I woke up with amnesia di fakeasmileandcarryon (/viewuser.php?uid=160293)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I woke up with amnesia ***
Capitolo 2: *** There's no place like home. ***
Capitolo 3: *** Go ahead ***
Capitolo 1 *** I woke up with amnesia ***
Capitolo 1
I woke up with amnesia
Gennaio, un anno prima.
POV Amberlee
«Ecco questa è la mia camera, anche se ancora per poco spero, io e Jared contiamo di andare a convivere dopo la laurea.. In ogni caso laggiù c’è la stanza dei nostri genitori, lì le scale che portano in mansarda..»
Mia sorella Christine continua ad illustrarmi ogni angolo della casa, indicando ogni porta, muro e finestra.
Anche se, in realtà, questa casa la ricordo benissimo. Purtroppo, alcuni degli ultimi ricordi che ho sono proprio il trasloco in questa villetta, l’odio che avevo provato nei confronti dei miei genitori per avermi trascinato via dalla mia vita a Perth e costretto a frequentare l’ultimo anno di superiori in un college cristiano qui a Sydney.
Perciò ricordo benissimo che, proprio dietro le mie spalle, si trova la mia stanza, il mio unico rifugio in quella gabbia, il mio piccolo mondo.
Girandomi resto un attimo interdetta nel non ritrovare il cartello di divieto di transito che avevo appeso sulla porta, in segno di sfida, appena ero arrivata. Probabilmente, in quell’anno, col tempo, l’avevo trovato un po’ ridicolo.
Lentamente inizio a muovere dei passi verso la camera, istintivamente, mentre Christine continua indisturbata a raccontare i diversi dettagli sul problema che, a quanto pare, avevamo avuto due mesi fa con le tubature nel bagno degli ospiti.
Allungo una mano tremolante verso la maniglia. Chissà se rimettere piede su quella moquette significherà essere assalita da ricordi.
Indugio un attimo sul pomello, in lontananza mi arriva la voce di Christine che, senza accorgersi di nulla, è passata ad elencare i nomi dei venti giardinieri che mamma ha licenziato in quest’anno. Provo ad ascoltarla per un attimo, senza capire come sia arrivata a parlare del giardino.
Finalmente prendo coraggio ed apro la porta.
Resto impietrita nel vedere l’interno. Questa non può essere la mia camera.
Non c’è colore, il bianco e il nero prevalgono, qua e in là giusto qualche sfumatura di grigio. Dove ricordavo esserci il letto con la trapunta a chiazze colorate che tanto amavo ora ce n’è uno rivestito da un noioso copriletto a righe. La scrivania è svuotata dalle mille cianfrusaglie per far spazio a due pile di libri scolastici accanto al portatile. Nessun cd in vista, nessun romanzo. La luce d'estate australiana che entrava dalla finestra è una nota di colore che sembra essere fuori posto.
Superato lo shock iniziale, entro nella camera e mi guardo meglio intorno, nel tentativo di capire dove di stiano nascondendo le mie vere cose.
Noto con disgusto, su una mensola sopra il letto, una foto di famiglia, dove sorridiamo vicino all’albero di Natale, ed accanto una foto di me e Christine da bimbe che giocavamo felici su una spiaggia a Perth. Dove erano finite le mie foto? Tutte le foto dei vecchi amici con cui avevo riempito quasi un’intera parete, come a volerli avere ancora accanto, dove erano? Al loro posto ora c’era uno stemma universitario. Ma soprattutto, dove erano le foto di quell’anno buio appena passato? Possibile che, nell’arco di un anno, io non abbia fatto nemmeno una foto da poi attaccare ad un’altra parete? Io che starei sempre con la macchina fotografica in mano?
Sento Christine in corridoio interrompere il suo monologo ed un attimo dopo appare sulla porta con aria preoccupata.
«Oh, volevo prepararti in qualche modo a.. – fa una pausa ed indica la stanza alzando le braccia con fare teatrale – ..questo» conclude.
La vedo analizzare la mia espressione terrorizzata. Fa qualche passo verso di me, si avvicina e posa le sue mani sulle mie spalle.
