luna, che scopro essere piena, quando una voce mi riscuote dai miei pensieri.
“Perché piangi?”. Peeta. Lo guardo e con un gesto involontario mi tocco una guancia. Non mi ero accorta di aver iniziato a piangere. Lo vedo indeciso, come se volesse avvicinarsi, ma non lo fa. Rimane a due passi da me.
“Io … io non lo so”, confesso in un sussurro, mentre una nuova lacrima mi solca la guancia. Questa cosa sembra scuoterlo, si avvicina e con la punta delle dita e un tocco delicatissimo, mi asciuga le lacrime.
“Beh, allora non farlo”, dice con convinzione e un mezzo sorriso. Ho voglia di sorridergli di rimando e sto per farlo quando lo sento irrigidirsi. Meccanicamente toglie le dita dal mio viso e arretra di qualche passo. Lo guardo sconcertata mentre inizio a realizzare cosa stia per succedere.
“Io … era per questo che non riuscivo mai a bussare”, dice correndo via al meglio delle sue possibilità ed io non capisco se si riferisce alle mie lacrime o al fatto che la mia presenza gli abbia scatenato uno dei suoi episodi; ma forse si riferiva ad entrambi, come se il vecchio Peeta e il Peeta depistato stessero combattendo per manifestarsi nella stessa frase. Rientra in casa e sento un rumore di qualcosa che si rompe e poi la voce di Haymitch che tenta di calmarlo. D’istinto corro anche io verso casa, ma quando faccio il mio ingresso in cucina capisco di aver sbagliato. Peeta si gira a guardarmi con gli occhi completamente neri e un’espressione famelica in viso. Si avventa su di me prima che Haymitch possa fermarlo e l’ultima cosa che ricordo sono quei due pozzi neri che mi fissano mentre un barlume di azzurro tenta di fare capolino. Poi svanisce tutto.


Mi sveglio nel mio letto, ma non apro gli occhi. Cerco di ricordare ma non so perché sono svenuta, Peeta non ha fatto in tempo a torcermi un capello. Stava tornando da me, penso, ricordando il barlume di azzurro che ho visto nei suoi occhi prima che nei miei diventasse tutto nero.
Cerco di concentrarmi, perché sento delle voci venire dal piano di sotto e voglio capire cosa dicono.
“Sveglia, ragazzo! Non puoi chiuderti nel tuo mondo e scappare ogni volta che hai un episodio. Ne abbiamo discusso abbastanza in queste tre settimane. Sei pronto, stasera non è successo niente, puoi starle vicino senza temere di ucciderla”, questo è un Haymitch abbastanza furioso tanto che non devo sforzarmi per capire cosa dica: lo sta urlando. Perché è tanto arrabbiato?
“No! Evidentemente non posso! Haymitch se lei  - inizia Peeta, reggendo il tono del nostro mentore - … se lei non si fosse afflosciata come una pezza tra le mie braccia non sarei mai tornato in me! – poi cambia tono e sono costretta a prestare maggiore attenzione per sentire quello che dice -  Io avrei … io avrei … e lei sarebbe crollata lo stesso, solo che la colpa sarebbe stata mia”, finisce con un tono disperato che mai prima d’ora gli avevo sentito. Ho l’impulso di correre giù, abbracciarlo e dirgli che va tutto bene, proprio come lui faceva con me quando dormivamo insieme ed io avevo un incubo. Ma non posso, peggiorerei solo le cose. Così me ne sto ferma, aspettando di sentire la risposta di Haymitch che, però, non arriva. Deve star fissando Peeta con una delle sue espressioni furibonde.
“Cerca di capirmi, Haymitch, io devo andare via. Non posso restare. Io non posso stare qui con la continua voglia di vederla e la paura di farle male o, peggio, di ucciderla. Impazzirei!”. Ora capisco la rabbia di Haymitch: Peeta vuole andare via, via dal 12, via da me, realizzo con tristezza.
“E allora vai, vattene! Ma non farti più vedere da me! Ti ho aiutato ad uscire fuori da due arene sperando di darti una possibilità. Non mi aspettavo che alla prima occasione avresti mollato tutto”. La rabbia di Haymitch si è trasformata in … cosa? Tristezza? Non è da lui e questo mi fa capire la gravità della situazione.
“NO!” mi lascio sfuggire io a pieni polmoni. Sento dei passi sulle scale, ma non gli do il tempo di raggiungermi. Mi alzo in fretta, ignorando la testa che mi gira e comincio a correre verso le scale. Supero Haymitch che, attirato dal mio grido, stava venendo a controllarmi e intercetto Peeta che, approfittando della distrazione di Haymitch, stava per filarsela dalla porta. Si accorge di me e tenta di accelerare il passo, ma io sono più veloce. Quasi lo placco quando lo raggiungo e lo stringo in un abbraccio. Non ricambia e sento che il suo respiro si spezza e comincia a farsi pesante. Capisco che sta per avere un episodio e allora gli prendo il viso tra le mani: “Resta con me”, gli dico, cercando di modulare la mia voce in un tono fermo ma dolce allo stesso tempo, come un paio di vite fa a Capitol City, durante la guerra. Lo vedo combattere con i demoni che gli infestano il cervello, finché – credo senza rendersene conto – mi dice: “Sempre.”
Poi accade, mi stringe forte a sé ricambiando, finalmente, il mio abbraccio. Affonda il viso nei miei capelli e per la prima volta da quando lo conosco, lo sento singhiozzare. Lo stringo più forte, cercando di calmarlo.
“Non dovresti farlo”, gli dico, rievocando le sue parole di … quanto? Una, due, tre ore fa? Ma io non mi riferisco solo al pianto e penso che Peeta lo abbia capito, perché smette di singhiozzare e si allontana da me quanto basta per piantare i suoi occhi nei miei. Sa che ho sentito la sua conversazione con Haymitch, sa che ho sentito che vuole andare via, lontano da me.
“Devo” mi dice, semplicemente, con una punta di dolore nella voce.
“No, non devi” gli rispondo, fissandolo con intensità. Vorrei dirgli che se se andasse per me sarebbe la fine: smetterei di alzarmi dal letto, di lavarmi, di mangiare, di vivere. Sopravvivrei, certo, perché incapace di uccidermi per via del debito che sento nei confronti di tutte le persone che hanno perso la propria vita per salvare la mia, ma questa non sarebbe una vita degna di essere vissuta. Vorrei dirgli che quando ha piantato le primule avevo creduto che fosse tornato da me, che avevo pensato che forse le cose sarebbero potute andare, se non bene, almeno meglio di come andavano prima. Ma non so farlo. Io non so parlare, non so esprimere i miei sentimenti, era lui che smuoveva le folle con le sue parole. Così rimango lì, a fissarlo, mentre lo vedo scrutarmi l’anima attraverso gli occhi.
“Ho capito”, dice. Ed io non ho idea di cosa abbia capito, ma dopo averlo detto mi stringe a sé e a me basta questo: è una promessa, significa “resterò, nonostante tutto”.
Un colpetto di tosse mi riporta alla realtà. Oh no, penso, Haymitch ha assistito a tutta la scena. Ora non la smetterà più di prenderci in giro e ha il brutto vizio di ingigantire le cose.
Ci voltiamo entrambi verso la porta e lo vediamo lì, con in mano un bicchiere, mentre lo alza verso di noi in un brindisi immaginario. Beve un sorso e dice la sua: “Ah, bene, vedo che le parole del tuo affezionato mentore non riescono a convincerti ma, ehi, bastano un paio di moine e carezze della Ragazza di fuoco e subito ritorni sui tuoi passi”. Potrebbe sembrare offeso se non aggiungesse:  “Ben fatto ragazzo. Ora vi prego evitate di scambiarvi effusioni davanti a me. Aspettate che io rientri in casa mia e poi fate quello che volete. Mi raccomando le precauzioni! Ragazzo, conto su di te”. Fa un vistoso occhiolino a Peeta e io lo guardo incredula, mentre realizzo il significato delle sue parole. Sto per rispondergli con un fiume di insulti quando lui, notando la mia espressione, dice: ”Oh andiamo dolcezza, sappiamo tutti bene che ho detto la verità. Buonanotte!”, e si avvia, a passo traballante ma svelto, verso casa sua.
Arrossisco come mai in vita mia e cerco di non farmi vedere in volto da Peeta, quando lo sento scoppiare a ridere. Ha una risata così bella, così dolce, che all’improvviso dimentico le parole di Haymitch e mi metto a guardarlo incantata. Lui se ne accorge e smette di ridere, ma vedo che continua a sorridere e questo mi dà la forza per sorridergli di rimando. Restiamo così per un paio di minuti, finché non è lui a rompere il silenzio: “Scusa”, dice, diventando improvvisamente triste, e io capisco che si riferisce a quello che avrebbe potuto farmi se non fossi svenuta. Lo guardo risoluta sperando che capisca che non ho paura di lui e che, anzi, quando lui mi stringe non ho paura di niente. Ma nonostante questo mi chiede: “Perché sei svenuta? Eri lì, in piedi, e all’improvviso sei crollata. Ero convinto che fosse per paura di quello che avrei potuto farti ma prima … prima, quando stavo per avere un altro episodio, non sei scappata, sei rimasta e adesso mi guardi con quegli occhi cercando di rassicurarmi. Io … io non capisco. Aiutami a capire, ti prego”. Lo guardo imbambolata e all’improvviso ricordo cosa ho pensato prima di svenire: non avevo paura per me, ma per lui. Sapevo che se anche mi avesse torto un solo capello, memore dell’episodio nel distretto 13, non avrebbe più voluto avvicinarsi a me. In un attimo, ho immaginato la mia vita senza di lui e ne è seguito un attacco di panico che si è manifestato nella perdita di sensi. Glielo dico, per una volta dico quello che mi passa per la testa e per tutta risposta lui torna a stringermi come prima, se non più forte. Sto così bene che quasi non me ne rendo conto quando gli sussurro “Dormi con me, stanotte?”, pentendomene subito dopo per la paura di un rifiuto. Ma quando lo guardo in faccia noto che sorride: sì, anche lui ha bisogno di tenere lontani gli incubi stanotte.
Senza dire niente, mi prende per mano e, insieme, ci avviamo verso casa mia dove so che per la prima volta da mesi passerò una nottata tranquilla. Con Peeta. A questo pensiero sorrido e gli stringo più forte la mano, sentendomi davvero a casa dopo tanto tempo.



Angolo dell'autrice
Eccomi qui! Piacere, io sono Flavia! 
Spero che il primo capitolo vi sia piaciuto e che lascerete tante recensioni. Sono super accette le critiche, anzi, sono fortemente richieste!

Un ringraziamento speciale va alla mia Cccch senza la quale non solo non avrei mai pubblicato qui questa storia, ma non l'avrei nemmeno scritta! Grazie Ccch <3

Alla prossima!
P.S. : cercherò di aggiornare i capitoli settimanalmente :)

P.P.S. : se questa vi è piaciuta, leggete anche quest'altra http://www.efpfanfic.net/viewstoryv.php?sid=2462888 che vi piacerà ancora di più! (scritta dalla mia Ccch <3)

E ricordate #moreshirtlessPeetaforeveryone !


 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Sensi di colpa ***


Mentre cadevo mi hai preso la mano
A Hunger Games Fanfiction

 


2. Sensi di colpa

La luce del Sole che entra dalla finestra aperta mi costringe ad aprire gli occhi. Mentre, soddisfatta, constato di non aver avuto incubi, mi chiedo come mai la finestra sia aperta, quando la ragione si muove vicino a me e mi fa tornare in mente tutti gli avvenimenti della nottata appena passata. Peeta, ancora addormentato, si rigira nel sonno e finisce con l’aggrapparsi a me, usando la mia pancia come cuscino. Lo guardo – me ne rendo conto solo dopo un po’ – con tenerezza e questo mi fa una strana sensazione. Ho la tentazione di accarezzargli la testa ma, poi, la paura di svegliarlo mi fa fermare con la mano a mezz’aria e mi costringe a rimetterla sul cuscino vicino alla mia testa.  Resto lì, immobile a guardarlo, con una miriade di emozioni , che non riesco a classificare, che sfilano dentro di me come su di una passerella. Dopo una buona mezz’ora di attenta veglia sul sonno di Peeta, riesco finalmente ad identificarle in una sola: serenità. Vederlo dormire mi infonde una pace tale da avermi fatto dimenticare, anche se per poco, di tutti i fantasmi che tormentano la mia vita. Ma ecco che tutti i pensieri, i ricordi e i volti tornano nella mia mente. Vedo Prim, la camicia che le sbuca in una coda dalla gonna; vedo Finnick e la sua costanza nello stringere la mano di Annie, al 13; vedo Cinna mentre mi sussurra all’orecchio “io scommetto ancora su di te, Ragazza in fiamme”… li vedo tutti e, inevitabilmente, lacrime silenziose iniziano a scorrere sulle mie guance.
Intanto la luce del Sole ha raggiunto anche gli occhi chiusi di Peeta tanto che li vedo strizzarsi, segno del suo imminente risveglio. Cerco di asciugarmi le lacrime in modo da non fargli capire di averle versate ma, mentre lo faccio, Peeta si sveglia e si alza di scatto dalla mia pancia. Diventa un po’ rosso in viso e deduco che sia imbarazzato perché nel sonno mi ha toccata come mai aveva fatto da sveglio, ma appena incontra il mio sguardo tutto il colore e l’espressione buffa che aveva fatto, scompaiono dal suo viso e vengono rimpiazzati da una maschera di preoccupazione. Si è accorto delle lacrime, penso e infatti invece di darmi il buongiorno con una carezza finisce di asciugarle al mio posto e mi chiede: “Perché piangi?”. Stavolta lo so, so il perché di queste lacrime, ma non riesco a trovare la forza di parlarne. Così lo fisso e lui capisce e, in un gesto improvviso, mi stringe in un abbraccio. Mi lascio cullare un po’ , fino a che i pensieri di poco fa non tornano a fare capolino nella mia mente. Mi sento in colpa, mi sento di non meritare questo pezzo di Paradiso: ho ucciso troppe persone e rovinato la vita di troppe altre. Mi scosto e, mormorando delle scuse, gli faccio capire di volermi fare una doccia. Spero di poter lavare via questi pensieri per godermi la presenza di Peeta ma, se mi conosco almeno un po’, so già che questa sarà una giornata ‘no’ e qualsiasi cosa tenterò di fare sarà inutile: non riuscirò a fare altro se non lasciarmi inseguire da fantasmi invisibili che esistono solo nella mia testa.  Lui mi lascia andare ma nel suo sguardo leggo quanto sia restio a lasciarmi sola mentre sono in questo stato, leggo la sua preoccupazione e questo mi fa sentire ancora peggio, per quanto sia possibile. Una cometa mi passa nella mente portando la consapevolezza che Peeta oggi sembra quello di prima, ma la sua scia viene subito rimpiazzata dai soliti fantasmi, tanto che non faccio in tempo a trarne beneficio. Scappo via dai suoi occhi preoccupati, mi chiudo in bagno e inizio a spogliarmi con estrema lentezza, poi mi butto sotto il getto della doccia, grata del fatto che stavolta nessuno vedrà le lacrime che sto versando. Ancora. Mi sento strana, io sono sempre stata la ragazza forte, quella che non piangeva, che non si lasciava trasportare dall’emotività. Immagino che dopo aver vissuto quello che ho vissuto io, fosse inevitabile che sarei cambiata eppure non riesco ad accettarmi in questa veste ‘umana’. Scrollo la testa per pensare ad altro e mi ritrovo a pensare a Gale. Anche lui è cambiato da quando cacciavamo insieme nei boschi, prima dei 74esimi Hunger Games, prima della ribellione, prima di quelle bombe. Il suo ricordo ha un sapore agrodolce, mi riempie di nostalgia e di rabbia allo stesso tempo. Da un lato vorrei rivederlo, abbracciarlo, dall’altro vorrei solo riversargli addosso il mio odio verso quelle bombe che lui stesso ha progettato e che hanno ucciso mia sorella. Ecco, questo è il colpo di grazia: pensare a Gale e a Prim contemporaneamente mi ha completamente prosciugato anche di quel misero barlume di speranza che nutrivo sul miglioramento di questa giornata. Mi scuoto da questi pensieri, esco dalla doccia e mi vesto. Una volta fuori dal bagno sento un odore dolce provenire dalla cucina e capisco che Peeta sta cucinando. Per me, penso e per un attimo il macigno che porto nel petto pare sollevarsi un po’. Mi lascio guidare dal profumo e quando arrivo in cucina trovo Peeta, con tanto di grembiule, intento a sfornare le mie pagnotte preferite. Vorrei ringraziarlo in qualche modo per tutto quello che fa per me, anche solo per il fatto di essere qui e l’unica cosa che mi viene in mente è che potrei sforzarmi per fare una conversazione decente con lui. Ricordo quando mi disse che tutta la questione dell’amicizia ruota attorno al raccontarsi i propri pensieri o anche le cose meno profonde, come il proprio colore preferito. Così prendo coraggio e cerco uno spunto per una conversazione.  Un’idea mi balena per la mente: ricordo che a Capitol City giocava a ‘Vero o Falso ’ per capire quali dei suoi ricordi fossero realmente accaduti e che questa cosa lo aiutava molto. Decido che il mio modo di ringraziarlo sarà aiutarlo in questo gioco, anche se le domande che mi farà mi feriranno e mi faranno male. Lo sopporterò per lui.
Mentre ero distratta da questi pensieri non mi ero accorta del suo sguardo indagatore su di me, così mi sbrigo a parlare.
“Pensavo … - incespico – che potrei aiutarti con il ‘Vero o Falso ‘ se vuoi …” e lascio cadere la frase a metà.
Lui mi scruta. “Perché?”, domanda.
“Perché non ho altro modo per farti capire quanto apprezzi ciò che fai per me”, rispondo di getto stupendomi della mia improvvisa calma.
Lo vedo indugiare. “Sei sicura? Potrei ferirti e farti star male … - si guarda intorno come per cercare le parole - … e ho l’impressione che sarebbe persino peggio di quando ho provato a strangolarti”, completa la frase con un’espressione addolorata che mi convince che quello che voglio fare è giusto.
Non gli rispondo, mi avvicino per prendergli la mano e guidarlo con me fino al divano nel salotto, dove mi siedo e con un gesto gli faccio cenno di sedersi accanto a me.
“Chiedi tutto quello che vuoi.” Gli dico, vedendo che non sembra voler prendere l’iniziativa.
Lo vedo fare un grosso respiro, come per darsi coraggio. Finalmente prende posto sul divano, vicino a me, anche se non troppo.
“Tu avevi una capra. Vero o falso?”
Resto stranita per la scelta della domanda e mormoro un “vero”.
“Si chiamava Lady. Vero o falso?”
“Vero”. Non capisco perché sapere della mia capra potrebbe aiutarlo.
“Mio padre comprava sempre gli scoiattoli da te. Vero o falso?”
“Vero”, rispondo ancora una volta, mentre realizzo che mi sta chiedendo cose che già sa.
“Li centravi sempre …”, lo interrompo. “Perché mi chiedi cose che già sai?”. Lo vedo fare una faccia strana, come chi viene colto con le mani nel sacco. Non mi risponde.
“Perché?”, insisto.
“Perché ho paura che se ti chiedessi ciò che davvero vorrei chiederti, potrei … - il suo volto diventa triste – potrei avere un episodio e farti del male”. E’ vero, non ci avevo pensato. Ma non mi importa, io lo aiuterò, costi quel che costi.
“Se accadrà, ce ne preoccuperemo. Chiedi ciò che vuoi davvero sapere” dico, guardandolo risoluta.
Lo vedo indugiare e poi, finalmente, decidersi.
“Nella prima arena mi hai ingannato per farmi prendere del sonnifero. Vero o falso?”
“Vero”, questa era facile.
“Volevi uccidermi nel sonno. Vero o falso?”
“Falso”. Ecco, questa ha fatto un po’ male.
“Hai rischiato la vita al festino alla Cornucopia per prendere la mia medicina. Vero o falso?”
“Vero”, lo dico sentendomi sollevata perché una parte di lui ricorda ancora le cose buone che ho fatto per lui.
“Ma poi non me l’hai data e hai tentato di uccidermi ancora. Vero o falso?”
Lo guardo, addolorata, incapace di rispondere prontamente.
“Vero o falso?”, insiste.
“Falso”, rispondo in un sussurro senza guardarlo negli occhi.
“Bugiarda”. Oh no, penso. Alzo lo sguardo e trovo due pozzi neri a guardarmi. E ora che faccio?
“Peeta … quello che vedi non è reale, guarda i colori, credimi ti prego … “, cerco di farlo ragionare ma i suoi occhi restano neri. In un momento mi afferra come se fossi una bambola di pezza e mi immobilizza sul divano. Sento le sue mani raggiungermi la gola e iniziare a stringere sempre più forte. I pensieri di questa mattina tornano a fare capolino nella mia mente e, così, invece di opporre resistenza mi lascio andare. Merito di morire per tutte le vite che ho spezzato, ne sono convinta. Ormai penso di esserci vicina, sto per morire, la mia visuale si sta riempiendo di macchie quando sento un colpo violentissimo e, improvvisamente, la presa delle mani di Peeta che si annulla e lui che mi cade addosso, svenuto. Alzo lo sguardo e trovo una Sae terrorizzata e munita di padella che fissa Peeta come se fosse il diavolo. Non deve pensare che Peeta sia violento, non può crederlo, è solo tormentato da questi episodi di cui sono sempre e solo io la causa.
“Sae” la chiamo, ignorando il bruciore alla gola. Mi guarda.
“Non era lui. Era sotto l’effetto di uno dei suoi episodi. Non pensare che sia violento, ti prego. Quando tornerà in sé non dovrà sentirsi giudicato o lo perderò per sempre. Hai capito?”. Mi sorprendo della mia sincerità, ma dovevo dirglielo, perdere Peeta è troppo grave per potermi preoccupare di mostrarmi debole davanti agli altri. La vedo annuire, sì, Sae ha capito, non mi tradirà. Mi aiuta ad alzarmi e a spostare Peeta, in modo che la sua testa sia sulle mie gambe. Quando si sveglierà, sarò la prima cosa che vedrà. Chiedo a Sae di andare via e stranamente lo fa, ma quando la puzza di alcool invade la stanza, capisco che si è soltanto fatta rimpiazzare dal mio ex-mentore.
“Haymitch”, dico, sentendo che non si muove dallo stipite della porta.
“Non voglio sentire commenti”, lo ammonisco.
“Oh, d’accordo dolcezza. Non commenterò ma, se posso darti un consiglio – e intanto entra nel mio campo visivo piazzandosi davanti a me – quando si sveglierà, lascialo andare. Si sentirà in colpa e sarebbe capace di non avvicinarsi mai più a te, sai che lo farebbe. Me ne occuperò io e ti chiedo di restarne fuori, anche se ci dovesse volere molto tempo, restane fuori”. So che non si aspetta una risposta da me – infatti resto muta – e so anche che prevede che non lo ascolterò e che farò di tutto per far restare Peeta qui con me.
Intanto, Haymitch si accomoda sulla poltrona affianco al divano e inizia a sorseggiare dalla fiaschetta che tiene sempre nella tasca interna della giacca. Io ritorno a guardare Peeta in volto e noto che sta per svegliarsi; la padellata che gli ha dato Sae non doveva essere tanto forte. Apre gli occhi, finalmente azzurri, e mi guarda con un’espressione addolorata e carica di scuse. Si alza di scatto, ponendo quanta più distanza possibile tra noi. “Katniss, ti prego, scusami …” inizia, ma io lo interrompo.
“No, ti prego io. Non mi lasciare, non andare via. Non è successo niente, vedi? Sono viva e sto bene”. Ma lo vedo guardare il mio collo, diamine, devono essere comparsi dei segni rossi.
 “STAI BENE? GUARDA IL TUO COLLO! COME FAI A DIRE DI STARE BENE!”, alza la voce, ricordandomi il Peeta infuriato dell’11 durante il Tour della Vittoria.
“Sai che non mi importa, i segni andranno via. Ti prego Peeta …”, dico in un sussurro.
Ma lui intanto si alza ed è questo il momento in cui interviene Haymitch. Vecchia volpe, aveva calcolato tutto. Gli circonda le spalle con un braccio e lo guida verso la porta. Peeta si gira un’ultima volta nella mia direzione: “Mi dispiace”, dice, prima di uscire e sparire dalla mia vista.
Qualcosa dentro di me si spezza e mi sembra di poter sentire il baccano che fa anche se non è reale. Mi rannicchio sul divano e, senza rendermene conto, inizio a piangere. Singhiozzo come mai nella mia vita, soffoco urla nei cuscini del divano e mi tengo la testa con le mani perché la sento esplodere. So che molto probabilmente Peeta riconsidererà la decisione che soltanto ieri sera aveva accantonato e se ne andrà, via dal 12 e da me. Per sempre. Continuo a disperarmi finché, dopo almeno due ore, il sonno non si impossessa di me.
 
Corro nei boschi trasportando il sacchetto con il numero 12 stampato sopra. La ferita alla testa pulsa ma non m’importa. Devo correre più veloce, Peeta ha bisogno della medicina o l’avvelenamento del sangue lo ucciderà. Arrivo alla caverna e trovo tutto come l’ho lasciato. Peeta dorme ancora ma … c’è troppo silenzio. Poi capisco: manca il suo respiro. Mi avvicino e tiro fuori la medicina;gli inietto tutto il contenuto della siringa nel sangue, mi avvicino alle sue labbra ma niente, nemmeno un alito. Allora appoggio l’orecchio al suo petto, dove dovrei sentire il cuore battere, ma anche qui trovo solo silenzio. La consapevolezza dell’accaduto inizia a farsi strada dentro di me: Peeta è morto. Non ho fatto in tempo o forse sono stata proprio io ad ucciderlo, con quel sonnifero. Piango, strepito e urlo mentre lo stringo tra le braccia, mentre realizzo di essere la responsabile anche della sua morte.
 
Mi sveglio, ancora una volta madida di sudore, con la consapevolezza che quell’incubo potrebbe essere reale, non perché Peeta sia morto davvero nell’arena, ma perché se deciderà di andarsene, sarà davvero come se fosse morto. Non lo rivedrò mai più. A questo pensiero, mi rannicchio sul divano nascondendo la faccia tra le ginocchia. Dopo una decina di minuti mi riscuoto, decido di alzarmi e di andare a prendere qualcosa con cui coprirmi il collo. La parte di me che continua a nutrire una speranza sul ritorno di Peeta è riuscita a convincermi che sia meglio che non veda i segni che le sue stesse mani hanno lasciato sul mio collo, nel caso decida di tornare. Ho appena finito di sistemarmi una sciarpa intorno al collo e mi sono risistemata sul divano in posizione fetale, quando vengo distratta dal rumore di passi che arriva dall’ingresso. “Haymitch, già di ritorno?”, dico con la voce impastata dal pianto e dal silenzio prolungato. Ma la risposta non è quella che mi aspetto: “Catnip, sono io”. Sgrano gli occhi, non può essere. Lui era al 2, con un bel lavoro, forse anche con un’altra ragazza, che diavolo ci fa qui, ora? Lo sento avvicinarsi e sedersi accanto al me sul divano. Alzo lo sguardo e lo vedo: in forma, ben nutrito e con un’espressione diversa sul viso, da uomo.
“Gale …”, mormoro.
Capisce la mia confusione e inizia a spiegare: “Te l’ho scritto in una lettera, anche se immaginavo che non le leggessi dato che non rispondi neanche al telefono”. Già, chi più di lui mi conosce e sa come penso e come mi muovo?
Per un attimo mi dimentico di quello che mi ha fatto, di quello che ha fatto a lei, e lo abbraccio. Lui ricambia stringendomi forte e per un po’ mi lascio confortare da quelle braccia forti che mi hanno rassicurata tante volte in passato. Mi accorgo che mi accarezza la testa e alzo gli occhi fino a farli incontrare con i suoi. Succede in un attimo, senza darmi la possibilità di reagire poggia le sue labbra sulle mie. E’ un bacio strano, sa di guerra, sa di rabbia, sa di tristezza e domande lasciate inespresse. Rispondo per un po’, finché non mi rendo conto che mentre lo bacio sto desiderando un altro paio di labbra, che tutto questo è sbagliato. Mi stacco all’improvviso, sorprendendolo.
“Perché lo hai fatto?”, gli chiedo confusa.
“Una volta anche tu mi hai baciato perché soffrivo”, dice semplicemente.
Sorvolo sul fatto che, ancora una volta, Gale è riuscito ad indovinare il mio stato d’animo senza aver bisogno di una parola da parte mia.
 “Allora era tutto diverso”, dico con durezza.
“Lo so”, dice lui con uno sguardo triste. Chi sa, forse aveva capito che in quel periodo pensavo di aver scelto lui? Ma non è il momento di pensare a questo; devo sapere perché è tornato.
“Perché sei qui?”, chiedo e mi accorgo di aver assunto un tono freddo, controllato.
“Perché ho bisogno del tuo perdono”, dice mettendosi le mani tra i capelli; è nervoso.
“Anche io ho bisogno di perdonarti”, dico senza rendermene conto perché, all’improvviso, capisco che se lasciassi andare la rabbia che provo nei suoi confronti, forse potrei sentirmi meglio.
 Resta interdetto per un attimo finché non nota i miei occhi rossi e mi prende il viso tra le mani per osservarmi meglio, ma così facendo sposta inavvertitamente la sciarpa, scoprendo il mio collo. Scorge i segni rossi lasciati dalle mani di Peeta e il suo sguardo diventa serio e arrabbiato.
“E’ stato lui?”, dice furioso, sul punto di esplodere. Non rispondo, so che lo giudicherebbe, so che coglierebbe al volo l’occasione per sostenere che non dovrei stargli vicina. Non voglio ascoltarlo, non posso ascoltarlo, non dopo quello che ha fatto a mia sorella. Inconsapevolmente, mi suggerisce una voce nella mia testa, ma la mia parte razionale mi ricorda che quando ha progettato quelle bombe era consapevole che avrebbero colpito anche degli innocenti, Prim non era nei piani, è vero, ma questo non lo giustifica. Come ho fatto a pensare di poterlo perdonare? Lo guardo con durezza quando, improvvisamente, si alza e corre fuori. Come lui conosce me, io conosco lui e so esattamente dove sta andando: la farà pagare a Peeta. Gli corro dietro, cercando di fermarlo, ma è troppo veloce e in un attimo raggiunge la casa di Peeta. Sfonderebbe la porta se solo non fosse aperta. Entra e io gli sono dietro, cercando un modo per calmarlo. So che Peeta non è lì, ma da Haymitch, e questo mi da un vantaggio, anche se minimo, su Gale. Mi aggrappo al suo braccio per fermarlo mentre lui, furioso, ispeziona ogni stanza della casa in cerca del ragazzo del pane, trascinandomi con sé in questa folle ricerca.
“Gale, ascoltami, non è colpa sua. Non puoi fargliela pagare per qualcosa che non riesce a controllare!”. Ma Gale non mi ascolta e intanto ha capito che in casa ci siamo solo noi. Corre di nuovo fuori, con me che lo inseguo, ma stavolta si dirige verso casa di Haymitch. Dà una spallata alla porta, che si apre come se non avesse mai avuto una serratura: era aperta. Entra come una furia, trova Peeta ed Haymitch seduti in cucina e, approfittando dell’effetto sorpresa, colpisce Peeta in pieno viso con un pugno facendolo volare giù dalla sedia, lontano sia da me che da Haymitch. Peeta si riscuote e comincia a rispondere ai colpi, non l’ho mai visto diventare violento senza essere preda di uno dei suoi episodi e vederlo in questo stato mi spaventa non poco. Faccio la prima cosa che mi viene in mente: mi tuffo in mezzo a loro, cogliendo di sorpresa Gale che non riesce a fermare il pugno che era diretto a Peeta e che invece colpisce la mia faccia.  Mi piego in due dal dolore, mentre Haymitch approfitta della distrazione di Gale per colpirlo sulla testa, facendolo svenire. Peeta mi afferra al volo, prima che cada a terra mentre tutto si confonde e si concentra intorno al dolore al viso. Nonostante questo, un mezzo sorriso spunta sulla mia faccia: il mio ragazzo del pane mi sta stringendo. Sorrido nonostante l’occhio che sento pulsare e il dolore e la confusione che provo dentro per tutta questa situazione.
“Dolcezza, potresti illuminarci sul motivo di questa inaspettata visita di cortesia?”, chiede Haymitch interrompendo il flusso dei pensieri.
“Io, lui … non sapevo che dovesse arrivare. Poi mi ha guardata, ha visto i segni sul collo ed è impazzito … non riuscivo a calmarlo, io non volevo che facesse del male a Peeta e invece …”, finisco la frase guardando Peeta in viso, richiamata dalle sue carezze sulla mia testa, e soltanto ora noto il sangue che gli scorre dal naso, probabilmente rotto.
 “Peeta, il tuo naso … “ dico, sull’orlo delle lacrime mentre i singhiozzi cominciano già a perforarmi il petto. Non mi risponde e lo vedo scambiarsi un’occhiata di intesa con Haymitch. Tutto questo succede un attimo prima di sentire un ago entrarmi nel braccio.
Morfamina, è l’ultimo pensiero che faccio prima che il buio si impossessi di me. 




Angolo dell'autrice
Ciao ragazzi! Eccomi qui, prima del previsto, con un nuovo capitolo!
Questo è stato più difficile da scrivere perché ci sono molti momenti di riflessione da parte di Katniss e avevo paura di andare OOC.

Come al solito ringrazio la mia Cccch, che mi dà sempre ottimi consigli (nei prossimi capitoli scoprirete un'idea che è stata lei a suggerirmi che io trovo G-E-N-I-A-L-E).

