Espiazione
« È una storia da
dimenticare
È una storia da non
raccontare
È una storia un po’
complicata.
È una storia sbagliata.
Cominciò con la luna
sul posto
E finì con un fiume
d’inchiostro.
È una storia un poco
scontata.
È una storia sbagliata
»
Una storia sbagliata –
Fabrizio De Andrè
Diagon
Alley non era altro che un cupo agglomerato di casupole plumbee e vecchi negozi
dai muri incrostati e dagli interni polverosi. Gli antichi sogni di gloria che
aveva vissuto, e che molti maghi ricordavano ancora, si erano infranti insieme ai
vetri delle botteghe che un tempo costeggiavano la strada. La luce era
diventata presto memoria sbiadita: uno spesso strato di nuvole copriva il cielo
ormai grigio del luogo. Il sudiciume aveva preso possesso di ogni mattone,
incuneandosi tra gli stretti vicoli che separavano le dozzinali case dalle
finestre ricoperte di sporco, e rigagnoli fangosi scivolavano lungo le strade,
tuffandosi in pozzanghere dall’aspetto altrettanto lercio. Il lezzo che si
respirava, un misto di denso putridume e afrore grasso, marciume e sudore, era
il risultato di anni di incivile incuria e sporcizia accumulata. L’opaca
fuliggine dell’aria era stemperata solo da vaghi e incerti sprazzi di cielo che
si intravvedevano tra un tetto e l’altro.
Una
figura incappucciata si muoveva furtivamente tra i vicoli cupi, le braccia
avvolte attorno a un fagotto che emetteva piccoli lamenti inconsistenti. Il
mantello che ricopriva il viso della strega scivolò indietro, rivelando una
ciocca di ricci neri e una pelle di pesca, imbrattata qua e là da macchie di
terra e fuliggine. Un vagabondo, fermo in un angolo nella vana speranza di
ottenere un po’ di elemosina, le sorrise, scoprendo la macchia scura di un
dente mancante e indirizzandole proposte oscene. L’unica risposta che ricevette
fu un mugolio – la lingua stretta tra i denti e l’orgoglio sepolto sotto terra.
La giovane donna arricciò il nasino, sistemò meglio il cappuccio sul capo e,
dopo aver sussurrato dolci parole al fagotto che stringeva tra le mani,
proseguì a passo spedito verso il piccolo negozio che occupava il fono della
via.
L’insegna
della farmacia doveva aver conosciuto senz’altro tempi migliori, e di sicuro un
tempo le vetrine erano stato pulite, perché tra le macchie di unto e sporco
riuscivano ancora a intravvedersi flaconi di unguenti miracolosi e pubblicità
che promettevano risultati definitivi contro la maggior parte delle malattie del
mondo magico.
Quando
la strega spinse la porta, uno scampanellio stranamente allegro e dissonante
annunciò il suo ingresso. Un untuoso ometto spuntò all’improvviso da sotto il
bancone, sistemandosi sul naso gli occhiali dalle spesse lenti e rivolgendo alla
donna un’occhiata sospettosa. Ne sondò per qualche istante il volto in
penombra, soffermandosi sui ricci scomposti e sugli occhi sfuggenti, per poi
abbassare lo sguardo sul fagotto.
«
Come posso aiutarla? » domandò con tono professionale, il dubbio un’acquosa
nota di sottofondo che non intimorì la giovane.
Hermione
trasse un respiro profondo e si avvicinò un po’ di più al bancone. Un cono di
luce le colpì il profilo dritto e la bocca morbida, rivelando un viso dai
tratti fini e delicati e uno sguardo deciso e profondo. Con una leggerezza
delicatissima poggiò il fagotto sul legno liscio del tavolo, sotto gli occhi
attenti e curiosi del farmacista; poi, scostò un lembo.
L’uomo
emise un mugolio a metà tra il sorpreso e l’infastidito quando il minuto visetto
di un neonato fece capolino dal mucchio di stracci che ne avvolgevano il
corpicino. Aveva un colorito pallido e guance fin troppo scavate per un bambino
della sua età: era evidentemente malato.
«
Ha la febbre alta da quasi due settimane. Non so più cosa fare, ho provato con
ogni tipo di pozione, ma… » cominciò a spiegare la giovane strega, ma fu
interrotta da un brusco gesto del farmacista, che chinò il capo e si avvicinò
al neonato tanto che il suo naso ne sfiorò il visetto smunto. Lo squadrò con
occhio clinico solo per qualche istante, prima di parlare.
«
È Bugattola. Una malattia virale rara, ma che si sta
diffondendo sempre di più in questi ultimi anni. È dovuta a scarse condizioni
igieniche » Gli occhi dell’uomo si assottigliarono appena, il suo sguardo divenne
una lucente punta di spilla accesa dal sospetto. « L’ultimo caso che ho
trattato ci ha lasciato due settimane fa» La sua voce si inasprì « Emmeline Vance, una sciocca
dissidente che ha pagato con la vita i suoi ideali ».
Hermione
riuscì a non trasalire solo con un grandissimo sforzo di volontà. Cacciò
indietro le lacrime che le erano risalite, immediate, fino agli occhi,
mascherando il dolore per quell’improvvisa e inaspettata notizia con un timore
che non era del tutto infondato.
«
Ce la farà, non è vero? » domandò, la gola annodata dall’ansia. Il farmacista
le scoccò un’occhiata sospettosa, prima di chinare il capo e osservare con
attenzione il neonato, che aveva cominciato ad emettere deboli vagiti di
protesta.