«Questo è stato un anno ricco di cambiamenti per te e sei partita a rivoluzionare il tutto proprio dalla tua camera. So che negli ultimi giorni di cui hai ricordi questa camera era caotica e dispersiva, – continua – ma il tuo mondo è cambiato, hai rimesso in ordine le tue priorità: ti sei riavvicinata alla famiglia, dopo il trasloco ti ci è voluto un po’ ma hai compreso di nuovo il significato dell’essere uniti e volersi bene» Trattengo una smorfia a queste parole e la lascio continuare. «Ti sei diplomata con ottimi voti, hai fatto carte false per essere ammessa all’università e ti hanno accettata. Hai deciso di studiare medicina, vuoi diventare dottore proprio come nostro padre. In un solo anno sei riuscita a diventare il piccolo orgoglio della famiglia. Proprio non ti ricordi nulla?»
Stringe la presa e resta a guardarmi, ora con aria compassionevole.
Mi allontano da lei e le do le spalle. Non voglio la compassione di nessuno.
Resto a pensare alle parole di Christine, al breve riassunto di quell’anno. Ora si spiega lo stemma della Melbourne University appeso alla parete e il “bel” quadretto familiare di Natale, in cui sembro quasi felice. Sono diventata veramente questo? Mi sono omologata, aggiunta alla catena di montaggio della famiglia Walker?
Dietro di me sento mia sorella attendere, mi giro a guardarla e lei mi sorride paziente, comprensiva.
Dove era finita la Christine che odiavo e con la quale non riuscivo a stare nella stessa stanza per più di due decimi di secondo?
Cavolo, le cose sono veramente cambiate?
Prendo coraggio e faccio un bel respiro prima di parlare.
«Ho il vuoto, totale. Non ricordo più nulla dell’anno passato. Ricordo il trasferimento, le litigate con mamma, le porte che sbattevano e io che mi rintanavo qui ad ascoltare musica mentre riguardavo le foto degli amici di Perth. Mi ricordo la sera prima del primo giorno di scuola, l’ansia per i nuovi compagni, il piano di fuga che avevo escogitato prima di dormire, sapendo che poi non l’avrei messo in atto. Ma se provo a pensare al giorno seguente, ho solo ricordi confusi della colazione, della mia maglia preferita che avevo messo come porta fortuna, per poi ricordarmi di quell’oscena divisa che dovevo indossare. E poi diventa tutto nero.»
Mi fermo per riprendere fiato e mi siedo per affrontare meglio l’ultima parte del racconto, prima che le vertigini mi assalgano. Christine mi affianca sul letto, carezzandomi la schiena con una mano.
«L’ultimo ricordo in assoluto, il più recente, prima del risveglio in ospedale, è quello di due settimane fa, qualche giorno dopo il diploma. Ho quest’immagine di me, mentre guido, la pioggia che batte sul parabrezza e le lacrime che scendono a dirotto. Ero distrutta, ma non riesco a ricordare per quale motivo. Ricordo di aver perso il controllo mentre cercavo di calmarmi. Ricordo di aver provato a riprendere il volante. Io volevo fare qualcosa ma ero impotente, la macchina stava già finendo fuori strada. Poi di nuovo il vuoto. Ma a ripensarci riaffiora quel dolore, il dolore di quella sera. Ora lo trovo insensato, non ne conosco più la causa»
Mi porto una mano al petto e mi accorgo di tremare.
«He-hey.. E’ tutto apposto ora, siamo qui, stai bene. E’ un nuovo inizio, puoi riprendere in mano la tua vita»
Sento la mano di Christine intensificare le carezze sulla mia schiena.
Scatto in piedi, ancora scossa dal fiume di parole che sono uscite dalla mia bocca un secondo fa. Ma ora fremo di rabbia.
«Quale vita? Quale? Io non mi ci riconosco in tutto questo, io non so cosa sono diventata in quest’ultimo anno. Non so come ho affrontato il college, se ho fatto amicizie e con chi. Non so quando ho deciso di diventare un dottore e tanto meno come. – non riesco a contenere le urla – Mi sono risvegliata e non ricordavo più come fossi finita lì. Perciò non venitemi a dire che sto bene, che passerà, che ho perso solo un anno di un’intera vita. Non voglio sentire niente. Io sto male.»
Christine era sconvolta quanto me.
«Calmati – i suoi occhi mi implorano, terrorizzati – è una forma di amnesia retrograda, i dottori dicono che..»
«Lo so quello che dicono i dottori. Dicono che è solo transitoria, che posso recuperare tutto, ma non ci credo. Come è possibile? Io vedo solo nero.» urlo senza lasciarla finire.
