Espiazione

di Eloise_Hawkins
(/viewuser.php?uid=145496)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I - Si vive insieme, si muore soli (Parte prima) ***
Capitolo 2: *** Capitolo II - Si vive insieme, si muore soli (Parte seconda) ***
Capitolo 3: *** Capitolo III - Tutte le strade portano a te ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV - Ergastolo ***
Capitolo 5: *** Capitolo V - Prigioniero ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI - Cicatrici ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII - Malfoy ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII - La maschera migliore ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX - Il prezzo da pagare ***
Capitolo 10: *** X - E venne il giorno ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI - Il male minore ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII - Easily torn ***
Capitolo 13: *** XIII - Not easily mended ***



Capitolo 1
*** Capitolo I - Si vive insieme, si muore soli (Parte prima) ***














Espiazione

 

 

 

 

 

« È una storia da dimenticare

È una storia da non raccontare

È una storia un po’ complicata.

È una storia sbagliata.

Cominciò con la luna sul posto

E finì con un fiume d’inchiostro.

È una storia un poco scontata.

È una storia sbagliata »

 

Una storia sbagliata – Fabrizio De Andrè

 

 

 



Diagon Alley non era altro che un cupo agglomerato di casupole plumbee e vecchi negozi dai muri incrostati e dagli interni polverosi. Gli antichi sogni di gloria che aveva vissuto, e che molti maghi ricordavano ancora, si erano infranti insieme ai vetri delle botteghe che un tempo costeggiavano la strada. La luce era diventata presto memoria sbiadita: uno spesso strato di nuvole copriva il cielo ormai grigio del luogo. Il sudiciume aveva preso possesso di ogni mattone, incuneandosi tra gli stretti vicoli che separavano le dozzinali case dalle finestre ricoperte di sporco, e rigagnoli fangosi scivolavano lungo le strade, tuffandosi in pozzanghere dall’aspetto altrettanto lercio. Il lezzo che si respirava, un misto di denso putridume e afrore grasso, marciume e sudore, era il risultato di anni di incivile incuria e sporcizia accumulata. L’opaca fuliggine dell’aria era stemperata solo da vaghi e incerti sprazzi di cielo che si intravvedevano tra un tetto e l’altro.

Una figura incappucciata si muoveva furtivamente tra i vicoli cupi, le braccia avvolte attorno a un fagotto che emetteva piccoli lamenti inconsistenti. Il mantello che ricopriva il viso della strega scivolò indietro, rivelando una ciocca di ricci neri e una pelle di pesca, imbrattata qua e là da macchie di terra e fuliggine. Un vagabondo, fermo in un angolo nella vana speranza di ottenere un po’ di elemosina, le sorrise, scoprendo la macchia scura di un dente mancante e indirizzandole proposte oscene. L’unica risposta che ricevette fu un mugolio – la lingua stretta tra i denti e l’orgoglio sepolto sotto terra. La giovane donna arricciò il nasino, sistemò meglio il cappuccio sul capo e, dopo aver sussurrato dolci parole al fagotto che stringeva tra le mani, proseguì a passo spedito verso il piccolo negozio che occupava il fono della via.

L’insegna della farmacia doveva aver conosciuto senz’altro tempi migliori, e di sicuro un tempo le vetrine erano stato pulite, perché tra le macchie di unto e sporco riuscivano ancora a intravvedersi flaconi di unguenti miracolosi e pubblicità che promettevano risultati definitivi contro la maggior parte delle malattie del mondo magico.

Quando la strega spinse la porta, uno scampanellio stranamente allegro e dissonante annunciò il suo ingresso. Un untuoso ometto spuntò all’improvviso da sotto il bancone, sistemandosi sul naso gli occhiali dalle spesse lenti e rivolgendo alla donna un’occhiata sospettosa. Ne sondò per qualche istante il volto in penombra, soffermandosi sui ricci scomposti e sugli occhi sfuggenti, per poi abbassare lo sguardo sul fagotto.

« Come posso aiutarla? » domandò con tono professionale, il dubbio un’acquosa nota di sottofondo che non intimorì la giovane.

Hermione trasse un respiro profondo e si avvicinò un po’ di più al bancone. Un cono di luce le colpì il profilo dritto e la bocca morbida, rivelando un viso dai tratti fini e delicati e uno sguardo deciso e profondo. Con una leggerezza delicatissima poggiò il fagotto sul legno liscio del tavolo, sotto gli occhi attenti e curiosi del farmacista; poi, scostò un lembo.

L’uomo emise un mugolio a metà tra il sorpreso e l’infastidito quando il minuto visetto di un neonato fece capolino dal mucchio di stracci che ne avvolgevano il corpicino. Aveva un colorito pallido e guance fin troppo scavate per un bambino della sua età: era evidentemente malato.

« Ha la febbre alta da quasi due settimane. Non so più cosa fare, ho provato con ogni tipo di pozione, ma… » cominciò a spiegare la giovane strega, ma fu interrotta da un brusco gesto del farmacista, che chinò il capo e si avvicinò al neonato tanto che il suo naso ne sfiorò il visetto smunto. Lo squadrò con occhio clinico solo per qualche istante, prima di parlare.

« È Bugattola. Una malattia virale rara, ma che si sta diffondendo sempre di più in questi ultimi anni. È dovuta a scarse condizioni igieniche » Gli occhi dell’uomo si assottigliarono appena, il suo sguardo divenne una lucente punta di spilla accesa dal sospetto. « L’ultimo caso che ho trattato ci ha lasciato due settimane fa» La sua voce si inasprì « Emmeline Vance, una sciocca dissidente che ha pagato con la vita i suoi ideali ».

Hermione riuscì a non trasalire solo con un grandissimo sforzo di volontà. Cacciò indietro le lacrime che le erano risalite, immediate, fino agli occhi, mascherando il dolore per quell’improvvisa e inaspettata notizia con un timore che non era del tutto infondato.

« Ce la farà, non è vero? » domandò, la gola annodata dall’ansia. Il farmacista le scoccò un’occhiata sospettosa, prima di chinare il capo e osservare con attenzione il neonato, che aveva cominciato ad emettere deboli vagiti di protesta.

« La malattia è già a uno stato avanzato. Servono immediatamente delle medicine » Puntò gli occhi, scurissimi, sulla strega. « Medicine molto costose » sottolineò con una sfumatura di crudele soddisfazione nella voce.

Hermione sostenne con fierezza il suo sguardo indagatore, glissando con dignità su quella luce malvagia che leggeva in fondo agli occhi dell’uomo: la disgustava il suo modo di guardarla, e ancor di più la repelleva quella latente compiacenza che vibrava dentro la sua voce, quella sua inquietante perfidia che lo schermava dalla compassione.

« Allora mi dia immediatamente queste medicine. Farò tutto ciò che è necessario perché Ted guarisca » disse la giovane con tono estremamente autoritario, sfidando con lo sguardo l’uomo. Lui indietreggiò appena, colpito da quell’autorevolezza, così dissonante con la figura dimessa e femminea della donna che aveva di fronte. Il suo sospetto fu scalfito dalla capacità della strega di dissimulare, da quell’orgoglio mai seppellito che era stato la più utile delle sue armi, in molte occasioni.

Il farmacista si esibì in un piccolo, breve inchino, prima di sparire oltre la porta che conduceva al magazzino.

Hermione, finalmente rimasta sola, fu libera di respirare e di concedersi un attimo di tregua dallo sguardo inquisitore dell’uomo. Si chinò sul piccolo Ted, regalandogli un bacio delicatissimo e cullandolo con la dolcezza di una donna e la reverenza di una madre. Il bimbo aveva cominciato a lamentarsi e piangere: i suoi vagiti, prima inconsistenti e deboli, si fecero via via più rumorosi. La giovane aveva il sospetto che il suo evidente nervosismo, tradito dagli scatti ansiosi delle sue braccia, contribuisse al malessere del bimbo, ma non riuscì a controllarsi né a scacciare quella sensazione che si stava aggrovigliando attorno al suo cuore.

La porta della farmacia si aprì con uno scatto improvviso. I campanelli risuonarono allegramente nell’aria, e una folata di aria putrida e fredda investì il viso della strega che, d’istinto, nascose il volto alla vista del nuovo avventore, fingendo di essere profondamente interessata a una mistura maleodorante che prometteva capelli lisci e fluenti. Considerata la sua chioma crespa e ribelle, non era una scusa poco plausibile.

« Harris! » chiamò a gran voce il nuovo giunto, con un tono evidentemente impaziente. Hermione gli lanciò un’occhiata furtiva: le dava le spalle, ma anche se non ne vedeva il viso sarebbe stato impossibile non riconoscere la chioma biondissima che ne ornava il capo. Le sfuggì un rantolo di panico, soffocato sulla fronte di Teddy con un bacio maldestro.

L’uomo si voltò appena verso di lei, scrutandola con una luce infastidita nello sguardo chiaro. Non fece in tempo a lanciarle più di uno sguardo: il farmacista riemerse dalle tenebre del suo ripostiglio con diversi flaconi tra le braccia. Quando vide il mago che attendeva davanti il bancone sussultò appena e, dopo aver riversato alla rinfusa le boccette e le ampolle appena recuperate, si avvicinò al giovane con un sorriso sornione sul volto.

« Signorino Malfoy, è sempre un piacere vederla. È venuto per il solito ordine settimanale? È tutto pronto, vado subito a prendere le sue cose » La sua voce era intrisa di un opportunismo talmente strisciante che ad Hermione risalì per la gola un conato di nausea acidulo. Non era certa se ciò fosse dovuto al nome pronunciato dal farmacista, che confermava i suoi peggiori sospetti, o alla meschina ipocrisia dimostrata dallo stesso; tutto ciò che riusciva a fare, era cullare Teddy, ma lo faceva in modo tanto nervoso da risultare maldestra.

« E tu, fai stare zitto quel marmocchio » Draco Malfoy latrò quell’avvertimento scorbutico mentre il farmacista spariva di nuovo oltre la porta del ripostiglio. Nonostante la strega fosse perfettamente cosciente della sua posizione di inferiorità, del pericolo che correva e della stupidità delle sue azioni, nonostante fosse risaputamente razionale e certamente poco impulsiva, non riuscì a trattenersi dal ribattere: l’insolenza e l’arroganza di quel ragazzino viziato erano una ragione sufficiente per rischiare.

« È solo un bambino, non lo vede? E sta male » commentò caustica, nascondendo il volto dietro l’ombra del mantello e tra le coperte che avvolgevano l’esile corpicino del bimbo. Gli scoccò solo un’occhiata breve, abbastanza torva da imprimere al suo tono e alle sue parole incisività, ma quel secondo fu sufficiente: le pupille di Malfoy si dilatarono per lo stupore.

Il farmacista tornò dopo pochi minuti, tra le braccia un grosso scrigno dall’interno del quale provenivano tintinnii dissonanti.

« Ecco, Signorino Malfoy » Mentre l’uomo poggiava la cassa sul bancone, la manica del braccio sinistro si alzò di qualche centimetro, abbastanza perché un lembo del tatuaggio nero giaietto che spiccava livido sulla pelle fosse visibile a tutti i presenti.

Hermione deglutì in silenzio, stringendo a sé il piccolo Ted con una punta di panico a destabilizzarle le mani. Mentre Malfoy controllava il contenuto dello scrigno, consultando una lista appena tirata fuori dalla tasca del lungo mantello scarlatto che contraddistingueva lui e la sua casta, il farmacista presentò alla strega il conto da pagare.

« Centodieci galeoni?! » ripeté lei, spalancando la bocca, oltraggiata da quel prezzo eccessivo. « Ma sono solo tre flaconi, com’è possibile…? »

« Questo è il prezzo! Se non può pagare, quella è la porta » ribatté caustico, indicando l’uscio con un sorriso di crudele soddisfazione sul volto.

Hermione strinse i denti, combattendo il desiderio di dare una lezione all’uomo dinnanzi a sé e imponendosi una calma che non le apparteneva. Diede una carezza leggera al piccolo Teddy, bollente di febbre, spegnendo tra le dita i suoi flebili lamenti, mentre lo cullava con delicatezza. Quando alzò lo sguardo, incrociò gli occhi grigi di Draco Malfoy fissi su di lei, una nota di incerta perplessità ad aleggiare dietro le pupille dilatate.

« Mi domando perché ragazze così giovani si ostinano a riprodursi se poi non sono nemmeno capaci di mantenere il proprio figlio » Un ghigno divertito gli arricciò le labbra sottili. Il giovane infilò nella tasca del mantello la lista che il farmacista gli aveva consegnato poco prima, poi compì un paio di passi in direzione di Hermione e lanciò un’occhiata al neonato che lei teneva tra le braccia. Istintivamente, la ragazza strinse il bambino, nascondendo il suo visetto pallido alla vista del Mangiamorte.

« Se non sono capace di mantenere mio figlio, è solo a causa dei prezzi disonesti che impongono i commercianti » Hermione era sempre stata una donna orgogliosa e caparbia. Persino in una situazione come quella, in un momento in cui sapeva di doversi nascondere, in un frangente in cui la prudenza sarebbe dovuta essere la sua arma e difesa principale – se non per sé, almeno per il piccolo Teddy – non riuscì a tenere a freno la lingua. Le parole le sfuggirono dalle labbra prima che lei potesse fermarle, con tono fermo e deciso, una punta di fierezza a colorarle la voce e un’altezzosità che non le apparteneva ad accenderle lo sguardo.

Il ghigno sul volto di Draco Malfoy si allungò: divenne qualcosa di molto simile a un sorriso, nascosto sotto una smorfia di velato disappunto.

« Come ti permetti, piccola, sudicia… ? »

« Devo andare, Harris » La rabbia del farmacista svaporò in un’accondiscendente sorriso di circostanza. Nonostante il rossore del viso rivelasse una collera non del tutto scomparsa, e lo sguardo, rivolto alla ragazza, brillasse di indignazione, il viso dell’uomo era una perfetta maschera di servilismo e compiacenza.

« Arrivederci, Signorino Malfoy. Porti i miei saluti a suo padre. E al nostro amato Signore Oscuro, naturalmente » L’inchino fin troppo profondo in cui l’uomo si profuse permise a Hermione di arricciare il naso in una smorfia di palese disgusto che non sfuggì al giovane Mangiamorte. Prima di imboccare la porta, Draco Malfoy si fermò e si voltò verso di lei. La cassa di legno che galleggiava a mezz’aria alle sua spalle urtò la sua schiena con un leggero tintinnio.

« E metta sul mio conto anche tutto ciò che serve alla signorina…? » Sfumò le ultime parole, spostando lo sguardo da un perplesso e offeso farmacista a un’incredula Hermione, che si riprese appena in tempo per replicare, con tutta la dignità e la prontezza di cui era capace.

« Edwards. Michelle Edwards. E non accetto elemosina » precisò con un’accesa sfumatura di disappunto nella voce acuta. Le guance si colorarono di un delicato rossore, senza alcun motivo apparente, quando lui, con due rapidi passi, le si avvicinò tanto da poter sentire il suo profumo forte e sprezzante, il suo respiro caldo e spezzato.

« Le Mezzosangue come te dovrebbero solo ringraziarmi quando decido di essere così generoso. Non credi, Granger? » Fu un sussurro gelido che paralizzò ogni pensiero, mormorato con voce timida e piccola, leggera, quasi quelle parole volessero imprimerle qualcosa in fondo all’anima. Fortunatamente, fu anche un bisbiglio che solo lei udì.

Mentre il farmacista guardava entrambi con espressione sospettosa, alternando lo sguardo dall’espressione decisa e vagamente divertita dell’uno, alla smorfia atterrita e incredula dell’altra, Draco Malfoy imboccò la porta e sparì tra le strade scure di Diagon Alley.

 

***

 

Quando Draco varcò la porta di casa, una cassa tintinnante ricolma di oggetti a galleggiare alle sue spalle, la donna gli lanciò un’occhiata penetrante. Il pensiero irriverente che formulò nella sua testa le disegnò sulle labbra un sorriso sarcastico, destinato a sfiorire sotto l’occhiata implacabile che il figlio le lanciò.

« Sei stato fuori tutta la notte » commentò con tono severo Narcissa, sorseggiando con raffinata pacatezza il suo thè corretto, dal quale esalava un sottile filo di fumo. I suoi occhi si socchiusero delicatamente, mentre le labbra cesellate si chiudevano, modellandosi sulla forma della ceramica. Con somma eleganza, si accomodò all’indietro, contro il morbido schienale della poltrona, mentre Draco, stranamente iracondo, sbuffava. La sua espressione era uno specchio fin troppo chiaro dei suoi sentimenti. Si aspettava di vedere un’ombra calare implacabile su quel viso perfetto, per cui fu sorpreso quando vi lesse solo una leggera indifferenza, quasi annoiata, la stessa che lei indossava da diversi mesi, ormai.

Il suo genuino stupore non ebbe modo di cristallizzarsi sul volto diafano: in quel momento la porta si spalancò con uno schiocco.

« Finalmente! » La vocetta infantile ma incredibilmente dura di sua zia trapanò il cervello di Draco. Una smorfia increspò la superficie nivea del suo volto di porcellana. « Era un compito piuttosto semplice, perché ci hai messo tanto? » latrò con una dolcezza tanto allarmante quanto inquietante.

Bellatrix divorò la stanza con falcate rapide e precise, poi si chinò verso lo scrigno e ne controllò il contenuto. Il suo sguardo brillò di sadica soddisfazione, prima di posarsi, sospettoso, sul nipote.

« Problemi? » chiese, un’occhiata carica di dubbio e inquisizione a perforare persino l’anima di Draco. La vorace sollecitudine con cui lo fissava suscitò nel giovane una crescente sensazione di claustrofobia. Un’espressione di riluttante rispetto aleggiò per un attimo sui suoi lineamenti affilati.

« No » ribatté bruscamente lui, la voce accesa da una sfumatura tagliente. Bellatrix, oltraggiata da quell’impertinenza, aveva già poggiato le lunghe dita sulla tasca che conteneva la bacchetta, quando sua sorella, con estrema pacatezza, parlò.

« Draco è stanco, Bella. Lascia che vada a riposare » esalò Narcissa, la voce accordata come un perfetto strumento musicale. Pur occupando un angolo della stanza, la sua presenza era ingombrante e stranamente prepotente.

Gli occhi neri di Bellatrix, sottili come spilli, saettarono per un attimo sullo schienale della poltrona dietro cui si nascondeva la sorella. La donna, i capelli neri a contornarle il capo come il disordinato velo di una sposa funebre, strinse le labbra, e lanciò un ultimo sguardo a Draco, prima di scomparire oltre la porta con lo scrigno sotto braccio.

Narcissa attese qualche minuto, prima di parlare.

« Moderazione. Autocontrollo » disse solamente, come se quelle uniche parole fossero una spiegazione sufficiente. Nonostante il tono definitivo e lapidario con cui le pronunciò, c’era qualcosa di caldo e rassicurante in quella voce.

Draco strinse i denti nella parodia di un sorriso, ma lo scintillio inquieto dei suoi occhi non si incrinò.

« Non posso salvarti dai tuoi pensieri, Draco. Nascondili. » La dignità dello sguardo che gli rivolse era forse l’unico motivo per cui Draco la ammirava, segretamente, così tanto.

 

***

 

Nei giorni successivi, Hermione non poté fare a meno di pensare al suo incontro con Malfoy. La febbre di Teddy stava lentamente scomparendo, lasciando spazio a un colorito roseo e sano, e questo era forse l’unico aspetto positivo della sua gita fuori dall’accampamento. Nonostante il successo della sua missione, il sorriso di Andromeda e il dolce sollievo nello sguardo di Tonks e Lupin, infatti, la giovane Grifondoro continuava a domandarsi il motivo non solo di quella gentilezza, stranamente dissonante se accostata a una persona come Draco Malfoy, ma anche – soprattutto – della grazia concessa dal Mangiamorte che era il ragazzo.

Non erano più un segreto i nomi dei seguaci di Voldemort: da quando il Signore Oscuro aveva preso il potere, il veleno dei suoi ideali si era esteso fino al Ministero, impossessandosi del cuore della maggior parte della popolazione del Mondo Magico. Per paura, ipocrisia o reale intenzione, molti si erano uniti a lui, e tutti portavano con estremo compiacimento la divisa rossa che contraddistingueva i Mangiamorte. Non c’era più vergogna, in quel Marchio Nero che un tempo veniva nascosto; non più timore nel mostrare l’appartenenza a quei ranghi che ormai erano diventati, più che l’eccezione, la regola.

E l’Ordine della Fenice, o ciò che ne rimaneva, non poteva far altro che nascondersi, nel tentativo di salvare i pochi rimasti fedeli a Silente e alla sua causa.

La guerra si protraeva da ormai due anni: quando il Preside di Hogwarts era morto, assassinato da un uomo di cui si fidava ciecamente e che invece aveva rivelato la sua vera faccia, Voldemort aveva conquistato prima la scuola, poi il Ministero, e da Londra si stava estendendo al Regno Unito intero, con l’intenzione di espandersi in Europa e poi anche oltre i confini a lui conosciuti. Non si era fermato davanti a niente, non aveva risparmiato nessuno.

Due anni. Una carneficina continua.

I Mangiamorte non facevano altro che mietere vittime, poco importava da che parte stessero o quali colpe avessero: uccidevano indistintamente, per il solo piacere di farlo. Lo facevano perché potevano farlo, perché niente e nessuno glielo impediva.

E a loro, l’Esercito di Silente, l’Ordine della Fenice; a loro – chiunque si ostinasse a portare avanti un ideale che in troppo credevano morto – non restava altro da fare che nascondersi, e agire silenziosamente quando potevano, nella speranza, un giorno, di riuscire a vincere non solo quelle piccole guerriglie che scoppiavano di tanto in tanto, come focolai di una malattia difficile da estirpare, in villaggi o città, ma soprattutto le battaglie, quelle vere, che decretavano il destino dei vincitori e dei vinti.

Hermione aveva rischiato la vita e la libertà tante volte, e altrettante aveva tentato, invano, di salvare chi poi aveva avuto un destino più ingiusto e crudele del suo. Durante quegli anni aveva imparato a convivere con il dolore, la paura, l’ansia di essere scoperti, catturati, uccisi. Aveva imparato ad accogliere la morte con lacrime di contrizione che si spegnevano insieme alle prime luci dell’alba, perché non poteva permettersi debolezze, perché i decessi e le scomparse erano compagni indesiderati ma sempre presenti.

Eppure mai, nemmeno una volta, le era capitato di incontrare un Mangiamorte che l’avesse riconosciuta senza ingaggiare uno scontro all’ultimo sangue. Soprattutto, non quel Mangiamorte.

L’aveva visto altre volte, Draco Malfoy, questo è naturale. In quanto nipote di Bellatrix, la prima e più leale servitrice di Voldemort, era presente a qualsiasi battaglia lei avesse preso parte, mai schierato in prima linea ma sempre pronto a difendere la linea nemica. In effetti, prima di quel momento non ci aveva mai fatto caso, ma non l’aveva mai visto attaccare per primo.

Ma perché l’aveva lasciata andare? Se l’aveva davvero riconosciuta, perché non l’aveva catturata, uccisa?

Hermione sapeva che il suo travestimento e la sua Trasfigurazione potevano ingannare un occhio poco attento o conosciuto, ma non chi per anni l’aveva vista camminare tra i corridoi della scuola; tuttavia, non avrebbe mai immaginato di incontrare proprio Draco Malfoy a Diagon Alley, soprattutto, non in un luogo in cui la luce avrebbe potuto scoprirla.

E invece aveva incrociato lo sguardo con uno dei Mangiamorte più pericolosi in circolazione: non perché fosse il più preparato o abile, ma perché era il più vicino a Voldemort in persona. E lei non era forse la migliore amica di Harry Potter, il Ragazzo che è Sopravvissuto e dal quale Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato è ossessionato?

Eppure, lui non aveva mosso un muscolo per nuocerle in alcun modo, né aveva rivelato la sua presenza. La sua supponenza era la stessa di sempre, i suoi occhi raccontavano la stessa superbia che per anni lei aveva osservato, a scuola, e da cui si era dovuta schermare il più delle volte. Cosa era cambiato in lui? Cosa l’aveva spinto a tacere? Era un piano? Uno schema progettato per annientarli, di cui le sfuggiva la trama precisa?

Erano domande a cui Hermione non riusciva a dare risposta. Non poteva fare a meno di pensare a quell’episodio, senza però riuscire a venirne a capo.

« Smettila di pensare alla fortuna sfacciata che hai avuto e concentrati » sibilò con una sfumatura di irritazione Ginny, da dietro il cappuccio che tentava maldestramente di celarne l’identità. Il viso smagrito era incorniciato da ciocche castane insudiciate, tra le quali spiccavano però, con insolita e orgogliosa ferocia, ciuffi scarlatti che chiedevano il riscatto del suo cognome.

« Sono concentrata » mugolò Hermione, che dopo l’ultima esperienza aveva deciso di perdere più tempo per domare la ribellione dei suoi ricci – nemmeno quando era a scuola si era impegnata tanto.

« Che ore sono? »

« Dodici e quattro » Una pausa. La maggiore lanciò un’occhiata al vicolo che aveva di fronte: in fondo, due sagome scarlatte accesero di colore l’anonimo grigio di Diagon Alley. « Andiamo. Abbiamo undici minuti »

Erano figure esili, incappucciate da stoffe scure e sdrucite, scialbe e impersonali quanto tutto ciò che le circondava, e proprio per questo poco riconoscibili. Percorsero con passi frettolosi, il capo chino e le dita serrate attorno al legno caldo della bacchetta, una via stretta e sudicia: i denti stretti per non soccombere all’orrore dei cadaveri abbandonati ai lati della strada, raggiunsero l’uscio scardinato di una casupola diroccata. Due colpi secchi alla porta, che si spalancò con un cigolio che sembrava un lamento. Con uno sguardo a metà tra l’inorridito e il rabbioso, Ginny entrò nell’abitazione mentre l’altra rimaneva fuori di guardia, ascoltando solo con un orecchio ciò che succedeva all’interno.

« Le medicine, Doris »

« Grazie. Grazie, davvero » Una voce fin troppo commossa e colma di gratitudine fino allo stremo. Troppo per non suscitare compassione, e la rabbia dell’impotenza. « Le vostre provviste. Non è molto, ma è tutto quello che ho potuto fare »

« Andrà benissimo. Meglio di radici trasfigurate, comunque » La voce di Ginny voleva essere ironica, ma conteneva un’inconfondibile nota di amarezza. « Ti ringrazio. Ora vado, prima che… »

Hermione perse il filo della conversazione quando quella parte del suo cervello ancora rimasta vigile e attenta a ciò che succedeva all’esterno registro un movimento che non avrebbe dovuto presentarsi nel suo campo visivo. Un secondo dopo, un lembo scarlatto comparve da dietro l’angolo.

La sorpresa fu tale che la ragazza non riuscì a trattenere un sussulto, ma la sua prontezza di spirito e il suo sangue freddo le permisero di pensare a un rapido Incantesimo di Disillusione Non Verbale, e un altrettanto veloce, silenzioso, avvertimento per Ginny.

Due Mangiamorte le sfilarono accanto, ignari della sua presenza, inghiottita dai mattoni sbiaditi e affumicati della casupola davanti a cui, immobile e senza fiato, sostava.

« Come hai potuto dimenticarlo? »

« Non è stata colpa mia! »

« Pregustavo già il mio vino d’ortica. Ah… »

Le parole dei due uomini si persero nella nebbiolina leggera della via che avevano imboccato. Hermione attese ancora qualche minuto, prima di richiamare Ginny con un fluido movimento del polso.

« Che è succ… dove sei?! » Gli occhi scuri dell’amica la trapassarono senza vederla, con una perplessa preoccupazione a velarle il viso, quasi irriconoscibile a causa della Trasfigurazione dietro cui era costretta a celarsi.

Hermione si lasciò scivolare di dosso l’Incantesimo di Disillusione, ma non diede tempo all’altra di meravigliarsi.

« Muoviamoci: siamo in ritardo » disse pragmatica. La prese per mano e percorse a ritroso lo stesso cammino attraversato precedentemente, gettando occhiate preoccupate all’orologio: erano passati tredici minuti, due in più del necessario, due in più del consentito. Due minuti che potevano costare loro molto, troppo.

Camminavano divorando metri, a loro volta divorate dalla fretta e dalla paura, il tempo un carnefice crudele che non risparmiava né il cuore né i pensieri. Quando intravidero il muro che le divideva dalla salvezza, quello che, una volta superate, le avrebbe condotte dentro il Paiolo Magico e quindi fuori dal raggio dell’incantesimo Anti-Smaterializzazione, imposto su Diagon Alley e un altro centinaio di luoghi magici, si permisero di rilassarsi e rallentare appena l’andatura. La fretta pungeva ad entrambe i piedi: era una colpa che non avrebbero dovuto mostrare, fin troppo rivelatrice delle loro intenzioni e del crimine che stavano commettendo.

« Ehi, voi due! Perché tanta fretta? »

Non si fermarono. Finsero di non aver sentito quella voce, che aveva punto le orecchie e perforato il cervello, trivellando la ragione e scavando baratri di paura dentro di loro. Chinarono il capo nel tentativo di nascondersi ancora di più: la speranza che quei tre Mangiamorte le lasciassero perdere rombava dentro di loro al ritmo sordo del cuore, che pompava furiosamente.

Speranza vana: la rinnovata fretta con cui si diressero verso il Paiolo Magico suscitò il sospetto di quegli uomini vestiti di rosso, che le richiamarono ancora una volta, prima di scambiarsi sguardi dubbiosa ma crudelmente soddisfatti e sguainare le bacchette.

Li separavano cinque metri, ma in linea d’aria i Mangiamorte erano più vicini di loro al Paiolo Magico: avrebbero sbarrato loro la strada, tagliando ogni via di fuga.

Hermione elaborò un piano con la lucida razionalità che l’aveva sempre contraddistinta: se era così che doveva finire, avrebbe perlomeno cercato di creare più problemi possibile, e soprattutto di salvare la sua migliore amica.

« Taglia per quel vicolo, arriva dietro il Paiolo. Io li distraggo » sussurrò rapidamente a Ginny, che le scoccò un’occhiata scandalizzata.

« Cosa? Non se ne parla, non ti lascio qui » protestò a bassa voce, rallentando il passo fino quasi a fermarsi del tutto. L’altra scoccò un’occhiata agli uomini, che squadravano lei e l’amica con sguardi avidi ed espressioni maligne, quindi riportò gli occhi in quelli della ragazza e la squadrò con serietà.

« Vai. Io ti raggiungo » mentì con ferma prontezza, anche se nel fondo del suo stomaco si agitava un mostro che si nutriva di terrore. Ma Hermione aveva imparato da tempo a mettere a tacere l’ansia e la prudenza: perché se la seconda non permette di mangiare, la prima rischia di ucciderti. O di uccidere le persone a cui vuoi bene.

« Non ci provare » Ginny digrignò i denti. Sembrava una bestia ferita, e nei suoi occhi brillava l’oltraggio subito per quella che sapeva essere un’enorme bugia.

Con la coda dell’occhio, Hermione vide che uno dei Mangiamorte si stava avvicinando. Non c’era tempo per discutere, né per litigare: la nobiltà d’animo della giovane Weasley, amicizia e lealtà che lei mai aveva messo in dubbio, la lusingavano, ma suscitavano anche angoscia e rabbia. Non doveva essere suo l’ennesimo nome aggiunto alla lista dei morti. Non poteva essere il suo.

Mentre uno degli uomini, ormai a poco meno di due metri da loro, agitava la bacchetta pronunciando, con voce ferma e decisa: « Finite Incantatem », Hermione spinse con quanta forza aveva in corpo la sua migliore amica verso il vicolo di fronte, sperando che quella spinta fosse sufficiente a farla ragionare, e fuggire. Il fascio di luce dell’incantesimo, però, colpì il corpo esile di Ginny proprio mentre l’altra la scagliava con energia il più lontano possibile. Il movimento brusco e improvviso, del tutto inaspettato, fece scivolare il cappuccio della ragazza sulle spalle. Una cascata di capelli rosso fuoco esplose nel centro della via.

« È una Weasley! » ruggì uno dei Mangiamorte, indicando con selvaggia soddisfazione quel segno di riconoscimento che era diventato una maledizione.

Ginny, riacquistato un precario equilibrio, sgranò gli occhi e lanciò uno sguardo furente all’amica: una supplica accorata e un’implorazione muta brillavano dietro le iridi scure.

« Vai! » urlò Hermione, prima di lanciare un Incantesimo Esplosivo contro gli uomini. Non ebbe tempo di controllare se l’altra avesse seguito o meno il suo consiglio: approfittò della confusione generata, della polvere fitta, dei detriti e dei calcinacci volanti, per fuggire nella direzione opposta, sperando vivamente che Ginny fosse tanto intelligente e pronta da seguire il suo consiglio e defilarsi il più in fretta possibile.

Il cuore le batteva furiosamente nel petto, dandole l’impressione di poter prendere il volo da un momento all’altro, strappando la prigione di ossa e carne che lo teneva ancorato alla vita e fuggendo a quella pressione nervosa a cui lei lo stava sottoponendo. La ragazza sentiva il moto laminare del sangue che rombava nelle orecchie. La bacchetta stretta in pugno, non riusciva a pensare a nient’altro che a quel suono: né i rapidi e precisi lampi che guizzavano accanto a lei, né le urla dietro di lei dovevano distoglierla dalla sua corsa folle.

Hermione lanciò dietro di sé una Fattura, senza fermarsi né prendere la mira: non era certa che lo scoppio che seguì fosse un buon segno, ma non si curò di voltarsi indietro per controllare. Invece, imboccò una stradina alla sua destra, nascondendosi nell’incavo creato dalle schiene di due case troppo vicine tra loro per poter essere legali. Approfittò della nebbiolina scura che avvolgeva le strade per fermarsi, riprendere fiato e controllare la situazione.

Al di là del suo nascondiglio, il clamore raggiunse livelli allarmanti, per poi scemare e infine spegnersi lentamente. I Mangiamorte che la stavano inseguendo dovevano averla superata, ma lei non osò affacciarsi per moltissimi minuti. Attese che il suo cuore riacquistasse un battito normale, prima di spingere la testa oltre la cornice del muro. La strada sembrava libera.

Senza attendere un attimo di più e senza preoccuparsi di nient’altro che non fosse la sua meta, Hermione ricominciò a correre, stavolta nella direzione opposta: la bacchetta era ancora saldamente serrata tra le sue dita e la sua mente vigile e attenta a ogni movimento o suono. Ben presto riuscì a intravedere, a pochi metri da lei, l’insegna del Paiolo Magico, che appariva e spariva, avvolta da un vapore lattiginoso. Proprio quando credeva di essere salva, però, una sagoma scarlatta sbucò da un vicolo buio.

 

***

 

Ginny avvertiva un dolore lancinante trafiggerle il petto, ma non osò fermarsi: la vita della sua migliore amica era nelle sue mani, e lei non poteva permettersi di perderla. Perciò, nonostante il fiatone e il dolore alle gambe, continuò a correre fino a quando non giunse sul limitare di un bosco. Solo allora si concesse una brevissima pausa: lanciò occhiate guardinghe e sospette intorno a sé, prima di compiere un passo deciso e sicuro e scomparire nel folto del bosco.

Ricomparve dall’altro lato della barriera eretta per proteggere l’accampamento, e senza guardarsi intorno si diresse di corsa verso una grande tenda gialla che ondeggiava al lieve vento che spirava, pochi metri più in là. Riposava all’ombra di un vecchio salice e aveva l’aria quieta e stanca di un vecchio guerriero: qualche macchia scura e diversi strappi ne denunciavano un uso prolungato ed eccessivo.

« Lupin, mamma, papà! » chiamò Ginny, ormai senza fiato. Si fermò solo quando i tre adulti si fiondarono fuori dalla tenda, direttamente su di lei, la preoccupazione a lampeggiare negli occhi di tutti.

« Che è successo? Sei ferita? »

« No. Ma Hermione… » La ragazza ansimò, in preda al panico e a un bruciore talmente intenso ai polmoni, che ogni respiro o parola era sofferenza pura. « Li ha distratti per permettermi di scappare, credo sia stata catturata » I suoi occhi scuri si puntarono dritti in quelli della madre: la paura era schermata dietro un velo di lacrime che, più che renderla facile, la facevano sembrare incredibilmente combattiva e assolutamente decisa a tornare indietro. « Dobbiamo tornare indietro, dobbiamo aiutarla, dobbiamo… »

L’espressione di sua madre, prima ancora che le parole di Lupin, le fecero morire le parole sulle labbra. La voce le mancò quando la smorfia di Molly e il sospiro di Arthur denunciarono la sua paura più profonda.

« No » Fu Lupin a dirlo, con la decisione stanca e sofferente di un padre che decide di abbandonare un figlio. Aveva il dolore negli occhi, ma sul suo viso c’era la determinazione di un leader e la risolutezza di un uomo.

Ginny spalancò lo sguardo ed emise un gemito incredulo. Se avesse avuto ancora un briciolo di forza in lei, se solo le sue gambe, il suo corpo, avessero ascoltato il comando imposto dal cervello, o anche solo il suo desiderio, si sarebbe lanciata contro l’uomo e lo avrebbe preso a pugni e a calci fino a quando non avesse acconsentito a tornare indietro, da Hermione. Se avesse avuto fiato, avrebbe gridato, strepitato tutta la sua indignazione e protestato contro quella decisione assurda, crudele, lapidaria. Il tono del suo vecchio professore di Difesa Contro le Arti Oscure era fin troppo definitivo per poter controbattere, ma lei non aveva intenzione di lasciar perdere.

« Lei l’avrebbe fatto » pronunciò lentamente, un sibilo intriso di rancore e disperazione insieme. Nel suo sguardò saettò un’ombra scura, densa d’odio ma anche di speranza.

« Si vive insieme, si muore soli » Lupin emise un sospiro stanco. « Sono le nostre regole, Ginevra. E le ha decise anche lei » mormorò, atono e monocorde. Improvvisamente, sembrava invecchiato di centinaia di anni, come se il peso di quella decisione, insieme a tutte quelle prese in precedenza, agli anni di guerra, ai dolori e alle perdite, fosse precipitato su di lui in quel preciso momento.

« Pensaci. Quanti dei nostri sono stati catturati? » Arthur intervenne con tono delicato e tenue, ma la smorfia sul suo viso lascia intravedere la sua totale contrarietà a quella decisione.

« Ma lei è diversa! » Ginny scosse il capo e fece un passo indietro, ferita.

« È una di noi, esattamente come gli altri » La voce di Molly era tanto asciutta e risolutiva da mettere un punto a quella seppur breve discussione.

« Harry non ve lo perdonerà mai » Ginny digrignò i denti come una bestia ferita, stringendo i pugni e gonfiando il petto con quanta più dignità possibile. Dietro i suoi occhi, si agitava un’ombra feroce ma incerta. Pronunciare quel nome era al tempo stesso un balsamo e un dolore: conteneva i suoi timori più crudeli e le sue speranze più dolci.

« Harry non è qui adesso » disse Lupin voltandole le spalle.

« Harry è solo un ragazzo » aggiunse nello stesso momento Arthur con un sospiro.

« Harry è la nostra unica salvezza » Con un’espressione ferita ma combattiva, Ginny si Smaterializzò con uno schiocco.

 

***

 

Hermione tentò di divincolarsi dalla presa salda dell’uomo che, tagliandole la strada proprio quando credeva di essere salva, l’aveva privata di ogni speranza di salvezza.

« Non agitarti piccola » Il rude abbraccio dell’uomo si serrò maggiormente quando lei si azzardò ad alzare un ginocchio per caricare un calcio. Il fiato le si spezzò nei polmoni e per un attimo alla ragazza mancò il respiro: la morsa in cui la stringeva era tanto forte da darle la sensazione che, da un momento all’altro, le sue costole si sarebbero rotte. « Non vorrei rovinarti » Intorno a lei si stava condensando un sottile fumo color cenere. Brandelli di pulviscolo argentati danzavano dentro la lama di luce che, dalla finestra rotta di una casa, si proiettava sulla strada, a pochi metri da lei. « Sono certo che il Signore Oscuro mi coprirà di lodi e doni per il regalo che sto per portargli » Il suo sussurro, basso e gelido, sapeva di alcool e tabacco; la sua pelle odorava di sudore e muffa. Le mani ruvide del Mangiamorte le sfiorarono in modo apparentemente casuale il seno, per poi serrarsi ancora di più attorno alla sua cassa toracica. «Non posso portargli un regalo danneggiato, non credi? ». La punta della bacchetta le sfiorò la guancia, risalì lungo gli zigomi e si fermò sulla tempia. Con la coda dell’occhio, Hermione colse il sorriso sadico dell’uomo: gli mancava un incisivo, e aveva una lunga cicatrice che gli attraversava la guancia destra.

« Stupeficium »

Hermione chiuse gli occhi, aspettando il dolore, ma il dolore non giunse mai. Al contrario, la sensazione di costrizione al petto si allentò, permettendo alla paura di sgusciare fuori da lei con un’unica, lenta espirazione. Quando, lentamente e con perplessa incredulità, la ragazza riaprì le palpebre, il Mangiamorte giaceva ai suoi piedi, Schiantato.

La giovane strega si guardò intorno, spaesata, alla ricerca del suo salvatore. Si aspettava di vedere capelli rossi, da qualche parte, come un unico punto di luce e colore in quel buio sporco che era Diagon Alley; forse, persino due dolci occhi verdi, un sorriso di incoraggiamento al di sotto di una cicatrice che era la fonte di tutti i loro problemi. Invece, tutto ciò che vide fu la foschia opaca di due iridi di ghiaccio che per un attimo, solo un istante infinitesimale, sembrarono risolvere il proprio mistero, stemperando la freddezza e l’orgoglio dentro la speranza di uno sguardo.

Hermione Granger era una strega potente, ma furba. Conosceva i suoi limiti e, soprattutto, era capace di valutare con freddezza le situazioni. Non rimase immobile a domandarsi cosa quegli occhi grigi volessero suggerirle, né sapeva che quell’unico momento poteva rivelarsi catartico, in un certo qual modo, risolutore, per un futuro prossimo che lei non poteva ancora vedere.

« Dover »

Bastò una voce lontana, l’eco di passi affrettati e voraci in lontananza.

Gli voltò le spalle proprio mentre, lo sguardo ancora fisso su di lei, Malfoy si puntava la bacchetta alla tempia. Il tonfo che seguì fu coperto dal sonoro schiocco della sua Smaterializzazione.

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo II - Si vive insieme, si muore soli (Parte seconda) ***


2.

Si vive insieme, si muore soli



(Parte seconda
)

 

Una sottile lama di luce fendeva la fitta oscurità del sotterraneo. La fioca penombra di quel luogo dimenticato era, insieme, una compagna docile e una nemica sempre in agguato. Polvere e umidità, ormai, non potevano più spaventarlo: Draco Malfoy, bambino viziato e cresciuto tra lusso e bambagia, aveva imparato negli anni precedenti cosa significasse vivere all’addiaccio. Non era nemmeno il buio a intimorirlo – quello era diventato un alleato prezioso – né gli insulti aspri che la loro prigioniera lanciava, le maledizioni e le minacce, l’asprezza e l’odio: a quello si era abituato già a scuola.

