Not the same story - I: nascenti Allenatori

di Ink Voice
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Una persona speciale ***
Capitolo 2: *** I - Il quartiere nord ***
Capitolo 3: *** II - Le prove della verità ***
Capitolo 4: *** III - Disorientamento ***
Capitolo 5: *** IV - Nascenti Allenatori ***
Capitolo 6: *** V - Miti e leggende ***
Capitolo 7: *** VI - Librarsi ***
Capitolo 8: *** VII - Settimane movimentate ***
Capitolo 9: *** VIII - Sonni tranquilli e non ***
Capitolo 10: *** IX - Come foglie nella tempesta della guerra ***
Capitolo 11: *** X - Una lettera da casa ***
Capitolo 12: *** XI - Nuove conoscenze ***
Capitolo 13: *** XII - Un anno passato ***
Capitolo 14: *** XIII - Tra le grinfie del Nemico ***
Capitolo 15: *** Extra I - In tempo di guerra ***
Capitolo 16: *** XIV - Il diritto di sapere ***
Capitolo 17: *** XV - Toccata e fuga ***
Capitolo 18: *** XVI - La sfortuna di poter ricordare ***
Capitolo 19: *** XVII - Un racconto, un’identità ***
Capitolo 20: *** XVIII - L’ultimo giorno di tregua ***



Capitolo 1
*** Prologo - Una persona speciale ***


NOT THE SAME STORY
1 - Nascenti Allenatori

 
Prologo
Una persona speciale

«Signor Cyrus, c’è una chiamata per lei da parte del capo. È urgente.»
Cyrus congedò con un gesto secco della mano Saturno, che dopo una piccola riverenza uscì dal suo ufficio immerso nella penombra. L’uomo si voltò verso uno schermino sulla scrivania posto all’altezza del suo viso smagrito; premette un pulsante e vi apparve il volto di un giovane ragazzo. Aveva una pelle apparentemente perfetta, zigomi alti e pronunciati, occhi grandi e chiari e capelli ricci, forse di un biondo lucentissimo. Lo schermo in scala di grigi non permetteva un perfetto riconoscimento. 
Sorrideva palesemente compiaciuto. Cyrus non impiegò molto tempo per indovinare quale fosse il motivo di tanta apparente soddisfazione. Già, apparente. Questo di lui lo sapeva, ma non poteva permettersi - nessuno lo faceva - di dire che lo conosceva abbastanza bene da poter leggere con esattezza le sue espressioni. La voce del giovane era pacata, ma una piccola nota beffarda che la caratterizzava turbava la serietà che voleva imprimere nelle sue parole.
«Cyrus. Hai condotto le ricerche che ti avevo richiesto?» domandò.
L’altro annuì. «Credo di averla trovata.»
«Voglio subito sapere dove abita, l’età e se conosce il nostro mondo. Il resto inviamelo per iscritto il prima possibile.»
«Certo, signore» mormorò Cyrus. Non voleva ammettere di sentirsi leggermente a disagio nel chiamare “capo” o in modi simili un ragazzo tanto giovane. Gli mancavano i tempi in cui lo stesso rispetto era dovuto a lui e non doveva rendere conto delle sue azioni a nessuno, quando era libero da tutto ciò. Ma non poteva dire nulla, solo essere lui stavolta ad obbedire.
«È una ragazza di quattordici anni, vive a Nevepoli con i suoi genitori. Non conosce il nostro mondo» disse leggendo le informazioni richieste comparse sullo schermo.
«Ottimo…» mormorò pensieroso l’altro. «Quelli così sono facili da manipolare. Che avete in mente?»
«Farla reclutare nelle nostre fila sarebbe la cosa migliore per il Team. L’essenziale è che non entri per nessuna ragione in contatto con Bellocchio e la sua compagnia. Dopo sarebbe difficilissimo prenderla con noi… dovremmo tentare un rapimento.»
«E che problema ci sarebbe?» ghignò il ragazzo.
Cyrus fece un mezzo sorriso. «Nessuno, in effetti…»
L’altro proseguì: «Allora mandami subito tutto il materiale. Voglio chiudere la faccenda entro oggi, Cyrus. Chiama più reclute possibili, abbiamo bisogno d’aiuto per far abbassare le barriere di divisione, quelli del Bene sanno il fatto loro quando vogliono nascondere qualcosa. Tu hai già preparato tutto quello che ti avevo detto, vero?»
«Certamente, signore» replicò Cyrus. Il ragazzo chiuse la videochiamata senza salutare e Cyrus si sedette più comodo sulla poltrona, quasi accasciandosi; le braccia erano incrociate, il suo sguardo si rivolgeva allo schermo ormai spento. Subito però lo riaccese e si collegò ad una videocamera. In basso una scritta molto piccola recitava “Nascosta”.
Essa mostrò la figura di una ragazza dai capelli castani e un po’ ricci, corti fino alle spalle, che parlava concitatamente al telefono. Le sue parole erano inudibili ma a vedere il viso, particolarmente espressivo, sembrava incredula e perplessa.
«Quindi è lei… Eleonora.»




Ricordo che era un pomeriggio di inizio settembre.
Sì, era un venerdì primo di settembre. Ricevetti una chiamata sul cellulare, cosa molto insolita poiché se dovevo parlare con qualcuno lo facevo sempre via messaggio. A chiamare era la mia migliore amica Chiara, quindi la faccenda si faceva ancor più strana perché lei telefonava molto raramente.
«Ele! Non puoi capire cos’è successo!» esclamò sovreccitata non appena borbottai un “pronto” molto assonnato.
Mi risvegliai completamente nel sentire la sua voce così carica d’adrenalina. «Eh?» mormorai presa alla sprovvista. Era tutto il giorno che avevo sonno, tantissimo sonno dovuto alla noia estiva che precede l’inizio della scuola - tra l’altro nuova - quando non si ha niente da fare, quindi udire quel tono così energico mi sorprese.
«Hai presente il Monte di Nevepoli, quello a nord della città? Io ci abito praticamente davanti, lo sai no?» domandò lei, cercando di mantenere teatralmente la calma ma senza riuscire nel suo intento.
«S… sì, ce l’ho presente. Ma cos…?»
«Non c’è più! C’è una strada che poi si allarga su una piazza tutta innevata! Dobbiamo andare a vedere!»
Ci misi poco a recuperare il mio scetticismo da quell’abisso più o meno profondo che era il mio carattere. «Chiara, i monti di tremila metri non si buttano giù da una notte all’altra» replicai.
«Devi credermi! Sei libera oggi pomeriggio?»
«Sì, ma…»
«Eddai, che ti costa!» mi pregò lei supplichevole, per poi prendere a snocciolare tutte le cose che non avevo da fare e ricordandomi, perciò, che non avevo un beneamato nulla da fare: «Non hai i compiti visto che hai finito la terza media, non hai lezione di canto e i tuoi sono a lavoro… al contrario di me che devo andare in terza e ancora devo finire i compiti della maledettissima mat…»
«Chià! Fermati!» esclamai esasperata. «Ok, va bene, verrò a vedere questa… questa cosa. Ma secondo me hai preso troppo seriamente le varie barzellette sull’erba e ti sei ridotta giusto un pochino male…»
«Il quartiere nord! Abbiamo, anzi: ho scoperto tutta da sola il quartiere nord di Nevepoli! Ci vediamo tra mezz’ora nella piazza principale, non essere pigra come al solito e sbrigati!» riattaccò quasi cinguettando, tutta contenta, lasciandomi quindi con un palmo di naso e con molte cose da fare, tra cui rimettere a posto la camera prima che mamma tornasse pronta per sgridarmi… e ovviamente prepararmi per uscire.
Il fatto che la mia migliore amica blaterasse di un ipotetico quartiere nord, spuntato d’improvviso durante la notte, mi stupiva abbastanza. Lei era scettica più di me, quindi sotto sotto credevo che qualcosa non quadrasse veramente. Sospirai e poi presi a canticchiare qualche canzone che mi riecheggiava in testa in quel momento.
Nel frattempo mi sporgevo dal balcone per cercare di confermare le parole di Chiara, ma io abitavo nel quartiere sud-ovest: non avevo nemmeno uno scorcio di quest’altro, fantomatico, a nord. In effetti la sagoma imponente del Monte, alla cui base era situata Nevepoli, non si vedeva. Mi costrinsi a far finta di nulla.
«Boh. Chià è impazzita, ma va be’. Tutto a posto come al solito» brontolai per poi esibirmi in un poderoso sbadiglio. La routine delle vacanze estive mi stava uccidendo, non ce la facevo più ad aspettare l’inizio del liceo senza avere assolutamente niente da fare. Compiti non ce n’erano, e questo ovviamente non mi dava problemi né dispiaceva; ma invece quella scansafatiche della mia migliore amica tutto faceva meno che due cose, ovvero fare i compiti e uscire. Se ne stava chiusa in casa a fare chissà cosa e le ultime due settimane di vacanze s’accorgeva che aveva ancora quasi tutti i compiti da fare.
Ennesima prova che qualcosa non andava davvero, se desiderava tanto ardentemente vedere la luce del sole. Mi preparai e misi sommariamente a posto la stanza a tempo record; agguantai il cellulare mentre stavo uscendo e avvertii mia madre con un breve messaggio in cui le dicevo che avrei fatto una passeggiatina con Chiara.
La giornata era relativamente calda, perciò non mi preoccupai di prendermi un giacchetto o altro. A Nevepoli il freddo si sentiva tutto l’anno e la neve non accennava ad andarsene mai del tutto. Il sole poi picchiava più forte rispetto ad altre città, forse proprio grazie alla presenza della neve. Infatti nonostante fosse ancora estate soltanto le strade erano libere dalla distesa bianca, che quindi andava ad accumularsi ai lati di esse ed era motivo di insoddisfazione per le vecchiette della cittadina, le quali lamentavano inefficienza da parte degli spazzaneve.
Nevepoli non è mai stata una città molto grande, pochi vi abitano a causa del clima rigidissimo per tre quarti dell’anno e quindi si svuota lentamente, la popolazione diminuisce a causa della ricerca dei suoi abitanti di una città più comoda e dal clima più mite. La neve piace solo ai bambini: quando si inizia a diventare indipendenti e la sera, al freddo e al buio, ti tocca recuperare la macchina non è una bella sorpresa non riconoscere la tua, visto che tutte sono state bell’e sepolte e uniformate dalla neve. E poi è scomodo di suo girare per la città con la neve in strada e gli spazzaneve che, a quanto pare, sono tanto oziosi. A me piaceva molto la neve, forse perché all’epoca ero ancora un po’ bambina dentro. Chiara poi la adorava con tutta sé stessa e più di tutto amava giocare a palle di neve. Sapevo già che mi toccava sottostare alle sue voglie anche quel pomeriggio.
E infatti ci ritrovammo a combattere la solita guerra a palle di neve, lei nemmeno mi salutò quando mi corse incontro armata di quelle micidiali e gelide granate. Le mie risposte non furono da meno e quando fummo d’accordo sullo smettere con quella battaglia ci ripulimmo più o meno accuratamente la neve dai capelli, che nei suoi faceva particolarmente contrasto poiché erano profondamente neri e lisci. I suoi vispi e furbi occhi scuri, grandi, risaltavano molto sulla pelle che invece era candida come il lenzuolo bianco che ricopriva la nostra città trecentosessantacinque giorni l’anno. Solo allora si degnò di salutarmi decentemente.
«Ma buongiorno a te, mia carissima» ribattei sorridendo. «Allora, parlami di questi funghi allucinogeni che sono finiti nel tuo piatto di pasta a pranzo.»
«Simpatica!» Lei mi fece una linguaccia e io tentai di farle assaggiare un po’ di neve, ma non ebbi successo purtroppo. «Non ho le allucinazioni, le visioni né altro. Ti ho detto la verità!»
«Magari hai fatto un sogno troppo vivido» sbuffai mettendo le mani congelate nelle tasche dei pantaloni e avviandomi con lei sulla strada che aveva già deciso. «Sul serio, Chiara, ma che razza di scherzo è questo?»
«Se credi che sia uno scherzo allora prenditela con il sindaco! Non ti sto mentendo.»
La sua assurda ostinazione mi faceva inarcare le sopracciglia così tanto che rischiavano di sparire sotto il cuoio capelluto. Era così convinta di quello che andava dicendo che la situazione mi pareva troppo strana: Chiara poteva essere impressionabile quanto voleva, ma a questo punto cadeva nell’esagerazione. La sua fervida immaginazione forse le aveva davvero fatto uno scherzo che lei stava rigirando a me, ma era possibile tutto questo? Perché non si rassegnava a farmi un’altra linguaccia o una pernacchia delle sue per augurarmi “Buon pesce d’aprile!” in ritardo di cinque mesi esatti? E perché non avevo visto nemmeno io il Monte di Nevepoli? Questo era quasi inquietante.
«Io mica ti capisco» brontolai facendo spallucce.
«Ma perché non ti fidi?» sospirò lei.
«Amica mia, adesso sii sincera davvero: sei testarda o scema? Sei fin troppo convinta di una cosa impossibile, se solo ti decidessi ad accorgerti che la situazione di cui parli è assurda allora…»
«Eleonora, credimi.» Chiara si fermò, voltandosi - camminava di qualche passo avanti a me - e prendendomi per le spalle. «E soprattutto non fare quella faccia da “perché mi sono ritrovata a parlare con una mentecatta”! Non ti direi mai una bugia, sono la tua migliore amica e proprio per questo voglio condividere con te la mia scoperta. Oh, senti, sai che ti dico?!» si scaldò all’improvviso, indispettita dalla mia espressione pronta a ribattere con una qualche parola di seria superiorità. «Tanto lo vedrai con i tuoi occhi. Non fare storie! Seguimi, veloce!»
«Chiara, che cosa…?!»
Mi afferrò per un polso e prese a correre. Inciampando più volte nei miei piedi cercai di stare al passo.



Il destino gioca brutti scherzi.






Angolo ottuso di un'autrice ottusa
Perdonatemi.
Chi legge questo prologo e conosce questa storia per la prima volta non sa perché sia stato questo il mio esordio nel mio famoso (?) angolo ottuso. Piacere, sono Eleonora a.k.a. Ink Voice e questa non è affatto la mia prima storia, ma la versione precedente lo era eccome.
Lo era. Perché l’ho cancellata. 
Mi scuso con chi ha perso tante recensioni ma non potevo continuare a tenere la vecchia Not the same story - 1: l’Accademia Pokémon sul profilo di un’autrice che si propone di essere per lo meno seria, per quanto glielo consenta l'essere una semplice amatrice. E la prima stesura della prima parte di questa “trilogia” non era affatto all’altezza di quello che sono diventata ora.
Ho fatto grandi progressi - e non mi faccio problemi ad ammetterlo - nel mondo della scrittura a partire da qualche tempo a questa parte, ma poiché la prima versione di Ntss1 è stata scritta tra agosto/settembre 2013 e luglio 2014, di tempo per fare esperienza e migliorare ne ho avuto. Per questo motivo ho cancellato quella storia immatura ed infantile, salvo forse gli ultimi capitoli, con una trama persa di vista quasi subito che poteva essere promettente e ben sviluppata - anche e soprattutto dal punto di vista introspettivo. Ero una novellina e dovevo ancora fare strada ed esercizio, per arrivare a un livello che definisco oggettivamente almeno accettabile.
Mi sono ripromessa di riscrivere questa storia per portarla all’altezza delle altre, anche se manterrò qualche aspetto che per una prima parte di una trilogia, a mio parere abbastanza pesante - sia per la mole di capitoli che per le tematiche trattate, è necessario. Sarà un mio capriccio, sicuramente lo è, ma penso non sia difficile capirmi appena passata la scocciatura di aver perso punti nel programma recensioni :P - ho fatto screen solo alle visite e a chi aveva la storia tra preferite, seguite e ricordate.
La più grande differenza, a parte lo stile molto più maturo ma che cercherà di mantenere la spensieratezza e la leggerezza che le piccole avventure delle protagoniste comunicavano, è la lunghezza: questa parte conterà il prologo, l’extra e 18 capitoli, più corta quindi rispetto alla prima stesura. Ma non mi aspetto, ad essere sincera, che qualcuno faccia caso a questa storia e si metta a recensirla, a parte quelle 2-3 persone che mi seguono con costanza. Credo sia la prima volta in cui le mie speranze rasentano lo zero, ma sono cambiate molte cose da quando ho pubblicato il primo capitolo della vecchia versione. Non era così difficile trovare qualche recensore nuovo con ogni storia, adesso invece si è complicato un po’ tutto e dubito che ci sarà qualcuno che vorrà mettersi a leggere 47 capitoli - prima + seconda parte - e poi tutti quelli della terza, che arriverà agli inizi dell’anno prossimo, secondo i miei programmi.
Ringrazio, comunque, chi è stato così gentile da riservare un po’ d’attenzione a quest’angolo ottuso. Nel prossimo spiegherò un po' di cose sulla storia - il genere slice of life che potrei rimuovere, i personaggi, il contesto. Gli aggiornamenti saranno praticamente settimanali, o almeno spero di riuscirci. Così come spero di concludere questa storia entro la fine dell’anno, lo stesso vale per “è tempo per la ribellione”, l’altra mia long in corso: pur scrivendola lentamente conta non troppi capitoli alla fine, in ogni caso ricordiamoci che la speranza è l’ultima a morire! Ahahaha!
Ultima cosa, prima di salutare: il prologo è breve, lo so, difficilmente ne faccio di abbastanza lunghi… ma per quanto riguarda gli altri capitoli, aspettate e vedrete poemi omerici caricati sul server di EFP, eheh!
A sabato prossimo!
Ink Voice

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Capitolo 2
*** I - Il quartiere nord ***


I
Il quartiere nord

Chiara continuava imperterrita a strattonarmi malamente, piena di entusiasmo e adrenalina. «Senti, eh!» sbottai liberandomi il polso con un colpo deciso, tanto che lei si voltò sorpresa da quella reazione improvvisa. «Se continui così faccio dietrofront e torno a casa, non mi interessa se hai le allucinazioni o se ti hanno dato qualche sostanza poco leggera per pranzo.»
«Dai, va bene, scusami.» Alzò le mani come in un gesto di resa. «Non ti trascino più, ma seguimi veloce.»
«Chià, posso capire perché insisti tanto su questa storia?» domandai sempre più perplessa mentre, a passo di marcia, attraversavamo l’ennesima strada desolata. Nevepoli a fine estate era più deserta che mai e questa desolazione ci lasciava praticamente campo libero per gironzolare ovunque avessimo voluto, senza incappare in conoscenti sgraditi o amici ficcanaso, per esplorare e conoscere sempre più a fondo la nostra città.
«Tanto so che non mi crederai, quindi zitta e mosca, lo vedrai tra poco. Se continuiamo di questo passo… tra pochi minuti arriveremo!» esclamò saltellando per qualche metro in perfetto stile Heidi.
«Ma perché ne sei così convinta? È questo che non capisco…»
«Perché l’ho visto con questi occhi!» ribatté piuttosto seccata dal mio scetticismo, voltandosi e indicandosi gli occhi marroni, teatralmente spalancati. Sospirai rassegnata, decidendomi a perdere quella battaglia.
Alzai lo sguardo al cielo e lo vidi sporcato da qualche nuvoletta passeggera che non voleva rendere quella giornata perfettamente limpida. Si udiva il canto dei pettirossi che svolazzavano da una casa all’altra e che con ogni probabilità erano più numerosi degli stessi abitanti della città, che la abbandonavano più o meno lentamente. Vivere all’estremo nord di Sinnoh non era una cosa bella per tutti, che la consideravano una sfortuna anziché una caratteristica. I larghi viali di Nevepoli si alternavano a vicoletti pieni di neve che andava ad accumularsi a causa delle frequenti nevicate. Gli alberi stentavano ogni anno a lasciar nascere le proprie foglie per il freddo che erano costretti ad affrontare e sopportare. Per questi versi la mia era una città piuttosto triste, ma io stavo davvero bene. Avevo la mia migliore amica lì, tutti conoscevano tutti e ci si sentiva parte di una grande famiglia.
Per questo vedere un membro della propria famiglia impazzire all’improvviso mi straniva non poco e non riuscivo a smettere di chiedermi cosa fosse preso a Chiara. Controllai prima l’orologio - erano le quattro e tre quarti - e poi la via di fronte a noi, rischiando di andare a sbattere contro la mia guida. In realtà non ci fu alcun pericolo, perché mi bloccai molto prima, spalancando la bocca per lo stupore.
Fino al secondo precedente ero sicura di starmi dirigendo verso il Monte di Nevepoli - che pure a me dalla mia finestra era sembrato scomparso ma mi ostinavo a non crederci, inscalabile per le sue ripidissime pendici. Ora invece mi ritrovavo, insieme a Chiara, davanti un vialetto dal cancello nero semiaperto che poi si apriva su una grande piazza. In essa si intravedevano un paio di costruzioni - o forse solo una - e soprattutto tantissimi alberi. Il bianco della neve perfettamente liscia, distesa sul suolo, andava a confondersi con una nebbiolina densa che sfocava i contorni delle piante e degli edifici, che a questo punto potevano nascondere un’altra identità.
«Dov’è il Monte di Nevepoli?» chiesi con un filo di voce.
Chiara ridacchiò nervosamente per l’emozione. «Io te l’avevo detto.»
Qualche refolo di vento si insinuò tra i miei capelli, come al solito sciolti, e scivolò lungo la nuca per finire ad accarezzare sgradevolmente la mia schiena. Trasalii impercettibilmente, troppo sconcertata da ciò che stava succedendo: c’era qualcosa che non quadrava per niente e avevo un brutto presentimento. Non c’era una ragione che fosse una per pensare che il tutto fosse possibile da spiegare razionalmente, o almeno non la trovavo al momento. Ma tanto dovetti rinnovare ben presto il mio concetto di ‘razionale’.
Chiara mi diede una spintarella che sulle prime mi spaventò, ma poi capii che dovevamo muoverci. Mossi qualche passo incerta, andando per prima, e lei mi seguì. Ci addentrammo nel vialetto fiancheggiato da alberi più vivi e robusti di quelli incontrati fino ad allora e sbucammo in quella larghissima piazza: mi aspettavo di trovare tanti palazzi, magari anche giochi per bambini e giostre, ma invece era totalmente vuota, eccezion fatta per l’ombra di una bassa villetta sullo sfondo del paesaggio che si mostrava ai nostri occhi. Domandai a Chiara se per caso non mi avesse portata in qualche altro quartiere, anche se sapevo bene che nessuno era così vuoto e privo di qualsiasi tipo di costruzione. Lei me lo confermò e quindi riprendemmo a camminare.
Lo strato di neve era molto spesso, come se non fosse stata spalata da tempo: addirittura arrivava oltre le nostre ginocchia e questo ci fece proseguire molto lentamente, lasciandoci assaporare ogni momento dell’avventura che stavamo vivendo. C’era un silenzio talmente denso che mi pareva facesse pressione su ogni punto della nostra pelle, ogni tanto era interrotto da qualche verso di animali - per lo più uccelli - che non riconoscevo. La foschia si diradava poco a poco ad ogni passo mosso. Stringevo insicura la mano di Chiara, che si lasciava sfuggire qualche considerazione futile sul cielo coperto dalla nebbia e sull’atmosfera inquietante.
«Dà un po’ l’idea di essere in un film horror, nevvero?»
«Non sei molto d’aiuto, te lo dico con sincerità» mormorai ironica di rimando. Lei sbuffò.
«Oh, andiamo, quando qualcosa non ti torna sei sempre così poco disponibile a parlare! Faremo una scoperta eccezionale, il Monte di Nevepoli si è dissolto nel nulla e tu pensi a dirmi che…» Cercai di ignorare la parlantina della ragazza, ma non ci riuscii: la sua voce squillante, per niente attutita dal silenzio né dalla neve, mi entrava a forza nelle orecchie che volevano essere intente a captare altri suoni, che potessero aiutarci a capire qualcosa in più, magari. «Almeno fai finta, mi fai venire la depressiooooneee…»
Se solo lo strato di neve fosse stato più alto e non fosse stato così difficile piegarmi, in mancanza di un muro su cui sbattere la testa lo avrei fatto su quello. «Non faccio venire la depressione, sei tu quella poco seria…»
«E perché mai dovrei esserlo?!» squittì lei portandosi avanti a me nel giro di un secondo, mentre io avanzavo con grande fatica combattendo il muretto di neve, che a quanto pareva voleva mettermi fuori gioco.
Feci un sorriso volto a prenderla in giro. «Non so se te ne sei accorta, amica mia, ma guarda dove siamo!»
Finse di guardarsi attorno basita e io fui costretta a ridere, mentre la ringraziavo tra me e me per il suo star alleggerendo la tensione. «Vedi, mia cara? I tuoi occhi ti mostrano un paesaggio freddo e desolante, confinato da lugubri alberi sempreverdi ma tristemente malaticci e una fitta nebbia che non si trova nemmeno in Slender!»
La vidi sbiancare. Quel gioco la terrorizzava. «P… propr… proprio quello dovevi… andare a pescare tra tut… tutti gli altri?» balbettò, istantaneamente spaventata.
«Sì!» sorrisi. Poi le afferrai la mano e iniziai a fare strada, capendo che i ruoli si erano ribaltati.
Stare con qualcun altro, indipendentemente da chi questi fosse, mi infondeva sicurezza. Chiara era disposta a scherzare e quindi anche io lo avrei fatto senza problemi, subito dopo essermi abituata al clima che lei voleva creare, pur sapendo che la situazione era tutt’altro che normale. La conoscevo abbastanza bene per capire che non era poi tanto tranquilla e per questo cercava di giocare, per allentare una forte tensione.
Il cuore mi batteva forte nel petto. Cosa ci stava aspettando? Non ero tanto sicura di volerlo sapere, però la mia - anzi, nostra curiosità avrebbe avuto la meglio anche in quell’occasione.
Per questo nel giro di qualche minuto, affrettando il passo, arrivammo al dunque e ci ritrovammo a fronteggiare i due edificiche avevamo scorto già da prima in lontananza. Una era una strana costruzione ingrigita, prevalentemente metallica e vitrea, che affiorava dalla neve a pochi metri di altezza. Il soffitto infatti era basso e la porta a vetri affatto trasparente era quasi per metà sepolta sotto lo strato glaciale. C’era un accumulo di biancore lì che arrivava a sfiorarci il mento, segno inequivocabile che nessuno passasse di là da moltissimo tempo, altrimenti sarebbe stato un po’ più basso. Non era nemmeno stato spazzato dal vento, che avrebbe ridotto lo spessore della neve proprio come era successo sul resto del vialone. Era inverosimile. C’era un cartello sbiadito e quasi illeggibile che si intravedeva appena, seppellito anch’esso. Chiara si apprestava a leggerlo ad alta voce mentre io studiavo la facciata dell’edificio, cercando qualche informazione.
«Va be’, a parte che non si legge quasi nulla, tu hai idea di cosa sia questa cosa?» chiese, strizzando gli occhi per mettere a fuoco, ben sapendo che quello non l’avrebbe aiutata.
«Per niente» borbottai. «C’è una specie di logo, però. È una sfera divisa a metà e al centro ha un altro cerchio piuttosto piccolo, ma non so proprio cosa possa indicare. Hai capito cosa c’è scritto lì?»
«Mmh… penso di sì, ma mi pare strano…»
«Perché, che dice?»
«Se gli occhi non mi ingannano, qui c’è scritto “Palestra”.»
Inclinai la testa di lato, dubbiosa. «E che roba è? Insomma, che ci fa una palestra qui?»
«Ma che ne so io! Se non mi credi, vieni a vedere.»
«Ti credo, eh. Però non mi pare normale che ci sia una palestra in una zona simile. Anzi, nemmeno credevo che ci fosse un qualche edificio qua, sarebbe stato più normale un luogo assolutamente deserto.»
«Sì, ovvio, ma fatto sta che si tratta proprio di una gym» se ne uscì senza motivo con il suo misero inglese. «E ci manca l’altro palazzo da guardare.»
Annuendo la seguii mentre si avviava autonomamente verso l’altra costruzione. Aveva un’antica facciata, grigia non per il tempo ma di natura. Sembrava fatta di marmo sporco, scuro; le sei colonne che si paravano davanti l’ingresso torreggiavano minacciose sulle loro solide basi, sfiorate appena dalla neve, che intanto aveva fatto sparire quella che doveva essere la scalinata d’accesso. Una sontuosa porta doveva essere stata molto resistente in tutti quegli anni poiché il legno, un po’ rinforzato da qualche parte in metallo, era assolutamente immacolato. Peccato che fosse sprangata da numerose assi di legno inchiodate malamente sulla pietra, come se chi le avesse messe fosse stato di fretta. E c’era anche un breve messaggio infraintedibile  che era stato inciso sul legno della trave orizzontale passante per la metà del portone.
“Vietato l’accesso”.
Questo non fece altro che stuzzicare la nostra curiosità. Mi scambiai un’occhiata d’intesa con Chiara e ci avvicinammo, sperando di trovare qualche spiraglio per osservare l’interno. Però lei mi fece notare qualcosa.
Spostò con un piede, suo malgrado piuttosto tremante, un pezzo di un’asse che si trovava per terra. Ce ne erano anche altre, tutte spezzate in numerosi punti e ammuffite. C’era qualche chiodo conficcato nel muro che in effetti sorreggeva il nulla, osservando con più attenzione lo notammo. Ero abbastanza sicura che non fosse un buon segno, il vento non poteva fare nulla del genere per quanto forte fosse; e poi, se anche avesse strappato le assi dai loro chiodi, non avrebbe potuto ridurle in uno stato tanto rosicchiato e scheggiato.
«Qualcuno è stato qui» Chiara espresse verbalmente i miei pensieri.
«Non molto tempo fa» aggiunsi a bassa voce, completando l’inquietante frase. Ci guardammo un’altra volta, più preoccupate però. Le chiesi, mentre mi chinavo a terra a toccare il freddo legno: «Ma come hanno fatto ad arrivare qui? C’è il Monte di Nevepoli… o meglio, c’era. Credevo fossimo le prime ad arrivare qui.»
«E se qualcuno fosse venuto poco prima di noi? Magari è ancora qui nei paraggi. Potremmo controllare nella palestra!» esclamò lei. La teoria non mi pareva molto convincente, ma cercai di farmi rassicurare da essa.
«Se è aperta, proviamo ad entrare» mormorai, alzandomi e seguendola mentre zompettava nella neve e in pochi secondi arrivava davanti all’altro edificio. Quando la raggiunsi mi beccai parecchia neve addosso perché lei la stava spalando via con le sue mani, molto poco alla volta. Stavo per aiutarla, ma sentii uno strano fruscio alle nostre spalle, quindi mi voltai temendo che ci fosse qualcun altro. Avevo ragione.
Eravamo state raggiunte da una giovane donna. I lunghi capelli di uno strano ma molto bello turchese scuro erano raccolti in una treccia. Era avvolta in un semplice cappotto lungo fino alle ginocchia e la sua altezza mi consentì di vedere che da lì in giù le sue gambe erano nude: avevo freddo solo a guardarla, anche se avevo una maglietta a maniche corte mi ero degnata di indossare dei pantaloni lunghi. Le braccia erano abbandonate lungo i fianchi, visibilmente stretti nonostante la grossa giacca impermeabile. I suoi occhi erano spaventatissimi e si vedeva anche da una distanza di qualche metro. Prese a tremare, diventando di secondo in secondo sempre più pallida. Sulle prime pensai al freddo, ma quella reazione era di paura.
Prima che potesse aprire bocca diedi una gomitata a Chiara, che brontolando qualche frase poco significativa si girò, notando che qualcosa non andava. Spalancò gli occhi alla vista della nuova arrivata proprio come io avevo fatto, per poi tranquillizzarmi un pochino. “Ridotta in questo stato non può essere pericolosa o altro” pensai, giudicandola totalmente innocua. Presi la parola per prima. «Chi sei?»
La donna ignorò la mia semplice domanda e ce ne rivolse un’altra, con un filo di voce: «Cosa ci fate qui…?»
Chiara mi lanciò un’occhiata eloquente e decisi di lasciarla proseguire: era più convincente e spigliata di me quando si trattava di parlare con estranei. «In realtà potremmo chiederti la stessa cosa, e comunque non lo sappiamo. Tu sai qualcosa su questo posto?» chiese in maniera molto informale.
«Che significa che non lo sapete?» Un’altra questione a cui non avremmo risposto, chiaramente, a causa della nostra diffidenza. La donna si avvicinò con velocità inaspettata, a suo agio anche nella neve.
«Senti, oh!» si scaldò la mia compagna. Le diedi una spintarella per farla calmare, ma inutilmente. «Ti ho già detto che non lo sappiamo, non è che c’è un qualche significato nascosto, eh. Le domande le stavamo facendo noi, comunque, se rispondessi ci illumineresti un pochino e noi te ne saremmo grate, ecco!»
«Voi non dovreste essere qui» mormorò l’altra imperterrita quando ormai eravamo a due passi di distanza. Era piuttosto bella, da giovane - era sui trent’anni - doveva essere stata molto carina. I grandi occhi blu erano vitrei, spenti e ancora spaventati per un motivo a noi sconosciuto. Sospirai ed evitai che Chiara peggiorasse le cose. Avevo l’impressione che se si fosse arrabbiata avrebbe mostrato un lato molto più forte e non così inoffensivo.
«Sì, probabilmente non dovremmo, abbiamo scoperto questo posto in circostanze inaspettate» confermai, sperando che un po’ di sincerità non guastasse. «Non lo avevamo mai visto prima e quindi siamo venute a vedere. Potresti dirci almeno il tuo nome? Io…» esitai un po’ prima di presentarci. Con un semplice sguardo chiesi a Chiara se non fosse il caso di rivelarle i nostri nomi e lei fece spallucce come a dire che non cambiava nulla per lei, quindi provai: «Io mi chiamo Eleonora. Lei invece è Chiara.»
«Eleonora e Chiara» ripeté lei abbassando un po’ la testa. Spalancò gli occhi per un secondo finché essi non ripresero la loro forma normale. Con voce ancora più tremante disse: «Sono Bianca. Ora, per favore, andatevene.»
«Cosa?» esclamò la mia amica perplessa. «Perché dobbiamo andarcene…?»
«Non è mia facoltà spiegarvelo. Andate via senza dire nulla di quello che avete visto oggi» ribatté Bianca.
«Ma…! Abbiamo scoperto il quartiere nord, che è comparso al posto del Monte di Nevepoli! Ora che storia è questa? Vogliamo saperne di più!» Ah, Chiara e il suo caratterino. Un’accoppiata scoppiettante.
Bianca parve digrignare i denti, anche questo per poco più di un secondo. La guardavo attentamente. Volevo capire qualcosa in più su tutto quello proprio come Chiara e stranamente non mi sentivo un’intrusa in quel posto, che sembrava essere proprietà privata. Non ci stavo capendo più nulla e la cosa non mi piaceva.
«Non puoi dirci proprio nulla…?» chiesi cercando di essere dolce e mettendoci tutto il tatto che possedevo, anche se dopo qualche altra battuta del genere mi sarei innervosita allo stesso modo della mia amica.
«No» controbatté freddamente la donna, avvicinandosi in maniera piuttosto minacciosa. Un cambio repentino di espressione e atteggiamento consigliarono sia a me che a Chiara di darcela a gambe. «I vostri genitori devono essere preoccupati per la vostra assenza.»
La mia compare era lì lì per rispondere per le rime, ma le presi una mano e mi arresi: Bianca non era affatto disposta al dialogo e continuare non sarebbe servito a nulla. Stava per farci vedere il lato temibile di lei e non ero sicura di voler scoprire una parte di lei meno innocua e priva di forze come mi era parsa all’inizio.
«Togliamo il disturbo» dissi, rivolta più a Chiara che all’altra. La superammo in silenzio e lei si voltò per non darci le spalle: sentii i suoi occhi vitrei, un momento arrabbiati e quello subito dopo spenti e privi di alcuna emozione sulla mia schiena, finché non uscimmo dal quartiere nord - o qualunque cosa esso fosse.
«Ma ti pare normale il comportamento di quella lì?!» strepitò lei appena mettemmo piede sul suolo della città a noi conosciuta. «E poi che razza di capelli aveva?»
«Chià, io non trovo una cosa che fosse una normale nell’intera faccenda, figuriamoci» sospirai.
«Be’, che tutta la situazione fosse strana era… cristallino. Adesso che facciamo?»
Feci spallucce. «Già che ci siamo, andiamo un po’ in giro. Magari al Lago.»
«Ma sì, dai!»
Il Lago era uno dei nostri posti preferiti. Era molto vicino a Nevepoli e, checché ne dicessero molti, era facile accedervi se si era una ragazzina fin troppo curiosa, abbastanza agile o comunque pronta ad arrampicarsi su una parete di roccia che ormai si conosceva come le proprie tasche, con tutte le sue sporgenze e i punti su cui appoggiarsi. Di rado ci eravamo fatte più male del dovuto, qualche livido sparso per il corpo erano i danni più ingenti fino ad allora riportati; di solito ci graffiavamo o poco più, la neve impediva ogni colpo più duro.
Perciò lunga vita al Lago Arguzia!, al quale eravamo arrivate molto presto, continuando a fare congetture su chi potesse essere quella Bianca e che razza di posto fosse quello in cui ci eravamo trovate. Il quartiere nord non era scomparso quando ne eravamo uscite: avrei ritenuto il tutto meno strano se esso si fosse dissolto nel nulla, perché il paranormale in quel momento mi sembrava il modo più plausibile per spiegarsi la nascita di un quartiere mai visto prima.
«I quartieri vengon fuori come funghetti d’autunno» canticchiò Chiara.
Ridacchiai, più spensierata e tranquilla ora che non eravamo in città. «Inoltre vorremmo presentarvi la nuova moda autunno-inverno di quest’anno: abitate in una città che non a caso è definita “delle nevi perenni”? Allora la nostra linea di moda è quella che fa per voi! Vestitevi con uno dei nostri eccezionali impermeabili scoloriti e con un paio di stivaletti primaverili, per il resto camminate pure nella neve senza macchia e senza paura con le gambe praticamente nude! Bando alle calze e ai pantaloni!»
Chiara si stava sbellicando dalle risate. Aveva capito che la mia scenetta si riferiva a Bianca e al suo vestiario fuori luogo, troppo leggero - salvo l’impermeabile - per una città rigida come Nevepoli, la cui temperatura non superava i venticinque gradi nemmeno durante il dì in estate.
«Quella è fuori di testa… oltre che parecchio masochista!» esclamò.
«L’unica cosa che vorrei dimenticare è proprio quella Bianca. Adesso forse sapremmo cosa diavolo nasconde quel quartiere nord, sono sicura che c’è sotto qualcosa… se solo non fosse arrivata lei!» protestai, inaspettatamente anche per me, che pensavo fino al momento prima di mettere una pietra sopra a quell’evento.
Persino Chiara si sorprese: mi lanciò un’occhiatina maliziosa ma non aggiunse altro. Eravamo ormai sopra la parete di roccia a noi tanto familiare e semplice da scalare, sedute nella neve in attesa che arrivasse la voglia di alzarci e varcare l’entrata fiancheggiata da abeti del Lago. Il consumato pannello di legno, che riportava in scala la cartina di esso e lasciava un bel po’ di informazioni e curiosità ai visitatori, recitava con le sue lettere consumate da neve e pioggia: “Lago Arguzia - Aperto ai visitatori nei mesi invernali e primaverili”.
Già, le visite erano accettate solo in inverno, quando le rive tendevano a ghiacciarsi e tutto era ricoperto della neve migliore che il periodo dell’anno potesse offrire. Inverno e primavera erano le stagioni in cui il Lago dava il meglio di sé. Non che durante le altre due esso fosse chiuso, o meglio, in teoria doveva esserlo; ma ormai io e Chià eravamo diventate amiche della guardia forestale adetta a quella zona, a forza di andare in quel bel posticino.
A proposito della guardia, stranamente non c’era. Di solito ci teneva compagnia per i primi cinque minuti della nostra visita abituale; era un uomo simpatico che di lì a pochi anni sarebbe stato mandato in pensione. Chiara non parve accorgersi della sua assenza. «Aah, che pace!» cantilenò, evitando di muoversi con leggadria, perché la neve avrebbe reso vani i suoi tentativi e probabilmente sarebbe caduta a faccia in giù in essa.
Mi guardai intorno. Non tirava un filo di vento, le acque del Lago erano immobili e si intravedeva, avvolto in una tenue nebbiolina azzurrognola, l’isolotto al centro di esso, perennemente disabitato. Gli alberi attirarono la mia attenzione, mentre Chiara si era ormai inginocchiata nella neve facendo qualche stupido disegnino con le dita.
«Sembrano un po’ malati gli abeti, vero?» le chiesi, cercando di attirare la sua attenzione.
Immediatamente alzò lo sguardo e studiò le piante. Il colore dei rametti rivestiti di aghi, che poi erano le loro foglie, parevano scoloriti, ma la maggior parte di essi era di uno sgradevole marroncino spento. Molti erano caduti a terra, anche la corteccia degli alberi era addirittura saltata in non pochi punti, graffiata via e scaraventata nella neve. I frammenti di essa affioravano in mezzo alla distesa bianca che, mano a mano che ci si avvicinava alle rive del Lago, andava facendosi meno spessa. Chiara aveva studiato abbastanza a lungo gli alberi.
«Hai ragione. Sembrano secchi» disse a bassa voce.
No, non lo sembravano. Lo erano. Mi avvicinai ad essi e staccai un rametto, che si sgretolò nella mia mano non appena si poggiò delicatamente, sul serio delicatamente, sul mio palmo. Mi ritrovai quindi con un mucchietto di quella che pareva cenere e che non era marroncina, ma grigia. Il problema però era perché la cenere, non il suo colore. Con voce tremante chiesi a Chiara di prenderne uno e il rametto da lei staccato si polverizzò esattamente allo stesso modo. Ci guardammo, io silenziosamente interdetta, lei a bocca aperta.
«Che razza di malattia è questa?!»
«Non lo so.» Avevo una strana sensazione d’inquietudine. Sentivo che gli abeti malati e il quartiere nord erano in qualche modo collegati tra loro, anche se non sapevo dire come.
«Però…» La voce acuita dall’ansia di Chiara mi risvegliò dai miei pensieri. «Sembra che ne stiano piantando degli altri. Forse vogliono sostituire gli abeti malati, ma boh, io non mi intendo di queste cose.»
Nemmeno io se per questo. Seguii la direzione indicata dal suo dito indice, puntato verso dei piccolissimi abeti che quasi si confondevano con i cespugli, o con uno strano tipo di erba verde e altissima, tanto da affiorare dalla neve per arrivare oltre i nostri fianchi. «Non saprei, può darsi» mormorai.
Non ci intendevamo per niente di botanica, per questo le nostre proposte erano assolutamente ingenue e chiunque avrebbe potuto facilmente smontare le nostre supposizioni, affermando per esempio che era rischioso piantare delle nuove piante in un terreno su cui si trovavano alberi malati. Gli abeti di cui parlava Chiara affioravano da quella strana, viva erba alta che pareva frusciare senza l’ausilio del vento. Le punte erano coperte di neve ed erano tutti così uguali e ben fatti, dritti, che parevano essere usciti dal disegno di qualcuno che ancora ne aveva di strada da fare per rappresentare la vera realtà. In silenzio osservammo quei piccoli alberelli.
Qualcosa si ruppe nell’equilibrio della situazione quando essi si mossero. Spalancai gli occhi e un mugolio di Chiara mi confermò che anche lei stava assistendo a quella scena. Non soffiava il vento in quella giornata estiva e non era comunque normale che quei piccoli, strani, innaturali abeti girassero su sé stessi, che si alzassero o si abbassassero immergendosi nel mare di vivida erba alta per poi riaffiorare in superficie con le punte.
«Cosa diavolo sta succedendo?» mormorai, indietreggiando.
Chiara non rispose ma la seguii mentre si avviava, camminando all’indietro, verso l’uscita dalla zona del Lago Arguzia. La nostra inguaribile, pericolosa curiosità ci impose di non andare via subito e di osservare lo spettacolo che si stava delineando davanti ai nostri occhi, di capire qualche cosa di più su quell’assurda situazione.
Quegli abeti animati uscirono dalle fronde e si mostrarono a noi come delle creature uscite fuori dalla mente di un mangaka che aveva voglia di divertirsi. La punta della testa, unita al corpo senza un collo, era coperta di neve e un paio di occhietti neri, cattivi, brillavano poco più giù; scendendo ancora si aveva un largo corpo panciuto e due zampette che a malapena sorreggevano il peso di quelle cose, vagamente somiglianti a radici. A completare il tutto c’erano le braccia che finivano con un mazzetto di rametti d’abete al posto delle “mani”.
Non sapevo cosa pensare. Era tutto troppo inverosimile per essere la realtà. Mi dissi che stavo sognando, che i quartieri di una città non compaiono all’improvviso insieme a degli abeti bipedi che guardano male chiunque gli capiti a tiro. Purtroppo le uniche presenti eravamo io e Chiara. Il cuore mi batteva all’impazzata ed ero incredula oltre che basita. Mi pareva di sentire il terrorizzato battere dei denti della mia compagna, che stranamente aveva perso l’uso della voce. Di solito era impossibile zittirla, ma un evento del genere doveva rendere innocua anche la sua perpetua chiacchiera. Niente era chiaro in quel momento, avevo bisogno di una spiegazione razionale.
Fui io a parlare. «Forse c’è qualcuno nascosto dentro di loro. Magari sono costumi.»
«Non dire…» Chiara pronunciò qualche parola volgare per sfogarsi come faceva di solito. Era fatta così.
«Sto solo cercando di capire cosa ci sta succedendo.»
Nemmeno feci in tempo a finire la frase che quei ridicoli esseri lanciarono un acuto grido che ci fece trasalire. Puntarono le corte braccine contro di noi e spalancai gli occhi alla vista di schegge di ghiaccio, cristallizzatesi forse nell’aria, comparire da un momento all’altro sopra le loro teste e dirigersi verso le nostre. Mentre mi abbassavo con uno scatto repentino, strattonai Chiara e anche lei riuscì a non essere trafitta. Le mozzarono una ciocca dei suoi capelli neri che si adagiò sulla neve, spiccando in maniera inquietante.
Una creatura ritentò e mirò a me. Non so per quale miracolo riuscii a cavarmela, ma strillai più per la sorpresa che per il dolore quando sentii un fastidio graffiante sul braccio. Una lancia di ghiaccio era riuscita a prendermi lì, aveva tagliato superficialmente la pelle. Non faceva granché male ma già sanguinava.
«Stai bene?!» gridò Chiara. Le lanciai una veloce occhiata senza risponderle mentre mi sedevo addosso a un albero vicino a me: era terrorizzata, forse più della sottoscritta. Forse aveva paura che la prossima scheggia, diretta verso di lei, non l’avrebbe presa di striscio come era fortunatamente successo a me.
Ma il successivo attacco fu impedito da una forza esterna, intervenuta proprio nel momento giusto. Un essere sconosciuto, un altro, entrò in scena e si frappose tra noi due e quei mostriciattoli: era una figura che in quel momento non riuscivo a descrivere, forse umanoide, ma quando dopo si voltò verso di noi notai dei tratti felini sul muso. Il colore prevalente nel suo corpo snello e rapido era un blu scuro; aveva una specie di cresta magenta sul capo e una piccola coda dello stesso colore.
Altri dettagli che non memorizzai si confusero quando scattò, era velocissimo: parve tagliare orizzontalmente l’aria avanti a sé con gli artigli acuminati che possedeva e un’ondata nera si propagò da quello squarcio invisibile. Distrusse ogni scheggia di ghiaccio sotto gli occhi sconvolti di me e Chiara.
Ripeté la stessa azione più volte, un po’ per parare i colpi e un po’ per colpire i nemici con quei graffi che, forse era una mia impressione, lasciavano una scia nera laddove tracciavano un solco nell’aria o sui corpi di quei mostri. Cadevano a terra all’istante uno dopo l’altro, non riuscendo a resistere agli attacchi di quella creatura salvatrice. I colpi che dava non li graffiavano a fondo: sembrava che non li ricevessero nemmeno. Ma a giudicare dai rumori prodotti dall’incontro di “corteccia” e artigli dovevano essere sufficienti per mandarli al tappeto.
L’ultimo lamento del sesto abete animato si estinse nell’aria immobile. Io e Chiara non osavamo proferir parola, troppo scioccate dal breve combattimento che si era avuto nell’ultimo minuto.
L’essere si voltò verso di noi. Dapprima ci scrutò diffidente con i suoi intelligenti occhi scuri, poi però arricciò le labbra e riuscimmo a intravedere qualche dente acuminato, minaccioso. La sua arma peggiore però restavano gli artigli: erano due o tre per zampa, dalla forma piuttosto rozza, ma comunque promettenti grande dolore. Ringhiò qualcosa ma sembrava comunque amichevole, nonostante il ghigno.
«Weavile, ritorna.»
Un lampo di luce rossa accompagnò il suono emesso da quella voce femminile. Andò a toccare quell’essere, che a quanto pareva doveva chiamarsi Weavile; si illuminò anch’esso di quella luce rossa e poi si dissolse nel nulla.
Mi voltai lentamente, lo stesso fece Chiara. Bianca stava ritta in piedi in mezzo alla neve, il suo sguardo non era più vitreo ma determinato e freddo. Teneva in mano una sfera semichiusa bianca e rossa; riuscii a vedere un frammento del lampo di luce rocca sparire all’interno di essa, che si richiuse definitivamente.
Un bottoncino grigio spiccava in mezzo ai colori vivaci di quella palla piccola, traslucida. Capii che quella cosa era la stessa rappresentata nel logo della Palestra.
Bianca infilò una mano in tasca e sospirò, guardandoci con una strana, al momento incomprensibile mestizia. «Si era capito che il vostro arrivo sarebbe stato inevitabile.»






Angolo ottuso di un'autrice ottusa
Ecco alcune note/spiegazioni:
- Personaggi: la maggior parte dei personaggi rilevanti e degli amici della protagonista sono inventati. Anche il bamboccio (?) comparso nella videochiamata a Cyrus del prologo è originale. Comunque ci saranno più o meno tutti, morti o vivi :P, i personaggi del videogioco e alcuni del manga, ma faccio riferimento prevalentemente al primo e lo mescolo con qualcosa che mi piace del secondo - i giochi li ho come minimo provati quasi tutti, con il manga mi sono fermata a Emerald, cioè lo dovrei ancora iniziare, ma non credo di andare avanti per parecchio tempo almeno… Cosa importante dei personaggi è che la futura combriccola della protagonista è composta da personaggi ispirati ai miei primi, grandi amici conosciuti sulla piattaforma forumfree - tutti loro sono quelli a cui è dedicata la mia one shot “PokémonRainbowWorld”. Chiara quindi, come avrete notato dalla descrizione fisica, non è la Capopalestra - ci mancherebbe, mi sta pure sui cosiddetti quella. Gli altri ve li presenterò (?) man mano. Poi alla protagonista ho dato il mio nome. Non è pigrizia la mia, vi prego di credermi!: un motivo se ho ficcato praticamente me stessa in una storia c’è e lo dirò… non lo so. Con ogni probabilità a storia finita perché mi piace lasciare un senso di suspence. Vi basti sapere che volevo vivere un’avventura fuori dal “mondo reale” anche io. 
- Contesto spazio-temporale (è troppo forte dirlo): la storia si ambienta parecchi anni dopo gli avvenimenti dei videogiochi. Più avanti - spero non direttamente nella seconda parte lol - saprete quanti ne sono passati con esattezza, ma personaggi già anziani, se non saranno risparmiati alla morte da vecchiaia (:P), saranno abbastanza decrepiti e con un piede nella fossa. Altri, come Bianca, che erano ragazzini sono ormai uomini e donne abbastanza maturi. Lo spazio rimane quello conosciuto, quindi le sei regioni classiche e se malauguratamente (!) dovesse uscire una nuova generazione che si porta appresso un’altra regione… ehm… me ne fregherò abbastanza. In ogni caso dubito di aggiungere nuovi luoghi a questo mondo, a meno che nella terza parte non mi si presenti l’occasione, ma la vedo molto difficile. Non ci saranno, insieme alle regioni Pokémon, Stati e continenti del mondo reale.
- Genere slice of life: no, questo ve lo spiego nel prossimo angolo. Ahahaha 

Comunque. Spero che il capitolo vi sia piaciuto, nel prossimo si capiscono un po' di cose. Come inizio è un po' lento, forse, soprattutto rispetto alla prima versione di questa parte, però non avevo proprio voglia di fare 3 primi capitoli in cui succede tutto di fretta. Me la prendo con più calma pure per rendere tutto abbastanza realistico, in particolare le emozioni provate dalle due protagoniste. Va be', secondo me è giusto fare così, poi giudicherete anche voi. :P
A sabato prossimo, dunque!
Ink

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Capitolo 3
*** II - Le prove della verità ***


II
Le prove della verità

Subito capii che difficilmente Chiara sarebbe riuscita a ritrovare l’uso della parola; ma come biasimarla, d’altra parte? Io nemmeno riuscivo a trovare il fiato necessario a parlare. Rivedevo una dopo l’altra le scene che si erano appena susseguite davanti ai miei occhi: gli alberelli malefici, il nostro salvatore la cui esistenza ci era ugualmente incomprensibile, le mie mani tremanti, il graffio un po’ sanguinante sul braccio. E Bianca, alla quale l’essere che ci aveva salvate la vita apparteneva: evidentemente aveva agito su suo ordine, intrappolato altrimenti nella sfera.
La donna si voltò verso di me. «Ti fa male?» mi chiese, alludendo al mio braccio.
Non riuscii nemmeno a muovere la testa per risponderle negativamente. Sorrise amaramente.
«Mi dispiace così tanto…» mormorò con voce roca. Pareva sul punto di mettersi a piangere. «Venite con me. Andiamo a casa mia, lì, nel quartiere nord.»

Bianca fu molto gentile e disponibile con noi e sia io che Chiara, cercando di ricambiare i suoi sorrisi, riuscimmo a tranquillizzarci un po’ e soprattutto a ritrovare l’uso delle nostre corde vocali. Ogni azione della giovane donna era però velata di tristezza: lo si vedeva dagli occhi non del tutto decisi in quello che facevano, che tornavano ad essere vitrei e pensierosi molto spesso, e si capiva anche dalla postura leggermente ingobbita e dai passi insicuri che muoveva con leggerezza, come se non volesse disturbare facendo rumore.
Ci offrì un tè che accettammo volentieri. Io preferii prenderlo freddo dalla bottiglia, Chiara invece se lo fece preparare caldo. Bianca mi aveva fasciato il braccio quel tanto che bastava per fermare il po’ di sangue che non dava segno di volersi bloccare da solo, ma fortunatamente il graffio non faceva male, non bruciava né altro.
Più volte scambiai uno sguardo con l’essere che aveva abbattuto gli abeti indiavolati. Era seduto con le lunghe gambe incrociate al tavolo nella sala da pranzo e aveva anche le braccia intrecciate. I suoi comportamenti parevano in tutto e per tutto quelli di un essere umano e mi sentivo i suoi occhi furbi e intelligenti addosso in ogni momento. Se non me lo ero già dimenticata, si chiamava Weavile. Era un nome strano ma suonava bene.
Dopo qualche futile convenevole si sedette anche Bianca. Lo spettro di un triste sorriso aleggiava sul suo volto. «Da dove cominciare in un caso come questo?» chiese, rivolta più a sé stessa e alla creatura che a noi.
«Tanto non ti prenderemo per pazza nella maggior parte dei casi» fece Chiara sorseggiando il suo tè caldo. La mano le tremava e la sua voce era più acuta del normale.
«Sì, immagino…» mormorò l’adulta.
Intervenni io. «Chi sono queste creature?»
Lei impiegò qualche momento per rispondere. «Si chiamano Pokémon. Sono esseri sovrannaturali, diciamo così per semplificare le cose. Non si conosce davvero bene la loro natura e per questo non esiste una definizione precisa del loro mondo: si chiamano Pokémon e questo basta a classificarli. Voi non li avete mai visti ma sono sempre esistiti. È quasi certo che stiano al mondo da molto prima degli esseri umani, anche per i reperti fossili rinvenuti.
«I Pokémon si suddividono in diciotto categorie, definite tipi, che si rifanno alle forze della natura oltre quelle umane, salvo un paio di eccezioni. Normale, Ghiaccio, Erba, Acqua, Fuoco, Elettro, Volante, Lotta, Veleno, Terra, Roccia, Acciaio, Psico, Spettro, Buio, Folletto, Coleottero e infine Drago» elencò. «Un Pokémon può avere al massimo due di questi tipi. I miei preferiti, diciamo così, sono quelli Ghiaccio. Weavile possiede sia il tipo Ghiaccio che il tipo Buio. I Pokémon che vi hanno attaccate si chiamano Snover e sono sia di Ghiaccio che d’Erba.
«Il motivo per cui non avete mai conosciuto i Pokémon… be’, è una storia lunga e preferisco raccontarla tra un momento. Ma sappiate che quasi l’intero mondo è all’oscuro della loro esistenza. Non è sempre stato così.» La lasciammo proseguire come più voleva. Era meglio iniziare conoscendo le creature che avevamo incontrato anziché andare a toccare argomenti, a quanto pareva, sensibili. E poi nessuna di noi aveva alcuna fretta.
«Esistono più di settecento specie Pokémon in totale. Se ne scoprono spesso di nuove e bisogna catalogarle e trovare loro un nome. Di solito le esplorazioni delle regioni nel nostro mondo portano a un’ondata di Pokémon sconosciuti; ultimamente si è raggiunta una fase di equilibrio, anche a causa di un evento terribile che s’è abbattuto sul nostro pianeta e che ha diviso il mondo dei Pokémon da quello esclusivamente umano…»
Il suo tono di voce si fece più basso. Aprì bocca per continuare e per rivelarci tanti segreti di cui non potevamo nemmeno immaginare l’esistenza, ma un suono di passi riverberò nel silenzio della villetta a due piani. Qualcuno stava scendendo di corsa le scale e trafelato arrivò da noi.
Era un ragazzetto pressappoco dell’età di Chiara - sicuramente era più piccolo di me. Aveva spettinati capelli blu notte - non pareva nemmeno avesse la tinta - e grandi occhi scuri, espressivi, allora un po’ spaventati. Era magrolino, pallido, sembrava malaticcio, ma la lucentezza del suo sguardo eliminava qualsiasi traccia di quel suo aspetto trasandato. Si aggiustò i piccoli occhiali sulla punta del naso all’insù, piuttosto femminile.
Pareva sul punto di parlare e presentarsi, ma sul più bello non riuscì ad articolare frasi di senso compiuto. Solo qualche balbettio confuso uscì dalla sua bocca e già da quello capimmo che era estremamente timido.
Bianca lo invitò a sedersi. «Lui è il mio cuginetto, viviamo insieme da anni. Il suo nome è Le…»
«Gold» la interruppe bruscamente lui. Fui sorpresa dal suo scatto improvviso. Lanciò un’occhiata fugace sia a me che a Chiara e arrossì violentemente. «Chiama… chiamatemi Gold.»
Bianca sospirò ma non si espresse in tenerezze o in altri modi nei confronti del parente. «Anche lui è un giovane Allenatore. È una delle categorie in cui si dividono i vari appartenenti al mondo Pokémon.»
«Quali altre classi ci sono?» chiese Chiara.
«Mmh… be’, le principali sono Allenatore, Coordinatore, Ranger e poi si hanno i più esperti: Capopalestra, Superquattro e Campione. Gli ultimi tre fanno parte della Lega Pokémon, ma questo è un altro discorso…»
«Allora perché i Pokémon sono separati dalla maggior parte degli umani?» intervenni. Non mi interessava sapere qualcos’altro su quegli esseri, avevo grosso modo capito cos’erano: ora volevo le vere spiegazioni. Gold mi guardò incuriosito e quando ricambiai distolse immediatamente gli occhi. Erano anch’essi blu, come i capelli.
Bianca invece evitò accuratamente gli sguardi degli ascoltatori. Finalmente iniziò a parlare di quello che volevo sapere: le cose che disse, stranamente, non mi sembrarono così assurde come mi aspettavo. Avevo già iniziato a fare l’abitudine ai Pokémon e ai quartieri segreti, agli Allenatori e quant’altro. Per questo le accettai come unica spiegazione plausibile, anche se ovviamente ancora surreale, agli interrogativi miei e di Chiara.
«Circa otto anni fa il mondo non era così. I Pokémon convivevano pubblicamente con gli umani. Addirittura risultavano sospette, o comunque strane, le persone che non volevano averci a che fare o che non ne avevano uno per lo meno in famiglia. Era quasi di rito che ogni giovane ragazzino, quasi sempre anche più piccolo di voi, se ne andasse di casa insieme a un Pokémon per migliorarsi come Allenatore e trovare la sua strada grazie alla squadra che si sarebbe costruito - normalmente un team completo conta sei membri.
«Anni prima ancora esistevano in quasi tutte le regioni delle organizzazioni criminali che sfruttavano queste creature per i loro scopi personali, erano le loro armi per non sporcarsi le mani. Le più temute erano sei: il Team Rocket che aveva monopolizzato le regioni di Kanto e Johto; i Team Magma e Idro a Hoenn che combattevano per la supremazia e per creare un mondo in cui prevalesse la terraferma o l’oceano; il Team Galassia qui a Sinnoh guidato da uno degli uomini più spaventosamente ambiziosi che il mondo abbia mai conosciuto; il Team Plasma a Unima che faceva capo a un folle, anch’egli con obbiettivi che prevedevano la sottomissione del pianeta; infine il Team Flare di Kalos, che mirava alla pulizia della società per un mondo meraviglioso, un’utopia.
«Bastò qualche tempo perché degli eroi riuscissero a distruggere e disperdere questi Team. Erano all’epoca dei ragazzini, molti di loro più piccoli di voi, e i nomi di alcuni di questi grandi Allenatori sono entrati nella leggenda. La situazione di equilibrio e all’apparenza pacifica che si era venuta a creare, però, non era destinata a perdurare per molto tempo ancora. Ed è così che arriviamo agli otto anni fa di cui vi ho parlato.
«Gli uomini che avevano guidato i Team ormai scomparsi ritornarono in scena, stavolta uniti sotto il nome di un’unica organizzazione. Quale sia esso… nessuno lo sa. Fino a qualche tempo fa si era abbastanza sicuri che esso fosse Victory Team, ma poi fecero la loro comparsa altri nomi usati per indicare quest’organizzazione che probabilmente miravano a confondere le idee degli oppositori.
«Io faccio parte di questa resistenza» disse Bianca con una certa fermezza nella voce, andando fiera della sua posizione. «Ci facciamo chiamare generalmente Forze del Bene, non abbiamo un vero nome e nemmeno ci serve. Il nostro obbiettivo è far fallire un’altra volta il Nemico, una volta per tutte, e cancellare per sempre la loro presenza da questa Terra per impedire che qualcun altro si ispiri ad esso e riprovi a sconvolgere l’equilibrio.
«Ma tutto questo si è rivelato molto più difficile del previsto. Ci è quasi impossibile raccogliere informazioni su questo Nemico che sembra cambiare radicalmente da un giorno all’altro. Non voglio entrare nei dettagli, ma se il conflitto tra Bene e Male dura da otto anni un motivo c’è: noi siamo riusciti a raccogliere la maggior parte delle menti migliori del mondo Pokémon e siamo riusciti ad allearci sotto un obbiettivo comune, ma molti di quelli che in passato avevano combattuto le singole organizzazioni furono affascinati dalla “magnificenza” di questa e se ne andarono dalla loro, ci tradirono e rivelarono informazioni preziose. Lo stesso accadde per alcuni appartenenti al Nemico, che giurarono fedeltà alle Forze del Bene e divennero preziosi alleati. Altri rimasero neutrali nel conflitto, spesso per aver salva la vita, perché il Nemico non si fa scrupoli a far fuori chiunque sia scomodo…» mormorò.
Gold intervenne brevemente. «Non conosciamo le vere intenzioni del Nemico. Di sicuro mira al mondo intero e al dominio su di esso, ma è molto vaga come cosa e finora sono state avanzate solo delle proposte sui loro possibili obbiettivi. Non è facile raccogliere informazioni, sono ben difesi e spesso attaccano per primi.»
«Le Forze del Bene» riprese Bianca, «continuano a reclutare quante più persone possibili disposte a lottare per cancellare il Team nemico. Per i più giovani hanno istituito delle strutture nascoste, spesso molto più difese delle stesse basi segrete in cui si lavora, che vengono chiamate generalmente Accademie e che possano formare nuovi Allenatori pronti a lottare. Alcuni dei più esperti lavorano come specie di professori là dentro, è un ambiente il più possibile accogliente e piacevole in modo tale che la pressione di questa guerra non si faccia sentire sui ragazzi. Ma molto spesso questi luoghi rimangono privi di qualche maestro e diventano una tana in cui si possano difendere e tenere sotto controllo questi futuri “soldati” e addestrarli. In fondo più siamo meglio è…»
«E noi dovremmo prendere parte a questo conflitto.» Pronunciai quelle parole quasi senza accorgermene. Tutti si voltarono a guardarmi: probabilmente ero pallida e turbata. Dentro di me sentivo solo una gran confusione e altrettanta insicurezza. C’erano ancora molte cose che non mi erano chiare ma non ero più certa di volerle sapere subito. Riuscii ad alzare lo sguardo su Bianca e il suo sorriso benevolo in quel momento mi parve terrificante.
«Ormai è inevitabile. A meno che non preferiate farvi rimuovere questi ricordi.»
Chiara lanciò un’esclamazione esterrefatta. «Cancellare i nostri ricordi?»
«È quello che è stato fatto al mondo intero. Grazie ai poteri incredibili dei Pokémon Psico, Spettro, Buio e anche Folletto, ci è stato possibile cancellare ogni traccia dell’esistenza di queste creature dalla faccia della Terra. Sono state innalzate barriere, all’apparenza naturali e non, soprattutto invisibili, che potessero dividere il mondo in due realtà ben distinte: quella dei Pokémon e dei “comuni esseri umani”. Ma queste barriere iniziano a cedere in alcuni punti e le Forze del Bene, che vogliono risolvere il tutto senza dare nell’occhio, devono rimetterle in sesto. La barriera del quartiere nord è stata fatta abbassare dal Nemico in modo tale che voi poteste entrare in contatto.»
«Come fai a saperlo?» chiesi. «E perché proprio noi?»
Bianca sorrideva ancora dolcemente. Mi parve l’espressione di qualcuno che teneva nascosto qualcosa. «Non vi so spiegare il perché. Quando ho contattato uno dei principali capi delle Forze del Bene, mi è stato detto di tenervi d’occhio finché fosse stato necessario, perché c’era la possibilità che voi entraste a far parte della nostra “squadra” e voleva anche sottrarvi al Nemico che, probabilmente, abbassando le barriere voleva catturarvi e farvi andare dalla sua parte. Io ero molto insicura ma ho deciso di fidarmi. Vi ho seguite e ho fatto appena in tempo ad arrivare senza farmi notare quando siete state attaccate dagli Snover. Era già troppo tardi.»
Stette un po’ in silenzio, per poi rivelarci un’altra cosa. «La maggior parte dei Pokémon selvatici ha imparato a riconoscere il Nemico, ma spesso lo vede in ogni umano ed è impaurita, non si fa più vedere nemmeno da chi li cerca per motivi pacifici. Gli Snover che vi hanno attaccate devono essere stati aizzati dai nemici e ha contribuito la malattia che avevano appositamente trasmesso agli abeti nel loro ambiente naturale.»
Tutto questo era semplicemente inaccettabile. Ci credevo ma non riuscivo a crederci allo stesso tempo. Era la realtà, lo sentivo, ma mi riusciva difficilissimo fidarmi senza alcuna riserva di Bianca e di Gold. Ero spaventata e probabilmente non avrei voluto venire a sapere di tutto ciò: l’esistenza dei Pokémon mi andava pure bene, ma la presenza di una sorta di guerra segreta non molto. E si aspettavano pure che io e Chiara prendessimo parte a quel conflitto. Due come noi sarebbero state mera carne da cannone!
Ma forse avevamo altra scelta? Era meglio rifiutare l’invito e farci cancellare la memoria? E se poi il Nemico avesse ripetuto il suo gioco e fossimo cadute nuovamente in trappola? C’erano così tante incognite in quello che ci stava succedendo che probabilmente era meglio lasciarci trasportare dagli eventi e non opporre resistenza. E poi eravamo state fortunate: avevamo incontrato una delle Forze del Bene che ci avrebbe portare al sicuro, visto che la falsa realtà in cui avevamo vissuto non era stata il massimo della stabilità. Sempre meglio che farci rapire da uno di questi “cattivi” che ci avrebbero fatto conoscere il mondo dei Pokémon sotto un’altra prospettiva - la crudeltà.
«E i nostri genitori?» chiese Chiara con un filo di voce.
Trasalii: aveva ragione. Mi ero completamente dimenticata di loro.
Bianca sospirò. «Abbiamo più possibilità… convincerli in qualche modo a lasciarvi partire, senza specificare la meta e assicurando loro la vostra salute e la vostra “felicità”, o comunque sicurezza. Altrimenti inventarci che avete vinto una borsa di studio per giovani talenti o sciocchezze simili che la maggior parte delle volte funzionano. Infine, ma questa credo sia la cosa più estrema, cancellarvi dalle loro memorie.»
«No» mormorai subito. Questo non potevano farlo, non volevo che i miei genitori si dimenticassero di me. Mi piaceva di più l’idea che sperassero che la propria unica figlia se ne fosse andata sì lontana di casa, ma che fosse felice con la sua amica in un’Accademia lontana ma sicura. Accademia di Belle Arti, magari.
Bianca sospirò. «Questo purtroppo non sta né a voi, né a me deciderlo. I miei superiori provvederanno a prendere la decisione che riterranno più opportuna e probabilmente indolore, più per i vostri genitori che per voi. Mi spiace, ma anche loro saranno colpiti dalla guerra, in questo senso.»
Guardavo Bianca con una grande tristezza negli occhi. Stava diventando tutto reale, stavo per entrare a far parte di un mondo totalmente diverso e più interessante sicuramente, ma anche più pericoloso. In quella specie di Accademia forse non avrei sentito la pressione della guerra, proprio come aveva detto Bianca, ma era comunque un bel peso da caricarsi sulle spalle. Non riuscivo ad immaginare cosa mi aspettasse - o meglio, ci aspettasse.
Certo non sarei stata sola. C’era Chiara e lei aveva sicuramente voglia di mettersi alla prova molto più di me. Probabilmente sarebbe stata il mio raggio di sole e la ventata d’aria fresca che mi sarebbero serviti per non cadere nell’incertezza. O almeno era questo che vedevo dai suoi grandi occhi scuri: erano più aperti del normale e batteva le palpebre solo una volta ogni tanto, questo sì, ma pareva molto più determinata e sicura di me per quel che riguardava ciò che ci stava aspettando. Se ci fosse stata lei allora non avrei avuto così tanti problemi - sperai.
«Allora, cos’avete intenzione di fare?» domandò Bianca. La tensione nell’aria era spaventosamente pesante. «Vi va di andare alla cosiddetta Accademia di Sinnoh, situata tra Giubilopoli e Canalipoli, e prendere parte a un conflitto che vi colpirà più in là nel futuro, quando sarete preparate per esso? O preferite non interessarvi? Non sarete giudicate, ve lo assicuro. Qualsiasi vostra scelta sarà comprensibile.»
Scambiai un’occhiata con Chiara. Lei sorrise appena, io non riuscii a farlo. Bianca aveva parlato di scelta: ne avevamo davvero una? Io mi sentivo più che altro costretta ad accettare l’offerta: quel mondo pericoloso non mi ispirava per niente e avevo la sensazione che difficilmente mi sarei ambientata. Avevo paura del domani. Però c’era lei, c’era la mia migliore amica e l’avrei sempre avuta a sostenermi e con cui confidarmi. Perciò accettammo.

Bianca ci lasciò in compagnia di Gold e consigliò al suo parente di mostrarci la Palestra e un po’ del Tempio. Il ragazzino sembrava più tranquillo, prima era agitatissimo e in imbarazzo a causa del nostro arrivo improvviso; ora però si era fatto addirittura taciturno e fargli dire più di un paio di frasi in risposta a qualcosa era complicato.
«Tu sei mai stato all’Accademia?»
«Sì, ho passato lì il primo anno di studio. Tornerò in questi giorni insieme a Bianca.»
«Cosa fai come Allenatore?»
«Un Allenatore cattura Pokémon e li addestra per farli diventare potenti e adatti ad un combattimento. Poi si può specializzare in quello che più gli piace, ad esempio un tipo preciso.»
«E Bianca cosa fa?»
«Lei era la Capopalestra di Nevepoli, esperta nel tipo Ghiaccio, la settima delle Palestre della Lega di Sinnoh.»
«Senti, è da prima che tu e Bianca parlate di questa Lega, cos’è?»
«Della Lega Pokémon fanno parte le Palestre e varie strutture di allenamento in una regione. Nella principale sede della Lega si trovano i Superquattro e il Campione, le cariche più alte a cui un Allenatore può aspirare. C’è anche il Maestro Pokémon, ma di Master non se ne ha praticamente nessuno nella nostra epoca.»
«Quindi la Lega Pokémon gestisce tutte queste strutture di cui parli?»
«Esatto.»
Mano a mano le cose si facevano più chiare e comprensibili: i misteri che avvolgevano i Pokémon e il mondo a cui essi appartenevano erano ancora tanti anche per chi ne faceva parte, ma Gold riuscì a spiegarci piuttosto bene la faccenda delle “classi” di Allenatore, ci parlò delle Palestre di Sinnoh, di Professori che cercavano ragazzi molto giovani e promettenti che potessero fare carriera e di strumenti come le Poké Ball, di diversi tipi, delle quali esistevano numerosi esemplari, alcuni più adatti ad alcune caratteristiche di un Pokémon di altri.
Ci disse qualcosa sull’Accademia. Gli orari erano duri e lunghi ma le lezioni non potevano definirsi tali. L’unico obbiettivo perseguito dai vari “professori” era semplicemente formare Allenatori preparati sì nella teoria, ma soprattutto nella pratica. Per diventare davvero Allenatore era inoltre necessario costruire un legame di amicizia profonda con i propri compagni che veniva influenzato da numerosissimi fattori. La lealtà, più di un Allenatore nei confronti del proprio Pokémon che viceversa, si veniva a creare già dal primo giorno di conoscenza.
Visitammo la Palestra che era appartenuta a Bianca. Gli interni erano quasi tutti totalmente di ghiaccio, coperto in alcuni punti di neve. Per arrivare alla Capopalestra, in origine, era necessario abbattere delle enormi palle di neve fino a sbloccare il percorso che conduceva da lei: una sorta di puzzle che sarebbe finito con una lotta.
«A te che Pokémon piacciono, Gold?» gli chiesi. Chiara intanto trovava molto divertente scivolare sul ghiaccio e far finta di completare il percorso abbattendo palle di neve immaginarie.
«Non ho un tipo preferito. Mi piacciono molto i Draghi, ma per un Allenatore è importante saper variegare la propria squadra nel tentativo di non avere troppi punti deboli.»
«Hai già qualche Pokémon?»
«Certo» rispose, come se la cosa fosse ovvia. Be’, essendo entrata da circa mezz’ora nel mondo Pokémon per me niente era palese né intuitivo. Le uniche cose che avevo imparato fino a quel momento era che Bianca non mi ispirava poi tanta fiducia, sinceramente, e che Gold era volubile, facile all’imbarazzo e forse anche antipatico.
Ci mostrò i suoi Pokémon. Si chiamavano Dratini, Squirtle e Quilava. Il primo era un serpentello di tipo Drago che avrebbe subito due volte il processo chiamato evoluzione, che non avevo capito bene in cosa consistesse; il secondo una tenera tartarughina di tipo Acqua che mi piacque a prima vista; il terzo, di Fuoco, era una specie di ermellino color blu e giallo che aveva una coda e una cresta di fiamme. Toccandole però non ci si scottava. Fecero vedere qualche mossa delle quali dimenticai subito il nome, ma fui ammirata delle loro capacità. Vederli docili e obbedienti mi faceva quasi dimenticare la natura mostruosa che mi era sembrata di trovare in quegli Snover.
Gold ci illustrò anche le funzionalità dei vari strumenti posseduti da un Allenatore: il più importante era il Dex, un’enciclopedia elettronica che conteneva tutte le informazioni su ogni specie di Pokémon conosciuta. Alcune pagine erano però vuote. «Come mai queste non contengono alcuna scheda?» chiese Chiara al posto mio.
«Ecco…» Il ragazzino parve in difficoltà. «Vedete, esistono delle specie di Pokémon estremamente rari e forti a cui è affidato un certo potere per mantenere l’equilibrio nel mondo. Sono detti Leggendari poiché mai si mostrano agli esseri umani, se non in casi del tutto eccezionali, ad esempio quando trovano un Allenatore degno di loro e vogliono combatterci fino a farsi, forse, catturare, sia per mettere alla prova l’avversario sia per imparare qualcosa su di noi. I Leggendari sono spesso cacciati dal Nemico per il loro immenso potere, che gli faciliterebbe le cose.»
«E le Forze del Bene hanno qualche Leggendario dalla loro parte?» domandai molto incuriosita.
«Non lo so» rispose secco Gold. «Vi sconsiglio di chiedere troppe informazioni in giro sui Leggendari perché è facile far sorgere sospetti, molto di più se si vuole sapere qualcosa sui loro poteri.»
«Ma sarà vero che questi esseri possono controllare le forze della natura?» insistetti dubbiosa. «Mi sembra una cosa troppo inverosimile perché sia possibile che loro ci governino. Sai rispondermi, Gold?»
«No» borbottò. «Non mi sono mai posto il problema.»
«Peccato, sarebbe stato interessante scoprirlo!» esclamò Chiara mentre accarezzava Squirtle.
Lui non ribatté nulla e per un po’ lasciò sole me e la mia amica a parlottare dentro la Palestra. Uscì insieme a Dratini e Squirtle e affidò a Quilava il compito di “tenerci d’occhio”, come se fossimo soggetti pericolosi.
«Allora, Eleonora…» esordì Chiara. Mi voltai a guardarla: sorrideva. «Ti piace questo film?»
Sbuffai leggermente divertita. «Neanche tanto per ora, ma senza ombra di dubbio è… coinvolgente.»
«Concordo. Quante stelline gli dai nella tua recensione?»
«Direi tre solo per la coccolosità di quello Squirtle» borbottai ridacchiando.
«Ma che braccino corto!»
«Perché, tu quante stelle daresti?»
Lei sorrise un’altra volta. Stavolta con una sfumatura più malinconica nella sua espressione. «A stento due.»
Inarcai per un momento le sopracciglia. Poi arricciai le labbra: la comprendevo perfettamente. «Tutto quanto sta succedendo così di fretta…» mormorai. «Quello che stiamo vivendo è davvero un film, tra animali fantastici e persone coi capelli di un colore assurdo. Per non parlare delle zone fantasma di una città che sono degne di un videogioco da quattro soldi. Mi chiedo come si evolveranno gli eventi e cosa toccherà fare a noi.»
«Tanto era già deciso tutto, no?» ribatté Chiara mordicchiandosi le unghie. «Il capo di Bianca praticamente era già deciso a farci entrare nel mondo Pokémon. Probabilmente pure rifiutando alla fine ci avrebbero costrette in qualche modo. Non avevamo davvero scelta ma almeno questa è la strada più sicura, credo.»
«Lo penso anch’io. Se loro non ci avessero trovati lo avrebbe fatto il loro nemico. Siccome credo che i mezzi e i comportamenti delle due parti siano molto diversi, preferisco quelli indolore delle Forze del Bene che quelli dei cattivi di turno. Anche se pensare che i nostri genitori potrebbero dimenticarsi di noi…»
«Credo che la differenza sostanziale tra tutto questo e un film sia che noi abbiamo tutto da perdere e che niente è di poca importanza adesso» ragionò lei. «Dobbiamo dire addio a una vita normale e ad amici e parenti. Prima o poi dovremo anche combattere e metterci la faccia. Però non siamo né eroine né abbiamo qualche potere magico o sovrannaturale, solo i Pokémon. E intanto dobbiamo finire di fare i conti con le nostre già vecchie realtà.»
Fui profondamente stupita dalle sue parole così gravi e importanti. Non me le aspettavo da parte sua perché ero sicura che lei fosse solo emozionata da quello che ci stava succedendo, invece era solo apparenza per non mostrarsi impaurita né preoccupata, cosa che io invece davo a vedere. Però in quel momento non ebbe tanta importanza: l’unica cosa che potevo pensare era che ero completamente d’accordo con lei. La vita non è un film, tutti lo affermano tranquillamente. Ora che però io e lei dovevamo provare questo sulla nostra pelle avrei preferito che lo fosse. Ci sarebbe stata un’ellissi sulla nostra partenza e i nostri genitori sarebbero finiti felicemente nel dimenticatoio, anche per non essere d’impiccio alla trama dello spettacolo. Subito avremmo cominciato ad avere confidenza con quei Pokémon e probabilmente avremmo scoperto un talento eccezionale.
Invece io provavo solo tanta tristezza al pensiero di dover abbandonare la mia piacevole e rassicurante routine, oltre che una grande angoscia al pensiero dell’ignoto che era il mondo che mi stava aspettando. Avevo paura dei Pokémon probabilmente, che non fossero tutti tranquilli e docili come quelli di Gold e Bianca. Temevo che quando mi sarei ritrovata a che fare con un Pokémon quello mi sarebbe stata ostile o che non sarei riuscita a trovare la sintonia. Non volevo che fosse così, ma non ero mai stata molto empatica con gli animali e per ora quegli esseri non mi apparivano molto differenti da essi. Solo con qualche comportamento umano che alle volte risultava sgradevole, come Weavile, il Pokémon di Bianca, che sedeva al tavolo come una persona normale.
«Sono felice di avere qualcuno come te con cui intraprendere quest’avventura, Eleonora.»
Mi girai. Chiara aveva detto questo con un sorriso imbarazzato ma sincero. Era un po’ arrossita: allora ebbi la conferma che non voleva mostrarsi così sensibile e timorosa di non essere all’altezza della situazione. Mi faceva piacere vederla così. Io arrossii anche di più, istantaneamente commossa dalle sue parole.
«Insieme sarà tutto più semplice» replicai sorridendo.
Ci avvicinammo per abbracciarci e in quella stretta amichevole percepii tutta la fiducia che da anni riponevamo l’una nell’altra e che quasi mai era stata tradita. I pochi litigi “gravi” che c’erano stati erano serviti a farci legare ancora di più ed eravamo diventate come sorelle. Lei era più piccola ma in alcuni momenti riusciva a sembrare più matura e spigliata di me, al contrario io in certe occasioni apparivo più di lei come una ragazzina spensierata. Ci compensavamo e ci completavamo a vicenda: non potevo desiderare nessun altro migliore di lei, perché non ne esisteva, per iniziare insieme quella lunga e complessa avventura.
Uscimmo dalla Palestra con un peso in meno sullo stomaco, un po’ più sicure e pronte ora che avevamo fatto chiarezza su quello che provavamo vicendevolmente. Mi faceva davvero piacere, poi, che non fossi l’unica a fare affidamento sulla mia compagna: avere una prova del suo affetto era importante, in un momento come quello.
Gold si era diretto al Tempio. Lo raggiungemmo in pochi passi e tirò fuori un mazzo di chiavi dalla tasca della giacca; tolse qualche trave fasulla - realizzata ad arte - e aprì il grande portone.
«Cosa c’è da vedere nel Tempio?» chiese Chiara incuriosita.
«Al momento niente di che. Un tempo era la dimora di Regigigas, il Leggendario dormiente» spiegò Gold. «Si trovava all’ultimo piano sotterraneo e all’apparenza era un’imponente statua di questo colosso, che si dice che mosse i continenti per dare loro la forma che conosciamo. Poi saprete che lo ha fatto due volte.»
“Quanta suspence” commentai mentalmente.
«Adesso però Regigigas non c’è. Nessuno sa dove si trovi, da un giorno all’altro è scomparso.»
«Un colosso di nove metri è sparito nel nulla?» sbottò Chiara dicendo una cifra a caso.
Gold fece spallucce. «Sono eventi che non ci si riesce a spiegare. Riguardano esclusivamente il mondo Pokémon e soprattutto quello dei Leggendari: quindi le Forze del Bene indagano in segreto senza far sapere nulla a nessuno. Ma credo che alla fine non ci facciano niente con informazioni simili, a parte superare il Nemico.»
«Magari i Leggendari vivono in qualche dimensione parallela, visto che sono introvabili!» esclamò Chiara.
«Molto probabile» ribatté Gold.
Feci una buffa faccia alla mia amica come a dire “non male, carissima”, che la costrinse a ridacchiare.
L’interno del Tempio era buio a causa dell’assenza di finestre. Il ragazzo tirò fuori una torcia e subito sussultai sorpresa alla vista di un’inquietante, decadente statua dello stesso Regigigas, come rivelò la nostra guida. Alcune parti del pavimento erano ricoperte di lastre di ghiaccio. «Così come la Palestra di Nevepoli, per arrivare ai piani inferiori è necessario seguire un preciso percorso e aiutarsi con certe mosse Pokémon. Le lastre di ghiaccio sono scivolose e si arriva dall’altra parte appoggiandosi alle rocce che sono presenti e con le quali darsi una spinta, quindi bisogna indovinare il percorso da seguire… molti luoghi nel mondo Pokémon sono fatti così.»
«Fa molto “temprare il corpo ma anzitutto la mente”» dissi ironicamente. Chiara prese a ridere senza un vero motivo e Gold parve dapprima stupito, poi un po’ offeso.
«Sì, be’, per un Allenatore è importante ogni aspetto di sé stesso» disse come a voler giustificare il tutto.
Ammiccai. «Guarda che stiamo scherzando praticamente in ogni momento, Gold!»
La sua espressione si fece contrariata, probabilmente perché non riusciva a farsi coinvolgere dalle stupidaggini che io e la mia amica dicevamo giusto per allentare la tensione. Era un po’ infantile da parte sua.
«Mia cugina Bianca è attualmente la Guardiana del Tempio, anche se non è che ci sia molto a cui fare attenzione di questi tempi» disse dopo un po’ lui. «Regigigas è scomparso ma è stato assicurato in tutti i modi che lui, come praticamente tutti i Leggendari, non è stato catturato dal Nemico anche se molti sono scomparsi.»
«Non avevi detto che non sono rintracciabili?»
«Sì, ma grazie alle esperienze dei Dexholders si conosce abbastanza di loro e i luoghi di avvistamento sono i più sorvegliati in assoluto. Alcuni Leggendari non hanno una sede fissa, altri sono apparsi in un posto più volte perciò quella si considera la loro casa e ogni tanto si controlla che siano ancora lì o che abbiano lasciato tracce.»
«Dex cosa…?»
«Dexholders. Lo erano la maggior parte degli eroi che hanno distrutto i vari Team malvagi. Il Dexholder è il portatore di PokéDex, l’enciclopedia che vi ho fatto vedere anche prima. Originariamente era un onore possederne una perché significava che un Professor Pokémon ti aveva incaricato di completarlo e quindi riteneva che tu fossi una giovane promessa. Dopodiché salutavi la tua famiglia, partivi di casa e catturavi quanti più Pokémon possibili per aiutare i Professori nella ricerca su di loro» spiegò. Poi con un sospiro aggiunse: «Gold è un Dexholder.»
«Perché parli di te in terza persona come se fossi pazzo?» domandò indelicatamente Chiara.
«Io… be’, prima ho interrotto Bianca che stava dicendo il mio nome. Preferisco farmi chiamare Gold perché lui è il mio modello e mi piacerebbe… sì, vorrei essere forte come lui» prese a balbettare, arrossendo vistosamente.
Scambiai un’occhiata significativa con Chiara e capii che la pensavamo allo stesso modo. Era una cosa stupida cercare di aspirare al miglioramento credendosi qualcun altro, secondo me. Avevo anche io dei modelli, degli eroi, ma non per questo volevo che gli altri mi chiamassero con un altro nome solo per sentirmi migliore. Non aveva alcun senso per me e non riuscivo a capire come altri si sentissero a posto con sé stessi facendo questo.
«Gold è della regione di Johto. Anche lui possiede, o meglio, possedeva un Quilava. Poi si è evoluto in un potentissimo Typhlosion» disse con trasporto.
Stettimo a sorbirci l’ondata di Gold di autocommiserazione per sé stesso, un tanto comune quanto anonimo Allenatore, e di ammirazione nei confronti del suo tanto amato quanto completamente sconosciuto altro Gold.
«Perché non ci dici il tuo nome?» chiese Chiara incuriosita e anche divertita dai comportamenti del ragazzino.
«Non… non è importante.»
«Non ti piace?»
«Per niente… quindi per favore non chiedetemelo!»
“Anche se fosse lo chiederei a Bianca” pensai, “ma siccome questa è probabilmente la prima e ultima volta che ci parliamo così tanto, se preferisce Gold chi se ne frega. Peggio per lui.” Gli domandammo quanti anni avesse: almeno a quello rispose. Aveva l’età di Chiara, quindi tredici anni, ma comunque ne dimostrava molti meno di lei.
Le stranezze e il carattere di Gold non ci pesavano più di tanto - anche se risultava un po’ seccante e infantile in alcuni momenti. Per essere stata la nostra seconda conoscenza nel mondo Pokémon non era granché e speravo di rifarci andando all’Accademia, in cui avremmo avuto qualche possibilità di stringere amicizia. Chiesi al ragazzo quando saremmo partiti e disse che avremmo dovuto aspettare gli ordini impartiti dal capo a Bianca.
«Come si chiama questo boss?»
«Il suo nome è Bellocchio.»
«Com’è strano!» esclamò Chiara.
«Be’, in effetti non è il suo vero nome. Lui è stato un agente della Polizia Internazionale e lui stesso ha fondato le Forze del Bene al momento della nascita del Nemico. Bellocchio è uno pseudonimo, un nome in codice.»
«Mmh, sembra simpatico» ridacchiai.
«Fidati, non lo è per niente. Per fortuna non viene quasi mai all’Accademia, sta quasi sempre nella più grande base segreta dei nostri qua a Sinnoh. Abbiamo una specie di preside. È Aristide, il più importante Capopalestra di Unima. Non è il migliore nel suo campo ma ciò non toglie che sia un Allenatore fantastico.»
«I più forti servono da altre parti, immagino» dissi. Avrei scoperto successivamente che Gold aveva ragione: Bellocchio era terribile e sarebbe diventato la mia personale spina nel fianco. Ma avrei dovuto aspettare ancora molti mesi, anzi, più di un anno per entrarci “in confidenza” e dare vita a un rapporto conflittuale con lui. Per il momento mi sarei goduta i miei giorni all’Accademia libera dalla presenza di quell’uomo.
Rincasammo quando ormai si era fatta l’ora di cena. Il tempo era trascorso molto velocemente dal pomeriggio movimentato che avevamo vissuto e gli eventi mi parevano stranamente lontani, come se fossero già diventati ricordi di un’altra persona. Probabilmente era dovuto al forte effetto che mi aveva fatto l’entrata nel mondo dei Pokémon. Avevo davvero cominciato una nuova vita - ci avrei impiegato mesi a non stupirmene ogni giorno.
Bianca ci informò che saremmo partiti l’indomani stesso. Fummo colte di sorpresa.
«E le valigie quando dovremmo prepararle? E i nostri genitori?»
«Entro domattina arriverà tutta la vostra roba. Alcuni dei nostri sono andati a informare le vostre famiglie del vostro trasferimento all’Accademia di Giubilopoli, ma sinceramente non so cosa diranno loro. Probabilmente tireranno fuori la storia della borsa di studio per giovani talenti… spero voi eccelliate in qualcosa.»
«Sì, nel dormire» brontolò Chiara. Brontolò più forte, però, il suo stomaco.
«E nel mangiare» ghignai appena sentii quel rumore gutturale proveniente da lei. Scoppiammo a ridere.
Avevo idea che il nostro arrivo fosse stato una botta di vita nella silenziosa, piatta esistenza di Gold e Bianca. Con i Pokémon mi pareva difficile che fosse possibile annoiarsi, avrei osservato Weavile e i suoi comportamenti così umani - pur essendo un po’ sgradevoli, ma già non mi parevano più così male - per ore senza mai stancarmi, cercando di fare un confronto con altri Pokémon. Ma a vedere la tristezza ormai sedimentata negli occhi di Bianca, che smettevano di essere così vitrei e pensierosi solo quando faceva qualcosa con i Pokémon, immaginavo che la vita di lei e quindi anche quella di Gold non fossero delle migliori.
«Anche noi otterremo un Pokémon?» chiese Chiara, buttata sul divano.
«Ovvio. Dovrete averne, nei primi tempi, almeno tre o quattro in grado di lottare. Ma vi sarà spiegato tutto nei dettagli quando sarete all’Accademia: nemmeno io so bene come funzionino le cose lì, non l’ho mai frequentata se non per tenere qualche lezione» rispose Bianca.
«Ma non saremo indietro con il programma?»
«Be’, sì, ma si spera che vi impegnate abbastanza vista la necessità che abbiamo che lo facciate.»
In poche parole dovevamo lavorare da mattina a sera per rimetterci in pari con il livello degli altri.

