Timegate: una porta verso il passato di Monique Namie (/viewuser.php?uid=106217)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Flashback ***
Capitolo 2: *** La dinamica di un loop ***
Capitolo 3: *** Timefixers ***
Capitolo 1 *** Flashback ***
Sciossione d'Anima
PROMPT:
Immagine
M: "Time
Machine" by Joe-Roberts (la stessa usata per il titolo)
Citazione n.4: "Tutti
i miei dominii per un istante di tempo" - Elisabetta I
Note
autore
È
la prima volta che mi cimento nel femslash.
Il racconto è piuttosto criptico, sicuramente al lettore
sorgeranno delle domande: alcune troveranno risposta nei prossimi
capitoli, altre probabilmente saranno destinate a rimanere irrisolte.
Il bello, secondo me, è che ogni lettore può
viaggiare con la fantasia e immaginare le risposte che più
gli sembrano adatte.
Ci
sono un’infinità di modi diversi
per dire “ti amo”:
Allaccia la
cintura
Fai
attenzione a dove metti i piedi
Riposati un
po’
Non fare
affidamento su quell’orologio.
La storia della mia vita
può essere riassunta brevemente
così: c’era una volta un orologio, poi
l’orologio si fermò e io divenni parte
integrante della quarta dimensione. Per quanti vogliano eventualmente
conoscere
i dettagli della vicenda, mi sono presa la libertà di
sigillare il mio
resoconto in un luogo sicuro tra le pieghe dello spazio-tempo:
precisamente in
un cassetto della mia nuova specchiera.
All’Ibizu
Kilea, pub
situato sulla
strada di raccordo per il più grande spazioporto terrestre.
Ero seduta a un
tavolo laterale e osservavo la pioggia scendere in rivoli oltre la
finestra che
avevo di fianco. All’esterno, sull’ampia strada
principale, c’era traffico e
anche il marciapiede era piuttosto affollato; a quell’ora i
lavoratori dello
spazioporto che avevano finito il turno si riversavano lungo la via per
tornare
a casa a cenare. Le ultime luci del giorno, che filtravano fra le
spesse nubi
temporalesche, stavano abbandonando gli imponenti grattacieli di
cristallo
nelle fauci della notte. Dalla mia posizione si vedeva un fiume di
ombrelli
colorati scivolare lento sotto il diluvio e si udivano i clacson degli
automobilisti impazienti ogni volta che qualcuno tardava a partire
quando
scattava il verde.
L’Ibizu
Kilea
era un posto accogliente e dal vago sapore esotico; mi piaceva
soprattutto
perché, essendo vicino allo spazioporto, aveva
un’ampia gamma di scelta fra le
pietanze e il costo era accessibile a tutti.
Ero in quel
locale perché avevo appuntamento con Linsdy, la mia migliore
amica. La
aspettavo ormai da mezz’ora e il cameriere era passato
già due volte per
chiedermi se volevo ordinare. Non era da lei dare buca in quel modo,
non
rispondeva nemmeno al cellulare: ero abbastanza seccata, quindi decisi
che
avrei aspettato altri cinque minuti, poi avrei ordinato qualcosa da
asporto e
me ne se sarei tornata nel mio alloggio per studenti.
Mentre
aspettavo mi persi a osservare la famigliola di srehitani seduta al
tavolo di
fronte al mio. Con i loro capelli verdognoli e il mento lungo a punta
erano
inconfondibili: madre, padre e i due piccoli scalmanati sembravano
tutti molto
felici. Avevo studiato srehitano il primo anno
dell’università come terza
lingua, ma riuscii a comprendere gran poco di ciò
che si dicevano
perché usavano troppe espressioni dialettali. Qualcun altro
al posto mio avrebbe
potuto pensare che lo facessero apposta per non farsi capire.
Ultimamente,
sulla Terra, s’incontravano pochi esseri provenienti da altri
sistemi solari;
nonostante gli sforzi del governo mondiale per promuovere
l’integrazione,
sembrava che i pregiudizi fossero profondamente radicati nella razza
umana, che
non smetteva di trovare ogni giorno un nuovo pretesto per muovere
guerra contro
i propri fratelli. Non era illogico pensare che si fosse arrivati
più
volte alla soglia
dell’autodistruzione, anzi, forse il pianeta Terra
già non esisteva più da un
bel pezzo, ma qualcuno era provvidenzialmente tornato indietro nel
tempo e
aveva modificato la realtà. Perché no? La
tecnologia per i viaggi nel tempo
esisteva ormai da due decenni; non si poteva di certo escludere la
possibilità
di vivere in un ramo temporale creato artificialmente.
Il rumore di
qualcosa di vetro che va in frantumi mi distolse improvvisamente dai
quei
pensieri. Uno dei piccoli srehitani al tavolo di fronte aveva urtato
un
bicchiere che, a contatto con il pavimento, era finito in pezzi; i
cocci
taglienti si erano sparsi a terra fino ad arrivare sotto al mio tavolo.
Un
robot addetto alla pulizia del locale si attivò,
uscì dalla sua nicchia scavata sulla parete e venne a
portare via i resti
del bicchiere rotto. In quello stesso momento la porta del locale si
aprì ed
entrò lei, accompagnata da una raffica di vento e
pioggia. Linsdy mi
vide subito e mi raggiunse schivando il robot e saltellando in
corrispondenza dei
cocci per evitare di pestarli. Si sedette al mio tavolo senza salutare
e senza
nemmeno scusarsi per il ritardo. Non aveva l’ombrello, quindi
era fradicia, ma
la trovavo bella anche con quell’aspetto un po’
trasandato. Apprezzavo la sua
trasparenza: le si poteva leggere nello sguardo la storia della sua
vita, una
storia a tratti felice e a tratti sofferta.
«È possibile che ogni volta che io e te
ci incontriamo debba piovere?!»
Disse
proprio
così, mentre cercava di scostare i capelli umidi che le si
erano appiccicati al
viso. Non sembrava infastidita, il suo tono era divertito. Mi
fissò con i
quei suoi grandi occhi verdi, cercando di carpire qualche informazione
dalla
mia espressione.
«Stavo
per
andarmene», dissi atona.
«Perché?
L’appuntamento non era per le diciannove?», chiese
stupita.
«Esatto.
Adesso
sono le diciannove e trenta passate.»
Controllò
l’orologio da polso, poi se lo sfilò e lo
appoggiò sul tavolo: era rimasto fermo a mezz'ora fa. Si
trattava un oggetto di fattura chiaramente extraterrestre, con tre
quadranti - uno centrale e due laterali più piccoli - e
cinque lancette.
«Dovrò portarlo a
riparare», disse.
«Non
sarebbe
una cattiva idea. E potresti anche cominciare a rispondere alle
chiamate»,
risposi stizzita.
«Accidenti!
Avrei dovuto avvisarti: ho attivato il numero gioviano!»
Assunse
un’espressione così dispiaciuta che
riuscì a farmi sentire in colpa per la
freddezza con cui la stavo trattando, poi continuò:
«Non essere arrabbiata,
Edra. Quello che conta è che adesso sono qui.»
Sorrise, e dopo una breve pausa
iniziò a raccontarmi le sue novità. Per il
master, l'università le aveva
affidato un incarico in collaborazione con la colonia spaziale
orbitante
attorno a Europa, una delle lune di Giove. Lì, da quello che
avevo capito, c’erano
le condizioni ottimali per studiare gli effetti delle oscillazioni
gravitazionali sui vegetali coltivati in laboratorio.
Ci conoscevamo
dalle elementari e, da che io ricordassi, Linsdy aveva sempre
dimostrato un
grande interesse per il tempo e gli orologi, come me. Durante
l’intervallo
eravamo solite giocare a “predoni del tempo”;
raccoglievamo fiori e sassi nel
giardino della scuola per poi nasconderli nello scantinato in cui era
espressamente vietato entrare: consideravamo quel posto il nostro
rifugio
segreto dove portavamo tutti i bottini saccheggiati durante nostre
fantasiose
scorribande temporali. Quando, raggiunta la maturità,
arrivò il momento di
scegliere il percorso di studi, lei, per qualche strano motivo, scelse
biologia
spaziale.
«Hai
già deciso
che cosa farai dopo?», mi chiese.
«Penso
che
andrò a dormire.» Alla mia risposta rise come una
matta.
«Ma
no,
intendevo dopo gli studi», disse cercando di ricomporsi.
Mi
venne voglia
di rispondere con qualche altra assurdità per farla ridere
di nuovo, però mi
trattenni.
«Non
è che
abbia molta scelta. Con una laurea in cronoquantistica posso solo
sperare di
essere assunta all’Agenzia di Viaggi nel Tempo per
Benefici
Storici.»
«La
Titraahibe?!
Sarebbe fantastico! Sei sempre stata una grande appassionata di viaggi
nel
tempo!»
Non sono i viaggi nel tempo in sé, ma il concetto
profondo e la struttura del
tempo che mi affascinano, ma non glielo dissi. Ero convinta che
svelandole le
mie emozioni, quelle avrebbero perso valore e sarebbero diventate
qualcosa di
banale. Per aumentare la mia motivazione avrei dovuto dimenticare io
stessa le
ragioni che mi spingevano verso quella strada. Consideravo il tempo
come una
prigione ma, per quanto fosse piacevole starci dentro, io ambivo a
trovare una
via per evadere e sondare l’ignoto.
