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di chicca2501
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Le nostre vite ***
Capitolo 3: *** Scoperte ***
Capitolo 4: *** Scoperte pt 2 ***
Capitolo 5: *** Sentimientos ***
Capitolo 6: *** Scontri ***
Capitolo 7: *** Battaglie ***
Capitolo 8: *** Segreti ***
Capitolo 9: *** Poteri ***
Capitolo 10: *** Possibili disastri ***
Capitolo 11: *** L'avventura è appena iniziata ***
Capitolo 12: *** Spiriti ***
Capitolo 13: *** Problemi di cuore ***
Capitolo 14: *** Tradimento ***
Capitolo 15: *** Il Tempo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


1
Prologo

Era una brutta giornata, brutta ma adatta a quello che stava per accadere. Le nuvole grigie nascondevano il cielo e il sole, mentre le tenebre stavano cominciando a invadere la pianura ghiacciata.
Tra gli spuntoni di roccia calcarea e di detriti inumiditi dal ghiaccio, la folla si stava accalcando verso un piccolo palchetto di legno fatto alla bell’e meglio che si reggeva a stento.
Sopra quella piattaforma c’era una ragazza slanciata, dal fisico magro e dai capelli lunghi e rossi e con gli occhi castani, i quali scrutavano tutte quelle persone ammassate lì solo per vedere lei, la grande Camilla Torres.
Da li sopra poteva osservare le numerose etnie provenienti dai quattro angoli del mondo e il vedere che ognuno se ne stava con un proprio simile la riempiva d’angoscia; lei li aveva riuniti lì, rischiando l’arresto o, peggio, la morte, solo per riappacificarli e loro complicavano ulteriormente le cose? No, non lo accettava.
Però doveva restare calma, doveva far capire che lei era degna del ruolo che aveva ereditato da suo padre e in cui lei credeva fermamente. Sì, doveva mantenere la calma.
All’improvviso, senti che qualcuno le stringeva la spalla e quella stretta era forte, dolce e ispirava fiducia al tempo stesso.
Camilla si girò per incontrare gli occhi verdi del suo braccio destro e poté leggere anche sul suo viso la preoccupazione.
- Nervosa? – le chiese, premuroso.
- Non sai quanto, Leon. – rispose la rossa.
- Devi solo tranquillizzarti, poi il resto verrà da sé. – il ragazzo si voltò verso di lei, cercando di sorridere, ma anche quello era difficile.
- Tu credi che riusciremo ad accordarci? –
- Non ti posso promettere niente, Cami, perché non lo so. Però lascia che ti dica che io credo in te, credo nella tua forza e nelle tue capacità condottiere e militari. Tu sei nata per questo e non devi farti intralciare da nessuno, e se oggi non funzionerà non sarà colpa tua, ma colpa loro. – mentre lo diceva, indicò con il braccio la folla sottostante. – Si, sarà colpa loro e di quelle stupide ed ottuse regole razziste che sono abituati a seguire. Ricordatelo, Cami. –
Era una delle tante cose che Camilla adorava di lui: non era banale, non diceva a sproposito “andrà tutto bene, ne sono sicuro” anche quando non lo era.
Nonostante questo, la spronava e la incoraggiava ad andare avanti e a lottare in quello in cui credeva, infondendo nelle sue parole molta enfasi e una disarmante fiducia in lei.
- Grazie, Leon, mi fanno bene le tue parole. – gli disse, mentre si lasciava avvolgere dalle braccia forti e sicure del ragazzo che per lei era sempre stato come e più di un fratello.
Quando si staccarono, lui le sorrise, questa volta sul serio, prima di darle una pacca sulla schiena e spingerla verso il bordo del palco, come per indicarle che doveva cominciare.
La ragazza guardò in basso: i presenti si erano accorti del suo movimento e la stavano fissando attentamente, in religioso silenzio.
Lei prese un respiro profondo, aspettò qualche secondo e iniziò: - Benvenuti a tutti, grazie per essere venuti. Voi sapete perché vi ho convocato qui, nella Valle della Morte: la lotta contro Sarchatan. Siamo sottomessi da troppo tempo, ormai; la nostra volontà è stata sottoposta a uomini dal cuore oscuro che si servono della magia nera per i loro vili scopi.
A causa loro, non abbiamo più niente: il cibo scarseggia, quasi tutte le sorgenti di questa terra sono state avvelenate da pericolosi esperimenti e le tasse ci stanno prosciugando. Credo che ognuno di voi abbia dovuto rinunciare a un gioiello di famiglia, a un animale che vi stava a cuore oppure è stato costretto a vendere la propria abitazione per non finire al patibolo.
Non siamo più quelli di una volta, noi di Atlantide: gli elfi non riescono più a utilizzare la magia, i nani stanno perdendo la forza e il tempo per scavare le gallerie, le fate sono private delle loro ali alla nascita perché i nostri nemici non apprezzano l’immortalità e noi umani non abbiamo perso l’amore per la navigazione che caratterizza la nostra specie. – Un brusio di consenso si levò dalla folla, mentre Camilla ne approfittava per rilassarsi e riordinare le idee.
Stava procedendo tutto per il meglio, ma non sapeva quanto tutto questo poteva durare, soprattutto non poteva predire quello che sarebbe successo dopo le fatidiche parole che molti disprezzavano.
Attese che la folla si calmasse, poi riprese a parlare, e questa volta la tensione era palese nella sua voce: - Io avrei un’idea su come potremmo sconfiggere questo nostro nemico comune: tutte le etnie di Atlantide devono unirsi per sconfiggere Sarchatan! – quando concluse la frase, ci fu un attimo di sbalordimento generale, che durò fino a quando un nano più basso degli altri e bardato con medaglie dai vari colori, sbraitò: - Tutte cazzate! Sono solo un mucchio di cazzate! Ora ti faccio io il mio discorso poetico, signorina Torres e credo che non vi piacerà. – dopo queste parole, il nano si fece largo tra la folla, agitando la folta barba castana in segno di importanza e salì sopra il palco, mettendosi al fianco di Camilla.
- La qui presente signorina Torres vuole unirci. – iniziò a dire con voce resa stridula dall’agitazione. – Avete sentito tutti, vuole UNIRCI! Come se noi lo potessimo fare. Anche i bambini sanno che, nonostante il fatto che abbiamo un unico nemico, non potremmo mai riappacificarci. – se prima la folla apprezzava le parole di Camilla e la guardava adorante, adesso inveiva contro di lei, lanciandole contro insulti, bestemmie e qualcuno, addirittura, maledizioni antiche come il mondo.
È finita pensò la ragazza e ne ebbe la conferma quando si voltò verso Leon, che guardava la gente con angoscia e terrore.
Le urla però continuavano, imperterrite; la gente stava dando ragione al nano, il quale gongolava accanto a lei e sorrideva soddisfatto come un bambino davanti a un gioco appena comprato.
Camilla non sapeva cosa fare, l’unica cosa che riusciva a fare era pensare al disastro che aveva appena combinato. Ad un certo punto, le venne in mente quello che diceva suo padre: Le persone sono come gli animali: non puoi tirarli fuori né con la forza né con il solo potere delle parole; per convincerli ad uscire dalla loro tana devi solo utilizzare un’esca.
Quelle parole le fecero tornare la speranza; perché lei un’esca ce l’aveva, oh si che ce l’aveva, ma era molto pericolosa utilizzarla. Guardò un’ultima volta le varie etnie continuamente in lotta tra loro senza un motivo preciso, solo per consuetudine e si decise: si, l’avrebbe fatto, avrebbe utilizzato l’esca.
Con uno slancio si lanciò tra i presenti urlando: - Aspettate! Aspettate! Fatemi finire! – quelle parole urlate con la forza della disperazione, attirarono sulla rossa gli sguardi rabbiosi di tutti. – C’è ancora un’ultima speranza. La profezia, la profezia può aiutarci. –
La rabbia venne sostituita di nuovo dall’incredulità; nessuno pronunciava più da cent’anni quella profezia, anche se tutti la conoscevano.
Il silenzio denso di gelida tensione, venne spezzato solamente quando si udì una voce dolce e lieve intonare: - Quattro persone scenderanno dal cielo, oh Atlantide;
quattro persone scenderanno a salvarti;
i loro poteri tutto potranno far;
i quattro elementi racchiuderai;
oh Atlantide, oh Atlantide;
quattro persone scenderanno dal cielo, oh Atlantide. –
Dalla folla sbucò un bambino, un piccolo elfo basso e magro come uno stelo, con i capelli biondi come il grano e gli occhi azzurri come il cielo in primavera. Era quello che aveva cantato.
Si avvicinò tremante a Camilla, la quale lo guardava sorridendo, e la abbracciò, un abbraccio pieno di quell’affetto proprio dei bambini, i quali amano tutti incondizionatamente.
La rossa lo prese prontamente in braccio e lo strinse a se, inspirando il suo profumo di fragole. Quando si staccarono, il piccolo sorrise, un sorriso allegro e vivace che fece venire alla ragazza le lacrime agli occhi.
Alla fine distolse lo sguardo da quel visetto angelico per spostarlo sugli spettatori di quella scena.
- Lo vedete? – disse – Vedete quello che sta accadendo anche in questo istante? Il momento è giunto, la profezia sta per avverarsi. -
- Ammettendo che la profezia sia vera. – intervenne una donna elfo, guardandola con i suoi occhi verde smeraldo. – Chi sarebbero queste persone che scenderanno dal cielo? Dovrebbero essere molto potenti, visto che ognuno di loro controlla un elemento. –
- Non lo so. – rispose Camilla. – Non lo so. –
All’improvviso, un urlo proveniente dal cielo fece alzare il capo a tutti.

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Capitolo 2
*** Le nostre vite ***


2
Le nostre vite
 
Violetta sputò sangue per la millesima volta, dopo che l’ultimo calcio del capo tribù la investì nello sterno. Macchioline di luce iniziarono a danzare davanti ai suoi occhi, sapeva che se l’avessero picchiata ancora non ce l’avrebbe fatta.
Ma doveva resistere, doveva essere coraggiosa per lei, per il padre e per tutte le persone che amava.
Però era difficile resistere e la posizione fetale a cui era costretta dai colpi non era adatta per difendersi.
- Allora, adesso vuoi dirci dove l’hai nascosto? – con le poche forze che le rimanevano, la ragazza si girò guardare la causa di tutto il suo dolore: un uomo alto, robusto, i capelli neri e corti e gli occhi neri come due pozzi senza fine, lo sguardo acceso da una crudeltà inumana.
Dietro c’erano i suoi soldati, le lance puntate verso di lei in caso avesse deciso di ribellarsi, anche se sapevano che non l’avrebbe fatto, seguiti dal resto della tribù, che la guardava con sguardo spaventato e minaccio allo stesso tempo.
- Non ve lo dirò mai, bastardo! – sussurrò quel tanto che le corde vocali rovinate permettevano.
- Bene, fai la dura piccolina, ma ti passerà tutta questa voglia di giocare all’eroina dopo che ti avrò abbrustolito con lentezza, in modo che tu provi un dolore immenso. – detto questo, schioccò le dita, le quali produssero un rumore forte e profondo, e un uomo vecchio e vestito di stracci, probabilmente un servo, si avvicinò e gli tese un oggetto nero che Violetta non riuscì a vedere bene fino a quando non se lo trovò davanti agli occhi: erano tenaglie nere che brillavano di un rosso acceso sulla punta, segno inequivocabile che erano state immerse nella lava incandescente.
- Allora, vuoi dirmi dove lo nascondi o devo procedere? – gli sussurrò piano ad un orecchio, così vicino tanto che la ragazza poteva sentire il puzzo pungente del suo alito. Aveva molta, troppa paura, ma non poteva arrendersi, non adesso, non dopo che aveva passato le pene dell’inferno per nasconderlo. Nonostante avesse il cuore in gola e le lacrime che le pungevano gli occhi, scosse la testa, decisa.
- Okay, l’hai voluto tu. – con un gesto lento e programmato, il capo tribù tirò su un lembo della sua maglietta, scoprendo un pezzo di pelle nuda; infine posò le tenaglie ardenti su quest’ultimo.
Violetta gridò di dolore. Poi, il nulla la avvolse.
 
Violetta aprì gli occhi di soprassalto. Sentiva le gocce di sudore che le scivolano sulla schiena, il calore infiammato sulle gote, le lacrime che scendevano su di esse.
Alla fine, era ritornato, era risuccesso; dopo tre anni di silenzio, il Sogno era ritornato da lei, ad ingombrare i suoi pensieri, ad ucciderla nel sonno sotto forma del capo tribù.
Si sdraiò sul letto, stanca ed impaurita. Non riusciva a comprendere perché quelle immagini erano riapparse nella sua mente, ormai credeva di averle superate, che la paura della morte incombente si fosse dissolta, ma niente.
Era colpa sua, doveva aspettarselo. Era stata troppo debole e aveva sottovalutato il potere dei ricordi.
Si guardò intorno: la sua stanza era la stessa, con le solite pareti rosa confetto che tanto la disgustavano e che cercava sempre di coprire con i poster dei suoi attori o cantanti preferiti; c’erano, sulla mensola sopra la scrivania, i suoi amati trofei di pallacanestro di cui andava fiera e che non smetteva mai di lucidare; infine c’era il solito fantastico caos che regnava in quella stanza da quando era piccola, ordine per lei.
Tutto in quella camera era come prima. Tutto tranne lei.
Si voltò di nuovo e vide che l’orologio azzurro appeso al muro segnava le sette e mezzo del mattino.
Sgranò gli occhi, preoccupata e stupita al tempo stesso: si doveva muovere, o avrebbe fatto tardi a scuola, e di conseguenza il coach non l’avrebbe fatta giocare alla partita, perché, come diceva sempre: “Il più grande giocatore, arriva sempre in orario.”
Scese velocemente dal letto e prese nota mentalmente di quello che doveva indossare: innanzitutto, doveva prendere la divisa, così si diresse verso la scrivania dove, in mezzo alle riviste e ai libri, trovò il completo bianco e blu della sua squadra e, con una velocità strabiliante, si tolse il pigiama e lo mise.
Poi, come se si cibasse di adrenalina, trovò lo zaino, i libri e il borsone con gli attrezzi per l’allenamento in un batter d’occhio e corse giù per le scale, mancando per poco la domestica che la stava venendo a chiamare; correva come un fulmine, nulla poteva fermarla.
Tranne forse il corpo contro cui andò a sbattere, appartenente a una persona muscolosa che la attirò a se in un abbraccio forte. Violetta sorrise, riconoscendo il profumo di cannella e si lasciò andare a quella dimostrazione di affetto.
Alzò lo sguardo e fissò il ragazzo che aveva di fronte: capelli neri e folti, lineamenti dolci ma marcati, sorriso splendente e quell’aria da duro subito smorzata dalla tenerezza racchiusa nei suoi occhi scuri e dalla forma un po’ orientale.
- Ciao, Diego. – disse con voce allegra la ragazza, sciogliendo l’abbraccio.
- Ciao, principessa. Vedo che sei di fretta. – rise Diego, sistemandosi la giacca di pelle nera.
- Si, sono di fretta. Quindi, se mi dai un passaggio te ne sarò grata per tutta la vita e ti offrirò pure un frullato da “Lindy’s”. Che ne dici? –
- Me lo hai detto anche la altre volte, e aspetto ancora il cheeseburger, la maglietta nuova e un autografo da Steven Spielberg. Quindi no. – il ragazzo scosse la testa e l’indice per sottolineare il diniego.
- Ho le risposte: il fast food ha chiuso, non ho trovato magliette decenti e, nonostante mio padre abbia conosciuto Spielberg per spiegargli qualcosa di più sugli investigatori privati, non vuol dire che io fossi tenuta a vederlo. Eh dai! Ti prego! - un sorriso innocente apparve sul volto di Violetta, mentre gli occhi divennero dolci e grandi come quelli di un cucciolo bisognoso di aiuto.
Diego la guardò; no, non si sarebbe fatto fregare ancora. Anche se lei era la sua migliore amica e le voleva un mondo di bene, voleva dimostrarle che non poteva fargli fare tutto quello che voleva, non dopo aver sentito le voci che circolavano.
Le aveva sentite qualche mese fa, alla ricreazione, da due primine del cavolo che dicevano: “Diego, quello della IV E, fa tanto il duro e il menefreghista ma poi si fa comandare da quel maschiaccio della sua migliore amica.”
A Diego era venuta una voglia pazzesca di dare un pugno sul quel faccino innocente da quattordicenne; però era vero, lui era quasi sottomesso a Violetta e lui non voleva più essere così!
Lui era Diego Casal e lui…… non ce l’avrebbe fatta, ne era sicuro, e sapeva che ne era sicura anche quella ragazza davanti a lui, con un borsone in mano e il pallone fortunato che le aveva regalato quando aveva dieci anni nell’altra e non poté far altro che annuire rassegnato e dire: - Ok, e passaggio sia. –
Violetta gli saltò letteralmente addosso, gridando grazie a raffica.
- Cosa sta succedendo qui? – una voce profonda e maschile li fece voltare.
- Tranquillo papà, sono solo emozionata. – la ragazza alzò lo sguardo su suo padre e sbiancò, travolta dall’immagine sconvolgente: davanti a lei vedeva il viso dell’uomo che l’aveva cresciuta, ma allo stesso tempo vedeva quello del capo tribù. Sentiva ancora il dolore dei calci alla bocca dello stomaco, il sapore del sangue in bocca e il terrore che la avvolgeva tra le sue spire di paura. Le venne da vomitare. Chiuse gli occhi e respirò profondamente; quando li riaprì vide gli uomini più importanti della sua vita affianco a lei, preoccupati.
- Vilu che succede? – chiese German, in preda all’ansia, come sempre del resto.
- Niente pa’, tranquillo. Come va con il lavoro? – lo confortò la figlia, abbracciandolo.
- Altri due omicidi e un suicidio. I due uccisi erano bambini. – disse con la voce fredda da investigatore privato quale e che usava solo con i suoi clienti e quando parlava del suo lavoro.
- Che bastardi. – mormorò Diego.
- Puoi dirlo forte, Casal, anche se non tollero le parolacce in casa mia. – replicò German, lanciando sul ragazzo uno sguardo di rimprovero, al quale quest’ultimo arrossì violentemente.
Fu Violetta a interrompere quella piccola conversazione: - Bene, pa’, adesso dobbiamo andare. – lo strinse ancora più forte, cercando di non notare la sua somiglianza con l’uomo del suo incubo; poi, prese Diego per un braccio e lo trascinò fino all’uscita.
Fu fermata dalla voce del padre: - Vilu, hai fatto colazione? – sorrise furbescamente, sapendo quanto suo padre ci teneva all’alimentazione, e disse: - No, papino. Ciao, ciao. – infine sgusciò dietro la porta, portando dietro di sé il suo migliore amico.
German sospirò, ma non fece nulla per fermarla, non oggi. Aveva notato il colore pallido e la paura della figlia quando l’aveva guardato. C’era solo una spiegazione a questo: Lui aveva incominciato ad agire.
 
- Dai, Francesca, ci siamo quasi! – la voce di Luca era entusiasta, nonostante la stanchezza. Finalmente si stava realizzando il loro sogno, qualcosa che fino a due giorni fa non avrebbe mai sperato: la libertà.
Guardò suo fratello, raggiante e pensò che non aveva visto niente di più commovente in vita sua.
Lui aveva lottato e alla fine ce l’aveva fatta, era riuscito a salvare se stesso e la sorella e a portarla lontano da quella prigione.
In quel momento si trovavano su una collinetta in periferia, dove era situata la loro nuova casa; per lei era una sensazione totalmente nuova e rigenerante sentire l’aria fresca sulla pelle, vedere il cielo azzurro e il sole luminoso sopra di lei.
Aprì le braccia e lasciò che il vento le scompigliasse i lunghi capelli corvini e un’assoluta sensazione di pace la avvolse. Chiuse gli occhi e tutto svanì, così li riaprì, spaventata.
Sentì suo fratello urlare di gioia poco più avanti, in preda all’adrenalina più pura, lo vide piangere dalla felicità, lui che non piangeva mai, a differenza di Francesca, la quale piangeva per ogni cosa. Anche adesso stava piangendo, le lacrime le scendevano silenziosamente e copiosamente giù per le guance rosse.
Si lasciò cadere per terra e inspirò profondamente; anche Luca si distese affianco a lei e la abbracciò con tutto l’amore che un fratello può dare.
- Ci siamo riusciti, Fran. Non so come, ma ci siamo riusciti. – la voce del ragazzo era rotta dall’emozione.
- Ce l’abbiamo fatta solo grazie a te e a nessun altro. Però mi dispiace per gli altri, non volevo lasciarli lì. –
Un’ombra scura passò sul volto di suo fratello, prima così allegro. – Neanche io, sorellina, ma c’è un motivo sul perché ho lasciato gli altri. – le parole uscirono contro la sua volontà e si rese conto solo dopo di quello che aveva detto, aiutato anche dallo sguardo stupito della sorella.
Si mise a sedere e con un cenno invitò anche la ragazza a fare lo stesso. Quest’ultima obbedì silenziosamente.
Luca si schiarì la gola e sospirò, passandosi una mano sui capelli. Non sapeva come dirglielo, glielo aveva nascosto per troppo tempo ormai, e adesso non sapeva come dirglielo.
Si era ripromesso che le avrebbe detto la verità solo quando sarebbero riusciti a fuggire, e ora la realtà dei fatti lo sconvolgeva. Non sapeva bene cosa stava provando in quel momento, ma di sicuro aveva paura, tanta paura, aveva il terrore di come lei l’avrebbe preso. Decise che gliel’avrebbe detto velocemente, senza giri di parole.
- Francesca ascolta, la verità è che ti ho portato fin qui perché……. – all’improvviso, si sentì uno sparo in lontananza.
- Merda! – imprecò Luca. – Sono loro! – un altro colpo, questa volta più vicino.
- Che cosa facciamo?! – gridò Francesca spaventata, subito zittita da un gesto di Luca.
- Scappa, Fran. – le disse lui.
- Che cosa? Io non me ne vado senza di te! – protestò la ragazza, sull’orlo di una nuova crisi di pianto.
- Devi! Quelli cercano te, tu sei la loro preda il loro scopo. Tu sei speciale!-
La ragazza lo guardò impaurita. Cosa stava dicendo Luca? Stava delirando forse?
- Luca, io…. – tentò di dire.
- Vattene, Francesca, immediatamente. – lo sguardo del fratello non ammetteva repliche.
La ragazza fece come gli fu richiesto, terrorizzata. Fuggì, corse via, lontano mentre in lontananza si udivano le urla dei soldati e l’abbaiare dei cani. Si fermò solo a notte inoltrata, quando le gambe cedettero e il fiato finì. Si accasciò a terra, esausta e precipitò in un sonno profondo.
 
Gli alberi scorrevano fuori dal finestrino velocemente, mentre la carrozza correva per le strade acciottolate della campagna.
Già dall’esterno si poteva vedere, grazie agli intarsi complicati (che facevano la loro comparsa sotto forma di spirali e ghirigori) e ai veli di seta verde e oro che facevano da tenda alla piccola finestrella, che il veicolo apparteneva a una famiglia nobile e ricca.
Si poteva confermare questa teoria entrando all’interno dell’abitacolo, dove su sedili di velluto rosso sedeva la celebre Ludmilla Ferro, giovane rampolla della grande famiglia Ferro, il cui patriarca aveva fondato una delle più grandi industrie esistenti a quel tempo.
La ragazza guardava il paesaggio con aria annoiata e di tanto in tanto lanciava qualche occhiata al giovane cocchiere che si stringeva per il freddo nella sua casacca blu, oppure si lisciava il bel vestito rosso che ben si intonava ai suoi capelli color del grano.
Si stava dirigendo verso Buenos Aires, la nuova e moderna città dove suo padre si era trasferito a causa degli affari fino a qualche giorno prima, quando era morto.
Una disgrazia, secondo molti, un sollievo per lei; non aveva mai avuto rapporti con il padre, non le importava se era deceduto, non aveva pianto una lacrima quando glielo avevano detto.
L’unica cosa a cui pensava erano i milioni che aveva ereditato, quelle montagne di soldi che tanto aveva sperato di ricevere nella sua vita e che ora erano sue. Certo, c’era l’intera industria Ferro da dirigere, ma avrebbe saputo gestirla perfettamente: era una donna forte e furba, nessuno l’avrebbe potuta sottomettere alla propria volontà. Inoltre stava andando a Buenos Aires, definita la città delle meraviglie, straripante di gente importante proveniente dall’Europa, dove ogni sera c’era una festa dove conversare e magari poteva incontrare qualche bel giovane….
Sorrise al pensiero del futuro radioso che la aspettava, dischiudendo le labbra rosse e carnose e mostrando i denti bianchi e perfetti.
Ad un tratto, un tonfo la risvegliò dai suoi pensieri, il resto accadde tutto molto velocemente: vide il corpo del cocchiere coperto di sangue e con la gola mozzata, gli uomini in nero che cercavano di entrare, i cavalli imbizzarriti che partirono al galoppo, spaventati dall’invasione.
Poi lo strapiombo senza fine, i cavalli troppo presi dalla corsa per fermarsi, il vuoto sotto la carrozza e l’urlo disumano che la ragazza lanciò.
Infine, il nulla.
 
- Muoviti, moccioso! – una pedata al fianco, un dolore lancinante allo sterno. Quello stronzo non aveva ancora capito che aveva un problema alle ossa, nonostante lo conoscesse da ben dieci anni.
Ma se hai diciassette anni, se sei magro anche se alto, se sei sfinito e soprattutto se vivi all’orfanotrofio Monroe non puoi metterti contro il controllore Gomez.
Federico si rialzò da terra e continuò a camminare; quella doveva essere la gita annuale degli alunni del Monroe, ma chi, come lui, è in quel posto da quindici anni aveva già capito di cosa si trattava: marce forzate per chilometri e un piatto di minestra e un bicchiere d’acqua (se ti comportavi bene anche metà di una pagnotta) che dovevano bastare per tutto il giorno.
Tutto questo perché l’orfanotrofio aveva dei problemi con il Comune per colpa dell’amministrazione troppo dura dei ragazzi (ma non mi dire) e allora la direttrice si era inventata la storia della gita e da lì era iniziato tutto.
- Cinque minuti di pausa! – urlò Gomez e immediatamente tutti si sedettero in ordine sparso, da soli o a gruppetti, cercando di riposarsi.
Federico guardò la folla. Dove cavolo era finita Nata? Si aggirò tra i ragazzi fino a quando non individuò i ricci neri della sua amica. La ragazza stava parlando con una sua coetanea, più precisamente con Ursula, la ragazza più bella dell’orfanotrofio e che attirava uomini a sé più del miele con le api.
Tutti le andavano dietro, e Federico non faceva eccezione; ecco perché rimase come a guardarla come un babbeo fino a quando non sentì un violento colpo alla nuca che lo fece voltare bruscamente. Era stata Nata.
- La stavi ancora fissando! – lo sgridò la ragazza.
- Si, e allora? Quella ragazza è stupenda! – replicò lui.
- Si, si, se lo dici tu… Ohi, guarda chi arriva! – e con il dito indicò un punto non molto lontano da loro, e Fede vide un gruppetto di ragazzi avvicinarsi.
- No, questa non ci voleva! – sussurrò tra i denti.
- Cosa non ci voleva Pasquarelli? Cosa c’è hai paura di noi? – a parlare era stato un ragazzo sulla diciottina, alto e magro, a differenza dei suoi amici, bassi e molto grassi, almeno per gli standard dell’orfanotrofio.
- No, Damien, non ho paura, ma non voglio fare a botte con te oggi. Andiamocene Nata. – detto questo, si voltò e si avviò con Nata a fare una passeggiata. Riuscì a trattenersi dal tornare indietro e riempire di botte quelle teste di cazzo, nonostante le risate sguaiate e gli insulti dei tre ragazzi. Quel giorno non se lo poteva permettere, no proprio no.
- Bravo, sei riuscito a non insultarlo o a non attaccar briga con lui. Finalmente hai capito che la violenza non porti a nulla! – esultò Nata.
- Molte grazie Gandhi, ma…. – non riuscì a terminare la frase che uno scossone scosse la terra.
Poi, all’improvviso, un crepaccio si aprì sotto i piedi dei due ragazzi, che con un grido precipitarono nella fossa.
 
- Grazie per avermi accompagnato, Diego. – erano davanti alla scuola, ormai, e stavano per entrare.
- Di niente principessa, lo sai che per la mia migliore amica ci sono sempre. – Violetta sorrise, compiaciuta e subito ricambiata.
Lo squillo del telefono del ragazzo distolse i loro sguardi. Diego prese il cellulare e alla vista del numero impallidì: non poteva essere, di già!
Con una scusa si allontanò da Violetta e si rifugiò nel retro della scuola, poi aprì la chiamata e una voce maschile disse: - Basta fare lo sdolcinato, Diego,agisci! – poi l’uomo chiuse la chiamata.
Era giunto il momento, non c’era più tempo.
Raggiunse la ragazza, la quale lo stava aspettando all’ingresso.
- Ok, entriamo – lo esortò impaziente lei.
- Aspetta, prima ti devo dire una cosa. – un ghigno comparve sulla faccia di Diego, trasformandola. Oh si, finalmente, pensò. Si avvicinò piano a Violetta, la quale non riusciva a capacitarsi di quello che stava succedendo. Sentì il fiato caldo del ragazzo sul collo e le sue parole: - Sogni d’oro, principessa. – sentì un forte dolore alla nuca, prima dell’oblio.
 
Angolo dell’autrice: Hola ragazzi, come va? Finalmente pubblico un capitolo, anche se penso che voi starete piangendo adesso proprio per questo motivo.
Vi devo dare un piccolo annuncio: ho fatto la scemenza di pubblicare due storie contemporaneamente, così devo scegliere di scriverne solo una, e io ho scelto questa e appena l’avrò finita continuerò l’altra (se non l’avete ancora letta fatelo per favore, s’intitola: “L’amore è imprevedibile, ti coglie di sorpresa” grazie per la collaborazione).
Questa, come avete capito, è una storia fantasy (io adoro questo genere!!!!) quindi non so come verrà, ma ci voglio provate.
Questo capitolo non so come mi è venuto, scusate la fretta ma volevo finirlo, e scusate anche i cambiamenti d’umore repentini dei personaggi, di sicuro gli altri capitoli saranno migliori. E, come sempre, vi chiedo di dirmi cosa ne pensate. Accetto critiche e consigli.
Un bacione da Chicca2501
 
 
 

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Capitolo 3
*** Scoperte ***


3
 
Scoperte
 
Era mattino inoltrato quando Francesca aprì gli occhi. A prima vista non capì dove era, che cosa ci faceva in quel verde e dov’era finita la sua cella.
Poi, come in un flashback, rivide tutto: l’evasione, la camminata verso una nuova vita e la distruzione di quest’ultima da parte dei soldati, lo sguardo deciso di Luca quando le aveva detto di andarsene. Il pensiero del fratello la colpì forte al cuore, ormai spezzato.
E tutto questo era successo in un solo giorno. Sentì le lacrime che le pungevano gli occhi, ma le trattenne: non poteva piangere, non dopo la perdita del fratello, lei adesso se la sarebbe dovuta cavare da sola e non c’era tempo per le bambinate.
Si alzò da terra e si lisciò il leggero abito grigio da carcerata, oramai una seconda pelle; iniziò a camminare avanti e indietro, cercando di razionalizzare la mente in subbuglio.
Doveva mettersi delle priorità, e, in quel momento, la cosa più importante era come procurarsi il cibo, visto che la borsa che aveva portato era rimasta in spalla al fratello.
Sentì un rumore strano, come uno scorrere di acqua, così si diresse in quella direzione. Mentre camminava sentiva il rumore avvicinarsi, e capì che si trattava di un fiume, e la sua ipotesi si dimostrò esatta quando vide il corso d’acqua, di un azzurro cristallino e dall’acqua poco profonda
 Si sporse un pochino e scorse un branco di carpe che nuotavano a poca distanza da lei; si voltò e fissò un piccolo alberello nel bel mezzo della pianura, solo e giovane, ma con rami forti e robusti e nemmeno troppo difficili da staccare, utili per creare dei piccoli arpioni.        
Stava per mettere in atto il suo piano quando una voce la distolse dal suo intento, una voce profonda, da uomo, simile a quella del suo carceriere: - Eccoti qua, piccoletta! – Francesca si girò a fronteggiare la causa della sua prigionia e della sua conseguente fragilità e fremette davanti al corpo possente e pesante dell’uomo.
- Pensavi di farla franca, vero? – continuò il carceriere. – Sai, sei stata scaltra a fuggire e a lasciarci tuo fratello. -
- Che cosa gli avete fatto?! – urlò la ragazza, percorsa da un brivido di rabbia mista a paura.
- Piccoletta, ricordati che io quando voglio una cosa non ho scrupoli, e tuo fratello aveva una cosa che mi appartiene. Così, l’ho fatto fuori, è la vita, piccoletta. –
L’aveva detto tranquillamente, come se fosse la cosa più normale del mondo, come se per lui la vita altrui non valesse niente. Francesca sentì la rabbia affluirle da tutto il corpo, un’ondata di puro odio soppresso durante quei sette anni di carcere, gli anni più putridi e più dolorosi della sua vita, e la causa di tutto ciò era quel cazzo di tizio che odiava suo padre e suo fratello e che aveva mandato tutti in prigione, offrendosi poi di fare il guardiano.
- Che cos’era quella cosa che volevi? – chiese in un sussurro disperato.
- Tu, piccoletta, solo tu. Sai, il mio padrone ha bisogno di te. –
La ragazza rimase basita alla risposta inaspettata. Doveva andarsene, doveva fare in modo che non la prendessero, ma era bloccata tra il fiume e il nemico.
Abbassò lo sguardo e vide che l’uomo di fronte a lei aveva una spada e a quel punto le venne un’idea, l’unica possibile in quella situazione impossibile.
Con un urlo si getto sull’altro che, colto alla sprovvista, non riuscì a difendersi dall’attacco e così Francesca riuscì a sfilargli la spada dal fianco, per poi puntarla contro il suo petto.
Poi, rivolta al carceriere, disse: - Mi dispiace Lorenzo, ma credo che non darò una mano al tuo padrone. – detto questo, si infilò la spada nel petto.
 
Camilla alzò gli occhi al cielo, sorpresa: cosa stava accadendo? L’urlo era finito poco dopo il suo inizio, lasciando tutti esterrefatti.
La rossa scrutò le nuvole un’ultima volta, prima di riabbassare lo sguardo, seguita a ruota da tutti i presenti; solo il piccolo elfo che aveva cantato prima la profezia continuò a guardare in su, curioso. D’un tratto, senza preavviso, il bambino gridò: - Vedo qualcosa, vedo qualcosa! – attirando l’attenzione della gente intorno a lui.
Si sentì un tonfo sordo, un gracchiare di cornacchie spaventate, un’imprecazione.
La folla si precipitò verso uno spuntone di roccia più alto degli altri, quello su cui era piantata la bandiera giallo-rossa dei ribelli.
Camilla sentì la voce di Leon sovrastare il brusio circostante: - Chi c’è la dietro? Chiunque voi siate venite fuori di vostra volontà o saremo costretti a utilizzare la forza! –
Non una parola da dietro lo spuntone, nemmeno un sospiro, il silenzio più totale; Leon fece un cenno a un gruppo di uomini bardati con i colori della ribellione, sguainò la spada e marciò verso la roccia. Ci volle un po’ per riuscire a tirare fuori gli stranieri, ma alla fine la forza e il numero superiori dei soldati vinsero e questi ultimo ritornarono dai loro capi con tra le braccia dei…. ragazzini……
Camilla corrugò la fronte e fissò i prigionieri con occhio indagatore: la prima era una ragazza che poteva avere si e no diciotto anni, i capelli biondi prima legati in un’impegnativa acconciatura ora erano tutti scompigliati e il vestito rosso fuoco tutto strappato, i suoi occhi brillavano come se fossero in fiamme; il secondo era un diciassettenne allampanato, magro come uno stecco e ricoperto da vestiti stracciati e stinti, troppo grandi per quel corpo sottile, gli occhi castani screziati di verde; la terza era sicuramente un’amica del ragazzo magro perché si stringeva a lui in modo morboso, lo sguardo emanava paura e il suo corpo anch’esso piuttosto esile tremava.
Il capo dei ribelli si accorse che anche quel trio strano la stava fissando e doveva già averla inquadrata; con un cenno della mano, la ragazza disse alle guardie di avvicinare i prigionieri e dopo chiese loro: - Quali sono i vostri nomi? – cercò di farlo con il tono più autoritario possibile, anche se aveva i nervi in tensione.
Per primo parlò il ragazzo: - N-noi d-due siamo Federico Pasquarelli e Nata Rico Navarro – indicò prima se stesso e poi la ragazza al suo fianco.
Poi Camilla si rivolse alla bionda, la quale le rivolse un sorriso di sfida, come a chiederle solo di provarci a farle qualche domanda. A Camilla ricordava tanto qualcuno.
- E tu invece chi saresti? – cercò di porle questa domanda nel modo più conciliante possibile, e nel caso lei si fosse rifiutata di rispondere per più volte avrebbe pagato le conseguenze, semplice.
- Credo che per prima cosa dovrei chiedervi io chi siete voi. –
- Come, chi sono io?! Non mi conosci? – era impossibile che quella ragazza non sapesse il suo nome, lei era conosciuta in tutta Atlantide per la sua lotta contro il potere, tutti l’avevano vista in qualche modo, ma perché la biondina no. Poi quella lì era strana, le aveva dato del voi, inusuale nel suo paese, ma forse negli altri posti al di là del mare…. Un’idea folle iniziò a farsi strada sempre di più nella sua mente.
- No, signorina, non so chi siete voi e di sicuro voi non conoscete me, visto che mi parlate come se io fossi una volgare plebea. –
Camilla incassò il colpo e proseguì: - Io sono Camilla Torres, capo della ribellione contro il popolo Sarchatan, il quale minaccia le nostre terre. Ora che mi sono presentata voi dovreste ricambiare il favore. – calcò bene sul voi, ma con suo stupore, la rivale non era scesa di un millimetro dal suo piedistallo.
- Uffa, ok signora Capo dei Ribelli, io sono Ludmilla Ferro, direttrice in carica delle industrie Ferro di Buenos Aires. Ora avrei un’altra domanda: dove siamo? -
Camilla sentì la folla scoppiare a ridere, ma lei non capiva cosa c’era di tanto divertente. Di nuovo le venne in mente quell’ipotesi così strana, ma non poteva essere che così.
- Aspettate, aspettate! Smettetela di ridere! – gridò, senza successo. Guardò Leon, disperata; il ragazzo sorrise e le fece segno di tapparsi le orecchie e lei ubbidì.
Un secondo dopo un fischio acuto e lamentoso sovrastò le risate e elfi, nani, uomini e tutte le altre razze presenti si piegarono in due dal dolore.
Camilla rivolse al suo secondo uno sguardo carico di riconoscenza, prima di annunciare: - Popolo di Atlantide, non ti rendi conto di chi hai davanti? Sei così cieco, così sordo da non vedere e non sentire la tua salvezza. Guardate negli occhi questi ragazzi, vedrete che due di loro hanno i Particolari! –
L’attenzione di tutti si concentrò sui tre ragazzi e, a poco a poco, tutti si resero conto di quello che avevano davanti. Iniziò il caos: gente che urlava di gioia, che cercava di andarsene ma veniva fermato chi si teneva spaventato al braccio del vicino e iniziava a singhiozzare.
La rossa sentì Leon urlare a tutti di seguirlo all’accampamento, mentre i prigionieri venivano legati e trasportati su un carro.
 