La stanza degli ospiti si trovava al secondo piano. Io e Chiara occupammo il polveroso letto matrimoniale che troneggiava in una parte della stanza, munite di un’enciclopedia cartacea tale e quale al PokéDex che sfogliammo per un’oretta buona commentando i Pokémon che c’erano. A ogni esemplare era dedicata almeno una pagina e l’edizione era abbastanza nuova, c’erano quasi tutte le specie, stando a quanto disse Bianca.
Alcuni Pokémon erano molto speciali e venivano chiamati starters. Erano estremamente rari da trovare e anche piuttosto forti: per questo venivano affidati agli Allenatori che volevano iniziare un viaggio per ordine di un certo Professore, che li aveva incaricati di cominciare a completare il Dex.
Le pagine sui Leggendari erano state semplicemente strappate. Lo capimmo perché riconoscemmo le loro posizioni, precedenti a quelle del primo starter di una certa regione: la stessa situazione si era presentata con il PokéDex di Gold. «Addirittura le hanno distrutte» disse Chiara a bassa voce. «Credi che lo abbiano fatto oggi?»
«Spero di no» mormorai di rimando. «E comunque non credo ci considerassero sospette.»
Continuammo a commentare quasi tutti i Pokémon presenti nell’enciclopedia. Alcuni erano davvero carini ma molto spesso deboli rispetto agli altri; altri erano parecchio brutti, erano del tipo per cui, per descriverli con una certa delicatezza, bisognava dire “hanno il loro fascino”. Tutti però mi apparivano indistintamente affascinanti, lì immobili e innocui stampati su carta.
Mi focalizzai su qualcuno, generalmente quelli che erano detti evoluti - ancora non ci avevano spiegato cosa fosse questa storia dell’evoluzione, ma pareva anch’essa interessante. Mi sarebbe piaciuto costruire una squadra con i Pokémon che avevo adocchiato, forse all’Accademia avrei potuto scegliere quelli che più mi piacevano.
Addormentarsi fu piuttosto difficile. La mattina seguente trovammo ai piedi del letto le nostre valigie: era la conferma della nostra imminente partenza.






Angolo ottuso di un'autrice ottusa
Che si sta liquefacendo davanti al pc e più che decomporsi diventerà anch'essa umidità. Cielo sto morendo, qualcuno mi accenda il condizionatore ché non ho la forza per alzarmi e andare a cercare il telecomando.
Questo capitolo non mi convince troppo. Non so se i dialoghi siano realistici, così come le emozioni della protagonista - che avrei voluto ampliare, ma era già lungo e non sapevo dove aggiungere. Ditemi voi se c'è qualcosa da rivedere/migliorare.
Comunque si spiegano le varie cose importanti (?): l'apparente scomparsa dei Pokémon, la guerra, il Nemico e l'Accademia. Ho messo il genere slice of life nella storia perché ho pensato che potrebbe confarsi (?) alla vita in questo posto, però avendo ridotto la quantità di capitoli rispetto alla prima versione e avendone tolti parecchi dall'arco originale - chi si ricorda l'odiosa girl story à la sleepover club? - potrei anche sostituirlo con un altro genere.
Il prossimo aggiornamento arriverà giovedì o venerdì perché il 14 - o il 15 come spero io, ma i miei devono ancora decidere - parto e sto via due settimane. Riuscirò a pubblicare un altro capitolo il sabato perché sono una persona furba e ho i miei mezzi ehehe, ma per il resto sarò molto poco presente su efp e su internet in generale. Poi ci rivedremo a fine agosto/inizio settembre con il capitolo dopo ancora (?).
A presto e grazie a chi ha già la storia tra le seguite e le preferite, oltre a chi sta già recensendo. Vi si vuole molto bene, gente.
Ink

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Capitolo 4
*** III - Disorientamento ***


III
Disorientamento

In un’area nei pressi di Nevepoli, oltre gli sconfinati boschi di sempreverdi innevati che si confondevano con quelli di Riva Arguzia, era situata la Ferrovia di Sinnoh. O meglio, una vecchia linea di essa, che nascosta dalle barriere faceva in origine varie fermate: Nevepoli, Monte Corona, Evopoli, Mineropoli e infine Giubilopoli, che era il capolinea al quale saremmo scesi io, Chiara, Gold e la nostra accompagnatrice Bianca. Era domenica: avevamo aspettato un altro giorno a casa di Bianca, alla fine, su richiesta del suo capo - non ci fu detto il perché. Forse per lasciarci imparare ancora qualcosa prima di partire, visto che non avevamo fatto altro che parlare di Pokémon.
La prima cosa che imparai quella giornata era che trascinare i bagagli nella neve era più complicato di quello che si potesse pensare. Ci era stato richiesto di portarci solo lo stretto necessario e per questo molte delle nostre cose erano rimaste a casa di Bianca; in seguito sarebbero state riportate, in qualche modo, nelle rispettive case di me e di Chiara. Ciò non toglieva che avevamo un capiente e pesante zaino sulle nostre spalle e una o due valigie da trascinare per ciascuna, perché non volevamo separarci da molte delle cose più futili per l’Accademia.
Poiché rallentavamo il passo, Gold e Bianca capirono che era necessario un aiuto da parte loro e ci liberarono di qualche peso. Seguimmo un sentiero che si snodava nel bosco semisommerso dalla neve e dopo un po’ gli alberi iniziarono a diradarsi, segno che stavamo arrivando allo spiazzo che conteneva la stazione della ferrovia.
Sbucammo in un largo viale, totalmente candido se non per le rotaie grigie e ben tenute - quasi nessuno usava quel treno, perciò le loro buone condizioni erano strane - che spiccavano nella distesa bianca. Ci bastò girare la testa verso destra per notare un grande edificio in vetro e in acciaio che aveva la forma di un semicilindro, disteso sul terreno e di cui era visibile solo la metà. Era un’insolita, inaspettata visione in tutto quel bianco e verde dei boschi e nell’azzurro del cielo limpido, ed era sgradevole pensando al fatto che ci avrebbe allontanate da casa.
Ci avviammo verso di essa e in breve varcammo i grandi portoni della stazione. Da quando l’avevamo vista il silenzio era sceso sul nostro gruppo: stavamo tutti aspettando che la situazione si stabilizzasse e si rilassasse per riprendere a parlare, affinché io e Chiara potessimo imparare altro sul mondo dei Pokémon. Soprattutto volevamo sapere qualcosa in più sull’Accademia, o su qualunque cosa fosse questa fantomatica sede di addestramento “leggero” per giovani Allenatori - specie di guerrieri. Dovevamo sapere quali fossero le materie, gli orari, come ambientarci, cosa avremmo studiato e soprattutto a quale classe saremmo state iscritte. Insomma, eravamo delle novelline, ma tra i gruppi di “studenti” non poteva esserci troppo divario, soprattutto per l’età.
«Questo saranno i gestori della struttura a deciderlo. Immagino che prima vedranno a che punto siete, ma di sicuro prenderanno in considerazione molti fattori: in genere i ragazzi dell’Accademia imparano velocemente, anche per necessità. Spero capiterete in classe con Gold, almeno vi aiuterà ad ambientarvi più facilmente avere già una conoscenza nella vostra classe» ci disse Bianca, sorridendo tranquilla e serena.
Gold non era il massimo della simpatia, l’aspettativa di averlo come primo amico non era granché ma in effetti sarebbe stato rassicurante avere qualcuno che ci potesse aiutare a conoscere altre persone.
Nonostante la stazione apparisse tirata a lucido, proprio il fatto che fosse così immacolata e perfetta aumentava la forte impressione di desolazione e di assenza di viaggiatori, dandomi un vago senso di pena e malinconia. Non era bella l’aspettativa di entrare a far parte di una minoranza della popolazione del pianeta, temevo che quella stessa desertificazione fosse ovunque nel piccolo mondo dei Pokémon. Fortunatamente, scoprii abbastanza presto, non era così, ma avrei dovuto aspettare di fare le prime conoscenze all’Accademia per essere rassicurata.
«Ele,» mi chiamò Chiara sottovoce, «come ti aspetti che sia l’Accademia se qui non circola anima viva?»
Appunto. Non ero l’unica ad avere pensato cose del genere. «A vedere questo posto direi che all’Accademia saremo in tre - noi due e Gold. Ma spero di essere smentita presto.»
«Già… secondo me saremo una cinquantina di persone.»
«Così poche spero di no! Magari un centinaio scarso…»
«Addirittura?! La maggior parte degli Allenatori e di tutta la gente che ha a che fare con i Pokémon lavora nelle basi segrete disseminate un po’ ovunque. Quanti ragazzi potranno riuscire a raccogliere in una regione?»
«Non saprei, in effetti hai ragione» mormorai, ripensandoci. «Però ci saranno sia ragazzi più grandi che più piccoli, quindi forse riusciremo ad arrivare a… non so, ma più di settanta sicuramente, dai.»
«Se lo dici tu!» borbottò lei, stiracchiandosi.
Avevamo abbandonato i nostri bagagli per terra, sulla banchina grigia. Gold stava a qualche metro di noi a farsi i fatti suoi mentre Bianca telefonava a qualcuno dell’Accademia per avvisare che stavamo per partire. Difatti il nostro treno aspettava i suoi passeggeri: era piccolo, contava poche carrozze, ma era anch’esso abbastanza curato e pronto per la lunga corsa che ci aspettava. Non mi aspettavo, a ragione, che ci fosse un conducente; a quanto ci era stato detto quel mondo a parte era abbastanza evoluto tecnologicamente per non avere bisogno di qualcuno che facesse funzionare il treno. Be’, tanto meglio: magari la carrozza con il bar era a nostra completa disposizione.
Bianca tornò dopo qualche minuto con le ultime indicazioni. «Bene, possiamo partire. Saliamo, sistemiamo i bagagli, tra poco il treno partirà e io vi dirò ciò di cui avete bisogno di sapere sull’Accademia» si rivolse per lo più a me e Chiara; Gold le basi già le aveva. Iniziammo a parlare e ad essere informate solo quando il treno si mise in movimento: ci aspettavano tre ore abbondanti di viaggio.
La Capopalestra ci parlò approfonditamente, per prima cosa, delle Poké Ball. Quelle piccole sfere, delle quali esistevano un’infinità di esemplari adatti alle più diverse specie di Pokémon, potevano contenere quegli esseri di ogni dimensione ed erano molto comode, non solo per gli Allenatori che dovevano portarle - solitamente le si mettevano in una cintura apposita oppure si tenevano semplicemente in tasca. Infatti i Pokémon dovevano stare abbastanza bene lì dentro, perché difficilmente trovavano la voglia di uscire da soli e starsene all’aperto. Ma non potevano assolutamente rimanere al loro interno senza vedere la luce del giorno - e cibo - per più di una giornata.
Bianca accennò qualcosa alle relazioni tra i vari tipi di Pokémon, disse che l’esito di un attacco si classificava in colpo semplice, superefficace e poco efficace. Un esempio banale era il tipo Erba debole al tipo Fuoco, che a sua volta era svantaggiato rispetto al tipo Acqua, il quale veniva facilmente sconfitto dal tipo Erba. Le combinazioni con i doppi tipi complicavano ulteriormente le cose e al momento preferii evitare di cercare di memorizzare tutta quella roba che mi sembrava astrusa e anche abbastanza incomprensibile.
«Qualcosa sulle relazioni tra tipi puri vi conviene impararlo» mormorò Gold, «perché altrimenti sarà dura seguire facilmente le lezioni.»
«Con la pratica riusciremo a capire tutto» ribatté prontamente Chiara. «Adesso sentirmi elencare le resistenze e le debolezze di un certo tipo non è proprio il massimo della facilità imparare tutto subito a memoria.»
«Sì, avete ragione» intervenne Bianca, «ma sarà utile anche per le prime lotte che farete per far accumulare un po’ di esperienza ai vostri futuri Pokémon…»
«Eh? Lotte ed esperienza? Sono termini tecnici o semplicemente non capisco io?» la interruppi.
«Le lotte sono essenziali per la crescita di un Pokémon. Vedete, ognuno di loro ha a disposizione quattro mosse, ne può usare al massimo quattro e se ce n’è una nuova da dover imparare bisogna sostituirne un’altra: questo è un ottimo modo per allenare sia l’Allenatore che il Pokémon a cavarsela con pochi strumenti a disposizione. Nella lotta si usano queste mosse per tentare di mandare al tappeto, o meglio K.O., il proprio avversario.»
«Quindi i Pokémon svengono? Non è che si feriscono gravemente…?» chiesi insicura.
«Tranquilla, non muoiono per così poco!» sorrise Bianca. «Ci vuole ben altro per uccidere un Pokémon, in una lotta è praticamente impossibile che uno dei due muoia. Anche perché la morte sarebbe lo stadio successivo allo svenimento, per cui si ritira il proprio Pokémon nella sua Ball per curarlo e tenerlo al sicuro; per l’avversario, in ogni caso, è vietato infierire su un’altra creatura per portarla alla morte.»
«Non che questo in guerra significhi qualcosa» disse Gold, lugubre.
«Già… però non preoccupatevi, voi siete in un ambiente sicuro e nel caso in cui le cose si mettessero male per voi, ad esempio in uno scontro con il nemico, vi basta richiamare il Pokémon nella Ball per metterlo in salvo.»
«Quindi lottando un Pokémon fa esperienza?» chiese dopo poco Chiara.
«Esatto. L’esperienza si accumula e si dice che un Pokémon cresca di livello: questo processo è stato studiato e grazie a strumenti come il Pokédex si è generalizzata la crescita di una certa specie. Non mancano le eccezioni, ma in genere tra due Pokémon della stessa specie si ha lo stesso ritmo di sviluppo e per questo si può utilizzare la stessa tabella di uno per un altro. A un certo livello, in genere, si ha poi l’evoluzione.»
«Ecco, l’evoluzione» la fermò Chiara. «Cos’è?»
«L’evoluzione è il cambiamento radicale in un Pokémon, che essendo cresciuto abbastanza si potenzia di molto e arriva a cambiare forma. Non è un processo ben decodificato ma è un momento atteso con ansia da tutti gli Allenatori. Ci sono al massimo tre stadi: quello di base, a cui appartengono il Dratini e lo Squirtle di Gold; il primo stadio al quale sono arrivati il suo Quilava e il mio Weavile e poi il terzo stadio.»
«In cosa evolveranno poi Quilava e Weavile?» domandò ancora la mia amica.
«Quilava diventerà un Pokémon chiamato Typhlosion. Invece Weavile non evolverà più: certi Pokémon hanno solo due stadi e altri rimangono a quello di base, a meno che in seguito non abbiano la necessità di evolversi per, non so, resistere a una minaccia o per trovare il modo di eliminare un pericolo costante. Ma non sempre si può ottenere l’evoluzione salendo di livello: a volte servono oggetti speciali, come delle Pietre. Oppure durante uno scambio con un altro Allenatore, a volte tenendo uno strumento… oppure con la felicità o…»
«Va bene, va bene, anche queste cose le impareremo con la pratica!» misi le mani avanti e ridacchiai.
Il viaggio proseguì senza intoppi, relativamente tranquillo e normale - per quanto la situazione e il mondo in cui io e Chiara eravamo state inserite potessero rientrare nella norma. Gold e Bianca furono molto disponibili nell’istruirci sulle più svariate cose riguardanti i Pokémon. Molte informazioni le dimenticammo quasi subito dopo, ancora troppo astratte per due novelline come noi. Più facilmente assorbimmo le numerose rassicurazioni sulla permanenza all’Accademia, sorvegliata accuratamente, separata anch’essa dal mondo comune attraverso le misteriose e famose barriere e situata fuori dalla città di Giubilopoli.
Inizialmente avevo paura di essere esclusa ed emarginata fin da subito, non sapevo se insieme a Chiara o no, a causa della nostra forte ignoranza. Poi però fui io stessa a calmarmi - momentaneamente, dicendomi che il contesto in cui ci saremmo mosse era molto diverso dal normale e che non era un liceo, quell’Accademia. Saremmo stati tanti ragazzi tutti sulla stessa barca, avremmo condiviso gli stessi problemi e cercato di risolverli con più leggerezza e spensieratezza possibili. La solidarietà sarebbe stata molto presente e sicuramente forte, uniti da una minaccia comune e comprensivi nei confronti del prossimo. Forse era una visione un po’ troppo rosea e avevo aspettative troppo alte, ebbi anche questi dubbi che misero in crisi le mie speranze, ma era vero che solo degli stupidi avrebbero lasciato prendere il sopravvento a sentimenti negativi?
Questo lo ritenevo quasi impossibile. Non potevano andarmi tutti a genio e lo stesso valeva per gli altri, ma le antipatie e le rivalità non dovevano impedirci di dimenticare la situazione in cui ci trovavamo. Mai avremmo potuto rifiutare di offrire un aiuto a chi ne aveva bisogno, sarebbe stato scorretto e sbagliato in tempi di guerra. L’unità era la cosa che contava, i contrasti interni dovevano essere lasciati da parte, piccoli o grandi che fossero.
Quando Bianca e Gold ci lasciarono da sole a confrontarci, andando a controllare che tutto sul treno fosse a posto prima di scendere, esposi a Chiara tutte quelle mie riflessioni e lei si trovò perfettamente d’accordo.
«Per esempio, a me Gold sta già antipatico da morire…»
«Anche a me!» ridacchiai un po’ sconsolata, interrompendola.
«Appunto, sinceramente lo trovo pieno di sé e parecchio saccente. Hai visto come si vanta dei suoi Pokémon? Però se avesse bisogno di un aiuto o di qualsiasi altra cosa, se avesse anche un problema personale e se fossi io l’unica a conoscenza di questo, mica non gli darei una mano. Spero solo che tutti la vedano allo stesso modo.»
«Ma sì, poi anche i professori ci aiuteranno e ricorderanno questo a tutti.»
Chiara sospirò e si stiracchiò. «Comunque non c’è da stare troppo sicure del buon cuore generale.»
«Lo so» mormorai. «Potrebbero nascere invidie o anche conflitti per relazioni varie o non so che altro…»
«Già pensi a trovare un fidanzato, eh?» ghignò Chiara maliziosamente.
Nemmeno arrossii per quanto la considerai scema. «Non intendevo mica questo! Volevo solo dire che se si creasse una coppia e un’altra persona fosse invidiosa, e si dimenticasse della guerra in cui ci troviamo, sarebbe un problema. Tutto qui! Non è così?» Lei continuava a sghignazzare. Io sapevo che mi aveva capita. Sapevo anche che non resisteva a prendermi in giro, come al solito, e per questo mi indispettii e le diedi una gomitata. «Dai, Chiara!»
«Ehi, calmati!» rise lei, rossa in viso per le risate. Scossi la testa e le lanciai un’occhiataccia. «Comunque so cosa intendi e hai ragione. Hai presenti le classiche galline, o oche, come preferisci, che si trovano un po’ ovunque per strada o nelle scuole? Spero che quelle stupide non ci siano pure nel mondo Pokémon.»
«Ho la brutta sensazione che non ne è immune» borbottai, rilassandomi un po’. Incrociai braccia e gambe. «Non ci resta che aspettare e sperare, come si suol dire. Anche perché non abbiamo idea di come sia l’Accademia, a parte una specie di campo di concentramento per Allenatori e simili che poi andranno al macello.»
«Non dire così» si rabbuiò subito lei. «La situazione è uno schifo, lo so, ma andremo in un ambiente protetto. Cerchiamo di non immaginare la morte di qualcuno troppo presto, va bene?»
Scrollai le spalle. Non continuammo quel discorso che volgeva sempre più verso il peggio perché tornarono i nostri compagni di viaggio dal loro giretto abbastanza inutile per il treno.
«Manca poco, ragazzi. Ancora una mezz’oretta e saremo in vista di Giubilopoli» ci annunciò Bianca.
Sentii una stretta allo stomaco. Tutto stava per diventare definitivamente realtà: non avevamo possibilità di tornare indietro. Ormai era stato tuttto deciso e io e Chiara, per il momento, eravamo ancora in balia degli eventi. Vedere la città di Giubilopoli avrebbe confermato il nostro addio alla routine, alla nostra vecchia realtà. Non ero affatto sicura di essere pronta per questo e sicuramente Chiara non era da meno: poteva mascherare l’ansia e l’impazienza quanto e come voleva, ma conoscendola sapevo che era turbata quanto me, se non di più. Era più piccola, anche se per certi versi non si sarebbe detto, e avevo come l’istinto di volerle stare accanto e di proteggerla. Se le cose fossero andate male sarebbe rimasta solo lei ad accompagnarmi in quell’avventura.
Mi lasciai sfuggire un impercettibile sospiro preoccupato. Quanto tempo avrei impiegato per realizzare davvero - poiché tutto mi sembrava quasi finto - che stavamo per diventare Allenatrici?

«Perché stiamo passando praticamente in mezzo a Giubilopoli e nessuno si accorge di un treno ipertecnologico e soprattutto mezzo vuoto, oltre che senza conducente e mai visto prima?»
Questa fu l’unica domanda di senso compiuto che Chiara riuscì a formulare appena entrammo nella provincia della capitale della regione. Giubilopoli era la città economicamente, tecnologicamente e demograficamente più sviluppata di Sinnoh, quindi pur essendo carente dal punto di vista storico e dei monumenti attirava molti turisti, soprattutto da Unima, e offriva servizi di un certo livello. Tutto questo l’aveva resa la città più importante.
«No, non rispondete.» Chiara fermò con un gesto della mano Bianca e Gold, che all’unisono avevano aperto bocca per rispondere qualcosa. «C’entrano sempre e comunque le famose barriere.»
I due annuirono. La situazione era abbastanza comica, in particolare le loro facce perplesse dai comportamenti ansiosi della ragazza; poiché anche io ero piuttosto agitata non riuscii a trattenere una risatina di puro nervosismo.
«Poco preoccupate, voi due» commentò Gold.
«Zitto tu» ribatté subito Chiara mordicchiandosi le unghie.
«Non era una crit-»
«Ragazze, tranquille» intervenne Bianca con un sospiro. Sorrise con il suo fare gentile e alzò leggermente le spalle. «Non dovete temere nulla, stiamo arrivando. È questione di pochi minuti.»
«Appunto, stiamo arrivando. E questo dovrebbe farci stare tranquille?» La mia amica mi gettò un’occhiata di complicità, in cerca di appoggio. Io la ricambiai con parecchia insicurezza e feci spallucce; profondamente delusa dalla mia reazione passiva e incerta, sbottò: «Porca miseria! Almeno arrivassimo subito, io non ce la faccio più!»
«Neanche io» mormorai. O forse rimase un pensiero.
Ero sfiancata dalle emozioni che non smettevano neanche per un momento di tenermi compagnia e che dopo un po’ risultavano essere una sgradevolissima presenza. I dubbi e le domande su quello che avremmo trovato appena arrivate all’Accademia si accavallavano l’uno sull’altro e si accumulavano senza fermarsi un secondo, se ne creavano di nuovi in continuazione. Quindi non mi sorpresi troppo del mal di testa insistente che dopo un po’ mi colse e che mi distrasse da gran parte delle chiacchierate che gli altri tre si stavano facendo: forse fu un bene non essere rintontita dagli strepiti di Chiara che stava facendo ampiamente sfoggio della sua parlantina senza fine. Mentre io mi tenevo le mie domande per me, infatti, lei le diceva a voce alta e acuta senza poi ascoltare le risposte.
Perciò restò di sasso nel sentirsi ripetere fermamente che, praticamente appena arrivate all’Accademia, dopo aver simulato un’iscrizione - che per lo più serviva a farci conoscere dal preside - avremmo ricevuto un Pokémon. «Quand’è che l’avete detto per la prima volta, se l’avete fatto?» chiese con un filo di voce.
Mancavano davvero un paio minuti all’arrivo. Bianca e Gold erano visibilmente stanchi di lei e quindi toccò a me inventarmi qualche risposta, poiché avevo seguito a malapena le ultime battute scambiate.
«Be’, forse non lo hanno detto dando a questa cosa il giusto peso» li giustificai. «In fondo per noi è… motivo di preoccupazione, ehm. È anche ovvio che ne riceveremo almeno uno, anche se non mi aspettavo che subito…»
«No che non è ovvio!» ribatté lei interrompendomi. «Non avrei mai immaginato di poter ricevere un Pokémon, credevo che all’Accademia si studiasse e basta!»
«Praticamente non ha ascoltato nulla delle nostre spiegazioni» sentii dire Gold a Bianca, sottovoce, mentre Chiara era troppo occupata a protestare. Feci un sospiro rassegnato: era fatta così.
«Chiara, ti voglio riassumere la situazione all’Accademia in questo ultimo minuto che precede il nostro arrivo.» Bianca attirò la sua precaria attenzione afferrandole le spalle e guardandola negli occhi. La mia amica era un po’ preoccupata per la sua azione. «Non so in quale classe sarete inserite, non mi ricordo nemmeno se ci sono divisioni in base all’età perché da un po’ di tempo non vado all’Accademia e alcune cose sono state cambiate. Però prima di specializzarsi attraverso i più svariati corsi offerti bisogna anzitutto essere Allenatori e costruirsi una squadra di almeno sei membri nel minor tempo possibile ma con il massimo impegno che un ragazzo come voi può metterci.»
Chiara stava per interromperla e chiedere qualcosa, ma Bianca non la lasciò parlare. «Non credo tu abbia ascoltato le descrizioni dei vari ruoli che potreste assumere, ma se vuoi diventare una spia hai bisogno di Pokémon. Lo stesso vale per un esploratore o un tecnico. Se poi vorrai combattere, se vorrai essere una recluta delle Forze del Bene, a maggior ragione dovrai allenare i tuoi Pokémon sempre di più, migliorandoti di volta in volta, perché il loro addestramento non ha mai fine. Così come quello di un Allenatore, che per essere degno di una buona squadra deve lavorare tanto quanto i suoi compagni, se non di più, dando prova di rispetto e amicizia nei loro confronti. Ecco come funziona a grandi linee. Hai capito?»
Non capivo perché Chiara apparisse tanto turbata dalle parole di Bianca, che invece avevano rassicurata me. I suoi grandi occhi scuri erano spalancati e riflettevano la preoccupazione e l’ansia. Sembrava anche mortificata ma il motivo non potevano essere i sensi di colpa per non aver ascoltato metà dei discorsi di Bianca e Gold durante il viaggio, non era da lei imbarazzarsi per cose “futili” del genere. La risposta arrivò dopo qualche secondo di silenzio; la Capopalestra di Nevepoli lasciò le spalle della ragazza e tornò a sedere in maniera composta.
Chiara abbassò la testa. «E se non fossi brava?» chiese a bassa voce. «Se non fossi all’altezza delle aspettative?»
Bianca e Gold spalancarono gli occhi per la sorpresa: si erano fatti un’idea di Chiara che non includeva assolutamente tutta l’insicurezza che quelle poche parole, grazie al tono di voce, avevano mostrato. Io abbassai lo sguardo e girai la testa verso il finestrino: eravamo arrivati. Capivo perfettamente la mia amica perché anche io avevo paura di non essere abbastanza. Temevo di rimanere indietro con il programma, di non stare al passo con le Forze del Bene e di deludere i miei futuri Pokémon o non instaurare un buon rapporto con loro. Sapevo che Chiara non era da meno e che pure lei aveva tante paure, e le sue stesse parole ne erano state la prova.
«Chiara, non…» esordì Gold incerto, volenteroso di consolare la ragazza, ma Bianca lo interruppe insieme al treno che si era rumorosamente fermato.
«Siamo arrivati» confermò. Il suo viso, in seguito a ciò che aveva detto la mia amica, si era rabbuiato. Silenziosamente, tutti piuttosto turbati dalle poche ma forti parole di Chiara - e soprattutto dal tono della sua voce, recuperammo le valigie e le borse e scendemmo dal treno.
La stazione era pressoché uguale a quella poco lontana da Nevepoli, senonché attraverso le grandi vetrate si vedeva il paesaggio urbano colmo di grattacieli  ed edifici di ogni genere, anziché la foresta innevata e la semplice distesa bianca del nord. La stazione era in periferia, poco lontana dal trafficato e famoso incrocio che si diramava su tre percorsi: quello per Mineropoli, quello per Giadinfiorito e l’altro per Canalipoli.
Era proprio quest’ultimo quello che prendemmo. Oltrepassammo con una vaghezza quasi comica, molto discretamente da parte di Bianca e Gold e più goffamente da me e Chiara, le barriere che chiudevano l’accesso alla stazione: se qualcuno senza permesso si fosse avvicinato troppo ad essa avrebbe girato i tacchi e cambiato meta.
Il caldo di Giubilopoli era soffocante. La cappa di smog che sovrastava la città aumentava a dismisura l’afa ed era davvero molto umido. Noi quattro non eravamo abituati ad un simile clima e subito ci ritrovammo sudati in una maniera a dir poco imbarazzante a sventolarci con qualche cartina di Giubilopoli e dintorni come se fossimo comunissimi turisti. A Nevepoli faceva sempre freddo, in estate meno del solito ma abbastanza, per i suoi abitanti, per sopravvivere con delle T-shirt o altri indumenti estivi; essendo poi una città molto piccola l’inquinamento era quasi nullo perché si gestiva piuttosto facilmente. Lì invece fui sorpresa soprattutto dall’inquinamento acustico che nella nostra città era davvero assente, non serviva esagerare: non c’era proprio. Aggrottai le sopracciglia in segno di forte disapprovazione e mi aggiustai gli occhiali da sole sul naso.
Ero già stata a Giubilopoli in vacanza ma solo per due o tre giorni poiché non c’era granché da vedere: molto più bella era stata la settimana abbondante a Canalipoli che era seguita a quelle poche giornate di noia nella metropoli. Lì mi ero beata del silenzio della Biblioteca e avevo ascoltato il placido suono delle onde, il cigolio del famoso ponte levatoio e il più forte e disturbante rumore prodotto dalle navi, che però ben si sposava con l’atmosfera marittima e pacifica della piccola città. Avevo anche visitato l’Isola Ferrosa.
Prima di arrivare ai confini di Giubilopoli e di imboccare il passaggio per il percorso 218, passammo accanto alla sede principale della Giubilo TV e a quella di un’azienda abbandonata detta PokéKron SpA. Era più piccola dell’imponente emittente televisiva e le porte a vetri sembravano dare su sale buie e prive di arredamento.
«Cos’è PokéKron?» chiesi a Bianca.
Lei alzò il polso e mi mostrò quello che sembrava un orologio. Al posto del quadrante però c’era uno schermo piccolo, quadrato, affiancato da due pulsanti. «Questo è un PokéKron e l’azienda era l’unica al mondo a produrli. Ormai non servono più in grande quantità e vengono prodotti in segreto e resi disponibili ai nuovi arrivati nel mondo Pokémon. Ha numerose funzioni, va dall’orologio alla calcolatrice, c’è una mappa di Sinnoh, fa vedere lo status di salute della propria squadra, l’affetto dei Pokémon nei confronti dell’Allenatore ed altro ancora…»
«Quindi ne riceveremo uno anche noi?» Era una specie di telefono da polso che, be’, non poteva telefonare.
Bianca annuì. «Ormai la sede ospita un rifugio per chi ha delle urgenze di qualche tipo, ma non si sono neanche preoccupati di farne una base segreta - anche perché è troppo visibile. Qui a Giubilopoli, un tempo, c’erano le strutture più importanti e basilari per un Allenatore: la Scuola per Allenatori, il Centro Pokémon…» Continuò ad elencare numerosi luoghi di cui a malapena avevo sentito pronunciare il nome in quei giorni. Concluse il discorso con un sospiro: «Quasi tutti sono stati demoliti, altri sono ben difesi… o almeno, è quello che si spera.»
L’aggiunta finale non mi piacque affatto.
Quando ci ritrovammo nel percorso 218 sobbalzai. «Cos’è successo?!»
Era semisommerso dall’acqua. L’ultima volta in cui lo avevo visto una lunga strada asfaltata si snodava tra i modesti rilievi del percorso, i quali ora emergevano timidamente a malapena collegati tra di loro da una serie di ponticelli quasi galleggianti sull’acqua. Le parti in depressione erano state scavalcate chissà quando dall’acqua del mare e la cosa che più mi stupì era che nessuno ne aveva mai parlato in televisione o sui giornali. Anche quello stravolgimento del paesaggio era merito delle barriere o comunque dello scoppio della guerra?
Quando lo chiesi a Bianca, lei mi rispose: «Sì, è vero: prima Canalipoli e Giubilopoli erano collegate da un percorso totalmente di terra, pur essendo lambito dal mare. Le comunicazioni tra le due città erano molto intense e per questo prese di mira dai Victory: per rallentarli chiudemmo il percorso con l’acqua e poi in qualche altro modo si riuscì a bloccarli totalmente. Ma il percorso rimase così e si arriva a Canalipoli con dei traghetti o tramite Surf.»
«Ma io al massimo riesco a nuotare» obiettai. «Ho fatto qualche anno di piscina, però…»
Gold scoppiò a ridere. Bianca, scuotendo la testa divertita, disse: «Sono i Pokémon a fare Surf, non gli umani! Surf è una di quelle mosse che si possono utilizzare anche al di fuori di una battaglia.»
Feci un cenno d’assenso, più interrogativa del voluto. La Capopalestra tirò fuori dalla borsa due Ball con una fantasia marina, colorate con numerose sfumature di blu e azzurro: ne uscirono fuori due Pokémon uguali chiamati Lapras. Lei e Gold insieme ai loro piccoli bagagli montarono sul dorso dell’esemplare più piccolo, evidentemente più giovane, mentre io e Chiara con le nostre valigie scoprimmo di stare piuttosto comodamente sul guscio che rivestiva la schiena del Pokémon d’Acqua e di Ghiaccio. Era davvero bello, aveva un muso gentile e grandi occhi tranquilli. Serenamente i due Lapras scivolavano sulla distesa d’acqua senza difficoltà. L’assenza quasi totale di onde e di vento favorì il trasporto che si concluse in pochi minuti: scendemmo su un isolotto al centro del percorso, ricoperto da alberi dalle foglie larghe.
Neanche il tempo di muovere un passo su quel pezzo di terra emerso dal mare che il bosco si dissolse e lasciò il suo posto ad un grosso edificio, il quale sorgeva in mezzo al grande cortile che occupava gran parte dell’area della piccola isola. Le pareti esterne erano di un triste grigio e mi pareva che le finestre in vetro scuro fossero poche per tutti i ragazzi e i professori che dovevano girare lì dentro - perché sì, soltanto quella poteva essere l’Accademia.
Quelli che dovevano essere Pokémon Volante volteggiavano placidamente attorno al tetto della struttura, alta e larga come una caserma circondata da quel praticello ben curato. Qualcuno di quei volatili era appollaiato sul bordo del tetto piatto o sulle ringhiere di piccoli balconcini - ne contai tre o quattro a facciata.
Solo la vista dell’Accademia aumentò di molto l’ansia che stavo provando e per un po’ dovetti costringermi a respirare profondamente per calmarmi. Era lì dentro che sarebbe nata la mia identità di Allenatrice e in quel luogo avrei fatto nuove conoscenze, belle e brutte che fossero state. Avrei imparato a distinguere il bene dal male grazie agli aiuti che mi sarebbero stati dati almeno dai professori. Perché d’altronde non era importante fare amicizia con qualcuno, al momento, ma solo imparare a muovere qualche passo nell’atmosfera pesante e incerta della guerra.
Prima o poi sarei stata pronta per affrontare tutto quanto da sola con i miei Pokémon, forse. Ad essere sincera, però, la prospettiva di rimanere con quella specie di animali geneticamente modificati e smettere di frequentare assiduamente dei compagni umani non mi piaceva granché. Non conoscevo i Pokémon e non ero sicura che mi sarebbero piaciuti davvero, una volta sperimentati i primi incontri con loro. In fondo il loro mondo era pieno di pericoli e loro stessi potevano diventare aggressivi: era lecito per una ragazzina come me provare ansia, paura.
E poi, stando a quanto avevano detto Bianca e soprattutto Gold, lì all’Accademia i cosiddetti insegnanti - cioè personalità influenti nel mondo Pokémon che potevano essere sia studiosi che Allenatori eccezionali - erano a dir poco severi. Non c’era modo di “perdere tempo” con bocciature nelle varie materie perché quell’aria scolastica era fittizia, era solo un metodo per far sentire i ragazzi più a proprio agio senza metterli sotto pressione con la guerra. Però quel peso si sentiva comunque e se si osava procurare qualche problema proprio esso veniva sfruttato come punizione. Non volevo immaginare quanto potessero stancarsi psicologicamente, oltre che fisicamente, i ragazzi come noi. Altro che Accademia Pokémon, quel casermone aveva tutta l’aria di essere un’accademia militare.
«Eleonora, tutto bene?» mi chiese la voce di Chiara. «Sei diventata pallidissima…»
«Alla grande» balbettai, intimidita da tutti i film mentali che mi stavo facendo e che probabilmente non erano troppo lontani dalla realtà - che di per sé era già degna di essere parte del mondo del cinema.
Gli altri mi superarono di qualche passo mentre io mi chiedevo, contemplando angosciata l’enorme edificio, se quelle finestre minuscole che ci erano state concesse lasciassero entrare aria a sufficienza per mantenere in vita anche due persone in più. Mi stavo facendo decisamente tanti, forse troppi problemi; ma mi giustificavo ritenendo lecito che una ragazzina di quattordici anni, che con i videogiochi non aveva molta esperienza e che nemmeno era abbastanza combattiva, avesse paura di doversi confrontare con lotte, allenamenti e quant’altro.
Forse se avessi provato abbastanza videogiochi e film di ogni tipo, sarei riuscita ad immedesimarmi nella situazione terribilmente reale che adesso sarebbe diventata la mia nuova vita… invece non avevo alcun punto di riferimento né fonte di ispirazione. Dovevo confrontarmi con qualcosa di sconosciuto, imparare a familiarizzare con i Pokémon, far combattere loro per il mio conto e dimostrarmi all’altezza di cose che mai avevo sperimentato.
“Spero che la bocciatura non esista davvero, perché sono a dir poco a rischio.” Camminavo meccanicamente in coda al gruppo e avevo la sensazione di essere osservata. Sensazione che mi sarei portata dietro per tutti gli anni a venire lì nell’Accademia e ovunque fossi stata sotto l’influenza delle Forze del Bene: quella di essere costantemente tenuta d’occhio. Avevo i brividi al solo pensiero di figurare in una telecamera in momenti imbarazzanti.
Mi diedi qualche colpo su una guancia con una mano. “Calmati, Eleonora: guarda Chiara che di film mentali non se ne sta facendo troppi, e se così invece fosse sta aspettando il momento giusto per sommergere qualcuno di domande e mostrarsi, eventualmente, preoccupata… che vergogna, e se ci fossero un sacco di bulletti là dentro che ci prenderanno in giro perché siamo inesperte? Mi sento così fuori posto… se hanno tutti i capelli di strani colori come Gold e si atteggiano in ogni momento perché sono speciali? Sembrerò sicuramente una bambina sperd…”
Il lamentoso e ansioso flusso dei miei pensieri fu interrotto quando mi fermai ad aspettare con gli altri due che Bianca, armeggiando con un grosso mazzo di chiavi, aprisse il portone in acciaio da cui saremmo ufficialmente entrate nell’Accademia. Invece di continuare a preoccuparmi, le mie facoltà mentali andarono semplicemente a farsi benedire e rimasi sola con il vuoto nella mia testa. Erano meglio i problemi che mi stavo facendo prima.
La Capopalestra trovò due o tre chiavi che facevano al caso suo e poco dopo udii il preoccupante cigolio emesso dal portone, che palesemente di rado veniva utilizzato. «Abbiamo anche altri mezzi, come i Pokémon Volante… o Terra, a volte» disse lei. Ovvio, i Pokémon Volante e Terra. A malapena mi ricordavo quattro o cinque dei Tipi in cui erano suddivisi i Pokémon e in più avevo totalmente rimosso quanti fossero in totale.
Un lungo e largo corridoio, illuminato da una sgradevole luce giallognola rigorosamente artificiale, si presentò ai nostri occhi. In fondo c’era una porta senza alcuna indicazione. Notai subito delle scale che portavano ai piani superiori ma anche a uno o più inferiori. Di un ascensore neanche la traccia: dovevamo farci una sfacchinata su o giù per le scale caricandoci tutti i nostri bagagli, infinitamente pesanti? Al solo pensiero le mie gambe, la schiena, le braccia imploravano pietà, già distrutte dalla tensione a cui ero stata sottoposta psicologicamente.
«Bene, vi accompagno in presidenza e mentre fate il colloquio io e Gold vediamo dove portare le vostre cose.»
“Ottimo, non mi devo porre il primo problema della giornata. No, aspetta… cosa?! La presidenza?”
«Che colloquio dovremmo fare nella presidenza?» chiese Chiara. Viva la telepatia.
«Oh, devono conoscere direttamente da voi i dettagli della vostra entrata nel mondo Pokémon e quale livello di conoscenze avete. Non fate fare brutta figura a me e Gold, qualsiasi cosa vi dicano mostratevi preparate!» scherzò. Feci un risolino nervoso desiderando di tappare la bocca della Capopalestra che non era stata affatto divertente, risolino che costrinse Chiara a fermarsi un momento, appoggiata al muro, mentre le sue vere risate si placavano. Quasi indifferente al tutto, Bianca continuò: «Quindi organizzeranno le vostre lezioni, vedendo a che punto siete, e probabilmente vi manderanno quasi subito a prendere un Pokémon…»
Dopodiché le mie orecchie si rifiutarono di ascoltare gli altri dettagli che, in confronto con la notizia che ci era stata appena data, mi apparivano come assolutamente privi di senso. Meglio, di importanza. Ci avrebbero subito dato un Pokémon e noi non avevamo ancora un minimo di preparazione in più su come dovessero essere tenuti e trattati. Dimenticai le brevi rassicurazioni fatte a chiara e quelle avute da Bianca. Avevo voglia di andarmene e dimenticare tutto: la nostalgia e la paura si facevano sempre più pesanti.
Ma nonostante quella pesantezza che avrebbe dovuto tenermi bloccata nel punto in cui mi trovavo, schiacciarmi sotto la sua gravità, riuscii a muovere dei passi verso quella porta in fondo che evidentemente era la presidenza. O qualunque cosa fosse che si avvicinasse, anche solo lontanamente, a un normale ufficio di una scuola normale. Con persone normali e materie di studio normali. Ma in che tipo di posto ero finita veramente?
Bianca bussò discretamente alla porta e chiese permesso. Una rauca voce maschile le concesse di entrare: non riuscii a sentire quello che si dissero sottovoce, rimasta indietro di qualche passo insieme a Chiara. Non guardai nemmeno la mia amica, troppo concentrata sul forte batticuore che avevo. Bianca salutò e lasciò il posto a noi, ammiccando in segno d’incoraggiamento. Mi parve l’ennesima condanna alla mia segregazione in quella caserma.
Chiara, vedendomi così turbata - probabilmente non lo ero mai stata tanto in vita mia, decise di farsi avanti prima di me. Prese un respiro profondo, però, facendomi capire quanto anche lei fosse preoccupata. E subito ebbi i sensi di colpa per averla lasciata andare per prima: ero la maggiore delle due e avrei dovuto essere io a fare strada. O forse era meglio non aggiungere anche quelle brutte sensazioni al tutto, altrimenti sarei scoppiata a piangere - o a ridere, le opzioni erano quelle due - davanti al cosiddetto preside.
Era un uomo abbastanza anziano seduto dietro un’imponente scrivania, ma subito si alzò quando Chiara mosse il primo passo dentro l’angusta stanza. Nei nostri incontri successivi capii che per lui stare seduto era più che altro una costrizione, visto che ogni occasione era buona per muoversi. Si presentò come Aristide, Capopalestra della città di Boreduopoli specializzato nei Pokémon Drago. Non ero mai stata in quella città, a Unima ci ero andata una volta o due: avevo visitato Austropoli, la capitale economica e politica, e Sciroccopoli, la capitale del divertimento.
Aveva una folta barba bianca che quasi gli nascondeva la bocca e capelli dello stesso colore, in contrasto con la pelle scura. Fisicamente, nonostante l’età - doveva avere quasi settant’anni, era messo benone. In passato doveva essere stato sicuramente un bell’uomo, però la sua espressione corrucciata e severa non m’ispirava affatto.
Ci chiese i nostri nomi, la provenienza e se ci conoscessimo tra noi due. La risposta fu quasi all’unisono: «Lei è la mia migliore amica.» Ci scambiammo un’occhiata e un sorrisetto meno nervoso.
Aristide inarcò leggermente le sopracciglia nel sentire il piccolo coretto in risposta. Il motivo della voce rauca era suggerito da un forte odore di fumo e dal posacenere occupato dai resti di un sigaro. La finestra era aperta per far arieggiare la stanza ed era abbastanza grande, nonostante le altre mi fossero sembrate piccolissime.
«Quando avete scoperto il cosiddetto mondo dei Pokémon?»
«Ehm… l’altroieri circa.» Mi imbarazzai non poco a rispondere a quella domanda.
«E le vostre conoscenze come sono messe? Certo, farete la maggior parte delle scoperte con la pratica sul campo di lotta, ma le basi ve le hanno fornite? Combinazioni di tipi, mosse, Poké Ball, evoluzione e metodi…?»
Annuimmo sia io che Chiara dando per imparato, magari inconsapevolmente, tutto quello che l’uomo diceva, sperando di non dover smentire con i fatti le conferme che gli stavamo dando.
Però Aristide non era un nonnetto facilmente traibile in inganno. Appena socchiuse gli occhi capii che era più che sospettoso delle nostre conoscenze. «Quali Pokémon avete incontrato finora?» chiese.
Solo quello ci mise in difficoltà: sforzando la mia memoria richiamai alla mia mente i Pokémon fino ad allora incontrati. «Snover, Weavile… poi, ehm, Dratini, Squirtle… e Quilava.» “Credo.”
«Quali sono i tipi di Weavile?»
«Ghia… Ghiaccio e… e Buio…?» “Chiara, per la miseria, aiutami!” La mia amica se ne stava zitta e ora me la stava facendo pagare per prima, perché avevo fatto inaugurare a lei l’ingresso nella presidenza.
«E le sue debolezze quali sono?»
Seguì un silenzio notevolmente imbarazzato. Non mi presi la briga di interromperlo ma gettai uno sguardo di sbieco a Chiara, parecchio rossa in viso. Fu Aristide a sospirare lievemente e a proseguire: «Be’, come ho già detto, la maggior parte delle cose le imparerete con la pratica… è anche vero che, in due giorni, parlare e basta di qualcosa rende tutto molto effimero. Non mi stupisce che ancora non sappiate praticamente nulla.»
Be’, almeno non si sarebbe arrabbiato con nessuno. Forse non ci sarebbe andata così male quel primo giorno.
«Comunque avete bisogno di almeno un Pokémon per qualsiasi evenienza o bisogno ci possa essere,» aggiunse, «così potrete iniziare fin da subito ad allenarvi e a conoscere i vostri futuri compagni. Aspettate Bianca e fatevi portare nella stanza che vi è stata assegnata, poi da lì andate all’ultimo piano. Incontrete uno dei Professori Pokémon più anziani e più in vista di Sinnoh, Rowan, che potrà aiutarvi nella scelta. Tutto chiaro?»
Annuimmo. Sentivo che le mie mani iniziavano a sudare per la preoccupazione e sperai che Aristide non si accorgesse del disagio che io, e probabilmente anche Chiara, stavo provando. Ma mi sembrava troppo sveglio per non fare caso a quanto fossi preoccupata, difatti mi guardò a lungo: mi sentii ancora più preoccupata. Ci congedò e aspettammo che Bianca tornasse. Quando arrivò salimmo le scale in cerca del nostro posticino nell’Accademia.







Angolo ottuso di un'autrice ottusa
Eh eh eccomi qua con un altro aggiornamento. Sono leggermente in anticipo perché questo pomeriggio parto e domani non credo avrei avuto modo di aggiornare. O meglio, sì, e infatti probabilmente mentre sarò in vacanza in montagna aggiornerò un'altra volta con il prossimo capitolo; però domani credo proprio che non ci sarei riuscita (?).
In realtà sono un po' indecisa se aggiornare anche sabato prossimo o saltare quella settimana per rimandare a fine agosto/inizio settembre, quindi appena sarò di ritorno e avrò il pc. Posso passarmi il prossimo capitolo con tutto l'HTML sul telefono, l'ho già fatto una volta e ha funzionato; se a voi va bene (?) e se avrò wifi e modo di farlo, allora posterò anche il quarto capitolo. Spero che questo terzo vi sia piaciuto.
Devo dire che sono un po' indecisa su questa storia. Non so, sto cercando di rallentare tutto per curare l'entrata nel mondo Pokémon e rendere il tutto il più verosimile possibile, ma non so se ci sto riuscendo. Ditemi voi se c'è qualcosa da migliorare o se vi sembra abbastanza reale la situazione della storia.
Se riceverò recensioni in queste due settimane non potrò rispondere, al massimo le leggerò. Il 31/1° settembre mi metterò d'impegno per rispondere.
Allora niente. Vi saluto e ci risentiamo la prossima volta. Nel prossimo capitolo non ci sarà l'angolo ottuso, ma non credo serva stavolta, quindi... ciccia (?). Baci!
Ink

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Capitolo 5
*** IV - Nascenti Allenatori ***


IV
Nascenti Allenatori

La nostra camera si trovava al primo piano insieme a quasi tutte le altre dei vari “studenti”. Al secondo c’erano svariate aule e qualche stanza che poteva sempre tornare utile a dei nuovi, inaspettati arrivati. Al pianterreno vi era solo la “presidenza” e l’ingresso e poi c’era quello sotterraneo in cui si svolgevano le lotte di allenamento. Non capii bene la spiegazione di Bianca ma avrei saputo tutto perfettamente solo andandoci direttamente, immaginai.
La Capopalestra, prima di andarsene, ci lasciò le chiavi della nostra camera e indicò le scale per salire al piano superiore. Già sapeva che saremmo state aiutate dal professor Rowan, chiunque egli fosse, per la scelta di uno o due Pokémon per cominciare. Io e Chiara entrammo e trovammo le nostre valigie ai piedi di due letti separati, uno addosso alla parete di destra e uno a quella di sinistra. Non c’era molto spazio ma nelle altre due stanze, il bagno e soprattutto una specie di cabina-armadio, avremmo sistemato le nostre cose e recuperato quella mancanza. Due mensole vuote e un comodino di fortuna dietro il letto occupato da Chiara, a destra, furono subito utilizzate.
«Odio la moquette» borbottai pestandola un paio di volte con lo stesso piede.
«Ma come? È così comoda per camminare scalzi!» ribatté Chiara. «Piuttosto, ’ste pareti gialline…»
«Sì, queste sono terribili» ridacchiai. «E la finestra c’è solo in bagno… va be’. Accontentiamoci.»
«Come se dovessimo passare tanto tempo qua dentro! Secondo me ci faranno sgobbare da mattina a sera e quando andremo a dormire non avremo neanche il tempo di lamentarci di qualche disagio.»
«Stando a quanto hanno detto Gold e Bianca, in effetti, si studia sia mattina che pomeriggio… poi prima e dopo la cena ci sono le ore libere. La sveglia è alle sette per tutti e alle otto si comincia… proprio come a scuola, eh?»
«Se è proprio come a scuola mi alzo mezz’ora dopo. Alle sette non ce la faccio.»
Le feci una linguaccia per prenderla un po’ in giro e lei ribatté che la sera non aveva intenzione di andare a letto alle dieci per svegliarsi in tempo. Adorava fare le ore piccole e dormire fino al primo pomeriggio - ero pronta a scommettere tutto quello che avevo che il suo orologio biologico fosse totalmente disastrato.
«Senti, quando credi che dovremo andare da quel professore di cui ho già scordato il nome?» borbottò.
«Direi anche subito, se tu non hai niente da fare» dissi sentendo una stretta allo stomaco al pensiero di ricevere il mio primo Pokémon. Non ero sicura di essere in grado di badare a qualcosa di totalmente nuovo e sconosciuto e confidai questa mia preoccupazione a Chiara, che puntualmente ricambiava quello che io sentivo. Era d’accordo e non capiva perché fin da subito, senza un minimo di preparazione, dovessimo gestire quegli esserini. Sospirai e replicai: «Be’, immagino che rimandare non ci farà bene… almeno cominciamo subito. Andiamo?»
Lei annuì e pochi minuti dopo eravamo al pianerottolo del livello superiore. Tre corridoi si diramavano da esso: uno pieno di porte doveva essere quello delle camere di fortuna, un altro con ulteriori stanze avrebbe potuto essere quello delle aule. Tentammo l’ultimo, abbastanza vuoto, e in effetti dopo aver girato un angolo trovammo un vecchio, vecchissimo signore che ci salutò cordialmente. Era Rowan. Aveva una voce roca da far spavento. Un tempo doveva essere stato molto alto, quasi statuario, e lo si poteva intuire dalla costituzione fisica non troppo rovinata dall’età, ma ormai aveva una gobba non indifferente. Barba e capelli erano di un bianco immacolato che subito mi riportò con la mente al paesaggio perennemente innevato di Nevepoli. Sentii una fitta allo stomaco dovuta a un’improvvisa nostalgia, che sarebbe stata di sicuro una costante nella mia permanenza nell’Accademia.
«Benvenute, benvenute! Voi siete Eleonora e Chiara, giusto?» Annuimmo, fregandocene del fatto che avesse guardato la mia amica pronunciando il mio nome e viceversa. «Ben arrivate! Io sono il professor Rowan e per tutta la mia vita ho svolto ricerche sui Pokémon originari di questa regione. Però ho una buona conoscenza anche di quelli provenienti dalle altre, quindi saprò consigliarvi a scegliere un Pokémon.»
«Allora per il momento è solo uno?» domandai. Avevo un’espressione parecchio crucciata.
«Sì, appena avrete familiarizzato con il primo potrete sceglierne un altro e così via!»
Mi scambiai un’occhiata con Chiara, capendo al volo che Aristide e compagnia avevano considerato il fatto che fossimo totalmente sprovvedute. Rowan ci fece strada dentro la porta a cui sembrava star facendo la guardia.
Mi stupii di essere entrata in quella stanzetta totalmente rivestita di nero, già abituata ai colori caldi e accesi che erano stati usati un po’ ovunque nella struttura dell’Accademia - a parte per il grigio esterno. Era un ambiente molto asettico, delle lampadine di luce bianca illuminavano il pavimento scuro, e se prima si udiva un generale chiacchiericcio di sottofondo, ora c’era il silenzio più totale. La faceva da padrone, nella stanza, un tavolo a forma di spirale che la occupava quasi tutta. Due o tre di Poké Ball per volta erano poste per tutta la sua lunghezza.
«Attraverso la metà rossa e semitrasparente della Ball potrete vedere chi essa ospiti. Se un Pokémon vi attira potete prenderla e farlo uscire premendo il bottoncino» ci istruì il vecchio professore.
Un’altra occhiata con Chiara. Ormai eravamo dipendenti da quel rassicurante contatto visivo. Stavolta fui io a partire per prima, sentendomi fissata da centinaia di occhietti chiusi dentro quelle minuscole sfere, prodigi della tecnologia. Non le guardai proprio una per una perché poi mi sarei sentita infinitamente indecisa.
«A me piace questo qui!» La voce della mia amica risuonò nel silenzio e quasi mi prese un colpo. Mi voltai a guardarla quasi tremante: teneva in una mano una Poké Ball, grande meno del suo palmo, ma non riuscii a vedere il suo ospite. Chiara premette il bottoncino, la sfera si aprì e ne fuoriuscì un essere simile a un pinguino. Era minuscolo: aveva un piumaggio corto e morbido di varie sfumature d’azzurro e bianco, due grandi occhi curiosi e un becco giallissimo piuttosto grande rispetto al resto del corpo.
«Ma tu guarda!» rise Rowan con la sua voce rauca. «Quello è Piplup, un Pokémon di tipo Acqua. Quando il Nemico ancora non c’era e gli Allenatori partivano per il tradizionale viaggio nella loro regione natale, questo era uno dei cosiddetti starter insieme ai suoi colleghi di Erba e Fuoco. È un Pokémon niente male.»
Piplup guardava con i suoi occhioni Chiara e pareva un po’ spaesato. La ragazzina lo prese in braccio e prese subito ad accarezzargli la testa, facendolo sentire a proprio agio. Poi mi guardò mentre Piplup, in estasi, era ad un passo dal mettersi a fare le fusa. «Hai intenzione di guardarmi per tutto il giorno o prendi anche tu qualcuno?»
Accennai un sorriso pieno di disagio - ne uscì fuori una sgradevole, brutta smorfia che mi affrettai a cancellare - e ripresi a sfiorare con lo sguardo pavido le innumerevoli Balls, desiderando di concludere in fretta la faccenda. I Pokémon che non venivano scelti quanto tempo avrebbero dovuto aspettare ancora per ottenere un Allenatore? Provavano invidia, rancore, per non essere stati presi da qualcuno?
Gli occhi mi caddero quasi per miracolo su un Pokémon che mi ricordavo chiaramente di aver visto mentre io e Chiara sfogliavamo l’enciclopedia cartacea a casa di Bianca. Alla pagina di quel piccolo uccello seguiva quella della sua evoluzione che acquisiva il tipo Drago pur rimanendo, nelle fattezze, un volatile. Ero infatti rimasta stranita dal suo doppio tipo, Drago/Volante, se nei fatti rimaneva un uccello in tutto e per tutto.
Decisi di prendere lui perché mi pareva di averlo già conosciuto, avendolo già visto da qualche altra parte, mentre gli altri Pokémon lì presenti me li ricordavo a malapena raffigurati nel librone di Bianca. Era come se già sapessi con chi avrei iniziato quell’avventura e che quindi non mi fosse del tutto nuovo quel compagno - sarebbe stato un po’ come prendere uno Sneasel, visto che avevo già visto il Weavile di Bianca e sapevo con chi stavo per fare le mie prime esperienze di Allenatrice. Speravo, in un certo senso, che mi infondesse sufficiente sicurezza.
Subito liberai un esserino uscito, probabilmente, da un manga pieno di creature tanto assurde e inverosimili quanto tenere e carine alla vista. Chiara commentò la mia scelta con un “kawaii” e le rifilai un’occhiataccia prima di vedere una specie di palla di cortissime piumette blu, cinguettante, rivestita su altre parti di più lunghe e vaporose piume e soprattutto di cotone svolazzare davanti ai miei occhi per poi andarsi a posare sulla mia testa.
«Non facciamola diventare un’abitudine» brontolai. La mia amica scoppiò in una risata mentre l’uccelletto continuava a canticchiare allegramente. Mi chiesi se non fosse stato meglio prendere un Pokémon dall’aspetto più aggressivo, che riuscisse ad intimidire i possibili avversari, insomma. “Va be’, sarà per la prossima scelta…”
«E invece è proprio una caratteristica della sua specie posarsi sulla testa delle persone a mo’ di copricapo!» ridacchiò Rowan. Presi senza troppi complimenti la cosetta che si era appollaiata sulla sua testa e che ebbe la decenza di non ancorarsi ai miei capelli con le sue minuscole zampette.
Le mie mani affondarono nel morbidissimo rivestimento candido che copriva alcune parti del suo corpo. Poi la mia faccia in quel momento si trasformò in quello che doveva essere un enorme, scioccato e comico punto interrogativo. Il cotone e le piume bianche erano le ali. Avevo preso il volatile meno serio sulla faccia del mondo dei Pokémon. Aveva un paio di ciuffi sopra la testa - indistinta dal corpo, era un’unica sorta di pallina blu - e il grosso becco bianco nel mezzo del… muso?… Qualsiasi cosa potesse essere il muso su quella sfera di piume. La coda azzurra si vedeva a malapena, sommersa dalle ali bianche, molto grandi rispetto al corpo.
Aveva due piccoli occhi nerissimi e lucenti che mi guardavano incuriositi. Probabilmente volevano capire che razza di espressione fosse dipinta sul mio viso. Ci fissavamo a vicenda e le mie sopracciglia inarcate dovevano, ormai, essersi fuse con i miei spettinati capelli castani. Forse spiazzata era la parola giusta per descrivermi.
In un momento successivo realizzai di star tenendo tra le mie mani tremanti, all’altezza del cuore, uno pseudo-uccello batuffoloso e di starci scambiando un lungo sguardo; da parte mia, con gli occhi mezzi fuori dalle orbite, scandalizzato e incredulo; dalla sua abbastanza vispo e curioso.
Esalai una risatina nervosa appena mi figurai la situazione in testa. Non ci credevo. Stavo toccando un essere chiamato Pokémon. Smisi di tenerlo tra le mani, pensando che si sarebbe dissolto davanti ai miei occhi insieme a quel maledetto sogno da cui non volevo saperne di svegliarmi, o che fosse caduto miseramente a terra rivelandosi per il peluche che era. Invece riprese a svolazzare e, per completare il quadro, tornò sulla mia testa. “Ma porca…!”
Se Chiara si era messa a ridere anche solo per la mia risatina nervosa, immaginai che fosse lì lì per dire addio ad un polmone appena il Pokémon diede segni di ribellione al comando, rimettendosi sul mio capo quando invece avevo espressamente detto di non farla diventare un’abitudine. Come se quella cosa potesse capirmi.
«Tutto bene…?» Per qualche miracolo la voce roca di Rowan mi arrivò sopra le risa della mia compagna.
«Meravigliosamente. Com’è che si chiama ’sto Pokémon?»
Era evidente che doveva aver appena snocciolato parecchie informazioni su di esso perché sospirò e disse molto brevemente: «Si chiama Swablu, di tipo Normale e Volante, e proviene da Hoenn.»
«E la sua evoluzione come si chiama?» chiesi. Sinceramente mi aveva incuriosito di più il Pokémon sulla pagina successiva dell’enciclopedia che la pallina da tennis con qualche vizio di troppo.
«Oh… è Altaria. Si evolve al livello 35.»
Subito Chiara gli chiese cosa fossero i livelli - totalmente dimentica delle spiegazioni di Bianca, di sicuro - e Rowan, per spiegare velocemente, ci confuse ancora di più le idee. La mia amica per fortuna capì che non era il caso di trattenerci un momento di più in quel posto, anche dopo aver visto le mie reazioni in seguito ai primi contatti con Swablu, ed ero pronta a scommettere che il mio colorito non fosse dei migliori. Salutammo Rowan, non feci nemmeno caso a quello che gli dissi - sempre che gli avessi detto qualcosa, visto che mi pareva di aver dimenticato di essere in possesso di corde vocali - e corremmo in camera. O meglio, le nostre intenzioni erano quelle; perché, ad un passo dalla porta della stanza in cui ci trovavamo, quella si aprì e per poco non me la beccai sul naso. Swablu cinguettò - tanto per cambiare, stavolta spaventato.
Entrò una ragazza con al seguito un Pokémon, una specie di cagnolino dal pelo rosso, nero e ocra chiaro. Subito lei mi rimase impressa nella mente per la sua matassa di lunghi capelli ricci di un castano rossiccio. Ci guardammo per un po’. Aveva gli occhi verdi come me, ma i miei erano un po’ più scuri - e a volte diventavano quasi totalmente grigi. La sua pelle era di carnagione abbastanza chiara e vi risaltavano parecchie lentiggini.
Arrossii di colpo quando capì che non stava guardando solo me, ma anche il dannatissimo Swablu sulla mia capoccia. «Eh, scusa… Scusa!» balbettai come se le avessi fatto un torto. «A quanto pare è un’abitudine…»
La ragazza sorrise gentilmente. Mi riuscì subito simpatica perché non rise di me, paura che già si era instillata dentro la preoccupata sottoscritta. «Mi sembrate delle facce nuove. Siete appena arrivate?»
«Sì, da pochissimo…»
Le avrei pure detto che non conoscevo i Pokémon e le avrei chiesto, se fosse stata in grado di darmelo, un aiuto per dialogare con Swablu e farlo smettere di appollaiarsi sulla mia testa. Ma Rowan mi interruppe; Chiara, mentre i due parlavano, mi ricordò che dovevamo scendere nella nostra camera.
«Ciao, Ilaria!»
«Ilenia, prof» ridacchiò la ragazza. Sorrisi anche io. Mi aveva fatto davvero una buonissima impressione, Ilenia. «Senta, avrei bisogno della Pietra per Growlithe, ormai è ora…»

Chiara chiuse la porta alle sue spalle e quasi si dimenticò di lasciar entrare Piplup, che aveva cercato di stare al suo passo mentre correvamo febbrilmente verso la nostra stanza. Il pinguino geneticamente modificato si infilò per miracolo nello spiraglio rimasto disponibile prima che la sua Allenatrice sbattesse la porta e vi si appoggiasse, per poi lasciar andare un sospiro stremato. Scivolò con la schiena lungo essa e si sedette a terra. Piuttosto, si accasciò.
«Non è il momento» sbottò rivolta al suo Pokémon che subito le prese la gamba dei pantaloni con l’ala e la strattonò, desiderando un po’ di coccole. Piplup emise un lamento penoso.
“Cominciamo bene i nostri rapporti” borbottai mentalmente. Mi rigiravo tra le mani la Ball di Swablu finché non mi accorsi di averla resa scivolosa, tanto sudavo per l’ansia e l’adrenalina. Mi buttai sul letto e il mio nuovo compagno, dopo un cinguettante volo di ricognizione per la camera, si posò sulla mia schiena rivolta al soffitto. Mi alzai di scatto e capì, o almeno sperai, che non era il caso di continuare a quel modo.
Sentimmo bussare alla porta. Chiara si rimise in piedi e aprì senza darmi neanche il tempo di mettermi a sedere sul letto. Ancora mezza sdraiata su di esso e con Swablu che si lamentava per non potersi poggiare su una qualche parte del mio sventurato corpo, riconobbi la vaporosa chioma di Ilenia. La mia amica si trattenne dal chiedere, sgarbatamente per la stanchezza, cosa diavolo volesse e la salutò con quel po’ di cordialità che aveva ancora.
«Rowan ha detto che si è dimenticato di darvi delle cose e che siete andate via appena gli è venuto in mente. È fatto così, sono passati tanti anni dai suoi tempi d’oro!» ridacchiò la ragazza. Posò una busta di plastica sul letto di Chiara e subito elencò una serie di nomi appartenenti a vari aggeggi elettronici, o qualsiasi cosa fossero, che mi dovetti far ripetere una dozzina di volte per impararli. Quasi tutti.
«Il Pokédex è l’enciclopedia elettronica. Il PokéGear contiene mappe delle regioni e funziona da cellulare, potete mandarci messaggi e fare telefonate. Il PokéKron ha l’aspetto di un orologio da polso con molte applicazioni. Gli altri strumenti sono richiesti dai professori perché è un po’ un dovere esserne in possesso… ma quelli utilizzati prevalentemente sono questi tre.» Gli altri due oggetti a cui si riferiva erano, imparai in seguito, il PokéNav e l’Interpoké. In ogni caso tutti abbreviavano i nomi togliendo la parte “poké”.
Restammo per un po’ in silenzio. Io avevo subito indossato il PokéKron e giocherellavo con le sue funzioni. Guardai la schermata della squadra Pokémon che si limitava a sei posti: c’era una sagoma in pixel di Swablu con sotto una barra piuttosto spessa, lunga quanto le dimensioni della sua immagine. Mi chiesi in silenzio cosa fosse. Poi guardai Ilenia che non accennava a volersene andare e ci guardava sorridente. Ricambiai, forzandomi un po’.
«Da dove arrivate?» si interessò, appoggiandosi alla porta che aveva tranquillamente chiuso lei stessa.
«Da Nevepoli.» Mi occupai io di rispondere alle sue domande.
«Ah, vi siete fatte un bel viaggetto! Io pure sono originaria di Sinnoh ma ho vissuto per parecchio tempo con la mia famiglia a Kanto. Poi sono venuta qui tre anni fa con Charmander e Ponyta. Adoro i Pokémon di tipo Fuoco.»
«Quindi tu eri già a conoscenza dei Pokémon quando sei arrivata qui?»
La ragazza annuì. «Sì, tutta la mia famiglia li allena. Voi invece siete palesemente nuove di tutto questo mondo, a giudicare dalle vostre facce spaesate! Cosa avete fatto finora?»
Le raccontai che venerdì pomeriggio, due giorni prima, avevamo trovato il quartiere nord di Nevepoli nascosto dalle barriere, che per qualche motivo erano state fatte abbassare. L’incontro con Bianca, gli Snover al Lago, Gold e poi la partenza… mi pareva fosse successo tutto terribilmente in fretta ma anni ed anni fa.
«Oh, Gold lo conosco. Nel senso che l’ho già visto in giro, siamo in corsi diversi.»
«Come funziona qui? Ci sono delle classi, lezioni da seguire…?»
«Sinceramente… è tutto talmente complesso che alla fine si fa un po’ come ci pare!» rise Ilenia. «L’importante è lavorare e passare i test. Essere al passo con il programma, insomma, poi potete anche starvene a bighellonare per tutto il giorno e allenarvi e studiare per conto vostro. Ma è meglio che per i primi tempi facciate le studentesse modello, anche per il vostro bene, soprattutto se siete molto inesperte.»
«Be’, lo siamo.»
Ilenia rise di nuovo. «Mi chiamo Ilenia, ho diciassette anni. Voi chi siete?»
Avrei voluto dirle che il suo nome l’avevo già sentito ma mi trattenni. Essere tesa mi portava al limite della mia diffidenza e mi faceva dire cose stupide. «Io sono Eleonora, ho quattordici anni, e lei è Chiara, di tredici.»
«Chiara? Come una Capopalestra di Johto! Allena Pokémon di tipo Normale.»
La mia compagna annuì con un sorrisetto senza rispondere nient’altro. Ilenia chiese che ore fossero: era passata l’una. Esclamò: «Ora di pranzo, quindi! Vi va di venire con me? Posso presentarvi a qualche mio amico.»
Ebbi una stretta allo stomaco per l’ansia di fare nuove conoscenze, mi sentivo fuori luogo e la mia insicurezza avrebbe fatto sicuramente una bruttissima impressione. Ma non potevo rifiutare l’invito di quella ragazza tanto gentile, disponibile e amichevole. E poi se lei era così carina e cordiale la sua compagnia, i ragazzi a cui ci avrebbe presentate, non poteva essere diversa da lei. La ringraziai sorridendo ed essere ricambiata, con quell’espressione quasi immutabile che comunicava sicurezza in sé stessa e gentilezza, mi fece sentire un po’ meno tesa.
Così andammo alla mensa che si trovava sullo stesso piano. Era una grossa stanza che pareva in ogni aspetto la sala da colazione di un hotel piuttosto buono: tavoli e tavoli spostati in ogni modo per mettere insieme gruppi di amici chiassosi e rumorosi, una grande porta-finestra sul lato opposto all’entrata - persino un balconcino! - e un lungo bancone pieno di cose da mangiare si presentò agli occhi curiosi miei e di Chiara. Swablu e Piplup non avevano voluto saperne di starsene nelle proprie sfere e li tenevamo in braccio per impedire che facessero casino - o peggio ancora che il mio Pokémon mi salisse sulla testa - insieme ai loro simili, di cui la mensa pullulava.
Nessuno si accorse di noi, tutti troppo intenti a chiacchierare e a mangiare. Ilenia ci fece strada fino a un paio di tavolini accostati per dare posto a quattro persone. Ci lasciò sole con i tre occupanti che la stavano aspettando per andare a recuperare un altro tavolo, dopo aver detto che eravamo due nuove arrivate. Mi chiesi se fossi pallida o semplicemente rossa dall’attaccatura dei capelli fino alla base del collo.
Mormorai il mio nome e lo stesso fece Chiara. Prima che i tre si presentassero, però, Ilenia arrivò e ci fece accomodare senza neanche lasciarci il tempo di andare a prendere qualcosa da mangiare. Però stranamente avevo lo stomaco chiuso, cosa che mi succedeva molto di rado.
Al tavolo erano presenti un ragazzo dagli arruffati capelli scuri e dall’espressione cordiale e simpatica come quella di Ilenia, che doveva avere la sua età, e una tipa dai corti capelli biondo platino vestita come una punk. Mi sembrò un po’ fuori luogo insieme a quei due, anche perché doveva avere anche lei più o meno diciassette anni, ma ne dimostrava quasi venti. L’altra persona era un ragazzetto che sembrava capitato lì per caso. Doveva avere circa a mia età e lo trovai, a prima vista, molto carino. Mi colpirono i suoi intelligenti e vivaci occhi blu. Quando ci sorrise appena dopo essere state presentate come “novelline” mi diede subito l’idea di essere astuto e beffardo.
In ordine erano Lorenzo, Cynthia e Daniel. I primi due avevano diciassette anni, ci avevo visto giusto; l’ultimo non ne aveva ancora compiuti quindici. Ne dimostrava di meno per gli occhi grandi che aveva, per quel po’ di lentiggini sul naso che, come per Ilenia, risaltavano sulla pelle chiara - anche se lei ne aveva molte di più, e per i capelli castani che continuava a riavviarsi, dandosi forse un po’ di arie, non acconciati in alcun particolare modo. Al contrario quando faceva proprio quell’espressione beffarda, quasi ironica, sembrava più grande.
Ripetemmo un po’ tutto quello che avevamo già detto ad Ilenia, ovvero che non conoscevamo praticamente nulla del mondo dei Pokémon, aggiungendo che non sapevamo nemmeno come relazionarci con quelli appena ricevuti. Lorenzo sorrideva gentilmente, somigliava tantissimo alla ragazza che ci aveva invitate a stare insieme a loro; Cynthia ghignò a sapere delle nostre scarse conoscenze e sulle prime non mi stette particolarmente simpatica, ma mi costrinsi ad andare oltre le prime impressioni. Daniel sembrava un momento interessato e altri due no.
«Be’, siete al tavolo di quattro persone che hanno sempre vissuto a contatto con i Pokémon» disse Lorenzo. «Ma non dovete preoccuparvi troppo di nulla. Ci farete l’abitudine senza troppa difficoltà.»
«Ci dovrete fare l’abitudine» disse Cynthia. Aveva un pesante trucco nero attorno agli occhi grigio-azzurri che si abbinava al resto del look, orientato sui colori scuri e su un’abnorme quantità di borchie, in contrasto con la pelle e i capelli chiari. Mi parve strano che si fosse limitata agli orecchini e non avesse aggiunto piercing un po’ ovunque sul suo viso dai lineamenti affilati. Aveva il naso piuttosto lungo e le labbra sottili. «In qualche modo dovrete diventare Allenatrici invidiabili anche voi. Stare al passo, insomma. Tra qualche giorno si ricomincia.»
«Le lezioni riprenderanno la settimana prossimo» precisò Ilenia.
Mormorai un “oh” con una vocina intimidita che fece sorridere Lorenzo e Cynthia e ridacchiare Daniel. Arrossii - tanto per cambiare - e chiesi: «Dobbiamo fare qualcosa di particolare prima di cominciare?»
«Magari conoscere i vostri strumenti da Allenatrici e…»
«Avete provato a fare una lotta?» Cynthia interruppe la ragazza e ci squadrò da capo a piedi. Poi si concentrò su Swablu e Piplup e capii che una tipa come lei non poteva permettersi di avere Pokémon tanto kawaii - per dirla come Chiara - in squadra. Facemmo entrambe di no con la testa.
Lei si rivolse a Daniel. «Tu non hai quei due o tre amici che ancora hanno dei Pokémon a livelli bassi? Perché non li chiami così dopo pranzo non fanno una “lotta di benvenuto” con loro due?»
Probabilmente si era già dimenticata i nostri nomi. Daniel annuì e silenziosamente si spostò ad un altro tavolo ma io non lo seguii con lo sguardo. Cynthia si dimostrò schietta e senza peli sulla lingua dicendo semplicemente: «Scusate se non siamo noi a darvi il benvenuto con una lotta ma siamo ad un livello avanzato. Vi stracceremmo anche con Pokémon di bassissimo livello» sorrise con aria di sfida, schernendoci palesemente.
Lorenzo la rimproverò e Ilenia scosse la testa. Io scambiai un’occhiata con Chiara che fumava dalle orecchie: sembrava pronta a saltare addosso a Cynthia per strangolarla da un momento all’altro.
«Io… cioè, noi non sappiamo cosa sono i livelli» dissi imbarazzata.
«Non c’è problema!» esclamarono all’unisono Lorenzo e Ilenia anticipando una velenosa risposta della bionda. Il ragazzo continuò: «Dico sul serio, non preoccupatevi di nulla! Avete tempo per abituarvi e ce la farete.»
Daniel tornò prima che lui potesse andare avanti con le rassicurazioni di cui avevamo così bisogno e al seguito aveva due ragazze. Una era delle più stravaganti che avessi mai visto. I capelli bianchissimi e lisci le arrivavano oltre la vita e gli occhi dalle iridi lilla comunicavano una strana espressione malinconica, persa nei suoi pensieri. Ci rivolse un etereo sorriso appena accennato mentre stringeva le piccole mani magre. Era filiforme.
Non come la ragazza che sembrava il suo esatto opposto: pelle piuttosto scura, una treccia di capelli neri - anche essi lisci e lunghi, il naso un po’ schiacciato al contrario di quello della specie di albina, piccolo e all’insù. Portava gli occhiali e i grandi occhi neri sembravano intelligenti e allegri. Era più bassa dell’altra e aveva un fisico normale - un po’ come il mio. Ci sorrise calorosamente. Si chiamava Melisse, l’altra era Sara.
Daniel disse che erano praticamente compagni di corso anche se lui era un po’ più avanti. Subito la ragazza dai capelli neri ne approfittò per dire che non dovevamo fidarci e che “quello lì” si riempiva di arie. Ridacchiai, più perché voleva metterci anche lei a nostro agio che per quello che esclamò. Daniel non era offeso e replicò con una frecciatina che non capii, troppo appartenente al mondo dei Pokémon perché io la afferrassi.
Finalmente toccammo cibo, distrarmi aveva risvegliato il mio famelico stomaco. A Swablu e Piplup ci dissero di dare da mangiare dei cosini chiamati Poffin; controllammo il loro gusto preferito sul Pokédex che conteneva le schede con le informazioni su di loro. Solo allora scoprii che Swablu era una femmina - Piplup invece un maschio - e che c’era la possibilità di dare un soprannome ad ognuno dei propri Pokémon. Ci avrei pensato in seguito.
Dopo pranzo io e Chiara finimmo sotto la tutela di Sara e Melisse. Prima che potessimo uscire dalla mensa e cercare un posto in cui provare una lotta Pokémon, però, una loro amica si unì a noi. Si chiamava Angelica. Aveva anche lei gli occhiali, come Melisse, e una chioma castana simile alla mia - anche se lei si era fatta qualche colpo di sole. I suoi luminosi occhi azzurri sorridevano più della sua bocca. Era magrolina e non molto alta.
La cordialità che quasi tutte le persone incontrate fino ad allora avevano mi lasciò di stucco. Sara era molto riservata e parlava a bassa voce, timidamente, Daniel non si era interessato più di tanto alle due novelline e Cynthia non mi aveva fatto una bella impressione, troppo arrogante per i miei gusti. Però tutte le altre persone si erano rivelate essere simpatiche e aperte, allegre. Evidentemente sapevano che non bisognava essere scontrosi e rifiutare chi avrebbe potuto aiutarli, un giorno, a combattere quella guerra. Avrei dovuto prendere esempio.
Quindi anche io iniziai a ridere e sorridere più sinceramente e calorosamente, suscitando la sorpresa di Chiara, che però capì subito e mi imitò. Ci rilassammo, sicure che non potessero dirci niente di cattivo o di ostile ora che eravamo tutti sulla stessa barca. E prima o poi forse ci saremmo ritrovati fuori dall’Accademia a combattere una vera guerra, seppur silenziosa e invisibile agli occhi di miliardi di persone. La fiducia sarebbe stata la colonna portante delle Forze del Bene e fin da subito bisognava riporla nel prossimo, ottenendo il giusto contraccambio.
Angelica e Melisse erano arrivate lì da un anno, Sara invece da tre ma da poco aveva iniziato ad allenare i suoi Pokémon. Tutte loro, comunque, avevano quindici anni compiuti da più o meno tempo. Melisse era chiacchierona più delle altre due messe assieme e parlava soprattutto con Angelica - che preferiva farsi chiamare Angie; Sara fu molto carina e gentile e chiese un po’ di cose a noi due. Ripetemmo per la terza o quarta volta in quella giornata di come eravamo entrate nel mondo dei Pokémon.
«Deve essere stata una grossa sorpresa» disse. Il sorriso timido e l’espressione malinconica erano i suoi marchi di fabbrica. «Certo, venire a sapere di una guerra in corso ed essere quasi costrette a prendervi parte è un po’ una crudeltà. Ma vi assicuro che i Pokémon, in questo caso, sono una benedizione.»
Prima di risponderle mi sentii un po’ in colpa nei confronti di Swablu, che fino a poco prima avrei sperato se la potesse cavare anche da sola e che smettesse di scocciarmi con il suo vizio di farmi da cappello. «Il mio problema e credo anche quello di Chiara, al momento, è che non mi fido per niente di questi… esseri sconosciuti. Non so come relazionarmici né come trattarli. Ho paura di fallire in ogni sfida che mi sarà proposta. Sono appena arrivata e già mi hanno dato un Pokémon da gestire e una miriade di cose da imparare… sta succedendo tutto troppo in fretta. Abbiamo pure ricevuto parecchie rassicurazioni prima di arrivare ma mi sembra di essermele dimenticate appena ho dovuto scegliere il mio Pokémon e ho dovuto tenerlo tra le mani. Come se non fossi più preparata.»
Quando mi resi conto che Melisse e Angelica si erano messe in ascolto, arrossii. Credevo di star parlando solo alla ragazza dai chilometrici capelli bianchi - e a Chiara. La prima delle due sorrise per la mia reazione. «Ci siamo passate tutte e tre, sai? Io non conosco molto bene Lorenzo e Cynthia ma so che loro sono nati e cresciuti insieme ai Pokémon, non incontrando difficoltà per allenarli. Lo stesso vale per Daniel e Ilenia. Ma la maggior parte delle persone in quest’Accademia hanno cominciato da zero, noi comprese, eppure non siamo meno brave di altri che hanno sempre vissuto a contatto con i Pokémon. Solo che li abbiamo conosciuti dopo.»
«Poi nel nostro caso abbiamo iniziato da pochissimo!» s’inserì Angelica, indicando sé stessa e Melisse. «Ma ce la stiamo mettendo tutta non solo perché abbiamo obbiettivi da raggiungere prima di iniziare a combattere sul serio. Alla fine è inevitabile affezionarsi ai Pokémon, ve lo assicuro! C’è chi all’inizio è affascinato da loro e fin da subito studia e riserva loro moltissime attenzioni, altri che invece sono un po’ diffidenti come hai detto tu, Eleonora. Non dovete credervi meno capaci o meno portate quando non avete ancora cominciato! E poi, è vero che ricevere subito un Pokémon può essere un bel colpo… ma allora in che modo vorresti iniziare? Studiando? Ma per favore!»
Se non fossi stata occupata ad assorbire tutte le belle parole che ci stavano dicendo - quelle le imparai subito e le ricordai per sempre, probabilmente le avrei abbracciate commossa come una scema. Mi ero fatta tanti problemi per scoprire che non c’era un bel niente di cui avere paura, perché quasi tutto sarebbe venuto da sé. Bastava un po’ di sicurezza in sé stessi e nei Pokémon. Tutta rossa in viso per l’emozione, mormorai un grazie. Chiara lo esclamò.
«Allora, dov’è la vostra camera?» chiese Melisse.
«Al primo piano… perché?»
«Come perché? Per la lotta! Non vorrete mica occupare un intero campo per un combattimento tra principianti, no?» ribatté lei ammiccando. Mi chiesi se la nostra piccola stanza sarebbe andata bene.
E sì, era un buon posto. Sara, Melisse e Angelica si sedettero sui letti. Io e Chiara credevamo che sarebbero state loro a sfidarci ma invece volevano prima farci da maestre lasciando che fossero i nostri Pokémon a lottare. Quindi Swablu contro Piplup. Ci dissero di prendere il Pokédex e seguimmo le loro istruzioni finché non apparve una scheda che mostrava le mosse conosciute da Swablu, il suo stato, le statistiche e il famoso livello. Mi sembrò più che mai di essere in un videogioco nel vedere tutte quelle informazioni. Il Dex sembrava un Nintendo DS.
«Ora, non affidatevi troppo a quello che dice il Dex» ci avvisò Angelica. «Quello mostra dati generici, quindi non sempre è molto preciso. Il livello è un modo per misurare la crescita del Pokémon che cresce accumulando dei Punti Esperienza. L’evoluzione avviene intorno ad un certo livello, non è detto che tutti gli Swablu evolvano in Altaria al livello 35 o i Piplup in Prinplup al 16. Lo stesso vale per la barra dei punti salute, o PS, che mostra le energie del Pokémon. Quando la barra si svuota, sviene: è detto K.O. e non può più combattere. Quando la lotta finirà vi porteremo in infermeria per rimettere in sesto i vostri Pokémon. Comunque ci sono tante cose che possono influenzare la sua salute, come l’avvelenamento, la paralisi, la scottatura, il congelamento.»
«Stai scherzando?» esclamai. «Cosa diavolo devono sopportare? Come fanno a non morire avvelenati?»
Angelica fece spallucce. «Non è nella natura di un Pokémon uccidere intenzionalmente. Non si sa ancora come spiegare questa resistenza ad attacchi che potrebbero ammazzare un qualunque essere umano. Fatto sta che non muoiono se non si infierisce su di loro dopo lo svenimento. Ovviamente è vietato.»
Non ero proprio convinta ma Angelica - che con quegli occhiali sembrava una professoressa in miniatura - andò avanti. «Non affidatevi più di tanto nemmeno alle statistiche. Va bene vedere in quale delle sei va meglio e va peggio il proprio Pokémon, ma non fate troppa attenzione ai numeri indicati, pure quelli sono generici in base alla specie del Pokémon. Guardate bene invece la Natura e l’Abilità, quest’ultima può essere utilissima!»
Chiara disse che Piplup aveva Acquaiuto e le ragazze le spiegarono in cosa consistesse. Io controllai e vidi che Swablu aveva Alternacura. Mi dissero che sostituendola con un altro Pokémon curava i problemi di stato - proprio l’avvelenamento eccetera - e la trovai sorprendentemente utile. La sua Natura era Cauta, quella di Piplup era Mite. «Una Natura favorisce una statistica, anche se io la chiamerei più attitudine, e ne sfavorisce un’altra. Ma non mi chiedete di ricordarmele tutte, so solo quelle dei miei Pokémon! È una mia lacuna…!» rise Melisse.
Ci pensò Sara a dircele, lei le sapeva. «La Natura di Swablu favorisce la Difesa Speciale e sfavorisce l’Attacco Speciale. Quella di Piplup favorisce l’Attacco Speciale e sfavorisce la Difesa. Per Swablu non è affatto male, Piplup sarebbe stato meglio che avesse avuto una diminuzione dell’Attacco o della Velocità.» Chiara fece una smorfia buffa ma accarezzò il suo Pokémon. Scoprii che non me ne importava più di tanto, per lo meno al momento.
Poi controllai le mosse e il livello. Sia Swablu che Piplup erano al livello 5; la mia compagna aveva già quattro mosse su quattro, ovvero Beccata, Ruggito, Sgomento e Canto. “Ecco perché non la smette di cinguettare neanche se la ammazzi.” Non dissi le mosse di Swablu a Chiara e lei non mi lesse quelle di Piplup.
La lotta cominciò ma continuai a guardare il Pokédex per vedere gli effetti delle mosse. Scoprii che anche esse avevano un tipo - ad esempio Sgomento era Spettro - e che se si usava una mossa dello stesso tipo del proprio Pokémon, questi sarebbe stato in grado di usarla con maggiore efficacia rispetto alle altre.
Quindi iniziai io con Beccata, di tipo Volante. Chiara borbottò qualcosa a proposito di un brutto colpo registrato dal Dex e io mi chiesi cosa significasse, ma le altre non fecero in tempo a spiegarmelo che subito fece reagire il suo Piplup con Botta. Provai Sgomento, incuriosita dal tipo Spettro, e l’avversario tentennò. Era di nuovo il mio turno: poiché non mi interessava vincere ma solo sapere cosa fosse in grado di fare la mia compagna, non insistetti con il debole Sgomento fino a mandarlo K.O. e provai Canto. Ma la durata della mossa era troppo lunga perché avesse un effetto e Piplup riuscì a usare di nuovo Botta. I colpi ricevuti dai due Pokémon inizialmente mi preoccuparono, temevo che si facessero male, ma non c’era traccia di neanche un livido o un’ammaccatura anche se Swablu aveva meno della metà dei PS. Controllai la descrizione di Ruggito e decisi che non m’interessava. Feci ripetere Beccata, Piplup insisteva con Botta, ma alla fine ebbi la meglio io con Sgomento e poi un’altra Beccata.
«Chià, ma le altre mosse ti facevano tanto schifo?» ridacchiai mentre la ragazzina si precipitava a prendere tra le braccia il suo compagno. Mi lanciò un’occhiataccia.
«Non è colpa mia se di mosse ne ha solo due.»
«Come due? Swablu ne ha quattro!»
«Salendo di livello ne imparerà altre» assicurò Angelica mentre uscivamo per andare in infermeria, una grande sala al piano sotterraneo. Richiamammo i nostri Pokémon nelle rispettive Ball e li consegnammo ad una signorina, la quale le ripose in un macchinario che li avrebbe rimessi in sesto. «Per convenzione c’è un limite di quattro mosse e per il momento ci si attiene a quello, quasi fingendo che un Pokémon ne dimentichi una in favore di un’altra. Ma può ricordare in ogni momento quelle dimenticate, pur sacrificandone qualcuna, grazie ad alcuni esperti.»
Parlò degli Esperti Mosse presenti all’Accademia disponibili in ogni momento mentre aspettavamo che le sfere di Swablu e Piplup ci fossero riconsegnate dall’infermiera. Poi accennò a strumenti chiamati Macchine Tecniche e Macchine Nascoste, dischetti che se inseriti nel Pokédex facevano imparare una mossa ad un Pokémon in grado di apprenderla. Anche quelle erano messe a disposizione dall’Accademia ma ci voleva un permesso per utilizzarle: i professori volevano che facessimo del nostro meglio senza prendere troppe scorciatoie.
Io e Chiara tornammo nella nostra camera dopo aver scambiato i numeri di PokéGear con tutte e tre le ragazze. Anche Ilenia ci aveva dato il suo mentre andavamo a pranzo. Ci salutarono allegramente e ci dissero di contattarle appena avessimo voluto provare una lotta, o semplicemente chiacchierare, anche con loro.
Sia io che la mia amica eravamo felicissime di quelle prime esperienze. Io soprattutto capii di essere stata una sciocca a farmi tanto problemi: avevo iniziato a considerare ovvio che lì tutti fossero disponibili, alcuni un po’ a modo loro e ovviamente con qualche menefreghista che faceva eccezione. Mi sentivo in un ambiente sicuro e protetto dall’ansia che la sola notizia della guerra, quando ci era stata comunicata da Bianca, mi aveva messa in difficoltà. C’erano persone disponibili ad aiutarci e a farci fare strada. Non potevo chiedere di più.
Swablu uscì dalla sua Poké Ball senza che io le dicessi niente e la cosa mi stupì. Mi chiesi come fosse l’ambiente nella sfera, cosa facesse il Pokémon lì dentro, ma a giudicare dagli occhietti curiosi e vivaci che mi guardavano non sembrava turbata dall’esperienza. Si posò sul cuscino e continuò a guardarmi mentre io mi sedevo sul letto, con la schiena sulla parete, e ricambiavo la sua occhiata. Sorrisi un po’ imbarazzata. Chiara era corsa in bagno e Piplup era rimasto nella sua Ball in attesa che la sua Allenatrice lo coccolasse un po’ dopo la sconfitta subita. La presi tra le mani, affondando le dita nelle sue morbide ali di cotone, e mi sorpresi di quanto fosse una bella sensazione. Le feci un po’ di grattini proprio in vari punti delle ali e il Pokémon cinguettò vivacemente, in stato di adorazione.
Ridacchiai e stavolta fui io a mettermela sulla testa, facendola esclamare di sorpresa. «Allora la tua evoluzione si chiama Altaria, eh? Proprio come la stella… so che non è molto originale, ma da oggi tu ti chiami Altair. È il tuo soprannome, almeno sarà adatto anche quando ti evolverai… e poi non ho ancora molte idee su di te!»
Quella che ormai si chiamava Altair cantilenò qualcosa di dolce e allegro. Sospirai. «Mi chiedo se tu mi capisca quando parlo… Allora Altair, va bene? Ehm… puoi darmi una conferma o…?»
La Swablu balzò giù dalla mia testa, mettendosi su una delle mie ginocchia - avevo le gambe incrociate - e fece come per annuire, muovendo tutto il corpo visto che la testa non era proprio nettamente separata da esso. Risi per il suo tentativo di farsi capire e la accarezzai. Strizzò gli occhi per il piacere. Chiara uscì dal bagno e mi chiese con chi stessi parlando. Le indicai Swablu, sorridendo, e le dissi che le avevo dato un soprannome.
«Altair, uhm? Io non pensò che darò un soprannome a Piplup. Non voglio ricadere nella banalità come te ed il rischio è alto» mi prese un po’ in giro. Le mostrai la lingua e per un po’ fummo concentrate sui nostri Pokémon.
«Siamo Allenatrici» constatai a bassa voce. «Siamo Allenatrici di Pokémon.»
«Eh già…» fece Chiara distrattamente. «Ce ne toccano almeno altri cinque di questi qui.»
«Sai che ti dico, Chià?» La ragazza si fece più attenta e sorrise nel vedere la mia espressione. Era di sfida. Perché volevo sfidare me stessa ad apprezzare quelle creature, ad essere un’Allenatrice senza rimpianti, ma soprattutto senza avere paura di quel mondo. «Credo di essermi letteralmente innamorata di Swablu e dei suoi simili, già mi piacciono tantissimo. Non vedo l’ora di prendere i miei prossimi Pokémon!
»





Angolo ottuso di un'autrice ottusa
Che è tornata il 30 e non il 31. Gioia! Queste due settimane lontana da casa sono volate, mi aspettavo di fare chissà cosa e invece sono già di ritorno su queste frequenze. Non che mi dispiaccia, anzi! Non vedevo l'ora di riprendere il mio fiacco pc - che ci ha messo ore solo per riaprire efp - e pubblicare questo capitolo. Spero v'abbia aggradato, gente (?). Ho qualche recensione a cui rispondere, per non parlare di una dozzina da scriverne - pregate per me - e adesso me ne occuperò. Ho anche un mucchietto di compiti ancora, perché sono stata così brava da non fare una mazza a luglio. La mia non è stupidità né pigrizia, ma consapevolezza di essere in un periodo di vuoto e di divertimento.
Ripeto, spero vi sia piaciuto questo capitolo; ci rivediamo tra una settimana, as usual!
Ink

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Capitolo 6
*** V - Miti e leggende ***


V
Miti e leggende

Nei giorni successivi, con l’aiuto delle nuove conoscenze che ci stavamo facendo - che subito divennero persone amiche, con una velocità possibile solo visti i tempi che correvano, io e Chiara allenammo Swablu e Piplup e concordammo con un emerito Professore di Kanto, Oak, che avremmo preso il nostro secondo Pokémon una settimana precisa dopo il nostro arrivo in Accademia - ovvero la domenica successiva. Questo perché ancora avevamo un bel po’ di cose da imparare e prima di caricarci un altro esserino a cui badare volevamo fare un altro po’ di esperienza. La pratica si rivelò essere veramente lo strumento migliore per imparare.
Avevamo fatto un giretto nella grande biblioteca al piano sotterraneo ma tutta quella conoscenza, ammassata e concentrata, del mondo Pokémon era troppa per noi che eravamo ancora alle basi. Mi stupii però di star apprendendo abbastanza velocemente - e lo stesso Chiara - alcuni concetti e meccanismi che erano le chiavi di quella nuova realtà - alla quale ancora pensavo come un videogioco o un film.
Per esempio, facendo allenare Altair con i Pokémon meno allenati delle ragazze che ci erano state presentate - Lorenzo, Cynthia, Ilenia e anche Daniel erano effettivamente troppo avanti per noi, memorizzai quasi subito la maggior parte delle combinazioni di tipo e le mosse superefficaci, inefficaci e che procuravano poco danno. Non fu difficile lavorare anche con i doppi tipi, una volta imparato il resto. Altrettanto rapidamente imparai anche i nomi di moltissimi Pokémon, riconoscendoli con un’occhiata senza dover fare riferimento ogni volta all’enciclopedia.
Gli avversari migliori per Swablu e Piplup erano una Eevee e una Vulpix che appartenevano a Sara, la quale aveva pure altri Pokémon già cresciuti ed evoluti almeno una volta che mi piacquero molto - Vaporeon, Luxio e Lucario. Angelica, escludendo Meganium, Lapras e Combusken, aveva anche lei un Eevee e poi una Ralts. Melisse ci fece allenare con i suoi Murkrow e Buneary; in più aveva un Serperior, una Ninetales e un Mismagius. Scoprii di avere preferenze sui tipi Acqua, Volante e Drago, ma mi piacevano molto anche Psico, Buio e Spettro. Più che altro mi affascinavano questi ultimi perché erano i poteri più astratti e lontani dalla realtà su cui un Pokémon potesse avere influenza, al contrario di qualunque altro essere. A Chiara piacevano sia i tipi Acqua che Fuoco.
Far “salire di livello” un Pokémon era più difficile di quanto mi fossi aspettata. Inizialmente sia Swablu che Piplup crescevano abbastanza velocemente ma, passato il livello 10 o giù di lì, ci volle molto più tempo per farli andare avanti con la crescita. Tra l’altro era meglio che almeno Chiara, il cui Pokémon si sarebbe evoluto intorno al livello 16, facesse evolvere il proprio compagno prima di prenderne un altro e cominciare le “lezioni”. Per Altair la strada era ancora lunga, la sua evoluzione arrivava solo verso il trentacinquesimo livello stabilito.
Continuammo a frequentarci molto soprattutto con Ilenia e Lorenzo. Cynthia - scoprii che era un’appassionata di Pokémon Veleno - se ne stava quasi sempre per fatti suoi e le relazioni che aveva tessuto erano per la maggior parte basate proprio sulle lotte con altre persone e difficilmente andava oltre. Di veri amici ne considerava pochi e questo le bastava. Daniel invece non sembrava affatto interessato a conoscere nuove persone e questo mi fece parecchio indispettire: ci aveva presentate a Melisse, Angelica e Sara e poi anche al suo migliore amico, George, un fan dei Pokémon Buio dal fisico smilzo e allampanato che si notava per la pelle diafana e i capelli neri, con due piccoli occhi scuri e la battuta ironica pronta in ogni momento. Chiara lo trovò subito molto simpatico.
Io invece ero troppo occupata ad essere seccata per il comportamento di Daniel per pensare pure al suo amico. Chiara non capiva perché me la prendessi tanto e una sera, in camera nostra pronte per andare a dormire, mi fece una domanda: «Ma perché ce l’hai tanto con quel tizio?»
«Non lo so» borbottai. «Non lo conosco nemmeno, in effetti. Ma non mi sta bene che ci tenga a bada con tutti i suoi amici e poi lui se ne freghi anche di salutarci quando lo incontriamo.»
«Ma no, ci saluta…»
«È un modo di dire, scema! Però non riesco a smettere di pensare a quanto vorrei… non lo so cosa vorrei» ci ripensai; Chiara rise scuotendo la testa. «Il fatto è che di Cynthia già non me ne frega più nulla, lei non mi piace e basta. Invece Daniel potrebbe benissimo essere nostro amico, in fondo non è nemmeno molto più grande - come è al contrario Cynthia, ma nonostante questo fa come se non esistessimo. Nemmeno ci aiuta ad allenare Altair e Piplup con il suo Pokémon più debole.»
Chiara mi si mise davanti con le mani sui fianchi e protesa con il busto verso di me. Sorrideva con aria beffarda e imprevedibile. Mi diede una leggera schicchera sulla fronte per risvegliarmi dopo qualche secondo passato a fissarci e io esclamai di sorpresa. Lei disse maliziosamente: «A-ha. Colpo di fulmine appena arrivata, eh?»
«Cosa?!» quasi strillai, avvampando.
«Direi che è evidente, mia carissima. E non sarebbe nemmeno la prima volta, da brava scema quale sei ti fai mettere in soggezione dopo uno scambio di sguardi! Ti ricordi quel ragazzetto più grande che…»
Le rifilai un calcio sugli stinchi che ebbe il solo effetto di farla sghignazzare. Ero rossa in viso e indispettita al massimo. «Be’, era un bel ragazzo quello. Non che Daniel sia brutto, anzi… ehm…»
Chiara continuava a ridere: non solo quello che aveva detto mi aveva mandata in paranoia - perché in effetti ero abbastanza ingenua, e probabilmente anche sfigata, da potermi prendere una cotta per qualcuno che a malapena mi conosceva - ma ero in confusione anche perché non la smetteva un attimo di sghignazzare senza ritegno. Mi chiusi in una gabbia di silenzio, portai le ginocchia al petto e nascosi la testa in mezzo ad esse, appoggiata alla parete accanto al mio letto. Altair, vedendomi in quella posizione, ne approfittò per farmi da cappello. La mia amica sembrava essersi fermata ma riprese a ridere alla vista del misero quadro in cui ero finita.
«Buonanotte» borbottai richiamando Swablu nella sua Ball e infilandomi sotto il lenzuolo, decisa a non parlare più a Chiara finché non avesse mostrato un po’ della sua dignità. “Tanto io la mia già l’ho persa.”
Probabilmente lei nemmeno mi sentì, ma anche se mi avesse risposto io non avrei potuto sentire quel che disse, sovrastato dalla quantità esagerata di risa che si stava facendo. La sua irrefrenabile ilarità quella volta era dovuta alla stanchezza e al nervosismo provati in quei giorni. Le emozioni si accumulavano e parlare tra di noi non era sufficiente per dare loro una via di sfogo e le lotte tra i nostri Pokémon non erano definibili come “coinvolgenti” o frenetiche per un continuo, ansioso botta e risposta. L’unico modo per smaltire tutte le emozioni provate, anche date da continue conseguenze da assorbire, era forse solo il mettersi a ridere e poi sentirsi sfinite.
 «Non è vero, non ho voglia di dormire» borbottai girandomi sull’altro fianco e guardando Chiara. Il lenzuolo lo avevo tirato fin sopra il naso e copriva parte della mia visuale. La mia compagna di stanza mi sorrise e andò a spegnere la fastidiosa luce giallognola della lampada sul soffitto, lasciando accesa quella dell’abat-jour che aveva sul comodino del suo letto - l’unico della stanza, purtroppo, e lei me l’aveva fregato subito.
«E cosa hai voglia di fare?» chiese.
«Qualcosa di non troppo impegnativo che sia possibile svolgere alle… nove e mezza di sera» dissi guardando il PokéKron che nemmeno mi ero tolta - appunto perché non avevo avuto veramente intenzione di dormire.
«Tornando al discorso di prima…»
«No.»
Chiara ridacchiò per il mio tono e mise le mani avanti, seduta a gambe incrociate sul letto. «Va bene, la smetto di stuzzicarti… per oggi» ammiccò. «Comunque dovremmo riprendere i contatti con Gold.»
«Lasciatelo dire: stasera mi sa che è meglio salutarci. Non mi piacciono gli argomenti che stai tirando fuori.»
«Dico sul serio!» Fui lì lì per ribattere “Proprio la tua serietà è il problema”, ma la lasciai parlare. «Dovremmo farci aiutare anche da lui per allenare Swablu e Piplup. Il suo Squirtle, a quanto ho capito, non ha fatto ancora molti allenamenti. E sicuramente avrà preso un altro Pokémon, se non un paio, appena tornato qui.»
«Mi duole ammetterlo, ma hai ragione» brontolai. «Però non riesce a non starmi antipatico…»
«Lo so! È insopportabile… Magari però nelle lotte riesce a sciogliersi un pochino.»
«Sarebbe già qualcosa.»
Continuammo a chiacchierare non solo a proposito di Gold ma anche degli altri incontrati. Su Daniel e Cynthia spendemmo poche parole, considerando entrambi un po’ troppo pieni di sé stessi per i nostri gusti. Ero sicura che il ragazzo si credesse chissà chi, soprattutto come Allenatore Pokémon; appena lo dissi alla mia amica lei ci pensò su un attimo. Pensai che se ne sarebbe uscita con qualche altra frecciatina a proposito di un colpo di fulmine.
Invece fui preda di grosse risate per il minuto successivo appena ipotizzò: «Loro due sono simili, entrambi che si pensando strabilianti Allenatori di cui noi non siamo degne, no? Magari lui è il toy boy di Cynthia.»
Il gruppetto di ragazze composto da Sara, Melisse e Angelica in cui ci accingevamo ad entrare a farne parte non ricevette alcun commento particolare da parte nostra. Le tre erano gentili e praticamente sempre disponibili per aiutarci e parlare con noi. Tra l’altro Melisse era adorabile quando lanciava piccole offese nei confronti di Daniel, ma capii che nonostante quello i due avevano una buona intesa ed erano amici.
Sara, a causa della sua riservatezza e del suo essere di poche parole, mi ispirava una fiducia maggiore rispetto alle altre due, inoltre sembrava conoscere alla perfezione ogni Pokémon ed ogni cosa che li riguardasse. Anche Angelica era molto sveglia ed intelligente ma soprattutto era creativa. Adorava disegnare - anche a Melisse piaceva. Sara non si era mai particolarmente interessata all’arte perché impiegava il suo tempo libero nella danza e nella ginnastica, le sue più grandi passioni, che in qualche modo - rimasto imprecisato - riusciva a praticare abbastanza spesso pure lì all’Accademia. Mi chiesi se a coloro che gestivano e dirigevano la struttura interessasse incentivare attività al di fuori dell’allenamento, qualcosa che distraesse e facesse rilassare i ragazzi.
La mia passione più grande era senza dubbi il canto. Non sapevo da quale membro della mia famiglia mi fosse stato trasmesso, geneticamente parlando, quel talento: spesso infatti mi era stato detto che avrei potuto provare un corso di canto lirico. Le mie capacità provenienti da chissà dove non si limitavano, quindi, alle canzoni dei miei gruppi o cantanti preferiti, per me piuttosto semplici. Non avevo però mai approfondito più di tanto, infatti prendere delle lezioni - addirittura di canto lirico - per me sarebbe stata una novità: avevo intenzione di fare, in contemporanea con il primo anno di liceo, un corso di buon livello pure per capire se valesse la pena continuare.
Ma poi ogni mio programma era stato mandato in fumo dagli Snover selvatici e dal monte fantasma ed ero stata costretta a rivedere le mie prorità - in primis sopravvivere alle emozioni e anche alla guerra. E poi il resto che stava andando, per il momento, piuttosto bene: nuovi amici, nuovi Pokémon, nuovi studi e così via.
Sperai ci fossero almeno il tempo e il modo per leggere libri. Mi piaceva moltissimo ma lo sperai soprattutto per Chiara, altrimenti avevo seri dubbi sul fatto che avrei avuto ancora per molto una compagna di stanza. Sorrisi al pensiero della reazione della mia amica alla notizia che i suoi generi preferiti non erano assolutamente contemplati nella nostra situazione, e che le uniche letture che avrebbe potuto fare avrebbero recato titoli non propriamente accattivanti - “Primi passi nell’allevamento Pokémon”, “Impara a conoscere i tuoi compagni di viaggio!”, “Storia della Poké Ball: dal selvaggio all’amico mostriciattolo tascabile”…
«Perché stai sorridendo?» mi chiese lei - avevo scoperto il viso dal lenzuolo.
«Ah, niente. Stavo solo fantasticando sulla tua morte.»
«… Com’è che hai detto?» La faccia estremamente disorientata di Chiara mi fece scoppiare a ridere. Mi tirò il suo cuscino ordinandomi, affatto divertita, di spiegarle in che modo mi fosse finita tanta segatura in testa fino a devastare le mie facoltà mentali. Le risposi con qualche altra stupidaggine.

