Dark Rain

di Sheep01
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Disclaimer: Occhio di Falco, Vedova Nera e tutti gli altri personaggi citati non mi appartengono, ma sono proprietà di Marvel e Disney. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.

 

DARK RAIN

 

Con fierezza si alzarono gli Angeli, e mentre si alzavano un tuono profondo
rotolò sulle spiagge, bruciando pieno di sdegno con i fuochi di Orc.
(William Blake, “America”)

 

*

 

La pioggia, la pioggia.

Ci sono giorni che ti senti zuppo fin nelle ossa. L’umidità ti si impregna nei capelli, nei vestiti, nelle mutande.

Non una bella sensazione.

Soprattutto quando sei in debito di sonno e in più, dettaglio affatto trascurabile, di caffè.

Le strade fradice, le pozze d’acqua a rispecchiare un duplicato oscuro delle mura grigie dei palazzi. Le grondaie lacrimanti di pioggia nera, densa come sangue. I tombini che rigurgitano olezzi marcescenti di fogna e fumo caldo, oleoso.

Drappi inconsistenti a celare i dettagli nascosti. Non un luogo per persone felici.

Le ammiccanti luci al neon dei locali circostanti non fanno che aumentare il macabro contrasto con lo squallore circostante e, tuttavia, in quel grottesco ammasso di polvere e oscurità, dove corpi di passanti silenziosi non si riservano che sguardi sospetti e ostili, quando sei a bordo della tua macchina, con Miles Davis che dà fiato alle trombe, un po’ ti senti a casa.

 

I finestrini cominciavano ad appannarsi.

Eppure aveva lasciato aperta una feritoia a far entrare un po’ di quell’aria mefitica. Non che la situazione all’interno fosse migliore: i tessuti dei sedili, le lamiere, i suoi vestiti, impregnati da quell’odore stantio di fumo.

Aveva decisamente bisogno di una doccia. Di un bagno caldo. Se doveva sognare, che almeno lo facesse in grande. Un paio di candele profumate sul bordo della vasca da bagno. Una musica d’ambiente a richiamare il rumore di ruscelli, di uccelletti, di una cazzo di accidiosa cicala.

Le tettone di miss novembre sulla porta del bagno. Insomma, tutto il necessario per rilassarsi, allungare una mano proprio lì, dove risiede felice il signore del diletto e salutare l’alba con una gloriosa se-

“Barton!”

Trasalì con buona pace delle sue fantasie interrotte sul più bello. Il faccione di Coulson dall’altra parte del finestrino, ad alitare sui vetri puntellati di gocce di pioggia.

“Vaffanculo, mi hai fatto prendere un colpo.”

“Non dirmi che non mi aspettavi.”

“Mezz’ora fa. Salta su.” Lo spronò andando a liberare il posto del passeggero. Avanzi di una cena cinese da portar via e documentazione sparsa un po’ dappertutto. Da quanto ci teneva, la fece volare in planare sui sedili posteriori.

L’agente Coulson salì in macchina, portando con s’è l’odore tipico di cane bagnato, a sgocciolar quella merda sporca per tutti gli interni. Fra quello e l’odore di fumo, un mix quasi nauseabondo.

“Ma non ce l’avevi un ombrello?”

“Non mi piacciono gli ombrelli. Lo sai.”

“Anche a me non piacciono le mutande, ma c’è da ammettere che sono utili.”

L’uomo si passò una mano sulla zucca bagnata, tirando fuori dall’interno dell’impermeabile color sabbia una busta di plastica.

Bingo.

“Mi chiedo perché non abbiamo potuto vederci al solito bar all’angolo.” Una protesta minima, gentile, tipica di Coulson.

“Perché così fa più clandestino. Non la senti la spinta alla trasgressione?”

“L’unica trasgressione di cui ho bisogno, al momento, è quella di usare il tuo riscaldamento per asciugarmi i piedi. Bella musica, a proposito.”

“E' roba tua, amico…” gli sfilò i documenti dalle mani, frugando nella busta di plastica alla cieca, sorridendo appena nel tastare la superficie di quella che riconobbe immediatamente come una scatola.

Coulson spinse al massimo la ventola dell’impianto di riscaldamento, direttamente sui piedi, levandosi le scarpe.

“A-ah!” un’esclamazione carica d’entusiasmo, al contenuto del pacchetto. “Stavolta si va sul pesante, mh? No, non parlo dei tuoi piedi...”

La scatola conteneva una decina di punte di freccia, dalle forme e dimensioni più svariate. Disposte accuratamente una accanto all’altra. Un piccolo regalo. Un graditissimo upgrade alla sua collezione.

“Cazzo, non mi aspettavo le trovassi sul serio. Sono già configurate?” gli domandò rigirandosi fra le mani quella che aveva tutta l’aria di essere una bomba.

“Sono un tipo a cui piace mantenere le promesse. E comunque sì, sono configurate. Ti hanno fornito anche i chip. Con la strumentazione per l’accesso ai dati di cui hai bisogno per la missione.”

Clint sfilò dalla busta un paio di occhiali. All’apparenza innocui. Se li infilò senza dover nemmeno chiedere come azionare il meccanismo. Nel momento stesso in cui l’indossò, il chip all’interno ne riconobbe l’iride e comincio a passar informazioni direttamente sulla lente.

“Mh…”

“Qualcosa non va?”

“A parte la faccia da cazzo del tipo che mi è appena apparso in schermata? Perché occhiali e non lenti a contatto?”

“La conosci la reticenza di Fury alle lenti a contatto con i chip. Sai, per via dell'incidente al suo...” Phil agitò un po' le dita vicino al suo occhio, “Mentre la faccia da cazzo è il tizio che devi rintracciare.”

“Ma non mi dire. Credevo fosse il mio prossimo appuntamento.”

“Credevo ti piacessero le donne.”

“Nella vita non si può mai dire. Ma non credo sia il mio tipo. Magari dovremmo presentarlo alla Hill, che ne pensi?”

“Maria ti spaccherebbe la faccia.”

“Già fatto…” si indicò lo zigomo ancora un po’ ammaccato. I diverbi professionali erano quelli che preferiva. Di gran lunga più di quelli sentimentali.

“Sicuro non sia stata tua moglie?”

Ex moglie. E poi no. Ha smesso di picchiarmi. Ora si è data al ricatto.”

“La tua vita sentimentale è più disastrosa dell’interno della tua macchina.”

“Se pensi che la mia macchina sia disastrosa, dovresti vedere il mio appartamento…” si sfilò gli occhiali ributtandoli nella busta assieme a tutto il materiale fornito dallo SHIELD.

O quello che era rimasto... dello SHIELD dopo lo smantellamento dell'organizzazione. La mancanza di fondi, di necessità specifiche. Dopo il disastro di New York (del quale Clint aveva ricordi nebulosi) per il governo, ormai, erano estinti. Richiamati solo per svolgere i lavori sporchi in cui faticavano ad affondare le mani. Alcuni agenti erano stati riqualificati. I migliori invece, quelli che non si erano venduti al sistema, continuavano ad agire nell'ombra, sotto le direttive di Fury. Il figlio di puttana non si arrendeva. E con lui quei suoi uomini che, da sempre, riteneva i più fidati.

Clint modestamente si riteneva uno di quelli.

“Era un invito?”

“Phil, non ti montare la testa adesso.”

L’uomo gli rispose con una risata, abbassandosi appena per recuperare le scarpe. In condizioni vagamente migliori di quando era salito in macchina.

“C’è un’altra cosa, Barton…”

Quando Phil usava quel tono, non preannunciava mai niente di buono. Ma voleva essere positivo, voleva provarci, almeno. Sembrava anche accennasse a smettere di piovere, fuori. E poi mancavano solo un paio di ore all’alba. La veglia notturna sarebbe presto terminata.

Era arrivato il momento di mettere a nanna il Falco.

“Il Direttore Fury ha previsto un altro agente per l’operazione.”

Questa era una novità del tutto inaspettata. E piuttosto irritante. Fury aveva lo straordinario superpotere di fargli sempre girare i coglioni. Anche adesso che non doveva più chiamarlo Signore.

“Stronzate. Io lavoro sempre solo.”

“Non questa volta. Vuole piazzare uno di quelli giovani.”

“Una recluta?” la cosa cominciava ad assumere dei toni decisamente comici. Giovane significava recluta, a casa sua. Una recluta. Il direttore Fury doveva essersi bevuto il cervello. “Non faccio da baby-sitter a nessun cazzo di novellino, Phil.”

“E’ un ordine Barton”, la voce era dura, severa, come raramente ci si aspettava di sentire da uno come Coulson. “E poi non si tratta di un novellino…” l’occhiata che Phil gli riservò, rapida e rivelatrice, gli fece gelare il sangue nelle vene.

“No…” l’idea si era materializzata, tentacolare, in tutte le sinapsi. Avrebbe preferito morire affogato. Letteralmente, in uno dei tombini, piuttosto che lavorare con lei.

“E’ la Vedova Nera.”

Phil sentì dal profondo dell’animo, che una pacca sulla spalla fosse il gesto meno invasivo e più appropriato per dimostrargli tutta la sua più sincera solidarietà.

 

*

 

Bevve un altro sorso di caffè. Il tepore gli riscaldava le mani, un confortevole contrasto con le rigide temperature di quel piovoso novembre. Doveva essersi guastato il brutto tempo, perché uno spiraglio di nuvola si era diradato lasciando spazio a un unico raggio di sole.

Clint lo interpretò come un segnale negativo.

Alla pioggia ci era abituato. Alla pioggia e a quella sensazione di costante afflizione. Un raggio di sole sciupava l’umore che si era costruito addosso da quando aveva finito per stabilirsi in quella città. Tutta facciata, per la cronaca. Non riusciva mai a darla a bere quando si definiva un tipo fosco. Cupo. Il problema stava nel mimetizzarsi con tutta quella fauna. Con un buon parka e un cappello in testa, l’inganno risultava anche piuttosto convincente.

Fece per attraversare la strada quando la sirena della polizia gli sfrecciò di fronte, rapida e quasi inconsistente. Una scia rossa e blu a schizzargli addosso una montagna d’acqua.

“E quando pensi che non possa andare peggio…” si sentì battere sulla spalla e nel voltarsi, non riuscì a trattenere una smorfia di disgusto.

Un altro di quegli aggeggi robotici dall’aria economica. Un tubolare di ferro, montato su quattro rotelle. E una testa a uovo con tanto di stemma del commissariato di polizia di zona.

Il peggio. Per l’appunto.

“Documenti prego.”

“Sul serio? Abito in zona, agente…”

Gli esperimenti robotici di ultima generazione avevano sostituito gli sbirri di quartiere da almeno una decina d’anni. E poi erano diventati antiquati anche loro, come la loro controparte umana. A girare per le strade di periferia c'erano solo gli scarti di magazzino. Quelli comodamente sacrificabili.

“Documenti, prego.” La voce gentile, preimpostata, con un lezioso accento britannico. Vagamente tremolante. Un microchip che andava sicuramente sostituito. Tutta quella pioggia avrebbe finito per annacquarne i circuiti. O magari lo aveva già fatto.

“D’accordo, d’accordo…” inutile discutere con un tubo di ferraglia.

Andò a tastarsi nella tasca della giacca per tirar fuori il cartellino identificativo: una vecchia tessera del reparto investigativo. Il chip veniva aggiornato mensilmente. Più che una doppia identità, un'identità che veniva direttamente dal passato.

“Sono un collega. Una specie… almeno.”

La luce a intermittenza sulla testa a uovo scansionò il cartellino identificativo.

“Detective: Clinton Francis Barton. Nome in Codice: Occhio di Falco. Nato in Iowa, il 18 giugno del-”

“Ehi, ehi, ehi”, ritirò il cartellino, con una certa urgenza, “non c’è bisogno di sbandierare i miei dati ai quattro venti, razza di bidone ambulante!”

“Identificazione accertata.”

“Bella forza… te lo avevo detto.”

“Il protocollo impone investigazioni occasionali su tutto il perimetro nell’arco delle ventiquattro ore di servizio.”

“Ti sei ingoiato il codice delle leggi della robotica, amico?”

“Non sono amico. Il mio codice di registro è: J.A.R-”

“Non mi interessa il tuo codice di registro. Abbiamo finito?”

“No.”

Una risposta quantomeno singolare.

“Il protocollo mi impone di sottoporla al riconoscimento visivo di un sospetto.”

“Sono fuori servizio.”

“Insisto.”

La cosa stava cominciando ad infastidirlo. Se prima si era detto che quel raggio di sole era arrivato a rischiarargli la giornata, ora quel cazzo di aggeggio, rischiava di farla precipitare di nuovo in una pozzanghera di pioggia nera.

“Grazie per avermelo chiesto con gentilezza. E allora, forza, se proprio dobbiamo farlo...” Lo spronò quindi con un gesto della mano, mentre l’altra teneva stretto il caffè che ancora non era riuscito ad assaporare con gusto.

L’ologramma si materializzò a un passo dal suo naso e tutto ciò che riuscì a identificare fu una nebulosa di pixel.

“No, non lo conosco.”

Disse, in tutta sincerità. Sicuro che venisse registrato dall’identificatore vocale. Quei cazzo di aggeggi avrebbero smascherato Gesù Cristo in persona.

“Un passo indietro, per favore.”

Cazzo di bidone ambulante.

Lo assecondò un po’ per istinto, un po’ per evitare che quella buffonata si prolungasse troppo a lungo.

Ora nell’ologramma era finalmente distinguibile il volto cereo di un uomo. L'espressione smaliziata, di sfida alla telecamera. Muoveva la testa a destra e a sinistra sullo sfondo bianco, candido quanto la sua pelle. Un cerone biancastro a camuffarne i tratti. Del trucco pesante  a decorargli gli occhi cerchiati di nero. E quel rossetto blu scuro sulle labbra a imitar un sorriso malriuscito. Aveva già visto quel travestimento. Affatto messaggero di gran bei ricordi. Un clown. Uno nemmeno ben fatto.

“Riconosce il sospetto, Barton?”

“Certo che ce n’è di psicopatici in giro.”

Tergiversare era il suo modo per eludere le domande dirette di quelle macchine senz’anima.

“Ha compreso la domanda, agente Barton?”

“Ti ho già risposto prima, agente. Non lo conosco. Non l’ho mai visto. Forse dovreste cercare in televisione. È pieno di spostati che lavorano nello spettacolo.”

Tipo il vostro creatore. Avrebbe voluto aggiungere, ma si trattenne. Sapeva perfettamente quanto fossero permalosi quegli ammassi di circuiti sul loro padre putativo.

La sua cazzo di insegna svettava, come una cattedrale nel deserto, su New York. Una tomba su quell’impero finito nelle mani degli sciacalli il giorno in cui Stark era morto.

Un giorno di tre anni fa.

Il robot sembrò valutare la risposta, scrutandolo col suo laser a grottesca imitazione di un occhio ciclopico e, solo dopo qualche istante fece svanire l’ologramma, così come era arrivato.

“La ringrazio per la collaborazione, detective Barton.”

“Per te solo detective, signor codice di registro vattelappesca.”

Lo vide girare sui tacchi – parlando esclusivamente per metafore –  e allontanarsi lungo il marciapiede, portando via la sua carcassa d’alluminio.

“Macchine.” Sbuffò qualcosa andando a cercar con le labbra il calore del caffè.

Fece una smorfia disgustata constatando che era ormai diventato freddo.

Lanciò quel che restava nel primo bidone della spazzatura che non era stato bruciato da bande di teppisti di quartiere e attraversò la strada in corsa, prima che la polizia tornasse a schizzarlo di fango e chissà che altra schifezza chimica.

Il cielo stava diventando viola… non era sicuro di voler arrivare dopo le tenebre.

Anche se l’indirizzo non era lontano. Giusto il tempo di guadagnare terreno.

 

*

 

Una fila di negozi disposti uno accanto all’altro, incassati in palazzi diroccati dall’aria tutt’altro che rassicurante.

Era sicuro di non ricordarlo così il quartiere, dall’ultima volta.

Era anche vero che l’ultima volta risaliva a qualcosa come quindici anni prima. Quando era ancora abbastanza giovane e incline ad una positiva trasgressione. Quella che ti porta nei localacci di periferia a bere alcolici illegali e ad ascoltar musica che stringe la mano al diavolo in libera uscita.

Bei ricordi. Spazzati via dall’urgenza di una disintossicazione e un richiamo all’ordine. Nonché la necessità di percepire uno stipendio. Si cresce, ad un certo punto, dicono.

Clint lo aveva fatto più rapidamente di quanto preventivato. Ci si sarebbe crogiolato parecchio volentieri in una ritrovata adolescenza. Purtroppo vivere in un mondo malato non facilitava la realizzazione del sogno.

Si infilò gli occhiali da sole. Una scelta singolare per un tempo come quello. Non avrebbe dato affatto nell’occhio… pensò con una certa dose di sarcasmo.

La lente gli rimandò l’indirizzo che andava cercando. L’ultimo palazzo sulla destra. Quello con l’insegna verde acido di un negozio d'antiquariato. Quello con…

Rumore di vetri infranti.

… il tizio che stava volando fuori dalla vetrina, a volo acrobatico, in un’esplosione scenografica di cristalli.

Lo schianto con l’asfalto fradicio non sembrò avergli fatto bene.

Rappresentativa la serie di gemiti sincopati.

Clint avvicinò blandamente il marciapiede, fissando il poveraccio che boccheggiava al suolo, dall’alto verso il basso. Doveva aver perso anche un paio di denti. Se per via dello schianto o di una batosta pregressa non era facile decretarlo.

“Q-quella p-puttana mi ha…” lo sentì gemere. Il fiato per insultare, chissà come, la gente lo trova sempre.

“Defenestrato? Ho visto. Carino da parte sua. Ringrazia non ti abbia spezzato il collo.”

Con le cosce. Glielo aveva visto fare un paio di volte. Non era mai stato un bello spettacolo. O forse sì. Di certo non quando era toccato a lui.

“Non ci parlare.” Una voce piatta di donna, riconoscibile fra mille, alle sue spalle.

Era sicuro ci fosse un che di perverso e contorto nel sorriso che si sentì affiorare sulle labbra.

“Giornata di inventario?” si rimise dritto, scavalcando il malcapitato, disinteressato al suo destino, per andarle incontro.

“Il mercoledì c’è la pulizia delle strade.” Gli rispose, in attesa, poggiata allo stipite del portone scrostato del negozio.

I capelli rossi, raccolti in una coda alta. Un pugno in occhio nel grigiume della città sul fare della sera. Improvvisamente non seppe dire se fossero passate settimane o mesi interi dacché non la vedeva: non era cambiata di una virgola.

“Romanoff.”

“Barton.”

“Che ha fatto quel disgraziato?”

“E questo... per quale motivo dovrebbe essere affar tuo?”

Si vide costretto ad alzare le braccia in segno di resa. Non era sicuro di voler cominciare con un litigio.

“E’ sempre un piacere rivederti.”

“Il piacere è tutto tuo.” Gli rispose con espressione indecifrabile, invalicabile. Dio, quanto gli dava sui nervi. O forse no. “Perché sei qui?” l’unica domanda che contava. A reclamare forse l’unica risposta… che contava.

“Se mi offri del caffè te lo dico.”

Il rumore della camionetta della polizia che si portava via il defenestrato giungeva a coprire l’ennesimo insulto.

 

*

 

Se c’era una cosa consolante nello scenario dello stanzino sopra il negozio di anticaglie, era il disordine. Felice di non essere l’unico agente dello SHIELD a disporre del suo appartamento come fosse un magazzino temporaneo.

Certo finché avesse preso come metro di misura l’appartamento di Phil Coulson... un uomo con dei problemi, se proprio doveva calcar la mano. Fra Coulson e un serial killer, la distanza di un test attitudinale superato con successo allo SHIELD.

Pile di libri a non finire, accatastati uno sull’altro da una parte all’altra del minuscolo bilocale, scatoloni dei traslochi ad improvvisar librerie artigianali. Al centro della stanza, sul tavolo del piccolo soggiorno una serie di macchinari elettronici di dubbia provenienza. Un paio di computer, almeno una decina di portatili e dispositivi digitali di ultima generazione. Più cavi. Cavi come ragnatele dispersi per il pavimento, rendendolo di fatto, una specie di percorso a ostacoli.

La chiamavano Vedova Nera per un motivo. O almeno anche… per quel motivo.

Natasha Romanoff era anche un hacker. Uno di quelli tosti. Uno di quelli che si era guadagnato una certa fama (negativa) fra le cariche governative. Ne aveva assorbito i segreti più marci e compromettenti e un giorno, senza discernimento, li aveva liberati in rete. Ricercata per tutti gli Stati Uniti e oltre. Fosse stato per le organizzazioni mondiali di sicurezza sarebbe stata rinchiusa nelle prigioni statali per il resto della sua vita. Lo SHIELD aveva deciso di sfruttarla come risorsa. Non prima di essersi battuto con tenacia e ardimento per averla. In tutti i sensi. Nello specifico dopo aver mandato sul campo uno dei suoi migliori agenti, che ne era uscito pesto, umiliato nel suo spirito di uomo, ma vincitore.

Un agente che, nemmeno a dirlo, faceva Barton di cognome. Una maledizione che Clint si portava dietro da qualche anno a quella parte.

“Vedo che ti sei sistemata alla grande.”

“Risparmiami il sarcasmo, ancora non mi hai detto che ci fai qui.”

“Ancora non mi hai servito il caffè.”

Ricevette in risposta una caffettiera e un barattolo di caffè della marca più scadente, dritte fra le mani.

“Una moka? Sei seria?”

“Quella o te lo vai a prendere al bar all’angolo. Non sono sicura abbia passato i controlli sanitari, però.”

“Che carina ad avermelo detto…” si avvicinò al piccolo cucinino. Un luogo che, per quanto minuscolo, aveva un’aria piuttosto desolante. Natasha non era un buon esempio di casalinga. O di cuoca. Probabilmente i fornelli non venivano usati dall’età della preistoria. Ad avallare la tesi, cartoni di pizza e cibo in scatola impilati ed accartocciati nel cestino della spazzatura, poco sotto il lavello.

“In realtà era un invito a usufruirne. Non sono sicura che non ci sia dello stafilococco in quella caffettiera. In entrambi i casi ne esco vincitrice.”

Clint sorrise. Il fatto che pronunciasse le frasi senza mostrare particolari stati d’animo gli regalava sempre quel brivido sul dubbio che non stesse scherzando affatto. Una volta l’avrebbe odiato. Ora invece ne traeva una sorta di masochistico piacere.

“Correrò il rischio.”

“È amore questo, agente Barton?”

“Per il caffè, l'unico e il solo.”

Dovette fare uno sforzo per ricordare come si usasse una moka. Eppure erano ancora in voga, come pezzi d'antiquariato... in qualche bar. Ricordava la fragranza che ne usciva. Quello era buono. Il filtro non molto.

“Sto aspettando.”

Nemmeno il tempo di ragionarci in modo meticoloso.

“Fury ha un lavoro per noi.”

“... noi?” l'incertezza, per una volta tanto, molto poco lusinghiera, nelle sue corde vocali.

“Noi, lo straordinario Team Delta. Di nuovo pronti a far faville.”

“Le uniche faville che Fury avrà saranno quelle dello schermo del suo computer quando andrà in tilt.”

“Oh, non c'è motivo di essere così drastica.”

“Davvero? Potevi dirlo subito che sarebbe bastato dire di no.”

La vide andare a sedersi alla scrivania o tavolo da lavoro. Il sibilo delle ventole in accensione. Non era sicuro di aver più visto scassoni del genere da... bè, dal tempo in cui non aveva visto una moka. Si sentiva improvvisamente vecchio. Antico per la precisione. La cosa buffa era che probabilmente Natasha non aveva fatto in tempo a vedere mai prodigi del genere dal vivo. Per lei erano buffi aggeggi vintage che si divertiva a sistemare e per i quali aveva, straordinariamente, una qualche ossessione particolare.

Per quello andava così d'accordo con Coulson. L'ultima volta che li aveva sentiti interloquire (dio, come amava tirar fuori paroloni), non avevano fatto altro che inneggiare alla penna a sfera. La penna. A sfera. Chi cazzo scriveva più a mano?

“In realtà si tratta di ordini, Natasha.”

“Ma non mi dire.” la voce ancora piatta, persino priva della vena di sarcasmo. L'idea doveva averla decisamente messa di pessimo umore.

“Ci hanno preparato degli aggeggi interessanti. Ho un sacco di frecce nuove e...”

“Fury sa che io lavoro da sola.”

Mai sentenza suonò più definitiva. E improvvisamente un moto d'irritazione andò a stuzzicargli la coscienza ancora intorpidita, priva della scarica adrenalinica del caffè.

“Sono passati quasi tre anni.” le parole gli erano uscite di bocca, prima che potesse frenarle. Scivolate sulla lingua, fra i denti, incontenibili.

“Contare i giorni non cambia quello che è successo.”

“Natasha...”

“E non... chiamarmi Natasha.” la voce adesso era dura. Sferzante. L'aria, fosse stata di piombo, l'avrebbe tagliata come burro.

Clint si morse la lingua. Non poteva biasimarla. Avevo perso il sonno per un anno. E poi ancora a giorni alterni a ridestarlo dall'anelato torpore.

Per quello lo definivano un animale notturno. Perché la notte non dormiva. Mai.

“Preferisci Nat?” avanzò con parsimonia.

“Vaffanculo.” La giusta risposta a un sarcasmo di merda.

“Senti…”, Clint avvicinò il tavolo da lavoro, consapevole del fatto che Natasha stesse armeggiando con il pc, piuttosto che guardarlo direttamente, “non ha entusiasmato nemmeno me questa sua decisione…”

“Incoraggiante. Questo sì che è iniziare alla grande.”

“Ha voluto noi perché siamo i migliori.”

“Non mi circuisci certo con le lusinghe.”

“Sei tu quella che circuisce, non io”, si era piegato sulle ginocchia a guardarla dal basso in su, cercando di cogliere stralci del suo viso piegato sullo schermo di quel computer antiquato, “se non vuoi il lavoro sta bene. Posso dire a Fury che non te la senti. Mi affibbieranno qualcun altro. Qualcuno di cui non mi fido, ma bravo abbastanza da sostituirti.”

“Nessuno può sostituirmi.” Adesso si era voltata, lieto di aver sfiorato i tasti giusti del suo orgoglio. “E non dovresti fidarti me.”

“Lo sai che non si controllano queste cose.”

La vide serrare le labbra, incerta, a scrutarlo negli occhi, come cercando una qualche menzogna o incertezza nello sguardo. Non sembrò trovarne e dovette esser grata al borbottio della caffettiera sul fuoco che lo distrasse, mentre il caldo aroma del caffè si sparpagliava per casa.

“A Fury questa cosa non piacerà comunque.” Il caffè, anche solo il suo profumo, era in grado di riportarlo sempre sui giusti binari. Perché al cospetto della Vedova Nera, non era una novità perdere la strada. Non per lui almeno.

“Con lui posso discutere di quello che mi pare…” era tornata al suo silenzioso lavoro, mentre Clint cercava una tazzina per bere quel caffè allo stafilococco… o alla polvere.

“Questo vostro rapporto privilegiato non l’ho proprio mai capito.” Mentì. Perché sapeva benissimo cosa li accomunava e perché. Fury era stato il primo a capire il suo potenziale e a comprendere la sua letale e tormentata natura. Pochi potevano vantare di aver avuto il direttore come mentore. Natasha era una di queste.

“Geloso?”

Due zollette di zucchero.

“Di te o di Fury?”

Un sorso.

Natasha sorrise.

“Non vuoi nemmeno sapere di che si tratta, Nat?” le domandò allora.

“Non mi freghi, Barton.” Nel momento stesso in cui avesse accettato di prender parte all’analisi dei file, non avrebbe più potuto tirarsi indietro.

“Facciamo così…” posò la tazzina sul lavandino e si frugò nelle tasche interne del parka, “qui c’è tutto il materiale di cui hai bisogno.” Posò sulla sua scrivania un dispositivo digitale della misura di una carta da gioco, a cristalli liquidi. “Se entro domattina non avrò tue notizie… dirò a Fury che non hai accettato di partecipare alla caccia.”

“Caccia?”

“Mh mh…”

“Non dovevi dirmelo.”

“Non ho detto niente.”

“Stronzo.” Nell’insultarlo, però, aveva attirato a sé il dispositivo, facendolo sparire in uno dei cassetti sotto la scrivania.

“Ci sentiamo domani.”

“Oppure no.”

Clint si strinse nelle spalle, senza risparmiarle un sorriso a cui lei non rispose.

“Grazie per il caffè.” Dichiarò solo, prima di allungare il passo per guadagnare l’uscita, quando qualcosa di peloso e grosso abbastanza da non essere un ratto, scivolò dalla porta dentro la stanza e poi fra le sue gambe in un concerto di fusa.

“Ehi…” fece solo, scrutando il gatto dal pelo d’ebano che alzò uno sguardo umido verso di lui, “ma non eri morto, tu?”

Si chinò quel tanto che bastava per rendersi conto che una delle zampe posteriori si muoveva in modo innaturale. E poi capì che non era altri che una protesi robotica piuttosto ben fatta.

Non ci voleva un genio a capire che tecnologia di quella portata poteva essere molto costosa. A maggior ragione il lusso di poterla sfoggiare su un animale domestico di quelle dimensioni.

“L’hai fatto tu?” domandò allora, sorpreso, sollevando da terra l’animale in vena di effusioni, guardando direttamente Natasha che si era rimessa in piedi rapidamente. Forse un po’ troppo… rapidamente.

“No.” Rispose criptica, recuperando di malagrazia il gatto, il tempo di far sparire quella sua zampa nel confortevole calore del suo abbraccio.

Clint sapeva di non dover insistere. Natasha non era certo priva di segreti. Non lo era mai stata...

“D’accordo, me ne vado.” si arrese allora, troncando la conversazione, prima che diventasse scomoda.

“Puoi fermarti ancora un po’… se vuoi.” una frase lanciata con una casualità sconcertante. Sempre nel momento sbagliato.

Quello sguardo. Così carico di sottintesi che non era mai riuscito a ignorare. Dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo, anche quella volta, per impedirsi di rimanere intrappolato nel suo gioco.

“Magari un’altra volta.” Rispose e lei non sembrò aversene a male. Non troppo, almeno.

Uscì dalla porta dell'appartamento con la sensazione che avrebbe avuto modo di maledirsi più tardi, quella notte, per quell’ennesimo rifiuto.

 

*

 

Note:

Sono tornata. Con una storia che sto scrivendo da un po’ . Qualcosa che inciampa nella fantascienza. Che si ritaglia un angolino di AU che volevo esplorare da tempo. Non indugio nelle spiegazioni, la storia parla da sé, spero. Ringrazio, come sempre (ormai chi mi legge da un po’ lo sa a memoria), la beta e socia Sere. E chiunque si sia fermato a leggere, incuriosito o meno.

Alla prossima.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2

 

La linea che separa i sogni dagli incubi è sottile come un ago e ben presto le ombre del passato tornarono a presentare il conto.

(Carlos Ruiz Zafón)

 

*

 

L’immagine era disturbata.

Un clown, che gli sorrideva dietro lo schermo. Le labbra si muovevano silenziose nel disperato tentativo di comunicargli qualcosa.

Vedeva se stesso, proiettato fuori dal suo stesso corpo, allungare una mano sullo schermo del tubolare robotico, a cercare un contatto diretto con lo sconosciuto.

L’espressione, dietro il cerone, aveva perso quell’aria di sfida, a tratti divertita, come messo a parte di un segreto che conosceva solo lui. Le labbra pronunciavano frenetiche formule di comunicazione, così disturbate da quel segnale.
Ne riusciva a malapena a percepire il labiale.

Un indirizzo. Era sicuro fosse un indirizzo.

Niente è come sembra.

Un tantra.

Niente è come sembra.

“Che cosa vuol dire?” si sentì pronunciare, l’espressione concentrata su quelle labbra in continuo movimento.

“Giù le mani, piccolo stronzetto!” vide se stesso voltarsi e poi venir colpito da un manrovescio emerso direttamente dalle ombre dell’incubo. Clint che diventava piccolo, minuscolo, regrediva alla sua adolescenza, alla pubertà… all’infanzia. Fino a diventare l’ombra di se stesso, fino a svanire.
Mentre il clown batteva i pugni, come a voler uscire direttamente dallo schermo piatto e disturbato.

Toc, toc, toc, faceva.

Toc, toc, toc. Ovattato.

 

Si svegliò di soprassalto al riverbero onirico del suo stesso incubo. Le mani al petto e percepire il battito accelerato del suo stesso cuore. Le mani fremevano e la sensazione che gli agitava lo stomaco – non era certo di volerlo ammettere a se stesso – era sicuro di poterla identificare con la paura.

Voltò il capo di scatto quando di nuovo quel suono, come trascinato nella sua dimensione reale, venne a tormentarlo alla porta d’ingresso.

C’era qualcuno. Lo sguardo saettò dritto verso l’orologio alla parete. Erano le sei del mattino. Aveva dormito?

Quanto aveva dormito? Non si era nemmeno reso conto di essersi addormentato, tanto per cominciare. Non era preventivato. Era pronto all’ennesima notte insonne, ad esaurire le ore notturne di fronte allo schermo del televisore.

E invece…

Si mise in piedi non senza fatica. Le membra che si trascinavano stanche dopo quel riposo non richiesto.

La mano alla pistola. Non era mai troppo prudente quando si presentavano a casa sua a quell’ora assurda, l’ultima volta era stata la polizia…

Si avvicinò allo spioncino. Aveva una telecamera decentrata, una volta, ma non l’aveva mai fatta riparare, più per pigrizia che per mancanza di soldi. Si era già beccato una sanzione niente male. Questione di sicurezza, gli avevano detto.

Avvicinò l’occhio al vetrino deformante, solo per rendersi conto che fuori non c’era nessuno.

“Mocciosi del cazzo”, smozzicò, la voce ancora rauca.

Aveva proprio bisogno di uno scherzo a quell’ora del mattino. Probabilmente erano stati i figli della vicina. La scuola stava dall’altra parte della città, il che li obbligava a una sveglia anticipata.

Fece per ritrarsi quando i suoi sensi vennero messi in allerta da un rumore direttamente dal soggiorno.

Un rumore così sottile che nessun orecchio umano avrebbe potuto sentire.

Per questo ringraziò l’impianto bionico di cui disponeva da qualche anno a quella parte: un’invenzione così geniale che, a saperlo prima, se la sarebbe procurata da solo la sordità.

Oppure no.

Scacciò il pensiero, brandendo la sua arma. Gli avrebbe fritto i nervi ancora prima di poter pronunciare la frase…

“Cazzo, Barton, metti via quell’aggeggio.”

Rimase fermo a fissare la figura flessuosa che scivolava dalla finestra del soggiorno e gli puntava addosso il suo sguardo impaziente.

“Eri tu alla porta?”

“Chi altri?”

Natasha Romanoff. Nessuno si arrampicava così agilmente su per i muri dei palazzi di New York. Giusto un ragno.

“Perché non hai aspettato che venissi ad aprire?”

“Era da cinque minuti che ci provavo.”

“Avrei potuto non essere in casa.”

“Appunto. Ti avrei aspettato in casa.”

“Non ti hanno insegnato che questa si chiama violazione di domicilio?”

“Avresti preferito sapermi fuori ad aspettarti? Che gentiluomo.”

Abbassò finalmente l’arma.

“Andiamo, lo sappiamo entrambi che non lo sono.”

La vide strizzarsi i capelli, impregnati di pioggia. Di quella pioggia sporca che non smetteva mai di cadere. Gli stivali lasciavano impronte sul parquet.

“Scusa…” gli disse, come avesse seguito la direzione del suo sguardo.

“Figurati. Non sei alla reggia di Versailles.”

La vide comunque aprire il giubbotto di pelle e sistemarlo in modo accurato su una delle sedie vuote attorno al tavolo, al centro della stanza.

“Che cosa era così urgente da spingerti a venire fin qui, disturbando il mio meritato riposo?”