Cerco di calmarmi. «La mia testa è solo nero» sussurro infine, concludendo lo sfogo.
Sento il bisogno di stare sola, di uscire da quella camera che sento non appartenermi.
La porta del bagno è la prima via di fuga che vedo. Me la sbatto alle spalle e resto appoggiata ad essa per un po’.
Christine oltre la parete dice che mi lascia sola e poi la sento uscire dalla stanza. Nella mia testa la ringrazio per questo e, per quanto io posso ricordare, sono sicura sia la prima volta che le sono grata per qualcosa.
Quasi spaventata mi avvicino allo specchio e guardo la mia immagine riflessa per un po’.
Osservo i capelli castani scendere ad onde fin sotto le spalle, il collo delicato, le labbra carnose e il naso perfetto se non per quella piccola inclinazione a causa della botta da bimba. I miei occhi color cioccolato sembrano di vetro, vuoti. Poi noto un particolare nuovo, sulla fronte ora è comparsa una minuscola cicatrice, poco sopra il sopracciglio destro, segno dell’incidente.
Almeno allo specchio questo è l’unico particolare che ho impiegato un attimo a riconoscere.
Fuori da questo bagno, invece, ho una vita intera di decisioni a me estranee da decifrare.
Provo di nuovo a sforzare il mio cervello. Ma niente. Faccio un ultimo tentativo massaggiandomi le tempie. Nei film americani, quando arrivano a grandi conclusioni e fanno scoperte colossali, hanno sempre le mani sulle tempie. Ma niente di nuovo.
Nella mia testa si susseguono tutti i ricordi da bimba viziata, poi quelli da adolescente ribelle, che prende coscienza di quello che veramente è e di quello che vuole essere. Mi tornano in mente la scuola a Perth, i miei compagni di classe, i professori che odiavo e che odiavano me, la mia migliore amica, il mio primo fidanzatino all’asilo e l’ultimo poco prima di andarmene, la mia famiglia disgustosamente ricca e con la reputazione da mantenere che cercava in ogni modo di non farmi vedere quel cattivo ragazzo, facendomelo piacere sempre di più. Poi, di nuovo, ripenso al trasloco, all’odio crescente per i miei, ai primi giorni a Sydney a fine agosto, ai giri nel quartiere pieno di figli di papà, la ricerca disperata di gente simpatica, l’ansia per il college il primo giorno dell’anno scolastico. Ma non riesco a ricordare di averci mai messo piede in quella dannata scuola. Per un intero anno nella mia testa c’è solo buio, fino ad arrivare a quel secondo prima l’incidente.
Come torno con la mente a quell’attimo, sento di nuovo un peso sul petto.
Mi costringo a pensare ad altro per non sentirmi male.
Per quanto mi scocci ammetterlo, ho un’unica soluzione: la mia famiglia. Nonostante l’ultimo sentimento che ricordo di aver provato per loro sia l’odio, a quanto pare le cose in quest’anno buio sono cambiate. E, in ogni caso, sono le uniche persone che so per certo di conoscere in questa città. Che lo voglia o meno, sono le uniche persone che ricordo di conoscere in grado di rispondere alle mie domande.
Chi sono? Che fine ha fatto la Amberlee Walker che ero un anno fa?
Lalala
Salve a tutti.
Eccomi qua con l'inizio della mia prima storia.
Le altre due che avevo pubblicato erano tutte OS e devo dire che
sono un po' emozionata a pubblicare questo capitolo.
Dal prossimo ci saranno anche i ragazzi, questo è incentrato esclusivamente
sulla protagonista femminile della storia.
Non vedo l'ora di leggere cosa ne pensate, spero
ci sia qualche anima pia disposta a recensire e darmi qualche parere.
Premetto che prima di scrivere mi sono fatta una piccola cultura
sull'Australia, innamorandomene, per attenermi il più possibile
alla vita lì e, anche se mi scombussola un po' pensare all'estate
in gennaio, farò del mio meglio per rendere il tutto più verosimile possibile.
Ora la smetto di parlare e lascio parlare voi.
-Arianna.
P.S.: ultimissima cosa, per chi se lo chiedesse
ho cambiato nick, ero AriCullen, autrice
di "Kiss me", su Luke Hemmings, e di
"How I met your mother", su Conor Maynard.
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Capitolo 2 *** There's no place like home. ***
Capitolo
2
There’s
no place like home
Gennaio, oggi.