«
La malattia è già a uno stato avanzato. Servono immediatamente delle medicine »
Puntò gli occhi, scurissimi, sulla strega. « Medicine molto costose »
sottolineò con una sfumatura di crudele soddisfazione nella voce.
Hermione
sostenne con fierezza il suo sguardo indagatore, glissando con dignità su
quella luce malvagia che leggeva in fondo agli occhi dell’uomo: la disgustava
il suo modo di guardarla, e ancor di più la repelleva quella latente
compiacenza che vibrava dentro la sua voce, quella sua inquietante perfidia che
lo schermava dalla compassione.
«
Allora mi dia immediatamente queste medicine. Farò tutto ciò che è necessario
perché Ted guarisca » disse la giovane con tono
estremamente autoritario, sfidando con lo sguardo l’uomo. Lui indietreggiò
appena, colpito da quell’autorevolezza, così dissonante con la figura dimessa e
femminea della donna che aveva di fronte. Il suo sospetto fu scalfito dalla
capacità della strega di dissimulare, da quell’orgoglio mai seppellito che era
stato la più utile delle sue armi, in molte occasioni.
Il
farmacista si esibì in un piccolo, breve inchino, prima di sparire oltre la
porta che conduceva al magazzino.
Hermione,
finalmente rimasta sola, fu libera di respirare e di concedersi un attimo di
tregua dallo sguardo inquisitore dell’uomo. Si chinò sul piccolo Ted, regalandogli un bacio delicatissimo e cullandolo con
la dolcezza di una donna e la reverenza di una madre. Il bimbo aveva cominciato
a lamentarsi e piangere: i suoi vagiti, prima inconsistenti e deboli, si fecero
via via più rumorosi. La giovane aveva il sospetto che il suo evidente
nervosismo, tradito dagli scatti ansiosi delle sue braccia, contribuisse al
malessere del bimbo, ma non riuscì a controllarsi né a scacciare quella
sensazione che si stava aggrovigliando attorno al suo cuore.
La
porta della farmacia si aprì con uno scatto improvviso. I campanelli
risuonarono allegramente nell’aria, e una folata di aria putrida e fredda
investì il viso della strega che, d’istinto, nascose il volto alla vista del
nuovo avventore, fingendo di essere profondamente interessata a una mistura
maleodorante che prometteva capelli lisci e fluenti. Considerata la sua chioma
crespa e ribelle, non era una scusa poco plausibile.
«
Harris! » chiamò a gran voce il nuovo giunto, con un tono evidentemente
impaziente. Hermione gli lanciò un’occhiata furtiva:
le dava le spalle, ma anche se non ne vedeva il viso sarebbe stato impossibile
non riconoscere la chioma biondissima che ne ornava il capo. Le sfuggì un
rantolo di panico, soffocato sulla fronte di Teddy
con un bacio maldestro.
L’uomo
si voltò appena verso di lei, scrutandola con una luce infastidita nello
sguardo chiaro. Non fece in tempo a lanciarle più di uno sguardo: il farmacista
riemerse dalle tenebre del suo ripostiglio con diversi flaconi tra le braccia.
Quando vide il mago che attendeva davanti il bancone sussultò appena e, dopo
aver riversato alla rinfusa le boccette e le ampolle appena recuperate, si
avvicinò al giovane con un sorriso sornione sul volto.
«
Signorino Malfoy, è sempre un piacere vederla. È
venuto per il solito ordine settimanale? È tutto pronto, vado subito a prendere
le sue cose » La sua voce era intrisa di un opportunismo talmente strisciante
che ad Hermione risalì per la gola un conato di
nausea acidulo. Non era certa se ciò fosse dovuto al nome pronunciato dal
farmacista, che confermava i suoi peggiori sospetti, o alla meschina ipocrisia
dimostrata dallo stesso; tutto ciò che riusciva a fare, era cullare Teddy, ma lo faceva in modo tanto nervoso da risultare
maldestra.
«
E tu, fai stare zitto quel marmocchio » Draco Malfoy latrò quell’avvertimento scorbutico mentre il
farmacista spariva di nuovo oltre la porta del ripostiglio. Nonostante la
strega fosse perfettamente cosciente della sua posizione di inferiorità, del
pericolo che correva e della stupidità delle sue azioni, nonostante fosse risaputamente razionale e certamente poco impulsiva, non
riuscì a trattenersi dal ribattere: l’insolenza e l’arroganza di quel ragazzino
viziato erano una ragione sufficiente per rischiare.
«
È solo un bambino, non lo vede? E sta male » commentò caustica, nascondendo il
volto dietro l’ombra del mantello e tra le coperte che avvolgevano l’esile
corpicino del bimbo. Gli scoccò solo un’occhiata breve, abbastanza torva da
imprimere al suo tono e alle sue parole incisività, ma quel secondo fu
sufficiente: le pupille di Malfoy si dilatarono per
lo stupore.
Il
farmacista tornò dopo pochi minuti, tra le braccia un grosso scrigno
dall’interno del quale provenivano tintinnii dissonanti.
«
Ecco, Signorino Malfoy » Mentre l’uomo poggiava la
cassa sul bancone, la manica del braccio sinistro si alzò di qualche
centimetro, abbastanza perché un lembo del tatuaggio nero giaietto che spiccava
livido sulla pelle fosse visibile a tutti i presenti.
Hermione
deglutì in silenzio, stringendo a sé il piccolo Ted
con una punta di panico a destabilizzarle le mani. Mentre Malfoy
controllava il contenuto dello scrigno, consultando una lista appena tirata
fuori dalla tasca del lungo mantello scarlatto che contraddistingueva lui e la
sua casta, il farmacista presentò alla strega il conto da pagare.