- Diego non ce la faccio più! – la bionda si lasciò cadere a terra, esasperata.
- Come non ce la fai più Vilu! Dobbiamo raggiungere un luogo abitato! – Diego si stava esasperando, già aveva sbagliato Portale, poi se ci si metteva pure Violetta potevano pure arrestarlo per omicidio.
Lui era abituato alle camminate e alle marce forzate, ma a quanto pare la sua amica no, visto che era da due giorni che si lamentava; ma lei non giocava a pallacanestro, cazzo?! Non doveva sopportare il dolore?! Poteva capire lo sbalordimento nel vedere dov’erano e la paura, ma non poteva essere così frignona.
L’unica cosa che era andata secondo i suoi piani durante quei giorni, era il fatto che lei non aveva capito che era stato lui a portarla lì, credeva soltanto che anche lui non ci capisse niente ma sapesse mantenere il sangue freddo.
Si guardò intorno: il bosco Nero li circondava nelle sue braccia oscure, ma li lasciava in pace, forse perché c’era il suo figlio prediletto; già, lui era cresciuto in quel bosco, tra le chiome verde scuro e gli animali feroci che popolavano quel luogo; era lì che aveva imparato a usare la spada combattendo contro suo padre e contro…. No, meglio non pensare a quella traditrice.
Fissò Violetta stesa a terra, i ciuffi tinti di biondo che le ricadevano sulla fronte, la divisa della squadra ormai tutta sporca di fango. Le si avvicinò e si stese anche lui, poi la abbracciò, sperando di ottenere qualcosa; la ragazza appoggiò la testa sul suo petto e ascoltò i battiti del cuore dell’amico.
Lui la stava proteggendo e lei gli stava solo facendo perdere tempo; anche Diego era nella sua stessa situazione di smarrimento, ma riusciva a restare calmo. E lei avrebbe fatto lo stesso! Si sollevò e tirò su anche il moro, poi insieme continuarono a camminare, uno affianco all’altra.
All’improvviso, nel silenzio del bosco, sentirono una voce, un pianto disperato e solitario che proveniva da uno degli alberi alla loro destra; poco dopo scoprirono che la fonte di quel pianto era una ragazza alta e magra, i capelli neri e lunghi le coprivano come una tenda la testa, mentre lei stringeva le ginocchia con le braccia e si dondolava avanti e indietro.
Alla fine si accorse di essere osservata e alzò il capo e mostrò i suoi occhi, neri ed espressivi. Diego ne fu incatenato immediatamente.
 Non sembrava che avesse paura di loro, o, almeno, che fosse sorpresa.
- Anche voi spiriti? – chiese la sconosciuta.
I due amici si guardarono con aria interrogativa, spostando lo sguardo dalla ragazza al compagno. Il primo ad avere il coraggio di rispondere fu Diego: - No, non lo siamo. Perché questa domanda? –
- Perché io lo sono. Non siamo nel mondo dei morti, negli Inferi? –
- Questi ti sembrano gli Inferi? – questa volta a parlare fu Violetta, il tono intriso di ironia.
La ragazza non rispose ma guardò la sacca appesa al collo di lei dove c’era il cambio e il pranzo che si era portata dietro il giorno prima.
- Sento odore di cibo. Ho fame, molta fame. -
- Se sei uno spirito non dovresti avere fame. –
L’altra sgranò gli occhi e assunse un’aria pensierosa, mentre apriva e chiudeva ripetutamente la bocca. Infine disse: - E allora, se non sono nel mondo degli spiriti, dove sono? –
- È quello che ci stiamo chiedendo anche noi. – rispose Violetta.
- Vilu, ha fame vuoi dargli da mangiare? – la rimproverò Diego, dandole una lieve gomitata, per poi prendere la borsa, frugarci dentro e prendere il pezzo di panino avanzato e la bottiglia d’acqua, l’ultima.
Non sapeva perché, ma quella ragazza gli spirava fiducia, e voleva accontentarla, farla felice.
Le porse il cibo e le disse: - Ascolta, questo è il cibo, ma tu ci devi raccontare la tua storia, e noi ti porteremo via di qui. – gettò un’occhiata a Violetta, che la guardava esterrefatta.
Intanto la mora lo guardava diffidente: - Cosa mi dice che posso fidarmi di voi? –
- Beh, innanzitutto abbiamo il cibo, poi.. – iniziò la bionda, ricevendosi un’altra occhiataccia da Diego e una pietra sul piede, sempre lanciata da quest’ultimo.
Il ragazzo parlò: - Tu ti puoi fidare di noi, siamo buone persone. – poi, avvicinandosi al suo orecchio, disse: - E poi, come posso anche pensare di fare del male a una ragazza così bella. –
L’altra arrossì violentemente, lo fissò, poi prese il panino e iniziò a trangugiarlo; quando finì, si pulì la bocca con la mano e iniziò a parlare: - Mi chiamo, Francesca Cauviglia. Sono nata il 24 aprile 1840 a Roma e ho diciotto anni. Mia madre è morta dandomi alla luce, mio fratello Luca è morto cercando di salvarmi e mio padre, beh, lui è finito in prigione.
Lui faceva il banchiere, ma aveva tanti nemici, uno in particolare: il barone Lorenzo Fossi. È stato lui ad accusare mio padre di furto e omicidio, facendo apparire le prove misteriosamente, di sicuro era un piano precedentemente programmato. Mio padre dovette andare in carcere, e visto che io e mio fratello, ancora tutti e due bambini, non avevamo parenti da cui andare, ci rinchiusero a nostra volta con nostro padre, a quel tempo non c’erano mezze misure. Io avevo sei anni quando successe.
Restammo in prigione per dodici anni, ma mio padre si ammalò e morì il sesto anno di prigionia, così restammo solo io e mio fratello. – si interruppe, singhiozzando, ma riprese subito dopo. – Mio fratello lottò a lungo per farci uscire, facendo appello ad amici, giustizia, insomma, di tutto. E alla fine ci riuscì: tre giorni fa uscimmo di prigione, ma il barone e le sue guardie ci raggiunsero subito dopo. Io riuscii a scappare, ma Luca non ce la fece, salvandomi la vita. Loro volevano me, non so perché ma mi desideravano e io per non farmi prendere mi sono suicidata. –
Francesca sentì le braccia del ragazzo moro avvolgerla e lei si sentì al sicuro, stranamente. Percepì il suo odore alla cannella misto a quello del muschio e del sudore e si lasciò inebriare. Non sapeva perché stava così, non lo capiva, ma appoggiò comunque la testa sulla spalla del ragazzo e iniziò a piangere.
Sentì la voce dell’altra ragazza che diceva: - Quindi tu sei del 1858. Quasi duecento anni in più di noi! –
- Perché voi da che anno provenite, scusa. -
- Dal 2014, cara mia. –
L’italiana si irrigidì e fissò il ragazzo che la stava abbracciando. – Come del 2014? Il mondo doveva finire almeno cento anni fa. –
- No, il mondo dovrebbe finire tra miliardi di anni, Francesca. -
- Non importa, tanto adesso non siamo nel nostro mondo. Io mi sono presentata, ora tocca a voi. –
Fu la ragazza bionda a parlare: - Noi siamo Violetta e Diego, veniamo da Buenos Aires e… - non fece in tempo a finire la frase che si sentì il suono di un corno.
- Lo avete sentito? – chiese Violetta. – Vuol dire che c’è qualcuno! – detto questo iniziò a correre all’impazzata verso il luogo da cui proveniva il rumore.
Diego iniziò a rincorrerla, seguito a ruota da Francesca. Il primo aveva riconosciuto il suono del corno e gridava a Violetta di non avvicinarsi, ma era troppo tardi, la ragazza era entrata nell’accampamento e Francesca, che l’aveva superato, pure, attirando l’attenzione dei presenti.
Diego corse e senza pensare entrò nell’accampamento; fu allora che la vide: i capelli rossi che le ricadevano sulle spalle, l’aria autoritaria. Vide che anche lei lo stava fissando e che l’aveva riconosciuto.
Infatti, poco dopo, urlò, indicandolo: - Prendetelo! – guardie giallo- rosse si avventarono su di lui, eseguendo gli ordini.
Quello che successe dopo fu stranissimo: Violetta e Francesca, vedendolo in pericolo, si gettarono verso di lui a braccia aperte, come a proteggerlo, poi, il caos; acqua e vento si unirono, scatenando una tempesta fortissima. Diego si voltò verso le due ragazze e vide che i loro corpi risplendevano di luce. Subito dopo, la tempesta cessò e tutti restarono a fissare il miracolo appena accaduto.
 
Angolo dell’autrice: Salve a tutti! Come va? Ok, come sempre pubblico i capitoli ogni millennio, ma tra scuola, sport e catechismo per la cresima è difficile trovare il tempo.
Comunque, in questo capitolo succedono molte cose importanti che poi avranno delle conseguenze; ormai avrete capito chi sono i leggendari quattro salvatori, ma ci voleva poco a capirlo; tra Diego e Francesca c’è già sintonia al primo sguardo, e ci credo!
Ma cosa c’è tra Camilla e Diego, cosa nascondono? Vi lascio con questo interrogativo e vi saluto, al prossimo capitolo e al prossimo millennio! Questo capitolo è più corto ma credo vada bene così. Ditemi cosa ne pensate, accetto anche critiche e consigli
Un bacione da Chicca2501
 

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Capitolo 4
*** Scoperte pt 2 ***


4
 
Scoperte pt 2
 
German era solo, nello studio di casa Castillo; adorava quelle quattro mura così accoglienti, lì poteva esprimersi per quello che era e la sua astuzia e immaginazione fiorivano proprio in quella stanza.
Ma adesso era lì per un altro motivo: la tristezza. Fissava il computer con angoscia e dolore, mentre riguardava le foto di sua moglie, Maria Saramego, famosa archeologa morta in una frana mentre cercava di riportare alla luce un antico tesoro dei Maya.
Ma lui sapeva che non era così, sapeva che non era stata una frana ma la lama di un coltello affilato; ne aveva trovato il segno poche ore dopo che i medici l’avevano visitata, un lungo taglio profondo sulla coscia destra su cui era stato fatto un marchio inciso con il fuoco: una fiamma di un nero metallico racchiusa in un cerchio e sul perimetro di esso e nel cuore del fuoco nero vi erano incise rune, incomprensibili a tutti tranne a lui. Quello era il Suo marchio.
Abbassò la testa, vinto dai ricordi e posò lo sguardo sull’orologio d’oro al polso: erano le quattro e sua figlia non era ancora tornata. All’inizio aveva pensato che si fosse fermata un altro po’ a scuola per chiacchierare con i suoi amici, ma adesso aveva davvero paura.
All’improvviso, una folata di vento spalancò le porte della finestra e qualcosa trasportata dalla corrente entrò nella stanza.
German prese l’oggetto e vide che era una lettera, una lettera con il sigillo a forma di fiamma. Non prometteva niente di buono, ma la aprì ugualmente e ne uscì un fascio di luce grigia che fece il giro della stanza e si fermò all’ingresso, per poi trasformarsi in un uomo.
L’investigatore si ritrasse, spaventato dalla visione. Non era cambiato affatto, il suo gemello era sempre identico a lui.
- Ciao, fratellino. – disse con voce profonda, con un ghigno che si estendeva da una parte all’altra del viso. – Ti vedo impaurito, cos’è non sei felice di rivedermi? -
- Come potrei volerti rivedere dopo quello che mi hai fatto. – mormorò German, la voce rotta dalla tensione.
- Ancora con questa storia. Avresti dovuto dimenticartela molto tempo fa. – l’esasperazione nel tono di voce e nei movimenti aumentò l’ira dell’altro, che urlò: - Hai ucciso mia moglie, bastardo! –
- E tu hai abbandonato la nostra famiglia e la nostra isola per stare con quella donna, mi sembra il minimo. –
La rabbia di German cresceva senza sosta e istintivamente si portò la mano alla coscia, ricordandosi subito dopo che ormai aveva rinunciato alla sua spada da ormai venticinque anni.
Il fratello scoppiò in una rumorosa risata che venne amplificata dall’eco della stanza.
- Ormai non hai più una spada, German, e nemmeno i tuoi poteri! E tutto per quell’inutile essere umano! -
- Io l’amavo… - sussurrò l’investigatore, appoggiandosi alla scrivania.
- Amore, che cosa sciocca e priva di senso, un sentimento così subdolo e malvagio da spezzarti il cuore. – ribatté l’altro.
- Perché sei qui Carlos? Stiamo solo perdendo tempo e di sicuro non sei venuto qui solo per farti una chiacchierata. –
- Bene, vedo che vuoi arrivare al sodo. Ok, ti dirò perché sono qui: un mio scagnozzo ha rapito tua figlia e l’ha portata ad Atlantide e tra poco la tua cara Violetta sarà nelle mie mani. – disse Carlos con noncuranza.
German si sentì mancare; la sua bambina, colei che aveva sempre difeso e protetto e per la quale avrebbe dato la vita era stata presa da quel mostro.
Lo sconvolgimento era tanto che riuscì solo a mormorare: - Perché? –
- Perché mi chiedi? Beh, forse non lo hai mai immaginato o saputo, ma tua figlia ha un potere enorme: è una dei Quattro. Acqua, per la precisione, il più potente elemento per la sua forza sovrumana che viene equilibrata dalla calma quando serve. -
- Lo so perché è il più potente, non c’è bisogno che me lo spieghi. – ribatté il fratello, prendendosi la testa tra le mani.
- Bene, io ho finito. Ci vediamo, paparino! – dopo aver detto questo, Carlos scomparve in una nube grigia e la lettera sul tavolo si disintegrò.
German, a quel punto, si accasciò sulla sedia, esausto e preoccupato e singhiozzò: - La mia bambina. –
 
- Popolo di Atlantide, abbiamo trovato i Quattro Salvatori! – urlò Camilla, con un sorriso raggiante e dirigendosi verso Violetta e Francesca, mentre tutto l’accampamento gioiva.
Intanto le due ragazze non capivano più nulla, stupite da quello che era appena successo. Diego intanto guardava sbalordito la mora, chiedendosi, senza sapere perché, la ragione di quel destino fatale.
- Che cosa sta succedendo? – provò a chiedere Violetta, sovrastando il clamore circostante.
- Voi fate parte dei Quattro, siete coloro che ci salveranno! – gridò loro un’elfa dai capelli nero corvino.
- Si, questo lo abbiamo capito, ma chi sono i Quattro? – chiese Francesca.
- Sono i Salvatori, i Governatori degli Elementi. – spiegò dolcemente Camilla, arrivata al loro fianco.
- Ma questo è impossibile, surreale! – rispose l’altra.
- Sembra di essere in un romanzo fantasy. – confermò la bionda, scuotendo la mano davanti allo sguardo corrucciato del capo dei ribelli.
- Ragazze, vi spiegheremo tutto dopo, ora dovete riposarvi. – la rossa fischiò e due soldati apparvero prendendo e fecero cenno alle nuove arrivate di seguirli.
Ma Violetta chiese, indicando davanti a sé: - E Diego? Che ne sarà di lui? –
Camilla si voltò e fissò il ragazzo, rabbiosa, prima di domandare a denti stretti: - Lo conosci? –
- Certo che lo conosco! È il mio migliore amico. -
La ribelle ebbe un sussulto, poi disse: - Tranquilla, al tuo amico non succederà niente di niente. –
Poi le ragazze vennero trascinate via, seguite da una folla osannante e con un’espressione stupita e sconvolta impressa sul volto.
Appena si furono allontanati, Camilla prese Diego per un braccio e lo trascinò fino a una tenda più grande delle altre e, appena entrò, sbatté il ragazzo al muro, puntandogli un coltello alla gola.
- Che cosa ci fai qui? – sibilò.
- Perché te lo dovrei dire? –
- Perché sono io quella che ha il coltello e io quella che può ucciderti in meno di un battito di ciglia, quindi farai meglio a parlare. –
- Almeno fammi respirare. – Camilla lasciò Diego, il quale si riversò a terra, annaspando.
- Muoviti e non fare scene. – il volto della ragazza era una maschera di ferro.
Lui si rimise in piedi e disse, sorridendo: - Ciao, Cami, come stai? –
- Come stai un corno, Casal, dimmi immediatamente perché ti trovi qui e perché quella ragazza ti conosce. -
- Dai, Cami non ci vediamo da tre anni che non ci vediamo e mi tratti così. – disse, avvicinandosi alla ragazza.
- Non toccarmi! – lo respinse lei, allontanandosi. – Voglio solo sapere quello che ti ho chiesto! –
Sul volto del ragazzo si formò un ghigno: - Segreti di stato. – si sedette, poi continuò a parlare. – Vedo che ora sei il capo. Cosa è successo a tuo padre? –
- Lo so che mi fai questa domanda solo per farmi soffrire e che conosci già la risposta! -
- Ok, ho capito l’antifona, non ti chiederò niente. Ma vedo che qui ti rispettano. –
- Si, ma nessuno rispetterà te appena sapranno chi sei. –
Diego si alzò e si diresse verso la ragazza, che questa volta indietreggiò fino a trovarsi racchiusa tra la colonna che teneva la tenda e il ragazzo.
- E da chi lo sapranno, da te forse? – le sussurrò ad un orecchio il moro.
- Si, da me. – ribatté la ragazza.
- Non lo farai – ormai i loro visi erano a pochi centimetri l’uno dall’altro; Camilla non ebbe il tempo di ribattere che si ritrovò coinvolta in un bacio pieno di trasporto e passione. Sentiva le labbra del ragazzo muoversi velocemente e con frenesia sulle sue e non poté fare a meno di rispondere.
Schiuse la bocca e la lingua sua e del partner si scontrarono, per poi mettersi a rincorrersi, a toccarsi, ad amarsi mentre lei assaporava quel sapore di cannella tanto amato quanto proibito.
Lei sapeva che l’altro non l’amava, che non la ricambiava e che l’aveva soltanto usata ma era impossibile staccarsi da quella fonte di passione che era Diego. Lui era stato il suo primo amore, e lei sentiva ancora qualcosa per lui.
Senza sapere cosa stava facendo, poggiò le mani sulle spalle del ragazzo mentre lui le cingeva la vita e dentro di sé gongolava di soddisfazione.
La sinistra di Camilla si posò sul suo viso, sfiorando quel principio di barba che denotava la trasformazione in un uomo, mentre il bacio continuava.
Alla fine, fu lui il primo a staccarsi, ed entrambi ansimarono, senza fiato e con il cuore che batteva a mille, i nasi e le fronti congiunti.
- Perché lo hai fatto? – chiese la ragazza dopo pochi secondi.
- Però ti è piaciuto a quanto pare. – mormorò Diego.
Camilla trattenne un sorriso. – Un po’, ma so che era sincero solo da parte mia. – si stupì e allo stesso tempo si compiacque delle sue stesse parole, ma improvvisamente voleva andarsene, uscire dalla tenda e dimenticare tutto, ma c’era ancora il corpo dell’altro che la bloccava.
- Come puoi dire questo. -
- L’ho sentito, ma questo è servito solo da conferma a quello che sapevo già. –
- Ancora con quella storia che ti ho usata. È una cavolata, Camilla. – uno sbuffo, un respiro.
- A parte quello, Diego, ho visto come guardavi una dei Quattro. – era doloroso da ammettere, ma era vero.
- Quale, quella che ti ha detto che sono il suo migliore amico? Di sicuro no. –
- Intendo l’altra, idiota. – disse lei, esasperata.
Diego rimase stupito. Come poteva pensare, Camilla, che a lui piaceva Francesca; ok, era una bella ragazza, aveva uno sguardo magnetico, si sentiva legato a lei e ci era rimasto male quando aveva scoperto che era una dei Quattro, ma d’altronde la conosceva solo da un’ora ed era un Nemico.
- Non dire cazzate. – rispose.
- E allora chi ti piace? – domandò Camilla, cercando di prendere tempo e trovare un modo per divincolarsi.
- Nessuno. – la ragazza sorrise nel vedere che il cervello del suo ex era ancora paragonabile a quello di un girino.
- Allora…. perché mi hai baciata?! – gridò, per poi dare un calcio nelle costole di Diego che, sorpreso dal colpo inaspettato, cadde a terra.
La rossa si avventò su di lui e gli disse: - Dammi un solo motivo per cui non dovrei farti fuori. –
- Perché mi ami? – tentò Diego, ricevendo in cambio un pugno alla bocca dello stomaco.
- Ok, scusa. – mormorò, sofferente – Allora fallo per Violetta, la mia migliore amica. Non credo che sarebbe molto felice di collaborare se uccidessi una delle persone a cui tiene di più. – con soddisfazione vide che l’esitazione del capo dei ribelli, che poco dopo gli tese una mano e lo fece rialzare per poi bloccargli le mani dietro la schiena e portarlo fuori dalla tenda.
Così raggiunsero un carro dove c’erano due uomini armati con la divisa rossa e gialla che ad un cenno della ragazza agguantarono il prigioniero e lo trascinarono sul carro.
Prima di andarsene, Camilla urlò: - Spero che tu ti troverai bene qui, Dieguito. Alla prossima. – detto questo, girò i tacchi e si incamminò verso la tenda dei loro ospiti con ancora il sapore del bacio sulle labbra.
 
Violetta si sistemò sulla branda, con la testa che le scoppiava per le troppe informazioni nuove e con gli arti che le dolevano.
Non riusciva a trovare nessun senso logico in quello che era appena successo, doveva essere per forza un sogno, anzi un incubo.
Però, nonostante la testa le dicesse che era tutto un’invenzione del suo subconscio, il resto del corpo la smentiva: lei sapeva quello che aveva fatto, aveva sentito una forza strana scorrerle nelle vene come adrenalina e percepiva ancora su di se il peso di quella potente magia che aveva compiuto.
- Magia! – disse a voce alta – non esiste la magia. È solo un’invenzione e tutto questo è solo un’illusione. Adesso mi sveglierò e mi ritroverò a casa con mio padre e con Diego. -
- Non credo che questo sia un sogno. – ribatté una voce alle sue spalle. Violetta si girò e vide quella ragazza dai capelli rossi che aveva già individuato prima come un’autorità, o comunque una con un incarico importante. Tra le braccia aveva un fagotto.
- Come puoi dire questo? Magari anche tu sei un’invenzione della mia testa. – la sua voce era tesa come una corda di violino, quella lì la metteva in soggezione.
- So che hai paura. – rispose la rossa, come se le avesse letto nei pensieri. – Ma non devi averne, noi non vogliamo farti del male. Io posso comprendere la tua diffidenza, sono la prima a dubitare degli sconosciuti. –
- Che cosa è successo a Diego? – chiese Violetta. Vide l’altra irrigidirsi di colpo e rimanere così per pochi secondi, per poi rilassarsi e scuotere la testa, facendo danzare i suoi lunghi capelli rossi.
- Al tuo amico non è stato fatto niente, ma è tenuto sotto sorveglianza per precauzione. – Camilla notò che la bionda strinse le labbra violentemente e serrò i pugni, in un’espressione di ferocia e rimase a fissarla così. Poteva sentire la sua rabbia e la sua apprensione per “l’amico”. Così, alla fine, le chiese: - Sei sicura di poterti fidare di lui? –
Violetta annuì, certa di quello che stava dicendo: - Si, lui è l’unica persona che mi ha sempre capita e sostenuta e l’ultima cosa che vorrei è perderlo, quindi attenta. – il suo sguardo si era fatto minaccioso.
- Bene, allora non c’è altro da dire, Salvatrice. Ti dico solo di stare molto attenta alle persone che frequenti, ma ricordati che questo è un consiglio. – il suo tono era caldo e fraterno, ma Violetta colse una nota di ostilità.
A quel punto, la rossa tirò un sospiro e poggiò a terra il fagotto, poi concluse: - Un’ultima cosa: qui ci sono vestiti puliti, che ti raccomando di mettere. Tra pochi minuti il mio secondo verrà a prenderti e noi ti daremo le risposte che sicuramente vuoi. A dopo. – detto questo, girò i tacchi e se ne andò.
Violetta guardò il fagotto ai suoi piedi, si chinò, lo prese e lo aprì e dentro vi trovò questo: una tunica blu oceano che sfumava a poco a poco in un azzurro più chiaro verso l’orlo e al centro vi era un occhio nero come le profondità del mare che la scrutava.
La ragazza la prese e si spogliò, poi si mise il vestito, titubante, ma vide che quest’ultimo le stava a pennello, quasi fosse stato fatto esclusivamente per lei.
Si lisciò la veste e scoprì che essa scaturiva un profumo di salsedine dolce e salmastro al tempo stesso e lei non poté fare altro che chiudere gli occhi e pensare a quando lei e sua madre andavano sulla spiaggia a raccogliere conchiglie.
Sorrise dolcemente al ricordo della sua gioia e della libertà che provava quando correva a piedi nudi nella sabbia e della sua serenità quando la madre prendeva la chitarra e si metteva a cantare o a creare un sottofondo musicale alle sue storie.
I suoi dolci ricordi furono interrotti dall’entrata nella tenda di una persona inaspettata che attirò la sua attenzione: era un ragazzo alto e magro, ma abbastanza muscoloso e aveva corti capelli castani che finivano a formare un ciuffo all’insù; ma la cosa che la colpì di più furono gli occhi, verdi come i prati fioriti ed espressivi, la incantarono subito e dentro di lei si scatenò un miscuglio di emozioni difficili da spiegare.
Dal canto suo, Leon pensava di non aver mai visto ragazza più bella di quella e di fronte a quell’apparizione non sapeva cosa dire, non voleva balbettare davanti a lei.
Fu la ragazza a rompere il silenzio: - Tu… tu devi essere il… secondo. – deglutì rumorosamente.
Il ragazzo ebbe un fremito, come se si stesse risvegliando da un sogno, e rispose: - Si, sono Leon. Sono incaricato di portarti alla riunione che si terrà tra poco. –
Si inchinò al suo cospetto, le prese la mano e gliela baciò e a quel contatto Violetta fu scossa da un brivido.
- Ok, Leon, io sono pronta. – “ Con te sarei pronta ad andare ovunque” si ritrovò invece a pensare.
- Molto bene; da questa parte allora. – il ragazzo aprì la tenda e fece cenno all’altra di passare, cosa che lei fece. Si avviò così alla “riunione”.
 
- Quanto manca? – chiese Ludmilla, impaziente.
- Poco, sta calma. – le rispose Nata, esasperata dal comportamento impertinente e presuntuoso dell’altra.
- Io non sto calma, qui si tratta della MIA VITA, cari miei. – lo squittio insolente della voce fece quasi saltare i nervi a Federico, che ribatté: - Guarda che si tratta anche della nostra vita, Ludmilla. –
- Della vostra vita non importa niente a nessuno, Federico, se è così che ti chiami. Io sono la proprietaria delle grandi industrie Ferro e voi… voi siete dei poveri orfanelli senza speranza. –
Federico vide che Nata stava per mettersi a piangere, e provò un impeto di rabbia verso colei che l’aveva fatta soffrire, lei era la sua migliore e unica amica e nessuno doveva osare a farla piangere, e sicuramente avrebbe urlato a Ludmilla se in quel momento non fosse apparso il capo di quella comunità.
- Che succede qui? – domandò, probabilmente aveva sentito qualcosa da fuori.
- Succede che io non voglio più aspettare, soprattutto insieme a questi plebei. – quella ragazza stava oltrepassando fin troppo il limite per i suoi gusti.
- State tranquilli, non voglio litigi qui. In quanto alla vostra impazienza, signorina Ferro, dovete aspettare ancora un po’, per che mancano le altre due ragazze e il mio secondo. –
In quel momento il lembo di pelle che faceva da porta si alzò e Federico vide entrare una ragazza alta e abbastanza magra, capelli neri e occhi dello stesso colore. Era la ragazza che aveva scatenato la tempesta, solo che adesso indossava un abito differente, più pulito: era lungo e di un bianco candido, ad una spalla e con degli strani segni all’altezza del cuore. A lui era sembrata molto bella, anche se aveva notato che anche Ludmilla non era niente male.
Poco dopo entrò l’altra ragazza, quella bionda (anche se non sembrava un biondo naturale, a parere di Federico) seguita dal braccio destro del capo dell’accampamento, che aveva capito che si chiamava Leon.
Dopo che anche questi ultimi si furono seduti sulle stuoie di tela sul pavimento, la rossa, il suo nome era Camilla, iniziò a parlare: - Allora ragazzi, iniziamo questo incontro. Lo so che siete stanchi e spaventati e che avete bisogno di risposte subito, ma prima dovete lasciarmi parlare e scoprirete tutto. Ditemi i vostri nomi però – così prese i nomi di tutti e li fece annotare a un uomo con una tavoletta e uno stilo in mano, dopodiché guardò Ludmilla, prese un respiro profondo e continuò: - Innanzitutto mi presento: anche se due o tre di voi lo sanno già, il mio nome è Camilla Torres e sono il capo di questa comunità di ribelli. Ma prima di arrivare a questo, vorrei dirvi dove siamo: questa è Atlantide, una piccola isola sperduta dove vivono elfi, folletti, fate (anche se loro preferiscono essere chiamate Lenes), nani, gnomi, maghi, streghe e umani.
Questa terra è stata conquistata non molto tempo fa da un popolo, il popolo dei Sarchatan, esseri metà umani e metà mostri che utilizzano la magia per scopi oscuri e malvagi, che stanno a poco a poco distruggendo Atlantide.
Ed ecco che ritorniamo a noi: questo accampamento è la sede temporanea della resistenza al potere, di cui io sono il capo.
Adesso vi starete cosa c’entrate voi in tutto questo. Bene, c’è una profezia che dice che arriveranno quattro ragazzi venuti dal cielo (con cielo si intende un altro mondo, sia chiaro) che avranno ognuno il potere di controllare un elemento, e così salveranno Atlantide. E questi Salvatori siete voi! –
- E come fate ad esserne sicuri? – domandò istintivamente Federico, facendo la domanda che tutti si stavano ponendo.
- Beh, di Violetta e Francesca (?) siamo sicure, visto che hanno scatenato la tempesta, mentre invece per quanto riguarda voi due – e indicò Federico e Ludmilla – ho notato che avete dei sogni, che noi chiamiamo Particolari, negli occhi e nell’atteggiamento: la signorina Ferro ha il temperamento focoso e gli occhi scintillanti di chi può dominare le fiamme, mentre invece Federico, giusto?, ha gli occhi di un colore tra il marrone e il verde ed ha un atteggiamento abbastanza calmo e riflessivo, ma con qualche terremoto interno, quindi vuol dire che controlla la terra. – Camilla finì di parlare e fissò i ragazzi: tutti quanti avevano un’espressione esterrefatta stampata in faccia e fece fatica a trattenere un sorriso.
- Q-quindi noi siamo… maghi? – riuscì a balbettare alla fine Francesca.
- Più o meno. – rispose la rossa.
- Ma è impossibile, è contro la logica! – sbottò Violetta.
- Perché pensi solo alla logica, e non ti lasci trasportare dalla fantasia. Vedrai che tutto ti sembrerà reale. – intervenne Leon, guardandola fissa negli occhi.
La ragazza deglutì rumorosamente davanti a quello sguardo intenso e provò a farlo, a immaginare senza la logica, ma era difficile, quasi impossibile.
- Bene, se non avete domande vi consiglio dia andare a dormire. Seguite le guardie, vi porteranno alle vostre tende. -
Tutti uscirono velocemente; Violetta stava per fare altrettanto quando sentì il braccio avvolto in una stretta forte e dolce al tempo stesso, e quando si girò vide che era Leon.
- Tranquilla se non riesci a staccarti dalla logica e a pensare diversamente, con il tempo ci riuscirai. – disse, facendo un sorriso a trentadue denti (bianchi e perfetti tra l’altro).
- Grazie. – riuscì solo a rispondere lei.
- Di niente. Ascolta, che ne dici se un giorno parliamo e mi spieghi cosa sono i romanzi fantasy. – a quella domanda risero tutti e due.
Poi Leon la lasciò andare e lei sia incamminò dietro agli altri, mentre pensava al bel ragazzo dagli occhi verdi. Dai, questo viaggio inaspettato non era un completo disastro.
 
Angolo dell’autrice: Signore e signori, suonate le trombe, rullate i tamburi e ballate la macarena Miguel (ok questa era brutta).
Perché tutto questo? Perché stranamente sono riuscita a pubblicare prima del solito *si accascia sulla sedia*
Allora, passiamo subito al capitolo: diciamo che l’atmosfera si fa bollente per molti dei nostri personaggi, partendo da Camilla e Diego: ora avete capito cosa c’era sotto? Diciamo che questa idea non l’ho elaborata da sola, ma grazie a una piccola ispirazione che mi ha dato cande_la mia vita nelle recensioni, dicendo che le piaceva la coppia camiXdiego.
Per la scena del bacio, non so come mi è venuta, sapete io non sono il massimo del romanticismo, così mi sono ispirata ad altre fan fiction e ai baci di Shadowhunters XD.
Ma la cosa che più mi interessa è l’incontro della…. LEONETTA! *balla in modo osceno* Io non vedevo l’ora ve lo giuro di farli incontrare e spero che tutto questo vi sia piaciuto, perché ci ho messo anima e corpo per scriverlo (ma chi non lo farebbe per la Leonetta).
Ok, per finire, ormai avete scoperto tutto quello che c’era da scoprire su Atlantide, le sue leggende e i suoi Salvatori, quindi non ci sarà un capitolo “Scoperte pt 3” (oggi sono davvero pessima, cavolo!).
Bene, spero che il capitolo vi sia piaciuto, ditemi cosa ne pensate, accetto anche critiche e consigli.
Un bacione da Chicca2501.
 
 

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Capitolo 5
*** Sentimientos ***


5
 
Sentimientos
 
Nata camminava da sola tra le tende dell’accampamento; era difficile dire a cosa stava pensando, era sempre stata brava a nascondere i suoi sentimenti alle persone e in un certo senso ne andava fiera.
Ma adesso avrebbe voluto non saperlo fare, avrebbe voluto esternare i suoi sentimenti e dare libero sfogo ai suoi pensieri. La tristezza e la solitudine le attanagliavano le viscere, già non aveva mai avuto quasi niente, ma ora aveva perso tutto e questo non le piaceva.
Perché Federico, perché lui e non qualunque altra persona in quel cazzo di mondo? A causa di quei suoi strani poteri magici spaventosi si stava allontanando da lui e non poteva farci niente.
Lei non contava niente per lui, ormai; il suo migliore amico se ne era andato per sempre.
Si accasciò in un angolo tra due barili e iniziò a piangere, cosa che non faceva da quando i suoi erano morti in quel crollo e lei era stata costretta a frequentare l’orfanotrofio.
All’improvviso, qualcuno le posò una mano sulla spalla. La ragazza alzò lo sguardo e vide in piedi davanti a lei un ragazzo basso, con i capelli tagliati molto corti e gli occhi neri, che la guardava con compassione, un sentimento che nessuno aveva mai provato per lei, al massimo tutti gli altri provavano pietà.
Forse avrebbe dovuto scacciare via quella mano e andarsene di corsa, ma non lo fece e rimase a fissare l’altro, quasi fosse incuriosita dalla sua fisionomia.
- Perché piangi, fanciulla? – le chiese d’un tratto lui, interrompendo il silenzio.
- Perché sono triste, non lo vedi? – forse avrebbe dovuto essere più gentile visto che lui era l’unica persona che si era avvicinata, ma la diffidenza era un tratto irrimediabile del suo carattere.
- E potrei sapere il motivo per cui una ragazza così graziosa dovrebbe essere triste? – la sua voce denotava che non era stato scalfito minimamente dall’ostilità di Nata, ma che aveva aumentato la sua voglia di aiutarla.
- Perché tutto va male, signore. – tirò su col naso, ormai rosso.
- Per favore, potrei essere più piccolo di te. Chiamami semplicemente Maxi. –
- È un bel nome. – sussurrò la ragazza.
- Grazie, ma credo che il tuo lo sia ancora di più, quindi perché non me lo dici? – rispose Maxi, mentre si sedeva.
- Nata, mi chiamo Nata. –
- Lo vedi che avevo ragione? Allora, Nata, adesso me lo vuoi dire il motivo della tua angoscia? – domandò il ragazzo.
Per tutta risposta, Nata poggiò la testa sulla spalla del ragazzo e ricominciò a singhiozzare. Sentì le braccia dell’altro che la avvolgevano rassicuranti, e che la testa di Maxi era appoggiata sulla sua.
Ricambiò l’abbraccio, lasciandosi andare veramente per la prima volta.
 
 
 - Sveglia, sveglia, principessa, che oggi è un altro giorno. – la secchiata di acqua fredda in faccia era la ciliegina sulla torta di quelle due settimane di risvegli strani.
Francesca si alzò di scatto, guardando male lo scocciatore.
- L’acqua ghiacciata, che tocco di classe; cosa c’è, avevi esaurito le idee geniali? – Diego ghignò e rise.
- Questo è un classico, Fran, e poi è il mio lavoro, e devo dire che mi piace tanto compierlo. –
Cavolo, poteva piacergli un po’ meno? Prima le trombe, poi il lancio dei piatti, le urla da scimmione, i massaggi troppo forti ecc.
La ragazza lo guardò male, possibile che Camilla non avesse compreso che il risveglio di determinate persone del campo non era un’occupazione adatta alla gente come Diego. Quel ragazzo che prima le sembrava così dolce e gentile, adesso si era trasformato in una peste e stava facendo cambiare anche lei, tramutando il suo carattere sensibile in uno ostile, almeno nei suoi confronti.
- Si, si, un classico; questa è però l’ultima volta che mi svegli in questi modi assurdi, ok? -
- E come dovrei svegliarti, mormorandoti parole d’amore, principessa. – le domandò lui, in risposta.
Potrebbe anche farlo, si ritrovò a pensare la ragazza, mentre guardava l’altro attentamente. Scosse la testa, disgustata, come poteva pensare cose del genere, doveva essere impazzita, e tanto anche! Diego per lei era meno di un amico, un conoscente fastidioso che si divertiva a tormentarla; non capiva come facesse Violetta ad essere la migliore amica di questo qui.
Ma ora che lo guardava meglio, lui era anche e oltremodo attraente e aveva fascino, questo lo doveva ammettere, e quell’aria da duro non le dispiaceva affatto, anche se era il contrario della sua personalità. Il suo sguardo si posò sulle sue labbra e sentì qualcosa dentro, un fremito.
BASTA FRANCESCA! Lui non ti piace! Si disse, poi guardò di nuovo Diego negli occhi e commentò: - Allora, vuoi uscire dalla mia tenda? –
- Guarda, ci sto riflettendo, visto che non mi dispiacerebbe vederti con un po’ meno abiti addosso….. – questo per Francesca era il colmo (come si permetteva quello str… strombolo), così fece qualcosa che non avrebbe mai pensato di fare: lo prese per il colletto della maglietta e lo portò fuori di peso, gettandolo poi a terra con un calcio, poi rientrò a cambiarsi.
Ne riuscì poco dopo, pulita e cambiata e si avviò a passo deciso verso il campo d’addestramento.
 
