Pois

di whinydreamer
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I ~ La bacinella ***
Capitolo 3: *** II ~ Lo scrittore ***
Capitolo 4: *** III ~ La preda ***
Capitolo 5: *** IV ~ I promessi sposi ***
Capitolo 6: *** V ~ La pescheria ***
Capitolo 7: *** VI ~ Distrazioni ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII ~ Uomini ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Pois ~ Prologo

“Stai cambiando nickname. Sei davvero sicura di volerlo fare?”
Così recitava la finestra aperta sul monitor, evidenziando un tasto blu in rilievo sullo sfondo bianco. Sospirai affranta non appena cambiai nickname per l’ennesima volta. Ormai era una mia peculiarità, un tratto distinguibile diventato il mio cruccio da sei mesi a questa parte. Ogni nome mi stava stretto e così come non accettavo più il fragolina1518 che mi ero fermamente appioppata a quindici anni, nemmeno il ga_forever dei diciott’anni mi soddisfaceva più. Da quel momento ormai erano passati tre anni in cui la mia vita digitale era del tutto scemata. Non un tweet, non un post, né un topic né qualsiasi altra cosa che avesse accompagnato la mia adolescenza.
Perché mai, vi chiederete?
Un po’ perché non avevo avuto tempo, un po’ perché non avevo nulla da dire e un po’ perché mi ritrovavo in una di quelle fasi di cambiamento che, essendo la sottoscritta un tipo particolare, aveva occupato ben tre anni della mia misera esistenza. Tre anni in cui avevo faticato, cercando di migliorarmi come persona e come essere vivente. Tre anni di lotte, pianti e di scelte sbagliate pagate a caro prezzo sulla pelle.
Avevo perso i miei cosiddetti amici in questo processo. Mi ero ritrovata piuttosto con dei colleghi universitari con i quali prendevamo il caffè insieme e scambiavo due chiacchiere ma nulla più. Mi ero ritrovata sola, in una parola.
Inoltre non ho mai avuto una storia seria. Anzi, a dirla tutta non ho mai avuto nemmeno una storia – ad eccezione per il mio rapporto di dipendenza verso la nutella e del mio amore sviscerato per i libri. Mi si fermava il respiro non appena una parola, una frase o una qualsiasi citazione da una storia letta faceva capolino nella mia mente, riempiendomi di tante emozioni meravigliose, di quelle che non avevo mai provato in prima persona ma solo attraverso l’amore verso i miei adorati libri. Era uno sfarfallio nello stomaco, un respiro mozzato o la testa assorta in una fantasia inspiegabile che riempiva inaspettatamente i miei pensieri, spesso facendosi percepire anche al tatto o all’udito. Quando quelle parole prendevano vita nella mia realtà, io sapevo di aver letto troppo, di essermi persa nel mio paradiso di carta e di aver esagerato con quelle frasi che tanto amavo e bramavo.
Segretamente, in cuor mio speravo che prima o poi una delle mie adorate storie mi avrebbe stravolto la vita. Ancora non potevo immaginare quanto, magnanimamente, il destino avesse ascoltato le mie preghiere.









 
Note:
Non avevo il coraggio di pubblicare qualcosa di mio da una vita ormai. Il periodo in cui scrivevo sembra così lontano e così difficile da recuperare...
Stranamente, contro ogni mia aspettativa e buonsenso, ho deciso di riprovarci, nella speranza di riacquisire un po' di quella sicurezza che tanto mi manca. Non mi aspetto miracoli chiaramente, quindi abbozzo questa storia così, senza grandi pretese e senza attese. Giusto per tornare "in pista", per recuperare un po' di quelle emozioni che ho perso negli ultimi anni.
Mi auguro che qualcuno di voi abbia la pazienza giusta e la pazzia necessaria per accompagnarmi in questo viaggio!

 
Al prossimo, primo, vero capitolo,
MissDidichan

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Capitolo 2
*** I ~ La bacinella ***


Pois ~ Capitolo I

La bacinella

   

«Cazzo!»
Fu la fine imprecazione che, di prima mattina, uscì coloritamente dalle mie labbra, mentre parte del bucato rotolava giù dal mio balcone al terzo piano.
Perfetto, se lo avesse saputo mia madre non solo avrei fatto la figura dell’idiota, ma mi avrebbe anche presa in giro a vita. Tutto per un’unica volta nella quale sotto suo gentile invito, alla fine rivelatosi un ordine molto categorico - mi aveva minacciata di tremende ripercussioni -, dovevo stendere i panni lavati quella notte dalla lavatrice. Possibilmente e chissà per quale assurdo motivo entro le otto di mattina.
Premettiamo che io di bucato non ci ho mai capito una mazza: non so separare i colori, distinguere il tessuto, regolarmi con l’ammorbidente né altro. A dirla tutta non m’interessa nemmeno: io amo la lettura, i libri, il pc su cui leggo al massimo, mica le faccende di casa. Fatto sta che, nonostante abbia visto più volte mia madre ripetere quei processi di routine, non mi ci sono mai davvero applicata. Perciò, senza riflettere, non poggiai il catino su una sedia come tutte le persone normali, ma mi accontentai della ringhiera.
Fu il più grosso errore della mia vita.
In bilico, per colpa del suo baricentro inspiegabilmente spostato verso l’esterno, la bacinella fece qualche strano ondeggiamento, per poi riversare il suo contenuto giù dal balcone, impigliandosi nelle corde tese.
«Cos-?» mentre i vestiti cadevano, qualcuno che passava se li era ritrovati addosso.
Mi diedi dell’idiota e mi sentii morire completamente di vergogna. Pochi secondi dopo la sfortunata persona, da giù, chiese la mia attenzione.
«Scenda!» aveva alzato la voce, per poi sghignazzare: «Credo di avere qualcosa che le appartiene!»
Quella voce maschile mi arrivò ovattata, ma vidi con la coda dell’occhio che sventolava in una mano qualcosa la cui corsa non si era fermata nelle corde o negli stendibiancheria dei miei vicini.
«Arrivo subito!» risposi, precipitandomi giù dalle scale, senza far caso a chi fosse il malcapitato.
Quando aprii il portone di legno, con già in mente un discorso di scuse da manuale, le parole mi morirono in gola. Un bel ragazzo mi fissava divertito, mentre sorreggeva tra sue mani le mie mutandine preferite.
Ancora, cazzo.
Divenni irrimediabilmente color peperone.
«Bianche con pois blu, molto carine.» si complimentò, porgendomele.
Lo guardai scandalizzata. Un secondo di troppo evidentemente, perché il suo sorriso sghembo aumentò.
«Ci sei? Hai bisogno della respirazione bocca a bocca?»
Mi stava letteralmente prendendo per il culo!
Con un gesto fulmineo tirai via le mie mutandine dalle sue mani, grugnendo.
«No, grazie.» mormorai. «Arrivederci!»
Cercai di sgattaiolare via, ma lo sconosciuto mi trattenne per un polso.
«Aspetta, sai come si arriva a via Mezzocannone? Credo di essermi perso.»
Lo guardai con astio.
«Sì, ma non ho intenzione di dirtelo. Chiedi a qualcun altro o cercala da solo!»
«Su, sii gentile. Sono arrivato da poco in città e le uniche parole cortesi sono state quelle forzate di una receptionist dalla puzza sotto il naso. Tutto perché era un albergo a cinque stelle e mi sono presentato in jeans e maglietta...»
«Mi dispiace. Anzi, non mi dispiace affatto. Se puoi permetterti un albergo del genere puoi permetterti anche una mappa, un telefonino su cui usare google maps o un satellite, se preferisci.»
«Maps! Non ci avevo pensato, hai ragione!»
«Lo so. Adesso, se permetti, ho una vita da mandare avanti.» e una vita digitale da aggiornare, non appena avrò recuperato dai vicini fino all’ultimo calzino.
«Veramente vorrei offrirti qualcosa per ringraziarti. Che ne dici?»
Davvero voleva provarci in modo così spudorato?
No. Assolutamente no. Se l’avevo scartato a priori come essere umano, figurarsi come appartenente al genere maschile.
«Scusami» iniziai acida ma col sorriso sulle labbra, «ti amo anch’io ma non riesco a vederti diversamente se non come uno spocchioso turista rompipalle, arrogante e vanesio.»
Inarcò un sopracciglio, in evidente confusione. Forse non sapeva se ridere o mandarmi al diavolo.
«Googla “sei stato friendzonato”, forse ti farai un’idea del massimo rapporto che si potrebbe stabilire tra noi in un ipotetico universo alternativo. In questo invece, non serve nemmeno: non siamo amici né nulla. Prosegui per la tua strada. Addio.»
Lo sconosciuto abbozzò un sorriso mentre io, senza più voltarmi, richiusi il portone alle mie spalle con un sonoro tonfo.
«Domani ripasso di qui. Aspettami e cerca di far cadere qualcos’altro, tipo il reggiseno coordinato!» lo sentii prendermi in giro e non gli risposi solo per evitare parolacce e anatemi che negli ultimi tempi avevo aggiunto al mio repertorio.
Si poteva essere più screanzati? Non l’avevo fatto apposta a rovesciare il bucato per tre piani, che bisogno c’era di girare il coltello nella piaga?
Lo mandai mentalmente a quel paese ancora una volta e gli affibbiai delle parole per nulla carine.
Poi iniziai il giro dei vicini per recuperare ciò che restava del mio bucato. Mio fratello non sarebbe stato felice che la sua maglietta di J-Ax con dedica, caduta nell’appartamento sotto al nostro, fosse letteralmente scomparsa. L’inquilina, che dal primo giorno in cui si era trasferita aveva una cotta stratosferica per Alessandro –l’omonimia di mio fratello con il cantautore era un insolito scherzo del destino–, giurava poco credibilmente di non saperne nulla.
Un’ora e mezza dopo, ancora di malumore per il brutto incontro mattutino, mi lanciai sul materasso del mio letto, facendo sobbalzare i cuscini che poco prima avevo pazientemente sistemato.
Come si poteva essere così cafoni? Quel tizio si era preso una tale confidenza come nessuno mai aveva osato.
Decisa a distrarmi e non farmi influenzare dalle parole di quel maleducato, presi dal comodino il mio nuovo acquisto, un libro dalla quasi anonima copertina celeste, che il giorno prima avevo divorato a metà, non riuscendo a terminarlo per la troppa stanchezza. Si trattava di un bestseller il cui autore o la cui autrice – ancora non avevo idea di chi diavolo fosse – avrebbe presenziato a una serie di seminari curati da un mio professore all’università, il quale, logicamente, aveva chiesto ai suoi studenti di leggere almeno uno dei libri di ogni ospite, per essere preparati e fargli fare bella figura. Attratta dal titolo, avevo scelto “Se la Luna sorridesse” e fortuna volle che fosse un’opera leggera e frizzante, scorrevole e ben costruita. Per nulla noiosa –chi l’avrebbe mai detto?
Data la mia insaziabile curiosità, era giunto davvero il momento di concludere quel libro: pendevo da quelle parole così sapientemente impiegate e non vedevo l’ora di scoprire quale finale attendeva i personaggi che stavo imparando ad amare. Velocemente dimenticai i miei pensieri e m’immersi totalmente nel mio mondo.
A ora di pranzo chiusi la copertina soddisfatta, con un sorriso ebete stampato in viso.
C’era il lieto fine.
Un lieto fine velato e leggero, che mi aveva emozionato fino a farmi gongolare di felicità. Com'è strano avere le farfalle nello stomaco. È lo è ancora di più se ti accade per il personaggio di un libro!
Contenta, passai il resto della giornata su di giri, troppo presa a pensare e riscrivere indelebilmente nella mia mente quei meravigliosi personaggi che, ormai ne ero certa, amavo.
In quella timida giornata di marzo, quando finii di leggere quel meraviglioso, dannato libro e per un banale incidente incrociai quel giovane, la mia vita assunse una piega totalmente inaspettata. Ma questo ancora non potevo saperlo.









 
Note:
Come promesso, ecco il primo capitolo - così almeno vi farete un'idea di ciò che leggerete e del mio modo di scrivere. Spero che questi personaggi, ancora in progress, possano risultarvi simpatici!
Per quanto riguarda gli aggiornamenti della storia, conto di pubblicarne uno ogni 15 giorni circa - il prossimo sarà dunque intorno al 3 giugno, se non ho fatto male i calcoli. Chiedo scusa se per alcuni sembrerà un periodo lunghissimo, ma ho davvero bisogno di recuperare i miei tempi con calma, pian pianino. Preparerò anche un loghetto per quella data e nel frattempo, è possibile che pubblichi qualche spoiler sul mio account twitter (utente @Miss_Didichan e tag #Pois).
Un'ultima cosa ma non meno importante: ci tengo a ringraziare lola_fantasy, che ha commentato il mio microscopico prologo riempiendomi di felicità. Grazie, grazie davvero!


