Risveglio 2 di SagaFrirry (/viewuser.php?uid=819857)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I- fiamme nere ***
Capitolo 2: *** II-Addio ***
Capitolo 3: *** III-nuovi orizzonti ***
Capitolo 4: *** IV- nuovo fratello ***
Capitolo 5: *** V-alla luce del sole ***
Capitolo 6: *** VI- il palazzo nero ***
Capitolo 7: *** VII- fratelli ***
Capitolo 8: *** VIII- angeli ***
Capitolo 9: *** IX- potere e ricordi ***
Capitolo 10: *** X- nuove vestigia ***
Capitolo 11: *** XI- ritrovarsi ***
Capitolo 12: *** XII- piangere ***
Capitolo 13: *** XIII- mortale ***
Capitolo 14: *** XIV- motivazioni ***
Capitolo 15: *** XV- Nuovo ***
Capitolo 16: *** XVI- speranza ***
Capitolo 17: *** XVII- famiglia ***
Capitolo 18: *** XVIII- VIXI ***
Capitolo 19: *** XIX- RAGNARÖK ***
Capitolo 1 *** I- fiamme nere ***
I
FIAMME
NERE
“Non
retrocedete!” gridò Phobos.
Si
portò una mano al viso,
pulendosi dalla polvere della battaglia. Circondato dai compagni, non
riusciva
ad udire la voce del suo padrone. Non riusciva più a
scorgerlo. Probabilmente
si era lanciato in prima linea, pronto ad affrontare il nemico
invasore. Lo
sperava.
“Dov’è
il sommo Ares?” chiese
un’amazzone, tenendo buono a fatica il suo cavallo.
“Non
preoccuparti per lui, pensa
a combattere!” la sgridò Phobos, cercando di
capirci qualcosa.
Quell’attacco,
mosso
all’improvviso, aveva colto molti di sorpresa. E di nuovo
lì, a difendere il
tempio di Athena. E perché?
Phobos si
chiedeva perché il suo signore ancora difendesse quel luogo,
invece di
ritirarsi nel suo palazzo in tracia e staccarsi dal passato.
Sospirò,
rispondendosi da solo. Il legame fra il suo capo e colui che
considerava un
fratello, Saga, non accennava a smorzarsi. Nonostante tentassero in
ogni modo
di separarsi, odiando pure Arles quel luogo d’infanzia e di
errori, finivano
sempre col cercarsi. Per sostenersi o ammonirsi.
“Perché
vi fermate?” gridò ancora
Phobos “Non abbiate timore alcuno del nemico, o vi
distruggerà!”.
Accompagnò
le sue parole con un
potente colpo fiammeggiante. La sua luce rossa attraversò
quelle ombre nere e
le dissolse. Ma dietro di loro già ne avanzavano delle altre.
Il buio
improvviso oscurò il
tempio delle vestali. Le donne, spaventate, si guardarono attorno senza
capire.
“State
calme” parlò loro,
dolcemente, Ninive.
Ora era lei
a capo di quelle
fanciulle, data la decisione di Hestia di sposare Saga e lasciare quel
luogo.
Ninive aveva accettato l’incarico senza timore o ripensamento
alcuno,
nonostante questo significasse rinunciare definitivamente a quella che
poteva
essere una vita con Arles ed i suoi figli. La decisione aveva fatto
alzare un
coro di voci e pettegolezzi. Nessuno sapeva il perché di
quella decisione
tranne lei, che non voleva svelarlo. In quel momento, assieme alle sue
consorelle, solo per un istante pensò a colui che combatteva
là fuori e si mise
a pregare. Tutte loro desideravano ardentemente la pace ma nessuno in
quel
Mondo pareva in grado di poterla mantenere. E il cielo si faceva sempre
più
nero…
“Torna
subito indietro!” ringhiò
Ares, nella testa del suo involucro Arles.
L’involucro
non rispose, continuando
a camminare. Vedeva il suo nemico, dritto davanti a sé, e si
dirigeva convinto
in quella direzione.
“Ti
ho detto di fermarti! Sei del
tutto scoperto, ti farai ammazzare!” insistette Ares.
“Ma
chiudi quella cazzo di
bocca!” sibilò Arles.
“Ma
non vedi che stai facendo?!
Se il nemico ti vede, sei morto! E mi serve questo tuo corpo, lo
sai!”.
“Questo
è il mio corpo e ci
faccio quel che voglio”.
“Questo
è il nostro corpo!
Fermati!”.
Ares
tentò di trattenere Arles,
che per un istante si arrestò e gemette per protesta. Ma poi
la volontà del
mortale fu più forte, e riprese il suo cammino. Con indosso
l’armatura del dio
della guerra e nelle mani la sua scintillante spada, guardò
negli occhi l’ombra
nera che oscurava il sole. Il Caos, padre di Gaia, colei che era stata
sigillata nell’ultima guerra, aveva perso il controllo e
sfogava la sua rabbia
su cavalieri e Dèi colpevoli. Dov’era quel verme
che aveva rinchiuso la sua
bambina? Dov’erano tutti quei moscerini inutili che lo
avevano aiutato?
Divinità inferiori, legate agli umani. Agli occhi del Caos,
feccia e nulla più.
E quella creatura minuscola che avanzava così
decisa…che credeva di fare?
Ghignò divertito. Arles rispose a quel ghigno, senza curarsi
dei martellanti
insulti del dio della guerra nella sua testa. Il Dio nemico pareva non
subire
alcun danno, nonostante gli attacchi di vari Dèi fra cui
Zeus.
“Amico…”
gridò Arles per farsi
sentire dall’enorme divinità Caos
“…vedo che entrambi abbiamo bisogno di
sfogarci. Facciamo così: sbrighiamo la faccenda fra noi.
Lascia perdere tutti
questi qui, che combattono per noia e non vedono l’ora di
smettere. Lotta con
me, che ne ho bisogno”.
“Umano,
tu sei pazzo” rispose
Caos.
“Può
essere” ammise Arles,
seguito da un “confermo” da parte di Ares.
“Come
speri tu di battermi, visto
che nemmeno l’attacco congiunto dei tuoi compagni riesce a
scalfirmi?” domandò
il nero nemico, piegandosi leggermente in avanti.
“Io
non spero di batterti. So di
non poterlo fare”.
“E
allora che vuoi? Suicidarti?”
“No,
a tagliarmi le vene sto poco.
Sento che tu attacchi per rabbia. Di questo posto non te ne frega un
cazzo. Hai
solo bisogno di sfogare la tua giusta rabbia. Io pure me ne frego di
questo
posto ed ho necessità di liberarmi di certe sensazioni.
Perciò vorrei che tu
combattessi contro di me. E me soltanto”.
“Ammiro
il tuo coraggio”.
“La
sua è stupidità” sbottò
Ares,
per qualche istante riprendendo il controllo.
Non ci
riuscì a lungo. Arles
socchiuse gli occhi e richiamò a sé tutta la sua
energia.
“Ma
che sta facendo?” si chiese
Saga, vedendo Arles avanzare veloce verso il nemico “Si
farà ammazzare!”.
“Ricorda
che è il Dio della
guerra” lo calmò Kanon “Sa quello che
fa…di solito!”.
“Non
sta seguendo una strategia.
È scoperto!”.
“E
tu non seguire l’esempio!
Resta qui, che il nemico è uno di quelli cazzuti”.
“Arles!
Cosa stai facendo,
fratello?!” gridò Saga e Kanon gli
tappò la bocca.
“Sono
io tuo fratello!” sbottò “E
smettila di cercare di attirare l’attenzione,
idiota!”.
“Non
hai nulla da perdere,
greco?” riprese Caos.
“No”
ammise Arles “Non sono
figlio di nessuno e, anche se senti una voce chiamarmi ̎fratello ̎, non
sono il
fratello di nessuno. I miei figli sono grandi, la mia donna non vuole
più
vedermi. Non ho motivo di restare. Il mio sangue ribolle di rabbia e
desolazione. Sono solo, eppure la mia anima ringhia. Ringhia
perché vuole
vivere e combattere”.
“Ammiro
la tua anima. La mia è
circondata da catene e sigilli e ormai prova solo rabbia”.
“Come
posso placarla?”.
“Perché
dovresti?”.
“Perché
quella fanciulla che vedi
laggiù è la mia bambina. Si chiama Ariadne e non
voglio muoia oggi”.
“Tu
non potrai mai fermarmi!”.
Caos, che
per qualche istante era
parso tranquillizzarsi, riesplose di furia ed espanse ulteriormente le
sue
dimensioni. Arles scattò in avanti, raccogliendo tutte le
sue energie e
roteando la grande spada del dio della guerra.
“War
Blood” gridò, alzando la
spada e lanciando il suo colpo.
Il rosso
sangue del supremo colpo
del dio della guerra colpì in pieno Caos. Trovandosi
più vicino rispetto ai
suoi compagni, riuscì ad arrecare un lieve danno al nemico,
che si irritò
parecchio e lo schiacciò in terra con due dita. Tenendolo al
suolo, rise e si
umettò le labbra. Quasi quasi poteva mangiarselo quel
microbo. Arles si dimenò,
riuscendo a liberare una mano. Scagliò un ulteriore colpo
sulle dita che lo
bloccavano e ritrovò la libertà.
“Sei
proprio fastidioso!”
commentò il Caos, trovando la cosa quasi divertente
“Annienterò la tua anima”.
Arles
ghignò di nuovo. La sua
spada ed il suo cosmo erano pronti a colpire ancora. Saltò,
accompagnato dai
colpi di altre divinità, ed affondò la spada in
quell’ombra che però non perse
nemmeno una goccia di sangue. Venne ricacciato indietro e cadde. Si
pulì la
bocca dall’ikor divino che il nemico aveva fatto sgorgare e
preparò un altro
attacco. Ma si fermò. Sentiva qualcosa di strano dentro di
sé. Partiva dal
cuore e, ad ogni battito, pareva espandersi per le vene. Sì
portò la mano
sinistra al petto e subito anche in lei avvertì la stessa
sensazione.
“La
mia…anima?” gemette.
“Che
succede?” domandò Ares,
senza capire.
Percepiva
l’involucro del suo
mortale ospite perdere sintonia con la sua anima. Dal cuore, che
lentamente
Arles percepiva sempre più pesante e freddo, si espandeva un
dolore che
scorreva poi nelle vene. Il muscolo pulsante divenne nebbia e poi si
contrasse.
Come una supernova, si contrasse e poi esplose, divenendo fiamma nera.
Arles
gridò. La sua anima bruciava e così anche il suo
corpo. Lingue di fiamme nere
iniziarono a consumarne le carni e le ossa. Ares lottò
disperatamente per
arrestare il processo ma non ci riuscì. Il suo involucro
mortale non era più in
grado di ospitarlo e dovette abbandonarlo, senza poter far altro.
Rimase a
guardare Arles che si consumava, fra le grida. Perché il suo
cuore non cedeva?
Perché non cessava di battere, permettendogli di morire? Il
Caos si chiedeva la
stessa cosa, vedendo quel misero essere contorcersi.
“Il
tuo animo è forte, creatura.
Non me l’aspettavo” commentò il nemico.
Arles non
poté controbattere,
perché ormai le fiamme ne stavano avvolgendo il viso. Poi,
finalmente, corpo ed
anima si arresero e cessò di vivere. Ares lo capì
e d’istinto, tentò di
vendicare il suo prezioso involucro. Sapeva di non poter fare molto ma
era pur
sempre il Dio della guerra! Fece per attaccare quando una luce
abbagliante lo
fermò.
“Tornatene
da dove sei venuto,
creatura della notte!” tuonò una voce, che
arrestò ogni movimento.
Lentamente,
apparve. Ahriman, Dio
del cielo, magnifico e avvolto da luce e ardente cosmo, si
mostrò. Fra le nubi,
con le ali spalancate, fra le mani stringeva lo scettro simbolo del suo
potere
così come sul capo indossava la corona.
“Urano.
Nipote mio. Come stai?”
domandò Caos, per nulla impressionato da
quell’entrata in scena.
“Starei
molto meglio senza
vederti” rispose Ahriman, con la voce del Dio del cielo.
“Svolazza
altrove!”.
“Evapora!”.
Ahriman
alzò lo scettro ad
astrolabio e questi brillò, scagliando una fascia di luce
contro il Caos.
Questi si raggomitolò leggermente.
“Ti
ricordo, Caos, che sei stato
sigillato, millenni orsono. Non ti è concesso uscire dal tuo
palazzo nero, pena
la morte. Sai bene che devi rientrare immediatamente, oppure ti
dissolverai. E
so che non è quello che vuoi”.
“Cosa
ne sai tu di quel che
voglio? Ho perso la mia bambina!”.
“Io,
pochi secondi fa, mio padre.
Eppure sto qua, fermo, e non sfogo la mia collera a casaccio contro di
te.
Anche se potrei. Ti invito, anzi, a tornartene a casa prima che il
sigillo
faccia effetto”.
Per qualche
attimo i due si
fissarono. Il Caos espanse la sua ombra, andando ad accarezzare per un
istante
tutto il grande tempio. Poi si ritrasse e svanì.
Era sceso
uno strano silenzio.
Ahriman atterrò dolcemente, con un singolo battito
d’ali. Da tempo non si
mostrava, dall’ultima guerra in cui era divenuto Dio del
cielo.
“È
tutto finito” parlò, dopo
qualche istante di silenzio “Potete tornare a casa”.
Ma nessuno
si mosse. Alcuni
feriti si accasciarono, stanchi. Nessuno di loro era in gravi
condizioni. Il
nemico si era limitato a rispedire indietro i colpi degli avversari.
“Fratello…”
mormorò Saga,
rimanendo immobile con lo scettro di Athena fra le mani.
Kanon fece
una smorfia. Non
sopportava sentir chiamare Arles “fratello”.
“Su,
zio, non essere triste”
quasi sorrise Ariadne “C’è Ahriman qui.
Sono certa che lui ha la soluzione”.
“Sorellina,
per quanto io sia
potente, non posso riportare in vita un corpo distrutto. Non
è rimasto nulla di
lui”.
“E
la sua anima?”.
“Come
quella di Ares, sono certo
che ha già una sua sistemazione”.
“Quindi
mi stai dicendo che tu,
Dio supremo del cielo, non puoi fare niente?”.
“Non
posso competere con il
volere del Caos”.
“Ma…quindi…papà
è…”.
“Non
piangere” parve sfottere
Ahriman “Non ci ha cresciuti. Potevamo anche vivere senza mai
venire a
conoscenza della sua vera identità”.
“Ma
stai parlando di Arles,
nostro padre. Come puoi…”
Ahriman
alzò una mano. Non voleva
sentire altro. Vivendo solitario nel grande palazzo del cielo, iniziava
ormai
ad avere dentro sé quella fredda indifferenza tipica delle
divinità. Riprese il
volo, lasciando alla sorella solo una delle sue piume fra le mani.
“Re
Ahriman” chiamò qualcuno.
Altri
invocarono il nome di
Arles, senza capire bene l’accaduto. Non era rimasto nulla
del cavaliere, se
non un segno lievemente bruciato d’erba e qualche goccia di
ikor. L’anima di
Ares non c’era più e questo spaventava Phobos.
Era rimasto
di nuovo solo! Solo,
senza un padrone ed un signore da seguire. Che fosse segno, con la
morte del
Dio della guerra, che finalmente era giunto un tempo di pace? Che
l’alba di un
mondo senza conflitti potesse avere inizio?
“Pura
utopia” si disse, subito.
Ora era lui
a capo delle truppe di
Ares e lo avrebbe atteso. Sapeva che sarebbe tornato e fino a quel
momento lo
avrebbe aspettato e venerato come in vita. E il Caos
l’avrebbe pagata cara.
“Placa
il tuo animo” suggerì
Hypnos, che aveva combattuto negli eserciti di Hades in quello scontro
“Il Caos
non è creatura che si può vincere. Io lo so bene.
Ho vissuto al suo fianco,
assieme al resto della mia famiglia, a lungo. Poi, quando si
combatté la
battaglia in cui furono posti i suoi sigilli, io e Thanatos fummo
assoldati da Hades
ed ora dimoriamo nei campi elisi”.
“Ma
se è sigillato…perché è
apparso?”
“È
una creatura troppo potente.
Non la si può rinchiudere in una giara o in una scatola.
Tutte le divinità
alleate con Zeus, i suoi fratelli ed i vari discendenti, sono riuscite
a creare
un blocco. Ma questo non è sufficiente a trattenerlo nel suo
palazzo. Specie se
mosso da rabbia cieca come prima”.
“E
allora questi blocchi a che
servono?”.
“Non
può più creare, così da
evitare che generi cose al di fuori dell’ordine del Mondo.
Non può più avere figli,
né lui né gli altri abitanti della sua casa nera.
E non può uscire dal palazzo
se non per un periodo limitato. Inoltre, i suoi poteri sono stati
notevolmente
diminuiti. Fosse stato potente come alla notte dei tempi, con
quell’attacco
d’ira avrebbe distrutto l’universo”.
Phobos non
disse altro. Vide le
divinità rientrare nelle loro case, tranne Saga. Questi
riuscì solo in seguito
a tornare alla sua dimora, impietrito da un senso di vuoto assoluto che
non
aveva mai provato prima.
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Capitolo 2 *** II-Addio ***
II
ADDIO
Le
campane suonano a morto.
E
riecheggiano per il tempio. Ogni rintocco, un
ricordo che riaffiora. Ogni rintocco, la consapevolezza di un nuovo
istante che
non si creerà mai.
Le
campane suonano a morto.
A
che serve coprire il viso con una maschera per
celare le lacrime? Il tuo animo triste pulsa e si fa percepire da
tutti. È
colpa del tuo essere divino.
Le
campane suonano a morto.
Si fanno difficili i passi
quando le certezze si
infrangono. Quando una vita che credevi eternamente legata alla tua si
dissolve. Quando capisci di non poter rimediare.
Le campane suonano a morto.
Cerchi parole da pronunciare
ma queste non escono.
Cerchi un modo per trarre conforto ma il tuo cuore non si placa. Cerchi
di
fermare le tue lacrime ma queste sembrano non avere mai fine.
Le campane suonano a morto.
Con il capo chino ti accorgi
che non hai nemmeno un
corpo da seppellire, solo un ricordo su cui piangere, solo una vita da
lasciar
andare.
Le campane suonano a morto.
In ginocchio dinnanzi ad un
semplice nome inciso,
allunghi la mano sentendoti divinità inutile e colpevole.
Sfiori la lapide e ti
chiedi il perché.
Le campane suonano a morto.
"Fortunato" tu pensi,
"fortunato che
hai abbracciato la morte, lasciando a noi il duro compito di vivere.
Fortunato,
tu che sei svanito, e non devi lottare più".
Le campane suonano a morto.
Scende il silenzio, nel tuo
cuore e nella tua
anima, non più ora accompagnata da chi credevi immortale,
protetto da divino
potere.
Scende il silenzio. I vivi
dormono, i morti
sognano. O forse è il contrario. Scende il silenzio.
Le campane non suonano
più.
Thanatos
era bravo nel tramutare in parole il
pensiero di chi era in lutto. Saga ascoltava i suoi versi e rimaneva in
silenzio. Davanti a sé, una bara vuota. Non era rimasto
nulla del corpo di
Arles.
“Nemmeno
un corpo su cui piangere mi hai
lasciato” mormorava, rivolto al Caos che ovviamente non
poteva sentirlo perché
parecchio lontano da lì.
La grande
sala, dove non molto
tempo prima i cavalieri d’oro dormivano per permettere alle
divinità di
risiedere al tempio, ora era divenuto il luogo dove porgere un ultimo
saluto.
“Finiamo
in fretta questa cosa”
commentò Kanon, desideroso come non mai che il fratello
riprendesse in mano la
sua vita.
Ninive non
era presente. In sua
vece, un piccolo gruppo di vestali erano giunte per porgere omaggio a
tutti
coloro che combattevano ed avevano combattuto per la pace e la difesa
dei
deboli.
“Condoglianze”
sussurrarono a
turno, prima alla figlia del morto e poi a Saga.
La giovane
indossava la maschera.
Mai prima d’ora lo aveva fatto. Probabilmente lo faceva per
celare la sua
tristezza, ma era facile percepire il dolore del suo cosmo. Deathmask,
il suo
compagno, le rimaneva accanto senza parlare.
“Addio
amico mio. Mi mancherai”
disse Aphrodite, deponendo una delle sue rose sulla bara scura.
D’un
tratto, in mezzo al silenzio
prevalente, si udì il rumore di passi. Come piccoli
tacchetti sul marmo lucido.
In molti si voltarono verso l’entrata della sala. Ahriman,
Dio del cielo, aveva
fatto il suo ingresso. Indossando un abito magnifico, degno di una
divinità,
camminò lentamente. Ed i rumori dei suoi passi cessarono,
come camminasse
sospeso. Le ali ripiegate, perdevano piume verdi ogni tanto.
“Sommo
Urano” si sentì da più
parti, mentre molti si inchinavano.
“Non
siete qui per porgere
omaggio a me!” quasi si stizzì “Ma a
colui che mi donò metà corredo genetico.
È
dinnanzi a lui ed alla sua bara vuota che dovete inchinarvi. Ricordando
nel
vostro cuore in eterno il suo coraggio e la sua
stupidità”.
Raggiunse la
bara, mentre nella
sala nessuno parlava. Vi poggiò una mano sopra e solo Saga,
che rimaneva
immobile accanto ad essa, notò la singola lacrima che
versò il Dio.
“Ahriman,
nipote mio, è bello
vederti qui” ammise Saga.
“Preferirei
che queste riunioni
di famiglia si facessero in occasioni più liete”
rispose il giovane.
La fiamma
delle candele che
illuminava la stanza riempiva di riflessi i suoi capelli color della
notte. Li
aveva raccolti in complicati intrecci per impedire che toccassero terra.
“Dov’è
mia madre?” domandò, dopo
qualche istante.
“Non
ci ha raggiunti. Forse non
se l’è sentita”.
“O
forse non le interessa. In
famiglia siamo fatti così”.
Hestia, in
piedi qualche passo
dietro a Saga, salutò con un cenno del capo Ahriman. Il Dio
rispose al saluto,
mentre si voltava per lasciare già la stanza.
Fissò la Dea qualche istante.
“Congratulazioni”
disse, poi,
sorridendo appena, ed uscì.
“Congratulazioni
per cosa?”
sbottò Saga “Quel ragazzo è
assurdo”.
“Beh…”
parlò Hestia “L’esistenza
è un cerchio. Dove una vita termina, una nuova vita
inizia”.
A quella
frase, molti sorrisero e
si levarono esclamazioni di stupore.
“Che
intendi dire?” continuò la
divinità della guerra.
“Credo
che solo tu in questa sala
non lo abbia capito, Saga” chiuse gli occhi Hestia
“Sono incinta. E spero che
almeno questo possa ridonarti la voglia di sorridere”.
“Mia
regina…” riuscì solamente a
dire lui, abbracciandola.
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Capitolo 3 *** III-nuovi orizzonti ***
III
NUOVI
ORIZZONTI
La primavera
di Grecia rendeva
quel grande prato un luogo ideale dove giocare. Il bambino, dai capelli
di un
verde solo leggermente più scuro rispetto all’alta
erba fra cui correva,
osservava con curiosità ogni cosa. Una farfalla gli
passò accanto e lui rise.
D’un tratto, una voce.
“Stai
sconfinando, straniero” si
sentì dire.
Guardò
in su. Un altro bambino,
che non sembrava molto più grande di lui, lo fissava seduto
su quel che
rimaneva di un’antica colonna greca.
“Ciao”
salutò il bimbo dai
capelli verdi “Come ti chiami?”.
“Non
sei Greco, vero?” ghignò il
bambino, saltando dalla colonna e girando attorno allo straniero,
osservandolo
con curiosità.
“No.
Ma mamma e papà mi
insegnano”.
“Da
dove vieni?” continuò
l’interrogatorio.
“Da
lontano”.
“Il
mio papà è nato in Italia”.
“E
dov’è l’Italia?”.
“Lontano”.
I bambini si
fissarono qualche
istante. Poi il bambino dai capelli verdi allungò la mano.
“Io
sono Nàgiri, piacere” disse.
“Io
sono Arles” rispose l’altro.
“Arles?”.
“Sì.
È il nome di mio nonno. È
morto prima che nascessi. Era un grande guerriero, me lo dice sempre la
mia
mamma. E anche il mio papà”.
Si vedeva
che era fiero del suo
nome. Incrociò le braccia, ringalluzzito. Nàgiri
rise. Quel bimbo, dalle iridi
rosse come il sangue, pareva simpatico.
“Io
sono figlio di cavalieri
d’oro” riprese Arles II “Ed un giorno lo
diventerò anch’io”.
“Cos’è
un cavaliere d’oro?”.
“Sono
cose che non puoi capire”.
“E
vieni da quel posto laggiù?”.
Nàgiri
indicava il grande tempio,
che si vedeva non molto in lontananza.
“Lo
vedi?!” si stupì Arles II.
“Non
dovrei?”.
“No.
Solo chi ha un cosmo può
vedere il grande tempio!”.
“Cosmo?”.
Arles II si
fermò a riflettere. Quel
ragazzino forse era un futuro cavaliere, però non poteva
confessare ai suoi
genitori di essersi allontanato così tanto da casa.
Però ebbe un’idea.
“Vorrei
portarti al tempio”
ammise “Però dovresti dire una piccola bugia per
me. Ci stai?”
“Non
lo so. Papà non vuole che mi
allontani”.
“Ti
viene a prendere?”.
“Al
tramonto”.
“Per
il tramonto saremo qui,
promesso. Ora andiamo, ti mostro casa mia. Prendimi!” rise
Arles II, mettendosi
a correre giù per il breve pendio.
Nàgiri
obbedì e si mise a correre
a sua volta. Era la prima volta che incontrava qualcuno in quelle sue
gite.
Forse perché, distratto dalla farfalla, si era allontanato
dalla solita zona.
“Quanti
anni hai?” gridò ad Arles
II, che lo stava distanziando.
“Sette.
E tu?”.
“Anch’io!”.
Nàgiri
riprese terreno, riuscendo
quasi a sfiorare i capelli blu del fuggitivo. Che rise e corse
più forte. Poi
inciampò e quasi cadde addosso ad uno dei soldati che
sorvegliavano la zona
d’accesso al grande tempio.
“Signorino
Arles!” esclamò
proprio la guardia “Vostro padre non approverà
cose del genere!”.
“Mio
padre è Deathmask, ciccio!
Hai presente?” ridacchiò il bambino, incitando
Nàgiri a seguirlo.
Nàgiri
era titubante, ma poi
seguì il nuovo amico. I due camminarono fino
all’anfiteatro dove molti
cavalieri si allenavano.
“Un
giorno” spiegò Arles II
“Dalla cima di quei gradoni, il gran sacerdote
dirà che l’armatura d’oro è
mia”.
“Ah
,ma davvero?” fu interrotto
dall’inconfondibile voce del padre Deathmask “E
questo chi lo ha stabilito, Arles?
Dove sei stato tutta la mattina?”.
“Ero
vicino ai confini, dove mi
dici di stare tu”.
“Veramente?”
domandò il cavaliere
del cancro, rivolto a Nàgiri.
“Sì”
mentì il bambino.
“E
poi..tu chi saresti?” riprese
il cavaliere d’oro.
“Lui
è un mio amico. Vede il
grande tempio, quindi può restare qui” quasi
ordinò Arles II.
“Devo
informare Saga di questo”.
Nàgiri,
sentendosi troppo
osservato, si guardò attorno piuttosto in imbarazzo. Poi
Deathmask si allontanò
e Arles II sorrise al nuovo amico. Insieme, iniziarono a giocare fra le
rovine
e l’anfiteatro.
“Non
ci sono altri bambini, qui?”
domandò Nàgiri.
“No,
solo la figlia di Saga. Ma
non esce mai dalle sue stanze. Del resto, lei è figlia di
due divinità. Non si
mescola con noi semicosi”
“Semicosi?”.
“Non
saprei come altro definirmi.
E da te ci sono bambini?”.
“Sì.
Ho tanti fratelli e sorelle.
Ed io sono il maggiore. Tu non ne hai?”.
“No.
Ho chiesto tante volte alla
mamma, ma lei e papà non vogliono. Dicono che uno come me
basta ed avanza. A
volte passa Shura con la sua famiglia, ma raramente. Quello sta in
Spagna”.
“Dov’è
la Spagna?”.
“Lontano
più dell’Italia”.
Nàgiri
annuì. Non riusciva a
concepire un posto senza bambini. Lui ne era circondato!
“Che
bella notizia mi dai!”
sorrise Saga alle parole di Deathmask “Era da tempo che
attendavamo nuovi
cavalieri in questo luogo”.
“Non
so se è un futuro nuovo
cavaliere” ammise il cancro “Però ho
percepito in lui un forte potere”.
“Benissimo.
Lo voglio vedere!”.
“Sta
all’anfiteatro”.
Con stretto
in pugno lo scettro
di Athena, Saga scese le scale con a fianco il cavaliere
d’oro. Attraversarono
le dodici case, non tutte abitate, e raggiunsero i gradoni che
portavano al
centro dell’anfiteatro. Lì, Nàgiri e
Arles II ancora giocavano, noncuranti del
fatto che tutt’attorno la gente si era fermata e zittita.
“Ahriman?”
si stupì Deathmask
“Non lo vedevo dal giorno del funerale di Arles”.
“Già.
Forse ha percepito il
potere di quel bambino. Lo sento pure io. E se non fosse un futuro
cavaliere,
ma un futuro Dio?” ipotizzò Saga, attendendo le
mosse del Dio del cielo.
Ahriman si
avvicinò al bambino.
Rimase fermo un po’ a fissarlo in silenzio, ricambiato.
“Cosa
fai tu qui?” domandò poi,
usando una lingua sconosciuta.
“E
tu chi sei?” rispose Nàgiri,
nella stessa lingua.
“Non
dovresti trovarti in questo
luogo”.
Finita
quella frase, Ahriman
fletté un dito ed il piccolo iniziò a mutare. La
sua pelle prese colori
tendenti al grigio ed i suoi occhi divennero più grandi.
Acquisì dei contorni
quasi indistinti, simili a nebbia. Arles II lo fissò qualche
istante e poi
sorrise. Lo trovava figo.
“Mostra
anche agli altri la tua
vera natura” parlò ancora Ahriman e
Nàgiri si accigliò.
“Tu
sei Urano, vero?”.
“Che
bravo. Si parla di me dalle
tue parti?”.
“Sì,
come un traditore della sua
famiglia”.
“Io
non sono un traditore. È
questa la mia famiglia”.
Il Dio del
cielo indicò il grande
tempio ed il bambino lo guardò, quasi con disprezzo.
“Dovrei
eliminarti” riprese il
Dio.
“Lascialo
stare” riuscì ad
interromperlo Saga “Non tollero sangue innocente al mio
tempio”.
“Ma
non vedi che sangue scorre
nelle sue vene?” protestò Ahriman.
“Non
me ne frega un cazzo di
niente, Ahriman. E non mi importa se da tutti vieni riverito
perché il Dio più
potente. Tu non torcerai un solo capello a quel bambino”.
“Come
preferisci. Allora
rinchiudetelo. Così facendo, attirerà qui quelli
della sua specie, a cui devo
fare qualche domanda”.
Alcune
guardie afferrarono il
piccolo, che tentò di ribellarsi. Saga protestò
ma Urano lo zittì. Non doveva
osare sfidarlo, essendo di rango più basso.
“Kiki”
ordinò Ahriman “Sorveglialo
fino a quando non sarà dato un ordine diverso”.
Il cavaliere
dell’ariete annuì.
Era il più giovane fra gli oro ed aveva preso il posto di
suo fratello
maggiore, Mur, ritiratosi nello Jamir in una sorta di prepensionamento.
“Non
fargli del male, Kiki”
aggiunse Saga.
Arles II
chiese scusa per
l’accaduto all’amico. Non si aspettava certe
reazioni e nemmeno che Nàgiri in
realtà non fosse molto gradito al Dio del cielo.
Il sole
tramontò e, con le prime
ombre della notte, una figura apparve al santuario. Avvolta in un
pesante
mantello e con sul viso una maschera nera, salì lentamente
le scale del grande
tempio fino a giungere alla tredicesima dimora. Qui, Saga ed Ahriman
attendevano ospiti.
“Benvenuta,
creatura del Caos”
furono le parole del Dio del cielo.
L’appena
giunto non rispose.
Camminò ancora per un po’ e poi, al centro della
sala, si inginocchiò.
“Sono
venuto qui per chiedere di
riportare a casa mio figlio Nàgiri. Percepisco la sua
presenza” disse, con voce
maschile ed un accento straniero.
“È
corretto ciò che percepisci”
rispose Saga “Ma, prima di tutto, esigo che tu tolga la
maschera. Ne è stata
indossata una fin troppo a lungo in questa casa. E alzati”.
“La
maschera, signore, io la
indosso per preservare i miei occhi. Vivo in un mondo di buio assoluto,
la luce
delle candele qui per me è troppo forte. Inoltre, qui io
sono pressoché cieco
per via dell’abitudine all’oscurità. Ma
se questo servirà per riavere mio
figlio, lo farò”.
L’uomo
si rialzò, a fatica. Era
incerto sulle gambe. Quella di destra pareva avere qualche problema.
Tolse la
maschera con la mano guantata. Saga ed Ahriman rimasero qualche istante
in
silenzio. Il viso non lo aveva uniforme ma una piccola parte a destra,
attorno
all’occhio, tendeva verso il rosa carne mentre il resto era
grigio, quasi nero,
come Nàgiri. Gli occhi pure erano diversi. Era evidente la
cecità dell’occhio
destro. Pur possedendo una forma umana, era bianco, vuoto, con iride e
pupilla
sbiadite e spente. L’occhio sinistro invece era strano,
grande e più simile a quello
di un gatto. Interamente rosso, dall’iride nera, si strinse
quando fu colpito
dalla luce.
“Rivoglio
mio figlio” supplicò
ancora.
“Cosa
ci fa una creatura del tuo
genere da queste parti? Come mai tuo figlio stava vicino al
tempio?” volle
sapere Ahriman.
“Avevo
ordinato a Nàgiri di non
avvicinarsi alle persone e di celare sempre il suo vero aspetto.
Purtroppo
viviamo in un mondo nero e non è il meglio per dei bambini.
Quindi a volte
porto Nàgiri e gli altri miei piccoli alla luce del sole,
per un po’. Non posso
restare accanto a loro, perché il mio corpo non lo sopporta,
ma a loro piace.
Non volevo fare qualcosa di male”.
“Il
Caos ed i suoi discendenti
non possono uscire dal palazzo, è legge”.
“Lo
so. Ma noi, io ed i miei
figli, non siamo discendenti del Caos. Io sono solo un suo servo, non
ho legami
di parentela o di sangue con il mio padrone”.
“Puoi
dimostrarmelo?”.
“Mio
figlio si trova fuori casa
da quasi dodici ore. Fosse legato al veto dei consanguinei del Caos, a
quest’ora sarebbe già morto fra atroci
sofferenze”.
“Hai
ragione. Bene. Portate il
bambino!” ordinò il Dio del cielo, rivolto alle
guardie che stavano fuori dalla
porta.
Poi
guardò Saga ed i due ebbero
una breve conversazione telepatica.
“Abbiamo
deciso che i tuoi figli,
se lo desiderano, potranno tornare. Ma dovranno restare al santuario,
dove dovranno
essere controllati”.
L’uomo
annuì, mentre Nàgiri
correva di corsa le scale per raggiungerlo ed abbracciarlo.
“Che
dici, Nàgiri, vuoi tornare
al tempio?” domandò il padre ed il bambino
annuì.
I due si
congedarono e sparirono
in una sorta di portale creato dal padre.
“Dici
che torneranno?” chiese
Saga ad Ahriman.
“Certo,
perché no? Se passeranno
del tempo qui, avrò modo di approfondire le mie conoscenze
su simili creature e
chiarire qualche dubbio. Inoltre, quel bambino mi ha fatto capire che
vivono in
un luogo dove gli viene insegnato ad odiare noi e la nostra famiglia.
Perciò
non fa di certo male se, passando del tempo qui, riusciranno a far
scemare
quell’odio”.
“E
tu? Riuscirai a far scemare
l’odio che provi per Caos?” riprese Saga.
“No.
Quell’essere ha pur sempre
ucciso mio padre”.
“Lo
ha fatto per vendicare Gaia,
che io ho sigillato. È un cerchio continuo, non lo
capisci?”.
“Athena,
la tua diplomazia mi da
quasi il voltastomaco”.
Alcuni mesi
trascorsero
tranquillamente. Nàgiri ed altri bambini venivano al tempio
e vi trascorrevano
la giornata, sotto la sorveglianza dei cavalieri. Quel pomeriggio, come
sempre,
i bambini stavano giocando all’anfiteatro.
“È
ora di tornare a casa” si
sentì chiamare Nàgiri.
Era suo
padre, che al tramonto
veniva a riportare al palazzo nero lui e gli altri suoi figli.
“Arrivo,
papà” rispose, cercando
sua sorella.
Una guardia,
nel frattempo, si
avvicinò al padre dei fanciulli. Saga e re Ahriman
desideravano parlare con
quell’uomo al più presto.
“C’è
qualche problema?” domandò
questi, appena giunto al cospetto delle due divinità.
“No,
nessun problema” sorrise
Saga “I bambini si divertono, hanno fatto amicizia e tutto
è tranquillo”.
“Ti
abbiamo chiamato qui per
farti una proposta” parlò Ahriman.
“Una
proposta?” si stupì il padre
di Nàgiri.
“Chiedo
scusa per la scortesia”
fece un piccolo inchino il Dio del cielo “Voi sapete il mio
nome ma io non
conosco il Vostro”.
“Il
mio nome? Io mi chiamo
Kydoimos”.
“Bene,
Kydoimos. Posso darti del
tu?”.
“Come
preferite”.
“Tutti
noi abbiamo notato che i
bambini si trovano bene qui. Sono felici, si divertono, vivono
all’aria aperta
e conoscono nuove persone. Imparano, inoltre, ogni giorno
qualcosa”.
“Sì,
lo so”.
“Perciò,
la mia proposta è questa:
che ne dici di farli restare qui in modo permanente?”.
“Permanente?”.
“Sì.
Capisci il termine?
Perdonami, dimentico che non parli perfettamente la mia
lingua”.
“Volete
farli restare qui per
sempre?”.
“Sì,
abbandonando il palazzo
nero. Ovviamente non soli. Tu e la loro madre potete venire qui.
Pensaci.
Liberi dal potere del Caos. Una vita alla luce del sole. Un futuro
diverso”.
Il padre di
Nàgiri rimase in
silenzio qualche istante. Saga ed Ahriman attendevano la sua risposta.
“No”
disse poi Kydoimos “Io sono
fedele al mio padrone Caos. Ed anche se non ho veti che impediscano a
me ed i
miei figli di vivere qui, non potrei mai allontanarmi.
Lascerò ai miei figli la
decisione, quando saranno più grandi. Ma per ora, io resto
legato al mio
signore e così anche i miei eredi”.
“Capisco”
annuì Saga.
“Spero
che questo non cambi la
situazione attuale” si preoccupò il padre dei
bambini.
“No,
i tuoi figli sono liberi di
andare e venire quando lo credono giusto. Non cambierà
nulla”.
“Papà…”
apparve Nàgiri, timidamente
“Dobbiamo rientrare. O mamma si preoccupa”.
“Andate
pure” congedò entrambi
Ahriman.
Nàgiri
e Kydoimos fecero un
piccolo inchino. Poi il bambino salutò con la mano. Da
dietro la tenda, alle
spalle del trono della tredicesima, vedeva il viso di una bimba. Saga
si girò e
parve quasi stizzito. Con un gesto della mano, ordinò alla
piccola di
richiudere i drappi rossi. La bimba sparì alla vista e gli
ospiti lasciarono il
grande tempio.
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Capitolo 4 *** IV- nuovo fratello ***
IV
NUOVO
FRATELLO
Kydoimos
rientrò al palazzo nero assieme
ai suoi figli. I bambini, come sempre, erano pieni
d’entusiasmo. Per un
istante, nella mente dell’uomo riapparve la proposta di
Ahriman. E se avesse
sbagliato a rifiutarla?
“Bentornato”
si sentì dire, con
voce dolce.
Sorrise. La
madre di Nàgiri,
Desa, era lì davanti ai bimbi ed al marito. Assieme a lei,
le altre mogli di
Kydoimos ed i piccoli rimasti al palazzo nero. Le mogli erano tre:
Desa, Esma e
Shuna. Dietro di loro, altre quattro fanciulle che, pur non essendo
sposate con
l’uomo, avevano concepito con lui dei figli.
“Il
sommo Caos vuole parlare con
Voi” parlò una di esse, Lienn.
Mentre le
tre spose ormai non
usavano forme estremamente onorifiche con il loro marito, le altre
quattro,
giunte più tardi al palazzo, si comportavano quasi come
delle serve. Le sette
donne videro Kydoimos avviarsi verso la sala del Caos. Era intimorito.
Aveva
forse fatto qualcosa di sbagliato?
“Vieni
avanti, piccolo” lo incitò
Caos.
Seduto sul
suo trono nero,
incuteva ancora più timore del solito. Attorno a lui,
stavano seduti i suoi figli.
Tutti osservavano l’ultimo arrivato, più o meno
sorridenti.
“Avvicinati,
Kydoimos” continuò
il Caos.
Davanti al
padrone di casa, una
grossa sfera di vetro.
“Da
qui, abbiamo visto il tuo
colloquio con Urano ed Athena” parlò ancora il Dio.
“Ahriman
e Saga?” chiese conferma
Kydoimos.
“Loro.
Prima che ti comunichi
quel che ho deciso, dimmi: quanti figli hai?”.
“Io?”.
“Sì.
Lo sai bene che nessuno in
questo palazzo può più averne. I bambini che
dimorano qui sono tutti tuoi.
Dimmi: quanti sono?”.
“Trentuno”.
“Ottimo,
piccolo mio. Sono fiero
di te”.
“Grazie…”
balbettò imbarazzato
Kydoimos.
“Sono
davvero felice di averti
accolto in questa casa”.
“Ho
rispettato il nostro patto,
Signore. Mi avete accolto e salvato. In cambio mi avete chiesto di dare
dei
figli a questa casa, ed io l’ho fatto”.
“E
continuerai a farlo. Questo
luogo senza voci infantili mi rattrista e mi ricorda ogni giorno il
desolante
destino della mia stirpe”.
“Sì”.
“Tutti
noi abbiamo sentito,
grazie a questa sfera, la proposta di Urano. E sappiamo della tua
risposta”.
“Io…”.
Kydoimos
trasalì. Aveva
sbagliato? Sarebbe stato punito? Caos sorrise.
“Abbiamo
preso una decisione,
piccolo mio. Tutti assieme”.
I figli del
Caos presenti
annuirono, mentre Kydoimos era sempre più preoccupato.
“Ti
abbiamo osservato, da quando
sei qui” riprese Caos “La tua fedeltà
è stata messa alla prova e tu sei rimasto
fedele a questa casa. Altri, come i figli di Erebo e Nyx, hanno
preferito
lasciare questo palazzo, giurando fedeltà ad altre
divinità e liberandosi così
dal veto che lega i miei diretti successori”.
“Conosco
il blocco che le
divinità fedeli a Zeus hanno posto su di voi ai tempi della
prima guerra contro
i Titani” ammise Kydoimos.
I titani
erano a loro volta
abitanti di quel luogo nero. Pure loro non potevano più
avere figli, lasciare
il palazzo a lungo e creare, usando il loro potere divino come facevano
un
tempo.
“Ci
conosci, piccolo. E noi tutti
siamo felici di averti in questa casa” riprese il Caos
“Per questo abbiamo
deciso di renderti a tutti gli effetti uno di noi”.
“Che
intendete?”.
“Da
oggi, Kydoimos, voglio che tu
non sia più un ospite. Molti dei miei eredi si sono rivelati
meno fedeli di te,
di parecchio. Figli e nipoti se ne sono andati, ci hanno abbandonati.
Tu no.
Voglio che tu venga considerato figlio mio”.
“Figlio
Vostro?!”.
“Non
usare l’onorifico con me.
Sono tuo padre ora. E loro sono i tuoi fratelli e nipoti”.
“Io…io
non so che dire”.
“Non
serve che dici niente. Vieni
accanto a me”.
Kydoimos si
avvicinò al Caos, che
lo abbraccio. Non aspettandosi una cosa del genere, rimase decisamente
stupito
da quel gesto e gli mancò il fiato per qualche istante.
“Sono
fiero di avere un figlio
come te” parlò ancora il padrone di casa
“Ne sei degno. E sono certo che anche
in futuro mi renderai ancora più orgoglioso”.
Kydoimos
annuì, imbarazzato. Ora
al collo portava la collana che indossavano tutti i figli del Caos ed
il Caos
stesso. Era un ricciolo argento che reggeva una pietra blu.
“Sono
onorato” si inchinò
Kydoimos “Non ne sono all’altezza,
però”.
“Certo
che lo sei”.
Caos lo
abbraccio di nuovo,
mormorando “Sei la mia meraviglia”.
Quando
l’abbracciò finì, fu Erebo
a parlare. Era il fratello maggiore, quindi quello la cui opinione
più contava
agli occhi del padre.
“Benvenuto
in famiglia, nuovo
fratello” disse.
Il Caos
aveva cinque figli.
All’alba dei tempi, aveva generato spontaneamente Erebo, Nyx,
Eros, Tartaros e
Gaia. Erebo, suo primogenito, era pura oscurità e fluttuava
in aria con
contorni indefiniti. Solo gli occhi erano chiari, ben delineati, di
colore rosso.
D’aspetto, assomigliava molto al padre Caos. Erebo era lo
sposo di Nyx,
anch’essa figlia del Caos. Ella era pallida, dai lunghissimi
capelli blu come
la notte che rappresentava. Il suo viso, coperto da un velo scuro, era
splendido. I due sposi, agli albori del tempo, avevano avuto due figli:
Emera
ed Etere. Che, però, non vivevano da lungo tempo in quel
palazzo oscuro.
Inoltre, fra i loro discendenti, figuravano le tre esperidi, che
dimoravano in
uno splendido giardino lontano, e le astrazioni. Le astrazioni erano un
gruppo
piuttosto numeroso. Fra loro, solo Hypnos e Thanatos avevano lasciato
quel
palazzo. I loro fratelli invece dimoravano in quel luogo. Moros, il
fato, era
enigmatico e silenzioso. Ker e Keres, le sorelle che rappresentavano la
sventura
e la morte violenta, si assomigliavano d’aspetto e di
carattere. Nonostante i
loro compiti, erano fanciulle piuttosto tranquille. Nemesis, la
vendetta, aveva
un fascino enigmatico, a cui era difficile resistere. Gera, la
vecchiaia, in
quel palazzo non aveva poteri ma amava scatenarsi per il mondo per il
poco
tempo che poteva permettersi prima che il veto la facesse soffrire.
