Demons

di VaVa_95
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** - Prologo - ***
Capitolo 2: *** - Cap. 1 - ***
Capitolo 3: *** - Cap. 2 - ***
Capitolo 4: *** - Cap. 3 - ***
Capitolo 5: *** - Cap. 4 - ***
Capitolo 6: *** - Cap. 5 - ***
Capitolo 7: *** - Cap. 6 - ***



Capitolo 1
*** - Prologo - ***


Nota: I fatti riportati a seguire sono completamente immaginari. Scrivo per semplice diletto personale, e i personaggi di cui parlo non mi appartengono.

 

Demons

 


Prologo

 
“There’s no escape from this rage that I feel”
Bullet For My Valentine – Waking The Demon


 
I demoni esistono in tante forme. In genere sono noti per significato che assumono in ambito religioso.
Ma non tutti leggono i testi religiosi, non tutti lo sono… anzi, la maggior parte delle persone perde la fede appena succede qualcosa che, neanche a dirlo, fa dubitare dell’esistenza di qualcosa o qualcuno di superiore.
Per le persone ordinarie i demoni sono tutt’altro. Rappresentano i fantasmi del passato, ciò che si è stati e che adesso non si è più, ciò che si voleva essere ma invece non si è diventati.
Non a caso si dice che, da bambini, si smetta di controllare che ci siano mostri sotto al letto quando si realizza che, in realtà, essi sono dentro di noi.
I demoni avrebbero, tecnicamente, l’aspetto di piccoli mostriciattoli neri, pelosi, dagli occhi rossi iniettati di sangue e dal sorriso beffardo, sadico, terribile. Hanno un ghigno che ghiaccia il sangue nelle vene. Si cibano di paura, e l’uomo è fatto di paura.
Questo dicono dei demoni. Dei mostri che perseguitano la propria vittima, che sono lì sulla sua spalla anche se essa cerca di ignorarli.
 
I demoni come figure terribili.
C’è sempre un “ma”, però. Perché non è detto che quei mostri siano poi così cattivi. Tutti i mostri in fondo sono umani. E la cattiveria non è insita nell’uomo. Esiste, quello è vero, ma non sono gli uomini ad essere cattivi. Lo diventano. Perché alla fine si sa che il mondo è crudele.
E se i mostri sono creati dall’uomo, allora significa che sono figure astratte. Che ce li creiamo da soli, per difenderci da chissà cosa. Per difenderci da ciò che è bello, perché in un mondo che in generale viene etichettato come “schifo” si deve eliminare anche la più remota speranza di bellezza per non affondare in essa (perché, per l’appunto, è quella che atterrisce).
Ce li creiamo noi, quindi. A volte, per difenderci.
O forse quasi sempre.






Note dell'autrice:
Ehilà *fa ciao ciao ai lettori con la manina*
Okay, ammetto che inizialmente non avevo in programma di pubblicare questa long (di cui per ora ovviamente avete solo il prologo, che dice tutto ma al contempo non dice niente). Ma quando l'ho conclusa ho pensato che, in un certo senso, ne valeva la pena. 
Sono secoli che non pubblico una long come si deve, qui su EFP. E mentre scrivevo questa fanfiction pensavo che, di fatto, ho bisogno di pareri nuovi, di confrontarmi con altri autori... e non posso farlo, senza pubblicare ciò che effettivamente scrivo. Quindi eccomi qui, con un piccolo esperimento, una piccola long.
Essendo già finita, posso già dire che essa è divisa in due parti e ha un totale di venti capitoli, ma probabilmente pubblicherò solo i primi dieci perché "why not?". La seconda parte in fondo è molto fantasiosa.
Ma mi sto perdendo in chiacchiere, e queste note sono già più lunghe del prologo in sé. Quindi che dire? Beh, diciamo che è meglio lasciare valutare a voi, soprattutto perché questo prologo non dice molto. Chi mi conosce, però, sa che amo questo genere di prologhi che lasciano passare tutto e niente al contempo. Dal prossimo capitolo, il primo, le cose saranno più chiare.

Detto ciò, mi ritiro nel mio angolino buio. E voi, che ne dite di farmi sapere che cosa ne pensate? *occhi da cucciolo*
Al prossimo capitolo!
Kisses
Vava_95

P.S. dato che ha insistito tanto, un ringraziamento speciale va a SynysterIsTheWay, perché senza le sue pressioni (praticamente una pistola puntata alla tempia) non mi sarei nemmeno sognata di pubblicarla.

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Capitolo 2
*** - Cap. 1 - ***


Nota: i fatti riportati a seguire sono completamente immaginari. Scrivo per semplice diletto personale, e i personaggi di cui parlo non mi appartengono.

 

CAP. 1



 
“Do you ever cry for the ghost of days gone by?”
Alter Bridge – Ghost Of Days Gone By

 
“I wish that I could be in some other time and place
With someone else’s soul, someone else’s face”
Bon Jovi – Someday I’ll Be Saturday Night
 
 



Settembre 1999
Huntington Beach, California
 

 
Quella mattina si era posta una sola domanda: è possibile pensare a cose strane quando ci si lava i denti?
A lei succedeva spesso, fin troppo. Ma in fondo Liz lo sapeva che era sempre stata strana, era la prima ad ammetterlo e sicuramente non sarebbe stata l'ultima.
Davanti allo specchio del bagno, con la bocca piena di schiuma di dentifricio, lasciava che la sua mente viaggiasse senza alcun tipo di restrizione. Il punto era che quello che all'inizio era un pensiero normale diventava sempre qualcosa di macabro.
Guardò la sua figura allo specchio, mentre passava lo spazzolino sui denti. Era strano come il tempo passasse così in fretta, come tutto scorresse e non tornasse indietro. Nemmeno quel momento sarebbe tornato. Un momento così scontato che, però, se si scavava un po' più a fondo, non era in realtà scontato per niente, considerando il fatto che non si sarebbe più ripetuto. Come qualcosa che si dava per scontato ma che, inevitabilmente, un giorno c'era e il giorno dopo invece non c'era più.
E lei pensava che in quel modo potessero sparire solo gli oggetti.
Invece lo facevano anche le persone. E si era resa conto solo in quel momento, lì, davanti allo specchio, con i capelli scompigliati, senza trucco e con un pigiama più grande di tre taglie, di come in realtà fosse facile dimenticare.
La settimana prima era morta l'anziana signora sua vicina di casa. Viveva nell’appartamento al piano di sotto da sempre e ogni venerdì Liz andava a trovarla per prendere un tè, per farle compagnia. In fondo suo figlio viveva in Inghilterra: troppo lontano per venire nei fine settimana... troppo lontano anche solo per far visita una volta al mese. Altri ragazzi del vicinato facevano lo stesso alla signora Wilson, cosa che la rendeva davvero felice e, diceva sempre lei, la faceva rimanere giovane. C'era chi lo faceva perché era adorabile (anche se sapeva essere dannatamente prolissa e a volte anche un po' noiosa), altri invece perché era raro vedere una donna così anziana vivere in quella zona della città. I quartieri popolari non erano il posto ideale per una signora di quell’età, in fondo.
Ma era morta. Se n'era andata. E il figlio era venuto quella volta, giusto per organizzare i funerali, ricevere qualche messaggio di condoglianze qua e là e mettere in vendita la casa. Tutto in una settimana.
Bastava davvero una settimana allora, per dimenticare tutto quello che una persona aveva fatto nella vita? Aveva cominciato a pensarci quella mattina, appena i suoi occhi verdi si erano scontrati con lo specchio. Perché si era resa conto che alla signora Wilson, l'amabile vecchina con la quale condivideva i suoi venerdì, lei non ci aveva pensato per niente, in quella settimana. In quel momento invece le stavano tornando in mente tutte le cose che avrebbe voluto fare, o che avrebbe voluto dirle. Qualsiasi cosa, insomma. Come quando le aveva chiesto di accompagnarla a fare la spesa al supermercato e lei, non volendoci andare, aveva inventato una scusa su due piedi. La donna aveva sorriso e le aveva detto, con la sua voce rauca ma sempre gentile "sarà per la prossima volta". E ora lei pensava che avrebbe voluto accompagnarla. Che avrebbe potuto.
“Strano”, si ritrovò a pensare, sputando la pasta di dentifricio nel lavandino e prendendo il bicchiere accanto ad esso in modo da riempirlo d'acqua, “quando la gente muore, vengono in mente così tante cose che la testa potrebbe benissimo esplodere”.
E mentre si sciacquava la bocca, la ragazza pensava che probabilmente quella sarebbe stata una delle rare volte a cui avrebbe pensato alla signora Wilson. Perché la vita andava avanti e le persone, per quanto fossero simpatiche, dolci, amabili, spesso si dimenticavano. Si dimenticavano quando erano importanti, come era possibile non farlo quando con il suddetto individuo si condivideva solo il venerdì pomeriggio?
- Liz! Sei in ritardo! – la voce della madre la chiamò da una stanza non definita della casa, forse la cucina, cosa che la autorizzò ad uscire dal bagno in fretta e furia.
Aveva ragione, pensò, dopo aver dato un’occhiata all’orologio situato in camera sua, dove era appena entrata per prendere dei vestiti. Erano le otto e dieci, lo scuolabus sarebbe stato lì a momenti e non doveva perderlo per niente, altrimenti sarebbe dovuta andare a piedi. Ma accidenti a lei che aveva deciso di non fare la patente.
Prese le prime cose che le capitavano a tiro, si vestì, diede una pettinata ai capelli e uscì, prendendo al volo il mascara dal bagno. Trasandata sì, ma senza trucco mai.
Non si era nemmeno degnata di salutare la madre. L’aveva vista di sfuggita seduta sul divano di casa, intenta ad accendersi una sigaretta. L’avrebbe trovata nello stesso identico modo in cui l’aveva lasciata, ne era quasi sicura.
Liz poteva dire di non volere tante, tantissime cose. Ma, prima di tutto, lei non voleva quella vita.
Non voleva vivere nel quartiere popolare di una cittadina della California che persino Dio o chiunque altro essere superiore ci fosse lassù o laggiù o in ogni dove aveva dimenticato (non era mai stata particolarmente religiosa, ma pensava anche che non aveva fatto niente per meritarsi quella vita, di conseguenza qualcuno ad averla messa in quella situazione c’era).
Non voleva che la madre si ubriacasse così spesso e spendesse la maggior parte dei suoi guadagni in sigarette.
Non voleva lavorare il pomeriggio nel negozio di dischi del centro in modo da portare a casa almeno un po’ di soldi in più, in modo da potersi permettere qualcosina. In fondo ciò che la madre guadagnava come parrucchiera in proprio (e la clientela era vasta, considerando che i prezzi erano bassi e nel quartiere non ci si poteva permettere tanto) e come barista nel locale trasandato situato vicino alla stazione serviva per la spesa e per pagare le bollette. Si faceva quel che si poteva, diceva sempre lei.
Non voleva spendere la mattina a scuola, anche se teneva alla sua media scolastica e voleva diplomarsi a pieni voti. Voleva andare al college e sapeva che, se avesse mantenuto la media alta per tutto l’anno, avrebbe ottenuto la borsa di studio che le serviva, in modo da poter andare via di lì.
Non voleva tante, tantissime cose.
Forse non voleva nemmeno essere sé stessa. Voleva essere un’altra persona, voleva essere la classica ragazza normale, con una vita normale, con genitori normali.
Non voleva niente di tutto quello che le era capitato.
Ma, le diceva sempre la vicina di casa quando la sera tardi andava a portare giù la spazzatura, la vita sarebbe stata sempre uno schifo e spettava a noi trarne fuori qualcosa di bello, per cui valesse la pena continuare a stringere i denti e ad andare avanti.
Lei non l’aveva ancora trovato. Di conseguenza, doveva continuare a cercare.
Salì sullo scuolabus e occupò un posto in prima fila, vicino ad una ragazzina che doveva essere del primo anno che era terrorizzata. In fondo, la scuola superiore faceva quell’effetto. Si guardò intorno, non potendo fare a meno di notare che, come tutte le mattine di tutti gli anni, i suoi compagni di viaggio erano principalmente ragazzini del primo e del secondo anno. Chi aveva paura, chi era spontaneo e chiacchierava con tutti, chi cercava guai e lanciava sempre qualcosa sui vetri, contro altre persone. Nessuno la disturbava però, mai. In fondo, lei era dell’ultimo anno, e nessuno si metteva contro i ragazzi dell’ultimo anno.
Tirò fuori dalla borsa il libro di storia, cominciando a ripassare la lezione del giorno prima. La scuola era iniziata da due settimane e già aveva tanto da studiare, fin troppo. Doveva resistere, in fondo si trattava di pochi mesi, poi sarebbe stata libera.
Qualcuno lanciò un panino alla marmellata nella sua direzione, probabilmente con l’intento di beccare la poverina seduta vicino a lei. Entrambe scansarono l’oggetto, poi Liz si voltò di scatto, incenerendo con lo sguardo il piantagrane del secondo anno che faceva sempre casini sullo scuolabus. Il ragazzo deglutì rumorosamente e tornò a sedersi al suo posto, composto.
La ragazza tornò alla sua lettura: essere una senior non sarebbe stato poi così male.



 
--



 
Eleanor uscì in giardino, con la borsa che le fungeva da zaino a tracolla, scavalcò la staccionata che la separava dalla casa del suo vicino e, dopo essersi sistemata la maglietta, salì i tre gradini che portavano al portico della casa e bussò alla porta una, due, tre volte.
- Jimmy! – chiamò, come se il ragazzo potesse sentirla – dobbiamo andare! C’è scuola! -
Non ottenne risposta.
Ma accidenti a lui. Probabilmente era rientrato tardi la notte scorsa e a quell’ora stava dormendo come un ghiro nel garage di casa sua. Guardò l’orologio che aveva al polso: le otto e mezza. Se avesse saputo che l’amico si sarebbe fermato a bere, si sarebbe svegliata prima. Aveva promesso di accompagnarla a scuola e non voleva fare tardi, assolutamente. Era all’ultimo anno, che cavolo. E lo era anche lui.
A quell’ora in casa Sullivan non c’era nessuno. La sorella maggiore era al college, la minore sicuramente si era già incamminata e i genitori di Jimmy erano già usciti per andare al lavoro. Probabilmente non avevano nemmeno provato a svegliarlo.
Le venne un lampo di genio: il garage. Era quasi sempre aperto, in quanto c’era sempre un via e vai continuo da quel posto.
Arrivò alla porta di metallo bianca che avrebbe dovuto aprirsi in modo automatico quando la macchina sarebbe dovuta uscire. Bussò energicamente contro di essa, sperando che il rimbombo avrebbe svegliato il giovane.
- Ma che cazz… - sentì qualcuno strillare dall’interno, per poi vedere la porta aprirsi.
Il garage dei suoi vicini di casa era tutto fuorché un effettivo garage, si ritrovò a constatare la giovane. Era stato trasformato in una specie di sala prove, o in uno studio di musica, dipendeva dai punti di vista. Il pavimento era ricoperto da grandi tappeti, sul lato destro si trovava un vecchio divano e dei cuscini messi lì apposta in modo che si potesse stare comodi. Sopra di essi, attaccate alle pareti, c’erano numerose mensole di legno di noce, sulle quali c’erano numerosi cd, vinili e audiocassette, così tanti che lei ogni volta si chiedeva come esse non avessero ancora ceduto. Sul lato destro c’erano invece degli strumenti musicali. In fondo una batteria, mentre a percorrere tutto il muro c’erano delle chitarre e dei bassi situati su supporti di metallo. Nel centro, una tastiera e un asta che sorreggeva un microfono.
Adorava quel posto, senza ombra di tutto.
- Che c’è?! – le urlò contro il ragazzo che si trovava davanti, facendola ridacchiare.
Eleanor uno, Jimmy zero.
James Owen Sullivan era il suo vicino di casa da sempre. Le loro famiglie erano molto amiche e si riunivano volentieri in uscite o si divertivano a chiacchierare per ore intere ai brunch che venivano organizzati in quartiere. Ciò che veramente colpiva della famiglia Sullivan era l’unicità del figlio mezzano, l’unico maschio. Jimmy era alto, altissimo, più di un metro e ottanta (e la ragazza era sicura che non aveva ancora smesso di crescere), aveva la carnagione pallida nonostante la sua famiglia vivesse in California da generazioni e due profondi occhi azzurri, che nemmeno le lenti degli occhiali che non abbandonavano mai il suo viso riuscivano a coprire. La prima parola che veniva in mente pensando a quel ragazzo era solo una: ribelle. Jimmy viveva a modo suo, seguendo regole sue. Non gli importava di ciò che la società imponeva, lui era semplicemente sé stesso. In fondo, diceva sempre, lo avrebbero giudicato comunque, tanto valeva esserlo per ciò che veramente si era.
Eleanor era sicura che nessuno fosse in grado di giudicare una persona come lui: era meravigliosa, speciale, unica. Jimmy si poteva solo amare, senza ombra di dubbio.
- Avevi promesso di accompagnarmi a scuola – gli ricordò, alzando gli occhi al cielo.
Il ragazzo strabuzzò gli occhi, per poi passarsi una mano fra i capelli biondicci sparati in aria, in tutte le direzioni.
Se ne era dimenticato, come al solito.
- Perché, oggi è un giorno di scuola?! – domandò, sconcertato, per poi precipitarsi a prendere le chiavi della macchina. I suoi vestiti erano a posto, non ci aveva vomitato sopra e non sembrava soffrisse particolarmente dei postumi della sbronza. Per Jimmy bere birra era come bere acqua, in fondo. Erano altri alcolici il problema.
- Su, andiamo, se oggi non vado a scuola mi arriva il richiamo a casa. -
Eleanor alzò gli occhi al cielo, ma non disse niente. Anche quella mattina aveva il passaggio a scuola.



 
--
 



La Huntington Beach High School non era diversa da qualsiasi altra scuola superiore. Stessa stratificazione sociale, stesse ingiustizie, stesso livello di stress riportato dagli studenti. Quindi no, non c’era niente che non fosse nella norma, anche se lei non capiva bene come fossero tutte quelle cose considerate normalità.
Persino la struttura era normale. Le pareti esterne erano ricoperte di intonaco bianco che, con il tempo, era diventato di un grigio opaco, con qualche spaccatura qua e là che mostrava i grossi mattoni color rosso scuro. Sopra il portone principale c’era un enorme orologio che segnava l’ora e una campanella, che non suonava mai (probabilmente era lì per bellezza). Le finestre scorrevoli, l’enorme cortile e campi di gioco ovunque la rendevano la classica scuola superiore.
Come in tutte le scuole, bastava guardare il giardino o la disposizione dei tavoli in mensa per capire chi, lì dentro, contava qualcosa e chi no.
Ai lati del cortile, in una posizione piuttosto scomoda, c’erano i ragazzini del primo anno. Vicino agli alberi, un po’ più al centro, c’erano i ragazzi del secondo anno che, nonostante fossero un po’ più esperti di quelli del primo, si tenevano alla larga dalle cheerleader e dai giocatori di football e, neanche a dirlo, dai ragazzi dell’ultimo anno. Sui muri laterali invece, in una posizione quasi privilegiata, vi erano quelli del terzo anno e tutto il resto del cortile era occupato, ovviamente, dai famigerati ragazzi del quarto e ultimo anno.
Erano temuti, fin troppo, e questo dava loro ancor più potere.
Liz sapeva che sarebbe stato facile, per lei. Era l’ultimo anno, nessuno avrebbe provato a sfiorarla con un dito. A parte, s’intende, i ragazzi della sua età se veniva loro fatto un torto. Ma lei era una ragazza tranquilla che non faceva niente di simile. Stava sulle sue, non cercava guai, niente di niente.
Il fatto che la giovane venisse dal quartiere popolare la bloccava la maggior parte delle volte. Per quello non aveva amici, lì dentro. Non aveva voluto farseli. I ragazzi della sua zona spesso abbandonavano la scuola per andare a lavorare, o appartenevano alle gang di ragazzetti che andavano sempre a cercarsela e finivano nei casini con la polizia. La scuola non sembrava posto per loro. Ci andavano in pochi, e quei pochi si nascondevano, non si facevano notare, si buttavano a capofitto nello studio per vincere la borsa di studio che ogni anno veniva messa in palio. Era per soli cinque studenti, di conseguenza, se non si era particolarmente bravi negli sport, ci si doveva rimboccare le maniche e sperare per il meglio. La ragazza non capiva come le persone che avevano tutto volessero quella borsa di studio. Potevano rifiutarla, in fondo potevano permettersi il college. Quella era una città piccola dove tutti erano a conoscenza della situazione. Non era come nelle grandi città dove quei quartieri venivano bellamente ignorati, cancellati dalla memoria delle persone, che facevano finta che non esistessero. Lì era diverso.
Ma, come le aveva detto una volta la ragazza che viveva sotto di lei, tornata dal college per le vacanze estive, era paranoica. Forse lo era, ma forse no. Forse le persone che non aveva difficoltà davvero non riuscivano a mettersi nei panni altrui e capire.
Stava camminando lungo il corridoio dell’ala est della scuola, al secondo piano. C’erano le aule di inglese, musica, il laboratorio di scienze e di informatica, corsi che venivano frequentati dalla maggioranza degli studenti. Per quel motivo, il secondo piano era il più affollato. Odiava quel posto, specialmente il lunedì mattina, quando tutti si lamentavano per il weekend concluso.
Era solo l’inizio della terza settimana di scuola ed era già stufa. Come avrebbe fatto a sopravvivere per il resto dell’anno scolastico lei non lo sapeva.
Stava cercando l’aula del corso avanzato di inglese. Quell’anno non sapeva bene che cosa le stesse passando per la testa, dato che aveva deciso di superare sé stessa e di partecipare a tre corsi avanzati, due dei quali erano di discipline obbligatorie. Ma a lei non importava: la borsa di studio era lì e aveva bisogno di prenderla. C’era una grande confusione e non sapeva più da che parte voltarsi.
In quale modo, senza capire né come né perché, andò a sbattere contro qualcosa e perse l’equilibrio, cadendo a terra. Perfetto. La giornata cominciava bene. E la settimana nel migliore dei modi, come no.
- Jimmy, che hai combinato?! – una voce femminile piuttosto gentile le arrivò alle orecchie, notando poi la figura di una ragazza che si inginocchiava accanto a lei e le metteva una mano sulla spalla – stai bene? -
- Non l’avevo vista… ehi, tutto bene? Scusami, sul serio, sono fin troppo sbadato – si scusò l’altra persona, un ragazzo questa volta.
Quella voce la conosceva. Tutti la conoscevano, in realtà. Era stata travolta e buttata a terra da nientemeno che Jimmy Sullivan, un ripetente dell’ultimo anno che aveva già avuto occasione di ritrovarsi in qualche corso. All’inizio dell’anno aveva pensato che si fosse diplomato, sia lui che la sua combriccola, ma evidentemente non era così. E quel ragazzo aveva già avuto modo di disturbare più e più volte la quiete che regnava nelle classi. Avrebbe dovuto informarsi per il trimestre successivo: non avrebbe potuto reggere il comportamento del giovane per tre mesi (o addirittura sei, dato che c’era la possibilità di trovarselo anche nel terzo semestre), era fuori discussione.
La ragazza alzò lo sguardo su di lui, studiando il suo aspetto fisico. Era più alto di come se lo ricordava. Aveva una figura slanciata e una delle sue braccia lunghe e muscolose era tesa verso di lei, come ad offrirle aiuto per alzarsi. Aveva un viso ovale, leggermente allungato, la carnagione chiara e gli occhi azzurri, che gli conferivano un’espressione quasi angelica, insieme ai capelli biondi che però gli conferivano anche un aspetto disordinato. Era un bel ragazzo, dovette constatare.
La giovane che invece si era inginocchiata accanto a lei, come a controllare l’entità dei danni, doveva avere la sua età. Le era capitato di vederla in giro, in fondo una ragazza così era difficile da non notarsi. Eleanor Rigby, ecco come si chiamava. Già il nome le aveva conferito il soprannome di “Beatle girl”, anche se lei non riusciva a capire come dei genitori volessero così male alla propria figlia per darle come nome il titolo di una canzone che l’avrebbe accompagnata a vita. Certo, si trattava dei Beatles, ma…
In tutti quegli anni, la ragazza l’aveva sempre incuriosita. Forse per il suo carattere riservato. Stava spesso per conto proprio, non cercava mai guai, non si immischiava nelle faccende altrui. Sapeva che era dotata di un alto livello di realismo, cinismo e anche una punta di scetticismo, l’aveva notato in classe quando aveva un dibattito con uno o più professori. Le due avevano praticamente tutti i corsi in comune e la ragazza aveva una media altissima. Nel corso del tempo, l’aveva identificata come il nemico, in quanto se c’era qualcuno in quella scuola che poteva portarle via la tanto desiderata borsa di studio, quella era proprio lei. In più, Eleanor non era solo intelligente, era anche bella, una bellezza pura che Liz le invidiava tantissimo. Il corpo snello e atletico, il viso ovale, la pelle chiarissima, la bocca delicata che sembrava un petalo di rosa, gli enormi occhi da cerbiatta color nocciola e i lunghi e mossi capelli scuri che le che le arrivavano all’altezza del bacino… per i suoi standard, sfiorava la perfezione. Era anche vero che una persona come lei avrebbe considerato più attraente anche un sasso piuttosto che fare un commento positivo sulla sua figura, ma tant’è…
Eleanor la stava ancora fissando, come se stesse attendendo una risposta. Era preoccupata per lei, dato che l’impatto era stato piuttosto forte.
- Non… non importa, sto bene – disse, afferrando la mano che Jimmy le porgeva per tirarsi su.
- Sicura? Sei caduta come un birillo – esclamò il giovane, passandosi una mano fra i capelli e aggiustandosi gli occhiali da vista – posso farmi perdonare in qualche modo? -
- Non è necessario, davvero. È tutto okay. -
Liz doveva constatare che il ragazzo era stato davvero gentile. Era più che evidente che tutti gli aggettivi che usavano in giro per descriverlo non gli appartenevano.
- Sicura? Dai, fammi fare qualcosa. Qualsiasi cosa. -
Non capiva come mai insistesse così, in fondo non le aveva fatto nessun torto. Sembrava così dispiaciuto, però…
- Se ti invitassimo a pranzo? – domandò Eleanor, mentre gli occhi nocciola le si illuminavano – non sarebbe male, no? -
Jimmy si grattò il mento, pensieroso, poi sorrise.
- Giusto, il pranzo! Che ne dici? Sul serio, io e i miei amici non mangiamo nessuno, Ellie può testimoniare, altrimenti a quest’ora sarebbe già morta. -
L’amica alzò gli occhi al cielo, per poi bofonchiare un “non chiamarmi Ellie” e porgendo i libri che erano caduti nell’impatto a Liz, in attesa, di nuovo, di una risposta.
Era quasi sicura che i due sapessero che pranzava quasi sempre da sola. Altrimenti avrebbero invitato anche i suoi ipotetici amici al tavolo con loro. Oppure no.
“Paranoica”, disse la sua coscienza, e lo era per davvero.
Liz sembrò pensarci su: erano gentili, quei due, molto anche. Non conosceva i suoi amici, ma se quei due erano cordiali e disponibili, probabilmente lo sarebbero stati anche gli altri.
- Va bene – disse la giovane, sorridendo, mentre il suono della campanella si faceva strada nelle orecchie di tutti – beh, allora ci vediamo a pranzo? -
- Certo che sì, uhm… - il giovane fece un gesto allusivo con la mano.
Giusto. Lei conosceva loro per fama, ma loro non avevano la minima idea di chi fosse lei. In fondo era comprensibile, non era una che attirava troppo l’attenzione.
- Liz – si presentò, stringendo la mano ad entrambi.
- Lizzie! – disse prontamente Jimmy, mentre si allontanava – allora ci vediamo a pranzo. Ci conto! -
Lizzie. Odiava quel soprannome. Avrebbe fatto in modo di toglierglielo dalla testa, anche se la cosa sarebbe durata per tutto il pranzo.
 
 
Eleanor tirò fuori il libro di informatica dalla borsa. Era un corso facoltativo, ma le avevano detto che avrebbe dato crediti in più per il college, dato che non era una sportiva, non faceva parte di nessuna squadra femminile della scuola né era una cheerleader. Cose inutili, a detta sua, ma che davano crediti.
Crediti che lei non aveva. Di conseguenza aveva dovuto attrezzarsi.
- L’hai fatto apposta, vero? – domandò, appena Liz si fu allontanata.
Non aveva bisogno di conferma, lo sapeva che Jimmy le era andato addosso di sua spontanea volontà. Il corridoio era affollato e sì, lui era miope e senza occhiali non vedeva ad un palmo dal naso, ma era impossibile che non l’avesse vista passare.
No, l’aveva fatto apposta. Poco ma sicuro.
Lo conosceva da quando era nata, per lui era come un fratello maggiore. Meglio di lei, Jimmy lo conoscevano solo i suoi migliori amici.
- Chi? Io? Perché avrei dovuto? -
- Lo sai, il perché. -
Entrambi sapevano il perché. Quella ragazza faceva di tutto per non essere notata, e ci era riuscita per un determinato periodo di tempo, ma poi…
- E se anche fosse? – domandò Jimmy, mentre un sorriso sadico gli si dipingeva sul volto.
Eleanor alzò gli occhi al cielo.
- Ti caccerai nei guai. A Matt la cosa non piacerà. -
- No. Ma poi mi ringrazierà. I demoni si devono scacciare, non devono essere lasciati lì per farci marcire. -
Aveva ragione, senza dubbio, ma il ragazzo non ne sarebbe stato entusiasta. Anzi, tutto il contrario. Ed Eleanor era sicura che, per un po’, la presenza di Liz non l’avrebbe accettata.