- Violetta, più precisione, forza! – la rimproverò Leon, esasperato.
- Ci sto provando! – ma quanto poteva essere palloso quel ragazzo?!
- Se affondi troppo la spada, poi perdi l’equilibrio e cadi a terra, quindi cerca di non sbilanciarti troppo. – il ragazzo guardò l’amica e vide che era stremata, così le sorrise e disse: - Dai, cinque minuti di pausa. –
Violetta si accasciò a terra, incurante del fatto che era finita nel bel mezzo del fango e si sdraiò, inspirando ed espirando.
Vide l’altro che si metteva affianco a lei e si girò per fare qualche commento sarcastico o altro, ma dovette fare il conto con quegli occhi verdi, che le fecero morire le parole in gola, come sempre; quel ragazzo aveva un grande potere su di lei, si sentiva quasi attratta da lui.
Dal canto suo, Leon non poteva fare meno di ripetere a se stesso quanto fosse bella quella ragazza. Di solito era lui quello che aveva le fanciulle ai suoi piedi fin dai tempi in cui viveva al villaggio, ma quella era diversa, non era come le altre che lo volevano solo per il suo aspetto fisico e che erano tutte troppo femminili; lei era forte, aggressiva, quasi selvaggia, un maschiaccio in poche parole, che non si scandalizzava all’ascoltare insulti, non si preoccupava se cadeva nel fango e nemmeno se mangiava come un bue, tanto rimaneva sempre magra.
Era perfetta, ma irraggiungibile. Lei era una dei Quattro, una Salvatrice, mentre lui era un semplice soldato, niente in confronto a lei.
- Allora, come stai adesso? – le chiese per interrompere quel silenzio imbarazzante.
- Meglio, ma ancora stanca. – rispose lei, sbuffando.
- Un giorno ti abituerai, sta tranquilla. –
- Guarda, credevo di essere abituata agli sforzi fisici, ma ora mi ricredo. – le uscì una risatina nervosa e subito si diede della stupida.
- Magari perché facevi qualcosa meno faticosa, no? –
- Beh, di sicuro non combattevo con le spade. –
- E cosa facevi? – Leon le si avvicinò, inconsapevolmente, ancora un po’.
- Io facevo… - si voltò per guardare meglio l’interlocutore, ma quando si accorse che era così vicino al suo corpo, si spostò ancora più vicino a lui.
I loro nasi adesso si sfioravano, le loro fronti erano congiunte e i loro respiri si mescolavano; Leon la attirò a sé istintivamente, facendo combaciare ancora di più i loro corpi; i visi erano sempre più vicini, Violetta inclinò la testa, le loro labbra erano a pochi centimetri di distanza…. quando una voce li interruppe.
- Che state facendo? – era la voce di Federico. Violetta e Leon si separarono velocemente e si rimisero in piedi, spazzolandosi i vestiti di pelle di camoscio.
- Ma non lo vedi, si stavano per baciare. – gli rispose Ludmilla, con una smorfia disgustata.
- Che stai dicendo?! – la rimproverò Violetta, guardandola male.
- Ciao ragazzi, che mi sono persa? – adesso arrivava pure Francesca.
- Leon e Violetta si stavano per baciare. – disse in tutta tranquillità Federico. La mora emise un fischio, mentre “l’accusata” si sbatteva una mano sulla fronte.
- Ragazzi, io devo andare, ho una riunione con Camilla. – certo, adesso anche Leon se la svignava. Infatti se ne andò con passo veloce.
- Adesso che se ne è andato raccontaci tutto! – squittì Ludmilla.
- Cos’è, ti sei trasformata da acida a romantica in due secondi? –
- No, lo dice solo perché così facendo, tu glielo diresti e lei ti elencherebbe i lati negativi. – ribatté Federico, scatenando le risate di tutti.
Tranne, ovviamente di Ludmilla, che se ne andò risentita verso la rastrelliera delle armi, seguita a ruota da Federico, che voleva allenarsi ( o, almeno, questo era quanto diceva lui).
Rimasero solo Violetta e Francesca, che si guardarono per alcuni secondi, prima che la mora dicesse: - Ascolta, Vilu, lo so che ancora non siamo molto amiche, ma ricordati che io sono qui se hai bisogno di me. – quelle parole provenivano dal cuore, e l’altra lo sapeva, perciò mormorò in risposta: - Grazie Fran. –
Dopodiché le si avvicinò e la abbracciò forte, subito contraccambiata dalla mora, che la strinse a se, godendo di quell’abbraccio.
Che strano, non si conoscevano da molto ma erano già unite da un forte legame, forse nella difficoltà due persone si possono unire più di quanto non avrebbero fatto in una situazione normale.
Le due amiche si staccarono e si sorrisero, poi si avviarono verso il poligono del tiro con l’arco.
Violetta odiava quell’arma non le si addiceva proprio, ci voleva troppa precisione e troppa grazia, cose di cui lei era quasi assolutamente priva. Invece, per Francesca, era il contrario: adorava l’arco, la sua flessibilità, la bellezza, e si sentiva soddisfatta nel vedere che anche lui andava d’accordo con lei, visto che poche volte sbagliava un colpo anche se lo maneggiava da poco.
- Fran, ti prego, basta! – protestò Violetta, le cui frecce erano sparse dappertutto tranne che nel bersaglio.
- Lo dici solo perché non lo sai usare. – sghignazzò Francesca mentre mirava e mandava la freccia a segno.
- Non proprio…. – cercò di difendersi la bionda, non riuscendo a trattenere un sorriso.
In quel momento suonò il corno che annunciava l’orario dei pasti: era ora di colazione.
- Un po’ tardino hanno suonato oggi, eh? – commentò divertita Violetta, anche se il suo stomaco iniziò a brontolare e a contrarsi per la fame.
- Già. – rispose semplicemente l’altra, guardando attentamente il sole, già a metà del suo cammino nel cielo. Secondo lei era successo qualcosa.
 
Riunione di emergenza?! Perché, si chiedeva Leon, strabiliato. In quelle settimane andava tutto bene, i Quattro erano felici e avevano iniziato ad apprendere l’arte del combattimento, quindi non capiva il motivo per cui era stato chiamato.
Entrò nella tenda di Camilla e la vide intenta a lucidare la sua spada, strofinando lo straccio soprattutto sugli intarsi in oro dell’elsa; a prima vista sembrava tutto normale, ma il ragazzo vide che l’amica si stava continuamente strusciando il piede sul polpaccio, cosa che faceva quando era nervosa e preoccupata.
Dopo pochi istanti, la rossa si accorse della sua presenza e alzò lo sguardo su di lui, un viso emaciato e con delle grandi borse sotto gli occhi; Leon girò la testa e vide il tavolo da lavoro coperto di carte e appunti, segno che Camilla non aveva dormito tutta la notte. Notò anche che sulla scrivania c’era anche una lettera e accanto la busta che la conteneva. Si avvicinò, sospettoso, e fissò la lettera e scoprì una cosa che gli fece raggelare il sangue: in fondo al pezzo di carta c’era il sigillo della Fiamma Nera.
Quasi si sentì mancare e sentì Camilla che prontamente lo confortava mettendogli una mano sulla spalla e abbracciandolo.
- Perché non me lo hai detto prima? – domandò Leon, la voce rotta dalla tensione.
- Non volevo svegliarti. – si scusò la rossa.
- Col cazzo “non volevo svegliarti”, Camilla. Questa era una cosa importante, lo capisci?! –
Camilla lo capiva, oh si che lo capiva. Infatti quella notte non aveva svegliato lui, ma un’altra persona…
* Flashback *
Camilla uscì dalla tenda in cui dormiva. Era notte fonda, quasi tutti stavano dormendo, a parte i soldati di vedetta.
Fortunatamente, non trovò ostacoli sul suo cammino, e poté raggiungere senza problemi il carretto; vi salì sopra e guardò il ragazzo addormentato: un tempo si sarebbe chinata su di lui e lo avrebbe risvegliato con parole dolci e qualche bacio a fior di labbra, ma adesso lo scosse soltanto, risvegliandolo dal suo sonno profondo.
- Mmm… Chi c’è? – chiese Diego, la voce impastata dal sonno.
- Sono io, imbecille. – ok, forse non era il tono più adatto alla situazione, ma era preoccupata e spaventata.
Il ragazzo si mise a sedere con uno sbadiglio di sottofondo e guardò male Camilla, prima di domandare: - Cosa vuoi? –
Per tutta risposta, la rossa le mise davanti al naso la lettera, e a quella vista il viso dell’altro sbiancò completamente. Faceva scivolare lo sguardo dal pezzo di carta alla ragazza, impaurito.
- Ti giuro che io non c’entro niente. – si difese infine, credendo che l’altra lo stesse incolpando.
- Guarda, io non volevo pensare che tu fossi ancora in combutta con loro, ma non posso fare a meno di sospettare. –
- Io non c’entro più niente con loro, me ne sono andato tre anni fa. –
- E perché sei ritornato? – lo sguardo di Camilla sembrava trapassargli l’anima, lo conosceva troppo bene.
- Non lo so, forse sono stato riportato qui involontariamente insieme a Violetta. –
La ragazza lo fissò attentamente, ma alla fine decise di credergli.
- Allora mi dovrai aiutare. -
- Come? – chiese Diego.
- Domani, al suono del corno della colazione, raduna tutti nella mia tenda e glielo dirò. –
- Ok, ci sto. – approvò il moro, sorridendo e tendendo la mano verso Camilla, che la strinse.
Poi, con l’agilità felina di cui era dotata, scese dal carro e tornò alla sua tenda, sperando di non aver sbagliato.
*Fine Flashback*
Nel mentre che Camilla e Leon discutevano, entrò Diego dicendo: - Camilla, stando arrivand… - non riuscì a finire la frase alla vista dell’altro ragazzo.
Leon provò la stessa sorpresa nel vedere lui, e un sentimento di rabbia nacque nel suo cuore ripensando a tutto quello che aveva fatto alla sua migliore amica e a lui.
- Cosa ci fai qui? – sibilò.
- La stessa domanda potrei fartela io, mezzosangue. – ghignò il moro.
- Non chiamarlo così! – intervenne Camilla. – Adesso c’è una cosa più importante di questo su cui discutere. –
In quel momento fecero il loro ingresso Violetta, Francesca, Ludmilla e Federico, seguiti timidamente da Nata.
- Perché ci hai convocato, Camilla? – domandò Violetta.
- C’è una cosa importante che devo dirvi. Sedetevi. –
 Tutti obbedirono all’istante.
- Ragazzi, ve lo voglio dire senza giri di parole. Oggi mi è arrivata una lettera, una lettera pericolosa. È da parte dei Sarchatan. Sanno che siete qui e stanno venendo a prendervi. –
 
 
Angolo dell’autrice: Cuccù, siete là. Ciao ragazzi e benvenuti a questo nuovo capitolo, io sono chicca2501 e sto imitando Favij.
Ho finito il capitolo giusto in questo momento e giuro che non vi annoierò con le mie inutili chiacchiere da babbana.
Questo capitolo si chiama Sentimientos (si dice così vero?) per un motivo, e cioè per i Leonettaaaaaaa.
Ok sto sclerando, ma li adoro troppo, lol XD.
In questo capitolo ho fatto anche una parte sotto il punto di vista di Nata, dove conosce Maxi (non adorate anche voi questa coppia?)
Poi i Diecesca, anche loro coppia ipermegasuperfantastica che stanno avendo dei bei momenti romantici.
Infine, il fatto di Leon e Diego che si conoscono e quello che quest’ultima abbia chiamato il nostro amore mezzosangue; e, come ciliegina, il fatto che arrivano i nemici.
Scusate per questa introduzione molto frettolosa e brutta, ma devo scappare.
Ditemi cosa ne pensate, accetto anche critiche e consigli.
Un bacione da Chicca2501

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Capitolo 6
*** Scontri ***


6
 
Scontri
 
- Cosa?! – esplosero in coro tutti i presenti. Camilla, annuì, incapace di fare altro.
Nella tenda crebbe il brusio, fino a diventare uno scontrarsi di urla che fracassavano i timpani del povero capo dei ribelli, che non sapeva più cosa dire o fare.
Lanciò uno sguardo a Leon, impegnato in una violenta discussione con Federico, così non la vide e continuò imperterrito a parlare.
L’unico che non aveva aperto bocca era Diego, appoggiato ad un palo di legno che guardava la scena con uno sguardo al tempo stesso divertito e preoccupato. La rossa guardò quest’ultimo, che colse al volo la richiesta e urlò con voce profonda e potente: - Silenzio! – tutti si voltarono verso di lui, zittiti da quell’unica parola pronunciata con autorità.
- Non vedete come vi state comportando? – proseguì il moro, abbassando di poco il tono – Sembrate dei bambini stupidi! Possibile che non capiate che ci vuole organizzazione ed ordine per sconfiggere i nemici? Camilla sta cercando di parlare, ma voi non lo capite, troppo occupati a gridare e a litigare! – con un gesto della mano indicò la ragazza nominata che si alzò in piedi e disse: - Grazie Diego. -
Si alzò e prese la parola: - Diego ha ragione. Si, per la prima volta nella vita l’ho detto, Diego ha ragione. Dobbiamo organizzarci, non discutere. Io non ho un piano, ma posso prendere dei provvedimenti nel mentre che ci rifletto. Però non dobbiamo perdere la calma, ok? Tornate tutti alle vostre occupazioni. – ordinò, per poi congedare tutti.
Uscì a sua volta dalla tenda, pronta a dire la verità al resto della comunità.
 
Maxi sputò l’acqua che stava bevendo, tanta era la sorpresa.
- Stai scherzando vero? – chiese, mentre tossiva e cercava di pulirsi la bocca con la manica della casacca.
- Purtroppo no, Maxi, i Sarchatan ci attaccano davvero. – dovette, purtroppo confermare Nata, spaventata dalla reazione del ragazzo.
Dopo la riunione era corsa subito da lui a dargli la cattiva notizia, aveva bisogno di conforto e protezione e l’unico che poteva farlo era Maxi.
Avevano passato tanti giorni insieme, raccontando le loro storie e scherzando, fino a quando non l’avevano chiamata.
Aveva scoperto molte cose su di lui: il suo vero nome era Maximiliano Ponte, ma si faceva chiamare Maxi perché deriva dalla parola maximum, ovvero massimo, che lo faceva sentire alto nonostante la sua statura ridotta (lei si era messa a ridere a crepapelle appena l’aveva sentito) e aveva vent’anni; suo padre era stato ucciso quando aveva dieci anni davanti ai suoi occhi dalle guardie dei Sarchatan, mentre sua madre era ancora viva e collaborava in quell’accampamento come curatrice; si era unito ai ribelli sei anni prima, spinto dalla brama di giustizia e di pace, infatti lui non era un guerriero, ma uno stratega, colui che analizzava le mosse del nemico e conduceva quelle degli alleati; ma, oltre a questo, lui era un appassionato di spettacoli, adorava recitare e quando era bambino aveva partecipato a varie rappresentazioni del suo villaggio, e uno studioso di insetti, perché lui credeva che anche creature tanto piccole meritassero di essere conosciute e apprezzate.
Nata era rimasta tutto il tempo ad ascoltare senza perdersi una parola, incantata da quel ragazzo così originale e allegro che le trasmetteva gaiezza e serenità, proprio come lo stava fissando ora, imbambolata.
- Oh, Nata, ci sei? – le domandò Maxi, muovendo una mano davanti agli occhi di lei.
La ragazza si scosse, come risvegliata da un sogno, e rispose: - Si, si ci sono. –
- Mi stavi ascoltando? -
- Si, ma mi sono persa l’ultima parte, visto che stavo pensando a t…. tutti i problemi che ci sono. – si era salvata per miracolo.
- Ok, ti ho chiesto cosa pensavo di fare gli altri. – replicò l’altro, poco convinto.
- Non lo so, dopo che Camilla ha dato la notizia tutti si sono messi a urlare e a discutere, ma, da quello che ho sentito, ho capito che Leon vuole passare subito all’azione, Francesca invece crede che sia meglio aspettare… non lo so, era un casino. – concluse Nata, prendendosi la testa tra le mani.
- Calmati, Nata, io sono… - cercò di dire Maxi, prendendo tra l’indice e il pollice il mento.
- No, non dirmi che sei sicuro di cose che non puoi sapere. – lo interruppe la ragazza, guardandolo dritto negli occhi.
Aveva tremendamente ragione, non lo sapeva e non poteva rassicurarla. Questa consapevolezza lo colpì improvvisamente e Maxi si accasciò sulla sedia.
 
Leon passeggiava per il margine del bosco, immerso nei suoi pensieri più profondi; la preoccupazione lo mordeva dentro di sé, non poteva capacitarsi del pericolo incombente sulle loro teste, come se fosse l’ascia di un boia.
Un boia sadico e manipolatore, pensò il ragazzo.
Avevano già combattuto altre battaglie contro i Sarchatan, ma erano sempre brevi e con pochi morti, piccole incursioni del nemico che voleva dimostrare chi aveva il coltello dalla parte del manico, come si suol dire.
Ma lui sapeva che adesso non c’entrava più la lotta per il potere, ma qualcosa di più grande, più misterioso e importante della semplice supremazia; qui c’entrava in gioco l’intero destino di Atlantide, la sua vita o la sua distruzione.
Certo, avevano i Quattro dalla loro parte, ma per quanto tempo ancora? Vista la netta superiorità numerica e di armi del nemico, loro avrebbero potuti essere presi, portati via e soggiogati alla magia nera.
L’immagine di Violetta catturata dai soldati nemici, picchiata, torturata e infine resa strumento grazie a un maleficio si impossessò violentemente dei suoi pensieri e, per quanto cercasse di scacciarla, essa tornava prepotentemente.
- Ehi, mezzosangue! – la voce che tanto odiava sin da quando era bambino lo fece voltare, lo sguardo di fuoco.
- Cosa vuoi, Casal? – chiese con tutta la calma che aveva, la quale si sbriciolò in meno di due secondi davanti al ghigno del moro.
- Solo sfotterti. – il ghigno si allargò
- Il tuo hobby preferito. Sai, non capisco perché Camilla ti abbia accettato qui, e soprattutto perché me lo abbia tenuto nascosto. –
- Te lo ha tenuto nascosto perché non voleva creare scompiglio, e d’altronde, nemmeno io sapevo che fossi qua. Per quanto riguarda il fatto che mi abbia fatto restare, beh, ho i miei metodi per convincerla. –
Un pensiero si fece strada nella mente di Leon, un’immagine che….
- Non pensarci nemmeno, non l’ho toccata. – si difese Diego, quasi gli avesse letto nella mente.
- Da te posso aspettarmi di tutto, Casal. Sei un viscido, senza cuore, strappa anima.. – la voce gli si alzò sempre di più, fino a che non si ritrovò ad urlare.
- Io invece non mi sarei aspettato quel comportamento sconsiderato di tua madre, quella notte di 21 anni fa… -
Quello era troppo per Leon, così tirò fuori la spada, e l’avrebbe conficcata nel petto di quel bastardo, se qualcuno non si fosse messo tra loro.
- Basta, che state facendo?! – urlò Violetta.
Il ragazzo dagli occhi verdi abbassò l’arma davanti a lei, ma continuò a guardare ferocemente l’avversario, che ricambiò il suo sguardo.
- Violetta, che ci fai qui? – domandò Diego, voltandosi verso la ragazza.
- Sono venuta a cercarvi e, da quanto ho visto, sono arrivata in tempo. –
- Perché ci cercavi? – chiese Leon.
- Camilla vi richiede entrambi al comando. –
- Bene, io mi inizio ad avviare. Ma non finisce qui, mezzosangue. – sentenziò Diego, prima di andarsene via correndo.
- Perché ti ha chiamato così? – la domanda di Violetta fece sussultare il ragazzo rimasto.
- Niente, Vilu. – rispose, avviandosi.
La ragazza lo rincorse: - Non dirmi che non è niente Leon, perché non è vero! – disse, fermandosi davanti al fuggiasco e bloccandogli la strada.
Leon si vide costretto a fare un passo indietro.
- Adesso me lo dirai, che tu lo voglia o no. -
Il ragazzo sospirò e chinò la testa, impotente di fronte alla fermezza dell’altra. Poi si ricordò del punto debole della ragazza, ovvero l’ingenuità. Era per questo che la batteva sempre nei loro duelli, per l’ingenuità.
- Ok, te lo dirò. – si arrese. Violetta abbassò la guardia, e quello fu l’attimo giusto per darle una piccola spinta e scappare verso l’accampamento.
 
- Ludmilla, aspetta! – gridò Federico.
- Non abbiamo niente di cui parlare, Federico! – sbottò la bionda, infastidita.
- Io non voglio perderti! – la supplicò il ragazzo.
- No, Federico, lasciami in pace! – detto questo, Ludmilla se ne andò. L’ultima cosa che Federico vide fu la splendente chioma dorata scossa dal vento dell’inverno.
Federico si svegliò di colpo; che cavolo aveva appena sognato? Lui che soffriva per Ludmilla, stava scherzando per caso!
D’un tratto sentì una presenza accanto a lui, un corpo caldo che si muoveva morbido contro il suo fianco. Si voltò di scatto e vide quello che non avrebbe mai pensato di vedere: stesa su un fianco alla sua destra c’era Ludmilla. Federico notò che era però sembrava diversa: il sonno le toglieva l’aria presuntuosa che aveva da sveglia e la addolciva; i capelli le ricadevano disordinatamente sulla schiena, una cascata dorata che la avvolgeva come una coperta di seta; le sue labbra erano distese in un tenero sorriso, forse stava sognando qualcosa di bello. Federico non riusciva a staccare gli occhi dalla sua figura, se la stava mangiando con lo sguardo senza capirlo.
D’un tratto, Ludmilla schiuse le palpebre e la dolce atmosfera da favola finì.
La ragazza emise un piccolo urletto e si sedette sulla branda, lo sguardo chino, i capelli che ora le coprivano il viso, rosso per la vergogna.
D’un tratto, inspiegabilmente, si mise a piangere, un pianto silenzioso, ma al contempo angoscioso, il primo della sua vita.
Le lacrime le scorrevano calde e le bagnavano le guance, il mento e poi ricadevano sul vestito di lana grezza che le avevano rifilato per dormire.
Il flusso d’acqua si interruppe quando Federico, spinto da un sentimento strano ma piacevole, le prese due lacrime con le dita, e prese ad asciugarle tutte a poco a poco.
Quando ebbe finito sussurrò dolcemente: - Perché sei qui? –
La ragazza prese un respiro profondo, cercando di calmarsi e rispose, balbettando in mezzo ai singhiozzi: - E- era un b- brutto sogno, i- io avevo b- bisogno di q- qualcuno con cui d- dormire…. –
- Che cosa hai sognato? – le domandò il ragazzo, avvolgendola tra le sue braccia.
- Città in fiamme, fuoco che divorava ogni casa, la gente che scappava disperata in cerca di un aiuto che non sarebbe mai arrivato. Ma la cosa peggiore è che la causa di tutto questo ero io, perché nel sogno io stavo su un’altura a guardare quello scempio, ed ero contenta di questo. – disse tutto d’un fiato la bionda.
- Ma anche tu ti consideri… cattiva, diciamo così. – cercò di rassicurarla Federico.
- Si, ma io non faccio tutto questo! Sembrerò anche senza cuore, ma anche io ho dei sentimenti e dei principi. –
- Allora non lo so, ma non è tempo di decifrare sogni, ma di dormire. – sdrammatizzò Federico, che poi si distese di nuovo sulla branda, imitato subito da Ludmilla.
E si addormentarono così, abbracciati l’uno all’altro, uniti da due sogni profetici.
 
- Diego! – lo chiamò una voce. Il ragazzo si girò sorpreso, e vide Maxi, lo stratega, che gli andava incontro sorpreso.
- Ciao, Maxi. – sospirò Diego, pronto a riceversi un’altra scenata sul fatto che lui non doveva essere là e bla, bla, bla.
- Che ci fai qua? – ecco, lo sapeva. – Camilla sa che sei qui? –
- No, guarda, pensavo di venirle per farle una sorpresa di compleanno. Certo che lo sa! – commentò sarcastico il più alto.
- Beh, mi sorprendeva solamente che non ti avesse ancora ucciso. – ribatté Maxi, sorridendo.
A quel punto, sorprendentemente, si abbracciarono. Fu un abbraccio sentito, sincero, erano sempre stati migliori amici e non si vedevano da tanti anni, rivedersi era una delle cose più belle che potevano accadere.
Sciolsero l’abbraccio dopo pochi secondi e iniziarono a camminare in mezzo alle tende, mentre chiacchieravano.
- Allora, perché sei qui? – chiese improvvisamente Maxi, mentre passavano davanti alla cucina.
Diego sentì il dolce profumo dello stufato di patate che tanto adorava e colse al volo l’occasione.
- Mmh, che buon profumino, mi sta venendo una fame…. – disse, cercando di sviare il discorso.
- Non cambiare argomento, dai a me puoi dirlo. –
Il ragazzo si voltò verso l’amico, l’unico che l’avesse mai appoggiato veramente e quello che aveva preso le sue difese quando era stato accusato di alto tradimento, fino a quando aveva potuto. Doveva dirgli qualcosa, ovviamente non la verità, ma una scusa.
- Sono finito nel vortice gravitazionale quando Violetta è stata richiamata qua. -
- Cosa, tu conosci Violetta?! –
- Si, quando me ne sono andato da questa terra per cambiare aria, il Portale mi ha trasportato da lei e sono diventato il suo migliore amico. È una ragazza molto simpatica, sai? – scusa decente.
- Si, sembra una persona a posto, e so che piace a Leon. – commentò il bassino, alzando un paio di volte le sopracciglia e guardandolo con un sorriso stupido.
- Sul se… - Diego non riuscì a finire la frase che vide Camilla e Leon correre verso di loro.
- Che succede, Cami? – domandò Maxi, preoccupato.
La rossa prese un respiro profondo, prima di annunciare: - I Sarchatan ci stanno attaccando! –
 
 
Angolo dell’autrice: Salve a tutti, come va? Io sto bene, anche se so che non vi interessa più di tanto, lol ( oh no, sto diventando come Bibble!).
Bando alle ciance, belle fanciulle, (o bei fanciulli, dipende), come vi è sembrato il capitolo. A me sinceramente non sembra chissà cosa, ma non ho in mente molto altro per farlo continuare, quindi vi dovrete accontentare.
Qui c’è abbastanza dolcezza, e, anche se mi dispiace, poche scene Leonettose, ma devo far parlare anche gli altri personaggi.
Poi, come avrete capito, Leon non è proprio quello che sembra. Secondo voi, la metà del sangue non umano a quale specie appartiene? Chissà se indovinate…
Ok, ora vado, spero che il capitolo vi sia piaciuto, ditemi cosa ne pensate, accetto anche critiche e consigli.
Un bacione da Chicca2501

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Capitolo 7
*** Battaglie ***


7
 
Battaglie
 
Gente che correva in preda al panico, generali che urlavano ordini ai soldati e ufficiali che intimavano alle persone di stare calme e di nascondersi.
Tutto quel fracasso era raddoppiato nell’armeria, dove i combattenti si stavano preparando all’imminente battaglia.
Francesca aveva appena finito di allacciarsi i gambali di cuoio e si avviò verso la parte di sala dove erano riposti gli archi; mentre ne prendeva uno e ne saggiava la potenza  e la flessibilità come le avevano insegnato, si chiese se avesse paura; la risposta fu quasi immediata: no. Non capiva il perché ma non si sentiva spaventata, non le tremavano le gambe e avanzava con sicurezza. Si sentì, per una volta, fiera di se stessa.
Alla fine trovò un arco che sembrava rispondere ai requisiti che chiedeva e se lo mise in spalla insieme a una faretra con delle frecce.
Si voltò e vide Violetta ancora alle prese con l’armatura e bianca in viso, si vedeva che era terrorizzata. Francesca sorrise, quasi provasse compassione per la sua migliore amica di cui era infinitamente più adulta.
- Come fai a non avere paura? – chiese ad un tratto la bionda, interrompendo quello che stava facendo.
- In che senso? –
- Come fai ad essere così tranquilla pur sapendo quello che succederà tra poco e che molte persone moriranno, magari alcune per cause nostra? – al pensiero di diventare un’assassina rabbrividì.
- Penso che lo faccio per proteggere le persone a cui amo. Io avrei ucciso l’uomo che ha ammazzato mio fratello se avessi potuto. Tanto qualcuno dovrà morire, quindi è meglio che sia uno di loro piuttosto che uno di noi. – si stupì delle sue stesse parole, così fredde e crudeli, parole che le erano uscite spontaneamente e così diverse da quelle che avrebbe pronunciato solo due settimane prima.
Saggiò ancora una volta l’arco, come per darsi sicurezza mentre Violetta sceglieva una spada, che trovò in poco tempo e uscirono.
I rumori, prima ovattati e abbassati dalle mura spesse dell’armeria e dal furore dei soldati che erano con loro, le colpirono con violenza, così come la luce del sole, oscuro spettatore di quello che stava per avvenire.
Le ragazze raggiunsero gli altri videro, stupite, Camilla che, a dorso di un purosangue nero, si dirigeva verso un’altra persona il cui volto era oscurato dalle’elmo.
Che cosa voleva fare?
 
Camilla doveva tentare il tutto e per tutto prima di mandare i suoi a combattere. Di solito non voleva fare trattative con il nemico, ma attaccava subito, ma qui sapeva che i Sarchatan combattevano per uccidere e non voleva trasformare i soldati in carne da macello.
Così saltò sul suo cavallo e trottò fino ai confini dell’accampamento dove si erano radunati tutti gli uomini e urlò: - Vieni qui, vile Sarchatan! – nessuna risposta. Camilla capì che bisognava giocare la carta della provocazione: - Cosa c’è, hai così paura di mostrarti a una ragazza di venti anni?! Vieni fuori, forza! Non credo che tu sia così vecchio e stanco, ma questa esitazione me lo fa credere. – sentiva su di sé gli sguardi confusi della gente che non capiva perché stesse parlando in quel modo.
All’improvviso, la rossa vide all’orizzonte un uomo, il quale marciava a piedi e impugnava uno scudo e una spada entrambi intarsiati d’oro e con l’emblema della fiamma nera.
Era solo, ma il capo dei ribelli sapeva che non bisognava sottovalutarlo, ma anche che non doveva mostrarsi debole.
Si avvicinò con fare disinvolto all’avversario, il quale la guardò con disprezzo e disse: - Cosa c’è, bambina, vieni a cavallo perché hai paura di inciampare? –
- Nel proprio cammino si può inciampare, l’importante è sapersi rialzare. – ribatté la rossa. – Ma se vuoi proprio che sia alla tua altezza, allora accetto questa richiesta. – dopodiché, con un agile balzo, smontò dal purosangue e si ritrovò faccia a faccia con il suo nemico di sempre, e notò con soddisfazione che, rispetto all’ultima battaglia, lei lo aveva quasi raggiunto in altezza.
- Perché sorridi, bambina? – chiese il Sarchatan.
- Sto notando che il tempo non è clemente con te. – osservò la ragazza, scatenando le risatine sommesse dei soldati dietro di lei.
- Bando alle ciance rossa; dammi i Quattro! – ordinò l’uomo, infuriato.
- E chi ti dice che ce li ho io? –
- Primo: perché ho i miei informatori; secondo: non avresti preparato i tuoi uomini alla difesa se non fosse stato per proteggere qualcosa di importante. –
- Le loro vite sono importanti, lottano per le loro esistenze. –
- Le loro vite valgono meno di quella di uno scarafaggio. Ma me le prenderò comunque. – disse, mettendosi in posizione d’attacco.
Camilla lo seguì in quel gesto, guardandolo dritto negli occhi: - Prova a prendertele. – sibilò
- Non ci vorrà molto. – sghignazzò l’altro, dopodiché fischiò e apparvero dal nulla le prime file dell’esercito. Come hanno fatto? si chiese la ragazza, stupita.
 
 
I soldati avanzavano compatti e composti, come una macchina da guerra precisa e letale. Ludmilla sentiva che il suo cuore batteva all’impazzata mentre si posizionava nelle retrovie. Era arrivata due minuti prima, quando Camilla e l’uomo strano stavano parlando già da un pezzo.
All’inizio era stata indecisa se combattere o no, contesa tra l’affetto (sensazione strana che aveva spesso scalfito il suo cuore di pietra in quei giorni) che iniziava a provare per quelle persone e la paura.
Alla fine aveva deciso di andare in battaglia, spinta da un forte senso di solidarietà. Non morirò pensava resterò semplicemente nelle ultime file.
E così aveva fatto, ed ora era lì, con il cuore a mille a guardare quelle schiere di soldati che avanzavano crudelmente e impietosamente verso di loro.
Camilla, a quel punto, lanciò un fischio e dagli uomini intorno a lei partì un grido, un grido pieno di voglia di combattere, ma allo stesso tempo colmo di speranza per il ritorno.
Lei sorrise davanti a quella manifestazione di grande forza di volontà e strinse la presa sul manico della frusta che si era portata dietro e seguì gli altri in quello scontro che, ne era certa, si sarebbe rivelato sanguinoso.
 
Non aveva mai vissuto una battaglia vera e propria, se non leggendo libri fantasy, dei quali era ghiotta.
Era comunque una cosa ben diversa: lei vedeva le guerre nei romanzi come un modo per sfuggire alla realtà quotidiana e come svago, ma quello che vedeva intorno a lei era tutto tranne uno svago. Vedeva la gente correre, attaccare e difendere con le proprie armi e, alla fine, ferirsi o, peggio, morire.
Cercava di non guardare il suolo disseminato di cadaveri, sia dei soldati dell’accampamento sia di quelli della parte avversaria. Pochi l’avevano attaccata, era piccola e minuta, sapeva nascondersi bene tra la folla e riusciva sempre a svignarsela prima che un’arma potesse diventare l’ultima cosa che avrebbe visto prima di morire.
Si voltò verso quelle che fino a poco fa (non sapeva dire con certezza quanto) erano state le retrovie, e scorse Francesca: i lunghi capelli neri erano legati in una coda di cavallo e l’armatura esaltava la corporatura slanciata ed elegante; gli occhi neri come la pece fissavano il prossimo bersaglio, per poi socchiudersi mentre la loro proprietaria prendeva la mira; infine, la ragazza mollò la sottile corda dell’arco facendo fare un volo ad arco alla freccia, la quale si conficco direttamente nel petto di un uomo dell’armata avversaria, che cadde a terra in preda agli spasmi di dolore.
Violetta sgranò gli occhi alla vista del cambio di personalità della sua amica e non si accorse che un uomo alto, grosso e nerboruto stava venendo verso di lei, l’ascia possente in mano e pronta ad uccidere.
Si voltò solo un secondo prima che l’arma calasse su di lei; chiuse gli occhi e tese le mani, preparandosi a una fine che non arrivò. Aprì le palpebre e vide che qualcuno aveva fermato la traiettoria dell’ascia e ora stava combattendo contro il soldato, il quale non riuscì a parare un fendente diretto allo stomaco e crollò sul suolo, la spada dell’altro conficcata fino all’elsa nella pancia.
La ragazza guardò il suo salvatore estrarre l’arma, voltarsi e togliersi l’elmo: sorrise, quell’uomo era Leon!
Corse verso di lui per abbracciarlo, ma lui la respinse: - Cosa pensavi di fare?! – urlò, sia per la rabbia, sia per sovrastare il rumore della battaglia.
- Io.. n-non… - balbettò Violetta, spaventata dalle grida dell’amico.
- Questo non è un gioco, Violetta! Questa è la guerra, e devi stare sempre in guardia, capito?! – ribatté Leon, fissando la ragazza con occhi di fuoco.
Violetta annuì e prese un respiro profondo per scacciare la paura. Si ricordò dei duri allenamenti di quelle due settimane, delle corse, delle sudate e delle sgridate.
Si voltò e fisso dritto negli occhi Leon e si ricordò delle parole di Francesca, e preferiva sicuramente che morissero quei bastardi piuttosto che quel ragazzo che le faceva battere forte il cuore.
Due minuti dopo si ritrovò a combattere schiena contro schiena con Leon, questa volta sul serio, questa volta per uccidere. Adesso non difendeva solamente, ma attaccava con violenza, cercando di infliggere il maggior numero di ferite possibili. Affondo, parata, tondo e di nuovo affondo, una sequenza sempre diversa, ma al tempo stesso sempre uguale, un balletto della morte.
Alla fine notò che l’avversario lasciava sempre scoperto il torace, così fece finta di mollare un fendente alla testa, in modo che l’altro parasse con la spada alta, poi ruotò su se stessa e, approfittando del momento di esitazione dell’uomo, affondo un palmo buono della lama nel petto dell’avversario.
Solo quando vide l’uomo cadere a terra e morire si rese conto di quello che era successo: aveva appena ucciso un uomo.
 
La battaglia era finita da trenta minuti, oramai. I nemici si erano ritirati all’improvviso, senza neanche cercare di raccogliere i loro morti e i feriti, come adesso stavano facendo i ribelli.
Federico era seduto su un masso, la testa fasciata anche se la ferita era l’ultimo dei suoi pensieri. Aveva combattuto, non sapeva ancora dove aveva trovato il coraggio, ma aveva preso in mano l’arma ed era entrato nella mischia.
Forse aveva ucciso qualcuno, non lo sapeva e gli importava meno di niente. Ma era affranto, non per i morti, non per la ferita, ma perché nessuno trovava Nata.
In quei trenta minuti l’aveva cercata dappertutto insieme allo stratega e ad altri quattro uomini e la loro ricerca si era dimostrata vana.
In quel momento, quando stava per raggiungere l’apice della disperazione, sentì una mano posarsi sulla sua spalla. Si voltò e i suoi occhi incontrarono quelli neri della sua migliore amica.
Federico si alzò di scatto e la abbracciò forte, mentre lei appoggiava il viso nell’incavo del suo collo. Entrambi piangevano, felici di essersi rincontrati.
- Nata! – urlò un insieme di voci sollevate. I due ragazzi si voltarono e videro un gruppo di persone formato da Ludmilla, Francesca, Violetta, Camilla e Maxi che correva verso di loro.
Maxi arrivò per primo e strinse a sé la riccia, affondando la faccia nei suoi capelli. A quell’abbraccio si unirono anche gli altri ragazzi, formando una sfera di braccia, visi e vestiti con Nata al centro.
 