Scoprimmo che Sara e compagnia conoscevano Gold. Ci avevano parlato e lottato ogni tanto e dissero che era sì bravo con i Pokémon, ma anche un po’ arrogantello da quel punto di vista. Mi parve strano perché, quando lui aveva sommerso di complimenti il Dexholder al quale aveva rubato il nome, si era parecchio autocommiserato per non essere un grande Allenatore come lui. Evidentemente era comunque bravo, lo sapeva e puntava in alto.
Quando lo reincrociammo per i corridoi - in cui io e Chiara ci perdemmo spesso, gli chiesi se volesse aiutarci con i nostri Pokémon. Lui disse che non era un problema e che aveva preso due nuovi compagni di squadra che potevano fare al caso nostro. Fu quella l’occasione in cui visitammo la sala per l’allenamento al piano sotterraneo.
C’erano sei o sette campi in quella che da allora in poi avrei visto sempre come un’enorme piazza sottoterra. Delle colonne sorreggevano la volta in pietra del soffitto e le pareti pure erano di roccia, così come il pavimento. Ogni campo ricreava diverse situazioni per un combattimento: ce n’era uno basilare che mi parve essere in terra battuta, un altro aveva una piscina per i Pokémon d’Acqua, uno era coperto di ghiaccio, un altro d’erba alta e così via. Era strano vedere tutti quei tipi di campo in una sola stanza, peraltro al chiuso e sotterranea.
Io e Gold prendemmo posizione agli estremi del campo semplice e lui mandò un Electrike. Inevitabile fu la mia sconfitta - Swablu non poté praticamente nulla contro gli attacchi Elettro dell’avversario che Gold aveva già allenato molto. Mi aspettavo fosse tanti livelli al di sotto di Altair, invece erano praticamente sullo stesso piano. A Chiara andò meglio perché Gold smise di usare Electrike in favore di un Cubone che Piplup batté facilmente.
«I primi tempi il vantaggio di tipo gioca un ruolo essenziale nelle lotte» mi disse Gold mentre andavamo tutti e tre in infermeria. Mi stupii di sentirlo così gentile anche se un po’ imbarazzato come al solito: cercava di sorridere con naturalezza ma non ci riusciva molto bene. «Più il tuo Pokémon cresce, più è in grado di fronteggiare anche quelli con cui è in svantaggio, sviluppando le sue statistiche migliori. E poi se ne hai bisogno basta chiedere ad un professore le MT o le MN di cui hai bisogno, o di andare da un Esperto Mosse. A me sono sempre molto utili.»
«Ah… ti ringrazio» sorrisi anch’io nel modo più cordiale possibile. Avrei voluto aggiungere “è molto gentile da parte tua” ma era già talmente rosso in viso che temetti di farlo svenire dicendo altro.
Poiché con Gold non avemmo altra occasione di parlare - si rese poco disponibile nei giorni successivi, decisi di chiedere qualcosa sui Dexholders a qualcun’altra delle nostre conoscenze. Ero stata incuriosita dal “soprannome” del ragazzino che si faceva chiamare come uno degli Allenatori migliori mai esistiti e quindi, insieme a Chiara, feci qualche domanda a Lorenzo ed Ilenia, palesemente i più esperti e meglio informati visto il tempo trascorso come parte del mondo Pokémon, che ormai consideravo nostri amici. Chissà che non ci fosse scappato qualcosa pure sui Leggendari - potevo apparire sospetta, ma volevo solo saperne qualcosa in più.
Il posto migliore per chiacchierare era la rumorosa mensa, oltre le nostre camere. Però mi ritrovai a fare quella domanda a pranzo e alla presenza di Cynthia: quei tre, insieme a Daniel, formavano un gruppetto fisso, a parte quando il ragazzo più giovane se ne stava con George - come quel giorno - e qualche altro suo amico, a cui ci aggiungevamo io e Chiara quando non stavamo con il trio composto da Angie, Sara e Melisse.
«Be’, ogni regione ha i suoi eroi, che ormai son tutti adulti» esordì Lorenzo alla mia domanda, una richiesta di una generale descrizione dei Dexholders. «In genere sono tre per ogni regione, in modo che ogni Pokémon starter abbia un Allenatore, ma non è detto che la loro specialità sia combattere con i Pokémon. Ad alcuni piace semplicemente allevarli, ad altri per partecipare alle Gare…» Evitai di chiedere cosa fossero le Gare. «E così via. Però ciò non toglie che praticamente tutti i loro Pokémon siano parecchio forti.»
«Questo è quello che si dice» precisò Ilenia. «Poi chissà. Non si fanno vedere quasi mai, anche se la maggior parte di loro lavorano per conto nostro… alcuni invece no ed è un bel problema.»
«Sicuramente non si degnano di venire qui» borbottò Cynthia con disinteresse.
Lorenzo riprese: «Comunque, i più famosi sono quelli di Kanto, i primi a compiere imprese contro il Team Rocket perché fu la prima delle organizzazioni criminali a nascere. Rosso è ormai una figura leggendaria, non si sa nemmeno se sia vivo o morto. Nel primo dei due casi, fa l’eremita sulla cima del Monte Argento insieme alla sua squadra eccezionale e non ha la minima intenzione di scendere da lì. Ha conquistato la Lega quando aveva poco più di dieci anni, adesso… quanti ne ha, adesso?» chiese agli altri presenti.
«Una trentina, penso» disse Ilenia. «Si parla di avvenimenti di vent’anni fa…»
Io di anni ne avevo quattordici e passa e ancora incontravo difficoltà nel rifarmi il letto, mentre persone come quel Rosso avevano sconfitto a dieci anni gli Allenatori più forti e i nemici più temibili della propria regione. Evitai di autocommiserarmi o di mettermi a ridere per quel po’ di pena che provai per me stessa. “Mi sento un’inetta.”
«I suoi “colleghi” sono Yellow, Blue e Green. Le prime due sono ragazze, l’altro è il rivale di Rosso, che poche volte è stato battuto» stavolta continuò a raccontare Ilenia. «A Johto due ragazzi sconfissero alcuni seguaci rimasti dei Rocket, Gold e Silver, e una ragazza di nome Crystal. Tra l’altro pare che Silver sia il figlio di Giovanni, uno degli attuali Comandanti ed ex capo dei Rocket… non c’è da stupirsi che sia tornato dal padre» sospirò.
«Perché è passato dalla sua parte se lo aveva combattuto?» chiesi.
Ilenia fece spallucce. «E chi lo sa? Ci possono essere tantissime ragioni.»
Lì per lì non mi impressionai molto per quello che disse, anzi quasi non la sentii, continuando a pensare che fosse assurdo schierarsi dalla parte di qualcuno che i Pokémon li sfruttava con gli scopi peggiori. Al momento ero troppo interessata da altre cose per mettermi a ragionare su quali motivi potessero aver spinto tante persone ad entrare nelle fila del Nemico. Probabilmente mi sarei posta quella domanda e avrei cercato di risponderle in seguito, una volta che le mie conoscenze sui Pokémon e sulla guerra stessa fossero state affinate.
Ilenia parlò più approfonditamente dei Dexholders già nominati, accennando di sua spontanea volontà ad alcuni Leggendari - senza dire molto su di loro, in effetti, eccetto il loro nome e le caratteristiche conosciute da ogni Allenatore. Passò a Ruby e Sapphire di Hoenn e anche di Emerald, poi di Diamond, Pearl e Platina a Sinnoh. Stava per raccontare qualcosa su Touko e Touya, i più conosciuti a Unima, quando Daniel si avvicinò al nostro tavolo.
Il ragazzo picchiettò sulla mia spalla e me ne stupii: sorrideva leggermente. Mi domandai cosa volesse.
«Ehi, ciao. Sto disturbando o posso portarti via per un po’?» chiese.
«Ah, certo che no» mormorai sorpresa. Mi alzai salutando gli altri: l’unica ad avere una particolare reazione fu Chiara, parecchio interrogativa. Mentre mi allontanavo con Daniel, gli chiesi: «Cosa c’è?»
«Prima ho incontrato Sandra per il corridoio e mi ha chiesto se conoscessi una ragazza di nome Eleonora. Le ho detto di sì, e poi credo che tu sia l’unica Eleonora in tutta l’Accademia.»
«E cosa vuole Sandra, chiunque ella sia…?»
«Non ne ho idea» sorrise. Aveva sempre quell’aria beffarda, di sfida, quando sorrideva, e non mi guardava. In quel caso avrebbe ricambiato il mio sguardo, finché io stessa non lo distolsi. «Comunque è una grandissima Domadraghi che è stata anche la Capopalestra di Ebanopoli. È fortissima. Ha un caratteraccio, a dirla tutta, però è davvero brava, una delle migliori nel suo campo! E poi è anche una donna molto bella…»
«Ah, ma fammi il piacere» sbuffai, già piuttosto seccata per il suo tono. Però guardandolo non potei fare a meno di sciogliermi, rigida com’ero - mi infastidiva un po’ il suo modo di comportarsi, quando ridacchiò grattandosi lievemente la nuca. In seguito notai che lo faceva spesso. Sorrisi di riflesso ma nessuno dei due aggiunse nulla. “Va be’, non si può negare che non sia carino…” fece una vocina maliziosa nella mia testa. La considerai un po’ troppo ispirata a Chiara e arrossii un po’. Mi succedeva fin troppo spesso.
Uscimmo dalla mensa e subito individuammo la suddetta Sandra, che aspettava nel corridoio. In effetti era davvero bella, nonostante dovesse avere almeno quarant’anni: aveva un fisico alto e slanciato e dei bei lineamenti del viso, con invidiabili zigomi alti e il naso dritto. Aveva severi e intelligenti occhi azzurri dal taglio leggermente a mandorla e corti capelli dello stesso colore. Non mi soffermai più di tanto sul resto del suo aspetto.
«Ah sì, sei tu» disse con voce dura e decisa. Mi domandai come avesse capito che fossi io la Eleonora che stava cercando. «Grazie, Daniel. Vieni con me» si rivolse poi alla sottoscritta. Nessuno salutò nessuno.
Mi permisi di chiedere, un po’ intimorita dal tono della donna, dove stessimo andando mentre scendevamo le scale. «In presidenza. C’è Bellocchio che ti vuole vedere» mi rispose secca.
«Bellocchio… è il capo delle Forze del Bene, giusto?» chiesi, insicura di ricordarmi.
Lei annuì semplicemente. Fui un po’ in ansia: mi chiesi cosa volesse Bellocchio da me, appena arrivata in quel mondo e nella stessa Accademia. Non avevo fatto niente di che in quei giorni, non sapevo nemmeno se ci potesse essere qualche motivo per cui rimandarmi a casa così velocemente.
Entrai nella stanza della presidenza praticamente da sola, perché Sandra dopo avermi annunciata a un uomo voltato di spalle se ne andò, chiudendo la porta dietro di me. Non era Aristide: il cosiddetto preside non c’era.
L’uomo si voltò e subito mi sentii accusata di qualcosa per la sua espressione dura e severa. Quindi quello era il “famoso” Bellocchio, il vertice delle Forze del Bene. Era piuttosto basso e dalla carnagione chiara: doveva essere lì di passaggio perché teneva tra le braccia un impermeabile nero. Mi chiesi il motivo di quell’abito pesante, oltre la camicia azzurrina, essendo ancora estate. Aveva corti ma folti capelli scuri, così come le sopracciglia e gli occhi che, nella penombra della stanza, mi parvero del colore del buio. Le labbra sottili erano serrate e il naso leggermente aquilino contribuiva a dargli un’aria serissima, accusatoria e affatto gentile. Mi sentii molto a disagio.
«Quindi tu sei Eleonora?» chiese semplicemente. Aveva una voce ferma e decisa nella sua freddezza.
Io annuii soltanto, un po’ intimorita dalla sua espressione austera e severa - certo non si poteva dire lo stesso della statura e del fisico esile, che smorzavano l’impressione di durezza. Doveva avere tra i quaranta e i cinquant’anni. Si presentò: «Io sono Bellocchio, il fondatore delle Forze del Bene.»
Fui tentata di ribattere “lo so” ma mi trattenni. Iniziavo ad avvertire una certa di ostilità da parte mia, a pelle non mi piaceva quell’uomo così freddo e distante. Chiesi, un po’ insicura: «Ehm… perché mi ha chiamata?»
«Perché mi occorre sapere da te stessa le circostanze in cui tu e la tua compagna avete trovato i Pokémon.»
Dopo un attimo di esitazione cominciai a raccontargli: «Venerdì scorso, nel pomeriggio, Chiara mi ha chiamata dicendomi che il Monte di Nevepoli non c’era più. Lei che abita lì nei paraggi lo ha visto benissimo e anche io me ne sono accorta, anche se sulle prime ero restia a crederci… siamo uscite e abbiamo effettivamente trovato l’entrata per il quartiere nord. Siamo entrate, abbiamo raggiunto la Palestra dopo aver dato un’occhiata al Tempio e ci ha trovate Bianca, poi…»
«Il resto lo so,» mi interruppe lui, «me l’ha detto la stessa Bianca.»
Inarcai le sopracciglia e subito dopo temetti di averlo irritato con quell’evidente manifestazione di perplessità, ma ciò non m’impedì di pensare: “Allora perché mi hai convocata per farti dire qualcosa che già sai…?”
«Quindi mi assicuri che né tu, né la tua amica prima di quel giorno siete mai entrate in contatto con i Pokémon? Era davvero la prima volta, non hai altri ricordi?» mi chiese.
Sentii un brivido percorrermi la spina dorsale e trasalii leggermente. Non capii perché quella sua domanda mi avesse messa ancor più a disagio: risposi laconicamente che no, quel venerdì avevo sentito per la prima volta la parola “Pokémon” in vita mia. I suoi occhi freddi mi scrutavano e mi mettevano talmente in difficoltà per la loro espressione indecifrabile che dubitai di star dicendo la verità. Eppure era così, non avevo mai avuto a che fare con i Pokémon prima di allora; ciò non toglieva che Bellocchio sembrava volesse farmi dire il contrario.
Poi sospirò lievemente e la sua espressione severa si distese. «Va bene, ti ringrazio. Mi spiace che tu e la tua amica» “Ormai l’epiteto di Chiara è ‘la mia amica’…” «abbiate subito un simile brutto colpo. Ma non è detto che la guerra toccherà anche voi: forse andrete avanti semplicemente allenando Pokémon, perché ormai siete parte di questa realtà e non si può tornare indietro… però potrebbe andare meglio a voi che a molti altri.»
«Ho due domande!» esclamai all’improvviso, interrompendolo a metà frase. Fece un’espressione interrogativa e io arrossii un po’: «Ehm, voglio dire… vorrei sapere se qualcun altro a Nevepoli si è accorto della sparizione del Monte. E anche cos’è successo ai nostri genitori… cosa avete detto loro riguardo alla nostra partenza?»
«Ah… no, abbiamo appurato che nessun altro se n’è reso conto. Il Nemico ha fatto sì che solo per poco tempo e solo per voi le barriere calassero. Ai vostri genitori abbiamo detto che sareste andate in un’Accademia per giovani talenti e li abbiamo convinti a far credere questa storia a tutti i vostri conoscenti.»
«Avete usato i poteri dei Pokémon per farlo?»
«No» rispose seccamente dopo un attimo di silenzio. Fu un secondo che mi diede l’impressione che non stesse dicendo la verità. Socchiusi leggermente gli occhi e strinsi i pugni, poi mi costrinsi a rilassarmi mentre aspettavo che mi congedasse: non aspettavo altro. Quel tipo non mi piaceva, ne ero sempre più convinta.
Mi chiese se avessi qualche altra domanda. Per tutto il tempo mi aveva guardata negli occhi ed era stato molto difficile sostenere il contatto visivo, tanto che da parte mia l’avevo interrotto spesso. Dubitavo che avesse visto altro all’infuori dei miei occhi grigioverdi. Gli dissi che no, non avevo altro da chiedere e a malapena sentii i suoi saluti e gli auguri che mi fece per la mia permanenza: risposi meccanicamente qualcosa e feci per uscire dalla stanza, non capendo perché mi fossi sentita così a disagio e piena di ostilità in sua presenza.
Ma una sua inaspettata, ultima domanda mi fermò: «Conosci qualcosa a proposito dei Leggendari?»
Gli lanciai un’occhiata interrogativa ed incuriosita. Il suo volto era, se possibile, pure più corrucciato di prima. «Ehm… no. Ricordo solo un paio di nomi, da quel poco che un’amica mi ha raccontato… Ho-Oh e…» Impiegai molti momenti in più per ricordarmi il secondo. «Lugia, la sua controparte. Sono di Johto, se non ricordo male…»
Avevo totalmente dimenticato il resto del racconto di Ilenia. Bellocchio sospirò e finalmente, dopo un ultimo saluto, potei andarmene. Mentre salivo le scale incrociai Chiara che stava tornando in camera e le riferii la breve chiacchierata con Bellocchio. Mentre le raccontavo tutto pensai che la situazione fosse stata un po’ deprimente.
La cosa più strana arrivò la sera stessa: al tavolo con Daniel, Ilenia, Cynthia e Lorenzo scoprii che Bellocchio non solo non veniva praticamente mai all’Accademia, ma che non avevano mai sentito dai propri amici che il capo delle Forze del Bene chiamasse un ragazzo per chiedergli qualcosa. Per loro era normale, in fondo erano sempre vissuti in quel mondo a parte; ma pur avendo conosciuto qualcuno quando era arrivato da poco nella struttura, mai Bellocchio si era presentato per chiedere le stesse cose che aveva domandato a me.
Non mi soffermai più di tanto neanche su quella stranezza: ogni domanda più complessa che mi si presentava la dimenticavo velocemente, troppo occupata a badare ad Altair e ad imparare ciò che per il momento aveva la priorità. Mi sembrava di non avere tempo sufficiente per pensare a tutto quello su cui avrei voluto spendere giusto qualche minuto delle mie giornate, ma la domenica arrivò presto, annunciando che già una settimana dall’entrata mia e di Chiara in Accademia era passata. E soprattutto che volevamo prendere un altro Pokémon.
Avevo adocchiato la Ralts di Angelica dopo aver guardato le sue evoluzioni, Gardevoir e Gallade, che mi erano entrambe piaciute moltissimo - anche se le loro figure umanoidi mi inquietavano un po’; sul Dex avevo cercato, in realtà, tutti i Pokémon dei nostri amici, accorgendomi che non avevo idea di quali fossero i Pokémon dei ragazzi più grandi con cui ci frequentavamo e conoscendo solo quelli di Gold, Angelica, Melisse e Sara.
Mi piaceva di più Gallade tra le due evoluzioni finali di Ralts, che per evolversi in lui - passando per Kirlia - doveva essere necessariamente maschio. Ma non era un problema quella mia richiesta per la gente dell’Accademia che aveva chissà quante specie dello stesso Pokémon con differenti nature ed abilità.
Così richiesi un Ralts maschio al quale avevo già deciso di affibbiare il nome Aramis: il professor Oak mi fece aspettare fuori dalla stanza con tutte le Poké Ball in cui avevo scelto Swablu, mentre Chiara entrò con lui per scegliere di persona - non si era fatta un’idea sul suo prossimo Pokémon. La ragazza ne uscì con al seguito una specie di pecorella di nome Mareep e mi mise tra le mani la sfera di Ralts. O meglio, di Aramis. Oak ci salutò cordialmente dicendo che avevamo preso entrambe quelli che sarebbero diventati due ottimi Pokémon.
«Lo spero davvero, visto il tuo aspetto così innocuo!» esclamai quando, nella nostra stanza, liberai dalla Ball il mio Ralts. Il minuscolo Pokémon fu sulle prime piuttosto disorientato, poi mi individuò e subito capì quale delle due ragazze nella stanza gli fosse toccata come Allenatrice. Altair uscì dalla sua Ball senza permesso - come al solito, bisogna aggiungere - e svolazzando a mezz’aria lo guardò incuriosita, canticchiando qualcosa.
Iniziare ad allenare Ralts fu molto difficile e spesso mi toccava sostituirlo a metà di una lotta con Altair. Peraltro cresceva molto lentamente e fu quasi straziante aspettare secoli per vedere i suoi livelli aumentare. Sopportai il tutto solo perché ero rassicurata che Gallade, se ben allenato, era davvero un buon Pokémon e anche molto leale e fedele nei confronti del proprio Allenatore. Però questo lo scoprii solo in seguito: intanto stavo vivendo ogni momento di quella domenica sera con il cuore in gola, pensando al’imminente inizio delle “lezioni”.






Angolo ottuso di un'autrice ottusa
Hello! Stavolta l'aggiornamento viene di domenica. Be', non voglio essere proprio precisa con le pubblicazioni, quindi se aggiorno nel finesettimana il periodo oscilla tra il venerdì e la domenica, a seconda se nel vero weekend ho qualcosa di impegnativo da fare o no.
Ringrazio quanti stanno seguendo la storia, davvero, è bello avere relativamente tanti lettori per una storia che è una nuova versione di una più vecchia.
Comunque, Cynthia non è Camilla, nonostante la somiglianza fisica tra le due. Come personaggio è venuto fuori durante la mia fase di beatlemania sfrenata, ho preso il nome Cynthia, la prima moglie di Lennon, e più o meno alcune sue caratteristiche fisiche... non accorgendomi della somiglianza tra le due, e soprattutto di aver preso il nome inglese della Campionessa. Ohibò.
Ci si becca (?) il prossimo weekend, allora!
Ink

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Capitolo 7
*** VI - Librarsi ***


VI
Librarsi

Il lunedì mattina mi alzai mezz’ora prima del previsto, che avrebbe dovuto essere le sette, dopo un sonno agitato e difficoltoso. Dovevo aver dormito sì e no sei ore e durante quella giornata lo avrei fortemente rimpianto; il resto della notte lo avevo passato a rigirarmi nel letto, lamentando che ogni posizione assunta mi fosse diventata improvvisamente scomoda, e a sperare inutilmente che il ronfare sommesso e regolare di Chiara mi aiutasse a prendere sonno come un’assurda nenia.
Quando finalmente la scritta indicata sul PokéGear segnò un orario successivo all’alba, mi misi a sedere sul letto e soffocai un sospiro stanco e ansioso. Invidiai Chiara che dormiva imperterrita: forse si sarebbe davvero svegliata solo mezz’ora prima dell’inizio delle lezioni, non alle sei e mezza come me. Ero agitata e preoccupata, tanto per cambiare. Il buio era totale se non per la timida lucina verdognola dello schermo esterno del Gear.
Passai qualche minuto a non fare niente, sola con il silenzio di tomba dell’Accademia e con il vuoto della mia testa. Ma dopo un po’ mi accorsi di quanto mi scocciasse starmene seduta sul letto con lo sguardo perso nel buio, quindi mi alzai. L’odiosa moquette si rivelò molto utile per non far udire i miei passi a Chiara, ma probabilmente dormiva fin troppo profondamente per essere disturbata da me.
Raggiunsi a tentoni la porta del bagno e dopo averla socchiusa mi azzardai ad accendere la luce. Valutai che fosse passato un altro buon minuto prima che mi decidessi a muovermi dai pressi della porta, poiché me ne stavo ferma e stante in piedi addosso allo stipite; andai davanti lo specchio.
Il riflesso della mortificazione e della tensione si presentò ai miei occhi già stanchi. Pensai di essere un po’ pallida nonostante non avessi una pelle molto chiara - mi abbronzavo abbastanza facilmente: mi parve che le mie labbra rosse, un po’ carnose, spiccassero più del solito sul mio viso. Mi lavai velocemente la faccia ma non bastò a svegliarmi, né tantomeno servì qualche schiaffetto sulle mie guance piuttosto paffute.
Scambiai un’occhiata veloce con il mio riflesso; quasi subito distolsi lo sguardo dalle familiari iridi verde scuro circondate da un anello grigio, colore che talvolta prendeva interamente il sopravvento su di esse. Le mie ciglia nere, non molto lunghe, ombreggiavano appena quegli occhi grandi, così pensierosi ed espressivi, anche troppo per i miei gusti. Erano talmente sinceri, lo specchio di quello che avevo dentro e che intimamente passavo, che per me fingere era qualcosa di quasi impossibile. Ero una pessima attrice, ma forse avrei dovuto imparare ad esserlo - la guerra me lo avrebbe probabilmente richiesto.
In quei lunghi minuti di solitudine con me stessa e con il mio riflesso nello specchio capii quanto fosse stato difficile, in quei giorni, trovare il tempo per pensare. Le numerose emozioni si erano confuse tra di loro, susseguendosi senza sosta, e badare ad Altair mentre dovevo fare attenzione alle nuove conoscenze acquisite - sia in materia “scolastica” che in quella delle relazioni con gli altri ragazzi - mi avevano totalmente impedito di capire veramente dove fossi finita, perché, come.
Ebbi la sgradevole sensazione che spiegarmi il tutto con l’abbassamento delle barriere da parte del Nemico misterioso, che ora anche io ero chiamata a combattere, l’attacco degli Snover arrabbiati e tutto il resto - avvenuto con la compagnia di Bianca e di Gold - non fossero abbastanza. Come se quello non fosse sufficiente a spiegarmi il modo e il motivo per i quali io avessi acconsentito ad entrare in quel nuovo mondo, a cambiare la mia realtà. Ora che ci pensavo, che rivedevo tutte quelle immagini di ricordi sfilare nella mia mente, capii quanto fosse ancora assurdo e surreale, per me, essere in una simile situazione. Ci credevo e non ci credevo al contempo.
Sbuffai con un sorriso amareggiato e mi rivolsi nuovamente al mio riflesso, riavviandomi i capelli dopo averli spazzolati. La mia mossa chioma piuttosto folta di un castano chiaro tendente al biondo, che a volte si esibiva in un’involuta piega leggermente ricciuta, completava il quadro di una ragazza assolutamente ordinaria che cercava di non dare a vedere quanto fosse preoccupata, intimorita da ciò che le stava succedendo. Quella ragazza di nome Eleonora, che forse di unico e speciale aveva solo la voce, rideva sconsolata dentro di sé al pensiero che una come lei dovesse mettersi a combattere. E in quel momento sorridevo con falsità, con quell’espressione in pena e un po’ malinconica, che non voleva permettersi di essere triste, pensando che quell’anonima ragazza di nome Eleonora fossi io e che tutto quello stesse capitando proprio a me.
A me, che non ero versata nel combattimento così come non lo ero per la maggior parte degli sport; che non apparivo di certo per la mia bellezza, perché oggettivamente bella non ero - ero anche in quello una ragazzina assolutamente normale, di quelle che alcuni considerano bruttina e altri a dir poco carina, ma che resta indifferente alla maggior parte delle persone; che non avevo un fisico né esile, al contrario di Chiara, né agile; che ero timida e impacciata, difficilmente inseribile per questo in un contesto come quello della guerra; che non avevo voglia di mettermi a lottare contro nessuno, già preoccupata che i combattimenti tra Pokémon ferissero i miei due compagni di squadra; che ero così mite, tranquilla e bonacciona, affatto brava con le parole e quasi incapace di ribattere a qualcosa che poteva avermi messa in difficoltà, che le prese in giro nei miei confronti da parte di coloro a cui non andavo a genio si sprecavano.
Mi chiesi se la passione per il canto, per la lettura e la bravura generale a scuola - almeno questo me lo concedevo, ero sempre andata bene in più o meno tutte le materie scolastiche - mi sarebbero servite a qualcosa in una situazione come quella. Continuando a sorridere in quella triste maniera capii che difficilmente avrei avuto vita facile negli anni a venire, tanto che pensai: “Chissà se è ancora possibile ritirarsi e chiedere la rimozione dei ricordi. Sarebbe una crudeltà nei confronti di Altair e anche Aramis, lei soprattutto mi sembra già così affezionata, nonostante io sia ancora un po’ diffidente e distante con i Pokémon… Chiara forse, vedendomi in un simile stato, mi seguirebbe.”
Scossi la testa, chiedendomi se la mia fosse codardia o un placido istinto di sopravvivenza che mi indicava cosa sarebbe stato meglio che facessi per la salvaguardia della mia persona. Smettendo di guardare il mio riflesso nello specchio, che mi apparve più odioso che mai a causa della sua inettitudine ed inutilità nell’ambiente della guerra, spensi la luce e uscii dal bagno, trascorrendo quei pochi minuti che mancavano al suono della sveglia distesa sul letto a fissare il buio soffitto. Con un lieve sospiro accolsi l’annuncio che la giornata era ufficialmente cominciata.
Lasciai che la sveglia trillasse per qualche secondo e poi la spensi con un gesto più stizzito del voluto. Puntualmente Altair uscì dalla sua Ball, cinguettando come da copione, mentre Chiara non mi dava segni di vita. Dopo essermi distratta per un momento, il tempo di stupirmi per avere un Pokémon tanto mattiniero e anche abbastanza iperattivo, andai a disturbare la mia compagna per farla alzare.
Non recitò abbastanza bene la parte della ragazzina assonnata e capii subito, quando banalmente mi chiese di farla dormire altri cinque minuti, che già da un po’ doveva essere sveglia.
«Da quanto non dormivi più?» le chiesi.
«Eh? Mi hai svegliata tu ora» borbottò.
«Che bugiarda sei!» sbuffai sorridendo, seduta accanto a lei sul letto. «S’è capito benissimo che sei sveglia da un pezzo.»
Seguì un attimo di silenzio; poi Chiara si scoprì la faccia, mezza coperta dal leggero lenzuolo, e mi domandò: «Che sei andata a fare in bagno? Erano le sei e mezza o ho visto male?»
«Hai visto bene. Ma eri sveglia da parecchio allora!» Storse la bocca senza rispondere nulla. Sorrisi un po’ intenerita e insistetti: «Fai tanto la ragazza pronta a tutto, imperturbabile ed ironica… ma in momenti come questi si vede proprio che anche tu sei preoccupata!»
«E in momenti come questi si vede che il tuo cervello non si è svegliato insieme al resto del corpo!» sbottò. «Chi mai sarebbe rilassato in una situazione del genere? Non solo è una specie di primo giorno di scuola, ma sono anche le prime lezioni con i Pokémon. A volte mi chiedo ancora se non mi sia davvero presa dei funghi allucinogeni, come hai immaginato tu quando ti ho chiamata per la faccenda del quartiere nord!»
«Be’, non sei affatto in una situazione diversa dalla mia» dissi dopo poco. Avere la conferma, non tanto la prova - sotto sotto già lo sapevo, che anche Chiara era intimorita da tutto ciò mi faceva stare un po’ meglio, mi sentivo meno a disagio e fuori posto. «Mal comune mezzo gaudio, no?» proseguii pensierosa.
«Eh?» fece lei alzandosi dal letto.
Mi spostai scuotendo la testa, senza ridacchiare per il suo tono. «Lascia perdere, per te le sette di mattina sono troppo presto per ricevere pillole di vita…»
«Ma va’ a… a…»
Cercò una frase ad effetto. Peccato che non la trovò e io potei finalmente ridacchiare dandole un buffetto su una guancia. «Vai, mentre ci pensi io finisco al bagno, ma ti ripeto che per te è presto.»
Chiara si risparmiò il disturbo di lanciarmi il cuscino o un oggetto più contundente, cosa che ero abbastanza sicura avrebbe fatto di norma. Ero comunque sempre più convinta della validità di quel proverbio: avere qualcun altro con cui condividere il peso di quella grave avventura mi rendeva più leggera, mi faceva stare meno a disagio con me stessa, perché Chiara era, essenzialmente, come me.
Una ragazza normale che passava inosservata ma che era in grado di imporsi e farsi rispettare grazie al suo caratterino e al fatto che, dopo un primo approccio, si rivelasse molto più spigliata di me, che a lungo non riuscivo a superare la mia innata timidezza - anche se lei insisteva con il dire che certe volte si stupiva di quanto io potessi essere sveglia e pronta, ricordandosi di quando ero bambina: anche se non ci conoscevamo ancora bene prima delle scuole medie, ero mezza iperattiva. A quanto pareva non me ne ero stata un attimo ferma, da piccola. Poi crescendo avevo preso coscienza dei miei problemi e delle mie insicurezze e tutto si era fatto più difficile.
Chiara, come me, non era una ragazza oggettivamente bella ma io la consideravo come minimo carina: aveva quei grandi occhi neri che spiccavano sulla pelle candida, così come i capelli - dello stesso colore delle iridi, che parevano essersi fuse con le pupille - che curava moltissimo e su cui, nel tempo, aveva sperimentato le più svariate pettinature. La linea dura e un po’ spigolosa del naso veniva messa in risalto quando la sua espressione si crucciava. Era molto molto magra e si lamentava del fatto che fosse rimasta piatta nonostante avesse già tredici anni, facendo teatralmente l’invidiosa nei miei confronti. Alché ribattevo che i parecchi chili che ci separavano non erano tutte curve desiderabili.
Buona parte delle nostre coetanee avevano già avuto come minimo un fidanzato e una relazione che per la nostra età era piuttosto seria: a tredici o quattordici anni qualche mese di intensa frequentazione non era un traguardo scontato. Noi due invece ancora non avevamo avuto nessun fidanzato che fosse possibile definire come tale, un po’ per disinteresse e un po’ perché non riuscivamo mai a trovare qualcuno che ci piacesse e che ricambiasse - e viceversa non ci aggradavano granché i ragazzi che si erano fatti avanti. Eravamo un po’ sfortunate da questo punto di vista ma dopotutto a me non importava molto. Non mi piacevano i mezzi adottati da molte ragazzine per mettersi in mostra e Chiara mi dava la spinta iniziale per parlare male di chi era disposta a tutto pur di avere un fidanzato dopo l’altro. Eravamo due promettenti comari, pettegole fino al midollo.
Mi preparai più velocemente di quanto non fosse stato necessario, preoccupata com’ero. Guardandomi una volta ancora allo specchio, con meno intensità e profondità rispetto a prima, decisi che per una prima impressione sarei stata per lo meno accettabile. Non dovetti attendere a lungo perché Chiara si preparasse e, dopo aver preso i nostri strumenti e le varie Balls, uscimmo per andare nella mensa e farci un’idea di come sarebbe andata la nostra prima giornata.
Il gruppo di “studenti” a cui eravamo state assegnate era un livello più in basso di quello a cui appartenevano Angelica, Melisse e Sara - e probabilmente anche Daniel; ma non eravamo proprio tra i principianti, anche a causa della nostra età. C’erano dei ragazzini di undici o dodici anni a dir poco svegli e bravi con i Pokémon, ma la maggior parte erano novellini quanto noi. Mi sentii un po’ in colpa ma allo stesso tempo fui sollevata di non essere stata inclusa nel loro livello. Io e Chiara avremmo dovuto quasi subito circondarci di Pokémon e allenarli bene e velocemente per raggiungere il prima possibile i nostri coetanei a livelli avanzati; invece i ragazzini più piccoli di noi badavano a pochi Pokémon per volta.
Mi chiesi come sarebbe stato dovermi occupare di almeno altri quattro compagni di squadra: il piccolo Aramis aveva subito dato prova di essere pacato, tranquillo e mite. Invece Altair aveva avuto una settimana intera per prendere confidenza con la sua Allenatrice - ancora stentavo a definirmi tale - e si era dimostrata per la molesta iperattiva quale era. Chiara era stata abbastanza fortunata da ricevere due Pokémon calmissimi.
La colazione fu veloce e mi preoccupai soltanto di chiedere ulteriori rassicurazioni ed informazioni ai nostri amici, che ben presto dovettero ricorrere ad energiche e scombussolanti scrollate di spalle per farmi zittire e calmarmi. Melisse in particolare fu parecchio decisa, gestualmente parlando, ma probabilmente le cose che mi aiutarono di più furono i sorrisi, i toni di voce rassicuranti di Ilenia e Lorenzo e la limpida calma di Sara, che parlò piano e gentilmente come suo solito ed ebbe su di me l’effetto di una camomilla.
Ci consigliarono di rivolgerci al primo “professore” in cui ci saremmo imbattute per capire un po’ meglio dove dirigerci per le prime lezioni, quale stanza o aula e di cosa avessimo bisogno. Il fatto che Aristide e la sua compagnia non avessero minimamente badato a darci qualcuna di queste indicazioni era molto significativo: evidentemente non era poi tanto importante per loro vedere la partecipazione alle lezioni, ma solo i risultati. L’idea mi piaceva assai ma, conoscendomi, avrei dovuto combattere con la mia innata pigrizia per non saltare i tre quarti dei giorni di scuola. Chiara, che aveva un rapporto conflittuale con lo studio, sarebbe stata un ostacolo nella mia battaglia contro la svogliatezza.
Così, seguendo le direttive di una donna - fortunatamente molto disponibile e gentile - che era stata Campionessa di Sinnoh, Camilla, trovammo l’aula in cui erano presenti tutti i ragazzi del nostro gruppo. Gold non c’era e arrivare in ritardo di un paio di minuti, che lì parve essere un peccato mortale, non aiutò ad intrecciare subito qualche relazione con quelle specie di compagni di classe. L’aula era stata allestita per ricordare perfettamente una scolastica, con banchi a due posti, cattedra e una lavagna elettronica. Il professore presente, “il buon vecchio e rimbambito” Rowan come lo chiamava Ilenia, stava facendo l’appello mentre io aprivo la porta con al seguito Chiara, dopo aver finalmente rintracciato qualcuno per chiedere un aiuto. Aggiunse i nostri nomi in mezzo a quelli già detti e ci indicò un paio di posti liberi, fortunatamente allo stesso banco.
Ad essere sincera non ricordo molto bene le prime lezioni, se non i primi insegnamenti che mi furono impartiti come Allenatrice e che per questo motivo rimasero impressi nella mia mente. Non ho più idea di come Rowan iniziò la sua lezione, né di cosa essa trattò; nemmeno a chi lasciò il posto per la successiva e la materia di essa. Però riuscii a rilassarmi: l’ambiente scolastico, che di regola mi avrebbe resa tesa e in ansia, mi parve familiare e mi tranquillizzò. Pian piano trovai un equilibrio pur perdendo la normalità del mondo senza Pokémon.
Gli orari delle lezioni erano molto liberi e le materie non erano ben definite. Probabilmente le uniche da me accertate erano la lotta Pokémon e la conoscenza con la propria squadra.
Subito i “professori”, Sandra per prima, notarono la mia diffidenza nei confronti di Altair e Aramis. Non che non mi piacesse stare con loro o averli come alleati; ma se in un momento temevo per la loro salute durante la lotta, in un altro avevo il timore che a me potesse succedere qualcosa. Il ricordo degli Snover che ci avevano attaccate era ancora vivido e mi rendeva insicura sulla lealtà dei miei compagni di squadra e sull’”educazione”, se così era possibile definirla, dei Pokémon altrui. Chiara aveva dimostrato di essere in una situazione non migliore della mia e sempre più spesso dava prova di non essere la ragazzina sicura di sé e spavalda, ma una intimorita quanto me e non certa sulla natura degli esseri con cui ora convivevamo.
Ero combattuta e i miei comportamenti erano alquanto incoerenti. Mi preoccupavo prima per me stessa e poi per loro; un momento mi credevo attratta e incuriosita dai Pokémon e in quello successivo non volevo che Altair mi importunasse, ma che se ne stesse buona e obbediente chiusa nella sua Ball. A volte, grazie ad un ignoto intuito, immaginavo ciò di cui potessero avere bisogno e cosa servisse loro - magari dopo una lotta andata male quando poteva servire qualche consolazione. E in quelle occasioni la compagnia di Altair e Aramis mi riusciva addirittura familiare, come se li conoscessi da sempre e avessi già un certo feeling con loro. Eppure bastava un attimo per farmi fare passi indietro e considerarli esseri totalmente sconosciuti, le cui azioni erano imprevedibili - nonostante poco prima avessi, magari, previsto quello che era loro servito.
Non negai a me stessa di essermi parecchio preoccupata quando Sandra, che pareva aver preso a cuore la mia situazione e non si voleva limitare a riprendermi e a incitarmi come gli altri professori, mi richiamò da parte durante una lezione presidiata da lei. In un certo senso la trovai, in seguito, simile a Chiara: entrambe facevano le dure davanti a tutti, ma poi rivelavano un lato di sé stesse più naturale e comprensibile a tutti, più umano. La mia amica si faceva insicura, la Capopalestra invece si avvicinava comprensiva e cercava di aiutare - in quel caso ero io la persona presa da lei in esame.
Ciò comunque non le impedì di esordire con un secco: «Qual è il tuo problema?»
Esitai un momento, poi aprii bocca ma la richiusi quasi subito. Ero ammutolita, non avendo idea di quale risposta si potesse dare ad una simile domanda. Come era ormai prevedibile, arrossii appena. «Ehm… in che senso?» balbettai.
«Con i Pokémon. Sei molto fredda e non ne capisco il motivo, soprattutto perché appena i tuoi incassano un colpo più dannoso ti spaventi e ti preoccupi per loro.»
Di nuovo trascorse un lungo paio di secondi prima di una mia reazione. Con qualche difficoltà, preoccupata per una possibile strigliata da parte della severa Capopalestra, spiegai di come fossi ancora intimorita, memore dello scontro con gli Snover. Timidamente dissi che non ero certa che la natura dei Pokémon fosse totalmente pacifica e leale nei confronti dell’uomo, che anzi fosse pure abbastanza facile deviarla, pensando a come il Nemico lo avesse fatto al Lago Arguzia.
Sandra aveva la risposta pronta a tutto e, energicamente, prima mi diede dell’ingenua e poi aggiunse, più calma, se non dolce: «Non posso importi, ovviamente, un amore incondizionato e una totale fiducia nei confronti dei tuoi Pokémon e di quelli altrui. Potrei farlo se non fossimo in tempi di guerra, e mi perdonerai se ti spavento così, ma non posso garantirti che, durante un possibile attacco di Pokémon nemici, non potresti andarci di mezzo anche tu. Tu come umana, non la tua squadra.»
Guardavo la Capopalestra con occhi leggermente spalancati, sia per lo stupore causato dal suo tono che per il bel colpo ricevuto dalle sue forti parole. Parlare di guerra in simili termini non lo avevo sentito mai, non si faceva, almeno non tra noi ragazzi. Quelli delle Forze del Bene erano stati molto bravi a creare un ambiente in cui il conflitto tra i nostri e il nemico apparisse come distante anni luce. Invece niente ci assicurava di essere veramente al sicuro, se non la speranza che l’Accademia fosse solidamente difesa.
«Spero solo che l’amicizia e la fiducia si possano imparare» mormorai, «e che il giorno in cui anche io dovrò combattere, o sarò in pericolo, sia abbastanza lontano da consentirmi di farlo in tempo.»
Non guardai Sandra ma intuii che il mio tono pensieroso e un po’ mesto l’avesse colta di sorpresa, essendosi di sicuro già abituata alla ragazzina timida e incerta su tutto. Il silenzio che seguì mi costrinse a chiedermi se invece non stesse ancora aspettando una risposta perché quelle parole le avevo tenute per me.
Disse, facendomi capire che le avevo pronunciate davvero: «La situazione in cui siete è più difficile di quanto vi venga fatto credere. In genere questo lo si capisce da soli dopo qualche mese trascorso qui, a forza di parlare di basi nemiche distrutte o delle nostre scovate. Ma credo sia giusto che tu e chi come te, piombato all’improvviso in una realtà a parte, capiate fin da subito in che casino siete finiti.»
Fui tentata di rispondere “più o meno l’ho già capito”, ma mi trattenni e annuii semplicemente. Esclamai per la sorpresa quando Sandra mi diede un paio di energiche pacche sulla spalla e mi trovò un “compagno di classe” con cui lottare. Impegnandomi al massimo e cercando un dialogo con i miei Pokémon, riuscii a vincere la maggior parte delle battaglie successive, facendo immediatamente progressi. Il mio cambiamento, che avvenne prima del previsto, contagiò anche Chiara; nella prima settimana, Piplup si era già evoluto in Prinplup.
Così quella strana sensazione di familiarità con i Pokémon tornò, stavolta per restare. Ci volle più di qualche giorno, ovviamente, ma dopo il primo mese di “scuola” ero già sicura di essere in sintonia con quelle creature. Gli Snover aggressivi divennero presto un ricordo lontano e l’affettuosità di Altair, in particolare, mi aiutò moltissimo. Forse non ero tra i migliori della classe, per lo meno non ancora, però la stessa Sandra riconobbe che ci mettevo molta più decisione e partecipazione, se non passione, nelle lotte. Iniziai a prenderci gusto, talmente tanto che ben presto saltai lezioni prettamente teoriche pur di allenare i miei Pokémon, imparare altro su di loro e conoscerli meglio. Chiara mi disse che le sembravo totalmente trasformata.
Furono quelli i primi avvertimenti su quello che avrei voluto fare per il resto della mia carriera nel mondo dei Pokémon, ovvero le lotte. Per quanto fossi ancora ad un livello abbastanza basso, a volte mi sentivo talmente piena di adrenalina da figurarmi come una Campionessa.
Presto mi fu ben chiaro il futuro che avrei voluto avere come membro delle Forze del Bene, anche se quando mi venne posta questa domanda per la prima volta non seppi bene cosa dire. Di ruoli da poter assumere ce n’erano in quantità, eppure le lotte avevano qualcosa in più che me le faceva preferire ad altre risposte: spia, esploratrice, ricercatrice… niente di quello mi interessava più di tanto. E il fatto che mi piacesse così tanto lottare, anche se ad un livello ancora basso, era manifestazione palese delle mie attitudini.
La prima settimana passò più velocemente di quanto avessi immaginato: il tempo per pensare a me, a ciò che mi stava succedendo e alla guerra in corso riprese a mancare. Chiusa nella campana di vetro che era l’Accademia insieme a tutti quei ragazzi, più o meno maturi, mi sentii in un mondo a parte, in una dimensione separata sia dal mondo normale che dalla realtà della guerra. Era una situazione di equilibrio precario, che prima o poi si sarebbe spezzato o sarebbe stato spezzato per qualche motivo, eppure mi ci abituai presto.
Anche il finesettimana si lavorava, seppur meno del normale, e i giorni si resero tutti uguali per questo motivo; però quando trovai un momento di tempo per confrontarmi con Chiara ne approfittai subito. Com’era prevedibile, i Pokémon erano divenuti il centro delle nostre conversazioni: la maggior parte di esse verteva su di loro. Ma dimenticarcene per un istante e parlare da amiche, non come Allenatrici, non era ancora diventato impossibile per noi due. Infatti la chiacchierata partì dall’argomento Pokémon, in particolare dai progressi dei nostri. Lei per prima cambiò discorso e fece un breve commento che, sulle prime, mi prese molto alla sprovvista.
«Da una settimana all’altra mi sembri molto cambiata, Eleonora.»
Inarcai le sopracciglia. Era una sera del weekend e stavamo sedute sui rispettivi letti. Chiara sorrideva appena mentre disse quella cosa. Le chiesi: «In che senso?»
«Il tuo atteggiamento, dico. O forse il carattere, ma credo entrambi. Ti vedo molto più a tuo agio e spigliata, come se questa realtà fosse quella che cercavi da tanto tempo… come se fossi finita in un sogno che hai sempre desiderato raggiungere. Anche io credo di aver cambiato il mio approccio a questa situazione… prima cercavo di nascondere la paura, adesso invece non ne provo più. Mi sento pure io, come te, credo, meno a disagio e fuori posto… sono più contenta, non spaventata, anche se un po’ di nostalgia c’è sempre.»
Seguì una pausa. Guardavo insistentemente Chiara, non riconoscendo in quelle parole l’amica a cui ero sempre stata abituata, mentre lei aveva gli occhi fissi altrove. Dissi: «Ehm… anche tu sei cambiata, sì. Non ti avrei mai creduta capace di simili considerazioni… cara ragazza superficiale.»
Lei ridacchiò e quella semplice reazione mi spinse a chiedermi perché non mi avesse fatto, come minimo, una linguaccia. «Soprattutto quando lotti, sembri molto diversa» continuò a bassa voce. «I primi giorni avevi paura che i tuoi Pokémon si facessero male o che ne facessero a te per qualche motivo… adesso ti fai rispettare sia da loro che dagli altri ragazzi con cui parli. L’ho detto, sei più spigliata, probabilmente grazie ai Pokémon. Non ti fai più problemi a parlare, di punto in bianco la ragazzina timida sembra sparita e non sembri avere remore su niente, cosa che invece prima ti caratterizzava. Eri molto incerta su tutto.»
Di nuovo fui costretta ad aspettare qualche secondo prima di riuscire a replicare qualcosa. «Non mi stupisco di essere cambiata tanto velocemente. Penso sia normale in una situazione come questa.»
Non seppi dire a me stessa se quella fosse una bugia o la verità, ma Chiara annuì. «Insomma, metti molta più decisione in ogni cosa che dici e che fai… anche se ultimamente ti trovo un po’ pungente, quando cerchi di fare un commento ironico o una battuta. Restituiscimi Eleonora, tu, sconosciuta!» esclamò all’improvviso, sorridendo con una sincera aria di sfida e puntandomi il dito contro.
Ridendo, ribattei: «E tu riportami la mia Chiara, ragazzina che… che fa considerazioni strane!»
«Ma che…! Andiamo, mica sono così superficiale!»
«Ehm…» Sorrisi con aria innocente. «Comunque, non pensavo di risultare sgradevole. Pungente, insomma… non lo avrei mai pensato. Forse è vero che… che mi sto facendo assorbire talmente tanto da questa storia da non accorgermi di star cambiando così tanto, ecco. Credo di essermi già abituata ad essere più spigliata e a farmi meno problemi su ogni cosa. Spero solo sia un bene.»
«Ah, be’… la storia di cui parli è ancora lunga. Hai tutto il tempo che vuoi per esaminarti e decidere cosa vuoi cambiare di te e quali novità di te stessa farti piacere.»
Annuii. L’atmosfera si rilassò sensibilmente quando mi stiracchiai borbottando qualcosa di imprecisato, quindi mi distesi sul letto continuando a guardare la mia amica. «Va be’, siamo cambiate entrambe in reazione a questa nuova realtà… non credo sia un problema. E poi le cose stanno andando meglio del previsto.»
«Sì, è vero. Non siamo nemmeno indietro rispetto agli altri del nostro gruppo e Piplup si è già evoluto… mia cara, la classe non è acqua, come ben vedi!»
«Peccato che Prinplup sia un Pokémon di tipo Acqua…!»
«E con questo cosa vorresti dire, eh?!»
Continuando a punzecchiarci, da brave compagne di stanza, la serata corse velocemente - tanto per cambiare. In me, stando a quanto aveva notato Chiara, era nato un carattere competitivo e svelto; o forse era soltanto un lato di me che ci aveva messo del tempo a risvegliarsi, e che la spinta per uscire fuori l’aveva ricevuta proprio con le lotte Pokémon. Non avendo mai fatto sport a livello agonistico, né altre attività che mi mettessero in un rapporto di sana rivalità con qualcun altro, non ero mai riuscita a sostenere psicologicamente - nonché fisicamente, viste le mie scarse capacità - gare e cose di quel genere.
Ma ora che avevo dei Pokémon da vantare, che mi avevano contagiata con il loro carattere, volendo per primi mettersi in gioco e farsi valere, in me si era accesa la scintilla del desiderio della vittoria, di primeggiare sugli altri. Era ancora presto per me, essendo ad un livello di allenamento piuttosto basso, ma ciò non mi impediva di sognare l’unico modo che mi avrebbe fatta stare ancora più a mio agio con me stessa in quella nuova realtà.
Forse quella ragazzina di nome Eleonora non sarebbe stata poi tanto sprovveduta e priva di qualità, in una guerra che richiedeva tutt’altro rispetto a ciò che avevo sempre fatto e amato fare. La mia trasformazione doveva essere già iniziata; pensai che, tutto sommato, in una condizione tanto disperata non ero. Sorrisi, credendo di non essere più tanto inutile in quel contesto e di potermi benissimo adattare.










Angolo ottuso di un'autrice ottusa
Hola a todos. E qui i miei ricordi di tre anni di spagnolo iniziano a sfumare... passiamo oltre. In effetti sono sfumati pure i ricordi di parecchie cose fatte durante questo ultimo anno scolastico, come la coniugazione mista e tutte alcune faccende riguardati le congiunzioni e le subordinate relative... macché in italiano, ma magari. Chi ha scelto il liceo classico come me capirà. (Un giorno la cara Ilenia, la stessa della storia, mi ha detto poco prima che riprendesse la scuola che il greco si dimentica. Ile cara, magari fosse solo il greco. Magari.)
Idiozie a parte - non so perché ancora non sia scoppiata in lacrime nell'angolo ottuso al pensiero che domani riprenderà la routine scolastica - non mi piace molto il titolo del capitolo, devo dire. Da una parte sì, perché esprime una figura che mi piace; però non mi suona bene e se mi venisse un'altra idea lo cambierei volentieri. Purtroppo io e i titoli abbiamo un rapporto di amore ed odio... in ogni caso avevo proposte molto meno allettanti ma sempre inerenti allo stesso argomento.
Ho scelto "Librarsi" perché finalmente le protagoniste decollano. Nel senso che dopo tutti i problemi iniziali sono riuscite ad inserirsi e ad integrarsi in questa nuova realtà. Il titolo del capitolo non mi piace ma come esso sia riuscito sì: con questa ristesura ho avuto modo di approfondire il lato introspettivo, oltre a dare molto più realismo e spessore ad ogni cosa, persona e Pokémon (?). Così, se nella prima versione le due a malapena si accorgevano di cambiare totalmente vita, adesso si fanno pure qualche problema a riguardo. E' molto nel mio stile, chi non è nuovo alle mie storie ne è consapevole, tartassare di interrogativi ed emozioni forti i miei personaggi, siano essi rilevanti o meno. Ho iniziato da quest'inverno a dare molto filo da torcere a queste care personcine e non mi stupirei se, arrivati verso la fine della seconda parte, i lettori nuovi immagineranno la più sfrenata misantropia nell'animo della metà dei personaggi...
Spero che il capitolo sia piaciuto a voi quanto a me. Non è molto lungo ma penso sia abbastanza lento, vista la ridotta quantità di dialoghi. E' molto statico, descrittivo e introspettivo, e non tutti - molti pochi - potrebbero gradire; ma ripeto, è questo il mio modo di scrivere... non posso farne a meno, anche se la rilettura scoccia assai (?) anche la sottoscritta...
Mi spiace aver scritto così tanto nell'angolo ottuso, probabilmente sto evitando un tracollo nervoso straparlando di tutto ciò che può distogliermi dal pensiero che OH MIO DIO DOMANI LA SVEGLIA E' ALLE SETTE E NON ALLE NOVE COME MINIMO OH CIELO SE NON VADO A DORMIRE ALLE NOVE NON RIESCO AD ALZARMI AAAAAAAAAAAH e cose simili.
Ci vediamo settimana prossima! (sperando di non morire prima)
Ink

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Capitolo 8
*** VII - Settimane movimentate ***


VII
Settimane movimentate

Fin dai primi giorni di permanenza nell’Accademia capii che durante la giornata avrei potuto assistere a qualsiasi tipo di lezione. Eravamo privi di un vero orario scolastico e di un programma da seguire; l’inesistente organizzazione era talvolta un problema, ma dubitavo che scandire le ore con il suono di una campanella e creare un orario fisso fosse funzionale alla situazione. Certe cose avevano la priorità, come l’allenamento sia fisico che dei propri Pokémon, ed il rapporto da coltivare con loro; alle altre era riservato il tempo rimanente.
Chiara fu molto felice di non dover frequentare più di tanto la matematica per il resto dei giorni a venire - e la maggior parte delle classiche materie scolastiche. In ogni caso, chi lo desiderava aveva in qualche modo la possibilità di prendere parte abitualmente a lezioni di suo interesse - evitando quelle che altrimenti avrebbero dovuto esserci. Era già capitato che all’arrivo di un professore, quasi sempre casuale, qualche ragazzo del nostro gruppo uscisse e se ne andasse per fatti suoi; così come durante le lotte nella sala sotterranea qualcuno dei più esperti si era unito a noi per qualche allenamento extra.
Suddivisi le lezioni a cui avevo assistito in due gruppi: quelle di pratica e quelle teoriche. Le prime, per me, comprendevano le lotte con i Pokémon e le uscite ben monitorate che ogni tanto ci venivano concesse - ci eravamo spostati, in piccoli gruppi accompagnati da un paio di professori, nei percorsi adiacenti a Giubilopoli, rimanendo ovviamente nei limiti delle barriere che scindevano la realtà umana da quella dei Pokémon.
Quelle teoriche erano semplicemente tutto il resto: i focus sui vari tipi di Pokémon, gli approfondimenti su aspetti generali della loro specie e qualche segreto che eravamo tenuti a conoscere - ad esempio luoghi protetti da barriere, come molte grotte o interi percorsi, in cui si svolgevano esclusivamente attività di ricerca da parte dei nostri; oppure perché quei luoghi erano stati la tana di qualche Leggendario o di Pokémon molto rari, e per questo erano ben sorvegliate. Eravamo messi a conoscenza di altrettante posizioni nelle quali, ben nascosto, c’era un covo nemico o comunque un’attività sospetta. Ogni tanto ci veniva comunicata la notizia, a sera, di un successo ottenuto o di qualche perdita; inizialmente mi preoccupai molto ma vedendo le reazioni altrui pareva una cosa normale.
Esclusi dai due gruppi le materie scolastiche classiche: lingua e letteratura, matematica, geografia eccetera. Ma non storia, che per me e Chiara fu sconvolgente appena scoprimmo del vero passato del nostro mondo, anch’esso cancellato dalle memorie collettive a causa dell’arrivo del Nemico. Non era sempre stato quello il volto della nostra Terra; un tempo le terre emerse erano disposte diversamente, in sei continenti. In quella fase dell’esistenza del pianeta, la prima e fino ad allora la più lunga, Pokémon e umani erano coesistiti in armonia.
La Storia era stata comunque costellata di guerre, violenza e distruzione in ogni epoca, eppure i Pokémon, che detenevano i poteri per governare il mondo, avevano collaborato nel bene e nel male con gli esseri umani. Ma la catastrofe minacciata da una possibile Terza Guerra Mondiale sarebbe stata insostenibile per ogni forma di vita sulla Terra. Non avevo ancora approfondito le ragioni per cui essa era stata sul punto di scoppiare, limitandomi ad ascoltare la lezione di storia del professor Oak senza fare troppe domande. Quella scoperta mi aveva scossa molto e non capivo perché quei fatti fossero stati omessi dall’esistenza umana.
La risposta arrivò proprio dalla presenza dei Pokémon. Per la prima volta sentii nominare Arceus, il capostipite - non ce la facevo a chiamarlo dio - di quelle creature, e molti altri Leggendari. Riorganizzarono la disposizione delle terre emerse mentre la corsa del tempo veniva fermata; selezionarono alcuni linguaggi da far sopravvivere e smistarono la popolazione umana attingendo da ogni etnia, facendo diventare la nostra specie, con il passare del tempo, meramente meticcia e facendo sparire il razzismo - al mondo normale era praticamente sconosciuto e noi venivamo educati per non rievocarlo. Le regioni erano state una sostituzione ai “Paesi” del Primo Mondo.
Dopodiché i fatti avvenuti furono ricostruiti e modificati. Solo a pochi fu concesso di venire a conoscenza della vera Storia, mentre i Pokémon tornavano a far parte del quotidiano umano dopo un breve periodo di sparizione. Le guerre mondiali rimasero due e sparirono le tracce delle religioni esistite, le quali, stando a quanto Oak aveva sbrigativamente detto, erano state sfruttate sino a diventare una delle cause che stavano per far crollare la società - anzi, il mondo intero, con lo scoppio della famigerata Terza Guerra Mondiale.
Era stata una scoperta impressionante e nemmeno mi sembrava del tutto veritiera, abituata com’ero a conoscere tutt’altre versioni. Invece il nostro mondo conservava quell’aspetto da poco più di due secoli e i Pokémon erano spariti nuovamente “soltanto” da otto anni, a causa della venuta del Nemico. Dopo quella lezione di storia decisi che ne sapevo abbastanza e che potevo anche permettermi di saltare le successive - cosa che non feci, desiderosa com’ero di saperne di più, e anche sentendomi un po’ in colpa: forse la situazione che vivevamo poteva trovare una soluzione studiando il nostro passato, sanguinoso e turbolento com’era stato.
Durante le lezioni all’aperto, invece, mi pareva di fare esercizi simili a quelli dei militari. I consigli e le dritte che ci venivano dati nei vari campi, dalla mimetizzazione all’esplorazione del territorio, dovevano poi essere messi in pratica. Per me e Chiara, che di certo non brillavamo per atleticità, furono fin troppo spesso un supplizio.
Però solo durante quelle lezioni si poteva provare il brivido di catturare da soli un Pokémon, non rassegnandosi quindi a prelevarne uno dalla stanza delle Poké Ball. Fu così che la mia piccola squadra acquisì tre nuovi membri: uno Starly, una Shinx e una Budew. In ordine li chiamai Diamond, Pearl e June; i primi due soprannomi li scelsi in onore dei Dexholders di Sinnoh, che in cuor mio speravo d’incontrare prima o poi. Quando scoprii che Budew si evolveva in Roselia tramite “felicità” mi vidi costretta a dedicare a June la maggior parte delle mie attenzioni.
La crescita di Aramis era tanto lenta da risultare esasperante. Tra l’altro non aiutava molto il fatto che fosse un Pokémon, destinato a brillare nella statistica dell’Attacco, che imparava solo mosse speciali per i primi due stadi evolutivi. Peggio ancora fu, quando lo presi per la prima volta, vedere che di mosse d’attacco non ne aveva. Avendo già iniziato a prediligere uno stile di lotta che si basava sui danni da infliggere all’avversario, dover aspettare così tanto tempo per allenare Aramis e farlo evolvere in Gallade sarebbe stato frustrante. Gli feci insegnare sia mosse fisiche che speciali, grazie ad un paio di MT e all’aiuto dell’Esperto Mosse.
Altair invece era proprio negata nell’attacco. La sua specie era pacata e indirizzata verso attitudini difensive, più che offensive. Nonostante ciò non mi arresi e subito dovette imparare mosse d’attacco, tra cui Volo. Non avevo idea di come un Pokémon delle sue dimensioni potesse librarsi nell’aere sereno caricandosi il peso della sua Allenatrice, ma nel frattempo durante la lotta non era male avere una mossa simile in più.
Allenare uniformemente la squadra era difficile. Dovetti far fermare Altair per un po’, anche se cresceva già abbastanza velocemente, per portare al suo livello i nuovi arrivati. Riuscii quasi miracolosamente a far evolvere prima del previsto Budew, dopo un paio di settimane di allenamento e di affetto gratuito nei suoi confronti, e la Roselia si dimostrò presto un ottimo elemento - così come Starly; un po’ meno Shinx.
Chiara aveva combinato qualche guaio accanto ad una pozza d’acqua in un percorso e un terrificante Gyarados l’aveva presa di mira. Non avrei mai sospettato che una specie di stagno, pur difeso da barriere, potesse contenere il gigantesco drago d’acqua. Eppure in qualche modo quella era la tana del Pokémon e la visita troppo ravvicinata di Chiara l’aveva altamente infastidito. La mia amica riuscì addirittura a catturarlo, nonostante l’iniziale paura, grazie alla difesa offertale da Prinplup - che lottò duramente - e a Sandra che l’incitava a combattere. In più tornò nella sala delle Poké Ball e quando mi raggiunse nella nostra camera aveva un Pidgey appollaiato sulla spalla.
«Il novellino mi sembra un po’ spaesato» commentai quando Chiara spalancò la porta con aria soddisfatta.
«Eh? Ah, ci si abituerà subito! Secondo me se lo fai stare un po’ con Swablu e Starly partirà alla grande.»
«Visto il caratterino di Diamond direi che è meglio se mi limito alla compagnia di Altair…»
«Ah, già. Hai lo Starly più rissoso di Sinnoh» ridacchiò lei.
«Già mentre cercavo di catturarlo avevo capito che tipo era… Ho dovuto buttare una dozzina di Ball solo per prenderlo, ed era riuscito pure a mandare K.O. Aramis e June. Era pieno di lividi ma non mollava mica! Ero in seria difficoltà, anche perché mi era rimasta solo Altair.»
«Poi hai catturato pure una Shinx e lì ti sei fermata…»
«Non ho intenzione di avere un Coleottero nella mia squadra» borbottai, facendo ridere Chiara. Il mio astio nei confronti degli insetti, e di conseguenza nei Pokémon Coleottero, trasparì da ogni poro della mia pelle mentre lo dicevo. «Decisamente i Kricketot e la loro compagnia ronzante non li voglio in squadra. E Bidoof è… ridicolo.»
«Se ci portassero un po’ più lontanto, presso Giardinfiorito, vorrei catturare un Buizel…» fece lei pensierosa.
Scrollai le spalle. «Penso sia già tanto se ci fanno uscire qui nei dintorni. Stando a quanto hanno detto i ragazzi» mi riferivo a Ilenia, Lorenzo e gli altri nostri amici, «aver fatto due lezioni all’aperto nella primissima settimana è stata davvero una botta di…»
«Ele, le espressioni rozze sono di mia competenza!… E forse anche di Cynthia.»
Sbuffai, scuotendo la testa e sorridendo. Chiamai Altair fuori dalla Ball cosicché il Pidgey della mia amica potesse fare la sua prima conoscenza in quell’ambiente - continuava a fissarmi chiedendosi, probabilmente, chi fosse la ragazza con cui la sua stramba Allenatrice stava chiacchierando. Proseguii: «Comunque ci è andata bene davvero. Daniel è uscito una volta, come lui Angie, Sara e Melisse… gli altri non hanno mai potuto andare fuori.»
«Be’, si sono allenati di più. E poi Ilenia e Cynthia devono ancora farci vedere una loro lotta!»
Volendo dare una dimostrazione a noi del secondo livello di come si lottasse veramente - anche se nemmeno loro erano propriamente eccezionali, già Lorenzo e Daniel avevano acconsentito ad avere un piccolo pubblico durante una loro lotta. Il ragazzo dagli occhi blu era entrato a far parte dello stesso gruppo di quello del suo amico e compagno di stanza, che peraltro aveva pure qualche anno in più di lui; i loro Pokémon, dal mio punto di vista, avevano lottato magnificamente nonostante una certa differenza di livelli.
Daniel aveva uno Swampert, una Kadabra, un Haxorus e altri due Pokémon al secondo stadio, ovvero una Magmar e un Electabuzz. Lorenzo invece era un po’ più avanti: la sua squadra era, per il momento, composta da Torterra, Breloom, Schyter, Salamence e Drilbur - o meglio, non conoscevo il suo sesto Pokémon: non ne aveva mai parlato. I ragazzi avevano usato tre Pokémon ciascuno, i primi dei rispettivi elenchi, ma Torterra aveva soltanto dato il colpo di grazia a Swampert - che ad ogni modo aveva resistito tenacemente.
Così anche Ilenia e Cynthia avevano deciso di darci una dimostrazione, appena fosse stato loro possibile. Le due pure erano allo stesso livello, per di più abbastanza in alto, e si allenavano insieme - essendo compagne di stanza anche loro - praticamente da quando erano all’Accademia. Erano infatti arrivate più o meno nello stesso periodo. Conoscevano una i punti deboli dell’altra, sapevano dove e come colpire e da cosa difendersi prima che l’avversaria facesse prendere alla lotta una piega decisiva - quella della propria vittoria.
La lotta tra Ilenia, appassionata di Pokémon Fuoco, e Cynthia, che prediligeva i tipo Veleno, si prospettava essere qualcosa di molto emozionante e trascinante. Le due erano più esperte di Lorenzo, che per quanto mi riguardava poteva tranquillamente diventare il Campione di Sinnoh, e Daniel; non avevo idea di cosa aspettarmi, non sapendo come potesse essere un combattimento di alto livello.
Quindi lo chiesi a Chiara. «Secondo te come sarà la loro lotta?»
«In che senso, come sarà?»
«Uhm… gli attacchi che useranno, se hanno strategie. Se ti aspetti di vedere qualche esplosione o no.»
Chiara sorrise. «Ah, be’, da quello che dice Ilenia di sé pare che tutti i suoi Pokémon conoscano Iper Raggio… quindi sicuramente si alzerà qualche polverone! Anche gli altri lo hanno confermato: è una che punta molto sulle mosse distruttive e ad altissima potenza. Però mi sono scordata i suoi Pokémon.»
«Charizard, Tyranitar e Rapidash sono i suoi più forti… poi ha un Arcanine; gli altri due non me li ricordo.»
«Mica male!» Ridacchiai al suo commento. Aggiunse: «Però da Cynthia non so cosa aspettarmi.»
«Secondo me i suoi Pokémon conoscono sia mosse molto potenti che molto fastidiose. Immagino che nel suo stile di lotta convivano Tossina, Stordiraggio e Fangobomba…» dissi.
«Ah, questo sicuramente! Tu sai quali Pokémon ha? Io mi dimentico sempre di quelli degli altri…»
«Ho notato! Io no, comunque non ne ha parlato molto» risposi. «Credo abbia fatto i nomi di Crobat e Weavile, ma il resto non lo so proprio. Immagino non volesse scoprire le sue carte…»
«Eh? Con noi?» Chiara scosse la testa. «Ilenia saprà a memoria tutto quello che riguarda i suoi Pokémon, è la sua principale rivale e anche una compagna nelle lotte in doppio. Anche Daniel e Lorenzo sapranno parecchio su di lei. In conclusione…»
«… è soltanto una snob che non ci ha volute onorare di conoscere i nomi dei suoi Pokémon, anche perché non ci concederà mai l’onore di una lotta» completai, facendo scoppiare a ridere Chiara.
«Nah, tutto sommato non è male! Però non è decisamente il tuo tipo.»
«Perché, è il tuo invece?» borbottai.
«Be’, no. È una che ammiro perché pare sia davvero molto brava a lottare, stando a quanto dice la stessa Ilenia, e perché sa farsi rispettare. E credo sia sempre così, non solo nell’apparenza… il suo carattere è questo, voglio dire. Non ha da nascondere niente facendo la spaccona, immagino.»
«Questo non si può ancora dire» sospirai, distendendomi sul letto e incrociando le braccia dietro la testa. Altair e Pidgey giocavano nello spazio dietro i nostri letti, ogni tanto svolazzando via per poi tornare a zampettare sul pavimento. Il mio Pokémon era molto più lento dell’altro.
«Secondo me è da lei che hai preso a fare commenti ironici e pungenti!» esclamò d’improvviso.
«Da Cynthia?» Chiara annuì. «Be’, se devo avere la risposta pronta quando ricevo qualche frecciatina… meglio che cerchi di tirar fuori le unghie, anche nell’eventualità che in futuro possa incontrare qualcuno anche peggiore! Però credo tu abbia ragione… iniziare a fare lotte Pokémon e scontrarmi, caratterialmente parlando, con persone come Cynthia mi ha cambiata un sacco, già in questi primi giorni. Mi sento meno… impacciata e goffa.»
«E preoccupata al solo pensiero di parlare.»
Annuii, arricciando le labbra. Chiara mi fece notare che era da quando eravamo arrivate all’Accademia che non cantavo con una certa frequenza. «Oh… me ne sono dimenticata, semplicemente. Al massimo ho canticchiato un po’, ma aver perso la mia playlist con le canzoni preferite è stato un duro colpo.» Avevamo dovuto buttare i nostri cellulari per sostituirli con gli altri Poké-apparecchi elettronici. «E poi l’idea di farmi sentire per tutta la struttura dell’Accademia se alzo appena la voce… non mi piace per niente!»
«Ma allieteresti le nostre giornate, e lo sai» disse Chiara con leggerezza. Arrossii vistosamente e ammutolii.

Mentre aspettavamo incuriosite la lotta tra Cynthia e Ilenia, trascorse un’altra settimana. Dissero di essere state occupate per un po’ e Lorenzo, nel loro gruppo, lo confermò; chiesi loro cosa li avesse potuti tenere impegnati così tanto, ma furono un po’ vaghi sull’argomento. Si limitarono a dire che gli allenamenti, per loro che erano in corsi più avanzati, si intensificavano mostruosamente già passati i primi giorni.
Nel frattempo, durante la seconda settimana, sia Diamond che Pearl riuscirono ad evolversi. Non avevano una crescita lenta come Aramis e nemmeno dovevano accumulare molti livelli per raggiungere quel traguardo, al contrario della sorte di Altair. Anche il Mareep di Chiara divenne un Flaaffy e la ragazzina si concentrò parecchio su Gyarados, l’elemento senza dubbio più forte, al momento, della sua squadra.
L’arrivo dell’evoluzione di un proprio Pokémon, atteso con ansia dalla maggior parte degli Allenatori, le prime volte mi riempì di gioia, orgoglio e anche sorpresa, finché non ci feci l’abitudine. Era un processo che inizialmente definii quasi mistico, magico, ma presto lo considerai una cosa quasi normale, pensando a quanto fosse ordinaria nel mondo dei Pokémon. A volte nel mezzo di uno scontro, ma molto più spesso alla fine, se un Pokémon era in prossimità del livello individuato per l’evoluzione poteva accadere che essa arrivasse. Sapevo che non sempre il punto indicato era esatto per ogni Pokémon ma in genere, livello più livello meno, era corretto.
Il primo ad evolversi fu il mio Starly. Diamond si illuminò di una luce bianca e accecante: fu una bella sorpresa, non essendomi ricordata del fatto che il momento dell’evoluzione era vicinissimo. La sua silhouette fu inglobata da una sfera altrettanto luminosa e candida, screziata di un tenue blu polvere. Mi accorsi poi, a forza di assistere ad evoluzioni, che gli altri colori presenti oltre al bianco erano quelli con cui si identificava il tipo del Pokémon.
La sfera di luce si ingrandì e dopo pochi secondi si frantumò, liberando Staravia in mezzo a una pioggia di schegge, che mi parvero fatte di vetro di luce. Si dissolsero nell’aria e Diamond affrontò il successivo avversario con maggiore aggressività e forza: era più veloce e potente, ancora più volenteroso di combattere. Forse il giorno successivo stesso anche Pearl subì il processo dell’evoluzione e divenne una bella Luxio.
Altair, secondo il Pokédex, era al livello 17; Aramis invece al 18 e ci era arrivato con grande fatica - sospettai che quella più provata da tutti gli allenamenti fossi io e non lui. Le lezioni teoriche avevano ancora la prorità, quelle prime settimane, quindi ne saltai qualcuna per cercare di avvantaggiarmi. Il problema rimaneva il piccolo Ralts, che non avevo voluto rinunciare ad allenare - pensai che altrimenti non avrei mai avuto un Gallade. Al momento ancora non avevo Roselia, June era una Budew in cerca di affetto per potersi evolvere al massimo della felicità.
Più i Pokémon crescevano, più il Dex richiedeva una quantità maggiore di “punti esperienza” per riempire la barra che li conteneva. Volendo potevo richiedere una buona ventina di Caramelle Rare, la scorciatoia degli Allenatori pigri - mi sentii in dovere di includermi in quella categoria; ma poiché tutti me lo sconsigliarono, se non di usarne una o due ogni tanto, capii che era meglio sopportare e impegnarsi.
Intanto il finesettimana successivo arrivò e Cynthia e Ilenia trovarono il tempo per occupare un campo semplice nella sala sotterranea. Alla loro lotta, oltre a me e Chiara, avrebbe voluto assistere più o meno tutta la compagnia che ci eravamo trovate noi due: Daniel, Lorenzo, Angelica, Melisse e Sara. Ne avremmo viste delle belle.