«
Centodieci galeoni?! » ripeté lei, spalancando la bocca, oltraggiata da quel
prezzo eccessivo. « Ma sono solo tre flaconi, com’è possibile…? »
«
Questo è il prezzo! Se non può pagare, quella è la porta » ribatté caustico,
indicando l’uscio con un sorriso di crudele soddisfazione sul volto.
Hermione
strinse i denti, combattendo il desiderio di dare una lezione all’uomo dinnanzi
a sé e imponendosi una calma che non le apparteneva. Diede una carezza leggera
al piccolo Teddy, bollente di febbre, spegnendo tra
le dita i suoi flebili lamenti, mentre lo cullava con delicatezza. Quando alzò
lo sguardo, incrociò gli occhi grigi di Draco Malfoy fissi su di lei, una nota di incerta perplessità ad
aleggiare dietro le pupille dilatate.
«
Mi domando perché ragazze così giovani si ostinano a riprodursi se poi non sono
nemmeno capaci di mantenere il proprio figlio » Un ghigno divertito gli
arricciò le labbra sottili. Il giovane infilò nella tasca del mantello la lista
che il farmacista gli aveva consegnato poco prima, poi compì un paio di passi
in direzione di Hermione e lanciò un’occhiata al
neonato che lei teneva tra le braccia. Istintivamente, la ragazza strinse il bambino,
nascondendo il suo visetto pallido alla vista del Mangiamorte.
«
Se non sono capace di mantenere mio figlio, è solo a causa dei prezzi disonesti
che impongono i commercianti » Hermione era sempre
stata una donna orgogliosa e caparbia. Persino in una situazione come quella, in
un momento in cui sapeva di doversi nascondere, in un frangente in cui la
prudenza sarebbe dovuta essere la sua arma e difesa principale – se non per sé,
almeno per il piccolo Teddy – non riuscì a tenere a
freno la lingua. Le parole le sfuggirono dalle labbra prima che lei potesse
fermarle, con tono fermo e deciso, una punta di fierezza a colorarle la voce e
un’altezzosità che non le apparteneva ad accenderle lo sguardo.
Il
ghigno sul volto di Draco Malfoy
si allungò: divenne qualcosa di molto simile a un sorriso, nascosto sotto una
smorfia di velato disappunto.
«
Come ti permetti, piccola, sudicia… ? »
«
Devo andare, Harris » La rabbia del farmacista svaporò in un’accondiscendente
sorriso di circostanza. Nonostante il rossore del viso rivelasse una collera
non del tutto scomparsa, e lo sguardo, rivolto alla ragazza, brillasse di
indignazione, il viso dell’uomo era una perfetta maschera di servilismo e
compiacenza.
«
Arrivederci, Signorino Malfoy. Porti i miei saluti a
suo padre. E al nostro amato Signore Oscuro, naturalmente » L’inchino fin
troppo profondo in cui l’uomo si profuse permise a Hermione
di arricciare il naso in una smorfia di palese disgusto che non sfuggì al
giovane Mangiamorte. Prima di imboccare la porta, Draco Malfoy si fermò e si voltò
verso di lei. La cassa di legno che galleggiava a mezz’aria alle sua spalle
urtò la sua schiena con un leggero tintinnio.
«
E metta sul mio conto anche tutto ciò che serve alla signorina…? » Sfumò le
ultime parole, spostando lo sguardo da un perplesso e offeso farmacista a
un’incredula Hermione, che si riprese appena in tempo
per replicare, con tutta la dignità e la prontezza di cui era capace.
«
Edwards. Michelle Edwards. E non accetto elemosina » precisò con un’accesa
sfumatura di disappunto nella voce acuta. Le guance si colorarono di un
delicato rossore, senza alcun motivo apparente, quando lui, con due rapidi
passi, le si avvicinò tanto da poter sentire il suo profumo forte e sprezzante,
il suo respiro caldo e spezzato.
«
Le Mezzosangue come te dovrebbero solo ringraziarmi quando decido di essere
così generoso. Non credi, Granger? » Fu un sussurro
gelido che paralizzò ogni pensiero, mormorato con voce timida e piccola,
leggera, quasi quelle parole volessero imprimerle qualcosa in fondo all’anima. Fortunatamente,
fu anche un bisbiglio che solo lei udì.
Mentre
il farmacista guardava entrambi con espressione sospettosa, alternando lo
sguardo dall’espressione decisa e vagamente divertita dell’uno, alla smorfia
atterrita e incredula dell’altra, Draco Malfoy imboccò la porta e sparì tra le strade scure di Diagon Alley.
***
Quando
Draco varcò la porta di casa, una cassa tintinnante
ricolma di oggetti a galleggiare alle sue spalle, la donna gli lanciò
un’occhiata penetrante. Il pensiero irriverente che formulò nella sua testa le
disegnò sulle labbra un sorriso sarcastico, destinato a sfiorire sotto
l’occhiata implacabile che il figlio le lanciò.
«
Sei stato fuori tutta la notte » commentò con tono severo Narcissa,
sorseggiando con raffinata pacatezza il suo thè corretto, dal quale esalava un
sottile filo di fumo. I suoi occhi si socchiusero delicatamente, mentre le
labbra cesellate si chiudevano, modellandosi sulla forma della ceramica. Con
somma eleganza, si accomodò all’indietro, contro il morbido schienale della
poltrona, mentre Draco, stranamente iracondo, sbuffava.