- Bene, sedetevi. – ordinò Camilla con un cenno delle mani. Tutta l’assemblea ubbidì, prendendo posto sulle stuoie.
- Quella di ieri – cominciò la rossa – è stata una battaglia sanguinosa, con uguale quantità di morti da una parte e dall’altra. –
- Tutto questo è colpa dei Quattro! – la interruppe una donna scheletrica nelle ultime file. – Per colpa della loro venuta, ho perso mio marito e mio figlio in un colpo solo! – la sua voce trasudava dolore.
- Di sicuro non anno mai voluto questo. – continuò il capo – ma è pur sempre vero che di battaglie come questa ce ne saranno ancora molte e ci dobbiamo preparare ad un altro attacco. Dovremo essere pronti a tutto, a qualunque cosa, con i sensi sempre all’erta. Ricordatevi che per qualsiasi cosa voi avrete intenzione di fare dopo tutto questo io la appoggerò, potete stare tranquilli. – dopodiché, la ragazza si voltò e se ne andò diretta nella sua tenda, seguita da Leon, Diego e i Quattro.
Entrarono nell’alloggio e Leon chiese subito: - Perché non li hai incoraggiati di più, perché hai detto loro quelle cose spaventose? –
Camilla rimase composta al suo posto e disse: - Sono stata veloce perché ho qualcosa da dirvi. Fino ad adesso ci siamo occupati dell’addestramento dei ragazzi solo dal punto di vista delle armi, ma non abbiamo pensato a far sviluppare il controllo dei propri poteri perché credevamo fosse troppo presto. Ma ora è giunto il momento: li porteremo dalla Stregona degli Animali. –
- Cosa? – urlò Leon, mentre Diego scuoteva la testa con aria spaventata.
- È la nostra unica possibilità. – ribatté la rossa.
- No, possiamo chiamare altri Stregoni meno potenti ma più efficaci. – protestò il ragazzo.
- Ragazzi, lasciatemi solo con lui, stasera ne riparleremo. – li congedò Camilla.
Dopo che tutti furono usciti, Leon si accasciò su una sedia. – Non puoi farmi questo, non dopo tutto quello che abbiamo passato. –
- Ripeto che è la nostra unica possibilità. – cercò di calmarlo la ragazza.
- No che non lo è! – si infuriò l’altro, balzando in piedi. – Non puoi ricorrere a quella stronza che ha fatto quelle cose a mia madre, non puoi. –
- E tu non puoi mettere a rischio la salvezza di un intero popolo per un problema personale. – lo rimproverò con voce dura il capo. – Ascolta, Leon. – gli disse, addolcendo un po’ il tono e avvicinandosi. – lo sai che io la odio quanto te, ma pensa a quello che potrebbe succedere se sprofondassi nei rancori personali. Cerca di non farlo anche tu. –
Il ragazzo abbassò lo sguardo sull’amica e, dopo pochi secondi, annuì: - Ok, ci proverò. – Camilla sorrise, per un attimo felice, poi lo lasciò andare.
 
- Perché non volete chiamare la Stregona degli Animali? – domandò Francesca a Diego.
- Diciamo che non è una persona del tutto a posto. – rispose il ragazzo.
- Dai, non può essere così male! Di sicuro non può essere peggio di te. – cercò di sdrammatizzare l’italiana.
- Riesci a scherzare anche in un momento come questo? – ribatté l’altro, voltandosi.
- Ovvio, non puoi rattristarti fin dall’inizio, perché poi perderai per sempre l’allegria. Io avevo sempre delle crisi di pianto perché ero sempre addolorata e solo grazie a un grande sforzo sono riuscita a ritornare felice. – Diego la guardò, ammirato e divertito al tempo stesso e si ritrovò a pensare che quella ragazza era fantastica, speciale.
- Oh sul serio, da piccola eri una piagnucolona? – le si avvicinò mentre faceva il verso di un bambino che piangeva.
- Ah, se poi mi devi rinfacciare questa storia fin da subito, allora sarà meglio se anch’io facessi immediatamente una cosa. – detto questo si chinò al suolo e prese una manciata di terra, per poi lanciarla sul viso di Diego. Quest’ultimo rimase basito per un attimo prima di gridare: - Cauviglia, sei morta! –
Si mise a rincorrerla e lei assecondò quel gioco, scappando e ridendo sotto lo sguardo esterrefatto di tutti che non capivano come due ragazzi cresciuti potessero divertirsi in un giorno del genere.
Ma loro continuarono a correre fino ad uscire inaspettatamente dall’accampamento e corsero fino al boschetto li vicino. Fu in quel posto che Diego acchiappò Francesca per un braccio e la attirò a sé, circondandole la vita con le braccia, come se fosse in una prigione umana.
- Ora sono certo che non mi scapperai più. – le disse dolcemente.
La ragazza alzò lo sguardo e i suoi occhi incontrarono quelli scuri dell’altro, che iniziò a chinarsi verso di lei. Francesca, invece, si alzò sulle punte, rendendo più veloce l’avvicinamento dei loro visi, i quali adesso erano a poca distanza l’uno dall’altro.
All’improvviso, Diego colmò lo spazio che li separava e toccò con le sue labbra quelle della ragazza. Quest’ultima rabbrividì a quel contatto e chiuse gli occhi, lasciandosi travolgere dalle emozioni. Il moro iniziò a muovere la bocca, subito corrisposto dall’italiana. In poco tempo il bacio si fece sempre più infuocato e passionale, Francesca affondò le dita nei capelli spettinati del partner mentre lui le accarezzava la schiena con movimenti dolci e circolari. Entrambi sentivano di non voler interrompere quel momento così magico e continuarono.
Francesca sentiva il cuore batterle forte, il tocco di Diego le mandava scariche di adrenalina in tutto il corpo e quelle sensazioni così intense continuarono anche dopo che si staccarono e congiunsero le loro fronti.
- Wow. – riuscì a dire il ragazzo dopo qualche secondo.
- Già, wow. – gli fece eco lei.
- Francesca, Diego! – una voce li interruppe senza preavviso. Entrambi si voltarono e videro Violetta e Leon che correvano verso di loro.
- Cosa c’è? – chiesero appena si furono avvicinati.
- È successo qualcosa a Nata. –
 
 
Angolo dell’autrice: Ciao a tutti e benvenuti ad un nuovo video di Doesen’t Matter. Ok, iniziamo molto male, di sicuro se prima avevate qualche speranza sulla mia salute mentale, ora le avete perse di sicuro; tranquilli, però, ho ancora un po’ di lucidità per scrivere un angolo dell’autrice più o meno decente.
Iniziamo col chiedere: vi è piaciuto? Perché se si posso anche vivere felice fino al prossimo capitolo; sapete, io amo i libri fantasy, li leggo fin da quando ero bambina ed ero molto scema (non che adesso sia cambiato qualcosa). Nei fantasy ci sono tante battaglie e questa è la prima volta che scrivo di questo e spero che non mi sia venuta una mezza cagata. Spero di no, comunque: Francesca sta cambiando, lo si vede soprattutto adesso, visto le cose che dice a Violetta e a Diego e sta iniziando a maturare e a vedere il mondo in modo un po’ più distaccato e cerca di prendere tutto come una tragedia.
Anche per Ludmilla ci sono cambiamenti, infatti è più coraggiosa e altruista ed è andata in battaglia anche se questo comportava dei rischi.
Violetta, invece, subisce un’esperienza traumatica: uccide un uomo. Nei libri questo succede e spesso i protagonisti ci danno meno peso di quel che dovrebbero (non è il caso di Violetta).
Poi Leon è incavolato nero quando scopre che Camilla vuole far addestrare i Quattro dalla Stregona degli Animali (tralasciate il nome, per favore).
Ok, ora arriviamo a una parte molto romantica: Diecesca!!!! *occhi a cuoricino* io non sapevo se fare o meno la scena del bacio, ma ci ho provato e spero che anche questa non sia venuta una mezza cagata.
Infine, succede qualcosa a Nata, non si sa ancora cosa. Spero di tenervi sulle spine (anche se non so se ve ne freghi qualcosa). Ok ho scritto troppo, ora vado. Spero che il capitolo vi sia piaciuto, ditemi cosa ne pensate, accetto anche critiche e consigli.
Un bacione da Chicca2501
 
P.S: mi scuso per le poche scene Leonetta, ma saranno abbondanti nei prossimi capitoli.

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Capitolo 8
*** Segreti ***


8
 
Segreti
 
La videro sospesa a mezz’aria, coma appesa ad un filo invisibile; gli occhi emanavano una luce bianca e accecante, fari che illuminavano più del sole stesso.
Sembrava un fantasma, la pelle era di un bianco cadaverico e le guance infossate, sembrava aver perso ogni forma di vitalità.
All’improvviso, il corpo della ragazza iniziò a contorsi scompostamente, agitando le braccia e le gambe in modo confuso, fino a ritornare alla solita posizione di poco prima.
Tutti guardavano sconvolti la scena, nessuno osava muoversi per paura di risvegliare quel demone riccio che aveva sostituito la loro amica.
Solo uno ne ebbe il coraggio: Federico. Egli ebbe la forza di sussurrare con dolore una sola parola, “Nata”.
Quelle due sillabe furono sufficienti a far smuovere il corpo della ragazza, anche se lei non era cosciente; era una forza oscura e misteriosa a guidarla.
Quest’ultima fece girare lo sguardo a Nata per posarlo sui presenti, uno ad uno, scrutandoli con malignità.
Fu allora che parlò: - Tremate, mortali, davanti alla Veggente. – la voce non era quella della ragazza, era più profonda e meno umana.
I ragazzi si guardarono, all’apparenza confusi; tranne quattro: Camilla, Leon, Maxi e Diego più che confusi sembravano terrorizzati a quella visione.
- È una Veggente. – mormorò la rossa.
- Cosa? – domandò Violetta, che era vicino al capo dei ribelli e aveva sentito quelle parole.
- Una Veggente. – ripeté una voce, molto diversa da quella di Camilla. Tutti si voltarono a quel suono, così melodico e sofisticato, una musica per le orecchie. La padrona di essa era una donna alta e aggraziata, con lunghi capelli biondo scuro che le ricadevano boccolosi sulle spalle e sulla schiena. Federico, Maxi e Diego la fissarono, ammaliati, mentre Leon stringeva i pugni.
- Un Veggente è colui, o colei, che è posseduto uno spirito che fin dalla nascita si insedia nel corpo delle persone, dei Prescelti, e le rende capaci di conoscere il passato, scrutare il presente e prevedere il futuro. – continuò la donna. – Ogni Prescelto scopre la sua vera identità solo quando lo spirito si sentirà pronto per rivelarsi. –
- Nata non può essere una Veggente. Lei non è malvagia. – protestò Federico, risentito.
- I Veggenti non sono malvagi, ognuno sceglie da che parte stare, come tutti i comuni mortali. – rispose la bionda.
I ragazzi la fissarono attentamente, poi Francesca trovò il coraggio di chiedere: - Ma tu chi sei? –
La donna, per tutta risposta, scoppiò a ridere. – Meglio che tu non lo sappia, ragazzina. Sono qui per parlare con i Quattro, non con dei mocciosi. –
- In realtà lei fa parte dei Quattro. – intervenne prontamente Diego con un sorriso sarcastico stampato in viso.
L’altra fissò meravigliata prima Francesca e poi Diego, facendo scivolare lo sguardo dall’una all’altra.
- La Natura è impazzita se ha dato un incarico così complicato a dei bambini. Ma, visto che fai parte dei Salvatori, te lo dirò: io sono… - un urlo interruppe la frase.
I presenti si voltarono verso Nata, ancora sospesa per aria; la luce emanata dagli occhi, ora chiusi, era scemata e adesso la bocca era contorta in una smorfia di pura e accecante sofferenza.
- Lo spirito si sta risvegliando, ma state tranquilli, alla vostra amica non capiterà nulla di grave o di permanente. – le parole della nuova arrivata non rassicurarono quasi per niente i ragazzi.
Dal canto suo, Nata continuò a contorcersi, urlando; alla fine, si voltò verso destra e il suo sguardo si posò su Diego e lo scrutò attentamente. Il moro deglutì rumorosamente, sinceramente destabilizzato da quella presenza, la quale sembrava scavare la sua anima.
- Diego Casal. – pronunciò alla fine la voce e il ragazzo sembrò percepire una nota di disprezzo. – Passato travagliato, segnato da tradimenti e da inganni, hai fatto soffrire varie persone con la tua sfacciataggine e cocciutaggine; presente abbastanza luminoso, vedo che un nuovo sentimento nasce dentro di te verso una persona, un’emozione che tu non hai mai provato realmente, ti consiglio di starci attento; futuro incerto, strano, oscuro, impossibile da decifrare. Dovrai prendere delle scelte, Casal, e ti assicuro che non saranno semplici. – detto questo, la voce tacque e Nata crollò a terra, inerme.
Gli altri corsero da lei, tra “non spingere!”, “sta attento!” e “lasciatela respirare!”. Alla fine il gruppo si allargò e fu a quel punto che la riccia emise un gemito e aprì definitivamente gli occhi, i suoi veri occhi, grandi, dolci e castani. Il brusio crebbe sempre di più.
- Nata, ricordi cosa è successo? – domandò Camilla, riuscendo a sovrastare le altre voci con la sua. Quasi, quasi si aspettava che dicesse di no, che non si ricordava niente e che quello era stato semplicemente una previsione di quello che sarebbe accaduto in futuro.
- Si. – confermò la riccia. – Si, mi ricordo tutto, o quasi. – con la coda dell’occhio guardò Diego, in piedi davanti a lei, fremente. Di sicuro voleva parlarle, ma questo non era il momento.
- Bene, ora che tutto si è risolto, potreste concentrarmi su di me? – chiese con un tono esasperato la donna bionda, facendo fare un salto per lo spavento i ragazzi, che quasi si erano dimenticati di lei.
- Ti stavamo chiedendo chi sei. – ribatté Violetta non appena tutti si furono ripresi.
- Bene. – esultò la donna, compiaciuta. – Io sono Angie, ma credo che la maggior parte di voi mi conosca come la Stregona degli Animali. –
Leon si immobilizzò; sapeva già chi era quella donna, ma sentirle nominare il proprio nome lo abbatteva. La odiava, la odiava con tutte le sue forze, con tutta la sua anima, l’avrebbe voluta uccidere per tutto quello che aveva fatto a sua madre.
Non riuscì a trattenere un singhiozzo, attirando così l’attenzione di tutti, compresa la Stregona degli Animali. – Leon. – sussurrò Camilla.
- Leon Vargas? – sussurrò la donna, mentre un ghigno le attraversava la faccia. – Quanto tempo. L’ultima volta che ti ho visto non eri che un neonato in fasce. Come sta tua madre? -
Il ragazzo serrò i pugni e chiuse gli occhi, inspirando, e cercò di rilassarsi; sapeva che quella lì voleva solo che lui si imbestialisse, ma non gliela avrebbe data vinta, avrebbe lottato. Questo pensiero lo calmò. Riaprì gli occhi e li puntò in quelli della Stregona, sostenendo il suo sguardo.
- Credo che la salute di mia madre credo sia l’ultima cosa che ti interessi in questo momento. Adesso sono un uomo, invece, quindi prova ad avvicinarti a qualcun altro che amo e giuro che ti infilò la spada nel petto. – lo disse con una calma così glaciale da spazzare via dal viso di Angie il ghigno.
Fu lui a sorridere, adesso, soddisfatto delle sue parole. Dopodiché, se ne andò, diretto alla sua tenda.
Violetta fece per seguirlo ma Camilla la trattenne: sapeva che quando Leon era arrabbiato era meglio lasciarlo solo.
- Adolescenti. – esclamò la Stregona poco dopo che il ragazzo se ne fu andato. – La fanno sempre così tragica. -
La rossa riuscì a stento a trattenere un insulto; Leon che la faceva tragica? Che bastarda, si ritrovò a pensare con disgusto. Sapeva però che se avesse imprecato contro la donna i suoi piani sarebbero andati in fumo e non poteva permetterselo, non dopo la battaglia disastrosa del giorno prima.
Così ascoltò la Stregona, la quale stava sproloquiando sull’addestramento da fare ai Quattro, che si erano appena presentati.
- L’addestramento inizia domani al sorgere del sole. Vedete di essere puntuali. – concluse la bionda con disprezzo, prima di sparire in una nuvola di fumo.
 
Violetta si mise subito alla ricerca di Leon, nonostante gli avvertimenti di Camilla; non riusciva a capacitarsi che quel freddo e pungente ragazzo che aveva parlato prima fosse il suo amico dagli occhi verdi, così dolce e gentile.
Ovviamente ci dovevano essere delle spiegazioni per quel comportamento così strano e voleva scoprirle, voleva togliere quel velo di mistero che celava Leon ormai da troppo tempo e desiderava scoprire la verità. Non sapeva quanto essa potesse turbarla, forse poteva essere sconvolgente, ma ormai era quasi morta per overdose di sconvolgimento, quindi…
Alla fine, dopo aver cercato fino ai margini dell’accampamento, lo trovò seduto su un masso, la testa china; all’inizio la ragazza pensò che stesse piegando il capo per la tristezza, ma poi vide che stava semplicemente guardando un oggetto che teneva in grembo e che accarezzava dolcemente: un urna d’oro con intarsi del colore dei boschi più verdi (probabilmente smeraldo) sopra la quale erano dipinte immagini che Violetta non riuscì a vedere, visto che le mani di Leon ne coprivano gran parte e ne lasciavano intravedere poco.
La Castillo si avvicinò piano e gli arrivò dietro, mettendogli una mano sulla spalla; lui si girò di scatto, ma si rilassò in parte appena vide che era lei.
- Cosa ci fai qui? – le chiese il ragazzo, distogliendo lo sguardo.
- Volevo sapere come stavi. – rispose semplicemente la bionda, sedendosi accanto a lui e cercando di incrociare i suoi occhi.
- Tutto bene. – disse l’altro, tradendosi per il tono di voce spezzato.
- Non sai mentire. – commentò infatti Violetta. – Per favore, dimmi cosa succede, io voglio solo aiutarti. –
- Non c’è nessuno che mi può aiutare, a meno che tu non possa farmi tornare indietro nel tempo. – ribatté Leon, alzandosi di scatto.
- No, quello non sono in grado di farlo. – ammise lei, seguendolo. – Ma sono tua amica, e voglio semplicemente darti conforto. –
- Nessuno può darmelo. –
- Magari io si. – quelle parole fecero girare il ragazzo, che si ritrovò faccia a faccia con la bionda. La guardò con attenzione, chiedendosi se poteva confidare i segreti del suo passato a una ragazza che non era Camilla, una ragazza da cui si sentiva attratto, certo, ma tra l’attrazione e la fiducia c’è differenza.
Ma, alla fine, nel suo sguardo vide solo determinazione e tenerezza, senza traccia di malizia o anche solo di pena. Gli ricordava tanto sua madre, le assomigliava molto, con quella voglia di aiutare il prossimo assolutamente e la forza che ci metteva nell’aiuto.
Non riuscì a resistere e scoppiò in lacrime come un bambino; non piangeva da troppo tempo, ormai, e in esse ripose tutto il dolore, tutte le prese in giro, tutti i disagi che aveva dovuto sopportare fin da quando aveva messo piede in quel mondo crudele.
Appoggiò la fronte sulla spalla di Violetta, la quale gli allacciò le braccia al collo e lo strinse a sé, con forza, come se in quell’abbraccio volesse trasmettergli tutto l’affetto che provava per lui. Continuò a cullarlo tra le sue braccia fino a quando egli non si calmò ed entrambi si sedettero sul masso e Leon iniziò a raccontare: - Vilu, ecco, devi sapere che io non sono del tutto umano. – deglutì, aspettandosi un verso schifato della ragazza che però non arrivò. – Io sono per metà satiro, ovvero per un quarto capra. Questo perché, una lontana notte di 21 anni fa, mia madre si innamorò improvvisamente di un satiro e si unì a lui. Tradì così la fiducia e l’amore di suo marito, che la ripudiò e, siccome era un personaggio importante nel mio villaggio, la notizia si sparse velocemente e mia madre si esiliò. Quando compii 14 anni, mi rimandò al villaggio sotto falso nome, nascondendomi nell’abitazione dei Torres, i genitori di Camilla, solo loro sapevano la mia vera identità. Vissi una vita apparentemente normale, fino a quando, due anni fa, mia madre morì; il marito l’aveva trovata e l’aveva uccisa. – fece un respiro profondo, prima di continuare. – Tutto questo è successo a causa di una persona: Angie, la Stregona degli Animali. Lei e mia madre erano in conflitto già da parecchi anni, ma successe qualcosa che fece arrabbiare quella strega e punì mia madre così, facendo nascere un mostro. – le lacrime gli pungevano gli occhi, al pensiero; era lui la punizione di sua madre, un essere non completamente umano che l’aveva abbandonata.
Sentì il capo di Violetta che si appoggiava sulla sua spalla, le sue mani che gli accarezzavano dolcemente la schiena, cosa che, inspiegabilmente, riuscì a farlo rilassare e a ricacciare indietro le lacrime.
- Non sei tu il suo castigo, Leon. – disse lei. Il ragazzo cercò di ribattere, ma l’altra lo bloccò posando un dito sulle sue labbra. – So che te l’avranno già detto tutti, ma è così. Sei fantastico, speciale, unico. Ecco, prendila come una cosa positiva: sei unico. Perché, dimmi, c’è un altro ragazzo che può dire di avere le corna? A proposito, me le fai vedere? – lo disse con una semplicità così pura e con uno sguardo così buffo, che Leon non poté fare a meno di sorridere. Si, Violetta ci sarebbe stata sempre, un faro in una notte di tempesta. Si spostò il ciuffo che pettinava come poteva ogni mattina e scoprì le piccole protuberanze che spuntavano e si innalzavano di poco, saranno stati 2cm, ma a lui bastavano e avanzavano.
- Che carine! – esclamò Violetta, toccandogliele, e si misero tutti e due a ridere.
All’improvviso, i loro sguardi si incontrarono; i loro corpi si sfiorarono; a entrambi venne in mente il ricordo di quello che era accaduto un paio di giorni prima, il loro quasi bacio; Leon, si ricordò della voglia che aveva di posare le sue labbra su quelle della ragazza, di unire i loro corpi, e adesso questo desiderio si accresceva, ormai le bramava quelle labbra; stava per avvicinarsi, ma si ricordò di una cosa: lui era un mostro, nonostante tutto quello che diceva lei, lui rimaneva uno sporco mezzosangue, e di sicuro non voleva che la sua Vilu avesse a che fare con gente come lui.
Aumentò le distanze e si rimise in posizione eretta e la stessa cosa fece la bionda, distogliendo lo sguardo con imbarazzo.
- Ritorniamo all’accampamento? – domandò alla fine Leon, rompendo il silenzio.
- Si. – acconsentì subito la ragazza, alzandosi.
- Così mi spieghi finalmente cosa sono i romanzi fantasy. – esclamò lui, rimettendo in gioco quella vecchia conversazione che avevano tenuto il giorno dell’arrivo dei Quattro.
Violetta si mise a ridere e insieme si avviarono verso le vicine tende.
 
- Sono qui. – disse Diego, entrando nella tenda e guardandosi intorno. Era come le altre, di tela grezza e con pochi ed essenziali mobili, utili per gli spostamenti veloci.
Seduta sulla branda, lo sguardo abbassato e gli occhi oscurati dai folti capelli ricci, c’era Nata, che aspettava la venuta del ragazzo.
- Siediti. – gli intimò, alzando il capo e indicando uno sgabello pieghevole con un lieve cenno della mano.
- Ora dimmi cosa hai visto. – il tono di Casal era duro e perentorio.
- Prima di tutto evita di aggredirmi, non l’ho scelto io. – lo rimproverò Nata – Ma mi vuoi spiegare come hai potuto farlo. –
- Ero un ragazzino. – si difese lui, cercando di sostenere lo sguardo della ragazza.
- Un ragazzino che ha provocato molti danni. –
- Lo sai bene perché l’ho fatto, e sai che è vero. – la voce di Diego era rotta dalla tensione.
La riccia si inginocchiò davanti a lui e disse dolcemente: - Lo so e posso capirlo, ma quello che hai compiuto è brutto, e quello che stai pensando di fare ora lo è ancora di più. –
- Io non sto facendo niente. – ribatté lui, e per risposta ricevette uno sguardo rassegnato dell’altra.
- Ok, ci posso anche credere. – commentò alla fine quest’ultima, allontanandosi dal moro.
- Dimmi cos’è questo sentimento di cui mi hai parlato e per chi lo provo. – mormorò lui, dopo qualche secondo di silenzio.
- Non posso. – sentenziò la Navarro.
- Perché? – domandò Diego, con tono disperato – è mio diritto saperlo. –
La ragazza sbuffò: non sapeva se poteva dirglielo. Lo fissò con la coda dell’occhio e vide che si teneva la testa fra le mani. O è un attore geniale, o è davvero pentito e ha davvero bisogno di sapere, pensò.
- Ti darò solo un indizio. – disse alla fine.
- Quale? – chiese il ragazzo.
- Il sentimento è… l’amore, quello vero. – ammise Nata.
Diego fece una faccia stranita. L’amore vero non aveva mai fatto per lui, magari non era uno che andava dritto al sodo con le ragazze, ma per tutte aveva provato solamente attrazione; solo per Camilla aveva sentito qualcosa di più, ma non era amore, ma una specie di affetto misto all’attrazione.
- E per chi lo proverò questo amore vero? – domandò, sarcastico.
- Questo lo devi scoprire da solo. – disse la riccia – Ora vai, per favore. –
Il ragazzo si avviò verso la porta, prima di girarsi un’ultima volta: - Ah, Nata, non dirai niente a nessuno, vero? –
- No, tranquillo. – affermò l’altra, dopo pochi attimi di esitazione.
- Grazie. – disse Diego, sorridendo. Poi uscì.
 
- Più concentrazione! – ordinò la donna.
- Ci sto provando. – borbottò Ludmilla. Sentì il fiato caldo sul collo: - A quanto pare, non ci provi abbastanza. –
Quella pazza aveva più udito di quanto sembrasse. Stava provando a concentrarsi, ma era quasi impossibile. Il fuoco era distruzione, sconvolgimento, dolore, ma non rievocava queste emozioni, non le trovava dentro di sé. Con la coda dell’occhio vide che anche gli altri erano nelle sue stesse condizioni: Violetta era alle prese con una vasca d’acqua, Francesca cercava di far muovere una pila di fogli e Federico fissava corrucciato un po’ di terriccio.
Si mise a fissarlo, incantata: quel ragazzo le piaceva, e molto anche, ma non l’avrebbe mai ammesso. In quel momento il ciuffo gli ricadeva sulla fronte, gli occhi screziati di verde erano luminosi e le labbra erano strette per la concentrazione.
Doveva aver sentito che qualcuno lo stava fissando, visto che si girò e, appena la vide, le sorrise. Quel sorriso fece sciogliere Ludmilla come neve sotto il sole e ricambiò il sorriso.
- Smettila di fare la ragazza innamorata e lavora! – si voltò di scatto verso la Stregona e la trovò a due mm dalla sua faccia.
La ragazza tornò a lavoro ma Federico continuava ad occupare i suoi pensieri costantemente. Le venne in mente che il fuoco non è solo distruttivo e che lei si stava concentrando solo su quello. Il fuoco era anche l’elemento dell’amore, della passione e dello struggimento. Si, doveva pensare così.
Si concentrò e rivide tutti i momenti che lei aveva passato con Federico: la prima volta che si erano visti, tutte le volte che si erano punzecchiati, le volte in cui lei dormiva nel suo letto, le risate…
Con Federico nella sua testa, evocò il fuoco.
 
 
 
Angolo dell’autrice: Ciao a tutti! Scusate l’enorme ritardo di questo capitolo, ma durante le vacanze è andata via la connessione, quindi non ho potuto pubblicare nulla.
Allora, come vi è sembrato il capitolo? A me non sembra così male.
Come promesso, ho messo una bella scena Leonetta, dove si scopre il segreto di Leon.
Non vi aspettavate fosse così, eh? Mezzo satiro. Per la cronaca, a me i satiri stanno simpatici, sono una fan di Percy Jackson, dove loro hanno molta importanza.
Nata è una Veggente, essere misterioso molto strano, ma anche buono e la Stregona degli Animali è Angie ed è un po’ pazza, ma si nasconde altro in lei.
Vi posso lasciare con una domanda? Secondo voi quale è il passato di Diego?
Ora devo andare, scusate l’angolo dell’autrice molto brutto. Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Ditemi cosa ne pensate, accetto anche critiche e consigli.
Un bacione da Chicca2501

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Capitolo 9
*** Poteri ***


9
 
Poteri
 
Il corpo di Ludmilla trasudava energia ed era ricoperto da brividi, mentre sentiva una bellissima e travolgente emozione che le inondava l’anima. Essa cominciò a mandarle calore, quasi fosse un focolare, trasmettendole una piacevole sensazione di benessere, come quando da piccola lei, la sorella minore e sua madre si sedevano davanti al camino e quest’ultima raccontava alle due figlie favole travolgenti.
La ragazza vide tutto rosso, come se tutto d’un tratto il mondo si fosse tinto con quel colore e i sensi le si acuirono mentre le mani presero fuoco.
Ludmilla fissò meravigliata il proprio operato, mentre un sorriso le si dipingeva sul bel volto bianco. Al’improvviso percepì una strana forza in sé, come se fosse una calamita e che ne stesse attirando un’altra e, allo stesso tempo, la stesse respingendo.
Si voltò corrucciata e vide che gli altri emanavano una strana luce di diversi colori, che veniva emanata fortemente da Violetta, per poi incominciare a spegnersi con Federico, fino a diventare molto debole per Francesca.
Come se fosse la cosa più naturale del mondo, i ragazzi alzarono le braccia al cielo e dalle loro mani partirono i quattro Elementi: Acqua, Fuoco, Terra e Aria si unirono, formando un caleidoscopio di luci e colori brillanti, la fusione di quel potere immenso e inesplorato.
Poi, veloce come erano iniziate, esse sparirono. I loro creatori abbassarono le mani, e una nuova consapevolezza si fece strada verso di loro, la consapevolezza di aver finalmente utilizzato i loro poteri. Nessuno fu capace di proferire parola, ma il silenzio ne valeva più di mille.
Infine, dopo qualche minuto di riposo, Violetta chiese: - Cosa è successo? –
Tutti voltarono lo sguardo verso la Stregona degli Animali, la quale li fissava con un sorrisetto soddisfatto.
- Ci siete riusciti. – rispose semplicemente la donna. Ovviamente, sapevano di cosa stava parlando, ma era difficile da capire, il significato di quello spettacolo era ignoto e forse irraggiungibile, o, almeno, così sembrava a quei quattro giovani.
- Vi siete coalizzati. – continuò dopo pochi secondi la Stregona – avete unito le vostre forze, formando un’unione che solo voi potete creare. E, grazie ad esso, ho capito i vostri ruoli in questo gruppo di potenti, ma vorrei parlarvene in privato, uno ad uno. –
Lanciò un’occhiata a Francesca e le fece segno di avvicinarsi, e le sussurrò qualcosa all’orecchio. La ragazza annuì e sorrise per poi avviarsi fuori dalla tenda, cosa che fecero subito dopo gli altri.
 
- È stato incredibile! – urlò con gioia Violetta, saltando in braccio a Leon. Quest’ultimo si mise a ridere di gusto e domandò: - Perché, cosa è successo? -
In poche parole e con grande ricchezza di gesti e urletti felici, la bionda gli raccontò l’accaduto, lasciandolo a bocca aperta.
- La Stregona dice che ha capito i nostri ruoli, ma non capisco che vuol dire. – concluse alla fine, diventando improvvisamente pensierosa.
- Non lo so. Queste cose le capiscono gli stregoni e gli scienziati, non i mezzi satiri come me. – disse Leon con una punta di malinconia nella voce.
- Piantala subito di dire cazzate. – sentenziò – O ti riempio di botte. – accompagnò quelle parole alzando i pugni, cercando di dare alla frase più forza con quel gesto.
- Oh, che paura! – rise il ragazzo. – Ma io so come difendermi. – dopodiché la prese per la vita e se la mise sulle spalle, a mo’ di sacco di patate e si mise a correre, mentre la ragazza gridava e rideva allo stesso tempo, mollandogli pugni sulla schiena che non facevano altro che aumentare la velocità di Leon.
Alla fine, dopo aver attraversato mezzo accampamento, la rimise giù e ad entrambi lacrimavano gli occhi per le troppe risate.
Furono poco dopo raggiunti da Maxi e Diego, i quali stavano facendo una passeggiata, aspettando che i Quattro uscissero dalla tenda utilizzata per l’addestramento.
Lo spagnolo era preoccupato, ma non voleva dimostrarlo, preferiva rimuginare in solitudine sulle questioni personali. Perciò, mentre fuori scherzava con i gli altri, dentro sentiva un’ombra che lo avvolgeva e lo stringeva nelle sue viscere, imprigionandogli le membra, impedendogli i movimenti.
Cercò di mandar via per l’ennesima volta quella sensazione, ma sapeva che essa era conseguenza del suo passato e conosceva anche che era impossibile tornare indietro e cambiarlo, il passato.
A questo proposito, gli dava un enorme fastidio che Nata fosse a conoscenza dei suoi ricordi, delle sue azioni non proprio raccomandabili; lo faceva infuriare il fatto che qualcuno che non aveva partecipato all’intera vicenda ne sapesse i particolari.
Poi, quella storia dell’amore puro gli sembrava un’emerita cretinata; l’amore vero non esisteva, di questo era certo, e il fatto di non capire nemmeno per chi dovrebbe ipoteticamente provare questo sentimento lo faceva andare in bestia.
Era, quindi, dal giorno prima che tutti questi pensieri tumultuosi e collegati da un sottile filo scuro si facevano strada nella sua mente, e non lo lasciavano neanche in quel momento, mentre rideva del gioco stupido che aveva fatto Violetta con Leon.
Una consapevolezza oscurò all’improvviso tutte le altre: la sua migliore amica stava stringendo un legame con quello sporco mezzosangue.
No, doveva assolutamente impedirlo.
 
Francesca si stava dirigendo verso la tenda riservata alla Stregona degli Animali. Era la prima ad essere convocata, e non sapeva se essere spaventata o onorata di questo fatto.
Appena arrivò all’alloggio, si lisciò gli abiti ed entrò. Un forte profumo di incenso le investì le narici, e per poco non starnutì.
Si guardò intorno con sguardo curioso: l’abitazione era vuota, probabilmente la padrona era uscita, e, a differenza degli altri alloggi, era addobbata sfarzosamente con mobili in legno pregiato su cui erano riposti statuine raffiguranti animali, uomini e mostri (?); nei cassetti di un comodino, tutti aperti, vi erano ripiegate vesti dai colori freddi, invernali, come blu, argento e bianco, anche se quest’ultimo aveva intarsi dorati; a terra era stato disteso un tappeto rosso e giallo, che faceva contrasto con le sfumature meno accese del resto della stanza; intorno al tappeto c’erano dei candelabri che mandavano una luce soffusa che rischiarava la tenda, buia anche in pieno giorno. Quel posto le trasmetteva soggezione ma allo stesso tempo tranquillità e sonnolenza e per un attimo le venne voglia di distendersi sulla branda vicino ai candelabri e dormire.
Ma una voce la costrinse a dimenticare i suoi desideri: - Oh, bene, sei già arrivata. – disse la Stregona degli Animali, comparsa all’improvviso alle spalle di Francesca.
- Siediti pure. – il suo tono era calmo e con una sfumatura di gentilezza nella voce che lei non le aveva mai sentito usare. Ubbidì.
- Come sai – iniziò la donna – ti ho convocato qui per parlarti del ruolo che avrai nei Quattro. – la mora annuì.
- Un ruolo – proseguì Angie – si capisce dalla luce che emana quando utilizza i suoi poteri e riconoscerlo, quindi, non è molto difficile, ma tutto può cambiare. La luce della tua amica biondina… Violetta, o qualcosa del genere, aveva la luce più potente. Questo è legato al ruolo di leader, cosa anche influenzata dal fatto che lei controlla l’Acqua, l’Elemento più potente.
La focosa, invece, è una sorta di calamita, quando lei utilizza i suoi poteri, automaticamente si azionano anche quelli dei compagni, cosa che non succede con gli altri Elementi.
Il ragazzo, che controlla la terra, ha la forza più antica, e questo è un punto a suo favore.
Non ho ancora capito il tuo ruolo, però; la luce che emanava era debole, fiacca, non sembrava che tu avessi grandi capacità. – concluse, infine.
- Questo cosa vuol dire? – domandò tremante Francesca.
- In poche parole, vuol dire che sei la meno forte, l’ultima ruota del carro, come da sempre è stata l’aria, l’elemento meno considerato, di solito. –
Quelle parole la colpirono nel cuore, una pugnalata dritta al petto; non era servito a niente tutta l’esperienza in quel mondo, il cambiamento radicale del suo carattere, la forza e la freddezza che aveva acquisito in battaglia; come sempre, tornava ad essere inutile come lo era stata con suo fratello, visto che lei non l’aveva aiutato nella sua lotta per uscire legalmente dalla prigione.
- Non prenderla a male, non tutto è perduto. Anche io, quando andavamo a studiare le arti magiche, ero la più debole, ma, con il tempo sono diventata la migliore, perché ero l’unica che sapesse di dover migliorare. È per questo che sei stata la prima ad essere convocata: prima inizi a lavorare, meglio è. Ce la farai. – Francesca non sapeva se crederle o meno: aveva sentito cose spaventose su quella donna, ma le sue parole sembravano sincere.
Annuì lentamente. – Va bene, grazie. – mormorò, prima di lasciare la tenda.
Appena uscì fuori, si mise a correre; voleva andarsene, non ce la faceva più ad essere l’inutile della situazione, quella di cui si poteva fare a meno; era sempre stato così e sempre lo sarà. Lei era così: l’ultima ruota del carro.
Continuò a correre, andando dove la portavano le gambe, dove la portava il cuore, ormai addolorato.
All’improvviso, la sua corsa fu fermata bruscamente da uno scontro, e la ragazza si ritrovò tra delle braccia forti e muscolose; alzò lo sguardo e il suo sguardo si posò su due occhi profondi e neri come il petrolio, due pozzi pieni di misteri, adesso velati dalla confusione.
- Fran che succede? – domandò flebilmente, cingendole la vita. In tutta risposta, la mora lo abbracciò forte, posando il capo sul suo petto e dai suoi occhi sfuggì qualche lacrima.
Ma sentiva di aver trovato un posto sicuro.
 
Quella sera c’era stato un altro attacco; non era stata una sorpresa, dal giorno della prima battaglia tutti erano in allerta.
Federico, come tutti, aveva combattuto, cercando di vincere la paura e il disgusto che gli dava porre fine alle vite di quei soldati.
No, non gli piaceva affatto, ogni volta che affondava la lama della sua spada nella carne dell’avversario, sentiva un tremito attraversarlo e un senso di nausea oscurargli la vista, mentre cercava di non piangere o vomitare.
Lui ci provava, voleva dimostrare il suo valore, e comunque sapeva che sarebbe stato quello il suo destino anche se non avesse lasciato il suo mondo: cos’altro avrebbe potuto fare un ragazzo appena uscito dall’orfanotrofio e senza un’istruzione valida se non il soldato? Questo era il pensiero su cui si concentrava per tutto il tempo.
In quel momento stava combattendo aspramente contro uno dei soldati nemici, un uomo massiccio ma basso, cosa che il ragazzo poteva sfruttare a suo vantaggio.
Indossava una cotta di maglia nera come il resto dell’armatura, lo stemma della fiamma sul petto. L’elmo era, stranamente, di un blu opaco, e su di esso vi erano stati incisi strani segni a cui ormai l’italiano aveva smesso di far caso. Certe volte, però, si ritrovava a immaginare cosa ci fosse sotto quei cappucci di metallo, anche se poi scuoteva il capo e si derideva da solo a quel pensiero così ridicolo.
Ma quei soldati non lo convincevano, secondo lui non erano normali; certo, questa teoria poteva essere abbattuta dal fatto che erano diversi fra loro, ma a lui sembrava quasi uno stratagemma.
Ora era lì, sul campo e, vedendo l’elmo dell’avversario non poté fare a meno di pensarci.
Senza sapere cosa stava facendo, si voltò con uno scatto e abbatté la spada sulla testa dell’altro combattente, per poter scoprirgli il capo ma non tagliarglielo.
Quello che vide lo lasciò senza fiato: la testa era quella di un uomo normale, ma le orbite erano vuote.
 
