The outsider

di Miss Y
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I ***
Capitolo 3: *** II ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


La pioggia si abbatteva su Baltimora come un triste funerale. Lunghe ombre drappeggiavano i palazzi del centro storico, una sfilata di mute facciate lacrimose. I vicoli, attorcigliati come viscere intorno al centro, erano deserti.
Le stelle di una notte calata troppo presto  riverberavano di luce bianca sull’asfalto fradicio.

Le finestre dello studio psichiatrico del dottor Hannibal Lecter piangevano acqua da diverse ore quando il dottore abbassò lo sguardo sull’orologio da polso un attimo prima di alzarsi dalla scrivania e tagliare la stanza in direzione della porta.
Con la tranquillità di chi non è aspettato a casa per cena prese il cappotto dall’appendiabiti e lo indossò mentre usciva.

Si fermò appena davanti all’uscio ad incrociare lo sguardo di una ragazza seduta nella sala d’attesa.
Vestita di scuro, quasi si confondeva con le ombre che danzavano sulle pareti al ritmo della pioggia scrosciante. I suoi occhi baluginarono per un istante quando sollevò lo sguardo su di lui. Il cappuccio della felpa le nascondeva metà viso, il tessuto era fradicio. Si alzò rapidamente, spostando lo zaino nero dalle proprie ginocchia alla sedia accanto a sé—lo psichiatra seguì con lo sguardo il movimento—e gli si avvicinò di qualche passo, cauta e sinuosa come un felino notturno.

«Lei è il dottor Lecter,  vero?» domandò a mezza voce. Il forte accento britannico sporcava la rotondità delle consonanti e accentuava la durezza delle vocali.
«Ci conosciamo?» fu la risposta secca. La sua inflessione germanica, pur adattata alla cadenza locale, si mescolò al suono della voce di lei, non ancora del tutto estinto dal silenzio.
Il roboare di un tuono ruppe l’ombrosa quiete scandita dal ticchettare melodico della pioggia sui vetri.
«Non ancora. Mi chiamo Sarah… Weber. Mi hanno dato il suo nome per un consulto.» la ragazza tirò su con il naso, senza staccare gli occhi da lui. Gli anfibi che aveva ai piedi erano ancora fradici di pioggia, non doveva aver aspettato molto.

Lui la studiò per un breve istante, aspettandosi che lei distogliesse lo sguardo.
Al contrario la ragazza continuò ad osservarlo, incurante di ciò che il buonsenso e l’educazione avrebbero dovuto suggerirle.
Era molto giovane. Poteva avere una ventina d’anni, al massimo qualcuno di più—il trucco nero intorno agli occhi la invecchiava di molto, facendola sembrare una venticinquenne.

«E’ piuttosto tardi per un consulto,» disse infine, calibrando le parole, «ti suggerirei di tornare la prossima settimana. Preferirei se fissassi un appuntamento.»
Passò lo sguardo su di lei per sondare la sua reazione, e gli sembrò contrariata, ma non gli si avvicinò.
«Buona serata, Sarah.» le passò accanto, e chiuse gli occhi accennando un sorriso quando la mano calda della ragazza gli toccò il braccio attraverso il cappotto in quella che a lei sembrò una dimostrazione istintiva di sorpresa, quando invece era infastidita incredulità.

«Non avrei pagato trenta dollari di taxi se non fosse stato dannatamente urgente. Non ho tempo fino alla prossima settimana.» Lui si volse lentamente e le rivolse uno sguardo freddo.
«Ti chiedo di non insistere. Non ricevo pazienti oltre l’orario.»
Per la seconda volta fece per andarsene. La ragazza attese un breve istante, poi sospirò di frustrazione.
«La prego.» una venatura di orgoglio ferito le sporcò la voce nel pronunciare la supplica. «Ho bisogno di un certificato d’idoneità per l’affidamento di un minore, devo presentarlo agli assistenti sociali entro domani. Non so a chi altro rivolgermi. Non ci vorrà che qualche minuto, le garantisco che sono idonea. Non troverà nessuno più idoneo di me. La prego.»

Lui la osservò per un altro paio di secondi, e lei incrociò le braccia al petto.

Infine, espirando a fondo, lo psichiatra si sbottonò il cappotto e le indicò la porta dello studio con un cenno del braccio.
«Entra.»
Lei gli rivolse un sorriso entusiasta, scoprendo una fila perfettamente dritta di denti bianchi.
Per essere una ragazza di strada, osservò lo psichiatra tra sé e sé mentre cercava di ignorare la puzza di marijuana e tabacco che la circondava come una nube, sembrava piuttosto curata.
Lo anticipò all’interno dello studio a passo rapido, prendendo lo zaino dalla sedia e guardandosi intorno affascinata, sollevando la testa per ammirare il soppalco e le pareti coperte di libri.
Lui la seguì lentamente, chiudendosi la porta alle spalle. Appese il cappotto dove l’aveva preso appena pochi minuti prima ed accese le luci.
Fu solo quando la ragazza fu arrivata al centro della stanza che, senza smettere di guardarsi intorno affascinata, lasciò lo zaino a terra con un leggero tonfo e si scoprì la testa dal cappuccio umido—ora che i colori erano ben definiti dalla luce artificiale il verde scuro della felpa svettava contro il bianco del suo incarnato, il nero della giacca di pelle e il castano dei capelli, voluminosi e lisci sulle spalle.