A tormentarlo era più quel dolore dolcissimo che gli crepitava sotto la pelle, l’angoscia che aveva scoperto di provare, incredulo, quando al suo risveglio aveva saputo che i suoi compagni avevano catturato una donna dell’Ordine. Saputo il suo nome, la morsa che gli stava lacerando lo stomaco si era allentata diventando feroce speranza.

Poteva sopportare le sue urla indignate, se il premio che gli si prospettava era meglio di tutto ciò che aveva fino a quel momento ricevuto dal Signore Oscuro. Poteva sopportare l’umidità, la scomodità di una branda improvvisata, il freddo e la noia, l’attesa ossidante e l’ansia sorda, se il suo primo e ultimo desiderio aveva anche una sola possibilità di realizzarsi.

Aveva finto di accogliere con malagrazia e disinteresse quel compito ingrato che aveva fatto storcere il naso a più di un Mangiamorte – fare la guardia a un morto che cammina non era una prospettiva esaltante – ma dentro di lui un mostro gridava con ferocia la sua compiacenza. Doveva essere una punizione, la sua, assegnata dai suoi superiori per la sua inettitudine, ma qualcosa gli dava un motivo per accogliere quella notizia con falso distacco.

Con un mugolio di stanchezza, le ossa che scricchiolavano stancamente, si alzò dalla branda. Poi, aprì la porta della cella e gettò ai piedi della ragazza un tozzo di pane e una brocca d’acqua.

Ginevra Weasley, i polsi legati da catene invisibili che la facevano somigliare a un Cristo in croce, alzò il capo e lo inchiodò con il suo sguardo d’odio feroce. Le lentiggini spiccavano livide sul suo volto pallido, solleticate da una ciocca di capelli sudici, rosso fuoco nonostante tutto.

« Di tutti i vermi, tu sei senz’altro il più schifoso » sputò con rabbia, lo sguardo stretto dal rancore e dal disgusto.

Un ghigno arcuò le labbra sottilissime e livide del giovane Malfoy.

« Strano. Avrei giurato che fossi tu quella sporca di terra e lerciume » replicò con leggerezza, mentre richiudeva la porta cigolante della cella e si abbandonava sulla piccola sedia di legno assegnata al guardiano del momento.

« Pagherai. Per ogni cosa » sibilò Ginny, indignata, mentre il ragazzo si dondolava sulla sedia con gli occhi fissi sul soffitto.

« Non sei nella posizione di minacciare » sussurrò debolmente il giovane, con voce stanca e annoiata.

« Non è una minaccia, ma una promessa » Sul viso della ragazza si disegnò un lieve sorriso che ricordava la dolcezza di ricordi andati perduti, ma che conservava una sfumatura di ferocia sottile e inquietante.

« Non fare promesse che non puoi mantenere, Weasley » Quello di Draco, però, era un sorriso ancor più accentuato. « Il Signore Oscuro non ti ha ancora messo le mani addosso » Le scoccò un’occhiata carica di beffardo divertimento, che poteva significare qualsiasi cosa, ma che aveva il solo scopo di sondare la sua reazione. Nonostante il suo tentativo di rimanere impassibile, una goccia di sudore freddo scivolò sulla tempia di Ginny.

 

***

 

Si vive insieme, si muore soli”: era una regola che avevano imparato a rispettare da quando la guerra li aveva costretti a una vita nomade e incerta. Ogni giorno era un’incognita, il domani una remota possibilità: in condizioni come quelle, lo spirito di squadra che aveva sempre caratterizzato l’Ordine non era venuto meno, ma la stretta rete che erano un tempo aveva ceduto e si era lacerata, lasciando buchi in più punti. Le scelte di ognuno pesavano come macigni sul destino di tutti: era per questo che avevano istituito quella legge, un monito e insieme una necessità.

L’Ordine della Fenice, ormai, è solo uno sparuto gruppo di topolini che cerca di difendersi con la ferocia di una tigre, ma che rimane pur sempre incapace di contrattaccare efficacemente.

« Anche io volevo bene a Ginny, ma la legge è uguale per tutti! » Dedalus Lux batté con forza un pugno sul tavolo, scattando in piedi tanto repentinamente che la sedia su cui era adagiato il suo scheletro sottile rotolò a terrà. « Abbiamo stabilito delle regole ed è bene rispettarle. Non possiamo infrangerle non appena le circostanze cambiano, cosa pensate che… »

« È mia figlia! » Molly lanciò un mugolio isterico, lo sguardo indignato puntato sull’uomo che aveva appena parlato. « Non lascerò mia figlia in mano a quei mostri » Le sue spalle vibrarono in modo preoccupante, ma nonostante i segni premonitori, che lasciavano presagire un pianto nervoso, la donna rimase impassibile, il mento alto e gli occhi puntati su Dedalus.

« Molly, non sappiamo nemmeno se... » Lupin, la voce pacata e il tono neutro, intervenne nel tentativo di placare gli animi dei presenti, ma tutto ciò che ottenne fu un’occhiata oltraggiata da parte di Molly.

« Remus ha ragione, cara, forse si è solo nascosta… » balbettò impaurito Arthur, aggrappandosi alla folle speranza che l’uomo accanto a lui gli aveva dato.

« Hermione è tornata cinque ore fa. Cinque, Arthur! » ululò ferita la donna, spostando lo sguardo da Dedalus al marito. « Se nessuno vuole andare a riprenderla, ci andrò io, costi quel che costi » asserì con determinazione, sfidando con lo sguardo chiunque osasse ribattere alla sua decisa affermazione.

« Eppure avresti lasciato morire Hermione » Elphias Doge, i corti capelli argentati che catturavano la fioca luce delle torce, prese la parola all’improvviso. Molly guardò confusamente tutti i presenti, spostando lo sguardo sulle loro espressioni altrettanto incerte e mortificate, prima di individuare il vecchio mago, seduto in disparte rispetto al resto del gruppo.

« Ginny è mia figlia… » mormorò la donna, in un pallido tentativo di difendere se stessa e le sue idee. Era evidente, però, che nella sua voce cominciava a serpeggiare un senso di colpa non indifferente.

« Dicevi che anche Hermione era come se lo fosse » ribatté Elphias, il capo chino e gli occhi chiusi, come se stesse parlando a se stesso. Il cappello che indossava lanciava un’ombra scura sul suo viso, una ragnatela di rughe senza fine. Sembrava quasi dormire, e nella sua immobile pacatezza aveva l’aspetto saggio e antico di quell’amico perduto che aveva elogiato poco dopo la sua morte. « Eppure l’avresti lasciata morire » esalò con voce rauca.

« Io… » Molly sembrava sull’orlo delle lacrime, adesso.

« Siamo in guerra, Molly. Ci sono vittime ogni giorno. Ma noi abbiamo delle regole; e le abbiamo decise insieme » La voce di Elphias, bassa e monocorde, sembrava aver attratto l’attenzione di tutti, costringendo i presenti a un silenzio attonito. « Non possiamo rischiare la vita di tutti per la sopravvivenza di pochi. Tua figlia ha fatto la sua scelta: è stata lei a tornare indietro, a voler rischiare. Una sciocca. Nobile, certo, ma pur sempre una sciocca » Ora l’uomo sembrava cominciare a mostrare i primi segni di affaticamento: la sua voce vibrò e il suo respiro divenne più affannato.

Un silenzio implacabile calò sui presenti. Mentre Molly Weasley scoppiava in un pianto disperato, un sottilissimo filo color carne scivolava lentamente tra le foglie secche e il terriccio umido dell’accampamento, serpeggiando come una vipera silenziosa e letale fino alle mani di due giovani nascosti dietro l’ombra di un albero.

« Noi non siamo mai stati d’accordo con questa stupida regola, vero? »

« Mai, fratello »

I due si scambiarono uno sguardo d’intesa. Perfino nel buio era impossibile non notare che nei loro sguardi vispi brillava un sorriso.

« Andiamo a riprendere Ginny »

***

 

« Non posso scappare » Ginny tirò verso di sé i gomiti: catene invisibili tintinnarono nell’oscurità. « Perché rimani qui? Pensi davvero che potrei andarmene? »

Lo sguardo di Malfoy si piantò dritto nei suoi occhi: le iridi plumbee, tanto intense da farla rabbrividire per un attimo, sembravano beffarsi di lei. Il sottile ghigno che gli arcuava le labbra avvalorava le sue ipotesi.

« Aspetto che Potter venga a riprenderti » esalò con la compiacente soddisfazione di un cacciatore che ha appena avvistato la sua preda. Ginny sbuffò, e un’ombra scura le velò gli occhi per qualche istante.

« Harry non verrà. Non è stupido » Nonostante la determinazione delle sue parole, il suo tono vacillò per un istante. La sua voce tremava quando guardò Draco negli occhi. « E poi, Malfoy, mi dispiace deluderti, ma è la nostra regola: si vive insieme, si muore soli ».

Nonostante il suo viso sembrasse una maschera imperturbabile, qualcosa dentro lo sguardo di Malfoy si incrinò.

 

***

 

Nel silenzio della notte, uno scricchiolio. Non diverso dai soliti che circondavano il bosco durante la notte, e come di consueto accompagnato da bubbolii di gufi e frusciar di fronde. Le torce vibrarono al vento sempre più freddo che spirava da nord, ambasciatore indiretto di un inverno implacabile.

Hermione non aveva niente con sé, se non la bacchetta che stringeva convulsamente, mentre con il mento alto e lo sguardo combattivo e deciso di una dea camminava verso la barriera magica eretta a difesa dell’accampamento.

« Dove stai andando? »

Non aveva raccontato a nessuno della sua decisione, perché sapeva che nessuno avrebbe capito, approvato. Sapeva che nessuno l’avrebbe lasciata andare, e non poteva permettersi di rimanere indietro, mentre la sua migliore amica si sacrificava per la sua salvezza. Era solo colpa sua se era stata catturata, d’altronde. Quella guerra poteva anche aver cambiato gli adulti, reso i genitori meno attaccati ai figli e i capi più severi e inflessibili, ma lei non era cambiata, era la stessa di prima, la stessa di sempre: un’amica fedele e leale, pronta a morire per i suoi ideali e per i suoi compagni.

« In nessun posto » ribatté con voce ferma, sondando l’oscurità con gli occhi alla ricerca della fonte di quella voce.

« E in questo nessun posto c’è Ginny, per caso? » Dal fitto buio del bosco intorno all’accampamento sbucarono due sagome alte e snelle. Gli allampanati gemelli Weasley, un sorriso furbo e ironico a far da contralto alla magrezza del volto, la fissarono con sguardi compassionevoli, come se la ritenessero una bambina talmente poco incline alle monellerie, da non riuscire nemmeno in un’impresa estremamente semplice.

Hermione aprì la bocca per ribattere, ma la richiuse subito dopo. Non era mai stata particolarmente brava a mentire, ed era sicura che, in quel frangente, i suoi occhi l’avrebbero tradita.

« Sentite, non m’importa cosa dicono gli altri o quali siano le regole, io… » Fu interrotta da Fred, che alzò una mano in segno di monito e scosse la testa.

« Non importa nemmeno a noi » disse, e questa volta persino dietro il suo sorriso c’era la traccia di una determinazione dura e implacabile, impossibile da sconfiggere.

« Ginny è nostra sorella » soggiunse George. Anche lui aveva smesso di sorridere. Entrambi la fissarono con risolutezza, nei loro occhi tutto l’affetto che li aveva spinti fin lì. « Stiamo andando a riprenderla ». Hermione annuì, ma prima che potesse replicare Fred sopraggiunse: « Noi due da soli » rimarcando con enfasi le ultime tre sillabe.

« Io vengo con voi » asserì invece la ragazza, la bocca imbronciata e uno sguardo contrariato. George scosse il capo.

« No, è troppo pericoloso » La giovane strega stava per aprire la bocca e replicare, ma lui continuò, ignorandola volutamente « Insieme a Ginny e Ron, tu sei la persona più vicina a Harry in questo momento » spiegò pragmatico.

« Siete carne da macello » precisò Fred con un tono che aveva una sfumatura di divertimento piuttosto inquietante.

« Prede fin troppo appetibili » George annuì. « Perdere te per recuperare Ginny sarebbe davvero una mossa stupida. E lei non ce lo perdonerebbe mai, comunque. Non dopo aver rischiato la pelle per te »

Hermione arrossì violentemente, e il suo sguardo si oscurò. George sembrò rendersi conto con un attimo di ritardo che le sue parole l’avevano ferita oltre ogni modo: aveva parlato senza riflettere, con un’inclinazione divertita nella voce, perché quello era il suo modo di fare. Non l’aveva detto con cattiveria, ma con l’intenzione di convincerla a rimanere.

« So badare a me stessa » sibilò Hermione, al colmo dell’irritazione.

« Non ne dubitiamo. Ma sappiamo anche che non sei invincibile, e che Harry sarebbe così stupido da venire a riprenderti » Le labbra di Fred si aprirono in un sorriso angelico e sornione al tempo stesso. Suo malgrado, la ragazza non riuscì a trattenere l’angolo della bocca, che si arcuò leggermente verso l’alto.

« E poi, se ti dovesse succedere qualcosa, chi lo sente Ron? » George sghignazzò, assestando una gomitata nelle costole al gemello.

« Già, non ho nessuna intenzione di sopportare i suoi piagnistei » aggiunse Fred, prorompendo in una risata che avrebbe potuto svegliare l’intero accampamento.

Ancora una volta, Hermione arrossì, ma stavolta per motivi del tutto diversi. Chinò il capo ed emise un sospiro.

« È colpa mia se hanno catturato Ginny. Non posso lasciarvi andare da soli, è mio dovere… » Poteva anche essere una strega potente e attenta, Hermione Granger, ma di certo non poteva aspettarsi un attacco in piena regola da due dei suoi alleati, da due dei suoi amici, da due Weasley. Non intercettò lo sguardo d’intesa che si lanciarono i gemelli: semplicemente, si ritrovò pietrificata prima che riuscisse a concludere la frase.

 

***

 

Quei giorni di nulla trascorsero vuoti, inutili, affollati da pensieri che di concreto non avevano nulla, da speranze che scivolavano nel buio ogni giorno di più, sbiadendo sotto l’incedere inclemente di un freddo sempre più pungente. L’inverno cominciava a stringere con una morsa spettrale, e lui iniziava a perdere ogni interesse in quel compito. La fiducia che nutriva quando aveva accettato era scomparsa, sostituita da un desiderio di rivalsa che bruciava più di ogni cosa.

Poteva sopportare con indifferenza il freddo, il pessimo cibo, la scomodità della branda e le urla di dolore della piccola Weasley, quando veniva torturata, ma non quell’attesa logorante.

Adagiato pigramente su una vecchia sedia cigolante, Draco fissava il soffitto con occhi vuoti, socchiusi, perso in elucubrazioni di cui era difficile carpire il filo.

Lo schiocco che risuonò nel sotterraneo arrivò al suo cervello solo dopo alcuni istanti che si era realmente verificato, e la sua reazione non fu istintiva e rapida come avrebbe dovuto essere. Saltò su dalla sedia tanto in fretta che questa si attorcigliò attorno alle sue gambe, quasi fosse dotata di vita propria. Crollò a terra con un tonfo sordo, il fiato spezzato, rumore di ossa a risuonare per le pareti fredde della cella.

Ebbe appena il tempo di darsi dello stupido, prima che uno dei gemelli Weasley gli puntasse la bacchetta alla gola con un ghigno allegro, che non aveva nulla di crudele, ma che sembrava, piuttosto, sinceramente divertito.

« Troppo lento, Malfoy » lo canzonò, facendo dondolare la testa. Con il viso schiacciato sul freddo pavimento in pietra della terra, Draco scoccò un’occhiata adirata al giovane, per poi cercare con lo sguardo il suo fedele fratello, intendo a liberare la più piccola dei figli Weasley dalle catene che la tenevano prigioniera. Un sottile nervosismo gli crepitava sotto la pelle, adesso: la pigra noia di qualche minuto prima era scomparsa, sostituita da una scarica di adrenalina che gli faceva prudere le mani e galoppare il cuore. Gli occhi grigi, torbidi, saettavano da un lato all’altro della piccola cella alla ricerca di altri compagni, ma c’erano troppi angoli ciechi dalla sua posizione. Tentò di muoversi per avere una visuale migliore, per poter controllare, ma lei gli fu addosso prima.

Ginny gli si era avvicinata con sguardo fermo e infuocato. Lentamente, l’andatura ciondolante e stanca di una prigioniera che era stata costretta all’inedia e alle torture, aveva raggiunto il corpo del suo secondino. L’aveva guardato come si guarda il più disgustoso degli insetti, poi gli aveva sferrato un calcio dritto tra le costole, tanto potente che il fiato gli si era spezzato.

Il dolore, sordo e acuto, gli penetrò come un coltello nei polmoni e rimbombò nelle orecchie per diversi minuti. Draco lo sopportò con stoico silenzio, perché aveva subito di peggio e sapeva che era preferibile questo ai trattamenti dei suoi compagni.

Quando riaprì le palpebre, aveva gli occhi della Weasley a pochi centimetri. Non li dimenticherà mai, Draco: quelli sono gli occhi di una donna. Neri pozzi senza fondo, colmi d’odio e rancore, ribollivano di rabbia e risentimento.

Il giovane Mangiamorte si guardò ancora attorno, costretto a terra come un verme dal piede di uno dei gemelli, premuto sulla sua tempia. Impossibilitato a muoversi, non poteva far altro che evitare quello sguardo vuoto e spaventoso e continuare a sperare. Il cuore che batteva forte contro il petto rendeva ancora più tangibile il dolore alle costole.

« Lui non c’è. Te l’avevo detto che non sarebbe venuto » disse Ginny, e nella sua voce c’era una latente sfumatura di amarezza. Se Draco non si fosse trovato in una situazione di evidente difetto, gli sarebbe venuto spontaneo sorridere.

« Che ne facciamo di lui? » Uno dei gemelli gli scoccò un’occhiata in tralice.

« Lasciamolo marcire qui. Ci penseranno i suoi a dargli una lezione » Il cuore di Draco diminuì i battiti: sembrava quasi che il suo corpo accogliesse quell’idea con la placida calma di un’accettazione non violenta. Sia lui che i suoi aguzzini sapevano qual era il destino che lo attendeva: Voldemort non accetta fallimenti, e perdere un prigioniero così prezioso era un crimine che avrebbe pagato con la morte.

Prima che potesse anche solo tentare di ribattere, Ginny sospirò.

« Se lo lasciamo qui lo condanniamo a morte » Il suo tono era stanco, ma deciso. Draco non riusciva a guardarla in viso, ma sapeva che lei aveva preso la sua decisione. Nonostante il disappunto dei suoi fratelli, la ragazza si chinò su di lui e gli fece qualche rapida raccomandazione. Lui evitò il suo sguardo fino a quando non ci riuscì, poi, incitato dalla ghigliottina del piede di uno dei gemelli, fu costretto a incrociare il suo sguardo. Anche quegli occhi Draco non li dimenticherà mai: sono gli occhi di una donna che sa.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo III - Tutte le strade portano a te ***


3.



Tutte le strade portano  a te





 

 

Draco si svegliò con un dolore pulsante alla testa. Quando, lentamente e con cautela, aprì gli occhi, fu colto da un attacco di panico improvviso e divorante nel rendersi conto che non riusciva a vedere assolutamente nulla. Un rantolo di terrore puro gli risalì per la gola, prima di rendersi conto che era solo il buio fittissimo del luogo a dargli quell’impressione. Pian piano si abituò all’oscurità e cominciò a distinguere qualcosa: il profilo di una brocca, lo scheletro di un tavolo, una corda di luce a diversi metri da lui – la sua via di fuga, l’uscio della tenda in cui si trovava.

Si mosse piano, con gesti lenti e posati, un mugolio a sfuggirgli dalle labbra ogni volta che un’inspirazione più intensa o un movimento meno delicato facevano scricchiolare le costole nel punto in cui la Weasley l’aveva picchiato, senza alcun riguardo per le sue povere, vecchie ossa. Si rese conto di avere le mani legate dietro la schiena solo quando il bisogno di tastarsi il torace per assicurarsi che fosse ancora integro si fece impellente. Solo allora imprecò a denti stretti, muovendosi nella speranza che le corde si allentassero.

« Poche storie, Malfoy » ghignò una voce nel buio. Gli occhi di Draco, due punte di spillo lucenti nell’oscurità, saettarono intorno alla stanza nel tentativo di individuare il proprietario della voce. La sagoma allampanata di uno dei gemelli sbucò da dietro una tenda gialla che fungeva da divisorio.

« Dove sono? » grugnì il biondo, scoccandogli un’occhiata minacciosa e feroce. Non riusciva a vedere i suoi lineamenti ma, persino nel buio, sapeva che lui stava sorridendo: glielo suggeriva quel suo tono leggero e canzonatorio, e il brillio furbo degli occhi.

« Prigioniero » rispose semplicemente l’altro, con una soddisfazione quasi maligna nella voce. A Draco sfuggì una risata beffarda.

« In una tenda? Non avete nemmeno una cella per i vostri prigionieri? Certo che siete messi proprio male » asserì con intenzione derisoria.

« O forse abbiamo solo più riguardo per le persone » lo smentì una voce. Una sagoma oscurò per qualche minuto la lama di luce che proveniva da fuori. Dopo qualche istante, la tenda fu invasa da un piacevole tepore, e dal chiarore aranciato di una lampada a gas. Draco rimase accecato e fu costretto a chiudere le palpebre, ferito dall’improvviso bagliore che aveva invaso il luogo. Dopo diversi minuti, riaprì gli occhi e guardò il nuovo venuto. Gli ci volle qualche minuto per riconoscerlo.

« Paciock?! » disse, incerto. Luì annuì debolmente, mimando un sorriso stanco, amaro. Il biondo sbatté le palpebre un paio di volte, perplesso, e lo osservò a lungo. Era senz’altro Paciock, ma, al tempo stesso, non lo era più. Non era come con i Weasley – quelli, nemmeno la guerra potevano cambiarli – che, sebbene più magri e rabbiosi conservavano nella dolcezza dei lineamenti, nella determinazione degli sguardi e nel rosso dei capelli le stesse caratteristiche di sempre. Questo Neville Paciock aveva qualcosa di diverso, in un modo inevitabile e spaventoso. Al di là della denutrizione, delle guance scavate e dei cerchi scuri sotto gli occhi, oltre la cicatrice che gli tagliava irreparabilmente l’angolo sinistro delle labbra, allungando in modo grottesco il suo sorriso, c’era qualcosa – Draco non avrebbe saputo dire cosa – che lo rendeva meno… meno Paciock. Forse era la durezza dei suoi occhi: quella risolutezza che faceva quasi spavento, e che gli fece correre un brivido freddo lungo la schiena. O il suo modo di guardarlo: quelle occhiate prive di compassione o gentilezza che lo facevano sentire carne da macello. O le dita strettamente serrate attorno alla bacchetta. O la sua voce atona e stanca. Magari tutte quelle cose insieme.

« Vi lascio soli allora. Se vuoi un consiglio da amico, Malfoy… canta prima che sia troppo tardi » Il gemello uscì dalla tenda con un’ultima occhiata di commiserazione.

« Cantare? » Lo sguardo di Draco si posò su Neville. Lui non lo stava guardando, sembrava immerso in pensieri impossibili da sondare o comprendere. « Fammi capire… lasciano a te il compito di interrogarmi? Molto, molto divertente… davvero, siete caduti proprio in bas… »

Nel silenzio della notte, un urlò squarciò la quiete dell’accampamento.

« Io l’avevo avvertito » Fred scosse la testa ed emise un lungo sospiro.

Remus Lupin, fermo sulla soglia della tenda, fissava con sguardo vuoto e allucinato un punto non ben definito della stoffa gialla, macchiata e logora in più punti. Quando si rese conto dell’occhiata quasi preoccupata che il giovane gemello Weasley gli stava lanciando, scosse il capo ed emise un lieve sospiro.

« Quando siamo arrivati a questo? »

Fred non era sicuro si riferisse all’urlo di Malfoy o allo stato d’incuria della tenda, ma poteva capire, e di sicuro condividere, quel senso d’angoscia e disgusto che gli stringeva lo stomaco.

« Quando la situazione si è fatta disperata » replicò con insolita serietà. Lupin sollevò appena il capo, l’espressione grave e colpevole ora fissa sul ragazzo.

« Non è mai stata una giustificazione » Il suo sospiro sembrava un vero e proprio ululato di dolore. Ma forse, si disse Fred, era solo l’eco delle grida di Malfoy a dargli quell’impressione.

 

***

 

Alle tre del mattino Draco non aveva ancora detto una parola. I metodi di Paciock erano brutalmente pacifici: niente torture, nessun dolore fisico, solo un estenuante scontro di parole e immagini. Neville gli aveva scavato la mente con una Legilimanzia tanto potente che la resistenza aveva drenato ogni energia: nonostante lui fosse un ottimo Occlumante, aveva trovato serie difficoltà a contrastare quella particolare magia, che oltre a ispezionare pensieri e ricordi, creava immagini che Draco trovava difficile ignorare. Ma aveva i suoi buoni motivi per opporsi a quella minuziosa ispezione.

Neville non sembrava nemmeno minimamente stanco quanto lo era lui. Draco aveva la pelle irritata dalle strette corde che gli serravano i polsi, la schiena gli doleva e aveva come la sensazione che la testa gli si sarebbe presto spaccata a metà: non sarebbe riuscito a contrastare quel continuo e instancabile frugare ancora per molto.

Quando il lembo della tenda frusciò leggermente e si aprì, Draco tirò un breve e invisibile sospiro di sollievo, salvo poi stringere le labbra quando si rese conto chi era la persona che era appena entrata. Lo stomaco si contorse brutalmente e cominciò a bruciare nell’esatto momento in cui la sua voce gli penetrò il cervello. Allora, fu certo che ogni difesa sarebbe stata vana: l’armatura eretta dalla sua mente si era appena disciolta.

« Neville, ora basta » La voce di Hermione era bassa e monocorde, priva di qualsiasi inflessione. Era impossibile trovare la traccia di un qualsiasi sentimento, nelle sue parole o nel suo volto, segnato dalla stanchezza e dall’incuria. Draco non poté fare a meno di notare che la guerra le donava: aveva le labbra screpolate, le guance leggermente incavate e l’incarnato pallido; i capelli erano, se possibile, ancor più crespi e disordinati del solito e la sua magrezza, pur se mascherata da vestiti sformati e larghi, era fin troppo accentuata. Eppure, la scintilla del suo sguardo era quella di una donna, fiera e indomabile ma, soprattutto, implacabile e letale. Aveva qualcosa di bellissimo, pur nella sua spaventosa forza.

« Posso essere molto più persuasivo di così » Neville la guardava con la testa inclinata da un lato e gli occhi curiosi e quieti di un bambino: sembrava un’altra persona, adesso, mentre attendeva placido il verdetto.

« Lo so » Le labbra di Hermione si incresparono appena. Un sorriso affiorò anche sul volto dell’altro: entrambi, adesso, sembravano i ragazzini che erano, quelli che Draco ricordava, ai tempi di Hogwarts. « Ma per oggi può bastare. Gli altri hanno bisogno di riposare » Un lieve, impercettibile sospiro. « E anche tu ».

Neville si alzò e, senza dire più una parola, uscì dalla tenda. La consapevolezza di essere rimasto da solo con la Mezzosangue esplose dentro di lui sotto forma di una strana, inconcepibile rabbia.

« Se ti aspetti che ti ringrazi per… » cominciò, la voce rabbiosa di un cane randagio.

« Non mi aspetto niente da te, Malfoy » Hermione non gli permise neanche di concludere la frase: lo interruppe con il suo tono pacato, intriso di una punta di amaro rancore. Il modo in cui aveva pronunciato il suo cognome, poi, come per rimarcare le differenze e tracciare confini netti e linee precise, lo irritò oltremodo. Mentre Draco prendeva fiato per parlare, lei, con gesti lenti e tranquilli, prese un vecchio bicchiere di latta e vi versò dentro una generosa ondata d’acqua fresca. Il giovane si rese conto solo in quel momento che la gola prudeva in modo fastidioso, e la visione fu tanto dolorosa ed evocativa da indurlo al silenzio. Quando Hermione si voltò, gli sembrò di vedere l’ombra di un sorriso sul suo volto, ma probabilmente era solo uno scherzo giocato dalla luce intermittente delle torce.

La ragazza si piegò su di lui senza mai incrociare il suo sguardo. Draco, istintivamente, si ritrasse quando la vide avvicinarsi, emettendo un ringhio rabbioso, come un animale ferito e braccato, costretto in un angolo. Lei non batté ciglio, e si adoperò con zelo sui nodi che gli stringevano i polsi.

Le corde si sciolsero, obbedienti, e si adagiarono con dolcezza sul pavimento mentre Draco, incredulo, si massaggiava i polsi irritati e doloranti, lanciando occhiate rancorose alla giovane che, evitando il suo sguardo con sorprendente efficacia, prese il bicchiere e glielo porse, insieme a una mela dall’aspetto marcio e vecchio.

Lui si limitò a guardarla con aria di sfida, osservando gli occhi scuri e stanchi tra le lunghe ciglia, le ombre drappeggiate sugli zigomi, la piega delle labbra. Un violento dolore al petto lo costrinse a distogliere lo sguardo nello stesso momento in cui lei, con un sospiro, poggiava bicchiere e mela ai suoi piedi. Non si era accorta del suo tentennamento.

« Non hai paura che scappi? » la provocò Draco quando la ragazza gli girò le spalle ancora una volta.

« Non puoi scappare » replicò lei con tono tranquillo. Anche se tutto ciò che il giovane vedeva era la sua schiena, immaginò che stesse sorridendo con maligna soddisfazione.

« Mi hai appena liberato » le ricordò con tono beffardo. « Potrei ucciderti e fuggire, sarebbe così semplice » Draco rise, accompagnando con uno sbuffo ironico la sua affermazione.

Fu in quel momento che gli occhi di Hermione si puntarono dritti in quelli del ragazzo. Si voltò lentamente, con gesti posati, apparentemente stanchi, eppure il suo sguardo dardeggiò dritto nelle iridi di Draco fino a trapanargli il cervello. Fu doloroso. C’era qualcosa di strano, in quello sguardo: una curiosità accesa, un rancore evidente, una pietà che forse era il fastidio più grande. Mentre le rivolgeva, tra le ciglia socchiuse, uno sguardo raggelante, lei rispose.

« Non puoi scappare » ripeté. « Le corde erano solo un fastidio in più che hanno voluto provocarti per dispetto » Hermione alzò gli occhi al cielo, ma l’angolo della bocca era incurvato in un sorriso, come se trovasse divertente quel piccolo scherzo giocato dai gemelli. Era una di quelle poche cose che la facevano sentire a casa, al sicuro; una di quelle cose che le ricordavano i tempi di Hogwarts, della felicità e della spensieratezza. Erano cambiate tante cose, ma Fred e George rimanevano i burloni di sempre, e anche e soprattutto in quelle piccole azioni mostravano i segni di una maturità acquisita per forza: il bisogno di una risata in quei tempi bui era maggiore della paura e del nervosismo. « Ci sono incantesimi di protezione posti lungo tutto il perimetro della tenda, e anche se dovessi superarli, fuori ci sono molti uomini, e altri incantesimi » spiegò con quell’aria da maestrina che aveva anche a Hogwarts.

« Potrei usarti come ostaggio. Se ti portassi al Signore Oscuro… » Ancora una volta, Hermione non gli permise di concludere la sua velata minaccia.

« Non lo farai » disse con pacatezza.

« Cosa te lo fa pensare? » Una sfumatura di rabbia crepitò nella voce di Draco, che era rimasto immobile, seduto sul freddo pavimento a massaggiarsi i polsi.

« Hai già avuto l’occasione, e non l’hai fatto » Adesso, nello sguardo di Hermione brillava un vivo interesse. Per qualche istante, sembrò valutare l’idea di andarsene, ma alla fine la curiosità ebbe la meglio. « La domanda è: perché? » Inclinò la testa di lato, come una bambina, lo sguardo ostinatamente fisso in quello del ragazzo. Non sbatteva nemmeno le palpebre, per timore di perdersi una seppur minima reazione. Non le sfuggì la scintilla che saettò negli occhi di Draco per un istante infinitesimale, né il serrarsi improvviso della mascella, che denotava un nervosismo crescente.

« Non so di cosa tu stia parlando » Il suo tono serbava una durezza latente, che recava l’eco di una traccia difficile a morire. La sua voce era lo specchio dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti, tanto limpida quanto incomprensibile.

Hermione lo guardò a lungo, indecisa se indagare ancora o meno. Dopo molti istanti di silente contemplazione, emise un lungo sospiro e gli voltò le spalle.

« Non parlerò mai. Tanto vale mi uccidiate » La voce del ragazzo la raggiunse quando era ormai a un passo dall’uscita. Hermione non si voltò per rispondere.

« Parlerai, Malfoy. Te lo assicuro » Nel suo tono c’era un evidente traccia di dispiacere.

 

***

 

La mente di Malfoy era un labirinto di porte serrate e solide resistenze. Le capacità di Neville, sviluppate solamente negli ultimi anni di guerra grazie ai consigli e al prezioso aiuto di Lupin, furono messe a dura prova più di una volta. Laddove la porta era più resistente e protetta, lui insisteva perché pensava che Malfoy cercasse di nascondere informazioni importanti. Talvolta era così; spesso, però, lui non faceva altro che attirarlo in trappole che, alla fine, lo lasciavano stremato e senza forze. Neville cercava di non dare a vedere quanto frugare nella mente altrui fosse estenuante, ma rimanere impassibile davanti al ghigno malizioso di un ragazzino arrogante che si divertiva a metterlo in imbarazzo non era sempre facile.

Draco provava un piacere quasi sadico nel destabilizzare la sua concentrazione, giocandogli tiri mancini e agguati nei momenti più inaspettati, proprio come faceva quando erano a scuola.

Neville poteva superare facilmente la vergogna di situazioni scabre e oscene: non era più un bambino, e il disagio che un tempo provava – quando il contatto con il sesso femminile si faceva più intimo e provocava scomode reazioni – era scomparso con l’arrivo dell’amore e con l’incedere di una guerra che non aveva più lasciato spazio per niente. Non lo infastidiva nemmeno più il fatto che Malfoy provasse piacere nel prenderlo in giro o nell’attirarlo in trappole che lo facevano arrossire: la vendetta era un eccesso che non gli era mai appartenuto, né avrebbe cominciato in quel momento per colpa di un ragazzetto inutile e sciocco.

Ma la fatica si faceva sentire dopo quelle violente incursioni, che lasciavano entrambi sfiniti, l’uno per lo sforzo di resistere, l’altro per l’energia spesa nell’assalto. Almeno, Malfoy poteva consolarsi con la soddisfazione di vedere il rossore invadere il viso di Neville; a lui, invece, non restava altro da fare se non prendere un respiro profondo e ricominciare, nella speranza che almeno quella porta verso cui si stava fiondando avrebbe condotto a informazioni utili.

 

Ce n’era una in particolare che l’aveva incuriosito fin dall’inizio. La prima volta che era penetrato nella sua mente era stato come atterrare nel bel mezzo di un labirinto: ovunque spingesse il suo sguardo si snodavano corridoi, e sulle pareti si aprivano porte e porticine, finestre oppure oblò, di diverse forme, colori, materiali e dimensioni, ma quella spiccava in modo inequivocabile, talmente sfacciata che sarebbe stato impossibile non notarla.

Era un gigantesco portone dorato, altissimo e altrettanto spesso, con doppi battenti e stranamente intarsiato con motivi che lui non era riuscito a decifrare. Era ben diversa dalle piccole porticine di legno o ferro battuto che aveva visto lungo le pareti, anche perché sembrava maggiormente serrata, con catenacci e travi, come se Malfoy stesso non volesse accedervi. Tutti i corridoi sembravano portare verso quel punto, per cui a Neville era venuto istintivo puntare verso quel portale, che era certo conducesse a informazioni preziose.

Malfoy era sempre stato molto più veloce di lui: la nascondeva, la proteggeva in modo rapido ed efficace, la allontanava ogni volta che lui tentava di avvicinarsi, o ergeva muri di mattoni davanti ad essa per non fargliela raggiungere.

Neville aveva desistito dopo qualche tentativo, ripromettendosi di tornarci quando le sue forze glielo avrebbero permesso. Ora, sentiva che era il momento: quella, ne era certo, era la porta che nascondeva i suoi segreti più profondi, le informazioni più importanti. Forse, avrebbero potuto trovare il loro quartier generale; forse, avrebbe potuto conoscere i loro piani – numeri, condizioni, intenzioni, mezzi – e così mettere fine a quella guerriglia che si stava protraendo da troppo tempo.

Non fu facile trovare quella porta, non perché fosse difficile individuarla – era fin troppo grande – ma perché sembrava quasi che Malfoy avesse capito le sue intenzioni.

L’incursione di Neville fu silenziosa e discreta, mirata, più che a indebolirlo o stancarlo, a distrarlo. La tecnica del ragazzo era simile a quella che usavano durante le battaglie, in campo militare: scartare a destra e a sinistra senza mai guardare la propria meta era un ottimo metodo quando non si volevano scoprire le proprie carte. Così fece lui: aprì diverse porte e ne indebolì delle altre, facendo credere a Malfoy che il suo obiettivo fosse uno di quegli usci facilmente cedibili. Sebbene il fu Serpeverde tentasse di guidarlo tra i corridoi della sua mente verso un punto ben preciso – un altro scherzo o forse solo la paura che arrivasse davvero dove lui voleva? – non fu semplice capirne le intenzioni né ingannarlo un’altra volta: ormai Paciock aveva capito i suoi metodi, e aveva imparato ad aggirare gli ostacoli o volgere la situazione a suo favore. Perciò Draco eresse barriere più potenti laddove pensava che lui avrebbe attaccato, tralasciando per un istante i ricordi lontani. Un istante di troppo.

A Neville bastò allungare una mano, spingere i due grossi battenti, forzare di più l’incantesimo e annientare le ultime, blande difese. La grande porta si aprì placidamente, con un’obbedienza che fece gemere Malfoy di dolore e rabbia. Sul suo volto passò un lampo di paura che Neville non riuscì a vedere, troppo attento a mantenere la concentrazione, troppo impegnato a chiudere il giovane fuori dalla stanza per esplorarla fino in fondo, fino all’ultimo ricordo.

Quando il portone si dischiuse, la prima cosa che Neville avvertì fu un delicato profumo di pergamena. La luce lo accecò solo per un attimo, cogliendolo di sorpresa: nella mente di Malfoy, fino a quel momento, tutto era stato buio, cupo, oscuro. C’era poca luce, prevalentemente negli anni dell’infanzia e della prima adolescenza, nessun odore, una minima e frammentaria felicità. Le stanze erano piccole, anonime, talvolta pregne di paure e dolori.

Quella stanza, invece, era enorme e invasa dalla luce. Aveva un profumo meraviglioso, e lui riusciva quasi a sentire il battito stonato del cuore di Draco Malfoy, un ritmo alternato che sfogava paure e ansie, gioie e dolori. Quel chiarore improvviso gli ferì gli occhi. Neville li chiuse, per poi riaprirli lentamente. Quello che vide lo lasciò senza fiato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mi potete trovare qui.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo IV - Ergastolo ***


4.


Ergastolo

 

 

 

Gli avevano detto che il primo amore non si scorda mai.

La prima a dirlo era stata sua madre, quando le aveva chiesto perché avesse sposato proprio suo padre, quand’era chiaro almeno quanto che lui fosse un Serpeverde che erano troppo diversi per stare insieme. Narcissa aveva risposto che le apparenze ingannano, e che gli occhi sono ciechi, bisogna cercare con il cuore.

Gliel’avevano ripetuto i suoi amici, quando l’età era diventata quella dei sospiri e dei primi affanni del cuore. L’amore aveva cominciato a bussare alla porta di qualcuno, i più temerari o forse solo i più folli; quelli che poi si erano sentiti in dovere e in diritto di spiegare come funzionava il mondo, cos’era l’amore.

Tutti, comunque, gli avevano detto che il primo amore non si scorda mai.

Avevano ragione.

Nonostante i suoi tentativi di liberarsi di quei ricordi, emozioni scomode ma intense che lo avevano seguito per tutta la sua vita, l’unica cosa che Draco era riuscito a fare era stata rinchiudere tutto in un angolo della sua mente. Questo non era servito a dimenticare, ma aveva imparato a pensarci solo quando ne aveva voglia, o bisogno, o quando era tanto debole da non riuscire a frenare le sue fantasie.

Hermione si era incollata alla sua anima come una mosca si invischia nella ragnatela del suo carnefice. Lui era la mosca; lei il ragno pronto a distruggerlo.

E in effetti l’aveva demolito, pur senza toccarlo. Con le mani o con il pensiero, Hermione non lo aveva mai sfiorato, eppure l’aveva dilaniato, senza saperlo.

Aveva divorato la sua anima, consegnandola nelle mani di un destino crudele e senza scampo: quello di un amore impossibile e colpevole di cui lei non aveva mai avuto sentore né conoscenza, ma che Draco si portava addosso da anni, con un turbamento ogni volta maggiore.

Aveva dilaniato il suo cuore con desideri inconfessabili che lo svegliavano la notte e lo tormentavano il giorno.

Aveva annullato la sua mente con la semplice forza della sua presenza. O ancor di più, con la sua assenza, che bruciava ogni giorno di più.

Gli avevano detto che il primo amore non si dimentica mai. Quello che non gli avevano detto, è che il più delle volte non lo riconosci, il primo amore, quando ti ghermisce senza più lasciarti via di fuga.

 

Draco aveva visto per la prima volta Hermione quando aveva undici anni. Hermione: ricci ribelli e denti da castoro. Però, addosso la fierezza di una Purosangue, il timore di una bambina e la determinazione di una donna. Il vapore l’aveva ingoiata dopo il primo sguardo: un secondo, un refolo di vento, e lei era scomparsa, inghiottita dal metallo di un treno scarlatto.

L’aveva incrociata poco più tardi nel corridoio di un treno, la divisa stirata e pulita addosso a quel corpo che, qualche anno più tardi, aveva occupato gran parte dei suoi sogni e dei suoi pensieri. Le aveva rivolto un sorriso che lei non aveva nemmeno visto.

Aveva scoperto poco dopo che lei era una Mudblood. La sua reazione naturale era stata quella di mostrare disgusto, come gli era stato insegnato, ma nella sua mente non era stato capace di ripudiare del tutto l’idea che aveva accarezzato il ragazzino che era dentro di lui. Hermione si era già incollata alla sua anima, con quella determinazione dignitosa e fiera che lui le aveva letto addosso in tutti gli anni di scuola; non se n’era più andata, perché lei era fatta così. E quando aveva provato a mandarla via, era già troppo tardi.

Non l’aveva mai detto ad alta voce, perché le parole hanno un’ineluttabilità che non lui non era capace di accettare, ma sapeva, già da quel momento, che non l’avrebbe dimenticata facilmente.

Hermione era sbagliata. Per questo Draco teneva per sé la verità di ciò che aveva capito. A undici anni si era domandato per poco se sarebbe stato poi un vero crimine fare amicizia con lei: lo sguardo di suo padre e le sue urla indignate erano state una risposta sufficiente.

A dodici anni era stato facile mascherare con l’arroganza e la crudeltà il suo piccolo segreto.