L’attacco era finito, e tutti stavano raccogliendo i morti o curando i feriti; i primi soprattutto, si stavano moltiplicando. Camilla non sapeva come fare, la sua sicurezza stava vacillando. Spesso si chiedeva perché era lei il capo, l’autorità massima, e non qualcun altro, e ora più che mai desiderava che suo padre fosse lì con lei, a sostenerla e ad aiutarla come quando era piccola. Quanto le mancava.
Basta! Si disse Non devi piangere o disperarti, lui non potrà mai tornare indietro.
Così riprese ad aiutare gli altri nel lavoro di “pulizia” del campo di battaglia.
Dopo qualche ora, rientrò nella sua tenda; si distese sulla branda e chiuse gli occhi, ma il sonno non accennava a venire. Troppe preoccupazioni si annidavano nel suo cuore perché lei avesse il privilegio di dormire. Schiuse di nuovo le palpebre e voltò il capo, in un gesto puramente casuale.
Destino volle che il suo sguardo si posasse su una cassaforte, un mobile rovinato e consunto sulla cui parte frontale era stata dipinta un’immagine che raffigurava un coniglio accoccolato sull’erba.
Camilla sorrise: quel baule racchiudeva la sua intera infanzia. Si alzò subito e in due secondi coprì la distanza che la superava dal mobile. Vi soffiò sopra, smuovendo la polvere che si era depositata sul coperchio in tutti quegli anni di inutilizzo.
Infatti, dopo la morte di suo padre non aveva osato guardare dentro la cassaforte e ributtarsi a capofitto nei ricordi, per lei sarebbe stato troppo. Ma adesso era arrivato il momento di sconfiggere quella paura.
Sollevò il coperchio, e sbirciò: accatastati in varie colonne appiccicate tra loro c’erano tutti i suoi lavori dell’infanzia; lei, infatti, aveva sempre avuto una grande passione per il disegno artistico, la faceva star bene, la aiutava a sfogarsi e a liberare la sua creatività. A quanto pare sono un’amante degli oggetti ferenti. La penna è la spada, una più pericolosa dell’altra. Sorrise al pensiero, ricordando che da piccola non l’avrebbe mai formulato.
Iniziò a tirare fuori i suoi disegni, e in poco tempo, intorno a lei c’erano vari fogli sparsi per terra; essi raffiguravano armi, animali, persone e paesaggi, di cui era riconoscibile l’età guardando la tecnica utilizzata: dagli scarabocchi infantili di quando aveva solo tre anni ai paesaggi maestosi di quando aveva sedici anni. C’era anche un ritratto di Diego, quando ancora erano fidanzati.
Camilla passò un’ora e mezza buona tra quegli oggetti che le ricordavano un passato ormai lontano, e più volte si ritrovò a piangere silenziosamente, ma era naturale.
Infine, arrivò il momento di rimettere tutto in ordine; stava per mettere gli ultimi dieci disegni al proprio posto, quando gliene sfuggirono due, i quali caddero sul pavimento: uno era una specie di mappa del tesoro, fatta quando aveva circa quattordici anni, mentre l’altro era il ritratto di una fonte con un fiume che si allontanava piano, piano; era l’unico colorato, probabilmente fatto un anno dopo la mappa.
La rossa guardò entrambi i fogli e li confrontò per pochi secondi. All’improvviso le si illuminarono gli occhi, le labbra le si distesero in un sorriso: aveva un’idea.
 
Angolo dell’autrice: Hola chicos e chicas.
Scusate per il ritardo, ma sta finendo il quadrimestre e ci stanno riempiendo di verifiche *si accascia sulla scrivania*
Ok, forse è meglio se passiamo al capitolo, il quale inizia con l’unione dei poteri dei Quattro, un’esplosione di colori così forte da far sorridere anche la Stregona degli Animali. Quest’ultima, infatti, sembra per la prima volta soddisfatta, e già capisce quali sono i ruoli dei ragazzi nel gruppo.
Peccato che i sentimenti sono differenti a seconda della persona: mentre Violetta è felice per il successo ottenuto e gioca con Leon, contento anche lui, Diego è preoccupato per quello che ha scoperto Nata e per il suo passato, che sta venendo a galla e non è del tutto pulito e poi è scocciato perché Violetta e Leon sembrano molto uniti… cosa vorrà fare? Infine Francesca è triste, delusa e affranta dal fatto che lei sia sempre l’ultima ruota del carro in ogni cosa che fa e quindi si mette a correre per l’accampamento, per poi finire tra le braccia di Dieguito, alle quali si abbandona completamente (awwwww).
Passiamo alla battaglia, dove sta combattendo Federico, il quale riesce a togliere l’elmo ad uno dei soldati nemici, scoprendo così la loro identità.
Infine è tempo di ricordi anche per Camilla, la quale riguarda i suoi disegni di bambina, scoprendo invece qualcosa di interessante… Cosa sarà? Lo scoprirete nel prossimo capitolo.
Ora vado. Spero che il capitolo vi sia piaciuto, accetto anche critiche e consigli.
Un bacione da Chicca2501
 
 

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Capitolo 10
*** Possibili disastri ***


~~10

Possibili disastri

- Allora Fran, me lo dici cosa succede? – sussurrò dolcemente Diego, mentre accarezzava dolcemente la schiena della ragazza in lacrime.
- N…no. – singhiozzò la mora, affondando ancora di più il viso nel petto dell’altro.
- Io ti posso aiutare. – mormorò il ragazzo, dandole un bacio sul capo e sollevandole il mento con due dita in modo che potesse specchiarsi nei suoi occhi; non sapeva da dove veniva tutta quella dolcezza spontanea, quel senso di protezione nei suoi confronti che non aveva mai sentito per nessuno.
La fissò dritta negli occhi: erano dei normalissimi occhi castani, ma lui se ne sentiva attratto, non riusciva a distogliere lo sguardo da quelle iridi così magnetiche.
Cercò di non fissarla, ma non ci riuscì, era come se fosse legato a una catena invisibile che lo legava a quel viso così dolce, così raffinato.
Istintivamente, poggiò la fronte sulla sua: - Di me ti puoi fidare. – in quelle parole infuse tutta la fermezza e la fiducia che aveva.
La ragazza non sapeva se fidarsi o meno: conosceva Diego da poco più di un mese, non poteva rivelargli i suoi segreti e le sue paure; ma, a contraddire quell’affermazione, c’era il fatto che lei si sentiva sicura con lui, protetta e quando lo guardava provava una strana sensazione che le si formava alla bocca dello stomaco, come se mille farfalle danzassero dentro di lei al ritmo di una musica vivace e pimpante. E poi, aveva bisogno di sfogarsi con qualcuno, e Diego era la persona più adatta.
Lo guardò ancora qualche istante, poi decise: - Ok, ma mi devi promettere che non lo dirai a nessuno. – il ragazzo annuì e sorrise; non uno dei suoi soliti ghigni derisori, ma un sorriso aperto e sincero che su quel volto si era visto in rare occasioni.
Iniziarono a camminare, mentre la mora raccontava. In poco tempo Diego era a conoscenza del suo ruolo nei Quattro e dei suoi sentimenti.
L’altro ascoltò con attenzione, non si perdeva niente e pendeva letteralmente dalle sue labbra.
- E così sono ridiventata la piagnucolona di sempre. – concluse Francesca appena arrivarono ai confini dell’accampamento e si accorsero che lo avevano percorso tutto.
- Non sei una piagnucolona, Francesca. È normale piangere. – la consolò il ragazzo.
- Tu non piangi. – constatò la Cauviglia, guardandolo di traverso.
- Ma io sono un bastardo. – ribatté lui, facendo un mezzo sorriso.
- Si è vero. – rise la mora. - Cambiamo argomento, per favore. -
- Ok, e di cosa vorresti parlare? – domandò l’altro.
- Boh, non so, ma qualunque cosa sia non deve riguardare la magia. -
Diego quasi non sentì quelle parole; un ricordo gli era affiorato alla mente: il loro primo bacio, quella ventata di passione che lo aveva fatto ardere di un’emozione sconosciuta ma bellissima; così, si avvicinò al suo orecchio, e mormorò sensualmente: - Forse vorresti parlare di quello che c’è stato tra di noi l’altro giorno. –
La ragazza arrossì violentemente e chinò il capo: se lo ricordava benissimo quello che era successo, le emozioni che aveva provato, il contatto con le labbra dell’altro…
Era stato il suo primo bacio, un bacio dolce, ma passionale e carico di desiderio, una cosa che lei non aveva mai sentito per un’altra persona.
Il moro le sollevò il mento con una mano, facendo incrociare i loro sguardi. Non capiva più niente, né cosa stava facendo, né il perché lo stesse facendo.
Fatto sta che iniziò ad avvicinarsi sempre di più, fremendo dalla voglia di poggiare le sue labbra su quelle morbide e carnose dell’italiana, quelle labbra che sapevano di dolcezza. Anche Francesca si alzò sulle punte, decisa e desiderosa.
Il corno delle emergenze suonò, facendoli sobbalzare. Il rumore continuava insistentemente.
- Stanno attaccando. – mormorò Francesca, prima di correre verso l’armeria, seguita a ruota da Diego.

Maxi era accasciato sulla sua branda, morto di stanchezza; quel giorno non era morto per un pelo.
Non era mai stato gran che con le armi, in quello eccellevano persone come Leon o Diego, ma non come lui, che si dilettava con il teatro, le mappe e lo studio degli insetti.
Sbuffò; a volte gli sarebbe piaciuto essere più virile, più autorevole o solamente avere un minimo di forza in più nei muscoli. Invece no: era basso, magrolino e l’unica qualità che aveva era una spiccata intelligenza che molte volte non sapeva come utilizzare. Infatti, la mente non ti aiuta granché in battaglia, se non hai un corpo possente.
Improvvisamente, gli tornò alla mente un ricordo.
* Flashback *
- Forza Maxi, concentrati! – la voce di Diego suonava quasi esasperata.
- Ci sto provando! – ribatté il più piccolo, guardandolo male. Ok che era il suo migliore amico, ma lo stava trattando veramente da schifo. Cosa ci poteva fare lui se non era esperto di armi e combattimento come lui?
L’altro sembrò comprendere i suoi pensieri e addolcì lo sguardo: - Dai, scusa. È facile: affondo, tondo e ritorni indietro alzando la spada per parare un colpo. – detto questo, diede una dimostrazione visiva dell’esercizio. Maxi lo fissava, strabiliato: anche se aveva solo dodici anni, Diego Casal era davvero bravo, per non dire il migliore.
- Ora tocca a te. – disse quest’ultimo, porgendo la spada all’amico. Il bambino la prese tra le sue mani e provò la sequenza; l’affondo e il tondo erano passabili, ma al momento della parata cadde all’indietro, finendo proprio in una pozzanghera.
Sentì Diego sghignazzare. Si voltò verso l’altro e lo fulminò con un’occhiataccia. Non osava lagnarsi, nonostante la sua giovane gli permettesse questo piccolo sgarro. Si rialzò in piedi a fatica, i vestiti appesantiti dall’acqua mista a fango.
Squadrò l’amico con uno sguardo di fuoco, per poi gettarsi contro di lui, urlando.
L’altro era più forte fisicamente, ma venne colto di sorpresa, perciò finì a terra, l’amico sopra di lui.
- Ta dan. – rise Maxi.
- Ta dan un cavolo, Ponte, vieni qui! – gridò Diego, mettendosi a rincorrerlo. Nell’aria risuonavano le loro risate felici.
* Fine Flashback *
Maxi sorrise, non sapeva perché stava pensando alla sua infanzia in quel momento; forse quel ricordo gli era tornato in mente perché era uno degli ultimi giorni felici prima della morte del padre. A quel pensiero, non riuscì a trattenere un singhiozzo, sentiva gli occhi che pungevano, segno che le lacrime stavano per arrivare.
Le lasciò scorrere silenziosamente, tanto non c’era nessuno.
- Maxi, che succede? – il ragazzo per poco non scivolò giù dalla branda. Alzò lo sguardo e vide il volto preoccupato di Nata che lo fissava.
- Nata. – la chiamò, mentre si asciugava le lacrime con le mani, nel vano tentativo di nasconderle – che ci fai qua? – le domandò.
- Camilla ha indetto una riunione di emergenza e sono venuta a chiamarti. – gli rispose candidamente la riccia. – Però vedo – continuò – che non stai affatto bene. –
- Sto benissimo, tranquilla. – rispose il ragazzo, mettendosi a sedere.
- Si, se tu stai bene, io sono ricca sfondata. – commentò l’altra sarcasticamente. – Sul serio, cosa c’è? – continuò poi, addolcendo il tono della voce.
Maxi la guardò, incerto; era stato molto tempo con Nata, in quei giorni, e ormai lei lo conosceva bene e lo capiva, ma lui era abituato a tenersi i suoi sentimenti dentro. Ma a quella ragazza lui poteva dire tutto, lei l’avrebbe ascoltato, ne era certo, senza pregiudizi e non l’avrebbe considerato un vile e un pavido perché stava piangendo per la morte di suo padre.
- Stavo pensando a lui. – mormorò. La riccia per un attimo sembrò spaesata, ma poi il suo viso si illuminò, segno che aveva compreso.
- Maxi… oh Maxi! – disse, per poi abbracciarlo. Sentì che anche l’altro ricambiava la stretta e si lasciava andare alle sue cure.
Quando sciolsero l’abbraccio, si guardarono negli occhi: - Non devi farti abbattere Maxi. –
- Ma è così difficile, non ci riesco. Senza mio padre non sono nulla. Lui era la mia roccia, il mio sostegno, uno dei pochi che mi capisse sul serio. Invece, ora che sono solo posso essere considerato tranquillamente una merda! – esplose il ragazzo.
- Maximiliano Ponte non è una merda! – ribatté la riccia. – Lui è dolce, gentile, simpatico e intelligente. Certo, non sarà imponente o molto bravo con le spade, ma è la sua forza morale e intellettuale l’arma che deve usare. È il ragazzo migliore del mondo e… credo di essermene innamorata. – quando concluse il discorso, Nata distolse lo sguardo, imbarazzata da quella confessione.
Quando lo rialzò, l’espressione di Maxi trasudava sorpresa. – Scusa. – sussurrò – era meglio se non dicevo niente e mi dispiace tanto per… - non riuscì a terminare la frase, che il ragazzo le prese il viso tra le mani e la baciò.
Non era un bacio passionale, no, era un semplice contatto di labbra, dolce, delicato, morbido, ma fece comunque venire brividi lungo la schiena a entrambi. Le mani di Nata si posarono sulla vita del ragazzo, mentre prolungava il bacio.
Quando, infine, si staccarono, si sorrisero, emozionati.
- Sai, anche io mi sono innamorato di te. – ammise Maxi, dopo qualche secondo.
La riccia arrossì e lo abbracciò, finalmente felice dopo molto tempo.

- Chi manca? – chiese Camilla, impaziente. Davanti a lei, seduti su sgabelli di legno consumato c’erano Leon, Diego e i Quattro che si guardavano attorno, confusi e stanchi. Beh, erano le due del mattino e avevano finito di combattere solo da poche ore, si capiva.
La rossa batté nervosamente il piede per terra sbuffando; nonostante i vari anni di autorità, prima al fianco di suo padre e poi da sola, il suo carattere così impulsivo e impaziente non era ancora abituato ai ritardatari.
- Nata e Maxi non sono ancora arrivati. – le rispose Violetta dopo pochi istanti, scatenando un altro sbuffo del capo dei ribelli. Il suo stratega, colui che avrebbe dovuto essere il primo ad arrivare, non c’era.
- Siamo qui. – chiamarono due voci affannate, entrando nella tenda. Tutti si voltarono e sorrisero sollevati quando videro entrare Maxi e Nata. Federico notò anche che avevano le mani intrecciate, ma decise di non dire niente, non era quello il momento di fare l’amico geloso.
- Come mai questo ritardo? – domandò Camilla, alzando un sopracciglio. I due ragazzi diventarono improvvisamente agitati, ma, alla fine, Maxi riuscì a balbettare: - Ero andato a fare una passeggiata notturna e… ehm… Nata non è riuscita a t-trovarmi. – dopodiché abbozzò un sorriso dolce e pentito. Il capo lo fece sedere, scusandolo.
- Bene, ora ci siamo tutti? – chiese, esasperata, e per fortuna ricevette una risposta positiva.
- Di cosa ci devi parlare? – intervenne poco dopo Leon, con voce assonnata, riuscendo a stento a trattenere uno sbadiglio.
- Innanzitutto, mi scuso per l’ora, ma è importante. Dovete vedere questi. – detto questo, tirò fuori dalla bisaccia di pelle di cervo due fogli e li mostrò agli altri: erano due disegni rappresentanti una mappa del tesoro e una montagna da cui partiva un fiume dei colori dell’arcobaleno. Tutti si accigliarono immediatamente: Camilla li aveva svegliati per far vedere loro dei disegni?
- Ora so che state pensando: “Camilla è rimbambita”, ma non è così. Leon, Diego, riconoscete questi disegni? -. All’inizio, i volti dei due ragazzi mostrarono confusione, ma dopo pochi attimi i loro volti si accesero e annuirono prontamente.
- Sono i disegni che hai fatto tu quando eri bambina. – disse Leon, lentamente. - Mi ricordo che avevi disegnato la mappa per arrivare alla Fon… - il ragazzo scattò improvvisamente in piedi, buttando a terra la sedia nella furia del movimento.
- Leon, cosa succede?  – chiese una Violetta preoccupata, alzatasi a sua volta.
- Cosa succede? Succede che Camilla vuole condurci verso la morte! – sbraitò nervosamente l’altro.
- Ma perché dici questo? – domandò un’altra volta la ragazza, la quale si stava spaventando per l’atteggiamento del suo amico. Non lo aveva mai visto comportarsi così, nemmeno quando Camilla aveva dichiarato che sarebbe arrivata la Stregona degli Animali, e li era giustificato.
- Per la prima volta nella mia vita, sono d’accordo con Vargas. Camilla, lo capisci che così facendo diminuiscono le possibilità di sopravvivere? – concordò Diego, alzandosi e raggiungendo gli altri due.
- Perché, qui ne abbiamo molte di più? Non stiamo facendo niente, siamo fermi qui, senza una ragione precisa, a girarci i pollici in attesa di un nuovo attacco che ci decimerà! Seguendo il mio piano, avremo magari meno probabilità di sopravvivere rispetto a quelle che abbiamo qui, ma almeno faremo qualcosa! – ribatté con fervore la rossa.
- Io non ti seguirò in questa pazzia. Basta, me ne vado! – gridò Leon, andandosene di corsa dalla tenda.
- Leon! – urlò Violetta, prima di seguirlo.
Quando anche quest’ultima sparì, un silenzio carico di tensione si impossessò dei presenti.
- La riunione è terminata. – sentenziò il capo dei ribelli alla fine. – Ne riparleremo domani. –
Tutti incominciarono ad uscire, stanchi e spaesati. Solo Federico non si mosse; al contrario, si avvicinò a Camilla.
- Che succede? – gli chiese lei in tono scocciato.
- Ti volevo parlare. Ho scoperto una cosa che dovresti sapere. –

- Leon! Leon, aspetta! – Violetta non riusciva a tenere il passo del ragazzo, il quale, al contrario, aumentava la velocità della sua camminata, cercando di seminarla.
- Vattene, Violetta! – le urlò per risposta lui, senza fermarsi.
- Ma io ti posso aiutare! – ribatté la ragazza, riuscendo ad avvicinarsi. – Dimmi che succede. Perché non possiamo spostarci? –
Vargas si fermò di colpo, senza preavviso, e per poco l’altra non cadde in avanti, tanto era stato lo slancio con cui aveva compiuto quegli ultimi passi.
Il ragazzo guardava l’orizzonte, immerso in chissà quali pensieri; Violetta si ritrovò a pensare che con quell’aria persa era ancora più bello; una strana luce riluceva in quegli occhi smeraldo, una luce che non gli aveva mai visto. La ragazza gli appoggiò una mano sulla spalla destra e la accarezzò lentamente. – Ricordati che a me puoi dire tutto. – sussurrò. L’altro girò la testa e posò le labbra su quella piccola mano, inspirando quel profumo al nontiscordardime che la caratterizzava.
Rimasero in questa posizione per vari minuti, prima che Leon alzasse la testa e la guardasse dritta negli occhi. Nocciola e verde si scontrarono, una combinazione di colori perfetta, unica. Si sorrisero dolcemente e si abbracciarono.
- Grazie. – mormorò il ragazzo contro la sua spalla.
- Ora sei più calmo, è questo che conta. – rispose Violetta, dandogli un leggero bacio sulla guancia.
- Prima mi sono arrabbiato per un motivo. – continuò lui, sciogliendo l’abbraccio. – La missione di Camilla è suicida. –
Castillo lo guardò stupita, ponendogli una domanda muta al quale l’altro rispose prontamente: - Vuole andare a cercare una fonte, una fonte magica, che può aiutare i quattro elementi ad unirsi veramente. –
- E cosa c’è di male. -
- Cosa c’è di male? Violetta, lo sai che per raggiungerla dovremmo rischiare la vita. Non è una scampagnata così tanto per fare, no! È un viaggio lungo e faticoso dove i pericoli che affronteremo saranno molti e io non voglio che ti… che vi succeda qualcosa. – dette quelle ultime parole, deglutì.
La ragazza, per un attimo, restò basita. Camilla che li incoraggiava a compiere un’operazione suicida? Le sembrava impossibile. Lei si fidava del capo dei ribelli, e l’avrebbe continuato a fare, e anche Leon ci avrebbe provato.
Così, gli prese una mano e la strinse: - Non dire così. Mi credi ancora una bambina? Pensi che non sia in grado di cavarmela. Sono qui da poco tempo, ma di sicuro l’ultima cosa che farò sarà fuggire alle avversità, e tu, caro mio, farai come me, ok? –
Ora fu Leon quello che rimase sorpreso. La determinazione e la forza di quella ragazza la sconcertavano sempre di più.
La abbracciò di nuovo: - Sei incredibile. – mormorò.
- Lo so. – ribatté lei, scatenando la risata dell’amico. Si, potevano farcela.

Si trovava nel bosco, tra quegli alberi tanto amati che avevano dato un tocco di colore  alla sua infanzia. Era vicino alla quercia dove aveva imparato ad usare la spada; ricordava bene quel giorno: lui, suo padre e suo fratello erano andati là, con delle armi di legno e avevano giocato, riso e si erano divertiti un mondo.
Ma lì era anche il luogo dove sua moglie aveva trovato qualcosa di peggio della morte; rabbrividì al pensiero di quelle mani viscide e unte, quel calderone, i fanatici…
Si sedette, poggiando la schiena contro la corteccia ruvida di quell’albero secolare e inspirò profondamente, godendosi quell’atmosfera così familiare.
All’improvviso, avvertì un formicolio alla testa, un fastidioso prurito che, dalla nuca, si stava diffondendo in tutto il corpo. Incominciò a grattarsi ed era così preso da questa operazione che non sentì dei passi felpati che si avvicinavano.
Qualcuno sibilò alle sue orecchie con voce roca e familiare: - Buonasera, German. –
L’uomo si alzò di scatto e incontrò quei pozzi neri e profondi: - Tu. – ringhiò.
- Oh, per favore, è così sorpreso. – sghignazzò l’altro – Credevo che lei fosse un po’ più furbo. -
- Piccolo bastardo. – venne fermato da una mano coperta da un guanto posatasi sulla sua bocca.
- Ha ragione, ma non tollero le parolacce a casa mia. – furono le ultime parole che sentì.


Angolo dell’autrice: Hola a todos *sbuca dalla torre di libri, scartoffie e dvd* come va? Vi sono mancata? Probabilmente no, ma pazienza, dovete sopportarmi.
Innanzitutto mi scuso per l’immenso stratosferico ritardo, ma ci sono stati degli impedimenti: tra scuola, basket, computer rotto, il mio compleanno, e il drogarmi di once upon a time *occhi a cuoricino per quella serie meravigliosa* non sono riuscita a scrivere molto.
In più mi è venuto il “blocco dello scrittore” (se così mi posso definire) e l’ispirazione è andata a farsi friggere insieme ai cavoletti di Bruxelles.
Va beh comunque, a me questo capitolo non mi piace molto, non apporta grandi cambiamenti alla storia ed è quello in cui ho dovuto correggere più cose.
Comunque, spero che il capitolo vi sia piaciuto, accetto anche critiche e consigli.
Un bacione da Chicca2501
 

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Capitolo 11
*** L'avventura è appena iniziata ***


~11

L'avventura è appena iniziata

Dovette trasportare il corpo per diversi chilometri prima di giungere alla meta; davanti a lui si estendeva l’accampamento, un insieme di tende nere come il petrolio, su ognuna delle quali sventolava una bandiera con lo stemma della fiamma nera.
Sorrise: quanto tempo era passato dall’ultima volta che era stato lì, a combattere.
Si avvicinò con passo felpato all’ingresso, davanti al quale due guardie facevano la guardi; appena lo videro, bloccarono il passaggio, così lui abbassò il cappuccio che gli nascondeva completamente il volto: a quella visione, i soldati si ritrassero, spaventati, e lo lasciarono passare.
Mentre attraversava l’accampamento, si ritrovò a pensare che, nonostante fosse stato via per molto tempo, incuteva ancora timore negli altri.
Alla fine, arrivò: era una tenda come le altre, nera e con la bandiera in cima, ma era il contenuto che gli interessava, non l’aspetto.
La prima cosa che vide quando fece il suo ingresso fu un focolare: al centro dello spiazzo, infatti, troneggiava un mucchio di legna sulle quali danzava un fuocherello. Sopra di esso c’era una piccola pentola in metallo, dalla quale partiva una colonna di fumo grigio e denso.
Solo dopo notò una figura seduta in un angolo su uno sgabello di legno; essa, a sua volta alzò lo sguardo e appena lo vide sorrise, i denti bianchi che rilucevano nella penombra.
Si sollevò egli andò incontro, abbracciandolo. Il ragazzo rispose alla sua stretta, appoggiando il capo sulla spalla dell’altro, cercando di trattenere le lacrime.
-Finalmente sei qui. – mormorò quest’ultimo, attirandolo ancora di più a se. Il più piccolo sospirò; quanto gli erano mancati i suoi abbracci, anche adesso che non era più un bambino, li adorava.
- Già, sono qui – ripeté, con una punta di malinconia involontaria nella voce.
Infatti, l’uomo non tardò ad accorgersene. – Che cos’hai? – chiese infatti, sciogliendo la presa e guardando l’altro negli occhi. Il ragazzo sorrise: lui capiva sempre i suoi stati d’animo.
- Devo ancora finire il lavoro. – ammise, indicando il corpo dentro il sacco nero. – Non è ancora finita. – sospirò, rendendosi conto del peso che avevano per lui quelle quattro parole.
- Andrà tutto bene. – tentò di consolarlo l’uomo, stringendogli una spalla con la mano.
- E se fallisco? Se qualcosa va storto? – i dubbi che lo avevano attanagliato per anni e che aveva cercato di soffocare, ora stavano riaffiorando, mettendolo in crisi. In più, c’erano altri fattori che complicavano la situazione, già di per sé burrascosa.
- Perché dovresti fallire? – bella domanda. Non sapeva perché, ma aveva l’impressione che quella storia non sarebbe finita bene. Non credeva più nella missione come un tempo, il suo obbiettivo si stava spostando.
L’unica cosa che lo teneva legato a quell’impresa era lui, l’uomo che aveva davanti, colui per cui aveva lottato già da prima che tutto iniziasse e sapeva che lo avrebbe fatto fino alla fine.
- Non lo so, ho questa sensazione. Io non… - la frase venne troncata all’improvviso da un mugolio sommesso proveniente dal sacco nero.
- Devo andare – ammise il ragazzo – Devo finire il lavoro. –
- Ci rivedremo presto. – lo rassicurò l’altro. Un ultimo forte abbraccio, poi si separarono.

- Cosa succede? – domandò Camilla, dopo qualche istante.
- Ho scoperto qualcosa sull’identità dei nemici. - Federico disse quelle parole tremando, fremeva dalla voglia di togliersi quel peso dallo stomaco.
- In che senso? – ora la voce della rossa era carica di un interesse che prima non aveva.
- Hai presente l’attacco di oggi? – l’altra annuì – Bene, ho tolto con un colpo di spada l’elmo dalla testa di uno dei soldati e… - il ragazzo trattenne un conato di vomito.
- Cosa, Federico? Cosa? – lo spronò ad andare avanti il capo dei ribelli, guardandolo con curiosità mista ad una paura repressa. L’italiano sapeva perfettamente come si doveva sentire, era quello che aveva provato lui poco prima di compiere il gesto.
Prese un respiro profondo: - Non avevano gli occhi. – mormorò, e fu come se il cuore si alleggerisse, come se un macigno che gravava da un po’ di tempo su di esso fosse rotolato via, spinto da quelle poche parole.
Sollevò lo sguardo, e vide una Camilla che lo fissava con le sopracciglia aggrottate.
- In che senso non avevano gli occhi? – chiese, avvicinandosi un poco al ragazzo.
- Le orbite erano vuote, vuote come due pozzi senza fine. – un brivido percorse la schiena di entrambi. – Sai di cosa si tratta? – domandò, notando che la rossa aveva avuto la stessa sua reazione.
La ragazza attraversò a grandi passi la stanza, come se non avesse sentito le sue parole, e si accovacciò di fronte a un grosso baule. Ci frugò dentro per qualche secondo, prima di alzarsi e ritornare vicino a Federico. In mano aveva un foglio di carta ingiallito.
- Si, so di cosa parli. – rispose, fissandolo negli occhi – Quando mio padre era ancora in vita, mi aveva parlato di un sortilegio oscuro utilizzato dai Sarchatan. Neanche lui sapeva bene di cosa si trattasse, ma mi ha detto quali erano le conseguenze, e io le ho disegnate. – detto questo mostrò il pezzo di carta al ragazzo: sopra vi era disegnata, in bianco e nero, un uomo sul cui viso facevano la loro comparsa due orbite vuote, nere come il petrolio.
Federico deglutì rumorosamente davanti a quella rappresentazione così artistica e elaborata, ma così terribile e dannatamente vera.
- Cosa dobbiamo fare. – la sua voce, stranamente, non si incrinò.
- Quello che avevo già intenzione di fare: ce ne andremo, adesso ne sono sicura più che mai. – ribatté Camilla, stringendo nel pugno il foglio sempre più stropicciato.
- Ma Leon non… - tentò di dire l’italiano, ma venne repentinamente fermato dal capo, il quale, con voce dura, disse: - Non mi importa di quello che vuole fare Leon. Che si arrangi. Sono io il capo, e spetta a me decidere. Ora va a dormire. Domani partiremo, con o senza l’approvazione del mio vice. –
A quel punto, Federico dovette andare, lasciando da sola la rossa. 

Leon girovagava per l’accampamento, la testa china, immerso nei suoi pensieri. Il vento gli scompigliava i corti capelli castani pettinati in un ciuffo all’insù e animava il suo mantello color rosso sangue, dandogli l’aria di un’anima in pena in cerca di realizzazione.
Era combattuto, dentro di lui si stava svolgendo un lungo dibattito che vedeva impegnati in un’accesa discussione il cuore e la testa: il primo gli consigliava di seguire il consiglio di Violetta e gettarsi a capofitto in questa nuova avventura, ma la seconda non era d’accordo, poiché non faceva che ripetergli di restare e di non farsi accecare dai sentimenti, di pensare razionalmente.
Questa guerra stava avendo luogo dalla fine della chiacchierata con la ragazza, la quale era poi rientrata nella sua tenda. Alla fine, vinse il cuore. Si, doveva rischiare, lo doveva a Camilla, alla sua comunità e a Violetta.
Decise di andare subito dalla rossa a comunicargli la bella notizia, così incominciò ad avviarsi, pervaso da un forte senso di euforia. Non corse, però, voleva pregustarsi quegli attimi di intensa forza, accentuata dalla fresca aria di una notte estiva.
Ma, durante il percorso, notò uno strano movimento in una tenda vicino a lui, un piccolo spostamento d’aria che lo fece voltare di scatto; la sua preoccupazione venne amplificata dal fatto che era quella di Violetta.
Sguainò immediatamente la spada, pronto a difendere se stesso e l’amica in caso di attacco, ed entrò nella tenda. Ma, all’interno, sembrava tutto tranquillo: la ragazza dormiva profondamente sulla branda, raggomitolata in posizione fetale, quasi per proteggersi da pericoli immaginari, il viso rivolto verso Leon, il quale la fissava incantato. Violetta era meravigliosa anche immersa nel mondo dei sogni. All’improvviso, risentì quello spostamento d’aria che anche prima lo aveva fatto sobbalzare e, prima che se ne potesse accorgere, era a faccia a faccia con Diego, anche lui con la spada sguainata.
- Che cosa ci fai qui? – dissero all’unisono, zittendosi immediatamente appena la ragazza addormentata emise un grugnito e sospirarono di sollievo quando quest’ultima si girò dall’altra parte.
- Vieni, usciamo. – sussurrò Diego, trascinando l’altro fuori dalla tenda.
- Ora mi vuoi dire che cosa ci fai qui? – domandò con fare iroso una volta fuori.
- Non sono tenuto a risponderti. – ribatté Leon, guardandolo male.
- Guarda che potrei denunciarti a Camilla per ingresso in uno degli alloggi dei Quattro con una spada sguainata e senza un alibi, mezzosangue. – sibilò lo spagnolo a denti stretti.
- Ho sentito dei rumori provenienti dalla tenda e sono andato a controllare. Tu, piuttosto, che combinavi? – ammise il mezzo satiro.
- Lo stesso. – rispose l’altro con noncuranza, ricevendosi un’occhiata indagatrice da parte dell’altro, il quale fece comunque finta di niente e disse: - Bene, ora vado. Ciao. –
Fece per dileguarsi, ma Diego lo fermò: - Ti devo parlare. –
Vargas si voltò, stupito: - E di cosa, sentiamo? –
- Di Violetta. – la risposta sconcertò alquanto l’altro ragazzo, che non se lo aspettava di certo.
- Di Violetta? –
- Si, di Violetta. Non voglio che tu le stia intorno. – quell’ordine così secco e veloce, come se fosse rivolto ad un servo invece che ad un suo pari, ebbe l’effetto di far infuriare Leon.
- E perché non dovrei, scusa? – sibilò a denti stretti – Per caso ti sei invaghito di lei e vuoi utilizzarla per le tue avventure di una notte? – l’idea della ragazza sola con quel bastardo sciupa femmine lo fece schiumare di rabbia.
- No, mai. – si difese prontamente Diego, accompagnando la frase con una smorfia
- Vilu è la mia migliore amica, non farei mai una cosa del genere. –
- E allora di cosa si tratta? – sbuffò Vargas, sollevato da quella risposta.
- Sai, tu sei un mezzosangue. – incominciò Casal – e Violetta di sicuro non merita di avere vicino un bastardello. –
- Siamo solo amici, non vedo cosa ci sia di male. C’è gente che è amico delle fate. – ribatté l’altro, mentre la rabbia cresceva.
- Oh, no, Vargas, no. Voi due non siete solo amici. Non vedi come ti guarda, come ti sorride? – il mezzo satiro scosse la testa.
- Sei un cieco, allora. Lei è innamorata di te, mezzosangue, e tu di lei e non posso permettere che questa storia continui, ne vale della reputazione di Violetta. Pensaci bene. – detto questo, girò i tacchi e se ne andò, lasciando Leon con mille dubbi in testa.

Ludmilla si svegliò, colpita da uno spiraglio di luce che faceva capolino dall’entrata della tenda. Si voltò su un fianco e sorrise quando vide che Federico era ancora lì. Ormai stavano dormendo quasi ogni notte insieme, con lui che la abbracciava e la consolava e lei che si perdeva nel tepore di quelle strette.
Non lo avrebbe mai ammesso, ma cominciava a intuire che qualcosa tra loro stava cambiando: prima lo guardava con disprezzo, mentre ora, ogni volta che se lo ritrovava di fronte, non poteva fare a meno di pensare quanto fosse non solo bello, ma anche dolce, gentile e astuto.
Gli passò delicatamente una mano sulla guancia del moro e sussurrò: - Grazie. –
A sorpresa l’italiano aprì gli occhi e ammiccò: - E di che? – la bionda non poté trattenere un risolino divertito e si avvicinò a lui, posando il capo sulla sua spalla destra.
- Di essere stato qui con me anche stanotte. – disse, accoccolandosi più vicina.
Il ragazzo la circondò con le braccia, affondando il viso nei suoi capelli color dell’oro, così lucenti e profumati.
- Di niente. – sussurrò contro il suo capo – Purtroppo adesso dobbiamo alzarci. Ci aspetta una lunga giornata.
Entrambi scivolarono fuori dalle coperte con una certa svogliatezza. La ragazza si sorprese ad ammirare il fisico perfetto del suo amico, che aveva superato già da tempo la fase di denutrizione di quando era all’orfanotrofio; adesso era si magro, ma muscoloso, senza esagerazioni però.
Distolse immediatamente lo sguardo, arrossendo. Non era abituata a simili emozioni e le accettava con riluttanza.
Federico si girò e le sorrise, un sorriso dolce, sincero che la fece sciogliere come neve al sole. – Bene. – disse il ragazzo, raccogliendo in un angolo due borsoni con i loro pochi averi – Andiamo. – porse il braccio alla ragazza e uscirono nella forte luce del mattino.