Lei alzò su di lui uno sguardo perplesso e vagamente divertito.

“Credevo tu non dormissi mai.”

“Ogni tanto mi capita.”

La vide valutare la situazione, come cercando la perfetta risposta da dare.

“Ho deciso di accettare la missione.”

Clint non riuscì ad esimersi dallo sfoggiare un’espressione sorpresa. Un po’ accartocciata dal brusco risveglio.

“Bene…” le rispose, un po’ preso alla sprovvista. “Questo mi eviterà di prendere contatti con Fury.”

Le sorrise:  “Di' la verità: hai sbirciato il file.”

“Anche se lo avessi fatto, non avrai mai la soddisfazione di saperlo.”

Clint sorrise, riconoscendo in quelle parole la Natasha che preferiva. Se da una parte sapeva perfettamente quanto le missioni insieme fossero un’assoluta pigna in culo, per eccesso di pignoleria e litigi a non finire, lavorare con lei era sempre stata una garanzia.

Tranne per quell’incidente di tre anni prima a cui ancora pensava, ma non abbastanza per farsela prendere male quanto lei.

Batté le mani su una gamba.

“Il fatto che tu abbia preferito venire di persona invece di chiamarmi significa che hai intenzione di lavorarci… subito?”

Natasha per tutta risposta spinse verso di lui la borsa che aveva portato con sé.

“Significa che mi trasferisco qui.”

“Qui?”

“Preferisco il tuo appartamento.”

“E’ una fogna… e poi non sono sicuro di avere tutti gli aggeggi che hai a casa tua.”

“Avrò solo bisogno di una presa di corrente e di una wi-fi.”

“Non c’è wi-fi qui…”

“Ce ne sono almeno venti. Ne violerò una.”

Clint si passò una mano sul viso, rassegnato. Sembrava aver già tutte le risposte pronte.

“Dovrai dormire sul divano.”

Lei gli lanciò uno sguardo che tanto gridava qualcosa come: ma mi stai prendendo per il culo?

“E non ho quella robaccia che chiami tè, in dispensa…”

La vide chinarsi e tirar fuori quello che aveva tutta l’aria di essere un portatile.

“Dalla tenacia con cui stai sciorinando argomenti, sembrerebbe che tu abbia qualcosa da nascondere.”

Clint fece una faccia che era tutto un programma: l’unica cosa che aveva da nascondere era il pessimo disordine dell’appartamento.

“Potrei avere un’amante”, buttò lì con meno convinzione di quanto avesse preventivato.

“Le darei il tempo di uscire dall’armadio.”

“Perché dovrei tenere la mia amante nell’armadio?”

“Non le leggi mai le barzellette sui giornali di enigmistica?”

Clint scosse la testa.

“Chi ha bisogno dell’enigmistica, quando ha te?” Le disse, allontanandosi il tempo di andare a recuperare qualcosa da mettere nello stomaco. Dato che era ormai sveglio, che divenisse produttivo.

Aprì lo sportello della credenza trovandolo vuoto in modo a dir poco desolante. Non ricordò affatto quando fosse stata l’ultima volta che era andato a fare una spesa degna di questo nome.

Ispezionò anche il secondo e poi il terzo sportello. Al quarto tentativo e alla tragica constatazione del fatto di aver esaurito anche il sacro caffè, si arrese.

“Ti va una colazione fuori?”

“Fuori?”

“Offro io. Lavoro meglio a stomaco pieno. E scommetto anche tu.”

Natasha non sembrò aver niente da obiettare.

 

*

 

“Sembra che abbiano aperto le gabbie ultimamente…”

Seguendo con lo sguardo l’abbagliante di una sirena della polizia, fuori dalla grossa finestra del diner, Clint quasi rovesciò la tazza di caffè. Natasha la bloccò al suo posto, prima che franasse sul tavolo con esiti ustionanti per le sue mani.

“Grazie…” disse solo, asciugandosi dagli schizzi direttamente sulla giacca. Le rivolse uno sguardo di gratitudine che probabilmente nemmeno ebbe il tempo di registrare, presa com’era ad analizzare file sul portatile.

La osservò abbastanza a lungo da trovarsi a pensare quanto, in fondo, gli fosse mancato lavorare con lei. Sebbene continuasse senz’ombra di dubbio a prediligere il lavoro solitario che l'aveva sempre contraddistinto. Fury gliel’aveva affibbiata fin dai primi giorni in cui aveva iniziato a lavorare per l’organizzazione e da quel giorno erano stati più o meno inseparabili, prima della tragedia di New York.

Tragedia. Il termine a volte appariva nebuloso. Spesso e volentieri necessitava una rinfrescata. Non fosse stato per gli articoli dell’epoca probabilmente avrebbe faticato a credere fosse successo veramente. Colpa dell’incidente che l’aveva reso di nuovo sordo e…

“Vuoi una fotografia?” fu la voce di Natasha a distrarlo da quella serie di pensieri su cui spesso si perdeva. Nella vana speranza di ricordare. E ricordare…

“Di cosa?” domandò preso in contropiede, portandosi alle labbra il caffè già tiepido. Ben lontano da come piaceva a lui. Bollente e amaro.

Natasha gli lanciò uno sguardo eloquente e lui sorrise.

“Lo sai che adoro quella tua espressione concentrata.”

“Invece di dire stronzate potresti darmi una mano.”

“A fare cosa? Sei tu l’esperta con quell’aggeggio. Io sono più un uomo… d’azione.”

“La solita scusa per non fare un cazzo”, lo apostrofò senza riserbo, “comunque ho trovato qualcosa: il tizio che cercano non è altri che un contatto. Un mediatore per le attività illecite del traffico di quella nuova… droga.”

“La pillolina gialla? Ne ho sentito parlare”, le confermò, “a quanto pare è una vera bomba.”

“Gli effetti della Canary agiscono direttamente sul sistema nervoso centrale. Non è una semplice droga, sembra essere in grado di espandere le percezioni…”

“Tutte stronzate.”

“Stronzate o meno… lo SHIELD vuole quell’uomo. E quell’uomo gli porteremo.”

“Nome?”

“Aaron Kline, venticinque anni”, girò il computer affinché potesse vedere da sé, “dentro e fuori di galera, un pesce piccolo.”

“Un lavoro facile. Lo SHIELD stavolta ci ha davvero sottovalutato.” Non poté far altro che constatare, con una punta d’amarezza.

“O forse semplicemente non è rimasto più nessuno.”

Rialzò su di lei uno sguardo consapevole e sebbene restio a concordare apertamente con quell’analisi, non poté fare altro che ritrovarsi d’accordo con lei.

Non erano rimasti molti agenti. I pochi fedeli a Fury, dopo New York, decimati dal carcere, dalla fame, dagli incidenti sul campo.

“O forse al governo non interessa più la manodopera dello SHIELD.”

Neppure Natasha se la sentì di contraddirlo. Sapevano entrambi quanto facessero comodo con l’aumento coatto di criminalità nelle strade. I lavori sporchi, erano diventati il loro pane. Una volta si occupavano di sicurezza nazionale, ora raccattavano dalle strade la feccia per dimostrare che ancora potevano essere utili alla società.

“Fury sta solo cercando di sopravvivere.”

“Fury è un idealista. Ancora non ha capito che la sua organizzazione è destinata a estinguersi.”

“E tu lo segui... come tutti noi”, gli puntò addosso quello sguardo eloquente che però non evitò.

“Già. Ma sono abbastanza realista da volare basso per evitare lo schianto quando tutto questo sarà finito.”

“E sentiamo: quale sarebbe questo tuo geniale piano di conservazione?” chiuse il portatile, sporgendosi verso di lui, segno evidente di quanto il lavoro, per quel giorno, fosse concluso.

“Potrei aver messo via una cifra sufficiente per sparire quando tutto degenererà.” I gomiti sul tavolo a protendersi a sua volta, come a dar forza alla sua affermazione.

“Perché non lo fai subito e ti togli il pensiero?”

“Potrebbe piacermi il pericolo.”

“Troveresti pane per i tuoi denti tornando a fare il free-lancer.”

“Fa sempre comodo un’entrata fissa, a fine mese, sai. Gli affitti sono alle stelle.”

“Una corrente di pensiero piuttosto singolare, per chi ha appena detto di amare… il pericolo.”

“Forse sono bipolare…” le sorrise, ma lei non fece altrettanto.

“O forse tieni a Fury”, la scoccata finale, “e credi nello SHIELD. Nonostante tutto.”

Bingo.

Fu solo un miracolo non pronunciarlo ad alta voce. Forse perché sotto sotto, ancora, cercava di negarlo, persino a se stesso. Sulla parte riguardante Fury, non certo lo SHIELD.

Fury lo aveva salvato da un misero destino, dandogli un lavoro, credendo in lui. Avrebbe finito per restarci secco, morto ammazzato nei sobborghi come il più misero dei disgraziati, se avesse continuato per quella strada. Natasha amava chiamarlo free-lancer, ma non era esattamente così che lui stesso si sarebbe… definito.

Si ritirò sconfitto, tornando ad accomodarsi sulla morbida panca del diner a scrutarla in modo strano.

“Ho come la sensazione che questa conversazione abbia già avuto luogo… una volta.”

“Tu dici?”

“Dico. E che le parti fossero invertite.”

“Forse ricordi male.”

“Non giocare a questo gioco con me, Natasha. Tirare in ballo le mie amnesie non sempre funziona.”

La vide sorridere appena e rilasciare un sospiro probabilmente non preventivato, perché distolse lo sguardo, andando a cercare qualcosa di invisibile, fuori dalla finestra.

“Penso che dovremmo andare. Ci siamo attardati abbastanza con la scusa di una colazione.”

Clint si rimise in piedi, lasciando una banconota sul tavolo.

“Che cosa fai?” protestò immediatamente la ragazza, mettendo mano lei stessa al portafoglio.

“Non ti preoccupare, lascio pagare a te la cena.”

La vide scuotere la testa e sistemare il computer nella sua custodia, con cura maniacale. Lo avvolse nel panno impermeabile per ripararlo dalle intemperie moleste e in un attimo furono ancora fuori.

Di nuovo il suono di una sirena.

Di nuovo la sensazione che quella città non fosse più come quella di una volta.

“Cazzo”, disse quando, dall’altra parte del marciapiede, gli sembrò di individuare un altro di quegli sbirri robotici, i ciclopici tubolari di ferro.

“Cosa?” indagò Natasha, entrando istintivamente in allerta.

“Quel coso. Mi ha già fermato ieri.”

“Ce ne sono in giro a centinaia, come fai a sapere che è lo stesso di ieri?”

Clint si strinse nelle spalle e alzò il cappuccio della giacca sulla testa. Con la scusa di doversi riparare dalla pioggia.

“Non lo so. Me lo sento.”

“Da quanto in qua hai dei poteri?”

“Ha insistito per mostrarmi la foto di un sospetto. Un tizio vestito da clown. Una faccia brutta. Non ho voglia di rispondere ad altre domande.”

“Un tizio vestito da clown?”

“Non… vestito vestito. Aveva la faccia scombinata. Con un cerone assurdo. Da clown. Non credo di averlo mai visto.”

Natasha rimase a fissarlo più a lungo di quanto fosse necessario e lo costrinse a guardarla.

“Ti dice qualcosa?” il sospetto che forse conoscesse il criminale in questione ora divenne persistente.

“No”, la secca risposta arrivò l’istante successivo. Natasha e la sua leggendaria poker face.

Improvvisamente fu certo che gli avesse appena mentito.

 

*

 

Natasha fece passare la mano sul pannello. Arrivò, rapida e attesa, la scarica elettrica del riconoscimento epidermico.

La porta, nascosta da una catasta di legna si aprì, rivelando un lungo corridoio dall’aria decadente.

Odiava quel posto. Come odiava quella zona estrema della città. Non ci andava spesso. A dire il vero non ci andava mai, se non costretta da qualche appello più o meno patetico o necessità fisiche di una riparazione.

Attese che la porta le si richiudesse alle spalle e prese a percorrere il corridoio scarsamente illuminato. Le infiltrazioni si erano fatte aggressive. Pozze d’acqua sparse ovunque e pareti marcescenti e piene di muffa. Un posto decisamente poco salubre.

Ma a qualcuno poco importava. Un po’ per necessità un po’ per scarsità di mezzi.

Sentì il rumore della saldatrice ancora prima di accedere alla stanza alla fine del corridoio.

Un uomo, vestito solo con un grosso grembiule color militare e una maschera rossa stava apportando delle modifiche a quello che aveva tutta l’aria di essere uno dei robot sentinella in giro per le strade.

Si avvicinò senza darsi la pena di avvisarlo della sua presenza.

Aveva le braccia sporche d’olio. L’odore di residui di metallo incandescente e circuiti bruciati, risultava piuttosto nauseabondo nel complesso, ma non si fermò certo davanti ad un ostacolo tanto insignificante.

Quando gli fu abbastanza vicino fu lui a rendersi conto di non essere più solo. Rialzò la testa, per quanto la maschera gli concedesse un movimento naturale, e spense la fiamma ossidrica.

“Romanoff!” esclamò posando il gli strumenti da lavoro, “qual buon vento? Bisogno di qualche ritocchino? Oggi sul piatto abbiamo importanti novi...”

Nemmeno il tempo di terminare la frase che la donna lo afferrò per la gola, sollevandolo di qualche centimetro dal suolo. Lo vide agitare le gambe e dimenarsi giusto il tempo di restare senza fiato, mentre un sibilo disarticolato arrivava da dietro la maschera ancora abbassata.

“S-sono a-anche io felice di v-vederti!” ebbe però ugualmente la forza di ribattere, sfagiolando quella sua boria da due soldi che a malapena tollerava.

Lo rimise a terra, non senza togliersi la soddisfazione di spiaccicarlo alla parete retrostante, ben lontana dal decidersi a lasciarlo veramente andare.

“Che cazzo ti sei messo in testa?” lo accusò, fissandolo negli occhi dietro il vetro della maschera.

“I-in testa? N-niente, solo la maschera da saldatore, una cosetta che avevo nell’armad-”

Lo scrollò di nuovo, rimandandolo a sbattere.

“Con Barton”, specificò, “voglio credere che tu sia abbastanza sveglio da capire esattamente a cosa mi riferisco.”

“Sempre d-detto che sei un’ottimista.”

“Posso stringere di più. Lo sai.”

Lo vide sgranare gli occhi mentre il collo diveniva paonazzo per lo sforzo di deglutire.

“O-okay, okay… ho capito…”

Natasha allentò la presa, rilasciando le dita. Abbassando il braccio che fece un singolare rumore metallico.

Si massaggiò la spalla per un istante, prima di arretrare e mettersi a sedere su uno degli sgabelli alti, attorno al bancone da lavoro.

“Parla.” Lo intimò nuovamente, senza levargli gli occhi di dosso.

Lo vide fare un passo lontano dalla parete, reggendosi ad un angolo del bancone con una mano, riprendendo fiato.

“Penso sia giunto il momento di sbloccare la situazione, Romanoff…”

“Sono passati tre anni, avevi detto te ne sarebbero serviti molti di più.”

“Oh, lo sai come sono fatto, amo stupire persino me stesso.”

Natasha gli scoccò uno sguardo ambiguo.

“Sono pronti. Siamo pronti, e lo sai anche tu.”

“Io non so un cazzo”, gli rispose, con aria ostica, “e non vedo perché usare quel tuo robot da strapazzo per arrivare a Barton.”

“Oh, te ne ha parlato? E tu che cosa gli hai detto?”

“Niente. Che cazzo avrei dovuto dirgli? Mi avevi obbligato a promettere che non avrei forzato la mano, che avrebbe potuto essere pericoloso, letale!”

“Ed effettivamente è quello che ancora è: pericoloso, letale… ma credevo che avresti potuto dargli qualche indizio per camminare nella giusta direzione. Non dirmi che in tre anni non ti sei fatta sfuggire proprio niente…” il tono che l’uomo usò le provocò un brusco dolore al petto che si riverberò, per riflesso, al braccio malmesso.

“Io e Barton in tre anni ci siamo a malapena rivolti la parola”, le sfuggì senza che lo avesse veramente preventivato. Non era solita raccontare i fatti suoi, a maggior ragione a un uomo del genere, nascosto dietro una maschera da saldatore.

“Oh”, un solo vagito che ebbe il potere di mandarla su tutte le furie, “mi dispiace. Non deve essere stato… facile.”

“Non siamo qui per parlare dei miei sentimenti feriti, ma di quello che hai intenzione di fare. E del perché non hai sentito la necessità di rendermene partecipe.”

“Bè, tecnicamente avevo intenzione di avvisarti… materialmente non ne ho avuto il modo. Sai, non è che mi sia proprio consentito uscire alla luce del sole.”

“Se tiri fuori ancora un’altra scusa…” lo minacciò rimettendosi in piedi.

“Non era una scusa! Volevo testare la faccenda. Avevo bisogno di capire come muovermi. La situazione è delicata, lo s-sai. Avevo bisogno di capire come avrebbe reagito. E se avesse dato dei segni di…”

“Per il momento hai solo ottenuto di fargli odiare a morte gli sbirri robotici in giro per la periferia.”

“Credevo già li odiasse.”

“Sì, bè, ora li evita platealmente.”

“Questo non ci voleva…” lo sentì mugugnare qualcosa di inconsistente, portandosi una mano sul fianco, “bè, troverò un altro modo per… bè lo sai per fare cosa…”

La donna fece una smorfia rimettendosi in piedi, non del tutto certa di aver assimilato in modo positivo quella rivelazione. Un principio d’ansia non richiesto aveva preso a stringerle lo stomaco, ed era certa non se ne sarebbe andato per un bel pezzo. Probabilmente fino a che quella storia non si fosse risolta.

“Potrei arrivare a lui tramite altri dispositivi. Hai per caso accesso a uno dei suoi computer?”

“Adesso sì.”

“Così mi piaci, bambina.”

“Non chiamarmi bambina, o la prossima volta la testa te la ritrovi a terra, accanto ai piedi.”

La minaccia stavolta sembrò sortire l’effetto desiderato perché lo vide zittirsi.

“Un’altra cosa…” gli disse, riallacciandosi il giubbotto, “quella porcata del clown…”

Scosse la testa come a fargli capire che no, non avrebbe più dovuto utilizzarla.

“Non vedo in che altro modo potrei fare per riattivare il processo, senza stimoli emotivi di una certa sostanza…”

“Non quel ricordo.”

Un sospirone, dietro la maschera.

“D’accordo… ma dovremo trovare qualcosa di altrettanto efficace. La stimolazione mentale funziona solo grazie alla combinazione di-”

“Ci penso io.”

Lo zittì di nuovo. Se ne rallegrò per un misero istante. Ogni tanto una soddisfazione.

“Ci pensi tu?” le rispose, con aria perplessa. Forse preoccupata. Se c’era una cosa che odiava più di ogni altra cosa era essere compatita.

Annuì, una sola volta. Definitiva. E improvvisamente riuscì a dare un nome a quell’ansia che le serrava il petto in una morsa dolorosa.

Aveva paura. Una paura ricca di aspettativa e frustrazione. Durata tre anni.

Non attese un congedo ufficiale, tirò su il cappuccio della felpa grigia che indossava e si preparò a uscire.

“Romanoff…” si sentì però richiamare, ormai sulla porta, “non vuoi che dia un’occhiata a quel braccio? Sono sicuro di aver sentito un calo di tensione…”

Si fermò giusto il tempo di voltarsi e scoccargli un’occhiata ostica.

Per poi ammorbidirsi, risvegliata dal ricordo della scossa di dolore provata solo un attimo prima.

Dopotutto aveva fatto tutta quella strada per raggiungerlo. E non era sicura, adesso, di aver voglia di rientrare immediatamente.

“A patto che ti levi quella ridicola maschera dalla faccia.” Gli rispose, tornando sui suoi passi.

L’uomo fece come gli era stato tanto carinamente chiesto.

Il volto per metà ustionato fu il primo vero spiraglio di lui che riuscì a riconoscere.

 

*

 

Note:

In questo periodo ho sempre sonno, per cui anche le note a fine capitolo saranno assonnate.

Che razza di incubi fa Barton? Chi è il misterioso individuo con cui Natasha è andata a parlare? Che cavolo di lavoro devono svolgere assieme? Domande che qui… non hanno risposta. Ma sicuro più avanti sì. Perciò se volete sapere che succede… vi rimando a qualche capitolo successivo. Un ringraziamento alla mia socia e beta e a chi si è fermato a darmi un parere. Anche a chi legge e basta, ovviamente. Torno a dormire. Alla prossima!

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO 3

 

“Su verso il cielo, donde, in forma vaga, totalmente mutata eppure sempre la stessa, discendendo a lavare le aridità, i detriti, gli strati di polvere del mondo.”

(La Voce della Pioggia - Walt Whitman)

 

*

 

La musica psichedelica non gli era mai piaciuta.

Nemmeno quando era un ragazzetto dall’aria poco raccomandabile. Non che adesso brillasse della luce di uno su cui fare affidamento, ma probabilmente era anche colpa dell’ipersensibilità di quel timpano ricostruito. Avrebbe potuto spegnere ogni ricezione. Già, poi però sarebbe stato un problema seguire le direttive di Natasha che lo stava precedendo con l’aria di chi il locale lo conosceva bene.

Non si era nemmeno fatto per bene la barba ed era sicuro che, in ambienti simili, una barba poco curata fosse mal vista.

Il buttafuori non era stato gentile sull'accesso quanto lo era stato con Natasha: lo aveva perquisito. A lui (a lei erano bastati un paio di occhi dolci. Dolci e Natasha, un ossimoro appianato solo dalla sua straordinaria capacità camaleontica). Vaglielo a spiegare che se il metal detector aveva suonato era per via di quella protesi che aveva nel cranio. Ogni santa volta era costretto a sbandierare il suo giustificativo medico; nemmeno dovesse scatenare la compassione di qualche ragazza eccitabile.

Dicevamo della barba…

A giudicare dalle occhiate tutt’altro che ostiche di quel branco di ragazzine accatastate in un angolo del salone, probabilmente era rimasto fuori dal giro per troppo tempo e le mode… dovevano essere cambiate. La sua barba non sembrava essere un problema.

“Ehi, prendi qualcosa?” una voce alle sue spalle, lo fece voltare di scatto. E si trovò ad osservare un paio di occhi blu, impreziositi da trucco pesante, che lo osservavano da un metro e cinquanta d’altezza, più tacco dodici.

“Quanti anni hai ragazzina?” la domanda nacque talmente spontanea che si guadagnò la giusta risposta: la vide voltargli le spalle in un indignato svolazzo di biondi capelli.

E una gomitata diretta nel fianco.

Natasha.

“Che stai facendo?”

“Le davo una raddrizzata. Avrà avuto quindici anni!” protestò massaggiandosi il fianco.

“Non puoi venire qui e fare la paternale alle clienti. Salta la copertura.”

“Bè, forse non mi piace granché questa copertura.”
“Non fare il coglione. Stammi vicino e stai zitto”, lo mise in riga, piazzandogli in mano quella che aveva tutta l’aria di essere un bicchiere di vodka, liscia.

“Non voglio bere.”

“Clint.” L’occhiata che gli rivolse lo incoraggiò, se non altro, a far finta di aver apprezzato la premura.

“Dove siamo diretti?”

“Mi sembra di aver visto un paio di uomini chiacchierare vicino alle porte che danno sul retro del locale.”

“Le due bocce da bowling?”

“Sì, i due calvi in divisa.”

“Mi chiedo che fine abbiano fatto i buttafuori robotici. In questi ambienti credevo fossero all’ordine del giorno.”

Natasha si portò su un lato della sala, afferrandolo per un lembo della giacca per portarselo vicino.

“Non se il locale è gestito da criminali locali. Lo sai che i robot sono controllati dal computer centrale governativo”, lo guardò dritto in viso, costringendolo ad abbassarsi alla sua altezza.

“Meno hanno a che fare con gli sbirri meglio stanno. Un po’ come me”, le sorrise, prima di rendersi conto di esserle un po’ troppo vicino: “che stiamo facendo?” le sussurrò a un centimetro dal viso.

“Bowling numero uno ci stava fissando.” Natasha aveva lo sguardo previdentemente puntato alle sue spalle, a monitorare la situazione, protetta dalla sua presenza.

“Probabilmente guardava solo te…”

“Versami addosso la vodka.”

“Come?”

“Ho detto di versarmi addosso la vodka, muoviti!” sibilò sbrigativa.

“Ma…” si sentì strattonare e non dovette sforzarsi poi più troppo di fare quello che gli era stato chiesto.

Natasha produsse uno strilletto acuto.

“Ma guarda che hai fatto!” esclamò, allontanandolo con uno spintone. Cominciò a tamponarsi alla bell’è meglio quel disastro che ora rendeva trasparente la maglia, proprio all’altezza del seno.

Clint dovette rendersi conto, non senza una punta di consapevolezza, che portava un reggiseno a balconcino nero.

“Non mi seguire.” Lo ammonì, affatto velatamente, con lo sguardo in tempesta di chi sembra avercela davvero con lui.

La vide guadagnarsi l’attenzione dell’uomo bowling e dirigersi esattamente nella sua direzione.

“Ma che hai in mente di fare?” si trovò a mormorare, mentre la seguiva con lo sguardo, preoccupandosi di fingersi quantomeno in imbarazzo per l’incidente appena avvenuto.

La vide chiacchierare con l’uomo bowling e poté cogliere stralci di conversazione solo leggendone il labiale.

“Oh, cercavo solo i bagni… un disastro. Mi hanno rovesciato addosso della vodka, puzzerò di alcool tutta la sera.”

“I bagni non sono da questa parte…”

“Davvero? E dove posso trovarli?”

A giudicare dal modo in cui rideva, Natasha stava pretendendo di essere ubriaca, o qualcosa del genere, ostentando con maestria quel suo prominente décolleté.

Quando la vide allontanarsi con il pelato, Clint comprese cosa stava facendo.

“Fuori uno…” sorrise tra sé e sé e capì che la prossima volta stava a lui. Fece per muoversi in quella direzione, quando si sentì picchiettare su una spalla.

“Ehi, tu…” Si fosse voltato e avesse incrociato di nuovo lo sguardo di un’adolescente in calore…

Ma tutto ciò con cui andò a scontrarsi fu il pettorale lanoso di un pezzo d’uomo sul metro e novanta. Il trucco pesante ce l’aveva anche lui.

“Ehi…” rispose vagamente in difficoltà.

“Te lo fai un goccetto?”

“Ahm, non credo che sia un buona idea…”

“Che c’è, non ti piaccio?”

“No… non è questo, è che… di solito preferisco le bionde.”

Lo vide stronfiare qualcosa sul fatto che non sapeva cosa si stava perdendo (anche se a guardargli il cavallo dei pantaloni attillati color lavanda, lo sapeva eccome, e ne fu, per un lugubre istante, atterrito), e lo guardò andarsene sui tacchi.

“Ancora ti piacciono le bionde?” un’altra voce, alle sue spalle.

Quella doveva essere la giornata nazionale del rompimento di coglioni. Ma quando si girò, stavolta, fu ancora più sorpreso che vedere un’adolescente precoce, un trans dall’aria più femminea di Natasha o un alieno con la faccia rosa.

“B-Bobbi?”

La sua ex-moglie. Con tanto di tubino strizzato e acconciatura sofisticata gli stava di fronte, sfoggiando il suo miglior sorriso.

“Che cazzo ci fai qui?”

“Potrei farti la stessa domanda.”

Si fece da parte, sentendo improvvisa l’urgenza di non essere visto o sentito. Se c’era una cosa che aveva imparato negli anni, era che ci poteva voler davvero una misera scintilla per far scattare entrambi. Non gli sembrava il caso di scatenarla lì, in mezzo a una pista da ballo di un localaccio di periferia.

“Non credevo che la fine del nostro matrimonio ti avesse spinto ad esplorare l’altra sponda.”

“Molto divertente. Ti ripeto la domanda: che cosa ci fai qui?”

“Se non altro stavolta hai avuto il buon gusto di non essere volgare.”

Clint sbuffò innervosito. Ma perché tutte le donne con cui aveva a che fare si sentivano obbligate a usare quel tipo di orribile sarcasmo?

“Non farmelo ripetere di nuovo.”

“Potrei essere qui per un po’ di sano divertimento.”

“Non ti conoscessi così bene…”

Bobbi gli rivolse uno sguardo che non fece che confermare l’unico sospetto plausibile: era lì per lavoro.

Uno dei tanti. Una volta lavoravano insieme per lo SHIELD, adesso era stata riqualificata in qualche altro ufficio governativo. Di fatto una tirapiedi dello stato. Come se non avesse già sufficienti motivi per odiarla. Bè, non proprio odiarla, ma detestarla cordialmente però sì.

“E’ per la questione della Canary?” sussurrò, guardandola dritta negli occhi, come potesse capire da un cenno sbagliato se gli stava mentendo.

La vide annuire e soffocò un’imprecazione.

“Se ne sta occupando lo SHIELD.” Smozzicò a fatica, non senza una punta di… cordiale risentimento.

“Non so che dire. Sono stata ingaggiata due giorni fa.”

“Ed io ci lavoro da una settimana. Questo non ha senso!”

“Ne ha se pensi che il governo forse non è del tutto sicuro che Fury sia in grado di gestire la faccenda.”

“E allora perché gliel’avrebbe affidata?”

Barbara si strinse nelle spalle.

“Magari è solo un test definitivo per capire che farsene di voi…”

Clint sentì qualcosa di veramente sgradevole risalirgli su dallo stomaco. Quei parrucconi statali stavano cercando di fotterli definitivamente? Un test. Un test per capire cosa, esattamente? Che Fury doveva appendere al chiodo il distintivo?

“Siamo perfettamente in grado di gestire la cosa.”

“Non lo metto in dubbio…” e stavolta sembrò sincera, “mi spiace solo veder sprecato un talento come il tuo per seguire gli ideali di un uomo… finito.”

“Fury non è finito.”

“Questo è quello che pensi tu.”

Se avesse potuto gridarle in faccia tutto quello che Fury aveva fatto anche per lei. Invece si limitò a fissarla e serrare i pugni, piuttosto tentato di scagliarne uno contro il muro e riversare su uno stupido oggetto inanimato la sua frustrazione. La cosa peggiore fu realizzare, di punto in bianco, quando fossero veritiere le parole di Natasha: teneva a Fury, quando teneva a quello che restava dello SHIELD. E crebbe improvvisamente in lui la consapevolezza che avrebbe lottato con le unghie e con i denti per preservare quello che ne restava.

“Dovresti unirti a noi, Clint”, Bobbi lo strappò ai suoi ragionamenti, scucendogli un’espressione confusa, “sono sicura che ci sarebbe posto per uno come te. Potrei metterci una buona parola,  io…”

“Nemmeno per l’onore di mia madre.” Rispose prontamente, senza doverci nemmeno pensare.

L’ex moglie scosse la testa, delusa da quella sua presa di posizione.

Si chiese come avesse potuto cambiare tanto. Una volta erano animati dallo stesso spirito, gli stessi identici ideali. Un’affinità che li aveva legati per cinque anni, e che lentamente, inesorabilmente si era esaurita, intaccata dalla corrosione del sistema; i binari si erano inevitabilmente separati, due linee destinate a non incrociarsi più.

“Spero di non essere presente, in giorno in cui ti vedrò cadere a pezzi.” Gli disse, con aria sprezzante, ma che, da qualche parte, nascondeva un po’ di quella compassione o forse quell’affetto che nonostante tutto, da qualche parte, ancora doveva provare per lui.

“Non sarebbe la prima volta che mi lasci quando finisco in pezzi.” Alluse e capì di aver colpito nel segno.

Quella ruga fra le sopracciglia ancora sapeva riconoscerla. Quante volte le aveva letto dentro, solo scorgendo quel piccolo difetto d’espressione?

Per un misero istante si sentì di trionfare a quella temporanea vittoria, ma solo per un istante, perché in quella ruga ci ritrovò anche tutto il dolore che le aveva provocato. E seppe di doversi prendere la sua parte di colpe in quell’intricato gioco di sentimenti.

“Devo tornare a lavoro.” Gli disse.

“Bobbi…”

“Cerca di non fare stronzate.”

“Anche tu”, si arrese al fatto che non avrebbe potuto farci niente per impedire al governo di mandare i suoi agenti. Ma che avrebbe potuto fare del suo meglio per essere più veloce di loro.

“In bocca al lupo, Clint”, si chinò su di lui per un congedo di quello che era solita riservagli solo per mandarlo su tutte le furie.

“Barton… ?” la voce di Natasha.

E le labbra di Bobbi che deviavano dall’obiettivo per andare a catturare le sue, di labbra, in un bacio che non si era atteso, ma che lo lasciò senza fiato per un istante che sembrò durare troppo a lungo.

Quando Bobbi si scostò per andarsene, lasciando solo la scia di un profumo che non le riconosceva, fu lo sguardo penetrante di una Natasha Romanoff che aveva assistito alla scena ad agganciarglisi addosso.

Non seppe dire perché ma quasi immaginò che Bobbi lo avesse fatto apposta.

“Ma che sta succedendo?” la Vedova Nera lo aveva riavvicinato. La camicetta era appena slacciata, ancora umida, ma non abbastanza da lasciar ancora intravedere quel suo reggiseno a balconcino.

Clint ebbe appena il tempo di passarsi il dorso della mano sulle labbra, inspiegabilmente a disagio, seguendo la figura della sua ex moglie che si allontanava.
“Il governo sta tentando di fottere lo SHIELD.”

“Buffo, a me sembrava fosse la tua ex che tentava di fottere te”, lo provocò per un istante, prima di farsi seria di nuovo, “dimmi che è successo.”

“E’ il caso che ci leviamo dalle palle, Nat…”

La donna non si fece ripetere il suggerimento una seconda volta.

La cosa bella, fra loro due, era il non aver bisogno di grandi spiegazioni per capirsi.

Lasciandosi quella tremenda musica psichedelica e luci stroboscopiche alle spalle, si fecero largo fra la lussuriosa fauna per uscire dal locale, lontano da occhi che ormai si erano fatti un po’ troppo indiscreti.

 

*

 

Coulson aveva l’aria di qualcuno in procinto di vomitare, poche le volte che lo avevano visto in quelle condizioni: di solito la faceva da padrone quell’aria placida da illuminato che ha raggiunto il Nirvana.

La notizia dell’intromissione del governo non arrivava del tutto inaspettata, ma il modo plateale con cui avevano deciso di affrontare la questione gli fece, per dirla con un eufemismo, girare i coglioni. E per l’appunto, quando a Coulson giravano i coglioni usciva fuori quell’espressione lì. In bilico fra il mal di pancia e la nausea. Vinto dal conflitto interiore del placido sistema con cui di regola affrontava la vita e la violenza perpetrata, pronta alla deflagrazione, data da anni di repressione.

“E a Fury io che cosa dovrei dire?” una domanda che riuscì, per la prima volta, dopo anni di onorato servizio, a mettere Clint in difficoltà.

“Io… non saprei. Quello che ti ho appena detto io?”

“Certo, la fai facile tu.”

“Se vuoi vengo con te e gliene parliamo ins-”

Coulson alzò solo una mano per zittirlo. Guardò la pioggia che aveva ripreso a cadere fuori dal finestrino dell’auto, parcheggiata in una isolata via della periferia.

“Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato, prima o poi.”
Clint si trovò ad osservarlo ancora una volta con stupore. Non era da Coulson parlare a quella maniera, non usare quel tono afflitto, sconfitto.

“Avete ingaggiato i migliori, Phil… il governo non arriverà certo prima di noi.”

“Magari non questa volta. Ma la prossima volta che succederà? Quando riusciranno a dimostrare quanto siamo superflui, smetteranno di affidarci qualsiasi tipo di lavoro.”

“Ma che stai dicendo?”

“Sto dicendo che dovremo cominciare a vedere come atterrare senza uno schianto, Barton.”

“Non è il Coulson che conosco, quello che sta parlando…” e in quella frase tutta l’essenza di quello che pensava dell’uomo.