 
Al prossimo capitolo,
MissDidichan

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Capitolo 3
*** II ~ Lo scrittore ***


Pois ~ Capitolo II

Lo scrittore

   

Il professor Salvo Esposito era un uomo sulla sessantina, dall’andatura elegante nonostante la sua taglia 4xl. Portava sul naso dei piccoli occhiali squadrati e la sua peculiarità erano un paio di bretelle rosse che indossava trecentosessantacinque giorni l’anno, almeno dodici ore al giorno e ormai sospettavo che probabilmente le portasse anche di notte.
Egli aveva la cattedra di letteratura italiana da una vita ed era famoso in facoltà sia per essere giusto nelle valutazioni, sia per i grandi sconti che elargiva ai suoi corsisti sul programma da affrontare. Ciò non toglieva che si era sempre rilevato esigente: il suo motto era “poco ma buono” e faceva in modo che i suoi studenti uscissero dal corso almeno con le basi del suo programma. Ultimamente era accompagnato da un’assistente che possedeva la sua stessa buona fama: giusto e disponibile. Nel corso, tutti ormai lo chiamavano per nome – Ettore – ed eravamo stati abilitati a dargli del tu, come se fosse un semplice collega con cui condividere gioie e dolori.
Ammetto che la cosa non mi aveva fatto sentire subito a mio agio, ma col tempo si era rivelato un aiuto prezioso, soprattutto per quel gruppetto delle prime tre file, tra cui c’ero io, che aspirava al massimo sia dell’insegnamento che del voto.
A proposito di corso, il giorno seguente sarebbe iniziato il ciclo di seminari organizzati dal prof a cui avremmo dovuto partecipare – pena l’esclusione dai corsisti, dal programma facilitato e dalle grazie di quello che sarebbe potuto essere un futuro buon relatore. Poteva un dannato seminario significare così tanto per lui?
Ovviamente, la risposta era sì. Ci teneva tanto perché era un anno che organizzava ogni particolare, litigando con la presidenza prima e con gli ospiti invitati poi. Una volta riuscito a conciliare le spese ufficiali con le disponibilità dei partecipanti, era chiaro che volesse fare bella figura. Così, non solo eravamo stati minacciati, ma anche costretti a leggere dei libri extra, quelli degli invitati che avevano avuto la brillante idea di appoggiare la penna sul foglio o le dita sulla tastiera. Certo, non tutti i loro scritti era stati brutti da leggere, ma avevano occupato così tanto tempo che perfino il professore aveva evitato degli argomenti a lezione purché leggessimo quei libri per il seminario.
Con ben venti minuti di ritardo, il prof trotterellò a lezione con Ettore al seguito e un’altra persona a terminare quella patetica fila indiana.
Il sangue mi si gelò nelle vene quando riconobbi la figura mascolina che accompagnava il professor Esposito ed il suo assistente.
No, non poteva essere vero. Cosa ci faceva l’idiota di ieri al seguito del mio prof?
«Oh, cazzo!» sussurrai, mentre Maria, una collega cui sedevo vicina, mi puntò una gomitata nelle costole, per zittirmi. Cosa che non riuscì bene dato che emisi un verso soffocato e moribondo.
Il vanesio maleducato, non sapevo in che termini chiamarlo altrimenti – anche perché non ne avevo per lui altri che non fossero offese –, mi notò e sul suo viso osservai un lampo divertito. Senza cedere lo sguardo prestai attenzione a tutto il siparietto che si stava creando attorno alla cattedra, visibilmente confusa e a quel punto palesemente interessata.
«Buongiorno ragazzi,» esordì cordialmente il professor Esposito, «scusate il nostro ritardo. Oggi ho una grande sorpresa per voi!» continuò tutto soddisfatto.
Sarebbe? Doveva essere proprio una gran cosa per far arrivare in ritardo lui che era sempre in anticipo e per farlo apertamente gongolare come se avesse vinto un terno al lotto.
«Uno degli ospiti di domani ci ha fatto il favore di anticiparsi e partecipare alla lezione di oggi insieme a noi!»
Dove sarebbe il povero luminare incompreso di mezza età, martire delle idee di gloria di Esposito e che ha avuto la sfortuna di trovarselo sul proprio cammino?
Senza che potessi avere il tempo di fare due più due, il prof mise una mano sulla spalla del vanesio maleducato e sorridendo, sganciò la bomba: «Lui è il dottor Angelo Riva, l’acclamato autore di “Se la Luna sorridesse”, uno dei romanzi che vi avevo chiesto di leggere!»
NO!
Fortunatamente l’esclamazione mi morì in bocca, che rimase oscenamente spalancata, nonostante la mia sorpresa, sconcerto e delusione fossero visibili a chilometri di distanza. Maria mi guardò di sbieco, forse mi aveva sentita. In aula un chiacchiericcio femminile ci fece intuire l’entusiasmo delle nostre colleghe per il giovane scrittore.
I suoi occhi scuri mi scrutarono divertiti, mentre un sorriso sghembo si dipingeva sul suo volto da schiaffi. I capelli lucidi, neri e ricci si mossero con lui, mentre inclinava la testa di lato per osservare meglio la mia reazione. O quella dell’aula in generale, in quel momento non avrei saputo dirlo con certezza.
Passai la lezione nel mutismo più totale. Non riuscivo ancora a credere che tutte quelle parole che avevo letto ed amato erano uscite dal dottor Riva, perché sì, mi ricordavo che sulla copertina anonima era stampato in corsivo un’elegante A. Riva.
Su due piedi avevo ipotizzato una scrittrice, vallo a capire che fosse un uomo, vanesio e maleducato per giunta!
Il mio umore nero probabilmente era così visibile e palpabile che a metà lezione anche Maria, con cui di solito chiacchieravamo solo di questioni universitarie, mi chiese se andasse tutto bene.
«Benissimo,» mentii cercando di non essere maleducata proprio con lei, che non se lo meritava affatto, «mi sono appena resa conto che ieri ho fatto una delle figure di merda peggiori della mia vita.»
Sfortunatamente, anzi, fortunatamente per me, la lezione ricominciò e lei non ebbe il tempo di indagare.
Durante il resto del tempo, il dottor Riva alias il vanesio maleducato, che rende più l’idea, fu un semplice soprammobile nel monologo ininterrotto del prof Esposito, il quale ad un certo punto aveva iniziato un discorso così platonico da porsi domande, rispondersi e capirsi da solo.
Quando tutto si concluse nel silenzio di un’aula che sembrava più una stanza di degenza post traumatica, il professore, troppo felice di avere il suo ospite, non fece caso al nostro inusuale mutismo e ci lasciò senza troppe cerimonie.
Sospirai di sollievo ed iniziai a riporre le mie cose in borsa.
«Ehilà, guarda chi si vede!»
No, tutto ma non questo!
Le mie speranze furono vane: il dottor Riva, rompipalle ormai appurato e scrittore dal sorriso smagliante, mi venne incontro senza pensarci due volte.
Lo ignorai, fingendo di non aver sentito.
«Signorina, come mai da queste parti?» ritentò, ma io ero ferma nella mia decisione.
«Indossi la biancheria a pois di ieri?»
Saltai su me stessa di scatto e mi mossi per tappargli la bocca. Quando mi girai mi accorsi che era a pochi centimetri da me e che aveva solo sussurrato. Perché a me invece sembrava che quelle parole fossero state ascoltate dall’intero istituto?
«Guarda che nessuno mi ha sentito.» ghignò furbamente, mentre un lampo di comprensione mi illuminò il cervello. Una stupida tattica per costringermi a considerarlo.
A quanto pare non era solo vanesio e maleducato, ma anche stronzo dato che usava il mio spiacevole incidente a suo favore.
«Meglio per… lei
Lei? Davvero gli avevo dato del lei?
Mi diedi dell’idiota. Lui rise cristallino.
«Davvero vuoi darmi del lei?» chiese divertito.
Sbuffai, mettendomi la borsa in spalla e tentando di scappare senza rispondergli.
Per la seconda volta in due giorni fui fermata per il polso.
«Aspetta!»
«Cosa c’è, dottor Riva?» chiesi con astio non troppo velato e con una nota scocciata nella voce.
«Stamattina sono passato sotto il tuo palazzo e…» ma non lo feci concludere.
«Sono terribilmente dispiaciuta, ma oggi non era giorno di bucato.»
«Veramente, ecco… volevo ringraziarti per ieri. Per il suggerimento di google maps, intendo.»
Oh, certo. Ovviamente non mi stava ringraziando per avergli fatto cadere delle mutandine addosso. Chissà se si sarebbe comportato in egual modo se fossero stati i mutandoni di mio fratello. Magari quelli con il cono gelato stampato sul davanti.
«Nulla.» risposi, pur di terminare li la conversazione. Strattonai via la mia mano e lo fissai, attendendo per qualcos’altro. Magari delle scuse.
Aspettai tre secondi, poi me ne andai senza salutare. Se era stato maleducato con me potevo esserlo anch’io con lui, vero?
Rapidamente mi avvicinai a Maria, che mi aspettava sulla porta dell’aula e che non poté non chiedermi: «Ma lo conoscevi già?»
«No, mi ha scambiata per un’altra persona.» mentii.
«Eppure sembrava ti conoscesse.» insistette.
«Avrà letto troppi libri o si sarà fumato il cervello. Secondo te in che altro modo può aver attirato l’attenzione di Esposito?»
Per mia fortuna, Maria non era una ficcanaso, anzi, era davvero rispettosa della privacy altrui. Si limitò a ridacchiare con me mentre raggiungevamo l’aula per la lezione successiva.
Non incrociai più il vanesio maleducato per tutto il giorno e la cosa mi rincuorò parecchio. Ciò che fece innervosire furono le chiacchiere delle nostre colleghe che, stranamente, erano rimaste affascinate dal dottor Riva. Io, senza avere la forza e la confidenza per intromettermi, avevo accennato ad un sì svogliato con la testa ogni volta che veniva chiesto il mio parere.
«Che galline senza cervello!» aveva sbottato Maria, cogliendomi di sorpresa, non appena il “pollaio” si era svuotato. «Nemmeno fosse l’unico uomo sulla faccia della terra! È carino certo, ma non per questo merita tanta attenzione!»
Per quanto concordassi pienamente con lei, questa volta sinceramente, la guardai sorpresa e lei se ne accorse.
«Non guardarmi così! Ho un limite di pazienza anch’io! Le sopporto solo perché voglio finire il triennio senza inutili problemi, ma se esagerano dopo un po’ scoppio.»
La dolce Maria che perdeva la pazienza… com’era buffa! Irrimediabilmente buffa e tremendamente adorabile!
Scoppiai a ridere, causando il suo di sconcerto.
«Sai, non mi aspettavo di vederti così! Sei sempre tranquilla…» mi affrettai a spiegarmi.
«Quando è troppo è troppo!» ripeté, gonfiando le guance ed arrossendo.
Quel gesto mi fece capire che forse c’era una Maria molto profonda sotto la superficie, di cui io avevo conosciuto a mala pena la punta in quei mesi.
«Mary,» la chiamai, sperando che lei accettasse quella confidenza, «che ne dici di andare a prendere un caffè insieme? Se hai tempo, ovviamente. Potremmo sfottere un altro po’ il “dottor Riva”.» proposi, mimando con le virgolette il soggetto.
Non che non lo avessimo mai preso prima un caffè insieme, ma era sempre tra una lezione e l’altra, di solito ai distributori e sempre di corsa. Non ci eravamo mai veramente fermate ad un tavolino, non avevamo mai parlato di cose all’infuori dell’università. Eppure, per la prima volta, sentivo che mi sarebbe piaciuto conoscerla davvero.
«Sì, andiamo. Anche se avrei bisogno di una camomilla piuttosto. Ah e ti prego, non nominarmelo più!»
«Nessun problema,» sorrisi, «neanch’io voglio più averci nulla a che fare!»
«Non vorrei impicciarmi dei fatti tuoi, ma adesso, credo proprio che dovrai spiegarmi qualcosa.»
Ecco. Mannaggia a me e alla mia boccaccia!