Un fischio risuonò nella pianura, facendo voltare tutti; Camilla, dall’alto di una roccia, la spada nel fodero e un grosso zaino in spalla, li aveva chiamati.
Sorrideva, ma sembrava un sorriso molto forzato, non vero; questo perché Leon non era ancora arrivato.
Nonostante quello che aveva detto la notte prima a Federico, ovvero che non le importava se Leon veniva o meno, sentiva che nel suo cuore si stava aprendo una voragine incolmabile: cosa avrebbe fatto senza di lui, senza il suo braccio destro, il suo migliore amico?
Sentiva le lacrime pungerle gli occhi insistentemente ma le ricacciò indietro, non poteva permettere che gli altri li vedessero. Ora aveva capito cosa aveva fatto: aveva richiamato i Quattro e dato una speranza ai vari popoli di Atlantide, ma a causa di quella scelta stava perdendo a poco a poco tutte le persone che amava e la fiducia dei ribelli.
Immersa in questi lugubri pensieri, iniziò a parlare, ma quello che diceva le sembrava vuoto, senza senso. La promessa di una nuova vita, la Fonte che ci salverà, i Quattro che sconfiggeranno i nemici… su cosa stava sproloquiando inutilmente.
Alla fine del suo discorso, tutti applaudirono, e, per una volta, sembravano soddisfatti: le fate volavano sbattendo le piccole ali in segno di gratitudine, gli elfi alzavano le braccia intonando inni, i nani e gli gnomi sbattevano le armi e gli uomini ridevano e applaudivano il loro capo.
Ma tutta quella felicità aveva un prezzo, e lo stava pagando solo lei. Prima di dare il via al viaggio lanciò un ultimo sguardo al territorio circostante per vedere se c’era traccia del suo amico, ma niente. Le sfuggì una lacrima. Aprì la bocca per iniziare ad impartire ordini, quando una voce risuonò: - Aspettate! – tutti si girarono verso la direzione da dove proveniva quel richiamo. Un ragazzo correva verso di loro, cercando di non cadere sotto il peso dei pezzi della tenda, del borsone e dello spadone che portava a tracolla.
La rossa sorrise: era lui. L’ultimo arrivato arrivò sotto la roccia sopra la quale stava la ragazza e chiese: - Cos’è, volevi partire senza di me, capo da strapazzo? Lasciarmi qui solo e sperduto in balia dei nemici? – il tono canzonatorio con cui lo disse fece ridacchiare Camilla.
- Perché dovrei lasciarti venire? – ribatté, per farlo un po’ rimanere sulle spine.
- Perché hai bisogno di me. – nelle sue parole non c’era traccia di sarcasmo, ma un sentimento puro, vero, sincero: l’amicizia.
Il capo dei ribelli lo guardò con dolcezza infinita, prima di dire: - Vieni qui, vice. Credo che avremo bisogno del tuo ausilio. –
Leon sorrise, poi con uno scatto e un balzo raggiunse Camilla sulla roccia.
Quest’ultima, infine, urlò: - In marcia! –
La vera avventura era appena iniziata.


Angolo dell’autrice: Ehilà, come va la vita? Finalmente scrivo con tranquillità, era da un po’ che non succedeva.
Avete visto, ho pubblicato dopo un tempo più o meno ragionevole(?) e sono molto felice *saltella tipo Heidi*
Comunque, in questo capitolo succedono varie cose: secondo voi chi è il ragazzo che è entrato nell’accampamento? Mistero, mistero (forse, dipende se riesco a nascondere bene la sua identità o meno XD). Poi Federico rivela a Camilla quello che ha scoperto e lei ne sa qualcosa…..
Sinceramente mi stavo per strozzare da sola quando ho scrittola parte di Leon e Diego, ma era necessaria, d’altronde senza complicazioni le storie non esisterebbero, no? ;)
Federico e Ludmilla sono molto cucciolosi, io amo quella coppia, ma per ora sono solo amici. Chissà, magari nascerà qualcosa.
Leon che ritorna da Cami, ullallà, cuoricini dappertutto, ma io non dormirei comunque sonni tranquilli *fa una faccia malvagia stupida*
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, accetto anche critiche e consigli.
Un bacione da Chicca2501

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Capitolo 12
*** Spiriti ***


~~12

Spiriti

Il sole stava tramontando, illuminando con i suoi ultimi raggi il cielo, dipingendolo di un rosso vermiglio che ben si amalgamava con l’arancione acceso, creando così uno spettacolo mozzafiato.
Violetta stava rimirando proprio questa distesa di colori, seduta a gambe incrociate sulla terra nuda. Aveva bisogno di un po’ di riposo e guardare il sole che salutava il mondo prima di “andare a dormire” la calmava sempre.
I tramonti, però, erano diversi ad Atlantide: i colori erano più accesi, il sole sembrava più grande e dava l’impressione che procedesse più lentamente, quasi non avesse voglia di lasciare spazio alla luna, di cui si intravedeva l’ombra.
La ragazza fece un respiro profondo: tra poco sarebbe arrivata la notte e con essa i turni di guardia, il costante senso di pericolo e la sensazione che l’indomani tutto andrà storto. Non che di giorno cambiasse qualcosa, sia chiaro.
Ormai erano in marcia da più o meno una settimana, e tutti i ribelli rimpiangevano la pianura terrosa in cui avevano stabilito il loro accampamento precedente.
Adesso, invece, si camminava fino al tramonto, in silenzio, con pause brevi e destinate solamente ai pasti o ai bisogni igienici e anche quelli solo se urgenti.
Stavano fiancheggiando il fianco di una montagna, e, già dal primo giorno, avevano dovuto fare i conti con i vari ostacoli del viaggio: insetti, animali feroci, un albero caduto, un fiume dalle acque particolarmente impetuose e infestate da coccodrilli…
Violetta credeva di essere allenata, d’altronde nel suo mondo era una delle atlete più rinomate della scuola, ma, a quanto pare, l’allenamento di pallacanestro giornaliero non bastava.
Si sdraiò, continuando a fissare il cielo, che si scuriva sempre di più. Sentì una mano che le sfiorava una spalla; si girò, aspettandosi di vedere i due occhi verdi che tanto amava, ma quello dietro di lei non era Leon, ma Diego.
La bionda non poté fare a meno di provare un po’ di delusione, nonostante non avesse parlato molto con il suo migliore amico da quando erano finiti ad Atlantide.
- Ehi. – la salutò il ragazzo, stendendosi al suo fianco.
- Ehi. – rispose al saluto lei, voltandosi a guardarlo. Anche l’altro si girò e sorrise mentre allungava una mano e le scompigliava i capelli. Quanto era mancato a entrambi quel gesto, un simbolo di amicizia e normalità al tempo stesso.
- Vedo che i tramonti ti calmano ancora. – proseguì il moro, guardando l’amica di sottecchi. Quest’ultima annuì e emise un sospiro.
- Come ti sembra il viaggio? – si vedeva che la domanda era stata fatta più per rompere quel pesante silenzio creatosi tra di loro che per vera curiosità, ma Violetta apprezzò comunque quell’iniziativa.
- Più faticoso di quanto immaginassi. – ammise. Ovviamente non si aspettava una gita tranquilla in campagna fatta di pic-nic e passeggiate in campagna, ma pensava di poter reggere.
 - Wow, dove è finita la Violetta super allenata che si vantava della sua resistenza e della sua resistenza? – quella domanda detta con un tono sarcastico fece sorridere la ragazza.
- È sparita appena siamo arrivati qui. – nonostante ostentasse un portamento allegro e vivace, non poté nascondere una punta di malinconia nella voce.
- Già. – Diego sentì di nuovo la tensione che cresceva e cercò di disfarsene. – Ma dal nostro arrivo sei migliorata molto, e questo solo grazie a te e alla tua determinazione. Detto questo le sfiorò la guancia con una mano.
- No, non ho fatto tutto da sola. Leon mi ha aiutato. – a quelle parole, il ragazzo sentì una fitta al petto, anche se non sapeva cosa l’avesse causata.
- Oh, menomale. Ti sta simpatico? –
- Molto, è un ragazzo speciale. Sai, poverino, ha avuto un’infanzia difficile e non va fiero delle sue origini, quindi… -
- Ti piace? – Diego si pentì subito di aver posto questa domanda. Chissà come poteva sembrare agli occhi di Violetta. La ragazza arrossì, voltando lo sguardo per nascondere le guance in fiamme.
- No. – mormorò. Si corresse subito dopo, davanti allo sguardo eloquente dell’amico: - Ok, forse un pochino. –
Il ragazzo strinse forte i pugni per impedirsi di dire qualcosa di compromettente. – Oh. – disse solamente.
Guardò con sguardo furente la bionda, la quale aveva rivolto l’attenzione al cielo. Doveva sbrigarsi o tutto sarebbe andato a rotoli.

Francesca non riusciva a dormire. Si girava e rigirava nel suo sacco a pelo scuro, ma il sonno non veniva. Eppure era stanca, per non dire stravolta.
Chiuse ancora una volta gli occhi, sperando nella venuta dell’oblio, ma esso si ostinò a non raggiungerla.
Sbuffò e si alzò, scocciata; il giorno dopo, probabilmente, sarebbe svenuta per la stanchezza e avrebbe causato ulteriori problemi, su questo ci metteva la mano sul fuoco.
D’altronde, cos’era lei, se non un intralcio? Una ragazza spaurita che acquisiva coraggio solo quando era veramente in pericolo e che veniva considerata più importante di quello che era in realtà. Si immaginava il giorno in cui tutti avrebbero scoperto che non sapeva usare i suoi poteri, e vedeva soltanto delusione e derisione.
Scosse la testa, cercando di mandare via i brutti pensieri che le infestavano la mente e si avvicinò al falò, ormai quasi spento.
Si chinò sulle braci morenti, cercando di riscaldarsi un poco le mani intirizzite per il freddo.
All’improvviso, sentì un fruscio alle sue spalle, un lieve rumore che la fece sobbalzare; proveniva da un gruppo di abeti alla sua destra. Si alzò lentamente e si avviò verso gli alberi con circospezione. 
Continuò ad avanzare, mentre l’oscurità si faceva sempre più densa, avvolgendola come fosse una coperta. Sentiva il freddo pungerle la pelle, i rami graffiarle le mani e il viso.
Intanto il bosco sembrava allargarsi, gli alberi crescevano e i loro rami parevano lunghi artigli pronti a ghermirla nella loro morsa crudele. Il cuore iniziò a batterle all’impazzata davanti a quella visione, ma una parte della sua testa che non si era ancora resa al sonno credeva che tutto questo fosse solo frutto della sua immaginazione, resa ancora più vivida dalla stanchezza, e le intimò di ritornare all’accampamento, dai suoi amici.
La ragazza prese un bel respiro profondo e si voltò, ma vide, con sua grande sorpresa, che dove prima credeva ci fosse un masso coperto di muschio, c’era un abete esattamente identico agli altri. Il cuore ricominciò a cercare di sfondarle il petto con il suo rullare e un nodo alla gola le bloccò la respirazione, costringendola ad inspirare con la bocca.
Si avvicinò all’albero appena comparso, mentre lì vicino cercava segni del suo passaggio che le potessero indicare quale strada aveva preso per arrivare in quel punto indistinto del boschetto. Ma, con l’arrivo della nuova, gigantesca pianta, tutte le tracce che poteva aver prodotto, sembravano scomparse.
Francesca si sedette, appoggiandosi al tronco, lasciando finalmente che il panico prendesse il sopravvento; non si accorsi di due occhi gialli che la fissavano crudeli alle sue spalle.

- Allora, qual è la prossima tappa? – domandò Leon, togliendosi la camicia e rimanendo a torso nudo. Camilla lo degnò appena di uno sguardo: nonostante il fisico del ragazzo fosse uno dei migliori, ormai lo conosceva da troppo tempo per poter cedere alla lussuria che poteva dare quel corpo a molte ragazze.
- Credo il Pozzo delle Perdite. – rispose, continuando a fissare la mappa posata sulle sue ginocchia.
- Che bel nome. Probabilmente si tratta di una festa in maschera. – commentò il ragazzo in tono sarcastico.
La rossa sorrise, continuando a fissare la mappa: le sue dita lunghe e affusolate sfioravano lievemente quel pezzo di carta e ne percorrevano i percorsi, strette linee bianche che si intrecciavano tra loro su uno sfondo marrone e che percorrevano luoghi sia conosciuti e rinomati, sia inesplorati e pronti alla conquista.
Con l’unghia seguì un sentiero più stretto degli altri che si inerpicava su una catena montuosa e che finiva dall’altra parte, dove era disegnato nel modo più accurato possibile un pozzo dai colori indefiniti.
La sua mente incominciò a vagare, a immaginare quel luogo che era sulla bocca di tutti ma dal quale pochi erano tornati vivi. Un guizzo di paura si fece largo tra i suoi pensieri, riportandola alla realtà, riscuotendola dalle sue avventurose fantasie.
E se quel posto fosse stato un pericolo per la sua gente? Come potevano sopravvivere se non ci erano riusciti neanche i guerrieri più forti? Con questo non intendeva che i suoi non fossero uomini valorosi, ma non erano pronti ad affrontare il genere disfide che va oltre la semplice battaglia.
- A cosa stai pensando? – la voce di Leon le fece fare un salto, riscuotendola dal torpore in cui le sue riflessioni l’avevano trascinata.
- Questo posto, il Pozzo delle Perdite, è un luogo molto pericoloso, e io non so… -
- Non sai come faranno gli altri a superarlo. – la interruppe il ragazzo, facendola annuire.
- Non esiste un altro percorso? – Camilla scosse la testa, sconsolata; quello era l’unico modo per arrivare alla Fonte, purtroppo.
Il mezzo satiro si mise a percorrere la tenda avanti e indietro, la testa china, con fare riflessivo. Ad un certo punto, alzò il capo di scatto, una scintilla negli occhi, la scintilla di qualcuno con un’idea.
- E se non andassimo? – allo sguardo confuso dell’amica cercò di spiegarsi meglio: - Volevo dire: e se non andassimo tutti? Potremmo andare in avanscoperta io, te, i Quattro e un paio dei soldati migliori, per vedere come procedere. -
Il capo dei ribelli ci pensò un po’: - E se nessuno di noi tornasse vivo? –
- In tal caso, eleggeremo uno che possa sostituirci durante la nostra assenza e che, se non tornassimo entro ventiquattro ore, diventerebbe il nuovo capo.
- E io so già chi nominare. – disse Camilla, lanciando un’occhiata d’intesa a Leon, che subito sorrise, avendo capito le sue intenzioni.
- Maxi. – l’altra annuì.
- Maxi. – ripeté. Non fecero in tempo a dire altro che nella tenda entrarono un affannato Diego e una spaventata Violetta.
- Cosa succede, ragazzi? – domandò la rossa, incuriosita e preoccupata al tempo stesso per quella incursione.
All’inizio i ragazzi non risposero, troppo stanchi per farlo. Entrambi avevano uno strano sguardo un misto di spossatezza e sconforto, quello sguardo che Camilla aveva avuto per molto tempo dopo la morte del padre.
Dopo che entrambi si furono seduti e rinfrescati bevendo dell’acqua, sotto incitazione delle due autorità dell’accampamento, Violetta riuscì a mormorare: - Francesca è scomparsa. –

Francesca si prese il viso tra le mani, mentre il panico cresceva. Sapeva già come funzionava, aveva già avuto più volte quell’esperienza, nella sua vecchia vita da prigioniera: la sensazione di paura prima strisciava dentro di te, silenziosa; poi ti invadeva l’anima, lentamente, assaporando il tuo coraggio e distruggendolo; infine, si impossessava definitivamente del tuo corpo, rendendoti vulnerabile.
Era così che si sentiva, vulnerabile; come quando era piccola, una bambina debole, che non si sarebbe mai abituata alla vita del carcere, che piangeva per un nonnulla.
Chiuse gli occhi per evitare che le lacrime fuggissero dai suoi occhi, ormai pieni di esse, anche se sapeva che quella protezione sarebbe durata poco; infatti, qualche istante dopo sentì le così familiari goccioline salate scivolarle giù per la guancia, sfiorarle l’angolo della bocca.
Si era così abituata al loro tocco che si accorse immediatamente quando il tragitto di una venne fermato bruscamente poco più sopra della curva del labbro superiore. Era un tocco lieve, quasi impalpabile, che fece sollevare di scatto il volto alla ragazza.
All’inizio non riuscì a vedere esattamente di cosa si trattava, la vista offuscata dalle lacrime, ma quando finalmente ci riuscì il cuore perse un battito, il respiro divenne affannoso, le mani iniziarono a tremare, guidate da un fremito incontrollabile: davanti a lei c’era Luca.
La mora deglutì rumorosamente, non riuscendo a credere che suo fratello fosse veramente di fronte a lei. – Luca…. – riuscì a mormorare. Il ragazzo sorrise, e in quel gesto ci infuse una dolcezza infinita, materna, che fece sciogliere il cuore all’altra.
- Luca… - ripeté, scostandosi una ciocca di capelli sudati dalla fronte.
- Si, sono io, Fran. – disse il più grande, sempre sorridendo. Francesca represse l’impulso di gettargli le braccia al collo.
- Non mi aspettavo di rivederti. – era la verità, credeva che fosse morto, ormai aveva perso le speranze, e rivederlo li vicino a lei le fece credere per un secondo che i miracoli esistessero. Solo per un secondo, però. C’erano molte domande che le ronzavano in testa, piccoli insetti dispettosi che fecero vacillare le sue sicurezze: come era finito in quel mondo? Come aveva fatto a sopravvivere? Per caso era stato aiutato?
- Lo so, sorellina, ma non ti devi preoccupare. Io sono qui e ti prometto che non ti lascerò mai più. – detto questo, le tese la mano, invitandola ad alzarsi con lo sguardo.
Lei, però non si mosse, e, nonostante la sua espressione non fosse mutata, la ragazza notò il fastidio nella sua postura e nei suoi gesti.
Non sapeva perché lo aveva respinto, era Luca, ed era uguale a quando lo aveva lasciato….
Fu proprio questo che fece capire a Francesca il perché il suo cervello le suggerisse di non fidarsi di quell’apparizione: se fosse stato veramente suo fratello, ora avrebbe avuto i vestiti laceri, il viso sporco e sarebbe stato sorpreso quanto lei; invece era esattamente uguale a lui, i capelli perfetti e il vestito nuovo che gli avevano dato prima di uscire dalla prigione, e non sembrava affatto stupito che la sorella fosse li.
Balzò in piedi. –Tu non sei Luca. – sibilò.
Il viso del fratello si contorse in una smorfia, ma non di dolore o di delusione, piuttosto sembrava semplicemente contrariato. – Vedo che qui qualcuno ha tirato fuori le unghie. – la smorfia venne sostituita da un ghigno crudele.
Un vortice grigio avvolse il suo corpo e appena sparì, Luca non c’era più: al suo posto c’era una sagoma nera come l’oscurità più profonda dell’Inferno, con al centro due piccoli fari che sembravano occhi luccicanti.
La ragazza arretrò di un passo. – Chi sei? – chiese. Quella sottospecie di ombra scoppiò in una fragorosa risata; aveva una voce profonda e baritonale.
- Non so perché dovrei risponderti. – disse, facendo luccicare ancora di più gli occhi.
- Perché… perché sono una dei Quattro. – non avrebbe dovuto farlo. La sagoma si mise a girarle intorno, sospettoso. – Una dei Quattro? – domandò poco dopo – Tu? – il tono in cui aveva pronunciato quella parola era derisorio e Francesca sentì una fitta di dolore e rabbia insidiarsi nel suo cuore spaventato.
- Si. – affermò con forza – Si, sono una dei Quattro, e i miei amici non sono lontani, mi verranno a prendere e ti rimanderanno all’Inferno. – sputò quella frase con un disprezzo che non credeva le appartenesse, e per un attimo si sentì forte, potente; ma quella sensazione non durò a lungo, subito dopo era tornata terrorizzata e pentita di quello che aveva detto.
- Di sicuro non hai mai visto l’Inferno, ragazzina. – sibilò l’ombra. – Perché allora capiresti… che ci sei dentro. –
Allargò le lunghe braccia color della notte e dall’oscurità uscirono altri suoi simili, tante, troppe sagome nere che si avvicinavano inesorabilmente alla ragazza, la cui paura cresceva sempre di più, divorandola.
Sperò che gli altri arrivassero presto.

Correvano veloci nel bosco, seguendo una traccia invisibile, guidati dai cani, che con il loro olfatto li stavano conducendo verso la meta.
I loro passi risuonavano rumorosamente sul terreno duro, ma non importava. Ognuno di loro portava un’arma legata alla cintura o in spalla, pronti ad ogni evenienza.
All’improvviso, un grido, uno strillo acuto e penetrante, inesorabile. Cambiarono immediatamente direzione, seguendo la fonte di quell’urlo.
Arrivarono improvvisamente, ma di tutto si aspettavano tranne quello che videro: Francesca era tra le braccia di una grande ombra scura, i cui occhi brillavano nella notte. Accanto a lui, i suoi seguaci. – Spiriti Tamahai. – sussurrò Leon, sfoderando la spada.
- Vedo che qualcuno ci ha riconosciuto. – disse colui che teneva prigioniera la ragazza. – Sono questi gli amici di cui tanto invocavi l’aiuto? – domandò infine a quest’ultima, ormai mezzo svenuta.
- Francesca, trattieni il respiro, tra poco sarai libera. – urlò Camilla, ricordandosi che l’odore degli spiriti Tamahai aveva il potere di inebriare le loro vittime e portarle ad un sonno senza ritorno.
- E come la salverete? – chiese lo spirito – Con quelle insulse armi umane?! – lui e i suoi compari scoppiarono a ridere, levando le loro voci spettrali verso il cielo, come un canto alla luna.
- Lo sai che non potete sconfiggerci. – a parlare non il capo, ma un altro Tamahai, che si avvicinò alla rossa. – Vediamo come sei coraggiosa. –
Camilla chiuse gli occhi per impedirsi di guardare, consapevole di quello che l’aspettava, ma l’impulso di vedere quello che stava accadendo glieli fece riaprire.
Per poco non si mise a piangere: davanti a lei, impettito e allegro, c’era suo padre. Le sorrideva con il suo solito sorrisetto sghembo, da furfante, che mal si addiceva alla sua personalità. Accanto a lui c’era sua madre, i capelli rossi che le ricadevano in morbidi riccioli rossi sulla fronte e sulle spalle; teneva in braccio un bambino di circa cinque anni, con i capelli neri del padre e gli occhi vispi, caratteristica della famiglia Torres.
- Papà. Mamma. Seba. – mormorò, dimenticandosi chi era veramente l’uomo di fronte a lei, ignorando completamente le voci degli amici.
Vedendo il successo del loro compagno, le altre ombre si avventarono sui nemici, pronti ad annientarli. Tutti provarono a resistere all’impulso di cadere in quel dannato tranello, alcuni iniziarono anche a piangere, commossi da quell’improvvisa visione.
Solo Diego stava ritto davanti allo spirito Tamahai, che invano cercava di abbindolarlo. Lui non ci cascava, non poteva e non voleva cedere a quella trappola; dietro di essa vedeva Francesca tra gli arti del capo delle creature che, a poco a poco, perdeva conoscenza, non riuscendo più a trattenere il respiro.
Il viso del ragazzo divenne una maschera di rabbia, gli occhi fiammeggiavano, i muscoli erano tesi, la posizione era quella d’attacco. Con un grido si avventò sull’ombra, che lo scansò facilmente; quest’ultima rise, deridendolo; come per ribattere, Diego ghignò, indicando con un ampio gesto della mano lo spiazzo intorno a se: tutti si erano risvegliati, avevano ripreso piena coscienza di se stessi, o quasi. Anche Francesca sembrò sfuggire a quel torpore, riuscendo finalmente a liberarsi dalla possente stretta dello spirito che la bloccava e che aveva abbandonato la presa per lo stupore.
Appena finì a terra, sentì delle forti braccia che la tiravano verso l’alto, per aiutarla a rialzarsi; si ritrovò pochi istanti dopo contro il petto di Casal, che la strinse contro di esso, accarezzandole la schiena dolcemente. Non si accorse nemmeno di quello che stava facendo, nessuno lo fece, nemmeno l’italiana, impegnata a riprendersi dalla caduta e inebriata dal profumo del giovane.
Intorno a loro si sentivano rumori, ma non quelli di una normale battaglia: questi erano più sibilanti, soffi di vento che risuonavano nell’aria con un debole eco.
Un sibilo più forte degli altri li fece girare: Ludmilla stava estinguendo l’ultimo spirito con una palla di fuoco; la mora si accorse che era quello che l’aveva catturata.
- Morirete tutti! – stava urlando.
- I Sarchatan non potranno fare niente. – ribatté con voce fredda Camilla.
- Ma non saranno loro a uccidervi. Sarete voi stessi. – furono le ultime parole che pronunciò prima di essere completamente consumato dalle fiamme.

Ritornarono al campo, stremati, ricoperti da una patina di sudore misto a terra color ocra, ma non c’era tempo per lavarsi. Vennero tutti chiamati nella tenda del capo per discutere dell’accaduto; nonostante fosse ancora molto scossa dalla vista che lo spirito le aveva procurato, Camilla riuscì a fare un discorso completo e stabile, in modo che tutti i convocati alla sua presenza potessero capire i suoi dubbi e le sue preoccupazioni, che, da quanto le sembrava, erano anche le loro.
La prima della lista era costituita da quello che aveva il capo dei Tamahai, che all’inizio le era sembrata una sciocchezza, una stupidaggine campata per aria prima di ritornare all’Inferno. Ma, durante il tragitto di ritorno, ci aveva riflettuto attentamente e più ci pensava più credeva che quelle parole avessero un significato ben preciso.
Lo stava spiegando in quel momento agli altri, i quali cercavano di ascoltarla, nonostante le loro palpebre cadessero sotto il dolce peso del sonno.
Finito di parlare, la ragazza fissò gli altri, cercando una risposta o una qualunque reazione; purtroppo, quello che ricevette non furono tesi concrete, ma solo ipotesi borbottate e qualche volta interrotte da un sonoro sbadiglio.
La rossa scosse la testa: non si poteva fare una riunione in questo stato, dovevano riprendere il giorno dopo quella conversazione.
Così, congedò tutti, mentre una fitta di delusione la prendeva allo stomaco; stava dando le spalle all’uscita della tenda, quindi non si accorse che qualcuno era rimasto dentro. Erano in due: il più alto le toccò la spalla, facendola girare.
- Leon, Maxi, che ci fate qui? – domandò, scocciata ma al tempo stesso sollevata.
- Volevamo chiederti una cosa. – iniziò Maxi, abbassando leggermente lo sguardo, al contrario di Leon, che la guardò dritta negli occhi, scrutandola con le sue grandi iridi verdi. Fu lui a porre il quesito: - Chi è Seba? –

Diego sospirò, alzando la testa al cielo. Lui e Francesca erano appena usciti dalla tenda, ma, invece di tornare ai loro alloggi, avevano deciso di fare una passeggiata; o meglio, lei lo aveva deciso, e lui si era offerto di accompagnarla, nonostante il rifiuto iniziale della ragazza.
La guardò di sottecchi: anche con i capelli spettinati e gli occhi rossi era meravigliosa, la più bella ragazza che avesse mai visto. Peccato che quella bellezza fosse sminuita, anche se di poco, da un broncio.
- Cosa succede? – le sussurrò ad un orecchio, avvicinandosi.
- Niente. – rispose immediatamente l’altra. Il ragazzo sbuffò, lanciandole un’occhiata obliqua. – Non ti credo. – sentenziò.
- È che non voglio metterti in imbarazzo. – ammise la mora, arrossendo. Fu fermata prontamente da Diego, che la costrinse a guardarlo dritto negli occhi.
- Tu non puoi mettermi in imbarazzo. – mormorò, sollevandole il mento con delicatezza. La ragazza distolse lo sguardo, nonostante si fossero confidati e addirittura baciati, non sapeva quali cose potevano ferirlo o imbarazzarlo, e non voleva che succedesse, non voleva rovinare quel rapporto. Vedeva l’insistenza e una soffocata curiosità nei suoi occhi, nei suoi gesti, ma non desiderava ripagare queste emozioni con qualcosa che magari avrebbe troncato la loro affinità e lo avrebbe fatto andare via.
- Sul serio, è una cosa da niente, non c’è bisogno che tu… - provò a protestare, ma venne subito interrotta: - Invece si. Secondo me non è proprio una cosa da niente. –
In teoria lo era, ma per gli altri, per il mondo che li circondava, mentre, per quanto la riguardava, era un quesito che chiedeva incessantemente risposta.
Rivolse un’occhiataccia al ragazzo e sospirò: - Tu non ti arrendi mai, eh? –
- No, mai, soprattutto quando si tratta di cose che riguardano me e le persone a cui tengo. – l’aveva detto con un mezzo sorriso, ma il tono era serio.
- Va bene. – accettò l’italiana, dopo qualche attimo di silenzio. – Ma poi non dire che non ti avevo avvisato. –
- Me ne ricorderò. – Francesca scosse la testa, ma infine pose la domanda: - Quando le ombre ci stavano attaccando, tu non hai visto nulla. Io lo so, me l’hanno detto, che gli spiriti Tamahai riflettono quello che tu vuoi di più. Perché con te non è successo? – chinò subito il capo, le guance rosse. Alzò solo di poco gli occhi per poter confermare quello di cui era certa: anche Diego era arrossito e si era portato una mano dietro la nuca.
- Lo vedi? – la voce della ragazza era tesa, e i suoi gesti denotavano imbarazzo.
- No, no, tranquilla. – cercò di spiegare. – Io… io ho visto qualcosa. Il modo per salvarti. – l’altra aggrottò la fronte a quelle parole.
- Nel senso, – continuò il ragazzo – nel senso che la cosa che più volevo era liberarti dalle grinfie di quei mostri. È… è per questo che ho saputo risvegliare gli altri dall’ipnosi. – questa volta fu il suo turno di abbassare lo sguardo, e questa volta toccò all’italiana sollevargli il mento con il pollice e l’indice. – Grazie. – sussurrò. Poi, fece la cosa che più le sembrava naturale: poggiò le labbra su quelle di Casal. Quest’ultimo all’inizio fu sorpreso da questa sua iniziativa, ma fu per poco; poggiò le mani sui fianchi perfetti della ragazza, stringendola di più a se, per poi circondarle la vita con le sue forti braccia. Lei, d’altro canto, allungò le braccia, infilando una mano tra quei capelli setosi e posando l’altra sulla nuca, assecondando i movimenti del partner.
Il suo naso, la sua bocca erano invasi di quel profumo alla cannella che lo caratterizzava, che la inebriava e la spingeva a desiderare sempre di più quel contatto. Lui invece non riusciva a pensare a qualcosa se non a quanto fosse morbida la bocca della ragazza e a quanto fossero delicati e aggraziati i suoi tocchi. Erano così presi da quel magico momento che non si accorsero che, da lontano, qualcuno li osservava.


Angolo dell’autrice: Buona sera! Ok sono le 15.00 ma pazienza, io non ho la concezione del tempo! Non credo di esservi mancata durante questo mio periodo di assenza. Ho notato che lo scorso capitolo ha avuto solo una recensione. Non credetemi offesa o qualcosa del genere, per carità, ma credo che, dopo il ritardo di un mese per uno degli scorsi capitoli, credo che la storia non sia più apprezzata, peccato… Io continuerò comunque a scrivere, speriamo bene XD.
Comunque, questo capitolo è dedicato prevalentemente a Francesca e alla Diecesca *super occhi a cuoricino* Spero che sia stato di vostro gradimento. Poi ho voluto far parlare un po’ Diego e Vilu, sono migliori amici e non si considerano da miliardi di anni. Cosa pensate degli spiriti Tamahai? Per idearli mi sono ispirata all’ombra di Peter Pan in Once Upon A Time (perché io non mi fisso con le cose, noooo).
Va beh, spero che il capitolo vi sia piaciuto, accetto anche critiche e consigli.
Un bacione da Chicca2501.

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Capitolo 13
*** Problemi di cuore ***


~~13

Problemi di cuore

Le labbra morbide della ragazza si muovevano leggiadre sulle sue, in una danza dolce e sensuale che si stava protraendo ancora e ancora; fece scivolare le mani sotto la maglietta, risalendo la sua schiena; la sua pelle era morbida al tatto, soffice e profumata.
Sentiva una strana sensazione avvolgerlo, un calore intenso che si faceva strada nel suo cuore, accendendolo di una forte emozione, che non era passione, ma qualcos’altro, qualcosa di più intenso e profondo che lo bruciava dall’interno.
Finalmente capì cosa intendeva Nata quando gli diceva che avrebbe provato un’emozione, un amore incredibile per una persona a lui ignota fino a quel momento: quella sua innamorata misteriosa, la musa che secondo Nata lo avrebbe indotto ad amare veramente, lui, a cui l’amore che non fosse quello familiare o rivolto agli amici, era stato un sentimento mai provato veramente.
L’unica ragazza per cui si era preso sul serio una cotta era Camilla, ma con lei non era finita bene, e tutto per colpa sua…
A quel pensiero, percepì che quella passione che prima lo aveva fatto ardere si quietava per essere sostituito dalla paura. La paura di quella sensazione così splendida, del fatto che non avrebbe potuta ricambiarla come si deve a causa di inconvenienti dovuti alla sua personalità e ad agenti esterni.
Con una fitta di dolore rassegnato al petto si staccò da quella bocca così profumata, ma restando comunque con la fronte appoggiata sulla sua, a respirare la sua stessa aria, formando insieme a lei nuvolette di vapore sfuggenti.
La mora sorrise, guardandolo negli occhi, lo stesso sorriso sincero che gli aveva rivolto quando si erano baciati per la prima volta: un sorriso colmo di amore. Avrebbe voluto rispondere a quel sorriso, a quella muta dichiarazione negli occhi della giovane, ma, al contrario, si separò del tutto scostandosi.
La ragazza sembrò sorpresa da quella reazione, di sicuro si aspettava ben altro. Infatti, provò ad avvicinarsi a lui, mormorando: - Diego. –
Quel nome, il suo nome, pronunciato da lei assumeva un altro significato, e quest’ultimo lo trafiggeva come una spada al cuore.
- Mi dispiace, Francesca. – disse, cercando di sembrare sicuro della sua decisione. Dopodiché, corse via, perdendosi nel buio, lasciando una Francesca dal cuore spezzato a capire cos’era successo.
Tra i cespugli, due occhi sogghignarono.

- Camilla, ci vuoi dire chi è Seba? – ancora quella domanda. La rossa provò ad assumere un’aria indifferente, guardando i due ragazzi con occhi inespressivi.
- Chi? – la voce le uscì troppo acuta e stridula, segnale inconfondibile, soprattutto per persone che la conoscevano da tempo. Come a voler confermare i suoi pensieri, i due le lanciarono un’occhiata sospettosa, mentre sui loro visi si formava un piccolo sorrisetto di condiscendenza e sfida al tempo stesso.
- Non ti credo. – disse Leon, la voce dura nonostante l’espressione.
- Perché? Ti sto dicendo la verità. – ribatté la Torres, fissandolo con sguardo di fuoco.
- Non prenderci in giro. – sorprendentemente, a parlare era stato Maxi che la guardava impassibile da dietro il mezzo satiro. Nonostante lo conoscesse da abbastanza da tempo da poterlo considerare un vero amico, lui non le aveva mai parlato in questo modo, quasi sgridandola. Ma, come ogni cosa dall’arrivo dei Quattro, tutto stava cambiando.
- Non capisco perché dovrei farlo, Maxi. – a questo punto il ragazzo avrebbe dovuto abbassare la testa, scuoterla e sospirare, invece scoppiò in una grassa risata. Il suono di quelle risa si propagò insistentemente nella tenda, quasi ci fosse l’eco.
- Lo faresti eccome! Camilla, non siamo stupidi, sappiamo che nascondi qualcosa da tanti anni, o almeno io lo sospettavo, ma adesso ne abbiamo la conferma. – perspicace come sempre, Maxi riusciva a vedere la verità anche quando la si nascondeva attentamente, cosa che, data la faccia stupita e corrucciata di Leon, era una dote che pochi possedevano.
- Da quando non siete stupidi? – ennesima gaffe, adesso si che dimostrava di non essere stata totalmente sincera con loro.
Infatti: - Non cercare di cambiare discorso. – la parola era stata di nuovo presa da Leon, i cui occhi verdi scintillavano di fastidio che piano, piano si stava mescolando al rancore.
- Era solo una battuta. – mormorò mentre chinava la testa, non riuscendo a sostenere l’intenso sguardo dell’amico.
- Si, come no. – di nuovo Maxi. Sembrava quasi una delle strategie che lui ideava, attaccavano a turno e con affondi piccoli ma taglienti.
Fu questo che fece scoppiare Camilla, la quale alzò la testa, irata, e urlò: - Come se anche voi non aveste dei segreti! – lo sbalzo di umore della ragazza spaventò non poco i ragazzi. – Tu! – continuò, indicando il più alto – Tu nascondi al mondo di essere un mezzo satiro, mentre tu – il dito si spostò verso Maxi – tu hai tenuto nascosto tutto quello che era successo con Diego e lo fai ancora! Te lo ricordi Maxi, vero? – l’altro deglutì, indietreggiando di un passo.
- Quindi, se non volet… - lo sfogo della rossa venne improvvisamente interrotto da una vocina bassa e impaurita. – Scusate, posso entrare? – i tre si voltarono e trovarono Violetta ferma sulla soglia della tenda, titubante.
- Violetta, che ci fai qui? – domandò Leon con tono preoccupato.
- Sono uscita un secondo dalla tenda e ho sentito delle urla, volevo vedere se andava tutto bene. – rispose la ragazza, schiarendosi la gola e assumendo un’espressione sicura.
- Va tutto bene, Vilu. – disse Vargas, dolcemente. – Dai, ti riaccompagno alla tenda. – la spinse delicatamente verso l’uscita per poi sparire dietro di essa, non prima di aver lanciato un’occhiata ammonitrice a Camilla.
Nella tenda restavano solo il capo e lo stratega, che si guardavano negli occhi, quasi volessero vedere dentro l’anima dell’altro. Infine, Maxi si congedò, sospirando, lasciando la rossa con i suoi pensieri.
Quest’ultima sospirò e si sedette sul baule pieno dei suoi disegni, la testa fra le mani; l’avevano scoperta, avevano capito che anche lei aveva un segreto, qualcosa di pericoloso e compromettente da nascondere. E lei sapeva che, se lo avessero scoperto, sarebbe stata la sua fine.

Il buio entrava denso nella tenda, quasi fosse una presenza. Federico sentiva, ascoltava i suoni che emetteva la terra profondamente addormentata ma sempre pronta a svegliarsi al minimo disturbo.
Ormai ci era abituato, aveva capito che quello era il suo potere e lo aveva accettato, anche se questo gli faceva un po’ paura. Non era mai stato un grande naturalista, di quelli sempre attenti alla sopravvivenza del pianeta, lui pensava prima alla sua di sopravvivenza e dopo a quella di Madre Natura.
Ora, invece, non era più così; certo,doveva ancora lottare per vivere, ma aveva più consapevolezza di quello che era e di quello che poteva fare, doveva solo dimostrarlo a se stesso e agli altri.
Ricordava bene il colloquio con la Stregona degli Animali, quando gli aveva parlato dei suoi poteri, di come il suo fosse il più antico anche se non il più potente e che doveva dimostrare quanto questa vecchiaia influenzasse la sua forza.
Da quel giorno, di nascosto da tutti, si ritirava in un angolino e provava senza sosta, fino a quando non era stanco o non lo chiamavano; all’inizio era stato difficile senza il potere di Ludmilla che riportava in vita il suo come aveva fatto la prima e tutte le altre volte a seguire. Ma, dopo due settimane di tentativi, aveva sentito qualcosa, un mormorio sommesso che proveniva dal basso, una voce che sembrava attirarlo come una calamita verso il centro della terra. Fu allora che apparve, anche solo per pochi istanti: un viso di donna vecchio e rugoso ma sorridente, come se avesse aspettato per troppo tempo quel momento.
Da quel momento, la vide sempre più spesso, certe volte ci parlava pure; scoprì che era la Terra, quell’essere primordiale che aveva dato vita agli abitanti di tutti i mondi esistenti: Federico l’aveva paragonata a una nonna simpatica e allegra, ma saggia e sempre porta a darti consigli. Gli piaceva parlare con lei, lo aiutava a capire la vera essenza del suo potere, il quale, oramai, stava iniziando a farsi sempre più forte e intenso.
Sorrise a quei ricordi; lei e Terra erano molto affiatati, stavano per diventare un tutt’uno, come doveva essere.
Sospirò e si voltò dall’altra parte del letto, dove, come sempre, c’era Ludmilla. La bionda aveva un’espressione molto più dolce quando dormiva e sembrava più piccola della sua età. Com’era acida quando l’aveva incontrata, mentre adesso, invece, era una specie di angelo, anche se con qualche difetto. Si era affezionato molto a lei, e avrebbe voluto dirle quello che stava succedendo, le sue scoperte, tutto. Ma Terra glielo aveva sconsigliato; diceva che era meglio tenere il segreto, aspettare il momento opportuno per rivelare al mondo le sue nuove capacità.
Così, ora lui poteva solo immaginare il momento in cui le avrebbe rivelato questo grande segreto. Continuò a fissarla, fino a quando non si avvicinò alla sua testa, spostò una ciocca di capelli biondi e le diede un lieve bacio sulla guancia. Felice e rilassato, tornò a distendersi, stringendosi ancora di più alla ragazza. Non si rese conto che a quel tocco Ludmilla aveva sorriso.