A proposito della mia Ccch, vi lascio di nuovo il link per la sua fanfic che merita mille volte più della mia http://www.efpfanfic.net/viewstoryv.php?sid=2462888

Spero che lascerete molte recensioni, ho davvero bisogno del vostro parere :)

Alla prossima e ricordate: #moreshirtlessPeetaforeveryone!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Forse sì, forse no ***


Mentre cadevo mi hai preso la mano

A Hunger Games Fanfiction



3. Forse sì, forse no

Mi sveglio nel mio letto e non ho idea di come ci sia arrivata. Morfamina, penso  ancora, capendo che Peeta mi accarezzava per distrarmi mentre Haymitch preparava la siringa. Ma perché mi hanno stordita? Sono arrabbiata, non avevano il diritto di farlo ma – ed è peggio – sono anche ferita dal comportamento di Peeta: il mio ragazzo del pane ha sfruttato l’ascendente che esercita su di me per ingannarmi; e non saperne il motivo mi fa infuriare ancora di più. So che non dovrei prendermela con Peeta, in fondo in una situazione simile io feci lo stesso, ma è più forte di me. Sono o non sono la Ragazza in fiamme?
Poi mi ricordo che c’era anche Gale, svenuto, nella stanza e inizio a chiedermi se quell’iniezione di morfamina non avesse qualcosa a che fare con lui. Cosa volevano dirgli – o fargli – a cui non dovevo assistere? Devo scoprirlo, così mi alzo, ignorando il dolore all’occhio, che ormai sarà diventato nero, e la testa che gira e chiedendomi quanto tempo ho dormito. Scendo le scale di corsa da quello che mi sembra di capire, perché la testa comincia a girarmi più forte, ma sulla fine trovo un ostacolo. Strano, non ricordavo di avere mobili alla fine delle scale.
“Ciao Catnip”, ah ecco, non era un mobile.
“Gale, tu … “, lo guardo confusa mentre lui mi fissa il viso, nel punto in cui il suo pugno ha incontrato il mio occhio, che a stento riesco ad aprire per il gonfiore. Fa una smorfia.
“Io cosa? Che ci faccio ancora qui? Non preoccuparti, questo pomeriggio vado via. La mia licenza termina oggi. A quanto pare ai soldati bastano ed avanzano due giorni per salutare la propria famiglia”. Quindi ho dormito per poco più di una notte, penso, mentre realizzo che Gale ha sprecato il suo tempo da passare con Hazelle, Vick, Rory e Posy per stare con me. Una fitta di dolore mi colpisce allo stomaco al pensiero di tutto quello che è successo ieri.
“Cosa è successo dopo che sono svenuta?”, gli chiedo nella speranza di abbattere i sospetti che si sono impossessati di me poco fa.
“Ah e cosa pretendi che ne sappia io? Se ricordi, ero svenuto da prima di te”, è vero, ma il suo sguardo non me la conta giusta. Ricordo quando venni tirata fuori dall’arena dell’Edizione della Memoria e lui non fu capace di non dirmi che il Distretto 12 non esisteva più; non riusciva a tenere dei segreti con me. Ma ora … Ora è cambiato tutto, penso mentre lo squadro.
“Il mio treno parte tra tre ore”, dice vedendo che non accenno a rispondere alla sua affermazione di poco fa. Sa che ho capito che qualcosa non quadra e sta cercando un modo di uscire da questa conversazione.
“Scusa per … tutto”. E so che si riferisce a ieri, al pugno, al bacio ma soprattutto a Prim. Ho l’impulso di abbracciarlo, ma è un attimo e riesco a controllarmi.
“Quindi questo è un addio?”, gli dico fredda, indispettita dall’omissione di poco fa.
“Un arrivederci”, dice con un sorriso triste.
“Hai intenzione di tornare qui al 12 un’altra volta?”, domando atona.
“Forse”, dice ed esce, scomparendo dalla mia vista. Resto lì, muta, con la rabbia che mi monta dentro perché tutti si prendono gioco di me e non si degnano di avvertirmi quando lo fanno.
Esco anche io, diretta verso casa di Haymitch, riprendendo il proposito di scoprire cosa volessero nascondermi lui e Peeta con la morfamina. Il pensiero di andare a controllare Peeta per vedere in che condizioni è il suo naso dopo il pugno di Gale mi attraversa la mente, ma lo scaccio via: sono troppo arrabbiata e potrei fare o dire qualcosa di cui mi pentirei in seguito.
Entro a casa di Haymitch e lo trovo, come al solito, piazzato sul divano, ubriaco. Lo scuoto ma sembra non dare segni di vita. Così riprendo le mie vecchie abitudini, recupero un catino d’acqua – rigorosamente fredda – e glielo svuoto sulla testa mentre mi sposto di lato per schivare il coltello che so brandirà per difendersi. E infatti si alza di scatto, mandando fendenti a destra e a manca, colpendo soltanto l’aria. Si gira verso di me e so che sta per urlare e lamentarsi di quanto io sia crudele e maleducata a svegliarlo ogni volta in questo modo e vedo che sta già aprendo la bocca, così gioco d’anticipo: “Perché mi hai drogata?”, dico con voce ferma ma abbastanza alta. E lui resta così, a bocca aperta. Mi dà una sensazione strana assistere per la prima volta in vita mia allo spettacolo di un Haymitch senza parole.
“Perché mi hai drogata?”, ripeto a voce più bassa ma non meno furente.
“Oh, dolcezza, stavi avendo una delle tue crisi isteriche di pianto e urla. Ringraziami, ti ho evitato ore di strepiti e lacrime”, dice, recuperando la facoltà di parola.
“Io non stavo … non è questo il vero motivo e lo sai anche tu! Cosa volevi da Gale?”, dico buttando fuori i miei sospetti.
“Cosa volevo dal soldatino di piombo, dici? Dolcezza cosa potrei volere da uno che entra in casa mia e pesta uno dei due unici tributi che sono riuscito a tenere in vita? Anzi dovrei dire, pesta gli unici due tributi che sono riuscito a tenere in vita, a giudicare dalle condizioni del tuo occhio”, chiede senza scomporsi. Non rispondo.
“Te lo dico io: assolutamente niente”, conclude soddisfatto della logica del suo discorso. Ma noi siamo simili, mentiamo se necessario e lui sa che ho capito che lo sta facendo in questo momento. Ma la vera domanda è: perché è necessario mentirmi, ancora? Lo fisso, con la sensazione che se si potesse sfamare la gente con la rabbia che sto provando, a quest’ora sarebbero tutti grassi a Panem.
“Tu credi che io sia stupida - non è una domanda e non mi aspetto una risposta, così continuo – mi stai mentendo”, dico amareggiata. So che non risponderà neanche stavolta, così continuo il mio monologo: “E non solo!  Eri d’accordo con Peeta! Lui mi distraeva mentre tu preparavi la siringa, complimenti per il gioco di squadra!”.
“Oh, dolcezza, come al solito non hai capito niente. Quel povero ragazzo voleva solo che la smettessi di frignare perché, non so se te ne sei accorta, si preoccupa più della tua incolumità che della sua. Forse non se n’è nemmeno reso conto, ma ti ama ancora come faceva prima del depistaggio, se non di più. Nonostante tutto. Impara ad apprezzarlo e, per Dio, ammetti di ricambiare! Ci faresti un grande favore e ci toglieremmo dai piedi anche il soldato arrabbiato”. Il cambio di argomento improvviso mi manda in confusione. Peeta mi ama ancora? Non è possibile, ora sa chi sono davvero, non potrebbe mai. Io lo ricambio? Non ne ho idea, so solo che non riesco ad immaginarmi una vita senza i suoi sorrisi, senza i suoi abbracci … senza le sue labbra? Scaccio via il pensiero prima di arrossire e di farmi scorgere da Haymitch. Ritorno a ragionare. Sì, quello che dice Haymitch è vero  - almeno in parte, perché  nutro qualche dubbio sul fatto che Peeta possa amarmi ancora come faceva prima -  ma ciò non toglie che mi stia nascondendo qualcosa.
“Non cambiare argomento”, dico brusca.
“Non cambio argomento, dolcezza. Non capisci che da qualsiasi lato si voglia guardare questa cosa il punto è sempre lo stesso: non riesci ad accettare quando le persone fanno qualcosa per te soltanto perché ti amano e pensi che ci debba essere per forza un complotto dietro. Sveglia, ragazza! Siamo umani anche noi”.
Perché io no? Non sono umana? Non gli rispondo, semplicemente giro i tacchi e vado via, mentre tutte le sue parole mi attraversano il cervello come se fossero scritte su di uno striscione.
“Ciao, eh”, lo sento dire mentre esco da casa sua. Non rispondo e corro via.
Rientro in casa e mi butto sul divano. Non so da quanto tempo non mangio ma non mi importa, non ho fame e il mio stomaco è abituato a restare vuoto per giorni, mangerò qualcosa quando verrà Sae questa sera.
Decido che ricomincerò la mia routine da nullafacente per cui non mi alzo dal divano finché non arriva Sae che mi costringe a mangiare e a mettermi a letto. Mi addormento e, invece dei soliti incubi, sogno Haymitch che mi ripete all’infinito lo stesso discorso di questo pomeriggio. Quando mi sveglio faccio una doccia e ritorno sul divano, sempre tormentata da quelle parole.
 
Il mese successivo lo passo così, facendo colazione e cenando sotto lo sguardo vigile di Sae che controlla che io mangi tutto e alternando il letto al divano. Nessuno viene a trovarmi a parte, ovviamente, Sae che di tanto in tanto porta anche la sua nipotina. Amy, quella bambina che vive in un mondo tutto suo, mi capisce meglio di chiunque altro, sa che c’è qualcosa che mi tormenta e che mi fa arrabbiare e così cerca di coinvolgermi nei giochi inventati da lei. I momenti in cui gioco con lei sono gli unici in cui dimentico la mia rabbia nei confronti del mio mentore e del ragazzo del pane. Mi calma, come solo Peeta era riuscito a fare fino ad ora, ed io la ringrazio silenziosamente con gli occhi ogni volta. So che capisce cosa intendo dirle, perché la vedo sorridere quando lo faccio. Sì, mi piace questa bambina.
 
Un giorno in cui sono particolarmente pensierosa, mentre stiamo giocando, Amy  insiste perché le dia un pezzo di carta e una matita.
“Voglio farti vedere come scrivo”, risponde quando le chiedo il motivo di tanta insistenza. La accontento, perché all’improvviso ricordo quando anche io stavo imparando a scrivere ed ogni giorno tormentavo mio padre affinché vedesse i miei progressi. Le porgo il foglio e la matita e la osservo mentre, al massimo della concentrazione, calca ogni lettera sul foglio che sta bene attenta a non mostrarmi prima di aver finito.
Finalmente, dopo un paio di minuti, me lo passa ed io leggo ad alta voce: “Hai voglia di dirmi perché sei così triste?”. La guardo stupita mentre, senza nemmeno accorgermene, annuisco. Non so bene da dove iniziare – e parlare ad alta voce di quello che mi frulla nella testa mi imbarazza - così le parlo di Peeta e del nostro rapporto altalenante, poi di Gale – anche se sorvolo sul fatto che lo ritengo responsabile della morte di mia sorella – e soltanto alla fine arrivo al motivo della mia rabbia e al dialogo con Haymitch; le spiego che credo che Haymitch, Gale e persino Peeta mi stiano nascondendo qualcosa. Sfogandomi con lei provo una sensazione strana, come se mi stessi togliendo un po’ di peso dalle spalle. Amy ascolta con attenzione senza dire una parola, mi lascia finire con calma e, quando è sicura che io non abbia nient’altro da dire, commenta: “Quindi tu lo ami?”. Sono spiazzata.
“Chi? Peeta?”, dico di getto.
“Oh io non ho detto chi”, dice con un sorriso. Però, penso, è furba.
“Quindi tu sei d’accordo con Haymitch?”, le chiedo confusa.
“Sì e no. Ma di una cosa sono certa: dovresti perdonarlo”, dice convinta e so che si riferisce a Peeta. La guardo con più attenzione, ma quanti anni ha? Otto? Nove? Eppure riesce ad analizzare la situazione meglio di me.
“Dovrei”, le faccio eco distrattamente, mentre la Katniss emotiva che da poco vive dentro di me sta già iniziando a picchiettare sul muro di rabbia nei confronti di Peeta.
“Dovrei”, ripeto in un sussurro e realizzo che lo farò. Ma alle mie condizioni.
Amy mi sorride mentre, richiamata da Sae, inizia a raccogliere i suoi giochi per andare via.
 
Nelle settimane successive, non parliamo più di tutte le cose che le ho raccontato quando mi sono sfogata, ma ogni volta che la vedo mi ricordo delle sue parole che si mischiano nella mia testa con quelle di Haymitch, confondendomi ancora di più, se possibile.
 
Sempre più spesso rispondo al telefono, perché il suono insistente che mi tormenta tutti i giorni mi è diventato impossibile da sopportare e ormai ho capito che l’unica persona che mi cerca è il Dottor Aurelius. Ogni tanto gli permetto di psicanalizzarmi, lui mi chiede cosa faccio durante il giorno, le sensazioni che provo e i pensieri che faccio e cerca di convincermi ad andare da Peeta per parlargli o, più semplicemente, a cercare di alzarmi dal divano e fare qualcosa come andare a caccia. Non lo ascolto, non voglio cacciare – non ora che ho rivisto Gale e che il suo ricordo sarebbe più vivo che mai nei boschi - e soprattutto non voglio parlare con Peeta. Sarò anche una ragazzina stupida, ma non sarò io a fare il primo passo stavolta.
Quando gli dico che faccio già qualcosa – gioco con Amy quando Sae la porta – mi risponde che ho bisogno anche di avere delle interazioni con degli adulti per non perdere il contatto con la realtà. Non capisce che Amy è una bambina fuori dal comune.  Di solito, a questo punto, gli sbatto il telefono in faccia.
 
Un giorno in cui, come al solito, sono sul divano ad osservare la danza del fuoco nella stufa, il telefono squilla ed io meccanicamente vado a rispondere. Realizzo il mio errore solo quando mi ritrovo una voce squillante nell’orecchio, che non è assolutamente quella del Dottor Aurelius.
“Effie …”, dico stupita, mentre lei mi riversa addosso un fiume di parole e mi pone svariate domande a cui non mi dà neanche il tempo di rispondere perché non la smette di parlare. La ascolto distrattamente finché non la sento dire che sta per passarmi la Paylor al telefono. Cosa?!, penso, mentre una voce più calma e normale prende parola nella cornetta.
“Katniss? Sono Ana Paylor. Come stai?”, inizia in tono cordiale.
“Io … io me la cavo”, rispondo confusa.
“Bene. Vorrei essere diretta con te e saltare tutti i convenevoli. Sei d’accordo?”, mi dice schietta.
“Sì”, dico in un filo di voce.
“So che ricordi che prima dell’esecuzione di Snow, la presidentessa Coin aveva fatto votare voi vincitori superstiti per una nuova edizione degli Hunger Games con i figli di Capitol City”. Oh, certo che lo ricordo. Ero arrabbiata e desideravo vendetta per Prim e accettai, votai per il ‘Sì’.
“Non avevo intenzione di mettere in atto la sua idea ma mi ci vedo costretta. Al 2 ci sono ancora ostilità verso la nuova Repubblica, per non parlare di Capitol City. Questi giochi ‘della pace’ dovrebbero appianare un po’ le acque”. La mia mente si oscura, non riesco a pensare con lucidità. E’ colpa mia, penso e improvvisamente tutta la rabbia repressa di queste settimane viene fuori. Ma stavolta … stavolta sono arrabbiata soprattutto con me stessa, il che è peggio. Non le rispondo e la sento dire che considera questo silenzio come un mio assenso. Chiude la conversazione aggiungendo: “Dimenticavo, tu, Peeta ed Haymitch verrete convocati a Capitol City per fare da mentori. Il vostro treno parte alle 7 – fa una pausa – di stasera”. La mia rabbia raggiunge l’apice: afferro il telefono e lo lancio contro il muro, rompendolo in mille pezzi. So che allora ero favorevole, ma adesso tutto è cambiato, io sono cambiata. Come posso pensare di condannare altri bambini e ragazzi innocenti? Come posso trovare la forza di fargli da mentore e accompagnarli alla soglia della loro camera ardente? Non posso.
Impazzita, inizio a girare in tondo nel salotto urlando imprecazioni e chiedendo ‘Perché?!’ all’aria. Finisco per rannicchiarmi sul pavimento dietro al divano, tenendomi le mani premute sulle orecchie in un disperato tentativo di tenere fuori  dalla mia testa tutte le voci delle persone che sono morte per vedere la fine degli Hunger Games. Ma  sfortunatamente non posso tenere fuori un suono che viene da dentro la mia testa.
Sono sempre in questa posizione quando un paio di braccia forti che profumano di cannella mi stringono in un abbraccio. Peeta, penso abbandonandomi a quel contatto e lasciando cadere le mani dalle orecchie per stringere le braccia attorno al suo collo.
“Scusa”, mi sussurra tra i capelli. So che si riferisce a tutto quello che è successo ormai un mese fa, ma in questo momento non voglio pensarci, conta solo che lui sia qui, vicino a me a stringermi forte. Non dico una parola, ma lo abbraccio più forte e lui ricambia. Ancora una volta penso alle parole di Haymitch. Non può essere, scaccio via il pensiero – o la speranza? – che Peeta possa amarmi ancora.
“Ho sentito le tue urla e sono corso qui … - indugia un attimo - così adesso lo sai anche tu”, termina,  alla fine in un sussurro. Lo guardo confusa. Lui lo sapeva già? Una luce si accende nella mia testa e mi suggerisce che questi giochi potrebbero avere a che a fare con la conversazione con Gale che tutti vogliono nascondermi.
“Da quanto lo sai?”, chiedo per avere una conferma ai miei sospetti.
“Un mese”, dice sincero. Bingo. Lui sa qualcosa, ma perché non me ne parla? Mi convinco che se persino Peeta tiene il segreto, deve essere una cosa grossa ma sono fiduciosa: se sa, prima o poi parlerà con me.
“E ora che facciamo? Insomma, andiamo lì e facciamo da mentori come se non fosse successo niente?”, chiedo con voce tremante. Non so cosa pensare ma so che devo assumermi la responsabilità delle mie azioni: farò da mentore e proverò a salvare almeno uno di quei 24 ragazzi.
“I tuoi occhi mi dicono che già lo sai”, dice mentre mi scruta. E’ vero, a volte dimentico che Gale non è l’unico a capire i miei pensieri soltanto guardandomi, ma Peeta ha ragione: so già che tenterò di essere una buona mentore.
“Katniss per la morfamina io … - si interrompe, ma voglio che continui così resto muta – volevo dirti che non sapevo cosa avesse intenzione di fare Haymitch e tu stavi così male, ho pensato che ti avrebbe fatto bene dormire, nonostante gli incubi”, la sua voce si spezza sulle ultime parole. Stavolta è il mio turno di scrutare lui e capisco che è sincero e mi sento così stupida per essere stata arrabbiata con lui per tutte queste settimane.  Come qualche minuto fa, le parole di Haymitch tornano a ronzarmi nel cervello, tuttavia le scaccio via nuovamente: sento che non è ancora giunto il momento di perdonarlo.
“Ho capito. Tu forse già  lo sai o lo avrai immaginato, credo – cerco di ridere nervosamente pensando alla prevedibilità delle mie azioni – ma sono stata molto arrabbiata in queste settimane; con Haymitch, con Gale, ma soprattutto con te ”. Lo vedo annuire, con una strana luce nello sguardo.
“Lo avevo sospettato”, dice alla fine con un mezzo sorriso. Non so perché, ma sento il sangue affluire alle guance, così affondo il viso nel suo maglione per evitare che si accorga del mio rossore. Lui mi stringe forte e, nonostante io non l’abbia ancora perdonato davvero, riavverto quella sensazione di calma che ho provato la sera in cui abbiamo dormito insieme. Mi ci aggrappo con tutta me stessa, perché so che durerà poco. E infatti dopo un po’ lo sento sussurrare al mio orecchio: “Dobbiamo andare, il treno ci aspetta …”.
“Le valigie … sì”, dico confusa mentre lui si alza e aiuta anche me ad alzarmi.
Per un momento l’avevo quasi dimenticato: Capitol City mi aspetta.  Di nuovo.





Angolo dell'autrice
Ciao ragazzi!
Questo capitolo dovrebbe chiarire un po' di cose rimaste appese nel precedente ma, come avrete notato, fa nascere altri mille dubbi. Suuu, è per invogliarvi a leggere i prossimi! (No in realtà è perché sono sadica ahahahah)

Ringrazio ancora una volta la mia Ccch che è una fonte di ispirazione costante e che mi aiuta sempre nella correzione dei capitoli. Amatela con me! (A proposito, vi ripropongo il link alla sua Fanfic che è 1383478394245 volte meglio di questa: 
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2505907)

Che altro dire? Grazie ancora a tutti quelli che seguono e che recensiscono e a quelli che leggono silenziosamente :)

Alla prossima e non dimenticate: #moreshirtlessPeetaforeveryone!

P.S. : recensite, recensite, recensite! Ho bisogno di sapere cosa ne pensate e dei vostri consigli per migliorare :)

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Confessioni ***


Mentre cadevo mi hai preso la mano

A Hunger Games Fanfiction


 
4. Confessioni
 
Il treno entra lento in stazione, proprio mentre io e Peeta, seguiti da un Haymitch non proprio lucido, attraversiamo il cancello che dà sulla banchina. Lancio un’occhiata furtiva in direzione di Peeta e lo vedo stringere i pugni; è nervoso almeno quanto me, se non di più e lo capisco: tornare lì, in quell’orribile posto imbellettato, per di più non certo per una gita di piacere, potrebbe riportarlo nel baratro dei suoi episodi e fargli perdere completamente la percezione di cosa sia reale e cosa non lo sia. Istintivamente, gli afferro una mano e la stringo la tra le mie, costringendolo a sciogliere la presa con cui si stava conficcando le unghie nella carne.
“Ti farai male”, mi giustifico rispondendo al suo sguardo indagatore, mentre arrossisco leggermente. Mi fa un sorriso, ma è tirato, lo vedo: non gli raggiunge gli occhi. Ancora una volta, penso a quanto sono egoista: mi sono preoccupata soltanto di me e di cosa avrei dovuto fare di fronte a questa nuova sfida, senza preoccuparmi del fatto che Capitol City nasconda molti più demoni per Peeta che per me. Mentre io urlavo e mi arrabbiavo, lui era lì a consolarmi.  Mentre era lui quello ad avere più bisogno di aiuto, Peeta cercava di aiutare me. Mi sento male a questo pensiero e una molla scatta dentro di me: niente più egoismo. Da ora in poi mi occuperò solo di Peeta, anche se non lo chiederà, gli starò vicina. Questi pensieri mi conducono per mano verso un mondo di ricordi: mi promisi qualcosa del genere – mettere Peeta prima di ogni altra cosa - prima dei miei secondi Hunger Games, ma stavolta è diverso, stavolta non lo perderò di vista nemmeno per un secondo.
Mentre faccio questo patto con me stessa, il treno si è già fermato completamente e ha aperto le porte. Io e Peeta saliamo e poi aiutiamo Haymitch. Una situazione simile, in cui io e Peeta portavamo Haymitch sottobraccio in uno di questi treni, mi torna alla mente. Guardo nella direzione di Peeta e, dallo sguardo che mi rivolge, capisco che abbiamo fatto lo stesso pensiero. Per un attimo temo che questo ricordo possa scatenargli un episodio e mi irrigidisco, ma non succede, così a poco a poco lascio che i miei muscoli si rilassino, per quanto possibile dato che Haymitch ultimamente è un po’ ingrassato. Lo accompagniamo nella sua stanza e lui, senza tante cerimonie, si butta sul letto e non facciamo in tempo ad uscire dalla camera, che inizia a russare sonoramente. Beh, penso, almeno uno di noi tre stanotte dormirà.
Ci incamminiamo verso le nostre stanze, mentre sento un senso d’oppressione nel centro del petto a cui non so dare una spiegazione. Forse è il treno, suscita in me troppi ricordi …
“Katniss, hai già sonno?” … o avevo paura che Peeta mi avrebbe lasciata dormire da sola? No, sono io che non devo lasciare solo lui. Ricordalo, Katniss!
“Io … veramente no”, rispondo rendendomi conto che è vero, non ho per niente voglia di dormire adesso. Il problema  è che non so se voglio dormire qui stanotte, su questo treno, con gli incubi che si nascondono in ogni angolo. Peeta deve intuire i miei pensieri perché annuisce, mentre con delicatezza si appoggia alla porta della sua stanza facendola aprire lentamente.
“Beh, allora che ne dici di riprendere il nostro discorso sulla faccenda dell’amicizia? Da quella volta, ho scoperto solo che il tuo colore preferito è il verde ma c’è altro … - si interrompe come se stesse cercando le parole giuste – c’è un mondo dentro di te che non riveli a nessuno, ecco. Vorrei saperne di più”, ammette imbarazzato? No, Peeta non si imbarazza mai – o almeno non per cose di questo genere - ma allora cos’è il tono che sento nella sua voce? Poi, ad un certo punto, capisco: aveva paura della mia reazione, pensava che come al solito mi sarei chiusa in me stessa invece di aprirmi a chi me lo avesse chiesto. Forse pensa che io non lo abbia ancora perdonato e, in effetti, è in parte vero. Decido di stupirlo: “Sì, magari”, dico sorridendo. “Neanche a me dispiacerebbe sapere qualche altra cosa su di te. Insomma, so che non metti lo zucchero nel thé e che ti allacci sempre due volte le stringhe delle scarpe, ma poi? Sei molto più di quello che vuoi far credere alla gente”, incalzo. Si stupisce per un attimo, ma poi contiene la reazione. Sì, l’idea mi piace, posso sfruttare ancora un po’ questa cosa dell’arrabbiatura per scucirgli qualche curiosità su sé stesso. Gongolerei, se solo non sapessi che Peeta sta studiando ogni mio movimento per capire le mie intenzioni.
“Ci mettiamo comodi?”, dice riprendendosi e spalancando definitivamente la porta alle sue spalle. Per tutta risposta entro nella sua camera e mi vado a sedere sul letto, lui mi segue, avendo cura di chiudere la porta dietro di sé, e si accomoda vicino a me.
“Allora …”, inizia ma non continua.
“Allora?”, incalzo.
“Beh, onestamente, non ho idea di cosa chiederti. Buffo no? Ho pensato tante volte a come sarebbe stato conoscerti meglio, senza finzioni e telecamere, e ora che posso farti tutte le domande che voglio, non me ne viene nemmeno una”. Lo guardo mentre, all’improvviso, viene in mente a me una domanda da fare a lui.
“Io ce l’avrei una domanda per te”, dico. Mi fissa, così continuo. “Nella prima arena, una volta mi hai sorpresa. Mi hai preso la mano e l’hai baciata, come avevo visto fare soltanto a mio padre con mia madre. Tu … dove l’hai imparato?”. Stringe i pugni. Oh no, ho sbagliato a menzionare gli Hunger Games. Ma l’episodio non arriva nemmeno questa volta. Che stia migliorando davvero? Piano piano scioglie i pugni e trova la voce per rispondermi. Sorride, perfino.
“Katniss, ma che domanda è?”, mi schernisce ridendo sotto i baffi. “Mi veniva naturale”, risponde con sincerità. Nota la mia espressione stranita, così si affretta a spiegare: “La tua mano era lì, vicino al mio viso, l’ho presa d’istinto e l’ho baciata. Forse volevo convincermi che fossi vera, che fossi davvero mia”, la sua voce si incrina sulle ultime frasi.
“Ah”, è tutto quello che dico. Per quanto cerchi di non pensarci, mi sento ancora in colpa per aver finto di amarlo e per averlo illuso, quando lui era davvero innamorato di me .
Cerco di cambiare argomento: “Non ti è venuta in mente una domanda per me?”, chiedo speranzosa.
Peeta aggrotta le sopracciglia sovrappensiero.
“Forse sì”, dice cambiando nuovamente espressione e tornando a sorridere leggermente.
“Mi hai perdonato?”, chiede fissandomi con una faccia da cucciolo bastonato. Bella mossa, Mellark.
“Forse sì”, rispondo io cercando di imitare il suo tono. Ma non posso fare a meno di lasciarmi sfuggire un sorriso. Sorride anche lui, stavolta per davvero: lo vedo nei suoi occhi.
Improvvisamente mi sento in colpa, come se lo stessi illudendo ancora, perché un pensiero mi attraversa la mente come una meteora: il bacio di Gale. Lui nota il mio cambio d’umore improvviso e si avvicina per guardarmi meglio negli occhi.
“Cos’hai?”, chiede preoccupato. E’ troppo vicino, così vicino che se volessi … sento il viso arrossarsi al solo pensiero delle mie labbra poggiate sulle sue.
“Gale”, dico senza pensare.
“Cosa?!”, mi chiede lui. E riesco a sentire un tono di allarme nella sua voce, anche se smorzato.
“Lui … mi ha baciata. Un mese fa.”, ammetto mentre con vergogna arrossisco ancora di più. Sono grata della penombra nella stanza che smorza il colorito del mio viso. Ma brava, Katniss, complimenti! Mi pento subito della confessione appena fatta, ma poi penso che in fondo Peeta non mi ama più, perché sa come sono davvero, ora. Quindi, tanto vale essere sincera, no? Eppure … qualcosa nel suo sguardo convince la mia parte emotiva che forse lui a me ci tiene ancora, chi sa in che modo e con quale intensità, ma ci tiene. “Ti ama ancora come faceva prima del depistaggio, se non di più”, le parole di Haymitch cercano di tornarmi in mente, ma mi costringo a pensare ad altro prima che la mia testa esploda.
“Ah”, dice lui. “Lo capisco. Al suo posto, per ottenere il tuo perdono, anche io avrei fatto di tutto”. Questa frase mi sorprende e mi confonde. Peeta avrebbe tentato di baciarmi? Eppure dalla sua reazione sembra che non gli importi che Gale mi baci o meno. Nonostante questo, sento un bisogno viscerale di spiegargli meglio la dinamica del bacio, di spiegargli che per me quello non era un bacio vero … Cerco di non arrossire oltre mentre parlo ancora: “Credo che avesse frainteso le mie parole. Poco prima gli avevo detto di aver bisogno di perdonarlo e subito dopo mi sono ritrovata le sue labbra sulle mie”, ammetto mentre le mie lotte contro il rossore alle guance non possono niente contro il  ricordo del tocco delle labbra di Gale sulle mie. Peeta mi squadra con uno sguardo indecifrabile, sembra in dubbio su qualcosa. Fa un sospiro.
“Ma tu volevi baciarlo, no?”, dice calmo con un tocco di rassegnazione nella voce.
“Io … all’inizio mi ha colto di sorpresa ma poi, io … Prim … mi sono staccata. Non era quello il mio posto”, dico, incespicando. Mi sto esponendo, ne sono consapevole, ma poi mi rilasso. E’ Peeta, non mi farebbe mai del male, penso, non potrebbe mai. Non so se abbia capito cosa intendevo dire, eppure improvvisamente mi abbraccia ed io mi sento così bene, che non vorrei che mi lasciasse andare mai più.
“Grazie”, dice tra i miei capelli.
“Per cosa?”, dico stordita dall’abbraccio e dal solleticare del suo fiato così vicino al mio collo.
“Per essere stata sincera con me”, dice stringendomi un po’ più forte, ma sento che vorrebbe aggiungere qualcos’altro. Il problema è: cosa?
“Ah se avessi saputo che bastava questo per avere un abbraccio, lo avrei fatto prima”, dico all’improvviso senza rendermene conto. Cosa? Che ho detto? Sono impazzita, non ci sono dubbi. Lo sento ridere ma ormai sono già rossa come un peperone: il rossore di prima non era niente a confronto col calore che adesso mi inonda la faccia. Spero che non sciolga l’abbraccio ora, altrimenti non so che colore potrei assumere.
“Bastava chiedere, Katniss”, dice allegro.
“E quando? Ti faccio notare che fino a dieci minuti fa ero arrabbiata con te e non mi sembra di averti visto alla mia porta nell’ultimo mese prima di oggi pomeriggio”, dico, improvvisamente acida per riparare all’errore di prima. Si irrigidisce e scioglie l’abbraccio per guardarmi negli occhi.
“Ho provato a venire da te, credimi”, dice fissandomi con un’intensità tale da costringermi a distogliere lo sguardo dai suoi occhi. “Ma se fossi venuto, io …”, non continua la frase.
“Tu cosa?”, chiedo io, curiosa.
“Niente, niente. Posso farti un’altra domanda?”, chiede serio. Il tono mi costringe a dimenticare la frase rimasta a metà. Me lo dirà dopo, in un modo o in un altro, penso.
“Chiedi pure”, gli concedo.
“Sei ancora favorevole a questi Hunger Games della Pace?”. Questa non me l’aspettavo. Lo guardo cercando di mettere insieme delle parole di senso compiuto per un discorso decente.
“Non posso. Non potrei  mai esserlo. Allora ero accecata dalla rabbia, dal desiderio di vendetta per mia sorella. Non avevo capito che il responsabile della sua morte era in quella stanza e non tra i bambini di Capitol City. Era stata la Coin a mandare Prim sul campo, era stata lei a firmare la sua condanna, era …”, non riesco a continuare e lui non mi chiede di farlo.
“Allora posso completare la mia frase di prima”, dice deciso. Gli faccio cenno di continuare.
“Se fossi venuto, ti avrei raccontato tutta la verità e Haymitch non voleva. Credeva che fossi ancora favorevole e pensava che avresti rovinato il suo piano”, dice tutto d’un fiato.
“Piano? Quale piano”. Ci risiamo, decidono sempre tutto senza di me.
“Il motivo per cui ti ha addormentata con la morfamina”, dice con una smorfia.
“AH! Lo sapevo!”, esclamo a voce un po’ troppo alta.
“Voleva parlare con Gale”.
“Sapevo anche questo o  almeno lo avevo capito. Ma perché?”, chiedo confusa ed elettrizzata insieme. Arrabbiata lo sarò poi: Haymitch mi sentirà, eccome se mi sentirà; tutti quei discorsi sulla mia diffidenza e, alla fine, scopro di aver sempre avuto ragione.
“Voleva che lui, in qualità di braccio destro della Paylor, si proponesse come Primo Stratega per questi Hunger Games in modo da avere un complice all’interno”. Non capisco e la mia espressione fa trasparire la mia perplessità.
“Per boicottarli”, chiarisce lui. Boicottarli? Haymitch aveva votato per il sì, come me. Che sia stanco anche lui di vedere persone che muoiono? Probabile, in fondo chi non lo sarebbe?
“Perché non Plutarch? In fondo ha già boicottato un’edizione col suo aiuto”, chiedo scettica.
“E’ troppo d’accordo con la decisione della Paylor e lei, lo avrai capito, è irremovibile. Gli serviva un altro punto di accesso”. Ha senso, penso.
“E tu mi hai evitato per un mese, per questo?”, chiedo leggermente irritata.
“Per questo e perché sapevo che l’arrabbiatura non ti era ancora passata”, dice guardandomi nuovamente con quello sguardo intenso. Mi fa quasi sentire in colpa. No, sveglia Katniss.
“Beh, avevo le mie buone ragioni!”, dico rendendomi conto di non essere davvero arrabbiata. Ma lui mi sorprende ancora stringendomi nuovamente in un abbraccio. Ricambio, sentendomi calma: il peso che sentivo nel petto è completamente sparito. Improvvisamente, sento il sonno e la stanchezza accumulati in questo mese di incubi e preoccupazioni e mi lascio andare: “Ho sonno”, dico sbadigliando.
“Resta con me, ti prego”, dice lui mentre ancora mi stringe. Annuisco e, mentre lo faccio, gli sfioro la spalla col naso facendolo ridacchiare per il solletico. Sì, resterò. Ho promesso di non perderlo d’occhio, no? Cerco di convincere me stessa che il vero motivo per cui dormirò con lui è solo per assecondare i suoi desideri, ma nel profondo so di aver bisogno di lui per dormire almeno quanto lui ha bisogno di me.
“Vado solo a mettere il pigiama e a lavarmi i denti”, dico con il tono di chi sta facendo una promessa e, in effetti, mi sto davvero ripromettendo di non abbandonarlo e di non perderlo mai di vista. Annuisce sulla mia spalla e, dopo avermi stretta un po’ più forte per un attimo, mi lascia andare.
Mi alzo e mi fiondo nella mia stanza, decisa a schiarirmi le idee su questa chiacchierata e su tutta la faccenda degli Hunger Games. Sovrappensiero mi ritrovo davanti allo specchio della mia camera e mi rendo conto di avere un sorriso ebete stampato sulla faccia: è questo l’effetto che mi fanno gli abbracci di Peeta? E’ questo che vede Haymitch quando mi prende in giro continuamente? Scrollo la testa e mi dirigo in bagno. Mi lavo i denti e torno in camera a prendere il pigiama. Quando lo ripesco dalla borsa mi ritrovo a desiderare di aver preso qualcosa di più carino per la notte al posto di questo vecchio pantalone scambiato e questa maglia sformata. Che pensieri sono? Mi riscuoto. Stasera sono strana: prima mi apro con Peeta e parlo di me e poi mi ritrovo a pensare di voler essere carina … per lui?
Decido di ignorare il mio cervello che sembra avere qualcosa di strano stasera e ritorno nella camera di Peeta. Lo trovo seduto sul letto, nello stesso posto di prima, ma noto che anche lui ha indossato il pigiama. Si alza e sposta le lenzuola: “Prima le signore”, dice sorridendo.
“Grazie”, mormoro improvvisamente imbarazzata. Mi stendo mentre sento che anche lui fa lo stesso, tuttavia rimane distante. Mi giro verso di lui con sguardo interrogativo. Sembra capire la mia perplessità tanto che dice: “Se non ti stringo, ho meno possibilità di farti male nel sonno. So di averti chiesto io di restare, ma questa è una specie di prova per me e voglio essere sicuro di superarla”.
“Al diavolo, Mellark”, sbuffo io buttandomi letteralmente tra le sue braccia. Quando realizzo cosa ho fatto, arrossisco e per non farglielo notare nascondo il viso contro il suo petto.
“Ma Katniss, io …”, prova a protestare ma sento che intanto mi sta abbracciando.
“Peeta, pare che le tue braccia siano più decise di te dato che mi stai abbracciando”, dico. Ma sì, il mio cervello mi suggerisce tutte ottime mosse oggi.
Touché”, dice e dal tono capisco che sta sorridendo. Mi accoccolo di più sul suo petto, beandomi della sensazione di calma che la vicinanza col suo corpo mi trasmette. Parliamo per un po’ finché non sento le palpebre chiudersi da sole per la stanchezza.
“Katniss”, Peeta mi chiama mentre sto per sprofondare nel sonno.
“Sì …”, borbotto in risposta.
“Non dire ad Haymitch che te l’ho detto”, mi sussurra all’orecchio.
“D’accordo”, dico, poi crollo e mi addormento con il cuore di Peeta che mi batte sotto la testa e l’ultima cosa che sento sono le sue carezze sui miei capelli.
Curioso, me l’ero immaginata molto diversa questa nottata di viaggio.
 