Angolo ottuso di un'autrice ottusa
Capitolo puramente di transizione, corto e piatto, ma così doveva essere e così è (?). Bene. Tanto ce ne sono pochi così poco funzionali alla trama e alla vicenda della storia - dovrei parlare di fabula e intreccio, ma non lo farò, perché no.
La prima settimana di scuola mi ha esaurita, se non ve ne foste accorti.
Piccola nota. Sinceramente mi sembra abbastanza stupido far aspettare i secoli perché ogni ragazzo si prenda un nuovo Pokémon per costruire la squadra, quindi le due non avranno solo due membri della squadra e non toccherà loro aspettare un anno per il prossimo. Mi toccherà modificare i primi capitoli della seconda parte, lo so, ma era un’idiozia lol.
Dopo aver precisato questo... direi che è meglio tornare a scrivere il capitolo IX - l'VIII è pronto! - nella speranza che le sei pagine che ancora mi mancano non richiedano troppo tempo e troppo impegno. Non mi sento molto ispirata per il nono capitolo, quindi forse lo accorcerò perché non vorrei mettermi a scrivere sciocchezze tanto per riempire pagine; ma per quasi tutto il resto di questo remake so come gestire i capitoli e gli eventi.
Al prossimo weekend!
Ink

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Capitolo 9
*** VIII - Sonni tranquilli e non ***


VIII
Sonni tranquilli e non

«Quanti Pokémon ti senti di sacrificare per questa battaglia, cara Ilenia?»
“Cominciamo bene” borbottai mentalmente all’udire la provocazione di Cynthia, che esibiva un gran sorriso di scherno rivolto alla sua avversaria. Ilenia invece mostrò la sua espressione più gentile ma capii che avrebbe voluto volentieri rispondere a tono. «Soltanto il mio Trapinch deve ancora fare esperienza; per il resto ho cinque Pokémon pronti per dare fuoco alla coda dei tuoi compagni di squadra.»
«Ottimo, anche io ho un Venipede da allenare» fece con leggerezza l’altra, imitando la sua espressione cordiale. «Allora usiamo solo i nostri cinque Pokémon più forti. Così non vi annoierete, ragazzi, eh?»
Eravamo nella sala sotterranea, praticamente da soli, ma eravamo un bel gruppetto. Solo un altro campo era occupato da un paio di studenti che non conoscevo, ma guardando per qualche momento la loro lotta mi parvero ad un buon livello. Spostai di nuovo gli occhi sul campo che avrebbe ospitato la lotta imminente e già notai due Pokémon schierati. Eravamo a bordocampo mentre facevamo gli spettatori.
Ilenia aveva iniziato con Zebstrika, Cynthia aveva mandato un Toxicroak. Cominciò la ragazza dai capelli ricci, ordinando al suo Pokémon di usare Nitrocarica, sfruttando a suo favore l’abilità Pellearsa di Toxicroak.
Subito notai quanto fosse veloce e potente e mi chiesi come mi sarei sentita a possedere un Pokémon simile, in futuro. Toxicroak rispose con Vendetta e subito Zebstrika vacillò, messa molto in difficoltà dal potente attacco. Cynthia avrebbe potuto ordinare tranquillamente a Toxicroak di finirlo con un’altra mossa ma attese il suo turno.
«Usa Invertivolt» disse calma Ilenia. Toxicroak non accusò più di tanto il colpo e la ragazza richiamò nella sua Ball la Zebstrika, sostituendola con Rapidash.
Quest’ultima venne colpita subito da Velenpuntura ma prontamente replicò con Fuococarica, mandando al tappeto Toxicroak e non ricevendo un grosso contraccolpo. Il suo avversario successivo era Heracross. Non capii come mai Cynthia avesse scelto un Pokémon di tipo svantaggiato, ma quasi subito ricordai le parole di Gold e compresi il motivo del sorrisetto tranquillo della ragazza.
“I primi tempi il vantaggio di tipo gioca un ruolo essenziale nelle lotte… Più il tuo Pokémon cresce, più è in grado di fronteggiare anche quelli contro cui è in svantaggio, avendo sviluppato le sue statistiche migliori.”
«Rapidash, usa Rimbalzo!»
«Pietrataglio, Heracross.»
Rapidash pareva sospesa in aria dopo aver spiccato un grosso balzo: questione di pochi secondi e sarebbe scesa sul suo avversario, come in picchiata. Heracross batté le zampe a terra e dalla proiezione del Pokémon Fuoco sul terreno si sollevarono schegge di pietra di medie dimensioni ed affilate, che colpirono duramente l’altra. Distratta dai segni rosso vivo dei graffi sul suo corpo, Rapidash non riuscì a scontrarsi con Heracross, che la schivò e la mandò definitivamente K.O. usando un’altra volta la medesima mossa.
Ilenia riprovò con Zebstrika ma il Pokémon era troppo indebolito per sostenere quella lotta. Riuscì a colpire Heracross con Nitrocarica ma quello la finì con Breccia. In campo scese Arcanine.
Chiara mi diede una leggera gomitata per attirare la mia attenzione. «Secondo me si stanno entrambe tenendo da parte i loro Pokémon più forti!» bisbigliò.
«Allora non voglio vedere i prossimi di Cynthia» replicai inarcando le sopracciglia.
Ma il successivo round mi smentì. Durò molto più degli altri perché Ilenia tese a consigliare ad Arcanine di evitare le mosse dell’avversario e Pietrataglio, su cui l’avversaria contava molto, non era una mossa molto precisa. Con una combinazione ripetuta di Rogodenti ed Extrarapido, Arcanine ebbe la meglio. Di nuovo Cynthia scelse un Pokémon di tipo svantaggiato rispetto a quello della rivale, ovvero Weavile.
«Weavile è uno dei suoi Pokémon migliori» mormorò Lorenzo soprappensiero. Lo guardai: appariva molto concentrato sulla lotta; teneva le braccia incrociate. Se io ero ammirata, lui la prendeva molto più seriamente di me e Chiara messe assieme. «Forse è secondo solo al suo Crobat.»
«Immagino che Floatzel sia la sua riserva» replicò tranquillo Daniel.
Non conoscevo quel Pokémon ma non mi feci distrarre, perché un’altra volta Cynthia si dimostrò in grado di superare senza troppe difficoltà lo svantaggio di tipo. Weavile era talmente veloce che Arcanine non riuscì mai a colpirla con semplici mosse Fuoco; quando provò Extrarapido subì un brutto colpo con Vendetta. Un altro paio di Nottesferza da parte di Weavile lo stesero.
Ero talmente basita per la loro bravura che dubitai fortemente di poter mai arrivare al loro livello. Ad Arcanine seguì Tyranitar e lì, finalmente, Cynthia si dimostrò in seria difficoltà. Inizialmente parve riprendere la situazione che c’era stata tra il canide di fuoco ed Heracross, ovvero che l’uno schivava e l’altro variava le proprie mosse per cercare di colpirlo, ma invano, perché Tyranitar poteva contare su Terremoto.
Weavile poteva essere rapida e spostarsi quanto voleva, ma dopo aver fatto riscaldare Tyranitar con un paio di mosse andate a vuoto e facendogli prendere un paio di colpi - che a malapena lo fecero indietreggiare, lo pseudo-Leggendario stese con un solo Terremoto il Pokémon avversario.
«Si mette male per Cyn, eh?» ghignò Daniel e Lorenzo assentì. Gli chiesi come mai. «Il suo punto debole è non avere alcun attaccante speciale, solo fisici - peraltro i suoi Pokémon hanno quasi tutti difese molto basse. Se ha un avversario adatto alla sua squadra lo stende senza alcuna difficoltà, hai visto anche prima che non si fa intimorire dalle combinazioni di tipo…»
«Ma quando fronteggia Pokémon con Difese mostruose è in difficoltà» completai.
Daniel annuì e confermò: «E Tyranitar è senza dubbio il Pokémon di Ilenia che più la infastidisce.»
Cynthia dovette schierare Floatzel, che forse lo avrebbe preferito per concludere in fretta con il Charizard della riccia. Il Pokémon d’Acqua era indubbiamente in vantaggio su Tyranitar e aveva anche caratteristiche più equilibrate rispetto ai compagni che gli erano preceduti sul campo; ma la Difesa del bestione avrebbe potuto far rimanere quest’ultimo in campo abbastanza a lungo da finire anche quell’avversario.
Ciò non toglieva che Floatzel fosse comunque scarsino, quanto a difese. Infierì buoni danni con le mosse di tipo Acqua a Tyranitar, anche considerando la sua resistenza, ed era abbastanza veloce da evitare le mosse che non fossero Terremoto. Una volta provò pure a spiccare un balzo per evitare di essere intrappolato o colpito da massi volanti, ma proprio uno di questi lo sfiorò.
A Tyranitar non rimanevano molte energie quando Floatzel finì al tappeto e al Crobat di Cynthia spettò il compito di pareggiare il risultato. Il velocissimo pipistrello, una stella violacea che sfrecciava da una parte all’altra del campo, evitò ogni colpo dell’avversario e con un paio di Forbice X lo sistemò. Era la prima volta che vedevo molte mosse del genere. Erano molto più potenti, rivelavano effetti secondari o avevano proprietà particolari, come i contraccolpi di varia potenza, il probabile brutto colpo, l’essere infallibili o simili.
«È andata meglio del previsto a Cynthia» commentò Lorenzo. Finora avevamo parlato solo io, lui e Daniel; le altre ragazze non avevano detto praticamente nulla. «In lotte di questo livello spesso la sorte si decide fin dai primi Pokémon K.O.…»
«Davvero?» chiesi stupita.
«Sì, perché?»
«Be’, ecco… mi aspettavo l’esatto contrario, in realtà. Proprio perché i Pokémon sono a livelli più alti e hanno già sviluppato i loro punti deboli, di forza e le abilità, mi viene da pensare che sia più facile trovare un modo per rimontare e ribaltare il risultato, anche se la situazione è apparentemente critica.»
Lorenzo in quel momento era più sorpreso di me quando gli avevo chiesto una conferma delle sue parole. Mi domandai se non avessi fatto un’osservazione strana o se avessi immaginato qualcosa che nel mondo dei Pokémon non era contemplabile, ma invece rispose: «Ah… no, va be’, è una cosa molto variabile questa… non è detto che non succeda anche quello che hai ipotizzato tu, ecco.»
Sembrava un po’ imbarazzato - aveva anche distolto gli occhi, spostandoli sul campo - e capii di aver detto una cosa abbastanza acuta, con mia stessa sorpresa. Notai che anche Daniel mi guardava, non più del tutto indifferente alla presenza della novellina - di cui fino ad allora si era altamente fregato. Appena ricambiai, però, riprese anche lui a seguire l’ultimo round della battaglia tra le due ragazze, quindi lo imitai.
Charizard non era imponente quanto Tyranitar ma incuteva comunque un certo timore. Non in Crobat, che mi parve avere gli occhi più socchiusi del normale, nel tentativo di studiare visivamente la sua prossima sfida.
Passarono così alcuni secondi in cui le Allenatrici ragionavano in silenzio, prendendosi tutto il tempo di cui necessitavano. Forse un po’ troppo, perché i Pokémon iniziavano a scalpitare, impazienti di ricevere ordini. La prima che se ne accorse fu Cynthia, la quale vestì nuovamente sulle labbra quel sorriso sornione e di scherno. Era davvero una bella ragazza, dovevo ammetterlo, e quel suo modo di presentarsi doveva essere magnetico.
«Non è la prima volta che ci troviamo in questa situazione» esclamò.
Ilenia anche stavolta replicò con il suo sorriso gentile e tranquillo, ma qualcosa mi diceva che non vedeva l’ora di annunciare la propria vittoria. Lo confermò con le sue successive parole: non le ero vicina ma immaginai che i suoi occhi verdi dovessero ardere di determinazione, in quel momento. «Non sarà neanche la prima volta che il buon vecchio Char manderà miseramente al tappeto il tuo Crobat.»
«Miseramente? Quando mai è successo?» ghignò Cynthia. «Crobat, usa Velenocroce.»
«Fuocobomba!» quasi urlò l’altra.
Crobat, mentre caricava il colpo, slanciatosi verso Charizard, venne investito da una fiammata cremisi dalla forma di una sorta di stella, che il dragone continuava ad alimentare dalla sua bocca. Il pipistrello aveva frenato, ma fu comunque investito; si riprese fuggendo con Volo e scendendo in picchiata con Eterelama.
«Sbaglio o stavamo aspettando ognuna il proprio turno?» sbuffò Ilenia quando il suo Pokémon fu colpito.
«Parli tu che per prima mi hai bloccata senza far incassare il colpo!»
L’altra sembrò pensarci un momento su. Poi passò una mano tra la chioma ricciuta e rossiccia. «Oh, è vero! Mi sono fatta prendere la mano per un attimo… comunque ora è il mio turno, giusto? Char, usa Iper Raggio!»
“Eh?” pensai. Non sapevo dire perché, ma tutto mi aspettavo in quel momento meno che una mossa tanto potente: sicuramente Ilenia voleva vincere con un colpo solo, ma dopo i toni candidi e pacati di un secondo prima mi aspettavo qualcosa di ugualmente tranquillo - per quanto quello fosse uno scontro piuttosto impegnativo.
Invece Crobat fu investito da un raggio di luce bianca, anch’esso caricato dalla bocca di Charizard, e mi stupii che non si fosse polverizzato sul colpo. Cadde a terra normalmente svenuto. Angelica, Melisse e Lorenzo applaudirono, le due più energiche, l’altro educatamente. Anche Daniel batté le mani un paio di volte e li seguimmo io, Chiara e Sara. Ilenia richiamò Charizard, che era stato colpito solo una volta e stava recuperando le energie dopo l’Iper Raggio, poi andò a metà campo per stringere sportivamente la mano alla sua avversaria.
«Avrei potuto mandarti subito in infermeria quando ho fatto usare a Rapidash Rimbalzo, anziché Fuococarica» la prese un po’ in giro Ilenia. Il suo sorriso caloroso era velatamente perfido. «Ma sono stata buona.»
«Tu sei stata buona? Allora io cosa dovrei dire?» ribatté Cynthia. Si rivolse a me e Chiara. «Per questa volta la dimostrazione è andata normalmente, poi alla rivincita vedrete come concio la signorina.»
Ridacchiai. «Credo sarà un miracolo se sfiorerò mai il vostro livello…»
«Ah, se non lo fai si mette male» disse Cynthia con grande serietà. «Questo non è niente. Abbiamo visto certe lotte, dimostrative per noi, da togliere il fiato. E a volte ai Pokémon veniva lasciata carta bianca, nemmeno aspettavano un ordine e agivano autonomamente… spesso con colpi vincenti.»
«Se facessi così con Prinplup, si girerebbe con un’espressione del tipo “cos’hai che non va adesso?”» borbottò Chiara. «Però ho già deciso che devo insegnare Iper Raggio a qualcuno dei miei Pokémon, è magnifico.»
«A Gyarados?» proposi. Lei a malapena mi sentì.
Ilenia e Cynthia continuavano a battibeccare amichevolmente e Lorenzo mi disse che per loro, dopo una sfida, era normale. Così come tra lui e Daniel - e, disse Melisse, tra lei e Angie; Sara era la più tranquilla, come suo solito. Scambiai un’occhiata veloce con Chiara e capii che a lei non importava quasi nulla dell’esito di una lotta, invece io l’avevo a cuore. Mi trattenni dal sospirare, perché mi sarebbe piaciuto avere qualcuno, anche solo al livello di Chiara, che non se ne fregasse del risultato di una lotta e con cui parlare a lungo di Pokémon e di lotte, anche lanciandosi qualche amichevole frecciatina come Ilenia e Cynthia continuavano a fare imperterrite.
Mi ricordai di una persona che, per quanto mi fosse sgradita, poteva essere più o meno al mio livello e che era abbastanza interessata nelle lotte Pokémon da poterci parlare e con cui confrontarmi senza problemi, in tutto ciò essendo sicura di ricevere, in cambio, risposte soddisfacenti e che mi aiutassero come Allenatrice. Così, non più troppo a malincuore al pensiero di poter trovare qualcuno con cui parlare liberamente e nel modo più animato e amichevole possibile, cercai di nuovo di contattare Gold.
Mi chiesi se sarebbe stato continuamente timido e schivo a causa della mia presenza, perché mi era sembrato il tipo che è in difficoltà in presenza di persone estranee, addirittura impaurito dalla piega che potrebbe prendere la conversazione. In effetti eravamo poco più che conoscenti; quei due giorni passati da Bianca li avevamo trascorsi già parlando poco, in più esclusivamente di Pokémon, non di noi. Però forse se avessi provato a parlargli si sarebbe rilassato un po’ e non sarebbe arrossito ogniqualvolta gli avessi detto grazie.
Appena lo incrociai in uno dei corridoi chiesi il numero del suo Gear e gli spiegai che mi sarebbe piaciuto molto riprovare qualche piccola lotta, magari tra i miei Pokémon più forti e i suoi non troppo allenati rispetto a me, in modo tale da darmi qualche chance in più - i suoi compagni più deboli non dovevano essere molto lontani dai livelli di Altair o di Aramis. Ci scambiammo i “numeri di telefono” e mi chiesi come avesse fatto a non esplodere davanti a me, o qualcosa del genere, visto il suo rossore in viso.
Potevo allenare tutti i miei Pokémon con i suoi Wartortle, Electrike e Cubone. Da poco Dratini aveva finalmente compiuto il processo dell’evoluzione e Quilava era ancora fuori dalla mia portata. Quando Gold mi disse, non senza un certo orgoglio, che aveva ottenuto un Dragonair, controllai alla sua stessa presenza sul Pokédex come fosse quel Pokémon, che non avevo ancora mai visto.
«Oh, è splendido!» esclamai con sincerità. In effetti era davvero bello.
Nemmeno mi preoccupai di guardare Gold quando mi ringraziò più volte, notevolmente a suo agio quando si trattava di parlare della sua squadra e non di sé. Immaginai che fosse, comunque, ugualmente arrossito.
Effettivamente più frequentavo Gold e più mi accorgevo di quanto andasse orgoglioso dei suoi Pokémon, in particolare dei tre più forti che aveva - i due starter e il drago. Tanto che, acquisendo più confidenza, rivelò un lato di sé abbastanza indelicato nell’affermare che, statisticamente parlando, Altaria e Dragonite non potevano essere lontanamente paragonati, così come altri nostri Pokémon.
A volte facevo finta di non ascoltare ma altrettanto spesso non mi andava a genio sentir sminuita la mia prima compagna di squadra, per quanto fossi consapevole che un Pokémon come lei non era adatto alla lotta. Mi dava fastidio sentire complimenti solo nei confronti dei miei futuri Gallade e Roserade, segno che già mi ero affezionata abbastanza ai miei Pokémon da tollerare a malapena critiche nei loro confronti.
Forse il timido Gold non sapeva darsi una regolata e passava dal non riuscire a parlare in presenza di estranei a esagerare con i commenti più amari nei confronti di chi cercava di essere suo amico. Certo aveva i suoi lati positivi anche quel ragazzino, a parte essere meccanicamente bravo, preciso e intuitivo con le lotte Pokémon. Se il suo carattere lasciava a desiderare quando si trattava di esse e della sua inguaribile timidezza, per tutto il resto non era una cattiva compagnia: se non era in preda all’ebrezza della lotta, o emozionato per qualche altro motivo, era gentile e disposto a una chiacchierata normale e tranquilla. Non era un bel ragazzetto e quei difetti caratteriali non mi facevano adorare la sua presenza, ma in certi contesti era forse paragonabile a Chiara.
La mia amica infatti stava cambiando caratterialmente e non era detto che fosse in meglio - esattamente come me; se lei mi aveva fatto notare di essere diventata più pungente e spigliata, anche lei con la compagnia di George, l’amico di Daniel con cui non avevo molta confidenza, e l’esempio di Cynthia si stava facendo più sarcastica e menefreghista. Quando era sola con me sembrava tornare tutto ai vecchi tempi e lo stesso succedeva a me: ritiravo le unghie e mi calmavo un po’. All’esterno della nostra stanza cambiavamo atteggiamento.
Non avevamo approfondito più di tanto le conoscenze all’interno del nostro gruppo. I “compagni di classe” per me erano poco più che avversari durante gli allenamenti di Pokémon e quasi non ricordavo tutti i loro nomi. Non avevamo un brutto rapporto con loro, anzi, era molto sportivo e aperto; ma con nessuno di loro ci frequentavamo fuori dal “gruppo-classe”. Avevamo trovato una buona compagnia in Angelica, Sara, Lorenzo e negli altri, e dopo la lotta tra Ilenia e Cynthia mi parve che sia quest’ultima che Daniel fossero più disponibili con noi.
Verso gli inizi di ottobre finalmente Ralts si trasformò in un Kirlia - il quale da gran maschio iniziò a dare cenni di squilibrio a causa del suo gonnellino, che purtroppo era parte integrante del suo corpo - e avevo già da un po’ di tempo una bella Roselia. L’unica che era rimasta al primo stadio evolutivo era Altair, che d’altronde era la sola ad evolvere ad un livello piuttosto alto e a subire il processo solo una volta.
Nello stesso periodo io e Chiara iniziammo a saltare le lezioni che non ci interessavano più: inizialmente mi preparai qualche giustificazione per averle evitate ma i professori non se ne curarono. Di sicuro non lo avrebbero fatto finché mi limitavo ad evitare quelle di lingua, di matematica e simili, che non erano proprio essenziali ai fini della guerra. Ma non appena mi azzardai a lasciare Chiara da sola in una lezione aggiuntiva sull’allenamento teorico dei Pokémon, il professore di turno, tale Luciano, mi chiese subito spiegazioni. Evitai una ramanzina, comunque, con una delle numerose scuse che mi ero preparata; in ogni caso non era in vena di fare rimproveri.
A cavallo tra settembre e ottobre ci mostrarono le cosiddette prove di evacuazione e ci toccarono delle visite mediche. In ogni stanza della struttura era nascosto almeno un teletrasporto: l’utente sarebbe stato trasportato automaticamente in una base segreta della regione. La destinazione era già impostata ed era un mezzo affidabile, a meno che non fosse stato manomesso - i frequenti controlli non riscontravano mai problematiche di alcuna sorta.
Quello fu uno dei tanti esempi di come il mondo Pokémon fosse tecnologicamente più avanzato di quello a cui le creature erano sconosciute. Ero partita con le Poké Ball e ora mi ritrovavo a parlare in assoluta tranquillità, come se fosse una cosa ordinaria, di teletrasporti. Nell’infermeria c’era un macchinario in grado di restituire ai Pokémon dentro le proprie sfere tutte le energie, e il famoso box pc in cui era possibile depositare i membri della propria squadra in eccesso, poiché il limite era di sei - anche se in molti evitavano di lasciare i propri nel box, magari mettendo le piccole Balls in tasca se non c’era più posto nell’apposita cintura.
Io non usavo quasi mai la speciale cintura che ci era stata consegnata: da indossare alla vita, piuttosto spessa ma non pesante, sei semisfere erano incavate e disposte a intervalli regolari per metà della sua lunghezza. Le Balls si attaccavano dentro quei posti e aderivano perfettamente: solo se prese da qualcuno si staccavano.
Non avendo già una squadra completa e giudicandola troppo professionale, non ammettendo quanto la considerassi scomoda da indossare, la lasciavo sempre nella mia camera e tenevo le sfere in tasca, molto più spesso almeno un paio in mano. Esteticamente non era il massimo ma lo preferivo a quella spessa cintura da attaccare sopra la vita - si agganciava dietro la schiena. Smisi di adottare questo sistema all’arrivo del mio sesto Pokémon.
«Oh, oggi finalmente arrivano i Fossili.»
In un momento di silenzio, Cynthia ne approfittò per dare questa notizia al nostro tavolo. Sulle prime non capii di cosa stesse parlando ma dopo un momento lo compresi: i Fossili dei Pokémon erano quasi del tutto scomparsi e i pochi rimasti erano un po’ nelle mani delle Forze del Bene, un po’ in quelle del Nemico. Durante una lezione avevano spiegato come fosse possibile riportarli in vita tramite un macchinario apposito e pure che la quantità di Fossili in natura era praticamente esaurita. Presto sarebbero stati rigenerati gli ultimi Pokémon fossili.
«Sei interessata?» le chiese Ilenia. «A me non piacciono molto, a parte Aerodactyl.»
«A te piacciono solo i Pokémon di Kanto» ribatté la bionda. «Comunque no, ho già la squadra completa. Quelli resuscitati dai Fossili non mi piacciono tanto, poi.»
«Io credo che andrò a vedere» intervenni dopo un secondo in cui la conversazione era parsa già finita. «Non mi dispiacerebbe prenderne anche un sesto, di Pokémon, già che ci sono.»
«Allora vengo anche io» si aggiunse Chiara. «Dove li danno?»
“In effetti ho detto che darò un’occhiata senza sapere dove metteranno i Pokémon rigenerati…”
Ci pensò Cynthia a rispondere: «Immagino nella sala delle Poké Balls, come al solito.»
Daniel e Lorenzo commentarono brevemente dicendo che non erano interessati - l’ultimo aveva sei Pokémon, se non ricordavo male, anche se l’ultimo di essi non lo conoscevo. Però l’altro avrebbe comunque fatto un salto nella sala per vedere se era il caso di prendere un altro compagno per completare la squadra.
Mi aspettavo che il pubblico amante dei Fossili fosse miserrimo, considerando il poco entusiasmo dei miei abituali compagni di pranzo; invece il pianerottolo dell’ultimo piano, fuori la stanza, era pieno di ragazzi di ogni età - tra cui alcuni del mio gruppo. Fummo in tre ad inarcare le sopracciglia nel constatare che avremmo dovuto aspettare sulle scale. Subito Chiara propose: «Torniamo dopo.»
«Dopo ci sono le visite mediche» le ricordai.
«Ah, già. Che rottura!» si lamentò, sbuffando. «Non voglio sentirmi dire che sono sottopeso…»
«Mangi talmente poco che è una fortuna che tu sia negata con gli sport, altrimenti…» ridacchiai.
«Senti chi parla! La triatleta!»
Mi accorsi che Daniel ci studiava con aria poco convinta, a metà tra l’insospettirsi per il livello delle nostre conversazioni - che culminavano con quelle frecciatine per poi avviarsi verso la fine - e il fingere di ridere per buona educazione. Decisi di dargli un po’ di confidenza e non escluderlo dal discorso: «Sai, ogni tanto capita che anche Chiara sia capace di non irritarsi e sbraitare la prima idiozia che le passa per la testa. Ma accade raramente.»
«Ah sì?» si finse stupito e non nascose un sorrisetto, evidentemente soddisfatto di non essere stato abbandonato a sé stesso. “Immagino che tu sia abbastanza egocentrico da apprezzarlo…” borbottai mentalmente, mentre un’altra odiosa vocina ribatteva: “A-ha! E poi vai a dire che Chià non ha ragione!”
«Non cominciate, voi due» sbottò Chiara. A lui scoccò un’occhiataccia; quella indirizzata a me si trasformò con uno scintillio malizioso e subito la spintonai. Si mise a ridere senza ritegno.
«Ehm… cosa è successo nell’ultimo scambio di sguardi?» chiese Daniel.
«Ah, niente di che! Ho realizzato che i tempi in cui Chiara dice cose sensate sono finiti da un pezzo.»
Continuammo a chiacchierare per un intero quarto d’ora aspettando che anche noi potessimo entrare nella sala delle Poké Balls, nella speranza che i Fossili non finissero prima di mettervi piede dentro.
Forse si permise di far uscire questo suo lato solo perché non aveva alternative, a parte parlare con me e Chiara, ma Daniel si rivelò molto più cordiale di quanto non mi fosse sembrato fino ad allora - ovvero completamente incurante di noi due. Non era una compagnia propriamente divertente ma forse mi stava riuscendo più simpatico di quanto mi fossi aspettata prima di allora. Di sicuro non voleva mancare di parlare di sé e dei suoi Pokémon ma nemmeno esagerò come avrei creduto: raccontò un po’ della sua situazione prima dell’Accademia, in cui era arrivato un paio di anni prima, del suo Mudkip e di Axew, suoi compagni da sempre.
Chiara parlò con lui solo a proposito di George, con cui lei aveva stretto un buon rapporto. Daniel disse che era stato il primo ragazzo conosciuto in quel nuovo ambiente e per questo ormai lo considerava il suo migliore amico. «Però a volte non lo sopporto, è ironico fino alla morte. Mi prende in giro sempre.»
Ridacchiai; Chiara, sogghignando, gli chiese: «E cosa ti potrà mai dire?»
«Ah, questo non è proprio affar tuo» le sorrise Daniel. Riconobbi subito il tono beffardo e di sfida impresso in quell’espressione, che molto di rado avevo visto su altre persone.
Cercai di aggiungere qualcosa, ma proprio in quel momento - fortunatamente prima che aprii bocca, così potei evitare una figura non propriamente bella - il vecchio Rowan ci annunciò che era il nostro turno, finalmente. Diedi un’occhiata alle nostre spalle, prima di entrare, e mi accorsi che la fila era quasi finita.
«Tutti e tre qui per i Fossili? Ce ne sono ancora alcuni…» borbottò.
Subito Daniel dissentì mentre io e Chiara spiegammo che volevamo dare un’occhiata. Così, mentre il ragazzo si avvicinava al classico tavolo, svuotato di molte Poké Ball quel giorno, Rowan ci indicò il fondo della stanza. Su un tavolino a parte erano messe in bella mostra una dozzina di sfere, ben illuminate da lampade di supporto.
Neanche il tempo di avvicinarci che una di esse si aprì e il suo ospite si lanciò verso le mie gambe. Schivai la sua capoccia per un pelo e quello finalmente si degnò di guardarmi. I suoi vispi occhi rossi sembravano divertiti e ringhiò qualcosa che per me rimase imprecisato, ma non la sua identità: «Questo è… un Cranidos, giusto?»
«Ah, non chiederlo a me. Però già ti ha puntata il più squilibrato dei riesumati» ribatté Chiara con una nota ilare nella voce; tornò a guardare le poche sfere una per una.
Presi quella rimasta vuota appartenente a Cranidos e mi piegai a terra, cercando un approccio che non fosse spezzarmi le tibie. «Allora… Cranidos, eh? Non mi dispiaci come Pokémon» gli dissi posando una mano sulla sua testa. Chiuse gli occhi per la contentezza.
“Adesso che è, si mette a fare le fusa? E come fa a sentire qualcosa se sto accarezzando… della roccia?” pensai un po’ contrariata. Ma era vero che non mi sarebbe affatto dispiaciuto avere un Pokémon come lui in squadra: ero più propensa a prendere un ex Fossile proveniente da Sinnoh anziché di altre regioni, senza sapere bene il perché. E siccome Bastiodon non mi ispirava affatto, decisi che un Pokémon dalla potenza devastante come Rampardos, seppur squilibrato riguardo alle tradizionali statistiche, era quello che volevo come sesto membro.
«Ti chiamerò Rocky!»
«Ma se non lo hai nemmeno mai visto, Rocky!» ghignò Chiara alle mie spalle. «E poi… originalità portami via!»
«Fatti gli affari tuoi» borbottai di rimando, «e tornatene a guardare gli altri Fossili.»
«Guarda che ho già scelto, signorina» ridacchiò. «Avresti dovuto vedere… ci sono due Omanyte, alcuni Lileep e degli Armaldo, qualche Shieldon e l’ultimo Amaura, che ho preso io. Tu hai l’ultimo Cranidos invece.»
Annuii distrattamente e mi voltai a guardarla, mentre Rocky studiava con troppa attenzione i miei stinchi. La ragazzina aveva in mano una Ball; premette il bottoncino e ne uscì una femmina di Amaura, particolare per il suo doppio tipo Roccia/Ghiaccio. Guardò Cranidos con i suoi occhioni curiosi e lui ringhiò meno amichevolmente di quanto mi sarebbe piaciuto. Presi il mio Dex, imitata da Chiara, e osservai le sue informazioni.
«Meno male, è maschio!» risi nell’accertare che ero stata fortunata con la scelta del soprannome. «La sua Abilità è Rompiforma, peccato che non abbia idea di cosa si tratti…»
«Le mosse del tuo Pokémon avranno effetto anche su avversari con Abilità che di norma le neutralizzerebbero» mi spiegò la voce di Daniel. Mi voltai di scatto e lo vidi sorridere appena, ma gentilmente e non beffardo. «Quindi, un esempio banale: se il tuo Cranidos usa Terremoto, un Pokémon con Levitazione sarà ugualmente colpito.»
Annuii. Non era male come Abilità. «Tu hai preso un altro Pokémon?» cambiai discorso.
«Sì, uno Skorupi» rispose. «Al contrario tuo, quando sono appena arrivato ho preferito limitarmi ad un team di tre Pokémon. L’anno scorso ho preso sia Elekid che Magby… adesso penso sia meglio completare la squadra.»
«In effetti è difficile allenare uniformemente un’intera squadra… c’è un bello squilibrio, altrimenti…»
Seguì un attimo di silenzio in cui restammo a guardarci, lui con una strana impressione in viso e io sul punto di esclamare: “Be’?! Troppo complicate per te parole come uniformemente e squilibrio?”
«Questo è il ragionamento che ho fatto anche io» disse poi, «ma non ho potuto, o voluto… evitarlo. Secondo il Pokédex ho Swampert e Haxorus tra il livello 50 e il 60. Kadabra è intorno al 40 e gli altri due non la superano.»
«Ah be’, complimenti! La maggior parte dei miei non supera il ventesimo livello… Rocky, sta’ buono» intimai poi al mio nuovo Pokémon che iniziava ad affezionarsi troppo alle mie gambe. Lo richiamai nella sfera.
Daniel non fece alcun commento sulla scelta del soprannome, né sul fatto che io dessi soprannomi; Chiara ci ricordò che era ora di andare e già capii quale sarebbe stato il suo commento una volta rientrate in camera.
Ma prima c’erano le visite mediche. La dottoressa di turno fece un elettrocardiogramma, misurò la pressione, il battito e controllò peso e altezza. Tutto nella norma, ma non mancò di farmi notare che fossi un po’ bassa per la mia età e che dovevo stare quindi più attenta alla linea. Lo stesso valeva per Chiara: l’altezza era normale ma lei doveva fare attenzione al suo fisico nel senso opposto.
Quando entrambe finimmo sapevo che mi sarebbe toccato sopportare Chiara, la quale di certo non avrebbe mancato di commentare la chiacchierata avuta con Daniel. Le mie aspettative, purtroppo, furono soddisfatte.
«Tu non hai idea di quanto siete stati carini! Soprattutto te!»
«Taci» mormorai, già seccata.
«Andiamo, si vedeva troppo che morivi dalla voglia di parlarci in ogni momento» insistette, abbracciata al suo cuscino come se potesse sfogare su di esso metà delle cose che avrebbe voluto dirmi. «Quando ci ho scambiato due parole continuavi a guardarlo come se esistesse solo lui… e se lanciavi un’occhiata a me quasi mi sentivo in colpa per non starlo lasciando tutto a te!»
«Ti rendi conto che quello che dici non ha minimamente senso?» ribattei.
«Invece lo ha. Ma tu sei troppo orgogliosa per ammettere che il signorino in questione già ti piace assai! Penso che caratterialmente andreste d’accordo e tu già hai detto di considerarlo bello, poi non so se vuoi la conferma da parte dell’oroscopo, ma la saggia Chiara afferma con certezza che insieme fareste faville!»
Le rifilai uno sguardo di fuoco. «Inizio a pensare che quella a cui piaccia Daniel sia tu, e che ti stia sfogando su di me! Ogni volta che io lo nomino o ne parlo tu cominci subito a dire che mi piace e che finiremo insieme, ma lo conosco da neanche un mese. E poi nemmeno siamo amici, dai! Sei proprio una seccatura quando fai così!»
«Be’, ma continuando a fare chiacchierate come quella di oggi vi conoscerete finalmente, o no?» ammiccò lei, affatto intenzionata a desistere; averle detto che mi stava scocciando non era servito a niente.
«Cosa vuoi che ti dica? Che è un bel ragazzetto mi parle di averlo già ammesso, ma solo perché ha gli occhi blu, dei bei capelli, la pelle chiara, un bel fisico e tutto quello che lo rende esteticamente bello… non vuol dire che io mi sia presa un dannato colpo di fulmine!» esclamai, sicura che presto mi sarei chiusa in un religioso silenzio - quella sarebbe stata sicuramente l’unica arma per zittire pure la mia compagna di stanza.
«Non ti scaldare. Lo sai che se ti stuzzico non è per infastidirti.»
«Lo stai facendo da quando siamo arrivate qui e ti sei fissata con il tuo caro Daniel!»
«A me di lui non può fregar di meno!» replicò. «Lo sai che non mi piace perché è troppo sbruffoncello e detesto letteralmente quel suo sorrisetto beffardo. Preferisco di gran lunga il suo amico, George.»
«Perché non prendi esempio da me, che non dico mai niente su te e Geo?»
«Perché sarebbe troppo noioso! Comunque volevo solo punzecchiarti un po’. Ma magari a te Daniel può piacere e io vi ci vedo insieme, dico sul serio! Prova a farci conoscenza, oggi non mi è sembrato antipatico come al solito.»
«Ma hai appena detto che ti sta antipatico… perché provi a spingermi verso di lui?»
Lei sorrise, vedendo che non ero più irritata. «Ti ho detto che vi ci vedo insieme.»
«Sì, vedi la sfigata di turno con il fighetto della scuola. Guardi troppi telefilm.»
«Ehi, magari se ti trucchi un po’ diventi uno schianto, come in quei film trash per ragazzi del PokéWood!»
Mi arresi. «Senti, io non voglio dire che non sopporto Daniel o che non potrebbe mai piacermi, perché… non è vero. Però devi smetterla di darmi fastidio, altrimenti andrà a finire che mi allontanerò in ogni modo da lui perché tu continui a rompere. Non nego che oggi sia stato molto meglio del solito, perché non mi ha dato l’impressione di fregarsene totalmente di me e te… ma se mai saremo amici, ripeto, finiscila di punzecchiarmi.»
«Va bene, va bene! Spero di essere stata chiara» disse lei.
«Mi risparmio qualche battuta squallida…» borbottai; Chiara ridacchiò.

Il mese di ottobre non trascorse molto velocemente. Riuscii a portare Rocky al livello degli altri miei Pokémon ma questo mi costò un ulteriore rallentamento dell’allenamento degli altri: già era lungo e difficile farli crescere uniformemente, aspettare che lui si rimettesse in pari quasi arrestò il loro addestramento. A fine mese, secondo il Pokédex, Diamond e Pearl erano al 20; June e Altair al 22 e sia Aramis che Rocky si apprestavano a raggiungerle.
A sera ero sempre molto stanca ma non potevo definirmi stressata, a parte alcune giornate in cui qualcosa non mi andava bene; soprattutto quando con le lotte non avevo il successo sperato ero parecchio insoddisfatta. Facevo sonni pesantissimi e non sognavo più molto - in più mi accorsi che quasi mai erano presenti i Pokémon.
Questo si smentì proprio durante gli ultimi giorni di ottobre. Quando la sera mi infilai sotto le lenzuola di certo non mi aspettavo di fare sonni agitati, e invece fu così. Ero stanca morta, eppure qualcuno volle che il giorno dopo mi svegliassi affatto riposata, avendo perso parecchie ore di sonno.
Ancora tra le braccia di Morfeo sentii il richiamo di Chiara dal mondo reale; dapprima la sua voce e gli scrolloni che mi dava erano attutiti e ovattati, ma dopo interminabili secondi spalancai le palpebre. «Diavolo, El… Eleonora, svegliati!» continuava ad esclamare, visibilmente preoccupata.
Subito mi accorsi di star facendo un bagno di sudore. La mia amica si rese pienamente conto del fatto che avessi aperto gli occhi quando mi alzai a sedere e per poco non le diedi una capocciata, essendo china su di me. «Meno male che mi sono alzata per andare in bagno» mormorò, ma a malapena sentii il resto.
Mi stropicciai il viso con le mani mentre mi accorgevo che non solo avevo sudato parecchio per qualche motivo, ma pure che tremavo vistosamente e che i miei occhi erano stralunati all’inverosimile. Ci misi un po’ a capire che tenerli spalancati troppo a lungo mi stava dando fastidio e cercai di rilassarmi; pure il respiro si era fatto pesante.
«Ho fatto un incubo?» domandai, più a me stessa che alla mia amica, con un filo di voce.
Chiara aveva acceso la luce mentre io cercavo di tranquillizzarmi. «Penso proprio di sì. Oppure pensi di avere la febbre? Non so quali altri motivi potrebbero esserci.»
Passai una mano sulla mia fronte, ed effettivamente era calda; ma siccome non avevo freddo e pure le mie mani erano parecchio calde, esclusi quella possibilità. Non mi sentivo male, ero solo molto scossa.
«Non ricordo bene se ho sognato qualcosa» dissi, «ma non mi sento male. Non ho la febbre.»
«Prova a ricordare…» sussurrò lei, tornando sul suo letto. «Se non stai bene dimmelo subito.»
Mentre lei si sdraiava io rimasi qualche secondo a fissare la spalliera del letto senza vederla realmente, con la mente svuotata di qualsiasi pensiero e il corpo intero privo di espressione. Mi ripresi dopo un po’ da quella sorta di trance e decisi di riprovare a dormire, rigirando il cuscino quasi fradicio. Appena abbassai la testa il ricordo del sogno si materializzò e mi mozzò il fiato per un momento, disturbante come era stato. Eppure appena esaminai le immagini che si susseguirono, a parte il fatto che sfociassero nel sovrannaturale, non capii cosa mi avesse fatta finire in quelle condizioni.
Stavo correndo in preda all’angoscia e solo quello bastò a farmi stare di nuovo a disagio. Forse ero inseguita perché sentivo qualcuno vicino a me, ma quando mi voltai non c’era nessuno. Continuavo a percepire la presenza di qualcun altro senza capire perché questi non si materializzasse, nemico o amico che fosse, e mi rivelasse la sua identità. Poi il pavimento su cui correvo iniziò a sgretolarsi. Mi parve di sentirmi ansimare.
Era una strada infinita sospesa nel vuoto, costituita interamente in un tipo di roccia scura, mentre i colori del cielo e delle nuvole erano tanto vividi e chiari da essere abbaglianti, come se fossi stata nel mezzo di un trip - mi stupii di quanto i dettagli fossero poco sfuggenti. Ma forse, paradossalmente, erano la cosa più facilmente afferrabile in quel contesto sconosciuto. Sempre in compagnia della presenza e del senso di angoscia, mi ritrovavo a correre anche e soprattutto per non cadere nel vuoto. Un ruggito rimbombò all’improvviso nelle mie orecchie: mentre la sua eco si dissolveva, ad esso si aggiungeva il grido di un uccello.
Alzai gli occhi al cielo colorato e la sagoma sfocata di un enorme volatile proiettò la sua ombra su di me. Mi voltai all’improvviso e un muro di fiamme, anch’esso colorato, separò me ed un’altra figura. Non riuscii ad identificarla: non era una silhouette, ma una macchia nera sfumata e lanciata a gran velocità contro di me.
Chiusi gli occhi e respirai profondamente. Sicuramente il percorso che cedeva e che minacciava di farmi cadere nel vuoto non era stato il massimo, così come la cosa che mi stava per assalire e da cui ero stata divisa dal muro di fuoco. Passai una mano su un orecchio e mi parve di sentire il sibilo del vento.
«Era un brutto sogno» mormorai. Chiara non disse nulla.

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Capitolo 10
*** IX - Come foglie nella tempesta della guerra ***


IX
Come foglie nella tempesta della guerra

Novembre, al contrario di ottobre, scivolò via molto presto per lasciare il posto a dicembre. Fui un po’ stranita nel sentire per la prima volta che ci sarebbe stata una pausa invernale dalle lezioni, che quindi per tre settimane avremmo potuto distrarci dall’ambiente scolastico e abitare la struttura dell’Accademia come più preferivamo - sempre nei limiti imposti dal buonsenso, ovviamente, caratteristica che per fortuna sembrava comune a tutti. Non sapevo dire perché fossi così sorpresa al pensiero di smettere di “studiare” per più di venti giorni.
Forse non credevo che in una situazione come la nostra, sempre durante la fantomatica guerra, ci sarebbe stato concesso il lusso di riposare e al massimo allenare i Pokémon per conto nostro. C’era qualche eccezione come Sara, la cui più grande passione erano la danza e la ginnastica artistica, che quindi avrebbe impiegato il prezioso tempo libero a cavallo tra l’anno corrente e quello nuovo per fare quello. Per il resto dei ragazzi era previsto relax totale.
Ormai io e Chiara avevamo fatto l’abitudine a quelle che le prime volte avevamo definito stranezze. I Pokémon Spettro vaganti per i corridoi non erano spaventosi - salvo la famiglia di Duskull e qualcun altro che mi inquietava non poco; per la maggior parte dei casi si facevano un giretto e poi tornavano autonomamente dall’Allenatore che li aveva. Certo era preferibile incontrare altri tipi di Pokémon per i corridoi al vedersi sbucare attraverso la parete un Mismagius o un Haunter, ma almeno non entravano nelle camere dei ragazzi. Non sempre.
Ci eravamo ambientate e avevamo assorbito la quotidiana routine della situazione. Fermandomi a pensare mi ritrovavo a chiedermi come avessi impiegato prima di quel venerdì primo settembre le mie giornate, senza avere un’intera squadra di Pokémon a cui badare. Erano diventati il centro di ogni cosa; ogni mio obbiettivo personale aveva a che fare con loro, quasi tutti i problemi riguardavano quegli esseri e non più me. Mi chiesi questo anziché domandarmi perché non riuscissi più a fare qualcosa che non c’entrasse con loro.
Con l’entrata in squadra di Rocky erano subentrati sia effetti positivi che negativi; avevo una squadra piuttosto variegata e mi piaceva pure che i miei Pokémon imparassero mosse - quasi esclusivamente d’attacco - di vari tipi per fare fronte a più situazioni possibili, seguendo i consigli di tutti i professori ed esperti. Persino i Capipalestra, per quanto amanti di un tipo in particolare, ne avevano di specie diverse per non ritrovarsi sprovvisti di difese. Il principale svantaggio era che la scalata dei livelli era sempre più lenta e me ne lamentavo spesso.
Chiara di Pokémon ne aveva cinque e qualcuno già aveva avuto modo di evolversi sotto i suoi occhi orgogliosi: Prinplup, Flaaffy, Pidgeotto, Gyarados e Amaura. Non se la passava male ma in genere io riuscivo ad avere la meglio, anche perché lei cercava spesso di costruirsi una difesa che la maggior parte delle volte, in un modo o nell’altro, riuscivo ad aggirare prima che fosse troppo solida per portare avanti la lotta.
Con Gold la situazione era praticamente alla pari, finché non si trattava di sfidare Dragonair o Quilava: in quei casi la mia sconfitta era quasi assicurata - ma qualche volta me la cavai. In più era stato spostato al livello seguente, quello di Sara, Angelica e Melisse; pur essendo meno bravo della media del gruppo riusciva a condurre lotte assai dignitosamente e dopo qualche mese gli divenne più facile abbattere la mia autostima di Allenatrice.
E poi, poco prima dell’inizio delle fantomatiche vacanze, una notizia riportata da Daniel provocò nei presenti al tavolo - i soliti noti: io, Chià, Ile, Cyn e Lorenzo - una reazione di collettivo inarcamento delle sopracciglia. Subito gli chiesi di ripetere, insicura che avesse detto qualcosa di vero. Lui ridacchiò.
«Giuro che è vero. Anche io all’inizio, quando me l’ha detto Aristide, ci sono rimasto.»
«Aristide si è scomodato per parlare ad uno studente?» chiese Lorenzo, abbastanza incredulo.
«E che studente!» ghignò Daniel. Cynthia gli diede uno scappellotto e giudicai che quella fosse stata la cosa più sensata da lei compiuta in vita sua. Il ragazzetto si grattò la nuca come da sua abitudine.
«Aristide non è mica il tipo che scherza ma tu sì. Direi che possiamo pensare benissimo che tu ci stia prendendo allegramente per i fondelli» borbottò la bionda.
«Va be’, ammetto che non me l’ha detto Aristide in persona, ma Sandra alla fine di una sessione d’allenamento. Però il mittente è lui.» Ci fu una breve pausa. «Non è mica qualcosa di assurdo! Anzi, per me è una buona cosa.»
«Questo si vedrà» borbottai.
Ilenia scosse la testa. «Non so da chi sia partita l’idea, ma fare questa specie di sondaggio tra i vari gruppi di studenti mi sembra abbastanza strano. Sicuramente non viene da Aristide.»
«Il preside della campana di vetro non può permettersi di incrinarla» mormorai. La campana di vetro era la metafora conosciuta da tutti i ragazzi dell’Accademia per descrivere quest’ultima, perciò tutti capirono. «Chiedere così apertamente opinioni e aspettative sulla guerra in corso, quando noi non ne sappiamo niente… be’, forse non è del tutto improbabile. Ma sono le stesse persone che ci tengono al sicuro qua dentro…»
«Secondo me» esordì Cynthia con malcelata indifferenza, «era anche ora che si facesse qualcosa del genere, per quanto sulle prime mi sembri strano. Se ci ripenso, man mano che passano i minuti, non ho niente da biasimare.»
«Non dico di biasimare» insistetti, «ma in un momento ci rassicurano sul fatto che difficilmente saremo toccati dal pericolo della guerra e adesso vogliono sapere cosa ne pensiamo? Non ci hanno mai abituati e qualche ragazzo nuovo continua ad arrivare. Sarà facile abbattere l’umore collettivo mettendoci di fronte alla realtà… non che sia un male, eh, però… oh.» Improvvisamente mi fermai a pensare.
Se sulle prime ci era sembrato a dir poco assurda l’idea di chiedere a tutti gli studenti cosa ne pensassero della guerra in corso e se avessero qualche aspettativa da sé e dalle Forze del Bene, per quanto la complessità della situazione fosse invisibile alle nostre vedute ancora ristrette, quasi di colpo ci eravamo tutti resi conto che non negarci la possibilità di entrare in contatto con quello di cui avevamo più paura - la guerra e relative conseguenze - non era poi un’idea da buttar via. Anzi, era anche meglio che fossimo un minimo preparati.
Daniel sorrideva soddisfatto, velatamente sarcastico come suo solito. «Perfetto, voi come me avete capito che la novità è buona! Allora vi spiego il resto della situazione. Sandra mi ha chiamato alla fine di una sua lezione per parlarmi di questo e all’inizio non capivo dove volesse andare a parare. Poi ha iniziato a premettere che sa che io ho conoscenze un po’ in tutti i gruppi dell’Accademia e che quindi posso diffondere la notizia…
«Più o meno avevo già intuito le intenzioni di chi ha ordinato questa cosa e me lo ha confermato: saremo noi stessi studenti a chiedere a quelli del nostro gruppo, come l’intervista di un sondaggio, le cose sulla guerra. Infine mi ha chiesto di scegliere, tra le classi in cui conosco qualcuno, delle persone che possano chiedere a quelli della propria classe cosa ne pensano eccetera eccetera. Una persona per gruppo, in totale siamo sei livelli: quello infimo, in cui non conosco nessuno, il tuo» indicò me, «quello di Melisse e compagnia, il mio e di Lorenzo, quello di Ilenia e quello più avanzato. Neanche in questo conosco qualcuno.»
«Immagino tu abbia già scelto chi dovrà condividere con te questo peso» sbuffò Chiara.
Daniel annuì continuando a sorridere. «Esattamente. Cynthia fa il suo gruppo e chiede a qualcuno di quelli più bravi di scegliere qualcuno, Melisse farà il suo, e immagino che una delle due conosca almeno una persona in entrambi i livelli in cui io non ho contatti. Poi Eleonora fa il suo gruppo e io il mio.»
Recepii appieno la notizia solo quando Chiara mi diede un’energica gomitata d’intesa. Per un attimo fui divisa tra la tentazione di alzare gli occhi al soffitto o dare ancora più nell’occhio spintonandola - e magari farla cadere, visto che era seduta sul bordo della panca. Optai per la seconda possibilità e quando Daniel mi lanciò un’occhiata divertita e stupita al contempo ebbi modo di alzare gli occhi al cielo.
Ma non l’avrei scusato subito per quel colpo basso. «Perché hai scelto me e non questa cretina?»
«Perché sei l’unica che conosco nel gruppo, a parte quella cretina.» L’“Ehi!” di protesta dell’interessata passò inosservato al ragazzo, che proseguì: «Poi hai un anno in più di lei, quindi penso tu abbia anche più tatto e più conoscenze, o esperienza magari, per non farti rispondere male da chi crederà che sia uno scherzo.»
«Non avevo messo in conto questa eventualità. Non te la perdono» mormorai.
Lui continuava a sorridere, tanto che risultò non poco odioso. «Non sarà difficile. Se riesci puoi sbrigartela pure in un giorno solo. Se vuoi ti posso aiutare.»
Passò qualche secondo in cui io tentai di non dare a vedere il rossore che mi aveva tinto le gote e Daniel lanciò un’occhiata stranita a Chiara. Immaginai il perché. «Ma che hai, qualche tic?» le chiese.
Lei lo mandò a quel paese e poi scoppiò a ridere: anche qui intuii il motivo. Gli altri ragazzi si erano messi a parlottare tra di loro di chissà cosa e Cynthia non aveva opposto resistenza alla convocazione di Daniel. Il ragazzo mi guardò in cerca di una spiegazione e io scrollai semplicemente le spalle. Non sapevo dire se fossi pienamente infastidita dalla decisione di Daniel o se in fondo fossi contenta di essere stata calcolata da lui - per quanto avesse dato le sue ragioni. Per questo mi impedii di farmi troppi film, per quanto dovetti riconoscere a malincuore che, molto più in fondo, mi fossi emozionata un pochino.
«Allora credi di aver bisogno di aiuto per questa cosa? In ogni caso il mio numero di Gear lo hai» disse ancora lui. Gli lanciai un’occhiata veloce e poi evitai di guardarlo per il resto della pausa pranzo.
«Ti contatterò, se necessario» mormorai; dopodiché prendemmo tutti parte alla conversazione degli altri tre.

Mi ritrovai seriamente a sperare con tutto il cuore, mentre in compagnia di Chiara mi dirigevo verso la porta della nostra camera, che la suddetta non si mettesse a strillare come un’ossessa e a fangirlare da brava ragazzina su qualcosa di non esistente. Le mie preghiere funzionarono in parte perché ebbero l’effetto, e purtroppo solo quello, di ritardare lo scoppio di Chiara, che sicuramente mi avrebbe assordata con qualche strillo.
La situazione iniziò a degenerare nel momento in cui iniziò a ripetere come una folle: «Io lo avevo detto.»
Sapevo benissimo cosa avesse detto. «Guarda che…» esordii, ma fui interrotta.
«Non sarai mica così orgogliosa da non voler ammettere che ti piace!»
«Ti posso assicurare che non si tratta di orgoglio; sono assolutamente sincera.»
Per un po’ Chiara continuò a darmi del filo da torcere - anche se avrei voluto farlo con il suo collo, visto che non si placò se non dopo interminabili minuti di botta e risposta. Quando ci si metteva era davvero seccante. Era la mia migliore amica, simpatica ed energica, sempre pronta ad appoggiarmi e affidabile; potevo dirle qualsiasi cosa mi turbasse o di cui mi vergognassi senza che lei battesse ciglio e faceva di tutto per aiutarmi in situazioni di difficoltà che, a prima vista, mi sembravano problemi insormontabili. Ma aveva lo sgradevole difetto di insistere fin troppo su argomenti scomodi, peraltro consapevole di star dando fastidio e probabilmente gasandosi grazie a questo.
In questi casi, una delle carte che preferivo giocare era il silenzio. Siccome non sempre funzionava provavo il metodo opposto: ne dicevo in quantità alla ragazzetta, spesso andando a criticare nel modo più secco possibile per assicurarmi che si zittisse. Funzionava ma poi mi toccava consolarla, perché spesso esageravo senza accorgermene.
Quella volta non ebbi la forza di mettermi a dirgliene di tutti i colori e, con un argomento come quello che lei stava trattando tanto appassionatamente, il silenzio l’avrebbe soltanto aizzata. In genere, poi, mi mettevo a ridere per quanto la situazione si stava rendendo ridicola. Quel giorno ribattei ad ogni cosa prontamente, in modo piatto, e pur dovendo sopportare per qualche minuto di troppo riuscii a porre fine alla sua parlantina, in qualche modo.
Avevo il numero di Daniel non per qualche motivo particolare, ma semplicemente perché ci eravamo scambiati tutti quanti i nostri contatti, anche se non avevamo molto di cui parlare in privato. Preferivamo farlo di persona - come se avessimo cose di chissà quale importanza da non far trapelare e non credessimo che i dispositivi anti-intercettazione di qualsiasi oggetto consegnato dalle Forze del Bene funzionassero davvero.
Per questo motivo preferii non scrivere a Daniel e lui non si fece sentire; il giorno dopo gli domandai come funzionasse quella faccenda alla presenza di Cynthia e Melisse. La bionda conosceva un ragazzo dei più esperti il cui fratellino aveva appena cominciato all’Accademia, quindi lo avrebbe poi riferito a loro.
Con Daniel parlai poco e niente nei giorni successivi, finché finalmente non ebbe qualche notizia in più da darci in merito a quella faccenda. Mancavano un paio di giorni all’inizio delle vacanze e sarebbe stata una buona cosa portare a termine il compito durante quelle quarantott’ore.
«Allora! Mi hanno dato dei fogli su cui ci sono le istruzioni insieme a quelli che ci serviranno per raccogliere le opinioni del pubblico» esordì. Noi sei che dovevamo fare quella specie di sondaggio ci eravamo incontrati nella mensa a sera, quando ancora non era ora di cena e la sala era vuota. Melisse ammiccò più volte nella mia direzione mentre Cynthia si studiava le unghie smaltate di nero, ascoltando a malapena il ragazzo.
«Quando avremo finito questa storia, anche a noi toccherà compilare dei fogli con le stesse richieste di quelli per gli altri studenti dell’Accademia.»
«Come mai passi subito alla fine?» borbottò Cynthia, più attenta di quello che sembrava alle sue parole.
«Perché mi va. Comunque, funziona così - o meglio, questo è il consiglio che mi è stato dato da Sandra: infatti lei, che inizialmente mi aveva avvisato di questa faccenda, ha reso disponibile parte delle sue lezioni per svolgere ’sta specie di sondaggio. Dovrebbe trovare il modo di fare almeno una lezione in tutti i nostri gruppi in questi due giorni, si metterà d’accordo con gli altri professori, vista la flessibilità degli orari…» precisò poi, parlando di flessibilità quando invece le lezioni si decidevano praticamente sul momento.
«Chi non se la sentirà di parlare davanti agli altri» proseguì, «per qualsiasi motivo che possa essere timidezza, perché non ha mai pensato seriamente alla guerra e ha bisogno di tempo, perché è molto sensibile per qualche altra ragione… allora darà le sue risposte in privato, a lui la decisione se parlare con un professore o con chi di noi fa parte del suo gruppo. Chiaro?»
«Ehm… quindi Sandra avviserà i nostri compagni?» chiesi. “Perché altrimenti dubito che mi prenderebbero sul serio e, conoscendomi, sarebbe a dir poco imbarazzante per me…”
«Sì, così ci prenderanno sul serio e non penseranno ad uno scherzo.»
“Appunto…” Il ragazzo più grande di noi - che mi pareva si chiamasse Andrea - intervenne: «E questi fogli con su scritte le domande e tutto quanto? Li hai o devono ancora darteli?»
Daniel annuì e si chinò ad aprire, sotto la sua sedia, uno zaino che a me era passato inosservato; ne tirò fuori alcuni fogli, che dovevano essere una ventina in tutto. «Questi sono tutti i “moduli” da compilare. Già sono divisi per gruppi, comunque sono anonimi. Dovremo fare sottoforma di intervista generale… nessuno può compilare niente per conto proprio, sta a noi trascrivere.»
Il ragazzo passò a ciascuno di noi i fogli del nostro gruppo. Lessi velocemente i numerosi campi da compilare; il mio sguardo si soffermò un momento in più sul “Commento personale” a cui era stato dedicato un ampio spazio sull’ultimo foglio, almeno tre quarti di pagina. Chi avesse voluto aggiungere qualcosa, oltre alle risposte date al resto delle richieste, avrebbe dovuto comunicarlo - a me o ad un professore - e lì sarebbe stato trascritto. Mi lasciai sfuggire un lieve sospiro e Daniel e Melisse se ne accorsero, ma non dissi nulla.
Mi chiesi cosa avrei scritto io nel campo del commento personale, perché ero certa che fosse quasi obbligatorio - a meno che qualcuno non si fosse già espresso in maniera decisa e pienamente coerente, tanto da non lasciare dubbi sulla sua opinione, rispondendo alle altre domande. Essendo parecchio confusa sulla mia sorte e sul mio possibile ruolo in quella guerra - che probabilmente si sarebbe ridotto al “non farsi ammazzare durante un attacco nemico”, a causa delle mie scarse capacità di combattimento e simili - avrei dovuto esprimermi chiaramente grazie a quel “Commento personale”, perché appena lessi più accuratamente gli altri campi notai che le mie momentanee risposte erano molto diverse tra di loro.
Mi passai una mano tra i capelli e scostai qualche ciocca dietro l’orecchio per evitare che occupasse la visuale. Intanto il ragazzo più grande brontolò: «Non è proprio chiarissima l’impostazione di questa cosa…»
«E va be’!» disse, con mia sorpresa, Melisse. «Tanto sappiamo come sono rilassati in questa Accademia… finché non ci metteranno in riga come soldati appena lavoreremo nelle basi segrete, direi di affidarci totalmente alle spiegazioni che Sandra farà al pubblico e limitarci a scrivere! O no?»
Daniel parve molto d’accordo con lei, sogghignando divertito e anche soddisfatto dalle parole della ragazza. Io ero parecchio stupita da quell’atteggiamento, sia da parte della ragazzina che dall’organizzazione in generale, ma decisi di lasciar correre - evidentemente dovevo adattarmi in quel modo.
«Allora possiamo metterci al lavoro subito» disse Daniel apprestandosi a concludere quel breve incontro. «Se qualcosa non è chiaro chiedetelo, non fatevi scrupoli!»
Poi mi lanciò un’occhiata che non riuscii ad interpretare in alcun modo. I primi ad andarsene furono i due fratelli e Cynthia li seguì dopo essersi fermata un momento ad arruffare i lisci capelli neri di Melisse, tanto per stuzzicarla un po’ e per ricevere una linguaccia divertita in risposta. Non sapevo se andarmene per conto mio o se aspettare per vedere se gli altri due volessero trattenersi un po’; alla fine optai per la seconda.
Fu Melisse a dare il via alla conversazione. Rivolta a Daniel, guardandolo male e mettendosi le mani sui fianchi in una posizione accusatoria, disse: «Ti ho già detto che avresti dovuto chiedere come minimo il permesso per includere me - tutti noi, immagino, in un progetto del genere?»
Io sorrisi per la battuta teatrale, così come il suo modo di porsi; Daniel invece scrollò le spalle, sereno, e ribatté: «A chiedere il permesso, nessuno si sarebbe fatto avanti. Sei l’unica che si sta lamentando.»
“Perché è l’unica ad avere una certa confidenza con te - e Cynthia non ha voglia di perdere tempo” borbottai mentalmente. Melisse mi guardò e la mia espressione eloquente bastò per farla ridacchiare: doveva aver capito quale era stata la mia risposta mentale - rimasta inespressa proprio perché non ero in confidenza con Daniel.
Daniel era di nuovo in una situazione in cui non capiva cosa stesse succedendo alle due persone presenti oltre lui, come molto spesso gli accadeva quando io e Chiara c’intendevamo con un’unica occhiata. Anche con Melisse era facile intendersi al volo - ancor di più con Ilenia e pure con la riservata Sara, che sembrava indovinare ogni pensiero del prossimo. Ma quella volta il ragazzo si astenne dall’indagare, avendo ormai imparato che era inutile cercare di capire un’intera conversazione avvenuta in un muto scambio di sguardi.
«Comunque, caro Dan» riprese la ragazza, «ciò non toglie che avresti dovuto almeno chiedere. Scommetto che ci sarebbe stato qualcuno in ogni gruppo disposto ad accettare senza problemi! Invece hai messo in mezzo noi povere due, io ed Eleonora, che nulla di male abbiamo fatto…»
«Sei sempre bravissima ad ingigantire le cose e farle passare per chissà quali torti» borbottò lui. «Sia tu che Ele sapete perché vi ho chiesto di partecipare.»
«“Chiesto”.»
Fu la mia prima, laconica puntualizzazione, intrisa di un tono ironico che fece ridere Melisse e alzare gli occhi di Daniel al cielo. Fino ad allora non avevo saputo come inserirmi nel loro battibeccare.
«Ma cos’è che vi infastidisce tanto, di preciso?!»
«Niente, niente…» feci io a mezza bocca.
«Tu» disse invece Melisse con decisione, puntando il dito contro Daniel, «sei la cosa che infastidisce.»
Daniel la mandò cortesemente a lucidare Medaglie e io ero già scoppiata a ridere - più o meno appena la mora aveva individuato la causa del fastidio. Già da tempo avevo avuto prova di quanto fosse esilarante quando prendeva in giro Daniel, spesso nel modo più demenziale possibile. Si vedeva che erano amici anche se dicevano in ogni occasione di non sopportarsi reciprocamente, ma tutti vedevano nei loro battibecchi la prova di quanto i due fossero affiatati, per quanto si sforzassero di negarlo.
Tant’è che mi stupivo che Chiara trovasse tanto piacere nel fantasticare su me e il ragazzo e non loro due. La sera stessa lo chiesi, non appena cominciò a stuzzicarmi - com’era ormai previsto dalla routine.

Avevo ancora un giorno in cui prepararmi qualcosa da dire alla classe prima che Sandra avesse una sua lezione per il mio gruppo - l’avevo incontrata e aveva detto di sapere che toccava a me fare quella specie di sondaggio. Lei ovviamente avrebbe presentato ma poi stava a me descrivere il resto; non avevo nemmeno provato a chiederle se potesse essere lei a parlare e io solo a trascrivere, perché i miei occhi parlanti - che richiedevano apertamente un coinvolgimento ridotto - mi fecero rimediare un’occhiata altrettanto eloquente da parte sua.
Non sapevo spiegarmi perché mi stessi agitando parecchio per una cosa che, pensandoci bene, era semplice: ma la mia indole riluttante a mettersi in mostra e ad alzare la voce per parlare spesso comandava sul resto, per quanto stessi migliorando da quel punto di vista. Ad ogni modo arrivò l’ultimo giorno prima della pausa invernale e la mattina mi tolsi quel peso. Ebbi modo di rimproverarmi, alla fine, che ero stata una sciocca a preoccuparmi tanto per qualcosa di inesistente, come se i miei compagni avessero potuto ridere di me o prendermi in giro.
Sandra, a metà mattinata, entrò in classe e controllò che fossimo tutti presenti - quasi mai i ragazzi del mio gruppo si perdevano un allenamento Pokémon, considerando unanimemente quella materia la più importante; i professori che la tenevano erano solitamente Sandra, Rocco, Lance o alcuni dei famosi Dexholders. Insomma, i personaggi più in vista del mondo Pokémon grazie alla loro abilità nella lotta.
Quando la donna incontrò il mio sguardo, mi fece un cenno d’assenso e io mi alzai, prendendo i fogli che mi erano stati dati da Daniel. Andai alla cattedra guardando ostinatamente i campi da compilare mentre lei diceva: «I piani alti delle Forze del Bene hanno richiesto una maggiore partecipazione da parte vostra, intendendo voi come studenti di questa Accademia che vi prepara per il vostro futuro nella guerra.»
Non avevo mai avuto l’impressione che la donna sapesse parlare così bene e con tanta naturalezza. Faticavo a credere che si fosse preparata un discorso ma così pareva. «Quindi, pensando al modo migliore per coinvolgervi, è stato deciso di fare una sorta di sondaggio… un’intervista che farà capire alle Forze qual è la vostra posizione, per quanto forse ci abbiate pensato poco, rispetto a questo conflitto che va avanti da fin troppo tempo. Potrete esporre i vostri dubbi, qualcosa che vi ha colpito, le vostre aspettative… senza la minima paura, ovviamente; è anonimo.
«Il ragazzo a cui originariamente è stato chiesto di fare questo sondaggio ha scelto un po’ di colleghi nelle varie classi per farsi aiutare, ed Eleonora si deve occupare di questo gruppo. Trascriverà le vostre opinioni dopo avervi illustrato i campi che devono essere compilati.»
Ci fu qualche secondo di silenzio; capii dagli sguardi insistenti puntati addosso a me che era ora di iniziare. «Sì, allora cominciamo…»
E così passai una buona mezz’ora ad ascoltare le parole dei miei compagni di classe, con i quali non avevo mai stretto un rapporto granché stretto. Forse grazie a quel sondaggio avrei imparato qualcosa su di loro: si sarebbero aperti grazie alle domande su un tema che toccava le intimità dei loro pensieri e delle loro emozioni. Ad essere sincera con me stessa ero curiosa di capire, una volta per tutte, come fossero le persone con cui condividevo la maggior parte della mia giornata e delle quali non sapevo assolutamente nulla.
Volevo anche prendere spunto da quello che avrebbero detto loro per poi dare, in privato, una mia opinione. Io e Chiara, nonostante fossimo giunte all’Accademia agli inizi di settembre, eravamo ancora le ultime arrivate nel gruppo e non c’erano state nuove entrate.
Le prime risposte mi fecero ben sperare, perché i ragazzi che si vollero togliere per primi il pensiero di finire la loro intervista anonima avevano anche idee abbastanza chiare, pur ammettendo che non immaginavano neanche lontanamente chissà quali strutture li sovrastassero. Era assolutamente vero - e anche piuttosto ovvio; d’altronde nessuno poteva avere la presunzione di sentirsi ad un livello alto nell’organizzazione del Bene.
C’era un campo da riempire, “Rapporti avuti con il Nemico - Impressioni”, che rimase praticamente vuoto. Non uno di noi era stato strappato dalle grinfie nemiche e accurati controlli dei ricordi, avvenuti tramite i Pokémon Psico che avevano indagato nella mente di ogni ragazzo, non avevano rilevato alcuna traccia della presenza del Team malvagio nel passato altrui. A me e Chiara esso ci era stato risparmiato: avevano avuto le prove, e quelle erano bastate, dell’abbassamento delle barriere da parte del Nemico che per la prima volta aveva cercato di entrare in contatto con noi. Dopo molti mesi era sempre più evidente che quella realtà era stata per noi del tutto nuova.
Le prime opinioni contrastanti arrivarono quando ai ragazzi fu chiesto di immaginare cosa fosse successo in otto anni di conflitto e perché non ci fossero mai svolte decisive. Qualcuno disse, dopo aver ammesso che non era facile pensarlo concretamente, che le forze e le possibilità delle due fazioni si eguagliassero e perciò non si riuscisse mai a prevalere l’una sull’altra. Altri non negarono, timidamente, un certo malcontento in merito a quella guerra che quasi pareva inesistente, visti i tempi e i pochi avvenimenti salienti; altri dissero senza problemi che, secondo loro, allora il Nemico era più potente delle Forze del Bene.
Uno dei ragazzi che lo disse si chiamava Matt. Aveva un anno in più di me ma non era abbastanza forte per il livello più avanzato; ci avevo parlato ogni tanto e mi pareva che sapesse il fatto suo. Quando affermò che il Team nemico era più forte, dovetti trattenermi dal chiedergli perché; lo feci con uno sguardo eloquente e lui si spiegò.
«Non voglio mettere a confronto numeri, anche perché non li ho: non so, e credo che nessuno di noi sappia, quante basi nemiche sono state affondate e quante sono state le nostre ad essere perse. Il bilancio dei morti e delle scomparse nemmeno, non ne ho idea. Credo poi che ci eguagliamo quanto a menti e a combattenti: Capipalestra da una parte così come dall’altra, Professori, Campioni, Superquattro, Dexholders…
«Il problema è che conosciamo il nostro Nemico, almeno per buona parte; eppure non riusciamo a contrastarlo. Sappiamo quali sono i Comandanti e cosa hanno fatto nel passato. Forse i loro mezzi e le loro intenzioni non sono del tutto chiare, ma se abbiamo avuto più volte l’occasione di invadere il territorio nemico in cui erano presenti pure i Comandanti, allora perché non è stato fatto? Sembrerebbe una battaglia quasi alla pari, ma vedendo questi altri aspetti è evidente che il Nemico ha qualche mezzo che ci impedisce di colpire con più violenza.»
Il suo compagno di banco si chiamava Allyn. Non ci avevo mai scambiato più d’un saluto o una stretta di mano finita una lotta. Aveva la mia età ma sembrava più grande, non solo per il viso maturo ma anche per l’altezza. Si disse d’accordo con il suo amico e aggiunse un’altra ragione: «Io non voglio escludere la possibilità che il Nemico abbia qualcosa che a noi serve, o serve sapere. Di conseguenza è un altro punto a loro favore: non si è mai cercato di abbattere i Comandanti, quindi per qualche motivo loro… servono vivi, ecco. Se hanno in loro possesso delle informazioni di massima segretezza che a noi possono servire per arrivare alla vittoria, loro sono un grande passo avanti a noi, che ancora non possiamo sovrastarli e farli sparire… In sintesi, se le nostre armi sono alla pari c’è dell’altro sotto, come ha detto pure Matt, e questo qualcosa è conosciuto solo ai piani alti, evidentemente.»
Lanciai un’occhiata fugace a Sandra e mi stupii di vederla quasi disinteressata da quello che si stava dicendo. Mi aspettavo che replicasse qualcosa alle critiche che iniziavano ad emergere, per giustificare l’operato lento e apparentemente indeciso delle Forze del Bene, che qualcuno riteneva più passivo che attivo rispetto alla guerra. Guardai la donna con maggiore attenzione. Si limitava a squadrare con i suoi chiari, begli occhi azzurri chi stava parlando; dopo qualche momento li distoglieva. Smisi di fare caso a lei e di preoccuparmi di cosa le passasse per la testa appena il suo sguardo glaciale non incontrò il mio, curioso ma anche interdetto.
Affrettandomi a prendere nota di quello che i miei compagni dicevano, a malapena capivo le loro parole. Ma paradossalmente furono le opinioni con cui non mi trovavo d’accordo a rimanere impresse nella mia mente. Non avevo ancora molte sicurezze riguardo all’operato delle Forze del Bene ma qualche pensiero per conto mio l’avevo elaborato. Quando una ragazza si definì in disaccordo con Matt ed Allyn ed elencò una serie di ragioni per le quali i tempi della guerra potevano essersi prolungati per così tanto, notai che non la pensavo allo stesso modo.
I tradimenti, gli spostamenti da una fazione all’altra, le restaurazioni di informazioni e territori che rischiavano di cadere nella mano dell’avversario, spionaggi inefficienti a causa di una tecnologia più avanzata nelle mani del Nemico, perdite e rapimenti, sicuramente anche torture su umani e Pokémon… io non credevo che ci fosse solo questo sotto. Ero più propensa a credere a Matt ed Allyn.
Ero certa che ci fossero molti segreti oscuri riguardanti le Forze del Bene tanto quanto il Nemico. Non esclusi la possibilità che le due fazioni fossero scese a patti riguardo a svariati punti sensibili, che pur con grande riluttanza venivano rispettati dall’organizzazione di cui facevamo parte; vedevo invece il Nemico ghignare, soddisfatto e con quella spaventosa espressione di scherno, come se fosse invicibile e sapesse di esserlo. Non sapevo dire perché tendessi a vederlo in vantaggio rispetto a noi. Ad ogni modo non ero l’unica, e questo dava da pensare.
Non molti si resero disponibili per completare il campo del “Commento personale”; Chiara fu una dei pochi. La mia amica mi dimostrò una volta per tutte di essere veramente cambiata e maturata rispetto a quando eravamo arrivate all’Accademia, nonostante talvolta i suoi comportamenti mi spingessero a chiedermi perché trovasse tanto divertimento nello stuzzicarmi a proposito di Daniel.
Alle varie domande aveva risposto: «Quando, quasi quattro tre mesi fa, appresi la notizia di una guerra che va avanti da otto anni all’insaputa del mondo intero… faticai ad accettarlo finché, insieme ad Eleonora, non entrai in quest’Accademia e in questa nuova realtà. Non poteva essere più finzione, un’allucinazione data da chissà cosa. Il problema della guerra in corso mi ha dato da pensare più di quanto non abbia fatto il pensiero di cosa sia successo in otto anni, e perché una delle due fazioni ancora non crolli… che sia la nostra o il Nemico.
«Ho iniziato a chiedermi sempre più spesso: “Ma cosa si è fatto in otto anni? Perché non si riesce ad arrivare ad un punto di svolta?” E mi sono data più di una risposta, anche ascoltando le parole di nuovi amici che sono qui da anni e confrontando i miei pensieri con i loro discorsi… mi trovo totalmente d’accordo con Matt ed Allyn riguardo alla faccenda dei segreti a noi sconosciuti, quasi la ritengo ovvia. Ma voglio fidarmi delle Forze del Bene.
«La mia posizione nelle Forze del Bene?» Qui aveva vacillato un po’ e aveva fatto rispondere degli altri prima di riuscire ad elaborare le parole. «Ehm… è una domanda difficile! Non ho alcun talento particolare, né per la lotta né per il lavoro al computer… Posso dire di essere attratta dallo spionaggio, ma credo di non essere l’unica che si sente inutile rispetto alle sorti della guerra. Non so se posso essere d’aiuto più che d’intralcio.»
Sentii i suoi occhi fissi su di me per tutto il tempo in cui scrissi frettolosamente le sue parole. Non era affatto l’unica e lo sapevamo entrambe: così come lei si sentiva ispirata per lo spionaggio, io propendevo per la lotta; ma tolto questo, sia io che lei ci sentivamo soltanto un numero in più nel conteggio dei membri delle Forze del Bene.
Mi schiarii la voce dopo essere stata in silenzio per lungo tempo: l’ultimo campo da compilare aveva richiesto parecchio. «Ultima voce: commento personale. È facoltativa, ma sarebbe bene dare un’ultima risposta…»
E Chiara, appena ricevuta la parola, disse: «L’unica cosa di cui sono veramente sicura è che siamo tutti dentro questo conflitto fino al collo, che siamo in pericolo ogni giorno e che rischiamo la vita, sul serio, soltanto perché siamo in quest’Accademia delle Forze del Bene…» Fece una breve pausa. Inspirò e disse: «Però, proprio perché anche io sono parte della fazione del Bene, non voglio perdere tempo mentre mi lamento della mia inettitudine. In qualche modo, se mi sarà mai possibile, voglio rendermi utile.»
Appena finii di scrivere la sua sentita opinione, Sandra interruppe tutto. «Ragazzi, è già passata la nostra ora. Vi ringrazio per aver partecipato e per essere stati così sinceri… ai piani alti mancava un pezzo sensibile di questa organizzazione, ovvero il vostro modo di porvi rispetto alle Forze e alla guerra stessa. La vostra compagna ha avuto parecchio da scrivere, avete chiacchierato non poco» aggiunse ironica. Sorrisi appena.
Uscii dalla classe e salutai Chiara, desiderosa com’ero di saltare la lezione prima di pranzo e di tornare in classe solo dopo di esso. In più mi toccava aggiungere il mio parere: trovare qualcosa di adatto da scrivere che non fosse, possibilmente, identico a ciò che era stato già detto. Eppure, ora che mi ritrovavo davanti a molte righe rimaste vuote del campo “Commento libero”, non avevo idea di cosa aggiungere lì.
«Ehi, ciao! Dove stai andando?»
Mi sentii rivolgere quelle parole alle mie spalle ma, assorta nei miei pensieri - “Cosa scrivo ora? Ma possibile che tutte le volte in cui ho pensato alla guerra e al mondo là fuori ora non diano i propri frutti…?”, nemmeno la riconobbi e mi limitai a rispondere distrattamente: «Devo scrivere qualcosa qui…»
«Ah, io ho già fatto invece. I miei compagni mi hanno lasciato un paio di righe per poter dire la mia, pensa!»
Capii quasi per miracolo che era il momento di girarmi e capire con chi stessi parlando. Non mi aspettavo di incrociare gli occhi di quell’innaturale blu piuttosto scuro di Daniel, che sorrideva bonario e si riavviò un paio di volte i capelli nel giro di una decina di secondi.
«Ah, sei tu! Ciao» esclamai.
«Te ne sei accorta ora?» ridacchiò lui.
Arrossii un po’. «Ehm… ora ho questo problema di dover scrivere qualcosa nel commento personale. Ma non ho idea di cosa poter dire, vorrei essere sincera e non copiare le risposte degli altri.»
«Adesso che lezione hai?» cambiò discorso lui.
“Che bello il disinteresse perpetuo di questo ragazzo!” «Non ne ho idea. Sono uscita dalla classe prima che il professore arrivasse, torno a lezione oggi pomeriggio, penso… adesso voglio fare questa cosa» risposi, agitando un paio di volte sotto il suo naso cosparso di lentiggini quel po’ di fogli tutti scribacchiati.
«Bene, perché io ho deciso di iniziare le vacanze un po’ prima degli altri!» La sua espressione, da bonaria, si riappropriò della sua solita aria di sfida. «Quindi se vuoi posso aiutarti.»
Non gli dissi di no. Lo ringraziai, piuttosto colpita, e ce ne andammo nella biblioteca al piano sotterraneo, la quale neanche quel giorno era disabitata: ogniqualvolta che c’ero andata, c’era sempre qualcuno seduto ai tavoli circondati dagli altissimi scaffali, traboccanti libri che trasudavano sapere. Ci trovammo un posto e lui incrociò le braccia sul tavolo, studiandomi con fare attento e serio. Non vederlo sorridere beffardo era strano e mi sentii parecchio in soggezione.
Abbassai lo sguardo sulla minacciosa mezza pagina di “Commento libero”, ancora tutta da riempire con le mie parole. «Ehm… tu cosa hai scritto?» chiesi a Daniel dopo qualche secondo. A malapena mi accorsi, dentro di me, che in quel momento i miei pensieri non erano più riguardanti il problema di trovare qualcosa da dire. Piuttosto continuavo a chiedermi perché si fosse preso la briga di aiutarmi e non di impiegare la sua giornata in altro modo, a meno che non gli fosse stato chiesto di darmi una mano. Cosa impossibile, quindi mi confusi di più.
«Il sondaggio l’ho fatto ieri e ho già consegnato i fogli, quindi non so come farti avere uno spunto. Non ricordo cosa hanno detto gli altri; io ho scritto…» Ci pensò su qualche secondo. «Che il tempo passa ed è tiranno. Se non troviamo un modo per abbattere il Nemico prima che esso diventi anche sinonimo di morte… tanto vale cambiare identità e andare ad arruolarsi tra le sue fila.»
Inarcai le sopracciglia. «Hai davvero scritto questo?»
«Non mi credi?» ghignò. Avendolo sempre visto come un ragazzo parecchio superficiale e incurante di tutto, se non dei propri Pokémon e della sua ristretta cerchia di veri amici, non mi sarei mai aspettata un simile pensiero da parte sua. «Comunque no, non ho scritto tutto quanto quello che ti ho detto, anche se è ciò che penso. Ho evitato la parte del “tanto vale cambiare fazione” eccetera per non sembrare sospetto.»
Mi sforzai di ricambiare il suo sguardo, notando quanto insistentemente lo stessi evitando. Per compensare mi ritrovai a mordicchiarmi un angolo dell’interno delle labbra.
«Non mi dirai che non ti sei fatta un’idea a proposito della guerra» insistette lui vedendo che non rispondevo.
«Eh? No, assolutamente!» mi affrettai a negare. «Ci ho pensato molto, già dai primi tempi di permanenza qui… ma ogni cosa con cui sono d‘accordo è già stata detta. Per questo volevo scrivere un commento personale, visto che pochi hanno aggiunto qualcosa oltre agli altri campi… ma anche qui credo che sarei ripetitiva.»
«Be’, anzitutto, tu cosa pensi a proposito della guerra?»
«Credo che il Nemico sia, per certi versi, in vantaggio rispetto a noi. Forse abbiamo i mezzi per attaccarlo e distruggerlo, ma ci manca qualcosa per poter sferrare un attacco di grande portata. Questo qualcosa… dev’essere un importante segreto che condiziona le sorti della guerra già da adesso, un’informazione di cui dobbiamo entrare in possesso per distruggere definitivamente il Nemico.»
«Ma a parte questo, cosa ne pensi delle condizioni tue, mie, di chi come noi nell’Accademia? Tutti noi ragazzi… cosa stiamo facendo qui? La preparazione che stiamo ricevendo servirà davvero a qualcosa nel mondo là fuori? E se da un giorno all’altro ci ritrovassimo nella mischia e a malapena sapessimo difenderci?»
Non avevo più problemi a guardarlo. Rapita dalle sue domande e dal suo tono, dalla sua stessa voce, non avevo più bisogno di giocherellare con i bottoni della camicetta o di mordicchiarmi le labbra o un dito della mano. Io voglio fidarmi di quello che ci stanno facendo fare. Anche questo sondaggio che mette a nudo quello che pensiamo sulla guerra è motivato… non credo sia mai stato fatto qualcosa del genere prima d’ora, quindi deve essere successo qualcosa per averlo preparato per noi.»
Evitai di mettermi a dire qualcosa che in quel momento mi parve futile, come che i professori erano tutti bravi e che davano un’ottima preparazione, e aggiunsi: «Però è anche vero che questa è una campana di vetro. Se questo è uno dei soprannomi preferiti per l’Accademia, un motivo ci sarà… siamo invisibili agli occhi del resto del mondo, e spero a quelli del Nemico, ma per quanto tempo ancora reggerà? È da molti anni che esiste e il Nemico avrà qualche indizio che gli faccia pensare alla nostra presenza… e il vetro è facile da incrinare.»
Daniel stava in silenzio e mi parve di dimenticare la sua presenza quando ripresi a parlare, continuando a sfruttare quella metafora: «Penso che tutti noi siamo… come foglie, all’interno di questa campana di vetro. Non so se ci siano già delle crepe e se ci siano degli spifferi ad agitarci, ma prima o poi ci ritroveremo tutti nel mezzo della tempesta della guerra… e se saremo ancora allo stato di foglie, il nostro destino sarà quello di rinsecchire e…»
Probabilmente la parola “morire” rimase confinata nella mia mente. Mi resi conto che Daniel mi aveva ascoltata per tutto il tempo, e pure con parecchia attenzione, quando disse: «Direi che questa è un’ottima metafora che puoi condividere con i piani alti delle Forze del Bene.»
Risposi alla sua espressione gentile e velatamente soddisfatta con un sorriso un po’ timido. «Un po’ metafora, un po’ similitudine… dici che gradiranno?»
«Perché non dovrebbero? Secondo me è un bel pensiero. Ero sicuro che avresti tirato fuori qualcosa di buono.»
Non mi trattenni: «Come mai? Voglio dire, perché lo pensi?»
A quel punto fu lui a distogliere lo sguardo e a ridacchiare, lievemente imbarazzato. «Eh… vedi, all’inizio non avevo un’opinione particolare di te, perché mi sembravi la solita nuova arrivata che non riusciva ad ambientarsi, e questo è un tipo di persona che non mi piace. Però poi hai cominciato a farti valere; hai detto più volte che le lotte Pokémon ti piacciono, nonostante il tuo livello sia ancora un po’ basso. Hai ammesso, senza volerlo, il desiderio di volerti rendere utile e di imparare. Il tuo carattere è cambiato e sei diventata più decisa… quindi mi stai assai più simpatica di quanto avrei creduto le prime volte che ci siamo parlati. Ti piacciono le lotte, i Pokémon, hai appena dimostrato di sapere il fatto tuo riguardo la guerra… e non mi rompi le scatole con frecciatine ironiche come quei due cretini di George e Melisse. Ripeto… mi stai simpatica.»
Aveva parlato con un po’ d’incertezza, inizialmente, ma poi aveva deciso di dirmi una volta per tutte cosa ne pensasse di me. Mi domandai se fossi pallida o di un altrettanto imbarazzante color pomodoro.
«Ora però non prendere l’abitudine di imitare Melisse, altrimenti perdi punti!»
Spezzò la tensione con queste parole e il suo classico sorrisetto; se non l’avevo già fatto, avvampai, sentendo il cuore battere impazzito nel realizzare seriamente le sue parole gentili. Eravamo praticamente amici. «Eh, ehm… anche tu mi stai simpatico» balbettai, sforzandomi di non dare a vedere quanto fossi agitata: «All’inizio invece mi eri sembrato parecchio menefreghista e superficiale, quindi… non avevo molta voglia di parlarti o di cercare di diventare tua amica, eh… ecco. Però… mi ha colpito molto la risposta personale che hai dato tu e in questi ultimi tempi ho notato che sei diventato più disponibile nei miei confronti… e anche in quelli di Chiara.»
«Era anche ora, no? Immagino di essere stato parecchio indifferente…» ammise, affatto pensieroso.
«Un bel po’.»
Ridacchiò; mi chiesi il perché. Forse per il tono basso della mia voce, ridotta ad un mormorio. «Comunque sì, cara Ele, siamo amici! Avevi ancora qualche dubbio?»
Feci una risatina altamente imbarazzata e replicai: «Ora che l’hai detto ho avuto la conferma…!»

Daniel mi accompagnò in presidenza a consegnare i fogli del sondaggio; quel gesto forse insignificante per me fu causa di pensieri confusi ed emozioni altrettanto turbate. Ironia della sorte, incontrammo Bellocchio, colui che aveva istituito le Forze del Bene. Non parve sorpreso di vederci, al contrario di Daniel. Io rimasi indifferente - pure perché ero occupata a chiedermi, retoricamente, cosa mi stesse succedendo.
«Ah, grazie mille» mi disse appena gli porsi i fogli. «Eleonora, giusto? Ci siamo visti a settembre.»
Annuii. Solo in quel momento notai la presenza di Aristide, l’anziano “preside”, i cui occhi piccoli e freddi si spostavano velocemente dalla figura bassa e smilza di Bellocchio alla mia e a quella di Daniel. Mi chiesi perché in quel momento notassi come lui fosse l’unico alto nella stanza, visto che nessuno di noialtri tre spiccava per altezza, e come mai invece non mi domandassi cosa ci facesse il capo delle Forze del Bene un’altra volta all’Accademia, se per mesi interi non si era fatto vedere. Avevo avuto la fortuna di incontrarlo in entrambe le occasioni.
Congedati dai due uomini, Daniel esclamò appena chiudemmo la porta alle nostre spalle: «Credo sia la prima volta che lo vedo in maniera così ravvicinata! Non ho mai parlato con Bellocchio.»
«Davvero? Questa è la seconda volta che io lo incontro.»
«Lo so, ed è anche la seconda volta che viene in tutta la seconda metà dell’anno!»
Continuammo a chiacchierare; io più che altro lo lasciai parlare, ascoltando con non troppa attenzione quello che diceva. Sentivo solo il suono della sua voce, ancora in fase di sviluppo, e in maniera molto limpida, naturale e indolore capii che mi piaceva molto ascoltarlo parlare. Anche vederlo, se per questo, ma che Daniel fosse un bel ragazzo lo avevo già appurato da tempo.
Restammo insieme finché non finì l’ora di pranzo e potei tornare in classe insieme a Chiara. Doveva aver notato che ero più assente del solito, impensierita da molte cose. Con un’innaturale calma capii cosa mi stava succedendo e la sera, chiuse in camera appena la mia compagna di stanza mi chiese cosa mi prendesse, dovetti ammetterlo.
La diedi vinta alla ragazza. «Chiara, sono cotta.»