 




 
Note:
Purtroppo o per fortuna, il giorno in cui avevo programmato il prossimo aggiornamento non ci sarò. Ho deciso di anticpiare questo capitolo e per quel periodo, forse qualche giorno dopo, pubblicare il prossimo.
Come qualcuno aveva previsto, si è scoperta l'identità dello sconosciuto... com'é piccolo il mondo, vero? :)
La nostra protagonista è ancora nervosa per il trattamento che il dottor Riva le ha riservato il giorno prima e di certo, non è troppo felice di averlo a lezione. Fortuna vuole che la sua compagna di corso stia dalla sua parte! Che Gaia abbia trovato un'amica? 
Facciamo partire l'ingranaggio di questa storia... spero che possiate trovarla una gradevole lettura! :D


 
Al prossimo capitolo,
MissDidichan

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Capitolo 4
*** III ~ La preda ***


Pois ~ Capitolo III

La preda

 


Il giorno del seminario era arrivato ed io già mi sentivo distrutta. Fisicamente spossata da una notte insonne in cui i personaggi di “Se la Luna sorridesse” mi assalivano e mentalmente affaticata per il risentimento che ancora covavo verso l’autore.
Allo specchio il mio viso non era dei migliori: un fantasma sarebbe stato più colorato. I miei capelli castano chiaro erano gonfi e sparsi un po’ ovunque, spettinati come se una folata di vento improvvisa si fosse appena abbattuta su di loro. Gli occhi verdi erano ancora così socchiusi che faticavo a vedere per intero il mio riflesso nello specchio.
«Buongiorno!» mio fratello Alessandro apparve alle mie spalle, sorridente. Riuscii a salutarlo a malapena con un mugugno.
«Sai, credo che oggi il bagno lo lascerò a te. Sembra che ti abbiano buttata nel gabinetto, tirato lo scarico ed asciugata col ventilatore…»
Dopo quell’incoraggiante inizio, uscii di casa senza particolari aspettative, con lo stomaco chiuso e un accenno di mal di testa a causa del sonno agitato.
Automaticamente presi un caffè ai distributori della facoltà, troppo occupata dai miei pensieri per ricordarmi quanto facesse davvero schifo il suo sapore. I distributori, alias le macchinette o i pezzi di latta che dir si voglia, non avevano mai avuto una buona fama. Essendo a Napoli, forse bisognerebbe lavorarci: se neanche un caffè viene più decente ci giochiamo proprio la faccia!
«Gaia, tutto bene?» una voce alle mie spalle mi richiamò mentre buttavo nel cestino quella brodaglia per cui avevo pagato.
Salvatore, un vecchio compagno di un corso precedente, si era avvicinato silenziosamente, probabilmente per capire se fosse tutto a posto.
«Sì, grazie. Mi sono solo alzata col piede sbagliato.» mi giustificai.
«Vedrai che andrà meglio.» cercò di rincuorarmi, ma dalla mia espressione comprese sicuramente la mia disillusione. «Partecipi anche tu al seminario di Esposito? Ricordo che questo semestre avevi il suo corso.»
«Sì, ci ha praticamente costretti. L‘unica nota positiva è che oltre a farlo contento, avremo anche i crediti come attività libera. Tu come mai hai scelto questo seminario? Sono un sacco di incontri, lo sai?»  gli chiesi incuriosita. Solitamente io sceglievo le attività libere sulla base del minor numero possibile di ore ed ero convinta che tutti facessero così.
«Era l’unico. Ho chiesto anche in presidenza, ma non ne hanno in programma altri a breve per lo stesso numero di crediti. Siccome spero di laurearmi a luglio, o questo o un’esame.»
Feci un cenno con la testa, comprendendo le sue motivazioni. Poi c’è chi dice che la vita universitaria è facile… invece è una lotta continua.
Ci incamminammo a passo lento verso l’aula magna, dove Maria mi aspettava conservandomi un posto d’onore. Fortunatamente l’aula era ancora semivuota, le prime file evitate sempre come la peste e Salvatore, che già conosceva anche la mia collega, si unì a noi.
Non c’è molto da raccontare sul primo giorno di seminario: tanta gente, tanti professori, tante parole usate di cui poche davvero utili. Il professor Esposito era al culmine della gioia: girava come una trottola da un lato all’altro dell’aula, salutando ed intrattenendo chiunque. Ettore, pover’anima a cui era stato affidato il lato tecnico, faceva avanti ed indietro per ultimare i preparativi del proiettore e dei pc.
Dopo una buona mezz’ora, erano infine riusciti ad allestire un tavolino su cui troneggiava un foglio che avrebbe accolto tutte le firme dei corsisti – giusto per sincerarsi della nostra buona fede.
«I carcerati hanno più libertà di noi!» sospirò Maria, zampettando verso il nostro posto dopo aver autografato il pezzo di carta.
«Vedono anche più ore di sole al giorno, sicuramente.» le diede man forte Salvatore, accennando ad un sorriso.
Io mi limitai a far segno di sì con la testa. La mia mente fu portata nel testo di Storia della mia fuga dai piombi di Casanova e per un secondo, sperai di poter evadere da quella gabbia che mi avrebbe fatto passare tutta la giornata seduta su una scomoda sedia di legno.
«Gaia senti, domani allora passo da te?»
Il giorno prima, Mary ed io avevamo parlato tanto e lei si era autoinvitata a casa mia. Beh, forse aveva parlato di più lei che io. A quanto ero riuscita a capire, nel privato non era così tranquilla come a lezione, tutt’altro. In ogni caso, avevamo sicuramente fatto un piccolo passo in avanti nel nostro rapporto di colleghe ed ora riuscivo a considerarla quasi un’amica. Il quasi è solo perché non ho mai avuto vere amiche, non so nemmeno come ci si diventi e anche poiché non abbiamo ancora mai affrontato discorsi così intimi da poterci considerare unite. Ah beh, se poi raccontarle del mio primo incontro con Angelo Riva può essere considerato qualcosa di intimo, forse avevamo davvero fatto un passo in avanti. Ma non credo rientri in quei standard, al massimo, nel primato delle figuracce. Comunque, le ero grata per quell’idea: col mio ritmo ci saremmo prima laureate e poi forse, conosciute meglio – o forse, più probabilmente allontanate. L’intenzione era di fare una semplice torta, in cui Maria diceva di essere brava ed io, da valente golosa, non potevo che esserne felice.
Non riuscì a risponderle che una voce mi interruppe.
«Ti chiami Gaia, giusto?»
Lo scrittorucolo maleducato e vanesio era scivolato al mio fianco in silenzio. Aveva un cappotto di pelle in mano e sembrava appena arrivato.
«Sì.» sbuffai.
«Posso sedermi qui?» chiese, indicando il sediolino vuoto vicino a me.
«È libero, se è questo che intendi. Purtroppo non posso vietarti di sederti.» fui costretta a bofonchiare. Non ero ancora tanto immatura da vietargli un posto, così furba da fingerlo occupato o così intelligente da accampare una scusa. Dopotutto, cos’avrebbe potuto mai farmi? Che si sedesse pure dove gli pareva!
Sorrise e prima che cambiassi idea si accomodò.
«Allora grazie.» sorrise.
Non gli risposi e da Maria, che ormai sapeva tutto, provenne un risolino mal celato. Io la fulminai con gli occhi, sotto lo sguardo confuso di Salvatore.
«Perché ridi?» il vanesio maleducato alzò un sopracciglio, curioso.
«Nulla.» Maria si affrettò a negare con la mano e abilmente distrasse l’attenzione verso il prof Esposito che gesticolava farneticando verso Ettore. Poi, fortunatamente, il mio adorabile prof si decise ad iniziare.
Durante il seminario, lo scrittorucolo fece molti interventi. Mi secca ammetterlo, ma erano tutti pertinenti ed intelligenti. Così preparati che mi stupii, facendomi quasi rivalutare se non la persona, la sua preparazione. Per pensare queste cose, o stavo dando sul serio di matto o lui era bravo, particolarmente bravo. Quantomeno, era un’imbecille col cervello che funzionava e adesso avevo almeno la certezza che il suo pezzo di carta se lo fosse meritato!
La cosa non mi fece troppo piacere. Un conto è aver a che fare con un vanesio maleducato stupido, un altro con una persona preparata. Preparazione ed intelligenza sono un mix fenomenale e se c’era una cosa che i miei amati libri mi hanno insegnato, è calcolare che chi ha un buon cervello e lo tiene allenato, di solito sa anche usarlo. Su di lui la cosa non mi piaceva, non mi piaceva affatto.
La giornata passò noiosa, tra interventi che si succedevano senza sosta e tre pause stentate passate a fare la fila alle toilette. Quando il tutto finì non riuscivo più ad alzarmi dalla sedia, mi ci sarei addormentata nonostante fosse scomoda.
«A proposito,» il vanesio maleducato si girò verso Maria e Salvatore. «voi conoscete il mio nome, ma io non conosco il vostro. Come vi chiamate?»
I due interessati si presentarono, poi lo scrittorucolo elargì un sorriso degno di una pubblicità Mentaldent e salutò tutti con una mano, andandosene contento.
«È pazzo.» dichiarò Maria.
«Ha qualcosa in mente, sicuro.» Salvatore, forse per il suo essere di genere maschile, riusciva a capirci qualcosa.
«Preferisco non sapere. Tra l’altro, non mi interessa nemmeno.» sospirai.
«Sbagli.» mi ammonì il mio collega. «Scommetterei che ha a che fare con te. Oh sì che ci scommetterei!»
«Allora scommettiamo!» l’esclamazione di Maria spiazzò entrambi. «Cosa vuoi scommettere?»
Un lampo divertito oltrepassò gli occhi del ragazzo.
«Una cena. Se vinco io paghi tu, altrimenti io.» disse sicuro.
«Molto bene. Io dico che è semplicemente pazzo e che non ha nessun tipo di interesse verso Gaia.»
«Secondo me invece l’interesse c’è eccome e sta solo cercando un modo di… avvicinarla.» Salvatore aveva soppesato le parole, ma entrambe avevamo capito il mal celato significato.
«Perfetto!» una stretta di mano sancì la loro scommessa.
«In tutto questo, io sono davanti a voi, sapete?» mi intrufolai, non contenta che si parlasse di me in quel modo.
«Tanto meglio!» ridacchiò Maria, «Abbiamo una testimone e mi raccomando, ricordati di informarci!»
Sospirai abbattuta. Stanca com’ero, non avevo la benché minima voglia di ribattere.
 
Il giorno dopo, scesi di casa di buon’ora per alcune commissioni. In particolar modo, dovevo comprare gli ingredienti per preparare la torta con Maria nel pomeriggio. Abitavo in centro e quindi spostarsi nei dintorni era abbastanza semplice anche a piedi.
Se solo avessi saputo chi avrei incontrato però, sarei rimasta a casa!
La mia sfortuna fu di inciampare e andare a sbattere contro un povero malcapitato, che per poco non avevo portato a terra con me. Dopo essermi profusa in mille scuse sconsolate, avevo sentito qualcuno ridere alla grande della mia magra figura.
In un primo momento avevo intenzione d’ignorarlo, ma quando mi accorsi di chi fosse, non riuscii a trattenermi.
«Così le piace ridere delle disgrazie altrui, dottor. Riva?» chiesi enfatizzando la frase e soprattutto il suo cognome associato al titolo.
«No, di solito. Ma ammetto che tu sei un caso a parte.» rise avvicinandosi.
«Grazie, ma non voglio nessun trattamento di favore. Addio.» ironicamente acida, mi piaceva com’era suonata la frase. Stavo per voltarmi ed andarmene ma, a causa di quella che sembrava ormai un’abitudine, venni fermata nuovamente per il polso.
«Oh, ma questo non è un trattamento di favore.» ammiccò, facendomi roteare gli occhi al cielo.
«Senti, forse non ci siamo capiti.» iniziai, strattonando la mia mano dalla sua presa e scandendo le parole come ad un bambino. «Io non ti sopporto, non ti posso vedere. Potessi ti stenderei al suolo con l’auto e per sicurezza ripasserei con la retromarcia.»
«Sì, questo l’ho capito. Come mi avevi definito? Aspetta, uno spocchioso turista rompiballe, arrogante e vanesio, se non ricordo male.»
«Rompipalle.» precisai, «Sappi che non ho cambiato idea.»
«Vedrai che la cambierai. Ti ci vuole solo del tempo.» asserì convinto.
«Ascolta: fin’adesso non ho fatto che trattarti male.» non mi ci ero particolarmente impegnata dato che mi veniva naturale, visti i trascorsi. «Come puoi ancora volermi parlare?»
«Sono uno scrittore, riesco a vedere sotto la copertina.» e quella che poteva essere una frase innocua divenne improvvisamente carica di doppi sensi quando i suoi occhi passarono in rassegna il mio corpo.
«Scrittore, forse hai sbagliato libro.» tentai ancora di scacciarlo, di fargli capire l’antifona quantomeno.
«No no, il libro è giusto, devo solo capire meglio come decifrarlo.»
Perfetto, davvero perfetto. Uno scrittore maleducato, vanesio e testardo che aveva deciso così, svegliandosi una mattina, di comprendere proprio me.
«Su, almeno diventiamo amici!» mi porse una mano, che lasciai penzolare in aria.
«Perché proprio io?» mi lagnai massaggiandomi le tempie, il mal di testa che tornava prepotentemente.
«Perché sei simpatica.» quella risposta fu sinceramente disarmante.
Beh, proprio quello che ogni ragazza vorrebbe sentirsi dire!
Mentre i miei occhi roteavano al cielo esasperati, il maleducato vanesio mi si avvicinò all’orecchio.
«Sei la mia preda.» disse convinto, «Prima o poi ti catturerò!»
Sgranai gli occhi e senza volerlo arrossii, complice il suo profumo intenso troppo vicino.
«Non lo sai ancora, ma sei già mia.» aggiunse.
«Stronzo di un milanese!» gli urlai contro allontanandomi come scottata, stupendomi di me stessa. «Io non sono di nessuno! Specialmente di uno scrittorucolo di quinto grado senza arte né parte!»
Quella che doveva essere un’offesa gli fece solo increspare un sorriso divertito. Sapevamo entrambi che aveva scritto dei bestseller, non potevo lanciargli quelle parole senza sapere quanto fossero false. Eppure speravo vivamente che lo ferissero.
«Perfetto, proprio quello che volevo sapere!» esultò contento. «Grazie mille!» si avvicinò rapidamente a me, così di fretta che non riuscii ad impedirglielo, mi schioccò un bacio sulla guancia e se ne scappò contento, mentre io ancora cercavo di capire cos’era successo.
Una volta a casa, ancora incredula e con la spesa fatta alla bell’e meglio, sapevo benissimo cosa fare: twittare. In quei giorni avevo creato dei nuovi profili social, per riprendere la mia vecchia vita in mano in un certo senso, tra cui twitter. Non avevo ancora scritto nulla, ma mai come quella volta sapevo con che frase iniziare la mia vita.
Amo leggere, ma detesto gli scrittori.
Non era molto e certo non una perla di saggezza, ma era davvero il mio stato.
Benvenuti nella mia vita: un po' monotona, a tratti non diversa da quella degli altri miliardi di abitanti di questo pianeta. A quanto pare però, oggi è successo qualcosa di notevole: il destino ha deciso di remarmi contro con una presenza alquanto sgradita.