 
Mi sveglio all’improvviso, non per colpa degli incubi, ma non apro gli occhi. Una voce molto vicina al mio orecchio sta bisbigliando qualcosa: è Peeta.
“Grazie per questa possibilità, grazie perché non sei scappata quando la cosa più pericolosa per te sono proprio io, grazie per aver deciso di non ricambiare il bacio di Gale”. Mi ringrazia per tutte queste cose e capisco che era questo che voleva dirmi prima che mi addormentassi, quando mi ha ringraziata per essere stata sincera con lui. Sento le sue labbra sfiorare la mia fronte con un tocco delicatissimo e non posso fare a meno di arrossire. Perfetto, adesso si accorgerà che sono sveglia.
“So che sei sveglia”, dice infatti con un tono allegro, anche se continua a bisbigliare. Apro gli occhi, colpevole e pescata con le mani nel sacco ad ascoltarlo di nascosto.
“Beccata”, dico in risposta con voce arrochita dal sonno.
“Buongiorno”, dice, facendo finta di niente. Come può dire tutte quelle cose senza scomporsi o emozionarsi? Sono soltanto io a reagire così? Quelle parole erano così … da Peeta. Ringraziarmi per cose di questo genere, in un modo così puro e sincero, era uno dei comportamenti tipici del vecchio Peeta. Vecchio Peeta? Ma a che penso? Lui è sempre qui, è sempre la stessa persona, nonostante tutto.
“Buongiorno”, riesco a dire in un sussurro, cercando di mascherare l’imbarazzo. Poi noto che siamo ancora nella stessa posizione in cui ci siamo addormentati e capisco che nessuno dei due ha avuto incubi stanotte. Decido di controllare lo stesso: “Niente incubi?”, chiedo ansiosa guardandolo in faccia.
“Niente incubi”, conferma mentre mi stringe facendo avvicinare involontariamente il mio viso al suo. Ci fissiamo negli occhi, il suo viso di nuovo così vicino come ieri sera …
“Andiamo, ragazzo! Hai voglia di poltrire tutta la giornata oggi?”. Oh, no. No, no, no!
 Haymitch è in piedi sulla soglia della porta che Peeta non aveva chiuso a chiave nel caso – a suo dire –  fossi dovuta scappare per via di un suo episodio. L’ho lasciato fare, anche se sapevamo entrambi che non sarei andata da nessuna parte nel caso fosse successo.
“Ah, vedo che c’è anche la Ragazza in fiamme. Notte di fuoco, eh?”, dice sornione. Il mio viso diventa rosso in un baleno.
“Mi dispiace, ho disturbato il bacio del buongiorno!”, continua imperterrito. Gode a vedermi in imbarazzo.
“Haymitch, ieri non eri quasi morto per tutto l’alcol che avevi in corpo? Possibile che tu sia già sveglio?”, dico infastidita.
“Ah, ragazza, sarà che ho un sesto senso quando si tratta di prenderti in giro”, dice ridacchiando. Ok, basta così. Afferro il cuscino che avrei dovuto usare io e che invece è rimasto inutilizzato perché ho dormito usando Peeta come cuscino, e glielo tiro addosso. Non lo centro, ma la mia mossa lo convince ad andarsene.
“Se avete fame, dovrete uscire dal nido d’amore per venire a mangiare”, urla dal corridoio nonostante la cuscinata. Sento il petto di Peeta alzarsi e abbassarsi velocemente mentre tenta di trattenere una risata. Come mai le prese in giro di Haymitch non lo fanno arrabbiare quanto me?
“Ridi, ridi pure!”, sbotto verso di lui. Per tutta risposta mi accarezza il capo e sussurra: “Non è colpa mia, è che sei così pura”. Ancora questa parola. Mi fa infuriare. Mi alzo di scatto e sto per andare a rifugiarmi nella mia stanza, magari sotto una doccia fredda, quando mi afferra per un braccio costringendomi a fermarmi.
“Non ti arrabbiare di nuovo”, dice e anche se sorride so che ha paura che potrei infuriarmi davvero come il mese scorso. Improvvisamente e senza un motivo apparente, la rabbia sbollisce e mi ritrovo a fissarlo imbambolata.
“Io … ho bisogno di una doccia”, riesco a dire alla fine. Lui mi accarezza il viso spostandomi una ciocca di capelli dietro un orecchio.
“Va bene”, dice e mi lascia andare.
“Va bene”, gli faccio eco distratta dalla sua carezza, prima di affrettarmi a raggiungere la mia stanza e a buttarmi sotto la doccia.
Passo molto tempo sotto il getto dell’acqua, tanto che quando esco e guardo verso il finestrino riesco a scorgere i quartieri più esterni di Capitol City. Ci siamo, penso. Siamo alla prova del nove.







Angolo dell'autrice
Ciao a tutti! Eccomi con il nuovo capitolo! 
Ho visto che mi seguite in molti, ma praticamente nessuno recensisce e, parlando con sincerità, questa cosa mi deprime un po' xD Perciò vi rinnovo la richiesta di lasciare quante più recensioni potete, non solo a questo capitolo ma anche agli altri. :)

Ancora una volta ringrazio la mia onnipresente Cccch che mi dà sempre ottimi consigli e mi consola quando non ricevo recensioni xD e ancora una volta vi lascio il link alla sua fanfic che, vi ripeto, è dieci volte meglio della mia:
 http://www.efpfanfic.net/viewstoryv.php?sid=2462888

Alla prossima e ricordate: #moreshirtlessPeetaforeveryone!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Cadere e rialzarsi, spezzarsi ***


Mentre cadevo mi hai preso la mano
A Hunger Games Fanfiction


5. Cadere e rialzarsi, spezzarsi

I contorni della stazione di Capitol City cominciano a delinearsi e mi rendo conto che è rimasta esattamente come la ricordavo: caotica e piena di curiosi e giornalisti. Quando finalmente si ferma, scendiamo dal treno coprendoci gli occhi dai mille flash che scattano nella nostra direzione e in un movimento istintivo afferro la mano di Peeta; non so bene se per difendere lui o me stessa dalla curiosità morbosa di questa gente frivola. Non si preoccupano neanche ora che sono i loro figli ad avere la possibilità di essere estratti alla mietitura e rischiare la morte: a quanto pare gli Innamorati Sventurati del Distretto 12 meritano più attenzione dell’ennesima strage di ragazzini. Mi chiedo se a quest’ora avranno capito che la storia tra me e Peeta fosse una finzione ma, a giudicare dalla calca, credo proprio di no. Molti giornalisti cercano di parlarmi e di farmi domande, ma a quel punto Peeta mi ha già cinto le spalle con un braccio e mi protegge dall’insistenza dei capitolini distribuendo “no comment” a tutti quelli che cercano di rivolgermi qualche domanda. Gli sussurro un grazie e lui mi stringe più forte mentre tenta di sorridere ma c’è qualcosa che non va, lo vedo: i suoi occhi si stanno scurendo. Dobbiamo andare via da qui, penso, ora!
Un’auto scura ci aspetta all’uscita della stazione, la raggiungiamo in fretta e ci stipiamo sul sedile posteriore mentre un inserviente prende le nostre borse. Mi concentro su Peeta: ha il respiro pesante e le nocche bianche per la forza che sta mettendo nello stringere i pugni.
“Peeta”, lo chiamo cercando di assumere il tono dolce che mia madre usava con mio padre. Sento la frequenza dei suoi respiri accelerare e poi vedo due oceani azzurri che si girano a guardarmi. E’ ancora qui.
“Resta con me”, dico ancora, accarezzandogli il viso con una mano.
“Sempre”, risponde abbozzando un sorriso mentre sento il suo respiro regolarizzarsi.
“Oh, per favore! Non voglio vomitare”, dice Haymitch all’improvviso. Effetto domino: Haymitch parla, io arrossisco e ritiro la mano dal viso di Peeta.
“Haymitch, zitto per favore”, dico irritata.
“Dolcezza, sai che stare zitto non è il mio forte”, dice con un sorriso a 32 denti.
“Beh, non credi sia ora di migliorare? Fammi un piacere: inizia ad allenarti e chiudi quella boccaccia”, sbotto.
“Nervosetta, eh? E io che pensavo che stanotte aveste scaricato la tensione!”, ora sta ridendo a crepapelle tanto da spingermi a tirargli una gomitata nello stomaco. Sento le risate mozzarsi per via del colpo, ma riprendere quasi subito. Almeno ha smesso di fare commenti.
Intanto Peeta, che preferisce non intromettersi ogni volta che io e Haymitch abbiamo questi scambi di battute, ha preso tra le sue la mano che ho ritirato dal suo viso e sta disegnando cerchi immaginari col pollice sul palmo. Questo gesto mi distrae dalle risate di Haymitch e porta i miei occhi sul suo viso: ha uno sguardo tormentato che mi fa accartocciare il cuore. Odio vederlo in questo stato, così avvicino anche l’altra mano alle sue e gliele stringo forte. Mi guarda negli occhi e vedo passare nei suoi almeno una decina di emozioni: rabbia, paura, preoccupazione, gratitudine, affetto, tormento e troppe altre che non riesco a distinguere. Amore? Non ne sono sicura ma, stranamente, una parte dentro di me spera di sì e, per una volta, decido di non soffocarla.
Siamo ancora in questa posizione quando l’auto si ferma e ci fanno scendere. Io e Peeta ci teniamo la mano anche una volta scesi dalla macchina e, quando capiamo dove ci hanno portati, entrambi stringiamo forte la presa sulla mano dell’altro: siamo alla residenza di Snow. L’immagine di Prim in fiamme mi si para davanti e mi toglie il fiato, mi accascio cadendo in ginocchio mentre continuo a stringere forte la mano di Peeta. Diventa tutto confuso e lo sento svicolare dalla mia presa. Perché? Perché mi abbandona? Ma quando sento le sue braccia avvolgermi e sollevarmi, capisco che mi aveva lasciato la mano solo per avere libertà di movimenti. Mi fischiano le orecchie e sto tremando: qualcosa dentro di me è caduto con un tonfo che ho sentito solo io.
“Non andare via, non lasciarmi”, no, il tonfo l’ha sentito anche lui. La voce di Peeta mi ridesta dai demoni che mi attanagliavano il cervello. Mi asciuga una lacrima con la punta di un dito. Non mi ero neanche accorta di star piangendo.
“Stavo per dirlo io a te …”, sussurro stringendomi di più a lui. Sta per rispondere ma un colpo di tosse lo interrompe prima che possa emettere un solo fiato. Ci giriamo e li vediamo lì, in piedi sulle scale, in ordine da sinistra verso destra ci sono Plutarch, la Paylor e Gale. Gale. Non appena i miei occhi mettono a fuoco la sua figura, sposto lo sguardo evitando in tutti i modi di guardarlo. So che mi sta fissando con uno sguardo truce, ma non posso lasciare la mano di Peeta, né posso allontanarmi da lui. Io … ho bisogno di Peeta. Non so se più a livello fisico o mentale, fatto sta che non lascerò il mio posto affianco a lui. Gale non capisce, lo so. Lui vede solo un pericolo per me in Peeta e avrebbe ragione, se solo Peeta non fosse la persona migliore che io abbia mai incontrato quando non è preda dei suoi episodi che – mi rammarico pensandoci – sono sempre e solo colpa mia. Sto pensando a tutto questo quando la Paylor interrompe il filo dei miei pensieri.
“Bentornati a Capitol City”, dice in tono formale. Nessuno risponde.
“Bene, suppongo che sarete stanchi per il viaggio, perciò un soldato vi accompagnerà alle vostre stanze, ma prima devo informarvi che questa sera si terrà la mietitura”, continua fredda.
“Vuole dire che dormiremo qui?”, chiede Peeta deglutendo e abbattendo il muro di silenzio tra noi tre e loro tre.
“Voglio dire che dormirete qui”, dice lei senza scomporsi. Sento Peeta irrigidirsi sotto la mia stretta. Cerco di accarezzargli una mano e ho la sensazione che a poco a poco si calmi, anche se continua ad avere una strana luce negli occhi.
“Dobbiamo essere degli ospiti proprio speciali, allora. So che gli altri mentori alloggiano al vecchio centro d’addestramento”, dice Haymitch improvvisamente con un tono tagliente.
“E’ per la vostra incolumità”, replica lei. O per la vostra, penso io. Ancora, nessuno risponde.
“Bene, possiamo congedarci. Vi aspetto questa sera alle 8 nel giardino della villa”, dice e si allontana con Plutarch e Gale al seguito. Con la coda dell’occhio, lo vedo girarsi verso di me un’ultima volta, ma resto impassibile. Fa parte del piano, no? Finge di stare dietro alla Paylor solo per aiutarci, vero? Vero.  Ma non riesco a soffocare il dubbio che si sta facendo strada dentro di me.
Ancora una volta vengo distratta dai miei pensieri da un soldato che mi sta mostrando la porta della mia camera: di fronte a quella di Peeta, affianco a quella di Haymitch. Nemmeno mi ero accorta che avevamo iniziato a camminare, sentivo solo la stretta salda della mano di Peeta.
Il soldato si congeda e Haymitch sguscia nella sua stanza:  probabilmente non vedeva l’ora di rimanere solo con la sua fiaschetta. Restiamo solo io e Peeta nel corridoio, a fissarci senza sapere bene cosa fare. Colgo un movimento fulmineo degli occhi di Peeta verso la porta di Haymitch, come se volesse entrare nella sua stanza e dirgli qualcosa. Perché sono tutti così strani? Ora che ci penso, Haymitch che non replica e non commenta le affermazioni della Paylor è davvero qualcosa di strano, molto più degli sguardi sfuggenti di Peeta e Gale. Sono sempre più confusa.
“Stai bene?”, mi chiede improvvisamente Peeta, stranamente titubante. Noto che le nostre mani sono ancora intrecciate.
“Sì”, rispondo secca cercando di abbozzare un sorriso che, tuttavia, mi riesce tirato. Peeta mi imita ma, se possibile, il suo sorriso esce fuori peggio del mio. Si comporta improvvisamente in modo strano e qualcosa mi dice che l’episodio che stava per scatenarsi nella sua testa meno di mezz’ora fa, non c’entra molto. La mia mente si mette al lavoro e in un lampo realizzo che Peeta ha assunto questo strano atteggiamento da quando Gale è entrato nel nostro campo visivo. Perché? Che ci sia altro che non mi abbia raccontato? Non mi dà modo di saperlo, perché lascia di botto la mia mano e dice nervoso: “Vado a farmi una doccia, ho bisogno di rilassarmi”. E’ una frase in codice per dire ‘lasciami da solo’, lo so, ma faccio la finta tonta.
“Ora?”, dico in tono innocente.
“Ora”, mi fa eco lui e dal tono capisco che non solo non lo convincerò a rimanere un po’ con me, ma non riuscirò nemmeno a scucirgli alcuna informazione su Gale.
“Ok”, dico senza aver bisogno di fingere la delusione che già mi aleggia sul viso. Lo vedo fare una strana espressione, come se si fosse improvvisamente intristito per qualcosa e poi capisco: ha letto la delusione sul mio viso.
“Non ti preoccupare per me, sto bene”, aggiungo sentendomi in colpa per avergli fatto pesare il suo bisogno di stare da solo. In fondo è normale che voglia prendersi del tempo per sé, ogni tanto. Anche se è strano che voglia farlo ora, visto dove siamo e visto cosa è successo in questo posto l’ultima volta che ci siamo stati, visto che ho bisogno di lui e che pensavo che avremmo affrontato insieme questa prova, penso rimproverandomi per il mio egoismo. Gli sorrido, cercando di rassicurarlo, ma non vedo sparire quell’espressione preoccupata dal suo viso.
“Se hai bisogno …”, non termina la frase e indica la porta dietro di sé. “Chiamami”, ricevuto.
“Anche tu”, gli dico ripetendo il suo gesto verso la porta della mia stanza. Invece di rispondere, alza un angolo della bocca in una specie di sorriso triste e poi sparisce nella sua stanza. Resto solo io, confusa e incerta sul da farsi, nel corridoio. Una spiacevole sensazione inizia a farsi strada dentro di me: mi sento in trappola, come quando ero un tributo. Mi manca il respiro. Per un attimo sono tentata di bussare alla porta di Peeta per farmi avvolgere dalle sue braccia e calmarmi, ma poi cambio idea.
Gale. Forse lui può dare una risposta a un paio dei miei interrogativi, forse può ancora essere l’amico che credevo di aver perduto. Ma come trovarlo in questo posto immenso?
Non ho nemmeno il tempo di formulare la domanda nella mia testa, che lo vedo spuntare da dietro l’angolo, la faccia sorpresa perché non si aspettava di trovarmi nel corridoio.
“Ti stavo cercando”, esordisce superando l’attimo di sorpresa.
“Curioso, anche io”, rispondo in tono neutro. Lo vedo abbozzare un sorriso.
“Beh, pare che tu mi abbia trovato”, dice mentre il suo sorriso si allarga.
“Perché non me l’hai detto?”, dico. Il sorriso si spegne.
“Cosa?”, dice. Leggo la preoccupazione nei suoi occhi. Cosa non so?
“La proposta di Haymitch”, dico acida.
“Non l’ho accettata, non mi sembrava utile parlartene. Ah sì, poi il tuo bravo mentore mi ha gentilmente chiesto di non fartene parola. Sai che porta sempre un coltello nella tasca?”, dice dopo aver indugiato un attimo. Non ha accettato. Il mio cervello impiega un paio di secondi per elaborare l’informazione: gli Hunger Games della Pace si faranno. Un’altra consapevolezza mi colpisce: Peeta non mi ha detto niente.  Ecco perché mi ha detto di non far capire ad Haymitch che mi avesse detto la verità. Forse sperava di poter fare qualcosa una volta arrivati qui? Ma perché non mi ha detto tutto?
“Come hai potuto? Dopo tutto quello che è successo, dopo lei! Come hai potuto rifiutare?!”, dico in preda alla rabbia e all’ansia portata dalla consapevolezza del mio destino imminente da mentore.
“Cosa stai dicendo? Tu eri d’accordo, hai votato sì! Per lei! Furono queste le tue parole! Io pensavo …”, non termina la frase e vedo il terrore e il dolore farsi strada sul suo viso. Oh, no.
“Hai rifiutato perché pensavi che io volessi questi Giochi?”, dico mentre lo stupore si mescola alla rabbia.
“Sì”, ammette in un sussurro fissandomi negli occhi.
“Oh, Gale …”, mormoro.
“Non avrebbe cambiato le cose, lo so. Ma valeva la pena provare … pensavo che questa vendetta  ti avrebbe aiutata a mettere il risentimento da parte”, dice distogliendo lo sguardo da me. Mi sento colpita da queste parole, dalla situazione, da Gale. La mia mente aveva sostituito l’immagine del mio compagno di caccia e amico con quella di un assassino calcolatore, ora me ne pento. Ma i Giochi si faranno, mi ricorda la mia testa. Anche se Gale ha provato a mettere da parte il suo orgoglio e i suoi desideri per quello che credeva mi avrebbe fatto piacere, non conta perché i Giochi si faranno.
“Ho capito”, dico. Lo sento tirare un impercettibile sospiro di sollievo. “Ma ora devi sistemare le cose”, continuo.
“Sistemare le cose? E come? Ormai il capo stratega è stato nominato, sarà Plutarch!”, esclama con rammarico.
“Non mi interessa come! Dobbiamo fare qualcosa per quei bambini innocenti!”, sbotto all’improvviso.
“Non possiamo. Voi siete qui sotto stretta sorveglianza perché la Paylor temeva un atto di ribellione da parte tua o di Haymitch dopo … dopo che le ho raccontato delle intenzioni del tuo mentore”, confessa. Non può essere.
“TU HAI FATTO COSA? SEI IMPAZZITO?”, ormai la mia rabbia ha superato i limiti, come il tono della mia voce.
“Sssh, abbassa la voce”, dice lui tirandomi dentro la mia stanza. Nel mentre, credo di sentire la serratura della porta di Peeta scattare, ma non riesco a vedere se il Ragazzo del pane sta uscendo dalla sua stanza perché la figura di Gale mi sovrasta e subito dopo lui richiude alle sue spalle la porta della mia camera.
“Non ci credo”, gli dico più arrabbiata che mai.
“Ho dovuto”, tenta di giustificarsi lui prendendomi una mano tra le sue. Le scaccio via, non voglio che mi tocchi, né lui né nessun altro. Nemmeno Peeta, mi suggerisce la rabbia che mi ribolle nello stomaco.
“Hai dovuto? Non mi azzardo nemmeno a chiederti perché, ma sappi che dovrai trovare una soluzione. Non mi importa come farai, ma farai in modo di distrarre la Paylor. Tireremo fuori quei bambini dal centro di addestramento prima che arrivino all’arena. Promettilo”, dico tra i denti. Non risponde. “Promettilo!”, incalzo.
“Non posso prometterti niente, Catnip. Ma ci proverò”, dice con un’espressione addolorata. E’ un attimo, d’istinto cedo a quell’espressione e lo stringo in un abbraccio. Dopo un attimo di sorpresa, Gale ricambia con vigore. Fuoco contro il fuoco: ora che sono arrabbiata l’abbraccio di Gale mi dà sicurezza e determinazione; mi ero dimenticata come fosse sentirsi le spalle coperte tutto il tempo. Anche se ha fatto la spia, è sempre il mio migliore amico.
“Cosa speravi di ottenere facendo la spia?”, dico all’improvviso mentre siamo ancora stretti l’un l’altro. E improvvisamente so già la risposta.
“La certezza che i Giochi si sarebbero fatti. Sai … te l’ho spiegato prima: pensavo che fossi favorevole ed ero convinto che Haymitch sarebbe riuscito a trovare un altro modo per boicottarli senza un’adeguata sorveglianza. Quale posto migliore per sorvegliarlo costantemente se non la sede del nuovo governo che brulica di soldati e che io stesso avrei controllato?”, dice stringendomi a sé con più forza. Non rispondo, ma ricambio l’abbraccio. Per me, lo ha fatto per me. Mi sento come se fossi caduta e subito dopo fossi riuscita ad alzarmi, con la testa che gira e le ginocchia sbucciate, ma fiera di essere piedi.
Siamo ancora così, aggrappati l’una all’altro come se ne andasse della nostra vita, quando la porta si spalanca improvvisamente andando a sbattere violentemente contro la parete. Peeta. Sto per urlargli in faccia che non avrebbe dovuto omettere il resto della storia, che mi fidavo di lui, quando lo guardo in viso e noto il colore dei suoi occhi: nero come la pece. Ci fissa con uno sguardo pieno d’odio e muove un passo verso di noi. Mi stacco meccanicamente da Gale e lo guardo senza sapere cosa fare. Il panico mi assale: Peeta era già preda dell’episodio prima di arrivare qui ed ha ceduto ugualmente al suo istinto omicida. Non riesco a muovermi e intanto Peeta fa un altro passo verso di me.
“Eri con lui, per questo mi hai abbandonato. Era il tuo piano dall’inizio dei Giochi. Mi hai ingannato!”, dice all’improvviso. La voce carica di odio.
“Peeta”, sussurro, incapace di replicare.
“Mi hai abbandonato.  Nell’arena mi hai abbandonato!  Sapevi tutto, ma non ti importava di me. Gli hai detto di non salvarmi. IBRIDO ASSASSINO!”, urla lui di rimando. Succede tutto troppo in fretta: Peeta allunga una mano verso il mio viso e ci piazza uno schiaffo mentre, in contemporanea, parte un pugno di Gale diretto allo stomaco di Peeta che lo fa piegare in due dal dolore.
“NO!”, urlo io spingendo via Gale da Peeta. Ho promesso a me stessa che avrei aiutato Peeta stavolta, mi arrabbierò poi.
“Peeta”, lo chiamo chinandomi su di lui, che intanto si è accasciato sul pavimento.
“Katniss”, dice lui col fiatone mentre si tiene lo stomaco con le mani.
“Peeta, guardami”, lo imploro.
“Hai tentato di uccidermi!”, dice e invece di guardarmi mi spintona via. Gli afferro il volto tra le mani e lo costringo a guardare nella mia direzione.
“Resta con me”, sussurro. Come a Capitol City, durante la guerra, le sue pupille si contraggono e poi si espandono più volte, finché non lasciano spazio all’azzurro delle sue iridi.
“Sempre”, dice alla fine assumendo un’espressione addolorata. Posa lo sguardo sulla mia guancia contusa, che sfiora con la punta delle dita, poi entrambi ci ricordiamo di non essere soli. Gale sta spostando lo sguardo da me a Peeta e da Peeta a me in intervalli regolari di tempo. All’improvviso smette di guardaci, ci supera con un balzo e scompare. Vorrei chiamarlo, vorrei spiegargli della promessa che ho fatto a me stessa per stare accanto a Peeta, ma sarebbe inutile, così sto zitta e immobile.
Intanto Peeta mi fissa addolorato e ha allontanato la mano dalla mia guancia. Si sente in colpa, lo so. E so anche che ha capito che Gale mi ha raccontato la verità e che si aspetta di vedermi arrabbiata. Tenta di scusarsi, mormora parole confuse e prova ad allontanarsi da me, impaurito di poter cedere di nuovo ad uno dei suoi episodi.
“Perché?”, gli chiedo costringendolo a fermarsi a un passo da me.
“Ti ho sentita urlare prima, nel corridoio. Qualcosa nella mia testa malata deve essere saltata ed è iniziato. Mi dispiace, non volevo farti del male”, dice lui triste lanciando un’altra occhiata alla mia guancia.
“Non mi riferivo a questo. Perché non mi hai detto tutta la verità?”, incalzo.
“Ah”, dice.
“Ah?!”, gli faccio eco alzando il tono di voce.
“Speravo di poter parlare con Gale una volta arrivato qui. Speravo di convincerlo: sapevo che aveva rifiutato perché pensava che tu fossi ancora favorevole, perché lo pensavo anche io prima di ieri sera. Ma quando ho visto dove ci hanno portati … beh, ho immaginato che fosse troppo tardi e ho capito di aver sbagliato a non dirti tutto. Ma cosa potevo fare ormai? Sapevo che Gale te l’avrebbe detto e sapevo anche che ti saresti arrabbiata comunque anche se lo avessi fatto io. Volevo che gli dessi una possibilità di spiegarsi da solo, di difendersi. Magari avresti anche potuto perdonarlo …”, dice lasciando a metà l’ultima frase. Lo ha fatto per me. Anche lui. Voleva  che perdonassi Gale: ancora una volta ha messo me davanti a sé stesso. Cosa dovrebbe significare questo? Dio, che confusione. Ritorna la sensazione di prima, solo che stavolta sono caduta e non mi rialzo. Mi sono spezzata. E ripenso alla guerra, agli Hunger Games, a tutto quello che è successo negli ultimi due anni. Non ho mai voluto che nessuno di voi si sacrificasse per me. La rabbia si trasforma in tristezza, poi in panico e infine in dolore; sia fisico che mentale.
Lo dico ad alta voce: “Non ho mai voluto che nessuno di voi si sacrificasse per me”.  Lo vedo perplesso, poi capisce. Non dice niente, poi finalmente si avvicina e mi stringe in un abbraccio. Niente più fuoco, solo calma. E’ Peeta, è così bello che potrei restare così per sempre. Neanche mi rendo conto che mi ha sollevata e mi sta portando verso il letto, fino a quando non sento il materasso sotto di me. Mi accorgo solo delle lacrime calde che mi bagnano il viso. Lo guardo con aria interrogativa.
“Riposa fino alla mietitura. Troveremo una soluzione. Nessuno si dovrà più sacrificare. Te lo prometto”, dice bisbigliando al mio orecchio. Me lo promette. Chiudo gli occhi e mi lascio prendere dal sonno che mi ha assalita all’improvviso.
“Resta con me”, dico nuovamente prima di addormentarmi definitivamente. Gli prendo una mano e la stringo forte, come per sottolineare il bisogno di lui che sento.
“Sempre”, risponde ancora una volta e sento le sue labbra posarsi delicate sulla mia fronte. Continuo a stringere la sua mano finché non vengo rapita da Morfeo.



Angolo dell'autrice
Ciao ragazzi! Sono un po' in ritardo con il nuovo capitolo e per questo mi scuso, ma con i corsi all'università e i dannati treni sempre in ritardo non sono praticamente mai a casa!

Mi rendo conto che questo capitolo sia un po' noioso e lento ma, a mio parere, è fondamentale. Sto cercando di rendere al meglio tutto il percorso psicologico di Katniss (and of course la sua confusione), perciò non vogliatemi male D: ci sarà molta azione, spero, nei prossimi!

Come al solito ringrazio la mia Cccch che mi sopporta sempre <3 (al solito, vi lascio il link alla sua fanfic che è asdjfgkdjfskngdgsg *_* http://www.efpfanfic.net/viewstoryv.php?sid=2462888 )

Ringrazio anche tutti quelli che hanno recensito le scorse volte *_* siete aumentati e sono felicissima per questo!

Che altro dire? Continuate a seguirmi, se vi va, e recensite, recensite, recensite!

Alla prossima e ricordate: #moreshirtlessPeetaforeveryone!