Momos, il
biasimo, e Oizis, la miseria, erano legati da un sentimento che andava
oltre
l’amore fraterno. Philotes, l’amicizia, era colei
che più sentiva la mancanza
dei fratelli che avevano deciso di lasciare quella casa. Altra figlia
della
Notte era Eris, che però dimorava al tempio di Ares. Eros,
figlio del Caos, era
suo vicino di casa ed adorava punzecchiarla. Tartaro era stato un tempo
compagno di Gaia ed ora, solo al palazzo nero, sentiva molto la sua
mancanza.
Assieme al figlio generato con lei, Tifone, viveva in quel luogo
covando nel
cuore tristezza ed odio nei confronti di coloro che avevano osato
sigillare la
donna che amava. Altri figli di Gaia, nipoti del Caos, erano rimasti.
Ponto era
il maggiore, seguito da una parte dei titani, creature concepite da
Gaia con
Urano. Nella precedente guerra, il fratellastro più grande
li aveva condotti
volentieri in battaglia. Ma ora preferiva starsene nelle sue stanze,
sospirando
il ricordo della madre morta.
Assieme a
tutti loro, discendenti
diretti del Caos, nel palazzo oscuro vivevano Kydoimos e la sua
numerosa
famiglia e molte altre persone che fungevano da servi e da tramiti fra
quella casa
ed il resto dell’universo.
Non
c’era perciò da stupirsi se
Kydoimos, una volta lasciata la sala del padrone, entrò in
un’altra stanza
trovandola gremita di gente.
“Ma…che
succede?” domandò.
“Abbiamo
saputo la notizia, e ti
vogliamo festeggiare” rispose Desa, la madre di
Nàgiri.
Iniziò
la festa, fra musica e
danze. Il festeggiato, che ancora non riusciva del tutto ed elaborare
la cosa,
dopo qualche ora fu avvicinato da Erebo.
“Signor
Erebo” si inchinò
leggermente, per salutare.
“Non
usare quel termine!” lo
rimproverò il Dio oscuro “Sono tuo fratello ora,
non più il tuo signore”.
“Sì…fratello…”.
“Meglio!
Devo parlarti”.
I due
lasciarono la sala e la sua
musica, raggiungendo una delle terrazzine che circondavano il palazzo.
Kydoimos
si era sempre chiesto a che servissero quelle uscite, dato che si
affacciavano
sul nero assoluto.
“Un
tempo…” parlò Erebo
“…non
molto tempo fa, io vivevo nel palazzo di Gaia”.
“Il
palazzo verde, sì” annuì
Kydoimos.
“Un
tempo, prima che mia sorella
Gaia tentasse di riconquistare il potere che Zeus e famiglia ci ha
sottratto, a
noi abitanti di questa casa veniva concesso poter vivere anche nel
palazzo
verde. Ora che Gaia è stata sigillata, il palazzo
è stato distrutto e questo è
l’unico luogo dove possiamo alloggiare. Questa è
la nostra unica ed eterna
dimora, pena la morte fra le atroci sofferenze che causa quel famoso
blocco che
grava su di noi”.
“Ne
sono a conoscenza”.
“Per
questo siamo rimasti così
colpiti dalla tua decisione, Kydoimos. Avevi la possibilità
di donare la
libertà a te ed alla tua famiglia ma sei rimasto fedele al
Caos”.
“Mi
stai dicendo che sono
cretino?”.
“Forse
un po’. Ma quello che
conta è che sei parte della famiglia. Sei fiero di
esserlo”.
“Senza
il Sommo Caos, io non sono
nulla. Senza di lui, io non esisterei nemmeno, così come non
esisterebbero i
miei figli. Lui mi ha permesso di vivere. Lui mi ha salvato. Ed in
cambio mi ha
solo chiesto di generare nuove vite”.
“Ha
curato il tuo corpo, ma ti ha
anche condannato. Quanto credi di poter vivere, senza la sua
protezione?”.
“Nemmeno
un istante. Ma non
conta. Io non lo tradirò mai”.
“Queste
parole mi confortano,
nuovo fratello. Come sai, molti di noi se ne sono andati appena hanno
potuto”.
“Io
non lo farò. Sarò sempre
fedele al Sommo Caos”.
“Lo
spero. Ed in quanto ad
Ahriman…è un furbetto figlio di puttana
manipolatore. Lo conosco bene”.
“Viveva
pure lui al palazzo di
Gaia, giusto?”.
“Sì,
prima di divenire una
divinità. Non sottovalutarlo mai”.
“Non
lo farò”.
Erebo
sorrise e si congedò.
Nonostante Tartaro fosse contrario alla decisione di dare a
quell’uomo
l’appellativo di “fratello”, Erebo era
assolutamente certo che non vi era
creatura più degna di lui per quell’epiteto.
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Capitolo 5 *** V-alla luce del sole ***
V
ALLA
LUCE DEL SOLE
Nàgiri
era al grande tempio
assieme a sua sorella Neikos. La bambina, di pochi mesi più
piccola di lui, era
figlia di Esma. Leggermente abbronzati dal sole di Grecia, ormai
avevano fatto
amicizia con quasi tutto il santuario. Sapevano che Ahriman li teneva
d’occhio
dal suo palazzo nel cielo, ma fin ora non si era fatto vedere.
“Sono
un po’ preoccupato”
ammetteva Saga ad Aiolos, suo gran sacerdote.
“Per
che cosa?” rispose il suo
interlocutore.
“Gli
anni passano, i cavalieri
invecchiano. Alcuni se ne sono già andati, lasciando qui le
loro armature, in
cerca di un futuro diverso. Shura è in Spagna, con moglie e
figli. Mur nello
Jamir, non si vede mai. Ioria e sua moglie Marin abitano qui vicino ma
ufficialmente non son più cavalieri. Dohko è
tornato a sedersi sul suo sasso in
Cina. Chi è rimasto? Aphrodite so che alla dodicesima, ma
non lo vedo mai. Tu
sei qui come gran sacerdote e l’armatura di Sagitter
è senza un proprietario.
Shaka pure fa l’eremita alla sesta e non esce mai. Gli unici
che vedo sono Milo
e Camus, quando il secondo non è da qualche parte in Russia.
Poi Deathmask e
mia nipote Ariadne, il cancro ed i gemelli. Perfino Aldebaran sta
sempre in
giro, fra Brasile ed altri luoghi a me ignoti”.
“È
giusto che le cose cambino”.
“Sì,
ma ci vorrebbero delle
alternative. Dove sono i giovani? Dove sono i piccoli?”.
“Kiki
ha preso il posto di Mur. E
probabilmente Arles II prenderà il posto del padre nella
casa del cancro”.
“I
loro genitori non vogliono. E
comunque sono solo in due. Tutti gli altri?”.
“Ci
sono dei periodi in cui il
santuario è quasi deserto. È normale, se non
è in vista una guerra santa”.
“Ah,
Aiolos, ecco perché come
consigliere sei perfetto. Riesci a distruggere il mio
pessimismo”.
Saga sorrise
debolmente ed Aiolos
scosse il capo, quasi divertito.
“Dov’è
la mia piccola?” chiese
poi la divinità, parlando della figlia.
“Credo
sia di sotto”.
“Cosa?!”
sbottò Saga, che non
voleva che la sua erede lasciasse le stanze di Athena.
“Prendila!
Prendila!” gridava
Arles II, rivolto a Nàgiri.
La piccola
Neikos stava facendo
le bolle di sapone ed i due bambini correvano per prenderle prima che
scoppiassero da sole. Il chiasso che riuscivano a fare in tre,
sbalordiva più
di un cavaliere. D’un tratto, Arles si fermò e
sorrise. Lungo le scalinate,
vedeva una bimba con un grosso pupazzo fra le braccia.
“Vieni!
Gioca con noi!” la
chiamò.
“È
la bambina che ho visto dietro
le tende del salone di Saga” la riconobbe Nàgiri.
“Sì,
è Heiwa, la figlia di Saga e
Hike. Strano che sia qui. Di solito non esce dalla dimora dei
genitori”.
La piccola
scese le scale pian
piano, leggermente spaventata. Raggiunse i bambini, che la salutarono
in coro.
Lei sorrise. Era una bimba deliziosa, con i codini blu e due grandi
occhi come
il miele. Attorno a lei, un alone di luce, simbolo del suo essere
figlia di
divinità e quindi divinità a sua voglia. Neikos
fece altre bolle, che
solleticarono il volto di Heiwa. Lei scoppiò a ridere.
Lasciò il pupazzo su uno
scalino, mettendolo a sedere con cura, e si unì al gioco
degli altri bambini.
Con il lungo abito bianco aveva qualche difficoltà ma, anche
se inciampava e
cadeva in terra, si rialzava subito e si rimetteva a correre.
“Heiwa!”
la chiamò Saga, con tono
severo.
I bambini
non si erano accorti
del suo arrivo, a differenza degli altri lì presenti che si
erano inchinati.
“Ciao,
papà” salutò la bambina,
salutando con la mano.
“Che
ti sei fatta?” chiese il
padre, vedendo i piccoli graffi che lei si era procurata cadendo.
“Niente.
Sono caduta. Non fa
male”.
“Io
ti avevo proibito di uscire
dalla dimora di Athena. Perché non mi hai
obbedito?”.
“Ma
io…”.
“Tu
non capisci che quel dico, lo
dico per il tuo bene!”.
“Ma
sto bene!”.
“Vieni
subito qui!”.
Heiwa rimase
ferma. Era
spaventata. Suo padre sembrava molto arrabbiato. Il genitore, notando
l’immobilità della figlia, camminò
deciso verso di lei. Nonostante l’alone di luce
della Dea Athena che lo circondava, che doveva trasmettere pace,
incuteva
comunque timore. Prese la bimba per mano e lei protestò.
“Mi
fai male” piagnucolò.
“Vieni
con me” la trascinò.
“Che
cosa stai facendo?” si sentì
chiara la voce di Hike, che a braccia incrociate guardava figlia e
marito.
“Riporto
la nostra bambina a
casa” rispose, schietto, Saga.
“La
nostra bambina è a casa. Le
ho dato io il permesso di giocare con gli altri”.
“Come
sarebbe a dire?!”.
“Qual
è il problema?”.
“E
me lo chiedi?”.
“Qui
è al sicuro. Ed è giusto che
lei cresca assieme ad altri bambini”.
“Lei
non è come loro. Lei è una
Dea”.
“E
con ciò?”.
“Ma…Hike!”.
La Dea non
rispose. Rimase con lo
sguardo fisso ed accigliato rivolto al marito. Saga prese in braccio la
figlia
e la riportò su per le scale, fino alla sua dimora.
“Ma
noi…” si stupì Nàgiri di
quella reazione “Non abbiamo fatto niente di male!”.
“No,
tranquilli” ne accarezzò la
testa Hike “Voi siete stati molto gentili a giocare con lei.
È mio marito che è
un po’ troppo paranoico”.
“Chiedi
scusa ad Heiwa da parte
mia?” continuò Nàgiri “Non
volevo che venisse sgridata. E quello là è il suo
pupazzo”.
“Riferirò.
Ma state tranquilli,
non verrà sgridata. Saga non è cattivo come vuole
sembrare” sorrise Hike,
raccogliendo il giocattolo della figlia e risalendo pure lei le scale.
“Possiamo
venire noi lassù a
giocare con lei?” le gridò dietro ancora
Nàgiri.
“No,
mi spiace. Ma sei davvero un
bambino gentile”.
Quella sera,
come sempre Kydoimos
apparve per riportare a casa i suoi figli.
“Ancora
un po’, papà! Ti prego!”
supplicò Neikos.
I tre amici
si erano messi a
giocare con delle palline colorate e stavano per finire la partita.
“Ve
bene” annuì il padre,
sedendosi su quel che restava di una colonna. Ora che il sole stava
tramontando, si era
tolto la maschera
nera ed attendeva il buio.
“Oggi
si sono proprio divertiti”
informò Deathmask, scendendo le scale alle spalle di
Kydoimos.
“Non
danno fastidio se restano
ancora un po’, vero?” si chiese questi.
“No,
noi qui in Grecia ceniamo
tardi. Specie in estate”.
“Capisco.
Il bambino che gioca
con i miei è tuo figlio, giusto?”.
“Sì.
La mia piccola peste”.
“Se
creano qualche problema,
vorrei saperlo”.
“E
che problemi vuoi che creino?
Sono solo dei mocciosi!”.
“I
nostri mocciosi, Signor
Deathmask. Non so il piccolo Arles, ma Nàgiri e Neikos non
sono affatto dei
piccoli tranquilli. Anzi. La loro curiosità li
metterà nei pasticci, prima o
poi”.
“Non
possiamo proteggerli da
tutto”.
Appena il
sole fu tramontato, e
al tempio scese il buio, l’occhio sinistro di Kydoimos,
quello che con la luce
si faceva sottile, si ingrandì. Lo stessero fecero gli occhi
dei suoi figli.
Deathmask, che si era distratto ad osservare suo figlio che giocava,
quando si
voltò e lo notò trasalì.
“Wow”
commentò, non riuscendo a
dire altro.
Kydoimos non
capì subito a che si
riferisse ma quando lo comprese tentò di coprire il viso.
“Scusa”
disse “Non ti volevo
spaventare”.
“Spaventare?!
Ma che dici!! Io
viaggio nel Meikai fra le anime morte! Non mi spaventa di certo un
occhio!”.
“Oh.
Ok…”.
“È
l’insieme che mi lascia un po’
perplesso. Perché un occhio solo fa così? E
perché il tuo viso è di due colori
diversi? Se sono troppo indiscreto, dimmelo. Puoi anche non
rispondere”.
“Il
Caos mi ha donato questo
corpo. Dovresti chiedere a lui”.
“Non
volevo essere invadente”.
“Potresti
chiederglielo
direttamente. Perché non venite da noi, un
giorno?”.
“Al
palazzo nero?”.
“Sì.
Tu, tua moglie, tuo figlio,
Saga, Ahriman…chi lo desidera”.
“Cena?”.
“Sì.
Sarebbe una buona occasione
per consolidare questa sorta di alleanza”.
“Ne
parlerò agli altri”.
I bambini
continuavano a giocare,
ignorando i richiami dei genitori.
“Non
è tardi, piccoli?” parlò
loro una voce femminile.
Era Ninive,
che la sera amava
uscire dalle dimore vestali, approfittando della pace e del silenzio
del
santuario. I tre la guardarono senza capire. Che voleva? Loro stavano
solo
giocando!
“Chi
è quella donna?” domandò
Kydoimos.
“Una
che non sopporto” arricciò
il naso Deathmask.
“E
come mai?”.
“Per
colpa di quella femmina, un
mio caro amico è morto”.
“Quella
donna è un’assassina?!
Non lo sembra”.
“Invece
lo è. Non lo ha ucciso
fisicamente, ma mentalmente”.
“Non
capisco”.
“Io
sono sempre stato considerato
un assassino, un bastardo, un pezzo di merda e chi più ne ha
più ne metta. Ma
rispetto la donna che amo e farei qualsiasi cosa per la mia famiglia e
per i
miei amici. Così, vedere quella lì giocare con i
sentimenti di una persona che
conosco da una vita, mi ha fatto davvero incazzare”.
“Da
come parli di tua moglie, si
sente che la ami davvero molto. Siete sposati da tanto?”.
“Otto
anni. Io e Saga ci siamo
sposati lo stesso giorno, in una sorta di celebrazione per la pace.
Pochi
giorni dopo la fine della guerra contro Gaia ed il risveglio di
Urano”.
“Ed
il tuo caro amico e quella
donna erano presenti?”.
“Sì.
Lui era il padre di mia
moglie. Arles, il nome che ho dato a mio figlio. In suo ricordo. Ha
accompagnato all’altare la sua bambina, con quella stronza
che non faceva che
ripetergli che lo amava. Sembravano una bella famiglia felice. Arles,
la
bastarda, mia moglie ed Ahriman. Ma di punto in bianco lei ha cambiato
idea. Ed
è tornata a fare ciò che era: la vestale. La
casta e pura, si fa per dire”.
“E
questo ha fatto male al tuo
amico? Tuo suocero, mi pare di capire…”.
“Sì,
il padre di mia moglie. Ma
prima di tutto io lo vedo come un amico. E sì, lo ha fatto
star male. Prova ad
immaginare: la donna che ami continua a dirti che starete assieme per
sempre e
che ti vuole bene e poi di colpo cambia idea per tornare con le sue
amichette
lesbiche”.
“Le
vestali sono lesbiche?”.
“Non
lo so. Ma non la danno,
quindi per me sono lesbiche”.
“Che
lo sia pure quella donna?”.
“Non
lo so. Ma quando le ho
chiesto perché lo avesse lasciato, lei ha risposto che aveva
sentito non essere
quella la sua strada ma che la Dea Vesta l’aveva chiamata e
cose del genere”.
“Una
religiosa”.
“Una
pazza. Ed una bugiarda!
Arles la amava, come non aveva mai amato nessun’altra. E
pensava che per lei
fosse lo stesso. Ma dopo i matrimoni l’ho visto quasi
smarrito. Ninive, quella
donna, è uscita dalla sua vita e lui penso si sia sentito
piuttosto
abbandonato. Il figlio si è rintanato nel suo palazzo. Io e
mia moglie
pensavamo a noi, lo ammettiamo. Saga anche ha iniziato una nuova vita
con
Hestia. Tutto l’insieme, il fatto forse di non sapere bene
dove inserirsi nel
mondo, il sentirsi inutile o che ne so
io…insomma…tutto questo lo ha portato a
non reagire davanti all’ultimo nemico. Si è fatto
uccidere, senza reagire”.
“Io
non conosco questo tuo amico,
non l’ho conosciuto, ma forse era stanco di combattere. Siete
guerrieri da
sempre, no? Forse ha cercato qualcos’altro e non ci
è riuscito”.
“Già.
Può essere. Sta di fatto
che sia io che mia moglie che Saga, gli altri non so, ci sentiamo in
colpa a
volte. Ma credo che se Ninive non se ne fosse andata di colpo, non
sarebbe
andata così”.
“Inutile
pensarci, non trovi?”.
“Non
ha mai visto suo nipote. E
Ninive ignora mio figlio come se non avesse alcun legame parentale con
lui”.
“Credo
che ognuno cerchi la
propria felicità. E tutti siamo egoisti, perciò
la nostra felicità conta più
degli altri. Se fare del male a qualcuno ci aiuta a raggiungere il
nostro
obbiettivo, non ci facciamo molti problemi. Tanti buoni propositi, ma,
sotto
sotto, siamo tutti uguali”.
“Hai
ragione. L’umanità fa
schifo”.
“Nàgiri!
È tardi! Adesso
andiamo!” gridò Kydoimos, iniziando a sentirsi
strano. Ora che era
ufficialmente figlio del Caos, il blocco che affliggeva i suoi
discendenti gli
impediva di stare a lungo lontano dal palazzo nero.
Nàgiri
e la sorella obbedirono,
di malavoglia.
“Guarda
cosa mi ha regalato!”
disse la bimba, mostrando due palline di gomma.
“Anche
a me!” si unì Nàgiri.
“Ma
no, non potete portare via i
giochi al vostro amico!” li sgridò il padre.
“Ne
ho tante” lo rassicurò Arles
II “Possono prenderle”.
“Allora
la prossima volta porterete
voi un regalo a questo bambino, ok?” annuì
Kydoimos “E spero abbiate
ringraziato”.
“Grazie,
Ary, per le palline”
sorrise Nàgiri.
“Grazie”
si aggiunse Neikos.
“Spero
di vedervi presto al
palazzo nero” si congedò Kydoimos, con un sorriso.
“Ne
sarei onorato. Un palazzo
tutto oscuro mi incuriosisce parecchio” ghignò
Deathmask.
“Nobile
Deathmask” chiamò una
guardia, nel buio “Il sommo Aiolos ed il divino Saga vi
vogliono parlare”.
“Bene”
rispose il cavaliere
d’oro, un po’ stupito. Era da tempo, che non veniva
convocato. La guardia,
inginocchiata, si rialzò e, con un inchino, si
congedò.
Salendo le
scale, il cancro si
chiese che cosa potessero mai volere i due a capo del santuario. Aveva
forse
commesso qualche errore? No, era certo di non aver commesso troppe
cazzate
ultimamente. Giunto davanti alla porta della tredicesima casa,
notò Milo
davanti alla porta.
“Dai,
muoviti” lo apostrofò lo
scorpione “È da un secolo che ti
aspetto”.
“Potevi
entrare senza di me!” si
stizzì Deathmask “E poi io ho più piani
di te da fare”.
“Ma
lo so, granchio dal culo
pesante!” ridacchiò Milo.
“Artropode
perverso!” ribatté,
sempre ridendo, il cancro.
Entrarono
insieme nella
tredicesima casa, dimora del gran sacerdote Aiolos. Oltre la tenda, nel
tempio
più in altro, stava Saga. Che però in quel
momento si trovava alla tredicesima
in attesa dei due cavalieri.
“Scusa
il ritardo, Saga. È
Deathmask che è sempre lento!” parlò
subito Milo, dando una spintarella al
cancro oro.
“Ma
che minchia vuoi?” fu la
risposta di Deathmask.
“Siete
sempre gli stessi” sorrise
Saga, divertito “Più passano gli anni, e
più fate i bambini”.
“Sì,
è vero” ammise Milo.
“Ho
una missione per voi” riprese
a parlare Saga, mentre Aiolos stava alle sue spalle, in silenzio.
Fra le mani
stringeva una busta,
che porse a Deathmask, visto che Milo era impegnato a fissare una
farfalla.
Death aprì la busta e storse il naso.
“Ma
che cazzo c’è scritto qua
sopra? Zampe di gallina!” restituì il foglio il
cavaliere.
“Sei
tu che non capisci mai
niente, dai qua!” esclamò Milo, non ammettendo di
essere pure lui in
difficoltà.
“Quello
è un indirizzo” spiegò
Saga, mentre Aiolos fissava con rimprovero i due oro perché
dopotutto si
trovavano sempre di fronte alla Dea Athena.
“Indirizzo
di che?” domandò lo
scorpione, non lasciando spiegare.
“Mi
sono giunte delle voci.
Vorrei andaste a controllare che accade” rispose Saga.
“Sarà
fatto! Andiamo, crostaceo!”
si avviò Milo, e Deathmask lo seguì lentamente.
“Ma
perché ci manda in missione a
quest’ora? È buio, non potevamo andare
domani?” sbadigliò il cancro, lungo le
vie di Atene notturna.
“Si
vede che era urgente” alzò le
spalle lo scorpione.
“Sì,
urgente…come no!
Urgentissimo girellare per Atene”.
“Dai,
è un modo alternativo di
passare la serata. Vedila così”.
L’indirizzo
pareva indicare un
vecchio edificio dai vetri oscurati. All’ingresso, due grossi
omaccioni
dall’aria perfida controllavano l’ingresso.
“Salve”
salutò Deathmask, con
fare sicuro “È qui la festa?”.
“Avete
l’invito?” rispose uno
degli uomini, senza cambiare espressione.
“No
ma dico…ci hai visti? Due
uomini così, ma dove altro li trovi? Dai, facci
passare” ghignò Milo, mettendo
le braccia attorno al collo di Death.
“Fateli
entrare” ordinò una voce
di donna, dall’interno.
Una volta
varcata la soglia,
entrambi spalancarono gli occhi. Era un night con splendide ragazze che
si
esibivano.
“Ma…Death…vedi
quello che vedo
io? Questo è…”.
“Il
paradiso”.
“Non
esagerare!”.
“Donne
seminude chiuse in gabbia
che ballano? Non so come altro definirlo!”.
“Oh
grande Saga, non dubiterò mai
più di te! Grazie infinite per questo dono!”.
“Giuro…da
oggi può chiedermi
qualsiasi cosa! Anche di limonarlo, non mi frega! Limonerei con il Dio
migliore
della storia”.
“Femmine!
Finalmente femmine! Che
non ti picchiano se le guardi troppo!”.
Si fecero
spazio fra gli uomini
stretti attorno al palco. In alto, due grandi gabbie argento
contenevano
ciascuna una donna. I due cavalieri, senza armatura, si confondevano
fra la
folla. La musica era alta e gli occhi tutti puntati sulle gabbie. Poi
qualcosa
cambiò. Le ragazze imprigionate si fermarono ed il palco si
illuminò. Tre donne,
in splendi abiti con gli spacchi nei punti giusti, apparvero. Quella al
centro
iniziò a cantare, con voce soave che incantò i
presenti. Le altre due si misero
a ballare. Erano agili, delicate e bellissime. Il loro sguardo
magnetico e le
loro forme piacquero molto ai clienti del locale, che parevano
conoscerle bene
perché gridavano i loro nomi.
“Ti
va una birra, Milo?” chiese
Deathmask, al termine dell’esibizione ed alla ripresa dei
balli nelle gabbie.
“E
me lo chiedi?” sorrise lo
scorpione “E comunque giuro che non parlo di questo a tua
moglie”.
“Sono
in missione, no?” rise il
cancro, raggiungendo il bancone del bar.
Sedettero e
gli venne servita la
birra. Il barista, così come tutte le altre persone al
lavoro in quel luogo ad
eccezione delle ragazze che si esibivano, era un uomo.
“Lady
Shuna vuole parlare con
voi” si sentirono dire i due cavalieri e vennero accompagnati
in una sorta di
saletta privata dove la cantante di prima li attendeva.
“Stai
all’erta” si dissero a
vicenda, vedendola.
Era bella,
quasi troppo bella,
stesa su un divano di velluto, accanto al quale stava un cesto di
frutta
fresca. Stava mangiando dell’uva, spicchio dopo spicchio, con
voluttuosa
sensualità.
“Benvenuti,
cavalieri” salutò
“Venite pure avanti”.
Rimasti solo
in tre, gli uomini
non sapevano bene che fare. Come sapeva quella donna che erano
cavalieri?
“Rilassatevi!”
sorrise la donna
“Gradite un po’ di vino?”.
Ne
versò un po’ in due coppe e
l’offri, invitando i due a sedersi.
“Non
abbiate paura” continuò,
scuotendo la cascata di capelli aranciati “Non vi
farò del male. Vi aspettavamo
da un po’. Sospettavamo che il tempio ci avrebbe mandato a
controllare”.
“Ma
voi chi siete?” domandò Milo,
tracannando il vino.
“Abitiamo
il palazzo nero, ma non
siamo vincolati dal blocco che condanna i suoi antichi
signori”.
“Il
palazzo nero? Intendete
quello del Caos?” si chiese Deathmask.
“Sì.
Qualcuno deve pur portare il
cibo in tavola, no?” mormorò la donna.
“Mi
volete dire che voi donne
lavorate per mantenere chi occupa il palazzo?” si
stupì Milo.
“Non
esattamente. All’inizio,
Gaia provvedeva al nostro sostentamento perché era lei a
generare il cibo. Poi,
quando è stata sigillata,
il Caos ha
iniziato a mandarci a raccogliere frutta e ortaggi in territori a lui
noti, e
di sua proprietà. Rivendendo quelli in eccesso, compravamo
altro cibo come
carne, latte o uova. Oppure tessuti ed altri materiali utili. Noi non
siamo
creature del Caos, siamo umani come voi”.
“E
perché vivete in quel
palazzo?” continuò a chiedere lo scorpione.
“Per
varie ragioni, abbiamo
rinunciato alla vita terrena per abbracciare la protezione di
Caos”.
“Protezione?!”.
“Non
ci fa mancare nulla.
Ultimamente ha preso a palazzo delle piante ed è riuscito a
modificarle
leggermente, in modo da farle vivere e fruttare al buio. Ma ovviamente
c’è
bisogno di molto in una casa. E, visto che lui e gli altri
Dèi in quel luogo
non possono creare dal nulla qualcosa, ci arrangiamo così.
È un lavoro
rispettabile. Inoltre, noi siamo gli unici in quella dimora che
possiamo
allontanarci a lungo senza morire o soffrire a causa del
blocco”.
“Capisco”
annuì, poco convinto,
il cavaliere.
“Inoltre”
riprese la donna “Così
posso comprare un sacco di cose belle a me ed alla mia famiglia. Non
faccio la
puttana. Canto e mi esibisco. E chi mi tocca è morto. Mio
marito è un uomo
senza pietà alcuna sotto certi aspetti”.
Milo e
Deathmask si fissarono un
po’ titubanti.
“Ma
se volete una donna, ce ne
sono. Quante ne volete. Oltre le cinque che avete visto”
sorrise ancora lei.
“Io
sono sposato. Mi sfogherò
stanotte con la mia signora” ghignò Deathmask.
“Se
non ci sono effetti
collaterali…” titubò un po’
Milo “…io invece accetterei. Mi annoio”.
“Nessun
effetto collaterale,
cavaliere. E in quanto al grande tempio…vorrei che riferiste
che stiamo solo
svolgendo una normale attività lavorativa. Non uccidiamo
nessuno, non plagiamo
le menti, non offriamo sacrifici di sangue al sommo Caos. Solo un
locale per
far divertire la gente”.
“Riferiremo
personalmente a Saga”
disse il cavaliere del cancro.
“Perfetto.
E ora scusatemi, il
pubblico attende”.
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Capitolo 6 *** VI- il palazzo nero ***
VI
IL
PALAZZO NERO
L’estate
stava finendo quando
l’invito di Kydoimos venne accettato. Ahriman, Saga,
Deathmask, Ariadne ed il
piccolo Arles partirono alla volta del palazzo nero. Il Dio del cielo
aprì un
varco, portandoli sulla soglia della dimora del Caos. Deathmask la
ammirò,
estasiato. Era splendida per i suoi gusti. Nera, lucida, a stile gotico
e cupo.
“Benvenuti”
li accolse uno dei
servi del padrone di casa, con un piccolo inchino.
Il soffitto
altissimo li
sovrastava mentre camminavano lungo il corridoio.
“Le
divinità possono seguirmi
alla sala del mio padrone” riprese il servo
“Voialtri, invece, potete
accomodarvi nella sala delle Principesse Madri”.
Ariadne ed
il marito si
fissarono, senza capire molto bene, ma obbedirono. Saga ed Ahriman
proseguirono
fino alla stanza finale del corridoio, mentre invece la famiglia di
cavalieri
entrò in una sala laterale.
“Venite,
venite qui!” li chiamò
Nàgiri.
“Ben
arrivati!” sorrise Neikos.
“Ciao”
salutò Arles II, correndo
verso l’amico e trascinando con sé i genitori.
“Benvenuti”
si sentirono dire.
Erano
entrati nella grande sala
da pranzo. Attorno al lungo tavolo centrale, donne e servi camminavano
e
apparecchiavano. Un profumo delizioso si diffondeva per
l’aria.
“Io
sono la madre di Nàgiri,
Desa” si presentò una delle donne, dai lunghi e
ricci capelli verdi.
“Oh,
piacere!” sorrise Ariadne
“Finalmente ci conosciamo”.
Desa sorrise
a sua volta.
“Vedo
che…” commentò Deathmask
“Nàgiri avrà presto un altro fratellino
o sorellina”.
“Sì,
sono al settimo mese” annuì
Desa, sfiorandosi il pancione.
Il chiasso
che riuscivano a
creare i molti bambini della casa era quasi assordante. Pieni
d’entusiasmo per
i primi ospiti mai avuti al palazzo, facevano a gara per farsi notare.
“Bambini!
Andate a giocare
altrove, per favore! Rischiate di farvi male o ribaltare la
tavola!” ordinò
Desa, dopo aver battuto per due volte le mani.
“Sì,
mamma” rispose Nàgiri.
“Chiedo
scusa” parlò ancora la
donna “Non vi faccio accomodare ancora al tavolo
perché abbiamo come regola che
si possa mangiare solo una volta entrato il padrone”.
“Va
bene, aspetteremo” capì
Deathmask.
“Intanto,
posso accompagnarvi per
la casa, se vi va”.
“No,
preferisco aspettare qui.
Non vorrei incrociare lo sguardo seccato di Ahriman” rispose
il cancro.
“Mamma,
papà! Venite a vedere!”
chiamò Arles II “Guardate che so fare!”.
“No,
grazie. Papà resta qui a
bere un po’ di vino” alzò un bicchiere
il padre, mentre Ariadne raggiungeva il
figlio fuori da quella stanza.
“Avete
una moglie molto bella”
gli disse Desa, mettendo i tovaglioli sul tavolo “E vi amate
molto, nonostante
il destino non sia molto clemente con voi”.
“Che
intendete?” alzò un
sopracciglio Deathmask.
“Lei
è una semidea, discendente
di Ares e nipote di Apollo. Vivrà molto a più
lungo di Voi, cavaliere mortale.
Per quanto riguarda il bambino, non saprei che dire. Dipende da chi ha
ereditato il sangue”.
“Io…non
ci avevo mai pensato”.
“Ah.
In questo caso mi scuso.
Forse ho rovinato la serata”.
“Oh
no, sono lieto che qualcuno
me lo abbia fatto notare. In effetti, lei è ancora
così giovane e bellissima
mentre io inizio a portare i segni del tempo. Mi chiedo fra quanto
tempo andrà
a cercarsi un uomo più giovane”.
“Non
dovete pensare a cose del
genere! Lei è innamorata, si vede!”.
“L’amore
è un sentimento
effimero”.
“Come
effimera è la vita. Ma è
giusto combattere per essa”.
“Ma
Voi perché siete in questo
posto? Non siete una discendete del Caos”.
“No,
non lo sono. Ero gravemente
malata. Il Sommo Caos mi ha salvata e condotta qui, dandomi la
possibilità di
vivere una vita nuova. Ha mutato il mio sguardo, per permettermi di
vedere nel
buio totale, e mi ha guarita. La mia Sorella, come amo definirla,
Shuna, era
una ballerina. Poi, a causa di un incidente, era rimasta menomata. Il
Caos l’ha
salvata ed ora lei si esibisce”.
“Sì,
lo so. L’ho vista. È brava”.
“Tutti
qui sono stati salvati o
aiutati. Mentre gli altri Dèi non ci hanno mai ascoltati,
lui ci ha accolti”.
“Capisco…”.
“Ma
immagino che Ahriman sia a
sua volta una divinità che vi aiuta”.
“Ahriman?!
Saga ci aiuta ma
Ahriman mi pare sappia fare solo prediche e provarci con mia
moglie”.
“Ahriman
con Vostra moglie?”.
“Sì,
con la mia Ariadne. Che è
sua sorella”.
“Questo
è normale, fra divinità”.
“Ah,
ottimo. Così sì che mi sento
meglio”.
Saga ed
Ahriman entrarono nella
sala grande. Erano entrambi vestiti in modo elegante, con la veste che
finiva
con un lungo strascico, di colore blu scuro. Il Caos ed i suoi figli li
attendevano, anche loro abbigliati in modo sfarzoso e molto
particolare. Molti
avevano gioielli o perle fra i capelli, altri abiti dai decori
complessi ed
altri ancora con disegni sul viso, creati dal colore o da materiali
preziosi.
“Tu!”
esclamò Ahriman, vedendo
Kydoimos “Mi hai detto di non essere imparentato con il Caos!
Bugiardo!”.
“Rilassati,
Urano” lo zittì Caos,
facendo segno a Kydoimos di avvicinarsi “Io l’ho
adottato come figlio, ma non
abbiamo legami di sangue”.
“Che
razza di uomo si fa adottare
da adulto?!”.
“Non
credo di doverti
spiegazioni”.
Kydoimos, in
piedi accanto al suo
signore che sedeva sul trono nero, sorrise. Era evidente che i problemi
alla
gamba ed agli occhi, che aveva mostrato al grande tempio, non erano
presenti
nella diversa atmosfera della casa nera, anche se l’occhio
destro rimaneva
cieco. I lunghissimi capelli neri li teneva raccolti, per evitare che
toccassero terra. Ma anche così gli arrivavano alle
caviglie. Fra essi, punte
di luce oro venivano creati da fili sottili e gioielli che li
adornavano. La sua
veste aveva strascico e maniche
lunghissime, era nera decorata a ricci e motivi oro. Il viso, truccato
e
decorato con gioielli, non incuteva tanto timore come al grande tempio.
Caos sfiorò
la mano del suo nuovo figlio adottivo e Kydoimos si
inginocchiò, poggiandosi
con il viso ed il braccio sulla gamba del suo padrone. Caos
iniziò ad
accarezzargli i capelli.
“Siamo
lieti che siate venuti a
trovarci” riprese a parlare il dio oscuro.
“Avete
una casa decisamente
pittoresca” sorrise Saga.
“Come
avete potuto notare, ho
fatto aggiungere delle candele, in modo che vi sentiate un
po’ più a vostro
agio. E per permettere ai vostri cavalieri di non inciampare ad ogni
passo nel
buio totale”.
“Vi
ringrazio”.
“Sono
davvero soddisfatto di
questa nuova amicizia. I bambini tornano a casa dopo essere stati al
grande
tempio ogni volta pieni di entusiasmo e gioia. Parlano di voi, abitanti
di quel
luogo, ed imparano cose nuove. La reputo un’ottima cosa. E
voi?”.
“Io
pure sono soddisfatto”
rispose Saga “Questa alleanza, nonché amicizia,
pone le basi per un futuro
senza guerra”.
“Bene.
Direi che è un bene”
sorrise Caos, sempre accarezzando i capelli di Kydoimos “E
Voi, signor Ahriman?
Mio caro nipote Urano? Che ne pensi di tutto questo?”.
“Non
capisco ancora a che gioco
stai giocando” ammise il Dio del cielo.
“Perché
devi sempre pensare che
quel che faccio sia legato a qualcosa di oscuro?”.
“Perché
sei il Caos”.
“E
tu sei quello che bistrattava
la mia bambina Gaia, fino a quando Crono non ti ha allegramente reso
asessuato.
Ricordi? È stato ai tempi del mito, ma è
successo”.
“Sono
un diverso tipo di Urano.
Nuovo corpo e nuova anima”.
“Sei
comunque Urano”.
“Ma
senza la sua Gaia”.
Scese per
qualche istante il
silenzio. Poi il Caos riprese a sorridere. Non era il caso di pensare a
cose
deprimenti. La cena attendeva tutti loro e se ne sentiva già
il profumo.
“A
tavola” chiamò una voce. i
bambini corsero verso la grande sala da pranzo.
“Mamma!”
domandò una bimba, in
braccio “Perché loro hanno la pelle rosa e noi
grigia?”
“E
per via del nostro sangue”
spiegò la madre “Noi lo abbiamo nero e rende la
nostra pelle grigia. Loro lo
hanno rosso e quindi sono rosa”.
“E
perché?”.
“Perché
noi solo così possiamo
vivere in questo mondo buio. Gli Dei poi, se lo noti, hanno riflessi
blu per
via dell’ikor che scorre nelle loro vene”.
“Ikor?”.
“Il
sangue divino. Ha un immenso
potere. Chi ne viene a contatto o ne beve, guarisce e si
rinforza”.
“E
anche Caos ha quell’ikor?”.
“Sì.
Ed il suo è il più forte di
tutti”.
Kydoimos
entrò nella sala e i
bambini lo salutarono con abbracci e gridolini.
“State
buoni!” li rimproverò
velatamente.
“Sì,
papà” risposero in coro.
Deathmask
deglutì. Erano tutti
figli suoi? Lo fissò con sguardo misto di ammirazione e
paura. Lo spaventava
solo l’idea di avere tutti quei marmocchi al seguito!
Pian piano,
tutti gli abitanti
della casa stavano raggiungendo la sala e prendendo posto. Il cavaliere
del
cancro si guardò attorno. Dov’era sua moglie?
“Sorella”
chiamò Ahriman,
vedendola.
Ariadne
stava seguendo i bambini
alla grande sala da pranzo ma, vedendo il fratello, fece loro segno di
andare
da soli. Li avrebbe raggiunti in seguito. Sorrise, mentre Ahriman le si
avvicinava. Con il solito alone azzurro che lo circondava, scosse
lievemente le
ali, perdendo qualche piuma.
“Fratello”
rispose lei.
“Sei
sempre bellissima” commentò
lui, ammirandola nel nuovo vestito indossato per l’occasione.
“Grazie”.
“Come
stai?”.
“Bene,
direi”.
“Sicura?
Non ti annoi in quel
mondo di mortali?”.
“Sicurissima.
Ho la mia
famiglia”.
“Io
sono la tua famiglia”.
“Anche
mio marito e mio figlio lo
sono”.
“Il
piccolo Arles, che porta il
nome di nostro padre, cresce forte. Avverto in lui un potere molto
marcato”.
“Scorre
in lui sangue divino,
dopotutto”.
“E
anche in te”.
Ahriman
passò un dito sulla collana
che la sorella indossava. L’avevano identica, dono della
madre quando li aveva
separati. Il pendente brillò e lui scese con la mano,
sfiorando i seni di
Ariadne, che aprì la bocca per lamentarsi . Ma poi non
parlò, e lui si avvicinò
di più. Le accarezzò il viso, mentre
l’altra mano abbandonava il seno e
scendeva, lentamente. Con la bocca le si accostò, quasi
baciandola.
“Ahriman”
gemette, sussurrando
lei “Ti prego, basta”.
“Non
lottare contro la tua
volontà” rispose lui, stingendola a sé.
“Tutto
questo è il tuo potere
divino. Io, di livello inferiore al tuo, non posso che soccombere al
tuo
desiderio. Ma non è ciò che voglio. Io amo mio
marito”.
“Come
puoi saperlo?”.
“Lo
so e basta. Lasciami andare”.
“Dimmi
che cosa provi ora? Cosa
provi ora che mi hai accanto?”.
“Un
ardente e irrazionale
desiderio di essere tua. Ma non è la realtà.
È la tua magia. Lasciami…”.
Ariadne
sentiva la sua volontà
venire meno ma il fratello la lasciò andare.
“Io
ti desidero, sorella” mormorò
Ahriman “Per davvero. Ma tu ami quel mortale ed io non
proverei alcun piacere a
giacere con te usando il mio potere”.
Senza
aggiungere altro, voltò le
spalle ad Ariadne e se ne andò. Lei lo vide dirigersi verso
la sala da pranzo.
Rimase ferma qualche istante, ancora frastornata ed ansimante.
“Sorellina!”
chiamò Nàgiri, lungo
il corridoio.
La vide
accanto al Dio del Cielo.
Era piccola, non aveva più di tre anni. Sorrise ad Ahriman e
lo salutò con la
manina. Il Dio sorrise a sua volta e le accarezzò la testa.
Nàgiri strizzò gli
occhi. Aveva visto qualcosa di strano. Come un’ombra che,
dalla mano di
Ahriman, era divenuta parte della sorellina. Ma forse si era sbagliato.
Era
tempo per tutti di mangiare. L’ora era tarda.
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Capitolo 7 *** VII- fratelli ***
VII
FRATELLI
Thanatos
suonava una melodia
triste. La sua casa, non molto lontana dall’ingresso per i
campi elisi, come
sempre era silenziosa. Ma non suonava per sé.
Un’anima lo stava fissando,
felice.
“Ti
piace?” domandò il Dio e
l’anima annuì.
“Bene.
Mi fa piacere” sorrise a
sua volta Thanatos “Almeno tu puoi ascoltare questa musica.
Chiunque altro
morirebbe ma tu…sei già morto!”.
L’anima
non disse nulla. Inclinò
la testa leggermente, con la speranza che la divinità
riprendesse a suonare.
Era incompleta, senza buona parte del lato destro.
“Devo
riuscire a trovarti una
sistemazione” parlò Thanatos “Conciato
come sei, non posso farti entrare in
nessun settore del regno dei morti e questo lo sai. Il problema
è che non so
come completarti. Non mi è mai capitata una cosa del genere
in millenni di
servizio”.
L’anima
lo fissò, come a voler
dire “le so queste cose, suona ancora”.
“Insomma…non
trovo giusto che tu
rimanga bloccato qui. Però non trovo altra
soluzione” insistette il Dio.
L’anima
gli sorrise e ruotò,
volteggiando a mezz’aria nella sua luce azzurrina.
“Stai
cercando di dirmi che tu
sei felice anche così?” parve stupito Thanatos e
vide il suo interlocutore
annuire.
“In
vita sei stato un grande
guerriero, ed ora sei imprigionato qui, a sentirmi strimpellare. Ma ti
piace
sul serio? Mi prendi per il culo?”.
Il Dio vide
ridacchiare l’anima
dell’uomo.
“Sei
strano” concluse la divinità
e ricominciò a suonare.
L’anima
socchiuse il suo unico
occhio e si lasciò cullare dalle note. Gli venivano in mente
tanti ricordi,
anche se erano sempre più annebbiati. Sapeva bene che le
anime più passava il
tempo e più dimenticavano. Solo nei campi elisi si poteva
godere della felicità
eterna con le divinità. Altrove, le essenze perdevano sempre
più i tratti
fisici di chi le ospitava fino a divenire di nuovo pure e in grado di
albergare
in un nuovo corpo, una nuova vita. Però
quell’anima era incompleta, non poteva
essere accolta in nessun nuovo corpo e nemmeno riposare in pace in
qualche
luogo dell’oltretomba. Ma la cosa non la rattristava. Era
un’anima tranquilla,
forse l’unica in grado di vivere a fianco del Dio della
morte. Thanatos, del
resto, non si infastidiva di certo all’idea di avere un
po’ di compagnia ogni
tanto. Tolto suo fratello Hypnos, non era il tipo che riceveva visite.
Dopo aver
suonato un po’, il Dio
si alzò e depose la sua cetra. Si diresse verso la grande
parete piena di
libri, in cerca di un passatempo diverso. Quando sì
voltò di nuovo verso il suo
strumento, vide che l’anima lo osservava con
curiosità. Con l’unico braccio, ne
pizzicava le corde.
“Così
ridotto, non la puoi
suonare bene” disse, con dispiacere, Thanatos “Ma
posso reggerla io” aggiunse,
dopo aver riflettuto un po’.
Poggiò
sul tavolino il grosso
volume e poi tornò a sedersi sul trono da megalomane che
aveva in casa.
“Siedi
accanto a me” invitò
l’anima, che obbedì.
Era vero,
era l’anima di un
grande guerriero. Ma accarezzare quelle corde, come gli insegnava il
Dio della
morte, gli donava uno strano senso di pace. Forse perché
quella era la melodia
che accompagnava i morti verso il sonno eterno, verso
l’oblio.
“Adesso
basta, devo lavorare pure
io” interruppe di colpo Thanatos.
L’anima
non disse nulla. Osservò
il Dio allontanarsi e rimase in quella casa senza
nessun’altro. Era una cosa
che capitava spesso. Fluttuò a mezz’aria per un
po’, poi tornò nell’angolino
dove stava solitamente e chiuse di nuovo l’unico occhio.
“Che
scemo che sei!” rise lei.
“Dai,
Pasitea, vieni qui a farmi
compagnia!” rispondeva Hypnos, steso sull’erba sei
campi elisi.
“Sei
sempre il solito” scosse la
testa la donna.