Fury e Phil Coulson, con Maria Hill erano, da sempre, stati il cuore dell’organizzazione. Anima e corpo per una causa che avevano fatta loro il giorno stesso in cui avevano preso servizio. Sacrificando ben più di quanto richiesto.

Il giorno in cui la favola sembrava finita avevano recuperato i resti dalle macerie ed erano risorti come l’araba fenice, riprogettando, reinventandosi, navigando ben sotto la superficie, nascosti sotto strati di melma, ma sempre ben pronti a non lasciarsi affondare del tutto.

Sapeva cosa significava per Coulson quella vita. Sapeva che per Coulson, quella era l’unica vita… e sentirlo parlare in quella maniera, gli faceva crescere dentro in infinito sconforto.

In barba a quel discorso con cui aveva esordito con Natasha, meno di una settimana prima.

Lo vide mettere mano alle chiavi della macchina e capì che considerava concluso il colloquio.

“Riferirò a Fury quello che mi hai detto”, disse, mitigando con uno stentato sorriso la sua preoccupazione, “tu e la Romanoff cercate di portare a termine il vostro lavoro.”

Clint emise un profondo sospiro e annuì. Non lo avrebbe deluso.

“Hai bisogno di un passaggio a casa?” gli domandò però, prima di congedarlo, più per cortesia, probabilmente.

“No, grazie, mi farà bene camminare un po’.” Aprì la portiera della macchina, lasciandosi inghiottire dall’oscurità della notte, frustato dalla pioggia scura. Aggirò la macchina per salire sul marciapiede e vide Coulson sporgersi dal finestrino con un gomito.

“Sei un tipo strano Clint Barton”, gli disse solo, elargendogli ora un sorriso sincero.

“E’ per questo che ti piaccio.” Gli fece un cenno con la mano, mentre il rombo del motore contribuiva al saluto serale dell’agente.

Seguì la macchina con lo sguardo, la visuale ammiccante fra un lampione e un altro, finché non fu sparita e infilandosi le mani nelle tasche del parka, riprese a camminare dalla parte opposta.

Lo SHIELD, Nick Fury. Bobbi. Una lista di pensieri che lo avrebbero tenuto impegnato per tutta la notte. Alla faccia della ritrovata narcolessia. Era durata poco comunque; avere la vedova Nera che ti dorme a meno di un muro di distanza, già di per sé da i suoi bei problemi.

Cercò di scacciare la pessima sensazione che fossero arrivati al capolinea. Di pensare in termini pratici e di attivare tutte le precauzioni che si era ripetuto nel corso di quegli ultimi tre anni, sulla svolta che avrebbe dovuto prendere la sua vita.

Certo non avrebbe potuto tornare a fare il free-lancer, come Natasha gli aveva spavaldamente suggerito.

Nonostante non fosse un pensiero molto positivo, stava invecchiando. Il piano d’emergenza sempre dietro l’angolo, nebuloso come i tragici eventi di New York, ma da prendere in considerazione. Convinto però che prima di attuarlo, avrebbe risolto degnamente i suoi servigi allo SHIELD. Fosse anche l’ultima cosa che faceva. Se quella era la conclusione, se ne sarebbero andati col botto.

E fu proprio un botto a risvegliarlo dal torpore riflessivo che lo aveva colto in quella camminata verso casa che era durata sì e no due minuti.

Dovette fermarsi per ristabilizzarsi. Il terreno sotto i suoi piedi aveva traballato in modo del tutto innaturale, un paio di allarmi di auto avevano preso a suonare insistenti.

“Ma che cazzo… ?” il fumo nero che vide elevarsi da una delle vie adiacenti lo spinse a sguainare la pistola e correre in quella direzione. Appena dietro l’angolo scorse la causa di quel rumore molesto. Alcune luci, dei palazzi circostanti si erano riaccese e qualche sporadico, pallido viso, si era affacciato alla finestra per capire cosa fosse successo.

Clint aggirò l’ostacolo, per rendersi conto che quell’ammasso di metallo fumante, non era altri che una di quelle sentinelle robotiche che monitoravano le strade della periferia.

Un corto circuito o l’opera di un vandalo, quel ciclope aveva appena battuto la sua ultima ronda.

Diede un calcetto a quello che sembrava uno degli ingranaggi sparsi dappertutto per la strada, prima di decidersi a rinfoderare la pistola. Si chinò per analizzare la faccenda, sebbene non fosse esattamente quello il suo pane. Lo schermo a cristalli liquidi era andato in frantumi e rimandava il segnale disturbato della telecamera con cui la sentinella stava riprendendo la strada per il suo rapporto serale.

“Hai ancora il coraggio di funzionare, ammasso di latta?” lo schernì, scuotendo la testa, “Siete più tenaci di quanto…” ma fu costretto a interrompersi quando su quello stesso schermo che riprendeva uno dei muri del palazzo, vide affastellarsi una serie di ombre scure. Sperò si trattasse solo di un malfunzionamento della telecamera, ma uno strillo acuto, da uno degli occasionali spettatori riecheggiò nella via, attirando la sua attenzione.

Si rimise in piedi rapidamente, per rendersi conto che il clangore metallico non era altri che prodotto da un numero insolito di sentinelle robotiche si stavano riversando per la strada con il loro carico di abbaglianti e intimidazioni.

“E adesso che cazzo vi prende?” di trovò a estrarre di nuovo la pistola, di certo non uno degli strumenti con cui più si trovava a suo agio.

“Fermi!” li esortò con il piglio di chi non sa esattamente che pesci pigliare. Si guardò alle spalle, cercando una via di fuga, senza però trovarla, rendendosi conto di essere circondato da quegli sbirri in lattina. E poi comprese, quello che gli era sfuggito fino a quel momento.

“Voi non crederete… ? Non sono stato io!” rialzò le braccia, rendendosi conto che forse era un po’ troppo tardi per una resa.

Le voci, ora  all’unisono, lo intimavano di abbassare l’arma e consegnarsi spontaneamente alla polizia.

“No… non sono stato io, cazzo! E’ esploso da solo! Sono un agente! Un agente dello SHIELD!”

Non fece nemmeno in tempo a maledirsi per quello scivolone – dire che era un agente dello SHIELD avrebbe contribuito a spingerlo verso il baratro più che a fargli da ancora di salvezza – che improvvisamente di nuovo un boato riempì l’aria.

Un'altra sentinella robotica era esplosa, letteralmente, sotto i suoi occhi adesso. E a seguire un’altra ancora. Fino a che non fu una scarica di esplosioni nemmeno si fosse trovato ad assistere a un bombardamento di guerra o a dei fuochi d’artificio particolarmente lugubri.

Si abbassò a terra, a nascondersi fra i resti della prima vittima di quell’atto vandalico collettivo, parandosi la testa, tappandosi le orecchie.

Una fitta di dolore inaudito gli trafisse il cervello e l’apparato bionico sembrò andare in tilt producendo un sibilo così acuto da stordirlo. Sentì odore di bruciato e per quanto fosse ben più che consapevole che qualcosa fosse letteralmente andato a puttane, nella sua testa, quasi ringraziò quando qualsiasi suono cessò di esistere.

Quell’ultimo pensiero andò a estinguersi in una serie di violenti conati, si trovò a terra ad osservare il cielo, mentre la pioggia sporca completava il quadro, frustandogli il volto livido.

I suoi occhi sbarrati ebbero appena il tempo di intravedere un’ombra ostruirgli la visuale del cielo oscuro sopra di sé.

Una persona, con un cappuccio in testa che rendeva visibile solo parte del suo viso: un naso, una bocca sottile.

“Oh, merda…” gli sembrò di intuire, leggendo il movimento delle sue labbra.

E poi svenne.

 

*

 

Note:

Un altro personaggio entra in gioco.

Barbara  “Bobbi” Morse, nei fumetti ex-moglie di Clint Barton (l’unica moglie che tollero, se ve lo foste chiesti), e qui… pronta a mettere i bastoni fra le ruote ai nostri protagonisti.

Clint pare essersi appena infilato, suo malgrado, in un mare di guai. Ma il mistero verrà in parte risolto nel prossimo capitolo. Per ora ringrazio i nuovi lettori e recensori (super graditissimi) e la mia beta che è un po’ presa in questo periodo e a cui dedico il capitolo, sperando di risollevarla un po’ dallo stress.
A tutti quanti: alla prossima!

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


CAPITOLO 4

 

Where did you go? Where did you run?
I can't erase what you've done.
Let's burn the past, forget the truth.

(Royal Blood – Ten Tonne Skeleton)

 

* 

 

Era un’orda. Un’orda di robot impazziti. Marciavano raccogliendo dalle strade i cadaveri delle persone che si erano riversate in strada, stordite, insanguinate, terrorizzate.

Le forze di polizia tutt’intorno in un caos senza eguali. Il palazzo dell’expo, di vetro e cemento, si era trasformato in una pira funeraria. Nel cielo, gli elicotteri che avrebbero dovuto monitorare la situazione, venivano sistematicamente abbattuti, uno dopo l’altro, dalle armi dei robot dall’aria feroce.

“Clint… dobbiamo muoverci!”

Riconobbe la voce di Natasha e per un attimo fu grato di riuscire a ricordare un dettaglio in più di quella lunga giornata che aveva rimosso.

Sentì l’angoscia montargli dentro come un fiume in piena. Le sensazioni frantumarsi come onde sulle ossa, sui nervi, a percuotere gli organi interni.

“Non possiamo lasciarlo qui!”

“Dobbiamo!”

“Non io! Tu vai! Io ti raggiungo.”

“Clint!”

“Vai!”

Il boato di una deflagrazione e una corsa a perdifiato in corridoi che ormai non erano altro che tunnel fatti di polvere e cemento, colpiti da una pioggia di calcinacci.

Il cuore batteva nel petto a un ritmo del tutto fuori tempo.

Rallentò fino a produrre un’eco distorta. Rallentò fino a quando non prese a rimbombargli nelle orecchie con un riverbero attutito e prolungato. Rallentò fino a quando anche le sue gambe non presero a muoversi con difficoltà, bloccate in un frame protratto all’infinito.

E improvvisamente, di fronte a lui, l'ennesima sentinella robotica, venuta dal buio, emersa da nebbia e fumo.

“Il protocollo mi impone di sottoporla al riconoscimento visivo di un sospetto”, disse.

“Non ho tempo, fammi passare!”

“Insisto.”

“Levati dai coglioni!”

“Insisto.”

L’ologramma gli arrivò dritto in faccia, abbagliandolo.

Stralci del viso di un clown. Il cerone, le labbra rosse, gli occhi iniettati di sangue.

Niente è come sembra.

La sua risata riecheggiò nella sua testa, come un disco rotto.

Il fumo lo avvolse nelle sue spire. Il battito del suo cuore si fermò all’improvviso.

 

Sbarrò gli occhi, svegliandosi dall’incubo, mentre un sibilo protratto si riverberò nel suo cervello procurandogli una nuova fitta di mal di testa.

Quando però si guardò attorno quasi temette di essere… morto, a giudicare dai flash di luce che, a intermittenza, gli ferivano gli occhi dall’esterno di un… finestrino?
Certo che l’inferno doveva fare proprio schifo se assomigliava all’interno di una macchina che odorava di patatine fritte e… cannabis.

Okay, forse non era poi così male.

Era dai tempi del liceo che non fumava marijuana.

Cercò di rimettersi seduto, per avere una visuale migliore di quel singolare risveglio, ma una brusca virata lo rimise a posto, facendogli urtare la portiera di fianco con la testa.

“Fermo!” una voce, da qualche parte. Di nuovo andò a sbattere per la sorpresa, dimenticando di avere scarsa possibilità di movimento.
“Hai intenzione di svenire per un trauma cranico, stavolta?” la voce gli arrivava ovattata, non seppe dire se per i danni al suo apparato uditivo o per via della scatola puzzolente in cui era rinchiuso.

La prima cosa che vide, quando i suoi occhi si abituarono alla semioscurità della (ormai appurata) vettura, fu il volto vivace di una ragazza dai lunghi capelli neri che lo stava fissando dal sedile di fronte, quello dell’autista.

“Bensvegliato!” gli sorrise, e improvvisamente riuscì ad associare le labbra e il naso vagamente all’insù alla stessa identica figura che aveva intravisto, prima di svenire, in quella strada di periferia.

“Dove sono?” articolò, prima di sbandare di nuovo, felicemente consapevole di essersi aggrappato al sedile di fronte pur di non ribaltarsi di nuovo.

“Sulla mia macchina.” Gli rispose.

“E c-che cazzo ci faccio sulla tua macchina? Chi sei?”

“Non dovresti muoverti, sai?”

“Sto bene…” si premurò di metterla al corrente, così magari avrebbe smesso di deviare l’argomento.

“Mi hai portato tu qui?” le domandò riprendendo a guardarla, massaggiandosi la testa, prima di rendersi conto di avere mezza faccia imbrattata di sangue o altro. Non c’era solo puzza di cannabis e fritto, in effetti.

“Non… toccare, per l’amor di Dio.”

“Che mi hai fatto?”

“Niente! E’ solo una…”

“Che cosa… mi hai fatto?”

“Non sono stata io. Ti sei già scordato cosa è successo? Avevo paura avessi subìto un trauma cranico o qualcosa del genere. Sei svenuto e… hai mezza testa che pare scombinata.”

“Perché non hai chiamato un’ambulanza?” si sarebbe sporto se solo avesse potuto. Ma i suoi muscoli non sembravano ancora in grado di cogliere il suggerimento. O forse era solo colpa della guida spericolata della tipa.

“Ho trovato il tuo tesserino di riconoscimento…” dovette confessare, “ho pensato non fosse il caso di portarti all’ospedale con la pessima reputazione che ha lo SHIELD di questi tempi...” Non che avesse tutti i torti e in parte le fu grato: odiava gli ospedali, “Non dopo quello che è successo con quei robot…”

Le scoccò uno sguardo strano.

“Hai visto cosa è successo?”

“Sì. Ma non guardarmi così, nemmeno io ci ho capito granché se proprio vuoi… saperla tutta. So solo che hai rischiato di farti friggere il cervello con lo scherzetto della pistola.”

Eppure non gli sembrò una scusa plausibile.

“Tu chi saresti?” le domandò di nuovo, sperando stavolta non tergiversasse, restando immobile nella sua posizione. Non poteva muoversi, non poteva toccarsi la testa, quantomeno fu felice di poter ancora usufruire della sua favella.

“Mi chiamo Kate. Kate Bishop. Presente?”

“No.”

L’espressione colma di delusione che intravide dallo specchietto retrovisore, gli diede la spinta a far crollare immediatamente lo scherno.

“Bishop, come quell’industriale… ?” le concesse.

“Esattamente quell’industriale.” Parve rianimarsi tutta.

La figlia di un milionario. Aveva già avuto modo di spiegare quanto odiasse i milionari?

Milionari come Stark. Milionari come… in effetti non conosceva nessun altro milionario.

Però era abbastanza sicuro gli stessero sul cazzo. Tutti. Morti o vivi che fossero.

“Dove mi stai portando?”

“Da una tua amica.”

Guardò fuori dal finestrino e non gli sembrò di riconoscere il quartiere che sfrecciava all’esterno in una mistura di luci colorate.

“Una mia amica... chi?”

Le lanciò uno sguardo che necessitava di una spiegazione.

“Natasha. H-ho trovato il suo numero sul tuo… cellulare.”

“Hai guardato nel mio cellulare?” e immediatamente le mani andarono a frugarsi nella giacca senza trovarne traccia.

“Sì, ma solo per cercare il numero! Giuro che non ho guardato nient'altro.”

“Sarà bene.” Stronfiò, guardandola con aria ostica, allungando una mano come per farselo passare.

La ragazza cercò nelle tasche dei pantaloni, sbandando nuovamente (tanto da fargli sperare di non averglielo chiesto), per poi porgerglielo.

“E’ un modello parecchio datato. Dovresti proprio pensare di cambiarlo.”

Non le rispose nemmeno. Se lo avesse conosciuto abbastanza, avrebbe compreso rapidamente che la tecnologia era qualcosa con cui faticava molto, da sempre, ad andare a braccetto.

Ci armeggiò un po’, senza trovare niente di strano. Se anche la tipa lo avesse manomesso non se ne sarebbe certo accorto.

Lo avrebbe cambiato. Il negozio dei cinesi che faceva angolo sotto casa sua aveva sempre delle offerte bestiali sui vecchi cellulari.

La macchina si fermò in prossimità di un vecchio edificio. Era sicuro che nessuno dei suoi amici, presunti o reali che fossero, abitasse lì. Eppure... ad attenderlo, seduta sui gradini che conducevano al portone, c’era Natasha.

“Visto? Non ero una sequestratrice folle.”

Clint non le rispose, ma si aggrappò alla maniglia della portiera per poterla aprire. Nemmeno il tempo di mettere un piede sul marciapiede, che Natasha era arrivata in suo soccorso.

“Va tutto bene.” Le disse solo come a rassicurarla di qualcosa che non gli aveva chiesto.

“Prima di giudicare dovresti vedere come è conciata la tua faccia.” Rispose lei, criptica come al solito.

Una volta al sicuro, sui gradini dell'abitazione, si voltò a guardare la ragazzina, sua apparente salvatrice.

Ebbe un piccolo shock quando si rese conto che la macchina da cui era sceso aveva un color viola acceso e lampi di giallo qua e là. Tamarro puro.

“Merda, adesso sì che mi viene da vomitare.”

“Che cosa ha detto?” si interrogò la ragazza, smontando.

“Niente. Solo… grazie, credo.”

“Oh nessun ringraziamento, è stato un piacere”, e poi scoccò a Natasha uno sguardo incomprensibile che la donna ricambiò con un solo cenno del capo. Clint pensò di essere un po’ troppo paranoico o, per dirla alla maniera della tizia: con il cervello ancora troppo scombinato per riuscire a connettere. C'erano giusto una fornita serie di domande che gli aleggiavano nel cervello. Peccato non riuscisse ancora a concretizzarne nessuna.

“In bocca al lupo con la testa, eh.”

Clint dovette mantenere tutto il suo autocontrollo per non tornare a toccarsela. La puzza di bruciato ancora la sentiva, assieme a quella del sangue. Qualcosa gli diceva che forse sarebbe stato meglio muoversi a rientrare, ovunque Natasha avesse intenzione di portarlo.

La ragazza rimontò in macchina e, mentre dai finestrini chiusi arrivava il rimbombo ovattato di una musica ska, la vide sgommare verso la fine della via e svoltare l’angolo.

“Forse dobbiamo parlare?” domandò solo. Natasha si limitò ad aiutarlo a entrare e richiuder loro il portone alle spalle.

 

La faccia era messa decisamente peggio di quanto avesse preventivato. Lo specchio sbeccato di quel bagnetto che sicuramente aveva visto giorni migliori, impietoso come al solito, stavolta gli rimandava il riflesso di qualcosa che, se solitamente era abbastanza gradevole, ora appariva grottesco.

I capelli della parte sinistra della testa erano mezzi bruciati (da lì l’odore di peli di gallina cotta al forno) e brandelli di pelle accanto all’orecchio e alla tempia si erano staccati, rivelando senza pudore quello che era il suo apparato bionico. La parte sinistra del cranio era stata ricostruita anni orsono, quando ancora non era che un ragazzino. Ci conviveva da anni, con aggeggi di quel tipo. Danni e manutenzione erano sempre riusciti a risolverli in modo egregio. Solo ogni tanto sembravano arrivargli da chissà dove onde sonore di qualche stazione radio. Un vantaggio sulle prime notizie del mattino. Non quelle notturne. A volte sentiva Bach o Mozart appena prima di addormentarsi. A volte solo gente che strillava in qualche programma notturno. Bastava fare una telefonata per risolvere il problema, quando si presentava con troppa frequenza.

“Smettila di rimirarti, Barton, vieni qui”, la voce di Natasha lo richiamava all’ordine.

Aveva disposto sul letto della stanzetta dalla carta da parati color giallo stinto, tutta una serie di aggeggi che non era sicuro dovessero rassicurarlo. Sembrava l’arsenale di un dentista pazzoide. Nemmeno a dirlo: odiava i dentisti.

“Non è necessario che mi fai roba, Nat… sono sicuro non ci sia niente di grave.”

“Non ho intenzione di farti roba… Barton, solo assicurarmi tu non abbia avuto danni permanenti… domattina chiamiamo il dottor Selvig.”

“Non il dottor Selvig, ti prego…”

“E’ l’unico scienziato discreto che fa visite a domicilio… non dovresti fare lo schizzinoso.”

“Sì, ma non è tanto normale quello lì, lo sai.”

“Ricordami quale è il tuo concetto di normalità?” gli domandò, facendogli cenno di sedersi sul letto, per il solito controllo di routine.

Lo fece, riluttante come un bambino in procinto di subire il suo secondo vaccino. Conscio del dolore e diffidente del nuovo dottore.

“Andiamo, non ti faccio niente.”

“Non ne sono sicuro…”

Gli fece cenno di tacere e portò una mano sul lato dell’orecchio offeso. Fece schioccare le dita due volte e lo guardò in viso, come a ricevere una conferma.

“Molto ovattato.”

Fece lo stesso dalla parte opposta. Lo schiocco arrivò nitido e un po’ assordante.

“Direi che questo va fin troppo bene.”

Natasha recuperò una garza e cominciò a tamponare il sangue che gli era colato dal tessuto danneggiato.

“Non posso fare altro per ora…”

“Stai già facendo troppo. Solo mi chiedo perché qui e non... a casa mia... tipo.”

“Potresti essere ricercato dalla polizia... o sbaglio? Almeno finché le acque non si saranno calmate. Questo posto non lo conosce nessuno.”

“Lo conosciamo già in tre a me pare. Cos'è, uno dei tuoi tanti nascondigli?”

La guardò recuperare un grosso cerotto per sistemare temporaneamente il danno, senza rispondergli.

Qualcosa gli disse che, in qualche modo, doveva averla messa a disagio.

Certo non quanto potesse esserlo lui, vittima degli eventi, impossibilitato anche solo a capire cosa stesse succedendo.

“Nat… possiamo parlare?”

“Puoi parlare… non ti sto tappando la bocca”, sorrise, “non ancora almeno.”

“Conoscevi quella tizia?”

“Quale tizia?”

“La ragazzina che mi ha portato qui…” la scrutò in viso, per un solo istante, comprendendo che stava evitando il suo sguardo.
“Tutti la conoscono. E’ la figlia di Derek Bishop… sai…”

“Già…” non riuscì a dirle che intendeva tutt’altro. Non era nemmeno sicuro di avere ragione stavolta, “proprio una fortuna fosse lì, al posto giusto, al momento… giusto. Mi piacerebbe sapere che diavolo è successo.”

“Domattina lo scopriremo. E in ogni caso non è affar nostro.”

“Lo è se mi denunciano… se qualcuno mi riconosce sul luogo del delitto. Ho minacciato dei robot con una cazzo di pistola… di merda.”

“Mi sto già occupando di cancellare il database di memoria dei modelli di pattuglia a quell’ora. Delle telecamere di sorveglianza. Lo SHIELD ha già abbastanza problemi senza che accusino uno dei loro agenti di aver fatto un casino con i robot statali.”

“C’erano delle persone. Mi hanno visto.”

“Con il clima di omertà che c'è in giro di questi tempi non parleranno. E comunque che vuoi che gli dicano? Di aver visto un tizio armato di pistola che minacciava un’orda di robot? Non sei così famoso… non con la pistola almeno” lo prese in giro.

Sembrava che Natasha avesse totalmente in mano la situazione. Con il sommario riassunto che le aveva fatto mentre guardava la sua faccia scombinata allo specchio del bagno e, probabilmente, dal racconto cannaiolo della ragazzina sulla macchina viola.

“Ho sognato di nuovo il disastro di New York…” aggiunse allora, in tutt’altro tono. Aveva evitato di pensarci fino a quel momento, ma solo adesso gli tornava in mente la nitidezza con cui aveva rivissuto quei momenti.

“Qualcosa di nuovo?”

Dovette stringersi nelle spalle.

“In realtà non sono sicuro di saper distinguere il ricordo dal sogno. C’eri anche tu stavolta… però… cercavamo qualcuno. Ti risulta che… cercassimo qualcuno?”

Di nuovo le rivolse uno sguardo supplice.

Del disastro di New York aveva rimosso buona parte di materiale. Ricordava l’incidente all’esposizione internazionale. La ribellione dei robot, il genocidio di cui Stark era stato ritenuto responsabile. Ricordava che stavano lavorando a un caso che vedeva coinvolto il milionario, ricordava che lo SHIELD avrebbe dovuto occuparsi della sicurezza quel giorno… ma poi nient’altro.

Sapeva di essere rimasto ferito. Di aver subito un altro intervento all’apparato bionico che aveva in testa. Di aver subito diversi interventi in realtà. E di averne dovuto pagare lo scotto con una buona fetta di memoria che se ne era andata a puttane, rimuovendo tutti gli orrori che aveva vissuto.

Natasha non sembrava avergli mai perdonato quella incolpevole mancanza. Lo aveva allontanato.

O almeno questa era la spiegazione che si era sempre dato a riguardo. Forse avrebbe solo voluto poter condividere un po’ di quel dolore con l’unica persona che aveva vissuto gli stessi terribili momenti. E lui… semplicemente… non se lo ricordava più. Nemmeno aveva potuto starle accanto il giorno in cui lo SHIELD veniva smantellato. Né a lei, né a nessun altro. Aveva ripreso a lavorare per Fury dopo settimane e la collaborazione con Natasha aveva subito un brusco stop.

Un colpo duro.

Adesso parlargliene gli era uscito fin troppo semplice. Ma ben presto si rese conto di quanto fosse stato indelicato.

“Vorrei ricordare di più…” le disse, “se solo tu mi venissi in aiuto, forse potrei ricostruire…”

“Raccontartelo non serve a niente, Barton”, sempre quel tono duro, da sentenza definitiva, “non c’è niente che valga la pena rammentare.”

“Questo lo dici tu… il non sapere cosa è successo, però…”
“Lo sai cosa è successo. Lo leggi sui giornali, in internet. I dettagli non sono… significativi.”

“Per me lo sono.”

Per tutta risposta si vide sistemare il cerotto con una delicatezza che la donna sapeva sfoggiare in poche, pochissime occasioni. Non era la prima volta che si prendeva cura di lui in quel modo, non era più successo dal giorno dell’incidente.

“A volte ho come la sensazione di non aver rimosso solo ricordi di quel giorno, lo sai?” le parole gli erano sfuggite di bocca seguendo un flusso di coscienza che era da tempo non si trovava a riconsiderare. Al risveglio di tre anni prima, quasi faticava a ricordare il suo stesso nome. I ricordi erano tornati, uno dopo l’altro, ma aveva costantemente una sensazione di vuoto. Come se la sua testa fosse una specie di groviera. Dove prima c’erano avvenimenti, memorie, ora solo una manciata di buchi. Alcuni era riuscito a colmarli, altri erano solo la sensazione che qualcosa fosse perso per sempre.

“Adesso stai entrando in paranoia, Barton. Sei confuso… dovresti riposare.”

“Non sono confuso… ogni tanto sono in grado di avere momenti di lucidità improvvisa. E questo è uno di quei momenti.”

“Hai un buco in testa. E l’unica cosa lucida che hai è il riflesso del tuo cranio.”

“Natasha…”

“Barton… ?”

“Sei ancora arrabbiata con me?”

Lei gli rivolse uno sguardo strano, lo stesso sguardo che si rivolge a un ubriaco. Come se non avesse compreso la domanda. O come se fosse stata totalmente inserita in un contesto sbagliato.

“Non sono… ma che ti prende?”

“Sei stata… arrabbiata con me”, un'affermazione più che una domanda.

“Magari lo sono sempre” e poi un sorriso, quasi di scherno, “momenti di lucidità improvvisa, dice. Straparli. Dovresti riposare, veramente.” E nel dirlo aveva raccattato tutti i suoi attrezzi strambi, pronta a rimettersi in piedi.

Ma lui le prese la mano, impedendole di allontanarsi o di farlo troppo, comunque. Alzò su di lei uno sguardo che le chiedeva risposte.

“Se ci fosse qualcosa di importante… veramente importante da ricordare…” le disse, serrando inconsciamente la presa alla sua mano, “me lo diresti?”

Lei sembrò esitare e per un attimo quasi gli parve volesse ritrarsi, allontanarsi, impedirsi di rispondere. Ma poi tornò seduta a guardarlo dritto negli occhi, finalmente diretta, come quando si decideva a non mentirgli.

“Te lo direi”, rispose con serietà, prendendosi tutto il tempo che gli serviva per assimilare la sentenza,“te lo direi… se fosse necessario farlo.”

“E ora non lo è… ?”

Natasha scosse la testa.

“Ora è necessario che riposi.”

Riposare, una parola che aveva dimenticato da tempo. Un po’ come quei buchi di groviera che aveva in testa.

“E che ti fidi di me.”

“Io mi fido di te.”

La vide annuire, come a prenderne atto.

“E’ questo che ci frega ogni santa volta…” sorrise.

“Non capisco cosa tu voglia dire.”

“Adesso taci.”

Gli sorrise e prima ancora di poter capire che stava succedendo aveva posato le labbra sulla sua fronte.

Un contatto tanto rapido e improvviso che, quando si fu scostata, quasi fece fatica a credere fosse successo davvero.

La vide esitare solo un istante, come se un’ombra di turbamento le avesse percorso lo sguardo, come se si fosse lasciata sfuggire un comportamento del tutto inappropriato.

“Vado a sistemare i tuoi conti con la legge”, si rimise in piedi sbrigativamente, prima che potesse cogliere qualcosa di più, “tu mettiti a dormire. Domani ne riparliamo.”

Riparlare di cosa? Dell’incidente o del bacio?

La guardò uscire dalla stanza, vagamente confuso. Solo. Pronto ad affrontare una notte di conseguenze al giorno appena trascorso.

Sempre che quel materasso cigolante non lo avesse distratto dal pensare.

Il colore della carta da parati già lo aveva distratto abbastanza. Eppure, poco prima di chiudere gli occhi, fu convinto di averla già vista.

Come avrebbe anche solo potuto dimenticare una fantasia tanto brutta?

 

*

Note:  

E dunque il misterioso individuo era… Kate Bishop. Sì, ormai mischio agilmente MCU e comics… spero di non dover spiegare… chi è Kate Bishop. Ormai presenza quasi fissa nei miei scritti. Sul resto c’è ancora tanto da scoprire. A partire dal casino dei famosi tre anni prima. Un solo indizio: Ultron e compagnia non c’entrano niente. Così sciogliamo uno dei nodi della narrazione. Di misteri ce ne sono già fin troppi, mi pare. Inutile tenere sulle spine anche su questo.

Come sempre ringrazio molto i lettori, recensori la socia e beta Sere e… chiunque altro passi di qui per caso. Siete sempre i benvenuti.

Con questo vi rimando alla prossima!

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


CAPITOLO 5

 

There I was completely wasting, out of work and down
All inside it's so frustrating as I drift from town to town
Feel as though nobody cares if I live or die
So I might as well begin to put some action in my life

(Breaking the Law – Judas Priest)

 

*

 

Incandescente.

Si sentiva incandescente.

Una fusione di corpi e sudore, gemiti e singhiozzi.

“Più forte…” un sussurro a infrangersi in un alito spezzato, sulla sua pelle.

 

“Ne arriva un’altra, sei pronto?”

“No.”

Scarica elettrica.

 

“Non fermarti…” la sua voce gli dava alla testa. Pronto a riplasmarsi esattamente in funzione di quell’unico attimo.

A piegarsi al volere di quelle richieste. Non gli importava granché esporsi. Non di sfiorare la sottomissione. Mentire non era un’opzione. Era un animale. Sedare l’istinto, assecondare l’impeto. Non gli aveva mai chiesto di risparmiarsi, mai lo aveva fatto.

 

“Ci sei? Dimmi quando possiamo continuare, Barton.”

“M-mai?”

Seconda scarica.

 

L’orgasmo lo travolgeva sempre in una serie di zampilli di luce, come le stelle filanti di capodanno.

La testa finiva altrove, per qualche minuto. Lei gli afferrava il viso per tenerlo ancorato lì, in quel tempo, in quel luogo. A rammentargli che le era ancora inchiodato dentro, che era a lei che doveva rivolgere i suoi pensieri.

“Ricordati di respirare…” gli disse.

 

“Respira. Ricordati di respirare, Barton, stai diventando cianotico…”

“Sto respirando.”

Il volto del professor Selvig, quando riaprì gli occhi, strappato a quella fantasia momentanea, non era esattamente l’opzione migliore a cui associare quella considerazione.

La mascherina, i guanti bianchi, più una cosa da romanzo horror dell’Ottocento.

“Ti avevo detto di pensare ad altro, mentre ti operavo… a che pensavi?”

“A niente in particolare. Abbiamo finito?” una mano stretta a pugno, le unghie conficcate nella carne, come a contenere il dolore. L’altra già pronta a strappare gli elettrodi.

L’uomo gli fece un cenno con la mano, mentre riponeva i suoi strumenti… che definire di tortura riteneva riduttivo.

“A me sembrava un ricordo piuttosto specifico.”

Clint si rimise seduto, cercando rapidamente con lo sguardo lo specchio.

“Dubito fosse un ricordo. Però ha funzionato.”

Una scopata del genere se la sarebbe ricordata eccome. Alla faccia dei buchi di groviera della sua memoria. Il volto della donna non era nitido, solo quei lunghi capelli biondi, quasi bianchi, aggrovigliati alle sue dita, ma le sensazioni… oh, quelle… gli avevano se non altro impedito di provare troppo dolore, mentre il professore gli stava sistemando i circuiti, con una serie di scosse elettriche da esecuzione, il cacciavite sonico del Dottor Who e quel poco di anestesia che riusciva a sopportare.

La sua faccia era sì un po’ arrossata ma quello che restava del danno causato dall’esplosione dell’apparato bionico del giorno prima, era solo una vaga cicatrice e qualche capello ancora un po’ bruciacchiato.

“Il sesso funziona sempre come distrazione.”

“Come diavolo fa a sapere che… ?” stava pensando al sesso?

“Ho quasi il doppio dei tuoi anni, Barton, quella cosa la so riconoscere anche io.”

Clint si rimise in piedi, facendo per toccarsi la fronte.

“Io non lo farei se fossi in te. Almeno per un paio d’ore vedi di non toccarti la faccia se non vuoi che restino dei segni.”

“Dei segni non mi importa niente… mi interessa che i timpani funzionino bene.”

“Mi senti bene?”

“Sì…”

“E allora smettila di dubitare del mio lavoro, ragazzo.”

Scosse la testa e saltò giù dal tavolo della cucina, improvvisatosi lettino da lavoro per l'occasione. Si infilò la felpa tirando su la zip. Non era sicuro di dovergli spiegare perché non si sentisse più esattamente un… ragazzo.

“Quanto le devo… ?”

“Non dire stupidaggini”, lo apostrofò un po’ burbero, mentre dalla stanza accanto emergeva Natasha, “un po’ di questa soluzione la sera e la mattina, per tenere idratato il tessuto epidermico ed eviterei la musica troppo alta per qualche giorno. Magari un mese, mh?”

“Non so come ringraziarla, professore”, gli porse la mano, che questo strinse senza esitazione.

“Magari la prossima volta evitate di chiamarmi all’alba”, e lo sguardo d’ammonimento lo rivolse a lui tanto quanto a Natasha, “la sera tardi sono sempre sveglio. Non esitate a telefonare.”

Lo guardò rivolger loro un cenno di saluto e inforcare la porta per uscire.

Il professor Selvig era da sempre stato – almeno da quando lui ne faceva parte – il segaossa dello SHIELD. Sebbene prima con incarico ufficiale, ora operava solo su richiesta per tappare i buchi di quegli agenti feriti in servizio. L’assicurazione sanitaria non pagava per quelli con un lavoro come il loro. Selvig sembrava aver preso a cuore la causa. Il riscontro non era certo monetario. Aveva perso la nipote, nel massacro di New York e, a quanto pareva, era uno dei pochi ad aver dato fiducia allo SHIELD nonostante le accuse che gli erano state rivolte.