Solo ora mi rendo conto che, per colpa delle mie paranoie, non sono mai
riuscita a farle capire pienamente ciò che provavo per lei.
Nelle relazione sociali sono sempre stata incline a nascondere i miei
sentimenti. Insicurezza? Paura di mettersi in gioco e di ricevere delle
critiche? Forse un blocco emotivo causato da qualche avvenimento
verificatosi durante la mia infanzia... Credo che non lo
saprò
mai.
Un’ora
dopo
avevamo finito di cenare; fuori continuava a diluviare, s’era
fatto buio e in
strada si vedevano solo i fanali delle auto schizzare via veloci.
«Domani
ho
appuntamento con un ragazzo», mi disse,
«l’ho conosciuto perché coordina il
programma scientifico a cui parteciperò per il master.
Partiremo assieme per Giove: è un
tipo simpatico, penso
ti piacerebbe. Prima di andare a dormire devo anche preparare i bagagli
per il
viaggio.»
Avvertii
una
fitta a livello del torace; sapevo benissimo che cosa significava, ma
non ci
badai.
«Conoscendoti
metterai in valigia almeno una decina di orologi», scherzai
cercando di occultare dietro un sorriso la mia preoccupazione.
Non le avrei mai
detto nulla nemmeno ora che stava per partire:
il
motivo era sempre lo stesso, temevo che svelandole i miei sentimenti
questi
sarebbero diventati banali, fragili. Probabilmente c’era
anche una
nota d’egoismo nel
mio pensiero. Se lei non mi avesse ricambiata, il mio stato di grazia
sarebbe
stato spazzato via come foglie secche da una raffica di vento e avrei
dovuto
guardare in faccia la cruda realtà. La realtà non
m’era mai piaciuta e poi Linsdy sarebbe
pure tornata dopo aver conseguito il master, no? Fra cinque anni, ma
sarebbe
tornata, e io allora avrei potuto riprendere in considerazione
l’idea di
parlarle. “Puoi rimandare, ma il
tempo
non lo farà”, mi avrebbe risposto il
professore di fisica applicata, che amava
tanto certe uscite filosofiche ad effetto.
Linsdy
si alzò,
mi voleva lasciare la sua quota di denaro sul tavolo, ma insistetti per
pagare
tutto io, allora si sporse verso di me: profumava di angelica e
di quel riattivante elettrico che
usava nei
suoi orologi.
Le piaceva salutare gli amici baciandoli sulla
guancia; lo faceva sempre, ma quella sera dovette avvertire in me un
certo distacco e quindi, dopo un attimo di esitazione ci
rinunciò e allontanò semplicemente sorridendo.
La osservai
sistemarsi il bavero del
cappotto per ripararsi dal vento e dalla pioggia per poi tuffarsi
nell’oscurità
della notte. Io rimasi lì seduta ancora un po'. La
famigliola di srehitani,
che occupava il tavolo di fronte, se n’era andata senza che
io
me ne fossi
accorta. Al suo posto ora era seduta una tipa scompigliata che incuteva
un
certo timore; una sciarpa arrotolata sul viso lasciva intravedere
appena i suoi
occhi furtivi. Abbassai lo sguardo sul mio tavolo e notai solo allora
che
Linsdy aveva dimenticato l’orologio.
Pensai che con
quella sua dimenticanza avesse voluto concedermi una seconda
possibilità. Uscii
di corsa senza nemmeno prendere l’ombrello. Girato
l’angolo del pub, la vidi
ferma vicino al passaggio pedonale. Provai a chiamarla, ma la voce
veniva
smembrata e portata via dal vento, così mi misi a correre
sperando di
raggiungerla prima dell'avanti. Il via libera per i pedoni
scattò proprio mentre ero
a qualche metro da lei. Un autista distratto si accorse all'ultimo
momento del rosso e
inchiodò di
colpo; le ruote del mezzo scivolarono sull’asfalto reso
viscido dalla pioggia
torrenziale provocando un suono acuto. Per un attimo sembrò
che Linsdy si
stesse girando verso di me, poi l’auto ormai fuori controllo
la investì in
pieno, terminando la corsa contro un vicino lampione della luce.
L'orologio mi
cadde dalle mani.
In un primo momento restai come paralizzata,
assistetti alla
scena come uno spettatore impotente, mentre la pioggia mi entrava negli
occhi
offuscandomi la vista. Linsdy non si sarebbe mai presentata
all'appuntamento
con quel ragazzo e non sarebbe mai arrivata sulla colonia di Giove per
il
master. Il suo destino era questo: cenare per l'ultima volta con me
all'Ibizu
Kilea, dimenticare il suo orologio fermo alle ore diciannove sul nostro
tavolo e
uscire di scena con un sorriso. Io non avevo potuto nemmeno
disperarmi, perché la pioggia rubava il posto alle lacrime e
il forte vento
sembrava l'unico artefice dei miei movimenti instabili.
Abbandonato sul marciapiede, zuppo d'acqua fino nel più
microscopico degli ingranaggi, l'orologio che un tempo apparteneva a
Linsdy fu calciato lontano da un passante.
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Capitolo 2 *** La dinamica di un loop ***
Sciossione d'Anima
Cap.2
- La dinamica di un loop
Cinque
anni dopo, alla Titraahibe.
Potevo considerarmi
una persona fortunata. Il mio sogno si era in parte
realizzato: ero
stata
assunta dalla Titraahibe poco dopo aver terminato gli studi
universitari. Specifico:
in parte, e non totalmente, perché tre
schiocche regole, di cui parlerò tra un po', mi impedivano
di compiere un certo tipo di viaggi nella quarta dimensione.
Dal
momento in cui ero entrata a far parte della squadra, venivo sottoposta
mensilmente all’analisi di un computer che scansionava e
valutava la mia
corteccia cerebrale. Ero uscita dall’università
con ottimi voti, ma sembrava
che qualcosa mi rendesse inadatta all’incarico vacante di
viaggiatore nel
tempo. Per i primi tre anni e due mesi di impiego sono stata, quindi,
una
semplice cronoquantista teorica; mi occupavo di coordinare i tecnici e
di
controllare che prima e durante l’attivazione del macchinario
tutti i dati
cronoquantistici (ovvero, di particelle quantiche concatenate alla
struttura
spazio-temporale) fossero nella norma. In confidenza credo di sapere
che cosa
avesse trovato di sbagliato il computer nella mia corteccia cerebrale,
ma a
questo punto, prima di proseguire, sarebbe opportuno che spiegassi
qualcosa
sulla Titraahibe. Innanzitutto, Titraahibe è
l’acronimo di Time Travel Agency for
Historical Benefits. Il motivo per cui quest’agenzia
è stata fondata lo si può
intuire dal nome. Nell’anno in cui il genio di Ellhis
O’Wise
comprese
l’equazione che rendeva teoricamente possibile a un corpo
dotato di massa di
spostarsi a velocità prossime a quella della luce senza
disintegrarsi, partì
una specie di gara tra ricchi privati (io avevo appena tre anni, tutto
quello
che so l’ho studiato per la tesi di laurea). Ogni miliardario
interessato
metteva a disposizione dei migliori scienziati cospicui finanziamenti
perché
costruissero una macchina del tempo nei garage delle loro lussuose
ville. Una
sola remota possibilità di avere il controllo totale del
tempo giustificava le
folli spese per progetti che, il più delle volte, erano
destinati a fallire.
Il
primo
prototipo funzionante fu realizzato da una troupe di scienziati
ingaggiati dal
direttore di un museo privato, il che fu un bene, perché il
direttore era un
uomo saggio e coscienzioso. Da quel primo prototipo se
n’è fatta molta di
strada, il direttore ha creato la Titraahibe e ha assunto del personale
specializzato. Chi lavora qui deve tenere a mente tre semplici regole:
1. il
viaggio nel tempo
s’intraprende solo a beneficio della
storia;
2. i contatti
con le
persone che non appartengono alla linea temporale
presente vanno ridotti al minimo;
3. gli
eventi non devono
essere alterati.
Tre
semplici
regole che tolgono gran parte del divertimento: niente viaggi nel
futuro,
niente storie d’amore impossibili con nobildonne
dell’Ottocento o cavalieri del
Medioevo, ma soprattutto niente manipolazioni del normale corso della
storia,
per nessuno motivo. Si viaggia nel passato esclusivamente per
recuperare preziosi
reperti storici da chiudere dentro una teca del museo. Tutto
ciò escludeva a
prescindere certe teorie sulle linee temporali artificiali a cui avevo
dedicato
mesi di ricerche... A meno che non esistesse un’altra
macchina
del tempo o che
qualcuno avesse modificato la storia in segreto, tutte cose altamente
improbabili.
Durante
una
delle mie prime scansioni cerebrali contestai in modo indiretto
l’ultima delle
tre regole ponendo al computer una domanda: “come ci si
dovrebbe comportare nel
caso in cui fosse in palio la salvezza del pianeta Terra?” Il
computer non
rispose al quesito e disse semplicemente che non ero il candidato
ideale da
mandare a spasso nel passato. Il punto è che, in caso di
situazioni estreme, la
terza regola crea un paradosso. Ciò che il computer valutava
negativamente in
me era l’imprevedibilità: aveva capito che
l’ultima cosa che avrei fatto sarebbe
stata seguire quella stupida regola!