A tredici anni aveva tentato di nascondere malamente il suo desiderio, distraendosi con ragazzine che avevano, in qualche modo, un riflesso di lei. Il risultato era stato deludente e catastrofico, perché il bisogno di lei si era acuito a dismisura.

A quattordici anni, il desiderio si era fatto tanto bruciante da farlo svegliare la notte con gli occhi spalancati dal piacere e le coperte appiccicose di un bisogno represso.

Era stato allora che Narcissa l’aveva saputo. Vegliava sul sonno del figlio con la fedeltà di una donna e l’amore di una madre. La prima volta che aveva sentito quel nome tra le belle labbra di Draco aveva pensato di aver frainteso. La seconda si era convinta che quel nome era solo una coincidenza. Alla terza aveva cercato giustificazioni o rari casi di omonimia. Quando si era arresa all’evidenza, Draco si era svegliato: la vergogna ad accendergli le gote, la rabbia a saettargli negli occhi. Aveva urlato, aveva negato. Narcissa aveva taciuto.

Quando la Umbridge aveva fondato la Squadra d’Inquisizione, Draco aveva finalmente avuto la sua occasione di spiare Hermione con una scusa plausibile. Non era stupido: aveva capito da tempo che c’era qualcosa tra lei e il giovane Weasley, e il bisogno di controllarla, di frenare sul nascere quel germoglio da estirpare, aveva accresciuto la sua accecante gelosia e il suo desiderio di far più male possibile alla specie dei Weasley.

Compiere sedici anni era stato, per lui, l’avverarsi di un sogno e, al tempo stesso, l’ingresso in un incubo che aveva compreso solo più tardi. Accanto all’entusiasmo dell’adolescente c’era, infatti, il desiderio del bambino infine diventato uomo, e la consapevolezza che i suoi ideali andavano fin troppo contro il suo bruciante desiderio.

Hermione era stata causa ed effetto. Gli piaceva, anche se era una Sanguesporco, ma la disprezzava per lo stesso motivo. Quel marchio che gli aveva morso la pelle era lì solo perché lui, ragazzino, si era illuso di poter inquinare il suo cuore con obiettivi diversi da quelli che esso gli imponeva.

Ancora una volta, era stata Narcissa a prenderlo per mano e guidarlo verso la giusta direzione.

« Mi dispiace, mamma. Ho provato a impedirlo. Non ce l’ho fatta » Draco aveva il capo chino e il viso rosso di vergogna. Una rabbia latente incrinava la sua voce. Le mani tremavano; la mascella, contratta, si serrava stringendo tra i denti parole che lui non voleva pronunciare.

« Solo gli sciocchi chiedono scusa per i propri sentimenti » Narcissa era come sempre bellissima nella sua dignitosa eleganza. Le parole fluirono dalla bocca con una naturalezza sorprendente, la pacatezza di sempre a modulare un tono già dolcissimo. Draco l’aveva guardata con due occhi enormi da bambino.

« Ma lei… lei è… » Non era riuscito a terminare la frase: il dolore si era fatto tanto intenso che le parole gli erano mancate.

« Cosa? Cosa è Draco? » La donna aveva posato i suoi occhi, chiarissimi e del tutto identici ai suoi, nella forma e nel colore, sul figlio. L’aveva fatto con grazia, senza violenza, e quella carezza l’aveva sgonfiato di ogni timore, curando il suo male.

« Una Mudblood » aveva ammesso in un soffio.

« Intendo dire cosa è per te »

A sedici anni, Draco aveva finalmente imparato a convivere con il suo demone interiore.

A diciassette, aveva smesso di combatterlo e aveva deciso di farci la pace. O l’amore, a seconda delle circostanze.

 

***

 

Draco non era mai stato una persona buona. Ciononostante, non era nemmeno capace di autodefinirsi esattamente cattivo, perché non aveva mai fatto niente che lui potesse dire terribile. Dispetti e marachelle da adolescente, insulti sprezzanti o tiri mancini non rientravano nell’accezione del termine. Draco Malfoy sapeva che il suo cognome e, ancor di più, il suo sangue, gli conferivano privilegi di cui aveva tutta l’intenzione di godere, per cui non riteneva malvagie nemmeno le sue azioni volte a denigrare i più deboli o gli emarginati.

Draco, comunque, non era nemmeno lontanamente cattivo come lo era Hermione. Col passare del tempo, il giovane Serpeverde aveva sviluppato nei confronti di quella ragazza un’avversione talmente eccessiva che trasformare tutto l’odio in amore era stato un passo semplice e decisivo, naturale come l’arrendersi a quel sentimento devastante.

Hermione aveva mangiato il suo cuore e divorato la sua anima con la ferocia delle belve e la grazia di una donna.

Ogni tanto, Draco immaginava di strapparla ai suoi amici per farne ciò che voleva; ogni tanto, si ritrovava vicino a lei, nascosto nell’ombra di un corridoio, con la bacchetta in mano e uno Schiantesimo sulle labbra. L’avrebbe rapita, portata dove nessuno avrebbe potuto salvarla; lei sarebbe finalmente stata sua.

Non era mai riuscito a pronunciare l’incantesimo: sapeva che un’unica volta non gli sarebbe bastata, sapeva che la sottomissione e la violenza non erano ciò che desiderava davvero. Draco voleva divorarle l’anima come lei aveva fatto con lui.

Hermione era una condanna a vita: non poteva liberarsi di lei e non poteva appagare il suo desiderio.

Gli avevano detto che l’amore è un petalo delicato che ti accarezza con dolcezza, rapendo il cuore con pensieri solitari e bellissimi. Per Draco, l’amore ha sempre avuto la ferocia di un predatore solitario e paziente, resistente e ostinato. Perché Hermione era una condanna vita. Il suo ergastolo.

 

***

 

«Il cuore muore di morte lenta. Perdendo ogni speranza come foglie.

Finché un giorno non ce ne sono più.

Nessuna speranza. Non rimane nulla.

Se un albero non ha né foglie né rami, si può ancora chiamarlo albero?»

 

Draco aveva sperato fino all’ultimo, ed era il motivo per cui si trovava prigioniero, adesso. Ginevra Weasley poteva anche pensare che l’unico motivo per cui aveva accettato di farle la guardia fosse Harry Potter, e la gloria che avrebbe conseguito a una sua improbabile cattura, ma la verità era un’altra, e cioè che durante gli anni passati ad Hogwarts lui aveva spiato Hermione forse più del dovuto, e aveva capito di lei più di quanto gli piacesse ammettere, più di quanto lei avrebbe mai potuto immaginare.

Il legame di amicizia con la Weasley era uno dei suoi punti a favore; lo spirito Grifondoro – leale, coraggioso, imprudente – sarebbe stato la sua arma più grande. Draco Malfoy era sicuro che Hermione Granger avrebbe cercato di liberare la sua migliore amica, poco importava se sarebbe stato pericoloso, impossibile, sciocco, complicato. Si era sbagliato, ma ciò non gli aveva impedito di continuare a sperare.

Quando le sue difese erano crollate e Paciock era riuscito a forzare la sua mente e penetrare dentro i suoi ricordi, dentro i suoi pensieri, dentro le sue emozioni, per la prima volta da tanti, troppi anni, Draco si era sentito libero, e leggero. Non è per un Mangiamorte desiderare.
Non è per un Mangiamorte provare sentimenti. Lui aveva dovuto nascondere tutto, seppellire ogni cosa sotto strati di dolore e paura, rinforzare le difese, rinsaldare la convinzione che quell’ossessione fosse sbagliata, inutile, facilmente annientabile e assolutamente deplorevole. In quel momento, invece, oltre la vergogna, al di là del fastidio, c’era un piacevole tepore che aveva reso molli le gambe di Draco.

Forse era perché si stava abbandonando ai ricordi. Magari era la semplice presenza di Hermione nella sua testa. O semplicemente la leggerezza dell’arrendevolezza, e la consapevolezza di non dover per forza vivere nascosto, sempre con la paura che un passo falso o un attimo di disattenzione avrebbero potuto costargli la vita.

O, forse, era solo la battaglia finale di una guerra che durava da troppi anni.

 

***

 

Hermione.

Solo Hermione.

Sempre Hermione.

Hermione dappertutto.

Hermione in biblioteca, china sui libri, la luce pallida di un sole d’argento che le bacia la pelle chiara. Hermione che dorme, le ombre delle lunghe ciglia nere come pennellate di tenebre sugli zigomi eleganti. Hermione che cammina per i corridoi, i libri stretti contro il petto, come una fragile armatura alla sua essenza. Hermione in classe che alza la mano, con quelle dita piccole e pallide, palmi eleganti e dorsi da baciare. Hermione che ride a una battuta di Harry, che sfiora timidamente Ron, che inarca un sopracciglio quando Luna parla o che sospira pazientemente a un dubbio di Neville – sono i momenti in cui la luce impallidisce e nuvole di un temporale figlio di chissà che cielo oscurano la felicità che si avverte dentro la stanza.

Hermione ovunque – nel parco, su una sedia, per strada, a lezione – sempre bellissima. Neville non l’aveva mai vista sotto quella luce: gli occhi brillanti, le gote arrossate, un sorriso ad arcuarle le labbra, un ricciolo a solleticarle lo zigomo. Nei ricordi di Malfoy, quella ragazza bruttina con i denti da castori e i capelli indomabili aveva sempre un particolare incredibile, una fierezza fuori dal comune, una bellezza unica e preziosa. Non vistosa; non del genere che ti giri a guardarla. Più semplice. Ma aveva qualcosa che ti accalappiava, niente da dire, ce l’aveva. Come una specie di limpidezza, di trasparenza. E la cosa più bella, la più sorprendente in assoluto, era che lei era assolutamente inconsapevole dello splendore che si portava addosso. Di quella bellezza che ti spaccava il cuore.

 

Neville visse in un solo istante due vite: quella di Hermione e quella di Malfoy. Vite diverse, separate, eppure in qualche modo collegate. Draco era sempre presente, nascosto dietro l’ombra di un albero, oltre l’armatura di un angolo buio, sempre con occhi vigili e attenti. Hermione, la strega più brillante e promettente di Hogwarts, non se n’era mai accorta: forse perché non se lo sarebbe mai aspettato, magari perché lui era semplicemente troppo bravo a celare la verità.

Una cosa era certa: la verità di ciò che lui stava guardando era assolutamente incontrovertibile, e anche se Neville aveva avuto qualche dubbio, le fantasie che si inframmezzavano ai ricordi – avevano confini meno netti, margini sfocati; erano memorie accese da una luce accecante – avevano annientato ogni perplessità e confermato le sue prime ipotesi, per quanto assurde potessero sembrare.

 

Neville aprì gli occhi lentamente, il respiro affannato spezzato dalla sorpresa e dall’incredulità. Quando puntò lo sguardo sul viso di Malfoy, lui aveva la mascella serrata e lo sguardo irrigato d’odio, ma i suoi occhi erano limpidi, sembravano acqua profonda. L’imbarazzo delle emozioni scomode che lui aveva scoperto era una crepa visibile nella sua maschera di rigida imperturbabilità.

Lo sguardo di Neville era acuto e diretto, privo della vergogna che invece stava infiammando lo stomaco dell’altro. Se Draco non fosse stato tanto intento a provare una rabbia cieca, avrebbe visto l’ombra di un sorriso dietro quell’espressione quieta.

Il ragazzo si alzò, gli voltò le spalle ed uscì dalla tenda. Draco non ebbe il coraggio di aprire bocca, di implorargli di tacere: era già abbastanza umiliante dover sopportare il suo sguardo, sapere che quell’inutile essere, da sempre disprezzato, denigrato e deriso, era a conoscenza del suo segreto più intimo e profondo, del più importante, dell’unico che aveva il bisogno di tenere per sé, per non soccombere alla vergogna, al desiderio, all’amore.

 « È innocuo »

La sua voce, attutita dalla stoffa della tenda, fu un pugno allo stomaco che acuì ancora di più il senso di bruciore che provava.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Eloise.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo V - Prigioniero ***











5.





Prigioniero

 

 





Neville ebbe almeno la delicatezza di non rientrare. Fu Remus Lupin, il suo ex insegnante di Difesa Contro le Arti Oscure, a liberarlo dalla sua prigionia, invitandolo fuori. Draco lo guardò con rabbia e sospetto, domandandosi quanto, in silenzio o solo con un breve contatto mentale, Paciock gli avesse rivelato, quanto quell’uomo sapesse. Non c’era traccia di sorriso sulle sue labbra, e quell’aspetto bonario e pacato che gli ricordava addosso era scomparso, sostituito da una trasandatezza se possibile ancora maggiore di quella di un tempo, accompagnata da un grigiore cupo e solitario che incuteva quasi timore.

Lo sguardo del giovane era rancoroso e collerico, pregno di risentimento e odio, ma Lupin non si scompose più di tanto: lo invitò fuori con un gesto della mano, illustrandogli brevemente le regole dell’accampamento e spiegandogli che non sarebbe potuto scappare – soffermandosi, con dovizia di particolari, sulle conseguenze di una sua eventuale fuga, che terminavano tutte con una terribile e dolorosissima morte.

Una volta terminato il suo discorso, però, gli sorrise, in quel modo che gli era appartenuto tantissimi anni prima, e nella linea delle sue labbra sottili e secche, tra le pieghe di quel viso costellato di cicatrici, Draco rivide l’insegnante che molti, a Hogwarts, avevano amato. Non certo lui, troppo occupato a badare all’aspetto esteriore, troppo attento ad escogitare un’altra cattiveria per infliggere danno a qualcuno; troppo intento a spiare quella ragazza che ora, con uno sguardo libero da rancore o dispiacere ma colmo di quella curiosità limpida che da sempre la contraddistingueva, lo osservava con intensità.

Hermione spese solo qualche istante in quella silente contemplazione, affatto imbarazzata dallo sguardo impudente del ragazzo fisso su di lei. Un minuto, poi tornò alle sue occupazioni: raccogliere la legna, procurare cibo, medicare le ferite di Ginny e degli altri alleati.

A Draco non rimase altro da fare se non allontanarsi, mettere quanti più chilometri possibili tra lui e la ragazza e ignorare bellamente gli sguardi colmi di livore e astio che gli altri gli scoccavano, senza timore di farsi scoprire in accese discussioni su quanto fossero orribili le sue azioni, efferati i suoi crimini, opinabili le sue scelte.

Era strano, e sciocco, per non dire assolutamente imprudente, che lui, da prigioniero, fosse libero di osservare, toccare, camminare lungo le stesse strade che percorrevano i suoi aguzzini.

Quello che loro chiamavano quartier generale, si accorse con poco stupore, non era altro che uno sciatto agglomerato di tende ordinate alla rinfusa o casupole improvvisate con legni marci e gonfi d’umidità. Il pozzo che avevano costruito al centro dell’accampamento aveva l’unico scopo di raccogliere l’acqua piovana, ma la sua reale funzione era un mistero persino per lui: a che pro utilizzare quella costruzione, quando un semplice “Aguamenti” sarebbe stato sufficiente a dissetarli? La risposta che si diede, le mani in tasca e un ghigno sul volto, era tanto idiota quanto superba, in pieno stile Malfoy: nessuno di loro era capace di eseguire un incantesimo basilare come quello, perché, in caso contrario, non avrebbero speso tempo ed energie per costruire una struttura inutile.

Draco superò il pozzo con un lungo passo, storcendo il naso davanti ai profili fatiscenti e rozzi delle tende logore e sudicie che fungevano da abitazioni.

A dispetto di ciò che pensava lui e tutta la sua banda di folli assassini, l’Ordine della Fenice era molto più numeroso di quanto si potesse pensare. Non che quella masnada di vecchi e bambini malnutriti potessero in qualche modo dar loro del filo da torcere – non li considerava nemmeno un pericolo – ma durante quegli anni di guerra pensava che il Signore Oscuro ne avesse decimati molti di più. Lo aveva fatto, senz’altro, ma per ogni morto c’erano almeno dieci vivi.

Ed eccoli lì, fieri e combattivi, ad aiutarsi l’un l’altro in faccende banali e quotidiane come accendere il fuoco per scaldarsi, o in quelle più rischiose e complicate come il procacciare cibo per sé e per gli altri – missioni di pace, o di guerra, nel tentativo di sopravvivere o di vincere.

Draco li studiò a lungo.

I primi giorni rimase nascosto all’ombra di un ulivo che protendeva le sue fronde su un laghetto naturale la cui superficie cominciava a venarsi di ghiaccio. Li guardava da lontano chiedendosi quale artificio li legasse tanto indissolubilmente da spingerli a collaborare senza ricevere in cambio nient’altro che un sorriso; per quale motivo si aiutassero tra di loro se non c’era paura nei loro sguardi né terrore a guidare e motivare le loro azioni. Aveva dimenticato la complicità dell’amicizia e, ora, la gentilezza di un gesto spontaneo o la curva di un sorriso sembravano esse stesse magie, eredità di un mondo di cui aveva scordato l’esistenza e che credeva sparito, e invece trovava, con stupore, ancora in piedi, come l’ultimo granello di un universo che non aveva intenzione di scomparire.

Di tanto in tanto, qualcuno si avvicinava per lavare i panni o le vecchie pentole sbreccate. Lui cercava di ignorarli, loro lo evitavano, ma senza dimenticarsi di scoccargli occhiate colme d’odio. Draco non poteva nemmeno biasimarli del tutto: lui, la sua famiglia, i suoi alleati, avevano fatto cose orribili, sterminato senza pietà la popolazione magica e non, mietuto vittime, distrutto famiglie.

Quanti di loro aveva ferito?

Ne aveva riconosciuto uno, in particolare. Un ragazzo che aveva più o meno la sua età, ma a cui mancava un braccio. Era sicuro di essere lui l’artefice di quell’amputazione; qualcosa, nel suo sguardo, glielo suggeriva. Qualcosa, nei suoi ricordi, urlava e chiedeva il suo tributo. Draco era certo che l’avrebbe pagato.

 

***

 

Hermione impilò con cura l’ultimo ciocco di legno in cima alla piccola torretta che avevano appena finito di creare, poi spostò lo sguardo su Neville che, il volto paonazzo, si era appena passato una mano sulla fronte per detergere il sudore.

La ragazza emise un lungo respiro, gli occhi ostinatamente fissi sull’amico.

« Che cos’hai visto? » chiese limpidamente, senza mai staccare gli occhi dal volto del giovane. Era una domanda che le ronzava in testa da troppo tempo. Per mille volte l’aveva scacciata e se l’era tolta dalla mente, evitando lo sguardo di Neville o cercando di trovare occupazioni migliori che non fossero saziare la sua irrefrenabile curiosità. Quella volta, però, proprio non riuscì a frenare la lingua: le parole le sfuggirono dalla bocca prima di avere il tempo di ingioiarle.

Neville le scoccò un’occhiata a metà tra il divertito e il dispiaciuto, prima di rispondere.

« Non capisco di che parli »

Hermione emise uno sbuffo spazientito, infastidita da quella plateale menzogna: Neville poteva anche essere un impavido condottiero, ma non era capace di mentire.

« Nella testa di Malfoy » precisò con pedanteria. « Cosa hai visto? » Il suo sguardo si fece più penetrante e attento, concentrata com’era a non perdere nemmeno una delle sue reazioni.

Neville chinò il capo ed emise un lungo sospiro, poi si strinse nelle spalle.

« Poca roba » replicò lui, stranamente vago nella risposta, ma per nulla impacciato. La giovane strega scosse il capo, come a voler chiedere di più, ma dalla bocca non le uscì alcun suono. Era una richiesta silenziosa, la sua, una pretesa delicata ma che aveva molto della ragazzina che Neville aveva conosciuto a scuola, con quel suo candore delicato ma deciso. Ciononostante, non aveva intenzione di rivelarle niente. Non lo aveva fatto con nessuno, e non perché dovesse qualcosa a Malfoy, o perché lo rispettasse, quanto piuttosto per l’affetto che lo legava a Hermione e Ron, per il timore che l’impatto con quella nuova, assurda realtà destabilizzasse entrambi più di quanto fosse lecito. Non era sicuro di aver preso la scelta giusta, e talvolta si domandava se avrebbe dovuto dire qualcosa, magari solo accennarla, gettarla quasi per scherzo nel bel mezzo di un discorso.

Quando ne aveva parlato con Luna, senza mai dire chiaramente come stavano le cose, lei aveva risposto che la verità, qualsiasi verità, somigliava a una pietra che viene lanciata nel bel mezzo di un lago. La pietra scompare subito, affonda in pochi istanti, ma lascia segni indelebili del suo passaggio: cerchi che increspano la superficie dell’acqua e che continuano ad allargarsi fino a raggiungere la riva, allagando le sponde con una tenacia piccola e crudele.

Neville aveva capito poco di quelle parole, ma sapeva che ogni azione ha conseguenze, perciò aveva taciuto.

Da un lato, gli dispiaceva dover mentire alla sua migliore amica; dall’altro, però, sapeva che era la cosa giusta da fare. Lo sguardo che lui e Malfoy si erano scambiati alla fine di quella lotta silenziosa che avevano sostenuto per giorni era stato come un suggello: avevano siglato un patto. Lui l’aveva costretto alla resa, l’altro l’aveva invitato al silenzio. Il risultato era una strana forma di tacito rispetto a cui entrambi guardavano con stupore e sospetto.

« Hai detto che è innocuo. Perché? » L’insistente voce di Hermione venne incrinata da una punta di panico che gli fece crepitare la pelle.

« Perché non ci farà del male »

« Come fai a esserne sicuro? »

« Sono sicuro »

« C’entra qualcosa il fatto che mi ha salvata per due volte? »

Neville si fermò all’improvviso, il passo che lo stava conducendo verso la sua tenda sospeso a metà da una sorpresa che non era nemmeno poi così intensa come si aspettava. Quella ragazza era sempre stata troppo intelligente, troppo perspicace, per poterle nascondere qualcosa. La sua esitazione fu per Hermione una conferma sufficiente, e anche se lui si affrettò a scuotere il capo lei comprese perfettamente che c’era qualcosa di vero nella sua intuizione.

« Neville » lo richiamò, una sfumatura di preoccupazione ad oscurarle il volto.

« Hermione, ti fidi di me? » Lui la guardò negli occhi, con una determinazione che lei gli aveva letto addosso solo negli istanti prima di una battaglia. Annuì piano, con timore, ma senza la minima esitazione.

« Allora non farmi domande a cui non posso rispondere »

Prima di voltarle le spalle, non riuscì a trattenere un sorriso. Hermione non sapeva perché, ma, più che esserne rassicurata, si sentì ferita e inquietata da quell’ombra sul volto dell’amico. Istintivamente, il suo sguardo si spostò verso il lago.

Gli occhi mercuriali di Draco erano pozzi senza fondo, insondabili e superbi, ma in qualche modo adombrati da una sfumatura di sospetto che somigliava pericolosamente a rabbia. La sua mascella vibrava impercettibilmente, il corpo teso come una corda di violino. Guardava Neville con supponenza, e solo quando il ragazzo scomparve dentro la sua tenda i suoi occhi, acuti e pungenti, si spostarono lentamente su Hermione, senza mai perdere quell’ombra scura, inquietudine segreta che lei non riuscì a comprendere. Non poté fare a meno di pensare a quanto desiderasse conoscere la verità.

 

***

 

La guerra li aveva cambiati tutti, in modo impercettibile ma inequivocabile. Lo capiva dagli scatti nervosi delle mani, dalla vacuità degli sguardi attenti e sempre all’erta, dai sussurri disperati e sospettosi di una confessione di nascosto.

Lo capiva ogni volta che qualcuno tornava da una delle loro strane missioni suicida, scarmigliato e con l’espressione sconvolta di chi ha visto in faccia il dolore. Lo capiva ogni sera, quando, come una litania, ripetevano i nomi delle vittime e dei caduti, dei defunti, dei cari che avevano perso, degli amici scomparsi mai trovati.

Erano cambiati.

Eppure, erano sempre loro.

Draco li guardava con una punta di invidia, quando, stretti intorno al fuoco come un saldo anello indistruttibile, si facevano forza con un semplice sguardo o un sorriso di nascosto.

E la risata di Hermione tintinnava limpida al di sopra delle altre, la sua voce risuonava più alta di quella dei suoi compagni e, in qualche modo, il suo viso era illuminato dalle fiamme in modo diverso, come se quella luce fosse riservata a lei soltanto.

E lui, in disparte, la guardava con un desiderio che gli corrodeva lo stomaco e che lo faceva sentire prigioniero più di quanto non fosse.

Lo avevano liberato da catene o carceri, non era rinchiuso in segrete né costretto da corde, eppure, mai come allora Draco si era sentito recluso, soffocato da quella sensazione che si acuiva ogni volta che uno sguardo castano cadeva su di lui quasi per sbaglio. Averla accanto era una maledizione peggiore di qualsiasi morte.

 

« Tu non vieni? »

Draco sussultò, preso alla sprovvista da quella voce che non si aspettava di udire. I suoi occhi, primi fissi su Hermione, seduta a moltissimi metri di distanza, si spostarono su quella figura allampanata che sbucava dall’ombra, illuminata solo a intermittenza dalle fiamme del grande falò che avevano acceso al centro dell’accampamento.

« No »

Il ragazzo non poté fare a meno di notare che le mani di Paciock erano sporche di terra, le unghie incrostate di polvere umida e fango e il viso stranamente paonazzo.

Neville intercettò il suo sguardo. Chinò il capo ed emise un sospiro amaro, prima di parlare, mostrandogli le mani quasi come fossero un trofeo insanguinato.

« Si chiamava Micheal Corner. Era un nostro compagno di scuola, un Corvonero » disse piano, con voce atona e monocorde. « È stato colpito da una Maledizione, non so chi sia stato, non sono riuscito a vederlo » Il timbro divenne più asciutto, calò di un’ottava e vibrò, per poi tornare di nuovo fermo, irremovibile in quella freddezza fallace.

Draco lo guardò con le sopracciglia corrugate.

« Ti aspetti che dica che mi dispiace? » sibilò, gli occhi ridotti a due punte di spillo lucenti nella semioscurità.

La luce della luna illuminava solo metà del viso di Draco, ma Neville riuscì comunque a intravedere il puro disgusto che gli arricciava le labbra.

« Ci sono voluti ottantatré colpi di pala per scavare la sua tomba » disse lui, come se l’altro non avesse mai parlato. Il biondo sbuffò. I suoi occhi si posarono sul lago, che luccicava quietamente, quasi la sua superficie fosse accesa da centinaia di piccoli diamanti. Tacque, con l’indifferenza della viltà e il distacco dei vincitori.

Poi fu il turno di Neville di sospirare.

« Vieni vicino al fuoco. Fa freddo qui » disse soltanto, prima di allontanarsi con passi misurati e precisi, senza più attendere una risposta. Draco dovette fare un enorme sforzo per non guardarlo andar via. Solo quando si fu allontanato strinse con forza i pugni.

 

***

 

Hermione si avvicinò cauta, il corpo esile avvolto da un maglione sformato che era stato il regalo di Natale di Molly, in un tempo in cui il Natale esisteva ancora e permetteva persino lo scambio di doni. Le braccia strette intorno a sé nel tentativo di trovare in quel piccolo gesto un calore che difendesse anche dalla paura, si affacciò per cercare di spiare il volto del giovane, impegnato in gesti che lei riconosceva solo perché si era sempre applicata in quel tipo di magie.

« Stai cercando di lasciarti morire di fame? » esordì con un sorriso incerto ma amichevole sul volto.

Gli occhi di Draco erano immobili, fissi sulle acque ormai ghiacciate di quel lago che era diventato il suo rifugio. La sua espressione si indurì quando la vide arrivare e i suoi gesti divennero meccanici, ma lui tacque ostinatamente.

« Molly mi ha detto che non hai toccato cibo da quando sei qui » continuò la ragazza. Si era fermata a pochi metri da lui, e lo fissava dall’alto, stretta nel suo grande maglione color melanzana. Nonostante i suoi vestiti fossero molto più larghi, Draco riusciva a immaginare senza alcuno sforzo ogni forma del suo corpo. « Tieni » Hermione si sporse verso di lui, tirando fuori da chissà quale piega del suo maglione due grosse mele verdi. Lo stomaco del ragazzo mugolò, ma lui cercò di ignorare quella sensazione fastidiosa. I suoi occhi si piantarono dritti in quelli della giovane strega all’improvviso, con forza.

« Non cercare di fare la gentile con me, Granger » ringhiò ostile, arricciando le labbra come una belva che mostra i denti per difendersi dal predatore che ha dinnanzi. Hermione roteò gli occhi e sospirò.

« Non c’è di che, Malfoy » Il suo tono era fortemente impregnato di sarcasmo.  « Perché devi essere sempre così insopportabile? » Hermione si chinò leggermente e poggiò le due mele che gli aveva appena porto accanto a lui, ai piedi dell’albero. Draco la osservò con la coda dell’occhio, e non poté fare a meno di respirare profondamente nel tentativo di trattenere dentro di sé pensieri e bisogni: le mani piccole di Hermione, il profilo dritto di Hermione, le labbra rosee di Hermione, Hermione, che era una tentazione sufficiente senza che lei gli fosse accanto.

« E tu perché cerchi di piacere sempre a tutti? » ribatté lui caustico, inchiodandola con lo sguardo. Lei rimase immobile, la testa voltata verso di lui e il corpo ancora piegato, a guardarlo ora con una punta di ostilità dietro quel tentativo di tregua ormai chiaramente fallito. Non poteva comprendere quanto rancore, quanta amarezza, quanto dolore ci fosse dietro quell’affermazione che, più che un insulto, era una constatazione, la dichiarazione di quella gelosia acuta e colpevole che lui avrebbe dovuto a tutti i costi sopprimere. Draco lo capì immediatamente e si morse la lingua, ma troppo tardi, mentre lei alzava il mento con fierezza, come a volersi difendere con quello sguardo determinato che forse faceva più male di tutto.

« Che ti piaccia o no rimarrai qua per molto tempo. Credo che sia ora che cominci ad abituarti » disse Hermione con freddezza, facendo un passo indietro.

« A cosa? » sibilò il ragazzo con espressione ostile e minacciosa.

« A socializzare. A collaborare. Tutti devono fare la loro parte qui » Anche il viso della giovane strega, ora, era una maschera di distacco, ma dietro il velo opaco di uno sguardo indifferente v’era una traccia di dispiacere che lo sorprese. Sembrava ferita dalla sua reazione, in qualche modo. Forse sperava davvero in qualcosa – cosa, Draco se lo sarebbe chiesto per sempre.

« Sono un prigioniero, Granger » le ricordò con pungente sarcasmo.

« Sì » Hermione annuì duramente « Un prigioniero, non un ospite » precisò piccata. Poi, senza attendere una replica, puntò la bacchetta contro il suolo: dalla punta della sua arma strisciarono fuori piccole lingue di fuoco violetto che si raccolsero ai piedi del ragazzo, sprigionando un piacevole tepore. Mentre gli voltava le spalle, Draco ebbe la sensazione che la sua condizione fosse cambiata solamente nell’ultimo secondo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Mi trovate qui: Eloise.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo VI - Cicatrici ***


6.





Cicatrici








 

Hermione trasse un respiro profondo, gli occhi chiusi e una lacrima a disegnarle il profilo della gota arrossata. Il riposo era un eccesso che non si poteva concedere ma in quel momento, mentre premeva con forza la mano sul lato destro del torace, ne sentiva il bisogno. Abbassò il capo e osò lanciare un’occhiata alla ferita pulsante, per constatarne la gravità: una grossa trave di ferro sbucava, come un macabro bruco da una mela, dal fiore scarlatto che era la sua pelle. Un rantolo di dolore e paura le sfuggì dalle labbra, mentre un’altra lacrima si univa alle altre.

La giovane strega abbandonò la testa contro il tronco dell’albero accanto al quale si era accasciata, ormai priva di forze. La mano destra era ancora stretta intorno alla bacchetta; la sinistra, poggiata malamente sulla ferita nel tentativo di fermare l’emorragia nonostante l’acuminato arnese, tremava bruscamente.

Hermione trasse un respiro profondo, e poi un altro: ormai era una prassi quotidiana, non un lavoro di cervello, tentare di trovare in se stessi un equilibrio capace di difendere dal dolore e dalla paura.

Intorno a sé udì gli schiocchi delle Materializzazioni dei suoi amici. Li contò mentalmente, nella speranza di contarne tredici – in tredici erano partiti, in tredici dovevano tornare – e nel tentativo di rimanere lucida e cosciente.

Uno. Due. Cinque. Nove. Dieci. Undici. Dodici. A ogni schiocco un respiro, di sollievo, di bisogno. Dodici.

Un minuto, due minuti, cinque minuti, dieci minuti. Ancora dodici. Poi, il tredicesimo. Hermione sorrise e si concesse il suo meritato riposo. Mentre chiudeva gli occhi, le sembrò di vedere due lampi grigi in quel doloroso sollievo che era abbandonarsi al sonno.

 

***

 

Quando Hermione aprì gli occhi, la prima percezione che avvertì fu la mancanza alla mano destra, troppo vuota. Scattò a sedere con gli occhi spalancati dal terrore, perchè non era più abituata a trovarsi sprovvista di bacchetta. Senza arma e difesa si sentiva vulnerabile. La spezzò il dolore che provò all’altezza del torace, e fu costretta a stendersi di nuovo, un gemito a sfuggirle dalle labbra.

« Va tutto bene, Hermione » Gli occhi enormi di Luna sembravano due fari nella semioscurità della tenda, due luci di speranza, di salvezza.

« Ginny? » Hermione aveva la bocca asciutta, la gola secca e la voce le tremava. Chiuse gli occhi, nella speranza che almeno quella sensazione di vorticare incessante si spegnesse.

« Sta bene » rispose con pacatezza Luna.

« Neville? » chiese ancora la ragazza. L’amica esitò un attimo di troppo, ed Hermione si ritrovò con gli occhi spalancati dal terrore su di lei.

« È già ripartito » la bionda tentò di nascondere l’amarezza e il disappunto dietro un sorriso di rassicurazione. « Vado a chiamare Abigail, mi ha detto di avvertirla non appena ti fossi svegliata. Non fare sforzi »

Hermione chiuse gli occhi e rimase stesa, immobile. Al di là delle palpebre, intuì la luce della torcia che si affievoliva e quella, molto più forte, del sole, che penetrava per un istante e poi si estingueva. I rumori dell’esterno giungevano attutiti: passi, voci, cinguetti e fruscii, era tutto ovattato dal rassicurante tepore della tenda. Il dolore, però, niente poteva spegnerlo: era un tamburo atroce e insopportabile.

« Sei sveglia? » Un sussurro lieve, preoccupato e incerto.

« Ginny? » La voce di Hermione tremò, di paura e sollievo, dolore e piacere. Con gli occhi chiusi, allungò una mano, nel buio, e quando l’amica la strinse si sentì improvvisamente meglio. Una lacrima calda le scivolò lungo la tempia.

« Stai bene? » pigolò la piccola Weasley, preoccupata. La giovane strega dovette appellarsi a tutta la forza che aveva in corpo per rispondere. “Fa male”, avrebbe voluto dire, “fa un male terribile”; invece ingoiò le lamentele e la sofferenza e annuì, perché sapeva che la voce l’avrebbe tradita.

« Avevi un polmone bucato. Quando Malfoy ti ha portata qui respiravi appena, Abigail ha detto che avevi le pleure allagate dal sangue, stavi affogando nel tuo sangue, eravamo così preoccupati, noi non riuscivamo a trovarti… » Ginny esplose in un pianto disperato. Mentre le parole le sfuggivano dalle labbra come una raffica di proiettili vaganti – parole incerte e vacillanti, voce tremante e timbro sfumato di terrore e panico e paura – Hermione riuscì a percepire solo una cosa, in quel discorso, nota stonata e nome fuori luogo. Allora aprì le palpebre, ma prima di poter chiedere l’immagine che le entrò negli occhi le gelò il sangue nelle vene e congelò ogni parola sulla punta della lingua.

« Che è successo? »

« … non hai idea di quanto ci ha messo, ore a medicarti… come? » Ginny sembrò accorgersi solo in quel momento dello sguardo dell’amica fisso su di lei. Abbassò gli occhi su Hermione solo per un istante, giusto il tempo di rendersi conto che la stava osservando con occhi colmi di terrore e dispiacere e compassione e pena, poi le strinse la mano e si concentrò su un particolare del tutto privo di importanza – la benda di Hermione, le lenzuola, una venatura del legno, qualsiasi cosa pur di non specchiarsi nella verità incontrovertibile di quello che era successo.

Hermione avrebbe dovuto capirlo dalla sua voce, che c’era qualcosa che non andava – quella voce così insicura e traballante non poteva appartenere a Ginevra Weasley – ma il dolore l’aveva distratta. L’avrebbe dovuto capire dalle sue lacrime – perché Ginny non aveva mai pianto, in due anni di guerra. Mai.

« Abigail mi ha detto di darti questo » Ginny slacciò la presa dalla mano dell’amica e si sporse per prendere una tazza, colma di un liquido maleodorante. « È un po’ occupata, adesso, Neville è appena tornato con la sua squadra e Adam ha qualcosa che non va, non si capisce bene… »

« Ginny, che cosa ti è successo? » Il ciarlare della ragazza non era una distrazione sufficiente; forse, era solo un’ulteriore conferma, rafforzativo necessario a porle di nuovo quella domanda.

« Non lo so, Hermione » La giovane emise un sospiro stanco, rassegnato. « Non mi ricordo. Ricordo solo qualcosa che mi colpiva in faccia, non ho visto cos’era. Non so se era un incantesimo o qualcos’altro. Mi ha riportata Fred. O George » Un lieve sorriso, amaro quanto la sua voce, che si spezzò piano, con la dolcezza di uno sguardo orbo, a metà. « Non ho ancora avuto il coraggio di guardarmi allo specchio » sussurrò piano, e finalmente guardò Hermione, ma senza vederla davvero, perché non poteva più farlo, non completamente, guardava Hermione ma con un occhio solo e senza guardarla negli occhi, perché le pupille di Hermione erano specchi e lei, specchi, non ne voleva vedere, non ancora, perché gli unici specchi che avrebbe voluto erano verdi, ma quegli specchi erano lontani, persi « E se… » un singhiozzo, il terrore a spezzare ogni singola cellula del suo essere « Io non… » La voce che perde colpi, tossisce e si ferma come un treno sfinito, esausto. « E se… » Perché non riusciva a dirlo, a pronunciare il suo nome o forse la sua paura.

Allora Hermione la prese per mano.

« A Harry non importa. Non gli importerà, lo sai. Sei bellissima, Ginny, lo sei sempre stata… » La presa calda non era rassicurazione sufficiente, per lei.

« Non sai mentire, Hermione » Era dura, adesso, la voce di Ginny, e ferma. L’unico occhio che lei poteva vedere era implacabile e rabbioso, duro e diretto com’era sempre stata lei – lei, che però non era più lei. Era bellissima, Ginny, ora non lo era più. Una cicatrice le deturpava irrimediabilmente il viso, tagliandole a metà l’occhio destro. La pupilla lattiginosa in quell’orbita turgida e sfregiata era stata il prezzo che aveva dovuto pagare per il suo amore – nel tentativo di tacere e aiutare.

Era bellissima, Ginny, ma ora non lo era più, ed Hermione non riusciva a non pensare che quella fosse una crudeltà forse peggiore della morte, perché non se lo meritava, perché la sua bellezza doveva rimanere intatta, perché forse sarebbe stato meglio se fosse successo a lei, che tanto non era dotata di un grande fascino.

« Abigail non ha potuto fare niente? » domandò piano Hermione, ingoiando un boccone amaro.

« È magia nera, e lei è troppo inesperta. Non ha saputo fare di meglio. La scheggia mi stava trafiggendo il cervello, è riuscita appena ad estrarla » Ginny chinò il capo, incapace di guardare il viso dell’amica, adesso. « Meglio cieca che morta, comunque » aggiunse asciutta, con un filo di voce, come se non ci credesse più di tanto.

« Mi dispiace » La voce di Hermione si spezzò. Un’altra lacrima, più dolorosa delle precedenti, in modo implacabile e inevitabile.

« Non è colpa tua » mormorò Ginny. Il suo tono era duro, ma sincero. Eppure, Hermione non poté fare a meno di pensare che non era vero. Aveva organizzato lei le squadre; lei aveva chiesto all’amica di affiancarla, per paura, perché le mancava la sicurezza se non aveva un’amica accanto – perché morire dentro gli occhi di Ginny sarebbe stato meglio che morire da sola. Era colpa sua perché era stata vigliacca, ed era stata vigliacca perché era più egoista che leale. Perché non era una vera Grifondoro.

« Bevi questa » disse l’amica dopo qualche minuto di silenzio. La sua affermazione aveva qualcosa di definitivo, perciò Hermione non aggiunse nient’altro: ci sarebbe stato tempo, per parlarne, per superare anche quel dolore.

Ma ci sarebbe stato davvero?

Non poté fare a meno di domandarselo, mentre con una smorfia di disgusto mandava giù quell’intruglio, e un calore piacevole le intorpidiva le membra.

Passò del tempo vuoto, durante il quale Hermione cercò di dominare il desiderio di abbandonarsi al sonno e alla sofferenza, e Ginny la guardava impensierita, chiusa in pensieri che erano solo suoi.

« Luna mi ha detto che Neville è ripartito » disse la maggiore dopo un po’, nel tentativo di non addormentarsi di nuovo, di spazzare via la colpevolezza e il dolore.

« È tornato pochi minuti fa. I Mangiamorte avevano rinchiuso alcuni maghi e Babbani dentro un casolare, nell’Essex, e si stavano divertendo » Ginny strinse i denti per dominare il senso di nausea che l’idea le provocava. La rabbia stillava da ogni parola. « Li hanno salvati quasi tutti, ma alcuni hanno preferito nascondersi altrove. Meglio per noi, meno bocche da sfamare » La durezza di quell’affermazione era così tanto in contrasto con la dolcezza dei lineamenti di Ginny, che Hermione non poté fare a meno di aprire gli occhi per assicurarsi che fosse ancora lei a parlare. La vista di quella cicatrice, però, la convinse a richiuderli di nuovo, prima che un conato di vomito le risalisse su per l’esofago. Il senso di colpa per non averla aiutata, salvata, per non essersi trovata lì al momento giusto, si mescolò all’acuto dispiacere per l’amica, che avrebbe dovuto sopportare, oltre alla guerra, anche quella battaglia psicologica per accettare se stessa nonostante quella cicatrice deturpante che lei, al momento, nemmeno riusciva a guardare. Era Ginny, che parlava, ma non era più lei.

« Che ha Adam? » domandò, cercando di appellarsi a frammenti di ricordi, alla poca lucidità che le era rimasta addosso.

« Non lo so. Neville dice che è stato colpito da un Imperius, ma qualcosa deve essere andato storto. È convinto di avere cinque anni, continua a ripetere di non voler aspettare Babbo Natale per mangiare le uova di cioccolato » L’evidente confusione sul viso di Ginny strappò a Hermione una risata di puro divertimento. Non doveva essere divertente, non doveva ridere; non poteva permettersi di prendersi gioco del malore di uno dei suoi compagni, ma quella smorfia perplessa sul viso dell’amica era quanto di più simile al passato avesse in quel momento, e il ricordo del Natale, della Pasqua, il pensiero che, nonostante tutto quello che stava succedendo là fuori, quelle verità esistessero anche dentro la testa di qualcun altro, nel passato di qualcun altro, la faceva sentire meglio.

