Risveglio 2

di SagaFrirry
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I- fiamme nere ***
Capitolo 2: *** II-Addio ***
Capitolo 3: *** III-nuovi orizzonti ***
Capitolo 4: *** IV- nuovo fratello ***
Capitolo 5: *** V-alla luce del sole ***
Capitolo 6: *** VI- il palazzo nero ***
Capitolo 7: *** VII- fratelli ***
Capitolo 8: *** VIII- angeli ***
Capitolo 9: *** IX- potere e ricordi ***
Capitolo 10: *** X- nuove vestigia ***
Capitolo 11: *** XI- ritrovarsi ***
Capitolo 12: *** XII- piangere ***
Capitolo 13: *** XIII- mortale ***
Capitolo 14: *** XIV- motivazioni ***
Capitolo 15: *** XV- Nuovo ***
Capitolo 16: *** XVI- speranza ***
Capitolo 17: *** XVII- famiglia ***
Capitolo 18: *** XVIII- VIXI ***
Capitolo 19: *** XIX- RAGNARÖK ***



Capitolo 1
*** I- fiamme nere ***


I

FIAMME NERE

 

“Non retrocedete!” gridò Phobos.

Si portò una mano al viso, pulendosi dalla polvere della battaglia. Circondato dai compagni, non riusciva ad udire la voce del suo padrone. Non riusciva più a scorgerlo. Probabilmente si era lanciato in prima linea, pronto ad affrontare il nemico invasore. Lo sperava.

“Dov’è il sommo Ares?” chiese un’amazzone, tenendo buono a fatica il suo cavallo.

“Non preoccuparti per lui, pensa a combattere!” la sgridò Phobos, cercando di capirci qualcosa.

Quell’attacco, mosso all’improvviso, aveva colto molti di sorpresa. E di nuovo lì, a difendere il tempio di Athena. E perché?  Phobos si chiedeva perché il suo signore ancora difendesse quel luogo, invece di ritirarsi nel suo palazzo in tracia e staccarsi dal passato. Sospirò, rispondendosi da solo. Il legame fra il suo capo e colui che considerava un fratello, Saga, non accennava a smorzarsi. Nonostante tentassero in ogni modo di separarsi, odiando pure Arles quel luogo d’infanzia e di errori, finivano sempre col cercarsi. Per sostenersi o ammonirsi.

“Perché vi fermate?” gridò ancora Phobos “Non abbiate timore alcuno del nemico, o vi distruggerà!”.

Accompagnò le sue parole con un potente colpo fiammeggiante. La sua luce rossa attraversò quelle ombre nere e le dissolse. Ma dietro di loro già ne avanzavano delle altre.

 

Il buio improvviso oscurò il tempio delle vestali. Le donne, spaventate, si guardarono attorno senza capire.

“State calme” parlò loro, dolcemente, Ninive.

Ora era lei a capo di quelle fanciulle, data la decisione di Hestia di sposare Saga e lasciare quel luogo. Ninive aveva accettato l’incarico senza timore o ripensamento alcuno, nonostante questo significasse rinunciare definitivamente a quella che poteva essere una vita con Arles ed i suoi figli. La decisione aveva fatto alzare un coro di voci e pettegolezzi. Nessuno sapeva il perché di quella decisione tranne lei, che non voleva svelarlo. In quel momento, assieme alle sue consorelle, solo per un istante pensò a colui che combatteva là fuori e si mise a pregare. Tutte loro desideravano ardentemente la pace ma nessuno in quel Mondo pareva in grado di poterla mantenere. E il cielo si faceva sempre più nero…

 

“Torna subito indietro!” ringhiò Ares, nella testa del suo involucro Arles.

L’involucro non rispose, continuando a camminare. Vedeva il suo nemico, dritto davanti a sé, e si dirigeva convinto in quella direzione.

“Ti ho detto di fermarti! Sei del tutto scoperto, ti farai ammazzare!” insistette Ares.

“Ma chiudi quella cazzo di bocca!” sibilò Arles.

“Ma non vedi che stai facendo?! Se il nemico ti vede, sei morto! E mi serve questo tuo corpo, lo sai!”.

“Questo è il mio corpo e ci faccio quel che voglio”.

“Questo è il nostro corpo! Fermati!”.

Ares tentò di trattenere Arles, che per un istante si arrestò e gemette per protesta. Ma poi la volontà del mortale fu più forte, e riprese il suo cammino. Con indosso l’armatura del dio della guerra e nelle mani la sua scintillante spada, guardò negli occhi l’ombra nera che oscurava il sole. Il Caos, padre di Gaia, colei che era stata sigillata nell’ultima guerra, aveva perso il controllo e sfogava la sua rabbia su cavalieri e Dèi colpevoli. Dov’era quel verme che aveva rinchiuso la sua bambina? Dov’erano tutti quei moscerini inutili che lo avevano aiutato? Divinità inferiori, legate agli umani. Agli occhi del Caos, feccia e nulla più. E quella creatura minuscola che avanzava così decisa…che credeva di fare? Ghignò divertito. Arles rispose a quel ghigno, senza curarsi dei martellanti insulti del dio della guerra nella sua testa. Il Dio nemico pareva non subire alcun danno, nonostante gli attacchi di vari Dèi fra cui Zeus.

“Amico…” gridò Arles per farsi sentire dall’enorme divinità Caos “…vedo che entrambi abbiamo bisogno di sfogarci. Facciamo così: sbrighiamo la faccenda fra noi. Lascia perdere tutti questi qui, che combattono per noia e non vedono l’ora di smettere. Lotta con me, che ne ho bisogno”.

“Umano, tu sei pazzo” rispose Caos.

“Può essere” ammise Arles, seguito da un “confermo” da parte di Ares.

“Come speri tu di battermi, visto che nemmeno l’attacco congiunto dei tuoi compagni riesce a scalfirmi?” domandò il nero nemico, piegandosi leggermente in avanti.

“Io non spero di batterti. So di non poterlo fare”.

“E allora che vuoi? Suicidarti?”

“No, a tagliarmi le vene sto poco. Sento che tu attacchi per rabbia. Di questo posto non te ne frega un cazzo. Hai solo bisogno di sfogare la tua giusta rabbia. Io pure me ne frego di questo posto ed ho necessità di liberarmi di certe sensazioni. Perciò vorrei che tu combattessi contro di me. E me soltanto”.

“Ammiro il tuo coraggio”.

“La sua è stupidità” sbottò Ares, per qualche istante riprendendo il controllo.

Non ci riuscì a lungo. Arles socchiuse gli occhi e richiamò a sé tutta la sua energia.

 

“Ma che sta facendo?” si chiese Saga, vedendo Arles avanzare veloce verso il nemico “Si farà ammazzare!”.

“Ricorda che è il Dio della guerra” lo calmò Kanon “Sa quello che fa…di solito!”.

“Non sta seguendo una strategia. È scoperto!”.

“E tu non seguire l’esempio! Resta qui, che il nemico è uno di quelli cazzuti”.

“Arles! Cosa stai facendo, fratello?!” gridò Saga e Kanon gli tappò la bocca.

“Sono io tuo fratello!” sbottò “E smettila di cercare di attirare l’attenzione, idiota!”.

 

“Non hai nulla da perdere, greco?” riprese Caos.

“No” ammise Arles “Non sono figlio di nessuno e, anche se senti una voce chiamarmi ̎fratello ̎, non sono il fratello di nessuno. I miei figli sono grandi, la mia donna non vuole più vedermi. Non ho motivo di restare. Il mio sangue ribolle di rabbia e desolazione. Sono solo, eppure la mia anima ringhia. Ringhia perché vuole vivere e combattere”.

“Ammiro la tua anima. La mia è circondata da catene e sigilli e ormai prova solo rabbia”.

“Come posso placarla?”.

“Perché dovresti?”.

“Perché quella fanciulla che vedi laggiù è la mia bambina. Si chiama Ariadne e non voglio muoia oggi”.

“Tu non potrai mai fermarmi!”.

Caos, che per qualche istante era parso tranquillizzarsi, riesplose di furia ed espanse ulteriormente le sue dimensioni. Arles scattò in avanti, raccogliendo tutte le sue energie e roteando la grande spada del dio della guerra.

“War Blood” gridò, alzando la spada e lanciando il suo colpo.

Il rosso sangue del supremo colpo del dio della guerra colpì in pieno Caos. Trovandosi più vicino rispetto ai suoi compagni, riuscì ad arrecare un lieve danno al nemico, che si irritò parecchio e lo schiacciò in terra con due dita. Tenendolo al suolo, rise e si umettò le labbra. Quasi quasi poteva mangiarselo quel microbo. Arles si dimenò, riuscendo a liberare una mano. Scagliò un ulteriore colpo sulle dita che lo bloccavano e ritrovò la libertà.

“Sei proprio fastidioso!” commentò il Caos, trovando la cosa quasi divertente “Annienterò la tua anima”.

Arles ghignò di nuovo. La sua spada ed il suo cosmo erano pronti a colpire ancora. Saltò, accompagnato dai colpi di altre divinità, ed affondò la spada in quell’ombra che però non perse nemmeno una goccia di sangue. Venne ricacciato indietro e cadde. Si pulì la bocca dall’ikor divino che il nemico aveva fatto sgorgare e preparò un altro attacco. Ma si fermò. Sentiva qualcosa di strano dentro di sé. Partiva dal cuore e, ad ogni battito, pareva espandersi per le vene. Sì portò la mano sinistra al petto e subito anche in lei avvertì la stessa sensazione.

“La mia…anima?” gemette.

“Che succede?” domandò Ares, senza capire.

Percepiva l’involucro del suo mortale ospite perdere sintonia con la sua anima. Dal cuore, che lentamente Arles percepiva sempre più pesante e freddo, si espandeva un dolore che scorreva poi nelle vene. Il muscolo pulsante divenne nebbia e poi si contrasse. Come una supernova, si contrasse e poi esplose, divenendo fiamma nera. Arles gridò. La sua anima bruciava e così anche il suo corpo. Lingue di fiamme nere iniziarono a consumarne le carni e le ossa. Ares lottò disperatamente per arrestare il processo ma non ci riuscì. Il suo involucro mortale non era più in grado di ospitarlo e dovette abbandonarlo, senza poter far altro. Rimase a guardare Arles che si consumava, fra le grida. Perché il suo cuore non cedeva? Perché non cessava di battere, permettendogli di morire? Il Caos si chiedeva la stessa cosa, vedendo quel misero essere contorcersi.

“Il tuo animo è forte, creatura. Non me l’aspettavo” commentò il nemico.

Arles non poté controbattere, perché ormai le fiamme ne stavano avvolgendo il viso. Poi, finalmente, corpo ed anima si arresero e cessò di vivere. Ares lo capì e d’istinto, tentò di vendicare il suo prezioso involucro. Sapeva di non poter fare molto ma era pur sempre il Dio della guerra! Fece per attaccare quando una luce abbagliante lo fermò.

“Tornatene da dove sei venuto, creatura della notte!” tuonò una voce, che arrestò ogni movimento.

Lentamente, apparve. Ahriman, Dio del cielo, magnifico e avvolto da luce e ardente cosmo, si mostrò. Fra le nubi, con le ali spalancate, fra le mani stringeva lo scettro simbolo del suo potere così come sul capo indossava la corona.

“Urano. Nipote mio. Come stai?” domandò Caos, per nulla impressionato da quell’entrata in scena.

“Starei molto meglio senza vederti” rispose Ahriman, con la voce del Dio del cielo.

“Svolazza altrove!”.

“Evapora!”.

Ahriman alzò lo scettro ad astrolabio e questi brillò, scagliando una fascia di luce contro il Caos. Questi si raggomitolò leggermente.

“Ti ricordo, Caos, che sei stato sigillato, millenni orsono. Non ti è concesso uscire dal tuo palazzo nero, pena la morte. Sai bene che devi rientrare immediatamente, oppure ti dissolverai. E so che non è quello che vuoi”.

“Cosa ne sai tu di quel che voglio? Ho perso la mia bambina!”.

“Io, pochi secondi fa, mio padre. Eppure sto qua, fermo, e non sfogo la mia collera a casaccio contro di te. Anche se potrei. Ti invito, anzi, a tornartene a casa prima che il sigillo faccia effetto”.

Per qualche attimo i due si fissarono. Il Caos espanse la sua ombra, andando ad accarezzare per un istante tutto il grande tempio. Poi si ritrasse e svanì.

 

Era sceso uno strano silenzio. Ahriman atterrò dolcemente, con un singolo battito d’ali. Da tempo non si mostrava, dall’ultima guerra in cui era divenuto Dio del cielo.

“È tutto finito” parlò, dopo qualche istante di silenzio “Potete tornare a casa”.

Ma nessuno si mosse. Alcuni feriti si accasciarono, stanchi. Nessuno di loro era in gravi condizioni. Il nemico si era limitato a rispedire indietro i colpi degli avversari.

“Fratello…” mormorò Saga, rimanendo immobile con lo scettro di Athena fra le mani.

Kanon fece una smorfia. Non sopportava sentir chiamare Arles “fratello”.

“Su, zio, non essere triste” quasi sorrise Ariadne “C’è Ahriman  qui. Sono certa che lui ha la soluzione”.

“Sorellina, per quanto io sia potente, non posso riportare in vita un corpo distrutto. Non è rimasto nulla di lui”.

“E la sua anima?”.

“Come quella di Ares, sono certo che ha già una sua sistemazione”.

“Quindi mi stai dicendo che tu, Dio supremo del cielo, non puoi fare niente?”.

“Non posso competere con il volere del Caos”.

“Ma…quindi…papà è…”.

“Non piangere” parve sfottere Ahriman “Non ci ha cresciuti. Potevamo anche vivere senza mai venire a conoscenza della sua vera identità”.

“Ma stai parlando di Arles, nostro padre. Come puoi…”

Ahriman alzò una mano. Non voleva sentire altro. Vivendo solitario nel grande palazzo del cielo, iniziava ormai ad avere dentro sé quella fredda indifferenza tipica delle divinità. Riprese il volo, lasciando alla sorella solo una delle sue piume fra le mani.

“Re Ahriman” chiamò qualcuno.

Altri invocarono il nome di Arles, senza capire bene l’accaduto. Non era rimasto nulla del cavaliere, se non un segno lievemente bruciato d’erba e qualche goccia di ikor. L’anima di Ares non c’era più e questo spaventava Phobos.

Era rimasto di nuovo solo! Solo, senza un padrone ed un signore da seguire. Che fosse segno, con la morte del Dio della guerra, che finalmente era giunto un tempo di pace? Che l’alba di un mondo senza conflitti potesse avere inizio?

“Pura utopia” si disse, subito.

Ora era lui a capo delle truppe di Ares e lo avrebbe atteso. Sapeva che sarebbe tornato e fino a quel momento lo avrebbe aspettato e venerato come in vita. E il Caos l’avrebbe pagata cara.

“Placa il tuo animo” suggerì Hypnos, che aveva combattuto negli eserciti di Hades in quello scontro “Il Caos non è creatura che si può vincere. Io lo so bene. Ho vissuto al suo fianco, assieme al resto della mia famiglia, a lungo. Poi, quando si combatté la battaglia in cui furono posti i suoi sigilli, io e Thanatos fummo assoldati da Hades ed ora dimoriamo nei campi elisi”.

“Ma se è sigillato…perché è apparso?”

“È una creatura troppo potente. Non la si può rinchiudere in una giara o in una scatola. Tutte le divinità alleate con Zeus, i suoi fratelli ed i vari discendenti, sono riuscite a creare un blocco. Ma questo non è sufficiente a trattenerlo nel suo palazzo. Specie se mosso da rabbia cieca come prima”.

“E allora questi blocchi a che servono?”.

“Non può più creare, così da evitare che generi cose al di fuori dell’ordine del Mondo. Non può più avere figli, né lui né gli altri abitanti della sua casa nera. E non può uscire dal palazzo se non per un periodo limitato. Inoltre, i suoi poteri sono stati notevolmente diminuiti. Fosse stato potente come alla notte dei tempi, con quell’attacco d’ira avrebbe distrutto l’universo”.

Phobos non disse altro. Vide le divinità rientrare nelle loro case, tranne Saga. Questi riuscì solo in seguito a tornare alla sua dimora, impietrito da un senso di vuoto assoluto che non aveva mai provato prima.

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Capitolo 2
*** II-Addio ***


II

 

ADDIO

 

 

Le campane suonano a morto.
E riecheggiano per il tempio. Ogni rintocco, un ricordo che riaffiora. Ogni rintocco, la consapevolezza di un nuovo istante che non si creerà mai.
Le campane suonano a morto.
A che serve coprire il viso con una maschera per celare le lacrime? Il tuo animo triste pulsa e si fa percepire da tutti. È colpa del tuo essere divino.
Le campane suonano a morto.
Si fanno difficili i passi quando le certezze si infrangono. Quando una vita che credevi eternamente legata alla tua si dissolve. Quando capisci di non poter rimediare.
Le campane suonano a morto.
Cerchi parole da pronunciare ma queste non escono. Cerchi un modo per trarre conforto ma il tuo cuore non si placa. Cerchi di fermare le tue lacrime ma queste sembrano non avere mai fine.
Le campane suonano a morto.
Con il capo chino ti accorgi che non hai nemmeno un corpo da seppellire, solo un ricordo su cui piangere, solo una vita da lasciar andare.
Le campane suonano a morto.
In ginocchio dinnanzi ad un semplice nome inciso, allunghi la mano sentendoti divinità inutile e colpevole. Sfiori la lapide e ti chiedi il perché.
Le campane suonano a morto.
"Fortunato" tu pensi, "fortunato che hai abbracciato la morte, lasciando a noi il duro compito di vivere. Fortunato, tu che sei svanito, e non devi lottare più".
Le campane suonano a morto.
Scende il silenzio, nel tuo cuore e nella tua anima, non più ora accompagnata da chi credevi immortale, protetto da divino potere.
Scende il silenzio. I vivi dormono, i morti sognano. O forse è il contrario. Scende il silenzio.
Le campane non suonano più.

 

Thanatos era bravo nel tramutare in parole il pensiero di chi era in lutto. Saga ascoltava i suoi versi e rimaneva in silenzio. Davanti a sé, una bara vuota. Non era rimasto nulla del corpo di Arles.

“Nemmeno un corpo su cui piangere mi hai lasciato” mormorava, rivolto al Caos che ovviamente non poteva sentirlo perché parecchio lontano da lì.

La grande sala, dove non molto tempo prima i cavalieri d’oro dormivano per permettere alle divinità di risiedere al tempio, ora era divenuto il luogo dove porgere un ultimo saluto.

“Finiamo in fretta questa cosa” commentò Kanon, desideroso come non mai che il fratello riprendesse in mano la sua vita.

Ninive non era presente. In sua vece, un piccolo gruppo di vestali erano giunte per porgere omaggio a tutti coloro che combattevano ed avevano combattuto per la pace e la difesa dei deboli.

“Condoglianze” sussurrarono a turno, prima alla figlia del morto e poi a Saga.

La giovane indossava la maschera. Mai prima d’ora lo aveva fatto. Probabilmente lo faceva per celare la sua tristezza, ma era facile percepire il dolore del suo cosmo. Deathmask, il suo compagno, le rimaneva accanto senza parlare.

“Addio amico mio. Mi mancherai” disse Aphrodite, deponendo una delle sue rose sulla bara scura.

D’un tratto, in mezzo al silenzio prevalente, si udì il rumore di passi. Come piccoli tacchetti sul marmo lucido. In molti si voltarono verso l’entrata della sala. Ahriman, Dio del cielo, aveva fatto il suo ingresso. Indossando un abito magnifico, degno di una divinità, camminò lentamente. Ed i rumori dei suoi passi cessarono, come camminasse sospeso. Le ali ripiegate, perdevano piume verdi ogni tanto.

“Sommo Urano” si sentì da più parti, mentre molti si inchinavano.

“Non siete qui per porgere omaggio a me!” quasi si stizzì “Ma a colui che mi donò metà corredo genetico. È dinnanzi a lui ed alla sua bara vuota che dovete inchinarvi. Ricordando nel vostro cuore in eterno il suo coraggio e la sua stupidità”.

Raggiunse la bara, mentre nella sala nessuno parlava. Vi poggiò una mano sopra e solo Saga, che rimaneva immobile accanto ad essa, notò la singola lacrima che versò il Dio.

“Ahriman, nipote mio, è bello vederti qui” ammise Saga.

“Preferirei che queste riunioni di famiglia si facessero in occasioni più liete” rispose il giovane.

La fiamma delle candele che illuminava la stanza riempiva di riflessi i suoi capelli color della notte. Li aveva raccolti in complicati intrecci per impedire che toccassero terra.

“Dov’è mia madre?” domandò, dopo qualche istante.

“Non ci ha raggiunti. Forse non se l’è sentita”.

“O forse non le interessa. In famiglia siamo fatti così”.

Hestia, in piedi qualche passo dietro a Saga, salutò con un cenno del capo Ahriman. Il Dio rispose al saluto, mentre si voltava per lasciare già la stanza. Fissò la Dea qualche istante.

“Congratulazioni” disse, poi, sorridendo appena, ed uscì.

“Congratulazioni per cosa?” sbottò Saga “Quel ragazzo è assurdo”.

“Beh…” parlò Hestia “L’esistenza è un cerchio. Dove una vita termina, una nuova vita inizia”.

A quella frase, molti sorrisero e si levarono esclamazioni di stupore.

“Che intendi dire?” continuò la divinità della guerra.

“Credo che solo tu in questa sala non lo abbia capito, Saga” chiuse gli occhi Hestia “Sono incinta. E spero che almeno questo possa ridonarti la voglia di sorridere”.

“Mia regina…” riuscì solamente a dire lui, abbracciandola.

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Capitolo 3
*** III-nuovi orizzonti ***


III

 

NUOVI ORIZZONTI

 

La primavera di Grecia rendeva quel grande prato un luogo ideale dove giocare. Il bambino, dai capelli di un verde solo leggermente più scuro rispetto all’alta erba fra cui correva, osservava con curiosità ogni cosa. Una farfalla gli passò accanto e lui rise. D’un tratto, una voce.

“Stai sconfinando, straniero” si sentì dire.

Guardò in su. Un altro bambino, che non sembrava molto più grande di lui, lo fissava seduto su quel che rimaneva di un’antica colonna greca.

“Ciao” salutò il bimbo dai capelli verdi “Come ti chiami?”.

“Non sei Greco, vero?” ghignò il bambino, saltando dalla colonna e girando attorno allo straniero, osservandolo con curiosità.

“No. Ma mamma e papà mi insegnano”.

“Da dove vieni?” continuò l’interrogatorio.

“Da lontano”.

“Il mio papà è nato in Italia”.

“E dov’è l’Italia?”.

“Lontano”.

I bambini si fissarono qualche istante. Poi il bambino dai capelli verdi allungò la mano.

“Io sono Nàgiri, piacere” disse.

“Io sono Arles” rispose l’altro.

“Arles?”.

“Sì. È il nome di mio nonno. È morto prima che nascessi. Era un grande guerriero, me lo dice sempre la mia mamma. E anche il mio papà”.

Si vedeva che era fiero del suo nome. Incrociò le braccia, ringalluzzito. Nàgiri rise. Quel bimbo, dalle iridi rosse come il sangue, pareva simpatico.

“Io sono figlio di cavalieri d’oro” riprese Arles II “Ed un giorno lo diventerò anch’io”.

“Cos’è un cavaliere d’oro?”.

“Sono cose che non puoi capire”.

“E vieni da quel posto laggiù?”.

Nàgiri indicava il grande tempio, che si vedeva non molto in lontananza.

“Lo vedi?!” si stupì Arles II.

“Non dovrei?”.

“No. Solo chi ha un cosmo può vedere il grande tempio!”.

“Cosmo?”.

Arles II si fermò a riflettere. Quel ragazzino forse era un futuro cavaliere, però non poteva confessare ai suoi genitori di essersi allontanato così tanto da casa. Però ebbe un’idea.

“Vorrei portarti al tempio” ammise “Però dovresti dire una piccola bugia per me. Ci stai?”

“Non lo so. Papà non vuole che mi allontani”.

“Ti viene a prendere?”.

“Al tramonto”.

“Per il tramonto saremo qui, promesso. Ora andiamo, ti mostro casa mia. Prendimi!” rise Arles II, mettendosi a correre giù per il breve pendio.

Nàgiri obbedì e si mise a correre a sua volta. Era la prima volta che incontrava qualcuno in quelle sue gite. Forse perché, distratto dalla farfalla, si era allontanato dalla solita zona.

“Quanti anni hai?” gridò ad Arles II, che lo stava distanziando.

“Sette. E tu?”.

“Anch’io!”.

Nàgiri riprese terreno, riuscendo quasi a sfiorare i capelli blu del fuggitivo. Che rise e corse più forte. Poi inciampò e quasi cadde addosso ad uno dei soldati che sorvegliavano la zona d’accesso al grande tempio.

“Signorino Arles!” esclamò proprio la guardia “Vostro padre non approverà cose del genere!”.

“Mio padre è Deathmask, ciccio! Hai presente?” ridacchiò il bambino, incitando Nàgiri a seguirlo.

Nàgiri era titubante, ma poi seguì il nuovo amico. I due camminarono fino all’anfiteatro dove molti cavalieri si allenavano.

“Un giorno” spiegò Arles II “Dalla cima di quei gradoni, il gran sacerdote dirà che l’armatura d’oro è mia”.

“Ah ,ma davvero?” fu interrotto dall’inconfondibile voce del padre Deathmask “E questo chi lo ha stabilito, Arles? Dove sei stato tutta la mattina?”.

“Ero vicino ai confini, dove mi dici di stare tu”.

“Veramente?” domandò il cavaliere del cancro, rivolto a Nàgiri.

“Sì” mentì il bambino.

“E poi..tu chi saresti?” riprese il cavaliere d’oro.

“Lui è un mio amico. Vede il grande tempio, quindi può restare qui” quasi ordinò Arles II.

“Devo informare Saga di questo”.

Nàgiri, sentendosi troppo osservato, si guardò attorno piuttosto in imbarazzo. Poi Deathmask si allontanò e Arles II sorrise al nuovo amico. Insieme, iniziarono a giocare fra le rovine e l’anfiteatro.

“Non ci sono altri bambini, qui?” domandò Nàgiri.

“No, solo la figlia di Saga. Ma non esce mai dalle sue stanze. Del resto, lei è figlia di due divinità. Non si mescola con noi semicosi”

“Semicosi?”.

“Non saprei come altro definirmi. E da te ci sono bambini?”.

“Sì. Ho tanti fratelli e sorelle. Ed io sono il maggiore. Tu non ne hai?”.

“No. Ho chiesto tante volte alla mamma, ma lei e papà non vogliono. Dicono che uno come me basta ed avanza. A volte passa Shura con la sua famiglia, ma raramente. Quello sta in Spagna”.

“Dov’è la Spagna?”.

“Lontano più dell’Italia”.

Nàgiri annuì. Non riusciva a concepire un posto senza bambini. Lui ne era circondato!

 

“Che bella notizia mi dai!” sorrise Saga alle parole di Deathmask “Era da tempo che attendavamo nuovi cavalieri in questo luogo”.

“Non so se è un futuro nuovo cavaliere” ammise il cancro “Però ho percepito in lui un forte potere”.

“Benissimo. Lo voglio vedere!”.

“Sta all’anfiteatro”.

Con stretto in pugno lo scettro di Athena, Saga scese le scale con a fianco il cavaliere d’oro. Attraversarono le dodici case, non tutte abitate, e raggiunsero i gradoni che portavano al centro dell’anfiteatro. Lì, Nàgiri e Arles II ancora giocavano, noncuranti del fatto che tutt’attorno la gente si era fermata e zittita.

“Ahriman?” si stupì Deathmask “Non lo vedevo dal giorno del funerale di Arles”.

“Già. Forse ha percepito il potere di quel bambino. Lo sento pure io. E se non fosse un futuro cavaliere, ma un futuro Dio?” ipotizzò Saga, attendendo le mosse del Dio del cielo.

Ahriman si avvicinò al bambino. Rimase fermo un po’ a fissarlo in silenzio, ricambiato.

“Cosa fai tu qui?” domandò poi, usando una lingua sconosciuta.

“E tu chi sei?” rispose Nàgiri, nella stessa lingua.

“Non dovresti trovarti in questo luogo”.

Finita quella frase, Ahriman fletté un dito ed il piccolo iniziò a mutare. La sua pelle prese colori tendenti al grigio ed i suoi occhi divennero più grandi. Acquisì dei contorni quasi indistinti, simili a nebbia. Arles II lo fissò qualche istante e poi sorrise. Lo trovava figo.

“Mostra anche agli altri la tua vera natura” parlò ancora Ahriman e Nàgiri si accigliò.

“Tu sei Urano, vero?”.

“Che bravo. Si parla di me dalle tue parti?”.

“Sì, come un traditore della sua famiglia”.

“Io non sono un traditore. È questa la mia famiglia”.

Il Dio del cielo indicò il grande tempio ed il bambino lo guardò, quasi con disprezzo.

“Dovrei eliminarti” riprese il Dio.

“Lascialo stare” riuscì ad interromperlo Saga “Non tollero sangue innocente al mio tempio”.

“Ma non vedi che sangue scorre nelle sue vene?” protestò Ahriman.

“Non me ne frega un cazzo di niente, Ahriman. E non mi importa se da tutti vieni riverito perché il Dio più potente. Tu non torcerai un solo capello a quel bambino”.

“Come preferisci. Allora rinchiudetelo. Così facendo, attirerà qui quelli della sua specie, a cui devo fare qualche domanda”.

Alcune guardie afferrarono il piccolo, che tentò di ribellarsi. Saga protestò ma Urano lo zittì. Non doveva osare sfidarlo, essendo di rango più basso.

“Kiki” ordinò Ahriman “Sorveglialo fino a quando non sarà dato un ordine diverso”.

Il cavaliere dell’ariete annuì. Era il più giovane fra gli oro ed aveva preso il posto di suo fratello maggiore, Mur, ritiratosi nello Jamir in una sorta di prepensionamento.

“Non fargli del male, Kiki” aggiunse Saga.

Arles II chiese scusa per l’accaduto all’amico. Non si aspettava certe reazioni e nemmeno che Nàgiri in realtà non fosse molto gradito al Dio del cielo.

 

Il sole tramontò e, con le prime ombre della notte, una figura apparve al santuario. Avvolta in un pesante mantello e con sul viso una maschera nera, salì lentamente le scale del grande tempio fino a giungere alla tredicesima dimora. Qui, Saga ed Ahriman attendevano ospiti.

“Benvenuta, creatura del Caos” furono le parole del Dio del cielo.

L’appena giunto non rispose. Camminò ancora per un po’ e poi, al centro della sala, si inginocchiò.

“Sono venuto qui per chiedere di riportare a casa mio figlio Nàgiri. Percepisco la sua presenza” disse, con voce maschile ed un accento straniero.

“È corretto ciò che percepisci” rispose Saga “Ma, prima di tutto, esigo che tu tolga la maschera. Ne è stata indossata una fin troppo a lungo in questa casa. E alzati”.

“La maschera, signore, io la indosso per preservare i miei occhi. Vivo in un mondo di buio assoluto, la luce delle candele qui per me è troppo forte. Inoltre, qui io sono pressoché cieco per via dell’abitudine all’oscurità. Ma se questo servirà per riavere mio figlio, lo farò”.

L’uomo si rialzò, a fatica. Era incerto sulle gambe. Quella di destra pareva avere qualche problema. Tolse la maschera con la mano guantata. Saga ed Ahriman rimasero qualche istante in silenzio. Il viso non lo aveva uniforme ma una piccola parte a destra, attorno all’occhio, tendeva verso il rosa carne mentre il resto era grigio, quasi nero, come Nàgiri. Gli occhi pure erano diversi. Era evidente la cecità dell’occhio destro. Pur possedendo una forma umana, era bianco, vuoto, con iride e pupilla sbiadite e spente. L’occhio sinistro invece era strano, grande e più simile a quello di un gatto. Interamente rosso, dall’iride nera, si strinse quando fu colpito dalla luce.

“Rivoglio mio figlio” supplicò ancora.

“Cosa ci fa una creatura del tuo genere da queste parti? Come mai tuo figlio stava vicino al tempio?” volle sapere Ahriman.

“Avevo ordinato a Nàgiri di non avvicinarsi alle persone e di celare sempre il suo vero aspetto. Purtroppo viviamo in un mondo nero e non è il meglio per dei bambini. Quindi a volte porto Nàgiri e gli altri miei piccoli alla luce del sole, per un po’. Non posso restare accanto a loro, perché il mio corpo non lo sopporta, ma a loro piace. Non volevo fare qualcosa di male”.

“Il Caos ed i suoi discendenti non possono uscire dal palazzo, è legge”.

“Lo so. Ma noi, io ed i miei figli, non siamo discendenti del Caos. Io sono solo un suo servo, non ho legami di parentela o di sangue con il mio padrone”.

“Puoi dimostrarmelo?”.

“Mio figlio si trova fuori casa da quasi dodici ore. Fosse legato al veto dei consanguinei del Caos, a quest’ora sarebbe già morto fra atroci sofferenze”.

“Hai ragione. Bene. Portate il bambino!” ordinò il Dio del cielo, rivolto alle guardie che stavano fuori dalla porta.

Poi guardò Saga ed i due ebbero una breve conversazione telepatica.

“Abbiamo deciso che i tuoi figli, se lo desiderano, potranno tornare. Ma dovranno restare al santuario, dove dovranno essere controllati”.

L’uomo annuì, mentre Nàgiri correva di corsa le scale per raggiungerlo ed abbracciarlo.

“Che dici, Nàgiri, vuoi tornare al tempio?” domandò il padre ed il bambino annuì.

I due si congedarono e sparirono in una sorta di portale creato dal padre.

“Dici che torneranno?” chiese Saga ad Ahriman.

“Certo, perché no? Se passeranno del tempo qui, avrò modo di approfondire le mie conoscenze su simili creature e chiarire qualche dubbio. Inoltre, quel bambino mi ha fatto capire che vivono in un luogo dove gli viene insegnato ad odiare noi e la nostra famiglia. Perciò non fa di certo male se, passando del tempo qui, riusciranno a far scemare quell’odio”.

“E tu? Riuscirai a far scemare l’odio che provi per Caos?” riprese Saga.

“No. Quell’essere ha pur sempre ucciso mio padre”.

“Lo ha fatto per vendicare Gaia, che io ho sigillato. È un cerchio continuo, non lo capisci?”.

“Athena, la tua diplomazia mi da quasi il voltastomaco”.

 

Alcuni mesi trascorsero tranquillamente. Nàgiri ed altri bambini venivano al tempio e vi trascorrevano la giornata, sotto la sorveglianza dei cavalieri. Quel pomeriggio, come sempre, i bambini stavano giocando all’anfiteatro.

“È ora di tornare a casa” si sentì chiamare Nàgiri.

Era suo padre, che al tramonto veniva a riportare al palazzo nero lui e gli altri suoi figli.

“Arrivo, papà” rispose, cercando sua sorella.

Una guardia, nel frattempo, si avvicinò al padre dei fanciulli. Saga e re Ahriman desideravano parlare con quell’uomo al più presto.

“C’è qualche problema?” domandò questi, appena giunto al cospetto delle due divinità.

“No, nessun problema” sorrise Saga “I bambini si divertono, hanno fatto amicizia e tutto è tranquillo”.

“Ti abbiamo chiamato qui per farti una proposta” parlò Ahriman.

“Una proposta?” si stupì il padre di Nàgiri.

“Chiedo scusa per la scortesia” fece un piccolo inchino il Dio del cielo “Voi sapete il mio nome ma io non conosco il Vostro”.

“Il mio nome? Io mi chiamo Kydoimos”.

“Bene, Kydoimos. Posso darti del tu?”.

“Come preferite”.

“Tutti noi abbiamo notato che i bambini si trovano bene qui. Sono felici, si divertono, vivono all’aria aperta e conoscono nuove persone. Imparano, inoltre, ogni giorno qualcosa”.

“Sì, lo so”.

“Perciò, la mia proposta è questa: che ne dici di farli restare qui in modo permanente?”.

“Permanente?”.

“Sì. Capisci il termine? Perdonami, dimentico che non parli perfettamente la mia lingua”.

“Volete farli restare qui per sempre?”.

“Sì, abbandonando il palazzo nero. Ovviamente non soli. Tu e la loro madre potete venire qui. Pensaci. Liberi dal potere del Caos. Una vita alla luce del sole. Un futuro diverso”.

Il padre di Nàgiri rimase in silenzio qualche istante. Saga ed Ahriman attendevano la sua risposta.

“No” disse poi Kydoimos “Io sono fedele al mio padrone Caos. Ed anche se non ho veti che impediscano a me ed i miei figli di vivere qui, non potrei mai allontanarmi. Lascerò ai miei figli la decisione, quando saranno più grandi. Ma per ora, io resto legato al mio signore e così anche i miei eredi”.

“Capisco” annuì Saga.

“Spero che questo non cambi la situazione attuale” si preoccupò il padre dei bambini.

“No, i tuoi figli sono liberi di andare e venire quando lo credono giusto. Non cambierà nulla”.

“Papà…” apparve Nàgiri, timidamente “Dobbiamo rientrare. O mamma si preoccupa”.

“Andate pure” congedò entrambi Ahriman.

Nàgiri e Kydoimos fecero un piccolo inchino. Poi il bambino salutò con la mano. Da dietro la tenda, alle spalle del trono della tredicesima, vedeva il viso di una bimba. Saga si girò e parve quasi stizzito. Con un gesto della mano, ordinò alla piccola di richiudere i drappi rossi. La bimba sparì alla vista e gli ospiti lasciarono il grande tempio.

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Capitolo 4
*** IV- nuovo fratello ***


IV

 

NUOVO FRATELLO

 

Kydoimos rientrò al palazzo nero assieme ai suoi figli. I bambini, come sempre, erano pieni d’entusiasmo. Per un istante, nella mente dell’uomo riapparve la proposta di Ahriman. E se avesse sbagliato a rifiutarla?

“Bentornato” si sentì dire, con voce dolce.

Sorrise. La madre di Nàgiri, Desa, era lì davanti ai bimbi ed al marito. Assieme a lei, le altre mogli di Kydoimos ed i piccoli rimasti al palazzo nero. Le mogli erano tre: Desa, Esma e Shuna. Dietro di loro, altre quattro fanciulle che, pur non essendo sposate con l’uomo, avevano concepito con lui dei figli.

“Il sommo Caos vuole parlare con Voi” parlò una di esse, Lienn.

Mentre le tre spose ormai non usavano forme estremamente onorifiche con il loro marito, le altre quattro, giunte più tardi al palazzo, si comportavano quasi come delle serve. Le sette donne videro Kydoimos avviarsi verso la sala del Caos. Era intimorito. Aveva forse fatto qualcosa di sbagliato?

“Vieni avanti, piccolo” lo incitò Caos.

Seduto sul suo trono nero, incuteva ancora più timore del solito. Attorno a lui, stavano seduti i suoi figli. Tutti osservavano l’ultimo arrivato, più o meno sorridenti.

“Avvicinati, Kydoimos” continuò il Caos.

Davanti al padrone di casa, una grossa sfera di vetro.

“Da qui, abbiamo visto il tuo colloquio con Urano ed Athena” parlò ancora il Dio.

“Ahriman e Saga?” chiese conferma Kydoimos.

“Loro. Prima che ti comunichi quel che ho deciso, dimmi: quanti figli hai?”.

“Io?”.

“Sì. Lo sai bene che nessuno in questo palazzo può più averne. I bambini che dimorano qui sono tutti tuoi. Dimmi: quanti sono?”.

“Trentuno”.

“Ottimo, piccolo mio. Sono fiero di te”.

“Grazie…” balbettò imbarazzato Kydoimos.

“Sono davvero felice di averti accolto in questa casa”.

“Ho rispettato il nostro patto, Signore. Mi avete accolto e salvato. In cambio mi avete chiesto di dare dei figli a questa casa, ed io l’ho fatto”.

“E continuerai a farlo. Questo luogo senza voci infantili mi rattrista e mi ricorda ogni giorno il desolante destino della mia stirpe”.

“Sì”.

“Tutti noi abbiamo sentito, grazie a questa sfera, la proposta di Urano. E sappiamo della tua risposta”.

“Io…”.

Kydoimos trasalì. Aveva sbagliato? Sarebbe stato punito? Caos sorrise.

“Abbiamo preso una decisione, piccolo mio. Tutti assieme”.

I figli del Caos presenti annuirono, mentre Kydoimos era sempre più preoccupato.

“Ti abbiamo osservato, da quando sei qui” riprese Caos “La tua fedeltà è stata messa alla prova e tu sei rimasto fedele a questa casa. Altri, come i figli di Erebo e Nyx, hanno preferito lasciare questo palazzo, giurando fedeltà ad altre divinità e liberandosi così dal veto che lega i miei diretti successori”.

“Conosco il blocco che le divinità fedeli a Zeus hanno posto su di voi ai tempi della prima guerra contro i Titani” ammise Kydoimos.

I titani erano a loro volta abitanti di quel luogo nero. Pure loro non potevano più avere figli, lasciare il palazzo a lungo e creare, usando il loro potere divino come facevano un tempo.

“Ci conosci, piccolo. E noi tutti siamo felici di averti in questa casa” riprese il Caos “Per questo abbiamo deciso di renderti a tutti gli effetti uno di noi”.

“Che intendete?”.

“Da oggi, Kydoimos, voglio che tu non sia più un ospite. Molti dei miei eredi si sono rivelati meno fedeli di te, di parecchio. Figli e nipoti se ne sono andati, ci hanno abbandonati. Tu no. Voglio che tu venga considerato figlio mio”.

“Figlio Vostro?!”.

“Non usare l’onorifico con me. Sono tuo padre ora. E loro sono i tuoi fratelli e nipoti”.

“Io…io non so che dire”.

“Non serve che dici niente. Vieni accanto a me”.

Kydoimos si avvicinò al Caos, che lo abbraccio. Non aspettandosi una cosa del genere, rimase decisamente stupito da quel gesto e gli mancò il fiato per qualche istante.

“Sono fiero di avere un figlio come te” parlò ancora il padrone di casa “Ne sei degno. E sono certo che anche in futuro mi renderai ancora più orgoglioso”.

Kydoimos annuì, imbarazzato. Ora al collo portava la collana che indossavano tutti i figli del Caos ed il Caos stesso. Era un ricciolo argento che reggeva una pietra blu.

“Sono onorato” si inchinò Kydoimos “Non ne sono all’altezza, però”.

“Certo che lo sei”.

Caos lo abbraccio di nuovo, mormorando “Sei la mia meraviglia”.

Quando l’abbracciò finì, fu Erebo a parlare. Era il fratello maggiore, quindi quello la cui opinione più contava agli occhi del padre.

“Benvenuto in famiglia, nuovo fratello” disse.

 

Il Caos aveva cinque figli. All’alba dei tempi, aveva generato spontaneamente Erebo, Nyx, Eros, Tartaros e Gaia. Erebo, suo primogenito, era pura oscurità e fluttuava in aria con contorni indefiniti. Solo gli occhi erano chiari, ben delineati, di colore rosso. D’aspetto, assomigliava molto al padre Caos. Erebo era lo sposo di Nyx, anch’essa figlia del Caos. Ella era pallida, dai lunghissimi capelli blu come la notte che rappresentava. Il suo viso, coperto da un velo scuro, era splendido. I due sposi, agli albori del tempo, avevano avuto due figli: Emera ed Etere. Che, però, non vivevano da lungo tempo in quel palazzo oscuro. Inoltre, fra i loro discendenti, figuravano le tre esperidi, che dimoravano in uno splendido giardino lontano, e le astrazioni. Le astrazioni erano un gruppo piuttosto numeroso. Fra loro, solo Hypnos e Thanatos avevano lasciato quel palazzo. I loro fratelli invece dimoravano in quel luogo. Moros, il fato, era enigmatico e silenzioso. Ker e Keres, le sorelle che rappresentavano la sventura e la morte violenta, si assomigliavano d’aspetto e di carattere. Nonostante i loro compiti, erano fanciulle piuttosto tranquille. Nemesis, la vendetta, aveva un fascino enigmatico, a cui era difficile resistere. Gera, la vecchiaia, in quel palazzo non aveva poteri ma amava scatenarsi per il mondo per il poco tempo che poteva permettersi prima che il veto la facesse soffrire. Momos, il biasimo, e Oizis, la miseria, erano legati da un sentimento che andava oltre l’amore fraterno. Philotes, l’amicizia, era colei che più sentiva la mancanza dei fratelli che avevano deciso di lasciare quella casa. Altra figlia della Notte era Eris, che però dimorava al tempio di Ares. Eros, figlio del Caos, era suo vicino di casa ed adorava punzecchiarla. Tartaro era stato un tempo compagno di Gaia ed ora, solo al palazzo nero, sentiva molto la sua mancanza. Assieme al figlio generato con lei, Tifone, viveva in quel luogo covando nel cuore tristezza ed odio nei confronti di coloro che avevano osato sigillare la donna che amava. Altri figli di Gaia, nipoti del Caos, erano rimasti. Ponto era il maggiore, seguito da una parte dei titani, creature concepite da Gaia con Urano. Nella precedente guerra, il fratellastro più grande li aveva condotti volentieri in battaglia. Ma ora preferiva starsene nelle sue stanze, sospirando il ricordo della madre morta.