La sua espressione era uno specchio fin troppo chiaro dei suoi sentimenti. Si
aspettava di vedere un’ombra calare implacabile su quel viso perfetto, per cui
fu sorpreso quando vi lesse solo una leggera indifferenza, quasi annoiata, la
stessa che lei indossava da diversi mesi, ormai.
Il
suo genuino stupore non ebbe modo di cristallizzarsi sul volto diafano: in quel
momento la porta si spalancò con uno schiocco.
«
Finalmente! » La vocetta infantile ma incredibilmente dura di sua zia trapanò
il cervello di Draco. Una smorfia increspò la
superficie nivea del suo volto di porcellana. « Era un compito piuttosto
semplice, perché ci hai messo tanto? » latrò con una dolcezza tanto allarmante
quanto inquietante.
Bellatrix
divorò la stanza con falcate rapide e precise, poi si chinò verso lo scrigno e
ne controllò il contenuto. Il suo sguardo brillò di sadica soddisfazione, prima
di posarsi, sospettoso, sul nipote.
«
Problemi? » chiese, un’occhiata carica di dubbio e inquisizione a perforare
persino l’anima di Draco. La vorace sollecitudine con
cui lo fissava suscitò nel giovane una crescente sensazione di claustrofobia. Un’espressione di riluttante rispetto aleggiò
per un attimo sui suoi lineamenti affilati.
« No » ribatté bruscamente lui, la voce accesa da
una sfumatura tagliente. Bellatrix, oltraggiata da
quell’impertinenza, aveva già poggiato le lunghe dita sulla tasca che conteneva
la bacchetta, quando sua sorella, con estrema pacatezza, parlò.
«
Draco è stanco, Bella. Lascia che vada a riposare »
esalò Narcissa, la voce accordata come un perfetto
strumento musicale. Pur occupando un angolo della stanza, la sua presenza era
ingombrante e stranamente prepotente.
Gli
occhi neri di Bellatrix, sottili come spilli,
saettarono per un attimo sullo schienale della poltrona dietro cui si
nascondeva la sorella. La donna, i capelli neri a contornarle il capo come il
disordinato velo di una sposa funebre, strinse le labbra, e lanciò un ultimo
sguardo a Draco, prima di scomparire oltre la porta
con lo scrigno sotto braccio.
Narcissa
attese qualche minuto, prima di parlare.
«
Moderazione. Autocontrollo » disse solamente, come se quelle uniche parole
fossero una spiegazione sufficiente. Nonostante il tono definitivo e lapidario
con cui le pronunciò, c’era qualcosa di caldo e rassicurante in quella voce.
Draco
strinse i denti nella parodia di un sorriso, ma lo scintillio inquieto dei suoi
occhi non si incrinò.
«
Non posso salvarti dai tuoi pensieri, Draco. Nascondili. » La dignità dello sguardo
che gli rivolse era forse l’unico motivo per cui Draco
la ammirava, segretamente, così tanto.
***
Nei
giorni successivi, Hermione non poté fare a meno di
pensare al suo incontro con Malfoy. La febbre di Teddy stava lentamente scomparendo, lasciando spazio a un
colorito roseo e sano, e questo era forse l’unico aspetto positivo della sua
gita fuori dall’accampamento. Nonostante il successo della sua missione, il
sorriso di Andromeda e il dolce sollievo nello sguardo di Tonks
e Lupin, infatti, la giovane Grifondoro continuava a
domandarsi il motivo non solo di quella gentilezza, stranamente dissonante se
accostata a una persona come Draco Malfoy, ma anche – soprattutto – della grazia concessa dal Mangiamorte che era il ragazzo.
Non
erano più un segreto i nomi dei seguaci di Voldemort:
da quando il Signore Oscuro aveva preso il potere, il veleno dei suoi ideali si
era esteso fino al Ministero, impossessandosi del cuore della maggior parte
della popolazione del Mondo Magico. Per paura, ipocrisia o reale intenzione,
molti si erano uniti a lui, e tutti portavano con estremo compiacimento la
divisa rossa che contraddistingueva i Mangiamorte.
Non c’era più vergogna, in quel Marchio Nero che un tempo veniva nascosto; non
più timore nel mostrare l’appartenenza a quei ranghi che ormai erano diventati,
più che l’eccezione, la regola.
E
l’Ordine della Fenice, o ciò che ne rimaneva, non poteva far altro che
nascondersi, nel tentativo di salvare i pochi rimasti fedeli a Silente e alla
sua causa.
La
guerra si protraeva da ormai due anni: quando il Preside di Hogwarts
era morto, assassinato da un uomo di cui si fidava ciecamente e che invece
aveva rivelato la sua vera faccia, Voldemort aveva
conquistato prima la scuola, poi il Ministero, e da Londra si stava estendendo
al Regno Unito intero, con l’intenzione di espandersi in Europa e poi anche
oltre i confini a lui conosciuti. Non si era fermato davanti a niente, non
aveva risparmiato nessuno.
Due
anni. Una carneficina continua.
I
Mangiamorte non facevano altro che mietere vittime,
poco importava da che parte stessero o quali colpe avessero: uccidevano
indistintamente, per il solo piacere di farlo. Lo facevano perché potevano
farlo, perché niente e nessuno glielo impediva.
E
a loro, l’Esercito di Silente, l’Ordine della Fenice; a loro – chiunque si
ostinasse a portare avanti un ideale che in troppo credevano morto – non
restava altro da fare che nascondersi, e agire silenziosamente quando potevano,
nella speranza, un giorno, di riuscire a vincere non solo quelle piccole
guerriglie che scoppiavano di tanto in tanto, come focolai di una malattia
difficile da estirpare, in villaggi o città, ma soprattutto le battaglie,
quelle vere, che decretavano il destino dei vincitori e dei vinti.