«Niente male, doc» commentò imitando involontariamente un pessimo accento americano.
Lo psichiatra dissimulò la propria irritazione alla scortesia del nomignolo camminando verso la scrivania e aprendo uno dei cassetti per fingere di estrarre dei documenti. Il bisturi con cui faceva la punta alle matite da disegno era nel primo cassetto, subito sotto un plico di fogli bianchi. Con la coda dell’occhio vide la ragazza lasciarsi cadere sorridendo su una delle due poltrone e accavallare le gambe, aggiustandosi i jeans neri sulle caviglie.

Lei, per contro, lo vide chinarsi sulla scrivania e quasi non fece caso allo sguardo sinistro che le rivolse prima di cercare i moduli. Un istante prima di chiudere il cassetto, lei lo vide fermarsi.

«Il minore di cui intendi chiedere la custodia è in qualche modo imparentato con te, Sarah?» chiese con voce atona, osservandola mentre giocherellava con uno dei braccioli della poltrona.
Lei sollevò lo sguardo e il suo sorriso si spense rapidamente mentre si metteva a sedere compostamente.
«E’ mio figlio.» disse laconicamente infine.
Passò un breve istante di silenzio prima che lo psichiatra chiudesse il cassetto in cui stava cercando e ne aprisse un secondo.
Estrasse i moduli e sedette dietro la scrivania, scegliendo una stilografica a caso. Fece per scrivere il nome in cima al documento, ma si fermò quando la vide alzarsi e venirgli incontro.
«”Sarah Weber” è il nome a cui devo intestare l’attestato?» chiese lui lentamente, alzando lo sguardo su di lei.
La ragazza si morse il labbro inferiore, interdetta. Parve rifletterci per qualche secondo, e la riluttanza con cui rispose ebbe un’inflessione aspra sul suo accento.
«No. Lo intesti a Siobhan* Cohen.»

Lui la studiò per qualche secondo prima di appoggiare la penna—senza aver scritto alcunché—e intrecciare le dita posando le mani unite sulla scrivania. Lei gli restituì lo sguardo.

«Credo che abbiamo molte cose di cui parlare, Siobhan. Mettiti seduta, ora, e comincia dall’inizio.»




*la pronuncia corretta del nome Siobhan, di origine irlandese, suona più o meno come Shivòn.

Vorrei fare soltanto una precisazione riguardo all'avvertimento di OOC: l'ho inserito perché non so quanto sarà difficile mantenere Hannibal IC nelle circostanze che ho in mente e quindi ho messo direttamente le mani avanti. I capitoli saranno probabilmente tutti piuttosto brevi, né la storia in sé si preannuncia particolarmente lunga. E', per così dire, un esperimento.

Grazie per l'attenzione!


 

 

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Capitolo 2
*** I ***


«No, ascolti; devo essermi spiegata male» si affrettò a spiegare la ragazza dopo essersi soffermata ad osservarlo interdetta per qualche secondo, «non è così che funziona. Non sono venuta qui per mettere il culo su una delle sue poltrone da tremila dollari e frignare su quanto i miei genitori siano stati cattivi con me mentre lei finge di prendere appunti e occasionalmente mi passa un fazzoletto. Deve solo mettere una firma su quel modulo, dire che sono idonea a riprendermi mio figlio e consegnarmelo. Non intendo rubarle più di tre o quattro minuti.»

Un lungo silenzio intercorse tra l’osservazione e la risposta, che coincise con il tempo che il dottor Lecter si concesse per studiare attentamente la giovane donna che aveva di fronte. «Non firmerò alcun modulo,» rispose infine lentamente, senza staccare lo sguardo da lei, «fino a che non ti avrò ritenuta adatta. Sei venuta qui per una valutazione psicologica; ebbene, l’avrai. Lasciami fare il mio lavoro come lo ritengo opportuno.»
«Il suo lavoro?» la ragazza sbuffò ridendo e si allontanò di qualche passo dalla scrivania per chinarsi sullo zaino e aprirlo, «non dica stronzate, la maggior parte delle mansioni che il suo lavoro prevedere possono essere svolte anche da una scimmia con un flacone di antidepressivi. E’ questo che vuole?» gli posò sulla scrivania due fascette di banconote da venti dollari, «sono mille dollari tondi. Ora firmi quel modulo, per favore.»

Lei lo vide abbassare lo sguardo sulle banconote, e poi risollevarlo lentamente su di lei. Nei suoi occhi brillava una luce sinistra che non aveva a che fare con la brama di denaro.

«Se avessi saputo che mi saresti mancata di rispetto in questo modo e poi avresti cercato di comprarmi con del denaro, Siobhan, non ti avrei fatta entrare. Ed è per il tuo interesse che ora ti chiedo di lasciare il mio ufficio immediatamente. Riprenditi pure i soldi.»
Lei lo fissò colpita e un attimo dopo sollevò lo zaino all’altezza della scrivania, facendoci ricadere dentro le banconote.
«Woah, piano. Non intendevo offenderla. So che si deve essere piuttosto tosti per studiare tutti quegli anni come entrare nella testa della gente, stavo solo scherzando. Mi dispiace che mi abbia presa sul serio, dico davvero, e sono felice che abbia degli ideali tanto saldi e lodevoli e tutto il resto, ma non farò finta di essere triste e dispiaciuta, né me ne andrò dal suo studio sperando che lei mi richiami dopo aver miracolosamente cambiato idea.»
«Non vado d’accordo con le persone scortesi, Siobhan. Non sarò disposto a perdonare un altro affronto del genere da parte tua.» il tono dello psichiatra era duro, ma lo sguardo di Siobhan non vacillò.
«Le ho già detto che mi dispiace.Ho davvero bisogno del suo aiuto, e sono disposta a tutto per ottenere quel modulo entro domani. Letteralmente.»
 