Tre
anni e due
mesi dopo la mia assunzione, ero ancora convinta che la terza regola
andasse in
qualche modo modificata. Eppure, quella stessa settimana, dopo la
consueta
scansione celebrale il computer mi aveva giudicata idonea, dandomi la
possibilità di partire per la mia prima missione.
Mi
trovavo
nella Sala del Tempo quando, ad un certo punto, mi si
avvicinò un operaio. Con
il casco e la tuta addosso, lo riconobbi solo dalla voce nel momento in
cui mi
parlò.
«Come
ci si
sente a essere DJ del tempo? Hai letto il fascicolo sulla missione,
spero?» Era
Inck. Mi sostituiva nel compito di cronoquastista teorico. Mi venne da
ridere
perché il fascicolo non l’avevo letto. Un
comportamento, questo, piuttosto incosciente da parte mia. Nessuno
avrebbe sospettato che ragazza prudente e razionale come me potesse
nascondere un'indole vendicativa. Non leggendo le istruzioni mi stavo
prendendo la rivincita dal computer che in passato non mi aveva
giudicata subito idonea.
«Va
alla
grande, anche se stanotte ho avuto un incubo» risposi.
«Non
sarà mica stato
uno di quei tuoi sogni premonitori!?», scherzò lui.
«In
realtà, ho
sognato la statua dell’angelo incappucciato. Le stavo vicino,
quando
all’improvviso ha alzato la testa e mi ha fissato con due
agghiaccianti occhi
verdi. Perché teniamo un oggetto del genere vicino alla
macchina del tempo?»
L’altro
alzò le
spalle. «Sarà per ricordarci che, anche se
controlliamo il tempo, non siamo
immortali...»
Ogni
tanto
anche uno come Inck se ne usciva con qualche saggia considerazione.
Negli
occhi
verdi dell’angelo, tuttavia, c’era
l’intero universo, io l’avevo percepito e la cosa
mi aveva preoccupata. Le parole di Inck non bastarono a rassicurarmi.
“Sessanta
secondi alla partenza.”
La
voce
metallica dello speaker che scandisce il tempo rimanente alla partenza,
fece
eco nell’immensa Sala del Tempo riportandomi al presente.
Quando
il
Timegate è in fase di accensione, le pareti della stanza e
l’intera superficie
circolare dell’enorme meccanismo centrale perdono il loro
grigiore metallico
per coprirsi di sfumature che vanno dall’azzurro al blu. Per
tre anni e due
mesi avevo assistito a distanza ravvicinata a ogni singola partenza,
eppure non
mi ero ancora abituata alla luce azzurra accecante che veniva irradiata
quando
il macchinario entrava in funzione. Era una luce bellissima: il colore
era
simile a quello della fiammella del gas da cucina, ma molto
più brillante. Successivamente,
dal grande cerchio verticale che crea la distorsione dello spazio-tempo
iniziavano a diramarsi i primi fulmini al plasma, rivelando ad ogni
flash gli
ingranaggi di lucido metallo parte integrante della struttura.
Nell’Agenzia
il
grande cerchio era chiamato Timegate in onore dello Stargate del
vecchio film,
mentre colui che viaggiava nel tempo era soprannominato DJ, dalle
iniziali del
nome del protagonista, Daniel Jackson.
Per
tutta la
durata della missione, il DJ del tempo diventava una specie di
divinità in
grado di creare sublimi melodie quantiche con i suoi spericolati viaggi
nella
quarta dimensione; un po’ come avviene quando la materia
vicino ad un buco nero
entra in risonanza e produce una nota riconosciuta
come si bemolle.1
Atomi,
artisti e scienziati non differiscono più di tanto tra loro.
Salii
nella
navicella e allacciai la cintura di sicurezza prima che la
gravità venisse
annullata. Ancora non avevo realizzato pienamente
l’importanza di ciò che stavo
per intraprendere.
Inck
mi fece
cenno attraverso il monitor centrale che i valori erano ok e io in
risposta
sollevai il
pollice.
Tutti
i tecnici
indossavano una speciale tuta completa di casco che li proteggeva dalle
fluttuazioni quantistiche del tessuto spazio-temporale, tutti eccetto
me. A me
piaceva sentire il tempo scorrere sulla pelle, amavo quel senso di
vertigine
nel momento in cui il Timegate toccava la massima potenza e i quanti
iniziavano
a scomporre la realtà.
È
certificato
che l’esposizione alle fluttuazioni cronoquantistiche non
crea danni
irreversibili al corpo umano, ma può provocare dei
momentanei effetti collaterali
diversi da persona a persona. A me capitava di avere dei sogni
premonitori. Il
più delle volte non erano sogni chiari e dettagliati, ma
sequenze immerse nella
nebbia, mezze sensazioni che riuscivo a comprende pienamente solo
quando le
vivevo in prima persona. La sera prima della missione, per esempio, mi
era
apparso in sogno l’angelo incappucciato. Il suo sollevare il
capo per fissarmi
mi aveva messo addosso un pressante senso d’angoscia.
“Dieci secondi
alla partenza”.
La
voce metallica
dello speaker interruppe nuovamente i miei pensieri. Non avevo letto il
fascicolo sulla missione ma, dopo aver presenziato a un certo numero di
riunioni, sapevo quanto bastava per avere successo:
dovevo
recuperare un vecchio orologio costruito con rari materiali estratti su
un
pianeta extrasolare. Per il museo era importante perché era
l’unico modello
giunto sulla Terra dopo il blocco galattico delle importazioni di
materiale
ferroso. Osservai la data impostata sul timer interno: non dovevo
nemmeno
tornare troppo indietro, perché le tracce
dell’oggetto erano state perse appena
cinque anni prima.
“Meno
tre.”
Cominciai
ad
avvertire la sensazione di vuoto provocata dall'assenza gravitazionale
indotta.
“Meno due.”
Per
la prima
volta rimpiansi di non aver voluto indossare la tuta protettiva e il
casco.
“Meno uno.
E… attivazione!”
Nel
momento in
cui la distorsione temporale toccò l’apice
massimo, non percepii più i confini
del mio corpo, ebbi come l’impressione che le mie braccia
potessero raggiungere
qualche chilometro di distanza, iniziò a mancarmi
l’aria e i contorni delle
cose persero improvvisamente consistenza fino a svanire.
A
risvegliarmi fu
il forte rombo di un tuono. Ancora prima che gli occhi s'abituassero
alla poca
luce, colsi il piacevole scrosciare di un acquazzone sul tetto della
navicella
che mi ospitava. Aprii lo sportello facendo uso di tutte le mie forze e
subito
raffiche di vento e pioggia mi arrivarono addosso. Il luogo non mi era
nuovo e
il clima mi provocò un inaspettato senso di malinconia. La
navetta si era
materializzata in un vicolo cieco deserto ma, in lontananza, sul
marciapiede
che costeggiava la strada principale, un fiume di ombrelli scivolava
inesorabile verso il proprio destino e il rumore dei clacson degli
automobilisti impazienti infrangeva il silenzio della sera. Quando
riconobbi il
luogo, compresi che avrei fatto meglio a leggerlo quel maledetto
fascicolo
sulla missione.
Dentro
all’Ibizu Kilea era un continuo déjà-vu.
Senza
chiedere
al legittimo proprietario, presi in prestito una sciarpa
dall’appendiabiti e me
la avvolsi attorno al viso: non potevo correre il rischio che la me
stessa del
passato mi riconoscesse. Come aveva potuto il computer giudicarmi
idonea proprio a svolgere questa missione?! Anche la persona
più inesperta sa che, durante un viaggio nel tempo, tornare
sui propri passi è rischiosissimo. D'altra parte era anche
vero che nessuno mi aveva obbligata a entrare in quel pub. Ero
lì percché avevo avuto un'intuizione: l'orologio
da recuperare non poteva che essere quello di Linsdy. Tutte le
variabili del caso portavano a quella conclusione.
Scelsi di sedermi in un angolo appartato. Il
cameriere
invece di chiedermi l'ordinazione, mi chiese se stavo bene.
Come
avrei potuto sentirmi bene? Per la seconda volta avrei dovuto dire
addio a
Linsdy senza poter far nulla per cambiare la storia. Era
già una gran cosa che
fossi riuscita a mettere piede nel locale; dalla maledetta sera di
cinque anni
fa non ero più entrata in quel posto. Evitavo, per quanto
possibile, persino di
passarci davanti. Dubitavo di essere in grado di portare a termine la
missione
con le mani tremanti e con la sensazione che la testa mi stesse per
esplodere. Sussultai
sentendo il rumore di qualcosa di vetro che andava in frantumi: avevo
dimenticato che quella volta uno dei piccoli srehitani aveva fatto
cadere un
bicchiere. Quello era il segnale che separava l’attesa
dall’arrivo di lei. La
porta del locale, infatti, si spalancò e Linsdy
entrò accompagnata dal vento e
dalla pioggia come il fantasma dei miei rimpianti. Il suo sorriso era
così
luminoso da ferirmi gli occhi e il suo volto appariva evanescente.
Illusioni, tutte
illusioni che preannunciavano la mia prossima perdita di coscienza.
Quando mi
risvegliai ero su un lettino dell’infermeria della Titraahibe.
«Bentornata»,
esordì Karf, medico di fiducia dell’Agenzia,
tastandomi il polso per sentire le
pulsazioni.
«Ho
fallito…»,
bisbigliai.
Lui
mi guardò
stupefatto. «Edra, non sei nemmeno partita, sei crollata
prima di salire sulla
navetta e così la missione è stata posticipata.