 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Fermare il tempo ***



Mentre cadevo mi hai preso la mano

A Hunger Games Fanfiction




6.Fermare il tempo

Mi sveglio e realizzo di non aver dormito molto, perché quando guardo verso la finestra riesco a scorgere gli ultimi raggi del Sole che si tuffano nel crepuscolo.
Improvvisamente mi accorgo di un calore profumato di farina e cannella che viene dal mio fianco e mi volto: Peeta. Si è addormentato anche lui vicino a me mentre ancora mi stringeva la mano. Guardo il suo volto rilassato nella posa del sonno e mi ritrovo ancora una volta a pensare a quanto assomigli a un bambino quando dorme e a quanto è facile dimenticare le torture che ha subito guardandolo così beato e calmo. I capelli scompigliati gli incorniciano il viso e, con una punta di rossore sulle guance, osservo che così sembra ancora più bello.
Sento la sua mano stringersi alla mia: starà avendo un incubo? Non faccio in tempo a chiedermi se sarebbe meglio svegliarlo o meno che lui apre gli occhi, mi guarda e tira un sospiro di sollievo. “Nei miei incubi di solito ho paura di perdere te. E sto bene quando mi accorgo che ci sei”, mi tornano in mente le parole che mi sembra mi abbia detto secoli fa, in un altro mondo, quando ero sicura dei suoi sentimenti per me e non sono stata capace di ricambiarli o di apprezzarli come avrei dovuto. Ma adesso non saprei proprio dire se questo sospiro sia dovuto al fatto che è contento di constatare di non avermi persa o di essere sollevato per essere uscito dall’incubo che stava vivendo mentre dormiva.
“Scusa, mi sono addormentato”, dice lasciandomi di colpo la mano per mettersi seduto.
“Hai fatto bene, invece. Avevi bisogno anche tu di un po’ di riposo”, rispondo prendendogli di nuovo la mano:  mi mancava già il suo tepore. Lo vedo fissare le nostre mani intrecciate con uno sguardo dubbioso che non riesco ad interpretare.
“Che ore sono?”, chiede. Ma non sono tanto sicura che si stesse davvero preoccupando dell’orario.
“Non ne ho idea. A che ora dovremmo andare alla …”, non finisco la frase. “Mietitura”, penso, ma non riesco a dirlo.
“Alle 8”, risponde mentre cerca di afferrare la sveglia sul comodino dal mio lato del letto. Si sporge su di me per un attimo e io mi ritrovo a pensare che se Haymitch entrasse ora fraintenderebbe tutto. Ma è solo un attimo, la afferra e torna a sedersi accanto a me. Mi metto anche io seduta e lo guardo aspettando che legga l’orario.
“Sono le 7”, mi informa. “Forse sarebbe meglio prepararsi”, conclude guardandomi negli occhi. Non so cosa dire: non voglio prepararmi, non voglio assistere alla mietitura, non voglio uscire da questa stanza, da questo letto. Voglio restare qui. Con Peeta.  E lui capisce, lo vedo dal suo sguardo, ma non saprei dire se per lui sia altrettanto, se voglia restare con me.
“E’ solo la mietitura. Non significherà niente. Non li faremo entrare nell’arena, ricordi?”, dice lasciandomi la mano per accarezzarmi una guancia. Non posso fare a meno di chiedermi se questi piccoli gesti sono dettati dalla compassione o dall’eco dell’amore che provava nei miei confronti prima del depistaggio.
“Giusto”, sussurro rispondendo al suo sguardo, occhi negli occhi.
“Credo che dovremmo cambiarci. E dovremmo farlo in fretta: non so se Effie impazzirebbe di più per l’abbigliamento sbagliato o per il ritardo”, dice sorridendo per la prima volta da quando si è svegliato. Sorrido anche io, divertita dal fatto che riesca a sdrammatizzare anche nelle situazioni più tragiche. “Sì, la glassatura. L’ultima difesa del moribondo”, mi disse quando era più morto che vivo nell’arena dei Settantaquattresimi Hunger Games. Il ricordo mi colpisce improvvisamente e il mio sorriso si spegne.
“Cosa c’è?”, mi chiede notando il mio cambio d’umore. Sembra … preoccupato? Indubbiamente lo è, ma non per il motivo che la mia parte emotiva crede: non è più innamorato di me, anche questo è senza ombra di dubbio un dato di fatto. Continuo a fare finta di dimenticarlo e non so nemmeno per quale motivo.
“Brutti ricordi”, dico distogliendo gli occhi dai suoi. Giro il viso verso la finestra dal lato opposto per non guardarlo. Improvvisamente mi cinge con le sue braccia e mi stringe. Giro di nuovo il viso verso di lui e lo seppellisco nel suo petto mentre lo stringo anche io. E’ un gesto che sostituisce mille parole perché lui sa quanto possono essere orribili i ricordi che conservo e, anche se non sa quale ho rievocato, sa che la scelta è ampia e che ognuno di quei ricordi ha lame affilate più di una spada.
Vorrei rimanere così per sempre, ma Peeta ha ragione: dobbiamo prepararci in fretta se non vogliamo che Effie ci venga a prendere di persona e ci trascini per le orecchie alla mietitura. Mi stacco e lo guardo negli occhi.
“Credo che dovremmo prepararci, ora”, dico arrossendo senza sapere perché.
“Giusto”, mi imita lui sussurrando come ho fatto io poco fa. Si alza e si avvia verso la porta che spalanca velocemente.
“A tra poco”, dice cercando di sorridere. Ma è turbato almeno quanto me, lo vedo. In fondo non sappiamo ancora cosa fare per impedire che 24 bambini innocenti vengano spediti nell’arena.
“A tra poco”, gli faccio eco con una voce inespressiva. Chiude la porta dietro di sé e sparisce.
Rimasta sola decido di darmi da fare: magari concentrarmi su abito e trucco mi impediranno di pensare a cosa mi aspetta. Magari.
Faccio una doccia veloce e torno a sedermi sul letto poggiando la valigia affianco a me. Mi faccio coraggio e la apro: ci ho infilato qualche vestito di Cinna senza nemmeno guardarli perché non ci riuscivo senza piangere e non volevo rovinarli. Faccio un respiro profondo e ne tiro fuori uno molto semplice: azzurro, come gli occhi di Peeta, a maniche lunghe con una generosa scollatura sulla schiena, arricciato in vita, largo sui fianchi e lungo fino al pavimento. Copre la maggior parte delle mie cicatrici se si vogliono ignorare quelle sulla schiena ma, soprattutto, copre con la gonna larga e lunga anche le scarpe, così sarò libera di non indossare quelle trappole mortali che chiamano “scarpe col tacco”. Lo indosso insieme a un paio di ballerine in tinta e mi ritrovo a pensare a quanto Cinna fosse attento ai dettagli: nel disegnare i miei vestiti, teneva conto di tutti i miei vizi. Scuoto la testa per scacciare via questi pensieri. Non posso permettermi di pensare a tutte le persone che ho perso ora, questa giornata sarà già abbastanza pesante senza che io mi crogioli nel senso di colpa.
Mi guardo allo specchio e comincio ad armeggiare con i pochi trucchi che ho. Il risultato finale non è male, anche se il mio trio di preparatori storcerebbe sicuramente il naso. Come tocco finale, intreccio i miei capelli come al solito, come a volermi ricordare chi sono nonostante questo vestito e il trucco.
Sto mettendo via le poche cose che ho usato per prepararmi quando un lieve bussare alla porta mi distrae. Saranno passati 45 minuti da quando io e Peeta ci siamo separati e deduco che sia lui.
Vado ad aprire ma mi ritrovo davanti un Gale in giacca e cravatta con un espressione rabbiosa in viso.
“Ciao Catnip”, dice tra i denti. Poi si sofferma a guardarmi bene e la sua espressione cambia da corrucciata a stupita.
“Sei bellissima”, mormora dimenticando per un attimo il motivo della sua rabbia. Arrossisco senza volerlo al complimento.
“Grazie”, dico sentendo una strana sensazione, come se mi sentissi lusingata dal fatto che Gale pensi ancora che io sia gradevole, nonostante le cicatrici, la magrezza e i capelli bruciati. All’improvviso sento il bisogno di spiegargli perché l’ho spinto via prima, del patto che ho fatto con me stessa e mi ritrovo a sperare che capisca.
“Dovevo aiutarlo. L’ultima volta che ci siamo divisi è stato depistato. Io … dovevo”, dico in preda alla confusione. Gale cambia di nuovo espressione: non è più arrabbiato, non è più sorpreso è soltanto … triste?
“Sapevo che ti saresti sentita in colpa per sempre”, dice semplicemente prima di stringermi in un abbraccio che ricambio automaticamente. Ancora una volta in questa giornata, vorrei poter fermare il tempo e restare così. Anche se a stringermi è Gale, anche se ha progettato quelle dannate bombe, anche se non è venuto a trovarmi al 12 dopo la guerra. E’ Gale. Per un periodo ho pensato che potesse essere lui il mio futuro e mi sorprendo a pensarci anche ora.
Improvvisamente si stacca facendomi tornare alla realtà, mentre lo vedo diventare serio di colpo e fare un passo indietro.
“Devo scortarvi alla mietitura”, dice con tono grave prima di andare a bussare alle porte di Haymitch e Peeta.  Peeta appare sull’uscio della porta quasi subito con un’espressione a metà tra lo stupore e la preoccupazione, Haymitch, come al solito, tarda ad aprire la porta. Gale bussa di nuovo e sentiamo un rumore sommesso seguito dallo sbraitare del mio mentore che intanto spalanca la porta.
“Ah bene, vedo che il magnifico triangolo amoroso si è ricomposto”, dice ironico. Arrossisco cercando di ignorarlo mentre stringo i pugni.
“Divertente”, risponde Gale pungente. Peeta non parla e, pensandoci, non ha detto una parola da quando ha aperto la porta della sua stanza. Sbircio verso di lui e mi accorgo che mi sta guardando ma, quando incrocia i miei occhi, distoglie lo sguardo. Un’immagine di un dente di leone solitario si fa strada nella mia mente: l’ultima volta che io e Peeta abbiamo giocato a guardarci di sottecchi ne ho trovato uno e quello è stato il momento in cui ho capito come avrei impedito alla mia famiglia di morire di fame. Ma ora vedo qualcosa di diverso nel suo sguardo; non c’è più l’imbarazzo che gli imporporava le guance da bambino. A cosa starà pensando?
“Seguitemi, devo scortarvi alla mietitura”, ripete meccanicamente Gale notando la direzione del mio sguardo.
Ci guida verso la parte più elegante della residenza di Snow, fino al giardino in cui sono esplose quelle maledette bombe. Come allora, è pieno di bambini e ragazzini che aspettano il loro destino. Cerco di non guardare nella loro direzione mentre già sento le gambe tremarmi e il sudore imperlarmi la fronte. Devo resistere.
Gale ci sta accompagnando verso gli altri mentori, tutti ex-vincitori, e già da lontano riesco a scorgere Johanna, Beetee ed Enobaria. Mi chiedo dove sia Annie, quando ricordo che si trova in stato interessante e un’esperienza del genere non è proprio adatta ad una donna incinta. Fintanto che faccio queste considerazioni, ci siamo avvicinati al gruppetto di mentori e sento già i commenti fuori luogo di Johanna: “Ehi, ragazza in fiamme! Sempre rigida come una tavola, eh?”, mi rimbecca appena mi vede. Più la guardo nel suo vestito nero aderente, più penso che Johanna sia bellissima e più mi convinco di essere orribile con questo vestito e le mie cicatrici. E più mi rimprovero per dei pensieri così frivoli in un momento come questo.
“Ciao, Johanna, anche per me è un piacere rivederti”, le rispondo cercando di non pensare alle sue parole e ai pensieri che mi affollano la mente. Mi ignora per rivolgersi a Peeta: “Fornaio, ti trovo più sexy del solito”, dice tranquilla. A queste parole, guardo Peeta con attenzione e mi ritrovo a pensare di essere d’accordo con Johanna. Non so come ci riesco, ma evito di arrossire. Lui risponde con un “grazie” mentre sorride e si china a baciarle una guancia per salutarla. Non so perché, ma questo gesto mi infastidisce e mi distrae per un attimo da quello che mi succede intorno. Intanto Gale mi ha preso la mano per richiamare la mia attenzione e mi sta indicando un punto preciso sul palco che è stato allestito davanti all’entrata della villa.
“Io sarò esattamente lì, al fianco della Paylor. Se hai bisogno di qualcosa,  vieni da me. Ok?”, dice stranamente premuroso, prima di allontanarsi verso il punto che mi ha indicato senza aspettare una risposta. Il Gale che ricordo non aveva modi così gentili, anche se, lo devo ammettere, queste attenzioni non mi dispiacciono. Annuisco, anche se ormai non può più vedermi, improvvisamente grata del fatto che Gale non si allontanerà. Non mi sento a mio agio qui. Con Peeta e Johanna insieme, aggiunge il mio cervello.
Mi sento inquieta, tanto più che i miei occhi continuano a fuggire verso i visi spaventati di quei poveri bambini. Come farò ad aiutarli? Sento le gambe venirmi meno e la testa girare, così mi aggrappo alla transenna che delimita lo spazio dei mentori. Una mano si poggia sulle mie e alzo lo sguardo: Peeta.
“Tutto bene?”, mi chiede preoccupato.
“Una favola”, rispondo nervosa.
“Sei bellissima con questo vestito”, dice all’improvviso con un mezzo sorriso. Non rispondo e lo fisso imbambolata. Cerca di alleggerire la tensione, lo so, eppure non riesco a fare a meno di sentire un nodo allo stomaco: crede davvero che io sia bella o lo dice solo per cortesia? Mi ha ignorata da quando è uscito dalla mia stanza ormai quasi un’ora e mezza fa. Perché c’era Gale, mi suggerisce una parte di me, mentre l’altra è inspiegabilmente gelosa delle attenzioni che Peeta ha rivolto a Johanna prima di venire da me. Nuovamente, mi rimprovero mentalmente per questi pensieri stupidi mentre dei poveri bambini stanno per essere estratti per combattere per la propria vita. Quand’è che sono diventata così frivola?
Una voce amplificata interrompe i miei pensieri. E’ la Paylor. Sta iniziando un discorso sulle difficoltà di aver scelto di celebrare questi Hunger Games della Pace, sul coraggio che questi bambini dimostrano stando qui oggi senza battere ciglio. Mi chiedo cosa dovrebbero fare, secondo lei: sono obbligati a stare qui. Continua dicendo che questi Giochi sono necessari per dare stabilità alla Repubblica nascente di Panem e che saranno i primi e gli ultimi Hunger Games che questa Repubblica vedrà. Si allontana dal microfono e in sottofondo, in un crescendo sempre più potente, si sente l’inno di Panem. Vengo catapultata nell’arena quando al suono dell’inno seguiva la proiezione nel cielo di tutti i caduti della giornata, all’orrore che provavo nel vedere cosa eravamo costretti a fare per sopravvivere.  L’inno finisce e il silenzio cala come un velo su tutti i presenti.
Vedo tre bocce di vetro arrivare sul palco, portate da degli inservienti: niente più Senza-voce. Tre? Non faccio in tempo a domandarmi il motivo che Plutarch, che intanto si è avvicinato al microfono, chiarisce i miei dubbi: anche i mentori saranno estratti casualmente. Con estrema lentezza ed esagerata teatralità comincia ad estrarre i nomi dalla boccia in quest’ordine: prima un ragazzo, poi il suo mentore, poi una ragazza e poi il suo mentore. Il mio cervello non riesce a registrare i nomi dei ragazzi, sento solo che Johanna e Peeta sono già stati assegnati ai loro tributi, mentre io sto ancora aspettando di sentire il mio nome. Plutarch, intanto, sta pescando nuovamente dalla boccia delle ragazze e si avvicina al microfono. Vedo tutto a rallentatore come in uno di quegli stupidi film capitolini.
“Evelyn Snow”, legge dal foglietto. Il silenzio si impossessa prepotente della scena: qualsiasi rumore risuona come l’esplosione di mille bombe. Se prima sembrava un velo posato sulla folla, adesso questo silenzio somiglia più ad un cuscino premuto sulle bocche dei presenti per soffocare tutti i respiri.
E’ lei, la nipote di Snow. Vedo una ragazza bionda, che potrà avere al massimo 15 anni, farsi largo tra la folla. Mentre si avvia verso il palco dandomi le spalle, non riesco a scorgerle il viso, ma so che sta cercando di ostentare sicurezza, come ho fatto io quando sono stata un tributo: cammina a testa alta e non accenna a portarsi le mani agli occhi, segno del fatto che non si è lasciata sfuggire nessuna lacrima da dover asciugare con le mani.
Ora Plutarch sta pescando dalla boccia dei mentori.
“Katniss Everdeen”, dice. Un mormorio sale dalla folla. Vedo la mia faccia sbigottita proiettata sugli schermi. Non può essere vero. Non posso essere la mentore della nipote del mio peggiore incubo. E non conta che cercheremo di non farli arrivare all’arena, non posso essere la sua mentore. Non posso immaginare di essere per lei ciò che Haymitch è stato ed è per me. Cerco di concentrarmi. Sono Katniss Everdeen, ho 17 anni, sono sopravvissuta ad una guerra, sono viva, mia sorella è morta, sono la mentore della nipote di Snow. Ripeto queste parole come un mantra, sperando di riuscire a calmarmi mentre inizio a rifletterci su. Alla fine arrivo alla conclusione che proverò lo stesso a salvarla: le scelte dei padri ricadono sui figli, è vero, ma restano comunque dei padri; lo stesso vale per nonni e nipoti. Sento lo sguardo di Evelyn addosso e la guardo anche io. Se i nostri occhi potessero parlare direbbero: “questa è una sfida e non sarò io la prima delle due a mollare”. Non sarà facile farle da mentore, per nessuna delle due. Un pensiero mi colpisce: se davvero dovrò farle da mentore dovrò seguire Evelyn al centro di addestramento, così come Peeta ed Haymitch dovranno seguire i loro tributi. Almeno lasceremo la villa di Snow e tutti i ricordi macabri che contiene.
Intanto Plutarch continua a chiamare tributi e mentori, fino a che non sono state sorteggiate 48 persone tra bambini spaventati ed ex-vincitori segnati da un passato di cui nessun essere umano dovrebbe poter dire “l’ho vissuto”. A questo punto ognuno di noi ha un tributo a cui badare e a cui insegnare a sopravvivere in un posto in cui tutti sono contro tutti in un gioco di vita o morte. Mi guardo intorno, incerta sul da farsi, e incrocio lo sguardo di Peeta. So che stiamo pensando alla stessa cosa: come faremo ad evitare di farli arrivare nell’arena? La mia mente inizia a lavorare frenetica, in cerca di una via di uscita, di un’illuminazione qualsiasi, di uno spiraglio di speranza. Guardo i visi dei bambini che non sono stati estratti e non trovo sollievo ma soltanto orrore. I loro amici, forse anche fratelli, sorelle e cugini potrebbero essere tra quei 24 ragazzini che sono stati estratti. “Stanno per morire”, è tutto quello che leggo sui loro volti. Sposto di nuovo lo sguardo su Peeta mentre immagini confuse di tutte le Mietiture a cui ho assistito si susseguono nella mia mente e terminano con un “mi offro volontaria come tributo”.
La voce di Gale in lontananza che chiama il mio nome mi distrae dai miei pensieri e dal volto di Peeta. Mi giro verso il suono della sua voce e vedo che si sta facendo largo tra la folla per raggiungermi. In lontananza vedo che i tributi vengono scortati verso delle auto scure come quella che ha accompagnato me, Peeta ed Haymitch alla villa di Snow. Il terrore di non riuscire a fare niente per loro mi assale improvviso proprio mentre Gale mi raggiunge. Mi aggrappo a lui, sopraffatta dai ricordi e dalla paura, prima di sprofondare nell’abisso del terrore e dei sensi di colpa, mentre lui mi stringe forte. Mi sento come se fossi sul ciglio di un burrone e stessi per cadere.
“Mi dispiace”, mi dice in un sussurro tra i miei capelli.
“Voglio salvarli”, dico sull’orlo delle lacrime che mi costringo a non versare. La mente che continua a cercare una soluzione a tutto questo.
“Anche lei?”, chiede sorpreso e so che si riferisce alla nipote di Snow.
“Soprattutto lei”, rispondo improvvisamente decisa. Il momento di debolezza è passato. Mi sono allontanata dal burrone e sto correndo via. Mi stacco da Gale che mi osserva perplesso e mi guardo intorno. Incrocio lo sguardo di Peeta, poi quello di Haymitch, poi quello di Johanna e infine quello di Beetee. Beetee. Ora so cosa fare. E per farlo ho bisogno delle trasmissioni via etere.





Angolo dell'autrice
Ciao ragazzi! Eccomi qui con questo capitolo che, se devo essere sincera, mi piace meno di quello precedente :/
Non so, ditemi voi! 
E' un periodo un po' così, in cui non so mai se quello che faccio mi piace o se lo faccio solo per abitudine e temo che questo si riversi anche sulla scrittura. Aspetto vostri pareri più che mai, perchè non so proprio che pesci prendere. Vi imploro quindi di recensire (la scorsa volta non sono arrivate tante recensioni quante avrei sperato, sob). Recensite anche perchè così mi gaso e ho più voglia di scrivere e siamo tutti contenti (o almeno spero)! :)

Come al solito, ringrazio la mia Cccch, fonte perenne di ispirazione e di idee per la trama. Graaazie Cccch <3
(oh regà, leggete la sua fanfic che è asdjaskjfabknsfjabnskjsjf *_*  link qui: 
http://www.efpfanfic.net/viewstoryv.php?sid=2462888 )

Ringrazio anche tutti quelli che mi seguono silenziosamente e che hanno aggiunto questa storia alle seguite/preferite/ricordate ma soprattutto quelli che hanno recensito e recensiranno perchè mi hanno dato e mi daranno modo di sapere cosa vi piace e cosa no :)

Alla prossima e ricordate: #moreshirtlessPeetaforeveryone!

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Qualcosa di buono ***



Mentre cadevo mi hai preso la mano
 
A Hunger Games Fanfiction




 
7. Qualcosa di buono
“E’ una pazzia. Ma potrebbe funzionare”, dice Beetee mentre mi guarda soddisfatto.
Dopo la mietitura siamo stati scortati al centro di addestramento. Anche a me, Peeta ed Haymitch è stata assegnata una nuova camera in questa struttura per seguire gli allenamenti dei nostri tributi. Evidentemente pensano che, una volta svolta la mietitura, non avremmo potuto fare più niente per fermare questi Hunger Games. Si sbagliano.
“Ricapitoliamo, ragazza. Vuoi sbattere il tuo muso da Ghiandaia Imitatrice in faccia ai cittadini di Panem grazie al genio occhialuto e alla tecnologia via etere per creare un diversivo, mentre noi facciamo tutta la fatica di portare i tributi lontano dall’arena? Ho già sentito una volta un piano del genere”, dice Haymitch ammiccando a Peeta.
“Lo so e penso che sia l’unica possibilità che abbiamo”, dico convinta mentre Peeta scuote la testa guardandomi fisso. Lo guardo interrogativa e leggo sulle sue labbra: “Brutti ricordi”, mima per non farsi sentire. Annuisco mentre noto una scintilla di nero apparire e scomparire dai suoi occhi. Lo stomaco mi si contorce al pensiero dei ricordi orribili che stanno tormentando Peeta in questo momento: sappiamo entrambi che Haymitch si riferiva alla missione di salvataggio che ho coperto con un pass-pro mentre loro cercavano di strappare Peeta, Johanna, Annie ed Enobaria dalle grinfie di Capitol City e del Presidente Snow. Involontariamente, la mia faccia si trasforma da determinata a triste.
“Non preoccuparti”, mima ancora accennando un sorriso. Peeta. Non smetterà mai di preoccuparsi prima per gli altri e poi per sé stesso. E’ una caratteristica troppo radicata nel profondo del suo essere perché il depistaggio possa fargli smettere di essere altruista al punto di dimenticarsi dei propri bisogni.
Un colpo di tosse e il mio sguardo si incontra con quello di Gale. Cosa mi sono persa durante questo scambio di frasi silenziose?
“Con quali mezzi vorresti realizzare questo pass-pro? E dove? Ti ricordo che siamo al Centro di Addestramento, non nei boschi del 12 o al sicuro nei bunker del 13”, dice Gale, evidentemente per la seconda volta dato il tono infastidito.
“In realtà, contavo su di te per questo”, ammetto, mordendomi il labbro inferiore.
“Furba la torcia umana”, commenta Johanna con un tono allusivo che non mi piace per niente. Le lancio un’occhiataccia.
Katniss, sono solo un soldato. Dove credi che possa trovare telecamere …”, inizia Gale ignorando Johanna, per poi fermarsi nel mezzo della frase, colto da un’idea improvvisa. Lo guardo piena di speranza.
“Forse ho trovato”, dice e non aggiunge altro mentre aggrotta la fronte in quella che è chiaramente un’espressione tra il pensante e l’eccitato.
“Soldatino di piombo, non ti pare che sia il caso di farci capire qualcosa?”, interviene Haymitch che, esasperato, si versa quello che ho contato essere il suo decimo bicchiere di liquore bianco della serata.
“In questo palazzo vengono girate le interviste dei tributi, quindi ci sarà dell’attrezzatura di scorta da qualche parte, oltre a quella che viene utilizzata di solito, no? Bisogna soltanto trovarla”, spiega Gale in un misto di eccitazione per la sua trovata e fastidio per l’epiteto affibbiatogli da Haymitch.
“Manca il posto”, obietta Beetee prontamente.
“Forse ho io un’idea per il posto”, dico girandomi di nuovo verso Peeta. Lo vedo annuire, intuendo i miei pensieri.
“Il terrazzo del dodicesimo piano”, diciamo all’unisono. Sento le guance imporporarsi lievemente quando realizzo che io e Peeta abbiamo detto la stessa cosa contemporaneamente, ma cerco di non darci peso.
“Lontano ma non troppo dall’azione, difficile da raggiungere a meno di passare dall’attico che è occupato da Katniss e me con i nostri tributi. Non sarà difficile isolarlo da sguardi e orecchie indiscrete”, dice Peeta con un sorriso sulle labbra. Annuiamo tutti e, mentre il piano comincia a prendere forma, inizio già a sentirmi più utile nei confronti di quei poveri ragazzi.
“Questo implica che i vostri tributi verranno informati del nostro piano, o sbaglio?”, chiede una Johanna pensierosa. Non avevo pensato a questo aspetto della faccenda. E per un attimo avevo completamente dimenticato di essere la mentore di Evelyn Snow. Come farò a fare in modo che si fidi di me al punto da credere al fatto che io voglia salvare la vita, non solo a lei, ma a tutti i tributi capitolini? Non ci siamo ancora incontrate di persona e non so cosa aspettarmi da quella ragazza.
“Credo che sia difficile nascondere l’attrezzatura e i nostri movimenti se siamo costretti a passare dall’appartamento ogni volta. Quindi sì, Evelyn e Xander verranno informati”, conferma Peeta guardando Johanna. Xander? Quindi è così che si chiama il tributo che è stato affidato a Peeta. Durante la mietitura ero talmente confusa da non essere riuscita ad afferrare nessun nome a parte quello della nipote di Snow e ora mi ritrovo a domandarmi come si chiamino tutti gli altri tributi. Appunto mentalmente di prestare attenzione alla TV per capire i loro nomi, mentre gli altri continuano ad organizzare questo pass-pro d’emergenza.
“Abbiamo bisogno di dividerci in gruppi”, sentenzia Gale distraendomi dai miei pensieri.
“Giusto. Abbiamo bisogno di una squadra per la registrazione e di una per la missione di salvataggio”, conferma Beetee, già pensoso.
“Io vado all’arena”, dice Peeta alzandosi in piedi e dirigendosi alla finestra, dando le spalle alla stanza e a noi.
“Anche io”, dice Gale, seguendo Peeta a ruota, mentre punta gli occhi nei miei. Avrei dovuto aspettarmelo. Sposto lo sguardo da uno all’altro, in un misto di ansia e preoccupazione. Non vorrei che si mettessero in pericolo mentre io sono al sicuro sul tetto a parlare davanti ad una telecamera.
“No …”, mi lascio sfuggire in un sussurro.
“Non fare la scioccia, Katniss. Qualcuno deve pur andarci. Noi siamo giovani, in forma e per di più addestrati a combattere. Siamo i più adatti”, dice Peeta girandosi per guardarmi negli occhi. Ha ragione, lo so, ma non posso evitare di pensare che non possono morire altre persone per me mentre io sono al sicuro.
“Non vi starete dimenticando qualcuno?”, sbotta Johanna alzandosi in piedi. Tutti i presenti si girano a guardarla, mentre lei sembra sempre più infastidita dalla poca considerazione ricevuta fin’ora.
“Non ho voglia di starmene con le mani in mano mentre il fiammifero si destreggia in TV”, continua puntigliosa.
“Bene, per ora siamo in tre”, sentenzia Peeta per far calmare Johanna.
“Frena , frena, ragazzo. Dove credete di andare senza qualcuno che vi coordini? La Ghiandaia e il genio occhialuto se la caveranno bene da soli. Noi andiamo all’arena. E se non si fosse capito, vi coordinerò io”, chiude il discorso Haymitch seguito da un coro di assensi. Vorrei replicare, dire che non mi sta bene, che non voglio che altri si espongano per me, ma lo sguardo di rimprovero che ricevo contemporaneamente da Peeta e da Gale mi pietrifica, facendomi morire le parole in gola. Devo arrendermi all’evidenza della verità delle parole di Peeta: sono giovani, allenati e in più non c’è nessun altro di cui possiamo fidarci per questo incarico. Me ne rendo conto, ma accettarlo è tutta un’altra storia.
E’ Beetee a rispondere anche per me: “Perfetto, pare che siamo d’accordo”, dice, nonostante io non lo sia affatto. Mi mordo la lingua per evitare di dire qualcosa di cui potrei pentirmi.
“Gale, aspetto l’attrezzatura. E’ il tassello mancante e, una volta ottenuto, direi che la festa può cominciare”, conclude Beetee con un sorriso sulle labbra. Si vede che è contento di rendersi utile, di evitare un altro disastro e inutili spargimenti di sangue, e guardandomi intorno mi rendo conto che non è il solo. Stiamo davvero facendo qualcosa di buono e per i giusti motivi. Giustizia, lealtà, fratellanza: non ci ho mai creduto davvero, ma sto iniziando a riconsiderare tutta la faccenda del volersi bene e aiutarsi l’un l’altro.
Me ne sto zitta mentre li sento accordarsi per un altro incontro segreto, fissato per l’indomani dopo pranzo. A quanto ho capito Gale ha assicurato di poter racimolare l’attrezzatura per quell’ora.
Annuisco distratta mentre la consapevolezza dell’imminente incontro con Evelyn comincia a farsi strada dentro di me. Come dovrò comportarmi? Cosa le dirò? Mille domande mi affollano la mente, tanto che nemmeno mi accorgo di star seguendo gli altri in ascensore per tornare ai rispettivi alloggi. A stento rispondo al saluto di Gale che, in qualità di soldato, si dirige verso un’ala dell’edificio diametralmente opposta agli alloggi dei tributi.
Vengo risvegliata dal tocco delicato della mano di Peeta sulla mia spalla e mi rendo conto che, a parte noi due, l’ascensore è ormai vuoto: siamo al dodicesimo piano, non posso più rimandare quest’incontro.  D’un tratto mi ritrovo a sperare che la riunione abbia preso più tempo del dovuto e che Evelyn e Xander siano andati a dormire, ma quando entriamo nel salotto li troviamo lì, appollaiati sul divano mentre parlottano tra loro con fare complice. Sono così diversi eppure così complementari mentre se stanno seduti vicini. Lei con i capelli biondi, gli occhi azzurri e la figura esile e lui con le spalle larghe, i capelli e gli occhi scuri in netto contrasto col candore della sua pelle. Li osservo per un po’, senza sapere esattamente cosa fare o cosa dire mentre Peeta mi spinge dolcemente verso il divano invitandomi a sedermi e sedendosi anche lui a sua volta.
“Buonasera, ragazzi. So che questo è l’ultimo posto in cui vorreste stare, ma dovete. Perciò cerchiamo di renderla meno pesante. Io e Katniss vogliamo aiutarvi ma per farlo abbiamo bisogno della vostra collaborazione”, è Peeta a sciogliere il ghiaccio e smuovere un po’ la situazione. Lo ringrazio con gli occhi e lui solleva impercettibilmente verso l’alto un angolo della bocca in un piccolo sorriso, mentre con gli occhi mi sta dicendo ‘non hai niente da temere, sii te stessa’. Mi ritrovo ancora una volta a pensare che ormai questo è il nostro modo di comunicare: con gli occhi riusciamo a capire anche quello che nessuna frase sarebbe in grado di spiegare.
“A che serve? Nel migliore dei casi soltanto uno di noi due uscirà vivo da lì dentro”, obietta Xander che, per qualche strano motivo non guarda né me né Peeta, ma la parete dietro di noi. Tocca a me rispondergli, lo so, non può essere sempre Peeta a salvare la situazione.
“Diciamo che abbiamo in mente una versione aggiornata della manciata di bacche che ha salvato me e Peeta ai Settantaquattresimi Hunger Games. Vogliamo farvi uscire da lì. Tutti e 24.”, rispondo tutto d’un fiato guardando solo Xander. Ho paura della possibile reazione di Evelyn, del fatto che non si fidi. Neanche io mi fiderei se qualcuno che ha tentato di uccidere mio nonno dicesse di volermi salvare la vita.
Vedo un improvviso interesse nascere negli occhi di Xander mentre li fissa nei miei, mantenendo tuttavia il silenzio che è calato dopo la mia affermazione. Si vede che si aspetta che sia la sua compagna a parlare.
“Continua”, dice calma Evelyn. E’ la prima volta che sento la sua voce e un brivido mi percorre la schiena: parla con lo stesso tono calmo e di chi sa di poter ottenere quello che vuole che aveva suo nonno. Mi costringo a guardarla negli occhi ed è in questo momento che lo realizzo davvero: lei non è suo nonno. Nel suo sguardo non trovo la cattiveria che vedevo nello sguardo di Snow, trovo soltanto tristezza e rassegnazione, nascoste da un velo di sicurezza ostentata ma – lo realizzo soltanto ora - falsa. Penso al fatto di non averla vista piangere alla Mietitura, quando tutte le ragazze estratte lacrimavano e singhiozzavano. E capisco. Capisco che non ha pianto solo per non lasciarsi travolgere dalle emozioni, per avere una chance di guadagnarsi la pietà di qualcuno che potesse andare oltre al fatto che lei fosse la nipote di Snow e che meritasse una punizione in quanto tale e potesse aiutarla in qualche modo nell’arena facendole da sponsor. Capisco che questa ragazza vuole soltanto sopravvivere e scappare dall’ombra del ricordo del nonno che la perseguita. Lo vedo da come mi guarda, da come mi chiede scusa con gli occhi per qualcosa di cui non è la responsabile. E capisco che il tono con cui ha parlato poco fa non era per niente autoritario, ma era come il grido di aiuto di un naufrago che intravede una nave all’orizzonte: forte e deciso, perché non c’è nulla di male a chiedere aiuto una volta tanto, soprattutto se è l’unica cosa rimasta da fare. E’ una lezione che nonostante tutti gli sforzi di Peeta, non mi sono ancora decisa ad imparare e questa ragazza se ne sta lì a fissarmi con quegli occhi che implorano aiuto, come non ho saputo chiederlo io quando ne avevo bisogno, troppo abituata a risolvere da sola i miei problemi e quelli dei miei cari.
Mi perdo nei miei pensieri mentre Peeta, notando la mia espressione assorta e capendo che sarei rimasta zitta per un po’, spiega ai due ragazzi il nostro il piano. Stupore, gioia, speranza e affetto passano sui loro volti e ancora una volta me ne convinco: stiamo facendo qualcosa di buono. Inevitabilmente, mi sento già legata a questi due ragazzi che hanno chiesto il mio aiuto e quello di Peeta, nonostante avessero dei validi motivi per odiarci. In fondo, per quello che ne sanno loro, anche noi eravamo favorevoli a questi Giochi della Pace. Anzi, di sicuro io lo ero.
Continuo ad osservare per un po’ le loro reazioni alle parole di Peeta finché non decido di inserirmi nella conversazione. Più parlo e più sento una strana sensazione di benessere dentro di me che sospetto sia causata proprio dai ragazzi che mi stanno seduti di fronte. Mi sento come se avessi un nuovo scopo nella vita, come se la morte di Prim, di Finnick e di tutti gli altri possa essere riscattata in qualche modo con un atto di altruismo verso Evelyn, Xander e tutti i tributi capitolini.
 