Lui si limitò a fissarla senza rispondere, le labbra strette in una maschera austera di pietra.

«Se sei così pronta a tutto,» disse infine calibrando le parole, «allora non avrai difficoltà a sederti su quella poltrona e rispondere alle mie domande.»
Siobhan lo guardò per un istante prima di sbuffare, lasciar cadere lo zaino ai piedi della poltrona e sedersi, incrociando le braccia al petto. Il dottor Lecter prese con sé una cartella e si accomodò sulla poltrona di fronte alla sua.
La pioggia disegnava sottili arabeschi d’acqua sulle vetrate.

«Ora vorrei sapere perché mi hai mentito sul tuo nome, Siobhan.» esordì lui pacatamente, sollevando lo sguardo su di lei.
La sua espressione era seria, il suo tono incolore. La ragazza si agitò sulla poltrona.
«Non sapevo se avrebbe accettato di aiutarmi,» spiegò spezzando le sillabe finali delle parole, frettolosa, «non mi piaceva l’idea che potesse venirle l’idea di indagare su di me.»
«Che cosa verrei a sapere?»
Lei si strinse nelle spalle e iniziò a disegnare linee invisibili sul bracciolo di pelle della poltrona.
«Non sono una brava ragazza, dottor Lecter, di quelle che è abituato a ricevere, con le madri ben vestite e i soldi di papà. Penso che lo abbia intuito, non mi sembra uno stupido. Dico solo che non mi piace che si metta il naso tra i miei affari.»
«Purtroppo dovrò, per usare le tue parole, mettere il naso tra i tuoi affari se vuoi questa documentazione entro domani.»
Siobhan sbuffò, sollevando lo sguardo sull’alto soffitto.
«Senta, non ho bisogno di uno strizzacervelli. Glielo ripeto, voglio l’affidamento di mio figlio e ho bisogno di quelle carte. Non ho tutta la sera libera, devo prendere un taxi e tornare a casa prima che sospendano il servizio.»
«Non c’è fretta. Posso riaccompagnarti a casa.»

Lei gli rivolse un sorrisetto scettico e accavallò le gambe, studiandolo incuriosita.

«Senza offesa, dottor Lecter. Sono sicura che sua moglie, i suoi bambini e la sua sana e brillante vita da professionista la aspettano per cena a casa, ma non mi fido. Niente di personale, ma ho già ricevuto proposte del genere ed ho imparato a rifiutarle. Per quanto ne so, potrebbe essere un serial killer.» la ragazza accompagnò l’insinuazione con una risata ironica e un gesto del braccio.
Lui accennò un sorriso in risposta e piegò il capo di lato. Era la prima volta che sorrideva da quanto lei era entrata nel suo studio. Non rispose.
«Quindi,» proseguì la giovane in tono spigliato, «le sarei davvero grata se mi desse quei moduli compilati, accettasse i miei soldi e le nostre strade si separassero.»

Senza preavviso si alzò dalla poltrona e gli diede la schiena, improvvisamente interessata alla libreria colma di volumi alle sue spalle. Lui seguì il suo movimento con lo sguardo, senza chiederle di tornare a sedersi.

«Posso chiederti come ti sei procurata tutti quei soldi, Siobhan?» domandò in tono pacato tamburellando con le dita sul tavolino di vetro accanto a lui. La ragazza non si voltò e si limitò a sollevare lo sguardo sui volumi più in alto. Doveva aver trovato qualcosa che catturò la sua attenzione, perché si sollevò in punta di piedi, cercando di raggiungere l’ultimo scaffale.
Lui sollevò appena un angolo della bocca al suo tentativo, ma non si alzò. Attese.
«Le dispiace…?» chiese girando appena il volto per sottolineare che si stava rivolgendo a lui. Lo psichiatra assecondò la sua richiesta e le si affiancò, raggiungendo lo scaffale più alto e porgendole il libro che la ragazza gli indicò.

Era una vecchia edizione del 1945 di Four Quartets di T.S. Eliot rilegato in cuoio blu e dalle pagine ormai ingiallite dal tempo. Siobhan lo prese e lo aprì con cautela, completamente disinteressata alla domanda che le era stata posta.
«Wow, roba come questa non si trova ai mercatini dell’usato.» fu il commento affascinato. Con un sorriso educato il dottor Lecter le prese il libro di mano, osservando l’entusiasmo sfiorire negli occhi scuri della giovane, e le indicò la poltrona.
«Prima rispondi alle domande.» la invitò in tono incolore. Lei alzò gli occhi al cielo ma non insistette, lasciandosi cadere sulla poltrona con uno sbuffo. «Come ti sei procurata tutto quel denaro?»
«L’ho trovato per terra,» ironizzò lei in risposta, «secondo lei come l’ho trovato? Lavorando.»
«Hai un lavoro stabile?»
«Senta, queste sono domande che gli assistenti sociali mi hanno già fatto mille volte.»
«Allora non ti dispiacerà rispondere un’altra volta soltanto.»
Lei scosse il capo, stringendo le labbra.
«Ho un lavoro stabile, sì.»
«Che cosa fai?»
«La prostituta.» ironizzò nuovamente sollevando gli occhi al cielo, «dò una mano a degli amici. Faccio commissioni. Sente il bisogno di farmi queste domande perché le sembro poco affidabile o qualcosa del genere?» rise sonoramente, aggiustandosi sulla poltrona. «Coraggio, vede che non sono una psicopatica. Può firmare quei moduli così se ne può andare a casa?»
Lui sembrò ignorarla, e la fissò con espressione indecifrabile.
«Quanti anni ha tuo figlio?»
«Quattro.»
«Perché ti hanno tolto l’affidamento, Siobhan?»