Clint ispirò a fondo, cercando di ignorare il vago mal di testa dato dall’indolenzimento post operatorio. Sarebbe sicuramente passato da lì a qualche ora. Magari un paio di aspirine avrebbero aiutato.

“Sesso, ah?” la voce divertita di Natasha.

“Non ti ci mettere anche tu”, la guardò con aria ammonitrice, “hai trovato qualcosa?”

“Un paio di articoli. Puoi darci un’occhiata, se ti va.”

“Sì…”

“Faccio un po’ di caffè…” gli sfiorò appena il braccio con una mano.

 

“Ricordati di respirare.”

 

Dovette scrollare la testa per scacciare il ricordo e quel brivido sulla pelle. E impedirsi di guardarle il culo mentre si allontanava.

O di mettere a fuoco il bacio che gli aveva riservato la sera prima. Probabilmente niente più che un segno d’affetto. Una divertente… provocazione.

Era anche vero che Natasha non era proprio nuova a certi tipi di esternazioni. Era sicuro lo avesse provocato altre volte che si erano poi risolte in niente… forse proprio in virtù della consapevolezza che non l’avrebbe assecondata.

Perché diavolo non l’aveva mai assecondata?

Ancora inculcate nella testa quelle sacre, assurde regole dello SHIELD.

Non si scopa fra colleghi.

La voce di Fury, come sentirla. Bobbi era venuta prima dello SHIELD, l’unica concessione a quella infelice regola. Un privilegio che aveva perso il giorno in cui gli aveva chiesto il divorzio.

A pensarci bene, anche Bobbi aveva deciso di provocarlo, il giorno prima. Più una congiura di lingua la sua, non una che fosse sicuro di riuscire a reggere.

Sistemò il cavallo dei pantaloni, non del tutto certo avrebbe dovuto provare quel prurito indegno dopo l’operazione. Forse era solo una conseguenza dei sedativi che gli erano stati somministrati.

Certo, bella mossa Barton. Sempre negare l’evidenza.

Si mise seduto sul divano, attirando a sé il laptop con cui Natasha stava lavorando. Una delle pagine già aperte sulle notizie del giorno.

Un articolo piuttosto dettagliato di quello che era successo la sera prima. Dell’esplosione dei poliziotti robotici, delle vaghe testimonianze dei vicini.

“Non parlano di me.” Constatò, forse con una punta di delusione.

“Avevi qualche dubbio?”

“No, è che pensavo…”

“Ti avevo detto che me ne sarei occupata. L’ho fatto.”

Gli si portò accanto, porgendogli una tazza di caffè. Lui rialzò lo sguardo, ringraziandola con un cenno del capo.

“Avessi saputo prima che sarebbe bastato farsi esplodere la testa, per avere questo tipo di trattamento.”

“Non abituartici”, gli si mise seduta di fianco, “piuttosto… che abbiamo intenzione di fare con il caso di Kline e la Canary?”

Clint sorseggiò appena il caffè amaro, ma si rese conto di quanto fosse bollente e dovette esitare per un secondo sorso.

“Torniamo a lavorarci immediatamente”, le rispose, come fosse scontato, “ho parlato con Coulson, ieri.”

“Coulson?”

“Sì, ieri sera… prima dell’incidente.”

Natasha lo guardò turbata per un istante e non capì perché. Le aveva detto che avrebbe fatto rapporto.

“Non fare quella faccia, gli ho detto che saremmo arrivati prima dei federali… almeno per questa volta.”

“Clint…”

“Lo so cosa stai per dire. Se fosse davvero l’ultimo lavoro che svolgiamo per lo SHIELD, voglio che sia fatto bene. E prima che Bobbi e tutti i suoi tirapiedi arrivino a metterci le mani.”

La guardò buttarsi indietro sul divano e sospirare con aria esausta.

“La tua ex è un cane da tartufo, Barton, ci vorrà un gran culo per riuscire a fregarla con i mezzi che avrà a disposizione.”

“Stai forse dubitando del nostro gioco di squadra?” le domandò, lanciandole uno sguardo offeso.

“No”, gli rispose ricambiando l’occhiata, “dubito della tua capacità di coerenza quando si tratta di avercela fra i piedi.”

“Che cavolo vuoi dire?”

“Che magari la prossima volta eviterei di farmi infilare la lingua in gola. O forse devo ricordarti che ci sei già ricascato una volta?”

“Questa è una di quelle cose che vorrei aver dimenticato.”

“Forse è meglio non averlo fatto.” Disse molto seriamente, “Bobbi è un’agente formidabile. E nessuno sa meglio di me cosa si può arrivare a fare per raggiungere uno scopo.”

“Così mi offendi.”

“Meglio offeso che fottuto.”

“Dipende in che senso…”

Natasha fece roteare gli occhi e si rimise in piedi.

“Appena ti senti meglio, datti una lavata e vestiti” lo ammonì, “abbiamo del lavoro da fare.”

Tornò a guardare lo schermo del laptop e a far scorrere l’articolo. Parole come: attentato o atto vandalico a opera di ignoti, gli permisero di minimizzare enormemente la faccenda.

Chiuse lo schermo con un rumore secco e si rimise in piedi.

Sì, puzzava.

Lui più dell’intera faccenda.

Di bruciato, cannabis e fritto.

 

*

 

Natasha trascinò fuori dal garage quella che aveva tutta l’aria di essere una vecchia motocicletta. Un po’ impolverata, ma non abbastanza da impedire di intravederne il graffiante lavoro di cromatura.

Frugò per qualche istante in un vecchio armadio per trovare un casco.

Ci passò la mano sopra rivelando il disegno di un’aquila. A Clint piaceva credere fosse un falco, così da potersene impossessare a pieno titolo ogni volta che ne avesse avuto l’occasione.

Era sicura non avrebbe più avuto modo di usarlo: a quanto pare si era sbagliata. Ancora una volta. Le succedeva un po’ troppo spesso ultimamente.

Si portò di nuovo all’esterno, sul piazzale, quando il cellulare squillò nella tasca dei suoi pantaloni.

Mise in funzione il bluetooth, attivando direttamente l’auricolare che aveva all’orecchio.

“Romanoff.”

La voce dall’altra parte la fece trasalire.

“Che cazzo ti viene in mente di telefonare?” sibilò, guardandosi attorno come potessero esserci sentinelle di qualsiasi tipo a monitorare la situazione. Ma attorno a lei regnava il silenzio. E quella fila di palazzi, apparentemente disabitati, silenziosi, immersi in un verde ormai ai limiti della città, sembravano assistere indifferenti alla scena.

“Sei su una linea sicura, Romanoff, rilassati.”

“Non si è mai al sicuro. Qualcuno potrebbe…”

“Non ti fidi di me?”

“Non mi sono mai fidata di te.”

“Così mi spezzi davvero il cuore.”

“Quale cuore… ?”

“Sei una donna crudele. Solo perché è un generatore bionico non significa che non sia un… cuore.”

“Vieni al dunque, non ho tempo da perdere. Barton sarà qui a momenti.”

“Senti un po’, ma lo chiami Barton anche nei momenti di intimità?”

“Sto per riattaccare.”

“Va bene, va bene… va bene.”

Natasha rimase in attesa, non senza una punta di irritazione. Si guardò attorno nervosa, pronta a riattaccare davvero al primo segno di pericolo.

“Notizie dal dottor Selvig?”

“E’ tutto sotto controllo… il danno sembra solo superficiale.”

“Me ne sarei occupato personalmente se solo…”

“Se solo non rischiassi di fargli venire un infarto… o peggio.”

“Sì, peggio di un infarto sarebbe perdere tutti i dati.”

“Sempre così altruista.”

“Ti stupiresti di quanto posso esserlo. Parlando d’altro: come siamo messi con la riattivazione di quella cosetta che…”

“…  ci sto lavorando.”

“Parlando in percentuale?”

“Parlando come gente normale: ho bisogno di tempo. Non è una cosa che posso fare da un giorno all’altro.”

“Credevo fossi una spia. La tua capacità di manipolare la gente e...”

“Barton non è la… gente. E comunque, credo il processo si sia già riattivato. Ha cominciato a ricordare, spontaneamente.”

“Nello specifico?”

“Dettagli sul disastro di New York.”

“Bè, è già qualcosa… ma abbiamo bisogno che ricordi tutto. Solo quando la sua mente sarà completamente riattivata potremo accedere ai files di cui ho bisogno…”

“Per te conta solo questo, vero?”

“Non vedo che altro. Credevo non vedessi l’ora che questo incubo si esaurisse una volta per tutte.”

“Già… ma a che prezzo?”

“Romanoff…”

“C’è un’altra cosa”, disse, guardando verso il portone del palazzo, come si aspettasse Clint ne emergesse all’improvviso, cogliendola in flagrante.

L’uomo dall’altra parte restò in silenzio. Per una volta tanto.

“Mi ha detto di aver incontrato… Coulson. Ieri sera.”

“Coulson?” la voce incerta dall’altra parte della cornetta non le scatenò buone sensazioni.

“Coulson.”

“Oh cazzo”, lo sentì esitare, “Questo… non era previsto.”

“Che cosa significa?” cominciò a preoccuparsi.

“Significa che devi cominciare a trattare Barton come tratti quella tua gente. Manipolalo, ingannalo, fagli vedere le foto del suo cane morto, fottitelo, fai quello che devi Romanoff, o potrebbe essere troppo tardi. Ero convinto che gli effetti collaterali si sarebbero verificati molto più tardi.”

“Quali… effetti collaterali?”

“Fai come ti ho detto Romanoff! Adesso riattacco. Ho sentito come una perturbazione… nella Forza.”

“Ehi! Io ti faccio sentire una perturbazione nel culo se solo provi  a…” il segnale venne bruscamente interrotto e si trovò a strapparsi con foga l’auricolare, “figlio di puttana!”

Si passò una mano sul viso.

Che cazzo erano adesso questi effetti collaterali? Non le aveva mai parlato di effetti collaterali a parte quelli di non facile gestione di perdita della memoria.

Aveva chiesto a Clint di fidarsi di lei. E manipolarlo era l’ultima porcata che era disposta a fargli.

Stava ancora considerando le parole dell’uomo al telefono quando Clint uscì finalmente, rasato e vestito come fosse uno dei suoi giorni migliori.

“Wow, e questa bellezza da dove diavolo l’hai tirata fuori?” lo sentì dire, guardando con aria sorpresa la motocicletta.

“Monta. Dobbiamo tornare in città.” Esclamò lanciandogli il casco con l’aquila.

Lui se lo rigirò fra le mani giusto il tempo di farle dolorosamente capire che non lo aveva mai visto: “Appropriato.”

Natasha salì a bordo. Si infilò il casco per impedirgli di leggerle in volto la delusione di apprendere che aveva rimosso persino quello.

 

*

 

Il suono dello schiaffone che Natasha aveva riservato al tizio al bancone risuonò per tutto il locale.

“Ouch.” Commentò solo Clint, in disparte, mentre la donna lo trascinava con tanto di strepiti al centro della stanza.

“Adesso tu ed io ci facciamo una bella chiacchierata, mh?” lo vide lanciarlo sulla sedia, mentre quello sputava un grosso grumo di sangue.

“Puttana.” Ebbe l’ardire di ribattere, prima di trovarsi ad ingoiare un’altra manciata di incisivi: Natasha stavolta gli aveva riservato il suo gancio migliore.

“Hai altro da dire o posso farti quelle due domande che tento di estorcerti da prima?”

Gli si sedette di fronte, con un'aria decisamente in contrasto con l’esordio da lottatrice folle.

“Troia.”

“Ohi, ebbasta!” Stavolta fu Clint a riservargli un ceffone alla nuca, “ti piacerebbe se lo dicessero a tua madre?”

“Non ce l’ho una madre.”

“Tutti ce l’hanno una madre. Al massimo puoi essere in dubbio sul padre.” Gli sorrise con aria bonaria, andando a poggiarsi al muro dietro Natasha.

Gli piaceva sempre giocare a sbirro buono. Di solito era Natasha a recitare quel ruolo. O almeno, lo era prima di New York.

“Dove lo troviamo, il signor Kline?” gli chiese Clint con aria annoiata. Natasha, intanto, si limitava a fissarlo con aria predatoria.

“Vi ho già risposto che non lo so.”

“Allora forse abbiamo visto qualcun altro farlo uscire sul retro e scappare circondato da gorilla.”

Lanciò a Clint uno sguardo ostico e uno di puro odio a Natasha.

“Non ero io.”

“Fammi indovinare: il tuo gemello cattivo. No, meglio… quello buono. Come quella puntata dei Simpsons dove Bart scopre di avere un gemello malvagio in soffitta”, lo aggirò, “ma alla fine si scopre che è sempre stato Bart, quello cattivo.”

L’uomo gli rivolse un’occhiata perplessa.

“Non li guardi i Simpsons?”

“Sono cartoni animati per bambini…”

“E qui sta l’errore. Capisco perché gente come te finisce sempre per fare il leccapiedi.”

“Barton… lasciaci soli cinque minuti.” Nemmeno ebbe bisogno di alzare lo sguardo per capire che Natasha aveva raggiunto il limite.

“In bocca al lupo… Bart.” Gli disse solo, prima di rivolgere alla donna uno sguardo d’intesa e uscire dal pub ormai deserto.

Alzò il cappuccio del cappotto e si portò accanto all’unico lampione acceso del circondario. Qualcuno doveva essersi divertito a far fuori l’intera luminaria della zona. Vandali del cazzo.

Si frugò nelle tasche, trovando un vecchio accendino zippo. Lo accese solo per rendersi conto che ancora funzionava. Ecco, in serate come quelle, quando la pioggia non è che sporadico piscio di gatto dal sapore acido, avrebbe pagato caro per una sigaretta. Di quelle buone, forti. Peccato si fosse ripromesso di smetterla con le stronzate, lo stesso giorno in cui aveva anche smesso di bere.

Le uniche cose forti che si concedeva, da anni, ormai erano solo il caffè… e i cazzotti.

Eppure un po’ di quella marijuana di cui aveva sentito l’odore nella macchina della ragazzina… non gli avrebbe fatto schifo.

Un rumore di passi, poco distante, lo distrasse da quell’intrattenimento del tutto inadeguato al clima.

Richiuse lo zippo solo per mettere mano alla pistola, nascosta sotto la giacca.

E poi quei tacchi… li avrebbe riconosciuti ovunque.

“Barbara…”

Gli occhi di ghiaccio e il sorrisetto di chi sembrava saperla sempre molto più lunga di lui. Una volta lo aveva fatto innamorare, adesso lo trovava odioso.

“Clint. Sempre al lavoro, vedo.”

“Mi piace fare gli straordinari.”

“Aspetti qualcuno?”

“Mi rilassavo solamente. Mi spiace. Temo tu sia arrivata tardi stavolta.”

“Un’agente come me non è mai in ritardo, Clint Barton. Né in anticipo. Arriva precisamente quando intende farlo.”

“Wow… che razza di citazione.”

La vide sorridere di nuovo e arrivargli a pochi passi di distanza. Solo una donna come lei poteva indossare un tailleur completamente bianco sotto l’impermeabile trasparente. Non era sicuro fosse del tutto ridicolo o audacemente chic.

“Ho imparato dal maestro”, gli disse.

“Seriamente, Bobbi, è il caso che ti levi dalle palle. Stasera non c’è lavoro per te.”

“Questo lo dici tu.”

Clint, che pensava di aver raggiunto una sottospecie di temporanea vittoria, quasi non si accorse dell’impercettibile cambio d’atmosfera.

Ma quando lo fece si trovò ad arretrare di almeno un passo.

“Che cazzo sei venuta a fare qui… veramente?”

La vide fare solo un cenno del capo e il rumore sibilante di una pistola elettrizzante arrivò da qualche parte a illuminargli direttamente il petto con un laser di puntamento.

“Temo che tu sia in arresto, Clint.”

“In arresto? E per cosa stavolta? Per possesso illegale di calzini bucati?” si guardò attorno, cercando il cecchino che lo teneva sotto mira.

Bobbi sorrise di nuovo, come messa a parte di un segreto che conosceva solo lei.

“Immagino non ti sarà sfuggita la notizia di quel casino con i robot, ieri sera.”

Non le rispose, continuando a cercare nell’oscurità della via priva di illuminazione.

“Non so di cosa tu stia parlando.”

“Ah no? Eppure mi sembrava tu fossi nelle vicinanze…”

“Ieri sera ero con te, non te lo ricordi?”

“Già… io parlo del dopo, però… dopo dove te ne sei andato?”

“Mi stavo accoppiando con un cyborg in un vicolo”, la provocò, “a te che cazzo te ne frega?”

“E’ questa la linea di difesa che intendi adottare?”

“Io non intendo adottare un bel niente…”

“In ogni caso, ti conviene seguirmi, senza opporre resistenza.”

“Seguirti dove?”

“Oh, andiamo, Clint, non farmi spiegare protocolli che conosci già a menadito”, e nel dirlo fece scattare un paio di manette luminose: “Hai il diritto di restare in silenzio…”

Inorridì alla recita della formula. Barbara stavolta sembrava fare sul serio, ma ancora prima che potesse fare anche solo un passo in più, la finestra dai cristalli colorati esplose con un rumore di vetri infranti. Il corpo del povero Bart – o come cazzo si chiamava veramente – volò letteralmente in planare, atterrando sulla povera Barbara. E il cecchino fece partire il colpo che però finì per colpire il muro alle sue spalle.

“Merda!”

“Muoviti Barton!” Natasha, chi altri?

Partì un secondo colpo, che diede a Clint la possibilità di capire a naso dove si fosse nascosto il collega della donna.

Attivò il bracciale attorno al polso e dopo aver preso mira sommaria, fece partire una scarica di piccole frecce in direzione dell’invisibile assassino.
Il rumore strozzato e il tonfo che ne seguì fu solo il segnale che lo aveva colpito.

Natasha aveva già preso a correre verso la moto.

“Ho detto: muoviti!”

Il suono delle sirene in una delle vie adiacenti rivelò che la donna non era venuta sola. Ignobile anche solo pensare che Bobbi fosse così sprovveduta.

La raggiunse, montando in sella.

“Lo hai ammazzato?”

“Sono solo stupidi sedativi. Non lo ammazzo un federale. Spera solo che sia caduto bene.”

Il motore fece un rumore strano, prima che una pistola alle loro spalle facesse fuoco.

Bobbi, naturalmente.

“Fermi! FBI!”

“Natasha, penso che sarebbe una buona idea partire in questo momento.”

“Ci sto provando!”

“Una revisione alla batteria di questo catorcio?”

“Catorcio tua sorella!”

“Ho solo un fratello, mi spiace.”

La moto partì in quello stesso istante. Con l’alito dei federali sul collo e i proiettili di una pistola paralizzante a sibilar loro nelle orecchie.

“Avevi detto di aver cancellato tutti i dati sulla strage di robot di ieri sera!”

“Ed è quello che ho fatto!” gli gridò dietro, pigiando sull’acceleratore, facendo tuonare il motore lungo la via ancora deserta.

“Permettimi di dubitarne.”

“Dubita un cazzo! Qualcuno deve aver fatto la spia!”

“C’è solo una persona che può aver fatto la spia e guarda un po’? E’ amica tua!” le ringhiò dietro, trattenendosi solo con le gambe, mentre ricalibrava il bracciale affinché lanciasse bombette colme di una certa sostanza: niente sedativi stavolta.

“Che cazzo stai facendo? Reggiti!”

“Mi sto reggendo, tranquilla. Cerco di salvare il culo a entrambi.”

“E comunque non è amica mia!”

“Ma a chi vuoi darla a bere?” il suono delle sirene alle loro spalle a scandire l’inseguimento a rotta di collo. Li avrebbero raggiunti a breve.

“Kate non parlerebbe mai!”

“Kate! Allora vedi che è amica tua?” una brusca virata e dovette aggrapparsi alla donna con entrambe le mani per evitare di venir schizzato via dalla forza centrifuga della sterzata. Allungò un braccio, voltandosi solo per prendere la mira su una delle macchina che ormai li avevano quasi raggiunti.

“Tre, due, uno…” fece partire quella che all’apparenza sembrava solo una stupida freccetta. La vide agganciarsi al cofano della macchina con una ventosa e infine… esplodere letteralmente, mandando a sbattere la macchina contro il muro di uno dei palazzi.

“Fuori una!” esclamò. “Parlavamo di Kate!”

“Ti sembra il caso di discuterne proprio ora?”

“Mi sembra l’unico modo per farti parlare sinceramente, questa storia dell’adrenalina e tutto il resto.”

“Fottiti Barton.”

“Mi avevi chiesto di fidarmi di te!”

La moto virò ancora, bruscamente e di nuovo fu costretto a stringerlesi addosso, aggrappandosi con un po’ troppa tenacia.
“E ti chiedo di continuare a farlo! E smettere di toccarmi le tette!”

“Non ti sto toccando le tette!”

Quando la seconda macchina dell’FBI entrò nel loro campo visivo, Clint ricaricò il bracciale.

“Tre, due…”

“Perché cazzo ti fai il countdown?”

“Non mi deconcentrare!”

Una scarica di colpi arrivò loro addosso e sentì uno dei proiettili sfiorargli la guancia.

Il bruciore e il fiotto caldo che ne avvertì gli chiarì la situazione.

“Natasha dobbiamo uscire dalla strada.” Le disse solo, prima di allentare di nuovo la presa e andare a cercare qualcosa agganciato ad uno degli scarponi.

Una specie di bastone che allungò con il solo scatto muscolare. E poi di nuovo a fletterlo fino a tirarne fuori un arco.

“Non vorrai usare quel coso?”

“Adesso sono io a chiederti di fidarti di me.”

Si aggrappò al sedile della moto, roteando su se stesso per poter dare la schiena a Natasha.

Agganciò le gambe muscolose ai lati del bolide, poggiando la schiena a quella di lei, per mantenersi saldo in sella.

Non la sentì protestare, non la sentì fare domande.

C’erano tre macchine al loro inseguimento, due delle quali non facevano che scaricare loro addosso colpi che Natasha cercava di deviare.

Estrasse, da quel suo bracciale dei portenti, un’unica freccia, che sembrò srotolarsi direttamente da chissà quale fucina magica.

Alzò l’arco e prese la mira.

“Tre, due…”

“Uno…” concluse per lui Natasha.

Scoccò la freccia e, nel momento esatto in cui prese il volo, sganciò un fiotto di nero pece che finì per investire le tre macchine.

I proiettili, freddati in quella soluzione pastosa, finirono per diventare innocui e le tre macchine all’inseguimento sbandarono e si schiantarono l’una contro l’altra, in un brusco arresto.

“Lo straordinario Team Delta porta a casa un altro successo!” esultò, prima che Natasha sottolineasse la buona riuscita di quell’impresa con una sgasata finale che li condusse lontano dalle vie trafficate.

 

*

 

La strada era diventata sempre più deserta, sempre più buia. La città stessa sembrava essersi diradata e la pioggia sporca era divenuto uno scroscio limpido e purificatorio, quasi piacevole sulla pelle. Tutt'attorno non v'erano che lunghe distese di prati e sporadici centri abitati a ricordar loro che erano ancora su terre civilizzate.

Si fermarono nei pressi di quella che sembrava una villetta dall'aria tutt'altro che rassicurante.

“Un altro dei tuoi nascondigli segreti, Romanoff?”

La donna non gli rispose, spense la motocicletta e si affrettò a trascinarla lungo il vialetto abbandonato all'incuria.

“Fa' silenzio, qui tutti dormono a quest'ora.”

“Non mi sembra di aver urlato.”

“Dammi una mano...”

L'aiutò a sistemare un telo sulla motocicletta, proprio mentre un tuono scandì nuovamente l'incedere violento della pioggia.

“Mi son bagnato fin nelle mutande.”

“Non credevo che un cavernicolo come te portasse le mutande.”

“Ti stupiresti di quante cose normali faccio...”

“Normali tipo startene in bilico su una moto in corsa e usare arco e frecce, come un cazzo di equilibrista circense?”

“Era uno dei miei numeri di punta...” la prese in giro “e poi è stato un successo.”

Lei scosse la testa, ma sotto sotto, Clint riuscì a vedere che stava sorridendo.

“Dovresti preoccuparti di essere ufficialmente un ricercato ora, non di un successo temporaneo. Le aggravanti di questa fuga saranno parecchio devastanti.”

Sempre pronta a riportarlo bruscamente alla realtà.

“Natasha... a volte credo che tu non sia proprio in grado di goderti il momento, sai? Voglio dire... siamo stati pazzeschi là fuori, prima...”

“Abbiamo avuto dei momenti migliori.”

Finì per superarla, mentre cercava di raggiungere i gradini di casa. E bloccarla di nuovo, lì sul vialetto malconcio.

“Vero, ma ne abbiamo passate anche di peggiori”, e fu certo che su quello non avrebbe proprio potuto ribattere. Era sicuro di avere ancora una gran scarica di adrenalina da consumare: non le avrebbe permesso di smorzare così l'entusiasmo guadagnato. Erano anni che non si sentiva in quella maniera. Non di meno di aver di nuovo condiviso tutto quello proprio con lei.

Compagna di successi passati. Gli era sembrato di essere tornato di nuovo... giovane.

“Che vuoi che ti dica, Barton? Che siamo stati bravi?”

“Esattamente. Voglio che tu dica che siamo stati bravi.”

“A che pro?”

“Non lo so, per una botta di autostima, che cazzo ne so.”

“Entriamo.” disse solamente. E lui, di nuovo, le bloccò la strada.

“No.”

“No?”

“Non fino a che non avrai detto che siamo stati bravi.”

“Barton, questi sono capricci da ragazzini.”

“Dillo.” Lei gli rivolse uno sguardo che adesso cominciava ad irritarsi, “Di' che siamo stati bravi. Perché non riesci a farlo? Perché non me ne concedi una, mai?”

La vide irrigidirsi: “Tutto questo non ha senso.”

“Perché ce l'hai ancora con me. Per questo, no? Per lo stesso motivo per cui non hai più voluto lavorare con me per tre anni, per lo stesso motivo per cui mi tratti con l'accondiscendenza di una madre con il figlio scemo. Perché non mi ricordo un cazzo di niente di quello che è successo a New York e nonostante tu non voglia darmi nessun dettaglio non riesci a perdonarmi il fatto di averti lasciato sola a smaltire il dolore di quei giorni! Dimmi che è per questo, almeno, dimmelo!”

Nemmeno si era reso conto di averle vomitato addosso, in poche parole, tre interi anni di silenzi e frustrazioni.

Natasha era rimasta immobile di fronte a lui, lo sguardo fisso nel suo. Rigida come un bastone da passeggio. Non era sicuro di capire come riuscisse a leggerle dentro, ma per un attimo ebbe paura di aver esagerato. Di aver lasciato vincere quella stupida spinta di adrenalina, gli stessi deliri di un ubriaco. E lui, di quel settore, era stato un maestro per anni. Un po' come il suo stupido vecchio.

Quando lei parlò nemmeno gli sembrò di vederla muovere le labbra.
“Ricordati di r-respirare la prossima volta, Barton.”

E il brivido che gli corse lungo la schiena fu certo che fosse lo stesso che aveva avvertito quella stessa mattina. Nemmeno riuscì a dare peso al tremito della sua voce. Del moto vibrante di rabbia che le era uscito dalla gola, vagamente distorto, così innaturale.

“C-che cosa hai detto?”

“Di respirare. Respirare invece di d-dire stronzate!”

 

“Ricordati di respirare…”

 

E improvvisamente il biondo dei capelli della donna del sogno, del ricordo, divennero rosso fuoco. E i suoi occhi carichi di trasporto e di passione, furono rimpiazzati dal verde in cui si stava specchiando in quell'esatto momento.

“Niente è come sembra.” sussurrò un attimo prima di vederla sgranare quegli stessi occhi, come colta da una rivelazione improvvisa.

E lui stesso, in quell'attimo, intravide uno scorcio di verità.

 

Quando Clint fu su di lei, bloccandola per le spalle e serrando le sue braccia, come avesse paura si potesse sfaldare come una stupida visione di sogno, Natasha non riuscì e non volle sottrarsi allo slancio disperato di quel suo lungo bacio.

 

*

 

Note:

Capitolo un po’ più d’azione, che però non manca di sollevare ancora qualche interrogativo, soprattutto sul finale, e l’inizio vagamente hot. Spero di non aver incasinato ulteriormente le cose, ma vi assicuro che arriverò a sciogliere i nodi della trama.
Avviso rapido che questo sarà l’ultimo aggiornamento per almeno una quindicina di giorni. Perché sì, è arrivato il tanto sospirato periodo delle mie ferie estive. Ho bisogno di ricaricarmi e rigenerarmi. Spero di tornare anche con qualche nuova idea. Nel frattempo ringrazio sempre chi legge e recensisce la storia. I vostri pareri sono sempre super accetti e super graditi. La mia socia e beta, alla quale auguro di superare rapido anche lei questo periodo di stress estremo e di riprendere a produrre, che qui se ne sente la mancanza. E poi chiunque si senta di voler rientrare nei ringraziamenti. Non fa mai male. Con tutti quanti, ci si risente a luglio. Buone vacanze a tutti!

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


CAPITOLO 6

 

Come home to an empty house,
Got nothing to eat and I'm still on the run.
Who's gonna save me, who's gonna save me?

(Save Me – Rival Sons)

 

*

 

Per un attimo Clint fu sul punto di credere di essere tornato sordo. Di nuovo.

Perché non gli era sembrato di avvertire il fragore del tuono dopo la scarica di quel lampo, di non percepire il rumore della pioggia che puntellava le finestre impolverate.

Le percezioni sospese in un attimo di puro, assoluto, totale stordimento.

Natasha aveva le labbra morbide ed era sicuro non fosse la prima volta che aveva il privilegio di saggiarne così a lungo la consistenza.

Avevano un buon sapore, anche. Qualcosa che riuscì a riconoscere, nonostante il cervello se ne fosse andato in vacanza per tutto il tempo in cui le fu addosso.

Si era però accorto, in seguito, di percepire il suono dei sospiri infranti che si regalavano l’un l’altra. Il cigolio del divano che sapeva di polvere e cane bagnato.

L’aveva spogliata così velocemente da non avere nemmeno il tempo di pensare che avrebbe avuto modo di pentirsene  più avanti; di non essersi goduto l’attimo così come, forse, se lo era sempre immaginato.

E lei gli aveva messo le mani addosso, dappertutto, stimolando tutta una serie di ricettori che forse aveva persino dimenticato di avere.

Fu una scoperta saperla capace di abbandonarsi totalmente, di perdere il controllo. Gli era montata addosso, concedendogli perfino di scherzare sul fatto che no, lui non era esattamente una motocicletta. Di certo non quella sua scassona dalla cromatura arrugginita: lui non aveva bisogno di nessuna spinta per ingranare la prima.

Per quanto lo riguardava era partito in terza, al modo in cui non si erano troppo spesi in preliminari.

In un attimo si erano trovati nudi, uno sull’altra. E lei lo aveva guidato dentro di sé senza doverci stare troppo a pensare.

Natasha era calda e umida là sotto, niente di così straordinario considerando il fatto che qualche donna, in vita sua, l’aveva già conosciuta, ma sembrava sapere esattamente come muoversi, quale ritmo imprimergli, quali e quante pause imporgli per farlo impazzire. Definitivamente.

Si trovò a mormorare in modo sconnesso il suo nome, guadagnandosi un’occhiata trionfante. Le pizzicò dolorosamente i fianchi per ribadire il concetto che no, non era disposto a essere preso in giro, non in quelle condizioni, già ridicolmente ansante e congestionato, sotto di lei.

La prese di forza, ribaltandola sulla schiena, con il terrore di veder sfondare le molle del divano che sembrava essere uscito direttamente dai primi del Novecento.

Si aggrappò ai suoi seni, leccò il sudore dal suo ventre, graffiò il suo volto con quella barba sfatta che si portava dietro da giorni, lasciandole addosso nuovi marchi.

I lampi di luce di quel temporale che infuriava all’esterno gli regalavano di tanto in tanto stralci del volto di Natasha: abbandonato, coinvolto, sconfitto da quel piacere che affiorava in gemiti inebrianti sfuggiti alle sue labbra così umide, dolorosamente invitanti.

Le mani di lei affondavano un po’ ovunque, i muscoli tesi e reattivi a saper cogliere ogni variazione di ritmo, come una di quelle danze che vanno studiate con attenzione. Ad andargli incontro, pretendere di ricevere tutto quanto era disposta lei stessa a dargli.

A un passo dall’orgasmo si rese conto di non volerci arrivare senza di lei, ma non riuscì a fermare gli affondi, a pompare con egoistica urgenza per permettersi di arrivare al culmine di quell’esperienza totalmente fuori controllo.

Infine furono zampilli di luce. I suoi zampilli di luce. E la mente cominciò a svuotarsi e navigare in apnea, lentamente, in quell’ingiusto oblio che l’avrebbe esclusa.

Le sua mani, ai lati della sua testa. Una leggera pressione. Occhi verdi inchiodati ai suoi. A scuoterlo dal torpore.

“Ricordati di respirare.”

Si prese solo un istante per tornare lucido e prendere un’ampia boccata d’aria, senza nemmeno essersi reso conto di aver trattenuto il fiato.

“Scusa…” gli uscì senza nemmeno registrarlo, e la sentì ridere. Ridere di lui?

“Non era esattamente quello che mi aspettavo di sentirmi dire…”

Aveva ancora fiato per parlare, Natasha, e rapidamente si rese contro del perché si fosse sentito in obbligo di cercare il suo perdono.

“Non sei venuta.”

“Un’altra botta di romanticismo.”

“No, d-davvero…”

“Non importa.”

“Importa e-eccome, aspetta…”

“Dove te ne vai?” gli domandò divertita, lasciandolo scivolare sul suo corpo, sganciarsi dall’apnea dei suoi occhi verdi, delle sue guance arrossate.

A spalancarle le cosce, ad affondarci il viso.

“C-Clint non ce n’è bisogno… !”

La protesta ghiacciata l’istante successivo, giusto il tempo di inchiodarla ai cuscini del divano per impedirle di dimenarsi troppo, a bearsi dei suoi respiri affannosi, la mano fra i suoi capelli, i tremiti del suo corpo, il sapore agrodolce dei suoi umori, lo strappo violento nel momento dell’orgasmo. La gamba che si aggrovigliava al suo collo ad immobilizzarlo lì, a godersi gli ultimi assaggi di lei.

“Dio…” esalò in una sottospecie di invocazione.

“Eccomi.” rispose lui, vagamente divertito, riemergendo, solo per potersi arrampicare addosso a lei, portandosi dietro la sua gamba, ancora appoggiata alla spalla, e sorriderle soddisfatto di aver portato a termine il suo intento.

Volle baciarlo e lui non si sottrasse; cominciava a prenderci gusto o a dover recuperare troppo tempo perduto.

“Quante volte l’abbiamo già fatto prima?”  le chiese, sistemandosi al suo fianco, a farsi largo nell’angusto spazio fra i cuscini. La verità ormai così chiara nella sua testa da non aver bisogno di grosse smentite. Un altro buco di quel groviera che veniva riempito.

“Prima quando?”

“Prima di oggi. Prima… prima.

“Non lo so.”

“Non esiste che non lo sai.”

“Non ho tenuto il conto.” Una punta di divertimento nel suo sguardo. Il colore dei suoi occhi non era mai stato tanto intenso.

“La Vedova Nera tiene sempre il conto.”

“Non di questo.”

“Natasha…”

“Cinquanta volte”, sembrò concedergli un numero a caso.

“Cinquanta?”

“… nei primi due mesi.”

“E poi?”

“E poi non lo so… e poi è finita.”

“Non dire stronzate.”

“Non me lo ricordo, non mi importa…” gli sfiorò il viso con una mano a scacciare via una goccia di sudore condensata nella ruga accanto alle labbra. E improvvisamente non importò più nemmeno a lui. Tutto il resto però sì. Tutto quello che si era perso e come erano arrivati fin lì… quello gli importava.

“Perché non me lo hai mai detto?” la domanda che più gli premeva fare fu anche l’ultima che le rivolse.