 
Note:
Per farmi perdonare dell'attesa, il capitolo è un pochino più lungo, spero sia di vostro gradimento! ;) Fatemi sapere che ne pensate, sono molto curiosa delle vostre opinioni!
Ah, come promesso ho creato un piccolo bannerino, spero ci stia bene! :D
Se non ho impedimenti, dovrei riuscire ad aggiornare per venerdì prossimo.

 
Al prossimo capitolo,
MissDidichan

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Capitolo 5
*** IV ~ I promessi sposi ***


Pois ~ Capitolo IV

I promessi sposi

   

Il pomeriggio con Maria era passato.
Forse non nel migliore dei modi dato che ero più intrattabile del solito e che mio fratello Alessandro, entrato in casa tutto contento e per giunta canticchiando, aveva iniziato uno spogliarello a ritmo senza rendersi conto della mia ospite che, a parte lo stupore iniziale, non sembrava esserci rimasta troppo male.
Con Mary scoprimmo di avere in comune più di quanto potessi mai immaginare: scherzo del destino lei non amava i libri, ma stravedeva per le fan fiction e solo per questo aveva tutto il mio rispetto. Però, se devo essere sincera, l’incontro con lo scrittorucolo vanesio e maleducato proprio non riuscivo a toglierlo dalla testa. Quel bastardo cafone di un milanese! Come si era permesso di prendersi tanta confidenza? Ogni volta che ci ripensavo mi saliva il sangue al cervello ed emettevo sbuffi rumorosi quanto una pentola a pressione in piena attività, suscitando occhiate curiose da parte di Maria.
Nelle note positive della giornata potevo appuntare almeno di essermi ingozzata con una buona fetta di torta che mi aveva risollevato un po’ il morale – e che aveva finito di mandare su di giri Alessandro, autoinvitatosi al tavolo della cucina. Comunque, la mia collega aveva ragione: era proprio brava con i dolci.
In fin dei conti passai un pomeriggio leggero, scivolato veloce e senza ulteriori problemi. Beh, forse perché avevo accuratamente evitato di riferire a Maria qualsiasi cosa si potesse anche lontanamente associare al mio sfortunato incontro mattutino con il vanesio maleducato. Sicuramente la ragazza prima o poi l’avrebbe scoperto, ma ero convinta fosse meglio poi che prima.
«Gaia, tu non me la racconti giusta. Non indagherò ma sappi che si vede quando nascondi qualcosa.»
Ecco, appunto. Forse lo saprà molto prima di quel che immaginavo!
 

***

 
Un mio tratto distintivo è che quando guardo i libri sospiro. Altre volte mi mordicchio il labbro, qualche volta spostando i capelli dietro l'orecchio. Ma sempre, sempre, sento un dolore al basso ventre, una specie di crampo continuo a metà tra le farfalle nello stomaco e una forte emozione.
In breve tempo ho imparato ad associare questi sintomi al mio amore per i libri. Poi quando inizio a leggere una storia interessante e mi appassiona dalle prime pagine ho addirittura una specie di ansia da prestazione e devo finirla il prima possibile e far mie quelle parole. È come se al mondo non esistesse null’altro o meglio, come se il mio mondo fosse solo il paradiso di carta che sto sfogliando.
Capirete quindi perché, non appena potevo, mi fermavo spesso e volentieri alla biblioteca di facoltà, posavo la borsa in una delle vecchie cassette di sicurezza e iniziavo a girare tra gli scaffali saettando con gli occhi su ogni titolo disponibile. Ogni tanto tiravo fuori un tomo polveroso, lo leggiucchiavo e poi passavo avanti finché non trovavo qualcosa di adatto al mio umore della giornata.
Vagando a caso, quella volta adocchiai una copia de “I promessi sposi”. Era passato tanto tempo dall’ultima volta in cui l’avevo avuto tra le mani, durante il liceo, e rileggerlo, soprattutto senza costrizioni, non mi dispiaceva affatto, anzi. Uno strano moto affettivo mi spinse a aprirne una pagina a caso e sorridere di fronte alle parole stampate.
«Hai gli occhi che brillano.» commentò qualcuno sulla mia spalla, distraendomi e interrompendomi da quella dolce ammirazione.
Angelo Riva era dietro di me e mi fissava divertito.
«E tu non hai di meglio da fare.» fu il mio commento secco e scontroso.
«Meglio di guardarti? No, non trovo nulla di altrettanto soddisfacente.»
Sarà. Anche se io qualche altra cosa la troverei…
Come se mi avesse letto nel pensiero, i suoi occhi luccicarono di malizia e riprese: «Oh, beh, forse qualcosa lo potrei trovare.» ammise divertito.
Sospirai sconsolata e con la testa bassa mi avviai al mio angolino preferito della biblioteca – una sedia di legno vicino ad una finestra, isolata rispetto ai tavolini per lo studio – sperando di non essere seguita.
Speranza rivelatasi vana dato che il vanesio maleducato trotterellò allegro dietro di me. Cosa voleva ancora?
Mi accomodai nel posticino solitario, convinta che, non appena si fosse scocciato di restare in piedi, se ne sarebbe andato lasciandomi tranquilla. Così iniziai a leggere, cercando di non dar peso alla sua presenza. Di ignorarlo.
La sorpresa, che mi provocò una smorfia sofferente sulle labbra, fu quando recuperò un libro da uno scaffale, poi una sedia e infine si posizionò comodamente proprio di fronte a me.
Che senso aveva tutta quell’insistenza? Non capiva che la sua presenza era fastidiosa quanto quella di un insetto che cade nel piatto in cui si sta mangiando?
Fortunatamente aprì il volume e si immerse nella lettura, lasciandomi la possibilità di proseguire con la mia.
I minuti passavano e lui non dava segno di muoversi, continuava a girare qualche pagina di tanto in tanto, con lentezza esasperante. Più di tanto non mi interessava davvero sapere cosa leggesse, anche se, devo ammetterlo, un pizzico di curiosità c’era. Cosa leggeva di solito uno scrittore?
Purtroppo la sopracitata curiosità, mista al sospetto, mi spinse a indagare le sue mosse e esaminarlo meglio, cosa che mai mi sarei aspettata di fare. Mi ritrovai ad alzare di tanto in tanto uno sguardo furtivo nella sua direzione.
Tutto sommato non era male. Almeno fisicamente.
Se dovevo essere oggettiva, cosa che cercavo comunque di fare, il vanesio maleducato alias Angelo Riva era passabile. Magari anche un bell’uomo per alcune donne: mediamente alto, dal fisico longilineo e dalle dita affusolate. Non un modello da rivista o un attore, ma preso nella sua interezza aveva un certo fascino. Forse erano complici gli occhi blu dal taglio particolare e i capelli ricci e neri che spiccavano sul suo incarnato chiaro. Leggeva assorto e le mani nascondevano la copertina del libro di cui ormai volevo conoscere il nome.
Oh mio Dio. Cosa stavo pensando?!
Dovevo smetterla con queste riflessioni insensate, prima o poi mi avrebbero annebbiato il cervello. Tornai su Renzo e Lucia e dandomi della stupida, ricominciai la frase che avevo interrotto.
«Come mai hai smesso di fissarmi? Non ti piaceva quel che vedevi?»
Per poco non mi strangolai con la mia stessa saliva. Se n’era accorto?
«No, purtroppo. Non mi piaceva per nulla.» mentii in preda all’orgoglio.
Il dottor Riva alzò la testa dal suo libro e mi guardò divertito.
«Sicura?»
«Sì.» risposi atona.
«Va bene.» disse alzandosi in piedi e bloccando con un dito la pagina cui era arrivato. «Dunque se mi avvicino non cambia nulla.»
Il vanesio maleducato mi si avvicinò, si mise alle mie spalle ed iniziò a leggere “I promessi sposi” dal punto in cui in mio dito indicava mi fossi fermata. Le sue parole uscivano sussurrate ed il suo respiro era sempre più vicino al mio orecchio.
Per una persona solitaria come me una tale vicinanza ad uno sconosciuto era inammissibile e senza volerlo, quel traditore del mio cuore aumentò i battiti, mentre il mio corpo si irrigidì come una pietra.
«Visto che non ti sono indifferente?»
Beh, sono un essere umano anch’io, no? Per quanto possa non sopportarlo è pur sempre un uomo, cazzo!
Perfetto, adesso iniziavo pure ad essere volgare. Dannato scrittorucolo!
Cercai di far appello a tutta la calma possibile. Dopotutto era A. Riva, lo spocchioso turista rompipalle, arrogante e vanesio – a cui si poteva aggiungere tranquillamente maleducato, sciocco e presuntuoso – ed io non potevo elucubrare questi pensieri strani su di lui.
«Hai ragione.» ammisi gelidamente. «Infatti fremo di desiderio: non so se mi farebbe più piacere accoltellarti o darti un calcio nelle palle. Forse, se ti evirassi, prenderei due piccioni con una fava.»
Per un secondo rimase spiazzato, lo notai dalla bocca semiaperta che voleva probabilmente ribattere qualcosa, peccato non riuscisse ad emettere suono. Durò poco però, dato che la facoltà di parola gli tornò in fretta assieme ad un sorrisetto idiota.
«Vedi che pensi a me e anche a certe parti di me?»
Squallido.
Una battuta del genere non aveva bisogno di un commento, ma solo di uno sguardo di commiserazione e fu infatti tutto quello che ottenne.
«Devo andare.» mi alzai lentamente dal mio posto, pronta a posare il libro e a scappare di corsa dalla facoltà: oggi non era proprio giornata.
«Ti faccio compagnia.» il vanesio maleducato mi seguì lungo i corridoi della facoltà, senza demordere.
«Dottor Riva, la ringrazio, ma il nostro rapporto, se così si può chiamare, si limita al fatto che lei è ospite al seminario del mio docente, nulla più. Per il resto, non ci conosciamo.»
«Potremmo sempre conoscerci. Dai, dammi una possibilità!»
Adesso basta!
«Poche ciance.» lo bloccai stizzita, stavo davvero per scoppiare. «Perché ti sei fissato proprio con me?» incalzai.
«Perché non dovrei, scusa?» chiese come se mi sfuggisse qualcosa di scontato.
«Non ti ho mai trattato bene, ho cercato di evitarti, ti ho sempre risposto male e quando parliamo per più di qualche minuto vorrei strozzarti. Non sono chissà che bellezza e sono asociale. Non hai motivi per insistere!»
«Un uomo ha bisogno di un motivo specifico per essere interessato ad una donna?»
«Ah. Quindi sei uno di quelli che vanno dietro a qualsiasi cosa abbia una gonna. Mi spiace, non sono interessata.» affermai lapidaria e stranamente delusa. Forse non aveva tutto quel cervello che aveva dimostrato qualche giorno prima in aula. O se lo aveva, si era tranquillamente trasferito ai piani bassi, chissà.
«Non ho detto questo. Non sto parlando con te perché voglio portarti a letto – lo farei volentieri ma al momento sembri rifiutarmi anche come essere umano.» sorrise con l’angolo della bocca. «Non conosco nessuno qui e dovrò starci per un po’ di tempo, pensavo potessimo essere amici.»
Certo ed io sono Biancaneve. Ero scettica e lui lo notò chiaramente.
«Te l’ho già detto: sei simpatica. Ma siccome per voi donne questa parola sembra un affronto, posso dirti anche che ti trovo molto sexy, soprattutto quando leggi.»
«Ecco.» feci notare piccata, «Ennesima prova che mi vuoi come amica nel tuo letto. Ti aggiorno, non mi è mai piaciuta l’idea degli scopamici
«Frena Gaia, io voglio davvero la tua amicizia. Se poi vuoi offrirmi e ricevere altro, non mi tiro indietro.»
Lo guardai male, peggio delle altre volte. Ormai avevo perso la speranza di concludere il discorso semplicemente sfinendolo. A meno che, come suggeriva lui, non avessi usato un altro tipo di abilità, cosa del tutto fuori discussione.
«Ok, scusa, la smetto.» sospirò. «La verità è che faccio il cretino perché è l’unico modo per spingerti a parlarmi o quantomeno a considerarmi. Anche se ne perdo in intelligenza e ricevo solo acidità. Forse sto riuscendo a farmi odiare per davvero…» si passò una mano tra i capelli, scompigliandoli.
«Credimi, ci sei veramente vicino. Sei sull’orlo del precipizio e cosa per nulla buona, da quando ti ho incontrato mi stai dando ai nervi senza un attimo di pausa.»
Il vanesio maleducato sorrise, ma in modo diverso dal solito: consapevole, triste e forse anche stanco.
«Almeno ti ho dato un motivo per pensare a me. Anche se solo con un vaffanculo.» sdrammatizzò.
«Non ci sei tu in cima alla lista dei miei pensieri.» l’informai, acidamente.
«Lo so, me ne sono accorto. Credo che in cima ai tuoi pensieri ci siano i libri, dai l’impressione di una che vive di e per la lettura.»
Colpita e affondata. Beh, forse non serviva un genio a capirlo, ma non molti della mia famiglia ci erano ancora arrivati.
«Non vivo nei libri!» mi difesi, punta sul vivo.
«Ah, no? Eppure hai uno sguardo così perso quando leggi che grida proprio quello. Senza contare che oggi hai speso un buon quarto d’ora per scegliere un libro, sospirando e sorridendo agli scaffali, senza nemmeno accorgerti che ti ero accanto.»
Ahi, mi aveva beccata.
«Mi stai giudicando?» chiesi, pronta ad azzannare.
«Affatto. Come ti ho detto è stato bello vederti scegliere, trasmetti la passione che hai per la lettura.»
Rimasi interdetta da quelle parole: nessuno mi aveva mai detto una cosa simile. Tuttavia, ricostruii il muro che mi allontanava dalla crudeltà del mondo reale e indagai: «Stai cercando di tenermi buona?»
«No. Mi hai mandato così tante volte affanculo, a voce e non, che servirebbe a poco.»
«Su una cosa almeno siamo d’accordo.»
Piombò il silenzio. Forse nessuno di noi sapeva quanto convenisse aggiungere altro.
«Scusa.» mormorò piano, così a bassa voce che dapprima non capii bene.
«Prego?»
«Scusa.» ripeté a voce più alta, più sicuro di sé. «Scusami. Mi sono comportato il più delle volte da perfetto idiota, hai ragione a evitarmi.»
«Anche su questo mi trovi d’accordo. Forse stiamo migliorando!» lo presi in giro e ricevetti un’occhiataccia da manuale. Fortunatamente sparì in pochi secondi, il tempo che il mio interlocutore necessitò per ritrovare la calma.
«Molto bene. Allora che ne dici di ricominciare da zero?»
 «A che scopo? Non credo che uno di noi dimenticherà ciò che ci siamo detti o ciò che è successo.»
«Sicuramente no, ma è un nuovo inizio. Indica la nostra buona volontà di coesistere pacificamente almeno fino alla fine del seminario. Senza rancori.»
Beh, forse lui non ne avrebbe avuti, ma io faticavo a cancellare tutto con un colpo di spugna.
«Mi comporterò bene d’ora in poi.» aggiunse, «Non ti darò fastidio e non avrai nulla da ridire sul mio comportamento.»
Un armistizio? Una proposta di pace? Decisi di essere saggia per una volta e accettare. Dopotutto i problemi trovavano da soli la loro strada, non c’era bisogno che me ne procurassi altri con le mie stesse mani.
«Se proprio vuoi…»
Angelo Riva si illuminò in un sorriso smagliante e compiaciuto e mi porse una mano.
«Mi chiamo Angelo e vengo da Milano. Piacere di conoscerti!»
Per un secondo il mio cervello completò quella frase in un modo assurdo: mi chiamo Angelo e vengo dal paradiso. Se vuoi ti ci accompagno!
«Piacere, Gaia.» farfugliai, accettando il gesto non troppo convinta.
«Bene Gaia, è stato un piacere incontrarti, ci vediamo a lezione!»
Sorprendentemente mi salutò con la mano e se ne andò.
Era quello che volevo sin dall’inizio, ma allora perché m sentivo così tanto scombussolata?