“E
ci mancherebbe solo che
cambiassi dopo migliaia di anni, donna” ghignò lui.
Lei gli si
stese a fianco,
abbracciandolo. Il profumo dei fiori la avvolse. Da millenni viveva in
quel
luogo, ma non smetteva mai di adorarlo e ammirarlo. Così
come non smetteva mai
di adorare ed ammirare l’uomo che amava.
“E
che ho detto di male?” riprese
il Dio dei sogni e del sonno “Ti ho solo chiesto se ti va di
avere un altro
figlio. Ne abbiamo tanti, che differenza fa?”.
“Mettilo
al mondo tu, allora!”.
“E
come?!”.
“Sei
un Dio! Pensaci!”.
“Spiritosona”.
“Però…”
disse lei, dopo un po’,
guardandolo negli occhi “…potrei anche
ripensarci” e lo baciò, stendendosi
accanto a lui.
“Hypnos!”
tuonò una voce.
Il Dio dei
sogni sobbalzò e
guardò in su. Hades lo stava fissando, avvolto nella sua
veste nera.
“Signor
Hades” mormorò Pasitea.
“Qualcosa
non va?” domandò invece
Hypnos, rimanendo rilassato sull’erba.
“Cerco
tuo fratello Thanatos. Lo
hai visto?” furono le parole di Hades.
“Non
di recente. Ultimamente non
passa molto tempo ai campi elisi. Ha combinato qualche
casino?”.
“No.
Ho una missione da
affidargli”.
“Qualcosa
di divertente?” si mise
a sedere Hypnos.
“Per
niente. Ma è un ordine che
viene dall’alto e quindi non posso far altro che riferire e
lasciar fare”.
“Un
ordine che viene dall’alto?”.
Il Dio del
sonno si stupì di
quelle parole. Un ordine dall’alto? Solitamente chi stava al
di sopra di Hades
sbrigava da solo i suoi problemi, non andava a cercare il Dio della
morte!
“Quando
lo vedrò, gli dirò che lo
avete cercato, Signor Hades” parlò poi.
“Ti
ringrazio, Hypnos. Tanto sa
dove trovarmi”.
Il Dio
dell’oltretomba si
allontanò, lentamente. E Hypnos rimase solo qualche istante
a ripensare alle
parole del suo capo. Pasitea era qualcosa di ben più
interessante.
Thanatos
sapeva quando il gemello
lo cercava. Erano strettamente legati fra loro e quindi si
presentò ai campi
Elisi appena poté. Raggiunse la dimora del gemello senza
fretta, osservando le
sue colonne bianche senza troppo entusiasmo. Lì
trovò Pasitea alle prese con
l’ultimo dei suoi figli che era poco più di un
neonato. La donna riconobbe il
cognato, vedendone l’armatura scintillante da lontano.
“Ciao,
Thanatos” lo salutò
“Hypnos è in casa. Se vuoi vado a
chiamarlo”.
“Sì,
magari” quasi sbottò il Dio.
Lei, di
tutta risposta, lasciò il
suo bambino in mano alla divinità ed entrò in
casa.
“Hei!”
protestò Thanatos, ma la
donna ormai era già entrata e non lo sentiva.
L’uomo
fissò un po’ male il
piccolo, che teneva per la vita, stretto fra due mani. Con le braccia
ben tese.
Il piccino allungò le manine, ridacchiando.
“Stai
fermo!” gli ordinò il Dio
ma non venne ascoltato.
“Ma
che fai? Non è mica una
bomba!” lo sfotté il gemello, comparendo e
raggiungendo il gemello.
Senza
armatura, si affrettò a
recuperare suo figlio, scuotendo la testa divertito.
“Che
cosa ti serve? Perché mi
cercavi?” riprese Thanatos.
“Hades
ti voleva vedere”.
“E
per cosa?”.
“Mi
ha parlato di una missione
per te”.
“Ah,
ok. Niente di nuovo”.
“Veramente…ha
parlato di una
missione che viene dall’alto”.
“In
che senso?”.
“Non
ne ho idea. Non ha detto
molto”.
“E
va bene. Lo raggiungo e mi
faccio spiegare”.
“Sembrava
essere una cosa
urgente”.
“Ho
capito. Ma io ho un compito
serio, non sto a casa a trullallare e riprodurmi come te!”.
“Sei
crudele! E geloso”.
“Crudele
quanto vuoi. Geloso non
direi proprio. Anche se ammetto che preferirei essere invocato per
poter
dormire o fare un bel sogno piuttosto che maledetto perché
porto via anime”.
“Prenditi
una vacanza”.
“Quanto
sei spiritoso!”.
“E
dai, non ti offendere!”.
“Sono
nervoso ultimamente”.
“L’ho
notato. E non ne capisco il
motivo”.
“Non
lo so nemmeno io. Forse
sento qualcosa nell’aria…”.
“Signor
Kydoimos!” bussò una
delle serve del palazzo nero.
Il nuovo
figlio del Caos, pur
avendo molte donne, dormiva solo. Ognuno aveva la propria stanza in
quella
casa.
“Signor
Kydoimos?” insistette la
voce fuori dalla porta.
“Vieni
dentro” borbottò l’appena
svegliato.
La donna
entrò. Lentamente,
Kydoimos scivolò fuori dal letto, lasciando che le lenzuola
gli accarezzassero
la pelle nuda. La serva sobbalzò e distolse lo sguardo,
imbarazzata.
“Che
hai? Mai visto un…” spalancò
le braccia lui.
“No”
si affrettò a dire lei,
prima che Kydoimos terminasse la frase.
“Sarebbe
una cosa a cui
rimediare, un giorno di questi” sorrise lui.
“Io…”
mormorò lei, arrossendo
ancora di più.
“Grazie
di avermi svegliato. È
davvero tardi”.
“Ah…sì…vi
ho portato la veste che
la signora Desa ha appena terminato. Per Voi” si
inchinò leggermente la donna,
porgendo un abito scuro all’uomo.
“Grazie.
Ora puoi andare”.
La serva
uscì, ancora
imbarazzata, non sapendo da quale parte guardare. Kydoimos si
preparò e si
vestì lentamente. Il buio costante di quel mondo non rendeva
facile accorgersi
dello scorrere del tempo. Uscì dalla sua stanza e si
incamminò lungo il
corridoio. Salutò tutti coloro che incrociò lungo
il cammino. Era di buon umore
e si sentiva tranquillo, perciò non si allarmò
quando si sentì prendere per un
braccio. Tartaros, il più grosso dei figli del Caos, lo
afferrò e lo sbatté
contro il muro. Con il viso contro la parete, Kydoimos
protestò ma Tartaros gli
tappò la bocca.
“Tu
non mi inganni” gli sibilò,
con tono decisamente minaccioso “Tu non sei e non sarai mai
mio fratello,
chiaro?”.
“Non
sono io che voglio esserlo”
protestò Kydoimos, cercando di liberarsi.
“Io
so perché ti comporti così.
Tu non sei fedele a mio padre, sai solo che non sopravvivresti un solo
giorno
lontano dal Caos. Con questo corpo che ti ritrovi, ovunque al di fuori
di qui
non potresti stare, se non con il consenso di chi ti ha donato la parte
che ti
manca. Senza il consenso di mio padre, tu non sei niente. Moriresti in
pochi
secondi”.
“Io
sono grato al Caos e lo
servo. Non so perché mi consideri suo figlio, ma io non
tradirei mai il sommo
signore di questa casa”.
“Cazzate.
Lo fai solo per
tornaconto personale. Non so fino a che punto vuoi arrivare, che cosa
vuoi
ottenere, ma sappi che io ti tengo d’occhio e sono pronto ad
affrontarti in
qualsiasi momento. Sei solo un moscerino che papà tiene qui
per far riprodurre”.
“Lasciami!”
si agitò Kydoimos e
Tartaros ringhiò.
Con un gesto
rapido, piantò nella
schiena e la spalla del nuovo fratello gli artigli, lo
graffiò. Kydoimos
strinse i denti per non gridare. Non voleva mostrarsi debole.
“E
adesso non correre a piangere
dalla mammina, partorito” lo schernì Tartaros,
lasciandolo andare.
Kydoimos non
sapeva cosa dire.
Non ricordava sua madre, non ricordava un solo giorno vissuto prima di
entrare
in quel palazzo. Gemette, sentendo la schiena bruciare, e si
allontanò, senza
parlare.
Thanatos
raggiunse il palazzo di Hades
quasi con noia. Migliaia di anni, migliaia di volte sempre la stessa
strada e
la stessa storia. Iniziava davvero a stufarsi. Gli specter si
inchinarono e si
scansarono al suo passaggio. Lui camminò senza nemmeno farci
caso e si ritrovò
al cospetto del signore dell’oltretomba.
“Vieni
avanti, Thanatos. Chiudi
la porta” ordinò Hades e il Dio della morte si
stupì.
Di solito
Hades non si faceva
problemi a lanciare ordini a destra e sinistra senza curarsi di chi
potesse
essere all’ascolto. Amava dimostrare che lui, Dio della
“generazione di Zeus”,
comandava una divinità addirittura precedente
all’Era dei Titani. Ma quel
giorno era diverso.
“Che
succede, Signore?” domandò
Thanatos.
“Ho
qui una missione per te”
rispose Hades, stranamente alzandosi dal suo trono e scendendo le scale
che vi
stavano davanti, scansando le tende.
Fra le mani
stringeva una busta,
che porse al Dio della morte.
“Di
che si tratta?”.
“Il
mio compito è solo fare da
messaggero in questo caso. Visto da chi proviene l’ordine,
è ovvio che pretendo
massima discrezione. Spero sia chiaro”.
“Chiaro”.
Thanatos non
capì finché non aprì
il sigillo e lesse la sua missione. Hades ora gli dava le spalle.
“Ma…Signore…”
iniziò a dire
Thanatos.
“Io
sono solo il messaggero. Va e
compi il tuo dovere. Ricorda la discrezione”.
“Sì…”.
Kanon
sbadigliò. Il mondo
sottomarino che governava gli piaceva ma in quel momento non offriva
molti
stimoli.
“Ti
annoi, marito mio?” sorrise
sua moglie, raggiungendolo lungo il corridoio.
Le vesti dai
colori del mare di
entrambi si trascinavano sul pavimento ed i loro passi venivano
accompagnati
dal rumore secco che produceva il tridente quando toccava il pavimento
lucido.
Kanon lo stringeva con orgoglio.
“Un
pochino sì” ammise lui.
“Sei
il Dio del mare e non trovi
un modo per intrattenerti?”.
“Tu
che proponi?”.
“Perché
non vai a trovare tuo
fratello?”.
“Saga,
dici?”.
“Hai
forse altri fratelli?”.
Kanon si
fermò e sospirò. Fissò
il suo tridente ed il suo sguardo si fece malinconico.
“No,
non ho altri fratelli”
rispose, dopo un po’ “Ma lui non mi considera
tale”.
“Ma
che dici?!”.
“Lui
considera Arles un fratello.
Non fa che rimpiangerlo”.
“Arles
era parte di Saga. È
normale che lo consideri importante”.
“Ma
io sono il suo unico
fratello! Pare se lo sia dimenticato”.
“E
allora tu ricordaglielo. Passa
più tempo con lui”.
“Lui
di certo ha altro da fare.
Come del resto ho da fare io”.
Kanon
riprese il suo cammino a
passo svelto. Il regno del mare aveva bisogno di essere governato.
Il sole
bruciava al tempio di
Grecia, nonostante ormai fosse autunno. I cavalieri attendevano la
penombra e
la frescura della sera. Deathmask, però, percepì
un cosmo familiare e si
allontanò dalla sua casa alle prime ore del pomeriggio. Non
gli importava il
sole cocente e l’afa. Raggiunse quel cosmo e chi lo
possedeva, che gli dava le
spalle, distratto dal panorama.
“Ma
guarda un po’ chi è
riapparso!” ridacchiò Deathmask “Shura!
Vecchio caprone spagnolo! È questo il
modo di sparire?! Manco una cartolina”.
“Ciao,
crostaceo” salutò Shura.
“In
abiti civili fai schifo”.
“E
tu sei troppo vecchio per
quell’armatura”.
“Sì,
mi sei mancato”.
“Certo,
anche tu!”.
Si
salutarono con una poderosa
stretta di mano e una botta “spalla contro spalla”.
“Dai,
gambero, togli
quell’armatura e vieni con me in città. Ti offro
una birra e ti faccio
conoscere la mia donna ed i miei due capretti” propose Shura.
“E
perché non l’hai portata
qui?”.
“Non
mi piace l’idea che mia
moglie venga a sapere certe cose”.
“Non
le hai detti chi sei?!”.
“No
e non intendo dirglielo.
Perciò, dai, togli quella cosa oro e vieni con me”.
“E
io? Non merito nemmeno un
saluto?” parlò una voce.
Girandosi, i
due uomini videro
Aphrodite, cavaliere dei pesci, che aveva percepito il cosmo
dell’amico ed era
sceso dalla dodicesima casa.
“Il
mio pesciolino preferito!
Come non salutarti! Sei come un fratello per me!” sorrise
Shura e Aphrodite lo
abbracciò.
“Vieni
anche tu a bere con noi,
Aphro” lo invitò il cancro ma il cavaliere scosse
la testa.
“Andate
e bevete anche per me”
rispose “Fa troppo caldo per i miei gusti. Meglio me ne torni
a casa”.
“Stai
bene?” si preoccupò il
capricorno “Mi sembri un po’ pallido. Ma forse mi
sbaglio”.
“Questo,
mio caro Shura, è il mio
colore da svedese. Tu ti sei abbronzato in Spagna, io preferisco
mantenermi
candido come la più letale delle mie rose”.
“Peccato,
però. Volevo farti
conoscere mia moglie”.
“Scherzi?
E se poi sono geloso?”.
Aphrodite
sorrise e fece
l’occhiolino. Con un inchino, si congedò e
tornò alla sua casa.
“E
gli altri? Come stanno?”
domandò Shura, una volta che lui ed il cancro furono soli.
“Immagino
bene. Molti di loro non
li vedo da tempo”.
“Saga?”.
“Quello
non esce quasi mai dalla
sua casa”.
“Non
si è ancora ripreso dalla
faccenda di Arles?”.
“Temo
di no. Altri sono andati
via oppure fanno gli asociali. Aphrodite non lo si vedeva da un bel
po’. È uscito
solo per te, dovresti esserne felice”.
“Lo
sono. E tu? A te come va?”.
“Mi
annoio”.
“Ma
come ti annoi? Non dirmi che
ti mancano le guerre, i combattimenti e gli spargimenti di
sangue!”.
“Non
farmi eccitare”.
“Scherzi?!”.
“No!
A che servo se non posso combattere?
Tanto vale che mi metta in ciabatte e guardare la tv, mettendo su chili
mangiando schifezze!”.
“Non
è male come idea”.
“Non
scherzare, Shura!”.
“Basta
discutere. Andiamo al bar,
che ho bisogno di aria condizionata”.
L’abito
scuro di Shura non era
proprio il più adatto per quelle temperature ed il
capricorno iniziava ad
acquisire un colorito rossastro in viso.
“Vado
a prendere la famiglia ed
arrivo, amico mio. Ci metto un attimo” disse il cancro,
allontanandosi per
chiamare moglie e figlio.
Thanatos
tornò alla sua casa.
Fluttuando come sempre, lasciò che l’armatura lo
abbandonasse e si rilassò sul
divano. Ribaltò la testa all’indietro, sospirando,
e chiuse gli occhi argento.
Quando li riaprì, l’anima incompleta lo fissava.
“Stasera
non suono, mio caro”
parlò il Dio “Vai a farti un giro”.
L’anima
inclinò la testa.
Incuriosita dalla busta che Thanatos aveva poggiato al tavolino, si
avvicino
con l’intento di prenderla. Subito però il Dio
scattò e la ricacciò indietro in
malo modo. L’anima non capì il perché
di quel gesto e fissò Thanatos con il suo
unico occhio.
“Scusami”
disse la divinità “Ma è
una missione che mi hanno affidato ed è segreta, nessuno ne
deve sapere
qualcosa”.
L’anima
si indicò.
“No,
nemmeno tu! Anima curiosa!
Anche da vivo eri così impiccione?!”.
Il morto si
accoccolò in terra.
In un angolino, stava costruendo un puzzle. Glielo aveva portato per
scherzo
Thanatos dicendo “hai l’eternità
davanti, ora saprai che fare”.
“Ma…lo
stai facendo davvero?” si
stupì il Dio.
L’anima
non rispose e la divinità
gli si sedette accanto. Era un passatempo che non aveva mai preso in
considerazione.
“E
da quando ti piacciono ‘ste
cose?” domandò ancora Thanatos e l’anima
fece una smorfia dubbiosa.
Insieme,
incastrarono qualche
pezzo. Il disegno cominciava a mostrarsi, era un’architettura
gotica.
“Mi
fa bene distrarmi un po’. La
missione che devo compiere non mi piace per niente” e
l’anima rispose alla
divinità con uno sguardo interrogativo.
“Non
chiedermi perché lo faccio.
Sono ordini, mio caro” si stizzì Thanatos
“E gli ordini vanno eseguiti. Specie
se provengono da certi individui”.
Il morto
inclinò la testa.
“No,
non Hades!” parve capirlo il
Dio “Quel poppante non potrebbe mai ordinarmi
un’assurdità simile e pretendere
che obbedisca, cazzo! Qualcuno più in alto, che non ti posso
dire, mi ha dato
un ordine di merda che ovviamente io devo eseguire, che tanto sono io
quello
che si prende la colpa mentre lui non muove un dito. È
sempre così. E mi ha
dato pure la data precisa, come un appuntamento! Che lavoro ingrato che
ho…”.
L’anima
ascoltò e mosse un grosso
pezzo di puzzle, unendolo a quello appena fatto da Thanatos. Sorrise.
“Non
sei più te stesso” mormorò
la divinità “Un tempo non avresti mai tentato di
consolarmi, ma mi avresti
detto che sono un piagnucolone e che se una cosa non la voglio fare non
la devo
fare e basta, ignorando gli ordini. E probabilmente mi avresti pure
dato del
cazzone idiota. Io mi sarei incazzato e ci saremmo azzuffati. Tu
saresti stato
sconfitto ma non avresti perso una sola goccia di spavalderia. Ora,
invece,
sembri quasi un bambino. Forse tenti di tornare ad uno stato
più puro, per
poter avere un nuovo corpo. Ma finché sei incompleto, amico
mio, questo non
accadrà. Mi spiace”.
L’anima
come sempre non parlò.
Anche se avesse potuto, non avrebbe saputo che dire.
Kydoimos
lavorava tranquillo.
Nella stanza buia, stava creando due nuove sedie grazie al legno che si
procuravano nel mondo illuminato dal sole. La famiglia si allargava, ed
era
bene creare posti a sufficienza per tutti.
“Ottimo.
Sta venendo davvero
bene” commentò il Caos, entrando nella stanza.
“Grazie,
Signore” rispose
Kydoimos.
“Non
chiamarmi così! Sono tuo
padre, te lo sei già dimenticato?”.
“Non
lo dimentico…padre”.
“Così
va meglio!”.
Il padrone
di casa prese fra le
mani una delle sedie e l’osservo attentamente.
“Sei
migliorato in fretta, bravo”
commentò, poggiando una mano sulla spalla di Kydoimos, che
sobbalzò per il
dolore.
Quello era
il punto in cui
Tartaros lo aveva ferito. Il Caos ritrasse subito la mano e si
allarmò.
“Cosa
succede?” domandò.
“Niente”
mentì Kydoimos.
“Come
sarebbe a dire?! Ho visto
la faccia che hai fatto. Mostrami!”.
“Non
è niente”.
“La
tua veste stracciata non
mente!”.
Il Caos
scostò i capelli e la
stoffa, che Kydoimos aveva risistemato alla bene e meglio con lacci e
nastri,
riuscendo a vedere la profonda ferita.
“Chi
è stato?” sbraitò e Kydoimos
non rispose.
“Parla!”
insistette il Caos
“Dimmi chi ha osato farti questo”.
“Non
è niente” si sentì
rispondere ancora e questo lo fece infuriare ancora di più.
Chiamò
in quella stanza tutti i
suoi figli. Erebo, Nyx e Tartaros accorsero allarmati. Non era un buon
segno
quando il padre si incazzava.
“Chi
ha alzato le mani su
Kydoimos?” urlò.
“Che
è successo? È ferito?” si
preoccupò Nyx, cercando di scorgerlo dietro la sagoma del
Caos.
“Non
fate i finti innocenti. Io so
quando mentite” si accigliò il padrone del palazzo
nero.
“Ma
potrebbe anche essere stato
qualcun altro oltre a noi tre” azzardò Erebo.
“Certo,
potrebbe. Ma sono tutti
vostri diretti sottoposti o discendenti e quindi è vostro
compito evitare che
facciano cazzate come queste!”.
“Non
mi sembra ferito gravemente”
furono le parole di Tartaros.
“Non
me lo dovete rovinare, sono
stato chiaro? È prezioso e delicato”.
“Non
è mica un giocattolo!”
protestò sempre Tartaros.
“No,
non è un giocattolo. È un
gioiello. Il mio gioiello. E se scopro chi ha osato alzare le mani su
di lui,
giuro che patirà le pene più indescrivibili ed
inimmaginabili!”.
“Padre…”
interruppe Kydoimos,
mentre il Caos si spostava leggermente per mostrarlo ai presenti
“…non è
necessario tutto questo”.
“Ma…”.
“Non
è necessario che Voi puniate
qualcuno. Non sono un bambino, non mi piace essere trattato come tale.
Sono un
uomo e risolverò le mie questioni da uomo”.
“Kydoimos,
tu non…”.
“Io
sono in grado di difendermi
da solo e non sopporto che qualcuno mi difenda come fossi un debole. So
di
esserlo, rispetto a voi, ma non voglio essere trattato come tale. E ora
gradirei vedervi sparire tutti quanti. Devo finire queste sedie. I miei
figli
crescono e devono trovare posto a tavola”.
Il Caos
rimase in silenzio
qualche istante. Poi chiuse gli occhi e sorrise. Con le unghie
affilate, si
praticò un piccolo foro sull’indice e una goccia
di sangue brillò. Nera, con
gli inconfondibili riflessi blu dell’ikor, la
lasciò cadere sulla ferita aperta
di Kydoimos. Egli spalancò gli occhi. Si sentì
attraversare da un brivido lungo
tutta la schiena, mentre i tessuti si cicatrizzavano e la ferita si
rimarginava. Cadde in ginocchio, non avendo mai prima d’ora
provato una
sensazione così.
“Potete
andare” congedò tutti il
Caos “Ma che sia l’ultima volta. Non
sarò clemente al prossimo errore”.
I fratelli
uscirono. Erebo fissò
Tartaros. Aveva riconosciuto le ferite inferte.
“Perché
te la prendi tanto?” gli
domandò “Ricorda che è un mortale,
fratello. Mentre io e te abbiamo dinnanzi
l’eternità, Kydoimos non vedrà
l’alba del nuovo secolo. Lascia a nostro padre
il suo trastullo temporaneo e non te ne crucciare. E nemmeno hai motivo
di
provare gelosia”.
“Ha
donato a quell’essere una
goccia del suo prezioso e fortissimo Ikor”.
“Kydoimos
non ha sangue divino. È
un mortale e, di conseguenza, l’unica cosa che può
fare il sangue di nostro
padre su di lui è curarlo. Non può donargli
potere. Non è un Dio. Vedi di fare
il superiore”.
“Erebo,
come sempre fai il
saggio”.
“Sono
il maggiore. Non
dimenticarlo. E ringrazia quel giovane di non aver confessato a nostro
padre
che sei stato tu a fargli del male, o non ti saresti salvato da una
dura
punizione. E tu sai di che punizioni è capace il
Caos”.
“Lo
so bene. È che tutto questo
non lo comprendo”.
“I
disegni mentali di colui che
ci ha generati sono complessi da capire. Ma un giorno li
scopriremo”.
“Lo
spero”.
“Fidati
di me. Io vedo dove tutti
gli altri non scorgono altro che buio”.
E con un
ghigno, Erebo e Tartaros
si divisero.
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Capitolo 8 *** VIII- angeli ***
VIII
ANGELI
“Sei
sicuro di voler rimanere
qui, Kydoimos?” domandò il Caos, sistemandosi il
mantello.
“Desa
potrebbe partorire, quindi
preferisco così” rispose l’adottato.
“Ma
deve succedere proprio
stasera? Intendo dire…è un invito a cena da parte
del santuario! Mica cose che
capitano tutti i giorni…”.
“Lo
so ma…va bene così.
Divertitevi anche per me”.
“Sarà
fatto, fratellino” lo
schernì Erebo.
“Nonno
Caos!” chiamò Nàgiri
“Possiamo venire con te?”.
“Nàgiri!”
lo richiamò il padre ma
il Caos sorrise.
“Volete
venire con noi al grande
tempio?” domandò il signore del palazzo nero ed un
gruppetto di bimbi annuì.
“Ma…”
provò a protestare
Kydoimos, senza successo.
“Non
è un problema per me
portarli con noi” assicurò Caos “Sono
certo che si divertiranno come sempre”.
“Non
fate troppo tardi, però”.
“Tranquillo.
Non gli succederà
nulla di male”.
A Kydoimos
non restò altra
alternativa se non quella di lasciare che dieci dei sui figli se ne
andasse,
quella sera, al Grande Tempio. Forse era la cosa migliore,
così ci sarebbe
stata un po’ più di tranquillità.
“Fate
i bravi!” si raccomandò
Desa e Nagiri ruotò gli occhi al cielo, un po’
infastidito.
Assieme al
Caos ed ai suoi figli,
alcuni dei bambini della casa se ne andarono ed i genitori sorrisero.
Non c’era
motivo di preoccuparsi. Le più antiche creature del mondo
vegliavano su di
loro.
“Benvenuti”
fece un piccolo
inchino Aiolos, appena i suoi ospiti giunsero al tempio
“Accomodatevi”.
“I
bambini possono andare a
giocare, la cena non è ancora pronta” aggiunse
Hestia.
I piccoli
corsero lungo le scale.
Arles II li raggiunse, unendosi ai loro giochi. Era una piacevole
serata, il
cielo era sereno ed Ahriman sorrideva, cosa che avveniva raramente. Il
Dio del
cielo raggiunse Saga, la sua famiglia, ed alcuni cavalieri
d’oro che si stavano
radunando nella grande sala dove solitamente mangiavano tutti assieme.
Quanti
bei momenti passati fra quelle mura! Quante sedie ora erano vuote e
suscitavano
una certa malinconia…
“Come
potete notare…” iniziò Saga
“…abbiamo cercato di mettere meno luci possibili
stasera, in modo da farvi
stare a vostro agio”.
“Grazie”
annuì Erebo.
“Buon
appetito!” esclamò Nàgiri,
alzando un bicchiere colmo di succo di frutta.
Ora erano
tutti attorno alla
tavola imbandita con prodotti tipici della Grecia e altre leccornie.
Deathmask
versò il vino, passandolo poi a Saga. Le mogli di entrambi
osservarono la
quantità d’alcol consumata dai mariti e storsero
leggermente il naso. Heiwa, la
figlia di Saga, rimase in silenzio e composta. Non giocò con
gli altri bambini
e sedette accanto al padre tutto il tempo. Shaka ammirò il
suo comportamento e
le fece i complimenti. Era proprio una degna futura Dea. Aphrodite,
invece, lo
trovò un po’ strano un comportamento del genere. I
bambini, a suo parere, si
dovevano divertire. Come Nàgiri ed il figlio di Deathmask,
che facevano un gran
baccano. Aldebaran era troppo impegnato a mangiare per fare commenti.
Ioria
sedeva accanto alla moglie Marin ed i loro due figli facevano baldoria
assieme
agli altri piccoli della stanza. Kiki propose a Nàgiri una
partita di pallone e
il bambino sorrise all’idea. Milo chiese di poter giocare a
sua volta e Camus
ricordò a tutti che prima si doveva cenare, il cibo non
andava sprecato. Aiolos
propose un brindisi ed Ahriman fu il primo ad alzare il calice al cielo.
“Ad
una nuova e lunga amicizia”
furono le parole del gran sacerdote.
Kydoimos se
ne stava tranquillo
su una delle comode poltrone scure del palazzo. Stava leggendo un libro
con
Desa che gli poggiava il capo sulla spalla, leggendo con lui.
“Non
dovevi rinunciare
all’incontro al grande tempio per me”
parlò lei.
“Voglio
starti accanto. E poi non
credo sentano la mia mancanza”.
“Sei
il figlio più giovane del
Caos”.
“Solo
di nome. Di fatto non conto
mica”.
“Comunque,
sono felice che tu sia
qui con me”.
Kydoimos la
baciò sulla fronte. A
interrompere quel momento fu la vocina di una delle bimbe.
“Papà”
chiamò “Mi fa male qui”
disse, toccandosi la testa.
Il padre
allungò un braccio verso
la fronte della piccola.
“Scotti”
commentò “Devi avere un
po’ di febbre”.
“Ma
com’è possibile?” si stupì
Desa “Morte e malattia non sono mai entrate in questa
casa!”.
“Non
è niente, non vi allarmate.
Un po’ di febbre passa in fretta. Basta riposare e stare al
caldo”.
Kydoimos
prese in braccio la
bambina e la portò in camera. La mise sotto le coperte e le
diede un piccolo
bacio.
“Dormi,
piccina. Vado a vedere se
in cucina c’è qualcosa per farti stare
meglio”.
“Grazie,
papà. Mandi qui la
mamma?”.
“Certo”.
La madre
della piccola, Shuna,
sedette accanto a sua figlia in attesa che si addormentasse.
“Spero
sia solo un po’ di febbre”
commentò Moros, il fato.
“Che
intendi dire? Kayros forse
ti ha rivelato qualcosa?” domando Kydoimos.
“Kayros
non rivela mai nulla.
Però sai bene che è lui a scrivere il destino
delle persone”.
“E
tu a farlo compiere, giusto? A
far sì che tutti i tasselli siano al posto giusto”.
“In
questo caso no. Non mi è
chiaro ciò che sta accadendo”.
“Ed
è un bene o un male?”.
“Non
saprei. Staremo a vedere”.
“Passa
la palla, passa!” gridò
Kiki e Milo cercò di raggiungerlo.
I due
cavalieri d’oro stavano
perdendo contro un branco di ragazzini scalmanati. I figli di Kydoimos
lì
presenti avevano un’età compresa fra gli otto ed i
quattro anni, eppure
riuscivano a dare del filo da torcere ai due guerrieri. Aiutati da
Arles II,
che non si faceva problemi a commettere fallo contro i cavalieri, i
bambini erano
in vantaggio.
“Non
vale!” protestò Milo “Noi
siamo solo in due. Voi siete…in mille!”.
“Siamo
solo in undici! Di cui tre
femmine che non hanno mai giocato a calcio!” rise
Nàgiri “Ammettetelo che siete
imbranati!”.
“Imbranati
a chi?!” si infuriò
Milo, facendosi per l’ennesima volta rubare la palla.
“Milo,
fai schifo” lo sfotté
Deathmask, che faceva da spettatore.
“È
notte!” si giustificò lo
scorpione “Non vedo la palla!”.
“Tutte
cazzate!” insistette il
cancro.
E Milo, di
risposta, gli tirò
l’Antares in faccia.
Kydoimos
udì un grido e scattò in
piedi. Raggiunse di corsa la camera della bimba malata, da cui
proveniva il
grido della madre.
“Che
succede?” esclamò.
La bambina
era pallida e faticava
a respirare. Il padre le andò accanto, tentando di capire
cosa fare.
“Lalia”
la chiamò.
“Signore”
una serva parlò
sull’uscio “Altri piccoli si sentono
male”.
“Altri?!”
si stupì Kydoimos.
In meno di
mezz’ora, tutti i
bambini della casa presentavano dei sintomi. Il padre li aveva fatti
portare tutti
nella stanza grande, che ora pareva un dormitorio, così da
non dover correre da
una camera a un’altra. Lalia, la prima a mostrarsi malata,
era grave. I pochi
titani rimasti in quella casa si adoprarono per far star meglio i
piccoli.
Usarono tutte le loro conoscenze nel campo della medicina ma nulla
pareva dar
sollievo ai malati.
“Che
posso fare?” domandò
Kydoimos “E da dove viene tutto questo?”.
“Forse…”
azzardò Crio “…il tempo
passato al tempio di Atena li ha indeboliti. Sono vissuti in una casa
dove
malattie e morte non esistono e quindi, forse, il mondo del santuario
con i
suoi germi li ha attaccati”.
“Ma
sarebbe successo prima, non
dopo più di un anno!”.
“Oppure…qualche
Dio esterno ci
manda questo” azzardò il titano.
“Qualche
Dio? Chi?!”.
“Non
saprei”.
“E
se fosse davvero come dici?
Fosse davvero colpa mia se stanno così male? Mia e di tutti
coloro che tanto
hanno desiderato vedere queste creature crescere alla luce del sole?
Forse non
era nel loro destino”.
“Non
possiamo saperlo. Ma adesso
facciamo il possibile per farli stare meglio”.
“E
se anche i miei figli al
grande tempio stessero male?”.
“Sono
assieme al sommo Caos.
Troverebbe il modo di farli guarire”.
“Hai
ragione. Se la situazione
peggiora, sarà il caso di richiamarlo”.
“Sì,
ma per ora non credo serva creare
allarmismi”.
“Kydoimos”
chiamò Teti “Tua
moglie sta partorendo”.
“Ma
che cazzo succede stanotte?”
gemette l’uomo, non sapendo più che fare.
“Dov’è
tua sorella?” domandò
Arles II, riferendosi a Neikos.
“Ha
preferito rimanere a
casa” spiegò
Nàgiri “Sua madre Esma si
preoccupa e lei non riesce a darle un dispiacere”.
“E
la tua mamma non si
preoccupa?”.
“Sì,
ma io non le obbedisco”
ghignò il figlio di Kydoimos.
I bambini
osservavano il cielo
stellato con attenzione. Arles II spiegava qualche costellazione,
quelle che
riusciva a riconoscere. Ahriman li ascoltava in silenzio, sorridendo
appena.
“Spero
che tutti i tuoi sospetti
su di me siano scemati, Dio del cielo” gli disse il Caos.
“Non
tutti” ammise Ahriman “Ma
sono disposto a darti una possibilità”.
“Questa
alleanza è molto
impostante”.
“Pare
che per Saga sia quasi una
questione vitale…”.
Saga era
raggiante, infatti.
Sorrideva, vedendo come tutto stesse andando nel migliore dei modi.
L’unico che
si lamentava era Deathmask, per via dell’Antares che ancora
bruciava.
“Papà”
chiamò Lalia “Mamma!”.
“Siamo
qui, tesoro” la rassicurò
Shuna, prendendole la mano.
La piccola
era scossa da volenti
brividi. Kydoimos la prese in braccio, stringendola a sé,
nel tentativo di
farla stare un po’ meglio e scaldarla.
“Sento
il battito del tuo cuore”
mormorò la bambina.
“Ti
piace?” tentò di sorridere
lui.
“Batte
forte. Veloce. Perché? Hai
paura?”.
“No.
Io…”.
“No,
tu sei il mio forte papà,
che non ha paura di niente e che mi difenderà per
sempre”.
“Certo.
Il tuo forte papà
combatterà sempre per te”.
“Grazie”.
Lalia lo
strinse forte e Kydoimos
fece lo stesso. Poi sentì la presa della piccola allentarsi.
“Lalia!”
la chiamò ma la piccola
non poteva più rispondere.
“Lalia!”
gridò disperata anche la
madre.
La bambina
non respirava più. Per
la prima volta, la morte era entrata in quella casa.
“Mi
porti in alto, zio Ahriman?”
domandò Arles II, cercando di sfoggiare il suo miglior
sorriso tenero.
“Portarti
in alto?” finse di non
capire il Dio, abbassando le ali.
“Sì!
Tu puoi volare! Portaci
su!”.
“Un
momento! Un attimo fa hai
parlato al singolare”.
“Be’
ma se porti me…devi portare
anche i miei amici!”.
“E
come faccio, secondo te?”.
“Sei
un Dio!”.
“Tu
sai sempre quali tasti
toccare”.
Sorrise e
sollevò la mano. Tutti
i bambini lo fissarono con curiosità. Ahriman vi soffio e i
bambini si
sentirono sollevare in aria. Risero felici.
“Non
è pericoloso?” si affrettò a
dire il Caos.
“Ma
no, sono io che domino le
correnti che li sorreggono. Non gli può succedere nulla di
male” lo rassicurò
il Dio.
Ed il tempio
si riempì di risate
divertite e gridolini di felicità.
“Perché
i miei figli muoiono?”
gemette Kydoimos, vedendo che uno dopo l’altro i bambini si
stavano arrendendo
a quell’improvvisa e misteriosa malattia.
Nessuno
sapeva dargli risposta e
nessuno sapeva cosa fare. Si erano accorti che, senza l’aiuto
del Caos, non
potevano lasciare quel palazzo e quindi non avevano modi di avvisare il
padrone
di casa di quanto stava accadendo.
“Ci
deve essere un modo per
richiamarlo!” insistette Kydoimos ma nessuno sapeva quale.
Il padre di
piccoli, sentendosi
del tutto impotente, si spostò nella camera della moglie
Desa.
“Che
cosa sta succedendo?” subito
domandò lei, appena vide il marito.
“Rilassati”
rispose lui,
sforzandosi notevolmente “Rilassati e pensa al
bambino”.
“Ma
ho sentito gridare!”.
“Sì
ma adesso pensa al piccolo”.
“Voglio
sapere cosa è successo!”.
“Niente”.
“Non
mi mentire. Hai una faccia,
marito mio, che non mostra niente di buono”.
“Partorisci.
Ne parliamo poi”.
Desa
gridò per il dolore e chiuse
gli occhi. Quando li riaprì, vide che Kydoimos stava
lasciando la stanza. Lo
chiamò, ma lui continuò per la sua strada. Non ce
la faceva a mentire alla
moglie.
“I
miei piccini” mormorava Esma,
ripetendosi “I miei piccini stanno morendo tutti”.
Kydoimos la
udì. Si ritirò nella
stanza dove lavorava il legno.
“Caos”
chiamò “Padre Caos, se
davvero sono per te un figlio allora dovresti percepire queste mie
parole. Ti
prego, non lasciarci soli. Salva i miei piccoli. Ascoltami! Forse ho
sbagliato
e chiedo perdono. Forse non merito nulla ma le mie creature sono
innocenti,
qualsiasi errore abbia commesso”.
Gli era
stato detto che, nei rari
attimi il cui il padrone del palazzo si allontanava, i suoi figli
potevano
richiamarlo in qualsiasi momento. Ma il loro è un legame di
sangue, si ritrovò
a pensare Kydoimos. Guardò quelle sedie. Con tutti i piccoli
che stavano
morendo, non servivano più. Ne afferrò una e la
scagliò contro il muro,
gridando.
Il Caos, che
fino a quel momento
stava sorridendo, si fermò di colpo. Nyx lo notò.
“Padre?”
domandò “Qualcosa non
va?”.
“Dobbiamo
tornare a casa” rispose
lui.
“Ma…si
stanno divertendo tutti!”.
“Qualcosa
non va al palazzo nero.
Dobbiamo rientrare”.
Sentendo
questo, gli adulti della
casa si allarmarono. Saga, che aveva udito quelle ultime frasi, propose
di
lasciare lì a dormire i bambini. Se era successo qualcosa,
forse era meglio
evitare di coinvolgerli. Il Caos gli diede ragione.
“Mi
spiace dovermi allontanare
così” commentò.
“Se
è in corso un’emergenza”
rispose Saga “Vi prego di raggiungere quanto prima casa
vostra e risolverla. E
mi auguro anche che non sia nulla di grave”.
“Siete
molto comprensivo. La Dea
Atena alberga nel vostro cuore ed è ben visibile in ogni
vostra azione e
proposito”.
“Vi
ringrazio” si imbarazzò la
divinità del grande tempio “Ma ora
andate”.
“Sta
perdendo molto sangue.
Qualcosa non va nel verso giusto” si spaventò
Teti, vedendo quel che stava succedendo
a Desa che gridava in preda ai dolori del parto.
“Desa!”
la chiamavano le donne
titano che la assistevano “Non ti agitare!”.
“Cosa
succede?” gemette lei
“Nessuno dei miei figli mi ha mai provocato tanto
dolore!”.
Gridò
ancora, contorcendosi spaventata.
Voleva suo marito. Dov’era suo marito? Cosa stava succedendo
là fuori? Perché
nessuno voleva dirglielo? Le forze iniziavano a venirle meno.
“Aiuto”
mormorò.
Esma
pronunciava le stesse
parole. Seduta accanto a Neikos, una delle ultime che aveva presentato
dei
sintomi, le stringeva la mano. La bambina le sorrideva, mostrando
un’incredibile forza.
“Andrà
tutto bene, mamma” le
diceva “Io e te rimarremo unite. Vedrai”.
La madre
annuì, tra le lacrime.
Provò un po’ di conforto nell’udire
quelle parole ma quando anche Neikos perse
i sensi, si alzò e lasciò la stanza. Con lo
sguardo vuoto, smarrito, camminò
lungo i corridoi bui senza parlare.
“Quindi
possiamo restare a
dormire qui?” chiese Nàgiri, non sicuro di aver
capito.
“Sì,
per stanotte restate qui” annuì
Nyx.
“Ma
la mia mamma non si
arrabbierà?”.
“Dici
che le disobbedisci sempre”
lo schernì Arles II.
“Hai
ragione, lo faccio! Quindi
immagino che una volta in più o in meno non cambi”
sorrise il bambino.
“Mi
raccomando, fate i bravi!
Altrimenti nonno Caos si arrabbia” li ammonì Nyx,
prima di raggiungere i suoi
fratelli ed il padre.
“Ciao,
ciao!” li salutarono i
bambini, vedendoli andar via.
Non capivano
perché si stessero
allontanando ma non aveva importanza. Loro erano felici di passare una
notte
lì.
“Mi
dispiace” parlò Teti “Non
abbiamo potuto fare niente”.
Chinò
il capo e Kydoimos rimase
in silenzio sulla porta della stanza. Desa non ce l’aveva
fatta. Si era arresa,
morendo assieme al suo bimbo mai nato. Lui non trovava le parole. Era
sceso il
silenzio.
“Che
abbiamo fatto?” si chiese
Shuna “Che abbiamo mai fatto per meritare questo?”.
La donna
stringeva forte la mano
dell’ultimo dei suoi piccoli rimasto in vita. Kydoimos
uscì dalla camera di
Desa e chiuse la porta dietro di sé. Chinò il
capo. Non sapeva che altro fare.
“Che
silenzio” commentò il Caos,
entrando in casa.
“I
bambini dormono a quest’ora”
rispose Erebo.
“Sì
ma è un silenzio strano.
Diverso dal solito”.
Nyx
annuì. Qualcosa nell’aria era
diverso. Si incamminarono lungo il corridoio e videro Kydoimos.
L’uomo alzò gli
occhi. Il Caos, che prima sorrideva nel rivederlo, si
rabbuiò di colpo. Lo
sguardo del suo nuovo figlio, anche se privo di lacrime, era colmo di
disperazione e vuoto.
“Padre”
sussurrò lui e il padrone
di casa si stupì perché mai prima d’ora
lo aveva chiamato così di sua spontanea
volontà.
“Kydoimos”
iniziò “Cosa…”.
“Salvateli!”
supplicò Lienn, una
delle madri, vedendo il Caos “Vi prego accorrete e salvateli,
sommo signore!”.
Il signore
del palazzo si
affrettò e raggiunse la stanza da cui lo chiamava Lienn.
Rimase sconcertato da
quella vista. Madri disperate, bambini morti o moribondi.
“Dove
sono i bambini?” spalancò
gli occhi Shuna, notando che il Caos ed i figli erano tornati senza i
piccoli.
“Dormono
al tempio” spiegò lui.
“Ma
stanno bene?”.
“Sì,
benissimo”.
“Oh,
grazie! Grazie!”.
“Ma
qui che è successo?”.
Nyx, Erebo e
Tartaros raggiunsero
il padre. La donna sobbalzò quando vide ciò che
accadeva ed Erebo l’accolse fra
le braccia. Tartaros strinse i pugni. Chi aveva osato consentire alla
morte di
entrare in quel luogo?
“Quali
sono ancora vivi?” domandò
il Caos, raggiungendo i letti di chi ancora respirava per curarli con i
suoi
poteri.
La prima che
guarì fu Neikos, che
mormorò il nome della madre con le poche forze che aveva.
“Dov’è
Esma?” si chiese Nyx,
mentre Erebo si era allontanato per raggiungere Kydoimos.
“Esma!”
chiamava il nuovo
fratello “Esma, vieni! È tornato il
Caos”.
La vide
sulla terrazzina che dava
sul buio assoluto. La invitò a rientrare, sforzandosi di
farle un sorriso. Lei
si voltò lentamente e non rispose. Con uno scatto,
saltò nel vuoto.
“Esma!”
gridò Kydoimos,
gettandosi in avanti per riprenderla.
“Kydoimos!”
chiamò invece Erebo,
recuperando al volo il fratello prima che precipitasse a sua volta.
“Lasciami!”
protestò questi,
allungano le braccia verso il vuoto “Esma è
caduta! La devo aiutare!”.
“Vivo
qui da abbastanza tempo per
dirti che cadendo da qui non incontri altro che il nulla e la
morte”.
“Ma…”.
“L’hai
perduta, Kydoimos. Ora
torna in te”.
Erebo,
sempre tenendo stretto il
fratello acquisito, retrocedette di scatto e finirono entrambi seduti a
terra.
Kydoimos ancora si agitava e il fratello maggiore gli tirò
un poderoso
cazzotto, facendolo finire lungo il corridoio.
“Ma
cosa vuoi?” sbraitò il
colpito “Non sono nemmeno tuo fratello!”.
“Lo
sei. Ti considero tale e so
cosa vuol dire perdere dei figli. Devi ricordare questo: non puoi
lasciare soli
quelli che ancora vivono ed hanno bisogno di te”.
“I
tuoi ti hanno lasciato solo”.
“I
miei erano grandi ed è
un’altra faccenda. Di là ci sono dei bambini e
delle donne che hanno bisogno
del tuo coraggio e della tua forza perciò vedi di
riprenderti. Alzati”.
“Che
succede?” spuntò il Caos,
sentendo le grida.
Subito
intuì l’accaduto. Kydoimos
si stava rialzando ed Erebo lo aiutava. Si avvicinò ad
entrambi.
“Mio
cucciolo” iniziò a parlare
“Mi spiace. Sono arrivato tardi. Solo cinque dei tuoi figli
sono riuscito a
salvare”.
“Li
avete salvati? Loro
vivranno?”.
“Sì,
vivranno. Così come vivranno
quelli che sono al grande tempio per la notte”.
Kydoimos
rimase immobile ed in
silenzio. Il Caos lo abbracciò.
“Devi
essere forte per loro. E
ricorda che noi siamo qui con te”.