Natasha si aggrovigliò a lui e affondò la testa nel suo petto, nascondendocisi come chiedendogli tacitamente di lasciarla riposare o morire, per un istante, fra le sue braccia.

 

*

 

“Sei sicuro?”

Ci vedeva a malapena. La voce di un uomo.

“Ti ho detto di farlo, cazzo!”

Il dolore alla testa. Così lancinante da non permettergli nemmeno di pensare in modo pacifico.

“Clint non sai nemmeno se sopravvivrai!”

Era stata Natasha a parlare, no? Era Natasha.
“Questo è l’ultimo dei miei problemi.”

Il bruciore dello schiaffo gli diede la conferma che sì, non poteva essere stata che Natasha.

Avrebbe potuto fargli molto più male di così.

Però bruciava, bruciava eccome.

Allungò una mano per fermarla, ma quello che si trovò a toccare fu un ammasso di carne informe, viscido e caldo. Natasha aveva un braccio troppo sottile, completamente coperto di sangue.

Si volse di scatto al suono di una risata. E Natasha, l'uomo misterioso e la stanza che sapeva di muffa sparirono.

“Non hai ancora capito niente, eh?”

Il clown. Si avvicinava. Barcollava e rideva; rideva senza una ragione. Improvvisamente quell’odore di circuiti bruciati, ancora una volta.

“Chi sei? Che vuoi?”

“Lo sai chi sono. Lo sai che voglio… smettila di perdere tempo, cazzo, contano tutti su di te.”

“Su di me?”

Un lungo dito scheletrico a indicarlo.

“Su di te, su di te… chi altri?”

Adesso era vicino, così vicino. Il volto pallido deforme, le labbra rosse… quel trucco che sembrava fatto di sangue e carne putrida, carne morta.

“Perché mi tormenti?”

“Credi che non preferirei stare altrove? Invece che inchiodato nel tuo stupido… cervello di gallina!” il dito scheletrico picchiettava alla sua fronte, scandendo ogni singola parola, “ricorda!”

“Lo vorrei, non ci riesco!”

“Non ti sforzi abbastanza!”

“Lo faccio!”

“Scuse, scuse, scuse, sempre scuse…”

“Aiutami!”

Il clown scosse la testa, ora così vicino al suo viso che quasi riusciva a sentirne l’odore di decomposizione, di morte. Un paio di occhi azzurri, limpidi, vivi, beffardi.

“Sai cosa?” sibilò, svuotandogli addosso il suo alito mefitico.

“C-cosa…?”

“La merda… rosa!”

La risata a scuotere di nuovo lo scherno, e poi ancora le sequenza in flashback a rimandargli coriandoli di luce e sovrapposizioni di volti, suoni, immagini.

“Svegliati! SVEGLIATI!”

 

*

 

Si svegliò che fuori sorgevano le prime luci dell’alba. Natasha non era più lì a fargli compagnia.

Quantomeno si era risparmiata la patetica scena del tremito convulso del suo ennesimo incubo.
Si mise seduto su quel divano mezzo sfondato a guardarsi attorno. Instupidito e nudo come un verme. A chiedersi se non avesse solo sognato anche quello che era successo la sera prima.

Però l’odore della donna gli era rimasto incollato addosso. E si sentiva indolenzito come avesse corso una maratona. Era proprio vero che non è mai consigliabile smettere di fare allenamento. Un certo tipo di allenamento poi…

Si infilò gli stessi vestiti del giorno prima e uscì sulla veranda a godersi il fiorire dell’alba. Aveva smesso di piovere e l’aria era leggera e tersa come quella dei mattini di primavera. Quelli che ricordava ancora quando non era che un moccioso sempre sporco di terra e polvere.

I piedi scalzi a calpestare le travi di legno ancora umide del pavimento. Zuppe di troppe piogge.

Un nuovo giorno che quasi non gli sembrò reale. Un’aria da sogno, se pensava a quanto ormai ci avesse fatto l’abitudine al grigiore della città morente, alle sue strade ferrigne e depresse. Al suo clima di fumo e nebbia.

Alzò una mano quando vide Natasha inforcare il vialetto di casa con una busta. Ricambiò il saluto mentre i primi raggi di sole andavano a scaldarle il viso e illuminarle i capelli.

Bella così, non l’aveva vista mai.

Un’immagine che gli restituì sensazioni alle quali non riusciva ancora ad associare fatti o momenti, ma che presto si augurò potessero dipanarsi come per magia.

“Ho preso del caffè…”

“Ma a te non piace il caffè.”

La vide frugare nella busta a tirarne fuori un bicchiere di cartone di un qualche vecchio Starbucks.

“Per questo dovresti ringraziarmi.”

Scavalcò con un salto la staccionata e gli finì di fianco, sedendosi sulle travi che scricchiolavano in protesta.

“Grazie.” Sollevò il bicchiere a mo' di brindisi, prima di scoperchiarlo e fargli prendere un po’ d’aria.

“Non sembra nemmeno di stare a poche miglia da New York oggi, ah?” gli domandò, osservando il cielo in lontananza, le nuvole grigie cariche di pioggia che stavano infliggendo altrove la loro furia.

“Non sembra nemmeno di stare nello stesso cazzo di stato, se vuoi saperla tutta.”

Il caffè aveva esattamente il sapore che piaceva a lui.

“Infatti siamo nel New Jersey…” lo schernì appena, guadagnandosi una smorfia risentita.

“Mi chiedevo… come fai a permetterti tutte queste case con lo stipendio dello SHIELD?” le chiese invece di protestare, abbracciando i dintorni.

“E’ davvero questa la prima domanda che vuoi farmi oggi?”

Clint si strinse nelle spalle: “Da qualcosa dovrò pur cominciare.”

Natasha sorrise appena, senza guardarlo direttamente.

“Non sono case di mia proprietà. Ho solo spulciato il database delle case sfitte, abbandonate, momentaneamente disabitate…”

“E questa catapecchia di qualche categoria fa parte?”

“Questa casa è tua… veramente.”

“Mia?” si rimise dritto a guardare la veranda con occhi nuovi. In effetti aveva proprio l’aria di essere l’unico tipo di casa che avrebbe potuto permettersi: sciatta e sporca.

“Io ce l’ho un appartamento.”

“Lo so.”

“E la casa dei miei sta in Iowa. Non sono un fottuto cittadino del New Jersey.”

“Lo so.”

“E allora perché avrei dovuto comprare una schifezza simile?”

Natasha gli riservò uno sguardo strano e non disse niente. Come a suggerirgli mentalmente una risposta che arrivò rapida e secca come un gancio dritto nei denti.

“Per… noi?”

Rimase ancora in silenzio, ma dal modo in cui aveva stretto le labbra ebbe la sua sconcertante risposta.

“Costava poco… avevi intenzione di sistemarla… prima o poi. Un posto dove starsene un po’ fuori da New York. Lontano.”

“Qualsiasi cifra gli abbia dato, probabilmente è sempre più di quanto si meriti. Perché non mi hai impedito di fare questa cazzata?”

“L’ho fatto. Ma non mi hai dato ascolto. Non lo fai mai…” la voce un po’ arresa, un po’ annoiata.

“E perché siamo venuti qui? Se questa casa è mia, la polizia non ci sarà alle calcagna a breve?”

“Sottovaluti le mie capacità...” mosse le dita nell'aria come a fargli capire che aveva cancellato le tracce.

“Sei veramente sprecata per lo SHIELD.”

“Sarei sprecata ovunque”, si mise cavalcioni sulla staccionata fronteggiandolo.

Lui poggiò la schiena per poterla guardare da vicino.

“Adesso però potresti rispondere alla mia domanda di ieri sera.”

“Quale delle tante?”

“L'unica che contava veramente.”

La vide abbassare lo sguardo, esitare, di nuovo e inspirare a fondo, a prendere fiato, come prima di una lunga corsa.

“Quando ti ho chiesto di fidarti di me... forse non sono stata chiara, ma includeva anche certi tipi di risposta.”

Allungò una mano fino a sfiorargli un lato della testa, la tempia, le dita a insinuarsi fra i ciuffi di capelli ancora stopposi, bruciacchiati, che stavano ricrescendo.

“Ci sono cose molto importanti qui dentro...”

“Finalmente ammetti che ho una mente geniale.”

Non gli sembrò avesse granché voglia di scherzare. Natasha non spostò la mano.

“Voglio solo evitare che la mole di ricordi, se risvegliati senza le dovute precauzioni, danneggino quello che c'è qui dentro.”

“Il professor Selvig ha detto di chiamarlo a qualsiasi ora della notte.”

“Nemmeno il professore potrebbe aiutarti, in quel caso.”

Quando abbassò di nuovo la mano, desiderò che non lo avesse mai toccato, un brivido gelido gli scese nello stomaco, al distacco. Ma dissimulò egregiamente.

“Quindi mi stai dicendo che per rimpiazzare i buchi di groviera che ho nel cervello...”

“Buchi di groviera?” lo interruppe perplessa e divertita.

“Sì, di groviera, fammi parlare...” finse di riprendere le fila del discorso, “per riempire il groviera della mia mente, dobbiamo andarci con cautela o rischio di friggermi il cervello?”

“Non proprio friggerti il cervello... ma se hai bisogno di un incentivo per non rompere le palle su cose che non posso ancora dirti, allora sì, il tuo cervello esploderà. Schizzerà fuori dalle orecchie, dalle orbite e dal naso”, gli fece un quadro piuttosto macabro della situazione senza scomporsi minimamente.

“Come sai dire le cose tu...”

Si arrese alla realtà che non era ancora arrivato il momento di chiarire proprio tutto quanto.

“Solo una cosa però...” riprese, affatto incline a lasciar perdere del tutto. Dopotutto era sempre stato curioso, “perché hai aspettato tre anni?”

Natasha tornò seria e capì che persino il tempo delle burle era terminato.

“Perché i tempi non erano ancora maturi, Clint.”

“Maturi... per cosa?”

La donna rimase in silenzio.

“E' un'altra delle cose che non puoi dirmi?”

“Mi dispiace.”

Clint scosse la testa e riprese a bere il caffè.

“Che hai fatto al braccio, però, me lo puoi dire?” aggiunse dopo un lungo attimo e, per quanto inizialmente avesse lanciato la domanda come una provocazione, il lampo di dolore che le lesse in fondo allo sguardo gli fece capire di aver fatto una cazzata.

“Ho fatto un altro incubo stanotte”, dovette dirle, un po' per smorzare l'argomento, un po' per deviarlo e farle capire che non voleva ferirla.

“Cosa... hai sognato stavolta?” la sentì esitare, ma determinata ad andare avanti.

“Un uomo. Io insistevo affinché facesse qualcosa. E tu non volevi. E il tuo braccio era... era...”

“Ho perso il braccio durante la battaglia di New York”, la frase arrivò secca e monocorde, così come Natasha era solita fare con tutti gli argomenti scottanti che si erano sempre trovati a discutere, tutti gli argomenti che riguardavano la sua sfera personale.

Come quando gli aveva raccontato del suo passato. Di quello che faceva prima di lavorare per lo SHIELD. Di quello che aveva sempre dovuto fare per vivere, sopravvivere. Di tutti i peccati di cui si era macchiata.

Era convinto di aver dimenticato anche quelli, nel groviera della sua mente, ma improvvisamente tornarono a stuzzicarlo con una chiarezza sconcertante.

Si rese conto che nei tre anni in cui l'aveva accusata di averlo tenuto lontano, lui non aveva fatto proprio un bel niente per cercarla per primo. Perché aveva paura. Un'irrazionale paura di essere respinto. Di aver perso tutta l'intimità che era sicuro di aver guadagnato nel corso degli anni.

Aveva sempre considerato Natasha un'amica, prima di qualsiasi altra cosa.

In tre anni in cui lei aveva dovuto tenerlo lontano per impedire che – come aveva grottescamente annunciato – il suo cervello venisse fritto di ricordi, realizzò quanto lei per prima avesse dovuto reprimere e soffrire di una lontananza dolorosa e consapevole.

“Non l'ho mai saputo.”

“Non era una cosa che dovevi... sapere.”

Capì che elargirle compassione non avrebbe funzionato. Che lo avrebbe odiato. Decise di non farlo. Di non farglielo pesare.

“Lo metto nell'elenco.” rispose solo.

“Clint...  non è colpa tua. E poi... ci ho guadagnato un braccio nuovo.”

Non sembrava addolorata per quello. Non per la perdita materiale. Comprese che legato a quello specifico ricordo, doveva esserci dell'altro. Altro su cui non ebbe il coraggio di indagare.

“Fa' un po' vedere?” le chiese, allungando una mano, affinché potesse osservare la sua.

Il tessuto epidermico era stato ricostruito alla perfezione, ma era sicuro di aver notato dove la parte bionica si fondeva con l'osso della spalla, la sera prima. Quando gli si era addormentata fra le braccia e aveva avuto modo di guardarla, spiarla, da un po' tutte le angolazioni.

“Se faccio questo lo senti?” le sfiorò l'avambraccio con le dita e sentì il muscolo artificiale irrigidirsi sotto la sua pelle.

“Sì...” disse, ora vagamente divertita.

“E se faccio questo?” la pizzicò non senza metterci forza e gli arrivò un gancio, dritto sotto al mento, l'istante successivo.

“Cazzo!”

“Reazione istintiva. Scusa.”

“Che stronza però... mi si è rovesciato il caffè.”

“Ne possiamo prendere un altro.”

“Non dovremo fare qualcosa per il fatto che sono ricercato?”

“Hai così tanta fretta di tornare a scappare?”

Clint si rese conto che no, non ne aveva, ma che forse avrebbero dovuto avvisare qualcuno del fatto che... stavano bene. Qualcuno che sicuramente si stava chiedendo quale altra puttanata avessero combinato per scatenare un intero arsenale di polizia e FBI.

Si chiese se lo SHIELD non si sarebbe trovato a pagare brusche conseguenze, a quel cazzo di inspiegabile equivoco.

“Dovrei chiamare Coulson. O...”

“Ci ho già pensato io, Clint.”

Ci aveva già pensato lei. Ovviamente. Eppure si era affrettata un po' troppo a rispondergli.

“Dillo di nuovo.” preferì tergiversare. Esausto, per tanti, troppi motivi.

“Che cosa... ? Che ci ho già pensato io?”

“No, dopo. Cosa hai detto dopo?”

“Dopo ho detto... Clint?”

“Clint. Senti come suona bene. Meglio di Barton. Dillo di nuovo.” si trovò a chiederle, rendendosi conto che per nome non lo aveva mai chiamato prima della notte appena trascorsa insieme. E se anche lo avesse fatto, di certo non lo ricordava ancora per poterne godere com'era giusto che fosse.

La vide sorridere e scuotere la testa.

“Magari te lo devi guadagnare un po' per volta.”

“Magari posso fare qualcosa a riguardo.”

Dopotutto scoprì di non avere poi tutta questa fretta di tornare a fare il fuggitivo. Una manciata di ore non avrebbero certo cambiato il corso della storia.

“La sai una cosa... ?” le chiese, trascinandola giù dalla staccionata per rispedirla in casa a vedere per quanto ancora avrebbe retto quello stupido divano dei tempi andati.

“Cosa... ?”

“La merda... rosa?”

“Che cazzo è questa stronzata, Barton?” protestò Natasha scioccata e divertita in egual misura.

“Non lo so... è una cosa che mi diceva sempre mio fratello, quando eravamo bambini.”

“Forse preferisco tornare a sistemare la moto.” fu l'ultima cosa che disse, prima di venir caricata sulle spalle e trascinata in casa.

Non era sicuro di voler pensare alle assurde connessioni che fanno le sinapsi quando entrano inspiegabilmente in azione.

 

*

 

Note:

Come sembra ovvio capire, tornai dalle ferie. Troppo in fretta arrivarono e troppo in fretta passarono. E anche prima di quanto preventivato, pubblico il nuovo capitolo, che in realtà avevo pronto da un po’ (ancora prima che uscisse Age of Ultron, niente meno!) ma che mi sono tenuta per il rientro. Un altro capitolo di pseudo passaggio: dopo la rocambolesca fuga dello scorso i due fuggiaschi se lo meritavano, e si meritavano anche il resto, dico io. Un pizzico di rating nc17, ma mi auguro niente di disturbante. Spero che ora sia un po’ più chiara la natura della loro relazione o quello che è, insomma. Ci sono ancora molte cose da spiegare, ma nel prossimo torneremo all’azione e nel vivo della storia. Come sempre ringrazio tutti quanti, soprattutto quelli che hanno apprezzato lo scorso capitolo, che quando devo andare sull’azione soffro sempre un po’ di ansia da prestazione, la mia beta e socia Sere come sempre presente e attiva al fronte e i lettori silenti che ci sono sempre e che apprezzo comunque. Ci sentiamo presto, dunque. Al prossimo capitolo.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


CAPITOLO 7

 

But the rain keeps coming down
Tell me will it ever stop?
These waters rage, but I'll stay strong

(Iris form the Storm – Slash)

 

*

 

“Ehi… ehi, guarda cosa ho trovato.”

Clint si volse quel tanto che bastava per trovarsi a due centimetri dal grugno rugoso di un rospo.

“No!” arretrò rapidamente, cadendo a terra, nell’erba umida di rugiada.

“Che fifone che sei!” la risata infantile riecheggiò nelle sue orecchie, mentre una fulminata di capelli rosso fuoco gli feriva gli occhi.

Sentì, improvvisa e ingiustificata, la voglia di piangere.

Non un pianto d’umiliazione.

“Barney…”

“Che ti prende?” lo vide chinarsi verso di lui, il viso lentigginoso di un Barney Barton dell’età di dieci anni che lo fissava fra il divertito e il costernato, a parargli il sole. Da quanto non c’era un sole così?

Da quanto tempo non vedeva un cielo così limpido?

Da quanto tempo non pensava a Barney?

“Se te la sei fatta nei pantaloni, non venire a piangere da me… poi la senti tu mamma.”

Allungò la mano per farsi aiutare a rimettersi in piedi. Già pronto ad avvertire quella stretta di mano calda e sudaticcia, mentre il fratello rideva di lui.

Ma la voce di Barney divenne improvvisamente rauca. La risata si fece cupa e d’improvviso i suoi lineamenti si fecero di cera sciolta.

Sotto il roseo colore di pelle colata… il bianco cereo. Il trucco di un clown.

“Oh, andiamo, Clintuccio, credevi davvero di esserti liberato così facilmente di me?”

Il sole scomparve dallo scenario e il cielo si fece scuro, gravido di pioggia.

I dintorni stessi divennero cupi e gelidi così come la trasformazione finiva per completarsi.

Ed improvvisamente fu di nuovo in quel tunnel di macerie. Fuori, ancora il rumore della distruzione: sirene, grida e rombi di tuono.

“Clintuccio… Clintuccio… C-Clint… C-Clint a-aiuto. T-ti prego… a-aiuto.”

Tossì una, due volte, mentre una nuvola di polvere gli ostruiva la visuale.

“Dove sei?”

“Clint! Clint!”

“Non ti vedo!”

“Cerca ancora… Clintuccio.”

La polvere non si diradava e le voci divenivano sempre più ovattate, tranne la sua.

“Cerca ancora…”

“Non ti trovo…”

“Cerca…

“Non…”

Si sentì afferrare il braccio e una mano sanguinolenta e marcescente si strinse su di lui con forza inaudita.

“Sono qui.”

 

Si destò di soprassalto, con uno scatto muscolare non previsto. Rilasciò piano il fiato, fissando il soffitto di legno che odorava di muffa. La mano andò a tamponarsi la fronte umida di sudore.

Cominciò a pensare di averne abbastanza di tutte quelle stronzate.

Un cazzo di loop in cui finiva ogni volta che riusciva ad addormentarsi o perdeva conoscenza. Un loop che, per la precisione, era cominciato quando aveva deciso di accettare quel cazzo di nuovo incarico dello SHIELD.

Non credeva alla sfiga, ma in quel caso specifico decise di darle il beneficio del dubbio.

La casa, se non altro, era ancora la stessa. Non che avesse effettivamente paura che Natasha lo trasportasse incosciente da un capo all’altro degli Stati Uniti, ma con tutti gli spostamenti improvvisi di cui si erano resi protagonisti negli ultimi due giorni, non si sentì di escludere a priori la possibilità.

La prima cosa a colpirlo di quel risveglio improvviso fu il fastidioso rumore di musica 8 bit in soggiorno.

Si alzò dal letto che ancora barcollava, lasciandosi alle spalle lenzuola sfatte. Si infilò una maglietta bianca e quel paio di jeans che sicuro necessitavano di una lavata e si portò lungo il corridoio, mentre il rumore diveniva sempre più nitido, sempre più concreto.

“Nat?” si trovò a richiamarla, senza riceve immediata risposta.

Quando finalmente fu in soggiorno, seduta sul divano, in posa da combattimento, non c’era niente di meno che la ragazzetta cannaiola dalla macchina color attacco epilettico.

“Buongiorno, Occhio di Falco!” esordì lei, alzando lo sguardo solo un istante prima di tornare a prestare attenzione allo schermo di uno scassatissimo televisore che sembrava essere uscito direttamente dagli anni ’90.

La ragazza armeggiava con una console, anche quella probabilmente resuscitata da qualche museo del giocattolo antico.

“Che ci fai qui? Dov’è Natasha?” si trattenne dal chiederle anche come diavolo facesse a conoscere il suo nome da combattimento, quello in codice. Quello… figo. Se non si trovava in un altro cazzo di sogno dove tutto appariva senza senso, allora la domanda era più che legittima. La sorpresa appena mitigata dal fatto che era ancora troppo rincoglionito per darle la giusta importanza.

“Tranquillo, la tua ragazza sarà qui a breve. E’ andata a sistemare un paio di cosette che vi ho portato. Vieni qui, siediti. Devi troppo vedere questo videogioco, è pazzesco!”

Clint la fissò confuso. Se mai si fosse chiesto quando la sua vita avesse cominciato a prendere una strana piega, l'avrebbe ricondotto esattamente al giorno in cui si era imbattuto in Kate Bishop.

Perciò non era sicuro di potersi fidare di lei. Soprattutto adesso che lui e Natasha erano ricercati e costretti a mantenere un basso profilo.

Cercò istintivamente con lo sguardo le sue armi. O qualcosa che potesse usare come oggetto di difesa. O di offesa.

“Abbassa la guardia, zio. Non sono armata”, la vide fissare il gioco che stava stringendo fra le mani, “e no, non userei mai questo gioiellino su uno come te.”

L’idea che Kate fosse molto più che una casualità improvvisamente franata nella sua vita si fece molto insistente. Il fatto che Natasha non le avesse fatto domande, il giorno dell’incidente con i robot e, al contrario, le avesse permesso di portarlo da lei in una delle sue case sicure… gli aveva già dato un’avvisaglia piuttosto consistente di quanto la ragazzina non potesse essere una sconosciuta. E anzi, ben più incastrata nella loro ragnatela di quanto riuscisse anche solo ad ipotizzare.

Natasha gli aveva chiesto di fidarsi. E lo stava facendo, certo… ma prima o dopo gli sarebbe andato in confusione il cervello a furia di infarcirlo di avvenimenti del tutto casuali. Tipo quello di averla lì, seduta sul divano a manovrare gamepad dell’anteguerra, spuntati da chissà dove.

Quella musichetta elettrica gli stava entrando nel cervello e improvvisamente fu curioso di capire cosa ci fosse poi di tanto interessante in un vecchio videogioco.

“Come mai sei qui?” le chiese di nuovo, avvicinandosi appena, senza azzardare troppo. I sensi comunque vigili, all’erta. Non voleva sottovalutare il fatto che non avvertisse nessuna minaccia.

“Te l’ho detto, sono venuta a portarvi un paio di cosette… solo che Natasha ha ritenuto fosse necessario testarle prima di… oh, ma andiamo! E’ la quarta volta che vengo uccisa da un funghetto assassino!”

Clint guardò lo schermo dove un omino baffuto, fatto di pixel sgranati, si muoveva su una linea infestata di ostacoli.

“Cosette di che tipo?”
“Cosette. Roba tecnologica. Ho saputo che avete avuto dei guai e… ennò pure le tartarughe omicide, no!”

Clint stronfiò qualcosa, prima di sottrarle il gamepad dalle mani.

“Ehi!” protestò la ragazza, guardandolo in cagnesco.

“Ehi, un cazzo. O mi rispondi per bene o te la spacco questa cosa.”

“Dio, Clint, la tua allergia alla tecnologia è precipitata vertiginosamente in questi ultimi anni.”

Si trovò a stringere fra le mani quella roba, trattenendo un fremito all’inattesa conferma che lo conoscesse meglio di quanto credesse, (la familiarità con cui gli si rivolgeva non fece che aggiungere l’ennesimo tassello alla faccenda), prima che la musica non decretasse il game over.

“Come sospettavo… anche tu sei una di quelle cose che ho rimosso dalla memoria.” Dovette cedere alla tragica verità.

“Prima di tutto… non sono una cosa”, la sentì protestare, facendo per riprendersi il gamepad; ma Clint fu più veloce ad allontanarlo di nuovo, “e secondo: tu che dimentichi cose, ma non mi dire. Eppure dovresti saperlo che le amnesie peggiorano solo con l’età.”

Le si sedette di fianco, fissando per qualche istante lo schermo di fronte a sé.

“Non sei una che mi sono scopato, vero?” fu la prima cosa che gli venne in mente di chiederle. Ma non fu sicuro di sentirsi abbastanza in colpa per farle le sue scuse.

“Sei disgustoso”, l’indignazione nella voce di Kate sembrava sincera. Se non altro poteva depennare il coinvolgimento sentimentale.

“Vado per esclusione.”

“No, seriamente, sei disgustoso. Sono abbastanza giovane per essere tua figlia.”

“Esagerata.”

“Tua nipote.”

“Ma non lo sei.”

“Questo non migliora le cose.”

“Allora cosa sei?”

Sentì il suo sguardo puntato addosso ma non cedette alla tentazione di guardarla, non subito almeno.

“Direi… più un’amica.” La delusione che permeava il suo tono di voce la colse molto più che non tutte le stronzate che aveva imparato all’accademia sulle microespressioni. Insomma, tutte quelle tecniche sullo scovare la menzogna altrui con cui ti riempivano la testa nei corsi per diventare superspia o qualcosa del genere.

Solo allora decise di guardarla.

“Un’amica che rischia molto. Lo sai in cosa stai andando a infilarti?” si costrinse a chiederle, per essere sicuro che non fosse solo il capriccio di una ragazzina ad averla spinta fino a lì.

“Molto più di quanto non lo sappia tu, Clint.”

Si riservò il diritto di fulminarla con lo sguardo, all’indelicatezza.

“E sentiamo: cosa sapresti più di me?”

Kate sembrò sul punto di scucirsi ma poi gli puntò un dito contro: “Non ci provare, Barton. Pensavi di fregarmi, ah? Bello mio, finché il capo non mi dà l’autorizzazione a parlare, puoi pure pregare in cinese se speri che io ti dica qualcosa.”

“Chi è il capo?”

“La Romanoff, no? È lei il boss qui…”

Clint scosse la testa e inspirò a fondo.

“E in che modo pensi di poterci aiutare?” si decise allora a chiederle, evitando di infarcire il dialogo di inutili chiacchiericci che non sarebbero comunque culminati in una bella, confezionata confessione.

“Perché non lo chiedi a lei?”

Clint alzò lo sguardo solo per rendersi conto che un’altra persona sembrava aver raggiunto l’allegra festicciola.

“M-Maria?” Clint scattò in piedi come una molla, non del tutto sicuro non stesse effettivamente ancora sognando.

“Seduto, Barton, non c’è bisogno di essere formali.”

“Ma che cazzo…”

“Né di essere inutilmente volgari.”

“Mi volete spiegare cosa sta succedendo o devo invocare l’aiuto del pubblico?”

Vide Maria fissarlo con aria severa e poi… Kate scoppiare a ridere. Anche l’espressione dell’agente dello SHIELD cominciò a mutare. E se non fosse stato ancora dannatamente rimbambito dal sonno, forse sarebbe svenuto per la sorpresa di veder sghignazzare proprio lei: Maria, la regina dei vampiri dalla faccia di cera. La donna che non deve ridere… mai.

“Sto ancora sognando. Non c’è altra spiegazione.”

“Dio, Barton, se ti fai prendere dal panico per una cosa simile non vedo come potremmo sopravvivere a questa emergenza.” Vide la Hill avvicinarlo e arrivargli praticamente a un centimetro dal viso.

Prima che tutta quella facciata si sfaldasse. Il rumore sibilante di un circuito in movimento e il volto di Maria andò a svanire per essere sostituito con quello di Natasha Romanoff.

“Ma che… ? Un ologramma?” Fu la risposta a quell’evento del tutto fuori contesto.

“Bravo. Il concorrente ha risposto esattamente alla domanda.”

Clint si scostò bruscamente mentre le risa di Kate si trasformavano in fastidiosi singhiozzi.

“Ah ah, sono così divertito che mi si stanno sfaldando le mutande.”

“Quello mi piacerebbe vederlo.” Schioccò Natasha, mettendosi seduta sul bracciolo del divano.

“A me pure…” singhiozzò Kate, passandosi le mani sul viso ormai congestionato.

“Dove diavolo avete preso quella roba?” domandò allora, un po’ per chiarezza un po’ per deviare l’attenzione da uno scherzo che non trovava particolarmente divertente. Andò a frugare nella dispensa, in cerca di caffè, per tenersi occupato e far evaporare il presunto smacco.

Non sentì rispondere, ma quando si volse per guardare il duo maledetto, Kate aveva alzato la mano come una scolaretta, pronta a prendersene tutta la responsabilità.

“Non credevo che oltre a essere milionaria fossi anche un genio”, colpì a fondo, senza darsi la pena di preoccuparsi di aver esagerato.

“No infatti, sono solo sfacciatamente milionaria.” Rispose lei, apparentemente affatto turbata dal suo dannoso malumore.

L’uomo si volse a guardarla. Natasha lo aveva raggiunto per togliergli di mano il caffè mormorando un pacato: lascia, faccio io.

“Non pensavo queste cose fossero ancora sul mercato. Credevo fossero state dichiarate fuorilegge… trilioni di anni fa.”

“Infatti lo sono… ma il traffico illegale è ancora piuttosto fiorente.”

Clint le lanciò un’occhiata perplessa.

“Un’attrezzatura simile richiede ingegneri di un certo livello. Una ragazza dell’alta società che rischia di infangare il nome della propria famiglia… intrattenendo rapporti con i trafficanti, per proteggere due… ricercati.” Indicò se stesso e Natasha, impegnata nella complicata operazione di riempire il filtro del bollitore.

Si rese conto che le mani di lei si muovevano veloci. Molto veloci. Natasha e quel dannato caffè. Perché non aveva mai pensato prima a come Natasha e il caffè fossero stati strettamente connessi in quegli ultimi giorni? A come si fosse sempre preoccupata di somministrargli la sua dannatissima dose ogni santo giorno? Certo, a cose normali un mero atto di gentilezza… ma… la costanza e la cura con cui si preoccupava sempre di…

Clint non si lasciò sfuggire un solo movimento di quell’operazione. Improvvisamente qualcosa cominciò a suonare distorto, nella sua testa. Una sensazione più che altro. Qualcosa che era rimasto latente fino a quel momento, ora pronto a scatenarsi. “Suona un tantino strano. O al massimo un atto di scriteriata ribellione.” Concluse il discorso rimasto in sospeso, cercando di focalizzare sull’argomento. Senza però perdere d’occhio un solo istante la donna al suo fianco.

“Bè, ti assicuro che la scriteriata ribellione preferisco praticarla in altre, più piacevoli modalità”, rispose Kate, “e comunque credevo ormai fosse chiaro perché lo faccio.” L’espressione sul volto di Kate era cambiata. E se una parte di lui si sentiva in colpa, l’altra continuava a macinare ragionamenti.

“Oh, certo, perché hai detto di essere mia amica… suppongo.”

“Bè, di certo non perché mi piace la tua faccia.”

“Simpatica.”

“Clint…” Natasha aveva interrotto ogni cosa, come avesse avvertito il cambio di atmosfera.

“No. No, va bene. Direi che va bene”, si scostò quel tanto che bastava a prendere le dovute distanze, perfettamente conscio di ciò che stava cominciando a crescergli dentro, in modo affatto preventivato, “però magari è arrivato il momento di scoprire qualche carta, non trovate?”

Natasha era rimasta ferma sul posto, mentre Kate si era alzata in piedi.

L'aria adesso era decisamente diversa. Si era fatta pesante o lo era sempre… stata?

“Clint, ti ho già spiegato che…”

“Ah so perfettamente cosa… mi hai spiegato, Natasha. Ma non potete pensare che possa davvero restarmene qui buono, mentre voi fate cose, senza darmi mezzo indizio a riguardo.”

“A me pare che sia proprio quello che stiamo facendo… e che funzioni comunque.” Kate.

“Funziona dite? A me pare che invece questa storia stia cominciando a degenerare a livelli improponibili, a partire, chessò! Dal fatto che siamo ricercati da polizia, FBI, magari la CIA o l’MI6! Che lo SHIELD pare averci abbandonato e che… boh, continuo a fare sogni osceni di gente marcia e ho un casino mostruoso in testa?”

“Gente marcia?” Kate guardò Natasha, apparentemente confusa.

“Devi fidarti di noi Clint.” Sembrò insistere la donna; non per un solo istante era crollata la maschera di sicurezza, nemmeno di fronte al giustificato sfogo del compagno.

“Fidarmi. L’ho fatto. Fino ad ora l’ho fatto… ma adesso ci sono un po’ troppe cose… che mi sfuggono. E magari, invece di continuare a dirmi che dovrei fidarmi, potreste spingere un po’ di più sull’acceleratore per risolvere la situazione.”

“Spingere sull’acceleratore potrebbe essere disastroso.”

“Potrebbe essere disastroso raccontarmi qualcosa, ma infilare ogni mattina della droga nel mio caffè, no?”

Natasha, per la prima volta, parve irrigidirsi. Gli occhi che si sgranavano appena in un impercettibile cenno di sorpresa.

“Di che sta parlando?” questa volta era stata Kate a dare voce ai suoi dubbi. E a Clint non ci volle nessuna tecnica in particolare per capire che la sua sorpresa era reale. Qualsiasi cosa stesse cercando di fare Natasha, di certo non aveva reso partecipe la ragazzina.

“Di niente. Vaneggia.” Rispose la donna, l’espressione tornata rigida e fredda quasi per riflesso. Non l’avesse conosciuta così bene, forse… le avrebbe persino creduto.

Delirare dopotutto non era una novità in quegli ultimi giorni.

“Non vaneggio, ti ho vista. E mi è bastato fare due più due. Da quando sei rientrata nella mia vita miracolosamente dormo la notte, come non avevo più fatto da tre anni a questa parte”, come non aveva fatto nemmeno prima di entrare nello SHIELD, “e chissà come, quei cazzo di incubi… sono arrivati esattamente come conseguenza. In più sarà anche vero che tante cose non le ricordo, ma non sei mai stata così servizievole da offrirmi il caffè la mattina. Anzi, ricordo le tue… perpetue lamentele sul fatto che mi facesse male imbottirmi lo stomaco di tutta quella caffeina.”

Natasha rimase in silenzio e qualcosa gli disse che non era sua intenzione smentire, stavolta, forse persino un po’ sorpresa di quel ricordo inaspettato.

“Lo sapevo…” concluse allora Clint, “perché?”

“Perché non sapevo come altro fare per…”

“Plagiarmi?” gli sfuggì un po’ troppo rapidamente.

“Aiutarti a ricordare!” gli rivelò lei, nel suo sguardo l’offesa adesso ben visibile.

“Chi mi assicura che tutto questo non sia solo una scusa per convincermi a fare cose… che non ho assolutamente intenzione di fare, ah?”

“Clint…” la voce di Kate stavolta a interrompere l’ormai irrefrenabile crollo delle dighe.