 




 
Note:
Questo capitolo è uscito più lungo del previsto, Molto più lungo. Spero sia di vostro gradimento e sappiate che sono aperta anche a critiche e bramo tutti i tipi di consigli. Dateci dentro! :D
Vi informo che l'aggiornamento è previsto per il prossimo venerdì, ma potrei ritardare dato che ho alcuni impegni e il capitolo è solo nella mia testa per ora.
Nulla più... note brevi questa volta!^^


 
Al prossimo capitolo,
MissDidichan

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Capitolo 6
*** V ~ La pescheria ***


Prima di iniziare, vorrei scusarmi per l'attesa.
Ho avuto delle difficoltà, non ultima quella di un piccolo blocco nel continuare la storia.
Ammetto di essere rimasta un po' interdetta anche dalle recensioni, che negli ultimi capitoli sono crollate drasticamente. Non intendo costringere nessuno ad un feedback, sia chiaro, solo vorrei sapere se il problema rigurada la storia (che per qualche motivo magari non piace più o altro) o se si tratta di una semplice coincidenza. Ecco, nel primo caso avrei parecchio a cui pensare x3. Voglio inoltre ringraziare Zonami84, che ha continuato a sostenermi e a cui devo delle scuse per non aver ancora risposto alla sua rensione (perdonami! >///<).
Cosa posso dirvi di più? Il prossimo aggiornamento non è programmato stavolta... vorrei definire un secondo i prossimi capitoli prima di presentarli.
Buona lettura <3


Pois ~ Capitolo V

La pescheria

  
Mi ero sempre chiesta a cosa servisse farmi degli schemi e impormi degli obiettivi se poi per un determinato motivo tutti i miei piani finivano a gambe all’aria.
Così come il pensiero sul dottor Riva – mi chiamo Angelo e vengo dal paradiso. Se vuoi ti ci accompagno! – aveva minato la mia stabilità interiore, facendo traballare la mia prospettiva sull’odiarlo, così le mie giornate avevano assunto una piega del tutto inaspettata grazie alla geniale idea che il prof Esposito ci aveva proposto al successivo incontro seminariale.
«Miei cari ragazzi,» aveva esordito, con una faccia da ruffiano inimitabile, «so’ di starvi facendo lavorare parecchio, ma portate ancora un po’ di pazienza e ascoltate le richieste di questo povero vecchio professore che non ha meglio da fare se non torturarvi. Potrebbe essere un’esperienza dilettevole e utilissima alla vostra formazione e perché no, anche al vostro futuro.»
Gli studenti che già lo conoscevano iniziarono a guardarsi tra di loro sospettosi e in attesa. Quando giocava la carta del povero vecchio professore o del futuro, non c’era da aspettarsi niente di buono: sarebbe saltato fuori qualche lavoro lungo e faticoso. Se poi univa i due jolly, potevamo già supplicare per una grazia divina.
«Siccome abbiamo la fortuna di godere dell’eccezionale presenza di ospiti così illustri e preparati, vorrei che vi divideste in gruppi, di tre o quattro componenti e che lavoraste a un piccolo progetto sotto la loro guida. Potete scegliere tranquillamente da soli i componenti del vostro gruppo, ma sarò io a designare il vostro tutor e il tema da trattare.»
Il problema non si rivelò inizialmente, poiché a parte il carico di lavoro in più, non c’era ancora nulla di stabilito, se non il tacito accordo tra me, Maria e Salvatore di fare gruppo insieme. Peccato solo che Salvatore non ci avesse riferito di una sua recente chiacchierata con Esposito, dove l’aveva pregato di informarlo nel caso in cui ci fosse stata l’opportunità di incontrare qualche fonte eminente per la sua tesi su “L’uomo in narrativa: identità personale e identità narrativa”.
Tra i tre scrittori presenti in quello stupido seminario, il professor Esposito aveva scelto per il nostro gruppo proprio il vanesio maleducato, per il quale sembrava aver sviluppato una certa predilezione.
Con un pizzicotto sulla pancia, una buona dose di bestemmie a vuoto – si poteva essere più sfigata di così? – e tanti sbuffi mal trattenuti, mi rassegnai a quella scomoda verità.
«Secondo me è stata opera sua. Di Riva, intendo.» commentò Mary, mentre aspettavamo il nostro turno ai servizi. «Avrà trovato un modo per convincere Esposito… certe volte riesce a farsi abbindolare come un bambino, quell’uomo.»
«Non credo.» le risposi pensierosa. «Mi aveva promesso di lasciarmi stare e di comportarsi da persona normale.». Senza nemmeno accorgermene, le raccontai del nostro incontro in biblioteca.
«Sai, a quanto sembra, la scommessa con Salvatore la perderò proprio.» ragionò, ma non c’era rammarico nella sua voce, anzi, si illuminò in un sorriso.
«E… ne sei felice?» indagai, sorpresa.
«Non prendertela Gaia,» ammise, mentre avanzavamo nella fila, «io voglio il tuo bene, ma vincere o perdere non mi interessa affatto. Uscire con Salvatore per me è già una vittoria su tutti i fronti, anche nel caso in cui debba pagare io!» e si chiuse nella toilette ridacchiando.
Perfetto. L’unica amica che mi stavo facendo a fatica, già mi tradiva per un ragazzo!
Essere felice per lei o offendermi per il poco tatto? Fui tentata, ma alla fine la prima opzione prese il sopravvento.
A fine lezione, mi incamminai verso casa senza accorgermi di una presenza alle mie spalle. Uno starnuto contenuto male, di cui fui sicura di riconoscere il proprietario, mi convinse a girarmi e a scoprire che Angelo Riva camminava tranquillo a qualche metro da me.
«Mi stai seguendo?» domandai senza ragionare.
«No, l’albergo in cui alloggio è in questa direzione.»
Effettivamente era possibile dato che quando lo incontrai per la prima volta stava passando proprio sotto casa mia.
«Sei arrabbiata perché mi è stato assegnato il tuo gruppo?» chiese poi, scrutandomi.
«No, direi di no. È lavoro alla fine e non sempre si può scegliere con chi lavorare.»
Angelo Riva non fece una piega e senza scomporsi mi affiancò.
«A dire il vero… mi sono proposto io. Gli altri due autori avevano famiglia, non potevano restare a Napoli troppi giorni di seguito e prendersi un incarico così impegnativo, dato che c’è un tesista nel vostro gruppo. Così mi sono offerto.»
«Tu non abiti a Milano?» domandai allora, confusa.
«Sì, ma a parte i miei genitori, non ho impegni che mi trattengano. Inoltre ho una zia che abita in periferia ed è disposta ad ospitarmi non appena rientra dalle Maldive – sai, è andata a festeggiare le nozze d’argento.»
«Hai fatto un bel gesto, allora.» ammisi, stando attenta a non inciampare sul pavimento dissestato della strada.
«Napoli mi piace, è una bella città piena di vita.»
«Oh, sì! Su questo ci puoi scommettere!» ridacchiai, mentre il pensiero di persone come mio fratello che bazzicavano per la città mi velava la mente. «Fossi in te starei attento alla gente che incontro per strada, alcuni sono molto… esuberanti.»
«Se è per questo ho capito che devo stare attento anche a chi si affaccia al balcone!» ridacchiò lui e io lo fulminai.
«Attento davvero: qui lanciano i secchi d’acqua giù dai palazzi.» l’avvertii e lui parve capire la minaccia.
Arrivammo sotto il mio palazzo in poco tempo, complice il mio abitare nei pressi dell’università.
«Allora ciao.» salutai, aprendo il portone.
«A lunedì.» mi salutò lui, sorridendo. Poi aspettò che fui dentro e proseguì per la sua strada.
Una volta in casa, mi buttai direttamente sotto la doccia, incredula.
Avevo avuto una conversazione normale con il dottor Riva, senza scannarlo e senza desiderare che un tir lo investisse. Che le cose stessero migliorando o era solo il preludio per chissà quale altro evento?
Non avevo una risposta né una soluzione. Chi vivrà vedrà sembrava la frase adatta per esprimere il mio futuro.
 