POV Luke
Appena
metto piede fuori dall’aeroporto mi sento di nuovo a casa. Di
nuovo a Sydney.
È passato un anno dall’ultima volta che sono stato
a casa.
Quel giorno di dicembre l’estate era appena iniziata e
lasciare la città era stata dura. Lasciare delle persone lo
era stato ancora di più.
Ma non si poteva non partire. Da un po’ di tempo mi divertivo
con i miei migliori amici a suonare e scrivere canzoni.
L’anno scorso le cose erano iniziate a girare per il verso
giusto e ci avevano voluto per un anno a Londra, per trasformare una
passione in un vero e proprio lavoro. Ora non siamo più
semplicemente Luke, Mikey, Calum e Ash, quattro ragazzi che si
divertono e basta: ora siamo i 5 seconds of summer.
Resto per un po’ imbambolato, trolley in mano e naso
all’insù. L’aria di Sydney è
diversa da quella delle altre città, ha qualcosa di
speciale. Forse perché non c’è nessun
posto come casa.
Vedo che Calum mi imita, in quest’anno frenetico passato
dall’altra parte del mondo non potevamo ammettere, e nemmeno
capire, quanto ci mancasse questo posto.
Mi giro, osservo Ashton farsi il primo selfie australiano dopo una vita
e sbrigarsi a postarlo su Instagram. Non si smentisce mai. Michael, con
i suoi capelli momentaneamente verdi, invece, si guarda intorno, sta
aspettando che noi siamo pronti per andare e nel frattempo ne
approfitta per accogliere a casa il suo inseparabile peluche
‘Daniel the lion’.
Mi chiedo cosa pensi la gente che ci passa accanto. Dobbiamo sembrare
quattro ritardati. E a volte lo siamo veramente. Ma pazienza, questi
tre sono i miei fratelli e, ritardati o no, gli voglio un bene
indescrivibile. In momenti come questo mi viene da chiedermi se non
avessimo dovuto scegliere un altro nome per la band. Bromance ad
esempio.
«Ragazzi – Ashton infila il cellulare in tasca e ci
guarda uno per uno – che dite, andiamo?»
Tutti e tre mostriamo il nostro consenso. Ci accordiamo per cenare
insieme nell’appartamento preso all’inizio della
nostra avventura, se così si
può chiamare.
Ora è il momento di tornare a casa, dalle nostre famiglie.
Infilo gli occhiali da sole mentre mi dirigo verso uno dei tanti taxi
posteggiati nel parcheggio dell’aeroporto, per non rimanere
accecato dal sole.
Mentre il tassista mi porta a destinazione, mi viene da ripensare al
temporale estivo che si era abbattuto sulla città la sera
della nostra partenza. La quantità di pioggia di quella sera
non si era mai vista. E invece oggi il sole fa evaporare ogni cosa. Con
non poco egocentrismo mi ritrovo a pensare al cielo come ad un
amplificatore dei mie stati d’animo. Ancora ricordo quel peso
sul petto che sembrava portarmi a fondo mentre l’aereo
decollava. E il dolore era continuato per un intero anno, ogni volta
che ripensavo a quelle lacrime nascoste dietro una felpa sul volo
diretto a Londra.
Ma ora non c’è più motivo di piangere e
stare male. Sono tornato e questo significa riappropriarmi di tutto
quello che mi era mancato. E ho il sole dalla mia parte.
Pago la corsa al tassista, lasciandogli una mancia alquanto generosa.
Dovrebbe ringraziare il mio buon umore di oggi.
Percorro a grandi falcate il vialetto di casa e, invece di recuperare
la chiave di scorta sotto il vaso di rose lì accanto,
preferisco suonare il campanello per farmi venire ad aprire da mia
madre, che si aspetta il mio rientro per la prossima settimana.
Resto impassibile con le mani dietro la schiena, mentre vedo la porta
aprirsi. Intravedo la divisa da giardinaggio di mia madre e un secondo
dopo, la porta è spalancata.
Mia madre si porta le mani alla bocca, la frangetta bionda si solleva
con le sopracciglia per l’espressione di sorpresa, mentre gli
occhi si riempiono di lacrime.
Non perdo tempo un attimo per abbracciarla. La cingo con le mie
braccia, stringendola al petto e lasciandole un bacio sulla nuca. La
sento singhiozzare di gioia mentre mi stringe più forte che
può. Sono passati un anno e due settimane
dall’ultima volta che aveva potuto abbracciarmi.