Anche se Ginny non aveva idea di cosa fossero Babbo Natale e le uova di cioccolato, anche se inizialmente sembrò preoccupata da quella risata fuori luogo che pareva l’inizio di una precoce e preoccupante pazzia, non potè fare a meno di ridere anche lei. Ricordando, così, che c’era ancora qualcosa per cui ne valeva la pena.

 

***

 

Era una mattina pacifica, come non ne esistevano da troppo tempo. Il cielo, una placca d’argento sopra un deserto brullo, emanava i bagliori bianchi di un inverno senza clemenza. Un fruscio leggiadro viaggiava tra le fronde degli alberi; qualche foglia ocra si staccava dai lunghi rami ombrosi, volteggiava per qualche istante nell’aria e poi si posava sulla superficie ghiacciata del laghetto. Il lontano gracchiare di un corvo stemperava quell’atmosfera quieta.

L’aria era pulita, ma Hermione non riuscì a respirare a pieni polmoni, perché, nonostante le cure di Abigail, la Medimaga dell’accampamento, il dolore era ancora vivido e pulsante. Mentre si sedeva sulla riva del lago, accanto al biondo che ormai era una presenza fissa, si sentì stranamente serena. Non lo guardò negli occhi, presa com’era a fissare quel cielo terso, privo di pinnacoli di fumo o simboli di morte. Si chinò lentamente, emettendo un unico gemito soffocato, perché alcuni movimenti le provocavano ancora una certa sofferenza, poi, sempre con lo sguardo puntato verso la volta celeste, parlò.

« E così, ti devo la vita per la terza volta » Un lieve sorriso le arcuò le labbra. Con la coda dell’occhio, vide l’espressione immobile del ragazzo accanto a lui. Sembrava indifferente, disinteressato a quello che gli succedeva intorno e assolutamente  insensibile alla sua presenza. Non poteva sapere quanto amore stesse bruciando dentro di lui, in quel momento, né quanto quella piccola vicinanza lo facesse fremere, bravo com’era a nascondere le sue emozioni. « Attento, Malfoy. Sta diventando un vizio. La gente potrebbe anche pensare che sei dei buoni » continuò lei, sdrammatizzando con una risata cristallina che, però, le strappò una smorfia di sofferenza.

« Che vuoi? » sputò scontroso, scoccandogli un’occhiata priva di gentilezza. Hermione si voltò verso di lui e incrociò mitemente il suo sguardo.

« Niente. Sono venuta a ringraziarti » rispose con semplicità. Lui la guardò con una vaga incredulità, smorzata dalla smorfia beffarda sul volto: le sue labbra si arricciarono in un sorriso di compiacenza che fu solo l’ombra di un momento.

« Non l’ho fatto per te » disse asciutto. Tentare di negare sarebbe stato stupido, era certo che i suoi amici le avessero raccontato che era stato lui a trovarla. Quello che non le avevano detto – quello che non potevano sapere – era quanto tempo avesse perso a guardarla. Quando si era Materializzata lì, sulle rive di quel lago che era diventato il suo rifugio e la sua fuga, si era sentito ferito e offeso, invaso nel suo territorio. Poi aveva capito che era lei, e il fastidio si era trasformato in speranza, e poi in panico. Questo non gli aveva impedito, però, di rimanere per interminabili minuti ad osservarla.

Hermione era bellissima.

Draco non aveva mai avuto la possibilità di vederla così da vicino, né aveva mai nemmeno osato sperare sfiorarla. Ora che ne aveva l’occasione, era certo che la morte non gliel’avrebbe portata via: sarebbe stato troppo crudele. Così le aveva sfiorato la pelle, percorso gli zigomi, accarezzato le palpebre. Quando i suoi polpastrelli erano passati sopra le sue labbra, era stato il momento in cui il fremito si era trasformato in urgenza. Sentirsi il suo corpo addosso sarebbe stato tanto doloroso che, ne era certo, si sarebbe pentito di non averla lasciata morire lì; perciò aveva chiamato qualcuno, gli aveva detto con timbro monocorde dove si trovava e poi l’aveva guardata mentre andava via – via da lui, com’era giusto, com’era sempre stato.

« E per cosa, allora? » domandò Hermione strappandolo ai suoi pensieri – ai suoi ricordi, una fitta di dolore e un conato di vomito ogni volta che ci rifletteva. Lui scostò lo sguardo, nascose i suoi occhi alla vista indagatoria e impaziente della ragazza, ma non impiegò molto a rispondere.

Si trattava semplicemente di decidere: dire la verità o continuare a mentire. Se la seconda opzione avrebbe potuto, forse, donargli la pace, la prima era senz’altro la via più facile da seguire.

« Voglio quanto te che la guerra finisca »

Hermione corrugò la fronte, confusa da quella risposta. Stava per aprire la bocca, quando lui parlò di nuovo. « Lui dov’è? » chiese, inchiodandola con uno sguardo implacabile che sembrava frugare in ogni angolo della sua mente.

« Chi? » domandò la giovane, pur non avendo bisogno di conferme.

« Potter » Quel nome, sulle sue labbra, aveva un suono aspro, un sapore amaro. Hermione tacque. Le labbra di Draco si arcuarono in un sorriso di strafottente compiacenza. « Chissà che reazione avrà quando vedrà la sua amichetta. Ora sì che sono anime gemelle: entrambi orrendamente sfregiat- »

Il lampo che lo colpì in pieno petto lo lasciò senza fiato per diversi minuti. Quando alzò lo sguardo su Hermione, la cui bacchetta esalava un sottile filo di fumo, lei era in piedi, un’espressione furente nello sguardo ferito. Nei suoi occhi era riflessa una luce di disgusto pura, accesa da un dolore che non le apparteneva, da una rabbia che le accendeva il viso di un rossore stranamente attraente.

« Perché? » sibilò lei, senza fiato. « Perché lo fai? Perché devi per forza farti odiare? » La sua voce si alzò fino a diventare un urlo disperato, un appello che lui percepì con un fremito mascherato da sospiro.

Non rispose. Non chinò lo sguardo, perché non riusciva a staccare gli occhi di dosso da lei, così bella nella sua indomita fierezza di amica protettiva e leale; non chinò il capo perché non voleva essere vinto da lei ancora una volta, perché non voleva mostrarsi debole, o pentito, o colpito, o ferito. Anche se tutto di lei lo rendeva debole, o pentito, o colpito, o ferito.

La seguì con gli occhi, mentre lei si allontanava con una lacrima incastrata tra le ciglia e una strana sensazione a premere nel petto; la guardò andare via ancora una volta, stavolta per sempre, e si sentì uno stupido. Uno stupido con l’orgoglio intatto, ma pur sempre uno stupido.

Incrociò solo per un istante lo sguardo confuso e infuriato di Paciock, ma lo fuggì per timore di domande a cui non avrebbe saputo rispondere. Ignorò, invece, le occhiate furiose degli altri, semplicemente perché non gli importava nulla di loro.

Le parole di Hermione riecheggiavano nella sua testa con un’eco difficile a morire, tamburi di guerra trasportati dalla frustrazione.

Perché devi per forza farti odiare?

“Perché non posso farmi amare, Hermione”.

 

***

 

Ha occhi voraci, Draco, e sorrisi enigmatici e appena accennati.

Hermione aveva imparato a osservarlo, a volte persino a studiarlo, per cercare di comprenderlo, nel tentativo – vano – di diradare il mistero dei suoi comportamenti e delle sue parole.

Alcuni volevano lasciarlo andare, perché non sopportavano più di vederlo lì, con loro, a occupare un posto che non gli spettava, a sprecare cibo che non si guadagnava. La maggior parte non volevano quel Malfoy vicino.

Neville, con un sorriso sicuro di sé, affermava che quello non era più lo stesso Malfoy di prima.

Fred e George rispondevano che non sarebbe bastato un mese di prigionia a cambiarlo, perché quella non si poteva definire esattamente una prigionia.

Ginny spingeva per interrogarlo – perché voleva per sé il piacere di torturarlo, così da pagare vecchi debiti e saldare nuove vendette.

Hermione lo guardava e non sapeva cosa pensare.

Qualche volta pensava che, prima o poi, sarebbe riuscita a sopportarlo, forse persino a instaurare un rapporto civile con lui – magari, sarebbe anche successo, un giorno, che avrebbero riso insieme, che sarebbero diventati qualcosa di simile a degli amici. Ogni tanto ci pensava. Accarezzava l’idea con un sorriso, e le veniva da ridere a quella buffa idea. Sarebbe stato strano, ma aveva imparato che di normale, nella sua vita, non c’era più niente.

Draco era scostante come il tempo e lontano come la fine della guerra. Il suo ostinato mutismo era certo preferibile ai suoi insulti sprezzanti, ma Hermione non poteva fare a meno di pensare che la sua superbia nascondesse in realtà più di quanto lui stesso fosse disposto ad ammettere. Cicatrici che nascondeva con la stessa cura con cui si impegnava ad apparire forte.

Qualche volta pensava che lui fosse simile a lei. L’idea le balenava nella mente all’improvviso, poi la scacciava con la vergogna dei pensieri scomodi. Eppure, non poteva fare a meno di riflettere che, in fondo, la sua altezzosa indifferenza, quell’armatura di offese e rabbia che si era costruito intorno, era fin troppo simile allo schermarsi di Hermione dietro libri e saggezza acquisita. Modi diversi di difendersi e nascondersi, certo, ma pur sempre tentativi di celare l’essenza sotto forme diverse e più accettabili. Espedienti che servivano solo ad accettare le cicatrici di cui la loro anima era costellata.

 

Draco aveva smesso di pensare, invece. Le sue giornate scivolavano via, come parole di una liturgia antica, scompigliate dall’immaginazione e riordinate dal fedele compasso di una quotidianità conquistata a fatica. Riposavano immobili su se stessi, i giorni, esattamente in bilico tra ricordi e sogni.

« Continuerai a rimanere isolato ancora per molto? »

Ogni tanto ci provava, la Granger, a capirlo, a comprendere la natura dei suoi gesti e il mistero dei suoi occhi sempre fissi su di lei. Lui non faceva altro che arroccarsi dentro la sua brutale arroganza.

« Lasciami stare, Granger » Era la risposta che gli piaceva di più, tanto vera quanto menzognera. La guardava negli occhi, con quella voce sommessa e dura, una minaccia latente sepolta a fatica sotto una superficie di autocontrollo che svaporava ogni volta che lei gli voltava le spalle. Perché solo quando lei non guardava poteva concedersi l’eccesso di una frustrazione sempre nascosta, negata persino a se stesso. Solo quando lei non guardava, lui poteva guardarsi dentro, scoprendo ogni giorno una cicatrice diversa e più profondo, incisa nel suo cuore.

 

***

 

Neville non si era mai sentito così stanco, ma non voleva comunque concedersi il vizio del riposo. Mentre le ultime luci di un giorno da dimenticare sfioravano pigramente la superficie ghiacciata del lago, lui e Luna trasportavano, con una certa fatica, due grossi sacchi neri verso il centro dell’accampamento.

La bionda accanto a lui sbuffò per lo sforzo. Si fermò solo per raccogliere i capelli sulla spalla destra, giusto il tempo di guardarsi intorno.

« Può aiutarci lui » disse con tono pacato e vagamente soddisfatto, come se avesse appena scoperto uno dei suoi preziosi e strani mostriciattoli. Con l’indice piccolo e affusolato indicò una sagoma scura, accucciata ai piedi di un grosso albero. Neville, le dita appese a un grosso sacco nero che cercava di trascinare senza troppo successo, lo fissò come se fosse stato l’ultima persona al mondo a cui avrebbe voluto chiedere un favore, ma la ragazza gli risparmiò lo sgradevole compito di domandargli aiuto.

« Ciao, Malfoy, ti dispiacerebbe darci una mano? » domandò Luna con gentilezza, senza mezzi termini né giri di parole.

Il ragazzo si limitò a scuotere le spalle, senza degnarsi di voltarsi verso di lei per darle una risposta diretta.

« Questi sacchi sono un po’ pesanti » insistette allora la giovane, gli occhi chiari puntati su di lui.

« Usa la magia » bofonchiò Draco, le braccia conserte e lo sguardo ostinatamente fisso sul lago dinnanzi a sé, come se non ritenesse Luna Lovegood una persona degna della sua attenzione.

« Cerchiamo di limitarla al minimo per preservare lo Statuto di Segretezza » intervenne Neville, con un’evidente nota di fastidio nella voce. Si avvicinò ai due quel tanto che bastava per sfiorare la mano di Luna e tirarla verso di sé, in silenzio, perché era chiaro che Malfoy non li avrebbe mai aiutati, e lo infastidiva quell’atteggiamento borioso e arrogante, specie se rivolto alla sua ragazza.

Draco emise una risata bassa e monocorde, poi con sguardo beffardo e derisorio piantò i suoi occhi chiari dritti in quelli di Luna.

« Siamo tutti maghi, qui » disse, un ghigno divertito sul viso pallido e affilato.

« Non tutti » Neville strinse gli occhi e sussurrò tra i denti quella rivelazione. Poi, con una certa, malcelata soddisfazione osservò la sorpresa dipingersi sul volto di Malfoy con pennellate scure e precise.

« Perché credi che ci sia un pozzo, qui? A parte per difenderci dai Gervoni Maculati, intendo » aggiunse Luna con semplicità, stringendosi nelle spalle. Poi, con un sorriso, prese per mano Neville e si allontanò.

 

***

 

Se c’era un momento della giornata che Hermione poteva permettersi di amare, era la sera, dopo cena, quando tutti si riunivano davanti al fuoco, e in quelle fiamme bruciava la consapevolezza di una guerra interminabile, il dolore dei morti, la colpa di un’impotenza destinata a generare dolore. Era il momento che preferiva perché dentro il fuoco ogni cosa sembrava fragile, e la speranza di una fine diventava vera. Era il momento che preferiva perché quando si stringevano tutti intorno al fuoco, poteva permettersi la pace di un sorriso e il pianto dei vinti. Forse, era il momento che le piaceva di più anche perché le ricordava le serate in Sala Comune, in un tempo che sembrava appartenere a un’altra vita.

Fred e George facevano i buffoni come sempre, strappando un sorriso persino a chi un sorriso sembrava non avercelo più. Il cicaleccio che accompagnava lo scoppiettio del fuoco, quel vociare a tratti allegro, a tratti timoroso – come se avessero paura di concedersi alla pace, di lasciarsi andare alla serenità – rendeva la fine della giornata più dolce. Al di là del dolore e della paura, c’era un mondo che Hermione poteva ancora amare. Lei lo sapeva, e quei momenti la aiutavano a ricordare.

Ginny, accanto a lei, guardava le fiamme senza davvero vederle. La luce scostante delle fiamme rendeva giustizia al suo viso ingiustamente sfigurato. Come per un bisogno insito e non detto, le sue dita scivolarono accanto a quelle di Hermione, fino a stringerle con forza, come a suggellare anche fisicamente il pensiero comune che le univa – perché se a una il fuoco ricordava la passione, all’altra rammentava capelli che sentiva il bisogno di toccare.

Quando, dopo molti minuti di silenzio, Ginny si alzò, lei non sentì il bisogno di trattenerla. Hermione, però, rimase immobile dov’era, cullata dal vociare che la circondava e rassicurata dal tepore del fuoco.

« Babbani » Una voce strisciante la fece sussultare. « Mi avete portato in un posto pieno di Babbani » Il suo tono era fortemente impregnato di disprezzo. Quando lei individuò la sua sagoma, discosta dagli altri di modo che solo lei potesse vederlo, ne fu sorpresa. Nell’oscurità incompleta il grigio dei suoi occhi era scuro e profondo, eppure una scintilla inquieta li accendeva.

« Chi te l’ha detto? » domandò a bassa voce Hermione, il tono calmo e gli occhi fissi su di lui.

« Lunatica » rispose Draco, accentuando l’ironia di quel soprannome con un disgusto fin troppo eccessivo.  Lei deglutì, ingoiando la collera leggera che il suo atteggiamento provocava, poi spostò lo sguardo sulle fiamme, offrendogli il profilo piccolo e gentile del naso e quello, più promettente, delle labbra opache.

« Stavate distruggendo tutto » La voce di Hermione sembrava provenire dai più profondi recessi della sua anima. « Non potevamo permettervi anche questo. Avevano bisogno di aiuto, di protezione; nient’altro potrebbe salvarli, non possono difendersi da qualcosa di cui non conoscono nemmeno l’esistenza » C’era una rabbia latente che vibrava nella sua voce, cupa e diaframmatica, eppure il suo viso sembrava sereno.

Per tutta risposta, Draco emise una bassa risata impregnata di sarcasmo.

« Lo sapevo » Il suo ghigno beffardo era visibile persino nel buio. « Sapevo che non potevate essere così tanti. Siete solo un pugno di morti di fame che sperano ancora di poter vincere » Un’altra risata, stavolta più cattiva. Le sopracciglia di Hermione si corrugarono appena, ma il suo viso rimase ostinatamente rivolto verso le fiamme, cosicché lui poteva vederne solo metà. « Ma non avete idea di quello di cui sono capaci » Il tono di Malfoy vibrò appena, ma abbastanza perché la ragazza cogliesse la nota di panico che ne aveva corrotto la voce. L’angolo della bocca di Hermione si arcuò in un sorriso.

« Appena un mese, Malfoy, e già non ti senti più parte di loro? » lo provocò, e questa volta piantò entrambi gli occhi su di lui.

Gli occhi di Hermione.

Draco non avrebbe potuto conoscere condanna peggiore che quello sguardo puntato su di lui, come un pugnale in pieno petto. Il ringhio roco che gli sfuggì dalle labbra sembrava il lamento di una bestia ferita, un’eco appena udibile nella notte.

« Come? » domandò, confuso, gli occhi improvvisamente incupiti da un velo di perplessità.

« Hai detto sono. “Quello di cui sono capaci” » recitò lei, con una punta di evidente soddisfazione nella voce.

« Sai cosa intendevo » ribatté Draco, nascondendo l’improvviso timore della voce dietro un petto gonfio e una spavalderia di carta.

« Anche noi abbiamo le nostri armi segrete, Malfoy » Hermione si voltò, regalandogli un sollievo di cui il ragazzo avrebbe dovuto esserle grato, se non fosse che sentiva addosso quello sguardo addosso, a frugare in ogni recesso della sua anima con la prepotenza di un amore scomodo.

Draco stava aprendo la bocca per ribattere, quando la voce di George risuonò alta e gioconda nell’accampamento.

« Ehi, Hermione, quel tipo ti importuna? » Entrambi avvertirono i rigidi sguardi dei presenti che si puntavano su di loro, ma se lei ne era abituata, lui avvertì, fastidioso, il bisogno di fuggire da quelle centinaia di occhi fissi su di lui.

« Non lo so » rispose lei, un sorriso a fior di labbra che non riusciva a trattenere. Si voltò verso di lui con uno sguardo limpido, privo di ogni pregiudizio o ombra, e quando parlò, anche la sua voce era trasparente. « Mi importuni? »

Draco le regalò un ultimo sguardo ferito, prima di sparire nel buio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Eloise.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo VII - Malfoy ***


7.

Malfoy

 

Un vento freddo agitava le fronde più alte degli alberi, le cui foglie ormai ingiallite dall’autunno frusciavano e crepitavano al di sotto di un cielo grigio e minaccioso. Un velo opaco di nuvole navigava leggiadro sopra l’accampamento dell’Ordine, piangendo una pioggia sottile che trafiggeva la superficie del lago con piccoli aghi implacabili. Le sponde ghiacciate cominciavano a sciogliersi al tocco di quelle dita, creando rigagnoli fangosi sulla riva.

Draco osservava la cortina d’acqua che cadeva fitta dal cielo, dentro gli occhi pensieri impalpabili. Si riparava sotto i rami ombrosi di quell’albero che era diventata la sua casa; le mani in tasca e la schiena mollemente poggiata sull’ampio tronco, sembrava quasi essere parte integrante della vegetazione.

Hermione impiegò qualche istante ad individuarlo, al di là del velo di pioggia. Gli si avvicinò lentamente, concedendosi il vizio di un incedere lento e pacato, sereno, e regalandosi poi un attimo per osservarlo meglio.

I capelli biondissimi gli ricadevano sulla fronte, stranamente scomposti, e il viso affilato, più pallido del solito, era rivolto verso il lago, immobile come una statua. I vestiti sgualciti con cui l’avevano catturato, ormai logori e sporchi in più punti, gli ricadevano mollemente addosso, accentuando l’asciuttezza del suo corpo.

« Che vuoi? » La sua voce, stranamente pacata nonostante il distacco gelido con cui aveva parlato, la fece sussultare. Hermione realizzò con qualche istante di ritardo che i suoi occhi la stavano scrutando.

« Ti ho portato la zuppa » Avrebbe voluto che la sua voce suonasse ferma e sicura di sé, ma al suo orecchio giunse solo un pigolio. Sperò che il tuono che aveva appena rimbombato in lontananza attutisse quella sensazione, ma il sorriso sghembo che si disegnò sul volto dell’altro le fece capire che non era così.

« Intendo dire che vuoi davvero, Granger » Draco incrociò le braccia sul petto, gli occhi scintillanti di divertimento.

Hermione emise un sospiro infastidito, mentre poggiava a terra la ciotola che gli aveva portato, opportunamente incantata perché la pioggia non potesse intaccarne il contenuto.

« Non lo so, Malfoy. Dimmelo tu » Puntò gli occhi scuri su di lui con decisione, lo sguardo determinato di sempre a brillare oltre la penombra di quel giorno piovoso. « Ieri sera sei venuto a cercarmi, e non credo che tu l’abbia fatto solo per dirmi che ti infastidiscono i Babbani »

Una saetta tagliò il cielo a metà, in silenzio. A Hermione sembrò di vedere un lampo di luce negli occhi del ragazzo, ma si convinse che era stato solo un gioco d’ombre quando un ghigno fastidioso tagliò il suo volto bianco. Un tuono esplose in lontananza, compagno in ritardo del fulmine di prima.

« Cerco di strapparti informazioni, Granger, e tu sei così stupida da non capirlo » disse con voce ricolma di risentimento, quasi sputandole in faccia quelle parole. L’angolo della bocca di Hermione si alzò verso l’alto.

« O forse lo stupido sei tu, che non hai ancora capito che non uscirai da qui fino alla fine della guerra » La sua voce era pacata e serena, nonostante la velata minaccia insita nelle sue parole.

« O fino a quando sarete tutti morti » precisò Draco con una pedanteria che non gli apparteneva, uno scintillio divertito e vagamente malvagio negli occhi grigi. La giovane strega si strinse nelle spalle. Il suo silenzio era un modo implicito di dargli ragione senza però regalargli la soddisfazione di farlo davvero.

« Io invece penso che tu ti senta semplicemente troppo solo » considerò Hermione, senza dare alcuna particolare inflessione alla sua affermazione, come se volesse riservare a lui il compito di interpretare ciò che aveva appena detto. Draco, per tutta risposta, emise uno sbuffo simile a uno sghignazzo divertito.

La ragazza sospirò.

« La zuppa puoi mangiarla con noi, se vuoi. Nessuno ti chiederà di andare via » disse piano, guardandolo con un dispiacere palpabile a brillare nelle iridi scure. Quello sguardo, per lui, era qualcosa di molto simile all’inferno. Si sarebbe domandato per sempre il motivo per cui quegli occhi sembravano così delusi dai suoi silenzi, dalla sua arroganza; si sarebbe chiesto in ogni momento della sua vita, da quel momento in poi, cos’era quella ferita che le aveva aperto in fondo all’anima e che sanguinava da quello sguardo castano. Per sempre sarebbe stato tormentato da quegli occhi.

E Draco conosceva un solo modo di difendersi dalla paura del tormento.

« Ecco cosa me ne faccio della tua schifosa zuppa » disse prima di assestare un calcio deciso alla ciotola che Hermione aveva poggiato a terra. La zuppa, ancora calda, abbeverò l’erba che cresceva ai piedi dell’albero che offriva loro riparo. Mentre lei abbassava lo sguardo, lui le piantò due occhi enormi di paura addosso.

La ragazza rimase immobile a guardare le ultime gocce del lavoro di Molly assorbite dal terriccio spugnoso. Non gli rivolse nemmeno un ultimo sguardo, prima di andare via. Né sguardi né parole. E Draco si sentì improvvisamente colpevole, e capì che avrebbe dovuto fare i conti con quella nuova sensazione per il resto della sua vita. Capì che quello sguardo mancato era il suo castigo.

 

***

 

Luna gli si avvicinò in un giorno di sole. Si sedette accanto a lui e cominciò a intrecciare un cestino di vimini a una vicinanza che Draco riteneva semplicemente scandalosa, ma che, era evidente, metteva la ragazza a proprio agio. Rimase in silenzio a lungo, impegnata nel suo preciso compito. Dal suo collo ciondolava una strana collana composta da quelle che somigliavano pericolosamente a cipolle. Puzzavano, anche, come cipolle.

Draco storse il naso e strisciò lentamente lontano da lei, lanciandole occhiate cariche di disgusto che lei non sembrava vedere.

« Neville mi ha baciato, qualche mese fa » esordì dopo diversi minuti di silenzio. Quando parlò aveva il timbro acceso da qualcosa di incomprensibile, una sfumatura di leggiadria intrisa da una nota di naturalezza che rendeva la sua voce soave, e dolce.

« Cosa vuoi che me ne importi? » Draco non riuscì a tacere quel pensiero, perché l’affermazione di Lunatica era tanto inopportuna quanto assurda.

« Desiderava farlo da tanto tempo. O almeno, così mi ha detto » La ragazza gli rivolse un sorriso tenue e delicato quanto la tinta bionda dei suoi capelli sporchi, ben diversa da quella di lui, così arrogante nel suo splendore. Draco sbuffò, domandandosi il motivo per cui il destino si stesse accanendo così tanto contro di lui.

« E allora?! » Inarcò le sopracciglia e allargò le braccia, incapace di cogliere la destinazione finale di quel discorso per lui privo di ogni logica.

« Penso che tutti, prima della fine, debbano trovare il coraggio di fare ciò che desiderano. Di baciare la persona che amano » Gli occhi di Luna erano enormi, tanto sporgenti che sembravano entrargli dentro l’anima e sondarne ogni angolo. La semplicità della sua voce era così tanto in contrasto con il contenuto delle sue parole, che la pura meraviglia di Draco si trasformò in stupore, senza avere il tempo di mutare in rabbia.

 

***

 

Il silenzio della tenda era rotto solo dal respiro quieto e controllato di Neville. Una leggera brezza trapelava dall’entrata tramite un lembo aperto che lasciava filtrare anche una parziale luce. L’odore tenue e appetitoso del coniglio arrosto di quella sera gli stuzzicò i sensi al punto che il suo stomaco rispose con un leggero brontolio.

 « Credevo che avessimo un patto » La voce di Draco era strisciante e fredda, un basso sibilo monocorde che recava con sé lo strascico ingombrante di una minaccia. Spezzò la quiete apparente della tenda in modo tanto inaspettato che l’altro non poté fare a meno di sussultare lievemente, perché non l’aveva sentito arrivare.

Neville, chino su una mappa che si affrettò a nascondere con un rapido movimento di polso, si voltò a guardarlo lentamente. Stranamente, non c’era sorpresa, nel suo sguardo, quando incrociò l’occhiata severa del biondo, penetrato nella sua tenda di nascosto, in silenzio.

« Sai, potrei anche ucciderti nel sonno. Potrei uccidervi tutti » Gli occhi grigi scintillanti come diamanti, e altrettanto duri, erano due stelle scure nella penombra dell’abitacolo; il suo corpo, teso e rigido, sembrava pronto a scattare da un momento all’altro. Draco sembrava una bestia ferita in procinto di attaccare, eppure, Neville non aveva paura.

« Non capisco, Malfoy » esalò in un sospiro, con una calma che innervosì il biondo.

« Non devi capirmi, Paciock » ringhiò l’altro in un cupo tentativo di difesa che culminò con uno sbuffo impaziente. Draco strinse il pugno, che tuttavia rimase inerte lungo il braccio.

Neville lo guardò dritto negli occhi con espressione limpida, ma incerta.

« Se la ami così tanto » cominciò il ragazzo, un passo verso di lui con lo sguardo fisso sul suo volto, all’erta ma disposto al dialogo. « perché non… » Draco ruggì un gemito di dolore e gli impose di tacere con uno sguardo infuocato di orribili minacce, ma l’altro non colse la sua provocazione silenziosa « …non glielo dici e basta? » Neville allargò le braccia, quasi ad accogliere la risposta con entusiasmo « Perché continui ad essere così odioso, insopportabile e… » esitò un attimo, nel tentativo di trovare le parole giuste «… e stronzo » concluse con l’ombra di un sorriso a far capolino dalla bocca sfigurata.

« Perché io sono così » ribatté rapidamente Malfoy con tono gelido.

« No tu fai così » Neville gli puntò contro un lungo indice accusatorio, penetrandogli dentro con uno sguardo tagliente e sincero. Draco masticò il dolore con la mascella tesa e una scintilla incomprensibile negli occhi. Il tempo vuoto dei loro sguardi si infranse nella sua domanda.

« Perché l’hai detto a Lunatica? » domandò con una strana pacatezza, fin troppo accentuata per essere vera. Infatti, dal cono d’ombra in cui era nascosto il suo viso, emergeva l’eco di un sorriso denigrante.

« Si chiama Luna » precisò Neville, digrignando i denti per cercare di nascondere il fastidio e la rabbia per quel nomignolo infamante.

« Perché? » insistette il biondo, che non voleva perdere tempo in dettagli di poca importanza. Questa volta, fu il turno del Grifondoro di sorridere.

« Io non ho detto niente, Malfoy. Luna è molto più intelligente di quel che pensi » Gli voltò le spalle con un sospiro stanco, e mentre Draco emetteva un suono a metà tra una risata e uno sbuffo spazientito, lui raccolse le carte che stava consultando, gettate alla rinfusa sul tavolo, e dopo averle arrotolate le dispose in un’unica, ordinata pila.

« Tieni la bocca chiusa » esalò il fu Serpeverde, con un tono che aveva qualcosa di così definitivo, che per un attimo Neville fu tentato di non replicare; di invitarlo fuori e mettere fine a quella conversazione che, lo sapeva, non avrebbe portato da nessuna parte. Eppure, sapeva anche che c’era qualcosa, dentro di lui, qualcosa che lui aveva visto nella sua mente ma che era nel suo cuore, scolpito fin dentro l’anima, da scoprire.

« Perché? » domandò allora, gettandogli uno sguardo strano da oltre le spalle tese e rigide.

« Non sono affari tuoi » ribatté l’altro, sulla difensiva. Fece un passo indietro e lo guardò con espressione ferita. Neville si voltò verso di lui proprio mentre un tuono spezzava la quiete della notte.

« Sai, lei potrebbe anche amarti se tu non fossi così… » Il suo era un sussurro fermo, ma talmente flebile che per Draco non fu difficile interromperlo.

« Così come? Mangiamorte? » ringhiò, divorando la distanza che li separava. Quasi gli finì addosso, tanta era la sua foga. Il viso rosso di rabbia, sputò quelle parole a pochi centimetri dal suo viso. C’era una traccia di profondo risentimento in quella parola appena pronunciata.

« No. Malfoy » Neville era perfettamente padrone di sé quando gli rispose con la calma che un tempo era appartenuta a Silente.

« E che differenza fa? » Quella di Draco, più che una domanda, era una risata beffarda uscita dalle labbra con intenzione derisoria. L’altro, però, rispose con una pacatezza che lo infastidì, se possibile, ancora di più.

« Tutta la differenza del mondo »

Malfoy piantò le iridi grigie, colme di risentimento e rabbia, dentro quelle scure di Paciock. Si guardarono l’un l’altro, squadrandosi con astio, o con semplicità, come se entrambi fossero in attesa di qualcosa. Draco respirava a fatica, la mascella tesa e i pugni serrati nel vano tentativo di controllare la rabbia che colava come lava dal vulcano che era il suo cuore. Non riusciva a capire il motivo per cui si trovava lì, con quell’essere inutile, a discutere di faccende così personali che non osava parlarne nemmeno con se stesso. Non riusciva a capire cos’era quella sensazione prossima alla gratitudine, quel barlume di speranza – sbagliata e inutile – che gli si era acceso dentro e che sentiva il bisogno di distruggere prima che fosse troppo tardi. Non voleva crederci. Non poteva permettersi di crederci.

« Malfoy è quello che sono » disse dopo molti minuti di silenzio, marcando con enfasi orgogliosa il suo cognome.

« Malfoy è solo come ti chiami » lo corresse Neville, che invece si curò di tralasciare il particolare che lui aveva tanto attenzionato.

« Ti sbagli » concluse asciutto Draco, prima di voltargli le spalle. Stava per uscire dalla tenda, quando Paciock gli parlò. Quella che per lui era una provocazione, per l’altro non era che un semplice tentativo di spingerlo verso la retta via. Per quale motivo lo stesse facendo, nemmeno Neville lo sapeva. Forse, in un certo qual modo, si sentiva legato a lui. Il motivo poteva essere uno qualsiasi tra quelli a cui aveva pensato negli ultimi giorni.

Si sentiva legato a lui perché gli aveva invaso la mente e aveva scoperto un segreto, sepolto sotto strati di menzogne e paure, che non si aspettava di scoprire. Il tacito patto che avevano stretto, che lo invitava al silenzio, non era stato rotto per rispetto, verso di lui e verso i suoi amici.

Si sentiva legato a lui perché su di lui incombeva la minaccia del tempo. Si sentiva legato a lui perché anche Draco, esattamente come era stato per il ragazzino che era, sentiva il bisogno di trovare la pace dell’amore, prima della fine. A differenza sua, però, Neville aveva avuto modo e occasione di confessare a Luna dei suoi sentimenti. Dopo, si era sentito in pace con il mondo, pronto ad affrontare tutto ciò che sarebbe venuto con un nuovo spirito. A Draco, questo non sarebbe mai toccato. Lo conosceva abbastanza da sapere che non avrebbe mai rivelato ad Hermione dei suoi sentimenti, e d’altronde, gli ostacoli da superare erano così tanti, e il tempo così poco, che era certo non sarebbe stato capace di farlo comunque, vigliacco com’era. Ma voleva comunque dargli la possibilità di tentare. In qualche modo – non sapeva come, né perché – sapeva che era la cosa giusta da fare; sapeva che avrebbe affidato Hermione in mani sicure. Era assurdo anche solo pensarlo, ma era la verità. Lo sentiva.

« Ti piace pensare di non avere scelta perché ti senti più al sicuro, vero? Così non devi prenderti la responsabilità delle tue azioni, lasci solo che le cose accadono… »

Draco gli fu addosso in un attimo, gli occhi implacabili e le dita serrate attorno al polso ormai smagrito del ragazzo.

« Paciock, tu non sai niente di me » sibilò inviperito, respirandogli addosso tutta la sua frustrazione.

« So quello che ho visto, Malfoy » Ancora quella calma, così limpida e scintillante che Draco ne risultò infastidito.

« Quello che hai visto era solo… solo… » gli mancarono le parole e non riuscì a continuare. Si ritirò nel suo guscio, come una tartaruga alla vista di un predatore, ma prima che potesse fuggire del tutto Neville gli venne in soccorso.

« Eri tu » disse, un sorriso incoraggiante a far capolino dalle sue labbra. « Era Draco. Quello che ho visto era solo Draco. Senza maschere, senza pregiudizi o inibizioni. Senza il peso del tuo cognome »

Draco gli soffiò addosso tutto il suo disgusto. Ferito nel suo punto più debole, si sentì improvvisamente nudo, vulnerabile, esposto a quel ragazzetto che era sempre stato deriso e che ora - gli sembrava - stava deridendo lui, mettendo sul tavolo della verità il suo animo, che però era fatto di bugie e apparenze, finzioni e menzogne, una tragedia che non poteva venire smascherata prima che il sipario si chiudesse sull’atto finale.

Così, Draco tirò fuori l’unica arma che conosceva: l’offesa.

« Io sono fiero di essere quello che sono, Paciock. A differenza tua, i miei genitori non sono patetici vegetali, ma potenti e ricchi Purosangue nel pieno del loro splendore, sottoposti del più grande mago di tutti i tempi » Un ghigno malvagio, un passo in avanti. Un respiro più lungo, per riprendere il controllo di sé e ricordare a se stesso l’importanza del suo cognome.

Neville emise un sospiro profondo, tentando di dominare il tremito alla mano destra. Le dita pungevano fastidiosamente, inondate dalla magia che la rabbia aveva fatto deflagrare dentro di lui, ma riuscì comunque a controllarle. Affondò le unghie nel palmo nella mano, quasi fino a farle sanguinare, pur di non cogliere la provocazione e rispondere a quell’affermazione cattiva, fatta solo per ferire. Il ragazzo chinò il capo, così da sfuggire allo sguardo malvagio e derisorio di Malfoy. Si concesse qualche minuto di riposo, una pausa prima del round finale. Quando puntò gli occhi su di lui, fu per replicare. Il suo sguardo, però, colse un movimento al di là della spalla del biondo. Gli bastò un’occhiata per comprendere, un minimo di autocontrollo per evitare che gli sfuggisse un sorriso.

« Fai come vuoi, Malfoy » disse semplicemente. Poi, esalò un altro sospiro e gli voltò le spalle.

Draco corrugò la fronte, offeso da quel ripensamento, irritato dal suo silenzio. La pacatezza dei suoi modi, l’indifferenza del suo sguardo e la calma che trasparivano dal suo viso, lo irritarono oltremodo, tanto che sarebbe bastato un attimo di silenzio in più a farlo esplodere.

« Ho interrotto qualcosa? » La voce di Hermione non era limpida come la ricordava, incrinata com’era dal dubbio e dal timore, ma bastò il solo pensiero della sua vicinanza a farlo irrigidire. Un fremito gli percorse la schiena. Quando si voltò a guardarla, lei aveva gli occhi fermi sulla schiena di Neville, e un’adorabile ruga di preoccupazione le tagliava a metà la fronte bianca.

« Niente. Malfoy stava andando via » Neville puntò gli occhi scuri sul biondo, che gli voltò le spalle senza aggiungere una parola. Forse era stata solo la sua immaginazione, ma gli sembrò di intravedere un lampo di gratitudine nel suo sguardo.

 

***

 

« Cosa vi siete detti tu e Neville? » Hermione poggiò ai piedi del grande albero un vassoio, sul quale erano adagiati un pezzo di pane, due fette di formaggio e una brocca d’acqua. Draco gli scoccò solo un’occhiata gelida, prima di voltarle le spalle.

« La curiosità è donna » sibilò con tono piatto, tornando alla sua precedente occupazione – muovere il polso con scatti strani e pronunciare tra le labbra incantesimi che lei non conosceva, o che fingeva di non conoscere.

« Malfoy! » Hermione espirò rapidamente, spazientita da quel comportamento tanto diffidente e freddo. Fece un passo in avanti e gli afferrò un braccio, con l’intenzione di costringerlo a voltarsi verso di lei, di darle ascolto. Lo fece con calma, quasi senza pensarci, uno sbuffo a sfuggirle dalle labbra, ma la pacatezza dei modi di sempre.

La reazione di Draco fu repentina quanto il fremito che gli attraversò il corpo, come una dolorosissima scarica elettrica, quando il contatto si fece reale. Forse erano i riflessi sviluppati durante la guerra, o, più semplicemente, il bisogno bruciante che gli corrose lo stomaco; o ancora, la consapevolezza che toccarla avrebbe significato l’inizio di una follia che non sarebbe riuscito a fermare. Perciò, Draco le afferrò il polso con forza, le dita strette attorno all’ossatura esile con una morsa ferrea, dolorosa per entrambi, e la spinse contro un albero, lontano da lui.

Hermione sussultò, colta alla sprovvista da quel gesto fulmineo. Un fremito di paura le lampeggiò negli occhi quando lui la scaraventò senza gentilezza contro il tronco, il fiato a spezzarsi in gola e un urlo a cristallizzarsi tra le labbra – troppo orgogliosa per lasciarlo sfuggire ma troppo spaventata per non chiudere gli occhi.

« Non - » Draco respirò a fondo, nel tentativo di dominare se stesso e infondersi una calma che in realtà non aveva. Il calore che si irradiava dal suo corpo era tanto forte che temeva che lei lo potesse sentire. « toccarmi. Non osare toccarmi, Granger » disse, strascicando la voce, già più padrone di sé di quanto non fosse pochi istanti prima. Riacquistato un barlume di lucidità, fu persino in grado di vestirsi di un ghigno feroce e sardonico, prima di aggiungere, a voce più bassa e con tono beffardo: « Mi contamini ». Spolverò la manica della camicia nel punto in cui l’aveva toccato con un sorriso sornione e sbruffone sul volto, prima di puntare gli occhi sul suo volto, come in una sfida.

Hermione, la fronte corrugata in un’espressione inquieta e confusa, impiegò qualche istante a riacquistare il suo autocontrollo. L’ultima affermazione del ragazzo le illuminò il volto di una consapevolezza amara e a tratti dolorosa. Solo quando lui sorrise, con quella smorfia cattiva e ingiusta, la confusione svaporò e si trasformò in orgoglio ferito. Se solo avesse fatto più attenzione, forse avrebbe visto quel lampo di furente dolore negli occhi di Draco, quando lei alzò il mento e strinse le labbra, colpita da una sofferenza interiore che non avrebbe dovuto esserci, non davanti a lui e, soprattutto, non perché lui l’aveva ferita nel suo punto più debole – il sangue, che era sempre stato un problema in quel mondo, maledizione a metà e condanna al purgatorio. Se solo avesse avuto meno pregiudizi e più presenza di spirito, avrebbe certamente intravisto il lieve tremare delle mani, o il rigido indurirsi della mascella, che denotavano turbamenti ben più profondi di un semplice timore di “contaminazione” – in effetti una contaminazione c’era, ma ben diversa da quella che si immaginava lei.

Hermione poteva anche essere la strega più brillante di Hogwarts, ma rimaneva pur sempre una ragazzina di vent’anni, e, soprattutto, l’idea che lui potesse provare qualcosa di anche solo lontanamente simile al rispetto, per lei, era talmente assurda che lei nemmeno l’aveva presa in considerazione.

« Che vi siete detti? » ripeté, questa volta con tono più determinato, gli occhi fissi sul suo volto e le braccia mollemente abbandonate lungo i fianchi. Il corpo, però, era teso, quasi fosse pronto a scattare al minimo tocco.

« Credevo che Paciock fosse tuo amico. Fattelo dire da lui » sputò Draco con minimalismo, muovendo una mano come se stesse cercando di scacciare una mosca fastidiosa. Hermione inarcò un sopracciglio.

« A quanto pare, è anche amico tuo » considerò con tono provocatorio. Lui le scoccò un’occhiata a metà tra l’amaro e il divertito.

« Sei gelosa, Granger? » la provocò, l’angolo della bocca alzato in un ghigno beffardo. « Non temere… Io non ho amici » disse, con un tono tanto definitivo e amaro che lei, per diversi istanti, fu costretta a tacere, abbeverandosi di quel timbro e dell’eco triste della sua voce.