Angolo ottuso di un'autrice ottusa
Vi chiedo scusa se avete trovato errori, incoerenze et similia, ma questo capitolo non sono riuscita a rileggerlo causa sconfinata pigrizia e altrettanto sonno - a occhio ho trovato le parti in corsivo e dovrei averle messe tutte. Perdonatemi e segnalate qualsiasi cosa non vi suoni, ma spero di poter rileggere il prima possibile! Ho pubblicato oggi e non tra sabato e domenica perché, con ogni probabilità, durante il finesettimana non avrò modo di usare il computer.
Ho un po' di cose da dirvi:
- breve nota sullo stile: le differenze tra dialoghi, narrazione e descrizione. Mi piacerebbe rendere tutto il più realistico possibile, per questo, per quanto a volte non lo gradisca neanch'io, ci tengo a usare registri diversi tra la prima e le altre due cose: i dialoghi, soprattutto a seconda dei personaggi parlanti, sono su un livello più basso rispetto al resto. Le differenze si notano tra Eleonora e Chiara in primis, ma anche gli altri hanno modi differenti di parlare, chi più rozzamente e chi meno (?). Spero che questa cosa non dia fastidio; a volte non mi piace molto mettermi su un livello ancora più basso, ma dall'altro lato mi diverte l'effetto sortito.
- storia del capitolo perché sì: le prime due pagine tutto liscio. Lo svolgimento è pura agonia: in preda al panico di essere nel mezzo di un blocco tanto improvviso quanto imprevisto, mi sforzo di scrivere almeno qualche riga al giorno pur di non darmi per vinta e la tiro un po’ per le lunghe, scrivendo qualsiasi cosa, anche inutile, mi venga in mente. Arrivata la metà capitolo comprendente il sondaggio e la chiacchiera con Daniel, eh bien, in un giorno scrivo tutto quanto e mi tocca pure rimuovere le parti aggiunte solo per allungare, altrimenti sforavo con la pagina.
- Matt ed Allyn sono due personaggi di Ashura_exarch che molto tempo fa inserii nella ff per una specie di scommessa tra me e lui. Non avranno un ruolo rilevante, fungeranno solo da comparse; in ogni caso mi è parso giusto reinserirli.
Dopo aver parlato fin troppo direi che è ora di ritirarmi nel mio angolino, abbandonado questo ottuso, e ci sentiamo di nuovo il prossimo weekend!
Ink

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Capitolo 11
*** X - Una lettera da casa ***


X
Una lettera da casa

Ci restai quasi male quando Chiara accolse la mia confessione con un banale sorrisetto malizioso e soddisfatto. Disse soltanto: «Ero sicura che prima o poi sarebbe successo.»
Mi irritai subito a causa della sua tranquillità, dopo settimane - se non mesi! - passati a stuzzicarmi, proprio ora che mi aspettavo di essere bersagliata per l’ennesima volta e che ero pure disposta a sottomettermi a tutto quello che mi avrebbe detto. «Ah! E me lo dici così?» scattai infatti. Lei ridacchiò e io proseguii: «Non puoi capire. Quel dannato sorrisetto che ha sempre… non so se lo preferisco quando è beffardo o gentile! Non avevo il coraggio di guardarlo mentre ci parlavo ed ero agitatissima, secondo me ha capito subito che ero imbarazzata come non mai… invece quando riuscivo a guardarlo negli occhi non avevo la forza di smettere. Hai visto che colore hanno, poi?!»
«Sì, sì… blu oltremare mozzafiato, manco fosse uscito da un fumetto per ragazze…»
«Be’, è talmente carino che non è un’ipotesi da scartare!» Mi buttai sul letto e fui tentata di nascondermi la testa sotto il cuscino. «Non capisco… non capisco cosa mi è preso! Gli ho detto pure che finché non ha iniziato ad essere più disponibile nei miei confronti, mi stava antipatico e mi sembrava un menefreghista. E lui prima di questo mi ha detto che gli sto simpatica e… e non ho speranze.»
«Aspetta, aspetta, come hai fatto a deprimerti nel giro di mezzo secondo? E la tua voce, che è successo? Era così sovreccitata ed è calata di tono di botto! Ehi? Ele…?»
«Lasciami in pace.»
«Non ci credo!» esclamò lei. «Sei l’unica che conosco in grado di passare dall’eccitazione alla depressione!»
«Non sono depressa, sono senza speranze. Come sempre.»
Chiara cercò di risollevarmi ma, com’era mia abitudine in situazioni di quel genere, mi abbattevo ritendendomi poco desiderabile e a dir poco insignificante; quella volta non fui da meno. Insistette, provò a scrollarmi le spalle - nonostante fossi distesa sul letto, mi elencò una serie di ragioni per le quali avrei potuto attirare le attenzioni del ragazzetto per cui mi ero presa quella cotta. Fu tutto inutile: decidendo di non avere alcuna possibilità di andare oltre l’amicizia tra me e lui, mi intestardii talmente tanto che Chiara fu la prima a stancarsi di consolarmi.
Daniel mi era piaciuto, al di là del bell’aspetto che non me lo aveva fatto passare inosservato, per il carattere solo apparentemente disinteressato verso tutto e tutti; il suo sorrisetto beffardo mi parve adorabile e l’espressione gentile, di cui tempo prima non lo avrei ritenuto capace, era forse anche meglio. Normalmente una persona così svogliata nei confronti dello studio e della scuola, nei cui confronti era veramente incurante e menefreghista, mi avrebbe infastidita e l’avrei ritenuta poco interessante; ma paragonato alle poche, belle parole che aveva usato per descrivere secondo lui la situazione della guerra, all’aiuto che mi aveva dato e anche a ciò che mi aveva detto, tutto quello perse importanza. Era stato gentile e aveva fatto lo sforzo di conoscermi meglio e accettarmi come sua amica. Le parole sincere che mi aveva rivolto mi avevano fatta innamorare, letteralmente.
Più ci pensavo, più mi pareva che Daniel mi piacesse dal primo giorno in cui i nostri occhi si erano incontrati, con la sua espressività schietta, i suoi modi di fare e di comportarsi, tutti i suoi pregi e i difetti che non riuscivo più a trovare, come se li avessi dimenticati - come se non li avesse mai avuti. Mi chiesi come avrei fatto a sedermi nuovamente accanto a lui nei giorni a venire senza temere di veder schizzare via dal mio petto il mio cuore praticamente impazzito. Eppure l’ultima cosa che avrei voluto al mondo, in quel momento, era allontanarmi da lui per paura di provare sentimenti più forti, meno ingenui di quella che aveva l’aria di essere una normale cottarella adolescenziale. Non sapevo dire se stessi ingigantendo ciò che stavo provando o se fossi veramente innamorata.
Chiara, dopo un po’ di silenzio, blaterò qualcosa a proposito di una tempesta ormonale in corso e quello mi riportò momentaneamente con i piedi per terra. Pian piano mi resi più disposta al dialogo ed espressi verbalmente tutti i pensieri formulati mentre avevo pensato continuamente a Daniel, con il favore del silenzio momentaneo: perché mi piaceva, cosa mi aveva detto e la sensazione che mi piacesse da sempre.
«Posso dire che…?»
«No, non puoi» la interruppi, intuendo di cosa si sarebbe vantata.
Ma lei ghignò e affermò: «Io te lo avevo detto mesi fa.»
Una volta ottenuto il suo scopo, ovvero quello di farmi ammettere che Daniel mi piaceva eccome, Chiara si calmò quasi di colpo e quel cambiamento mi stordì, sulle prime; poi lo considerai una grazia inviatami dal cielo. La pausa invernale sarebbe cominciata sicuramente bene grazie a quella novità.
Ero contenta di prendermi un po’ di tempo per riposare, perché la routine semiscolastica da un bel po’ di tempo non era più piacevole e rassicurante come i primi tempi: una volta fatta l’abitudine a quella realtà, e già da qualche mese non mi dispiaceva più, il pensiero di “andare a scuola” pure in un mondo diverso non era affatto allettante. Non che il tutto non fosse organizzato in maniera molto libera, anzi; ma la sveglia era uguale per tutti, alle sette, se non prima, e già questo mi ricordava in modo stressante la vera atmosfera scolastica.
Ma l’Accademia era tale solo di nome e questo lo avevo imparato subito; ora mi aspettavano tre settimane di pausa e probabilmente avrei anche fermato del tutto, momentaneamente, l’allenamento dei miei Pokémon. Non avevo voglia di crucciarmi ulteriormente al pensiero di lotte andate male, di crescite troppo lente e di esperienza da fare, sia da parte mia che della mia squadra, che era ancora moltissima. Chiara, dal canto suo, non si era mai preoccupata troppo dell’allenamento, fisico o dei Pokémon; per lei sarebbe cambiato poco e nulla.
Passai le mie giornate con la solita compagnia di amici e mi costrinsi a comportarmi nel modo più naturale possibile alla presenza di Daniel. Il ragazzetto non mancò di mettermi, seppur inconsapevolmente, in difficoltà con la nuova ondata di cordialità nei miei confronti, avendo ammesso che gli stavo quantomeno simpatica. Ma quello era qualcosa che io soltanto avrei dovuto imparare a gestire.
Ilenia si avvicinò molto a me - e anche a Chiara - in quei giorni di pausa, più di quanto avesse fatto prima; era sempre stata gentile e solare ma un po’ la differenza d’età, un po’ le attitudini diverse, ci avevano impedito di stringere un tipo di amicizia meno superficiale, che fosse paragonabile a quello tra me e Chiara. Quest’ultima era sempre stata, dai tempi delle medie, la mia migliore amica; non mi aspettavo certo che con Ilenia potessi diventare tanto intima quanto lo ero con lei, eppure scoprimmo di stare così bene insieme che iniziai a pensarla come la sorella maggiore che non avevo mai avuto. Ero figlia unica, così come Chiara.
Non seppi dire come ci riuscì, ma prima del previsto Ilenia capì che verso Daniel riservavo attenzioni e sguardi di un tipo diverso rispetto agli altri. Quando me lo disse arrossii violentemente e le chiesi, balbettando piena di imbarazzo, cosa le suggerisse quel pensiero; lei, ridacchiando, mi aveva scompigliato i capelli con fare affettuoso.
«Sono un’appassionata di storie romantiche, amo tanto leggerne quanto scriverne, per quanto ora non abbia più tempo di farlo» spiegò. «Alla fine sono diventata… esperta nel settore, se così si può dire!»
«Se non è così, significa che sono stata così ingenua che pure Daniel si sarà accorto del fatto che mi piace» dissi, un po’ scocciata un po’ delusa, dopo un attimo di silenzio.
«Non credo se ne sia accorto nessuno, sono l’unica divoratrice seriale di racconti romantici nel nostro gruppo» mi rassicurò Ilenia. «E poi Daniel è così sbadato che sarà l’ultimo a farci caso, se mai succederà!»
«Lui sarebbe sbadato?» chiesi stupita.
«Anche parecchio» sorrise lei. «Ci vuole un po’ per conoscerlo bene: io che l’ho visto arrivare all’Accademia ho imparato molto su di lui solo attraverso Lorenzo, pensa! Però mi sembra che lui ti voglia molto bene, per essere arrivata solo qualche mese fa. Non è detto che non succeda nulla, tra voi due…»
Evitai di rispondere a quella sottile previsione e dissi: «Non so, Daniel all’inizio mi è sembrato un tipo molto superficiale… sarà la centesima volta che lo dico. Parlandoci mi ha fatta cambiare completamente idea, però! Gli unici difetti che riesco a trovargli sono la svogliatezza, soprattutto nei confronti della scuola, il fatto che non sia per nulla divertente con le sue battute stupide… e anche il primo approccio che riserva alle persone; io inizialmente mi sono un po’ offesa, perché sembrava disinteressato da me e Chiara, che eravamo appena arrivate.»
«Ti assicuro che è più sbadato di quanto voglia dare a vedere… in certe situazioni è di una goffaggine unica. A volte i ragazzi carini come lui, attirando non poche pretendenti, sanno come comportarsi in tutte le occasioni che si presentano loro… lui è troppo orgoglioso per ammettere che a volte è in difficoltà per delle sciocchezze.»
Ilenia parlava bene e con naturalezza, come se stesse leggendo a voce alta ed espressiva un libro: ascoltarla mi piaceva ed ero incuriosita dalle sue passioni, che erano la lettura e la scrittura, appunto, ma a cui da tempo aveva praticamente rinunciato. Anche io, d’altronde, da mesi interi non mettevo alla prova la mia voce.
L’occasione per ricominciare a cantare arrivò grazie a Sara. Approfondii molto il rapporto pure con lei, che, dovetti ammetterlo, divenne la mia preferita nel gruppetto composto da lei, Angelica e Melisse. Anche se spesso loro mi piacevano per la loro vivacità, altrettante volte mi rendevo conto che la tranquillità perenne di Sara si addiceva di più al mio carattere rispetto alla rumorosa allegria delle altre due. Invece Chiara non adorava proprio il tono sempre basso e timido della voce di Sara, oltre alla sua leggiadria e alla grazia, innate in ogni suo passo.
Proprio la danza e la sua passione per essa, oltre che per la ginnastica artistica, mi consentì di riesercitare la mia attività preferita, almeno in parte. Al piano sotterraneo dell’istituto, a parte la sala dedicata quasi esclusivamente all’allenamento dei Pokémon, c’era una piccola palestra in cui si accedeva proprio tramite la grande stanza, con i campi in vari tipi di terreno. Di solito usavamo quest’ultima pure per le ore di “educazione fisica”, nonostante i professori di turno preferissero farci sgranchire le gambe all’aperto, sull’isoletta che ospitava l’Accademia difesa e nascosta per intero dalle barriere; nella palestra più piccola i ragazzi si organizzavano per giocare a pallavolo o basket, più di rado calcio, o in genere era una riserva per le stesse ore di allenamento.
Lì Sara passava la maggior parte del tempo libero che aveva a disposizione, spesso seguita da alcuni maestri, e si allenava costantemente con la danza e la ginnastica. Era più appassionata - e brava - nella prima, anche perché non aveva abbastanza massa muscolare per essere una ginnasta coi fiocchi; era magrissima, infatti, e non poco alta. Un fisico inadatto a quella disciplina, eppure lei ci provava lo stesso e otteneva pure ottimi risultati, tanto che mi pareva volteggiasse padroneggiando l’aria e sollevandosi senza difficoltà.
«Chi ti segue durante le lezioni?» le chiesi il primo giorno in cui ci mettemmo d’accordo per andare insieme.
«Erika e Valérie mi aiutano con la danza, Anemone con la ginnastica e talvolta anche Sandra, che non va affatto male con questo sport. Oppure vengo insieme a Melisse, anche a lei piace ballare. Angelica è proprio negata, credo che l’allenamento fisico per lei equivalga ad una tortura» ridacchiò poi, serenamente. La sua risatina leggera e argentina mi faceva venire i brividi, soprattutto di piacere, nell’ascoltarla; un po’, però, mi facevano uno strano effetto, come se una nota triste e malinconica la tradisse e desse a quel suono un sapore amaro.
«Be’, d’altronde mi sembrava di aver capito che Angelica avesse già deciso di sedersi davanti a un computer per il resto della sua carriera in guerra!» ribattei sorridendo.
«Tu, Eleonora? A quali livelli cantavi prima di venire qui?» si interessò.
«Ah… non prendevo proprio lezioni: cantavo più per piacere mio che per farlo diventare una professione. Però già da questo penso tu abbia capito che il mio è un talento, e meno male, perché credo sia l’unico che ho.» Sara mi guardò male e per un po’ battibeccammo, lei nel tentativo di elencarmi altre mie qualità che io puntualmente non confermai. Ripresi il discorso: «Comunque, stavo dicendo… vuoi per una certa timidezza, vuoi per la proverbiale mia pigrizia, non avevo voglia di prendere lezioni seriamente. Mi hanno sempre detto che ho una notevole estensione vocale e che potrei provare il canto lirico… e in effetti iniziavo ad avere intenzione di provare appena cominciata la scuola, ma poi sono arrivata qui» scrollai le spalle infine.
Sara per un po’ stette in silenzio e non replicò nulla. Poi mormorò: «Mi dispiace.»
Il suo tono infinitamente mogio mi spinse a guardarla con attenzione: tutto in lei, dalla postura all’espressione, mi stava mostrando una tristezza vera e sincera. Temetti addirittura che la ragazza fosse sull’orlo delle lacrime e non ne compresi il motivo, perché mi sembrava assurdo ed esagerato che piangesse per me.
«E… ehi! Che hai? Non è un problema, sono contenta così…!»
«È che» mi interruppe lei con inaudita fermezza, o forse fu il suo tono rammaricato a bloccarmi, «non avresti dovuto essere chiamata anche tu a combattere questa guerra, tu come anche Chiara… e altre centinaia di innocenti che sono stati presi o da noi, o dal Nemico.»
Ci misi un po’ per articolare le parole: «Credo che questo sia stato inevitabile. Il Nemico non ci ha messo niente per far notare a me e Chiara che qualcosa, nella nostra realtà, non andava, e quindi attirarci in questo mondo… che ritengo molto più reale, e per questo più duro e severo, rispetto all’altro. A volte penso che sarebbe meglio se tutto il mondo si unificasse sotto l’influenza dei Pokémon… non credi che così avremmo una possibilità di vittoria?»
«Non lo so. Sinceramente, non lo so proprio, non mi intendo di queste cose… ma se quello che dici tu fosse la soluzione alla guerra, se in questo modo ragazzini innocenti non fossero più strappati alle loro famiglie, allora io vorrei dare il massimo per far sì che questo avvenga.»
«Il mio è solo un pensiero che i piani alti delle Forze del Bene avranno formulato all’inizio della guerra intera… ma hanno preferito dividere due realtà. Quali saranno questi motivi, ancora non l’ho capito. Per il momento mi voglio fidare e basta… appena avrò più esperienza e sicurezza, sta’ certa che ne discuteremo nuovamente!»
Sara ridacchiò e troncammo lì quella conversazione. Ero ancora stupita a causa del suo comportamento, così solidale e comprensivo da arrivare a rattristarsi per me in un modo che nemmeno io avevo mai fatto. Mi chiesi quale fosse la sua, di storia, cosa avesse passato prima di arrivare all’Accademia. Fui tentata di chiederle come facesse ad avere la chioma bianca, piena di ciocche azzurre e blu, senza fare la tinta: e soprattutto perché fosse così apparentemente perfetta. Qualche ciocca sembrava addirittura trasparente, altre striate di capelli argentei; avrei potuto benissimo soprannominarla “principessa delle nevi”.
Scoprii che noi due avevamo gusti musicali parecchio simili, così conoscevo gran parte delle canzoni che Sara preferiva e su cui aveva costruito qualche coreografia. Mentre io cantavo e rieducavo la mia voce, lei danzava e riportava alla memoria i passi creati tempo addietro: mischiando vari stili di danza e più d’una disciplina sportiva, mentre io con sorprendente facilità riprendevo a raggiungere delle note senza esitazione, passammo un’oretta bellissima senza parlarci praticamente mai, soltanto stando in compagnia l’una dell’altra. Non seppi giudicare il livello di Sara, ma la ritenni comunque bravissima; così come lei, probabilmente, pensò di me.
Alla fine dell’ora passata assieme io non riuscivo a parlare a voce decentemente alta e lei era parecchio stanca - mi disse che la sua resistenza era molto scarsa e che di solito faceva lunghe pause tra un pezzo e l’altro, ma aveva voluto seguire in tutto me, che avevo continuato a cantare con brevi interruzioni, giusto per chiederle quale altre canzoni voleva che cantassi o se dovevo ripetere la stessa.
Così il rapporto tra me e Sara si rafforzò, allo stesso modo di quello che avevo con Ilenia, mentre l’amicizia con Chiara rimaneva solida. Continuai a vedermi con Gold ma lottammo poco e niente in quei giorni; l’altro ragazzo con cui strinsi un bel rapporto era proprio Daniel, che senza andare oltre l’amicizia si avvicinò molto a me. La cosa mi rese molto contenta perché per me già era un bel traguardo il fatto che avesse con me tanta confidenza quanta ne aveva con Cynthia, per esempio, anche se era più giusto paragonarmi a Melisse.
Solo dopo molto tempo mi permisi di scherzare con Daniel e lanciargli amichevoli frecciatine come faceva l’altra ragazza, e fu quando iniziammo a definirci entrambi migliori amici. La mia situazione era parecchio brutta, innamorarsi del proprio migliore amico è sempre stato uno degli errori più gravi che una ragazza, o donna, possa commettere; ma mi convinsi a ritenermi più fortunata rispetto a una realtà in cui Daniel non mi avrebbe calcolata per niente e in cui avrei passato il tempo a struggermi e a non parlargli.
L’anno nuovo non si festeggiò in alcun modo, così come non c’era modo di celebrare i compleanni dei propri amici: scoprii solo in quei giorni, infatti, che Daniel era nato agli inizi di novembre con sette mesi precisi di differenza da me - che ero del giugno dell’anno successivo; il pensiero di avergli parlato il giorno del suo compleanno senza averlo saputo mi imbarazzò, ma non me ne preoccupai più di tanto perché era passato molto tempo. Lo stesso ovviamente si poteva dire per gli altri miei amici.
Una mattina dell’ultima settimana libera che avevamo, mentre bighellonavo in giro per l’istituto insieme ad alcune delle solite amiche, Chiara venne separata dal nostro gruppo. Bianca, che salutai amichevolmente, le chiese di seguirla; mi parve piuttosto triste e preoccupata, a malapena ricambiò il mio cordiale “ciao!”. La mia migliore amica si assentò per gran parte della giornata e non la rividi neanche a pranzo. Iniziai a preoccuparmi.
«Avete visto Chiara?»
Posi quella stessa domanda a Sara, Angelica, Melisse e al gruppo di Ilenia. Nessuno seppe dirmi nulla ma tutti si interessarono: la mia risposta, in linea di massima, fu: «Stamattina verso le dieci, quindi abbastanza presto, è stata presa in disparte da Bianca. O almeno questo era quello che mi era sembrato all’inizio: sono passate più di tre ore e non riesco a trovarla, nonostante mi sia fatta un paio di giri…»
«Be’, è strano. Dev’essere una cosa che riguarda solo lei, e non capisco il perché, essendo voi due arrivate qui insieme e nelle stesse circostanze» disse in particolare Daniel.
Annuii e non seppi ribattere nulla. Iniziammo a parlare di altro, nonostante i miei pensieri fossero concentrati sulla momentanea scomparsa di Chiara. Finito il pranzo, fermai Gold e chiesi pure a lui se avesse notato Chiara. In fondo era il cugino di Bianca e come noi proveniva da Nevepoli; le probabilità che sapesse qualcosa erano più alte, anche se comunque scarse. «Prima ho incontrato mia cugina, in effetti, e non aveva un gran bell’aspetto. Non lo ha quasi mai, ma questo è un dettaglio» borbottò. «Non ho visto Chiara con lei, comunque. Hai detto che è da prima che non la vedi? Può darsi che sia in presidenza; non ti saprei dire il motivo, ma ti consiglio di aspettare che torni lei e non andare tu stessa a vedere cosa succede.»
«Va bene» replicai, ugualmente delusa dal risultato della conversazione. Tanto per scambiare altre due parole e dare a Chiara il tempo di ripresentarsi, gli chiesi: «Come mai dici che Bianca non ha mai… una buona cera?»
«La guerra, dopo qualche tempo, l’ha fatta cadere in depressione. È una cosa normale, soprattutto perché il suo ramo della famiglia è andato praticamente distrutto, e lei si è dovuta allontanare da quanti sono stati risparmiati dal Nemico per evitare ulteriori danni. Ma non era solo per questo… proprio non accettava l’idea di dover lottare contro un’organizzazione tanto grande e terribile, di dover dire addio alla sua vita di tutti i giorni, al suo ruolo di Capopalestra, e di veder cambiare il mondo… pian piano si è ripresa. Le Forze del Bene le hanno creato una solida protezione nascondendo casa sua nel quartiere nord, poi io sono stato mandato a vivere con lei quando avevo più o meno dieci anni. Ha superato la depressione anche per aiutarmi… le sono molto riconoscente per questo. È meno forte di quanto voglia dare a vedere, ma come attrice è un disastro e si capisce facilmente.»
Con il senno di poi non riuscii a fare niente che non fosse dispiacermi per quello che mi aveva detto Gold: non ero ancora abbastanza matura per realizzare cosa volesse dire cadere in depressione, perdere i propri cari, mutare radicalmente stile di vita. Soprattutto quando si era adulti e non ragazzini come me, dall’animo e dal carattere ancora in via di formazione, malleabili. Io non mi sconvolgevo più di niente, ormai avevo perso la capacità di fare una vita senza Pokémon; in più le mie giornate erano così piene, in genere, che i pensieri più complessi e intimi che avevo formulato erano stati quelli con cui avevo risposto al sondaggio di qualche settimana prima. Ma neppure in quel momento, in teoria libero, che avevo grazie alla sospensione dell’“attività didattica”, riuscii a soffermarmi su quanto raccontato da Gold. Ero ancora in pensiero per Chiara e non la trovai in camera al mio ritorno dalla mensa.
“Dove l’ha portata?” era la domanda che continuavo a ripetermi. Uscii subito dalla stanza, non avendo alcun motivo per cui rimanerci dentro da sola; Altair mi faceva compagnia appollaiata sulla mia spalla. Inizialmente aveva passato il tempo a sonnecchiare, era piuttosto dormigliona, soprattutto in quei giorni invernali; poi si era svegliata del tutto notando che la sua cara Allenatrice era preoccupata per qualcosa - stupendo anche la stessa, che non si aspettava ancora tanta sensibilità da una pallina di volatile decorata con piume, cotone e ovatta.
«Altair, ci è scomparsa Chiara» borbottai a mezza voce. «Secondo te dove potrebbe essere?»
Ancora non mi era molto chiaro se i Pokémon capissero il linguaggio umano o no: i professori mi avevano sempre risposto che alcuni erano in grado di “tradurlo”, altri interpretavano quasi sempre correttamente, altri si basavano perlopiù sul linguaggio del corpo e sull’espressione umana… e non mancavano, ovviamente, Pokémon che non erano in grado di capire gli umani, se non quando ricevevano l’ordine di utilizzare una mossa; ma questi erano quasi sempre i selvatici, o quelli appena catturati. In genere un Pokémon, iniziando la sua crescita nella compagnia umana, imparava anche a relazionarsi con un mondo che era sempre stato tanto differente.
Incontrai Angelica e Melisse, che s’erano attardate nella mensa, e le accompagnai nella sala sotterranea per dare a Chiara ulteriore tempo per farsi nuovamente viva. Assistetti alla lotta tra Meganium e Serperior, poi fu il turno di Blaziken e Mismagius, Gardevoir e Pachirisu, infine Lapras e Honchkrow - i primi erano i Pokémon di Angie, gli altri quelli della mora, che vinse tre round su quattro, perdendo soltanto il terzo, anche se l’avevano tirata per le lunghe entrambe. Decisi di tornare in camera: era passata mezz’ora.
Finalmente trovai Chiara, ma di certo non mi aspettavo di vederle in volto un’espressione lacrimante, quasi stupita di essere stata sorpresa finalmente nella stanza, e poi mortificata. Sobbalzai: poche volte, forse mai, l’avevo vista in simili condizioni. «Chià! Che cosa è successo? Che hai?!»
Si morse il labbro inferiore per ricacciare indietro ulteriori lacrime, ma appena mi avvicinai e sedetti accanto a lei sul letto riprese a piangere: non singhiozzava rumorosamente ma le lacrime scendevano tanto copiose quanto silenziose, mentre di tanto in tanto lanciava qualche inevitabile gemito. Mi alzai un momento dopo essermi messa accanto a lei e le procurai subito un fazzoletto, che accettò ben volentieri. Passarono sgradevoli, interi minuti di silenzio, riempiti solo dal suo soffiarsi il naso mentre io la guardavo insistentemente, non riuscendo ad indovinare cosa la turbasse tanto da farla piangere.
Quando fu in grado di parlare, pur continuando a piangere, balbettò più volte il mio nome: «Non… nemmeno ci credevo, Ele… E-Eleonora… adesso non… non so cosa fare! Io, io…»
Aspettai impazientemente che riuscisse a dire altro, e appena lo fece capii che non ero assolutamente preparata ad una cosa del genere, il cui pensiero non mi aveva sfiorata neanche lontanamente. Avrei voluto avere del tempo in più per poter immaginare quella cosa, che arrivò troppo presto e mi colse impreparata. Iniziando a singhiozzare seriamente, con molta difficoltà Chiara disse: «Mi è arrivata una lettera da casa.»
Gelai sul colpo. Non sapevo dire se per la notizia in sé o perché solo a lei era arrivata una lettera, un segnale che a casa sua i genitori non volevano rassegnarsi all’aver dovuto dire addio alla propria unica figlia. Intimamente reagii molto male, perché oltre a mortificarmi per quello che era successo e sull’effetto prodotto su Chiara, dovetti frenare la domanda tagliente e cruda: “E a me non hanno scritto nulla?” Non fu il massimo, comunque, neanche il mio comportamento esteriore. Infatti non dissi nulla: bloccata dalla domanda che mi stava dando parecchio filo da torcere, nessuna parola di consolazione o domanda gentile riuscì ad essere formulata dalla mia mente.
L’irritazione per essere stata totalmente ignorata dai miei genitori lasciò presto il posto alla preoccupazione: mi chiesi subito se non fosse successo loro qualcosa. In caso di risposta affermativa, sarei corsa in presidenza e avrei allertato Aristide, o perlomeno gli avrei chiesto di fare qualcosa, controllare; se la risposta fosse stata di no, non mi negai la possibilità di arrabbiarmi. Soprattutto a causa dell’invidia irrefrenabile nei confronti di Chiara. “Cos’è, i miei sono contenti di essersi liberati di me? Va bene, con loro non ho mai avuto un rapporto idilliaco, il mio carattere è sempre stato difficile… nei loro confronti sono sempre stata piuttosto ribelle, così come con altri tipi di autorità… ma sono la loro figlia, tra l’altro la sola che hanno! È mai possibile? Perché Chiara è stata contattata dai suoi genitori e io non dai miei? I mezzi… il mezzo è stata la lettera, e…”
Arrivò così la prima domanda che riuscii a porre a Chiara. «Come hanno fatto a fartela arrivare?»
Lei, sempre con una certa difficoltà, mi spiegò che alcuni agenti delle Forze del Bene di ronda nella città, anche per controllare - come avevano già fatto altre volte - lo stato delle barriere che mesi prima erano state vulnerabili, erano stati individuati dai suoi genitori e riconosciuti, perché un paio di loro erano gli stessi che avevano portato a casa di Chiara la micidiale notizia della sua partenza improvvisa. Così, dopo una terribile scenata, i genitori erano stati messi al corrente delle buone condizioni della propria figlia - non che quegli agenti sapessero di chi si stesse parlando, comunque - e che potevano farle arrivare qualcosa da parte loro.
Frettolosamente e di getto, in preda all’ansia e al sollievo di sapere che Chiara stava bene, ma anche alla paura, avevano buttato giù una lettera per lei. Gli agenti delle Forze del Bene avevano contattato Bianca, sapendo che lei era stata sicuramente a contatto con la ragazzina in questione, e le avevano chiesto di portare il messaggio alla loro figlia: tutto questo era avvenuto il giorno prima. La mattina stessa, invece, Bianca era venuta all’Accademia.
Le stavo per chiedere cosa le avessero scritto, ma lei mi anticipò. Non mi disse niente: tirò fuori dalla tasca sul retro dei pantaloni un paio di fogli tutti spiegazzati, che mi descrisse come la copia l’uno della missiva dei genitori, l’altro della sua sentita, confusa risposta. «Non sapevo cosa dire. Sono stata tutta la mattinata a rileggere la loro lettera cercando di trovare qualcosa da scrivere… ma non ci riuscivo! Ho pianto per la metà del tempo e mi sono vergognata un sacco… alla fine, tre quarti della risposta l’avranno scritti Aristide e Bianca! Penso di aver soltanto firmato e detto “Cari mamma e papà”, mi sento uno schifo!»
Ascoltando a metà le sue parole, iniziai a leggere, non ad alta voce, la lettera dei suoi genitori, ancora senza capire perché i miei non mi avessero voluto riservare la stessa attenzione.

“Chiara, stella nostra!
Non abbiamo creduto ai nostri occhi nell’incontrare gli stessi uomini che ci portarono la terribile notizia del tuo addio, tanto improvviso quanto inaspettato. Ci è stato detto così poco di te, è dall’inizio di settembre che viviamo nell’angoscia che ti possa essere successo qualcosa. Non abbiamo alcuna idea di cosa tu stia facendo, di dove tu sia, se a Sinnoh o oltre l’oceano… la nostra unica speranza era che stessi bene, ovunque fossi. Ci sono ancora migliaia di domande che ci poniamo e a cui ci è stata rifiutata una risposta, ma gli uomini a cui abbiamo parlato si sono dimostrati impossibili da convincere: ormai riteniamo già una fortuna che ci sia stato concesso il lusso di poterti inviare un messaggio, sperando che ti venga recapitato e che ci sia anche una tua risposta.
Uno dei dubbi ai quali, probabilmente, non ci verrà mai data una spiegazione, è questo: perché te ne sei andata? Cosa ti ha spinta ad abbandonare la tua famiglia e la nostra casa? Ad amici di famiglia e parenti abbiamo detto ciò che ci è stato riferito, ovvero che sei in un’accademia particolare, di giovani talenti o qualcosa di simile. Ma noi non abbiamo idea di dove tu possa essere mandata, anche perché, francamente, non hai mostrato una particolare attitudine per qualche tipo d’arte, a meno che tu non sia stata molto abile nel nascondercelo! Pure questo, però, ci sembra improbabile e odora di falso. Ti conosciamo, Chiara, e non sei proprio il tipo: allora, se ci può essere rivelata una minima parte del vero, puoi concenderci di saperla? Le persone con cui abbiamo parlato non si sono mostrate disponibili, e con i loro comportamenti ci hanno fatto capire che, se non saremo il più docili possibile nei loro confronti, l’equilibrio della situazione sarà irrimediabilmente rovinato.
Per il tuo bene, Chiara, ci sottomettiamo e ci accontentiamo di quel poco che due genitori possono avere, ma che a quanto pare è un dono prezioso che ci è stato fatto. La questione è oltremodo sospetta e questo ci preoccupa, ma se tu stai bene siamo disposti a rinunciare a una battaglia già persa. Non possiamo fare a meno di chiederci chi siano queste persone, cosa vogliano da te, quale sia la tua nuova occupazione… stai studiando? Ti dedichi a delle arti, al tuo talento sconosciuto? Dicci qualcosa, Chiara; e se proprio non puoi, almeno un saluto, una rassicurazione per i tuoi genitori in pena e terrorizzati al pensiero che la propria bambina possa essere in una situazione difficile, o addirittura in pericolo. I nostri timori sono tanti e solo una tua eventuale risposta può smettere di farci struggere fino alla follia. Ti amiamo, Chiara; ti amiamo anche se ci hai lasciati, qualunque sia la ragione, se esterna o interna alla nostra famiglia.”

E poi la sua risposta - o meglio, quella di Aristide e Bianca per suo conto:

“Cari mamma e papà,
è molto difficile rispondere a questa lettera. Sentirvi mi ha commossa e sconvolta, perché credevo che i rapporti tra di noi fossero inevitabilmente andati perduti. La colpa, e su questo dovete starne certi, non è né vostra né mia: una forza esterna alla nostra famiglia, di cui non ho mai avuto ragione di lamentarmi seriamente, mi ha chiesto di lasciare la mia città e tutta la vecchia routine.
Mi mancate moltissimo. I primi tempi è stata davvero dura. Non posso dirvi dove sono, né con chi, né cosa sto facendo, ed è davvero triste non potervi rendere partecipi: posso solo lontanamente immaginare quale sia il vostro stato d’animo nel non sapere niente della corrente situazione di vostra figlia. Ma vi posso assicurare che sto bene, sono felice e a mio agio: inizialmente, l’ho detto, è stato difficile ambientarmi in questo nuovo posto, una realtà del tutto diversa da quella che per tredici anni ho vissuto a Nevepoli. Personalmente, sono contenta che abbiate avuto modo di mettervi in contatto con me, perché probabilmente se l’avessi chiesto io ai miei superiori mi sarebbe stata negata la possibilità; ma sono molto contenta di potervi rispondere e tranquillizzare, o perlomeno sperare di farlo.
Non ho idea di cos’altro possa dirvi, avendo poco e nulla di cui parlare in libertà. La perdita della mia vecchia realtà, la casa, la città e soprattutto voi, la mia famiglia, i primi tempi è stata causa di un gigantesco disagio. La nostalgia era terribile. Ma ho fatto nuove conoscenze, con persone diverse tra loro ma indistintamente davvero interessanti. Il luogo in cui mi trovo ha lati positivi e negativi: tra i primi, spicca la sicurezza e l’efficienza di chi ci lavora - io sono una specie di studente, ora. Tra i secondi, indubbiamente, c’è l’impossibilità a riprendere veri contatti con il passato, per quanto uno ne abbia bisogno.
Mi spiace per quello che avete dovuto fare, chissà quanti non vi hanno creduto sul mio conto! Ora però potete rassicurare quanti avete trovato troppo increduli mostrando questa mia lettera, ne avete l’autorizzazione. La firmo con la totale consapevolezza delle mie azioni e d’accordo con i miei superiori, che mi hanno aiutata a stenderla e sono stati un freno necessario, per evitare che combinassi qualche guaio dei miei. Ancora non sono molto esperta, ma i passi in avanti fatti in soli quattro mesi hanno stupito tutti, me in primis.
Vi voglio bene,
Chiara”

Ripiegai i fogli stringendo i denti e trattenendo a fatica pensieri e lamentele che avrei voluto rovesciare fuori di me; ma, poiché volevo a Chiara un bene infinito, mi costrinsi a non notare ad alta voce che non ero stata nominata nemmeno una volta, come se i nostri genitori non si fossero detti nulla a proposito di noi. Avevo le sopracciglia corrucciate ed evitavo di guardare la mia amica, certa che se l’avessi fatto l’avrei incenerita con gli occhi, lucidi di invidia e turbati da molte emozioni e altrettante domande.
«La tua è una buona risposta» dissi meccanicamente, «ma è palese che non sia stata tu a scriverla.»
«Io… eh, ma almeno… ho letto e firmato, mi va bene quello che hanno detto Aristide e Bianca.» Si era calmata, almeno momentaneamente. «Dovrebbero credermi… o almeno spero. La firma è mia… ho usato la stessa grafia di mesi fa, dovrebbero riconoscerla, spero» ripeté. «Non lo so. È gia qualcosa.»
«Scusa se te lo chiedo, ma come mai ti sei turbata così tanto?»
Mi stupii del fatto che non avesse colto la freddezza nella mia voce. «Perché sono combattuta. Non so se tornare a casa o continuare a stare qui.»
«Stai scherzando?»
«No… cioè, ecco…» balbettò. «Da una parte vorrei davvero tornare a casa. Per l’amor del cielo, siamo in guerra! Rischio la vita ogni giorno essendo nelle Forze del Bene, se fossimo state prese dal Nemico non avremmo corso il pericolo di morire in ogni momento, non essendo contrapposte a dei pazzi psicopatici che torturano ragazzini e Pokémon, ragazzini che potremmo essere noi, un giorno… Dall’altra parte mi sono troppo legata a questa realtà per desiderare di andarmene senza grandi ripensamenti. La guerra… sì, va bene, cioè, va male…! Ma tu come me, Eleonora, sai bene quanto ci siamo affezionate ai Pokémon, ai nostri nuovi amici, umani e non… i miglioramenti fatti, le cose che abbiamo perso, le rinunce, sicuramente da qualche punto di vista siamo peggiorate per adattarci al nuovo mondo in cui siamo finite… ma è più forte di me: non riesco a voler davvero andarmene.»
Lasciai passare qualche momento di silenzio. Ogni cosa di ciò che disse non mi stupì, perché erano tutti pensieri che a mio tempo avevo già formulato ponendomi la questione: “Se potessi tornare a casa, abbandonerei il mondo dei Pokémon in cui mi sto trovando così bene?” La situazione era più complessa di quanto sembrasse, perché da un lato avevamo il nido familiare, dall’altro la guerra che metteva in dubbio la nostra esistenza futura.
Dissi a Chiara: «Penso che non avrebbe senso tornare a casa. Possono anche farci dimenticare di aver posseduto dei Pokémon, dell’esistenza di una società a sé stante negli stessi confini del nostro pianeta… ma chi ci dice che prima o poi non rivivremo qualcosa di simile a quanto successo quel venerdì, primo di settembre? Se il Nemico ci volesse riprovare e tentasse di rapirci, con lo stesso trucchetto o meno, sta’ sicura che ce la farà. Non voglio rivivere più d’una volta quanto ci è successo. Sto bene così; io rimango, non so te… ma spero non te ne andrai.»
«Eleonora…» mormorò Chiara, di nuovo con le lacrime agli occhi.
La guardai con severità, distanza e freddezza: l’accusavo di essere ancora nei cuori dei suoi genitori, che tanto ardentemente avevano voluto ricontattarla, mentre i miei nemmeno si erano interessati a me. Non trovavo una spiegazione logica a questo: le nostre famiglie erano in ottimi rapporti, si sentivano abitualmente. Possibile che i miei genitori mi avessero abbandonata a me stessa, o che non si fossero detti niente con quelli di Chiara?
«Mio padre e mia madre…» sussurrai, alzandomi in piedi e prendendo la cintura con le Poké Ball. «Loro non mi hanno scritto niente. Quale sia il motivo, non lo so, e visto che mi vogliono lasciare con questo dubbio… mi tocca rassegnarmi a non scoprirlo mai, credo.» La mia voce s’incrinò; tirai su col naso e aspettai qualche momento prima di riprendere a parlare. «Ma… ma non è perché i miei genitori non mi hanno contattata che voglio restare, di questo sono sicura. Continuerò a far parte di quest’Accademia, a stare dentro la campana di vetro e poi nel mezzo della guerra, perché… è quello che voglio fare. Sono solo una ragazzina, ma a quanto pare è arrivato il momento di prendere queste decisioni da sola… forse troppo presto…» sbuffai con un sorriso amareggiato.
Non so se quelle parole tanto intime e pesanti le immaginai soltanto o se le dissi davvero, trovando chissà dove la forza per pronunciarle. Ero stata urtata violentemente da quel fatto e, mi resi conto, l’ultima cosa che volevo in quel momento era rimanere nella stessa stanza della ragazza i cui genitori si erano fatti sentire. Lì per lì non mi sentii in colpa; in seguito ci ripensai, ma in quel momento, per me, esistevo soltanto io e le mie emozioni. Una botta d’egocentrismo forse non mi avrebbe fatto male, o forse sì, ma fu una delle poche che ebbi a quei tempi.
Chiara mi chiese: «Perché ti sei alzata?»
Scrollai le spalle. «Vado a farmi un giro.»
Uscii dalla stanza lasciandola con un palmo di naso. Non sapevo nemmeno io dove sarei andata, né a fare cosa, chi avrei voluto vedere in quel momento. L’unica cosa che mi avrebbe interessata sarebbe stata una lettera dei miei genitori a cui rispondere con la felicità nell’animo per saperli ancora in buone condizioni.
“Invece pare che il brutto colpo di essere stati separati dalla propria figlia sia passato velocemente, eh?” Tirai di nuovo su col naso e mi passai il dorso di una mano sugli occhi.
Incontrai Daniel e non potei fare a meno di parlargli di cosa era successo. Ci rimase sinceramente male ma non seppe darmi alcuna risposta, non riuscì ad ipotizzare una ragione per cui i miei genitori non mi avessero scritto qualcosa, nonostante forse un estraneo alla situazione potesse ragionare lucidamente e trovare motivazioni che io, da offesa, non avevo lontanamente immaginato.
Ma non m’importò nulla della sua incapacità nel consolarmi, non era davvero quello che volevo. Gli dissi che stavo male e lui mi abbracciò subito per confortarmi. Quel piccolo gesto, per lui forse, sicuramente, automatico, fu per me di grande valore. Ricambiai con forza la sua stretta gentile e lo ringraziai per avermi ascoltata; lui, sorridendo, mi invitò a parlargli di qualsiasi cosa mi stesse turbando, se ne avevo voglia, perché sarebbe stato un piacere cercare di aiutarmi.
Avrei voluto davvero parlargli più approfonditamente, ma non ci riuscii. Era meglio lasciar perdere, quella volta, e far finta che non fosse successo nulla, come se questo potesse essere di qualche utilità. Avrei potuto parlare con Bianca o Aristide, ma non lo feci perché mi sentii ostile nei confronti di entrambi, così come sentii di starlo diventando anche al pensiero dei miei genitori. Non sapevo cosa mi stesse succedendo: la risposta, che trovai solo in seguito, era che la mia corazza si stava sviluppando più velocemente e che, grazie ad essa, avrei potuto pensare con meno ansia e paura ai problemi che si sarebbero posti in seguito, perché sarei stata protetta da me stessa.
Perché Bianca era caduta in depressione, come tanti altri, a causa della guerra? Perché contraddicevo il mio desiderio di ricevere notizie da casa? Perché in quel nuovo mondo mi sentivo così a mio agio? Per quali motivi i miei genitori non avevano cercato un contatto con me? Le risposte a tutte queste domande le trovai in seguito e spesso mi toccò anche aspettare mesi, quasi anni interi, per cancellare quei vecchi interrogativi dai miei pensieri e concentrarmi su quelli nuovi.

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Capitolo 12
*** XI - Nuove conoscenze ***


XI
Nuove conoscenze

I mesi di gennaio e febbraio mi diedero a malapena la possibilità di realizzare che, in un modo o nell’altro, li avevo trascorsi e vissuti. Volarono via silenziosi e tanto velocemente che mi stranii molto quando la data segnata dal PokéGear, a cui facevo riferimento, indicò che era arrivato il terzo mese dell’anno.
All’interno dell’Accademia non c’erano grosse differenze di temperatura tra una stagione e l’altra, ma a marzo l’ambiente interno riprese a riscaldarsi: per molti facili al prendersi un raffreddore fu un problema, perché bastava uscire un momento fuori per essere colpiti da una ventata d’aria congelante e saltare tre giorni di lezione a causa di una febbre improvvisa. Successe anche a me: non fui molto malata, il picco che arrivai a toccare non superò i trentanove gradi, ma di certo fu una bella seccatura.
Stando a quanto dicevano le schede dei miei Pokémon sul Dex, la mia June era momentaneamente diventata la caposquadra, essendo arrivata al livello 28; poco più sotto di lei si trovavano Altair e Rocky a parimerito, mentre gli altri tre erano al 26. Volevo aspettare ancora un paio di livelli per far evolvere Aramis in Gallade, ostinandomi contro la parte di me stessa che non vedeva l’ora di avere un Pokémon completamente evoluto; pensai, invece, di chiedere una Pietrabrillo per Roselia, così da farla crescere prima degli altri.
Talvolta Aramis si comportava in maniera incomprensibile per me e per quanti mi stavano attorno, perché non gradiva affatto il suo aspetto femminile; era parecchio irritato nei miei confronti poiché ancora volevo aspettare del tempo per farlo evolvere. Dopo un paio di settimane dall’inizio di marzo, June era già una Roserade a cui avevo insegnato delle belle mosse sfruttando qualche MT; però l’isteria di Aramis arrivò a livelli talmente critici che, appena il Pokédex lo confermò al livello 27, gli appioppai tra le manine una Pietralbore e qualche momento dopo mi ritrovai a guardare negli occhi un Gallade più alto di me.
«Piacere, mi chiamo Eleonora. Per caso hai visto in giro un Kirlia maschio con pesanti crisi d’identità? È uno dei miei Pokémon ma non lo vedo più…» feci con un filo di voce. Aramis mi guardò male.
Gallade si dimostrò essere un Pokémon tanto forte quanto bello. Mi piaceva davvero tanto e anche a lui feci imparare mosse niente male. Finalmente il suo portentoso Attacco si sviluppò, tutto insieme con l’evoluzione, e dei Pokémon dei miei compagni di classe, che fino a qualche giorno prima mi avevano dato parecchio filo da torcere, furono sbaragliati dalla potenza della creatura umanoide, la cui combinazione di tipi mi piacque molto - Psico e Lotta. Anche Roserade ebbe modo di farsi valere, i due erano praticamente alla pari; però dopo qualche combattimento smisi di approfittarmi della loro superpotenza per riprendere con Altair, Rocky, Diamond e Pearl.
Anche i Pokémon dei miei amici crescevano e si evolvevano, ed ebbi sempre più spesso modo di combattere pure con Sara, Angie e Melisse. Non ero ancora al loro livello ma di tanto in tanto riuscii a spuntarla; tenni testa anche a Gold, il quale dovette industriarsi con attenzione, vedendo i progressi che avevo fatto. Provai pure una lotta con Daniel ma mi stracciò tanto malamente che non mi rimase altra possibilità che ridere sconsolata.
«Ehi! Mica ti sarai offesa?» mi chiese apparentemente preoccupato.
«No no. Assolutamente» dissi mentre continuavo a ridere.
Nonostante gli impegni scolastici più o meno gravosi, comunque, trovai spesso il tempo di ripensare al fatto che i miei genitori non mi avessero scritto mezza riga per sapere come stavo. Non ero disposta né ad essere offesa, ma anche arrabbiata e preoccupata, per il resto dei miei giorni, né a perdonare questa “mancanza” da parte dei miei: com’era possibile che non avessero saputo nulla dai genitori di Chiara? Perché questi non mi avevano nominata nella loro lettera? Non potevano non sapere che me n’ero andata, peraltro insieme alla loro figlia: frequentandosi abitualmente con i miei genitori era impossibile che non fossero venuti a sapere nulla di me e che non avessero sospettato che io e Chiara fossimo finite nella stessa situazione.
Mi dovetti rassegnare ad aspettare una risposta che, se mai fosse arrivata, mi sarebbe stata mandata da mamma e papà stessi; smisi di preoccuparmi perché, anche se fosse successo loro qualcosa, mi aspettavo che Aristide e la sua compagnia avessero la decenza di sorvegliare le nostre famiglie e informarmi. Il dubbio di quanto accaduto rimase per parecchio tempo e passai molti altri mesi ad arrovellarmi su quel pensiero che mi impegnava molto.
Mi occupavano altrettanto anche altre cose con cui convivevo ogni giorno: la cotta che m’ero presa per Daniel e che non accennava a scemare, la gestione della mia squadra di Pokémon, le amicizie e anche il lavoro che stavo facendo con me stessa, soprattutto fisico. Prendendo spunto dall’impegno e dalla capacità dei Pokémon di crescere imparando a combattere e potenziandosi, un minimo di spirito agonistico era nato addirittura in una come me, seppur prettamente limitato al campo dello sport. Scoprii di essere piuttosto versata per la corsa in velocità anche se avevo parecchio da lavorare sulla resistenza; migliorai molto anche quell’aspetto, comunque, con l’aiuto della severa Sandra e di altri deputati all’allenamento di noi ragazzi, come Rocco, Camilla e il temibile generale Surge.
Mi ero rafforzata parecchio, sia dal punto di vista caratteriale che da quello fisico, in relativamente poco tempo. Eppure mi sembrava un sogno che fossero passati già sei mesi dall’entrata, mia e di Chiara, in quel nuovo mondo: ero soddisfatta di essermi ambientata tanto bene, forse pure più della mia compagna di stanza e migliore amica. Certi ricordi brillavano fulgidi e vividi nella mia memoria e ancora mi emozionavano; ma intere settimane, se non mesi, già erano stati liberati dalla mia mente e non sapevo più dire cosa fosse successo in un certo arco di tempo. Pure allora, in quel marzo sferzato dal vento, non avrei ricordato bene cosa avessi fatto negli ultimi due mesi; solo alcune cose spiccavano, come il problema della lettera mai scritta e i sentimenti per Daniel.
Le sensazioni a proposito della guerra, dopo il sondaggio-intervista che mi aveva dato molto su cui rimuginare verso metà dicembre, si erano nuovamente volatilizzate. Le attività intense e impegnative nell’Accademia miravano sicuramente, tra le altre cose, a distogliere le menti di noi ragazzi dall’aspetto più crudo della guerra. Fu, questo, un pensiero che realizzai solo tempo dopo, quando ebbi modo di riflettere più attentamente, e con più conoscenze, maturità ed esperienza, sulla mia permanenza in quella specie di collegio delle Forze del Bene.
Tuttavia non sempre potevamo evitare di sbattere il naso contro il muro della realtà, soprattutto quanto la sera venivamo richiamati nell’aula sotterranea, o più spesso nella mensa, perché Aristide o qualcun altro ci fornisse delle novità riguardanti l’intera organizzazione. Di solito i ragazzi la chiamavano “l’ora di attualità” perché in effetti venivamo informati anche a proposito di eventi riguardanti il pianeta intero, non solo il mondo Pokémon. Non sempre avevamo modo di vedere la televisione: le novità che ci venivano date erano sicuramente filtrate e selezionate e, le prime volte che ci ragionai, mi chiesi se quella forma di controllo fosse buona o meno.
Presto arrivai a chiedermi a quali livelli d’insensibilità stessi arrivando per non preoccuparmi di basi nemiche scovate e affondate, ma scandalizzarmi se a perdere la vita erano gli uomini delle Forze del Bene in un attacco del Nemico. A quattordici anni, senza aver mai incontrato il Team, chiusa nella fragile campana di vetro e fidandomi ciecamente dell’organizzazione che mi aveva presa sotto la sua ala protettiva, non avevo idea di cosa potesse nascondersi nel banco di nebbia che celava il Nemico stesso. Non sapevo a cosa mirasse, né tantomeno ero a conoscenza di quali ideali fossero perseguiti dalle Forze del Bene.
L’ingenuità di quel periodo sorprese molte volte la me di qualche tempo dopo. Ma forse era inevitabile: ci era stato imposto, come obbiettivo, di amare i Pokémon e allenarli, preparando sia loro che noi ad un eventuale futuro nella guerra. Se essa proseguiva da otto anni senza significativi avvenimenti, i motivi dovevano esserci e dovevano trattarsi di cose serie; neanche allora mi chiesi cosa tenesse le due fazioni in una situazione di stallo, ma ricordo chiaramente che non posi la questione a nessuno, allora, sia temendo di ficcare il naso dove non avrei dovuto, sia perché ero sicura che non avrei capito niente. La materia in questione era la guerra, la strategia e tutto ciò che era loro relativo: ignorante in materia, volli passar sopra anche su quello, e continuai ad accontentarmi di allenare la mia squadra - a cui mi affezionavo sempre più, ogni giorno che passava - e a proseguire con la mia routine.
Le notizie peggiori arrivarono in quel periodo invernale: la cosa che più mi rimase impressa fu la morte di tre ex Capipalestra di Kalos, ovvero Violetta, Lino e Ornella. Erano stati giovani ragazzi, alleati delle Forze del Bene, ma irrimediabilmente vulnerabili: non avendo i tre una base segreta come punto di riferimento, il Nemico li aveva assassinati simultaneamente, nonostante fossero in luoghi estremamente diversi nella regione di Kalos. Aristide ci diede la notizia con molto rammarico, aggiungendo che quella mossa doveva essere stata un avvertimento per noi del Bene. Se ci fossimo ostinati a combatterli, la fine che avevano fatto Violetta, Lino ed Ornella sarebbe toccata pure a noi; il Nemico voleva spaventarci in quel modo, agendo come se potesse mettere in atto ogni suo volere.
In quelle situazioni la Morte si figurava implacabile sopra tutti noi, per quanto io cercassi di percepirla lontana. Solitamente riuscivo a evitare anche solo di pensarla, ma era inevitabile che essa fosse onnipresente in tempo di guerra. Si poteva fingere di non vederla e dimenticarsi momentaneamente della sua esistenza, del suo arrivo che avrebbe potuto essere prematuro ed inaspettato; ma notizie come quella riportavano tutti i piedi per terra.
Io conoscevo poco e niente del Nemico. I nomi dei Comandanti erano conosciuti da tutti: Giovanni, Max e Ivan, Cyrus, Ghecis ed Elisio; sei uomini, perseguenti obbiettivi a me sconosciuti, i quali una decina d’anni prima erano stati a capo rispettivamente dei Team Rocket, Magma e Idro, Galassia, Plasma e Flare. Nonostante le diversità affatto indifferenti tra le loro prime mire, su sfere differenti della società e del mondo - o dell’universo intero nel caso dei Galassia, i sei erano riusciti a trovare un accordo e si erano uniti sotto il nome - sconosciuto - del Nemico. Come avessero fatto a trascinare dalla loro parte anche personaggi del vecchio mondo Pokémon, che si erano, in linea di massima, sempre dimostrati pronti a collaborare con i “buoni”, per me rimaneva un mistero.
Su quello avevo fatto qualche domanda ma le risposte non mi avevano del tutto convinta: i miei amici davano la colpa alla sete di potere, al desiderio di farsi un nome e, se mai si fosse stati tanto sventurati, avere un posto nel possibile governo instaurato dal Nemico. Sullo stesso piano potevano esserci ragioni di altro tipo, economiche o simili, ma ne sapevo talmente poco che mi ridussi anche io a parlare di potere, uniformandomi alle idee comuni di tutti gli altri. Eppure non mi negai di essere poco sicura a tal proposito; secondo me c’era qualcos’altro, che forse aveva anche a che fare con le ragioni per cui le Forze del Bene non organizzavano un attacco consistente e decisivo che distruggesse il Nemico. Magari un’arma nelle mani avversarie che minacciava di essere usata con conseguenze semicatastrofiche, qualsiasi cosa potesse impedire ai nostri di aggredire una volta per tutte il Nemico. Mancanza di informazioni? Probabilmente, ma il mio sesto senso mi suggeriva che ci fosse qualcos’altro sotto.
Dopodiché i miei pensieri sui Victory smettevano di moltiplicarsi. Continuai ad ignorare i loro obbiettivi e le ragioni che potevano spingerli a fare del male ai Pokémon, che a quanto avevo capito erano spesso sfruttati come cavie o come armi; questo bastò, probabilmente, a farmi quasi dimenticare che le Forze del Bene combattevano dei nemici umani, tanto fui sconvolta all’idea delle condizioni di quelle creature nelle mani avversarie.
Chi componeva le fila del Nemico? A quel tempo per me si trattava solo di ombre pronte a trascinare il mondo nell’oscurità, non di umani, se mai fossero riusciti nel loro intento di dominare il pianeta. Chi erano Cyrus, che era stato l’uomo più temuto a Sinnoh, e gli altri Comandanti? Non lo sapevo e a quel tempo immaginai che non avrei mai avuto un confronto diretto anche solo con una recluta nemica; i volti e le fisicità di ogni persona della fazione avversa per me non esistevano. Se trattavano male i Pokémon - e sicuramente anche gli umani - altro non erano che bestie impregnate dall’oscurità e dalla crudeltà.
Non chiesi mai a Chiara - né alla maggior parte dei miei amici - che idea si fosse fatta del Nemico e di quanti facevano parte di quella organizzazione. Era sgradevole parlarne; direi che era troppo difficile cercare di guardare oltre la campana di vetro dalle pareti appannate per dare uno sguardo alla realtà. La loro idea me la diedero spontaneamente Sara ed Ilenia, che condividevano lo stesso pensiero: il Nemico si era unito sotto un intento comune, che sarebbe forse culminato con la conquista di almeno buona parte del mondo, e teneva in scacco le Forze del Bene - magari con l’arma segreta a cui io stessa avevo pensato. La cattiveria verso i Pokémon, per loro, era il minimo in confronto a quello che i sei Comandanti avrebbero potuto fare insieme: ambiziosi, spavaldi, intelligenti, spregiudicati… avevano tutte le carte in regola per dare sfogo alle loro folli manie di grandezza.
Perché forse era di questo che si trattava: un ego spropositato unito a una buona dose di instabilità mentale era sufficiente perché i sei uomini potessero fomentarsi vicendevolmente, accrescendo a dismisura il loro desiderio di provare l’ebbrezza di avere tra le mani ogni sfera del potere.

«June, usa Laccioerboso!»
Il Wartortle di Gold, prossimo all’evoluzione, risentì non poco della mia prima mossa; l’Allenatore lo spronò e riuscì a farlo replicare con Geloraggio. Fu troppo lento, però, perché June si spostò agilmente e attaccò una volta ancora, stavolta con Energipalla. A tempo record mandò K.O. un Pokémon del mio rivale per eccellenza.
«Non hai fatto un cattivo lavoro» borbottò il ragazzetto. Era rimasto piuttosto bassino e mingherlino; in effetti fisicamente era ancora quasi uguale alla prima volta che l’avevo conosciuto.
«Direi che battere un Pokémon superiore di qualche livello e pure appartenente a qualcuno che è avanti a me… no, non è proprio un lavoro fatto male!» sogghignai. «Ma mi ricordo quello che mi dicesti mesi fa, e sono certa che adesso manderai in campo il tuo Quilava.»
«In genere preferisco evitare di soddisfare le aspettative dell’avversario di turno… però sì, direi che è il turno del mio Pokémon Fuoco» sorrise. Capii il motivo per cui non l’aveva chiamato Quilava anche lui non appena sul campo si presentò un maestoso, inquietante Typhlosion. Si era evoluto e Gold, ovviamente, non aveva detto nulla per non rovinare l’effetto sorpresa; io non avevo più la possibilità di cambiare Pokémon senza perdere un turno, perché stando alle regole avrei dovuto cambiare June non appena avessi mandato al tappeto Wartortle.
Così la piccola Roserade dovette correre ai ripari dopo una sola mossa - Lanciafiamme, per la precisione - senza aver avuto il tempo di attaccare nemmeno una volta. Contro Typhlosion non sapevo proprio chi schierare, ero già certa che mi avrebbe fatto rimpiangere di aver chiesto a Gold di venire durante una sessione di allenamento per farmi lavorare un po’ insieme a lui. Mandai Rocky nella speranza che riuscisse a indebolirlo a sufficienza per poi finire l’avversario con Aramis; ma sbagliai, perché forse conveniva che facessi il contrario. Avrei dovuto indebolire Typhlosion per rallentarlo e lasciare che il Cranidos, quando fosse arrivato il suo turno - perché Aramis certamente non avrebbe retto l’intero round, lo finisse con una mossa Roccia.
Typhlosion volle menare con Breccia: un solo colpo bastò, ma Rocky si oppose con Bottintesta. Andò al tappeto inevitabilmente, ma pure il Pokémon Fuoco rimediò parecchi danni - nonostante fosse al primo stadio evolutivo, Cranidos aveva una forza forse pari a quella di Gallade. Alché mandai in campo proprio Aramis; sopportò un Lanciafiamme arrivato in risposta ad un veloce Psicotaglio, quindi a sorpresa Typhlosion finì al tappeto con una Zuffa. Rinunciai a cambiare Pokémon: ad Aramis mancava poco per finire le energie e avrebbe usato le ultime che aveva per attaccare il Dragonair di Gold appena sceso in campo.
Aramis attaccò di nuovo con Zuffa, dopodiché si rassegnò a subire l’Idrondata di Dragonair e ad andare K.O.. Il drago non sembrava ben messo dopo quel duro colpo: ero fiera del lavoro svolto da tutti i miei Pokémon, che in quelle lotte molto veloci dovevano impegnarsi moltissimo.
Aspettai per mandare Altair ed optai per Diamond, il mio prepotente e bellicoso Staravia. Intimidì il nemico grazie alla sua abilità, che per l’appunto era Prepotenza; poi colpì subito con Attacco d’Ala. Gold, prudentemente, fece usare a Dragonair Codadrago. Non falliva una mossa, l’avversario, nonostante ne conoscesse di poco precise. La mossa non causò molti danni a Staravia. Avevo tra le mani la sua Poké Ball e quasi mollai la presa quando essa si spalancò all’improvviso, a causa dell’effetto secondario di Codadrago. Diamond vi fu risucchiato dentro; contemporaneamente, nella cintura si spalancò proprio la sfera della mia Swablu.
«Vai con Volo» ordinai; bastò quella mossa a finire una volta per tutte Dragonair. Subito richiamai Altair, che non mancò di protestare in seguito per il suo ruolo marginale nella lotta, e mandai nuovamente Diamond.
Manectric si presentò, prevedibilmente, come suo avversario. Diamond non poté fare nulla, se non subire una forte Scarica mentre aveva tentato, invano, di colpire l’altro con Attacco d’Ala. Andò istantaneamente al tappeto; anche Gold cambiò Pokémon e capii che sarebbe arrivato il turno di Marowak. Poiché Gold di Pokémon ne aveva cinque e io sei, mi rassegnai a mandare Altair sperando che riuscisse a battere almeno la creatura di Terra. Pearl avrebbe avuto l’onore di combattere un’altra volta.
Marowak, fresco di evoluzione, alla fine non rappresentò un grosso ostacolo per Altair. «Usa Canto» dissi non appena riuscì a schivare una Frana, e senza difficoltà la mossa ebbe effetto. Quindi usò ripetutamente Geloraggio, mossa che le avevo insegnato per “sfizio”, non perché mi aspettassi che tornasse utile; Marowak, dopo due o tre colpi, svenne nel sonno e Gold lo sostituì con il suo ultimo Pokémon, Manectric.
Com’era prevedibile, Altair nulla poté contro il Pokémon di tipo Elettro, che anche in quel turno mandò K.O. la mia compagna con una sola mossa, senza alcuno sforzo. Strinsi la mano di Gold appena il combattimento terminò, come si era soliti fare dopo una lotta, e andammo in infermeria.
Facemmo appena in tempo a ritirare i nostri Pokémon, curati rapidamente dal macchinario che troneggiava nell’ampia stanza dell’infermeria, che Sandra bussò alla porta per richiamare l’attenzione dei ragazzi presenti - tutti coloro i quali avevano appena finito una lotta, l’ennesima in due ore di allenamento, e aspettavano di mettere in sesto la propria squadra. La donna ci disse di tornare in classe non appena avessimo finito; il mio amico - ormai lo definivo così senza farmi problemi - tornò dal suo gruppo, salutandomi allegramente. I mesi erano passati per tutti e il ragazzino si era sciolto molto di più; la cosa mi aveva fatto molto piacere. Aspettai Chiara per tornare nella nostra aula e, appena entrate, trovammo la stessa sorpresa che aveva suscitato tanti mormorii e sguardi interrogativi nei nostri compagni, che ci avevano un po’ perplesse.
Una ragazza che non avevo mai visto era seduta, ironia della sorte, dove fino ad un paio d’ore prima io avevo occupato il mio posto. Non mi soffermai subito più di tanto sul suo aspetto in generale: quel che mi stupì furono i suoi occhi azzurri, o forse era meglio dire color ghiaccio. Esattamente come quell’elemento, in un solo scambio di sguardi la sua espressione mi comunicò imperturbabilità e freddezza; mi costrinsi a non continuare a guardare quelle iridi così belle e magnetiche. Chiara mi indicò un banco rimasto libero: una della classe si mise seduta accanto alla ragazza, alla quale si rivolsero i suoi nuovi vicini.
«Ma chi è?» chiese subito la mia compagna di banco e di stanza. «Non ha una faccia simpatica.»
«Non lo so» risposi distrattamente.
La ragazza aveva la pelle piuttosto scura, in forte contrasto con gli occhi grandi e chiari da sembrare bianchi per intero - la pupilla, notai in seguito, sembrava sul punto di essere soffocata dal bagliore glaciale delle iridi. La carnagione, spruzzata di quale lentiggine sul naso un po’ schiacciato, contrastava pure con i capelli rossi, o meglio color carota. Erano lisci e sorprendentemente lunghi, raccolti in due semplici codini bassi. Una frangetta ordinata e tagliata con precisione, anch’essa affatto corta, le copriva tutta la fronte e pure le sopracciglia.
«Sarà una nuova arrivata? Chissà se conosce i Pokémon da sempre» disse ancora Chiara, mentre io continuavo a guardare l’ospite della nostra classe. Aveva un fisico molto asciutto, sembrava abbastanza alta. I nostri compagni non si fecero intimidire dal suo sguardo severo e dalla sua diffidenza; mi parve un po’ imbronciata, come se non volesse parlare a nessuno. “Be’, in effetti l’idea di essere nel mezzo di una guerra non deve farla scoppiare di allegria… ma non penso sia questo il motivo, soprattutto nel caso in cui sapesse già dei Pokémon.”
Era seduta composta ma, come ulteriore messaggio di voler tenere a distanza gli altri, aveva sia le braccia che le gambe incrociate. Dopo un po’ intercettò i miei occhi che la fissavano con fin troppa insistenza, quindi mi affrettai a distogliere lo sguardo dal suo, che mi diede l’idea di accusarmi di qualche colpa che non avevo. Mi dissi che era una bella ragazzina, se non fosse stato per il suo naso un po’ schiacciato e per l’espressione che la rendeva meno gradevole di quanto avrebbe potuto essere in realtà.
La prima immagine di Camille, questo il suo nome, rimase impressa nella mia mente per sempre; molto tempo dopo capii il perché la rossa mi avesse impressionata tanto da ricordarmi con inaudita precisione il suo arrivo all’Accademia. Il professore che succedette a Sandra le chiese di presentarsi.
«Mi chiamo Camille e vengo da Kalos. Ho quattordici anni. La mia famiglia è parte del mondo dei Pokémon da sempre… sono stata mandata qui per servire le cause delle Forze del Bene.»
Parlò a voce bassa, con il flautato accento della lontana regione da cui proveniva, ma le sue parole erano state tanto decise quanto sintetiche. Non le fu chiesto altro, eppure di solito ai nuovi arrivati si faceva qualche domanda in più per agevolare le nuove conoscenze all’interno del gruppo. Bastarono quelle poche frasi, insieme al suo modo di presentarsi, a farmi capire che tipo fosse Camille.
«Sembra un po’ snob» dissi a mezza voce rivolta a Chiara.
«Vero? L’ho pensato anche io. Spero che sia solo perché non sa come comportarsi nel nuovo ambiente e quindi fa la difficile, ma se tiene quella faccia per il resto dei giorni a venire non si farà tanti amici. Hai visto che naso?»
Ridacchiai. «Sì, è schiacciato… però è molto carina, dai.»
«Ha dei bei capelli…» fece lei con disinteresse.
«Ah, ora fai tu la difficile!»
Effettivamente i capelli di Camille erano davvero molto belli. Nonostante la lunghezza - le arrivavano più o meno oltre la vita - apparivano perfetti: appena appena mossi, i riflessi del timido Sole di marzo le indoravano la chioma folta. Mi resi nuovamente conto di starla guardando con troppa insistenza; se avessi continuato non avrei fatto una gran figura con la diretta interessata, che di certo avrebbe sentito la nuca pizzicare - eravamo un banco dietro a lei, su un’altra fila - se non avessi smesso di osservarla.
Con il suo atteggiamento scostante e freddo, come aveva previsto Chiara, nel giro di una settimana scarsa svanì l’interesse per Camille da parte della classe. Una ragazzina un po’ più piccola di me che faceva parte del gruppo, stuzzicata da molti perché era parecchio timida e insicura, mi disse che la nuova arrivata la intimidiva addirittura e che non aveva il coraggio di provare a parlarle, temendo di essere scrutata con diffidenza e di non ricevere una risposta, se non un’occhiata di gelida superiorità.
Io non capivo perché da una parte ci fossero le persone, come Chiara, che già non sopportavano più la presenza della silenziosa ragazza, e dall’altra quelli che semplicemente non volevano neanche provare a perderci tempo. Ad essere sincera ero parecchio incuriosita dai suoi comportamenti, così in contrasto con l’atmosfera spensierata, che di rado si incupiva, dell’Accademia, rallegrata dalla vitalità comune a tutti i suoi giovani abitanti.
L’aspetto fisico di Camille e il suo carattere ne facevano un soggetto molto singolare a cui bastò poco tempo per attirare le attenzioni di quanti non avevano già capito che era inavvicinabile. Immaginai che avesse fallito il suo tentativo di passare inosservata, l’unica giustificazione che trovai al suo comportamento. Forse aveva voluto mostrarsi scontrosa perché non aveva voglia di fare nuove conoscenze, ma non riuscii ad ipotizzare una forte timidezza: mi sembrava impossibile che si potesse arrivare a tanto per paura di farsi vedere dagli altri.
Così, tra gli altri, anche Daniel, senza che glielo dicessi io, si accorse del nuovo giovane membro delle Forze del Bene. Mi aspettavo che facesse qualche commento sul bell’aspetto - che certamente non aiutava la ragazza a non farsi vedere né sentire - di Camille, invece non ebbe una particolare reazione. Gli confidai che ero stupita dai suoi modi di fare e incuriosita, proprio per questo motivo. Lui scrollò le spalle dopo aver passato qualche secondo a guardarla. Solo allora notai, e mi chiesi il motivo, che non era seduta da sola come mi sarei aspettata, ma era in compagnia di Sara e delle altre. Non che parlasse con loro, ma almeno era con qualcuno.
«Non saprei dirti, Ele. In effetti sembra un po’ strana, la sua faccia non è quella di una facile da avvicinare e con cui parlare» borbottò. «Non ti ci fissare troppo, secondo me è uno dei tipi peggiori in questa Accademia.»
«Certo che ti sei fatto presto un’opinione, eh?»
«Chiamala come vuoi! Pure tu non le sei indifferente; c’è qualcosa che dovresti dirmi?»
«Ma va’, che idiota!» sbottai, senza capire bene perché mi fossi irritata subito. Mi ripresi cercando di far capire che stavo scherzando e fortunatamente ci riuscii, non osando pensare a quanti problemi mi sarei fatta se avessi avuto una brutta reazione in presenza di Daniel.
Ad ogni modo, Camille mostrò altrettanto in fretta di essere una ragazza piuttosto intelligente e precisa. Non riuscii a trovarle un difetto - a parte il naso, spesso preso in giro da Chiara, che l’aveva presa molto in antipatia - finché, durante un’ora di allenamento Pokémon, non lottai con lei. Capii che i combattimenti erano il suo punto debole già dopo poche mosse dall’inizio del primo round: Pearl contro il suo Meowstic maschio.
«Bruciapelo» ordinò Camille. L’avversario era più veloce ed era di qualche livello superiore alla mia Luxio, quindi inaugurò anche il turno successivo con Fascino.
«Usa Morso, Pearl!» esclamai io. Nonostante la forte riduzione dell’Attacco, la mossa fu accusata duramente da Meowstic, che ribatté lentamente con Psicoshock; ma un altro Morso bastò per finirlo. Non mi aspettavo mica che bastasse così poco per mandarlo al tappeto, quindi già da lì immaginai che la lotta non sarebbe stata difficile. Non richiamai Pearl e aspettai l’arrivo del Pokémon successivo, una Braixen. “Forse lui sarà più tosto” pensai.
Un Turbofuoco che si ravvivava ad ogni turno imprigionò Luxio, la quale riuscì ad attaccare con Scintilla; poi Braixen piazzò uno Schermoluce. Allora dissi: «Insisti con Scintilla, finché puoi!»
Ero solita dare, insieme alle indicazioni per le mosse o per gli spostamenti, quanti più incoraggiamenti potevo, soprattutto se un mio Pokémon era in difficoltà. Camille non lo faceva; dava un ordine e basta. Non pensavo che questo stesse a significare una noncuranza da parte sua nei confronti dei suoi compagni; mi limitai a credere che le lotte non facessero per lei. Ciononostante, Braixen era superiore a Pearl: gli attacchi non le avevano causato molti danni ed era anch’essa più cresciuta della mia Luxio. Così una Nitrocarica mi costrinse a ringraziare Pearl per il buon lavoro svolto e a sostituirla con Rocky.
Braixen usò Psicoraggio e di nuovo mi ritrovai in difficoltà a causa delle scarse difese di Cranidos. Gli feci usare Garanzia, sfruttando i danni appena rimediati, e fu come se Rocky avesse attaccato con Rimonta: entrambi erano parecchi stanchi. L’avversario, con il vantaggio della velocità, mandò K.O. il mio secondo Pokémon con un altro, banale Psicoraggio. “Braixen è uno starter… quindi forse è il suo Pokémon più forte” ragionai. “Se è così, adesso mando Altair. Camille ha una squadra completa come me, è tutto da vedere. Spero di non averla giudicata troppo in fretta…” Alché mandai Altair, come avevo già deciso.
Nitrocarica non la infastidì, fortunatamente. Un solo attacco Volo bastò per concludere il round; purtroppo Camille mandò in campo un Honedge, scelta che subito mi mise in crisi. “Vuoi vedere che ora si gioca tutto sui vantaggi di tipo?! Ma non voglio perdere, non contro di lei, almeno per la prima volta! Quel Meowstic era allenato da schifo e…” Continuando a sbraitare mentalmente contro la nuova arrivata e contro me stessa, mi accertai qualche turno di sicurezza con Canto: Honedge, troppo lento, non evitò la dolce ninna nanna di Altair, la quale poi lo tempestò di Sgomento per parecchi turni. Si risvegliò quando buona parte del lavoro era stata fatta e usò Danzaspada. Volli proseguire con Sgomento, che con la superefficacia non mi stava deludendo: anche se l’Aeroassalto successivo di Honedge fece molto male, un ultimo attacco fece vincere Altair.
Decisi di cambiare Pokémon, tenendo la Swablu come riserva. Camille, avendo perso per ultima, per prima dovette mandare in campo un membro della sua squadra dimezzata e scelse una Floette dal fiore rosso. Così chiamai a lottare June, che ci avrebbe messo poco a finire l’avversaria.
Le mie previsioni - e speranze - si avverarono: Fangobomba tolse subito di mezzo il Folletto. Non potei fare a meno di notare il disappunto di Camille, che non si mostrò del tutto indifferente all’andazzo della lotta. Mi parve di aver tagliato un bel traguardo, attirando la sua attenzione sulla piega che stava prendendo il combattimento. In campo scese un Pancham. «June, usa Energipalla!»
Un altro duro colpo per la squadra della ragazza; Pancham attaccò con Lacerazione, ma scattò il Velenopunto di Roserade, che era una delle mie caratteristiche preferite. Così l’avvelenamento gli diede il colpo di grazia.
Cercando di controllarsi e di farsi vedere indifferente, Camille schierò l’ultima sua risorsa, uno Skrelp. Niente al mondo mi avrebbe costretta a sostituire Roserade proprio all’ultimo: subito ordinai una potente Energipalla a cui l’avversario rispose placidamente con Muro di Fumo. Il campo fu coperto dalla coltre scura e June lanciò nel vuoto un altro attacco uguale al precedente. La situazione peggiorò ulteriormente quando sentii la voce di Camille dire, non senza una nota di soddisfazione: «Usa Doppioteam.»
Si succedettero parecchi turni irritanti; Skrelp usò la stessa mossa per altre due volte e June lo colpì per miracolo dopo aver fallito entrambe le occasioni. Fu presa in pieno da una Finta, ma prima che Skrelp si inabissasse una volta ancora nella nuvola di fumo nero, pose fine alla lotta con un’altra Energipalla. La nube si dissolse istantaneamente e mi avvicinai alla metà campo per aspettare la stretta di mano con Camille.
«Ehi! Ma cosa?!» sbottai nel vedere la ragazza richiamare Skrelp, esausto, e girare i tacchi senza filarmisi. Corsi dietro a lei e mi guardò di sottecchi. Decisi che era meglio evitare di rimproverarle qualcosa quando neanche ci conoscevamo, anche perché ero sicura che a malapena mi avrebbe risposto.
«Ehm… vengo in infermeria con te» borbottai.
Il suo sguardo mi rispose “Se proprio devi”, la sua voce disse: «Va bene.»
Percorremmo il tragitto in silenzio ed iniziai a pentirmi di esserle venuta appresso. Ma decisi che valeva la pena di provare a parlarle appena arrivammo in infermeria, anche perché la fila era piuttosto lunga.
«Senti… Sandra te lo ha detto prima, quando ci ha detto di lottare insieme; comunque io mi chiamo Eleonora. Vengo da Nevepoli. Al contrario tuo non sapevo dell’esistenza dei Pokémon, non facevo parte di questo mondo, quindi è stato un gran colpo ricevere la notizia della guerra e di tutto il resto!» Cercai di essere amichevole.
I suoi occhi incontrarono i miei brevemente, ma il suo sguardo fu intenso. «E quindi come stai ora?»
La sua domanda mi sorprese, perché non mi aspettavo un minimo d’interesse da parte sua. «Adesso sto bene. Mi piacciono i Pokémon e la loro natura, tutto ciò che li riguarda… ma agli inizi è stata davvero dura ambientarmi e fidarmi di loro. Ero molto spaventata, mi sentivo inetta ed indifesa, credo sia comprensibile… però vedere quanta fiducia riponessero i miei amici nei miei confronti, fare nuove conoscenze e imparare tutto ciò che c’è da sapere su questo mondo… queste sono state le chiavi per farmi perdere ogni riserva.»
Camille per qualche secondo non rispose nulla ma doveva avermi ascoltata con attenzione. Stavo per chiederle qualcosa, volevo farla parlare un minimo, ma mi anticipò: «Ma hai capito in che situazione sei finita?»
Inarcai le sopracciglia; intimamente trasalii, perché insieme a quella domanda mi guardò con gli occhi brillanti. La sua espressione non era severa né dura, ma mi stava mettendo alla prova: non capivo come facesse a sembrare così matura e sicura di sé stessa quando aveva la mia età, soprattutto se paragonata a me. Aveva le labbra serrate e le sottili sopracciglia erano leggermente corrugate, mentre cercava di capire se valesse la pena parlarmi o no, se ritenermi una sciocca che non capiva la gravità della guerra o se sorridevo per non mostrarmi debole e triste.
Non ero né debole né triste. La prima delle due cose se n’era andata appena avevo imparato a contare sulla mia squadra. La seconda non si era ancora presentata nella sua interezza e avrei avuto ancora del tempo di tregua. Così, imitando l’espressione di Camille, dissi semplicemente: «Siamo in guerra.»
«Sì, è vero.» La ragazza spostò lo sguardo altrove. Mi chiesi come fosse possibile che si stesse rendendo partecipe della presenza di qualcun altro, perché da quello che avevo notato nei giorni precedenti non mi era mai sembrata affatto desiderosa di parlare agli altri. Invece mi stava addirittura facendo delle domande - “Quale onore.” Disse poi: «Sei sicura di non sentirti più inetta ed indifesa, come hai detto prima?»
«Sì, perché le Forze del Bene mi hanno definitivamente preso sotto la loro ala protettiva. Non so cosa potrà comportare questo, se farò una brutta fine o riuscirò ad evitare la guerra; però un modo per combattere, almeno per me, è fidarsi dei propri alleati e fare di tutto per non credersi più inetti ed indifesi» continuai ad usare quei due aggettivi. Volevo digrignare i denti: Camille non mi interessava più molto, con la sua aria di saperne una in più di tutti e, di conseguenza, di sentirsi in diritto - o in dovere - di giudicare la mia posizione.
«Non mi sembra granché» mormorò.
«Infatti non lo è.»
Mi guardò leggermente stranita. «E allora che senso ha?»
«Ha più senso riporre le proprie speranze in qualcuno, anziché rendersi inavvicinabili credendo di combattere inutilmente» dissi, «come credo che tu stia facendo.»
Camille ci mise un po’ a rispondermi. Non sapevo come mi fosse uscita una frase del genere. La ragazza stava alimentando la mia irritazione: avevo sperato di poterle parlare in tranquillità, ma la seconda volta che mi aveva rivolto la parola era bastata per smontare tutto. Con ciò che dissi, però, ammisi di aver fatto molta attenzione ai suoi comportamenti di quei giorni. Ero sicura che se ne fosse accorta subito.
«Non dovresti giudicare persone che non conosci» ribatté poi, non sembrando affatto turbata.
«Tu non vuoi farti conoscere, è evidente! Ma ti converrebbe accettare l’aiuto che le Forze del Bene ti offrono. Io non mi aspetto che in ogni momento di difficoltà accorreranno per aiutare me o qualcun altro, i piani alti avranno cose molto più importanti a cui pensare… non mi aspetto nemmeno che sappiano della mia esistenza, ovviamente. Però se ti tieni lontana da tutto questo… ti fai solo del male. Come me agli inizi, finché non mi sono convinta della natura pacifica dei Pokémon e della buona fede di chi combatte il Nemico.»
Camille avrebbe potuto chiedermi tranquillamente come facessi a sapere che le Forze del Bene erano in buona fede, se non avevo idea di quale fosse il loro scopo. Erano contro il Nemico, ma senza sapere le intenzioni di questi come si sarebbero potute capire le intenzioni della mia fazione? Se avessero combattuto ideali che, se solo li avessi conosciuti già da allora, non mi fossero dispiaciuti… avrei tradito anche io, come tanti, le Forze del Bene? Camille però non me lo domandò e io risposi ai quesiti che mi ero già posta tempo prima con un misero: “Ci penserò.” Ancora  una volta rimandai ad un momento futuro il faccia a faccia con la mia ignoranza.
In effetti, Camille non mi disse nulla. Però mancava ancora un po’ al macchinario per rimettere in sesto i propri Pokémon, quindi misi da parte l’astio che la ragazza mi ispirava e le chiesi: «Hai mai incontrato il Nemico, tu?»
«No.»
«Ma come mai sei venuta fino a Sinnoh e non sei andata ad un’Accademia nella tua regione?»
«Non ce n’è una a Kalos.»
Passarono alcuni secondi di silenzio. Sospirai, sciogliendo la tensione, perché Camille mi guardò un’altra volta - quello di scoccare occhiate difficilmente decifrabili era un suo difetto - e credetti di aver rimediato a quanto detto prima, che effettivamente non doveva essere stato l’approccio migliore per una possibile amicizia.
«Scusa se te lo dico, e scusami pure se prima ti ho urtata,» mi sottomisi a lei, sperando che si rilassasse un po’, «ma non mi sei mai sembrata molto interessata a parlare con gli altri, quindi mi stupisce che tu ti sia interessata, almeno minimamente, a chiedere qualcosa di tanto personale a me. Come mai?»
Lei fece spallucce. «Parlo con le persone che mi interessano.»
«Eh?» mi stupii. «Perché ti interesso?»
Lei non rispose. Stavo per insistere ma l’infermiera ci invitò a consegnarle i nostri Pokémon. Grazie al momento di esitazione che mi fu concesso, decisi di evitare di domandare di nuovo quella cosa a Camille: ero sicura che fosse molto ostinata, quindi non mi avrebbe detto nulla. “Ma perché ha detto che la interesso? Che sia in cerca di attenzioni? Può darsi… allora significa che ha voluto alimentare le osservazioni su di lei anche comportandosi in modo scostante e freddo? Quindi ora non mi risponde per farmi sentire più curiosa e magari confondermi… davvero un bel tipo” conclusi mentalmente con disapprovazione, chiudendomi anch’io in un testardo silenzio.
Uscimmo dall’infermeria poco dopo. «Ci vediamo» mi disse Camille.
La salutai a mezza voce e tornai nell’aula sotterranea, qualche passo dietro di lei. Il professore di turno quasi aprì la porta della stanza sotterranea in faccia a Camille, perché dovevamo tornare in classe. “Attento, prof, poi il suo naso crea una rientranza sul viso…” borbottò una vocina nella mia mente.
Evitai le lezioni successive ed andai in camera a leggere per distrarmi dal pensiero di Camille, aspettando che Chiara mi raggiungesse. Infatti un paio d’ore dopo già mi stavo sfogando con lei: le riferii brevemente il contenuto della conversazione, soffermandomi però su commenti personali, alquanto irritati, sulla sua aria di superiorità. «Ma tu guarda! Solo perché ritiene di essere l’unica a capire che razza di situazione sia la guerra… allora vuole che tutti gli altri la pensino come lei, altrimenti sono solo cretini! Non credevo fosse così antipatica ed intrattabile, ma il fatto è che lei stessa non vuole parlare con gli altri, a meno che non lo faccia solo per farsi notare…»
«Wow» mormorò Chiara. «Be’, a me fin da subito non era sembrata granché… ma scusami, perché te la prendi tanto? Secondo me stai esagerando. Sei fin troppo indispettita per una perfetta sconosciuta.»
Ci misi qualche secondo a rispondere. «Non lo so… mi dà fastidio il suo comportamento. Mi sembra strano che all’inizio fossi così incuriosita da lei; fatto sta che non mi dispiacerebbe affatto se fosse un po’ più naturale, perché di questo si tratta: penso che stia solo recitando la parte che le fa comodo, e non mi piace.»
Non le dissi che “interessavo” alla ragazza nuova, perché avrei continuato a confondere le mie idee, oltre a far stranire non poco Chiara. Camille mi turbava parecchio e non sapevo ancora dire perché, forse erano i suoi occhi cristallini e al contempo profondi e insensibili, lontani, affatto empatici. Diceva che la interessavo e quindi aveva sopportato l’idea di parlare a qualcuno; immediatamente mi venne in mente Sara, accanto alla quale la rossa si era seduta stabilmente durante le ore dei pasti.
Il giorno dopo chiesi all’albina qualche spiegazione, se ne aveva, ma fu molto vaga e mi diede una non-risposta. Mormorò di non avere idea di cosa stessi sparlando e che aveva conosciuto quella ragazza da poco, che non si parlavano praticamente per niente. Non mi convinse granché; mi chiesi se Camille sarebbe mai stata in grado di sciogliersi e se sarebbe stato possibile costruire un rapporto, magari un’amicizia, con lei.

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Capitolo 13
*** XII - Un anno passato ***


XII
Un anno passato

Il rapporto con Camille non migliorò affatto, ma forse è meglio dire che fu la sua situazione a non riscontrare alcun progresso. La ragazza si teneva a distanza da tutti come al solito, durante i pasti stava con Sara, ugualmente senza proferir parola; con me ci parlava ogni tanto solo se strettamente necessario - io le chiedevo qualcosa, come al solito cercando di non darle troppa confidenza vista la scarsa simpatia che provavo nei suoi confronti - o per le cose più banali - domandarmi l’ora o se sapevo quale professore avrebbe potuto esserci dopo la lezione in corso.
Però non sapevo ancora dire perché, nonostante non mi andasse affatto a genio, Camille mi impensierisse così tanto. Non potevo fare a meno di notare che fin troppo spesso mi facevo parecchie domande sui comportamenti di quella ragazza o mi ritrovavo a guardarle, incantata, la bella chioma di capelli rossi. Oppure, ancora, mi chiedevo quale potesse essere il suo passato, che forse l’aveva fatta diventare così fredda e distante da ogni essere umano. Da una parte ero rosa dalla curiosità che nemmeno riuscivo a spiegarmi - perché era così forte?, dall’altra volevo far di tutto per disinteressarmene, fallendo miseramente ogniqualvolta incrociavo la ragazza, anche di sfuggita.
Gli altri rapporti interpersonali rimasero sugli stessi piani e di giorno in giorno mi rendevo conto di quanto fossi stata fortunata ad incontrare persone come Ilenia e Daniel, che mi facevano stare bene anche in un contesto che avrebbe dovuto essere pesante ed insopportabile; ma grazie a loro il pensiero della guerra spariva. Le giornate si susseguivano con tanta tranquillità che non sapevo dirmi se essere esasperata dall’equilibrio in cui vivevo, che talvolta sapeva eccessivamente di finzione, o se ringraziare il cielo per quel periodo di serenità; così, con la routine scolastica - definita così sempre per modo di dire, altri mesi passarono.
Si arrivò agli inizi di giugno e tagliai il traguardo dei quindici anni; com’è ovvio non ci fu alcun festeggiamento, non ce n’era la possibilità, ma pur non ricevendo regali fu una delle giornate che più mi piacquero, nonostante fosse passata inosservata agli occhi di quasi tutti. Mi fecero gli auguri i miei amici, tra l’altro informati da Chiara, i quali altrimenti se ne sarebbero giustamente dimenticati; non mi aspettai nient’altro, a parte un po’ di affetto e di attenzioni in più da parte di chi era stato messo a conoscenza dell’insignificante particolarità, e fu proprio così che andò. La cosa che rese quel compleanno speciale fu, semplicemente, il fatto che fosse il primo passato nel mondo dei Pokémon: per questo l’avrei ricordato per tutti i giorni a venire. Ero con la mia squadra e con gli amici che mi ero fatta in quella situazione sempre nuova, e questo bastò a rendere il mio quindicesimo compleanno più speciale di molti altri, in cui magari avevo ricevuto regali e una maggiore quantità di belle parole per me.
«Ci sarà una pausa estiva come c’è stata quest’inverno?» chiese Chiara qualche giorno dopo.
«Ovvio» disse Ilenia. «Per tutto luglio e agosto ce ne stiamo tranquilli, ragazzi. Ma a volte trovano il modo di rendere un po’ più speciali le “vacanze”, quelli che gestiscono l’Accademia.»
«Del tipo?»
«Oh, negli anni passati se ne sono inventate parecchie» sorrise Cynthia. «Mi ricordo quando due anni fa fecero visitare a quelli degli ultimi due gruppi alcune basi segrete. O meglio, ve li trasferirono per più di un mese. Non tornarono tutti… nel senso che qualcuno rimase lì a lavorare!» ghignò nel vedere che io e Chiara ci eravamo già scambiate un’occhiata a dir poco preoccupata e che eravamo state sul punto di sbiancare. «Nessuno dei ragazzi qui all’Accademia è mai morto, che io sappia. Comunque, dicevo: fecero vedere loro come funzionavano le cose negli ambienti più seri e le Forze del Bene se ne tennero qualcuno che non avevano giudicato affatto male. Erano degli studenti già con le idee chiare e qualche ambizione per il futuro nella guerra.»
«Voi sapete già cosa vorreste fare?» domandai.
Ci fu un piccolo coro di “combattere” da parte di Ilenia, Cynthia, Daniel e Lorenzo. Inarcai le sopracciglia e poi ridacchiammo un po’ tutti; Lorenzo spiegò: «Sì, abbiamo qualche ispirazione per la nostra carriera… qualcuno chiama le persone che vorremmo diventare reclute, altri guerrieri, altri combattenti - che è la definizione che mi piace di più. Ci sono cinque grandi gruppi di lavoratori nelle Forze del Bene: i combattenti che sono esperti di lotte Pokémon e devono anche essere in grado di lottare da soli, corpo a corpo con un nemico insomma; le spie, lavoro che in genere affibbiano a gente molto magra e molto agile… non guardatemi così, è vero! Sono tutte magrissime, le spie, è proprio una categoria a parte. Poi ci sono i tecnici che sono esperti con i computer, in linea di massima; gli inventori, che fabbricano strumenti e simili, e infine gli esploratori, che come dice il nome vanno a caccia di tracce del Nemico o di altre cose sul posto designato per una missione.
«Tecnici e inventori si muovono raramente dalle basi delle Forze del Bene, al contrario di spie, esploratori e combattenti che vengono mandati sempre in giro, anche in regioni lontane. Nelle missioni si partecipa in gruppi formati da persone che hanno professioni diverse, tutti parlano sempre dell’accoppiata migliore che è quella tra le spie e le reclute… ma sinceramente non so troppo bene quello che riguarda l’ambiente delle basi segrete e così via. Nessuno può dire di conoscerlo finché non ci è in mezzo.»
Al pensiero di dover passare anni e anni nell’Accademia, se la guerra fosse proseguita, lo stomaco mi si strinse in una morsa fastidiosa. Peggiorò all’idea di dovermi trovare un ruolo nel conflitto, sempre se mai avessi dovuto prendervi parte, e di rischiare la vita ancor di più mettendo piede fuori da una base segreta. Non sapevo cosa avrei potuto fare, pensandoci velocemente: per essere una spia non ero certo magra né agile o snodata, di chiudermi in una base a fabbricare apparecchi di chissà quale genere o lavorare con codici e computer non avevo intenzione - anche perché immaginavo che servisse un quoziente intellettivo fuori dalla norma. Combattere mi spaventava e pure esplorare, addentrandomi in territorio nemico, non era una scelta che mi ispirava fiducia e voglia di mettermi in gioco. “Posso sempre fare l’inserviente in una base, se non riesco a trovare qualcosa che sia in grado di fare…”
«Comunque, quali altre cose si erano inventati?» chiesi per cambiare discorso.
«Uhm… questa cosa delle basi segrete mi pare siata stata fatta un paio volte» intervenne Ilenia. «L’anno scorso non è stato organizzato nulla e siamo rimasti confinati qui a sudare ed annoiarci. Anche un’altra estate non si fece nulla, e siamo a quattro su cinque che ho passato qua dentro…»
«Mi stupisco che non ti ricordi proprio quella» fece Cynthia. «Ci concessero il lusso di starcene una settimana con le nostre famiglie.»
Quasi trasalii nel sentir pronunciare la parola “famiglie”. Da quando, mesi e mesi prima, avevo avuto la grossa delusione di non aver ricevuto alcuna lettera dai miei genitori - al contrario di Chiara, ogni cosa che rimandasse al campo semantico della famiglia mi riconduceva, inevitabilmente, al pensiero di essere stata lasciata a me stessa - di questo si trattava, niente di più e niente di meno. Era già passata la prima metà dell’anno dopo quel brutto colpo; ciononostante la cosa bruciava ancora e spesso mi faceva star male. E dire che di tempo ne era trascorso, avrei dovuto farci l’abitudine! Invece no; la mia corazza aveva iniziato a svilupparsi e da parecchio ero meno timida e introversa rispetto a quando ero arrivata all’Accademia. Ma quell’avvenimento ancora mi colpiva duramente.
«Ah, già!» si stupì Ilenia. «Sì, è vero: tornammo una settimana ognuno dalle rispettive famiglie ma furono pochi quelli ad andare i cui genitori non sapevano dell’esistenza dei Pokémon. A qualcuno di loro infatti furono date spiegazioni fatte bene, altri ragazzi dovettero rassegnarsi a rinnovare l’addio per sempre alle proprie famiglie.»
«Certo che parli in maniera… arzigogolata, eh?» sogghignò Cynthia.
«Ma statti zitta, tu, persona di poca cultura!»
Ilenia stava ridendo ma io avrei voluto alzarmi e andarmene per stare da sola, e penso che avrebbe voluto farlo anche Chiara. “Furono pochi quelli ad andare i cui genitori non sapevano dell’esistenza dei Pokémon. A qualcuno di loro infatti furono date spiegazioni fatte bene, altri ragazzi dovettero rassegnarsi a rinnovare l’addio per sempre alle proprie famiglie.” Era questo, evidentemente, ciò che avrei dovuto fare anch’io: arrendermi al non avere più la possibilità di incontrare i miei genitori - per quanto non avrei saputo dire come avrei agito nel fronteggiare le persone che nemmeno avevano cercato di contattarmi. Ilenia aveva detto la cosa con leggerezza, non pensando al fatto che al suo stesso tavolo fossero sedute due ragazze che avevano vissuto sulla propria pelle ciò che lei aveva detto. Non era colpa sua, poteva pure starci che se ne fosse dimenticata; ma sentirmi dire che dovevo farmi una ragione della mia perdita non fu affatto indolore.
Quella chiacchierata non stava certo toccando argomenti piacevoli. “L’ho sempre saputo che non avrei mai più potuto fare ritorno a Nevepoli, nonostante avessi pure la remota speranza di poter rivedere la mia casa, anche solo per salutare e abbracciare mamma e papà… ma allora, se già l’avevo capito, perché non mi sento bene? Non riesco a rassegnarmi. Non ho mai ammesso apertamente a me stessa di aver detto loro addio per sempre… forse è questo il motivo per cui ora sto male. E anche perché non so cosa succederebbe se rivedessi i miei genitori, che sembrano essersi dimenticati della mia esistenza; possono anche aver avuto ragioni valide, ma se così non fosse, come temo io? È una domanda che mi faccio dall’inizio di gennaio e ancora non trovo una risposta…”
La conversazione stava proseguendo e feci finta di non sentire le esperienze di Ilenia e Cynthia, che si erano messe a raccontare le loro giornate quella volta che poterono rivedere i propri cari, ma ogni singola parola mi fece sentire dolore - fortunatamente non ne ricordai, in seguito, neanche una. Avrei voluto scambiare un’occhiata con Chiara e capire se anche lei pensava e provava le mie stesse cose, ma non ce la feci; mi concentrai sul mio pranzo, piuttosto, e parlai poco e niente per il resto di quell’ora.
Mi stupii parecchio quando Daniel, appena uscimmo dalla mensa, mi raggiunse e mi chiese di potermi parlare un po’ in disparte. Dissi a Chiara che sarei venuta in classe di lì a poco: i suoi occhi brillarono maliziosi. Le risposi con una linguaccia e se ne andò sorridendo. Non sembrava turbata dalle chiacchiere fatte a pranzo.
«Cosa c’è?» gli chiesi.
«Non avevi una gran bella faccia mentre Ilenia e Cynthia parlavano» disse schiettamente. Abbassai lo sguardo, non troppo desiderosa di parlarne con lui, per quanto soddisfacesse il mio ego ricevere attenzioni dal ragazzo. «Era per i tuoi genitori, vero? Ilenia non deve proprio averci pensato.»
«Sì, era per loro. Comunque non è colpa sua, le sarà passato di mente di avere vicino due persone che hanno, appunto, dovuto dire addio alle proprie famiglie e che possono stare ancora male per questo» strinsi i pugni, istintivamente ma con poca forza. «Comunque, come stava Chiara invece?»
«Ah… non ci ho fatto molto caso» ridacchiò con un po’ d’imbarazzo, «però non mi sembrava tanto turbata, ad essere sincero.»
Credo che entrambi, senza parlare ad alta voce, completammo quella frase: “In fondo lei una lettera dai suoi genitori l’ha avuta, può anche darsi che potrà essere ricontattata una volta ogni tanto.”
Daniel mi chiese: «Come stai, allora?»
Scrollai le spalle. «Al momento non benissimo, ma… non dico che non importa, perché non è vero, però ci farò l’abitudine e non sarà un dramma. Spesso mi metto a rimuginare sul fatto che i miei non mi abbiano scritto nulla, e sono passati tanti di quei mesi!… ma altrettante volte ho altro per la testa, quindi non è proprio un problema. Non lo sarà, almeno, fin quando riceverò spiegazioni, se mai succederà.»
«E che spiegazioni ti aspetti che ti diano?»
«Non so cosa potrebbero dirmi, ma ho un paio di idee. La prima è che i miei genitori, per qualche motivo, si siano decisi a lasciarmi perdere e a rifarsi una vita, anche se di avere altri figli non hanno più la possibilità.» Stupii anche me stessa per il tono fermo con cui dissi quella cosa. «L’altra possibilità che ho immaginato è che, pure qui per chissà quali ragioni, anche se penso sia meglio parlare di equivoci… non si sono confrontati con i genitori di Chiara e stanno dando di matto per non avere alcun modo per trovarmi. Non so, forse hanno tagliato i ponti con un sacco di persone dopo la perdita, a questo punto non voglio immaginare la loro situazione… insomma, non sono più in contatto con i genitori di Chiara e pensano di avermi persa per sempre. Non so se sia meglio pensarli sull’orlo della follia o se più felici, ma senza di me.» La voce mi si abbassò di tono.
«Puoi sempre andare a chiedere spiegazioni» fece Daniel. Non rispose a ciò che avevo detto prima, d’altronde non sapevo nemmeno io se ci fosse qualcosa di appropriato da replicare.
«Da Aristide? Credi che il vecchio marine mi direbbe qualcosa?» ribattei in modo polemico. «Non credo che si disturberebbe per una cosa che sicuramente le Forze del Bene considerano tanto futile! Penso che nemmeno Bianca si degnerebbe di darmi una spiegazione decente. Meglio evitare di perdere tempo, no?»
«No» sorrise lui dandomi una leggera pacca sulla spalla. «Non è una perdita di tempo. È una prova che devi fare se ci tieni davvero, quindi, a meno che non te ne freghi niente… perché non vai a chiedere a qualcuno?»
«Ci proverò, ma già so che non riceverò risposta» borbottai.
Armandomi di coraggio, un po’ in soggezione - avendo deciso di parlare da sola al preside, riuscii a chiedere qualcosa ad Aristide la sera del giorno successivo; fui abbastanza fortunata da andarci in un momento libero quando, stranamente, non ne aveva approfittato per abbandonare “l’ufficio del preside” - sempre che così si potesse chiamare, essendo nel particolare contesto dell’Accademia. Come al solito non mi guardò amichevolmente, d’altra parte i suoi occhi non erano gentili con nessuno, ma mi consentì di porre una tra le domande che mi impegnavano da qualche mese a quella parte: «Ai miei genitori è successo qualcosa?»
Lui aggrottò le sopracciglia folte rendendosi ancora più arcigno. «Perché fai questa domanda?»
Gli dissi che ero l’amica della ragazza che aveva ricevuto una lettera dai suoi genitori e che mi pareva strano, essendo le nostre famiglie in rapporti di amicizia - o almeno così pensavo fossero rimaste - e abitanti della stessa città, che mio padre e mia madre non avessero avuto alcuna notizia. «Vorrei solo una rassicurazione» balbettai, per niente a mio agio alla presenza dell’anziano preside. «Capire se devo preoccuparmi o no, ecco.»
Aristide ci mise un po’ a rispondermi ma, per tutto il tempo, tenne gli occhi fissi nei miei, tant’è che li abbassai dopo poco ed esplorai superficialmente l’ambiente della presidenza con lo sguardo. Ripresi a guardarlo quando parlò: «Non sono cose di cui sono stato messo a conoscenza, pertanto dubito che sia successo loro qualcosa. Non credo, comunque, che le Forze del Bene andranno mai ad indagare. Non è una priorità e non avrebbe tanto senso, cerca di capire anche se si tratta dei tuoi familiari: quale motivo dovrebbe esserci, a meno che non si sospetti che il Nemico approfitti della situazione, per qualsiasi motivo? Non ci si espone mai per qualcosa del genere.»
Non fui affatto stupita della risposta ricevuta. Annuii più volte facendo capire che era chiaro il suo discorso, anche se non avevo idea del perché il Nemico avrebbe dovuto approfittare della situazione - ma probabilmente era solo un veloce esempio di Aristide a cui non dovevo dar peso.
«Va bene. Ma se alla famiglia di un ragazzo accadesse qualcosa, verrebbe informato o non ne sarebbe messo mai a conoscenza?» domandai, per avere almeno lì una risposta chiara.
«Certo che sì» disse lui, «esattamente come la tua amica ha potuto rispondere ai suoi genitori.»
Alché lo salutai e uscii, pensando che non fosse andata male come mi aspettavo: il severo Aristide avrebbe potuto non accogliermi nemmeno, oppure mandarmi via dall’ufficio dopo aver chiesto di mia madre e mio padre, rimproverandomi di averlo disturbato per una sciocchezza quando aveva di meglio da fare rispetto ad ascoltare una ragazzina che si lamentava per non avere più notizie da mamma e papà. “Andrò a dirlo a Daniel” pensai. “Io alla fine sono stata in torto, perché ero sicura che nemmeno mi avrebbe fatta entrare, Aristide. Lui si aspettava, forse, che mi desse una risposta chiara… invece è stato un po’ vago, ma ho capito che le Forze del Bene, a parte controllare le barriere di Nevepoli, certo non si mettono a guardare nelle case di due ragazzine entrate nel mondo Pokémon mesi e mesi prima. Non che me lo aspettassi, poi.”
Riferii al mio amico, appena mi fu possibile, quanto detto da Aristide. Ne parlammo per un po’: si mostrò sinceramente dispiaciuto per non aver ottenuto risultati ma forse avrebbe dovuto valutare seriamente anche quella possibilità. Gli dissi che probabilmente non avrei mai saputo perché i miei genitori non mi avessero più contattata e, tra me e me, aggiunsi che avrei dovuto farci l’abitudine; non ebbi la forza di dirlo ad alta voce, perché ad essere sincera era più difficile trattare l’argomento di quanto volessi dare a vedere.
Poi Daniel mi abbracciò. Non era certo la prima volta che lo faceva, d’altronde lo chiamavo “migliore amico” - e lui ricambiava - per qualche ragione; ma quella mi emozionò particolarmente. Sentii tutto il suo affetto e la sua comprensione grazie a quella stretta sicura e gentile, e per l’ennesima volta mi toccò pensare che Daniel aveva davvero un cuore d’oro. Era un ragazzo più sensibile di quanto cercasse di apparire per darsi un tono. Mi erano sempre piaciute le persone buone e le ammiravo profondamente, anche se in effetti non adoravo propriamente gli eccessi di bontà che spesso sfociavano in un’ingenuità abbastanza pietosa.
Daniel non era ingenuo. Era vero che a volte si dimostrava un po’ impacciato e in difficoltà in certe situazioni, avevo dovuto dare ragione a Ilenia su questo punto, anche se mai me lo sarei aspettato. Un suo grande difetto era proprio nascondere il suo carattere, che a mio parere poteva piacere a molti, sotto la maschera del menefreghismo che aveva indossato per i primi mesi in cui ci eravamo conosciuti. Non sapevo ben dire perché lo facesse, forse si credeva debole a voler essere troppo altruista e faceva di tutto per impedirselo con più persone possibile. Mi chiesi a quante persone potesse stare antipatico per quel suo modo di presentarsi, nascondendo il vero sé stesso.
Mentalmente mi lamentai quasi addolorata quando sciogliemmo l’abbraccio. Mi uscì una risatina imbarazzata che mi risultò subito odiosa, quindi cercai di rimediare: «Grazie mille per il tuo aiuto, Dani. Sei sempre molto comprensivo e mi ascolti con attenzione… non è da tutti…» mi ritrovai a balbettare, leggermente rossa in viso.
«Non faccio niente che un migliore amico non dovrebbe fare» sorrise.
“Migliori amici…” mi ritrovai a pensare.