Assieme a tutti loro, discendenti diretti del Caos, nel palazzo oscuro vivevano Kydoimos e la sua numerosa famiglia e molte altre persone che fungevano da servi e da tramiti fra quella casa ed il resto dell’universo.

Non c’era perciò da stupirsi se Kydoimos, una volta lasciata la sala del padrone, entrò in un’altra stanza trovandola gremita di gente.

“Ma…che succede?” domandò.

“Abbiamo saputo la notizia, e ti vogliamo festeggiare” rispose Desa, la madre di Nàgiri.

Iniziò la festa, fra musica e danze. Il festeggiato, che ancora non riusciva del tutto ed elaborare la cosa, dopo qualche ora fu avvicinato da Erebo.

“Signor Erebo” si inchinò leggermente, per salutare.

“Non usare quel termine!” lo rimproverò il Dio oscuro “Sono tuo fratello ora, non più il tuo signore”.

“Sì…fratello…”.

“Meglio! Devo parlarti”.

I due lasciarono la sala e la sua musica, raggiungendo una delle terrazzine che circondavano il palazzo. Kydoimos si era sempre chiesto a che servissero quelle uscite, dato che si affacciavano sul nero assoluto.

“Un tempo…” parlò Erebo “…non molto tempo fa, io vivevo nel palazzo di Gaia”.

“Il palazzo verde, sì” annuì Kydoimos.

“Un tempo, prima che mia sorella Gaia tentasse di riconquistare il potere che Zeus e famiglia ci ha sottratto, a noi abitanti di questa casa veniva concesso poter vivere anche nel palazzo verde. Ora che Gaia è stata sigillata, il palazzo è stato distrutto e questo è l’unico luogo dove possiamo alloggiare. Questa è la nostra unica ed eterna dimora, pena la morte fra le atroci sofferenze che causa quel famoso blocco che grava su di noi”.

“Ne sono a conoscenza”.

“Per questo siamo rimasti così colpiti dalla tua decisione, Kydoimos. Avevi la possibilità di donare la libertà a te ed alla tua famiglia ma sei rimasto fedele al Caos”.

“Mi stai dicendo che sono cretino?”.

“Forse un po’. Ma quello che conta è che sei parte della famiglia. Sei fiero di esserlo”.

“Senza il Sommo Caos, io non sono nulla. Senza di lui, io non esisterei nemmeno, così come non esisterebbero i miei figli. Lui mi ha permesso di vivere. Lui mi ha salvato. Ed in cambio mi ha solo chiesto di generare nuove vite”.

“Ha curato il tuo corpo, ma ti ha anche condannato. Quanto credi di poter vivere, senza la sua protezione?”.

“Nemmeno un istante. Ma non conta. Io non lo tradirò mai”.

“Queste parole mi confortano, nuovo fratello. Come sai, molti di noi se ne sono andati appena hanno potuto”.

“Io non lo farò. Sarò sempre fedele al Sommo Caos”.

“Lo spero. Ed in quanto ad Ahriman…è un furbetto figlio di puttana manipolatore. Lo conosco bene”.

“Viveva pure lui al palazzo di Gaia, giusto?”.

“Sì, prima di divenire una divinità. Non sottovalutarlo mai”.

“Non lo farò”.

Erebo sorrise e si congedò. Nonostante Tartaro fosse contrario alla decisione di dare a quell’uomo l’appellativo di “fratello”, Erebo era assolutamente certo che non vi era creatura più degna di lui per quell’epiteto.

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Capitolo 5
*** V-alla luce del sole ***


V

 

ALLA LUCE DEL SOLE

 

Nàgiri era al grande tempio assieme a sua sorella Neikos. La bambina, di pochi mesi più piccola di lui, era figlia di Esma. Leggermente abbronzati dal sole di Grecia, ormai avevano fatto amicizia con quasi tutto il santuario. Sapevano che Ahriman li teneva d’occhio dal suo palazzo nel cielo, ma fin ora non si era fatto vedere.

 

“Sono un po’ preoccupato” ammetteva Saga ad Aiolos, suo gran sacerdote.

“Per che cosa?” rispose il suo interlocutore.

“Gli anni passano, i cavalieri invecchiano. Alcuni se ne sono già andati, lasciando qui le loro armature, in cerca di un futuro diverso. Shura è in Spagna, con moglie e figli. Mur nello Jamir, non si vede mai. Ioria e sua moglie Marin abitano qui vicino ma ufficialmente non son più cavalieri. Dohko è tornato a sedersi sul suo sasso in Cina. Chi è rimasto? Aphrodite so che alla dodicesima, ma non lo vedo mai. Tu sei qui come gran sacerdote e l’armatura di Sagitter è senza un proprietario. Shaka pure fa l’eremita alla sesta e non esce mai. Gli unici che vedo sono Milo e Camus, quando il secondo non è da qualche parte in Russia. Poi Deathmask e mia nipote Ariadne, il cancro ed i gemelli. Perfino Aldebaran sta sempre in giro, fra Brasile ed altri luoghi a me ignoti”.

“È giusto che le cose cambino”.

“Sì, ma ci vorrebbero delle alternative. Dove sono i giovani? Dove sono i piccoli?”.

“Kiki ha preso il posto di Mur. E probabilmente Arles II prenderà il posto del padre nella casa del cancro”.

“I loro genitori non vogliono. E comunque sono solo in due. Tutti gli altri?”.

“Ci sono dei periodi in cui il santuario è quasi deserto. È normale, se non è in vista una guerra santa”.

“Ah, Aiolos, ecco perché come consigliere sei perfetto. Riesci a distruggere il mio pessimismo”.

Saga sorrise debolmente ed Aiolos scosse il capo, quasi divertito.

“Dov’è la mia piccola?” chiese poi la divinità, parlando della figlia.

“Credo sia di sotto”.

“Cosa?!” sbottò Saga, che non voleva che la sua erede lasciasse le stanze di Athena.

 

“Prendila! Prendila!” gridava Arles II, rivolto a Nàgiri.

La piccola Neikos stava facendo le bolle di sapone ed i due bambini correvano per prenderle prima che scoppiassero da sole. Il chiasso che riuscivano a fare in tre, sbalordiva più di un cavaliere. D’un tratto, Arles si fermò e sorrise. Lungo le scalinate, vedeva una bimba con un grosso pupazzo fra le braccia.

“Vieni! Gioca con noi!” la chiamò.

“È la bambina che ho visto dietro le tende del salone di Saga” la riconobbe Nàgiri.

“Sì, è Heiwa, la figlia di Saga e Hike. Strano che sia qui. Di solito non esce dalla dimora dei genitori”.

La piccola scese le scale pian piano, leggermente spaventata. Raggiunse i bambini, che la salutarono in coro. Lei sorrise. Era una bimba deliziosa, con i codini blu e due grandi occhi come il miele. Attorno a lei, un alone di luce, simbolo del suo essere figlia di divinità e quindi divinità a sua voglia. Neikos fece altre bolle, che solleticarono il volto di Heiwa. Lei scoppiò a ridere. Lasciò il pupazzo su uno scalino, mettendolo a sedere con cura, e si unì al gioco degli altri bambini. Con il lungo abito bianco aveva qualche difficoltà ma, anche se inciampava e cadeva in terra, si rialzava subito e si rimetteva a correre.

 

“Heiwa!” la chiamò Saga, con tono severo.

I bambini non si erano accorti del suo arrivo, a differenza degli altri lì presenti che si erano inchinati.

“Ciao, papà” salutò la bambina, salutando con la mano.

“Che ti sei fatta?” chiese il padre, vedendo i piccoli graffi che lei si era procurata cadendo.

“Niente. Sono caduta. Non fa male”.

“Io ti avevo proibito di uscire dalla dimora di Athena. Perché non mi hai obbedito?”.

“Ma io…”.

“Tu non capisci che quel dico, lo dico per il tuo bene!”.

“Ma sto bene!”.

“Vieni subito qui!”.

Heiwa rimase ferma. Era spaventata. Suo padre sembrava molto arrabbiato. Il genitore, notando l’immobilità della figlia, camminò deciso verso di lei. Nonostante l’alone di luce della Dea Athena che lo circondava, che doveva trasmettere pace, incuteva comunque timore. Prese la bimba per mano e lei protestò.

“Mi fai male” piagnucolò.

“Vieni con me” la trascinò.

“Che cosa stai facendo?” si sentì chiara la voce di Hike, che a braccia incrociate guardava figlia e marito.

“Riporto la nostra bambina a casa” rispose, schietto, Saga.

“La nostra bambina è a casa. Le ho dato io il permesso di giocare con gli altri”.

“Come sarebbe a dire?!”.

“Qual è il problema?”.

“E me lo chiedi?”.

“Qui è al sicuro. Ed è giusto che lei cresca assieme ad altri bambini”.

“Lei non è come loro. Lei è una Dea”.

“E con ciò?”.

“Ma…Hike!”.

La Dea non rispose. Rimase con lo sguardo fisso ed accigliato rivolto al marito. Saga prese in braccio la figlia e la riportò su per le scale, fino alla sua dimora.

“Ma noi…” si stupì Nàgiri di quella reazione “Non abbiamo fatto niente di male!”.

“No, tranquilli” ne accarezzò la testa Hike “Voi siete stati molto gentili a giocare con lei. È mio marito che è un po’ troppo paranoico”.

“Chiedi scusa ad Heiwa da parte mia?” continuò Nàgiri “Non volevo che venisse sgridata. E quello là è il suo pupazzo”.

“Riferirò. Ma state tranquilli, non verrà sgridata. Saga non è cattivo come vuole sembrare” sorrise Hike, raccogliendo il giocattolo della figlia e risalendo pure lei le scale.

“Possiamo venire noi lassù a giocare con lei?” le gridò dietro ancora Nàgiri.

“No, mi spiace. Ma sei davvero un bambino gentile”.

 

Quella sera, come sempre Kydoimos apparve per riportare a casa i suoi figli.

“Ancora un po’, papà! Ti prego!” supplicò Neikos.

I tre amici si erano messi a giocare con delle palline colorate e stavano per finire la partita.

“Ve bene” annuì il padre, sedendosi su quel che restava di una colonna. Ora che il sole stava tramontando,  si era tolto la maschera nera ed attendeva il buio.

“Oggi si sono proprio divertiti” informò Deathmask, scendendo le scale alle spalle di Kydoimos.

“Non danno fastidio se restano ancora un po’, vero?” si chiese questi.

“No, noi qui in Grecia ceniamo tardi. Specie in estate”.

“Capisco. Il bambino che gioca con i miei è tuo figlio, giusto?”.

“Sì. La mia piccola peste”.

“Se creano qualche problema, vorrei saperlo”.

“E che problemi vuoi che creino? Sono solo dei mocciosi!”.

“I nostri mocciosi, Signor Deathmask. Non so il piccolo Arles, ma Nàgiri e Neikos non sono affatto dei piccoli tranquilli. Anzi. La loro curiosità li metterà nei pasticci, prima o poi”.

“Non possiamo proteggerli da tutto”.

Appena il sole fu tramontato, e al tempio scese il buio, l’occhio sinistro di Kydoimos, quello che con la luce si faceva sottile, si ingrandì. Lo stessero fecero gli occhi dei suoi figli. Deathmask, che si era distratto ad osservare suo figlio che giocava, quando si voltò e lo notò trasalì.

“Wow” commentò, non riuscendo a dire altro.

Kydoimos non capì subito a che si riferisse ma quando lo comprese tentò di coprire il viso.

“Scusa” disse “Non ti volevo spaventare”.

“Spaventare?! Ma che dici!! Io viaggio nel Meikai fra le anime morte! Non mi spaventa di certo un occhio!”.

“Oh. Ok…”.

“È l’insieme che mi lascia un po’ perplesso. Perché un occhio solo fa così? E perché il tuo viso è di due colori diversi? Se sono troppo indiscreto, dimmelo. Puoi anche non rispondere”.

“Il Caos mi ha donato questo corpo. Dovresti chiedere a lui”.

“Non volevo essere invadente”.

“Potresti chiederglielo direttamente. Perché non venite da noi, un giorno?”.

“Al palazzo nero?”.

“Sì. Tu, tua moglie, tuo figlio, Saga, Ahriman…chi lo desidera”.

“Cena?”.

“Sì. Sarebbe una buona occasione per consolidare questa sorta di alleanza”.

“Ne parlerò agli altri”.

I bambini continuavano a giocare, ignorando i richiami dei genitori.

“Non è tardi, piccoli?” parlò loro una voce femminile.

Era Ninive, che la sera amava uscire dalle dimore vestali, approfittando della pace e del silenzio del santuario. I tre la guardarono senza capire. Che voleva? Loro stavano solo giocando!

“Chi è quella donna?” domandò Kydoimos.

“Una che non sopporto” arricciò il naso Deathmask.

“E come mai?”.

“Per colpa di quella femmina, un mio caro amico è morto”.

“Quella donna è un’assassina?! Non lo sembra”.

“Invece lo è. Non lo ha ucciso fisicamente, ma mentalmente”.

“Non capisco”.

“Io sono sempre stato considerato un assassino, un bastardo, un pezzo di merda e chi più ne ha più ne metta. Ma rispetto la donna che amo e farei qualsiasi cosa per la mia famiglia e per i miei amici. Così, vedere quella lì giocare con i sentimenti di una persona che conosco da una vita, mi ha fatto davvero incazzare”.

“Da come parli di tua moglie, si sente che la ami davvero molto. Siete sposati da tanto?”.

“Otto anni. Io e Saga ci siamo sposati lo stesso giorno, in una sorta di celebrazione per la pace. Pochi giorni dopo la fine della guerra contro Gaia ed il risveglio di Urano”.

“Ed il tuo caro amico e quella donna erano presenti?”.

“Sì. Lui era il padre di mia moglie. Arles, il nome che ho dato a mio figlio. In suo ricordo. Ha accompagnato all’altare la sua bambina, con quella stronza che non faceva che ripetergli che lo amava. Sembravano una bella famiglia felice. Arles, la bastarda, mia moglie ed Ahriman. Ma di punto in bianco lei ha cambiato idea. Ed è tornata a fare ciò che era: la vestale. La casta e pura, si fa per dire”.

“E questo ha fatto male al tuo amico? Tuo suocero, mi pare di capire…”.

“Sì, il padre di mia moglie. Ma prima di tutto io lo vedo come un amico. E sì, lo ha fatto star male. Prova ad immaginare: la donna che ami continua a dirti che starete assieme per sempre e che ti vuole bene e poi di colpo cambia idea per tornare con le sue amichette lesbiche”.

“Le vestali sono lesbiche?”.

“Non lo so. Ma non la danno, quindi per me sono lesbiche”.

“Che lo sia pure quella donna?”.

“Non lo so. Ma quando le ho chiesto perché lo avesse lasciato, lei ha risposto che aveva sentito non essere quella la sua strada ma che la Dea Vesta l’aveva chiamata e cose del genere”.

“Una religiosa”.

“Una pazza. Ed una bugiarda! Arles la amava, come non aveva mai amato nessun’altra. E pensava che per lei fosse lo stesso. Ma dopo i matrimoni l’ho visto quasi smarrito. Ninive, quella donna, è uscita dalla sua vita e lui penso si sia sentito piuttosto abbandonato. Il figlio si è rintanato nel suo palazzo. Io e mia moglie pensavamo a noi, lo ammettiamo. Saga anche ha iniziato una nuova vita con Hestia. Tutto l’insieme, il fatto forse di non sapere bene dove inserirsi nel mondo, il sentirsi inutile o che ne so io…insomma…tutto questo lo ha portato a non reagire davanti all’ultimo nemico. Si è fatto uccidere, senza reagire”.

“Io non conosco questo tuo amico, non l’ho conosciuto, ma forse era stanco di combattere. Siete guerrieri da sempre, no? Forse ha cercato qualcos’altro e non ci è riuscito”.

“Già. Può essere. Sta di fatto che sia io che mia moglie che Saga, gli altri non so, ci sentiamo in colpa a volte. Ma credo che se Ninive non se ne fosse andata di colpo, non sarebbe andata così”.

“Inutile pensarci, non trovi?”.

“Non ha mai visto suo nipote. E Ninive ignora mio figlio come se non avesse alcun legame parentale con lui”.

“Credo che ognuno cerchi la propria felicità. E tutti siamo egoisti, perciò la nostra felicità conta più degli altri. Se fare del male a qualcuno ci aiuta a raggiungere il nostro obbiettivo, non ci facciamo molti problemi. Tanti buoni propositi, ma, sotto sotto, siamo tutti uguali”.

“Hai ragione. L’umanità fa schifo”.

“Nàgiri! È tardi! Adesso andiamo!” gridò Kydoimos, iniziando a sentirsi strano. Ora che era ufficialmente figlio del Caos, il blocco che affliggeva i suoi discendenti gli impediva di stare a lungo lontano dal palazzo nero.

Nàgiri e la sorella obbedirono, di malavoglia.

“Guarda cosa mi ha regalato!” disse la bimba, mostrando due palline di gomma.

“Anche a me!” si unì Nàgiri.

“Ma no, non potete portare via i giochi al vostro amico!” li sgridò il padre.

“Ne ho tante” lo rassicurò Arles II “Possono prenderle”.

“Allora la prossima volta porterete voi un regalo a questo bambino, ok?” annuì Kydoimos “E spero abbiate ringraziato”.

“Grazie, Ary, per le palline” sorrise Nàgiri.

“Grazie” si aggiunse Neikos.

“Spero di vedervi presto al palazzo nero” si congedò Kydoimos, con un sorriso.

“Ne sarei onorato. Un palazzo tutto oscuro mi incuriosisce parecchio” ghignò Deathmask.

 

“Nobile Deathmask” chiamò una guardia, nel buio “Il sommo Aiolos ed il divino Saga vi vogliono parlare”.

“Bene” rispose il cavaliere d’oro, un po’ stupito. Era da tempo, che non veniva convocato. La guardia, inginocchiata, si rialzò e, con un inchino, si congedò.

Salendo le scale, il cancro si chiese che cosa potessero mai volere i due a capo del santuario. Aveva forse commesso qualche errore? No, era certo di non aver commesso troppe cazzate ultimamente. Giunto davanti alla porta della tredicesima casa, notò Milo davanti alla porta.

“Dai, muoviti” lo apostrofò lo scorpione “È da un secolo che ti aspetto”.

“Potevi entrare senza di me!” si stizzì Deathmask “E poi io ho più piani di te da fare”.

“Ma lo so, granchio dal culo pesante!” ridacchiò Milo.

“Artropode perverso!” ribatté, sempre ridendo, il cancro.

Entrarono insieme nella tredicesima casa, dimora del gran sacerdote Aiolos. Oltre la tenda, nel tempio più in altro, stava Saga. Che però in quel momento si trovava alla tredicesima in attesa dei due cavalieri.

“Scusa il ritardo, Saga. È Deathmask che è sempre lento!” parlò subito Milo, dando una spintarella al cancro oro.

“Ma che minchia vuoi?” fu la risposta di Deathmask.

“Siete sempre gli stessi” sorrise Saga, divertito “Più passano gli anni, e più fate i bambini”.

“Sì, è vero” ammise Milo.

“Ho una missione per voi” riprese a parlare Saga, mentre Aiolos stava alle sue spalle, in silenzio.

Fra le mani stringeva una busta, che porse a Deathmask, visto che Milo era impegnato a fissare una farfalla. Death aprì la busta e storse il naso.

“Ma che cazzo c’è scritto qua sopra? Zampe di gallina!” restituì il foglio il cavaliere.

“Sei tu che non capisci mai niente, dai qua!” esclamò Milo, non ammettendo di essere pure lui in difficoltà.

“Quello è un indirizzo” spiegò Saga, mentre Aiolos fissava con rimprovero i due oro perché dopotutto si trovavano sempre di fronte alla Dea Athena.

“Indirizzo di che?” domandò lo scorpione, non lasciando spiegare.

“Mi sono giunte delle voci. Vorrei andaste a controllare che accade” rispose Saga.

“Sarà fatto! Andiamo, crostaceo!” si avviò Milo, e Deathmask lo seguì lentamente.

 

“Ma perché ci manda in missione a quest’ora? È buio, non potevamo andare domani?” sbadigliò il cancro, lungo le vie di Atene notturna.

“Si vede che era urgente” alzò le spalle lo scorpione.

“Sì, urgente…come no! Urgentissimo girellare per Atene”.

“Dai, è un modo alternativo di passare la serata. Vedila così”.

L’indirizzo pareva indicare un vecchio edificio dai vetri oscurati. All’ingresso, due grossi omaccioni dall’aria perfida controllavano l’ingresso.

“Salve” salutò Deathmask, con fare sicuro “È qui la festa?”.

“Avete l’invito?” rispose uno degli uomini, senza cambiare espressione.

“No ma dico…ci hai visti? Due uomini così, ma dove altro li trovi? Dai, facci passare” ghignò Milo, mettendo le braccia attorno al collo di Death.

“Fateli entrare” ordinò una voce di donna, dall’interno.

Una volta varcata la soglia, entrambi spalancarono gli occhi. Era un night con splendide ragazze che si esibivano.

“Ma…Death…vedi quello che vedo io? Questo è…”.

“Il paradiso”.

“Non esagerare!”.

“Donne seminude chiuse in gabbia che ballano? Non so come altro definirlo!”.

“Oh grande Saga, non dubiterò mai più di te! Grazie infinite per questo dono!”.

“Giuro…da oggi può chiedermi qualsiasi cosa! Anche di limonarlo, non mi frega! Limonerei con il Dio migliore della storia”.

“Femmine! Finalmente femmine! Che non ti picchiano se le guardi troppo!”.

Si fecero spazio fra gli uomini stretti attorno al palco. In alto, due grandi gabbie argento contenevano ciascuna una donna. I due cavalieri, senza armatura, si confondevano fra la folla. La musica era alta e gli occhi tutti puntati sulle gabbie. Poi qualcosa cambiò. Le ragazze imprigionate si fermarono ed il palco si illuminò. Tre donne, in splendi abiti con gli spacchi nei punti giusti, apparvero. Quella al centro iniziò a cantare, con voce soave che incantò i presenti. Le altre due si misero a ballare. Erano agili, delicate e bellissime. Il loro sguardo magnetico e le loro forme piacquero molto ai clienti del locale, che parevano conoscerle bene perché gridavano i loro nomi.

“Ti va una birra, Milo?” chiese Deathmask, al termine dell’esibizione ed alla ripresa dei balli nelle gabbie.

“E me lo chiedi?” sorrise lo scorpione “E comunque giuro che non parlo di questo a tua moglie”.

“Sono in missione, no?” rise il cancro, raggiungendo il bancone del bar.

Sedettero e gli venne servita la birra. Il barista, così come tutte le altre persone al lavoro in quel luogo ad eccezione delle ragazze che si esibivano, era un uomo.

“Lady Shuna vuole parlare con voi” si sentirono dire i due cavalieri e vennero accompagnati in una sorta di saletta privata dove la cantante di prima li attendeva.

“Stai all’erta” si dissero a vicenda, vedendola.

Era bella, quasi troppo bella, stesa su un divano di velluto, accanto al quale stava un cesto di frutta fresca. Stava mangiando dell’uva, spicchio dopo spicchio, con voluttuosa sensualità.

“Benvenuti, cavalieri” salutò “Venite pure avanti”.

Rimasti solo in tre, gli uomini non sapevano bene che fare. Come sapeva quella donna che erano cavalieri?

“Rilassatevi!” sorrise la donna “Gradite un po’ di vino?”.

Ne versò un po’ in due coppe e l’offri, invitando i due a sedersi.

“Non abbiate paura” continuò, scuotendo la cascata di capelli aranciati “Non vi farò del male. Vi aspettavamo da un po’. Sospettavamo che il tempio ci avrebbe mandato a controllare”.

“Ma voi chi siete?” domandò Milo, tracannando il vino.

“Abitiamo il palazzo nero, ma non siamo vincolati dal blocco che condanna i suoi antichi signori”.

“Il palazzo nero? Intendete quello del Caos?” si chiese Deathmask.

“Sì. Qualcuno deve pur portare il cibo in tavola, no?” mormorò la donna.

“Mi volete dire che voi donne lavorate per mantenere chi occupa il palazzo?” si stupì Milo.

“Non esattamente. All’inizio, Gaia provvedeva al nostro sostentamento perché era lei a generare il cibo. Poi, quando è stata sigillata,  il Caos ha iniziato a mandarci a raccogliere frutta e ortaggi in territori a lui noti, e di sua proprietà. Rivendendo quelli in eccesso, compravamo altro cibo come carne, latte o uova. Oppure tessuti ed altri materiali utili. Noi non siamo creature del Caos, siamo umani come voi”.

“E perché vivete in quel palazzo?” continuò a chiedere lo scorpione.

“Per varie ragioni, abbiamo rinunciato alla vita terrena per abbracciare la protezione di Caos”.

“Protezione?!”.

“Non ci fa mancare nulla. Ultimamente ha preso a palazzo delle piante ed è riuscito a modificarle leggermente, in modo da farle vivere e fruttare al buio. Ma ovviamente c’è bisogno di molto in una casa. E, visto che lui e gli altri Dèi in quel luogo non possono creare dal nulla qualcosa, ci arrangiamo così. È un lavoro rispettabile. Inoltre, noi siamo gli unici in quella dimora che possiamo allontanarci a lungo senza morire o soffrire a causa del blocco”.

“Capisco” annuì, poco convinto, il cavaliere.

“Inoltre” riprese la donna “Così posso comprare un sacco di cose belle a me ed alla mia famiglia. Non faccio la puttana. Canto e mi esibisco. E chi mi tocca è morto. Mio marito è un uomo senza pietà alcuna sotto certi aspetti”.

Milo e Deathmask si fissarono un po’ titubanti.

“Ma se volete una donna, ce ne sono. Quante ne volete. Oltre le cinque che avete visto” sorrise ancora lei.

“Io sono sposato. Mi sfogherò stanotte con la mia signora” ghignò Deathmask.

“Se non ci sono effetti collaterali…” titubò un po’ Milo “…io invece accetterei. Mi annoio”.

“Nessun effetto collaterale, cavaliere. E in quanto al grande tempio…vorrei che riferiste che stiamo solo svolgendo una normale attività lavorativa. Non uccidiamo nessuno, non plagiamo le menti, non offriamo sacrifici di sangue al sommo Caos. Solo un locale per far divertire la gente”.

“Riferiremo personalmente a Saga” disse il cavaliere del cancro.

“Perfetto. E ora scusatemi, il pubblico attende”.

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Capitolo 6
*** VI- il palazzo nero ***


VI

 

IL PALAZZO NERO

 

L’estate stava finendo quando l’invito di Kydoimos venne accettato. Ahriman, Saga, Deathmask, Ariadne ed il piccolo Arles partirono alla volta del palazzo nero. Il Dio del cielo aprì un varco, portandoli sulla soglia della dimora del Caos. Deathmask la ammirò, estasiato. Era splendida per i suoi gusti. Nera, lucida, a stile gotico e cupo.

“Benvenuti” li accolse uno dei servi del padrone di casa, con un piccolo inchino.

Il soffitto altissimo li sovrastava mentre camminavano lungo il corridoio.

“Le divinità possono seguirmi alla sala del mio padrone” riprese il servo “Voialtri, invece, potete accomodarvi nella sala delle Principesse Madri”.

Ariadne ed il marito si fissarono, senza capire molto bene, ma obbedirono. Saga ed Ahriman proseguirono fino alla stanza finale del corridoio, mentre invece la famiglia di cavalieri entrò in una sala laterale.

“Venite, venite qui!” li chiamò Nàgiri.

“Ben arrivati!” sorrise Neikos.

“Ciao” salutò Arles II, correndo verso l’amico e trascinando con sé i genitori.

“Benvenuti” si sentirono dire.

Erano entrati nella grande sala da pranzo. Attorno al lungo tavolo centrale, donne e servi camminavano e apparecchiavano. Un profumo delizioso si diffondeva per l’aria.

“Io sono la madre di Nàgiri, Desa” si presentò una delle donne, dai lunghi e ricci capelli verdi.

“Oh, piacere!” sorrise Ariadne “Finalmente ci conosciamo”.

Desa sorrise a sua volta.

“Vedo che…” commentò Deathmask “Nàgiri avrà presto un altro fratellino o sorellina”.

“Sì, sono al settimo mese” annuì Desa, sfiorandosi il pancione.

Il chiasso che riuscivano a creare i molti bambini della casa era quasi assordante. Pieni d’entusiasmo per i primi ospiti mai avuti al palazzo, facevano a gara per farsi notare.

“Bambini! Andate a giocare altrove, per favore! Rischiate di farvi male o ribaltare la tavola!” ordinò Desa, dopo aver battuto per due volte le mani.

“Sì, mamma” rispose Nàgiri.

“Chiedo scusa” parlò ancora la donna “Non vi faccio accomodare ancora al tavolo perché abbiamo come regola che si possa mangiare solo una volta entrato il padrone”.

“Va bene, aspetteremo” capì Deathmask.

“Intanto, posso accompagnarvi per la casa, se vi va”.

“No, preferisco aspettare qui. Non vorrei incrociare lo sguardo seccato di Ahriman” rispose il cancro.

“Mamma, papà! Venite a vedere!” chiamò Arles II “Guardate che so fare!”.

“No, grazie. Papà resta qui a bere un po’ di vino” alzò un bicchiere il padre, mentre Ariadne raggiungeva il figlio fuori da quella stanza.

“Avete una moglie molto bella” gli disse Desa, mettendo i tovaglioli sul tavolo “E vi amate molto, nonostante il destino non sia molto clemente con voi”.

“Che intendete?” alzò un sopracciglio Deathmask.

“Lei è una semidea, discendente di Ares e nipote di Apollo. Vivrà molto a più lungo di Voi, cavaliere mortale. Per quanto riguarda il bambino, non saprei che dire. Dipende da chi ha ereditato il sangue”.

“Io…non ci avevo mai pensato”.

“Ah. In questo caso mi scuso. Forse ho rovinato la serata”.

“Oh no, sono lieto che qualcuno me lo abbia fatto notare. In effetti, lei è ancora così giovane e bellissima mentre io inizio a portare i segni del tempo. Mi chiedo fra quanto tempo andrà a cercarsi un uomo più giovane”.

“Non dovete pensare a cose del genere! Lei è innamorata, si vede!”.

“L’amore è un sentimento effimero”.

“Come effimera è la vita. Ma è giusto combattere per essa”.

“Ma Voi perché siete in questo posto? Non siete una discendete del Caos”.

“No, non lo sono. Ero gravemente malata. Il Sommo Caos mi ha salvata e condotta qui, dandomi la possibilità di vivere una vita nuova. Ha mutato il mio sguardo, per permettermi di vedere nel buio totale, e mi ha guarita. La mia Sorella, come amo definirla, Shuna, era una ballerina. Poi, a causa di un incidente, era rimasta menomata. Il Caos l’ha salvata ed ora lei si esibisce”.

“Sì, lo so. L’ho vista. È brava”.

“Tutti qui sono stati salvati o aiutati. Mentre gli altri Dèi non ci hanno mai ascoltati, lui ci ha accolti”.

“Capisco…”.

“Ma immagino che Ahriman sia a sua volta una divinità che vi aiuta”.

“Ahriman?! Saga ci aiuta ma Ahriman mi pare sappia fare solo prediche e provarci con mia moglie”.

“Ahriman con Vostra moglie?”.

“Sì, con la mia Ariadne. Che è sua sorella”.

“Questo è normale, fra divinità”.

“Ah, ottimo. Così sì che mi sento meglio”.

 

Saga ed Ahriman entrarono nella sala grande. Erano entrambi vestiti in modo elegante, con la veste che finiva con un lungo strascico, di colore blu scuro. Il Caos ed i suoi figli li attendevano, anche loro abbigliati in modo sfarzoso e molto particolare. Molti avevano gioielli o perle fra i capelli, altri abiti dai decori complessi ed altri ancora con disegni sul viso, creati dal colore o da materiali preziosi.

“Tu!” esclamò Ahriman, vedendo Kydoimos “Mi hai detto di non essere imparentato con il Caos! Bugiardo!”.

“Rilassati, Urano” lo zittì Caos, facendo segno a Kydoimos di avvicinarsi “Io l’ho adottato come figlio, ma non abbiamo legami di sangue”.

“Che razza di uomo si fa adottare da adulto?!”.

“Non credo di doverti spiegazioni”.

Kydoimos, in piedi accanto al suo signore che sedeva sul trono nero, sorrise. Era evidente che i problemi alla gamba ed agli occhi, che aveva mostrato al grande tempio, non erano presenti nella diversa atmosfera della casa nera, anche se l’occhio destro rimaneva cieco. I lunghissimi capelli neri li teneva raccolti, per evitare che toccassero terra. Ma anche così gli arrivavano alle caviglie. Fra essi, punte di luce oro venivano creati da fili sottili e gioielli che li adornavano.  La sua veste aveva strascico e maniche lunghissime, era nera decorata a ricci e motivi oro. Il viso, truccato e decorato con gioielli, non incuteva tanto timore come al grande tempio. Caos sfiorò la mano del suo nuovo figlio adottivo e Kydoimos si inginocchiò, poggiandosi con il viso ed il braccio sulla gamba del suo padrone. Caos iniziò ad accarezzargli i capelli.

“Siamo lieti che siate venuti a trovarci” riprese a parlare il dio oscuro.

“Avete una casa decisamente pittoresca” sorrise Saga.

“Come avete potuto notare, ho fatto aggiungere delle candele, in modo che vi sentiate un po’ più a vostro agio. E per permettere ai vostri cavalieri di non inciampare ad ogni passo nel buio totale”.

“Vi ringrazio”.

“Sono davvero soddisfatto di questa nuova amicizia. I bambini tornano a casa dopo essere stati al grande tempio ogni volta pieni di entusiasmo e gioia. Parlano di voi, abitanti di quel luogo, ed imparano cose nuove. La reputo un’ottima cosa. E voi?”.

“Io pure sono soddisfatto” rispose Saga “Questa alleanza, nonché amicizia, pone le basi per un futuro senza guerra”.

“Bene. Direi che è un bene” sorrise Caos, sempre accarezzando i capelli di Kydoimos “E Voi, signor Ahriman? Mio caro nipote Urano? Che ne pensi di tutto questo?”.

“Non capisco ancora a che gioco stai giocando” ammise il Dio del cielo.

“Perché devi sempre pensare che quel che faccio sia legato a qualcosa di oscuro?”.

“Perché sei il Caos”.

“E tu sei quello che bistrattava la mia bambina Gaia, fino a quando Crono non ti ha allegramente reso asessuato. Ricordi? È stato ai tempi del mito, ma è successo”.

“Sono un diverso tipo di Urano. Nuovo corpo e nuova anima”.

“Sei comunque Urano”.

“Ma senza la sua Gaia”.

Scese per qualche istante il silenzio. Poi il Caos riprese a sorridere. Non era il caso di pensare a cose deprimenti. La cena attendeva tutti loro e se ne sentiva già il profumo.

 

“A tavola” chiamò una voce. i bambini corsero verso la grande sala da pranzo.

“Mamma!” domandò una bimba, in braccio “Perché loro hanno la pelle rosa e noi grigia?”

“E per via del nostro sangue” spiegò la madre “Noi lo abbiamo nero e rende la nostra pelle grigia. Loro lo hanno rosso e quindi sono rosa”.

“E perché?”.

“Perché noi solo così possiamo vivere in questo mondo buio. Gli Dei poi, se lo noti, hanno riflessi blu per via dell’ikor che scorre nelle loro vene”.

“Ikor?”.

“Il sangue divino. Ha un immenso potere. Chi ne viene a contatto o ne beve, guarisce e si rinforza”.

“E anche Caos ha quell’ikor?”.

“Sì. Ed il suo è il più forte di tutti”.

 

Kydoimos entrò nella sala e i bambini lo salutarono con abbracci e gridolini.

“State buoni!” li rimproverò velatamente.

“Sì, papà” risposero in coro.

Deathmask deglutì. Erano tutti figli suoi? Lo fissò con sguardo misto di ammirazione e paura. Lo spaventava solo l’idea di avere tutti quei marmocchi al seguito!

Pian piano, tutti gli abitanti della casa stavano raggiungendo la sala e prendendo posto. Il cavaliere del cancro si guardò attorno. Dov’era sua moglie?

 

“Sorella” chiamò Ahriman, vedendola.

Ariadne stava seguendo i bambini alla grande sala da pranzo ma, vedendo il fratello, fece loro segno di andare da soli. Li avrebbe raggiunti in seguito. Sorrise, mentre Ahriman le si avvicinava. Con il solito alone azzurro che lo circondava, scosse lievemente le ali, perdendo qualche piuma.

“Fratello” rispose lei.

“Sei sempre bellissima” commentò lui, ammirandola nel nuovo vestito indossato per l’occasione.

“Grazie”.

“Come stai?”.

“Bene, direi”.

“Sicura? Non ti annoi in quel mondo di mortali?”.

“Sicurissima. Ho la mia famiglia”.

“Io sono la tua famiglia”.

“Anche mio marito e mio figlio lo sono”.

“Il piccolo Arles, che porta il nome di nostro padre, cresce forte. Avverto in lui un potere molto marcato”.

“Scorre in lui sangue divino, dopotutto”.

“E anche in te”.

Ahriman passò un dito sulla collana che la sorella indossava. L’avevano identica, dono della madre quando li aveva separati. Il pendente brillò e lui scese con la mano, sfiorando i seni di Ariadne, che aprì la bocca per lamentarsi . Ma poi non parlò, e lui si avvicinò di più. Le accarezzò il viso, mentre l’altra mano abbandonava il seno e scendeva, lentamente. Con la bocca le si accostò, quasi baciandola.

“Ahriman” gemette, sussurrando lei “Ti prego, basta”.

“Non lottare contro la tua volontà” rispose lui, stingendola a sé.

“Tutto questo è il tuo potere divino. Io, di livello inferiore al tuo, non posso che soccombere al tuo desiderio. Ma non è ciò che voglio. Io amo mio marito”.

“Come puoi saperlo?”.

“Lo so e basta. Lasciami andare”.

“Dimmi che cosa provi ora? Cosa provi ora che mi hai accanto?”.

“Un ardente e irrazionale desiderio di essere tua. Ma non è la realtà. È la tua magia. Lasciami…”.

Ariadne sentiva la sua volontà venire meno ma il fratello la lasciò andare.

“Io ti desidero, sorella” mormorò Ahriman “Per davvero. Ma tu ami quel mortale ed io non proverei alcun piacere a giacere con te usando il mio potere”.

Senza aggiungere altro, voltò le spalle ad Ariadne e se ne andò. Lei lo vide dirigersi verso la sala da pranzo. Rimase ferma qualche istante, ancora frastornata ed ansimante.

 

“Sorellina!” chiamò Nàgiri, lungo il corridoio.

La vide accanto al Dio del Cielo. Era piccola, non aveva più di tre anni. Sorrise ad Ahriman e lo salutò con la manina. Il Dio sorrise a sua volta e le accarezzò la testa. Nàgiri strizzò gli occhi. Aveva visto qualcosa di strano. Come un’ombra che, dalla mano di Ahriman, era divenuta parte della sorellina. Ma forse si era sbagliato. Era tempo per tutti di mangiare. L’ora era tarda.

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Capitolo 7
*** VII- fratelli ***


VII

 

FRATELLI

 

Thanatos suonava una melodia triste. La sua casa, non molto lontana dall’ingresso per i campi elisi, come sempre era silenziosa. Ma non suonava per sé. Un’anima lo stava fissando, felice.

“Ti piace?” domandò il Dio e l’anima annuì.

“Bene. Mi fa piacere” sorrise a sua volta Thanatos “Almeno tu puoi ascoltare questa musica. Chiunque altro morirebbe ma tu…sei già morto!”.

L’anima non disse nulla. Inclinò la testa leggermente, con la speranza che la divinità riprendesse a suonare. Era incompleta, senza buona parte del lato destro.

“Devo riuscire a trovarti una sistemazione” parlò Thanatos “Conciato come sei, non posso farti entrare in nessun settore del regno dei morti e questo lo sai. Il problema è che non so come completarti. Non mi è mai capitata una cosa del genere in millenni di servizio”.

L’anima lo fissò, come a voler dire “le so queste cose, suona ancora”.

“Insomma…non trovo giusto che tu rimanga bloccato qui. Però non trovo altra soluzione” insistette il Dio.

L’anima gli sorrise e ruotò, volteggiando a mezz’aria nella sua luce azzurrina.

“Stai cercando di dirmi che tu sei felice anche così?” parve stupito Thanatos e vide il suo interlocutore annuire.

“In vita sei stato un grande guerriero, ed ora sei imprigionato qui, a sentirmi strimpellare. Ma ti piace sul serio? Mi prendi per il culo?”.

Il Dio vide ridacchiare l’anima dell’uomo.

“Sei strano” concluse la divinità e ricominciò a suonare.

L’anima socchiuse il suo unico occhio e si lasciò cullare dalle note. Gli venivano in mente tanti ricordi, anche se erano sempre più annebbiati. Sapeva bene che le anime più passava il tempo e più dimenticavano. Solo nei campi elisi si poteva godere della felicità eterna con le divinità. Altrove, le essenze perdevano sempre più i tratti fisici di chi le ospitava fino a divenire di nuovo pure e in grado di albergare in un nuovo corpo, una nuova vita. Però quell’anima era incompleta, non poteva essere accolta in nessun nuovo corpo e nemmeno riposare in pace in qualche luogo dell’oltretomba. Ma la cosa non la rattristava. Era un’anima tranquilla, forse l’unica in grado di vivere a fianco del Dio della morte. Thanatos, del resto, non si infastidiva di certo all’idea di avere un po’ di compagnia ogni tanto. Tolto suo fratello Hypnos, non era il tipo che riceveva visite.

Dopo aver suonato un po’, il Dio si alzò e depose la sua cetra. Si diresse verso la grande parete piena di libri, in cerca di un passatempo diverso. Quando sì voltò di nuovo verso il suo strumento, vide che l’anima lo osservava con curiosità. Con l’unico braccio, ne pizzicava le corde.

“Così ridotto, non la puoi suonare bene” disse, con dispiacere, Thanatos “Ma posso reggerla io” aggiunse, dopo aver riflettuto un po’.

Poggiò sul tavolino il grosso volume e poi tornò a sedersi sul trono da megalomane che aveva in casa.

“Siedi accanto a me” invitò l’anima, che obbedì.

Era vero, era l’anima di un grande guerriero. Ma accarezzare quelle corde, come gli insegnava il Dio della morte, gli donava uno strano senso di pace. Forse perché quella era la melodia che accompagnava i morti verso il sonno eterno, verso l’oblio.

“Adesso basta, devo lavorare pure io” interruppe di colpo Thanatos.

L’anima non disse nulla. Osservò il Dio allontanarsi e rimase in quella casa senza nessun’altro. Era una cosa che capitava spesso. Fluttuò a mezz’aria per un po’, poi tornò nell’angolino dove stava solitamente e chiuse di nuovo l’unico occhio.

 

“Che scemo che sei!” rise lei.

“Dai, Pasitea, vieni qui a farmi compagnia!” rispondeva Hypnos, steso sull’erba sei campi elisi.