“Zitta, con te ci faccio i conti dopo”, l’ammonì con un solo cenno della mano, “la missione, la fuga, il fatto che non ricordi, la droga nel caffè, una ragazzina piena di aggeggi tecnologici di cui non so un cazzo. Chi me lo dice che invece di aiutarmi a ricordare, non stiate architettando qualcosa per costringermi ad aiutarvi con qualcosa che interessa solo voi?”

“Non dovremmo aver bisogno di dirtelo.” Disse Natasha.

“Sì, ed è anche un tantino offensivo che tu lo abbia insinuato, se proprio vogliamo dirla tutta…” si intromise Kate.

“Ti ho detto di stare zitta”, la fulminò con lo sguardo.

“Oh, ma dico!”

“Natasha, voglio che mi dici la verità. Adesso.”

“Non posso fare più di quanto non stia già facendo.”

“Tipo la droga? O tipo venire a letto con me? Anche quello faceva parte del piano?”

“Barton.” La voce si era improvvisamente impennata su toni pericolosi.

“Oh andiamo, lo sanno tutti qual è una delle specialità della Vedova Nera. Non devo nemmeno sforzarmi troppo per ricordarlo questo, sai? Irretire, colpire.”

“Clint forse dovresti stare zitto tu, adesso.” Di nuovo la voce di quella petulante ragazzina viziata.

“Oh sì, facciamo sentire al sicuro Clint, ammorbidiamolo con il sesso, vediamo fin dove è disposto a spingersi per una bella scopata con-”

Il manrovescio che interruppe il suo osceno soliloquio fu un bel po’ più forte di quanto non si fosse aspettato. Natasha adesso gli era di fronte, lo sguardo furente di rabbia e indignazione, umido in un modo che per la prima volta non seppe riconoscerle. Kate, al loro fianco, non emise un fiato: se la sentì spostarsi dalla scena, come a lasciarli soli in quel fatidico momento, fu solo perché quasi inciampò nel filo di quella sua datata console.

Clint fissò lo sguardo in quello della Vedova Nera, mentre qualcosa di ben più stramboide dell’intera situazione in corso cominciò ad agitarglisi nello stomaco. Forse aveva esagerato. Forse era solo l’unico modo con cui si era stupidamente sentito in diritto di strapparle una qualsiasi reazione, una qualsiasi confessione. Il fatto era che lo schiaffo bruciava. E così come poteva percepire quello, ebbe la temporanea illusione di riuscire finalmente a vedere Natasha. Oltre lo strato di fandonie o silenzi, oltre ogni sospetto.

“V-voglio parlare con qualcuno dello SHIELD.” Disse solo. Intenzionato a non lasciarsi intimorire dall’improvviso senso di colpa o dagli occhi così intensi (e feriti?) della donna.

“No.” La voce di lei tremava, ma sembrava ben intenzionata a non lasciarlo fare, così come forse aveva sperato succedesse, dopo averla destabilizzata in quella maniera.

“Non puoi impedirmelo.” L’aveva superata, deciso a recuperare il suo vecchio, obsoleto cellulare, ma si sentì prendere per un polso.

Si volse di scatto per liberasi da quella morsa di ragno solo per trovarsi di nuovo a dover schivare un secondo tentativo di frenata.

“Lasciami!”

“No.” La sua ostinazione e ancora un tentativo di schivarla.

“Smettetela voi due!” Kate era riemersa dal suo silenzio di tomba solo per sedare gli animi.

“Perché non posso chiamare lo SHIELD? Se non avete niente da nascondere, nemmeno questo dovrebbe essere un problema!”

Di nuovo Natasha gli fu di fronte, ben determinata ad affrontarlo in qualsiasi modo pur di impedirgli di farlo.

“Adesso mi hai rotto le palle.” Si preparò a strattonarla in malo modo ma lei fu più veloce a scansarlo e colpirlo. Il contraccolpo ai reni contro il tavolo del soggiorno gli mozzò il respiro per un attimo.

E poi tutto accadde in modo un po’ troppo rapido per riuscire anche solo a ricostruirne o giustificarne le dinamiche. Natasha lo stava attaccando e Clint non si risparmiò nemmeno un colpo per parare e contrattaccare le sue mosse. Un colpo al volto, uno nello stomaco. Lui le falciò le gambe ma il gomito di lei andò a cozzare con il suo mento. Una lotta di quelle senza senso, senza dinamiche interessanti, solo uno stupido sfogo che nessuno dei due sembrò intenzionato a sedare dopo averne compreso la natura.

“Fermatevi, fermatevi!” la voce della ragazzina alle loro spalle non era che un'eco. Un sottofondo impalpabile, un richiamo che andava via via smorzandosi, ad ogni colpo, ogni affondo, ogni disperato, stupido e vigliacco tentativo di spazzare via quell’ondata di frustrazione e… dolore. Forse si trattava davvero solo di… dolore.

Tutto quel dolore represso per troppi anni, che ora riusciva a percepire ad ogni colpo ricevuto, ogni calcio. Ogni volta che la presa si faceva violenta, ad ogni scricchiolio di ossa, in ogni ansito sotto sforzo, ogni sfrigolio di denti, nell’umido della pelle accaldata, in ogni flessione muscolare.

Tutto veniva amplificato, esplodendo dal centro dello stomaco, del petto. Il dolore che prendeva forma e scaricava sull’avversario. Come a liberarsi di quel peso e restituirlo amplificato.

Uno con l’altro, in una danza distruttiva, un annichilente spreco di energie.

“Ho detto di smetterla!” la voce di Kate che gridava era tornata a farsi sentire solo perché ora la fatica e l’inutilità di quello scontro stavano diventando troppo.

Clint e Natasha, le mani uno sull’altra, fermi al centro della stanza, ansimanti, le mani di lui attorno al collo di lei e quelle di lei a trattenerlo, ben conscia di avere il potere di spezzargli entrambi i polsi con un solo, calibrato movimento.

Un solo attimo sospeso che lasciò appena il tempo a Clint di chiedersi cosa fossero diventati, come ci fossero arrivati. E perché doveva continuare ad abbattersi sull’ostinazione di lei a non dirgli nulla, a non averlo fatto per tre lunghi anni.

“Voglio parlare con Coulson”, la voce gli era uscita bassa, roca, esausta.

La donna si limitò a fissarlo. Negli occhi ancora quello sguardo misto di furia e compassione, rabbia e frustrazione.

“Non puoi…” di nuovo quella sua dissennata insistenza, il viso congestionato dalla presa di lui, ma ben ferma la determinazione a non mollare il colpo.

“Perché?” si limitò a chiedere, adesso una punta di disperazione a condire quel patetico scenario.

Natasha si limitò a fissarlo in silenzio, come nella speranza che desistesse da quell’assurda sete di sapere. E la cosa ebbe il potere di riaccendere di nuovo quella scintilla di furia repressa.

“Perché?” gridò di nuovo scuotendola, “rispondi, cazzo, perché?”

“Perché Coulson è morto!” a dar voce a quell’assurda risposta era stata Kate. Kate che non aveva potuto far altro che assistere a quel ridicolo sfogo, senza sapere come intervenire. La stessa Kate che adesso li fissava sconvolta e spaventata. Le mani che le tremavano mentre imbracciava un lungo bastone per farne dio solo sapeva cosa.

Clint si volse a fissarla. L’aria stravolta. La maschera di un folle, inebetito, schiacciato dal peso di una risposta che non aveva senso, che non riusciva a comprendere.

Gli scaturì dal petto una risata del tutto inaspettata.
“Di che diavolo stai parlando?”

“E’… è morto, Coulson è morto, tre anni fa”, di nuovo Kate, mentre Clint abbandonava le mani e Natasha scivolava via dalla sua presa.

“K-Kate, no.” La sentì solo dire, la voce smorzata da quella violenta pressione sulla trachea.

“N-no? I-Invece sì. Clint deve sapere che Coulson è morto. Deve sapere che… che lo SHIELD ormai non è altro che una stupida… c-copertura.”

“Questo non ha senso… non ha senso per niente.”

“Non ha senso? Volevi delle risposte? Eccotele, le tue risposte. Coulson è morto! Ficcatelo bene in testa! Per questo non lo puoi chiamare, per questo non puoi chiamare nessuno di quel fottutissimo SHIELD!”

“Kate…”

“No, Natasha. Lui voleva sapere, e io gli dico come stanno le cose! Non gli permetterò più di accusarci di essere delle sporche manipolatrici quando ci siamo fatte il culo per proteggerlo in questi tre fottutissimi anni!”

“Proteggere me? Da cosa… di che cazzo stai parlando? Coulson è vivo, ci ho parlato meno di due giorni fa!” protestò Clint, avanzando di un passo verso la ragazzina che aveva scagliato a terra il bastone, con aria furente, di sfida.

“Ne sei sicuro? Prova a scavare un po’ più a fondo in quella testa di cazzo che ti ritrovi, Occhio di Falco!”

“E’ sempre stato Coulson ad affidarmi le missioni per lo SHIELD in questi tre anni, lo so! Ci ho parlato. Mi ha sempre fornito il materiale!”

“E’ stato lui? Ne sei sicuro? Eppure un professionista del tuo calibro dovrebbe saperle cogliere le differenze.”

“Io…” un lieve mal di testa stava andando a formarsi sulla tempia già colpita dall’esplosione dei robot. Pensò inizialmente si trattasse solo della conseguenza delle botte ricevute da Natasha. Oppure un malfunzionamento delle riparazioni approssimative di Selvig. Ma quando il dolore cominciò a divenire insistente, comprese che c’era qualcosa di molto meno banale in gioco.

Una stilettata improvvisa sembrò perforargli il cranio e per un istante la vista andò a farsi benedire in un cono d’ombra.

“Clint!” era la voce di Natasha?

Quando si trovò di nuovo ad aprire gli occhi il mondo si era ribaltato. O molto più banalmente lui era caduto a terra. La donna, sopra di lui, stava cercando di dirgli qualcosa, ma la voce risuonò solo come il fruscio di un disco rotto.

Una seconda stilettata lo irrigidì tutto e di nuovo il suo mondo si fece di pece, oscura e pastosa stavolta. Un tremendo sapore metallico sotto la lingua, come di sangue o lamine di ferro fuso.

Non riuscì a riaprire gli occhi stavolta, ma fu certo di avvertire l'odore di fumo e circuiti bruciati.

 

“Clint!”

 

*

 

Note:

“Coulsooooon you will be avenged!” Perché sì, è tornado il tormentone, anche qui. Mi fa ridere dato che questo capitolo praticamente lo avevo scritto prima di quello dell’altra ff dove (spoiler!) Coulson fa la stessa fine e hanno finito per coincidere con le date di pubblicazioni ma… vabbé.
Ormai è un marchio di fabbrica. Quando scriverò una ff con Coulson che sopravvive, probabilmente crasherà il sito.
Festeggio pubblicando un nuovo capitolo, prima di tutto perché ho finalmente finito Sleep Twitch e adesso posso dedicare tutta la mia attenzione a finire questa. Ma dato che era un po’ che lasciavo a bocca asciutta chi è interessato a Dark Rain, mi sembrava brutto spegnere le speranze, perciò sono qui per assicurare che ci sto lavorando. Davvero. Animata di nuovo spirito.
Come al solito ringrazio tutti quanti, anche per la pazienza di avermi aspettata. Chi continua a seguire la storia e la mia beta, sempre preziosissima. Ci risentiamo presto!

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


CAPITOLO 8

 

La stranezza è nella mente di chi la percepisce.

(Preludio alla Fondazione – Isaac Asimov)

 

*

 

Si mise seduto di scatto e tutto ciò che vide fu una coltre di fumo nero. Si coprì la bocca con un braccio, la vista che non riusciva a focalizzare i dintorni.

“N-Natasha?” si sforzò di rimettersi in piedi e si accorse, con sorpresa, di essere molto meno in difficoltà di quanto credesse.  Le gambe parevano leggere, quasi inconsistenti. La fatica dileguata. Solo lo stomaco sembrava essere precipitato in profondità, come se l’ansia potesse essere misurata in miglia.

Cercò di orientarsi e si stupì di non riuscire a riconoscere niente della stanza in cui ancora aveva creduto di essere.

“Kate?” fece un secondo tentativo, ma tutto quello che gli rispose fu il crepitio delle fiamme che bruciavano vivaci da qualche parte, oltre quei corridoi.

Gli stessi identici corridoi del suo sogno?

Che stesse ancora percorrendo le vie oniriche della sua coscienza? Stavolta però ben consapevole di essere solo dentro a una visione. O a un ricordo.

“Questo è r-ridicolo.” Si trovò a mormorare, seguendo un istinto che lo conduceva lontano da lì, verso un corridoio che improvvisamente sentì di avere già percorso.

E poi furono voci, migliaia di voci, e corpi che si dimenavano frenetici, terrorizzati, straziati.

Corpi in fuga, corpi insanguinati che arrivavano da ogni dove, un’onda travolgente e insaziabile.

“Coulson!” si sentì gridare, “Coulson!” la mano stretta attorno a una pistola che aveva solo realizzato in quel momento di avere.

Doveva trovare Coulson. Aveva la priorità. Aveva visto Natasha inforcare una delle vie di fuga, ad accompagnare le persone in isterico fuggifuggi, ma Coulson? Che fine aveva fatto Coulson?

Eppure era certo di aver scorto l’uomo poco prima dell’esplosione. L’ultima deflagrazione che aveva provocato la prima ondata di caos.

 

*

 

Clint era dannatamente pesante.

E poteva dirlo pur utilizzando il suo braccio robotico potenziato. Poteva dirlo perché ormai era un peso morto e le scivolava dalle braccia così come avrebbe fatto un'anguilla impazzita.

Perché oltre ad essere un peso morto aveva preso ad agitarsi. Forse per via di uno dei suoi incubi o forse per via di quelle scariche elettriche che gli stavano definitivamente friggendo il cervello.

Un elettroshock non richiesto. E la puzza di bruciato. Dio, quell’odore insopportabile di circuiti bruciati. Che le era così familiare quando aveva a che fare con quei vecchi computer che, un po’ per lavoro un po’ per diletto, aveva preso a riparare.

A volte quell’odore preannunciava solo un guasto a cui si poteva porre rimedio. Altre… ci si doveva solo sbarazzare del computer.
Non era pronta a sbarazzarsi di Clint Barton però. Ma era certa di non essere in grado di poterlo riparare così come faceva con le macchine. Ed era sicura che nemmeno contattare il dottor Selvig, stavolta, sarebbe stato sufficiente.

C’era solo una persona in grado di farlo: l’uomo che lo aveva ridotto in quello stato.

“Siete forse impazzite?”

L’ingegnere – così come amava farsi chiamare da un paio d’anni a quella parte – sbucò dalla porta del suo laboratorio, incespicando in un paio di larghi stivali di gomma. La pioggia degli ultimi giorni era stata troppo violenta anche per quel bunker impenetrabile e pozze d’acqua più o meno consistenti erano adesso sparpagliate un po’ dappertutto sul pavimento.

“Vi rendete conto che fuori è ancora giorno? Chiunque avrebbe potuto vedervi entrare qui dentro!”

Natasha lo ignorò per l’ennesima volta ed entrò in quello che era il laboratorio centrale della topaia, senza dare peso alle rinnovate proteste dell’uomo che non aveva potuto impedirle di entrare. Probabilmente maledicendo il giorno in cui le aveva dato libero accesso. Andare e venire come le pareva faceva comodo anche a lui. Per tutte le volte che gli aveva dato una mano a recuperare qualcuno dei suoi introvabili pezzi di meccanica.

Natasha si limitava ad eseguire le sue direttive senza fiatare perché in debito con lui. Il braccio che si portava appresso – gioiellino di biomeccanica – era stato un regalo. In ogni caso non si sarebbe mai potuta permettere di pagarlo.

“Barton ha avuto un problema.” Si limitò a rispondere, mentre invitava tacitamente a Kate a sbarazzarsi di tutte le cianfrusaglie sul tavolo centrale per poterci sistemare Clint.

“No! Ehi, un po’ di garbo, sono circuiti fragilissimi!”

“Un ammasso di bulloni e viti?” domandò Kate scettica.

“Sono i miei bulloni e le mie viti!” lo sentì protestare, mentre il cigolio di quei ridicoli stivali color rosso e oro sottolineava la sua agitazione.

“Che cazzo è successo?” lo vide farsi estremamente professionale, mentre avvicinava una piccola torcia per illuminare il viso di Clint: l’espressione era sofferente e non aveva ancora smesso di agitarsi, ma adesso il ronzio prodotto dai circuiti accanto alla sua tempia era troppo rumoroso per essere ignorato.

“Non lo so, credo si sia bruciato qualcosa lì dentro.”

“Lo sento…” lo vide avvicinare una mano al viso e ritrarlo come scottato, “e come cazzo è successo? Gli è esploso in faccia un altro sbirro-androide?”

Natasha esitò per un istante, prima che Kate le venisse in aiuto.
“Credo che sia stata colpa mia…” confessò, posando le mani sul lucido tavolo di metallo. L’espressione atterrita e preoccupata di chi ha combinato qualcosa di grosso, qualcosa di irreparabile. Non riuscì a provare pena per lei. Ma sapeva se ne sarebbe assunta tutte le responsabilità.

“E hai intenzione di dirmi che cosa è successo o devo tirare a indovinare?” ribatté spazientito l’ingegnere, mentre cominciava a preparare qualcuno di quei gingilli che usava per lavorare, aggeggi che Natasha non era mai riuscita a capire a cosa servissero.

“Ho risvegliato bruscamente uno dei suoi ricordi.”

“Uno solo?”

“Uno sì… e... lo so! Lo so che avevi detto che sarebbe stato pericoloso e bisognava agire con cautela, ma lui si è spazientito, Natasha si è spazientita, io mi sono spazientita e… credo di avergli gridato in faccia, forse, più o meno che… Coulson è morto.”

L’uomo fermò qualsiasi attività stesse portando avanti per lanciare uno sguardo attonito alla ragazzina e poi direttamente a lei.

“Che cosa?” infine la sua espressione si fece furibonda. L’occhio cieco, bruciato dall’ustione che gli deformava metà del viso, dardeggiò per un istante di una luce pericolosa.

“Lo sapevo che non dovevamo coinvolgerla questa qui!” puntò un dito contro Kate, ma guardando  Natasha, in una plateale accusa, “sacrifici, reclusione e segretezza per lasciare che una ragazzina sciocca mandi a puttane un progetto a cui stiamo lavorando da anni!”

“Lo sai che non potevamo non coinvolgerla…” entrò in suo aiuto, infastidita dal modo in cui si era permesso di apostrofarla.

“Avremmo potuto! Avremmo trovato un modo! Nessuno ha bisogno dei suoi soldi! Né tanto meno della sua stupidità!”

Con la coda dell’occhio vide Kate spostarsi dal tavolo di lavoro.

“I miei soldi non ti facevano tanto schifo quando ti ho proposto di finanziare qualsiasi cosa avessi in mente di fare!”

“Mi sono fidato, solo perché la Romanoff qui ha interceduto per te. Sennò col cazzo che ti avrei reso parte dell’intera faccenda! Ti rendi conto di quello che hai fatto? Ti rendi conto di quanto sia importante quello che stiamo facendo? Ti sei mai soffermata a pensare, anche solo per un secondo-”

“L’ho fatto. E lo so! Ma Clint è amico mio! È amico mio! Mi sono unita a voi per aiutare lui, non te e i tuoi stupidi progetti! Se mi sono proposta di offrirti dei fondi per permetterti di lavorare in gran segreto nel tuo schifoso laboratorio degli orrori, è solo perché era coinvolto. Solo perché ero preoccupata per lui, solo perché sapevo quanto fosse pericoloso…”

“Bella mossa allora quella di avergli detto di Coulson, potresti avergli fottuto completamente il cervello, questo lo sai, sì?”

“Se credi che non mi senta già sufficientemente in colpa per questo…”

“Massì, un paio di spinelli e tutto passa, no? Come se non conoscessi i vizi di voi ragazzi ricchi.”

“Senti da che pulpito viene la…”
“Adesso basta.” Natasha si era avvicinata a entrambi e aveva pronunciato quelle parole a fatica con la preoccupazione e il fastidio per quell’inutile discussione, mentre Clint stava finendo di bruciare internamente come un braciere morente.

“Puoi sistemarlo?” andò direttamente al punto, ben consapevole che non avrebbe dovuto aggiungere altro.

L’uomo le rivolse uno sguardo impaziente.

“Non lo so”, disse, andando a recuperare un grosso macchinario provvisto di rotelle. Puntò su di lui una luce al neon, attirando a sé un lungo braccio metallico, “dovrei aprirlo per capire.”

“E allora fallo.” Disse guardandolo direttamente negli occhi, fissandosi solo per un istante in quello pallido e cieco.

“Potrebbe essere tutto inutile.”

“Potrei anche farti saltare i coglioni, perché mi scappa il dito sul grilletto. Tutto può succedere.”

“In questo momento non dovresti mettermi questa ansia addosso, è della vita di Barton che stiamo parlando.”

“Della vita di Barton e dei tuoi cazzo di files. Mettiti al lavoro, abbiamo poco tempo.”

E nel dirlo non intendeva solo che la clessidra della vita si stava lentamente consumando per Clint, ma perché era sicura che… alla luce del giorno, qualcuno li avesse seguiti ai laboratori dell’ingegnere. Presto non sarebbero più stati soli.

 

*

 

Coulson lo osservava con occhi vitrei. Circondato da circa una decina di civili che avevano subìto la sua stessa sorte.

Erano esplosi almeno una quindicina di androidi. Uno dopo l’altro, come una sorta di macabro fuoco d’artificio. I loro arti robotici erano schizzati un po’ da tutte le parti e i pochi sfortunati che si erano trovati sulla loro traiettoria ne avevano affrontato le conseguenze.

Circondato da schizzi di sangue e carne maciullata, si avvicinò all’uomo, come incuneato in un tunnel che gli impediva di notare altro.

Phil doveva essere morto all’istante. Se per la spinta dell’esplosione e il contraccolpo contro la colonna di granito o per via del gancio diretto di una di quelle teste robotiche, Clint… non seppe dirlo.

Sapeva solo di aver raccolto da terra l’amico e collega e di esserselo caricato sulle spalle, di essersi fatto strada fra la cortina di fumo e calcinacci e aver sperato di poter guadagnare la prossima uscita senza incappare in altri ostacoli.

L’inferno formato tecnologico si era appena scatenato. E il rumore delle esplosioni, all’esterno, dava chiaro il segnale di quanto la lotta, la guerriglia urbana, non si fosse ancora estinta del tutto.

Poi il segnale. Su quell’apparecchio di riconoscimento biometrico a riferirgli che no, il suo compito non era ancora finito lì dentro.

Che nonostante tutto quello che stava succedendo, la questione di quel disastro di proporzioni smisurate non era ancora risolta. E probabilmente non lo sarebbe stata mai se non ne avessero catturato il responsabile.

“Clint!” la voce di Natasha, provvidenziale e ineffabile. Doveva essere tornata indietro per accertarsi di aver fatto evacuare tutti i civili. Come se poi spettasse a loro un tale compito. I servizi di sicurezza locale si erano dileguati come neve al sole, alla prima esplosione. I civili lasciati in balia dello scompiglio più nero.

Lo SHIELD si era reso responsabile di aver appoggiato il presunto fautore di quel disastro preannunciato. I vertici dell’organizzazione si erano ben guardati dal restare a vigilare sulla folla in delirio.

Nessuna mossa di altruismo. Una fuga per salvare le apparenze. Il coinvolgimento.

Si trovò davanti la donna che a malapena riusciva a reggere Coulson. La vide sgranare gli occhi e sbiancare. Un’espressione dolente, incredula.

“Ma è…”

“Voglio che lo porti fuori, Natasha.”

Si sforzò di rispondere, di non pensare che quello che stava reggendo fra le braccia era solo il cadavere di un amico. Avrebbe avuto modo più tardi per piangerlo, adesso c’era qualcosa di più concreto da portare a termine.

E poi una nuova esplosione, stavolta a minare la già precaria situazione del soffitto. Lo vide cadere a pezzi fra calcinacci e macerie. E un numero indefinito di grossi robot fare di nuovo irruzione nel salone principale, come una serie di angeli vendicatori, tornati per portare a termine il lavoro che avevano cominciato.

“E tu non vieni?” incalzò la donna alla quale aveva già passato il testimone. Le lesse qualcosa di profondamente turbato negli occhi, ma cercò di ignorarlo.

“Ho ricevuto un segnale dell’uomo che stiamo cercando. È ancora all’interno del palazzo.”

“Clint non c’è tempo per andargli dietro!” la voce che cercava di elevarsi oltre il rombo delle esplosioni. Della distruzione.

“Ma non possiamo lasciarlo qui!”

“Dobbiamo!” con una mano, con la testa a fargli capire che alle sue spalle si stava consumando l’ennesima catastrofe.

“Non io! Tu vai! Io ti raggiungo.”

“Clint!”

“Vai!”

Non si fermò a vedere se aveva seguito il suo ammonimento, prese a correre dalla parte diametralmente opposta alla sua. Deviando dalla traiettoria che lo avrebbe spinto in bocca agli androidi impazziti delle Stark Industries.

Diede un pugno all’apparecchio che gli rimandava un segnale disturbato. Tornò in asse dopo l’ennesima botta. La mappa del palazzo si dispiegava passo dopo passo, con quella luce verde acido che indicava i suoi spostamenti all’inseguimento dell’uomo che stavano cercando.

 

*

 

Era la quarta volta che quell’androide dalla forma tubolare le passava davanti al naso.

Affaccendato a sistemare la stanza come nemmeno una casalinga disperata.

Il laboratorio dell’ingegnere era un disastro. Kate non aveva mai avuto modo di visitarlo prima di allora o di capire effettivamente su cosa avesse investito i suoi soldi.

Ora capiva il perché di tutta quella segretezza: un sopralluogo preventivo l’avrebbe dissuasa certamente dall’appoggiare quell’insano progetto. Il progetto di una sottospecie di dottor Frankenstein caduto in disgrazia che si divertiva a giocare con la meccanica.

Quel posto era uno schifo. E forse schifo non era nemmeno la parola più adatta per rappresentare decentemente il suo disgusto.

Oltre alle infiltrazioni che – adesso che le luci erano state finalmente accese, riusciva a notare –  avevano prodotto muffa un po’ ovunque, le pareti erano gremite di arti e corpi mutilati di robot ormai in disuso. Una sottospecie di cimitero di androidi che con le loro teste mozzate e amputazioni di vario genere, sembravano più un dietro le quinte di un teatro delle marionette. Macabre quando bastava a farle venire i brividi.

Per non parlare poi di tutti quegli aggeggi che sembravano rappresentare più una specie stanza delle torture che un laboratorio scientifico.

E poi c’erano i macchinari moderni. Quelli che probabilmente lei stessa aveva pagato, senza che fosse mai stata interpellata a riguardo. Uno di questi, al momento, sembrava avere in mano le sorti della vita di Clint Barton.

Non aveva voluto assistere da vicino all’operazione. Le piacevano i film splatter, adorava le serie televisive zeppe di mostri e sparatorie, ma quando si trattava di avere a che fare con il sangue, quello vero, quello delle corsie di ospedale, faticava a reggerne il confronto.

E poi si sentiva in colpa. Terribilmente in colpa. Se solo avesse tenuto la bocca chiusa, se solo avesse contato fino a dieci prima di pronunciare quelle tre stupide parole che avevano causato il corto circuito.

Ma Clint sembrava impazzito. Irragionevole e poco lucido come raramente in vita sua l’aveva visto. Era consapevole del fatto che dopo tutti quei giorni e il carico di guai, la frustrazione avesse avuto la meglio su di lui, ma non era riuscita comunque a frenare la rabbia nel percepire l’ingratitudine che aveva manifestato nei suoi confronti… ma soprattutto nei confronti della Romanoff.

E adesso Clint era lì, steso su un sudicio tavolo da laboratorio, con il cranio aperto e un numero indefinito di elettrodi che dovevano assicurar loro che non ci avrebbe rimesso le penne.

L’ingegnere era stato rapido. Veloce. Le mani erano state abili. Ma le tornò in mente quel vecchio detto: l’operazione è riuscita alla perfezione, ma il paziente è morto.

Morto. Non avrebbe permesso a Clint di morire. Piuttosto lo avrebbe strappato a forza da quel lettino e, a costo di costringerlo al carcere a vita, lo avrebbe trascinato in ospedale. In una delle migliori cliniche della città. In barba a quello che avrebbe potuto pensare suo padre. A costo di dovergli spiegare che tutti i soldi che aveva attinto dal fondo che le era stato destinato per il suo futuro erano andati a finanziare un progetto clandestino, di cui lo stato, le forze dell’ordine e i servizi segreti tutti, non erano certo stati interpellati a supervisionare.

Clint le aveva salvato la vita, un giorno di almeno sei anni prima.

Fare altrettanto per lui, avrebbe valso il tentativo. A costo di mandare affanculo tre interi anni di lavoro.

“Tieni…” si trovò di fronte una tazza di caffè nero bollente. Natasha le stava di fronte. Si era infilata una felpa dai colori troppo accesi per contrastare il freddo di quella topaia umida e fredda.

“Grazie”, le disse raccogliendo quell’offerta con gratitudine. La scrutò solo per un istante, per capire se ce l’avesse con lei per aver provocato incoscientemente quel disastro. Ma la Romanoff non era solita lasciar trasparire facilmente le sue emozioni. Suppose di doversi accontentare del gesto. Ma quando portò le labbra alla tazza si chiese se non fosse solo un modo come un altro per attuare la sua vendetta. Dopotutto la conoscevano tutti quanti la fama della famigerata Vedova Nera.

“Non ci ho messo niente dentro. Solo un po’ di zucchero.” La prevenne andando a sederle di fianco.

“Proprio… come piace a me.” Si affrettò a berne immediatamente un sorso, sentendosi subito in colpa per il pensiero. Dovette ammettere che si sentì subito meglio. Il tepore della bevanda andò a riscaldarle lo stomaco, ancora contratto dall’ansia.

Tenne le mani aggrappate attorno alla ceramica per lasciare che anche le sue dita ne traessero conforto.

“Credi che se la caverà?” le chiese, mordendosi appena il labbro inferiore. La voglia di piangere a premerle lì, nella gola e agli angoli degli occhi.

“Barton è come l’erba cattiva.” La sentì rispondere e non seppe dire se credesse lei stessa o meno a quelle parole.

“Non avrei dovuto dirgli di Coulson. Non so perché… non so perché diavolo l’ho fatto.”

“Sappiamo tutte e due perché lo hai fatto. E in ogni caso era tempo che la situazione si sbloccasse.”

“Sì, ma non in questo modo. I dati potrebbero essere andati perduti per sempre e allora tutti i sacrifici che avete fatto, tu, Clint e quel macellaio del dottor Frankenstein…” fece un gesto convulso con le braccia, “puff, svaniti per sempre.”

“Il dottor… Frankenstein non è il tipo da sprecare tanto facilmente un sacrificio”, le disse, “dobbiamo solo avere fiducia in lui.”

“Mi domando come tu faccia a fidarti di quel tipo.”

“Ho visto con i miei occhi ciò di cui è capace.”

“È insopportabile.”

“Questo non posso che confermarlo.”

Inspirò a fondo e starnutì. L’odore pazzesco di quel posto avrebbe compromesso per sempre quello che restava delle sue mucose.

“È vero che è stato lui a ricostruirti il braccio?”

Natasha annuì una sola volta. Gli occhi costantemente puntati su Clint.

“Mi chiedo perché… un uomo capace di cose tanto straordinarie non abbia mai pensato di sistemarsi quella… faccia che si ritrova.”

Ricordava perfettamente il suo viso tre anni prima. E come avrebbe potuto non farlo? Il suo bel volto costantemente presente sulle testate giornalistiche di settore più prestigiose, quell’espressione sempre sorridente e sfrontata. Curato ed elegante al limite del maniacale. Non aveva niente a che fare col viso che adesso sembrava più una maschera disciolta su quel grottesco occhio cieco. La sua originaria avvenenza che traspariva a tratti in quella porzione di volto che non era stata intaccata dall’ustione.

Natasha si mosse appena, e per un attimo ebbe l'impressione che avesse una risposta a quella domanda.

“È convinto che sia la sua punizione”, la sentì dire.

Kate alzò lo sguardo sull’uomo che lavorava rapido e concentrato sui circuiti che rischiavano per sempre di compromettere la memoria di Clint Barton.

Per un attimo, ma solo per un attimo, provò pietà per lui.

 

*

 

Clintuccio.

Si trovò a ricordare le parole del clown marcescente che lo aveva afferrato durante l’incubo della notte precedente.

“C’è nessuno?” domandò al niente, consapevole che nemmeno questa volta avrebbe ricevuto risposte. Eppure sapeva di possedere già tutte le risposte di cui aveva bisogno.

E poi l’improvvisa urgenza di trovare qualcosa… qualcuno.

“Lo so che sei qui. Non puoi essere andato da nessun’altra parte…” le mani ora strette attorno a una pistola che non aveva nemmeno registrato d'avere fra le mani. Il petto scosso da spasmi nel vano tentativo di espellere un po’ di quel fumo tossico.

La cortina si diradò solo quando si trovò di fronte la porta divelta di quelle che sembravano essere scale di emergenza. Poteva sentirlo quel suo cuore impazzito, battergli nel petto come un tamburo. Il sapore metallico della paura, sotto la lingua. Il sapore dell’angoscia e dell’aspettativa.

“Lo so che sei… ancora qui. Fatti vedere.” Mormorò al niente prima di allungarsi con cautela verso la porta e… udire il click sonoro di una pistola che gli veniva improvvisamente puntata contro.

“Hai ancora lo stesso fiuto per il pericolo, devo ammettere…”, quella voce… l’avrebbe riconosciuta ovunque, sogno o meno.

“E tu sei ancora più stupido… di quanto ricordassi.”

Clint lasciò cadere la pistola e lentamente si voltò, solo per trovarsi a pochi centimetri dalla lucida canna di un’arma da fuoco.

“E ora che hai intenzione di fare: spararmi?” dovette domandargli, arreso o forse solo curioso di sapere dove l'avrebbe condotto quell’insulso faccia a faccia.

“Tu che cosa faresti al posto mio… Clint?”

“Innanzitutto avrei fatto di tutto pur di… non essere al posto tuo.”

“Wow, questa sì che è una risposta ad affetto. Solo suona un tantino da santarellino, capisci?”

“Ti rendi conto di quello che hai fatto o… ti è marcito definitivamente il cervello fino a bruciarti quel briciolo di coscienza che ti era rimasta?”

“Sempre più ad affetto. Sono quasi geloso delle tue battute, sai?”

“Hai ucciso un mio amico oggi.” Sentì la rabbia ribollire nello stomaco, violenta e inaudita.

“Uno solo? Che sfiga, con tutti quelli che sono volati all’altro mondo oggi, proprio un tuo amico?”

“Si chiamava Phil. Phil Coulson.” Fece fatica a mantenere fermo il tono di voce. Sottolineare il nome per rendere quell’informazione reale. Per fargli capire, in quel suo cervello impazzito, la portata delle sue decisioni. Per rendere Phil una persona, non solo la vittima anonima di una strage.

“Phil Coulson. Quel Phil Coulson?” La sorpresa nella sua voce gli suggerì che non doveva essersi lasciato sfuggire alcun dettaglio della sua vita. “Wow. Vorrei dire che si è trattato solo di un pareggio di conti ma… non era affatto preventivato. Perciò sta bene. Ma cosa dovrei farci? Per quanto mi piaccia pensare di essere straordinario ancora… non credo di essere in grado di compiere miracoli.”

“Taci!” gridò all’improvviso, incapace di contenere la rabbia. E prima che potesse pensare a quello che stava facendo aveva ruotato su se stesso e preso fra le mani la canna della pistola che gli stava puntando addosso.

Ne seguì uno sparo e poi un fischio costante che mandò letteralmente a puttane il suo udito. Ma non si fermò.

Lo disarmò, di questo ne fu sicuro; fosse anche l’ultima cosa che faceva avrebbe fatto in modo che quel figlio di puttana finisse in gattabuia a espiare tutti i peccati di cui si era macchiato in quell’unico giorno di morte.