Si svegliò nel bel mezzo della notte. All’inizio non capì né dove si trovava, né perché avesse mani e piedi legati. Poi, come un flash, rivide tutto: il portale che aveva creato, l’arrivo ad Atlantide, l’arrivo di… Una fitta di dolore si propagò dallo sterno in tutto il corpo, oscurandogli per un attimo la vista.
Cercò di riprendere il controllo dei suoi sensi, come faceva tanti anni prima, quando ancora viveva lì e tutto quello che adesso gli sembrava assurdo (la fata che aveva visto all’arrivo, la spada luccicante nel buio del suo aggressore) faceva parte della sua routine quotidiana. Respirò profondamente e rilassò i muscoli, in modo da ridurre la tensione del corpo e della mente e al contempo creare un po’ di spazio tra lui e la corda che lo stringeva in una morsa ferrea.
Dopo che ebbe completato l’operazione, aprì di nuovo gli occhi e si mise a studiare attentamente il luogo dove lo avevano rinchiuso: era una tenda di piccole dimensioni contenente solo il palo che lo teneva legato e un piccolo mobile in legno ormai marcio sul cui fianco vi erano stati intagliati dei cassetti, ognuno apribile grazie a un pomello dello stesso materiale; sul terreno, invece, vi era una scatola di ferro aperta, dentro la quale vi era riposto un coltello dalla lama sottile ma affilata con lo stemma della fiamma nera. Rabbrividì alla vista di quel disegno: aveva sempre odiato il nero e soprattutto il fuoco, cose che avevano sempre affascinato suo fratello. Ma, nonostante il marchio che portava, quella era comunque un arma, un modo per uscire da quel posto. Il primo impulso fu quello di allungare i piedi e prenderlo con essi per poi tagliare le corde, ma poi si rese conto che lasciare un coltello nella stanza di un prigioniero era un errore da principiante, un insulto a tutti gli anni di addestramento.
Perché, allora, era lì? Era una trappola? Doveva correre il rischio? Aveva la risposta all’ultima domanda, ed era positiva. Se non ci provava non sarebbe comunque riuscito a scappare, quindi che male c’era a tentare la sorte?
Con attenzione, distese le gambe e avvicinò i piedi legati al coltello, per poi prenderlo con essi. Appena lo fece,una risata risuonò nell’aria: - Wow, non ti facevo così intraprendente, German. – a quella voce l’uomo rabbrividì.
- Non mi vedi da tanti anni, sono cambiato; e poi, sono sempre stato intraprendente. –ribatté, e la sua voce gli parve sicura.
- Già, è vero. – sospirò l’altro, uscendo dall’ombra e mettendosi davanti a lui; lo seguì un’altra figura, alla cui vista German ringhiò.
- Vedo che hai già conosciuto il mio luogotenente. – sogghignò l’altro, indicando con un cenno il ragazzo accanto a lui, che ricambiò appena.
- Lo hai mandato tu, ah, Carlos? Hai cercato di rapire me e mia figlia attraverso lui! – sibilò l’uomo.
- Si, ma cos’altro ti aspettavi? – non aspettò risposta. Fece un segnale al suo sottomesso e, insieme, trasportarono il prigioniero recalcitrante fuori dalla tenda.

Diego corse veloce fino alla tenda, il lungo mantello color della notte che gli svolazzava intorno e il cappuccio che gli copriva il viso. Sapeva di poterla trovare lì, la Veggente, si vedeva una luce soffusa proveniente dal suo alloggio.
Non si pregò nemmeno di annunciarsi, scostò il telo che fungeva da porta ed entrò. Certo, non si aspettava di certo quello che avrebbe visto quando sarebbe entrato: Maxi intento a sbaciucchiare Nata al centro della tenda; il ragazzo stava facendo scendere le mani dai fianchi fino al sedere della ragazza, mentre lei gli intrecciava le dita nei capelli. Non si erano minimamente accorti della sua presenza, così Diego, temendo che quei due iniziassero a fare sul serio davanti ai suoi occhi, si fece notare con un colpetto di tosse. I due ragazzi si riscossero e si voltarono, sbalorditi e entrambi arrossirono alla vista del moro, anche se Maxi sembrava più arrabbiato che imbarazzato.
- Diego. – mormorò la ragazza – Cosa ci fai qui? -
- Volevo parlarti, ma vedo che interrompo qualcosa. – rispose lui, anche se non poté evitare di fare un ghigno e strizzare l’occhio a Maxi, il quale gli rivolse un’occhiata di fuoco.
- In teoria interrompi qualcosa, quindi ciao. – a quelle parole, Diego rimase interdetto: Maxi non aveva mai parlato così. Ma non poteva dargliela vinta in questo modo. – Ok, riformulo la domanda: è urgente quindi, Nata, potresti gentilmente rimandare a dopo le effusioni con il tuo fidanzato? – le ultime parole le pronunciò a denti stretti, come a far capire che l’argomento che voleva trattare con la riccia era della massima importanza e che quest’ultima non poteva dire di no.
- Non rivolgerti così a…. – incominciò il più piccolo dei ragazzi, ma venne prontamente fermato dalla sua fidanzata, che gli sussurrò qualcosa all’orecchio, facendolo tranquillizzare. Dopodiché lo congedò.
 Tornò a rivolgersi a Diego, con aria abbastanza infastidita. – Allora cosa vuoi? – qualche attimo di silenzio carico di tensione, poi sentì la voce dell’altro che diceva:
- Era Francesca, vero? – il tono di voce sconsolato che aveva assunto la fece intenerire. Ovviamente sapeva di cosa parlava e non sapeva se essere contenta o meno che lo avesse scoperto.
- Si. – mormorò.
- Perché non me lo hai detto? – sussurrò il ragazzo. – Perché non me lo hai detto? – questa voce il suo tono era più alto.
- Perché… - cercò di dire Nata.
- Perché non me lo hai detto?! – adesso stava urlando, la voce stridula. Si avvicinò a lei fino ad essere a due centimetri dal suo viso. – Perché? – questa volta era un verso straziato. Nata pensò a come era lunatico questo ragazzo: prima faceva battutine, poi sembrava abbattuto, dopo urlava e infine era come se il dolore lo avesse sopraffatto.
La ragazza non sapeva cosa dire, cosa rispondere. Non glielo aveva detto perché voleva che lo scoprisse da solo, ma non poteva rivelarglielo senza che lui si incollerisse. Si limitò solo ad avvolgergli le braccia intorno al collo ed abbracciarlo e consolarlo, sospirando e sperando che tutto si rimettesse a posto. 
 
Violetta rabbrividì, il freddo che le stringeva le membra in una morsa glaciale e di certo non bastava il leggero cappotto di tela a ripararla.
Girò lo sguardo per fissare Leon, il quale, al contrario di lei, non sembrava per niente infreddolito; certo, lui aveva vissuto in quelle terre per molto più tempo e lei era una cittadina del XXI secolo fatta e finita.
Probabilmente il ragazzo sembrò notare che qualcosa non andava perché voltò anche lui il volto per guardarla, piantando quelle iridi color delle chiome degli alberi in primavera in quelle nocciola dell’amica, facendo sciogliere immediatamente quest’ultima.
Perché le faceva sempre questo effetto,? Perché ogni volta che la fissava le gambe le tremavano pericolosamente? Perché non riusciva a smettere di pensarlo? Aveva già avuto altre cotte, avrebbe dovuto saper gestire anche questa, ma c’era qualcosa che glielo impediva, qualcosa che le faceva battere forte il cuore quando le stava davanti e le parlava, o quando la addestrava, oppure quando rideva, mostrando quel sorriso da mozzare il fiato…
No, si doveva riprendere, doveva assolutamente farlo. Grazie a questo preciso ordine riuscì ad accorgersi che lo stava ammirando con un sorriso ebete stampato in faccia, che cercò subito di mascherare con una delle sue solite facce buffe. L’altro si mise a ridere, e di nuovo comparve quel sorriso che… no, doveva smetterla!
- Hai freddo? – quella domanda, per quanto semplice, la fece sobbalzare.
- Da cosa l’hai intuito? – ok, si era rimbecillita sul serio, probabilmente era l’effetto che esercitava su di lei quel dannatissimo ragazzo.
- Dal fatto che stai tremando come una foglia. – con un sorriso divertito indicò con il mento le gambe affusolate della ragazza che si muovevano in modo incontrollato. Se solo avesse saputo che non lo facevano solo per il freddo…
- Già. – sorrise, imbarazzata.
- Dai, che ti aiuto io. – con un unico gesto, avvolse le spalle della ragazza con un braccio, stringendola a se e sfregando una mano contro l’avambraccio della bionda. Quest’ultima arrossì violentemente, ma si lasciò comunque coccolare dal suo amico.
- Vuoi che ti riaccompagni alla tenda? – un’altra domanda, questa volta sussurrata al suo orecchio, un soffio di aria calda che le procurò brividi lungo la schiena anche più del gelido vento che soffiava in quel momento. Riuscì solo ad annuire.
Continuarono a camminare finché non furono in vista dell’alloggio di Violetta. Entrambi sospirarono, sia di sollievo perché potevano finalmente stare al caldo, sia di rassegnazione per il fatto che avrebbero dovuto separarsi di lì a poco e nessuno dei due lo voleva.
Entrarono ed entrambi si tolsero i cappotti pesanti, poggiandoli sulla branda e sedendosi sopra di essa dopo pochi istanti. Vedendo il bel cuscino poggiato in un angolo a Violetta venne un moto di sonno incontrollato, tanto che sbadigliò. Sentì la risatina soffocata di Leon provenire dalla sua destra e, per punizione, gli diede un piccolo scappellotto sulla nuca. Il ragazzo, per tutta risposta, continuò a ridere, coinvolgendo anche la bionda, la quale non poté trattenersi.
- Dai, se vuoi ti lascio dormire. – disse il mezzo satiro, così fece per alzarsi, ma venne bloccato dalla ferma mano della ragazza. – No. – sussurrò quest’ultima, sorridendo e attirandolo di nuovo sulla branda questa volta più vicino.
Un tremore incontrollato prese possesso del suo corpo quando il suo sguardo rimase incollato a quello di lui, esplorandone con gli occhi ogni dettaglio, dai lineamenti poco marcati al principio di barba che gli stava spuntando fino a quelle due magnifiche fossette. Violetta avvicinò la testa, era già successo altre volte che si trovassero in questa situazione, ad un passo dal baciarsi, ma ora non voleva fermarsi, no. Voleva appoggiare le labbra sulle sue, provare finalmente appieno quel sentimento che la stava opprimendo da quando si erano visti per la prima volta e che era cresciuto a poco a poco.
Nel mentre era sempre più vicina, mancava poco e ce l’avrebbe fatta. – No. – quella parola risuonò chiara nella tenda, facendola sobbalzare. Aprì gli occhi che aveva chiuso pochi istanti prima e, con il viso rosso per l’imbarazzo, si ritrasse.
- Scusa. – mormorò. 
- Non scusarti. – la consolò lui – Anche io lo avrei voluto fare. – quella frase non aveva senso; Violetta lo fissò, confusa. – Quindi tu provi il mio stesso sentimento? –
Leon piegò la testa all’indietro e si passò una mano sulla fronte come per asciugarsi gocce di sudore invisibili. – Si. – rispose. Quell’unica parola ebbe l’effetto di una bomba: il cervello della ragazza smise definitivamente di funzionare, mentre il cuore batteva all’impazzata e un tornado di emozioni si agitavano verso di lei. Un sorriso si fece largo sul suo volto illuminandolo.
- Aspetta. – come quel “si” aveva provocato un’esplosione di felicità, “aspetta” la placò bruscamente.
- Come? – il ragazzo sbuffò e disse: - Io… io non posso. Io non voglio rovinarti la vita. –
- Tu non mi rovineresti la vita, la miglioreresti. – la bionda mise una mano sulla gamba di lui.
- Invece no! – esclamò Leon, alzandosi – In questo mondo, io sono considerato un mostro! Mi disprezzano, capisci? È per questo che lo tengo nascosto. E se io stessi insieme a te, una dei Quattro, la più forte, la Dominatrice dell’Acqua, allora saresti coperta di vergogna, e io non potrei sopportarlo. – l’ultima frase si trasformò in un sussurro. Violetta lo fissò sbigottita; non sapeva cosa pensare. All’improvviso,un fiotto di rabbia le attraversò le vene, incendiandole il sangue.
- Ah, bene, capisco. – ribatté con voce fredda e Leon le stava per avvolgere le braccia intorno alla vita, quando aggiunse: - Capisco che sei un codardo. Capisco che stai cercando una scusa per non impegnarti in una storia seria. Beh, caro mio, ti credevo diverso, credevo che mi avresti sempre detto la verità, ma, a quanto pare mi sbagliavo. – si sollevò a sua volta di scatto.
- Dove vai? – domandò il ragazzo.
- A prendere un po’ d’aria. –
- Ma sei appena tornata. –
- Non m’importa. – detto questo, girò i tacchi e sene andò.

Il cervo era a pochi metri di distanza. Con la sua vista acuta da cacciatore riusciva a vederne ogni singolo particolare: era un maschio adulta dalla folta pelliccia scura cosparsa di macchie più chiare, ovvero proprio quello che gli serviva.
Fece ancora qualche passo, nascosto da un cespuglio piuttosto folto, tipico di quella parte del bosco. In più, c’era la penombra di fine notte a coprirlo come una coperta; doveva aspettare ancora poco, aveva bisogno dell’alba per farlo; era solo questione di minuti.
Dopo poco la prima luce fece capolino tra le fitte fronde degli alberi, inondando di un bel rosa pallido le chiome verde scuro di quelle piante.
Il cacciatore sorrise: era giunto il momento. Con studiata lentezza tirò fuori dalla faretra una freccia, ma non una qualsiasi, quella con le piume di falco. Con grande precisione prese la mira, allungando la corda dell’arco il più possibile per compiere un arco perfetto. E, come aveva sospettato, non mancò il bersaglio.
Il cervo cadde improvvisamente a terra, in preda agli ultimi spasmi di dolore. Il cacciatore si avvicinò all’animale morente, un ghigno malefico sul volto; si avvicinò all’orecchio della preda e sussurrò: - Tranquillo, la tua morte non sarà vana. – dopodiché gli conficco il coltello nel corpo, dandogli il colpo di grazia. Peccato, pensò, avrebbe voluto vederlo steso agonizzante cercando di aggrapparsi alle ultime possibilità di sopravvivere, ma non c’era tempo per godersi quello spettacolo.
Poi, dopo averlo ucciso, gli squarciò il petto, frugandoci dentro. Rimase chinato sulla carcassa totalmente assorto in quella operazione fino a quando il sole non ebbe fatto del tutto la sua comparsa. A quel punto, estrasse una mano da quel che restava del cervo: in mano aveva un cuore.
Con un sorriso maligno stampato in viso e portò la mano sul cappuccio, togliendolo e scuotendo i lunghi capelli fluenti. Priscilla ce l’aveva fatta.

Angolo dell’autrice: Uff, finalmente ce l’ho fatta a finirlo. Ve lo giuro, questo capitolo è stato un parto e non so come mi è venuto, ma va beh, spero vada bene. Allora, Diecesca e Leonetta questa volta. Diego non vuole stare con Francesca e se ne scappa via senza dire niente, almeno Leon degna di una spiegazione Vilu.
Secondo voi qual è il segreto di Camilla? Chi è Seba? Qual è il segreto inconfessabile? Lascio spazio alla vostra immaginazione. Fa la sua comparsa di nuovo German, prigioniero del nemico. Poi, Diego è disperato per Francesca e và da Nata a farsi consolare. Federico sviluppa nuovi poteri, yuppi ye. E, alla fine, tan tan tannnn… appare qualcuno il cui nome vi è sicuramente familiare: Priscilla. Vi lascio così. Spero che il capitolo vi sia piaciuto, accetto anche critiche e consigli.
Un bacione da Chicca2501

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Capitolo 14
*** Tradimento ***


~~14

Tradimento

Correva. Non sapeva dove, ma correva. I piedi si muovevano con una velocità innata, le gambe lo sorreggevano, animate dalla paura. Continuava a scappare verso una meta indefinita, sconosciuta. L’importante era scappare da Lei. Un sole bruciante guardava impassibile la sua corsa verso la salvezza. Il sudore scendeva copiosamente lungo la fronte, fino a sfiorare la bocca, piccole gocce d’acqua che somigliavano a lacrime, e forse lo erano, poiché gli occhi gli pizzicavano fastidiosamente; purtroppo, quello non era il suo problema maggiore.
Raggiunse una duna di sabbia fine e biancastra e, per la prima volta da quando aveva iniziato quell’improponibile maratona della morte, si accorse che, di quella sabbia, era ricoperto tutto il territorio circostante. Quest’ultimo era privo di vegetazione, il suolo arso dal sole che non sembrava tramontare mai.
Si sedette pesantemente, provocandosi un leggere dolore al fondoschiena quando venne a contatto con quella superficie bollente. Trasalì, ma si costrinse a sdraiare e a riposare. Si tolse il leggero mantello color del sangue e lo stese a terra, per poi piombarci sopra. Cercò di chiudere gli occhi, ma era tutto inutile: nonostante le sue gambe urlassero di dolore e il suo corpo reclamasse riposo, la sua mente era lucida e attiva.
Pensò a tutta la strada che aveva fatto per arrivare fin lì e a quanta gliene rimaneva; sospirò, affranto: si era scelto lui quella vita da fuggitivo, non gli altri, e lui stesso ne doveva pagare il prezzo.
Si mise a sedere, contraddicendo a tutte le imposizioni delle sue membra e alzò lo sguardo a quel cielo immenso, di un azzurro abbagliante, neanche una nuvola osava solcarlo.
Ma, all’improvviso, qualcosa cambiò: un’ombra nera iniziò a protrarsi sopra di lui, oscurando il cielo e i suoi colori abbacinanti. Lo aveva trovato. Provò a scappare, ma era tutto inutile, lo aveva raggiunto. Urlò mentre l’ombra lo ghermiva.

Si svegliò di soprassalto, il sudore che gli ricopriva la fronte e le tempie e uno strano rumore gli ronzava nelle orecchie. Si accorse solo pochi istanti dopo che quel ronzio così irritante proveniva dalla sua sacca buttata in un angolo della tenda, un borsone blu scuro risalente ai tempi della sua vita precedente, quella sulla Terra.
Si alzò con uno scatto e si diresse verso la borsa, aprendola. Dentro c’erano i residui di quello che sarebbe diventato se non l’avessero fatto tornare: libri di scuola pasticciati di disegni, aeroplani di carta, cartacce di gomme da masticare e bigliettini scritti ovunque, c’era pure lo striscione per le partite di pallacanestro della scuola tutto scolorito.
Iniziò a rovistare in mezzo a quel ciarpame, fino a quando non arrivò sul fondo della borsa. Lì, ancora funzionante per miracolo, c’era il suo cellulare e squillava, o meglio, vibrava. La foto della chiamata mostrava una fiamma nera. Sbuffò, cosa volevano adesso, e con riluttanza afferrò l’aggeggio e aprì la chiamata.
- Finalmente hai risposto. - disse una voce cupa e profonda.
- Cosa vuoi? – domandò il ragazzo, la voce annoiata impastata dal sonno.
- Oh, poverino, ho interrotto il tuo dolce sonno? – lo schernì la voce.
- Cosa vuoi? – ripeté l’altro, stanco di quelle battutine. Di solito arrivava al punto velocemente.
- Bene, d’accordo. È ora. – quelle parole furono in grado di risvegliarlo completamente dal suo torpore. Sobbalzò, il suo cuore perse un battito.
- Di già? – chiese, deglutendo rumorosamente.
Sentì il suo interlocutore ridacchiare dall’altra parte del telefono, una risata fredda e ironica che gli fece venire i brividi.
- Mi sto immaginando la tua faccia in questo istante. Questi aggeggi sono comodi ma possono solo far sentire la voce, purtroppo. Cosa c’è, hai paura? – rispose l’uomo.
Quanto avrebbe voluto urlargli che si, aveva paura, aveva una maledettissima paura che lo bloccava e lo stava trascinando in un baratro di orrore senza fine.
Avrebbe voluto sputargli in faccia quanto quei mesi lo avevano cambiato profondamente, trasformandolo in una persona molto migliore di quanto non fosse mai stato, quanti sentimenti contrastanti aveva provato in quelle settimane, quanto dolore e quanta pena aveva dovuto sopportare.
Si immaginò tutta la scena e dentro di sé gongolò di soddisfazione, una soddisfazione che non avrebbe mai provato, perché sapeva cosa c’era in gioco, cosa poteva perdere.
- Oh, ci sei ancora? – la voce lugubre del suo capo lo riportò alla realtà, un mondo dove lui era solo un misero servo.
- Si, si ci sono. Sono ancora un po’ addormentato. – sperò che l’altro non avesse percepito la tensione nel suo tono. – Comunque, no, ovvio che non ho paura. –
- Lo spero. Ricordati che c’è la vita di tuo padre in gioco. Se fallisci, lui muore. Ricordati solo questo. – dette queste ultime tre parole, chiuse la telefonata.
Il ragazzo sentì una lacrima scendergli lungo il viso.

Camilla era ancora seduta a rimuginare sulla sua branda quando il sole fece capolino all’improvviso. Sospirò, prendendosi il viso tra le mani, cercando ancora una volta di trattenere le lacrime di rimpianto che minacciavano di sopraffarla.

*Flashback*
Il dolore la accecava, la stringeva in una morsa ferrea e decisa. Sembrava che la morte stesse per sopraggiungere. Le voci che la chiamavano le sembravano così distanti, irraggiungibili, inafferrabili le parole che le lanciavano.
Doveva solo spingere, respirare profondamente e tutto sarebbe andato a meraviglia, quella tortura avrebbe avuto un senso alla fine.
Dopo un tempo indefinito, un piantò le riempì le orecchie, il suono più puro e più benefico che avesse mai ascoltato. Sorrise fra le lacrime, quello era il miracolo della vita, il suo miracolo.
Le lacrime si intensificarono quando le misero il bambino tra le braccia, una creatura minuscola che la guardava con adorazione, i grandi occhi spalancati a vedere quella che era la sua mamma. Emise un piccolo vagito, scatenando l’ilarità della giovane. Camilla rideva e piangeva insieme, in un miscuglio di emozioni che non avevano niente a che vedere con il dolore che aveva provato poco prima. Quello che sentiva era un minestrone di felicità, sconcertamento, ma soprattutto amore. Continuò a guardare con dolcezza il bambino oscurandone la vista agli altri con la sua chioma rossa. Uno strano lampo passò negli occhi del neonato, così velocemente che la ragazza pensò di averlo sognato, che fosse solo una conseguenza dell’incredulità che era nata in lei a causa dell’avvenimento.
Si sarebbe accorta solo molto tempo dopo che non era così.

*Fine Flashback*

Camilla scosse la testa, non doveva lasciarsi trasportare da quei ricordi, soprattutto se le ricordavano quel periodo. Ora aveva una missione da compiere, molto più importante della sua felicità, era a rischio la vita di Atlantide e dei suoi abitanti, doveva pensare alla salvezza della sua gente e a nient’altro. Continuò a ripeterselo mentre si spogliava e si infilava nuovi abiti, pronta per una nuova giornata di cammino e di pericoli. Ormai, però, ci aveva fatto l’abitudine, era da tanti anni che lavorava come capo dei ribelli.
Alzò di poco il lembo della tenda e vide che il sole non si era ancora alzato del tutto, aveva ancora circa un’ora prima che tutti si svegliassero.
Aprì la grossa cassaforte e cercò qualcosa su cui potesse disegnare, o, almeno, scarabocchiare qualcosa, aveva bisogno di attività. Trovò un blocco da disegno utilizzato solo in parte e, dopo aver riguardato tutte le opere che erano racchiuse lì dentro, si mise al lavoro.
La matita scorreva veloce sul foglio, mentre i suoi pensieri e le sue emozioni prendevano forma. Quando ebbe finito, contemplò il disegno: aveva rappresentato un demone.

La mattina arrivò improvvisa e, soprattutto, indesiderata. Maxi si alzò, la bocca impastata e i capelli scompigliati, sbadigliando rumorosamente.
Si girò su un fianco della branda, e sorrise quando trovò Nata vicino a lui, ancora nel mondo dei sogni. La ragazza respirava piano, come se potesse essere sgridata anche solo per quello, la schiena nuda che si alzava e si abbassava al ritmo delle sue inspirazioni.
Si avvicinò ancora di più e le accarezzò i folti capelli scuri, giocando con i suoi folti ricci, ricordando nel mentre la notte appena passata.
Dopo aver discusso con Camilla si era precipitato subito da lei, in cerca di conforto e si era gettato sulle sue labbra senza pensarci, corrisposto subito dalla ragazza. Erano rimasti avvinghiati finché non era giunto quello scocciatore di Diego, che, a quanto pare, era in vena di fare battutine, cosa che aveva fatto arrabbiare incredibilmente Maxi, che stava per mettergli le mani addosso.
Solo quando Nata gli aveva chiesto di andarsene si era congedato, ma era tornato poco dopo, trovandola intenta a chiacchierare con Diego. Quest’ultimo sembrava sull’orlo di una crisi di pianto, gli occhi erano rossi e lucidi, le mani tremavano.
Vedendo le condizioni del suo amico, aveva aspettato che uscisse con l’intento di chiedergli una spiegazione appena uscito, ma, quando lui aveva varcato la soglia della tenda con sguardo affranto e sofferente, si era trattenuto, gli era mancato il coraggio.
Poi era entrato, aveva trovato Nata e, beh, era successo. Inaspettatamente, da un bacio dolce e appena accennato erano passati a una passione bruciante che divorava i loro corpi e, senza nemmeno accorgersene si erano ritrovati avvinghiati sulla branda ad amarsi.
Il sorriso del ragazzo si aprì ancora di più e lo spinse ad affondare anche la faccia tra la chioma della fidanzata, sussurrandole dolcemente: - Ti amo. –
Mentre diceva quelle dolci parole non si era accorto di qualcuno che, silenziosamente, si avvicinava al lui, in mano una spada sguainata.
L’arma calò con un colpo netto sul ragazzo, che precipitò in un’oscurità infinita.

Ludmilla si infilò il pugnale nella cintura, cauta. Forse era solo la sua immaginazione, frutto del suo inconscio ancora scombussolato dal recente incontro con gli spiriti. La visione che aveva avuto l’aveva sconvolta: come poteva aver visto suo padre? Lei lo odiava, e la sua morte era stata solo un sollievo, come se un macigno che le gravasse sul petto da molti anni fosse finalmente stato spostato. Sapeva di essere crudele e non le importava, quell’uomo la meritava completamente.
Solo un’ombra scura e veloce riuscì a distoglierla dai suoi pensieri; furtivamente, fece alcuni passi all’indietro, guardandosi intorno.
All’improvviso, sentì una mano forte e salda che le teneva la spalla in una morse di ferro. Con un’incredibile prontezza di riflessi, si voltò, il pugnale alla mano.
Davanti a lei si stagliava una figura alta e incappucciata, così che era impossibile vederne il volto, ed era altrettanto difficile dedurne il sesso poiché un lungo mantello allacciato sul petto da una spilla verde smeraldo ne copriva le forme.
Cercò di riportare alla mente tutte le nozioni sul combattimento corpo a corpo che le aveva impartito Camilla in persona, e affondò.
Il colpo venne parato con facilità, e lei fu costretta a indietreggiare; posizionò la gamba destra poco più avanti di quella sinistra e piegò il braccio, mettendosi in posizione difensiva. Sperò che la finta avesse funzionato quando si getto sull’avversario, al quale bastò spostarsi di lato e muovere leggermente il grosso spadone che aveva in mano per schivarla.
La bionda perse l’equilibrio e cadde a terra. Si alzò subito dopo con un balzo, il corpo sporco di terra, ma per il resto illesa.
Soffiò contro l’avversario come un gatto, sentendo una forte energia scorrere forte dentro di lei. Il sangue prese fuoco e il fuoco di cui era padrona la avvolse. Sorrise, colui che aveva pensato di poterla fare franca non aveva capito che si stava solo riscaldando. Era pericoloso usare i poteri all’inizio, ma bastava qualche colpo per far incanalare tutta la forza magica che aveva. Distese le braccia in avanti, e dalle sue mani partì una palla di fuoco, la quale raggiunse velocemente l’avversario. Ma, con grande sorpresa di Ludmilla, lo sconosciuto respinse l’incantesimo con uno scudo protettivo che lo circondò appena lui alzò una mano.
- Chi sei? – urlò a quel punto la ragazza, impaurita. L’altro rimase in silenzio, fissandola, il corpo in posizione di difesa.
- Cosa c’è, hai paura di mostrarmi il tuo volto? – ricevette in risposta un risolino divertito, acuto, che le fece sospettare che si trattasse di una donna.
All’improvviso, da sopra la spalla dell’avversaria scorse qualcuno che si avvicinava e le faceva un segno: era Federico. Trattenne a stento un sospiro di sollievo, ma capì dal cenno che il ragazzo le aveva fatto che doveva distrarre la combattente di fronte a lei. Non sarebbe stato facile, anzi, tutt’altro. Sbuffò lievemente e strinse la mano sull’elsa del coltello.
- Bene, a quanto pare mi trovi divertente, eh? Io, al contrario, trovo buffo che una persona così astuta e così capace con la spada non dovrebbe terrorizzarsi all’idea di far vedere il suo volto ad una ragazzina. – era sempre stata brava con i discorsi, la sua lingua lunga le aveva portato guai, certo, ma anche soddisfazioni, e voleva che quell’episodio rientrasse in quest’ultimo gruppo. Continuò a parlare, chiacchierare per altri due minuti, mentre si chiedeva dove diavolo fosse finito Federico. Notò che l’altra più lei parlava, più si chiudeva in un ostinato silenzio, anche se la bionda riusciva a intravedere il sorrisetto sarcastico che la insultava più di quanto facesse lei con le parole.
Finalmente vide l’alto ciuffo del ragazzo spuntare dietro la sconosciuta, in mano un bastone di legno. Ludmilla trattenne un’imprecazione, cosa diavolo aveva in mente? Perché non aveva recuperato una spada? Intese i piani dell’amico solo quando lui li mise in atto: alzò l’arma e colpì la nuca. La colpita si accasciò senza un lamento, e mostrò finalmente il suo corpo: era una donna bionda di circa quarant’anni, alta e di corporatura abbastanza robusta, vestita con abiti semplici ma raffinati; alla cintura porta un sacchetto di pelle che rifulgeva di una forte luce vermiglia.
A Ludmilla venne un colpo quando abbassò il cappuccio e ne scoprì il volto. Riuscì a mormorare solo una parola: - Madre. –

Violetta smise di camminare appena spuntò il sole; i piedi le dolevano e le palpebre erano pesanti, ma non le importava. Ormai poco aveva importanza dopo quelle parole brucianti che le aveva rivolto Leon. Quando le aveva pronunciate aveva pensato che fosse uno scherzo ma la sincerità disarmante presente negli occhi smeraldo del ragazzo le avevano tolto dalla mente quell’insulso pensiero.
Quella rivelazione la stava facendo soffrire: come aveva potuto farle questo? Era solo un codardo, un bastardo che scappava via dai suoi sentimenti e si nascondeva dietro ad una sporca scusa che sapeva tanto di menzogna.
Aveva trattenuto le lacrime e la delusione, lei non era una ragazza frignona, no, per niente; lei era una combattente, una dei Quattro e non poteva farsi abbattere da uno stupido ragazzo, anche se le faceva battere il cuore all’impazzata con un solo sguardo e la faceva sciogliere con uno di quei suoi stupendi sorrisi.
Quando era uscita, non si era resa conto di dove stava andando, erano le gambe a guidare, la mente era altrove. Solo quando il rosa e l’oro dell’aurora iniziarono a farsi strada nel cielo si rese conto di dove era: davanti alla tenda di Francesca.
Sorrise flebilmente davanti a quella coincidenza, aveva stretto una grande amicizia con l’italiana, e non le sembrava così strano che avesse finito per andare da lei.
Si avvicinò all’uscio e scostò lievemente il tessuto spesso, sbirciando dentro. La mora era di spalle, intenta a rovistare in una grossa borsa di pelle.
- È permesso? – chiese, facendo voltare di scatto la Cauviglia, che sospirò di sollievo appena la vide. Violetta notò la tristezza del suo volto, e probabilmente Francesca notò la sua, poiché si mise a scrutarla con preoccupazione.
- Che cos’hai? – domandarono entrambe, sorprendentemente all’unisono, ridendo sommessamente subito dopo.
- Problemi di cuore. – rispose la biondina, sbuffando. – E credo che per te sia lo stesso. – l’altra annuì, arrossendo leggermente.
Entrambe si sedettero, e iniziarono a chiacchierare. Le complicazioni sembrarono svanire in quei minuti, dove c’erano solo loro, due amiche che si confidavano.
Ma, mentre per Violetta non era poi così strano avere una persona a te amica con cui parlare, per Francesca era una cosa del tutto nuova: lei non aveva mai avuto amiche fino a quel momento, suo fratello era l’unica persona che c’era sempre stato, e con lui non si era mai potuta aprire completamente.
Scoprì, invece, di avere un’affinità particolare con l’argentina, una ragazza completamente diversa da lei, ma con cui si sentiva libera di dire tutte le preoccupazioni, i pensieri, i sentimenti, senza alcun timore.
- Quindi ti piace Diego. – constatò Violetta all’improvviso.
- Beh… un po’. – confermò l’altra, arrossendo violentemente.
- Un po’? – la biondina alzò un sopracciglio.
- Ok. Mi piace da impazzire. – Francesca si stupì delle sue stesse parole: mai aveva ammesso quello che provava per Diego a voce alta, anche se lo aveva sempre saputo.
- Ti avverto: è un bastardo. – si raccomandò Violetta.
Francesca ridacchiò tristemente: - Si, questo lo avevo capito. Tu lo conosci bene: perché si comporta così? – chiese all’improvviso.
La Castillo fu contenta di quella domanda, tantissime ragazze gliel’avevano fatta, in cerca di un modo per conquistare il cuore di quel ragazzo tenebroso; era sempre stata fiera di essere la migliore amica di uno dei più popolari della scuola, e, soprattutto, di essere l’unica che non gli sbavava dietro.
- Beh, se devo essere sincera… - non riuscì a terminare la frase. Entrambe videro dei soldati equipaggiati alla perfezione irrompere nella tenda. Non riuscirono nemmeno a combattere: due di loro le bloccarono e, con un movimento fulmineo, misero loro un sacco in testa e legarono loro le mani. Infine le portarono fuori, mentre le ragazze si dibattevano furiosamente nel vano tentativo di liberarsi.

Ammirò la sua opera con un misto di tristezza e orrore. Come poteva essere stata abbindolata in quel modo così barbaro? Si era innamorata, ecco cos’era successo; l’amore era stata la causa della sua rovina e della sua disperazione. Emise un gemito, cercando di combattere quei ricordi così dolorosi, provando a relegarli in un lontano cassetto della mente, come aveva fatto per quattro anni. Ma, adesso che aveva incontrato i suoi fantasmi, non poteva non riflettere sulla sua situazione disastrosa.
Due mani sui suoi occhi la distrassero. – Chi sono? – chiese una voce maschile. Camilla sbuffò e gli tirò una gomitata, facendogli scappare un gemito, che le fece scappare un sorriso, che Leon ricambiò prontamente.
- Ehi. – lo salutò.
- Ciao. – la sua voce sembrava strana, distante.
- Perché sei qui? – gli chiese.
- Semplicemente per vedere come stavi. Mi sei sembrata scossa ieri. – la rossa abbassò la testa, ripensando a quello che gli aveva detto il giorno prima.
- Scusa per aver urlato in quel modo ieri a te e a Maxi. Ero solo, come hai detto tu, scossa. – notò che il ragazzo, dopo che disse quelle parole, assunse un’espressione spaesata, quasi non sapesse di cosa stava parlando. Ma durò un attimo, poiché subito dopo la abbracciò, sussurrandole: - Non importa, tutto passato. –
Camilla affondò il volto nell’incavo del collo di lui, inspirando il suo profumo di cannella e… un attimo, ma Leon non profumava di cannella, lui aveva un odore più fresco e selvatico, vista la sua natura.
Scostò violentemente il corpo che ingombrava su di lei, ricevendosi in cambio un’occhiata sorpresa e preoccupata al tempo stesso.
La ragazza scattò in piedi, sibilando: - Tu non sei Leon. –
- Ma come? – ribatté l’altro – Non mi riconosci? Io sono Leon, il tuo migliore amico, il mezzo satiro. - disse queste ultime due parole con un tale disprezzo che il capo dei ribelli capì immediatamente chi era.
- Mostra immediatamente il tuo volto! – ordinò ugualmente, sperando di sbagliarsi anche se sapeva che questo era impossibile.
- Come vuoi. Solo, quello che vedrai non so se ti piacerà, sai la bellezza è una questione di gusti, e tu non hai buon gusto, Cami. – detto questo, una nube violacea avvolse Leon, e Camilla si ritrovò davanti colui che sperava non fosse.
- Tu. – soffiò.
L’altro alzò le spalle. – È la vita, Cami. –
- Smettila di chiamarmi Cami. -
- Scusa tesoro, ma adesso è meglio che collabori. È la cosa migliore: sei sola e disarmata. – nel mentre che constatava questo fatto, accarezzava con lentezza il pomo del grosso spadone che portava alla cintura, come a rimarcare il concetto.
- Lotterò con le unghie e con i denti. Tu sai che ne sono capace. –
Il ragazzo ridacchiò e disse: - Ok, allora se non vieni con le buone, verrai con le cattive. – la colpì allo sterno con un calcio, facendola indietreggiare. Convinto della vittoria, si slanciò in avanti, ma la rossa gli diede un calcio negli stinchi che gli provocò una acuta fitta di dolore; sguainò la spada, e la sicurezza dell’altra vacillò. La spada era dietro il suo avversario non c’era modo di raggiungerla. Ma non poteva arrendersi, non ancora. Vide uno dei pali che sorreggevano la tenda: se si fosse aggrappata ad uno di essi, avrebbe potuto prendere lo slancio per saltare e raggiungere la sua arma. Provò a metterlo in atto, salì sul palo e si mise in posizione, mentre l’altro continuava a fissarla, a metà tra il divertito e l’annoiato. Ma, probabilmente, non aveva capito cos’aveva intenzione di fare, e anche se lo avesse fatto non aveva altra scelta. Con un balzo si lanciò in avanti, la spada che si avvicinava, un lieve sorriso che le attraversava il volto e poi… un tonfo sordo con cui cadeva a terra. In un batter d’occhio si ritrovò il ragazzo sopra, che le puntava un ginocchio contro la schiena.
- Adesso tu verrai con me, siamo intesi? – sibilò, alzandola in piedi. La portò fino ad un carro dove c’era un manipolo di soldati che sorvegliavano due figure incappucciate. Il suo aggressore fece un cenno ai compagni, salì sul posto del guidatore e partì.