Ti senti meglio adesso?»
«Per
niente.»
Dire
che mi
sentivo confusa era un eufemismo. «Forse qualcuno mi ha
lanciato una
maledizione.»
Lui
sospirò.
«Se continui a crucciarti così, arriverai ai tuoi
ultimi giorni di vita piena
di rimpianti.»
«Al
diavolo!», cercai
di urlare, ma ero ancora priva di forze e mi resi conto che la frase
risultò
poco più che sussurro. Karf forse non mi aveva nemmeno udita.
«Dov’è
il
fascicolo sulla missione?», chiesi, ora più che
mai
intenzionata a leggerlo.
«A
che ti servirebbe adesso?»
Cercai
di
sollevarmi dal lettino decisa a cercarlo da sola, ma il medico mi
obbligò a stare
stesa. Lo osservai per qualche istante mentre controllava da un tablet
i miei
valori vitali con espressione seria. Lui era stato uno dei primi a
diventare
mio amico quando ero stata assunta. Gli lessi nello sguardo che la sua
preoccupazione era sincera.
«Hai
ragione», ammisi,
«finirò col vendermi
l’anima per ottenere un istante di tempo
in più.»
Sopraffatta
dall’inquietudine trasmessa da quel pensiero, chiusi gli
occhi cercando di
riposare, ma sentivo ancora il rumore del bicchiere che andava in pezzi
sul
pavimento dell’Ibizu Kilea percuotermi i timpani.
Qualche
ora
dopo mi sentivo un po’ meglio ed ero di nuovo nella Sala del
Tempo davanti al
Timegate. Karf aveva classificato il mio malore come cronometroverctofobia:
in
pratica, secondo lui avevo perso i sensi per paura del cambiamento
temporale. Sembrava
che il modo migliore per superare il problema fosse ritentare la
missione il
prima possibile.
Karf
diceva che
i miei valori vitali erano tornati nella norma, eppure se mi toccavo la
fronte
la sentivo divampare. Probabilmente anche quello era uno degli effetti
collaterali dell’esposizione diretta alle fluttuazioni
cronoquantistiche. Stavo male, ma non mi lamentavo perché il
dolore mi faceva sentire viva.
Anche
se per
gli altri non mi ero mai mossa da lì, io ero certa che
quello di prima non
fosse stato un sogno e non riuscivo a nascondere la preoccupazione.
Per un
attimo pensai persino di rinunciare, ma scacciai subito
l’idea. Dopo tutti gli
anni di studio passati a sognare di essere DJ del tempo, non potevo
mandare
tutto all’aria così, per una sensazione.
«La
Titraahibe
è l’agenzia temporale migliore del pianeta, si
possono fare miracoli
aggiustando un po’ le fluttuazioni
cronoquantistiche», intervenne Inck, che sembrava
aver letto la preoccupazione nei miei occhi.
«La
Tritraahibe
è l’unica
agenzia temporale del
pianeta», puntualizzai.
Inck
fece finta
di non aver sentito e continuò con le sue considerazioni.
«Questo per dirti che
puoi sbagliare anche mille volte, ma per com’è
organizzata la struttura del
tessuto spazio-temporale tu non ti accorgeresti mai di nulla. Dovresti
saperlo
meglio di me, visto che sei una secchiona.»
Gli
tirai una
pacca sulla spalla e mi preparai nuovamente per la partenza. Prima di
salire
sulla navicella, lo sguardo si posò distrattamente sulla
statua
dell’angelo:
le sue ali mi sembrarono leggermente più dispiegate rispetto
all’ultima volta
l’avevo osservata.
La
procedura di
attivazione si ripeté da capo: sensazioni distorte e
sfumature d’azzurro
iridescente mi avvolsero come un oceano in tempesta, poi finalmente mi
ritrovai
sotto quel noto cielo serale in burrasca. Incamminandomi verso
l’Ibizu Kilea la
pioggia fredda mi inzuppò gli abiti; era una sensazione
piacevole, gli atomi
del mio corpo rallentarono impercettibilmente dandomi modo di respirare.
Girato
l’angolo
della strada, mi trovai davanti al passaggio pedonale in cui sapevo si
sarebbe
fermata Linsdy. Pensai che avrei potuto stare lì ad
aspettarla per tutto il
tempo necessario e al momento giusto spingerla lontano per cambiare la
storia. Ma
avrei potuto veramente?
Ripercorsi
mentalmente gli ultimi istanti con lei, gli ultimi passi su quel
marciapiede
affollato e impregnato di pioggia. Pensando, il tempo passò
invisibile e
silenzioso, più veloce del normale, così arrivai
davanti al pub in ritardo. Entrai
nel momento in cui
la famigliola di srehitani stava uscendo e quasi ci scontrammo. Linsdy
era
seduta al solito tavolo con la me stessa del passato. Rubai per la
seconda
volta la sciarpa al solito ignaro cliente e presi posto nel tavolo di
fronte al
mio obbiettivo.
Per
portare a
termine la missione mi sarebbe bastato trovare il coraggio di alzarmi,
prendere
l’orologio e tornare nel mio tempo, ma non riuscivo a
muovermi, ero come
paralizzata, mi sentivo parte integrante di quel tavolo: se avessi
mosso un
solo dito, qualcosa di certo sarebbe andato in pezzi.
Per
il tempo in
cui rimasi seduta in quel posto, nessuno sembrò accorgersi
della mia presenza,
solo la me stessa del passato mi lanciò una breve occhiata
dopo che Lindsy se ne
fu andata. L’orologio era lì, sopra al tavolo, la
mia amica invece era uscita,
impaziente di assecondare la crudele volontà del destino. La
Edra di quel tempo si
accorse dell’orologio dimenticato, si alzò e mi
passò di fianco di corsa. Nel
rivivere la fretta di quell’azione, provai una forte
vertigine ed ebbi
l’impressione di precipitare in un baratro sempre
più profondo, sempre più
buio. Come la prima volta, gli eventi mi sfuggirono di mano e mi
risvegliai nuovamente
nell’infermeria della Titraahibe.
«Bentornata»,
esordì
Karf, medico di fiducia dell’Agenzia, tastandomi il polso per
sentire le
pulsazioni.
«Ho
fallito…»,
bisbigliai.
Lui
mi guardò
stupefatto. «Edra, non sei nemmeno partita, sei crollata
prima di salire sulla
navetta e così la missione è stata posticipata.
Ti senti meglio adesso?»
«Per
niente.» Una
strana sensazione di déjà-vu mi
assalì. Stavo per aggiungere un pensiero poco
scientifico su una possibile maledizione lanciatami contro da qualcuno,
invece
mi uscì un sospiro. Anche il medico sospirò.
«Se continui a crucciarti così,
arriverai ai tuoi ultimi giorni di vita piena di rimpianti.»
«Dov’è
il fascicolo
sulla missione?», chiesi, ignorando le sue considerazioni.
«A
che ti servirebbe adesso?»
Altro
tremendo déjà-vu.
«Ho bisogno del fascicolo sulla missione!», cercai
di urlare, ma la mia voce
sembrava lontana. Mi alzai in preda all’agitazione e finii a
terra, Karf mi risistemò
sul lettino e mi somministrò un tranquillante. Mi
riaddormentai, ma questa
volta iniziai a sognare, ed era un sogno così vivido che
sembrava reale. Avevo
la sensazione di osservare un luogo fuori dal tempo, un luogo che
esisteva,
esiste ed esisterà sempre.
«Non so per
quanto ancora potremo reggere, mia signora!» I
bellissimi gli occhi verdi di un essere alato scintillano alla luce
della
lanterna di sale posizionata al centro di un tavolo. Le mani, protese
in avanti
verso uno specchio vuoto immerso nell’oscurità
più cupa, sono coperte da
morbidi guanti ricamati.
La donna, che sta
nascosta dietro a una tenda di tessuto blu
in fondo alla stanza, ha una voce familiare: «Dobbiamo
resistere o fallirà
l’intero progetto, cosa che non possiamo assolutamente
permettere.» Il suo tono è
calmo, ma io ho la certezza che dentro di lei si stia scatenando un
uragano.
«Come propone
di agire, mia signora?»
«Prima di
tutto, lasciate perdere il loop difensivo.»
«Con tutto il
rispetto, devo forse ricordarle ciò che è
successo l’ultima volta che abbiamo interrotto il
loop?», insiste la creatura
angelica, senza spostare l’attenzione dallo specchio nero che
ha davanti. Indossa
un mantello scuro con il cappuccio calato fino sulla fronte; le ali sul
dorso
fremono impercettibilmente per la tensione che si è venuta a
creare nell’attesa
di una risposta.
«Ricordo ogni
singolo avvenimento, da quando il primo
elettrone ha preso forma e ha iniziato a muoversi nello spazio-tempo.
Sì, ricordo
anche l’ultima volta che abbiamo interrotto il loop: la
struttura dell’universo
è collassata in una singolarità.»
«E non le
sembra una tragedia?!» L’essere alato non tenta
nemmeno di nascondere un moto di sdegno nella sua voce pura e suadente.
La donna sorride e
prosegue con tono quasi materno: «Le
tragedie non esistono. Le singolarità non distruggono
l’universo, cambiano solo
la disposizione delle cose.»