Gli ultimi giorni di lezioni furono più intensi del solito, perché i professori si erano messi in testa la sadica idea di sottoporci ai più svariati test ed esami, teorici e pratici. Non che fossero mai esistiti voti o valutazioni, nel senso scolastico del termine, all’Accademia; i professori davano sempre un giudizio sul nostro livello di apprendimento ma era una cosa molto sfuggente, quasi di poca importanza, anche perché c’era quella libertà di poter saltare senza giustificazioni le lezioni che non interessavano - altre erano quasi obbligatorie, ad ogni modo - e alla fine mancava parte della preparazione standard. Nessuno ne faceva una colpa a nessuno, finché quelle lezioni non trattavano le materie più importanti e rispettate - gli allenamenti soprattutto. Però era necessario controllare, dopo nove o dieci mesi di “scuola”, che la situazione di ogni studente fosse perlomeno accettabile.
Io andai bene, non eccezionalmente perché quasi mai mi ero messa a studiare sui testi forniti dall’Accademia e mi ero limitata ad apprendere tutto con la pratica, ma le mie conoscenze erano come minimo buone in quasi ogni materia. Sul piano della praticità, soprattutto in materia di allenamento fisico, non andai tanto bene quanto avrei sperato, ma mi accontentai e presto mi misi l’anima in pace, sentendomi dire che ero nella media, quindi non stavo messa male. Chiara andò, nel complesso, meno meglio di me ma ebbe comunque buoni risultati. Non ci eravamo preoccupate per quella faccenda degli “esami di fine anno” quindi non avemmo problemi di ansia o paura.
Realizzavo a malapena quanto tempo fosse passato dall’inizio della mia avventura. Erano già quasi dieci mesi! Da un lato mi parve un lasso di tempo infinitesimale, dall’altro lo sentii infinito e considerai che lo scorrere delle lancette degli orologi, in quei mesi, era stato poco più di una passeggiata di salute. 
Durante l’anno le notizie sul Nemico non erano state sconvolgenti. I primi tempi mi aveva colpita molto sentir parlare di basi affondate e di morti e feriti da una parte e dall’altra, soprattutto mi avevano stupita i toni quasi noncuranti con cui i dati ci venivano forniti durante le cosiddette “ore di attualità”. Poi, a forza di vedere i volti dei miei compagni affatto turbati da quelle notizie, capii che erano avvenimenti di routine di cui nessuno, ormai, si sorprendeva più. In particolare avevo cominciato a non curarmi più dei danni riportati dal Nemico - in un certo senso non provai più pietà, finché erano le Forze del Bene che vedevo a malapena ad agire. Mai nessuno si era sorpreso per qualche notizia, a parte per le morti simultanee di Violetta, Ornella e Lino che ci rimasero impresse, perché quello era stato un avvertimento del malvagio Team. Aveva potere a sufficienza per spaventarci e presto ci avrebbe messo alla prova nei modi peggiori, tanto che pure noi dell’Accademia avremmo iniziato a temerlo.
La domanda che sorse spontanea, a tal proposito, fu: “Ma è meglio protetta l’Accademia o una base segreta, sia essa piccola o molto grande?” La risposta arrivò pochi giorni dopo, quando capii quanto vulnerabile fosse. Forse le nostre vite erano molto più a rischio di quelle di chi lavorava. Eravamo in cortile durante un’ora di allenamento, una delle ultime prima che le lezioni fossero dichiarate sospese fino agli inizi del settembre successivo. Quel giugno non era particolarmente caldo, anzi: la brezza della metà del mese non era granché gentile e costrinse quanti di noi si stavano impegnando in lotte Pokémon all’aperto a non rinunciare a un paio di pantaloni lunghi e a, come minimo, un coprispalle o una leggera sciarpa con cui proteggersi da quel vento agitato.
Il professore di turno - l’unica che mi era rimasta impressa durante tutte le ore di allenamento, Pokémon e non, era Sandra - ci aveva chiesto di far pratica con le lotte in Doppio, che a me piacevano molto. I campi di lotta erano improvvisati sul prato erboso ben curato. Aveva diviso in coppie e io avrei dovuto lottare assieme a Camille contro Chiara e Gold - che, nonostante fosse un livello più avanti, non di rado prendeva parte alle nostre lezioni. Mi chiesi molto spesso se facesse qualcosa all’Accademia oltre a lottare, e la mia risposta fu negativa. Lui aveva chiesto al maestro di stare con noi, conoscendo me e Chiara, e il professore aveva tranquillamente acconsentito. Ero contenta che Gold venisse a trovarci durante i nostri allenamenti. Era un amico affidabile e un rivale corretto.
Lui e Chiara stavano avendo la meglio, poiché Camille non se la cavava bene con le lotte e il ragazzo era più bravo di noi; la sconfitta fu inevitabile ma mi battei bene. Controllando il Pokédex, esso mi diceva che Altair e June erano in testa al livello 32; gli altri erano tutti al 30 - Pearl si era da poco evoluta in una bella Luxray e pure Rocky era diventato un Rampardos dalla forza portentosa. La mia squadra stava prendendo forma definitivamente.
Ci avvicinammo e ci stringemmo sportivamente le mani. Poi Camille si sentì chiamare per nome; si voltò, il suo viso diceva chiaramente che non conosceva quella voce. Guardammo tutti: un ragazzino che doveva avere la mia età, dai capelli di un vivido, innaturale rosso, ci si avvicinò sorridendo amabilmente. Non lo avevo mai notato prima. Quello che doveva essere il suo Baltoy lo affiancava. «Ehi, ciao a tutti.»
Lo guardammo parecchio interrogativi. «Ehm… scusa, chi sei?» domandai. «Devi lottare contro uno di noi?»
«Oh, spero proprio di no» si mise a ridacchiare.
«Avete finito voi, laggiù?» udimmo dire il professore, che si stava avvicinando. Vidi chiaramente il viso del ragazzo assumere un’espressione che non mi ispirò affatto.
L’insegnante squadrò sospettosamente il ragazzino. «E tu chi sei?» fece, ponendo la mia stessa domanda.
Le mie sopracciglia si aggrottarono: “Possibile che non conosca uno studente?”
«Nessuno in particolare» disse candidamente il ragazzino. «Baltoy, usa Teletrasporto!»
Il prato e il cielo limpido furono sostituiti da un vortice di colori confusi prima che potessi realizzare cosa quello sconosciuto avesse fatto. Mi parve di udire un altro comando mentre viaggiavamo impotenti verso chissà dove, e subito dopo le palpebre mi si fecero pesanti. Era un’Ipnosi e noi stavamo andando sicuramente in pasto al Nemico.








Angolo ottuso di un'autrice ottusa
Non che abbia qualcosa di particolare da dirvi, cari lettori, ma qualcuno ha sentito la mancanza dei miei deliri in quest'angolo ottuso - ciao Moro - e mi sono sentita in dovere (?) di fare un piccolo monologo, dopo ben due capitoli sprovvisti di angolo ottuso - penso sia un record.
Come va, gentaglia? Da me non c'è male, potrebbe andare molto meglio ma ci accontentiamo. La scuola è sempre dittatrice, così come il tempo, e nel giro di qualche ora passata a scrivere o a disegnare mi ritrovo a dirmi "aspetta, ma avrei dovuto fare i compiti" prima il piacere e poi il dovere, mi sembra giusto accorgendomi come una babbuina beduina (?) che ops, le lancette girano. Tra l'altro spero che abbiate cambiato l'ora, stanotte, se non l'aveste fatto ora è il momento giusto #informazionidiserviziorandom
Btw ho iniziato a rivedere pure NTSS2, sto al terzo capitolo mi sembra - quello in cui la ragazzina scema va al Monte Luna con un po' di compagnia - e mamma mia se è incasinata pure quella storia. Mi viene voglia di tirare un par de schiaffi a quanti mi facevano i complimenti perché la prima metà di quella storia penso sia... meglio non dirlo. Quanto a Ribellione AHAHAHAHAHAH sto ancora raccogliendo le idee per così dire ahahahahahaha qualcuno mi uccida; e al momento è in dirittura d'arrivo il capitolo XIII di questa storia, spero di riuscire a scrivere anche quello successivo, che è breve, in settimana.
Direi che è un bel salto essere al capitolo XII e vedere i bambocci rapiti, quando nella prima versione succedeva nel diciottesimo capitolo se non sbaglio. Sinceramente non vedo l'ora di liberarmi della pubblicazione settimanale, con l'arrivo di NTSS3, e prendermela con molta più calma.
Alla fine di cose da dire se ne trovano, eh? Mamma mia se chiacchiero in abbondanza. Meglio salutarci ne'? Ci si becca il prossimo weekend!
Ink

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Capitolo 14
*** XIII - Tra le grinfie del Nemico ***


XIII
Tra le grinfie del Nemico

Non seppi dire quanto tempo passò dal Teletrasporto effettuato al mio risveglio: da un lato mi parve fossero trascorsi giorni interi, dall’altro credetti che fosse passato pochissimo tempo, che ci fosse ancora qualche possibilità di salvezza. L’Ipnosi aveva avuto effetti inaspettati su di me, perché mai avrei creduto di potermi sentire così male non appena i miei sensi iniziarono a recuperare il contatto con la realtà. Ricordo che sulle prime pensai di essere in uno stato di trance, di rivedere il cielo colorato del sogno disturbante dell’ottobre scorso, finché quelle tinte vivide ed abbaglianti non sfumarono in un freddo grigio. Allora arrivarono alcune fitte di dolore alla testa. Esse, dopo alcuni momenti passati a lamentarmi tra me e me, mi costrinsero a spalancare gli occhi.
Iniziai ad ansimare, come se stessi annaspando nel tentativo di respirare più aria possibile dopo aver passato fin troppo tempo sott’acqua. Udii una voce borbottare qualcosa ma non ritenni subito una priorità cercare di capire a chi essa appartenesse. Piuttosto mi concentrai sulle prime cose di cui mi stavo rendendo conto: il mal di testa che fortunatamente stava affievolendosi, la sensazione di essere legata con le spalle al muro e di poter riempire a malapena i polmoni, gli ultimi ricordi dello strano ragazzo che d’improvviso si era presentato dinanzi a noi e, in qualche modo, era riuscito ad usare Teletrasporto. Non ero sicura che fosse possibile farlo dentro le barriere, ma in effetti non c’era un motivo per cui fosse vietato farlo.
Sentirmi stretta mi insospettì non poco. Abbassai lo sguardo e notai delle corde metalliche ordinatamente messe attorno al mio corpo. Coprivano praticamente tutto il mio busto. «Oh, no» riuscii solo a mormorare.
Mentre mi schiarivo la voce, terribilmente arrochita, la persona che prima aveva detto qualcosa che non avevo decifrato si fece sentire nuovamente: «Meno male che ti sei svegliata quasi subito dopo di me.»
«Gold» quasi esalai il suo nome come se mi costasse un’enorme fatica parlare. Il ragazzo doveva stare attaccato al palo dalla parte opposta a dov’ero io. «Non… non ci sto capendo più niente. Però… il ragazzo di prima, cielo…»
«Era uno del Nemico, e ora siamo in una sua base.»
«Sì, sì.» Trascorse qualche secondo di silenzio. Non riuscii subito a comprendere la gravità della situazione e mi ritrovai a chiedere, più per fare conversazione che per tranquillizzarmi e capire qualcos’altro su cosa stava per accadere o se già era successo qualcosa di brutto: «C’è qualcun altro con noi?»
«Camille e Chiara. Spero si risveglieranno presto.»
Non riuscii a rispondere nulla. Avvertii alle mie spalle una grossa colonna di freddo metallo, dopodiché smisi di guardarmi i piedi ed esplorai l’ambiente con gli occhi, mentre cercavo di mettere completamente in funzione il cervello ed elaborare qualche pensiero utile e di senso compiuto.
La stanza era piuttosto spaziosa ma forse era solo un effetto dato dallo scarsissimo arredamento, a meno che gli altri, vedendo il resto di essa, non fronteggiassero qualcos’altro. Girai la testa a destra e a manca ma non trovai niente che contraddicesse l’opinione che mi ero fatta; smisi presto di studiare il pavimento, il soffitto e le pareti. Erano tutti indistintamente ricoperti dello stesso materiale, che aveva l’aria di essere un bello e particolare acciaio scuro la cui superficie non pareva liscissima. Mossi quel poco che potevo le spalle, rimediando qualche lamento dalle zone di pelle a contatto con le corde metalliche, e capii che invece la colonna era liscia e di forma cilindrica. Semplici, asettiche lampadine bianche creavano fredde sfumature sull’acciaio. La temperatura era parecchio alta, nonostante quel giugno non fosse affatto caldo.
Capii che non era il caso di chiamare quel posto stanza, ma cella. Eravamo prigionieri.
Feci per dire qualcosa ma i toni accesi di Chiara presero il sopravvento. La sua voce, alterata dalle emozioni turbolente che doveva star provando, arrivò dalla mia destra: «Non ci credo! Non voglio crederci!»
«Vi prego, manteniamo la calma» mormorò Gold. «So che è difficile e che siamo in una situazione terribile… dobbiamo stare tranquilli e aspettare di capire qualcosa di più. Camille, ti sei svegliata?»
Dalla rossa arrivò una risposta affermativa. Invidiai la voce decisa della ragazza, ero sicura che la mia avrebbe tremato tanto da fare pietà al Nemico che ci aveva rapiti. Ecco cos’era successo ed ecco che non potevo più osare alcuna ipotesi sul futuro imminente, perché quel dannato futuro poteva rivelarsi più sanguinoso di quanto sarei stata in grado di sopportare. Mi lasciai sfuggire un lieve gemito che sperai fosse passato inosservato. Mi morsi il labbro inferiore per impedirmi di emettere altri suoni penosi, ero talmente spaventata! Avevo già preso a tremare per la paura. Cosa ci avrebbero fatto? Era la prima volta che percepivo il Nemico così vicino quando mai, in quei mesi passati all’Accademia, avrei previsto un contatto così palpabile. Cosa eravamo in quel momento, prigionieri od ostaggi? Oppure i nemici volevano trasformarci in reclute, dando un’altra prova della propria forza, essendo stati in grado di trovare l’Accademia e di portar via da quel nido ben quattro ragazzi?
«I nostri Pokémon» balbettai. Chissà dov’erano le nostre cinture; non mi sentivo la mia addosso, la indossavo sempre alla vita - com’era giusto che fosse.
Chiara imprecò. «Qui intorno non c’è assolutamente niente. La stanza, cioè, la cella è completamente vuota, davanti a me ci sono delle sbarre. Ma fa caldissimo! Dove siamo, se la temperatura è così alta?»
Nessuno le rispose e lei non insistette, capendo che non era proprio il momento di fare conversazione. In quei momenti, molto probabilmente, avanzammo tutti le stesse ipotesi sulla situazione nelle nostre menti, ma non ci dicemmo nulla temendo di essere ascoltati da orecchie nemiche. “Se siamo prigionieri” pensai, “allora cercheranno di estorcerci informazioni, magari con la forza.” Subito la mia fantasia andò al galoppo e ricordai macabre scene di storie dell’orrore lette troppo presto, rispetto all’età che sarebbe stata adatta, per sfamare la mia innata curiosità quando si trattava di leggere un libro o vedere un film. Percepii dei brividi sulle punte delle mie dita al pensiero di essere minacciata di vedermi strappare le unghie a meno che non fossi stata al gioco del Nemico. Non sarei stata assolutamente in grado di far nulla, se non piagnucolare ogni risposta che avessero cercato alle loro domande.
“Se invece siamo ostaggi, probabilmente vogliono attirare quelli dei nostri in una trappola, se o quando mai verranno a cercarci.” Anche lì non potei non rabbrividire, soffocando un penoso mugolio, ponderando la terribile idea di rimanere in balia della crudeltà nemica per il resto dei nostri pochi giorni a venire. Difficilmente ci avrebbero trattato con riguardo. “Quindi… a meno che le Forze del Bene non sappiano dove possiamo essere finiti e inizino subito le ricerche… passeremo parecchio tempo qui e poco tempo ancora a vivere, immagino. Cielo! Se ci penso mi sembra… di svenire…” Boccheggiai ed ebbi un capogiro ma mi sforzai di rimanere cosciente. La tensione e la pressione stavano sfinendo i miei fragili nervi.
«Ripeto, ragazzi, secondo voi dove siamo?» Mi chiesi dove avesse trovato il coraggio, Chiara, per riprendere a parlare dopo minuti interi di silenzio. «Già non credevo che un Teletrasporto funzionasse dentro delle barriere, almeno non in quelle dell’Accademia. Ma è possibile che ci abbiano portati in un’altra regione?»
«No» rispose subito Camille. La sua voce era ferma e fredda come al solito. «Le barriere non possono impedire un Teletrasporto, ovviamente, a meno che non siano molto particolari, ma dubito che l’Accademia fosse provvista di mezzi così speciali. Comunque sono certa che siamo ancora dentro Sinnoh. Teletrasporto funziona solo dentro una regione specifica e non credo che quel ragazzino sia riuscito ad attraversare i confini portando con sé quattro ragazzi più grandi di lui e non passare inosservato.»
«In effetti i confini sono sempre sorvegliati dalle forze dell’ordine» mormorai. Avevo lo sguardo vacuo, nuovamente fisso sulle punte delle mie scarpe, e risposi meccanicamente.
«Già. Ora non ci resta che pregare perché arrivino i nostri» disse Chiara.
«Sempre che si degnino di farlo» ribatté Camille.
Di nuovo calò il silenzio. Continuavo a mordicchiarmi il labbro inferiore e non mi stupii di sentire, dopo interi minuti passati a tormentarlo, il ferroso sapore del sangue. Mi ero fatta un piccolo taglietto da cui gocciolava imperterrito; avevo la gola e la bocca secche e “leccarmi le ferite” non era una buona cosa da fare.
“Sempre che si degnino di farlo. Sempre che ritengano necessario venirci a prendere.” Le parole gelide ma forse veritiere di Camille presero a risuonare ininterrottamente nella mia testa finché non mi ritrovai a contare Mareep per distrarmi e smettere di alienarmi in quel modo, riascoltando continuamente la sua voce tagliente. Non volevo neanche pensare a cosa poteva dire rimanere lì per sempre, o essere costretti, in futuro, a indicare le Forze del Bene come il Nemico. “Voglio tornare a casa, voglio tornare a casa” prese a ripetere una vocina piagnucolante nella mia testa: immersi com’eravamo nel più totale silenzio, i pensieri disturbati e disturbanti che formulavo stridevano nella mia mente, facendomi quasi temere di diventare sorda. Stavo inesorabilmente cedendo. “Non ci lasceranno qui, non possono lasciarci qui! Voglio tornare, non voglio combattere né soffrire… basta, basta…”
Le frasi che stavano iniziando a sorgere erano di gran lunga peggiori rispetto a quelle a cui succedevano; mi sforzai di smettere di tenere gli occhi stralunati e vitrei, com’era stato naturale che diventassero a forza di pensare tanto negativamente, come se stessi impazzendo. “Ma tanto se le Forze del Bene non vengono a prenderci prima che arrivi il peggio facciamo tutti in tempo a mori-”
«Penso che verranno a prenderci» bisbigliai all’improvviso. 
Tutti gli altri, quasi all’unisono, fecero “Eh?”; mi sforzai di schiarirmi la voce per alzare un po’ il tono, il mio era stato un sussurro inudibile. Come c’era da aspettarsi, Camille chiese: «E perché mai lo credi?»
«Se quelli delle Forze del Bene saranno stati in grado di rintracciarci, allora verranno per evitare che il Nemico cerchi di ottenere informazioni da noi.» Ci fu di nuovo una pausa di silenzio e temetti di rimanere sola con le mie paure, perciò ripresi a parlare: «Pensate che non lo farebbero comunque?»
«Quali informazioni vuoi che abbiano ragazzini come noi, Eleonora?» obiettò Camille. «Non siamo ostaggi né ci tortureranno per ottenere qualcosa, a mio parere, a meno che qualcuno non sia in cerca di una valvola di sfogo. Io credo che siamo… per così dire… semplici prigionieri e forse futuri membri del Team.»
Ammutolii. Almeno stavolta Camille zittì pure tutti i miei dubbi - decisi di darle ragione su tutto, perché le sue parole, pensandoci, avevano la logica migliore, la più valida e forte. Sembrava avesse esperienza in quella materia: Gold e Chiara chissà se avevano cercato di farsi qualche idea e se ne avevano avuta una simile a quella di Camille; io avevo provato ad esporre la mia, in cerca di una speranza a cui aggrapparmi, ma la ragazza che da meno tempo era arrivata all’Accademia sembrava la più saggia ed esperta. Mi stupii del tono imperturbabile che aveva la sua voce, perché la mia aveva tremato anche troppo per quelle poche parole che avevo detto. “Ma sarà vero che non ha mai avuto un confronto con qualcuno del Nemico? Mi sembra così strano.”
Perciò glielo chiesi un’altra volta, con le stesse parole di quando le avevo posto quella domanda dopo la prima lotta fatta contro di lei: «Hai mai incontrato il Nemico, Camille?»
E di nuovo la risposta fu lapidaria: «No.» Non aveva esitato, come al solito. Eppure mi pareva una cosa troppo strana, il fatto che la ragazza avesse una buona dimestichezza, sicuramente superiore rispetto alla media, quando si trattava di ragionare sul Nemico e sulla sua natura, per quanto fosse avvolta nel dubbio. Furono ancor più fuori dal comune le sue parole successive: «Perché me lo hai chiesto… di nuovo?»
Le spiegai il motivo, ovvero che appariva abbastanza esperta quanto a cercare di decodificare i comportamenti di un’entità così strana, quella del Nemico. Non mi aspettavo una risposta e non venne; disse solo: «È intuito.»
Feci finta di crederle e mi chiusi di nuovo nel silenzio. Dopo poco iniziai ad avvertire una sibillina sonnolenza che mi fece dapprima socchiudere gli occhi, poi sobbalzare per lo stupore di starmi quasi addormentando - tra l’altro in piedi, ma forse non potevo dire così, essendo “sorretta” dalle corde. Doveva essere colpa dell’Ipnosi che era stata operata su di noi se mi stavo sentendo in quel modo, se avevo nuovamente così tanto sonno che se avessi chiuso gli occhi per una manciata di secondi mi sarei appisolata.
Però ero anche sfiancata da tutto ciò che stava succedendo. Mi domandai perché non fossi ancora scoppiata a piangere o a gridare con quanto fiato avevo nei polmoni, magari fino a perdere la voce che era tanto piacevole e bella da ascoltare quando cantava, per implorare pietà e cercare di vederci restituita la libertà. Mi chiesi perché nemmeno Chiara e Gold - Camille sembrava insensibile a tutto come suo solito - stessero impazzendo di paura al pensiero di poter morire. Potevamo morire! Sembrava così impossibile ma d’altra parte poteva essere ovvio. Non avrei mai saputo se il primo incontro con il Nemico sarebbe stato anche l’ultimo, se ci avrebbero tratti in salvo o se la nostra unica possibilità rimasta sarebbe stata diventare delle reclute.
Forse cercare di trattenere gli strilli e le lacrime mi aveva stancata tanto da far sopraggiungere quell’inaudita sonnolenza. E magari era pure meglio dormire un po’, solo qualche minuto, almeno nella speranza che il sonno sospendesse la realtà e che mi concedesse qualche istante di tregua…

Mi risvegliai dopo un attimo, o almeno così mi parve. Forse ero svenuta, oppure mi ero davvero addormentata. Non avevo mai perso conoscenza prima di allora, perciò non seppi dire cosa mi fosse accaduto di preciso.
«Ragazzi?» chiamai. Gold mi disse che era presente tramite un borbottio sommesso. «Credo… non so, forse ho perso i sensi… ma più probabilmente mi sono addormentata.»
«Non sei stata l’unica» mi rispose lui. «Anche Chiara si è messa a dormire poco dopo di te. Ci eravamo accorti che non rispondevi più… pure Camille ha detto di essere troppo tentata dal sonno e penso si sia addormentata.»
«Strano che Chiara non si sia messa a strillare temendo che fossi morta per un colpo al cuore.»
Gold ridacchiò. «A quanto pare la preoccupazione è stata vinta dalla stanchezza.»
Sbuffai appena. «Chissà quanto tempo è passato…»
«Da quando siamo stati presi, dici? Qualche ora sicuramente, almeno tre. Secondo me, eh! Ma penso che sia comunque troppo poco tempo perché i nostri abbiano capito dove cercarci e chissà quando troveranno un modo per tirarci fuori dai guai… ma la speranza è l’ultima a morire, no?»
«Già.» Chissà se Camille dormiva davvero; non potei fare a meno di chiedermelo. «Gold, è un problema per te se svegliamo Chià e Camille?»
«N-no, non penso. Perché?»
Arrossii lievemente. «Non mi piace l’idea che loro possano tenerci d’occhio, sono certa che in questa stanza ci siano telecamere e registratori per controllarci. Se ci mettiamo a dormire… non ho potuto fare a meno di crollare, non so te, ma se avessi avuto modo di evitarlo… stamattina non ho bevuto abbastanza caffè.»
«Ti piace il caffè? È così amaro, che schifo!» esclamò Gold schizzinoso.
Scoppiai a ridere e mi fece davvero molto piacere udire il suono vivo e allegro di quella sincera risata. Il tono di Gold era stato esilarante e non ero riuscita a trattenermi, anche per il nervosismo che dovevo sfogare. «Ma il caffè è così buono! Anche se penso che mi sta facendo a pezzi la pancia, è da un sacco che ne bevo tantissimo… certe volte credo di capire come si sentono gli alcolizzati quando non toccano per troppo tempo una bottiglia, perché anche io mi sento malissimo quando non vedo per più di ventiquattr’ore una tazzina di caffè!»
Chissà perché mi era presa la parlantina in quel momento. Pure Gold rise, lievemente ma allietato per i piccoli momenti di distrazione che ci stavamo regalando, e mi consigliò di passare al cioccolato e di abbandonare “quella bevanda schifosa e tanto amara che mi fa rizzare i peli sulla nuca”. Gli risposi che anche la cioccolata era una parte importante della mia “dieta”, se così si poteva definire.
«Cosa… perché ridete?» boccheggiò Chiara un attimo dopo, risvegliatasi.
Sentii chiaramente Camille sbuffare. Ero certa che non si fosse addormentata neanche per mezzo minuto. Gold le disse che non riusciva neanche lontanamente a capire come potesse piacermi così tanto quell’“orrida bevanda” e Chiara, che pure lei da sempre si chiedeva come fosse possibile, gli diede manforte. «Più o meno è da quando l’ho conosciuta, quindi circa tre anni fa, che va avanti a caffè, cioccolata e cioccolatini al caffè!»
«Mi spiace interrompere la vostra amabile chiacchierata…»
Il sangue si raggelò nelle mie vene e non mi fu chiaro il motivo per cui avessi ancora la possibilità di respirare. Era stata una voce maschile, sconosciuta, a parlare e non era difficile immaginare chi potesse averci interrotto, se non un uomo del Nemico. Non era un timbro giovane, anzi, aveva l’aria di essere piuttosto matura. Nel silenzio tombale che subito si era venuto a creare riuscii addirittura a distinguere il fiato di ognuno di noi, che per tutti si era fatto più veloce e ansimante. Poi Chiara trattenne il respiro e io socchiusi gli occhi, temendo il peggio.
Sentii uno strano rumore ma non era quello che mi aspettavo. Credevo che a quelle parole micidiali sarebbero seguiti dei passi, magari pesanti per mettere in risalto la fragilità della situazione, oppure una risata cinicamente soddisfatta di averci zittiti con quella mezza frase. Invece no. Arrivò alle nostre orecchie lo sbuffo di qualche gas esalato da chissà dove; la testa iniziò a girarmi e svenni, per la prima o la seconda volta in quel tremendo giorno, dopo aver visto dei vapori bianchi diffondersi per tutta la cella.
Di nuovo mi sembrò di aver chiuso gli occhi e di aver ripreso i contatti con la realtà un momento dopo, dando a me stessa pochissimo tempo per assaporare il piacere di resettare tutto. Strizzai gli occhi, sentendo un vago dolore al petto, prima di aprirli con immane lentezza - per poi richiuderli nuovamente, trovandomi con la testa proprio sotto la luce di una lampadina bianca, che in quel momento mi parve accecante. Sentii un nodo stringermi le vie aeree e mi ritrovai a respirare più con la bocca che con il naso. Capii di essere distesa, per di più per terra.
Tentai di tirarmi su a sedere ma feci una nuova scoperta: avevo le mani legate. Ci misi un po’ per mettere da parte la mia naturale goffaggine e riuscii finalmente a tirarmi su. Mi guardai intorno e non vidi nessuno. La cella pareva esattamente la stessa, a meno che in quella base nemica non fossero tutte uguali e mi avessero trasportata altrove. “Che senso ha ammanettarmi i polsi e lasciarmi qua da sola? Ho le gambe libere… non che sia un pericolo, ma almeno qualche precauzione in più, non sottovalutarmi del tutto… no?” Mi alzai per sgranchirmi le gambe. Ero parecchio sudata, sia per il caldo che per la paura. Mi girai e vidi la colonna con le corde metalliche a terra - serpi accoccolate l’una accanto all’altra, lì giacenti attorno al pilastro, pronte a cercare di imprigionarmi di nuovo.
Osai chiamare i miei amici. «E-ehi… Gold, Camille? Chià…?» Alzai la voce fino a raggiungere un tono poco più alto del normale, poi smisi, troppo intimorita. Camminai un po’ e arrivai davanti alle sbarre che Chiara aveva fronteggiato finché eravamo rimasti legati alla colonna. Erano abbastanza larghe per dare un’occhiata all’esterno ma fin troppo strette perché anche una ragazzina magra come Chiara o Camille potesse provare a passare oltre, spostandosi di profilo. Dopo lunghi secondi di esitazione mi azzardai a fare capolino, sperando di non venir fulminata da chissà quale micidiale sistema d’allarme.
Non successe nulla e potei permettermi di riprendere a respirare. Il silenzio era assordante - solo ricorrendo al più comune degli ossimori l’idea può essere resa abbastanza bene. Il fatto è che era davvero insopportabile stare lì da sola, completamente abbandonata sia dal Nemico che dalle Forze del Bene, separata dalle uniche persone che potevano essere un sostegno in quella situazione terribile. Iniziai a tremare, sentendomi soffocata dall’immobilità dell’aria, dell’assenza di suono e di presenze esterne a me. Ero sola. “Vogliono farmi dare di matto!” pensai mortificata e spaventata. “E ci riusciranno pure, vista la fragilità dei miei nervi, che già sono stati distrutti prima… figurarsi ora, la solitudine e la paura mi uccideranno! A-aiuto…!”
Mi venne in mente l’idea assurda di mettermi a cantare. In un primo momento mi dissi “Perché no? Potrei attirare l’attenzione in un modo abbastanza bizzarro. Sempre meglio avere la compagnia di un nemico che essere costretta a star qui da sola!”, subito dopo me lo impedii: “No, sarebbe troppo imbarazzante.” Indecisa fino alla morte accantonai il progetto. Ma subito dopo, altrettanto incoerentemente, presi a cantare l’unica canzone che mi sembrò pure abbastanza adatta alla situazione. Il suono del silenzio richiamò un testo che avevo sempre amato.
«Hello, darkness, my old friend…» mormorai. Feci una lunga pausa, chiedendomi se valesse la pena continuare o no. Chiusi gli occhi e scossi la testa. “Cos’ho da perdere, comunque?”
«I’ve come to talk with you again.» Alzai un po’ il tono. «Because a vision softly creeping… left its seeds while I was sleeping. And the vision that was planted in my brain still remains… within the sound of silence.»
Impiegai qualche istante per ricordare i versi successivi: era da tanto che non cantavo quel brano. «In restless dreams I walked alone, narrow streets of cobblestone. ’Neath the halo of a street lamp, I turned my collar to the cold and damp… when my eyes were stabbed by the flash of a neon light that split the night… and touched the sound of silence.»
Fui interrotta da un educato battito di mani. Mi morsi la lingua per la sorpresa, già dimentica di ogni cosa che non fosse la mia voce e il testo della canzone. Mi ritrassi dalle sbarre a cui mi ero appoggiata, dando le spalle al buio corridoio all’esterno, e mi voltai, aspettando impazientemente che il proprietario del suono di alcuni passi molto vicini si facesse vivo. Non dovetti aspettare troppo.
Un uomo dai capelli celesti, tagliati molto corti, si parò davanti a me. Era piuttosto alto, pure le spalle erano abbastanza larghe ma la divisa, pur non essendo aderente, metteva in risalto il fisico asciutto che poco si accordava con la loro ampiezza. Non aveva la pelle chiara. Il naso aquilino spiccava sul viso smagrito, che almeno in passato non doveva essere stato bello né brutto. L’espressione beffarda ma fredda che aveva certo non me lo fece piacere - oltre al fatto che fosse un nemico. Solo le labbra sorridevano, gli occhi grandi e un po’ all’ingiù sembravano privi di qualsiasi emozione, nemmeno la curva delle sopracciglia sottili lo caratterizzava in qualche modo.
Gli occhi sono lo specchio dell’anima, forse lui non aveva più la sua. “Il viso sembra una maschera” considerai. Le mie pupille erano state calamitate verso le sue e, nonostante la tremarella fosse palese dimostrazione della mia paura, non riuscivo ad interrompere il contatto visivo.
«Canti davvero bene. Non avevo alcun dubbio» disse. Era la stessa voce che aveva preceduto i gas soporiferi, o qualunque cosa ci avesse storditi abbastanza da farci addormentare. Nemmeno mi chiesi perché avesse detto “non avevo alcun dubbio”, tanto mi parve di poca importanza in quel momento. Proseguì: «È un piacere conoscerti, Eleonora. Io sono Cyrus.»
Indietreggiai. In seguito me ne pentii ma lì per lì non me ne importò, tanto già era evidente che fossi ai limiti della sopportazione del terrore. «Lei ha comandato il Team Galassia più di dieci anni fa» mormorai.
«Sì, esatto. Ora comunque sono uno dei Comandanti del Victory Team.»
Il loro nome non era mai cambiato. Quasi mi vergognai del fatto che le Forze del Bene, certe volte, apparissero così svantaggiate rispetto al Nemico che, finalmente, aveva un suo nome. Sempre che Cyrus non stesse giocando con me e che non mi stesse ingannando. Allora glielo chiesi e lui mi confermò che era sempre stato quello, il nome, e che l’espressione di vittoria che lo caratterizzava non era stata scelta per motivi futili o difficilmente realizzabili.
«Dove sono i miei amici?» chiesi subito dopo.
Cyrus sorrise maggiormente. «Come mai non mi chiedi prima il motivo per cui siete stati portati qui?» Non gli risposi nemmeno, ostinata. Lui sbuffò leggermente. «Sono qui vicino. Non c’è niente di cui tu debba avere paura, cara Eleonora, sicuramente sei in un luogo molto più protetto di quella sciocca Accademia.»
“Non sono la tua cara!” gridai nella mia mente. «Qui vicino dove?»
«Nelle stanze accanto.»
«Camille!» strillai, senza nemmeno lasciarlo finire. Smisi di guardarlo negli occhi. «Gold! Chiara!»
«Non sprecare fiato! Non ti sentiranno. Nemmeno ti hanno sentita cantare.»
Spalancai le palpebre. O vicino a me c’era un obitorio, in cui sarei stata mandata al più presto possibile, oppure i miei amici erano stati sedati, altrimenti… altrimenti c’erano così tante situazioni plausibili che potevano essersi verificate che smisi di fare congetture. «Cosa… cosa avete fatto?»
«La struttura di questo piano, non tanto delle celle di per sé stesse, è un po’ particolare. Dei muri non visibili impediscono il passaggio di suoni e rumori da una parte all’altra del piano. Io ho potuto ascoltarti, fortunatamente direi, perché sono nella sezione che comprende la stanza in cui ti trovi; ed è per lo stesso motivo che riusciamo a parlarci.» Le labbra di Cyrus sorridevano amabilmente ma lo stesso non si poteva comunque ancora dire dei suoi occhi inespressivi. «Ad ogni modo vi trovate tutti e quattro nella stessa situazione: ammanettati solo ai polsi, liberi di girovagare per la vostra stanzetta… ormai non avete più l’illusione di essere soli, ma è come se lo foste. Ma comunque, ci saranno davvero tante domande che ti starai ponendo, e chissà quante te ne sarai fatta nel corso dei mesi passati nell’Accademia, come volete chiamare voi quel posto! Oppure non ti sei fatta nessuna domanda? Non farmi credere questo…»
«Perché dovrei esporre tutti i dubbi che ho avuto in questo periodo, se sono certa che non avrò risposte?»
«E perché ne sei certa? È vero che non a tutte le domande che potresti fare sarà concessa una risposta esaustiva, è anche vero che alcuni dubbi che rimarranno senza una spiegazione forse non li hai mai avuti, ed è vero pure che certe cose hai il diritto di saperle… ma magari non oggi. Magari la prossima volta che ci vedremo.»
Le ultime parole mi sorpresero. Cercando di usare un tono freddo, dissi: «Da come parla… sembra che questo non sia il giorno in cui voi Victory terrete per sempre con voi me e i miei compagni.»
«No, infatti. Tra non molto sono certo che arriveranno le Forze del Bene.»
«Come potete rassegnarvi a lasciarci andare in questo modo?!» mi scaldai.
«Ti dà fastidio?» ghignò Cyrus, che continuava a rispondere alle mie domande con altri interrogativi. «Ci sono dei motivi per cui questa volta sarà solo la prima in cui ci vedremo, Eleonora, e probabilmente in futuro passerai con i Victory molto più tempo di quanto tu possa credere ora. Ma non credere che, quando i tuoi carcerieri saranno qui per portare te e i tuoi amici di nuovo nella vostra Accademia, noi Victory ce ne staremo con le mani in mano e vi lasceremo andare senza opporre resistenza. È una tentazione troppo forte quella di poter fare più male possibile alle Forze del Bene, anche quando in teoria abbiamo già deciso di lasciar correre! E ovviamente, se l’incapacità dei tuoi attuali alleati sarà intollerabile, non esiteremo a tenerci almeno tre di voi ragazzi qui con noi.»
«Non capisco» mormorai. “Ha chiamato carcerieri quelli delle Forze del Bene. Credevo stesse parlando di, non so, Victory che facciano da guardia alle celle… invece no. E sembra che stia già prevedendo il periodo in cui me ne andrò dalle Forze del Bene per passare dall’altra parte, come se fossi in grado anche solo di pensarlo!”
«Non temere, è normale. È una situazione molto difficile e la capirai solo tra un po’ di tempo. Mi spiace doverti far aspettare ma è necessario… ora, però, vorrei smettere di confonderti ulteriormente le idee. Forse hai qualche cosa da chiedermi a cui posso darti risposte più precise.» Lo feci aspettare un po’ mentre ero in cerca di domande da porgli, visto che sembrava disponibile a darmi qualche spiegazione. Non che mi aspettassi la verità in cambio dei miei dubbi, ovviamente, ma non potevo stare in silenzio e far parlare solo lui. Avevo già le idee confuse, se poi avesse continuato sarei impazzita. Mi misi a studiare la sua divisa mentre aspettavamo entrambi.
I pantaloni, fino al ginocchio neri e poi di un bel grigio-argento, non erano esageratamente aderenti. Aveva dei semplici stivali dello stesso colore della prima metà, attraversati da sottili linee rosse. Una cintura con sei Poké Ball era allacciata alla vita stretta dell’uomo. Sopra una maglia scura aderente e di un materiale lucido, forse di pelle, indossava una specie di gilet dalle spalline pronunciate e con una piccola scollatura a V - poi c’era il collo alto della maglia sotto di esso. I colori che si ripetevano armoniosamente nella sua divisa erano il nero, il grigio e un po’ di bianco e rosso. Mi chiesi se sulla schiena ci fosse qualche decorazione particolare, la divisa era piuttosto semplice.
«Cosa mi dice dei miei Pokémon, Cyrus?» posi la prima domanda.
«Potrai riportarteli all’Accademia senza problemi. A condizione, come già detto prima, che le Forze del Bene combattano con decenza e che non ci costringano a tenervi tra di noi, insieme alle vostre squadre.»
«E perché non ve li tenete per i vostri esperimenti?»
«Non ci servono. Non tutti i Pokémon che incontriamo sono destinati a contribuire alla ricerca, Eleonora.»
«Si chiama sfruttamento.» Iniziai a mostrarmi un po’ più sicura di me e sfrontata, temeraria.
«No, non è vero. Non dovreste demonizzarci, voi delle Forze del Bene.»
«Avete cercato di attirare me e una mia amica in trappola per farci passare dalla vostra parte! È impossibile non vedervi come malvagi, se… se non fosse stato per voi… adesso sarebbe ancora tutto normale e non saremmo in pericolo di vita ogni giorno!» sbottai. Poi aggiunsi: «Ho il diritto di essere vostra nemica.»
«Per ora puoi fare come preferisci, Eleonora. Ma prima o poi ti accorgerai di quanto le Forze del Bene non siano delle persone che ti hanno salvata dalle nostre grinfie, se così vuoi vederci… la verità è che ti hanno tolto un altro diritto, il diritto più importante che spetta ad ogni essere umano, che è quello di poter conoscere sé stesso. Non sei d’accordo con me? Non è questo ciò che ogni uomo dovrebbe avere in possesso, la verità su di sé e sulla propria identità? È vero che in certe situazioni si può decidere di non andare troppo a fondo nel proprio io… ma si tratta comunque di una decisione personale. Non dovrebbero impedirti di conoscere chi sei, Eleonora, eppure nemmeno ti hanno detto che un motivo c’era, se quelle barriere sono state fatte abbassare!»
Lo guardavo mortificata. «Non capisco» ammisi per la seconda volta. «Non capisco di cosa sta parlando.»
Cyrus parve sorridere più gentilmente. Era un’espressione agrodolce: era insopportabile ma, allo stesso tempo, mi pareva quella di qualcuno che può dare un aiuto di vitale importanza. «Parlo di te, Eleonora, e del fatto che noi Victory non ci prendiamo il disturbo di catturare ragazzini in modo casuale solo perché ci servono altri lavoratori. Ne abbiamo già abbastanza, hai idea di quanto costi mantenere una simile massa di persone? No, non è per questo che il Monte di Nevepoli ha lasciato il suo posto al quartiere nord. È per via della tua identità fuori dal comune.»
Ci fu una lunga pausa. Avrei avuto bisogno di molto più tempo per cercare di capire cosa avesse voluto dirmi Cyrus, ma mi sforzai di parlare: «Io sono una ragazza normale. Non… non ho niente che… non ho niente che avrebbe dovuto interessarvi a tal punto da abbassare le barriere» dissi tutto d’un fiato.
«Devo contraddirti, Eleonora, e ribadire due cose che fingi di non aver sentito: il fatto che tu sia una persona molto speciale e che le Forze del Bene abbiano fatto di tutto per non fartelo scoprire. Non che ci sia voluto molto impegno: non avresti avuto comunque modo.»
«Allora cosa ho di speciale?» La mia voce era ridotta ad un sussurro pieno di terrore.
«Questo non te lo posso dire. Non ora» rispose Cyrus. «Ma un giorno… il giorno in cui qualcosa in te cambierà, se farai le scelte giuste, allora saranno soddisfatti tutti i tuoi dubbi.»
Scelte giuste, dubbi, risposte arrivate per metà e spiegazioni non avute… di tutte le cose dette da Cyrus non mi erano comprensibili neanche la metà. Questo mi spaventava e mi disturbava ancora di più, come se la paura di non sapere cose di vitale importanza e la paura di poterne venire a conoscenza non fossero abbastanza per farmi andare in crisi. Non mi era dato sapere qualcosa che mi riguardava, non mi sarebbe stato detto nulla dai Victory né dalle Forze del Bene - a meno che le previsioni di Cyrus non si fossero rivelate fallaci. Stando a quanto aveva detto, la mia identità mi sarebbe stata rivelata quando, il giorno in cui qualcosa in me fosse cambiato, avrei fatto delle scelte opportune. A quel punto avrei avuto accesso a tutte le risposte che cercavo.
«Quindi… ora mi lascerete andare insieme ai miei dubbi e a nuovi problemi. Li state scaricando sulle spalle delle Forze del Bene, sapendo che non tradiranno mai le vostre aspettative… e quando arriverà il momento, a seconda di quello che deciderò di fare… saprò la verità, altrimenti continuerò a non capire.» Così, se le Forze del Bene si fossero ostinate a non rivelarmi nulla, me la sarei presa con loro nei modi peggiori. Il mio interlocutore, quindi, si aspettava che quel fantomatico giorno sarebbe stato segnato dal mio passaggio nei Victory, pur di sapere la verità su me stessa… sinceramente non sapevo dire in quel momento, tanto ero turbata da riuscire a malapena a pensare, se mi sarei comportata male nei confronti delle Forze del Bene o dei Victory.
L’espressione di Cyrus era sempre stranamente gentile. «Proprio così. Non sei troppo ingenua: mi chiedo se sia un bene o un male, sulle prime non mi eri sembrata granché acuta.»
Mi ero stupita anche io, ad essere sincera, di aver controllato abbastanza le mie facoltà per ragionare e cercare di decifrare i piani dei Victory. «Allora era me che volevate, ma quella volta non siete riusciti a prendermi. E Chiara ci è andata di mezzo. Lei è una persona in regola, no?»
«Non hai niente che non vada, Eleonora. Anzi, magari fossero tutti come te!» ghignò Cyrus nel sentirmi usare quell’espressione “in regola”. «Comunque sì, è così che è andata. Ma questa volta abbiamo cambiato gioco e hai già capito, a grandi linee, quale sia la strategia. Non che sia molto utile: le Forze del Bene non possono fare a meno di nasconderti la verità.»
«E perché non possono?»
«Questa è una risposta che io non posso darti.» Di nuovo ci fu una pausa di silenzio; stavolta fu lui a riprendere a parlare: «Il ragazzino che vi ha portati qui, comunque, non ha fatto pasticci con il Teletrasporto. Era preparato a prendere solo le persone come te. A parte Chiara che era ed è tra i piedi, è riuscito a realizzare il nostro intento.»
«Quindi siamo tre “speciali”. A Gold e Camille stanno dicendo le stesse cose di cui lei mi sta parlando, Cyrus?» La mia voce era tristemente priva di intonazione. Parlavo meccanicamente perché le emozioni turbolente di prima si erano affievolite, in un gesto di pietà nei confronti della mia psiche sfiancata, e mi sentivo terribilmente vuota e apatica. Di domande ne avevo ancora tante, alcune nuove avevano pure la forza di sorgere, ma non riuscivo più a dare un tono alla mia voce. Ero talmente esausta che mi inginocchiai per terra, ad ogni modo distante dall’uomo, che non aveva mai cercato di oltrepassare le sbarre, mantenendo un distacco necessario - per non farmi scoppiare a piangere di paura e di stanchezza, immaginai.
«Si fa chiamare Gold, il ragazzino?» Annuii automaticamente. «Chissà quando vorrà dirvi il suo nome. Ad ogni modo… a lui sì. Camille non ne ha bisogno, lei sa già abbastanza sul conto suo e vostro, e al momento la sua principale preoccupazione è ringhiare e abbaiare contro un paio di reclute che le stanno tenendo compagnia.»
«Pensa che Camille ci dirà qualcosa?»
“Parlo solo con le persone che mi interessano.” Io la interessavo perché ero come lei.
«No, non credo proprio. Ha una brutta storia alle spalle e penso si sia già affezionata a te e a Gold, e non solo a voi due, in un modo un po’ particolare. Pensa di proteggervi, in questo modo… l’argomento è piuttosto difficile e non mi aspetto che tu capisca chi abbia ragione tra i Victory e le Forze, Eleonora, perché capisco anch’io quanto sia una faccenda soggettiva. Qualcuno potrebbe pensare che siamo noi ad essere nel giusto, qualcun altro preferirà i metodi dei tuoi attuali alleati… chissà.» Dopo un po’ chiese: «Non ti ha raccontato, Camille, la sua storia, vero?»
Scossi la testa. «Ha sempre vissuto a Kalos con la madre e i nonni materni. Il padre si separò dalla moglie poco tempo dopo la sua nascita e le due famiglie, che si erano imparentate… precocemente, oserei dire… persero ogni contatto. Fortunatamente il ramo materno era molto ricco e Camille non soffrì mai la mancanza del padre, anche perché non lo aveva mai conosciuto. Ma arrivò un giorno, qualche mese fa… da non molto era venuta a sapere, ad essere sincero non so come e non so da chi, che qualcosa in lei la differenziava dal resto delle persone. Lei aveva qualcosa di molto importante e per questo cercammo di prendere anche lei. Il Comandante Elisio se ne occupò personalmente. Ma non avevamo fatto bene i conti. Il problema di avere tanto potere, e di sapere di possederlo, è che talvolta la sicurezza in sé stessi sfora e complica tutto… così, mentre la tenuta in cui Camille viveva con la madre e i nonni bruciava, essendo stata data alle fiamme, la ragazzina trovò il modo di scappare. I nostri uomini sul posto hanno detto di aver visto un Talonflame resistere alle fiamme, com’era ovvio, e portare in salvo qualcuno. L’assenza della diretta interessata ci fece capire che quel qualcuno era proprio lei.
«Davvero una storia terribile, non trovi?» sospirò poi.
«Perché dice che è una storia terribile se è stata la sua organizzazione ad ordinare quell’attacco?»
«Perché mi viene da pensare a come si sia potuta sentire Camille dopo ciò che accadde.»
Riflettei. Anzitutto non capivo l’ennesima delle stranezze di Cyrus: dopo aver detto che avrebbe lasciato che le Forze del Bene ci liberassero, predicendo un giorno in cui avrei preso la decisione di abbandonare la mia attuale fazione, adesso sembrava impietosito dalla storia di Camille. Non erano stati uomini come lui a compiere quella terribile azione? Lui non l’avrebbe fatto, se fosse spettato a lui l’onore di catturare una ragazzina tanto preziosa? E adesso perché, se io, Camille e Gold eravamo così importanti, ci lasciava andare? Mi sembrava fin troppo strano che i Victory volessero solo appioppare quel problema alle Forze del Bene. Era una vera e propria presa in giro e questo mi mise a disagio, perché immaginai che il Nemico tenesse veramente in scacco la fazione avversa, la mia, e che questa non potesse fare granché per attaccarlo duramente. “Siamo davvero messi così male?”
«Ma se ora io, Gold o Camille o tutti e tre volessimo rimanere con voi Victory…» mi azzardai ad insinuare. Non che ne avessi intenzione, perlomeno non ancora, se i rapporti con le Forze del Bene fossero andati in frantumi.
Cyrus sorrise. «Di certo non vi rifiuteremmo.»
Ci fu una breve pausa. C’era un’altra domanda che volevo porgli e, un po’ titubante, gli chiesi: «E a me, alla mia famiglia, sarà fatto qualcosa per colpa della mia identità?»
L’uomo non rispose. Forse non l’avrebbe fatto ma comunque non ne ebbe modo. Arrivò trafelata una donna abbastanza giovane, dai capelli rossi e con grandi occhi dello stesso colore; sembrava molto preoccupata. Mi lanciò un’occhiata che non riuscii a decifare e poi fece una profonda, veloce riverenza all’altro. «Comandante Cyrus!…»
«Martes» mormorò lui. Inarcai leggermente le sopracciglia: “Martes era nel Team Galassia. Non si è smentita… immagino che non l’abbiano fatto nemmeno Giovia né Saturno.”
«Hanno fatto irruzione» confessò lei balbettando. «Non abbiamo potuto fare niente per impedirlo. Aspettavamo un attacco più silenzioso, di ritrovarceli confusi tra le reclute o cose simili, insomma… invece hanno letteralmente sfondato parecchie pareti ai piani superiori, ora stanno arrivando. Stiamo… stiamo aspettando istruzioni.»
Cyrus in quel momento non guardava né me né lei, ma appena finì mi lanciò un’occhiata e arricciò le labbra quasi impercettibilmente. I suoi occhi pure assunsero un’espressione e quello non mi piacque affatto. «Dite alle reclute di rallentarli. Poi raggiungetemi tu, Giovia e Saturno.»
«Sissignore!» Martes fece un’altra riverenza e corse via.
«Cosa ti avevo detto, Eleonora? Non vi avrebbero abbandonati qui per nulla al mondo. Tre di voi sono soggetti speciali, nonostante rappresenti un problema parlarvene… come avrebbero potuto permettersi di lasciarvi nelle nostre mani?» mi provocò. «Ma sappi che questa non è un’occasione da sprecare per far prendere uno spavento affatto superficiale a Bellocchio e compagnia.»
«Eh?» bisbigliai.
Le sbarre si abbassarono, scomparendo nel pavimento, e feci per correre via dopo aver lanciato uno strilletto di terrore. Ma Cyrus mi afferrò per le manette, tenendo la catena che le univa con una mano, e mormorò: «Non devi agitarti, peggioreresti solo le cose. Tranquilla, ne uscirai viva! È solo un esperimento che voglio fare.»
Non ebbi la forza di parlare o chiamare aiuto. Oltrepassammo quella che doveva essere una delle barriere di suono descritte da Cyrus e sentii la voce furente di Camille. In quel momento fu una benedizione udire qualcosa di familiare dopo ore passate in solitudine e altro tempo con un pericolosissimo sconosciuto, nonostante lei non fosse una delle compagnie che preferivo. Così attirai la sua attenzione mentre Cyrus mi costringeva a camminare, una mano sempre sulla catena e l’altra sulla mia schiena, spingendomi con decisione. «Camille! Camille!»
«E… Eleonora?» Il suo tono era sorpreso. Corse alle sbarre e cercò di sporgersi quanto poteva - era nelle mie stesse condizioni: con le mani legate ma libera di girovagare per la cella, esattamente uguale alla mia. I suoi occhi di ghiaccio incontrarono quelli di Cyrus e ringhiò senza alcun timore: «Lasciala andare!»
«No» rispose semplicemente l’uomo; ero sicura che stesse sogghignando. «Ma aspetteremo qui che arrivino i vostri adorati carcerieri. Ti va bene, Camille?»
La sua espressione era piena di odio ed ira, i miei occhi invece erano pavidi come quelli di un cerbiatto perso in un bosco fitto e buio. “Perché non sono resistente e forte come lei?”
Gli allarmi presero a strillare, assordanti, sfinendo in pochi secondi le mie orecchie, troppo abituate al silenzio. Mi dovetti affidare unicamente ai miei occhi, anch’essi stanchissimi come qualsiasi altra parte del mio corpo, per capire cosa stesse succedendo. Subito dopo l’ambiente si tinse di rosso su ordine degli stessi allarmi - le lampadine sul soffitto, più fioche nel corridoio e più forti all’interno delle celle, avevano cambiato colore. Non era una gran bella cosa perché le pareti scure della base mal si abbinavano a quella tinta sanguigna e un po’ tutti i miei sensi furono inibiti. L’ombra, i rumori assordanti, la paura… rischiavano di essere veramente micidiali.
Mi accorsi di movimenti rapidi dalla parte opposta del corridoio e, prima che riconoscessi le figure di alcuni uomini delle Forze del Bene, gli allarmi si placarono di colpo. Per la sorpresa mi ritrovai ad ansimare. Cyrus mi strattonò appena e capii di doverlo seguire mentre indietreggiava di qualche passo, ignorando Camille che già si era messa a protestare. Aristide, Camilla e Lance attraversarono la barriera di suono mentre qualcun altro - forse riconobbi Diantha, Rocco e altri grandi Allenatori - si fermava prima di loro: dovevano essere le celle di Chiara e Gold. Me ne curai solo dopo ed ebbi la conferma quando i due uscirono, protetti dagli adulti.
«Lasciala andare subito, Cyrus» ordinò Aristide con fermezza. «Questa vostra base sta collassando.»
«Addirittura? Quindi qualcosa siete riusciti a combinare?» ribatté sarcastico l’uomo. Tolse una mano dalla mia schiena. «Almeno siete venuti abbastanza presto, non vi siete fatti attendere… come è successo altre volte.»
Aristide finse di non sentirlo - ma quelle parole bastarono a far montare l’angoscia in me - e disse: «Non darti troppe arie. State facendo praticamente il nostro gioco, a meno che non siate stati colti veramente impreparati! In ogni caso le cose stanno volgendo a vostro sfavore, se vuoi risparmiarci l’impegno di mandare al tappeto anche te sarebbe meglio per tutti.»
In quel momento arrivarono Martes, Giovia e Saturno; senza troppe cerimonie tutti, tranne Aristide e Camilla, si misero a combatterli. I due continuavano a fronteggiare Cyrus alla presenza mia e di Camille. Gettai un’occhiata a Chiara e Gold, che in quel momento ci raggiunsero oltre le barriere del suono e si nascosero, come i bambini con i propri genitori, dietro la Campionessa di Sinnoh e il più forte Capopalestra della regione di Unima. Un Garchomp e un Lucario uscirono autonomamente dalle proprie sfere, uno era di Aristide e l’altro di Camilla.
«Datevi una calmata.» Il tono di Cyrus si fece glaciale di colpo. «La vita di questa ragazzina è nelle mie mani.»
Quasi svenni quando sentii qualcosa di freddo, di forma circolare, pigiare con fin troppa decisione sulla mia tempia destra. Iniziai a sudare freddo e andai in apnea per eterni secondi; liberai il fiato, tremando da capo a piedi, con una paura immensa. Praticamente non volevo fare alcun movimento, che fosse inteso come un passo falso, per impedire a Cyrus di premere il grilletto della pistola che aveva puntata su di me. “Non può uccidermi” pensai; ma subito dopo mi chiesi: “O forse sì e prima mi ha soltanto presa in giro, con quelle storie sulla mia identità?”
L’aria intorno a me si fermò. La voce di Chiara le morì in gola quando era parsa sul punto di strillare; Gold era sbiancato. Subito Aristide richiamò il suo Garchomp nella Ball; la Campionessa preferì far indietreggiare Lucario, sperando che bastasse per non far sparare il colpo fatale a Cyrus.
L’anziano disse: «Non usare la ragazza come ostaggio, Cyrus. Non ti chiedo una correttezza che non hai mai usato in vita tua, ma lasciala andare e combatti contro di noi.»
Il Comandante Victory fece per replicare qualcosa ma Camille lo interruppe. «Vuoi davvero farmi credere che la vita di Eleonora possa andare sprecata, Cyrus?»
Lui si girò di scatto verso di lei e la Campionessa ne approfittò. Mi abbassai di scatto, meccanicamente, quando Lucario sferrò una Forzasfera. Cyrus fu costretto a mollarmi e la pistola gli volò di mano per la sorpresa. Riuscì ad evitare il colpo e quasi mi riafferrò, reattivo; ma a parte un piccolo strillo l’unica cosa che ottenne da parte mia fu qualche capello che aveva tirato troppo, senza far caso a quale parte del mio corpo prendesse, purché mi riavesse.
Sentii che stavo ufficialmente per svenire. Non avrei saputo spiegare come riuscissero le mie gambe a reggermi, a sostenere il peso di tutta la paura e dell’ansia che avevo addosso. Eppure ebbi la forza di andare ad affiancare Chiara, risparmiandomi l’impegno di guardare la lotta che sarebbe cominciata di lì a pochi secondi tra Lucario e un Houndoom appartenente a Cyrus. Due secondi impiegarono i Pokémon per studiarsi a vicenda e poi lanciarsi in uno scontro senza aspettare ordini dai propri Allenatori; gli stessi due secondi servirono a Cyrus e, dall’altra parte, Camilla e Aristide per decidere le battute successive dello spettacolo.
«Non so cosa ti abbia detto Camille di tanto sconvolgente» affermò Aristide, «ma a quanto pare…»
«La ragazzina è furba. Tenetevela stretta» disse Cyrus serissimo.
Camille però doveva ancora essere liberata dalla sua prigionia e chissà quando sarebbe arrivato, anche per lei, un primo assaggio di libertà - che si sarebbe realizzata pienamente, comunque, solo mettendo piede fuori da quella base infernale. Ora gli unici rumori provenivano dai latrati di Houndoom e Lucario, mentre la lotta tra gli altri delle Forze del Bene e i Generali Victory Martes, Giovia e Saturno continuava.
“Ma perché Cyrus si è sorpreso tanto di sentire Camille parlare in quel modo? Il suo piano già lo aveva bene in mente, come ha fatto a sconvolgersi?” mi domandai, senza nemmeno far caso alla conversazione in corso tra il Comandante e i nostri salvatori. Poco dopo mi risposi: “Forse perché il suo progetto è, per l’appunto, andato in fumo. Camille gli ha fatto ammettere implicitamente che non avrebbe mai cercato di uccidermi, e la falla nel piano è stata proprio questa: non ha potuto confondere le idee delle Forze del Bene.”
E perciò, non appena Aristide e gli altri avessero riferito a Bellocchio e compagnia com’era andata precisamente la missione di salvataggio, coloro che, ai vertici delle Forze, sapevano qualcosa sulla mia identità - e su quella di Camille e Gold - avrebbero avuto la certezza quasi totale che mai i Victory avrebbero cercato di farci fuori. Perché eravamo troppo importanti, troppo preziosi. Nessuno di noi “speciali” poteva essere ucciso. Tutte queste cose, però, le capii solo in seguito, ragionando a mente lucida su quanto accaduto e senza l’ansia di sentirmi il fiato di Cyrus sul collo e i rumori della battaglia nelle orecchie.
Improvvisamente Rocco oltrepassò la barriera del suono e riferì a Camilla: «Abbiamo messo in fuga i Generali.»
«Prendete con voi i ragazzi» ribatté lei, assolutamente incurante che Cyrus potesse sentirla.
«I Pokémon» esclamò subito Gold.
«Diantha e Lance sono già andati a prenderli.»
Nel frattempo Houndoom era stato messo K.O. dal grandioso Lucario della Campionessa di Sinnoh. Cyrus non si disturbò nemmeno di schierare un altro Pokémon. Dopo minuti in cui avevo avuto modo di tranquillizzarmi almeno un po’, mi turbai un’altra volta - fortunatamente fu l’ultima della giornata - vedendo il Comandante esibire un ghigno tanto inquietante quanto malevolo. «Quindi ve ne state andando?»
«Dopo di te, Cyrus» ribatté freddamente Aristide. Camilla lo guardò intensamente, stupita suo malgrado.
«Allora l’esito di questa battaglia è ancora da decidere.» Così l’uomo chiamò a combattere il suo Crobat.
«Prendi anche Camille, rincongiungiti con gli altri e andate» disse l’anziano preside all’omonima della rossa, i cui nomi sarebbero stati veramente uguali se solo non fossero stati l’uno di Kalos e l’altro di Sinnoh.
Non feci caso a come la Campionessa liberò la ragazza, ipnotizzata com’ero dalla lotta tra il Druddigon di Aristide e il Pokémon di Cyrus. Sentii Camilla parlare con qualcuno ma nessuno del nostro gruppo le diede una risposta: compresi quel comportamento non appena ci incontrammo con Diantha e Lance - Rocco era rimasto con Aristide a fronteggiare Cyrus. Non avevo capito come facesse la bionda Campionessa ad orientarsi all’interno di una base nemica e, facendo più attenzione - sforzandomi di non vedere la stanchezza che provavo ma la realtà dei fatti, seppi che le due Allenatrici si erano tenute in contatto telefonicamente - o qualcosa di simile, e Diantha aveva guidato l’altra fino alla porta davanti alla quale ci aspettavano i due Campioni.
«Qui dentro ci sono tutti i Pokémon appartenenti al Nemico» ci informò Lance, «e ci è stato detto che sono stati depositati qui anche i vostri.»
Ci accompagnarono dentro ma prima dovettero perdere un po’ di tempo a liberarci dalle manette - era stato scomodo correre con le mani legate dietro la schiena - grazie all’aiuto di qualche Pokémon Acciaio, tra cui lo stesso Lucario di Camilla. Entrammo e nel giro di cinque minuti eravamo già di nuovo fuori: appena presi la Poké Ball di Altair, la Swablu si liberò strillando come impazzita; mi costrinsi a richiamarla dentro forzatamente e continuai a cercare i miei compagni, finché non riunii l’intera squadra: lei, Aramis, June, Diamond, Pearl e Rocky.
Diantha parlava con qualcuno tramite un auricolare e solo allora notai che anche Camilla e Lance ne erano provvisti. La donna di Kalos guidava il gruppo, correndo con un buon passo, mentre i miei tentativi di star dietro agli adulti - anche i miei amici avevano lo stesso problema - erano goffi e febbricitanti.
«Non avete Pokémon Volante abbastanza grandi da poterci aiutare, eh?» sbottò Lance dopo un po’, rivolto a noi. Nemmeno mi presi la briga di scuotere la testa per dirgli di no. Non sentii le risposte degli altri; la domanda del Campione doveva essere più retorica che altro e noi non avevamo la forza per strillargli qualcosa di rimando.
Gli allarmi ripresero a suonare e soffocai un gemito esasperato ed esausto. La base Victory pareva vuota: non incontrammo neanche una recluta o qualcuno di rango superiore. Evidentemente avevano tutti abbandonato il triste edificio a cui era stato fatto, apparentemente, scacco matto da parte delle Forze del Bene. Non ebbi il tempo di chiedermi se fosse davvero così o se Cyrus, beandosi nel suo potere, avesse ordinato a tutti di andarsene perché, chissà, non c’era bisogno di perdere tempo o perché non ne valeva la pena.
Non ce la facevo più a scendere intere rampe di scale rischiando l’osso del collo. I corridoi seguivano percorsi semplici, circolari, e in seguito immaginai che la struttura della base nemica fosse simile a quella di una torre. Ma in quei minuti di pura agonia l’unica cosa che risaltava, non soffocata dalle urla degli allarmi e delle luci rosse che facevano prendere al tutto un aspetto infernale, era che il tragitto mi dava la nausea a forza di correre in tondo - o almeno così sembrava. Le scale non finivano più, ad ogni piano bisognava pregare perché le gambe non ci tradissero all’improvviso, ma non avrei potuto neanche biasimarmi - o essere biasimata - se le mie, d’un tratto, avessero deciso di non collaborare più. Era comprensibile. Ed era comprensibile pure il fatto che mi pareva di non riuscire più a respirare, come se i miei polmoni si stessero contraendo, diminuendo le loro dimensioni.
Ma alla fine una luce bianca irruppe dietro la dolce curva di un corridoio e mi parve di sognare: esistevano ancora, quindi, altri colori che non appartenessero a toni che andavano dal rosso fuoco al nero più totale?
Diantha strillò qualcosa e sette Pokémon Volante furono liberati dalle proprie sfere. Io fui affidata al Charizard di Lance, il quale prestò Aerodactyl a Gold, Salamence a Chiara e tenne per sé il suo Dragonite; Camilla aveva Togekiss e Diantha poteva contare su Hawlucha, che sebbene fosse piccolo aveva molta forza in corpo e bastava e avanzava per portare la sua esile Allenatrice. Camille aveva Talonflame. Non l’aveva mai mostrato prima nelle lotte all’Accademia, Pokémon eccezionalmente forte rispetto alla sua squadra, perché non era nemmeno suo. Era il Talonflame che l’aveva tratta in salvo dalle fiamme che i Victory avevano appiccato a casa sua.
Spiccammo il volo nell’oscurità della sera. Le palpebre coprirono i miei occhi e fui finalmente libera di cercare un po’ di pace nel sonno.











Angolo ottuso di un'autrice ottusa
Non ho ben capito da dove abbia preso la forza di pubblicare, o meglio di rileggere... credo sia stato il senso del dovere per aggiornare entro la fine di domenica e non aspettare domani, che tra l’altro ho di vacanza. Niente scuola! Meno male, perché dopo la festa di iersera si sono fatte le ore piccole stanotte… eheh. (Ho dormito da amiche e quasi mi uccidevano di solletico et similia)
Insomma, ieri non ho avuto il tempo materiale di accendere il pc e mettermi a correggere il capitolo… oggi, dopo tre quarti d’ora passati a correre al parco, ho capito che era arrivato il momento di affrontare il capitolo più lungo della prima parte di Not the same story. Quindi tranquilli, questo era lungo assai ma per questa parte vi salvate, poi chi deve ancora leggere la seconda… spero sopravviverà :P
Ad ogni modo spero che il capitolo vi sia piaciuto, la prossima pubblicazione sarà l’extra. È molto diverso da quello della prima versione, in cui c’erano degli approfondimenti - se così si possono definire… - su Camille, Gold e Daniel. Stavolta ci sarà ancora Camille, ma in un modo molto diverso, e poi uno sketch sui Victory incentrato su Vulcano e infine il nostro amatissimo Bellocchio.
La canzone di Eleonora è "The Sound of Silence" di Simon&Garfunkel, spero di essermi ricordata bene il testo e anche il nome del duo, una delle mie canzoni preferite direi. Ne ho tante di canzoni che amo :P Questa è davvero bella - un po' particolare, comunque, e vi consiglio di ascoltarla.
Detto ciò vi saluto e vi auguro un buon proseguimento!
Ink

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Capitolo 15
*** Extra I - In tempo di guerra ***


Extra I
In tempo di guerra

Camille ha capito che qualcosa di strano ha iniziato ad evolversi non appena un fastidioso odore di bruciato ha punzecchiato le sue narici. Insospettita, si alza dal suo letto su cui si era distesa in cerca di pace e relax, abbandonando a sé stesso il libro di mitologia Pokémon che stava leggendo con calma. Non le sono mai piaciuti particolarmente i libri ma non si nega, una volta ogni tanto, il piacere di imparare qualcosa di più sul mondo in cui è nata e in cui è effettivamente prigioniera - o almeno presto inizierà a vederla in questo modo.
«Mamma?» chiama, scendendo le scale della bella, grande villa in cui abita, vicina a Yarantopoli.
Non riceve risposta. I piedi nudi della ragazzina quasi volano sul parquet, tanto sono leggiadri e felpati - e scalzi. La segue, altrettanto silenziosamente, la sua fedele Braixen. Alza un po’ di più la voce e, giunta nel salone luminoso della casa, chiama di nuovo la madre. Un borbottio le arriva in risposta e subito si affaccia alla porta socchiusa della camera da letto oltre un corridoio. La donna è lì, come suo solito ha cercato di combattere una delle frequenti emicranie che prendono possesso della sua testa e la costringono a provare a dormire per farsele passare.
Camille non entra, rimane sulla porta. Con voce assonnata, la madre le chiede: «Cosa c’è, tesoro?»
«Scusa se ti disturbo ma sento puzza di bruciato. Tu no?»
Quasi faticosamente la signora si mette a sedere sul letto. «Chiedi a nonna. Io intanto mi sveglio per bene…» le risponde, sbadigliando vistosamente.
Camille vive insieme alla madre e ai nonni materni, ma la maestosa villa richiederebbe altri abitanti ancora per non sembrare costantemente vuota. La ragazzina è sempre stata abituata al silenzio e alla pace, non le piacciono i rumori forti né tantomeno gli odori così acri e pungenti - come il fumo o il bruciato.
Le sembra che la temperatura sia salita un po’ rispetto al solito ma non cerca di spiegarselo subito; non ci dà peso. Deve attraversare quasi tutta l’abitazione per cercare la camera dei nonni, che il primo pomeriggio lo passano sempre a sonnecchiare - ma non per motivi d’emicrania come la figlia.
È quasi arrivata ma di colpo vuole fermarsi. Un sesto senso la fa insospettire ancor più di quando ha sentito per la prima volta puzza di bruciato. È una sensazione che ha avuto anche altre volte, quella di percepire delle stranezze nell’atmosfera; è un lampo che le attraversa la mente e la informa di qualcosa che sta succedendo o che potrebbe accadere - in quel caso che la mette in guardia. Non sa ben dire se in questi casi sia un pensiero formulato inconsciamente da lei stessa, se così fosse si stupisce delle sue intuizioni; ma a volte ha la netta impressione che qualcun altro le suggerisca quelle cose.
D’altronde una spiegazione a tutto questo la ha. Così, da qualche tempo a questa parte, ha iniziato a prendere molto più sul serio quelle specie di fulminee premonizioni, non giudicandole più effimere. Perciò acconsente ad essere spinta sul grande terrazzo della villa. Il freddo Sole di marzo sembra volersi imporre sul vento rigido che soffia sulla campagna di Yarantopoli, è questa la sua prima considerazione non appena mette piede sulla terrazza; ma capisce pure che è troppo strano che qualcosa di simile succeda.
Sia l’odore di bruciato che il calore misterioso trovano una loro spiegazione non appena Camille si affaccia dalla bella ringhiera d’acciaio, finemente lavorata e decorata. Un muro di fiamme rosso sangue e sanguinario si leva dal grande giardino della villa. Si innalza imponente, desideroso di divorare qualsiasi cosa incontri sul suo cammino. I latrati e i ruggiti di vari Houndoom e Pyroar si levano sempre più forti: chissà perché fino a pochi secondi prima sembrava tutto immerso nel silenzio e nessuno, nella villa, si è accorto di quel chiasso infernale.
Camille non riesce nemmeno a cacciare un urlo per chiamare aiuto. Ha la sensazione che i Pokémon si siano messi ad ululare e ad abbaiare solo appena lei si è mostrata. Per troppi secondi resta immobile, paralizzata dalla vista del fuoco di quell’innaturale, terribile rosso scuro, sconvolta dai numerosi Pokémon affamati di distruzione. Neanche si chiede perché stiano attaccando la sua casa: il cervello è in un momento di totale black out, tanto che nemmeno sembra realizzare appieno cosa sta succedendo. La villa è stata data alle fiamme, qualcuno li vuole morti - qualcuno la vuole catturare e vuole il resto della famiglia morto.
«Mamma» mormora con un filo di voce. Indietreggia lentamente, sbloccatasi dalla paura paralizzante, e trova perciò la forza sufficiente per gridare con quanto fiato ha nei polmoni: «Mamma!»
Si precipita dentro e nello stesso istante quasi si scontra con la donna, che ha capito che qualcosa non andava collegando rapidamente la puzza di bruciato lamentata dalla figlia con il suo strillo. Esce fuori, la giovane, bella e alta signora dalla pelle ambrata e i capelli castano scuro. Mantiene apparentemente la calma appena rientra nell’abitazione, ma la verità è che si sente morire dentro. «Chiama i nonni, Cami.»
Mentre la ragazzina corre via, la donna mette mano alle due Poké Ball che ha preso prima di raggiungere sua figlia, appena ha udito lo strillo di terrore che ha lanciato. Scende al piano terra e, arrivata sul vialetto che conduce dal cancello della villa alla porta, attraversando il giardino per metà in fiamme, chiama a combattere una Goodra e un Gyarados. Entrambi, su ordine della propria Allenatrice, attaccano subito con mosse di tipo Acqua.
Vede uomini e ragazzi in divisa scavalcare il muro di fiamme con i propri Pokémon Volante. Le divise bianche, nere e grigie, poco elaborate ma molto attillate, sono rilucenti di rosso e di arancione a causa del fuoco alle spalle dei “banditi” - la signora non ha idea di come chiamarli, non sa chi siano. Ma sa bene il motivo per cui sono lì: per catturare Camille.
La ragazzina arriva dalla madre insieme ai genitori, non molto anziani, di quest’ultima. L’uomo le porge una semplice borsa in cui sono contenute altre quattro sfere, l’intera squadra della donna, che non si è mai dedicata più di tanto alle lotte Pokémon ma che ha sempre avuto dei compagni pronti a difenderla. Goodra e Gyarados già stanno combattendo al massimo delle loro possibilità, fronteggiando i primi attacchi dei Pokémon di quei nemici improvvisi e sconosciuti. Anche altri tre vanno ad affiancare quelli che già lottano: Absol, Gardevoir, un Unfezant. Mette la Ball di Talonflame tra le piccole, sudate, tremanti mani di Camille.
Lei capisce, con un solo tocco, di quale Pokémon si tratti e cerca di restituirlo alla madre, che però scuote la testa. La sua espressione è serissima e regale, tanto che Camille si chiede come sia possibile che il coraggio espresso dalla donna, in ogni parte e in ogni movimento del suo corpo, non basti a mettere in fuga i nemici.
«Scappa, Camille.»
«No!» esclama subito lei. Le lacrime già scendono copiose sul suo viso magro e maturo.
Poi sente una mano posarsi sulla sua spalla. Un momento dopo è stretta nell’abbraccio doloroso dei nonni, che la liberano quasi subito da quella stretta. L’anziano dice: «Devi andare a Sinnoh, Camille. In qualche modo dovrai arrivare nel Monte Corona, altrimenti l’alternativa è l’Accademia Pokémon situata tra Giubilopoli e Canalipoli. Lì sarai certamente al sicuro… almeno ora. Talonflame sa dove andare. Non fermatevi mai.»
«Io… io non…» singhiozza la ragazzina.
«Camille, vai!» L’ordine della madre la fa trasalire. Il tono è stato imperioso e anche piuttosto freddo.
Camille dà un’ultima occhiata, con la vista annebbiata dalle lacrime, alla figura della donna nella speranza di ricevere un saluto affettuoso in risposta. Ma l’altra non si volta e lei non può fare a meno di piangere ancora. “La verità è che tutto questo sta succedendo per colpa mia… è solo colpa mia!”
È colpa sua perché lei ha qualcosa ricercato da quegli uomini. Non può farci niente, non può rifiutare quel lato di sé nella vana speranza di liberarsi e di rimettere ogni cosa a posto. È troppo tardi, ormai, e l’unica cosa che le è rimasta da fare è fuggire, pregando perché la sua identità non porti morte e dolore pure a chi incontrerà in futuro. È già abbastanza quello che il suo essere sta causando alla sua famiglia e alla casa in cui ha sempre vissuto. Che sia maledetta, se è possibile una cosa simile, se si affezionerà mai a qualcun altro! Vorrebbe dire perdere ogni affetto personale finché non si deciderà ad arrendersi a quei nemici. “Mai più. Mai più! Non tormenterò più nessun altro con la mia presenza… se sono costretta a vivere lo farò in solitudine!”
La ragazzina sale di corsa due rampe di scale, rischiando di cadere ad ogni singolo passo. Arriva nel solaio buio e polveroso della villa, una stanza che ha sempre odiato e frequentato poco. Troppi mostri la sua immaginazione di bambina vedeva celati nell’ombra di quella soffitta.
Camille spalanca la finestra che dà direttamente sul tetto dell’abitazione. Le lacrime ancora non hanno arrestato il loro corso, anzi, sono un incontenibile, irrefrenabile fiume in piena. Sale a fatica aiutandosi con una vecchia sedia recuperata sul momento, cerca di tenersi in equilibrio sul tetto un po’ spiovente. Clicca il bottoncino sulla Ball di Talonflame e il grosso Pokémon Fuoco si libera dalla sfera in un lampo di luce rossa e bianca. Camille gli monta in groppa con uno sforzo immane, ancora troppo attaccata con il pensiero alla madre e ai nonni che moriranno, con ogni probabilità, o che saranno catturati e torturati per ottenere informazioni su di lei.
Lancia un’ultima occhiata dietro di sé, prima di spronare Talonflame a partire, e vede un ragazzo che la sta raggiungendo, correndo agile come un gatto sul tetto della villa. Una V e una T s’intersecano sul petto della divisa in un triangolo isoscele colorato di rosso, anche con l’altezza messa in evidenza, formando lo stemma che presto imparerà ad odiare. L’odio e la furia generano altre lacrime. «Fuocobomba.»
Occhio per occhio, dente per dente. Gli alleati del ragazzo hanno dato fuoco all’esistenza di Camille e Camille dà fuoco all’esistenza del ragazzo. Nemmeno si disturba di guardare il corpo carbonizzato del giovanotto, urlante di dolore dopo essere stato investito dalla gigantesca, inaspettata sfera infuocata.
E la ragazza vola via su Talonflame nel cielo del primo pomeriggio. Nelle tasche ha le Poké Balls di Braixen e di Meowstic, appena trovato un posto in cui stare cercherà un box PC per recuperare gli altri suoi compagni. Ormai Talonflame è tutto ciò che le rimane della sua famiglia, uno dei Pokémon più forti della madre.
Quest’ultima non ha intenzione di barricarsi dentro casa sua aspettando la morte. Semmai andrà a cercarsela, ma solo per sfidarla a prenderla con sé: perciò, con i genitori al seguito, sfodera tutto il suo ardimento e muove, impavida, qualche passo sul vialetto del giardino. Non ha più paura, non vacillerà. Lo farà per Camille, per la figlia da cui è stata violentemente separata e con la quale non potrà mai più incontrarsi.
Eppure non riesce a non perdere ogni sua forza appena una figura si aggiunge al tragico paesaggio davanti ai suoi occhi non più ardenti di coraggio. Nel muro di fiamme viene a crearsi una breccia grazie all’intervento di un Pyroar del tutto non comune, non appartenendo ad una persona comune, che doma le fiamme ruggendo rabbioso. Lo segue il suo padrone e poi i ruoli si invertono. L’uomo è alto e piuttosto magro, ha folti capelli rossi e la pelle candida; è una carnagione regale. È un aspetto conosciuto.
Le lacrime solcano il viso della bella donna, sporco di fuliggine. «Proprio tu, Elisio…»

 
§

Vulcano cammina placidamente per i corridoi della base segreta nel Monte Ostile in cui da anni e anni lavora. I Victory vi si sono insediati ancor prima che le Forze del Bene iniziassero ad ostacolare i loro affari, ma purtroppo di Heatran, il loro principale obbiettivo, non vi era alcuna traccia all’interno del vulcano - né nei dintorni, come se il Pokémon avesse potuto spostarsi. Era stata una gran bella disdetta, rinunciare a catturare il Pokémon tanto raro quanto forte, ma ormai la base era stata bella che completata e tanto valeva rendere il Monte Ostile una roccaforte stabile e preziosa. All’ex Superquattro sarebbe piaciuto davvero tanto catturare il mitico Heatran.
Gli sarebbe piaciuto molto, soprattutto, poter stare in una base presso la Lega Pokémon, ma essa si era rivelata ben presto una dannata confraternita di tirapiedi di Bellocchio. Perciò i Victory s’erano dovuti rassegnare a lasciar perdere ogni progetto di trasformazione dell’immensa zona - il castello della Lega, Via Vittoria e pure un bel pezzo del percorso 224. Il tutto era passato sotto lo stretto controllo delle Forze del Bene. D’altronde, nella prima fase della guerra, nessuno si era impegnato per cercare di affondare subito un covo avversario; entrambe le fazioni si erano preoccupate soltanto di definire le proprie zone di influenza, ma soprattutto di comando. In parole povere, sia i Victory che le Forze avevano marcato i propri territori e, una volta sistemato il tutto, avevano potuto iniziare a farsi la guerra. Vulcano era entrato poco tempo dopo a far parte dei Victory.
L’uomo di rado ha voluto farsi spostare in qualche altra base dove era richiesto l’aiuto di un esperto, aveva acconsentito solo a trasferimenti temporanei, a meno che non si trattasse di rimanere a Sinnoh. Emotivamente era molto attaccato alla sua regione, lì la sua carriera era nata e si era sviluppata e andare all’estero lo metteva molto a disagio. Si sentiva un po’ esterofobo, in quel senso, ma essere inviato oltre i confini di Sinnoh lo metteva a disagio. Cyrus in persona aveva preso atto di questo suo piccolo problema e, da anni interi, Vulcano è ben felice di poter dire di non aver più oltrepassato i confini della regione a cui è legato anima e corpo.
Si trova a suo agio nel Monte Ostile. La sua passione per i Pokémon Fuoco non si è affievolita dopo otto anni di lontananza dal suo incarico, quello di Superquattro della Lega. Certo, ha dovuto riformare la sua intera squadra, notando che i suoi Pokémon non erano affatto disponibili a collaborare ancora con lui, dopo la decisione presa di diventare un Victory. La sua bravura, però, gli ha permesso di riprendersi in fretta e di affermarsi altrettanto velocemente. Non gli pare neanche di essere stato l’unico a cui i propri Pokémon hanno voltato le spalle, sdegnati e delusi, dopo quel cambiamento radicale: a Sinnoh, purtroppo, solo Omar e Ferruccio erano stati abbastanza intelligenti da capire che la strada offerta dal Team era quella da percorrere.
Peccato che Ferruccio sia morto da anni e che Omar abbia sempre suscitato qualche dubbio nella mente di Vulcano. Il Capopalestra di Canalipoli doveva aver avuto una brutta discussione con il figlio, Pedro, che in tutto questo tempo è rimasto fedele a Bellocchio e nemmeno ha fatto qualcosa dopo aver saputo della morte repentina del genitore, stroncato da un infarto, fatalità poco prima di partecipare ad un attacco diretto ad una base delle Forze in cui, tra gli altri, lavorava lo stesso Pedro. Vulcano crede che sia stato il destino vendicativo a scrivere quel breve, insignificante paragrafo della Storia; d’altronde neanche il suo giovane figlio se l’è passata bene dopo quell’attacco, rischiando la morte lui stesso.
Omar e Vulcano si sono incontrati poche volte in quegli otto anni di guerra e l’Allenatore di Pokémon Fuoco ha sempre notato una scintilla di tristezza negli occhi dell’ex Capopalestra di Pratopoli. Gli ha sempre dato l’idea che non fosse contento della sua situazione. È sulla cinquantina ma si comporta, stando a quel poco che Vulcano ha potuto vedere, come se di anni ne avesse venti di più. Venti sono anche gli anni che li separano, un abisso secondo il più giovane, che quindi si stringe nelle spalle quando quel dubbio gli attraversa la mente e si sforza di pensare che siano solo sue impressioni. Se ci fosse qualcosa di strano, Cyrus se ne sarebbe accorto da un pezzo.
Adesso l’uomo è giunto a destinazione: bussa alla porta in cui ha saputo che lo aspetta il vecchio Plutinio, un altro che a Vulcano non ha mai ispirato tanta fiducia e che, in effetti, è tenuto strettamente sotto controllo. Entra dopo aver ricevuto il permesso ma vi trova Saturno, che all’ultimo momento ha sostituito l’anziano.
«’Giorno» mormora Vulcano. I suoi occhi sembrano sul punto di essere nascosti dalle palpebre perché l’uomo possa addormentarsi: è da tanto che quell’espressione annoiata, quasi svogliata, lo caratterizza.
«Buongiorno a te» sorride Saturno. «Appena possibile partirà la missione SL17. Il ragazzino che la svolgerà si chiama Axel e dovresti esaminarlo tu, è nella stanza B5.»
L’altro annuisce e, dopo pochi altri convenevoli, viene congedato dal Generale. Con la stessa flemma di prima, la stessa flemma che muove appena le sue gambe magre, prende un ascensore e scende al piano di sotto. Arrivato alla porta contrassegnata con il numero 5, entra senza bussare e trova un ragazzino dai capelli rossi ad allenarsi contro un’altra recluta, una ragazza. Quest’ultima lancia un’occhiata all’uomo e china la testa in segno di saluto; il tipo che deve chiamarsi Axel nemmeno si accorge di chi è appena entrato, troppo occupato nella lotta che non pare volgere a suo favore.
Osservando la zazzera selvaggia e spettinata del giovanotto, d’un colore molto più acceso ed innaturale del suo, Vulcano non può fare a meno di rimpiangere la sua vecchia pettinatura afro che ha sempre adorato. In un modo non troppo velato, appena arrivato nei Victory, gli era stato fatto capire che sarebbe stato opportuno conciarsi in un modo meno appariscente e, molto a malincuore, l’uomo aveva dovuto dire addio ai suoi lunghi ricci di fiamma.
«Le serve qualcosa, signore?» domanda la ragazzina, i cui Pokémon stanno dando non pochi problemi ad Axel. Quest’ultimo finalmente capisce che qualcun altro è arrivato e smette di combattere anche lui.
Vulcano fa un cenno con la testa al diretto interessato. «Missione SL17. Sei tu, no?»
«Sì! Deve essere lei ad esaminarmi?» si emoziona subito il ragazzino.
L’uomo annuisce. I due lo lasciano momentaneamente solo, lei diretta chissà dove e lui con la promessa di tornare nel tempo di un battito di ciglia dopo aver portato i suoi Pokemon in infermeria. Velocemente quasi come ha promesso, Axel torna ed è pronto per il test di Vulcano. Quest’ultimo non ha mai adorato esaminare le reclute in partenza per una missione, gli dà fastidio tempestarli di domande e doverci combattere, ma tant’è: deve farlo.
Axel non è molto bravo a lottare, Vulcano se ne accorge dopo i primi due turni del round che vede avversari uno Starmie ed Arcanine, il nuovo caposquadra dei Pokémon dell’uomo. Nei primi tempi alla Lega Pokémon era stato Magmortar la punta di diamante del suo team, poi Infernape aveva avuto l’onore di essere considerato il più temibile della squadra. Peccato che fosse stato anche il primo a far capire a Vulcano che non gli piaceva la prospettiva di dover diventare un Pokémon-Victory e l’aveva lasciato nelle mani di quello stupido di Corrado. Se lo vede ancora davanti agli occhi, il biondo disperato, in lacrime per la sua decisione di passare dalla parte di Cyrus e compagnia. Era un giorno di pioggia. Vulcano non aveva avuto alcuna esitazione a ribadire le sue posizioni e a far notare a quello che era stato come un fratellino minore, un tempo, che si stava comportando ottusamente. Non lo sapeva nemmeno, Corrado, cosa volevano fare i Victory! Perché aveva fatto quella pietosa scenata per cercare di intenerire Vulcano? Era diventato davvero uno stupido.
Sono otto anni, quasi nove, che la guerra è in corso e Vulcano non ha più incontrato Corrado né avuto notizie del ragazzo - non riesce nemmeno ad immaginarlo adulto, troppo abituato a vederlo appena maggiorenne. Non si sono più affrontati neanche durante un attacco diretto da una parte contro l’altra o viceversa. “Chissà come sta.”
La lotta finisce nel giro di qualche turno che il Superquattro emerito si è costretto a tirare il più possibile per le lunghe, ma inutilmente. Starmie finisce K.O. e Arcanine, nonostante lo svantaggio di tipo, a malapena è stato colpito dagli attacchi dell’avversario, perché li ha schivati praticamente tutti con una facilità quasi imbarazzante. Vulcano finge che la cosa non sia importante ma dice: «Le lotte non mi sembrano il tuo forte, Axel. Da quanto tempo combatti per i Victory?»
«Un anno e mezzo, signore, e in effetti non sono molto bravo» ammette il ragazzino, ridacchiando e grattandosi la nuca, arrossito visibilmente. «Ma non è una missione molto difficile, a quanto ho capito.»
«Nessuna missione è facile.» Il tono lugubre di Vulcano fa perdere istantaneamente il colorito di Axel, che si aspetta una punizione esemplare per la sua inettitudine. Ma un sospiro dell’uomo scioglie il nodo che gli stava stringendo lo stomaco: «In cosa consiste il tuo compito?»
«De… devo entrare nelle barriere dell’Accademia di Sinnoh gestita dalle Forze del Bene. Mi… mi hanno dato gli identikit delle persone che devo prendere. Ce ne sono parecchie, devo catturarne almeno un paio.» Dopo un po’ continua, capendo che l’esaminatore si aspetta qualche altro dettaglio: «Hanno insegnato Teletrasporto al mio Baltoy, così posso portarli in questa base segreta.»
«In questa?» Vulcano sembra stupirsi lievemente. Axel annuisce.
L’uomo trae le sue conclusioni: “Fanno svolgere questa missione ad un solo ragazzino per non rischiare troppo, non vogliono perdere altre reclute. Se fallirà non sarà una gran perdita perché con i Pokémon non va affatto bene, quindi è possibile sostituirlo facilmente, non è un gran guerriero… Al suo Baltoy è stato insegnato Teletrasporto contro natura e per miracolo non sarà morto se si trattava di un primo esperimento. Altrimenti chissà quanti Pokémon ci hanno rimesso perché la mossa fosse apprendibile da chiunque?… Ma in fondo cosa ne sa lui degli esperimenti e della sofferenza, del lato oscuro del Victory Team? Ha la sua bella missione, se la starà facendo sotto dalla paura al pensiero di andare da solo ma allo stesso tempo spera di non deludere i suoi superiori.”
Eccola, la linea tracciata dai Victory che hanno organizzato la missione, che sarà seguita sin nei minimi dettagli dalla recluta sacrificabile. Sono i pensieri che gli ideatori hanno sottinteso in quella che il piccolo Axel considererà soltanto una passeggiata nel percorso 218 in cerca di alcuni dei volti che deve portare in pasto ai Victory. Vulcano non la disapprova, comunque, è stato abituato a simili ragionamenti e ha iniziato ben presto a considerarli corretti. Perché sprecare elementi validi in missioni di bassa-media difficoltà? In un’Accademia delle Forze del Bene è risaputo, da entrambe le parti, che difficilmente si commette un omicidio. Axel vivrà ancora, a meno che non sia così inabile da tornare con un fallimento.
I due si avviano insieme fuori dalla piccola sala d’allenamento. Il piccolo dai capelli rossi deve andare un’altra volta in infermeria per rimettere in sesto Starmie e l’adulto dai capelli rossi non sa dov’è diretto, sinceramente. È Axel a trovargli un impegno per una chiacchierata che occuperà i minuti successivi: «Lei sa per cosa sta la sigla SL17, signore?»
«No, non lo so. A quanto pare è la diciassettesima del suo tipo, però.»
«Spero non voglia dire che le prime sedici sono andate tutte male» ammette il ragazzino.
«Non è detto.»
«Comunque ho saputo che Cyrus in persona verrà qui non appena la missione sarà completata!»
Basta pronunciare quelle poche parole ad Axel per diventare il ritratto dell’euforia. Il grande Cyrus arriverà nella base del Monte Ostile, magari addirittura per complimentarsi con lui una volta capito chi è stato il piccolo eroe che ha portato a termine la missione tutto da solo! “Prima però fa’ attenzione a non morire, ragazzino.”
«È da un po’ che Cyrus non si fa vivo qui» dice Vulcano soprappensiero.
Axel sembra fuori di sé per la gioia nel ricevere quella notizia. Non vede l’ora di incontrare il grande Cyrus.
«Grazie per avermi esaminato, signore! Arrivederci!» esclama facendo un profondo inchino a Vulcano prima di entrare, da solo, nell’infermeria.
«Arrivederci.» “Ciao, carne da cannone” pensa Vulcano dopo aver salutato, forse detto addio, al ragazzino.