Hermione
aveva rischiato la vita e la libertà tante volte, e altrettante aveva tentato,
invano, di salvare chi poi aveva avuto un destino più ingiusto e crudele del
suo. Durante quegli anni aveva imparato a convivere con il dolore, la paura,
l’ansia di essere scoperti, catturati, uccisi. Aveva imparato ad accogliere la
morte con lacrime di contrizione che si spegnevano insieme alle prime luci
dell’alba, perché non poteva permettersi debolezze, perché i decessi e le
scomparse erano compagni indesiderati ma sempre presenti.
Eppure
mai, nemmeno una volta, le era capitato di incontrare un Mangiamorte
che l’avesse riconosciuta senza ingaggiare uno scontro all’ultimo sangue.
Soprattutto, non quel Mangiamorte.
L’aveva
visto altre volte, Draco Malfoy,
questo è naturale. In quanto nipote di Bellatrix, la
prima e più leale servitrice di Voldemort, era
presente a qualsiasi battaglia lei avesse preso parte, mai schierato in prima
linea ma sempre pronto a difendere la linea nemica. In effetti, prima di quel
momento non ci aveva mai fatto caso, ma non l’aveva mai visto attaccare per
primo.
Ma
perché l’aveva lasciata andare? Se l’aveva davvero riconosciuta, perché non
l’aveva catturata, uccisa?
Hermione
sapeva che il suo travestimento e la sua Trasfigurazione potevano ingannare un
occhio poco attento o conosciuto, ma non chi per anni l’aveva vista camminare
tra i corridoi della scuola; tuttavia, non avrebbe mai immaginato di incontrare
proprio Draco Malfoy a Diagon Alley, soprattutto, non in un luogo in cui la luce
avrebbe potuto scoprirla.
E
invece aveva incrociato lo sguardo con uno dei Mangiamorte
più pericolosi in circolazione: non perché fosse il più preparato o abile, ma
perché era il più vicino a Voldemort in persona. E
lei non era forse la migliore amica di Harry Potter, il Ragazzo che è
Sopravvissuto e dal quale Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato è ossessionato?
Eppure,
lui non aveva mosso un muscolo per nuocerle in alcun modo, né aveva rivelato la
sua presenza. La sua supponenza era la stessa di sempre, i suoi occhi
raccontavano la stessa superbia che per anni lei aveva osservato, a scuola, e
da cui si era dovuta schermare il più delle volte. Cosa era cambiato in lui?
Cosa l’aveva spinto a tacere? Era un piano? Uno schema progettato per
annientarli, di cui le sfuggiva la trama precisa?
Erano
domande a cui Hermione non riusciva a dare risposta.
Non poteva fare a meno di pensare a quell’episodio, senza però riuscire a
venirne a capo.
«
Smettila di pensare alla fortuna sfacciata che hai avuto e concentrati » sibilò
con una sfumatura di irritazione Ginny, da dietro il
cappuccio che tentava maldestramente di celarne l’identità. Il viso smagrito
era incorniciato da ciocche castane insudiciate, tra le quali spiccavano però,
con insolita e orgogliosa ferocia, ciuffi scarlatti che chiedevano il riscatto
del suo cognome.
«
Sono concentrata » mugolò Hermione, che dopo l’ultima esperienza aveva deciso di
perdere più tempo per domare la ribellione dei suoi ricci – nemmeno quando era
a scuola si era impegnata tanto.
«
Che ore sono? »
«
Dodici e quattro » Una pausa. La maggiore lanciò un’occhiata al vicolo che
aveva di fronte: in fondo, due sagome scarlatte accesero di colore l’anonimo
grigio di Diagon Alley. « Andiamo. Abbiamo undici
minuti »
Erano
figure esili, incappucciate da stoffe scure e sdrucite, scialbe e impersonali
quanto tutto ciò che le circondava, e proprio per questo poco riconoscibili.
Percorsero con passi frettolosi, il capo chino e le dita serrate attorno al
legno caldo della bacchetta, una via stretta e sudicia: i denti stretti per non
soccombere all’orrore dei cadaveri abbandonati ai lati della strada,
raggiunsero l’uscio scardinato di una casupola diroccata. Due colpi secchi alla
porta, che si spalancò con un cigolio che sembrava un lamento. Con uno sguardo
a metà tra l’inorridito e il rabbioso, Ginny entrò
nell’abitazione mentre l’altra rimaneva fuori di guardia, ascoltando solo con
un orecchio ciò che succedeva all’interno.
«
Le medicine, Doris »
«
Grazie. Grazie, davvero » Una voce fin troppo commossa e colma di gratitudine
fino allo stremo. Troppo per non suscitare compassione, e la rabbia
dell’impotenza. « Le vostre provviste. Non è molto, ma è tutto quello che ho
potuto fare »
«
Andrà benissimo. Meglio di radici trasfigurate, comunque » La voce di Ginny voleva essere ironica, ma conteneva un’inconfondibile
nota di amarezza. « Ti ringrazio. Ora vado, prima che… »
Hermione
perse il filo della conversazione quando quella parte del suo cervello ancora
rimasta vigile e attenta a ciò che succedeva all’esterno registro un movimento
che non avrebbe dovuto presentarsi nel suo campo visivo. Un secondo dopo, un
lembo scarlatto comparve da dietro l’angolo.
La
sorpresa fu tale che la ragazza non riuscì a trattenere un sussulto, ma la sua
prontezza di spirito e il suo sangue freddo le permisero di pensare a un rapido
Incantesimo di Disillusione Non Verbale, e un altrettanto veloce, silenzioso,
avvertimento per Ginny.