***
 
«Buongiorno!»
Come mi aveva sempre detto mio padre, sorriso e cortesia erano la chiave del successo e continuavo a ripeterlo mentre internamente lo maledivo per avermi costretto ad aiutarlo in pescheria. La domenica, l’unico giorno oltre al sabato in cui potevo fingermi una persona libera, era il momento di maggior affluenza in negozio – la nostra città, oltre ad essere sul mare, aveva per tradizione il pranzo a base di pesce in quel giorno specifico.
Così, papà non si era fatto bastare l’aiuto saltuario di mia madre, ma aveva costretto anche me e mio fratello a venirgli in aiuto. Alessandro, con la sua estroversione, non aveva mai avuto problemi a lavorare li, soprattutto considerato che col suo faccino era riuscito ad incantare una buona metà della clientela femminile di mio padre, soprattutto le donne dai cinquanta in su. Io, invece, non ero troppo contenta e pur di non farmi combinare guai, avevano deciso saggiamente di mettermi alla cassa, in modo da star ferma, buona e di rendermi davvero utile. Mi era andata bene, se non fosse stato per un piccolo particolare: la parete dietro la cassa ospitava ormai da anni una gigantografia, proprio sopra la mia testa, che ritraeva una neonata paffutella e spelacchiata tra conchiglie, sabbia e infilata per metà in quella che doveva essere una coda di pesce, con la scritta a caratteri cubitali “la più bella sirena della pescheria”.
Ora, essendo la stessa persona, era del tutto impossibile non accorgersi di avere la versione cresciuta della bambina proprio sotto gli occhi.
Mi ero opposta in tutti i modi a quella foto negli anni, ma nessuno aveva mai avuto il buon senso di prendermi sul serio e l’unica mia consolazione era che i clienti affezionati ormai non facevano nemmeno più caso.
«Gaia?»
Il finto sorriso che avevo stampato scemò e sbiancai nel riconoscere l’uomo che si era presentato alla cassa.
«B-buongiorno…» ritentai, convinta che un’altra figura di merda non me l’aveva scampata nessuno.
«Immagino che chiederti che cosa ci fai qui sia inutile, dato che stai lavorando…» il vanesio maleducato era sorpreso, chiaramente non si aspettava di trovarmi li. «… ma quella sei tu?»
Mi voltai verso il punto indicato dal suo dito, supplicando in un miracolo che sostituisse all’istante la mia gigantografia con qualunque altra cosa.
«Ehm..» dal mio esitare indovinò la risposta esatta e scoppiò a ridere.
«Piantala!» sbottai, cercando un contegno.
«Ma fa ridere… anzi, fai ridere!» mi prese in giro.
«Che sei venuto a fare? Sfottermi?»
«No, non sapevo nemmeno che lavorassi qui. Forse sono venuto per comprare del pesce, che ne dici?»
«Perfetto. Cosa desideri?» domandai, cercando di togliermelo da davanti il prima possibile.
«Non ne ho idea. Vado a pranzo da mia zia, pensavo di portarle qualcosa e lei mi ha chiesto di prendere del pesce a mio piacere per secondo. Oh, e delle vongole voraci, ha detto.»
«Voraci?» pensai di aver capito male.
«Sì, voraci.»
«Veraci, semmai. Dottore, guardi che le nostre vongole non sono voraci, non la mangiano. È lei che magia loro!» lo presi in giro, ridendomela allegramente.
Prima che potesse ribattere, mio padre si parò davanti a noi, sorridendo.
«Quanta allegria! Cosa posso fare per te, figliolo?» domandò cortesemente verso il vanesio maleducato, mentre si puliva con uno strofinaccio le mani bagnate.
«La sua dipendente si diverte a prendermi in giro.» protestò, «Comunque mi servirebbero delle vongole e qualcosa per un secondo, il meglio che avete, non bado a spese.»
«Mia figlia? Oh, ignorala. Fa tanto la sostenuta ma poi è la persona più buona e pacifica di questo mondo! Vieni, credo di avere qualcosa che fa al caso tuo.»
Ecco come essere messi del tutto in ridicolo dalla propria famiglia.
Ribollivo per aver fatto la figura della deficiente ancora una volta, in tanto che mio padre, illuminato dal “non bado a spese”, trattava Angelo Riva con tutti gli onori. Non prima che il mio genitore tentò di vendergli anche mio fratello – non ci provò, ma lasciatemelo sognare – il dottor Riva venne a pagare con un sorrisetto soddisfatto.
«Perché sei contento?»
«Tuo padre è una persona affabile. Molto simpatico e anche un gran chiacchierone!»
Cazzo!
Effettivamente papà aveva questo brutto vizio di parlare a ruota libera, anche con gli sconosciuti. Cos’era andato a raccontare?
«Non preoccuparti, non mi ha detto nulla di male. A parte la tua fissa per i libri e i pois, di cui io già ero al corrente.»
Passino i libri, ma come potevano essere arrivati a parlare di pois? Avevo i vestiti con quella fantasia, un ombrello, un astuccio, anche alcune lenzuola a dire il vero, però non vedevo collegamenti probabili che li avessero portati ad un tale discorso.
«Lavori spesso qui?» chiese, cambiando discorso.
«No, solo sotto costrizione.» ammisi, «Di solito aiuta mia madre, al massimo mio fratello quando non è impegnato a strimpellare altrove.»
«Suona?»
«Più che altro canta… sono centoventicinque euro e trenta centesimi, comunque.» finii di battere alla cassa, accorgendomi che davvero aveva speso parecchio, nonostante il contenuto si limitasse ad un’unica busta.
Lui, senza batter ciglio, pagò in contanti.
«Ci rivediamo a lezione, allora, buon lavoro!»
Assentii con la testa: «Buon pranzo!»
Quando uscì, mio padre mi si avvicinò.
«È un tuo amico?»
«Non proprio. L’ho conosciuto all’università.» mi limitai a rispondere, tralasciando ovviamente che la prima volta avevo parlato con lui sotto al nostro balcone, mentre aveva un paio di mie mutandine in mano.
«È un bel ragazzo!» fece eco mia madre in fondo al negozio, mentre io contorcevo il viso in una smorfia.
«Se mi porti altri clienti così, ti assumo per le pubbliche relazioni!» esclamò felice, correndo subito verso il prossimo cliente.
L’unico a non intervenire fu mio fratello, impegnato com’era con una cliente molto esigente: l’inquilina del’appartamento sotto al nostro. Beh, almeno mi ero evitata le sue insulse insinuazioni.
A conti fatti, ultimamente mi imbattevo in Angelo Riva ovunque: in università, per la strada, in negozio… a questo punto, mancava solamente che l’invitassi a casa mia per concludere il quadretto!
Risi all’idea. Ma… non sarebbe mai successo, vero?

 


 

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Capitolo 7
*** VI ~ Distrazioni ***


Prima di tutto chiedo venia per la pausa estiva... spero che, nonostante sia passato tutto questo tempo, abbiate ancora voglia di leggere il continuo di questa storia. Il capitolo è... di transito più che altro, anche se nella prima parte lascia molto intendere sui "progressi" che vedremo più avanti.
Grazie a voi che seguite e recensite sto proseguendo e non so come esprimervi la mia gioia! :)
Vi invito come sempre a commentare, a farmi notare i miei sbagli e le mie mancanze! Capire cosa ne pensate è per me molto importante anche se, forse, già lo sapete! :)

Ps: nel caso cambiassi nick, a voi starebbe bene?


Capitolo VI

Distrazioni



Dov’ero?
Chiara e semplice domanda che mi affollò la testa non appena mi accorsi di essere in una stanza sconosciuta, con la luce della luna che filtrava dalla finestra in stile classico e un’enorme letto matrimoniale a baldacchino dal copriletto rosso. Al centro della sala troneggiava un cesto di rose, un centinaio forse, anch’esse rosse e tutt’intorno distinguevo alla meno peggio alcuni mobili, a causa della poca luce che affiorava nella stanza.
«Non ti trovavo più. Perché sei scappata dalla doccia?»
Sussultai e mi voltai verso un uomo il quale, solo con un asciugamano in vita, fece capolino da una porta laterale che mentalmente associai ad un bagno.
Una camera d’albergo, ecco dove mi trovavo.
«Ho sempre preferito il letto.»
Ho sempre preferito il letto?
Che cavolo stavo dicendo? E soprattutto, perché?
L’uomo mi si avvicinò piano, ma questo comunque non mi aiutò a vedere il suo volto.
«Oh-ho! Alla mia topolina va di giocare, a quanto vedo!»
Potevo solo intravederlo, ma dal tono di voce ero sicurissima che stesse ammiccando.
Un secondo: una camera d’albergo, delle rose rosse, un letto e un uomo mezzo nudo che ammiccava verso di me. La consapevolezza della situazione mi fece spalancare occhi e bocca, proprio mentre lo sconosciuto si chinava ad afferrarmi i fianchi.
In quel momento mi accorsi anche di un’altro particolare: ero in accappatoio.
«Che gioco preferisci?» mi chiese, mentre le sue labbra cominciavano a regalarmi una scia di baci e le sue mani si impossessavano della cintura dell’accappatoio.
«Quello dove ci sei tu a giocare con me…»
Oddio.
Da dove veniva quella voce da gatta morta? Non poteva essere la mia!
L’uomo sorrise, mordendomi leggermente l’epidermide e io sospirai di piacere, reclinando la testa.
«Ci sarò in tutti i tuoi giochi. Non scappo, promesso.»
Sorrisi a quelle parole e portai una mano nei sui capelli ricci e scuri.
«Iniziamo?»
No, non potevo averlo detto davvero. Non io.
L’uomo non se lo fece ripetere due volte e con dolcezza mi fece scivolar giù l’accappatoio, mi issò tra le braccia e con tre falcate arrivò al letto, sul quale mi distese. Si mise a cavalcioni su di me, senza gravarmi col suo peso e con infinita lentezza carezzò tutto il mio corpo, divorandomi di baci le spalle e il collo, con una passione che avrei mai creduto possibile.
«Sei bellissima.» sospirò a mezzo centimetro dalle mie labbra.
In quel momento riuscì a vedere i suoi occhi scuri, liquidi di desiderio e spiazzata, sussultai.
Angelo Riva.
Ma era troppo tardi per pensare, le sue labbra si erano velocemente impossessate delle mie.
 