Alla fine della serata è un grande sbadiglio contagioso partito da me a convincerci che sia ora di andare a dormire. Io e Peeta congediamo i ragazzi con la promessa da parte nostra di aggiornarli sull’operazione pass-pro, come l’ha definita Peeta, non appena avessimo saputo altre informazioni e da parte loro di tenere la bocca chiusa con gli altri tributi per evitare di mandare tutto all’aria.
Dopo aver salutato Peeta, mi dirigo a passo svelto verso la mia camera con l’intenzione di indossare il pigiama e di darmi una rinfrescata prima di sgattaiolare nella sua: il ragazzo del pane è l’unico rimedio che ho contro gli incubi che tormentano le mie notti e se il prezzo da pagare per una notte tranquilla è sentirmi in imbarazzo finché non mi addormento, sarò ben felice di pagarlo.
Ho indossato il pigiama e sono davanti allo specchio del bagno con la bocca piena di pasta dentifricia, quando mi pare di sentire un lievissimo bussare alla porta della stanza. Convinta che dall’altro lato della porta ci sia Peeta, lo invito ad entrare mentre mi sciacquo la bocca di fretta, ma quando esco dal bagno scopro che ad aspettarmi non c’è un biondo dagli occhi azzurri bensì una bionda dagli occhi azzurri. Per un attimo ho l’impressione di avere una visione di Prim con qualche anno in più, ma poi realizzo che la ragazza che mi sta di fronte è Evelyn, non la mia paperella. Cerco di scacciare dalla mente il pensiero che non vedrò mai Prim a 15 anni. Che non vedrò mai più Prim. Punto.
La guardo interrogativa mentre Evelyn si torce le mani, evidentemente a disagio.
“E’ che non so scegliere quale dirti per prima tra le due parole che ho in mente”, dice alla fine guardandosi i piedi.
“Prova a dirle in ordine alfabetico se per te hanno la stessa importanza. Io capirò.”, le dico lasciandomi sfuggire involontariamente un sorriso. Questa ragazza mi piace, oltre ogni previsione. Ed è una cosa che mi spaventa non poco: ho già perso troppe persone a cui volevo bene, non posso permettermi di affezionarmi ancora a qualcuno e di perderlo inevitabilmente. Perché per quanto stiamo pianificando di sabotare questi Hunger Games, nel profondo provo sempre quella paralizzante sensazione che porta l’etichetta ‘paura di non farcela’.
La guardo, aspettando che dica anche una soltanto delle parole che sta pensando.
“Grazie. E scusa”, è tutto quello che dice guardandomi negli occhi dopo un tempo interminabile. Sono un po’ stupita  ma, non so come, trovo le parole per darle una risposta: “Non devi scusarti né ringraziarmi. So che tutto quello che mi è successo non è colpa tua ma, soprattutto, conosco una persona che merita dei ringraziamenti molto più di me. Ed è nella stanza affianco. Si è offerto volontario per venire a recuperarvi dall’arena mentre io registrerò il pass-pro. Non l’ha detto prima perché è troppo modesto, ma tra i due è lui quello che rischia grosso”, le rispondo con calma e stranamente continuo a sorriderle. Sento di doverla incoraggiare in qualche modo e credo di riuscirci perché finalmente smette di tormentarsi le mani e mi rivolge un sorriso luminoso. D’impulso la abbraccio e la sento fare lo stesso. Per una volta riesco quasi a dimenticare tutto quello che ho passato per via di suo nonno. Questa sensazione è molto più di quello che mi aspettavo da lei: è quello di cui avevo bisogno. Volevo solo dimenticare per un po’ chi fosse Katniss Everdeen e perché ce l’avesse tanto col Presidente Snow.
Grazie Evelyn”, penso senza avere il coraggio di dirle queste due parole.
“Credi che dovrei ringraziarlo?”, mi chiede mentre ancora la sto stringendo. Sciolgo l’abraccio per guardarla negli occhi.
“Soltanto se vuoi”, le dico con un sorriso, contenta che abbia accettato il mio consiglio.
“Voglio”, mi dice semplicemente prima di avviarsi verso la porta trascinandomi con lei, sorprendendomi per l’ennesima volta da quando l’ho incontrata, poco più di due ore fa.
Così ci ritroviamo davanti alla porta della camera di Peeta e aspettiamo che venga ad aprirla dopo aver bussato. Il ragazzo del pane finisce col fare la mia stessa figura: urla dal bagno che posso entrare, convinto che io sia sola e quando mi vede arrivare con Evelyn, vedo comparire sul suo viso uno di quei sorrisi che era solito fare prima del depistaggio, uno di quelli che ti scaldano il cuore solo a guardarli. Resto imbambolata a fissarlo mentre sorride  senza accorgermi del fatto che Evelyn ci scruta pensierosa.
“Volevo ringraziarti”, dice lei interrompendo il contatto visivo tra me e Peeta, che volge il suo sguardo su di lei. Le sorride.
“Sono io che ringrazio te e Xander e tutti gli altri”, dice lui. Tipico di Peeta.
“Mi date un’occasione di essere migliore, di ricordarmi com’era essere me prima della guerra e dei Giochi. Di ricordarmi cosa vuol dire amare e fare il possibile per gli altri”, continua mentre io ed Evelyn pendiamo dalle sue labbra. Questo è un altro degli aspetti di Peeta che nessun veleno avrebbe mai potuto cancellare. Sarà sempre capace di smuovere le folle con il solo potere di una semplice frase.
Ho l’impressione che i suoi occhi guizzino un attimo verso i miei sulla parola ‘amare’, ma non ne sono sicura perché la stanza è illuminata solo dalla luce sul comodino che sta vicino al letto.
Scorgo le guance di Evelyn arrossarsi per un attimo, giusto prima che lei cominci a indietreggiare e, sorridendo, ci dia la buonanotte scomparendo dalla porta aperta. Restiamo soltanto io e Peeta a guardarci negli occhi.
“Grazie anche a te”, dice dopo un periodo imprecisato di tempo in cui mi sono persa ad osservare la piega del suo sorriso e il blu dei suoi occhi.
“Per cosa?”, chiedo ingenuamente.
“Per essere rimasta”, dice semplicemente, sorridendomi.
“E resterò sempre”, penso ma non lo dico. Invece faccio la prima cosa che mi passa per la testa, mi avvicino a lui e di slancio gli stringo le braccia al collo, proprio come ho fatto qualche attimo fa con Evelyn. Ma l’abbraccio di Peeta è diverso  da ogni altro abbraccio che io abbia mai ricevuto. Lui mi stringe forte e inspira l’aria tra i miei capelli, sa di pane e cannella e le sue braccia sono calde e confortanti. Se la tenerezza potesse avere un odore, sarebbe quello di Peeta ed io non mi stancherei mai di averlo intorno.
Si allontana quel tanto che basta per guardarmi in viso poi, improvvisamente, vedo il suo viso avvicinarsi al mio. Non ho il tempo di elaborare nessun pensiero razionale, che mi lascia un piccolo bacio sulla punta del naso e mi sorride poggiando la sua fronte sulla mia, mentre il mio cuore smette di battere per un paio di secondi. Era da tanto che i nostri visi non erano così vicini e ho davvero creduto che volesse baciarmi, poi mi sono ricordata che Peeta ormai non prova più niente per me. A questo pensiero, un moto di tristezza mi assale ma non faccio in tempo a buttarmi giù perché il ragazzo del pane, notato il mio cambio d’umore, cerca di distrarmi , riuscendoci alla grande.
“Non hai sonno, dolcezza? Domani ci aspetta una grande, grande giornata!”, dice passando dall’imitazione di Haymitch a quella di Effie provocandomi una piccola risata che soffoco per paura di svegliare i ragazzi che ormai staranno dormendo beati, tranquillizzati dalle parole mie e di Peeta.
“Certo, ragazzo”, rispondo nella migliore imitazione del nostro mentore che mi riesce. Peeta ride, si stacca da me e fa un mezzo inchino indicando il letto: “Prima le signore”, mi dice con tutta la naturalezza del mondo. Ormai dormire insieme è diventata un’abitudine per entrambi. Un rito per sopravvivere agli incubi e ai ricordi dolorosi.
Ci sistemiamo sotto le coperte ed inevitabilmente mi ritrovo accoccolata al suo petto, il posto più sicuro che conosco, mentre lui mi accarezza i capelli sciogliendomi la treccia.
L’ultimo pensiero che faccio prima di addormentarmi è quello che ormai è diventato il mio mantra di questa giornata: stiamo facendo qualcosa di buono. E sorrido mentre, addormentandomi, mi pare di sentire la mano di Peeta accarezzarmi una guancia e le sue labbra lasciarmi un bacio sulla testa. Ma forse ho già iniziato a sognare. Il mio ragazzo del pane.




Angolo dell'autrice
Rieccomi qui!
Sì, lo so, sono passati 4 o 5 secoli dall'ultimo aggiornamento ma abbiate pietà di me: l'università mi uccide e, cosa peggiore, mi mancava completamente l'ispirazione. Chi mi segue e legge le note che lascio sotto ai capitoli sa che questo è un periodo un po' strano per me, in cui non mi sento proprio al massimo.

Ma basta deprimersi!

Questa volta nella sezione ringraziamenti c'è una menzione speciale: a Nina, che con il suo messaggio di incoraggiamento mi ha fatto venire voglia di tornare a scrivere e mi ha fatto sentire apprezzata anche da chi non mi conosce e mi vuole bene. Non smetterò mai di ringraziarti abbastanza!
Ringrazio come sempre la mia Cccch che anche stavolta è stata la giudice di questo capitolo e mi ha dato l'ok. "Lo adoro" è quello che mi ha detto quando gliel'ho mandato e io qui le rispondo: sono io che adoro te! Grazie per quello che fai per me ogni giorno. <3
(Ecco, siccome la mia Cccch è tipo la persona migliore che conosco, nonchè la scrittrice migliore che abbia mai incontrato e che sono fiera di poter chiamare amica, vi lascio il link alla sua ff che è il meglio del meglio che troverete mai su EFP: 
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2579671&i=1)
Ringrazio anche tutti quelli che hanno aggiunto la storia alla preferite/seguite/ricordate ma soprattutto quelli che recensiscono. Grazie! Non sapete quanto ogni singola recensione abbia il potere di cambiare in meglio le mie giornate. In merito a questo, vi supplico, vi imploro di recensire in tanti! Più recensioni ricevo, più mi sento apprezzata e più mi viene voglia di scrivere. E in questo momento così particolare della mia vita, scrivere può fare la differenza. Anzi, senza può: fa la differenza. Confido di riuscire ad uscire da questo momento 'no' proprio grazie alla scrittura perciò...ho bisogno di voi, di sapere cosa pensate della mia storia e del mio modo di scrivere, dei vostri pareri!

Grazie davvero

E ricordate: #moreshirtlessPeetaforeveryone!

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Di addii silenziosi e consapevolezze ***


Mentre cadevo mi hai preso la mano

A Hunger Games Fanfiction




8. Di addii silenziosi e consapevolezze

Apro gli occhi improvvisamente: mi ero assopita. Il vento smuove le foglie degli alberi che mi circondano e le ghiandaie intonano un motivetto di quattro note. Tendo le orecchie, il suono mi sembra familiare.
Dovrei ricominciare la mia caccia, lo so, ma nonostante questo inizio a fischiettare anche io insieme agli uccelli, finché non li sento zittirsi per ascoltare la melodia che gli sto proponendo. Mi aspetto che ricomincino a cantare una volta finita la strofa, ma non lo fanno. Una sensazione di panico mi assale: perché non cantano più?
Nel silenzio, ho modo di realizzare che quelle note non sono casuali, che le ho già ascoltate altrove. Rue. Mi aspetto di vederla spuntare da un momento all’altro, ma anche stavolta vengo spiacevolmente sorpresa. Sono sola.
Mi alzo in piedi, decisa a non lasciarmi turbare dal silenzio opprimente che è calato nel bosco. Sto per recuperare l’arco e la faretra, quando lo sento. Un fruscio, talmente debole da sfuggire a qualsiasi orecchio non allenato, ma non al mio. Non a me. Mi volto verso la direzione da cui proviene il suono ma non riesco a vedere da cosa è provocato finché, con mio grande sollievo, la figura imponente di Gale non spunta tra il fogliame.
“Mi hai fatto prendere un colpo”, gli dico, improvvisamente rincuorata dalla sua presenza mentre sembra tutto così anormale. Non risponde. Si limita soltanto a fissarmi con uno sguardo addolorato.
“Gale?”, lo chiamo. Un tremore nella voce che non riesco a controllare. Mi fissa.
“Lei non tornerà”, è tutto quello che dice mentre vedo i suoi occhi grigi inumidirsi. Gale non piange. Mai.
“Chi non tornerà?”, gli chiedo. Che stia parlando di Rue? Non capisco: soltanto lei può aver insegnato quelle quattro note alle ghiandaie, come potrebbe non tornare? Lei è già qui. Devo soltanto trovarla.
“Prim”, risponde atono fissando un punto imprecisato alle mie spalle. Una lacrima gli scivola sulla guancia.
Sono tentata di avvicinarmi e asciugarla, ma qualcosa mi tiene ancorata al terreno.
“Prim è a casa. Da dove dovrebbe tornare?”, gli rispondo convinta. Non faccio in tempo a sentire la sua risposta, che una chioma bionda entra nel mio campo visivo. Sta correndo veloce, come se non vedesse l’ora di trovare una via d’uscita da questo bosco.
“Prim!”, la chiamo mettendomi alle sue calcagna. Perché è venuta nel bosco? Sa che è pericoloso.
Non risponde, ma finalmente si gira e si ferma. Non è Prim.
“Aiutami”, mi implora Evelyn. Una mano tesa verso di me e un’espressione terrorizzata sul viso.
Poi si fa tutto nero.
Ho freddo.
 
Spalanco gli occhi di colpo. Ho freddo. La testa si muove automaticamente in cerca del mio calmante personale, ma il mio sguardo trova solo il letto vuoto al mio fianco e le coperte gettate a terra. Le raccolgo e me le rimetto addosso, mentre un brivido mi scuote la schiena.
Ho freddo. Non riesco a formulare un pensiero coerente.
Sono sola. Come nel sogno.
Lei non tornerà. Come Peeta.
Mi tiro su di scatto quando le immagini del sogno che ho appena fatto mi invadono il cervello. Il canto delle ghiandaie. Le lacrime di Gale. La chioma bionda. Evelyn. La sua richiesta di aiuto. Quella che la mia paperella non ha mai avuto il tempo di pronunciare.
Mi premo le mani sulle tempie, nel disperato tentativo di spegnere le voci che sembrano avere intenzione di farmi esplodere il cervello. Ieri sera sembrava che le cose si stessero mettendo per il verso giusto. Ho avuto l’impressione di scorgere il filo di una speranza che avevo creduto perduta il giorno in cui tutto questo è iniziato, due anni fa, quando la strisciolina con il nome di mia sorella ha incontrato le dita di Effie Trinket nella boccia della Mietitura. E invece eccomi qui, rannicchiata sul letto mentre mi tengo la testa tra le mani in un disperato tentativo di fuggire da me stessa e dal senso di colpa che mi divora dall’interno.
Sono Katniss Everdeen. Ho vinto gli Hunger Games. Sono la Ghiandaia Imitatrice. Ero la Ghiandaia Imitratice. Lei non tornerà. Gale non si darà mai pace. Neanche Peeta tornerà mai quello di prima.
Ripeto questa nenia prima a mente e poi sussurrandola, finché non riesco a spegnere le voci nella mia testa e posso finalmente staccare le mani dalle orecchie. Ma altre voci le raggiungono. Maschili. Ovattate. Che provengono dalla stanza affianco. Mi tiro su nuovamente, incuriosita. Sbircio l’orologio, scopro che sono le 7 del mattino e mi ritrovo a vagliare tra le varie opzioni per capire a chi appartengano quelle voci. Peeta è sicuramente sveglio dato che non è a letto e riesco a percepire chiaramente la sua voce. Ma con chi parla? Non riesco a distinguere la voce del suo interlocutore perché dà risposte troppo secche e brevi per capire di chi si tratti. Xander? Dubito che sia già sveglio per cui no. Haymitch? Sarebbe impossibile intrattenere una conversazione tanto fitta col nostro mentore a quest’ora del mattino e sperare addirittura in una sua risposta. Pensandoci, sarebbe impossibile intrattenere una conversazione tanto fitta col nostro mentore, punto. Chi resta? Gale.
Vengo catapultata indietro di mesi, quando nella cantina di Tigris ho ascoltato uno stralcio di conversazione tra Gale e Peeta. Tra noi due, Katniss sceglierà quello che ritiene indispensabile alla sua sopravvivenza”, furono le parole di Gale riguardo alla mia scelta, per nulla contestate da Peeta. Al pensiero sento ancora la rabbia montarmi dentro: credevano che sarei stata calcolatrice anche in questo, anche nella scelta della persona con cui passare la vita, la persona che avrei amato. Non capivano che per me era – ed è tuttora – meglio restare da sola, senza causare altri danni e altre sofferenze.
Mi alzo velocemente e, ancora in pigiama, mi affaccio dalla porta della camera di Peeta per captare meglio la conversazione che sta avvenendo in salotto.
“Quindi dormite insieme?”, la voce di Gale sembra piatta, come se non stia provando nessuna emozione.
“Quasi mai in realtà. Anzi, prima di questo viaggio non ci siamo visti né parlati per almeno un mese. Precisamente da quando sei venuto al 12. Ma stare qui è difficile per entrambi. E’ una specie di tacito accordo quello di tenersi compagnia per evitare gli incubi”, spiega Peeta. Mi mordo il labbro inferiore, sentendomi delusa per non so nemmeno quale motivo. Il mio ragazzo del pane non vede altro che un mutuo scambio di favori nel dormire abbracciati, aggrappati l’uno all’altro per non scivolare nel buio dei ricordi e degli incubi.
“Un mese? Io avevo capito che voi …”, Gale non finisce la frase ma posso immaginare il resto e di certo anche Peeta potrà. Solo che non avevo mai pensato a questa eventualità. Sono una creatura solitaria e mai inizierò a dipendere da qualcun altro per sopravvivere. O almeno questo è ciò di cui mi voglio convincere.
“No”, taglia corto Peeta. Cala il silenzio, intervallato solo dai rintocchi dell’orologio appeso alla parete. Tic tac. Tic tac. Tic tac. Provo l’impulso di strapparlo dalla parete e romperlo in mille pezzi per farlo stare zitto, ma mi trattengo per l’enorme curiosità di sapere cos’altro si diranno.
“Lei non ti ha mai dimenticato, solo che non se ne rende conto. Sta ancora cercando di affrontare la sua morte e pensare a te la porta automaticamente a pensare a lei. Dalle tempo”. Cosa diavolo blateri, Mellark? Cerco di non pensare al fatto che Peeta abbia capito il mio stato d’animo attuale, che sia stato l’unico a capirlo e mi concentro sul resto della frase. “Dalle tempo”. No, non ho bisogno di tempo, ho fatto la mia scelta. Sono sola e ci resterò.
“Non credo. Ha già scelto molto tempo fa, senza rendersene conto. Lo so”, sospira Gale e, dal tono di voce, so che ha indossato la sua espressione distrutta e consapevole: lo sguardo di chi si è arreso all’evidenza. Continuo a chiedermi come tutto questo possa essere evidente per loro, quando nemmeno io riesco a capire cosa provo.
“Non ci scommetterei. Lei ti ama. Ti ha sempre amato”, ribatte Peeta atono ed io non posso fare a meno di pensare che, a sentire il suo tono, non gli interessi poi più di tanto di lasciarmi andare e cedermi a Gale. Poi mi riscuoto, perché io non posso essere ceduta. Non appartengo a nessuno, nemmeno a me stessa, ormai. Non ho bisogno di un uomo al mio fianco per vivere. L’unica persona di cui avevo davvero bisogno e che ero sicura di amare, è morta. Nulla conta più.
Stizzita, decido che non voglio ascoltare oltre, così sgattaiolo verso la porta d’ingresso senza farmi vedere dai ragazzi seduti sul divano. Una volta fuori, mi concedo di tornare a respirare ma una mano si poggia improvvisamente sulla mia spalla, facendomi mancare un paio di battiti per lo spavento.
“Ehi, fiammetta! Come mai già in piedi?”, bisbiglia Johanna avvicinando la bocca al mio orecchio.
“Potrei farti la stessa domanda”, le rispondo a tono, allontanandomi di scatto da lei.
“Facevo un giro. Non avevo tanta voglia di dormire”, risponde con un’alzata di spalle e una strana luce negli occhi. Quindi anche lei non riesce a dormire, anche lei viene ancora tormentata dagli incubi.
Così come le avevo alzate, inconsciamente abbatto le barriere che mi hanno sempre frenata dal parlare di me stessa con gli altri.
“Anche io”, ammetto guardandola negli occhi. Annuisce. Sa. Ha capito. Improvvisamente mi sento come quando eravamo al 13, praticamente prigioniere, ed io le raccontavo di me e di quello che pensavo. Non succedeva spesso, ma era confortante sapere di avere qualcuno pronto ad ascoltare ed a capire il mio tormento.
Mi chiede di fare un giro con  lei ed io accetto, intenzionata più che mai a scappare il più lontano possibile da Gale, da Peeta e da quello che provo nei loro confronti. Ma cosa provo esattamente nei loro confronti?
 
“Beh, problemi in paradiso? Dove hai lasciato il fornaio?”, mi chiede improvvisamente Johanna mentre, mezz’ora dopo il nostro incontro, siamo sedute per terra in un corridoio solitario del centro di addestramento.
“E’ su, con Gale. Parlano di me”, dico di getto, pentendomene subito dopo: Johanna non si lascerà scappare questa occasione per prendermi in giro, gliel’ho servita su un piatto d’argento.
“Quindi non si sono ancora arresi, eh?”, mi dice seria, sorprendendomi. Annuisco, mentre un sorriso triste mi si dipinge sul volto.
“Non capiscono che per me è meglio restare da sola. Troppe persone hanno già sofferto a causa mia”, le confido in un impeto che riconosco appartenere alla nuova Katniss, quella spezzata dalla guerra e dalla morte della sua sorellina.
“Secondo me l’unica che non capisce, qui, sei tu”, mi dice Johanna con un mezzo sorriso.
“Che vuoi dire?”, le chiedo confusa.
“Che io ucciderei per un amore così”, risponde fissando un punto imprecisato di fronte a lei.
“Per un amore così come? – chiedo sempre più confusa – Come quello di Peeta?”, mi lascio sfuggire mordendomi subito dopo la lingua per la frase che mi è appena scappata.
“Per un amore come il tuo”, dice lei assumendo un’aria ancora più seria.
“Come il mio?”, davvero non riesco a seguirla.
“Lo ami, non sai nemmeno tu in che modo. Ma è un amore così puro e disinteressato che nessuno potrebbe mai faticare a notarlo e nessuno potrebbe mai dubitarne. Beh, nessuno a parte te”, dice posando lo sguardo su di me.
“Amo chi? No, Johanna, davvero non so cosa tu abbia potuto pensare … ma io non amo proprio nessuno”, dichiaro convinta. L’unica persona che ero sicura di amare ormai non c’è più.
“L’ho sempre detto, io, che sei un fiammifero abbastanza stupido”, mi rimbecca tornando ad assumere il suo solito tono di scherno.
“Si vede lontano un chilometro che quando sei con Peeta sei più serena e che la tua tranquillità dipende da lui. Certo, non nego che anche Hawthorne ti faccia un certo effetto, ma col fornaio è tutta un’altra storia. Te lo ripeto, ucciderei per un amore così”. So che è seria anche se me lo sta dicendo con uno strano sorrisetto sulle labbra. Ma cosa pretendo? Stiamo parlando di Johanna Mason, è già molto che si sia scucita in questo modo.
Il punto è: ha ragione? Davvero la mia tranquillità, la mia felicità, dipendono da Peeta e da tutto ciò che fa per me o con me? E Gale? Cosa provo per lui? Mi fa lo stesso effetto? So soltanto che da quando quelle bombe sono esplose, niente è stato più come prima tra noi. Ma anche prima, cosa c’era davvero? Troppe, troppe domande. E nessuna risposta. Mi sento come se fossi tornata indietro nel tempo, quando Haymitch mi ha fatto un discorso che assomiglia molto a quello che mi sta facendo ora Johanna, solo che allora si parlava dell’amore che Peeta prova per me, non del contrario.
Guardo Johanna imbambolata mentre, per la seconda volta oggi, una mano mi tocca la spalla facendomi sobbalzare.
“Mio Dio, ragazza, che avevi in mente? Scomparire così senza avvertire. Il ragazzo è impazzito, per non parlare del soldato che ha mobilitato mezzo esercito per trovarti!”. Haymitch. Devo essere stata talmente presa dai miei pensieri da non essermi accorta dei suoi passi nel corridoio. Ma quanto tempo abbiamo passato insieme, io e Johanna? Mi sorprendo di essere riuscita ad intrattenere una conversazione tanto lunga con lei, per di più senza troppe prese in giro da parte sua.
“Stamattina ero di troppo”, è tutto quello che gli rispondo mentre sto già balzando in piedi. Improvvisamente, tutta la voglia che avevo di fare conversazione è scomparsa: il pensiero del pass-pro e degli Hunger Games si è fatto largo prepotentemente nella mia testa. Peeta e Gale dovranno aspettare. Ho una strage da evitare, non ho tempo per preoccuparmi di cose così sciocche come le questioni di cuore. Ma è davvero di questo che si tratta? Futili … questioni di cuore?
Continuo a rimuginarci su distrattamente mentre seguo Haymitch fino a al dodicesimo piano, fino a quando non vengo riportata alla realtà dalla voce di Gale che mi chiama dal fondo del corridoio.
“Dove sei stata?”, mi chiede con un tono visibilmente preoccupato.
“Ho fatto un giro con Johanna, non avevo intenzione di sparire. Ma che ore sono?”
“Le 11. Sono tre ore che ti cerchiamo in lungo e in largo!”, dice esasperato.  Tre ore? Così tanto? Evelyn! Le avevo promesso che oggi saremmo state insieme e che l’avrei allenata un po’, per precauzione. Devo trovarla. Non do una risposta a Gale, anzi lo scavalco per raggiungere la porta. Entro nell’appartamento del dodicesimo piano intenzionata a cercare Evelyn, ma la trovo seduta sul divano in compagnia di Xander e di un Peeta sconvolto che si tiene la testa tra le mani come se gli facesse male. Mi avvicino, cercando di fare più rumore possibile per avvertirli della mia presenza, ma quando Peeta solleva lo sguardo verso di me non incontro l’azzurro dei suoi occhi, soltanto due pozzi neri che mi scrutano.
“Sapevo che non se n’era andata! Visto Peeta?”, esclama Evelyn felice, alzandosi per venirmi incontro. Povera ragazza, non sa niente del depistaggio di Peeta e dei suoi episodi. Non so cosa fare per evitare una reazione improvvisa – o peggio violenta – da parte di Peeta e soprattutto non voglio che i ragazzi lo vedano in questo stato. Peeta merita soltanto di essere conosciuto e amato per quello che è: il ragazzo dolce che mi ha salvato in tutti i modi in cui una persona può essere salvata.
Sto considerando la possibilità di avvicinarmi, prendergli il viso tra le mani e implorarlo di restare con me, quando vedo i suoi occhi tornare cristallini. Cosa gli ha fatto ritrovare la ragione? Non ne ho idea. So solo che, improvvisamente, lo vedo alzarsi di scatto, superare Evelyn che intanto mi aveva quasi raggiunta e stringermi in un abbraccio.
“Ho temuto di averti persa, come quando io ero qui a Capitol City e tu al 13. Non farlo mai più, ti prego”, mi sussurra all’orecchio per evitare di farsi sentire dagli altri. Per tutta risposta, lo stringo a mia volta in un tenero abbraccio che, per me, esprime più di mille parole. Evidentemente anche per lui, perché dopo un po’ mi sussurra un “grazie” tra i capelli, prima di stringermi più forte per un attimo e poi lasciarmi andare.
“Non ci avevo mai creduto all’idillio, ma ora comincio ad avere qualche dubbio”, dice Xander mentre ci guarda ridacchiando, accompagnato da Evelyn che sorride alla sua asserzione. Arrossisco vistosamente: Xander è l’ennesima persona che insinua che tra me e Peeta ci sia del tenero.
Ovviamente è il ragazzo del pane a salvarmi in contropiede: “Io invece nutro dei dubbi sul vostro allenamento, visto che dovete ancora iniziarlo. Forza, al lavoro!”, li esorta spingendoli verso la porta e facendomi l’occhiolino prima di scomparire dalla mia vista. Sento in lontananza la voce di Evelyn protestare perché si aspettava che l’avrei allenata io e, successivamente, quella di Peeta che le promette che nel pomeriggio mi avrebbe avuta tutta per lei. Mi viene da sorridere spontaneamente, non so se per Peeta, per Evelyn, o per tutta la situazione che si è creata. Diavolo, ci mancava solo Xander come membro del club delle frecciatine di cui Haymitch e Johanna sono i fieri fondatori.
Rimasta sola decido di andare a cercare Gale: l’ho ignorato prima e adesso comincio a sentirmi in colpa. Lo trovo al terzo piano, in compagnia di Beetee, mentre confabulano sulla scelta del momento più opportuno per portare l’attrezzatura sul terrazzo del dodicesimo piano.
“Quindi sei riuscito a trovarla”, dico rivolta a Gale, per sciogliere il ghiaccio.
“Così pare”, mi risponde con un’espressione che – per la prima volta da quando ci conosciamo – non riesco a decifrare.
“Bene ragazzo, allora siamo d’accordo per questo pomeriggio. Ci vediamo dopo”, dice Beetee mentre esce dalla stanza salutandoci con la mano. Cerco di sorridere, anche se nervosamente, agitando anche io la mano per salutarlo.
“Hai parlato con Mellark?”, mi chiede Gale quando è sicuro che Beetee sia abbastanza lontano da non sentire nulla.
“Io  … sì, l’ho incontrato”, non capisco dove voglia andare a parare. Adesso mi guarda fisso, senza proferire parola.
“Vorrei che non fosse cambiato niente tra noi”, dice improvvisamente, cambiando argomento. O almeno così penso. “Ma la verità è che niente è più come prima, vero Katniss?”, mi chiede con uno sguardo a metà tra la tristezza e la rassegnazione. Non so cosa dirgli, è chiaro per me che questa è una domanda retorica. Come potrebbe essere tutto ancora come prima della Mietitura dei Settantaquattresimi Giochi? Come, dopo l’esplosione di quelle dannate bombe?
“Gale …”, è tutto quello che esce dalla mia bocca in un sussurro.
“Sai, mi va bene. Meriti di essere felice, qualsiasi sia la tua scelta. Lei vorrebbe vederti felice, lo sai”.
“Lo so”, dico mentre mi appare nitido davanti agli occhi il viso della mia paperella che mi chiede di essere felice per lei, ma soprattutto per me. Mi sento come se stessi rimuovendo un macigno che mi si era piazzato sul petto. Finalmente mi investono a pieno una consapevolezza e un sentimento nuovo che capisco essere il perdono, quello vero: non è colpa di Gale se la mia paperella se n’è andata per sempre. A volte ci sono delle forze, degli avvenimenti, che non possiamo controllare, che ci investono, potenti e catastrofici e sconvolgono la nostra vita. Sono le perdite, la morte … ma anche l’amore. Non sono soltanto le cose brutte a sconvolgerci la vita. Lo capisco soltanto ora ed il cuore sembra sussultarmi nel petto, colto dall’improvvisa smania di farmi capire qualche altra cosa. E’ così che all’immagine nella mia mente degli occhi azzurri di Prim, si sovrappone quella di altri occhi, altrettanto blu, altrettanto dolci. Peeta. E un nuovo sentimento mi invade, un eco lontano che mi dice quello che sembrano aver capito tutti tranne me: ho già scelto, molto tempo fa. Non per comodità, non per egoismo, non per un tornaconto personale. Ma per amore. Ho già scelto. Il pane lanciato sotto la pioggia. I baci scambiati nell’arena. La perla. Le notti passate a stringerci l’un l’altro. Il dente di leone. Ora tutto ha un senso. E improvvisamente questa conversazione col mio migliore amico di sempre, sa di addio. Non perché non ci vedremo più, ma perché ho finalmente tracciato i confini tra ciò che provo per lui e ciò che provo per Peeta. Gale è stato la mia roccia, il mio porto sicuro in un periodo della mia vita in cui tutte le certezze che avevo si erano sgretolate. Ma ora è il momento di lasciarlo andare. Il fuoco non ha bisogno di altro fuoco per bruciare. Ha bisogno di essere spinto dal vento e spento dall’acqua. Io e Gale siamo due fuochi, troppo simili per vivere a stretto contatto, destinati a volerci bene da lontano, come fratello e sorella.
Mentre penso a tutte queste cose, Gale mi guarda con un cipiglio diverso nel viso: so che tutte le consapevolezze che hanno appena colpito me, stanno colpendo anche lui. Ci stiamo dicendo addio a vicenda.
“So che lo sai”, mi dice, riferendosi alla mia asserzione di prima ma anche – ne sono sicura – a tutti i pensieri che mi hanno appena attraversato la testa. Restiamo così, a fissarci, finché spontaneamente non ci stringiamo a vicenda in un abbraccio. L’ultimo vero, sentito da entrambi per quello che è: uno scambio di amore fraterno.
“Devo andare”, sussurro dopo un po’ contro la sua spalla. “Ho promesso ad Evelyn che l’avrei allenata nel pomeriggio”.
Mi lascia andare e sul suo viso non trovo l’espressione triste che mi aspettavo: trovo sollievo, speranza in un futuro migliore. Non insieme, certo, tuttavia buono lo stesso. Posso quasi intravedere l’ombra del peso che anche lui portava sulle spalle andare via e improvvisamente mi sembra di ritornare a quando avevamo 12 anni, quando non c’era nient’altro che amicizia a legarci. Mi eri mancato, Gale.
“Ciao, Catnip”, mi saluta così, con quel nomignolo che ho odiato al principio, ma che adesso mi ricorda l’essenza della nostra amicizia.
“Ciao, Gale”. Per quello che vale, è stato bello.
 