Due
Mangiamorte le sfilarono accanto, ignari della sua
presenza, inghiottita dai mattoni sbiaditi e affumicati della casupola davanti
a cui, immobile e senza fiato, sostava.
«
Come hai potuto dimenticarlo? »
«
Non è stata colpa mia! »
«
Pregustavo già il mio vino d’ortica. Ah… »
Le
parole dei due uomini si persero nella nebbiolina leggera della via che avevano
imboccato. Hermione attese ancora qualche minuto,
prima di richiamare Ginny con un fluido movimento del
polso.
«
Che è succ… dove sei?! » Gli occhi scuri dell’amica
la trapassarono senza vederla, con una perplessa preoccupazione a velarle il
viso, quasi irriconoscibile a causa della Trasfigurazione dietro cui era
costretta a celarsi.
Hermione
si lasciò scivolare di dosso l’Incantesimo di Disillusione, ma non diede tempo
all’altra di meravigliarsi.
«
Muoviamoci: siamo in ritardo » disse pragmatica. La prese per mano e percorse a
ritroso lo stesso cammino attraversato precedentemente, gettando occhiate
preoccupate all’orologio: erano passati tredici minuti, due in più del
necessario, due in più del consentito. Due minuti che potevano costare loro molto,
troppo.
Camminavano
divorando metri, a loro volta divorate dalla fretta e dalla paura, il tempo un
carnefice crudele che non risparmiava né il cuore né i pensieri. Quando
intravidero il muro che le divideva dalla salvezza, quello che, una volta
superate, le avrebbe condotte dentro il Paiolo Magico e quindi fuori dal raggio
dell’incantesimo Anti-Smaterializzazione, imposto su Diagon
Alley e un altro centinaio di luoghi magici, si permisero di rilassarsi e
rallentare appena l’andatura. La fretta pungeva ad entrambe i piedi: era una
colpa che non avrebbero dovuto mostrare, fin troppo rivelatrice delle loro
intenzioni e del crimine che stavano commettendo.
«
Ehi, voi due! Perché tanta fretta? »
Non
si fermarono. Finsero di non aver sentito quella voce, che aveva punto le
orecchie e perforato il cervello, trivellando la ragione e scavando baratri di
paura dentro di loro. Chinarono il capo nel tentativo di nascondersi ancora di
più: la speranza che quei tre Mangiamorte le
lasciassero perdere rombava dentro di loro al ritmo sordo del cuore, che
pompava furiosamente.
Speranza
vana: la rinnovata fretta con cui si diressero verso il Paiolo Magico suscitò
il sospetto di quegli uomini vestiti di rosso, che le richiamarono ancora una
volta, prima di scambiarsi sguardi dubbiosa ma crudelmente soddisfatti e
sguainare le bacchette.
Li
separavano cinque metri, ma in linea d’aria i Mangiamorte
erano più vicini di loro al Paiolo Magico: avrebbero sbarrato loro la strada,
tagliando ogni via di fuga.
Hermione
elaborò un piano con la lucida razionalità che l’aveva sempre contraddistinta:
se era così che doveva finire, avrebbe perlomeno cercato di creare più problemi
possibile, e soprattutto di salvare la sua migliore amica.
«
Taglia per quel vicolo, arriva dietro il Paiolo. Io li distraggo » sussurrò
rapidamente a Ginny, che le scoccò un’occhiata
scandalizzata.
«
Cosa? Non se ne parla, non ti lascio qui » protestò a bassa voce, rallentando
il passo fino quasi a fermarsi del tutto. L’altra scoccò un’occhiata agli
uomini, che squadravano lei e l’amica con sguardi avidi ed espressioni maligne,
quindi riportò gli occhi in quelli della ragazza e la squadrò con serietà.
«
Vai. Io ti raggiungo » mentì con ferma prontezza, anche se nel fondo del suo
stomaco si agitava un mostro che si nutriva di terrore. Ma Hermione
aveva imparato da tempo a mettere a tacere l’ansia e la prudenza: perché se la
seconda non permette di mangiare, la prima rischia di ucciderti. O di uccidere
le persone a cui vuoi bene.
«
Non ci provare » Ginny digrignò i denti. Sembrava una
bestia ferita, e nei suoi occhi brillava l’oltraggio subito per quella che
sapeva essere un’enorme bugia.
Con
la coda dell’occhio, Hermione vide che uno dei Mangiamorte si stava avvicinando. Non c’era tempo per
discutere, né per litigare: la nobiltà d’animo della giovane Weasley, amicizia e lealtà che lei mai aveva messo in
dubbio, la lusingavano, ma suscitavano anche angoscia e rabbia. Non doveva
essere suo l’ennesimo nome aggiunto alla lista dei morti. Non poteva essere il suo.
Mentre
uno degli uomini, ormai a poco meno di due metri da loro, agitava la bacchetta
pronunciando, con voce ferma e decisa: « Finite
Incantatem », Hermione
spinse con quanta forza aveva in corpo la sua migliore amica verso il vicolo di
fronte, sperando che quella spinta fosse sufficiente a farla ragionare, e
fuggire. Il fascio di luce dell’incantesimo, però, colpì il corpo esile di Ginny proprio mentre l’altra la scagliava con energia il
più lontano possibile. Il movimento brusco e improvviso, del tutto inaspettato,
fece scivolare il cappuccio della ragazza sulle spalle. Una cascata di capelli
rosso fuoco esplose nel centro della via.