Scattai a sedere nel letto, spossata e accaldata. Davanti ai miei occhi la scena che fino a poco prima avevo vissuto.
Impiegai qualche secondo a connettere e poi, sbiancai.
Non potevo aver fatto un sogno del genere! Cosa assolutamente più importante, non potevo averlo fatto con lui come protagonista!
Tra le tante persone che conoscevo, perché anche nei miei sogni doveva importunarmi proprio il vanesio maleducato?
Considerato il tipo si situazione poi, sarebbe stato più indicato un attore o un calciatore, ben fornito e ben piazzato, come sognavano tutte le ragazze normali. Invece, tra i milioni di esseri umani presenti sul pianeta e le centinaia che affollavano la mia mente a causa dei libri, proprio lui doveva comparire.
Era una persecuzione!
Pochi secondi dopo suonò la sveglia e seppur intontita, mi costrinsi ad alzarmi. Non potevo permettere ad uno stupido sogno di rovinarmi la giornata. Avrei ricorso anche ad un esorcismo pur di allontanarlo dalla mia mente!
Purtroppo nel pomeriggio ancora ripensavo a quel maledetto sogno ed ero presa così tanto che nemmeno ascoltavo le parole scambiate tra il mio gruppo e il nostro tutor.
Sì, tra il nostro gruppo e Angelo Riva.
«Sei d’accordo Gaia? A te va bene?» chiese il dottor Riva, peccato non lo stessi ascoltando. «Gaia? Gaia!»
«Hm?»
«A te va bene?» ripeté.
«Oh, sì. Certo che va bene.» non sapevo nemmeno di cosa stesse parlando, ma andava bene lo stesso. Purché non mi facessero domande specifiche, andava tutto a meraviglia.
Lo scrittorucolo mi guardò perplesso per qualche secondo, poi tornò a rivolgersi a Maria e Salvatore e io continuai a perdermi nei miei pensieri. Così il tempo passò veloce e senza accorgermene, mi ritrovai a fare la strada di casa al fianco dello scrittorucolo.
«A che ora ci vediamo domani?»
Presa in contropiede, lo guardai scioccata. Dovevamo incontrarci? Ma soprattutto, perché?
«Il progetto Gaia, la ricerca. Nemmeno un’ora fa ci siamo accordati per dividerci il lavoro con gli altri, ricordi?»
«Oh, sì.» mentì, dato che dei loro discorsi non avevo capito quasi nulla. «Domani ho una sola lezione dalle nove alle undici, poi sono libera.»
«Va bene, allora ci vediamo verso le undici in biblioteca.» acconsentì. «Ma cos’hai oggi? Sei parecchio distratta.»
«Nulla, nulla.» mi affrettai a rispondere, mentre la scena sognata durante la notte tornava prepotentemente a farmi visita. «Forse non ho dormito tanto bene.»
«Ti conviene andare a riposare non appena rientri.»
Feci di sì con la testa, sospirando.
«Ti sei sentita male?» chiese e notai una leggera sfumatura di preoccupazione nella sua voce.
«No, no. Ho solo sognato cose strane…» non sapevo nemmeno perché lo stessi ammettendo proprio davanti a lui. Se mi avesse chiesto il mio sogno, cos’avrei risposto?
«Incubi?»
Sogni erotici, a dire il vero. Su di te, tra l’altro.
Bastava come spiegazione?
«Sì, più o meno.» la verità era che non sapevo neanch’io come catalogarlo. «Ricordo poco di quello che ho sognato, è da stamattina che cerco di ricordare.» aggiunsi, sperando di cavarmela in calcio d’angolo ed evitare ulteriori indagini.
«Vedrai che non sarà stato nulla d’importante, allora.» provò a rincuorarmi.
Purtroppo io, che il sogno lo ricordavo e anche bene, non riuscii ad essere della stessa opinione.
Angelo Riva mi salutò sotto il portone di casa e sospirai di sollievo non appena sparì dalla mia vista. Salii al mio terzo piano più mogia del solito, con l’intenzione di mangiare un boccone al volo, farmi una doccia e buttarmi a peso morto sul mio comodo letto. Cosa c’era di meglio?
Nulla, se non che il mio letto mi ricordasse quel bellissimo sogno con cui mi ero intrattenuta non molte ore prima.
Ero già al settimo sbuffo quando Alessandro, senza bussare, spalancò la porta della mia cameretta.
«Senti,» cominciò e il suo tono mi fece capire che non stesse facendo qualcosa di troppo desiderato, «io stasera esco con Luca e altri amici. Vieni anche tu?»
Inarcai un sopraciglio, stupita: io non frequentavo la compagnia di mio fratello. Per quanto li conoscessi, le volte che avevo frequentato il gruppo, volendo esagerare, si riducevano alle dita di una mano.
«Sono amici tuoi, che centro io?»
«Senti, non è colpa mia, ok? Dillo a quel coglione di Matteo, che a quanto pare si è preso una cotta per te e mi sta scassando le palle per vederti!»
Una cotta per me?
Questa sì che era nuova, davvero mi mancava.
«Matteo chi?»
«Matteo!» ripeté, come se solo il nome potesse farmi miracolosamente ricordare di chi stessimo parlando. «Quello che veniva al liceo con me. Alto, biondo, orecchino e Timberland anche a quaranta gradi! Matteo!»
«Quello che si rovesciò addosso il punch ai tuoi diciotto anni? Quello che ballava solo muovendo la testa?» improvvisamente una faccia più o meno confusa mi apparve in mente.
«Sì, lui! Matteo, insomma.» certo che mio fratello era un genio quando si ci metteva.
«Perfetto allora. Solo questa ci mancava!» mi lagnai, infilando la testa sotto il cuscino.
«Perché, che altro ti è successo?»
Oh, no. Modalità comare in arrivo. E Alessandro quando si ci metteva sapeva essere peggio di una zia pettegola.
«Lascia perdere, cose da donne.»
Cose da donne.
La scusa perfetta in ogni occasione e la mia preferita da quando avevo capito che mio fratello, appena sentiva quel “cose da donne” scappava via da solo, senza nemmeno salutare.
«Vabbé, ho capito. Vieni o no, allora?»
Aveva ceduto e io gongolai internamente per lo scampato interrogatorio.
«Chi altro c’è?» chiesi più per curiosità che per reale interesse.
«I soliti, più qualcuno che non dovresti conoscere e forse uno o due che non conosco nemmeno io – amici di amici o qualcosa di simile, non ricordo. Oh, anche Liz.»
«Liz
«Liz, Letizia. L’inquilina dell’appartamento sotto al nostro.»
Questo sì che era strano.
«Come mai? Non pensavo vi foste nemmeno mai parlati!»
«Mi ha chiesto di farle conoscere un po’ di gente nuova, credo sia più asociale di te. Vedila da questa prospettiva: avrai qualcuno con cui parlare!»
Certo, come no.
Deficiente! Come minimo mi farà raccontare la tua vita intera, dal primo pannolino a cos’hai mangiato oggi!
L’idea di uscire non mi entusiasmava, soprattutto considerando la nuova prospettiva – qual’era la scelta migliore tra Matteo con le sue Timberland e Liz con la fissazione per mio fratello? – ma staccare per un po’ mi avrebbe fatto bene. Almeno non avrei continuato a rivivere il sogno col dottor Riva.
«Va bene, vengo. Ma non facciamo troppo tardi che domani ho lezione.»
«Sì, riaccompagno te e Cenerentola per la mezzanotte e poi torno a bighellonare. Certo che tu e Liz siete davvero due rompicoglioni…»
«Manco fosse la tua fidanzata!» lo presi in giro.
«Per fortuna! Ti immagini? Non solo avrei il cappio al collo e la mutanda in testa, ma dato che ha la sensualità di una sacco di patate… beh, no, certe cose non posso dirle davanti a te. Tieniti pronta per le nove.» e si dileguò più veloce di com’era venuto.
Immaginai che prima stesse per fare un’allusione sessuale ma non mi curai di fermarlo per scoprire cosa volesse dire. Non mi importava di quel lato della vita di mio fratello e sinceramente era meglio che le sue battutine squallide se le tenesse per sé. In veste di fratello maggiore iperprotettivo e ficcanaso era già una bella palla al piede. Come se poi avessi una vita sociale, io!
 
Mi preparai con più cura del solito quella sera: non per attirare gli sguardi dei ragazzi della comitiva o di Matteo in particolare, ma per me stessa. Era passato davvero tanto dalla mia ultima uscita serale e mi piaceva l’idea di agghindarmi.
Avevo un fisico leggermente a pera e non me n’ero mai crucciata più di tanto. Scelsi un vestitino che adoravo, indossai dei tacchi non troppo alti per evitare di rimanere zoppa il giorno dopo e mi truccai con attenzione. Non ero una diva di Hollywood o la rivisitazione contemporanea di una dea greca, ma ciò che vidi nello specchio mi bastò e mi fece sentire soddisfatta.
Alle nove puntuali io e Alessandro eravamo sul pianerottolo di Letizia ed avevamo appena bussato.
«Arrivo!» dietro la porta un tonfo sonoro, un’imprecazione colorata e poi Liz che faceva capolino. «Scusatemi… mi è caduta la borsa.»
Altro che sacco di patate!
Letizia si era messa così in tiro che se l’avessi incrociata per strada non l’avrei riconosciuta. Anzi, probabilmente non avrei creduto che fosse lei nemmeno se mi fosse venuta incontro mostrando la carta d’identità.
Mio fratello, accanto a me, aveva una paralisi facciale completa di occhi a pesce lesso e bocca oscenamente spalancata.
«Permettimi di dirti che stai benissimo!» meglio iniziare con un complimento, no? Dopotutto quella ragazza strana, improvvisamente trasformata in bomba sexy, poteva essere il mio spiraglio di salvezza in quella serata.
«Grazie. Andiamo?» sorrise gentile, mentre si abbassava l’orlo del vestitino striminzito che aveva indossato.
«Certo!» mi girai per avviarci, ma sbattei contro mio fratello che, impalato come un baccalà, continuava a fissarla senza ritegno. «Ale, chiudi la bocca che ti sta uscendo la bava!» l’ammonii, ma lui sembrò non sentirmi.
Passai alle armi pesanti e gli pestai con forza il piede, col mio tacco di otto centimetri, ovviamente.
«Porca putt…!» si fermò, forse ricordandosi di essere davanti a delle signore e con tutta la dignità che poteva rimanergli, disse: «Aspettatemi in macchina, ho dimenticato il cappotto.»
Alessandro non aveva mai freddo: era un termosifone vivente al punto che non si preoccupava di portarsi dietro una felpa o un cappotto. Mi ci volle poco a capire che la sua era solo una scusa per togliersi dall’imbarazzo del momento.
In macchina la situazione fu più contenuta: mio fratello parlava a ruota libera come sempre e io l’assecondavo, mentre Letizia rispondeva a monosillabi solo se interrogata.
«State vicine e non parlate con gli sconosciuti.» ci avvertì Alessandro spegnendo il motore.
«Sì papà.» lo sbeffeggiai io, «Se faccio la brava dopo mi compri il gelato?»
«Sul serio, Gaia. Non date confidenza, soprattutto a chi non è del gruppo!»
Sbuffai, trattenendomi per non ricordargli in modo poco carino che ero maggiorenne e che lui era mio fratello, non il mio tutore. Fuori al pub qualcun altro era già arrivato e in poco tempo diventammo un bel gruppetto.
In quel quarto d’ora non successe nulla di diverso da quel che mi aspettavo: Liz ricevette così tante occhiate allupate che ad un certo punto preferì nascondersi dietro di me; tale Matteo resuscitò dal mondo dei morti e mi venne a salutare con una contentezza che non potei ricambiare; Liz si accorse che io non ero sufficiente a trarla d’impiccio e si nascose dietro mio fratello; Alessandro iniziò a lanciare occhiatacce ostili a chiunque provasse a sbirciare o avvicinarsi a Letizia e allo stesso tempo teneva sotto controllo me; Luca, il miglior amico di Alessandro si intromise tra me e Matteo, salvandomi da un monologo di cui non avevo capito una mazza.
Infine, pur di non perdere la prenotazione, ci sedemmo al nostro tavolo all’interno del pub e decidemmo all’unanimità che i ritardatari della comitiva avrebbero ordinato al loro arrivo. Dopotutto, chi tardi arriva male alloggia.
Molto fortunatamente, mi ero ritrovata con Letizia alla mia sinistra, Luca a destra e Matteo davanti, mentre mio fratello era a sua volta alla sinistra di Liz.
Ignorai l’elemento che mi era davanti e iniziai una fitta conversazione con Luca che conoscevo da anni, nonostante non ci fossi in confidenza. Quando lui rispondeva a qualcun altro o mangiava, spostavo le mie mire su Letizia, che pian piano stava sciogliendosi e parlava sempre più vivacemente. Matteo provò a conversare qualche volta, ma dopo avergli fatto snocciolare qualche frase, che a dire il vero non ascoltavo perché non m’importava cos’avesse da dire, mi rivolgevo con una scusa ai miei due angeli custodi.
Avevo appena addentato il primo enorme boccone di panino quando una voce, più suadente di quanto ricordassi, mi fece trasalire.
«Ciao, Gaia.»

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Capitolo 8
*** Capitolo VII ~ Uomini ***


Ancora una volta ho fatto aspettare parecchio prima di un aggiornamento. Credo che dire "mi dispiace" sia superfluo a questo punto... spero però ne sia valsa almeno un pochetto la pena. Buona lettura :)

 