 
--
 



- Tu hai fatto cosa?! – domandò Matt, con voce strozzata, mentre gli amici cercavano in tutti i modi di non ridere.
Non avrebbero dovuto farlo, ne erano più che sicuri, ma quell’esclamazione al ragazzo era uscita con un tono tale che non avevano potuto fare a meno di ridacchiare, almeno un po’.
- L’ho travolta in corridoio, era il minimo che potessi fare! -
- L’ha fatto apposta. -
- Ellie, non è il momento di entrare nei dettagli. -
- L’hai fatto apposta? Tu l’hai… - il ragazzo cominciò a boccheggiare, cosa che fece ridere ancora di più gli amici – non ci posso credere. Jimmy, perché?! -
Le labbra del ragazzo si incresparono in un sorriso. Perché? avrebbe dovuto saperlo, il perché. Ma, dato che per la prima volta era stata posta quella domanda… fece scrocchiare le dita, come se si stesse preparando a torturarlo.
Si trovavano nella mensa dell’Huntington Beach High School. Eleanor aveva deciso di non seguire troppo la conversazione e di focalizzarsi di più sull’ingresso della mensa, dove da lì a poco sarebbe entrata Liz, che avrebbe pranzato con loro.
- Perché… -
- E non voglio nemmeno immaginare cosa farai dopo! Che vuoi, invitarla all’esibizione di sabato? O alle prove della band? -
- Ehi, questa è una buona idea! -
Eleanor alzò gli occhi al cielo. Matt non se ne era reso conto, ma aveva dato a Jimmy un’idea che lui avrebbe potuto definire splendida. E, poco ma sicuro, l’avrebbe attuata. Perché la band per lui, per loro, era tutto.
Già, la band. Gli Avenged Sevenfold. Il loro progetto che si stava per trasformare in qualcosa di concreto.
Matt e Jimmy, rispettivamente cantante e batterista della suddetta band, erano due persone completamente diverse, ma al contempo fin troppo simili. Era una contraddizione, era vero, ma chiunque non avrebbe fatto a meno di pensare a quello, dopo aver esaminato il loro carattere ed il loro rapporto.
Il cantante era una persona seria, concentrata, che si prefissava degli obiettivi e cercava sempre di raggiungerli. Faceva grandi progetti e, man mano che andava avanti, li modificava come meglio credeva. Spesso, ci si chiedeva come un ragazzo di neanche vent’anni si comportasse come se ne avesse già passati cinquanta, ma i suoi amici sapevano che aveva le sue buone ragioni per agire in quel modo. Non aveva una buona reputazione, anzi, per niente. Lo precedeva, tanto che prima di entrare alla scuola superiore lui era già noto in città come “il ragazzino che ha ucciso il preside”. Era una lunga storia, che comprendeva il campus della scuola intermedia, un incendio e un attacco di cuore venuto al preside della St. Marie, la scuola vicina, dal quale ovviamente al seguito degli avvenimenti era stato espulso. Aveva un animo indipendente e ribelle. Non gli piaceva seguire regole, ma recentemente stava imparando ad adeguarsi.
Jimmy era tutto il contrario. Il batterista era una persona allegra e spensierata, che sorrideva sempre e non si lamentava mai di nulla, non implicitamente perlomeno. Lasciava che fossero i testi che scriveva a dar voce ai suoi pensieri. In quel modo non solo si sfogava, ma creava una forma d’arte. Lui viveva alla giornata, era un sognatore dalle grandi vedute, tanto che spesso i suoi migliori amici dovevano tenerlo con i piedi per terra. Era una persona esuberante ed impulsiva. Come il suo compagno di vita, non era un amante delle regole, anzi, fosse stato per lui avrebbe cancellato quella parola dal vocabolario. Aveva sempre vissuto a modo suo, seguendo i suoi ideali, cercando di essere semplicemente sé stesso in ogni circostanza. Era dell’opinione che la gente lo avrebbe giudicato in ogni caso. Così riteneva giusto esserlo per ciò che veramente era e non per ciò che pretendeva di essere. La sua reputazione lo precedeva di chilometri. Nessuno, in città, pronunciava il cognome “Sullivan” senza un pizzico di timore nella voce. Nessuno.
- Jimmy, non ci prova… -
- Non roviniamoci la giornata per un invito a pranzo, per carità – esclamò Johnny, alzando gli occhi al cielo.
Lui era il bassista e anche il più piccolo dell’interno gruppo. Frequentava il terzo anno ma era sempre stato in una posizione privilegiata, in quanto era amico di persone più grandi e stava sempre con loro. Poteva anche essere il più piccolo, ma per molti versi era il più saggio… e l’unico che riusciva a sedare una rissa o un litigio sul nascere. Quando non era ubriaco, per lo meno. Era una persona allegra, gentile, ma soprattutto dolce. Sicuramente, se la band avesse avuto successo, il loro componente di punta sarebbe stato proprio lui, in quanto la sua spontaneità era importante per lo show business. Il ragazzo si limitava a dare una scrollata di spalle: voleva divertirsi con i suoi migliori amici, lui, tutto il resto era superfluo.
- Che poi, si tratta solo di un’ora passata a parlare principalmente di scuola. Non devi raccontarle la storia della tua vita. -
Brian, chitarra solista, era stato il più diretto e il più convincente di tutti, si ritrovò a constatare il cantante. In fondo, lui era così.
Il ragazzo era dannatamente realista ed il più esperto della compagnia. Era figlio d’arte (il padre era un chitarrista professionista), cosa che gli aveva permesso di avere delle buone basi su cui cominciare. Era sicuro che la band un giorno sarebbe arrivata in alto, anche se lì per lì dovevano ancora ottenere il contratto discografico e avere i fondi necessari per produrre un album. Possedeva una tecnica straordinaria e la sua bravura era già piuttosto nota in città.
Per quanto riguardava il carattere, però, tutti avrebbero potuto dire che il suo non era dei migliori: a parte il realismo, che in certi casi era un pregio, era una persona impulsiva, che spesso prima agiva e poi ragionava sulle conseguenze che avevano comportato le sue azioni. In più, aveva delle priorità ben precise: ciò che non era in grado di attirare il suo interesse era automaticamente considerato non importante. Senza dubbio, era un grande, grandissimo menefreghista. Questa sua particolarità sembrava renderlo una persona dannatamente superficiale, ma i suoi amici avrebbero giurato che non era assolutamente così. Al contrario, era una persona veramente profonda ed intelligente… quando voleva. E con chi voleva, soprattutto.
- Brian ha ragione. È solo per il pranzo. Che vuoi che sia? – domandò Zacky, dando manforte all’amico.
Il chitarrista ritmico era la persona più cinica e scettica che a quei ragazzi era mai capitato di incontrare, se ovviamente si escludeva Eleanor. Era una persona seria, con obiettivi ben precisi, un po’ come Matt. Era dotato di un realismo impressionante, diverso da quello dell’amico, che abbinato al suo alto livello di cinismo era in grado di sgretolare le convinzioni, le speranze e i sogni altrui. Se voleva, Zacky avrebbe potuto distruggere una persona con una parola. Ma era anche vero che era un vero e proprio bonaccione, che non si faceva mai troppi problemi. Lasciava che le cose gli scorressero addosso come acqua: let it be, dicevano i Beatles, ed era anche la sua filosofia. Certe cose dovevano semplicemente essere lasciate stare e si doveva attendere che facessero il loro corso.
Nel complesso, i cinque erano una bella combriccola. Il legame che li legava poi andava sotto la pelle, oltre il sangue. Era come se fossero legati da un invisibile filo che non si sarebbe mai spezzato. Sapevano che quel legame sarebbe durato per tutta la vita. Anzi, non l’avrebbe spezzato neanche la morte. Il loro rapporto era così spontaneo, così genuino, così…
- Oh, eccola lì – esclamò Eleanor, per poi salutare una ragazza che aveva fatto il suo ingresso in mensa.
- È lei? – domandò Phoebe, per poi dare una gomitata a Matt che si ritrovò ad alzare gli occhi al cielo.
Le sorelle Rigby erano una delle cose migliori e al contempo peggiori che erano capitate a quei cinque. Phoebe era al secondo anno, ma il forte legame con Eleanor l’aveva sempre portata a frequentare ragazzi più grandi. Come loro, per esempio. Le due si somigliavano molto, ma Phoebe era più impulsiva, più allegra, più spontanea. Non aveva peli sulla lingua, poi: quello che pensava, lo diceva, senza alcuna paura delle conseguenze. Anzi, si divertiva anche. Proprio per quel motivo, il cantante la stava pregando con lo sguardo di stare zitta.
Come la sorella, poteva essere tranquillamente scambiata per una bambola di porcellana, vista la delicatezza dei tratti facciali. Phoebe però aveva gli occhi azzurri come il padre, che venivano messi in risalto dai mossi capelli castani che le arrivavano alle spalle.
In generale, quelle due li tenevano tutti quanti con i piedi per terra, ma al contempo erano una preziosa fonte di consigli. La loro maturità era necessaria, altrimenti da soli non ce l’avrebbero fatta.
- Ehi – salutò la giovane, appena fu giunta al tavolo ed essersi seduta accanto ad Eleanor – scusate il ritardo, mi hanno trattenuta. Ho storia con la professoressa Stevenson. -
- Hai tutta la mia compassione – esclamò Phoebe, tendendole la mano e presentandosi.
- Ciao Lizzie! – strillò Jimmy, entusiasta, scompigliandole i capelli – sono contento che tu sia venuta. Colgo ancora l’occasione per scusarmi per questa mattina. Questi qui quasi non ci credevano. Possono testimoniarlo però, mi muovo come un elefante. E qui dentro sono un elefante in una cristalleria, quindi… -
La ragazza rise di gusto. Era inevitabile non farlo con una persona come Jimmy, così spontanea e solare.
- Loro sono i miei migliori amici, i miei fratelli. Brian, Johnny, Zacky e Matt. E Phoebe e Ellie hai già avuto occasione di conosc… -
- Chiamami Ellie ancora una volta e ti becchi un pugno sul naso – esclamò la diretta interessata, alzando gli occhi al cielo. -
- Ecco, già che ci siamo, evita di chiamarmi Lizzie. -
- Ma Liz è troppo impersonale – si lagnò il batterista.
- Ma è il mio nome. E va benissimo così. -
Jimmy mise il broncio, cosa che fece scoppiare a ridere gli amici, che nel mentre avevano avuto modo di osservare la ragazza.
Era bella, senza ombra di dubbio. Era alta poco meno di un metro e settanta, cosa che a Johnny aveva fatto dispiacere dato che era il più basso, aveva una corporatura esile ed elastica, ma era palese che non fosse per niente atletica. Sembrava avere tutte le forme e le curve al posto giusto, era perfettamente proporzionata. Aveva la carnagione leggermente ambrata, tipica del sud della California, i capelli invece, leggermente arruffati, erano tinti di rosso, un rosso scuro, che si avvicinava molto al tipico colore del vino. In un modo o nell’altro, essi mettevano ancora più in risalto i grandi occhi di un verde quasi magnetico, con sfaccettature dorate. Sembravano due fari, si potevano notare anche a metri di distanza. Sembravano gli occhi di un gatto e appena si posavano su qualcuno sembrava che entrassero dentro quel povero malcapitato in modo da scrutargli persino l’anima. Mettevano in soggezione, non poco.
Brian e Zacky si scambiarono uno sguardo d’intesa: ora capivano perché Matt avev…
- Vieni a prendere il pranzo con me? – domandò Eleanor, che a differenza degli altri aveva aspettato la ragazza per tutto il tempo – non voglio che arrivino i giocatori di football o quello che è e spazzolino via tutto. Dopo rimane solo quella pappetta terribile di avena. -
La ragazza annuì, per poi alzarsi insieme alla loro amica e avviarsi verso la caffetteria, dove due addette stavano servendo il pranzo.
Sembrava che si intendessero alla perfezione. Come se fossero sempre state destinate ad incontrarsi e a stringere amicizia.
E i componenti degli Avenged Sevefold non riuscivano a capire se fosse un bene o un male.
 


 
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Liz aveva passato un’ora splendida, con quelle persone. Erano tutte gentili e disponibili, l’avevano accolta a braccia aperte nel loro gruppo e la stavano facendo sentire completamente a suo agio, anche se era più che palese che si conoscessero tutti quanti da una vita intera e che lei era come un pesce fuor d’acqua, lì in mezzo.
Si era fatta un’idea o due quasi su tutti, tranne che sul ragazzo che le era stato presentato come Matt, che aveva spiccicato sì e no due parole per tutto il pranzo ed era sempre rimasto sulle sue. Probabilmente era un tipo molto riservato.
- Allora, ci stai? -
Jimmy aveva cercato di invitarla all’esibizione della loro band per tutto il pranzo. Non voleva accettare un no come risposta, quello era sicuro.
Le aveva parlato della band, del genere che facevano, le aveva fatto i complimenti per la maglietta degli Iron Maiden che indossava, per poi spiegarle che cercavano uno stile come il loro anche se, per il momento, si stavano concentrando sul metalcore. Aveva indicato di nuovo gli amici e aveva detto che ruolo avevano nella band, per poi passare a parlare di canzoni, linee di basso, arrangiamenti vari. Lei non ci capiva molto di quelle cose, ma aveva ascoltato tutto con la massima attenzione, anche per non fare brutte figure.
- Dimmi una cosa: ho veramente una scelta? -
- Questa ragazza mi capisce! – strillò il batterista, entusiasta.
La giovane scoppiò a ridere.
- Va bene. Ci vengo. -
- Perfetto – esclamò Zacky, sorridendole e facendo muovere leggermente i due piercing che aveva ai lati del labbro inferiore – allora, dove abiti? Magari qualcuno di noi è lì vicino e può venire a prenderti. Il locale è a posto, ma non è poi così consigliabile andarci da soli. -
- Non credo. Vivo nella zona nord della città. -
- … zona nord? – ripeté Johnny, dopo un attimo di esitazione, come se non sapesse che cosa ci fosse lì.
- O il quartiere popolare, come lo volete chiamare. -
A Matt sembrò andare di traverso la bibita. Tossì rumorosamente mentre Brian, seduto vicino a lui, gli dava delle pacche sulla schiena, ridacchiando.
Phoebe lo fulminò con lo sguardo.
- È… diciamo che è il suo modo di dire che non sembra – provò a dire la ragazza, come a salvare la situazione.
Liz diede una scrollata di spalle, come a dire che non importava.
- Mi chiedo: se lui è il cantante, quando pensa di ritrovarla la lingua? -
Quella volta la bibita andò di traverso a Jimmy, che scoppiò a ridere. Sembrava non riuscisse più a smettere, tanto che dovettero dargli numerose pacche sulla spalla. Sembrava che stesse per soffocare.
- Lascialo stare, è fuori di testa, te ne renderai conto – esclamò Zacky, ridacchiando – comunque, posso venire io. Non vivo lontano da lì. -
La ragazza era leggermente sorpresa. Non l’aveva mai visto nella zona, e lì si conoscevano tutti. Non sembrava nemmeno una persona che vivesse in quel quartiere, a giudicare dai vestiti, dai modi di fare, dal carattere in generale. Ma poi si ritrovò a pensare che nemmeno lei dava l’impressione di vivere lì, quindi…
- Davvero? -
- Sì, in realtà vivo nel quartiere vicino, sai, le villette basse vicino al parco di periferia. Posso venire a prenderti io, non c’è nessun problema. -
Le sorrise, un sorriso sincero, cosa che le fece pensare che, almeno in quel gruppo, almeno quelle persone, non l’avrebbero mai giudicata basandosi sui pregiudizi che vigevano in quel luogo.
Ed era una fortuna.
Sorrise di rimando. Quelle persone le piacevano. E stava cominciando a sperare di stare intorno a loro ancora per un bel po’.








Note dell'autrice:
Strano ma vero, questa volta sono riuscita ad aggiornare presto.
O meglio: vista la strana curiosità che ha suscitato il prologo, e considerando che ho anche un attimo di respiro (la sessione invernale succhia via anche l'anima, davvero), ho deciso di pubblicare il primo capitolo di questa fanfiction che mi funge da piccolo esperimento per constatare quanto sono migliorata e quanto potrò migliorare ancora.
Quindi... che dire di questo capitolo? Sostanzialmente nulla, considerando che funge più da presentazione dei personaggi. La precisazione di inizio capitolo va tenuta presente sempre, quando leggete. Sul punto di vista degli Avenged Sevenfold nessuna novità: loro sono sempre loro, catapultati a scuola. Ovviamente avrete notato che ho inserito direttamente Johnny e Brian anche se siamo nel 1999. Questione di comodità, lo ammetto.
Tengo a precisare che negli Stati Uniti il liceo dura quattro anni, per questo ho affermato che loro sono ripetenti.
Poi... che altro dire? Ah sì: Eleanor Rigby... vi ricorda qualcuno? Già, il personaggio è stato ripreso da una mia long lasciata incompleta. Di fatto, questo personaggio aveva tanto da dare, e volevo usarlo ancora. Poi ci sono Phoebe e soprattutto Liz. La prima fungerà più da "mediatore", se vogliamo dirla in questo modo. Farà un po' smuovere le cose al momento opportuno (presto, molto presto, considerando che probabilmente verrà pubblicata solo la prima parte della storia, composta da dieci capitoli). Per quanto riguarda Liz...probabilmente avrete capito che è la protagonista e beh, questo dice un po' tutto. Il suo personaggio è stato plasmato grazie alla spendida Silvia, che ha deciso di aprire un po' la sua mente e di farmi conoscere il suo splendido alter-ego, che poi io mi sono divertita a "fare mio", in un certo senso.
Altra precisazione: la madre di Liz non è un'alcolista. Lo dico perché insomma, si sa mai, si può sempre fraintendere. Ma no, non lo è. 

Detto ciò, mi ritiro nel mio angolino buio.
Ringrazio di cuore tutti quelli che hanno recensito e hanno messo la storia fra le preferite. Siete dei tesori, davvero.
Se questo capitolo vi è piaciuto, o anche no (amo le critiche, lo dico sul serio), me lo fate sapere con un commentino? *occhi da cucciolo*
Okay, dopo questa ho davvero finito.

Al prossimo capitolo!
Kisses
Vava_95

P.S. se volete contattarmi anche fuori dal sito, su twitter sono @SayaEchelon95

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Capitolo 3
*** - Cap. 2 - ***


Nota: i fatti riportati a seguire sono completamente immaginari. Scrivo per semplice diletto personale, e i personaggi di cui parlo non mi appartengono.

 

CAP. 2

 
“Living is a wicked dream, when things turned out all wrong
We are all so weak, no matter how strong”
Avenged Sevenfold – Demons
 
 
 


Settembre 1999
Huntington Beach, California


 
Matt poteva dire di essere nato in un contesto quasi agiato. Non stavano bene, ma non stavano nemmeno male, e rispetto a molte persone quella dei Sanders era una fortuna.
Era stato il primo figlio di una giovane coppia di sposini che avevano appena comprato una piccola villetta sul mare. Insomma, una benedizione, tutto ciò che una normale persona avrebbe mai potuto desiderare.
Ma lui era diverso, lo era sempre stato. Fin da bambino.
Era sempre stato piuttosto ribelle. Non ascoltava mai i consigli (figurarsi quindi gli ordini) dei genitori, faceva tutto di testa sua. Forse perché aveva avuto, fin da subito, troppe restrizioni e, di conseguenza, appena aveva un minuto di respiro faceva di tutto e di più. Perché i coniugi Sanders volevano il bambino perfetto, e per quel motivo avevano già deciso, prima della sua nascita, ciò che avrebbe o non avrebbe dovuto fare. In breve, si riassumeva tutto con poche parole: Matt doveva diventare un giocatore di basket professionista. Quella del basket era una passione che accompagnava la sua famiglia da generazioni. I suoi genitori erano giocatori al college, ed era proprio lì, sul campo, che si erano conosciuti e innamorati. Come ad alimentare quella loro non tanto segreta speranza che il figlio potesse fare successo, Matt era un vero talento. Non lo faceva neanche apposta. Era bravo, molto, tanto che giocava nelle squadre con i componenti più grandi, perché era troppo forte, troppo tutto per giocare e allenarsi con i bambini della sua età. Lo faceva praticamente tutti i giorni, perché quando non era agli allenamenti ci pensava il padre a fargli da coach, o personal trainer.
Lui era stato entusiasta della cosa per un po’.
“Sei speciale, Matt”, gli dicevano, fieri, se non di più. Anche la sorella minore, non appena fu in grado di reggersi su due gambe e tenere una palla in mano, cominciò a giocare a basket, e anche lei sembrava essere un talento naturale.
Ma non come lui.
Non come Matt.
Perché lui sarebbe diventato una stella.
Non si era reso conto subito che nella vita esistevano cose più importanti del basket, forse perché nella sua famiglia ne si respirava persino l’essenza. O forse perché era stato cresciuto con l’idea che il basket doveva essere la sua vita. Ma non era così, e lui lo sapeva. Sapeva di essere destinato ad altro, forse persino a rimanere rinchiuso in ufficio. A lui non importava più, ad un certo punto: gli sarebbe andato bene tutto, tranne il basket.
Ciò che Matt aveva dimostrato di essere era, in generale, un talento unico. Oltre al basket, quando lo avevano messo per puro caso dietro un pianoforte aveva praticamente dimostrato di essere un piccolo portento. A lui piaceva la musica, tantissimo. E, con una velocità impressionante, era stata proprio la musica a diventare il centro della sua esistenza. Inizialmente, i genitori lo assecondavano, tanto che avevano trasformato il garage di casa in una specie di studio. In fondo, nonostante facessero numerosi sacrifici, a lui non facevano mancare nulla. Tantomeno alla sorella Amy.
Ma Matt tutto quello non lo voleva. Non voleva essere un uccellino in gabbia. Voleva vivere la vita a modo suo e soprattutto avere la possibilità di scegliere che cosa fare.
Non sembravano dargliela.
Per questo, lui si ribellava.
Aveva cominciato presto, forse alla fine della quinta elementare, quando si era fatto cacciare dalla squadra di basket della scuola (lui giocava con i ragazzi della scuola media in realtà, i tredicenni, alti minimo venti centimetri in più di lui, ma era comunque uno dei più bravi) per il fatto di essere irrispettoso nei confronti dei compagni. Lui lo sapeva che il basket significava anche gioco di squadra. E se questo non veniva fatto, allora… il padre non si era dato per vinto e, in poco tempo, era riuscito a farlo riammettere. Alla scuola intermedia giocava già con i liceali, e anche lì faceva di tutto per farsi buttare fuori, ma l’allenatore resisteva, un po’ perché era un vero talento e un po’ perché gli era stato chiesto di farlo, dato che lo faceva visibilmente apposta, pur di non stare nella squadra. Non mancava un allenamento, ma essi venivano resi un inferno in terra.
Ne aveva combinate di tutte anche fuori dall’ambito sportivo, come l’incendio del campus. “Il ragazzino che ha ucciso il preside”, lo chiamavano. Lui pensava semplicemente che l’uomo soffrisse già di cuore. E poi ancora, le scorribande con alcuni ragazzetti appartenenti a delle gang di zona, i coinvolgimenti in numerose risse e tutto il resto. Tutti sapevano la storia della sua cicatrice sulla spalla.
La sua brutta reputazione lo precedeva addirittura di chilometri. In molti avevano paura di lui. Persino sua sorella, che un giorno, con la voce tremante, gli aveva detto “Matt, se continui così, un giorno ammazzi qualcuno”.
Forse era per quello che aveva deciso di fermarsi. O forse no. Non lo sapeva. Era come se non volesse essere più umano, tutto per liberarsi da ciò che gli altri si aspettavano da lui.
Forse perché non voleva deludere le aspettative di nessuno.
Chi lo teneva ancorato saldamente a terra erano solo i suoi amici. Quattro persone, fondamentali per la vita del ragazzo. Se Matt era ancora vivo, lo doveva al duro lavoro di Jimmy, Johnny, Brian e Zacky. Era grazie a loro che aveva provato a rimettere la testa a posto, nonostante non fossero certo dei bravi ragazzi.
Lì per lì quindi, in generale, era nella norma. Era tornato ad essere un ragazzo che poteva essere definito “normale”. Certo, commetteva ancora bravate, ma non era più il ragazzino terribile destinato a finire in galera. Era semplicemente uno degli “scapestrati”, che facevano tanto baccano ma che alla fine non facevano mai male a nessuno.
 
Tuttavia, aveva sviluppato una personalità quasi cupa.
Spesso, si sentiva l’ombra di sé stesso. Era stato cresciuto in un determinato modo, e lui aveva rifiutato gli ideali che gli erano stati impressi nella mente. Per quello spesso gli sembrava di non avere nulla, nessun esempio da seguire, niente di niente.
La sua mente era popolata da demoni. Quei piccoli mostriciattoli che formavano un’ombra scura che lo seguiva ovunque, del quale non riusciva certo a liberarsi, perché era attaccata a lui… era lui. Faceva parte della sua persona.
Uno di quei demonietti in particolare attirava la sua attenzione. Non sapeva in quale circostanza aveva visto quegli occhi di un verde magnetico, quasi innaturale. Ma essi avevano cominciato a perseguitarlo. Era come se li vedesse ovunque, come se si trattasse di una strana presenza.
Un paio di occhi verdi.
Era quello il suo demone peggiore.
I suoi amici, i suoi fratelli, gli davano del paranoico. E allora aveva pensato che lo fosse davvero, che non era possibile vedere un demone.
“È tutto frutto della tua immaginazione”, gli diceva sempre Zacky, battendosi l’indice della mano sinistra sulla tempia, come a rendere meglio il concetto.
Jimmy invece era dell’opinione che tutti quei cattivi pensieri dovessero essere scacciati. Che poteva ripulirsi completamente la mente ed essere sereno. Johnny era della stessa opinione, ma del resto sapeva che non era possibile prendere un paio di pinze, aprirgli la testa e tirare fuori tutti quei mostriciattoli neri. Era una cosa che solo Matt poteva fare, perché in fondo nella sua testa c’era lui, e lui soltanto.
Brian aveva i suoi demoni con cui fare i conti. Per quel motivo, forse, lo capiva di più di tutti. Gli aveva detto che spesso il modo migliore per scacciare via le proprie preoccupazioni e insicurezze era ignorarle. Si doveva semplicemente far finta che non esistevano e in quel modo se ne sarebbero andate da sole. Per le cose evidenti, invece, si doveva essere pazienti. Forse non sarebbero diventate poi così pesanti. Ma, per non correre rischi, era meglio affrontarle subito. Era quello che provava a fare lui, in fondo.
Per quel motivo era stato proprio lui ad essere il più felice quando Jimmy aveva annunciato di aver invitato a pranzo “il demone degli occhi verdi”. L’aveva chiamato così, senza pensarci troppo.
“Si chiama Liz”, aveva aggiunto poi, “non è proprio un nome adatto ad un demone, no?”.
Sì, perché a differenza degli altri, quello esisteva.
E Matt non riusciva proprio a capire da dove quella ragazza fosse spuntata.
L’aveva vista entrare in classe, una volta, quando lui era arrivato in anticipo e si era seduto in uno dei banchi in ultima fila, convinto di passare la lezione a dormire. In fondo era il terzo giorno di scuola e, lui lo sapeva, non si sarebbe fatto molto. Ripetere l’ultimo anno non era poi così male, in fondo: si conoscevano già le dinamiche di lavoro. Avrebbe fatto bene a diplomarsi, quell’anno.
La campanella era suonata e aveva visto un mare di studenti entrare in classe. Eppure, lei l’aveva notata subito. Quegli occhi li aveva notati subito. Erano lì, nella realtà, non nei suoi incubi. Ed appartenevano ad una persona concreta, non a un demonietto che lo tormentava.
Ne era rimasto sconvolto, tanto che non era riuscito a spiccicare parola per un’intera giornata con i ragazzi, cosa che li aveva fatti preoccupare a morte. Poi aveva spiegato loro la situazione e il giorno successivo i quattro avevano assunto i panni di agenti segreti perfettamente addestrati. Anche se, di fatto, non erano proprio riusciti a scoprire un bel niente.
Sembrava quasi che non esistesse.
E Matt non sapeva niente di lei, se non il cognome.
Dixon, aveva detto il professore, facendo l’appello.
Un cognome che non gli diceva niente. Non era particolare, non era popolare, non era nemmeno sconosciuto. Era… normale. Come del resto sembrava esserlo la ragazza. Perfettamente nella norma.
All’inizio avevano tutti provato ad azzardare delle ipotesi, specialmente le ragazze, perché Eleanor e Phoebe in fondo erano le razionali del gruppo e non volevano che il ragazzo sprofondasse di nuovo in una specie di abisso nero che la sua stessa mente creava. Avevano dedotto che, in realtà, l’aveva già vista da qualche parte e forse il colore degli occhi così innaturale l’aveva colpito e in qualche modo il loro ricordo era rimasto scolpito nella sua memoria.
Non ne era poi così sicuro, ma in effetti non avevano tutti i torti: tutti i demoni di Matt erano… erano solo fantasmi del suo passato. Perché quello avrebbe dovuto essere diverso?
Sicuramente, senza rendersene conto, l’aveva già incrociata da qualche parte. E lei non si era fatta notare, esattamente come i fantasmi.
 
Con il passare dei giorni però, la curiosità di Matt cresceva. E anche la convinzione di Jimmy che i demoni dovessero essere scacciati. Vedendo l’interesse dell’amico crescere si era praticamente buttato addosso alla giovane, in modo da avere una scusa per interagire con lei. Avevano notato che, oltre a qualche saluto e a qualche parola scambiata qua e là, la ragazza non frequentava nessuno. Dovevano trovare un modo. E la soluzione dell’amico era stata la più veloce e la più semplice.
In mensa, Jimmy aveva detto che la giovane si chiamava Liz. Un diminutivo. Ma di cosa? Elizabeth? Elize? Lisa? Lynn? Non gli bastava. Lui voleva di più, sempre di più. E non riusciva nemmeno a capire perché. Era come se avesse sviluppato un senso di… di… non sapeva nemmeno cosa.
Quando però era lì, a pochi metri da lui, Matt non riusciva a spiccicare parola. Era come se qualcosa lo bloccasse. Si limitava a studiarla, come a cercare di capire che cosa ci fosse di sbagliato in lei, o che cosa ci fosse di giusto, d’altra parte. Non riusciva a capirci nulla.
Zacky gli aveva detto di provare a farsi avanti, di provare a conoscerla, per vedere come andavano le cose. Era una paranoia, la sua. La ragazza non aveva niente di strano, né di sbagliato. “E poi”, diceva sempre lui, “giusto per usare la parola che ti piace tanto: di demoni ne abbiamo tutti. Dobbiamo solo trovare la persona cui demoni si sposano bene con i nostri”.
Senza dubbio aveva ragione.
E poi, era paranoico. Terribilmente paranoico, su quella cosa. In genere non era così, lui era felice, spensierato. Era ciò che voleva essere da anni ormai e la cosa gli piaceva. Perché avere cominciato ad avere cattivi pensieri?
Forse, gli diceva Johnny con fare filosofico, la ragazza era la risposta.
Brian alzava gli occhi al cielo ad ogni parola incoraggiante detta dagli altri. Lui aveva agito in modo diverso: lo aveva preso per le spalle, lo aveva guardato negli occhi e gli aveva detto: “Matt, chi se ne importa. È una paranoia. Quella ragazza l’hai già incontrata in altre circostanze. È una persona normale. Smettila di comportarti come un ebete e impara a conoscerla meglio come stiamo facendo noi”.
Perché lui non voleva ammetterlo, ma la ragazza gli andava a genio. Non avrebbe avuto problemi ad aggiungerla al loro piccolo gruppo, così come era successo tempo addietro con Eleanor e Phoebe.
E avevano ragione.
Doveva smetterla. Smetterla di essere paranoico.
- Ciao – salutò Liz, battendogli una mano sul banco come ad interrompere il flusso dei suoi pensieri.
Certo. Era lì perché avevano in comune il corso scienze. Lui non sapeva nemmeno perché l’aveva scelta, quella materia.
- Ehi – la salutò, di rimando, per poi togliere lo zaino dalla sedia vuota vicino alla sua, come ad invitarla a sedersi.
Nonostante in quella settimana si fosse sempre seduta con loro a pranzo, in classe era diverso. Lei era una studentessa diligente ed era dannatamente brava, con una media altissima. Durante le lezioni voleva mantenere costante il livello di concentrazione, per quel motivo era sempre in prima fila. Le ricordava Eleanor, quell’attitudine. Forse era anche per quello che le due si erano trovate subito così bene.
Proprio per quel motivo, fu sorpreso di vedere la giovane accettare quella specie di invito e sedersi accanto a lui.
- Volevo augurarti buona fortuna per questa sera – disse, come a giustificare il suo comportamento. In fondo, i due erano praticamente estranei. Avevano spiccicato sì e no due parole nel corso dell’intera settimana.
- Oh. Grazie. Potevi dirmelo anche prima dell’esibizione – esclamò il ragazzo – a meno che… tu stia pensando di non venire. -
- L’idea mi è balenata in testa parecchie volte, ma mi pare di capire che per Jimmy non esista la parola “no” – mimò le virgolette con le dita, cosa che lo fece ridere.
- Invece per lui esiste, eccome. Ma la usa a modo suo. -
- Capisco. -
- Bene, tutti ai posti, iniziamo la lezion… Dixon! Che ci fai lì dietro? Sanders, che cosa le stai facendo? Non vorrai mica darle fastidio! Non te le passa le risposte del compito di settimana prossima, devi imparare a stare attento. Dixon, torna immediatamente qui. -
La ragazza rise appena alle parole del professor Dorian, che era appena entrato in classe, per poi alzarsi e prendere il libro di scienze che aveva appoggiato sul banco.
- Beh… allora, a questa sera. -
- Sì, a questa sera. -


 
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C’era una frase latina dal significato profondo, per quanto piccola essa fosse: carpe diem.
Letteralmente, “cogli l’attimo”.
I latini erano saggi, dicevano sempre tutti. Dannatamente saggi. E, probabilmente, si capiva molto di più dalla vita duemila anni prima che lì, in quel momento, nei tempi moderni.
“Come fa l’uomo a vivere senza rendersi conto che ogni giorno muore?”, diceva Seneca, in una delle sue più importanti lettere indirizzate all’amico e discepolo Lucilio. Di fatto, il filosofo durante il suo esilio in Corsica aveva capito molte, molte cose. Quella, per loro, era la più importante.
Non c’era giorno che passasse che non avvicinasse la morte. Ogni giorno si era un po’ più vecchi, un po’ più esperti, un po’ più questo e un po’ più quello, dipendeva dalle esperienze che si erano vissute. Ogni giorno si era un passo più vicino alla fine.
Così era. E probabilmente così doveva essere.
Proprio per quella ragione si doveva vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo. Per non parlare del fatto di vivere nel modo più consono alla propria persona, rimanendo sempre coerenti con sé stessi, ogni minuto i ogni giorno.
Era quello che avevano deciso di fare loro. Una mattina si erano svegliati e avevano detto basta. Avevano deciso di fare quello che volevano loro, avevano deciso di seguire i propri sogni. Di fatto, era anche quello un aspetto fondamentale della vita: inseguirli, continuamente, fino ad acciuffarli e realizzarli. Si cadeva nove volte, ma si doveva avere il coraggio di rialzarsi una volta in più.
Non sapevano bene come erano diventati una band. Si erano alzati una mattina, tutti e cinque, erano arrivati a casa di Matt in uno stato quasi comatoso, si erano riuniti nel garage. Nessuno voleva parlare, ma la verità era che stavano pensando tutti alla stessa cosa. Fu Jimmy il primo a dire “ehi, fondiamo una band”. L’aveva detto quasi in tono scherzoso, ma tutti sapevano che era dannatamente serio. Avevano dato una scrollata di spalle, poi avevano annuito. Come se fosse una cosa da poco. In realtà, lo sapevano tutti che non lo era per niente.
Avevano cominciato ad esibirsi alle feste della scuola, ma sapevano che il loro genere, così graffiante, così arrabbiato, non piaceva quasi a nessuno, lì dentro. Così erano passati ai locali, ad ottenere ingaggi e ad avere il permesso per fare serate anche nei locali dove erano ammessi solo maggiorenni. Avevano anche cominciato a farsi pagare, anche se si trattava di qualcosa come venti dollari a testa ad esibizione, che ovviamente venivano spesi tutti in alcolici. Poi avevano deciso di dire basta anche a quello, perché la vita era una sola, era dannatamente breve e, per l’appunto, come diceva Seneca, ogni giorno si moriva un po’. Avevano deciso di puntare in alto, di rendere il loro sogno ancora più grande. Anzi, di renderlo un progetto concreto. E lì era partita la caccia al contratto discografico. Dovevano solo ricavare i soldi necessari per registrare delle demo. Poi tutto il resto sarebbe venuto da sé. Avevano rifiutato i soldi dai loro genitori, alcuni li avevano già aiutati fin troppo e non volevano gravare ulteriormente sulle loro spalle (tra l’altro, ad alcuni non piaceva nemmeno l’idea della band). Ascoltavano da quando erano appena ragazzini delle band cui componenti erano partiti con solo degli strumenti mezzi rotti in mano e tanti, tantissimi sogni. Loro non volevano essere da meno. Volevano partire da zero, perché da lì si poteva solo salire.
Carpe diem. La loro filosofia prima di ogni esibizione. Perché ognuna di esse era diversa dall’altra e non sarebbe tornata più. Dovevano cogliere l’attimo e assaporarlo fino in fondo.
- Ragazzi, cinque minuti – annunciò il proprietario del locale, battendo a tutti una pacca sulla spalla e indicare loro il palco.
Non c’era tanta gente, ma non ce n’era neanche poca. Erano pronti, anche quella volta.
- Su, venite qui, abbracciamoci – esclamò Jimmy, allargando le braccia e stringendo i compagni di band e di vita in un forte abbraccio.
Non avevano mai dubitato delle loro capacità. Non c’era un piano B: o quello, o niente. Non si accontentavano.
- Vi amo – si lasciò sfuggire Brian, facendo ridere gli amici.
- Perché quando dice queste cose nessuno ci sta filmando? – domandò Johnny, ridacchiando e prendendosi uno scapaccione dal diretto interessato.
Anche quel momento non sarebbe tornato. Ma loro l’avevano vissuto fino in fondo.
Perché ogni giorno si moriva un po’ di più.
Ma loro avrebbero colto ogni attimo che ogni giorno nuovo presentava.