L’altro resta
in silenzio per qualche istante, poi avvicina
maggiormente le mani guantate all’oscurità
contenuta nello specchio: cerca, in
quel modo, di fare maggiore attrito sulla rete del tempo per rallentare
gli
avvenimenti e potersi concedere qualche attimo di riposo. Con quegli
occhi
verdi, seminascosti dal cappuccio, può vedere ogni singolo
essere vivente
presente nel cosmo, ma uno in particolare ha catturato la sua
attenzione: sono
io, mi sta fissando.
Lui ha visto la nascita,
la morte e la resurrezione di
ognuno senza commuoversi, senza provare né gioia
né dolore. Assiste allo
scorrere del tempo da quella sua posizione privilegiata, frenando
saltuariamente il normale ticchettio della lancetta
dell’orologio per
concedersi un po’ di riposo. Nulla lo fa vacillare. Per sua
natura non prova
emozioni, se non quando si tratta della salvezza
dell’Universo e le sue ali si
dispiegano quando qualcuno gioca d’azzardo con il tempo.
Finalmente allenta le
mani e si decide a parlare: «Devo
confessarle una cosa, mia signora.»
«Ti
ascolto.»
«L’interferenza
ha ottenuto un contatto con me.»
«No!»
La misteriosa donna nascosta dietro la tenda blu nega.
La negazione: una reazione fin troppo umana, la prima reazione in
risposta a un
avvenimento tanto spiacevole da non poter essere giudicato razionalmente.
«Se
interrompiamo il loop adesso, dovrà per forza tornare
indietro, mia signora. L’interferenza ha capito
dov’è stata inserita la giunzione
temporale.»
La donna scosta
violentemente la tenda blu e il suo volto
appare in tutta la sua bellezza: è Linsdy.
Mi
risvegliai frastornata:
il tranquillante non aveva svolto bene il suo compito.
«Bentornata»,
esordì
Karf, medico di fiducia dell’Agenzia, tastandomi il polso per
sentire le
pulsazioni.
Avevo
la mente
ancora in disordine per ciò che avevo appena vissuto.
L’angelo dagli occhi
verdi e le mani guantate assomigliava in modo impressionante a quello
della
statua presente nella Sala del Tempo.
«Sono
nell’aldilà?», chiesi.
Il
medico mi scrutò per qualche istante stupefatto.
«Edra, non sei nemmeno partita,
sei crollata prima di salire
sulla navetta e così la missione è stata
posticipata. Ti senti meglio adesso?»
«Karf,
smettila
di ripetere sempre le stesse cose, ok? Mi farai impazzire!»
L'uomo
restò
per qualche secondo a fissarmi con gli occhi sbarrati cercando di
capire se lo
stessi prendendo in giro, poi ci rinunciò e scosse la testa
rassegnato.
«Ho
fatto un
sogno», proseguii, «o almeno credo fosse un sogno,
e
c’era quell’angelo, quello
della statua vicino al Timegate! Non può essere una
coincidenza!»
Karf
sospirò.
«Se continui a crucciarti così, arriverai ai tuoi
ultimi giorni...»
«Non
costringermi a chiuderti la bocca con del nastro adesivo!» lo
interruppi bruscamente.
«Morirò nel momento scelto da me. Non prima!2»
«C’è
chi potrebbe
decidere per te3»,
mi rispose
apprensivo.
Il
fatto che
avesse inserito una nuova frase nel suo copione mi
rassicurò. «Hai ragione»,
ammisi dopo un breve attimo di silenzio, lo sguardo perso nel soffitto
candido
di quella stanzetta asettica, «ma ho come
l’impressione che questa missione mi
stia consumando. D'altronde il tempo sa fare solo questo: consumare le
cose.
Consuma perfino le stelle che a noi appaiono eterne. Ma è
così affascinante,
non trovi? Il tempo… che cos’è il
tempo, Karf? E perché teniamo quell’inquietante
statua nella sala delle partenze?»
Quando
spostai
nuovamente lo sguardo verso il medico, notai che aveva assunto
un’espressione allarmata.
Mi guardava come se stessi tentando di scalare a mani nude una parete
verticale
di cristallo, come se stessi delirando.
«Vado
ad
avvertire i tecnici che riprenderai la missione domani. Per il momento
niente
accertamento psichiatrico, ma se domani non sei tornata in
te…» Non terminò la
frase lasciando sottintendere il resto, e concluse con un sbrigativo
«Riposati.»
Stesa
sulla
branda del mio alloggio non riuscivo proprio di addormentarmi. Guardavo
l’ora
proiettata sul soffitto dalla sveglia led: ormai era notte fonda, erano
le 2:33.
All’esterno tutto era avvolto nel più completo
silenzio, ma nella mia mente c’era
il caos. Il pensiero di tutte quelle persone che se n’erano
andate lasciando le
cose a metà non mi voleva lasciare in pace. Iniziai a
riflettere su quello che
avrebbe potuto fare Linsdy nella colonia spaziale orbitante attorno al
sistema
gioviano, se solo fosse riuscita ad arrivarci. Mi sembrò di
vederla con addosso
un camice bianco da laboratorio e degli occhiali protettivi, intenta a
controllare nei computer i dati di crescita di minuscoli germogli.
Mentre
svolgeva il suo lavoro sopraggiungeva un collega, lei sorrideva e,
scostando
una ciocca di capelli ribelle dal viso, riferiva che tutto stava
andando per il
meglio.
Pensavo
a lei
perché l’avevo vista spegnersi davanti ai miei
occhi a un’età in cui non
esistono ancora sogni irrealizzabili, a un’età in
cui ci si crede immortali. Fino
ad allora ero riuscita a convivere con il vuoto della sua assenza, ma
la
missione mi aveva ridestata, mi aveva fatto capire che in
realtà non l’avevo
mai dimenticata, lei era sempre stata lì in un angolo del
mio cuore pronta a
scuotermi dal torpore dell'indolenza.
Ricordavo
ancora il profumo che indossava quella sera e il sorriso
cristallino
prima di
uscire dal locale. Per tutto il tempo le avevo sempre nascosto i miei
sentimenti. La tentazione di tornare indietro e raccontarle tutto era
fortissima. Se avessi potuto rivivere in prima persona quella serata,
ora avrei
agito diversamente, senza paura di ricevere una pugnalata al cuore,
senza il
timore di un rifiuto. E se ci fossi stata io al posto Linsdy, sotto la
pioggia,
ad attendere l’arrivo di quell’auto impazzita, chi
avrebbe scelto il computer per
svolgere questa missione? Se...
se… Troppi
“se”.
Ricordai
le
parole del mio relatore riferite alla bozza della tesi di laurea che
gli avevo
presentato: “L’argomentazione è
più che buona, ma ti poni troppe domande irrisolvibili.
L’uomo non potrà mai capire la struttura profonda
del tempo nella sua
completezza, altrimenti diventerebbe un dio.”
Ad
un tratto
nella mia mente balenò un’idea folle.
Decisi che era
arrivato il momento di prendere in mano le redini della situazione. Non
potevo continuare a far finta di
niente. Mi
alzai di scatto dal letto, indossai le prime cose che avevo a portata
di mano e,
a larghe falcate, raggiunsi la Sala del Tempo.
Dopo tutte le partenze a
cui
avevo assistito, attivare il Timegate in solitaria non era di certo un
problema e
regolare le
coordinate spazio-temporali nel luogo e nell’epoca desiderata
era un giochetto.
L’allarme che segnalava un’intrusione non prevista
scattò con un po’ di ritardo.
Io ero già dentro la navetta che fluttuava in assenza di
gravità e nessuno
poteva più fermarmi.
Note:
1- Il fatto che la materia
che entra in risonanza vicino ad un buco nero produca una melodia
riconosciuta
come si bemolle, non è una mia
invenzione, ma una considerazione
scientifica reale.
2- Frase pronunciata dalla
regina Elisabetta I nel film Elisabetta I dopo aver
accusato un malore.
3- Frase
pronunciata nello stesso film dal medico di corte in
risposta alla precedente efferazione della regina. Egli credeva che il
malore
fosse stato causato da un avvelenamento.
Nota
sull'uso dei tempi verbali:
Avrete sicuramente notato un cambio di tempo
verbale: passato
->
presente -> passato.
Nella parte in
corsivo, che parla del sogno in cui comprare l'angelo
dagli
occhi verdi, ho usato il tempo presente per rendere l'idea di "luogo
fuori
dal tempo" che esisteva, esiste ed esisterà. Ci si
può vedere anche un
significato esoterico piuttosto complesso e profondo sulla natura del
tempo e
dello spazio legato all'essere umano, ma non voglio spaventarvi con
complicate
elucubrazioni filosofiche. Se proprio non resistete dalla
curiosità, potete
sbirciare la risposta che ho dato alla valutazione di Najara, giudice
del
contest a cui ha partecipato la storia.
|
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Capitolo 3 *** Timefixers ***
Sciossione d'Anima
In
una linea temporale artificialmente modificata.
C’è
una
tipologia di persone che il computer per la scansione cerebrale
identifica come
potenzialmente pericolose: a queste persone viene dato il nome di
“Tif”,
abbreviazione di timefixers, che io preferisco tradurre con
aggiustatempo. Ad
una conoscenza superficiale, queste possono sembrare persone
normalissime, dai
solidi princìpi morali e con un alto senso della giustizia,
eppure dopo un po’
iniziano ad apparire inaffidabili. Gli aggiustatempo si riconoscono nel
momento
in cui iniziano a mettere in dubbio l’adeguatezza delle tre
regole dell’Agenzia.