“Grazie”.
Liberato
dall’abbraccio del Caos,
prese un profondo respiro. Doveva trovare il coraggio di dire alla
figlia
sopravvissuta che sua madre si era gettata dal balcone
perché credeva morti
tutti i suoi figli. Doveva dire a Nàgiri che non avrebbe
avuto un nuovo
fratellino e che non avrebbe più rivisto la mamma.
“Vado
io a riprendere i bambini
al tempio domani mattina” si propose Erebo.
“Grazie”
annuì Kydoimos “Ora
sarete stanchi. Potete andare a dormire”.
“Non
riusciremmo mai a dormire
dopo aver visto questo”.
“Confermo”
strinse i pugni il
Caos “Troveremo il colpevole e la
pagherà!”.
Il nuovo
fratello non disse
nulla. Tornò nella sala dove i bambini guariti dal padrone
di casa lo
aspettavano. Erano stanchi, ancora a letto, ma vivi e questo era quello
che
contava.
“Bambini!
È ora di tornare a
casa!” chiamò Ariadne, con già indosso
l’armatura dei gemelli.
“Ma
è presto!” protestò più di
qualcuno.
“Lo
zio è venuto a prendervi”.
“Lo
zio?” si stupì Nàgiri.
Uscì
dal tempio dei gemelli, dove
aveva dormito, e si ritrovò davanti Erebo, tutto avvolto in
vari mantelli per
evitare la luce e con un paio di vistosi occhiali da sole a coprirgli
il viso.
“Sei
ridicolo” rise il bambino
“Dov’è papà?”.
“A
casa. Dove è ora che tu ed i
tuoi fratelli torniate” sbottò Erebo.
“Viene
sempre a prenderci papà”.
“Non
fare il bambino!”.
“Sono
un bambino!”.
Erebo
ruotò gli occhi al cielo.
Era troppo vecchio per queste cose! Afferrò
Nàgiri per il braccio. Questi però
si dimenò e lo morse. Lo zio lo lasciò di scatto,
d’istinto.
“Il
mio papà non è venuto perché
è nato il mio fratellino?” domandò il
bambino.
“No”.
“E
allora perché?”.
“Non
te ne parlerò qui. Andiamo a
casa”.
“Che
serio che sei”.
Il piccolo
capì che era tempo di
andare e tornò alla terza casa a chiamare i fratelli e le
sorelle.
“
Che succede?” domandò Ariadne,
intuendo qualcosa nel modo di fare di Erebo.
“Non
sono affari del grande
tempio”.
“Ok,
scusa. Facevo per chiedere”.
“Scusatemi.
La situazione non è
buona e voglio solo tornarmene a casa mia in fretta”.
Nàgiri
e gli altri rientrarono in
casa con il solito entusiasmo ma il maggiore capì subito che
qualcosa era
cambiato.
“Nàgiri”
lo chiamò il padre.
Il bambino
capì, dal tono serio,
che non doveva dirgli niente di buono. Aveva forse fatto qualcosa che
non
doveva? Doveva essere sgridato? Si separò dagli altri
fratelli e raggiunse il
genitore, che gli accarezzò la testa.
“Cosa
c’è papà?” domandò
Nàgiri.
“Ho
una cosa molto triste da
dirti”.
“Triste?”.
“Sì.
Una cosa triste e brutta”.
Nàgiri
attese in silenzio che il
padre parlasse, senza sapere cosa dire.
“Ricordi
quando io e lo zio ti
abbiamo parlato dei campi elisi e delle anime che vi
riposano?” domandò
Kydoimos.
“Sì”
annuì il bimbo.
“Tutti
voi, piccoli miei, avete
un’anima, così come le vostre mamme”.
“Ed
è bella? La mia anima è
bella?”.
“La
tua anima è bellissima,
perché pura. E le anime come la tua vanno in un posto
speciale quando…”.
“Quando?”
fece eco il bambino,
sentendo il padre fermarsi.
“Quando
abbandonano il loro
corpo”.
“Ma
se l’anima abbandona il
corpo, il corpo muore. Giusto?”.
“Sì.
E qui stanotte sono volate
via molte anime”.
“Che…”.
“Nàgiri…”
Kydoimos si inginocchiò,
per guardare negli occhi suo figlio
“…l’anima della tua mamma è
volata via”.
“Come?!”.
“Noi
ora dobbiamo…”.
“La
mia mamma è morta?” gridò il
bambino, facendo alcuni passi indietro.
“Mi
dispiace. Io…”.
“No!
Non è vero! La morte non
esiste in questa casa!”.
“La
morte ha trovato un modo per
portar via chi…”.
“E
come è successo?”.
“La
tua sorellina Lalia è stata
la prima ad ammalarsi e poi…”.
“È
stato Ahriman!” esclamò
Nàgiri.
“Non
dirlo nemmeno per scherzo”.
“Non
è uno scherzo! Quando è
venuto qui, ha accarezzato Lalia sulla testa e una cosa nera
è passata da lui a
lei. Pensavo di aver sognato ma non è così.
È stato Ahriman!”.
“Nàgiri,
ti prego! Ahriman non…”.
“Non
mi credi? Mamma mi
crederebbe. A lei non è mai piaciuto quel Dio”.
“E
anche se fosse, cosa potremmo
fare? Anche se fosse stato lui ed io lo punissi, cosa cambierebbe? Tua
mamma ed
i tuoi fratelli non tornerebbero”.
“Rivoglio
la mia mamma!”.
“Lo
so, piccolo mio”.
“La
rivoglio! Giuro che non le
disubbidirò più!”.
Kydoimos
abbracciò suo figlio,
che scoppiò a piangere e non disse più nulla.
“Andrò
presto al grande tempio”
commentò il Caos.
“Perché?”
si incuriosì Tartaros.
“Voglio
guardare negli occhi chi
vive là ed avere l’assoluta certezza che sono
estranei alla faccenda. Loro ed
il loro capo Ahriman”.
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Capitolo 9 *** IX- potere e ricordi ***
IX
POTERE
E RICORDI
“Perché
sono qui?” domandò
Kydoimos, senza nascondere il suo disappunto.
“Perché
voglio che ti guardino in
faccia e mi dicano che sono innocenti” ribatté il
Caos.
“Non
ne vedo l’utilità”.
“Piccolo,
non voglio costringerti
a fare qualcosa che non vuoi. Credevo che uscire dal palazzo nero e
svagarti un
po’ potesse servire a farti stare meglio”.
“Forse
avete ragione”.
“Se
non vuoi farti tredici piani
di scale per parlare con Saga, puoi aspettarmi qui? O vuoi proprio
tornare a
casa?”.
“No,
avete ragione. Farò un giro
qua in giro”.
“Bene.
Non metterti nei guai”.
Kydoimos osservò il suo
signore salire lungo la
scalinata del tempio. Attese qualche istante e poi si
allontanò. Prese il
sentiero che portava alla spiaggia, fra le rocce. Vi scese e
fissò il mare.
Stava attento, sapeva che in quel mondo, con il suo braccio e la sua
gamba mal
ridotti, non poteva nuotare. Il vento ne scompigliava i capelli e le
vesti.
Socchiuse gli occhi, in cerca di pace. Dentro al cuore provava un
immenso
dolore che non riusciva a sfogare. Voleva piangere ma non ci riusciva.
Un nodo
alla gola gli toglieva quasi il respiro e restava lì, come
eterno ricordo di
chi aveva perso. Immerse i piedi scalzi nell’acqua. Era
ancora calda,
nonostante l’estate fosse finita da un po’.
“È
vero quel che mi state
dicendo?” domandò Saga, che aveva fatto accomodare
il Caos nelle proprie
stanze.
“Non
potrei mai inventarmi una
cosa del genere!” rispose il Caos.
“Ma
è terribile! È spaventoso!”.
“Ho
cercato di far un po’
distrarre il padre ma non è semplice”.
“Immagino
cosa provi. Vorrei
potergli porgere le più sentite condoglianze”.
Il Caos
capì che Saga doveva
essere estraneo alla faccenda. Era sconvolto e per il più
antico degli Dèi era
facile capire quanto soffrisse.
“Dove
si trova Ahriman?” domandò
poi l’ospite.
“Suppongo
nel suo palazzo,
perché?” rispose Saga, perplesso.
L’odore
del mare. Kydoimos lo
percepì e gli parve che facesse parte di lui fino alle ossa.
La sabbia sotto i
piedi, il sole sul viso, il vento ed i suoni della natura lo
avvolgevano.
Chiuse gli occhi e spalancò le braccia, istintivamente. Che
strana sensazione.
Una scossa, un brivido, e la sensazione di poter fare qualsiasi cosa.
Una
sensazione che gli solleticava le mani al punto di farlo quasi ridere.
Il nodo
alla gola, però, non lo voleva lasciare. Era orribile e
voleva scacciarlo.
Urlò, più forte che poté. E si
sentì sollevare. Portò entrambe le mani alla
gola, ribaltando la testa all’indietro. L’acqua,
l’aria e la sabbia lo stavano
avvolgendo in una sfera che ruotava. I capelli, che teneva raccolti, si
sciolsero
e pure loro lo circondarono. Sentiva dentro sé un potere che
cresceva, mentre
urlava per liberarsi da quel nodo. Una luce, intensa e calda,
sgorgò dalle sue
mani e quel grido parve prendere forma. Quando non ebbe più
aria nei polmoni,
tornò in terra. Le forze lo abbandonarono e cadde sulla
spiaggia. Poco prima di
perdere i sensi, riuscì a scorgere una donna accanto a
sé.
“Benvenuta
al mondo, Airis” le
disse e poi svenne.
Saga e il
Caos stavano scendendo
le scale. La reincarnazione di Atena aveva espresso il desiderio di
poter
porgere di persona le condoglianze a Kydoimos. Il Caos
apprezzò il gesto e
scesero insieme. Quando però giunsero allo spiazzo dinnanzi
la prima casa, non
trovarono l’interessato ad attenderli.
“L’ho
visto andare verso la
spiaggia” indicò Kiki.
“Grazie”
rispose Saga, con un
cenno del capo.
“Probabilmente
aveva bisogno di
stare solo. Scusate se ci tocca camminare”
commentò di nuovo il Caos.
“A
me fa piacere. Mi fa bene ogni
tanto” sorrise debolmente Saga.
“Kydoimos!”
chiamò il Caos,
camminando fra gli scogli.
Non lo
vedeva. Dove si era
nascosto? Però che bello che era il mare di Grecia! E quella
spiaggia, legata
al santuario e quindi incontaminata, era perfetta.
“Kydoimos!”
chiamò ancora, e
sentì la sua voce ripetuta più volte
nell’eco.
Quando lo
vide, si affrettò a
raggiungerlo. Ancora steso nella sabbia, privo di sensi e completamente
fradicio, al Caos fece subito pensare che si fosse buttato in acqua.
Con un
corpo come quello, non poteva di certo nuotare.
“Kydoimos!”
lo scosse “Apri gli
occhi! Mia meraviglia, riprenditi!”.
Solo in quel
momento notò la
donna che fissava entrambi.
“Si
è buttato in acqua?” chiese
il Caos e la donna scosse il capo.
“Ah,
meno male. Forse si è
sentito male perché si è allontanato troppo da
casa”.
Saga rimase
stupito da quella
scena. Il Caos pareva seriamente preoccupato per quell’uomo,
anche se non era
il suo vero figlio. Vide che lo prendeva in braccio e lo avvolgeva nel
mantello, per asciugarlo. Nel suo sguardo c’era puro affetto.
“Devo
andare” disse il Caos.
“Certo…”
non ebbe il tempo di
rispondere Saga.
“Che
è successo?” si allarmò Nyx,
non appena vide arrivare il Caos con in braccio Kydoimos.
“Ha
perso conoscenza. Colpa mia,
l’ho tenuto troppo distante da me e da questa casa. Ora che
è mio figlio, la
nostra maledizione deve aver colpito anche lui”.
“È
grave?”.
“Sparite!”
ordinò il padrone di
casa a tutti coloro che si erano presentati a curiosare preoccupati
“Lasciateci
soli”.
Delicatamente,
stese Kydoimos sul
letto. I capelli bagnati si confondevano sulle lenzuola nere,
così come parte
del corpo dell’uomo. Il Caos, interamente nero,
accarezzò il lato più chiaro di
suo figlio adottivo. L’occhio cieco era insanguinato. Il
padrone di casa lo
pulì con cura.
“Mi
dispiace, piccolo mio. Forse
ho sbagliato a donarti questo corpo. Questo tuo lato di carne un tempo
rosa è
così debole! Ancora qualche istante lontano e si sarebbe
distaccato da ciò che
io ho creato per te, uccidendoti. Mi chiedo ogni giorno se ho fatto
bene a farti
questo”.
Kydoimos non
rispose, ancora
privo di sensi. Come aveva fatto con la ferita alla schiena, il Caos si
ferì un
dito e lasciò cadere qualche goccia di sangue, questa volta
sulle labbra del
figlio. Questi parve riprendersi un po’, leccò il
sangue e gemette, girando al
testa.
“È
buono, vero?” sorrise il Caos.
Kydoimos
aprì gli occhi. Il padre
gli accarezzò la testa.
“Come
ti senti?” domandò.
“Uno
schifo” ammise il figlio.
“Sei
molto debole. Hai rischiato
grosso ed è tutta colpa mia. Non dovevo lasciarti solo tutto
quel tempo”.
“Io…”
provò a ribattere, ma era
troppo debole e riuscì solo a gemere ancora.
“Tranquillo”
lo rassicurò il
Caos, tagliandosi il polso “Bevi”
ordinò, accostando la ferita alla bocca di
Kydoimos.
Questi
tentò per qualche istante
di resistere ma non ci riuscì a lungo. Il sangue del suo
signore era caldo,
dolce, e ne percepiva la potenza. Lo sentiva forte in gola. Il padrone
del
palazzo sorrise, vedendo come il figlio gradisse e si sentisse
già meglio.
“Ancora,
Kydoimos. Bevine ancora”
lo incitò “Bravo”.
Lui non se
lo fece ripetere. Ad
ogni goccia sentiva aumentare in lui una sensazione d’estasi
mai provata prima.
L’intero suo corpo veniva avvolto da questa strana forza.
Dovette smettere di
succhiare il braccio del padre e ribaltare la testa
all’indietro, lanciando un
gemito per un piacere mai provato prima. Il Caos sorrise più
convinto e gli
accarezzò nuovamente la testa.
“Bravo
il mio ragazzo” gli disse
“Ora riposa. Vedrai che domai starai subito meglio”.
Kydoimos,
ancora agitato ed eccitato,
non sapeva come potesse essere possibile per lui dormire ma poi il
padre sfiorò
con le labbra la sua fronte e il figlio cadde addormentato.
“Sono
il nonno di Hypnos mica per
niente” commentò il padrone di casa, prima di
lasciare la stanza.
Fuori,
trovò quasi l’intera casa
in apprensione. Dopo aver rassicurato tutti, decise che era giunto il
momento
pure per lui di riposare. Si girò e vide Airis, leggermente
impaurita, che
fissava la camera di Kydoimos.
“Ha
bisogno di riposo. Veglialo
per me, stanotte” le disse il Caos e la fanciulla
annuì.
La mattina
seguente, il tavolo
della colazione attendeva l’arrivo di Kydoimos con un certo
nervosismo. Stava
davvero bene? Cosa gli era successo? Prima di lui, entrò
Airis, timidamente. Più
di qualcuno si chiedeva chi fosse e da dove fosse saltata fuori. Lei
non
parlava ed osservava tutto.
“Sembra
una bambina” commentò
Shuna “Fa tutto come se non l’avesse mai fatto
prima”.
Airis
fissò incuriosita i
commensali. Sentiva nell’aria un profumino delizioso.
“Siediti,
Airis” le ordinò
Kydoimos, arrivando alle sue spalle.
La voce
dell’uomo era leggermente
più profonda del solito. Per il resto, pareva stare bene. I
figli lo accolsero
con abbracci e baci. Lui rispose ai saluti, sorridendo. Diede un bacio
sulle
labbra a Shuna e Airis fissò la scena con attenzione.
Seguì i movimenti
dell’uomo, che sedette e si versò il
caffè.
“Ci
vuole una stanza per la
nostra nuova ospite” disse.
“Certo.
Stanze ce ne sono. Gliela
mostrerò dopo” annuì Lienn
“Ma chi è?”.
“Si
chiama Airis. E rimarrà qui”.
“Questo
lo avevo capito. Mi
chiedevo chi fosse e da dove venisse”.
“Ogni
cosa a suo tempo. Quando
sei arrivata, mica ti assillavo tanto”.
Kydoimos si
rialzò, risistemando
il suo posto. Airis lo seguì, copiandone ogni mossa.
“No!”
la rimproverò lui
“Insomma…non sai fare qualcosa senza fissarmi?
Coraggio, fai quello che ti va.
Vai!”.
La donna
rimase per qualche
istante sconcertata. Parve smarrita ma poi si girò verso gli
altri, ancora
seduti.
“Ciao”
li salutò e tutti le
risposero.
Kydoimos li
lasciò chiacchierare
ed uscì sul corridoio.
“Fratellino…”
mormorò Erebo,
incrociandolo “Stai fluttuando”.
Kydoimos
subito ridiscese e si
toccò la testa, provando una sensazione di fastidio.
“È
normale” lo rassicurò il
maggiore “Sono le conseguenze del sangue di papà.
È come un dopo sbronza.
Passerà presto, vedrai”.
“Lo
spero. Ogni parola mi
rimbalza nel cranio”.
“Niente
di grave” ridacchiò Erebo
e poi inclinò la testa.
In fondo al
corridoio vedeva il
padre, Caos, con a fianco uno straniero. Un ospite? O un seccatore?
“Da
questa parte” parlò il
padrone di casa, indicando il corridoio.
Caos e
straniero, avvolto in un
pesante mantello, camminarono vicini.
“Che
sollievo vedervi!” parlò
l’ospite, rivolto a Kydoimos.
“Saga?”
domandò l’interessato,
riconoscendone la voce.
“Sono
io” annuì l’uomo, togliendo
il mantello che ne copriva il viso “E sono davvero felice di
vedervi in piedi.
Mi sono preoccupato molto alla spiaggia”.
“Non
era necessario. La mia vita
non vi riguarda”.
“Può
essere. Ma voglio essere
considerato un amico, come amici io considero voi. E quindi mi
preoccupo”.
“Sto
bene”.
“Ho
chiesto il permesso al
padrone di questa casa per potervi porgere di persona le condoglianze
per il
lutto”.
“A
quanto pare i pettegolezzi
volano”.
“Sono
stato io a parlargliene” interruppe
il Caos “E mi sembra un gesto gentile da parte sua”.
Kydoimos
sospirò. È vero, non
aveva motivo di essere così severo e sarcastico.
Nàgiri raggiunse il padre. Lo
prese per mano e fissò Saga con sospetto.
“Punirete
Ahriman, vero?”
domandò.
“Perché?”
domandò Saga, piuttosto
perplesso.
“Perché
è stato lui ad uccidere
la mia mamma ed i miei fratelli, facendo ammalare la mia
sorellina”.
“Nàgiri!”
lo zittì il padre
“Quante volte dovrai ancora tirare fuori questa
storia?”.
“Gli
parlerò” rispose invece Saga
“Cercherò in ogni modo di scoprire la
verità. So che cosa significa perdere una
persona a te molto vicina”.
“Anche
tu hai perso la mamma?”
mormorò Nàgiri.
“No.
Io la mia mamma non l’ho mai
conosciuta. Sono un orfano. Però ho perso una persona a cui
volevo molto bene,
un uomo che ho considerato mio fratello e anche di più. So
cosa si prova e so
quel che si desidera. Perciò, ti prego di ascoltarmi,
giovane Nàgiri. So che
ora provi rabbia e sconforto. Vorresti vendetta. Ma non è
questa la via. Il
sangue porta ad altro sangue”.
“Voi
divinità vi ammazzate sempre
fra voi”.
“Lo
so. Sto cercando di fare in
modo che questo non accada più. E, a questo proposito,
chiedo perdono a coloro
che dimorano in questa casa per aver sigillato Gaia. So di aver
arrecato molto
dolore e mi dispiace”.
Il Caos si
stupì nell’udire
quelle parole. Osservò Saga, mentre questi chinava il capo.
“E
io chiedo perdono per quel che
è successo ad Arles” parlò il padrone
di casa, dopo qualche istante “So che
quanto è accaduto sta ancora portando tristezza in molte
persone”.
“In
realtà…” quasi sorrise Saga
“…sono in pochi quelli che rimpiangono Arles. A me
manca, e molto, ma in molti
hanno fin troppo in mente il male che ha commesso”.
“Tutti
commettono degli errori.
Non è giusto condannarlo adesso!”.
Saga
sospirò. Sorrise a Nàgiri,
con quel suo sguardo malinconico sul viso, e si disse che forse era
tempo di
andare.
“Spero
di rivederti presto al
grande tempio” salutò.
“Non
accadrà tanto presto”
rispose Kydoimos “Mi spiace, ma per un po’
vorrò i miei figli sempre accanto a
me. Almeno fino a quando non si capirà quanto
successo”.
“Comprendo
perfettamente. Se
qualcuno mi portasse via la mia bambina, non mi darei pace fino al
sopraggiungere della verità. Spero che troviate presto le
vostre risposte”.
“Come
sempre le vostre parole
sono sagge, Atena” annuì Kydoimos.
“Dicono
sia la divinità
dell’intelletto, oltre che della guerra. Ma non ne sono molto
sicuro”.
Saga si
congedò. Nàgiri rifletté
sulle parole che gli erano state rivolte. Dicevano che le cose
accadevano
sempre per un motivo. Tutti quei morti per consolidare
un’alleanza? No,
impossibile.
“Ma
che volete da me?” sbottò
Thanatos, sull’uscio di casa.
“Solo
che ci porti da loro”
insistette Nyx.
Il Dio della
morte sospirò.
Davanti a sé aveva, oltre che alla madre, Kydoimos ed il
Caos.
“Posso
portare te ed il Caos”
riprese il Dio.
“Ma
Kydoimos ha il diritto di
salutare i suoi figli e le sue donne!” insistette Nyx.
“Mamma…”
riprese Thanatos, con
calma “…lui è un mortale. Non
è un Dio come noi. Non posso portarlo a spasso
per l’oltretomba a mostrargli parenti deceduti. Perderebbe
l’anima e
morirebbe”.
“E
non c’è nulla che tu possa
fare?”.
“No.
Se non dirvi che le anime
dei vostri cari sono state messe in un gran bel posto, vicino a Hypnos.
Lì si
godranno i fiori, il sole, la musica e tutto il resto. Stanno meglio di
me,
credetemi”.
“Puoi
portare loro un messaggio
da parte mia?” domandò Kydoimos.
“Che
noiosi che siete! E va bene,
lo posso fare. Ma qualcosa di breve e conciso, che ho da
fare”.
“Dì
semplicemente loro che gli
voglio bene, gliene vorrò sempre e che mi aspettino,
perché li raggiungerò”.
“Riferirò.
Ora scusatemi…”.
Il Dio fece
per rientrare ma Nyx
lo fermò. Lo guardò negli occhi, con velato
rimprovero.
“Chi
ti ha ordinato di portar via
quelle vite dal nostro palazzo?” domandò la Dea.
“Non
te lo posso dire”.
“Tu
me lo DEVI dire! Sono tua
madre!”.
“Non
posso. Non posso e basta!
Smettetela di starmi tutti addosso”.
“Noi
vogliamo solo la verità”.
“La
verità? Fa schifo la verità.
Godetevi la vita così com’è. Prima o
poi tutto si scoprirà ma nel frattempo
gradirei non essere infastidito”.
“Dei
bambini sono morti!”.
“Dei
bambini muoiono ogni giorno,
madre. Ogni giorno. E indovina chi è che li uccide. Non
è una cosa che mi piace
fare ma è una cosa che devo fare. Prendetevela con chi ha
stabilito il cammino
di quei piccoli”.
“E
tu non puoi fare a meno di
eseguire certi ordini?”.
“No,
e tu lo sai. Lasciatemi in
pace”.
“Dacci
almeno un indizio”.
“Non
insistete!”.
Thanatos
tentava di rientrare
nella sua dimora, nonostante l’insistenza della madre.
Spalancò la porta e
l’anima incompleta sobbalzò. Kydoimos la vide ed i
loro sguardi si
incrociarono. L’unico occhio dell’anima si
spalancò e sorrise. Kydoimos non
fece lo stesso. Si portò la mano alla testa, toccandosi il
lato un tempo rosa
carne. Bruciava. E molte immagini gli vorticavano davanti agli occhi.
Volti,
nomi, ricordi.
“Kydoimos!”
si allarmò il Caos.
“Ti
consiglio di portarlo via al
più presto da qui” parlò Thanatos
“O la sua forza vitale scorrerà via come il fiume
su cui ti traghetta Caronte una volta trapassato”.
“Immagine
poetica” storse il naso
il Caos, mentre il Dio della morte rientrava in casa, chiudendosi la
porta alle
spalle.
“Puoi
assicurarmi che tu non hai
nulla a che fare con questa faccenda?” parlò Saga,
serio.
“Mi
hai fatto venire fin qui per
chiedermi questo?” storse il naso Ahriman.
“Sì,
l’ho fatto. Voglio sapere la
verità”.
“Io
ero qua a cena con te, te lo
ricordi? Come potevo essere al palazzo nero ad uccidere dei
marmocchi?”.
“Bambini
innocenti, non
marmocchi”.
“Fa
lo stesso”.
“Eri
qui, è vero. Però puoi aver
mandato qualcuno”.
“E
chi?”.
“Cosa
ne so io?! Lo sto chiedendo
a te!”.
“Non
ti fidi?”.
“Non
mi fido di nessuno. Se, in
quel palazzo, morte e malattia non erano mai entrati, vuol dire che
qualcuno ce
li ha portati e cerco di capire chi”.
“Io
non ammazzo bambini. Sono
pure un bastardo che si comporta in pessimi modi in molte circostanze
ma io non
ammazzo bambini”.
La voce di
Ahriman pareva
sincera. Saga sospirò. Fissò il suo scettro, come
in cerca di risposte. Se il
Dio del Cielo era innocente, allora chi poteva avere un potere tale da
agire in
quel modo?
“Mi
dispiace di aver dubitato di
te, nipote” parlò.
“Era
normale che lo facessi”.
Saga
allungò la mano verso
Ahriman, in segno di pace. Il Dio del cielo la fissò
perplesso per qualche
istante. Poi sorrise e la strinse. Pace. Anche se probabilmente avevano
piena
intenzione di controllarsi a vicenda.
“State
meglio?” domandò Airis,
avvicinandosi al letto di Kydoimos.
“Sì,
ho solo mal di testa” rispose
lui.
Lei sedette
sul materasso e lo
guardò. L’uomo si mise seduto a sua volta. Si
fissarono in silenzio. Lui
sospirò. Lei gli si avvicinò e lo
baciò dolcemente sulle labbra. Kydoimos la
fissò con aria interrogativa.
“Ho
visto che avete salutato così
Shuna” rispose lei “E volevo anch’io
provare. Avete un buon sapore”.
“Grazie,
Airis. Tu hai il sapore
dell’acqua del mare”.
“Ed
è un bene?”.
“Sì,
è buono”.
Lui le diede
un altro bacio,
questa volta più lungo e convinto. Lei lo strinse forte.
“Signor
Kydoimos…” mormorò piano.
“Non
essere troppo riverente con
me, mia cara”.
|
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Capitolo 10 *** X- nuove vestigia ***
X
NUOVE
VESTIGIA
Il santuario
era in festa. Dopo
tanto tempo, si consegnava un’armatura d’oro. Arles
II, fiero ed un pochino in
ansia, attendeva quel giorno da anni. Era cresciuto ormai, aveva quasi
sedici
anni, e per metà di questi aveva avuto pieno diritto di
indossare le vestigia.
Il padre Deathmask, però, fino all’ultimo aveva
resistito. Poi si era accorto
che gli anni passavano e che era meglio affidare il suo compito ad un
giovane.
Era tra il pubblico, in abiti civili, ed osservava la moglie Ariadne.
Non era
invecchiata di un solo giorno. Lui, invece, iniziava a mostrare i segni
del
tempo con piccole rughe e qualche capello bianco. Guardò in
su, in cima alla
balconata dell’anfiteatro dove si svolgeva la cerimonia.
Lì stavano Saga ed
Aiolos. Il gran sacerdote, esattamente come Deathmask, era invecchiato
mentre
invece Saga, per merito del sangue divino, era immutato. Con lo scettro
di
Athena fra le mani, sorrideva ai presenti.
“Manca
Aphrodite” parlò Saga,
rivolto ad Aiolos.
“L’ho
notato” ammise il gran
sacerdote “Devo andare a farlo chiamare?”.
“No,
non è necessario. Non è
obbligatoria la sua presenza”.
Aiolos
annuì. Guardò
l’anfiteatro, notando fra la folla anche Kanon, Shura e Mur.
Avanzò di qualche
passo, alzando un braccio per indicare che era tempo di fare silenzio.
“Ti
sei dimostrato all’altezza,
Arles, figlio di Deathmask del Cancro e Ariadne dei Gemelli”
disse “Sei pronto
a giurare fedeltà alla Dea Athena e ricevere le sacre
vestigia?”.
“Sono
pronto” rispose Arles II.
“Bene.
Procedi”.
“Io
giuro fedeltà alla Dea Athena
ed al suo sacerdote e giuro di servire il grande tempio, proteggendo la
quarta
casa da ogni pericolo e obbedendo ad ogni ordine che mi sia impartito
per il bene
del Mondo”.
“Ricevi
questa sacra armatura, giovane
cavaliere. Indossala con onore e con rispetto, in nome di
Athena”.
“In
nome di Athena” ripeté il neo
cavaliere, mentre Saga, con un gesto dello scettro, faceva comparire lo
scrigno
d’oro con le vestigia dinnanzi al ragazzo.
Arles II
sorrise. Finalmente
quelle vesti erano sue. Le aveva sognate tanto a lungo.
Sfiorò, quasi
intimorito, lo scrigno e dall’anfiteatro si levò
un applauso.
Nàgiri
era chino su un libro ma
non lo stava leggendo. Era distratto e fingeva di studiare per non
essere
disturbato. Sua sorella Neikos lo capì subito e gli si
parò davanti.
“A
che pensi?” domandò.
“A
niente, sparisci”.
Lei si
voltò, tentando di capire
dove stesse guardando il fratello. Stava fissando Kydoimos e Airis, che
insieme
passeggiavano per il corridoio.
“Hai
notato che, da quella volta,
non sono nati più bambini?” commentò
Nàgiri.
“Sì”
ammise la sorella “Dicono
che anche papà sia vittima della maledizione che colpisce
tutti i figli del
Caos e che quindi non possa più avere figli”.
“Non
è giusto, però. Lui non è
veramente figlio del Caos”.
“Lo
so”.
“Ma
siamo rimasti così in pochi.
Solo Shuna e Lienn non hanno lasciato questa casa. Le altre mamme se ne
sono
andate con i nostri fratelli. È triste”.
“Sono
passati degli anni, ancora
non lo accetti?”.
Nàgiri
scosse la testa.
“Sai
a me, invece, cosa rende
triste?” riprese lei.
“Cosa?”.
“Il
fatto che, non potendo uscire
da qui, io e te non conosceremo mai l’amore”.
“Papà
ci vuole molte bene”.
“Non
metto in dubbio questo. Intendo
l’amore fra coetanei. I baci, i sospiri…il
sesso…”.
Nàgiri
fissò la sorella. Non si
aspettava da lei discorsi simili. Era cresciuta, era bella, ma fin ora
l’aveva
vista sempre e solo come una bambina.
“E
questo chi lo ha stabilito?”
domandò lui.
“Che
intendi?”.
“Qui
è pieno di fratelli sposati.
Pare sia la prassi, fra le divinità”.
“Ma
noi non siamo divinità”.
“E
non ti andrebbe di fingere di
essere tale?”.
Neikos
arrossì. Invidiava le
mogli di suo padre e tutte le altre donne del palazzo. Le sue sorelline
ancora
non potevano comprenderlo ma lei, ormai più che adolescente,
bruciava quasi di
rabbia. Il fratello si alzò e si stiracchiò,
deciso a lasciare la sorella nel
suo silenzio. Si recò nella sua stanza ma, dopo qualche
istante, Neikos vi
entrò. Nel buio, si avvicinò al fratello.
Sedettero entrambi sul letto.
“Dicevi
sul serio, prima?”
domandò lei.
“Certo”.
“Ameresti
tua sorella?”.
“Qui
quasi tutti amano la propria
sorella. Qualcuno persino la propria madre”.
“E
tu…ameresti…me?”.
“Io…se
tu…”.
Ora il
ragazzo era decisamente in
imbarazzo. Non sapeva bene che rispondere però voleva molto
bene a quella che
poteva considerare la sua gemella. Forse, era destino che lui la
amasse, non
solo che le volesse bene. La guardò. I lunghi capelli le
incorniciavano bene il
viso e i suoi grandi occhi brillavano nonostante il buio. Era bella. Si
passò
una mano fra i lunghi capelli verdi e le sorrise. Prese un profondo
respiro e
poi le si avvicinò, dandole un bacio.
“E
se scoprono che siamo qui?”
domandò lei, un po’ intimorita.
“Non
lo scopriranno. E, se
accade, non hanno alcun motivo di punirci”.
Neikos non
pareva convinta e
quindi Nàgiri si allontanò.
“Se
non te la senti, meglio
vivere come sempre. Come fratelli” le disse.
“Non
mi piace come viviamo
sempre. Voglio di più”.
“Allora
decidi tu quando. Appena
te la senti”.
Lei rimase
in silenzio, qualche
istante. Sfiorò la mano del fratello e poi la strinse.
“Rimarresti
accanto a me per
sempre?” chiese.
“Te
lo prometto. Ti proteggerò e
ti starò accanto sempre” confermò
Nàgiri.
“Allora
non devo provare alcun
timore”.
Fu lei ad
avvicinarsi ed a
baciarlo, stavolta. Lui la strinse forte a sé e la stese sul
letto.
“Ma
tu…” ridacchiò lei
“…lo sai
come si fanno queste cose?”.
“Non
molto” ammise lui “E tu?”.
“Nemmeno.
Però una volta ho visto
Erebo e Nyx”.
“A
me papà ha sempre fatto
discorsi vaghi al riguardo. Ma ho letto certe cose”.
“Intanto
baciami. È una bella
sensazione, no?”.
Lui
annuì e riprese a baciarla.
Era strano, quasi assurdo, ma bellissimo. Sentirla fra le sue braccia
gli piaceva.
Forse era destino che, come tante divinità, loro due fossero
fatti per stare
assieme. Sentiva lo strusciare dei loro abiti, le cui stoffe sfregavano
fra
loro. Lasciò che l’istinto lo guidasse e
risalì con la mano lungo le gambe di
lei. Slacciò i nastri che si intrecciavano davanti al seno
della sorella e ne
tenevano chiusa la veste.
“Sei
bellissima, Neikos” le
sussurrò.
Lei sorrise,
dandogli un altro
bacio.
“Posso
spogliarti?” domandò
ancora lui.
“Solo
se ti spogli anche tu”
annuì lei.
Nudi,
lasciarono scorrere
naturalmente gli eventi. Gemettero di piacere, uniti in un solo corpo,
abbracciandosi forte.
“Ti
amo, Neikos” disse lui.
“Ti
amo, Nàgiri”.
E, giungendo
all’orgasmo, si
promisero fedeltà eterna.
“Aiolos”
chiamò Saga, una volta
rientrato nella sua dimora.
“Sì?”
domandò lui, inchinandosi
leggermente.
“Hai
visto Aphrodite, tornando
qui?”.
“No.
Non l’ho visto. Però ho
percepito qualcosa”.
“Credi
sia nascosto in casa?”.
“Può
essere. Non saprei dire”.
Saga allora
decise di raggiungere
la dodicesima casa. Era un po’ preoccupato. Aphrodite adorava
le cerimonie di
investitura, le trovava divertenti ed un motivo per festeggiare.
“Vieni
con me?” domandò ad
Aiolos.
Il gran
sacerdote annuì e seguì
il suo signore lungo la scalinata di rose rosse, che lasciarono passare
i due
senza problemi, creando un sentiero. Per Saga il profumo di quelle rose
non
provocava alcun danno ma per Aiolos poteva essere fatale. Assieme
giunsero alla
dodicesima. Si percepiva una presenza, ma non erano sicuri che fosse il
cavaliere dei pesci.
“Anche
voi qui?” si sentirono
chiedere.
“Deathmask?”
si stupì Saga.
“Cosa
ci fate qui, ragazzi?”
riprese l’ormai pensionato cavaliere del cancro.
“Cerchiamo
Aphrodite. E tu?”.
“Idem.
Mi sono chiesto il perché
della sua assenza alla cerimonia. A lui piacciono queste
cose”.
“E
allora dov’è?”.
Girarono per
la dodicesima,
chiamando il cavaliere senza però ricevere risposta. Si
divisero e poi Saga
gridò il nome di Aphrodite, con tono spaventato. Gli altri
due cavalieri lo
raggiunsero. Il cavalieri dei pesci era steso in terra, senza armatura.
I tre
capirono subito che Aphrodite era senza vita forse da giorni. Rimaneva
comunque
bellissimo, anche se mortalmente pallido.
“Chi
ti ha fatto questo?” disse
Deathmask, non aspettandosi risposta.
“È
stata colpa mia” invece si
sentì dire.
Nel buio,
una voce di donna. Saga
si avvicinò. Una figura stava rannicchiata contro il muro e
piangeva.
“Perché
dici che è stata colpa
tua?” le domandò la reincarnazione di Athena.
La ragazza
puntò il dito indice,
che mostrava una piccola ferita. Saga capì. Quella giovane
aveva affrontato il
rituale del legame di sangue, quello che doveva affrontare ogni
cavaliere dei
pesci per divenire tale. Il veleno del sangue del maestro, lentamente
si
trasferisce all’allievo fino a quando l’allievo non
supera il maestro e finisce
con l’ucciderlo. Quella ragazza doveva essere la nuova
rappresentante del segno
dei pesci.
“Vieni,
mostrati” la invitò Saga.
“L’ho
ucciso io” pianse lei “Ho
fatto morire il mio maestro”.
“Fa
parte del rituale. Per tutti
i pesci è così”.
“Sono
un’assassina”.
“Lo
siamo tutti” sdrammatizzò
Deathmask.
La ragazza
si alzò e si mostrò.
Era bella da mozzare il fiato. I suoi occhi argento brillavano come
stelle e i
lunghi capelli parevano fuoco. I tre la guardarono, non sapendo cosa
dire.
“Per
la spada di Ares!” esclamò
qualcuno.
Arles II,
che era lì per
controllare dove fosse il padre, era rimasto fulminato da quella
visione.
Scansando i tre “vecchi”, salutò la
fanciulla con un elegante baciamano.
“Ciao,
bellissima” le sorrise
“Sono Arles, cavaliere del cancro. E tu?”.
“Non
toccarmi” rispose lei
“Perché è rischioso. Ho nel sangue il
veleno dei pesci”.
“Non
mi ha mai creato alcun
problema. E hai un nome?”.
“Tania”.
“Tania?
Piacere di conoscerti”.
Lei sorrise,
vedendo lui inchinarsi.
“Sangue
italiano” commentò
Deathmask.
Arles II e
Tania parevano avere
la stessa età. Saga li fissò. La nuova
generazione finalmente iniziava
mostrarsi e, per un istante, provò quasi sollievo.
“Tartaros”
chiamò Nàgiri “Ti
posso parlare?”.
Tartaros si
stupì di quella
domanda. Non parlava quasi mai con i giovani della casa
perché, con le sue
dimensioni, incuteva un certo timore.
“Cosa
c’è, ragazzo?”.
“Ho
provato a chiedere a tanti a
palazzo, ma nessuno ha saputo dirmi molto. Magari tu puoi
aiutarmi”.
“Parla”.
“Cosa
sai su mio padre?”.
“Su
Kydoimos?”.
“Sì.
Cosa sai sul suo passato?
Chi era prima di venire qui?”.
“Perché
non lo chiedi a lui?”.
“Non
mi da risposte chiare”.
Tartaros
rimase in silenzio.
Guardò Nàgiri e gli mise una mano sulla spalla.
“Ragazzo…”
iniziò “…molti di
coloro che sono qui non hanno avuto un bel passato. Probabilmente non
vuole
ricordare o raccontare ciò che è stato.
Capisci?”.
“Capisco”.
“Se
un giorno vorrà, ti
racconterà ogni cosa, ma non è detto che questo
accada”.
“Ma
non sai da dove l’ha
raccattato il Caos?”.
“Non
è un bel termine quello che
hai usato e comunque io non so nulla a riguardo. So che lo ha portato
qui dopo
una battaglia. Chiedilo a lui”.
“Ne
andrebbe a parlare a mio
padre”.
“E
qual è il problema? Perché ti
interessa sapere del passato di tuo padre?”.
“Perché
sono abbastanza grande
per sapere la verità, no?”.
“Non
siamo mai abbastanza grandi
per certe cose, Nàgiri”.
"Come
ho potuto non accorgermene, amico mio?”
parlava Saga, camminando solo per la sua dimora “Una vita
passata insieme e non
un solo sospetto. Crescere assieme e non conoscersi. Che pessima
persona sono,
ma questo lo sapevo già. Ora so di essere stato perfino un
pessimo amico.
Ti chiedo perdono, come ho chiesto perdono a tanti. Ma che senso ha? Le
anime
morte non possono perdonarti. E più passano i giorni e
più osservare quella
daga d'oro diventa un'ossessione. La voglia di piantarmela in gola,
esprimendo
il desiderio di ritrovarvi, è forte. Ti rivedrei, fratello?
E tu mi
sorrideresti ancora, amico mio?
Perché mi abbandonate tutti? Perché qui resto
solo io?".
Pensava
ad Aphrodite, non riuscendo a capacitarsi di non essersi accorto della
decisione dell’amico. Il rituale richiedeva anni prima di
concludersi. Come aveva
potuto essere così
concentrato su se stesso da non vedere il cavaliere stare male e
lentamente
spegnersi? Con una lacrima che gli scorreva sul viso,
camminò per raggiungere
il piccolo armadio dove teneva gli alcolici. Si riempì il
bicchiere e bevve un
lungo sorso. Per un attimo si sentì meglio ma poi fu colto
da un improvviso
malessere. Si premette la fronte. Il bicchiere cadde in terra, andando
in
frantumi e Saga svenne.
Kydoimos se
ne stava tranquillo
nella vasca. Stava steso e si rilassava, immerso nell’acqua
calda. Muovendo
lentamente le braccia, si beava del rumore lieve che produceva. Poi
l’orecchio
a sinistra, quello a punta, percepì qualcosa. Qualcuno era
entrato nella
stanza. Erebo raggiunse il bordo della vasca e rimase a fissarlo.
“Vedi
qualcosa che ti piace?”
ridacchiò Kydoimos.
“Vorrei
parlarti e questo è
l’unico luogo dove sei solo”.
“Già.
Chissà perché” sbottò
sarcastico.
“Volevo
solo farti notare che i
tuoi figli crescono, Kydoimos”.
“Questo
lo vedo da me”.
“E
cosa pensi di fare?”.
“A
che proposito?”.
“Non
lo immagini?”.
“No”.
“Stanno
crescendo. Dovrebbero
conoscere delle persone diverse dai parenti, magari di sesso
opposto”.
“E
perché?”.
“Vuoi
che si sposino fra loro?”.
“Tu
hai sposato tua sorella!”.
“Eravamo
in pochi al mondo. Amo
Nyx, tantissimo, ma forse quei giovani meritano di esplorare. Se poi
è destino
che stiano fra loro, allora andrà così”.
Kydoimos non
parlò subito,
capendo che probabilmente Erebo aveva ragione. Immerse parte del viso
in acqua.
Non voleva che i suoi piccoli si allontanassero. Erano rimasti in
pochi, solo
in sette. Ne aveva avuti oltre quaranta, ma così pochi erano
ancora in vita ed
accanto a lui!
“So
che è difficile per te” parlò
Erebo e ancora non ricevette risposta.
Il Dio
sospirò e si alzò. Era
inutile parlarne.
“Posso
solo chiedere perché ora
tieni il ciuffo davanti all’occhio destro?”
parlò.
“Perché
tanto sono del tutto
cieco da quell’occhio” rispose, calmo, Kydoimos.
“Capisco”.
Erebo
fissò il fratello minore,
che nella vasca pareva quasi immerso nei lunghissimi capelli. Era
meglio
lasciarlo da solo.
Aiolos,
seduto sul trono della
tredicesima, sospirò. Sapeva che Saga era solo. La moglie e
la figlia erano al
tempio di Hestia per qualche giorno perché la madre
desiderava far conoscere
alla sue erede anche quella realtà. Forse doveva dargli una
controllata. Scostò
la tenda e salì i pochi scalini che lo dividevano dalle
stanze della
reincarnazione di Athena e la sua famiglia.
“Saga”
lo chiamò “Sei già a
letto?”.
Scostando
l’ennesima tenda, vide
Saga a terra. Era pallido. Lo fece rinvenire.
“Sto
bene” gli disse Saga,
alzandosi a sedere e tentando di rialzarsi.
Non ci
riuscì, colpito da un
altro capogiro. Aiolos lo sorresse e lo accompagnò a letto.
“Che
ti succede?” domandò,
preoccupato, il gran sacerdote.
“Niente.
Sarà la stanchezza”.
“Tieni,
bevi” offrì Aiolos,
notando gli occhi rossi dell’amico.
Entrambi
avevano sicuramente
pianto per Aphrodite.
“Devo
solo riposare un po’. È
stata una giornata impegnativa” mormorò Saga.
“Sei
sicuro?”.
“Sì.
È da un po’ che…”.
“Un
po’? Chiamo Hermes”.
“No,
non serve”.
“Adesso
chiamo Hermes, Dio della
medicina”.
“No,
non voglio far preoccupare
qualcuno”.
“Gli
ordinerò massima
discrezione. Ma lo chiamo, perché voglio vederti stare bene,
ok?”.
Saga non
disse nulla. Si stese
sul letto, cercando di rilassarsi. Però non riusciva a
dormire. Aiolos si
allontanò e tornò dopo meno di mezz’ora
con Hermes.
“Nessuno
sa che è qui, sei
contento?” disse il gran sacerdote.
“Grazie”
sorrise debolmente Saga.
“Ora
vi lascio per la visita”.
“Puoi
restare. Non c’è niente che
ti voglia nascondere”.
“Ma
ti lascio la tua privaci. E
poi vado a letto. Sono un po’ stanco”.
Dopo essersi
dati la buonanotte,
i due si separarono e Hermes iniziò la sua visita.
Osservò attentamente gli
occhi del paziente, chiedendone i sintomi. Ascoltò il
battito e tastò alcuni punti.