Capitolo VII

Uomini



Tra tutti pub del mondo, tra tutte le amicizie in comune, perché era proprio li con noi?
Angelo Riva mi sorrideva soddisfatto, mentre con foga cercavo un qualunque liquido per evitare il soffocamento imminente.
Matteo mi passò con solerzia il suo bicchiere ma l’evitai abilmente recuperando (quasi) a casaccio quello pieno di Liz accanto al mio.
«Mi spiace, se è una manovra per farmi eseguire una respirazione bocca a bocca, non ne sono capace. Al massimo potrei portarti in ospedale.»
Mi colpii più forte sul petto per far scendere il boccone e la battutina, aiutata da Letizia che mi dava qualche pacca sulla schiena.
«C-che ci f-fai… tu qui?» biascicai, cercando di ricompormi.
«La stessa cosa che fai tu: sono venuto a divertirmi!»
«Gaia, chi sarebbe questo tipo? Lo conosci?» mio fratello si intromise immediatamente, squadrando il mio interlocutore dall’alto in basso.
«Mi chiamo Angelo, Angelo Riva.» lo scrittorucolo, troppo vanesio qual’era, si presentò da solo, «Ci siamo conosciuti all’università.»
Mentalmente lo benedii: aveva omesso di essere il mio tutor e in una relazione formale quale quella che sarebbe dovuta essere, la nostra informalità avrebbe assunto quantomeno un che di sospettoso.
Fortunatamente che non fosse cretino l’avevo appurato. Cioè, cretino lo era, solo non in quel senso li.
«Ah.» fu il magro commento di Alessandro. Chiaramente stava cercando di capire quanto potesse fidarsi.
«Tu saresti?» Angelo non si fece intimidire e l’esortò a presentarsi a sua volta.
«Suo fratello.» Alessandro si limitò ad uno sguardo indagatore.
«Va bene, ma avrai un nome anche tu, no? Mica posso chiamarti “fratello di Gaia”.»
«Alessandro.»
«Molto bene, Alessandro. Mi sapresti consigliare qualcosa di buono in questo posto? Non ci sono mai stato…» senza essere invitato si sedette sulla sedia vuota davanti a mio fratello, a fianco di Matteo. Che paraculo!
«Panino con provola, porchetta, salciccia, roastbeaf e patatine. Se ti piace l’insalata, aggiungi anche quella.»
«Perfetto.» sorrise compiaciuto, mentre il mio stomaco fece una capriola al solo sentire tutta la carne che sarebbe finita in quel panino.
«Come ci sei arrivato qui, Angelo?» mi affrettai a chiedere, riprendendomi dallo shock r cercando di capire quanto fosse legato a quel gruppo nel quale ero stata aggiunta per volontà di Matteo.
«In macchina, ovviamente. A piedi era fuori discussione.»
«Intendo con chi! Chi conosci per essere qui anche tu?» insistetti, stizzita.
«Vedi quel tizio laggiù? Alla destra di quello a capotavola?» indicò con un dito.
«Chi? Big-G?» s’intromise Alessandro, attento forse più di me.
«Proprio lui, è mio cugino.»
Big-G, alias Giovanni, soprannominato così per la sua taglia di tutto rispetto, era un “amico di amici” di Alessandro – quello che sedeva a capotavola per la precisione – e a quanto pareva si era portato il cuginetto milanese dietro.
C’è chi dice che il mondo è piccolo e chi che la sfiga lo perseguita. Io pensai che entrambe le affermazioni fossero vere per me.
Comunque, il dottor Riva e Alessandro mi ignorarono deliberatamente per tutta la serata e parlarono fittamente tra di loro, manco fossero stati vecchi amici che non si incontravano da anni e io ribollivo come una pentola sul fuoco.
Uomini, chi li capisce è bravo.
Liz accanto a me era strana: lanciava occhiatine per tutto il tavolo e si guardava con circospezione, come se qualcosa non andasse per il verso giusto.
Matteo, superato lo stupore iniziale, tornò alacremente a cercare conversazione con me, solo che mi trovò impegnata con Liz, scusa ormai perfetta per evitarlo.
A mezzanotte precisa, sia io che Letizia chiedemmo a mio fratello di riaccompagnarci: però i minuti passavano, lui continuava a rimandare e noi a insistere. Matteo faceva saettare i suoi piccoli occhietti da me ad Alessandro, forse aspettandosi che uno di noi gli chiedesse la cortesia di un passaggio nella sua BMW.
«Se vuoi le accompagno io, dato che sto per andar via.» lo scrittorucolo si propose prima che la situazione diventasse più imbarazzante.
«Hai intenzione di andare già via? Guarda che la serata non è nemmeno iniziata!» mio fratello sembrava dispiaciuto all’idea, forse aveva ipotizzato di avere un nuovo compagno di bevute.
«Domani devo essere in università e sarà una giornata lunga.» si scusò il dottor Riva.
«Università, università! Mi sembra di sentir parlare mia sorella!» inveì Alessandro sotto il mio sguardo omicida, «Vai pure se preferisci, io da qui non mi muovo. Ovviamente, puoi portarti dietro anche queste due passa guai
Io ero seccata dal comportamento di mio fratello, ma sullo sguardo di Letizia si leggeva chiaramente la delusione. Forse stava incominciando a rivalutare il suo eroe e vedeva quanto umano – e imperfetto – realmente fosse.
Alessandro non era un uomo di cui innamorarsi: a parte la totale assenza di romanticismo, la vestibilità particolarmente stretta che aveva per lui la parola relazione e il tatto minimo per i sentimenti altrui, era il classico tipo da una notte e via – o meglio, da una botta e via. Ulteriori speranze e pretese sarebbero state vane.
Mi spiacque per quella ragazza, non meritava di disperarsi dietro il comportamento da stronzo di mio fratello.
«Le riaccompagno io, allora. Buon continuo!»
Non ero del tutto convinta che fosse una buona idea, ma dovevo tornare a casa e da quando lui aveva promesso di comportasi bene non avevo avuto più nulla da rimproverargli. Salutammo rapidamente l’allegra combriccola e ancor più velocemente ci defilammo.
«Non mi sarei mai aspettato di trovarti li…» commentò Angelo, una volta in macchina.
«Nemmeno io, se è per questo. Stavo quasi pensando di denunciarti per stalking!»
«Non lo faresti mai.»
«Come fai ad esserne così sicuro?»
«Ti servo. Finché continuerò a servirti, eviterai di attaccar briga con me.»
Beh, tutti i torti non aveva.
Lanciai un’occhiata a Liz dallo specchietto retrovisore: guardava fuori dal finestrino assorta, sicuramente persa in un atro mondo.
«Ehi, la tua amica come si chiama?» chiese lui, indicandola.
«Letizia.»
«Bene.» sogghignò e poi la chiamò più volte, fino ad ottenere la sua completa attenzione. «Dove ti accompagno?»
«A casa di Gaia, abito nello stesso palazzo.» sussurrò.
«D’accordo.» dopo qualche attimo di pausa effetto, le chiese: «Letizia, mi lasceresti il tuo numero?»
Cosa?
Spalancai gli occhi dalla sorpresa, davvero non mi aspettavo una cosa del genere. Certo, Liz indossava un vestitino rosso che gridava agli uomini “mangiatemi” o meglio “stupratemi”, ma non avrei mai immaginato che rapisse anche l’attenzione dello scrittorucolo maleducato.
Evidentemente, ragionava come tutti gli altri uomini: con il pisello.
Certamente, timida com’era, la mia vicina avrebbe declinato subito la richiesta…
«Ok.»
Ecco, questa risposta sì che mi spiazzava, così come mi fece partire un ennesimo moto nello stomaco, una contorsione che mi strinse le viscere.
L’uomo sul quale avevo fatto un sogno erotico quella notte stava chiedendo il numero ad un’altra davanti a me. Non l’avrei mai ammesso, ma mi sentivo ferita come donna. Si sa, l’orgoglio è una brutta bestia e quella bella scenetta ebbe la forza di farmi ammutolire per tutto il resto del viaggio. Quando arrivammo sotto il palazzo uscì dal veicolo quasi annaspando – avevo la sensazione che li dentro mancasse l’aria – e senza salutare, sbattei la portiera e mi rinchiusi di gran carriera in casa.
 
I veri problemi iniziarono il giorno dopo, dato che non appena aprì gli occhi una forte emicrania mi diede il buongiorno. Inghiottì una pastiglia a forza e mi diressi in facoltà, con umore poco diverso dal giorno prima.
«Gaia, che ti è successo?» la voce preoccupata di Maria sembrò spaccarmi i timpani, sintomo che il medicinale non aveva ancora iniziato a fare effetto.
«Ieri sera sono uscita con mio fratello… questo è il risultato.» biascicai, portando una mano a massaggiare le tempie.
«Ti sei ubriacata?»
«Ma che vai a pensare?» risposi di getto. Avevo troppo la testa sulle spalle per ubriacarmi senza motivo, per di più durante la settimana. «C’era solo un sacco di gente, un sacco di cibo e…» mi bloccai, interdetta.
…quel cretino del dottor Riva!
Possibile mai che, invece di pensare all’insistenza di Matteo, alla gentilezza di Luca, all’ossessiva protezione di Alessandro, mi venisse in mente solo lui? Mi maledissi da sola per quel pensiero e diedi la colpa all’emicrania.
«…e?» Maria insistette e io, un po’ per confidarmi con qualcuno, un po’ perché non sapevo dirle di no, cedetti.
«…e Angelo Riva.» conclusi.
«A però! Certo che per non volere nulla da te, sembra ti stia particolarmente appiccicato!»
«Era li con suo cugino…» protestai, non convinta del senso che avesse ribattere. «Poi ha chiesto il numero alla mia vicina di casa che, per la prima volta in vita sua, era vestita… anzi, svestita come una coniglietta di Playboy ad una festa in piscina. La cosa peggiore è che ci stava anche bene!»
Mary contrasse il viso in una smorfia schifata.
Controllai l’orologio, con il mio umore nero mancava solo che fossi in ritardo a lezione.
Salutai Maria frettolosamente e mi avviai verso le due ore di tortura, mentre un senso di voltastomaco mi saliva ogni volta che pensavo a ciò che sarebbe successo alle undici.
Le undici arrivarono e con loro un po’ di nervosismo che aveva preso il posto del mal di testa.
Qual’era il problema di quel ragazzo? Perché poi aveva chiesto il numero di Liz, che era stracotta di mio fratello? Non aveva nemmeno il mio! Non riuscivo a darmi una spiegazione – che non fosse un probabile interesse verso di lei – e la cosa mi indisponeva particolarmente.
Dire che quella lezione passò velocemente sarebbe una bugia, ma ero troppo impegnata a restare calma che calcolai l’orologio meno del solito. Quando con poca grazia arrivai fuori alla biblioteca, per mia allegria il mio personale appuntamento delle undici già attendeva.
«Buongiorno!» mi salutò allegro ed io mi limitai a grugnire un saluto senza sapere di esserne capace. «Ci siamo svegliati con il dente avvelenato?»
No, ma un mio attuale morso potrebbe come minimo paralizzarti.
«Fortuna che tu sei di buon’umore.» borbottai, «Non riesco a stare sveglia con otto ore di sonno, figurati se la sera prima sono stata in mezzo alla gente fino a tardi.»
«Quanto la fai lunga! Io mi sono divertito: tuo fratello era simpatico e Liz molto gentile.»
«Siete entrati subito in confidenza, a quanto vedo.»
E ci vedevo benissimo, di questo ne ero sicura.
«Alessandro è davvero di compagnia! Un po’ troppo esuberante forse, ma credo abbia ricevuto anche la tua parte di corredo genetico festaiolo.» sorrise.
«Stai dicendo che non so divertirmi?» mi bloccai, sopracciglio inarcato e sguardo che uccide.
«No, dico solo che lui si scioglie prima.» indietreggiò, alzando le mani per difendersi da un eventuale attacco. Non mi aveva convinta del tutto, ma proseguii lungo gli scaffali.
«Intendevo con Letizia, comunque.»
«Ah, Liz. Beh, sì, direi. È simpatica, carina e molto dolce.»
Perfetto, proprio ciò che volevo sentirgli dire.
«Sembra che abbiate parlato per ore invece che per pochi minuti…»
«Beh, in effetti una volta a casa l’ho richiamata una e abbiamo chiacchierato del più e del meno.» Angelo si grattò una guancia, distogliendo lo sguardo dal mio.
In verità, non seppi se sentirmi consolata da quel dirottamento di attenzione o offesa: un giorno diceva che gli interessavo io e mi seguiva come un’ombra, l’altro se ne usciva bellamente di aver parlato al telefono a notte fonda con la mia vicina di casa. Bah, chi lo capiva era bravo.
Dannato scrittorucolo!
«Sei un tipo strano.» commentai, sovrappensiero. «Comunque, vediamo di sbrigarci, vorrei essere a casa per cena.»
Non sapevo che pesci pigliare e quindi, in un piccolo barlume di lucidità, trovai più saggio abbandonare la questione e rimanere il più professionale possibile.
Angelo Riva, per un motivo o un altro, sembrò contento di quella decisione e non tirò più fuori l’argomento.
Per le diciotto, avevamo svolto tutta la nostra parte i lavoro e eravamo pronti a lasciare la facoltà.
«Aspettami che ti accompagno, tanto dobbiamo fare la stessa strada.» si offrì il vanesio, affiancandomi.
Non trovai nulla da replicare: dopotutto, sapevo da me che la strada era quella.
Come un segno del destino, dopo pochi passi il mio telefonino squillò e velocemente lo recuperai per leggere il messaggio appena arrivato.
Gaia, ti devo parlare. Anzi, è più corretto dire che devo chiederti un favore. Quando possiamo vederci?
Premesso che era già strano che Luca mi inviasse un messaggio, figurarsi chiedermi un favore. Tra l’altro, quando gli avevo dato il mio numero? Io non mi ricordavo di averlo mai fatto.
In ogni caso, se mi cercava per un favore, probabilmente qualcosa era successo e non me la sentii di dirgli di no.
Sto uscendo dalla facoltà adesso. Tra una ventina di minuti a casa mia?
Pochi secondi dopo il telefonino trillò ancora e le notifiche di Whatsapp si illuminarono.
Preferirei un luogo dove Alessandro non ci sia. Ti va bene il bar in Galleria Umberto?
Non era vicinissimo, ma nemmeno lontanissimo e a conti fatti si poteva fare. Anche se non capivo il motivo di tanta segretezza, acconsentii.
«Cambio di programma, ho un impegno improvviso.» annunciai.
«Sarebbe?»
«Devo incontrarmi con un amico.» scandii chiaramente, facendo spallucce.
«Uno spasimante?»
Che scrittorucolo impiccione. Forse avrei dovuto farlo cuocere nel suo stesso brodo, ma ero troppo buona e poco incline a dire bugie.
«Cosa della parola “amico” non ti è chiara?»
«La presenza fisica associabile alla persona alla quale ti riferisci con tale parola. Ti serve compagnia? Se vuoi ti accompagno dato che sta facendo buio e andare in giro da sola, per una ragazza, è pericoloso.»
Oh oh, ma che carino. Dov’era nascosto negli altri ventun’anni della mia vita?
Peccato che non avesse fatto i conti sia col mio attuale malumore che col fatto che non volevo sapesse i fatti miei.
«No, grazie. Sono in grado di cavarmela da sola.» sorrisi forzatamente.
«Se poi…»
Capito l’andazzo, mi affrettai a bloccarlo: «Credimi, sono più al sicuro con lui che con te.»
Il che era vero, Luca non aveva mai provato a saltarmi addosso o a farmi proposte di alcun tipo.
Il dottor Riva sorrise, mi si avvicinò, prese tra le mani il mio volto e mi schioccò un bacio sulla fronte: «Promettimi però, che non appena torni a casa mi mandi un messaggio.»
La mia faccia, stupita, la diceva lunga su quanto fossi sconvolta.

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