“Sei sempre il solito” scosse la testa la donna.

“E ci mancherebbe solo che cambiassi dopo migliaia di anni, donna” ghignò lui.

Lei gli si stese a fianco, abbracciandolo. Il profumo dei fiori la avvolse. Da millenni viveva in quel luogo, ma non smetteva mai di adorarlo e ammirarlo. Così come non smetteva mai di adorare ed ammirare l’uomo che amava.

“E che ho detto di male?” riprese il Dio dei sogni e del sonno “Ti ho solo chiesto se ti va di avere un altro figlio. Ne abbiamo tanti, che differenza fa?”.

“Mettilo al mondo tu, allora!”.

“E come?!”.

“Sei un Dio! Pensaci!”.

“Spiritosona”.

“Però…” disse lei, dopo un po’, guardandolo negli occhi “…potrei anche ripensarci” e lo baciò, stendendosi accanto a lui.

“Hypnos!” tuonò una voce.

Il Dio dei sogni sobbalzò e guardò in su. Hades lo stava fissando, avvolto nella sua veste nera.

“Signor Hades” mormorò Pasitea.

“Qualcosa non va?” domandò invece Hypnos, rimanendo rilassato sull’erba.

“Cerco tuo fratello Thanatos. Lo hai visto?” furono le parole di Hades.

“Non di recente. Ultimamente non passa molto tempo ai campi elisi. Ha combinato qualche casino?”.

“No. Ho una missione da affidargli”.

“Qualcosa di divertente?” si mise a sedere Hypnos.

“Per niente. Ma è un ordine che viene dall’alto e quindi non posso far altro che riferire e lasciar fare”.

“Un ordine che viene dall’alto?”.

Il Dio del sonno si stupì di quelle parole. Un ordine dall’alto? Solitamente chi stava al di sopra di Hades sbrigava da solo i suoi problemi, non andava a cercare il Dio della morte!

“Quando lo vedrò, gli dirò che lo avete cercato, Signor Hades” parlò poi.

“Ti ringrazio, Hypnos. Tanto sa dove trovarmi”.

Il Dio dell’oltretomba si allontanò, lentamente. E Hypnos rimase solo qualche istante a ripensare alle parole del suo capo. Pasitea era qualcosa di ben più interessante.

 

Thanatos sapeva quando il gemello lo cercava. Erano strettamente legati fra loro e quindi si presentò ai campi Elisi appena poté. Raggiunse la dimora del gemello senza fretta, osservando le sue colonne bianche senza troppo entusiasmo. Lì trovò Pasitea alle prese con l’ultimo dei suoi figli che era poco più di un neonato. La donna riconobbe il cognato, vedendone l’armatura scintillante da lontano.

“Ciao, Thanatos” lo salutò “Hypnos è in casa. Se vuoi vado a chiamarlo”.

“Sì, magari” quasi sbottò il Dio.

Lei, di tutta risposta, lasciò il suo bambino in mano alla divinità ed entrò in casa.

“Hei!” protestò Thanatos, ma la donna ormai era già entrata e non lo sentiva.

L’uomo fissò un po’ male il piccolo, che teneva per la vita, stretto fra due mani. Con le braccia ben tese. Il piccino allungò le manine, ridacchiando.

“Stai fermo!” gli ordinò il Dio ma non venne ascoltato.

“Ma che fai? Non è mica una bomba!” lo sfotté il gemello, comparendo e raggiungendo il gemello.

Senza armatura, si affrettò a recuperare suo figlio, scuotendo la testa divertito.

“Che cosa ti serve? Perché mi cercavi?” riprese Thanatos.

“Hades ti voleva vedere”.

“E per cosa?”.

“Mi ha parlato di una missione per te”.

“Ah, ok. Niente di nuovo”.

“Veramente…ha parlato di una missione che viene dall’alto”.

“In che senso?”.

“Non ne ho idea. Non ha detto molto”.

“E va bene. Lo raggiungo e mi faccio spiegare”.

“Sembrava essere una cosa urgente”.

“Ho capito. Ma io ho un compito serio, non sto a casa a trullallare e riprodurmi come te!”.

“Sei crudele! E geloso”.

“Crudele quanto vuoi. Geloso non direi proprio. Anche se ammetto che preferirei essere invocato per poter dormire o fare un bel sogno piuttosto che maledetto perché porto via anime”.

“Prenditi una vacanza”.

“Quanto sei spiritoso!”.

“E dai, non ti offendere!”.

“Sono nervoso ultimamente”.

“L’ho notato. E non ne capisco il motivo”.

“Non lo so nemmeno io. Forse sento qualcosa nell’aria…”.

 

“Signor Kydoimos!” bussò una delle serve del palazzo nero.

Il nuovo figlio del Caos, pur avendo molte donne, dormiva solo. Ognuno aveva la propria stanza in quella casa.

“Signor Kydoimos?” insistette la voce fuori dalla porta.

“Vieni dentro” borbottò l’appena svegliato.

La donna entrò. Lentamente, Kydoimos scivolò fuori dal letto, lasciando che le lenzuola gli accarezzassero la pelle nuda. La serva sobbalzò e distolse lo sguardo, imbarazzata.

“Che hai? Mai visto un…” spalancò le braccia lui.

“No” si affrettò a dire lei, prima che Kydoimos terminasse la frase.

“Sarebbe una cosa a cui rimediare, un giorno di questi” sorrise lui.

“Io…” mormorò lei, arrossendo ancora di più.

“Grazie di avermi svegliato. È davvero tardi”.

“Ah…sì…vi ho portato la veste che la signora Desa ha appena terminato. Per Voi” si inchinò leggermente la donna, porgendo un abito scuro all’uomo.

“Grazie. Ora puoi andare”.

La serva uscì, ancora imbarazzata, non sapendo da quale parte guardare. Kydoimos si preparò e si vestì lentamente. Il buio costante di quel mondo non rendeva facile accorgersi dello scorrere del tempo. Uscì dalla sua stanza e si incamminò lungo il corridoio. Salutò tutti coloro che incrociò lungo il cammino. Era di buon umore e si sentiva tranquillo, perciò non si allarmò quando si sentì prendere per un braccio. Tartaros, il più grosso dei figli del Caos, lo afferrò e lo sbatté contro il muro. Con il viso contro la parete, Kydoimos protestò ma Tartaros gli tappò la bocca.

“Tu non mi inganni” gli sibilò, con tono decisamente minaccioso “Tu non sei e non sarai mai mio fratello, chiaro?”.

“Non sono io che voglio esserlo” protestò Kydoimos, cercando di liberarsi.

“Io so perché ti comporti così. Tu non sei fedele a mio padre, sai solo che non sopravvivresti un solo giorno lontano dal Caos. Con questo corpo che ti ritrovi, ovunque al di fuori di qui non potresti stare, se non con il consenso di chi ti ha donato la parte che ti manca. Senza il consenso di mio padre, tu non sei niente. Moriresti in pochi secondi”.

“Io sono grato al Caos e lo servo. Non so perché mi consideri suo figlio, ma io non tradirei mai il sommo signore di questa casa”.

“Cazzate. Lo fai solo per tornaconto personale. Non so fino a che punto vuoi arrivare, che cosa vuoi ottenere, ma sappi che io ti tengo d’occhio e sono pronto ad affrontarti in qualsiasi momento. Sei solo un moscerino che papà tiene qui per far riprodurre”.

“Lasciami!” si agitò Kydoimos e Tartaros ringhiò.

Con un gesto rapido, piantò nella schiena e la spalla del nuovo fratello gli artigli, lo graffiò. Kydoimos strinse i denti per non gridare. Non voleva mostrarsi debole.

“E adesso non correre a piangere dalla mammina, partorito” lo schernì Tartaros, lasciandolo andare.

Kydoimos non sapeva cosa dire. Non ricordava sua madre, non ricordava un solo giorno vissuto prima di entrare in quel palazzo. Gemette, sentendo la schiena bruciare, e si allontanò, senza parlare.

 

Thanatos raggiunse il palazzo di Hades quasi con noia. Migliaia di anni, migliaia di volte sempre la stessa strada e la stessa storia. Iniziava davvero a stufarsi. Gli specter si inchinarono e si scansarono al suo passaggio. Lui camminò senza nemmeno farci caso e si ritrovò al cospetto del signore dell’oltretomba.

“Vieni avanti, Thanatos. Chiudi la porta” ordinò Hades e il Dio della morte si stupì.

Di solito Hades non si faceva problemi a lanciare ordini a destra e sinistra senza curarsi di chi potesse essere all’ascolto. Amava dimostrare che lui, Dio della “generazione di Zeus”, comandava una divinità addirittura precedente all’Era dei Titani. Ma quel giorno era diverso.

“Che succede, Signore?” domandò Thanatos.

“Ho qui una missione per te” rispose Hades, stranamente alzandosi dal suo trono e scendendo le scale che vi stavano davanti, scansando le tende.

Fra le mani stringeva una busta, che porse al Dio della morte.

“Di che si tratta?”.

“Il mio compito è solo fare da messaggero in questo caso. Visto da chi proviene l’ordine, è ovvio che pretendo massima discrezione. Spero sia chiaro”.

“Chiaro”.

Thanatos non capì finché non aprì il sigillo e lesse la sua missione. Hades ora gli dava le spalle.

“Ma…Signore…” iniziò a dire Thanatos.

“Io sono solo il messaggero. Va e compi il tuo dovere. Ricorda la discrezione”.

“Sì…”.

 

Kanon sbadigliò. Il mondo sottomarino che governava gli piaceva ma in quel momento non offriva molti stimoli.

“Ti annoi, marito mio?” sorrise sua moglie, raggiungendolo lungo il corridoio.

Le vesti dai colori del mare di entrambi si trascinavano sul pavimento ed i loro passi venivano accompagnati dal rumore secco che produceva il tridente quando toccava il pavimento lucido. Kanon lo stringeva con orgoglio.

“Un pochino sì” ammise lui.

“Sei il Dio del mare e non trovi un modo per intrattenerti?”.

“Tu che proponi?”.

“Perché non vai a trovare tuo fratello?”.

“Saga, dici?”.

“Hai forse altri fratelli?”.

Kanon si fermò e sospirò. Fissò il suo tridente ed il suo sguardo si fece malinconico.

“No, non ho altri fratelli” rispose, dopo un po’ “Ma lui non mi considera tale”.

“Ma che dici?!”.

“Lui considera Arles un fratello. Non fa che rimpiangerlo”.

“Arles era parte di Saga. È normale che lo consideri importante”.

“Ma io sono il suo unico fratello! Pare se lo sia dimenticato”.

“E allora tu ricordaglielo. Passa più tempo con lui”.

“Lui di certo ha altro da fare. Come del resto ho da fare io”.

Kanon riprese il suo cammino a passo svelto. Il regno del mare aveva bisogno di essere governato.

 

Il sole bruciava al tempio di Grecia, nonostante ormai fosse autunno. I cavalieri attendevano la penombra e la frescura della sera. Deathmask, però, percepì un cosmo familiare e si allontanò dalla sua casa alle prime ore del pomeriggio. Non gli importava il sole cocente e l’afa. Raggiunse quel cosmo e chi lo possedeva, che gli dava le spalle, distratto dal panorama.

“Ma guarda un po’ chi è riapparso!” ridacchiò Deathmask “Shura! Vecchio caprone spagnolo! È questo il modo di sparire?! Manco una cartolina”.

“Ciao, crostaceo” salutò Shura.

“In abiti civili fai schifo”.

“E tu sei troppo vecchio per quell’armatura”.

“Sì, mi sei mancato”.

“Certo, anche tu!”.

Si salutarono con una poderosa stretta di mano e una botta “spalla contro spalla”.

“Dai, gambero, togli quell’armatura e vieni con me in città. Ti offro una birra e ti faccio conoscere la mia donna ed i miei due capretti” propose Shura.

“E perché non l’hai portata qui?”.

“Non mi piace l’idea che mia moglie venga a sapere certe cose”.

“Non le hai detti chi sei?!”.

“No e non intendo dirglielo. Perciò, dai, togli quella cosa oro e vieni con me”.

“E io? Non merito nemmeno un saluto?” parlò una voce.

Girandosi, i due uomini videro Aphrodite, cavaliere dei pesci, che aveva percepito il cosmo dell’amico ed era sceso dalla dodicesima casa.

“Il mio pesciolino preferito! Come non salutarti! Sei come un fratello per me!” sorrise Shura e Aphrodite lo abbracciò.

“Vieni anche tu a bere con noi, Aphro” lo invitò il cancro ma il cavaliere scosse la testa.

“Andate e bevete anche per me” rispose “Fa troppo caldo per i miei gusti. Meglio me ne torni a casa”.

“Stai bene?” si preoccupò il capricorno “Mi sembri un po’ pallido. Ma forse mi sbaglio”.

“Questo, mio caro Shura, è il mio colore da svedese. Tu ti sei abbronzato in Spagna, io preferisco mantenermi candido come la più letale delle mie rose”.

“Peccato, però. Volevo farti conoscere mia moglie”.

“Scherzi? E se poi sono geloso?”.

Aphrodite sorrise e fece l’occhiolino. Con un inchino, si congedò e tornò alla sua casa.

“E gli altri? Come stanno?” domandò Shura, una volta che lui ed il cancro furono soli.

“Immagino bene. Molti di loro non li vedo da tempo”.

“Saga?”.

“Quello non esce quasi mai dalla sua casa”.

“Non si è ancora ripreso dalla faccenda di Arles?”.

“Temo di no. Altri sono andati via oppure fanno gli asociali. Aphrodite non lo si vedeva da un bel po’. È uscito solo per te, dovresti esserne felice”.

“Lo sono. E tu? A te come va?”.

“Mi annoio”.

“Ma come ti annoi? Non dirmi che ti mancano le guerre, i combattimenti e gli spargimenti di sangue!”.

“Non farmi eccitare”.

“Scherzi?!”.

“No! A che servo se non posso combattere? Tanto vale che mi metta in ciabatte e guardare la tv, mettendo su chili mangiando schifezze!”.

“Non è male come idea”.

“Non scherzare, Shura!”.

“Basta discutere. Andiamo al bar, che ho bisogno di aria condizionata”.

L’abito scuro di Shura non era proprio il più adatto per quelle temperature ed il capricorno iniziava ad acquisire un colorito rossastro in viso.

“Vado a prendere la famiglia ed arrivo, amico mio. Ci metto un attimo” disse il cancro, allontanandosi per chiamare moglie e figlio.

 

Thanatos tornò alla sua casa. Fluttuando come sempre, lasciò che l’armatura lo abbandonasse e si rilassò sul divano. Ribaltò la testa all’indietro, sospirando, e chiuse gli occhi argento. Quando li riaprì, l’anima incompleta lo fissava.

“Stasera non suono, mio caro” parlò il Dio “Vai a farti un giro”.

L’anima inclinò la testa. Incuriosita dalla busta che Thanatos aveva poggiato al tavolino, si avvicino con l’intento di prenderla. Subito però il Dio scattò e la ricacciò indietro in malo modo. L’anima non capì il perché di quel gesto e fissò Thanatos con il suo unico occhio.

“Scusami” disse la divinità “Ma è una missione che mi hanno affidato ed è segreta, nessuno ne deve sapere qualcosa”.

L’anima si indicò.

“No, nemmeno tu! Anima curiosa! Anche da vivo eri così impiccione?!”.

Il morto si accoccolò in terra. In un angolino, stava costruendo un puzzle. Glielo aveva portato per scherzo Thanatos dicendo “hai l’eternità davanti, ora saprai che fare”.

“Ma…lo stai facendo davvero?” si stupì il Dio.

L’anima non rispose e la divinità gli si sedette accanto. Era un passatempo che non aveva mai preso in considerazione.

“E da quando ti piacciono ‘ste cose?” domandò ancora Thanatos e l’anima fece una smorfia dubbiosa.

Insieme, incastrarono qualche pezzo. Il disegno cominciava a mostrarsi, era un’architettura gotica.

“Mi fa bene distrarmi un po’. La missione che devo compiere non mi piace per niente” e l’anima rispose alla divinità con uno sguardo interrogativo.

“Non chiedermi perché lo faccio. Sono ordini, mio caro” si stizzì Thanatos “E gli ordini vanno eseguiti. Specie se provengono da certi individui”.

Il morto inclinò la testa.

“No, non Hades!” parve capirlo il Dio “Quel poppante non potrebbe mai ordinarmi un’assurdità simile e pretendere che obbedisca, cazzo! Qualcuno più in alto, che non ti posso dire, mi ha dato un ordine di merda che ovviamente io devo eseguire, che tanto sono io quello che si prende la colpa mentre lui non muove un dito. È sempre così. E mi ha dato pure la data precisa, come un appuntamento! Che lavoro ingrato che ho…”.

L’anima ascoltò e mosse un grosso pezzo di puzzle, unendolo a quello appena fatto da Thanatos. Sorrise.

“Non sei più te stesso” mormorò la divinità “Un tempo non avresti mai tentato di consolarmi, ma mi avresti detto che sono un piagnucolone e che se una cosa non la voglio fare non la devo fare e basta, ignorando gli ordini. E probabilmente mi avresti pure dato del cazzone idiota. Io mi sarei incazzato e ci saremmo azzuffati. Tu saresti stato sconfitto ma non avresti perso una sola goccia di spavalderia. Ora, invece, sembri quasi un bambino. Forse tenti di tornare ad uno stato più puro, per poter avere un nuovo corpo. Ma finché sei incompleto, amico mio, questo non accadrà. Mi spiace”.

L’anima come sempre non parlò. Anche se avesse potuto, non avrebbe saputo che dire.

 

Kydoimos lavorava tranquillo. Nella stanza buia, stava creando due nuove sedie grazie al legno che si procuravano nel mondo illuminato dal sole. La famiglia si allargava, ed era bene creare posti a sufficienza per tutti.

“Ottimo. Sta venendo davvero bene” commentò il Caos, entrando nella stanza.

“Grazie, Signore” rispose Kydoimos.

“Non chiamarmi così! Sono tuo padre, te lo sei già dimenticato?”.

“Non lo dimentico…padre”.

“Così va meglio!”.

Il padrone di casa prese fra le mani una delle sedie e l’osservo attentamente.

“Sei migliorato in fretta, bravo” commentò, poggiando una mano sulla spalla di Kydoimos, che sobbalzò per il dolore.

Quello era il punto in cui Tartaros lo aveva ferito. Il Caos ritrasse subito la mano e si allarmò.

“Cosa succede?” domandò.

“Niente” mentì Kydoimos.

“Come sarebbe a dire?! Ho visto la faccia che hai fatto. Mostrami!”.

“Non è niente”.

“La tua veste stracciata non mente!”.

Il Caos scostò i capelli e la stoffa, che Kydoimos aveva risistemato alla bene e meglio con lacci e nastri, riuscendo a vedere la profonda ferita.

“Chi è stato?” sbraitò e Kydoimos non rispose.

“Parla!” insistette il Caos “Dimmi chi ha osato farti questo”.

“Non è niente” si sentì rispondere ancora e questo lo fece infuriare ancora di più.

Chiamò in quella stanza tutti i suoi figli. Erebo, Nyx e Tartaros accorsero allarmati. Non era un buon segno quando il padre si incazzava.

“Chi ha alzato le mani su Kydoimos?” urlò.

“Che è successo? È ferito?” si preoccupò Nyx, cercando di scorgerlo dietro la sagoma del Caos.

“Non fate i finti innocenti. Io so quando mentite” si accigliò il padrone del palazzo nero.

“Ma potrebbe anche essere stato qualcun altro oltre a noi tre” azzardò Erebo.

“Certo, potrebbe. Ma sono tutti vostri diretti sottoposti o discendenti e quindi è vostro compito evitare che facciano cazzate come queste!”.

“Non mi sembra ferito gravemente” furono le parole di Tartaros.

“Non me lo dovete rovinare, sono stato chiaro? È prezioso e delicato”.

“Non è mica un giocattolo!” protestò sempre Tartaros.

“No, non è un giocattolo. È un gioiello. Il mio gioiello. E se scopro chi ha osato alzare le mani su di lui, giuro che patirà le pene più indescrivibili ed inimmaginabili!”.

“Padre…” interruppe Kydoimos, mentre il Caos si spostava leggermente per mostrarlo ai presenti “…non è necessario tutto questo”.

“Ma…”.

“Non è necessario che Voi puniate qualcuno. Non sono un bambino, non mi piace essere trattato come tale. Sono un uomo e risolverò le mie questioni da uomo”.

“Kydoimos, tu non…”.

“Io sono in grado di difendermi da solo e non sopporto che qualcuno mi difenda come fossi un debole. So di esserlo, rispetto a voi, ma non voglio essere trattato come tale. E ora gradirei vedervi sparire tutti quanti. Devo finire queste sedie. I miei figli crescono e devono trovare posto a tavola”.

Il Caos rimase in silenzio qualche istante. Poi chiuse gli occhi e sorrise. Con le unghie affilate, si praticò un piccolo foro sull’indice e una goccia di sangue brillò. Nera, con gli inconfondibili riflessi blu dell’ikor, la lasciò cadere sulla ferita aperta di Kydoimos. Egli spalancò gli occhi. Si sentì attraversare da un brivido lungo tutta la schiena, mentre i tessuti si cicatrizzavano e la ferita si rimarginava. Cadde in ginocchio, non avendo mai prima d’ora provato una sensazione così.

“Potete andare” congedò tutti il Caos “Ma che sia l’ultima volta. Non sarò clemente al prossimo errore”.

I fratelli uscirono. Erebo fissò Tartaros. Aveva riconosciuto le ferite inferte.

“Perché te la prendi tanto?” gli domandò “Ricorda che è un mortale, fratello. Mentre io e te abbiamo dinnanzi l’eternità, Kydoimos non vedrà l’alba del nuovo secolo. Lascia a nostro padre il suo trastullo temporaneo e non te ne crucciare. E nemmeno hai motivo di provare gelosia”.

“Ha donato a quell’essere una goccia del suo prezioso e fortissimo Ikor”.

“Kydoimos non ha sangue divino. È un mortale e, di conseguenza, l’unica cosa che può fare il sangue di nostro padre su di lui è curarlo. Non può donargli potere. Non è un Dio. Vedi di fare il superiore”.

“Erebo, come sempre fai il saggio”.

“Sono il maggiore. Non dimenticarlo. E ringrazia quel giovane di non aver confessato a nostro padre che sei stato tu a fargli del male, o non ti saresti salvato da una dura punizione. E tu sai di che punizioni è capace il Caos”.

“Lo so bene. È che tutto questo non lo comprendo”.

“I disegni mentali di colui che ci ha generati sono complessi da capire. Ma un giorno li scopriremo”.

“Lo spero”.

“Fidati di me. Io vedo dove tutti gli altri non scorgono altro che buio”.

E con un ghigno, Erebo e Tartaros si divisero.

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Capitolo 8
*** VIII- angeli ***


VIII

 

ANGELI

 

“Sei sicuro di voler rimanere qui, Kydoimos?” domandò il Caos, sistemandosi il mantello.

“Desa potrebbe partorire, quindi preferisco così” rispose l’adottato.

“Ma deve succedere proprio stasera? Intendo dire…è un invito a cena da parte del santuario! Mica cose che capitano tutti i giorni…”.

“Lo so ma…va bene così. Divertitevi anche per me”.

“Sarà fatto, fratellino” lo schernì Erebo.

“Nonno Caos!” chiamò Nàgiri “Possiamo venire con te?”.

“Nàgiri!” lo richiamò il padre ma il Caos sorrise.

“Volete venire con noi al grande tempio?” domandò il signore del palazzo nero ed un gruppetto di bimbi annuì.

“Ma…” provò a protestare Kydoimos, senza successo.

“Non è un problema per me portarli con noi” assicurò Caos “Sono certo che si divertiranno come sempre”.

“Non fate troppo tardi, però”.

“Tranquillo. Non gli succederà nulla di male”.

A Kydoimos non restò altra alternativa se non quella di lasciare che dieci dei sui figli se ne andasse, quella sera, al Grande Tempio. Forse era la cosa migliore, così ci sarebbe stata un po’ più di tranquillità.

“Fate i bravi!” si raccomandò Desa e Nagiri ruotò gli occhi al cielo, un po’ infastidito.

Assieme al Caos ed ai suoi figli, alcuni dei bambini della casa se ne andarono ed i genitori sorrisero. Non c’era motivo di preoccuparsi. Le più antiche creature del mondo vegliavano su di loro.

 

“Benvenuti” fece un piccolo inchino Aiolos, appena i suoi ospiti giunsero al tempio “Accomodatevi”.

“I bambini possono andare a giocare, la cena non è ancora pronta” aggiunse Hestia.

I piccoli corsero lungo le scale. Arles II li raggiunse, unendosi ai loro giochi. Era una piacevole serata, il cielo era sereno ed Ahriman sorrideva, cosa che avveniva raramente. Il Dio del cielo raggiunse Saga, la sua famiglia, ed alcuni cavalieri d’oro che si stavano radunando nella grande sala dove solitamente mangiavano tutti assieme. Quanti bei momenti passati fra quelle mura! Quante sedie ora erano vuote e suscitavano una certa malinconia…

“Come potete notare…” iniziò Saga “…abbiamo cercato di mettere meno luci possibili stasera, in modo da farvi stare a vostro agio”.

“Grazie” annuì Erebo.

“Buon appetito!” esclamò Nàgiri, alzando un bicchiere colmo di succo di frutta.

Ora erano tutti attorno alla tavola imbandita con prodotti tipici della Grecia e altre leccornie. Deathmask versò il vino, passandolo poi a Saga. Le mogli di entrambi osservarono la quantità d’alcol consumata dai mariti e storsero leggermente il naso. Heiwa, la figlia di Saga, rimase in silenzio e composta. Non giocò con gli altri bambini e sedette accanto al padre tutto il tempo. Shaka ammirò il suo comportamento e le fece i complimenti. Era proprio una degna futura Dea. Aphrodite, invece, lo trovò un po’ strano un comportamento del genere. I bambini, a suo parere, si dovevano divertire. Come Nàgiri ed il figlio di Deathmask, che facevano un gran baccano. Aldebaran era troppo impegnato a mangiare per fare commenti. Ioria sedeva accanto alla moglie Marin ed i loro due figli facevano baldoria assieme agli altri piccoli della stanza. Kiki propose a Nàgiri una partita di pallone e il bambino sorrise all’idea. Milo chiese di poter giocare a sua volta e Camus ricordò a tutti che prima si doveva cenare, il cibo non andava sprecato. Aiolos propose un brindisi ed Ahriman fu il primo ad alzare il calice al cielo.

“Ad una nuova e lunga amicizia” furono le parole del gran sacerdote.

 

Kydoimos se ne stava tranquillo su una delle comode poltrone scure del palazzo. Stava leggendo un libro con Desa che gli poggiava il capo sulla spalla, leggendo con lui.

“Non dovevi rinunciare all’incontro al grande tempio per me” parlò lei.

“Voglio starti accanto. E poi non credo sentano la mia mancanza”.

“Sei il figlio più giovane del Caos”.

“Solo di nome. Di fatto non conto mica”.

“Comunque, sono felice che tu sia qui con me”.

Kydoimos la baciò sulla fronte. A interrompere quel momento fu la vocina di una delle bimbe.

“Papà” chiamò “Mi fa male qui” disse, toccandosi la testa.

Il padre allungò un braccio verso la fronte della piccola.

“Scotti” commentò “Devi avere un po’ di febbre”.

“Ma com’è possibile?” si stupì Desa “Morte e malattia non sono mai entrate in questa casa!”.

“Non è niente, non vi allarmate. Un po’ di febbre passa in fretta. Basta riposare e stare al caldo”.

Kydoimos prese in braccio la bambina e la portò in camera. La mise sotto le coperte e le diede un piccolo bacio.

“Dormi, piccina. Vado a vedere se in cucina c’è qualcosa per farti stare meglio”.

“Grazie, papà. Mandi qui la mamma?”.

“Certo”.

La madre della piccola, Shuna, sedette accanto a sua figlia in attesa che si addormentasse.

“Spero sia solo un po’ di febbre” commentò Moros, il fato.

“Che intendi dire? Kayros forse ti ha rivelato qualcosa?” domando Kydoimos.

“Kayros non rivela mai nulla. Però sai bene che è lui a scrivere il destino delle persone”.

“E tu a farlo compiere, giusto? A far sì che tutti i tasselli siano al posto giusto”.

“In questo caso no. Non mi è chiaro ciò che sta accadendo”.

“Ed è un bene o un male?”.

“Non saprei. Staremo a vedere”.

 

“Passa la palla, passa!” gridò Kiki e Milo cercò di raggiungerlo.

I due cavalieri d’oro stavano perdendo contro un branco di ragazzini scalmanati. I figli di Kydoimos lì presenti avevano un’età compresa fra gli otto ed i quattro anni, eppure riuscivano a dare del filo da torcere ai due guerrieri. Aiutati da Arles II, che non si faceva problemi a commettere fallo contro i cavalieri, i bambini erano in vantaggio.

“Non vale!” protestò Milo “Noi siamo solo in due. Voi siete…in mille!”.

“Siamo solo in undici! Di cui tre femmine che non hanno mai giocato a calcio!” rise Nàgiri “Ammettetelo che siete imbranati!”.

“Imbranati a chi?!” si infuriò Milo, facendosi per l’ennesima volta rubare la palla.

“Milo, fai schifo” lo sfotté Deathmask, che faceva da spettatore.

“È notte!” si giustificò lo scorpione “Non vedo la palla!”.

“Tutte cazzate!” insistette il cancro.

E Milo, di risposta, gli tirò l’Antares in faccia.

 

Kydoimos udì un grido e scattò in piedi. Raggiunse di corsa la camera della bimba malata, da cui proveniva il grido della madre.

“Che succede?” esclamò.

La bambina era pallida e faticava a respirare. Il padre le andò accanto, tentando di capire cosa fare.

“Lalia” la chiamò.

“Signore” una serva parlò sull’uscio “Altri piccoli si sentono male”.

“Altri?!” si stupì Kydoimos.

In meno di mezz’ora, tutti i bambini della casa presentavano dei sintomi. Il padre li aveva fatti portare tutti nella stanza grande, che ora pareva un dormitorio, così da non dover correre da una camera a un’altra. Lalia, la prima a mostrarsi malata, era grave. I pochi titani rimasti in quella casa si adoprarono per far star meglio i piccoli. Usarono tutte le loro conoscenze nel campo della medicina ma nulla pareva dar sollievo ai malati.

“Che posso fare?” domandò Kydoimos “E da dove viene tutto questo?”.

“Forse…” azzardò Crio “…il tempo passato al tempio di Atena li ha indeboliti. Sono vissuti in una casa dove malattie e morte non esistono e quindi, forse, il mondo del santuario con i suoi germi li ha attaccati”.

“Ma sarebbe successo prima, non dopo più di un anno!”.

“Oppure…qualche Dio esterno ci manda questo” azzardò il titano.

“Qualche Dio? Chi?!”.

“Non saprei”.

“E se fosse davvero come dici? Fosse davvero colpa mia se stanno così male? Mia e di tutti coloro che tanto hanno desiderato vedere queste creature crescere alla luce del sole? Forse non era nel loro destino”.

“Non possiamo saperlo. Ma adesso facciamo il possibile per farli stare meglio”.

“E se anche i miei figli al grande tempio stessero male?”.

“Sono assieme al sommo Caos. Troverebbe il modo di farli guarire”.

“Hai ragione. Se la situazione peggiora, sarà il caso di richiamarlo”.

“Sì, ma per ora non credo serva creare allarmismi”.

“Kydoimos” chiamò Teti “Tua moglie sta partorendo”.

“Ma che cazzo succede stanotte?” gemette l’uomo, non sapendo più che fare.

 

“Dov’è tua sorella?” domandò Arles II, riferendosi a Neikos.

“Ha preferito rimanere a casa”  spiegò Nàgiri “Sua madre Esma si preoccupa e lei non riesce a darle un dispiacere”.

“E la tua mamma non si preoccupa?”.

“Sì, ma io non le obbedisco” ghignò il figlio di Kydoimos.

I bambini osservavano il cielo stellato con attenzione. Arles II spiegava qualche costellazione, quelle che riusciva a riconoscere. Ahriman li ascoltava in silenzio, sorridendo appena.

“Spero che tutti i tuoi sospetti su di me siano scemati, Dio del cielo” gli disse il Caos.

“Non tutti” ammise Ahriman “Ma sono disposto a darti una possibilità”.

“Questa alleanza è molto impostante”.

“Pare che per Saga sia quasi una questione vitale…”.

Saga era raggiante, infatti. Sorrideva, vedendo come tutto stesse andando nel migliore dei modi. L’unico che si lamentava era Deathmask, per via dell’Antares che ancora bruciava.

 

“Papà” chiamò Lalia “Mamma!”.

“Siamo qui, tesoro” la rassicurò Shuna, prendendole la mano.

La piccola era scossa da volenti brividi. Kydoimos la prese in braccio, stringendola a sé, nel tentativo di farla stare un po’ meglio e scaldarla.

“Sento il battito del tuo cuore” mormorò la bambina.

“Ti piace?” tentò di sorridere lui.

“Batte forte. Veloce. Perché? Hai paura?”.

“No. Io…”.

“No, tu sei il mio forte papà, che non ha paura di niente e che mi difenderà per sempre”.

“Certo. Il tuo forte papà combatterà sempre per te”.

“Grazie”.

Lalia lo strinse forte e Kydoimos fece lo stesso. Poi sentì la presa della piccola allentarsi.

“Lalia!” la chiamò ma la piccola non poteva più rispondere.

“Lalia!” gridò disperata anche la madre.

La bambina non respirava più. Per la prima volta, la morte era entrata in quella casa.

 

“Mi porti in alto, zio Ahriman?” domandò Arles II, cercando di sfoggiare il suo miglior sorriso tenero.

“Portarti in alto?” finse di non capire il Dio, abbassando le ali.

“Sì! Tu puoi volare! Portaci su!”.

“Un momento! Un attimo fa hai parlato al singolare”.

“Be’ ma se porti me…devi portare anche i miei amici!”.

“E come faccio, secondo te?”.

“Sei un Dio!”.

“Tu sai sempre quali tasti toccare”.

Sorrise e sollevò la mano. Tutti i bambini lo fissarono con curiosità. Ahriman vi soffio e i bambini si sentirono sollevare in aria. Risero felici.

“Non è pericoloso?” si affrettò a dire il Caos.

“Ma no, sono io che domino le correnti che li sorreggono. Non gli può succedere nulla di male” lo rassicurò il Dio.

Ed il tempio si riempì di risate divertite e gridolini di felicità.

 

“Perché i miei figli muoiono?” gemette Kydoimos, vedendo che uno dopo l’altro i bambini si stavano arrendendo a quell’improvvisa e misteriosa malattia.

Nessuno sapeva dargli risposta e nessuno sapeva cosa fare. Si erano accorti che, senza l’aiuto del Caos, non potevano lasciare quel palazzo e quindi non avevano modi di avvisare il padrone di casa di quanto stava accadendo.

“Ci deve essere un modo per richiamarlo!” insistette Kydoimos ma nessuno sapeva quale.

Il padre di piccoli, sentendosi del tutto impotente, si spostò nella camera della moglie Desa.

“Che cosa sta succedendo?” subito domandò lei, appena vide il marito.

“Rilassati” rispose lui, sforzandosi notevolmente “Rilassati e pensa al bambino”.

“Ma ho sentito gridare!”.

“Sì ma adesso pensa al piccolo”.

“Voglio sapere cosa è successo!”.

“Niente”.

“Non mi mentire. Hai una faccia, marito mio, che non mostra niente di buono”.

“Partorisci. Ne parliamo poi”.

Desa gridò per il dolore e chiuse gli occhi. Quando li riaprì, vide che Kydoimos stava lasciando la stanza. Lo chiamò, ma lui continuò per la sua strada. Non ce la faceva a mentire alla moglie.

“I miei piccini” mormorava Esma, ripetendosi “I miei piccini stanno morendo tutti”.

Kydoimos la udì. Si ritirò nella stanza dove lavorava il legno.

“Caos” chiamò “Padre Caos, se davvero sono per te un figlio allora dovresti percepire queste mie parole. Ti prego, non lasciarci soli. Salva i miei piccoli. Ascoltami! Forse ho sbagliato e chiedo perdono. Forse non merito nulla ma le mie creature sono innocenti, qualsiasi errore abbia commesso”.

Gli era stato detto che, nei rari attimi il cui il padrone del palazzo si allontanava, i suoi figli potevano richiamarlo in qualsiasi momento. Ma il loro è un legame di sangue, si ritrovò a pensare Kydoimos. Guardò quelle sedie. Con tutti i piccoli che stavano morendo, non servivano più. Ne afferrò una e la scagliò contro il muro, gridando.

 

Il Caos, che fino a quel momento stava sorridendo, si fermò di colpo. Nyx lo notò.

“Padre?” domandò “Qualcosa non va?”.

“Dobbiamo tornare a casa” rispose lui.

“Ma…si stanno divertendo tutti!”.

“Qualcosa non va al palazzo nero. Dobbiamo rientrare”.

Sentendo questo, gli adulti della casa si allarmarono. Saga, che aveva udito quelle ultime frasi, propose di lasciare lì a dormire i bambini. Se era successo qualcosa, forse era meglio evitare di coinvolgerli. Il Caos gli diede ragione.

“Mi spiace dovermi allontanare così” commentò.

“Se è in corso un’emergenza” rispose Saga “Vi prego di raggiungere quanto prima casa vostra e risolverla. E mi auguro anche che non sia nulla di grave”.

“Siete molto comprensivo. La Dea Atena alberga nel vostro cuore ed è ben visibile in ogni vostra azione e proposito”.

“Vi ringrazio” si imbarazzò la divinità del grande tempio “Ma ora andate”.

 

“Sta perdendo molto sangue. Qualcosa non va nel verso giusto” si spaventò Teti, vedendo quel che stava succedendo a Desa che gridava in preda ai dolori del parto.

“Desa!” la chiamavano le donne titano che la assistevano “Non ti agitare!”.

“Cosa succede?” gemette lei “Nessuno dei miei figli mi ha mai provocato tanto dolore!”.

Gridò ancora, contorcendosi spaventata. Voleva suo marito. Dov’era suo marito? Cosa stava succedendo là fuori? Perché nessuno voleva dirglielo? Le forze iniziavano a venirle meno.

“Aiuto” mormorò.

Esma pronunciava le stesse parole. Seduta accanto a Neikos, una delle ultime che aveva presentato dei sintomi, le stringeva la mano. La bambina le sorrideva, mostrando un’incredibile forza.

“Andrà tutto bene, mamma” le diceva “Io e te rimarremo unite. Vedrai”.

La madre annuì, tra le lacrime. Provò un po’ di conforto nell’udire quelle parole ma quando anche Neikos perse i sensi, si alzò e lasciò la stanza. Con lo sguardo vuoto, smarrito, camminò lungo i corridoi bui senza parlare.

 

“Quindi possiamo restare a dormire qui?” chiese Nàgiri, non sicuro di aver capito.

“Sì, per stanotte restate qui” annuì Nyx.

“Ma la mia mamma non si arrabbierà?”.

“Dici che le disobbedisci sempre” lo schernì Arles II.

“Hai ragione, lo faccio! Quindi immagino che una volta in più o in meno non cambi” sorrise il bambino.

“Mi raccomando, fate i bravi! Altrimenti nonno Caos si arrabbia” li ammonì Nyx, prima di raggiungere i suoi fratelli ed il padre.

“Ciao, ciao!” li salutarono i bambini, vedendoli andar via.

Non capivano perché si stessero allontanando ma non aveva importanza. Loro erano felici di passare una notte lì.

 

“Mi dispiace” parlò Teti “Non abbiamo potuto fare niente”.

Chinò il capo e Kydoimos rimase in silenzio sulla porta della stanza. Desa non ce l’aveva fatta. Si era arresa, morendo assieme al suo bimbo mai nato. Lui non trovava le parole. Era sceso il silenzio.

“Che abbiamo fatto?” si chiese Shuna “Che abbiamo mai fatto per meritare questo?”.

La donna stringeva forte la mano dell’ultimo dei suoi piccoli rimasto in vita. Kydoimos uscì dalla camera di Desa e chiuse la porta dietro di sé. Chinò il capo. Non sapeva che altro fare.

 

“Che silenzio” commentò il Caos, entrando in casa.

“I bambini dormono a quest’ora” rispose Erebo.

“Sì ma è un silenzio strano. Diverso dal solito”.

Nyx annuì. Qualcosa nell’aria era diverso. Si incamminarono lungo il corridoio e videro Kydoimos. L’uomo alzò gli occhi. Il Caos, che prima sorrideva nel rivederlo, si rabbuiò di colpo. Lo sguardo del suo nuovo figlio, anche se privo di lacrime, era colmo di disperazione e vuoto.

“Padre” sussurrò lui e il padrone di casa si stupì perché mai prima d’ora lo aveva chiamato così di sua spontanea volontà.

“Kydoimos” iniziò “Cosa…”.

“Salvateli!” supplicò Lienn, una delle madri, vedendo il Caos “Vi prego accorrete e salvateli, sommo signore!”.

Il signore del palazzo si affrettò e raggiunse la stanza da cui lo chiamava Lienn. Rimase sconcertato da quella vista. Madri disperate, bambini morti o moribondi.

“Dove sono i bambini?” spalancò gli occhi Shuna, notando che il Caos ed i figli erano tornati senza i piccoli.

“Dormono al tempio” spiegò lui.

“Ma stanno bene?”.

“Sì, benissimo”.

“Oh, grazie! Grazie!”.

“Ma qui che è successo?”.

Nyx, Erebo e Tartaros raggiunsero il padre. La donna sobbalzò quando vide ciò che accadeva ed Erebo l’accolse fra le braccia. Tartaros strinse i pugni. Chi aveva osato consentire alla morte di entrare in quel luogo?

“Quali sono ancora vivi?” domandò il Caos, raggiungendo i letti di chi ancora respirava per curarli con i suoi poteri.

La prima che guarì fu Neikos, che mormorò il nome della madre con le poche forze che aveva.

“Dov’è Esma?” si chiese Nyx, mentre Erebo si era allontanato per raggiungere Kydoimos.

“Esma!” chiamava il nuovo fratello “Esma, vieni! È tornato il Caos”.

La vide sulla terrazzina che dava sul buio assoluto. La invitò a rientrare, sforzandosi di farle un sorriso. Lei si voltò lentamente e non rispose. Con uno scatto, saltò nel vuoto.

“Esma!” gridò Kydoimos, gettandosi in avanti per riprenderla.

“Kydoimos!” chiamò invece Erebo, recuperando al volo il fratello prima che precipitasse a sua volta.

“Lasciami!” protestò questi, allungano le braccia verso il vuoto “Esma è caduta! La devo aiutare!”.

“Vivo qui da abbastanza tempo per dirti che cadendo da qui non incontri altro che il nulla e la morte”.

“Ma…”.

“L’hai perduta, Kydoimos. Ora torna in te”.

Erebo, sempre tenendo stretto il fratello acquisito, retrocedette di scatto e finirono entrambi seduti a terra. Kydoimos ancora si agitava e il fratello maggiore gli tirò un poderoso cazzotto, facendolo finire lungo il corridoio.

“Ma cosa vuoi?” sbraitò il colpito “Non sono nemmeno tuo fratello!”.

“Lo sei. Ti considero tale e so cosa vuol dire perdere dei figli. Devi ricordare questo: non puoi lasciare soli quelli che ancora vivono ed hanno bisogno di te”.

“I tuoi ti hanno lasciato solo”.

“I miei erano grandi ed è un’altra faccenda. Di là ci sono dei bambini e delle donne che hanno bisogno del tuo coraggio e della tua forza perciò vedi di riprenderti. Alzati”.

“Che succede?” spuntò il Caos, sentendo le grida.

Subito intuì l’accaduto. Kydoimos si stava rialzando ed Erebo lo aiutava. Si avvicinò ad entrambi.

“Mio cucciolo” iniziò a parlare “Mi spiace. Sono arrivato tardi. Solo cinque dei tuoi figli sono riuscito a salvare”.

“Li avete salvati? Loro vivranno?”.

“Sì, vivranno. Così come vivranno quelli che sono al grande tempio per la notte”.

Kydoimos rimase immobile ed in silenzio. Il Caos lo abbracciò.