«Il mio piccolo, sei diventato un uomo.» sussurra.
«Un uomo che ama la sua mamma» le rispondo
accarezzandola, leggermente in imbarazzo, come ogni volta che mi
ritrovo a parlare di sentimenti.
La sento sorridere. Quel suono ricomincia a riempirmi il cuore,
svuotato, col tempo, dalla nostalgia di casa.
Un secondo dopo si è già messa
all’opera per prepararmi qualcosa da mangiare. Mi appoggio
sullo stipite della porta della cucina e assaporo per un po’
il profumo del cibo che cuoce in pentola, il profumo di casa.
«Perché non vai a riposarti un po’? La
tua camera è intatta, l’ho tenuta sempre pronta
per il tuo ritorno.»
«Grazie mamma. – dico sorridendole – Ma
mi riposerò più tardi, adesso vorrei andare da
qualcun altro.»
Ho bisogno di cancellare del tutto la nostalgia e andare da colei che
avrebbe colmato ogni vuoto con uno sguardo.
Vedo mia madre, china sui fornelli, irrigidirsi e lasciar cadere il
mestolo con un colpo secco.
Si volta e mi osserva. Nel suo sguardo noto della tensione.
«Non è il caso che tu vada da lei.»
Cosa? La confusione si impossessa del mio volto. «Che
vorresti dire?» dico scrutandola.
«Dico che le cose non sono più come le hai
lasciate. L’hai più sentita durante questo
anno?»
«No, ma erano i nostri accordi. – ribatto secco
– Sarebbe stato più facile per lei starmi lontano,
meno doloroso.»
Vedo mia madre scuotere la testa, è in
difficoltà, lei non sa cosa dire così parlo io.
«Ha.. ha un altro?» dico con la voce che si spezza.
Istintivamente chiudo gli occhi, serrando i pugni.
«No, almeno non credo»
Mi rilasso, anche se non del tutto. «Allora cosa?»
Apro gli occhi e la vedo annaspare in cerca delle parole adatte.
«Lei è.. cambiata.»
«Di cosa stai parlando?»
«Non è più la ragazza che conoscevamo
noi.»
Sento il cuore perdere un battito. Afferro una sedia in cucina e mi ci
siedo, poggiando i gomiti sui ginocchi mentre cerco di far chiarezza
nella mia testa.
Mia madre resta immobile, chiaramente preoccupata.
«Spiegati» la imploro.
«Ecco.. – sospira e, finalmente, si decide a darmi
qualche spiegazione – dopo la tua partenza non l’ho
sentita per un bel po’, ho pensato avesse trovato un
appartamento e fosse impegnata nel trasloco. Aveva detto che voleva
andarsene di casa, ricordi?»
Annuisco debolmente, senza alzare lo sguardo, impaurito da come poteva
continuare quel discorso.
Mia madre riprende a parlare, cauta.
«E invece sono venuta a sapere che è rimasta dai
suoi e che era felice con la sua famiglia»
A queste parole alzo la testa di scatto. «Lei odia i suoi
genitori e sua sorella, odia la sua intera famiglia, non può
essere vero, ti sbagli.»
«Vorrei tanto sbagliarmi, tesoro mio» Si avvicina
lentamente e posa la sua mano sulla mia spalla, stringendo forte.
«Ho provato ad andare a trovarla un paio di volte,
– continua – ma non mi hanno lasciata
entrare. Lasciala stare, non farti più male di
così». Pronuncia le ultime parole in un debole
soffio, nella speranza materna di vedere il proprio figlio soffrire il
meno possibile.
NO. Io non posso lasciare stare. E non voglio.
Mi alzo di scatto ed esco di casa. Sento mia madre richiamarmi, ma sa
benissimo anche lei che non posso restare fermo mentre mi sfilano dalle
mani la persona più importante della mia vita.
Recupero il mio amato skateboard dal garage e parto, alla
velocità massima che il mio mezzo di trasporto mi offre.
Per tutto il tragitto continuo a pensare
all’assurdità del racconto di mia madre. Anche se
fosse veramente rimasta dai suoi non può essere felice.
Conoscendola – e nessuno la conosce meglio di me –
si sentirà in trappola, chissà con quale ricatto
l’hanno costretta a rimanere. Non può essere
diversamente.