 
Ho passato il pomeriggio con Evelyn, distratta da tutte le consapevolezze che mi hanno investita questa mattina. Le ho insegnato a tirare con l’arco, a preparare delle trappole con cui procurarsi del cibo e a distinguere la maggior parte delle erbe commestibili. Con mia grande sorpresa non se l’è cavata male e, anzi, ogni tanto era lei a richiamare me perché mi distraevo fissando un punto imprecisato davanti a me. Dopo l’allenamento ci siamo dirette al terrazzo, volevo farle vedere lo spettacolo di luci e colori che investe il giardino all’ora del tramonto. Ricordo quando pensavo di avere pochi tramonti davanti a me e della giornata passata qui con Peeta prima dell’Edizione della memoria, voglio che anche lei possa apprezzare la bellezza di questo posto.
Siamo sedute nel prato a bearci del calore degli ultimi raggi del Sole, quando Evelyn mi chiede: “Sei arrabbiata per quello che ha detto Xander questa mattina? Per questo sei stata distratta tutto il pomeriggio?”.
Vengo presa dalla voglia di raccontarle i pensieri che mi hanno perseguitata per tutta la giornata ma, non sapendo come esprimerli al meglio, scelgo di evitare di parlarne. Ho bisogno di tempo per elaborarli, tutto qui.
“No, non ti preoccupare”, mi limito a dire sorridendole per farle capire che non sono arrabbiata.
“Ma qualcosa ti preoccupa”, osserva pensierosa.
“Sono fatta così, mi preoccupo sempre”, le dico volgendo lo sguardo verso il tramonto, per evitare di far trapelare qualche emozione dal mio viso.
“Se ti preoccupi per Peeta, secondo me non dovresti”, mi dice quasi in un sussurro. Mi volto di nuovo verso di lei, guardandola con curiosità.
“Cosa intendi?”, le chiedo confusa.
“Che non ti lascerà andare tanto facilmente. Lui ti ama. Non so quanto di quello che è successo nell’arena fosse vero, ma so che adesso lo è. Lo vedo. Perciò sì, lui ti ama e non permetterà al depistaggio di allontanarti da lui. Lo vedo nei suoi occhi quando ti guarda che non potrebbe fare a meno di te e, ehi – mi fa cenno con la mano di venire più vicina, per continuare sussurrando – lo vedo anche nei tuoi che non puoi fare a meno di lui”, mi dice con un sorriso da orecchio a orecchio. Arrossisco violentemente e abbasso lo sguardo. Quindi lei sa del depistaggio. E ha indovinato quello che io ho iniziato a capire soltanto poche ore fa. Come ci è riuscita?
“Non credo che mi ami più come faceva una volta. Sai, hai ragione: nell’arena non era tutto vero. Io ho finto per salvarmi la pelle e lui è rimasto scottato. Con il depistaggio ha capito quello che sono davvero: un’egoista calcolatrice”, le spiego, evidenziando il mio punto di vista. Ancora una volta mi ritrovo a pensare che la Katniss di qualche anno fa – o forse anche di qualche mese fa – non avrebbe mai esternato con tanta facilità i propri pensieri.
“Non sarà più come una volta come dici tu, ma ti ama”, asserisce convinta, l’ombra di un sorriso che le aleggia sul viso.
“Vorrei crederci Evelyn, vorrei crederci”, penso chiudendo gli occhi. Non posso vederla, ma so che adesso l’ombra di quel sorriso che avevo intravisto sul viso di Evelyn si è allargata in un vero sorriso. Uno di quelli che migliorano le giornate. Ed io mi sento bene: si sistemerà tutto. La speranza è l’unica cosa più forte della paura.





Angolo dell'autrice
Saaalve! Lo so, lo so che sembrerà una scusa, ma davvero in questo mese (e più) che è passato dall'ultimo aggiornamento è successo di tutto. Non voglio annoiarvi, ma sappiate che c'entrano 3 esami superati e altri 2 in preparazione. Insomma, delirio puro.
Spero di farmi perdonare con questo capitolo che - ehi! - è moolto più lungo del solito e, posso giurarverlo, è stato un vero parto. Penso che sia stato il capitolo più difficile da scrivere fin'ora. Avevo paura di cadere nel banale e rovinare tutto. (e ho ancora paura che Katniss, Johanna e Gale possano essere OOC, voi che ne pensate?)

Come sempre, mi riservo un angolino per i ringraziamenti!
Alla mia Cccch, che mi supporta sempre e che in questo mese è stata mia compagna di disavventure e avventure all'università. (Non ti ringrazierò mai abbastanza per Fisica, sei un amore <3). Non mi stancherò mai di dirlo, davvero ragazzi, Sara è la persona più dolce e buona che io abbia mai incontrato eeee - importantissimo! - scrive da paura! Perciò, se volete dilettarvi con una bella fanfic (e bella è dire poco), andate un po' a vedere cosa la penna (o meglio la tastiera) della mia Ccch è stata in grado di sfornare: 
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2462888&i=1 (cliccate, non ve ne pentirete!)


Cosa resta da dire? Ho sempre bisogno delle vostre recensioni perciò scrivete, scrivete, scrivete! Ditemi impressioni, pareri, se i personaggi vi sembrano OOC, se la trama vi annoia o vi piace, insomma tutto quello che vi passa per la testa! E soprattutto criticate, ho bisogno di tante critiche costruttive per crescere.


Grazie. A chi segue silenziosamente, a chi commenta, a chi ha aggiunto la storia tra le preferite/seguite/ricordate.

Grazie davvero


E ricordate: #moreshirtlessPeetaforeveryone!

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Il Sole e la Neve ***


Mentre cadevo mi hai preso la mano

A Hunger Games Fanfiction




9. Il Sole e la Neve
I pochi giorni che mancavano alla parata dei tributi sono passati veloci. Tra gli allenamenti e i preparativi per il pass-pro, ho avuto ben poco tempo per pensare ai risvolti che avrebbe portato nella mia vita quella mattinata in cui ho capito così tante cose. E nel poco tempo libero che mi restava, ho evitato accuratamente di pensarci. Un po’ per paura e un po’ per imbarazzo.
E’ inutile dire che il mio atteggiamento nei confronti di Peeta è diventato dieci volte più schivo rispetto a prima. So che non dovrei comportarmi così, eppure non riesco a farne a meno. Qualcosa mi frena, e non so se sia la mia incapacità a tenere rapporti interpersonali o se, piuttosto, non sia colpa della paura che il Peeta che conoscevo e che mi amava non esista più. Ho semplicemente deciso di occuparmene in seguito, quando tutto questo sarà finito e saremo tornati al Dodici. A casa nostra. Ho bisogno di tempo: per capire, per abituarmi all’idea di non essere una macchina senza sentimenti, per decidere come comportarmi.
So che il Ragazzo del pane ha capito qualcosa, ma non ha dato segno di volermi chiedere il motivo del mio repentino cambio di atteggiamento. Gli sono grata per non averlo fatto – perché mi ha risparmiato una conversazione che definirla imbarazzante sarebbe stato poco – ma comincio a chiedermi se non abbia chiesto niente perché ha capito che non ne voglio parlare e vuole rispettare la mia decisione, o se perché effettivamente non gli interessa. La mia parte paurosa e ossessivamente preoccupata, ovviamente propende alla seconda opzione.
Sono seduta sul divano a pensare a tutte queste cose, incastrata in un altro di quei vestiti così femminili che non sopporto, che mi trattengo dallo strappare soltanto perché è uno dei pochi ricordi che mi restano di Cinna, mentre aspetto che Evelyn e Xander finiscano di prepararsi per la parata.
Non ci sono Distretti di appartenenza, per cui mi chiedo cosa si saranno inventati gli stilisti. Immagino che lo scoprirò a breve.
Stiro nervosamente la stoffa rossa del mio vestito e faccio un sospiro. Vorrei tanto essere a casa.
Intanto mi sento osservata e, quando alzo gli occhi, trovo quelli di Peeta che mi fissano intensamente con un cipiglio … emozionato? No, non può essere. Eppure eccolo lì, sulla soglia della porta, nel suo abito da sera, mentre si aggiusta il cravattino e mi si avvicina a grandi passi con quella strana espressione sul volto.
“Scusa, non volevo fissarti. Solo che sei bellissima con questo vestito, Kat”, mi dice sorridendo con la sua solita abilità a dire frasi così dolci, con così tanta naturalezza. Arrossisco e mi sorprendo a sorridergli di rimando sussurrando un flebile ‘grazie’, mentre l’ultima parola che ha detto continua a rimbalzarmi nella mente. Kat. Nessuno mi aveva mai chiamata così. Eppure questo soprannome suona così dolce sulle labbra del Ragazzo del Pane.
“Effie mi ha pregato di accompagnarti in platea. Vuole che gli abiti dei tributi siano una sorpresa anche per noi. Vieni”, dice porgendomi una mano che non esito ad afferrare saldamente.
Camminiamo lentamente ed in silenzio lungo il corridoio e, stranamente, non mi sento affatto nervosa come lo sono stata negli ultimi giorni in compagnia del Ragazzo del pane. Continuiamo a tenerci per mano e il silenzio non ci disturba minimamente. Questa è una delle cose che amo di Peeta: riesce ad infondermi tranquillità con gesti semplici, frasi sussurrate con un’autentica emozione, tocchi gentili e delicati.
Mentre aspettiamo l’ascensore, il Ragazzo del pane sta tracciando distrattamente ghirigori immaginari con il pollice sul dorso della mia mano, facendomi rilassare ulteriormente, finché non lo sento fermarsi improvvisamente e irrobustire la stretta sulla mia mano.
“Non ora, ti prego”, penso, ma quando mi volto a guardarlo trovo soltanto uno sguardo preoccupato ad attendermi. I suoi occhi sono meravigliosamente azzurri.
Sembra che voglia dirmi qualcosa, tuttavia non ci riesce. Se ne sta lì a fissarmi, mentre la preoccupazione mi monta nel petto.
“E’ successo qualcosa, Peeta?”, gli chiedo col tono più dolce che riesco ad assumere, cercando di non farmi sopraffare dai pensieri negativi.
“No”, dice in sussurro. “Solo …”, si interrompe come se fosse stato colto da un pensiero improvviso.
“Solo …?”, dico, cercando di sorridere per rassicurarlo.
“Non lasciarmi la mano. Ho bisogno di un contatto con la realtà. Non so cosa la parata possa scatenare nella mia mente malata. Solo, non lasciarmi la mano, ok?”, dice tutto d’un fiato.
“Mai”, gli rispondo stringendogli più forte la mano. Poi sorprendo perfino me stessa, mettendomi sulle punte per posargli un delicato bacio sulla guancia, inebriata dalla consapevolezza che non solo io ho bisogno del Ragazzo del pane, ma anche il Ragazzo del pane ha bisogno di me, la Ragazza di fuoco.
E’ un pensiero velocissimo, ma per un attimo mi scorre davanti agli occhi l’immagine di noi due nella stessa posizione, solo con abiti e sentimenti reciproci diversi, due anni fa, poco dopo la nostra prima parata da tributi. Ricordo di aver pensato che era un gioco a cui si poteva giocare in due quello in cui ci si rendeva carini e gentili per essere più letali al momento giusto. Non avevo capito nulla di Peeta, allora.
Quando ritorno con i talloni per terra, il ricordo è già volato via. Le porte dell’ascensore si aprono e Peeta, che intanto è riuscito a sorridere nuovamente, mi trascina con delicatezza all’interno della cabina. Il problema è che ora non riesco più a guardarlo senza arrossire, così tento di concentrarmi sulle luci che indicano la posizione dell’ascensore. Quando le vedo indugiare un po’ troppo sul numero 7, capisco che tra poco avremo compagnia e tutto quello a cui riesco a pensare è: “fa che non sia Johanna, ti prego”. Ma ovviamente, quando le porte si aprono, chi altro potremmo trovarci davanti se non un’elegantissima Johanna, fasciata in un vestito troppo corto e troppo aderente per i miei gusti, che ci sorride beffarda?
Peeta le sorride e la saluta, mentre io non riesco a dire nemmeno una parola, improvvisamente colpita dal ricordo della mattinata passata insieme e delle parole che mi ha rivolto riguardo a Peeta.
Johanna deve intuirlo, perché il suo sorriso si trasforma in un ghigno, segno del fatto che tra poco dirà qualcosa di molto imbarazzante per me.
“Ah, vedo che hai preso sul serio il mio discorsetto”, dice infatti, indicando con un cenno la mia mano intrecciata a quella di Peeta. Provo l’impulso di lasciare andare la presa, poi mi ricordo dello sguardo implorante di Peeta e cambio idea, stringendogli ancora di più la mano. Il Ragazzo del pane, anche se non sa di quale ‘discorsetto’ Johanna stia parlando, deve intuire il mio disagio, tanto che pensa di rispondere al mio posto: “Sono stato io a chiederle di tenermi la mano, Johanna. Non è quello che sembra. Ci aiutiamo a vicenda”, dice calmo, guardandola negli occhi. “Non è quello che sembra”. La frase mi rimbomba un po’ nel cervello, dando corda alla parte di me che è incessantemente preoccupata. Eppure Peeta, dopo averlo detto, riprende a muovere il pollice sul dorso della mia mano, come se volesse dirmi altro, attirando il mio sguardo su di lui. E quando incontro i suoi occhi, non riesco a spiegare l’espressione che vi trovo e la nuova Katniss che sta maturando dentro di me mi spinge a pensare che il suo sguardo voglia dirmi: “Non è quello che penso, credimi”.
“Ah, sono sicura che le dispiace molto di aiutarti allora, Fornaio”, commenta ironicamente Johanna, spostando il suo sguardo da me a Peeta.
Fortunatamente, la conversazione viene interrotta dall’arrivo dell’ascensore al piano terra. Ancora una volta, mi lascio trascinare da Peeta che mi conduce verso i nostri posti in platea, provvidenzialmente lontani da quello di Joahnna. Almeno per un po’ sarò al sicuro da frecciatine e battutine sul mio conto.
Per la prima volta, noto che il pubblico di questa edizione è diverso: niente capitolini, ma persone dei Distretti. Lo si capisce da come sono vestiti, senza parrucche e colori della pelle sgargianti o plastiche al viso. Improvvisamente, la serietà della cosa mi colpisce: questi Giochi si faranno davvero e avremo una sola occasione per fermare tutto.
L’inizio dell’inno di Panem distoglie la mia attenzione dal pubblico, per portarla sui primi carri dei tributi che stanno entrando. E quello che vedo mi lascia a bocca aperta.
I tributi, disposti a coppie su ogni carro, procedono abbracciandosi perché indossano costumi complementari. La prima coppia sono l’Acqua e il Fuoco, che si stringono l’un l’altro in un abbraccio soffocante come se volessero combattersi, in una perfetta rappresentazione degli elementi che impersonano. Poi vengono il Prato e il Cielo, che trasmettono una strana tranquillità perché la ragazza, vestita da Prato, è avvolta morbidamente dalle braccia di lui, che è il Cielo, e per un attimo ho l’impressione di star guardando il Prato del Distretto 12. Seguono il Dì e la Notte, con la ragazza che è il Dì in piedi, rivolta verso il ragazzo che è la Notte, che le stringe la mano mentre è inginocchiato ai suoi piedi come a volerle cedere il passo, proprio come quando i due momenti del giorno si alternano.  Dietro vengono il Mare e la Luna, che si tendono le mani a vicenda senza, tuttavia, stringere quelle d’altro: proprio come succede al Mare e alla Luna originali, condannati secondo un’antica favola ad amarsi senza mai potersi avere.  Alle loro spalle, scorgo il Vento e la Pioggia che si abbracciano intrecciando tra loro braccia e dita, proprio come una vera tempesta. Quello che mi colpisce è che indossano costumi così realistici che, se fossero inseriti nel loro ambiente, funzionerebbero tranquillamente da tuta mimetica.
Quando l’ultimo carro fa la sua apparizione, però, non sono l’unica ad alzarsi in piedi per lo stupore: Evelyn e Xander sono vestiti rispettivamente da Neve e da Sole. Ma la cosa sbalorditiva è la posizione in cui si trovano: lui la sorregge con un braccio come se volesse farle fare un casquè, mentre l’altro è proteso verso una delle guance di lei, sfiorandola con la punta delle dita. Evelyn, dal canto suo, sembra davvero essere svenuta, come se ormai fosse diventata Neve sciolta. E sembra proprio di vedere il Sole che fa lentamente sciogliere la Neve e poi tenta di raccoglierne i resti, inutilmente, perché ormai non c’è più nulla da fare per lei, che giace inerme tra le sue braccia.
La vista di tutti i tributi così belli – non c’è altra parola per descriverli – mi provoca una stretta allo stomaco. Sento l’ansia divorarmi il petto, mentre l’inno continua a risuonarmi nelle orecchie anche quando la musica è finita e i carri con i tributi si sono fermati davanti al leggio su cui si è affacciata la presidentessa Paylor. I tributi rompono la formazione, ma restano comunque bellissimi ai miei occhi, che sento inumidirsi. Non so se per l’emozione o per la paura di non riuscire a salvarli tutti e 24. Sbatto velocemente le palpebre per scacciare via le lacrime. Sono forte, devo esserlo.
Continuo a stringere la mano di Peeta che – me ne accorgo soltanto ora – si è alzato insieme a me. Ci scambiamo uno sguardo veloce, quel tanto che basta per assicurarci che l’altro stia bene e ci riaccomodiamo insieme a tutti gli altri spettatori, aspettando che la Paylor inizi il suo discorso.
“Questa edizione sarà molto particolare”, inizia la Paylor dopo un po’ con voce ferma. “So che siete curiosi, ma la vostra fame di sapere verrà saziata molto presto. Questa sera, invece, è molto importante ringraziare questi 24 ragazzi che stanno qui davanti a me, per il loro coraggio e il loro sacrificio”, conclude così il suo breve discorso ed un boato si alza dalla folla quando tutti iniziano ad applaudire. Io resto ferma e con me anche Peeta: avrà sentito anche lui quello strano tono nella voce della Paylor alle parole ‘fame di sapere’? Improvvisamente mi sembra che ci sia qualcosa che non so. Qualcosa di molto importante. E adesso?
Non riesco a prestare attenzione a quello che succede dopo, troppo presa dalla sensazione che mi ha attraversata mentre la Paylor parlava. Sento solo la stretta della mano di Peeta sulla mia e le mie gambe muoversi per stargli dietro, mentre le mie orecchie riescono a registrare soltanto un vociare confuso tutto intorno a me. In un batter d’occhio siamo di nuovo nell’attico, seduti sul divano ad aspettare che Evelyn e Xander ritornino.
Sono nervosa ed il Ragazzo del pane deve averlo capito, perché improvvisamente lo vedo avvicinare le labbra al mio orecchio e sussurrare: “Andrà tutto bene”. Non so cosa rispondergli. So soltanto che, ora come ora, ho bisogno di calmarmi. Così faccio la prima cosa che mi salta in mente: gli stringo le braccia al collo e mi avvicino il più possibile a lui che, dopo un attimo di sorpresa, ricambia l’abbraccio stringendomi forte a sé. Un brivido mi scorre lungo la schiena quando Peeta mi sfiora inavvertitamente il collo con le labbra per ricominciare a parlare: “L’hai sentito anche tu, vero, quello strano tono nella voce della Paylor? Cosa non sappiamo, Kat?”. Ancora quel soprannome, reso ancora più dolce dal soffiare del fiato di Peeta sul mio collo.
“Non lo so”, rispondo dopo un po’ rabbuiandomi nuovamente. Questa faccenda non mi è chiara, penso mentre mi accoccolo meglio contro il petto di Peeta, dimenticandomi per un po’ dell’imbarazzo provato negli ultimi giorni in sua compagnia.
“Ah! Bene, bene. Eccoli qui gli Innamorati Sventurati, che poi tanto Sventurati non sembrano più eh, Mason?”, la voce di Haymitch mi fa sobbalzare e staccare da Peeta che, tuttavia, riesce comunque ad afferrarmi la mano prima che io scappi troppo lontano da lui.
“Dai Abernathy, guardali! Non ti fanno tenerezza?”, gli risponde ridendo Johanna, accennando alle mie gote arrossate e ai movimenti impacciati di Peeta, che si scompiglia nervosamente i riccioli biondi.
“Simpatici, davvero”, commento io contrariata.
“Voi due insieme non portate buone notizie, vero?”, dice invece Peeta, facendo girare tutti verso di lui.
“No, hai ragione ragazzo. Avete notato com’era strana la Paylor? Mi dispiace ammetterlo, ma ci manca un tassello del puzzle per completarlo”, decreta Haymitch guardando prima Peeta e poi me.
“E’ la stessa sensazione che abbiamo avuto anche io e Katniss”, gli risponde Peeta mentre distrattamente ricomincia a tracciare cerchi immaginari col pollice sul dorso della mia mano, come faceva poco fa in ascensore.
“Ma come facciamo a sapere cosa c’è sotto?”, si intromette Johanna. Silenzio. Evidentemente nessuno di noi sa come rispondere alla sua domanda.
“La Paylor ha parlato di una certa fame di sapere che verrà saziata. Certo, è un modo di dire, ma aveva un tono troppo strano mentre lo diceva”, osserva Peeta pensieroso.
“E se sapesse tutto? Del piano, del pass-pro, della missione di salvataggio?”, mi intrometto io, dando voce ai pensieri di tutti i presenti. In fondo, Gale l’aveva avvertita. E’ probabile che continui a pensare che io e gli altri vogliamo fermare questi Giochi.
Gli occhi da Giacimento di Haymitch si fissano nei miei: “Ragazza, prega che non sia così se vuoi avere almeno una possibilità di salvare quei ragazzini”, mi risponde.
“Possiamo parlarne quanto vogliamo, non ne caveremo un ragno dal buco”, conclude Peeta.
“Il Fornaio ha ragione. Col vostro permesso, ma anche senza, me ne andrei a letto. La bellezza ha bisogno di riposo”, dice Johanna prima di fare un cenno di saluto ed uscire dalla stanza. La guardo stranita mentre scompare dalla nostra vista, chiudendosi la porta alle spalle. Credo che non riuscirò mai a comprenderla davvero, è troppo strana ed imprevedibile.
Intanto scorgo Haymitch fissare me e Peeta con uno strano sguardo, ma – con mio grande sollievo - non fa in tempo a parlare che Evelyn e Xander sbucano chiacchierando ad alta voce dalla porta. Non appena Evelyn mi vede, si fionda nella mia direzione, tuffandosi tra le mie braccia che la stringono in un dolce abbraccio, come quelli che ero solita dare alla mia Paperella. Per farlo sono costretta a lasciare andare la mano di Peeta, ma quando alzo gli occhi nella sua direzione, lo vedo sorridermi tranquillo.
“Allora, ti piace il mio vestito?”, mi chiede Evelyn girando su se stessa, una volta sciolto l’abbraccio.
“Ah! Non parlate di vestiti e cianfrusaglie del genere davanti a me! Mi sa che preferisco andare a festeggiare il successo della parata”, esclama Haymitch. E tutti sappiamo che, per festeggiare, intende bere alcolici fino a svenire. Lo lasciamo andare, perché tanto niente potrebbe fermarlo dal bere fino a stare male. E’ il suo modo di superare le cose. E’ fatto così. E ormai abbiamo fatto l’abitudine a vederlo sempre un po’ brillo o alticcio, per non parlare delle volte in cui è completamente ubriaco. Ma va bene così, gli devo troppo per fare sottigliezze su come preferisce impiegare il proprio tempo o elaborare il proprio dolore. Perché è di questo che si tratta: cercare di dimenticare il passato.
Guardo anche Haymitch scomparire dalla porta, proprio come con Johanna poco fa, mentre mi perdo nei miei pensieri.
“Allora?”, richiama la mia attenzione Evelyn tirandomi una manica.
“Cosa?”, rispondo confusa tornando alla realtà.
“Il vestito!”, esclama spazientita facendomi sorridere.
“Mi hai fatta emozionare. Anzi, tutti e due mi avete fatta emozionare. Eravate perfetti”, dico con sincerità rivolgendomi anche a Xander, che mi sorride timidamente.
“Sì, confermo. Ho dovuto sorreggerla io per evitare che ruzzolasse giù dai gradini della platea per vedere più da vicino”, scherza Peeta sorridendomi.
“Non è vero e lo sai!”, gli rispondo fingendomi offesa. Pensandoci, la vecchia Katniss si sarebbe offesa davvero per una cosa del genere, ma la nuova ‘me’ trova giusto che ogni tanto ci si prenda meno sul serio.
“Secondo me è vero e scommetto che non ti è dispiaciuto!”, dice Xander mimando il gesto di dare tanti baci con la bocca. Avvampo immediatamente e inizio a balbettare come una stupida: “N-no, io, b-beh …”, inizio senza concludere niente.
“Ehi, ti ricordo che eravamo promessi sposi. Voglio ben vedere se non le è dispiaciuto che la sorreggessi!”, gli dice Peeta di rimando. Lo guardo sbalordita. Non mi aspettavo che potesse parlare con tanta facilità del periodo in cui eravamo costretti a fingerci pazzamente innamorati.
“Perché, era vero?”, chiede Evelyn pensierosa. Cala improvvisamente il silenzio. Peeta mi guarda di sottecchi, come per controllare che io non esploda.
“No”, dico in un sussurro, ricordandomi delle parole di Snow: “Convinca me, signorina Everdeen”. Smetto subito di sorridere.
“Mi dispiace. Non volevo essere inopportuna. E non volevo nemmeno che mio nonno ti costringesse a …”, la interrompo con un gesto della mano.
“Te l’ho già detto, non devi scusarti per cose di cui non hai colpa”, le dico ritornando a sorridere calma, per farle capire che davvero non la ritengo responsabile per tutto quello che mi è capitato negli ultimi due anni. Evelyn mi sorride timidamente in risposta.
“Sarà! Anche se non era vero allora, per me è vero adesso”, sghignazza Xander, in un tentativo di alleggerire la tensione. Avvampo nuovamente, raggiungendo un color prugna sulle guance. E’ già la seconda volta che Xander se ne esce con un’affermazione del genere e la domanda sorge spontanea: davvero io e Peeta sembriamo innamorati?
“Va bene! Basta così! Voi due, a letto! Domani vi aspetta una lunga giornata di allenamento”, dice Peeta accompagnando i ragazzi verso le loro stanze. Io intanto mi siedo sul divano sovrappensiero, a stento rispondendo alla ‘Buonanotte’ che mi rivolgono Evelyn e Xander.
Quando Peeta ritorna, mi trova ancora nella stessa posizione in cui mi ha lasciata. Si avvicina e si inginocchia davanti a me per mettere i nostri visi alla stessa altezza.
“Cos’è che ti preoccupa, Katniss?”, mi chiede accarezzandomi una guancia.
Non posso rispondergli. Non posso dirgli che ciò che mi preoccupa è qui, in questa stanza, inginocchiato ai miei piedi. Mi limito ad arrossire e a distogliere lo sguardo, e il Ragazzo del pane capisce che non ne voglio parlare. Si alza in piedi e mi tende una mano: “Allora vuoi andare a dormire?”, chiede mentre io afferro la sua mano.
“Non da sola”, dico in un sussurro evitando i suoi occhi.
“Temevo che non me l’avresti più chiesto”, dice accarezzandomi nuovamente una guancia, portando i miei occhi nei suoi. So che si riferisce agli ultimi giorni, in cui per evitare conversazioni imbarazzanti ho preferito dormire da sola. So anche che non dovrei pretendere la sua compagnia stanotte, visto come l’ho bellamente ignorato in questo periodo, ma oggi il pensiero degli incubi che mi aspettano mi spaventa più del solito. Il ricordo di Snow in casa mia, seduto alla scrivania dello studio, non vuole andare via dalla mia testa e so che stanotte si trasformerà in qualcosa di orribile che non riuscirò a sopportare da sola. Ho bisogno del Ragazzo del pane.
Peeta deve intuire cosa mi sia passato per la testa perché mi sorride e, senza dire altro, mi accompagna nella mia stanza dove, dopo avermi lasciato un bacio sulla guancia, mi lascia sola per permettermi di indossare il pigiama. Mi tratta con dolcezza, come se fossi una bambina spaventata. Per una volta, mi piace essere trattata così. Ed è qui, in questa stanza che non sa di casa se non c’è il Ragazzo del pane, che capisco perché io abbia tanto bisogno di Peeta: mi permette di sentirmi debole e bisognosa di affetto e di protezione. Perché ho finto di essere forte per troppo tempo. Mi sono caricata di responsabilità troppo grandi per la mia età. E adesso ho bisogno di sentirmi umana. Anche solo per un po’.
Guardo il mio riflesso allo specchio: occhi lucidi, come se avessi la febbre, sorriso sbilenco e guance imporporate. Un’altra notte col Ragazzo del pane. E questo pensiero, non so perché, mi rende felice.





Angolo dell'autrice
Saaaalve! Eccomi qui, a sessione estiva finita e finalmente con un po' di tempo in più per scrivere!
Ecco, devo ammettere che questo capitolo mi piace a metà: mi piace l'idea dei vestiti per la parata, ma il resto mi sembra scontato e banale. Non so. Ah e poi - as always - ho paura che la nostra cara KitKat sia OOC. Voi che ne pensate? Ditemelo in una recensione, se vi va :)

Nell'angolo ringraziamenti c'è come al solito lei, la mia Cccchhh, che dopo aver letto questo capitolo mi ha chiesto di sposarla e di adottare tanti bambini biondi da chiamare Peeta (Peeta 1, Peeta 2, Peeta 3, ..., Peeta n). E' troppo dolce quando fa così ed io le voglio troppo bene!
A proposito della mia Ccchh, leggete la sua fanfic che è bellissima ( o come dico sempre io "bellisma" ) e niente ashdjfsjfsdfshfb la amo troppo, anche se mi fa penare perchè mi fa aspettare per sapere come continua! (qui il link: 
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2462888
)

That's all, folks!

#moreshirtlessPeetaforeveryone


PS: un po' di tempo fa la mia mente malata partorì una pazzia in tema HG e non mi sono mai ricordata di mettere il link nei capitoli. Oggi, siccome me ne sono ricordata, vi beccate il link u.u
Passate se volete farvi due risate: 
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2507743&i=1

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Grazie, angelo ***


Mentre cadevo mi hai preso la mano

A Hunger Games Fanfiction



10. Grazie, angelo

Tabula rasa. Vuoto totale.
Fisso il mio riflesso nello specchio. Sbatto le palpebre velocemente per far cadere le goccioline d’acqua che mi scivolano sugli occhi dalla fronte bagnata. Unisco nuovamente le mani a coppa, le infilo sotto il getto del rubinetto e con un gesto veloce mi butto altra acqua sul viso. Poi, ritorno a guardarmi allo specchio. Vado avanti così per un po’, ripetendo meccanicamente sempre gli stessi gesti.
Niente. Non so cosa dire.
Negli ultimi giorni, ho passato praticamente tutto il mio tempo a pensare a cosa dire una volta che mi avranno messa davanti a quella telecamera per parlare ai cittadini di Panem. E il risultato è che non ho trovato nemmeno una parola da dire, non una singola frase che possa convincere la gente a smettere di compiere questi scempi omicida che seminano solo dolore e disperazione.
“Siamo esseri umani. Tutti. Nessuno merita di morire per mano di un essere umano come lui, in un’arena, per il divertimento di altri esseri umani”, dico fissando i miei occhi, in un dialogo con me stessa. No, non ci siamo.
“Per anni, ho camminato per le strade del mio distretto guardando la fame, la povertà, la paura. Provandole io stessa. Ed ora, che questa Ribellione sembra aver fatto la differenza, vogliamo annientare tutti i buoni risultati ottenuti?”, riprovo, concentrandomi sulle mie labbra, questa volta. Niente da fare. Sarò anche stata il volto della Rivoluzione, ma la vera voce era Peeta. Lui è naturalmente portato a parlare con le persone, a convincerle, a farle sentire a proprio agio. Io non parlo, agisco.
“Ho fatto una promessa a me stessa quando ho realizzato che gli Hunger Games erano finalmente finiti: nessun altro avrebbe dovuto provare la stessa paura che migliaia di ragazzini hanno provato ad ogni Mietitura, nessun altro avrebbe dovuto vivere l’Inferno che hanno passato tutti i Tributi di tutte e 75 le edizioni dei Giochi della fame”, scuoto la testa già alle ultime parole. Neanche queste vanno bene.
“E nessuno lo farà. Non finché ci saremo noi ad impedirlo”
Sobbalzo e mi irrigidisco stringendo le mani sui bordi del lavandino, colta alla sprovvista, salvo rilassarmi poi, quando realizzo chi è stato a parlare e che ora mi fissa stando fermo sotto lo stipite della porta del bagno. Mi rendo conto di essere stata davvero assorta, per non accorgermi dei suoi passi pesanti.
“Scusa, non volevo spaventarti. La porta era aperta e, dato che non mi hai sentito bussare, ho pensato di venire a chiamarti fino a qui”, dice Peeta grattandosi la testa, come fa quando è nervoso o imbarazzato.
“Da quanto sei lì?”, gli domando voltandomi verso di lui.
“Poco. Ho sentito solo un paio di tentativi”, mi risponde accennando un sorriso.
“Come ti sembravano?”, chiedo sbuffando e tornando a guardare il mio riflesso nello specchio.
“Buoni. Anche se credo che con gli occhi che ti ritrovi, ti basterebbe solamente fissare in camera e sortiresti lo stesso effetto di ore ed ore di parole toccanti. Le persone verrebbero rapite dal tuo sguardo, marcerebbero in capo al mondo se gli chiedessi di farlo guardandoli con quegli occhi”, dice facendo un paio di passi e posizionandosi dietro di me, così che possa vedere il suo viso riflesso nello specchio senza dovermi girare. Lo fisso senza sapere bene cosa dire o fare, mentre le guance mi si colorano di rosso.
“Il mio sguardo da solo non basterebbe a darvi il tempo di mettere in salvo quei ragazzi”, dico alla fine, cercando di non guardarlo negli occhi.
“Non ci scommetterei”, dice mentre mi circonda con le braccia abbracciandomi da dietro. E’ un gesto così intimo che in un primo momento arrossisco e ho l’impulso di staccarmi da lui e fuggire via. Però poi mi lascio cullare dal suo calore e gli stringo le mani con le mie, forte, ricambiando il suo abbraccio come posso. Peeta appoggia la testa sulla mia spalla, girandosi verso di me per continuare a guardarmi in viso e, nel farlo, mi sfiora il collo con la punta del naso, provocandomi una serie infinita di brividi lungo la schiena.
Il Ragazzo del pane è sempre stato un tipo affettuoso ed espansivo, ma negli ultimi giorni ha cominciato a riservarmi queste piccole attenzioni e carezze che mi confondono e mi impauriscono allo stesso tempo. “Cosa siamo? Cosa prova per me?”, sono queste, in genere, le domande che mi assalgono in questi momenti.
“Le interviste stanno per iniziare”, mi dice tagliando il filo dei miei pensieri. Parla a bassissima voce, come se avesse paura di disturbare qualcuno che riposa nella stanza affianco.
“Dobbiamo andare”, completo la sua frase facendolo sorridere mentre annuisce solleticandomi nuovamente il collo con il naso.
“Ecco, ti aspetto di là”, risponde lasciandomi andare e uscendo dalla stanza, non prima di avermi stampato un bacio sulla guancia, facendomi arrossire ulteriormente.
 