“Devi essere forte per loro. E ricorda che noi siamo qui con te”.

“Grazie”.

Liberato dall’abbraccio del Caos, prese un profondo respiro. Doveva trovare il coraggio di dire alla figlia sopravvissuta che sua madre si era gettata dal balcone perché credeva morti tutti i suoi figli. Doveva dire a Nàgiri che non avrebbe avuto un nuovo fratellino e che non avrebbe più rivisto la mamma.

“Vado io a riprendere i bambini al tempio domani mattina” si propose Erebo.

“Grazie” annuì Kydoimos “Ora sarete stanchi. Potete andare a dormire”.

“Non riusciremmo mai a dormire dopo aver visto questo”.

“Confermo” strinse i pugni il Caos “Troveremo il colpevole e la pagherà!”.

Il nuovo fratello non disse nulla. Tornò nella sala dove i bambini guariti dal padrone di casa lo aspettavano. Erano stanchi, ancora a letto, ma vivi e questo era quello che contava.

 

“Bambini! È ora di tornare a casa!” chiamò Ariadne, con già indosso l’armatura dei gemelli.

“Ma è presto!” protestò più di qualcuno.

“Lo zio è venuto a prendervi”.

“Lo zio?” si stupì Nàgiri.

Uscì dal tempio dei gemelli, dove aveva dormito, e si ritrovò davanti Erebo, tutto avvolto in vari mantelli per evitare la luce e con un paio di vistosi occhiali da sole a coprirgli il viso.

“Sei ridicolo” rise il bambino “Dov’è papà?”.

“A casa. Dove è ora che tu ed i tuoi fratelli torniate” sbottò Erebo.

“Viene sempre a prenderci papà”.

“Non fare il bambino!”.

“Sono un bambino!”.

Erebo ruotò gli occhi al cielo. Era troppo vecchio per queste cose! Afferrò Nàgiri per il braccio. Questi però si dimenò e lo morse. Lo zio lo lasciò di scatto, d’istinto.

“Il mio papà non è venuto perché è nato il mio fratellino?” domandò il bambino.

“No”.

“E allora perché?”.

“Non te ne parlerò qui. Andiamo a casa”.

“Che serio che sei”.

Il piccolo capì che era tempo di andare e tornò alla terza casa a chiamare i fratelli e le sorelle.

“ Che succede?” domandò Ariadne, intuendo qualcosa nel modo di fare di Erebo.

“Non sono affari del grande tempio”.

“Ok, scusa. Facevo per chiedere”.

“Scusatemi. La situazione non è buona e voglio solo tornarmene a casa mia in fretta”.

 

Nàgiri e gli altri rientrarono in casa con il solito entusiasmo ma il maggiore capì subito che qualcosa era cambiato.

“Nàgiri” lo chiamò il padre.

Il bambino capì, dal tono serio, che non doveva dirgli niente di buono. Aveva forse fatto qualcosa che non doveva? Doveva essere sgridato? Si separò dagli altri fratelli e raggiunse il genitore, che gli accarezzò la testa.

“Cosa c’è papà?” domandò Nàgiri.

“Ho una cosa molto triste da dirti”.

“Triste?”.

“Sì. Una cosa triste e brutta”.

Nàgiri attese in silenzio che il padre parlasse, senza sapere cosa dire.

“Ricordi quando io e lo zio ti abbiamo parlato dei campi elisi e delle anime che vi riposano?” domandò Kydoimos.

“Sì” annuì il bimbo.

“Tutti voi, piccoli miei, avete un’anima, così come le vostre mamme”.

“Ed è bella? La mia anima è bella?”.

“La tua anima è bellissima, perché pura. E le anime come la tua vanno in un posto speciale quando…”.

“Quando?” fece eco il bambino, sentendo il padre fermarsi.

“Quando abbandonano il loro corpo”.

“Ma se l’anima abbandona il corpo, il corpo muore. Giusto?”.

“Sì. E qui stanotte sono volate via molte anime”.

“Che…”.

“Nàgiri…” Kydoimos si inginocchiò, per guardare negli occhi suo figlio “…l’anima della tua mamma è volata via”.

“Come?!”.

“Noi ora dobbiamo…”.

“La mia mamma è morta?” gridò il bambino, facendo alcuni passi indietro.

“Mi dispiace. Io…”.

“No! Non è vero! La morte non esiste in questa casa!”.

“La morte ha trovato un modo per portar via chi…”.

“E come è successo?”.

“La tua sorellina Lalia è stata la prima ad ammalarsi e poi…”.

“È stato Ahriman!” esclamò Nàgiri.

“Non dirlo nemmeno per scherzo”.

“Non è uno scherzo! Quando è venuto qui, ha accarezzato Lalia sulla testa e una cosa nera è passata da lui a lei. Pensavo di aver sognato ma non è così. È stato Ahriman!”.

“Nàgiri, ti prego! Ahriman non…”.

“Non mi credi? Mamma mi crederebbe. A lei non è mai piaciuto quel Dio”.

“E anche se fosse, cosa potremmo fare? Anche se fosse stato lui ed io lo punissi, cosa cambierebbe? Tua mamma ed i tuoi fratelli non tornerebbero”.

“Rivoglio la mia mamma!”.

“Lo so, piccolo mio”.

“La rivoglio! Giuro che non le disubbidirò più!”.

Kydoimos abbracciò suo figlio, che scoppiò a piangere e non disse più nulla.

 

“Andrò presto al grande tempio” commentò il Caos.

“Perché?” si incuriosì Tartaros.

“Voglio guardare negli occhi chi vive là ed avere l’assoluta certezza che sono estranei alla faccenda. Loro ed il loro capo Ahriman”.

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Capitolo 9
*** IX- potere e ricordi ***


IX

 

POTERE E RICORDI

 

“Perché sono qui?” domandò Kydoimos, senza nascondere il suo disappunto.

“Perché voglio che ti guardino in faccia e mi dicano che sono innocenti” ribatté il Caos.

“Non ne vedo l’utilità”.

“Piccolo, non voglio costringerti a fare qualcosa che non vuoi. Credevo che uscire dal palazzo nero e svagarti un po’ potesse servire a farti stare meglio”.

“Forse avete ragione”.

“Se non vuoi farti tredici piani di scale per parlare con Saga, puoi aspettarmi qui? O vuoi proprio tornare a casa?”.

“No, avete ragione. Farò un giro qua in giro”.

“Bene. Non metterti nei guai”.

Kydoimos  osservò il suo signore salire lungo la scalinata del tempio. Attese qualche istante e poi si allontanò. Prese il sentiero che portava alla spiaggia, fra le rocce. Vi scese e fissò il mare. Stava attento, sapeva che in quel mondo, con il suo braccio e la sua gamba mal ridotti, non poteva nuotare. Il vento ne scompigliava i capelli e le vesti. Socchiuse gli occhi, in cerca di pace. Dentro al cuore provava un immenso dolore che non riusciva a sfogare. Voleva piangere ma non ci riusciva. Un nodo alla gola gli toglieva quasi il respiro e restava lì, come eterno ricordo di chi aveva perso. Immerse i piedi scalzi nell’acqua. Era ancora calda, nonostante l’estate fosse finita da un po’.

“È vero quel che mi state dicendo?” domandò Saga, che aveva fatto accomodare il Caos nelle proprie stanze.

“Non potrei mai inventarmi una cosa del genere!” rispose il Caos.

“Ma è terribile! È spaventoso!”.

“Ho cercato di far un po’ distrarre il padre ma non è semplice”.

“Immagino cosa provi. Vorrei potergli porgere le più sentite condoglianze”.

Il Caos capì che Saga doveva essere estraneo alla faccenda. Era sconvolto e per il più antico degli Dèi era facile capire quanto soffrisse.

“Dove si trova Ahriman?” domandò poi l’ospite.

“Suppongo nel suo palazzo, perché?” rispose Saga, perplesso.

 

L’odore del mare. Kydoimos lo percepì e gli parve che facesse parte di lui fino alle ossa. La sabbia sotto i piedi, il sole sul viso, il vento ed i suoni della natura lo avvolgevano. Chiuse gli occhi e spalancò le braccia, istintivamente. Che strana sensazione. Una scossa, un brivido, e la sensazione di poter fare qualsiasi cosa. Una sensazione che gli solleticava le mani al punto di farlo quasi ridere. Il nodo alla gola, però, non lo voleva lasciare. Era orribile e voleva scacciarlo. Urlò, più forte che poté. E si sentì sollevare. Portò entrambe le mani alla gola, ribaltando la testa all’indietro. L’acqua, l’aria e la sabbia lo stavano avvolgendo in una sfera che ruotava. I capelli, che teneva raccolti, si sciolsero e pure loro lo circondarono. Sentiva dentro sé un potere che cresceva, mentre urlava per liberarsi da quel nodo. Una luce, intensa e calda, sgorgò dalle sue mani e quel grido parve prendere forma. Quando non ebbe più aria nei polmoni, tornò in terra. Le forze lo abbandonarono e cadde sulla spiaggia. Poco prima di perdere i sensi, riuscì a scorgere una donna accanto a sé.

“Benvenuta al mondo, Airis” le disse e poi svenne.

 

Saga e il Caos stavano scendendo le scale. La reincarnazione di Atena aveva espresso il desiderio di poter porgere di persona le condoglianze a Kydoimos. Il Caos apprezzò il gesto e scesero insieme. Quando però giunsero allo spiazzo dinnanzi la prima casa, non trovarono l’interessato ad attenderli.

“L’ho visto andare verso la spiaggia” indicò Kiki.

“Grazie” rispose Saga, con un cenno del capo.

“Probabilmente aveva bisogno di stare solo. Scusate se ci tocca camminare” commentò di nuovo il Caos.

“A me fa piacere. Mi fa bene ogni tanto” sorrise debolmente Saga.

“Kydoimos!” chiamò il Caos, camminando fra gli scogli.

Non lo vedeva. Dove si era nascosto? Però che bello che era il mare di Grecia! E quella spiaggia, legata al santuario e quindi incontaminata, era perfetta.

“Kydoimos!” chiamò ancora, e sentì la sua voce ripetuta più volte nell’eco.

Quando lo vide, si affrettò a raggiungerlo. Ancora steso nella sabbia, privo di sensi e completamente fradicio, al Caos fece subito pensare che si fosse buttato in acqua. Con un corpo come quello, non poteva di certo nuotare.

“Kydoimos!” lo scosse “Apri gli occhi! Mia meraviglia, riprenditi!”.

Solo in quel momento notò la donna che fissava entrambi.

“Si è buttato in acqua?” chiese il Caos e la donna scosse il capo.

“Ah, meno male. Forse si è sentito male perché si è allontanato troppo da casa”.

Saga rimase stupito da quella scena. Il Caos pareva seriamente preoccupato per quell’uomo, anche se non era il suo vero figlio. Vide che lo prendeva in braccio e lo avvolgeva nel mantello, per asciugarlo. Nel suo sguardo c’era puro affetto.

“Devo andare” disse il Caos.

“Certo…” non ebbe il tempo di rispondere Saga.

 

“Che è successo?” si allarmò Nyx, non appena vide arrivare il Caos con in braccio Kydoimos.

“Ha perso conoscenza. Colpa mia, l’ho tenuto troppo distante da me e da questa casa. Ora che è mio figlio, la nostra maledizione deve aver colpito anche lui”.

“È grave?”.

“Sparite!” ordinò il padrone di casa a tutti coloro che si erano presentati a curiosare preoccupati “Lasciateci soli”.

Delicatamente, stese Kydoimos sul letto. I capelli bagnati si confondevano sulle lenzuola nere, così come parte del corpo dell’uomo. Il Caos, interamente nero, accarezzò il lato più chiaro di suo figlio adottivo. L’occhio cieco era insanguinato. Il padrone di casa lo pulì con cura.

“Mi dispiace, piccolo mio. Forse ho sbagliato a donarti questo corpo. Questo tuo lato di carne un tempo rosa è così debole! Ancora qualche istante lontano e si sarebbe distaccato da ciò che io ho creato per te, uccidendoti. Mi chiedo ogni giorno se ho fatto bene a farti questo”.

Kydoimos non rispose, ancora privo di sensi. Come aveva fatto con la ferita alla schiena, il Caos si ferì un dito e lasciò cadere qualche goccia di sangue, questa volta sulle labbra del figlio. Questi parve riprendersi un po’, leccò il sangue e gemette, girando al testa.

“È buono, vero?” sorrise il Caos.

Kydoimos aprì gli occhi. Il padre gli accarezzò la testa.

“Come ti senti?” domandò.

“Uno schifo” ammise il figlio.

“Sei molto debole. Hai rischiato grosso ed è tutta colpa mia. Non dovevo lasciarti solo tutto quel tempo”.

“Io…” provò a ribattere, ma era troppo debole e riuscì solo a gemere ancora.

“Tranquillo” lo rassicurò il Caos, tagliandosi il polso “Bevi” ordinò, accostando la ferita alla bocca di Kydoimos.

Questi tentò per qualche istante di resistere ma non ci riuscì a lungo. Il sangue del suo signore era caldo, dolce, e ne percepiva la potenza. Lo sentiva forte in gola. Il padrone del palazzo sorrise, vedendo come il figlio gradisse e si sentisse già meglio.

“Ancora, Kydoimos. Bevine ancora” lo incitò “Bravo”.

Lui non se lo fece ripetere. Ad ogni goccia sentiva aumentare in lui una sensazione d’estasi mai provata prima. L’intero suo corpo veniva avvolto da questa strana forza. Dovette smettere di succhiare il braccio del padre e ribaltare la testa all’indietro, lanciando un gemito per un piacere mai provato prima. Il Caos sorrise più convinto e gli accarezzò nuovamente la testa.

“Bravo il mio ragazzo” gli disse “Ora riposa. Vedrai che domai starai subito meglio”.

Kydoimos, ancora agitato ed eccitato, non sapeva come potesse essere possibile per lui dormire ma poi il padre sfiorò con le labbra la sua fronte e il figlio cadde addormentato.

“Sono il nonno di Hypnos mica per niente” commentò il padrone di casa, prima di lasciare la stanza.

Fuori, trovò quasi l’intera casa in apprensione. Dopo aver rassicurato tutti, decise che era giunto il momento pure per lui di riposare. Si girò e vide Airis, leggermente impaurita, che fissava la camera di Kydoimos.

“Ha bisogno di riposo. Veglialo per me, stanotte” le disse il Caos e la fanciulla annuì.

 

La mattina seguente, il tavolo della colazione attendeva l’arrivo di Kydoimos con un certo nervosismo. Stava davvero bene? Cosa gli era successo? Prima di lui, entrò Airis, timidamente. Più di qualcuno si chiedeva chi fosse e da dove fosse saltata fuori. Lei non parlava ed osservava tutto.

“Sembra una bambina” commentò Shuna “Fa tutto come se non l’avesse mai fatto prima”.

Airis fissò incuriosita i commensali. Sentiva nell’aria un profumino delizioso.

“Siediti, Airis” le ordinò Kydoimos, arrivando alle sue spalle.

La voce dell’uomo era leggermente più profonda del solito. Per il resto, pareva stare bene. I figli lo accolsero con abbracci e baci. Lui rispose ai saluti, sorridendo. Diede un bacio sulle labbra a Shuna e Airis fissò la scena con attenzione. Seguì i movimenti dell’uomo, che sedette e si versò il caffè.

“Ci vuole una stanza per la nostra nuova ospite” disse.

“Certo. Stanze ce ne sono. Gliela mostrerò dopo” annuì Lienn “Ma chi è?”.

“Si chiama Airis. E rimarrà qui”.

“Questo lo avevo capito. Mi chiedevo chi fosse e da dove venisse”.

“Ogni cosa a suo tempo. Quando sei arrivata, mica ti assillavo tanto”.

Kydoimos si rialzò, risistemando il suo posto. Airis lo seguì, copiandone ogni mossa.

“No!” la rimproverò lui “Insomma…non sai fare qualcosa senza fissarmi? Coraggio, fai quello che ti va. Vai!”.

La donna rimase per qualche istante sconcertata. Parve smarrita ma poi si girò verso gli altri, ancora seduti.

“Ciao” li salutò e tutti le risposero.

Kydoimos li lasciò chiacchierare ed uscì sul corridoio.

“Fratellino…” mormorò Erebo, incrociandolo “Stai fluttuando”.

Kydoimos subito ridiscese e si toccò la testa, provando una sensazione di fastidio.

“È normale” lo rassicurò il maggiore “Sono le conseguenze del sangue di papà. È come un dopo sbronza. Passerà presto, vedrai”.

“Lo spero. Ogni parola mi rimbalza nel cranio”.

“Niente di grave” ridacchiò Erebo e poi inclinò la testa.

In fondo al corridoio vedeva il padre, Caos, con a fianco uno straniero. Un ospite? O un seccatore?

“Da questa parte” parlò il padrone di casa, indicando il corridoio.

Caos e straniero, avvolto in un pesante mantello, camminarono vicini.

“Che sollievo vedervi!” parlò l’ospite, rivolto a Kydoimos.

“Saga?” domandò l’interessato, riconoscendone la voce.

“Sono io” annuì l’uomo, togliendo il mantello che ne copriva il viso “E sono davvero felice di vedervi in piedi. Mi sono preoccupato molto alla spiaggia”.

“Non era necessario. La mia vita non vi riguarda”.

“Può essere. Ma voglio essere considerato un amico, come amici io considero voi. E quindi mi preoccupo”.

“Sto bene”.

“Ho chiesto il permesso al padrone di questa casa per potervi porgere di persona le condoglianze per il lutto”.

“A quanto pare i pettegolezzi volano”.

“Sono stato io a parlargliene” interruppe il Caos “E mi sembra un gesto gentile da parte sua”.

Kydoimos sospirò. È vero, non aveva motivo di essere così severo e sarcastico. Nàgiri raggiunse il padre. Lo prese per mano e fissò Saga con sospetto.

“Punirete Ahriman, vero?” domandò.

“Perché?” domandò Saga, piuttosto perplesso.

“Perché è stato lui ad uccidere la mia mamma ed i miei fratelli, facendo ammalare la mia sorellina”.

“Nàgiri!” lo zittì il padre “Quante volte dovrai ancora tirare fuori questa storia?”.

“Gli parlerò” rispose invece Saga “Cercherò in ogni modo di scoprire la verità. So che cosa significa perdere una persona a te molto vicina”.

“Anche tu hai perso la mamma?” mormorò Nàgiri.

“No. Io la mia mamma non l’ho mai conosciuta. Sono un orfano. Però ho perso una persona a cui volevo molto bene, un uomo che ho considerato mio fratello e anche di più. So cosa si prova e so quel che si desidera. Perciò, ti prego di ascoltarmi, giovane Nàgiri. So che ora provi rabbia e sconforto. Vorresti vendetta. Ma non è questa la via. Il sangue porta ad altro sangue”.

“Voi divinità vi ammazzate sempre fra voi”.

“Lo so. Sto cercando di fare in modo che questo non accada più. E, a questo proposito, chiedo perdono a coloro che dimorano in questa casa per aver sigillato Gaia. So di aver arrecato molto dolore e mi dispiace”.

Il Caos si stupì nell’udire quelle parole. Osservò Saga, mentre questi chinava il capo.

“E io chiedo perdono per quel che è successo ad Arles” parlò il padrone di casa, dopo qualche istante “So che quanto è accaduto sta ancora portando tristezza in molte persone”.

“In realtà…” quasi sorrise Saga “…sono in pochi quelli che rimpiangono Arles. A me manca, e molto, ma in molti hanno fin troppo in mente il male che ha commesso”.

“Tutti commettono degli errori. Non è giusto condannarlo adesso!”.

Saga sospirò. Sorrise a Nàgiri, con quel suo sguardo malinconico sul viso, e si disse che forse era tempo di andare.

“Spero di rivederti presto al grande tempio” salutò.

“Non accadrà tanto presto” rispose Kydoimos “Mi spiace, ma per un po’ vorrò i miei figli sempre accanto a me. Almeno fino a quando non si capirà quanto successo”.

“Comprendo perfettamente. Se qualcuno mi portasse via la mia bambina, non mi darei pace fino al sopraggiungere della verità. Spero che troviate presto le vostre risposte”.

“Come sempre le vostre parole sono sagge, Atena” annuì Kydoimos.

“Dicono sia la divinità dell’intelletto, oltre che della guerra. Ma non ne sono molto sicuro”.

Saga si congedò. Nàgiri rifletté sulle parole che gli erano state rivolte. Dicevano che le cose accadevano sempre per un motivo. Tutti quei morti per consolidare un’alleanza? No, impossibile.

 

“Ma che volete da me?” sbottò Thanatos, sull’uscio di casa.

“Solo che ci porti da loro” insistette Nyx.

Il Dio della morte sospirò. Davanti a sé aveva, oltre che alla madre, Kydoimos ed il Caos.

“Posso portare te ed il Caos” riprese il Dio.

“Ma Kydoimos ha il diritto di salutare i suoi figli e le sue donne!” insistette Nyx.

“Mamma…” riprese Thanatos, con calma “…lui è un mortale. Non è un Dio come noi. Non posso portarlo a spasso per l’oltretomba a mostrargli parenti deceduti. Perderebbe l’anima e morirebbe”.

“E non c’è nulla che tu possa fare?”.

“No. Se non dirvi che le anime dei vostri cari sono state messe in un gran bel posto, vicino a Hypnos. Lì si godranno i fiori, il sole, la musica e tutto il resto. Stanno meglio di me, credetemi”.

“Puoi portare loro un messaggio da parte mia?” domandò Kydoimos.

“Che noiosi che siete! E va bene, lo posso fare. Ma qualcosa di breve e conciso, che ho da fare”.

“Dì semplicemente loro che gli voglio bene, gliene vorrò sempre e che mi aspettino, perché li raggiungerò”.

“Riferirò. Ora scusatemi…”.

Il Dio fece per rientrare ma Nyx lo fermò. Lo guardò negli occhi, con velato rimprovero.

“Chi ti ha ordinato di portar via quelle vite dal nostro palazzo?” domandò la Dea.

“Non te lo posso dire”.

“Tu me lo DEVI dire! Sono tua madre!”.

“Non posso. Non posso e basta! Smettetela di starmi tutti addosso”.

“Noi vogliamo solo la verità”.

“La verità? Fa schifo la verità. Godetevi la vita così com’è. Prima o poi tutto si scoprirà ma nel frattempo gradirei non essere infastidito”.

“Dei bambini sono morti!”.

“Dei bambini muoiono ogni giorno, madre. Ogni giorno. E indovina chi è che li uccide. Non è una cosa che mi piace fare ma è una cosa che devo fare. Prendetevela con chi ha stabilito il cammino di quei piccoli”.

“E tu non puoi fare a meno di eseguire certi ordini?”.

“No, e tu lo sai. Lasciatemi in pace”.

“Dacci almeno un indizio”.

“Non insistete!”.

Thanatos tentava di rientrare nella sua dimora, nonostante l’insistenza della madre. Spalancò la porta e l’anima incompleta sobbalzò. Kydoimos la vide ed i loro sguardi si incrociarono. L’unico occhio dell’anima si spalancò e sorrise. Kydoimos non fece lo stesso. Si portò la mano alla testa, toccandosi il lato un tempo rosa carne. Bruciava. E molte immagini gli vorticavano davanti agli occhi. Volti, nomi, ricordi.

“Kydoimos!” si allarmò il Caos.

“Ti consiglio di portarlo via al più presto da qui” parlò Thanatos “O la sua forza vitale scorrerà via come il fiume su cui ti traghetta Caronte una volta trapassato”.

“Immagine poetica” storse il naso il Caos, mentre il Dio della morte rientrava in casa, chiudendosi la porta alle spalle.

 

“Puoi assicurarmi che tu non hai nulla a che fare con questa faccenda?” parlò Saga, serio.

“Mi hai fatto venire fin qui per chiedermi questo?” storse il naso Ahriman.

“Sì, l’ho fatto. Voglio sapere la verità”.

“Io ero qua a cena con te, te lo ricordi? Come potevo essere al palazzo nero ad uccidere dei marmocchi?”.

“Bambini innocenti, non marmocchi”.

“Fa lo stesso”.

“Eri qui, è vero. Però puoi aver mandato qualcuno”.

“E chi?”.

“Cosa ne so io?! Lo sto chiedendo a te!”.

“Non ti fidi?”.

“Non mi fido di nessuno. Se, in quel palazzo, morte e malattia non erano mai entrati, vuol dire che qualcuno ce li ha portati e cerco di capire chi”.

“Io non ammazzo bambini. Sono pure un bastardo che si comporta in pessimi modi in molte circostanze ma io non ammazzo bambini”.

La voce di Ahriman pareva sincera. Saga sospirò. Fissò il suo scettro, come in cerca di risposte. Se il Dio del Cielo era innocente, allora chi poteva avere un potere tale da agire in quel modo?

“Mi dispiace di aver dubitato di te, nipote” parlò.

“Era normale che lo facessi”.

Saga allungò la mano verso Ahriman, in segno di pace. Il Dio del cielo la fissò perplesso per qualche istante. Poi sorrise e la strinse. Pace. Anche se probabilmente avevano piena intenzione di controllarsi a vicenda.

 

“State meglio?” domandò Airis, avvicinandosi al letto di Kydoimos.

“Sì, ho solo mal di testa” rispose lui.

Lei sedette sul materasso e lo guardò. L’uomo si mise seduto a sua volta. Si fissarono in silenzio. Lui sospirò. Lei gli si avvicinò e lo baciò dolcemente sulle labbra. Kydoimos la fissò con aria interrogativa.

“Ho visto che avete salutato così Shuna” rispose lei “E volevo anch’io provare. Avete un buon sapore”.

“Grazie, Airis. Tu hai il sapore dell’acqua del mare”.

“Ed è un bene?”.

“Sì, è buono”.

Lui le diede un altro bacio, questa volta più lungo e convinto. Lei lo strinse forte.

“Signor Kydoimos…” mormorò piano.

“Non essere troppo riverente con me, mia cara”.

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Capitolo 10
*** X- nuove vestigia ***


X

 

NUOVE VESTIGIA

 

Il santuario era in festa. Dopo tanto tempo, si consegnava un’armatura d’oro. Arles II, fiero ed un pochino in ansia, attendeva quel giorno da anni. Era cresciuto ormai, aveva quasi sedici anni, e per metà di questi aveva avuto pieno diritto di indossare le vestigia. Il padre Deathmask, però, fino all’ultimo aveva resistito. Poi si era accorto che gli anni passavano e che era meglio affidare il suo compito ad un giovane. Era tra il pubblico, in abiti civili, ed osservava la moglie Ariadne. Non era invecchiata di un solo giorno. Lui, invece, iniziava a mostrare i segni del tempo con piccole rughe e qualche capello bianco. Guardò in su, in cima alla balconata dell’anfiteatro dove si svolgeva la cerimonia. Lì stavano Saga ed Aiolos. Il gran sacerdote, esattamente come Deathmask, era invecchiato mentre invece Saga, per merito del sangue divino, era immutato. Con lo scettro di Athena fra le mani, sorrideva ai presenti.

“Manca Aphrodite” parlò Saga, rivolto ad Aiolos.

“L’ho notato” ammise il gran sacerdote “Devo andare a farlo chiamare?”.

“No, non è necessario. Non è obbligatoria la sua presenza”.

Aiolos annuì. Guardò l’anfiteatro, notando fra la folla anche Kanon, Shura e Mur. Avanzò di qualche passo, alzando un braccio per indicare che era tempo di fare silenzio.

“Ti sei dimostrato all’altezza, Arles, figlio di Deathmask del Cancro e Ariadne dei Gemelli” disse “Sei pronto a giurare fedeltà alla Dea Athena e ricevere le sacre vestigia?”.

“Sono pronto” rispose Arles II.

“Bene. Procedi”.

“Io giuro fedeltà alla Dea Athena ed al suo sacerdote e giuro di servire il grande tempio, proteggendo la quarta casa da ogni pericolo e obbedendo ad ogni ordine che mi sia impartito per il bene del Mondo”.

“Ricevi questa sacra armatura, giovane cavaliere. Indossala con onore e con rispetto, in nome di Athena”.

“In nome di Athena” ripeté il neo cavaliere, mentre Saga, con un gesto dello scettro, faceva comparire lo scrigno d’oro con le vestigia dinnanzi al ragazzo.

Arles II sorrise. Finalmente quelle vesti erano sue. Le aveva sognate tanto a lungo. Sfiorò, quasi intimorito, lo scrigno e dall’anfiteatro si levò un applauso.

 

Nàgiri era chino su un libro ma non lo stava leggendo. Era distratto e fingeva di studiare per non essere disturbato. Sua sorella Neikos lo capì subito e gli si parò davanti.

“A che pensi?” domandò.

“A niente, sparisci”.

Lei si voltò, tentando di capire dove stesse guardando il fratello. Stava fissando Kydoimos e Airis, che insieme passeggiavano per il corridoio.

“Hai notato che, da quella volta, non sono nati più bambini?” commentò Nàgiri.

“Sì” ammise la sorella “Dicono che anche papà sia vittima della maledizione che colpisce tutti i figli del Caos e che quindi non possa più avere figli”.

“Non è giusto, però. Lui non è veramente figlio del Caos”.

“Lo so”.

“Ma siamo rimasti così in pochi. Solo Shuna e Lienn non hanno lasciato questa casa. Le altre mamme se ne sono andate con i nostri fratelli. È triste”.

“Sono passati degli anni, ancora non lo accetti?”.

Nàgiri scosse la testa.

“Sai a me, invece, cosa rende triste?” riprese lei.

“Cosa?”.

“Il fatto che, non potendo uscire da qui, io e te non conosceremo mai l’amore”.

“Papà ci vuole molte bene”.

“Non metto in dubbio questo. Intendo l’amore fra coetanei. I baci, i sospiri…il sesso…”.

Nàgiri fissò la sorella. Non si aspettava da lei discorsi simili. Era cresciuta, era bella, ma fin ora l’aveva vista sempre e solo come una bambina.

“E questo chi lo ha stabilito?” domandò lui.

“Che intendi?”.

“Qui è pieno di fratelli sposati. Pare sia la prassi, fra le divinità”.

“Ma noi non siamo divinità”.

“E non ti andrebbe di fingere di essere tale?”.

Neikos arrossì. Invidiava le mogli di suo padre e tutte le altre donne del palazzo. Le sue sorelline ancora non potevano comprenderlo ma lei, ormai più che adolescente, bruciava quasi di rabbia. Il fratello si alzò e si stiracchiò, deciso a lasciare la sorella nel suo silenzio. Si recò nella sua stanza ma, dopo qualche istante, Neikos vi entrò. Nel buio, si avvicinò al fratello. Sedettero entrambi sul letto.

“Dicevi sul serio, prima?” domandò lei.

“Certo”.

“Ameresti tua sorella?”.

“Qui quasi tutti amano la propria sorella. Qualcuno persino la propria madre”.

“E tu…ameresti…me?”.

“Io…se tu…”.

Ora il ragazzo era decisamente in imbarazzo. Non sapeva bene che rispondere però voleva molto bene a quella che poteva considerare la sua gemella. Forse, era destino che lui la amasse, non solo che le volesse bene. La guardò. I lunghi capelli le incorniciavano bene il viso e i suoi grandi occhi brillavano nonostante il buio. Era bella. Si passò una mano fra i lunghi capelli verdi e le sorrise. Prese un profondo respiro e poi le si avvicinò, dandole un bacio.

“E se scoprono che siamo qui?” domandò lei, un po’ intimorita.

“Non lo scopriranno. E, se accade, non hanno alcun motivo di punirci”.

Neikos non pareva convinta e quindi Nàgiri si allontanò.

“Se non te la senti, meglio vivere come sempre. Come fratelli” le disse.

“Non mi piace come viviamo sempre. Voglio di più”.

“Allora decidi tu quando. Appena te la senti”.

Lei rimase in silenzio, qualche istante. Sfiorò la mano del fratello e poi la strinse.

“Rimarresti accanto a me per sempre?” chiese.

“Te lo prometto. Ti proteggerò e ti starò accanto sempre” confermò Nàgiri.

“Allora non devo provare alcun timore”.

Fu lei ad avvicinarsi ed a baciarlo, stavolta. Lui la strinse forte a sé e la stese sul letto.

“Ma tu…” ridacchiò lei “…lo sai come si fanno queste cose?”.

“Non molto” ammise lui “E tu?”.

“Nemmeno. Però una volta ho visto Erebo e Nyx”.

“A me papà ha sempre fatto discorsi vaghi al riguardo. Ma ho letto certe cose”.

“Intanto baciami. È una bella sensazione, no?”.

Lui annuì e riprese a baciarla. Era strano, quasi assurdo, ma bellissimo. Sentirla fra le sue braccia gli piaceva. Forse era destino che, come tante divinità, loro due fossero fatti per stare assieme. Sentiva lo strusciare dei loro abiti, le cui stoffe sfregavano fra loro. Lasciò che l’istinto lo guidasse e risalì con la mano lungo le gambe di lei. Slacciò i nastri che si intrecciavano davanti al seno della sorella e ne tenevano chiusa la veste.

“Sei bellissima, Neikos” le sussurrò.

Lei sorrise, dandogli un altro bacio.

“Posso spogliarti?” domandò ancora lui.

“Solo se ti spogli anche tu” annuì lei.

Nudi, lasciarono scorrere naturalmente gli eventi. Gemettero di piacere, uniti in un solo corpo, abbracciandosi forte.

“Ti amo, Neikos” disse lui.

“Ti amo, Nàgiri”.

E, giungendo all’orgasmo, si promisero fedeltà eterna.

 

“Aiolos” chiamò Saga, una volta rientrato nella sua dimora.

“Sì?” domandò lui, inchinandosi leggermente.

“Hai visto Aphrodite, tornando qui?”.

“No. Non l’ho visto. Però ho percepito qualcosa”.

“Credi sia nascosto in casa?”.

“Può essere. Non saprei dire”.

Saga allora decise di raggiungere la dodicesima casa. Era un po’ preoccupato. Aphrodite adorava le cerimonie di investitura, le trovava divertenti ed un motivo per festeggiare.

“Vieni con me?” domandò ad Aiolos.

Il gran sacerdote annuì e seguì il suo signore lungo la scalinata di rose rosse, che lasciarono passare i due senza problemi, creando un sentiero. Per Saga il profumo di quelle rose non provocava alcun danno ma per Aiolos poteva essere fatale. Assieme giunsero alla dodicesima. Si percepiva una presenza, ma non erano sicuri che fosse il cavaliere dei pesci.

“Anche voi qui?” si sentirono chiedere.

“Deathmask?” si stupì Saga.

“Cosa ci fate qui, ragazzi?” riprese l’ormai pensionato cavaliere del cancro.

“Cerchiamo Aphrodite. E tu?”.

“Idem. Mi sono chiesto il perché della sua assenza alla cerimonia. A lui piacciono queste cose”.

“E allora dov’è?”.

Girarono per la dodicesima, chiamando il cavaliere senza però ricevere risposta. Si divisero e poi Saga gridò il nome di Aphrodite, con tono spaventato. Gli altri due cavalieri lo raggiunsero. Il cavalieri dei pesci era steso in terra, senza armatura. I tre capirono subito che Aphrodite era senza vita forse da giorni. Rimaneva comunque bellissimo, anche se mortalmente pallido.

“Chi ti ha fatto questo?” disse Deathmask, non aspettandosi risposta.

“È stata colpa mia” invece si sentì dire.

Nel buio, una voce di donna. Saga si avvicinò. Una figura stava rannicchiata contro il muro e piangeva.

“Perché dici che è stata colpa tua?” le domandò la reincarnazione di Athena.

La ragazza puntò il dito indice, che mostrava una piccola ferita. Saga capì. Quella giovane aveva affrontato il rituale del legame di sangue, quello che doveva affrontare ogni cavaliere dei pesci per divenire tale. Il veleno del sangue del maestro, lentamente si trasferisce all’allievo fino a quando l’allievo non supera il maestro e finisce con l’ucciderlo. Quella ragazza doveva essere la nuova rappresentante del segno dei pesci.

“Vieni, mostrati” la invitò Saga.

“L’ho ucciso io” pianse lei “Ho fatto morire il mio maestro”.

“Fa parte del rituale. Per tutti i pesci è così”.

“Sono un’assassina”.

“Lo siamo tutti” sdrammatizzò Deathmask.

La ragazza si alzò e si mostrò. Era bella da mozzare il fiato. I suoi occhi argento brillavano come stelle e i lunghi capelli parevano fuoco. I tre la guardarono, non sapendo cosa dire.

“Per la spada di Ares!” esclamò qualcuno.

Arles II, che era lì per controllare dove fosse il padre, era rimasto fulminato da quella visione. Scansando i tre “vecchi”, salutò la fanciulla con un elegante baciamano.

“Ciao, bellissima” le sorrise “Sono Arles, cavaliere del cancro. E tu?”.

“Non toccarmi” rispose lei “Perché è rischioso. Ho nel sangue il veleno dei pesci”.

“Non mi ha mai creato alcun problema. E hai un nome?”.

“Tania”.

“Tania? Piacere di conoscerti”.

Lei sorrise, vedendo lui inchinarsi.

“Sangue italiano” commentò Deathmask.

Arles II e Tania parevano avere la stessa età. Saga li fissò. La nuova generazione finalmente iniziava mostrarsi e, per un istante, provò quasi sollievo.

 

“Tartaros” chiamò Nàgiri “Ti posso parlare?”.

Tartaros si stupì di quella domanda. Non parlava quasi mai con i giovani della casa perché, con le sue dimensioni, incuteva un certo timore.

“Cosa c’è, ragazzo?”.

“Ho provato a chiedere a tanti a palazzo, ma nessuno ha saputo dirmi molto. Magari tu puoi aiutarmi”.

“Parla”.

“Cosa sai su mio padre?”.

“Su Kydoimos?”.

“Sì. Cosa sai sul suo passato? Chi era prima di venire qui?”.

“Perché non lo chiedi a lui?”.

“Non mi da risposte chiare”.

Tartaros rimase in silenzio. Guardò Nàgiri e gli mise una mano sulla spalla.

“Ragazzo…” iniziò “…molti di coloro che sono qui non hanno avuto un bel passato. Probabilmente non vuole ricordare o raccontare ciò che è stato. Capisci?”.

“Capisco”.

“Se un giorno vorrà, ti racconterà ogni cosa, ma non è detto che questo accada”.

“Ma non sai da dove l’ha raccattato il Caos?”.

“Non è un bel termine quello che hai usato e comunque io non so nulla a riguardo. So che lo ha portato qui dopo una battaglia. Chiedilo a lui”.

“Ne andrebbe a parlare a mio padre”.

“E qual è il problema? Perché ti interessa sapere del passato di tuo padre?”.

“Perché sono abbastanza grande per sapere la verità, no?”.

“Non siamo mai abbastanza grandi per certe cose, Nàgiri”.

 

"Come ho potuto non accorgermene, amico mio?” parlava Saga, camminando solo per la sua dimora “Una vita passata insieme e non un solo sospetto. Crescere assieme e non conoscersi. Che pessima persona sono, ma questo lo sapevo già. Ora so di essere stato perfino un pessimo amico. Ti chiedo perdono, come ho chiesto perdono a tanti. Ma che senso ha? Le anime morte non possono perdonarti. E più passano i giorni e più osservare quella daga d'oro diventa un'ossessione. La voglia di piantarmela in gola, esprimendo il desiderio di ritrovarvi, è forte. Ti rivedrei, fratello? E tu mi sorrideresti ancora, amico mio? Perché mi abbandonate tutti? Perché qui resto solo io?".

Pensava ad Aphrodite, non riuscendo a capacitarsi di non essersi accorto della decisione dell’amico. Il rituale richiedeva anni prima di concludersi. Come aveva potuto essere così concentrato su se stesso da non vedere il cavaliere stare male e lentamente spegnersi? Con una lacrima che gli scorreva sul viso, camminò per raggiungere il piccolo armadio dove teneva gli alcolici. Si riempì il bicchiere e bevve un lungo sorso. Per un attimo si sentì meglio ma poi fu colto da un improvviso malessere. Si premette la fronte. Il bicchiere cadde in terra, andando in frantumi e Saga svenne.

 

Kydoimos se ne stava tranquillo nella vasca. Stava steso e si rilassava, immerso nell’acqua calda. Muovendo lentamente le braccia, si beava del rumore lieve che produceva. Poi l’orecchio a sinistra, quello a punta, percepì qualcosa. Qualcuno era entrato nella stanza. Erebo raggiunse il bordo della vasca e rimase a fissarlo.

“Vedi qualcosa che ti piace?” ridacchiò Kydoimos.

“Vorrei parlarti e questo è l’unico luogo dove sei solo”.

“Già. Chissà perché” sbottò sarcastico.

“Volevo solo farti notare che i tuoi figli crescono, Kydoimos”.

“Questo lo vedo da me”.

“E cosa pensi di fare?”.

“A che proposito?”.

“Non lo immagini?”.

“No”.

“Stanno crescendo. Dovrebbero conoscere delle persone diverse dai parenti, magari di sesso opposto”.

“E perché?”.

“Vuoi che si sposino fra loro?”.

“Tu hai sposato tua sorella!”.

“Eravamo in pochi al mondo. Amo Nyx, tantissimo, ma forse quei giovani meritano di esplorare. Se poi è destino che stiano fra loro, allora andrà così”.

Kydoimos non parlò subito, capendo che probabilmente Erebo aveva ragione. Immerse parte del viso in acqua. Non voleva che i suoi piccoli si allontanassero. Erano rimasti in pochi, solo in sette. Ne aveva avuti oltre quaranta, ma così pochi erano ancora in vita ed accanto a lui!

“So che è difficile per te” parlò Erebo e ancora non ricevette risposta.

Il Dio sospirò e si alzò. Era inutile parlarne.

“Posso solo chiedere perché ora tieni il ciuffo davanti all’occhio destro?” parlò.

“Perché tanto sono del tutto cieco da quell’occhio” rispose, calmo, Kydoimos.

“Capisco”.

Erebo fissò il fratello minore, che nella vasca pareva quasi immerso nei lunghissimi capelli. Era meglio lasciarlo da solo.

 

Aiolos, seduto sul trono della tredicesima, sospirò. Sapeva che Saga era solo. La moglie e la figlia erano al tempio di Hestia per qualche giorno perché la madre desiderava far conoscere alla sue erede anche quella realtà. Forse doveva dargli una controllata. Scostò la tenda e salì i pochi scalini che lo dividevano dalle stanze della reincarnazione di Athena e la sua famiglia.

“Saga” lo chiamò “Sei già a letto?”.

Scostando l’ennesima tenda, vide Saga a terra. Era pallido. Lo fece rinvenire.

“Sto bene” gli disse Saga, alzandosi a sedere e tentando di rialzarsi.

Non ci riuscì, colpito da un altro capogiro. Aiolos lo sorresse e lo accompagnò a letto.

“Che ti succede?” domandò, preoccupato, il gran sacerdote.

“Niente. Sarà la stanchezza”.

“Tieni, bevi” offrì Aiolos, notando gli occhi rossi dell’amico.

Entrambi avevano sicuramente pianto per Aphrodite.

“Devo solo riposare un po’. È stata una giornata impegnativa” mormorò Saga.

“Sei sicuro?”.

“Sì. È da un po’ che…”.

“Un po’? Chiamo Hermes”.

“No, non serve”.

“Adesso chiamo Hermes, Dio della medicina”.

“No, non voglio far preoccupare qualcuno”.

“Gli ordinerò massima discrezione. Ma lo chiamo, perché voglio vederti stare bene, ok?”.

Saga non disse nulla. Si stese sul letto, cercando di rilassarsi. Però non riusciva a dormire. Aiolos si allontanò e tornò dopo meno di mezz’ora con Hermes.

“Nessuno sa che è qui, sei contento?” disse il gran sacerdote.

“Grazie” sorrise debolmente Saga.

“Ora vi lascio per la visita”.

“Puoi restare. Non c’è niente che ti voglia nascondere”.

“Ma ti lascio la tua privaci. E poi vado a letto. Sono un po’ stanco”.

Dopo essersi dati la buonanotte, i due si separarono e Hermes iniziò la sua visita. Osservò attentamente gli occhi del paziente, chiedendone i sintomi. Ascoltò il battito e tastò alcuni punti.