Inizio ad ideare una decina di possibili piani d’azione per
fuggire insieme.
Non lascerò che quei mostri dei suoi genitori ci
separino. Avevano provato a farlo per un intero anno, quando eravamo al
college, senza mai riuscirci. Forse la mia partenza era stato un punto
a loro favore, forse lei non era riuscita a trovare la forza di
affrontarli da sola, ma ora che sono tornato
l’aiuterò, a qualsiasi costo.
Mi accorgo di essere quasi arrivato al suo quartiere.
Per un attimo accantono il problema e inizio ad assaporare il momento
in cui l’avrei avuta finalmente di fronte a me. Finalmente
stavo per stringerla nuovamente: l’avrei stretta al mio
petto, senza più lasciarla andare, accarezzandole i suoi
capelli castani e, fissando i miei occhi oceano nei suoi cioccolato, le
avrei sussurrato quanto l’amassi: la mia piccola Amberlee.
Eccomi di nuovo qui.
Questo capitolo è stato duro da scrivere,
devo ammetterlo, soprattutto
perchè scritto dal punto di vista maschile.
Mi rendo conto anche che questi primi capitoli
possono essere un po' noiosi e difficili, ma siamo solo
all'inizio e la storia si sta pian piano delineando.
Grazie a chi ha letto e recensito il primo capitolo,
spero di sapere i vostri pareri anche su questo capitolo.
A presto, Arianna.
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Capitolo 3 *** Go ahead ***
Capitolo 3
Go ahead.
POV Amberlee
Quando mi sveglio sono
le 11 del mattino e nel notarlo mi prende un colpo: non posso
permettermi di dormire fino a tardi. Subito mi alzo, corro in bagno per
infilarmi sotto la doccia e l’acqua calda sembra rilassare
per un attimo il mio corpo continuamente sotto pressione.
Torno in camera e mi vesto prendendo dei pantaloncini corti di una
vecchia tuta e una t-shirt qualsiasi, che essendo extra-large mi fa
quasi da vestito, ma non ci faccio granché caso.
Scendo scalza le scale mentre raccolgo i capelli umidi in uno chignon
disordinato, la casa è particolarmente silenziosa. Strano
pensare non ci sia nessuno, nell’ultimo periodo non mi hanno
lasciato mai sola. La mia famiglia cerca di non farmi notare la
costante presenza di qualcuno ma ho colto questo particolare sin
dall’inizio. Ho classificato questo atteggiamento come
un’espressione della loro premura, per assicurarsi non
rimanessi sola quando una delle mie frequenti crisi fosse arrivata;
anche se, a volte, la vocina nella mia testa della vecchia me ritiene
sia solo ed esclusivamente per la loro mania del controllo.
Entro in cucina e, con la meccanicità della routine, prendo
tazza e cucchiaio, i cereali dalla credenza e apro il frigo per
prendere il brik del latte. Verso un po’ di cereali dalla
scatola nella tazza e poi li annaffio con del latte. Inizio a mangiare
pensierosa, concentrata sui miei vari impegni. Do un’occhiata
distratta al calendario e nel notare la data di oggi mi viene un tuffo
al cuore.
È passato esattamente un anno da quando ho rimesso piede in
questa casa, dopo le due settimane in ospedale.
Un anno e ancora fatico a capire chi sono.
Con qualche – miliardi – di difficoltà
ho ripreso in mano le redini della mia vita.
Ho iniziato dalle cose più banali, come ricomprare un
cellulare nuovo – viste le condizioni pietose di quello
vecchio dopo l’incidente – fino a rimanere
scioccata nell’apprendere di essere stata una ragazza
talmente solitaria da non aver stretto nessun tipo di rapporto con
nessuno. A quanto pare il trasferimento a Sydney non ero riuscita a
digerirlo nemmeno con il passare del tempo, tanto da isolarmi dal resto
del mondo e riavvicinarmi alla famiglia. Ma da dopo
l’incidente, la positività, che prevale sui
momenti di depressione, mi ha aiutata ad apprezzare la città
e a fare nuove amicizie, anche se con persone che una volta avrei
odiato a prima vista.
Poi ho recuperato le nozioni scientifiche, andate perse, necessarie ad
affrontare l’università. Sinceramente non capisco
ancora per quale ragione la mia scelta fosse ricaduta su medicina, in
effetti sono abbastanza sicura che non avessi intenzione di continuare
gli studi, ma ormai non volevo deludere mio padre.