 

 
--

 
 
Matt aveva ricevuto complimenti su complimenti, provenienti da tutte le persone presenti al locale. Chi era venuto ad assistere all’esibizione era principalmente un amico, o un conoscente, ma c’era anche chi si trovava lì per caso e aveva avuto modo di apprezzare la loro musica.
Tutto quello al cantante faceva sorridere, ma al contempo riflettere. Se chi non li conosceva per niente veniva lì a stringere loro la mano e a complimentarsi dicendo che avrebbero dovuto davvero calcare le scene, significava che potevano farlo davvero. Che tutto quello in cui si ritrovavano spesso a sperare, quasi sognando ad occhi aperti nel garage di casa sua, o in quello di casa Sullivan, non era poi così improbabile. Che poteva succedere.
Anzi, che sarebbe successo.
Osservò Liz in lontananza, l’unica della sua cerchia di conoscenze con cui non aveva ancora parlato per ringraziarla di aver partecipato a quella serata. Stava parlando animatamente con un ragazzo che doveva avere circa venticinque anni, che stava servendo alcolici a più non posso. Sembravano in confidenza, come se si conoscessero da una vita.
Si avvicinò, salutando con un cenno della testa. Il volto del giovane si illuminò, gli fece i complimenti e gli batté anche il cinque, per poi tornare a lavorare come se niente fosse.
- Il mio vicino di casa, abita sopra di me – spiegò la ragazza – gran lavoratore. Durante l’esibizione mi ha detto che siete la band locale migliore in circolazione. -
Matt sorrise, cosa che le fece perdere un battito. La giovane non voleva darlo poi così a vedere.
- E tu, che ne pensi? – domandò, sedendosi accanto a lei – a proposito, grazie per essere venuta. Significa molto per tutti noi. -
Liz diede una scrollata di spalle, come a dire che non l’avevano certo disturbata chiedendole di assistere ad una loro esibizione.
- Siete bravi. Davvero. Se voleste, avreste tutte le carte in regola per sfondare. -
Matt sorrise di nuovo, un sorriso sincero, che in automatico fece sorridere anche la ragazza.
- Grazie. Significa molto, perché di fatto è proprio ciò che vogliamo fare. -
- Davvero? -
Non che la cosa la stupisse. Quando Zacky era passato a prenderla sotto casa aveva cominciato a parlare della band, di quanto la musica fosse importante per loro, del fatto che avevano cominciato in un garage ma che erano di grandi vedute. Sognavano di arrivare alla vetta del mondo, di sentirsi più che realizzati. Matt però l’aveva detto con una strana luce negli occhi. Come se quella band fosse il suo bambino e lui un padre che gonfiava il petto d’orgoglio. A quel complimento, il suo viso si era totalmente illuminato, come se la giovane gli avesse detto la cosa più bella del mondo.
- Abbiamo un contatto o due per un possibile contratto. Ma dobbiamo fare qualcosa a proposito dei fondi. Non ne abbiamo. Stiamo lavorando il più possibile ed esibendoci ogni volta che abbiamo una serata libera, ma… -
- Ma non sembra mai abbastanza. Lo capisco. Se vuoi posso chiedere i giro, qualcuno che cerca aiuto c’è sempre. -
Era vero. Nel suo quartiere c’era sempre gente che chiedeva aiuto, per un motivo o per l’altro. Chi per aiutare a spostare dei mobili, chi per la spesa, chi per aiutare a dare una mano di pittura ai muri rovinati… le persone che aiutavano venivano sempre ricompensate. Con poco, certo, ma era pur sempre qualcosa.
- Non devi. Davvero. -
- Lo faccio con piacere, invece. -
Il ragazzo scosse energicamente la testa. Liz era stata gentilissima, ma lui aveva altro per la testa. Aiutava il più possibile in ristoranti, dove quando avevano bisogno faceva l’aiuto-cameriere, aiutava gente del suo quartiere per poi ricevere una paga, scaricava scatoloni nei magazzini dei negozi della città in modo da ricevere un compenso… di cose ne faceva già tante. E andare lì, in quel quartiere, e avere anche il coraggio di chiedere soldi a quella gente… ma, anche lì, forse non sapeva com’era davvero la situazione.
Non ne aveva idea, non era di zona, del resto.
- Non voglio che i ragazzi, tantomeno io, si sentano in debito anche con te. E poi, hai già le tue cose a cui pensare. -
- Anche? State chiedendo soldi a mezza città? -
Il ragazzo rise, una risata che le arrivò dritta al cuore. Non sapeva nemmeno perché si sentiva così tanto in sintonia con lui. avevano attaccato bottone solo quella mattina, e per pochi minuti anche. Era… assurdo. Inizialmente, era andata lì per dirgli che quella sera non sarebbe venuta. Che aveva degli impegni importanti che non poteva proprio rimandare, oppure che si era sbagliata e no, non aveva la serata libera ma doveva lavorare… una scusa qualsiasi, perché per lei tutte erano sensate. Ma, una volta lì, quando gli aveva augurato buona fortuna, il ragazzo le aveva sorriso, mostrando uno dei sorrisi più belli che avesse mai visto, che andavano anche a formare due fossette sulle guance. E lì non sapeva bene che cosa era successo. Sapeva solo che, improvvisamente, tutto quello che voleva era assistere all’esibizione degli Avenged Sevenfold.
Il cantante le indicò una ragazza, interrompendo il flusso dei suoi pensieri. Era alta circa un metro e sessantacinque, dal fisico snello e atletico. Doveva fare parecchia attività fisica per mantenere una forma del genere. Aveva la carnagione chiara, i capelli di un biondo platino rigorosamente tinti e due grandi occhi color nocciola che risaltavano sul viso ovale. Indossava un paio di jeans stracciati e una semplice maglia nera a mezze maniche. Nonostante gli abiti, però, la giovane l’aveva riconosciuta: Valary DiBenedetto, vice-capitano delle cheerleader. Non sapeva molto di lei, a parte il fatto che non era una persona che in genere piantava grane, tantomeno la sorella gemella. Erano cheerleader e si comportavano come tali, certo, ma non erano cattive. O almeno era quello che aveva dedotto. Stava parlando con Johnny e Brian, che la stavano ascoltando attentamente.
La domanda a Liz sorgeva spontanea: perché dei ragazzi come loro frequentavano una cheerleader?
- La mia ragazza – spiegò, come a giustificare il suo gesto – cerca di aiutare come può. Sembrerà strano, ma ci capisce molto di queste cose. Non mi sento così in debito con lei. L’ha fatto con piacere. Ma i ragazzi sì e la loro priorità è quella di restituirle i soldi il prima possibile. -
Aveva una ragazza, quindi. Anzi, non una semplice ragazza, ma Valary DiBenedetto. Che dire, il giovane si trattava più che bene.
Quell’annuncio le aveva dato quasi fastidio, non sapeva bene perché.
“Accidenti a te”, le aveva detto con velocità la sua coscienza, “ricomponiti immediatamente”.
Non aveva molta voglia di ascoltarla, anzi per niente.
- Capisco. -
- Già. -
- Beh… sarà meglio che vada ora. Il padre di Eleanor ha detto che è disposto ad accompagnarmi a casa. -
Il signor Rigby era la classica persona a cui tutti avrebbero potuto fare una statua, un po’ per la sua spontaneità, un po’ per il suo sostegno ma, soprattutto, per la sua pazienza nei loro confronti, constatò Matt. L’aveva conosciuto circa due anni prima, ad un barbecue in casa Sullivan. Si era fatto spiegare il progetto che all’epoca era solo una fantasia dei cinque, e ne era stato entusiasta. Quando alla fine la band era stata formata lui aveva garantito il suo supporto. Erano tutti sicuri che, se fossero mai riusciti ad ottenere un contratto e a rilasciare un album, lui sarebbe stato il primo a comprarlo. Matt ne era più che felice: era bello vedere che c’era sempre qualcuno disposto a sostenerli. Si trattava di poche persone, di genitori, membri della famiglia, amici, ma era già tanto, per lui.
L’aveva visto di sfuggita quella sera, anche perché aveva lavorato fino a tardi e non era potuto venire alla loro esibizione. Ma, probabilmente, voleva comunque venire a prendere le figlie. Non era un bel quartiere e sì, si fidava dei ragazzi, ma… non al punto da affidare a loro l’incolumità delle figlie. Li conosceva bene, fin troppo, constatò il cantante.
- Oh. Allora… ci vediamo lunedì. -
- Sì. A lunedì. -
Liz fece per andarsene, ma il ragazzo la prese per un braccio, cosa che le provocò un brivido che le percorse la schiena. Era quasi sicura che l’aveva sentito anche lui, in quanto aveva esitato per un momento.
- Aspetta – disse poi – non mi hai detto il tuo nome. -
La ragazza lo guardò con aria interrogativa.
- Lo sai, il mio nome. -
- Non puoi chiamarti solo Liz. Non ci credo. È troppo anonimo, e tu invece non lo sei per niente. -
La giovane scosse energicamente la testa.
- Il mio nome lo è. -
- Non credo nemmeno a questo. -
Alzò gli occhi al cielo, per poi prendere la giacca di pelle e fare un cenno ad Eleanor e Phoebe sulla porta del locale, come a dire loro che le avrebbe raggiunte in pochi secondi.
Era vero, lei aveva un nome. Un nome che non le piaceva, per quel motivo non si presentava mai in quel modo. Le persone del suo quartiere la chiamavano “Liz”, le persone che in generale conosceva la chiamavano in quel modo. Al lavoro, sul suo cartellino c’erano semplicemente scritte quelle tre lettere. Un nome corto, semplice da ricordare… niente era meglio di Liz.
Era anche vero che non era il suo nome. Lei ne aveva un altro. Uno più lungo e più complicato. Che non voleva che si sapesse, perché la persona che c’era dietro di esso non esisteva più da molto tempo.
Ma, forse, per lui poteva fare un’eccezione.
- Elizabeth – disse poi, togliendosi i capelli dal colletto della giacca.
- Come? – domandò Matt. Lo aveva colto alla sprovvista.
Come se si fosse perso ad osservarla.
- Il mio nome. Elizabeth. -
Il ragazzo sorrise. Per lui era un bel nome. E per lui valeva mille volte più di Liz.
- Allora ci vediamo lunedì… Elizabeth. -








Note dell'autrice:
Ed eccomi la settimana dopo con un nuovo capitolo. Ammetto che avere la storia già completa rende molto più facili gli aggiornamenti. Non ti fai troppi problemi e non pensi "devo scrivere o non riesco ad aggiornare aiuto che faccio".
Bando alle ciance però, veniamo al capitolo. Come vi ho già detto, questa storia è un esperimento. Non smetterò mai di ripeterlo però, alla fine non si sa mai, non escludo che qualche lettore (?) possa perdere il filo... soprattutto quando una storia gira intorno ad una metafora. Quindi insomma, sostanzialmente in questo capitolo la vediamo in atto: c'è la storia di Matt. C'è il rapporto con ciò che è (o meglio, era) destinato a fare e ciò che effettivamente vuole fare - e che si nota nel pezzo dell'esibizione della band e con il dialogo successivo. C'è Liz, che cerca di integrarsi in questa nuova e stramba compagnia. 
Secondo i miei standard questo capitolo è cortino, ma alla fine sono i contenuti che contano. Mi piace poi giocare con quella che sembrerebbe essere un'altra parte di Liz, ovvero Elizabeth: quella che nasconde le debolezze... i demoni, per l'appunto.
Per quanto riguarda Valary: ammetto che, inizialmente, non volevo inserirla. Volevo prendere una ragazza con un nome a caso, ma... alla fine, con lei presente, si può "giocare" un po' di più con la cronologia degli eventi e tutto il resto. In più, Matt dichiara di aver avuto solo lei, come ragazza (facciamo finta di crederci), quindi inserire personaggi qua e là in un momento dove essi sono costanti, cioè le solite otto/nove persone, non mi sembrava opportuno. Per quanto riguarda invece la parte dell'esibizione, mi sono rifatta ad una mia vecchia fanfiction, pubblicata qualcosa come tre anni fa. Mi era piaciuto come in qualche modo avevo reso l'introduzione all'esibizione... quindi mi sono detta: "perché no?" e ho deciso di riprendere, ovviamente modificando tutto il resto, i punti fondamentali.

Detto ciò, mi ritiro nel mio angolino buio.
Grazie di cuore a chi ha recensito e messo la storia fra le seguite e le preferite. Siete davvero dei tesori.
Se il capitolo vi è piaciuto, o se non vi è piaciuto, o se vi ha fatto schifo (*porge catino per il vomito*), lo lasciate un commentino per farmi sapere? Sì? *occhi da cucciolo*.

Okay, me ne vado davvero.
Al prossimo capitolo!
Kisses,
Vava_95

P.S. in caso, potete trovarmi su twitter: @SayaEchelon95

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Capitolo 4
*** - Cap. 3 - ***


Nota: i fatti riportati a seguire sono completamente immaginari. Scrivo per semplice diletto personale, e i personaggi di cui parlo non mi appartengono.
 

CAP. 3




 
“And I'm thinking 'bout how people fall in love in mysterious ways
maybe just the touch of a hand”
Ed Sheeran – Thinking Out Loud
 
 
 
 
Ottobre 1999
Huntington Beach, California
 
 
 
Liz uscì dall'aula di matematica, pensierosa. Era entrata quella mattina in tutta tranquillità e si era seduta, come sempre ormai, accanto ad Eleanor, che le teneva il posto in quanto arrivava prima di lei (a differenza sua la giovane aveva quasi sempre un passaggio e non doveva usare lo scuolabus, anche se non l'avrebbe fatto in ogni caso dato che casa sua non era poi così lontana dalla scuola e, con passo svelto, ci si poteva arrivare in qualcosa come venti minuti). Era di buon umore e aveva chiacchierato con l'amica fino all'entrata del professore in aula, che dopo aver salutato e fatto l'appello si era messo a spiegare il grafico di una funzione esponenziale, con tanto di disegni e simboli che, avrebbe potuto giurarlo, né lei né l'amica capivano. Ci sarebbero arrivate, prima o poi, ne doveva della loro media.
Qualche fila dietro di loro, Jimmy sonnecchiava, mentre accanto a lui Valary DiBenedetto aveva cominciato a fissarla intensamente, come se volesse cogliere qualcosa sulla sua persona.
O, forse, come se fosse un nemico da annientare, ma che prima bisognava osservare attentamente per capirne le debolezze.
Aveva cercato di non farci caso (né lì né tutte le altre volte che si era ritrovata in quella situazione con la ragazza, ed erano tante), ma poco prima della fine della lezione aveva chiesto ad Eleanor se era vero che la giovane la stesse fissando o se era lei che aveva le traveggole. La ragazza si era voltata leggermente verso la cheerleader, per poi sorriderle e salutarla con un gesto della mano, come se il gesto di voltarsi verso di lei fosse completamente innocente e solo con quello scopo. Poi si era sporta verso di lei, bisbigliandole un "è vero, ma non farci caso". Le aveva spiegato che lei ormai era entrata a tutti gli effetti nel loro gruppo e che, per quella ragione, Val la stava osservando per capire bene di che pasta fosse fatta.
Liz non ci aveva creduto molto, ma aveva deciso di non dire niente. Li conosceva da poco tempo, di conseguenza non voleva impicciarsi nei loro affari. Anche se, doveva ammetterlo, aveva capito che una cosa o due non quadravano, nel gruppetto delle ragazze. Sembrava che fossero tutte grandi amiche ma la verità era sicuramente un'altra.
Quando era suonata la campanella aveva salutato distrattamente l'amica, dandole appuntamento a pranzo, poi era uscita dall'aula in tutta velocità, in modo da non essere nemmeno seguita. Aveva una brutta sensazione e voleva uscire di lì il più in fretta possibile.
Stava camminando per i corridoi diretta verso l'aula di arte. Era un corso facoltativo, alternativo ad educazione fisica, che non aveva in comune con nessuno. Eleanor aveva fatto la scelta più saggia e aveva deciso di fare informatica, che di fatto aveva più crediti. Ma Liz era un'artista... a modo suo, di conseguenza quel corso le piaceva.
- Ciao - la salutò una voce familiare, facendola sobbalzare.
Era agitata di suo, in circostanze normali non avrebbe reagito in quel modo.
Phoebe stava muovendo gli occhi azzurri dall'alto in basso, in modo da osservarla nella sua integrità e capire che cosa ci fosse che non andava. O che cosa avesse fatto lei di sbagliato per farla spaventare.
- Oh, ciao Phoebe - la salutò, rallentando il passo e facendosi raggiungere dall'amica.
- Tutto bene? - domandò la ragazza, cominciando a camminare insieme a lei. Il lunedì le due avevano gli stessi corsi, anche se lei era al secondo anno e di conseguenza entrava nell'aula del corso di grado inferiore al suo.
- Eh, diciamo di sì. -
- Che cosa è successo? - domandò, di nuovo.
- Niente. Strani sguardi. -
Ovviamente la ragazza voleva farsela spiegare. Mentre camminavano lungo il corridoio, così, Liz aveva raccontato tutto, anche perché aveva già inquadrato la più piccola delle sorelle Rigby da tempo. Phoebe non aveva peli sulla lingua, era molto spigliata e soprattutto diretta. Non le piacevano i giri di parole, quello era sicuro.
Le due si fermarono davanti ad una porta con scritto 2A, l'aula di arte del secondo anno, dove poterono notare il professore che stava sistemando i cavalletti. Avrebbero dipinto, cosa che fece alzare alla ragazza appartenente a quel corso gli occhi al cielo: non potevano limitarsi a studiare la teoria, come succedeva a chi si era iscritto al corso avanzato?
- Quindi, fammi capire, è per questi sguardi che noti alle lezioni che cerchi di stare il più lontana possibile da Matt? -
La giovane sospirò: qualcuno l'aveva notato, allora.
In quel periodo di tempo aveva cercato di allontanarsi sempre di più dal ragazzo: gli rivolgeva solo dei piccoli cenni di saluto, annuiva o scuoteva la testa in segno di approvazione o disapprovazione quando gli veniva fatta una domanda, dava una scrollata di spalle oppure si limitava a tenere gli occhi bassi quando lui parlava. Si era andati avanti così per un po', tanto che alla fine lo stesso Matt aveva praticamente alzato le braccia e sventolato bandiera bianca: aveva vinto lei, non avrebbe più provato ad attaccare bottone.
Il motivo del suo atteggiamento era semplice, però. Pensava che Valary la osservasse proprio perché, nei primi periodi, aveva tanto, forse fin troppo, legato con il suo ragazzo. E probabilmente quello era una specie di affronto nei suoi confronti, lei non ne aveva la minima idea, quelle cose non le capiva. Si era semplicemente limitata a farsi da parte. Non voleva creare problemi fra i due.
- Beh... -
- Tesoro, lascia stare - esclamò la ragazza, pronta - insomma, Matt non è un bambolotto, non appartiene a questo o a quello. Ha fatto la stessa cosa con me quando sono entrata al liceo l'anno scorso, io l'ho rigirata completamente come un calzino e non mi ha dato più fastidio. Ora, non ti dico di andare lì e prenderla a parole come ho fatto io, anche perché le conseguenze non sono state poi così buone, ma... - fece una pausa, riflessiva - forse, ora che mi ci fai pensare, con te è un po' diverso.
Diverso? E perché mai avrebbe dovuto essere diverso, con lei?
Quella era un'altra cosa, l'ennesima probabilmente, che lei non capiva. Aveva notato che veniva osservata con molta attenzione da parte di tutti, nel primo periodo. Era passato su per giù un mese da quando lei aveva cominciato a frequentarli e la curiosità di tutti si era smorzata, ma di fatto c'era stata e lei non riusciva a capire perché.
"Dovresti chiedere", gli sussurrava continuamente la sua coscienza, ma lei cercava di ignorarla in tutti i modi, perché di fatto non era buona educazione. La suddetta coscienza le rispondeva che fissarla senza ritegno era altrettanta maleducazione, ma quelli erano dettagli.
- In che senso? -
Phoebe si guardò intorno, come a constatare che non ci fosse nessuna amica dell'oggetto della conversazione in giro, tantomeno lei stessa. Abbassò comunque la voce.
- Chiariamo una cosa: non sono una ficcanaso, ma ho orecchie, e queste non possono fare a meno di ascoltare*. Ho sentito dire che Matt e Val sono molto, molto vicini alla rottura. Sono troppo diversi. Prima non lo erano, te lo posso garantire, ma adesso sì. Lui stringe i denti e cerca di andare avanti perché... diciamocelo, si sente in debito. Lui continua a sostenere il contrario, ma fidati, te lo dico io che lo conosco come le mie tasche, si sente in debito eccome. E questa è una storia lunga che ti racconterò un'altra volta - disse dopo aver udito il suono della seconda campanella, che intimava gli studenti ad andare in classe per la lezione successiva - resta il fatto che i loro problemi sono improvvisamente venuti alla luce da quando ci sei tu. Pensaci. -
Appena finì di parlare la giovane le diede le spalle ed entrò nell'aula, senza aspettare nemmeno una risposta da parte sua.
Liz era perplessa: perché mai i problemi di una coppia si sarebbero accentuati da quando lei era entrata a far parte della loro combriccola? Era una cosa senza senso. Ogni coppia aveva problemi, di conseguenza essi non comparivano all'improvviso quando si stringeva una nuova amicizia.
"Pensaci", aveva detto. 
La ragazza girò i tacchi, per poi entrare nell'aula 4A, il corso di arte, sedersi sul banco e tirare fuori il libro di teoria. 
Non aveva la minima idea su cosa riflettere.
 
 
 
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Zachary Baker era sempre stato di poche parole. Non perché fosse particolarmente riservato (lo era, ma quelli erano altri discorsi), semplicemente perché lui era così, e lo sarebbe sempre stato.
Come gli dicevano i suoi fratelli, “sembra che tutto ti scivoli addosso”. Lui riteneva di avere le sue priorità. Si fidava di pochi, e quei pochi sarebbero rimasti lì con lui per la vita.
- Ciao tesoro – lo salutò la madre appena fece ingresso in cucina, cosa che gli fece alzare gli occhi al cielo.
Aveva diciannove anni e lo trattava ancora come un bambino, a volte. 
- Ti sei svegliato presto, vuoi un caffè? – domandò la donna, mentre il ragazzo indossava la giacca di pelle e prendeva al volo le chiavi della macchina.
Nonostante la madre fosse una delle persone più a modo che avesse conosciuto, a lui non piaceva passare del tempo a casa sua. In circostanze normali sarebbe già stato fuori casa, ma non aveva soldi. Anzi, era ancora a scuola, all’ultimo anno… di nuovo.
Zacky era molto intelligente, fin troppo per gli standard del diciottenne medio. Nell’ultimo periodo poi era maturato così tanto che la famiglia lo riteneva quasi irriconoscibile. Era anche vero che, proprio per il fatto che detestasse ogni secondo passato in casa sua, i suoi famigliari non lo vedevano poi così spesso.
Sua sorella era al college e ogni volta che partiva spariva. Non si faceva sentire e non si faceva vedere fino all’estate successiva. Non tornava a casa né a Natale né alle vacanze primaverili. Tutto, pur di restare fuori casa.
Il fratello minore invece era fatto di tutt’altra pasta. Era molto diligente e aveva già un futuro nell’azienda di famiglia. Matthew Baker era il “figlio buono”, come diceva il padre.
E poi c’era lui.
Essendo il mezzano, era sempre stato il classico bambino fantasma. Non gli avevano mai prestato parecchie attenzioni e per questo il padre pensava che fosse completamente allo sbando. Zacky si limitava a scuotere la testa e a non rispondere, perché quell’uomo era tutto fuorché una persona… come dire? Non riusciva a trovare il termine: giusta? Responsabile? Un normale adulto medio?
Il padre non lo era, quindi perché lamentarsi di lui?
Era anche vero che lui la sua figura paterna non la conosceva quasi per niente. Non era mai a casa, e quando vi era non perdeva certo tempo dietro ai suoi figli, fatta eccezione per il fratello che avrebbe ereditato l’azienda.
Nel corso degli anni però, lui aveva imparato a costruirsi un equilibrio tutto suo, che non avrebbe mai dovuto rompersi, in alcun modo. La cosa funzionava piuttosto bene, dato che non aveva mai avuto particolari problemi.
- No grazie, vado a prendere un’amica – annunciò, per poi salutare con un piccolo gesto della mano il fratello che si era appena svegliato, uscire di casa e balzare in macchina.
“Sembra che ti scivoli tutto addosso”, gli dicevano sempre i suoi fratelli, quando lui sosteneva che non gli importava poi così tanto di ciò che succedeva alle persone intorno a lui (fatta eccezione per loro, s’intende, che erano le persone più importanti della sua vita).
Eppure, lui aveva un debole per un piccolo fattore che tutti, ma proprio tutti, avevano. Quello che Zacky aveva imparato nel corso della sua (per quanto breve) vita era che tutti, nel bene e nel male, avevano una storia. Poteva essere nei limiti della normalità, poteva avere avvenimenti al limite dell’assurdo.
Ma erano storie.
E quelle storie rendevano una determinata persona quello che era.
Amava sentire ciò che la gente aveva da raccontare. Avere qualcuno di importante, così tanto da condividere ogni aspetto della propria vita, era qualcosa di cui tutti avrebbero dovuto godere. E a lui sarebbe piaciuto fare davvero la differenza per molte persone. Significare così tanto da sentirle tutte, quelle storie.
Il successo degli Avenged Sevenfold a lui sarebbe servito anche a quello. Avrebbe scavato nelle storie dei suoi fan, se le sarebbe fatte raccontare. E avrebbe trovato un modo per condividere anche la sua, di storia.
Esse non erano mai banali.
Quando conosceva una persona pensava subito alla sua storia, a ciò che aveva vissuto, ai suoi obiettivi, a ciò che avrebbe voluto fare in un ipotetico futuro.
Accostò poco lontano da un grande condominio in cemento armato, uno di quelli costruiti dal governo per i quartieri popolari. Erano inutili, avere un piccolo appartamento in uno di essi non significava uscire dalla condizione di povertà in cui versavano le persone di quella zona. Lui lo sapeva, perché per un po’ di tempo in quelle condizioni ci era finito anche lui. L’azienda andava male e loro a stento avevano i soldi per pagare le bollette. La madre non lavorava e nessuno sembrava volerla assumere, neanche per dei piccoli lavoretti qua e là. Era stato un brutto periodo, ma alla fine avevano risolto tutto. Non poteva dire che la famiglia Baker stesse bene, ma nemmeno male. Vivevano in una piccola villetta poco lontana da quel quartiere, dalla quale non si sarebbero mossi neanche se l’azienda avesse prosperato.
Suonò il clacson tre volte, per poi lasciarsi andare sullo schienale e aspettare. Liz viveva al terzo piano e il palazzo non aveva l’ascensore, di conseguenza ci avrebbe messo un po’. Guardò l’orologio: le otto e venti. Sarebbero arrivati a scuola relativamente presto.
Quando poteva le offriva un passaggio alla mattina, in fondo anche lui sapeva quanto lo scuolabus potesse essere fastidioso. Faceva sempre grandi giri per passare a prendere gli studenti e non c’era verso di arrivare a scuola presto. Si arrivava sempre cinque minuti prima del suono della campanella.
- Ehi – lo salutò la ragazza, aprendo la portiera del passeggero e distogliendolo dal flusso dei suoi pensieri.
- Ciao – la salutò di rimando, per poi mettere in moto.
Avevano legato parecchio, i due. Per Zacky, la ragazza era davvero simpatica, per non parlare del fatto che fosse veramente una brava persona. Era sempre stata sincera con loro, poi. Non si faceva problemi a dire che cosa le passava per la testa. Lui era stato il primo con cui si era completamente aperta, anche se lui lo sapeva che aveva tante altre cose da dire, cose che riguardavano il suo passato e che non avrebbe ammesso facilmente. Era come se nascondesse un segreto. Anche Eleanor l’aveva notato, tanto che a volte la chiamava addirittura “occhi tristi”, cosa che faceva arrabbiare Matt, che si limitava a dire che dovevano lasciarla in pace, perché con quell’atteggiamento da lei non avrebbero mai ottenuto niente. Il chitarrista ridacchiava: la verità era che a lui dava fastidio. Voleva sapere, ma la giovane non sembrava nemmeno dargli confidenza. Si allontanava, lo spingeva via.
Phoebe aveva detto che il giorno prima le aveva raccontato di strani sguardi che le lanciava nientemeno che Val, che ovviamente non erano per nessun motivo particolare se non per quella strana attrazione soffocata che il suo ragazzo provava nei confronti della giovane. In fondo, l’amica era intelligente, aveva capito. E aveva anche capito che presto i due si sarebbero lasciati. Zacky era quasi sicuro che lo amasse, un sentimento sincero e soprattutto puro, di conseguenza voleva capire se i due stessero rompendo per colpa della nuova arrivata.
Dal canto suo, lui sperava che non ci arrivasse mai.
La più piccola delle sorelle Rigby non aveva avuto il coraggio di dirgli che, se i due non riuscivano proprio a connettere, era per colpa della ragazza di lui. Anche se probabilmente gliel’avrebbe detto lui, giusto per levargli le fette di salame dagli occhi. Era quello a cui servivano i fratelli, in fondo.
Ma lì per lì non gli interessava. Lì per lì voleva capire altro. Quella mattina Liz aveva gli occhi più tristi del solito, cosa che l’aveva fatto leggermente preoccupare.
- Tutto bene? – le domandò, senza distogliere lo sguardo dalla strada.
- Sì, diciamo di sì. -
- Sicura? -
La giovane alzò gli occhi al cielo.
- Sto bene, Zack. Davvero. Non farti contagiare da Eleanor. -
Il chitarrista rise.
- Dimmi un po’, Liz: qual è la tua storia? -
Di nuovo quella domanda. Che, ovviamente, saltava sempre fuori nei momenti meno opportuni. A volte, Zacky balzava davanti al suo armadietto chiedendole la storia della sua vita. La ragazza rideva, anche se poi di fatto non gli diceva niente.
- Chi lo sa, forse non ce l’ho. -
Quella mattina non aveva voglia di scherzare. Forse era ancora turbata dagli avvenimenti del giorno prima. In fondo gliel’aveva detto, che le parole di Phoebe l’avevano fatta quasi spaventare.
- Tutti hanno una storia. Nel bene e nel male. -
La ragazza diede una scrollata di spalle - La mia è complicata. -
- Lo immaginavo – esclamò, ridacchiando – sai, si dice che le storie portino demoni. -
Non aveva ben capito perché aveva detto proprio quella parola. Lui in fondo non la usava. Pensava che essi fossero semplicemente dei brutti pensieri, che prendevano forma solo quando la propria mente lo permetteva. Come diceva sempre a Matt, ogni persona aveva i propri demoni con cui fare i conti. Ed essi, probabilmente, erano proprio ciò che si era stati in passato e che ora non si era più, oppure un episodio andato a finire male, lui non lo sapeva. Non era nella mente degli altri, in fondo, ma solo nella sua.
- D-demoni? -
Le labbra di Zacky si incresparono in un sorriso. Se la immaginava, quella reazione. Liz non lo sapeva, ma lei e Matt erano dannatamente simili. Una volta aveva detto all’amico che doveva trovare semplicemente una persona cui demoni si sposavano bene con i suoi. Chi lo sa, forse la ragazza era… scosse la testa, decidendo di non pensarci e di andare avanti con il suo discorso.
- Già. L’uomo ha paura delle proprie storie. Per questo si dice che l’unica cosa di cui dovrebbe aver paura l’uomo è sé stesso. Sembra quasi innocente, ma di fatto c’è tutto un meccanismo dietro. I demoni sono le nostre storie, con cui ancora non riusciamo a ragionare. Esse portano paure che non riusciamo ad affrontare, eccetera, eccetera, eccetera… di fatto, ci tormentano in continuazione, ma ciò che si deve fare è essere consapevole che non se ne andranno mai. In fondo sono proprio quelle storie appartenenti al passato che fanno della persona ciò che è ora. Si possono bruciare fotografie del proprio passato, ma ciò che non si capisce è che tutti hanno dei demoni che fluttuano nella propria mente. E quindi ci si solleva un po’, e improvvisamente le storie non sono più portatrici di piccoli mostriciattoli dagli occhi iniettati di sangue. Sono semplicemente ciò che si era e che adesso non si è più. E ciò che si vive momento per momento un giorno sarà una storia anch’essa, forse da raccontare o forse no. Perché in fondo, una storia ce l’abbiamo tutti – fece una pausa – nel bene e nel male. -
Liz l’aveva ascoltato per tutto il tempo, attentamente. Forse perché, nel dire tutto quello, era stato quasi ironico.
- Già, hai ragione. -
- E…? -
- E un giorno ve la racconterò – esclamò la ragazza, aprendo la portiera e balzando giù dalla macchina che il ragazzo aveva appena posteggiato nel parcheggio della scuola – ma quel giorno non è oggi. -
E anche quella volta l’aveva spuntata lei.
 