“Da
quanto tempo ti capita di
provare capogiri, mal di testa e mancanza di respiro?”.
“Non
lo so” ammise Saga “Ogni
tanto mi capita”.
“Ultimamente
hai notato che
capita più spesso?”.
“Sì
e faccio sempre più fatica a
dormire. Sono sempre stanco ma non dormo perché ho sempre
male da qualche
parte”.
Lo sguardo
di Hermes si fece
serio. Respirò a fondo, passandosi una mano dietro al collo.
“È
una cosa per cui non ti posso
aiutare” disse “Qualcosa in te non va. Qualcosa di
grave. Qualcosa che non ho
mai riscontrato prima. E purtroppo pare progressivo. Nonostante tu sia
una
divinità”.
“È
solo un po’ di stanchezza.
Dammi qualcosa per dormire, vedrai che poi starò
meglio”.
“C’è
qualcosa nel tuo sangue.
Qualcosa di nero, oscuro, che ti sta consumando. E uccidendo”.
“Uccidendo?”.
“Sì.
Non so fra quanto. Ma pian
piano ti spegnerai”.
Saga
riappoggiò il capo sul
cuscino, in silenzio.
“Farà
male?” domandò.
“Probabilmente
sì. Segui il mio
consiglio: parlane con chi ami, perché ogni momento
sarà prezioso. Potrebbero
volerci vent’anni come pochi mesi”.
“Capisco”.
“Mi
dispiace”.
“Non
dispiacerti. È scritto nelle
stelle”.
“Ti
lascio qualcosa per riposare.
Allevierà il dolore, quando avrai qualche crisi”.
“Grazie”.
Saga non
aveva voglia di dire
altro. Girò la testa, evitando lo sguardo del Dio, che fece
un piccolo inchino
di congedo e si allontanò.
“Hei”
lo fermò Saga “So che sei
anche il Dio dei ladri. Non portarmi via nulla” e
ridacchiò.
“Non
lo farò. E buona fortuna.
Pregherò per te, Athena”.
“Le
preghiere non servono. Il
mondo non gira con le preghiere”.
“Ma
a volte scaldano il cuore”.
“Può
essere”.
Hermes se ne
andò e Saga rimase
al buio, da solo. Decise che non avrebbe detto nulla, fin quanto
possibile,
sulla sua condizione. C’erano cose più importanti
a cui pensare. Quasi sorrise.
Forse morire era la cosa migliore che potesse fare.
“Benvenuto,
Aphrodite” fece un
inchino Thanatos.
“Ciao”
salutò il cavaliere dei
pesci.
Sorrise,
felice. Aveva finalmente
trovato la pace. Poteva riposare per sempre nei campi elisi.
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Capitolo 11 *** XI- ritrovarsi ***
XI
RITROVARSI
Nàgiri
sorrise. Nonostante
fossero passati molti anni, ormai lui ne aveva più di venti,
il Grande Tempio
non era cambiato. Camminò sicuro lungo il sentiero che lo
portava alla prima
casa. Una bambina fermò il suo avanzare, parandosi davanti
all’intruso con le
braccia spalancate.
“Non
puoi andare oltre!” parlò la
piccola.
“Ah,
no?” ridacchiò Nàgiri,
scansandola con due dita.
“No!”
instette lei,
teletrasportandosi e bloccandogli di nuovo la strada.
“Ma
tu chi sei?” si irritò lui.
“Mi
chiamo Inlil, e tu non puoi
proseguire”.
“Altrimenti
cosa mi fai?”.
“Ti
faccio molto male!”.
“E
come?”.
La bambina
si concentrò, tentando
di mostrare i suoi poteri psichici. Nàgiri notò
le sopracciglia tonde di lei e
intuì che, probabilmente, era una piccola lemuriana.
“Sei
la sorellina di Kiki?”
chiese e lei spalancò gli occhi, stupita.
“Ma
no!” scosse la testa
“Stupido! Il grande Kiki è mio
papà!”.
“Oh”.
Ora era
Nàgiri ad essere stupito
ma non lo restò a lungo. Facendosi due conti in testa, si
rese conto che Kiki
doveva aver superato i trent’anni da un po’.
“Che
problemi ci sono, Inlil?”
chiamò Kiki, apparendo alla soglia della prima casa.
“C’è
un intruso” rispose la
bambina.
“Sei
così scansafatiche che usi
tua figlia come sentinella, invece di fare il tuo lavoro?”
sorrise Nàgiri.
Il cavaliere
dell’Ariete,
piuttosto offeso da quelle parole, scese lungo la scalinata, deciso ad
affrontare lo straniero e farlo tacere.
“Hai
sconfinato” sibilò e Nàgiri
rise.
“Non
è mia intenzione dare
fastidio” parlò “Voglio solo salutare un
amico. Se vive ancora qui”.
“Chi
cerchi?”.
“Kiki!
Sono io! Non mi riconosci!
Sono quello che a calcio vinceva sempre”.
“Nàgiri?”.
“In
persona”.
Kiki
fissò il giovane e sorrise.
Quanto tempo era passato! E come era cambiato chi aveva di fronte!
“Puoi
passare, ragazzone. Ma
ricorda che ti tengo d’occhio” si scansò
il cavaliere dell’ariete.
“Grazie,
amico mio. Ed hai una
gran bella bambina, non ti somiglia per niente”.
“Sei
venuto su davvero
stronzetto, sai?”.
“Sempre
stato”.
Ridacchiando,
i due si congedarono
e Nàgiri riprese la sua salita.
Alla
casa del toro, nessuno lo fermò. Il suo guardiano doveva
essere altrove, come
spesso accadeva. Entrò alla terza casa con un po’
di timore, perché sapeva
quanto potevano essere bastardi i cavalieri dei gemelli. Ariadne lo
vide e non
lo riconobbe subito.
“Salve,
signora della terza casa”
salutò Nàgiri.
Non era
invecchiata di un solo
giorno, rimanendo bellissima e potente.
“Ci
conosciamo?” alzò un
sopracciglio lei.
“Sono
Nàgiri. Ma sono cambiato
così tanto?”.
“Vai
alla quarta casa, sono certo
che Arles sarà felice di rivederti”
annuì Ariadne.
Salì
ancora una fila di scale ed
entrò alla quarta casa. Come sempre, provò una
certa inquietudine
nell’entrarvi, fra anime smarrite e maschere mortuarie.
“Stai
facendo una gita?” sbottò
Arles II, spuntando serio da dietro una colonna, con uno sguardo
minaccioso sul
viso.
“Arles!
Sei tu! Ma
sei...diventato grosso!”.
“Sei
venuto qui per darmi del
ciccione, intruso?”.
“Non
sei ciccione. Sei grosso. Ne
hai fatto di allenamento. E che bene ti sta la scintillante armatura
del
cancro, amico mio”.
“Io
non sono tuo amico. Chi
sei?”.
“Sono
Nàgiri, cazzone”.
“Dici
sul serio?”.
I due si
fissarono per qualche
istante in silenzio e poi si misero a ridere.
“Che
bello rivederti!” sorrise
Arles II, tirandogli un piccolo pugno sulla spalla.
“Sei
cavaliere d’oro. Sono felice
per te. Ma…è forse successo qualcosa a tuo
padre?”.
“Sì.
È invecchiato ed è andato in
pensione anticipata. Ora si gode la vita”.
“Ah,
buon per lui”.
“Ed
a te come va? Tutto bene? Ho
saputo quello che è successo nella tua
famiglia…”.
“Son
passati tanti anni”.
“E
anche tu sei diventato grosso.
Hai delle spalle enormi. Vi fanno fare allenamento nel palazzo
nero?”.
“Sì,
per mia scelta”.
“Resti
per pranzo?”.
“Volentieri.
Però non qui, con
tutte queste facce che mi fissano”.
“Andiamo
da mia madre, che ha
anche più spazio. E conoscerai la mia ragazza”.
“La
tua ragazza?”.
“Tania,
la custode della
dodicesima casa, quella dei pesci”.
“Buon
per te”.
“Toccala,
e finisci appeso al
muro assieme a loro” indicò il muro Arles II,
ghignando.
“Ioria,
torna alla tua casa”
quasi ordinò Aiolos.
Il cavaliere
del leone stava al
tredicesimo tempio, al cospetto del fratello maggiore, a pugni chiusi.
Si era
accorto del graduale ritorno delle creature del Caos. La cosa al leone
non
piaceva.
“Saga
deve agire” protestò “Non
possiamo permettere che questi esseri girino liberamente per il
mondo”.
“Ti
hanno mai infastidito? O
fatto del male a qualcuno?” rispose Aiolos, sforzandosi di
restare calmo.
“No”.
“E
allora che problema c’è?”.
“Sono
un pericolo”.
“E
questo chi lo ha stabilito?”.
“Ma
è ovvio! Sono esseri
pericolosi”.
“Non
ci sono prove di questo”.
“Il
compito di Saga è tenere al
sicuro i deboli”.
“Credi
che Saga non sappia quel
che fa? Se fossero pericolosi, interverrebbe di certo”.
“Ti
ha fatto il lavaggio del
cervello”.
“E
tu lo hai lasciato a casa il
cervello, invece!”.
Ioria
ringhiò. Pretendeva di
parlare con Saga, di persona, ma il fratello maggiore glielo impediva.
Questo
perché il gran sacerdote rispettava un ordine. Ormai
impossibilitato a
nascondere a lungo il male che lo consumava, Saga aveva confessato alla
moglie,
alla figlia e ad Aiolos la verità. Aveva però
ordinato loro di non spargere la
voce. Non voleva che si sapesse in giro. L’attenzione non
doveva concentrarsi
su di lui ma su un futuro di pace. Con il viso però scavato
dal male, non
usciva mai dalla sua casa. Riposava e agiva tramite il suo fedele gran
sacerdote.
“Voglio
vederlo!” insistette
Ioria “Voglio verificare di persona che non sia di nuovo
uscito di testa!”.
“Non
è uscito di testa, fidati di
me”.
“Mi
fido di te. Ma…”.
“Se
ti fidi, torna alla tua casa.
Va dalla tua famiglia, fratello”.
“Ma…”.
“Smettila
di contraddirmi”.
“Ma
se ci fosse qualcosa che non
va…tu me lo diresti, vero?”.
“Se
qualcosa potesse farti del
male, sì. Te lo direi”.
Ioria non
era molto convinto ma
alla fine lasciò la tredicesima casa, senza aggiungere
altro. Aiolos sospirò.
Non amava mentire al fratello, ma era obbligato a farlo. E
fortunatamente fin
ora solo il leone aveva chiesto udienza diretta con Saga.
L’arrivo
di Tania alla casa di
gemini fece rimanere senza parole Nàgiri. Era una donna
bellissima. Salutò
l’amato Arles II tirandogli il codino e poi fissò
l’ospite con curiosità.
“Ciao”
salutò “Tu chi saresti?”.
Nàgiri
farfugliò qualcosa di poco
comprensibile e poi si presentò.
“Sedetevi
e mangiate” invitò
Ariadne, mentre anche Deathmask si aggiungeva alla compagnia.
Non chiese
chi fosse quel giovane
dai lunghi capelli verdi e sedette, affamato. In lui si notavano i
segni degli
anni passati, anche se in maniera lieve.
“Salute”
brindò Arles II “Agli
amici che non si dimenticano”.
“Agli
amici” risposero gli altri,
in coro.
“Hai
davvero una ragazza
bellissima” commentò Nàgiri.
“Lo
so. E tu? Che mi racconti?
Che combini?”.
“Sai
che vivo solo con le mie
sorelle…”.
“E
con ciò? Anche mio zio Ahriman
ci prova sempre con mia madre, vero mamma?”.
“Eh
sì” storse il naso Ariadne
“Ma poteva chiedere a mamma e papà
un’altra sorella da importunare, invece di
provarci con me che sono felicemente sposata”.
“Ahriman
ci prova con sua
sorella?”.
“Sì,
devi vedere come sbava. Però
non lo ammette”.
Nàgiri
non commentò oltre. Scosse
la testa con un sorriso e si dedicò la dolce.
“Non
devi mica sgridare in quel
modo tuo fratello” parlò Saga, quando Aiolos
entrò nelle sue stanze.
“Non
avevo altro modo per
allontanarlo. Obbedisco agli ordini”.
“Bravo.
C’è una domanda che
vorrei farti…”.
Saga aveva
preso la medicina che
Hermes gli preparava e ora se ne stava a letto. Sua moglie Hestia era
al proprio
tempio che pregava, cosa che il marito riteneva inutile. La figlia
Heiwa
riposava. La notte precedente aveva vegliato il padre, che aveva avuto
uno dei
suoi soliti attacchi. Aiolos si avvicinò la letto, scostando
le tende del
baldacchino.
“Che
mi volete chiedere?” disse,
parlando piano.
Il gran
sacerdote attese la
risposta, sapendo che Saga faceva molta fatica ormai a fare anche le
più
piccole cose. Erano anni che la malattia lo consumava ed ora pareva
allo
stremo. Non poteva più fingere di stare bene, come aveva
tentato sempre di
fare.
“Perché,
Aiolos, non ti sei
creato una famiglia?” domandò Saga.
“Io
ho una famiglia. Ho Ioria,
sua moglie, ed i loro figli”.
“Quella
non è la tua famiglia.
Intendo…perché non hai dei figli, una
donna…”.
“Non
ho mai provato il desiderio
di averne. Ho servito Athena fedelmente, cresciuto finché ho
potuto mio
fratello ed addestrato dei piccoli cavalieri”.
“E
ti sei preso cura delle mie
donne, da quando ho iniziato a stare male. Te ne sono grato”.
“Lo
faccio con piacere”.
“Continuerai
a farlo, vero? Anche
quando io…”.
“Fino
a quando non starai meglio.
Una volta guarito, non vi servirò”.
“Lo
sai che io non guarirò”.
“Tu
guarirai”.
“Aiolos…”.
“Tu
guarirai perché…non voglio
seppellire un altro di noi. Fa troppo male”.
“La
vita è fatta anche di questo.
Prima o poi finisce”.
“Ma
tu sei una divinità. Non puoi
morire”.
“Kayros,
Dio che scrive la sorte
di ogni uomo, ha deciso diversamente per me”.
“Non
lo trovo giusto”.
Saga
sorrise, socchiudendo gli
occhi.
“Che
è successo oggi al tempio?”
domandò, ad occhi chiusi.
“Pare
sia riapparso quel bambino
strano che una volta giocava qui”.
“Nàgiri?”.
“Sì”.
“Ottimo.
Sono felice. Spero tanto
che la pace torni fra la nostra gente”.
“La
formeremo insieme la pace.
Ora, però, dovete riposare”.
“Resta
qui ancora un po’. È
sempre così buio e confuso questo posto,
ultimamente”.
Aiolos
annuì. Il tempio, come
sempre, era soleggiato e luminoso. E la statua di Athena brillava al
sole.
Verso sera,
Nàgiri decise che
forse era meglio rientrare al palazzo nero. Aveva trascorso una
piacevole
giornata ma era tempo di tornare a casa. Si avviò lungo la
scalinata, con
l’intenzione di salutare Kiki. Uscì dalla casa dei
gemelli e si fermò. Ahriman
stava risalendo. Entrambi si fissarono, immobili.
“Ciao,
figlio del Caos” parlò
Ahriman, dopo qualche istante.
Nàgiri
non rispose. Serrò i
pugni, sforzandosi per rimanere calmo.
“Cosa
c’è?” domandò Ahriman
“Qualcosa non va?”.
“Lo
chiedi anche, divinità?”.
“Certo
che lo chiedo. Non mi
piace spiare la mente della gente mortale”.
“Io
non ho niente da dirti”.
“Allora
scansati, devo passare”.
“Devi
andare ad eccitarti
guardando tua sorella? Non hai giornaletti porno a casa tua?”.
Ahriman lo
fulminò con lo
sguardo. Come osava quell’essere rivolgergli simili parole?
“Io
posso farti molto male, lo
sai? Sciocco ibrido del palazzo nero”.
“Lo
so” annuì Nàgiri “Mi hai
già
fatto molto male. Per colpa tua, io ho perso mia madre e molti dei miei
fratelli e sorelle”.
“Anche
tu pensi questo?”.
“Ne
sono certo. Ho visto quando
infondevi quell’ombra nera su mia sorella”.
“Stronzate”.
“Per
anni ho desiderato solo
ucciderti con le mie mani”.
“Fallo.
Se usassi il mio potere,
moriresti in un sospiro”.
“Non
ho paura di te. Non ho
motivo di riverirti. Dove vivo io, non si vedono le stelle”.
“Questo
perché siete maledetti”.
“Non
mi sono maledetto da solo!”.
Nàgiri
lasciò perdere i buoni
propositi e tentò di colpire il Dio con un pugno. Ahriman
schivò facilmente e
rispose al colpo con due dita. Nàgiri gridò per
il dolore e ringhiò di rabbia. Riuscì
a rispondere al colpo, cogliendo il Dio di sorpresa. Ahriman si
stupì della
velocità di quel mortale. E trovò anormale la sua
forza. Retrocedette di
qualche passo. Nessuno degli altri presenti aveva il coraggio di
attaccare o di
intervenire. L’ira del Dio del cielo era temuta.
“Ti
ucciderò con le mie mani,
anatema” sibilò Ahriman.
“Ti
riempirò di botte come non ha
fatto mai nessuno!” promise Nàgiri.
“Che
succede?” si chiese Saga,
svegliandosi di botto.
Il chiasso
prodotto da Nàgiri ed
Ahriman era udibile anche dalla casa di Athena. Tentò di
alzarsi ma non ci
riuscì, ricadde sul cuscino.
“Tranquillo,
ci penso io” lo
calmò Aiolos.
Il gran
sacerdote uscì sul
piazzale con la grande statua della Dea, da cui si vedeva tutto il
grande
tempio.
“Silenzio!”
tuonò “Non disturbate
la pace di questo sacro luogo”.
Nàgiri
parve titubare qualche
istante ma Ahriman di certo non si faceva dare ordini da un semplice
mortale.
Lo colpì violentemente, mandandolo a terra. Il giovane non
si fece scoraggiare
e rispose subito, con un altro pugno ben assestato.
“Crepa,
signore dei
cirrocumuli!”.
“Torna
al tuo palazzo, scherzo
della natura!”.
Aiolos si
accigliò. Saga aveva
bisogno di riposo, non di schiamazzi per motivi futili.
Chiamò a sé il suo
arco. Sapeva come far cessare tutto!
Saga non
riusciva a vedere quel
che stava accadendo ma percepì il movimento
dell’arco di Aiolos. Gli gridò di
non usarlo, ma la sua voce non era più potente come un
tempo. Tentò
affannosamente di uscire dal letto. Dolorante, si trascinò
fino allo scettro di
Athena e tentò di uscire all’aperto.
Con la
freccia oro puntata verso
i due litiganti, Aiolos era pronto a scoccarla contro il mortale. La
divinità
non la voleva uccidere, perché utile, ma quella creatura del
Caos era
sicuramente la fonte dei guai. Aveva ragione Ioria. Tese
l’arco e prese la
mira.
“Fermo!”
ansimò Saga, camminando
sorreggendosi con lo scettro.
“Saga!
Cosa fai in piedi?” si
allarmò Aiolos.
“Non
preoccuparti per me.
Obbedisci al mio ordine. Deponi quell’arco”.
Ora la voce
di Saga era
accompagnata da quella di Athena e si udivano entrambe, forti. Aiolos
obbedì.
Osservò l’amico avvicinarsi e guardare
giù, verso i litiganti. Percepiva il suo
respiro affannoso ma non riuscì a dirgli
null’altro, se non chinare il capo
mentre Saga splendeva di luce sempre più viva.
“Athena”
mormorò più di qualcuno,
notando quella creatura luminosa come una stella.
Saga
sollevò lo scettro. Grazie
alla luce candida che lo avvolgeva, nessuno notava il suo viso stanco e
la
smorfia di dolore che accompagnò quel semplice gesto. Era
sceso il silenzio al
santuario. Si udivano solo le grida dei due litiganti. Lo scettro
vibrò ed un
fascio oro partì da esso, andando a colpire
Nàgiri ed Ahriman. I due, separati
da quel raggio, si fissarono increduli. Un senso di pace ora albergava
nei loro
cuori e non provavano più il desiderio di combattere.
“Athena
sa compiere ancora
miracoli” ghignò beffardo Ahriman, aiutando
Nàgiri a rialzarsi.
Entrambi
guardarono in alto,
verso la divinità. La luce che l’avvolgeva si
mostrò ancora qualche istante e
poi si spense, di colpo. Senza emettere un solo gemito, Saga cadde a
terra. Lo
scettro tintinnò in una nota melodica, sbattendo sulla
pietra, che riecheggiò
per il santuario.
“Questo
è normale che accada?” si
chiese Nàgiri e si udì l’urlo di Heiwa.
“Saga!”
lo chiamò Aiolos,
cercando di farlo riprendere.
Heiwa corse
accanto al padre e lo
chiamò a sua volta. La luce di Saga però si era
spenta, così come la sua vita.
A nulla valsero i tentativi del suo gran sacerdote. Aveva usato le sue
ultime
energie per donare la pace.
Passarono
solo pochi istanti e le
porte della tredicesima casa furono scosse. Il tempio era accorso su
per le
scale, per capire quel che era successo. Hestia, in testa al gruppo,
spalancò
la porta e guidò tutti fino alla statua d’Athena,
sotto la quale giaceva Saga.
Dallo sguardo di Aiolos e Heiwa, la Dea comprese subito quanto
successo. Si
portò le mani al viso e scosse la testa. Il gran sacerdote
non sapeva cosa dire
e lei si fece abbracciare, scoppiando a piangere. La figlia, ancora
china sul
padre, storse il naso alla scena. Accarezzò i capelli del
genitore, con le
lacrime che le rigavano il viso. Cosa faceva tutta quella gente
lì, ora?
Dov’erano quando suo padre stava male per giorni interi, in
preda al dolore? E
sua madre…
“Oh,
papà. Perché mi hai lasciato
da sola?” pianse, appoggiandosi al petto ormai silenzioso di
Saga.
Kydoimos
danzava con Airis. Nel
grande palazzo nero, i due volteggiavano nella sala. Un gruppo di altri
abitanti li fissava, divertito. Nàgiri rientrò e
cercò subito di raggiungere la
sua stanza, a testa basta. Ma il padre lo vide e smise la sua danza.
Lasciò la
compagnia e chiamò il figlio.
“Cosa
ti è successo, piccolo
Nàgiri?” chiese anche Airis.
“Ho
fatto una cosa orribile”
ammise il giovane.
“Parla.
È qualcosa di grave?”
insistette la donna.
“Ho
ucciso un uomo” distolse lo
sguardo il ragazzo.
“E
cosa vuoi che sia?” ghignò
Erebo “Saresti solo l’ennesimo assassino in questa
casa”.
Kydoimos si
fece raccontare con
calma l’accaduto, cercando di tranquillizzare suo figlio.
“Ma
non è stata colpa tua” disse
poi, una volta appresi gli eventi.
“Certo
che è stata colpa mia!”
ringhiò Nagiri “Se non avessi fatto lo
stupido…”.
“Lo
hai detto tu che Saga era
malato. È stato questo ad ucciderlo, non tu”.
“Ma
io ho peggiorato le cose!”.
“Se
non era oggi, sarebbe
successo domani. Nàgiri, non…”.
“Saga
è stato l’unico del tempio
a rivolgermi parole gentili quando mamma è morta. E si
è sempre battuto per
difenderci, anche quando quasi tutti dicevano che eravamo dei mostri.
Ha
sfidato Ahriman, pur di farci restare al sole. Ed io l’ho
ripagato così”.
“Non
è stata colpa tua” ripeté il
padre “E, comunque, se cerchi un po’ di sollievo
forse dovresti andare a dargli
l’ultimo saluto”.
“Dovrei
andare al funerale,
intendi?”.
“Sì.
E riferire queste parole
alla sua famiglia. Fargli capire che è stato importante per
te”.
“E
che differenza fa?”.
“Aiuterà
il tuo animo, credimi”.
Nàgiri
non pareva convinto.
“Dovresti
andare” parlò Neikos,
guardandolo con occhi dolci e preoccupati.
“Io
non posso venire con te”
ammise Kydoimos “Per via della maledizione. Ma sarei fiero se
tu portassi la
voce di questo palazzo. Sarei felice se tu porgessi l’ultimo
saluto ad un uomo
come Saga, anche da parte mia e di tutta questa casa”.
Nàgiri
annuì. Kydoimos gli
sorrise, passandogli due dita sul viso, e poi si congedò.
“Cos’hai?
Smettila di agitarti!”
sbottò Thanatos, rivolto all’anima incompleta che
aveva in casa “Stai a
cuccia!” aggiunse, infastidito.
Stava
tentando di leggere, steso
sul divano, ma l’anima era inquieta e non stava ferma un
momento, distraendolo.
La vide affacciarsi alla finestra.
“Ma
che fai?! Togliti da lì,
qualcuno potrebbe vederti!”.
Si
affacciò a sua volta e vide Hades.
Al suo fianco, due anime con cui parlava. Thanatos sospirò.
Come sempre, doveva
lavorare. Si diede una sistemata veloce alla veste ed uscì.
“È
un onore avervi qui” diceva Hades.
“Lieti
di saperlo” sorrise
l’anima, l’essenza di Athena.
Thanatos
uscì e raggiunse i tre.
L’anima di Saga, accanto ad Hades, non parlava
però pareva felice. E anche quella
di Athena sorrideva.
“Eccoti,
finalmente” quasi sbottò
il Dio dell’oltretomba, notando Thanatos.
“Nuovi
arrivi, eh?” salutò il
Dio, con un cenno del capo.
“Inattesi
così presto” ammise Hades
“Mi aspettavo di veder vagare per la terra questa
divinità molto di più”.
“Il
destino ha deciso
diversamente” sorrise lei.
“Accompagna
queste anime ai campi
elisi, Thanatos” ordinò Hades “E
assicurati che trovino piacevole il lungo
soggiorno”.
“Sì”
quasi sospirò il Dio della
morte.
Quella sorta
di limbo, quel luogo
da dove si accedeva ai campi Elisi, era solitamente molto silenzioso.
Ma quel
silenzio fu rotto da un nome, pronunciato da una voce sussurrante e
sospirata.
“Saga”
si sentì.
“Che
cosa è stato?” si chiese Hades,
guardandosi attorno.
“Saga”
ripeté la voce, questa
volta più forte.
L’anima
incompleta era apparsa
sull’uscio della dimora di Thanatos e guardava il gruppo di
Dèi e mortali. Era
quell’anima che chiamava il nome di Saga, più e
più volte. Saga la guardò e
subito capì a chi apparteneva un tempo. Sorrise e,
nonostante le proteste delle
divinità, corse a raggiungerla.
“Saga”
chiamò ancora l’anima.
“Arles”
rispose Saga,
abbracciandola forte.
“Mi
devi delle spiegazioni” parlò
Hades, irato, rivolto al Dio della morte
“Cos’è quella cosa? Perché
un’anima incompleta
sta nella tua casa?”.
“Io…”
iniziò il Dio, ma Hades non
ascoltava perché si stava dirigendo verso le due anime
abbracciate.
“Vieni
qui e separale!” ordinò il
signore di quel luogo.
“Ma…”
parlò Thanatos “…io non ho
mai visto due anime così strettamente legate, nemmeno fra
innamorati. Non posso
separarle, non sarebbe giusto”.
“Lo
decido io qui cosa è giusto.
Separa quei due e sbarazzati dell’anima incompleta”.
“Cosa?!”.
“Mi
hai sentito bene. Quell’anima
è un evidente errore di sistema. Dev’essere
eliminata. Sbarazzatene quanto
prima, sai come fare”.
“Certo
che so come fare! Ma non
lo farò!”.
Hades
guardò con rabbia Thanatos,
mentre degli specter erano giunti a dividere l’abbraccio e
separare le anime. I
divisi protestarono. L’anima incompleta lanciò un
grido, tentando in ogni modo
di raggiungere di nuovo Saga.
“Finiscila!”
tuonò Radamante,
colpendola per farla retrocedere.
“Fermo!”
protestò Thanatos,
allontanando il giudice con l’imposizione di una mano
“Non rovinare
ulteriormente questa povera anima”.
Le essenze
di Saga ed Arles ora
piangevano, separate con la forza.
“Ti
ho dato un ordine, Thanatos”
riprese, con ancora più rabbia, Hades.
“E
che cosa vuoi che me ne
importi? Vuoi davvero metterti il dito nella piaga da solo,
ragazzino?” si
accigliò il Dio della morte, mentre il fratello Hypnos
compariva all’ingresso
dei campi elisi.
“Come
osi?”.
“Ho
almeno tre volte la tua età e
lo sai che sono molto più potente di te, Hades. Sei
consapevole che un giorno
verrò a prenderti e sarò io a decidere dove
deporre la tua essenza divina in
attesa della rinascita. Io non sono come te, non ha senso che stia ai
tuoi
ordini”.
Hypnos
spalancò gli occhi nel
sentire questo, mentre riceveva il comando di portare nei campi elisi
le anime
di Athena e Saga. Afferrò quella di Saga, poco
collaborativa, e si apprestò ad
obbedire.
“Non
vuoi dunque obbedirmi?” si
rivolse ancora a Thanatos il Dio dell’oltretomba.
“No”
rispose la divinità, non
avendo timore a mostrare la differenza d’altezza fra lui ed
Hades.
Hades,
più basso, non sopportava
quello sguardo argento così arrogante.
“Bene”
disse d’un tratto,
ghignando “Vorrà dire che prenderò
provvedimenti”.
“E
che provvedimenti potreste
prendere?” incrociò le braccia Thanatos,
infastidito.
“Sei
bandito” tuonò il Dio
dell’oltretomba.
“Che
cosa?!” esclamarono, in
coro, Hypnos e Thanatos.
“Se
non vuoi obbedirmi, non ha
senso che ti conceda dimora nel mio regno” riprese Hades
“Perciò vattene.
Prendi le tue cose e sloggia prima dello scoccare della mezzanotte.
All’anima
provvederò io stesso”.
Thanatos
rimase in silenzio
qualche istante. Poi strinse i pugni.
“Bene”
disse “Mi ero proprio
rotto i coglioni di vivere in un posto dove do solo fastidio”.
“Sparisci
dalla mia vista, il più
in fretta possibile”.
Il Dio della
morte guardò ancora
con sfida Hades e poi si voltò, rientrando in casa e
sbattendone forte la porta
massiccia e lavorata. Hypnos, rimasto senza parole, non poté
far altro che
accompagnare i nuovi arrivati al loro posto. Sapeva che supplicare la
pietà di Hades
era del tutto inutile.
“Mi
spiace per quanto successo”
parlò l’anima di Athena.
“Non
è stata colpa vostra”si
affrettò a dire Hypnos “Saga ha solo tentato di
ricongiungersi con colui che
considera più che un fratello. Avrei fatto lo
stesso”.
“Ma
ora, Thanatos…”.
“Mio
fratello è una testa calda.
Un tempo viveva qui con me, ma faceva sempre troppo casino ed ho dovuto
fargli
trovare un’altra sistemazione. È fatto
così. Immagino che se la caverà bene,
come ha sempre fatto”.
“Ma
sarete separati” notò Saga.
“Saremo
sempre legati. Qualsiasi
cosa accada, saremo sempre assieme , in qualche modo”.
Saga
chinò la testa. L’anima di
Arles stava per essere eliminata per sempre.
“Vedrai
che tutto si risolverà”
lo rassicurò Hypnos “Mio fratello
sistemerà le cose. Ci tiene a quell’anima,
anche se non so perché, e vedrai che farà di
tutto per non farla sparire. Vi
rivedrete, ne sono certo”.
“Potresti
darmi notizie a
riguardo, se un giorno ne venissi a conoscenza?”.
“Certo.
Ora godetevi i campi
elisi, qui mai nessuno è triste. Benvenuti”.
Kydoimos se
ne stava al buio, da
solo. Guardava il buio infinito. Quando il Caos entrò nella
stanza, provò un
certo fastidio. Non riuscivano, in quella casa, a lasciarlo un
po’ in pace? Si
voltò e fissò il suo signore.
“Kydoimos,
mio gioiello, che
succede?” domandò il Caos “Il tuo
sguardo è così triste”.
“Niente”
sbottò l’interessato,
girandosi di nuovo verso la finestra.
“Mi
stai mentendo. Perché fai
così? Io voglio solo vederti felice. Se
c’è qualcosa che non va, qualsiasi
cosa, dimmelo e cercherò ogni mezzo possibile per farti
sorridere”.
“Non
c’è niente che possiate
fare”.
“Ma
come? Io posso fare molte
cose, sai? Dai, raccontami cosa succede”.
“Perché
me lo chiedete, se lo
sapete già?”.
“Di
che parli, figlio mio?”.
“Io
non sono tuo figlio. Io non
sono il figlio di nessuno”.
“Kydoimos…”.
“Lasciatemi
in pace, per favore”.
“Mio
piccolo…tu ricordi, vero?”.
Kydoimos non
rispose. Pareva
quasi perso con lo sguardo nell’infinito nero esterno.
“Tu
ricordi quello che è stato
prima che ti portassi qui a palazzo”.
“Prima
che mi toglieste la vita
con le fiamme nere, sì” ammise Kydoimos.
“E
da quando lo sai?”.
“Da
quando ho rivisto la mia
anima, quando ho tentato di porgere l’ultimo saluto ai miei
cari perduti”.
“Quindi
sono un sacco di anni. E
come mai non hai mai detto nulla?”.
“E
che cambiava?”.
“Ma…”.
“Io
non sono nulla. Non ho mai
avuto una madre o un padre, non sono mai nato. Non ho mai avuto accanto
qualcuno in grado di amarmi per davvero. Qui almeno ho uno
scopo”.
“Certo
che hai uno scopo! Sei il
mio gioiello”.
“Mi
avete dato una seconda
possibilità. Che non meritavo. Però me
l’avete data. E vi preoccupate per me,
per davvero. Solo Saga fin ora ha dimostrato tanto affetto nei miei
confronti,
ma ora non potrà farlo più”.
“Mi
dispiace tanto, Arles”.
“Sono
Kydoimos. Quel che resta in
me di Arles è troppo poco per poter essere chiamato
così”.
“Capisco.
Ma sei felice qui, alla
fine?”
“Sono
utile, in qualche modo.
Questo mi soddisfa”.
“Vieni
con me, Kydoimos” allungò
la mano il Caos.
Il Dio,
parecchio più alto del
figlio adottivo, incuteva sempre un certo timore. Questo
giustificò la
titubanza che ebbe Kydoimos, non sapendo cosa aspettarsi. Si
lasciò condurre
fino alla terrazza affacciata nel buio totale. Il Caos
fluttuò convinto verso
il bordo mentre il figlio adottivo si fermò. Non amava quel
luogo da quando la
sua amata moglie si era lasciata cadere.
“Non
aver paura” lo rassicurò il
Caos “Vieni”.
Lo prese per
mano e scavalcò la
balaustra, mentre Kydoimos allungava il braccio e rimaneva sul bordo.
Che aveva
in mente il suo signore? Oltre il bordo c’era solo il vuoto
eterno!
“Salta,
Kydoimos!” incitò il Caos
e vide l’adottato scuotere la testa.
“Non
ti lascio mica cadere!”
ridacchiò il padrone del palazzo nero, tirando uno strattone
a Kydoimos, che
finì oltre la terrazza.
Ovviamente
il Caos lo sorresse,
facendolo fluttuare nel nero. Kydoimos non si sentiva affatto
tranquillo. Era
terrorizzato e, anche se si sforzava di non farlo vedere, aveva solo
voglia di
rimettere i piedi per terra. Caos sorrideva, divertito.
“Rilassati,
mio gioiello. Chiudi
gli occhi” suggerì.
Kydoimos non
voleva. Protestò ma
poi una strana sensazione lo avvolse. Quella nebbia nera pareva
avvolgerlo e
quasi cullarlo. Riuscì a rilassarsi un momento, chiudendo
gli occhi. Il Caos lo
teneva sospeso, facendolo volare nel nulla. Quando riaprì
gli occhi, notò che
il padre adottivo non lo reggeva più. Stava volando da solo.
Per un attimo, fu
preso dal panico e precipitò. Il Caos lo aiutò
con un dito e poi lo guardò con
orgoglio, mentre da solo si librava nella nebbia. Felice, come un padre
che
ammira il figlio mentre compie i primi passi, osservò
Kydoimos mentre volava al
suo fianco. Dapprima incerto, e poi sempre più abile, il
figlio adottivo non
capiva bene cosa stesse accadendo.
“Lo
sapevo, mio gioiello” sorrise
il Caos “Lo sapevo che eri speciale. Unico. Guardati! Sei un
mio degno
discendente. Voli nella totale oscurità come se sempre lo
avessi fatto”.
Kydoimos non
sapeva a che potesse
servire ma, dal viso felice del suo genitore acquisito, capì
che quella sua
capacità doveva contare molto. E poi era una bella
sensazione restare sospeso
nella nebbia. Alleviava quella bruciante sensazione di dolore che
provava al
solo pensiero di aver perso anche Saga.
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Capitolo 12 *** XII- piangere ***
XII
PIANGERE
Thanatos se
ne stava immobile,
appoggiato alla porta. Che rabbia! Gridò e batté
i pugni contro il muro.
L’anima incompleta si era rintanata in un angolo. Piangeva
ancora. Quando il
Dio della morte si avvicinò, ella chiuse l’unico
occhio, attendendo la fine.
Aveva udito le parole di Hades. Ma Thanatos non le fece del male. La
fissò,
rammaricato.
“Tranquillo,
non ti ucciderò.
Però dobbiamo andare via, o verranno a prenderti per
eliminarti”.
L’anima
lo guardò, mostrando di
essere molto triste per quanto accaduto.
Il Dio prese
alcune delle sue
cose. Doveva lasciare quella casa e l’oltretomba.
Pensò al gemello, qualche
istante, e poi uscì da quella dimora, con a fianco
l’anima col capo chino.
Insieme, giunsero fino alla casa di Aiaco. Il giudice, che viveva con
Violatte,
non si aspettava una visita così illustre. Il Dio, assieme
all’anima, fu fatto
accomodare. Si trovavano in una zona piuttosto tranquilla ed isolata
del regno
dei morti.
“Ho
un favore da chiederti”
esordì Thanatos.
“Qualsiasi
cosa” si affrettò a
dire Aiaco “È solo merito vostro se viviamo qui,
io e la mia amata. Altrimenti
saremmo stati separati, come desiderava Hades”.
“Non
aveva senso quel che aveva
in mente al tempo” scosse la testa il Dio “Sono qui
per chiedervi un favore.
Quest’anima incompleta ha bisogno di un luogo dove stare.
Hades la cerca per
farla eliminare ed io non voglio che accada, perché merita
di certo di meglio”.
“Che
le è successo? Perché è
incompleta?” domandò Violatte.
“Non
lo so. Lo è da quando è
arrivata qui. È per questo che Hades vuole
eliminarla”.
“E
non potete difenderla Voi?”.
“Non
più. Devo lasciare
l’oltretomba per ordine di Hades e le anime non sopravvivono
fuori di qui”.
“Capisco…”.
“Qui
Hades non passa mai” spiegò
Aiaco “Credo lo infastidisca il sentimento che
c’è fra me e Violatte. L’anima
sarebbe al sicuro”.
“Se
è un problema, ditemelo.
Rischiate grossi guai, se lui la dovesse trovare qui”.
“La
terremo al sicuro il più
possibile. A chi apparteneva?”.
“Ad
Arles”.
“Il
nome non mi è nuovo”.
“Cavaliere
di Athena e, di
recente, reincarnazione del Dio Ares”.
“Ah,
lui. Capisco. Certo che
merita di più un’anima del genere. La terremo al
sicuro con orgoglio”.
“Io
cercherò di trovarle una
soluzione. Se trovo la parte che manca, forse…”
L’anima
si guardò attorno,
piuttosto spaesata. Era così lontana dal luogo dove si
trovava Saga! E non voleva
separarsi da quel Dio che si era preso cura di lei. Però
capiva che non c’era
altra soluzione. Si andò ad accoccolare in un angolo, pronta
a nascondersi in
caso di pericolo.
“Devo
andare, anima incompleta”
si alzò Thanatos, ringraziando il giudice e la specter
“Vedrai che troverò una
soluzione e tutto si risolverà. Fino a quel
momento…addio”.
Kydoimos
aveva sempre avuto una
splendida voce. Ma non cantava mai. Tuttavia, all’ultimo
saluto per Saga, si
sentì in dovere di farlo. Com’era tradizione, gli
abitanti del santuario
accompagnavano la bara fino al cimitero con un canto. Kydoimos, che
poteva
rimanere lontano dal palazzo nero ancora per poco, era in disparte, per
non
attirare l’attenzione. Da lontano, vide il feretro seguito
dalla figlia del
defunto e dalla moglie, sorretta da Aiolos. A portare la bara,
Deathmask,
Shura, Ioria e Kiki. I primi due perché lo avevano sempre
considerato un amico,
il leone e l’ariete per senso del dovere. Terminata la
cerimonia, ognuno
rientrò alla sua casa e Nàgiri prese coraggio.
Voleva parlare con la figlia di
Saga. Lei, rimasta da sola con le prime luci del tramonto, non voleva
scocciatori attorno. Il giovane lo comprendeva, ma si sentiva in dovere
di
chiederle scusa.
“È
stata colpa mia, mi spiace”
disse.
“Cosa?”
quasi sbottò lei.
“La
morte di tuo padre. Ero io
uno dei due litiganti che ha diviso, usando le ultime forze”.
“Allora
non hai motivo di
scusarti”.
“Che
intendi?”.
“Mio
padre era gravemente malato.
Lo hai fatto smettere di soffrire. Si è spento con il
sorriso sulle labbra,
perché la sua morte ha fatto cessare un atto
d’odio”.
“Io…”.
“Tu
sei Nàgiri, giusto? Mi
ricordo vagamente di te”.
“Sì,
sono io. E comprendo il tuo
dolore”.
“Davvero?”.
“Ho
perso mia madre quando ero un
bambino. E molti fratelli e sorelle”.
“Quindi
mi sai dire fra quanto
tempo questo dolore passerà?”.
“Mai.
Non ti abbandonerà. Basterà
un suono, una parola, un profumo, un sogno…e ti
tornerà in mente”.
“Capisco…”.
“Però…se
posso fare qualcosa…”.
“Mi
porteresti a fare un giro?
Questi rompicoglioni non mi lasciano allontanare da sola, ma ho bisogno
di
passare almeno un paio d’ore lontano dal santuario”.
“Certo,
ti accompagno
volentieri”.
“Di
te mi fido. Ricordo che eri
un bambino buono”.
“E
non temi che possa essere
cambiato?”.
“No.
Un animo buono lo rimane per
sempre, anche se tenta di nasconderlo”.
Udendo
un rumore, Deathmask uscì dalla sua dimora. Nel buio della
notte, chi poteva
venire a disturbare? Il precedente cavaliere del cancro abitava ancora
alla
quarta casa, in una delle braccia della croce che la formava.
Nell’oscurità,
vedeva solo fuochi fatui ed anime erranti. Guardò in su.
"Thanatos..."
mormorò, riconoscendolo.
Il
Dio della morte non rispose.
"Non
sarai mica venuto a prendermi adesso,
vero? Ho altri progetti" ridacchiò l’ormai
pensionato cavaliere.
Ancora
nessuna risposta, solo una singola nota
della cetra del Dio. L’ex cavaliere si fece serio. L'espressione di quella divinità
non gli piaceva.
"Dai, vieni giù a
berti una birra"
propose Deathmask.
"Ho migliaia di anni. Credi
che possa tirarmi
su di morale un alcolico, mortale?" sbottò, scocciato,
Thanatos.
"Come vuoi, la mia era solo
una
proposta".
"Non hai paura di me?".
"E perché dovrei?
Non ho mai temuto la morte e
l'inferno".
"E non mi odi, per coloro di
voi che ho
portato via?"
"La vita termina, prima o
poi. Sono certo che
ora i miei amici se la stanno spassando ai campi elisi. Ed un giorno
saremo
tutti assieme. O forse no, non fa differenza. Viviamo e periamo,
è il destino
di noi mortali".
"Capisco...".
Ed il Dio dai capelli
argento guardò le stelle. Forse
era l'ultima volta che le poteva ammirare. Sorrise, per un istante,
quando
accanto al cavaliere del cancro apparve la fanciulla che ora portava
l’armatura
dei pesci.
Thanatos la trovò
bellissima e per qualche istante
si perse nei suoi grandi occhi color dell’acciaio. Poteva
anche dire addio alla
luce delle stelle, per lei.
“Cosa
ti porta al grande tempio?” domandò Arles
II, raggiungendo la sua ragazza.
“Volevo
solo salutare anche io Saga. E la luce.
Da ora sono pure io un cittadino del palazzo nero”.
“Torni
da mammina?” ridacchiò Deathmask.
“Almeno
io so chi è” ghignò Thanatos e
svanì.
Kydoimos
fissava Tartaros di
nascosto. Quel Dio aveva sempre un’aria un po’
arrabbiata ed un po’
malinconica. Lo spiato notò il fratello minore e rispose al
suo sguardo, con
rabbia.
“Che
hai da guardare?” sbottò.
“Niente.
Oggi sono un po’ fuori
fase”.
“Per
via della morte di quel
tizio?”.
“Anche,
immagino”.
“Perché
ti dai tanta pena per
lui?”.
“Non
ha importanza”.
I due si
guardarono qualche
istante poi Tartaros fece per allontanarsi.
“Ti
manca?” domandò Kydoimos.
“Chi?”
si stupì Tartaros.
“Gaia”.
“Certo.
Che domande fai?”.
“E
non hai mai provato a
liberarla?”.
“Per
liberare dal sigillo Gaia
serve l’arma di un Dio e, come ben sai, qui non ce ne sono.
Sempre per colpa di
quella cazzo di maledizione”.
“E
non potete procuravene una?”.
“Non
si può usare l’arma di un
altro Dio! E poi a Gaia servirebbe un corpo, che non ha al momento.
È stato
distrutto nell’ultima guerra. Devo attendere la sua prossima
reincarnazione”.
“Ma
se la sua essenza è
intrappolata, non si reincarnerà mai!”.
“Le
ho detto addio, ormai. Anche
se so che torneremo insieme”.
“Se
lo dici tu…”
“Ma
cosa vuoi saperne tu, che
alla morte di quasi tutta la tua famiglia non hai versato nemmeno una
lacrima?
Tu, che non hai lottato per impedire
l’allontanamento delle tue donne con i
bambini!”.
“La
mia anima è incompleta!”
“Stronzate.
È che non ti importa
di nulla, nemmeno di te stesso. Non so che ci veda papà di
così speciale in te,
mostriciattolo”.