All’inizio ci ero passata anch’io, avevo posto il
computer di fronte a un
problema e lui, invece di rispondermi, aveva chiuso la seduta
dichiarandomi non
idonea. Tempo dopo venni a sapere che la mia scheda personale era stata
collocata sotto la dicitura “timefixers”. Mi sentii
piuttosto abbattuta. È raro
che un Tif venga giudicato idoneo in una delle successive scansioni
cerebrali,
quindi davo per scontato che mi sarei occupata del tempo sempre e solo
a
livello teorico e non pratico, come invece ambivo ardentemente. Il
giorno in
cui il computer mi valutò come idonea, mi presi qualche ora
di permesso per
festeggiare in un locale della città. Nonostante la musica e
la piacevole
atmosfera del posto, percepivo in me un velo d’inspiegabile
malinconia. Forse
già allora il mio sesto senso voleva mettermi in guarda da
possibili
sciocchezze che avrei potuto compiere in futuro.
Mentre
cercavo
di contattare Linsdy, intrappolata nella linea temporale passata,
rivedevo il mio
nome inserito nella lista degli aggiustatempo: se il computer mi aveva
rivaluta in
modo errato, l’universo intero stava correndo un grave
rischio.
Finalmente vidi
Linsdy girare l’angolo di un edificio. Camminava guardando
sovrappensiero
l’orologio che aveva al polso: tre quadranti e cinque
lancette per segnare un
unico tempo. Per qualcuno poteva sembrare un’esagerazione, ma
a lei le cose
complicate piacevano. L’indomani a quell’ora si
sarebbe trovata in viaggio
verso la colonia spaziale orbitante attorno a Europa, nel sistema
gioviano.
Aveva l’aria felice mentre alzava lo sguardo verso i profili
degli imponenti
grattacieli a finestre specchiate. Il temporale della sera era ancora
lontano:
il sole del primo pomeriggio rifletteva nelle sue iridi facendole
sembrare due preziosi
smeraldi. Indossava lo stesso soprabito che avrebbe indossato al nostro
appuntamento. I suoi passi leggeri sul marciapiede lastricato segnavano
un
ritmo perfettamente in armonia con l’ambiente circostante. La
vita di Linsdy
apparteneva a quel tempo, ma il tempo continuava a scorrere senza mai
fermarsi a
guardarla. Se fossi stata io, il tempo, avrei ovviato a
quell’inconveniente, mi
sarei fermata e le avrei detto: “Ehi! Stai benissimo oggi,
sembri in armonia
con il tutto.”
Stava
venendo
verso di me, ma non si era ancora accorta della mia presenza. Ne
approfittai
per coglierla di sorpresa.
«Ciao
Linsdy!
Stai benissimo oggi, sembri...»
«Edra!?
Che ci
fai qui? Non dovresti essere
all’università?»
Mi
strinsi
nelle spalle. «Un amico mi registra la lezione.»
Linsdy
iniziò a
scrutarmi con un’espressione stranita in cerca di un indizio
che non riusciva a
trovare. «Sei diversa, ma non capisco in cosa. Sei stata dal
parrucchiere?»
«No.»
«Ci
sono! Hai cambiato
il colore dell’ombretto!»
«No.»
«Sicura?
Hai
gli occhi più luminosi.»
Non
le risposi.
Mi morsi il labbro inferiore per frenare le lacrime che cercavano con
prepotenza
un varco, e quando capii che non avrei resistito un secondo in
più, la
abbracciai per nascondere il mio volto. La strinsi a me e affondai la
testa
sulla sua spalla respirando tra i suoi capelli quel familiare profumo
di
angelica e riattivante elettrico. Nel giro di qualche secondo, quel
contatto
ebbe l’effetto di darmi un coraggio inaspettato. Mi sciolsi
dall’abbraccio e
iniziai a parlare a raffica. «Stasera
l’appuntamento è alle sette. Ti prego, non
fare affidamento su quell’orologio!», le dissi con
tono fin troppo supplichevole,
indicando con lo sguardo l’oggetto che portava al polso.
«Anzi, è meglio se me
lo dai e te lo riporto quando ci rivediamo.»
«Che
cosa
c’entra l’orologio?»
«Niente.
Solo
che potrebbe fermarsi, e quando gli orologi si fermano, non sai mai
quello che potrebbe accadere.»
Cercai
di
metterla in guardia lanciandole quel messaggio indiretto. Non potevo
dirle:
“Linsdy, mi dispiace ma stasera morirai, cerca di arrivare
puntale, magari la
storia cambierà”. Ci speravo davvero con tutto il
cuore che la storia cambiasse,
eppure, conoscendo la struttura del tempo, sapevo che gli eventi si
sarebbero svolti
in modo da riportare l’equilibrio. Invariabilità
variabile: il tempo è capace
di creare ossimori meravigliosi e tragici insieme.
«Comunque
continui a sembrarmi strana», disse Linsdy girandomi attorno
con uno sguardo
indagatore. «Mi sembri… lontana.»
La
fermai posandole le mani sulle spalle e, senza
dire una parola, le sganciai l’orologio dal polso e me lo
misi
in tasca. Quel
mio gesto la sorprese abbastanza da lasciarla a bocca aperta.
«Allora
a
stasera!», mi affrettai a dirle, prima di ritrovarmi di nuovo
con le lacrime
agli occhi in cerca delle parole adatte a un quarto addio.
Indietreggiai di
qualche passo continuando a guardarla. Ero combattuta. Se avevo
qualcosa da
confessarle quella era la mia ultima occasione. Dopo
il modo in cui ero
sparita senza
avvisare, al
mio rientro, dubitavo
fortemente
che mi avrebbero affidato altre missioni. Tornai verso Linsdy e la
baciai: le sue labbra erano
leggermente
umide e sapevano di miele. Non oppose resistenza, ma quando mi scostai
lessi
nel suo sguardo che qualcosa la turbava. Il mio improvviso moto di
coraggio si
spense così com'era arrivato. Mi voltai e iniziai a correre.
Al
ritorno mi
trovai ad affrontare l’effetto della mia decisione impulsiva.
Non avevo mai
visto così tante persone riunite nella Sala del Tempo prima.
C’erano tutti i
tecnici, anche quelli che dovevano essere in vacanza e persino il
direttore del
museo. Davanti all’entrata blindata c’era una
squadra di soldati addestrati e
prestati al giuramento di segretezza, completi di armatura e armi
spianate
contro di me.
Scesi dalla navicella con lentamente e con le mani alzate.
«Se
controllate
nella tasca destra troverete l’orologio… voglio
dire il nuovo reperto per il
museo. Missione compiuta!»
Il
direttore
fece cenno ai soldati di abbassare le armi poi mi si
avvicinò, frugò nella tasca
che avevo indicato e ne tirò fuori l’orologio.
«Cosa
diavolo
pensavi di fare azionando da sola il Timegate?!»
Abbandonai
le braccia lungo i fianchi, sconsolata.
«Ti
consideravo
una persona abbastanza responsabile da comprendere la
pericolosità di certi
gesti! Giocare con il tempo può provocare effetti devastanti
sull’intera
struttura dell’universo! E non mi guardare con quegli occhi
dispiaciuti, lo sai
che a ogni causa corrisponde un effetto!»
Si
passò una
mano sul volto e sospirò: aveva quasi
settant’anni, ma ancora tanta energia da
vendere.
«Mi
vuole
licenziare?», chiesi con un filo di voce, temendo la risposta.
«Licenziare?»,
ripeté. «Farò smantellare il computer
che ti ha valutato come idonea! È chiaro
che si è guastato e dev’essere
sostituito!»
Fu
un
piacere
constatare che il valore delle mie capacità impediva al
direttore di
prendersela seriamente con me. La sua predica ad un certo punto mi
apparve
quasi la ramanzina di un padre preoccupato per la figlia. Mi sentii in
dovere
di ringraziarlo.
«Non
mi
ringraziare, questa è stata la tua prima ed ultima missione
da DJ», mi rispose.
Avrei dovuto immaginarlo che non sarebbe andato tutto liscio.
Mi
ritirai nel
mio alloggio e, nonostante la stanchezza e il tardo orario, non riuscii
ad
addormentarmi: troppi pensieri e troppe emozioni mi vorticavano nella
mente. Ad
un certo punto abbandonai il letto e mi sedetti alla scrivania rivolta
verso
l’unica finestra della camera. Il cielo era limpido e si
vedeva la Luna. Rovesciai
la sveglia a led che proiettava l’ora sul soffitto in modo da
rendere la stanza
completamente buia. La prima volta che avevo guardato fuori da quella
finestra avevo
pensato che il paesaggio non fosse male. Si vedevano le luci della
città e,
verso l’orizzonte, persino la torretta più alta
dello spazioporto che si
trovava a qualche chilometro da lì; di notte
s’accendeva come un faro,
lampeggiava con un ritmo preciso, matematico, e per il colore brillante
ricordava una strobosfera.
«Perdonami
Linsdy»,
dissi con lo sguardo puntato nel cielo stellato oltre il vetro.
«Anzi, non mi
perdonare, non me lo merito. Avrei dovuto fregarmene della terza
legge!»
Improvvisamente
la volta celeste fu attraversata da una scia luminosa che
terminò proprio in
corrispondenza dello spazioporto: una navicella proveniente da
chissà dove, aveva
fatto ritorno sulla Terra. Considerando la data, poteva benissimo
essere la
navicella che avrebbe riportato a casa Linsdy, se lei fosse stata
ancora viva.