“Da quanto tempo ti capita di provare capogiri, mal di testa e mancanza di respiro?”.

“Non lo so” ammise Saga “Ogni tanto mi capita”.

“Ultimamente hai notato che capita più spesso?”.

“Sì e faccio sempre più fatica a dormire. Sono sempre stanco ma non dormo perché ho sempre male da qualche parte”.

Lo sguardo di Hermes si fece serio. Respirò a fondo, passandosi una mano dietro al collo.

“È una cosa per cui non ti posso aiutare” disse “Qualcosa in te non va. Qualcosa di grave. Qualcosa che non ho mai riscontrato prima. E purtroppo pare progressivo. Nonostante tu sia una divinità”.

“È solo un po’ di stanchezza. Dammi qualcosa per dormire, vedrai che poi starò meglio”.

“C’è qualcosa nel tuo sangue. Qualcosa di nero, oscuro, che ti sta consumando. E uccidendo”.

“Uccidendo?”.

“Sì. Non so fra quanto. Ma pian piano ti spegnerai”.

Saga riappoggiò il capo sul cuscino, in silenzio.

“Farà male?” domandò.

“Probabilmente sì. Segui il mio consiglio: parlane con chi ami, perché ogni momento sarà prezioso. Potrebbero volerci vent’anni come pochi mesi”.

“Capisco”.

“Mi dispiace”.

“Non dispiacerti. È scritto nelle stelle”.

“Ti lascio qualcosa per riposare. Allevierà il dolore, quando avrai qualche crisi”.

“Grazie”.

Saga non aveva voglia di dire altro. Girò la testa, evitando lo sguardo del Dio, che fece un piccolo inchino di congedo e si allontanò.

“Hei” lo fermò Saga “So che sei anche il Dio dei ladri. Non portarmi via nulla” e ridacchiò.

“Non lo farò. E buona fortuna. Pregherò per te, Athena”.

“Le preghiere non servono. Il mondo non gira con le preghiere”.

“Ma a volte scaldano il cuore”.

“Può essere”.

Hermes se ne andò e Saga rimase al buio, da solo. Decise che non avrebbe detto nulla, fin quanto possibile, sulla sua condizione. C’erano cose più importanti a cui pensare. Quasi sorrise. Forse morire era la cosa migliore che potesse fare.

 

“Benvenuto, Aphrodite” fece un inchino Thanatos.

“Ciao” salutò il cavaliere dei pesci.

Sorrise, felice. Aveva finalmente trovato la pace. Poteva riposare per sempre nei campi elisi.

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Capitolo 11
*** XI- ritrovarsi ***


XI

 

RITROVARSI

 

Nàgiri sorrise. Nonostante fossero passati molti anni, ormai lui ne aveva più di venti, il Grande Tempio non era cambiato. Camminò sicuro lungo il sentiero che lo portava alla prima casa. Una bambina fermò il suo avanzare, parandosi davanti all’intruso con le braccia spalancate.

“Non puoi andare oltre!” parlò la piccola.

“Ah, no?” ridacchiò Nàgiri, scansandola con due dita.

“No!” instette lei, teletrasportandosi e bloccandogli di nuovo la strada.

“Ma tu chi sei?” si irritò lui.

“Mi chiamo Inlil, e tu non puoi proseguire”.

“Altrimenti cosa mi fai?”.

“Ti faccio molto male!”.

“E come?”.

La bambina si concentrò, tentando di mostrare i suoi poteri psichici. Nàgiri notò le sopracciglia tonde di lei e intuì che, probabilmente, era una piccola lemuriana.

“Sei la sorellina di Kiki?” chiese e lei spalancò gli occhi, stupita.

“Ma no!” scosse la testa “Stupido! Il grande Kiki è mio papà!”.

“Oh”.

Ora era Nàgiri ad essere stupito ma non lo restò a lungo. Facendosi due conti in testa, si rese conto che Kiki doveva aver superato i trent’anni da un po’.

“Che problemi ci sono, Inlil?” chiamò Kiki, apparendo alla soglia della prima casa.

“C’è un intruso” rispose la bambina.

“Sei così scansafatiche che usi tua figlia come sentinella, invece di fare il tuo lavoro?” sorrise Nàgiri.

Il cavaliere dell’Ariete, piuttosto offeso da quelle parole, scese lungo la scalinata, deciso ad affrontare lo straniero e farlo tacere.

“Hai sconfinato” sibilò e Nàgiri rise.

“Non è mia intenzione dare fastidio” parlò “Voglio solo salutare un amico. Se vive ancora qui”.

“Chi cerchi?”.

“Kiki! Sono io! Non mi riconosci! Sono quello che a calcio vinceva sempre”.

“Nàgiri?”.

“In persona”.

Kiki fissò il giovane e sorrise. Quanto tempo era passato! E come era cambiato chi aveva di fronte!

“Puoi passare, ragazzone. Ma ricorda che ti tengo d’occhio” si scansò il cavaliere dell’ariete.

“Grazie, amico mio. Ed hai una gran bella bambina, non ti somiglia per niente”.

“Sei venuto su davvero stronzetto, sai?”.

“Sempre stato”.

Ridacchiando, i due si congedarono e Nàgiri riprese la sua salita.  Alla casa del toro, nessuno lo fermò. Il suo guardiano doveva essere altrove, come spesso accadeva. Entrò alla terza casa con un po’ di timore, perché sapeva quanto potevano essere bastardi i cavalieri dei gemelli. Ariadne lo vide e non lo riconobbe subito.

“Salve, signora della terza casa” salutò Nàgiri.

Non era invecchiata di un solo giorno, rimanendo bellissima e potente.

“Ci conosciamo?” alzò un sopracciglio lei.

“Sono Nàgiri. Ma sono cambiato così tanto?”.

“Vai alla quarta casa, sono certo che Arles sarà felice di rivederti” annuì Ariadne.

Salì ancora una fila di scale ed entrò alla quarta casa. Come sempre, provò una certa inquietudine nell’entrarvi, fra anime smarrite e maschere mortuarie.

“Stai facendo una gita?” sbottò Arles II, spuntando serio da dietro una colonna, con uno sguardo minaccioso sul viso.

“Arles! Sei tu! Ma sei...diventato grosso!”.

“Sei venuto qui per darmi del ciccione, intruso?”.

“Non sei ciccione. Sei grosso. Ne hai fatto di allenamento. E che bene ti sta la scintillante armatura del cancro, amico mio”.

“Io non sono tuo amico. Chi sei?”.

“Sono Nàgiri, cazzone”.

“Dici sul serio?”.

I due si fissarono per qualche istante in silenzio e poi si misero a ridere.

“Che bello rivederti!” sorrise Arles II, tirandogli un piccolo pugno sulla spalla.

“Sei cavaliere d’oro. Sono felice per te. Ma…è forse successo qualcosa a tuo padre?”.

“Sì. È invecchiato ed è andato in pensione anticipata. Ora si gode la vita”.

“Ah, buon per lui”.

“Ed a te come va? Tutto bene? Ho saputo quello che è successo nella tua famiglia…”.

“Son passati tanti anni”.

“E anche tu sei diventato grosso. Hai delle spalle enormi. Vi fanno fare allenamento nel palazzo nero?”.

“Sì, per mia scelta”.

“Resti per pranzo?”.

“Volentieri. Però non qui, con tutte queste facce che mi fissano”.

“Andiamo da mia madre, che ha anche più spazio. E conoscerai la mia ragazza”.

“La tua ragazza?”.

“Tania, la custode della dodicesima casa, quella dei pesci”.

“Buon per te”.

“Toccala, e finisci appeso al muro assieme a loro” indicò il muro Arles II, ghignando.

 

“Ioria, torna alla tua casa” quasi ordinò Aiolos.

Il cavaliere del leone stava al tredicesimo tempio, al cospetto del fratello maggiore, a pugni chiusi. Si era accorto del graduale ritorno delle creature del Caos. La cosa al leone non piaceva.

“Saga deve agire” protestò “Non possiamo permettere che questi esseri girino liberamente per il mondo”.

“Ti hanno mai infastidito? O fatto del male a qualcuno?” rispose Aiolos, sforzandosi di restare calmo.

“No”.

“E allora che problema c’è?”.

“Sono un pericolo”.

“E questo chi lo ha stabilito?”.

“Ma è ovvio! Sono esseri pericolosi”.

“Non ci sono prove di questo”.

“Il compito di Saga è tenere al sicuro i deboli”.

“Credi che Saga non sappia quel che fa? Se fossero pericolosi, interverrebbe di certo”.

“Ti ha fatto il lavaggio del cervello”.

“E tu lo hai lasciato a casa il cervello, invece!”.

Ioria ringhiò. Pretendeva di parlare con Saga, di persona, ma il fratello maggiore glielo impediva. Questo perché il gran sacerdote rispettava un ordine. Ormai impossibilitato a nascondere a lungo il male che lo consumava, Saga aveva confessato alla moglie, alla figlia e ad Aiolos la verità. Aveva però ordinato loro di non spargere la voce. Non voleva che si sapesse in giro. L’attenzione non doveva concentrarsi su di lui ma su un futuro di pace. Con il viso però scavato dal male, non usciva mai dalla sua casa. Riposava e agiva tramite il suo fedele gran sacerdote.

“Voglio vederlo!” insistette Ioria “Voglio verificare di persona che non sia di nuovo uscito di testa!”.

“Non è uscito di testa, fidati di me”.

“Mi fido di te. Ma…”.

“Se ti fidi, torna alla tua casa. Va dalla tua famiglia, fratello”.

“Ma…”.

“Smettila di contraddirmi”.

“Ma se ci fosse qualcosa che non va…tu me lo diresti, vero?”.

“Se qualcosa potesse farti del male, sì. Te lo direi”.

Ioria non era molto convinto ma alla fine lasciò la tredicesima casa, senza aggiungere altro. Aiolos sospirò. Non amava mentire al fratello, ma era obbligato a farlo. E fortunatamente fin ora solo il leone aveva chiesto udienza diretta con Saga.

 

L’arrivo di Tania alla casa di gemini fece rimanere senza parole Nàgiri. Era una donna bellissima. Salutò l’amato Arles II tirandogli il codino e poi fissò l’ospite con curiosità.

“Ciao” salutò “Tu chi saresti?”.

Nàgiri farfugliò qualcosa di poco comprensibile e poi si presentò.

“Sedetevi e mangiate” invitò Ariadne, mentre anche Deathmask si aggiungeva alla compagnia.

Non chiese chi fosse quel giovane dai lunghi capelli verdi e sedette, affamato. In lui si notavano i segni degli anni passati, anche se in maniera lieve.

“Salute” brindò Arles II “Agli amici che non si dimenticano”.

“Agli amici” risposero gli altri, in coro.

“Hai davvero una ragazza bellissima” commentò Nàgiri.

“Lo so. E tu? Che mi racconti? Che combini?”.

“Sai che vivo solo con le mie sorelle…”.

“E con ciò? Anche mio zio Ahriman ci prova sempre con mia madre, vero mamma?”.

“Eh sì” storse il naso Ariadne “Ma poteva chiedere a mamma e papà un’altra sorella da importunare, invece di provarci con me che sono felicemente sposata”.

“Ahriman ci prova con sua sorella?”.

“Sì, devi vedere come sbava. Però non lo ammette”.

Nàgiri non commentò oltre. Scosse la testa con un sorriso e si dedicò la dolce.

 

“Non devi mica sgridare in quel modo tuo fratello” parlò Saga, quando Aiolos entrò nelle sue stanze.

“Non avevo altro modo per allontanarlo. Obbedisco agli ordini”.

“Bravo. C’è una domanda che vorrei farti…”.

Saga aveva preso la medicina che Hermes gli preparava e ora se ne stava a letto. Sua moglie Hestia era al proprio tempio che pregava, cosa che il marito riteneva inutile. La figlia Heiwa riposava. La notte precedente aveva vegliato il padre, che aveva avuto uno dei suoi soliti attacchi. Aiolos si avvicinò la letto, scostando le tende del baldacchino.

“Che mi volete chiedere?” disse, parlando piano.

Il gran sacerdote attese la risposta, sapendo che Saga faceva molta fatica ormai a fare anche le più piccole cose. Erano anni che la malattia lo consumava ed ora pareva allo stremo. Non poteva più fingere di stare bene, come aveva tentato sempre di fare.

“Perché, Aiolos, non ti sei creato una famiglia?” domandò Saga.

“Io ho una famiglia. Ho Ioria, sua moglie, ed i loro figli”.

“Quella non è la tua famiglia. Intendo…perché non hai dei figli, una donna…”.

“Non ho mai provato il desiderio di averne. Ho servito Athena fedelmente, cresciuto finché ho potuto mio fratello ed addestrato dei piccoli cavalieri”.

“E ti sei preso cura delle mie donne, da quando ho iniziato a stare male. Te ne sono grato”.

“Lo faccio con piacere”.

“Continuerai a farlo, vero? Anche quando io…”.

“Fino a quando non starai meglio. Una volta guarito, non vi servirò”.

“Lo sai che io non guarirò”.

“Tu guarirai”.

“Aiolos…”.

“Tu guarirai perché…non voglio seppellire un altro di noi. Fa troppo male”.

“La vita è fatta anche di questo. Prima o poi finisce”.

“Ma tu sei una divinità. Non puoi morire”.

“Kayros, Dio che scrive la sorte di ogni uomo, ha deciso diversamente per me”.

“Non lo trovo giusto”.

Saga sorrise, socchiudendo gli occhi.

“Che è successo oggi al tempio?” domandò, ad occhi chiusi.

“Pare sia riapparso quel bambino strano che una volta giocava qui”.

“Nàgiri?”.

“Sì”.

“Ottimo. Sono felice. Spero tanto che la pace torni fra la nostra gente”.

“La formeremo insieme la pace. Ora, però, dovete riposare”.

“Resta qui ancora un po’. È sempre così buio e confuso questo posto, ultimamente”.

Aiolos annuì. Il tempio, come sempre, era soleggiato e luminoso. E la statua di Athena brillava al sole.

 

Verso sera, Nàgiri decise che forse era meglio rientrare al palazzo nero. Aveva trascorso una piacevole giornata ma era tempo di tornare a casa. Si avviò lungo la scalinata, con l’intenzione di salutare Kiki. Uscì dalla casa dei gemelli e si fermò. Ahriman stava risalendo. Entrambi si fissarono, immobili.

“Ciao, figlio del Caos” parlò Ahriman, dopo qualche istante.

Nàgiri non rispose. Serrò i pugni, sforzandosi per rimanere calmo.

“Cosa c’è?” domandò Ahriman “Qualcosa non va?”.

“Lo chiedi anche, divinità?”.

“Certo che lo chiedo. Non mi piace spiare la mente della gente mortale”.

“Io non ho niente da dirti”.

“Allora scansati, devo passare”.

“Devi andare ad eccitarti guardando tua sorella? Non hai giornaletti porno a casa tua?”.

Ahriman lo fulminò con lo sguardo. Come osava quell’essere rivolgergli simili parole?

“Io posso farti molto male, lo sai? Sciocco ibrido del palazzo nero”.

“Lo so” annuì Nàgiri “Mi hai già fatto molto male. Per colpa tua, io ho perso mia madre e molti dei miei fratelli e sorelle”.

“Anche tu pensi questo?”.

“Ne sono certo. Ho visto quando infondevi quell’ombra nera su mia sorella”.

“Stronzate”.

“Per anni ho desiderato solo ucciderti con le mie mani”.

“Fallo. Se usassi il mio potere, moriresti in un sospiro”.

“Non ho paura di te. Non ho motivo di riverirti. Dove vivo io, non si vedono le stelle”.

“Questo perché siete maledetti”.

“Non mi sono maledetto da solo!”.

Nàgiri lasciò perdere i buoni propositi e tentò di colpire il Dio con un pugno. Ahriman schivò facilmente e rispose al colpo con due dita. Nàgiri gridò per il dolore e ringhiò di rabbia. Riuscì a rispondere al colpo, cogliendo il Dio di sorpresa. Ahriman si stupì della velocità di quel mortale. E trovò anormale la sua forza. Retrocedette di qualche passo. Nessuno degli altri presenti aveva il coraggio di attaccare o di intervenire. L’ira del Dio del cielo era temuta.

“Ti ucciderò con le mie mani, anatema” sibilò Ahriman.

“Ti riempirò di botte come non ha fatto mai nessuno!” promise Nàgiri.

 

“Che succede?” si chiese Saga, svegliandosi di botto.

Il chiasso prodotto da Nàgiri ed Ahriman era udibile anche dalla casa di Athena. Tentò di alzarsi ma non ci riuscì, ricadde sul cuscino.

“Tranquillo, ci penso io” lo calmò Aiolos.

Il gran sacerdote uscì sul piazzale con la grande statua della Dea, da cui si vedeva tutto il grande tempio.

“Silenzio!” tuonò “Non disturbate la pace di questo sacro luogo”.

Nàgiri parve titubare qualche istante ma Ahriman di certo non si faceva dare ordini da un semplice mortale. Lo colpì violentemente, mandandolo a terra. Il giovane non si fece scoraggiare e rispose subito, con un altro pugno ben assestato.

“Crepa, signore dei cirrocumuli!”.

“Torna al tuo palazzo, scherzo della natura!”.

Aiolos si accigliò. Saga aveva bisogno di riposo, non di schiamazzi per motivi futili. Chiamò a sé il suo arco. Sapeva come far cessare tutto!

 

Saga non riusciva a vedere quel che stava accadendo ma percepì il movimento dell’arco di Aiolos. Gli gridò di non usarlo, ma la sua voce non era più potente come un tempo. Tentò affannosamente di uscire dal letto. Dolorante, si trascinò fino allo scettro di Athena e tentò di uscire all’aperto.

 

Con la freccia oro puntata verso i due litiganti, Aiolos era pronto a scoccarla contro il mortale. La divinità non la voleva uccidere, perché utile, ma quella creatura del Caos era sicuramente la fonte dei guai. Aveva ragione Ioria. Tese l’arco e prese la mira.

 

“Fermo!” ansimò Saga, camminando sorreggendosi con lo scettro.

“Saga! Cosa fai in piedi?” si allarmò Aiolos.

“Non preoccuparti per me. Obbedisci al mio ordine. Deponi quell’arco”.

Ora la voce di Saga era accompagnata da quella di Athena e si udivano entrambe, forti. Aiolos obbedì. Osservò l’amico avvicinarsi e guardare giù, verso i litiganti. Percepiva il suo respiro affannoso ma non riuscì a dirgli null’altro, se non chinare il capo mentre Saga splendeva di luce sempre più viva.

“Athena” mormorò più di qualcuno, notando quella creatura luminosa come una stella.

Saga sollevò lo scettro. Grazie alla luce candida che lo avvolgeva, nessuno notava il suo viso stanco e la smorfia di dolore che accompagnò quel semplice gesto. Era sceso il silenzio al santuario. Si udivano solo le grida dei due litiganti. Lo scettro vibrò ed un fascio oro partì da esso, andando a colpire Nàgiri ed Ahriman. I due, separati da quel raggio, si fissarono increduli. Un senso di pace ora albergava nei loro cuori e non provavano più il desiderio di combattere.

“Athena sa compiere ancora miracoli” ghignò beffardo Ahriman, aiutando Nàgiri a rialzarsi.

Entrambi guardarono in alto, verso la divinità. La luce che l’avvolgeva si mostrò ancora qualche istante e poi si spense, di colpo. Senza emettere un solo gemito, Saga cadde a terra. Lo scettro tintinnò in una nota melodica, sbattendo sulla pietra, che riecheggiò per il santuario.

“Questo è normale che accada?” si chiese Nàgiri e si udì l’urlo di Heiwa.

 

“Saga!” lo chiamò Aiolos, cercando di farlo riprendere.

Heiwa corse accanto al padre e lo chiamò a sua volta. La luce di Saga però si era spenta, così come la sua vita. A nulla valsero i tentativi del suo gran sacerdote. Aveva usato le sue ultime energie per donare la pace.

 

Passarono solo pochi istanti e le porte della tredicesima casa furono scosse. Il tempio era accorso su per le scale, per capire quel che era successo. Hestia, in testa al gruppo, spalancò la porta e guidò tutti fino alla statua d’Athena, sotto la quale giaceva Saga. Dallo sguardo di Aiolos e Heiwa, la Dea comprese subito quanto successo. Si portò le mani al viso e scosse la testa. Il gran sacerdote non sapeva cosa dire e lei si fece abbracciare, scoppiando a piangere. La figlia, ancora china sul padre, storse il naso alla scena. Accarezzò i capelli del genitore, con le lacrime che le rigavano il viso. Cosa faceva tutta quella gente lì, ora? Dov’erano quando suo padre stava male per giorni interi, in preda al dolore? E sua madre…

“Oh, papà. Perché mi hai lasciato da sola?” pianse, appoggiandosi al petto ormai silenzioso di Saga.

 

Kydoimos danzava con Airis. Nel grande palazzo nero, i due volteggiavano nella sala. Un gruppo di altri abitanti li fissava, divertito. Nàgiri rientrò e cercò subito di raggiungere la sua stanza, a testa basta. Ma il padre lo vide e smise la sua danza. Lasciò la compagnia e chiamò il figlio.

“Cosa ti è successo, piccolo Nàgiri?” chiese anche Airis.

“Ho fatto una cosa orribile” ammise il giovane.

“Parla. È qualcosa di grave?” insistette la donna.

“Ho ucciso un uomo” distolse lo sguardo il ragazzo.

“E cosa vuoi che sia?” ghignò Erebo “Saresti solo l’ennesimo assassino in questa casa”.

Kydoimos si fece raccontare con calma l’accaduto, cercando di tranquillizzare suo figlio.

“Ma non è stata colpa tua” disse poi, una volta appresi gli eventi.

“Certo che è stata colpa mia!” ringhiò Nagiri “Se non avessi fatto lo stupido…”.

“Lo hai detto tu che Saga era malato. È stato questo ad ucciderlo, non tu”.

“Ma io ho peggiorato le cose!”.

“Se non era oggi, sarebbe successo domani. Nàgiri, non…”.

“Saga è stato l’unico del tempio a rivolgermi parole gentili quando mamma è morta. E si è sempre battuto per difenderci, anche quando quasi tutti dicevano che eravamo dei mostri. Ha sfidato Ahriman, pur di farci restare al sole. Ed io l’ho ripagato così”.

“Non è stata colpa tua” ripeté il padre “E, comunque, se cerchi un po’ di sollievo forse dovresti andare a dargli l’ultimo saluto”.

“Dovrei andare al funerale, intendi?”.

“Sì. E riferire queste parole alla sua famiglia. Fargli capire che è stato importante per te”.

“E che differenza fa?”.

“Aiuterà il tuo animo, credimi”.

Nàgiri non pareva convinto.

“Dovresti andare” parlò Neikos, guardandolo con occhi dolci e preoccupati.

“Io non posso venire con te” ammise Kydoimos “Per via della maledizione. Ma sarei fiero se tu portassi la voce di questo palazzo. Sarei felice se tu porgessi l’ultimo saluto ad un uomo come Saga, anche da parte mia e di tutta questa casa”.

Nàgiri annuì. Kydoimos gli sorrise, passandogli due dita sul viso, e poi si congedò.

 

“Cos’hai? Smettila di agitarti!” sbottò Thanatos, rivolto all’anima incompleta che aveva in casa “Stai a cuccia!” aggiunse, infastidito.

Stava tentando di leggere, steso sul divano, ma l’anima era inquieta e non stava ferma un momento, distraendolo. La vide affacciarsi alla finestra.

“Ma che fai?! Togliti da lì, qualcuno potrebbe vederti!”.

Si affacciò a sua volta e vide Hades. Al suo fianco, due anime con cui parlava. Thanatos sospirò. Come sempre, doveva lavorare. Si diede una sistemata veloce alla veste ed uscì.

“È un onore avervi qui” diceva Hades.

“Lieti di saperlo” sorrise l’anima, l’essenza di Athena.

Thanatos uscì e raggiunse i tre. L’anima di Saga, accanto ad Hades, non parlava però pareva felice. E anche quella di Athena sorrideva.

“Eccoti, finalmente” quasi sbottò il Dio dell’oltretomba, notando Thanatos.

“Nuovi arrivi, eh?” salutò il Dio, con un cenno del capo.

“Inattesi così presto” ammise Hades “Mi aspettavo di veder vagare per la terra questa divinità molto di più”.

“Il destino ha deciso diversamente” sorrise lei.

“Accompagna queste anime ai campi elisi, Thanatos” ordinò Hades “E assicurati che trovino piacevole il lungo soggiorno”.

“Sì” quasi sospirò il Dio della morte.

Quella sorta di limbo, quel luogo da dove si accedeva ai campi Elisi, era solitamente molto silenzioso. Ma quel silenzio fu rotto da un nome, pronunciato da una voce sussurrante e sospirata.

“Saga” si sentì.

“Che cosa è stato?” si chiese Hades, guardandosi attorno.

“Saga” ripeté la voce, questa volta più forte.

L’anima incompleta era apparsa sull’uscio della dimora di Thanatos e guardava il gruppo di Dèi e mortali. Era quell’anima che chiamava il nome di Saga, più e più volte. Saga la guardò e subito capì a chi apparteneva un tempo. Sorrise e, nonostante le proteste delle divinità, corse a raggiungerla.

“Saga” chiamò ancora l’anima.

“Arles” rispose Saga, abbracciandola forte.

“Mi devi delle spiegazioni” parlò Hades, irato, rivolto al Dio della morte “Cos’è quella cosa? Perché un’anima incompleta sta nella tua casa?”.

“Io…” iniziò il Dio, ma Hades non ascoltava perché si stava dirigendo verso le due anime abbracciate.

“Vieni qui e separale!” ordinò il signore di quel luogo.

“Ma…” parlò Thanatos “…io non ho mai visto due anime così strettamente legate, nemmeno fra innamorati. Non posso separarle, non sarebbe giusto”.

“Lo decido io qui cosa è giusto. Separa quei due e sbarazzati dell’anima incompleta”.

“Cosa?!”.

“Mi hai sentito bene. Quell’anima è un evidente errore di sistema. Dev’essere eliminata. Sbarazzatene quanto prima, sai come fare”.

“Certo che so come fare! Ma non lo farò!”.

Hades guardò con rabbia Thanatos, mentre degli specter erano giunti a dividere l’abbraccio e separare le anime. I divisi protestarono. L’anima incompleta lanciò un grido, tentando in ogni modo di raggiungere di nuovo Saga.

“Finiscila!” tuonò Radamante, colpendola per farla retrocedere.

“Fermo!” protestò Thanatos, allontanando il giudice con l’imposizione di una mano “Non rovinare ulteriormente questa povera anima”.

Le essenze di Saga ed Arles ora piangevano, separate con la forza.

“Ti ho dato un ordine, Thanatos” riprese, con ancora più rabbia, Hades.

“E che cosa vuoi che me ne importi? Vuoi davvero metterti il dito nella piaga da solo, ragazzino?” si accigliò il Dio della morte, mentre il fratello Hypnos compariva all’ingresso dei campi elisi.

“Come osi?”.

“Ho almeno tre volte la tua età e lo sai che sono molto più potente di te, Hades. Sei consapevole che un giorno verrò a prenderti e sarò io a decidere dove deporre la tua essenza divina in attesa della rinascita. Io non sono come te, non ha senso che stia ai tuoi ordini”.

Hypnos spalancò gli occhi nel sentire questo, mentre riceveva il comando di portare nei campi elisi le anime di Athena e Saga. Afferrò quella di Saga, poco collaborativa, e si apprestò ad obbedire.

“Non vuoi dunque obbedirmi?” si rivolse ancora a Thanatos il Dio dell’oltretomba.

“No” rispose la divinità, non avendo timore a mostrare la differenza d’altezza fra lui ed Hades.

Hades, più basso, non sopportava quello sguardo argento così arrogante.

“Bene” disse d’un tratto, ghignando “Vorrà dire che prenderò provvedimenti”.

“E che provvedimenti potreste prendere?” incrociò le braccia Thanatos, infastidito.

“Sei bandito” tuonò il Dio dell’oltretomba.

“Che cosa?!” esclamarono, in coro, Hypnos e Thanatos.

“Se non vuoi obbedirmi, non ha senso che ti conceda dimora nel mio regno” riprese Hades “Perciò vattene. Prendi le tue cose e sloggia prima dello scoccare della mezzanotte. All’anima provvederò io stesso”.

Thanatos rimase in silenzio qualche istante. Poi strinse i pugni.

“Bene” disse “Mi ero proprio rotto i coglioni di vivere in un posto dove do solo fastidio”.

“Sparisci dalla mia vista, il più in fretta possibile”.

Il Dio della morte guardò ancora con sfida Hades e poi si voltò, rientrando in casa e sbattendone forte la porta massiccia e lavorata. Hypnos, rimasto senza parole, non poté far altro che accompagnare i nuovi arrivati al loro posto. Sapeva che supplicare la pietà di Hades era del tutto inutile.

 

“Mi spiace per quanto successo” parlò l’anima di Athena.

“Non è stata colpa vostra”si affrettò a dire Hypnos “Saga ha solo tentato di ricongiungersi con colui che considera più che un fratello. Avrei fatto lo stesso”.

“Ma ora, Thanatos…”.

“Mio fratello è una testa calda. Un tempo viveva qui con me, ma faceva sempre troppo casino ed ho dovuto fargli trovare un’altra sistemazione. È fatto così. Immagino che se la caverà bene, come ha sempre fatto”.

“Ma sarete separati” notò Saga.

“Saremo sempre legati. Qualsiasi cosa accada, saremo sempre assieme , in qualche modo”.

Saga chinò la testa. L’anima di Arles stava per essere eliminata per sempre.

“Vedrai che tutto si risolverà” lo rassicurò Hypnos “Mio fratello sistemerà le cose. Ci tiene a quell’anima, anche se non so perché, e vedrai che farà di tutto per non farla sparire. Vi rivedrete, ne sono certo”.

“Potresti darmi notizie a riguardo, se un giorno ne venissi a conoscenza?”.

“Certo. Ora godetevi i campi elisi, qui mai nessuno è triste. Benvenuti”.

 

Kydoimos se ne stava al buio, da solo. Guardava il buio infinito. Quando il Caos entrò nella stanza, provò un certo fastidio. Non riuscivano, in quella casa, a lasciarlo un po’ in pace? Si voltò e fissò il suo signore.

“Kydoimos, mio gioiello, che succede?” domandò il Caos “Il tuo sguardo è così triste”.

“Niente” sbottò l’interessato, girandosi di nuovo verso la finestra.

“Mi stai mentendo. Perché fai così? Io voglio solo vederti felice. Se c’è qualcosa che non va, qualsiasi cosa, dimmelo e cercherò ogni mezzo possibile per farti sorridere”.

“Non c’è niente che possiate fare”.

“Ma come? Io posso fare molte cose, sai? Dai, raccontami cosa succede”.

“Perché me lo chiedete, se lo sapete già?”.

“Di che parli, figlio mio?”.

“Io non sono tuo figlio. Io non sono il figlio di nessuno”.

“Kydoimos…”.

“Lasciatemi in pace, per favore”.

“Mio piccolo…tu ricordi, vero?”.

Kydoimos non rispose. Pareva quasi perso con lo sguardo nell’infinito nero esterno.

“Tu ricordi quello che è stato prima che ti portassi qui a palazzo”.

“Prima che mi toglieste la vita con le fiamme nere, sì” ammise Kydoimos.

“E da quando lo sai?”.

“Da quando ho rivisto la mia anima, quando ho tentato di porgere l’ultimo saluto ai miei cari perduti”.

“Quindi sono un sacco di anni. E come mai non hai mai detto nulla?”.

“E che cambiava?”.

“Ma…”.

“Io non sono nulla. Non ho mai avuto una madre o un padre, non sono mai nato. Non ho mai avuto accanto qualcuno in grado di amarmi per davvero. Qui almeno ho uno scopo”.

“Certo che hai uno scopo! Sei il mio gioiello”.

“Mi avete dato una seconda possibilità. Che non meritavo. Però me l’avete data. E vi preoccupate per me, per davvero. Solo Saga fin ora ha dimostrato tanto affetto nei miei confronti, ma ora non potrà farlo più”.

“Mi dispiace tanto, Arles”.

“Sono Kydoimos. Quel che resta in me di Arles è troppo poco per poter essere chiamato così”.

“Capisco. Ma sei felice qui, alla fine?”

“Sono utile, in qualche modo. Questo mi soddisfa”.

“Vieni con me, Kydoimos” allungò la mano il Caos.

Il Dio, parecchio più alto del figlio adottivo, incuteva sempre un certo timore. Questo giustificò la titubanza che ebbe Kydoimos, non sapendo cosa aspettarsi. Si lasciò condurre fino alla terrazza affacciata nel buio totale. Il Caos fluttuò convinto verso il bordo mentre il figlio adottivo si fermò. Non amava quel luogo da quando la sua amata moglie si era lasciata cadere.

“Non aver paura” lo rassicurò il Caos “Vieni”.

Lo prese per mano e scavalcò la balaustra, mentre Kydoimos allungava il braccio e rimaneva sul bordo. Che aveva in mente il suo signore? Oltre il bordo c’era solo il vuoto eterno!

“Salta, Kydoimos!” incitò il Caos e vide l’adottato scuotere la testa.

“Non ti lascio mica cadere!” ridacchiò il padrone del palazzo nero, tirando uno strattone a Kydoimos, che finì oltre la terrazza.

Ovviamente il Caos lo sorresse, facendolo fluttuare nel nero. Kydoimos non si sentiva affatto tranquillo. Era terrorizzato e, anche se si sforzava di non farlo vedere, aveva solo voglia di rimettere i piedi per terra. Caos sorrideva, divertito.

“Rilassati, mio gioiello. Chiudi gli occhi” suggerì.

Kydoimos non voleva. Protestò ma poi una strana sensazione lo avvolse. Quella nebbia nera pareva avvolgerlo e quasi cullarlo. Riuscì a rilassarsi un momento, chiudendo gli occhi. Il Caos lo teneva sospeso, facendolo volare nel nulla. Quando riaprì gli occhi, notò che il padre adottivo non lo reggeva più. Stava volando da solo. Per un attimo, fu preso dal panico e precipitò. Il Caos lo aiutò con un dito e poi lo guardò con orgoglio, mentre da solo si librava nella nebbia. Felice, come un padre che ammira il figlio mentre compie i primi passi, osservò Kydoimos mentre volava al suo fianco. Dapprima incerto, e poi sempre più abile, il figlio adottivo non capiva bene cosa stesse accadendo.

“Lo sapevo, mio gioiello” sorrise il Caos “Lo sapevo che eri speciale. Unico. Guardati! Sei un mio degno discendente. Voli nella totale oscurità come se sempre lo avessi fatto”.

Kydoimos non sapeva a che potesse servire ma, dal viso felice del suo genitore acquisito, capì che quella sua capacità doveva contare molto. E poi era una bella sensazione restare sospeso nella nebbia. Alleviava quella bruciante sensazione di dolore che provava al solo pensiero di aver perso anche Saga.

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Capitolo 12
*** XII- piangere ***


XII

 

PIANGERE

 

Thanatos se ne stava immobile, appoggiato alla porta. Che rabbia! Gridò e batté i pugni contro il muro. L’anima incompleta si era rintanata in un angolo. Piangeva ancora. Quando il Dio della morte si avvicinò, ella chiuse l’unico occhio, attendendo la fine. Aveva udito le parole di Hades. Ma Thanatos non le fece del male. La fissò, rammaricato.

“Tranquillo, non ti ucciderò. Però dobbiamo andare via, o verranno a prenderti per eliminarti”.

L’anima lo guardò, mostrando di essere molto triste per quanto accaduto.

Il Dio prese alcune delle sue cose. Doveva lasciare quella casa e l’oltretomba. Pensò al gemello, qualche istante, e poi uscì da quella dimora, con a fianco l’anima col capo chino. Insieme, giunsero fino alla casa di Aiaco. Il giudice, che viveva con Violatte, non si aspettava una visita così illustre. Il Dio, assieme all’anima, fu fatto accomodare. Si trovavano in una zona piuttosto tranquilla ed isolata del regno dei morti.

“Ho un favore da chiederti” esordì Thanatos.

“Qualsiasi cosa” si affrettò a dire Aiaco “È solo merito vostro se viviamo qui, io e la mia amata. Altrimenti saremmo stati separati, come desiderava Hades”.

“Non aveva senso quel che aveva in mente al tempo” scosse la testa il Dio “Sono qui per chiedervi un favore. Quest’anima incompleta ha bisogno di un luogo dove stare. Hades la cerca per farla eliminare ed io non voglio che accada, perché merita di certo di meglio”.

“Che le è successo? Perché è incompleta?” domandò Violatte.

“Non lo so. Lo è da quando è arrivata qui. È per questo che Hades vuole eliminarla”.

“E non potete difenderla Voi?”.

“Non più. Devo lasciare l’oltretomba per ordine di Hades e le anime non sopravvivono fuori di qui”.

“Capisco…”.

“Qui Hades non passa mai” spiegò Aiaco “Credo lo infastidisca il sentimento che c’è fra me e Violatte. L’anima sarebbe al sicuro”.

“Se è un problema, ditemelo. Rischiate grossi guai, se lui la dovesse trovare qui”.

“La terremo al sicuro il più possibile. A chi apparteneva?”.

“Ad Arles”.

“Il nome non mi è nuovo”.

“Cavaliere di Athena e, di recente, reincarnazione del Dio Ares”.

“Ah, lui. Capisco. Certo che merita di più un’anima del genere. La terremo al sicuro con orgoglio”.

“Io cercherò di trovarle una soluzione. Se trovo la parte che manca, forse…”

L’anima si guardò attorno, piuttosto spaesata. Era così lontana dal luogo dove si trovava Saga! E non voleva separarsi da quel Dio che si era preso cura di lei. Però capiva che non c’era altra soluzione. Si andò ad accoccolare in un angolo, pronta a nascondersi in caso di pericolo.

“Devo andare, anima incompleta” si alzò Thanatos, ringraziando il giudice e la specter “Vedrai che troverò una soluzione e tutto si risolverà. Fino a quel momento…addio”.

 

Kydoimos aveva sempre avuto una splendida voce. Ma non cantava mai. Tuttavia, all’ultimo saluto per Saga, si sentì in dovere di farlo. Com’era tradizione, gli abitanti del santuario accompagnavano la bara fino al cimitero con un canto. Kydoimos, che poteva rimanere lontano dal palazzo nero ancora per poco, era in disparte, per non attirare l’attenzione. Da lontano, vide il feretro seguito dalla figlia del defunto e dalla moglie, sorretta da Aiolos. A portare la bara, Deathmask, Shura, Ioria e Kiki. I primi due perché lo avevano sempre considerato un amico, il leone e l’ariete per senso del dovere. Terminata la cerimonia, ognuno rientrò alla sua casa e Nàgiri prese coraggio. Voleva parlare con la figlia di Saga. Lei, rimasta da sola con le prime luci del tramonto, non voleva scocciatori attorno. Il giovane lo comprendeva, ma si sentiva in dovere di chiederle scusa.

“È stata colpa mia, mi spiace” disse.

“Cosa?” quasi sbottò lei.

“La morte di tuo padre. Ero io uno dei due litiganti che ha diviso, usando le ultime forze”.

“Allora non hai motivo di scusarti”.

“Che intendi?”.

“Mio padre era gravemente malato. Lo hai fatto smettere di soffrire. Si è spento con il sorriso sulle labbra, perché la sua morte ha fatto cessare un atto d’odio”.

“Io…”.

“Tu sei Nàgiri, giusto? Mi ricordo vagamente di te”.

“Sì, sono io. E comprendo il tuo dolore”.

“Davvero?”.

“Ho perso mia madre quando ero un bambino. E molti fratelli e sorelle”.

“Quindi mi sai dire fra quanto tempo questo dolore passerà?”.

“Mai. Non ti abbandonerà. Basterà un suono, una parola, un profumo, un sogno…e ti tornerà in mente”.

“Capisco…”.

“Però…se posso fare qualcosa…”.

“Mi porteresti a fare un giro? Questi rompicoglioni non mi lasciano allontanare da sola, ma ho bisogno di passare almeno un paio d’ore lontano dal santuario”.

“Certo, ti accompagno volentieri”.

“Di te mi fido. Ricordo che eri un bambino buono”.

“E non temi che possa essere cambiato?”.

“No. Un animo buono lo rimane per sempre, anche se tenta di nasconderlo”.

 

Udendo un rumore, Deathmask uscì dalla sua dimora. Nel buio della notte, chi poteva venire a disturbare? Il precedente cavaliere del cancro abitava ancora alla quarta casa, in una delle braccia della croce che la formava. Nell’oscurità, vedeva solo fuochi fatui ed anime erranti. Guardò in su. 
"Thanatos..." mormorò, riconoscendolo.
Il Dio della morte non rispose. 
"Non sarai mica venuto a prendermi adesso, vero? Ho altri progetti" ridacchiò l’ormai pensionato cavaliere.
Ancora nessuna risposta, solo una singola nota della cetra del Dio. L’ex cavaliere si fece serio. L'espressione di quella divinità non gli piaceva.
"Dai, vieni giù a berti una birra" propose Deathmask.
"Ho migliaia di anni. Credi che possa tirarmi su di morale un alcolico, mortale?" sbottò, scocciato, Thanatos.
"Come vuoi, la mia era solo una proposta".
"Non hai paura di me?".
"E perché dovrei? Non ho mai temuto la morte e l'inferno".
"E non mi odi, per coloro di voi che ho portato via?"
"La vita termina, prima o poi. Sono certo che ora i miei amici se la stanno spassando ai campi elisi. Ed un giorno saremo tutti assieme. O forse no, non fa differenza. Viviamo e periamo, è il destino di noi mortali".
"Capisco...".
Ed il Dio dai capelli argento guardò le stelle. Forse era l'ultima volta che le poteva ammirare. Sorrise, per un istante, quando accanto al cavaliere del cancro apparve la fanciulla che ora portava l’armatura dei pesci.
Thanatos la trovò bellissima e per qualche istante si perse nei suoi grandi occhi color dell’acciaio. Poteva anche dire addio alla luce delle stelle, per lei.

“Cosa ti porta al grande tempio?” domandò Arles II, raggiungendo la sua ragazza.

“Volevo solo salutare anche io Saga. E la luce. Da ora sono pure io un cittadino del palazzo nero”.

“Torni da mammina?” ridacchiò Deathmask.

“Almeno io so chi è” ghignò Thanatos e svanì.

 

Kydoimos fissava Tartaros di nascosto. Quel Dio aveva sempre un’aria un po’ arrabbiata ed un po’ malinconica. Lo spiato notò il fratello minore e rispose al suo sguardo, con rabbia.

“Che hai da guardare?” sbottò.

“Niente. Oggi sono un po’ fuori fase”.

“Per via della morte di quel tizio?”.

“Anche, immagino”.

“Perché ti dai tanta pena per lui?”.

“Non ha importanza”.

I due si guardarono qualche istante poi Tartaros fece per allontanarsi.

“Ti manca?” domandò Kydoimos.

“Chi?” si stupì Tartaros.

“Gaia”.

“Certo. Che domande fai?”.

“E non hai mai provato a liberarla?”.

“Per liberare dal sigillo Gaia serve l’arma di un Dio e, come ben sai, qui non ce ne sono. Sempre per colpa di quella cazzo di maledizione”.

“E non potete procuravene una?”.

“Non si può usare l’arma di un altro Dio! E poi a Gaia servirebbe un corpo, che non ha al momento. È stato distrutto nell’ultima guerra. Devo attendere la sua prossima reincarnazione”.

“Ma se la sua essenza è intrappolata, non si reincarnerà mai!”.

“Le ho detto addio, ormai. Anche se so che torneremo insieme”.

“Se lo dici tu…”

“Ma cosa vuoi saperne tu, che alla morte di quasi tutta la tua famiglia non hai versato nemmeno una lacrima? Tu, che non hai lottato per impedire  l’allontanamento delle tue donne con i bambini!”.

“La mia anima è incompleta!”

“Stronzate. È che non ti importa di nulla, nemmeno di te stesso. Non so che ci veda papà di così speciale in te, mostriciattolo”.