Draco le voltò le spalle e si allontanò da lei, costeggiando le rive del lago fino a quando la voce di Hermione non tornò a ronzargli attorno, come una mosca fastidiosa.

« Potresti averne se non fossi così… così… » si fermò, incapace di trovare le parole.

Draco si bloccò di colpo, in attesa del verdetto finale. Quando capì che lei non avrebbe continuato perché le mancavano le parole, si voltò verso di lei. Aveva il capo chino, come se potesse trovare la risposta finale a terra, tra il terriccio umido e le foglie secche.

« Così? » la esortò lui con tono caustico. La sua voce, però, alle sue orecchie, risuonò traboccante di speranza. Ingoiò un amaro boccone e strinse i pugni, pungendosi la lingua con i denti come se quella punizione avesse potuto espiare il suo errore.

Hermione non sembrava essersi resa conto di niente. Aveva alzato gli occhi su di lui e lo fissava con sguardo limpido, incattivito da una punta di dolore.

« Così Malfoy » disse semplicemente.

Era il suo cognome, in fondo. Ed era stato abituato a sentirlo fin da quando era piccolo, pur con quella punta di timore e reverenza che da sempre aleggiava intorno alla sua famiglia; o con la sfumatura di disprezzo che spettava a chi utilizzava la manipolazione o la corruzione come metodo privilegiato per arrivare ai suoi scopi. Eppure, sulle sue labbra aveva un sapore diverso, un suono dissonante che lo rendeva infelice e insoddisfatto delle sue origini. Forse, era l’eco delle parole di Neville a rimbombargli nella testa, un urlo tanto forte da rendere vero, per la prima volta, tutto ciò che aveva vissuto ma nascosto.

E allora Draco ebbe la sensazione che, in fondo, quella prigionia era quanto di meglio potesse capitargli. Dentro di lui si accese un faro di speranza.

 

 

 

 

 

 

 

Eloise.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo VIII - La maschera migliore ***


8.

La maschera migliore

 

Quella all’accampamento era una vita tutto sommato tranquilla, che scorreva su binari di placida quotidianità.

Hermione e Ginny avevano imparato quasi ad amarla, perché amare ciò che avevano era l’ultima risorsa di una vita alla deriva. Esonerate dal rischio delle missioni in quanto ferite – Lupin aveva concesso alla prima una licenza mai richiesta e mai voluta, Molly aveva impedito alla seconda di mettere piede fuori dall’accampamento – a loro non rimaneva altro da fare se non impegnarsi al meglio per rendere efficiente quell’angolo di pace che si erano ritagliati nel bel mezzo di un bosco dimenticato dal resto del mondo.

Sebbene l’angoscia di sapere i loro compagni impegnati in pericolosi incarichi fosse maggiore della serenità che, nel bel mezzo della quiete, riuscivano a raggiungere, non potevano fare a meno di notare quanto di buono ancora ci fosse in quel loro piccolo universo: una donna Babbana aveva da poco dato alla luce un bel maschietto, e Cho Chang si era innamorata di un ragazzo che non aveva avuto paura di ammettere che la magia era tanto spaventosa quanto bellissima.

E mentre raccoglievano legna per il fuoco, individuavano erbe curative, andavano in cerca di cibo, Ginny e Hermione trovavano persino il tempo di sorridere. Perché piangevano abbastanza quando i loro compagni tornavano all’accampamento, in numero sempre minore. Perché piangevano abbastanza, la notte, quando l’assenza dei loro fidanzati si faceva tanto dolorosa da costringerle a singhiozzare di paura.

 

« Credi che stiano bene? » Ginny aveva osato chiederlo durante una pigra giornata di rara pace. Tutti i membri dell’Ordine erano al campo, stranamente quieti e per nulla intenzionati a partire di nuovo. Le notizie che giungevano alle loro orecchie erano sempre meno, anche se i problemi diventavano più gravi ogni giorno che passava.

« Ne sono sicura » Hermione non la guardava negli occhi, ma la sua voce era ferma, determinata. Diede una rapida occhiata intorno e, dopo essersi assicurata che non ci fossero Babbani in giro, agitò la bacchetta. Un allegro fuoco si accese sotto la pentola di latta che aveva precedentemente riempito d’acqua.

« Come fai ad esserlo? » Ginny le si avvicinò con la scusa di sistemare le stoviglie in una credenza improvvisata con qualche trave di legno scheggiata.

« Perché lo sento » L’amica non traballò nemmeno per un istante: rispose senza esitazione, puntando gli occhi dritti in quelli dell’altra, sul volto un sorriso incoraggiante. La piccola Weasley chinò il capo, un’espressione seria sul viso sfigurato.

« Lo senti o lo speri? »

L’acqua nella pentola comincio a bollire. Hermione mascherò il suo sospiro stanco e impaziente voltandole le spalle, così da nascondere l’espressione inquieta e amara che le aveva tagliato il viso, cicatrice molto meno visibile di quella dell’amica, ma più profonda e forse anche più dolorosa.

« Harry e Ron sanno cavarsela » disse, mentre versava delle foglie profumate nella pentola. Una delicata fragranza si levò dall’acqua, sottili fili di fumo a spandere quel gradevole odore in tutto l’accampamento.

Preparare il tè era una di quelle azioni tanto semplici e quotidiane, che compierle in quel frangente sembrava strano, anormale. Forse era per questo che Hermione tremava, mentre poggiava la grande pentola sul tavolo di legno che troneggiava al centro del campo.

« Anche senza di te? »

Forse, invece, era la perspicacia di Ginny, la sua capacità di guardarle dentro anche quando lei stessa non era capace di farlo. Magari era il pensiero dei suoi amici lontani, perduti, dispersi. In pericolo.

« Io non… » cominciò, gli occhi lucidi e l’espressione smarrita.

« Li hai perdonati, Hermione? Se » Ginny aveva cominciato con tono concitato, ma fu costretta a bloccarsi, ingoiare l’amaro boccone che le  era risalito su per l’esofago e farsi forza. Si morse un labbro, tanto forte da sanguinare, prima di continuare « Quando » disse, e marcò con enfasi quella congiunzione temporale, perché aveva bisogno di convincersi che era necessario solo più tempo. Non un’ipotesi, ma una questione di istanti. « Quando torneranno, potrai dire di averli perdonati? ». Gli occhi di Ginny erano scure luci di una guardia impertinente e ligia al dovere, del tutto decisa a scovare il ladro che si era infiltrato nel suo territorio di competenza. Hermione sospirò, prima di rispondere, fuggendo quello sguardo inquisitorio con fin troppa cura.

« Non hanno niente da farsi perdonare » disse, ma senza convinzione. L’amica distolse lo sguardo da lei, forse intuendo che non era ciò di cui aveva bisogno l’altra. Le concesse una breve tregua, ma non si trattenne dall’esprimere a voce alta il suo pensiero.

« Sai, io posso capirlo. Posso capire Harry per aver lasciato me qui » C’era amarezza nelle sue parole, un rancore leggero impregnato di qualcos’altro, qualcosa di molto più dolce « ma non posso giustificarlo per aver fatto questo a te » Una breve pausa, poi aggiunse « E nemmeno tu puoi, lo so ».

Hermione strinse le labbra, trattenendo tra i denti la risposta che l’amica sapeva già. Continuò a evitare con zelo gli occhi di Ginny, perché temeva che avrebbe letto dentro i suoi una risposta di cui non aveva bisogno, dato che la conosceva fin troppo bene. O forse temeva solo che scoprisse sentimenti che non era ancora pronta ad affrontare, che negava persino a se stessa perché li riteneva sciocchi, spaventosi, cattivi.

« È lo stesso motivo per cui ha abbandonato te, Ginny. Harry voleva solo proteggerci » Cercò di modulare la voce, di accordare il suo timbro su accenti bassi e privi di tonalità o particolari inflessioni. Voleva risultare distaccata, forse persino indifferente, ma la sfumatura di rancore che assunsero le sue parole – la stessa che aveva lo sguardo di Ginny – non sfuggì alla più piccola dei Weasley.

« Non è giusto. Siamo perfettamente in grado di proteggerci da sole » affermò, per poi chinare lo sguardo con rabbia, come se volesse prostrarsi a quell’evidenza tanto dolorosa quanto ineluttabile. Quando alzò di nuovo il capo, lo fece per dire qualcosa: aveva già aperto la bocca, quando il suo sguardo si indurì improvvisamente.

Hermione si voltò di scatto seguendo la traiettoria di quell’occhiata priva di gentilezza, la bacchetta stretta tra le dita e un incantesimo a fior di labbra. Quando incrociò gli occhi grigi di Draco Malfoy, severi almeno quanto quelli dell’amica, emise un fioco sospiro di sollievo, che sorprese persino se stessa.

« Volevo solo un po’ d’acqua » disse il ragazzo a mo’ di spiegazione, stringendosi nelle spalle con un gesto semplice e in apparenza casuale. A Hermione, però, non sfuggì il ghigno di compiacente derisione che gli aveva appena tagliato il viso.

 

Solo poche ore più tardi, incrociò il suo sguardo nei pressi del pozzo. Era evidente che lui fosse lì per lei, perché non si allontanava quasi mai dalle rive del lago, e soprattutto, non per fatiche inutili, non per faccende Babbane.

Un vento prepotente soffiava sul paesaggio muto. Il silenzio spettrale e freddo che aveva avvolto l’accampamento quando la nebbia era scivolata con spesse dita di piombo tra le tende e fra gli alberi aveva qualcosa di sinistro.

La sua voce risuonò come un fruscio, insinuazione spavalda e sfrontata che aveva il solo scopo di provocarla.

« E così Potter ha abbandonato le sue amichette, eh?»

Draco Malfoy non aveva mai osato così tanto con lei. Forse avvertendo un’improvvisa debolezza, una crepa nel cuore che si rifletteva negli occhi vacui e spenti, come un tremulo accenno di lacrime nel fondo dello sguardo deciso, si avvicinò più di quanto avesse mai fatto, tanto da sentire il calore della pelle di Hermione, china verso il fondo del pozzo.

Lei, dal canto suo, incapace di prestare attenzione a un particolare futile come quello della vicinanza – incapace di vedere la realtà delle cose e soprattutto di leggere in quei gesti un desiderio recondito – gli scoccò un’occhiata tagliente. Ingoiò saliva amara, fremendo di rabbia inconsulta, mentre lui, con uno sprezzo che rendeva le sue parole ancora più irritanti, aggiungeva: « Davvero idioti fino alla fine, hanno lasciato qui la loro unica speranza di salvezza ». Era un sussurro sinuoso e insinuante, che tintinnò nell’aria insieme alla catena che Hermione teneva tra le dita malferme.

« Sarebbe un complimento, Malfoy? » lo provocò velata, incapace di trovare parole pungenti quanto il suo sguardo infastidito.

« E dov’è andato? » Draco non colse la provocazione sottile delle sue parole. Con un rapido allungo le fu davanti, proprio mentre lei issava il secchio sul bordo del pozzo.

« Non sono affari che ti riguardano » Il leggero tremito delle sue mani fu evidenziato solo dal brivido che percorse la superficie dell’acqua: piccoli cerchi si allargarono rapidi, dal bordo fino al centro. Un ghignò si incise sul viso del ragazzo, ma lei finse di non vederlo, concentrandosi sul suo lavoro.

« Ho toccato un tasto dolente, Granger? »

Hermione esalò un sospiro che sembrava più un rantolo sfuggito alle sue labbra per sbaglio. Gli voltò le spalle, il manico del secchio ben stretto tra le dita piccole e bianche, le spalle magre e sottili scosse da un tremito piccolo e leggero, segreto spasmo del cuore.

« Cosa ti aspettavi da Potter? Ha sempre voluto tutta la gloria per sé, e il suo piccolo amico dai capelli rossi non ha- » Draco non ebbe il tempo né i riflessi. Si ritrovò con la schiena premuta contro l’ampio tronco di un albero, la bacchetta di Hermione puntata alla gola e i suoi occhi, una doppia minaccia, a fissarlo come impazziti. Accanto a lei, il secchio rotolava a destra e sinistra con rantolo metallico.

Il respiro gli si bloccò in gola, insieme a quello che era certo fosse il suo cuore, giunto al cervello per vie nascoste e sconosciute e poi esploso nel petto dopo un balzo dolorosissimo. Draco osò abbassare gli occhi solo un istante: la bacchetta della ragazza era una scusa sufficiente. Il suo cuore scoppiò di nuovo, e questa volta gli sfuggì persino un rantolo disperato, quando si rese conto che le labbra di Hermione erano a una distanza così infinitesimale che sarebbe bastato un respiro per sigillare il suo desiderio e appagare il suo bisogno. Sarebbe bastato un niente. E avrebbe anche potuto scambiarlo per un errore, lei, che si era avvicinata troppo perché lui l’aveva sfidata, e che voleva a sua volta sfidarlo, e vincerlo, per non cedere alle sue ingiuste provocazioni, per non permettere alle sue offese, alla sua invidia, di avere il sopravvento sulla bontà.

Sarebbe stato un battito di ciglia, il nulla dopo la morte, la cosa più autentica del mondo. Ed era così vero, così possibile, che lui ne ebbe paura. Il terrore si cristallizzò negli occhi di Draco, nebulosa sfumatura di grigio che tinse di cenere il suo sguardo spaventato. Hermione osservò il temporale addensarsi dentro le sue iridi cristalline, e fece un passo indietro.

« Tu non sai niente di Harry » sibilò, scandendo a fatica le parole. Ogni sillaba era un distillato di rabbia, di amarezza, di rancore, e lei stessa non era capace di capire da dove venissero quei sentimenti, perché era certa che non avevano mai abitato dentro di lei. « Né di Ron » aggiunse piano, la voce incrinata da una nota di collera sfrontata che accompagnava quei nomi da pochi anni a questa parte.

Se ne rese conto solo in quel momento, Hermione, di quanto l’abbandono dei suoi amici bruciasse ancora dentro di lei. Erano state necessarie l’amarezza di Ginny e la sincerità brutale di Draco Malfoy perché si rendesse conto, con un poderoso ed egoistico moto d’orgoglio, che lui aveva ragione – che lei era la loro unica speranza di salvezza.

Si pentì immediatamente di quel pensiero arrogante e superbo. Una sfumatura cremisi le colorò le guance all’improvviso. Chinò il capo proprio mentre una lacrima le pungeva le palpebre. Si accorse, però, con un certo stupore, che non aveva voglia di piangere, perché era troppa la rabbia che, in quel momento, si agitava dentro di lei.

Draco deglutì un amaro boccone e trasse dei profondi respiri, riprendendo il controllo di sé. La guardò in silenzio, immaginando i segreti pensieri che le frullavano nella testa – quasi poteva vederli nella piega delle labbra, nel brillio degli occhi, nella ruga che le increspava la fronte bianca.

« Ti hanno abbandonata perché sono stupidi e ti credono inutile » La sottile insinuazione delle sue parole, quel velato complimento che lei non riuscì a percepire, costò a Draco più di quanto lei stessa potesse immaginare.

Ti credono inutile ma non lo sei.

Ti credono inutile ma si sbagliano.

« Ti sbagli » rispose lei, seguendo il filo dei suoi pensieri in modo del tutto inconsapevole ed errato. Aveva risalito al contrario il sentiero di riflessioni che aveva portato Draco Malfoy a formulare quella precisa frase, e come intuendo una certa sorpresa da parte sua alla risposta appena data, alzò lo sguardo su di lui.

C’era rabbia, nei suoi occhi. Un tremito lieve la scuoteva da dentro, eppure non poté fare a meno di vederlo.

Draco Malfoy.

Hermione non l’aveva mai visto così, senza quel ghigno a deformare i lineamenti stranamente puliti del viso, solo con uno sguardo limpido, quasi smarrito, a fissarla dall’alto di un complimento mancato. Era come se, pur stando fermo, stesse camminando verso di lei, per la prima volta senza maschere, parlandole delle altre facce indossate fino a quel momento. Era come se, da quell’attimo, ma senza pensarci, fosse diventato diverso da quel che era un tempo.

Durò solo un istante. Quando Hermione, perplessa, sbatté le palpebre per convincersi che quella visione era davvero reale, per trovare un senso a quel nuovo viso che non conosceva, lo trovò uguale a quello che aveva conosciuto un tempo – il Draco Malfoy con cui aveva sempre avuto a che fare.

L’impalpabile cambiamento di Draco fu tutto interiore: le barriere che, senza volerlo e in modo del tutto inconscio, aveva improvvisamente abbassato, divennero insormontabili barricate di paura. Il sorriso beffardo che gli increspò il volto era solo un sintomo di difesa, l’unica arma che conosceva per dissimulare il suo essere. Eppure, una parte di sé, quella più autentica, rimase affacciata oltre il profilo spento della sua maschera peggiore.

« Ti senti abbandonata, vero? Ti senti tradita » Un sussurro lieve, stranamente privo di arroganza, che sulle sue labbra, però, assunse un sapore acre. Hermione digrignò i denti.

« Non dirmi come mi sento, Malfoy. Tu non sai niente di me, non sai cosa significa, non sai cosa si prova… » La voce stridula si ruppe in una lacrima che le scivolò sulla gota.

« Lo so, Granger, perché anche io sono stato abbandonato » Lo disse con tono piatto e monocorde, Draco Malfoy. Quella confessione che poteva anche sembrare una supplica, umiliazione mai detta di una colpa non sua, sembrava più una semplice constatazione distaccata che ciò che era davvero: l’amara constatazione di un abbandono.

« Tu non hai amici » esalò Hermione tremando. Lo disse con disgusto, ma non nascose una certa, selvaggia soddisfazione nell’affermare quella che entrambi sapevano essere la verità. Se ne sorprese lei stessa, perché non era mai stata cattiva, e quell’irriverenza non le apparteneva. Era la rabbia a parlare, quel dolore spesso che le scavava dentro ferite sempre più profonde. La sofferenza dell’abbandono, il terrore della scoperta – “Sono ancora vivi, Hermione”, lo so, ma poi lo sapeva davvero o ci sperava soltanto? - l’angoscia di una guerra che non era più sicura fosse la sua, perché in fondo lei non apparteneva a quel mondo, non completamente. Erano troppe sensazioni per una persona sola, un peso troppo greve da sopportare. E allora, mentre Draco Malfoy insinuava, la provocava, la svuotava – ma solo per riempirla di nuovo, e lei ancora non lo sapeva – quelle emozioni crudeli e selvagge, desolate e desolanti, si mescolarono ed esplosero, e il risultato fu una malignità crudele che lei era certa fosse stata richiamata da lui.

Poi, solo dopo qualche istante, solo dopo che lui rispose, tornò in sé.

« Fa differenza? »

Ed Hermione capì quanta disperazione ci dovesse essere in quella prigionia senza scampo e senza vie d’uscita. Si rese conto che la maschera che Draco Malfoy indossava non era la stessa che lui aveva scelto di portare, ma solo quella che gli altri gli avevano cucito addosso; e che persino quel suo bisogno di prevaricare gli altri derivava non da un animo cattivo, ma piuttosto da un insieme di circostanze che l’avevano reso tale.

Divisa tra gratitudine ed irritazione, Hermione fece un passo verso di lui. Non era nello stato d’animo di sopportare altre provocazioni, altre offese, e avrebbe preferito girargli le spalle e andare il più lontano possibile da lui, eppure, in qualche strano modo, gli era grata. Semplicemente perché era ancora lì, forse perché le aveva mostrato il prezzo da pagare per una guerra che, ora lo sapeva con certezza, era anche e soprattutto la sua.

« Anche io sono stato abbandonato » continuò Draco, dopo averla guardata a lungo negli occhi, per cercare dentro di lei una conferma. « Nessuno dei miei compagni è venuto a cercarmi. Nessuno » rimarcò, stringendo i denti. La sua voce aveva assunto un colore cupo e nero, nonostante l’impassibilità dello sguardo « Nemmeno » Soffiò forte dalle narici, prima di continuare, in un’esternazione di rabbia « nemmeno mio padre. Solo che per me non è una novità ».

Draco la guardò con occhi spenti, i pugni chiusi e un’espressione immutabile. Si domandò per quale motivo avesse confidato proprio a lei quella profonda amarezza, frutto di una consapevolezza che non era nemmeno sorpresa – perché sapeva già da tempo quale sarebbe stato il prezzo da pagare per militare tra le fila del male.

Lei, disse una voce nella sua testa. Me stesso, aggiunse lui a fior di labbra, in un mormorio che la ragazza non poté udire.

« Nemmeno io sono andata a cercarli » disse Hermione, dopo qualche minuto di silenzio, gli occhi ostinatamente fissi dentro quelli di Draco. Ora, però, ogni traccia di rabbia era scomparsa; c’era solo tristezza, dentro di lei, e un accenno leggero di lacrime. Il suo sguardo era acquoso, delicato come la tenue tinta del cielo dopo un temporale estivo. « Ma non l’ho fatto perché non m’importa di loro, solo… per proteggerli. Per… » Prese un profondo respiro, tentando di accettare quella verità, per la prima volta dall’inizio della guerra.

Harry e Ron non l’avevano mai abbandonata, avevano solo cercato di proteggerla, perché le volevano bene. Ma non era questo il motivo della rabbia di Hermione, perché più che il loro abbandono, ciò che la addolorava era il suo.

Non era mai andata a cercarli. Non aveva mai tentato di seguirli. E non perché pensava di non poterli trovare – li conosceva abbastanza da poter prevedere le loro mosse – ma per pura vigliaccheria. Aveva giustificato se stessa in mille modi, ma non era mai riuscita a perdonarsi.

Ora, però, dentro lo sguardo di Draco, l’aveva fatto. E l’aveva fatto scoprendo un lato comune con quel nemico di sempre; capendo che le sue paure erano anche quelle che provava lui. Aveva cominciato con l’intenzione di consolarlo, e aveva finito per scoprire verità che forse sapeva, ma che aveva tenuto nascoste a se stessa.

Ecco da cosa nasceva quella sua sensazione prossima alla felicità. Forse non era poi così debole come aveva sempre creduto; dopotutto, ci si misura rapportandosi agli altri, non esiste alternativa. E, di quando in quando, in modo assolutamente involontario, arriva qualcuno e ti insegna qualcosa sul tuo conto.

Così, non per la prima volta, Hermione pensò che lei e Draco avevano qualcosa in comune. Non per la prima volta, Hermione accarezzò, con il timore di una bambina e la reverenza di un prete, un’idea che gli era balenata in mente già da prima: che tra loro due ci potesse essere un qualcosa di simile non tanto all’amicizia, quanto al rispetto reciproco. Un muto rapporto fatto di elogi nascosti dietro offese e complimenti mutati in insulti. Un sodalizio di sguardi di nascosto.

Era, in fondo, qualcosa che già c’era ma che Hermione non riusciva a vedere: Draco che si nascondeva dietro un muro di bugie e indifferenza, e lei che andava a scovarlo al di là di quell’armatura di freddo distacco, con la grazia di una donna e la docilità di una bambina. Non se n’era mai resa conto, prima di allora, e forse nemmeno in quel momento le fu chiaro, ma l’attraeva il mistero di Draco Malfoy: la disperazione leggera del suo essere e la contraddizione costante del suo apparire. Quel tentativo di lasciare fuori il mondo, di non farsi corrompere e non per paura. Quello schermarsi dietro offese e parolacce per sentirsi più forte, per prevalere. Quell’arroganza che era solo facciata, perché il suo bisogno di prevaricare gli altri derivava solo da una debolezza interiore che lei non sapeva spiegarsi.

Perché Hermione Granger, un po’, segretamente, invidiava Draco Malfoy. D’altronde, si giustificava, chi, in vita sua, non aveva mai invidiato la fama, la gloria, il potere, la ricchezza? E, più di ogni altra cosa, la purezza del suo sangue, quella che a lei mancava e che la faceva sentire straniera in terra natale. Lo invidiava solo un po’, con l’educato distacco di una bambina che si scopre ferita dagli insulti di un suo compagno di scuola, ma non osa ribattere perché sa che ha torto, torto marcio. Solo allora Hermione si rasserenava, solo quando quel pensiero le attraversava la mente trovava la pace: capiva di essere superiore a lui perché non aveva bisogno di essere cattiva per essere migliore.

 

 

Quei pensieri per Hermione erano piante contorte e incolte, germogli neonati; per Draco, erano l’ennesima foglia di una quercia ormai millenaria.

Draco sapeva già quanto loro si assomigliassero, e avrebbe solo desiderato una maggiore consapevolezza da parte della ragazza, o, forse, meno vigliaccheria da parte sua. Aveva intuito già da tempo quanto, in lui, fosse cambiato: del ragazzino che era stato era rimasto poco. Forse era stata la guerra, forse la maturità acquisita nel corso degli anni, o ancora quel sentimento estenuante che drenava, giorno dopo giorno, ogni sua energia, la lucidità di una vita che non viveva, non completamente. Era stato un mutamento graduale, forgiato dal dolore e cesellato dalla paura, ma infine levigato dall’amore per Hermione. Quando quella presa di coscienza era diventata certezza, Draco aveva capito, con una sicurezza senza misura, che di lui era rimasto ben poco, e che avrebbe dovuto indossare altre maschere per nascondere se stesso, facce diverse che gli avrebbero permesso di sopravvivere in quel mondo che si era scelto per errore.

Ora, però, nonostante quella ferma consapevolezza, mentre si specchiava nell’acqua limpida del lago, non riusciva più a riconoscersi: il riflesso che vedeva non gli apparteneva più, e persino nei suoi occhi c’era una luce nuova, irriconoscibile persino a se stesso.

Cos’era, Draco lo capì solo dopo, quand’era già troppo tardi.

 

***

 

« Dovresti avvicinarti. Non si fidano di te perché sei così schivo che… »

« Ma non posso avvicinarmi. Se io… »

« I se e i ma sono la patente dei falliti, Malfoy. Nella vita si diventa grandi nonostante »

Già. Nonostante. Nonostante questo amore che mi dilania l’anima. Nonostante la paura di essere scoperto. Nonostante il dolore di ogni tuo sguardo.

Draco chinò il capo, ferito dalla durezza delle sue parole. Il suo volto era illuminato da una luce fioca che ne metteva in risalto la magrezza: i lineamenti spigolosi erano ombreggiati da drappeggi scuri, come macchie sul pallore del volto. Nella penombra, i suoi occhi grigi scintillavano come diamanti grezzi.

« Io non capisco, perché… »

« Con gli occhi chiusi è difficile vedere » La sua voce era roca, un sussurro basso ma calibrato, sfumato di un calore che Hermione non gli aveva mai sentito addosso.

Mentre lui poggiava, con inusuale delicatezza, lo sguardo su di lei, si domandò cosa fosse quel coraggio che improvvisamente si era affacciato dai suoi occhi. Debolezze? O solo parole sepolte sotto veli di bugie, allusioni velate che avevano il solo scopo di mostrarle la sua maschera migliore?

Non aveva importanza, se Hermione lo guardava in quel modo.

 

***

 

Quando era arrivato il momento, Draco aveva pagato il tributo delle sue colpe. Erano arrivati durante la notte, in silenzio, mentre lui dormiva su un giaciglio improvvisato – foglie secche come letto e coperte per proteggersi da un freddo troppo interiore per poterlo scacciare davvero. Erano arrivati come la prima neve dell’inverno, posandosi su di lui con una delicatezza gelida. Poi, delicati non erano stati, e le sue urla avevano spezzato la quiete dell’accampamento gettando il panico tra i sopravvissuti.

L’aveva salvato Hermione, un cipiglio severo sul volto che si era addolcito solo quando aveva incrociato il suo sguardo.

Lui l’aveva ringraziata con una gratitudine superba e irritata, ma che lei seppe riconoscere oltre il velo di diffidenza che, ormai, sapeva essere solo apparenza.

« Ma cose sei? La regina delle cause perse? La crocerossina dei cattivi ragazzi? »

« Solo una che crede nelle seconde occasioni »

Draco aveva sbuffato e aveva chinato il capo. Inconsciamente, i suoi occhi erano caduti sull’avambraccio sinistro. Accanto al Marchio Nero, cominciava ad allargarsi un livido giallastro.

« Non ci sono seconde occasioni per me » aveva ammesso  con una pacatezza talmente gelida che Hermione aveva dubitato lo credesse davvero.

« Forse perché non ne hai bisogno » aveva risposto lei. Con un fluido movimento del polso aveva dato un lieve tocco al braccio del giovane: il livido si era riassorbito all’istante.

« Come? » Draco aveva corrugato la fronte, confuso. Al di sotto delle sopracciglia biondissime, i suoi occhi grigi erano smarriti, ma in fondo alla pupilla si era accesa una luce che lei non aveva saputo interpretare.

« Mi hai salvata. Tre volte. Questo denota già una certa inclinazione al bene » Hermione gli aveva piantato addosso due enormi occhi castani, e poi aveva sorriso lievemente. Il cuore di Draco aveva mancato un battito, prima di ricordarsi che quelle non erano le parole che voleva sentirsi dire. Solo allora, con una brusca frenata, si era infranto contro un muro di delusione e amarezza.

Hermione parlava perché non sapeva, e le sue parole, che in un’altra circostanza avrebbero dovuto indirizzarlo verso un cammino d’espiazione, avevano suscitato invece in Draco un’ilarità del tutto fuori luogo.

 

***

 

Hermione non poteva fare a meno di osservarlo. Era curiosa, lo era da sempre, e lui era una materia che non poteva studiare sui libri, che nessuno poteva spiegarle: l’animo umano è incomprensibile, nebuloso come il cielo di quel giorno oscuro.

Ne era attratta come lo era dalla Trasfigurazione, dall’Aritmanzia, dalle Antiche Rune: lo considerava né più e né meno come una materia da studiare e infine comprendere, per il bene suo e degli altri – capire come annientarlo così che non potesse più nuocere a nessuno. Non sapeva ancora che dietro quel bisogno spasmodico di sapere che lei scambiava per curiosità, c’era qualcosa di più profondo, ormeggiato prima ancora negli occhi grigi di Draco. Non sapeva ancora, Hermione, che l’amore chiama amore, è una legge inevitabile dell’universo. E che lei perdeva un pezzo di sé ad ogni sguardo di quel ragazzo.

Draco, invece, aveva cominciato a capirlo. La sua diffidenza cominciava a trasformarsi in un’audacia inspiegabile persino a se stesso. La cercava con lo spasmodico bisogno che lo condannava da sempre; come un naufrago cerca la terra, o come un assetato l’acqua. Come cerca un cuore a cui manca qualcosa.

Costretto a passare le sue giornate chiuso nei suoi pensieri, isolato dal resto del mondo, in quell’oasi di pace che l’Ordine aveva creato, Draco aveva avuto modo di mettere ordine nei suoi pensieri e fare un resoconto della vita che aveva vissuto; questo non era servito a consegnarlo alla giustizia di una confessione, ma l’aveva aiutato senz’altro a trovare una quiete che non conosceva da tempo.

Quando gli trascinavano davanti i cadaveri gli bastava chiudere gli occhi, e immaginare che i singhiozzi non fossero altro che rane lontane, che il fruscio delle foglie fosse dovuto al vento, che la scia di sangue fosse solo pozione versata.

Era piacevole trascorrere le giornate in quel modo, senza il bisogno di menzogne e maschere, senza la necessità di costruire muri tra sé e il resto del mondo, se non quelli che sentiva il bisogno di erigere, e non perché rischiava la vita, ma per orgoglio personale.

Era piacevole sapere che i suoi giorni non erano più in bilico tra vita e morte. Era un’esistenza felice, e, al contrario di ciò che si sarebbe aspettato, non era vuota, perché lo teneva vivo la speranza, mai veramente nutrita fino in fondo, che si era accesa dentro di lui.

Era piacevole quella prigionia perché c’era lei, a cui non importava il suo partito e che lo trascinava ogni giorno più vicino senza che lui se ne rendesse conto.

Se lo stava domandando proprio in quel momento, Draco, come avesse fatto Hermione a farlo sedere a tavola con tutti gli altri. Non importava che tra lui e l’uomo più vicino ci fossero cinque posti di distanza; non quando il sorriso di Hermione era così luminoso.

« Ancora zuppa? » Molly gli rivolse un sorriso cauto e misurato, che lui ricambiò con un’occhiata carica di disgusto.

« No, faceva schifo » replicò, con un tono così composto ed educato da suscitare l’ilare sorpresa della donna.

« Voglio vedere se sai fare di meglio tu, con radici secche e funghi velenosi » borbottò la Signora Weasley voltandogli le spalle con fare vagamente offeso. Charlie emise un sospiro spazientito, alzò gli occhi al cielo e poi, con espressione divertita, richiamò la madre, allungando la ciotola verso di lei.

« Era buona, ma’ » disse incoraggiante. Il viso di Molly si illuminò di un sorriso materno e soddisfatto. Charlie attese che lei si voltasse, prima di regalare la sua zuppa alla terra.

 

***

 

Era una giornata opaca, fatta di assenze e vuoti colmati con cumuli di terra sopra ai quali era affissa una croce. Era una giornata di lacrime e capi chini, di parole banali ed elogi vacui e insignificanti quanto la rassegnazione di un comandante che tornava da solo, legato a due corpi.

Che Neville era gravemente ferito l’avevano capito dallo sguardo di Luna, disabitato da qualsiasi emozione. Che Neville era tornato da solo lo avevano saputo solo dopo, quando Lupin aveva aggiunto altri nomi alla lista dei dispersi.

Il cielo era di un cupo grigio piombo, e un vento inarrestabile si consumava nell’aria fredda di un Gennaio senza giustizia. La frenesia vorace eppure già morta dell’accampamento sembrava presagire un temporale che le nuvole, però, non promettevano.

Quando Hermione si avvicinò a Draco aveva gli occhi lucidi di pianto, e nello sguardo il dolore della morte. Lui non ebbe bisogno di guardarla per avvertire la densa aura di sofferenza che si portava dietro. Forse, non voleva guardarla affatto: per ricordarla con quell’espressione dura e ardente con cui aveva imparato ad amarla; o più semplicemente, per evitare che il suo viso, i suoi occhi, le sue labbra gli facessero cambiare idea. Per impedire che il semplice guardarla lo distogliesse dalla sua decisione.

Draco non era una persona altruista, non lo era mai stato, ma sapeva che l’amore aveva poco a che fare con l’egoismo, e se n’era reso conto qualche ora prima: quando Neville era entrato nell’accampamento a testa alta, da solo, barcollando. Però, con un unico obiettivo: cercare gli occhi di Luna. Solo quando li aveva incrociati si era concesso il lusso di crollare a terra e abbandonarsi al dolore.

Dopo, era stato un  mal di testa fastidioso e roboante, per lui. Le urla e i pianti sembravano non dover finire mai. Per un intero giorno, tutti non fecero altro che scavare fossi e versare lacrime.

Draco aveva osservato Hermione, naturalmente, e l’aveva vista improvvisamente più vecchia di cent’anni, come se  portasse sulla sua schiena il fardello di quelle morti – centinaia di corpi sulla sua schiena, e la colpa era solo sua, sua e dei suoi compagni.

Improvvisamente, persino la possibilità, remota ma dolcissima, che lui potesse davvero avere una chance di salvarsi svaporò nell’aria fredda di quel giorno senza clemenza. Perché lo erano state quelle morti, ingiuste e senza clemenza, e lo sarebbero state tutte quelle a seguire, e l’unica cosa che importava a lui era che dentro una di quelle tombe non venisse calato il corpo di Hermione. Ed era sicuro, nel suo delirio di onnipotenza, che lui l’avrebbe condotta sotto terra. Forse aveva ragione, forse non si rendeva conto che Hermione era invece l’unica che poteva portare lui ben lontano dalla possibilità di finire sotto terra, ma ancora lungi da una tale consapevolezza e restio ad accettare i suoi sentimenti, indossò la maschera che preferiva, quella che gli avevano cucito addosso gli altri e che lui, però, vestiva con maggiore comodità.

« Vuoi sapere i loro nomi? » Hermione non lo guardava negli occhi. La sua voce era tremula, sembrava nuotare nelle lacrime che lei si sforzava di non versare.

« Perché dovrebbero importarmi? » Il tono di Draco era duro e freddo, un sibilo simile a un dardo pungente.

« Perché sono stati i tuoi a fare questo » Adesso, le parole di lei avevano assunto una sfumatura di rancore che non riuscì a cancellare nemmeno la rabbia severa dei suoi occhi. « E perché pensavo che dopo i mesi passati qui, quelli che sono morti fossero diventati… »

« Cosa? Miei amici? Miei alleati? Granger, se pensi che io possa passare dalla vostra parte solo perché mi tenete prigioniero qui dentro… » La collera di Draco, del tutto ingiustificata, rimbalzò dentro gli occhi vacui di Hermione. Ogni emozione si era rimpicciolita e spenta, nel suo sguardo, ma quando lui esplose con una rudezza che spezzò l’inesistente quiete del luogo, lei fu costretta a voltarsi e confrontarsi con quell’ira sottile.

Per un attimo, Draco pensò che lei avesse finalmente compreso. Per un attimo, a Draco sembrò di vedere la consapevolezza espandersi lentamente negli occhi di Hermione. Poi, l’attimo passò, e lei parlò con la dolcezza di sempre.

« Non hai mai provato a scappare » considerò con tono cauto. La sua voce era ovattata e quieta, sembrava muoversi adagio, come se stesse camminando sopra un filo sospeso su un canyon immaginario.

« Lupin ha detto… »

« Lo so cosa ha detto, ma non hai mai nemmeno tentato »

« Tengo alla mia pelle, Granger. Ma se vuoi che scappi, dimmi pure come si fa » Un ghigno sardonico tagliava a metà il viso pallido e affilato di Draco.

« Chiunque avrebbe cercato di fuggire. Anche a costo della vita. Io avrei preferito morire piuttosto che rimanere prigioniera, ma tu… » Hermione non riuscì a finire la frase, perché la voce del ragazzo sovrastò persino i suoi pensieri, tanto che l’iniziale intuizione svaporò in una confusione che si nebulizzò negli occhi castani.

« Io ho un certo istinto di autoconservazione, Granger, cosa che a voi, evidentemente, manca » soffiò tra i denti. Con un cenno del capo indicò i fossati scavati per seppellire i corpi. Aveva sul volto un’espressione divertita, e questo disgustò Hermione più di ogni altra cosa. « Vuoi sapere perché non scappo? Cibo gratis e protezione. Magari riesco persino ad arrivare alla fine della guerra prima che questa massa di Babbani e Sanguesporco mi contaminino del tutto »

Lo schiaffo arrivò, preciso e potente, sullo zigomo del ragazzo, con una velocità tale che lui avvertì il dolore prima ancora di vedere la mano di Hermione partire. Quando aprì gli occhi li piantò immediatamente sul viso di lei, oltraggiato da quel gesto che aveva suscitato in lui reazioni impreviste – perché gli bastava il contatto con la sua pelle, di qualsiasi natura esso fosse, per bruciare d’amore. La mortificazione e lo strazio che lesse dentro lo sguardo lucido della giovane strega, però, lo svestì di ogni emozione. Sembrava turbata da quella cattiveria improvvisa.

« Non sembrava ti dispiacesse tanto parlare con me quando eri solo » considerò in un sussurro addolorato, la fronte corrugata in un’espressione ferita.

« Solo. Hai detto bene » sottolineò Draco con puntuale freddezza.

Hermione chinò il capo e trasse un respiro profondo. Ebbe bisogno di un’enorme sforzo di volontà per non piangere lì, davanti a lui: ad arginare le lacrime, era rimasta solo la sua dignità, ancora più salda di fronte a quelle malignità gratuite.

« D’accordo » disse piano. « Non capisco perché lo fai, ma so che questa è solo una delle tue facce, Malfoy » I suoi occhi, trasparenti in un modo che Draco non si sarebbe mai aspettato, erano lo specchio limpido della sua anima. Attese qualche istante, prima di voltargli le spalle. Rimase immobile a guardarlo, come se si aspettasse una replica da parte sua, ma quando questa non giunse, se ne andò senza fiatare, trascinandosi dietro una scia di sangue invisibile.

Era un gioco stupido, si disse Draco, ferirla per sentirsi invincibile, per domare la paura e per convincersi di avere una speranza di salvezza. Forse era il gesto più coraggioso che avesse mai fatto in vita sua: sacrificare se stesso e il suo amore per la salvezza di Hermione, e fingere che quell’immolazione non gli costasse ogni singola molecola del suo essere.

Ma era quella la maschera che aveva deciso di indossare. La migliore, per il bene di Hermione.

 

 

 

 

 

 

 

Mi trovate qui: Eloise.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo IX - Il prezzo da pagare ***


9.

Il prezzo da pagare







 

Quando Gennaio finì, Febbraio cominciò nel silenzio. Di tutte le ore rubate a quell’esistenza sempre uguale, a quella vita fatta di spazi angusti e povertà, condannata al castigo di una luce fallace, quelle che Draco preferiva erano senz’altro quelle passate con Hermione. Tuttavia, da quando aveva deciso di allontanarla, lui, per lei, sembrava aver smesso di esistere. Non era sicuro di aver fatto la scelta giusta, perché la sua mancanza si era fatta ancora più dolorosa, dopo aver conosciuto la sua presenza, e in più gli sembrava di vedere una luce asfittica, quasi ferita, negli occhi della ragazza, quando si azzardava a guardarla, a provocarla, a parlarle. Sentiva il peso della sua decisione premergli nel petto, nel tentativo di stanare quell’amore che gli si era annidato nel cuore e che faceva più male di tutto, eppure non poteva dirsi del tutto pentito. Era una delle poche scelte che Draco aveva preso in totale autonomia, senza spinte esterne e privo di condizionamenti; soprattutto, cosa ancora più importante, era l’unica scelta che aveva preso per altruismo, e non per se stesso com’era solito fare. Era una sensazione nuova, strana e bellissima al tempo stesso, ma pungente e dolorosa come non si sarebbe aspettato. Combattuto tra il desiderio di avvicinarsi a lei e la consapevolezza di doversi mantenere coerente con la sua decisione, Draco continuava a vivere in un purgatorio senza via d’uscita. Talvolta le si avvicinava, apriva la bocca e poi le sbadigliava davanti con sfacciataggine, come se lei fosse un fastidio: l’intenzione era quella di parlarle, perché ne sentiva il bisogno, perché nonostante sapesse di aver fatto la cosa giusta non poteva esimersi dal desiderare quella sbagliata. Qualche volta, invece, le parlava davvero: erano per lo più insulti, offese pungenti e qualche volta persino feroci, perché lei, chiusa nel suo silenzio, sembrava irraggiungibile quanto la fine della guerra.

Draco non lo sapeva ancora, ma stava cominciando a intuire il costo delle decisioni: le scelte prese in totale autonomia, con volontà e per giustizia, non sono mai indolori, e lui lo stava imparando a sua spese, pagando il prezzo che quell’amore gli stava chiedendo.

 

Hermione, dal canto suo, preferiva il vuoto lasciato dall’amarezza della solitudine, piuttosto che la beffa dolorosa che aveva dovuto sopportare fino a quel momento. In fondo, Ginny aveva ragione: perché sopportare offese e insulti da un ragazzino arrogante che aveva a cuore soltanto se stesso? D’altronde, lei non poteva immaginare che l’amica avesse uno sguardo più lungo del suo, e che avesse intuito, per caso o per destino, da lontano, più di quanto non avesse capito lei standogli accanto.