Si sentì colpire in faccia, una volta, due volte. L'odore del sangue a riempirgli le narici, non più di quanto non avessero già fatto il fumo e il cemento sbriciolato.

Ricordava bene la forza dei suoi ganci. Ricordava quanto fosse bravo a darne.

Ma non aveva calcolato che, in tutto quel tempo, aveva imparato a restituirne. E così fece, uno dopo l'altro. A scaricargli addosso tutta la furia della sua rabbia, della sua frustrazione.

Come avevano potuto andare a finire così le cose? Come avevano anche solo potuto concludersi in quella maniera?

Lo vide muovere le labbra, urlargli contro qualcosa. Ma le ombre del pianerottolo, illuminato solo dalla luce ammiccante di un neon rotto, gli permettevano di capire solo sporadici stralci di frasi.

Una volta era bravo a leggere le labbra. Lo sarebbe stato di più con la giusta illuminazione.

E se quella macchia scura (sangue?) che aveva preso a velargli la vista non si fosse messa in mezzo a rovinare l'ultima occasione di poterlo vedere in faccia.

Poi non riuscì più a capire quello che stava succedendo. Improvvisamente tutto divenne di pece. Il rombo ovattato di un muro che crolla. Si trovò a respirare calce e fumo, di nuovo. Il calore insopportabile delle fiamme che risalivano in lingue infuocate su per la rampa delle scale.

Il suo aggressore sparì dal suo campo visivo.

E lui lo seguì l'istante successivo, spinto a terra dalla forza della deflagrazione di una bomba.

Quando riaprì gli occhi il mondo si era ribaltato. La vista compromessa dallo stordimento gli rimandava una prospettiva distorta. Vide la pistola a terra. Sopra di lui stralci di cielo e la pioggia sottile che aveva preso a scendere e bagnargli il viso.

Il sibilo protratto che udiva gli suggerì che almeno l’udito stava tornando.  Almeno in parte.

Quando volse il capo trovò il suo aggressore.

Sedeva addossato all'unico muro rimasto integro dopo l'esplosione. Dallo stomaco usciva la punta di quella che appariva macabramente come una trave di ferro. Il volto coperto del cerone biancastro delle macerie. Le labbra dipinte del colore del suo stesso sangue. Una maschera che ricordava quella dei clown.

Cercò di allungare una mano, di toccarlo, per assicurarsi che non fosse morto. La disperazione frammentata da sprazzi di collera.

Poi lo vide aprire gli occhi e cercare improvvisamente aria in una sequenza di spasmi.

“C-clint…”

La voce non era che un sussurro ma riuscì a capire ora che cosa stava dicendo. Lo sguardo fisso su quelle labbra insanguinate.

“S-sta' fermo…” fece leva sulle braccia, cercando di rialzarsi, di andargli incontro, “non devi muoverti.”

Lo vide produrre una smorfia che lo rese ancora più grottesco, le mani che si arpionavano al terreno che cercavano di spostarsi dalla parete a cui era inchiodato.

Lo sentì produrre un grido che gli arrivò solo nell’immagine del suo viso contratto dal dolore.

Cominciò a trascinarsi sui gomiti, furioso di non riuscire a muoversi veloce quanto avrebbe voluto. Ma la testa girava ed era convinto che se avesse potuto guardarsi a uno specchio si sarebbe trovato ad osservare la macabra copia di se stesso. Il viso coperto di sangue, la testa spaccata.

“C-Clint a-aiuto. T-ti prego… a-aiuto.” Aveva sporto una mano verso di lui. Adesso lacrime di dolore gli rigavano il viso sciogliendo in parte il cerone. Probabilmente lo stesso dolore che aveva abbassato la soglia di sarcasmo e orgoglio che gli aveva visto ostentare poco prima.

E poi lo vide lasciar cadere di nuovo la mano, accasciarsi su se stesso e produrre una strana risata.

“C-che stupido. D-dopotutto e-era quello che volevi, no? Era quello che… v-volevi.”

Sentì qualcosa di doloroso lacerargli il petto al modo in cui lo stava guardando adesso. E all’accusa che improvvisamente sentiva di non meritare. Ci rivide lo sguardo della persona che era convinto di conoscere… tanti anni prima.

La stessa persona che gli aveva insegnato a catturare le rane. La stessa persona che gli aveva insegnato a battersi. La stessa persona da cui si era sentita tradito un giorno di tanti anni prima.

Prima dello SHIELD, prima di Bobbi, prima ancora di quella maledette Esposizioni Internazionali.

L’unica persona ancora in vita che poteva chiamare famiglia.

“Non era quello che volevo… Barney”, disse. Non era mai stato quello che voleva. Arrestarlo, costringerlo a confessare quello che aveva fatto. Incastrare l’organizzazione per cui lavorava. Quello desiderava.

Ma vederlo morire. E vederlo morire a quel modo. No, non era quello che voleva.

“C-che non ti avrei s-sparato lo sapevi, vero?”

“S-sta' zitto. Non p-parlare…” si ostinò a fare leva sulle braccia ormai a un passo da lui.

“T-troppo tardi.”

“Zitto…”

Lo vide richiudere gli occhi e rilasciare uno strano respiro. Afferrò uno dei suoi piedi per aiutarsi a raggiungerlo.

L’odore fetido del fumo ormai aveva raggiunto tutto quanto.

S’incanalava in spirali verso quel buco nel soffitto che ora si faceva fatica a vedere.

Sentì la coscienza venirne avvolta e tossì a lungo, tossì fino a disperdere tutte le energie che gli erano rimaste. Tossì fino a che il respiro non si fece instabile.

Fino a che quel richiamo non gli sembrò solo una visione da sogno: “Clint! Clint!”, fra le spire del sonno mortale che se lo stava portando via. Che si stava portando via entrambi.

“Dove sei?”

Aggrappato alla camicia ormai lacera del fratello, sentì il bisogno di lasciarsi trascinare lontano. Nell’incoscienza.

“Non ti vedo!”

L'ultima cosa che vide entrare nel suo campo visivo, prima che le palpebre si chiudessero definitivamente, fu un lampo di capelli rossi.

Si sentì afferrare il braccio e una mano sanguinolenta e marcescente si strinse su di lui con forza inaudita.

“Sono qui.”

Cadde svenuto in una bolla di oscuro silenzio.

 

*

 

Spalancò gli occhi solo quando l'aria prese a filtrargli nei polmoni come dopo una lunga apnea.

Si fissarono sulla luce che gli ferì la pupilla e lo costrinse a richiuderli l'istante successivo.

Vide un'ombra scura velare il rossore appena protetto dalle palpebre.

Una voce lo richiamava da lontano.

“Barton... ?”

Riaprì gli occhi di scatto e allungò una mano, afferrando quella dell'uomo che gli stava di fronte. Lo stava osservando da vicino e gli stava sventolando un cacciavite a meno di dieci centimetri dalla faccia. Il viso in penombra, l'occhio spento e vitreo. Non uno dei migliori risvegli della sua vita.

Reclinò la testa di lato e si sentì a un tratto assieme stordito e nauseato e poi euforico e assolutamente consapevole.

“S-Stark?” chiese.

Quando vide l’uomo sorridere compiaciuto, capì finalmente di essere tornato.

 

*

 

Note:
Così tornai a pubblicare questa storia. Di lunedì, perché domani sarò troppo presa per pubblicare. Sono già a un buon punto con la stesura e mi sono resa conto che la trama è mutata un po’ da quando ho cominciato a scriverla e sebbene sia diventata più psicologica e intricata di quanto pensassi… bè, mi sto divertendo parecchio a scriverla.

Non di meno… annuncio che presto entreranno in gioco altri personaggi – decisamente conosciuti, alcuni più datati di altri, ma sempre familiari. Ma non vi dico chi sono per lasciarvi il piacere di scoprirlo da soli. Vabbè, uno di questi era ovviamente Stark, del quale finalmente abbiamo svelato l’identità.Che gli è successo… lo si può intuire, ma verrà comunque spiegato per bene. L'altro era Barney... e anche con lui le cose non sono finite. Non temete, non lascerò niente di irrisolto. Titare le fila del discorso non sarà facile… anche perché gli enigmi che si sono svelati ora, sono solo i primi di una lunga lista. Ci sono nuove cose da scoprire e non saranno tutte… piacevoli.
Bene, dopo tutte queste ambigue affermazioni passo ai ringraziamenti: per chi ancora fosse intenzionato a seguire la storia, ciao. Alla mia socia e beta, miao. A tutti gli altri, bau.
Alla prossima settimana.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


CAPITOLO 9

 

“Sembra che siamo fatti per soffrire, è il nostro destino nella vita!”

(Guerre Stellari)

 

*

 

Se qualcuno gli avesse detto che i primi minuti della sua rinascita mentale sarebbero stati tanto frenetici… avrebbe preteso di svenire ancora per un po’. Come quei fatidici cinque minuti che chiedevi alla mamma la mattina, prima di andare a scuola.

Clint non aveva nemmeno fatto in tempo a rialzare la testa che Stark era andato in fibrillazione.

Gridava qualcosa sulla violazione del perimetro. Delle telecamere esterne che avevano rilevato la presenza di estranei. Per non parlare degli epiteti più o meno coloriti che rivolgeva a Natasha. E a Kate.

La prima impassibile a quello sfoggio d’agitazione, la seconda che sembrava essere appena uscita da un film horror, tanto era pallida.

“Mio padre stavolta mi ammazza. Mi ammazza.”

“Io mi preoccuperei più della galera che di quel criminale di tuo padre.”

Cercò di rimettersi seduto, tentando di capire se era in grado di muoversi agevolmente. Un cazzo di déjà-vu che francamente era arcistufo di rivivere.

Puntò uno sguardo sulla Vedova Nera che stava frugando fra le tasche interne della giacca da motociclista che indossava, all’apparenza affatto turbata dall’inaspettata piega che avevano preso gli eventi: se la conosceva come sperava, era certo che la donna fosse ben consapevole di quello a cui stavano andando incontro.

Con poche, calcolate mosse, aveva estratto da quella stessa tasca una bustina di plastica.

“Stark, Kate. Venite qui.” La sentì pronunciare, lanciandogli solo un rapido sguardo che per quanto rapido fu, Clint nemmeno riuscì a capire se in qualche modo ancora ce l’avesse con lui. O con le cazzate che le aveva detto prima che il suo cervello cominciasse a surriscaldarsi.

Per un attimo si sentì persino sciocco per aver pensato a una cosa simile, nel bel mezzo di un’emergenza ben più rilevante.

Raccolse le gambe e le lasciò scivolare giù dal lettino. Aveva solo un gran mal di testa. E fin qui, niente di strano.

“Che cosa sono quelli?” di nuovo Stark. Da quando al damerino era venuta la voce da ragazzina isterica?

“Veli fotostatici.”

“E che diavolo dovremmo farci?”

“Secondo te?”

“Ah!” sbottò l’uomo, facendo un passo indietro con aria scioccata, “No. Assolutamente no.”

“È l’unico modo che abbiamo per uscire da qui e impedire che entrino nel tuo laboratorio.”

“L’unico? E come? Dove avete preso quella roba, tanto per cominciare?”

“Ha importanza?”

“Se ne ha? E se non funzionassero a dovere? Se il velo si sfaldasse sul più bello? O peggio ancora se finisse per disintegrarci definitivamente la faccia?”

“Quello sarebbe un problema solo nostro, Stark.” Intervenne Kate, recuperando uno dei chip.

L’uomo le lanciò uno sguardo di fuoco, ma vagamente umiliato dalla constatazione.

“Barton non può usarlo. I circuiti sono ancora incandescenti, finiremmo per ucciderlo del tutto.”

“No, ma fate pure come se non fossi qui…” si decise a parlare, ancora abbastanza frastornato da non avere intenzione di prendere decisioni.

Il gruppo non si fece scrupoli a riguardo: seguì alla lettera il suo suggerimento.

“Barton non viene con noi”, disse Natasha, di nuovo senza guardarlo. Avrebbe voluto dire di sentirsi un po’ indispettito dalla decisione, ma non fu così. Forse era quello che si meritava.

“Che diavolo significa? Lasciamo qui la persona più importante di tutta l’operazione?” se Stark stava cercando di farsi perdonare l’indelicatezza di prima, ci stava riuscendo alla grande.

“Non lo lasciamo qui. Solo non ci serve là fuori”, Natasha inserì i comandi del velo e il suo volto fu sostituito da quello di Maria Hill. I capelli divennero neri e si preoccupò di raccoglierli in una coda alta.

“Porca puttana.”

“Come vedi, i veli sono stati programmati per riprodurre i volti di alcuni agenti dello SHIELD ancora in servizio”, spiegò la Vedova Nera, “nessuno farà troppe domande, se sanno che lo SHIELD è coinvolto. O quantomeno…”

Kate aveva attivato il suo, mentre il volto di una donna orientale prendeva il posto di quello della giovane milionaria: “… avranno bisogno di un sacco di cartaccia burocratica per intervenire in una loro operazione. E noi avremo tutto il tempo di scappare e mettere in sicurezza questo posto.”

Stark si trovò a stringere fra le mani il proprio dispositivo e se proprio non sembrava ancora del tutto convinto a partecipare, se non altro pareva essersi placato.

“Potreste uscire solo voi… io che vi servo a fare? Sono un ingegnere, non un attore, né una spia.”

“Perché il velo fotostatico che hai tu è quello più autorevole. Non funzionerebbe altrettanto bene sul corpo di una donna.”

Un’ombra di consapevolezza calò sul viso di Stark e anche Clint, con la testa ancora annebbiata dal trauma, comprese. Non era del tutto sicuro gli venisse da ridere o meno, ma di certo si rasserenò pensando che quella maschera avrebbe potuto essere destinata a lui, in altre circostanze.

“Quindi che vogliamo fare?” domandò Kate allargando le braccia, assumendo poi una posa in linea con il personaggio che avrebbe dovuto interpretare da lì a poco.

“Che questa ve la faccio pagare.” Si arrese Stark, lanciando uno sguardo implorante nella direzione dell’arciere che si era limitato a stringersi nelle spalle.

“Non dovrai nemmeno aprire bocca”, cercò di rassicurarlo Clint, “lo sappiamo tutti quanto sia poco loquace il direttore Fury.”

Perché proprio la faccia di Fury andò a sostituire quella del povero Stark, che sembrava un cane bastonato dall’espressione che stava sfoggiando.

“È proprio questo che mi preoccupa Barton. Dico… ma lo sai con chi stai parlando?”

Purtroppo sì, lo sapeva. E di nuovo dovette soffocare una risata alla consapevolezza che il tizio che gli stava di fronte era un Fury decisamente poco incline alla severità.

“Dovresti essere incazzato.”

“Sono già incazzato, non si vede?”

Kate sembrò concordare con Clint perché si prodigò a pestare un piede a Stark che rispose con un ruggito strozzato.

“Proprio quella sfumatura lì, tieni l’espressione! Brava Katie.”

La ragazza – che ancora aveva la faccia dell’agente May, adesso Clint ne ricordava anche il nome – sembrò illuminarsi tutta a quell’appellativo. Gli venne incontro e fece per abbracciarlo – di per sé un evento particolarmente sorprendente – ma poi sull’ultimo sembrò esitare e fermarsi a pochi centimetri da lui.

“Lo sai che non mi piace quanto mi chiami Katie, vero?”

Clint sorrise: lo sapeva. E sperava, con quella conferma, di averle chiarito il punto: sì, finalmente ricordava. Tutto quanto? Più o meno, ma era certo che la nebbia che ancora gli permeava la testa si sarebbe diradata lentamente nel giro di qualche ora.

Quindi arrivò l’abbraccio, che cercò di ricambiare per quanto gli permettevano la mobilità e l’indolenzimento tutto.

E sentì profondamente quanto gli fosse mancata la ragazzina. Che aveva consapevolmente, calcolatamente lasciato indietro, tre anni prima. Non si aspettava sarebbe stata dei loro. Un tassello che doveva essere entrato in gioco più avanti nella storia e in merito al quale ancora doveva essere aggiornato.

A dire la verità, probabilmente doveva essere aggiornato ancora su un sacco di cose.

“Se avete finito con tutte queste smancerie, se non vi dispiace signori, magari risolviamo il dramma che sta avendo luogo là fuori.”

Clint si scostò per sbirciare Stark che li stava fissando in cagnesco.

“Non ci hai messo molto a entrare nella parte, visto?”

“Taci, Barton, e ringrazia la tua testa esplosa. Dovevi esserci tu al posto mio.” Gli rispose, mentre si stava infilando un paio di guanti neri e un lungo cappotto ripescato da chissà dove.

“Cambia anche gli stivali.” Lo redarguì Natasha.

“Cosa? Stai scherzando? Sono nuovi… si sposano con l'occhio del vecchio Nick.”

“Toglili. E infilati questi.” Ordinò la donna porgendogli degli scarponcini. Probabilmente gli stessi che aveva procurato per Clint. Stark doveva ringraziare la sua buona stella che avessero le stesse misure.

“Oh, ma andiamo, state smontando pezzo per pezzo la mia personalità.”

“Dubito che qualcuno riuscirebbe mai a smontarla del tutto.” Commentò Kate che lanciò a Clint ancora un ultimo sguardo e un sorriso amichevole (forse anche un tantino colpevole), prima di tirare su la zip della felpa che indossava. Un agente in borghese avrebbe potuto vestirsi in qualsiasi modo, dopotutto.

Clint se ne restò lì, a fissare il trio che gli si parava di fronte, indeciso sull'essere convinto o meno della messinscena.

Per un attimo… ma solo per un attimo, provò nostalgia dei tempi andati. Si ritrovò a pensare che erano settimane che non aveva contatti con lo SHIELD, quello vero, quello rimasto attivo. E si chiese se tutte le missioni che aveva svolto per loro in quegli ultimi tre anni arrivassero direttamente dai vertici di quello che era rimasto dell’organizzazione o ci fosse sotto anche… qualcos’altro.

Immaginò che le risposte sarebbero arrivate come il resto della sua memoria. Che avrebbe collegato azioni e tasselli e che presto avrebbe capito che diavolo stesse succedendo.

Di nuovo guardò Natasha – con il volto di Maria.
Natasha… l’unica a non avergli ancora rivolto una sola parola di conforto o d’offesa. Né un cenno che potesse anche solo suggerirgli come fossero rimasti veramente i loro rapporti, dopo tre lunghi anni.

Ricordava anche quello. Ricordava esattamente le ultime parole che si erano detti prima che… Stark operasse su di lui il cambiamento cerebrale per la protezione dei file che avevano tentato di salvaguardare fino a quel giorno.

Sentì su di sé il peso del suo sguardo, però. E, come spesso gli capitava, trovò difficile interpretarlo. Interpretare quello che le passava per la mente.

“Tu resta qui. Torniamo a riprenderti appena se ne vanno”, lo ammonì a sorpresa, come se non fosse chiaro che le sue condizioni precarie gli avrebbero comunque impedito di fare granché.

Natasha però era riuscita a scatenargli dentro un’emozione avvilente adesso: quella di essere niente di più che un pacco postale, infarcito di informazioni.

 

*

 

Il volto di Stark non era altro che una maschera di bende, arrossate di sangue.

Non l’uomo che ricordava di aver visto, solo qualche ora prima, sul palco della sala congressi dell’Expo.

Il magazzino in cui si erano rifugiati dopo la fuga dal palazzo ormai in fiamme era vecchio, sporco e in disuso da più tempo di quanto osasse immaginare. Un vecchio deposito delle Stark Industries ai limiti della metropoli, quando ancora Stark senior faceva il buono e il cattivo tempo in città. Quando ancora la pioggia sporca non aveva preso a invadere i cieli e le strade di New York.

Tempi felici. Tempi dimenticati.

“Sei sicuro di volerlo fare?”

“Ci sono alternative?” la testa gli doleva, la faccia gli doleva. Aveva perso troppo sangue e la scarsa reattività del suo apparato uditivo bionico gli rammentava il danno subito a ogni stilettata di dolore.

“Quella di perdere tutti i file che provano la mia innocenza. L’innocenza e la buona fede dello SHIELD tutto.”

“E allora fallo.”

“Ti ho già detto quanto potrebbe essere pericoloso, vero?”

“Sì, e io te lo ripeto per l’ultima volta: abbiamo alternative?” esalò rabbiosamente. A spronarlo a fare in fretta, prima che potesse perdere il coraggio di quella sconsiderata decisione. Prima che venisse assalito dal dolore, dai sensi di colpa, dalle perdite che ancora gli gravavano addosso come una spada di Damocle.

Stark gli lanciò uno sguardo perso.

“No…”

“E non abbiamo nemmeno molto tempo, giusto?”

“No…”

La porta del magazzino si aprì, proclamando il ritorno di una trafelata Natasha.

“Stark… sei ufficialmente morto.”

“È tutto quello che ho sempre sognato di sentirmi dire, dolcezza.”

“Sono seria. Sei morto. Stanno facendo una lista dei dispersi. Il tuo nome figura fra quelli carbonizzati.”

“Il che non è nemmeno una bugia…” lo vide indicarsi la faccia ustionata. Il merito delle prime cure mediche da attribuire a Natasha. La stessa Natasha che, perseverando nello svolgere il suo eroico compito, aveva protetto Stark dalla prima esplosione e aiutato a uscire dal palazzo in fiamme, aveva trascinato fuori il povero Coulson, e poi era tornata indietro per lui. Per lui, che si sarebbe lasciato morire, aggrappato al corpo del fratello morto.

“Clint, come stai?” la vide corrergli incontro il braccio sorretto da stracci recuperati chissà dove. Gocciolava sangue sotto tutti quegli strati e a giudicare dalla puzza che emanava non doveva essere in buone condizioni.

“Sto bene. Ma dobbiamo muoverci.”

“Sì, ho predisposto tutto. Lo SHIELD verrà a recuperarci e troverà a Stark una sistemazione temporanea, per tenerlo al sicuro, finché  non capiremo cosa fare…”

“No… no… sappiamo già cosa fare.”

“Che significa?” la vide guardare Stark con aria pericolosa e l’uomo si lasciò rapidamente intimorire da quello sguardo. Non gliene fece una colpa quando rispose più rapidamente di quanto non avrebbe saputo fare lui.

“Barton si è offerto di custodire i file dei progetti dei droidi dell’Expo.”

“Custodire… ?”

“Non possiamo fidarci della rete esterna… visto come è andata l’ultima volta con gli hacker del progetto HYDRA…”

Gli stessi hacker che avevano studiato per mesi, che avevano incastrato Stark, che ne avevano compromesso i progetti, che avevano portato all’Expo le modifiche dei droni che da sentinelle di protezione si erano trasformati in macchine da guerra senza controllo.

“Di che diavolo state parlando?”

“Ho tutto quello che serve qui dentro per custodire quei microchip.” Li interruppe indicandosi la testa. Il suo moderno apparato bionico, già predisposto ad accogliere tutta la nanotecnologia del caso.

“Stai scherzando vero? Posso progettare un sistema che tenga al sicuro i tuoi cazzo di file, dalla rete esterna, dalla rete planetaria, universale, se voglio. E puoi farlo anche tu Stark.”

“Sì, ma ci vorrebbe del tempo”, intervenne di nuovo Clint, “e noi non ne abbiamo. Non adesso. Dobbiamo assicurarci che nessuno trovi questi file. E dobbiamo farlo adesso, prima che cominci una qualsiasi indagine. È solo una cosa temporanea. A nessuno verrà in mente di aprirmi il cervello per vedere cosa c’è dentro nel frattempo.”

“No, però questo non toglie che Stark dovrebbe aprirti il cervello adesso… per infilarceli.”

“Dovrebbe farlo comunque… ho la testa praticamente spaccata a metà!” protestò, perché sì: l’odore dei circuiti bruciati li sentiva e il colpo preso alla testa aveva già messo in discussione la sua capacità uditiva.

“La trovo un’idea troppo pericolosa.”

“Non sei tu che decidi. Stark prepara tutto.”

“Sei sicuro?” l’uomo sembrava aver perso tutto il suo slancio all'idea. Che all’inizio sembrava buona, ma adesso…

“Ti ho detto di farlo, cazzo!” esclamò Clint, il dolore che si stava ramificando un po’ ovunque, che quasi gli impediva di pensare, che lo prendeva allo stomaco, al cuore. E di nuovo l’immagine del fratello morto gli arrivò al petto come un fulmine a ciel sereno. Quella di Coulson vi si sovrappose senza fatica alcuna. E poi i mille volti, quelli di tutte le persone che quel giorno erano morte.

Lo SHIELD sarebbe finito. Stark sarebbe stato eretto a vittima sacrificale per crimini che non aveva commesso. Il nemico, colui che aveva architettato il crollo degli eventi per assicurarsi il controllo assoluto della sicurezza in città, avrebbe vinto.

Poteva permetterlo?
Non era un eroe, ne era consapevole, il suo non era che un misero contributo. Avrebbe fatto quello che era giusto fare. Come aveva sempre fatto.

“Clint, non sai nemmeno se sopravvivrai!” la voce di Natasha lo andò a ripescare dall’abisso di riflessioni in cui era improvvisamente precipitato.

Di nuovo il volto di Coulson. Di nuovo quello di Barney.

“Questo è l’ultimo dei miei problemi”, disse.

E poi arrivò lo schiaffo. Doloroso, disperato.

Non sembrò avere l’effetto sperato. Il suo desiderio ardente di proseguire fu, se possibile, ancora più forte.

No, non lo sapeva se sarebbe sopravvissuto. Ma di certo avrebbe impedito che quella storia finisse in quel modo. Non che venisse compromessa l’organizzazione per cui aveva lavorato per anni, che gli aveva, in qualche modo, salvato la vita.

Guardò Natasha scuotere la testa e lanciargli uno sguardo che non avrebbe mai dimenticato.

O almeno… era quello che credeva.

Non gli rivolse nemmeno un incoraggiamento prima di uscire dalla stanza e lasciare che Stark facesse il suo lavoro.

 

*

 

Natasha capì di essere nervosa solo quando il suo sopracciglio sinistro cominciò a farle il solito scherzo di quell’assurdo movimento involontario.

Uno spasmo muscolare non preventivato.

Era cominciato il giorno in cui Clint aveva perso la memoria. Dopo l’intervento di Stark… e non se ne era più andato. Tornava a farsi vivo nei momenti di tensione più acuta. A sottolineare il fatto che sì, anche lei era un essere umano in grado di provare la paura. Solo che di solito riusciva a fingere di non averne. Quel tic era lì a ricordarglielo. E non le piaceva, non le piaceva per niente.

Non si era però stupita di essersi trovata di fronte uno schieramento di tutto rispetto di forze dell’ordine. Fra agenti in carne e ossa e i loro corrispettivi di latta.

Un numero un po’ esagerato per i suoi gusti ma, considerato lo stato d’allerta in cui era precipitata la città dopo l’esplosione dei robot di pattuglia e la fuga di Clint Barton e Natasha Romanoff – presunti colpevoli o alleati di entità… terroristiche – nemmeno troppo sorprendente.

La fuga per portare Barton da Stark era stata frenetica e incauta. Ma la prospettiva di vederlo soccombere le aveva messo le ali ai piedi e si era trovata poco incline a cadere vittima di ragionamenti troppo elaborati. Un errore che aveva messo in conto solo dopo essersi assicurata che fosse nelle mani di Stark.

Un errore al quale avrebbe avuto modo di porre rimedio in quel momento.

Non si sorprese nemmeno quando si vide venire incontro niente meno che l’agente Morse. Vestita con il suo solito, impeccabile tailleur. Il braccio e la spalla assicurati al busto da un bendaggio. Sorreggeva un ombrello con la mano libera. Dopotutto qualche conseguenza al loro scontro di qualche giorno prima, sembrava averla subita persino lei. Certo non demordeva.

“Direttore Fury. Agente Hill… agente May”, esordì con quel suo sorriso mellifluo. Aveva imparato presto, dopo averla conosciuta, quanto fosse solo un’espressione di facciata. Una di quelle che la gente si crea con l’intento di dare una precisa immagine di sé. Natasha aveva imparato a capire che Bobbi non era così. Che non lo era mai stata. Che se Barton era stato innamorato di lei doveva esserci stato qualcosa di profondamente genuino e motivato nelle sue decisioni. Non erano mai diventate amiche. Non ne avevano avuto il tempo.

Sentì Stark fare un passo alle sue spalle, evidentemente indeciso su come esordire. Una sola parola sbagliata avrebbe potuto decretare la loro fine. Barbara non era una sprovveduta. Non un’ingenua. Uno dei migliori agenti dello SHIELD ai suoi tempi.

“Agente Morse…” prese allora la parola, facendo un passo avanti, come a far capire a lei e tutta la gang che era Maria, quella sera, a dirigere qualsiasi operazione stessero svolgendo.

“Che sta succedendo qui?” la sentì domandare, guardandosi attorno con aria cupa adesso, “abbiamo risposto a una segnalazione della polizia. Ma non era esattamente la massima autorità dello SHIELD che ci aspettavamo di trovare.”

“Come noi non ci aspettavamo di trovare l’FBI.” Replicò, continuando ad impedire a Stark di prendere la parola.

“Questa zona è sotto la nostra giurisdizione.”

“Credevo fosse sotto la giurisdizione della polizia locale.”

“Stiamo indagando sui casi di terrorismo che hanno coinvolto la città recentemente… ci siamo assicurati tutti i mandati necessari. E non abbiamo bisogno di autorizzazione per le indagini.”

“Sì che ne avete bisogno. Questa zona è ancora sotto sequestro… dopo lo scandalo delle Stark Industries”. Sentì un movimento irrequieto alle sue spalle. Sentir nominare il suo nome doveva aver agitato l’uomo più del previsto, “Ed è stato concordato tre anni fa, dalle autorità, che fosse lo SHIELD a doversi occupare del caso. Attualmente ancora irrisolto. Dunque, no. Non avete diritto di essere qui. Non con un mandato specifico. Non con un’autorizzazione specifica.”

Bobbi serrò le labbra in una smorfia nervosa. Qualcosa che non era riuscita a frenare.

“Immagino non vi sia estraneo il fatto che due dei vostri agenti sono i principali indagati sul caso a cui stiamo lavorando, vero?”

Natasha si assicurò di restare impassibile: stava cercando di aggirarla.

“Ne siamo stati informati. E stiamo facendo il possibile per fare chiarezza sulla questione. Ciò non toglie che questa zona era ed è tutt’ora sotto la protezione dello SHIELD.”

“Ci hanno informati dell’avvistamento di sospetti!” esclamò e Natasha fremette di soddisfazione nel rendersi conto che Bobbi stava perdendo la pazienza.

“Per quale motivo credete che siamo qui noi? La sola differenza è non esserci portati dietro un inutile arsenale di poliziotti. Un azzardo che potrebbe aver già compromesso la nostra operazione.”

“La vostra operazione? Questa è…”

“Wo, wo, wo, wo…” una voce alle loro spalle interruppe improvvisamente la discussione. Natasha sgranò gli occhi, completamente presa alla sprovvista dall’improvvisa intrusione di Stark. O Nick Fury che dir si voglia, “Da quello che mi è sembrato capire dall’inizio di questa conversazione, siamo qui tutti per lo stesso motivo… e tutto ciò a cui mi è sembrato di assistere è stata una diatriba su chi ce l’ha più lungo. Solo l’unico a pensare che sia infantile oltre che un po’ strano, trattandosi di due donne?”

Nessuno rispose, ma nemmeno si premurò di contraddirlo.

“Sono sicuro che possiamo venirci incontro. E per venirci incontro… intendo dire che la FBI adesso se ne va a casa, e se necessario si procura le autorizzazioni per le loro ricerche. La polizia torna a pattugliare la zona. Mentre lo SHIELD va a fare rapporto su come un’operazione federale sia stata d’intralcio a un’indagine già in atto.”

“Signore, con tutto il rispetto, questa mi sembra una…”

“Posso sperare di godere ancora di una certa autorità in determinati contesti, agente Morse?”

Lo sguardo che Stark/Fury lanciò alla donna fu abbastanza convincente da ingannare in qualche modo anche Natasha. Aveva decisamente sottovalutato le doti di Stark. Dire che avesse scarse abilità interpretative, per uno che aveva recitato la parte del frivolo genio milionario per una vita… scoprì essere stato proprio un azzardo imperdonabile.

Bobbi serrò le labbra e abbassò la testa. La stima e probabilmente l’affetto o la gratitudine che ancora nutriva per il suo ex direttore sembrò avere improvvisamente la meglio.

“Torneremo.” Si preoccupò comunque di comunicargli, per dirgli che sì, prendeva in considerazione le sue parole, ma che no, non si sarebbe fatta intimorire né tantomeno fatta mettere i piedi in testa da un’organizzazione che non era diventata altro che un appoggio per il governo.

“Me lo auguro.” Rispose l’uomo intrecciando le braccia al petto, guardandola far cenno ai suoi uomini di allontanarsi dal perimetro.

Il rumore della pioggia si portò via anche quello dei motori dei controllori robotici, ora di nuovo fuori di pattuglia.

“Woah!” esclamò all’improvviso Kate/May additando Stark con uno sguardo che la diceva lunga sulla sua sorpresa, “Sei stato straordinario, quasi mi sembrava di avere davvero di fronte Fury!”

“Non dimenticare mai questa interpretazione, piccola”, le disse Stark sgonfiandosi come un palloncino, “perché è la prima e ultima volta che faccio una cosa simile.”

Natasha ovviamente non si complimentò con lui.

La mente era già passata oltre. A quello che li aspettava.

Mettere in sicurezza i laboratori di Stark e trovare un altro rifugio.

Sfortunatamente per lei, conosceva solo un’ultima destinazione. L’ultimo avamposto sicuro, prima dell’abisso.

Le ultime persone a cui avrebbe voluto rivolgersi. La tana dove si rifugiavano i terroristi.

 

*

 

Clint ci provò a rimettersi in piedi. Le gambe però reggevano poco. Dovette aggrapparsi a uno dei macchinari di Stark per restare in piedi, guadagnare la stabilità.

Sbirciò rapidamente attraverso alcune delle telecamera di sicurezza attivate.

L’immagine era troppo disturbata per capire veramente cosa stesse succedendo là fuori. Si mise il cuore in pace: qualsiasi cosa fosse, nel bene o nel male lo avrebbe presto scoperto.

Non farsi trovare impresentabile era il minimo a cui poteva rimediare nel frattempo.

Il laboratorio non era affatto come lo ricordava. Non era nemmeno sicuro fosse lo stesso in cui lo avevano trascinato il giorno in cui aveva deciso di prendersi carico dei file di Stark.

Come era successo che avesse perso la memoria… non ne aveva idea.

Ricordava di essersi svegliato il giorno successivo all’ospedale. Di essere stato confuso a lungo. Molto a lungo, prima della riabilitazione.

Qualcosa doveva essere andato storto il giorno dell’intervento. Il perché  non avessero voluto rivelarglielo intuì fosse strettamente connesso al fatto che il microchip impiantato nel suo sistema bionico era collegato alla corteccia cerebrale. Forse avrebbe rischiato di danneggiare i file con uno shock emotivo improvviso.

Trovò uno specchio nascosto da un panno sporco di olio. Lo liberò dal suo velo e intuì che Stark non aveva molto in simpatia la sua immagine riflessa.

Non che la sua faccia se la passasse tanto meglio in quel momento. In realtà non era stata un granché per tutta la settimana. Fortuna non faceva il modello di professione. Le bende che Stark aveva applicato attorno alla testa decise di lasciarle dov’erano. Sin da bambino aveva imparato a lasciar fare ai dottori il loro dovere. A meno che non lo avessero costretto a letto con una scusa qualsiasi. In quel caso era sempre stato pronto a scappare il più velocemente possibile, ovunque le scappatoie glielo permettessero.

Si chiese se nella fuga dalla casa sicura fuori città, Natasha si fosse preoccupata di recuperare il suo arco. Capì immediatamente il perché di quella sensazione di essere nudo, in completa balia della sua improvvisa vulnerabilità.

In caso d’emergenza avrebbe sempre potuto impugnare uno degli attrezzi di Stark. Chiavi inglesi, pinze e cacciaviti come se piovesse.