Kydoimos non disse altro. Lasciò Tartaros andare oltre e chinò la testa, fissando la differenza fra la mano un tempo umana e quella creata dal Caos. Chissà se erano ancora in grado di impugnare una spada…

 

Il palazzo nero era rimasto invariato nei secoli, notò Thanatos. Davanti alla porta chiusa, non aveva il coraggio di entrarvi. Poi capì che non aveva alternative. Spinse ed entrò, quasi con enfasi. Nel buio totale, non aveva alcun problema a camminare. Notò alcune facce nuove, figli di Kydoimos. Passò oltre. Sentì dei mormorii e li ignorò. Vide un sorriso familiare e dovette fermarsi.

“Il mio bambino!” lo accolse Nyx, spalancando le braccia.

Thanatos sospirò. Non era un bambino da parecchio tempo, ma sua madre lo abbraccio comunque. Era strano, anche perché lei era parecchio più bassa. Eppure lo trattava come un bambino piccolo.

“Vieni” parlò lei “Ho fatto lasciare invariata la tua stanza”.

“La mia stanza? Di quando ero piccolo?”.

“Sì, vieni”.

Thanatos la seguì lungo il corridoio, fino a giungere all’ingresso di quella che un tempo era la sua cameretta. Non era cambiata. Provò una certa nostalgia. Metà di quella stanza la divideva con Hypnos, tanto tempo fa.

“Immagino che ora sia un po’ infantile” notò Nyx “Potrai cambiarla a tuo piacimento”.

“Per ora va bene così, grazie. Tanto lo sapete che con il lavoro che faccio non sarò molto presente”.

“Ma è sempre bello avere un bel posto dove tornare”.

“Già…”.

Il Dio della morte lasciò che la sua armatura si staccasse e si accomodasse in un angolo della stanza. Con la tunica bianca, girò un po’ per la casa, ricevendo i saluti dei fratelli e degli zii. Anche il Caos lo salutò, sorridendo. Thanatos e Kydoimos si scambiarono solo uno sguardo rapido. Il Dio, in un istante, capì che la parte mancante della sua amata anima era in quell’essere ibrido. Tentò di escogitare un modo per risolvere la questione. Gli era bastato un’occhiata per notare la piccola parte di anima di Kydoimos e pochi secondi per capire che, nel caso l’anima errante fosse stata eliminata, per quell’uomo non ci sarebbe stato un futuro dopo la morte. Sorseggiando uno strano liquido verde scuro, ripensava a quando, da bambino, correva lungo quei corridoi che al tempo gli sembravano lunghissimi. Inseguiva Hypnos. Insieme, si divertivano a combinare un sacco di guai. Quella volta, il palazzo nera era allegro e le divinità poche. Ora nell’universo il sovrannumero era evidente e lì si respirava decisamente un’aria diversa. C’era malinconia. Tristezza. Un po’ sapeva di esserne la causa. Aveva portato via molte anime da quel luogo.

“Dai, tirati su” gli sorrise il Caos “Non amiamo molto i musi lunghi. Sappiamo che sarà difficile, per te, rimanere separato da Hypnos ma…”.

“Eravamo separati già da molto” tagliò corto Thanatos “Vivevamo in due parti diverse dell’oltretomba e lui era troppo impegnato a riprodursi per venirmi a salutare. Come io, del resto, ho un lavoro che mi impedisce di perdere tempo. Perciò…”.

“Spero che ti ambienterai presto. Non sono cambiate molte cose”.

“No, ho solo uno zio nuovo e tanti cuginetti”.

“Eh sì” sorrise Caos, fissando Kydoimos, che non sorrise.

Thanatos ricordò quando, da molto piccolo, aveva osservato con innocenti occhi argento suo nonno Caos, chiedendogli che cosa fosse la morte. Al tempo aveva le idee piuttosto confuse. Il nonno gli aveva accarezzato i capelli e gli aveva sorriso, rassicurandolo che era qualcosa che lui non avrebbe mai provato. “E come mai, nonno Caos?” aveva domandato, con le manine strette e lo sguardo curioso. “Perché noi siamo Dei” aveva risposto Caos “E gli Dei non muoiono”. Quella volta era così. Ora invece morivano tutti. Solo il Caos si salvava da quel destino. Si poteva ferire a piacimento. Questo perché era materia primigenia e quindi in continua creazione e morte.

“Vado a letto” mormorò Thanatos, alzandosi.

Non sarebbe stato facile, lo sapeva, abituato com’era ad udire le musiche del fratello per dormire. Ma doveva abituarsi a farne a meno. Calpestò nel buio uno dei giochi che aveva da piccolo. Com’era potuto rimanere intero dopo tutto quel tempo? Lo guardò, sorridendo. Poi scosse la testa. Era ora di lasciar perdere certi ricordi. Era il tempo di lasciarsi tutto alle spalle. Era il tempo di dire a tutto: “Addio”.

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Capitolo 13
*** XIII- mortale ***


XIII

 

MORTALE

 

Appeso a testa in giù, come era solito dormire, Erebo notò il fratello adottivo passare lungo il corridoio deserto. Lo seguì con lo sguardo e vide che stava lasciando il palazzo. Lo trovò strano, ma poi si disse che Kydoimos aveva un’età tale da fare quel che preferiva. Anche Nàgiri lasciava spesso quella casa la sera e rientrava molto tardi. Ma, convenne, non sono affari miei.

Kydoimos, col viso in buona parte coperto da stoffa nera, camminava nel buio. Sapeva che il suo tempo era ristretto, perché la maledizione non gli consentiva di stare lontano da palazzo molto a lungo, quindi affrettò il passo lungo quelle strade dimenticate. Tutt’attorno, macerie e rovine. Che tristezza. Una statua armata di tutto punto fissava, con occhi vuoti, l’orizzonte. La vegetazione l’aveva in parte avvolta. L’uomo si aspettava di incontrare qualcuno ma non percepiva alcuna presenza. Entrò al tempio scuro, con tutte quelle venature color del sangue, con sicurezza. Ed ecco, la vide. La spada di Ares. Bella, imponente, con riflessi vivi rosso cupo sulla superficie nera. Il suo scintillio illuminava a tratti la stanza dove era custodita. Saldamente incastonata nella pietra, fra le colonne, pareva incustodita. Kydoimos proseguì ma, come aveva previsto, qualcuno lo fermò. Due minacciosi occhi scarlatti si mostrarono nel nero.

“Hai fatto un grosso errore a venire qui, mortale” ringhiò una voce, profonda e minacciosa.

 

“Ragazzi, siete presentabili?” domandò Deathmask, cercando il figlio.

Arles II e Tania risero e lo rassicurarono. Erano stesi sul pavimento, fra le teste della quarta casa, concentrati su un gioco da tavolo.

“Cosa c’è, papà?” domandò il ragazzo.

“Niente. Volevo solo avvisare che vado a farmi un giro”.

“Vai pure. Se c’è qualcosa, ti mando un messaggino sul cellulare”.

“Quel trabiccolo infernale non me lo porto di certo dietro!”.

“Come vuoi. A dopo”.

Deathmask sospirò. Uscì dalla quarta casa con aria malinconica. Il tempo è impietoso, pensò. Sua moglie Ariadne se ne stava alla casa dei gemelli, ridendo in compagnia di suo nonno Apollo e la prozia Artemide.

“Cos’è quella faccia imbronciata?” parlò una voce e Deathmask sobbalzò, non aspettandosela.

Alzò gli occhi e vide Thanatos. Si accigliò.

“Ma tu…” sbottò “…non hai niente di meglio da fare? Te ne stai sempre a ronzare da queste parti!”.

“Ti do fastidio?”.

“No, mi inquieti”.

Il Dio sorrise. Fluttuava a mezz’aria, avvolto da una lieve luce argentea.

“Che cosa vuoi?” riprese Deathmask “Sei sempre qui. Che cosa cerchi?”.

“Niente di particolare”.

“Cazzate. Spii Tania!”.

“Ho le mie ragioni”.

“Certo, è figa. Ma tu sei vecchio”.

“E tu peggio di me”.

“Solo d’aspetto”.

Il passato cavaliere del cancro storse il naso. Era già complessato, senza che quel Dio mettesse costantemente il dito nella piaga.

“Cosa c’è che non va, Deathmask?”.

“Gli anni passano, ecco cosa c’è che non va. Sto invecchiando. Guardami! I miei capelli stanno diventando bianchi, sul viso ho le rughe, mi sta crescendo la pancia…”.

“Sei un mortale, è il cerchio della vita”.

“Bella merda! Io invecchio, mia moglie e mio figlio no. È frustrante”.

“Loro hanno sangue divino”.

“Lo so bene”.

“Era una cosa che dovevi prevedere”.

“L’ho previsto ma che dovevo fare? Io amo Ariadne, farei qualsiasi cosa per starle accanto e non rinsecchire come una foglia d’autunno”.

“Non comprendo voi mortali che non accettate la morte. Nascete con la fine già scritta, è inutile remarvi contro. Eppure lo fate sempre. Come se la vita eterna fosse bella”.

“Io voglio stare accanto alla donna che amo, invece so che dovrò morire, vecchio e sfigurato, mentre lei sarà bella e giovane per sempre. E di certo avrà un altro uomo dopo di me”.

“Pensa l’ironia: io sono così stanco di ammazzare gente e di farmi odiare, che farei volentieri a cambio con te, essere dalla vita effimera”.

“Dici sul serio?”.

I due si fissarono in silenzio. Kayros, che Dio dalla mente complicata!

 

“Phobos!” esclamò Kydoimos, riconoscendone la voce.

“Bravo, sai il mio nome. Ora vattene dal palazzo del mio signore, prima che ti uccida brutalmente”.

“Non ho intenzione di combattere”.

“Che peccato, perché io ne ho davvero tanta voglia!”.

Gli occhi rossi di Phobos scintillarono, scatenando il loro potere. Kydoimos però non provava terrore nel guardarli,anche se fu colto di sorpresa dall’improvviso attacco del gran sacerdote di Ares. Saltò, per schivarne i colpi.

“Fermo!” provò a dire.

Il generale non ascoltò, pronto a difendere l’armatura contenuta nella spada del suo signore a tutti i costi.

“Fermo!” tuonò una voce ben più profonda di quella di Kydoimos.

Phobos obbedì, sobbalzando per la sorpresa. Alle spalle della grande spada di Ares, era apparsa l’essenza del Dio, color del fuoco.

“Mio signore” si inginocchiò il suo sottoposto “Stavo difendendo la Vostra spada da questo intruso”.

“Non è un intruso” sorrise Ares.

Kydoimos si fece avanti, fissando Ares con un mezzo sorriso.

“Ciao, θανασιμος” (thanassimos: mortale) salutò Ares.

“Ciao, Dio”.

“Come stai, mio vecchio involucro?”.

“Non mi posso lamentare. Sono passato a salutare. Credevo di trovarti già rinato”.

“Eh, no. A quanto pare il tuo corpo era troppo perfetto. Non ne trovo un altro uguale”.

“Mi sento lusingato”.

“E fai bene. Ma cosa ti porta qui realmente?”.

Phobos, ascoltando la conversazione, comprese quel che stava accadendo e si alzò in piedi, forse in attesa di ordini. Anche altri guerrieri di Ares fecero lo stesso, pur non capendo bene quel che stava accadendo.

“Sono qui per chiederti un favore” ammise Kydoimos “Mi servirebbe la tua spada”.

“La nostra spada? E per farne cosa?”.

“Ha così tanta importanza?”.

“La spada appartiene a me. Se fai qualcosa che non mi aggrada, lei si ribella”.

“Lo so bene”.

“Inoltre ricordati che la spada contiene la mia armatura”.

“So bene anche quello, ho contenuto il tuo animo per anni. Non farò nulla di non gradito”.

“Che farai?”.

“Libererò Gaia”.

“E perché?”.

Ares era perplesso. Non avevano forse combattuto a lungo per sigillarla?

“Fidati di me. Ho in mente qualcosa ma…”.

“Mortale, io ti conosco molto bene. Questo mi permette di dire che sei del tutto folle. Ma non sei uno stupido, tutt’altro, perciò mi fido”.

“Ti ringrazio”.

“Però ricordati che quell’arma è libera di tornare qui in qualsiasi momento, nel caso impazzissi e ti mettessi a fare cazzate”.

“Lo ricorderò. Ora, scusami, ma devo andare. Ho tempi stretti con questa maledizione”.

“Ah, già. Sei figlio del Caos ora. Avremo altre occasioni per parlare, e magari anche per combattere un po’. Che ne dici?”.

“Mi piacerebbe. Userò questa spada come è degna di essere usata”.

“E ci mancherebbe altro! Ora và, avremo modo di perdere tempo in un altro momento”.

 

“Ma la fregatura dove sta?” chiese Deathmask.

“Fregatura?” alzò un sopracciglio Thanatos.

“Certo. Se mi dai ciò che desidero, la fregatura dove sta? Dev’esserci la fregatura”.

“La morte non è mai una bella faccenda. Ma se riesci ad accettare questo, non vedo niente di particolarmente problematico. Ho solo una questione in sospeso”.

“Una questione in sospeso?”.

“Sì. Se mi assicuri di risolverla, allora il nostro patto è valido”.

“Di che si tratta?”.

“Dell’anima di colui che voi chiamate Arles”.

“Arles?!”.

“Sì, lo ricordi?”.

“Certo che sì. Cos’ha la sua anima?”.

“È giunta incompleta nell’oltretomba. E non ho potuto farla riposare in pace. Ormai non è che un’ombra, credo stia perdendo i ricordi di ciò che è stata la sua vita. Però io so dove si trova la parte mancante”.

“Come Dio della morte, non puoi farla tornare intera?”.

“Come Dio della morte, sì. Però ora Hades ha dato ordine di eliminare quell’anima e mi tiene d’occhio. Se mi aggirassi da quelle parti, attirerei di certo l’attenzione”.

“Ma un Dio della morte può riparare questo danno?”.

“Certo”.

“Tieni così tanto a quell’anima, da rinunciare al tuo potere per permettere a me di salvarla?”.

“Non solo per questo, ovviamente”.

“Per che cosa?”.

“Io giro per questo mondo da millenni, mortale. Ho visto l’alba del genere umano, ho tenuto per mano divinità bambine che ora sono fra le più potenti e antiche, ho ucciso creature illustri e risparmiato carogne disgustose che meritavano la putrefazione istantanea. Mi sono divertito, non nego di averlo fatto. Mi è piaciuto ciò che sono stato ed ho passato tanti momenti di puro godimento nel togliere la vita. Ma ora sono stanco. È giunto per me il momento di cambiare”.

“E credi davvero che io…”.

“Tu sei un uomo cresciuto in mezzo ai morti. Non hai timore alcuno dell’oltretomba e, per quanto tu lo neghi, ti diletta uccidere”.

“Mai negato”.

“Quindi direi che non potrei trovare uomo più perfetto per questo ruolo”.

“E tu che fine farai?”.

“Invecchierò e morirò come ogni uomo sulla terra. E sarai tu a venirmi a prendere”.

“Sarà strano”.

“Forse all’inizio. Ma pensa alle opportunità, Deathmask. La vita accanto a tua moglie, giovane e con il potere che hai sempre sognato”.

Deathmask rimase in silenzio qualche istante. Era vero quel che Thanatos diceva. Il potere lo aveva sempre desiderato ed ammirato, ed il potere di uccidere era di certo notevole. Divenire un Dio e rimanere accanto alla sua donna per sempre, fino alla fine dei giorni, era un sogno. Suo figlio, avendo ereditato il sangue della madre, lo avrebbe accompagnato senza vederlo mai invecchiare. Thanatos lo guardava in silenzio, con aria malinconica, quasi di supplica. Essere un Dio depresso doveva essere una gran scocciatura.

 

Com’era faticoso volare al di fuori del palazzo nero! La parte un tempo appartenuta ad Arles non era facile da coordinare. Kydoimos fluttuò lungo la verde cupola del palazzo di Gaia. Con la pesante spada di Ares stretta nella mano destra, salì fino a raggiungere una piccola apertura da cui entrò. La grande sala circolare era buia e polverosa. Si aspettava un qualche tipo di sorveglianza ma non ne trovò. Si guardò attorno. In quale oggetto era sigillata la Dea? Pensò in una delle statue di Gaia che lo circondavano ed iniziò a decapitarle con la spada, senza trovare nulla. Spazientito, non si accorse che l’immenso quadro alle sue spalle lo seguiva con gli occhi.

“Cerchi forse qualcosa?” sibilò una voce, familiare.

Kydoimos si voltò e vide lei, sull’uscio verde e oro della sala. Bellissima, armata di tutto punto, con la cascata di capelli ricci e ramati che le copriva parte del viso. Rimase qualche istante a fissarla.

“Ciao, Ninive” la salutò, poi.

“Ci conosciamo?” disse lei.

“Da molto tempo”.

Ninive non capì. Del resto, dei tratti somatici di Arles era rimasto ben poco. La donna, vedendo in quell’essere nero solo un nemico, puntò la sua lancia.

“Sono a difesa dell’anima di Gaia” spiegò “Per impedire a quelli come te di liberarla”.

“Pensavo fossi una vestale, figlia di Apollo”.

“Lo sono ancora. E il mio ruolo è questo”.

Scattò, tentando di attaccare Kydoimos. L’uomo schivò, non avendo alcuna intenzione di combatterla. Il tempo scorreva rapido, non poteva temporeggiare ancora. Forse poteva tramortirla, con un colpo soltanto. Le immobilizzò i polsi, pronto a farle perdere i sensi usando il ginocchio. La guardò negli occhi e lei spalancò i sui. Non poteva crederci.

“Arles” mormorò.

Lui non la colpì, ma la tenne ferma strettamente.

“Riconoscerei il tuo cosmo fra miliardi” continuò lei “Ma com’è possibile? Tu…tu sei morto!”.

“La storia è piuttosto lunga e complicata”.

“Tu sei sempre stato complicato. Puoi lasciarmi i polsi?”.

“Solo se la smetti di combattere. Lo sai che non puoi vincermi”.

Ninive rimase in silenzio. Era vero. Sapeva di non poter battere Arles. Però il suo compito era sorvegliare l’anima di Gaia e non poteva arrendersi. Tentò di ribellarsi, con non molta convinzione. Lui non la lasciò andare e lei riprese a fissarlo.

“Lasciami” disse lei, lentamente.

“Non combattere. Non voglio farti del male”.

“Io ho un compito. Perché vuoi liberare l’anima di Gaia? Tante persone sono morte a causa sua”.

“La mia visione è diversa dalla tua, mi dispiace”.

“E allora spiegamela”.

“Non lo posso fare”.

“E allora io non posso concederti di liberare Gaia”.

“E come credi di fermarmi?”.

“Non lo so, ma troverò un modo”.

Ninive concentrò la sua energia sulle mani, nel tentativo di liberarsi i polsi. Kydoimos resistette.

“Dimmi come puoi essere in vita” riprese lei.

Lui non rispose. Lei non sapeva che cosa fare. Non poteva arrendersi. Guardò con odio in viso quell’uomo e poi mutò espressione. Una lacrima d’un tratto apparve e rigò la guancia destra della figlia di Apollo. Quante volte si era sentita dire che Arles era molto per colpa sua, perché gli aveva sottratto tutta la voglia di vivere!  Lei non aveva mai potuto crederlo ed ora lui era lì. Allungò il collo e gli diede un piccolo bacio, solo sfiorando le labbra nere come le tenebre. Kydoimos, non aspettandosi questo, non reagì. Lasciò andare le braccia di Ninive, che lo abbracciò.

“Mi sei mancato” parlò lei.

“Non è vero” rispose Kydoimos.

Che strana sensazione dava quell’abbraccio. Sapeva che quella donna non provava amore alcuno dei suoi confronti e lui credeva ormai di poter superare quel legame passato. Si sbagliava, perché la strinse a sé e non riuscì a pensare ad altro. Fu lui a baciarla stavolta, ma con ben più passione rispetto al contatto pressoché sfiorato di lei. Lei ricambiò quel bacio e si lasciò avvolgere.

“Perché?” chiese a se stessa “Perché, per quanto mi sforzi di allontanarmi da quest’uomo, finisco con il ritrovarmi fra le sue braccia? Perché ne sono così irrimediabilmente attratta?”.

E lui si chiedeva come mai si lasciasse sempre irretire da quella femmina, che giocava con il suo cuore come se fosse la pallina di un flipper. Ma bastò poco prima il suo cervello smettesse di pensare, sentendo il corpo caldo di lei premere contro il proprio. Lasciò perdere tutto. Missioni, ragionamenti, problemi…

La spogliò dell’armatura e delle armi, lasciandole solo quella veste leggera che pareva poter essere tolta da un soffio di vento. Quella non la levò. Il suo occhio sinistro brillò quando la spinse contro una delle colonne smeraldo. Ghignò soddisfatto, sollevandole l’abito. Lei rispose a quel ghigno e gridò, quando sentì lui penetrarla con forza.

“Mi sei mancato” disse ancora, stringendolo forte a sé.

Lui continuò, senza risponderle. Finirono in terra e lei piantò le unghie nella schiena di lui. Kydoimos fece altrettanto, mordendola poi con i denti a punta. Ninive gridò di nuovo.

“Mi sei mancato” gemette “Ancora, continua ancora, più forte! Questo ho sempre amato di te. Non avere indugio alcuno. Solo tu sei in grado di farmi questo. Più forte!”.

“Zitta” quasi ordinò Kydoimos, graffiandola con più violenza.

Il pavimento si tinse di rosso. Lei ribaltò gli occhi e gridò con tutto il fiato che aveva.

“Arles! Arles!” ripeteva ad oltranza, mentre i capelli ora sciolti di lui si muovevano e l’avvolgevano come in un abbraccio.

“Ninive” rispose questa volta lui, ancora e ancora.

Poi si fermò e gridò a sua volta. Ansimando, i due rimasero stretti ancora, dopo l’amplesso.

“Perché?” ansimò, stanca, lei “Perché io e te finiamo sempre per…”.

“Scopare come animali rabbiosi? Non te lo so dire”.

“Perché non dici a tutti che sei ancora in vita?”.

“Ho altri progetti in mente”.

“Manterrò il tuo segreto”.

Non parlarono più, ascoltando solo il battito dei loro cuori, cullati dai loro respiri. Poi Kydoimos si alzò di scatto. La sua veste nera lo ricoprì, nonostante il notevole spacco che si apriva non avendo più la cinta. Scosse la testa. Era rimasto troppo a lungo lontano dal palazzo nero. La maledizione lo stordiva. Doveva rientrare in fretta. Afferrò la spada di Ares, mentre un’altra presenza entrava in quel luogo.

“Cosa sta succedendo qui?” tuonò Ahriman, sbattendo la porta.

Vide sua madre in terra, nel sangue, e subito pensò al peggio. Ringhiò, vedendo il figlio del Caos.

“Tu!” lo apostrofò “Lurida merda! Come osi toccare mia madre? Te ne pentirai per averle fatto del male!”.

Kydoimos scosse ancora la testa, tentando di rimanere lucido. Maledisse se stesso per essersi concesso distrazioni non necessarie. Notò lo sguardo del quadro e capì che l’anima di Gaia doveva trovarsi lì. Scattò in fretta, affondando la spada nel petto della donna ritratta. Il dipinto brillò di luce verde e la spada ne assorbì l’essenza.

“No!” gridò Ahriman, creando una sfera di luce azzurra con la mano e scagliandola contro Kydoimos.

Il figlio del Caos fu scaraventato contro il muro e finì a terra, ma tenne stretta la spada. Ninive tentò di fermare il figlio, ma non era semplice placare la collera del Dio del cielo.

“Ti ridurrò in cenere!” continuò Ahriman, avvicinandosi al suo avversario ferito.

Saltò, aprendo le ali, ma qualcosa di nero lo ricacciò indietro. Si udì un brontolio sordo, profondo, e la terra tremò. Il Caos apparve, grosso fino al soffitto, con gli occhi rossi scintillanti di rabbia.

“Stai lontano dal mio gioiello, traditore” tuonò il Dio nero.

“Non darmi ordini!” rispose Ahriman, con la voce di Urano.

Il Caos allungò il suo lungo braccio e spinse Ahriman contro il muro. Pareva così piccolo il Dio del cielo, confrontato con quella grossa nuvola oscura! Il Caos continuò a schiacciare, intenzionato a ridurre in briciole quell’essere. Ahriman tentò di reagire. Usò il suo potere e qualche goccia di sangue scese dalla mano del suo aggressore, che però non volle lasciarlo. Si udì uno scricchiolio, qualche osso che si rompeva. Ahriman gridò di dolore.

“Fermati!” parlò Kydoimos, tornando per qualche istante lucido.

Ora stava davvero male, per colpa della maledizione.

“Fermatevi! Non uccidetelo!”.

Il Caos non comprendeva la richiesta del figlio. Aveva l’occasione di schiacciare l’odiato Urano, mosso dalla collera, eppure quel suo gioiello lo supplicava di non farlo.

“Non è colpa sua se io sto male” continuò Kydoimos “Non è causa di Ahriman. È la maledizione. Lasciatelo andare e portatemi a casa, vi prego”.

“Mi chiedi molto, Kydoimos”.

“Lo so, ma mi sento morire. Devo tornare a casa. Risparmiatelo. Lui è solo qui per proteggere l’anima della donna che ha amato”.

“Lui è la causa del nostro malessere”.

“Lui e molti altri Dèi. Uccidendoli, non la annullerai”.

Kydoimos tossì sangue.

“Padre” gemette “Vi prego, torniamo a casa. E risparmiate questo giovane, la cui unica colpa è essere l’involucro di un Dio che detestate”.

Il Caos, capendo quanto il figlio stesse male, lasciò andare Ahriman. Prese Kydoimos con un braccio, sorreggendolo come si fa con un neonato. La differenza di dimensione fra i due era pressoché la stessa. Lanciò un’ultima occhiata al Dio del cielo e poi scomparve, senza lasciare traccia.

 

Thanatos e Deathmask si fissarono ancora qualche istante. Poi colui che un tempo era cavaliere del cancro annuì. Il Dio della morte sorrise.

“Va bene, ci sto” parlò Deathmask “Affare fatto”.

“Ne sei sicuro?” rispose Thanatos “Non si può tornare indietro”.

“Sono sicuro. E tu? Sei certo di quello che fai?”.

“Sì, lo sono”.

Il Dio allungò la mano e strinse quella di Deathmask. Il mortale avvertì come una scossa lungo tutto il braccio e poi su tutto il corpo. In principio era piacevole ma poi la sensazione si fece fastidiosa. Tentò di ribellarsi. Thanatos lo tenne più forte ed entrambi caddero in terra, in ginocchio. Si osservarono, qualche minuto, in silenzio.

“Amico, ora hai le pupille” sorrise Deathmask.

“E tu non le hai più. Significa che lo scambio è avvenuto” rispose Thanatos “Ora tu sei il Dio della morte”.

“E tu un semplice mortale”.

“Impareremo entrambi ad accettare la cosa”.

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Capitolo 14
*** XIV- motivazioni ***


XIV

 

MOTIVAZIONI

 

Rientrati al palazzo nero, Caos e Kydoimos furono accolti dalla preoccupazione degli altri occupanti. Dove erano stai? Cosa era successo? E perché il padre reggeva fra le braccia il figlio adottivo, ferito? Kydoimos si agitò e fu messo a terra. Socchiuse gli occhi, mentre le ferite si rimarginavano. Era di nuovo a casa e si sentiva già meglio.

“Airis!” chiamò e la donna si avvicinò.

Con la spada di Ares stretta in una mano, Kydoimos allungò l’altra mano e toccò Airis. La donna sobbalzò. Una luce verde iniziò a scorrere dalla spada fino alla fanciulla. Gli altri presenti non capirono cosa stesse accadendo fino a quando Airis parlò.

“Cosa è successo?” disse, con la voce di Gaia “Dove sono? Sono…a casa!”.

“Gaia?” si stupì Tartaros.

La donna si girò e sorrise. Aprì le braccia, in cerca di un abbraccio.

“Gaia…sei tu?” continuò lui, senza muoversi.

“Sì, sono io!”.

“Ma…Kydoimos…tu…”.

“Sì” rispose Kydoimos, con tono piatto “Il marmocchio inutile ti ha riportato Gaia”.

“Ma è nel corpo di Airis!”.

“Lo so. Il corpo di lei è andato distrutto”.

“Sì ma così facendo rinunci ad Airis”.

Kydoimos non rispose. Si allontanò lentamente, semplicemente dicendo che era stanco, mentre alle sue spalle la casa faceva festa per il ritorno di Gaia.

 

“Perché lo hai fatto?” domandò Ariadne.

Deathmask, con l’armatura da Dio della morte addosso, fissò la moglie con un mezzo sorriso.

“Che problema c’è?” ghignò lui.

Era soddisfatto della sua scelta. Aveva di nuovo il suo corpo giovane e si sentiva potente e quasi invincibile.

“Perché lo hai fatto? Fare il Dio della morte è orrendo. Devi uccidere delle persone”.

“L’ho sempre fatto”.

“Ma potevi smettere. Non eri più cavaliere d’oro”.

“E stavo male. Ora invece sono felice. Ho di nuovo uno scopo”.

“Tu avevi già uno scopo. Sei mio marito. Un padre. Un amico”.

“Un uomo che invecchia e muore. Non volevo più essere questo”.

“Io ti ho sempre amato. Come mortale, come cavaliere, come uomo” sospirò Ariadne.

“E come Dio non puoi amarmi?”.

“Certo. Ma non era necessario che lo facessi”.

“Lo era. Credimi”.

“Se questo ti rende felice, allora sarò felice anche io”.

Lo sguardo di lei non era convinto, ma si sforzò di sorridere. Sperava d’avvero che fosse la cosa giusta.

 

“Perché lo ha fatto?” si chiese Ahriman.

Da solo, nell’immenso palazzo del cielo, sfiorò il braccio che aveva dovuto fasciare. Strinse i denti per il dolore. Maledette creature del Caos! Quell’essere oscuro era mostruosamente potente. Il Dio era consapevole di aver rischiato la vita. Poteva essere ucciso ma l’intruso, il ladro dell’anima di Gaia, aveva fermato il Caos. Per quale motivo? Ahriman non riusciva a capirlo. Zoppicando leggermente, camminò ancora seguendo le vetrate che davano sullo spazio.

“Smettila di scervellarti” parlò la voce di Urano.

“Come faccio?” sbottò Ahriman “Quell’uomo ha impedito al Caos di ucciderci. Perché?”.

“Era semplicemente in ansia per la sua vita. Lontano dal palazzo nero, stava morendo”.

“Poteva comunque farmi uccidere”.

“Non penserai mica ad un suo atto di pietà?”.

“Tu come lo vedi?”.

“Conosco bene il Caos”.

“Il Caos voleva uccidermi. È stato quell’altro essere a…”.

“Non farti impietosire. Il Caos non prova pietà. E nemmeno nessuno dei suoi figli”.

“Però vorrei sapere per quale motivo lui ha…”.

“Smettila. Concentrati sul dolore che provi. Ricorda tua madre ferita”.

Ahriman strinse il pugno del braccio sano. Non doveva farsi intenerire da quel gesto. Erano dei nemici e, ora che avevano l’anima di Gaia, era meglio controllarli molto più di prima. Era meglio allertare al più presto le altre divinità alleate. In quel palazzo, stava accadendo qualcosa.

 

“Perché lo hai fatto?” mormorò Erebo, rimboccando le coperte di Kydoimos, che si era addormentato.

Con quel gesto, l’addormentato si svegliò e mugugnò.

“Scusa” parlò Erebo “Non volevo svegliarmi”.

“Sei un bugiardo. Non saresti qui”.

“Non pensavo dormissi”.

Kydoimos mosse leggermente l’orecchio a punta e continuo a starsene mezzo abbracciato al cuscino.

“Ho visto come tutte le tue ferite si siano rimarginate” riprese Erebo “Non è cosa da tutti. Inoltre, hai rubato l’anima di Gaia e l’hai impiantata nel corpo di Airis. Sei dunque tu un creatore?”.

“No, non lo sono” brontolò, sbadigliando “Io modifico quel che già esiste. Non faccio le cose dal niente”.

“È comunque una cosa notevole”.

“Se lo dici tu”.

“E anche quello che hai fatto con Gaia…tutta la casa ti è grata”.

“Prego, non c’è di che”.

“Kydoimos! Parli come fosse una cosa da niente!”.

“Sono stanco, Erebo. Lasciami dormire”.

“Puoi spiegarmi perché lo hai fatto? Perché hai rinunciato ad Airis?”.

“Airis non è mica morta!”.

“No, ma ora prevale il lato di Gaia”.

“Gaia è importante”.

“Ora Tartaros ti tratterà molto meglio”.

“Sono felice che almeno lui sia soddisfatto. Il Caos pareva non approvare”.

“Il Caos si è preoccupato molto per te. Non vuole perderti e tu non fai altro che cacciarti nei guai!”.

“Chiedo scusa”.

Kydoimos si mosse solo lentamente sul cuscino.

“Non lo hai fatto per ricongiungere una coppia, vero?” domandò Erebo.

“A che ti riferisci?”.

“Non lo hai fatto per ricongiungere Gaia e Tartaros, vero?”.

“Lui la ama”.

“Certo. Ma hai mai sentito la frase "madre natura è una puttana"? Nel caso di Gaia calza a pennello”.

“Non importa”.

“E Airis? Airis ti amava. Ma ora, con l’anima di Gaia dentro di lei, non sarà lo stesso”.

“Airis non mi ha mai amato. Mi idolatrava, perché l’ho creata. Mi adorava. Questo non ha niente a che fare con l’amore”.

“Ma tu lo hai mai conosciuto l’amore, che fai tanto l’esperto?”.

“Preferirei non parlarne”.

Erebo notò lo sguardo triste di Kydoimos e non insistette.

“Non te la prendere per il Caos” parlò “Lui è arrabbiato perché ha paura che tu soffra. Non comprende il legame che unisce un uomo ed una donna. Lui è asessuato”.

“Lui è cosa?! Credevo fosse un maschio!”.

“La voce è maschile. E tutti noi lo trattiamo come tale. Però, tecnicamente, non lo è. Lui non ha sesso. Ha generato me e gli altri non accoppiandosi con una donna, capisci? Lui non comprende il desiderio di creare legami d’amore o sessuali. Lui vuole bene a tutti quanti noi ma in modo diverso da come io voglio bene a Nyx. Quindi credo sia arrabbiato perché vede tutto questo come un tentativo stupido di renderti amico Tartaros. Non è per questo che lo hai fatto, giusto?”.

“No. Ma ora sono stanco. Va via”.

“Sei sicuro? Hai l’aria di chi ha qualcosa non va”.

“Non sono affari tuoi!” alzò la voce Kydoimos.

“Va bene! Non serve trattarmi male!”.

“Scusami. Ma sono davvero stanco. Voglio restare da solo. Ne parliamo un’altra volta”.

“Come vuoi. Però ricordati una cosa: io sono nato prima del mondo. Perciò non puoi nascondermi nulla e nemmeno mentirmi. Non farlo, perché potrei arrabbiarmi”.

“Me lo ricorderò. E grazie. Tu mi sostieni sempre”.

“Sei il mio fratellino. E ora riposa”.

 

Le anime di Ares ed Athena camminavano, fianco a fianco, per i campi elisi. Quel luogo di infinita pace e delizia, facevano sorridere entrambi. Nessuno più aveva desiderio di guerra o provava odio nei confronti di qualcun altro. I fiori profumavano l’aria ed i due seguivano il corso di un ruscelletto limpido. Tutti erano felici, tranne un’anima. Un’anima sola, che se ne stava seduta a fissare il vuoto, sospirando.

“Cosa ti rende tanto triste, amico mio?” domandò Aphrodite, poggiando una coroncina di fiori sulla testa dell’anima di Saga.

“Niente” mentì Saga.

“E allora perché quel muso lungo? Qui sono tutti sereni! I campi elisi sono un luogo di infinita gioia per tutti coloro che vi albergano. Ma tu no, tu sei triste. Dimmi perché”.

“È che…” iniziò Saga, giocherellando con una farfalla “…credevo che ci saremmo rincontrati tutti qui, un giorno. O, comunque, tutti insieme”.

“Molti di noi non sono morti”.

“Ma non tutti i morti sono qui”.

“Parli di Arles?”.

Saga girò la testa, ignorando il passato cavaliere dei Pesci.

“Saga?” insistette Aphrodite “Rispondimi!”.

“Lasciami in pace” sbottò Saga, levandosi dalla testa la coroncina.

“No, non ti lascio in pace. Perché tu sei mio amico, lo sei sempre stato, e non voglio vederti triste”.

“Ma lo sono. E non c’è niente che tu possa fare”.

“Dimmi perché!”.

“Lo sai già il perché!”.

“Arles?”.

“Sì! Sì, Arles! Sempre e fottutamente Arles! La fonte di ogni singolo guaio nella mia vita, mi sta rovinando anche la morte”.

“Ti manca?”.

Saga fissò ancora il vuoto, qualche istante. Si portò le ginocchia al petto e vi poggiò la testa, lasciando che i capelli lo coprissero in parte.

“Lo sai…” iniziò a parlare, senza guardare negli occhi Aphrodite “Quando sono caduto in terra, quel giorno, ed ho sentito la vita scivolare via da me, io l’ho visto. Ho visto il suo viso. Mi sorrideva”.

“Arles non sorrideva. Arles ghignava, è diverso”.

“Mi ha sorriso! Ed io mi sono sentito felice. Ero in pace. Era come se avessi trovato qualcosa che cercavo e che avevo smarrito da tanto, tanto tempo. Ero convinto di ritrovarlo qui. Ero certo che sarei stato finalmente ricongiunto a lui”.

“Ma per quale motivo ti manca così tanto? Per quale ragione vuoi ricongiungerti con l’essere che ti ha portato a compiere gesti ignobili?”.

“Perché? Non lo. Se ci ragioni, è vero. Non ha senso che io aneli a riaverlo vicino. Eppure è così”.

“Sei sicuro che sia lui a mancarti? Tua moglie e tua figlia…”.

“A loro auguro una vita lunga e prospera. Spero di non vederle tanto presto qui”.

“E non preferisci startene qui, felice, in pace, senza pensare ad altro?”.

“Certo. Lo vorrei tanto ma, porca puttana, non ci riesco!”.

L’anima di Saga scoppiò a piangere e molte altre anime la guardarono, stupite. Nessuno piangeva ai campi elisi, se non di gioia.

“Qui non c'è” singhiozzò “Perché non c'è? Perché, una volta riaperti gli occhi, non l'ho visto accanto a me?"
"Forse perché ha commesso troppi crimini per riposare ai Campi Elisi"
"Non ha importanza. Io lo voglio qui".
"E perché?".
"Perché mi manca. Mi manca più del mio stesso respiro. E, credimi, il respiro mi manca parecchio".

 

“Perché mi chiedi questo?” domandò Neikos.

“E perché no?”.

“Che cosa devi fare?”.

Nàgiri aveva appena chiesto alla sorella di accompagnarlo al grande tempio per una sera. Gli abitanti del palazzo nero iniziavano ad insospettirsi. Quella sera, per rassicurarli, si era inventato una festa dove anche la sorella avrebbe partecipato. In realtà lui andava al grande tempio per incontrare Heiwa.

“Io non vengo con te” protestò Neikos.

“Dai, è solo un piccolo favore che ti chiedo”.

“Ma per quale motivo? Cosa ci vai a fare al grande tempio?”.

“Io…ho conosciuto una ragazza” ammise Nàgiri.

“Come?!” si stupì Neikos “Ma tu…avevi promesso che…io e te…” balbettò Neikos, sconvolta.

“Sorellina, sii seria. Ci siamo divertiti, ma io questa donna la amo”.

“Avevi detto di amare me!”.

“Sono cose che si dicono”.

Neikos gridò di rabbia. Iniziò a piangere. Lui non parve in alcun modo preoccuparsi o addolorarsi.

“Vieni con me” propose Nàgiri “Al grande tempio c’è tanta gente. Solo così potrai conoscere il vero amore. Il nostro era solo un passatempo”.

“Sei uno stronzo” mormorò lei.

“Ti prego, non farla così grave. Vieni con me. Ti prometto che ti divertirai”.

“Vaffanculo”.

“Smettila!”.

Nàgiri insistette, arrivo quasi a supplicare. Alla fine Neikos cedette.

“Ti odio” sbottò lei.

“Lo so che non è vero” sorrise lui, dandole un bacio sulla guancia.

 

Il Caos bussò alla porta di Ahriman. Erebo non era ancora uscito così il padrone di casa trovò i due figli nella stanza. Li guardò e sorrise.

“È tardi, miei cari. Non è ora di dormire?” commentò.

“E per te no?” rispose Erebo, ghignando.

“Lo sai che io non dormo mai”.

“Andate via!” si lamentò Kydoimos “Ho sonno”.

“Voglio solo farti una domanda, mio gioiello” insistette il Caos e Erebo si offrì di uscire.

Il padre, però, invitò il suo primogenito a restare. Kydoimos borbottò e ficcò la testa sotto il cuscino.

“Volevo farvi una domanda, piccoli miei”.

“E non puoi farmela domani? Sono stanco” ringhiò il più piccolo dei figli e il Caos si sedette sul letto.

“A te, piccolo, vorrei chiederti perché sei infelice”.

“Non sono infelice”.

“Stronzate. Sei alla ricerca di qualcosa. Di che cosa?”.

“Ma che dici? Sparisci!”.

“Cosa ti manca? Hai dei figli che ti adorano, noi tutti ti vogliamo bene. Eppure tutti mi fanno notare che hai rinunciato ad Airis e devi essere triste. Perché?”.

“Perché sono tutti degli impiccioni. Io sto benissimo. Voglio solo dormire”.

“Nàgiri e Neikos litigano. Tartaros è geloso perché Gaia non è di certo fedele. Tu, Kydoimos, quasi cadevi dal balcone per salvare Shuna che si suicidava. Questo io…non lo capisco. Perché tutti voi cercate l’amore, se fa così male?”.

I due fratelli rimasero in silenzio. Kydoimos non sapeva che risposta dare. Non lo sapeva davvero. Erebo capì che per il fratellino non era un argomento molto piacevole e non parlò. Non descrisse la gioia che provava nel stare accanto a sua moglie Nyx. Kydoimos si spostò. Si raggomitolò attorno al padre, come in cerca di conforto. Il Caos gli accarezzo i capelli e rimase in silenzio. E il suo gioiello iniziò a cantare.

 

“Dormi ora che

tutte le stelle assieme cantano per te.

Sogna ora che

un poco il cielo appartenga pure a te

e che ti culli poi spiegandoti il perché

il mondo è strano ma sorridi

dico io.

Chiudi gli occhi e

se ti riesce stanotte sogna proprio me

e se il tuo sogno sarà bello come vuoi

allora per sempre uniti insieme saremo noi.

Se davanti a te

vedi battaglie e morti tutti accanto a te

voglio che sappia che qui ci sono io

e che ogni volta che di notte tremerai

sarà la mia voce a scaldarti, vedrai”

 

Kydoimos non poteva sapere che la stessa canzone, in quel momento, la stavano cantando anche Saga, Ninive ed Ahriman.

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Capitolo 15
*** XV- Nuovo ***


XV

 

NUOVO

 

“Quello che ci dici è molto grave” annuì Aiolos.

Ahriman aveva convocato alcuni cavalieri d’oro ed alcune divinità, per riferire il grave sospetto che aveva. E per comunicare a tutti che il sigillo di Gaia era stato spezzato. Il Dio del cielo ancora portava un braccio fasciato. Se lo accarezzava nervosamente, e intanto camminava avanti ed indietro.

“Cosa avranno in mente?” si chiese Milo “Con tutta la fatica che abbiamo fatto per sigillare quella troia!”.

“Calmati, Milo. Non serve essere volgare” lo fermò Camus.

Stavano tutti seduti attorno ad un tavolo, tranne il Dio del cielo che non stava fermo.

“La situazione però, lo dovete ammettete, è grave” convenne Shaka.

“Preoccupante” annuì Kiki, accanto a Mur “Se decidessero di attaccarci di nuovo…”

“Li rispediamo a calci da dove sono venuti” ringhiò Kanon.

“Non credo sia così facile” rispose Ahriman “Visto come gira il mondo al giorno d’oggi, il Caos si è notevolmente potenziato. L’ho provato sulla mia pelle”.