Mancavano
meno
di due ore all’alba e quell’assenza di sonno mi
ricordò il primo periodo all’Agenzia.
La notte non riuscivo a dormire: il letto era comodo, ma era un letto
estraneo,
l’ambiente era accogliente, ma non era quello di casa.
Così mi alzavo, percorrevo
con passo felpato il corridoio che portava nella Sala del Tempo e, una
volta
entrata, mi sedevo a gambe incrociate sul pavimento e restavo
lì, in
ammirazione a guardare il grande cerchio immerso nella penombra.
Ricordai la
prima volta in cui ero entrata Sala del Tempo di notte: avevo avvertito
una strana
energia attraversarmi e avevo avuto la certezza di essere destinata a
stare lì
in quel preciso momento, e che quel luogo fosse il tassello centrale
del
mosaico della mia vita. Il Timegate sembrava un enorme orologio, che
spogliatosi della
guarnizione di fondo, ostentava con un certo orgoglio tutti i suoi
complicati
meccanismi interni. Sul pavimento freddo, a contemplare quel maestoso
cerchio
intriso di perfezione divina, iniziavo a sentirmi finalmente a casa.
Qualche
volta mi scoprivo a sorridere pensando che la navicella per lo
spostamento
temporale, allora poggiata al suolo, somigliasse moltissimo a un
vecchio ferro
da stiro con le ali, ma poi tornavo subito seria. Nel vuoto di quella
stanza
avevo l’impressione di sentire la voce di Linsdy:
“È possibile che ogni volta
che io e te ci incontriamo debba piovere?!” Non mi sarei
sorpresa più di tanto se
fosse apparsa come un fantasma all’interno del perimetro del
Timegate. C’era, e
c’è tuttora, qualcosa di misterioso in quella
struttura, qualcosa che non può essere
spiegato nemmeno dalle stesse formule matematiche che ne hanno reso
possibile
la costruzione.
È
come se il
tempo fosse qualcosa di vivo, un’entità senziente.
«L’unica
domanda che avresti dovuto porti fin dall’inizio,
non ti ha nemmeno mai sfiorato la mente.»
È
l’angelo dai
begli occhi verdi a parlare. È comparso dal
nulla, assieme alla sensazione di essere stata sbalzata fuori dalla mia
linea
temporale originaria. Devo essermi addormenta sulla scrivania:
sì,
è la spiegazione più
plausibile.
Ci troviamo in una
stanza poco
illuminata, molto simile a
quella del primo sogno. Su un tavolo c’è una
lampada di sale che spande luce
fioca tutto intorno. C’è anche lo specchio vuoto,
manca solo la tenda blu
dietro la quale, l’altra volta, si nascondeva Linsdy.
Immagino sia un sogno,
ma non
escludo possa trattarsi di un’allucinazione,
un effetto collaterale dell’esposizione alle fluttuazioni
quantistiche. Non riesco a scartare nessuna ipotesi.
«Che
cos’è il tempo?», azzardo.
«Questo te lo
sei chiesto fin troppe volte», mi rimprovera lui.
«Quale altra
domanda
avrei dovuto pormi?»
«Dove sono
finiti i DJ
del tempo che lavoravano alla Titraahibe
prima di te, per esempio.»
«Giusto! Dove
sono
finiti?»
«Sono
diventati parte
integrante della struttura del tempo.»
«Come?»
«Semplicemente,
un giorno,
prima di partire per una nuova
missione, hanno capito che non sarebbero più
tornati», mi risponde lui.
«Sono
morti?»
«No. Sono
diventati parte
integrante della struttura del
tempo. E tu, è proprio il caso di dirlo, hai combinato un
bel caos!»
La rivelazione mi lascia
senza
parole. Ho sempre agito in buona fede, per cui non capisco in che
modo posso aver combinato un casino.
La voce
dell’angelo
riprende suadente: «Tutti coloro che osano
rimescolare gli avvenimenti della storia a loro piacimento, finiscono
per
ritrovarsi a supplicare. Ad un certo punto anche tu sentirai dentro di
te il
peso di tutto ciò che avresti potuto fare se solo ne avessi
avuto il tempo. La
colpa è tua che hai voluto scendere a compromessi con
qualcosa di inconcepibile.»
«Ho violato la
terza
regola, è questo il problema, vero?
Quella regola andrebbe modificata. Il passato certe volte è
troppo crudele: non
si può stare fermi a guardare che tutto si ripeta quando
c’è la possibilità di
rendere le cose migliori!»
«È
questo il
tuo problema: ti preoccupi troppo per ciò che è
stato. Ma il passato non esiste.»
«Ho sempre
cercato un
modo per evadere dal tempo», replico,
«ho trascorso tre anni di studio
all’università chiedendomi ogni giorno
“perché
tempo e spazio sembrano fusi? perché uno non può
esistere senza l’altro? perché
succedono certe cose invece di altre?” Le persone continuano
a chiamarlo
destino…»
«E tu hai
trovato una
risposta migliore?»
«No, ma credo
di esserci
vicina.»
L’angelo
sorride e
s’incammina lentamente verso la parete su
cui è appeso il suo specchio vuoto. «Hai tutti gli
elementi per comprendere», dice
allungando le mani guantate verso il nulla oscuro contenuto nella
cornice, poi
continua: «Serve molta pazienza per svolgere questo lavoro,
sai? Se stringo
troppo la presa, il tempo si ribella e l’universo
implode.»
Si gira a guardami, mi
basta un
instante per leggergli negli
occhi le sue intenzioni, ma è troppo veloce e non riesco a
far nulla per
fermarlo. Stringe le dita sui palmi formando due pugni e in quel
preciso
istante inizio a sentire un fastidioso formicolio su tutto il corpo e
un
fischio acuto. Poi l’universo implode. I concetti di passato,
presente e futuro
perdono senso, le distanze si annullano, non esistono più
confini tra le cose.
«Bentornata»,
esordì Karf, medico di fiducia dell’Agenzia,
tastandomi il polso per sentire le
pulsazioni.
«Ti
prego, non
dirmi che sono crollata prima di salire sulla navetta e che la missione
è stata
posticipata!», supplicai.
«Va
bene, non
lo farò.»
Valutai
per
qualche istante la situazione: chiaramente non era più notte
il che lasciava
presumere che io mi fossi svegliata e avessi compiuto delle azioni che
mi avevano
fatta finire sul lettino dell’infermeria. Mi sforzai di
ricordare, ma fu
inutile: avevo un vuoto di memoria.
Io
e
Karf restammo
a fissarci per qualche lunghissimo istante senza proferire parola.
Avevo il timore
di chiedere, ma la curiosità infine ebbe la meglio.
«Che cosa è successo?»
«Linsdy
ti è
venuta a trovare e, quando vi siete incontrate in corridoio, tu hai
urlato e
poi hai perso i sensi.»
Un
senso di stordimento
si appropriò della mia mente impedendomi di formulare
qualsiasi pensiero coerente.
«Che???»
«La
tua amica è
venuta a trovarti e poi…»
«La
mia amica
chi?!»,
lo interruppi quasi urlando, temendo di avere le
allucinazioni uditive.
«L
I N S D Y»,
scandì lui. «Vi siete incrociate in corridoio e tu
hai avuto quella spaventosa
reazione. Ti ho prescritto un accertamento psichiatrico. Non
fraintendermi, non
credo che tu sia pazza, ma forse avresti bisogno di una vacanza. Dove
vai?! Aspetta!»
Karf
non fece
in tempo a fermarmi, ero già in corridoio che correvo senza
una meta precisa girando
la testa a destra e sinistra a ogni bivio. A metà strada tra
la Sala del Tempo
e il laboratorio di analisi chimiche, inciampai sul camice che
indossavo, scivolai
e mi ritrovai stesa a terra. Cercai di rialzarmi, ma con un
ginocchio dolorante
non era un’impresa tanto semplice. Qualcuno mi
offrì
gentilmente una mano, la
afferrai e una volta in piedi mi ritrovai davanti al viso di lei. Nel
giro di qualche
secondo nella mia mente si affacciarono le possibilità
più disparate: pensai di
essere nell’aldilà, ipotizzai che
l’implosione dell’universo fosse veramente
avvenuta, supposi persino lo slittamento dello spazio in una linea
temporale
alternativa, ma non pensai nemmeno per un istante che la spiegazione
risiedesse
nell’orologio che avevo le rubato.
«Bel
modo di
salutarmi dopo cinque anni e due mesi di assenza!» La sua
voce mi scosse. Aveva
usato lo stesso tono scherzoso di quella sera al pub e mi guardava con
quei
suoi grandi occhi verdi cercando di carpire qualcosa dalla mia
espressione.
«Ti
senti
meglio?», mi chiese.
Le
mie labbra restarono
sigillate.
Mi
prese le
mani e al contatto sentii una scossa. «Hai le mani
gelate!» Constatazione
eccellente. «E il mio orologio che fine a fatto? Me lo dovevi
dare quella sera
prima che partissi! Dì qualcosa, sto iniziando a
preoccuparmi!»
«L’orologio?»,
riuscii
finalmente ad articolare.
«Sia
ringraziato il cielo!», disse con fare teatrale.
«Dopo cinque anni ti ostini
ancora a fingere di non ricordare? Se proprio ti piaceva tanto, bastava
dirlo e
te l’avrei regalato.»