Lo osservava, Hermione, da lontano e di nascosto, segretamente attirata da lui per una motivazione che le rimaneva oscura e che tuttavia la spingeva a stargli lontana. Aveva anche altri pensieri, questo è ovvio, perché la guerra si stringeva attorno a loro con una morsa spettrale e tangibile, e la campana di vetro che avevano costruito, e che li isolava dal mondo esterno, non sarebbe durata in eterno. Lo sapeva bene, lei, che cominciava già a perdere le memorie della vita considerata normale. Quello che c’era prima, la vita precedente alla guerra, sembrava solo un bellissimo sogno: aveva la consistenza eterea e impalpabile di una speranza infranta con il dolore di un risveglio crudele. Ricordava a stento il sole di giugno, la brezza del parco, l’odore di carta e inchiostro, la frustrazione per un brutto voto, l’effluvio dei sotterranei. Erano tutte cose che aveva dimenticato, che le sembrava di non aver mai vissuto. Forse, cercava di convincersi, era per questo che tendeva verso Malfoy con la spasmodica ansia di una scolaretta alle prese con i primi esami: lui era quanto di più vicino alla normalità avesse, quanto di più simile alla vita prima della guerra.

Non sapeva, Hermione, che era un sentimento totalmente diverso a guidarla verso Draco, ma il sospetto aveva già cominciato a crescere in lei, come un albero ingombrante che faceva strisciare le sue radici fastidiose e inarrestabili nel ventre della terra – nel cuore di Hermione. I semi di quella pianta erano terribili e cattivi, sarebbe stato necessario estirparli subito. Invece lei non li riconobbe e li lasciò crescere, permise loro di infestare il suo cuore, trapassandolo con le sue radici. Quando lei cominciò a capirlo, era già troppo tardi per sbarazzarsene.

 

***

 

« Perché non gli parli più? » La voce di Neville era flebile, un sussurro tenue animato da una malizia innocente. Hermione alzò gli occhi su di lui, una limpida sorpresa ad accenderle lo sguardo. Non parlò, ma la sua occhiata perplessa e la piega imbarazzata delle sue labbra spinsero il giovane a specificare, con cautela: « Malfoy ».

La ragazza chinò il capo e si concentrò nuovamente sulle bende di Neville. Le svolse lentamente, con uno zelo che non aveva mai avuto e che aveva l’unico scopo di evitare lo sguardo incuriosito con cui lui la stava trapassando. Non erano occhi avidi, i suoi, né pretenziosi; non la stava giudicando e, lei lo sapeva, non avrebbe preteso più di quanto fosse disposta a dire, eppure Hermione si sentì comunque messa alle strette.

« Lui… » Le sfuggì un sospiro a fior di labbra, camuffato da un fremito che non aveva niente a che vedere con Draco, e tutto con la carne viva che ricopriva il petto di Neville, unica eredità di una Maledizione che aveva rischiato di ucciderlo. « È una persona cattiva » disse alla fine con poca convinzione, le labbra arricciate in una smorfia intristita. Con delicatezza, poggiò le bende pulite sulla ferita, esercitando una pressione lieve e prudente. Sapeva che la sua risposta non era soddisfacente, e neanche lontanamente vicina alla realtà delle cose, eppure non poté esimersi da quel commento.

Neville sospirò, ed Hermione ritrasse la mano, spaventata, temendo di avergli causato dolore con un tocco poco gentile. Lui, però, non diede segno di aver notato quell’esitazione.

« Esiste una rabbia che non ha niente a che vedere con la cattiveria. È il ruggito di chi cerca di nascondere le proprie fragilità »

La mano di Hermione si fermò a pochi centimetri dal torace del ragazzo. Un tremore delicato le correva lungo le dita, mentre una ragnatela scarlatta si allargava sulle bende bianche, disegnando sentieri cremisi sul candore non più immacolato di quel medicamento poco efficace. I suoi occhi, lentamente, si posarono su Neville, percorrendo con una flemma quasi esasperante il bicipite tornito, il profilo della sua spalla, la guancia sfregiata, e infine posandosi dentro le sue pupille, abisso e baratro senza confine. Avrebbe voluto vedere il fondo di quegli occhi, Hermione, percorrere la strada che le si snodava davanti e giungere alla frontiera illesa, superarla e avere una risposta, ma era impossibile trovare la fine, dentro gli occhi di Neville, e per quanto lei la cercasse non riuscì a raggiungerla, pur sapendo che aveva tutto a che fare con quello che lui aveva visto nella testa di Malfoy – sarebbe stato come guardargli dentro, guardare l’anima di Draco e capire.

« Che vuoi dire? » domandò Hermione con un sospiro vuoto, gli occhi spalancati dal dubbio divorante che le cresceva dentro al ritmo del suo cuore. Neville sorrise, e l’enigma del suo sguardo si fece ancora più insondabile. Poi, dietro il velo opaco delle sue risposte, si accese una scintilla di dolore.

« Sai, dovresti… » indicò con un cenno impacciato della mano la sua ferita ancora scoperchiata « Brucia un po’, così » aggiunse con un sospiro timido che nascondeva il fremito di un’intensa sofferenza.

Hermione scosse il capo e si affrettò a ultimare la medicazione. Fuori dalla tenda regnava un silenzio assoluto, spezzato solo dal fischio del vento e alimentato da un silenzio interiore che rumoreggiava come una tempesta. Quando ebbe appuntato anche l’ultima benda, la ragazza rivolse al giovane un sorriso incoraggiante, dopodiché gli porse una pozione e, dopo essersi assicurata che non gli servisse altro, uscì dalla tenda.

L’aria del primo pomeriggio era fresca e pulita, suggeriva memorie di tempi felici e portava lontano le angosce di una guerra che sembrava improvvisamente inesistente. Hermione la respirò a pieni polmoni, la palpebre socchiuse e le gote lievemente arrossate dal freddo. Una pace insperata le si era posata sul cuore. Le parole di Neville le avevano cucito addosso una serenità che le aveva riempito il petto, e una nuova fiducia l’aveva pervasa.

Riaprì gli occhi con un lieve sorriso sul volto, e li posò sulla sagoma lontana di Draco con una sicurezza che non la sorprese, perché in fondo aveva sempre saputo dove cercarlo. Quando gli occhi del giovane si posarono su di lei, con una meraviglia senza misura ma inquinata dalla rabbia e dal timore, lei rimase immobile, accogliendo quello sguardo su di sé senza che una sola domanda le nascesse nel cuore.

Da dove venisse quella pace, Hermione non l’avrebbe capito mai. Ma mentre si avvicinava a lui, cominciava forse a intuire quel dolore maldestro che si rimpiccioliva dentro i suoi occhi mercuriali fin quasi a sparire, per poi esplodere di nuovo, inspiegabilmente, al primo soffio di vento – perché quel vento aveva portato una novità che lui non voleva vedere e che lei non era pronta a ricevere, non ora che una nuova sicurezza le aveva aperto il cuore.

« Hermione »

Era una voce che lei conosceva e che non aveva mai dimenticato. Era una voce che aveva sognato, sperato di udire, esplosa da qualche parte nella sua mente proprio in quel momento, mentre andava con la sicurezza di andare, sapendo dove, sapendo come. Era stato, per un attimo, solo per un istante, una sensazione meravigliosa, come se il suo cuore si fosse schiuso e le avesse indicato un sentiero inequivocabile. Non c’era più vento, non c’era più suono, c’era solo quella sicurezza; ed era bastato un nome – il suo – perché sparisse tutto, risucchiato dal vortice malsano di un ricordo. Era bastata una voce – quella di Ron – a inchiodarla lì, il cuore stranamente pesante e adesso privo di quella certezza, e di nuovo inquinato da una sensazione atroce.

Delusione.

Il sorriso tenue di Ron era esattamente come lo ricordava, una smorfia calda e buffa che aveva il sapore dell’adolescenza e il profumo di casa. Hermione aveva atteso il suo ritorno per anni: da quando era cominciata la guerra, da quando lui e Harry se n’erano andati, non era passato un solo giorno senza che il suo viso tormentasse i suoi sogni e scompigliasse il suo cuore. Per amicizia, amore o senso di colpa, era stato un pensiero fisso da cui non era riuscita a esimersi. Finché non era arrivato Draco.

Se ne rendeva conto solo adesso, Hermione. Adesso, che guardava il viso di Ron Weasley e lo scopriva diverso da come lo ricordava – non erano le rughe, o le cicatrici, né la sporcizia o l’opacità dei suoi capelli. Era la sua memoria che la ingannava, o forse il suo cuore che lo oscurava di una luce diversa – prima era luminoso e ora era spento, Ron.

Aveva smesso di pensare a lui, e l’aveva dimenticato.

Il dolore le schizzò acuto nel cervello, rimbombò fino allo stomaco e si estese nel petto come veleno. Un singhiozzo le sfuggì dalle labbra mentre Ron la stringeva in un abbraccio, fraintendendo la sua esitazione, la sua espressione, il suo dolore. Percepì la sua carezza solo con una parte della sua mente – mani caldi e forti, ruvide eppure dolci. Aveva sempre desiderato quel tocco, ma, improvvisamente Ron la confondeva. Quel ritorno inaspettato la confondeva.

« Sei… sei tornato » balbettò confusa, accarezzando con gli occhi la linea screpolata delle labbra e posandosi, spaesata, dentro l’azzurro delle sue iridi. Lui annuì con un sorriso luminoso avvolgendo il viso di Hermione tra le sue mani e posandole un bacio delicato e casto sulla punta del naso.

Poi, successe tutto troppo in fretta perché lei potesse capire qualcosa: lampi di capelli rossi dappertutto, la voce stridula di Molly, il ghigno di Fred e George, la commozione di Arthur, gli occhiali di Harry, il timore di Ginny, la felicità di tutti, la rabbia di Draco. La rabbia di Draco.

 

***

 

Furono necessarie diverse ore perché all’accampamento tornasse la calma. Il ritorno di Harry e Ron aveva risvegliato un mostro dormiente: la speranza. L’eccitazione che aveva pervaso i cuori dei membri dell’Ordine era esplosa nel momento in cui i due ragazzi avevano messo piede dentro il campo in cui loro si nascondevano. Non sapevano ancora cosa quel ritorno significasse, ma vedere due facce amiche,  e ancor più quella del Bambino Sopravvissuto, era senz’altro un buon segno.

Quando terminarono i saluti, le lacrime e i festeggiamenti, il sole era già tramontato. Molly si era messa ai fornelli con un sorriso luminoso, e Fred e George non ne potevano essere più lieti: il ritorno del fratello, oltre a renderli felici, avrebbe senz’altro riempito i loro stomaci di qualcosa di più gradevole al palato di foglie secche e radici marce.

Ginny era riuscita a superare la sua paura più grande, e ora sorrideva come tutti, tenendo la mano a Harry come se non dovesse lasciarla mai più. Né lui né Ron avevano fatto commenti sulla sua cicatrice, quasi questa non esistesse affatto; solo dopo diverse ore suo fratello gli aveva chiesto, con una semplicità e una serietà disarmanti, chi era il colpevole. Lei l’aveva abbracciato senza rispondere.

Hermione aveva avuto il tempo di capire che la sua confusione era dovuta solo alla sorpresa. Dimenticata la pace che l’aveva conquistata per due meravigliosi, interminabili minuti, era dovuta scendere a patti con se stessa e ammettere che il senso di colpa l’aveva lacerata al punto che il ritorno dei suoi amici l’aveva lasciata delusa e amareggiata più perché non era stata in grado di trovarli e aiutarli, piuttosto che per il fatto che non era felice di vederli.

Cominciò a dubitare di quella nuova sicurezza che si era fatta strada nel suo cuore quando Ron strepitò con una rabbia e un disgusto eccessivi tutta la sua ritrosia.

« Che ci fa lui qui? »

L’allegra caciara che riempiva l’accampamento si spense all’improvviso, lasciando posto a un lieve ronzio imbarazzato. I sorrisi spensierati scemarono, sostituiti da espressioni sorprese o smorfie consapevoli. L’illusione che la guerra non fosse mai cominciata svanì quando Ronald Weasley puntò un dito accusatore contro Draco Malfoy: entrambi si squadrarono, ugualmente guardinghi, ugualmente sfrontati, disgustati allo stesso modo.

L’impacciato silenzio che era esploso, quasi come un ricordo doloroso, senso di colpa mai del tutto sopito, si incollò ai volti dei presenti cristallizzandoli nella vergognosa convinzione che quel ragazzo non doveva trovarsi lì e che la guerra era solo una scusa. I calici, prima levati in onore di Harry e Ron, si abbassarono; i sorrisi scomparvero; le risate ammutolirono e persino la vaga certezza che tutto potesse andare per il meglio venne inghiottita da quell’unica domanda.

« Va tutto bene, Ron. È nostro prigioniero » Hermione, il viso leggermente arrossato dall’imbarazzo, poggiò con delicatezza una mano sulla spalla di Ron, che fissava il biondo in cagnesco. Nessuno dei due sembrava intenzionato ad abbassare gli occhi per primo: più che un gioco, era una sfida. Era passato il tempo dei dispetti fatti per divertimento, delle marachelle giocate per ridere; ora, quel che c’era in gioco era molto più grande, molto più importante. Chinare il capo avrebbe significato farsi vincere, e in quella guerra persino la più piccola sconfitta poteva decidere la sorte delle due parti.

« Non mi sembra di vedere catene » osservò Harry con una limpida sorpresa a irrigidirgli la voce. Con un gesto frettoloso, sfilò gli occhiali, pulì le lenti con un lembo della maglietta e poi li inforcò di nuovo. Sembrava cercare qualcosa – la risposta che gli sfuggiva.

« Le catene di Malfoy sono invisibili, Harry » rispose Neville pacatamente. Gli occhi di tutti si puntarono sul ragazzo. Era pallido, ma nonostante questo la sua figura slanciata e smagrita spiccava livida tra la folla che si era accalcata attorno al fuoco. Lui e Luna erano gli unici che continuavano a sorseggiare con tranquillità la loro zuppa, come se non ci fosse mai stata nessuna interruzione, niente per cui valesse la pena distrarsi dal loro compito.

I presenti – tutti quelli che erano stati dentro il campo abbastanza a lungo da vedere la cattura di Malfoy – corrugarono la fronte, domandandosi segretamente chi e quando aveva imposto quel genere di magia sul prigioniero, quand’era sempre stato chiaro a tutti che la sua posizione privilegiata sarebbe costata la vita a qualcuno.

Harry e Ron, però, fraintendendo totalmente le parole del loro amico, tirarono un lieve sospiro di sollievo. Il primo fece spallucce e rivolse un sorriso alla sua fidanzata; il secondo, dopo un’ultima occhiata truce, grugnì tutta la sua disapprovazione prima di infilarsi nella prima tenda disponibile, offeso da qualcosa di non del tutto chiaro.

 

I festeggiamenti per il ritorno del Bambino Sopravvissuto continuarono tutta la notte, così Hermione non ebbe modo, né tempo, di domandare ai suoi migliori amici quali erano stati i frutti della loro ricerca. Avrebbe desiderato conoscere i dettagli; abbracciarli e domandare loro scusa per essere stata così vigliacca; magari, persino ridere di quella guerra con un sorriso diverso da quella smorfia impregnata di amarezza che aveva dovuto costruire, giorno dopo giorno, senza di loro.

Eppure, l’ombra che le avviluppava il cuore era così greve che non le lasciò spazio per nient’altro che non fosse la ricerca di risposte di tutt’altro tipo.

« Era una frase ambigua, la tua » considerò Hermione a bassa voce, lanciando uno sguardo di sottecchi a Neville. Oltre l’ombra lunga che le ultime fiamme del falò disegnavano sul suo volto, lei intravide un sorriso sghembo.

« Lo so » rispose con un tono leggero, impregnato d’un ironia delicata. La ragazza non poté trattenere un sorriso a fior di labbra, mentre gli scoccava un’occhiata a metà tra il risentito e il divertito.

Sopra di loro, scintillava un cielo ammantato di gelo. Il leggero brusio che aveva animato l’accampamento fino a qualche ora prima si era spento, sostituito dal fischio sottile di un vento implacabile e nero che tuttavia, lì dentro, non li poteva raggiungere. Il tempo vuoto dei loro respiri era scandito solo dal crepitare delle fiamme morenti. Ombre lunghe e dai riflessi aranciati si allungavano sui loro visi, drappeggiando gli zigomi di velati misteri.

« Va meglio? » Hermione indicò con un cenno del capo le bende che fasciavano il petto glabro e bianco del ragazzo, esposto alle intemperie di quella nottata nonostante il freddo pungente. Non era una dimostrazione di superiorità o una prova della sua tempra, ma una semplice necessità dettata dal dolore che un qualsiasi contatto gli provocava.

« Va meglio, grazie »  rispose lui con un sorriso lieve.  « E tu, Hermione, stai bene? » domandò dopo pochi istanti, osservando con cortesia i tratti gentili della ragazza, gli zigomi alti e i ricci convoluti e disordinati che le incorniciavano il viso delicato e fine, e posandosi infine sui suoi occhi, limpidi specchi opachi sui quali le fiamme si riflettevano per poi perdersi oltre baratri che lui poteva solo immaginare ma non carpire.

« Certo. Perché non dovrei? » Hermione tornò alla realtà con un battito casuale di ciglia. Fu un movimento tanto ingenuo e inconsapevole, che strappò a Neville un sorriso capace di mascherare la serietà della sua domanda.

« Da quando Harry e Ron sono tornati sei… » L’esitazione di un attimo gli costò una severa occhiata da parte della ragazza. Il silenzioso avvertimento del suo sguardo, però, non lo esonerò dal rispondere « spenta » concluse in un soffio, a cui fece eco lo sbuffo spazientito di Hermione.

« Ho smesso di colpevolizzarmi per averli abbandonati, quante volte lo dovrò ripetere? » ribadì con esasperata fierezza.

« Non era a questo che mi riferivo » precisò Neville con tono asciutto. Hermione tacque. Nonostante la risposta del ragazzo fosse tanto inaspettata quanto vaga, non ebbe alcuna difficoltà a capire il velato riferimento.

Durante gli anni di guerra, Neville era diventato un confidente prezioso e un amico irrinunciabile. Il loro rapporto si era fatto più saldo, complice la paura e il quotidiano pericolo: era più semplice sopravvivere, avendo qualcuno a cui aggrapparsi. La solitudine, per Hermione, era diventata meno complicata solo grazie a lui: da bestia feroce e sconosciuta si era trasformata in un’alleata quando l’amicizia sincera e disinteressata di Neville l’aveva aiutata a superare i momenti più difficili di quella guerra. Solo allora aveva accettato la mancanza dei suoi migliori amici e aveva smesso di allontanarsi dal mondo per punizione, capendo che l’isolamento poteva divenire pericoloso, quando non stemperato da un sorriso autentico.

Non era perciò sorpresa di sentirlo parlare con quell’insolenza schietta e a tratti persino presuntuosa che solo un amico vero può permettersi di avere.

« Non… non capisco. A cosa ti riferisci allora? » Le palpebre di Hermione tremarono in modo del tutto impercettibile. Se Neville non l’avesse conosciuta così bene, il leggero tremito della sua voce sarebbe passato del tutto inosservato.

« È che… » Il ragazzo trasse un profondo respiro e piantò gli occhi dritti dentro quelli dell’amica. Non era esitazione, né un tentativo di perdere tempo; piuttosto, sembrava stesse cercando di infondere coraggio a se stesso. « Hermione, lo sai che sono dalla tua parte. Sono tuo amico e voglio solo il tuo bene… »

« E allora dì quello che devi dire » lo interruppe la giovane con un tono fin troppo stizzito per indurlo a parlare. Neville la guardò negli occhi con espressione severa, un rimprovero delicato a vibrare tra le ciglia scure. Hermione non abbassò lo sguardo e non arrossì: salda nella sua determinazione, ricambiò il suo sguardo pieno con la curiosa ma cauta aspettativa di un carnefice.

« È che Malfoy… » La sicurezza del suo dire incespicò solo sull’ultima parola, riacquistando stabilità solo dentro quel nome che, invece, fece perdere ogni solidità allo sguardo di Hermione.

« Ti ho già detto come la penso su di lui » scandì lentamente la ragazza, il viso irrigidito in un’espressione fin troppo statica per essere vera. E infatti, dietro le lunghe ciglia nere, Neville vide affacciarsi ombre nere e luci inquiete.

« Sì. E anche io. Ma credevo che avessi cambiato idea » replicò con incertezza, il dubbio a irrigargli la voce.

« Io… » Persino la spessa cortina di buio che aveva invaso l’accampamento da qualche minuto, quando il fuoco, con un ultimo lampo morente, si era spento, non impedì a Neville di osservare il viso dell’amica mentre prendeva rapidamente colore, accendendosi con la violenza di una miccia.

Approfittando di quel momento di esitazione, Neville prese un respiro profondo e, il capo chino come se si vergognasse profondamente di ciò che stava per fare, cominciò a parlare.

« So cosa c’è tra a te e Ron, e capisco che Malfoy… »

« Cosa? Malfoy cosa? » Hermione scattò in piedi, il viso arrossato e i capelli scarmigliati. Nell’oscurità latente, stemperata solo dalla notte stellata che brillava sopra le loro teste, i suoi occhi erano due punte di spillo lucenti. « Pensi che io mi sia preoccupata per lui solo perché avevo bisogno di una distrazione, in attesa del ritorno di Ron? » strillò infervorata, una nota acuta a far da contralto al respiro che le si era spezzato nel petto.

« No » rispose secco Neville, con calma, riportando lo sguardo su di lei « Tutto il contrario ». La serafica calma del ragazzo ammutolì Hermione, che, confusa, si immobilizzò di fronte a lui, in piedi coi pugni chiusi e le pupille dilatate. L’incertezza si fece strada dentro i suoi occhi sino a diventare sentiero distinto e inequivocabile. Una densa nebbia si infittì dentro il suo sguardo, mentre Neville chinava il capo, la fronte corrugata e un lieve rossore sul volto, a testimoniare tutto il suo imbarazzo e la colpevolezza di quell’affermazione. Si rese conto solo in quel momento, con gli occhi di Hermione piantati dentro il petto, a sondare le strade ripide e scoscese dei suoi pensieri, che non si era fermato nel momento giusto, che aveva detto troppo, taciuto poco. Eppure, nonostante la certezza che non aveva alcun diritto di interferire con la vita altrui, né con i sentimenti di Hermione, non aveva potuto esimersi da quel commento.

Il problema fondamentale, era che Neville non aveva mai visto un amore più puro di quello che Draco nutriva per Hermione, ed era del tutto deciso a dare la giusta luce a quel sentimento, perché un’emozione come quella, così intensa e vera, irrimediabile e oscura al tempo stesso, aveva il diritto di vivere.

« Co-come? Che vuoi dire? » balbettò Hermione, immobile di fronte a lui. Sembrava una statua di puro stupore: la statica meraviglia che le intaccava il viso era un accessorio puramente casuale, scolpito per errore da un artista maldestro che l’aveva poi dimenticata lì. Una parte del suo viso era in ombra, ma persino nel buio Neville poteva vedere i suoi occhi brillare di intatta confusione.

« Niente » Il ragazzo si alzò con un leggero sbuffo di dolore. Una smorfia di sofferenza pura gli contrasse il viso pallido, ma ciò non impedì a Hermione di afferrargli il braccio con una presa salda e decisa, per poi guardarlo con una determinazione che lui gli aveva visto addosso troppe volte, e che non gli avrebbe lasciato scampo.

« Neville, che vuoi dire? »

Neville trasse un profondo respiro. Sembrava incapace di rispondere e, al tempo stesso, di andar via e lasciare l’amica senza un responso convincente. Il leggero rossore che gli accendeva le gote, visibile persino nel buio, confermava il crescente imbarazzo che le sue mani, tremule e maldestre, già denunciavano. Non era mai stato bravo a trattare con i sentimenti, e la guerra non l’aveva certo aiutato: la maturità che aveva acquisito era inutile in quel frangente.

« Dico solo che… credo che… che » Una pausa, un’esitazione incauta. Neville trovò il coraggio di scoccare un’occhiata sperduta a Hermione, e si trovò i suoi occhi infuocati e pretenziosi sul volto. « Credo che la distrazione sia stata Ron. In attesa dell’arrivo di… »

Avrebbe dovuto capire dalla luce dei suoi occhi che era arrabbiata. Peggio, che la rabbia le stava esplodendo nel petto e che non avrebbe lasciato spazio al perdono. Sapeva, però, che Hermione non avrebbe accettato scuse né risposte vaghe, e che la verità era l’unica via di salvezza, per sé e, forse, anche per lei.

« Di chi? Di Malfoy? » Il tono della ragazza era severo, ma fermo. « Del ragazzino viziato e arrogante che per anni non ha fatto altro che insultarmi? E che persino adesso, nonostante io sia stata gentile, e premurosa, e attenta, ha continuato a offendermi? Quel bambino che ha bisogno di prevaricare gli altri per sentirsi più forte? Di sminuire gli altri per sentirsi migliore? È questo che pensi? » Neville non riuscì a guardare negli occhi Hermione nemmeno per un istante. Assorbì le sue parole in uno statico silenzio, respirando appena per evitare di spezzare la fragile quiete che continuava a unirli. « Hai dimenticato cosa ha fatto a te? A me? O ad Hagrid, a Harry, a Ron, a Lupin? Alle persone a cui vogliamo bene? »

« Sono parole tue o di Ron? » La inchiodò così, con parole di burro che le si sciolsero addosso e colarono in ogni anfratto del suo essere, lasciandola confusa e imbarazzata. La studentessa più intelligente di tutta Hogwarts rimase senza parole, zittita dall’alunno più maldestro e imbranato che la scuola avesse mai conosciuto. Hermione arrossì violentemente e gli occhi le si riempirono di lacrime: l’imbarazzo che le colorò il viso era lo stesso che le annebbiò lo sguardo, e che esplose dentro di lei con fastidio, quando si rese conto che la vicinanza con il suo migliore amico l’aveva influenzata al punto da cucirle addosso pensieri non suoi. Perché, in ultima analisi, non era del tutto sicura che quello appena descritto fosse proprio Draco Malfoy.

« Se non ti conoscessi, direi che stai dalla sua parte » boccheggiò piano, nemmeno troppo sorpresa di scoprire quella verità, perché sospettata già da tempo.

« Non puoi capire, Hermione. Sei davvero la strega più brillante che io abbia mai conosciuto, ma questo non puoi capirlo » Nonostante tutto, il sorriso di Neville era incoraggiante.

 

***

 

Hermione non se n’era ancora resa conta, ma Draco le aveva scavato dentro una ferita che aveva cominciato a sanguinare e di cui aveva solo un vago sentore. Inconsapevole carnefice, Malfoy le aveva strappato un brandello d’anima, e il vuoto che le aveva lasciato dentro iniziava ad allargarsi come una macchia di petrolio nel mare.

Lo sentiva con una parte di sé che non conosceva ancora, ma che le spezzava il fiato ogni volta che uno sguardo mancato o una parola di nascosto la facevano rabbrividire – di piacere, di paura.

Era passata quasi una settimana da quando Harry e Ron erano tornati. Una settimana d’insperata pace e piacevoli sorprese, di feroce speranza e sorrisi di nascosto. Anche se molti ancora non lo sapevano, la guerra era a un passo dal risolversi: il Bambino Sopravvissuto aveva portato con sé i resti di tre dei sette Horcrux, riducendo a due il numero dei restanti.*

Harry, Ron e Hermione erano diventati più misteriosi nei confronti degli altri membri dell’Ordine, che si domandavano cosa avessero da sussurrare in ogni momento della giornata; eppure, la loro positività e il velato ottimismo che sembrava trasparire dai loro sguardi, aveva contagiato tutti. Tutti, eccetto uno.

 

« Qualcuno deve portargli da mangiare » Molly depositò una ciotola di zuppa calda al centro del tavolo attorno al quale erano riuniti i ragazzi. Mentre Hermione, intercettando con un sorriso la preghiera della donna, si alzava in piedi, Ron scoccò a sua madre un’occhiata torva, arricciando il naso in una smorfia di puro disgusto e ritrosia.

« Vado io » si offrì la ragazza con un tono volutamente neutro, velando con un sospiro stanco e indispettito la leggera premura dei suoi occhi. Ron scattò in piedi ancora prima che lei riuscisse a sfiorare la ciotola, e le afferrò il polso con veemenza.

« No » strepitò, aggrottando la fronte con fare combattivo. « Tu non ti avvicini a quell’avanzo della società » Hermione arrossì delicatamente e rivolse al ragazzo un sorriso leggero, segretamente compiaciuta da quella preoccupata – e preoccupante – gelosia, ma anche infastidita da quell’ordine perentorio che lasciava poco spazio alle sue libertà.

« Oh, allora vai tu, Ronald? » ironizzò Ginny, scoccando al fratello un’occhiata beffarda. Ron inarcò le sopracciglia e spalancò la bocca, oltraggiato da quel sarcasmo pungente.

« Io non ho nessuna intenzione di… » cominciò, indicando il punto in cui si rifugiava Malfoy.

« E va bene, vado io » Harry si alzò con uno sbuffo, afferrò la ciotola e si avviò a grandi passi verso le rive del lago, mettendo così fine alla discussione. Le eco infuriate dei suoi amici, però, lo seguirono per tutta la strada.

« Non capisco perché dovremmo dargli da mangiare! »

« Ron! » Lo strepito di Hermione lo fece sorridere. Era piacevole sentire la sua voce, dopo tanti anni di assenza, e trovarla ancora uguale alla ragazzina che aveva lasciato, nonostante la guerra e i dolori subiti.

« Potrebbe anche procurarselo da solo! Farlo apparire con la magia, dato che ha ancora la bacchetta » Insistette Ron, sottolineando con incredulità quella concessione che, era evidente, riteneva assurda.

« Non può farlo, Ron, è una delle cinque Principali Eccezioni alla Legge di Gamp sulla Trasfigurazione degli Elementi, e tu dovresti saperlo… » Normalità. Quel battibecco era la cosa di più vicino alla normalità che sentisse da due anni a quella parte. Non l’avrebbe mai ammesso davanti a loro, ma gli erano mancati i loro litigi.

« Non si merita di stare qui! Buon cibo e un tetto sicuro sopra la testa? È ciò che vuole, te lo dico io. Si è fatto catturare apposta! »

« Non credo gli piaccia stare qui » La voce di Ginny, poi, era una musica che non aveva mai dimenticato. Anche lei non era cambiata: ancora bellissima, ancora fiera e combattiva, e la cicatrice che le aveva tagliato il volto era solo un delizioso difetto che la rendeva, ai suoi occhi, più coraggiosa e meravigliosa di come la ricordasse. Per lei poteva anche essere un imbarazzo, ma per lui era solo la testimonianza di un amore che non avrebbe mai lasciato spegnere.

Con un sospiro, Harry lasciò che le voci dei suoi amici si spegnessero nella sua testa, e si concentrò sul capo biondo che sormontava le esili spalle che aveva di fronte.

« Malfoy » lo richiamò cautamente, con un tono neutro che sperava risultasse più gentile di quanto non suonasse alle sue orecchie. « Il tuo pranzo » disse, depositando con delicatezza la ciotola vicino a lui.

Il ragazzo si voltò verso di lui, regalandogli il profilo dritto e pallido e lasciando solo intravedere il ghigno strafottente che gli allungava la bocca in una smorfia sghemba.

« Davvero un gesto nobile, Potter » sentenziò ironico, mentre allungava una mano verso la ciotola. Sotto gli occhi non poi così increduli di Harry, versò la zuppa a terra e poi lanciò ai suoi piedi la scodella.

« Non farei tanto lo spiritoso, se fossi in te, Malfoy » disse Harry con tono duro. « C’è un prezzo da pagare per una vita di falsità » Prima di voltargli le spalle, gli regalò un ultimo sguardo inquieto.

Solo quando Harry era ormai lontano, Draco si concesse la pace di un respiro ferito. Davanti agli altri poteva anche fingere che non gli importasse più di nulla, che non avesse paura di niente, ma la verità era che si rendeva conto, ogni giorno di più, che il castello di carte che aveva edificato gli stava crollando addosso, e intorno vedeva solo tempeste nere e feroci da cui non poteva più difendersi. Le fondamenta di argilla su cui aveva fondato le sue convinzioni si erano disfatte al primo tocco di pioggia.

Il sorriso sornione che indossava mascherava alla perfezione le lacrime nascoste che avrebbe voluto versare, ed era uno scudo alla paura: quella che gli impediva di tirare fuori il coraggio, e confessare le sue paure più profonde e i suoi sentimenti più sinceri.

Avrebbe desiderato una vita senza complicazioni, e c’era stato persino un momento in cui aveva pensato di poter ingannare se stesso e creare una realtà degna di tale nome. La verità era che stava pagando solo adesso il prezzo delle sue scelte: allontanato da Hermione proprio quando pensava di poterla avere, ma solo dopo averla sfiorata, aveva infine compreso l’entità delle sue azioni.

D’altronde, come lui, in molti avevano saldato il proprio tributo: Ginny aveva una cicatrice a dimostrarlo. Le ferite di Hermione erano molto più profonde e invisibili, sensi di colpa o dolori che nessuno poteva conoscere, o immaginare. Harry conosceva il sacrificio che lo attendeva, ma continuava ad andare a testa alta verso il suo destino. E Ron non lo sapeva ancora, ma era già troppo tardi per fermare la macchina dell’ingiustizia che aveva appena messo in moto. Non lo sapeva ancora, ma avrebbe pagato quella guerra a un caro prezzo.

 

 

 

 

* Ricordo che gli Horcrux sono sette:

- Il diario di Tom Riddle e l’anello di Orvoloson Gaunt, distrutti rispettivamente al terzo e al sesto anno di Harry (da Harry nella Camera dei Segreti e da Silente)

- Il medaglione di Serpeverde, la coppa di Tassorosso e il diadema di Corvonero sono i tre distrutti a cui mi riferisco nel capitolo.

- Nagini e Harry, gli ultimi rimasti.

 

Mi trovate qui.


 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** X - E venne il giorno ***


10.

E venne il giorno

 

 

 

  Quel giorno, il cielo era una placca d’argento lucida e greve, che portava con sé il peso della prossima neve. L’aria era pulita, odorava di muschio e fulmini, e nonostante gli ululati che riecheggiavano nel bosco, in lontananza, c’era pace all’accampamento.

« Ti ho portato da mangiare » annunciò Hermione atona, il viso arrossato dal freddo vento che spazzava le rive del lago. In silenzio, si avvicinò al ragazzo, seduto con le gambe incrociate e la schiena poggiata al largo tronco di una quercia sulle sponde di quella che ormai era la sua casa: delle vecchie coperte sgualcite costituivano il unico suo giaciglio per la notte, e la chioma dell’albero era il suo tetto.

« Sai, non hai niente di cui preoccuparti. Harry e Ron non hanno nulla contro di te, non ti manderanno via » La voce della ragazza si incrinò in modo impercettibile. Il viso di Draco, invece, era una maschera fredda e imperturbabile: non un’ombra né un’incrinatura la deformarono. « Non puoi andartene, ma credo che ormai tu abbia capito di non essere un prigioniero » Forse era solo una sua impressione, ma ad Hermione sembrò di vedere un’ombra, sulla sua fronte, come un cipiglio scettico. « È da tanto che non ti siedi a tavola con noi » La giovane strega glissò dignitosamente sul fatto che lui si era seduto a tavola con il resto dell’Ordine solo una volta, e tutto ciò che aveva ottenuto erano state occhiatacce e borbottii esasperati. « E, non so se ti interessa, ma ieri i nostri hanno sconfitto alcuni Mangiamorte, nei pressi dei confini francesi » Il tentativo maldestro della giovane strega di intraprendere una discussione con lui si stava infrangendo contro un muro d’indifferenza ch’era tanto sconvolgente quanto inaspettatamente doloroso. Draco non la guardava, non le parlava, né dava segno di averla sentita, o di degnarsi di accorgersi della sua esistenza. Così, Hermione, punta sul viso e indispettita da quell’improvviso arroccamento, emise uno sbuffo stizzito.

« D’accordo. Non vuoi parlarmi. Come preferisci. Ma ti consiglio di mangiare la tua zuppa, perché è l’ultima cosa che ti daremo se non ti decidi a collaborare » Il suo tono era visibilmente mutato: la morbida incertezza che ne aveva addolcito la voce era stata sostituita da una collera sottile ma visibile negli occhi brillanti d’indignazione. Per un istante, Hermione rimase immobile, gli occhi puntati sulla testa biondissima del giovane, in attesa di una replica che non giunse mai. Quando gli voltò le spalle, si accorse con stupore che qualcosa pungeva dietro le palpebre.

.

 

***

 

Il temporale che Hermione aveva atteso era arrivato prima del previsto, in un’ora imprecisata tra la battaglia di mezzogiorno e il tè delle cinque. Ron era tornato insolitamente arrabbiato, il volto deformato da una smorfia d’ira e tagliato da un graffio che gli macchiava lo zigomo di sangue, una richiesta gutturale a graffiargli la gola. Aveva urlato, nomi e parole di cui tutti avevano compreso ben poco, perché erano frasi sconnesse in cui si percepiva la vergogna della sconfitta e il dolore della perdita, sofferenze che ricordavano due anni di guerra, costati eccessivamente, pagati a un prezzo troppo caro. Aveva urlato, Ron, e tutto ciò che aveva chiesto era stata un briciolo di giustizia. L’approvazione non era stata unanime, ma senz’altro la maggior parte dei membri dell’Ordine era stata d’accordo.

Da quel momento in poi, Draco Malfoy sarebbe stato solo un prigioniero in catene, senza diritti né sconti sulla pena.

 

Poco più tardi, quando la tempesta era passata, Hermione gli aveva parlato. Nel silenzio di una tenda che avrebbe dovuto accogliere sussurri ben diversi, lei lo aveva guardato negli occhi con una dolcezza che aveva il sapore del risentimento.

«Perché ce l’hai tanto con lui? » Ron le scoccò un’occhiata in tralice, scacciando la mano premurosa con la quale la giovane strega gli stava medicando la ferita al volto. Nei suoi occhi lampeggiò un sentimento indistinto che a Hermione ricordò vagamente quell’espressione ferita che gli era esplosa addosso al Ballo del Ceppo.

« E me lo chiedi, Hermione? » Lei sospirò, spostando con paziente delicatezza quelle dita ribelli e riprendendo a disinfettare il profondo taglio che gli graffiava lo zigomo.

« Ron, siamo in guerra. Quello che c’è stato prima… non conta niente. Erano dispetti da ragazzini, questo… » Ron scattò in piedi, gli occhi infuocati d’ira, facendola sussultare per l’impeto del gesto e lasciando che il resto delle sue parole morisse prima ancora di vedere la luce.

« E cercare di avvelenarmi è un dispetto da ragazzino? Tentare di uccidere Silente è un dispetto da ragazzino? » I pugni stretti e il viso arrossato dalla collera che stava rapidamente montando dentro di lui, il giovane piantò due enormi occhi adirati sul volto intimorito di Hermione, che cominciava a mostrare i primi segni di una mortificazione segreta.

« Non ha cercato di avvelenare te, e poi… » cominciò, nel tentativo di calmarlo e farlo ragionare. Fece un passo verso di lui e cercò di sospingerlo con delicatezza sulla sedia, così da riprendere il suo lavoro, ma Ron si scostò con una rapida e secca scrollata di spalle. Non aveva visto il leggero tremore segreto che aveva cominciato a scuotere il corpo della ragazza, esploso in un momento imprecisato di quella discussione, insieme a un’angoscia che non aveva niente a che fare con lui.

« Mi dispiace, Hermione, ma io non sono come te, io non a riesco a perdonare, né a dimenticare. Sono ancora convinto che Malfoy sia qui per un motivo, e se non è quello di ucciderci tutti… »

« Se avesse voluto ucciderci, l’avrebbe fatto mesi fa, Ron! » Hermione lo fissò con occhi esasperati, abbandonando ogni tentativo di trattare con lui pacificamente. Non poteva dire di essere arrabbiata con Ron: da sempre provava nei suoi confronti qualcosa di più della semplice amicizia, ma talvolta, troppo spesso, il carattere del ragazzo – la sua impulsività e la sua natura passionale e irrequieta – avevano fatto nascere in lei ripensamenti su quei sentimenti tanto forti quanto instabili. Quello non era uno dei loro soliti battibecchi pacifici, lo capiva dalla luce inquieta negli occhi di Ron, la stessa che lui pensava di leggere dentro di lei, senza capire che, invece, era solo un’autentica paura di cui lei non conosceva ancora la causa, quella che ne accendeva gli occhi e l’istinto.

« È un vigliacco. Lo è sempre stato, Hermione, e sempre lo sarà » Il cuore di Hermione si fermò per un lunghissimo, penoso istante, per poi ripartire a velocità doppia. Il sangue le affluì al viso in un fiorire imbarazzato che le colorò le gote di un rossore inspiegabile persino a se stessa. Forse, le parole di Ron erano assolutamente inconsapevoli, ma, forse, lui aveva capito molto più di quanto non lasciasse trapelare. « E qui ha trovato quello che cerca: un luogo sicuro, da cui può osservare lo svolgersi della guerra senza prenderne parte, senza correre pericoli » Il respiro di Ron si regolarizzò, le sue parole divennero un sussurro sottile che si insinuò sotto la pelle di Hermione come una lama gelida.

Cos’era quella rabbia ch’era nata in entrambi, disintegrando la pace degli ultimi giorni, entrambi l’avrebbero capito solo qualche ora più tardi.

« Puoi biasimarlo? Abbiamo tutti paura! » Lacrime nella voce di Hermione, e nei suoi occhi fragili. Ron ingoiò il rancore e la rabbia e le prese la mano con un gesto impacciato e tremulo, ma quando lei avvertì il calore della sua pelle, percepì anche tutta la fermezza dei suoi propositi e quella ancor più salda dei suoi sentimenti.

« Ma questo non ci ha mai fermato. Ed è ora che lui decida da che parte stare » Nonostante la dolcezza dei suoi occhi, Hermione non riuscì a tirare un sospiro di sollievo.

 

***

 

Una luna piena, quasi irreale nella sua perlacea opalescenza, tingeva con pennellate d’argento le vette degli alberi. Il vento impietoso che aveva soffiato per giorni si era spento insieme alle discussioni di quel pomeriggio, lasciando dietro di sé una scia di malcontento – e una prigione con sbarre di legno, ma opprimente almeno quanto quelle di Azkaban.

Draco non sembrava particolarmente colpito da quella novità: forse era qualcosa che aspettava già da tempo, forse fingeva indifferenza per mascherare la sua angoscia, di certo riusciva a dissimulare i suoi sentimenti in maniera perfetta e insospettabile, perché era entrato nella piccola prigione improvvisata senza fiatare, si era seduto in un angolo e non aveva più mosso un solo muscolo. Il suo viso era una statua di immobile fierezza, e se Hermione non l’avesse guardato dal di là di quelle sbarre crudeli, avrebbe potuto anche pensare che non si era mai mosso dal suo giaciglio: l’aveva lasciato accovacciato ai piedi di una grande quercia, l’aveva ritrovato nella stessa posizione, ma dentro la sua nuova cella.