 
§

Bellocchio sta sudando freddo. Oak è andato al Monte Argento nella speranza di instaurare un dialogo con Rosso, ma è impensierito: in tutti quegli anni i risultati sono stati nulli e l’anziano professore non è abituato a scalare montagne coperte da nevi perenni. E poi Anemone è da poco uscita dalla base segreta nella speranza di intercettare la ragazzina di nome Camille, che da giorni è in viaggio verso Sinnoh insieme al suo Talonflame. O almeno è questo quello che le Forze del Bene hanno capito dal breve, secco messaggio che i nonni della ragazzina sono riusciti a mandare prima di morire carbonizzati, allo stesso modo della figlia.
Il Nemico ha dato alle fiamme la villa in cui abitava quel ramo della famiglia e solo la giovane Camille è stata messa in salvo. Elisio in persona si è disturbato di intervenire ma arrivando troppo in ritardo: ha trovato solo la donna, sulle prime, che è stata poi raggiunta dagli anziani non appena essi avevano finito di inviare il messaggio alle Forze del Bene per spiegare, a grandi linee, la tragica situazione.
Bellocchio non osa pensare alle condizioni in cui possa essere la ragazzina, la cui vita relativamente normale è stata rovinata irrimediabilmente a causa della sua identità. Non sa come porsi davanti al problema. Ce ne sono altri di ragazzi come lei all’interno dell’organizzazione, come comportarsi nei loro confronti se alla maggior parte di loro è già successo qualcosa di simile? Famiglie distrutte, contatti persi pur di far sì che la vita del ragazzo in questione e dei suoi affetti sia salva, nonostante a volte il prezzo per questa salvaguardia sia, forse, più alto della portata del problema che si cerca di sradicare.
Sono giorni che la ragazzina di nome Camille è in viaggio e questo vuol dire che è a digiuno o quasi, che avrà a malapena la forza di camminare una volta arrivata nella base segreta del Monte Corona. Anemone ha ripromesso di portarla lì e già Bellocchio non sa come affrontare l’enorme problema rappresentato dalla giovane. Cerca di immaginarsi davanti a lui, dall’altro lato della scrivania nel suo ufficio, seduta magari in un mare di lacrime, una persona che sta convivendo con i sensi di colpa perché, se quel disastro è successo, è solo per causa sua.
Come comportarsi con una ragazzina che probabilmente sta perdendo il lume della ragione dopo quello che è successo? Non è sicuro che Camille sia fuggita appena le è stato detto di farlo, forse ha voluto vedere la propria casa in fiamme e magari anche i propri parenti più stretti morire… sa per esperienza che cose del genere lasciano il segno, che la follia sopraggiunge senza incontrare ostacoli quando la mente di qualcuno è così fragile, messa a dura prova da un avvenimento del genere. Dev’essere stato uno shock. C’è un modo per aiutarla?
Chissà se ha idea di chi, dei Comandanti nemici, è stato ad organizzare quell’attacco, inaspettato un po’ per tutti. Come reagirebbe nello scoprirlo? Bellocchio ha seriamente paura di quello che la ragazzina potrebbe fare una volta scoperte le carte in tavola e dopo aver decodificato ordinatamente e razionalmente gli eventi. Non è certo che le persone come lei siano in grado di controllarsi, se in preda ad emozioni tempestose, pulsioni di ogni tipo, paure o addirittura fobie… soprattutto quando sono così giovani, il rischio che impazziscano e che perdano totalmente di vista ogni contatto con la realtà, rischiando di distruggerla, è altissimo.
Bellocchio deve credere che la sua identità sia un dono del cielo o una disgrazia? È un dilemma serio e non è di certo l’unico a porselo. Non crede che il Nemico abbia dalla sua parte persone come Camille o come alcuni dei giovani nelle Forze del Bene… ciò non significa che queste siano in vantaggio sui loro avversari, visto che il vertice di esse in primis, Bellocchio, non riesce a farsi un’idea di come lavorare con quel tipo di persone.
Persino cercare un confronto è ritenuto un rischio dall’uomo, che però si rende pure conto che, se non chiederà direttamente a uno di loro un consiglio, le Forze del Bene non possono avere speranze di superare il malvagio Team. Ha valutato pure, con grande riluttanza, la possibilità di contattare una sua vecchia conoscenza che, ha la netta sensazione, possa aiutarlo a ragionare per trovare la soluzione più indolore - e magari più rapida. Ma il suo orgoglio e i suoi sentimenti gliel’hanno fatta scartare poco dopo averla formulata.
Sono anni che cerca una soluzione. Anni che ha bisogno di seguire un percorso ma che non trova il coraggio di muovere i primi passi. Forse è proprio la ragazzina di nome Camille a poterlo aiutare - o forse è una crudeltà metterla subito di fronte alla realtà e a terrorizzarla ancora di più, quando magari a lei è stata detta un’altra verità in tutti quegli anni? L’argomento è difficile sia da sollevare che da trattare e l’uomo si sente quasi impossibilitato a farlo con chi lo riguarda direttamente. Non vuole ferire Camille, ma non vuole nemmeno far soccombere le Forze del Bene sempre in tensione, sia a causa del Nemico che per le cose che si mormorano al suo interno: che i piani alti nascondando qualcosa e non vogliano veramente sconfiggere il Team, che magari stiano contrattando qualcosa con i Comandanti, che abbiano paura, che il Nemico sia in possesso di un’arma talmente terribile da tenere in costante scacco le Forze del Bene… e che di conseguenza sia in vantaggio.
Niente di tutto quello è vero. Anzi, forse grazie alle persone come Camille le Forze sono un grosso passo avanti al Team… Bellocchio deve soltanto decidersi a non affezionarsi a quei ragazzi piegati dal peso di innumerevoli, inimmaginabili - perlomeno non da loro - responsabilità che non hanno mai avuto il dovere di avere.
E allora la vecchia punta di diamante della Polizia Internazionale, seconda solo al suo più caro amico di un tempo, si decide. Due giorni dopo la bella ragazzina di nome Camille è nel suo ufficio nella base segreta del Monte Corona, la più importante e grande roccaforte delle Forze del Bene, e Bellocchio è pronto a raccontarle la verità e ad ascoltare ciò che una come lei ha da dire.







Angolo ottuso di un'autrice ottusa
Ed è in questo extra che fa la sua apparizione il mio personaggio preferito dell'intera trilogia Not the same story: l'ufficio di Bellocchio nel Monte Corona!!
Scherzi a parte - anche se ci sono forti probabilità che lo studio sia più approfondito della protagonista di Ntss, scrivere gli extra mi piace sempre moltissimo. Questo è lungo la metà, credo, di quello della seconda parte... ad ogni modo ho preso una decisione, se così si può dire. Ultimamente il mio stile di scrittura non mi piace più molto, ho la netta sensazione che, pur di scrivere tanto e approfondire tutto fin nei minimi dettagli, mi perda in giri di parole senza senso, magari pure ripetizioni delle stesse cose fatte a distanza di qualche riga. Non è che non mi piaccia come scrivo, non mi piace più questa mia mania di scrivere capitoli lunghi e di fare di tutto pur di scrivere un minimo di 6-7 pagine alla volta con poche eccezioni - prologhi e capitoli di transizioni.
Per questo non dico che sarò più sintetica, o meglio, lo sarò, ma senza intaccare i capitoli in sé. Eviterò di scrivere troppo, per l'appunto, anche per non essere dispersiva e ripetitiva. Potete gioire! Un'altra cosa che sto notando è che a volte scrivo in un modo un po' troppo scolastico, sempre per infarcire di dettagli - spesso inutili - e scrivere il più possibile. Spero di essermi spiegata con tutto questo!
Perciò solo una cosa conta ormai (?): se vedrete capitoli lunghissimi vorrà dire che le cose da dire erano tante e che saranno pure intensi - ma dubito sarà il caso di questa parte, che si appresta ad essere conclusa (altra caduta di stile scolasticissima!) con capitoli non troppo lunghi. Come riferimento pot(r)ete prendere gli ultimi della seconda parte. Quelli sì che sono lunghi e per non esagerare come mio solito li ho dovuti quasi riassumere, tagliando pezzi di frasi durante la stesura!
Non so se voi avete avuto quest'impressione mentre leggevate, se il mio stile vi piaceva comunque o no, ma adesso farò quest'esperimento. Anche la terza parte proseguirà su questa nuova lunghezza d'onda, se lo preferirete - immagino di sì :P
A presto!
Ink

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Capitolo 16
*** XIV - Il diritto di sapere ***


XIV
Il diritto di sapere

Il mio sonno non durò molto a lungo. Dopo qualche minuto di apparente pace uno sferzante vento gelido quasi mi fece sobbalzare intimorita: mi girai per guardare cosa ci stavamo lasciando alle spalle. Era il Monte Ostile.
Volavamo ad altissima velocità. Lance aveva prestato i suoi potenti draghi a un po’ tutti e l’unica che faticava per stare al passo era Camille, sul suo Talonflame. La forte corrente mi rimandò ai mesi invernali, anche perché era difficile non sentire freddo di sera - per di più in quel giugno affatto mite - dopo essere stati ore ed ore a soffrire il caldo in una base segreta ricavata in un vulcano attivo. Neanche il caldo corpo del bellissimo Charizard di Lance era sufficiente a farmi star meglio, nonostante lo stessi abbracciando tenacemente.
In breve ci lasciammo alle spalle la grande isola che ospitava l’Area Svago, l’Area Provviste e l’Area Lotta, ma questi erano i loro nomi prima che scoppiasse la guerra; ora erano modeste cittadine che conservavano poco e niente, ovviamente all’interno di solide barriere, del loro passato nella realtà Pokémon.
Smettendo di sorvolare i campi coltivati, piccoli boschi e case isolate, il mare fu il nuovo paesaggio da ammirare, bellissimo nonostante la monotonia del colore.
“Sono stanca. Perché non riesco a dormire?” Mi posi questa domanda più volte.
Stava calando la notte. Essendo prossimi all’estate, la scomparsa del Sole dietro l’orizzonte fu una lenta agonia e i colori dell’oscurità non presero il sopravvento di colpo. Il mare si preparava per diventare una distesa di nero brillante punteggiato e macchiato dalla luce lunare. Il cielo era però popolato di nuvole e quasi nessuna stella brillava, timorosa. Ma prima di tutto questo la volta celeste conobbe, come ogni giorno, i colori dell’arcobaleno: non ero riuscita a vedere l’azzurro a causa dell’ora tarda e mi potei godere “solo” il resto dell’iride, prima che un inquietante blu notte si imponesse sulle altre tinte. L’unica luce vicina divenne la fiamma sulla coda di Charizard ma, nonostante l’oscurità, i Pokémon sembravano sapere dove andare.
Nuove fonti luminose arrivarono quando entrammo in alcune barriere e sorvolammo la Lega Pokémon, altrimenti totalmente invisibile - insieme a Via Vittoria e a buona parte del percorso 224 - agli occhi delle persone comuni. Poi fu di nuovo il mare nerissimo finché, dopo parecchi minuti di viaggio, non arrivammo in prossimità di Arenipoli. Mi chiesi perché stessimo facendo un giro così largo per andare all’Accademia e la risposta arrivò non appena, superata la città, Lance esclamò che stavamo iniziando a scendere.
Charizard prese a volare in cerchio, aspettando che il Dragonite del Campione andasse in testa il gruppo - fino ad allora aveva chiuso la fila - e mi azzardai a guardare in basso per capire dove ci trovavamo. Eravamo nel percorso adiacente ad Arenipoli che conduceva da una parte a Pratopoli, dall’altra a Rupepoli. Non c’erano molte abitazioni a popolare la zona e noi ci trovavamo proprio sopra una di quelle poche case. Sentii, come attutito, il ruggito di Dragonite a cui seguì il brontolio di Charizard; così scendemmo, quasi in picchiata - con stupore di un po’ tutti noi ragazzi - diretti verso la casa che avevamo preso di mira. Atterrammo con sorprendente dolcezza, a dispetto della veloce discesa, nella radura ai cui limitari sorgeva la piccola villa, circondata da pini marittimi.
Scesi da Charizard goffamente e le mie gambe anchilosate non ce la fecero più a sorreggermi. Non appena misi piede a terra sentii le forze venir meno e quasi caddi di faccia, ma riuscii per miracolo a mettere le mani avanti. Il tempo di inspirare ed espirare profondamente e pure quegli arti finirono preda di un’imbarazzante tremarella: mi sforzai, con le ultime energie rimaste, di rotolarmi di lato e giacere supina, ancora con il fiato a dir poco pesante - per chissà quale motivo. Non guardai quello che fecero i miei compagni ma nel silenzio più totale dovettero finire tutti nelle mie stesse condizioni, sdraiati o seduti a terra. I Pokémon tornarono ognuno dai rispettivi Allenatori, meno Talonflame che, borbottando, fece capire di non voler abbandonare Camille.
«Forza e coraggio, ragazzi» disse Lance dopo troppo poco tempo. Era piuttosto scontroso, con la sua pungente ironia. «Alzatevi e andiamo dentro. Camilla, Diantha, aspettate Rocco e Aristide qui.»
Riuscii a rimettermi in piedi solo quando i miei amici per primi si sforzarono di assecondare le direttive del Domadraghi. Barcollando come ubriaca - ma anche gli altri si muovevano con la mia stessa incertezza - mi diressi, ultima dell’ordinata fila, verso la villetta. Le luci al pianterreno erano accese e nel silenzio quasi assoluto, rotto solo dalla pungente brezza di fine primavera, la voce di una televisione giungeva fino alle mie orecchie, tenuta probabilmente a volume troppo alto. Lance bussò alla porta e la tv smise di chiacchierare.
Il Campione scambiò un paio di parole con il proprietario dell’abitazione che non riuscii a sentire: parlavano, circospetti, attraverso il misero spiraglio della porta socchiusa. Alla fine la porta venne aperta: evidentemente Lance doveva farsi riconoscere.
Entrammo. Prima di osservare l’ambiente della casa cercai di riconoscere il suo abitante, che era Corrado. Il giovane aveva lunghi capelli biondi e occhi azzurri intelligenti ma velati da una profonda tristezza, più vicina però alla nostalgia di qualcosa o qualcuno che non c’era o non aveva più. Era un bel giovane uomo che dimostrava meno anni di quanti ne avesse, anche grazie al volto un po’ infantile e al modo di vestire con uno stile casual, da ragazzo; fisicamente non era molto alto ma era piuttosto asciutto.
Corrado non ci salutò nemmeno ma ci esortò ad andare nel soggiorno per riposare un po’. La villa non era troppo grande ma trovammo il modo di sistemarci sulle poltrone e sul divano presenti: io e Chiara occupammo insieme il grande divano; a Gold e a Camille rimasero le due poltrone. Nella casa trionfavano colori chiari e brillanti: bianco, celeste e anche parecchio giallo. Numerose foto erano appese alle pareti ma non riconobbi tutti i soggetti ritratti, avendo l’aria di essere parecchio vecchie. Corrado non figurava in tutte ma in alcune era davvero giovane, un ragazzetto che ai tempi doveva aver da poco superato la maggiore età. Ciò significava che praticamente tutte erano state scattate almeno a partire da qualche anno prima della nascita del Nemico. Dovevo ancora abituarmi a chiamarlo con il suo nome, Victory Team.
Un Luxray fece capolino nella mia visuale e feci appena in tempo a fargli un paio di carezze sulla criniera folta, bella, prima di chiudere gli occhi e addormentarmi, finalmente, quasi all’istante.

Fui svegliata dalla voce bassa e gentile di Camilla. «Su, su, non è il momento di dormire. Potreste guastarvi il sonno di stanotte. Sopportate ancora un po’…»
Non ero stata l’unica a crollare per la stanchezza. Quando mi svegliai Chiara stava ancora sonnecchiando e l’espressione sul suo volto era tesa e corrucciata. Gold sbadigliava vistosamente, Camille aveva lo sguardo fisso nel vuoto: sembrava non essersi concessa neanche qualche minuto di sonno.
Inizialmente la mia vista era parecchio annebbiata ma mi riscossi completamente quando notai delle vistose bruciature sulle nude braccia muscolose di Rocco. Il Campione di Hoenn era tornato e non indossava il completo elegante di quando era venuto a salvarci, un po’ fuori luogo in quel contesto; aveva abbandonato la giacca ed ora vestiva solo una semplice maglietta bianca. Gli stava un po’ piccola, metteva in risalto il bel fisico forte dell’uomo: doveva avergliela prestata Corrado, che in quel momento stava medicando le scottature rimediate da Rocco con l’aiuto di Diantha. Deglutii, piuttosto impressionata. Non fu uno dei risvegli migliori della mia vita.
Mi stropicciai il viso con le mani e per un po’ tenni gli occhi coperti. Quando li riaprii presi ad esaminare me stessa e notai che le ruvide corde d’acciaio avevano sfregiato un po’ i miei avambracci, lievemente scorticati ed arrossati. I polsi mi dolevano per le manette parecchio strette che mi erano state rifilate. Scambiai un’occhiata con Camille e poi una, decisamente più comprensiva ed espressiva, con Gold. Mi decisi a svegliare Chiara, che senza borbottare seccata, stranamente, aprì gli occhi con lentezza. Il suo volto rimaneva crucciato.
Nella stanza c’eravamo noi quattro, Corrado, Rocco, Lance, Diantha e Camilla. Aristide non doveva essersi fermato dal Capopalestra di Arenipoli, doveva aver tirato dritto verso l’Accademia. Mi chiesi come fosse finita con Cyrus e con la base nel Monte Ostile che avevo la netta sensazione fosse collassata dopo l’attacco delle Forze del Bene. Mi domandai pure se Cyrus ci avesse dato peso o se non gliene fosse importato di meno di vedere quella fortezza crollare a causa dell’intervento della nostra fazione. In quel momento non mi diede fastidio.
Il silenzio nella casa sembrava palpabile. Gli adulti non parlavano tra di loro e noi ragazzi non riuscivamo a dirci nulla; men che meno parlavamo tra uomini e più giovani. Mi ritrovai, come Camille, a fissare un punto del pavimento senza vederlo realmente, proprio con lo sguardo perso nel vuoto. Non riuscivo nemmeno a formulare pensieri di senso compiuto. Ero completamente svuotata, di qualsiasi cosa.
I minuti passarono stranamente veloci. Rocco si ritrovò con entrambe le braccia quasi del tutto bendate; sedeva su una sedia bianca, semplice. Poggiò i gomiti sulle ginocchia, reprimendo non troppo bene smorfie di dolore per le scottature, e, abbassata la testa, nascose il viso con le mani, massaggiandosi la fronte per poi passare alle tempie. Gli occhi grigi erano stanchi ma severi come loro solito.
Corrado si appoggiò con la schiena al muro mentre Lance, Camilla e Diantha stavano in piedi vicino a noi ragazzi. Alla fine la bionda ebbe il coraggio di chiedere: «Com’è andata?»
Rocco scrollò le larghe spalle. «Il covo è stato totalmente evacuato ma non è stato danneggiato più di tanto. Il Monte Ostile ne avrebbe risentito e già avevamo procurato abbastanza danni noi, appena arrivati. Cyrus è riuscito a scappare, ovviamente» l’espressione del Campione si fece più cupa nel dire, con rammarico, queste cose, «e con lui se ne sono andati anche Martes, Giovia e Saturno. Prima o poi torneremo a controllare che la base sia stata completamente chiusa… la smantelleremo, in qualche modo. Il Monte Ostile è molto prezioso…»
«E Aristide?» chiese ancora Camilla.
Gli occhi di Rocco si chiusero per qualche secondo. Incrociò le braccia, ormai incurante delle ferite, e quando riaprì le palpebre aveva in viso un’espressione indecifrabile. «Aristide è morto.»
La notizia, lì per lì, non mi sconvolse. Non la realizzai nemmeno appieno. Fu come se non avessi capito cosa significassero le gravi parole dell’uomo, dette con un tono altrettanto duro, e quindi non riuscissi a comprenderne l’importanza. Cosa voleva dire morto? Chi era Aristide? In quel momento domande del genere mi sarebbero sembrate assolutamente plausibili.
Non riuscii a stupirmi della faccia addolorata di Lance, però sempre composto nella sua severità, né dell’espressione mortificata di Diantha. L’atmosfera divenne ancora più pesante e nemmeno mi chiesi come mai fosse successo, perché la tensione si fosse fatta tangibile, tanto era grave.
«Co… com’è successo?» “Perché la voce di Camilla è così debole e tremante?”
«Il Crobat di Cyrus. Molto più veloce di qualsiasi altro Pokémon, sia della sua specie che di altre… non ne ho mai visto uno così rapido, sembrava quasi invisibile. Era da solo contro Haxorus e Skarmory ma ogni tentativo di attaccarlo è stato inutile. Non riuscivamo a piazzare nemmeno una Protezione, ci provavamo ma quello era già oltre la barriera e attaccava i nostri Pokémon. Alla fine si è accanito su Aristide.» Fece una breve pausa. «Lo ha morso al collo, avvelenandolo. Aristide mi ha detto di scappare quando era in fin di vita. Cyrus ha richiamato Crobat e se n’è andato senza fare altro… non ha provato ad attaccarmi o a uccidermi. Non capisco…» Nascose di nuovo gli occhi con una mano.
“Aristide è morto.” Iniziai a capire cos’era successo quando il Campione disse che Crobat l’aveva avvelenato con un morso. Eppure continuavo ad essere relativamente tranquilla. Guardai i miei amici: Gold sembrava sul punto di vomitare, Chiara appariva più pallida del solito, scioccata. Camille invece era il mio specchio: nessuna delle due connetteva le immagini né le informazioni al cervello, da minuti interi avevamo lo sguardo perso nel vuoto. Doveva essere stanchissima, suo malgrado. Noi due non davamo nemmeno segno di star ascoltando. Effettivamente fino a poco prima non immaginavo cosa volesse dire aver perso Aristide.
«Non capisci perché Cyrus non abbia provato ad uccidere anche te?» chiese Lance.
Rocco annuì. L’altro Campione proseguì, una nota vagamente seccata nella voce: «Sappiamo tutti com’è fatto quell’uomo. Si crede il migliore, un invincibile, e finge di non vedere quando le sue faccende prendono una brutta piega! D’altronde anche gli altri Comandanti sono fatti così. Pensano di essere talmente potenti da poter ignorare ogni problema, ritenendolo di infima importanza, prendendosi gioco di noi… e questo è proprio il loro punto debole. Fanno finta di non vedere la realtà. I problemi che creiamo di giorno in giorno sono molto più gravi di quello che pensano, e quando questi saranno diventati insormontabili capiranno quanti sbagli hanno fatto!»
«Non lo so, Lance. Spero che il tuo non sia ottimismo buttato al vento» replicò Rocco con un tono piuttosto lugubre. «Ho sempre più paura che il Nemico sia nettamente in vantaggio su di noi e che i piani alti delle Forze del Bene non vogliano ammetterlo per evitare di seminare il panico.»
«Si chiamano Victory.»
Le parole mi uscirono di bocca quasi di propria volontà. A malapena mi resi conto di aver parlato e capii che l’attenzione di tutti era su di me solo dopo qualche secondo. Guardai il piccolo pubblico vagamente spaesata, gli occhi di tutti esprimevano diverse sensazioni: confusione, una serietà imperturbabile, qualcuno nemmeno aveva sentito bene, tanto avevo parlato a bassa voce.
«Come fai a saperlo?» mi domandò Lance.
«Me lo ha detto Cyrus.»
Il Campione si sorprese. «Hai parlato con lui?»
Annuii. Stavo per aprir bocca di nuovo e riferire la lunga conversazione che c’era stata, ma mi bloccai prima di emettere qualsiasi suono. Improvvisamente avevo la sensazione che non era il caso di parlare approfonditamente di quello che mi era stato detto. Sentii soprattutto che non dovevo accennare alla mia presunta speciale identità o alle previsioni di Cyrus, che diceva che prima o poi ci saremmo reicontrati e allora avrei deciso dalla parte di chi stare… se andare in cerca della mia identità o sopportare il silenzio delle Forze del Bene. Mi sembrava tutto strano e surreale, come un sogno. Così raccontai solo parte del dialogo.
Dissi che Cyrus era arrivato poco dopo il mio risveglio, quando ero da sola nella cella, e si era presentato come, appunto, Comandante del Victory Team. Mi aveva detto delle barriere di suono tra una stanza e l’altra e che i miei Pokémon, anzi, quelli di tutti noi, erano al sicuro. «Poi… ha iniziato a dire che era sicuro che sareste venuti a prenderci, e che già avevano deciso di lasciarci andare senza opporre una vera resistenza. A… a meno che non vi foste dimostrati…» esitai un momento. «Di… diceva che se foste stati incapaci di combattere con loro ci avrebbero tenuto tra i Victory, a quel punto.»
«Come immaginavo…!» sbottò Lance. «Un pallone gonfiato che crede di potersi permettere di…»
«Ha detto altro, Eleonora?» lo interruppe Rocco.
Mi guardava intensamente e mi sentii male, essendomi costretta a non dire tutta la verità da quel punto in poi. «N-no. Non ha parlato molto. Mi ha detto solo quelle cose, poi è arrivata Martes a dirgli che eravate venuti a liberarci. Mi ha tirata fuori dalla cella e… ed è successo il resto» balbettai alla fine.
L’espressione di Rocco era un po’ corrucciata. Mi sforzai di fingere di non vederlo e presi a studiare il parquet. Ero sicura che non fosse convinto del mio resoconto e che forse nemmeno gli altri adulti lo fossero. “Speriamo che non si metta a far domande… Non mi piace mentire. Non mi piace per niente!”
«Si è fatto piuttosto tardi» intervenne Corrado. «Forse è meglio che i ragazzi vadano a dormire.»
Gettai una veloce occhiata all’orologio e notai che erano le dieci passate. Non era davvero tardi ma era palese che “i grandi” volessero parlare tra di loro senza farsi udire dalle orecchie di noi “piccoli”. Il Capopalestra ci disse che le stanze degli ospiti erano al secondo piano. Mi chiesi se sarei riuscita a salire due rampe di scale senza farmi venire subito il fiatone per la stanchezza.
Seguii Camille, Gold e Chiara. Esitai prima di svoltare l’angolo e non avere più modo di sentire le prime parole dei cinque ora che erano soli. Mi misi ad origliare concedendomi pochi secondi.
«La ragazzina non ce l’ha raccontata giusta» disse subito Rocco.
«Lo farà con Bellocchio, poco ma sicuro.»
Uno sgradevole brivido mi percorse la spina dorsale e mi affrettai ad andarmene. Non sapevo come definire il tono di Rocco ma non mi era piaciuto per niente: era sembrato deluso, seccato, grave. E Lance aveva ragione a dire che a Bellocchio avrei parlato chiaramente, non avrei potuto evitarlo. D’altronde Bellocchio era una delle persone che, stando a quanto avevo capito da Cyrus, era a conoscenza della mia identità particolare.
L’indecisione mi colse impreparata. Avrei detto davvero tutto a Bellocchio o mi sarei rifiutata di farlo, finché non mi avesse spiegato con precisione cosa aveva farneticato per quel brutto quarto d’ora Cyrus?
C’erano tre camere per gli ospiti, due singole e una per due, che ovviamente fu occupata da me e Chiara. Ma non ci dicemmo niente quando sedemmo l’una accanto all’altra sul letto matrimoniale. Aspettammo che Gold si sbrigasse al bagno e, senza dire nulla, Chiara anticipò Camille che stava andando dopo il ragazzo. Le due quasi si scontrarono davanti alla porta aperta della nostra camera; si scambiarono un’occhiata a cui non feci molto caso e poi la rossa scrollò le spalle, lasciando andare prima di lei la mia amica. Mi vide da sola nella stanza ed entrò.
«Cosa ti ha detto Cyrus?» chiese con schiettezza, sedendosi accanto a me.
La guardai sperando di simulare efficacemente una certa diffidenza. «Niente che tu non sappia già.»
Mi aspettavo che mi fulminasse con lo sguardo, invece sospirò. Quella reazione fece sciogliere anche me. «Mi dispiace» disse.
«Per cosa?»
Lei scrollò le spalle e non rispose. Avrebbe dovuto scusarsi pure per quello, secondo me. «Puoi parlarmene?»
«Cyrus mi ha detto che i Victory hanno abbassato le barriere perché sono una persona speciale e mi volevano dalla loro. Non ha specificato nulla ma ha detto pure che prima o poi ci rivedremo, e allora dovrò decidere quale strada prendere.» Camille mi guardò interrogativamente e precisai: «Se restare con le Forze del Bene, che non mi diranno mai niente sul mio conto, o se passare dalla parte dei Victory che mi rivelerranno qual è questo segreto.»
La ragazza annuì. «È vero che non mi diranno mai niente?» proseguii.
«Sì.»
«E perché?»
«Perché è pericoloso. Per te, più che altro. È un bel peso da portarsi sulle spalle.»
«Ma io voglio saperlo» dissi con tono lamentoso, un po’ come una bambina.
Le labbra di Camille si curvarono per un momento. «Non so cosa decideranno per te, se spiegarti tutto o se chiederti di far finta di niente. Sarà difficile… lo so bene. Ma per certi versi è meglio che tu non sappia.»
«Cyrus ha parlato del diritto di sapere chi sono.»
«Se la mette così è difficile non essere d’accordo con lui» sbuffò Camille. «È ovvio che tutti hanno il diritto di sapere chi sono. Ma se solo immaginassi cosa comporta conoscere la propria identità, in questo caso! Non te lo auguro per niente, Eleonora. Almeno non ora. Forse tra qualche tempo.»
«O forse mai» borbottai. «Almeno darmi un’idea del perché sia così pericoloso sapere chi sono, la posso avere?»
«Non sono io a dovertene parlare» ribatté Camille. Restammo in silenzio per un po’ e la conversazione pareva essersi chiusa lì. Chiara doveva aver quasi finito al bagno.
«Cyrus ti ha detto altro?»
Mi chiesi se fosse il caso di rivelarle che sapevo la sua storia, com’era arrivata all’Accademia e perché casa sua e parte della sua famiglia era stata uccisa. Mi sentii crudele a pensare: “Tu non mi dici niente su di me? Allora come reagirai ora che ti dico che so cosa ti è successo e perché sei così fredda con tutti? Voglio proprio vedere”, ma senza troppi ripensamenti decisi che per quella volta potevo permettermi una cattiveria. Chissà se Camille, che mi era sempre sembrata piuttosto rancorosa, mi avrebbe perdonata o se la sarebbe presa.
«Mi ha raccontato di quello che ti è successo e di come sei arrivata a Sinnoh» ammisi.
Il fiato sembrò mancarle. Si irrigidì e spalancò i grandi occhi chiari; senza farmi problemi ricambiai il suo sguardo basito, forse un po’ impaurito. Fece per dire qualcosa ma in quel momento Chiara liberò il bagno dal suo presidio e, senza tentennamenti, Camille si alzò e andò via velocemente. Chiara la guardò, sorpresa di vederla con me, ma non mi fece domande.

Il giorno dopo ci lasciarono dormire finché non ci alzammo spontaneamente. Avendo trovato un letto potei finalmente godermi un sonno ristoratore che rischiò di durare la metà di un giorno. Quello di Chiara sicuramente fu più lungo del mio; Gold e Camille invece si erano alzati con un minimo di decenza.
La rossa si comportò normalmente, come se io non le avessi detto nulla che l’avesse turbata. Certo, rimanendo fredda come suo solito la differenza non si notò molto; ma forse era un bene che non si vedesse qualcosa di diverso nei suoi modi di fare. Da Corrado erano rimasti solo Diantha e Lance: gli altri due Campioni erano tornati all’Accademia durante la notte.
«Bellocchio è già arrivato lì» ci informò il biondo. «Penso che chiederà un resoconto anche a voi.»
«A tutti voi» puntualizzò Diantha con enfasi. «Anche perché avete trascorso il vostro tempo in stanze diverse. Non avete incontrato le stesse persone né vi sono state dette le stesse cose.»
Quelle parole mi ricordarono che, secondo Cyrus, anche Gold era stato messo a conoscenza del fatto della sua identità particolare. Dovevamo assolutamente parlarne: forse a lui era stato detto qualcosa di più specifico, che mi aiutasse a capire meglio la nostra situazione. Comunque, se nessuno di noi due avesse saputo niente, avremmo comunque potuto sostenerci vicendevolmente in quella brutta, misteriosa faccenda.
Facemmo una colazione veloce e ci preparammo altrettanto rapidamente per ripartire. Andai da Gold appena ebbi modo e gli dissi, schietta: «Dobbiamo parlare.»
«Vero» ribatté. Aveva capito al volo a cosa mi riferivo e si era fatto parecchio serio, ma doveva aver intuito le mie intenzioni già dalla faccia eloquente con cui mi ero avvicinata a lui.
«Chi, uhm… chi ti ha fatto visita, ieri? Cosa ti hanno detto?»
«Il vecchio Plutinio. Ha parlato poco e niente, comunque, e appena è arrivata Giovia a dirgli che erano arrivati i nostri se l’è filata…» borbottò. Poi la sua espressione si fece più triste. «Ha detto solo che… be’, questa mia identità è la causa per cui un bel pezzo della mia famiglia è stato distrutto. La parte di Bianca, non la mia, così sono riusciti a colpire anche lei… anche se si tratta di tanto tempo fa.»
Mi fece moltissima tenerezza in quel momento. I suoi occhi blu, mesti, guardavano altrove, ma non erano lucidi di lacrime. Si passò nervosamente una mano tra gli spettinati capelli color della notte. Gli dissi che mi dispiaceva tantissimo e lo abbracciai con forza; lui ricambiò con altrettanta decisione. Plutinio era stato davvero spietato a dirgli quelle cose, ad accusarlo di essere la rovina della famiglia e anche della vita di Bianca - che, ricordai, aveva passato un brutto periodo di depressione da cui a malapena era uscita, e Gold doveva star soffrendo molto.
Sciogliemmo la stretta e mi preoccupai di trovare un fazzoletto per il mio amico e rivale nelle lotte Pokémon, ma non gli servì. Il ragazzino tirò su con il naso e poi mi fece un sorriso tirato che mi intenerì ulteriormente. Mi stupii di averlo preso in antipatia i primi tempi, era diventato una delle persone che mi stavano più a cuore. Ricambiai il sorriso e si rilassò visibilmente, arrossendo come da copione.
«Davvero hai parlato con Cyrus?» mi chiese con un po’ di difficoltà.
Annuii, ricordando spiacevolmente come mi avesse presa pure in ostaggio. Appena mi fosse stato possibile avrei chiesto a Camille come mai l’uomo si fosse turbato tanto per le sue parole, ma ero certa che per il momento fosse meglio non parlare con la ragazza. Gold mi chiese se Cyrus avesse detto qualcosa di particolare.
«No, niente di specifico. Solo che le barriere le hanno abbassate apposta per me, settembre scorso, e che Chiara ci è andata di mezzo…» Mi sentii molto in colpa. «Mi ha detto anche… ecco, ha fatto una specie di previsione. Ha detto che prima o poi arriverà un giorno in cui deciderò se continuare a stare nelle Forze del Bene o passare dalla loro, dalla parte dei Victory. Non so se lo sai, ma secondo Cyrus… e anche secondo Camille, le…»
«Camille sa qualcosa?» si sorprese Gold.
«Sì, ma figurati se riusciremo a farla parlare!» borbottai. «Ci ho già provato ieri, quando mi ha chiesto cosa mi abbia detto Cyrus, ma è stata irremovibile. Comunque, ti stavo dicendo?… secondo Cyrus, le Forze del Bene non ci riveleranno questo segreto della nostra identità, almeno per moltissimo tempo. Invece i Victory, se ci alleassimo con loro, ce ne parlerebbero. Immagino che faranno di tutto per tentarci…»
«Ma perché non ce lo dovrebbero dire? E Camille cosa pensa?» chiese lui, un po’ confuso.
«Sembra che sia molto pericolosa questa faccenda, Gold. Lei ha detto che… che è una cosa molto pesante di cui ci dovremmo far carico. Non so bene cosa pensare, ad essere sincera. Vorrei sapere così tanto quello di cui parlava Cyrus, lui stesso ha detto che abbiamo diritto a conoscere chi siamo veramente!» mi lamentai, piuttosto esasperata. «Però ho anche paura e non riesco a non fidarmi delle Forze del Bene… sono loro che hanno preso me e Chiara quando rischiavamo di essere catturate dai Victory.»
Gold annuì. Aggiunsi: «Ah, ieri sera… diciamo che mi è capitato di sentir parlare Rocco, Lance e compagnia. A quanto pare non abbiamo altra scelta che essere chiari quando Bellocchio in persona ci interrogherà, così ho sentito dire da uno di loro. Rocco ha capito subito che non ho raccontato le cose come stavano…»
«Non sembrava. Va be’ che ero praticamente in uno stato di trance, visto cosa abbiamo passato… e Rocco è sveglio. Credo sia in una bella posizione nelle Forze del Bene, infatti viene molto poco all’Accademia.»
«Chissà cosa diranno quando ci vedranno tornare!» esclamai.
Dopodiché ci richiamarono: eravamo in partenza. Andai a recuperare la cintura con le Balls e sentii il desiderio di chiamar fuori i miei Pokémon, che dalla mattina precedente non vedevo - era veramente un record, non avevo mai passato così tanto tempo senza di loro. Pensai che fosse stata una vera fortuna essere riuscita a non perderli durante il rapimento: avevo sentito abbastanza sul rapporto tra i Victory e i Pokémon per arrivare ad avere paura di quello che avrebbero potuto fare con loro. Invece li avevano lasciati praticamente a nostra disposizione una volta che i nostri salvatori fossero arrivati. Era l’ennesima stranezza di Cyrus che voleva farla passare come normalità, ritenendo di potersi permettere di confonderci in quel modo.
Avevo ancora la mia squadra al completo, Altair, Aramis, June, Rocky, Diamond e Pearl: conoscendoli già dovevano essere pronti a riprendere ad allenarsi per crescere ancora. Le uniche cose che avevamo perso nella permanenza nel Monte Ostile erano stati gli apparecchi elettronici, come il Gear, il Dex e il PokéKron. Mi chiesi se i Victory avrebbero trovato il modo di sfruttare le superficiali informazioni contenute dentro di essi: il PokéGear aveva numeri di telefono vari, era vero, ma se già sapevano dov’era situata l’Accademia non sarebbe stato granché utile rintracciare il segnale dei nostri contatti, salvati nella rubrica di quella specie di telefono cellulare. In ogni caso, noi ragazzi saremmo stati riforniti degli strumenti persi.
Non avevo raccontato la storia di Camille a Gold e mi dissi che non era il caso, mi sarei sentita pettegola e anche maligna. A Chiara, invece, non avevo detto ancora nulla: ci eravamo parlate pochissimo. Ero a disagio, non avevo voglia di parlarle, dopo aver saputo che lei era entrata in quella guerra per colpa mia, che ero così dannatamente speciale da essere stata strappata alla mia vita normale. Era un po’ una falla nel piano dei Victory, la mia migliore amica. D’altronde, se non fosse stato per lei, a malapena mi sarei accorta della scomparsa del Monte di Nevepoli. “Forse sarebbe stato meglio così?” pensai. “No… mi sarebbero venuti a prendere direttamente a casa, immagino… sarebbe stato ancora peggio, ma solo per me. Lei non ci sarebbe andata di mezzo…”
Spiccammo il volo senza tante cerimonie. Lance ci aveva prestato i suoi draghi, a me spettò nuovamente Charizard. Passammo alla larga da Pratopoli dove pareva fosse presente Omar, uno dei Victory, e perciò allungammo un po’ il tragitto. Ad ogni modo i draghi di Lance erano tutti molto veloci e se non andavamo ad alta velocità era per evitare che Camille, sul suo Talonflame, rimanesse indietro - però lei era sempre l’ultima del gruppo, a parte Lance che guardava le spalle a tutti.
Mi sembrava che tutte le cose successe appena al giorno precedente risalissero a secoli prima. I ricordi erano improvvisamente diventati meno vividi e disturbanti e avevano assunto i connotati di un sogno. Le cose si stavano facendo troppo surreali perché una ragazza ordinaria come me, almeno apparentemente, si abituasse fin da subito a conviverci. Invece mi era stato detto che normale ed anonima non ero, apposta per me erano stati demoliti i muri invisibili che dividevano la Nevepoli dei Pokémon da quella esclusivamente umana… Le cose avevano ripreso a sembrare la trama di un film molto originale e fantasioso, eppure era quella la mia realtà. Così come avevo fatto l’abitudine al mondo Pokémon, la vera realtà esistente sulla Terra che solo alle apparenze era abitata da animali ed umani normali, ora mi toccava abituarmi all’idea di essere una persona speciale in un mondo particolare e surreale - almeno rispetto a che avevo frequentato per più di quattordici anni.
“Chi se lo sarebbe mai aspettato? Ho sempre vissuto nelle bugie senza mai rendermene conto… ma non riesco neanche a prendermela più di tanto, solo un po’ per il segreto della mia identità. Il mondo dei Pokémon è molto più piccolo rispetto all’altro, eppure è l’unico che mostra la realtà sia del passato che del presente. E ora sono venuta a sapere che non solo sono finita in un universo incredibile, che per un sacco di tempo mi è sembrato irreale… ma pure che io per prima sono qualcosa di speciale nel mondo dei Pokémon! È… sono doppiamente anormale, in un certo senso.”
La struttura sembrava quella di una matriosca. Una realtà dentro l’altra, dalla mia personale a quella estesa su scala mondiale. Emisi un sospiro quasi impercettibile. “Io però voglio sapere di cosa stava parlando Cyrus. Non posso aspettare per sempre con questo peso! Camille ha detto che è una responsabilità enorme, gravosa, ma sono sicura che sarebbe meno frustrante convivere con qualcosa di conosciuto che con qualcosa di cui non so nulla. E io voglio conoscermi, voglio saperlo! Perché lei sa cosa significa tutto questo e io invece non posso saperlo?… Ma non ho intenzione di chiederle qualcosa a riguardo. Non mi piace per niente parlare con lei.”
Voltai la testa e guardai Gold, Lance e Camille che volavano dietro di me, Chiara e Diantha. Alla fine fu proprio la ragazza a rivolgermi la parola, esattamente quando avevo deciso di parlarle il meno possibile. Era così puntuale da essere odiosa, a quel punto. Si accostò a Charizard con Talonflame.
«Hai mai fatto sogni che lasciano il segno, Eleonora?»
Corrugai le sopracciglia. Non mi stava guardando e non riuscii a capire la sua espressione. Sembrava un po’ sorridente ma in un modo affatto amichevole: l’avrei definita un’espressione maligna.
«In che senso?»
Glielo chiesi inutilmente. Lei scrollò le spalle e tornò indietro, forse sapendo che non ci tenevo a seguirla. Infatti la lasciai andar via e me ne stetti a rimuginare su quella domanda e sull’aspetto piuttosto crudele del suo viso. Ci misi un po’ a cercare di interpretare quella cosa, “sogni che lasciano il segno”. Cosa intendeva dire Camille con quella specie di modo di dire? Di sogni strani ne avevo fatti parecchi.
All’improvviso capii. Non sapevo dire come, allora, ma ricordai il sogno fatto a fine ottobre, l’anno prima, così confusionario e apparentemente privo di senso. Lo avevo sempre giudicato un ammasso di elementi strani ed in contrasto tra loro: il cielo pieno di nuvole di tutti i colori, il sentiero sospeso che si sgretolava, facendomi rischiare ad ogni passo di cadere nel vuoto, sempre pieno di tinte vivaci e luminose… ma infine riuscivo a fermarmi, la strada smetteva di sbriciolarsi, e a quel punto mi guardavo indietro. Facevo in tempo a vedere un’ombra rapace e rapidissima quasi schiantarsi contro di me per attaccarmi, ma prima che mi toccasse un muro di fiamme si ergeva tra me ed essa. Alché il sogno s’interrompeva bruscamente.
Non li ricordavo nemmeno tutti insieme, i dettagli del sogno. Ma siccome mi tornava alla mente molto spesso, anche in momenti casuali e senza preavviso, ogni tanto riuscivo a ricollegarli tutti - nonostante di rado me li ricordassi uno per uno. Forse Camille intendeva quello con “sogni che lasciano il segno”: ci pensavo più volte e involontariamente, a volte senza rendermene conto, senza farmi domande.
Mi resi conto che la ragazza stava praticamente gongolando perché ne sapeva molto più di me. La cosa mi irritò moltissimo: non capivo perché avesse iniziato a trovare così divertente darmi del filo da torcere in quel modo. Non le bastava mantenere il silenzio? Doveva pure farmelo pesare? Non trovavo una ragione per cui dovesse accanirsi in quel modo contro di me. Non ero stata io a chiedere a Cyrus di raccontarmi la sua storia, se era questo il motivo per cui mi stava portando rancore. Mi voltai in cerca del suo sguardo ma lei mi evitò accuratamente, degnandomi solo di un’occhiata indecifrabile. Mi rassegnai a non ricevere spiegazioni, perlomeno non prima di parecchio tempo. Però mi stavo già stancando di quel suo modo di fare: ero sicura che, se non avessimo chiarito veramente le cose - se di questo aveva bisogno, la situazione sarebbe degenerata ancor di più. Non ci stavamo propriamente simpatiche, ci sarebbe voluto poco per renderci la presenza dell’altra a dir poco insopportabile: dovevo capire la ragione di quei comportamenti. O meglio, doveva essere lei a spiegarmeli: io non la conoscevo abbastanza bene, non avevo i mezzi per comprendere le sue stranezze.
Arrivammo all’Accademia abbastanza presto. Bellocchio ci stava aspettando.







Angolo ottuso di un'autrice ottusa
Questo finesettimana non ho fatto in tempo a pubblicare, quindi oggi mi sono riservata una mezz'oretta per farlo. Tra poco volerò a fare i compiti di matematica, ahimè! Ormai non mi connetto proprio più a efp, se non nel weekend e solo per aggiornare!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto; per qualche miracolo divino sono riuscita a finire anche il prossimo, che è stato molto difficile da scrivere. Ad ogni modo ci avviciniamo alla fine di questa nuova Ntss1, che, vi ricordo, conterà "solo" venti capitoli in totale; dopodiché arriva la terza parte, ladies and gentlemen! *standing ovation dell'autrice solitaria*
A presto,
Ink

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Capitolo 17
*** XV - Toccata e fuga ***


XV
Toccata e fuga

Ci dissero che Bellocchio era in presidenza e che dovevamo subito recarci lì: non ci diedero nemmeno il tempo, insomma, di riposare qualche minuto nelle nostre camere. Ero sicura che, appena quel capitolo si fosse chiuso - e lo avrebbe fatto dopo la chiacchierata imminente con Bellocchio, sarebbe tornata la parlantina imperterrita di Chiara, che da quando eravamo stati rapiti mi aveva detto pochissime cose - pochissime ne aveva dette in generale.
Non avrei saputo dire quali emozioni stessi provando. L’uomo al vertice delle Forze del Bene non avrebbe mai detto nulla di preciso sul segreto della mia identità, ormai ne ero sempre più convinta - ero influenzata anche dal comportamento di Camille, che ancora mi rodeva parecchio. Non avrei voluto anche quella ragazza insieme a noi mentre io e Gold cercavamo di estorcere al capo qualche informazione in più, troppo desiderosi di conoscerci fino in fondo - anche e soprattutto le parole di Cyrus mi avevano condizionata non poco.
E invece Bellocchio specificò fin da subito che Camille doveva rimanere. In più, congedò Chiara: la mia amica, che fu accompagnata da Diantha alla nostra camera, non reagì in un modo particolare, ma da una veloce occhiata capii che era molto irritata per quello. Sperai che dal mio sguardo di rimando avesse inteso che le avrei riferito tutto quanto. Dovevo ancora raccontarle l’intera, brutta conversazione avuta con il Comandante Victory.
L’uomo sembrava un po’ stanco. Le prime due volte in cui ci eravamo incontrati l’avevo visto esprimersi a forza di sopracciglia corrugate e occhiate severe. Invece ora aveva lo sguardo reattivo, un po’ meno adulto ed impenetrabile, e pure le sopracciglia erano lievemente inarcate. Sembrava stanco proprio perché non aveva una faccia seria ed austera come suo solito, anche se, avendolo incontrato solo due volte esclusa quell’occasione, non sapevo quale fosse il suo modo di presentarsi di tutti i giorni.
«Buongiorno» salutò con semplicità: nemmeno mi aspettavo che lo facesse, ma che andasse al nocciolo della questione senza preamboli. «Allora… Gold, Camille ed Eleonora. Premettiamo che quello che è successo a voi e all’altra ragazza è passato sotto silenzio per evitare che gli studenti dell’Accademia fossero preda del panico. Vi prego di non diffondere troppo la voce per non creare scompiglio: non dico che non ne dovete parlare a nessuno, ma trattate la questione con molta cautela. Siete stati via per più di un giorno e qualche vostro amico ha iniziato a farsi domande, stando a quanto hanno sentito dei professori. E a proposito di loro, l’insegnante che stava tenendo la lezione mentre venivate rapiti ha appurato che il resto della classe non si è reso conto di nulla, tutti erano troppo occupati a lavorare. Altrimenti la notizia si sarebbe sparsa e avrebbe fatto un po’ di baccano.»
“Un po’ di baccano?” Inarcai le sopracciglia. Però ero contenta che non avessero già detto tutto a tutti: non mi piaceva la prospettiva di dover rispondere a dozzine di domande dei miei amici, a cui avrei potuto spiegare cosa era successo con calma e solo quando lo avessi voluto io.
«Quello che è successo è molto grave. Cyrus si è comportanto come se la faccenda non avesse alcun peso e da questo abbiamo capito che le sue intenzioni erano soltanto di spaventarci. Ma purtroppo è riuscito ad uccidere Aristide, uno degli uomini migliori nella nostra organizzazione…» abbassò un po’ la voce. Dopo un lungo secondo di pausa, riprese con la stessa decisione di prima: «Ad ogni modo, da quello che ci è stato riferito da chi vi ha tratti in salvo e ha potuto parlare con voi, io ed altri miei colleghi abbiamo analizzato le parole di Cyrus che ci sono state riferite… ma riteniamo opportuno interrogare voi in persona e venire a sapere i dettagli: dopo la terribile giornata di ieri non era il caso di chiedervi un resoconto e tediarvi ulteriormente…»
La sua formalità mi sembrava artificiosa, costruita con troppa attenzione. Non mi piaceva molto il suo modo di parlare, ma forse era solo perché già immaginavo come sarebbe stato trattato l’argomento della mia identità e non mi ispirava affatto l’idea di dover confessare tutta la conversazione avuta con Cyrus al capo per non ricevere alcun chiarimento. Non in cambio, ma perché ne avevo veramente bisogno. Di sicuro Rocco e compagnia avevano detto all’uomo che a loro non avevo raccontato tutto e ora mi conveniva farlo: la punta di diamante della vecchia Polizia Internazionale, come lo avevo sentito spesso chiamare, non si sarebbe fatto ingannare da una ragazzina.
«Cyrus ha parlato solo con te, Eleonora, vero?»
Qualcosa mi aveva già suggerito che sarei stata la prima ad essere interpellata. «Penso di sì. A meno che prima di venire da me non abbia parlato con qualcun altro.»
«E da voi due chi è venuto? Camille?»
«Da me hanno mandato solo qualche recluta» disse lei. «In fondo non avevano niente da dirmi sul mio conto che io non sapessi già.»
Ci fu un collettivo inarcamento delle sopracciglia da parte di noialtri, Bellocchio compreso. L’uomo cercò di ignorare le parole pungenti della ragazza, che stava seriamente esagerando con quei comportamenti, e invitò uno stupito Gold a parlare. «Ehm… da me è venuto Plutinio.»
L’agente chiese al ragazzetto se gli avesse parlato di qualcosa in particolare e lui rispose: «Mi ha… ehm… diciamo che ha cercato di provocarmi, di infastidirmi. Ha detto che è per colpa della mia identità, che non conosco per niente, se alcuni miei familiari sono stati presi di mira dai Victory.»
Bellocchio fece un cenno d’assenso. Si teneva il mento, perfettamente sbarbato, tra il pollice e l’indice; aveva le braccia mezze incrociate. Dopo aver dedicato quel minuto della sua attenzione a Gold, si rivolse un’altra volta a me: «E Cyrus cosa ha detto a te, Eleonora, di preciso?»
Sottolineò talmente tanto quel “di preciso” che per poco non alzai gli occhi al cielo. Riferii per l’ennesima volta, o almeno così mi parve, ciò che mi aveva detto il Comandante Victory. Stavolta, però, lo feci con tutti i dettagli: nemmeno a Camille avevo riportato la conversazione per intero, sorvolando sulle cose che mi erano parse meno importanti. Evitai solo la parte in cui avevo cantato, sperando di attirare l’attenzione di qualcuno - e riuscendoci, e le parole di Cyrus: “Canti davvero bene. Non avevo alcun dubbio.”
Bellocchio appariva pensieroso: avevo evitato di guardarlo per tutto il tempo, ma quando finii di parlare mi sforzai di farlo. Forse si stava chiedendo come parlare del problema che Cyrus aveva creato, accennando - forse prematuramente, aveva lasciato capire Camille - al discorso della mia identità segreta. Mi chiesi se non ci fosse una possibilità che l’uomo tradisse le aspettative di Cyrus e ci raccontasse tutto su quella faccenda così delicata: sarei stata spaventata, pensando a come Camille avesse descritto il valore di quel segreto così terribile e gravoso, ma lo volevo davvero sapere. Insistetti sul diritto di sapere chi fossi, cosa che mi aveva turbata molto ma che ritenevo una delle poche verità che l’uomo doveva aver detto - così pensai. Presto capii che il Comandante Victory ci aveva visto fin troppo bene sulle intenzioni di Bellocchio e delle intere Forze del Bene.
E infatti l’agente disse, dopo un lungo silenzio: «Non vi è dato sapere, Gold ed Eleonora, ciò di cui vi hanno parlato Cyrus e Plutinio. Non è una cattiveria nei vostri confronti ma una precauzione necessaria, pure Camille vi potrebbe dire quanto sia delicato l’argomento. Per questo è più conveniente, sia per noi che per voi, tenervi almeno momentaneamente all’oscuro di questo segreto.»
«Momentaneamente?» chiesi. «Quanto a lungo, di preciso?»
«Non c’è un periodo di tempo preciso, Eleonora. Se possibile non vi verrà detto mai nulla.»
«In tutta la nostra vita?» insistetti, basita. Bellocchio annuì. Sbottai, infantilmente: «Ma non è giusto!»
Il capo mi guardò come a voler dire “e tu che ne sai di cosa è giusto e cosa no?”; in effetti, se la mia identità era così terribile e le Forze del Bene avevano già previsto cosa sarebbe potuto accadere se l’avessi conosciuta, era meglio che chinassi la testa e assecondassi il volere dei piani alti. Ma non riuscivo ad accettarlo: avrei potuto lasciar correre ma questo non significava nulla. Tuttavia, se sapere chi ero mi avesse ridotta ad uno squilibrio come quello di Camille - che negli ultimi tempi non si stava comportando molto normalmente, ero un po’ vacillante su quel desiderio sfrenato di capire. “Momentaneamente me ne starò buona, allora… e in futuro si vedrà. Anche Cyrus lo ha detto… prima o poi deciderò.” Rabbrividii: quell’uomo mi aveva influenzata anche troppo.
«Posso immaginare che sia frustrante non poter venire a sapere nulla, Eleonora - e anche Gold, e Cyrus avrà lavorato parecchio per tentarvi nei modi peggiori con questa faccenda» disse Bellocchio. «Ma dovete lasciar fare a noi. Non siete gli unici, voi tre, a nascondere un’identità ricercata sia dalle Forze del Bene che dai Victory; alcuni, come voi, conoscono questo loro segreto e pochi di loro l’hanno accettato senza problemi.»
Ebbi la sensazione che volesse aggiungere qualcos’altro ma che lasciò in sospeso il resto. Forse stava per dire qualcosa su quelli che non avevano preso molto bene la notizia della loro speciale identità, ma aveva ritenuto opportuno non proseguire. Mi ripetei che ridurmi nello stato di Camille non mi ispirava affatto e per il momento preferii bearmi nella mia ignoranza, siccome sembrava essere diventata sinonimo di pace interiore. Il fatto di non essere una delle poche che aveva dentro di sé qualcosa di particolare, stando a quanto aveva detto, in un certo senso mi confortò. L’idea di essere un’eccezione alla regola come Gold e Camille mi impauriva un po’: già non essere soltanto in tre mi faceva sentire meno a disagio.
Lì, più o meno, finì la conversazione con Bellocchio. Non sapevo quale opinione farmi del capo delle Forze del Bene: era sotto il suo comando che la guerra proseguiva da addirittura otto anni? Sembrava sapere il fatto suo, ma se le cose stavano così non era ancora in grado, dopo tutto quel tempo, di sconfiggere la minaccia dei Victory. Che fossimo noi “speciali” una delle cause per cui il Victory Team e le Forze del Bene si stavano combattendo?
Me ne andai subito in camera e vi ritrovai Chiara. Mancava poco all’ora di pranzo e, ora che mi ero più o meno rasserenata, l’appetito perpetuo che mi caratterizzava era tornato più vivo che mai. Non vedevo l’ora di incontrare Ilenia, Sara, Daniel e tutti gli altri, anche se ancora non sapevo se avrei raccontato subito le cose che erano successe. La salutai stancamente e lei subito mi chiese: «Potresti fare un riassunto anche per me?»
Le riportai pazientemente tutto quello che mi avevano detto sia Bellocchio che Cyrus. «Allora… Cyrus mi ha invitata subito a confidargli i miei dubbi, tutti quelli che mi sono venuti durante l’anno passato in Accademia e che mi stavo facendo in quel momento. All’inizio non glieli volevo dire, ero sicura che volesse distrarmi o prendersi gioco di me in qualche modo, o comunque trarre vantaggio dalle mie debolezze… ma appena mi sono rifiutata ha iniziato a parlare del diritto di sapere certe cose, anche se qualcuna rimarrà senza spiegazione per un po’ di tempo. Ha detto addirittura che le verrò a sapere la prossima volta che ci vedremo!»
Chiara inarcò le sopracciglia. La sua espressione era molto seria, in un certo senso critica. «Non capendo di cosa stesse parlando, gli ho fatto notare che sembrava aver già deciso di lasciarci andare senza problemi e che era sicuro che le Forze del Bene sarebbero arrivate di lì a poco. Non so se sia una stupida provocazione o se prenderlo sul serio… il fatto che sembrasse così sicuro di sé mi ha fatto molto paura. Poi ha detto che… ha ribadito che ci vedremo altre volte, ed è arrivato a pensare che un giorno lascerò le Forze del Bene per unirmi ai Victory.»
«E perché mai dovresti?»
«Adesso ci arrivo. Più parlava e meno capivo quello che stava dicendo, proprio come te ora, insomma. Lui ha visto che ero in difficoltà e mi ha detto che la situazione è difficile e che mi sarà chiara solo tra qualche tempo, era dispiaciuto di farmi aspettare e cose del genere… Dopo un po’ si è messo a dire che “noi delle Forze del Bene” non dovremmo demonizzarli, i Victory, e lì mi sono scaldata leggermente» borbottai. «Gli ho ricordato, diciamo così, che sono stati loro ad abbassate le barriere che separavano il quartiere nord di Nevepoli dal resto della città, che se non lo avessero fatto io e te ora non saremmo in questa situazione e per questo motivo voglio essere loro nemica.
«Lì le cose hanno iniziato a complicarsi.» Mi sforzai di ricordare le parole più o meno precise di Cyrus: «Mi ha detto che le Forze del Bene, togliendomi a loro Victory, mi hanno impedito anche di conoscere me stessa. Ha fatto molta pressione sul diritto di conoscere chi sono, qual è la mia vera identità. Non mi hanno dato la possibilità di saperlo, o comunque di farmi decidere se andare a fondo in questo problema o rimanere nell’ignoranza… e soprattutto non mi hanno mai voluto dire che c’è un motivo preciso se le barriere furono abbassate, quel giorno.
«Ho provato a negare e a dirgli che sono una ragazza normale, ed è così, secondo me, perché non ho niente di strano o di sovrumano che possa averli interessati a tal punto da fare una cosa del genere. Sono una ragazza assolutamente anonima e ordinaria, no? No, a quanto pare lo sono solo apparentemente» mi risposi da sola un momento dopo. «E perciò sono una persona speciale. Talmente tanto che i Victory hanno cercato di catturarmi… e tu ci sei andata di mezzo. Le Forze del Bene hanno fatto di tutto per non farmi sospettare nulla, ma, come ha detto Cyrus, non ho mai minimamente pensato che ci fosse una ragione particolare per cui i Victory avessero cercato di prenderci… cioè, di prendermi. Non mi sono mai posta la questione, davo per scontato che volessero altre reclute, semplicemente, ma Cyrus ha detto che non hanno proprio bisogno di… non so, diciamo di altre bocche da sfamare, l’ha messa un po’ su questo piano.
«Comunque, gli ho chiesto cosa avessi di speciale. E ovviamente lui non me lo ha detto! Ha fatto pure peggio. “Il giorno in cui qualcosa in te cambierà, se farai le scelte giuste, allora saranno soddisfatti tutti i tuoi dubbi”…» Avevo imparato a memoria quella frase, a forza di risentire la voce di Cyrus nella mia mente. «In parole povere, già pensa che prima o poi passerò dalla parte dei Victory pur di conoscere questo segreto, perché sa bene che le Forze non mi diranno mai nulla, almeno per tantissimo tempo. Prima Bellocchio ha detto che potrei non venirne mai a conoscenza, per tutta la mia vita, se fosse necessario… a quanto pare, questo segreto è fonte di pericoli ed è una responsabilità molto gravosa. Credo proprio che Camille sia impazzita per colpa della sua identità.»
«Camille?» Chiara si stupì. «Lei è una speciale? E dici che è fuori di testa?»
«Sì. È molto molto pazza. Tra l’altro, ha assistito all’incendio di casa sua, a Kalos, e forse alla morte dei suoi familiari… i Victory hanno cercato di catturarla, essendo lei una speciale, per l’appunto, e hanno preso misure non poco estreme per portarla dalla loro. Solo che è riuscita a scappare. Mi ha raccontato tutto Cyrus» precisai. «Ecco, credo che tutto questo l’abbia resa un po’… tocca.»
«È un po’ tocca o molto molto pazza? Deciditi, su.»
Ridacchiai. «Molto molto pazza, in effetti.» Le raccontai le cose strane che aveva fatto per farmi arrivare a pensare che non stesse a posto con il cervello: la domanda sui “sogni che lasciano il segno” e l’espressione crudele che, era palese, si stava beffando del fatto che lei ne sapesse molto più di me, su quella faccenda, e infine le parole rivolte a Bellocchio, anche in quel caso per sottolineare la sua grande conoscenza del segreto.
«Wow» mormorò Chiara. «Be’, Ele, non prenderla come esempio allora! Non so perché lei sappia chi sia e tu no, ma forse è veramente meglio che resti all’oscuro di questo per qualche tempo. Almeno per riuscire ad assimilare la notizia e a fare, uhm, a fare l’abitudine a questa cosa della tua identità speciale. Magari quando vedranno che non è più una cosa in grado di sconvolgerti si decideranno a parlartene, e a quel punto tu non rischierai di perdere i neuroni com’è successo a Camille.»
Annuii. «Bellocchio ha detto più o meno questo. Che l’argomento è delicato e che questa è una precauzione, che Cyrus si è comportato come se questa faccenda fosse di infima importanza eccetera…»
«L’importante adesso è goderci il rientro all’Accademia!» esclamò all’improvviso lei, riprendendo i suoi bei toni energici e pieni di vitalità. Si stiracchiò rumorosamente, senza ritegno, e sbuffò: «Dobbiamo spiegare al tuo ragazzo e al resto della compagnia cosa è successo…»
«Chiara
Scoppiò a ridere per il mio tono lapidario. «Eddai, fatti prendere in giro, Supergirl!»

Così riprese la nostra permanenza all’Accademia: esattamente allo stesso modo in cui l’avevamo brevemente interrotta. Dopo aver raccontato per l’ennesima volta - iniziavo a stufarmi, ma Chiara mi aiutò a riferire tutto - ciò che era accaduto, stavolta con i nostri amici come pubblico, la pesantezza delle cose successe sembrò evaporare grazie all’effetto quasi magico dell’Accademia. Chiesi a Chiara di evitare di parlare con Ilenia, Daniel e gli altri del fatto che fossi speciale e lei mi promise che non l’avrebbe detto a nessuno. Mantenne sempre la parola data.
Sara, Ilenia e Daniel, le persone a cui forse stavo più a cuore e con cui avevo legato di più, sembrarono farsi più apprensivi e premurosi. Mi parve che riservassero più attenzioni a me che a Chiara, però, e di certo il motivo non era perché io avevo incontrato Cyrus e lei no. Anche Angelica non si risparmiò, per parecchio tempo, di preoccuparsi sia per me che per la mia amica. Da un lato i ragazzi sembrarono molto spaventati per quello che ci era successo, dall’altro i più grandi - Cynthia in particolare, com’era prevedibile - parvero quasi invidiare un confronto così ravvicinato con i Victory.
La notizia della morte di Aristide aveva sconvolto gli animi di un po’ tutti i ragazzi dell’Accademia e, senza realizzarlo appieno, ci trovavamo in uno stato di equilibrio precario. Il Victory Team sapeva dove ci trovavamo, il nostro numero e forse anche chi eravamo, noi dell’Accademia - se tutte persone normali o se tra la moltitudine di giovani emergeva qualche “speciale”. Eppure le Forze del Bene non presero provvedimenti radicali: a detta loro, le barriere furono rinforzate e dei Pokémon addestrati, fino ad essere quasi indipendenti, posti appositamente a guardia della zona in cui ci nascondevamo. Sarebbe stato meglio trasferirci da un’altra parte, magari smistare gli studenti in varie basi segrete, secondo me; ma quando lo dissi, ragionando ad alta voce insieme ai miei compagni, loro mi risposero che la situazione nelle basi segrete era completamente diversa da quella dell’Accademia. Non erano luoghi in cui passare il proprio tempo ad allenarsi e seguire corsi o lezioni: lì si lavorava davvero e anche molto intensamente, ogni giorno, finché non si raggiungeva un livello più che dignitoso. Solo in quel momento ci si poteva permettere di evitare gli allenamenti giornalieri e che duravano da mattina a sera.
Inizialmente fui piuttosto inquieta nel sentire quella risposta: non tanto perché avevo paura di un mio possibile futuro in una base segreta, piuttosto perché non mi sentivo molto al sicuro nell’Accademia. Eravamo davvero ben protetti? Le poche attenzioni prese dalle Forze del Bene sarebbero bastate per evitare la minaccia dei Victory per un ragionevole periodo di tempo? Non avevo veramente paura ma la campana di vetro mi sembrava sempre più terribilmente fragile. Il rapimento ad opera dei nemici era diventato paragonabile ad un trauma, non di grossa entità ma certo non indifferente. I miei sonni non erano più molto tranquilli ed era colpa di Cyrus, la cui voce, nei momenti in cui non ero impegnata in altro, risuonava nella mia mente e mi ricordava che la questione della mia identità era ancora aperta, sempre pronta a darmi parecchio filo da torcere. Se mi svegliavo in un bagno di sudore non era per sogni che avevano lasciato il segno, né perché i giorni erano passati ed eravamo entrati nell’estate; il motivo erano i vividi ricordi di Cyrus e della prigionia.
Non capivo bene perché avessi più paura dei Victory dopo più di due settimane da quello che era successo che rispetto ai giorni immediatamente successivi al fatto. Iniziai a sentirmi sempre più spesso a disagio e a temere i momenti di solitudine: starmene con le mani in mano voleva dire rivivere quegli eventi e riascoltare le parole di Cyrus, che mi avevano veramente mortificata. Volevo sapere chi ero e allo stesso tempo ne avevo molta paura.
Il rapporto con Camille non aveva subito né miglioramenti né peggioramenti. In effetti neanche ci parlavamo. Se mi era possibile evitavo pure di guardarla, avevo paura che mi tormentasse: non mi fidavo più di lei, iniziai a crederla veramente fuori di testa - sulle prime era stato uno scherzo da ripetere spesso con Chiara, pian piano era diventato la verità, almeno per me. Anche l’amicizia con Gold era sempre uguale, forse il segreto comune ci aveva avvicinati ancora di più, ma in quel caso si trattava di affetto e di sana rivalità tra Allenatori: non era la specie di astio e di riluttanza che provavo quando Camille era nelle vicinanze.
Riuscii ad isolare l’ansia che mi prendeva al ricordo di quei due lunghi, sconvolgenti giorni a pochi momenti di riflessione. Le lezioni erano state sospese fino all’inizio di settembre, come minimo, e mi ritrovai improvvisamente con molto tempo libero a disposizione. Una volta ripresi tutti i contatti con i miei amici e pure i miei Pokémon, mi organizzai una semplice, rassicurante routine nella speranza che mi distraesse per i due-tre mesi a venire: avrei coltivato sempre più approfonditamente le mie amicizie, avrei finalmente fatto largo uso della piccola biblioteca dell’Accademia e avrei sicuramente allenato un po’ i miei Pokémon, con l’obbiettivo di far evolvere i compagni che ancora dovevano raggiungere gli ultimi stadi: Altair in primis, poi anche Diamond e Pearl.
Eppure non ebbi neanche il tempo di abituarmi a quei nuovi ritmi che la mia routine fu interrotta nuovamente, in un modo del tutto inaspettato. Ricordo bene che ero sola in camera a leggere, sdraiata sulla mia amata branda, perché Chiara era uscita per andare a chiedere qualcosa ad un Capopalestra. Proprio la mia compagna di stanza spalancò la porta e fece irruzione in modo scomposto, tutta ansimante, paonazza.
La guardai incuriosita e sorpresa e le chiesi cosa fosse successo per ridurla in quello stato. Lei deglutì un paio di volte e si degnò di chiudere la porta. Dopodiché quasi mi prese di peso per tirarmi su dal letto, ignorando bellamente le mie esclamazioni, e mi gettò le braccia al collo stringendomi in un abbraccio soffocante.
«Torniamo a Nevepoli! Torniamo a casa!!» mi strillò nell’orecchio. «Per una settimana… possiamo tornare! Me lo ha detto Gardenia, tra pochi giorni ci fanno andare a trovare… Aaah!! Non ci credo, non ci credo! Torniamo!»
Mi ci volle un po’ per abituarmi al volume assordante della sua voce euforica ed acuta e a quel punto potei decifrare le sue grida gioiose. Altro tempo mi servì per capire cosa volesse dirmi con quei piccoli deliri. Con una calma sorprendente, e soprattutto innaturale, ne realizzai il significato.
Subito dopo mi fu chiaro che, tornando a Nevepoli, avrei finalmente ottenuto una risposta al silenzio che c’era stato quell’inverno, quando Chiara aveva ricevuto una lettera dai genitori e io no. Mi sforzai di partecipare alla contentezza sconfinata della mia migliore amica ma anche quella volta fui non poco egocentrica: pensavo soltanto al fatto che di lì a pochi giorni avrei incontrato i miei genitori e avrei avuto le risposte che cercavo proprio da loro.
Non me lo spiegai, ma non mi emozionai particolarmente per quella notizia. Non mi figurai un abbraccio commosso da parte di mia madre e di mio padre, né una valanga di domande sulla mia nuova vita: l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era quell’altra. Avrei chiesto loro perché mi avessero praticamente abbandonata a me stessa e già pretendevo una risposta accettabile. Iniziai ad avere paura del ritorno a casa: e se fosse stato deludente? Come mi sarei comportata? Avrei davvero cercato subito una spiegazione al dilemma di quei mesi o, davanti ai miei genitori, avrei desiderato soltanto il loro affetto?
La notizia del rientro a casa per tutti i ragazzi, che sarebbe durato una settimana, fu diffusa separatamente per evitare lo scompiglio che sarebbe succeduto a quella tempestosa novità. Ma appena ci ritrovammo tutti insieme per i pasti fu inevitabile l’espressione di una gioia incontenibile, quando tutti erano stati messi a conoscenza della decisione. Non sapevamo chi ringraziare per quella cosa meravigliosa. Mi lasciai trascinare dalle grida di giubilo e dalla felicità, che era dilagata a macchia d’olio tra tutti noi ragazzi, e potei essere veramente felice immaginando la faccia dei miei genitori - e la mia - nel rivederci. Era passato quasi un anno! Me ne resi veramente conto solo allora.
Tornai a Nevepoli con Bianca, Gold e Chiara. Il mio bagaglio era leggero ma sentivo le gambe pesanti e lo stomaco chiuso in una stretta terribile. L’emozione era stata di nuovo contaminata dalla paura; il cuore accelerava e decelerava i suoi battiti senza preavviso, tanto che un momento faticavo a respirare con naturalezza e quello dopo mi sentivo stanchissima per gli scatti che faceva. Bianca e Gold fecero il piacere a me e Chiara di tornare alle nostre case da sole: ci avrebbero raggiunti non appena lo avessimo chiesto, informandoli con il Gear.
Ero veramente in ansia mentre ripercorrevo le strade, che non erano cambiate ed erano sempre piene di neve, affollate da poche macchine e ancor meno persone, che ancora mi erano familiari. Mi stupii di ricordarmi perfettamente il tragitto. Le villette a schiera si facevano sempre più riconoscibili e presto distinsi quella in cui avevo abitato fino al primo settembre dell’anno prima.
Non riuscii a correre per raggiungere prima il cancello, credevo di avere le gambe fatte di piombo. Non servì sveltire il passo: mi parve di arrivare a destinazione pure troppo presto. Dovetti richiamare tutte le mie forze solo per suonare il citofono. Trattenni il fiato, aspettando da un momento all’altro che la porta di casa si aprisse.






Angolo ottuso di un'autrice ottusa
Mi sono leggermente stufata di questo remake. Non vedo l'ora di finirlo, sinceramente! Per fortuna mancano solo tre capitoli, ma se penso che poi mi toccherà rivedere un bel pezzo della seconda parte e tutta Ribellione, a cui ancora non ho messo mano... qualcuno mi dia alle mie giornate un'ora in più di tempo per organizzarmi con tutto!
Il capitolo si chiama "Toccata e fuga" perché perché è un breve momento di transizione tra una cosa e l’altra, le protagoniste passano molto poco tempo all’Accademia prima di ripartire. Il prossimo è quasi pronto, come già detto è il terzultimo; il penultimo sarà un'altra specie di transizione e poi arriva il finale, che penso sarà l'unico in cui gli eventi descritti non saranno cambiati sostanzialmente come è stato fatto finora.
E quindi, con questi presupposti, come vi aspettate che venga trattato il ricongiungimento familiare del prossimo capitolo? Penso che mi odierete! :P
A presto,
Ink

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Capitolo 18
*** XVI - La sfortuna di poter ricordare ***


XVI
La sfortuna di poter ricordare

Passò una manciata di secondi e l’ansia si stava già trasformando in impazienza. Contai lentamente fino a dieci ma dalla villetta non provenivano segni di vita. Suonai nuovamente il campanello e mi ripetei un piao di volte: il risultato non variò.
«Non ci voglio credere» borbottai tra me e me, contrariata. «Vuoi vedere che sono arrivata proprio mentre loro sono a farsi un giro chissà dove? Che poi, siamo anche nell’ultima settimana di giugno… in genere partivamo sempre per le vacanze in questi giorni. No, non posso crederci!»
Se i miei genitori fossero stati davvero in vacanza, avrei aspettato seduta davanti al portone fino al loro ritorno, senza preoccuparmi di quali metodi avrebbero dovuto adottare Bianca, Bellocchio e la loro compagnia per farmi schiodare e farmi smettere di fare la muffa là davanti. Abbandonai per terra lo zaino, che come d’abitudine tenevo su una sola spalla: riprovai un’ultima volta a suonare il campanello. Non che mi aspettassi un risultato differente dal silenzio che avevo ottenuto fino ad allora in risposta ai miei tentativi.
La strada era deserta e il fatto era un po’ inquietante. Rabbrividii: non ero nemmeno più abituata alla rigida estate di Nevepoli e ringraziavo Bianca per aver insistito a lungo per non farmi rinunciare alla giacca. Mi sfregai le mani, un po’ fredde, e presi a svolgere qualche azione quasi rituale per passare il tempo: toccai una per una le sei Balls attaccate alla cintura nascosta sotto al giacchetto, controllai che nello zaino ci fossero quelle poche cose che mi ero portata appresso giusto per non tenerlo vuoto, mi riavviai sistemai i capelli più e più volte.
Mi allontanai per qualche minuto dal portone. Quando tornai non ero la sola sulla strada: una persona, anziana a giudicare dall’incedere lento dei passi e dalla postura non propriamente eretta, mi stava venendo incontro. Senza badarci, ripresi a suonare il campanello. Iniziavo ad irritarmi un po’. “Non possono farmi questo! Che rottura!”
«Stai cercando qualcuno, tesoro?»
Mi voltai di scatto verso la voce flebile ma simpatica che mi si era rivolta. Era la figura che avevo notato mentre tornavo a tormentare il campanello, che si dimostrò essere una vecchina dall’espressione gentile e un po’ ingenua - Chiara l’avrebbe certamente definita “svampita”. Aveva un’aria familiare. Probabilmente doveva abitare nei dintorni e io l’avevo incontrata più di una volta, prima di andarmene: forse anche lei non mi aveva trovata perfettamente sconosciuta e aveva deciso di parlarmi.
«Oh… sì, è da prima che suono il campanello ma non risponde nessuno.»
«Ma infatti, perché suoni qui?»
«Eh?» Inarcai lievemente le sopracciglia, un po’ sorpresa.
«Qui non ci vive nessuno, cara; la casa è in vendita da parecchi mesi. Prima ci abitava una coppia, non ricordo bene, ma credo si sia trasferita non so dove dopo molti anni…»
Il cuore mancò un battito, sulle prime, e credetti alle parole dell’anziana. Ma mi tranquillizzai quasi subito: lei continuava a chiacchierare imperterrita e già quello mi fece pensare che fosse la classica vecchietta pettegola, che a forza di ficcare il naso nelle faccende di tutti si stava confondendo tra i miei genitori e la storia di un’altra coppia. Gettai un’occhiata alla casa e guardai un po’ nelle vicinanze, ma non trovai nemmeno un cartello “vendesi”, cosa che fece dissolvere i miei sospetti iniziali.
«… E quindi penso proprio che tu abbia sbagliato civico, cara…»
«Può darsi» decisi di chiudere il prima possibile la conversazione. «Mi avranno dato l’indirizzo sbagliato.»
La vecchina assentì numerose volte e ci volle un altro minuto buono perché si decidesse a continuare per la sua strada. Sbuffai, piuttosto seccata per quell’intervento, che sulle prime mi aveva allarmata. Eppure un dubbio lo avevo ancora: non capivo come mai l’anziana si fosse interessata così tanto e credesse di sapere tanto bene quello che era successo in quella villa. Certo, potevo spiegarmelo senza difficoltà continuandola a reputare la zitella perennemente a caccia di pettegolezzi e novità dal quartiere, non sarebbe stato un cliché scontato. Ma non riuscivo a capire perché avesse perso tempo a rivolgermi la parola e ad informarmi su qualcosa - qualcosa di falso.
«Ma è normale che i vecchi si mettano a parlare con chicchessia e a perder tempo» borbottai. «Non hanno niente di meglio da fare. Se quella avesse avuto un impegno non si sarebbe mica disturbata di dirmi che a casa mia non ci vive nessuno.» “E poi - continuai nella mia mente - se davvero l’avessi conosciuta prima di andare a Giubilopoli, si sarebbe ricordata di me. O almeno credo.” Ero un po’ indecisa e disorientata, ma in linea di massima ero molto più propensa a credere che l’anziana si fosse sbagliata. “Se si ricorda così bene di una coppia che si è trasferita chissà dove, allora dovrebbe sapere che qui ci vive una coppia sposata e che ha una figlia, no? Avrebbe dovuto capire che era proprio la figlia a litigare con il campanello…”
Iniziai ad avere qualche dubbio in più. Mi sembrava strano che mi avesse dato quell’informazione e allo stesso tempo era riuscita a farmi venire parecchi sospetti, avendomi rivolta la parola. Non avevo voglia di tornare da Bianca e Gold e andare a riprovare più tardi, magari i miei genitori erano in vacanza come avevo ipotizzato. Mi ci volle un secondo per capire cosa dovevo fare: andare a chiedere ai vicini.
Impiegai un po’ di più per riportare alla memoria i volti di chi abitava nelle ville adiacenti alla mia e se quelle persone si ricordassero di me. Ma tanto valeva provare, non avrei specificato chi fossi: se avessi iniziato a dire che ero la figlia della coppia della porta accanto e se quelli fossero già a conoscenza del fatto che me n’ero andata quasi un anno prima, sarebbe stato abbastanza sgradevole dovermi inventare una scusa per la mia lontananza da casa e il mio ritorno improvviso. Io non avevo mai legato con i vicini, anche perché non avevano figli della mia età o altri motivi per cui frequentarli; i miei genitori, invece, passavano spesso un po’ di tempo con loro.
Passai alla villa accanto. Lì non c’erano cancello né muretto a separare il giardino ben curato dal marciapiede. Percorsi il vialetto e suonai il campanello; mentre aspettavo una risposta, mi guardai un po’ intorno e individuai il sistema d’allarme che aveva permesso ai vicini di non premurarsi di avere un cancello.
Lo spioncino si aprì e trascorse un lungo secondo prima che la porta facesse lo stesso, tanto che temetti di non poter parlare con i signori. Poi però un uomo sulla sessantina si mostrò: me lo ricordavo abbastanza bene, era un personaggio un po’ burbero e riservato che non mi era mai piaciuto molto. A giudicare dalla sua espressione non simpatica mi parve di capire che non avesse idea di chi fossi. «Serve qualcosa?»
«Ehm, salve. Mi hanno dato un indirizzo, che è quello della villa accanto a questa, a sinistra, ma non mi apre nessuno. I proprietari sono in casa?»
L’uomo mi scrutò a lungo. Sembrava sempre più sospettoso e indisposto a parlare: mi aspettavo che da un momento all’altro mi dicesse di andarmene. «I proprietari se ne sono andati da mesi. La casa è in vendita.»
«Cosa?» ribattei subito.
«Non abita nessuno qui accanto.»
Non so dire quale espressione stessi esibendo in quel momento, ma spero di non aver esternato emozioni non convenienti davanti ad un praticamente perfetto sconosciuto. Non ricordo proprio quella parte: quanto tempo passò dopo la sua secca affermazione, come reagii sulle prime, cosa pensai - se pensai a qualcosa che non fosse estremamente confuso. Però riuscii a dire: «Allora mi hanno dato l’indirizzo sbagliato.»
Forse chiesi pure - addirittura, in quel momento! - scusa per il disturbo; l’uomo salutò e chiuse la porta.
Mossi meccanicamente i passi necessari per tornare sul marciapiede. Mi sentivo vuota e assolutamente incapace di provare qualsiasi emozione o di formulare dei pensieri di senso compiuto. Avevo sospeso ogni contatto con la realtà, senza capire bene dove me ne fossi andata con la testa. Sentivo, come in lontananza, un’agitazione crescente: non proveniva da me ma dai miei Pokémon, che con la sorta di contatto telepatico tra loro e l’Allenatore, attraverso le Poké Balls, si erano messi all’erta, come se ci fosse qualche pericolo da cui scappare.
L’unica cosa che fui in grado di fare, sempre nel silenzio completo sia della mente che del cuore, fu andarmene per ritrovare Bianca e ricevere una spiegazione. Guardai un’altra volta, pavida, con gli occhi sgranati per qualche ragione imputabile ad una strana paura, la villetta abbandonata che un tempo aveva ospitato un’intera famiglia, poi solo una coppia e infine era stata messa in vendita. Solo dando quello sguardo, affatto fugace, sentii una fitta al petto e automaticamente mi portai una mano ad esso; deglutii, sentendo il panico farsi strada in me, lento ma ben deciso a piegarmi. Perché mi sembrava di star avendo paura? Non c’era più nessuno in quella casa. I miei genitori se n’erano andati, per qualche motivo. Possibile che le Forze del Bene non avessero controllato e mi avessero lasciata partire? Perché non mi avevano spiegato la situazione?
Presto la camminata difficoltosa, che se fossi stata fortunata mi avrebbe portata a casa di Bianca il pomeriggio del giorno successivo, si sveltì fino ad evolversi in un febbricitante passo di corsa. Ero talmente veloce che parevo avere le ali ai piedi e un pericolo alle spalle; arrivai al quartiere nord in pochi minuti, un tempo invidiabile, ma non seppi spiegarmi quella corsa folle se non con la brutta notizia che avevo appena ricevuto. Non incappai in nessun Monte di Nevepoli che mi facesse esitare e dubitare dell’esistenza di un ingresso, forse grazie ad alcuni degli interventi operati all’Accademia che ci avevano donato il privilegio di vedere oltre le barriere. Dovetti fermarmi solo di fronte alla distesa candida - il cancello era semiaperto - che aveva sommerso l’intero quartiere senza che qualcuno si premurasse di riportare alla luce le strade. A che pro, d’altronde? Solo Bianca ci abitava.
Sola e nel silenzio più totale - l’unica compagnia che avevo era il fiato pesante ed ansimante, che era venuto a lamentarsi per lo sforzo inaudito appena fatto - sfidai la neve che mi separava dalla casa di Bianca. Ricordavo che, il primo settembre dell’anno precedente, una nebbia inquietante e grigiastra aleggiava sul paesaggio; quel giorno, invece, riuscivo a vedere senza difficoltà l’orizzonte boscoso e le rovine della Palestra e del Tempio. Il Sole splendeva raggiante. Forse fu la sua forza a rendere la neve meno ostica, perché ebbi la sensazione di starmi facendo strada con una facilità sorprendente, come se al mio passaggio quella si facesse da parte o si sciogliesse.
Altair si liberò dalla sua sfera ed emise il suo verso melodioso, palesemente preoccupata per me. A malapena feci caso alla sua entrata in scena: mi seguì, svolazzando, degnandosi almeno di non fare rumore. La casa di Bianca, vicina alla Palestra e al Tempio di Regigigas, divenne visibile. Mi parve di acquistare ulteriore velocità non appena ne distinsi i dettagli attraverso le chiome dei sempreverdi.
In un attimo, o così mi sembrò, mi ritrovai di fronte alla porta. Suonai il campanello: tremavo in una maniera spaventosa. Mi passai una mano sulla fronte mentre aspettavo, impaziente, che almeno allora qualcuno mi rispondesse. Sussultai: era bollente. Non esclusi la possibilità che mi stesse venendo la febbre per ciò che era successo. Ad essere sincera, non sapevo cosa pensare: avevo bisogno di chiarimenti, qualcuno doveva spiegarmi cosa stava succedendo. Perché se n’erano andati? Era possibile? Stavo sognando? Magari avevo già da un pezzo la febbre ed erano sopraggiunte addirittura le allucinazioni, facendomi dimenticare addirittura che stessi male e che non avrei dovuto andar lì… come fui ingenua per cercare di spiegarmi una realtà che non intendevo accettare!
«Bianca» dissi con voce flebile, avendo la sensazione di star aspettando da minuti interi. Dovevano essere passati pochi secondi, ma non ricevere una risposta istantaneamente, dopo quello che era successo, poteva diventare patologico. Avrei alzato la voce e strillato finché avessi avuto fiato a disposizione per far capire alla Capopalestra che se non si fosse sbrigata… oh, chissà cosa mi sarebbe successo se non avesse aperto la porta prima che avessi cominciato a gridare.
Inizialmente mi guardò stranita, non aspettandosi che fossi già di ritorno. Poi le mie condizioni, che dovevano essere a dir poco penose, la fecero sbiancare: quasi mi strattonò dentro. Sbatté la porta alle mie spalle: il rumore violento mi fece sobbalzare, dopo il silenzio quasi totale che c’era stato fino ad allora. Vidi Altair volare in cerca di qualcosa su cui appollaiarsi, autonomamente. Gold ci raggiunse e reagì esattamente allo stesso modo della parente quando mi aveva aperto la porta: prima fu circospetto, subito dopo si sbalordì - in senso negativo.
Bianca gli ordinò qualcosa che non riuscii a capire e mi condusse in soggiorno, esortandomi a sedermi e a spiegarle cosa fosse successo. Ci misi un po’ per trovare la forza per dire almeno qualcosa.
«Non c’era nessuno» bisbigliai. «La casa è in vendita. Se ne so… ss… s-sono…»
Dopo aver iniziato a balbettare, la voce mi morì in gola e non potei aggiungere altro. Bianca e Gold mi fissavano agitati e ansiosi, ma anche interrogativi. «Respira, Eleonora» disse lei piano. «Calmati. Spiegaci cosa ti è successo, appena te la senti.»
Gold mi porse un bicchiere d’acqua. Scossi impercettibilmente la testa per rifiutare, tenendo gli occhi, sgranati, fissi su ciò che aveva in mano ma senza vederlo realmente. Avevo la sensazione di aver smesso di respirare. Ero calmissima, altroché; ma, appena avessi avuto il coraggio di sfogarmi, le emozioni che stavano germogliando dentro di me, come fiori del male, sarebbero sbocciate con una violenza inaudita, ne ero sicura. Non mi era mai successo niente del genere, mi stava addirittura venendo la febbre per lo shock. Da un lato pensavo di sapere già cosa fosse successo e perché; dall’altro continuavo a cercare il motivo per cui i miei genitori se ne fossero andati.
Iniziai a piangere. Non seppi dire se fu un bene o un male, ma lo feci a lungo e nel più completo silenzio. La vista mi si annebbiò velocemente, d’un tratto, e le lacrime sgorgarono una dopo l’altra, ininterrottamente, come se dovessi espellere ogni liquido corporeo. Gold sedette accanto a me ma non mi rivolse la parola: sarebbe stato inutile, e forse a lungo andare mi avrebbero dato fastidio, i tentativi dell’uno e dell’altra di farmi parlare. Bianca ci lasciò soli dicendo che avrebbe chiamato qualcuno dell’organizzazione. La possibilità che qualcuno potesse darmi spiegazioni non mi interessò. Piansi senza emettere suono per minuti interi, immersa in uno stato catatonico. La ex Capopalestra, in un’altra stanza, parlava a voce troppo bassa - sentii solo un “Salve, signor Wilson” pronunciato con un tono falsamente amichevole e tranquillo - perché potessimo sentirla, ma comunque non avevo più la forza di volontà per concentrarmi su niente o fare qualsiasi cosa che non fosse piangere.
Bianca tornò quasi subito: la conversazione al PokéGear dovette durare solo qualche minuto. Non aveva più l’espressione turbata di prima, era diventata afflitta e appariva in difficoltà. Cosa avrebbe dovuto spiegarmi? Sarei riuscita a risvegliarmi dalla specie di trance in cui ero caduta e reagire, o a malapena avrei capito quello che mi sarebbe stato detto? Quasi non feci caso al suo ritorno nel salotto, avrei impiegato chissà quanto per riprendere a ragionare. Sospirò: non era un bel modo per cominciare.
«Non mi è stato detto il perché, Eleonora, ma le Forze del Bene…» Si fermò subito. Poi, facendosi forza, riprese: «Le Forze del Bene hanno deciso, mesi fa, di rimuovere ogni ricordo di te dai tuoi genitori e da tutte le persone che un tempo ti sono state vicine. La tua partenza, be’… è stata uno sbaglio, non sono stati effettuati i dovuti controlli per ogni ragazzo. Non so nemmeno perché ci sia stata una svista così grave, ma…» Non terminò la frase. Proseguì: «Ti riaccompagnerò all’Accademia il prima possibile, anche in giornata, se te la senti. Il signor Wils… ehm, mi è stato detto che a te saranno date tutte le spiegazioni. Quindi, quando vuoi… andiamo» concluse semplicemente.
Trascorsero altri lunghi secondi perché riuscissi ad elaborare le parole di Bianca. Una volta afferrato il senso di ogni frase, annuii e sussurrai: «Andiamo.»