Fa tutto un altro effetto guardare da fuori. Durante la parata ero troppo presa dai costumi dei Tributi per pensarci, ma assistere da mentore a questa follia è davvero strano per una come me che ha vissuto per due volte l’incubo di essere un Tributo. E’ così che realizzo che Caesar fa quello che può per tentare di valorizzare i Tributi, per dargli una possibilità di riscuotere successo tra gli sponsor e riuscire a sopravvivere nell’arena. E con questi Tributi il suo sforzo è ancora più evidente. Mi domando quanti figli dei suoi amici ci siano tra i ragazzini che sta intervistando, quanti di loro abbia visto crescere e quanti di loro non vuole che muoiano in quell’arena. Credo tutti. Mi domando se abbia scelto di diventare presentatore degli Hunger Games o se, magari, si è trovato immischiato in qualcosa più grande di lui proprio come è successo a me.
Le interviste procedono veloci, finché non arriva il suo momento. Caesar la chiama sul palco e, improvvisamente, la folla che prima applaudiva e vociava, zittisce di colpo.
Evelyn avanza lentamente verso la poltrona vuota al fianco di Caesar. Nel suo vestito bianco sembra un angioletto ed è proprio su questo punto che abbiamo lavorato quando l’ho preparata a questo momento: l’obiettivo è far dimenticare alle persone i suoi natali, di farla apparire per quello che è: una ragazzina dolcissima che non ha colpe per le azioni orribili compiute dal nonno.
“Allora Evelyn, pare che stasera abbiamo un pubblico difficile. Senti che silenzio!”, scherza Caesar per rompere il ghiaccio.
“Per me il silenzio è un segno di rispetto, Caesar. Vuol dire che hanno voglia di ascoltare seriamente ciò che ho da dire”, risponde Evelyn con un sorriso rivolto alla platea che continua a non emettere un suono. Bella risposta, angelo.
“E dimmi, come ti senti ad essere il Tributo affidato alla Ghiandaia Imitatrice? E’ stato difficile per voi?”, inizia Caesar, facendo la domanda che tutti aspettavano.
“Mi sento bene. Katniss è silenziosa per la maggior parte del tempo, ma quando parla … beh, quando parla capisco perché sia diventata il simbolo della Rivoluzione e perché la gente la ami tanto. Lei è pura e sincera. Non mentirò dicendo che non è stato difficile all’inizio parlare con lei. Ogni volta che la guardavo, mi venivano in mente tutte le cose orribili che ha subito per colpa di mio nonno. Eppure è stata una delle prime cose che mi ha detto: “Non sentirti in colpa per cose che non hai fatto”. Le devo molto. Credo di poter dire che oggi sono una persona diversa grazie a lei”, dice Evelyn guardando nella mia direzione per tutto il tempo. Non mi accorgo nemmeno della lacrima solitaria che mi ha solcato la guancia, finché non vedo la mia faccia commossa proiettata su tutti gli schermi in sala. Questa ragazzina è davvero un angelo.
Quello che succede dopo mi lascia a bocca aperta. Ogni singola persona nella sala, una dopo l’altra, si alza in piedi e ripete il gesto di saluto del Distretto 12 verso Evelyn. Finalmente, la gente ha capito che questa ragazzina è innocente. Lo vedo negli occhi delle persone intorno a me che hanno capito che Evelyn non c’entra niente con suo nonno, proprio come l’ho capito io la prima volta che ci siamo incontrate e abbiamo parlato. E non so perché, ma questo aumenta la mia fiducia nel nostro piano. Ce la faremo, per loro. Per Evelyn. E a quel punto anche queste persone capiranno che né i Giochi della Pace, né nessun altro tipo di Hunger Games sono necessari, che dobbiamo restare uniti se vogliamo che il nostro paese prosperi senza ingiustizie.
Evelyn si alza in piedi e fa un inchino verso il pubblico per ringraziarlo, giusto prima che il segnale acustico ci avverta che il suo tempo è scaduto.
Caesar chiama Xander sul palco e, quando lungo la strada lui ed Evelyn si incrociano, ho l’impressione – insieme a tutta la platea che si pronuncia in un sonoro ‘Ooooh’ -  di vedere le loro mani sfiorarsi e poi stringersi l’un l’altra per un attimo. Questa cosa non l’avevamo provata, penso guardando Peeta interrogativamente mentre lui mi restituisce il mio stesso sguardo sconcertato facendo spallucce. In effetti mi era sembrato che quei due si conoscessero già quando li ho visti insieme la prima volta, solo che mi erano sembrati più complici che innamorati.
A questo punto so già cosa gli chiederà Caesar, il problema è che non so quanto sarà contento di rispondere a questa domanda il tenebroso Xander.
“Una bella entrata in scenda la tua, Xander”, dice infatti Caesar.
“A cosa si riferisce?”, risponde lui con un sorrisetto.
“Oh, ti prego, dammi del tu! Tornando a noi, pare che ci sia del tenero tra te e la dolce Evelyn, oppure 10 mila paia di occhi hanno visto male?”, scherza Caesar.
“Direi che non hanno visto male, Caesar”, conferma Xander con un pizzico di rossore sulle guance.
“Fantastico, fantastico! E’ proprio nello stile del tuo mentore fare scalpore alle interviste”, commenta Caesar facendo l’occhiolino a Peeta, che intanto viene inquadrato da tutti gli schermi mentre sorride in risposta allo strambo presentatore e alza una mano in segno di saluto al pubblico.
“In realtà, Peeta non sapeva niente. Non era previsto che tutti voi ne veniste a conoscenza”, ribatte Xander. Qual è la sua tattica? Che sia d’accordo con Evelyn? In effetti le mie sensazioni, in genere, si rivelano fondate quindi, considerato il fatto evidente che Evelyn e Xander sono molto bravi a fingere, le alternative sono due: o hanno finto di non provare niente l’uno per l’altra davanti a me e Peeta oppure stanno fingendo il contrario davanti a tutta Panem. Furbi lo sono senz’altro. Innamorati? Lo scoprirò a breve. Eppure quel gesto, la stretta delle loro mani, sembrava così spontanea che comincio a nutrire qualche dubbio verso le mie capacità di analizzare e capire le persone che mi stanno intorno. E improvvisamente mi sento come quando seduto al posto di Xander c’era Peeta, durante la sua intervista per i Settantaquattresimi Hunger Games. Ricordo di non aver creduto ad una singola parola uscita dalla sua bocca, eppure alla fine si è rivelato essere il più sincero tra noi due. Allora avevo commesso un grave errore di giudizio. Ma adesso?
“Bene, Xander. Per quanto a tutti piacerebbe sapere di più sui Nuovi Sfortunati Amanti, ho l’obbligo di porti qualche domanda personale. Questa è la tua intervista, il protagonista sei tu”, dice Caesar incontrando le proteste del pubblico avido di storie di questo genere. Io, dal canto mio, continuo a domandarmi perché alla gente piacciano tanto gli amori impossibili di questo tipo. Cosa c’è di tanto bello nell’amare sapendo che tra poco uno dei due, se non entrambi, sarà morto? Ricordo di aver letto in un libro vecchissimo trovato in biblioteca molto tempo fa, prima della morte di mio padre, della storia di due giovani che si amavano alla follia ma che non potevano stare insieme per via delle loro famiglie, che erano state antagoniste per secoli. Rimuginai per giorni sulla fine che quei poveri ragazzi incontravano nella storia: la morte. Credo che fu allora che decisi che non mi sarei mai innamorata e che mai avrei avuto dei figli che sarebbero diventati carne da macello per gli Hunger Games. Avevo 10 anni, eppure questa convinzione è ancora profondamente radicata in me, nonostante i pensieri avuti negli ultimi giorni.
Intanto, sul palco l’intervista va avanti tra battute e momenti di serietà, finché il solito segnale acustico non ci avverte della fine del tempo a disposizione per Xander e della conclusione di tutte le interviste.
A questo punto, c’è un po’ di confusione perché tutti gli spettatori si stanno alzando contemporaneamente per andare via e nella calca perdo di vista i Tributi, che immagino siano già stati indirizzati verso le loro stanze.
Mi alzo in piedi e trascino Peeta con me verso gli ascensori. Dobbiamo parlare con quei due e dallo sguardo che mi rivolge il Ragazzo del pane capisco che anche lui la pensa come me. Ma non siamo abbastanza veloci, perché per la strada la voce di qualcuno che ci chiama ci costringe a fermarci.
“Katniss! Peeta!”, sta trillando Effie per farsi sentire sul baccano che c’è tutt’intorno.
“Che piacere vederti, Effie”, le dice Peeta quando la Capitolina si è avvicinata abbastanza tanto da permettergli di non urlare.
“Il piacere è tutto mio, caro. Tuttavia la signorina qui non è stata molto educata nei miei confronti ultimamente. Cara, non ti vedo mai. E’ successo qualcosa?”, chiede sinceramente preoccupata. All’inizio mi viene da sorridere, poi mi ricordo che la Capitolina non sa niente del nostro piano per fermare questi Giochi.
“Sono stata molto impegnata, Effie. L’allenamento con Evelyn mi prende molto più tempo del previsto. Mi dispiace”, ribatto cercando di assumere un’espressione afflitta, che ovviamente non convince minimamente Effie e che la spinge a farmi una ramanzina di almeno mezz’ora sui doveri di una personalità di spicco come me e su altre sciocchezze che non mi prendo la briga di ascoltare. Effie. Non cambierà mai.
Quando finalmente si stanca di parlare, trattengo a stento un sospiro di sollievo e mi sforzo di salutarla con calore, come lei vorrebbe che facessi in ogni occasione.
Una volta nell’ascensore, batto nervosamente il piede a terra fissando l’orologio – e notando che è passata effettivamente mezz’ora mentre Effie parlava - finché il numero 12 non si illumina sulla pulsantiera e le porte si aprono. Questa volta il Ragazzo del pane è più veloce di me e infatti mi afferra la mano e si avvia all’appartamento.
Non so bene cosa aspettarmi da questa conversazione. Non so ancora se sentirmi ferita o meno, perché se fosse vero che c’è del tenero tra Evelyn e Xander e lei me lo ha tenuto nascosto, vuol dire che lei non si è mai fidata di me come ho fatto io, che le ho raccontato i miei pensieri su Peeta e non solo, che mi sono confidata con lei.
Sbatto la faccia sulla schiena del Ragazzo del pane quando lui si ferma di botto sulla soglia del salone.
“Cosa c’è?”, chiedo ad alta voce, dato che non riesco a vedere niente da qui dietro. Peeta mi fa segno di abbassare la voce mettendosi un dito davanti alla bocca.
“I ragazzi. Si sono addormentati”, risponde bisbigliando e spostandosi per lasciarmi guardare. Evelyn e Xander sono sul divano, come la prima volta in cui li ho visti in questa stanza, solo che stavolta si stringono a vicenda in un tenero abbraccio mentre entrambi sono addormentati. Devono essere crollati mentre aspettavano che io e Peeta ritornassimo.
“Quindi secondo te è vero?”, sussurra Peeta.
“Non lo so, ma a questo punto credo di sì”, rispondo continuando a guardare verso i ragazzi sul divano.
“Dovremmo svegliarli. Se dormono in questa posizione tutta la notte, domani avranno le ossa a pezzi”, suggerisce girandosi anche lui verso di loro e guardandoli con fare paterno.
“Mi dispiace disturbarli”, ammetto, intenerita da quei due ragazzi che in questo momento assomigliano così tanto a me e a Peeta quando ci stringiamo l’un l’altra per scacciare gli incubi.
“Anche a me”, ribatte lui e so che il resto della sua frase sarà ‘ma dobbiamo’, così annuisco prima che possa aggiungere altro.
“Ok, ma fallo tu. Io non sono brava con queste cose. Finirei col fargli venire un infarto”
Il Ragazzo del pane non se lo fa ripetere due volte: si avvicina lentamente ai ragazzi, si china alla loro altezza e li scuote leggermente, aspettando che si sveglino per parlare. La prima ad aprire gli occhi è Evelyn, che al principio sembra spaventarsi un po’, salvo rilassarsi quando riconosce Peeta. Sposta il suo sguardo su di me e non so cosa veda nei miei occhi, perché si alza di scatto, facendo svegliare anche Xander, e mi corre incontro abbracciandomi e mormorando delle scuse sconnesse. Così ho la conferma che ha finto per tutto questo tempo. Che Dio solo sa se le importava davvero quando le raccontavo di me. Io, che non mi apro mai con nessuno, delusa da una ragazzina. La scosto e le porgo soltanto una domanda: “Perché?”.
Evelyn prende un respiro profondo e poi inizia a parlare velocemente: “Tutto quello che ho detto sul palco, lo pensavo davvero. E’ stato così difficile per me all’inizio. Pensavo di essere in debito con te, di dover ricambiare in qualche modo il favore di avermi perdonata e di star cercando di salvarmi la vita. E quando ho visto che avevi difficoltà a parlare di te stessa, ho pensato che questo sarebbe potuto essere il mio favore per te: darti qualcuno di cui fidarti che ti ascoltasse, che si interessasse a ciò che avevi da dire, che ti sapesse consigliare quando ne avevi bisogno. Non era previsto che anche io mi sfogassi con te, perché quello era il mio regalo per te. Non potevo usarlo per me stessa. Per una volta, volevo essere io ad aiutare te e non il contrario”, conclude il discorso abbracciandomi nuovamente mentre io resto immobile, incapace di replicare. Guardo verso Peeta e lo vedo annuire con la testa, sorridendo. Mi stai dicendo che posso fidarmi di lei, Ragazzo del pane? Che devo darle una possibilità di volermi bene? Che devo dare a me stessa una possibilità di lasciarmi andare per una volta? E poi, fare cosa? Seguire il mio cuore? E’ un concetto a cui non sono abituata a pensare, troppo poco concreto per la mia mente pragmatica di un tempo. Ma ora?
Guardo verso Evelyn che continua a stringermi e alla fine ricambio il suo abbraccio. E mi ritrovo a pensare che vorrei davvero proteggere questa ragazzina da tutto il male del mondo. Ed è così che trovo la forza per sussurrarle all’orecchio: “Grazie per il regalo, l’ho apprezzato tantissimo”, prima di lasciarla andare per farle prendere aria dopo il mio abbraccio soffocante. E mi rendo conto di aver davvero apprezzato le ore passate a parlare con lei, come se ci conoscessimo da una vita e sapessimo tutto l’una dell’altra. Grazie, angelo.
Lei, per tutta risposta, mi sorride felice mentre io la guardo sentendomi in pace con me stessa e col mondo.
“Bene, bene. A quanto pare adesso ho io il coltello dalla parte del manico!”, esclama Peeta. Ci giriamo tutti a guardarlo senza capire cosa intendesse dire. Un sorriso enorme gli spunta sul volto.
“Non mi guardate con quella faccia! Al signorino qui piaceva prendere in giro gli Sfortunati Amanti e adesso si ritrova ad essere lui una metà dei Nuovi Sfortunati Amanti. Credo che quando tutto questo sarà finito mi divertirò un sacco a prenderti in giro, Xander”, spiega Peeta compiaciuto. E non so se sia colpa delle emozioni appena provate o di tutta la settimana di preoccupazioni, ma all’improvviso mi viene da ridere. Rido per ciò che ha detto Peeta, per l’espressione imbarazzata di Xander e non riesco a fermarmi. Rido per soffocare la paura di non farcela a salvare questi ragazzi. Rido perché forse dentro di me qualcosa è definitivamente ed inevitabilmente cambiato. Rido a crepapelle, tenendomi la pancia con le mani.
Era da tanto che non ridevo così, forse anni. E più rido, più mi sento bene.
Piano piano tutti i presenti si uniscono a me in una risata collettiva e contagiosa, che si spegne soltanto dopo molto tempo quando, con le guance arrossate e le lacrime agli occhi, non ordino ai ragazzi di andare a dormire, ritornando seria. Perché domani c’è un’arena ad attenderli. Non c’è più tempo per ridere.





Angolo autrice
Sorpresa! Non ve l'aspettavate un altro capitolo così presto, eh? E invece eccomi qui!
Che dire, sicuramente questo è un capitolo di passaggio, ma mi serviva per mettere in chiaro delle cose. Che ne dite?
La mia paura fissa è che i personaggi escano fuori dai binari tracciati dalla Collins, voi che ne pensate?

Nell'angolo ringraziamenti, come al solito, c'è la mia Cccchh che legge sempre i miei capitoli in anteprima e che ogni volta mi dichiara amore eterno. (Ma sono io che amo teeee!) 
E come potrei non nominare la sua bellerrima fanfic? Passate, non ve ne pentirete --> 
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2462888

Come sempre, ringrazio chi recensisce (rendete le mie giornate migliori) e chi ha inserito la storia tra le seguite/preferite/ricordate. Ma anche chi legge silenziosamente e basta!

Nuovo motto: #Peetaaudacecipiace (ringraziate gli scleri con la mia Ccchh per questi motti strampalati xD)

Alla prossima!


 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Buon esempio ***


Mentre cadevo mi hai preso la mano

A Hunger Games Fanfiction




11. Buon esempio
 

“Tornerò presto…”, il resto delle parole di Peeta si perde nel vento, coperto dal rombo dell’hovercraft che è venuto a prelevare la squadra di salvataggio per l’arena. Il Ragazzo del pane si avvia sulla piattaforma, finché non scompare dalla mia vista entrando nell’hovercraft, che lascia il tetto del Centro di addestramento subito dopo.
E’ il secondo hovercraft che vedo partire oggi e la sensazione che provo è quella di non riuscire a tenere insieme i pezzi del mio corpo. Per questo mi stringo il petto con le braccia come se volessi abbracciarmi da sola, con il pensiero che soltanto un altro paio di braccia potrebbe essermi d’aiuto in questo momento. E cercando di scacciare un altro pensiero, che invece mi suggerisce che forse potrei non vedere più il proprietario di quelle braccia se qualcosa va storto oggi.
E’ la voce di Beetee a ridestarmi dallo stato di torpore in cui ero caduta. Ho una mansione da svolgere, non posso distrarmi, mi ricorda una vocina nella mia testa. Anche se la tentazione di rintanarmi nel letto finché non sarà tutto finito è forte, io devo essere forte più di lei. Quei tributi hanno bisogno di noi. Di me. Evelyn ha bisogno di me.
Con questo pensiero finalmente mi convinco a seguire Beetee vicino all’attrezzatura: è lì che gireremo il pass-pro che Beetee tenterà di mandare in onda al posto degli Hunger Games della Pace.
La postazione di Beetee è già una baraonda, nonostante la messa in onda non sia ancora cominciata. Un numero impressionante di macchinari è posizionato sotto tre enormi schermi: uno su cui riconosco il terrazzo dell’attico su cui ci troviamo e gli altri due ancora neri, che immagino trasmetteranno la diretta ufficiale dei Giochi.
Prendo posto davanti alla telecamera aspettando il segnale di Beetee per iniziare e intanto osservo la mia immagine sullo schermo. Le occhiaie, il viso smunto, l’espressione triste. Sono questa ormai, ma scommetto che le persone a Panem non faranno fatica a riconoscermi, anche senza tutti i sorrisi falsi che ero costretta ad elargire durante gli Hunger Games e il Tour della Vittoria. Katniss Everdeen. La Ragazza in fiamme. La Ghiandaia Imitatrice. Simbolo di speranza per la Rivoluzione e di rinascita. Guardandomi, fatico a capire di quale rinascita parli la gente quando si riferisce a me. Io riesco soltanto a vedere la morte che ho seminato sul mio cammino.
La mia attenzione viene deviata improvvisamente sugli altri due schermi, che si illuminano mostrando il sigillo di Capitol TV. Sta per cominciare.
Come nelle edizioni passate degli Hunger Games, le riprese iniziano con Caesar Flickerman e Claudius Templesmith in diretta dallo studio che iniziano a fare ipotesi sulla forma dell’arena e sulle sorprese da aspettarsi dagli Strateghi.
Mentre quei due fanno salotto, Beetee mi dà il segnale e sullo schermo di centro inizia ad apparire la mia faccia sbigottita a intervalli regolari, come se Beetee non avesse ancora trovato il canale giusto in cui infiltrarsi.
Aspetto un suo cenno che mi dica che sono anche in diretta audio e intanto noto che Caesar e Claudius sembrano non essersi accorti della nostra intrusione nel programma. Strano. Perché se non se ne sono accorti loro, vuol dire che non l’hanno fatto nemmeno gli operatori di Capitol TV. Ho una strana sensazione.
Guardo in direzione di Beetee che annuisce: sono in diretta audio e video e la mia immagine sullo schermo centrale riesce ad impadronirsi della scena anche per 30 secondi di fila. Prendo un respiro profondo ed inizio a parlare. Adesso tocca a me.
“Non sono mai stata brava a parlare. Chi mi conosce sa che in genere preferisco i fatti alle parole. Ma cosa potevo fare, dopo che tutte le mie azioni, quelle a cui voi avete attribuito un atteggiamento di ribellione e in cui avete visto la speranza, sono state dimenticate per mettere in scena l’ennesimo massacro?”, cerco di parlare con tono fermo e autoritario, come farebbe Peeta se fosse al posto mio. Guardo un attimo in direzione dello schermo di destra e scopro che il countdown per l’inizio dei Giochi è già a metà; deve essere iniziato proprio mentre io cominciavo il mio discorso.
Riporto l’attenzione alla telecamera, mentre la mia immagine sullo schermo centrale sfarfalla per un attimo. Puntuale, ogni 30 secondi. Mi aiuta a scandire il tempo.
“Cosa potevo fare se non tentare di fermarlo? Di fermare tutto questo? Per questo sono qui. So che questi Giochi sono diversi, perché siete stati voi, cittadini dei Distretti, a volerli e proprio per questo ho scelto le parole piuttosto che i fatti, questa volta: so che voi capite l’angoscia di vedere i vostri figli, amici, fratelli e sorelle andare a morire; so che capite come ci si sente a sperare fino all’ultimo che le persone a cui vogliamo bene sopravvivano, finché il colpo di cannone non mette fine a tutte le speranze covate fino a quel momento. E so che se il desiderio di vendetta è grande, la compassione lo è di più. Proprio in questo momento, altri 24 bambini indifesi si trovano su quelle pedane che tanto avete odiato in 75 anni di Giochi. E io vi chiedo di guardarli. Guardateli e domandatevi se davvero vale la pena che muoiano perché voi possiate credere di sentirvi soddisfatti dopo la vostra vendetta. Non mi piace dispensare consigli non richiesti, ma vi chiedo di fidarvi di me, che ho ucciso in nome di una rabbia covata troppo a lungo, quando vi dico che la vendetta non porta niente, se non altra violenza. So che non volete ritornare a com’era prima della Rivoluzione. So che volete vivere una vita migliore. Questo è il momento per dimostrarlo e…”, non riesco a finire il mio discorso, distratta da quello che sta accadendo sullo schermo di destra. Il countdown è terminato e i tributi sono arrivati alla Cornucopia trovandola vuota. Cioè, non proprio vuota ma sicuramente non piena di armi come si aspettavano. I tributi si guardano sbigottiti mentre le telecamere inquadrano da vicino il contenuto della Cornucopia: cibo. Cibo di ogni genere. E su di un piedistallo, un pezzo di pane. Viene inquadrata la targhetta esposta sul piedistallo: “Per una Panem libera, un’offerta di pace”, recita la scritta incisa nell’oro.
Guardo lo schermo centrale, l’immagine sfarfalla continuamente, mostrando un po’ la mia faccia sbigottita e un po’ il pezzo di pane che simboleggia il nostro paese. E improvvisamente le parole della Paylor hanno un senso: “So che siete curiosi, ma la vostra fame di sapere verrà saziata molto presto”, aveva detto la sera della parata dei tributi.
“Taglia! Taglia!”, urlo in direzione di Beetee che mi guarda sconcertato. Poi capisce quello a cui sono arrivata io solo pochi secondi fa: se pensavamo di imbrogliare la Paylor, è stata lei ad imbrogliare noi. Non ha mai avuto intenzione di inscenare davvero questi Hunger Games. Ed ecco spiegato lo strano atteggiamento che aveva in queste due settimane; voleva solo dimostrare qualcosa. Sì, ma cosa?
Beetee interrompe il collegamento perché ormai anche lui ha intuito che il cibo nella Cornucopia non era l’unica sorpresa: a questo punto il mio pass-pro non serve più.
Sto per chiedermi che fine abbiano fatto Peeta e gli altri, quando un hovercraft entra nel campo visivo della telecamera. Niente campo di forza, registra la mia mente. Quello in cui si trovano i tributi e la Cornucopia non è un’arena, ma solo un prato qualsiasi con nessuna fortificazione a proteggerlo o nasconderlo.
L’hovercraft atterra nel mezzo della vallata e la squadra di salvataggio esce di corsa senza nemmeno aspettare che il portellone si apra del tutto. Ma poi anche loro si fermano sconcertati a guardare la scena. Certo che deve sembrargli strana una strage alla Cornucopia senza strage, ma soltanto cibo in abbondanza.
Tutti si guardano intorno senza capire, finché uno schermo che prima era scuro all’ombra della Cornucopia non si illumina, mostrando lo stemma di Capitol TV. Contemporaneamente, una mano mi si poggia sulla spalla, facendomi voltare di scatto.
“Paylor, ma che…”, inizio, subito interrotta da lei. Come faceva a sapere che eravamo qui?
“Gale”, dice sottovoce, intuendo la mia domanda muta. Poi mi fa l’occhiolino, indicando il cameraman che la segue, giusto un attimo prima che la nostra immagine compaia in diretta sullo schermo della Cornucopia. Il mio sguardo cerca automaticamente Gale nell’inquadratura, finché non lo trova sotto lo schermo che mostra la mia faccia sbigottita con gli occhi ridotti a due fessure.
La Paylor intanto inizia a parlare, mettendomi un braccio sulle spalle e tornando al tono amichevole con cui l’ho conosciuta nel Distretto 8: così come la ricordavo prima di questa folle avventura a Capitol City.
“Qual era il suo scopo?”, le chiedo improvvisamente risvegliandomi dalla trance di stupore in cui ero caduta.
“Davvero non ci sei arrivata, Katniss?”, chiede sorridendomi. Il mio cervello inizia a lavorare frenetico. Gale. Gale sapeva. Sapeva dei Giochi e dei piani della Paylor già quando Haymitch gli chiese di infiltrarsi come Primo Stratega e lui rifiutò. E sapeva anche quando ha ammesso di aver fatto la spia. Era così addolorato, perché? Perché non sopportava di dovermi nascondere parte della verità, lui che non era mai stato capace di nascondermi niente. E la verità era? Che la Paylor voleva che si facessero i Giochi, certo, ma non come tutti ci aspettavamo. Lei aveva in mente tutto questo e sapeva dei nostri piani, non solo di quelli di Haymitch al principio, ma anche del pass-pro dopo. Pensa, Katniss. Il punto qual è? Lei sapeva che avrei fatto qualcosa, che avrei tentato di fermare tutto. Sì, perché Gale l’aveva avvertita. Quindi, se sapeva, lei voleva che tutta Panem vedesse che cosa avrei fatto per salvare 24 bambini innocenti, anche se tra questi c’era la nipote dell’uomo che mi ha causato tanto dolore.
“Buon esempio”, dico alla fine, colta da un’illuminazione.
“Spiegati meglio”, risponde annuendo, mentre il suo sorriso si allarga.
“Voleva dimostrare che se io, che ho perso tanto per colpa degli abitanti di Capitol City e dei Giochi, fossi riuscita a passare sopra a tutte quelle sofferenze per salvare dei bambini innocenti, allora anche i Distretti avrebbero potuto seguire il mio esempio e vivere in pace con Capitol City e tra di loro. Voleva che gli dimostrassi che il perdono è sempre possibile ed è per questo che Evelyn era tra i tributi e che proprio io, tra tanti, fossi la sua mentore. Poteva sembrare una casualità, invece era stato tutto deciso, non è vero?”, dico tutto d’un fiato.
“Proprio così”, conferma battendo le mani. Ed io la guardo stranita. Non posso credere di essere stata manipolata ancora una volta. Eppure la sensazione che provo dentro è completamente diversa da quella di sfruttamento che provavo quando ero costretta a fingere di amare Peeta per le telecamere. Questa volta è una sensazione che sa più di gratitudine, perché se avessi saputo da subito delle intenzioni della Paylor, non avrei mai acconsentito a fare quello che ho fatto. Mi sarei chiusa nella mia bolla personale, cercando scuse su scuse per lasciare il compito a qualcun altro, troppo presa dal mio dolore per poter servire da buon esempio. E così non avrei capito che forse, per una volta, il mio aiuto era davvero fondamentale per gettare le basi di una nuova società. E non perché fossi il volto della Ribellione, ma perché la gente sapeva quanto ho perso e poteva essere spinta a pensare: “Se ce la fa lei, perché non potrei io?”.
Senza rendersene conto, la Paylor mi ha anche reso un favore, distraendomi da tutti quei pensieri negativi che mi hanno accompagnata quando ero sola al 12; facendomi conoscere Evelyn, che mi ha insegnato tanto, con così poco. Avevo bisogno di un incentivo bello grande e la Paylor è stata brava a capirlo. Sapeva che una volta elaborato il lutto per la mia Paperella, non avrei impiegato molto prima di capire che altre morti non avrebbero portato a niente e che, per questo, avrei fatto proprio quello che lei si aspettava da me: reagire. Finalmente.
“Spero che i tributi non me ne vogliano per lo spavento che si sono presi, ma avevo bisogno di non rivelare niente a nessuno se volevo che questa cosa funzionasse. Mi perdonerete?”, chiede la Paylor rivolgendosi ai ragazzi che la guardando ancora sbigottiti, come se avessero paura che non fosse vera. Uno alla volta, con calma, annuiscono tutti; quasi come se avessero finalmente realizzato di aver salva la vita e che la Paylor non aveva mai avuto intenzione di farli uccidere l’un l’altro. Lei, per tutta risposta, sorride affabile e con un cipiglio visibilmente eccitato nello sguardo che mi suggerisce che le sorprese non sono finite.
“Bene!”, afferma contenta.
“Adesso è il momento della festa! Degli hovercraft stanno arrivando per voi!”, esclama infatti la Paylor mentre io la guardo sbigottita. Di che festa parla?
“Oh, so cosa stai pensando Katniss. Di cosa parla questa pazza?”, dice imitando il mio tono, facendomi arrossire.
“Lo scoprirai tra qualche ora”, continua enigmatica, facendo cenno al cameraman di interrompere la trasmissione, lasciando spazio all’inno di Panem. Ed io mi rendo conto di aver trattenuto il fiato, perché un sospiro prolungato esce dalle mie labbra. La mia mente è protesa tutta verso un unico pensiero adesso: Peeta. Mi ero così concentrata sulla paura di perderlo in questa missione – e sulla missione in generale - che soltanto adesso la portata di questo sentimento mi colpisce appieno, facendomi provare il desiderio bruciante di abbracciarlo e di non lasciarlo più andare, per non provare più la paura che ho provato in queste ore e che ho tentato di mettere a tacere mentre parlavo davanti alla telecamera.
Intanto la Paylor si congeda, lasciandomi sul tetto ad aspettare che l’hovercraft su cui viaggiano Peeta e gli altri faccia ritorno.
Ed è quando lo vedo solcare il cielo sopra di me che il mio cuore perde un battito, consapevole che tra poco potrò mettere finalmente a tacere il desiderio di stringere il Ragazzo del pane e lasciarmi cullare dal suo odore di farina e cannella.
Batto nervosamente il piede a terra mentre l’hovercraft atterra lentamente e poi – altrettanto lentamente – apre il portellone per la discesa dei passeggeri. Il primo a scendere è Gale, che mi guarda con uno dei suoi rari sorrisi in volto.
“Grazie di tutto”, gli dico in un sussurro quando è abbastanza vicino. E lui sa che mi riferisco a tutto quello che ha fatto per aiutare la Paylor a darmi un incentivo per reagire e non lasciarmi vivere.
“Di niente, Catnip”, mi risponde prima di allontanarsi per aiutare Beetee a mettere a posto l’attrezzatura.
Intanto in fila indiana scendono dall’hovercraft prima Haymitch, poi Johanna ed infine Peeta.
Con mio grande disappunto, il mio cuore perde un altro battito quando i miei occhi grigi incontrano quelli azzurri di Peeta. Sembra quasi che il tempo si sia fermato quando inizio a correre verso di lui per raggiungerlo più in fretta.
“Piano fiammifero!”, sento dire a Johanna ma, per una volta, non me ne curo.
Lo raggiungo e – finalmente, mi dice una vocina nella mia testa – lo stringo in un abbraccio soffocante, prontamente ricambiato dal Ragazzo del pane. Lo sento ridere tra i miei capelli e per la prima volta non mi importa di non essere sola con lui. Mi basta solo che ci sia, che sia qui sano e salvo. Che sia con me.
“Ti avevo detto che sarei tornato presto. Come mai tutta questa foga?”, chiede posandomi le mani sulle guance e sciogliendo l’abbraccio per guardarmi negli occhi. Non riesco a rispondergli, così faccio la prima cosa che mi viene in mente: faccio scivolare le mani dal suo collo alle sue guance e mi alzo sulle punte dei piedi per sfiorargli le labbra con le mie.
Torno con i talloni a terra giusto in tempo per sollevarli nuovamente perché Peeta, una volta passato l’attimo di stupore, mi stringe forte e mi solleva, facendo incontrare le nostre labbra in un vero bacio. Non come quelli che ci siamo scambiati tante volte per le telecamere, né come quello della grotta o della spiaggia. In questo bacio avverto tutto l’amore che prova per me e, per la prima volta – anche se faccio ancora fatica ad ammetterlo persino con me stessa – anche quello che io provo per lui. Era passato così tanto tempo dall’ultima volta in cui le nostre labbra si erano incontrate con così tanto trasporto, eppure adesso mi sembra la cosa più naturale del mondo da fare. Chiudo gli occhi, lasciandomi guidare dalla morbidezza delle labbra di Peeta e intreccio le dita ai suoi capelli, stringendolo di più a me.
Ci stacchiamo solo per riprendere fiato e, quando riapro gli occhi, scopro che Peeta mi osserva con un cipiglio curioso, come se stesse cercando di decidere se è davvero accaduto che Katniss Everdeen e Peeta Mellark si siano scambiati un bacio non per scampare alla morte o per uno degli episodi di lui, ma perché lo volevano davvero. Ha un’espressione così buffa che mi viene da ridere. Cerco di trattenermi, ma non riesco almeno a non sorridere.
“Che fai, ridi di me, Everdeen?”, chiede Peeta, di nuovo pericolosamente vicino alle mie labbra. Sto per rispondergli, quando delle voci concitate mi distraggono, facendomi voltare e facendo scoppiare la bolla in cui mi ero chiusa con Peeta, lasciando il resto del mondo fuori.
“Non ci posso credere!”, urla Xander mentre Evelyn continua a dire: “Lo sapevo! Lo sapevo!”, saltellando in giro. Li guardo con gli occhi sgranati perché, per quanto ne so io, sono sbucati fuori dal nulla.
“Oh, mio caro, adesso ho io il coltello dalla parte del manico”, sogghigna Xander, mentre la mia faccia diventa di tutte le sfumature di rosso possibile.