Quando Hermione aprì la porta della prigione era notte fonda. I grilli frinivano una melodia che cullava i sogni di tutto l’accampamento, spezzata solo da scricchiolii umidi e fruscii delicati. In lontananza si sentiva, di tanto in tanto, il bubolare delicato di un gufo. Il manto della notte era un’insospettabile cappa di umidità e buio.

La porta si aprì senza mostrare resistenze, con una mansuetudine che si rifletteva nel prigioniero, immobile in un angolo di quella nuova prigione improvvisata. La giovane strega entrò con passi delicati e piccoli, nascondendo la sua irrequietezza dietro uno sguardo fermo dentro il quale si agitava un barlume di inquietudine impossibile da celare.

Draco non diede segno di averla vista né sentita: non si mosse, l’espressione immobile almeno quanto la sua postura.

« Tieni » esordì Hermione, depositando al centro della cella una mela lucida e rotonda. Guardò per qualche istante il frutto, un netto contrasto quasi grottesco in quel luogo asfissiante, poi posò gli occhi scuri sul ragazzo. Sorprendentemente, Draco la stava guardando, un sorrisetto compiaciuto a deformargli il volto pallido e affilato.

« Sensi di colpa, Granger? » la sfidò con tono risentito, gli occhi fissi su di lei in una provocazione nemmeno troppo velata. Hermione trattenne a stento il sussulto che le agitò, con un brivido inaspettato, il cuore, e mascherò la sorpresa dietro un sorriso delicato, segretamente soddisfatto.

« Ah, ora parli? Credevo che il gatto ti avesse mangiato la lingua » rispose, nascondendo a stento quel piacere intimo e inspiegabile che le stava rimescolando l’anima. Non si aspettava di sentire la sua voce, perché negli ultimi giorni Draco si era chiuso in un silenzio inaccessibile, e pensava che la sua prigionia avrebbe accresciuto la sua avversione e la sua intangibilità. Invece, con sua grande meraviglia, lui sembrava persino desideroso di provocarla.

« Credevo che avessi smesso di preoccuparti per me. Ora che è tornato il tuo patetico caso umano, che bisogno hai di me? » Draco si alzò in piedi, lasciando scivolare i suoi occhi lungo l’esile figura della ragazza. Le fu vicino con un passo, perché le distanze, in quella cella, erano ridotte.

« Ron non è… » cominciò lei, in una patetica e pallida difesa che lui stroncò con un gesto svogliato della mano.

« Risparmiami la predica » la liquidò quasi con noia, mentre si piegava per raccogliere da terra la mela appena portata, e poi, una volta tornato in piedi, puntava di nuovo gli occhi su di lei. Adesso, però, nelle sue iridi plumbee si agitava qualcosa.

« Ma si può sapere cosa ti prende? » sbottò agitata, facendo un passo indietro, incapace di stargli troppo vicino e di guardare ancora dentro i suoi cinerei. Uno strano calore le salì improvvisamente alle guance, per un motivo che non riuscì a comprendere. « Voglio dire, sei sempre stato odioso e insopportabile, ma adesso… non ti degni più nemmeno di rivolgermi la parola! Continui a evitarmi, e a fare lo scorbutico e… » Hermione prese fiato, infastidita, prima di riprendere con enfasi « È così da quando…» Il pensiero inconsapevole che era nato nella sua mente si allargò sino a diventare fiamma, fuoco e poi incendio, divampando nella sua mente e divorando ogni parola. La voce della ragazza si disintegrò in quel momento, bruciando violentemente sino a diventare cenere, proprio mentre le pupille di Draco si dilatavano e il terrore cominciava a sgretolare la fine trama dei suoi occhi chiari.

« Da quanto è tornato Ron » concluse Hermione in un soffio incredulo, gli occhi piantati dentro lo sguardo inerme del giovane che aveva di fronte. Improvvisamente, tutti i pezzi del puzzle andarono al posto giusto, e nei suoi occhi scintillò un lampo di autentica comprensione.

« Sei pazza, Granger » Draco scosse la testa e chinò il capo, distogliendo lo sguardo, ma Hermione non sembrava intenzionata ad accettare quella debole resa.

« Spiegami… » cominciò, guardando le spalle ampie del giovane che si agitavano frenetiche al ritmo del suo respiro.

« Vattene » ringhiò lui in tutta risposta, un sibilo gelido che, tuttavia, non riuscì a convincere la ragazza. Hermione si avvicinò a lui con un passo rapido che annullò ogni distanza e poggiò una mano sulla sua spalla. Il gesto di Draco fu fulmineo e spiazzante: si voltò con una rapidità che la sorprese e la spinse contro le sbarre di legno, stringendole il polso in una morsa ferrea, senza via d’uscita. Mentre la cella vibrava, smorzando con un tremore silenzioso il colpo ricevuto, Hermione sgranò gli occhi, e anche dentro di lei qualcosa tremò.

« Non c’è niente da spiegare » soffiò Draco. La sua voce era tesa come una corda di violino e lei poteva sentire le sue dita tremare, mentre le stringeva la carne tiepida del polso. Hermione respirò cautamente e lo guardò: tra le ciglia scure, i suoi occhi ardevano di una luce torbida che le fece correre un brivido lungo la schiena.

Un refolo di vento leggero si infiltrò tra le sbarre della piccola cella. Un turbine di foglie secche, trascinato da quel soffio lieve, vorticò nell’aria e si impigliò tra i ricci ribelli della ragazza.

« Io… » Hermione non ebbe il tempo di prendere fiato che le labbra di Draco erano già sulle sue, con l’urgenza di un desiderio represso troppo a lungo e il bisogno di una voglia inconfessabile. La sua bocca aveva il sapore della rabbia e della bramosia, eppure era morbida e calda come lei non avrebbe mai immaginato. Era una carezza piena di possesso e intraprendenza.

Draco le spinse la lingua tra le labbra lentamente, vincendo un’inesistente resistenza, poi, quando il desiderio si trasformò in necessità, premette tutto il suo corpo contro quello piccolo e tiepido di Hermione, e improvvisamente il gelo di quella notte si trasformò in un inferno da cui lui difficilmente sarebbe uscito. Quando le sue mani, con una reverenza che la sorprese, le accarezzarono gli zigomi, lei avvertì il tremore violento che lo stava scuotendo, emozione segreta e irraggiungibile.

Hermione si scostò dopo qualche minuto, con un sospiro tremulo. Un crepitare lieve le correva sulle guance e sulla fronte. Lui tese una mano, esitante, e di nuovo le circondò il polso con le dita. La sua stretta era gentile, come se non pensasse di doverla trattenere, questa volta. Hermione deglutì e alzò lo sguardo su di lui: adesso, qualcosa sembrava essersi placato, in quegli occhi grigi.

La notte avanzava lievemente, trascinando dietro di sé i primi bagliori di un’alba bianca, che tratteneva i bagliori di bei ricordi destinati a sfiorire. Nessuno dei due lo sapevano ancora, ma quel bacio altro non era che l’inizio di una pericolosa ragnatela di disperazione, cominciata proprio da quella confessione maldestra, ben diversa da quella che lui aveva immaginato.

« Hermione »

Quella voce era già stata ambasciatrice di cattive notizie, ma questa volta sul cuore di entrambi si aprì una crepa che divenne ben presto una voragine irreparabile e profondissima.

Hermione alzò il capo e posò due enormi occhi spaesati su Ron, in piedi accanto la porta della cella, in mano una brocca d’acqua e un tozzo di pane. Draco, invece, rimase immobile, le dita attorno al polso della ragazza e il dolore che si allargava lentamente nel petto, come veleno.

« Ron » esalò la ragazza. Con il respiro spezzato, Hermione lo guardò. Aveva il fiato di Draco sul collo e una sensazione opprimente che le dilaniava il cuore, e mentre si specchiava negli occhi limpidi di Ron, non poté fare a meno di sentire la colpevolezza intossicarle il cuore. Fu con il capo chino e il viso rosso di vergogna che, lentamente, con gesti posati che le costarono una fatica enorme, la giovane riuscì a liberarsi dalla presa di Draco e raggiungere Ron sull’uscio. Lui non la stava guardando, aveva gli occhi fissi sulle spalle magre del fu Serpeverde.

« Ron, ti prego, non … » La voce di Hermione era roca e bassa, atona e monocorde, una vaga rievocazione proveniente da chissà quale angolo della sua gola. Ron la interruppe bruscamente con un gesto della mano, e lei non ebbe il coraggio di ribattere. Si allontanò donando un’ultima occhiata ferita a Draco che, adesso, ricambiava lo sguardo del giovane Weasley con altrettanto astio.

Si fronteggiarono in silenzio per qualche minuto, mentre le prime luci di un mattino inclemente accarezzavano le fronde più alte degli alberi e si insinuavano tra le sbarre di una cella diventata accogliente per il tempo di un battito – un’eternità, l’unico momento di vita vera. Ron aveva i pugni serrati, le nocche bianchissime a causa della rabbia, e le braccia irrigidite, strette lungo i fianchi, come se si stesse sforzando di non saltargli addosso. Draco, invece, aveva il viso stanco di un soldato appena tornato da una battaglia lunghissima ed estenuante, dalla quale era appena uscito sconfitto. Nonostante si aspettasse che lui lo attaccasse, benché sperasse che lui gli si scagliasse contro, così da avere una scusa per sfogare la dilaniante e crudele gelosia che gli stava mangiando il cuore, non fu sorpreso quando Ron richiuse con forza la porticina di legno della cella, sigillandola con un incantesimo e voltandogli le spalle senza più uno sguardo o una parola.

Solo quando lui fu lontano, Draco riuscì a concedersi la tregua di un sospiro sofferente e di un singhiozzo soffocato.

Mentre l’alba chiara di un nuovo giorno sorgeva, a pochi metri da lui, Hermione guardò il cielo lontano, rischiarato da una luce ambigua, e non fu più sicura di niente.

 

 

 

 

Nota dell’autrice:

Anche se il titolo del capitolo non viene ripreso nel capitolo stesso, spero che sia chiaro il riferimento sul quale ho voluto improntare questo piccolo regalo di Natale (spero gradito).

Colgo l’occasione per augurare a tutti voi meravigliosi lettori un sereno e felice Natale, buone feste e, nel caso non riuscissi ad aggiornare prima, un buon anno nuovo. Per qualsiasi domanda, chiarimento, dubbio, desiderio di uccidermi/strozzarmi/farmi soffrire o altro, mi trovate qui: Eloise.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo XI - Il male minore ***


 




11.




Il male minore

 

 

Draco fu svegliato da un rumore basso e profondo, un fruscio cupo che, però, nel silenzio delle prime luci dell’alba risuonò tetro, potente come un tamburo di guerra. Quando aprì le palpebre, con uno scatto di paura che era frutto di quegli ultimi anni battaglie e terrori, due grandi occhi scuri lo stavano fissando.

« Che stai facendo? » domandò con voce gracchiante, ancora vagamente impastata dal sonno, sobbalzando indietro e battendo la testa contro una delle sbarre di legno della sua cella. Mentre la vibrazione si smorzava nell’aria lattiginosa di un’alba fredda e vuota, Neville si alzò in piedi. Non si scompose nemmeno dopo l’occhiata glaciale dell’altro, e continuò a fissare Draco con solenne serietà.

« Devi andartene. Ora » disse, per poi indicare la porta della sua prigione, aperta. « Vai, prima che sia troppo tardi » Si alzò in piedi e lo strattonò forte, tirando la manica della sua camicia, ormai sudicia, e tentando di sospingerlo verso l’uscita. Draco si divincolò da quella presa e gli scoccò un’occhiata obliqua.

« Perché? » ringhiò, come un animale ferito. Oltre la figura slanciata del ragazzo, il fu Serpeverde intravedeva lame di luce pallida e opaca, pennellate d’oro e arancio che davano persino a quell’accampamento, persino a quella cella, un’aria rassicurante.

« Questo non è più un luogo sicuro per te » replicò Neville con tono estremamente serio, guardando il biondo fisso negli occhi, come se volesse imprimergli nella mente lo stesso timore che attanagliava il suo cuore ma di cui, era evidente, l’altro non si curava. Lo dimostrava la risata, fredda e roca, che gli sfuggì dalle labbra, forse un primo sintomo di pazzia, che Neville accolse con un cipiglio perplesso e incerto.

« Non lo è mai stato » sputò Draco con rabbia, raddrizzandosi e acquistando la stazione eretta. Fronteggiò il ragazzo con orgoglio e fierezza, e nei suoi occhi grigi lampeggiò, per un istante, quella luce arrogante che gli era appartenuta molti anni prima, in tempi ben diversi da quelli che stavano vivendo ora.

« Vattene, Malfoy. Vattene adesso, prima che sia troppo tardi » Il tono di Neville era profondo e duro, e nella sua voce c’era l’eco di una paura che l’altro non riuscì a identificare, a cui non sapeva dare un nome. « Hai combinato un bel casino stanotte, e… » Non fece in tempo a finire. L’ira dilagante che saettò nello sguardo di Draco non lo spaventò, perché sapeva che era una collera innocua, ma lui riuscì comunque a vedere l’esatto istante in cui qualcosa si frantumò dentro quelle iridi metalliche, torbide di un sentimento che non aveva fatto in tempo a nascere, prima che una tempesta inclemente strappasse quelle radici fragili.

« Hai fatto di tutto perché succedesse » urlò Draco, incurante del fatto che la sua voce, così acuta e stridula, avrebbe potuto svegliare tutto l’accampamento. Incurante, infine, persino del fatto che stava ammettendo un amore che aveva tenuto nascosto troppo a lungo. « E ora mi dici che devo andarmene. Adesso che… » La voce gli si spezzò nel momento in cui l’emozione violenta di quella notte raggiunse la gola.

Neville prese un profondo respiro, prima di replicare, con una calma che non si rifletteva nell’altro: « Se la ami davvero, vattene via prima che ti veda morto ».

Il volto di Draco rimase una maschera di implacabile durezza. Una scintilla vibrò negli occhi cinerei del giovane, prima che questo rispondesse, in un sibilo glaciale: « Se me ne vado sono già morto ». Una sfumatura di panico gli colorò la voce, stemperando l’atonia  delle sue parole.

 Per qualche minuto, tutto rimase silente. Neville non replicò alle sue parole, perché sapeva che aveva ragione; Draco si limitò a fissarlo con la consapevolezza che tutto stava finendo proprio quell’istante: le sue speranze si erano appena infrante dentro lo sguardo di un ragazzo che aveva deriso, disprezzato, odiato, e che ora rispettava nel silenzio di un giorno senza fine.

« Malfoy! » Quel nome, urlato da una voce aspra, colma di rabbia e disgusto, più che un richiamo era un’accusa, denigratoria ma falsa. Malfoy non era esattamente quello che era, ma solo quello che rappresentava. Malfoy era la fonte originaria dei suoi problemi. Quanto gli sarebbe piaciuto, ora come nove anni prima, liberarsi dalle catene del suo nome e vivere la sua vita privo di condizionamenti, libero di scegliere e di sbagliare. Ma era già troppo tardi per farlo: aveva perso la sua occasione molto tempo prima, quando aveva permesso ad altri di disporre della sua vita. Ora, quello che rimaneva da fare non sarebbe stato semplice, ma era l’unica via che poteva percorrere.

Si voltò verso Ronald Weasley, che procedeva a grandi passi verso di lui, con una calma gelida sul viso. Lo guardò senza paura, anche mentre lui ricambiava con odio il suo sguardo.

« Neville, vattene via » L’attenzione di Ron era tutta per Malfoy: nonostante si fosse appena rivolto all’amico, non l’aveva guardato nemmeno un istante, liquidandolo con un rapido cenno della mano.

« Ron, per favore, ascoltami » Neville si frappose tra Ron e Draco, tentando di evitare l’inevitabile. « Non c’è bisogno di arrivare a questo. Non ne abbiamo bisogno, adesso. Dobbiamo pensare alla guerra, a Vol… » Il tentativo di farlo ragionare naufragò dentro i suoi occhi, che fiammeggiavano di collera repressa e astio puro.

« Neville, non sono affari che ti riguardano » scandì lentamente, scoccandogli un’occhiata rabbiosa che costrinse l’altro a chinare il capo con fare rassegnato. Forse Ron aveva ragione: non erano affari che lo riguardavano, e aveva interferito già troppo.

Neville emise un sospiro, e prima di uscire dalla cella, lanciò un’occhiata dispiaciuta a Draco, come una richiesta di perdono.

Il sole era ormai sorto, e le luci argentee che filtravano oltre lo spesso velo di nuvole cineree illuminavano d’una luce falsa e irreale tutto l’accampamento. Le urla di Ron e Draco avevano svegliato la maggior parte dei presenti, che si erano riuniti attorno la piccola prigione di legno e ora guardavano i due contendenti con il fiato sospeso, come in attesa.

Se Ron aveva ancora un barlume di dubbio e compassione a frenarlo, nonostante la bacchetta stretta nel pugno, Draco non aveva più alcuna incertezza.

« Sì, Paciock, vattene via. Weasley vuole uccidermi prima che sia troppo tardi » Un lungo ghignò si disegno sul suo volto, ora increspato da un cipiglio sarcastico, malvagiamente divertito. « Perché ha paura che gli porti via la ragazza ».

Se Ron fosse stato un po’ più sicuro di sé, l’avrebbe senz’altro ucciso all’istante: sarebbe bastato alzare la bacchetta, puntargliela al petto, urlare quell’incantesimo, temuto e desiderato al tempo stesso. Malfoy sarebbe caduto senza far rumore, e lui avrebbe bevuto l’ultima goccia di vita del suo corpo, con il piacere della vendetta a vibrargli dentro. Avrebbe potuto farlo, se fosse stato certo che Hermione non l’avrebbe rimproverato per tutta la vita, che lei non lo avrebbe odiato per tutta la vita. Ma Ron era stato via per due anni; due lunghissimi anni in cui di Hermione aveva avuto solo notizie sporadiche, sussurrate di nascosto da alleati incontrati quasi per caso. Anni in cui di Hermione era rimasto solo il profumo, ad aleggiare nell’aria dei ricordi più dolci.

Perciò, Ron mantenne il braccio inerte, lungo il fianco. Non parlò, mentre stringeva la bacchetta quasi convulsamente, fino a far diventare le nocche bianche. Una risata lugubre e bassa fu tutto ciò che gli sfuggì dalle labbra.

« Hermione non potrebbe mai amare uno come te » sputò quelle parole con la sicurezza di un disgusto certo e, nonostante le apparenze, il suo tono e quell’enfasi maldestra ma voluta, andarono a segno.

Draco respirò a fondo ma qualcosa nel suo stomaco si contorse violentemente. Il suo viso rimase una maschera imperturbabile: il ghigno sul suo volto si accentuò, ma era una smorfia a metà, qualcosa che non arrivava a illuminare anche gli occhi.

« Naturale. Perché dovrebbe quando può avere uno come te » ricambiò con lo stesso disprezzo usato da Ron, marcando con forza sulle ultime quattro sillabe, e accompagnando le sue parole con un’espressione cattiva.

« Tu non la meriti » L’urlo di Ron proveniva direttamente dal cuore, e fu tanto forte e intenso che, per un attimo, gli invisibili confini di protezione che accerchiavano l’accampamento vibrarono violentemente, per poi riassestarsi subito dopo. Uno stormo di uccelli, disturbato dall’eco di quelle grida profonde, si alzò in volo nel cielo, preferendo altri alberi più quieti per il riposo mattutino. La magia che era esplosa dentro il ragazzo crepitò ancora per qualche istante sulla punta delle dita, per poi estinguersi dentro lo sguardo incredulo di Hermione, arrivata in chissà quale momento di quel litigio.

Draco la vide con la coda dell’occhio, al di là di quelle sbarre che, per lui, non erano solo barriere fisiche: accanto a lei, Ginny osservava la scena con cipiglio scettico. Non ebbe bisogno di pensare, per sapere cosa doveva fare. Le parole gli uscirono dalle labbra prima che avesse il tempo di riflettere, o di fermarsi.

« Pensi davvero che m’importi qualcosa di una schifosa Sanguesporco come lei? »

Lo disse perché sapeva già come sarebbe andata a finire. Lo disse perché il suo destino era quello di uscire da quell’accampamento e venire massacrato in una guerra in cui non aveva creduto nemmeno un istante. Lo disse perché lesse negli occhi di Hermione la scelta che avrebbe fatto, e perché era la cosa giusta: dentro lo sguardo di quella donna a lungo amata, Draco aveva imparato a leggere un alfabeto diverso da quello della sua vigliaccheria. Forse lei non se ne sarebbe mai resa conto, ma voleva renderla fiera di lui, farle capire la portata del suo amore. Lo disse, e mentre lo diceva un tremore segreto e violento gli squassò il cuore. Era il male minore, per lei; perciò lo disse. Perché tutto quello che Hermione doveva fare era vivere, seguire la strada che aveva davanti e scoprire il proprio futuro. Un futuro che con lui non avrebbe potuto avere, perché l’avrebbe portata tra le braccia della morte. A Draco, invece, pareva che la sua vita si sarebbe svolta tutta in una stanza priva di porta.

Davanti a lui, Ronald Weasley lo guardava in cagnesco, il viso contratto da una rabbia che non era deflagrata solo perché il suo migliore amico lo aveva frenato con un’occhiata ammonitrice.

« Ti devi guadagnare il tuo posto qui » sputò quelle parole scandendole con rabbia, e ogni sillaba sembrava distillata nell’odio e cresciuta nel rancore.

« Io non devo niente a nessuno » replicò Draco con altrettanta enfasi, il volto contratto da una collera che deformava i lineamenti nobili. Se sua madre l’avesse visto in quel momento, non avrebbe affatto apprezzato quel modo barbaro di porsi con una creatura a lui inferiore, mostrando sentimenti eccessivi che l’altro non meritava. Ma sua madre, si disse lui, era lontana, dispersa, dimenticata.

« Allora fuori » Ron ruggì quelle parole come se fossero un tuono, potente e foriero di una tempesta che difficilmente avrebbe potuto terminare in quel momento, in quel luogo.

Forse era proprio quella sensazione di eterno che spinse Hermione a voltare le spalle a entrambi, a tutto – Ron, Draco, la cella, le persone intorno a lei, l’accampamento, tutto – e fuggire, andare lontano da quelle urla, dai litigi, forse persino dalla guerra – perché quella era una guerra che non poteva vincere, quella del cuore, non poteva sconfiggerlo, non poteva uscirne integra, trionfante, non avrebbe potuto, nemmeno se avesse voluto. Perciò Hermione girò le spalle a entrambi, senza dire una parola. E nel silenzio di quel gesto il mondo ammutolì per un istante.

 

***

 

Silenzio nella foresta. Lontano, bubbolii di gufi e il fischio del vento. Attorno a lei, fruscii.

Un sottile mantello bianco copriva il suolo di quella foresta dimenticata. Erano diventate ghiaccio e polvere le foglie autunnali, tinte di rosso e oro, che qualche mese prima avevano abbandonato le braccia forti e sicure di alti alberi secolari, i quali avevano vissuto millenni e visto forse battaglie impetuose e sanguinarie molto più di quella che adesso si stava combattendo nel cuore della giovane strega.

Un vento implacabile, impolverato di neve, percorreva le campagne del confine francese. Tra i capelli di Hermione si imprigionarono fiocchi di neve candida, pura come lei non era mai stata. La neve le accarezzò il viso accaldato, sciogliendosi sotto il tocco impetuoso di una lacrima. Le ciglia imperlate di dolore, le gote arrossate dal pianto, Hermione era china su una tomba anonima, solo una tra le tante. Sconfitta.

Nemmeno lo scricchiolio che annunciava l’arrivo di qualcuno riuscì a scuoterla da quel torpore. In silenzio e immobile, la giovane strega rimase china su quel cumulo di terra, le unghie affondate nel suolo, incrostate di sporcizia e costellate di cicatrici.

Ginevra Weasley le si sedette accanto senza dire una parola. L’eleganza innata dei suoi modi contrastava fortemente con quel carattere ribelle e indomabile che, lei sapeva, le apparteneva più di quell’orrendo sfregio che le tagliava la faccia a metà.

Per moltissimi minuti, l’aria fu riempita solo dal ritmo incerto dei loro respiri. La neve ricominciò a cadere quieta, depositandosi sui capelli rossi di Ginny con una carezza gentile, e sfiorandole la cicatrice sul volto con dita gelate: sembravano lentiggini bianche e invisibile sul candore della sua pelle.

« Ti ha fatto male? »

Non era una domanda stonata. Avrebbe potuto sembrarlo, in quel silenzio; nel tacito riposo di un bosco il mutismo in cui entrambe si erano chiuse sembrava quasi obbligatorio, un dolcissimo oblio dettato dalla necessità, e dal caso. Eppure, quelle parole, rumore bianco nella pace della foresta, non erano inappropriate, né sbagliate. Non erano sbagliate le parole, non era sbagliato il momento, non era sbagliato niente, neanche quel tono quieto, in concordanza con la serenità di quel luogo, che nascondeva, a dispetto delle apparenze, un caos irrefrenabile sotto la superficie di muta quiete.

« No » Quello di Hermione era un sussurro, ma sorpreso. Non era chiaro se Ginny si riferisse alle parole di Draco o a quel bacio rubato, ma lei non ebbe bisogno di chiedere conferme. Non le aveva fatto male quel bacio, non l’avevano ferita quelle parole. No, era la risposta universale. No, era quello che sentiva di dover rispondere, nonostante il meravigliato stupore con cui le pronunciò, con una semplicità spiazzante, come se quella risposta fosse stata lì da sempre, ad attenderla. No, era la risposta giusta, ed Hermione non poté fare a meno di chiedersi se non fosse la domanda, ad essere sbagliata.

« Allora perché stai piangendo? » Non era un’accusa. Nel tono di Ginny non c’era traccia di rancore o amarezza, la sua voce era come un fievole sussurro, delicato e neutro.

« Perché… » La voce di Hermione si spezzò nell’esatto momento in cui la lacrima che le era rimasta impigliata tra le ciglia le scivolò lungo la gota. « Perché le sue labbra mi hanno detto un’altra cosa, Ginny »

Non si stavano guardando negli occhi, ma nessuna delle due ebbe bisogno di farlo: per vergogna o per discrezione, non si scambiarono uno sguardo, ma entrambe capirono quanto quelle parole nascondessero, di implicito.

Ginny strinse le labbra: una linea sottile e imperscrutabile assottigliò la bocca carnosa, stringendo tra i denti parole che non aveva intenzione di dire ma che le erano risalite su per la gola, indesiderati ospiti. Quando parlò, la sua voce era debole, come se fosse rotta dal pianto.

« Stanno partendo »

E non ci fu bisogno di dire altro.

 

***

 

A un passo dall’accampamento, forti schiocchi rompevano l’equilibrio instabile di quel giorno. Uno dopo l’altro, i membri dell’Ordine della Fenice si stavano Smaterializzando, diretti verso mete sconosciute a tutti eccetto che a loro stessi.

Quando Hermione vide un lampo rosso sparire nel buio profondo della notte inglese, capì di non avere più scampo. Il cuore le martellò forte contro il petto quando si fermò, con il fiato corto e una cascata di riccioli a velarle gli occhi e il viso.

« Chi sei venuta a salutare? » La voce di Ron era severa, ma addolcita da una nota di speranza malcelata, che saettava nei suoi occhi combattendo con la rabbia cieca. Hermione si voltò con uno scatto e quando incrociò gli occhi azzurri del ragazzo non riuscì a trattenere un sospiro di sollievo. Qualcuno, nel viso dell’altro, mutò: la collera si incrinò e andò in pezzi lentamente, lasciando intravedere un altro sentimento, più morbido e conosciuto.

« Ron, non farlo » ansimò Hermione, compiendo un passo verso di lui. I suoi occhi vagarono incerti per l’accampamento, come alla ricerca di qualcosa. Quando puntò ancora una volta il suo sguardo su Ron, la sua espressione era dura e implacabile.

« Hai paura che gli succeda qualcosa? » Le sue narici si dilatarono al ritmo fremente del suo respiro.

« Non a lui, a te! » La giovane strega scosse vigorosamente il capo, nascondendo gli occhi dietro la massa di ricci ribelli che le ondeggiò attorno alla testa, e celando la sua ansia dietro la convinzione che l’amore aveva diritto ad essere disonesto e bugiardo.

Istintivamente, i suoi occhi cercarono quelli di Draco. Li trovò fermi ad aspettarli, come se non chiedesse altro che quello sguardo, da sempre. Avrebbe voluto dirgli qualcosa, Sta’ attento, aprì la bocca per farlo, Mi dispiace, ma le parole le rimasero incastrate in gola, Torna da me, impigliate negli occhi, Draco, e alla fine non disse nulla.

È che a volte le parole non bastano. E allora servono i colori. E le forme. E le note. E le emozioni. Draco l’aveva capito, per questo la guardò, con quello sguardo che era il primo ricambiato da una vita, e per questo era privo di paura e impregnato di un amore folle, inossidabile, eterno. I suoi occhi erano come mani invisibili che le sfioravano la pelle, spogliandola, amandola, adorandola come fosse una dea. Hermione non si era mai sentita così amata, prima di quel momento.

Così fa il destino: potrebbe filar via invisibile, e invece brucia dietro di sé, qua e là, alcuni istanti, fra i mille di una vita. Nella notte del ricordo ardono, quelli, disegnando la via di fuga della sorte. Fuochi solitari, buoni per darsi una ragione, una qualsiasi.

Hermione si sarebbe portata dietro quello sguardo per tutta la vita, anche se non lo sapeva ancora.

Ron chinò il capo, e per un istante Hermione ebbe la certezza che lui avesse scoperto la sua menzogna. Ma quando puntò gli occhi su di lei ancora una volta, c’era dolcezza nelle iridi chiare che aveva imparato ad amare, e poi a odiare per l’attesa, nell’attesa che lui tornasse.

« Devo andare » sussurrò piano, ma stavolta con tono morbido. « Ma ti prometto che tornerò » Lo disse con fare rassicurante, allungando una mano verso di lei come se volesse toccarla, ma ritraendosi all’ultimo con una strana luce negli occhi. Hermione corrugò la fronte, perché quell’arrendevolezza con cui lasciò che il braccio precipitasse, inerme, lungo il fianco, sembrava proprio di un uomo sconfitto, che non si sente più all’altezza di niente. Fu allora che ebbe paura, per la prima volta davvero, una paura folle e intossicante che le annebbiò la vista. Quando riaprì gli occhi, Ron era scomparso, e aveva portato con sé anche Draco.

 

***

 

Un’alba umida e agghiacciante bagnava di bagliori ciechi la foresta. La nebbia era scesa durante la notte, avvolgendo con un vapore lattiginoso forme e colori e impacchettando tutto in una distesa lattea: la neve era stemperata dal grigiore opaco di quella foschia ingiusta.

Quell’atmosfera cupa rendeva la logorante attesa dell’accampamento una pena se possibile ancora maggiore. Ogni cosa taceva, dietro il velo lattescente di quella spessa bruma: nessuno osava fiatare, e con il capo chino ognuno aspettava: un segno, un miraggio, qualcosa.

Ma Hermione era stanca di aspettare. Aspettare senza sapere era una delle più grandi incapacità delle sue vita, e lei non sopportava di essere incapace in qualcosa. Perché, nell’attesa, aveva avuto lo spazio, già prima d’allora, per costruire enormi impalcature di significato, e dieci minuti dopo farle crollare, per sua stessa mano. Poi, riprendere da un punto qualunque, correggere il tiro di qualche centimetro per rendere la costruzione immaginata più solida; salvo poi vederla crollare di nuovo. Hermione non sapeva aspettare e non voleva farlo, perché sapeva che nell’attesa i mostri prendono forma e si ingigantiscono, mangiano le ore per crescere; sapeva che alla fine l’avrebbero mangiata viva.

Era per questo che si teneva impegnata, consultando piani d’attacco e studiando difese, rivedendo stratagemmi e punti d’offesa. Dopo due giorni di silenzio e due notti privi del consolatorio abbraccio dei sogni, ancora non si era stancata di fingere che non le importasse. Solo l’occhiata ammonitrice di Ginny riuscì a riportarla sulla retta via e la costrinse a ore di assoluto e sterile mutismo.

Nessuno si aspettava un silenzio tanto lungo, semplicemente perché quel piano, studiato da un Ron troppo accecato dalla rabbia e dall’odio, era quanto di più simile a un tentato suicidio potesse esserci. Per questo Harry e Neville gli avevano dato corda, per questo all’accampamento l’attesa era tanto tetra: non è mai facile aspettare la morte.

Perciò, quando, con uno schiocco di sterpaglie strappate al letto umido della terra, Ronald Weasley si Materializzò al centro dell’accampamento, tutti trattennero il fiato. Il ragazzo fece due passi, barcollò, cadde e si rialzò. Poi, con gesti lenti e misurati, alzò lo sguardo e cercò gli occhi di Hermione.

Hermione non li dimenticherà mai: quelli sono gli occhi di un uomo. Hanno dentro rancore e goffaggine, imbarazzo e dolore, colpa e soddisfazione. Hanno dentro la risposta che Hermione sa già.

«Devo dirti una cosa, Hermione»

Ron la guardò, e per un istante fu certo della sua scelta. Perché aveva scelto il male minore, e lo aveva fatto per Hermione.

 

 

 

 

 

Per sapere a quale epoca è rimandato il prossimo aggiornamento, consultate la mia pagina:

Eloise.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo XII - Easily torn ***


12.



Easily torn

 

 

 

 

Un pigro sole faceva capolino da dietro nuvole grevi di pioggia. L’aria fredda del primo pomeriggio portava con sé profumo di temporale, ma quei raggi delicati, che lottavano per farsi strada tra la coltre pesante di nuvole cineree, lasciavano sperare un possibile miglioramento.

Il centro di Londra era come sempre frenetico, e risuonava di un brusio delicato, accompagnato dal cinguettare di alcuni passeri ritardatari e dello sfrecciare delle auto. Il ticchettio costante e rapido delle sue falcate era quasi muto, invisibile in mezzo al rumore di una città in movimento.

Camminava a testa alta, il giovane, eppure la linea sottile delle labbra era increspata in una smorfia che di sicuro non aveva nulla, se non il dolore che si intravedeva nelle iridi azzurre, scintillanti d’incertezza e malinconia. Camminava a testa alta, Ronald Weasley, ma aveva i pugni chiusi, le nocche sbiancate dalla tensione e il cuore sporco di colpa.

L’appartamento verso cui si dirigeva si trovava in un piccolo quartiere pacifico e sereno, tanto anonimo che gli era stato difficile individuarlo nel dedalo di strade della grande metropoli. Il portiere dello stabile era un anziano dal sorriso bonario che non gli fece domande quando lo vide varcare la soglia del portone, spalancato – ma forse, dipendeva dal fatto che gli aveva lanciato un silenzioso Incantesimo Confundus. Mentre saliva i gradini a uno a uno, lentamente, modulando il respiro su ritmi tenui, il ticchettio dei suoi passi risuonò tetramente nella tromba delle scale. Quando giunse al secondo piano si fermò davanti la porta con sguardo assente. Il numero ricamato sulla porta, in ottone ossidato, riluceva alla luce che filtrava dalla grande vetrata alla sua destra. La sua mano tremò appena mentre si alzava per bussare: sotto le dita, crepitava un nervosismo quasi tangibile. Il suono sordo e secco che si levò nell’aria quando le sue nocche toccarono due volte, con decisione, la superficie lignea della porta, somigliava molto a quello del suo cuore.

Quando la porta si aprì, tutto il suo corpo ebbe un sussulto. Per un istante, fu accecato dalla fortissima luce proveniente dalla finestra di fronte a lui: chiunque avesse aperto la porta, al momento era solo una sagoma, esile e minuta, bagnata d’oro dai raggi del sole. Ron socchiuse gli occhi, feriti dall’intensa e improvvisa luminosità, per cui non riuscì a vedere il sorriso tenue e sereno che scivolava via dal viso della donna, improvvisamente pallido e posseduto da un’espressione sorpresa, ma dura. Quando riuscì a riaprire le palpebre, il fremito che attraversò la sua schiena gli sfuggì dalle labbra sotto forma di un singulto.

« Che ci fai, tu, qui? » La voce di Hermione aveva la stessa morbida tonalità di quando lei aveva diciannove anni. Dietro alla severità di quella domanda, oltre l’occhiata inquieta che lei lanciò alle sue spalle, Ron vide la ragazzina che aveva amato e che, nonostante gli anni di lontananza e assenza, continuava ancora ad amare.

« Ho provato a scriverti, ma non hai risposto » Scoprì con sorpresa che la sua voce era ferma: il tremolio delle sue mani sembrava essersi fermato alle sole dita. « Devo parlarti » aggiunse in un soffio. Aveva la gola secca, ogni sillaba gli bruciava l’esofago e graffiava la trachea, dolorosa, difficile.

Hermione serrò la mascella. Le sue dita, piccole e affusolate, appoggiate allo stipite della porta, ebbero un fremito lieve che, tuttavia, a lui non sfuggì. Il suo corpo, per quanto piccolo e minuto, sembrava una barriera impenetrabile: schermava tutto l’appartamento impedendogli di guardare dentro. La donna gettò un’altra occhiata alle sue spalle e poi, dopo aver emesso un lunghissimo sospiro, fece un passo indietro per lasciarlo entrare. I suoi occhi non si staccarono mai dal viso di Ron.

L’uomo si guardò intorno, facendo il suo ingresso nel piccolo appartamento. Era caldo e accogliente proprio come l’aveva immaginato. La finestra alle loro spalle gettava una luce dorata nel salottino ordinato, arredato in modo semplice ma elegante. Tutto, lì dentro, profumava di pesca, come la pelle di Hermione, e mentre lui la guardava, per un istante, gli sembrò di tornare indietro di dieci anni. Ma era passato tanto tempo, troppo per poter anche solo pensare di tornare indietro: lo testimoniavano piccole bombe che esplodevano al tocco lieve dei suoi occhi, frantumandogli il cuore.

L’orologio maschile poggiato sulla cassettiera alla sua sinistra.

I due bicchieri di vino adagiati sul tavolino del salotto.

La giacca da uomo appesa all’ingresso.

Le lenzuola disfatte che si intravedevano oltre la porta della camera da letto.

Segni silenziosi di una vita che lei passava serenamente con un altro, quell’altro che non era lui.

Hermione era ferma, immobile, al centro del salotto. Le braccia conserte e lo sguardo fisso su di lui, lasciava trapelare un certo nervosismo dallo sguardo. Batteva ritmicamente il piede destro contro il pavimento, in attesa che lui parlasse. La fronte, increspata in una smorfia ansiosa, pareva lasciar trapelare un sentimenti indefinibile di piacere e dolore insieme.

Ron la guardò a lungo, prima di parlare, godendosi quei particolari del suo viso che gli erano sfuggiti durante quegli anni di lontananza. Intorno agli occhi, le si erano formate rughe sottili, appena visibili al di sotto dei riccioli scuri che le incorniciavano l’ovale del volto. La sua pelle sembrava morbida come sempre, al tatto, e lui dovette fare un enorme sforzo di volontà per non protendere la mano verso di lei e toccarla.

« So che quello che ho fatto è stato terribile, non mi aspetto che mi perdoni » esordì l’uomo, guardandolo negli occhi con intensità, quasi volesse trasmetterle una sicurezza e una calma che lui, in fondo, non aveva.

« Non ti preoccupare, non lo farò » La naturalità con cui lei rispose, fu un pugno nello stomaco. Hermione aveva lo sguardo fermo su di lui e la voce dura, eppure la sua espressione tradiva in un certo senso l’idea di rigidità che la sua posa, invece, donava, e quella, più dolorosa, di inflessibilità che la sua voce gli comunicava. Forse, fu proprio il baluginio vivo degli occhi a convincerlo a restare.

Ron aprì la bocca per ribattere, ma un’altra voce, maschile e roca, che lui conosceva fin troppo bene, gli fece morire le parole sulle labbra. Prima ancora di poter vedere la luce di una possibile redenzione, quell’unica domanda fece sprofondare il suo cuore in un’agonia di dolore senza fine.

« Che ci fa lui qui? » L’acredine con cui Draco Malfoy marcò quel pronome rispecchiava perfettamente la smorfia d’astio puro del suo viso. Era più pallido di come lo ricordava, e cominciava a stempiarsi, ma in fondo, era assolutamente simile al ragazzino arrogante che aveva visto per l’ultima volta dieci anni prima al funerale del suo migliore amico. I capelli biondissimi erano incollati sulla testa, e dalle ciocche sulla nuca scivolava ancora qualche goccia d’acqua, segno che era appena uscito dalla doccia. Indosso, aveva solo un paio di pantaloni dal taglio elegante e l’aria costosa, quel genere di abbigliamento che lui non si sarebbe mai potuto permettere.

« Voleva parlarmi » Dato che lui era ammutolito, Hermione rispose al posto suo. Mentre i suoi occhi scuri si posavano sul biondo, scorrendo con una certa disinvoltura sul suo corpo liscio e mezzo nudo, ancora inumidito dalla doccia, la sua espressione si ammorbidì in maniera così evidente che Ron fu costretto a chinare il capo, ferito e colpito dalla spiacevole sensazione di essere di troppo, in quella casa. Si sentì un estraneo, colto in flagrante mentre spia una scena intima, e personale. Quello sguardo era intimo e personale, e lui non potè fare a meno di pensare che un tempo quei occhi erano solo suoi, e che lo sarebbero potuto essere per sempre, se solo non fosse stato così stupido e avventato.

« Parlarti di che? » Lo sguardo di Draco si spostava da lui a Hermione, in un alternarsi d’emozioni e sentimenti incredibilmente  percepibili.

« Del terribile errore che ho fatto » Ron piantò due enormi occhi azzurri sul volto di Malfoy, con una decisione che sorprese prima di tutto se stesso. Sostenne il suo sguardo con fierezza, tentando di scacciare la spiacevole sensazione d’essere in torto e di non avere alcun diritto di guardarlo in quel modo.

« Voglio essere sincero con te. Sono indeciso se strozzarti a mani nude oppure prendere la bacchetta e lanciarti una Maledizione Senza Perdono » La voce di Draco era pacata e bassa, un sibilo strisciante che pareva distillato nell’odio.

« Ero giovane, non sapevo cosa stavo facendo » cercò di giustificarsi Ron, cercando con lo sguardo Hermione, come sperando di trovare un appiglio, in lei. Ma quella ragazzina che lui aveva amato non esisteva più: il volto della donna che ora lui guardava era scivoloso e sfuggente. Dietro il movimento di ciglia con cui lei abbassò lo sguardo, c’era tutta l’intenzione di non schierarsi da nessuna parte, per non ferire nessuno dei due.

Quanto era cambiata? Quanto lui l’aveva cambiata?

« Giovane? Quanti anni bisogna avere per capire la differenza tra giusto e sbagliato? » Draco fece un passo verso Ron e si fermò ad appena un metro da lui. Il suo corpo era proteso verso di lui, e sembrava sul punto di picchiarlo davvero: tremava e sussultava, trattenendo l’ira tra i denti come un animale dentro una gabbia, che lotta e scalpita per uscire. Si calmò solo quando Hermione poggiò sulla sua spalla una mano, tiepida e piccola, minuta e rassicurante. Allora, con un ultimo sguardo feroce, lui sbuffò e gli voltò le spalle, sparendo a grandi passi dietro una porta.

Hermione seguì quella ritirata con lo sguardo, poi emise un sospiro e tornò a guardare Ron.