Bianca affidò a Gold il compito di ricevere Chiara non appena fosse tornata da casa sua. La donna mi misurò la febbre, prima di andare alla stazione di Nevepoli, e non fu affatto contenta di dovermi far partire in condizioni simili - il termometro segnò un paio di gradi di troppo rispetto alla normalità. Ma alla fine, un po’ perché sapeva che dovevamo tornare all’Accademia il prima possibile, un po’ perché io le dissi - sempre con una voce priva di intonazione - che non volevo aspettare ulteriormente, acconsentì ad andare.
Siccome le mie gambe non erano più affidabili, Bianca mi prestò un Aurorus che mi servì a mo’ di destriero: lo stesso fece lei con un gigantesco Mamoswine. Grazie ai Pokémon arrivammo presto alla stazione solo all’apparenza abbandonata: l’intera zona era all’interno di barriere, almeno fino ai confini settentrionali di Sinnoh.
Il treno era già in stazione e lo prendemmo immediatamente. Sarebbe stato un viaggio silenzioso. Nemmeno di quello m’importò qualcosa, non riuscivo ad essere dispiaciuta per Bianca, che sicuramente doveva essere a disagio. Non potevo farci niente e di certo la febbre improvvisa non mi stava aiutando. Ero diventata insensibile a tutto e apatica per difendermi da qualcosa di più grande di me, che mi avrebbe mandata in crisi? Era l’unica spiegazione che, in seguito, potei dare al mio comportamento. La mia compagna di viaggio non provò nemmeno a parlarmi. Pensai, con una vaghezza un po’ ingenua, che fosse carino da parte sua.
Arrivate a Giubilopoli, non ricordavo minimamente come fosse l’ambiente. Faceva caldo, meno della prima volta in cui ero scesa da quel treno e uscita dalla stazione ai confini - vicini al percorso 218 - della città: dal giorno in cui ero arrivata all’Accademia mi sembrava che fossero passate ere.
Avevo smesso di piangere più o meno quando avevamo preso il treno, ma le gambe mi dolevano a causa della febbre. Sentivo i muscoli fiacchi e inconsistenti e mi aspettavo di percepire le mie ossa sbriciolarsi. Eppure riuscii a seguire Bianca, facendolo meccanicamente, quasi inconsciamente, che si premurò di camminare piano. Impiegammo più tempo per entrare nel percorso 218, che era vicino al capolinea, di quanto ne avevamo messo per andare da Nevepoli all’altra stazione, dove il tragitto era più lungo e difficoltoso.
Il Lapras della Capopalestra traghettò entrambe fino all’isolotto che ospitava l’edificio dell’Accademia, che ci fu visibile non appena mettemmo piede sulla terraferma. Incontrai qualche difficoltà per scendere e riprendere i contatti con le mie gambe. Mi chiesi chi mi avrebbe dato spiegazioni, sicuramente qualcuno al vertice delle Forze del Bene che aveva dato ordine di cancellare la mia esistenza dai ricordi di tutti coloro che mi avevano conosciuta. Ma perché l’avevano fatto? Tanti ragazzi come me, che con i Pokémon non ci avevano mai avuto a che fare, non avevano subito il mio stesso destino: dopo aver detto addio alle loro vecchie vite avevano semplicemente tagliato i ponti. Non si era mai ricorsi a misure così drastiche, che io sapessi.
Sentii una fitta al petto. Non era vero che c’erano tanti ragazzi come me. Io ero speciale, non potevo più cercare di confondermi in una folla di persone meravigliosamente normali. Ebbi la sicurezza che fosse quello il motivo per cui mi avevano cancellata dai ricordi delle mie vecchie conoscenze, quale poteva essere la ragione, altrimenti? Ripensai a Camille, la cui vita era stata rovinata proprio per la sua identità - i Victory per cercare di catturarla avevano dato fuoco alla sua casa e ucciso i suoi familiari più stretti. Poi mi tornò alla mente anche Gold, a cui era toccato sopportare più o meno la stessa cosa. Quanti altri come noi c’erano nelle Forze del Bene che, paradossalmente, mi avevano procurato una brutta ferita senza che io sospettassi nulla, ritenendole incapaci di un colpo così basso? Sembrava una cosa da Victory. Oppure era stata una necessità? Non riuscivo ad accettarlo.
Bianca mi accompagnò dentro, fino all’ufficio del preside. Non mi stupii più di tanto di trovarci Bellocchio. Non mi sarebbe piaciuto dover fare la conoscenza di un altro, sconosciuto “pezzo grosso” delle Forze del Bene per poi pensare che, forse, proprio la persona davanti a me aveva ordinato di cancellarmi, né più né meno. Abbandonai per terra lo zaino, che mi tenevo sulle spalle da quando ero arrivata a Nevepoli. Bellocchio era appoggiato ad una specie di cattedra; chiese alla mia accompagnatrice di uscire. Mi misi schiena al muro sulla porta chiusa.
Bellocchio fece per aprir bocca, ma non gli diedi il tempo di dire nulla. Con voce tremante e acuta, chiesi: «Perché lo avete fatto?»
Nonostante una risposta me la fossi già data, volevo avere la certezza di aver capito le intenzioni delle Forze del Bene con quella loro mossa, sperando di non brancolare nel buio dell’ignoranza. La mia ipotesi era giusta, me lo confermarono le parole dell’uomo: «È necessario che quelli come te vengano separati dalla realtà prettamente umana, Eleonora. Dobbiamo preservare l’esistenza di tutti voi nel mondo dei Pokémon, per evitare guai.»
«E perché? Quali guai?»
«Dopo essere sparita per venire qui all’Accademia, molte persone si sono accorte, a parte i tuoi genitori, della tua scomparsa. Un po’ per evitare che a loro venisse un esaurimento nervoso - dopo aver perso la propria figlia ci mancavano solo le domande di amici e parenti che chiedevano di te e peggiorassero la situazione, un po’ perché era necessario, abbiamo preso queste misure. È difficile da accettare, posso immaginarlo… ma inevitabile.»
Lo guardavo interrogativamente e capì di dover spiegare quella necessità di “tenermi rinchiusa” nella realtà dei Pokémon. «Non possiamo permettere che quelli come te lascino delle tracce dall’altra parte delle barriere. Potrebbe essere un ostacolo: se qualcuno ancora vi cercasse, ricordandosi di voi in continuazione, le conseguenze potrebbero diventare fastidiose, soprattutto per noi. Il Victory Team non si farebbe tanti scrupoli, Eleonora; sarebbe passato alle maniere forti e basta. Nonostante il dolore possa accecarti… e, te lo assicuro, è comprensibile… spero tu possa capire, almeno tra qualche tempo, che in questo modo quelli che ti hanno conosciuto ora sono al sicuro. Se riuscissi a tagliare del tutto i ponti con la tua vecchia vita, i nemici non avrebbero modo di farti del male, se non a te personalmente, senza sfruttare i tuoi vecchi contatti.»
Capivo la logica di Bellocchio e gli davo ragione; faceva male, ma in effetti quello poteva essere il solo modo per mettere al sicuro sia me che le mie vecchie conoscenze. «Però…» esordii, piuttosto insicura, «io non mi sono dimenticata, e non voglio che succeda, dei miei genitori e dei miei vecchi amici. Sono ancora vulnerabile, se i vostri intenti erano questi; i Victory potrebbero comunque attaccare le persone che mi sono care e a cui ho detto addio.»
«Sì, è vero, ma ci siamo preoccupati di rendere almeno i tuoi parenti più stretti irrintracciabili. I tuoi genitori si sono trasferiti da tutt’altra parte» ovviamente non mi disse dov’erano andati ad abitare, «e dubito che i Victory si metteranno a perder tempo con persone che non ricordano più niente di te, Eleonora. Non sono così sanguinari da provare piacere nel torturare innocenti già sapendo che non otterranno alcuna risposta. Ora, l’unico problema rimasto sei tu.»
«Vo… volete cancellarmi la memoria?!»
«No. A meno che tu non ce lo chieda, ma hai già detto di non voler perdere i tuoi ricordi, per quanto questa scelta, ti avviso, possa farti più male che scegliere di rimuovere parte della tua memoria. Ci sei affezionata ed è normale… ma allora devi promettere alle Forze del Bene, e a te stessa soprattutto, che ti impegnerai a fondo per renderti invulnerabile senza dover rinunciare ai tuoi ricordi. Il Victory Team potrebbe prendere i tuoi cari come ostaggi per chiederti di allearti con loro, e solo allora la loro vita sarà salva. Non si tratta di cercare informazioni su di te.» Fece una breve pausa. «Il tuo rapimento è stato un modo per giocare con noi, poi hanno iniziato a fare sul serio; ogni occasione, d’ora in poi, sarà buona per cercare di portarti dalla loro. Così come le Forze non temono queste azioni del Nemico, tu devi impedire alle tue emozioni di portarti in trappola. Vuoi tenerti il ricordo dei tuoi genitori? D’accordo. Ma se succederà loro qualcosa, non sarà ammissibile un tuo scatto emotivo o cose del genere.»
Ci misi un po’ per capire cosa Bellocchio intendesse dire: mi fu piuttosto difficile. Annuii senza rendermi conto appieno di cosa comportassero le sue previsioni e ammonizioni. L’uomo continuò: «Devo metterti ancora in guardia. Non è detto che la rimozione dei ricordi sia una scelta mille volte peggiore di tenerteli. Anzi, te lo dico per esperienza: dimenticare è molto più facile che cercare di combattere ogni giorno con i propri fantasmi. È brutto da dire, ma è una scorciatoia indolore e di enorme vantaggio. Abbiamo già deciso senza di te, tempo fa, di agire in questo modo senza che tu lo sapessi, e in effetti non avresti mai dovuto venirne a conoscenza. È stato commesso un errore. Ora lasciamo a te la decisione di cosa fare dei tuoi ricordi, dopo il brutto colpo preso stamattina; ma te ne prego, non scartare a priori qualcosa di molto più conveniente, per quanto inizialmente possa essere doloroso.»
Impiegai qualche secondo per rispondere, sperando di trovare delle parole efficaci. «Sarà sicuramente vero che dimenticare è più facile e conveniente, che dopo aver accettato di farmi rimuovere i ricordi non saprò nemmeno più quello che ho passato, quanto dolore ho provato per acconsentire a questa cosa… ma non ce la faccio proprio. Non voglio dimenticarmi dei miei genitori e della mia vecchia vita, sono cose a cui sono troppo legata per… per rinunciare, ecco. Mi impegnerò per rendermi invulnerabile come ha detto lei… signore.»
L’uomo annuì. Seguì qualche secondo di silenzio; pensai che di lì a poco avrebbe chiuso la questione, ma prima che mi congedasse gli domandai: «Perché mi avete lasciata partire?»
«Te l’ho detto, è stato un errore. In questo periodo gli impegni dell’organizzazione sono aumentati a dismisura. Sono in pochi quelli che sanno della tua identità e che controllano lo stato di quelli come te; ultimamente, mi spiace dirlo, sono tutti impegnati in faccende più importanti che nella gestione di quest’Accademia. Tra l’altro, dopo il rapimento avvenuto, non passerete ancora molto tempo qui: dovremo trovare un luogo in cui trasferirvi» aggiunse quasi con noncuranza. «La mia posizione è al vertice insieme ad alcuni miei colleghi, e le ultime cose di cui ci preoccupiamo personalmente sono le Accademie, che lasciamo ai piani più bassi dell’organizzazione. Non c’è stato sufficiente controllo. Avremmo dovuto trovare un modo per tenerti qui senza che, però, venissi a sapere di quello che era successo.» Dopo un po’, riprese: «Penserai che sia una cosa… mostruosa.»
Scrollai le spalle, scuotendo la testa. «Non so cosa pensare di nulla.»
«Comunque non sei rimasta sola, qui. Non tutti i ragazzi sono partiti.»
«Oh, bene.»
Dopodiché mi congedò. Ero sfinita, non avevo più voglia di vedere nessuno: l’ora di pranzo era passata da un pezzo ma quel giorno non sarebbe stato difficile rimanere digiuna. Uscita dalla stanza “del preside”, vidi Bianca e la salutai; la Capopalestra entrò nell’ufficio mentre io me ne andavo in camera mia. Feci identificare la mia impronta digitale allo schermino che fungeva da serratura; l’accesso mi fu consentito ed entrai. Abbandonai per la seconda volta lo zaino a terra, tolsi il giacchetto, le scarpe e la cintura con le Poké Balls e mi sdraiai sul letto.
I miei Pokémon si liberarono tutti autonomamente. Erano ore che aspettavano di farlo, era evidente. Altair mi si poggiò sulla pancia, permettendosi di farlo giusto perché era piccola; Pearl si acciambellò vicino a me prendendo a fare le fusa - se così si poteva dire di un Pokémon. Anche Diamond e June si misero sul letto, lo Staravia atterrandoci sopra e la Roserade sforzandosi per arrampicarsi. Aramis e Rocky, ovviamente, non potevano accomodarsi sul letto, anche perché lo spazio era bell’e finito. Mi lasciai sfuggire un sospiro.
«Non riesco a credere che mi sia successo qualcosa del genere.»
Pearl borbottò in risposta al mio esordio. Presi Altair tra le mani, piccola com’era, e la sollevai sopra la testa; ben presto la vista mi andò fuori fuoco mentre le facevo i grattini sulle ali. Per lei era piacevolissimo anche quando lo facevo meccanicamente, come in quell’occasione. «Ho pianto un sacco… ma non mi sono sentita disperata o cose del genere. Non ho sentito nulla» dissi con un tono depresso e deprimente. «Accettare di abitare in una delle due realtà che esistono su questo mondo e dover entrare nell’altra… è stato durissimo e mi ci è voluto un sacco di tempo. Poi sto ancora facendo l’abitudine all’idea di essere speciale, come dicono sia i Victory che quelli del Bene. E ora… mi chiedo se succederà lo stesso con quello che è appena successo. Siccome sono speciale e vivo in un mondo speciale, devo rimanere qui per il resto della mia vita, e le Forze del Bene hanno cancellato tutti i legami che avevo con Nevepoli e il resto… è una crudeltà o sono io che non riesco ad accettarlo, ma dovrei farlo?»
Feci una pausa. Riportai Altair al suo posto e scambiai un’occhiata con Aramis. Il Gallade era serio, sembrava capire alla perfezione ciò che stavo dicendo. Mi chiesi se, oltre a comprendere il significato delle singole parole, sapesse pure il senso dell’intera faccenda e se potesse capire come mi sentivo.
«Da un lato, so bene cos’è successo e sono d’accordo con le Forze del Bene per quello che hanno fatto, perché è stato necessario. Da un altro, lo trovo inaccettabile… avrebbero dovuto farmelo sapere prima. Credo che sia sleale da parte loro: avevano addirittura intenzione di tenermi all’oscuro di tutto per sempre, se possibile!… E infine, se mi soffermo a pensarci, sto ancora sperando di tornare a Nevepoli, suonare il campanello di casa mia e vedere la porta che si apre, e mamma o papà impazzire di gioia nel vedermi.»
Mi morsi il labbro inferiore appena le lacrime si riaffacciarono ai miei occhi, visto il dolore che solo immaginare quella scena mi stringeva il cuore. «Ma una risposta l’ho ottenuta, no? I miei genitori non mi hanno scritto nessuna lettera… ovvio, non sanno più di averla, una figlia!» quasi singhiozzai, tirando su con il naso.
Mi misi a sedere sul letto quasi di scatto; Altair si spostò, sorpresa per il mio brusco movimento. Avevo voglia di richiamare tutti i miei Pokémon nelle loro sfere e starmene da sola, riprendere a piangere e forse non smettere più. Eccome se iniziavo a sentire il dolore lancinante della perdita; i ricordi facevano male quando non c’era più qualcun altro a condividerli, anche se lontano miglia e miglia!
Ma non feci niente del genere. Mi asciugai le prime lacrime che avevano cominciato la loro discesa lungo le mie guance. Inspirai ed espirai profondamente: già ero rimasta sola, non avendo più i miei genitori a vegliare su di me da lontano. Non potevo rifiutare anche la compagnia dei miei Pokémon, gli unici che potevano starmi vicini e non farmi disperare per l’apparente solitudine. Appena fossero tornati i miei amici più fortunati, come Chiara, Ilenia e Daniel, avrei avuto anche loro per sentirmi meglio; in loro compagnia avrei aspettato che quella profonda ferita si rimarginasse. Non avrei mai creduto le Forze del Bene capaci di qualcosa del genere, ma più ci pensavo più mi convincevo che avevo avuto una visione troppo ingenua delle cose. Non era roba da Victory, ciò che avevano fatto: era logica e inevitabilmente dolorosa, per me, ma molto meglio per i miei vecchi affetti.
«Va bene.» Mi sforzai di sorridere e feci qualche carezza a Pearl, che stava ancora accanto a me. «Mi ci abituerò, così come ho fatto finora con tutto. È normale, in una realtà come questa.»
E soprattutto, ma mi mancò la voce per dirlo, in quel modo i miei genitori e chi altri mi avesse conosciuta, in passato, era al sicuro dalla minaccia costante dei Victory. Se mi fossi resa invulnerabile, come aveva detto prima Bellocchio, non avrebbero avuto alcuna arma per minacciarmi e cercare di portarmi dalla loro.
I minuti passarono e si trasformarono in ore. Suonò la solita campanella che annunciava l’ora del pasto di turno e mi avviai verso la mensa per cena, aspettandomi di trovarla quasi deserta. Invece una dozzina abbondante di ragazzi occupava qualche tavolo, chiacchierando sommessamente. Non sembravano di cattivo umore, nonostante sapessi cosa voleva dire la loro presenza lì - non avevano nessuno da cui tornare. Fu un altro motivo per non star male e mi convinsi ulteriormente della validità della scelta che avevano fatto le Forze del Bene.
«Eleonora!»
Vidi un braccio agitarsi dalla parte opposta della stanza in cui mi trovavo. Mi avvicinai e sorrisi a Sara, un po’ interdetta di vederla lì, ma sperai di mostrare contentezza e non stupore. Non sapevo cosa dirle, chiederle cosa ci facesse lì sarebbe stato sicuramente indelicato; quindi la salutai soltanto con un: «Ehi, ciao!»
«Come stai? Non ti hanno fatta partire?»
«Ehm, no. Diciamo di no.»
Sara inarcò le sopracciglia, che sparirono sotto la frangetta bianca. Poi però si ricompose: «Oh, mi dispiace. Anche io sono rimasta qui.»
La ringraziai mille volte, dentro di me, per non avermi chiesto fin da subito il motivo per cui non fossi andata a Nevepoli; gliel’avrei spiegato più tardi, in quel momento non me la sentivo. Non sapevo, però, se interessarmi al perché anche lei fosse rimasta all’Accademia. Temevo di risultare indelicata e invadente.
«Come mai?» le chiesi infine.
Lei sorrise. «Non ho nessuno da cui tornare, semplicemente.»
Strinsi i pugni: mi parve di riuscire a percepire la sua malinconia, che traspariva da quel sorriso così timido, gentile ma profondamente triste. Era un’espressione particolare, la sua, che avevo decodificato solo in mesi interi di amicizia e che non avevo mai visto sul viso di qualcun altro: la caratterizzava.
«Neanche io, ormai» dissi, non sapendo cos’altro avrei potuto replicare.
Sara si stupì e mi domandò se avessi voglia di spiegarle il motivo. Fu la prima persona a cui raccontai, calma e controllata - almeno all’apparenza, cos’era successo quella mattina e le mie reazioni, senza risparmiare in dettagli. Le riportai pure la conversazione con Bellocchio e le mie opinioni contrastanti, che alla fine si erano accordate in una sola, riguardo alla decisione delle Forze del Bene. Però non le dissi della mia identità speciale neanche quella volta - la prima occasione c’era stata al ritorno dalla base Victory. Sperai che continuasse a non farsi domande e che accettasse il mio racconto così com’era, ovvero: i miei genitori, troppo irrequieti, potevano rappresentare un ostacolo per le Forze del Bene e un’arma per i Victory, perciò la nostra organizzazione aveva preso quella drastica decisione. Mi ci volle un buon quarto d’ora per raccontare; nel mentre mangiammo, occupando un tavolo intero.
«Ho capito. Cielo, dev’essere terribile… non sai quanto mi dispiaccia» mormorò, profondamente comprensiva.
“Se non hai nessuno da cui tornare, perché dici che ‘dev’essere terribile’?” mi domandai. «Ma tu non eri venuta qui all’Accademia insieme ad Angelica?» feci, ricordandomi la voce allegra dell’altra ragazza che spesso aveva accennato al loro arrivo nell‘edificio delle Forze del Bene. «Perché non sei andata con lei?»
Sara sorrise un’altra volta. «Perché non sono imparentata con lei. Si vede lontano un miglio, no?»
«Diciamo che già dai capelli si nota qualcosa…»
La ragazza ridacchiò. «Che ne dici di venire a stare in stanza con me, finché non tornano Angie e Chiara dalla loro vacanza? E poi, appena finiamo di cenare, se non ti è di disturbo… potrei raccontarti quello che mi è successo prima di conoscere Angelica. La mia storia, insomma. Penso che potrebbe farti star… farti piacere.»
Accettai con decisione, contenta della sua proposta e pure molto incuriosita: non mi aspettavo che mi facesse quella proposta formulandola in un modo che, tutto sommato, era piuttosto strano. Mi chiesi cos’avesse passato prima di arrivare all’Accademia insieme all’altra ragazza, e come si fossero conosciute ancor prima, visto che era ormai evidente che Sara fosse una perfetta estranea, biologicamente parlando, rispetto alla famiglia di Angelica.








Angolo ottuso di un’autrice ottusa
Haters on the left please.
No, va be’, quanti dei miei venticinque lettori [cit del Manzo] (ma magari fossero venticinque) mi odiano per quello che ho fatto? Avevo promesso una prima parte-remake quasi uguale, spensierata e leggera, alla prima versione… invece mi sa che ho fallito a partire dal minuto zero! A parte le riflessioni, comunque un po’ ingenue, che hanno spopolato in alcuni capitoli, già ho iniziato a rovinare la vita della protagonista… sono incorreggibile, ormai penso sia evidente! *arcobaleni e ponypanda - il cui manto è caratterizzato proprio dalle tinte dell’arcobaleno [si ringrazia lagunablu per l’accurata descrizione dei ponypanda*
Comunque, passando alle cose serie - perché le famiglie spezzate e rovinate sono robetta: gli interventi di cui parla Eleonora potrebbero essere di vario tipo, da microchip sottocutanei rilevatori di barriere ad altre cose sulla stessa lunghezza d’onda, ma lascio spazio alla vostra fantasia per immaginare quali possano essere stati. Però, se avrò modo, se avrò un’idea geniale e se me ne ricorderò,  ne parlerò nella terza parte.
Adesso vi saluto, ho già chiacchierato abbastanza; più sotto c’è una nota per chi ha già finito la seconda parte e sta leggendo questo remake perché sì (?); evitate di leggere se non avete mai letto TUTTA la seconda parte, please!
A presto!
Ink





*NON LEGGERE SE NON VOLETE SPOILER CHE POTREBBERO ROVINARVI L’ESISTENZA (?) - SOLO PER CHI HA GIA’ LETTO TUTTA LA SECONDA PARTE*
Pensavo quasi, avendo stravolto la situazione, di far intervenire Ho-Oh e il Legame in quest’occasione e non aspettare fino al, uhm, quartultimo capitolo della seconda parte? Più o meno stiamo là… ad ogni modo, ho cercato di lasciare qualche “indizio”, se così si può dire, all’interno del capitolo - la neve che sembra sciogliersi al suo passaggio e le ali ai piedi. Comunque, se avessi voluto farlo, la reazione della protagonista sarebbe stata sicuramente più violenta e burrascosa, perché sarebbe stata presa/impossessata dalle caratteristiche degli elementi di fuoco e aria. Ma poi vi immaginate rivedere pure tutta la seconda parte sotto questa nuova luce? Ho bocciato la mia proposta un secondo dopo averla fatta...

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Capitolo 19
*** XVII - Un racconto, un’identità ***


XVII
Un racconto, un’identità

Andai a prendere il pigiama, la cintura con le Poké Balls e poche altre cose prima di trasferirmi, per qualche giorno, nella stanza di Sara, prendendo momentaneamente il posto di Angelica.
Appena la ragazza mi aprì la porta, la sua Vaporeon fece per uscire, venendomi incontro come se volesse farmi le feste. «Torna dentro, Vapu. Almeno falla entrare!» la rimproverò - ma sapevo che la viziava tantissimo, infatti il Pokémon non le diede retta.
Riuscii a mettere piede dentro la stanza, notevolmente più ordinata della mia - tra me e Chiara era una gara a chi lasciasse più cose in giro; poi ci toccava passare un’intera serata a mettere a posto, visto che l’Accademia non era dotata pure di un servizio di uomini delle pulizie. Gli altri Pokémon della ragazza, non aspettandosi che già dal primo giorno di pace sarebbe arrivata una sostituta di Angelica, stavano in giro per la camera: la più piccola era la sua Vulpix, poi già aveva fatto evolvere Luxio ed un’altra Eevee in Leafeon. C’era pure il suo Lucario, probabilmente l’unico membro maschile della sua squadra del tempo.
«Scusa, c’è un po’ di confusione» mi disse subito Sara.
«Stai scherzando?»
«No, prima di andare a cena li ho lasciati liberi per la stanza, perché non ci metto tanto per mangiare! Adesso li faccio rientrare nelle sfere… però se vuoi puoi far uscire i tuoi» rispose, serissima.
«Guarda che è tutto in ordine, ed è carino se ci sono i Pokémon! Non credo ti farebbe piacere vedere le condizioni della mia stanza, e dire che in mezza giornata da sola ho già fatto parecchio disordine… la tua stanza è perfetta, davvero!» esclamai, cercando di farle capire in tutti i modi che non c’era niente di cui preoccuparsi. Quasi non riuscivo a credere al fatto che stesse prendendo il tutto sul serio.
«Ma no, no, poi quando Vapu ci si mette inizia a dare fastidio… libera i tuoi Pokémon» ribatté, richiamando uno ad uno i suoi compagni di squadra. Esitò quando si ritrovò di fronte a Luxray. «Tu hai una Luxio, giusto? Magari lei la lascio, così giocano… mi raccomando, Lu’, non dare fastidio…»
Mi arresi al suo zelo: feci uscire solo Pearl, che in un attimo individuò l’altro membro della sua famiglia evolutiva e gli andò vicino. Non feci molto caso alle coccole che si scambiarono, ancora stupita per le preoccupazioni di Sara. Sedetti sul letto di Angelica, chiedendomi se fosse il caso di abbandonarci alla rinfusa la cintura, il pigiama e tutto o se, in quel modo, avrei urtato la mia nuova compagna di stanza. La ragazza, dopo aver richiamato tutti i suoi Pokémon e messo le Balls di ognuno sopra il comodino, si mise sul suo letto e mi guardò sorridente. Subito mi chiese se non volessi liberare gli altri miei Pokémon; le risposi che non ne sentivo il bisogno. Anche lì mi prese estremamente sul serio, nonostante il mio tono fosse stato ironico.
«Allora, ti va di ascoltare?» domandò tranquillamente. Annuii, e lei cominciò.
«Sono orfana. Non ho mai conosciuto i miei genitori. O meglio, per un po’ di tempo almeno uno di loro mi ha accudita, ma non ho alcun ricordo né di mio padre, né di mia madre. Avrò avuto poco più di due anni, una volta che sono stata abbandonata, e il motivo non lo so ancora, ma potrebbero essercene così tanti…»
Come inizio era già alquanto triste, eppure Sara parlava con molta naturalezza di ciò che le era successo. Non doveva essere la prima volta che ripercorreva con un estraneo la sua vita. «Non so bene quanto tempo passai in quello stato di totale abbandono. Ero sola, gli orfanotrofi sono una cosa da Primo Mondo, ma i miei genitori non hanno cercato un’altra struttura a cui affidarmi… ad ogni modo, non trascorsi molti giorni da sola: nemmeno mi ricordo se iniziai a rischiare la vita, per i morsi della fame o del freddo. Era inverno.
«Comunque, furono i genitori di Angie a trovarmi. Non mi hanno mai voluto spiegare bene le circostanze del nostro primo incontro e non vorrei farla troppo lunga, non penso che sia necessario. In poche parole, mi accolsero nella loro famiglia: avevano già una bambina e fin da subito iniziammo a considerarci a vicenda delle sorelle. Non avevo un nome, non sapevano quando fossi nata, né avevo documenti, ovviamente… perciò è come se fossi nata una seconda volta. Il giorno del mio compleanno è quello in cui mi hanno portata a casa loro e il mio nome è una loro veloce scelta in un momento in cui dovevano sbrigarsi a farmi avere un’identità. Credo abbiano dovuto impegnarsi parecchio, la burocrazia in questi casi è davvero scomoda, o sbaglio?»
Sara sorrise, con un’espressione ingenua, da bambina, e io ricambiai meccanicamente. Mi aveva ammutolita con la sua storia: non avrei mai pensato che avesse potuto nascondere un passato del genere, e che me ne parlasse senza essere quasi depressa perché era praticamente orfana. Le chiesi, infatti: «E adesso come stai?»
«Benone» fece con allegria. «Non ho mai conosciuto i miei genitori e per questo non posso né odiarli, né sperare di incontrarli perché voglio loro bene, per chissà quale motivo dettato dal mio inconscio. Non mi mancano per niente e mi sono sempre fatta una ragione del mio stato. Con Angie sto benissimo e ho passato degli anni stupendi, prima di venire all’Accademia.»
«Come siete arrivate qui?» Angelica aveva fatto dei riferimenti, in passato, ma senza mai entrare nei dettagli.
«Abbiamo ficcanasato un po’ troppo nei dintorni di Arenipoli, la città in cui abbiamo vissuto. Avevamo dodici anni… Corrado ci trovò quando si era fatto tardi. Avevo portato Angelica dentro alcune barriere e uno Shinx non si mostrò affatto dispiaciuto della nostra presenza, eravamo un po’ spaventate per i suoi poteri ma ci piaceva già moltissimo, passammo minuti interi a coccolarlo e Corrado ci raggiunse!»
«E come hai fatto ad oltrepassare delle barriere?» fu la mia spontanea domanda.
Sara inarcò le sopracciglia e sembrò un po’ spaesata. Aprì bocca per parlare e la richiuse poco dopo; intanto la mia, di espressione, si era fatta interrogativa. Trovò una risposta: «Non lo so, sinceramente. Non me lo hanno mai spiegato, ma in effetti le barriere sono efficaci su chi non conosce i Pokémon…»
«Non hai mai chiesto spiegazioni a Bellocchio o a qualcun altro?»
«Non l’ho mai ritenuto importante, con il senno di poi.» La ragazza scrollò le spalle magre e tornò a sorridere in modo innocente. «Ero troppo occupata a pensare ai Pokémon per preoccuparmi del resto!»
Anche le mie labbra si curvarono - più pensierosamente delle sue. «Ti capisco… anche io ho avuto la mente tutta impegnata con la squadra che mi stavo costruendo, avevo davvero poco tempo solo per pensare alla guerra o a qualsiasi cosa che non fosse star dietro ad Altair…»
«Ma se è lei a starti sempre dietro» ridacchiò Sara, «senza abbandonarti neanche un momento!»
«Almeno ha smesso di farmi da cappello, ora che si avvicina l’evoluzione! Stando al Pokédex, mancano pochi livelli. Immagino che si stia preparando a non potersi più appollaiare sulla mia testa senza rischiare di spezzarmi l’osso del collo!» ribattei, suscitando le risate dell’altra.
«A me non piace molto lottare» disse. «Quasi nessuno dei miei Pokémon, fatalità, si evolve salendo di livello.»
«Questa si chiama fortuna, cara.»
Continuammo a chiacchierare del più e del meno per il resto della sera: non avevamo mai parlato così tanto, soprattutto da sole, perciò non mi stupii se per più due ore riuscimmo a farlo senza mai fermarci. Avrei voluto chiedere alla ragazza come facesse ad avere i capelli bianchi, apparentemente senza farsi la tinta o simili, e perché il colore dei suoi occhi sfumasse in un modo così evidente in tutti i toni del blu; ma rimandai quel particolare ad un’altra seduta di chiacchiere. Mi rispose un po’ imbarazzata, quando glielo domandai, che era sempre stata così, nonostante i look singolari come il suo non fossero facilmente reperibili nella realtà umana - in quella dei Pokémon, invece, spopolavano, grazie a tecniche e quant’altro si aveva di più avanzato: si era solo tinta qualche ciocca di blu e di celeste.
Non ero dotata di un particolare acume a quei tempi e ancora dovevano passarne, di mesi, perché perdessi la proverbiale ingenuità che mi caratterizzava; perciò non le feci tante altre domande che, andando sul personale, mi avrebbero fatto notare sicuramente qualcosa di strano.

Una settimana scarsa era bastata per farmi abituare a quell’inaspettato silenzio dell’Accademia semideserta. Al ritorno dei miei amici, insieme al resto della giovane popolazione del luogo, mi sentii, sulle prime, un po’ oppressa dai rumori delle chiacchiere e dei Pokémon che non si facevano troppi problemi a schiamazzare.
La prima questione che dovetti risolvere fu impedire a Sara e Chiara - e anche a Gold - di parlare agli altri di quello che mi era successo. Non avrei retto le domande sul mio stato d’animo e simili che mi sarebbero piovute addosso da Ilenia e dagli altri, soprattutto da chi era un po’ apprensivo e parecchio affezionato, come Daniel e Angelica. La mia migliore amica non sapeva cosa mi fosse accaduto nei dettagli e per tutta la settimana passata a Nevepoli non aveva fatto altro che scervellarsi in cerca di una spiegazione.
«Bianca mi ha detto fin da subito di non parlare di te ai miei genitori. Nemmeno di nominarti» mi disse appena le raccontai cos’era successo e cosa avevo fatto in quei giorni. Fu molto comprensiva e stranamente delicata, con me, per molto tempo: non mi aspettavo tanto tatto da parte sua. Non l’avrei mai ringraziata abbastanza per come si comportò con me in quel periodo: era davvero l’unica persona con cui mi sentivo in grado di parlare in libertà di cosa mi passava per la testa, senza avere la minima vergogna ad esporre i miei pensieri o a descrivere emozioni.
Mi disse che aveva passato una settimana davvero bella, tranquilla e riposante, lontana anni luce dalla routine che aveva avuto fino ad allora - aveva visto pochissimo pure i suoi Pokémon, lasciando le loro Balls a casa di Bianca; tutto questo nonostante si fosse posta molte volte il problema della mia assenza.
Ai suoi genitori non era stato spiegato nulla del mondo Pokémon, Chiara avrebbe voluto dare loro chiarimenti, anziché inventarsi di essere stata ammessa in una scuola speciale a causa del suo talento nelle arti figurative. «Ti rendi conto? Bianca mi ha detto di trovare una giustificazione, ma che razza di giustificazione vuoi trovare in una situazione del genere?» sbuffò mentre me lo raccontava. «Comunque mi ha fatto avere un finto documento ufficiale in cui il sedicente preside parlava della mia condizione e del perché dovevo stare lontana da casa. Non ho letto il foglio, ma i miei genitori sono diventati docili docili grazie a quello!»
Appena furono rientrati tutti i ragazzi che erano andati via - Daniel, per esempio, fu tra gli ultimi ad essere di ritorno, Bellocchio convocò una sorta di riunione straordinaria di tutti noi giovani, assistito da Rocco e Camilla. Ci ritrovammo nella sala sotterranea che ospitava i campi per le lotte Pokémon; tutto sommato costituivamo un gruppo affatto sfoltito, noi studenti dell’Accademia.
Bellocchio, senza troppi preamboli, arrivò presto a parlare del motivo per cui eravamo stati tutti chiamati lì. «Abbiamo ragione di pensare che questo edificio, ora come ora, non sia più un luogo sicuro. Siamo sempre più convinti che il Victory Team stia aspettando l’occasione perfetta per attaccare l’Accademia, una delle strutture più sensibili delle Forze del Bene, per ovvi motivi.»
Nonostante la notizia del rapimento di alcuni ragazzi, tra cui io, non fosse stata diffusa tra tutti gli abitanti dell’Accademia, la nostra organizzazione aveva avuto modo di ufficializzare il nome del nemico, ovvero Victory Team. La notizia non aveva sortito molto stupore, anzi, era passata praticamente inosservata: difatti i più si erano abituati a riferirsi alla fazione avversa come “Nemico” e ancora non avevano abbandonato quel modo di chiamarlo. Ora che si aveva intenzione di farci trasferire altrove e abbandonare l’edificio - Bellocchio mi aveva anticipato quella novità, non sarebbe stato difficile far passare il tutto come un’altra scoperta. Tra noi giovani c’era il mito delle missioni segrete, compiute da spie e combattenti, che raccoglievano informazioni o mettevano fuori gioco un covo nemico: tutti avrebbero pensato, sicuramente, che il nome Victory Team fosse stato trovato in quel modo, così come gli indizi su un possibile piano d’attacco rivolto all’Accademia.
«Per questo motivo» riprese Bellocchio, «vi consigliamo di tenervi pronti per un trasferimento tempestivo, che avverrà il prima possibile e senza preavviso. La meta è ancora da decidere, probabilmente verrete divisi in gruppi e smistati in più delle nostre basi: il progetto è ancora in una fase embrionale. Voi iniziate a fare i preparativi, ricordatevi come si usano i teletrasporti in caso di evacuazione, perché potrebbero tornare utili. Il tempo stimato perché vi venga chiesto questo spostamento è meno di una settimana.
«Tenetevi stretti i vostri Pokémon, ormai è diventato obbligatorio, per voi, avere un contatto costante con la vostra squadra: non separatevene mai! Non ci sarebbe modo di perder tempo, in caso di pericolo, a cercare dove avete messo le Balls nelle vostre camere. Tutte le sfere devono essere riposte nelle apposite cinture e queste ultime dovete averle con voi in ogni momento, addosso quando non dormite e vicinissime quando siete a letto.»
Dopo le ultime raccomandazioni, Bellocchio se ne andò, accompagnato dal Campione Rocco. Molti ragazzi se ne andarono a recuperare le proprie squadre di Pokémon visto l’ordine di uno dei vertici delle Forze del Bene; io non feci in tempo a voltarmi per cercare Chiara che sentii qualcuno picchiettarmi una spalla. Mi girai e riuscii a non arrossire nell’incontrare il bel sorriso gentile di Daniel; le mie gote però non poterono fare a meno di colorarsi un po’ di rosso quando il ragazzo mi abbracciò.
«Ehi! Come stai? Com’è andata?» mi chiese subito, senza darmi il tempo di salutarlo.
«Tutto a posto» risposi. «Com’è andata dove?»
«A casa tua, no?»
Mi ci vollero due lunghi secondi di tempo per controllarmi e mentire, dicendo: «Bene.»
In giornata avevo incontrato Angelica e Melisse e con loro mi ero inventata qualcosa: gli raccontai le stesse balle - appena avessi incontrato altri amici, come Ilenia, avrei fatto lo stesso con loro - e gli raccontai molto vagamente del mio inesistente ritorno a casa, mentre la sala sotterranea si svuotava lentamente. Sperai che quelle poche parole lo soddisfacessero e gli chiesi come fosse andata a lui. Non prestai troppa attenzione al suo lungo e dettagliato racconto; nel frattempo uscimmo anche noi e, senza sapere cosa fare, andammo all’aperto, sul prato verde e ben curato della collina su cui si trovava l’Accademia.
 «Sinceramente, sono contento di andare da qualche altra parte» esordì dopo qualche momento di silenzio. Ci eravamo seduti sull’erba.
«Ti sei stancato di stare qui?»
«Perché, tu no?» sbuffò. «Va be’ che sei arrivata da neanche un anno… però a volte è davvero insopportabile, per me, stare qui a far finta di prepararci alla guerra. Come se ci stessero insegnando a combattere!»
«Una cosa che non capisco» mormorai, «è perché siano così incuranti nei nostri confronti. Non dovrebbero concentrarsi di più sui ragazzi che presto andranno a fare la guerra, anziché chiederci soltanto di fare amicizia con i Pokémon senza insegnarci niente di utile? Non che non sia buono tutto quello che ci fanno fare, eh… ma se penso che fuori dalle barriere in cui ci troviamo c’è la guerra tra i nostri e i Victory, anche se non a cielo aperto, la nostra mi sembra una situazione ridicola.»
«Bah! Non so cosa abbiano in mente Bellocchio e i suoi colleghi. Voglio solo sperare che sappiano cosa stanno facendo. Magari non ci stanno troppo con il fiato sul collo perché, dopo nove anni di guerra, finalmente stiamo arrivando alla sua fine… ma a questo punto mi aspetterei una spiegazione, delle novità, qualcosa di più.»
Annuii. Né io né Daniel eravamo esperti di strategie di guerra: per quanto mi riguardava, la mia ignoranza mi metteva in imbarazzo; però i movimenti delle Forze del Bene, che pure non ci erano affatto chiari, non mi parevano molto decisi. Avevo sempre più paura dei Victory, che ci avevano rapiti e avevano fatto sembrare la cosa poco meno di un gioco, uno scherzo fatto giusto per spaventarci. Bellocchio mi aveva detto che la mia partenza verso casa era stata un errore perché in quel periodo erano tutti molto impegnati sul fronte della guerra, pertanto non avevano effettuato controlli capillari nell’Accademia per decidere chi lasciar partire e individuare chi, come me, non doveva andare. Ma in che modo lo erano? Cosa stava succedendo e perché ci veniva detto poco e nulla?
Non potevo riferire a Daniel le parole dell’uomo, perché altrimenti avrei dovuto spiegargli perché ci eravamo incontrati e parlati. Non avevo voglia, non ancora perlomeno, di raccontare al ragazzo cosa fosse successo in realtà - ovvero che non ero affatto tornata a Nevepoli e che avevo versato innumerevoli lacrime per quello che le Forze del Bene mi avevano fatto. Non che non riponessi fiducia in lui, anzi, era una delle persone che ritenevo più affidabili, tra i miei amici: ma proprio non me la sentivo ancora di parlare a qualcun altro di cos’era accaduto. Lo avevo fatto con Sara, senza sapere bene cosa mi avesse spinta a farlo, e con Chiara, che era la mia migliore amica.
D’altronde, chi era Daniel se non il mio migliore amico? Non mi piaceva per niente l’idea di accontentarmi di una relazione d’amicizia, erano mesi che quella cotta persisteva. Era anche vero, però, che negli ultimi tempi era andata scemando: un po’ perché ero stata occupata a pensare al rapimento, il cui ricordo aveva impegnato la mia mente per settimane, un po’ per aver scoperto cos’era successo ai miei genitori, da almeno un mese non pensavo con insistenza e con tanto batticuore al ragazzo. Era stata solo una cottarella tipicamente adolescenziale? Quasi sicuramente sì, e poi, in quel caso, non era neanche la prima del suo genere.
Da un lato cercavo di convincermi che Daniel non mi piacesse più, ormai; dall’altro mi faceva stare proprio male il pensiero di rifiutare i miei sentimenti, nonostante fossero sicuramente ingenui. Non sapevo dirmi perché, ma più provavo ad allontanarmi da lui, più sentivo di star sbagliando, di dover provare ancora.
“Ma quando mai ho ‘provato’?” sbuffai tra me e me, mentre rispondevo distrattamente a qualche parola detta da Daniel. Infatti non ero il tipo di ragazza che cercava di avere avventure, che faceva di tutto per fare colpo su qualcuno, anzi: goffa e sensibile com’ero, sarei risultata ridicola. Non era nel mio carattere un modo di fare del genere: avrei aspettato che fosse stato qualcun altro, Daniel o chi dopo di lui, a fare il primo passo. Il mio migliore amico però non sembrava affatto interessato ad andare oltre. Almeno ricambiava pienamente i sentimenti di amicizia - magra consolazione! D’altra parte, non c’erano altre ragazze con cui era espansivo e disponibile come con me, e questo mi inorgogliva un po’: Melisse mi era sempre sembrata la sua più cara amica, ma stando a quanto mi dicevano Ilenia, Chiara e i miei stessi occhi, da moltissimo tempo l’avevo “superata”.
Mi ci volle un po’ per convincermene, ma alla fine ci riuscii. Dissi addio ai miei sentimenti per Daniel bollandoli come una banale cotta, magari non del tutto effimera: avrei sempre avuto dei riguardi nei suoi confronti.

Consultai il Pokédex e vidi che, secondo le sue statistiche, ad Altair mancava molto poco per evolversi. Perciò decisi di reclutare Gold per degli allenamenti giornalieri: volevo assolutamente che raggiungesse l’ultimo stadio prima che fossimo trasferiti chissà dove. Prima di lei ero riuscita a far evolvere Pearl, che si era trasformata in una Luxray forte e volenterosa; dopo aver fatto lo stesso con la mia prima compagna di avventure, mi sarei occupata di Diamond perché diventasse uno Staraptor. Avrei avuto finalmente una squadra completa.
Mi feci aiutare anche da Sara, Melisse e Angelica - nessuna delle tre era molto interessata alle lotte ed ero così riuscita, in un anno, ad eguagliarle; ma fu durante una lotta con il mio rivale per eccellenza che Altair raggiunse il suo obbiettivo. Era difficile tenergli testa con Swablu, lui aveva Pokémon molto potenti; mi assecondava e basta. Quando facevamo lotte serie, invece, il più delle volte aveva la meglio.
Così, mentre io andavo giù di mosse d’attacco, lui si impegnava per pazientare e ordinare solo mosse di stato non troppo minacciose: immaginai che i suoi Pokémon dovessero odiarmi. Appena Swablu si fosse evoluta, ero certa che me l’avrebbero fatta pagare con gli interessi.
Ciò non toglieva che Gold si divertisse, a volte, a farmi sudare i punti esperienza.
«Altair, usa Canto!»
«Ma anche no, Dragonair» rise durante una lotta in un giorno di metà luglio. Erano passate quasi due settimane dai fatti accaduti a Nevepoli. «Schiva e usa Tuononda.»
Non ricordo come, ma ne uscii vittoriosa - sempre grazie al buon cuore di Gold, certo; ma, pur tirandola molto per le lunghe, Dragonair recitò la sua parte e cadde esausto a terra.
Non guardai il Pokédex per avere rassicurazioni. Anche perché, prima che potessi fare qualsiasi cosa per accertarmi che stessimo come minimo sfiorando l’obbiettivo, il corpicino di Altair si illuminò. Trattenni il fiato, nonostante fossi sicura da tempo che, il giorno in cui fosse arrivata la sua evoluzione, non mi sarei fatta prendere dall’emozione. Dovetti ricredermi e infrangere l’ennesima promessa fatta a me stessa.
Portai le mani alla bocca mentre l’ormai conosciuta - ma sempre gradita - sfera di luce catturava la sagoma altrettanto brillante di Altair e si sollevava in aria, vorticante, acquistando sempre più velocità. Gold esclamò qualcosa a cui non prestai nemmeno attenzione, occupata com’ero a contemplare il momento, che per me aveva qualcosa di mistico. Non penso di essere mai stata tanto agitata ed euforica per l’evoluzione di un mio Pokémon.
Il rapporto che avevo con Altair era speciale, non solo perché era stata la mia prima compagna in quella realtà: a volte il suo schiamazzare mi risultava fastidioso, i primi tempi era stato difficile costruire un rapporto con lei, che era così iperattiva e rumorosa. Ma alla fine mi ero praticamente innamorata di lei: non mi importava se non era portata per le lotte come avrei voluto, i suoi difetti apparivano insignificanti se pensavo all’affetto e alla fiducia che riservava in me, la sua Allenatrice. Mi ero affezionata pure perché era un Pokémon cantante, gli Swablu e soprattutto gli Altaria erano conosciuti per l’eccezionale voce da soprano, e in un certo senso mi ricordava me e la mia abilità nel cantare, che possedevo per un motivo sconosciuto - nessuno nella mia famiglia aveva quel talento.
La sfera di luce, screziata di celeste e di blu, che era molto aumentata di dimensioni negli ultimi secondi, si frantumò in una miriade di schegge iridescenti. L’Altaria, la mia Altaria, spalancò le ali ricoperte molto più da cotone che da piume - queste ultime sembravano non essere presenti, sommerse dal resto della morbida, calda massa bianca. Subito il Pokémon si voltò verso di me, strillando e cantando di felicità; dopo essersi posata per un momento a terra, Altair mi volò incontro, incurante della paralisi che avrebbe dovuto ostacolarla nei movimenti, e mi cinse con le grandi ali. La strinsi forte: era sorprendentemente leggera.
«Ma come siamo belle» mormorai, ridendo piano, continuando ad accarezzarla. Avrei potuto continuare a vivere in quel momento, in quel preciso minuto, per molti giorni a venire, finché non mi fossi stancata anch’io - se mai fosse successo - della felicità che entrambe sembravano irradiare. O almeno, questo fu quello che mi disse Gold in un’occasione successiva.
Il ragazzetto ci raggiunse, tutto sorridente. «Allora, se non ti è di disturbo…» esordì, ma io lo interruppi.
«Adesso io e Altair andiamo in infermeria e riprendiamo la lotta. Penso che anche Dragonair abbia bisogno di essere rimesso in sesto!» Gold dovette essere più contento per la mia decisione di ricominciare a lottare che per l’evoluzione della mia compagna. 
Facemmo avanti e indietro dall’infermeria ed eravamo pronti a riprendere lo scontro tra Altair e Dragonair. Ma Gold non fece in tempo ad impartire il primo ordine che la terra iniziò a tremare.









Angolo ottuso di un'autrice ottusa
Ho appena iniziato a leggere le scan - tradotte in una maniera canina, ma vbb - di One Punch-Man, in un'ora e poco più ho letto parecchi capitoli. Continuavo a vedere immagini di Genos su internet, soprattutto su instagram, e mi ispirava un sacco di fangirlamento... quindi lo sto leggendo quasi solo per lui, il cyborg-biondino. Faccio pena? è una domanda retorica? Può darsi.
Devo ancora cominciare il prossimo capitolo, che sarà l'ultimo, e non vedo l'ora di finirla qui con questa storia. Non ce la faccio più ;; anche se ho una paura terribile a cominciare la terza parte...!
In uno dei primi capitoli ho detto che Sara arrivò all’Accademia tre anni prima di Eleonora, Angelica uno solo; non avevo minimamente pensato al fatto che avrei dovuto riscrivere la sua storia, per ragioni di trama… modificherò.
Btw vi saluto e più giù lascio un'altra nota per chi ha già finito anche la seconda parte, baci!






*NON LEGGERE NEANCHE QUESTO SE NON AVETE GIA’ FINITO LA SECONDA PARTE*
Sara ha sorpassato le barriere perché ha il Legame di Articuno; ovviamente sapeva già dell’esistenza dei Pokémon ma non ne aveva mai parlato con Angelica e family. Ha recitato, insomma, fingendo di non sapere cosa fosse lo Shinx di cui parla nel suo racconto.

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Capitolo 20
*** XVIII - L’ultimo giorno di tregua ***


XVIII
L’ultimo giorno di tregua

Mi paralizzai fin dai primi brividi del suolo. Gold ci mise meno di me a reagire: richiamò Dragonair nella sua Poké Ball e quel gesto mi risvegliò. Lo imitai e, senza aspettare un secondo di più, corremmo verso l’uscita della stanza. Per ogni secondo che passava, il tremore aumentava. Già dopo i nostri primi passi di corsa, alcuni strilli, da parte dei ragazzi, risuonarono nell’Accademia altrimenti silenziosa.
Una voce femminile, non indifferente a quel che stava succedendo, risuonò attraverso gli altoparlanti. «Recarsi al teletrasporto più vicino! Se non si è nelle condizioni di farlo, uscire senza allontanarsi dalla struttura!»
Io e Gold iniziammo a salire le scale, sempre di corsa: era la paura a spingerci e anche il fatto di essere insieme, altrimenti ero certa che, se fossi stata da sola, il panico mi avrebbe pietrificata. Ancora non capivo cosa stesse succedendo: era possibile che ci fosse un terremoto in quella zona e che le incredibili barriere che ci proteggevano dai nemici non ci rendessero immuni anche ad un sisma? Eppure mi sembrava che i professori avessero precisato spesso quella proprietà delle difese erette attorno all’edificio.
C’era qualcosa di innaturale a muovere la terra e il mio sesto senso mi suggeriva che fosse opera dei Victory. “Proprio poco prima di essere trasferiti altrove!” pensai. “Che lo sapessero già? O è solo un caso?” Però non era decisamente il momento adatto per mettersi a fare congetture: l’unica cosa che dovevo fare era correre via.
«Gold» chiamai, voltandomi verso di lui, che era più lento. «Dove sono i teletrasporti?»
«Non nelle vicinanze» ribatté, ansimante. Perciò dovevamo uscire e trovare un modo per andarcene.
Arrivammo al pianerottolo e la situazione degenerò. Una mandria di studenti scendeva dai piani superiori e la presenza di Pokémon lasciati liberi non aiutò: dalla porta della presidenza uscirono Camilla e il Superquattro Luciano, che provarono a dare ordine di mantenere la calma e di abbandonare l’edificio in un modo decente. Non c’è bisogno di dire che nessuno li ascoltò e i ragazzi si precipitarono disordinatamente all’esterno.
Io e Gold eravamo gli unici a provenire dal piano inferiore: cercammo di unirci alla folla, ma era difficile anche solo provare ad entrare nel flusso. Ci avvicinammo quanto più possibile a Luciano e Camilla, che non demordevano dal tentativo di organizzare la fuga; era ormai palese che qualcosa di assurdo, fuori luogo, stesse accadendo. Sperai solo che stare vicina a degli Allenatori così esperti potesse salvare me e Gold, che saremmo stati gli ultimi ad uscire, se la cosa fosse andata avanti in quel modo.
L’Accademia, per fortuna, si svuotò velocemente: riuscimmo a muovere i primi passi verso l’uscita, ma neanche feci in tempo a sospirare di sollievo che una crepa nel pavimento mi tagliò la strada, squarciandolo. Balzai indietro lanciando uno strillo di paura e lo stesso fecero Gold e la dozzina di altri ragazzi che stava dalla mia stessa parte: un passo in più e mi sarei ritrovata con un piede nella fossa, nel vero senso della parola. Indietreggiammo precipitosamente lasciando l’onore di guidarci verso l’uscita a Luciano e Camilla.
Il fatto che quello fosse un attacco dei Victory lo confermò la fuoriuscita di innumerevoli Diglett e Dugtrio dalla fenditura nel pavimento. La ex Campionessa di Sinnoh schierò il suo Milotic e diede ordine al Pokémon di non risparmiarsi con i Surf; Luciano le diede manforte. La mia mano istintivamente andò alla cintura con le Poké Balls, ma un momento di esitazione mi servì per capire che era meglio che non mi mettessi in mezzo: sarei stata pure di intralcio. Ma quando mai i Victory avrebbero finito di attaccarci con i loro Pokémon? I vari Diglett e Dugtrio sembravano non finire mai, dopo di loro ne sarebbero arrivati altri.
Camilla lo capì. Ci si rivolse imperiosamente: «Spero abbiate dei Pokémon che conoscono Volo e Teletrasporto!»
Afferrai Gold per un polso mentre liberavo Aramis dalla sua Ball. Il Gallade non poteva portare più di due persone senza quasi svenire per la fatica, anche perché non usava mai Teletrasporto; ma mi parve di vedere gli altri ragazzi presenti attrezzarsi dignitosamente con Pokémon di tipo Volante e Psico, quindi ordinai al mio compagno: «Usa Teletrasporto. Portaci vicino a Giubilopoli!»
Non ero sicura che sapesse come portarci nei pressi della metropoli, ma annuì e, dopo un lungo istante di sua completa concentrazione, sentii l’aria mancarmi mentre il teletrasporto si attivava.
Un secondo dopo - ma il disagio dello spostamento rese tutto interminabile - atterrammo presso l’entrata della città nel percorso 218. Non mi aspettavo che Aramis fosse così preciso: già avevo immaginato di ritrovarmi a sguazzare in acqua - qualche metro più in là già c’era il mare, d’altronde. Feci un respiro profondo e cercai di tranquillizzarmi, anche se il fiatone di Gold, dovuto alla paura, non fu molto d’aiuto. Non c’erano ragazzi dei nostri nelle vicinanze: qualcuno era sui Pokémon che usavano Surf.
Mi parve di riconoscere Chiara sul suo Empoleon, che da poco si era evoluto. Feci per salutarla, ma pensai che non fosse il caso di trattenermi un secondo di più in quel punto così esposto. Richiamai Aramis nella Poké Ball e feci per entrare nel passaggio che portava a Giubilopoli, ma Gold mi trattenne.
«Cosa aspetti? Dobbiamo andare!» esclamai, sorpresa per il suo gesto.
«Vuoi attraversare una metropoli a piedi?» sbottò lui appena ebbe abbastanza aria nei polmoni per parlare.
Aprii bocca per ribattere ma non trovai le parole per farlo. «Allora come facciamo?»
Per tutta risposta, lui liberò Blastoise dalla sua sfera. «Ho capito che sei confusa per quello che sta succedendo, ma è ora che il tuo cervello riprenda a lavorare, Eleono’» disse, schietto e pungente come non mai.
«E dove pensi di andare, con Blastoise?!» Nel frattempo, io chiamai in mio soccorso Altair.
«Non ne ho idea, seguirò gli altri. Spero ci diano presto indicazioni.»
Mezzo minuto dopo io ero salita in groppa ad Altair e lui si era allontanato con Blastoise. Pensai velocemente ad un luogo da raggiungere in cui nascondermi ed aspettare che, attraverso il Gear o un altro degli strumenti che avevo con me, fosse annunciato un luogo di ritrovo. La mia Altaria esclamò qualcosa e si librò in volo senza che le dicessi nulla; protestai un po’, ma capii che non voleva restare ulteriormente in quel punto pericoloso.
Allora mi decisi: «Andiamo nel percorso 203.» Era dalla parte opposta a quella in cui ci trovavamo noi, ma i boschi adiacenti alla strada principale erano in parte nascosti dalle barriere. C’ero stata più d’una volta durante delle lezioni di pratica: avevamo raggiunto il percorso tramite dei passaggi sotterranei, di rado utilizzati per scopi più importanti - non c’erano basi alleate né nemiche nei dintorni di Giubilopoli che li impiegassero per qualcosa.
Perciò ci affrettammo: nel giro di un quarto d’ora, tempo che mi parve infinito, Altair attraversò Giubilopoli. Il Sole picchiava aspramente, la temperatura in una città inquinata come Giubilopoli era altissima e mi venne subito il mal di testa: fortunatamente non mi beccai un’insolazione. Volammo abbastanza in alto e riuscimmo a non incontrare ostacoli: Altair era comunque sufficientemente grande da nascondere la mia figura, perciò dal basso della città nessuno avrebbe dovuto notare niente di strano. Forse la sua sagoma era un po’ sospetta, con quelle matasse di cotone che si ritrovava al posto delle ali, ma incrociai le dita invocando in mio soccorso la dea bendata.
Il percorso 203 era molto breve e dopo pochi chilometri si arrivava nelle vicinanze di Mineropoli. Altair iniziò la discesa lentamente, consentendomi di osservare i dintorni per individuare un punto in cui atterrare. Ben presto le immagini offerte dalle barriere si fecero tremolanti, poi si dissolsero definitivamente, rivelando l’esistenza di un bosco pullulante Pokémon. Chiesi alla mia compagna di atterrare non nei sentieri della selva, ma di posarsi su un albero: la premura non era mai troppa, potevano sempre esserci Victory in giro e non volevo rivivere l’esperienza di un mese e mezzo prima. Il pensiero di essere costantemente in pericolo mi faceva rabbrividire in continuazione e il ricordo di Cyrus era ancora terribile e minaccioso. Non sapevo più dire se sarei mai stata in grado di superare il trauma del rapimento.
I pioppi del bosco erano alti e robusti: Altair mi aiutò a sedermi su un ramo piuttosto alto, a una dozzina di metri da terra. Mi appoggiai con la schiena al tronco e lei si mise davanti a me. Presi il PokéGear per controllare se avessero passato avvisi, lo stesso feci con il resto degli strumenti che avevo appresso. Per il momento non c’era nessuna novità, perciò mi toccava aspettare. Prima che mettessi in tasca il Gear, quello vibrò: era una telefonata di Chiara. Chiesi subito, parlando a bassa voce: «Ci sono novità?»
«Ciao, anche io sono felice di sapere che sei viva» ribatté prontamente lei.
«Mi sembri allegra» sbuffai. «Allora?»
«Non so dove sei, spero che non sei andata troppo lontana. Devi sbrigarti, vogliono che ci riuniamo tutti a Sabbiafine, al laboratorio di Rowan. È il posto che hanno deciso che ci ospiterà, per il momento.»
Non sapevo dire se fossi più delusa dal fatto che Chiara continuasse a non andare d’accordo con i congiuntivi o perché non avevano passato un avviso più formale. La mia amica aggiunse, però, che avevano chiesto a quanti erano riusciti a riunire di avvisare tutti i propri conoscenti del trasferimento. Ci salutammo velocemente e dissi ad Altair che era ora di riprendere il volo: sperai con tutta me stessa che Sabbiafine non fosse difficile da trovare. Non c’ero mai stata ed era la prima volta in cui un mio Pokémon mi portava in Volo. Mi mossi precariamente sul ramo ma, nonostante l’attenzione, mi parve di fare troppo rumore.
Capii da cosa derivava quello scricchiolio che non riuscivo a spiegarmi - il ramo era abbastanza robusto e io mi stavo veramente spostando con delicatezza - quando, quasi casualmente, spostai lo sguardo verso terra. Non mi ero accorta di quanto le fronde del pioppo consentissero una buona visibilità del sottobosco e dei piccoli sentieri. Me la rischiai sporgendomi leggermente, capendo che c’era qualcun altro nei dintorni, perché volevo assicurarmi che se ne andasse il prima possibile e che non fosse nessuno di pericoloso. Ero sempre più convinta di non essere sola, anche se inizialmente non individuai nessuno.
Altair mi becchettò su una spalla ma le feci segno di stare in silenzio ed aspettare. Il crepitio delle foglie che ricoprivano il sottobosco, calpestate dalla persona vagante per i sentieri, si fece man mano più intenso: il suono era molto differente dal lieve scricchiolio che il ramo che mi ospitava produceva appena mi muovevo. Se non ci fosse stato il più completo silenzio, non mi sarei mai accorta di non essere io a fare quel quasi impercettibile rumore: ma appena me ne ero resa conto, l’atmosfera si era come tesa e il silenzio attorno a quel crepitio si era fatto talmente rigido, totale, da sembrare innaturale. Mi sentii un po’ spaesata ma mi sforzai di prestare ancora attenzione.
Trattenni il fiato quando una piccola figura entrò nel mio campo visivo. La mia espressione, da preoccupata, si fece interrogativa e basita alla vista di un Victini. Spalancai gli occhi e scambiai un’occhiata con Altair: fui ancora più perplessa nel vederla tesa, visibilmente preoccupata. C’era qualcosa che non andava che io non riuscivo a capire? Certo, trovare un Pokémon Leggendario, la cui regione natale era oltreoceano, libero in un boschetto di Sinnoh, be’, non era certo un evento ordinario. Guardai con più attenzione e mi sorpresi ancora di più: ricordando le immagini di alcuni libri all’Accademia, notai che Victini era cromatico.
“Cosa sta succedendo? Che ci fa qui?” mi chiesi più volte. Mi ritrassi quando un’altra presenza si mostrò ai miei occhi, ma subito dopo mi sporsi più di prima per vedere chi altri ci fosse. Il mio stupore raggiunse livelli mai toccati prima di allora in vita mia, quando la nuova figura arrivata si rivelò essere una bambina. “Una bambina!”
Inizialmente, siccome si trovavano proprio sotto di me, non riuscii a distinguere niente della sua persona, se non i capelli di un biondo lucente, quasi dorato, acconciati in boccoli ordinati e trattenuti da un cerchietto bianco. Appena avanzò di qualche passo, identificai il resto della sua figura: non sapevo dire se fosse esile o no perché la carnagione era talmente chiara che, dall’alto, non capivo nemmeno dove iniziasse la stoffa del vestitino bianco e dove la sua pelle. L’abito le arrivava alle ginocchia. Camminava lentamente - sembrava un po’ incerta - seguendo il Victini, che trotterellava come se stesse cercando qualcosa. I capelli di lei erano sorprendentemente lunghi.
Il piccolo Leggendario si voltò verso di lei, che si fermò e gli chiese qualcosa, ma non udii nulla. Capii che qualcosa non andava quando il Pokémon alzò la testa, rivolgendola verso di me. Trasalii e cercai di nascondermi al meglio: la situazione si faceva sempre più incomprensibile e avevo la sensazione che andasse degenerando. Mi feci coraggio e cercai di protendermi in avanti, ma improvvisamente Altair mi cinse con le ali e mi tenne ferma, coprendomi pure la bocca. Il cotone e i batuffoli erano decisamente insopportabili in quella giornata estiva.
Realizzai che volevo scendere e parlare con la bambina. Ma perché sentivo quel bisogno impellente? Era così forte che cercai di liberarmi dall’abbraccio totale di Altair: lei allentò leggermente la presa, consentendomi di avere di nuovo una vista tra le fronde ma impedendomi di farmi avanti più di tanti. “Cosa vorrei dirle?” mi domandai. “Come sta, che ci fa qui, si è persa… perché ha un Victini cromatico… cosa sta succedendo?”
«Vì!»
Mi portai una mano alla bocca, soffocando un’esclamazione - o imprecazione - sorpresa e nervosa. Era stata una voce maschile a parlare: sembrava giungere da lontano. La bambina si girò, fortunatamente non verso di me - credo che altrimenti avrei emesso qualche tipo di lamento pietoso, tesa e anche impaurita com’ero. La tensione e il caldo, insieme, mi stavano giocando davvero dei brutti scherzi. L’idea di avere le allucinazioni mi sfiorò la mente, ma quando la voce risuonò di nuovo sentii che era tutto reale, tutto vero.
«Vì! Dove sei? Torna qui!»
La bambina esitò. Victini le strattonò un lembo del vestitino e lei lo prese in braccio.
Prima che si muovesse, però, la biondina alzò lo sguardo. Non riuscii a rifiutare il contatto che aveva creato, nonostante i suoi occhi grigioverdi mi avessero turbata fin dal primo momento. Erano più chiari dei miei, che tra l’altro tendevano più al grigio, e avevano uno strano aspetto: sembravano vitrei, spettrali, senz’anima. Non trovai una pupilla in mezzo all’iride spenta e l’inquietudine crebbe, ma pensai che fosse perché eravamo troppo distanti.
Dopo l’infinito secondo che passammo a guardarci, la ragazzina riprese la via del ritorno. Passò almeno un altro minuto prima che potessi fare qualsiasi cosa che non fosse respirare e battere le palpebre.
«Andiamo, Altair» mormorai con un filo di voce. «A Sabbiafine.»
Mentre eravamo in volo ebbi il tempo di ripensare a tutto quello che avevo visto - e provato. Mi sentivo strana, a disagio, e non capivo perché non mi piacesse per niente il pensiero di riferire il tutto alle Forze del Bene. In un certo senso, volevo mantenere il segreto con me stessa. Se mi chiedevo il perché, mi tornavano alla mente gli occhi grigioverdi, chiari e vitrei, della bambina: ero sicura che, se non ci fossimo scambiate quello sguardo, non avrei avuto tanta riluttanza a riferire lo strano incontro avvenuto. Pensai che quel Victini mi avesse influenzata con i suoi poteri psichici: non riuscivo a trovare un’altra spiegazione al mio comportamento.
“Dovrei raccontare tutto alle Forze del Bene. Una bambina che passeggia per un bosco insieme ad un Victini cromatico desterebbe tantissimo sospetto. Ma…” Sospirai. “Non me la sento di dirlo a nessuno. Né agli uomini delle Forze, né a Chiara o agli altri amici. Cosa mi sta succedendo?”
In compagnia di dubbi di questo tipo, la mezz’oretta che impiegammo per trovare Sabbiafine volò via. Altair dovette chiamarmi più volte per farmi distrarre dai miei pensieri: dovevo confermarle che eravamo arrivate nella giusta città. Guardai in basso - volavamo ancora molto alte per non farci vedere - e, siccome la cittadina era sul mare e l’aspetto delle case era di un centro tipicamente marittimo, le dissi: «Dovrebbe essere questa, Sabbiafine.»
Non ci ero mai stata. Il mare di Sinnoh non era molto rinomato, soprattutto in confronto alle acque di Hoenn e di Kalos - la mia regione, piuttosto, era famosa per i tre laghi e per il Monte Corona. Perciò Sabbiafine non aveva mai interessato i miei genitori al punto da sceglierla come meta per una settimana di vacanze al mare.
La spiaggia era terribilmente affollata, perciò io e Altair fummo costrette a girare in tondo, come avvoltoi, sulla città, in cerca di un posto in cui atterrare senza essere viste. Lo trovammo in una piccola area verde e, appena scesi dalla groppa cotonata e batuffolosa della Altaria, la feci rientrare nella Ball senza badare alle sue proteste. Non potevo certo tenerla fuori e rischiare di farci scoprire da qualcuno.
Chiamai Chiara sul Gear. «Ohi! Ho bisogno di indicazioni stradali.»
«Stai chiedendo alla persona sbagliata, allora» ribatté lei, che era già al laboratorio.
Mi passò un assistente del professor Rowan: gli dissi dov’ero, cercando sui cartelli i nomi delle vie, e ricevetti tutte le informazioni che mi servivano. Sabbiafine era una città piccola, perciò dopo una ventina di minuti ero già davanti al laboratorio - in più, le strade erano completamente deserte. C’era quello stesso assistente di Rowan ad aspettarmi: mi condusse in un vicoletto e mi fece entrare in una porta piuttosto piccola, persino per me, che non potevo certo vantare un’altezza dignitosa.
Mi sembrava di star andando in una cantina, invece era un accesso nascosto, secondario, per l’immenso laboratorio di Rowan. Pareva, per certi versi, la sala d’attesa di un ospedale, perché era tutto bianco e asettico; ma era troppo affollato e rumoroso per essere paragonato ad un luogo del genere.
«Tu!» mi individuò subito qualcuno, che si rivelò essere Sandra. «Vieni con me» ordinò.
La seguii, come al solito non troppo tranquilla a causa dei suoi modi bruschi. Non mi parve il caso di chiederle cosa volesse: probabilmente l’attacco all’Accademia l’aveva irritata abbastanza. «Bisogna decidere in che gruppo metterti» mi disse dopo un po’, aprendo una porta e facendomi segno di precederla. «E devi dirmi quanti anni hai e che taglia porti, numero di scarpe eccetera.»
«Eh? Perché?» feci, disorientata.
«Credi che ci siamo premurati di mettere in salvo i tuoi jeans o la camicetta che speravi di metterti il primo giorno di lezione a settembre?» replicò, un po’ stizzita un po’ ironica. «Dovete essere riforniti tutti di un cambio, quindi dimmi misure varie e quant’altro, così qualcuno può andare a spendere un patrimonio e svaligiare il primo negozio di abbigliamento che trova qui a Sabbiafine.»
Risposi alle sue prime domande e poi le chiesi, mentre continuavo a seguirla - era difficile stare al passo della sua rapida marcia - lungo un corridoio: «E poi cosa vuol dire, in che gruppo dovete mettermi?»
«Non possiamo trasferirvi in massa. Partirete un po’ alla volta» rispose lei. Aprì una porta sulla destra e chiamò con voce forte Gardenia: la giovane si voltò e ci raggiunse. Sandra le disse: «Vedi con chi metterla. Con gente della sua età, magari.»
La premura della donna fu quasi commovente. Mi spinse dentro e Gardenia mi indicò un gruppetto di cinque o sei ragazzi, tra i quali riconobbi, con sollievo, Chiara e Gold. C’erano anche i due ragazzi più grandi, Allyn e Matt, che però stavano nello stesso gruppo mio e della mia migliore amica.
Con più disapprovazione notai la chioma di Camille: considerai che era da parecchio tempo, o questa era solo una mia sensazione, che non la incrociavo. Per quel mese e mezzo di permanenza nell’Accademia, non l’avevo vista quasi per niente: ci eravamo incontrate “per bene” durante le ore dei pasti nella settimana in cui tutti erano tornati dalle proprie famiglie, e lei ovviamente non aveva avuto nessuno da cui andare. Si era spesso unita a me e Sara, ma non ci eravamo mai scambiate più dello stretto necessario delle parole: non doveva essersi fatta troppe domande sul perché io fossi all’Accademia e non a Nevepoli, ma ero certa, anche conoscendola così poco, che non gliene importasse più di tanto. Sembrava andare d’accordo, tuttavia, con l’altra ragazza, e non capivo cosa la mia amica ci trovasse in lei, che era sempre rimasta fredda e distante. Tale e quale a quattro mesi prima.
«Oh, sei salva. Ti sei fatta niente?» mi chiese Chiara.
«No, c’è qualcuno che è rimasto ferito?»
«Solo qualche graffietto» mi rispose. Fece un cenno con il capo in direzione di Camille; guardai la ragazza, interrogativa, e quella scrollò le spalle. Mi indicò il suo polpaccio e notai solo in quel momento che era fasciato dal ginocchio fino alla caviglia. Ammutolii.
«Sono stata tra gli ultimi ad uscire» disse. «Ho visto pure te e Gold correre velocissimi verso l’uscita. Mentre cercavo di andare, ho messo un piede dove non avrei dovuto e sono mezza sprofondata, rimediando un taglio non indifferente.» Invece il suo tono era perfettamente noncurante - come suo solito.
«Tu dove sei andata a nasconderti?» mi domandò Gold. «Io mi sono aggregato a quelli che facevano Surf, che erano la maggior parte degli studenti, e a tutti noi hanno detto il luogo di ritrovo e ci hanno chiesto di avvisare i nostri conoscenti. Ci siamo spostati sull’acqua e a piedi fino a Sabbiafine, ma abbiamo fatto presto.»
«Io sono andata nel percorso 203.»
Chiara e Gold spalancarono le palpebre; Camille corrugò le sopracciglia e mi chiese: «Perché così lontana?»
Scrollai le spalle. «Non sapevo dove andare a nascondermi, avevo paura che restando nella zona mi avrebbero trovata i Victory. Quindi ho volato con Altair e sono stata per un po’ nel bosco del percorso 203.»
«Credo sia meglio che non lo vengano a sapere» disse la ragazza dopo un po’. «Non è stata una mossa molto saggia, potresti passare dei guai se sapessero quanto ti sei allontanata.»
«Ho dovuto decidere in fretta» cercai di giustificarmi.
Camille aprì bocca per ribattere, ma in quel momento Gardenia chiamò tutti i gruppetti di ragazzi che ridevano e schiamazzavano nella stanza, chiedendoci di tornare in quella più grande. Chi altri poteva essere arrivato per richiamare la nostra attenzione, se non Bellocchio? Mi chiesi come fossero i suoi colleghi, gli altri uomini al vertice delle Forze del Bene: avevo sentito dire dai miei amici che lui era molto attivo nella regione di Sinnoh, perciò era come se si spartisse, con gli altri, il controllo delle Forze nelle varie regioni.
«Buongiorno a tutti» esordì. «Purtroppo le nostre previsioni sul destino dell’Accademia si sono rivelate esatte, e non siamo stati abbastanza rapidi da anticipare l’attacco del Victory Team. Comunque, non siamo stati colti alla sprovvista, e chi di competenza si trovava all’Accademia è riuscito a mettere in salvo tutti i ragazzi, tant’è che non ci sono stati morti. Anche i danni riportati dagli studenti sono lievi. L’unico problema rimasto è il lavoro che c’è da fare sulle barriere e la pulizia delle macerie.
«A parte l’attacco di Diglett e Dugtrio, non sono stati inviate tante reclute quante ce ne aspettavamo, perciò è stato semplice metterle in fuga. Che sia l’ennesima provocazione dei Victory, quella di sottovalutarci e di non impiegare ingenti risorse nelle battaglie, che quest’obbiettivo non meritasse tante attenzioni o che abbiano voluto prendersi gioco di noi… al momento, tutto questo non ha importanza. È molto più urgente spostarvi: i trasferimenti nelle basi segrete a Sinnoh e a Kanto avverranno tra stasera e domani mattina.»
Un brusio percorse la folla e sentii più volte il nome della regione di Kanto. Ci avevano inseriti casualmente in gruppi di sette o otto ragazzi e non avrebbero certo badato a non far dividere compagnie di amici. Non volevo separarmi da Daniel, Sara, Ilenia e da chi altri non era nel mio stesso gruppo: d’altronde ci sarebbero stati di sicuro Chiara e Gold… e anche Camille. Probabilmente avrebbero aggiunto un’altra persona o due per farci partire.
«Le basi disponibili per accogliere un numero così grande di ragazzi sono poche. Due a Sinnoh e una a Kanto» proseguì Bellocchio. «La metà di voi, una cinquantina di persone, sarà inviata al Monte Corona, il maggiore centro delle Forze del Bene a Sinnoh e uno dei più grandi del mondo. La gran parte dei rimanenti andrà alla base della Lega Pokémon di questa regione. Gli altri nella Grotta Celeste, vicina a Celestopoli. I primi gruppi che partiranno, questa stessa sera, saranno proprio quelli diretti a Kanto e saranno, generalmente, quelli dei ragazzi che da più tempo stavano all’Accademia.»
Bellocchio aggiunse poco altro prima di andarsene, accompagnato come al solito da un silenzio carico di tensione, rispetto e timore nei suoi confronti. Era stato lui a dar vita alle Forze del Bene, d’altronde, ed era sempre un punto di riferimento, nonostante la guerra contro i Victory andasse avanti da otto o nove anni. Perciò, anche se a volte il risentimento e la frustrazione ribollivano e il nome di Bellocchio non era tanto gradito, bastava che lui si mostrasse, quelle poche volte che lo faceva, perché ogni scintilla si estinguesse miseramente.
Era sempre mingherlino, un po’ basso, sbarbato ma pieno di capelli neri. Tendeva a vestirsi con colori scuri che contrastavano con la carnagione pallida. Non riuscii a vederlo bene quel giorno, perché era piuttosto distante, ma mi era sembrato ugualmente freddo, anche se non inespressivo, come le altre volte in cui ci eravamo incontrati.
Appena ci lasciò, andai in cerca degli altri miei amici. Trovai subito Daniel, Ilenia e Lorenzo, che erano finiti tutti nello stesso gruppo. Mi raccontarono com’era andata a loro, non erano stati né tra i primi né tra gli ultimi ad uscire, e tutti e tre si dimostrarono elettrizzati all’idea di andare in una base segreta, dove avrebbero iniziato la loro carriera come combattenti per le Forze del Bene. Daniel mi sembrava un po’ scosso: cercava di non darlo a vedere, ma era palese. Ilenia invece era piuttosto tranquilla, così come Lorenzo. Dopo di loro andai in cerca, insieme a Chiara, di Sara, Melisse e Angelica, che com’era prevedibile erano tutte nello stesso gruppo. Non trovai Cynthia né altri conoscenti, ma non era tanto importante: li avrei rivisti il giorno dopo, probabilmente.
Già, il giorno dopo. “Domani… cosa succederà da domani in poi?” mi chiesi, non senza provare molta paura. Come avevano detto Lorenzo e gli altri, nelle basi segrete avremmo cominciato a lavorare e avremmo costruito il nostro futuro, che sarebbe stato totalmente a servizio delle Forze del Bene. E io che cosa sarei stata chiamata a fare? In cosa potevo rendermi utile senza sentire tremarmi le mani per la paura di sbagliare, di essere inetta e inutile anche per le cose più semplici? La campana di vetro alla fine si era rotta, le foglie come me, come tutti noi ragazzi, erano state catturate dalla tempesta. Avevo avuto difficoltà ad adattarmi all’Accademia e al mondo dei Pokémon, ma cos’erano le settimane che avevo vissuto durante l’anno scolastico in confronto a quello che poteva aspettarmi? Le avevo definite movimentate, allora significava che stava per cominciare la bufera.
“Certo che come persona speciale faccio proprio schifo, eh?” borbottai tra me e me. “Almeno, così dice Cyrus… e anche Bellocchio. Ma se avessi come minimo qualche potere sovrannaturale, o che ne so, un carattere non così pavido e timoroso di tutto! Sarà vero che sono così speciale?”
Se lo fosse stato, la vita a fianco delle Forze del Bene sarebbe stata più dura che mai, perché ero uno dei bersagli che avevano la priorità, per i Victory. Ma non avevo niente di speciale, continuavo a dirmelo, nonostante qualcun altro affermasse il contrario… l’unica cosa che sapevo era che mi piaceva lottare insieme ai miei Pokémon. Sarebbe stato sufficiente a fare di me, per esempio, una recluta della mia organizzazione? Mi sentivo annichilire al pensiero di tirare un colpo da K.O. a un altro essere umano, a un ragazzo come me. Sarebbe stato necessario, nel domani?
Mentre ero impegnata a rimuginare sulla mia inettitudine e ad autocommiserarmi, Chiara chiacchierava senza dare tregua al povero Gold. Mi distrassi per un attimo dai miei pensieri e mi concentrai su di loro, senza ascoltare attentamente la parlantina della mia migliore amica, ma solo guardando le espessioni dei loro visi e anche dei loro corpi. Mi misi a studiare il loro modo di comportarsi, insomma, chiedendomi come si sentissero immaginando cosa stava aspettando tutti noi, giovani ancora impreparati, all’indomani. Sembravano entrambi sereni, quasi incuranti delle novità che sarebbero piovute nelle settimane a venire.
Incontrai gli occhi di ghiaccio di Camille e continuammo a guardarci per un po’, senza fissarci ma, ogni tanto, scambiandoci un’occhiata. Non era di intesa e nemmeno molto comprensiva. Ma entrambe sapevamo che presto i giorni all’Accademia non sarebbero stati altro che un ricordo lontano; forse li avremmo rimpianti ritrovandoci in un periodo grigio e difficile da affrontare, pieno di ostacoli su tutti i fronti. La guerra stava cominciando e quello era il nostro ultimo giorno relativamente al sicuro da ogni pericolo.
Ma mi sarebbero mancati davvero i giorni trascorsi all’Accademia? Chi mi assicurava che il futuro potesse anche non essere così pessimo, nonostante la guerra? Con un sorriso spontaneo che mi si aprì sul viso mi resi conto che era ancora tutto da vedere. La persona speciale che era in me ancora doveva rivelarsi, ma ciò non toglieva che io non avrei dato il massimo per mostrare che, in realtà, non c’era nessun segreto da tenermi nascosto. In attesa di scoprire quale fosse la mia identità sconosciuta, io avrei fatto di tutto per far vedere a Cyrus, Bellocchio e chi altri che Eleonora, semplice, ingenua e inesperta com’era, era importante, speciale e promettente tanto quanto la persona che aveva dentro di sé.



«Dov’eri finita, Vì, tesoro? Quella pazza di Nike stava per uccidermi per averti persa di vista.»
«Scusa, fratellone. Non lo farò più.» Il silenzio scese tra i due. La bambina era indecisa se raccontargli o meno quello che aveva fatto nel bosco.
Alla fine decise di disobbedire e mantenne il silenzio. “E poi - si giustificò - non è pronta. Non è ancora il momento.”










Angolo ottuso di un’autrice ottusa
Ciao a tutti! Ecco qua l’ultimo capitolo di questa sofferta revisione della prima parte. Sì, è stata un’impresa riscrivere questa storia, più che altro perché dopo un po’ mi sono leggermente rotta le scatole di rivedere tutto… però è stato necessario, e sono contenta di aver dato a Not the same story una prima parte che sia come minimo decente. O almeno spero
Questo periodo non è dei migliori, per me: tra impegni scolastici e non, tutti ugualmente soffocanti, poi delusioni, problemi di ogni tipo e brutte notizie in famiglia… nonostante l’aria di festa, ultimamente è tutto un po’ difficile. Perciò scusatemi se sarò breve nei ringraziamenti, quando invece servirebbe più spazio.
Spero che con questo remake meno repellente della prima versione - non ho problemi a detestare “Ntss1” ahahah - qualche nuovo lettore si sia avvicinato a questa mia trilogia, e che gli stia piacendo. Ringrazio chi ha recensito, indipendentemente da quanti commenti ha lasciato e da quanto tempo non passa; grazie a chi ha inserito la storia tra le preferite, le seguite e/o le ricordate. Non nascondo di non essermi mai aspettata tanti numeri per questa ristesura, perciò anche con le attuali 33 recensioni, lasciate da più di una persona o due, posso dirmi soddisfatta.
Non so proprio quali aspettative avere, invece, per la terza parte, che arriverà agli inizi di gennaio. Mi auguro che sia seguita, rido
Come potete vedere, mi sono permessa di inserire, nel prologo e in quest’ultimo capitolo, due paragrafi completamente distaccati dalla narrazione in prima persona. Non so se ho fatto bene o no, sono un po’ poco convinta per quest’ultimo, ma essendo solo un paio di righe non penso darà problemi ahah. Comunque, non penso serva dirlo, il ragazzo che appare nel prologo è lo stesso “fratellone” della bambina, e cioè colui che la chiama quando è nel percorso 20qualcosa non mi ricordo mai i numeri. E niente, chi ha già letto la seconda parte sa chi è Nike e quindi chi è il damerino, e boh, anche la bambina forse (?)
Consiglio proprio a chi l’ha già letta di dare un’occhiata, nei giorni a venire, alla seconda parte di Not the same story. Anche quella la sto rivedendo: parecchi capitoli hanno avuto bisogno di una riscrittura simile a quella della prima parte, ma dopo un po’ si tratterà solo di mettere le virgolette diverse, anziché i trattini, e di aggiornare lo stile. Non penso che serva rileggersi tutti i capitoli, magari vi dirò quali sono stati ripristinati al meglio (?) e, per un “ripasso”, gli ultimi 3-4 - per riprendere in mano la situazione della storia: banalmente, come si è arrivati al Bosco Smeraldo et similia.
Grazie ancora a tutti per l’attenzione! Ink Voice tornerà più esausta che mai, vessata dal suo instancabile maso spirit, ma sempre pronta a rompere le scatole a chi è altrettanto masochista da starle appresso.
Eleonora

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