Capì di aver colpito nel segno quando lei si agitò sulla poltrona e si schiarì la gola.

«Sono finita nei casini,» ammise infine, «ho dovuto assentarmi qualche tempo da casa per motivi di… salute.»
«Cocaina?»
Lei lo guardò per un attimo e sembrò ferita. Fu solo un istante.
«Eroina.» la riluttanza le venava la voce di toni aspri, «non sono mai andata oltre i miei limiti e ho smesso da sola. Non che sia stato facile. E poi, appena mi sono ripresa, hanno cercato di incastrarmi.» sospirò.
«Incastrarti?» sottolineò lui lentamente. Siobhan sbuffò.
«Senta, in ogni caso ho smesso. Con tutto, okay? Non sono più in quel giro e sono pulita. Glielo garantisco.»
«La tua fedina penale è sporca?»
Lei rise.
«Dio, sì. Gli stronzi non ne volevano sapere di chiudere un occhio. Niente di grave, ad ogni modo. Una rissa. Le solite cose che succedono a Brixton di notte.» sorrise amaramente.
«Sei inglese.» constatò lui in tono neutro.
«E lei è perspicace.» scherzò lei di rimando evidenziando di proposito l’accento già marcato della classe lavorativa del Sud di Londra.
«Perché sei a Baltimora?» proseguì lui senza staccare gli occhi dai suoi.
«Conor è stato dato in affidamento temporaneo alla stessa donna che ha cresciuto anche me in mancanza di parenti prossimi, e lei ha avuto la brillante idea di trasferirsi qui due mesi e mezzo fa. Credeva di liberarsi di me, ma io non mollo.» sorrise. «Senta, ha finito le sue domande? Vorrei quei moduli.»

Il dottor Lecter si alzò in piedi rapidamente, lasciando il libro di Eliot sul tavolino di vetro e prendendo con sé solo i fogli che aveva in mano, e si diresse alla scrivania dandole la schiena.
«E li avrai,» le promise.
Siobhan scivolò in punta di piedi verso la sua poltrona, raccogliendo lo zaino.
«Grazie mille» si affrettò ad esclamare, sorpresa, allungando un braccio per ricevere la documentazione.
Lui si voltò verso di lei e sorrise.
«Solo, non oggi.»
Siobhan si bloccò, issandosi lo zaino in spalla e aggrottando le sopracciglia. «Devo presentarli entro domani.»
«Passa di qui domani mattina e te li consegnerò. Gratis.»
Gli occhi della ragazza s’illuminarono e lei sorrise un attimo prima di incupirsi. «Mi sta prendendo in giro, vero.»
Lui accennò un sorriso.
«Niente affatto, sono serio. Ma voglio che tu ti presenti qui anche domani sera alle sette e mezza.»
Lei trattenne il respiro per un secondo. Poi rise sommessamente, perplessa.
«Uh, no, senta, ci siamo capiti male. Questa non è la prima di molte sedute. Questa è la prima e l’ultima visita che farò allo studio di uno strizzacervelli. Le garantisco che non ho abbastanza soldi da permettermi una cosa del genere.»
«Prendo dei pazienti pro bono talvolta,» fu la risposta fredda, «ho intenzione di interessarmi al tuo caso. Sto mettendo il mio nome su dei documenti ufficiali, Siobhan. Voglio monitorare il tuo comportamento per un paio di settimane almeno prima di lasciare che tu ottenga quell’affidamento. Se qualsiasi cosa accadesse a te o a tuo figlio Conor sarebbe imputata a me e al mio giudizio errato.»
«Chiaramente mi impegnerò affinché nulla accada né a me né a mio figlio, dottor Lecter,»  tagliò corto lei, «non ho davvero tempo per i suoi scambi di favori. Ci vediamo domani mattina.»

Lo superò e fece per uscire. Aveva una mano sulla maniglia della porta quando lui la fermò.
«Siobhan.»
«Sì?»
«Per cortesia, metti sulla mia scrivania il libro che hai preso.»

Lei esitò per un lungo istante, le dita strette intorno al pomolo metallico, ma poi tornò indietro, aprì lo zaino e poggiò il volume sulla scrivania dello psichiatra. Lui non sollevò lo sguardo.
Di nuovo fece per andarsene, stavolta rabbiosamente. Di nuovo si fermò con la mano sulla maniglia.

«Se domani sera mi presentassi,» ipotizzò senza voltarsi a guardarlo, «e poi le sere successive, poi potrei avere quel libro?»

Ci fu un attimo di silenzio.
La pioggia aveva smesso di cadere, ora solo il vento spezzava il ritmo liquido della quiete.

Lui sorrise.
«Naturalmente, Siobhan.»