« Adesso è meglio che tu vada » Dentro i suoi occhi, l’uomo riuscì a leggere un barlume di tenerezza, come un briciolo di freddezza sfaldata e crollata sul pavimento. Un pezzo della sua armatura aveva ceduto il passo a una lama di luce che lui accolse senza nessuna speranza, consapevole che quell’incontro era stato sterile quanto la guerra che l’aveva provocato.

Mentre voltava le spalle al suo primo e unico amore, Ron non poté fare a meno di pensare alla misteriosa circostanza per cui le cose del nostro passato continuano ad esistere anche quando escono dal raggio della nostra vita, e anzi maturano, portando frutti nuovi ad ogni stagione, per un raccolto di cui non sappiamo più nulla. Non potè fare a meno di pensare alla persistenza illogica della vita.

 

***

 

Marzo del 2000

 

Era un’alba vuota, quella della vittoria. Nessuno esultava, perché ognuno era chino su un cadavere. Fratelli, genitori, amici: tutti avevano perduto qualcuno, in quella guerra senza clemenza e senza giustizia. E persino la sconfitta del più malvagio mago di tutti i tempi aveva avuto un prezzo troppo alto per poterlo sopportare.

Quando Hermione aveva guardato Ron negli occhi aveva capito subito che la verità delle sue parole le avrebbe fatto troppo male per poterla accettare, ma non avrebbe mai creduto di diventare incapace di provare sentimenti. Ma era successo, e dal giorno di quella battaglia maledetta non era passata una sola ora senza che lei piangesse, dentro di sé, lacrime amare. Per non esserci stata nel momento del bisogno. Per aver abbandonato, ancora una volta, il suo migliore amico. Piangeva in silenzio, Hermione, senza che un solo muscolo del suo volto si muovesse, senza che una sola lacrima bagnasse il suo viso. La sua punizione era un’apatia invisibile, nascosta sotto strati di sentimenti e buone intenzioni che erano tutte false.

Fino al suo arrivo.

 

Draco avrebbe riconosciuto il suo profilo tra mille. Illuminata dolcemente dalla luce metallica di un ospedale asettico e troppo colmo di gente, la linea dritta del naso piccolo e la curva morbida delle labbra erano un invito a cui lui non poteva rinunciare. Si avvicinò a lei con passi che non avevano tempo, e accostò il suo volto affilato e pallido, ancora provato dalla recente operazione subita, alla chioma ribelle. I ricci sparsi e disordinati della ragazza gli solleticarono gli zigomi nivei. Profumava di pesca, e lui si sorprese nel rendersi conto di conoscere già quell’odore.

Hermione non si mosse quando avvertì quel corpo solido contro di lei. La sua schiena si tese e le sue spalle si irrigidirono con un fremito, ma non diede segno di essere disturbata da quel contatto, come se lo conoscesse, o aspettasse, da tempo.

« Ti amo da quando ho undici anni » La voce di Draco era un sussurro sottile, appena udibile nonostante la distanza esigua che intercorreva tra di loro. Le labbra del fu Serpeverde sfioravano l’orecchio di Hermione, lambendolo dolcemente con quelle parole di miele che aveva trovato il coraggio di dire solo allora. Era una fortuna che non fosse già troppo tardi. « Non sono mai riuscito ad ammetterlo, perché tu sei… » sospirò, e il suo fiato caldo solleticò il collo della giovane, che però rimase in silenzio. Strinse appena le labbra, consapevole che la stoccata che stava per giungere l’avrebbe ferita, ma che lei avrebbe reagito con il fiero distacco di sempre «… troppo, per me »

Il sospiro con cui Hermione rilassò le spalle sembrò convincere Draco che poteva continuare.

« Ho cercato di sopprimere il mio sentimento fin quando ho potuto, ma alla fine è diventato così forte che ho rischiato di impazzire » Un’altra pausa, più lunga delle precedenti. Hermione sentiva la bocca di Draco sul suo orecchio, aprirsi e chiudersi senza emettere alcun suono. Il suo corpo, solido e sottile, contro la sua schiena, tremava appena, scosso da un fremito d’emozione che cominciava a pervadere anche lei. « Io non ti chiedo niente » Il sussurro del giovane sembrava provenire da una distanza inarrivabile, percorsa fino all’ultimo metro, e giunta con una sconfitta esausta e stanca. « Tutto quello che di bello ho avuto dalla vita è stato il mio amore per te. Lo so che è troppo-»

Non riuscì mai a finire. La bocca di Hermione era già premuta sulla sua.

Questa volta, Ron non ebbe nulla da obiettare mentre guardava il suo unico amore sfuggirgli dalle dita. Strinse convulsamente il pugno, consapevole che Hermione era già lontana.

 

 

 

 

 

 

Eloise.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** XIII - Not easily mended ***


13.





Not easily mended





 

« Così fu quell’amore

dal mancato finale:

così splendido e vero

da potervi ingannare »

[ Dolcenera – Fabrizio De Andrè ]

 

 

 

 

 

Febbraio del 2000,

Foresta di Dean

 

Gli incantesimi fischiavano sopra le loro teste, e, per errore umano o deficienza tecnica, spesso addosso alle teste – il cosiddetto fuoco amico. Così si moriva di piombo patrio. In un frastuono scioccante, gli uomini rimanevano abbandonati ai loro pensieri, costretti a trascorrere nella passività più assoluta quelli che in molti casi erano gli ultimi istanti della loro vita.

In quell’orgia di morte, c’era chi combatteva e chi scappava.

Ron lottava per un amore che gli stava sfuggendo dalle dita troppo velocemente, e che voleva fermare con un atto eroico che poi gli sarebbe costato il cuore.

Harry lottava per dare al suo amore un mondo degno.

Neville lottava per giustizia.

Voldemort, per vendetta.

Draco non lottava più, perché il mondo aveva finito di esistere quando gli occhi di Hermione erano scivolati via dai suoi. Non lottava perché sapeva qual era il suo destino, e qual era la cosa giusta da fare: la sua morte avrebbe liberato quel mondo, e lei. E quindi correva, Draco, occhi grigi e cuore in gola. Correva per non guardarsi dentro, per non vedere un vuoto che fa paura.

E, a un universo di distanza, anche se lui non lo sapeva, correva, Hermione, sguardo spento e cuore grande. Correva per riempire quel vuoto e non avere più paura.

 

***

 

« Va tutto bene, signor Weasley? Vuole fermarsi un attimo? »

La giornalista guardò l’uomo anziano di fronte a lei con cipiglio impaziente, il sopracciglio inarcato in una smorfia di fastidio che a lui non sfuggì.

Ron tornò al presente con uno sbuffo di fastidio, sbattendo le palpebre e mettendo a fuoco la donna con le labbra strette in un’espressione molto simile alla sua.

« Sì. No » borbottò, la voce arrochita da una vecchiaia precoce che non aveva risparmiato il suo corpo né la sua mente. I capelli rossi che un tempo lo marchiavano come appartenente alla famiglia Weasley erano scomparsi, risucchiati dal cranio lucido su cui erano comparsi i segni della vecchiaia: macchie di sole e una ragnatela di rughe sottili che si estendeva su tutto il suo viso e lo rendevano più simile a una vecchia tartaruga. Però, al di sotto delle palpebre cadenti e delle folte sopracciglia grigie, i suoi occhi azzurri rilucevano ancora d’una luce viva e intelligente.

« Ci stava raccontando del suo ultimo incontro con la Granger e Malfoy. Di come ha chiesto loro scusa » La donna poggiò le lunghe dita affusolate sul ginocchio, velato da collant leggeri e sottili che lasciavano intravedere la gamba ossuta, lasciata scoperta dalla gonna aderente ma corta che indossava. Le unghie erano laccate di uno smalto grigio scuro che si intonava al colore dei suoi occhi e Ron si concentrò solo su quel particolare, che suscitava in lui ricordi dolorosi. Ricordi che era lì per riesumare, una volta per tutte.

 

***

 

Ron guardò dentro quegli occhi grigi, e sorprendentemente non vide paura, ma attesa. Immobile di fronte a Draco Malfoy, con il fiato corto e la bacchetta stretta tra le dita, si era persino dimenticato che stavano combattendo una guerra e che i suoi amici avevano bisogno d’aiuto. Era accecato da una rabbia personale e non più segreta, che lampeggiava dagli occhi chiari e che gli aveva impedito di ignorare quella fuga.

« Fallo » ringhiò Malfoy, squadrandolo dall’alto in basso. A differenza dell’altro, non aveva una posizione di guardia. Le braccia abbandonate lungo i fianchi e l’espressione fiera e dignitosa di un Purosangue, sembrava non stesse aspettando altro che il colpo mortale che l’avrebbe finalmente liberato dal peso opprimente di un amore scomodo e mai voluto. « Non aspetti altro, lo so. È per questo che mi hai portato qui, no? » Il ghignò che gli disegnò le labbra sottile era tanto inquieto quanto malvagio. Era un ghigno assolutamente da Malfoy, ma Ron non poté fare a meno di intravedere un lampo di paura, in quegli occhi grigi che continuava a fissare.

«» lo ammise con naturalezza, sibilando quell’unica sillaba con odio marcio. « Ma se lo sapevi… perchè sei qui? » domandò, ancora in quella posa da combattimento, il corpo leggermente piegato e proteso verso di lui e la bacchetta puntata dritta verso il suo petto. « Cosa vuoi dimostrare? » Il petto si gonfiava rapidamente al ritmo sordo di un respiro irrequieto, e quell’ultima domanda, una pretesa che non avrebbe accolto risposte a metà, venne soffiato via con tutta l’arrendevolezza di un addio.

Draco espirò pesantemente e scosse il capo, abbassando lo sguardo per un istante.

« Non voglio dimostrare nulla. Se sono qui, è per pura vigliaccheria » Draco strinse i pugni, tanto forte da conficcare le unghie nella pelle bianchissima di quelle mani affusolate, un tempo delicate, ora costellate di cicatrici e calli, segno di una vita non più tanto agiata. « Ho sperato fino all’ultimo che lei fosse mia. Ma quando è arrivato il momento… » La mascella si irrigidì d’improvviso. Ron vide passare su quel viso appuntito e pallido tutta la fatica di quel momento. « ho avuto paura » L’ammissione di Draco era un sussurro tenue, appena udibile al di sotto dei fischi degli incantesimi e degli scoppi della guerra, poco distanti.

« Paura dei tuoi sentimenti » Il giovane Weasley si sentì in dovere di completare per lui, stringendo maggiormente la presa sulla bacchetta, come avesse avuto la conferma che attendeva e si apprestasse a portare a termine il suo scopo. Contro ogni aspettativa, però, alle sue parole, Draco Malfoy rise. Di una risata vuota, colma di amarezza e colpevolezza insieme.

« No » Gli occhi grigi di Draco incontrarono quelli azzurri di Ron con intensità. Lo sguardo profondo che gli rivolse era sincero e limpido. « Ho avuto paura di non avere più il coraggio di morire »

 

***

 

Ronald Weasley era un uomo stanco e disilluso, la cui vecchiaia, grigia e cupa, era trascorsa nella solitudine di un esilio volontario, spezzato solo dalle parole dei suoi libri.

Dopo la guerra, Ron aveva cominciato a scrivere. Prima, erano solo lettere, destinate all’unico, grande amore della sua vita. Lettere mai spedite, che Hermione non aveva mai ricevuto, né avuto la possibilità di leggere. Poi, racconti. Infine, il romanzo che aveva segnato il suo successo, consacrandolo a una vita di agi e ricchezze. Qualcosa che non aveva mai avuto ma che aveva sempre desiderato, e di cui ora, davvero, non sapeva cosa farsene. L’aveva capito quand’era troppo tardi, già esule in un mondo che non lo voleva da tempo. Quando quell’incantesimo aveva spezzato una vita di troppo, e il vortice dell’ingiustizia, della violenza e della colpa, era stato troppo violento per poterlo fermare.

« Nella commedia della vita non ci sono prove prima della recita: la prima stesura è sempre quella definitiva, e ogni gesto, ogni parola assume un carattere conclusivo. » La sua voce era roca e stanca, sembrava provenire da baratri profondi del suo essere, abissi mai esplorati. « Le responsabilità non si possono cancellare » Una pausa. Ron chiuse gli occhi e chinò debolmente il capo in avanti, traendo un lungo, profondo respiro. Per un attimo, sembrò che dormisse. La giornalista si mosse nervosamente sulla sua sedia, sporgendosi con leggerezza verso di lui, fingendo con un gesto disinvolto di volersi mettere semplicemente più comoda, quando in realtà stava solo controllando quel vecchio strambo. « Ci sono pregiudizi più forti della generosità magnanima con cui Hermione ha accolto Malfoy al nostro accampamento. C’è un'immaginazione, la mia, più forte di qualunque dubbio » Ron riaprì gli occhi e li puntò, con severa precisione, su quelli, confusi e perplessi, della giornalista. Lei sbatté le palpebre e sostenne con fermezza quello sguardo, ma sul suo viso c’era una traccia di timore appena percepibile, difficile da nascondere del tutto. « Poi è stato troppo tardi per fermare la macchina dell’ingiustizia. La guerra è arrivata a spazzare via il vecchio mondo con le sue rassicuranti ipocrisie, e durante la ritirata Draco Malfoy ha dovuto fare i conti con gli orrori della violenza, e con una voglia di vivere sconcertante. La voglia di realizzare il sogno d’amore che gli è stato rubato. Da me » Il sospiro con cui Ron pronunciò quelle ultime sillabe aveva qualcosa di terribilmente lapidario, di conclusivo. Infatti, dopo quell’ultima affermazione tacque, e la giornalista non ebbe il coraggio di domandargli cosa tutto quello che aveva appena detto significasse. Si limitò a tacere, e questo consentì all’anziano uomo di lasciar correre, ancora una volta, i suoi pensieri a briglia sciolta.

 

***

 

« Tutta la vita che mi resta è il terrore di morire » La voce di Draco tremò per un attimo. Ron pensava che la sua confessione si fosse conclusa con quell’ultima affermazione, che l’aveva lasciato tanto sconcertato quanto confuso, ma c’era qualcosa sul viso dell’altro che gli impedì di controbattere, in un primo momento.

« Perciò fallo, avanti! » urlò forte, questa volta, spalancando le braccia come se volesse invitarlo ad un abbraccio. In un certo senso, era così, ma non stava invitando lui, ma la dolcezza di una morte che aspettava con fin troppa ansia.

Ron serrò la presa sulla bacchetta, ma non sembrava ancora intenzionato a pronunciare l’incantesimo fatale.  Nell’arrendevolezza di Draco c’era qualcosa di sbagliato, e infinitamente altruista.

« Ti svelerò un filtro potentissimo, senza formule magiche né unguenti: se vuoi essere amato, ama » pronunciò quelle parole a bassa voce, come se fossero il canto del cigno di un uomo che, lui lo sapeva, non aveva meritato quella vita e meritava quella morte. Per mano sua, perché gli aveva strappato un amore che lui non avrebbe mai potuto capire.

Era cieco, Ronald Weasley, in quel momento. Era un ragazzino geloso e impulsivo che non riusciva a vedere la grandezza di quel gesto, seppur ne intravedesse un lembo. Perciò alzò la bacchetta, la puntò sul suo petto e aprì la bocca per pronunciare quella maledizione, temuta, odiata, ora preziosa alleata.

Ma nell’aria risuonò una voce che non era la sua, un incantesimo che non era quello che lui aveva pensato. E un attimo dopo, Draco Malfoy giaceva a terra riverso in una pozza di sangue, gli occhi grigi in orbite vuote, lo sguardo spaurito e le labbra livide.

 

***

 

« Perciò ho scritto. Perciò ho voluto raccontare, nel mio ultimo romanzo, “Espiazione”, questa storia: quella di Draco e Hermione. Che poi, è anche la mia »

Il viso della giornalista si aprì in un sorriso di compiaciuta soddisfazione. Il dubbio dei suoi occhi si diradò e lei annuì convinta, certa di aver centrato il punto della situazione, salvo poi ricredersi quando l’uomo riprese la parola.

« Ma l’effetto di tutta questa sincerità era così disumano che non riuscivo davvero più a immaginare quale ne sarebbe stato lo scopo » Ron assottigliò gli occhi, come se si stesse sforzando di mettere a fuoco qualcosa. La fronte, macchiata dalle tracce dell’età e segnata da rughe d’esperienza, si corrugò appena.

Lo stesso fece quella della giornalista, più bianca e distesa perché lei era ancora nel fiore degli anni.

« Della sincerità? » domandò, un po’ incerta, sporgendosi appena verso Ron per cercare di incrociare il suo sguardo, al di sotto delle palpebre cadenti e delle sopracciglia folte.

« Della sincerità » L’uomo annuì, schioccando le labbra mentre ripeteva quella parola, il cui sapore non aveva ancora identificato, nonostante gli anni passati a ricercarne il significato. « O della realtà » ammise poi, perché si rese conto che in effetti quella parola sarebbe stata più esatta. Fece una breve pausa, durante la quale respirò a fondo. Il torace si espanse, accogliendo aria fredda, come un coltello nei polmoni. Sapeva che era arrivato il momento di dire la verità: era per quel motivo che aveva accettato l’intervista. « Perché, in effetti, io fui troppo vigliacco per andare da Hermione, quel giorno »  Lanciò la bomba e poi tacque un istante, perché quell’ammissione gli era costata più di quanto lui stesso osasse immaginare. Parole che fluirono con fatica dalle sue labbra, lasciandogli la bocca impastata e la gola secca. Con la coda dell’occhio, vide la giornalista accigliarsi, perciò si apprestò a proseguire, prima che lei lo interrompesse. Prima che fermasse il fluire libero dei suoi pensieri e delle sue colpe, quella voglia di confessione che aveva il diritto e il dovere di concludere. « Non andai mai da lei, quindi la scena in cui le parlo è immaginaria. È inventata » La bomba esplose sul viso della giornalista, le cui sopracciglia si inarcarono tanto da scomparire al di sotto della frangetta bionda che le velava la fronte. La sua bocca piena, tinta di un rosso acceso, si arrotondò in un’espressione stupita.

Era il momento. Lo sapeva, lo aveva aspettato da anni, dal giorno di quella battaglia maledetta.

« E infatti non sarebbe mai potuta accadere. Perché… » espirò stancamente, non per prendere fiato ma per darsi forza. « Draco Malfoy morì per mano di un Mangiamorte, il giorno di quella battaglia. E io non ebbi mai la possibilità di chiarire con Hermione, perché lei rimase uccisa quello stesso giorno, poche ore più tardi, in un agguato all’accampamento »

Silenzio. Il silenzio vuoto e assordante di una verità a lungo taciuta. Draco e Hermione erano stati fantasmi presenti nella sua vita per troppo tempo; era giusto liberarli, dare un congedo degno a quelle due anime che lui aveva impedito di amarsi. Nel momento stesso in cui lo disse, avvertì una leggerezza mai percepita prima. E seppe, con assoluta certezza, che i due amanti erano liberi, adesso.

« Così, Hermione e Draco non riuscirono mai a passare del tempo insieme, come avrebbero desiderato e meritato, come da allora io ho sempre sentito di aver impedito » La voce di Ron, già roca e tramante, si spezzò. Nonostante la consapevolezza che quella verità doveva essere rivelata, il dolore era ancora troppo forte, troppo vivido. Erano passati tanti anni, ma la sofferenza era stato un vulcano attivo, in costante eruzione, per tutto il tempo.

« Ma allora… » La giornalista sembrava sinceramente confusa, tanto che si guardò intorno, come a voler cercare nei presenti un aiuto, un appiglio. « Perché nel suo romanzo ha scritto che i due amanti si ricongiungono? » Le dita affusolate della donna si artigliarono ai braccioli della poltrona di velluto su cui lei si era accomodata all’inizio dell’intervista. Ron abbassò ancora una volta lo sguardo su quello smalto grigio scuro, un colore del tutto diverso da quello degli occhi di Draco, così nebulosi e torbidi che capirli sarebbe stato impossibile. Lo era stato, per lui, che solo nella vecchiaia e nella solitudine aveva avuto il tempo di maturare e comprendere cosa davvero fosse l’amore – cosa fosse quell’amore in particolare, soprattutto.

« Ho voluto dare loro quello che avevano perso nella vita » spiegò con semplicità, come fosse la cosa più ovvia del mondo. Un tenue sorriso gli arricciò le labbra sottili, tese al di sopra di gengive quasi vuote. « Non è stata debolezza, o evasione, ma un atto finale di gentilezza. Io ho restituito a Draco e Hermione la giusta felicità »

 

***

 

Ron si piegò sul corpo di Draco, con la fronte corrugata dall’orrore. Non osò sfiorare le ferite grondanti di sangue, che macchiavano i vestiti lerci e sudici. La pozza scarlatta in cui il ragazzo era riverso continuava ad allargarsi sempre di più, e tutto ciò che lui riusciva a fare era guardare quella purezza abbandonare il suo corpo, pallido e stranamente minuto, in quella posizione da bambola abbandonata.

Draco boccheggiò, le labbra spalancate nel tentativo di far entrare aria nei polmoni bucati da una maledizione crudele. Sembrava stringere tra i denti parole troppo gelate perché si potessero sciogliere al sole. Aprì e chiuse la bocca più volte, nel tentativo di esprimere ciò che aveva dentro.

« Io lo sapevo che in questa guerra sarei morto » La sua voce era un sussurro fievole, distante, sembrava provenire da un tempo e un mondo diverso. Un mondo felice, lo stesso che lui, poi, molti anni più tardi, avrebbe dipinto nel suo romanzo. « Io volevo morire, per liberarmi della maledizione di un amore mai voluto » Draco chiuse gli occhi. Ogni parola sembrava una fatica immensa, per lui. « E invece non avevo capito che tutto ciò che dovevo fare, era carpire l’ultimo raggio di bellezza della vita, prima della fine. E l’ho fatto » Draco Malfoy riaprì gli occhi e sorrise. Le iridi grigie si puntarono verso il cielo, e Ron vide riflesse, in esse, le nuvole cineree di un cielo che esisteva solo dentro quel ragazzo morente. Una lacrima sfuggì dall’angolo dell’occhio destro, gli accarezzò la tempia e scivolò in basso, precipitando nel vuoto fino al suolo.

Così morì Draco Malfoy, con il sorriso sulle labbra e gli ultimi battiti del cuore rivolti alla donna che aveva sempre amato. La fissità dei suoi occhi era tanto macabra quanto bellissima, perché nell’eternità della morte il suo volto si era fermato, per sempre, nel sorriso dell’accettazione. Quando era diventato adulto, sulla soglia della morte, Draco aveva capito che Hermione non era solo ergastolo, ma soprattutto espiazione. Quando era morto, Daco aveva trovato la pace di un cammino senza uscita.

 

***

 

Lo studio in cui Ronald Bilius Weasley, nei suoi ottantanove anni pregni di dolore e colpa, aveva srotolato quella storia smerigliata e perfetta, salvo poi inquinarla con la confessione finale che era tutto falso, inventato, era avvolto da un silenzio muto. La giornalista che lo aveva intervistato lo fissava con un educato distacco, cercando, sul suo volto, una minima traccia di menzogna, o forse di follia, per spiegare l’assurdità di quella realtà che, davvero, non riusciva ad accettare.

C’era qualcosa di incredibilmente sbagliato nella versione reale di una verità a lungo taciuta e che riemergeva ora, dopo anni, chiedendo un tributo da pagare. Eppure, c’era qualcosa di terribilmente giusto, anche. Dentro quello studio, con le tende pesanti che filtravano la luce e i quadri curiosi appesi alle pareti, ma ancora di più nello sguardo finalmente vivo di quell’anziano la cui mano tremava al solo ricordo di ciò che stava rivivendo dentro di sé, c’era qualcosa di più sottile, e mentre la giornalista rammentava immagini che non aveva mai vissuto in prima persona perché troppo giovane per ricordare una guerra che aveva avuto la fortuna di non vedere, entrambi lo capirono: quello che sembrava, davvero, incredibile e atroce era che sembrava tutto troppo bello. C’era un’ipertrofia irragionevole di esattezza simbolica, di purezza del gesto, di spettacolarità, di immaginazione. Nell’immagine di quei due amanti che solo durante la guerra capiscono il loro amore, e che però non riescono a viverlo appieno perché la vita strappa loro la possibilità di un’esistenza felice insieme, c’è troppa maestria drammaturgica, troppa finzione. Una finzione che non si ritrovava nemmeno dentro le pagine scritte di quel libro a cui Ronald Weasley ha dedicato la sua intera esistenza. La Storia non era mai stata così. Il mondo non aveva mai avuto il tempo di essere così. La realtà non va a capo, non concorda i verbi, non scrive belle frasi. Noi lo facciamo, quando raccontiamo il mondo. Ma il mondo, di suo, è sgrammaticato, sporco, e la punteggiatura la mette che è uno schifo.

Se ne resero conto entrambi, nello stesso momento, con sgomenta sorpresa.

« Perché la storia che vedo è così perfetta? Perché è già perfetta prima che la racconti lei, nello stesso istante in cui accade, senza l’aiuto di nessuno? » La domanda della giornalista era, per la prima volta, priva di pregiudizi. Lo sguardo di compatimento con cui lei fissava il vecchio dall’inizio dell’intervista era stato sostituito da un reverenziale rispetto che rasentava l’adorazione, e Ron non tardò ad accorgersene. Chinò il capo, emettendo un lungo sospiro sordo. Tacque per lunghi minuti, e la donna credette semplicemente che stesse cercando una risposta, dentro di sé, una ragione, un motivo, qualsiasi cosa giustificasse l’assurda bellezza di quel pezzo di storia.

« Insomma, è come… come un libro. La storia che lei ha appena raccontato, quella vera… » La giornalista sentì l’impellente bisogno di riempire quel silenzio vuoto. Il suo cuore in tumulto non giustificava l’aspettativa o l’urgenza con cui pretendeva una risposta. « Draco e Hermione che muoiono, l’uno per l’altra, in una guerra ingiusta, senza avere il tempo di condividere nemmeno un attimo della loro vita insieme. E lei lo ha fatto accadere, è così, giusto? È per questo che ha scritto questo romanzo, Espiazione » La donna allungò la mano ben curata. Le sue dita, laccate dello smalto grigio scuro, si chiusero attorno alla copertina di cartone di quel libro, e Ron ebbe come l’impressione che la sua mano creasse una morsa attorno al suo cuore.

Si aspettava una frase del genere, e nemmeno lo ferì.

È per questo che ha scritto questo romanzo?

« Dicono che il sacrificio sia la misura dell’amore » Ron non rispose, perché aveva già dato la sua spiegazione, che ancora non era nemmeno esatta, o completa, per meglio dire. « Se è così, allora adesso capisco che lui la amava davvero, come io non avrei mai saputo fare » Schioccò le labbra con un moto di fastidio che sorprese persino se stesso.

« Ma lei non lo ha mai saputo, vero? Lei non ha mai permesso ad Hermione di sapere la verità su quell’amore. Lo ha solo potuto immaginare, avvertire sulle labbra con quel bacio fugace, ma poi… » Sembrava esserci cattiveria, nell’insinuazione della giornalista. Tuttavia, sul suo volto non c’era traccia di malvagità: al momento, quel bel volto, giovane e nel pieno della vita, pareva solo curioso, ansioso di conoscere la verità di un amore che aveva sconfitto perfino la guerra, uscendone ammaccato ma in fondo vincitore, perché aveva superato il tempo e le avversità e aveva potuto vivere la sua bellezza nella finzione di un libro.

« Si sbaglia »

 

***

 

L’attesa della fine era quanto di più logorante e insopportabile lei potesse immaginare. Hermione non riusciva a darsi pace. Da quando aveva visto gli occhi grigi di Draco scomparire nel buio di un’alba spietata, la giovane strega non era riuscita a fermarsi un attimo. La sua mente lavorava al ritmo incessante di una fantasia divorante e crudele quanto quella guerra per cui stavano combattendo, e nulla era riuscita a domare il suo senso d’angoscia, quell’indefinita sensazione che c’era qualcosa di lasciato in sospeso, nella sua vita.

Non lo capì fino a quando non entrò nella tenda di Neville. Nella penombra di quel padiglione, tutto sembrava muto e immobile. C’era una pace palpabile, piacevole quasi. Era tutto esattamente come lui l’aveva lasciato, come lei ricordava: il disordine, l’odore di muffa e terra, la brocca d’acqua accanto alla branda sfondata. E poi, nel buio, quel bagliore lattescente, l’iridescenza di un ricordo destinato a sfiorire, a essere perduto, ma che lei, per caso o per fortuna, aveva trovato, prima della fine.

Hermione aveva già visto un ricordo, prima d’allora. Lo riconobbe subito, con una sorpresa sgomenta e incerta. La bottiglia dentro cui galleggiavano quei fili d’argento era opaca, macchiata di fuliggine e polvere, ma il chiarore e la bellezza di quella luce era palese persino nel buio. La raccolse con dita esitanti, sfiorando il vetro smerigliato e spento con ossequio. Notò solo in un secondo momento il lembo di pergamena stropicciato e sporco su cui Neville aveva appuntato, con la sua grafia imprecisa, da ragazzino cresciuto troppo in fretta, un’unica parola.

Guardalo.

 

***

 

« Non amava Draco. Non era innamorata di lui, non avrebbe mai potuto esserlo » Ron parlava con voce stanca e antica. In quella voce tremula, corrotta dalla vecchiaia e dal dolore, la giornalista riuscì a riconoscere la traccia invisibile della rabbia e del rancore, una sfumatura leggera, una tinta opaca che lui aveva cercato di coprire con colpi di vernice decisi ma imprecisi. « Ma si era innamorata di quello che ha visto. Di quei ricordi che Neville le ha regalato, perché l’amore di Draco Malfoy non andasse perduto. Perché lei sapesse quanto era puro, quel sentimento. Per redimere la vita di un ragazzino arrogante che non aveva meritato nulla, nella vita, ma che era riuscito a meritare lei, alla fine » Non si capiva se provasse più collera nei confronti di Draco, di Hermione, o di Neville. Sembrava aver accettato quell’amore, la sostituzione feroce con cui la donna della sua vita lo aveva rimpiazzato, ma ora, in quell’attimo, la giornalista si rese conto che il dolore della perdita era ancora vivido in lui. « Hermione si era innamorata dell’amore che Malfoy provava per lei ».

La giornalista si passò la lingua sulle labbra rosee e piene, abbassando lo sguardo con un movimento di ciglia e tacendo per un attimo.

« Allora, l’Espiazione di cui parla nel suo romanzo… è quella di Draco Malfoy? È riuscito, con il suo amore, a redimere i peccati di una vita? » domandò con cortesia, puntando gli occhi scuri sul viso dell’anziano. Ron non ricambiò quello sguardo, però: le sue iridi, velate da un’ombra opaca che pareva il riflesso della sua vecchiaia ma era, in realtà, solo il riflesso doloroso del ricordo, erano fisse in un punto non ben precisato della sua mente.

« Sì » annuì l’uomo, con voce roca. « Ma è anche la mia, di espiazione » Una pausa. Un respiro profondo, come per farsi forza. « Il problema, in questi anni, è stato questo: come può uno scrittore espiare le proprie colpe quando il suo potere assoluto di decidere i destini altrui lo rende simile a Dio? Non esiste nessuno, nessuna entità superiore a cui possa fare appello per riconciliarsi, per ottenere il perdono. Non c’è nulla al di fuori di lui. È la sua fantasia a sancire i limiti e i termini della storia. Non c’è espiazione per Dio, né per il romanziere, nemmeno se fossero atei »

 

 

***

 

Quando Hermione riaprì gli occhi, si accorse, senza riuscire a provare stupore per questo, che stava piangendo. Le ci vollero diverse ore per venire a patti con una realtà che aveva in fondo già intuito, ma che vedere con i suoi occhi, in modo così incontrovertibile da diventare vero, aveva provocato in lei sentimenti contrastanti.

Uscì dalla tenda di Neville con passi lenti, senza rendersi conto che le sue mani tremavano. Neville si sarebbe sempre rimproverato quel particolare – le mani di Hermione che tremano, tanto da non riuscire a tenere saldamente la bacchetta; per sempre, si sarebbe pentito di quell’attimo in cui aveva depositato quei ricordi sul tavolo cigolante di una tenda ammaccata, esattamente come Ron si sarebbe poi pentito di un gesto fatto con gelosia e cattiveria, ma nell’innocenza – nell’illusione – del giusto.

Solo lo schiocco della Materializzazione di Ron riuscì a riportarla alla realtà, ma era una realtà talmente finta e distante, avvolta dalla nebbia vorace del dolore e dell’angoscia, che lei non la percepì distintamente. Era una percezione intermittente, una sequela di immagini fisse e mozziconi di cose perdute, cancellate, mai arrivate ai suoi occhi. Una percezione sincopata. Solo alcuni sprazzi di quella concretezza che sembrava un sogno le giunsero agli occhi: non il sangue che imbrattava i vestiti del suo migliore amico, ma il respiro spezzato che gli squassava il petto; non le urla spaventate intorno a sé, ma il tremore delle sue mani; non le urla di avvertimento di Ginny, ma gli occhi di Ron.

Hermione non li dimenticherà mai: quelli sono gli occhi di un uomo. Hanno dentro rancore e goffaggine, imbarazzo e dolore, colpa e soddisfazione. Hanno dentro la risposta che Hermione sa già.

«Devo dirti una cosa, Hermione»

Fece appena in tempo a sentire quelle parole. Poi, Hermione non sentì più nulla.

 

***

 

« È caduta a terra con la stessa leggerezza con cui ha vissuto » La voce di Ronald Weasley era secca, antica, sembrava provenire da un momento a lungo dimenticato. « Mi piacerebbe poter dire che aveva sulle labbra lo stesso sorriso di Draco Malfoy, ma sarebbe una menzogna. Non credo che abbia provato dolore, non si è nemmeno accorta di quella Maledizione arrivata alle sue spalle all’improvviso, ma non aveva raggiunto la pace dell’accettazione, e non era ancora pronta ad andare via, questo lo so » Il respiro che gli gonfiò il petto, anche se nessuno poteva saperlo, era del tutto uguale a quello con cui lui, tantissimi anni prima, aveva guardato negli occhi Hermione bevendo la sua ultima scintilla vitale. Avrebbe dovuto farlo Draco, aveva pensato allora, e lo pensava anche adesso, mentre guardava la giornalista, solo che la senescenza gli aveva consegnato anche una certa poeticità, maturata nei suoi scritti, che gli aveva permesso di capire che c’era un motivo se lui era stata l’ultima persona che entrambi avevano visto. Come una specie di ciclo che si chiude. « Doveva vivere con Draco, prima di andare via. Ecco perché ho scritto questo romanzo » Sul volto antico di Ronald Bilius Weasley, comparve, per la prima volta, un sorriso. Amaro, ma sincero.

« Mi piace pensare che non sia leggerezza né desiderio di fuga, ma un ultimo gesto di cortesia, una presa di posizione contro la dimenticanza e l’angoscia: permettere ai miei amanti di sopravvivere e vederli riuniti alla fine. Ho regalato loro la felicità, ma non sono stato tanto opportunista da consentire che mi perdonassero, non proprio, non ancora. E se avessi il potere di evocare la loro presenza: Draco e Hermione, ancora vivi, ancora innamorati, seduti accanto, a sorridere insieme tenendosi per mano? Non è escluso. Ora basta però, devo dormire »

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tutte le note (che ho dimenticato di inserire alla fine dei capitoli):

 

Capitolo I :

- La Bugattola è una malattia di mia invenzione. Non viene mai citata nei libri della Rowling, per cui è da ritenersi di mia proprietà.

- Emmeline Vance è un membro dell’Ordine Fenice dai tempi della Prima Guerra Magica.

- Si vive insieme, si muore soli, il titolo del capitolo, è una frase tratta dal telefilm Lost.

 

Capitolo II:

- Dedalus Lux ed Elphias Doge sono personaggi di J.K. Rowling: il primo è un membro dell’Ordine della Fenice, il secondo un caro amico di Silente.

 

Capitolo III:

- “Tutte le strade portano a te” è il titolo di una canzone di Ligabue

 

Capitolo IV:

- La squadra d’inquisizione è il corpo speciale formato dalla Umbridge in Harry Potter e l’Ordine della Fenice, e formato da molti Serpeverde tra cui anche Draco.

- Gli occhi sono ciechi, bisogna cercare con il cuore (Da “Il Piccolo Principe”, di Antoine De Saint-Exupéry)

- Il cuore muore di morte lenta. Perdendo ogni speranza come foglie. Finché un giorno non ce ne sono più. Nessuna speranza. Non rimane nulla. Se un albero non ha né foglie né rami, si può ancora chiamarlo albero? (Da “Memorie di una Geisha”, di Arthur Golden).
- Non vistosa; non del genere che ti giri a guardarla. Più semplice. Ma aveva qualcosa che ti accalappiava, niente da dire, ce l’aveva. Come una specie di limpidezza, di trasparenza. (Da “Barnum 2”, di Alessandro Baricco)

- Il termine Mudblood è riportato in inglese perché lo ritengo più appropriato della (errata) traduzione italiana “Mezzosangue”

 

Capitolo VI:

- I Gervoni Maculati citati da Luna sono una mia invenzione.

 

Capitolo VII:

- Il capitolo è ispirato alla canzone “Sei” dei Negramaro. Alcune scene tra Draco e Hermione riprendono, in prosa, le parole della canzone

- “Ecco da cosa nasceva quella sua sensazione prossima alla felicità. Forse non era poi così debole come aveva sempre creduto; dopotutto, ci si misura rapportandosi agli altri, non esiste alternativa. E, di quando in quando, in modo assolutamente involontario, arriva qualcuno e ti insegna qualcosa sul tuo conto” (Da “Espiazione”, di Ian McEwan)

- “I se e i ma sono la patente dei falliti, Malfoy. Nella vita si diventa grandi nonostante” (Da “L’ultima riga delle favole”, di Massimo Gramellini)

 

Capitolo IX:

- “Esiste una rabbia che non ha niente a che vedere con la cattiveria. È il ruggito di chi cerca di nascondere le proprie fragilità” (di P. Felice)

- Le “Cinque Principali Eccezioni alla Legge di Gamp sulla Trasfigurazione degli Elementi” sono quegli oggetti che non possono in alcun modo essere trasfigurati o evocati, nemmeno con la magia (cibo, amore, vita e informazioni; la quinta non è mai citata nei libri, si presuppone sia il denaro). Per maggiori informazioni vi rimando a Wikipedia.

- “C’è un prezzo da pagare per una vita di falsità” è una frase tratta da una canzone che ho ascoltato nel periodo in cui scrivevo quel capitolo e che ora, ovviamente, non ricordo >.<

 

Capitolo XI:

- “Un alfabeto diverso da quello della sua vigliaccheria”, riadattata, da “Il cantico dei Drogati”, di Fabrizio de André.

- “A [Draco], invece, pareva che la sua vita si sarebbe svolta tutta in una stanza priva di porta.” (da “Espiazione”, di Ian McEwan)

- “È che a volte le parole non bastano. E allora servono i colori. E le forme. E le note. E le emozioni

- “Così fa il destino: potrebbe filar via invisibile, e invece brucia dietro di sé, qua e là, alcuni istanti, fra i mille di una vita. Nella notte del ricordo ardono, quelli, disegnando la via di fuga della sorte. Fuochi solitari, buoni per darsi una ragione, una qualsiasi” (da “Castelli di rabbia, di Alessandro Baricco)

- “Aspettare senza sapere era una delle più grandi incapacità delle sue vita, e lei non sopportava di essere incapace in qualcosa. Perché, nell’attesa, aveva avuto lo spazio, già prima d’allora, per costruire enormi impalcature di significato, e dieci minuti dopo farle crollare, per sua stessa mano. Poi, riprendere da un punto qualunque, correggere il tiro di qualche centimetro per rendere la costruzione immaginata più solida; salvo poi vederla crollare di nuovo. Hermione non sapeva aspettare e non voleva farlo, perché sapeva che nell’attesa i mostri prendono forma e si ingigantiscono, mangiano le ore per crescere; sapeva che alla fine l’avrebbero mangiata viva.” Anche questa frase l’ho trovata da qualche parte, e l’ho riadattata, ma ovviamente ho dimenticato di appuntare la fonte.

 

Capitolo XII:

- I dialoghi sono ripresi dal film “Espiazione”.

- “La misteriosa circostanza per cui le cose del nostro passato continuano ad esistere anche quando escono dal raggio della nostra vita, e anzi maturano, portando frutti nuovi ad ogni stagione, per un raccolto di cui non sappiamo più nulla. Non potè fare a meno di pensare alla persistenza illogica della vita” (Da “Questa storia”, di Alessandro Baricco – leggermente modificata)

 

 

Capitolo XIII:

- “Ti svelerò un filtro potentissimo, senza formule magiche né unguenti: se vuoi essere amato, ama” (di Ecatone)

- “Sembrava stringere tra i denti parole troppo gelate perché si potessero sciogliere al sole” (Da “La guerra di Piero, di Fabrizio de André, riadattata)

- “La realtà non va a capo, non concorda i verbi, non scrive belle frasi. Noi lo facciamo, quando raccontiamo il mondo. Ma il mondo, di suo, è sgrammaticato, sporco, e la punteggiatura la mette che è uno schifo.” (di Alessandro Baricco, in una nota sull’11 settembre)

- Le parole che Ron rivolge alla giornalista sono riprese dal romanzo “Espiazione”. La storia si chiude esattamente con le stesse parole del libro di McEwan.

- Easily torn, not easily mended è una frase molto significativa tratta proprio da “Espiazione” (ma dai?). Letteralmente significa “Si rompe facilmente, ma non si aggiusta altrettanto facilmente”. La traduzione italiana è assolutamente inefficace, non rende la bellezza e la significatività (?) di questa frase che io ritengo meravigliosa.

 

 

 

Tutta la storia è ispirata al romanzo di McEwan, di cui consiglio vivamente la lettura a chiunque non l’abbia ancora fatto. Chi lo conosce, dal libro o dal film, sa già che questa storia sarebbe andata a finire così, probabilmente. Vi chiedo scusa. Lo so che sono sadica e terribile, che non è giusto e che non doveva andare così, ma in fondo avevo già avvertito che non era una storia adatta ai deboli di cuore e davvero non sono riuscita a trattenermi, perché quando ho ripreso in mano il romanzo “Espiazione”, questa storia è nata da sola e non avrei potuto farla andare diversamente, a meno di non infangare il nome di uno Scrittore come McEwan.

Chi mi conosce, sa che il lieto fine non è proprio una mia prerogativa. E, come in “Cenerentola”, credo davvero che questo sia il finale migliore.

Colgo l’occasione per chiedere perdono per i ritardi infiniti a cui vi ho costretti, so che hanno inficiato sulla godibilità e piacevolezza della storia.

Ringrazio tutti i lettori che hanno seguito, ricordato, preferito e soprattutto recensito questa storia, e che continuano a seguirmi. Le vostre parole mi riempiono il cuore.

Per un po’, credo che non pubblicherò nulla, per mancanza di tempo e perché non voglio costringere nessuno ad attese infinite. Ma continuo comunque a scrivere (con i miei tempi, certo) e presto, lo prometto, pubblicherò qualcosa. E avrà un lieto fine, promesso <3

 

 

Per il linciaggio, mi trovate qui.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2023112