Kydoimos non
disse altro. Lasciò
Tartaros andare oltre e chinò la testa, fissando la
differenza fra la mano un
tempo umana e quella creata dal Caos. Chissà se erano ancora
in grado di
impugnare una spada…
Il palazzo
nero era rimasto
invariato nei secoli, notò Thanatos. Davanti alla porta
chiusa, non aveva il
coraggio di entrarvi. Poi capì che non aveva alternative.
Spinse ed entrò,
quasi con enfasi. Nel buio totale, non aveva alcun problema a
camminare. Notò
alcune facce nuove, figli di Kydoimos. Passò oltre.
Sentì dei mormorii e li
ignorò. Vide un sorriso familiare e dovette fermarsi.
“Il
mio bambino!” lo accolse Nyx,
spalancando le braccia.
Thanatos
sospirò. Non era un
bambino da parecchio tempo, ma sua madre lo abbraccio comunque. Era
strano,
anche perché lei era parecchio più bassa. Eppure
lo trattava come un bambino
piccolo.
“Vieni”
parlò lei “Ho fatto
lasciare invariata la tua stanza”.
“La
mia stanza? Di quando ero
piccolo?”.
“Sì,
vieni”.
Thanatos la
seguì lungo il
corridoio, fino a giungere all’ingresso di quella che un
tempo era la sua
cameretta. Non era cambiata. Provò una certa nostalgia.
Metà di quella stanza
la divideva con Hypnos, tanto tempo fa.
“Immagino
che ora sia un po’
infantile” notò Nyx “Potrai cambiarla a
tuo piacimento”.
“Per
ora va bene così, grazie.
Tanto lo sapete che con il lavoro che faccio non sarò molto
presente”.
“Ma
è sempre bello avere un bel
posto dove tornare”.
“Già…”.
Il Dio della
morte lasciò che la
sua armatura si staccasse e si accomodasse in un angolo della stanza.
Con la
tunica bianca, girò un po’ per la casa, ricevendo
i saluti dei fratelli e degli
zii. Anche il Caos lo salutò, sorridendo. Thanatos e
Kydoimos si scambiarono
solo uno sguardo rapido. Il Dio, in un istante, capì che la
parte mancante
della sua amata anima era in quell’essere ibrido.
Tentò di escogitare un modo per
risolvere la questione. Gli era bastato un’occhiata per
notare la piccola parte
di anima di Kydoimos e pochi secondi per capire che, nel caso
l’anima errante
fosse stata eliminata, per quell’uomo non ci sarebbe stato un
futuro dopo la
morte. Sorseggiando uno strano liquido verde scuro, ripensava a quando,
da
bambino, correva lungo quei corridoi che al tempo gli sembravano
lunghissimi.
Inseguiva Hypnos. Insieme, si divertivano a combinare un sacco di guai.
Quella
volta, il palazzo nera era allegro e le divinità poche. Ora
nell’universo il
sovrannumero era evidente e lì si respirava decisamente
un’aria diversa. C’era
malinconia. Tristezza. Un po’ sapeva di esserne la causa.
Aveva portato via
molte anime da quel luogo.
“Dai,
tirati su” gli sorrise il
Caos “Non amiamo molto i musi lunghi. Sappiamo che
sarà difficile, per te,
rimanere separato da Hypnos ma…”.
“Eravamo
separati già da molto”
tagliò corto Thanatos “Vivevamo in due parti
diverse dell’oltretomba e lui era
troppo impegnato a riprodursi per venirmi a salutare. Come io, del
resto, ho un
lavoro che mi impedisce di perdere tempo.
Perciò…”.
“Spero
che ti ambienterai presto.
Non sono cambiate molte cose”.
“No,
ho solo uno zio nuovo e
tanti cuginetti”.
“Eh
sì” sorrise Caos, fissando
Kydoimos, che non sorrise.
Thanatos
ricordò quando, da molto
piccolo, aveva osservato con innocenti occhi argento suo nonno Caos,
chiedendogli che cosa fosse la morte. Al tempo aveva le idee piuttosto
confuse.
Il nonno gli aveva accarezzato i capelli e gli aveva sorriso,
rassicurandolo
che era qualcosa che lui non avrebbe mai provato. “E come
mai, nonno Caos?”
aveva domandato, con le manine strette e lo sguardo curioso.
“Perché noi siamo
Dei” aveva risposto Caos “E gli Dei non
muoiono”. Quella volta era così. Ora
invece morivano tutti. Solo il Caos si salvava da quel destino. Si
poteva
ferire a piacimento. Questo perché era materia primigenia e
quindi in continua
creazione e morte.
“Vado
a letto” mormorò Thanatos,
alzandosi.
Non sarebbe
stato facile, lo
sapeva, abituato com’era ad udire le musiche del fratello per
dormire. Ma
doveva abituarsi a farne a meno. Calpestò nel buio uno dei
giochi che aveva da
piccolo. Com’era potuto rimanere intero dopo tutto quel
tempo? Lo guardò,
sorridendo. Poi scosse la testa. Era ora di lasciar perdere certi
ricordi. Era
il tempo di lasciarsi tutto alle spalle. Era il tempo di dire a tutto:
“Addio”.
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Capitolo 13 *** XIII- mortale ***
XIII
MORTALE
Appeso a
testa in giù, come era
solito dormire, Erebo notò il fratello adottivo passare
lungo il corridoio
deserto. Lo seguì con lo sguardo e vide che stava lasciando
il palazzo. Lo
trovò strano, ma poi si disse che Kydoimos aveva
un’età tale da fare quel che
preferiva. Anche Nàgiri lasciava spesso quella casa la sera
e rientrava molto
tardi. Ma, convenne, non sono affari miei.
Kydoimos,
col viso in buona parte
coperto da stoffa nera, camminava nel buio. Sapeva che il suo tempo era
ristretto, perché la maledizione non gli consentiva di stare
lontano da palazzo
molto a lungo, quindi affrettò il passo lungo quelle strade
dimenticate.
Tutt’attorno, macerie e rovine. Che tristezza. Una statua
armata di tutto punto
fissava, con occhi vuoti, l’orizzonte. La vegetazione
l’aveva in parte avvolta.
L’uomo si aspettava di incontrare qualcuno ma non percepiva
alcuna presenza.
Entrò al tempio scuro, con tutte quelle venature color del
sangue, con
sicurezza. Ed ecco, la vide. La spada di Ares. Bella, imponente, con
riflessi
vivi rosso cupo sulla superficie nera. Il suo scintillio illuminava a
tratti la
stanza dove era custodita. Saldamente incastonata nella pietra, fra le
colonne,
pareva incustodita. Kydoimos proseguì ma, come aveva
previsto, qualcuno lo
fermò. Due minacciosi occhi scarlatti si mostrarono nel nero.
“Hai
fatto un grosso errore a
venire qui, mortale” ringhiò una voce, profonda e
minacciosa.
“Ragazzi,
siete presentabili?”
domandò Deathmask, cercando il figlio.
Arles II e
Tania risero e lo
rassicurarono. Erano stesi sul pavimento, fra le teste della quarta
casa,
concentrati su un gioco da tavolo.
“Cosa
c’è, papà?”
domandò il
ragazzo.
“Niente.
Volevo solo avvisare che
vado a farmi un giro”.
“Vai
pure. Se c’è qualcosa, ti
mando un messaggino sul cellulare”.
“Quel
trabiccolo infernale non me
lo porto di certo dietro!”.
“Come
vuoi. A dopo”.
Deathmask
sospirò. Uscì dalla
quarta casa con aria malinconica. Il tempo è impietoso,
pensò. Sua moglie
Ariadne se ne stava alla casa dei gemelli, ridendo in compagnia di suo
nonno
Apollo e la prozia Artemide.
“Cos’è
quella faccia
imbronciata?” parlò una voce e Deathmask
sobbalzò, non aspettandosela.
Alzò
gli occhi e vide Thanatos.
Si accigliò.
“Ma
tu…” sbottò “…non
hai niente
di meglio da fare? Te ne stai sempre a ronzare da queste
parti!”.
“Ti
do fastidio?”.
“No,
mi inquieti”.
Il Dio
sorrise. Fluttuava a
mezz’aria, avvolto da una lieve luce argentea.
“Che
cosa vuoi?” riprese
Deathmask “Sei sempre qui. Che cosa cerchi?”.
“Niente
di particolare”.
“Cazzate.
Spii Tania!”.
“Ho
le mie ragioni”.
“Certo,
è figa. Ma tu sei
vecchio”.
“E
tu peggio di me”.
“Solo
d’aspetto”.
Il passato
cavaliere del cancro
storse il naso. Era già complessato, senza che quel Dio
mettesse costantemente
il dito nella piaga.
“Cosa
c’è che non va,
Deathmask?”.
“Gli
anni passano, ecco cosa c’è
che non va. Sto invecchiando. Guardami! I miei capelli stanno
diventando
bianchi, sul viso ho le rughe, mi sta crescendo la
pancia…”.
“Sei
un mortale, è il cerchio
della vita”.
“Bella
merda! Io invecchio, mia
moglie e mio figlio no. È frustrante”.
“Loro
hanno sangue divino”.
“Lo
so bene”.
“Era
una cosa che dovevi
prevedere”.
“L’ho
previsto ma che dovevo
fare? Io amo Ariadne, farei qualsiasi cosa per starle accanto e non
rinsecchire
come una foglia d’autunno”.
“Non
comprendo voi mortali che
non accettate la morte. Nascete con la fine già scritta,
è inutile remarvi
contro. Eppure lo fate sempre. Come se la vita eterna fosse
bella”.
“Io
voglio stare accanto alla
donna che amo, invece so che dovrò morire, vecchio e
sfigurato, mentre lei sarà
bella e giovane per sempre. E di certo avrà un altro uomo
dopo di me”.
“Pensa
l’ironia: io sono così
stanco di ammazzare gente e di farmi odiare, che farei volentieri a
cambio con
te, essere dalla vita effimera”.
“Dici
sul serio?”.
I due si
fissarono in silenzio.
Kayros, che Dio dalla mente complicata!
“Phobos!”
esclamò Kydoimos,
riconoscendone la voce.
“Bravo,
sai il mio nome. Ora
vattene dal palazzo del mio signore, prima che ti uccida
brutalmente”.
“Non
ho intenzione di combattere”.
“Che
peccato, perché io ne ho
davvero tanta voglia!”.
Gli occhi
rossi di Phobos
scintillarono, scatenando il loro potere. Kydoimos però non
provava terrore nel
guardarli,anche se fu colto di sorpresa dall’improvviso
attacco del gran
sacerdote di Ares. Saltò, per schivarne i colpi.
“Fermo!”
provò a dire.
Il generale
non ascoltò, pronto a
difendere l’armatura contenuta nella spada del suo signore a
tutti i costi.
“Fermo!”
tuonò una voce ben più
profonda di quella di Kydoimos.
Phobos
obbedì, sobbalzando per la
sorpresa. Alle spalle della grande spada di Ares, era apparsa
l’essenza del
Dio, color del fuoco.
“Mio
signore” si inginocchiò il
suo sottoposto “Stavo difendendo la Vostra spada da questo
intruso”.
“Non
è un intruso” sorrise Ares.
Kydoimos si
fece avanti, fissando
Ares con un mezzo sorriso.
“Ciao,
θανασιμος”
(thanassimos:
mortale) salutò Ares.
“Ciao,
Dio”.
“Come
stai, mio vecchio
involucro?”.
“Non
mi posso lamentare. Sono
passato a salutare. Credevo di trovarti già
rinato”.
“Eh,
no. A quanto pare il tuo
corpo era troppo perfetto. Non ne trovo un altro uguale”.
“Mi
sento lusingato”.
“E
fai bene. Ma cosa ti porta qui
realmente?”.
Phobos,
ascoltando la
conversazione, comprese quel che stava accadendo e si alzò
in piedi, forse in
attesa di ordini. Anche altri guerrieri di Ares fecero lo stesso, pur
non
capendo bene quel che stava accadendo.
“Sono
qui per chiederti un
favore” ammise Kydoimos “Mi servirebbe la tua
spada”.
“La
nostra spada? E per farne
cosa?”.
“Ha
così tanta importanza?”.
“La
spada appartiene a me. Se fai
qualcosa che non mi aggrada, lei si ribella”.
“Lo
so bene”.
“Inoltre
ricordati che la spada
contiene la mia armatura”.
“So
bene anche quello, ho
contenuto il tuo animo per anni. Non farò nulla di non
gradito”.
“Che
farai?”.
“Libererò
Gaia”.
“E
perché?”.
Ares era
perplesso. Non avevano
forse combattuto a lungo per sigillarla?
“Fidati
di me. Ho in mente
qualcosa ma…”.
“Mortale,
io ti conosco molto
bene. Questo mi permette di dire che sei del tutto folle. Ma non sei
uno
stupido, tutt’altro, perciò mi fido”.
“Ti
ringrazio”.
“Però
ricordati che quell’arma è
libera di tornare qui in qualsiasi momento, nel caso impazzissi e ti
mettessi a
fare cazzate”.
“Lo
ricorderò. Ora, scusami, ma
devo andare. Ho tempi stretti con questa maledizione”.
“Ah,
già. Sei figlio del Caos
ora. Avremo altre occasioni per parlare, e magari anche per combattere
un po’.
Che ne dici?”.
“Mi
piacerebbe. Userò questa
spada come è degna di essere usata”.
“E
ci mancherebbe altro! Ora và,
avremo modo di perdere tempo in un altro momento”.
“Ma
la fregatura dove sta?”
chiese Deathmask.
“Fregatura?”
alzò un sopracciglio
Thanatos.
“Certo.
Se mi dai ciò che
desidero, la fregatura dove sta? Dev’esserci la
fregatura”.
“La
morte non è mai una bella
faccenda. Ma se riesci ad accettare questo, non vedo niente di
particolarmente
problematico. Ho solo una questione in sospeso”.
“Una
questione in sospeso?”.
“Sì.
Se mi assicuri di
risolverla, allora il nostro patto è valido”.
“Di
che si tratta?”.
“Dell’anima
di colui che voi
chiamate Arles”.
“Arles?!”.
“Sì,
lo ricordi?”.
“Certo
che sì. Cos’ha la sua
anima?”.
“È
giunta incompleta nell’oltretomba.
E non ho potuto farla riposare in pace. Ormai non è che
un’ombra, credo stia
perdendo i ricordi di ciò che è stata la sua
vita. Però io so dove si trova la
parte mancante”.
“Come
Dio della morte, non puoi
farla tornare intera?”.
“Come
Dio della morte, sì. Però
ora Hades ha dato ordine di eliminare quell’anima e mi tiene
d’occhio. Se mi
aggirassi da quelle parti, attirerei di certo
l’attenzione”.
“Ma
un Dio della morte può
riparare questo danno?”.
“Certo”.
“Tieni
così tanto a quell’anima,
da rinunciare al tuo potere per permettere a me di salvarla?”.
“Non
solo per questo,
ovviamente”.
“Per
che cosa?”.
“Io
giro per questo mondo da
millenni, mortale. Ho visto l’alba del genere umano, ho
tenuto per mano
divinità bambine che ora sono fra le più potenti
e antiche, ho ucciso creature
illustri e risparmiato carogne disgustose che meritavano la
putrefazione
istantanea. Mi sono divertito, non nego di averlo fatto. Mi
è piaciuto ciò che
sono stato ed ho passato tanti momenti di puro godimento nel togliere
la vita.
Ma ora sono stanco. È giunto per me il momento di
cambiare”.
“E
credi davvero che io…”.
“Tu
sei un uomo cresciuto in
mezzo ai morti. Non hai timore alcuno dell’oltretomba e, per
quanto tu lo
neghi, ti diletta uccidere”.
“Mai
negato”.
“Quindi
direi che non potrei
trovare uomo più perfetto per questo ruolo”.
“E
tu che fine farai?”.
“Invecchierò
e morirò come ogni
uomo sulla terra. E sarai tu a venirmi a prendere”.
“Sarà
strano”.
“Forse
all’inizio. Ma pensa alle
opportunità, Deathmask. La vita accanto a tua moglie,
giovane e con il potere
che hai sempre sognato”.
Deathmask
rimase in silenzio
qualche istante. Era vero quel che Thanatos diceva. Il potere lo aveva
sempre
desiderato ed ammirato, ed il potere di uccidere era di certo notevole.
Divenire un Dio e rimanere accanto alla sua donna per sempre, fino alla
fine
dei giorni, era un sogno. Suo figlio, avendo ereditato il sangue della
madre,
lo avrebbe accompagnato senza vederlo mai invecchiare. Thanatos lo
guardava in
silenzio, con aria malinconica, quasi di supplica. Essere un Dio
depresso
doveva essere una gran scocciatura.
Com’era
faticoso volare al di
fuori del palazzo nero! La parte un tempo appartenuta ad Arles non era
facile
da coordinare. Kydoimos fluttuò lungo la verde cupola del
palazzo di Gaia. Con
la pesante spada di Ares stretta nella mano destra, salì
fino a raggiungere una
piccola apertura da cui entrò. La grande sala circolare era
buia e polverosa.
Si aspettava un qualche tipo di sorveglianza ma non ne
trovò. Si guardò
attorno. In quale oggetto era sigillata la Dea? Pensò in una
delle statue di
Gaia che lo circondavano ed iniziò a decapitarle con la
spada, senza trovare
nulla. Spazientito, non si accorse che l’immenso quadro alle
sue spalle lo
seguiva con gli occhi.
“Cerchi
forse qualcosa?” sibilò
una voce, familiare.
Kydoimos si
voltò e vide lei,
sull’uscio verde e oro della sala. Bellissima, armata di
tutto punto, con la
cascata di capelli ricci e ramati che le copriva parte del viso. Rimase
qualche
istante a fissarla.
“Ciao,
Ninive” la salutò, poi.
“Ci
conosciamo?” disse lei.
“Da
molto tempo”.
Ninive non
capì. Del resto, dei
tratti somatici di Arles era rimasto ben poco. La donna, vedendo in
quell’essere nero solo un nemico, puntò la sua
lancia.
“Sono
a difesa dell’anima di
Gaia” spiegò “Per impedire a quelli come
te di liberarla”.
“Pensavo
fossi una vestale,
figlia di Apollo”.
“Lo
sono ancora. E il mio ruolo è
questo”.
Scattò,
tentando di attaccare
Kydoimos. L’uomo schivò, non avendo alcuna
intenzione di combatterla. Il tempo
scorreva rapido, non poteva temporeggiare ancora. Forse poteva
tramortirla, con
un colpo soltanto. Le immobilizzò i polsi, pronto a farle
perdere i sensi
usando il ginocchio. La guardò negli occhi e lei
spalancò i sui. Non poteva
crederci.
“Arles”
mormorò.
Lui non la
colpì, ma la tenne
ferma strettamente.
“Riconoscerei
il tuo cosmo fra
miliardi” continuò lei “Ma
com’è possibile? Tu…tu sei
morto!”.
“La
storia è piuttosto lunga e
complicata”.
“Tu
sei sempre stato complicato.
Puoi lasciarmi i polsi?”.
“Solo
se la smetti di combattere.
Lo sai che non puoi vincermi”.
Ninive
rimase in silenzio. Era
vero. Sapeva di non poter battere Arles. Però il suo compito
era sorvegliare
l’anima di Gaia e non poteva arrendersi. Tentò di
ribellarsi, con non molta
convinzione. Lui non la lasciò andare e lei riprese a
fissarlo.
“Lasciami”
disse lei, lentamente.
“Non
combattere. Non voglio farti
del male”.
“Io
ho un compito. Perché vuoi
liberare l’anima di Gaia? Tante persone sono morte a causa
sua”.
“La
mia visione è diversa dalla
tua, mi dispiace”.
“E
allora spiegamela”.
“Non
lo posso fare”.
“E
allora io non posso concederti
di liberare Gaia”.
“E
come credi di fermarmi?”.
“Non
lo so, ma troverò un modo”.
Ninive
concentrò la sua energia
sulle mani, nel tentativo di liberarsi i polsi. Kydoimos resistette.
“Dimmi
come puoi essere in vita”
riprese lei.
Lui non
rispose. Lei non sapeva
che cosa fare. Non poteva arrendersi. Guardò con odio in
viso quell’uomo e poi
mutò espressione. Una lacrima d’un tratto apparve
e rigò la guancia destra
della figlia di Apollo. Quante volte si era sentita dire che Arles era
molto
per colpa sua, perché gli aveva sottratto tutta la voglia di
vivere! Lei non
aveva mai potuto crederlo ed ora lui
era lì. Allungò il collo e gli diede un piccolo
bacio, solo sfiorando le labbra
nere come le tenebre. Kydoimos, non aspettandosi questo, non
reagì. Lasciò
andare le braccia di Ninive, che lo abbracciò.
“Mi
sei mancato” parlò lei.
“Non
è vero” rispose Kydoimos.
Che strana
sensazione dava
quell’abbraccio. Sapeva che quella donna non provava amore
alcuno dei suoi
confronti e lui credeva ormai di poter superare quel legame passato. Si
sbagliava, perché la strinse a sé e non
riuscì a pensare ad altro. Fu lui a
baciarla stavolta, ma con ben più passione rispetto al
contatto pressoché
sfiorato di lei. Lei ricambiò quel bacio e si
lasciò avvolgere.
“Perché?”
chiese a se stessa
“Perché, per quanto mi sforzi di allontanarmi da
quest’uomo, finisco con il
ritrovarmi fra le sue braccia? Perché ne sono
così irrimediabilmente
attratta?”.
E lui si
chiedeva come mai si
lasciasse sempre irretire da quella femmina, che giocava con il suo
cuore come
se fosse la pallina di un flipper. Ma bastò poco prima il
suo cervello
smettesse di pensare, sentendo il corpo caldo di lei premere contro il
proprio.
Lasciò perdere tutto. Missioni, ragionamenti,
problemi…
La
spogliò dell’armatura e delle
armi, lasciandole solo quella veste leggera che pareva poter essere
tolta da un
soffio di vento. Quella non la levò. Il suo occhio sinistro
brillò quando la
spinse contro una delle colonne smeraldo. Ghignò
soddisfatto, sollevandole
l’abito. Lei rispose a quel ghigno e gridò, quando
sentì lui penetrarla con
forza.
“Mi
sei mancato” disse ancora,
stringendolo forte a sé.
Lui
continuò, senza risponderle.
Finirono in terra e lei piantò le unghie nella schiena di
lui. Kydoimos fece
altrettanto, mordendola poi con i denti a punta. Ninive
gridò di nuovo.
“Mi
sei mancato” gemette “Ancora,
continua ancora, più forte! Questo ho sempre amato di te.
Non avere indugio
alcuno. Solo tu sei in grado di farmi questo. Più
forte!”.
“Zitta”
quasi ordinò Kydoimos,
graffiandola con più violenza.
Il pavimento
si tinse di rosso.
Lei ribaltò gli occhi e gridò con tutto il fiato
che aveva.
“Arles!
Arles!” ripeteva ad
oltranza, mentre i capelli ora sciolti di lui si muovevano e
l’avvolgevano come
in un abbraccio.
“Ninive”
rispose questa volta lui,
ancora e ancora.
Poi si
fermò e gridò a sua volta.
Ansimando, i due rimasero stretti ancora, dopo l’amplesso.
“Perché?”
ansimò, stanca, lei
“Perché io e te finiamo sempre
per…”.
“Scopare
come animali rabbiosi?
Non te lo so dire”.
“Perché
non dici a tutti che sei
ancora in vita?”.
“Ho
altri progetti in mente”.
“Manterrò
il tuo segreto”.
Non
parlarono più, ascoltando
solo il battito dei loro cuori, cullati dai loro respiri. Poi Kydoimos
si alzò
di scatto. La sua veste nera lo ricoprì, nonostante il
notevole spacco che si
apriva non avendo più la cinta. Scosse la testa. Era rimasto
troppo a lungo
lontano dal palazzo nero. La maledizione lo stordiva. Doveva rientrare
in
fretta. Afferrò la spada di Ares, mentre un’altra
presenza entrava in quel
luogo.
“Cosa
sta succedendo qui?” tuonò
Ahriman, sbattendo la porta.
Vide sua
madre in terra, nel
sangue, e subito pensò al peggio. Ringhiò,
vedendo il figlio del Caos.
“Tu!”
lo apostrofò “Lurida merda!
Come osi toccare mia madre? Te ne pentirai per averle fatto del
male!”.
Kydoimos
scosse ancora la testa,
tentando di rimanere lucido. Maledisse se stesso per essersi concesso
distrazioni non necessarie. Notò lo sguardo del quadro e
capì che l’anima di
Gaia doveva trovarsi lì. Scattò in fretta,
affondando la spada nel petto della
donna ritratta. Il dipinto brillò di luce verde e la spada
ne assorbì l’essenza.
“No!”
gridò Ahriman, creando una
sfera di luce azzurra con la mano e scagliandola contro Kydoimos.
Il figlio
del Caos fu
scaraventato contro il muro e finì a terra, ma tenne stretta
la spada. Ninive
tentò di fermare il figlio, ma non era semplice placare la
collera del Dio del
cielo.
“Ti
ridurrò in cenere!” continuò
Ahriman, avvicinandosi al suo avversario ferito.
Saltò,
aprendo le ali, ma
qualcosa di nero lo ricacciò indietro. Si udì un
brontolio sordo, profondo, e
la terra tremò. Il Caos apparve, grosso fino al soffitto,
con gli occhi rossi
scintillanti di rabbia.
“Stai
lontano dal mio gioiello,
traditore” tuonò il Dio nero.
“Non
darmi ordini!” rispose
Ahriman, con la voce di Urano.
Il Caos
allungò il suo lungo
braccio e spinse Ahriman contro il muro. Pareva così piccolo
il Dio del cielo,
confrontato con quella grossa nuvola oscura! Il Caos
continuò a schiacciare,
intenzionato a ridurre in briciole quell’essere. Ahriman
tentò di reagire. Usò
il suo potere e qualche goccia di sangue scese dalla mano del suo
aggressore,
che però non volle lasciarlo. Si udì uno
scricchiolio, qualche osso che si
rompeva. Ahriman gridò di dolore.
“Fermati!”
parlò Kydoimos,
tornando per qualche istante lucido.
Ora stava
davvero male, per colpa
della maledizione.
“Fermatevi!
Non uccidetelo!”.
Il Caos non
comprendeva la
richiesta del figlio. Aveva l’occasione di schiacciare
l’odiato Urano, mosso
dalla collera, eppure quel suo gioiello lo supplicava di non farlo.
“Non
è colpa sua se io sto male”
continuò Kydoimos “Non è causa di
Ahriman. È la maledizione. Lasciatelo andare
e portatemi a casa, vi prego”.
“Mi
chiedi molto, Kydoimos”.
“Lo
so, ma mi sento morire. Devo
tornare a casa. Risparmiatelo. Lui è solo qui per proteggere
l’anima della
donna che ha amato”.
“Lui
è la causa del nostro
malessere”.
“Lui
e molti altri Dèi.
Uccidendoli, non la annullerai”.
Kydoimos
tossì sangue.
“Padre”
gemette “Vi prego,
torniamo a casa. E risparmiate questo giovane, la cui unica colpa
è essere l’involucro
di un Dio che detestate”.
Il Caos,
capendo quanto il figlio
stesse male, lasciò andare Ahriman. Prese Kydoimos con un
braccio,
sorreggendolo come si fa con un neonato. La differenza di dimensione
fra i due
era pressoché la stessa. Lanciò
un’ultima occhiata al Dio del cielo e poi
scomparve, senza lasciare traccia.
Thanatos e
Deathmask si fissarono
ancora qualche istante. Poi colui che un tempo era cavaliere del cancro
annuì.
Il Dio della morte sorrise.
“Va
bene, ci sto” parlò Deathmask
“Affare fatto”.
“Ne
sei sicuro?” rispose Thanatos
“Non si può tornare indietro”.
“Sono
sicuro. E tu? Sei certo di
quello che fai?”.
“Sì,
lo sono”.
Il Dio
allungò la mano e strinse
quella di Deathmask. Il mortale avvertì come una scossa
lungo tutto il braccio
e poi su tutto il corpo. In principio era piacevole ma poi la
sensazione si
fece fastidiosa. Tentò di ribellarsi. Thanatos lo tenne
più forte ed entrambi
caddero in terra, in ginocchio. Si osservarono, qualche minuto, in
silenzio.
“Amico,
ora hai le pupille”
sorrise Deathmask.
“E
tu non le hai più. Significa
che lo scambio è avvenuto” rispose Thanatos
“Ora tu sei il Dio della morte”.
“E
tu un semplice mortale”.
“Impareremo
entrambi ad accettare
la cosa”.
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Capitolo 14 *** XIV- motivazioni ***
XIV
MOTIVAZIONI
Rientrati al
palazzo nero, Caos e
Kydoimos furono accolti dalla preoccupazione degli altri occupanti.
Dove erano
stai? Cosa era successo? E perché il padre reggeva fra le
braccia il figlio
adottivo, ferito? Kydoimos si agitò e fu messo a terra.
Socchiuse gli occhi,
mentre le ferite si rimarginavano. Era di nuovo a casa e si sentiva
già meglio.
“Airis!”
chiamò e la donna si
avvicinò.
Con la spada
di Ares stretta in
una mano, Kydoimos allungò l’altra mano e
toccò Airis. La donna sobbalzò. Una
luce verde iniziò a scorrere dalla spada fino alla
fanciulla. Gli altri
presenti non capirono cosa stesse accadendo fino a quando Airis
parlò.
“Cosa
è successo?” disse, con la
voce di Gaia “Dove sono? Sono…a casa!”.
“Gaia?”
si stupì Tartaros.
La donna si
girò e sorrise. Aprì
le braccia, in cerca di un abbraccio.
“Gaia…sei
tu?” continuò lui,
senza muoversi.
“Sì,
sono io!”.
“Ma…Kydoimos…tu…”.
“Sì”
rispose Kydoimos, con tono
piatto “Il marmocchio inutile ti ha riportato Gaia”.
“Ma
è nel corpo di Airis!”.
“Lo
so. Il corpo di lei è andato
distrutto”.
“Sì
ma così facendo rinunci ad
Airis”.
Kydoimos non
rispose. Si
allontanò lentamente, semplicemente dicendo che era stanco,
mentre alle sue
spalle la casa faceva festa per il ritorno di Gaia.
“Perché
lo hai fatto?” domandò
Ariadne.
Deathmask,
con l’armatura da Dio
della morte addosso, fissò la moglie con un mezzo sorriso.
“Che
problema c’è?” ghignò lui.
Era
soddisfatto della sua scelta.
Aveva di nuovo il suo corpo giovane e si sentiva potente e quasi
invincibile.
“Perché
lo hai fatto? Fare il Dio
della morte è orrendo. Devi uccidere delle
persone”.
“L’ho
sempre fatto”.
“Ma
potevi smettere. Non eri più
cavaliere d’oro”.
“E
stavo male. Ora invece sono
felice. Ho di nuovo uno scopo”.
“Tu
avevi già uno scopo. Sei mio
marito. Un padre. Un amico”.
“Un
uomo che invecchia e muore.
Non volevo più essere questo”.
“Io
ti ho sempre amato. Come
mortale, come cavaliere, come uomo” sospirò
Ariadne.
“E
come Dio non puoi amarmi?”.
“Certo.
Ma non era necessario che
lo facessi”.
“Lo
era. Credimi”.
“Se
questo ti rende felice,
allora sarò felice anche io”.
Lo sguardo
di lei non era
convinto, ma si sforzò di sorridere. Sperava
d’avvero che fosse la cosa giusta.
“Perché
lo ha fatto?” si chiese
Ahriman.
Da solo,
nell’immenso palazzo del
cielo, sfiorò il braccio che aveva dovuto fasciare. Strinse
i denti per il
dolore. Maledette creature del Caos! Quell’essere oscuro era
mostruosamente
potente. Il Dio era consapevole di aver rischiato la vita. Poteva
essere ucciso
ma l’intruso, il ladro dell’anima di Gaia, aveva
fermato il Caos. Per quale
motivo? Ahriman non riusciva a capirlo. Zoppicando leggermente,
camminò ancora
seguendo le vetrate che davano sullo spazio.
“Smettila
di scervellarti” parlò
la voce di Urano.
“Come
faccio?” sbottò Ahriman
“Quell’uomo ha impedito al Caos di ucciderci.
Perché?”.
“Era
semplicemente in ansia per
la sua vita. Lontano dal palazzo nero, stava morendo”.
“Poteva
comunque farmi uccidere”.
“Non
penserai mica ad un suo atto
di pietà?”.
“Tu
come lo vedi?”.
“Conosco
bene il Caos”.
“Il
Caos voleva uccidermi. È
stato quell’altro essere a…”.
“Non
farti impietosire. Il Caos
non prova pietà. E nemmeno nessuno dei suoi figli”.
“Però
vorrei sapere per quale
motivo lui ha…”.
“Smettila.
Concentrati sul dolore
che provi. Ricorda tua madre ferita”.
Ahriman
strinse il pugno del
braccio sano. Non doveva farsi intenerire da quel gesto. Erano dei
nemici e,
ora che avevano l’anima di Gaia, era meglio controllarli
molto più di prima. Era
meglio allertare al più presto le altre divinità
alleate. In quel palazzo,
stava accadendo qualcosa.
“Perché
lo hai fatto?” mormorò
Erebo, rimboccando le coperte di Kydoimos, che si era addormentato.
Con quel
gesto, l’addormentato si
svegliò e mugugnò.
“Scusa”
parlò Erebo “Non volevo
svegliarmi”.
“Sei
un bugiardo. Non saresti
qui”.
“Non
pensavo dormissi”.
Kydoimos
mosse leggermente
l’orecchio a punta e continuo a starsene mezzo abbracciato al
cuscino.
“Ho
visto come tutte le tue
ferite si siano rimarginate” riprese Erebo “Non
è cosa da tutti. Inoltre, hai
rubato l’anima di Gaia e l’hai impiantata nel corpo
di Airis. Sei dunque tu un
creatore?”.
“No,
non lo sono” brontolò,
sbadigliando “Io modifico quel che già esiste. Non
faccio le cose dal niente”.
“È
comunque una cosa notevole”.
“Se
lo dici tu”.
“E
anche quello che hai fatto con
Gaia…tutta la casa ti è grata”.
“Prego,
non c’è di che”.
“Kydoimos!
Parli come fosse una
cosa da niente!”.
“Sono
stanco, Erebo. Lasciami
dormire”.
“Puoi
spiegarmi perché lo hai
fatto? Perché hai rinunciato ad Airis?”.
“Airis
non è mica morta!”.
“No,
ma ora prevale il lato di
Gaia”.
“Gaia
è importante”.
“Ora
Tartaros ti tratterà molto
meglio”.
“Sono
felice che almeno lui sia
soddisfatto. Il Caos pareva non approvare”.
“Il
Caos si è preoccupato molto
per te. Non vuole perderti e tu non fai altro che cacciarti nei
guai!”.
“Chiedo
scusa”.
Kydoimos si
mosse solo lentamente
sul cuscino.
“Non
lo hai fatto per
ricongiungere una coppia, vero?” domandò Erebo.
“A
che ti riferisci?”.
“Non
lo hai fatto per
ricongiungere Gaia e Tartaros, vero?”.
“Lui
la ama”.
“Certo.
Ma hai mai sentito la
frase "madre natura è una puttana"? Nel caso di Gaia calza a
pennello”.
“Non
importa”.
“E
Airis? Airis ti amava. Ma ora,
con l’anima di Gaia dentro di lei, non sarà lo
stesso”.
“Airis
non mi ha mai amato. Mi
idolatrava, perché l’ho creata. Mi adorava. Questo
non ha niente a che fare con
l’amore”.
“Ma
tu lo hai mai conosciuto
l’amore, che fai tanto l’esperto?”.
“Preferirei
non parlarne”.
Erebo
notò lo sguardo triste di
Kydoimos e non insistette.
“Non
te la prendere per il Caos”
parlò “Lui è arrabbiato
perché ha paura che tu soffra. Non comprende il legame
che unisce un uomo ed una donna. Lui è asessuato”.
“Lui
è cosa?! Credevo fosse un
maschio!”.
“La
voce è maschile. E tutti noi
lo trattiamo come tale. Però, tecnicamente, non lo
è. Lui non ha sesso. Ha
generato me e gli altri non accoppiandosi con una donna, capisci? Lui
non
comprende il desiderio di creare legami d’amore o sessuali.
Lui vuole bene a tutti
quanti noi ma in modo diverso da come io voglio bene a Nyx. Quindi
credo sia
arrabbiato perché vede tutto questo come un tentativo
stupido di renderti amico
Tartaros. Non è per questo che lo hai fatto,
giusto?”.
“No.
Ma ora sono stanco. Va via”.
“Sei
sicuro? Hai l’aria di chi ha
qualcosa non va”.
“Non
sono affari tuoi!” alzò la
voce Kydoimos.
“Va
bene! Non serve trattarmi
male!”.
“Scusami.
Ma sono davvero stanco.
Voglio restare da solo. Ne parliamo un’altra volta”.
“Come
vuoi. Però ricordati una
cosa: io sono nato prima del mondo. Perciò non puoi
nascondermi nulla e nemmeno
mentirmi. Non farlo, perché potrei arrabbiarmi”.
“Me
lo ricorderò. E grazie. Tu mi
sostieni sempre”.
“Sei
il mio fratellino. E ora
riposa”.
Le anime di
Ares ed Athena
camminavano, fianco a fianco, per i campi elisi. Quel luogo di infinita
pace e
delizia, facevano sorridere entrambi. Nessuno più aveva
desiderio di guerra o
provava odio nei confronti di qualcun altro. I fiori profumavano
l’aria ed i
due seguivano il corso di un ruscelletto limpido. Tutti erano felici,
tranne
un’anima. Un’anima sola, che se ne stava seduta a
fissare il vuoto, sospirando.
“Cosa
ti rende tanto triste,
amico mio?” domandò Aphrodite, poggiando una
coroncina di fiori sulla testa
dell’anima di Saga.
“Niente”
mentì Saga.
“E
allora perché quel muso lungo?
Qui sono tutti sereni! I campi elisi sono un luogo di infinita gioia
per tutti
coloro che vi albergano. Ma tu no, tu sei triste. Dimmi
perché”.
“È
che…” iniziò Saga,
giocherellando con una farfalla “…credevo che ci
saremmo rincontrati tutti qui,
un giorno. O, comunque, tutti insieme”.
“Molti
di noi non sono morti”.
“Ma
non tutti i morti sono qui”.
“Parli
di Arles?”.
Saga
girò la testa, ignorando il
passato cavaliere dei Pesci.
“Saga?”
insistette Aphrodite
“Rispondimi!”.
“Lasciami
in pace” sbottò Saga,
levandosi dalla testa la coroncina.
“No,
non ti lascio in pace.
Perché tu sei mio amico, lo sei sempre stato, e non voglio
vederti triste”.
“Ma
lo sono. E non c’è niente che
tu possa fare”.
“Dimmi
perché!”.
“Lo
sai già il perché!”.
“Arles?”.
“Sì!
Sì, Arles! Sempre e
fottutamente Arles! La fonte di ogni singolo guaio nella mia vita, mi
sta
rovinando anche la morte”.
“Ti
manca?”.
Saga
fissò ancora il vuoto,
qualche istante. Si portò le ginocchia al petto e vi
poggiò la testa, lasciando
che i capelli lo coprissero in parte.
“Lo
sai…” iniziò a parlare, senza
guardare negli occhi Aphrodite “Quando sono caduto in terra,
quel giorno, ed ho
sentito la vita scivolare via da me, io l’ho visto. Ho visto
il suo viso. Mi
sorrideva”.
“Arles
non sorrideva. Arles
ghignava, è diverso”.
“Mi
ha sorriso! Ed io mi sono
sentito felice. Ero in pace. Era come se avessi trovato qualcosa che
cercavo e
che avevo smarrito da tanto, tanto tempo. Ero convinto di ritrovarlo
qui. Ero
certo che sarei stato finalmente ricongiunto a lui”.
“Ma
per quale motivo ti manca
così tanto? Per quale ragione vuoi ricongiungerti con
l’essere che ti ha
portato a compiere gesti ignobili?”.
“Perché?
Non lo. Se ci ragioni, è
vero. Non ha senso che io aneli a riaverlo vicino. Eppure è
così”.
“Sei
sicuro che sia lui a
mancarti? Tua moglie e tua figlia…”.
“A
loro auguro una vita lunga e
prospera. Spero di non vederle tanto presto qui”.
“E
non preferisci startene qui,
felice, in pace, senza pensare ad altro?”.
“Certo.
Lo vorrei tanto ma, porca
puttana, non ci riesco!”.
L’anima
di Saga scoppiò a
piangere e molte altre anime la guardarono, stupite. Nessuno piangeva
ai campi
elisi, se non di gioia.
“Qui
non c'è” singhiozzò
“Perché non c'è? Perché, una
volta riaperti gli occhi, non
l'ho visto accanto a me?"
"Forse
perché ha commesso troppi crimini
per riposare ai Campi Elisi"
"Non
ha importanza. Io lo voglio qui".
"E perché?".
"Perché mi manca.
Mi manca più del mio stesso respiro. E,
credimi, il respiro mi manca parecchio".
“Perché
mi chiedi questo?”
domandò Neikos.
“E
perché no?”.
“Che
cosa devi fare?”.
Nàgiri
aveva appena chiesto alla
sorella di accompagnarlo al grande tempio per una sera. Gli abitanti
del
palazzo nero iniziavano ad insospettirsi. Quella sera, per
rassicurarli, si era
inventato una festa dove anche la sorella avrebbe partecipato. In
realtà lui
andava al grande tempio per incontrare Heiwa.
“Io
non vengo con te” protestò
Neikos.
“Dai,
è solo un piccolo favore
che ti chiedo”.
“Ma
per quale motivo? Cosa ci vai
a fare al grande tempio?”.
“Io…ho
conosciuto una ragazza”
ammise Nàgiri.
“Come?!”
si stupì Neikos “Ma
tu…avevi promesso che…io e
te…” balbettò Neikos, sconvolta.
“Sorellina,
sii seria. Ci siamo
divertiti, ma io questa donna la amo”.
“Avevi
detto di amare me!”.
“Sono
cose che si dicono”.
Neikos
gridò di rabbia. Iniziò a
piangere. Lui non parve in alcun modo preoccuparsi o addolorarsi.
“Vieni
con me” propose Nàgiri “Al
grande tempio c’è tanta gente. Solo
così potrai conoscere il vero amore. Il
nostro era solo un passatempo”.
“Sei
uno stronzo” mormorò lei.
“Ti
prego, non farla così grave.
Vieni con me. Ti prometto che ti divertirai”.
“Vaffanculo”.
“Smettila!”.
Nàgiri
insistette, arrivo quasi a
supplicare. Alla fine Neikos cedette.
“Ti
odio” sbottò lei.
“Lo
so che non è vero” sorrise
lui, dandole un bacio sulla guancia.
Il Caos
bussò alla porta di
Ahriman. Erebo non era ancora uscito così il padrone di casa
trovò i due figli
nella stanza. Li guardò e sorrise.
“È
tardi, miei cari. Non è ora di
dormire?” commentò.
“E
per te no?” rispose Erebo,
ghignando.
“Lo
sai che io non dormo mai”.
“Andate
via!” si lamentò Kydoimos
“Ho sonno”.
“Voglio
solo farti una domanda,
mio gioiello” insistette il Caos e Erebo si offrì
di uscire.
Il padre,
però, invitò il suo
primogenito a restare. Kydoimos borbottò e ficcò
la testa sotto il cuscino.
“Volevo
farvi una domanda,
piccoli miei”.
“E
non puoi farmela domani? Sono
stanco” ringhiò il più piccolo dei
figli e il Caos si sedette sul letto.
“A
te, piccolo, vorrei chiederti
perché sei infelice”.
“Non
sono infelice”.
“Stronzate.
Sei alla ricerca di
qualcosa. Di che cosa?”.
“Ma
che dici? Sparisci!”.
“Cosa
ti manca? Hai dei figli che
ti adorano, noi tutti ti vogliamo bene. Eppure tutti mi fanno notare
che hai
rinunciato ad Airis e devi essere triste. Perché?”.
“Perché
sono tutti degli
impiccioni. Io sto benissimo. Voglio solo dormire”.
“Nàgiri
e Neikos litigano.
Tartaros è geloso perché Gaia non è di
certo fedele. Tu, Kydoimos, quasi cadevi
dal balcone per salvare Shuna che si suicidava. Questo
io…non lo capisco.
Perché tutti voi cercate l’amore, se fa
così male?”.
I due
fratelli rimasero in
silenzio. Kydoimos non sapeva che risposta dare. Non lo sapeva davvero.
Erebo
capì che per il fratellino non era un argomento molto
piacevole e non parlò.
Non descrisse la gioia che provava nel stare accanto a sua moglie Nyx.
Kydoimos
si spostò. Si raggomitolò attorno al padre, come
in cerca di conforto. Il Caos
gli accarezzo i capelli e rimase in silenzio. E il suo gioiello
iniziò a
cantare.
“Dormi
ora che
tutte le
stelle assieme cantano per te.
Sogna
ora che
un poco
il cielo appartenga pure a te
e che ti
culli poi spiegandoti il perché
il mondo
è strano ma sorridi
dico io.
Chiudi
gli occhi e
se ti
riesce stanotte sogna proprio me
e se il
tuo sogno sarà bello come vuoi
allora
per sempre uniti insieme saremo noi.
Se
davanti a te
vedi
battaglie e morti tutti accanto a te
voglio
che sappia che qui ci sono io
e che
ogni volta che di notte tremerai
sarà
la
mia voce a scaldarti, vedrai”
Kydoimos non
poteva sapere che la
stessa canzone, in quel momento, la stavano cantando anche Saga, Ninive
ed
Ahriman.
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Capitolo 15 *** XV- Nuovo ***
XV
NUOVO
“Quello
che ci dici è molto
grave” annuì Aiolos.
Ahriman
aveva convocato alcuni
cavalieri d’oro ed alcune divinità, per riferire
il grave sospetto che aveva. E
per comunicare a tutti che il sigillo di Gaia era stato spezzato. Il
Dio del
cielo ancora portava un braccio fasciato. Se lo accarezzava
nervosamente, e
intanto camminava avanti ed indietro.
“Cosa
avranno in mente?” si
chiese Milo “Con tutta la fatica che abbiamo fatto per
sigillare quella
troia!”.
“Calmati,
Milo. Non serve essere
volgare” lo fermò Camus.
Stavano
tutti seduti attorno ad
un tavolo, tranne il Dio del cielo che non stava fermo.
“La
situazione però, lo dovete
ammettete, è grave” convenne Shaka.
“Preoccupante”
annuì Kiki,
accanto a Mur “Se decidessero di attaccarci di
nuovo…”
“Li
rispediamo a calci da dove
sono venuti” ringhiò Kanon.
“Non
credo sia così facile”
rispose Ahriman “Visto come gira il mondo al giorno
d’oggi, il Caos si è
notevolmente potenziato. L’ho provato sulla mia
pelle”.
“In
quel momento, figlio mio” lo
interruppe Ninive “Il Caos era mosso dall’ira e
dalla preoccupazione perché
avevi attaccato suo figlio”.