 


 

 


Puntualizzazione di fine capitolo: è possibile che qualcuno si accorga delle evidenti analogie fisiche e caratteriali di Siobhan con Sarah Manning, la protagonista di Orphan Black – così come il parallelismo tra Conor e Kira. Ebbene, la faccenda è voluta; avevo un mente un crossover da tempo, ma non ho avuto nessuna idea per inserire anche i cloni nella storia, perciò ho semplicemente creato un OC liberamente ispirato a Sarah.
Perciò potete immaginarla come Tatiana Maslany. Yay! Spero che qualcuno apprezzi il tributo :’)

H x

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Capitolo 3
*** II ***


«Sei in ritardo.» commentò lui aprendole la porta dello studio. Siobhan si alzò in piedi e gli passò accanto, disinvolta.
«Lei è uno specialista dell’ovvio, vero?» ribatté ironica attraversando la stanza e lasciando cadere sgraziatamente lo zaino ai piedi della poltrona, su cui si sedette accavallando le gambe.
Lo psichiatra la seguì lentamente, seguendone i movimenti con lo sguardo. Indossava un completo grigio su camicia bianca; la cravatta era scura. A Siobhan bastò un’occhiata per bollare il suo abbigliamento come pretenzioso, insieme a tutto il resto della sua persona.
 
Si tolse la giacca di pelle nera—la stessa della sera prima—rivelando una scelta di abbigliamento più attenta di quella del giorno precedente—forse per via dell’incontro con gli assistenti sociali. Sugli stessi anfibi e jeans scuri aveva indossato un maglione oversize a righe orizzontali nere e bordeaux, nelle cui maniche larghe continuava a nascondere i palmi delle mani.
 
«Com’è andata?» chiese lui dopo un lungo minuto di silenzio, quando le si fu accomodato di fronte.
La ragazza si strinse nelle spalle e si guardò le unghie.
«Giocano sporco. Hanno tirato in causa la recente denuncia per schiamazzi. Come se essere rumorosa da ubriaca mi rendesse una pessima madre.» sbuffò, sistemandosi sulla poltrona e sollevando gli occhi al cielo, «cambiando argomento, sa per che cosa sono qui.»
In risposta, il dottor Lecter si limitò ad allungare una mano sul tavolino di vetro che aveva a fianco e sollevare il libro rilegato il blu. Lei si morse il labbro inferiore e fu sul punto di dire qualcosa, ma poi parve cambiare idea. Si limitò ad annuire.
«Voglio essere chiara con lei, dottor Lecter, vorrei il libro alla fine di questa seduta. Può chiedermi quello che vuole, risponderò sinceramente, ma non sono disposta a tornare altre volte.» disse infine, incrociando le braccia al petto.
«Va bene» rispose lui in tono pacato intrecciando le dita a mani giunte.
 
Siobhan lo osservò per un secondo prima di piegare il capo e sorridere.
«Sul serio?»
Lui si limitò ad annuire in risposta.
«Wow, non credevo fosse così facile. Beh, grazie.» parve rilassarsi sulla poltrona, ma poi scattò di nuovo seduta e si sporse in avanti. «Adesso mi ha incuriosita, però. Perché ha accettato?»
«Portarti a tornare qui contro la tua volontà soltanto per un libro è antiprofessionale. Inizieresti a mentire, e non è quello che mi interessa.»
«Che cosa le interessa, allora?»
«Mi interessa, Siobhan,» iniziò lui fissandola con sguardo di ghiaccio, «sapere cosa può aver portato una ragazza come te a pensare che avrebbe ottenuto un certificato d’idoneità alle otto di sera senza appuntamento. Perché hai aspettato tanto? Era un compito troppo importante perché tu lo trascurassi così palesemente. Avevi molti soldi con te, avresti potuto usarli per farti dare un appuntamento convenzionale e ottenere quei documenti in modo perfettamente legale. Perché non l’hai fatto?»
 
La ragazza si piegò indietro appoggiandosi allo schienale della poltrona e sorrise, colpita. «Ma li ho ottenuti, no? Nonostante tutto li ho avuti. Ero solo un po’ fuori con i tempi.»
«Un qualsiasi altro psichiatra ti avrebbe lasciata in strada senza accettare le tue giustificazioni.» fu la risposta dura.
«Già, ma lei non è un qualsiasi altro psichiatra, vero? E’ andato tutto bene alla fine. Non è questo che importa?»
«Vorrei sapere cosa ti ha portata a non presentarti in tempo.»
«Vuole conoscere i dettagli che mi hanno fatta ritardare? Non vedo in che modo la possano interessare, ma se ci tiene… Il treno ha avuto due ore di ritardo; come se non bastasse, il maltempo ha dimezzato il numero di taxi in città, e Dio, sembrava che non ce ne fosse uno libero nemmeno a pagarlo oro.»
«Come mai hai preso il treno? Non vivi a Baltimora?»
«Vivo a Baltimora ma in quei giorni ero a New York.»
«Perché eri a New York il giorno prima della consegna del certificato d’idoneità al tribunale e agli assistenti sociali?»
 