Poi c’era stata mia madre da non deludere. Così in
quest’anno mi sono affiancata a lei nei suoi banchetti e
feste di beneficenza per ogni tipo di occasione.
In qualche modo, infatti, mi sono sentita di non dover deludere
nessuno, ritenendomi responsabile del dolore che avevano provato
credendomi morta in quell’incidente.
L’unica che non mi è pesato accontentare
è stata mia sorella, Christine, nonostante continuassi a
trovare il suo fidanzato Jared incredibilmente noioso. In effetti mi
sono resa conto di non averla mai conosciuta veramente, ero
completamente inconsapevole di quanto fosse piacevole passare del tempo
con lei.
Il riavvicinamento a lei è una delle poche cose che riesco a
concepire di aver fatto nell’anno di buio, che, come fosse un
puzzle, sono riuscita a ricostruire pezzo per pezzo tramite i racconti
dei mie familiari. Ma nonostante questo, nessun ricordo vero e proprio
è tornato a galla. Il dottore, nelle sue visite periodiche
di controllo, continua a ripetermi che è necessario solo che
mi circondi delle persone che ho avuto accanto in quell’anno
andato perso e poi tutto riaffiorerà alla memoria. Ma,
nonostante la mia famiglia è con me giorno e notte, non
succede ancora niente.
Il mio flusso di pensieri viene interrotto dal suono del campanello.
Sobbalzo appena nel sentirlo, sorpresa, e vado ad aprire.
Il ragazzo che mi ritrovo davanti è di una bellezza
sconcertante. Non posso fare a meno di iniziare a squadrarlo dalla
testa ai piedi. Alto, capelli biondi col ciuffo sparato in aria, occhi
azzurri, piercing al labbro che accentua l’aria da bad boy
che si porta dietro, la canotta che indossa lascia vedere
braccia muscolose mentre gli skinny jeans neri fasciano due gambe
perfette, da fare invidia a qualsiasi ragazza, e delle vans total black
completano l’opera. Per un attimo mi sembra quasi di averlo
già visto, ma mi serve solo un secondo per realizzare che
quella sensazione deriva dal fatto che sembra la copia di uno di quei
modelli che vedi sulle riviste patinate di moda.
Noto con imbarazzo che anche lui mi sta fissando e
l’intensità del suo sguardo mi fa subito arrossire.
Deduco che deve averlo notato dal sorriso affettuoso che compare sulle
sue labbra, lasciando spuntare delle fossette meravigliose sulle sue
guance.
So che dovrei dire qualcosa, tipo chiedere chi sia o come mai ha
suonato al campanello di casa mia, ma resto imbambolata per un attimo
nei suoi occhi oceano.
«Oh, Amberlee» rompe lui il silenzio con un
sussurro, mentre con una mano accarezza la mia guancia.
Istintivamente colpisco il suo braccio per allontanarlo dal mio viso e
faccio un passo indietro.
«Come ti permetti? E come conosci il mio nome?» le
mie parole sono un misto di indignazione e confusione.
«Cosa?» risponde sbalordito.
POV Luke
Resto a guardarla sbigottito. La vedo sollevare le sopracciglia, in
attesa che parli.
Vuole davvero delle spiegazioni perché l’ho
chiamata per nome?
La confusione mi fa ragionare a rilento. Poi osservo comparire quella
piccola rughetta sulla sua fronte che amavo accarezzare per farla
rilassare. Trattengo l’istinto, ricordando bene il
perché di quella ruga. Passando quasi tutto il mio tempo con
lei avevo elaborato una teoria secondo la quale le veniva solo in tre
situazioni: quando era confusa, quando era preoccupata ed agitata o
quando non otteneva ciò per cui si intestardiva.
Mi convinco a parlare, senza capire il senso di quello che devo dire.
«Conosco il tuo nome perché abbiamo frequentato lo
stesso college, il Norwest Christian College, ovviamente. –
mi accorgo di ritrovarmi a parlare lentamente, scandendo ogni sillaba,
come se avessi davanti una ritardata e subito cerco di tornare a
esprimermi normalmente – Hai presente? Le lezioni di
letteratura, la pausa pranzo, i laboratori di chimica..»
sorrido involontariamente per le allusioni implicite che portano queste
parole.
Lei sembra essersi rilassata, la ruga di tensione è
scomparsa e ora sorride.