“E
credi che, se ci muovesse guerra,
non lo farebbe con ira?”.
“Certo
che sì. Ma non così
cieca”.
“Dobbiamo
prepararci al peggio”.
“Cosa
suggerisci di fare?”
domandò Aiolos.
Heiwa, la
figlia di Saga,
rimaneva in silenzio. Osservava la madre, seduta accanto ad Aiolos, e
teneva il
capo chino. Suo padre era morto per la pace e questi discutevano di
guerra. La
cosa la rattristava. Si alzò, preferendo abbandonare la
conversazione e
raggiungere Nàgiri, che certamente l’aspettava
alle porte del tempio. Nessuno
ebbe qualcosa da ridire, vedendo come ancora la perdita del genitore
scuotesse
l’anima di quella fanciulla.
“Se
solo una divinità di guerra
fosse rimasta…” si rammaricò Ioria,
desideroso di proteggere chi amava.
“Ma
siete tutti impazziti?” si
spaventò Hestia “Non vorrete mica un altro
conflitto?”.
“Abbiamo
forse un’alternativa?”
sbottò Hades.
Al suo
fianco, Deathmask con
l’armatura da Dio delle morte donava un tocco
d’inquietudine nell’animo di
tutti. Altri Dei presenti scossero il capo.
“Ma,
scusatemi!” sorrise
Aldebaran “Abbiamo il Dio della morte dalla nostra parte!
Siamo a cavallo”.
“Mi
permetto di dissentire” parlò
Deathmask, lentamente “La morte è
neutrale”.
“Dai!
Non puoi essere così
stronzo!” protestò Shura.
“Ma
finché non ci attaccano,
perché ci preoccupiamo?” chiese Arles II.
“Perché
se ci attaccano e noi non
siamo preparati…” sibilò Ahriman,
chinandosi su quel giovane “…siamo tutti
quanti fottuti!”.
“Oh,
adesso smettila, Ahriman!”
lo rimproverò Ninive “Sei come tuo padre. Vedi
complotti e nemici ovunque. Stai
rinunciando alla tua felicità per inseguire
sospetti”.
“Io
non ho nulla da spartire con
mio padre. Io non sono un pazzo assassino”.
“Non
è di certo solo questo,
figlio mio”.
“Non
parlare al presente di chi è
morto da tempo”.
“E
tu non parlare così di chi ha
contribuito a farti esistere!”.
“Calmati”
parlò piano Apollo,
seduto accanto alla figlia.
Le
sfiorò la mano, e Ninive si
calmò. Molti avevano i nervi a fior di pelle e nessuno
sapeva come calmare gli
animi. Una soluzione, pareva non esserci.
“Io
non voglio una guerra” furono
le parole di Tania.
“Nessuno
di noi la vuole” la
rassicurò Arles II, ma non era affatto convinto di questo.
“Intensifichiamo
la guardia”
suggerì Aiolos “Teniamo d’occhio la
situazione e teniamoci pronti”.
“Sì,
stiamo all’erta” annuì
Hestia.
“Prepariamoci
ad ogni evenienza.
Potrebbe anche avvenire un attacco da un momento ad un altro”
ammise Ahriman,
accarezzandosi ancora il braccio ferito.
“E
se il Caos decidesse di
attaccarci proprio per questo?” domandò Ninive
“Se, vedendoci agire, decidesse
di attaccare, sentendosi minacciato?”.
“Ma
tu da che parte stai?” storse
il naso il figlio e la madre lo guardò con rimprovero.
“Dalla
parte di nessuno”.
“Ah
sì? Quell’essere ti ha ferita
e tu lo difendi”.
“Non
lo difendo. Dico solo che
potrebbero aver recuperato Gaia solo perché mancava loro,
non per muoverci
guerra. Non trovi?”.
“Tu
stai delirando, donna”.
“Non
usare quel tono con me,
ragazzino!”.
“Tu
non usare quel tono!” rispose
la profonda voce di Urano “Voi stupidi non capite il pericolo
che deriva dalla
libertà di Gaia”.
“No,
non lo capiamo. E adesso calmati”.
“Non
dirmi quel che devo fare!”.
I presenti
si guardarono
piuttosto preoccupati. Ahriman si calmò. Respirò
profondamente.
“Bene”
disse “Fate quel che
preferite. Non invocatemi solo quando ormai siete al
capolinea”.
E, detto
questo, lasciò la stanza.
“Tieni,
anima triste” mormorò
Violatte, mostrando la scatola di un puzzle all’anima
incompleta, che la
ignorò, girando la testa.
“Thanatos
aveva detto che ti
piaceva” sospirò lei.
In ogni
modo, lei ed Aiaco
avevano cercato un modo per far sorridere quell’anima, senza
risultato.
“Sta
perdendo i suoi tratti
somatici” notò Aiaco “E sta dimenticando
quel che è stato. Una volta che il
processo sarà terminato, non potrà più
ricongiungersi al lato che manca. Non
potrà mai riposare in pace”.
“Quanto
tempo credi che manchi?”
domandò Violatte.
“Non
molto. Mi chiedo se non sia
giusto farla smettere di soffrire”.
“Abbiamo
fatto una promessa”.
“Lo
so”.
Aiaco
lasciò la stanza e guardò
in alto. Percepiva qualcosa.
“Violatte”
chiamò “Allontanatevi,
tu e l’anima”.
“Che
succede?”.
“Tranquilla,
è tutto sotto
controllo”.
La donna si
fidava di Aiaco,
ciecamente. Lo guardò qualche istante, spaventata
all’idea di venire di nuovo
separata da lui, e poi prese l’anima per l’unica
mano e la trascinò con sé.
Ahriman
camminò da solo lungo il
sentiero che conduceva al tempio. Era piuttosto nervoso ma cercava di
controllarsi. Davanti a sé, d’un tratto, vide una
figura vestita di chiaro. Era
strano, solitamente in quei luoghi non vi era mai nessuno.
Avvicinandosi, vice
che era una donna, che guardava le stelle sospirando.
“Buonasera”
salutò lui, non
volendo spaventarla avvicinandosi ulteriormente.
La giovane
si girò. Si era
spaventata comunque.
“Salve”
rispose lei,
educatamente.
Era Neikos,
che attendeva
pazientemente il ritorno del fratello dalle sue fughe amorose.
“Cosa
fate qui da sola?” domandò
il Dio del cielo “Non è orario per passeggiate di
fanciulle in solitaria”.
“Lo
so. Sto aspettando mio
fratello”.
“Che
razza di fratello lascia da
sola la sorella nel buio e al freddo?”.
“Uno
a cui non importa”.
“Io
non farei mai una cosa del
genere a mia sorella, anche se lei non mi vuole attorno”.
Ahriman
scosse le ali,
involontariamente. Neikos non poté fare a meno di guardarle.
“Ti
piacciono?” sorrise lui,
ringalluzzito.
“Mi
sono sempre piaciute. Anche
quando ero piccola, le ammiravo”.
“Ci
conosciamo?”.
“Sono
Neikos”.
“Progenie
del Caos?”.
“Esattamente”.
“Capisco”.
Neikos
chiuse gli occhi. Sapeva
cosa provava Ahriman nei confronti di quelli come lei e si aspettava si
allontanasse, lasciandola da sola. Inaspettatamente, qualcosa di caldo
l’avvolse. Il Dio si era tolto il mantello per proteggerla
dal freddo e glielo
aveva messo sulle spalle. Lei lo guardò, stupita.
“Scusa,
me ne vado subito” si
affrettò a dire Ahriman “So che quelli come te mi
odiano”.
“Io…”.
“So
che pensi anche tu che io
abbia ucciso i tuoi fratelli”.
“Io
non so nulla al riguardo. È
mio fratello che dice queste cose. Per me non ha senso che lo abbiate
fatto.
Però, allo stesso tempo, non posso dire che siate innocente.
Non lo so”.
Ahriman si
stupì a quelle parole.
La guardò in viso. Doveva odiarla, perché era la
figlia di colui che aveva
attaccato lui e sua madre. E la nipote del Caos. Ma non ci riusciva. Le
sorrise. Lei si stupì. Lo fissò a sua volta. E si
accorse di star sorridendo a
sua volta. Quelle ali erano davvero troppo belle!
“Che
succede?” si incuriosì Kiki,
vedendo Milo.
Il cavaliere
dello scorpione gli
fece l’occhiolino, mentre con una mano indicava di fare
silenzio.
“Ho
beccato Ahriman”.
“Ah,
hai visto dove è scappato”.
“Già.
A quanto pare, anche la
carne degli Dei è debole”.
“Sono
venuto qui per ordine di Hades
in persona” gracchiò Zelos.
“Che
cosa c’è?” domandò Aiaco.
“Siamo
in cerca di un’anima
incompleta”.
“E
io che c’entro?”.
“Chiedo
perdono, ma mi è stato
detto di controllare anche qui”.
“Fai
pure, non ho nulla da
nascondere”.
Il giudice
era consapevole che
Zelos non aveva le capacità necessarie per percepire la
presenza recente di
un’anima in quel luogo. Lo vide strisciare ed annusare per la
casa, in cerca di
indizi. A braccia incrociate, Aiaco lo osservò senza parlare.
“Ti
diverte la cosa?” si sentì
dire dall’inconfondibile voce di Radamante.
Si morse il
labbro. “Merda”
mormorò, consapevole che quell’uomo era in grado
di capire la realtà.
Si
voltò e vide che non era solo.
Minos sorrise.
“Salve,
colleghi” salutò Aiaco,
tentando di tenere quei due lontani da casa sua.
“Ti
unisci alla ricerca?” domandò
Radamante “O sei troppo impegnato con la tua
signora?” ridacchiò.
“La
tua è solo invidia, vero?
Pandora non pare disponibile…”.
“Chiudi
la bocca!” sbottò la
Viverna.
“Dai,
mi unisco a voi” sorrise
Aiaco “Andiamo”.
“Un
momento” lo fermò Minos
“Cos’è tutta questa fretta? Prima
dobbiamo controllare anche casa tua. Abbiamo
ordini precisi”.
“Oh,
andiamo! Non è necessario! Cosa
credete che nasconda?”.
“Noi
obbediamo solo agli ordini.
E poi sono curioso di sapere come la tua donna ha arredato la tua
dimora”.
“Ma
no. Non mi piace che
ficchiate il naso nelle mie cose!” sbottò Aiaco.
“Hai
Violatte nuda, incatenata al
letto?” rise Radamante “Non ci sconvolgiamo,
tranquillo”.
Aiaco
cercò di trattenere i due
giudici ma ormai era tardi. Era sceso uno strano silenzio.
“Porca
puttana” commentò Aiaco,
capendo di essere nei guai.
“Forse
non dovrei parlarti”
convenne Neikos.
“Già,
forse nemmeno io” annuì
Ahriman.
Si fissarono
ancora qualche
istante.
“E
se non ti parlo, però ti
accompagno in un posto, ti dispiace?” sorrise il Dio.
“Dove
volete portarmi?”.
“Intanto
dammi del tu. Poi, ho
visto che ti piacciono le stelle. Posso portarti nel luogo dove si
vedono
meglio in assoluto”.
“No,
devo aspettare mio
fratello”.
“Ma
lui ti ha lasciata sola qui”.
“Lo
so. Mi ha mentito, mi ha
tradita, mi ha presa in giro e pure mi tocca aspettarlo”.
“E
perché?”.
“Perché
mio padre non vuole che
giriamo da soli. Va nel panico quando siamo lontani”.
“Ancora
scottato dalla perdita
che ha avuto in famiglia?”.
“Sì,
suppongo di sì”.
“Ad
ogni modo, capisco i tuoi
sentimenti. Anche io ho una sorella con cui ho avuto dei problemi.
Soprattutto
con suo marito”.
“Lui
mi aveva promesso di stare
sempre accanto a me. Invece ora ha trovato
un’altra”.
“Mi
dispiace. Immagino faccia
male. Ma hai un motivo in più per lasciarlo qui. E poi, ti
porto solo a fare un
giro. E ti riporto qui. Non ti rapisco per sempre”
ammiccò Ahriman.
Neikos
guardò il Dio con un certo
imbarazzo. Non sapeva che cosa dire. Entrambi, dentro di sé,
si stavano
chiedendo se era la cosa giusta quel che facevano.
“E
va bene” annuì lei “Però
quando dico che è ora di rientrate…”.
“Ti
riporto qui, tranquilla”.
La prese per
mano e sbatté le
ali. Neikos si sentì sollevare. In un primo momento ne fu
spaventata ma poi
lanciò un gridolino d’entusiasmo. Aveva sempre
desiderato volare. Era una
sensazione meravigliosa.
Minos e
Radamante fissavano Aiaco
in silenzio. Aiaco sorrise, imbarazzato.
“Cosa
c’è? Vi va una birra?”
tentò di sdrammatizzare.
“Aiaco”
mormorò Radamante,
sedendo senza invito sul divano di casa del collega “Aiaco,
Aiaco, Aiaco…mi
stupisco di te. Non credevo potessi giungere a tanto”.
La Viverna
aveva congiunto le
mani davanti al viso e fissava chi aveva di fronte come solo un giudice
infernale sapeva fare.
“A
quanto pare, sei stato
cattivo” si aggiunse Minos.
“Ragazzi,
andiamo. Non è come
pensate” tentò di giustificarsi Aiaco.
“L’anima
incompleta è stata qui,
non puoi negarlo” si spazientì Radamante
“L’anima che il sommo Hades ha dato
l’ordine di eliminare! Come giustifichi questo?”.
“Non
lo giustifico. È stata qui.
Ma ora non c’è”.
“Che
ci sia o non ci sia, non ha
importanza. È stata qui e tu non l’hai eliminata,
come Hades desidera”.
“Non
facciamone un dramma”.
“Non
dire cazzate!” si alzò di
colpo Radamante, ribaltando il tavolino che aveva davanti a
sé “Qui stiamo
parlando di tradimento. E il tradimento sai come viene punito
qui!”.
“L’anima
non è qua, perciò non
potete incolparmi”.
“Ma
noi vediamo dentro di te”
ghignò Minos “E sappiamo che sei
colpevole”.
Minos prese
fra le dita il viso
di Aiaco, che di tutta risposta gli sputò in faccia.
“Che
venga Hades a prendermi, se
ci tiene tanto” commentò, mentre il grifone
indietreggiava, ringhiando di
fastidio e pulendosi.
“Questa
è pura insubordinazione!”
parlò Radamante, facendo scricchiolare le nocche
“Bello. Avevo giusto bisogno
di divertirmi un po’. Anche tu, Minos?”.
“Ovviamente”
rispose il grifone,
passandosi la lingua sulle labbra.
Il primo ad
attaccare fu proprio
Minos. Aiaco, conoscendo la sua tecnica, riuscì a schivare i
fili del suo
colpo. Saltò.
“Oh,
andiamo!” commentò “Siete
seri?”.
“Ti
staccherò tutti gli arti!”
riprese il grifone, attaccando ancora.
Questa
volta, l’attacco di Minos
fu accompagnato da quello della viverna e Aiaco non trovò
per nulla semplice
schivare entrambi. L’esplosione che creò,
sfondò una delle pareti della casa e
i tre finirono proiettati all’esterno. Diversi uomini a
servizio di Aiaco si
stupirono a quella scena. Cosa stava succedendo? Dovevano difendere il
loro
signore oppure farsi da parte? Garuda non diede ordini a riguardo. Si
preparò a
contrattaccare, e grandi occhi apparvero fra la nera atmosfera
dell’oltretomba.
“Sei
un pazzo se credi di battere
entrambi” parlò Radamante.
“Forse
lo sono. Non ho paura, né
di voi né di Hades” ribatté Aiaco,
spalancando il suo sguardo con fare
minaccioso.
“Sarà
allora un piacere portare
al nostro signore la tua testa!” gridò Minos.
Il palazzo
di Ahriman era il
luogo da dove le stelle si vedevano meglio. Neikos osservò
gli astri ad occhi
spalancati, fra le colonne di quel luogo.
“Questo
posto è splendido”
dovette ammettere.
“Ti
ringrazio” sorrise Ahriman.
“Ma…vivi
qui da solo? Pare
deserto questo palazzo”.
“È
così. Io qui sono solo.
Immagino sia strano per te, che vivi in un luogo ben più
affollato”.
“Lo
è, in effetti”.
“Non
ho mai portato nessuno qui,
prima d’ora”.
“Oh.
E perché hai portato proprio
me?”.
Ahriman non
rispose. Non lo
sapeva. Perché mai aveva condotto un’abitante del
palazzo nero proprio a casa
sua? Perché mostrare al nemico un particolare
così?
“Lo
sai…” riprese lei “…hai degli
occhi smeraldo meravigliosi”.
Il Dio si
imbarazzò. Era una
frase che solitamente gli diceva sua madre.
“Scusa!”
aggiunse in fretta
Neikos “Non dovrei sempre parlare a vanvera”.
“Tu,
invece…” iniziò Ahriman, non
trovando bene le parole “…sei interamente
meravigliosa”.
“Come,
prego?”.
“C’è
qualcosa, in te, che…non so
come spiegarti. È come se ti conoscessi, come se ti avessi
sempre cercata e ora
finalmente sei qui. È una sensazione molto strana”.
“Lo
dici a tutte le donne, vero?
Sei un bravo corteggiatore”.
“Non
sono mere bugie per
rimorchiare. Quel che ti ho detto, è quel che
provo”.
“Davvero?”.
Neikos non
sapeva se credergli o
meno. Lo osservò attentamente. Poteva anche essere un gran
bugiardo ma non le
importava molto. La brezza ne muoveva i capelli neri come la notte e
quel suo
sguardo aveva un’aria familiare, lo ammetteva pure lei.
Bugiardo? Può darsi. Ma
in quel momento non ci pensava. Era come incantata, probabilmente
sottomessa
dal potere divino che Ahriman emanava. Entrambi si avvicinarono
l’uno
all’altro. Ormai vicinissimi, riuscivano a percepire il
battito accelerato di
chi avevano di fronte. E si baciarono, con puro desiderio, senza
pensare più a
niente e nessuno se non a loro stessi.
Aiaco
sputò sangue. Combattere
contro due giudici non era facile. Ma non voleva cedere. Si
rialzò e si preparò
ad attaccare ancora. Attorno a lui, i corpi di molti suoi uomini,
colpiti
accidentalmente da quello scontro. A garuda non importava. Erano solo
degli
esseri inferiori. Minos attaccò, riuscendo ad
immobilizzargli un braccio. Aiaco
si dimenò, senza troppo successo. Radamante era pronto a
colpirlo ma qualcuno
si intromise, deviando la Greatest Caution. Violatte era tornata per
difendere
l’uomo che serviva e amava. Ed era furiosa.
“Fatti
da parte, femmina!” sbottò
la viverna “Se non vuoi morire pure tu. Visto che ci sono
poco donne
interessanti da queste parti, mi dispiacerebbe”.
“Vaffanculo!”
rispose lei.
Radamante e
Minos si prepararono
a colpire ancora quando una voce li interruppe. Era calma, pacata.
Divina.
Capirono subito di chi si trattava.
“Hypnos”
parlò la viverna.
“So
come mi chiamo, Radamante”
rispose il Dio dei sogni “E voi mi state infastidendo. Fate
troppo casino”.
“Stiamo
obbedendo. Hades vuole
l’anima incompleta che è stata in questa
casa” si giustificò Minos.
“In
questo caso…” mormorò il Dio,
avvicinandosi a Violatte.
La donna si
guardò attorno,
confusa. Hypnos ne prese il viso fra le mani e la fissò. Lei
gridò, sentendo il
potere della divinità entrargli nella mente. Evidentemente,
il Dio stava
cercando i ricordi della donna, per scoprire dove l’anima
fosse celata. Dopo
qualche istante, la lasciò andare.
“Ci
penso io, ora” ordinò “Voi
sparite. Le armate di Hades hanno bisogno di uomini validi come Aiaco,
anche se
a volte fanno qualcosa di sbagliato”.
“Eliminerete
Voi l’anima?”
domandò Radamante.
“Sì,
giudice dal sopracciglio
inquietante. Andate pure”.
Il tono di
Hypnos era di quelli
che non ammettono repliche, così i giudici si congedarono.
Il Dio dei sogni
attese che se ne fossero andati, e poi si allontanò a sua
volta. Non aveva
alcuna intenzione di uccidere quell’anima. Era stanco di
sentir piagnucolare
Saga nei campi elisi e, se l’unico modo per farlo smettere
era riportargli
Arles, avrebbe fatto di tutto per aiutarlo.
Neikos
gemette di piacere. Che
cosa stava facendo? Se lo chiedeva ma non voleva fermarsi. Stesi
sull’enorme
letto di Ahriman, il loro bacio era diventato ben altro e ora se ne
stavano
avvinghiati, in un solo corpo. Mai lei aveva provato sensazioni
così forti
durante il sesso. Era vero quello che dicevano sulle
divinità! Forse si era
fatto tardi, forse erano trascorse delle ore. Ma non le importava.
Strinse più
forte a sé il Dio, urlando per l’eccitazione. Non
riusciva a dire altro.
Ahriman ansimò soddisfatto, anche se si ripeteva che non era
da lui agire in
quel modo.
“Resta
qui” le mormorò, senza
fermarsi “Resta qui per sempre con me. Diventa regina del
cielo”.
Lei
spalancò gli occhi. Certe
frasi non se le aspettava. Voleva rispondere ma riusciva solo a gemere
vocali.
Poi anche lui gridò e lei sentì un potere enorme
percorrerle tutto il corpo.
Sì, voleva rimanere lì. Se un orgasmo divino
provocava questo, voleva provarlo
per sempre.
Arles II
fissava con sospetto
Thanatos. Quel tipo girava troppo attorno alla sua ragazza Tania e la
cosa lo
infastidiva. Che voleva? Thanatos, da poco mortale, aveva il permesso
di vivere
alla quarta casa, a patto di non provarci con la rappresentante dei
pesci.
“Tu…”
iniziò Arles II “Per caso
sai giocare ai videogames?”.
“Come?”
alzò un sopracciglio
l’antico Dio, non aspettandosi questa domanda.
“Sai
giocare? Ne ho un sacco e,
se vuoi, puoi partecipare”.
“Non
ho mai giocato. Preferisco
gli scacchi” ammise Thanatos.
“Ok.
Però ti posso insegnare, se
ti interessa”.
Thanatos
sorrise. Guardò il su.
Il cielo era splendido quella notte. Ahriman doveva essere di buon
umore.
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Capitolo 16 *** XVI- speranza ***
XVI
SPERANZA
“Posso
restare qui per un po’?”
domandò Ninive, sull’ingresso della dimora del
padre.
“Certo,
figlia mia” sorrise
Apollo “Sei sempre la benvenuta”.
“Non
voglio esserti di disturbo”.
“Ma
quale disturbo! Sei la mia
bambina!”.
“Già…bambina…”.
Ninive
camminò lentamente, ad
occhi socchiusi.
“Solo
una cosa…” la fermò Apollo.
“Dimmi”
rispose lei, dando le
spalle al genitore.
“Chi
è il padre?”.
Lei
spalancò gli occhi. Non si
voltò.
“Lo
hai capito subito che sono…”
mormorò.
“Il
mio potere è anche legato
alla medicina, figlia mia. Allora, chi è il padre del mio
prossimo nipote?
Spero qualcuno all’altezza”.
“Lo
è, papà. Sta tranquillo”.
“Bene.
Ora va pure a riposare”.
“Non
sei in collera con me?”.
“E
perché?”.
“Perché
sono incinta. Pur essendo
a capo delle vestali”.
“Non
sono affari miei. Per quel
che mi riguarda, la castità è una cosa che non
concepisco. Perciò sono lieto
che tu abbia lasciato quella strada per abbandonarti ai meri piaceri
del mondo,
piccola mia”.
“Grazie
per la comprensione”.
“Però
non sei felice”.
“Sono
un po’ preoccupata. Gli anni
passano e tanto tempo è trascorso da quando ho messo alla
luce i miei gemelli.
Ho paura”.
“Mia
cara, sei una Dea. Il tuo
corpo sarà giovane per sempre. Inoltre, conosco una schiera
di divinità pronte
ad assisterti in ogni momento. Perciò sta tranquilla e non
ti preoccupare”.
“Ti
ringrazio”.
“Ma
lo vuoi?”.
“Cosa?”.
“Il
bambino. Lo vuoi? Perché, se
non lo vuoi, posso aiutarti a disfartene”.
“No,
lo voglio. Sarà la mia
meraviglia”.
Ninive si
congedò, sentendosi
piuttosto stanca. Forse doveva seguire il consiglio del padre ma
qualcosa le
diceva che quel bambino doveva vivere.
Kydoimos
attendeva pazientemente
alla tredicesima casa del grande tempio. Aiolos tardava a mostrarsi.
Finalmente, dopo parecchio tempo, il cavaliere apparve scostando la
tenda.
“Benvenuto”
salutò Aiolos e
Kydoimos fece solo un cenno con il capo.
Aiolos
sedette sul trono del gran
sacerdote, pronto ad ascoltare ciò che l’ospite
aveva da dirgli. Poco dopo,
Hestia apparve e salutò, con un sorriso più che
equivoco, e lasciò la stanza.
“Vedova
di fresco, e già con il
letto occupato” commentò Kydoimos.
“Non
credo siano affari che vi
riguardano” sbottò Aiolos.
Kydoimos non
aggiunse altro.
Sperò solo che Saga, nel suo riposo eterno, non sapesse
certe cose.
“Di
cosa volevate parlarmi?”
riprese il gran sacerdote.
“Ci
tenevo a farvi sapere che gli
intenti del palazzo nero non sono di guerra” rispose Kydoimos.
“Non
lo sono?”.
“No.
Ho liberato Gaia, lo
ammetto. Ma non per muoverla contro di voi”.
“E
allora per quale motivo?”.
“Perché
Gaia è la madre Terra. La
sua presenza è fondamentale”.
“Non
ne sono convinto”.
“Di
ciò che ti convince, a me
poco importa. Io dico le cose come stanno. Poi interpretate come vi
pare”.
“Io
giudico quel che vedo. Gaia
ci ha attaccati, portando alla morte tanti innocenti. Il suo ritorno
è ovvio
che desti preoccupazioni”.
“Lo
comprendo. Ma, se me lo
permettete, garantisco io”.
“E
tu chi sei, per poter
garantire?”.
“Non
valgono più le parole fra
gentiluomini?”.
Aiolos
storse il naso. Non si
fidava per niente. Però doveva lasciare aperte le porte alla
diplomazia.
Allungò la mano e strinse quella di Kydoimos. Saga
desiderava la pace, e
considerò quel gesto come una sorta di ultimo desiderio
dell’amico.
Thanatos non
trovava semplice
essere mortale. Non era abituato a dover mangiare, dormire e camminare
per
forza. Però alla quarta casa stava bene. Sedeva in un
angolo, da cui riusciva a
sbirciare tutto l’oltretomba. Sorrise, vedendo suo fratello
Hypnos, anche se
non capiva cosa ci facesse in quell’anfratto di
aldilà. Poi notò l’anima
incompleta.
“Sei
qui, dunque” sentì dire dal
Dio dei sogni “Violatte ti ha trovato proprio un bel posto
dove nasconderti”.
L’anima
fu afferrata da Hypnos e
gridò. Thanatos sobbalzò. Che il fratello fosse
così crudele?
“Devo
trovare il modo di
rimetterti a posto. Le lagne di Saga non le sopporto
più!” sbottò il Dio dei
sogni.
Il gemello
dai capelli argento
guardò con apprensione l’anima. Stava regredendo.
La sua memoria ed il suo
aspetto andavano scemando. Stava divenendo un semplice involucro privo
di personalità,
cattiveria, paure o desideri. Era una cosa non molto positiva.
Rischiava di
rimanere errante per sempre. O di essere eliminata per
pietà.
“Fratello,
fai in fretta” mormorò
Thanatos, sperando che anche Deathmask facesse la sua parte.
Nyx girava
per i corridoio. Non
capiva cosa aveva spinto Thanatos e divenire mortale. Si chiedeva dove
avesse
sbagliato. C’era qualcosa che poteva fare? Sospirò.
“Cosa
ti rattrista?” domandò
Kydoimos, appena rientrato dal grande tempio.
“Il
silenzio” rispose lei.
“Silenzio?”.
“Sì.
In questa casa non c’è
musica, non c’è alcuna melodia”.
“Ti
manca la musica di
Thanatos?”.
“Anche”.
Kydoimos
rifletté qualche
istante. Poi sorrise. Le porse la mano.
“Vieni
con me” le disse “So come
far tornare la musica”.
La
accompagnò di corsa fino alla
grande stanza dove il Caos aveva trovato il modo di far crescere varie
piante.
Kydoimos tolse i sandali e affondò i piedi nella terra
umida. Ghignò, vedendo
diversi altri abitanti della casa.
“Venghino,
signori, venghino!”
commentò, sarcastico.
“Cosa
hai in mente?” domandò il
padrone del palazzo, senza capire.
“Madama,
posso avere una ciocca
dei suoi capelli?” domandò Kydoimos, prendendo la
mano di Nyx.
Lei sorrise.
Non capiva, ma porse
una ciocca al suo fratellino adottivo. Lui ringraziò con un
inchino e la tagliò
facendo frizzare un po’ di energia fra le dita. Si
guardò attorno. Aveva tutto
ciò che gli serviva. Sciolse i capelli, che si aprirono in
terra ben oltre le
caviglie, e chiuse gli occhi. Ruotò le braccia, lasciando
che la ciocca di Nyx
rimanesse sospesa a mezz’aria. Con il suo gesto, la terra,
l’acqua ed i profumi
della stanza crearono una spirale attorno a Kydoimos, che
guidò quel flusso con
le mani. La capigliatura seguì quel corso e lui rise,
solleticato dai suoi
stessi capelli. Gli elementi iniziarono a fondersi, mentre chi li
dominava si
sollevava da terra. Si creò una forma, che emise un suono
forte e melodico. Si
espanse e prese vita. Era un enorme volatile del colore dei capelli di
Nyx.
Spalancò le ali e volò. Il suo canto
incantò i presenti. Kydoimos tornò a terra
e sorrise. Era fiero di quanto aveva creato. Gli atri fissarono
l’animale con
ammirazione.
“Sei
il mio gioiello” esclamò il
Caos, accarezzandogli la testa con orgoglio.
“Questo
è un regalo per Nyx.
Spero le piaccia” rispose Kydoimos.
La donna
annuì, ascoltando il
canto di quell’uccello.
“So
che non può sostituire la
musica di Thanatos, però spero che ti rechi gioia”
riprese il fratello adottivo
ed uscì dalla stanza.
“Aiaco!”
chiamò Hypnos,
trascinando l’anima incompleta.
Il giudice,
che si stava facendo
medicare da Violatte, si stupì di quella visita.
“Mio
fratello ha espresso il
desiderio di salvare quest’anima e io mi devo sorbire Saga
che piange tutto il
giorno” parlò il Dio “Perciò
devo fare in modo che le cose si risolvano. E tu
mi aiuterai”.
“In
che modo?”.
“Non
posso farla ricongiungere
alla parte mancante finché questa non lascia il palazzo
nero”.
“La
parte che manca è al palazzo
del Caos?”.
“Me
lo ha svelato mio fratello.
Ma finché non mette piede fuori da esso, non posso far
nulla”.
“Capisco.
E che posso fare?”.
“Quando
io te lo chiederò, tu mi
ubbidirai. Chiaro?”.
“Chiarissimo”.
“Bravo.
Ora tieni qui con te
quest’anima e non temere: Hades non ti
infastidirà”.
Per
Deathmask le cose non erano
cambiate più di tanto. Girellava per il regno dei morti come
sempre. Però ora
poteva accedere ai campi elisi. Era un bel posto, lo doveva ammettere.
“Allora,
come vanno le cose al
grande tempio?” domandò Aphrodite.
“Bene,
direi” sorrise Deathmask “Anche
se sono tutti un po’ agitati perché temono nuovi
attacchi”.
“Non
si riesce mai ad avere la
pace” sospirò Saga.
“No,
mi sa di no”.
“Che
schifo. Quante lacrime,
sangue e cadaveri sul nostro cammino. Quanti orfani!”.
“Ti
do ragione. Ma io non posso
farci niente”.
“Nessuno
cerca mai di fare
niente”.
“Questo
non è vero! È solo che ci
sono troppi sospetti. Ahriman, per quanti buoni propositi possa avere,
è
comunque il figlio di Arles. E questo crea dei pensieri non bellissimi
nella
mente dei nostri”.
“Che
cosa c’entra Arles, adesso?”
sbottò Saga, cambiando di colpo espressione.
“Ahriman
ha comunque il suo
sangue. Nessuno di noi si stupirebbe se in realtà
nascondesse chissà quale
intento malvagio”.
“Cazzate.
La cattiveria non è
ereditaria! Allora dovrei credere che anche tuo figlio decapita la
gente!”.
“Non
lo fa, ma poco ci manca!”.
“Ahriman
non è cresciuto con il
padre. Non lo considera nemmeno tale”.
“Il
sangue non mente”.
“Sono
tutte stronzate”.
“Senti..non
mi va di picchiare un
morto!”.
“Tanto
non provo dolore. Fai
pure”.
“Fatti
curare da uno bravo!”.
Deathmask si
alzò, stufo di quei
discorsi. Hypnos lo fissò, per qualche istante. Ancora non
si abituava all’idea
di vedere l’armatura del gemello su quell’uomo.
“Ti
dovrei parlare un attimo, Dio
della morte” mormorò il Dio dei sogni.
“A
che proposito?”.
“Su
una faccenda che riguarda
entrambi”.
Deathmask
guardò Saga.
“Riguarda
l’anima incompleta?”
domandò.
“Vieni
con me” continuò il Dio
dai capelli oro e, insieme, lasciarono i campi elisi.
“Come
mai, quando sono tornato a
prenderti, tu non c’eri?” domandò
Nàgiri alla sorella.
“Non
sono affari tuoi” ribatté
lei.
“Io
mi preoccupo”.
“Non
è vero. Mi hai lasciato lì
da sola!”.
“Certo!
Volevi forse assistere
alle mie scopate? Però mi dovevi aspettare”.
“Mi
annoiavo. Ho trovato di
meglio da fare e poi sono rientrata da sola”.
“So
bene che tu sei più brava di
me nel viaggio fra dimensioni. Ma non ha niente a che fare con il fatto
che non
ti sei fatta vedere. Mi è venuto un colpo”.
“E
perché? Credevi che andassi a
dire a papà cosa fai?”.
“A
papà non deve importare quello
che faccio”.
“E
allora diglielo, così non ti
servo come scusa. Anche perché, ti informo, ora ho da
fare”.
“Hai
da fare? E che cosa?”.
“La
stessa cosa che hai da fare
tu”.
“Cosa?!
Io ti porto una sera al
grande tempio e tu…”.
“E
io sì, mi sono goduta la
serata ed ho piena intenzione di ripetere
l’esperienza”.
“E
con chi?”.
“Non
sono affari tuoi”.
“Fammi
capire…la mia sorellina va
in giro a fare la troia e non sono affari miei?”.
“Abbiamo
solo pochi mesi di
differenza, smettila di fare il superiore! E poi…tu fai lo
stesso!”.
“Io
amo la donna con cui faccio
sesso!”.
“Anch’io
amo l’uomo con cui
passerò le serate d’ora in avanti”.
“Come
fai ad amarlo? Lo hai visto
una sola sera”.
“La
cosa non ti riguarda!”.
“Puttana”.
“Stronzo
bugiardo”.
“Ragazzi!”
urlò Kydoimos, per
farli smettere “Piantatela!”.
“Non
ho iniziato io” dissero i
due, in coro.
“Non
mi interessa chi ha
iniziato. Chiedetevi scusa!”.
I fratelli
si guardarono
piuttosto male ma, con l’insistenza del padre, si chiesero
scusa. Nàgiri lasciò
di corsa la stanza. Neikos tentò di fare lo stesso ma
Kydoimos la fermò.
“Figlia
mia” le disse, serio “Ti
do un consiglio, se ti va di ascoltarlo”.
“Dimmi,
papà”.
“Non
concedere il tuo corpo ed il
tuo cuore solo per ripicca o vendetta. Finirai per rimetterci solo
tu”.
“Quest’uomo
mi piace davvero”.
“Sul
serio? O è solo un modo per
tentare di dimenticare in fretta Nàgiri e le sue
bugie?”.
“Sul
serio”.
“In
questo caso, spero tu sia
felice. Così lo sarò anch’io”.
Neikos si
congedò. Kydoimos la osservò
con una punta di amarezza. Com’erano cresciuti in fretta i
suoi piccoli! Il
Caos gli si avvicinò lentamente, inclinando la testa. Il
figlio sollevò la sua,
per poterlo guardare in viso. Si fissarono per qualche istante.
“Io
non so che parole usare..”
esordì il Caos “Perché non conosco il
legame che voi chiamate amore”.
“Siete
fortunato” rispose
Kydoimos.
“Fortunato?”.
“Sì.
L’amore è un’inutile
debolezza”.
“Una
debolezza?”.
“Ci
rende vulnerabili e sciocchi.
Perché uomini e Dei sono incompleti?”.
“Forse
perché la perfezione è
noiosa”.
“Ma
l’amore..”.
“Rende
anche felici”.
“No.
L’amore non mi ha mai reso
felice”.
Kydoimos
strinse i pugni e non
aggiunse altro. Era frustrato. Per quanto si sforzasse, la sua vita
comunque
non era mai completa.
Quando
Ahriman rivide la madre,
diversi mesi più tardi, non trovò le parole. Non
sapeva se ciò che provava era
sdegno, disgusto, rabbia o smarrimento.
“Fra
quanto nascerà?” domandò,
indicando il ventre della madre.
“Non
molto” rispose lei.
“Ma
tu, non avevi giurato di fare
la casta vestale?”.
“Avevo
giurato, sì”.
“E
allora cosa è successo? Non
sarai mica stata violentata! Se è così, dimmi chi
è stato, che lo eviro”.
“Calmati,
Ahriman!”.
Ninive
sedette sulla sedia a
dondolo che il padre le aveva donato e si accarezzò la
pancia gonfia. Il
bambino scalciava e chiedeva un sacco di energia.
“Sei
contenta?” le domandò il
figlio “Ariadne sa di questa cosa?”.
“No,
Ariadne non lo sa. Perché,
come te, pensa alla madre solo un paio di volte
l’anno”.
“Scusami
tanto se mi hai abbandonato
e non ho questa gran voglia di vederti”.
“Allora
vattene. Di certo non
puoi aiutarmi a partorire”.
“Non
ci penso nemmeno!”.
Ninive non
aggiunse altro.
Sperava di poter rimediare agli errori del passato con quel piccolo.
Anche se
non ne era affatto certa. Ahriman pareva confuso. Era giunto fin
lì per parlare
alla madre della donna che frequentava da mesi, piuttosto orgoglioso.
Ma si era
scordato ogni cosa. Vedendola incinta, non aveva pensato ad altro. Chi
aveva
osato toccarla? Si scosse. Non erano affari suoi. E di certo quel
moccioso
nascituro non aveva nulla a che fare con lui!
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Capitolo 17 *** XVII- famiglia ***
XVII
FAMIGLIA
“Come
ti senti?” domandò Apollo,
osservando la figlia.
“Sono
stanca” ammise Ninive.
La donna,
accarezzandosi il
ventre, osservava le stelle dal patio.
“Che
serata splendida” commentò
Apollo.
“Già.
Mio figlio dev’essere di
buon umore”.
“Ultimamente
Ahriman pare stare
proprio bene”.
“Credo
sia innamorato”.
“Davvero?”.
“Sì.
Mi pare una buona cosa che
voglia sistemarsi”.
“E
tu?”.
“Io
cosa?”.
Ninive
guardò il padre, che non
rispose subito.
“Tu..”
iniziò Apollo “..pensi di
sistemarti un giorno di questi o progetti di sfornare altri figli senza
un
padre?”.
“Non
è ciò che fai tu?”.
“Io
ho molte donne e molti figli,
ma è quello che voglio. Tu, invece, non sembri felice di
questa situazione. Mi
sembri una che desidera tanto una famiglia, un uomo accanto e cose del
genere”.
“So
io che cosa desidero, papà”.
“Non
lo metto in dubbio. Ma, ad
esempio, il papà di colui che presto metterai al mondo dove
sta? Perché non sei
accanto a lui?”.
“Sono
affari miei!”.
“Lo
so. Voglio solo sapere. Ti ha
forse abbandonata? O è stata una tua scelta?”.
“Lui
non sa che io sono incinta”.
“E
perché non glielo hai detto?”.
“È
complicato”.
Apollo
alzò un sopracciglio, non
capendo del tutto quel discorso.
“Ad
esempio..” riprese lui
“..quell’Arles con cui hai avuto i gemelli..era un
umano, un mortale, però mi
piaceva. Era forte, determinato e..”.
“Pazzo”.
“Già,
era anche pazzo. Ma nessuno
è perfetto”.
“Tu
affideresti dei bambini ad
una creatura come lui?”.
“Sì,
perché no?”.
“Perché
è pazzo!”.
“Ahimè,
era pazzo. Ma se fosse in
vita, non credo avrei problemi ad affidargli un bambino. Hai visto come
si
comportava con Ariadne ed Ahriman? Non mi è parso tanto
male”.
“Ahriman
lo detesta”.
“Ahriman
è una testa calda. Lo
sai meglio di me”.
“Io
non amo Arles, papà”.
“Non
lo amavi. Ma questa è
un’altra faccenda. Ormai lui è morto.
Però come padre, credo che avrebbe fatto
il suo lavoro egregiamente”.
Ninive si
fissò il pancione,
sospirando.
“Meglio
che mi stenda. Oggi
scalcia tanto” parlò.
“Riposa,
figlia mia”.
Apollo la
baciò sulla fronte e
lasciò che si allontanasse. Che complicata era la vita!
Ahriman era
piuttosto nervoso.
Davanti alla porta del palazzo nero, stringeva la mano di Neikos. Poi
prese un
respiro profondo ed entrò. L’atmosfera di fece
pesante, come pensava.
“Vieni”
lo invitò Neikos “Mio
padre è per di qua”.
Gli altri
abitanti della casa
osservarono la scena con sospetto e fastidio. Cosa ci faceva
quell’essere lì?
“Signor
Kydoimos?” domandò
Ahriman, entrando nella stanza.
Kydoimos
sedeva su uno sgabello e
tentava di ricreare il suono della cetra di Thanatos. Non era affatto
semplice.
Con le mani, liberava piccole dosi di energia per plasmare la materia
ma il
suono non era quello che desiderava. Si voltò, stupito nel
vedere il Dio del
cielo.
“Ciao,
Ahriman” lo salutò “Che
posso fare per te?”.
“Forse
posso sembrare un po’
avventato” iniziò il Dio “Ma sono qui
per chiedere la mano di vostra figlia”.
“Neikos?”.
“Non
conosco le altre figlie..”.
Kydoimos
poggiò a terra ciò che
stava facendo, cercando le parole giuste.
“Non
mi aspettavo una cosa del
genere” ammise.
“Lo
so, papà” parlò Neikos “So
che Ahriman non è molto apprezzato in questa casa. Ma io lo
amo e lui ama me.
Mi trasferisco al palazzo nel cielo”.
“Ma..insomma..parliamone!
Ahriman
tu..sei vecchio!”.
“Papà!
Ahriman è un Dio! Non
invecchia!”.
“Nemmeno
io, ma so di avere una
certa età e non ci provo con le ragazzine”.
“Non
sono una ragazzina”.
“Ha
il doppio della tua età! E
poi..c’è un’altra cosa che..”.
“Non
voglio sentire!” sbottò
Neikos “Le tue sono solo scuse! Ahriman è
innocente, non ha ucciso nessuno”.
“Questo
so per certo che non è
vero. Non è così, Ahriman?”.
“Beh..”
ammise il Dio del cielo
“Gente ne ho uccisa. Ma nessuno bambino. Lo giuro”.
“Quello
che cerco di dire, è un
altro!” insistette Kydoimos “Ma è
complicato e..”.
“E
io non lo voglio sentire! Lo
sapevo che era una follia venire qui per chiedere il tuo
permesso!” interruppe
Neikos, prendendo per mano Ahriman.
“Mi
lasci parlare?” sbottò il
padre e la figlia lo ignorò.
“No.
Io me ne vado. E tu non
potrai fermarmi. Io..aspetto suo figlio e quello che pensi non mi
interessa”.
“Tu
cosa?!” si stupirono entrambi
gli uomini nella stanza.
“Hai
sentito benissimo”.
“Torna
subito qui!” insistette Kydoimos,
ma ormai Neikos aveva già lasciato la stanza.
Ahriman si
voltò, piuttosto
confuso. Non era certo che scappar via così fosse la cosa
più giusta. Poi lo
sguardo di quell’uomo..quell’occhio, che ricordava
grigio e cieco, da sotto un
grosso ciuffo di capelli neri, pareva scintillare di verde. Di un verde
familiare..
Ninive si
svegliò nel cuore della
notte, in preda al dolore. Sentì il rumore della pioggia ed
un tuono. Il tempo
era cambiato di colpo. Si mise seduta, piuttosto preoccupata. La
gravidanza non
era giunta ancora a termine ma qualcosa non andava. Si accorse di star
perdendo
sangue ed andò nel panico. Non era il momento! E solo
l’idea di soffrire come
nel caso dei gemelli, aumentò la sua ansia.
“Papà!”
chiamò, spaventata.
Apollo corse
da lei, piuttosto
preoccupato. La vide e capì che era molto agitata. Si
inginocchiò e le prese le
mani. La guardò negli occhi.
“Ninive!”
la chiamò “Calmati!
Guardami! Ci sono qui io ed andrà tutto bene.
Però devi stare calma”.
“Ho
paura. Cosa succede?”.
“Tranquilla.
Avrà solo un po’ di
fretta. A volte succede”.
“Ma
sta bene?”.
“Respira.
Mando a chiamare
Artemide, ok? Lei ti aiuterà ed andrà tutto
bene”.
Ninive
annuì, gemendo per
un’altra contrazione. E fuori si udì un altro
tuono.
“Non
credi di essere stata un po’
troppo precipitosa?” domandò Ahriman.
Assieme a
Neikos, ora era di
nuovo nel palazzo del cielo.
“Ti
stavano tutti guardando con
odio. Non vedevo l’ora di andarmene” rispose lei.
“Sì,
ma tuo padre forse doveva
dirci qualcosa di interessante”.
“Non
volevo ascoltare, scusa”.
“Quell’uomo
mi da strane
sensazioni. Non so spiegartele”.
“Non
voglio saperle”.
Ahriman
guardò Neikos e non disse
altro. Le sorrise. Non importava più niente, ormai. Lei era
lì con lui e
fanculo tutto il resto!
“Coraggio,
sei bravissima”
sorrise Artemide.