 
 
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Matt era tornato a casa con un diavolo per capello e si era chiuso in camera sua, sbattendo energicamente la porta.
Gary Sanders aveva provato a dirgli qualcosa quando lo aveva visto entrare in salotto, ma lui non l’aveva ascoltato.
Voleva stare da solo. Non voleva essere disturbato.
Amy non era della stessa opinione. Quando non l'aveva visto scendere nemmeno quando la madre gli aveva annunciato che l’aveva cercato Brian al telefono, aveva cominciato a preoccuparsi. “Tesoro, vai a vedere come sta tuo fratello”, le aveva detto Kim Sanders, anche se borbottava dicendo che quel ragazzo più cresceva più diventava ingestibile. Lei non era mai stata più felice di ricevere tale compito. Nonostante tutto, voleva bene a suo fratello. E voleva capire che accidenti ci fosse di sbagliato in lui.
Bussò ripetutamente alla porta della camera del ragazzo, sperando di ricevere risposta.
Niente.
Abbassò lo sguardo sulla maniglia della porta. Di solito non la chiudeva mai a chiave. Un po’ perché la serratura era praticamente rotta, ci voleva pazienza prima di chiudere la porta e non c’era l’assicurazione che poi si sarebbe riaperta. Un po’ perché non ne aveva nemmeno bisogno. Provò a spingere la maniglia in basso, sentendo poi la serratura scattare. Come aveva predetto lei, non era chiusa a chiave.
- Hai cinque secondi per andartene o davvero, ti alzo di peso e ti butto fuori di qui. -
Aveva la voce colma di rabbia e di risentimento, cosa che la fece deglutire rumorosamente. Quei due fattori combinati insieme non andavano bene, non andavano bene per niente.
- Posso sapere che cosa è successo? – domandò la ragazzina, entrando comunque in camera del fratello e sedendosi accanto a lui sul letto.
Nel corso degli anni aveva imparato a gestirlo. Quando tutto andava male, lei era l’unica che si degnava di ascoltare, di conseguenza era piuttosto sicura che anche quella volta si sarebbe confidato con lei.
- Non sono cose che ti riguardano. -
Amy era al primo anno e alcune cose le capiva perfettamente. Non era da molto tempo alla scuola superiore, ma aveva comunque quattordici anni e alcune cose le capiva anche senza il bisogno di essere lì dentro da tanto e conoscere questo o quello.
E lei sapeva di che si trattava.
- Si tratta di Valary, vero? -
Il fratello si ritrovò a sospirare, per poi annuire. Già, l’aveva intuito, da molto tempo anche. Aveva notato che fra loro le cose non andavano più bene, non li vedeva più sereni e spensierati come se li ricordava lei. Al contrario, le sembrava di trovarsi davanti una di quelle coppie sposate da più di quarant’anni, che si erano già detti tutto e che non potevano far altro che rinfacciarsi i propri difetti.
- Che cosa è successo? -
- Niente. Come al solito. Usciamo e per lei faccio o dico qualcosa che non va bene. E si comincia a litigare. Non va bene questo, non va bene quello, e tu mi trascuri, passi più tempo con i ragazzi che con me, tieni più alla musica che a me, io ti ho anche dato dei soldi, dovresti considerarmi di più… eccetera, eccetera, eccetera. E io non ce la faccio – fece una pausa – ho passato anni ad assecondarla, sempre comunque. A pretendere che i miei bisogni venissero dopo i suoi. Che prima contava lei, poi tutto il resto. Adesso basta. -
Su quello aveva ragione. A lei piaceva Val, era sempre stata molto gentile con lei. L’aveva aiutata all’inizio della scuola e, da quando la conosceva, si era comportata da sorella maggiore nei suoi confronti, sorella che lei non aveva mai avuto. Le voleva bene.
E sapeva che amava suo fratello, anche se aveva uno strano modo di dimostrarlo.
Ma, di fatto, la gente cambiava. Lei pensava che ogni due, massimo tre anni si diventava persone completamente diverse da quelle che si era un tempo, e non si poteva fare nulla per cambiare la situazione.
Forse non erano più compatibili. Era quasi convinta che una coppia si evolvesse insieme, ma…
- Forse è giunto il momento di dire basta per davvero. Sai… quel “basta” – disse la giovane, mimando le virgolette con le dita.
Matt si ritrovò a sospirare, di nuovo.
- Non lo so, Amy. Lei… lei è… -
- Sai perché secondo me il primo amore non si dimentica? Perché è quello dove si fanno più errori. È quello da cui si impara di più. Non puoi stare legato a lei per la vita, se non ti senti più compatibile con lei. Quindi… -
- Quindi dovrei chiudere e passare ad altro? -
E lui sapeva chi era, quell’altro. Aveva un nome, un cognome ed un volto.
Liz era sempre nei suoi pensieri da quando l’aveva vista in classe il primo giorno di scuola. Anzi, lo era da prima, sotto la forma di quel demone che sembrava tormentarlo più di tutti. E anche se i due non avevano confidenza (lei si allontanava e lui non capiva perché, non sapeva che cosa faceva di male per farle prendere le distanze in quel modo), lui sentiva che se doveva frequentare qualcuno, quel qualcuno doveva essere lei.
Sentiva come…
- Il mondo è pieno di persone. E io credo in te. È la prima volta che te lo dico, ma sono sicura che la band avrà successo, che arriverete in alto, che girerete il mondo da cima a fondo. E conoscerai altre persone, lo sai questo, vero? E una di queste persone è l’amore della mia vita. -
Il ragionamento in effetti filava.
- E se l’amore della mia vita è lei? -
Non sapeva bene a chi si stesse riferendo, con quel “lei”. A Val? Credeva davvero che la ragazza avrebbe potuto essere la sua anima gemella? Forse lo era davvero.
- Te ne renderai conto eventualmente. Se lo è per davvero, non scapperà. Rimarrà sempre lì. -
Il ragazzo sorrise, un sorriso sincero che Amy non gli vedeva più sul viso da tanto, troppo tempo.
- Forse hai ragione. -
Lei lo sapeva che aveva ragione. Ma non sapeva se Matt avrebbe seguito il suo consiglio.
 
 
 
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Se c’era un luogo dove ci si poteva riunire e lasciare fuori tutti i problemi o comunque tutto ciò che accadeva nella propria vita, quel posto era il garage di casa Sullivan (e il piccolo spazio nascosto fra i cespugli del parco centrale della città, il loro posto segreto, ma quella era un'altra storia). Era come se fosse stato incantato: si entrava e, improvvisamente, tutto ciò che turbava una persona spariva. Si pensava a cose semplici e si passava il tempo con gli amici.
Più semplice di così… le cose però si complicavano quando, in genere, lì c’erano anche le sorelle Rigby, o la ragazza di Matt, o a volte le scopa-amiche di questa o quella persona - in fondo, loro non erano gente che si impegnava.
- Prossimi progetti lavorativi? – domandò Eleanor, che era passata di lì insieme a Phoebe per dare ai ragazzi il giornale, dove aveva cerchiato degli appositi annunci.
Da quando si erano messi in testa che la loro band non sarebbe rimasta chiusa in un garage ma che, al contrario, sarebbe arrivata in alto e che loro avrebbero fatto della musica la loro carriera, i cinque componenti degli Avenged Sevenfold avevano cominciato a lavorare a tutto spiano, in modo da guadagnare più soldi possibili per cominciare.
Jimmy era di grandi vedute, pensava che entro la fine dell’anno scolastico avrebbero guadagnato abbastanza soldi da produrre non solo l’album, ma anche per fare qualche maglietta con il logo della loro band. Brian invece scuoteva la testa e lo riportava in pochi secondi con i piedi per terra: già tanto se riuscivano a diplomarsi, figurarsi anche guadagnare i soldi necessari per tutto ciò che diceva lui. Ma in fondo, il suo migliore amico era così, era un sognatore, e nessuno sarebbe mai riuscito a togliergli dalla testa le sue fantasie.
“Suoneremo con i Metallica, e gli Iron Maiden, già ci vedo lì”, diceva spesso, facendo ridere tutti gli altri ma al contempo far scuotere loro la testa. Nessuno, in fondo, sapeva dove sarebbero arrivati.
- Cercano aiuto ai magazzini generali, penso che andare lì e muovere un paio di scatoloni non sarà male – esclamò il batterista, indicando un annuncio che era già stato prontamente cerchiato in rosso dall’amica.
- Io posso ancora lavorare in cantiere, non mi pagano male – lo seguì a ruota il chitarrista, per poi strappare il giornale dalle mani del migliore amico e cominciare ad ispezionarlo, cercando di trovare qualcosa anche per gli altri.
Erano solo loro, in quel garage, il che non era neanche poi così raro il giovedì. In genere, dato che venerdì sera avevano le prove (e poi andavano a bere al bar) e il sabato le esibizioni, si poteva dire che quello era il loro giorno libero, dove ognuno avrebbe potuto fare quello che voleva.
Matt probabilmente sarebbe uscito con Valary, anche se i due non erano poi in così buoni rapporti ultimamente, oppure sarebbe andato con Cam a fare una partita a basket insieme a qualche suo vecchio conoscente della squadra in cui giocava prima di dare il definitivo addio a quello sport.
Johnny era con suo fratello in spiaggia, o da qualche parte. I suoi genitori stavano divorziando e il ragazzino non l’aveva presa poi così bene. Da bravo fratello maggiore, si stava impegnando a distrarlo il più possibile.
Zacky invece avrebbe lavorato fino alle sei nell’azienda di famiglia, poi aveva detto che li avrebbe raggiunti e, anzi, avrebbe quasi sicuramente passato la notte a casa Sullivan, dato che avrebbe litigato con il padre. Non era poi una novità.
Brian ci pensò un attimo: tutti e cinque, presi singolarmente, potevano dire di essere dei veri e propri disastri sotto la forma di persone in carne ed ossa. Ma, insieme… erano semplicemente loro. E, in qualche modo, riuscivano ad essere perfetti.
- Lo sapete che possiamo darvi qualcosa, vero? Non è un… -
- Assolutamente no – disse Jimmy, risoluto, interrompendo Phoebe – apprezziamo il vostro supporto, ma la cosa si ferma lì. Chiedervi i soldi è troppo. -
Su quello, entrambi si trovavano d’accordo. Anche il chitarrista non sopportava l’idea di essere in debito con qualcuno. Nessuno di loro aveva chiesto i soldi nemmeno ai propri genitori (anche se suo padre continuava ad insistere e ogni tanto gli allungava un centone, prontamente rifiutato), figurarsi a delle amiche. Si sentivano già in debito con Val, che aveva letteralmente rubato qualcosa come duemila dollari dal conto corrente del padre in modo da darli a Matt. Quello era successo l’anno prima e nessuno sapeva se il signor DiBendetto se ne fosse accorto o meno. In fondo la sua famiglia era affermata e ricca e straricca, come dicevano loro, se non aveva detto niente probabilmente era per quello.
Lo sguardo di Brian si puntò su Eleanor, che all’esclamazione del batterista aveva alzato gli occhi al cielo. Sul suo volto comparve un sorriso malizioso. Da lei non avrebbe certo voluto soldi, ma… altro. E tutti sapevano di che altro stava parlando, compresa la diretta interessata. Non appena si accorse di essere osservata, arrossì violentemente, cosa che lo fece ridacchiare.
- Non… smettila di guardarmi. -
- A te piace quando ti guardo. -
Sì, perché Brian la guardava. E no, non in modo normale, non come un normale ragazzo fissava una normale ragazza (non per altro, loro non erano per nulla normali). Lui la guardava e basta, a modo suo. 
Spesso, quando magari entrava in casa dell’amico o nel garage (cosa che faceva praticamente ogni giorno, dato che abitava nella villetta accanto e i Rigby e i Sullivan erano praticamente cresciuti insieme) ed erano presenti anche i ragazzi, non faceva a tempo ad entrare nella stanza dove si trovavano che automaticamente lo sguardo del ragazzo si puntava su di lei. 
La osservava, lo faceva sempre.
E, quando non lo faceva, quando non era nemmeno nelle condizioni di prestare veramente attenzione, lei guardava lui.
- Potete, per favore, appartarvi da qualche parte e scopare, così smorzate la tensione sessuale e noi altri siamo felici e contenti? – domandò Jimmy, più serio che mai, prendendosi uno scapaccione da Phoebe.
Se fosse stato per lui, l’avrebbe fatto senza problemi. C’era già stato qualcosa, fra loro, all’inizio dell’estate. Il chitarrista era completamente ubriaco (o forse no?) e i due erano davvero finiti per appartarsi. Non che fosse successo qualcosa di più oltre ai baci, anche se a lui sarebbe piaciuto e non l’aveva mai nascosto, ma restava il fatto che il giorno successivo entrambi avevano dato la colpa all’alcol e avevano deciso di non parlarne più, perché da amici stavano molto, molto meglio.
Eleanor non beveva. E Brian non era poi così ubriaco.
E peccato che loro non erano mai stati amici. Anzi, nonostante si conoscessero da un tempo, i due potevano dire di essere quasi degli estranei. Non si comportavano mai da persone legate da un forte legame affettivo, anzi, passavano la maggior parte del tempo a scambiarsi frecciatine. E a litigare. I loro litigi partivano dal banale per poi trasformarsi in qualcosa di dannatamente serio, della serie che non si parlavano per giorni interi e spesso doveva intervenire Jimmy per risolvere la situazione. Eleanor poteva dirsi amica di Matt, di Zacky, di Johnny, poteva definirsi quasi una sorella per Jimmy. Ma per lui no, per lui era diversa e lo sarebbe sempre stata. Un giorno, forse, sarebbero andati oltre, in qualche modo.
Ultimamente stavano imparando a conoscersi, almeno un po’. Ed entrambi non si aspettavano ciò che, in realtà, avevano trovato.
- Smettila. -
- Non fare l’arrabbiata, fai quello che ti pare, fai anche finta che non ti piaccia, ma alla fine finisce che ti guardo comunque. -
E quello era vero, constatarono tutti i presenti, anche se Phoebe stava cercando in tutti i modi di non far scoppiare a ridere Jimmy. Ciò che non voleva ammettere lei era che quelle frecciatine le trovava esilaranti, e che aveva un buon presentimento su quei due.
- Sai una cosa, Haner? Non sei affatto come credevo. -
Il sorriso di Brian si allargò ancora di più.
- Neanche tu. Tu sei molto peggio. -*
 
 
 
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La lavanderia era un posto piuttosto grande. Si trattava di un edificio di mattoni rossi, piuttosto imponente, che si estendeva su due piani: la lavanderia al piano inferiore, una piccola palestra a quello superiore. Lei non capiva cosa ci facesse una palestra lì su e soprattutto chi mai la frequentasse, ma aveva deciso di non porsi troppe domande in proposito.
Aspettò che si liberasse una delle grandi lavatrici di colore giallastro, in modo da mettere il gettone e aprire lo sportello. Si sedette su una panca, dividendo i bianchi dai colorati, per poi sbattere i primi in lavatrice, versare il detersivo e chiudere tutto. Sarebbe stata lì un po’, aveva più lavatrici da fare.
Guardò l’orologio: le sei e mezza di sera. La lavanderia rimaneva aperta fino a tardi, quindi il problema non si poneva. Sarebbe semplicemente rimasta lì a studiare, dato che quel pomeriggio aveva lavorato al negozio di dischi e non era riuscita ad aprire un libro nemmeno nelle pause.
Liz aprì il libro di letteratura inglese, riflessiva. Stava pensando a cosa avrebbe trovato a casa: era giovedì, e il giovedì la madre lavorava per tutta la sera (ma anche per gran parte della notte) in un bar lì vicino. Sicuramente non aveva riordinato la sua postazione per tagliare i capelli, ma almeno avrebbe trovato la casa in ordine, dato che quella mattina era piena di appuntamenti e di certo non avrebbe voluto fare brutta figura con le clienti.
Si ritrovò a sospirare. Era possibile riavvolgere il nastro e tornare indietro nel tempo? No, quello no. Ma lei avrebbe potuto nascere in altre circostanze e vivere un’altra vita? Quello sì, sicuramente. Lei lo sapeva bene.
Scosse energicamente la testa: stava pensando a cose strane, di nuovo. A quelle cose che non dovevano nemmeno provare a sfiorarle la mente. Eppure…
- Ho una domanda: hai sempre un libro in mano? – domandò Matt, facendola sobbalzare.
Da dove era spuntato? E soprattutto, che accidenti ci faceva lì?
Lo osservò attentamente: la solita carnagione pallida, il solito sorriso, le solite fossette, i soliti grandi occhi verdi… indossava dei calzoncini neri che gli arrivavano fino al ginocchio e una maglia che in generale indossavano i giocatori di basket senza maniche, di colore giallo, proprio come quella della scuola. La osservò meglio: sì, decisamente quella della scuola, c’era il piccolo stemma della Huntington High sulla manica sinistra.
Non sapeva che Matt fosse in squadra. Anzi, era piuttosto sicura che fosse stato cacciato.
- Ciao, che bello vederti, sto bene grazie, tu invece? – domandò la giovane, con la voce sfalsata, facendolo scoppiare a ridere – e sì, devo studiare. A differenza tua, ci tengo a diplomarmi nei tempi stabiliti. -
Il ragazzo rise di nuovo, per poi sedersi accanto a lei. Solo lì Liz notò che era completamente sudato, le gocce di sudore scendevano fin dai capelli. Doveva essersi impegnato parecchio agli allenamenti, o dovunque fosse andato.
- Ciao – la salutò, ridacchiando – che cosa combini? -
- Bucato – rispose, indicando la lavatrice che aveva appena caricato andare lentamente. Ecco, lo sapeva lei che avrebbe beccato quella mezza rotta. Come sempre, d’altronde.
Il ragazzo si ritrovò a guardarsi intorno, anche se non doveva essere la prima volta che si trovava lì. Sembrava che conoscesse il posto, le persone, tutto. Era come se fosse completamente integrato e come se avesse sempre vissuto lì. La gente non faceva nemmeno caso a lui, e di solito era quello che succedeva quando si era in presenza di una faccia nuova: la si osservava con curiosità, come a chiedersi che accidenti quella persona ci facesse lì.
Pensò a che cosa dirgli, dato che lui non sembrava intenzionato a parlare, ma solo a rimanere lì, come a farle compagnia. Forse doveva chiedergli di Valary. Ciò che le aveva detto Phoebe qualche giorno prima l’aveva fatta pensare parecchio e nella sua testa stavano cominciando a frullare delle domande strane.
Lei non era mai rientrata nei canoni della normalità. Ma ultimamente stava sfiorando il limite dell’essere completamente fuori controllo.
Paranoica, ecco cos’era. Solo una grande paranoica.
- Tu che ci fai qui, invece? -
Il giovane diede una scrollata di spalle, per poi indicarle con un cenno della testa la porta della lavanderia, probabilmente cercando di farle capire che era stato fino ad allora al campo da gioco di fronte.
- A volte mi piace giocare a basket con un paio di amici. Sono praticamente cresciuto con questo sport e di abbandonarlo ancora non me la sento. -
La ragazza si ritrovò ad annuire, comprensiva.
- Beh… allora… - era imbarazzata. Non aveva la minima idea di cosa dire. Avrebbe voluto chiedere una cosa o due, ma…
- Hai un problema con me, Elizabeth? -
La giovane strabuzzò gli occhi: che accidenti intendeva?
- C-come? -
- Non so. È da un mese che ci conosciamo e sembri molto diffidente, nei miei confronti. Come se ti avessi fatto un torto. -
- N-no. Assolutamente. È che… devo ancora inquadrarti. A differenza degli altri, che non sono comunque facili da capire… tu sei un mistero. Davvero. E io sono sempre stata brava a capire le persone. -
Quello era vero. Liz era incredibilmente brava non solo ad intuire, ma a capire perfettamente il carattere e le attitudini di una determinata persona. Per lei era questione di pochi secondi: quando conosceva una persona nuova, sapeva subito se essa era degna di fiducia o meno. 
In quel mese passato insieme a loro aveva esaminato attentamente tutti e cinque, ed era riuscita a capire molte, moltissime cose.
Su tutti quanti… a parte Matt. Lui non riusciva a capirlo. Per lei, era la persona più misteriosa che avesse mai conosciuto in vita sua, e ne aveva incontrate tante, come spesso si ritrovava a constatare.
Per quel motivo cercava di non dargli confidenza. All’inizio aveva pensato, anche solo per un momento, che… scosse energicamente la testa. No, non era possibile, non una cosa del genere almeno. Soprattutto nei confronti di una persona come Matt. Ma gli avvenimenti di qualche giorno prima l’avevano fatta ricredere, almeno un poco.
- Sono fatto così – disse il ragazzo, abbassando lo sguardo – la gente non mi capisce. E, in automatico, si allontana. -
Aveva capito allora. Liz arrossì, per poi abbassare velocemente lo sguardo: era stata stupida. Era stata scortese. Aveva permesso alla sua mente di giudicare il ragazzo senza neanche conoscerlo.
- Scusami. -
- Non importa, davvero. -
La ragazza sorrise, per poi porgergli la mano.
- Allora… amici? -
Matt avrebbe voluto volentieri scoppiare a ridere. "Amici", aveva chiesto, come quando si è bambini. Si trattene, per poi porgerle la mano, come a fare un accordo.
- A me sta bene. -
I due si strinsero la mano, poi Liz si alzò dalla sua postazione e si diresse verso la lavatrice, per controllare a che punto fosse il lavaggio. Sospirò, per poi bofonchiare qualcosa sul fatto che ogni volta che veniva a fare il bucato quando la lavanderia era piena beccava la lavatrice che funzionava male.
- Sarà meglio che torni a casa, penso di essere in ritardo per la cena – disse il ragazzo, alzandosi dalla panca dove era stato seduto per tutto quel tempo.
- Oh. Capisco. Beh, allora ci vediamo domani a scuola? -
Il ragazzo sorrise.
- Certo. A domani, Elizabeth. -
 
Matt girò i tacchi e si avviò verso l’uscita della lavanderia.
- Non chiamarmi Elizabeth! – strillò la giovane con la quale aveva parlato fino a qualche secondo prima, da lontano, facendolo scoppiare a ridere.
Uscì e cominciò a correre in tutta velocità per le vie di Huntington Beach, diretto a casa sua. Avrebbe fatto tardi e lo sapeva. Il padre si sarebbe arrabbiato, la madre avrebbe alzato gli occhi al cielo e la sorella minore avrebbe bofonchiato un “che novità, è sempre in ritardo”.
Non gli importava. Continuava a pensare a quella conversazione e a quella stretta di mano. Un gesto insignificante. Eppure... il brivido che aveva sentito non appena era entrato in contatto con la giovane era stato intenso. Come del resto lo era stato anche quello di qualche tempo prima, alla loro esibizione.
E improvvisamente quel vuoto che ultimamente sentiva alla bocca dello stomaco non c'era più.
 

 
 
 
 



Note dell’autrice:

Ed eccomi qui con un nuovo capitolo. Lo so che sono in un ritardo allucinante, ma… oltre alla sessione invernale, che mi ha risucchiato l’anima (ho dato l’ultimo esame solo ieri), il mio pc ha pensato bellamente di rompersi. Già. Fortunatamente salvo le mie fanfiction in tre posti diversi, ma non è piacevole ritrovarsi senza il proprio computer – dove, tra l’altro, ho tutti i materiali dell’università, immaginate che gioia averlo rotto nel periodo degli esami.
Bando alle ciance, però, veniamo al dunque. Ritorno con un capitolo un po’ più lungo, dove finalmente qualcosa inizia a muoversi. Ammetto di aver inserito dentro moltissimi luoghi comuni, il che rileggendo il capitolo mi ha stupita, ma… passiamo oltre, forse è meglio. In questo capitolo conosciamo un po’ più a fondo i personaggi e quello che sta succedendo nelle loro vite, conosciamo alcuni tratti del loro carattere… per non parlare poi della piccola comparsa di Amy, la sorella minore di Matt. Di fatto, è una ragazzina di quattordici anni, è ancora piccola. Ho provato a rendere i suoi pensieri il più realistico possibile (ho immaginato che cosa potrebbe pensare una ragazza di quattordici anni dell’intera situazione, vedendola quasi con gli occhi da bambina). Spero di essere riuscita a combinare qualcosa di decente.
Poi, che altro dire? Ah sì, Eleanor e Brian. Già, non ho potuto farne a meno, qualcosa fra quei due dovevo combinate. Ma come si svilupperà questa loro infatuazione? Eh… eheheh *risatina*.

Per quanto riguarda la canzone di inizio capitolo: ammetto di non essere una fan di Ed Sheeran, ma... diciamocelo, c'è sempre una canzone di questo artista che in qualche modo fa riflettere. Ecco, di fatto, eccola qui. Magari innamorarsi fosse così semplice, eh?
 
Okay, la smetto.
Anzi, mi ritiro nel mio angolino buio, forse è meglio.
 
Ringrazio davvero di cuore le persone che hanno recensito la storia, che l’hanno messa fra le preferite, le seguite e le ricordate. Siete davvero dei tesori. Se il capitolo vi è piaciuto (o anche no, attendo sempre le critiche, in modo da migliorarmi), lo lasciate un piccolo commentino per farmi sapere che cosa ne pensate? *^*
Bene, mi ritiro in un angolino davvero.
Al prossimo capitolo!
Kisses,
Vava_95
 
P.S. entrambe le citazioni contrassegnate dall’asterisco (*) derivano dalla saga "il bacio dell'angelo caduto".
P.P.S. in caso voleste contattarmi, oltre a scrivermi una mail qui su EFP potete anche farlo su twitter: @SayaEchelon95

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Capitolo 5
*** - Cap. 4 - ***


Nota: i fatti riportati a seguire sono completamente immaginari. Scrivo per semplice diletto personale, e i personaggi di cui parlo non mi appartengono.


CAP. 4

 

“Cause I see you, but I can't feel you anymore”
Stone Sour – Hesitate
 
“Yeah, carved right into me  because I am made of scars”
Stone Sour – Made Of Scars
 
 

Novembre 1999
Huntington Beach, California


 
Il lunedì successivo al party di Halloween, che si teneva in genere l’ultimo weekend di ottobre, poteva considerarsi uno dei giorni più critici dell’intero anno scolastico.
C’era sempre qualcosa che caratterizzava le feste della scuola, specialmente se esse erano organizzate non dall’istituzione ma da questa o quella persona che poteva definirsi “popolare”. Come Ophelia Cohen, capitano delle cheerleader e classica persona che organizzava feste definite da urlo ma che in realtà non avevano niente di speciale se non tanto, tantissimo alcol. Dopo di esse, c’era sempre da chiacchierare, anche perché in genere era invitata tutta la scuola (fatta eccezione, ovviamente, per i ragazzi del primo anno), e questo piccolo ma fondamentale fattore provocava la diffusione di un pettegolezzo alla velocità della luce, in ogni angolo dell’edificio. Erano tutti piuttosto sicuri che alcune cose le venissero a sapere persino i professori, tanto se ne parlava.
“Non sai che cosa è successo”, si diceva sempre dopo una festa.
“Ho sentito, ma aggiornami, magari si sa di più”, si rispondeva, ed era lì che partivano i chiacchiericci.
In fondo, di avvenimenti ne succedevano tanti, fin troppi.
Nessuno sapeva perché la festa di Halloween era critica. Forse perché era la prima festa dell’anno e molta gente osservava le nuove dinamiche presenti in questo o in quel gruppo. Oppure perché ci si aggiornava su cosa era successo in estate, in quanto molti avevano faccende irrisolte che si risolvevano quasi miracolosamente con costumi stracciati o rovinati da un’accidentale, ma neanche tanto, versata di punch.
Ah, la scuola superiore.
Come di consueto, a scuola si chiacchierava. E quella volta c’era un gossip davvero succoso per tutti quelli che amavano ficcare il naso nelle faccende private delle cheerleader… ovvero più di tre quarti della scuola. Appena varcata la soglia principale ed essersi trovati nell’atrio, si poteva persino fiutare il grande, se non grandissimo, pettegolezzo.
“Da quando una cheerleader viene scaricata?”, si diceva in giro, a piccoli gruppetti, anche se essi erano consapevoli che tutti stessero parlando della stessa identica cosa.
Già: da quando una cheerleader veniva scaricata? Mai, nella storia di quella scuola superiore, si era sentito un avvenimento del genere, o pressappoco simile. Semplicemente perché era inconcepibile che una ragazza appartenente alla squadra delle cheerleader, e quindi che doveva essere per forza di cose l’apoteosi della perfezione, venisse bellamente piantata in asso.
Ad una festa. Anzi, ad una festa dal calibro di quella di Halloween.
Quando Liz era entrata nell’aula di matematica aveva capito che qualcosa non andava. Era come se i suoi sensori fossero in allerta e avessero cominciato a suonare. Improvvisamente, un flash rosso le passò davanti agli occhi, velocissimo. Il disco rosso. C’era una diceria che veniva usata in guerra, a proposito dello sviluppo di una specie di sesto senso dopo un determinato periodo passato sul campo di battaglia. Una specie di disco rosso passava davanti agli occhi, per avvertire una determinata persona di essere in pericolo. Lei l’aveva appena sentito. Pericolo, pericolo imminente, scappa a gambe levate. Perché si sapeva, l’uomo era un animale, e quando un animale aveva paura scappava. E l’uomo era anche fatto di paura, quindi meglio di così…
Si sedette al solito posto, due file avanti a due banchi vicini ai quali erano sedute due cheerleader, che stavano parlando animatamente. Aveva notato come, alla sua entrata in aula, l’avevano fulminata con lo sguardo. Non aveva capito perché, ma non le interessava nemmeno, in fondo a tratti le cheerleader prendevano di mira qualcuno. La cosa importante era non dar loro corda.
- Ehi – la salutò Jimmy, crollando nel banco di fianco al suo e poggiando la testa su di esso, come se fosse stravolto. Era evidente che fosse stanco.
Ci pensò un attimo: la festa era stata sabato sera, se si era ubriacato la domenica non avevano mai esibizioni, di conseguenza aveva sicuramente avuto tutto il tempo per dormire, eppure… sembrava fosse ancora in preda ai postumi della sbronza.
- Tutto bene? – domandò la giovane, passandogli una mano fra i capelli biondi.
Il batterista la guardò storto, per poi rendersi effettivamente conto che lei non aveva la minima idea del perché fosse così stanco. Si rizzò, stropicciandosi gli occhi azzurri.
- Fammi capire: non lo sai? -
- Che cosa dovrei sapere? -
- Cioè, proprio… neanche sentito? – domandò, leggermente stupito.
La giovane scosse energicamente la testa, ma il ragazzo aveva attirato la sua curiosità: che cosa avrebbe dovuto sapere? Sicuramente si trattava di qualcosa che era successo alla festa. Ma lei non era andata, come non erano andate Eleanor e Phoebe, del resto. Gli unici che avevano provato a mettere piede in casa Cohen erano stati i membri degli Avenged Sevenfold, anche perché c’era l’alcol, e se una festa aveva i loro amati liquori allora era sicuramente degna di partecipazione.
Non aveva sentito né le ragazze né i componenti della band nel weekend, anche perché l’aveva passato ad organizzare la festa per il sesto compleanno di una loro vicina di casa, che abitava al primo piano, alla quale avevano partecipato molti bambini del vicinato e tutti gli abitanti del condominio. Era stata completamente estraniata dal resto del mondo per due interi giorni.
- Oh. Beh… non so ancora bene come sia successo, ma Matt e Val hanno rotto, sabato sera – annunciò, per poi tornare ad appoggiare la testa sul banco – non ne so ancora molto, resta il fatto che per le prossime settimane Matt sarà praticamente sotto i riflettori. La cosa non gli farà bene. -
Liz rimase per un attimo a bocca spalancata: si erano lasciati? Per quale assurda ragione?
La sua mente tornò indietro a qualche settimana prima, quando aveva avuto quella strana conversazione con Phoebe. No, non era possibile. Si trattava sicuramente di altro.
- Ma… perché? -
- Perché alcune cose devono finire, Lizzie. La loro relazione poi era morta da tempo. Girava tutto intorno al sesso, penso. Credo. Non lo so, penso di essere l’ultimo a cui chiedere, dato che sono amico di entrambi. -
Era vero, anche se, se avesse dovuto scegliere, la ragazza era più che sicura che Matt sarebbe sempre stato la sua scelta. Probabilmente il batterista non se la sentiva di prendere posizioni, non ancora perlomeno. Avrebbe aspettato un po’, avrebbe esaminato la situazione e poi, forse, avrebbe capito da che parte stare. Era quello in fondo il brutto delle rotture: bisognava per forza prendere le parti di qualcuno.
A meno che non fosse stato qualcosa di pacifico…
- A quanto pare alla fine le ha detto “fottiti, Val” – sentì dire da una delle cheerleader dietro di loro, attirando in qualche modo la loro attenzione. Aveva provato a fare il verso al ragazzo anche se chiaramente non aveva la minima idea di come fosse la sua voce.
Evidentemente no, la loro rottura non era stata stile “senza rancore”, con una stretta di mano a seguire.
- Qualsiasi cosa dicano, non girarti verso di loro, per nessuna ragione al mondo  - le sussurrò Jimmy, per poi salutare Eleanor che era appena entrata in classe e alzarsi dalla sedia, in modo da cederle il posto. Le fece cenno di rimanere in silenzio, in quanto qualcuno stava parlando di ciò che era successo il sabato prima e voleva capire se avrebbero ingigantito la cosa oppure no.
La ragazza si sedette al suo posto, senza dire nulla, cominciando anche lei ad ascoltare.
- Povero tesoro. Non se lo meritava di essere scaricata in quel modo così burbero. Anche se io mi chiedo, sinceramente, come mai ha speso così tanto tempo dietro a quel ragazzo. Insomma… - la bionda fece una pausa, abbassando la voce – si sa che non ha un cuore. -
Liz poté giurare di aver visto Jimmy sussultare e stringere le mani a pugno.  La lealtà e lo spiccato senso di protezione che provava nei confronti dei suoi migliori amici in situazioni del genere era più forte che mai.
- Devono ringraziare il fatto di essere donne, altrimenti a quest’ora si sarebbero già trovate per terra con il naso rotto. -
- Stai calmo e vai a sederti – gli ordinò Eleanor, alzando gli occhi al cielo, per poi voltarsi verso l’amica – non dargli retta, lui ne fa un dramma perché Matt è sì suo fratello, ma Val è una sua grande amica. -
- Capisco. -
Era diventata improvvisamente taciturna. Forse perché aveva cominciato ad associare le cose.
- La verità è che Matt voleva rompere con lei già da un po’ e, evidentemente, ha avuto la sua occasione sabato sera. Avrebbe potuto evitare, ma io non sono nella sua testa. Non c’è niente di cui preoccuparsi. -
Sotto molti punti di vista, lei invidiava Eleanor, e uno di quelli era il fatto che conoscesse alla perfezione tutte quelle persone che entrambe ormai frequentavano. Aveva un rapporto unico e speciale con ognuno di loro e sembrava che fosse la sorella di tutti, a giudicare da quanto li conoscesse a fondo. Tutti a parte Brian, dal quale tendeva ad allontanarsi (e lei sapeva anche perché, ma non voleva immischiarsi nemmeno in quello perché, di fatto, ancora non era ben integrata).
Di conseguenza, se lei diceva che non c’era da preoccuparsi, allora non c’era da preoccuparsi davvero.
- La cosa farà scalpore per un po’, e poi… sai come funzionano queste cose. Ho sentito che ci sono stati altri casini e vedrai che dopo si parlerà di quello. -
La ragazza annuì quasi impercettibilmente. La sua interlocutrice le lanciò una strana occhiata, intuendo di dover cambiare argomento. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma in classe fece ingresso la ragazza cui nome era sulla bocca di tutti dall’inizio della giornata. Le due cheerleader che avevano spettegolato fino a un secondo prima si alzarono in piedi e la strinsero in un abbraccio, accompagnandolo con epiteti della peggior specie rivolti a Matt, che ovviamente fecero infuriare ancora di più Jimmy, in ultima fila.
- Non la guardare, non lo farò nemmeno io – disse, per poi salutare il professore che veniva subito dopo la giovane – a differenza di tu sai chi, io ho già deciso da che parte stare. -
La prima cosa che passò per la mente di Liz fu quella di chiedersi se doveva prenderne una anche lei.
 