Angolo dell'autrice
Come promesso, eccomi qui! Vacanze finite, nuovo capitolo finito e pubblicato!
Ok, inizio col dire che avevo paurissima di pubblicarlo perchè avevo paura fosse troppo, in tutti i sensi. Poi la mia Cccchh mi ha detto che era perfetto e - anche se so che lei è di parte - alla fine mi sono convinta a pubblicarlo così com'era, senza cambiare niente. Ho buttato parte della mia cena nel fuoco pregando che vi piaccia, quindi speriamo bene! (l'avete capito il riferimento a Percy Jackson, eh? uhuh)
Insomma, il punto è: fatemi sapere che ne pensateeeeeeeeeeee! Grazie <3

Ormai già sapete che nel mio angolo ringraziamenti c'è sempre lei, la mia Cccchhh, che trova perfetti i miei capitoli anche quando io li odio. E io trovo perfetta lei! <3 (Leggete la sua fic, che pure è perfetta --> 
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2462888
)

Una menzione speciale va anche a tutti quelli che mi lasciano delle recensioni coccolose e dolcissime e niente...vi amo! Grazie!
Ma ringrazio anche chi ha soltanto aggiunto la storia tra le seguite/preferite/ricordate o semplicemente legge silenziosamente.


Alla prossima!

 
#Peetaaudacecipiace

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Farsi degli amici ***


Mentre cadevo mi hai preso la mano

A Hunger Games Fanfiction





12. Farsi degli amici

 
Le spalle di Evelyn si muovono a tempo assecondando il suo respiro lento e sono l’unica cosa di lei che si muove mentre dorme. Per un certo verso la invidio un po’: non sono mai così calma quando dormo. Nella migliore delle ipotesi, se non agito braccia e gambe, sto sicuramente urlando. Eppure guardarla dormire mi infonde una sensazione di calma interiore non indifferente, mi fa sentire quasi riposata, nonostante io non abbia chiuso occhio stanotte.
Avrei voluto dormire con Peeta, dormire davvero, non fare finta come stanotte, perché solo con lui riesco a superare gli incubi che mi perseguitano ogni volta che chiudo gli occhi e provo a lasciarmi andare, ma questa era l’ultima occasione che avevo per passare un po’ di tempo con Evelyn prima della mia partenza. Abbiamo parlato fino a tardi, finché lei non è crollata, sfinita dalle settimane passate da tributo.
Per certi versi, è stato meglio così. Se avessi dormito con Peeta, saremmo finiti a parlare di quel bacio che ci siamo scambiati sulla terrazza ed io non sapevo ancora cosa volevo fare esattamente. Avevo paura di fare un passo falso e rovinare tutto quello che abbiamo costruito dal suo ritorno al Dodici.
Avremmo potuto parlarne prima ma fortunatamente, non ce n’è stato il tempo. Durante la festa organizzata dalla Paylor siamo stati assediati tutto il tempo da persone provenienti da ogni angolo di Panem che volevano sapere la nostra versione dei fatti su questi Giochi-non Giochi. E alla fine della festa, che è arrivata molto tardi, Evelyn mi ha pregata di passare la notte con lei e dopo uno sguardo in direzione di Peeta dall’altro lato della sala e aver ricevuto un cenno di assenso da parte sua, l’unica cosa che ho potuto fare è stata accettare. E adesso sono contenta di averlo fatto: il premio è questa sensazione di calma che non provavo da molti anni a questa parte. E poi Evelyn è una brava ascoltatrice. Ha capito che avevo bisogno di esternare i miei dubbi su ciò che provo per Peeta e su cosa lui significhi per me e che soltanto ora, dopo aver finalmente messo la parola ‘fine’ sotto la questione Hunger Games, avrei concesso a me stessa il permesso di pensare a qualcosa che non sia salvare delle vite, che sia la mia o quella di qualcun altro.
Posso dire che ora, grazie a lei, ho le idee un po’ più chiare. Faccio solo fatica ad ammetterlo con me stessa.
“Lasciati andare”, è stato il suo commento quando finalmente sono riuscita ad aprirmi e a dirle tutti i pensieri che mi hanno attraversato la testa in questi giorni e che ho accuratamente evitato di considerare. Ed io mi sono scoperta a pensare che, sì, Evelyn ha ragione: devo lasciarmi andare e comportarmi davvero come una ragazza di 18 anni.
Poi una frase mi ha attraversato il cervello proprio dopo che Evelyn si è addormentata: “Ho fatto quello che dovevo per sopravvivere. E adesso? Adesso voglio vivere”.
Sono rimasta tutta la notte a fissare a tratti il soffitto e a tratti il volto di Evelyn, mentre queste parole mi attraversavano la mente, tormentandomi, suggerendomi di prendere in mano la mia vita.
Ci sto ancora rimuginando sopra, quando un mugolio da parte di Evelyn mi avverte che si è svegliata.
“Buongiorno”, le dico con un sorriso, girando il viso nella sua direzione.
“Katniss, sei già sveglia?”, mi chiede ancora intontita stropicciandosi gli occhi.
“Così pare”, le rispondo mettendomi a sedere.
“Hai dormito?”, mi chiede svegliandosi del tutto e mettendosi anche lei a sedere per guardarmi in faccia.
“Non sembra”, conclude, una volta finita la sua analisi.
“Sto bene, mamma”, dico, soffocando una risata, mentre mi stupisco di questo modo di fare scherzoso che così poco mi appartiene. Eppure è così strano avere qualcuno che si preoccupi per me, quando in genere sono io ad occuparmi degli altri. Io mi sento strana. Diversa.
“Le tue occhiaie non sono d’accordo. Sapevo che non avrei dovuto chiederti di stare con me. Non ti ho fatto dormire”, conclude imbronciandosi e incrociando le braccia sul petto come una bambina.
“Le mie occhiaie mentono. Sono perennemente lì, non fidarti di loro”, le dico sperando di tirarle su il morale, cosa che sembra funzionare. Almeno un po’.
“E’ che volevo passare più tempo possibile con te prima che partissi. Non credo che tornerai mai a Capitol City e non so se io potrò mai venire a trovarti al Dodici”, dice quasi per giustificarsi.
“Lo so”, le rispondo sorridendo, cosa che sembra convincerla ad abbandonare del tutto il broncio e a saltare giù dal letto.
“Andiamo a fare colazione?”, chiede con ritrovato brio, mentre la sua espressione si accende come se avesse avuto all’improvviso un’idea geniale.
“Va’ tu per prima, io ti raggiungo subito”, e non faccio in tempo a finire la frase, che Evelyn è già scappata verso la sala da pranzo.
Mi ristendo sul letto e chiudo gli occhi. Proprio non riesco a smettere di pensare a quella frase: “Adesso voglio vivere”.
Riapro gli occhi solo quando un rumore familiare di passi si avvicina al letto, che poi si muove sotto il peso di Peeta che si stende al mio fianco.
Giro il viso e incontro gli occhi azzurri di Peeta, un attimo prima che lui li chiuda e si avvicini per darmi un bacio sull’angolo della bocca, suscitandomi un sorriso spontaneo.
“Buongiorno”, sussurra con il suo naso ad un palmo dal mio, prima di allontanarsi un po’.
“Peeta, io…”, dico titubante quando il Ragazzo del pane torna con la testa sul cuscino. Vedo il suo sguardo farsi triste.
“Ti sei pentita”, mormora alzandosi a sedere di botto. Gli occhi azzurri diventano scuri per un attimo.
“No! Cosa…no!”, dico seguendolo. I suoi occhi mi scrutano curiosi, tornando del loro colore normale.
“Volevo dirti che non mi ero ancora lavata i denti”, ammetto, maledicendomi per la mia stupidità.
La risata del Ragazzo del pane invade la stanza e mi scopro ad ignorare tutti i miei pensieri e a perdermi in quel suono così dolce.
“Non mi interessa, Kat”, dice avvicinandosi di nuovo a me, questa volta per darmi un vero bacio. Mi stringe in un abbraccio che mi fa pensare a lunghe passeggiate tenendosi per mano e ad una vita che non pensavo avrei mai potuto immaginare per me. Mi circonda con le sue braccia, teneramente, ed io vorrei che non mi lasciasse mai andare.
Mentre le sue labbra accarezzano le mie, le sue mani si muovono sulla mia schiena, come se il Ragazzo del pane volesse diventare tutt’uno con me. Ed io mi scopro a voler avere di più di lui, tanto da prendergli il viso tra le mani e avvicinarlo a me il più possibile. Un turbinio di pensieri e sensazioni mi investe, mandandomi completamente in confusione.
Quando l’aria inizia a scarseggiare ci stacchiamo, ma Peeta trova comunque il fiato per dirmi: “Tu sei sempre perfetta per me”. Arrossisco fino alle punte dei capelli e mi stringo sul suo petto perché non so cosa dire. So che lui capirà che i miei abbracci vogliono dire: “Non lasciarmi mai, ho bisogno di te e di tutto ciò che fai per me”, e che non riesco a dirlo a parole, ma lui è fondamentale per me. Ed è stata proprio la paura di perderlo un’altra volta che me lo ha fatto capire. Ma per lui? Significherò ancora tutto quello che lui è diventato per me? So che cerca di non farmelo pesare, ma lo vedo ancora, ogni tanto, stringere tutto ciò che gli capita a tiro e serrare gli occhi aspettando che i flashback passino. E so di non essermi impressionata quando prima ho visto quell’ombra passare nei suoi occhi e so anche che contemporaneamente nella sua testa un ricordo distorto si stava affacciando o, chissà, semplicemente il pensiero di una delle tante volte in cui gli ho dato dei baci finti solo per le telecamere.
“Ma adesso cosa provi, Peeta?”, penso scostandomi dal suo abbraccio per guardarlo negli occhi. E lui indovina i miei pensieri, non so come, e mi sussurra: “Ci serve tempo, Katniss”, come se sapesse che mi sto torturando con mille dubbi su di lui, su di me, su di noi, su ciò che siamo e ciò che potremmo essere.
Resto a fissarlo senza dire una parola, ma Peeta non si lascia scoraggiare dal mio atteggiamento taciturno. Non abbandona il sorriso che lo caratterizza e, anzi, si alza e mi porge la mano, invitandomi a seguirlo per fare colazione. La afferro e mi lascio trascinare giù dal letto e poi nella sala da pranzo, dove scopro che Evelyn è scomparsa. In realtà sembrano tutti scomparsi, fatta eccezione per Xander che fa colazione assonnato, senza accorgersi di stare intingendo il croissant nell’aria invece che nella cioccolata calda.
“Candela”, borbotta tra uno sbadiglio e l’altro, non appena si accorge di me e di Peeta. Istintivamente guardo le nostre mani ancora intrecciate e poi il Ragazzo del pane: siamo davvero una coppia, tanto da spingere Xander a sentirsi di troppo? Non ho il tempo di elaborare questi pensieri, perché Peeta prende parola.
“Dove si è cacciata Evelyn?”, chiede, facendo schioccare le dita davanti al viso di Xander e indirizzandogli la mano col croissant verso la cioccolata calda. Il moro sembra svegliarsi un po’.
“E’ scappata via farneticando qualcosa come ‘Devo assolutamente portargliela prima che se ne vada! Dille che ci vediamo alla stazione!”, mentre saltellava per tutta la stanza. Mi chiedo come faccia ad essere così attiva la mattina, quella lì”, spiega Xander mentre finalmente riesce ad intingere il croissant nella cioccolata e a dargli un morso.
“Cosa deve portarmi?”, gli chiedo allora, immaginando che Evelyn si riferisse a me.
“Ah, non ne ho idea”, mi risponde confermando i miei pensieri e tornando poi a concentrarsi sulla sua colazione.
“Tu? Sai qualcosa?”, chiedo a Peeta, che intanto mi sta trascinando verso una sedia vuota per far mangiare qualcosa anche a me.
“Niente”, mi dice sorridendo. Cosa nascondi, Ragazzo del pane? Qualsiasi cosa sia, se c’entra Evelyn, non me lo dirà. Ma questo non mi impedisce di lanciargli un’occhiata truce che scatena ancora di più la sua ilarità e a cui risponde con una buffa smorfia.
Veniamo interrotti in questo gioco di sguardi dall’entrata in scena molto rumorosa del nostro mentore, che tuttavia non sembra tanto ubriaco come lo è di solito già a quest’ora del mattino. Quindi è rumoroso per natura, concludo mentalmente. Si accomoda sulla sedia affianco a Xander e gli tira una gomitata bisbigliando: “Che fai reggi il moccolo, ragazzo?”.
“Haymitch, ti sentiamo tutti”, dico infastidita mentre noto Xander annuire in direzione di Haymitch. Che fa, lo asseconda?!
“Ragazza di fuoco, non dovresti essere a fare qualche toast col panettiere?”, mi dice lui, ignorando il mio rimprovero e mandandomi la faccia in fiamme.
“Nessuno fa alcun toast con nessun altro, Haymitch”, viene in mio aiuto Peeta, ricevendo un’occhiata, stavolta di gratitudine, da me.
“Bla bla bla. La verità la sanno tutti e voi di certo non fate niente per nasconderla. Devo menzionare il bentornato che il panettiere ha ricevuto ieri mattina?”, domanda Haymitch con finto fare innocente.
“Basta così”, dichiaro alzandomi dalla sedia.
“Io vado a farmi una doccia”, dico più a Peeta che agli altri mentre già mi avvio verso la mia camera.
“Sì, spegni un po’ i tuoi bollenti spiriti”, sento Haymitch prendermi in giro, purtroppo accompagnato dalle risate degli altri, quando sono ormai in fondo al corridoio. Giuro che uno di questi giorni mi vendicherò. Così vedremo chi riderà per ultimo tra me e il vecchio ubriacone.
 
 
Avevo bisogno di un po’ di tempo per me, da sola, per elaborare tutto quello che ho passato in questi giorni.
Ho cercato di concentrarmi sul fatto che adesso potrei comportarmi come una ragazza normale della mia età, farmi degli amici. Poi ho pensato che non ho idea di come si faccia.
Ho passato metà della mia vita a cacciare e a tentare di non far morire di fame la mia famiglia, non avevo tempo per preoccuparmi di fare amicizie. L’unica amica che avevo era Madge e preferisco non pensare a lei. Al suo corpo sepolto nel prato insieme a tutti quelli delle persone che sono morte per colpa mia.
Mi guardo allo specchio e posso quasi vedere la scritta ‘assassina’ pendermi sulla testa come una spada di Damocle. Afferro il bordo del lavabo e cerco di concentrarmi su qualcos’altro, per non perdermi negli incubi che mi affollano il cervello anche da sveglia.
Un timido bussare sulla porta del bagno mi salva dal vuoto in cui stavo per cadere e quando alzo lo sguardo trovo una donna bionda, oggettivamente molto bella, a fissarmi. Sulle prime non la riconosco senza il trucco e le parrucche, ma poi la guardo negli occhi e capisco che la donna che mi sta davanti è Effie. Deve volermi dire qualcosa di importante se ha messo da parte l’etichetta ed è arrivata fin qui senza aspettare che le andassi incontro alla porta.
“Scusa se ti ho spaventata, cara. La porta era aperta”, mi dice con voce dolce.
“Effie”, dico in un filo di voce.
“In carne ed ossa”, conferma lei con un sorriso.
“Cosa è successo? Sei così diversa dal solito”, dico, senza riuscire a trattenermi.
“Sai, ieri alla festa ho incontrato tante persone. Credo di aver parlato con persone che provengono letteralmente da ogni angolo di Panem. E mi hanno fatto riflettere. Ho visto bellezza e semplicità nei loro volti, che credo di aver guardato davvero per la prima volta soltanto ieri, nonostante gli anni passati da accompagnatrice, a stretto contatto con persone estranee alla capitale. E ho capito che non avrei più voluto usare le parrucche o i ceroni per il viso. Ed è per questo che sono qui”, dice tutto d’un fiato, guardandomi negli occhi con uno sguardo che io ricambio, smettendo per un attimo di osservare i suoi capelli, il suo viso e i suoi vestiti con aria stranita, chiedendole silenziosamente di continuare.
“Sono qui – continua, torturandosi le mani – per ringraziarti, Katniss”, riesce a dire alla fine.
“Per cosa?”, le chiedo confusa.
“Per avermi permesso di vedere le cose come le vedo ora. Di aver fatto in modo che io, come tanti altri abitanti della capitale, capissimo davvero come va la vita nei distretti. Per avermi insegnato cosa vuol dire ‘vera bellezza’. Per avermi voluto bene, nonostante ti stessi accompagnando verso la morte. Due volte. Per il diletto dei capitolini. Perciò, grazie. Dovevo dirtelo”, conclude prima di stringermi in un abbraccio soffocante e sciogliersi in lacrime sulla mia spalla. Rispondo al suo abbraccio, dandole piccole pacche sulla schiena, mentre una vocina instilla nella mia testa l’idea che qualcosa di buono, tra tanti errori, l’ho fatta. E sono io che dovrei ringraziarti, Effie, per avermelo fatto capire.
 
 
La stazione è affollata almeno quanto la prima volta in cui ci sono stata. Tutti vogliono un pezzo di Katniss, non della Ragazza di fuoco né della Ghiandaia Imitatrice, ma della ragazza che ha messo ancora una volta in gioco se stessa per il bene degli altri. Chi vuole un mio bacio, chi vuole stringermi la mano, chi vorrebbe portarsi a casa una ciocca dei miei capelli. Peeta, intuendo il mio disagio per tutte queste attenzioni, cerca di fare da scudo umano.
Con molta difficoltà riusciamo finalmente ad arrivare all’ingresso del treno, dove scorgo Gale ed Evelyn, che ha sulle spalle una borsa gigantesca. Per un attimo penso che sia una valigia e che lei voglia venire al Dodici con noi, ma quando mi avvicino Evelyn se la sfila dalle spalle e me la porge, ricevendo da me un’occhiata confusa.
“E’ una chitarra”, dice soddisfatta. Quindi è questo che Peeta non ha voluto dirmi a colazione. Lo guardo di sottecchi e noto che sorride complice, sia a me che ad Evelyn.
“E questo è un manuale per imparare a suonarla”, continua, porgendomi un libro che noto soltanto ora mentre io non riesco a smettere di guardarla stralunata.
“Cosa dovrei farci?”, le chiedo intontita.
“Sei diventata sorda? E’ una chitarra con un manuale: devi imparare a suonarla, così avrai uno strumento che ti accompagni quando canti. Con un talento come il tuo non sarà difficile. E poi volevo che avessi qualcosa che ti ricordasse di me e di quello che abbiamo passato insieme. E’ un modo per dirti grazie, Katniss”, mi dice a metà sorridendo e a metà lacrimando per la commozione.
L’unica cosa che posso fare per non scoppiare in lacrime anche io è abbracciarla. Ed è proprio quello che faccio. La stringo forte, mentre tra le voci della folla posso sentire chiaramente quella di Xander urlare: “Abbraccio di gruppo!”, mentre le sue braccia e quelle che sento essere di Peeta, si uniscono all’abbraccio mio e di Evelyn, scatenando le risate di tutto il gruppo. Restiamo così per un po’, in un groviglio di braccia, chitarre e lacrime, finché il capotreno non annuncia che mancano pochi minuti alla partenza. Ci stacchiamo e siamo costretti a salutare i ragazzi, con la promessa di rivederci un giorno non troppo lontano.
Per tutto il tempo dell’abbraccio Gale è rimasto lì, in silenzio, aspettando il suo turno. Ora mi guarda sorridendo, come raramente lo avevo visto fare. Lo guardo anche io con un mezzo sorriso, rendendomi conto che perdonarlo e perdonarmi è stata davvero la cosa più giusta da fare. Ho riavuto indietro il mio migliore amico e, forse, la speranza che tutto possa andare bene, un giorno.
Come con Evelyn, non riesco a parlare, così abbraccio anche Gale che, stringendomi di rimando, si abbassa al mio orecchio e mi sussurra: “Catnip, sii felice e chiamami ogni tanto”. E so che lo farò, anche se non sempre, lo chiamerò. Anche se non sempre ci riuscirò, proverò ad essere serena. Lo devo a tutte le persone che hanno dato la loro vita affinché Panem diventasse un paese in cui vivere senza paure.
Perciò lo guardo negli occhi e annuisco. E lui capisce che è il momento di congedarsi. Molla la presa su di me e allunga il braccio per stringere la mano di Peeta, che ricambia la stretta e gli sorride cordiale. Ed io mi ritrovo a pensare che mai mi sarei immaginata che sarebbe andata a finire così. Mai mi sarei immaginata di perdonare il mio migliore amico, mai di voler iniziare una nuova vita, mai di conoscere la nipote di uno degli uomini che ho temuto di più nella mia vita e di arrivare a volerle bene. Mai mi sarei immaginata in grado di sopportare tutto questo: i Giochi, la fame, la morte e la desolazione, la mancanza della mia Paperella.
Eppure vedere Gale e Peeta che si stringono la mano, mi infonde una strana speranza. Perché abbiamo tanta strada da fare per aggiustare i pezzi di noi che si sono spaccati in questi anni, eppure questa stretta di mano mi sembra un buon inizio.
“Fantastico! Sono arrivato sul gran finale!”, esclama Haymitch, facendosi spazio tra la folla e accennando alla stretta di mano tra Gale e Peeta.
“Sempre in ritardo, Haymitch”, lo rimprovera Peeta con un sorriso, mollando la mano di Gale con un ultimo cenno di assenso e afferrando la maniglia del treno per salire. Stranamente l’ubriacone non risponde e, anzi, segue Peeta a bordo e poi mi porge una mano per aiutarmi a salire. La afferro e con un balzo li raggiungo, voltandomi subito dopo verso la banchina per vedere Evelyn, Gale e Xander un’ultima volta. E realizzo che è così che ci si fa degli amici: semplicemente volendo bene alle persone.




Angolo dell'autrice
Eccomi, con immenso ritardo. Vi prego, scusatemi!
Questa settimana è stata un inferno e pensavo di poter pubblicare ieri, ma sono stata dal dentista per tirarmi un dente e la sera non sono riuscita ad essere lucida come pensavo. C'est la vie! Oggi mi sentivo un po' meglio e non potevo più rimandare la pubblicazione di questo capitolo, così eccomi qui!

Ma veniamo al capitolo, che ne pensate? Ho affrettato i tempi? Katniss e gli altri vi sembrano OOC? Vi prego, fatemelo sapere in una recensione. Ho sempre bisogno dei vostri pareri :)

Nell'angolo ringraziamenti devo inserire come sempre la mia Cccch, che mi ha aiutata un sacco nel parto-veroeproprio di questo capitolo. *Graaaazieee Ccccch*
(Ehi, se volete leggere una fanfic bellerrima, passate da qui: 
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2462888, non ve ne pentirete!)

Un ringraziamento speciale va anche a tutti quelli che non mi hanno abbandonata in questa avventura nonostante la mia fastidiossissima lentezza nello scrivere e nel pubblicare. Grazie di tutto!

Alla prossima,
Flavia



 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Ogni notte - Epilogo (Di risvegli notturni e sorrisi spontanei) ***




Mentre cadevo mi hai preso la mano

A Hunger Games Fanfiction




 
13. Ogni notte
 
Mi sveglio quando il treno rallenta e poi riaccelera bruscamente e mi accorgo di essere sola a letto. “Che Peeta abbia avuto uno dei suoi episodi e che si sia voluto allontanare da me?”, penso immediatamente. Mi alzo in fretta, forse troppo dato che per un attimo mi gira la testa, ed esco dalla cabina in cerca del Ragazzo del pane. Uno strano suono cattura la mia attenzione ed è proprio nella direzione da cui proviene che mi dirigo, ma quando arrivo alla sua fonte non posso fare altro che restare a bocca aperta: Peeta, seduto sul divano, cerca di imparare a suonare la chitarra che Evelyn mi ha regalato.
Un sorriso spontaneo mi nasce sulle labbra quando Peeta, spazientendosi per aver sbagliato un accordo, sbuffa e si passa una mano nei capelli, sollevando lo sguardo e accorgendosi di me. Il Ragazzo del pane mi sorride di rimando mentre con un gesto della mano mi invita a sedermi accanto a lui.
“Un incubo?”, mi domanda, mutando la sua espressione in uno sguardo preoccupato.
“No, tranquillo”, gli rispondo, segretamente contenta per queste piccole premure che mostra nei miei confronti.
“Allora ero così imbranato da riuscire a svegliarti?”, domanda, stavolta con un sorriso.
“In realtà è stato il treno a svegliarmi e quando ho visto che non eri più accanto a me…”, dico, interrotta subito da lui.
“Hai pensato che avessi avuto un episodio e che fossi scappato chi sa dove”, conclude serio.
“Peeta, io…”, inizio, non sapendo bene cosa dire.
“No, va bene. Era legittimo che lo pensassi, Kat. Potrebbe succedere davvero. Ma quello che ti chiedo come favore personale è di non venire a cercarmi nel caso in cui dovesse accadere”, dice lui, guadandomi fisso negli occhi, come se volesse guardarmi dentro. E soltanto per un attimo, a sentire come pronuncia quel soprannome così dolce sulle sue labbra, mi viene quasi voglia di stargli a sentire.
“No”, rispondo poi semplicemente, guardandolo altrettanto intensamente.
Kat, per favore…”, inizia, ma non gli do il tempo di continuare.
“Non potrei mai lasciarti solo. Mai”, dico d’istinto, accorgendomi della portata di queste parole solo dopo averle pronunciate e abbassando lo sguardo di conseguenza.
Il Ragazzo del pane mi solleva il viso con un tocco delicato sotto il mento, un attimo prima di posare le sue labbra sulle mie. E’ un bacio delicato che, mio malgrado, dura poco. Significa “grazie perché mi sei vicina, anche se sono un mostro”, lo leggo nei suoi occhi quando torna a fissarli nei miei.
“Voglio che usciamo insieme”, dice all’improvviso, rompendo il silenzio.
“Uscire insieme?”, gli faccio eco confusa.
“Sì, voglio cominciare tutto da capo. Fare le cose per bene. Corteggiarti”, dice con una naturalezza disarmante, scrollando le spalle. Io semplicemente lo guardo, arrossendo violentemente e asciugandomi le mani sudaticce sul pigiama.
“Con calma, Kat. Non agitarti. Prometto che sconvolgerò la tua vita un po’ alla volta”, mi sussurra all’orecchio, facendomi sorridere.
“Sarebbe un grande sconvolgimento se tu accettassi di dormire con me…ogni notte?”, chiedo timorosa e sicura che ormai la mia faccia abbia assunto tutte le sfumature di rosso possibili.
“Sarebbe qualcosa che sarei felicissimo di fare”, dice soltanto, prima di abbracciarmi e sollevarmi di peso.
“Cosa fai?!”, protesto picchiettandogli la schiena con le mani, preoccupandomi già di pesare troppo sulla sua protesi.
“Sei leggerissima. Mangi almeno?”, mi chiede lui, ignorando la mia domanda; un cipiglio preoccupato nella voce.
“Certo che mangio”, confermo imbronciata, arrendendomi al fatto che non mi metterà a terra finché non saremo arrivati ai piedi del letto.
“Quando saremo a casa, mi occuperò personalmente di controllare che tu mangi”, risponde serio.
“Ho detto che mangio!”, dico stizzita.
“Non hai detto quanto, però”, obietta lui.
Intanto siamo finalmente arrivati in cabina, dove Peeta mi adagia lentamente sul letto.
“Ogni notte?”, chiede, guardandomi nuovamente negli occhi.
“Ogni notte”, gli rispondo io, sorridendo appena.
Il Ragazzo del pane mi si stende accanto e mi invita a poggiare la testa sul suo petto. Non me lo faccio ripetere due volte.
“Peeta?”, dico titubante dopo un po’.
“Mmmh?”, mi risponde lui, già mezzo addormentato.
“Perché non riuscivi a dormire?”, chiedo sussurrando.
“L’idea di non sapere se mi avresti chiesto o meno di dormire con te ogni notte mi faceva impazzire”, ammette, strascicando un po’ le parole come un ubriaco, forse per la poca lucidità dettata dal sonno.
“Non avrei potuto evitare di chiedertelo”, ammetto arrossendo. Ma a rispondermi c’è soltanto il respiro pesante di Peeta, segno del fatto che il sonno si è impossessato di lui.
“Buonanotte”, bisbiglio, prima di chiudere gli occhi e cadere in un sonno senza sogni, cullata dall’abbraccio del Ragazzo del pane.


 
Epilogo - Di risvegli notturni e sorrisi spontanei

Quando mi sveglio l’altro lato del letto è freddo. Il Ragazzo del pane, che io mi ostino a chiamare così ma che ormai è diventato un uomo, non è affianco a me. E se non è qui, nel bel mezzo della notte, so esattamente dove trovarlo.
Mi scosto una ciocca di capelli sudati dalla fronte mentre le immagini dell’incubo che mi ha svegliata continuano a ronzarmi nella testa. Mi alzo con lentezza, impacciata nei movimenti dal pancione che diventa ogni giorno più grande.
Cammino piano nel corridoio e posso già intravedere il bagliore della luce da notte arrivare dalla stanza di mia figlia. Quando finalmente raggiungo lo stipite della porta, ci rimango sotto imbambolata, mentre un sorriso si affaccia sul mio viso.
Peeta è seduto sulla sedia a dondolo che abbiamo comprato insieme quando aspettavo Willow. Sta dormendo, ma anche nel sonno non può fare a meno di stringere tra le braccia la nostra primogenita. Certo è che tra me e nostra figlia, il Ragazzo del pane ha un gran da fare la notte a consolare le donne della sua famiglia che si svegliano piangendo, eppure Peeta in questo momento ha un’espressione così felice sul volto mentre stringe nostra figlia, che per un attimo riesco quasi a dimenticare tutto il male che ho visto nella mia vita.
E’ stato così difficile aspettare questa bambina dai capelli scuri e gli occhi di cielo. Avevo paura – e continuo ad averne – che un giorno qualcuno me la potesse strappare, come è successo con la mia Paperella. Eppure la gioia che ho provato quando è nata, il primo sorriso che mi ha rivolto, la prima volta che mi ha chiamata mamma, sono tutte cose che ringrazio il cielo di aver avuto l’occasione di vedere.
Aspettare questo secondo bambino, invece, si sta rivelando più semplice, anche se gli incubi sembrano essere aumentati. Ma non mi lamento. In fondo, ho sempre la migliore delle medicine a disposizione per questo: la mia famiglia, che mai avrei pensato di costruire e che, eppure, continua a salvarmi in tutti i modi in cui una persona può essere salvata. A partire dalle focaccine al formaggio che Peeta ha la premura di preparare per me ogni giorno, fino ad arrivare ai disegni di mia figlia in cui io e il Ragazzo del pane sembriamo una normale coppia di sposi, forse un po’ sproporzionati sulla carta, ma felici.
Me ne sto lì, ferma ad osservarli, quando il Ragazzo del pane, mio marito, spalanca gli occhi e realizza di essersi addormentato. Poi sposta il suo sguardo su di me e l’espressione assonnata viene sostituita da uno di quei suoi sorrisi che amo tanto. Continua a guardarmi negli occhi mentre, con calma, si alza e mette a letto nostra figlia, stando attento a non svegliarla. Mi avvicino a lui lentamente, tenendo le mani sul pancione e quando gli sono accanto Peeta fa un gesto che ormai è diventato un’abitudine da quando ha saputo che ero incinta: sfiora prima il mio pancione con una mano e poi vi posa le labbra in un tenero bacio. Il bambino, come se avesse sentito che il padre lo ha salutato, scalcia facendoci sussultare entrambi. Allora Peeta mette entrambe le mani sul pancione, guardandomi negli occhi e sorridendomi beato. Lo fa sempre quando il bambino scalcia; dice che gli piace provare a sentire quello che sento io quando succede.
Quando il bambino smette di scalciare, il Ragazzo del pane sposta le mani dalla mia pancia per metterle sulla mia schiena e stringermi a sé, mentre io mi lascio avvolgere docilmente dal suo abbraccio che sa di pane e cannella, ma soprattutto di casa. Porto le mani sul suo viso e poso le mie labbra sulle sue e posso sentirle aprirsi in un sorriso ancora più grande di quello che già c’era.
“Mentre cadevo mi hai preso la mano. E non l’hai più lasciata. Mi hai risollevata, amata, guidata verso la vita che non avevo mai avuto il coraggio di desiderare. Il mio Ragazzo del pane. La mia famiglia. Le uniche cose che rendono la mia vita degna di essere vissuta.”, penso, mentre tra un bacio e l’altro sbircio verso i suoi occhi.
E alla fine lo sussurro, piano: “Mentre cadevo mi hai preso la mano”.
Il Ragazzo del pane sorride: “Sei stata tu ad afferrare la mia, il giorno in cui ti ho sentita cantare per la prima volta”.
 



 
A Sara,
che mi ha accompagnato in questa avventura.

 
Grazie,
per aver creduto in me.

 
Ti voglio bene.
 
 

 


Mi sembra d'obbligo ringraziarvi tutti.

Per l'ultima volta mi scuso per il ritardo, ma ormai ci avrete fatto l'abitudine.

In un periodo di inizi, di traguardi raggiunti e non, avevo bisogno di concludere ciò che avevo iniziato. E questa storia era una delle cose che ci tenevo di più a concludere.
Spero di chiudere con lei anche un capitolo della mia vita in cui mi sono sentita molto vicina al personaggio di Katniss dopo la guerra. Ho scritto di lei scrivendo un po' anche di me. Ho messo un po' della mia anima in queste righe e, non lo nascondo, anche un po' dei miei sogni.
Grazie a chiunque abbia condiviso con me questo viaggio.
Anche se sembra strano cliccare sulla spunta "completa", è un nuovo inizio.

Un bacio e un abbraccio,
Flavia

 


P.S. : è l'ultima occasione che ho per ricordarvi della storia della mia Cccchh, spero che possa farvi compagnia più di quanto non sia riuscita a fare io con la mia storia. Merita davvero. Se volete capire di cosa parlo, cliccate http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2462888
 


Cosa dite? Manca il motto?
Va beeene, #moreshirtlessPeetaforeveryone! 

 

 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2494551