“In quel momento, figlio mio” lo interruppe Ninive “Il Caos era mosso dall’ira e dalla preoccupazione perché avevi attaccato suo figlio”.

“E credi che, se ci muovesse guerra, non lo farebbe con ira?”.

“Certo che sì. Ma non così cieca”.

“Dobbiamo prepararci al peggio”.

“Cosa suggerisci di fare?” domandò Aiolos.

Heiwa, la figlia di Saga, rimaneva in silenzio. Osservava la madre, seduta accanto ad Aiolos, e teneva il capo chino. Suo padre era morto per la pace e questi discutevano di guerra. La cosa la rattristava. Si alzò, preferendo abbandonare la conversazione e raggiungere Nàgiri, che certamente l’aspettava alle porte del tempio. Nessuno ebbe qualcosa da ridire, vedendo come ancora la perdita del genitore scuotesse l’anima di quella fanciulla.

“Se solo una divinità di guerra fosse rimasta…” si rammaricò Ioria, desideroso di proteggere chi amava.

“Ma siete tutti impazziti?” si spaventò Hestia “Non vorrete mica un altro conflitto?”.

“Abbiamo forse un’alternativa?” sbottò Hades.

Al suo fianco, Deathmask con l’armatura da Dio delle morte donava un tocco d’inquietudine nell’animo di tutti. Altri Dei presenti scossero il capo.

“Ma, scusatemi!” sorrise Aldebaran “Abbiamo il Dio della morte dalla nostra parte! Siamo a cavallo”.

“Mi permetto di dissentire” parlò Deathmask, lentamente “La morte è neutrale”.

“Dai! Non puoi essere così stronzo!” protestò Shura.

“Ma finché non ci attaccano, perché ci preoccupiamo?” chiese Arles II.

“Perché se ci attaccano e noi non siamo preparati…” sibilò Ahriman, chinandosi su quel giovane “…siamo tutti quanti fottuti!”.

“Oh, adesso smettila, Ahriman!” lo rimproverò Ninive “Sei come tuo padre. Vedi complotti e nemici ovunque. Stai rinunciando alla tua felicità per inseguire sospetti”.

“Io non ho nulla da spartire con mio padre. Io non sono un pazzo assassino”.

“Non è di certo solo questo, figlio mio”.

“Non parlare al presente di chi è morto da tempo”.

“E tu non parlare così di chi ha contribuito a farti esistere!”.

“Calmati” parlò piano Apollo, seduto accanto alla figlia.

Le sfiorò la mano, e Ninive si calmò. Molti avevano i nervi a fior di pelle e nessuno sapeva come calmare gli animi. Una soluzione, pareva non esserci.

“Io non voglio una guerra” furono le parole di Tania.

“Nessuno di noi la vuole” la rassicurò Arles II, ma non era affatto convinto di questo.

“Intensifichiamo la guardia” suggerì Aiolos “Teniamo d’occhio la situazione e teniamoci pronti”.

“Sì, stiamo all’erta” annuì Hestia.

“Prepariamoci ad ogni evenienza. Potrebbe anche avvenire un attacco da un momento ad un altro” ammise Ahriman, accarezzandosi ancora il braccio ferito.

“E se il Caos decidesse di attaccarci proprio per questo?” domandò Ninive “Se, vedendoci agire, decidesse di attaccare, sentendosi minacciato?”.

“Ma tu da che parte stai?” storse il naso il figlio e la madre lo guardò con rimprovero.

“Dalla parte di nessuno”.

“Ah sì? Quell’essere ti ha ferita e tu lo difendi”.

“Non lo difendo. Dico solo che potrebbero aver recuperato Gaia solo perché mancava loro, non per muoverci guerra. Non trovi?”.

“Tu stai delirando, donna”.

“Non usare quel tono con me, ragazzino!”.

“Tu non usare quel tono!” rispose la profonda voce di Urano “Voi stupidi non capite il pericolo che deriva dalla libertà di Gaia”.

“No, non lo capiamo. E adesso calmati”.

“Non dirmi quel che devo fare!”.

I presenti si guardarono piuttosto preoccupati. Ahriman si calmò. Respirò profondamente.

“Bene” disse “Fate quel che preferite. Non invocatemi solo quando ormai siete al capolinea”.

E, detto questo, lasciò la stanza.

 

“Tieni, anima triste” mormorò Violatte, mostrando la scatola di un puzzle all’anima incompleta, che la ignorò, girando la testa.

“Thanatos aveva detto che ti piaceva” sospirò lei.

In ogni modo, lei ed Aiaco avevano cercato un modo per far sorridere quell’anima, senza risultato.

“Sta perdendo i suoi tratti somatici” notò Aiaco “E sta dimenticando quel che è stato. Una volta che il processo sarà terminato, non potrà più ricongiungersi al lato che manca. Non potrà mai riposare in pace”.

“Quanto tempo credi che manchi?” domandò Violatte.

“Non molto. Mi chiedo se non sia giusto farla smettere di soffrire”.

“Abbiamo fatto una promessa”.

“Lo so”.

Aiaco lasciò la stanza e guardò in alto. Percepiva qualcosa.

“Violatte” chiamò “Allontanatevi, tu e l’anima”.

“Che succede?”.

“Tranquilla, è tutto sotto controllo”.

La donna si fidava di Aiaco, ciecamente. Lo guardò qualche istante, spaventata all’idea di venire di nuovo separata da lui, e poi prese l’anima per l’unica mano e la trascinò con sé.

 

Ahriman camminò da solo lungo il sentiero che conduceva al tempio. Era piuttosto nervoso ma cercava di controllarsi. Davanti a sé, d’un tratto, vide una figura vestita di chiaro. Era strano, solitamente in quei luoghi non vi era mai nessuno. Avvicinandosi, vice che era una donna, che guardava le stelle sospirando.

“Buonasera” salutò lui, non volendo spaventarla avvicinandosi ulteriormente.

La giovane si girò. Si era spaventata comunque.

“Salve” rispose lei, educatamente.

Era Neikos, che attendeva pazientemente il ritorno del fratello dalle sue fughe amorose.

“Cosa fate qui da sola?” domandò il Dio del cielo “Non è orario per passeggiate di fanciulle in solitaria”.

“Lo so. Sto aspettando mio fratello”.

“Che razza di fratello lascia da sola la sorella nel buio e al freddo?”.

“Uno a cui non importa”.

“Io non farei mai una cosa del genere a mia sorella, anche se lei non mi vuole attorno”.

Ahriman scosse le ali, involontariamente. Neikos non poté fare a meno di guardarle.

“Ti piacciono?” sorrise lui, ringalluzzito.

“Mi sono sempre piaciute. Anche quando ero piccola, le ammiravo”.

“Ci conosciamo?”.

“Sono Neikos”.

“Progenie del Caos?”.

“Esattamente”.

“Capisco”.

Neikos chiuse gli occhi. Sapeva cosa provava Ahriman nei confronti di quelli come lei e si aspettava si allontanasse, lasciandola da sola. Inaspettatamente, qualcosa di caldo l’avvolse. Il Dio si era tolto il mantello per proteggerla dal freddo e glielo aveva messo sulle spalle. Lei lo guardò, stupita.

“Scusa, me ne vado subito” si affrettò a dire Ahriman “So che quelli come te mi odiano”.

“Io…”.

“So che pensi anche tu che io abbia ucciso i tuoi fratelli”.

“Io non so nulla al riguardo. È mio fratello che dice queste cose. Per me non ha senso che lo abbiate fatto. Però, allo stesso tempo, non posso dire che siate innocente. Non lo so”.

Ahriman si stupì a quelle parole. La guardò in viso. Doveva odiarla, perché era la figlia di colui che aveva attaccato lui e sua madre. E la nipote del Caos. Ma non ci riusciva. Le sorrise. Lei si stupì. Lo fissò a sua volta. E si accorse di star sorridendo a sua volta. Quelle ali erano davvero troppo belle!

“Che succede?” si incuriosì Kiki, vedendo Milo.

Il cavaliere dello scorpione gli fece l’occhiolino, mentre con una mano indicava di fare silenzio.

“Ho beccato Ahriman”.

“Ah, hai visto dove è scappato”.

“Già. A quanto pare, anche la carne degli Dei è debole”.

 

“Sono venuto qui per ordine di Hades in persona” gracchiò Zelos.

“Che cosa c’è?” domandò Aiaco.

“Siamo in cerca di un’anima incompleta”.

“E io che c’entro?”.

“Chiedo perdono, ma mi è stato detto di controllare anche qui”.

“Fai pure, non ho nulla da nascondere”.

Il giudice era consapevole che Zelos non aveva le capacità necessarie per percepire la presenza recente di un’anima in quel luogo. Lo vide strisciare ed annusare per la casa, in cerca di indizi. A braccia incrociate, Aiaco lo osservò senza parlare.

“Ti diverte la cosa?” si sentì dire dall’inconfondibile voce di Radamante.

Si morse il labbro. “Merda” mormorò, consapevole che quell’uomo era in grado di capire la realtà.

Si voltò e vide che non era solo. Minos sorrise.

“Salve, colleghi” salutò Aiaco, tentando di tenere quei due lontani da casa sua.

“Ti unisci alla ricerca?” domandò Radamante “O sei troppo impegnato con la tua signora?” ridacchiò.

“La tua è solo invidia, vero? Pandora non pare disponibile…”.

“Chiudi la bocca!” sbottò la Viverna.

“Dai, mi unisco a voi” sorrise Aiaco “Andiamo”.

“Un momento” lo fermò Minos “Cos’è tutta questa fretta? Prima dobbiamo controllare anche casa tua. Abbiamo ordini precisi”.

“Oh, andiamo! Non è necessario! Cosa credete che nasconda?”.

“Noi obbediamo solo agli ordini. E poi sono curioso di sapere come la tua donna ha arredato la tua dimora”.

“Ma no. Non mi piace che ficchiate il naso nelle mie cose!” sbottò Aiaco.

“Hai Violatte nuda, incatenata al letto?” rise Radamante “Non ci sconvolgiamo, tranquillo”.

Aiaco cercò di trattenere i due giudici ma ormai era tardi. Era sceso uno strano silenzio.

“Porca puttana” commentò Aiaco, capendo di essere nei guai.

 

“Forse non dovrei parlarti” convenne Neikos.

“Già, forse nemmeno io” annuì Ahriman.

Si fissarono ancora qualche istante.

“E se non ti parlo, però ti accompagno in un posto, ti dispiace?” sorrise il Dio.

“Dove volete portarmi?”.

“Intanto dammi del tu. Poi, ho visto che ti piacciono le stelle. Posso portarti nel luogo dove si vedono meglio in assoluto”.

“No, devo aspettare mio fratello”.

“Ma lui ti ha lasciata sola qui”.

“Lo so. Mi ha mentito, mi ha tradita, mi ha presa in giro e pure mi tocca aspettarlo”.

“E perché?”.

“Perché mio padre non vuole che giriamo da soli. Va nel panico quando siamo lontani”.

“Ancora scottato dalla perdita che ha avuto in famiglia?”.

“Sì, suppongo di sì”.

“Ad ogni modo, capisco i tuoi sentimenti. Anche io ho una sorella con cui ho avuto dei problemi. Soprattutto con suo marito”.

“Lui mi aveva promesso di stare sempre accanto a me. Invece ora ha trovato un’altra”.

“Mi dispiace. Immagino faccia male. Ma hai un motivo in più per lasciarlo qui. E poi, ti porto solo a fare un giro. E ti riporto qui. Non ti rapisco per sempre” ammiccò Ahriman.

Neikos guardò il Dio con un certo imbarazzo. Non sapeva che cosa dire. Entrambi, dentro di sé, si stavano chiedendo se era la cosa giusta quel che facevano.

“E va bene” annuì lei “Però quando dico che è ora di rientrate…”.

“Ti riporto qui, tranquilla”.

La prese per mano e sbatté le ali. Neikos si sentì sollevare. In un primo momento ne fu spaventata ma poi lanciò un gridolino d’entusiasmo. Aveva sempre desiderato volare. Era una sensazione meravigliosa.

 

Minos e Radamante fissavano Aiaco in silenzio. Aiaco sorrise, imbarazzato.

“Cosa c’è? Vi va una birra?” tentò di sdrammatizzare.

“Aiaco” mormorò Radamante, sedendo senza invito sul divano di casa del collega “Aiaco, Aiaco, Aiaco…mi stupisco di te. Non credevo potessi giungere a tanto”.

La Viverna aveva congiunto le mani davanti al viso e fissava chi aveva di fronte come solo un giudice infernale sapeva fare.

“A quanto pare, sei stato cattivo” si aggiunse Minos.

“Ragazzi, andiamo. Non è come pensate” tentò di giustificarsi Aiaco.

“L’anima incompleta è stata qui, non puoi negarlo” si spazientì Radamante “L’anima che il sommo Hades ha dato l’ordine di eliminare! Come giustifichi questo?”.

“Non lo giustifico. È stata qui. Ma ora non c’è”.

“Che ci sia o non ci sia, non ha importanza. È stata qui e tu non l’hai eliminata, come Hades desidera”.

“Non facciamone un dramma”.

“Non dire cazzate!” si alzò di colpo Radamante, ribaltando il tavolino che aveva davanti a sé “Qui stiamo parlando di tradimento. E il tradimento sai come viene punito qui!”.

“L’anima non è qua, perciò non potete incolparmi”.

“Ma noi vediamo dentro di te” ghignò Minos “E sappiamo che sei colpevole”.

Minos prese fra le dita il viso di Aiaco, che di tutta risposta gli sputò in faccia.

“Che venga Hades a prendermi, se ci tiene tanto” commentò, mentre il grifone indietreggiava, ringhiando di fastidio e pulendosi.

“Questa è pura insubordinazione!” parlò Radamante, facendo scricchiolare le nocche “Bello. Avevo giusto bisogno di divertirmi un po’. Anche tu, Minos?”.

“Ovviamente” rispose il grifone, passandosi la lingua sulle labbra.

Il primo ad attaccare fu proprio Minos. Aiaco, conoscendo la sua tecnica, riuscì a schivare i fili del suo colpo. Saltò.

“Oh, andiamo!” commentò “Siete seri?”.

“Ti staccherò tutti gli arti!” riprese il grifone, attaccando ancora.

Questa volta, l’attacco di Minos fu accompagnato da quello della viverna e Aiaco non trovò per nulla semplice schivare entrambi. L’esplosione che creò, sfondò una delle pareti della casa e i tre finirono proiettati all’esterno. Diversi uomini a servizio di Aiaco si stupirono a quella scena. Cosa stava succedendo? Dovevano difendere il loro signore oppure farsi da parte? Garuda non diede ordini a riguardo. Si preparò a contrattaccare, e grandi occhi apparvero fra la nera atmosfera dell’oltretomba.

“Sei un pazzo se credi di battere entrambi” parlò Radamante.

“Forse lo sono. Non ho paura, né di voi né di Hades” ribatté Aiaco, spalancando il suo sguardo con fare minaccioso.

“Sarà allora un piacere portare al nostro signore la tua testa!” gridò Minos.

 

Il palazzo di Ahriman era il luogo da dove le stelle si vedevano meglio. Neikos osservò gli astri ad occhi spalancati, fra le colonne di quel luogo.

“Questo posto è splendido” dovette ammettere.

“Ti ringrazio” sorrise Ahriman.

“Ma…vivi qui da solo? Pare deserto questo palazzo”.

“È così. Io qui sono solo. Immagino sia strano per te, che vivi in un luogo ben più affollato”.

“Lo è, in effetti”.

“Non ho mai portato nessuno qui, prima d’ora”.

“Oh. E perché hai portato proprio me?”.

Ahriman non rispose. Non lo sapeva. Perché mai aveva condotto un’abitante del palazzo nero proprio a casa sua? Perché mostrare al nemico un particolare così?

“Lo sai…” riprese lei “…hai degli occhi smeraldo meravigliosi”.

Il Dio si imbarazzò. Era una frase che solitamente gli diceva sua madre.

“Scusa!” aggiunse in fretta Neikos “Non dovrei sempre parlare a vanvera”.

“Tu, invece…” iniziò Ahriman, non trovando bene le parole “…sei interamente meravigliosa”.

“Come, prego?”.

“C’è qualcosa, in te, che…non so come spiegarti. È come se ti conoscessi, come se ti avessi sempre cercata e ora finalmente sei qui. È una sensazione molto strana”.

“Lo dici a tutte le donne, vero? Sei un bravo corteggiatore”.

“Non sono mere bugie per rimorchiare. Quel che ti ho detto, è quel che provo”.

“Davvero?”.

Neikos non sapeva se credergli o meno. Lo osservò attentamente. Poteva anche essere un gran bugiardo ma non le importava molto. La brezza ne muoveva i capelli neri come la notte e quel suo sguardo aveva un’aria familiare, lo ammetteva pure lei. Bugiardo? Può darsi. Ma in quel momento non ci pensava. Era come incantata, probabilmente sottomessa dal potere divino che Ahriman emanava. Entrambi si avvicinarono l’uno all’altro. Ormai vicinissimi, riuscivano a percepire il battito accelerato di chi avevano di fronte. E si baciarono, con puro desiderio, senza pensare più a niente e nessuno se non a loro stessi.

 

Aiaco sputò sangue. Combattere contro due giudici non era facile. Ma non voleva cedere. Si rialzò e si preparò ad attaccare ancora. Attorno a lui, i corpi di molti suoi uomini, colpiti accidentalmente da quello scontro. A garuda non importava. Erano solo degli esseri inferiori. Minos attaccò, riuscendo ad immobilizzargli un braccio. Aiaco si dimenò, senza troppo successo. Radamante era pronto a colpirlo ma qualcuno si intromise, deviando la Greatest Caution. Violatte era tornata per difendere l’uomo che serviva e amava. Ed era furiosa.

“Fatti da parte, femmina!” sbottò la viverna “Se non vuoi morire pure tu. Visto che ci sono poco donne interessanti da queste parti, mi dispiacerebbe”.

“Vaffanculo!” rispose lei.

Radamante e Minos si prepararono a colpire ancora quando una voce li interruppe. Era calma, pacata. Divina. Capirono subito di chi si trattava.

“Hypnos” parlò la viverna.

“So come mi chiamo, Radamante” rispose il Dio dei sogni “E voi mi state infastidendo. Fate troppo casino”.

“Stiamo obbedendo. Hades vuole l’anima incompleta che è stata in questa casa” si giustificò Minos.

“In questo caso…” mormorò il Dio, avvicinandosi a Violatte.

La donna si guardò attorno, confusa. Hypnos ne prese il viso fra le mani e la fissò. Lei gridò, sentendo il potere della divinità entrargli nella mente. Evidentemente, il Dio stava cercando i ricordi della donna, per scoprire dove l’anima fosse celata. Dopo qualche istante, la lasciò andare.

“Ci penso io, ora” ordinò “Voi sparite. Le armate di Hades hanno bisogno di uomini validi come Aiaco, anche se a volte fanno qualcosa di sbagliato”.

“Eliminerete Voi l’anima?” domandò Radamante.

“Sì, giudice dal sopracciglio inquietante. Andate pure”.

Il tono di Hypnos era di quelli che non ammettono repliche, così i giudici si congedarono. Il Dio dei sogni attese che se ne fossero andati, e poi si allontanò a sua volta. Non aveva alcuna intenzione di uccidere quell’anima. Era stanco di sentir piagnucolare Saga nei campi elisi e, se l’unico modo per farlo smettere era riportargli Arles, avrebbe fatto di tutto per aiutarlo.

 

Neikos gemette di piacere. Che cosa stava facendo? Se lo chiedeva ma non voleva fermarsi. Stesi sull’enorme letto di Ahriman, il loro bacio era diventato ben altro e ora se ne stavano avvinghiati, in un solo corpo. Mai lei aveva provato sensazioni così forti durante il sesso. Era vero quello che dicevano sulle divinità! Forse si era fatto tardi, forse erano trascorse delle ore. Ma non le importava. Strinse più forte a sé il Dio, urlando per l’eccitazione. Non riusciva a dire altro. Ahriman ansimò soddisfatto, anche se si ripeteva che non era da lui agire in quel modo.

“Resta qui” le mormorò, senza fermarsi “Resta qui per sempre con me. Diventa regina del cielo”.

Lei spalancò gli occhi. Certe frasi non se le aspettava. Voleva rispondere ma riusciva solo a gemere vocali. Poi anche lui gridò e lei sentì un potere enorme percorrerle tutto il corpo. Sì, voleva rimanere lì. Se un orgasmo divino provocava questo, voleva provarlo per sempre.

 

Arles II fissava con sospetto Thanatos. Quel tipo girava troppo attorno alla sua ragazza Tania e la cosa lo infastidiva. Che voleva? Thanatos, da poco mortale, aveva il permesso di vivere alla quarta casa, a patto di non provarci con la rappresentante dei pesci.

“Tu…” iniziò Arles II “Per caso sai giocare ai videogames?”.

“Come?” alzò un sopracciglio l’antico Dio, non aspettandosi questa domanda.

“Sai giocare? Ne ho un sacco e, se vuoi, puoi partecipare”.

“Non ho mai giocato. Preferisco gli scacchi” ammise Thanatos.

“Ok. Però ti posso insegnare, se ti interessa”.

Thanatos sorrise. Guardò il su. Il cielo era splendido quella notte. Ahriman doveva essere di buon umore.

 

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Capitolo 16
*** XVI- speranza ***


XVI

 

SPERANZA

 

“Posso restare qui per un po’?” domandò Ninive, sull’ingresso della dimora del padre.

“Certo, figlia mia” sorrise Apollo “Sei sempre la benvenuta”.

“Non voglio esserti di disturbo”.

“Ma quale disturbo! Sei la mia bambina!”.

“Già…bambina…”.

Ninive camminò lentamente, ad occhi socchiusi.

“Solo una cosa…” la fermò Apollo.

“Dimmi” rispose lei, dando le spalle al genitore.

“Chi è il padre?”.

Lei spalancò gli occhi. Non si voltò.

“Lo hai capito subito che sono…” mormorò.

“Il mio potere è anche legato alla medicina, figlia mia. Allora, chi è il padre del mio prossimo nipote? Spero qualcuno all’altezza”.

“Lo è, papà. Sta tranquillo”.

“Bene. Ora va pure a riposare”.

“Non sei in collera con me?”.

“E perché?”.

“Perché sono incinta. Pur essendo a capo delle vestali”.

“Non sono affari miei. Per quel che mi riguarda, la castità è una cosa che non concepisco. Perciò sono lieto che tu abbia lasciato quella strada per abbandonarti ai meri piaceri del mondo, piccola mia”.

“Grazie per la comprensione”.

“Però non sei felice”.

“Sono un po’ preoccupata. Gli anni passano e tanto tempo è trascorso da quando ho messo alla luce i miei gemelli. Ho paura”.

“Mia cara, sei una Dea. Il tuo corpo sarà giovane per sempre. Inoltre, conosco una schiera di divinità pronte ad assisterti in ogni momento. Perciò sta tranquilla e non ti preoccupare”.

“Ti ringrazio”.

“Ma lo vuoi?”.

“Cosa?”.

“Il bambino. Lo vuoi? Perché, se non lo vuoi, posso aiutarti a disfartene”.

“No, lo voglio. Sarà la mia meraviglia”.

Ninive si congedò, sentendosi piuttosto stanca. Forse doveva seguire il consiglio del padre ma qualcosa le diceva che quel bambino doveva vivere.

 

Kydoimos attendeva pazientemente alla tredicesima casa del grande tempio. Aiolos tardava a mostrarsi. Finalmente, dopo parecchio tempo, il cavaliere apparve scostando la tenda.

“Benvenuto” salutò Aiolos e Kydoimos fece solo un cenno con il capo.

Aiolos sedette sul trono del gran sacerdote, pronto ad ascoltare ciò che l’ospite aveva da dirgli. Poco dopo, Hestia apparve e salutò, con un sorriso più che equivoco, e lasciò la stanza.

“Vedova di fresco, e già con il letto occupato” commentò Kydoimos.

“Non credo siano affari che vi riguardano” sbottò Aiolos.

Kydoimos non aggiunse altro. Sperò solo che Saga, nel suo riposo eterno, non sapesse certe cose.

“Di cosa volevate parlarmi?” riprese il gran sacerdote.

“Ci tenevo a farvi sapere che gli intenti del palazzo nero non sono di guerra” rispose Kydoimos.

“Non lo sono?”.

“No. Ho liberato Gaia, lo ammetto. Ma non per muoverla contro di voi”.

“E allora per quale motivo?”.

“Perché Gaia è la madre Terra. La sua presenza è fondamentale”.

“Non ne sono convinto”.

“Di ciò che ti convince, a me poco importa. Io dico le cose come stanno. Poi interpretate come vi pare”.

“Io giudico quel che vedo. Gaia ci ha attaccati, portando alla morte tanti innocenti. Il suo ritorno è ovvio che desti preoccupazioni”.

“Lo comprendo. Ma, se me lo permettete, garantisco io”.

“E tu chi sei, per poter garantire?”.

“Non valgono più le parole fra gentiluomini?”.

Aiolos storse il naso. Non si fidava per niente. Però doveva lasciare aperte le porte alla diplomazia. Allungò la mano e strinse quella di Kydoimos. Saga desiderava la pace, e considerò quel gesto come una sorta di ultimo desiderio dell’amico.

 

Thanatos non trovava semplice essere mortale. Non era abituato a dover mangiare, dormire e camminare per forza. Però alla quarta casa stava bene. Sedeva in un angolo, da cui riusciva a sbirciare tutto l’oltretomba. Sorrise, vedendo suo fratello Hypnos, anche se non capiva cosa ci facesse in quell’anfratto di aldilà. Poi notò l’anima incompleta.

“Sei qui, dunque” sentì dire dal Dio dei sogni “Violatte ti ha trovato proprio un bel posto dove nasconderti”.

L’anima fu afferrata da Hypnos e gridò. Thanatos sobbalzò. Che il fratello fosse così crudele?

“Devo trovare il modo di rimetterti a posto. Le lagne di Saga non le sopporto più!” sbottò il Dio dei sogni.

Il gemello dai capelli argento guardò con apprensione l’anima. Stava regredendo. La sua memoria ed il suo aspetto andavano scemando. Stava divenendo un semplice involucro privo di personalità, cattiveria, paure o desideri. Era una cosa non molto positiva. Rischiava di rimanere errante per sempre. O di essere eliminata per pietà.

“Fratello, fai in fretta” mormorò Thanatos, sperando che anche Deathmask facesse la sua parte.

 

Nyx girava per i corridoio. Non capiva cosa aveva spinto Thanatos e divenire mortale. Si chiedeva dove avesse sbagliato. C’era qualcosa che poteva fare? Sospirò.

“Cosa ti rattrista?” domandò Kydoimos, appena rientrato dal grande tempio.

“Il silenzio” rispose lei.

“Silenzio?”.

“Sì. In questa casa non c’è musica, non c’è alcuna melodia”.

“Ti manca la musica di Thanatos?”.

“Anche”.

Kydoimos rifletté qualche istante. Poi sorrise. Le porse la mano.

“Vieni con me” le disse “So come far tornare la musica”.

La accompagnò di corsa fino alla grande stanza dove il Caos aveva trovato il modo di far crescere varie piante. Kydoimos tolse i sandali e affondò i piedi nella terra umida. Ghignò, vedendo diversi altri abitanti della casa.

“Venghino, signori, venghino!” commentò, sarcastico.

“Cosa hai in mente?” domandò il padrone del palazzo, senza capire.

“Madama, posso avere una ciocca dei suoi capelli?” domandò Kydoimos, prendendo la mano di Nyx.

Lei sorrise. Non capiva, ma porse una ciocca al suo fratellino adottivo. Lui ringraziò con un inchino e la tagliò facendo frizzare un po’ di energia fra le dita. Si guardò attorno. Aveva tutto ciò che gli serviva. Sciolse i capelli, che si aprirono in terra ben oltre le caviglie, e chiuse gli occhi. Ruotò le braccia, lasciando che la ciocca di Nyx rimanesse sospesa a mezz’aria. Con il suo gesto, la terra, l’acqua ed i profumi della stanza crearono una spirale attorno a Kydoimos, che guidò quel flusso con le mani. La capigliatura seguì quel corso e lui rise, solleticato dai suoi stessi capelli. Gli elementi iniziarono a fondersi, mentre chi li dominava si sollevava da terra. Si creò una forma, che emise un suono forte e melodico. Si espanse e prese vita. Era un enorme volatile del colore dei capelli di Nyx. Spalancò le ali e volò. Il suo canto incantò i presenti. Kydoimos tornò a terra e sorrise. Era fiero di quanto aveva creato. Gli atri fissarono l’animale con ammirazione.

“Sei il mio gioiello” esclamò il Caos, accarezzandogli la testa con orgoglio.

“Questo è un regalo per Nyx. Spero le piaccia” rispose Kydoimos.

La donna annuì, ascoltando il canto di quell’uccello.

“So che non può sostituire la musica di Thanatos, però spero che ti rechi gioia” riprese il fratello adottivo ed uscì dalla stanza.

 

“Aiaco!” chiamò Hypnos, trascinando l’anima incompleta.

Il giudice, che si stava facendo medicare da Violatte, si stupì di quella visita.

“Mio fratello ha espresso il desiderio di salvare quest’anima e io mi devo sorbire Saga che piange tutto il giorno” parlò il Dio “Perciò devo fare in modo che le cose si risolvano. E tu mi aiuterai”.

“In che modo?”.

“Non posso farla ricongiungere alla parte mancante finché questa non lascia il palazzo nero”.

“La parte che manca è al palazzo del Caos?”.

“Me lo ha svelato mio fratello. Ma finché non mette piede fuori da esso, non posso far nulla”.

“Capisco. E che posso fare?”.

“Quando io te lo chiederò, tu mi ubbidirai. Chiaro?”.

“Chiarissimo”.

“Bravo. Ora tieni qui con te quest’anima e non temere: Hades non ti infastidirà”.

 

Per Deathmask le cose non erano cambiate più di tanto. Girellava per il regno dei morti come sempre. Però ora poteva accedere ai campi elisi. Era un bel posto, lo doveva ammettere.

“Allora, come vanno le cose al grande tempio?” domandò Aphrodite.

“Bene, direi” sorrise Deathmask “Anche se sono tutti un po’ agitati perché temono nuovi attacchi”.

“Non si riesce mai ad avere la pace” sospirò Saga.

“No, mi sa di no”.

“Che schifo. Quante lacrime, sangue e cadaveri sul nostro cammino. Quanti orfani!”.

“Ti do ragione. Ma io non posso farci niente”.

“Nessuno cerca mai di fare niente”.

“Questo non è vero! È solo che ci sono troppi sospetti. Ahriman, per quanti buoni propositi possa avere, è comunque il figlio di Arles. E questo crea dei pensieri non bellissimi nella mente dei nostri”.

“Che cosa c’entra Arles, adesso?” sbottò Saga, cambiando di colpo espressione.

“Ahriman ha comunque il suo sangue. Nessuno di noi si stupirebbe se in realtà nascondesse chissà quale intento malvagio”.

“Cazzate. La cattiveria non è ereditaria! Allora dovrei credere che anche tuo figlio decapita la gente!”.

“Non lo fa, ma poco ci manca!”.

“Ahriman non è cresciuto con il padre. Non lo considera nemmeno tale”.

“Il sangue non mente”.

“Sono tutte stronzate”.

“Senti..non mi va di picchiare un morto!”.

“Tanto non provo dolore. Fai pure”.

“Fatti curare da uno bravo!”.

Deathmask si alzò, stufo di quei discorsi. Hypnos lo fissò, per qualche istante. Ancora non si abituava all’idea di vedere l’armatura del gemello su quell’uomo.

“Ti dovrei parlare un attimo, Dio della morte” mormorò il Dio dei sogni.

“A che proposito?”.

“Su una faccenda che riguarda entrambi”.

Deathmask guardò Saga.

“Riguarda l’anima incompleta?” domandò.

“Vieni con me” continuò il Dio dai capelli oro e, insieme, lasciarono i campi elisi.

 

“Come mai, quando sono tornato a prenderti, tu non c’eri?” domandò Nàgiri alla sorella.

“Non sono affari tuoi” ribatté lei.

“Io mi preoccupo”.

“Non è vero. Mi hai lasciato lì da sola!”.

“Certo! Volevi forse assistere alle mie scopate? Però mi dovevi aspettare”.

“Mi annoiavo. Ho trovato di meglio da fare e poi sono rientrata da sola”.

“So bene che tu sei più brava di me nel viaggio fra dimensioni. Ma non ha niente a che fare con il fatto che non ti sei fatta vedere. Mi è venuto un colpo”.

“E perché? Credevi che andassi a dire a papà cosa fai?”.

“A papà non deve importare quello che faccio”.

“E allora diglielo, così non ti servo come scusa. Anche perché, ti informo, ora ho da fare”.

“Hai da fare? E che cosa?”.

“La stessa cosa che hai da fare tu”.

“Cosa?! Io ti porto una sera al grande tempio e tu…”.

“E io sì, mi sono goduta la serata ed ho piena intenzione di ripetere l’esperienza”.

“E con chi?”.

“Non sono affari tuoi”.

“Fammi capire…la mia sorellina va in giro a fare la troia e non sono affari miei?”.

“Abbiamo solo pochi mesi di differenza, smettila di fare il superiore! E poi…tu fai lo stesso!”.

“Io amo la donna con cui faccio sesso!”.

“Anch’io amo l’uomo con cui passerò le serate d’ora in avanti”.

“Come fai ad amarlo? Lo hai visto una sola sera”.

“La cosa non ti riguarda!”.

“Puttana”.

“Stronzo bugiardo”.

“Ragazzi!” urlò Kydoimos, per farli smettere “Piantatela!”.

“Non ho iniziato io” dissero i due, in coro.

“Non mi interessa chi ha iniziato. Chiedetevi scusa!”.

I fratelli si guardarono piuttosto male ma, con l’insistenza del padre, si chiesero scusa. Nàgiri lasciò di corsa la stanza. Neikos tentò di fare lo stesso ma Kydoimos la fermò.

“Figlia mia” le disse, serio “Ti do un consiglio, se ti va di ascoltarlo”.

“Dimmi, papà”.

“Non concedere il tuo corpo ed il tuo cuore solo per ripicca o vendetta. Finirai per rimetterci solo tu”.

“Quest’uomo mi piace davvero”.

“Sul serio? O è solo un modo per tentare di dimenticare in fretta Nàgiri e le sue bugie?”.

“Sul serio”.

“In questo caso, spero tu sia felice. Così lo sarò anch’io”.

Neikos si congedò. Kydoimos la osservò con una punta di amarezza. Com’erano cresciuti in fretta i suoi piccoli! Il Caos gli si avvicinò lentamente, inclinando la testa. Il figlio sollevò la sua, per poterlo guardare in viso. Si fissarono per qualche istante.

“Io non so che parole usare..” esordì il Caos “Perché non conosco il legame che voi chiamate amore”.

“Siete fortunato” rispose Kydoimos.

“Fortunato?”.

“Sì. L’amore è un’inutile debolezza”.

“Una debolezza?”.

“Ci rende vulnerabili e sciocchi. Perché uomini e Dei sono incompleti?”.

“Forse perché la perfezione è noiosa”.

“Ma l’amore..”.

“Rende anche felici”.

“No. L’amore non mi ha mai reso felice”.

Kydoimos strinse i pugni e non aggiunse altro. Era frustrato. Per quanto si sforzasse, la sua vita comunque non era mai completa.

 

Quando Ahriman rivide la madre, diversi mesi più tardi, non trovò le parole. Non sapeva se ciò che provava era sdegno, disgusto, rabbia o smarrimento.

“Fra quanto nascerà?” domandò, indicando il ventre della madre.

“Non molto” rispose lei.

“Ma tu, non avevi giurato di fare la casta vestale?”.

“Avevo giurato, sì”.

“E allora cosa è successo? Non sarai mica stata violentata! Se è così, dimmi chi è stato, che lo eviro”.

“Calmati, Ahriman!”.

Ninive sedette sulla sedia a dondolo che il padre le aveva donato e si accarezzò la pancia gonfia. Il bambino scalciava e chiedeva un sacco di energia.

“Sei contenta?” le domandò il figlio “Ariadne sa di questa cosa?”.

“No, Ariadne non lo sa. Perché, come te, pensa alla madre solo un paio di volte l’anno”.

“Scusami tanto se mi hai abbandonato e non ho questa gran voglia di vederti”.

“Allora vattene. Di certo non puoi aiutarmi a partorire”.

“Non ci penso nemmeno!”.

Ninive non aggiunse altro. Sperava di poter rimediare agli errori del passato con quel piccolo. Anche se non ne era affatto certa. Ahriman pareva confuso. Era giunto fin lì per parlare alla madre della donna che frequentava da mesi, piuttosto orgoglioso. Ma si era scordato ogni cosa. Vedendola incinta, non aveva pensato ad altro. Chi aveva osato toccarla? Si scosse. Non erano affari suoi. E di certo quel moccioso nascituro non aveva nulla a che fare con lui!

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Capitolo 17
*** XVII- famiglia ***


XVII

 

FAMIGLIA

 

“Come ti senti?” domandò Apollo, osservando la figlia.

“Sono stanca” ammise Ninive.

La donna, accarezzandosi il ventre, osservava le stelle dal patio.

“Che serata splendida” commentò Apollo.

“Già. Mio figlio dev’essere di buon umore”.

“Ultimamente Ahriman pare stare proprio bene”.

“Credo sia innamorato”.

“Davvero?”.

“Sì. Mi pare una buona cosa che voglia sistemarsi”.

“E tu?”.

“Io cosa?”.

Ninive guardò il padre, che non rispose subito.

“Tu..” iniziò Apollo “..pensi di sistemarti un giorno di questi o progetti di sfornare altri figli senza un padre?”.

“Non è ciò che fai tu?”.

“Io ho molte donne e molti figli, ma è quello che voglio. Tu, invece, non sembri felice di questa situazione. Mi sembri una che desidera tanto una famiglia, un uomo accanto e cose del genere”.

“So io che cosa desidero, papà”.

“Non lo metto in dubbio. Ma, ad esempio, il papà di colui che presto metterai al mondo dove sta? Perché non sei accanto a lui?”.

“Sono affari miei!”.

“Lo so. Voglio solo sapere. Ti ha forse abbandonata? O è stata una tua scelta?”.

“Lui non sa che io sono incinta”.

“E perché non glielo hai detto?”.

“È complicato”.

Apollo alzò un sopracciglio, non capendo del tutto quel discorso.

“Ad esempio..” riprese lui “..quell’Arles con cui hai avuto i gemelli..era un umano, un mortale, però mi piaceva. Era forte, determinato e..”.

“Pazzo”.

“Già, era anche pazzo. Ma nessuno è perfetto”.

“Tu affideresti dei bambini ad una creatura come lui?”.

“Sì, perché no?”.

“Perché è pazzo!”.

“Ahimè, era pazzo. Ma se fosse in vita, non credo avrei problemi ad affidargli un bambino. Hai visto come si comportava con Ariadne ed Ahriman? Non mi è parso tanto male”.

“Ahriman lo detesta”.

“Ahriman è una testa calda. Lo sai meglio di me”.

“Io non amo Arles, papà”.

“Non lo amavi. Ma questa è un’altra faccenda. Ormai lui è morto. Però come padre, credo che avrebbe fatto il suo lavoro egregiamente”.

Ninive si fissò il pancione, sospirando.

“Meglio che mi stenda. Oggi scalcia tanto” parlò.

“Riposa, figlia mia”.

Apollo la baciò sulla fronte e lasciò che si allontanasse. Che complicata era la vita!

 

Ahriman era piuttosto nervoso. Davanti alla porta del palazzo nero, stringeva la mano di Neikos. Poi prese un respiro profondo ed entrò. L’atmosfera di fece pesante, come pensava.

“Vieni” lo invitò Neikos “Mio padre è per di qua”.

Gli altri abitanti della casa osservarono la scena con sospetto e fastidio. Cosa ci faceva quell’essere lì?

“Signor Kydoimos?” domandò Ahriman, entrando nella stanza.

Kydoimos sedeva su uno sgabello e tentava di ricreare il suono della cetra di Thanatos. Non era affatto semplice. Con le mani, liberava piccole dosi di energia per plasmare la materia ma il suono non era quello che desiderava. Si voltò, stupito nel vedere il Dio del cielo.

“Ciao, Ahriman” lo salutò “Che posso fare per te?”.

“Forse posso sembrare un po’ avventato” iniziò il Dio “Ma sono qui per chiedere la mano di vostra figlia”.

“Neikos?”.

“Non conosco le altre figlie..”.

Kydoimos poggiò a terra ciò che stava facendo, cercando le parole giuste.

“Non mi aspettavo una cosa del genere” ammise.

“Lo so, papà” parlò Neikos “So che Ahriman non è molto apprezzato in questa casa. Ma io lo amo e lui ama me. Mi trasferisco al palazzo nel cielo”.

“Ma..insomma..parliamone! Ahriman tu..sei vecchio!”.

“Papà! Ahriman è un Dio! Non invecchia!”.

“Nemmeno io, ma so di avere una certa età e non ci provo con le ragazzine”.

“Non sono una ragazzina”.

“Ha il doppio della tua età! E poi..c’è un’altra cosa che..”.

“Non voglio sentire!” sbottò Neikos “Le tue sono solo scuse! Ahriman è innocente, non ha ucciso nessuno”.

“Questo so per certo che non è vero. Non è così, Ahriman?”.

“Beh..” ammise il Dio del cielo “Gente ne ho uccisa. Ma nessuno bambino. Lo giuro”.

“Quello che cerco di dire, è un altro!” insistette Kydoimos “Ma è complicato e..”.

“E io non lo voglio sentire! Lo sapevo che era una follia venire qui per chiedere il tuo permesso!” interruppe Neikos, prendendo per mano Ahriman.

“Mi lasci parlare?” sbottò il padre e la figlia lo ignorò.

“No. Io me ne vado. E tu non potrai fermarmi. Io..aspetto suo figlio e quello che pensi non mi interessa”.

“Tu cosa?!” si stupirono entrambi gli uomini nella stanza.

“Hai sentito benissimo”.

“Torna subito qui!” insistette Kydoimos, ma ormai Neikos aveva già lasciato la stanza.

Ahriman si voltò, piuttosto confuso. Non era certo che scappar via così fosse la cosa più giusta. Poi lo sguardo di quell’uomo..quell’occhio, che ricordava grigio e cieco, da sotto un grosso ciuffo di capelli neri, pareva scintillare di verde. Di un verde familiare..

 

Ninive si svegliò nel cuore della notte, in preda al dolore. Sentì il rumore della pioggia ed un tuono. Il tempo era cambiato di colpo. Si mise seduta, piuttosto preoccupata. La gravidanza non era giunta ancora a termine ma qualcosa non andava. Si accorse di star perdendo sangue ed andò nel panico. Non era il momento! E solo l’idea di soffrire come nel caso dei gemelli, aumentò la sua ansia.

“Papà!” chiamò, spaventata.

Apollo corse da lei, piuttosto preoccupato. La vide e capì che era molto agitata. Si inginocchiò e le prese le mani. La guardò negli occhi.

“Ninive!” la chiamò “Calmati! Guardami! Ci sono qui io ed andrà tutto bene. Però devi stare calma”.

“Ho paura. Cosa succede?”.

“Tranquilla. Avrà solo un po’ di fretta. A volte succede”.

“Ma sta bene?”.

“Respira. Mando a chiamare Artemide, ok? Lei ti aiuterà ed andrà tutto bene”.

Ninive annuì, gemendo per un’altra contrazione. E fuori si udì un altro tuono.

 

“Non credi di essere stata un po’ troppo precipitosa?” domandò Ahriman.

Assieme a Neikos, ora era di nuovo nel palazzo del cielo.

“Ti stavano tutti guardando con odio. Non vedevo l’ora di andarmene” rispose lei.

“Sì, ma tuo padre forse doveva dirci qualcosa di interessante”.

“Non volevo ascoltare, scusa”.

“Quell’uomo mi da strane sensazioni. Non so spiegartele”.

“Non voglio saperle”.

Ahriman guardò Neikos e non disse altro. Le sorrise. Non importava più niente, ormai. Lei era lì con lui e fanculo tutto il resto!

 

“Coraggio, sei bravissima” sorrise Artemide.