Per la prima volta, il sorriso della ragazza si incupì per lasciar spazio a una smorfia infastidita. Lanciò allo psichiatra uno sguardo di sottecchi e incrociò le braccia al petto.
«Ma lei gli affari suoi non se li fa mai, eh?»
Lui non rispose. Si limitò a osservarla con sguardo neutro tenendo una mano appoggiata al tavolino, accanto al libro rilegato. Sembrava aspettare una risposta.
Siobhan sbuffò sonoramente e alzò gli occhi al cielo.
«Okay, allora. Avevo delle commissioni da sbrigare a Staten Island. Mi hanno tenuta impegnata per un paio di giorni.»
«Commissioni, Siobhan?»
Siobhan strinse le labbra ma mantenne lo sguardo fisso.
«Sinceramente non mi sembra che rientri nei suoi interessi professionali sapere che tipo di commissioni mi abbia portata a New York. Consegnavo della roba per conto di un amico, tutto qua.»
«Se sei così reticente a dirmi che cosa hai portato a New York, potrei pensare che sia qualcosa di illegale e dirlo agli assistenti sociali.»
La ragazza aprì la bocca di scatto e boccheggiò un istante prima di scuotere il capo sbuffando.
«Con lei non esiste la privacy, vero? Faccio volantinaggio per conto di un amico che si è rotto la gamba. Avrebbe perso il lavoro se non fosse stato per me. Faccio cose del genere, okay? Cosa credeva, che spacciassi cocaina?»
Lui non rispose. Si limitò a fissarla a lungo come se stesse scrutando all’interno della sua mente per capire se mentiva. Siobhan mantenne lo sguardo alto; la sincerità dei suoi occhi era inequivocabile.
«Da quanto tempo sei negli Stati Uniti?» domandò poi lui a bruciapelo, cambiando bruscamente discorso. Siobhan boccheggiò per un istante, sorpresa, ma poi aggrottò le sopracciglia e incrociò le braccia al petto.
«Dieci mesi.»
«Prima vivevi a Londra?»
«A Londra, sì. Avevo un appartamento in affitto a Brixton.»
«Di che cosa ti occupavi quando eri lì?»
La ragazza parve meno reticente a rispondere a quella domanda e si passò le mani tra i capelli scuri, gettando un’occhiata fuori dalla finestra. La luce fredda dell’imbrunire gettava ombre sfumate sotto i suoi zigomi.
«Di varie cose. Ho lavorato in un bar per un po’ di tempo. Non che mi piacesse, ma dovevo pagarmi l’affitto.»
«Non sei mai andata al college?»
 
Siobhan gli scoccò un’occhiata scettica che fu una risposta in sé.
«Mi guardi, dottor Lecter. Le sembra che io sia andata al college? Ci vogliono davvero un sacco di soldi per quella roba lì. E poi non fa per me.»
«Dici che l’educazione universitaria non fa per te, eppure sembri desiderare più di ogni altra cosa al mondo uno dei volumi più importanti della letteratura americana moderna. Devo pensare che tu sia più interessata a rivendere quel libro piuttosto che al suo contenuto?»
Gli occhi di lei rifletterono una luce aggressiva quando il suo sguardo baluginò di rabbia e i suoi muscoli guizzarono sottopelle per permetterle di protendersi in avanti rimanendo seduta.
«Non lo dica neanche per scherzo.»
 
Lo psichiatra le restituì un’occhiata vagamente divertita mentre incrociava le gambe e schiudeva le labbra. La reazione della ragazza sembrava averlo reso improvvisamente attento ed interessato.
«Posso sembrare volgare, dottor Lecter, e sguaiata. Forse un po’ lo sono, dopotutto. Quel libro è un’edizione a tiratura limitata e sapendo a chi venderlo potrei guadagnarci del denaro, è vero, ma non lo farei mai. Mi interessa per altri motivi.»
«E’ qui che volevo arrivare, Siobhan.» rispose lui pacatamente, osservandola come un animale dentro una teca di vetro, «perché ti interessa tanto quel libro? Sembra che ne vada della tua vita.»
 
Siobhan sospirò rassegnata e tornò a rilassarsi. La rabbia sembrava sparita, sostituita da un’arrendevole spossatezza. Quando parlò, sembrava tremendamente annoiata e stanca.
 
«Immaginavo che prima o poi l’avrebbe chiesto. Mi piacciono i libri, soprattutto quelli vecchi, perché mi ricordano la mia infanzia. Credo che sia piuttosto da manuale sentire una storia del genere, non dev’essere una novità per lei, dico bene?» rise e si strinse nelle spalle, «non è un’ossessione, la mia. E’ iniziata come semplice curiosità e ha iniziato a piacermi. Non è niente di malsano.»
«Leggere non è mai malsano.» fu la risposta asciutta. Siobhan piegò il capo di lato.
«No, immagino di no.» sorrise tra sé e sé.
«In che modo i libri ti ricordano la tua infanzia, Siobhan?»
«Mia madre leggeva spesso ad alta voce. E’ noiosa come storia, scommetto che l’ha già sentita.»
«Nessuna storia è noiosa.»
Siobhan rise sommessamente, mostrando i denti bianchi. «E per ogni punto passano infinite rette. La smetta con le ovvietà, la fanno sembrare privo di personalità, e scommetto che non  lo è affatto.» i suoi occhi scintillarono. «Ho detto abbastanza di me per una giornata intera,» esordì poi alzandosi all’improvviso e sollevando lo sguardo sul soppalco che girava tutt’attorno alla parete. «perché non mi parla un po’ di lei, invece? Mi sto annoiando. Che cosa fa nel tempo libero?»
 
Sembrò ignorare il silenzio che seguì mentre faceva spaziare lo sguardo sugli scaffali alti e ricolmi di volumi pesanti, ma dopo una decina di secondi si voltò, fissandolo divertita.
 