 
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Gli unici che erano riusciti a presentarsi in mensa erano stati Johnny, Zacky e Brian. Quando Matt aveva capito che tutti a scuola lo stavano guardando dall’alto in basso non per la sua ultima bravata (e lui ne aveva fatte tante, di conseguenza non si sarebbe nemmeno ricordato quale fosse stata l’ultima) ma perché sapevano, aveva deciso di non andare a prendere il pranzo, anzi, era determinato a lasciare l’edificio il più presto possibile. Quando se ne era andato in direzione del cortile Jimmy si era limitato ad alzare gli occhi al cielo, per poi raggiungerlo a grandi passi. Gli amici non avevano detto niente, ma appena si erano seduti al loro tavolo avevano tirato un sospiro di sollievo, perché se il batterista si fosse presentato in mensa avrebbe fatto una pseudo-strage, in quanto praticamente tutti gli studenti stavano parlando di ciò che era accaduto. Alla festa di Halloween loro c’erano, sapevano che erano successe altre cose ed erano sicuri che di quelle cose si sarebbe parlato in seguito… ma quello, quello era il gossip della settimana.
Nessuno scaricava una cheerleader.
- Che schifo – commentò Phoebe, lanciando un’occhiata al tavolo delle cheerleader dove tutte le attenzioni erano rivolte a Valary. La consolavano, la coccolavano, ogni cinque secondi c’era una persona che la abbracciava… doveva essere snervante.
- Penso che Michelle stia soffocando, dovremmo salvarla? – domandò Eleanor.
Michelle era la sorella gemella di Val, che per tutta mattina aveva cercato di stare il più alla larga possibile da qualsiasi persona presente nella scuola, anche perché lei doveva essere l’unica informata dei fatti. I componenti degli Avenged Sevenfold lì presenti scossero energicamente la testa: nessuno di loro avrebbe fatto un passo verso quel tavolo. La morte, probabilmente, sarebbe stata meno dolorosa a confronto.
Liz era rimasta taciturna per tutto il tempo.
Stava pensando, l’avevano capito tutti.
Johnny aveva provato ad aprire la bocca per chiederle se volesse parlare una volta o due, ma l’aveva richiusa pochi secondi dopo, come se le parole gli fossero morte in gola. Probabilmente il bassista aveva paura che facesse una domanda sulla rottura e loro ne sapevano veramente poco. A parte l’ovvio, s’intende.
Brian non era particolarmente interessato alle reazioni delle cheerleader e compagnia. A lui interessava solo ciò che si pensava nella sua piccola combriccola ed era più che sicuro che tutti si trovavano d’accordo sul fatto che con l’andar del tempo Matt e Valary erano diventati incompatibili. Era vero, lui era particolarmente menefreghista e dell’amore non gliene fregava niente (non doveva fregargliene niente), ma alla fine c’era poco da girarci intorno: le persone cambiano, ed erano cambiati anche loro. Liz avrebbe dovuto esserne al corrente, considerando il fatto che in quel periodo di tempo aveva avuto modo di osservare e comprendere tutte le loro dinamiche di gruppo.
Zacky era preoccupato per l’amica: fra tutti, lui era stato il primo a cui aveva dato un briciolo di fiducia e non voleva che pensasse fosse colpa sua. Perché sì, lui aveva imparato a conoscerla e sapeva che probabilmente si stava convincendo sempre di più su quello. Beh, di fatto, era vero, semplicemente non voleva che si sentisse responsabile della cosa. Il chitarrista si ritrovò a sospirare: ciò che odiava dell’adolescenza erano gli intrighi e i classici amori adolescenziali, che non lasciavano scampo. Tutte le storie finivano male, fine della discussione. Loro avevano evitato il fattore “drammi adolescenziali”, come lo chiamava Jimmy, per un considerevole periodo di tempo. Certo, tutti avevano avuto le loro storie, che potevano anche essere finite male (soprattutto quelle di Brian, quel ragazzo non aveva per niente tatto), ma di fatto nulla era stato così grave da provocare casini all’interno del loro gruppo o vacillamenti vari. Soprattutto, mai così gravi quanto mobilitare tre quarti della scuola. Proprio per quel motivo, lui era convinto che i drammi li avessero evitati. Persino quando era successo quello che era successo – non piaceva a nessuno parlarne e lui non capiva perché – fra Eleanor e Brian si era riusciti a salvare la situazione. Quella volta no. Ma in fondo era normale: si era adolescenti e non si poteva essere stabili in quel periodo della vita. Fine della storia.
- Così impara a fare l’egoista – esclamò Phoebe – e… e… la cheerleader. -
- La cheerleader? – ripeté Johnny, ridacchiando – da quando è un male? -
- Non è un male esserlo, Seward – spiegò la ragazza – è un male prendere tutti i loro comportamenti da perfette figlie di papà che disprezzano tutti quelli che non sono in possesso di… che ne so, qualcosa come una borsa di Gucci, le cosine materiali che hanno loro insomma. -
- Ah beh, allora è tutto chiaro… -
- L’ha fatto per me? -
I tre ragazzi deglutirono rumorosamente, scambiandosi uno sguardo d’intesa. Liz aveva innescato la bomba e ovviamente non c’era modo di disinnescarla. Voleva una risposta e loro avrebbero dovuto dargliela, il problema era sapere che accidenti dovevano dirle. Mentire? E se poi avesse scoperto la verità? E se fosse successo qualcosa? No, era fuori discussione. Ma d’altro canto loro non sapevano che cosa volesse Matt, e quello era un buon motivo per non dirle la verità.
Eleanor lanciò loro un’occhiata che valeva più di mille parole e, anzi, nascondeva anche una minaccia al suo interno.
- Va bene, va bene – esclamò Brian, alzando le braccia come ad arrendersi – l’ha fatto per te. Contenta, possiamo tornare a mangiare? -
- Sei un idiota, Haner – commentò la maggiore delle sorelle Rigby, per poi cominciare a battibeccare con il chitarrista che diceva che era stata lei, con quell’occhiata, a obbligarlo a parlare e che a lui di quelle cose non gli importava niente. Voleva solo che il suo migliore amico, anzi, che suo fratello stesse bene.
Zacky alzò gli occhi al cielo, per poi appoggiare una mano sulla spalla della ragazza, come a confortarla.
- Andiamo, non dirmi che non te ne sei accorta. -
- D-di cosa? -
- Degli sguardi, delle frecciatine, delle battute… persino dei litigi? – domandò Johnny, in tono sarcastico, come se fosse una cosa ovvia.
Ultimamente, aveva avuto occasione di constatare il bassista, i due si ritrovavano spesso in disaccordo, ma lui era più che convinto che tutti quei battibecchi fossero comandati dalla tensione sessuale… o, per dirla in modo un po’ più romantico, dato che Matt era dannatamente preso dalla giovane, essi erano comandati dalla potente attrazione che c’era fra i due. Era matematicamente impossibile che Liz non se ne fosse accorta: in primo luogo era una brava osservatrice, in secondo luogo perché spesso lo assecondava in quelle cose, o cominciava lei. Questo la diceva lunga.
- Sono per te, Lizzie. Si comporta da ragazzina in pieno scompenso ormonale. -
- Quanto sei delicato – commentò il chitarrista, anche se non poté fare a meno di ridacchiare – lascialo stare. -
- Ma… è vero, no? -
- Lo è – si aggiunge Phoebe, dopo aver rinunciato ad ogni tentativo di sedare la lite fra gli altri due, che continuavano a discutere.
- Io non… -
- Vedi questi due? – domandò la giovane, indicando Brian ed Eleanor che sembravano totalmente estraniati da qualsiasi altra conversazione stesse avvenendo al loro tavolo – chiamasi biologia in azione. Tu e Matt siete uguali. Ma senza le parolacce. Oh, e sul fatto che alla fine lui te la dà sempre vinta. -
Liz si ritrovò ad arrossire, per poi tirare uno scapaccione sia a Johnny che a Zacky, che avevano cominciato a ridere.
- Piantatela. -
- Ehi, hai chiesto se era per te, ti abbiamo detto che era per te – esclamò l’amica, anche se non poté fare a meno di appoggiare i gomiti sul tavolo e sporgersi verso la giovane seduta di fronte a lei – ma tu, se si presentasse l’occasione… gli diresti di no? -
Phoebe, come amava dire lei, non era una ficcanaso. Eppure, aveva un debole per quelle storie piene di intrighi. Certo, quando si trattava di relazioni lei si tirava sempre indietro, dicendo che non voleva impegni e che il massimo che poteva fare era una pomiciata – o una ripassata, chi mai lo sapeva? – ogni tanto, niente di più (la verità era che aveva da tempo un ragazzo per la testa, ma nessuno sapeva di chi si trattasse), ma quando si trattava degli altri si trasformava nella regina delle relazioni. O dei casi persi, dipendeva dai punti di vista. La ragazza voleva molto bene a Liz, era palese. Voleva la sua felicità, e certo, se questa avesse comportato anche, come effetto collaterale, una buona quantità di drammi, allora…
Liz scosse energicamente la testa. Ovvio che non gli avrebbe detto di no. Non voleva ammetterlo, ma a lei Matt piaceva, molto anche. Nonostante ultimamente non andassero poi così d’accordo. In fondo fra loro era così, andava a periodi, ma… non immaginava che fosse perché anche a lui piacesse lei. Non l’avrebbe mai nemmeno intuito, anche perché aveva una ragazza e… scosse di nuovo la testa. Ma chi accidenti voleva prendere in giro?
- No. Non lo farei – rispose, dando voce ai suoi pensieri.
- Lo sapevo! – strillò la giovane, battendo le mani entusiasta e facendo alzare gli occhi al cielo agli altri due ascoltatori.
- Vuoi sapere la verità, Liz? – domandò retoricamente Zacky, facendo roteare la forchetta in aria – la verità è che, in circostanze normali, Matt l’avresti trovato libero come l’aria quando ti abbiamo conosciuta. Ma di fatto, la sua relazione con Val è stata normale fino ad un certo punto, poi… -
- Poi lei ha rubato dei soldi al padre per aiutarci con la band e tutto il resto e, anche se non l’ha mai voluto dare a vedere, Matt ha cominciato a sentirsi in debito con lei. Di fatto, la loro relazione sarebbe già finita tempo fa se non fosse per quel piccolo fattore – concluse Johnny al posto dell’amico.
Quella non era poi una cosa così sconosciuta. Il ragazzo le aveva detto del debito, anche se aveva specificato più e più volte che non si sentisse in debito con la giovane. Evidentemente aveva frainteso tutto.
- Ma… io… -
- Penso che sarebbe successo comunque. Che scherzi che gioca il destino. -
Liz avrebbe voluto dirgli che lei non credeva nel destino, ma aveva visto uno strano luccichio negli occhi di Zacky quindi aveva deciso di non dire nulla.
- Io e lui… non funzioneremmo. -
- Chi te lo dice se non ci provi? – domandò il bassista, non potendo fare a meno di guardarla ad occhi spalancati, come se fosse confuso.
- Perché è così. E basta. -
- Beh, allora, buona continuazione con i vostri litigi eccetera eccetera – esclamò Phoebe, alzando gli occhi al cielo, per poi tornare a concentrarsi su chi, effettivamente, in quel gruppo stava litigando.
Lo fecero anche gli altri, perché di fatto Eleanor e Brian che litigavano erano uno spettacolo troppo divertente per essere perso. E poi, tutti ne erano al corrente, Liz non era stupida. Quel che doveva succedere sarebbe successo. Fine della storia.

 
 
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Huntington Beach non era una città così sconosciuta, nonostante lei sostenesse a gran voce il contrario. Nel panorama sportivo mondiale era un luogo molto importante per le gare di surf. Ogni anno, la città ospitava una delle più importanti competizioni mondiali di surf. Non era per niente un male, in quanto favoriva il turismo, in più già mesi prima della gara vera e propria arrivavano surfisti da tutte le parti del mondo, per allenarsi. Le esercitazioni poi avvenivano verso sera, quando le onde erano più alte, almeno in quel periodo dell'anno. A lei piaceva andare in spiaggia in quel momento della giornata, dove non c'era nessuno a parte i futuri partecipanti alla competizione e i loro allenatori. Il sole poi cominciava a tramontare, dipingendosi di mille colori. Piano piano, l'azzurro scompariva, lasciando posto a diverse tonalità di giallo, arancione, rosso... poi arrivava il blu, tipico della notte, che portava via ogni colore e stendeva un velo di oscurità sul mare, creando uno spettacolo suggestivo.
Quando staccava dal negozio e non aveva voglia di tornare a casa, la ragazza andava sempre lì. A volte studicchiava, a volte invece preferiva fare fotografie. Non lo ammetteva facilmente, ma la sua passione era quella e, forse, un giorno sarebbe diventata una fotografa. Era solo una sua fantasia, che se si fosse trasformata in realtà a lei non sarebbe certo dispiaciuto.
Prese la macchina fotografica in mano, cercando di catturare le acrobazie dei surfisti. Era difficile, in quanto erano molto veloci, ma lei era brava, molto anche. Non l'avrebbe mai ammesso però, in quanto avrebbe potuto distrarla dal suo obiettivo, ovvero il college. Non che, se avesse scelto la carriera da fotografa, non sarebbe andata al college. Ma sicuramente avrebbe dedicato più tempo alla sua passione che a qualsiasi altra cosa. Preferiva alimentare il desiderio di andarsene, al posto che inseguire quei sogni. Li chiudeva in un cassetto e nascondeva la chiave, in modo da non poterla ritrovare.
- Ehi – la salutò Eleanor, facendola sobbalzare.
Era così immersa nei suoi pensieri che non l'aveva nemmeno vista arrivare. L'aveva notata con la coda dell'occhio poco prima, quando era giunta in spiaggia dopo aver chiuso il negozio (il venerdì lo chiudeva sempre lei, dato che il proprietario andava a casa presto e si fidava della giovane), e si era chiesta che cosa ci facesse lì, ma si era nemmeno presa la briga di salutarla. Al contrario, si era seduta sulla sabbia a una ventina di metri da lei. Dopo una giornata dura e una settimana che lei aveva definito pessima (e stava anche cominciando a perdere la pazienza con alcune persone e il loro atteggiamento nei suoi confronti) aveva bisogno di rimanere da sola, in modo da mettere in ordine i suoi pensieri.
- Ciao – la salutò di rimando, sorridendole appena.
- Che cosa combini qui? Nessun modo migliore per spendere il venerdì sera? -
- No, evidentemente non ne ho trovato nessuno. -
- Stessa cosa vale per me - esclamò la ragazza, facendole l'occhiolino.
Liz sorrise. Nonostante sentisse che, su molte cose, le due potevano considerarsi in competizione, poteva dire che erano davvero simili. Lei era l'unica persona con cui voleva trovare un punto d'incontro e stringere amicizia. Pensava che Eleanor, esattamente come lei, non si faceva conoscere da tante persone, ma che per quelle dava tutta sé stessa.
- Allora, che cosa combini? -
Sicuramente, anche alla giovane sarebbe piaciuto fare amicizia con lei. Lo dimostrava spesso e quello era uno dei metodi classici: provare a impiattare una conversazione dal nulla, anche quando quest'ultima non sarebbe dovuta iniziare, come in quel caso.
Le indicò la macchina fotografica, che probabilmente aveva già notato. In fondo, era una buona osservatrice, proprio come lei.
- Faccio fotografie. Ho questo strano sogno nel cassetto... lascia stare, se ti racconto ti annoio. -
Con sua sorpresa, la sua interlocutrice sorrise, per poi cominciare a frugare nella larga borsa che aveva a tracolla. In pochi secondi tirò fuori una penna, accompagnata da una matita e da una gomma da cancellare. Per ultimo, tirò fuori quello che sembrava un blocco per gli appunti. Gliel'aveva già visto altre volte, in classe o nell'armadietto, ma aveva notato che a scuola non lo apriva mai, di conseguenza non lo usava. Si era chiesta più volte a che cosa servisse, ma aveva deciso di non dire nulla. In fondo, erano affari suoi.
- Questo è la mia passione segreta - annunciò, aprendo il blocco e mostrandogli alcuni disegni.
Poteva dire di capire il perché Jimmy, a volte, la definiva un'artista. Si chiedeva sempre perché, dato che non capiva, ma dato che anche gli altri sembravano fissarlo con aria interrogativa, non si era mai preoccupata di scoprire perché (magari era una cosa loro, che ne sapeva lei?). Quei disegni erano splendidi: alcuni erano paesaggi, altri ritratti, alcuni erano completi mentre altri erano schizzi. Aveva notato che c'erano pochi colori, in quanto la maggior parte di essi, specialmente se si trattava di schizzi, erano fatti a penna.
- Stavo provano a ritrarre il tramonto - spiegò, girando velocemente le pagine e mostrandole l'ultimo schizzo - catturarne un po' l'essenza per poi fare a casa un esperimento con i colori. Ma... non penso sia possibile. È troppo... troppo bello, per essere ritratto, e io non sono poi così brava come sembra. Ma può essere catturato in una fotografia.
Liz alzò lo sguardo su di lei, non potendo fare a meno di sorridere. Se lo immaginava, che avesse capito. Forse un giorno l'avrebbe portata a casa sua e le avrebbe fatto vedere tutte le foto che aveva fatto e sviluppato del tramonto della loro città. Non le piaceva molto vivere lì, ma stendersi sulla sabbia e osservare il sole dare posto alla completa oscurità era meraviglioso, a detta sua. L'aveva sempre affascinata. E pensava che una cosa del genere si potesse osservare solo ad Huntington Beach.
- Tieni, puoi guardarli tutti - disse, porgendole di nuovo il blocco.
La ragazza aveva capito: era un atto di fiducia, quello. Da quando la conosceva, quel quadernetto era come se la trasportasse in una specie di luogo segreto, in un Paese delle Meraviglie tutto suo, dove nessuno poteva entrare. E quel mondo era tutto in quel blocco per gli appunti. Consegnarglielo era come darle fiducia. Era come se le desse il permesso di entrare e conoscerla.
Ci pensò su, per poi aprire e cominciare a sfogliare le pagine e osservare attentamente i disegni. Si fermò quando intercettò un paio di occhi azzurri, che ricoprivano tutta una pagina. Li indicò, per poi voltarsi verso la giovane.
- Jimmy - disse, senza aver bisogno di chiedere conferma - siete molto legati, voi due? -
Eleanor annuì.
- Sono la sua vicina di casa, ma questo lo sai - cominciò - ci conosciamo praticamente da sempre. Non sono figlia unica, e Phoebe non solo è mia sorella, ma è una parte fondamentale di me. Ma Jimmy... Jimmy era il bambino strano della porta accanto. Era molto singolare, fin da piccolissimo viveva a modo suo, seguendo regole sue, senza che gli importasse di niente, e di nessuno. Mi incuriosiva. Un giorno la sua palla finì nel mio giardino, così lui scavalcò per venire a riprendersela. E niente, da allora siamo come fratelli. Anzi, siamo fratelli. Lui è mio fratello maggiore.
Liz si ritrovò ad annuire. Non c'era giorno che Jimmy non la definisse come "mia sorella". Il loro era un legame veramente profondo. Era come se fosse sua sorella davvero.
- La cosa che colpisce di più di Jimmy sono gli occhi, quindi... mi ritrovo spesso a disegnarli.  -
La ragazza tornò a guardare i disegni, curiosa.
Si fermò di nuovo poco dopo, indicando quella che aveva identificato come l'altra faccia della medaglia di Jimmy. Questa volta era un ritratto, uno che lei definiva dei migliori che avesse mai visto.
- Lui me lo spieghi? -
Eleanor arrossì violentemente, distogliendo persino lo sguardo dal ritratto di Brian, cosa che fece ridere la giovane. Doveva immaginarselo.
- M-magari... magari un'altra v-volta - balbettò, scuotendo la testa, come se in quel modo avesse potuto dissolvere il rossore sulle guance.
Non se ne preoccupava: gliel'avrebbe detto davvero, un giorno.
Man mano che le pagine venivano sfogliate, venivano date spiegazioni. E in poco più di due ore Liz aveva imparato a conoscere Eleanor. E, in qualche modo, Eleanor aveva imparato a conoscere Liz.
 
 
Erano le nove e mezza di sera e il quartiere popolare era immerso nel silenzio. Era una serata tranquilla, cosa che ultimamente era rara. Non sapeva bene come e cosa era successo, ma le lotte fra gang sembravano essersi accentuate, e non poco. Lei non ci faceva tanto caso, in quanto, almeno per il momento, non stavano coinvolgendo nessuno.
Liz aprì la porta principale del palazzo, in modo da avviarsi verso l'appartamento. Si voltò verso Eleanor, che l'aveva accompagnata fino a lì. Fortunatamente la sua casa era appena all'inizio del quartiere popolare, di conseguenza non aveva troppi pensieri a lasciarla andare a casa da sola. In caso contrario, avrebbe insistito a farla salire e a chiamare qualcuno in modo da farsi venire a prendere.
- Grazie per la serata. Mi sono divertita. -
La ragazza sorrise.
- Posso dire la stessa cosa – esclamò – sai, sei un buon soldato, Liz. Davvero. -
- Soldato?  - ripeté la ragazza, senza capire.
Eleanor sorrise, di nuovo.
- Un combattente. Che ha coraggio ma non marcia da solo, non ancora. Che ne ha viste davvero tante, ma non abbastanza. Il passo precedente al guerriero, per intenderci. -
Stava usando delle metafore, che lei non riusciva a cogliere bene. Rifletté per qualche secondo: nel corso della sua (per quanto breve) vita, ne aveva passate un po' di tutti i colori. Anzi, poteva dire che già dal giorno della sua nascita ne aveva passate un po' di tutte. Ma, alla fine, quando era stata abbastanza grande per capire, aveva trovato un modo per andare avanti, sempre e comunque.
Era una combattente, quello sicuro.
Era un soldato.
Le sorrise, un sorriso sincero.
- Grazie - esclamò - allora ci vediamo domani in spiaggia? -
L'amica annuì.
- Vieni all'esibizione dei ragazzi domani sera? -
- Devo proprio? -
- A Matt farà piacere. Penso che abbia bisogno della tua presenza. -
Avevano parlato anche di quello, ad un certo punto. Lei però avrebbe sfruttato il concerto della sera successiva per chiarire le cose con lui. Doveva farlo, ne avevano bisogno entrambi.
- Va bene allora. Verrò. -
Eleanor sorrise, per poi salutarla un'ultima volta e avviarsi, quasi di corsa, verso casa.


 
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Valary DiBenedetto era sempre stata una ragazza semplice, o almeno lo era stata finché non aveva messo piede nella Huntington Beach High School.
Che la scuola superiore cambi le persone in modo radicale è un dato di fatto. Nessuno riesce a scampare alla cosa. Forse non si tratta della scuola superiore in sé, ma delle aspettative che una persona si fa di essa. Ci si aspetta il bulletto di turno, i giocatori di football che prendono per i fondelli chi non fa sport, le cheerleader perfette, gli emarginati, i nerd... non ci si aspetta la normalità, alla scuola superiore, mai.
Come tutti, anche lei pensava di entrare in una specie di giungla chiamata liceo. Non aveva però trovato un brutto ambiente, o almeno era quello che lei credeva. Forse perché, essendo bella e atletica, era riuscita ad entrare a far parte della squadra delle cheerleader. O forse perché, presto, si era subito identificata e confusa con la massa, a differenza di altra gente che aveva preferito non tradire sé stessa. In realtà lei sapeva che l'avevano fatto lo stesso, perché si è adolescenti e l'adolescenza è un periodo davvero critico per tutti quanti.
Ma la popolarità e l'ammirazione da parte di molti studenti l'aveva resa un po' più semplice, almeno per lei.
Fino ad allora.
- Tieni, la cioccolata fa sempre bene - esclamò sua sorella gemella, mettendole fra le mani una tazza fumante e distogliendola dal flusso dei suoi pensieri.
Michelle DiBenedetto non era solo sua sorella, era anche la sua migliore amica. Le due avevano condiviso tutto fin dal primo giorno e niente e nessuno avrebbe mai potuto rompere il loro profondo legame. Si diceva che i gemelli avevano un legame molto più profondo che i normali fratelli, ma sulla cosa si stavano ancora compiendo studi. Per lei non erano necessari, era così e basta, avrebbe potuto testimoniarlo.
Nonostante avessero un bellissimo rapporto, però, le due erano completamente diverse. Innanzitutto, Michelle era molto più estroversa e spigliata. Anche lei era una cheerleader e, esattamente come la sorella, aveva preso alcuni loro comportamenti, come la cura maniacale dei dettagli. A differenza di tutte le altre però, lei non stava poi così attenta a tutto ciò che succedeva a scuola. Non le interessava prendere in giro la ragazza di turno (anzi, per lei provava compassione, perché non era giusto, era un'adolescente come tutte loro e un trattamento del genere non se lo meritava), non le interessava attirare l'attenzione su di sé alle feste in modo da essere sulla bocca di tutti il giorno dopo, tantomeno essere filata da questo o quel giocatore di questa o quella squadra della scuola – quelli di football e di basket erano i più quotati, ma a lei non importava nemmeno di questo. Era come se tutto le scivolasse addosso come acqua. Era una ragazza semplice, era giovane e non voleva cacciarsi nei casini né attivare modalità per cacciarsi nei casini in futuro.
Sua sorella però era diversa e lei lo sapeva. E sapeva che aveva creato, in quell'ambiente, dei legami quantomeno indissolubili. Uno di quelli era stato con Matt. A dirla tutta, le gemelle DiBenedetto erano già amiche di Jimmy da tempo, da quando abitavano in fondo alla sua via. I bambini si riunivano spesso a giocare per la strada e loro non facevano certo eccezione. Lui era il bambino che viveva a modo suo, che tutti segretamente ammiravano anche se i genitori lo etichettavano come “scapestrato”.
“Lo vedi quello? Ecco, non devi diventare così”, dicevano tutti, ma i Sullivan avevano sempre avuto un alto livello di pazienza e di ciò che diceva la gente a loro non importava quel granché.
Jimmy era amico di tutti i bambini della via, di conseguenza anche loro, e lo era stato finché i coniugi DiBenedetto non si erano affermati in città e non avevano deciso di cambiare casa, in modo da averne una più grande e in un quartiere più affermato. Così si erano trasferiti nella zona definita “in” di Huntington Beach, sulle colline, poco lontana da Fountain Valley. Non era un luogo poi così felice, considerando il fatto che se si scendeva verso destra si finiva nel quartiere popolare. Le ultime ville sulla collina lo potevano anche scorgere dalle finestre, e le gemelle DiBenedetto si erano sempre chieste come quelle persone potessero vivere con sé stesse, conoscendo la realtà, che era proprio sotto i loro occhi. Non avevano più visto nessuno dei bambini del quartiere per circa tre anni, poi era iniziato il liceo e si sa che alla scuola pubblica ci si ritrova un po' tutti. Jimmy era più grande di loro e di conseguenza era già dentro da un po'. Le aveva riconosciute e proprio per quel motivo le aveva salutate calorosamente, come se non fossero passati davvero tre anni, poi le aveva condotte dalla sua piccola combriccola, introducendole a tutte, persino ad Eleanor che le conosceva già. Era incredibile quanto fosse cambiata la prima delle sorelle Rigby, ma al tempo stesso era incredibile come fossero cambiate loro. Nonostante la diversità, erano andate d'accordo con i cinque ragazzi che rappresentavano la rovina della scuola. Soprattutto, Val e Matt si erano ritrovati in sintonia. Avevano cominciato come amici, ed era come se entrambi avessero trovato la propria metà migliore. Ma dopo qualche mese avevano provato a cominciare una relazione, perché pensavano fosse giusto così. Avevano tirato avanti fino ad allora e per Michelle era già fin troppo, dato che era la stata la prima a capire, dopo due anni di relazione, che i due cominciavano ad essere troppo diversi. Avevano resistito per un altro anno e mezzo, poi era successo ciò che lei aveva mentalmente predetto.
E sua sorella stava male, quindi era suo dovere cercare di tirarla su di morale.
- Mi ha mollata al party di Halloween. Cosa peggiore, mi ha mollata per una sgualdrina del quartiere popolare. -
Michelle alzò gli occhi al cielo. Con il passare degli anni, come tutti, Val aveva preso alcuni dei comportamenti classici delle cheerleader, come quello di non apprezzare appieno chi era diverso da loro. Non era al livello delle altre, che disprezzavano qualsiasi essere vivente che non portasse una divisa di questa o quella squadra della scuola, ma non ci era poi nemmeno così lontana.
- Andiamo, non è per quello. -
- Certo che è per quello. L'ha sempre guardata in quel... modo. Una volta guardava me così. -
La sorella la strinse in un abbraccio. Non sapeva bene che cosa dirle, dato che secondo lei si sarebbero lasciati comunque, eventualmente. Quella ragazza, Liz o come si chiamava, aveva solo accelerato il processo. E poi, non era nemmeno tanto male, da quel che sembrava. Certo, le aveva soffiato il ragazzo, quindi per la sorella era automaticamente il nemico, ma... in circostanze normali, probabilmente le due sarebbero anche diventate amiche. Anche se sua sorella aveva la leggera tendenza a montarsi la testa. Quel che faceva Matt e per cui lei era immensamente grata era tenerla con i piedi per terra.
- Su, basta piangersi addosso. Gliela dai vinta, così. Alzati di qui, vestiti e usciamo un po'. Devi far vedere che stai bene. E poi vedrai, andrà meglio. Te lo garantisco. -
- Non capisci, Chel - disse la giovane, tirando un sospiro - io sono innamorata per davvero. -
L'amore adolescenziale però era un concetto tutto da capire. C'era chi riusciva a trovare l'amore della propria vita. I loro genitori l'avevano fatto in fondo, si erano conosciuti al liceo e si erano sposati dopo il secondo anno di college, all'età di vent'anni. Ma per molti altri non era così. Molti vivevano storie che potevano considerarsi importanti, ma alla fine trovavano la persona giusta per loro molto tempo dopo, magari al lavoro. Certo, Matt era stato importante, era stato il suo primo amore e avrebbe sempre provato un forte sentimento d'affetto nei suoi confronti. Ma si sarebbe trattato solo di quello.
- Tesoro, siamo complicati. Non dire questo, lui... è stato il tuo primo amore, è vero. Ma ci sono altri ragazzi. E lì fuori c'è la persona giusta per te, te lo garantisco. Chiusa una porta, si apre un portone. -
Val annuì leggermente, anche se Michelle sentiva di non averla convinta. Poco male, aveva tempo per farlo. Prima o poi, Matt sarebbe uscito dalla mente della sorella.
Prima o poi.