Ninive
gridò. Sua zia, Dea della
luna e famosa levatrice fin da piccolissima, guardò con
fastidio il fratello
Apollo, rimasto in piedi nella stanza.
“Sparisci!”
lo sgridò “Abbiamo
bisogno di privacy noi donne!”.
“No,
ti prego!” supplicò Ninive
“Fallo restare qui, accanto a me”.
Apollo
raggiunse la figlia e
sedette accanto al letto, stringendole la mano.
“Fammi
dare un’occhiata” continuò
Artemide, rassegnata.
Il suo
gemello un po’ la
infastidiva, anche se era stata lei stessa a farlo nascere. Un atto che
solo
una divinità poteva compiere.
“Sta
andando tutto bene, Ninive”
rassicurò la nipote.
“E
il sangue?”.
“Ha
bisogno di uscire, nipote
mia. Non lo senti spingere?”.
Ninive
gridò di nuovo.
“Devi
rilassarti, almeno un po’,
mia cara” tentò di calmarla Apollo
“Così renderai le cose più
facili”.
“Il
tuo piccolo smania dalla
voglia di venire al mondo!” sorrise Artemide
“Perciò spingi”.
Ninive
spinse con tutte le sue
forze, piangendo per il dolore. Tuoni, lampi e tanta pioggia
accompagnavano
quelle lacrime e quelle grida di dolore.
Erano
passate delle ore. Ninive,
ormai sfinita, raccolse le ultime forze e finalmente il piccolo nacque.
Lanciò
un vagito molto potente, che fece sorridere tutti i presenti.
“È
un maschio?” chiese lei.
“Un
bel maschietto” annuì
Artemide.
Il piccolo
si dimenò quando venne
lavato. Poi, avvolto in un asciugamano, la Dea della luna lo
mostrò alla
nipote, pronta a farglielo prendere in braccio.
“È
bellissimo” commentò Apollo,
vedendo che il nipote aveva i capelli ramati, come lui e la madre.
Solo in quel
momento il piccolo
aprì gli occhi. Artemide sobbalzò e fu Apollo a
prendere al volo il bambino,
lasciato cadere. Lo osservò in viso. Lo sguardo del neonato
era quello delle
creature del Caos. Quegli occhi, simili a quelli di un gatto come
forma, ed
interamente rossi, lo turbarono.
“Che
significa questo?” domandò,
rivolto alla figlia.
Ninive
distolse lo sguardo. Non
voleva raccontare la verità. Apollo afferrò per
la collottola il nipotino, come
fosse un gatto, e lo osservò. Solo gli occhi erano diversi
dall’ordinario.
“Devi
disfartene” esclamò.
“Come?”
mormorò, piuttosto
confusa, Ninive.
“Guardalo!
Non può vivere in
questo mondo!”.
Lei
fissò suo figlio. Era vero.
Ma non voleva che morisse.
“Lasciamelo
per questa notte”
chiese “Domani mattina, potrai farci ciò che
vorrai”.
“Benissimo.
Anche se non mi
spiego come tu possa esserti mescolata con simile sangue”.
“Non
è a te che devo rendere
conto. E ora lasciami dormire. Sono stanca”.
Artemide non
commentò. Non sapeva
cosa dire. Cambiò le lenzuola e le vesti sporche della
nipote e poi la lasciò
riposare. Il bimbo fu messo in una culla e ignorato. Piangeva,
perché affamato,
ma la madre non voleva abbracciarlo e allattarlo. Dentro di
sé, chiamò il nome
del padre di quella creatura. Forse lui era il solo in grado di
prendersene
cura.
Kydoimos si
toccò la testa. Che
strana sensazione. Qualcuno lo chiamava.
“Ninive?”
si stupì.
Com’era
possibile? Che stava
succedendo? Non lo capiva, ma quella voce nella sua mente si faceva
sempre più
forte. La doveva raggiungere al più presto. Senza dare
spiegazioni, si avvolse
in un pesante mantello e lasciò la casa. Saltò
nel nero che la circondava e
sparì alla vista.
“Dov’è
andato?” si chiese
Tartaros.
“Forse
a spaccare il culo ad
Ahriman” ghignò Erebo “Io lo
farei”.
Nel buio
della stanza, Kydoimos
non capì subito dove fosse finito. Vide Ninive, addormentata
sul letto. Poi udì
un vagito e rizzò l’orecchio a punta. Si
avvicinò alla culla, molto alta, e
fissò il neonato all’interno.
“È
tuo” mormorò la madre,
svegliandosi.
“Io..non
sapevo che tu..” provò a
parlare Kydoimos, senza trovare le parole.
“Non
volevo che lo sapessi.
Volevo crescere questo bambino da sola. Ma è nato con quello
sguardo e in
questo mio mondo non può stare”.
“Capisco..”.
“Prendilo
tu. Sono certa che
sarai un buon genitore e lui starà di certo meglio nel
palazzo nero”.
“Ninive!
Vieni con me!
Cresciamolo assieme!”.
“Arles...sono
la figlia di
Apollo! La figlia del Dio del sole! Non puoi chiedermi di vivere per
sempre in
un luogo privo di luce”.
“Io..”.
“E
poi, io e te non siamo fatti
per stare assieme. Tranquillo, non crucciarti per me. Ora che ho capito
quel
che desidero, vedrai che non ci metterò molto a scovare un
uomo con cui
concepire tanti marmocchi di cui prendermi cura”.
“Se
è questo quel che vuoi..”
“Quel
bambino qui non avrebbe
futuro. La sua famiglia è al palazzo nero. Qui verrebbe
ucciso”.
Kydoimos
prese in braccio il
piccolo, che si lamentava per la fame.
“Come
si chiama?” domandò il
padre.
“Non
gli ho dato un nome.
Sceglilo tu. E ora vattene”.
Lei aveva
girato la testa.
Probabilmente piangeva. Kydoimos chinò la testa.
“Scusami,
Ninive” disse, piano
“Ogni mio tentativo di farti felice diventa un nuovo tormento
per te. Mi
dispiace. Se solo potessi..”.
“Va
via. E non tornare mai più.
Questo mi renderà felice”.
L’uomo
fece un cenno con il capo.
Riluttante, guardò per l’ultima volta la donna e
poi sparì, con il bimbo in
braccio. Ninive, la mattina dopo, raccontò al padre Apollo
di aver trovato il
bambino morto e di averlo seppellito in fretta.
Kydoimos
arrivò al palazzo con il
mantello fradicio di pioggia. Lo gettò in un angolo e
raggiunse la cucina. Il
bimbo aveva fame e doveva preparargli qualcosa. Sapeva di avere ancora
un
biberon da qualche parte. Frugò fra gli scaffali, sempre con
il neonato in
braccio. Sospirò, un po’ scocciato dalla
confusione che regnava in quella casa.
Si voltò e sobbalzò. Tartaros lo stava fissando.
Dietro di lui, Gaia.
“Cos’hai
in braccio, fratellino?”
domandò l’uomo.
Kydoimos
aprì la bocca per
rispondere ma Gaia lo interruppe, con un grido d’entusiasmo.
“È
un bambino!” esclamò lei e lo
strappò alle braccia del padre.
“Che
cercavi?” continuò Tartaros.
“Un
biberon” rispose Kydoimos e
Gaia si corrucciò.
“Non
serve un biberon, vero
tesoro?”.
La donna
sorrise al piccino e si
scoprì il seno generoso, da cui il neonato iniziò
a succhiare avidamente.
“Tutti
i bimbi dovrebbero essere
allattati” commentò la donna “Altrimenti
diventano cattivi. Ahriman si vede
subito che non è mai stato allattato!”.
“Se
vuoi, puoi prendertene cura
tu” propose Kydoimos “Io, con tutta la mia buona
volontà, non posso attaccarlo
al seno!”.
“Direi
di no. Però con le tette
saresti carino” ridacchiò Tartaros.
“Che
succede qui?” entrò il Caos.
L’entusiasmo
di Gaia aveva
richiamato quasi tutta la casa e presto capirono il perché.
“Un
bimbo!” sorrise Nyx.
Tutti risero
ed andarono a
salutare il nuovo nato, che continuò a mangiare.
“Hanno
fatto tutto questo casino
anche quando sono nato io?” domandò
Nàgiri.
“Oh
sì, anche peggio! Perché,
quando sei nato tu, in questa casa non nasceva qualcuno da
millenni!” rispose
Kydoimos, ricordando quel giorno.
Il Caos
fissò il figlio, felice.
“Credevo
che la maledizione ti
impedisse di avere figli”.
“Lo
credevo pure io” ammise
Kydoimos.
“Chi
è la madre? Perché non è
venuta qui?”.
“Non
se l’è sentita di vivere al
buio per sempre”.
“Ma..è
una mortale, vero? Non è
una divinità legata a Zeus ed alla sua stirpe, immagino. Non
voglio mezzo
sangue bastardi”.
“È
figlio di una mortale” mentì
il figlio adottivo, sapendo che il Caos avrebbe ucciso il piccolo senza
pietà,
sapendo che in lui scorreva il sangue della progenie di Zeus.
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Capitolo 18 *** XVIII- VIXI ***
XVIII
VIXI
Il piccolo
fu chiamato Dhòro,
ovvero “dono”. Fu sistemato in una bella culla dai
bordi intagliati e avvolto
in una copertina ricamata. Erano tutti felici del nuovo arrivo. Solo
Nàgiri non
pareva molto contento.
“Wo!”
furono le uniche parole che
riuscì a dire Tartaros quando, qualche ora più
tardi, andò a controllare il
piccolo.
Il bambino
era cresciuto.
Sembrava avere sei o sette mesi ed aveva a malapena un giorno. Gaia
attribuì la
cosa al potere del suo latte. Erano in molti attorno alla culla. Il
Caos girò
la testa. Dietro di lui, stava Kydoimos, che un po’ si
spaventò perché il padre
gli stava lanciando la peggior occhiataccia possibile.
Il bambino
ridacchiò e si sporse
dalla culla. Kydoimos gli sorrise. Era carino, dopotutto, anche se
aveva
decisamente qualcosa di strano. Gaia lo prese in braccio e lo
riempì di baci.
Era troppo felice di avere lì quel piccolo da coccolare.
Lasciando la
stanza, Kydoimos
incrociò Nàgiri.
“Sei
soddisfatto?” domandò il
figlio.
“Prego?”
rispose il padre.
“Ti
vedo sorridere”.
“La
cosa ti disturba?”.
“Abbastanza.
È come se tu non ti
rendessi conto di quel che fai”.
“Che
dici?”.
“Spiegami
che stai facendo. Ogni donna
che avvicini, finisce col soffrire o allontanarsi. Invece di tentare di
salvare
la tua famiglia e aiutare chi hai vicino, te ne vai a scoparti
sconosciute e
concepire mostriciattoli”.
“Dovresti
moderare i termini, mio
caro”.
“E
perché?”.
“Perché
sono tuo padre! E giro a
questo mondo da prima di te!”.
“E
chissenefrega! Ti metto
davanti alla realtà. Mia madre è morta, la madre
di Neikos si è ammazzata, le
altre sono tutte scappate. Perfino Neikos, ora, è andata
via. Eppure non mi
sembra che la cosa ti turbi”.
“E
in base a cosa tu decidi che
non mi turbi?”.
“Lo
vedo. Andare in giro a fare
figli non pare una cosa da persona ragionevole o addolorata”.
“Ma
che cosa vuoi da me,
Nàgiri?”.
“Voglio
sentirti dire che ti
dispiace! Vivi la tua vita, fai soffrire le persone, ma non ti importa!
E ora
cerchi di fare il gentile con Nyx e Gaia. Perché? Che cosa
speri di ottenere?
Oh, Dei, quanto mi disgusti!”.
Kydoimos non
seppe che rispondere
a quelle parole. Era vero. Aveva tentato in ogni modo di rendere felici
le persone
che aveva attorno ed aveva fallito miseramente. Suo figlio era deluso.
E sua
figlia probabilmente lo odiava tanto quanto lo odiava Ahriman.
Sospirò. Non
sapeva che altro fare.
Aphrodite
giocava con le farfalle
dei campi elisi. Che belle erano! E che profumo tutti quei fiori! Era
felice di
stare in quel luogo, lo appagava.
“Saga”
lo stuzzicò con una spiga
“Smettila di fare quel muso lungo e andiamo a farci un bagno.
Che dici? Ti è
sempre piaciuto rilassarti nell’acqua e..”.
“Quello
era Arles” lo interruppe
Saga.
Aphrodite
rimase qualche istante
a riflettere. Ammetteva di aver avuto a che fare molto più
con Arles che con
Saga. Però doveva esserci qualcosa da proporgli!
“Tua
figlia pare si sia trovata
il fidanzato” parlò poi, deciso a cambiare
strategia.
“Già.
Così dice Deathmask. Sono
felice per lei, se è un ragazzo come si deve”.
“L’importante
è che sia felice”.
“Pare
che lo sia. Quindi mi sta
bene”.
“E
un giorno diventerai nonno”.
“Prima
o poi, capiterà”.
“Ne
sei fiero?”.
“Certo.
Sempre stato fiero della
mia bambina. E tu sei fiero della tua allieva? Pare se la cavi
bene”.
“Lo
sono. È forte e bellissima. E
sembra apprezzare l’erede di Deathmask”.
“Ai
nostri tempi non c’erano
tanti intrecci sentimentali”.
“Ovvio.
Eravamo praticamente
tutti maschi!”.
“Già.
Pensa che noia”.
“Io
non mi annoiavo”.
Saga
guardò Aphrodite, che
sorrise, mettendosi una rosa fra i capelli.
Kydoimos se
ne stava tranquillo
nella sua stanza quando un gridolino infantile lo scosse.
“Guardami!
Guardami!” gridava una
voce che non conosceva.
Si sporse
lungo il corridoio e
sobbalzò. Dhòro stava correndo, inseguito da Gaia
con cui stava giocando.
Sembrava avere almeno quattro anni.
“Ciao,
papà” lo salutò il
piccolo, ed andò oltre.
Kydoimos non
capì come questo
potesse essere possibile. Ma il Caos pareva saperlo molto bene. Si
parò davanti
al figlio e lo costringe a rientrare nella stanza. Chiuse la porta
dietro di
sé.
“Mio
gioiello..” iniziò il padre
“..lo sai che a me le bugie non piacciono”.
“Lo
so”.
“E
allora perché me le
racconti?”.
“Io..”.
“Kydoimos..tu
non eri niente.
Avevi rinunciato a vivere ed io ti ho donato una nuova esistenza. Mi
spiace che
anche questa sia stata costellata di sofferenza
però..”.
“Non
l’ho chiesto io” abbassò la
testa Kydoimos.
“Scusa?”.
“Non
ho chiesto io di avere nuova
esistenza o cose del genere. Io, quel giorno, volevo morire. Ma mi
avete fatto
vivere tanti momenti felici, questo lo ammetto”.
“Quindi
tu mi vuoi bene? Mi
rispetti?”.
“Certo”.
“E
allora perché mi hai detto una
bugia? Questa casa ha poche regole, perché
infrangerle?”.
“Mi
dispiace”.
“Solo
le divinità crescono alla
velocità con cui sta crescendo tuo figlio. E tu non hai le
capacità per poter
generare un Dio, se non congiungendoti con un’altra
divinità. Perciò, dimmi, di
chi è figlio Dhòro? Chi è la madre di
quel piccolo prodigio, la cui forza
reputo già ora straordinaria?”.
“Ninive
è la madre, signore”.
“Ninive?!
Intendi quella con cui
hai concepito Ahriman?”.
“Sì,
lei”.
“Mi
stai dicendo che nella mia
casa sta gironzolando il fratello della creatura che vorrei
distruggere?”.
“Già”.
“E
lo dici con tanta sufficienza?
È ancora in vita solo perché me lo hai chiesto
tu!”.
“Ahriman
è in vita perché è il
Dio del cielo e come tale deve vivere”.
“Cazzate!
Io..sono senza parole!
Kydoimos..come hai potuto? Questo lo considero un tradimento”.
“Scusatemi”.
“Non
bastano le scuse! Secondo te
io, ora, che dovrei fare? Mi metti in una posizione che proprio non
vorrei,
ragazzino”.
“Ragazzino?”.
“Non
hai l’età giusta per
definirti un uomo davanti a me”.
“Io
ho solo cercato di vivere la
mia vita!”.
“Tradendo
colui che ti ha dato
più fiducia di chiunque altro? È questo il tuo
modo di ripagare chi ti vuole
bene? È questo?”.
“Oggi
avete tutti voglia di farmi
la predica?”.
Il Caos,
famoso per il suo scarso
autocontrollo, perse la testa e colpì violentemente
Kydoimos, che sfondò la
porta della stanza e sbatté contro il muro del corridoio di
fronte. Il colpito,
a terra, gemette.
“Fratellino!”
esclamò Erebo,
tentando di avvicinarsi.
Ma il Caos
fu perentorio.
“Lascialo
lì dov’è” ordinò
“Lascialo che soffra. E rifletta”.
Gli altri
abitanti della casa si
guardarono, piuttosto confusi. Mai era successo prima che il Caos
alzasse le
mani sul suo gioiello.
Kydoimos si
riprese solo dopo
qualche tempo. Indolenzito, si alzò a fatica. Senza parlare,
raggiunse la sua
stanza e recuperò la spada di Ares. Dhòro dormiva
tranquillo e non lo disturbò.
Era cresciuto ancora. Il padre si avvolse in un pesante mantello e
lasciò la
casa.
Il Caos
riemerse dalla sua
stanza, dove si era rintanato. La casa pareva tranquilla. Raggiunse la
grande
sala da pranzo, dove un gruppetto di occupanti della casa stava
mangiando.
“Dov’è
Kydoimos?” domandò, non
vedendolo.
“Non
è qui” rispose Erebo.
“Ho
agito con troppa enfasi. Mi
sono lasciato prendere dall’ira. Non dovevo colpirlo e
nemmeno reagire in quel
modo. Volevo scusarmi con lui. Che sia in stanza?”.
“L’ho
visto rialzarsi ma poi non
so dove sia andato” commentò Tartaros.
“Io
l’ho visto andar via” si
aggiunse Nàgiri.
“Andar
via? Dove?” chiese il
Caos.
“Non
lo so. L’ho visto andare
via. È uscito dalla porta ed è andato via.
Sarà da qualche sua puttana”.
“Non
parlare così a tuo padre,
ragazzo. Non mi piacciono certi atteggiamenti! E poi..da quanto tempo
è fuori?
La maledizione..”.
“Io
parlo come voglio! Non ditemi
che quel bambino che ha portato a casa non è il frutto di
una serata passata a
puttane!”.
“Non
è affatto così. La madre di
Dhòro è legata a tuo padre da ben prima della tua
nascita”.
“Come
sarebbe a dire?”.
“Sarebbe
a dire che tu non sai
tutto, come credi”.
“Io
so quello che so, e quello
che so è che mio padre ha permesso a mia sorella di
andarsene via con quel
pezzo di merda di Ahriman e poi si è portato a casa un
bastardello di
ricambio”.
“Che
avrebbe dovuto fare, secondo
te?”.
“Uccidere
Ahriman. E tenere sotto
controllo gli istinti”.
“Kydoimos
non ucciderà mai
Ahriman. Piuttosto ucciderebbe se stesso”.
“Perché
è un debole”.
“No.
Perché è suo padre, Nàgiri”.
“Che?!”.
Il ragazzo
guardò il Caos senza
capire. Quella notizia non se l’aspettava. Non voleva
credergli. Non poteva
nemmeno lontanamente accettare il fatto di essere il fratellastro del
Dio del
cielo.
“Finalmente
hai chiuso la bocca!”
sbottò il Caos.
“Mi
stai dicendo che mio padre è
Arles, l’uomo del grande tempio?”.
“Te
lo farai spiegare da lui. Ora
lo devo cercare”.
“Come
mai me la riporti,
mortale?” domandò Ares.
Di fronte
lui, stava Kydoimos che
gli restituiva la spada al Dio della guerra. In silenzio.
“Piccolo
umano, il tuo animo non
lo comprendo più” continuò
l’essenza divina.
“Nemmeno
io mi comprendo più di
tanto” ammise Kydoimos.
“Perché
non tieni la mia spada?
Tanto, lo sai, finché non trovo un altro corpo che mi
ospiti, come anima io non
la posso usare”.
“Volevo
riconsegnarla. Questo è
il suo posto. Io il mio posto non so quale sia”.
“Ma
che dici?”.
“Sono
stanco. Voglio lasciare qui
la spada e andarmene sotto il sole di Grecia. La maledizione
farà il resto, ed
io potrò riposare in pace, cullato dalla mia terra
natia”.
“Questi
discorsi non sono da te,
Arles”.
“Arles
è morto tanti anni fa”.
“Non
è vero. Arles è qui, davanti
a me. E Arles è combattivo, forte, arrogante e pronto a
tutto”.
“Sono
stanco di combattere. E
poi, a che scopo? Credimi, ho tentato in ogni modo di cambiare la mia
vita.
Sono stato generato dalla malattia mentale di Saga e da
all’ora non ho fatto
altro che incasinare la vita di tutti coloro che sono venuti in
contatto con
me. Ho cercato di rendere felici le persone a cui voglio bene ma con
pessimi
risultati. Tutti soffrono attorno a me. Tutti mi odiano”.
“Io
sono il Dio della guerra.
Credi che qualcuno mi ami?”.
“Phobos
e tutti i vostri
sottoposti sarebbero disposti a tutto per Voi”.
“Continuo
a non capire. Avete una
vita così effimera, voi mortali, che io tenterei di viverla
al massimo in ogni
suo secondo. Invece no, te ne stai qui a piagnucolare”.
“Non
mi aspetto che capisca.
Riprendetevi la vostra spada e addio”.
“Aspetta.
Rifletti un attimo”.
“Sono
stufo di riflettere! Tutto
quello che faccio è sbagliato! Io volevo solo che ci fosse
una creatura, una
soltanto, che potesse provare per me ammirazione, affetto..”.
“Il
Caos ti vuole bene”.
“Il
Caos mi ha quasi spaccato la
testa stasera”.
Kydoimos non
aggiunse altro. Si
voltò e si allontanò.
“Phobos”
ordinò Ares “Prendi la
mia spada e seguilo. Fa di tutto per impedire che muoia”.
“Sissignore”.
“Ha
lasciato il palazzo nero”
parlò Deathmask.
“Ne
sei sicuro?” rispose Hypnos.
“Sì.
Dobbiamo agire in fretta”.
Il Dio dei
sogni annuì. Doveva
recuperare in fretta l’anima incompleta ed agire quanto prima.
Ahriman
storse il naso. Che stava
accadendo? Perché le forze del Caos parevano radunarsi e
lasciare il palazzo?
Era meglio informare quanto prima il grande tempio.
“Kydoimos!”
gridava il Caos,
nella speranza di ritrovare il figlio “Dove sei? Mi dispiace
per quello che ho
fatto. Lo sai che non sono bravo a controllarmi. Ti prego, vieni
fuori!”.
Il signore
della casa nera
percepiva la presenza del figlio adottivo ma non riusciva a scorgerlo.
Probabilmente perché protetto dall’aura del Dio
della guerra. Ma il Caos pensò
subito al peggio. Dovevano averlo preso quelli del grande tempio, le
creature
che tanto odiava! Kydoimos, dal canto suo, non udiva i richiami del
padre.
Sotto il sole di Grecia, camminava lentamente. Attorno a lui, non vi
era nulla
se non terra bruciata dal caldo. Era distratto. Non gli importava di
nulla e di
nessuno, così non capì quanto stesse accadendo.
Si fermò, quando una voce
familiare gli ordinò di fermarsi.
“Non
fare un passo di più” si
sentì dire.
Alzò
lo sguardo. Vide molte
armature d’oro e vestigia divine.
“Tornate
al palazzo nero!”
continuò Aiolos, il cavaliere d’oro che tendeva
l’arco.
Kydoimos si
voltò ed alle sue
spalle vide gli abitanti del palazzo del Caos. Cosa stava succedendo?
Lui si
trovava in una sorta di gola creata dal terreno. Sopra di lui, su due
sponde opposte,
le truppe di Zeus e quelle di suo padre adottivo. Si guardò
attorno, piuttosto
confuso. Il caldo e la maledizione lo stordivano.
“Indietreggiate!”
sbottò il Caos
“Tornatevene a casa e lasciateci in pace!”.
“Avete
sconfinato!” ribatté
Aiolos.
Ahriman
osservava il tutto
dall’alto del suo palazzo, insicuro sul da farsi.
“Signore!”
gridò Phobos, vedendo
Kydoimos sotto tiro.
Piantò
la spada in terra e lasciò
che l’armatura del Dio della guerra vestisse colui che un
tempo ospitava
l’essenza di Ares. L’armatura obbedì e
Kydoimos sobbalzò. Le scintillanti
vestigia rosso sangue lo coprirono ma subito si tinsero di nero, segno
che in
lui prevaleva il sangue del Caos. Nella mano destra, stringeva la
spada. Guardò
entrambi i fronti. Si volevano scontrare, portando morti e feriti per
l’ennesima volta nelle loro vite? No, non l’avrebbe
permesso. O meglio, avrebbe
fatto di tutto per impedirlo.
“Presto!
Corri!” incitò Hypnos.
Aiaco
portava l’anima con sé,
trascinandola. Dovevano uscire dall’oltretomba e raggiungere
il corpo che
ospitava la parte mancante di quell’essenza.
“Che
sta succedendo?” si chiese
il Dio dei sogni, percependo un po’ di subbuglio fra i
viventi.
“Si
staranno facendo la solita
guerra” alzò le spalle Aiaco “Niente di
nuovo”.
Un nutrito
esercito di specter
accorse, deciso a fermare i disertori. Hypnos sorrise. Che branco di
illusi!
“Aiaco!”
disse “Tu va. Qui ci
penso io”.
Quando i
colpi fra le due fazioni
partirono, Kydoimos tentò in ogni modo di fermarli.
“Perche
fai questo?” domandò
Ahriman, atterrando con un battito d’ali accanto al figlio
del Caos.
“Non
voglio una guerra” rispose
Kydoimos.
“Eppure
è colpa tua se ora
combattono”.
“Colpa
mia?”.
“Certo.
Sei qui. Il Caos è
convinto che loro ti abbiano rapito e loro, quelli del grande tempio,
sono convinti
che il Caos li voglia invadere. In realtà, sono tutti qui
per te”.
“Non
è vero!”.
“Bello
come neghi l’evidenza. La
colpa è tua. Perciò smettila di intrometterti e
fatti ammazzare”.
“No.
Fermerò tutto questo!”.
“Le
tue mani sono sporche di
sangue. Meriti di vivere?”.
“E
le tue? Sono forse pure,
Urano?”.
Il Dio del
cielo ghignò.
“No”
rispose “Le mie mani forse
sono più sporche delle tue”.
Urano
allungò una mano, mostrando
un’ombra nera su di essa. Ahriman la fissò e
sobbalzò nell’animo. Che fosse vera
la storia che tutti raccontavano? Quella in cui era stato lui ad
uccidere i
bambini del palazzo nero? Tentò di capirlo, chiedendolo al
Dio che ospitava.
Capendo la verità, lanciò un grido.
“Esci
dalla mia testa!” sbraitò.
Kydoimos
guardò il figlio con apprensione,
mentre questi lottava con il Dio del cielo.
“Che
succede?” si chiese Kanon,
senza capire.
“Non
lo so” ammise Hestia.
Entrambi
vedevano solo Ahriman
agitarsi in preda al dolore.
“Quella
creatura dal sangue nero
deve averlo ferito” interpretò Aiolos.
“Ahriman”
gridò Kydoimos,
tenendogli fermi i polsi “Guardami! Non lasciarti soggiogare
da una divinità
che non vuoi più ospitare! Combatti contro di
essa!”.
“Ma
cosa vuoi tu? Io sono un tuo
nemico!”.
“Non
ti considero tale, Ahriman.
Guardami!”.
Il Dio del
cielo spalancò gli
occhi. Aveva riconosciuto lo sguardo nel padre, in
quell’occhio un tempo cieco.
In realtà, da quando ricordava il suo passato, Kydoimos
aveva acquisito di
nuovo il colore verde dell’iride.
“Papà?”
mormorò Ahriman,
incredulo.
“Perdonami
per ogni cosa, figlio
mio. Ma ora, ascoltami. Lotta assieme a me”.
Padre e
figlio si fissarono. Poi
il figlio lanciò un grido fortissimo, rigettando il Dio del
cielo. Aiolos,
senza capire quanto accadeva realmente, scoccò una freccia,
che trapassò il petto
di Kydoimos. Ahriman lo guardò, spaventato, non sapendo che
fare.
“Scappa!”
ordinò Kydoimos “Ora
che il Dio del cielo ha lasciato il tuo corpo, sei un mortale. Non
sopravvivresti ad uno scontro come questo”.
“Ma
io..” tentò di protestare
Ahriman.
Una mano lo
scosse, piuttosto
brutalmente, scaraventandolo a terra.
“Scansati!”
parlò Aiaco,
apparendo a pochi passi da Kydoimos “Ho una consegna da
fare”.
Senza dire
altro, lasciò che
l’anima incompleta venisse inevitabilmente attratta verso la
sua parte mancante.
Kydoimos percepì una stranissima sensazione. Uno strano
calore, una carezza
morbida, lo attraversò. Dimenticò per qualche
istante il dolore della freccia
oro, consolato da quel tocco. Poi si accorse che dietro ad Aiaco
stavano
lentamente apparendo altri specter. E poi si mostrò Hades.
“Quell’anima
è mia!” gridò,
indicando Kydoimos.
“Ci
è riuscito!” sorrise Saga “Ha
ricongiunto le due parti dell’anima!”.
Deathmask,
seduto accanto a lui,
mostrava agli abitanti dei campi elisi quel che stava accadendo
attraverso un
piccolo portale.
“Ma
si fanno di nuovo la guerra”
sbottò Aphrodite.
“Così
morirà!” si alzò in piedi
Saga “Devo aiutarlo a reagire”.
“E
come credi di fare?” ridacchiò
Deathmask “Sei un’anima! Al di fuori
dell’oltretomba sopravvivresti sì e no un
paio di minuti”.
“Ma
ci devo provare! Ti prego,
Deathmask! Portami da lui”.
“Non
se ne parla! Se scompari,
non c’è ritorno! Scompari per sempre,
capisci?”.
“Non
mi importa”.
“Sei
impossibile. Non ti va mai
bene niente!”.
“Vedilo
come un mio ultimo desiderio.
Ti supplico”.
Deathmask
sospirò. Quanto era
complicato gestire i morti!
Kydoimos
usò il suo potere.
Richiamò gli elementi, cercando di creare una barriera fra i
contendenti.
“Quello
è Hades!” lo riconobbe
Camus.
“Ma
cazzo, son troppo vecchio per
un’altra guerra santa!” ringhiò Milo.
“Pare
sia solo interessato a
Kydoimos” notò il cavaliere
dell’Acquario.
“Ottimo.
Lasciamoglielo prendere,
così si risolve tutto” furono le parole di Ioria.
Le diverse
fazioni distrussero la
barriera creata da Kydoimos e ripresero a combattere.
“No!
Smettetela!” gridò lui,
sputando sangue.
Aiolos lo
centrò con un’altra
freccia, non capendo come facesse ad essere ancora in piedi.
“Papà,
adesso basta!” riuscì a
raggiungerlo Ahriman.
Kydoimos,
barcollando, si
estrasse entrambe le frecce dal petto, spaccando parte
dell’armatura.
“Vedo
il tuo cuore” gemette il
figlio.
“Ora
sai che ne ho uno” sorrise
il padre, con un fiotto di sangue che sgorgava dalla ferita.
“Ti
prego, ora smettila”.
Tutt’attorno,
si combatteva.
Aiaco lottava contro il suo stesso signore, Hypnos lo aiutava. Le schiere di Zeus, contro
quelle del Caos,
erano in svantaggio. Kydoimos
sentiva
l’odore del sangue. Barcollò, per un istante
sopraffatto dalla ferita. Ma si
rialzò subito. Doveva fermarli a tutti i costi!
Richiamò ancora a sé i suoi
poteri. Questa volta tentò di usare il fuoco, allontanando
le fazioni.
“Basta,
brutti idioti! Siete
tutti della stessa famiglia!” gridò.
Poi, sulla
sua testa, si
materializzò una luce violacea e Deathmask apparve,
rimanendo sospeso sopra il
capo del ferito, che parve non gradire.
“Torna
più tardi a prendermi, Dio
della morte!” sbottò Kydoimos.
“Arles!
Quando sarà il tempo, non
mi farò certo dare ordini! Non sono qui per te, ma per
accontentare lui!”.
Scansandosi
leggermente, Deathmask
mostrò l’anima di Saga, che si aggrappò
al Dio della morte.
“Saga!”
esclamò Kydoimos, mentre
molti al grande tempio si stupirono per averlo sentito chiamare
“Arles”.
Saga
sorrise. Brillava forte.
“Saga!
Sei un’anima! Non puoi
sopravvivere lontano dal regno dei morti!”.
“Ho
solo qualche minuto, è vero.
E lo voglio spendere con te”.
“Che?!”.
“Adesso
basta lottare, Arles. Basta!
Non morire di nuovo”.
“Sarebbe
l’ultima volta, te lo
giuro”.
Kydoimos
barcollò ancora e
stavolta cadde in terra. Sputò molto sangue ma
tentò di rialzarsi comunque.
“Basta,
Arles” supplicò Saga.
“Vattene!
Se non te ne vai,
sparirai per sempre! Cosa stai qui a perdere tempo con me?”.
“Arles!”.
L’anima
ora piangeva e Kydoimos
distolse lo sguardo. Poi una potentissima luce avvolse tutti. La
battaglia si
fermò. Nessuno capiva. C’era un essere, avvolto in
quella luce accecante, che
fluttuava accanto al gruppo che stava al centro della battaglia.
“Dhòro?”
mormorò Kydoimos,
alzandosi a fatica.
Il ferito
lasciò cadere le
braccia e respirò a fatica. Dhòro, ora uno
splendido uomo dai lunghissimi
capelli e lo sguardo sereno, sorrideva, senza parlare.
“Che
significa? Che succede?” si
domandò il Caos.
“Chi
è quello?” si chiese Milo.
Dhòro
non parlò. Alzò
semplicemente una mano, attorno a cui ruotava l’essenza di
Urano. La sua luce
si espanse ed iniziò ad avvolgere i presenti.
“Dhòro!”
parlò ancora Kydoimos
“Ti prego, Dhòro, mio dono. Il tuo è un
potere immenso. Perciò puoi riportare
Saga al giusto posto. Lui non merita di svanire, come sta
facendo”.
Saga in
effetti stava perdendo
luminosità, divenendo sempre più trasparente.
“Saga
è un’anima buona” continuò
Kydoimos “Non come me. Inoltre, è
l’unico che mi è rimasto sempre accanto.
Anche se era l’ultima persona che doveva farlo, visto come ho
rovinato la sua
esistenza”.
“Arles..”
sorrise Saga.
“Non
potrei mai sopportare che
sparisca per colpa mia”.
“Ed
io non potrei mai sopportare
di passare l’eternità lontano dalla tua
anima!” si sentì rispondere “Vieni con
me, Arles”.
Saga
allungò una mano, porgendola
a Kydoimos. La luce di Dhòro, nel frattempo, si faceva
sempre più ampia ed
intensa.
“Vieni
con me” ripeté Saga, ormai
quasi trasparente.
Kydoimos, in
ginocchio ed
incapace di rialzarsi a causa delle ferite, lo fissò
immobile. E pianse. Era la
prima volta nella sua vita. Poi chiuse gli occhi e cadde in avanti.
L’anima di
Arles raggiunse la mano di Saga ed insieme i due si abbracciarono,
mentre la
luce di Dhòro avvolgeva tutto e tutti.
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Capitolo 19 *** XIX- RAGNARÖK ***
XIX
RAGNARÖK
“State
tutti bene?” domandò
Thanatos, vedendo i cavalieri tornare, privi di vestigia.
“Io..non
capisco” si grattò la
testa Arles II “Cosa è successo?”.
“Credo
di poter elaborare una
teoria” rispose Camus.
“Dov’è
Tania?” si preoccupò,
invece, Thanatos.
“Devi
smetterla di gironzolare
attorno alla mia donna, chiaro?” sbottò Arles II,
stanco del continuo
interessamento di quel ex divinità.
“Guarda
che non te la voglio
portare via!” lo rassicurò il gemello di Hypnos
“Il mio interesse è dettato da
altro, credimi”.
“E
da cosa, vecchio maniaco?”.
“Tania
è..la mia bambina”.
“Non
ti permetto di chiamarla
così, pervertito!”.
“Nel
senso che è mia figlia,
ragazzino impertinente”.
“Che
dici? Sul serio?!”.
“Sì.
È l’unica che ho. Non l’ho
cresciuta con me perché l’inferno non è
posto per una bambina ma me la son
ritrovata qui, al grande tempio, ben lontana dalla pace che le
auguravo”.
“In
questo caso..sei
giustificato”.
Tania, che
si trovava poco più
indietro, era riuscita ad udire buona parte della conversazione. E
sorrise.
“E
così..questi sono i campi
elisi” borbottò Erebo, mangiucchiando il gambo di
una spiga.
“No.
Credo sia semplicemente il
paradiso” rispose Nyx.
“Papà!”
gridò una bimba, correndo
a braccia spalancate verso Kydoimos.
“Lalia!”
la riconobbe lui,
facendosi abbracciare.
Altri
bambini seguirono l’esempio
e ben presto lui si ritrovò circondato da ragazzini in
festa. Dietro di loro,
Shuna e Desa. Shuna, la madre di Lalia e Neikos, oltre che di altri
bambini lì
presenti, sorrise. Desa, colei che aveva messo al mondo
Nàgiri, pareva un po’
preoccupata.
“Che
è successo?” domandò
“Perché
siete tutti qui? Siete, dunque, tutti morti?”.
“A
quanto pare..” si osservò le
mani Apollo, accorgendosi di non avere più un corpo fisico.
“E
perché?”.
“Perché
il figlio di Pollon ci ha
cacciati qui, ecco perché!” ridacchiò
Erebo.
“Pollon?”
alzò un sopracciglio
Kydoimos.
“Tuo
figlio Dhòro, non è forse
figlio della figlia di Apollo?”.
“Sì.
E chi è Pollon?”.
“Sei
un ignorante” scosse la
testa l’antico Dio, sorridendo.
“Quindi
Dhòro ha ucciso tutti
noi?”.
“A
quanto pare...”.
“Mi
spiace”.
“Kydoimos!
Mio gioiello!”
intervenne il Caos “Non dispiacerti. A noi mai sarebbe stato
concesso di
riposare in un simile luogo. Nonostante tutto ciò che
è stato, siamo tutti
insieme qui, in un luogo magnifico, dove passare
l’eternità. Siamo in pensione,
si può dire”.
“In
pensione?”.
“Ragazzo
mio, sono in
circolazione da un sacco di tempo. Era ora che mi concedessero un
po’ di
riposo”.
Kydoimos si
guardò attorno.
Vedeva molte divinità, non solo del palazzo nero.
“Ma...”
si chiese “...se le
divinità sono qui, chi governa il mondo?”.
“Dhòro.
Per un po’. Poi più
nessuno. È il crepuscolo degli Dèi, piccolo mio.
La fine dell’era del santuario
e delle divinità”.
“Che
fine hanno fatto i cavalieri
di Atena? E Ahriman?”.
“Dhòro
ha risucchiato tutti i
poteri divini altrui. Senza Atena, i suoi cavalieri non possiedono
più un
cosmo. Chi aveva un’età per poter sopravvivere
come mortale, ora è sulla Terra
e continuerà i suoi giorni come persona normale. Tutti gli
altri..sono qua”.
“Il
crepuscolo degli Dèi?”.
“Esatto”.
“E
questo per voi è un bene?”.
“Certo.
È bellissimo. Finalmente:
pace!”.
Kydoimos
pareva perplesso. Poi
vide Saga, che gli sorrideva, avvicinandosi lentamente. Aphrodite lo
superò ed
abbracciò forte Arles, felice di rivederlo. Poi
arrivò Saga, e Aphrodite gli
lasciò posto. Le due anime, un tempo appartenute allo stesso
corpo, si
fissarono in silenzio.
“Saga...”
mormorò Kydoimos
“...adesso smettila di piangere”.
I due si
abbracciarono, mentre l’anima
di Saga non smetteva di versare lacrime.
“Non
piangere più, Saga. Non
voglio vederti piangere”.
“Mi
sei mancato” ammise Saga “Ora
non mi abbandonerai più, vero?”.
“No,
certo che no. Però tu non
piangere più. Perché fai così? Io...ti
ho rovinato la vita!”.
“Non
importa. Non è vero. Mi sei
mancato tanto”.
Non sapendo
che cos’altro dire,
l’ultimo arrivato si lasciò abbracciare.
“Guarda!
C’è Lady Oscar!”
ridacchiò un uomo, indicando un giovane che camminava per
strada.
Il giovane,
con pesanti occhi
scuri, si fermò solo qualche istante. Con le mani nelle
tasche dei jeans, fece
un sorriso. Aveva lunghi capelli ramati molto ricci, che gli ricadevano
sulle
spalle. Si tornò a voltare e proseguì per la sua
strada.
“Pensavo
che lo avresti
ammazzato” commentò Ahriman, che camminava accanto
al ragazzo.
“E
perché mai? Fra meno di un
anno morirà in un incidente” sorrise chi aveva a
fianco.
“Mi
spaventi, Dhòro”.
“Non
è forse questo lo scopo di
un Dio?”.
“Può
essere”.
“Ti
sei già dimenticato cosa
voglia dire esserlo, fratellone?”.
“Certo
che no”.
“Allora,
sei pronto? Dopo quasi
un anno, vi rivedrete”.
“Già.
Chissà come gli va la
vita”.
“Non
male, direi”.
“Ma,
dimmi, fratellino...tu
conosci il destino di tutti quanti noi, giusto?”.
“Come
unica divinità rimasta, sì.
Mi pare ovvio”.
“E
non puoi svelarmi qualcosa?”.
“No”.
“E
perché?”.
“Perché
cercheresti di non far
accadere certe cose, e non è così che deve
andare”.
“Mi
accadranno cose brutte?”.
“Ahriman,
nessuna vita è mai del
tutto felice”.
Il fratello
maggiore non disse
altro. Insieme, i due camminarono per le strade di Atene fino a
raggiungere un
piccolo appartamento. Ahriman aprì la porta e salirono lungo
il corridoio, fino
all’ultimo piano. Entrarono in una casa con un grande
terrazzo sul tetto
dell’immobile.
“Eccoli,
i ritardatari” ghignò
Milo.
“Come
state, ragazzi?” salutò
Ahriman.
Attorno ad
un grande tavolo
all’aperto, molti uomini un tempo cavalieri erano pronti a
mangiarsi una fetta
di torta. Neikos sedeva, con in braccio una bimba in fasce, e sorrise
come
tutti.
“Facciamo
un brindisi!” propose
Kiki “Al nostro primo anno da comuni mortali”.
“Alla
salute!” concordò più di
qualcuno.
“Allora...”
iniziò Camus “Come vi
trovate per il mondo? Senza un cosmo?”.
“L’inizio
non è stato facile”
ammise Deathmask “Specie dopo essere stato un Dio. Ma poi
impari a rilassarti e
a vivere”.
“Sapete
qual è stata la cosa più
difficile?” ridacchiò Milo “I
documenti!”.
“È
vero” ammise Ahriman “Quando è
nata la bambina, in ospedale mi hanno chiesto il cognome ed io non
sapevo che
cosa dire. Io non lo so il cognome di mio padre!”.
“E
allora che hai fatto?” domandò
Camus.
“Me
lo sono inventato”.
“E
noi abbiamo tutti adottato la
sua invenzione” sorrise Nàgiri.
“Che
cognome avete?” incalzò
Ioria.
“Arleson.
Figlio di Arles”.
“Non
ci credo!” scoppiò a ridere
l’antico cavaliere del leone “Che cognome
ridicolo!”.
“Pensa
per te, Leonardo!”.
“Hei,
Leonardo è un nome da
intellettuale!”.
Entrambi
risero. Perfino a Camus
scappò un vago sorriso.
“Nel
mio caso, è stato più
semplice” ammise Milo “Mi è bastato dire
che Milo è il cognome. Ci hanno
creduto tutti”.
“Sì,
anche per me è valso lo
stesso” annuì Camus.
“Ma
non dirmi che ti fai chiamare
Albert!” sogghignò Deathmask.
“Tu
pensa al tuo nome: Angelo. Tu
di angelico, non hai proprio nulla”.
“Scherzi?
Sono un angelo caduto”.
“Ah,
ecco. Ad ogni modo, il mio
nuovo nome è Andrè”.
“Lady
Oscar?” sorrise Tania.
“Ma
chi è sta Oscar?” alzò un
sopracciglio Dhòro “Oggi ne parlano
tutti”.
“Ti
farò vedere il dvd” sorrise
Ahriman “Ma dopo aver scoperto il nome di Milo”.
“Omìros”
ghignò Milo.
“Caspita”.
Aiaco, che
ora si faceva chiamare
Dustan Eaco, sorrise alzando un bicchiere. Dei presenti, in pochi
avevano mantenuto
i nomi originali ufficialmente, risultando molto bizzarri nella vita
reale.
Solo i discendenti di Arles non li avevano cambiati, forse come ricordo
di chi
li aveva chiamati così. Nàgiri sedeva accanto ad
Heiwa, che si faceva chiamare
Irene, e si tenevano per mano. Di fronte a loro, Arles II, divenuto
Alessandro,
e Tania. Lei iniziava ad arrotondarsi, nei primi mesi di gravidanza.
Thanatos,
che si limitava ad abbreviare il suo nome in
“Tony”, guardava la tavolata con
un pizzico di nostalgia. Suo fratello, Hypnos, chissà come
se la passava!
“Nomi
troppo belli” rise Ioria “E
tu, Ahriman? Niente cose strane? Giuditto? Puccio? Vabbè che
già il cognome è
una vera porcheria”.
“ναπαρ'τα"
(napar'ta )
rispose Ahriman, aprendo il palmo della mano, nel tipico gesto
d’insulto greco.
“Anch’io
ti voglio bene!”.
Dhòro
scosse la testa, divertito.
Guardò in su. Sapeva che suo padre era felice, in un luogo
dove un giorno si
sarebbe ricongiunto con tutti loro. Sapeva che lui e Saga erano vicini
e si
stringevano la mano. Sapeva che Saga era l’unico che avesse
mai provato
sentimenti così forti nei confronti di Arles. Anche il Caos
lo amava, quasi
follemente, perché ne riconosceva la pazzia, ma non
così intensamente.
“L’importante
è che tu sia
felice” mormorò.
Gli
Dèi erano morti, il grande
tempio smantellato. Le persone in quella casa si mantenevano come
potevano,
come persone normali. Il declino dell’umanità era
inevitabile, ma non aveva
importanza. L’importante era che fosse felice.
FINE
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