«Allora?»
«Cucino.» disse semplicemente lo psichiatra, voltando leggermente il capo mentre la osservava.
«Un uomo che cucina,» ripeté lei mentre iniziava a salire la scala che portava al secondo livello senza chiedere il permesso, «affascinante. E che cosa le piace cucinare?» si rizzò in piedi e gli lanciò uno sguardo entusiasta. Lui aveva seguito con gli occhi i suoi movimenti e non sorrideva.
«Animali incauti» si limitò a rispondere in tono freddo. Siobhan gli diede le spalle e fece passare le dita sulle copertine scure, ammirata. Sembrava non aver ascoltato.
«”Organic psychiatry: the psychological consequences of cerebral disorder”*, ma questa roba lei l’ha studiata sul serio o la tiene qua solo per bel vedere?» lesse ad alta voce il titolo di un grosso volume, quello che le era sembrato il più recente tra i tomi di medicina antica.
«Torna giù, adesso. Mi sembra che tu abbia curiosato a sufficienza.»
 
Straordinariamente obbediente, la ragazza rimise a posto il libro tra gli scaffali e scese rapidamente la scaletta, battendo le mani verticalmente per liberarle dalla polvere quando fu tornata al pian terreno.
 
«Tua madre leggeva spesso per te, Siobhan?»
Siobhan alzò gli occhi al cielo a sentire la domanda e aggirò la poltrona rapidamente per tornare a sedersi.
«Ed ecco che ritorniamo alle cose noiose. Sì, leggeva spesso, ma non leggeva per me. Era una sostenitrice della lettura ad alta voce, credeva nella magia dei libri e credeva che la perdessero tutta quando li si leggeva in silenzio. La sentivo leggere, ma non vuol dire che leggesse per me
«Sentirla leggere ti piaceva?»
Siobhan ridacchiò e si sistemò sulla poltrona, giocherellando con un orlo del maglione. «Oh, sì. Lo adoravo. E’ il mio ricordo preferito dell’infanzia. Ho sempre ricercato quell’emozione infantile, poi, ma non posso dire di averla ritrovata.» sospirò e abbandonò il capo all’indietro sullo schienale della poltrona, fissando il soffitto.
Il dottor Lecter lanciò una breve occhiata all’orologio sulla scrivania, quindi giunse le mani.
«Sono passati cinquanta minuti.» disse poi pacatamente. Siobhan sorrise in risposta e si alzò facendo per prendere lo zaino. Lui fu più rapido e lo sollevò da terra, porgendoglielo insieme al libro.
«Ne avrò cura» gli assicurò Siobhan  dopo aver preso lo zaino senza nemmeno guardarlo negli occhi, rapita dagli intarsi sul cuoio della copertina. Lui sorrise e non rispose, accompagnandola all’uscita.
 
«Immagino che non ti vedrò più.» commentò quando ebbe aperto la porta.
«Non è nei miei piani, no.» temporeggiò lei studiando attentamente il volumetto. Non sembrava convinta o interessata ad apparirlo. Dopo un istante di silenzio alzò lo sguardo. «Lei è davvero una persona strana, dottor Lecter. Mi ha chiesto di tornare qui più volte e poi ha acconsentito a vedermi una volta sola. Le è bastata per soddisfare la sua curiosità? E che curiosità, poi? Non mi sembra di essere particolarmente interessante per uno come lei.»
Lui la studiò con un sorriso accennato prima di rispondere.
«E’ proprio per questo che non ti ho chiesto di tornare. Non sei effettivamente molto interessante. Molto prevedibile, al contrario.»
 
Colpita, Siobhan s’irrigidì. Il suo sguardo si indurì in un istante e la ragazza voltò impercettibilmente il capo.
«Ammetto che la storia dei libri mi aveva quasi incuriosito. Sei molto brava a mentire, Siobhan.»
Lei gli rivolse uno sguardo interrogativo prima di rispondere. «Guardi che è la verità» disse poi seccata.
«Lo so. Non sto parlando di quella parte della conversazione. Non sei andata a New York per volantinaggio, le commissioni che avevi da svolgere erano proprio quelle che hai citato come assurde.»
Da interrogativo lo sguardo di Siobhan si fece sorpreso, sconvolto e poi rabbioso in pochi secondi.
«Come devo dirle che--»
«Nel tuo zaino ci sono tracce di cocaina. E’ così che ti sei procurata tutti quei soldi.»
 
Lei rimase impietrita e si limitò a fissarlo, le labbra semiaperte per la sorpresa.
«Come--» boccheggiò.
«Ne ho sentito l’odore sollevando il tuo zaino,» spiegò lui con sguardo duro interrompendola, «è inconfondibile.»
 
Per un secondo la rabbia fece posto alla paura nello sguardo di lei, ma fu immediatamente cancellata da nuovo furore.
Infuriata, la ragazza gli si allontanò bruscamente, stringendosi il libro al petto.
«Ma che cazzo è, un segugio?! Avrà sentito male, non so cosa--»
«Allora apri lo zaino.»
Lei deglutì. «Cosa?»
Lo psichiatra sembrava calmo ma il suo sguardo era di pietra. «Apri lo zaino,» le disse lentamente, «non voglio doverlo fare io.»
Siobhan lo fissò per un momento, quindi si allontanò di un altro passo e si voltò, attraversando la sala d’aspetto e uscendo dall’edificio in fretta.
Nonostante le aspettative, lo psichiatra non sembrò interessato a seguirla. Al contrario tornò nello studio, chiudendosi la porta alle spalle, e si diresse alla finestra, scostando le tende in tempo per vedere la ragazza uscire e imbattersi in un giovane uomo.
 