 
--
 


- Ti ho trovato finalmente! -
Liz non sapeva perché era così allegra, o comunque così entusiasta di averlo trovato. Era un locale piccolo e c'era poca gente, in più il cantante era alto più di un metro e ottanta, di conseguenza si distingueva dalla massa.
Matt le sorrise, per poi tornare a guardare la sua birra come se fosse la cosa più interessante del mondo. Non sembrava intenzionato a parlare, ma era ciò che voleva fare lei. Che aveva bisogno di fare lei.
Voleva capire un paio di cose. In più, non ce la faceva più a sostenere tutte quelle frecciatine, quegli ammiccamenti, quelle parole non dette. Lei non era così, lei era una che metteva subito le cose in chiaro. E se il ragazzo non ne era capace non le importava.
Avevano appena concluso un'esibizione e non era andata nel migliore dei modi, almeno per il cantante. C'era poca gente e lui aveva passato davvero una brutta, bruttissima settimana, sia a scuola che a casa. Nella prima si era ritrovato addosso gli sguardi di tutti, i chiacchiericci alle spalle, i pettegolezzi. Nella seconda invece la madre e la sorella bofonchiavano un “le cose belle le butta sempre via”, mentre il padre urlava loro di lasciarlo in pace, che era ancora giovane e di conseguenza non doveva per forza impegnarsi. Il fatto che Gary lo difendesse dagli altri membri della famiglia non era poi così un buon segno.
Non era dell'umore adatto per parlare di una cosa del genere, ma a Liz non importava più di tanto. Aveva dovuto imparare ad essere egoista, e quello era uno dei momenti in cui doveva esserlo.
- Quindi... ho sentito che... -
- No, anche tu no. -
- Lo faccio perché sono... - si interruppe, pensando al fatto che la parola "amica" non le si addiceva.
Non sapeva più che ruolo aveva, nella vita del ragazzo. Negli ultimi giorni della settimana poi era stata additata anche lei, come se tutti sapessero, e la cosa non l'aveva fatta sentire poi così bene. Lei passava inosservata, l'aveva sempre fatto.
Certo, la notizia della rottura avrebbe fatto scalpore per altre due, massimo tre settimane (se proprio si voleva essere esagerati e pessimisti al contempo), poi si sarebbe passati ad altro, perché in fondo si trattava di adolescenti e di dramma ce n'era uno al giorno.
- Beh, insomma. Lo faccio perché voglio sapere come stai. -
- Sto bene. -
Quella era una bugia. Non era stato bene. Non si poteva stare bene quando si chiudeva una relazione che, a giudicare da quanto era durata, doveva essere stata molto, molto importante. Perché lei la vedeva così: stare quattro anni con una persona significava in automatico che quella persona fosse importante, se non di più. Forse... forse era anche innamorato.
- Sicuro? In queste situazioni non si sta bene. -
- E tu che ne sai? - ribatté, acido.
Lei ne sapeva eccome, ma quello non era il momento giusto per dire una cosa del genere. Anche perché Matt aveva nei suoi confronti uno spiccato senso di protezione. Ed era anche geloso, le avevano detto le amiche. Quindi era meglio non dire niente in quell'occasione.
Liz alzò le braccia, come in segno di resa.
- Non volevo farti arrabbiare. Volevo solo capire. -
- Non c'è niente da capire, Elizabeth, te lo garantisco. -
La ragazza avrebbe voluto aprire bocca solo per dirgli di non chiamarla in quel modo, ma si trattenne, anche perché teso com'era sarebbe scoppiato un litigio. Un altro. Non sapeva nemmeno come erano finiti per litigare, poi, ora che ci pensava bene.
- Beh, ma... almeno sapere che cosa è successo e magari sapere come stai io... -
- Ripeto: sto bene. -
- Ma Val... -
Il ragazzo scosse energicamente la testa.
- Non mi importa di lei. Non più. -
Liz ci pensò un attimo.
- Perché... perché sei così cattivo? -
Non era riuscita a buttare giù la frase in altro modo. “Cattivo”, aveva detto, come se fosse una bambina che chiedeva ad un grande il perché di certi comportamenti che lei non capiva. Oppure che dava del pestifero ad un altro bambino che non la faceva giocare con questo o quel gioco.
E poi, lei lo sapeva che non era cattivo. Non poteva ancora dire di conoscerlo a fondo, in quanto una persona si capiva e si scopriva andando avanti con gli anni, ma lei lo sapeva, se lo sentiva che aveva un grande cuore.
Il ragazzo sorrise, non uno dei suoi sorrisi sinceri, ma un sorrisetto quasi sadico, che fece comparire una fossetta sulla guancia destra. Tornò a guardare la sua birra, per poi afferrarla e prendere un sorso di essa.
- Perché il modo migliore per non ritrovarsi il cuore spezzato è pretendere di non averne uno. -
L'aveva detto con una semplicità quasi disarmante. Era come se fosse consapevole di non averlo, o perlomeno cercava di non farlo vedere, perché alla fine si trattava di quello, perché affezionarsi alle persone non era la scelta giusta, non per lui almeno.
Eppure, senza i suoi migliori amici sarebbe morto. Di conseguenza doveva pur sentire qualcosa.
E per lei? Liz lo sapeva che per lei provava qualcosa. Se non un sentimento, almeno un'emozione.
- Allora guardami – disse improvvisamente, come in un moto di rabbia – guardami negli occhi e dimmi che per me non provi niente. Se non vuoi avere un cuore, la cosa verrà da sé. -
Per un attimo, solo per un attimo, un lampo di stupore attraversò gli occhi del ragazzo. Non sapeva bene cosa gli stesse passando per la testa: aveva cominciato ad osservarla intensamente, come se volesse fare qualcosa, qualcosa che non era giusto ma che moriva dalla voglia di fare da tempo.
Con un movimento fulmineo, Matt si avvicinò a lei, prendendole il volto fra le mani. Altrettanto velocemente, fece unire le loro labbra, con forza, forse quasi con disperazione. Come se fosse una cosa che doveva fare, dalla quale dipendeva la sua vita.
Dopo la sorpresa iniziale, però, la ragazza non poté fare a meno di ricambiare. Perché alla fine anche lei non voleva nient'altro che quello da tempo, ormai.
- Non farmi rispondere adesso – le sussurrò, non appena le loro labbra si furono staccate – perché tu non sai... non sai nemmeno cosa... -
Non riuscì a finire la frase. Le loro labbra erano troppo vicine e, era palese, lui non vedeva l'ora di baciarle di nuovo, come se avesse la sensazione che dopo quella sera fra loro non sarebbe più successo niente.
Un altro bacio, e questa volta la ragazza non fu colta alla sprovvista.







Note dell'autrice:

Ma buongiorno, lettori *le lanciano verdure marce addosso*
Lo so, lo so, ad aggiornare ci ho messo una vita, ma... non potevo fare niente, senza il mio amato computer. E adesso che è tornato dal tecnico come nuovo (su per giù, ehm), finalmente posso pubblicare il nuovo capitolo di questa fanfiction. Del mio piccolo esperimento.
Che dire, di questo capitolo? Beh, penso che le canzoni all'inizio, entrambe degli Stone Sour, siano un indicatore di ciò che succede. La rottura, l'essere fatti di cicatrici... il bacio finale, che è un po' come una rinascita. Beh, penso che il bacio fosse quasi scontato, si sapeva in fondo, no? Ma come andranno le cose, per questi due? Eheheh.
Poi, che altro c'è in questo capitolo? Beh, innanzitutto, Eleanor e Liz cominciano a legare un po'. Ammetto che ho amato plasmare questi due personaggi, e volevo creare un punto d'incontro fra loro fin dall'inizio. E questo incontro c'è in una parola sola: soldato. Che cosa significa, però? Questo verrà scoperto nel prossimo capitolo. Sostanzialmente, un soldato è un combattente. Tutti, sotto un certo punto di vista, siamo soldati. Andiamo avanti e affrontiamo le difficoltà della vita di giorno in giorno, giusto?
Per quanto riguarda la piccola comparsa di Michelle: tralasciando il fatto che la adoro (come del resto adoro Val, ma questo l'ho già detto in note precedenti), mi sembrava giusto inserire anche lei. C'è sua sorella gemella, una piccola comparsa era il minimo.

Non sapendo bene che cosa aggiungere, mi ritiro nel mio angolino buio.
Ringrazio di cuore le persone che hanno recensito la storia e chi l'ha messa fra le seguite, le preferite e le ricordate. Se il capitolo vi è piaciuto, o anche no (sì, rimango un'amante delle critiche), lo lasciate un commentino per farmelo sapere? *occhi da cucciolo*

Aggiornerò presto, lo prometto.
Al prossimo capitolo!
Kisses,
Vava_95

P.S. in caso vogliate contattarmi, oltre a scrivermi una mail qui su EFP, potete farlo anche su twitter: @SayaEchelon95

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Capitolo 6
*** - Cap. 5 - ***


Nota: i fatti riportati a seguire sono completamente immaginari. Scrivo per semplice diletto personale, e i personaggi di cui parlo non mi appartengono.

 

CAP. 5

 


“Yesterday is a memory, another page of history
You save yourself on hopes and dreams that leave you feeling sideways”
Bon Jovi – Story Of My Life
 
“Looking back I clearly see
What it is that's killing me”
Alter Bridge – Open Your Eyes
 
 

Novembre 1999
Huntington Beach, California


 
I classici “giorni sì” e “giorni no” esistevano per tutti. In fondo si è esseri umani e di certo non si è perfetti.
Eppure, quando Matt aveva dei giorni no tutti sapevano che dovevano preoccuparsi, specialmente i suoi migliori amici. Avevano imparato, nel corso degli anni, che spesso erano proprio quelle giornate a far uscire il peggio di lui e che no, loro non avrebbero dovuto permetterlo. Quando erano ragazzini, intorno ai dodici, forse tredici anni, pensavano che fosse divertente vedere Matt arrabbiato, perché voleva dire in automatico che avrebbe combinato qualcosa. Una volta era lo scatto dell’allarme anti-incendio, un’altra bucare i palloni da basket in palestra, l’altra ancora incendiare il campus (e provocare la morte accidentale del preside, ma quelli erano dettagli a cui nessuno – o forse no? – badava). Man mano che crescevano, però, si rendevano conto che quelli del ragazzo non erano semplici giornate dove si poteva combinare casini. Era qualcosa di serio. I “giorni no” di Matt lo erano per davvero, e lui stava male.
Lui descriveva ogni sua sensazione indicandosi con l’indice e il medio della mano destra la bocca dello stomaco, dicendo che era lì che faceva male. Come se ci fosse un buco, o una ferita aperta, che faceva entrare in lui di tutto e di più. Demoni, li chiamava, e loro preferivano dargli del paranoico piuttosto che affrontare direttamente la cosa. La verità era che di “demoni”, come amava tanto chiamarli lui, ne avevano tutti. Non capivano però come mai lui non sapesse gestirli.
In genere, quando c’era un giorno no, lo si capiva dagli occhi affaticati e, eventualmente, dalle occhiaie violacee sotto di essi. Perché quando Matt attivava le rotelline che aveva in testa e si ritrovava a pensare, non dormiva, non dormiva per niente. Passava le notti insonni semplicemente a guardare il soffitto, in preda a chissà quale mostriciattolo nero.
Più crescevano loro, più crescevano i giorni no e le notti insonni. Da quando avevano fondato la band esse erano produttive, in quanto spesso il cantante prendeva un foglio e una penna cominciando a scribacchiare qualcosa. Alla fine però si trattava sempre del solito messaggio: rabbia. Nei confronti di qualcosa che non comprendeva appieno, fra l’altro.
Avevano cercato di aiutarlo il più possibile, ma non serviva a niente. Se Matt aveva un giorno no significava che lui pensava, e se pensava i demoni che già aveva nella sua mente crescevano sempre di più. Spesso, si raggiungeva una situazione quasi estenuante, con il ragazzo completamente esausto e loro che non avevano la più pallida idea di come fare non per farlo sentire meglio, ma per obbligarlo a dormire. Proprio per quel motivo, erano contenti che, da qualche settimana, il ragazzo di “giorni no” non ne aveva più. Aveva i suoi momenti, come tutti, ma la situazione era nettamente migliorata e loro non potevano esserne che sollevati. Se non… no, non capivano. Non capivano come fosse successo, anche perché il ragazzo non ne aveva idea.
Johnny e Zacky avevano cominciato a farsi un’idea o due, Brian si impegnava a smontarle mentre Jimmy si limitava a stare zitto e ad osservare. Ciò che si chiedeva il batterista in realtà era una cosa sola: perché loro, in anni e anni di amicizia e affetto incondizionato, non erano riusciti a fare nulla per Matt mentre lei sì?
E a lui piaceva Liz. La considerava una persona speciale, una confidente, un’amica. Ma non poteva fare a meno di esserne un poco invidioso, perché qualsiasi cosa oscura ci fosse nella mente di Matt lei era riuscita a spazzarla via.
- Programmi per la giornata? – domandò Johnny, mettendosi improvvisamente in posizione seduta.
Si trovavano stesi sul pavimento del garage di casa Sanders, dove avrebbero di lì a poco cominciato a registrare qualche demo, in quanto era l’ambiente ideale, adatto al lavoro vero. A casa di Jimmy ci si divertiva e, di fatto, non si riusciva mai a combinare niente di serio. Quel giorno, però, era particolarmente pigro: il sabato nessuno aveva voglia di fare niente, tantomeno ce l’avevano loro. Quella sera non avrebbero avuto esibizioni, cosa rara, dato che praticamente si esibivano ogni sabato sera in un locale di zona. Quando non ottenevano ingaggi cominciavano tutti e cinque ad irritarsi, ma sapevano che anche quello faceva parte del mestiere.
- Devo assistere agli allenamenti di mio fratello, poi penso che finirò per fare il baby-sitter – esclamò Brian, in tono aspro, facendo ridacchiare gli altri.
Avere una sorellina di appena tre anni non era poi così divertente come il chitarrista aveva pensato, almeno all’inizio.
- Io devo aiutare in azienda, sperando solo che non finisca con il litigare con qualcuno – lo seguì a ruota Zacky, alzandosi in piedi e stiracchiandosi.
Erano lì da ore. Chissà perché quel sabato si erano svegliati presto e avevano tutti deciso di recarsi a casa Sanders. Avevano guardato alcuni testi e provato alcuni arrangiamenti, avevano pranzato velocemente e poi si erano stesi lì, senza fare più nulla, a tratti senza dare segni di vita.
- Uh, non lo so, penso farò qualsiasi cosa facciano Eleanor e Phoebe questo pomeriggio – esclamò Jimmy, facendo ridere gli altri.
Per lui le due ragazze erano come sorelle. Peccato che lui ne aveva già due, ma Kelly era al college e Katie era nella classica fase nella quale odiava tutto e tutti, in special modo i membri della sua famiglia. “Adolescenza”, borbottava suo padre, alzando gli occhi al cielo.
- Penso mi aggregherò a te, non ho niente da fare questo pomeriggio – disse Johnny, sbadigliando.
- Certo, dì piuttosto che vuoi venire perché vuoi vedere Phoebe, non ti prendiamo in giro, davvero. -
Il bassista incrociò le braccia al petto e mise il broncio, mentre Brian gli tirava delle piccole gomitatine. Avrebbe voluto volentieri dargli una pacca sulla spalla, in fondo anche lui era caduto nella trappole delle sorelle Rigby. Ma cercare di farglielo ammettere non serviva. Avrebbe dovuto arrivarci da solo.
- Matt? – domandò Zacky, punzecchiandolo con il piede – tu che fai oggi? -
Il cantante era rimasto sdraiato a terra e non aveva parlato per tutto quel tempo.
- Uh, io e Liz dobbiamo andare in spiaggia. -
Gli altri si scambiarono uno sguardo d’intesa.
- Avete mai parlato dei vostri… - cominciò Brian, venendo immediatamente interrotto.
- No. -
- Andiamo, è sottinteso che stanno insieme. -
- Non stiamo insieme, Zack. Non siamo niente. -
- Certo, non siete niente ma uscite e vi comportate da coppietta – esclamò Jimmy, ridacchiando.
Cercava di essere spontaneo, ma era proprio quello che non capiva. Liz lo faceva sentire bene, in un modo tutto diverso da come lo facevano stare bene lui e gli altri ragazzi. Quindi doveva smetterla di negare.
Non che fosse una cosa nuova: quando si affezionava a qualcuno, cercava in tutti i modi di non darlo a vedere.
- Sono uscite fra amici. -
- No. Se uno di noi esce con lei è fra amici. Tu puoi essere davvero tutto, ma non quello. -
Ed era vero. Matt avrebbe potuto essere definito in qualsiasi modo, ma non “amico”. E nemmeno “amico con benefici”. In un certo senso, pensava Brian, il cantante si stava comportando un po’ come si era comportato agli inizi con Valary. Era vero, a lui non importava molto, quel genere di cose gli scivolavano addosso come acqua, ma era anche vero che lui era un buon osservatore e, soprattutto, capiva, capiva sempre.
- Non puoi nemmeno essere etichettato come scopa-amico, perché di fatto non scopate… - considerò Zacky, ridendo appena.
Il diretto interessato alzò gli occhi al cielo, per poi prendere la giacca di pelle, alzarsi e indossarla, camminando verso la porta del garage.
Un sonoro “oh, piantatela”, fu l’unica cosa che i quattro riuscirono ad ottenere.


 
--
 


Liz non sapeva perché si era praticamente messa in ghingheri. In fondo, non ne aveva bisogno: si trattava di una semplice uscita in spiaggia ma, cosa più importante, si trattava di Matt. Perché aveva bisogno di sentirsi bella, quando era presente? Probabilmente, lui non avrebbe notato i suoi sforzi di apparire migliore ai suoi occhi. Al contrario, avrebbe notato le sue labbra. Che, ultimamente, amava far accidentalmente scontrare con le sue. Scosse energicamente la testa, scacciando il pensiero. Non che a lei non piacesse, anzi, tutto il contrario. Ma la cosa le suonava persino strana.
Probabilmente era perché non avevano ancora definito niente. Eleanor e Phoebe non capivano, ma mentre la prima si limitava ad alzare gli occhi al cielo e a chiedere che accidenti stesse facendo la seconda le ricordava ogni volta che ne aveva l’occasione che i due non potevano rimanere in quella situazione per sempre. Era come, diceva lei, se fossero appesi al filo sottile che c’era fra amicizia e amore, e non sapessero da che parte cadere. Dal canto suo, la ragazza non voleva precipitare da nessuna delle parti: erano troppo intimi per essere amici ma al contempo si frequentavano da troppo poco per considerare la loro… relazione, o quello che era, come “amore”.
Lei non ci credeva neanche, nell’amore.
- Sta aspettando qualcuno? – domandò Chelsea, una donna di mezz’età che viveva nel condominio lì vicino e che quel pomeriggio era una delle prime ad avere l’appuntamento.
Come parrucchiera in proprio, ultimamente, la madre lavorava sempre meno. Diceva che a fare la barista guadagnava di più perché le mance contavano, ma d’altra parte non avrebbe rinunciato facilmente alla sua piccola attività, anche perché era un lavoro che adorava, nonostante tutto. E poi, ci aveva sempre saputo fare con le forbici. Nei weekend aveva l’attività sempre aperta, compresa la domenica, mentre durante la settimana erano diventate rare le volte che aveva gente in casa, ma forse era meglio così per tutti.
- Oh sì – esclamò la madre, prendendo il phon dalla postazione – un ragazzo. -
La giovane alzò gli occhi al cielo: era normale che la madre fosse diffidente, considerando il fatto che appena aveva sentito il nome e il cognome del giovane le aveva urlato qualcosa sul fatto che avrebbe preferito che uscisse con uno dei ragazzi appartenenti alle gang di quartiere, perché sicuramente sarebbero stati più innocui di lui. Lì si era resa conto di due cose: la prima era che quando Matt diceva che la sua reputazione lo precedeva, essa lo faceva davvero e anche di chilometri (insomma, non sapeva nemmeno che la madre lo conoscesse, anche se di fama), la seconda era che la donna avrebbe sicuramente preferito segregarla in casa o mandarla a suora che farla uscire con uno dei ragazzi delle gang.
Nonostante a volte avesse dei gravi momenti di sconforto, la prima cosa a cui Katherine Dixon pensava era la figlia. Sempre e comunque. Era una brava madre, quando voleva.
Già, quando voleva.
- Oh, ora si capisce! Te l’ho sempre detto che sarebbe diventata una rubacuori! -
Le due cominciarono a chiacchierare e, anche se l’oggetto della conversazione era proprio lei, la ragazza preferiva non starle a sentire. Si era seduta sul divano e aveva cominciato a studiare un po’, anche perché non ne avrebbe più avuto occasione fino a quella sera. Di solito, quando usciva con Matt, non si trattava mai di un paio d’ore, ma di interi pomeriggi passati insieme, spesso anche a non fare niente.
 
A parte accidentalmente trovare la sua lingua nella tua bocca?
 
Ma accidenti alla sua coscienza.
Sentì qualcuno suonare il campanello, cosa che la autorizzò ad alzarsi dalla sua postazione e ad andare ad aprire. Matt era appoggiato al muro laterale, vicino alle scale, con le braccia incrociate al petto. Indossava la sua solita giacca di pelle e una maglia dei Megadeth che, aveva intuito la ragazza, doveva essere una delle sue band preferite considerando la frequenza con cui gliela vedeva addosso. Indossava anche dei jeans neri stracciati e scarpe dello stesso colore, che completavano il perfetto look da classico cattivo ragazzo.
Peccato che, con quelle fossette, non sarebbe riuscito ad ingannare nemmeno un bambino.
- Ehi – lo salutò, sorridendogli – prendo la borsa e sono da te. Intanto vieni, entra. -
Il ragazzo sembrò esitare un attimo, ma poi varcò la soglia di casa sua e cominciò a guardarsi intorno, curioso. Liz non sapeva se stesse semplicemente osservando oppure se stesse esaminando l’ambiente circostante, come se avesse dovuto trovare qualcosa o… scosse di nuovo la testa: paranoica, ecco che cos’era.
- Oh, guarda, è il primo ragazzo che porta in casa – disse la madre abbassandosi verso la sua cliente, come a sussurrarglielo, anche se ovviamente quella era una frecciatina e tutti i presenti avevano sentito benissimo.
Chelsea ridacchiò, senza però dire nulla, cosa strana visto che aveva la lingua lunga.
Il diretto interessato sorrise, porgendo la mano alla donna che aveva lasciato tutti gli aggeggi che usava per tagliare i capelli nella sua postazione e si era avvicinata al ragazzo, con uno dei suoi sorrisi migliori stampati sul volto.
- Katherine, ma puoi chiamarmi Kat. -
Liz alzò di nuovo gli occhi al cielo. Sua madre non era gentile con nessuno, specialmente se si trattava di una persona come Matt. Solo il giorno prima le aveva detto che una persona del genere sarebbe dovuta essere rinchiusa in un riformatorio (o spedita alla scuola militare, cosa che ultimamente sembrava andare di moda).
- Salve signora Dixon, è un piacere conoscerla. -
La ragazza non poté fare a meno di ridere pensando a come fosse stato cordiale. Prese velocemente la borsa, per poi andare in soccorso del giovane, prendendolo per un braccio e trascinandolo verso la porta.
- Beh… noi andiamo, ciao mamma, ciao Chelsea, non vedo l’ora di vedere il nuovo taglio! – esclamò, per poi chiudersi velocemente la porta alle sue spalle e guardare il giovane di sbieco – mai fraternizzare con il nemico. Mai. -
Il cantante scoppiò a ridere, poi i due si avviarono tranquillamente verso la spiaggia. Avrebbero dovuto girare quasi tutta la periferia per il lungo, per poi costeggiare il lungomare e finalmente scendere in spiaggia e fare una passeggiata. Anche se era novembre, il sabato pomeriggio quel luogo era sempre affollato. Non sapeva perché Matt amasse portarla lì. C’erano luoghi più tranquilli, come i parchi, che in genere nei weekend erano popolati dalle famiglie con bambini, oppure c’era qualche Caffè, anche se lì avrebbero potuto incappare nei loro compagni di scuola molto più facilmente. Di luoghi come lo skate-park non se ne parlava nemmeno poi. Si sapeva in fondo chi girava in quei posti e no, gli skaters c’entravano ben poco.
- Simpatica – commentò il ragazzo, riferendosi alla madre di lei.
Era stato in silenzio per un bel po’, camminando accanto a lei. Avevano costeggiato le villette basse vicino al parco di periferia e per un attimo Liz si era chiesta se Zacky fosse in casa, ma dato che il giovane non aveva lanciato nemmeno un’occhiata all’abitazione quando ci erano passati davanti evidentemente doveva significare che no, non era lì. Probabilmente avevano anche passato la mattina insieme. Era una delle cose che invidiava di più del loro rapporto: i ragazzi dovevano passare almeno un’ora al giorno insieme. Fra tutti gli impegni, dovevano trovare sempre del tempo per la loro amicizia. Non capiva da dove venisse fuori tutto quell’affetto.
Forse non voleva… anzi, credeva non volesse nemmeno ammettere che fosse possibile, avere un’amicizia così forte con qualcuno.
- No, non lo è. -
- Non mi pare poi così male. Non hai mai visto la mia, di madre. -
La ragazza scoppiò a ridere, per poi tornare a guardare il paesaggio, come se non lo conoscesse. La verità era che era imbarazzata, come sempre quando stava con lui.
- Non vi somigliate molto. Anzi, direi per niente. -
Liz si ritrovò ad annuire.
La madre non era molto alta, a stento arrivava al metro e sessantacinque, era una donna tutte curve, dai lunghi e ricci capelli castano scuro che contornavano un viso dai lineamenti marcati sul quale risaltavano gli occhi scuri. Era il suo completo opposto, poco ma sicuro.
Ridacchiò.
- Penso che sia così quando non si condivide il DNA. -
Le parole le erano uscire di bocca così, senza che lo volesse. Non se ne pentì, ma si chiese che accidenti avesse detto. Anzi, come mai l’avesse detto.
Matt la guardò con aria interrogativa, cosa che la fece ridere un’altra volta. Evidentemente non aveva capito.
- Sono stata adottata – spiegò.
Se avesse avuto una bibita fra le mani, il cantante si sarebbe ritrovato a mandarsela di traverso e a strozzarsi, esattamente come aveva fatto quando si erano conosciuti.
- Tu… eh? – domandò, leggermente sorpreso.
- Già, è… una storia complicata. Non so bene come spiegartela. -
- Beh. Io direi di provarci. Non puoi tirarti indietro ormai, hai detto una cosa importante che non posso ignorare. -
Lei lo sapeva che il ragazzo era passato oltre a molte, molte cose. Osservazioni, considerazioni ad alta voce che faceva, piccoli gesti o modi di fare che lei aveva e sui quali lui avrebbe voluto chiedere spiegazioni, ma si era sempre trattenuto. Certe volte apriva la bocca per chiedere, ma poi la richiudeva, come se le parole gli fossero morte in gola.
Ma quello era importante. E, forse, avrebbe potuto provare, ma no, non sarebbe riuscito ad ignorare la cosa.
- Beh, è… complicato. -
- Ci so fare, con le complicazioni. -
Anche quello era vero.
Liz aveva sospirato un’altra volta, poi si era lasciata cadere su una delle panchine poco lontane dalla pista ciclabile che avevano fatto vicino al lungomare. Si sentiva il brusio della gente, si vedevano persone fare jogging o andare in bicicletta, piccoli gruppetti di amici che si godevano il sabato pomeriggio, bambini che rincorrevano i gabbiani e coppiette che andavano sul molo ad osservare l’orizzonte. Lì per lì, capiva perché Matt amava tanto quel posto.
Si era girata verso di lui, che si era seduto accanto a lei, poi aveva cominciato a raccontare. Non sapeva nemmeno come ci era riuscita, in quanto la sua storia non l’aveva mai raccontata a nessuno. Non aveva mai parlato in un modo così sincero, non aveva mai espresso i suoi sentimenti riguardo a tutto ciò che era successo, non aveva mai narrato il corso degli avvenimenti per intero. Ma con lui ci era riuscita, perché chissà come riusciva ad infonderle un grande senso di protezione: con Matt lei era al sicuro e lo sarebbe sempre stata.
“Per fartela breve: adozione chiusa, catapultata in una delle famiglie più ricche di Newport Beach e no, non è un eufemismo, se dico più ricche intendo più ricche, padre adottivo morto e, improvvisamente, come in una strana soap-opera, mi ritrovo nel quartiere popolare della città vicina”. L’aveva riassunta così, ma alla fine aveva dovuto spiegare tutto nei dettagli e il ragazzo aveva ascoltato ogni singola parola senza giudicare neanche per un secondo.
Gli aveva parlato del fatto che i genitori erano membri dell’alta società di Newport Beach e che, come da copione, non riuscendo ad avere un figlio si erano rivolti al servizio di adozione. Avevano aspettato a lungo ma, alla fine, erano riusciti ad ottenere quel bambino, anzi, quella bambina, ovvero lei. Non si ricordava molto della vita che aveva lì, non si ricordava molto della sua infanzia, tranne un particolare evento che, inevitabilmente, l’aveva segnata.
Uno dei costumi dell’alta società della cittadina era quella di organizzare, per occasioni speciali, party maestosi che, in realtà, nascondevano l’intento di mostrare ai vicini che loro erano più ricchi ma, soprattutto, più bravi a fare affari. Perché di quello si trattava. Quella sera il suo padre adottivo e il fratello di lui erano ad una di quelle feste. La madre non era andata, in quanto era rimasta a casa ad occuparsi di lei. Sulla via del ritorno, era successo un incidente a dir poco disastroso.
“Era su tutti i giornali, ne hanno parlato per un po’”, gli aveva detto, come a rendere meglio il concetto. Lei non ne aveva mai voluto sapere molto, ma di fatto in quello scontro fra veicoli avevano perso la vita suo padre, suo zio e anche l’autista dell’altro mezzo. Tutto andato letteralmente in fiamme.
Matt aveva abbassato lo sguardo non appena la giovane si era voltata verso di lui, come se non riuscisse a reggerlo. Per lui era incredibile come una persona che, a quattro anni, aveva dovuto fare i conti con la morte del padre, riuscisse a non fare una piega e ad essere così ferma quando ne parlava.
“Io non capivo”, aveva cominciato, quando lui le aveva chiesto che cosa era successo dopo, perché voleva sapere, non voleva che lasciasse la storia a metà (in fondo, aveva immediatamente pensato, come avevano fatto lei e la madre a finire lì?), “non capivo che cosa fosse successo. Volevo solo il mio papà, che all’epoca era una specie di eroe. Nessuno sapeva cosa dirmi. Insomma, pensaci: come fai a spiegare la morte ad un bambino?”.
Quella domanda lo aveva fatto riflettere, molto anche. Alla fine però la risposta era stata una sola: no, non si poteva spiegare la morte ad un bambino che pensa a vivere la vita al massimo. Anzi, non si rende nemmeno conto che, un giorno, essa finirà. Perché di fatto si è piccoli, innocenti, e a cose del genere non si dovrebbe nemmeno lontanamente pensare. Eppure, lei ci era stata catapultata dentro, senza che lo volesse. Aveva dovuto scoprire che si moriva, anche se non sapeva bene che cosa volesse dire. In fondo, nemmeno gli adulti la capivano, la morte. Aveva dato voce a quei suoi pensieri, così Liz aveva annuito più volte, facendogli capire che era esattamente ciò che pensava lei. Ma, ovviamente, non l’aveva capito subito.
“Sai che cosa pensa, chi è nell’alta società?”, gli aveva domandato poi, tornando al discorso principale, “ai soldi”, aveva continuato, senza lasciarlo nemmeno rispondere. E così gli aveva raccontato per filo e per segno ciò che era successo poco dopo i funerali. La fidanzata dello zio non si era vista, lei all’epoca non aveva pensato a niente ma lì per lì era praticamente certa che non le avessero permesso di venire. Per quanto riguardava loro, invece, avevano avuto diritto solo alla parte dell’assicurazione sulla vita, ovviamente divisa in parti uguali fra i parenti del defunto, ovvero i genitori di lui e la moglie. Ciò che in realtà non sapeva Liz era che nel mondo affaristico non si giocava sempre bene, e spesso si finiva con il fare debiti. In pochissimo tempo, tutta la loro quota era andata, fra pagamenti di debiti e altro, e loro si erano ritrovate praticamente senza niente, in quanto la madre non lavorava e di conseguenza non avevano nessuna entrata. Avevano chiesto aiuto alle uniche persone che le erano rimaste. “Mia madre non aveva nessuno, se non mio padre e me”, gli aveva spiegato, anche se lui non aveva chiesto della famiglia della donna. Si erano rivolti ai suoi nonni paterni, ma questi ultimi avevano voltato loro le spalle.
“Ecco, questa è una storia buffa, una storia degna di soap-opera direi io”, aveva esclamato la ragazza, non potendo fare a meno di ridacchiare, “ho scoperto di essere stata adottata una sera di quelle, quando mia madre era lì a chiedere aiuto ai genitori della persona che aveva amato di più al mondo. Non riuscivo a dormire e, dopo essere passata per la camera di mia madre e non avendola trovata lì, sono scesa al piano inferiore della casa, vedendo poi la luce uscire dalla porta della cucina. Mi sono appena affacciata, non volevo entrare perché stavano litigando e, lo ammetto, i miei nonni paterni… o quello che sono, non sono mai state persone particolarmente dolci. Anzi, mi facevano paura la maggior parte delle volte. Per fartela breve, hanno detto che non dovevano niente a nessuno, specialmente a me, perché non ero loro nipote, ero stata adottata. Ora, ci ho messo un po’ per capire che cosa significasse, avevo quattro anni. Mia madre ne è a conoscenza, che io sono consapevole della situazione dico, ma non ne parla mai. Forse per paura, chi lo sa”.
Gli aveva raccontato che non sapeva come fosse finita nel quartiere popolare di Huntington Beach. Erano cose che non si ricordava, era piccola. L’unico ricordo che aveva veramente impresso nella mente della sua infanzia erano quelle settimane successive alla morte del padre, poi più nulla. Aveva detto che era meglio così, che se la sua mente aveva voluto rimuovere probabilmente c’era un motivo e, ne era più che sicura, qualsiasi esso fosse era molto, molto buono. Gli aveva anche parlato degli episodi depressivi della madre. L’aveva riassunto con un “a volte sta bene, ma altre non riesci nemmeno a tirarla su dal letto”.
In tutto quello, Matt aveva provato a confortarla come poteva, anche se con sua grande sorpresa la ragazza sembrava non aver bisogno di alcun tipo di consolazione. Aveva raccontato tutto con fermezza, senza che la sua voce si incrinasse, senza che si tradisse, neanche una volta. Neanche quando gli aveva parlato del funerale. Niente di niente. Era come se gli stesse raccontando un film, uno di quelli drammatici e commuoventi, ma inverosimili, di conseguenza dei quali nessuno prova dispiacere nel parlarne.
Forse non si sarebbe mai mostrata debole. Aveva imparato… sì, aveva imparato ad essere un soldato, esattamente come aveva detto Eleanor. E come tutti i soldati, non mostrava le sue emozioni.
Erano rimasti in silenzio per un po’. Matt aveva puntato gli occhi sul mare, mentre la ragazza aveva preso la macchina fotografica in mano e aveva cominciato a fare fotografie. Non si sentiva tranquillo. Quel discorso non era ancora chiuso, lo sapevano entrambi. Al ragazzo non bastava, mentre la giovane aveva bisogno di sfogarsi.
Le aveva domandato se c’era altro. Non sapeva perché, sentiva che fosse giusto. E probabilmente avrebbe ringraziato in eterno la sua mente per aver formulato quella domanda perché, per la prima volta, l’aveva vista debole.
Liz aveva abbassato lo sguardo e si era morsa il labbro inferiore, mentre la gamba destra faceva dei piccoli movimenti su e giù, come se fosse un tic.
“A volte… a volte ho paura di dimenticarmi di lui”, gli aveva detto, con voce flebile, tenendo gli occhi bassi “a volte guardo le sue foto e non… non me lo ricordo. Come se fosse un estraneo. Non mi ricordo niente di quello che ho fatto con lui. A stento ricordo la sua faccia. Non dovrebbe essere così, quando una persona muore… giusto?”.
La sua era una vera domanda. Probabilmente, più cresceva più si chiedeva delle cose e sicuramente aveva dato risposta a gran parte di esse. Ma… c’erano altre domande cui risposta non era poi così spontanea. Come quella. Lui non sapeva bene che cosa dirle. Pensava che all’epoca era piccola e che era normale, dimenticare alcune cose, alcuni gesti, persino alcuni volti. I bambini non pensano a ricordare. Non aveva detto niente del genere, al contrario l’aveva presa per un braccio e l’aveva portata in spiaggia.
Avevano passato ore intere a passeggiare, erano giunti fino ai confini di Newport Beach e poi erano tornati indietro, sempre camminando sulla sabbia. Si erano lasciati cadere su di essa quando erano tornati nei pressi del molo, noncuranti dei vestiti che si sarebbero riempiti di tutti quei granellini. Avevano guardato la gente passare, i bambini giocare nella sabbia o a saltare le onde, avevano osservato il cielo e i primi surfisti che arrivavano accompagnati dagli allenatori per prepararsi alla gara. Avevano assistito da lontano ad una lezione di windsurf, ridendo a vedere tutti quei ragazzini che cadevano e l’istruttore che si passava una mano sulla faccia e scuoteva energicamente la testa, ma che poi ricominciava a spiegare.
C’erano stati i baci, perché ormai non c’era giorno nel quale le loro labbra non si scontrassero neanche una volta.
Era riuscito a distrarla nel modo migliore e, in qualche modo, Matt era fiero di lui. Alla fine, la ragazza si era divertita, ed era ciò che per lui realmente contava.
- Penso invece che sia normale. -
- Come? – domandò Liz, confusa.
Erano ancora seduti sulla sabbia. Stavano osservando il tramonto e, a tratti, i surfisti che cercavano di prendere le onde migliori. C’era poca gente.
La ragazza era fra le sue braccia, con la testa appoggiata sul suo petto. Aveva la macchina fotografica fra le mani ma non sembrava voler scattare qualche foto. Gli aveva spiegato che quella era la sua passione e che, quando poteva, cercava di farne il più possibile. Quella sera non ne aveva voglia però, e il cantante ne era grato, perché così poteva stringerla, e a lui sembrava che fosse suo dovere farlo.
- Sai… non ricordarsi di qualcosa che si è vissuto, o di una persona. Eri piccola e non potevi certo sapere che sarebbe morto. -
La giovane si ritrovò ad annuire, anche se aveva gli occhi lucidi. Matt la strinse ancora più forte, per poi inclinare leggermente la testa in modo da riuscire a darle un bacio sulla guancia.
- Non dovresti pensare a queste cose. Dovresti solo essere serena. Provaci. -
Liz annuì di nuovo, per poi tornare a guardare il tramonto.
Tornò a regnare il silenzio. Stava calando la notte e le poche persone che c’erano cominciavano ad andare via, persino i surfisti. Loro invece volevano rimanere. Sapevano entrambi che nel luogo in cui sarebbero tornati ci sarebbe stata fin troppa confusione e loro volevano rimanere tranquilli, ancora per un po’, immersi in quel silenzio che valeva più di mille parole.
- Ammettilo, però. La mia storia è da soap-opera. -
Matt scoppiò a ridere, seguito a ruota dalla ragazza. E forse, per la prima volta, i due si resero conto che quello era il perfetto luogo in cui dovevano essere, con la persona con cui dovevano stare. E, per la prima volta, sembrò giusto a tutti e due.