Ma quando parla nuovamente la sua voce gentile è distaccata,
formale.
«Credo ci sia stato un errore. Devi esserti confuso con
qualche altra Amberlee perché, vedi, io in quella scuola ci
ho messo piede un solo giorno e mi sono trovata talmente male che i
miei hanno deciso di farmi diplomare da privatista.»
La guardo, nuovamente scioccato. Ma di che diavolo sta parlando?
«Mi dispiace che tu non abbia trovato chi stavi cercando,
buona giornata» riprende lei e nel dire le ultime parole
accosta la porta.
Istintivamente la blocco prima che si chiuda del tutto e con la forza
la riapro. La resistenza che pone Amberlee è minima ma
quando riappare nella mia visuale la vedo di nuovo agitata,
più che altro infastidita.
Subito mi assale un moto di rabbia che non riesco a trattenere.
«Smettila – quasi urlo sbattendo il pugno sullo
stipite della porta, ma subito cerco di modulare nuovamente il mio tono
di voce – di dire cazzate» concludo la frase con
più calma possibile, anche se l’ira traspare dalle
mie parole.
«Ho detto che non ti conosco!» questa volta ad
urlare è lei.
Sento dei passi venire dall’interno della casa, accompagnati
da una voce.
«Cosa sta succedendo qui?»
«Niente mamma, questo ragazzo ha semplicemente sbagliato
persona»
Mentre Amberlee parla, compare alle sua spalle la madre. La osservo
irrigidirsi nel vedermi sulla porta.
«Perché non sali in camera tua tesoro?»
dice con falsa gentilezza poggiandole una mano sulla spalle per
spingerla verso le scale. «Di lui me ne occupo io.»
aggiunge e questa volte la sua voce è tagliente.
Osservo Amberlee annuire e allontanarsi. Lo sguardo impaurito che mi
rivolge prima di salire le scale mi spezza in due.
«Vattene e non farti più vedere, non ha
più bisogno di te ora.»
La voce di sua madre distoglie la mia attenzione da lei e in un attimo
sento il mio sguardo caricarsi d’odio.
Vorrei non urlare e restare calmo.
Qualsiasi cosa i suoi le abbiano detto, devo smentirla e, farmi vedere
come un ragazzo aggressivo, di certo, non migliorerà la mia
posizione con Amberlee.
Inizio a respirare a fondo, per recuperare la calma necessaria ad
affrontare la signora Walker.
«Mi hai sentito? Ho detto che devi andartene.»
Ma a queste parole scandite con freddezza pungente, tutti i miei
tentativi di restare calmo se ne vanno a farsi benedire. Fanculo se
Amberlee mi sente urlare, non posso rimanere impassibile.
«Cosa le avete fatto? Il lavaggio del cervello? Cosa le avete
detto per farla rimanere qui? Con cosa la state ricattando? Sapete
benissimo che lei vi odia e la capisco. Siete solo degli sporchi
ricconi che pensano di avere il mondo in mano. Ma non avrete vostra
figlia ancora lungo, non lascerò che me la portiate via.
Qualsiasi cosa le abbiate detto o fatto, noi due ci amiamo abbastanza
da affrontare ogni ostacolo.»
Urlo fino a sentire un dolore raschiante alla gola. La madre di
Amberlee è rimasta impassibile alla mia sequela di domande,
accuse e insulti. Nemmeno una parola è riuscita a scomporla
e non l’ho vista battere ciglio. Tutto ciò non fa
che aumentare la mia rabbia e il mio odio nei suoi confronti.
«Mi dispiace distruggere i tuoi sogni, ragazzino, ma non hai
speranze. Non farti più vedere o chiamo la
polizia.»
Conclude con la stessa freddezza di prima, nemmeno una nota di
rimpianto, paura o rabbia nella sua voce.
Mi sbatte la porta in faccia, lasciandomi frastornato.
Il vuoto che avevo sperato di riempire grazie ad Amberlee, ora sembra
essersi elevato a potenza.
Eccoci qua con
il nuovo capitolo.
Grazie mille per chi ha letto i capitoli precedenti,
a Letizia 25 e Kri93 che li hanno recensiti
e grazie ai nuovi lettori che spero arriveranno.
Per me è molto importante sapere cosa ne pensate,
ricevere i vostri pareri e anche le vostre critiche,
quindi: recensite in tanti!
Alla prossima, Arianna.
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