Non aveva percorso nemmeno cinque metri che andò a sbattere conto qualcuno che, anziché scansarsi, la prese per le spalle e la sbatté contro la parete dell’edificio, graffiandole la pelle delle mani.
«Eccoti qui, S.» ringhiò l’uomo, alitandole in faccia una zaffata di alcol e fumo, «ti ho cercata dappertutto.»
Siobhan sgranò gli occhi e si agitò, «Cosa cazzo ci fai qua? Ti avevo detto di non cercarmi.»
«I miei soldi, S. Rivoglio i miei cazzo di soldi, non mi pare di averli ancora visti.»
«Lasciami andare, stronzo.» sibilò lei divincolandosi. L’uomo obbedì stringendo gli occhi. Era mulatto, i capelli quasi rasati a zero, i muscoli delle braccia scattanti. Non poteva avere più di trentacinque anni.
«Ti ho dato i tuoi soldi, Vince, non so cos’altro vuoi da me.» ribatté lei stringendosi il libro al petto e aggirando l’uomo per non trovarsi con le spalle al muro.
«Non mi hai dato un cazzo di niente, puttana. Ti avevo detto ventimila, ne ho visti solo cinquemila.»
«Chiedi i soldi ai tuoi clienti, sono loro che non hanno pagato.» ringhiò di rimando lei stringendo i denti.
«Ah, sì?» l’uomo le si avvicinò, puntandole un dito contro, «e invece me la prendo con te. Te ne dovevi occupare tu, me ne avevi promesso ventimila ed ora me ne trovi ventimila, non un fottuto dollaro in meno.»
«Sai una cosa, Vince?» domandò lei avvicinandosi a lui di un passo mentre lui la fissava con rabbia, «vaffanculo.»
Non fece in tempo ad urlare quando lui le torse un braccio dietro la schiena e la sbatté di nuovo con la parete, stringendole il polso fino a farle pensare che gliel’avrebbe spezzato. Il libro di T.S. Eliot cadde a terra, ma era l’ultima delle preoccupazioni di Siobhan.
«Ascoltami molto bene, Siobhan. O mi porti i soldi entro dieci giorni o assumerò automaticamente che te li sia fottuta tu. E sai bene qual è la procedura in questi casi, vero? Hai dieci giorni, Siobhan. Svanisci nel nulla e ammazzo tuo figlio, e poi vengo a cercare te.»
La lasciò andare di scatto e lei cadde a terra, trattenendo le lacrime di dolore e di frustrazione.
«Dieci giorni.» ripeté camminando all’indietro mentre si allontanava, «sai che mantengo le promesse.»
La ragazza rimase in ginocchio sul marciapiede, al buio, in silenzio, finché non fu certa che fosse lontano.
 
Il dottor Lecter considerò più volte l’opzione di uscire dall’edificio e allontanare quell’uomo da Siobhan mentre assisteva alla scena. Valutò i vantaggi di ucciderlo a mani nude, e vagliò persino l’idea di uccidere anche lei, subito dopo. Sarebbe stato sicuramente interessante vedere la gratitudine negli occhi di lei alternarsi all’orrore e infine alla paura.
Non avrebbe perdonato la sua bugia, ma Baltimora era ancora troppo affollata a quell’ora per permettersi due cadaveri davanti allo studio.
Infine attese.
Anche quando l’uomo la spinse contro il muro minacciando di spezzarle un braccio non ebbe alcuna reazione se non quella di continuare a guardare, interessato e incuriosito.
Decise di uscire solo quando l’altro se ne fu andato.
 
Trovò Siobhan seduta contro la parete dell’edificio, il libro stretto al petto e gli occhi lucidi di lacrime che non avrebbe versato. Non si voltò nemmeno verso di lui quando lo sentì arrivare.
«Non dica agli assistenti sociali della cocaina, la prego.» mormorò senza sollevare lo sguardo.
Lui rimase in piedi accanto a lei, in silenzio.
«Che cosa voleva quell’uomo?» chiese infine.
«I suoi soldi. Gliene ho data soltanto una parte. Il resto mi sarebbe servito per riprendermi Conor.»
«Sei entrata in questo giro per tuo figlio?»
«Sì. Avevo bisogno di soldi, e in fretta. Le uniche opzioni erano prostituirmi o spacciare. Ho pensato che svolgere qualche commissione a volte non avrebbe potuto farmi troppo male.»
«Capisco. Hai bisogno di un passaggio?»
«Sa come la penso sui passaggi, dottore.» la ragazza tirò su col naso, ma non stava piangendo. Teneva il libro stretto al petto come se fosse stata l’unica cosa che le impediva di crollare.
«Lascia che chiami un taxi.»
«Quello sarebbe apprezzato, grazie.»
 
Attese in silenzio che lui avesse finito la telefonata, poi non si alzò.
 
«Mi impedirà di avere la custodia di Conor, dottor Lecter?» domandò quindi con un filo di voce.
«Non sei mia paziente, Siobhan. Sono vincolato dal segreto professionale e non potrei nemmeno se lo volessi.»
«Grazie.»
 
Lui si limitò a fissarla in silenzio nel buio denso delle prime ore della sera di Baltimora.
 
«Addio, Siobhan.» disse infine.
«Addio, dottor Lecter.»
 
 
 
 
 
 
*by William Alwyn Lishman, 3rd edition 1997
 
Nota dell’autrice: La storia, naturalmente, non finisce qua – altrimenti mi tirereste i pomodori e avreste ragione. Il capitolo, tuttavia, è leggermente più lungo del solito perché non potrò pubblicare niente da qui a un mese e quindi ho preferito non terminare in cliffhanger anche perché mi sta a cuore la vostra salute mentale (e la mia salute fisica conseguente haha). Buone vacanze e a presto x
 
H
 

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