 
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Brian era uscito di casa sbattendo energicamente la porta. Se ne era pentito qualche secondo dopo, ma tornare indietro con la coda fra le gambe non era da lui. Quando le cose si facevano complicate, lui sapeva sempre dove andare. Aveva percorso velocemente il lungomare di Huntington Beach, per poi svoltare in una traversa e giungere in una via chiusa, che lui conosceva fin troppo bene. Si era fermato di fronte alla classica villetta americana, dalle pareti bianche con l’intonaco leggermente scrostato (dicevano sempre che dovevano rifarlo ma poi erano sempre troppo pigri per mettersi al lavoro). Aveva esitato solo per un secondo, poi aveva aperto il cancelletto esterno, aveva attraversato il piccolo sentierino di ghiaia che lo separava dal portico e aveva bussato alla porta di casa Sullivan, energicamente. Meno di due secondi dopo, si era trovato di fronte a Joe, che l’aveva guardato dall’alto in basso e poi si era scostato per farlo entrare.
“Jimmy!” aveva gridato, “c’è Brian!”.
Per lui, quell’uomo era come un secondo padre. Spesso pensava che lo capisse meglio di lui. Gli era bastato uno sguardo per capire che non doveva fermarsi ai convenevoli, che non doveva chiedergli come stava o che cosa ci facesse lì a quell’ora (anche se sull’ultimo punto ci era abituato, aveva sempre avuto un via e vai di gente in casa) o che cosa fosse successo. Sapeva che aveva bisogno di Jimmy.
Il batterista aveva fatto capolino dal garage, con le bacchette della batteria in mano. I loro sguardi si erano incrociati aveva capito tutto. L’aveva preso per un braccio, per poi bofonchiare un “vieni con me”. Brian riuscì a malapena a salutare di sfuggita Barbara e Katie Sullivan, per poi essere trascinato nel garage, dove probabilmente il ragazzo si stava esercitando con la batteria. L’aveva fatto sedere ma, come suo solito, non aveva detto niente. Voleva aspettare che fosse lui, a parlare. Nel garage aveva trovato le sorelle Rigby e, di fatto, avrebbe dovuto immaginarselo, dato che erano in quella casa tanto quanto lui e gli altri ragazzi. Nessuna delle due aveva chiesto niente, si erano limitate a continuare la loro conversazione. Conoscevano bene Brian e sapevano che, quando era sottoposto a pressioni, non parlava tanto facilmente.
Jimmy aveva ripreso a suonare e, prima che il chitarrista aprisse bocca, erano passati circa venti minuti.
“Indovinate con chi ho avuto occasione di litigare”, aveva detto, certo che tutti conoscessero la risposta. E loro la sapevano davvero. Brian aveva raccontato del fatto che quando era tornato a casa, quella sera, insieme al fratello, aveva trovato la tavola letteralmente imbandita, il che voleva dire solo una cosa. Un’occasione che veniva definita particolare, almeno in casa sua, era il ritorno del padre dal tour, o come accidenti si chiamava. Brian Elwin Haner Senior era un chitarrista di professione. A parte le esibizioni locali e in giro per la California da solista, lavorava ad ingaggi, cosa che però non gli conferiva notorietà. Per quanto stimasse suo padre e il suo lavoro, non voleva diventare come lui, non più almeno. Non si era mai visto in una band, non prima degli Avenged Sevenfold, ma quando quel sogno di cinque ragazzini in un garage si era trasformato in realtà, tutto ciò che voleva era girare il mondo per concerti. Non voleva che gli altri gli commissionassero qualcosa per poi dare solo un piccolo spazio nei titoli di coda. Lui era destinato ad altro, lui era destinato ad essere grande.
Brian Senior aveva un macabro senso dell’umorismo, cosa che lo rendeva un comico non proprio apprezzato. Possedeva un alto livello di sarcasmo, anche se non sempre sapeva usarlo nel modo opportuno.
Nonostante tutto, i due avevano un bel rapporto, che molti gli invidiavano, anche se Brian era piuttosto sicuro di somigliare di più alla madre. Non lo sapeva, non con esattezza perlomeno. Per molto tempo, per lui c’era stato solo suo padre. Si era sposato giovane con una ragazza altrettanto giovane conosciuta in un bar. Le cose fra loro non avevano funzionato e lei se ne era andata, lasciando suo padre solo con lui e con suo fratello minore, Brent. Non sapeva molto di sua madre, a parte il fatto che viveva da qualche parte in Colorado con suo marito e con un altro figlio. Non sapeva nemmeno se avercela con lei o meno: il padre era una persona difficile da sopportare, lei era giovane e dopo la nascita di suo fratello in preda ad una potente depressione post-partum. Forse andarsene era l’unica soluzione che era riuscita a trovare. Era la via più facile, in fondo. Forse l’avrebbe scelta anche lui. Brian non ci stava poi così male, in fondo la donna non era come una madre, era più una conoscente per lui. Suo fratello era un po’ diverso, invece. Per molto tempo, quando era bambino, aveva pensato che fosse colpa sua, cosa che con gli anni si era fortunatamente sradicata dalla sua mente. Restava il fatto che Brent Haner rimaneva una persona diffidente, che non faceva entrare facilmente le persone nella sua vita. A parte quel piccolo particolare però, era una brava persona. Un ragazzo normale, che andava bene a scuola, una persona simpatica e dotata di buon senso dell’umorismo, a differenza del padre. Era una persona allegra e, come tutti di famiglia, amava la musica. Aveva suonato la batteria per molti anni, ma non la usava da anni. Aveva altri progetti per la testa e Brian era sicuro che li avrebbe realizzati tutti quanti. Erano persone completamente diverse, ma erano fratelli e in qualche modo riuscivano a trovare sempre un punto di incontro.
Il problema che era sorto in famiglia, durante la cena, riguardava proprio la madre dei due fratelli Haner. Da quando si era rifatta viva, e si parlava di anni prima, loro non avevano avuto molte occasioni per vederla, fatta eccezione di qualche suo viaggio in California. Per quanto non fosse stata una madre esemplare per i loro primi anni di vita, ci stava provando, nonostante i due non condividessero la sua severità e alcuni suoi metodi educativi. Ma non condividevano neanche la scelta del padre di non fargliela frequentare. Brent aveva compiuto da poco sedici anni, cosa che l’aveva spinto a chiedere se fosse possibile fare un viaggio in Colorado, cosa che aveva fatto andare il padre su tutte le furie. Ma accidenti a lui. Alla fine, Brian si era sentito in dovere di intervenire, anche perché la matrigna e la sorella minore non potevano fare molto, la prima perché la cosa non la riguardava, non direttamente almeno, la seconda perché aveva appena tre anni e di conseguenza non capiva nemmeno di che cosa si stesse parlando.
Nonostante Suzy avesse provato più volte a cambiare argomento, si erano ritrovati a litigare, come sempre quando si toccava quell’argomento.
Suzy Haner era entrata nella famiglia più o meno quando lui aveva sette, massimo otto anni. Era una donna pacata, molto intelligente, allegra al punto giusto. Era la persona perfetta per suo padre, a detta sua. Si erano sposati qualche anno dopo. Suzy era, sostanzialmente, tutto ciò che Brian e Brent cercavano in una figura materna. Per loro era la madre esemplare. Un po’ apprensiva e ansiosa, certo, ma faceva parte del mestiere. Tre anni prima era nata McKenna, la loro sorella minore, che aveva portato un’ondata di spensieratezza che solo i bambini potevano possedere nella casa. Anche in quell’occasione, la donna si era dimostrata la madre esemplare. Di tutti e tre, l’unica che era veramente figlia sua era la bambina, ma a lei non importava e li trattava tutti allo stesso modo. Erano fortunati, i fratelli Haner, senza ombra di dubbio. Ma questo, a detta sua, non doveva significare che i due non dovessero frequentare la propria madre. A dire la verità, a Brian non importava poi quel granché, ma a suo fratello sì e si sentiva in dovere di prendere le sue posizioni.
Non era finita bene. E, alla fine, la cosa si era risolta con la sua uscita dalla casa. Probabilmente non ci sarebbe tornato, avrebbe passato la notte lì per schiarirsi le idee. In fondo, era sempre il benvenuto, in casa Sullivan.
- Secondo me tuo padre deve capire che non esiste più solo lui – esclamò Jimmy, sedendosi accanto a lui e dargli una pacca confortante sulla spalla – non ci pensare. Se lo ficcherà in testa, vedrai. -
Non era poi così ottimista, ma se lo diceva Jimmy…
Anche Eleanor e Phoebe avevano ascoltato il racconto e nessuna delle due aveva detto qualcosa. Brian non era poi così sicuro che le due capissero, soprattutto la più piccola delle due, che a tratti era come lui e di certe cose non le importava davvero niente. Quella volta però era diverso, in fondo si trattava di un amico.
Le due avevano una situazione familiare completamente diversa dalla sua, come del resto ce l’aveva Jimmy, ma quest’ultimo era il suo migliore amico e lo capiva, lo capiva sempre.
I coniugi Rigby erano la classica coppia perfetta insieme dal primo anno di college, che avevano aspettato qualcosa come cinque o sei anni per sposarsi e mettere su famiglia in quel di Huntington Beach. Poco dopo avevano avuto la prima figlia, che, ironia della sorte, l’avevano chiamata Eleanor, in modo da avere una specie di riproduzione vivente della canzone dei Beatles. Ciliegina sulla torta, meno di due anni dopo avevano provveduto ad aggiungere un altro membro alla famiglia (e spesso loro ci scherzavano su, chiedendosi perché non l’avessero chiama Lucy, Prudence, Rita, Sadie…). Erano cresciute in un contesto quasi agiato, con il padre che era un professore di matematica alla St. Marie e la madre infermiera all’ospedale locale. Non era mai mancato niente a nessuna di loro. Proprio per quella ragione il chitarrista non capiva come spesso Eleanor presentasse una personalità cupa e un livello di cinismo altissimo. Non ne aveva il motivo. Avrebbe dovuto essere lui così, considerando la sua situazione. Era anche vero, gli diceva sempre Jimmy, che non si poteva giudicare un libro dalla copertina e che prima avrebbe dovuto informarsi meglio, non su tutto ma almeno su ciò che bastava per capire. Ognuno aveva i suoi problemi, in fondo.
- Che faccia quel che desidera, non mi interessa. La stima la perde in mio fratello, se è ciò che vuole… -
Il batterista diede una scrollata di spalle, anche se sicuramente avrebbe fatto qualcosa in seguito per farlo sentire meglio. O, perlomeno, ci avrebbe provato, perché aveva promesso, e lui le promesse le manteneva sempre, anche quelle più difficili.
- Su, prendi una chitarra e mettiti qui, aiutami, ho delle idee che mi ronzano in testa e… -
- E noi che speravamo di passare una serata tranquilla – esclamò Eleanor, mentre Jimmy le faceva la linguaccia e il chitarrista le alzava il medio – sei scortese, Haner. -
- Mai quanto te, Rigby. -
- Sì, okay, a quando la scopat… -
Il batterista non riuscì a finire la frase. Non sapeva da dove fosse spuntata, né come avesse fatto a raggiungerlo in così poco tempo, doveva solo constatare che gli scapaccioni di Phoebe facevano male.


 
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Liz era perfettamente consapevole di aver fatto tardi, anzi, tardissimo. La madre le aveva detto di essere a casa per le otto e mezza. In realtà erano quasi le undici e lei aveva passato tutta la giornata sulla spiaggia insieme a Matt. Avevano preso qualcosa da mangiare al food truck che si fermava nei pressi della spiaggia verso le otto di sera, poi erano tornati a sedersi sulla sabbia, senza fare niente di nuovo rispetto a quello che avevano fatto prima, ma a nessuno di loro sembrava importare.
A dire la verità, alla ragazza non interessava nemmeno quello che le avrebbe detto la madre. Di fatto, era sempre stata molto responsabile e almeno una volta uno strappo alle regole non faceva male. Non era mai stata la classica adolescente trasgressiva, forse perché con tutto quello che era successo non voleva dare alla madre un ulteriore peso. O forse perché non le interessava per davvero stare fuori fino a tardi a bere, cacciarsi nei guai con gli amici (che poi se la filavano alla prima occasione, ma quelli erano dettagli), non le piacevano i party, il sesso occasionale, l’alcol e la droga.
Non erano cose per lei.
Non sapeva se questi fattori la rendessero un’adolescente fuori dalla norma, vista la gente che aveva a scuola, oppure se erano gli altri che si lasciavano fin troppo andare.
- Non dovevi riaccompagnarmi a casa. -
- Scherzi? Questo posto di notte è… - si interruppe, scuotendo la testa – lascia stare. L’ho fatto con piacere, davvero. -
Non sapeva se Matt fosse così educato solo con lei perché volesse fare una buona impressione o forse perché quella era davvero la sua natura. Alla luce di come si esprimeva con tutti gli altri però doveva davvero fare i salti mortali per contenersi. Le aveva raccontato, in quella giornata, che lui aveva frequentato alcune gang dei quartieri popolari, qualche tempo prima. Si era cacciato nei casini tantissime volte e nessuno sapeva come fosse riuscito a scamparla sempre. Era arrivato ad un punto dove l’unica soluzione che vedevano i genitori era spedirlo alla scuola militare, luogo dove poteva sia sfogare che limitare quella sua strana indole violenta che nessuno riusciva a capire (da dove era spuntata? Dove avevano sbagliato? Come avevano fatto a non accorgersene?). Le aveva detto che le uniche persone che avevano creduto in lui, all’epoca, erano gli altri componenti degli Avenged Sevenfold. Non l’avevano abbandonato neanche per un istante, neanche quando era stato coinvolto in affari più grandi di lui. Se era riuscito a tirarsi fuori da lì era anche per merito loro. Le aveva anche mostrato qualche ricordino di risse e varie, soprattutto la grande cicatrice sulla spalla sinistra che si estendeva su parte della schiena.
“Lunga storia”, aveva detto, “che comprende una bottiglia rotta e conti in sospeso. E questa è l’unica cosa che devi sapere”.
Non le aveva raccontato molto di quel periodo. Non le aveva raccontato molto della sua vita in generale, ora che ci pensava. Lei invece gli aveva raccontato tutto e nel corso della sera aveva cominciato a sperare che anche lui si aprisse completamente con lei.
- Posso farti una domanda? – domandò il ragazzo, salendo le scale in modo da arrivare al terzo piano della palazzina.
Aveva insistito per salire fino a lì anche se avrebbe tranquillamente potuto lasciarla al portone. E poi, se lì era conosciuto, probabilmente prima se ne andava meglio era… ma aveva insistito e lei non aveva nemmeno provato ad invitarlo ad andare. Lo voleva lì con lei.
- Perché ti sei fidata di me? -
Era una domanda che si era posta anche lei. Perché si era fidata di lui? Avrebbe potuto farlo con tutti gli altri. Con Eleanor, per esempio, con la quale stava stringendo un forte legame. Con Zacky, che l’avrebbe capita considerando il fatto che per un periodo di tempo aveva vissuto nella sua stessa situazione. Con Jimmy, che avrebbe capito senza problemi. Ma anche con tutti gli altri. Tutti… a parte Matt. Quindi no, non capiva.
Se non…
- Non lo so. Mi sembrava giusto. -
- È strano, però. Io non mi fido neanche di me stesso. Come hai fatto? -
Liz non poté fare a meno di ridere. Era vero, non lo sapeva, ma se una persona come lei era riuscita a dare fiducia ad uno come lui, sicuramente quel ragazzo ispirava fiducia più di quanto credesse.
- Invece sei la persona più affidabile di questo mondo, almeno per me. Spero… spero che un giorno farai la stessa cosa con me. -
In quella giornata, aveva constatato la ragazza, non era riuscita a tenere a freno la lingua (in tutti i sensi). Quando pensava una cosa, la diceva. Non aveva fatto mistero che della sua vita avrebbe voluto saperne di più, al che il ragazzo rideva e rispondeva sempre allo stesso modo: “fidati, non vuoi”. Forse aveva paura che in quel modo l’opinione che si era fatta nei suoi confronti cambiasse completamente. Lei non lo credeva possibile: il passato era passato, fine della storia.
- Lo farò. Buonanotte, Elizabeth. -
- Non chiamarmi in quel modo. E… buonanotte anche a te. -
Con un movimento fulmineo, il ragazzo appoggiò per l’ultima volta le labbra sulle sue. Le sorrise, cosa che, inaspettatamente, le fece perdere un battito.
Dopo un attimo di esitazione, la giovane chiuse la porta alle sue spalle, appoggiandosi ad essa e respirando a fondo.
- E non smetterò mai di chiamarti così! – sentì qualcuno dire dall’altra parte, cosa che la face ridere leggermente.
Lasciò scorrere la schiena contro la porta, ritrovandosi seduta a terra. Si appoggiò la mano sul petto, all’altezza del cuore, sentendolo battere all’impazzata.
Scosse energicamente la testa.
No, non era possibile.
Non poteva essere possibile.






Note dell'autrice:
Ed ecco che con il quinto capitolo comincia la mia "walk of shame" - tranquilli, entro la fine della fanfiction capirete perché.
Capitolo lungo, lo so. Ma come fai a raccontare la storia della vita di una persona senza fare un capitolo lungo? Avevo pensato di dividerlo in due, ad un certo punto, poi mi sono detta che la cosa non aveva molto senso, in quanto questo capitolo volevo incentrarlo su alcune "storie di vita", chiamiamole così, dei miei personaggi, e fare una divisione non mi sembrava opportuno, ecco.
Anyway, prima che vi mettiate a lanciarmi verdure andate a male o cose del genere... lasciami spiegare. Liz definisce la sua storia "una storia da soap-opera". Alla fine era questa l'idea. Il punto è questo: ognuno di noi ha una storia, nel bene e nel male. Questa storia può avere elementi normalissimi, oppure al limite dell'assurdo. Ecco, diciamo che Liz ha l'ultima categoria, così come Brian, e questi due insieme sono l'esatto opposto della famiglia Rigby e della famiglia Sullivan, come si può notare. Ci sono così tante persone diverse al mondo, con così tante storie... scriverne una così forse ne valeva la pena. Se nemmeno questa mia spiegazione vi ha convinti e pensate che la storia di Liz sia troppo inverosimile, beh... non posso dirvi altro che tenere presente che questa è una fanfiction, e come tale può contenere elementi simili (disse la fanatica del realismo, ma sssh).
Poi... che altro posso dire? Mh, direi nulla, se non che il capitolo è solo un po' un approfondimento dei personaggi, un tuffo nel passato. Certo è che il fatto che Liz si apra proprio con Matt non è frutto del caso. Che cosa succederà fra quei due, e nelle vite di tutti gli altri? Eheheh.

Okay, forse è meglio che mi ritiri nel mio angolino buio.
Ringrazio di cuore le persone che hanno recensito e le poche anime che l'hanno messa fra le seguite, le preferite e le ricordate. Siete dei tesori, davvero.
Se il capitolo vi è piaciuto (oppure no, lo dico sempre, critiche venite a me), lo lascereste un commentino per farmi sapere che ne pensate? *occhi da cucciolo*

Me ne vado per davvero ora.
Al prossimo capitolo!
Kisses,
Vava_95

P.S. le canzoni di inizio capitolo ovviamente riprendono le storie dei personaggi, ho passato un'ora a sceglierle, ma sssh.
P.P.S. anche se ho controllato e ricontrollato, devo aver lasciato qualche errore di battitura da qualche parte, o cose del genere. Chiedo perdono.

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Capitolo 7
*** - Cap. 6 - ***


Nota: i fatti riportati a seguire sono completamente immaginari. Scrivo per semplice diletto personale, e i personaggi di cui parlo non mi appartengono.
 

CAP. 6

 
“These are our words, our words were our songs
Our songs are our prayers, these prayers keep me strong
And I still I believe”
Bon Jovi – In These Arms
 
 
 
Gennaio 2000
Huntington Beach, California

 
Brian non credeva nell’amore. A dire la verità, non ci aveva mai creduto.
O forse lo avevano praticamente obbligato a non crederci.   
Diceva sempre che l’ultima cosa che gli interessava era trovare una ragazza, non del genere che si scopava lui (e si trattava solo di questo, per l’appunto, una ripassata e via), ma una di quelle serie, farle una corte spietata e poi sistemarsi. No, non lo voleva per niente. E non perché era troppo giovane: anche in un ipotetico futuro, ciò che non voleva era, in generale, amare.
Perché? Perché portava solo a delusioni.
Quando parlavano di amore (e ultimamente era un argomento piuttosto ricorrente nella combriccola, e lui non riusciva proprio a capire perché – o forse sì, ma non voleva certo ammettere che quei discorsi li capiva) nessuno pretendeva un intervento da parte sua, a meno che esso non parlasse di qualcosa come sesso o dare buca alla povera malcapitata di turno. No, Brian Elwin Haner Jr. non si innamorava. Su questo punto di vista assomigliava molto al suo alter-ego, tale Synyster Gates.
Synyster era una persona ribelle e, come lo definiva lui, senza cuore, che non gli importava di niente se non della musica. Per questo Jimmy gliel’aveva affibbiato subito come stage name. Era il tratto oscuro della personalità del suo Brian, era pieno di demoni e cercava di scappare da essi nascondendosi dietro fiumi di alcol e, forse, a volte, solo quando era strettamente necessario, anche dietro qualche droga. Non gli interessavano le persone, fatta eccezione per i suoi compagni di band. Le donne erano oggetti e qualsiasi cosa potesse essere etichettata come “sentimento” veniva calpestata sotto i suoi piedi, ripetutamente.
Synyster era completamente diverso da Brian. Ed era giusto così, perché il chitarrista pensava che quest’ultimo non dovesse certo mischiarsi con la persona orribile che era quell’altro, assolutamente. Funzionava così: Gates sul palco e Brian nella vita reale, nella vita privata.
Non poteva negare però che sull’aspetto sentimentale Brian concordava molto con il suo alter-ego esistente solo quando si presentava l’occasione di fare concerti.
L’amore non faceva per lui. Al contrario, era quasi un animale. A lui non interessava niente: cercava, colpiva e distruggeva. Fine della storia.
Pensava che non si sarebbe mai innamorato. Era una cosa che si era imposto: nessuna donna, nessuna, avrebbe mai potuto fare breccia sul suo cuore nero.
Se non…
- Non deve succedere più – esclamò Eleanor, saltellando per la camera in modo da infilarsi alla bell’è meglio i jeans a sigaretta (come facevano le ragazze a portarli senza che il sangue smettesse di circolare lui non lo sapeva).
La bocca del giovane si increspò in un sorriso malizioso. Si mise in posizione seduta, osservando la ragazza cercare sul pavimento della camera una maglietta, una qualsiasi.
- Sai, è da un mese che dici che non deve succedere più, eppure… - fece un gesto allusivo con la mano, come a sottolineare l’ovvio.
La vide arrossire, cosa che lo fece scoppiare a ridere.
Aveva conosciuto Eleanor poco dopo l’inizio della sua frequentazione con Jimmy. Era la sua vicina di casa e, come lui, amava rifugiarsi lì quando le cose andavano male – anche se lui non capiva come potessero farlo, aveva una famiglia perfetta, lei. Non erano mai andati particolarmente d’accordo, anzi, tutto il contrario. Alla fine, rimanevano due estranei… che, diceva sempre il suo migliore amico, si conoscevano davvero molto bene. Non sapeva quando aveva cominciato a guardarla in quel modo, sapeva solo che un giorno si era svegliato una mattina e aveva decretato che la ragazza sarebbe stata sua, in un modo o nell’altro. Non che gli importasse: come tutte le altre donne, lei non era niente se non uno sfizio.
O almeno, era ciò che voleva far credere a tutti. Perché Eleanor era speciale e lui ne era perfettamente consapevole. Si meritava il ragazzo migliore del mondo e lui, ovviamente, non rientrava nella categoria. Anzi, lui poteva considerarsi parte di quelli della peggior specie. Aveva sfruttato l’attrazione che la ragazza provava nei suoi confronti nel modo migliore, considerando che era da un po’ che, quando lui aveva casa libera, succedev…
- Non importa, Bri. Non può più accadere, fine della storia – disse la ragazza, interrompendo il flusso dei suoi pensieri.
Era quello che voleva anche lui, ora che aveva occasione di pensarci bene. Era da un po’ che aveva cominciato ad avere paura, paura dei suoi sentimenti e soprattutto di quelli che la ragazza aveva nei suoi confronti. E aveva usato davvero la parolina magica: sentimenti. Quelli che, da qualche tempo, aveva cominciato a provare nei confronti della giovane. E quegli sguardi avevano assunto significato totalmente diverso, come lo avevano assunto le frecciatine e quegli incontri.
Lui non voleva niente di simile. Né lì né in un prossimo futuro.
Perché una cosa su cui Brian Elwin Haner Jr. e Synyster Gates andavano d’accordo era questa: l’unica cosa per cui valeva la pena soffrire era l’amicizia. Il legame profondissimo che lo legava ai ragazzi era l’unico, l’unico fattore per il quale avrebbe rinunciato a tutto. Non poteva permettere che se ne aggiungesse un altro.
- Se è quello che vuoi… -
Eleanor parve esitare un momento, poi scosse la testa e si chinò per prendere una maglietta nera dei Led Zeppelin situata sul pavimento per poi indossarla in tutta fretta. Prese al volo la borsa e mise le scarpe ai piedi, pronta ad andarsene.
- È quello che voglio. -
- Come ti pare. Ma tu sei mia, Rigby. Ricordatelo. Ti ho in pugno. -
Non sapeva perché l’aveva detto, ma su quello non c’erano dubbi. Il suo cuore, o qualsiasi altro aggeggio o organo del corpo che si usava per amare, era nero, completamente. Quello che c’era fra di loro non lo capiva nessuno, nemmeno i diretti interessati. Sesso occasionale? No. Relazione? Assolutamente no. Amore? No, no, mille volte no. Non poteva e non doveva.
Ma quella ragazza era sua. E lo sarebbe stata sempre, che la cosa le piacesse o meno.
- L’importante è esserne convinti, Haner – esclamò, cercando di sistemarsi i capelli – ci si vede. -
- Sai, quella maglia è mia – disse il giovane, facendola bloccare sulla porta della sua stanza.
Eleanor abbassò lo sguardo, per poi constatare che la maglietta le stava sia lunga che larga, per non parlare delle maniche che lasciavano scoperti solo gli avambracci.
Sorrise.
- Penso proprio che dovrai trovarti una nuova maglia dei Led Zeppelin – constatò, per poi chiudersi la porta alle sue spalle.
Brian la sentì scendere le scale, poi udì la porta d’ingresso aprirsi e richiudersi velocemente. Se n’era andata.
Tornò a sdraiarsi sul letto, osservando le travi sul soffitto e contandole distrattamente.
“Sicuro che non sia amore?”, gli aveva detto Zacky qualche giorno prima, mentre Johnny vicino a lui annuiva convulsamente.
No, non poteva e non doveva.
Perché lui non si innamorava. Non l’avrebbe mai fatto.