Non seppero per quanto tempo rimasero così, incappucciate e con un bavaglio sopra la bocca, che insudiciava loro il viso con la sua sporcizia.
Sapevano solo che le avevano portato su un carro, o almeno pensavano che quel mezzo che le stava trasportando lo fosse. Sentivano i soldati che si muovevano, ma per il resto stavano in silenzio, non un suono usciva dalle loro bocche. Rispetto ai guerrieri dei ribelli, quelli erano delle mummie.
Mummie che sanno fare dei nodi degni di un marinaio, però constatò con rabbia Violetta, agitando le braccia per cercare di smuovere le corde che le attorcigliavano le mani.
Capivano entrambe anche che c’era qualcun altro con loro, qualcuno che era stato portato lì sopra come loro. Se solo ci avessero potuto parlare, o anche solo vederlo.
Improvvisamente, le fecero scendere, ma solo loro due, l’altro prigioniero venne lasciato lì. Mani d’acciaio le afferrarono e, con una delicatezza pari a quella di un orso grizzly arrabbiato, le condussero verso un luogo indefinito.
Finalmente, dopo qualche minuto, arrivarono; tolsero loro i sacchi dalla testa e i bavagli dalla bocca e se ne andarono, lasciandole sole. Si trovavano in una tenda nera completamente coperta di mobili di fattura pregiata e monili di incredibile valore li ricoprivano. Su un lato dell’abitacolo vi era un lungo tavolo sopra il quale c’erano alcune ampolle contenente qualche liquido luccicante come un diamante che le abbagliò.
- Come stai? – domandò Francesca dopo qualche attimo di ammirazione.
- Meglio di quanto immagini. Tu invece? –
- Sono sopravvissuta a trattamenti peggiori. – sbuffò l’italiana.
- Riusciremo ad uscire di qui. – ringhiò Violetta, stringendo le labbra.
- Credo che questo non sia possibile. – una voce profonda e roboante le fece voltare di scatto. Dal fondo scuro della tenda arrivò un uomo nerboruto e muscoloso, i capelli neri tagliati corti e gli occhi dello stesso colore e inespressivi.
La bionda deglutì e per poco non svenne dalla sorpresa: - Papà. – mormorò.
L’uomo scoppiò in una grassa risata. – Io non sono tuo padre. – le rivelò. – Gli assomiglio però, vero? – aggiunse con un ghigno.
- Come è possibile? – sussurrò la ragazza.
- È una lunga storia, mia cara Violetta, e te la racconterò a tempo debito. Ora però mi presento: sono Carlos, mie belle fanciulle, capo dei Sarchatan. – accompagnò le sue parole da un inchino ironico.
La Castillo avrebbe preso a schiaffi quella faccia se non avesse avuto le mani legate e se quello non fosse stato anche il viso di suo padre.
- Chissà perché, avevamo intuito chi sei. Ora però piantala con questi stupidi giochetti e vai al sodo. – Violetta si voltò verso una Francesca con le labbra contratte e le sopracciglia inarcate all’ingiù, dandole un’aria crudele e determinata che sorprese l’amica.
- Calma, Francesca, non c’è bisogno di arrabbiarsi. Hai un bel caratterino, non come mia avevano raccontato. – a quelle parole la mora si ritrasse di un centimetro.
- E chi te lo avrebbe raccontato? –
Carlos si portò una mano alla bocca, fingendo sconvolgimento. – Cielo. – mormorò – Mi stavo quasi dimenticando di presentarvi un’altra persona, o meglio ripresentarvela. Vieni avanti. – detto questo fece un gesto con la mano.
Dall’oscurità uscì Diego.

Angolo dell’autrice: Salut, mis friends. Piaciuto il giochino con le lingue? No, credo di no. Sono ancora più in ritardo dell’altra volta, ma mi giustifico dicendo che è la fine dell’anno, che sono stata sommersa da verifiche e che il mio tempo libero lo passavo spaparanzata sul divano con gli auricolari o con un libro.
Poi c’è stata anche la mancanza di ispirazione, e io non voglio scrivere un capitolo senza spunto e, soprattutto, non volevo scrivere questo capitolo senza spunto.
Vi è piaciuta la rivelazione? Era piuttosto ovvia, no, qualcuno (speriamo non tutti) lo aveva pure già capito. Anche perché è quasi sempre il ruolo del nostro caro amico spagnolo, quello del cattivo. E adesso, cosa succederà dopo questo? Lo scoprirete nel prossimo capitolo (che arriverà un po’ prima). Spero che il capitolo vi sia piaciuto, accetto anche critiche e consigli.
Un bacione da Chicca2501.

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Capitolo 15
*** Il Tempo ***


~~15

Il Tempo

Volteggiava in un vortice nero. No, non volteggiava, cadeva piuttosto. Ma, ormai, c’era abituata. Era sempre così quando aveva una visione, che fosse sul passato, presente o futuro: lei che precipitava in un tornado fatto di oscurità fitta e densa, quasi palpabile, attraverso la quale scivolava fino a trovarsi davanti a tre porte, una affianco all’altra: la prima era alta e ampia e fatta di bronzo e sopra c’era raffigurato un serpente, ed era l’ingresso al passato; l’altra porta era poco più piccola, ricoperta interamente d’argento e riportava il disegno di un artiglio, ed era l’entrata per il presente; infine, vi era l’ultima porta, la quale era interamente d’oro, e lungo il profilo orizzontale era raffigurata una freccia, e quella portava il futuro, nel quale esplorava molto raramente. Come sempre, una strana forza la spinse verso le porte, e sempre quest’ultima la guidò oltre quella con l’artiglio: il presente.
Il presente era strano: non era come il passato, dove il mondo era a colori e la maggior parte delle volte si riusciva a vedere chiaramente, o come il futuro, che assomigliava a una foto di vari anni prima ritrovata in soffitta, ormai sbiadita dal tempo e di cui non si riesce a cogliere bene il soggetto. Il presente era sfuggevole si, perché lo si stava vivendo, ma vivido, vivace e si riuscivano a cogliere alcuni particolari.
Quando entrò, vide per un attimo sfocato, prima di riuscire a mettere a fuoco il luogo dove si trovava: difficile da capire, ma comunque vi era un letto, sopra il quale dormivano due ragazzi di cui riusciva solo a cogliere la forma dei corpi avvinghiati. Iniziò a girare quella che sarebbe dovuta essere una camera da letto, ma aveva la sensazione che non fosse solo questo. Guardò ancora i due ragazzi e si accorse che uno dei due era coricato in una posizione innaturale. Si avvicinò e si accorse che la sua nuca era macchiata di rosso, e che il liquido era sangue.
Nata aprì le palpebre, sbattendole più volte a causa della luce che entrava prepotentemente dall’entrata della tenda. Aveva avuto un’altra visione, ma questa era stata la più strana di tutte, e le aveva messo addosso un senso di irrequietezza. Stiracchiò le membra intorpidite, sbadigliando e, appena i suoi occhi si furono abituati all’illuminazione dell’alloggio, si guardò intorno.
Si accorse solo dopo un po’ che non era nella sua tenda: infatti, questa era occupata, oltre dalla branda sopra la quale era adagiata, da un grande tavolo posto al centro, ricoperto di mappe, strumenti, fogli scritti fittamente e piccoli pezzi di legno che somigliavano per forma e misura a delle pedine e da una cassapanca dello stesso materiale sormontata da un’altra piccola scatola finemente intagliata. Ma nonostante fosse arredata diversamente dalla sua, la ragazza la sentiva come se fosse sua, dopo quella notte. Sorrise, distaccandosi per un momento dal pensiero della visione, mentre i ricordi le affollavano la mente: le sue mani che le percorrevano il corpo, i sospiri, le premure, i sorrisi e le risate quando lui era quasi caduto a terra mentre cercava di togliersi frettolosamente i pantaloni.
Arrossì per le emozioni intense e per il piacere che aveva provato e che le avevano fatto vibrare il corpo.
Non riusciva a smettere di sorridere, tra poco la mascella le avrebbe fatto male, ma non le importava, pensava solo a quel ragazzo basso ma che con la sua dolcezza e forza di volontà poteva riempirci castelli.
Si girò lentamente verso il fidanzato, per non svegliarlo, ma, quando finalmente lo ebbe di fronte, preferì non averlo fatto: Maxi era disteso sulla branda in posizione fetale, il viso e il collo rigato di sangue vermiglio che colava fino a sporcare la terra e la branda, gli occhi socchiusi, come se si stesse per svegliare. Ed era quello che Nata sperava stesse per fare, svegliarsi, chiederle come stava, ridacchiare e arrossire per i fatti di quella notte, dirle che quello che sembrava sangue era solo vino che in qualche modo si era rovesciato addosso.
Come sospettava in un angolo recondito della sua mente, non successe niente di tutto questo. Le lacrime iniziarono a colare copiose sulle sue guancie, si chinò sul corpo inerte dell’amato, incapace di formulare un pensiero coerente.
Poi, in un lampo, le tornò in mente tutto: la camera da letto, i due ragazzi, il sangue sulla nuca.
Iniziò a singhiozzare, sempre più forte, fino a quando non urlò, emettendo un grido pieno di disperazione, rabbia e dolore.

Violetta sgranò gli occhi appena il ragazzo uscì alla scoperta. All’inizio pensò che tutto fosse un sogno un brutto sogno, anzi un incubo. Ma non era così, era tutto vero: il suo migliore amico era lì in piedi di fronte a lei, e non batteva ciglio nel vederla lì, le mani legate e in ginocchio, e non smentiva nemmeno l’accusa di essere un traditore.
Al contrario, la fissava con spavalderia e sicurezza, due cose che l’avevano attratta fin da quando si erano si erano conosciuti. Ma ora non le piaceva quello sguardo, la inquietava e la spaventava e non riconosceva più il suo amico in quel ragazzo carico di malignità.
Girò di poco la testa e vide che Francesca era nella sua stessa situazione emotiva: occhi spalancati e la bocca aperta in un’espressione di assoluto stupore.
Riuscì infine a focalizzare anche il capo dei Sarchatan, davanti a lei con un sorriso soddisfatto stampato sul volto uguale a quello di suo padre. Un’altra informazione da aggiungere alla lista: “cose che non riesco a collegare, formatasi da quando era arrivata ad Atlantide e che ormai era lunga chilometri.
Ritornò a guardare Diego, che non si era mosso di un millimetro e sentì una lacrima scendere lungo la sua guancia prima che potesse fermarla. Solo allora vide qualcosa smuoversi negli occhi del suo ex migliore amico, qualcosa che assomigliava al rimpianto, ma che scomparve poco dopo, tanto che pensò che avesse avuto un’allucinazione.
- È inutile che piangi, ragazzina. – ruppe improvvisamente il silenzio Carlos, nella sua voce facevano a gara irritazione ed euforia. – Diego non è mai stato veramente tuo amico, fattene una ragione. -
Non aveva ancora pensato alla possibilità che il ragazzo fosse nato in quel mondo, ma ora le appariva chiaro come il sole, ora quadrava tutto: la strana telefonata il giorno della partita, il ritrovarsi in quel mondo strano, il fatto che lui l’avesse saputa guidare e lo strano rapporto che aveva con Camilla e Leon. Quindi era stata tutta una farsa, una stupida recita; lei gli aveva voluto bene, lo aveva sempre considerato il suo migliore amico, gli aveva raccontato cose che nessun altro sapeva, e pensava anche lei di conoscerlo come nessun altro, ma si sbagliava: non lo conosceva affatto.
- Perché? – sussurrò.
- Perché è un bastardo. – a risponderle era stata Francesca – Me lo ha detto lui stesso. All’inizio pensavo fosse una battuta, ma ora so per certo che non è così. A quanto pare per una volta ha detto la verità. – pronunciò l’ultima frase con astio, e Violetta vide Diego tremare e guardare la mora con una strana espressione, quasi sofferente.
- Bella definizione. – si intromise Carlos. – Ma questo non ti servirà a liberare te e la tua amica. Adesso siete nelle mie mani, non avete via di scampo. – a causa di tutta quella storia di Diego, si era quasi scordata del perché si trovava lì. Provò a concentrarsi cercando di richiamare a sé i suoi poteri, ma quelli restavano bloccati da qualche parte della sua anima, non riusciva ad evocarli; eppure, ormai aveva imparato ad attirarli anche senza l’aiuto di Ludmilla che fungeva da calamita o della Stregona degli Animali. A quella visione probabilmente patetica, l’uomo scoppiò in una grassa risata, guardando con lo sguardo colmo di quella che sembrava pietà sia lei che l’italiana al suo fianco, che aveva provato ad utilizzare anche lei i suoi poteri.
- Le corde con cui vi hanno legato le mani sono state incantate da uno dei nostri più potenti stregoni e bloccano i vostri poteri, impossibilitandone l’uso. – spiegò Carlos – Tranquille, appena avremo finito questa chiacchierata, sarete libere di questo ostacolo per la vostra magia, ovviamente se collaborerete. – finita la frase, un ghigno gli deturpò il viso.
- Cosa vuoi da noi? – chiese Francesca, deglutendo rumorosamente.
- Cosa voglio da voi? Ma vi siete rese conto di chi siete? Soprattutto di chi sei tu, Violetta. – enfatizzò l’affermazione guardandola intensamente – Siete le persone più potenti di tutti i mondi e di tutti i tempi, siete due dei Quattro, e vi trovate qui al mio cospetto. Ovviamente sarebbe stato meglio se ci foste stati tutti, ma, a quanto pare, il mio alleato incaricato dei vostri compagni ha fallito. Quindi, dicevo, io… –
- Ci vuoi usare per qualche malvagio piano per conquistare Atlantide. Questo lo avevo capito, è un cliché nei libri o nei film. – lo interruppe l’argentina, la quale aveva notato lo sguardo sornione di Diego e con il desiderio di cancellarlo stava cercando di ostentare sicurezza.
- Hai ragione, mia cara, io bramo il potere su Atlantide, ma non solo. Come dici tu, è un cliché. Io voglio di più. – detto questo, si avvicinò a un grosso tavolo al centro della tenda, e prese un foglio di pergamena molto grande e lo mostrò loro: era una mappa. Ma non una di Atlantide, come ci si poteva aspettare, quella ritraeva quattro gruppi di globi disegnati con ineguagliabile maestria e ogni gruppo circondava una sfera, e ogni sfera era di diverso colore e materiale e le accumunava solo un segno inciso sulla parte superiore di ognuna - Questa – spiegò il capo dei Sarchatan – è la mappa degli universi. Sapete, esiste più di un universo. Il vostro mondo si trova qua. – indicò un punto sulla mappa dove c’era disegnato un globo quasi completamente azzurro con alcune chiazze più scure sopra. – E il nostro è qua – stavolta il suo dito si era spostato un po’ più a destra, posandosi sopra una raffigurazione più piccola dell’altra ma non meno accurata.
- Cioè, vuoi diventare padrone non solo di Atlantide ma di tutti questi mondi? – chiese Francesca, alzando un sopracciglio.
- Voi non capite, mie care ragazze. – sbuffò Carlos con impazienza - Ora vi faccio una domanda: che anno era quando siete arrivate qua? –
- Il 2014. – disse Violetta.
- Il 1858. – rispose nello stesso momento l’italiana.
- E non vi siete mai chieste come avete fatto a finire qui nello stesso momento se provenite da epoche differenti? –
- Non siamo arrivate nello stesso momento. – dichiarò la mora – Io sono comparsa probabilmente duecento anni prima che loro mi trovassero. –
- E come avresti fatto a sopravvivere per duecento anni, sentiamo. –
- Io in teoria sono morta. – commentò l’altra con una punta di malinconia.
- Lo sei solo in quel mondo, ma qui sei viva, puoi crescere, continuare a vivere ed essere uccisa. Tu sei arrivata nel suo stesso istante. – spiegò l’uomo, puntando l’indice verso la Castillo. – E, comunque, non vi siete mai chieste di che epoca siano i vostri amici, e come mai siano comparsi anche loro nello stesso istante? –
- Non ti seguo. – disse la biondina.
- Il mio capo vuole dire – al suono di quella voce tutti si voltarono verso Diego, che parlava per la prima volta da quando era entrato in quella tenda – Il mio capo vuole dire che alcuni mondi hanno diverse epoche, ognuna indipendente dall’altra, che sono vissute nello stesso istante. Per esempio, adesso, sulla Terra, in una di queste  epoche gli uomini primitivi stanno imparando ad usare il fuoco, e in un’altra Cesare sta combattendo contro i Galli. Ma questo vale solo per alcuni mondi, non per tutti. Per essere precisi, vale solo per quattro, uno per ogni universo. –
- Esatto. – continuò Carlos, la voce leggermente infastidito – Questi mondi sono la chiave per quello che cerco. Io sono un po’ più ambizioso di quello che pensa la signorina Castillo. Li vedete questi simboli? Sono una strana combinazione tra passato, presente e futuro: un serpente trapassato da una freccia la quale è ghermita da un artiglio. Ho bisogno di quei simboli, e la chiave per trovarli sono quattro persone potenti che provengono da ognuno di questi mondi composti da tante età. –
- Scusa, ma a cosa ti servono precisamente quei simboli? –
- Per un piano che è tutto tranne un cliché: il controllo del Tempo. - l’ultima parola rimbombò a lungo, come un eco, nella mente delle due ragazze, che tutto si aspettavano tranne quello.
- No, decisamente non è un cliché. – mormorò Violetta dopo poco. Subito dopo, un sorrisetto furbo le increspò il bel viso.
- Beh, caro capo dei Sarchatan, io penso che tu abbia fatto male i tuoi calcoli. – sentenziò.
L’uomo scoppiò in una fragorosa risata. –  Davvero? E, sentiamo, cosa non avrei calcolato, secondo te? –
- Io, Francesca, Federico e Ludmilla proveniamo tutti dallo stesso mondo. Quindi, non puoi usarci per questo assurdo scopo. –
Il capo dei Sarchatan inarcò un sopracciglio, e assunse un’aria falsamente pensierosa. Alla fine, dichiarò: - Bene, a quanto pare non so io che ho sbagliato i miei calcoli, ma voi. Non sapevate che solo uno di voi è davvero nato in quel mondo? - A quella frase detta con molta leggerezza, il silenzio calò sovrano nella tenda. – Scusa, in che senso non siamo nati tutti in quel mondo? – chiese Violetta, e le sembrò che la sua voce rimbombasse come se fossero in una caverna.
- Tu non ti devi preoccupare. – proseguì il discorso Diego, guardandola con uno sguardo che non seppe decifrare. – Tu sei nata lì, per questo hai i poteri dell’Acqua. –
- Scusa, ma il nostro mondo si chiama Terra. Perché dovrebbe essere la terra dell’Acqua? – richiese la Castillo.
- Perché è composto per la maggior parte da questo elemento. Sapevo che non eri brava in scienze, ma non pensavo fossi a questi livelli. – commentò Diego, sollevando un sopracciglio e alzando un angolo della bocca a formare un sorriso sarcastico.
L’altra stava per rispondergli a tono, magari infarcendo la risposta con un paio di insulti, quando posò gli occhi su Francesca. Aveva le mani che tremavano e lo sguardo fisso a terra, come se fosse in meditazione. Alla fine balbettò: - Quindi Luca non era veramente mio fratello? – L’argentina rimase basita a quella domanda; se ne aspettava un’altra, ma d’altronde non poteva capire, essendo sempre stata figlia unica, pensò.
- Luca era veramente tuo fratello. – Francesca iniziò a respirare regolarmente. – Insieme siete arrivati da uno di quei mondi e vi siete trasferiti lì, attraverso un portale, dove un uomo vi ha trovati. –
- Ma l’avete ucciso voi. -  la voce le tremava.
- Francesca… - tentò di dire Casal, con tono stranamente addolorato.
- Rispondimi. – ordinò la ragazza alzando gli occhi, con un tono che non ammetteva repliche.
- Si. – mormorò l’altro, chinando il capo, come se si vergognasse – Lorenzo era un nostro inviato. -
L’italiana sgranò gli occhi, ormai lucidi, ma non si lasciò sfuggire nemmeno una lacrima. Probabilmente non voleva piangere davanti a loro.
Dopo qualche secondo si riprese e domandò: - Che dovremmo fare ipoteticamente noi in questo piano? – la Castillo rimase basita per un attimo. Era impossibile che Francesca partecipasse a quell’assurda impresa malvagia dopo questa rivelazione. Un ghigno malvagio deformò il volto del Sarchatan. Un’anima stravolta dal dolore era più facile da manipolare. – Semplicemente seguirmi. Cosa ne pensate? –
Con uno sforzo enorme la mora si alzò in piedi, si mise di fronte a lui e… gli sputò in faccia.
- Ecco cosa ne penso del tuo piano. – ringhiò, guardandolo negli occhi. – Come hai potuto pensare, anche solo per un secondo che sarei stata dalla vostra parte, bastardo? Siete degli assassini. -
L’uomo, sconvolto e arrabbiato per l’umiliazione, la stava per colpire con un pugno, quando Diego si mise in mezzo, afferrando il braccio del proprio capo e guardandolo con rimprovero e rabbia.
- Come osi? – sibilò Carlos – Vuoi rendere vani tutti i tuoi sforzi? Non ci vuole niente ad uccidere qualcuno, e lo sai perfettamente. – il ragazzo allentò e infine mollò la presa, per poi ritirarsi servilmente.
L’uomo guardò fisso le due ragazze e disse: - Se non volete collaborare con le buone, collaborerete con le cattive. – emise un fischio e due guardie entrarono. – Portatele via. – ordinò. – Ci vediamo domani, ragazze. –

Leon si svegliò in un posto buio e che sapeva di muffa e di sterco. Si sentiva molto male e aveva la nausea. Nonostante tutto si alzò in piedi, ma sbatté la testa su un soffitto troppo basso per lui, così si chinò leggermente, mentre si massaggiava la testa. A causa di questo movimento, sfiorò le due piccole corna che gli spuntavano appena, nascoste accuratamente dal ciuffo.
Così gli venne in mente cos’era successo la notte prima: aveva prima discusso con Camilla e poi, perché litigare con la sua migliore amica non era abbastanza, con Violetta.
Solo che, mentre il litigio della rossa era colpa proprio della segretezza della ragazza, quello con l’argentina era avvenuto a causa sua.
Perché l’aveva respinta? Era a due centimetri da quelle labbra così perfette e aveva mandato a monte tutto per un’insicurezza. Un’insicurezza ragionevole, pensò subito dopo. Era dalla chiacchierata con Diego quella notte prima del giorno della partenza che gli ronzava in testa: lui era un mezzosangue, uno scherzo del destino, frutto di uno sporco tradimento; lei, al contrario, era la ragazza più potente di tutto il mondo conosciuto e sconosciuto, il capo dei Quattro, e stare con lui avrebbe messo a repentaglio tutto. Si, si disse infine, aveva fatto la scelta giusta.
E poi, era colpa del suo essere satiro se non poteva stare con lei, se la gente che conosceva la sua natura lo allontanava, se doveva nascondersi continuamente e se adesso riusciva a malapena a stare seduto, tanti erano gli odori putrefatti che il suo sensibile olfatto captava e tanta era la nausea. Diede un forte pugno per terra, arrabbiato.
Dopo essersi sfogato e aver preso un paio di respiri profondi per calmarsi, passò oltre, anche se all’inizio sembrò impossibile: l’immagine della ragazza che amava gli offuscava la mente e riusciva a vedere solo i suoi grandi ed espressivi occhi color nocciola, i suoi lineamenti perfetti, il corpo magro e minuto ma capace di sopportare tutta la magia che aveva dentro, tutto ricoperto da un velo di malinconia e rimpianto.
Cercò di mandarla via, doveva riuscire a capire dove si trovava e come poteva ritornare all’accampamento.
Ci volle più tempo del previsto: il resto dei ricordi era confuso, sbiadito, come se gli avessero somministrato un narcotico. Spalancò gli occhi: ecco perché tutto era così annebbiato, gli dovevano avergli dato qualcosa per farlo intontire, così non avrebbe potuto opporre resistenza quando l’avrebbero portato lì.
Terza domanda: dove si trovava? Sapeva che era basso, visto che aveva sbattuto la testa, ma il luogo era immerso nel buio ed era pressoché impossibile riuscire a vedere qualcosa. Doveva accendere una luce; di solito si portava dei fiammiferi in tasca, per sicurezza. Frugò nei pantaloni e constatò con sollievo che non l’avevano perquisito, quindi non avevano trovato niente.
- Idioti. – mormorò con un sorrisetto.
Si, ma chi erano gli idioti di cui parlava con tanto disprezzo? No, no, poteva pensarci dopo; prima doveva accendere un fuoco. Cercò qualcosa su cui appiccarlo e, fortunatamente, dopo aver avanzato a tentoni nel buio per un po’, trovò qualcosa che al tatto pareva un fascio di rametti secchi.  Si sedette e sfregò i fiammiferi sulla suola della scarpa finché una fiammella non lo illuminò. Mise a contatto il fiammifero con i rametti e poi lo gettò via, mentre questi ultimi iniziavano a bruciarsi.
Finalmente poté guardarsi intorno: si trovava in una piccola caverna, un buco nella terra più che altro (ecco spiegato il perché della nausea, vista la sua claustrofobia dovuta alle sue selvatiche origini), ricoperto per terra da teschi ed escrementi di animali, probabilmente era stata la tana di qualche bestia feroce. L’apertura era stata chiusa da un masso che non riusciva a spostare; in un impeto di rabbia, si scagliò di testa contro di esso e le sue corna riuscirono a completare il lavoro e a lasciar entrare la luce. Spense il fuoco e uscì., ringraziando per la prima volta nella sua vita di essere diverso.
Fu un sollievo sentire di nuovo il vento giocare tra i capelli e la luce riscaldare la pelle e gli odori della natura che gli invadevano le narici e lo facevano sentire vivo; rise e vomitò subito dopo, e poi rise di nuovo, sentendosi più leggero.
Dopo quella breve pausa, si guardò intorno: era in un bosco composto prevalentemente da pini. Riconosceva quel posto: vi era passato con i ribelli solo due giorni prima, probabilmente non avevano pensato a portarlo troppo lontano, convinti che non sarebbe riuscito a liberarsi. – Illusi. – disse, questa volta a voce alta, quasi gridando. – Credevano di poter intrappolare un satiro, ma non ce l’hanno fatta. – disse quelle parole di slancio, con energia, e si sentì libero come non era mai stato. Finalmente si riconosceva per quello che era, non uno scherzo della natura, ma la natura stessa, la sua incarnazione più intima: riusciva a sentire i profumi più lievi e i rumori più silenziosi e si prese un momento per assaporare questa nuova consapevolezza. Si promise una cosa: appena sarebbe tornato avrebbe chiesto scusa a Violetta e le avrebbe detto che l’amava e che voleva stare con lei, e che se ne fregava di tutto il resto.
Spinto da questo pensiero, rifece il punto della situazione: si era liberato, sapeva dove si trovava e che ci avrebbe messo circa un giorno ad arrivare all’accampamento, contando le soste che avrebbe fatto per mangiare e riposarsi. Aveva avuto molta fortuna. L’unico svantaggio era l’assenza di un arma per difendersi o per cacciare, ma si convinse che nessuno l’avrebbe potuto vedere e che avrebbe mangiato quello che la terra gli offriva. Si mise in marcia, sollevato.
Si era dimenticato di rispondere a una domanda, però: chi lo aveva portato lì? Lo avrebbe scoperto andando all’accampamento e non sarebbe stato felice di saperlo.

L’accampamento ormai era immerso nel caos: un soldato aveva notato che Camilla era sparita e tutti avevano dato di matto. Nemmeno Leon c’era, come se si fosse volatilizzato insieme al suo capo. Francesca e Violetta sembravano aver fatto la stessa fine. Così toccò a Federico, con il supporto dell’ancora sconvolta Ludmilla, a organizzare tutto.
Per prima cosa, fece radunare tutti i ribelli in preda al panico davanti alla tenda del loro leader scomparso e cercò inutilmente di placare gli animi con parole di conforto e incoraggiamento, quando probabilmente era il più spaventato di tutti.
Disse che avrebbero trovato Camilla e il suo vice, che dovevano semplicemente essersi allontanati un attimo e che probabilmente si erano persi. Rimandò tutti nelle proprie tende, annunciando che quei primi giorni sarebbero rimasti lì e non avrebbero proseguito il viaggio.
Rientrò stremato nella propria tenda, dove trovò Ludmilla seduta sulla branda, lo sguardo fisso sul corpo della donna che aveva sconfitto solo poche ore prima.
Era sua madre, secondo lei. Gli sembrava alquanto improbabile, ma del resto non conosceva i familiari della ragazza e non voleva alzare l’ipotesi che quella fosse solo una donna che le assomigliava. Le si sedette accanto e la abbracciò; lei ricambiò l’abbraccio, affondando il volto nell’incavo del suo collo; non le sfuggì una lacrima o un singhiozzo quando ritornò alla posizione originaria. Non disse o fece altro, quindi Federico decise di andare da Nata; era un po’ che non parlava con lei e non sapeva come stava, soprattutto vista la baraonda di quel giorno.
Si diresse verso la tenda, ma quando entrò si trovò davanti uno spettacolo troppo triste anche per quella giornata: Nata, mezza nuda, china sul corpo di un ragazzo inerme e ricoperto di una poltiglia rossa che piangeva disperata.
- Nata. – disse solamente. La ragazza si girò, incurante del suo aspetto, non era la prima volta che lui la vedeva mezzo svestita, all’orfanotrofio il pudore era superfluo.
- Fede. – rispose l’altra. Il ragazzo si avvicinò e per poco non si mise a piangere anche lui: colui che giaceva davanti al fianco della sua amica era Maxi. Lui e lo stratega avevano fatto amicizia negli ultimi tempi, e l’italiano si era rallegrato quando aveva saputo della loro relazione, nonostante fosse ancora un po’ geloso.
La nuca del più piccolo era ricoperta di quello che sembrava sangue rappreso che scendeva giù per il collo. Federico lanciò un’occhiata alla spagnola, per poi indicare con il capo l’altro. La ragazza, dopo un attimo di incertezza, annuì. Di sicuro aveva capito cosa intendeva. Pasquarelli si chinò sul corpo e cercò di vedere da che ferita era uscito tutto quel sangue. Con sua grande sorpresa, non ne trovò nessuna, nonostante cercasse attentamente. Guardò con sorpresa Nata, la quale si chinò a sua volta ed ottenne lo stesso risultato.
- Ma cosa… - tentò di chiedere Nata.
- Non lo so. Ma sono sicuro che questo non è sangue. –
- E allora perché ne è ricoperto? –
- Non ne ho idea. – si riavvicinò di nuovo e prese un po’ di quella sostanza tra le mani. Una voce risuonò immediatamente nella sua testa: era quella di Madre Terra.
- Succo di aurispica. – mormorò.
- Di cosa si tratta? – le domandò mentalmente Federico.
- È un succo ricavato dal liquido di aurispica mischiata alla poltiglia che ne esce in seguito alla sua macerazione. Serve per dare una morte apparente. –
Il ragazzo tirò un sospiro di sollievo e chiese ancora: - Come si può combattere l’effetto? –
- Con la stessa miscela. – dopodiché la voce sparì prima che potesse porre altre domande. Si ritenne ugualmente soddisfatto.
- Allora, cos’è? – la voce impaziente della Navarro lo riportò alla realtà.
- Maxi non è morto. – a quelle parole la ragazza lo guardò con gioia e sollievo, ma anche con preoccupazione.
- C’è un ma, vero? – l’altro annuì.
- È sotto un incantesimo che gli dà una morte apparente. –
- E tu sai come risvegliarlo? –
- Si. – lo sguardo dell’altra si riempì di speranza – Ma non so dove trovare gli ingredienti. – la speranza si affievolì, anche se non scomparve.
- L’importante è che non sia morto. – cercò di consolarla Federico – Troveremo un modo per sciogliere questo incantesimo. Noi due ce la facciamo sempre, no? Siamo pure riusciti a scappare dall’orfanotrofio. –
- A questo punto preferivo rimanere lì. – confessò la ragazza.
- Se fossimo restati lì non avresti conosciuto Maxi. E questa notte avresti dormito nel tuo piccolo letto scomodo nel dormitorio comune, invece di fare cose sporche con il tuo fidanzato. – ribatté l’italiano, accennando per la prima volta con un sorrisetto malizioso agli ovvi avvenimenti della notte prima. La riccia arrossì e tirò su con il naso, per poi ridacchiare, imbarazzata.
- Forse hai ragione. Supereremo anche questo. – ammise.
- Questa è la mia Nata. – dopo aver detto questo la abbracciò, tenendola stretta a sé, con la certezza che ce l’avrebbero fatta. Erano di nuovo insieme, e niente li avrebbe fermati.
Leon arrivò inspiegabilmente il giorno dopo. Raccontò che era stato rapito e portato lontano, ma che era riuscito a liberarsi. Sembrava felice, ma tutta l’allegria si spense quando venne a scoprire della scomparsa delle ragazze. Quando Federico nominò Violetta, i suoi occhi, già lucidi, si riempirono ancora di più di lacrime.
Riuscì comunque a mantenere la calma, comportandosi come un vero capo. Radunò nuovamente gli uomini, ormai non più così spaventati. Spiegò loro cosa probabilmente era successo ed iniziò subito a impartire ordini per iniziare il più in fretta possibile le squadre di ricerca, promettendo il ritorno di Camilla e delle altre due ragazze.
Dopo si ritirò nella sua tenda.
Nessuno seppe che si mise a piangere e nessuno seppe che tra le lacrime mormorava il nome di Violetta.

Camilla fu sorpresa quando Francesca e Violetta comparvero nella tenda, accompagnate da soldati Sarchatan. Furono sbattute a terra in malo modo, finendo una sopra l’altra, e sarebbe stata una scena comica se non fosse stato per la grave situazione in cui si trovavano.
Anche le altre due rimasero stupite e spaventate alla vista del capo dei ribelli, il quale era sicuramente ridotto peggio di loro: la pelle scoperta presentava delle ustioni, aveva un occhio nero e un taglio sulla guancia destra, sulla quale sarebbe rimasta una cicatrice.
Con un po’ di fatica, le tre ragazze riuscirono a slegarsi i lacci a vicenda e, quando ebbero finalmente le mani libere, iniziarono a parlare.
Violetta e Francesca raccontarono del piano di Carlos, delle scoperte sulla loro origine e di Diego (ma l’altra affermò che lo sapeva già e volle chiudere immediatamente l’argomento); la rossa aggrottò le sopracciglia, inquieta. Non aveva mai pensato che il Sarchatan volesse estendere il proprio dominio non solo su Atlantide, ma anche su altri regni e, addirittura, sul Tempo. Un problema in più da affrontare, visto che ora dovevano anche fare in modo che quel bastardo maledetto non trovasse i simboli; certo, aveva detto che solo i Quattro potevano trovarli ed ora ne aveva solo due, ma se fosse riuscito a rapire anche Federico e Ludmilla?
Tutte quante giunsero alla conclusione che dovevano trovare un modo per uscire di lì al più presto.
Ma, prima che potessero ideare qualunque cosa, sia Violetta che Francesca vollero sapere cosa era capitato all’altra, come fosse finita lì e perché aveva il corpo martoriato in quel modo crudele.
- Mi hanno rapita, come a voi. – iniziò Camilla. – È stato Diego a farlo: si è trasformato in Leon, a cui probabilmente ha fatto qualcosa. – a quelle parole addolorate la Castillo sussultò –  Ma ho comunque la certezza che non gli sia successo niente di grave, visto che è un grande combattente e si sa difendere perfettamente. – disse il capo dei ribelli, cercando di convincere più che altro se stessa, prima di continuare – A causa di questo inganno, è riuscito a sequestrarmi e a portarmi qui, dove mi ha lasciato in balia di alcune guardie, che mi hanno portata da Carlos. Quello che mi ha fatto lo potete vedere da sole. Sappiate soltanto che è stato molto doloroso. – chinò il capo, come se stesse meditando. Lo rialzò pochi secondi dopo, e stava per dire qualcosa, quando nella tenda arrivarono due guardie e buttarono a terra una figura incappucciata.
Le tre ragazze corsero subito a dare una mano, slegando le corde che gli tenevano i polsi spellati e togliendo il sacco che fungeva da cappuccio, riuscendo così a vedere il loro compagno di prigionia: un uomo alto, muscoloso, con i capelli neri tagliati corti e gli occhi dello stesso colore. Francesca mormorò: - Carlos. – balzando poi in piedi in posizione di attacco, seguita immediatamente dalla rossa. Solo Violetta rimase seduta, sconvolta.
L’uomo non smetteva di fissarla con le lacrime agli occhi, e la ragazza faceva lo stesso.
- Violetta. – mormorò lo sconosciuto, la voce spezzata.
- Papà. –

Angolo dell’autrice: Ok, non sono in ritardo, sono in uno spaventoso, ORRIBILE ritardo. Mi sorprenderò se troverò visite alla mia storia o addirittura recensioni dopo questi tre mesi di assenza. Questa volta credo di non avere molte scuse: l’estate mi ha semplicemente impigrita. Va beh, non esattamente: in pratica, dopo lo scorso capitolo ho tirato un sospiro di sollievo, perché era il capitolo di svolta e segnava la fine della prima metà della storia. Si, perché questa storia, dopo quasi un anno, è arrivata a metà. Wow. A giugno, perché la sfiga regna sovrana in casa mia, il wi-fi scompare misteriosamente.
Poi, all’inizio di luglio mi è venuta in mente l’idea per un’altra ff, non su Violetta, ma poi ho lasciato perdere e ho ripreso questa. Questo capitolo l’avrò scritto e riscritto un milione di volte non mi piaceva quello che scrivevo, e spero che questa versione sia decente, perché non avevo più idee su come strutturarla, quindi speriamo bene.
Poi, per due mesi, non sono stata a casa per andare alla casa al mare di mia nonna, dove non ho avuto né molto tempo per scrivere né internet. 
Quindi, mi scuso ancora una volta per questo ritardo. Spero che il capitolo vi sia piaciuto, accetto anche critiche e consigli. Un bacione da Chicca2501

  

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