La
naturalezza con la quale Linsdy mi rivolgeva la parola era incredibile.
Sembrava che fosse passato appena qualche giorno dal nostro ultimo
incontro. Forse ci eravamo tenute in contatto in qualche modo che ora,
per colpa del vuoto di memoria, non ricordavo.
«S-stai
parlando di quell’orologio?
Quello
con tre quadranti?»
«Sì,
parlo di
quel prezioso orologio con tre quadranti e cinque lancette di fattura
estruviana che mi hai sottratto cinque anni fa.»
Mi
appoggiai frastornata
a una parete, lei mi imitò continuando a osservarmi con una
certa preoccupazione.
La nebbia si stava pian piano diradando dalla mente. Durante il mio
ultimo
viaggio nel passato avevo incontrato Linsdy nel pomeriggio, qualche ora
prima
del nostro appuntamento all’Ibizu Kilea, avevo trafugato il
suo orologio e me
n’ero tornata al presente. Quella mia azione doveva essere
stata la causa
principale della deviazione degli eventi. Avevo creato un ramo
temporale
alternativo!
In
cinque anni
il colore degli occhi
di Linsdy non era
cambiato, inoltre profuma ancora di angelica e riattivante elettrico.
«Inizio a
dare ragione al medico, forse dovresti riposare un
po’», disse apprensiva, poi
sorrise e continuò: «Non me ne frega nulla
dell’orologio, stai tranquilla, prima
scherzavo.»
La
spiegazione
più probabile era questa: senza il fatidico orologio, Linsdy
aveva cercato
altrove l’orario riuscendo ad arrivare puntuale al nostro
appuntamento, la cena
era terminata prima e lei aveva mancato l’incontro con
l’auto impazzita.
«Ho
combinato
un casino! Ma è il più bel casino che avessi mai
potuto combinare!», conclusi
avvicinandomi in cerca di un abbraccio. Sentii le sue mani accarezzarmi
la
schiena; restammo qualche minuto così, in silenzio, a
nutrirci ciascuno dell’anima
dell’altra.
Nella
mia testa
sarebbe sempre rimasto quel vuoto temporale che si estendeva dal
momento in cui
ammiravo il paesaggio notturno dalla finestra della mia stanza fino al
risveglio
in infermeria. Nell’intermezzo, mascherato da
quell’enigmatico sogno in cui
parlavo con l’angelo, ci poteva essere l’infinito.
Rabbrividii al pensiero che
l’universo potesse essere veramente imploso sotto la
pressione delle mani
guantate di una creatura in grado di controllare il tempo da un
luogo fuori
dalle dimensioni a noi conosciute.
Immaginavo
che dopo
la mia bravata mi sarebbe stato tolto il ruolo di DJ e riaffidato
quello di
cronoquantista teorica. Se il mio destino era quello di abbandonare per
sempre la
possibilità di viaggiare nel tempo, volevo salutare per bene
il Timegate: certo,
lo avrei rivisto ancora, ma sotto le spoglie di una cronoquantista
sarebbe
stato diverso, come se un muro invisibile si fosse posto tra noi.
Linsdy
non aveva
il permesso di entrare nella Sala del Tempo, quindi mi
aspettò fuori. Non
appena varcai la soglia, la prima cosa che notai, oltre
l’imponenza del
Timegate, fu l’assenza della statua dell’angelo.
Raggiunsi Inck che in quel
momento era impegnato ad armeggiare con un robusto cavo
d’alimentazione che
connetteva la macchina del tempo a un serbatoio atomico. Gli chiesi se
sapeva
che fine aveva fatto la statua dell’angelo. Lui interruppe
momentaneamente il
suo lavoro, si passò mano sulla fronte imperlata di sudore e
mi guardò. «Di
quale statua stai parlando? Le uniche statue che io abbia mai visto in
questo edificio
sono custodite al museo.»
«Non
ti ricordi
della statua?!»
Inck
sembrò
rifletterci su per qualche secondo. «No, non mi ricordo. Come
potrei ricordarmi
di una cosa che non ho mai visto?»
Possibile?
Mi
avvicinai per osservare meglio la porzione di pavimento su cui
ricordavo fosse
poggiato l’angelo e notai una traccia: il segno
inequivocabile di un oggetto
che era rimasto in quel posto per parecchi anni prima di essere
rimosso. In
quel preciso momento, si risvegliò in me una certezza:
Linsdy era tornata e l’angelo
era sparito. Si sa che il tempo è un abile affarista, se
salvi la vita a
qualcuno lui ne vuole un’altra in cambio, la tua
possibilmente. Non importa
quanto dovrà aspettare per prenderla, alla fine
troverà sempre un modo. Ero
convinta che prima o poi avrei sognato di nuovo la stanza illuminata
dalla
lampada di sale e, quando sarebbe successo, non mi sarei più
risvegliata. Ogni
istante di tempo sarebbe scorso tra le mie mani guantate e non avrei
potuto far
altro che contemplare innumerevoli vite contrastate da altrettanti
innumerevoli
eventi.
Uscii
dalla
sala e trovai Linsdy che mi aspettava in corridoio giocherellando con
un nuovo tipo
di orologio. Quando mi vide mi venne incontro e si fermò
davanti di me aspettando
che io parlassi. Avevo un mucchio di cose da dirle, ma nessuna in quel
momento sembrava
quella giusta, così sorrisi e lasciai che tre singole parole
descrivessero
tutto ciò che avevo vissuto in quegli ultimi cinque anni:
«Mi sei mancata!»
Questa in definitiva
è
la mia storia. Scoprii che Linsdy non
era arrabbiata per quel bacio che le avevo rubato cinque anni prima; mi
confidò
che dopo essere partita si era posta delle domande, e la lontananza
dalla Terra
le aveva fornito le risposte. La sera in cui l’angelo sarebbe
venuto a
prendermi per portarmi nella stanza illuminata dalla lampada di sale,
Linsdy
entrò nel mio alloggio e ricambiò il bacio. Mi
lasciò di fianco al cuscino un
vecchio orologio da tasca con dei numeri romani incisi sulla ghiera e
mi disse
che la mia carriera di DJ non era del tutto rovinata: la colonia
orbitante
attorno a Giove stava iniziando a interessarsi ai viaggi nel tempo.
«Come sai,
gravità e tempo sono strettamente collegati»,
disse.
«Ecco, prima che io tornassi sulla Terra si parlava di
assumere qualcuno di
esperto in grado analizzare con precisione i dati cronoquantistici e
che fosse
disposto a viaggiare nel futuro.» Inutile nascondere che
quell’ultima parte del
discorso mi aveva esageratamente entusiasmato, tanto che avevo subito
accettato
di partire con lei alla volta di Giove.
Il futuro?! Chi non
sogna
di vedere
il futuro? Peccato che il
destino aveva già scelto per me un’altra strada;
non avrei mai più assistito al
sorge di una nuova alba da quella prospettiva mortale. Quando riaprii
gli occhi
credendo d’iniziare un nuovo giorno, davanti di me
c’era già lo specchio vuoto,
questa volta sorretto da un mobile in legno dall’aria
antichissima.
Registrai la mia storia
nell’attimo che intercorse tra il
sollevare le mani, rendermi conto che erano coperte da preziosi guanti
di
velluto ricamato, e il protenderle verso
l’oscurità dello specchio. Queste
memorie, ho voluto chiuderle in un cassetto della mia nuova specchiera,
tra le
pieghe dello spazio-tempo, in modo che le parole rimanessero
indelebili. A
tutti i futuri DJ del tempo, voglio lasciare qualche spunto di
riflessione: se
aveste la possibilità di controllare il tempo, che fareste?
Tornereste indietro
per cambiare qualcosa del vostro passato o lascereste tutto
com’è? Sbircereste
nel futuro per agevolare la vostra fortuna? Pensereste a voi stessi o
agli
altri? Chiedetevelo e cercate di darvi una risposta sincera, e
fregatevene delle tre regole.
Io non sono mai riuscita a trovare una soluzione, nemmeno
ora che tutto è compiuto, che il cerchio si è
chiuso, che la clessidra ha smarrito
la sua sabbia nella spiaggia del tempo. Io, che avevo sempre visto il
tempo
come una prigione, io che cercavo un modo per fuggire dal destino,
volevo
essere libera, e ora, in un certo senso, lo sono.
Tutto dipende da me,
dal modo
in cui inclino le mani, avvolte da questi preziosi guanti ricamati,
verso l’atarassica
oscurità di questo specchio vuoto. E non provo
più niente, le emozioni non
hanno più senso. Non c’è tristezza,
né gioia, solo una scintilla color verde
smeraldo che, ogni tanto, illuminando la sconfinatezza del tempo,
sembra
implorarmi di tornare e allora io le rispondo “sono
già lì con te”. Perché il
tempo è sempre e ovunque.
Note
autore:
Se siete arrivati fino a qui, senza imbrogliare saltando pezzi, vi
voglio ringraziare sinceramente per aver letto. Ci terrei davvero che
mi lasciaste anche solo una riga di recensione con il vostro parere.
Sono beneaccette critiche costruttive.
Grazie anche a Najara per aver indetto il contest e avermi dato,
quindi,
la possibilità di creare questo racconto. E se come lei vi
siete posti alcune domande sulla trama, vi consiglio di leggere la mia
risposta sul suo giudizio QUI.
Alla prossima! ^^
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