Ninive gridò. Sua zia, Dea della luna e famosa levatrice fin da piccolissima, guardò con fastidio il fratello Apollo, rimasto in piedi nella stanza.

“Sparisci!” lo sgridò “Abbiamo bisogno di privacy noi donne!”.

“No, ti prego!” supplicò Ninive “Fallo restare qui, accanto a me”.

Apollo raggiunse la figlia e sedette accanto al letto, stringendole la mano.

“Fammi dare un’occhiata” continuò Artemide, rassegnata.

Il suo gemello un po’ la infastidiva, anche se era stata lei stessa a farlo nascere. Un atto che solo una divinità poteva compiere.

“Sta andando tutto bene, Ninive” rassicurò la nipote.

“E il sangue?”.

“Ha bisogno di uscire, nipote mia. Non lo senti spingere?”.

Ninive gridò di nuovo.

“Devi rilassarti, almeno un po’, mia cara” tentò di calmarla Apollo “Così renderai le cose più facili”.

“Il tuo piccolo smania dalla voglia di venire al mondo!” sorrise Artemide “Perciò spingi”.

Ninive spinse con tutte le sue forze, piangendo per il dolore. Tuoni, lampi e tanta pioggia accompagnavano quelle lacrime e quelle grida di dolore.

Erano passate delle ore. Ninive, ormai sfinita, raccolse le ultime forze e finalmente il piccolo nacque. Lanciò un vagito molto potente, che fece sorridere tutti i presenti.

“È un maschio?” chiese lei.

“Un bel maschietto” annuì Artemide.

Il piccolo si dimenò quando venne lavato. Poi, avvolto in un asciugamano, la Dea della luna lo mostrò alla nipote, pronta a farglielo prendere in braccio.

“È bellissimo” commentò Apollo, vedendo che il nipote aveva i capelli ramati, come lui e la madre.

Solo in quel momento il piccolo aprì gli occhi. Artemide sobbalzò e fu Apollo a prendere al volo il bambino, lasciato cadere. Lo osservò in viso. Lo sguardo del neonato era quello delle creature del Caos. Quegli occhi, simili a quelli di un gatto come forma, ed interamente rossi, lo turbarono.

“Che significa questo?” domandò, rivolto alla figlia.

Ninive distolse lo sguardo. Non voleva raccontare la verità. Apollo afferrò per la collottola il nipotino, come fosse un gatto, e lo osservò. Solo gli occhi erano diversi dall’ordinario.

“Devi disfartene” esclamò.

“Come?” mormorò, piuttosto confusa, Ninive.

“Guardalo! Non può vivere in questo mondo!”.

Lei fissò suo figlio. Era vero. Ma non voleva che morisse.

“Lasciamelo per questa notte” chiese “Domani mattina, potrai farci ciò che vorrai”.

“Benissimo. Anche se non mi spiego come tu possa esserti mescolata con simile sangue”.

“Non è a te che devo rendere conto. E ora lasciami dormire. Sono stanca”.

Artemide non commentò. Non sapeva cosa dire. Cambiò le lenzuola e le vesti sporche della nipote e poi la lasciò riposare. Il bimbo fu messo in una culla e ignorato. Piangeva, perché affamato, ma la madre non voleva abbracciarlo e allattarlo. Dentro di sé, chiamò il nome del padre di quella creatura. Forse lui era il solo in grado di prendersene cura.

 

Kydoimos si toccò la testa. Che strana sensazione. Qualcuno lo chiamava.

“Ninive?” si stupì.

Com’era possibile? Che stava succedendo? Non lo capiva, ma quella voce nella sua mente si faceva sempre più forte. La doveva raggiungere al più presto. Senza dare spiegazioni, si avvolse in un pesante mantello e lasciò la casa. Saltò nel nero che la circondava e sparì alla vista.

“Dov’è andato?” si chiese Tartaros.

“Forse a spaccare il culo ad Ahriman” ghignò Erebo “Io lo farei”.

 

Nel buio della stanza, Kydoimos non capì subito dove fosse finito. Vide Ninive, addormentata sul letto. Poi udì un vagito e rizzò l’orecchio a punta. Si avvicinò alla culla, molto alta, e fissò il neonato all’interno.

“È tuo” mormorò la madre, svegliandosi.

“Io..non sapevo che tu..” provò a parlare Kydoimos, senza trovare le parole.

“Non volevo che lo sapessi. Volevo crescere questo bambino da sola. Ma è nato con quello sguardo e in questo mio mondo non può stare”.

“Capisco..”.

“Prendilo tu. Sono certa che sarai un buon genitore e lui starà di certo meglio nel palazzo nero”.

“Ninive! Vieni con me! Cresciamolo assieme!”.

“Arles...sono la figlia di Apollo! La figlia del Dio del sole! Non puoi chiedermi di vivere per sempre in un luogo privo di luce”.

“Io..”.

“E poi, io e te non siamo fatti per stare assieme. Tranquillo, non crucciarti per me. Ora che ho capito quel che desidero, vedrai che non ci metterò molto a scovare un uomo con cui concepire tanti marmocchi di cui prendermi cura”.

“Se è questo quel che vuoi..”

“Quel bambino qui non avrebbe futuro. La sua famiglia è al palazzo nero. Qui verrebbe ucciso”.

Kydoimos prese in braccio il piccolo, che si lamentava per la fame.

“Come si chiama?” domandò il padre.

“Non gli ho dato un nome. Sceglilo tu. E ora vattene”.

Lei aveva girato la testa. Probabilmente piangeva. Kydoimos chinò la testa.

“Scusami, Ninive” disse, piano “Ogni mio tentativo di farti felice diventa un nuovo tormento per te. Mi dispiace. Se solo potessi..”.

“Va via. E non tornare mai più. Questo mi renderà felice”.

L’uomo fece un cenno con il capo. Riluttante, guardò per l’ultima volta la donna e poi sparì, con il bimbo in braccio. Ninive, la mattina dopo, raccontò al padre Apollo di aver trovato il bambino morto e di averlo seppellito in fretta.

 

Kydoimos arrivò al palazzo con il mantello fradicio di pioggia. Lo gettò in un angolo e raggiunse la cucina. Il bimbo aveva fame e doveva preparargli qualcosa. Sapeva di avere ancora un biberon da qualche parte. Frugò fra gli scaffali, sempre con il neonato in braccio. Sospirò, un po’ scocciato dalla confusione che regnava in quella casa. Si voltò e sobbalzò. Tartaros lo stava fissando. Dietro di lui, Gaia.

“Cos’hai in braccio, fratellino?” domandò l’uomo.

Kydoimos aprì la bocca per rispondere ma Gaia lo interruppe, con un grido d’entusiasmo.

“È un bambino!” esclamò lei e lo strappò alle braccia del padre.

“Che cercavi?” continuò Tartaros.

“Un biberon” rispose Kydoimos e Gaia si corrucciò.

“Non serve un biberon, vero tesoro?”.

La donna sorrise al piccino e si scoprì il seno generoso, da cui il neonato iniziò a succhiare avidamente.

“Tutti i bimbi dovrebbero essere allattati” commentò la donna “Altrimenti diventano cattivi. Ahriman si vede subito che non è mai stato allattato!”.

“Se vuoi, puoi prendertene cura tu” propose Kydoimos “Io, con tutta la mia buona volontà, non posso attaccarlo al seno!”.

“Direi di no. Però con le tette saresti carino” ridacchiò Tartaros.

“Che succede qui?” entrò il Caos.

L’entusiasmo di Gaia aveva richiamato quasi tutta la casa e presto capirono il perché.

“Un bimbo!” sorrise Nyx.

Tutti risero ed andarono a salutare il nuovo nato, che continuò a mangiare.

“Hanno fatto tutto questo casino anche quando sono nato io?” domandò Nàgiri.

“Oh sì, anche peggio! Perché, quando sei nato tu, in questa casa non nasceva qualcuno da millenni!” rispose Kydoimos, ricordando quel giorno.

Il Caos fissò il figlio, felice.

“Credevo che la maledizione ti impedisse di avere figli”.

“Lo credevo pure io” ammise Kydoimos.

“Chi è la madre? Perché non è venuta qui?”.

“Non se l’è sentita di vivere al buio per sempre”.

“Ma..è una mortale, vero? Non è una divinità legata a Zeus ed alla sua stirpe, immagino. Non voglio mezzo sangue bastardi”.

“È figlio di una mortale” mentì il figlio adottivo, sapendo che il Caos avrebbe ucciso il piccolo senza pietà, sapendo che in lui scorreva il sangue della progenie di Zeus.

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Capitolo 18
*** XVIII- VIXI ***


XVIII

 

VIXI

 

Il piccolo fu chiamato Dhòro, ovvero “dono”. Fu sistemato in una bella culla dai bordi intagliati e avvolto in una copertina ricamata. Erano tutti felici del nuovo arrivo. Solo Nàgiri non pareva molto contento.

“Wo!” furono le uniche parole che riuscì a dire Tartaros quando, qualche ora più tardi, andò a controllare il piccolo.

Il bambino era cresciuto. Sembrava avere sei o sette mesi ed aveva a malapena un giorno. Gaia attribuì la cosa al potere del suo latte. Erano in molti attorno alla culla. Il Caos girò la testa. Dietro di lui, stava Kydoimos, che un po’ si spaventò perché il padre gli stava lanciando la peggior occhiataccia possibile.

Il bambino ridacchiò e si sporse dalla culla. Kydoimos gli sorrise. Era carino, dopotutto, anche se aveva decisamente qualcosa di strano. Gaia lo prese in braccio e lo riempì di baci. Era troppo felice di avere lì quel piccolo da coccolare.

Lasciando la stanza, Kydoimos incrociò Nàgiri.

“Sei soddisfatto?” domandò il figlio.

“Prego?” rispose il padre.

“Ti vedo sorridere”.

“La cosa ti disturba?”.

“Abbastanza. È come se tu non ti rendessi conto di quel che fai”.

“Che dici?”.

“Spiegami che stai facendo. Ogni donna che avvicini, finisce col soffrire o allontanarsi. Invece di tentare di salvare la tua famiglia e aiutare chi hai vicino, te ne vai a scoparti sconosciute e concepire mostriciattoli”.

“Dovresti moderare i termini, mio caro”.

“E perché?”.

“Perché sono tuo padre! E giro a questo mondo da prima di te!”.

“E chissenefrega! Ti metto davanti alla realtà. Mia madre è morta, la madre di Neikos si è ammazzata, le altre sono tutte scappate. Perfino Neikos, ora, è andata via. Eppure non mi sembra che la cosa ti turbi”.

“E in base a cosa tu decidi che non mi turbi?”.

“Lo vedo. Andare in giro a fare figli non pare una cosa da persona ragionevole o addolorata”.

“Ma che cosa vuoi da me, Nàgiri?”.

“Voglio sentirti dire che ti dispiace! Vivi la tua vita, fai soffrire le persone, ma non ti importa! E ora cerchi di fare il gentile con Nyx e Gaia. Perché? Che cosa speri di ottenere? Oh, Dei, quanto mi disgusti!”.

Kydoimos non seppe che rispondere a quelle parole. Era vero. Aveva tentato in ogni modo di rendere felici le persone che aveva attorno ed aveva fallito miseramente. Suo figlio era deluso. E sua figlia probabilmente lo odiava tanto quanto lo odiava Ahriman. Sospirò. Non sapeva che altro fare.

 

Aphrodite giocava con le farfalle dei campi elisi. Che belle erano! E che profumo tutti quei fiori! Era felice di stare in quel luogo, lo appagava.

“Saga” lo stuzzicò con una spiga “Smettila di fare quel muso lungo e andiamo a farci un bagno. Che dici? Ti è sempre piaciuto rilassarti nell’acqua e..”.

“Quello era Arles” lo interruppe Saga.

Aphrodite rimase qualche istante a riflettere. Ammetteva di aver avuto a che fare molto più con Arles che con Saga. Però doveva esserci qualcosa da proporgli!

“Tua figlia pare si sia trovata il fidanzato” parlò poi, deciso a cambiare strategia.

“Già. Così dice Deathmask. Sono felice per lei, se è un ragazzo come si deve”.

“L’importante è che sia felice”.

“Pare che lo sia. Quindi mi sta bene”.

“E un giorno diventerai nonno”.

“Prima o poi, capiterà”.

“Ne sei fiero?”.

“Certo. Sempre stato fiero della mia bambina. E tu sei fiero della tua allieva? Pare se la cavi bene”.

“Lo sono. È forte e bellissima. E sembra apprezzare l’erede di Deathmask”.

“Ai nostri tempi non c’erano tanti intrecci sentimentali”.

“Ovvio. Eravamo praticamente tutti maschi!”.

“Già. Pensa che noia”.

“Io non mi annoiavo”.

Saga guardò Aphrodite, che sorrise, mettendosi una rosa fra i capelli.

 

Kydoimos se ne stava tranquillo nella sua stanza quando un gridolino infantile lo scosse.

“Guardami! Guardami!” gridava una voce che non conosceva.

Si sporse lungo il corridoio e sobbalzò. Dhòro stava correndo, inseguito da Gaia con cui stava giocando. Sembrava avere almeno quattro anni.

“Ciao, papà” lo salutò il piccolo, ed andò oltre.

Kydoimos non capì come questo potesse essere possibile. Ma il Caos pareva saperlo molto bene. Si parò davanti al figlio e lo costringe a rientrare nella stanza. Chiuse la porta dietro di sé.

“Mio gioiello..” iniziò il padre “..lo sai che a me le bugie non piacciono”.

“Lo so”.

“E allora perché me le racconti?”.

“Io..”.

“Kydoimos..tu non eri niente. Avevi rinunciato a vivere ed io ti ho donato una nuova esistenza. Mi spiace che anche questa sia stata costellata di sofferenza però..”.

“Non l’ho chiesto io” abbassò la testa Kydoimos.

“Scusa?”.

“Non ho chiesto io di avere nuova esistenza o cose del genere. Io, quel giorno, volevo morire. Ma mi avete fatto vivere tanti momenti felici, questo lo ammetto”.

“Quindi tu mi vuoi bene? Mi rispetti?”.

“Certo”.

“E allora perché mi hai detto una bugia? Questa casa ha poche regole, perché infrangerle?”.

“Mi dispiace”.

“Solo le divinità crescono alla velocità con cui sta crescendo tuo figlio. E tu non hai le capacità per poter generare un Dio, se non congiungendoti con un’altra divinità. Perciò, dimmi, di chi è figlio Dhòro? Chi è la madre di quel piccolo prodigio, la cui forza reputo già ora straordinaria?”.

“Ninive è la madre, signore”.

“Ninive?! Intendi quella con cui hai concepito Ahriman?”.

“Sì, lei”.

“Mi stai dicendo che nella mia casa sta gironzolando il fratello della creatura che vorrei distruggere?”.

“Già”.

“E lo dici con tanta sufficienza? È ancora in vita solo perché me lo hai chiesto tu!”.

“Ahriman è in vita perché è il Dio del cielo e come tale deve vivere”.

“Cazzate! Io..sono senza parole! Kydoimos..come hai potuto? Questo lo considero un tradimento”.

“Scusatemi”.

“Non bastano le scuse! Secondo te io, ora, che dovrei fare? Mi metti in una posizione che proprio non vorrei, ragazzino”.

“Ragazzino?”.

“Non hai l’età giusta per definirti un uomo davanti a me”.

“Io ho solo cercato di vivere la mia vita!”.

“Tradendo colui che ti ha dato più fiducia di chiunque altro? È questo il tuo modo di ripagare chi ti vuole bene? È questo?”.

“Oggi avete tutti voglia di farmi la predica?”.

Il Caos, famoso per il suo scarso autocontrollo, perse la testa e colpì violentemente Kydoimos, che sfondò la porta della stanza e sbatté contro il muro del corridoio di fronte. Il colpito, a terra, gemette.

“Fratellino!” esclamò Erebo, tentando di avvicinarsi.

Ma il Caos fu perentorio.

“Lascialo lì dov’è” ordinò “Lascialo che soffra. E rifletta”.

Gli altri abitanti della casa si guardarono, piuttosto confusi. Mai era successo prima che il Caos alzasse le mani sul suo gioiello.

 

Kydoimos si riprese solo dopo qualche tempo. Indolenzito, si alzò a fatica. Senza parlare, raggiunse la sua stanza e recuperò la spada di Ares. Dhòro dormiva tranquillo e non lo disturbò. Era cresciuto ancora. Il padre si avvolse in un pesante mantello e lasciò la casa.

 

Il Caos riemerse dalla sua stanza, dove si era rintanato. La casa pareva tranquilla. Raggiunse la grande sala da pranzo, dove un gruppetto di occupanti della casa stava mangiando.

“Dov’è Kydoimos?” domandò, non vedendolo.

“Non è qui” rispose Erebo.

“Ho agito con troppa enfasi. Mi sono lasciato prendere dall’ira. Non dovevo colpirlo e nemmeno reagire in quel modo. Volevo scusarmi con lui. Che sia in stanza?”.

“L’ho visto rialzarsi ma poi non so dove sia andato” commentò Tartaros.

“Io l’ho visto andar via” si aggiunse Nàgiri.

“Andar via? Dove?” chiese il Caos.

“Non lo so. L’ho visto andare via. È uscito dalla porta ed è andato via. Sarà da qualche sua puttana”.

“Non parlare così a tuo padre, ragazzo. Non mi piacciono certi atteggiamenti! E poi..da quanto tempo è fuori? La maledizione..”.

“Io parlo come voglio! Non ditemi che quel bambino che ha portato a casa non è il frutto di una serata passata a puttane!”.

“Non è affatto così. La madre di Dhòro è legata a tuo padre da ben prima della tua nascita”.

“Come sarebbe a dire?”.

“Sarebbe a dire che tu non sai tutto, come credi”.

“Io so quello che so, e quello che so è che mio padre ha permesso a mia sorella di andarsene via con quel pezzo di merda di Ahriman e poi si è portato a casa un bastardello di ricambio”.

“Che avrebbe dovuto fare, secondo te?”.

“Uccidere Ahriman. E tenere sotto controllo gli istinti”.

“Kydoimos non ucciderà mai Ahriman. Piuttosto ucciderebbe se stesso”.

“Perché è un debole”.

“No. Perché è suo padre, Nàgiri”.

“Che?!”.

Il ragazzo guardò il Caos senza capire. Quella notizia non se l’aspettava. Non voleva credergli. Non poteva nemmeno lontanamente accettare il fatto di essere il fratellastro del Dio del cielo.

“Finalmente hai chiuso la bocca!” sbottò il Caos.

“Mi stai dicendo che mio padre è Arles, l’uomo del grande tempio?”.

“Te lo farai spiegare da lui. Ora lo devo cercare”.

 

“Come mai me la riporti, mortale?” domandò Ares.

Di fronte lui, stava Kydoimos che gli restituiva la spada al Dio della guerra. In silenzio.

“Piccolo umano, il tuo animo non lo comprendo più” continuò l’essenza divina.

“Nemmeno io mi comprendo più di tanto” ammise Kydoimos.

“Perché non tieni la mia spada? Tanto, lo sai, finché non trovo un altro corpo che mi ospiti, come anima io non la posso usare”.

“Volevo riconsegnarla. Questo è il suo posto. Io il mio posto non so quale sia”.

“Ma che dici?”.

“Sono stanco. Voglio lasciare qui la spada e andarmene sotto il sole di Grecia. La maledizione farà il resto, ed io potrò riposare in pace, cullato dalla mia terra natia”.

“Questi discorsi non sono da te, Arles”.

“Arles è morto tanti anni fa”.

“Non è vero. Arles è qui, davanti a me. E Arles è combattivo, forte, arrogante e pronto a tutto”.

“Sono stanco di combattere. E poi, a che scopo? Credimi, ho tentato in ogni modo di cambiare la mia vita. Sono stato generato dalla malattia mentale di Saga e da all’ora non ho fatto altro che incasinare la vita di tutti coloro che sono venuti in contatto con me. Ho cercato di rendere felici le persone a cui voglio bene ma con pessimi risultati. Tutti soffrono attorno a me. Tutti mi odiano”.

“Io sono il Dio della guerra. Credi che qualcuno mi ami?”.

“Phobos e tutti i vostri sottoposti sarebbero disposti a tutto per Voi”.

“Continuo a non capire. Avete una vita così effimera, voi mortali, che io tenterei di viverla al massimo in ogni suo secondo. Invece no, te ne stai qui a piagnucolare”.

“Non mi aspetto che capisca. Riprendetevi la vostra spada e addio”.

“Aspetta. Rifletti un attimo”.

“Sono stufo di riflettere! Tutto quello che faccio è sbagliato! Io volevo solo che ci fosse una creatura, una soltanto, che potesse provare per me ammirazione, affetto..”.

“Il Caos ti vuole bene”.

“Il Caos mi ha quasi spaccato la testa stasera”.

Kydoimos non aggiunse altro. Si voltò e si allontanò.

“Phobos” ordinò Ares “Prendi la mia spada e seguilo. Fa di tutto per impedire che muoia”.

“Sissignore”.

 

“Ha lasciato il palazzo nero” parlò Deathmask.

“Ne sei sicuro?” rispose Hypnos.

“Sì. Dobbiamo agire in fretta”.

Il Dio dei sogni annuì. Doveva recuperare in fretta l’anima incompleta ed agire quanto prima.

 

Ahriman storse il naso. Che stava accadendo? Perché le forze del Caos parevano radunarsi e lasciare il palazzo? Era meglio informare quanto prima il grande tempio.

 

“Kydoimos!” gridava il Caos, nella speranza di ritrovare il figlio “Dove sei? Mi dispiace per quello che ho fatto. Lo sai che non sono bravo a controllarmi. Ti prego, vieni fuori!”.

Il signore della casa nera percepiva la presenza del figlio adottivo ma non riusciva a scorgerlo. Probabilmente perché protetto dall’aura del Dio della guerra. Ma il Caos pensò subito al peggio. Dovevano averlo preso quelli del grande tempio, le creature che tanto odiava! Kydoimos, dal canto suo, non udiva i richiami del padre. Sotto il sole di Grecia, camminava lentamente. Attorno a lui, non vi era nulla se non terra bruciata dal caldo. Era distratto. Non gli importava di nulla e di nessuno, così non capì quanto stesse accadendo. Si fermò, quando una voce familiare gli ordinò di fermarsi.

“Non fare un passo di più” si sentì dire.

Alzò lo sguardo. Vide molte armature d’oro e vestigia divine.

“Tornate al palazzo nero!” continuò Aiolos, il cavaliere d’oro che tendeva l’arco.

Kydoimos si voltò ed alle sue spalle vide gli abitanti del palazzo del Caos. Cosa stava succedendo? Lui si trovava in una sorta di gola creata dal terreno. Sopra di lui, su due sponde opposte, le truppe di Zeus e quelle di suo padre adottivo. Si guardò attorno, piuttosto confuso. Il caldo e la maledizione lo stordivano.

“Indietreggiate!” sbottò il Caos “Tornatevene a casa e lasciateci in pace!”.

“Avete sconfinato!” ribatté Aiolos.

Ahriman osservava il tutto dall’alto del suo palazzo, insicuro sul da farsi.

“Signore!” gridò Phobos, vedendo Kydoimos sotto tiro.

Piantò la spada in terra e lasciò che l’armatura del Dio della guerra vestisse colui che un tempo ospitava l’essenza di Ares. L’armatura obbedì e Kydoimos sobbalzò. Le scintillanti vestigia rosso sangue lo coprirono ma subito si tinsero di nero, segno che in lui prevaleva il sangue del Caos. Nella mano destra, stringeva la spada. Guardò entrambi i fronti. Si volevano scontrare, portando morti e feriti per l’ennesima volta nelle loro vite? No, non l’avrebbe permesso. O meglio, avrebbe fatto di tutto per impedirlo.

 

“Presto! Corri!” incitò Hypnos.

Aiaco portava l’anima con sé, trascinandola. Dovevano uscire dall’oltretomba e raggiungere il corpo che ospitava la parte mancante di quell’essenza.

“Che sta succedendo?” si chiese il Dio dei sogni, percependo un po’ di subbuglio fra i viventi.

“Si staranno facendo la solita guerra” alzò le spalle Aiaco “Niente di nuovo”.

Un nutrito esercito di specter accorse, deciso a fermare i disertori. Hypnos sorrise. Che branco di illusi!

“Aiaco!” disse “Tu va. Qui ci penso io”.

 

Quando i colpi fra le due fazioni partirono, Kydoimos tentò in ogni modo di fermarli.

“Perche fai questo?” domandò Ahriman, atterrando con un battito d’ali accanto al figlio del Caos.

“Non voglio una guerra” rispose Kydoimos.

“Eppure è colpa tua se ora combattono”.

“Colpa mia?”.

“Certo. Sei qui. Il Caos è convinto che loro ti abbiano rapito e loro, quelli del grande tempio, sono convinti che il Caos li voglia invadere. In realtà, sono tutti qui per te”.

“Non è vero!”.

“Bello come neghi l’evidenza. La colpa è tua. Perciò smettila di intrometterti e fatti ammazzare”.

“No. Fermerò tutto questo!”.

“Le tue mani sono sporche di sangue. Meriti di vivere?”.

“E le tue? Sono forse pure, Urano?”.

Il Dio del cielo ghignò.

“No” rispose “Le mie mani forse sono più sporche delle tue”.

Urano allungò una mano, mostrando un’ombra nera su di essa. Ahriman la fissò e sobbalzò nell’animo. Che fosse vera la storia che tutti raccontavano? Quella in cui era stato lui ad uccidere i bambini del palazzo nero? Tentò di capirlo, chiedendolo al Dio che ospitava. Capendo la verità, lanciò un grido.

“Esci dalla mia testa!” sbraitò.

Kydoimos guardò il figlio con apprensione, mentre questi lottava con il Dio del cielo.

“Che succede?” si chiese Kanon, senza capire.

“Non lo so” ammise Hestia.

Entrambi vedevano solo Ahriman agitarsi in preda al dolore.

“Quella creatura dal sangue nero deve averlo ferito” interpretò Aiolos.

“Ahriman” gridò Kydoimos, tenendogli fermi i polsi “Guardami! Non lasciarti soggiogare da una divinità che non vuoi più ospitare! Combatti contro di essa!”.

“Ma cosa vuoi tu? Io sono un tuo nemico!”.

“Non ti considero tale, Ahriman. Guardami!”.

Il Dio del cielo spalancò gli occhi. Aveva riconosciuto lo sguardo nel padre, in quell’occhio un tempo cieco. In realtà, da quando ricordava il suo passato, Kydoimos aveva acquisito di nuovo il colore verde dell’iride.

“Papà?” mormorò Ahriman, incredulo.

“Perdonami per ogni cosa, figlio mio. Ma ora, ascoltami. Lotta assieme a me”.

Padre e figlio si fissarono. Poi il figlio lanciò un grido fortissimo, rigettando il Dio del cielo. Aiolos, senza capire quanto accadeva realmente, scoccò una freccia, che trapassò il petto di Kydoimos. Ahriman lo guardò, spaventato, non sapendo che fare.

“Scappa!” ordinò Kydoimos “Ora che il Dio del cielo ha lasciato il tuo corpo, sei un mortale. Non sopravvivresti ad uno scontro come questo”.

“Ma io..” tentò di protestare Ahriman.

Una mano lo scosse, piuttosto brutalmente, scaraventandolo a terra.

“Scansati!” parlò Aiaco, apparendo a pochi passi da Kydoimos “Ho una consegna da fare”.

Senza dire altro, lasciò che l’anima incompleta venisse inevitabilmente attratta verso la sua parte mancante. Kydoimos percepì una stranissima sensazione. Uno strano calore, una carezza morbida, lo attraversò. Dimenticò per qualche istante il dolore della freccia oro, consolato da quel tocco. Poi si accorse che dietro ad Aiaco stavano lentamente apparendo altri specter. E poi si mostrò Hades.

“Quell’anima è mia!” gridò, indicando Kydoimos.

 

“Ci è riuscito!” sorrise Saga “Ha ricongiunto le due parti dell’anima!”.

Deathmask, seduto accanto a lui, mostrava agli abitanti dei campi elisi quel che stava accadendo attraverso un piccolo portale.

“Ma si fanno di nuovo la guerra” sbottò Aphrodite.

“Così morirà!” si alzò in piedi Saga “Devo aiutarlo a reagire”.

“E come credi di fare?” ridacchiò Deathmask “Sei un’anima! Al di fuori dell’oltretomba sopravvivresti sì e no un paio di minuti”.

“Ma ci devo provare! Ti prego, Deathmask! Portami da lui”.

“Non se ne parla! Se scompari, non c’è ritorno! Scompari per sempre, capisci?”.

“Non mi importa”.

“Sei impossibile. Non ti va mai bene niente!”.

“Vedilo come un mio ultimo desiderio. Ti supplico”.

Deathmask sospirò. Quanto era complicato gestire i morti!

 

Kydoimos usò il suo potere. Richiamò gli elementi, cercando di creare una barriera fra i contendenti.

“Quello è Hades!” lo riconobbe Camus.

“Ma cazzo, son troppo vecchio per un’altra guerra santa!” ringhiò Milo.

“Pare sia solo interessato a Kydoimos” notò il cavaliere dell’Acquario.

“Ottimo. Lasciamoglielo prendere, così si risolve tutto” furono le parole di Ioria.

Le diverse fazioni distrussero la barriera creata da Kydoimos e ripresero a combattere.

“No! Smettetela!” gridò lui, sputando sangue.

Aiolos lo centrò con un’altra freccia, non capendo come facesse ad essere ancora in piedi.

“Papà, adesso basta!” riuscì a raggiungerlo Ahriman.

Kydoimos, barcollando, si estrasse entrambe le frecce dal petto, spaccando parte dell’armatura.

“Vedo il tuo cuore” gemette il figlio.

“Ora sai che ne ho uno” sorrise il padre, con un fiotto di sangue che sgorgava dalla ferita.

“Ti prego, ora smettila”.

Tutt’attorno, si combatteva. Aiaco lottava contro il suo stesso signore, Hypnos lo aiutava.  Le schiere di Zeus, contro quelle del Caos, erano in svantaggio.  Kydoimos sentiva l’odore del sangue. Barcollò, per un istante sopraffatto dalla ferita. Ma si rialzò subito. Doveva fermarli a tutti i costi! Richiamò ancora a sé i suoi poteri. Questa volta tentò di usare il fuoco, allontanando le fazioni.

“Basta, brutti idioti! Siete tutti della stessa famiglia!” gridò.

Poi, sulla sua testa, si materializzò una luce violacea e Deathmask apparve, rimanendo sospeso sopra il capo del ferito, che parve non gradire.

“Torna più tardi a prendermi, Dio della morte!” sbottò Kydoimos.

“Arles! Quando sarà il tempo, non mi farò certo dare ordini! Non sono qui per te, ma per accontentare lui!”.

Scansandosi leggermente, Deathmask mostrò l’anima di Saga, che si aggrappò al Dio della morte.

“Saga!” esclamò Kydoimos, mentre molti al grande tempio si stupirono per averlo sentito chiamare “Arles”.

Saga sorrise. Brillava forte.

“Saga! Sei un’anima! Non puoi sopravvivere lontano dal regno dei morti!”.

“Ho solo qualche minuto, è vero. E lo voglio spendere con te”.

“Che?!”.

“Adesso basta lottare, Arles. Basta! Non morire di nuovo”.

“Sarebbe l’ultima volta, te lo giuro”.

Kydoimos barcollò ancora e stavolta cadde in terra. Sputò molto sangue ma tentò di rialzarsi comunque.

“Basta, Arles” supplicò Saga.

“Vattene! Se non te ne vai, sparirai per sempre! Cosa stai qui a perdere tempo con me?”.

“Arles!”.

L’anima ora piangeva e Kydoimos distolse lo sguardo. Poi una potentissima luce avvolse tutti. La battaglia si fermò. Nessuno capiva. C’era un essere, avvolto in quella luce accecante, che fluttuava accanto al gruppo che stava al centro della battaglia.

“Dhòro?” mormorò Kydoimos, alzandosi a fatica.

Il ferito lasciò cadere le braccia e respirò a fatica. Dhòro, ora uno splendido uomo dai lunghissimi capelli e lo sguardo sereno, sorrideva, senza parlare.

“Che significa? Che succede?” si domandò il Caos.

“Chi è quello?” si chiese Milo.

Dhòro non parlò. Alzò semplicemente una mano, attorno a cui ruotava l’essenza di Urano. La sua luce si espanse ed iniziò ad avvolgere i presenti.

“Dhòro!” parlò ancora Kydoimos “Ti prego, Dhòro, mio dono. Il tuo è un potere immenso. Perciò puoi riportare Saga al giusto posto. Lui non merita di svanire, come sta facendo”.

Saga in effetti stava perdendo luminosità, divenendo sempre più trasparente.

“Saga è un’anima buona” continuò Kydoimos “Non come me. Inoltre, è l’unico che mi è rimasto sempre accanto. Anche se era l’ultima persona che doveva farlo, visto come ho rovinato la sua esistenza”.

“Arles..” sorrise Saga.

“Non potrei mai sopportare che sparisca per colpa mia”.

“Ed io non potrei mai sopportare di passare l’eternità lontano dalla tua anima!” si sentì rispondere “Vieni con me, Arles”.

Saga allungò una mano, porgendola a Kydoimos. La luce di Dhòro, nel frattempo, si faceva sempre più ampia ed intensa.

“Vieni con me” ripeté Saga, ormai quasi trasparente.

Kydoimos, in ginocchio ed incapace di rialzarsi a causa delle ferite, lo fissò immobile. E pianse. Era la prima volta nella sua vita. Poi chiuse gli occhi e cadde in avanti. L’anima di Arles raggiunse la mano di Saga ed insieme i due si abbracciarono, mentre la luce di Dhòro avvolgeva tutto e tutti.

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Capitolo 19
*** XIX- RAGNARÖK ***


XIX

 

RAGNARÖK

 

“State tutti bene?” domandò Thanatos, vedendo i cavalieri tornare, privi di vestigia.

“Io..non capisco” si grattò la testa Arles II “Cosa è successo?”.

“Credo di poter elaborare una teoria” rispose Camus.

“Dov’è Tania?” si preoccupò, invece, Thanatos.

“Devi smetterla di gironzolare attorno alla mia donna, chiaro?” sbottò Arles II, stanco del continuo interessamento di quel ex divinità.

“Guarda che non te la voglio portare via!” lo rassicurò il gemello di Hypnos “Il mio interesse è dettato da altro, credimi”.

“E da cosa, vecchio maniaco?”.

“Tania è..la mia bambina”.

“Non ti permetto di chiamarla così, pervertito!”.

“Nel senso che è mia figlia, ragazzino impertinente”.

“Che dici? Sul serio?!”.

“Sì. È l’unica che ho. Non l’ho cresciuta con me perché l’inferno non è posto per una bambina ma me la son ritrovata qui, al grande tempio, ben lontana dalla pace che le auguravo”.

“In questo caso..sei giustificato”.

Tania, che si trovava poco più indietro, era riuscita ad udire buona parte della conversazione. E sorrise.

 

“E così..questi sono i campi elisi” borbottò Erebo, mangiucchiando il gambo di una spiga.

“No. Credo sia semplicemente il paradiso” rispose Nyx.

“Papà!” gridò una bimba, correndo a braccia spalancate verso Kydoimos.

“Lalia!” la riconobbe lui, facendosi abbracciare.

Altri bambini seguirono l’esempio e ben presto lui si ritrovò circondato da ragazzini in festa. Dietro di loro, Shuna e Desa. Shuna, la madre di Lalia e Neikos, oltre che di altri bambini lì presenti, sorrise. Desa, colei che aveva messo al mondo Nàgiri, pareva un po’ preoccupata.

“Che è successo?” domandò “Perché siete tutti qui? Siete, dunque, tutti morti?”.

“A quanto pare..” si osservò le mani Apollo, accorgendosi di non avere più un corpo fisico.

“E perché?”.

“Perché il figlio di Pollon ci ha cacciati qui, ecco perché!” ridacchiò Erebo.

“Pollon?” alzò un sopracciglio Kydoimos.

“Tuo figlio Dhòro, non è forse figlio della figlia di Apollo?”.

“Sì. E chi è Pollon?”.

“Sei un ignorante” scosse la testa l’antico Dio, sorridendo.

“Quindi Dhòro ha ucciso tutti noi?”.

“A quanto pare...”.

“Mi spiace”.

“Kydoimos! Mio gioiello!” intervenne il Caos “Non dispiacerti. A noi mai sarebbe stato concesso di riposare in un simile luogo. Nonostante tutto ciò che è stato, siamo tutti insieme qui, in un luogo magnifico, dove passare l’eternità. Siamo in pensione, si può dire”.

“In pensione?”.

“Ragazzo mio, sono in circolazione da un sacco di tempo. Era ora che mi concedessero un po’ di riposo”.

Kydoimos si guardò attorno. Vedeva molte divinità, non solo del palazzo nero.

“Ma...” si chiese “...se le divinità sono qui, chi governa il mondo?”.

“Dhòro. Per un po’. Poi più nessuno. È il crepuscolo degli Dèi, piccolo mio. La fine dell’era del santuario e delle divinità”.

“Che fine hanno fatto i cavalieri di Atena? E Ahriman?”.

“Dhòro ha risucchiato tutti i poteri divini altrui. Senza Atena, i suoi cavalieri non possiedono più un cosmo. Chi aveva un’età per poter sopravvivere come mortale, ora è sulla Terra e continuerà i suoi giorni come persona normale. Tutti gli altri..sono qua”.

“Il crepuscolo degli Dèi?”.

“Esatto”.

“E questo per voi è un bene?”.

“Certo. È bellissimo. Finalmente: pace!”.

Kydoimos pareva perplesso. Poi vide Saga, che gli sorrideva, avvicinandosi lentamente. Aphrodite lo superò ed abbracciò forte Arles, felice di rivederlo. Poi arrivò Saga, e Aphrodite gli lasciò posto. Le due anime, un tempo appartenute allo stesso corpo, si fissarono in silenzio.

“Saga...” mormorò Kydoimos “...adesso smettila di piangere”.

I due si abbracciarono, mentre l’anima di Saga non smetteva di versare lacrime.

“Non piangere più, Saga. Non voglio vederti piangere”.

“Mi sei mancato” ammise Saga “Ora non mi abbandonerai più, vero?”.

“No, certo che no. Però tu non piangere più. Perché fai così? Io...ti ho rovinato la vita!”.

“Non importa. Non è vero. Mi sei mancato tanto”.

Non sapendo che cos’altro dire, l’ultimo arrivato si lasciò abbracciare.

 

“Guarda! C’è Lady Oscar!” ridacchiò un uomo, indicando un giovane che camminava per strada.

Il giovane, con pesanti occhi scuri, si fermò solo qualche istante. Con le mani nelle tasche dei jeans, fece un sorriso. Aveva lunghi capelli ramati molto ricci, che gli ricadevano sulle spalle. Si tornò a voltare e proseguì per la sua strada.

“Pensavo che lo avresti ammazzato” commentò Ahriman, che camminava accanto al ragazzo.

“E perché mai? Fra meno di un anno morirà in un incidente” sorrise chi aveva a fianco.

“Mi spaventi, Dhòro”.

“Non è forse questo lo scopo di un Dio?”.

“Può essere”.

“Ti sei già dimenticato cosa voglia dire esserlo, fratellone?”.

“Certo che no”.

“Allora, sei pronto? Dopo quasi un anno, vi rivedrete”.

“Già. Chissà come gli va la vita”.

“Non male, direi”.

“Ma, dimmi, fratellino...tu conosci il destino di tutti quanti noi, giusto?”.

“Come unica divinità rimasta, sì. Mi pare ovvio”.

“E non puoi svelarmi qualcosa?”.

“No”.

“E perché?”.

“Perché cercheresti di non far accadere certe cose, e non è così che deve andare”.

“Mi accadranno cose brutte?”.

“Ahriman, nessuna vita è mai del tutto felice”.

Il fratello maggiore non disse altro. Insieme, i due camminarono per le strade di Atene fino a raggiungere un piccolo appartamento. Ahriman aprì la porta e salirono lungo il corridoio, fino all’ultimo piano. Entrarono in una casa con un grande terrazzo sul tetto dell’immobile.

“Eccoli, i ritardatari” ghignò Milo.

“Come state, ragazzi?” salutò Ahriman.

Attorno ad un grande tavolo all’aperto, molti uomini un tempo cavalieri erano pronti a mangiarsi una fetta di torta. Neikos sedeva, con in braccio una bimba in fasce, e sorrise come tutti.

“Facciamo un brindisi!” propose Kiki “Al nostro primo anno da comuni mortali”.

“Alla salute!” concordò più di qualcuno.

“Allora...” iniziò Camus “Come vi trovate per il mondo? Senza un cosmo?”.

“L’inizio non è stato facile” ammise Deathmask “Specie dopo essere stato un Dio. Ma poi impari a rilassarti e a vivere”.

“Sapete qual è stata la cosa più difficile?” ridacchiò Milo “I documenti!”.

“È vero” ammise Ahriman “Quando è nata la bambina, in ospedale mi hanno chiesto il cognome ed io non sapevo che cosa dire. Io non lo so il cognome di mio padre!”.

“E allora che hai fatto?” domandò Camus.

“Me lo sono inventato”.

“E noi abbiamo tutti adottato la sua invenzione” sorrise Nàgiri.

“Che cognome avete?” incalzò Ioria.

“Arleson. Figlio di Arles”.

“Non ci credo!” scoppiò a ridere l’antico cavaliere del leone “Che cognome ridicolo!”.

“Pensa per te, Leonardo!”.

“Hei, Leonardo è un nome da intellettuale!”.

Entrambi risero. Perfino a Camus scappò un vago sorriso.

“Nel mio caso, è stato più semplice” ammise Milo “Mi è bastato dire che Milo è il cognome. Ci hanno creduto tutti”.

“Sì, anche per me è valso lo stesso” annuì Camus.

“Ma non dirmi che ti fai chiamare Albert!” sogghignò Deathmask.

“Tu pensa al tuo nome: Angelo. Tu di angelico, non hai proprio nulla”.

“Scherzi? Sono un angelo caduto”.

“Ah, ecco. Ad ogni modo, il mio nuovo nome è Andrè”.

“Lady Oscar?” sorrise Tania.

“Ma chi è sta Oscar?” alzò un sopracciglio Dhòro “Oggi ne parlano tutti”.

“Ti farò vedere il dvd” sorrise Ahriman “Ma dopo aver scoperto il nome di Milo”.

“Omìros” ghignò Milo.

“Caspita”.

Aiaco, che ora si faceva chiamare Dustan Eaco, sorrise alzando un bicchiere. Dei presenti, in pochi avevano mantenuto i nomi originali ufficialmente, risultando molto bizzarri nella vita reale. Solo i discendenti di Arles non li avevano cambiati, forse come ricordo di chi li aveva chiamati così. Nàgiri sedeva accanto ad Heiwa, che si faceva chiamare Irene, e si tenevano per mano. Di fronte a loro, Arles II, divenuto Alessandro, e Tania. Lei iniziava ad arrotondarsi, nei primi mesi di gravidanza. Thanatos, che si limitava ad abbreviare il suo nome in “Tony”, guardava la tavolata con un pizzico di nostalgia. Suo fratello, Hypnos, chissà come se la passava!

“Nomi troppo belli” rise Ioria “E tu, Ahriman? Niente cose strane? Giuditto? Puccio? Vabbè che già il cognome è una vera porcheria”.

“ναπαρ'τα" (napar'ta ) rispose Ahriman, aprendo il palmo della mano, nel tipico gesto d’insulto greco.

“Anch’io ti voglio bene!”.

Dhòro scosse la testa, divertito. Guardò in su. Sapeva che suo padre era felice, in un luogo dove un giorno si sarebbe ricongiunto con tutti loro. Sapeva che lui e Saga erano vicini e si stringevano la mano. Sapeva che Saga era l’unico che avesse mai provato sentimenti così forti nei confronti di Arles. Anche il Caos lo amava, quasi follemente, perché ne riconosceva la pazzia, ma non così intensamente.

“L’importante è che tu sia felice” mormorò.

Gli Dèi erano morti, il grande tempio smantellato. Le persone in quella casa si mantenevano come potevano, come persone normali. Il declino dell’umanità era inevitabile, ma non aveva importanza. L’importante era che fosse felice.

 

FINE

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