«
È una Weasley! » ruggì uno dei Mangiamorte,
indicando con selvaggia soddisfazione quel segno di riconoscimento che era
diventato una maledizione.
Ginny,
riacquistato un precario equilibrio, sgranò gli occhi e lanciò uno sguardo
furente all’amica: una supplica accorata e un’implorazione muta brillavano
dietro le iridi scure.
«
Vai! » urlò Hermione, prima di lanciare un
Incantesimo Esplosivo contro gli uomini. Non ebbe tempo di controllare se
l’altra avesse seguito o meno il suo consiglio: approfittò della confusione
generata, della polvere fitta, dei detriti e dei calcinacci volanti, per
fuggire nella direzione opposta, sperando vivamente che Ginny
fosse tanto intelligente e pronta da seguire il suo consiglio e defilarsi il
più in fretta possibile.
Il
cuore le batteva furiosamente nel petto, dandole l’impressione di poter
prendere il volo da un momento all’altro, strappando la prigione di ossa e
carne che lo teneva ancorato alla vita e fuggendo a quella pressione nervosa a
cui lei lo stava sottoponendo. La ragazza sentiva il moto laminare del sangue
che rombava nelle orecchie. La bacchetta stretta in pugno, non riusciva a
pensare a nient’altro che a quel suono: né i rapidi e precisi lampi che
guizzavano accanto a lei, né le urla dietro di lei dovevano distoglierla dalla
sua corsa folle.
Hermione
lanciò dietro di sé una Fattura, senza fermarsi né prendere la mira: non era
certa che lo scoppio che seguì fosse un buon segno, ma non si curò di voltarsi
indietro per controllare. Invece, imboccò una stradina alla sua destra, nascondendosi
nell’incavo creato dalle schiene di due case troppo vicine tra loro per poter
essere legali. Approfittò della nebbiolina scura che avvolgeva le strade per
fermarsi, riprendere fiato e controllare la situazione.
Al
di là del suo nascondiglio, il clamore raggiunse livelli allarmanti, per poi
scemare e infine spegnersi lentamente. I Mangiamorte
che la stavano inseguendo dovevano averla superata, ma lei non osò affacciarsi
per moltissimi minuti. Attese che il suo cuore riacquistasse un battito
normale, prima di spingere la testa oltre la cornice del muro. La strada
sembrava libera.
Senza
attendere un attimo di più e senza preoccuparsi di nient’altro che non fosse la
sua meta, Hermione ricominciò a correre, stavolta
nella direzione opposta: la bacchetta era ancora saldamente serrata tra le sue
dita e la sua mente vigile e attenta a ogni movimento o suono. Ben presto
riuscì a intravedere, a pochi metri da lei, l’insegna del Paiolo Magico, che
appariva e spariva, avvolta da un vapore lattiginoso. Proprio quando credeva di
essere salva, però, una sagoma scarlatta sbucò da un vicolo buio.
***
Ginny
avvertiva un dolore lancinante trafiggerle il petto, ma non osò fermarsi: la
vita della sua migliore amica era nelle sue mani, e lei non poteva permettersi
di perderla. Perciò, nonostante il fiatone e il dolore alle gambe, continuò a
correre fino a quando non giunse sul limitare di un bosco. Solo allora si
concesse una brevissima pausa: lanciò occhiate guardinghe e sospette intorno a
sé, prima di compiere un passo deciso e sicuro e scomparire nel folto del
bosco.
Ricomparve
dall’altro lato della barriera eretta per proteggere l’accampamento, e senza
guardarsi intorno si diresse di corsa verso una grande tenda gialla che
ondeggiava al lieve vento che spirava, pochi metri più in là. Riposava
all’ombra di un vecchio salice e aveva l’aria quieta e stanca di un vecchio
guerriero: qualche macchia scura e diversi strappi ne denunciavano un uso
prolungato ed eccessivo.
«
Lupin, mamma, papà! » chiamò Ginny, ormai senza
fiato. Si fermò solo quando i tre adulti si fiondarono fuori dalla tenda,
direttamente su di lei, la preoccupazione a lampeggiare negli occhi di tutti.
«
Che è successo? Sei ferita? »
«
No. Ma Hermione… » La ragazza ansimò, in preda al
panico e a un bruciore talmente intenso ai polmoni, che ogni respiro o parola
era sofferenza pura. « Li ha distratti per permettermi di scappare, credo sia
stata catturata » I suoi occhi scuri si puntarono dritti in quelli della madre:
la paura era schermata dietro un velo di lacrime che, più che renderla facile,
la facevano sembrare incredibilmente combattiva e assolutamente decisa a
tornare indietro. « Dobbiamo tornare indietro, dobbiamo aiutarla, dobbiamo… »
L’espressione
di sua madre, prima ancora che le parole di Lupin, le fecero morire le parole
sulle labbra. La voce le mancò quando la smorfia di Molly e il sospiro di
Arthur denunciarono la sua paura più profonda.
«
No » Fu Lupin a dirlo, con la decisione stanca e sofferente di un padre che
decide di abbandonare un figlio. Aveva il dolore negli occhi, ma sul suo viso
c’era la determinazione di un leader e la risolutezza di un uomo.
Ginny
spalancò lo sguardo ed emise un gemito incredulo. Se avesse avuto ancora un
briciolo di forza in lei, se solo le sue gambe, il suo corpo, avessero
ascoltato il comando imposto dal cervello, o anche solo il suo desiderio, si
sarebbe lanciata contro l’uomo e lo avrebbe preso a pugni e a calci fino a
quando non avesse acconsentito a tornare indietro, da Hermione.