 
 
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Dopo l’uscita di quel pomeriggio, l’unico che aveva avuto libero in settimane dal negozio di dischi, Liz aveva chiamato Eleanor con voce quasi tremante, dicendo che dovevano incontrarsi subito, che era una questione di vita o di morte.
A ripensarci, la ragazza ci rideva su: come poteva esserlo? Era quasi una banalità. Anzi, era normalità per tutti gli esseri umani. Quindi perché ne stava facendo un dramma?
Certo, lei era Elizabeth Dixon, e no, non rientrava per niente nei canoni della normalità.
Aveva raggiunto casa Rigby e aveva trovato l’amica ad aspettarla sul portico. Le aveva detto che avrebbe voluto esserci anche Phoebe, ma quella sera c’era la festa di compleanno di un suo compagno di non si ricordava quale corso. I genitori della ragazza l’avevano salutata calorosamente, poi erano tornati alle loro faccende: erano cose da ragazzi, e dovevano vedersela fra di loro.
Liz non sapeva bene di che cosa volesse parlare. Sapeva solo che aveva bisogno di consigli e chi era in grado di darglieli se non Eleanor? Lei conosceva Matt da tantissimo tempo, sapeva come prenderlo.
I due si erano conosciuti per puro caso in un contesto completamente separato da casa Sullivan. Uno dei suoi cugini giocava a basket nella squadra della sua scuola, così un sabato mattina la sua famiglia aveva deciso di andare ad assistere ad una partita. I giocatori avevano un’età compresa fra i quindici e i diciotto anni, erano altissimi e giocavano contro la squadra della scuola avversaria come se fossero professionisti. Ce n’era uno però che sembrava più piccolo di tutti gli altri, anche se tutti i presenti avevano capito che era uno dei più bravi. Era entrato a metà del secondo tempo, quando la loro squadra era in svantaggio, e in pochi minuti non solo era riuscito a recuperare, ma anche a portare in vantaggio il suo team, poi portato alla vittoria. Era come se fosse entrata in campo una piccola star del basket. Le tribune erano quasi in delirio. A fine partita Aidan Rigby aveva indicato il ragazzino con un gesto della mano, dicendole che aveva solo due anni in più di lei e che giocava già con i liceali. Eleanor aveva undici anni, all’epoca. L’aveva ritrovato qualche ora più tardi, alla pizzata organizzata dal coach per festeggiare. Il ragazzino era lì, leggermente in disparte da tutti gli altri, che mangiava la sua fetta di pizza. Poco lontano da lui, due persone che sembravano i genitori ricevevano complimenti da parte di tutti. La ragazza, allora bambina, si era avvicinata e si era seduta accanto a lui. Matt l’aveva guardata di striscio, ma non aveva obiettato. Solo dopo una decina di minuti i due si erano stretti la mano, presentandosi e cominciando a parlare di quanto fossero noiosi i dopo-partita. Nonostante tutto, però, isi erano trovati bene e avevano passato una bella serata. Eleanor pensava che non l’avrebbe più visto, fatta eccezione magari di qualche partita giocata in casa dalla squadra. Si sbagliava. Poco più di una settimana dopo lo trovò seduto sull’orlo del marciapiede poco lontano dal cancelletto d’ingresso di casa Sullivan. Lei e sua sorella stavano uscendo per portare il cane al parco. Matt le aveva fatto un cenno di saluto ed Eleanor l’aveva guardato sorpresa, per poi avvicinarsi e chiederle che cosa ci facesse da quelle parti. Il ragazzino le aveva indicato la casa cui era di fronte.
“Sto aspettando un amico”, aveva detto, sorridendole, “ma sono sicuro che conosci Jimmy. Tutti lo conoscono”.
Ed era vero, tutti lo conoscevano. Era iniziata lì, la loro amicizia. Solo molto più tardi, forse addirittura anni dopo, la ragazza scoprì che Matt e Jimmy si conoscevano da quando di anni ne avevano appena dieci ed erano praticamente inseparabili dal primo giorno. Lei non l’aveva mai visto in giro, ma Jimmy le aveva detto che non significava che i due non si frequentassero. Anzi, tutto il contrario.
Matt e Jimmy avevano un rapporto profondissimo. Erano legati per la vita da un invisibile filo sottile che non si sarebbe mai spezzato. E anche Eleanor, in qualche modo, era legata a Jimmy. Se Matt era suo fratello, allora automaticamente era una persona fondamentale per la sua vita. E, piano piano, lo era diventata davvero.
Una volta, in una delle loro uscite, il cantante aveva detto a Liz che Eleanor era la sua dose di realismo. Quando voleva e doveva essere riportato con i piedi per terra, andava da lei. Perché a volte gli capitava di perdere il senso della realtà e la cosa doveva essere risolta subito. Era fondamentale, per lui. A differenza sua, Matt non aveva mai negato di aver bisogno di qualcuno. Non aveva mai negato di aver bisogno di tutti loro: dei ragazzi, delle sorelle Rigby… persino di lei. Diceva che se avesse sostenuto il contrario quello sarebbe stato mentire, e a lui mentire non piaceva per niente.
Forse era stato proprio questo a spaventarla.
- Aspetta, aspetta, fammi capire – esclamò Eleanor, interrompendo il flusso dei suoi pensieri – hai paura di… innamorarti? -
Liz si ritrovò a sospirare. Dopo averle raccontato diversi episodi che per lei erano cruciali, la ragazza aveva concluso il suo discorso dicendo che tutto sembrava portare al fatto che lei e Matt fossero innamorati l’una dell’altro e questo era inaccettabile.
Lei non credeva nell’amore. Forse non ci aveva mai creduto.
Aveva avuto diverse storie, in passato. Non tante, ma nemmeno così poche da non sapere a che cosa si andasse incontro quando si portava avanti quello che sembrava essere un rapporto piuttosto serio. In tutte quelle relazioni, non aveva mai e poi mai pensato di innamorarsi. Innanzitutto perché era troppo giovane. Certo, c’erano storie che parlavano di persone che si erano conosciute al liceo ed erano rimaste insieme per la vita, sposandosi giovani, avendo tanti figli e magari anche comprando una di quelle villette costruite apposta per famiglie poco lontane dal mare. Ma quelle erano, per l’appunto, delle storie. Come… come se fossero delle favole.
Innamorarsi a quell’età era folle. Anzi, era completamente da immaturi. Come si poteva essere pronti a comprendere l’amore quando, in media, un adolescente non capiva nemmeno sé stesso?
Aveva detto tutto quello, aveva provato a spiegare all’amica quello che sentiva. Non sapeva se ci era riuscita nel modo migliore, ma almeno ci aveva provato. E sperava con tutta sé stessa che Eleanor capisse lo stesso. In fondo, lei capiva, capiva sempre. Soprattutto in situazioni in cui una persona come Liz andava completamente in panico.
- Lo so, è stupido. -
- Non… non penso che lo sia, ma… perché? -
Era leggermente incredula, lo era stata per tutto il tempo a dire la verità. Non sapeva se fosse perché quella doveva essere una cosa quasi scontata oppure perché, forse per la prima volta, non riusciva a capire. E in quest’ultimo caso per lei quella sarebbe stata una sconfitta.
Negli ultimi mesi Matt e Liz si erano avvicinati sempre di più. Quando poteva, lui la andava a prendere la mattina e la riaccompagnava a casa, andava a trovarla al negozio di dischi dove lavorava per chiacchierare un po’ durante i tempi morti, la invitava in ogni dove, giusto per passare un po’ di tempo insieme. E lei invece lo aiutava a studiare, andava a tutte le prove e a tutte le esibizioni degli Avenged Sevenfold, lo chiamava la sera giusto per sapere come stava e per assicurarsi che non si fosse cacciato nei pasticci.
Si comportavano come una coppia, su quello non c’erano dubbi. Ed era proprio quello che la ragazza, almeno all’inizio, non voleva.
- Forse… più che dell’amore, ho paura di ciò che potrebbe succede quando si è innamorati. Pensaci: se… se qualcosa non va, non ne ricavi nulla se non un cuore spezzato. -
- Ma, se sei innamorato, come potresti rompere il cuore di una persona? -
Eleanor stava usando una specie di etica socratica, lì. Sapeva già dove quel discorso sarebbe andato a finire e faceva in modo di interrogarla per scoprire tutti i suoi dubbi, per poi darle il grande consiglio finale. Faceva quasi sempre così. Ed era una tecnica che non falliva neanche una volta.
- Non… non lo so. Penso che, semplicemente, si commetta qualche stupido, stupido errore. E da lì, beh… tutto va storto. Quando si è innamorati si tende a fare cose stupide, al limite dell’impossibile, tutto per impressionare l’altra persona. Anzi, no: si farebbe di tutto per la persona amata, davvero tutto quanto. Perché l’amore di fatto supera tutto. In poche parole, non pensi nel modo corretto, o nel modo in cui si riflette di solito perché nulla sembra importare più. -
- E pensi che queste siano cose brutte? -
Non lo sapeva. Erano cose brutte? No, l’amore non era brutto. Era… complicato. E aveva davvero tantissime forme e tantissime sfaccettature. Aveva paura, senza ombra di dubbio.
- No. Penso solo che si commettano errori. E quelle sono le cose brutte. E se uno di questi è troppo grande allora si sgretola tutto. E… ed è per questo che non voglio innamorarmi. Se agire in questo modo equivale a rimanere nella vita di Matt, allora per me va bene così. -
Eleanor scosse energicamente la testa, per poi portare le ginocchia al petto come a proteggersi dal freddo. In effetti, a gennaio non era consigliabile rimanere fuori per lungo tempo dopo le nove di sera. Soprattutto se si era in pigiama.
- Penso sia questo che tu non cogli: a Matt non va bene così. Lui vorrebbe di più. Tipo… non lo so, chiamarti “la mia ragazza” in pubblico – mimò le virgolette con le dita, come a far capire meglio il concetto – non è che non gli va bene questo vostro… qualsiasi cosa sia, ma vuole di più. perché tu per lui sei importante e per te prova un sentimento fortissimo. E non si impegna neanche a nasconderlo, altrimenti non saresti venuta da me. -
Su una cosa erano sicuri tutti, ed era il fatto che Liz fosse un bravo soldato. Questo comportava essere una discreta osservatrice, quindi probabilmente si sarebbe accorta lo stesso dei sentimenti che provava il ragazzo nei suoi confronti. Ma in quel modo si era aperta anche lei e aveva dimostrato che provava la stessa cosa.
- Che faccio, El? Non posso andare lì e dirgli “ehi, penso di essere innamorata di te” – esclamò, mimando le virgolette con le dita e facendo una voce buffa, facendo ridere l’amica.
- E perché no? Fidati, lo apprezzerebbe. -
- Perché… perché non lo fa lui? -
- Perché sa che cosa ne pensi tu dell’argomento. È sicuro dei suoi sentimenti, non è ben sicuro sui tuoi, invece. -
- Te l’ha detto lui? -
L’amica scosse di nuovo la testa. No, non gliel’aveva detto. Ma ovviamente lei poteva intuirlo, come del resto poteva intuire qualsiasi cosa passasse per la mente di quei ragazzi. Era vero allora quando Phoebe, con fare scherzoso, diceva che la sorella conosceva i membri degli Avenged Sevenfold come le sue tasche. Anzi, probabilmente ancora meglio.
- Liz, non puoi continuare a fuggire da qualsiasi cosa. È vero, hai avuto delle brutte esperienze. Non sei mai stata così seria con un ragazzo, diciamo anzi che non hai mai avuto una relazione più lunga di… quanto, due mesi? È tutto diverso, è vero, e fa paura, cavolo se fa paura. Ma se c’è una cosa bella in questo mondo è l’amore, e tu hai la possibilità di averlo. Quindi vai a prenderlo. L’amore non è e non sarà mai perfetto. Il rapporto fra te e Matt sarà fatto di alti e bassi ma va bene, è la normalità… è ovvio che il principe azzurro non arriverà sotto casa tua con una carrozza lussuosa trainata da cavalli bianchi. La verità è che il principe azzurro non esiste. Ma hai Matt, e fidati quando ti dico che ci va molto, molto vicino. -
Liz aveva ascoltato tutto con molta attenzione. Sicuramente, l’amica aveva ragione.
Ma lei ancora non sapeva se ne valesse la pena. Perché tutte le sue esperienze dicevano il contrario.
- E… tu e Brian? – domandò poi, come se nella sua mente si fosse accesa una lampadina.
Per sapere tutte quelle cose, ad Eleanor sicuramente non bastava l’osservazione. Doveva averle vissute. E, le aveva detto una volta Johnny, la giovane non aveva, proprio come lei, avuto delle storie serie. Innanzitutto aveva avuto due o tre ragazzi, non di più, e nessuno di essi era mai stato considerato importante.
A parte Brian, ovviamente. Il bassista non gliel’aveva detto, ma lei l’aveva capito.
- Niente del genere. Tra l’altro, abbiamo deciso di comune accordo di non farlo più. -
Quando erano cominciati quegli incontri, se così si potevano chiamare, nessuno aveva detto nulla. Tutti pensavano che sarebbe finita bene, soprattutto Jimmy che aveva bofonchiato un “era ora, la tensione sessuale era alle stelle” poco prima di prendersi degli schiaffi sulla nuca da parte di tutti.
Evidentemente su quello si sbagliavano. Ma la sua convinzione che i due fossero legati da un sentimento molto più profondo di ciò che volevano far apparire persisteva.
- … Comune accordo? – ripeté la ragazza, perplessa.
- Non posso farlo più, Liz. -
- Forse dovresti solo ammettere che sei innamorata di lui. -
- Non penso di averlo mai nascosto. -
Liz alzò gli occhi al cielo. Avrebbe voluto dirle che la cosa era piuttosto ovvia, certo, che probabilmente tutti l’avrebbero capito, ma che no, non l’aveva mai ammesso apertamente. Forse, se l’avesse fatto, sarebbero cambiate drasticamente le cose, fra loro due.
- Perché pensi che dovrei dirlo a Matt, allora? -
- Perché ti ama anche lui, come ti ho già detto. Molto, anche. -
 - E non pensi che la stessa cosa potrebbe essere applicata a te e a Brian? -
Eleanor scosse energicamente la testa. Per l’ennesima volta.
- No, perché lui non si innamora. Ma tu pensaci. -
Pensaci.
Chissà perché, da quando si era ritrovata catapultata in quello strano gruppo, pensare era l’unica cosa che faceva.


 
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Se c'era una cosa che tutti potevano dire senza alcun problema era che, quando alzavano il gomito, i membri degli Avenged Sevenfold diventavano quasi ingestibili.
Avevano tutti e cinque un modo diverso di reggere l'alcol, cosa che rendeva più difficile sorvegliarli... se qualcuno doveva farlo, s'intende.
Jimmy e Brian attivavano una specie di modalità a spugna: mandavano giù litri e litri di alcol e sembrava che esso non avesse su di loro alcun effetto. Tranne, s'intende, verso la fine della serata, dove il batterista crollava letteralmente a terra mettendosi a dormire come un ghiro (e nessuno poteva scollarlo da lì, non lo si riusciva nemmeno ad alzare di peso – tanto che una volta era rimasto al Johnny's tutta la notte, lo aveva svegliato Jonathan la mattina passandogli lo straccio con cui puliva i pavimenti sul viso, accompagnando il gesto con un sonoro "buongiorno, raggio di sole!"), mentre il chitarrista cominciava a tormentare le persone che erano con lui in continuazione, cercando di convincerli a bere. Eventualmente poi quest'ultimo finiva per appartarsi con la ragazza di turno, ma quelli erano dettagli.
Zacky era, in genere, la persona più moderata, ma quando si trattava di birra non lo si poteva certo fermare. Quando era ubriaco si metteva a ridere quasi convulsamente, per poi combinare sfaceli. Fortunatamente, erano rare le volte in cui il ragazzo era davvero, davvero ubriaco.
Johnny, di fatto, era il peggiore di tutti. Innanzitutto non era capace di reggere i superalcolici, ma essi erano proprio ciò che il bassista amava di più: bastavano pochi bicchieri e il giovane partiva letteralmente per la tangente, finendo quasi sempre per ballare su vari tavoli e rompere qualsiasi cosa gli capitasse a tiro.
Anche per Matt era raro ubriacarsi, anche se non rifiutava certo di alzare il gomito quando gli si presentava l'occasione. In genere però, a lui essere sotto l'effetto di alcol faceva riflettere. Come se mettesse in continuazione delle catene alla sua mente e l'alcol le scindesse improvvisamente.
Quella volta non era poi così ubriaco, considerando il fatto che era uscito dal locale in cui si trovavano lui e i ragazzi ed era riuscito a recarsi fino al quartiere popolare senza barcollare, senza incappare in sue vecchie conoscenze con le quali aveva conti in sospeso eccetera. Ed era persino riuscito a distinguere, quello con un poco di difficoltà, il possente condominio in cemento armato che ormai conosceva bene, dato che ci viveva Liz. Le scale erano state un po' un problema, aveva dovuto fermarsi ogni cinque o sei gradini in quanto gli girava la testa, ma alla fine era riuscito a raggiungere l'appartamento 3B.
Bussò energicamente la porta, senza contare il fatto che fossero le due del mattino e che probabilmente chi era all'interno dell'appartamento stava dormendo. Sentì dei piccoli rumori e delle luci che si accendevano, poi la persona da lui cercava venne ad aprire la porta. Anche indossando un pigiama, Liz era bellissima, a detta sua. E con i capelli arruffati. E senza trucco.
Per lui era bellissima e basta.
- Matt? - domandò la ragazza, quasi incredula, per poi squadrarlo da capo a piedi - che ci fai qui? -
Non lo sapeva nemmeno lui che cosa ci faceva lì. Semplicemente, voleva vederla. Aveva pensato che quel periodo non era stato facile per la ragazza, e non lo era stato nemmeno aprirsi con lui, o comunque offrirgli un piccolo spiraglio nella sua vita. Aveva pensato che più gli dava fiducia più succedeva qualcosa dentro di lui.
Era come... era come se quel buco alla bocca dello stomaco si stesse, piano piano, rimarginando. Presto sarebbe rimasta solo una cicatrice e con l'andar del tempo nemmeno quella, come se quei demoni non fossero mai esistiti.
Ed era stata lei. Ne era più che sicuro.
- Io... dovevo dirti una cosa importante. -
- Davvero? Alle due del mattino? - domandò la giovane, incrociando le braccia al petto e non scostandosi neanche di un millimetro.
Non voleva farlo entrare in casa, era evidente.
- Ero al Johnny's e... stavo pensando a tutto ciò che abbiamo fatto io e te in questo periodo. A ciò che ci siamo detti, a come... - si interruppe, sentendo la testa girare.
Liz alzò gli occhi al cielo: era ubriaco. Probabilmente stava facendo qualcosa con i ragazzi e avevano alzato un po' troppo il gomito. Quando decidevano tutti insieme di andare a bere al Johnny's lei non acconsentiva mai. Quel posto non le piaceva, nonostante il proprietario fosse sempre molto gentile con tutti loro, inoltre era infrangere la legge, e la polizia aveva già un alto livello di diffidenza nei confronti di chi viveva nel quartiere popolare. Come se fossero tutti delinquenti (e che ne sapevano, poi, dato che lì a pattugliare non venivano mai?). Non osava nemmeno immaginare cosa combinassero i ragazzi lì dentro. A volte le raccontavano delle storie, ma...
- E alla fine tutto è giunto ad una conclusione sola. Continuavo a ripetermi che non era possibile ma, a pensarci, tutto ha senso, come... -
Forse aveva capito dove voleva arrivare. Liz non voleva che dicesse quelle parole. Sarebbero state troppo pesanti e lei non sarebbe riuscita a gestirle, perché era troppo, perché non se lo meritava, non un ragazzo come lui almeno.
- Non dirlo. -
- Devo. -
Aveva fatto apposta per tutto quel tempo a non definire la loro relazione. Evidentemente si era stancato.
Anzi, si era stancato per davvero: lei non voleva farlo? Bene, l'avrebbe fatto lui, che lei volesse o meno.
- Per tutto questo tempo ho pensato che tu fossi chissà quale demone che esisteva solo nella mia testa. Ma forse... forse era un messaggio, come se... -
Sicuramente non ci stava molto con la testa. Ma in fondo l'alcol faceva anche quell'effetto. La giovane guardò all'interno dell'appartamento, notando la porta della camera della madre chiusa e la luce spenta all'interno. Aveva un sonno piuttosto pesante e nonostante fosse ridotto piuttosto male il ragazzo non stava facendo baccano.
- Matt... -
- No, adesso mi ascolti, è... è... è come se la mia mente mi avesse detto di svegliarmi, che tu non solo esistevi, ma non eri neanche lontana. Anzi. Eri proprio dietro l'angolo. E io mi sono innamorato. Ti amo, Elizabeth, e lo dico sul serio. -
Forse non si aspettava un discorso del genere, o quello che era. La ragazza si ritrovò a sospirare: era ubriaco, fortunatamente. Avrebbe fatto bene a farlo stendere e preparargli qualcosa, oppure fare in modo che non vomitasse lì. Non in casa sua. La madre avrebbe dato di matto.
- Tu sei ubriaco marcio. Vieni, entra. Ti faccio stendere e ti preparo qualcosa, va bene? -
Il ragazzo scosse energicamente la testa e le prese il volto fra le mani.
- No, no, no. Io ti amo. Sul serio. Ti amo. -
- Tu sei pazzo. -
- Di te, questo è sicuro. -
Liz alzò di nuovo gli occhi al cielo.
Non sapeva come fosse riuscita a trascinarlo dentro e a farlo stendere. Forse perché più si andava avanti più l'effetto dell'alcol si faceva sentire.
- Devi vomitare? - domandò, chiedendosi se in casa loro ci fosse un secchio o perlomeno un catino dove avrebbe potuto limitare i danni. Di certo, non poteva farlo lì sul pavimento. E ne era sicura, avrebbe tirato su tutto se non si sarebbe addormentato di lì a due minuti.
Si sedette sul bordo del divano, accanto a lui, asciugandogli la pelle umida e tastandogli le guance arrossate. Decisamente, aveva bevuto troppo.
Non poté fare a meno di sorridergli, passandogli delicatamente una mano fra i capelli.
- Domani ti pentirai di ciò che hai detto. Ammesso e non concesso che te ne ricorderai. -
- Lo farò. E non me ne pentirò. -
Liz alzò di nuovo gli occhi al cielo. Lo avrebbe fatto. Sotto l'effetto di alcol si dicevano delle cose, che probabilmente erano anche vere (in vino veritas, dicevano i latini), ma alla fine si scordava completamente di esse. Probabilmente l'alcol serviva anche a quello.
No, non se ne sarebbe ricordato. Aveva bisogno che non se ne ricordasse.
Non poté fare a meno di chiedersi che accidenti fosse successo se l'avesse fatto: se ne sarebbe pentito? Probabilmente sì. Con lei la gente si pentiva sempre, in fondo.
Senza che nemmeno se ne accorgesse, il ragazzo si era già addormentato. La ragazza si alzò lentamente dal divano, per poi dirigersi cercando di fare il meno rumore possibile in camera sua. Si distese sul suo letto, cominciando ad osservare il soffitto. Non riusciva a dormire, continuava a pensare a ciò che Matt le aveva detto (e ciò che, di fatto, aveva detto lei qualche giorno prima, non a lui direttamente, ma...). Per un attimo, solo per un attimo, aveva pensato di ricordarglielo la mattina successiva. Scosse la testa. No, non doveva farlo. Non doveva permettere ai suoi sentimenti di essere sopra tutto il resto, un'altra volta.
 
 
La mattina successiva Matt sembrava non ricordarsi davvero nulla. Si era svegliato guardandosi intorno spaesato, chiedendosi dove accidenti si trovasse e, soprattutto, come ci fosse arrivato. Realizzò che si trattava dell'appartamento di Liz quando notò alcune sue fotografie appese al muro, il che risolveva il dilemma di dove si trovasse. Ma...
- Ho dormito qui? - domandò, leggermente incredulo, mentre la ragazza lo stava osservando divertita, con una tazza di caffè fra le mani.
Aveva un mal di testa terribile e dei grandi capogiri.
- Già. -
- Certo che per essere così giovane alza davvero troppo il gomito - commentò la madre di lei, indossando la giacca di pelle e prendendo al volo le chiavi della macchina - vado a fare la spesa. Tornerò fra mezz'ora, massimo tre quarti d'ora. Lo voglio fuori di qui. -
Detto ciò, la signora Dixon sparì, chiudendosi la porta di casa alle sue spalle. Il tonfo della porta rimbombò nella mente del ragazzo, cosa che gli fece portare automaticamente gli indici sulle tempie.
- Sempre gentile, eh? -
La ragazza rise.
- Come ti senti? -
Non lo sapeva come si sentiva. Di certo, non bene.
- Non ho... non ho tirato su tutto, vero? -
- No, ti sei addormentato. In caso contrario penso che avrei lasciato tutto lì per farti pulire appena sveglio. -
Il ragazzo si ritrovò a ridacchiare.
- Ti ricordi nulla, di ieri sera? - domandò Liz, abbassando improvvisamente lo sguardo.
Matt ci pensò su, per poi scuotere energicamente la testa.
Si ricordava del fatto che lui e i ragazzi erano usciti a bere, ma poi...
- No, nulla. -
Liz si ritrovò ad annuire - Lo immaginavo. -
Rimasero in silenzio per alcuni minuti, nei quali la ragazza finì la sua tazza di caffè e la mise nel lavello, per poi accendere il tostapane e cominciare ad affettare delle fette di pane.
- Puoi tirare fuori la marmellata dal frigorifero? Se riesci ad alzarti, ovvio. -
- Ehi, va bene che devo ancora riprendermi, ma ora non esageriamo - esclamò il ragazzo, alzandosi lentamente e prendendo l'oggetto richiesto dalla giovane.
Avrebbe fatto bene a mangiare anche lui, ma, come tutte le volte che alzava il gomito, aveva lo stomaco completamente sottosopra.
Avrebbe fatto bene a vomitare, quello era sicuro.
La guardò con la coda dell'occhio, notando la sua espressione leggermente corrucciata, come se fosse perplessa. Ma, al contempo, il suo sguardo era triste, come se sperasse in qualcosa che, purtroppo, non era accaduto.
Sul volto di Matt comparve un sorriso malizioso.
- Elizabeth? -
La giovane alzò gli occhi al cielo. Non le piaceva che la chiamasse in quel modo, ma era da tempo che non ribatteva più e a lui stava bene. Presto ci avrebbe fatto l'abitudine.
- Che c'è? -
- Una cosa me la ricordo. -
- E illuminami: che cosa ti ricordi? -
Liz pensava davvero di tutto. Delle bevute con gli amici, delle scorribande, di qualcosa successo al Johnny's... ricordi confusi, forse dei flash. Non si aspettava che si ricordasse della loro conversazione, non si aspettava nemmeno che si ricordasse di ciò che aveva detto.
- Che ti amo. E che te l'ho detto. E ti ho detto anche che non l'avrei dimenticato. -
La ragazza sussultò, cosa che lo fece ridere.
- Ma mi vuoi spiegare come ti ubriachi, tu? -
La voce le tremava leggermente, come se fosse in preda all'emozione. Forse lo era davvero.
Il cantante diede una scrollata di spalle.
- Sarà che non ero poi così ubriaco come volevo far credere. -
- Sei un idiota, Matthew. -
- Lo so. Ma tu mi ami. -
La mente della giovane tornò alla conversazione che aveva avuto con Eleanor poco tempo prima. Al fatto che lei fosse spaventata dall'idea di amore, perché esso portava solo sofferenze alle persone. Ne aveva avuti tanti, di esempi. Come suo padre, che quando era morto aveva lasciato sola la madre che era sprofondata in depressione. Ne era un esempio la ragazza che abitava nell'appartamento di fronte al suo, che era stata lasciata dalla persona che amava incinta e ora si stava occupando da sola del bambino. Ne erano esempio tanta gente che vedeva a scuola che dopo la rottura con il proprio ragazzo o la propria ragazza piangevano per settimane e non si parlava d'altro. Ne era un esempio anche Matt.
Ma, soprattutto, ne era un esempio lei, che vedendo tutto quello aveva deciso di non innamorarsi, perché non ne valeva la pena. Se c'era una cosa che si ricordava però del suo padre adottivo era quella: l'amore è l'amore, e prima o poi colpisce tutti, in qualche modo. Non si può sfuggire ad esso, nemmeno se ci si prova con tutti sé stessi, nemmeno se si riesce a nascondersi bene per molto, molto tempo.
E aveva ragione.
Il suo sguardo si puntò su Matt, che era appoggiato al bancone con le braccia incrociate al petto e uno strano sorriso dipinto sul volto, un sorriso quasi sadico, che faceva comparire una fossetta sulla guancia destra. Era come se sapesse già in anticipo di aver vinto, almeno per quella volta.
L'unica persona con cui riusciva ad aprirsi per davvero, al cento per cento, era lui. Che, del resto, era anche l'unica persona della quale sentiva di potersi fidare, completamente.
Scosse la testa: al diavolo. Doveva smetterla di fuggire e di nascondersi. Doveva rischiarsela. E, sicuramente, avrebbe sofferto, perché in amore si soffriva sempre, faceva parte del mestiere. Definendo la loro relazione in quel modo, sarebbe successo di tutto. Ci sarebbero stati litigi e incomprensioni.
E lei era disposta a fare tutto quello.
- Sai cosa? Hai ragione. Io ti amo. -





Note dell'autrice:
Ammetto che, quando ho riletto, revisionato e corretto questo capitolo, ho sgranato gli occhi un paio di volte e, a lettura finita, ho esordito con un: "Vava, ma che diamine ti è saltato in mente?". Ecco, la risposta in realtà non a so. Ma ve l'avevo detto che iniziava la mia "walk of shame" dal capitolo precedente, quindi... here we are. Già. E non è nemmeno finita, quindi insomma, direi che ne vedremo delle belle.
*Va a sbattere la testa contro il muro*
Okay, veniamo al capitolo ora. Non so secondo quale logica, ma Brian ed Eleanor mi piacciono, quindi in qualche modo volevo fare... qualcosa. Ed ecco che cosa ne è uscito. Ammetto di essere particolarmente fiera della differenza fra Brian e Synyster, vi prego concedetemela. Poi... è ormai appurato che Liz sia molto legata a Phoebe ed Eleanor ora, specialmente a quest'ultima, ed è bello da vedere come una persona che fa molta, moltissima fatica a fidarsi delle persone possa riuscire ad aprirsi così con qualcuno. Di fatto è fondamentale avere delle amicizie su cui contare.
Poi c'è il mio scivolone finale. Eh già, l'autrice si pente: se un "ti amo" doveva esserci, non doveva essere qui. Ma la storia è stata scritta qualche mese fa e quindi voglio mantenerla così com'è. Ho corretto come potevo, ma chissà... forse qualche mio lettore è un inguaribile romantico (ammetto di esserlo anche io, il che non è un bene, sono cinica di natura io, questi due tratti vanno a cozzare) e apprezzerà la cosa comunque.
Vedremo.

Mi ritiro nel mio angolino buio, adesso, è meglio.
Ringrazio di cuore tutte le persone che hanno messo la fanfiction fra le seguite, le preferite e le ricordate. Davvero, siete dei tesori.
Se il capitolo vi è piaciuto, ma anche se non l'avete gradito (critiche venite a me), me lo lasciate un commentino, per sapere che cosa ne pensate? *occhi da cucciolo*

Okay, me ne vado davvero ora.
Al prossimo capitolo!
Kisses,
Vava_95

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