Se avesse avuto fiato, avrebbe gridato, strepitato tutta la sua indignazione e
protestato contro quella decisione assurda, crudele, lapidaria. Il tono del suo
vecchio professore di Difesa Contro le Arti Oscure era fin troppo definitivo
per poter controbattere, ma lei non aveva intenzione di lasciar perdere.
«
Lei l’avrebbe fatto » pronunciò lentamente, un sibilo intriso di rancore e
disperazione insieme. Nel suo sguardò saettò un’ombra scura, densa d’odio ma
anche di speranza.
« Si vive insieme, si muore soli » Lupin emise un sospiro stanco. « Sono
le nostre regole, Ginevra. E le ha decise anche lei » mormorò, atono e
monocorde. Improvvisamente, sembrava invecchiato di centinaia di anni, come se
il peso di quella decisione, insieme a tutte quelle prese in precedenza, agli
anni di guerra, ai dolori e alle perdite, fosse precipitato su di lui in quel
preciso momento.
«
Pensaci. Quanti dei nostri sono stati catturati? » Arthur intervenne con tono delicato
e tenue, ma la smorfia sul suo viso lascia intravedere la sua totale
contrarietà a quella decisione.
«
Ma lei è diversa! » Ginny scosse il capo e fece un
passo indietro, ferita.
«
È una di noi, esattamente come gli altri » La voce di Molly era tanto asciutta
e risolutiva da mettere un punto a quella seppur breve discussione.
«
Harry non ve lo perdonerà mai » Ginny digrignò i
denti come una bestia ferita, stringendo i pugni e gonfiando il petto con
quanta più dignità possibile. Dietro i suoi occhi, si agitava un’ombra feroce
ma incerta. Pronunciare quel nome era al tempo stesso un balsamo e un dolore:
conteneva i suoi timori più crudeli e le sue speranze più dolci.
«
Harry non è qui adesso » disse Lupin voltandole le spalle.
«
Harry è solo un ragazzo » aggiunse nello stesso momento Arthur con un sospiro.
«
Harry è la nostra unica salvezza » Con un’espressione ferita ma combattiva, Ginny si Smaterializzò con uno schiocco.
***
Hermione
tentò di divincolarsi dalla presa salda dell’uomo che, tagliandole la strada
proprio quando credeva di essere salva, l’aveva privata di ogni speranza di
salvezza.
«
Non agitarti piccola » Il rude abbraccio dell’uomo si serrò maggiormente quando
lei si azzardò ad alzare un ginocchio per caricare un calcio. Il fiato le si
spezzò nei polmoni e per un attimo alla ragazza mancò il respiro: la morsa in
cui la stringeva era tanto forte da darle la sensazione che, da un momento
all’altro, le sue costole si sarebbero rotte. « Non vorrei rovinarti » Intorno
a lei si stava condensando un sottile fumo color cenere. Brandelli di
pulviscolo argentati danzavano dentro la lama di luce che, dalla finestra rotta
di una casa, si proiettava sulla strada, a pochi metri da lei. « Sono certo che
il Signore Oscuro mi coprirà di lodi e doni per il regalo che sto per portargli
» Il suo sussurro, basso e gelido, sapeva di alcool e tabacco; la sua pelle
odorava di sudore e muffa. Le mani ruvide del Mangiamorte
le sfiorarono in modo apparentemente casuale il seno, per poi serrarsi ancora
di più attorno alla sua cassa toracica. «Non posso portargli un regalo
danneggiato, non credi? ». La punta della bacchetta le sfiorò la guancia,
risalì lungo gli zigomi e si fermò sulla tempia. Con la coda dell’occhio, Hermione colse il sorriso sadico dell’uomo: gli mancava un
incisivo, e aveva una lunga cicatrice che gli attraversava la guancia destra.
«
Stupeficium
»
Hermione
chiuse gli occhi, aspettando il dolore, ma il dolore non giunse mai. Al
contrario, la sensazione di costrizione al petto si allentò, permettendo alla
paura di sgusciare fuori da lei con un’unica, lenta espirazione. Quando,
lentamente e con perplessa incredulità, la ragazza riaprì le palpebre, il Mangiamorte giaceva ai suoi piedi, Schiantato.
La
giovane strega si guardò intorno, spaesata, alla ricerca del suo salvatore. Si aspettava
di vedere capelli rossi, da qualche parte, come un unico punto di luce e colore
in quel buio sporco che era Diagon Alley; forse,
persino due dolci occhi verdi, un sorriso di incoraggiamento al di sotto di una
cicatrice che era la fonte di tutti i loro problemi. Invece, tutto ciò che vide
fu la foschia opaca di due iridi di ghiaccio che per un attimo, solo un istante
infinitesimale, sembrarono risolvere il proprio mistero, stemperando la
freddezza e l’orgoglio dentro la speranza di uno sguardo.
Hermione
Granger era una strega potente, ma furba. Conosceva i
suoi limiti e, soprattutto, era capace di valutare con freddezza le situazioni.
Non rimase immobile a domandarsi cosa quegli occhi grigi volessero suggerirle, né
sapeva che quell’unico momento poteva rivelarsi catartico, in un certo qual
modo, risolutore, per un futuro prossimo che lei non poteva ancora vedere.
«
Dover »
Bastò
una voce lontana, l’eco di passi affrettati e voraci in lontananza.
Gli
voltò le spalle proprio mentre, lo sguardo ancora fisso su di lei, Malfoy si puntava la bacchetta alla tempia. Il tonfo che
seguì fu coperto dal sonoro schiocco della sua Smaterializzazione.