Si trascinò lungo il grosso stanzone. Le scarpe che affondavano in pozze più o meno profonde.

Si chiese quanto avesse piovuto in quell’ultimo periodo per causare tutte quelle infiltrazioni.

Le file dei droidi senza vita, appesi con i loro arti mancanti, gli mettevano addosso una certa apprensione. Lo fissavano con quegli occhi spenti, privi del bagliore che decretava la loro attivazione.

Si chiese se non fossero gli stessi droidi che Stark aveva costruito per l’Expo. Se non fossero gli ultimi rappresentanti del suo sogno andato in frantumi.

Se non fossero gli stessi androidi impazziti. Gli stessi ideati per la protezione della città, danneggiati dall’Hydra per assicurarsi la disfatta di Stark nel giorno della sua più importante ascesa.

Il giorno che aveva corrisposto al suo più feroce schianto. Alla sua fine più ingloriosa.

Sua e dello SHIELD che aveva appoggiato il progetto. Che aveva collaborato… al progetto.

Si chiese se in tre anni di reclusione Stark non avesse avuto modo di mettere in atto un piano. Si chiese se la sua forzata carcerazione non gli avesse acceso dentro quella scintilla di rabbia sufficiente a far esplodere l’incendio della vendetta.

Lo SHIELD sapeva? Lo SHIELD ancora lo appoggiava? Lo proteggeva?

Aveva troppi pochi indizi per arrivare a una conclusione, ma la sensazione più incalzante sembrava essere quella che no… Stark era solo. Lui era solo. Natasha era stata sola… e Kate… Kate era solo venuta loro in aiuto.

Si chiese cosa avrebbero potuto fare adesso, tutti e quattro insieme. Un presunto cadavere ambulante, due ricercati per supposti atti terroristici e… una milionaria in fuga.

Una gran bella squadra del cazzo…

Si volse solo quando gli parve di udire un rumore, appena percettibile alle sue spalle.

Il che da una parte rappresentava motivo di gioia: dopotutto il suo udito  non aveva finito per essere un problema.

Trasalì, quando riconobbe il robot-poliziotto tubolare di pattuglia sulle strade della periferia.

“Merda!” esclamò, prima di scagliarsi sul primo oggetto da lancio che trovò sulla sua traiettoria.

Prese la mira, ma prima che potesse scagliargli addosso l’oggetto – una pinza –,  l’occhio ciclopico del robot prese a pulsare in modo anomalo.

“Si fermi, per favore. Non sono qui… per farle… del male.”

“Certo, ed io mi chiamo Brad Pitt.” Disse, ancora intenzionato a scagliargli qualcosa addosso, solo che mollò la pinza per sostituirla con una ben più sostanziosa chiave inglese. Un movimento secco, preciso e avrebbe potuto sfondargli la memoria centrale. Sempre se avesse capito dove andare a colpirla… quella cazzo di memoria centrale.

“No. Lei non è William Bradley Pitt, professione: attore. Il suo nome è Clinton, Francis, Barton: detective. Nome in codice: Occhio di Falco. Nato in Iowa, il 18 giugno del…”

“Ohi, ho un tremendo déjà-vu!” esclamò abbassando di poco il braccio che stringeva la sua temibile arma d’offesa, “ci siamo già incontrati noi due, vero?”

“In più di un’occasione, se posso permettermi, detective.”

“Il robot di quartiere… quello con l’assurdo accento inglese.” Lo stesso che aveva preteso di fargli identificare… il clown. Di nuovo il suo cervello si trovò a fare collegamenti rapidi e rivelatori.

“Sei un’invenzione di Stark.”

“In parte, detective.”

“È stato lui a mandarti da me quel giorno, con la scusa dell’identificazione di un sospetto. Volevi… voleva… insomma… volevate affrettare il processo della riattivazione dei ricordi, non è così?”

“Questo è stato ciò che mi è stato ordinato di fare, detective Barton.”

“Chiamami Clint, per favore, detective mi fa sentire un coglione. Non siamo nemmeno in un cazzo di film giallo.”

“Questo è stato ciò che mi è stato ordinato di fare… Clint.”

“Pazzesco. Ti ho anche sognato, è stato assurdo…” gli venne da ridere, e poi da mandarlo affanculo anche solo per la scelta del ricordo che erano andati a stimolare.

Barney. Aveva dimenticato quello che era successo. Per tre lunghi anni aveva vissuto con la convinzione che suo fratello fosse ancora quello stronzo che era sparito qualcosa come dieci anni prima, lo stesso che aveva definitivamente chiuso i rapporti con lui.

Mentre adesso...

Adesso Barney era morto.

Morto.

Il dolore allo stomaco tornò a tormentarlo, riallacciandosi all’improvvisa riattivazione del ricordo. Tre anni cancellati e poi questo. Come un gancio diretto alle viscere.

Improvvisamente fu come se Barney gli fosse appena morto fra le braccia.

E gli mancò il respiro.

“Va tutto bene… Clint?” il tubolare di ferro gli si era avvicinato e alzava quei suoi ganci meccanici come fossero braccia pronte per un abbraccio.

“S-stammi lontano.” Disse solo. L’ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento era la consolazione di una macchina senz’anima.

“Sono qui solo per aiutarla… Clint.”

“Non mi serve il tuo aiuto… ma chi cazzo ti credi di essere?”

Solo perché dentro quell’ammasso di latta e cavi c’era una memoria remota che gli regalava parola e capacità di reazione, come poteva anche solo arrivare a comprendere quello che gli stava succedendo?

“Il mio codice di registro è J.A.R.V.I.S.”

Jarvis.

Non seppe perché quel nome fu in grado di attenuare il dolore allo stomaco, ma di certo gli fece sollevare lo sguardo.

Jarvis. Dove aveva già sentito quel nome?

 

“Signore posso prendere il suo cappotto?”

“Nah, preferisco tenermelo addosso. Stark è in casa, vero?”

“Annuncio la sua presenza… signor… ?”

“Clint. Gli dica che Clint è qui… lui mi conosce.”

“Clint. Molto bene.”

 

“Non è possibile…” quel lezioso accento inglese. Il modo in cui pronunciava il suo nome, “Jarvis… Edwin Jarvis. Il maggiordomo di Stark?” rise, di una risata nervosa e tutt’altro che divertita, “ha dato a un droide il nome del suo maggiordomo.”

“Semmai il contrario… Clint”, lo sentì pronunciare, mentre l’occhio ciclopico dava improvvisamente vita a un ologramma. Un uomo dall’aria compita, alto e longilineo lo stava osservando con due chiari occhi azzurri, “ha dato un corpo… alla memoria di Edwin Jarvis.”

“Cazzo…” arretrò, costretto poi ad aggrapparsi a uno dei tavoli da lavoro alle sue spalle, “che diavolo sta succedendo?”

Improvvisamente l’idea che Stark non fosse rimasto con le mani in mano per tre anni divenne concreta. E spaventosa al tempo stesso.

“C-che cosa sei, tu?”

“Il nuovo progetto del signor Stark… Clint.”

“Smettila di chiamarmi Clint con quel tono, porca troia, mi dai i brividi!”

“Me lo ha chiesto lei, detective Barton.”

“Merda! Merda!” esalò, rendendosi conto di aver persino fatto cadere la chiave inglese che stringeva fra le mani.

“D-di che progetto si tratta… Jarvis?” decise di far prevalere la razionalità sullo sconcerto. O quantomeno provarci.

“Non sono sicuro di essere autorizzato a condividere i piani del signor Stark.”

“Oh, ma per favore! Ho i file del tuo cazzo di signor Stark nel cervello! Ho rischiato la vita per questa roba! Ho perso la mia memoria, per questa roba! Ho diritto di sapere tutto il cazzo che mi pare!”

L’ologramma del maggiordomo esitò per un istante. Poi, improvvisamente, sembrò prendere una decisione.

“Mi segua. Credo sia più facile per lei capirlo se glielo mostro.”

Lo guardò allontanarsi senza che si assicurasse che lo stesse già seguendo.

“Grazie per la fiducia, ammasso di latta…” borbottò fra sé e sé scostandosi dal tavolo da lavoro, reggendosi a malapena sulle gambe.

Decise di non darla vinta al suo malessere e fece di tutto per tenere il suo passo meccanico.

La coscienza di un essere umano in un circuito robotico. Pazzesco. Roba da film di fantascienza.

Si trovarono di fronte a una porta di ferro, incrostata e sbarrata da un enorme lucchetto.

“Adesso che serve, una parola in codice?” domandò tenendosi la testa che aveva ripreso a pulsare in modo fastidioso. Troppe emozioni per un solo giorno.

Il braccio meccanico del tubolare robotico sollevò una chiave.

“Alta tecnologia, ah?”

La porta si spalancò con un cigolio piuttosto inquietante. Un’atmosfera adatta alla situazione.

“Entri pure, detective Barton.” Lo invitò Jarvis e Clint fece esattamente ciò che gli era stato detto.

Si trovò in una stanza ben più piccola di quella principale, quattro mura che puzzavano di muffa. La sola luce presente, quella del bagliore emanato da una serie di teche di vetro, posizionate a terra come bare.

Erano tre. Sistemate una accanto all’altra sulla parete di fondo. Assicurati ad ognuna di essi un reticolo di cavi e tubi collegati a un corpo computer centrale. Sullo schermo, comparivano immagini di improbabili parametri… vitali.

Un passo dopo l’altro Clint si fece strada attraverso la stanza.

La sensazione che stesse per entrare in contatto con una realtà che avrebbe potuto fottergli una volta per tutte il cervello.

Fu solo la curiosità a spingerlo a proseguire, a non fermarsi, a non lasciarsi intimorire dallo sguardo meccanico di Jarvis alle sue spalle, o dalla luce spettrale dei macchinari attivi nella stanza.

Quando fu in prossimità della prima teca, quasi non ebbe il coraggio di abbassare lo sguardo.

Ma quando si decise a farlo, irruppe l’improvviso e destabilizzante cicaleccio delle voci di Kate Bishop e Antony Stark.

“Ancora non ci credo, ti prego rifammi Fury!”

“Ragazzina, la mia pazienza ha un limite! E comunque – ehi, ma che cazzo sta succedendo qui?”

“Non sapevo avessi un bunker segreto dentro il bunker segreto, Stark!”

“Barton! Non guardare!”

Ma l’ammonimento di Stark fu del tutto inutile.

Clint aveva già abbassato lo sguardo.

C’era un uomo nella teca.

Il volto… era quello di Barney Barton.

 

*

 

Note:

Surpriiiiise! Sì? No? Bè, spero di aver fugato qualche dubbio e fatto alcune determinanti rivelazioni. Quella finale è solo la punta dell’iceberg, vi avverto. Ci sono ancora diverse cose da scoprire. E… credo,  non meno scioccanti di quella di ritrovare Barney conservato, stile vampiro, in una bara di vetro.
Come sempre ringrazio chi mi segue, chi commenta, e la mia socia e beta Sere (a cui do anche un bacino per cose che sa lei).
Per il resto ci sentiamo alla prossima.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


CAPITOLO 10

 

 

"Se cominci a scappare non ti fermi più. Li affronti, ti ribelli. Devi andare avanti lo stesso, no?"

(Capitan America: il Primo Vendicatore)

 

*

 

Doveva focalizzare.

Focalizzare e respirare.

Peccato che il pugno in faccia a Stark fosse partito ancora prima di poter fare anche solo una delle due cose.

Perché l’accesso di rabbia era stato inarrestabile e violento. Come una spinta a pressione.

 

Adesso, pacificato da quel gesto liberatorio che quasi aveva provocato una rissa, attendeva le sue spiegazioni.

Senza giri di parole. Senza scuse. Senza giustificazioni.

Natasha fremeva perché avevano poco tempo. A Clint non importava uno stracazzo di niente del tempo. Sì, avevano litigato; sì, persino con lei. Non che fosse una novità. In ogni caso sembrava ancora incazzata con lui, perciò a che pro?

 

Aveva guardato all’interno delle tre bare. Aveva passato in rassegna il volto di Barney e… quello di un tizio che non aveva mai visto in vita sua, ma che – a giudicare da un primo sguardo – non doveva essere umano. Un essere a metà strada fra un robot e… una statua di bronzo. La terza bara era vuota, probabilmente destinata a qualche altra porcheria.

 

“Il progetto si chiama Lazarus”, Stark teneva una mano sullo zigomo colpito, che si stava gonfiando e probabilmente annerendo.

“Non me ne frega un cazzo del nome del progetto. Voglio sapere che cosa sta succedendo.”

Kate al suo fianco sembrava altrettanto confusa. Se, come aveva intuito, era stata lei a sovvenzionare alcuni dei lavori di Stark, di certo non aveva la più pallida idea si trattasse di niente di simile.

“Come puoi pretendere di capire se non mi dai la possibilità di parlartene dall’inizio?” protestò l’uomo, rivolgendogli un’occhiata infastidita, che però si placò in modo rapido allo sguardo che gli rivolse. Probabilmente affatto desideroso di ricevere un bis del suo gancio micidiale.

“Okay, s-sarò breve…” proseguì, scoccando un’occhiata a Natasha. La donna, come al solito, non aveva fatto una piega. Se fosse informata o meno di questo fantomatico progetto però, non si premurò di comunicarlo.

“Un progetto che mio padre stava sviluppando da anni. Avete mai sentito parlare di… cyborg?”

“Io sì!” alzò la mano Kate, prima di riabbassarla sotto lo sguardo severo di Clint, “bè, ho letto un sacco di romanzi di fantascienza… sono mezzi uomini e mezze macchine, no?”

“Va’ avanti Stark.” Lo intimò Clint.

“Sì, qualcosa di simile. E’ un progetto a cui mio padre stava lavorando dall’età di trent’anni. Con l’appoggio dello SHIELD. Vent’anni dopo hanno trovato i soggetti ideali per la sperimentazione di questo progetto…”

“Quello di far tornare in vita i morti?” lo accusò Clint, “siete andati nei cimiteri a dissotterrare cadaveri?”

“No, no, niente di tutto ciò…”

“E allora mi spieghi che cazzo ci fanno due salme nel tuo laboratorio?”

“Non sono salme sono… ommerda, vuoi lasciarmi finire?”

Clint serrò le labbra, combattendo internamente con la possibilità di tenere il secondo gancio per quando la spiegazione sarebbe finita, nel caso la storia non gli fosse piaciuta.

“Immagino non vi sarà sfuggita la notizia interna allo SHIELD del ritrovamento… nei ghiacci, di quel famoso squadrone di militari americani emersi direttamente dalla seconda guerra mondiale?”

“Parli dei leggendari Howling Commandos e del Capitano Steve Rogers?” lo interrogò Kate con uno sguardo di pura meraviglia.

“Cento punti per Grifondoro.”

“Non sapevo li avessero ritrovati! Perché la notizia non è mai trapelata?!” domandò Kate.

Nessuno era a conoscenza del loro ritrovamento, se non gli agenti di più alto livello dello SHIELD.

La storia del Capitano Rogers e della sua squadra, invece, era leggendaria dai tempi della seconda guerra mondiale. La dedizione e l’onorevole servizio reso durante gli anni della guerra e poi la spedizione conclusasi in tragedia alle soglie degli anni Cinquanta.

“Stark, non ti ho chiesto una lezione di storia, che cazzo c’entra Capitan America, adesso?”

“C’entra tutto”, lo additò Stark, “lo SHIELD che si era occupato delle manovre di recupero e di assicurarsi la segretezza dell’operazione portò a mio padre tutto ciò di cui aveva bisogno per avviare le sperimentazioni. Avevano rilevato attività cerebrale in quei corpi rimasti congelati per tutti quegli anni.”

“Non è possibile…” esalò Kate portandosi le mani alle labbra, mentre in Clint si stava facendo strada la consapevolezza di dove stesse conducendo il discorso.

“Hanno provato a rianimarli?”

“Sì, ci hanno provato…” disse Stark, lasciando in sospeso la frase, come se fosse necessario infilarci altra enfasi, “ma i primi esperimenti si rivelarono un fallimento. Uno fu un quasi-successo. Ma l’ultimo… l’ultima sperimentazione fu quella della svolta.”

Lo sguardo che Stark gli rivolse fu come la rivelazione finale.

“Il connubio fra medicina e bionica fu fondamentale e straordinariamente efficace nell’ultimo test…” li guardò uno per uno, “riuscirono a riportare in vita il Capitano Steve Rogers.”

Kate emise un verso quasi assordante mentre Clint ancora si trovava in bilico fra il crederci e l'ordinargli di smetterla di dire stronzate.

“E perché di questa cosa non se ne è mai saputo niente? Che fine ha fatto questo fantomatico Capitan Zombie?” gli domandò, per niente incline a lasciargliela passare tanto facilmente.

“Capitan Zombie… lo chiamo così anche io”, ridacchiò Stark, prima di tornare serio, “fuggito”, disse con semplicità, “da quello che sono riuscito a estrapolare dai diari di mio padre, pare che qualcuno lo abbia aiutato a scappare. Lui e l’esperimento malriuscito che lo aveva preceduto.”

“E ovviamente nessuno sa chi è stato. Questa storia fa acqua da tutte le parti Stark… e in ogni caso…” alzò una mano per impedirgli di parlare di nuovo, “ancora non mi hai detto cosa c’entra con il corpo di Barney chiuso in quella teca.”

“Ci stavo arrivando. Non avresti capito altrimenti… come ti dicevo ho trovato i diari di mio padre. Le sue annotazioni, i suoi calcoli, i suoi progetti. Dispersi qui, in questo laboratorio dimenticato da Dio.”

“E hai voluto provare a replicare il suo insano progetto?” qualcosa gli stava ribollendo nello stomaco, ma non era solo rabbia, era qualcosa di più. Qualcosa che lentamente riuscì ad associare alla possibilità di poter vedere tornare in vita… Barney.

“Lo so. Lo so perfettamente come suona. Immorale, sbagliato… folle. Ma dovevo provarci!”

“Dovevi limitarti a fare il tuo lavoro, invece! A onorare il sacrificio che tutti qui hanno fatto per tenere al sicuro i tuoi cazzo di file! Qui stiamo giocando a fare cosa? Dio? Questo posto ti ha reso pazzo!”

“Non mi ha reso pazzo!” lo vide levarsi in piedi, “Avrei rischiato di diventarlo se non mi fossi appassionato alla materia!”

“Ambizioso, disgustoso, testa di cazzo…”

“Tu non sai cosa si prova!” gli gridò in faccia, “tre anni rinchiuso in una sottospecie di galera volontaria! Tre anni a pensare, ricordare, a soffocare nel senso di colpa per aver dato vita a un progetto che è degenerato, causando un massacro! Tre anni di solitudine, dolore, rabbia! Quello… quello mi avrebbe reso pazzo! Quello e tutti i fantasmi delle persone che ho sulla coscienza e che mi tengono sveglio ogni santa notte! Credi di essere stato l’ultima vittima in questa storia? L’unico cazzo di martire?”

“Non mi sono mai sentito un… martire…”

“Lazarus non ha ridato la vita solo a Rogers, lo ha fatto anche con me. Lo ha fatto… a-anche con me…” concluse perché la voce aveva preso a tremargli, perché gli occhi avevano cominciato a inumidirsi e se non era sulla soglia del pianto, allora forse si trattava di una congestione bella e buona. Si zittì per un lungo attimo, e Clint non riuscì a replicare a quello sfogo. L’amarezza era ancora presente, ma improvvisamente non riuscì a non empatizzare con il punto di vista dell’uomo. Non si era forse chiesto, solo qualche minuto prima, come avesse fatto a resistere per tre lunghi anni chiuso in un bunker isolato?

La risposta non era quella che si era atteso, certo, ma poteva biasimarlo?

“Come hai recuperato il corpo di Barney?”

Stark si passò una mano sul viso, ravviandosi parte dei capelli, cercando di fermare il tremore che ancora non aveva smesso di scuoterlo.

Rivolse solo uno sguardo a Natasha e a Clint non servì più fare troppe domande.

Il perché non avesse potuto dirglielo o chiedere la sua approvazione… fu abbastanza elementare.

“Cos’è, in una specie di coma? Lo stai tenendo ibernato o… o qualcosa del genere?”

Barney non era morto allora. Non era… morto.

Le parole continuavano ad aleggiargli nel cervello ma ancora non riusciva ad elaborarlo. A realizzarlo. A concedersi di credere che fosse reale. O anche solo che fosse davvero possibile riabilitarlo.

“Qualcosa del genere…”

“Perché proprio lui? Perché non un q-qualsiasi stronzo in fin di vita? Uno sconosciuto? Perché non… Coulson?” il fatto che ritenesse meno aberrante l'idea di riportare in vita un brav’uomo, non lo fece sentire meno in colpa per le parole che aveva appena pronunciato.

Stark fece una smorfia, ma non se la sentì di tacerglielo.

“Non è chiaro, Barton?”

La soluzione era lì a portata di mano. Solo non voleva intenderla.

Perché Barney non era stato altro che una delle pedine in mano al nemico. Perché si era reso responsabile di una delle più grandi stragi degli ultimi decenni e ne aveva fatto ricadere la colpa su Stark, sullo SHIELD tutto che l’aveva appoggiato, screditandoli.

Barney, di fatto, possedeva informazioni ancora più importanti di quelle che lui stesso custodiva nel suo apparato bionico.

Si portò una mano sul viso, sfregandoselo con energia, come se così facendo fosse in grado di scacciare un po’ di confusione e totale sovraccarico di informazioni.

“E… Jarvis è stato il tuo primo esperimento…” domandò. Per non doverci pensare, per focalizzarsi sulla questione principale.

“Jarvis… è una storia ancora più lunga. Ma non la chiave di volta di cui ho bisogno. Per arrivare a elaborare la formula definitiva dovrei poter analizzare… Capitan America in persona… ma per quello che ne sappiamo di lui... potrebbe non essere nemmeno più vivo.” Esalò Stark, e se da una parte nel suo sguardo leggeva della vera e profonda rassegnazione, dall’altra riusciva a percepire il senso di colpa per averglielo tenuto nascosto, la vergogna dell’essere stato scoperto prima di arrivare a una soluzione definitiva.

Tutto il suo essere gli gridava di non farlo. Di abbandonare il progetto. Di lasciare che Barney riposasse in pace, libero di scontare, almeno da morto, tutte le sue colpe.

Ma dall’altro lato… Oh, dall’altro lato non solo avrebbe voluto vedere Stark provarci ma avrebbe voluto vederlo trionfare… e il solo pensiero di poter riabilitare il fratello, per quanto meccanicamente cambiato fosse… o anche solo di poterlo… riabbracciare.

Non è forse la condizione di ogni essere umano? Avere il desiderio di rivedere o solo avere un ultimo definitivo confronto con i proprio trapassati? Di chiarire punti, di rivedere le proprie posizioni, di chiedere scusa o di… perdonare?

O anche solo salutare, per l’ultima volta. Con la certezza che quella sarà per davvero la fine, ossidata nella memoria. Permettere che conti, una volta per tutte.

Si chiese se non si fosse spinto già troppo oltre, se non avesse già riposto troppe speranze in quell’assurdo progetto. Se non dovesse ridimensionarsi e impedirgli di farlo. Come sarebbe stato giusto fosse.

Ma poi la voce. Quella sua voce.

A mettere la parola fine a tutte quelle assurde paranoie. A decidere, per lui, per tutti, la direzione da prendere.

“Io so dove trovarlo…”

Natasha.

Era stata lei.
Trovare chi?

Nemmeno ebbero bisogno di chiederglielo.

Improvvisamente fu chiaro che era Natasha… a possedere la chiave di volta.

 

*

 

La guardava aggirarsi nuda per la stanza.

Cercava i suoi vestiti o forse era solo un modo come un altro per prolungare la sua permanenza.

Clint avrebbe voluto dirle che non aveva bisogno di scuse per farlo.

Che poteva restare lì per il tutto il tempo che voleva. Ma gli sembrava di costringerla in qualcosa che non era abituata a fare. E allora le permetteva di fingere di avere faccende da sbrigare prima di andarsene… e permetteva a se stesso di godersi lo spettacolo.

Natasha gli piaceva. E non gli piaceva solo perché era una bella donna; una di quelle che se non ti scatenano dentro un certo disagio interiore, forse significa che di donne non te ne importa proprio un bel niente. Gli piaceva dalla prima volta che l’aveva vista. Gli piaceva in modo del tutto irrazionale. E poi gli era piaciuta perché aveva imparato a conoscerla. A fidarsi di lei. Per il modo in cui gli aveva permesso di entrare nella sua vita, discretamente, fino a cementare uno dei rapporti più duraturi della sua intera esistenza.

Ma poi aveva capito che Natasha gli piaceva anche per il modo in cui ancora lo faceva sentire a disagio. Gli piaceva perché era pericolosa. Gli piaceva perché aveva la sensazione che lo facesse sentire vivo. Ma più di ogni altra cosa… gli piaceva perché a volte, quando lei gli permetteva di guardare più a fondo, nel suo stesso abisso, riusciva a rivedere se stesso riflesso lì dentro. E non tutto quello che vedeva era così orribile. Così spaventoso. Ma soprattutto non si sentiva più solo.

Gli piaceva a tal punto da essersi sbilanciato fino a mandare a puttane un intero regolamento. E per quanto a lei sembrasse non importare un bel niente di regole e protocolli, fu da subito tacito il patto che quella relazione, il modo in cui si era sbilanciata improvvisamente su un altro livello, sarebbe rimasta una cosa che riguardava loro soltanto.

Gli piaceva sì. Anche se molto probabilmente ormai era andato ben oltre.

Gli era successo solo un’altra volta nella vita. Non era andata a finire bene.

Non gli importava.

Si mise seduto solo quando fu certo che Natasha, quel giorno, non aveva intenzione di andarsene tanto presto. Forse perché intuiva che lui aveva qualcosa da dirle. Dal modo in cui l’aveva guardata per tutta la mattina.

Che c’è?” si voltò allora, affrontandolo, sentendo su di sé il suo sguardo ansioso.

Clint si allungò sul letto, raggiungendo il comodino per raccogliere qualcosa nel cassetto.

Le lanciò una chiave.

Natasha gli rivolse uno sguardo interrogativo.

L’ho comprata.” Le disse semplicemente, aspettandosi che capisse esattamente di cosa parlasse.

Ti avevo detto di non farlo.” Una punta di rimprovero… e tensione.

Lo so, ma l’ho fatto lo stesso.”

E io che dovrei farmene di questa? La casa è tua.”

Nel caso avessi intenzione… non lo so, di scappare un po’ da questa città di reumatismi.”

Clint…” un passo nella sua direzione che bloccò con un cenno della mano.

Tienila.”

Non posso.”

“… o non vuoi?” La guardò rigirarsela fra le mani.“È solo una chiave, Nat.”

Lo sai che non è così…”

Un commento tanto casuale quanto autentico. Si strinse nelle spalle, solo perché non sapeva cos’altro fare. Per dissimulare il disagio.

Lei sapeva. Sapeva eccome.

La sentì solo avvicinarsi, e restare lì, in piedi, di fronte a lui.

La chiave non gliela restituì, ma si preoccupò di fargli capire che forse… forse il gesto non le era risultato poi così sgradito.

 

*

 

Riaprì gli occhi, scivolando docilmente dal sogno alla veglia.

Era esausto e improvvisamente si rese conto di essersi praticamente assopito… camminando. Cullato dallo scalpiccio dell’acqua sotto i piedi e l’olezzo mefitico che doveva aver avuto un effetto soporifero. Improvvisamente non gli sembrò più tanto difficile capire come facessero i falchi pellegrini a dormire in volo.

Si passò una mano sul viso, di nuovo, per scacciare la sonnolenza e la prima cosa che intercettò al suo fianco fu il profilo dorato di Natasha, illuminato dalla luce di una torcia.

 

Uscire dalla periferia non era stato facile. Né tantomeno veloce. Ma Natasha non mentiva quando diceva di conoscere un modo efficace per attraversare New York.

Dopo aver messo in sicurezza i laboratori affinché fossero celati a qualsiasi ispezione, per quanto approfondita, furono presentati senza troppe cerimonie alla loro prossima meta: un buco oscuro di dimensioni più o meno ridotte, noto comunemente come… tombino. Tombino che conduceva niente meno che al sistema fognario dell’intera città.

Strak non ne era sembrato entusiasta. Forse non proprio l’idea di libertà che si era aspettato di trovare dopo anni rinchiuso in un bunker umido. Clint gli aveva ricordato che nel film Le ali della libertà, Tim Robbins aveva letteralmente strisciato in un fiume di merda, prima di guadagnarsi la sua, come da titolo. Che, insomma, non poteva essere poi tanto male con la promessa di un tale successo.

Kate si era lasciata prendere la mano, interpretando in modo convincente una crisi isterica e Natasha aveva dovuto sedare gli animi, assicurando loro che non avrebbero dovuto strisciare… né tantomeno nuotare in un fiume di merda… ma solo camminarci dentro, pronti a sacrificare almeno venti centimetri di gamba.

Clint fu grato di avere addosso i suoi stivali.

 

Riuscì a capire che si era accorta che la stava guardando da come aveva contratto impercettibilmente la mascella. Come faceva tutte le volte che realizzava di essere fissata. Non glielo aveva mai fatto notare…

“Credevo fossi morto.”

… Clint si rese conto che quel contesto era del tutto differente.

“Spiacente…” le disse, cercando di stare al passo, “dovrai rassegnarti alla mia presenza ancora per un po’”.

Una fitta alla tempia non gli restituì sensazioni positive. Al contrario, quanto avrebbe desiderato un buon caffè, stracarico di droga. Il dolore se non altro sarebbe stato un problema in meno.

“Dove siamo?” le chiese, strofinandosi gli occhi stanchi, doloranti.

“A sei chilometri dal punto di partenza”, si sentì rispondere senza delucidazioni di alcun tipo.

“E… ci stiamo dirigendo, dove… ?”

Natasha teneva in mano quello che sembrava un indicatore di posizione. Ogni tanto lo spronava con una bottarella d’incoraggiamento. Le fogne non erano uno dei luoghi con maggior campo.

Si fermò improvvisamente, voltandosi per fronteggiare gli altri suoi accompagnatori.

“Kate, tu esci qui.” Le disse, senza spiegazione alcuna.

“Come? Cosa? Perché?” per la prima volta una protesta che Clint non volle placare. Una decisone apparentemente irrazionale.

Natasha illuminò una scala che conduceva esattamente alla via di fuga.

“Prendi le scale, ti troverai in una via chiusa. Esci in strada, chiama un taxi e fatti riportare a casa.”

“Come? No! Voglio venire con voi.”

“Non se ne parla…”

“Romanoff, non mi pare il caso di…” intervenne Stark, rapidamente zittito da uno sguardo della donna.

“Fa’ come ti ho detto.”

“Potrebbero esserci squadre di pattuglia là fuori!”

“Sì. Potrebbero”, non la contraddisse, “ma tu non sei ricercata. Vattene a casa.”

Kate fece per protestare di nuovo, ma Clint comprese improvvisamente l’assennatezza della decisione. Kate era l’unico contatto con l’esterno di cui potevano fidarsi. Sarebbe stato un azzardo e un pericolo inutile lasciare che finisse a fare la loro stessa fine.

“Kate, fa' come ti ha detto…” si trovò a dire. E la ragazza sembrò più scioccata dal sentirlo pronunciare una sola volta a lui che mille volte da Natasha, “ci sei più utile là fuori che qui sotto.”

Forse vide brillare delle lacrime amare nel suo sguardo. Ma non riuscì a coglierle, perché l’istante successivo stava già salendo le scale, uscendo nella città piovosa.

Natasha non disse una sola parola, ma riprese ad armeggiare con quel suo aggeggio. Per un istante gli parve sul punto di imprecare ma poi riprese a camminare, senza aspettare di capire se la stessero seguendo o meno.

Clint realizzò, per la prima volta, che della Natasha che gli stava camminando di fronte, cupa e silenziosa, non sapeva proprio un bel niente.

Conosceva una Natasha, tre anni prima; e gli era sembrato di riconoscere sempre quella Natasha quando erano finiti a letto insieme, meno di tre giorni prima. Ma dacché era finalmente tornato se stesso, dacché aveva parzialmente recuperato coscienza di sé, dei suoi ricordi dimenticati, poteva dire di conoscere quella donna che gli stava di fronte? Che tutto quello che avevano passato in quei giorni di fuga non fosse stato nient'altro che una messinscena perpetrata per permettergli di ricordare?

Tre anni possono essere sufficienti per cambiare una persona.

Avevano cambiato Stark, che da geniale uomo sicuro di sé aveva finito per diventare uno spaurito ingegnere tormentato dai suoi fantasmi. Poteva quindi essere davvero rimasta, lei, la stessa?

Dunque chi era quella donna che adesso gli stava camminando di fronte?

Chi era quella donna che aveva in mano le redini del loro destino?

La stessa donna che aveva dichiarato con leggerezza di conoscere l’ubicazione di niente meno che Capitan America. Uno zombie, rinato dall’esperimento segreto di un eccentrico ingegnere milionario.

Si rese conto di essere circondato da estranei.

E improvvisamente più solo di quanto non fosse mai stato.

 

*

 

Si chiese se qualcuno si fosse accorto del suo nervosismo.

Di come le tremavano le mani, strette attorno a quell’insulso aggeggio di navigazione, praticamente inservibile.

Ma chi voleva prendere in giro? Tenere lo sguardo fisso su quella schermata disturbata era solo un pretesto per non dover rivolgere la parola ai suoi accompagnatori.

Quei cunicoli, quei canali… persino quell’olezzo di muffa, urina ed escrementi gli erano più familiari del suo stesso appartamento.

Aveva percorso chilometri, in sotterranea, per almeno due anni di fila.

Due anni interi per imparare a menadito il percorso. Aveva memorizzato la cartina delle fognature come se ne andasse della sua stessa vita; eppure adesso era lì, a fingere di doversi orientare su un percorso che sapeva già dove l’avrebbe condotta, che già conosceva.

E tutto per impedire, a Clint su tutti, di sapere che in quei due anni non si era limitata a marcire in un vecchio e sporco negozio di anticaglie.

Che in due anni aveva lavorato, tanto quanto loro, per dare il suo contributo alla causa.

Difendere il segreto non era stato difficile, non in quei tre anni durante i quali si era costretta a tenere Clint a distanza.

Ma adesso… adesso che l’uomo era tornato improvvisamente, bruscamente nella sua vita, mantenere la facciata aveva richiesto uno sforzo ben maggiore di quanto preventivato.

Soprattutto quando si era resa conto di come restare fedele alla promessa di non lasciarsi influenzare dalla sua affezione per lui, fosse in qualche modo impossibile. A tratti doloroso.

In tre anni aveva evitato il confronto per impedire di compromettere la situazione, ma non volle mentire a se stessa ancora una volta raccontandosi che lo aveva fatto solo per quello.

Era terrorizzata di scoprire quanto di lei… di loro, Clint avesse dimenticato.

Scoprirlo le aveva fatto male. Più di quanto avrebbe mai potuto ammetterlo.

E adesso si trovava di nuovo nella condizione di fingere, fingere solo per prolungare ancora un po’ la messinscena. Fingere per sperare che le sarebbe stato risparmiato, dopo, il teatrino d'accusa, di scioccata sorpresa. Fingere per prepararli a quello che stava per arrivare.

 

Quando fu sicura di essere arrivata al luogo predisposto si fermò.

Ci mise più del previsto a rierigere la facciata. Il silenzio, fra le mura di quelle gallerie, le aveva dato tempo per pensare; e camminare più veloce di Clint e di Stark, permesso di dare loro le spalle prima del confronto finale.

Quel suo aggeggio adesso sì che le sarebbe risultato veramente utile.

Cominciò a comporre una sequenza di numeri e il display le rispose, come impazzito.

“Che sta succedendo?” la voce di Clint.

Il terreno prese a fremere come smosso da una lieve scossa di terremoto. L'acqua dell'intero canale andò finalmente ritirandosi, come prosciugata da una forza sconosciuta.

“Scommetto che il predicatore Hogan, che fa il suo numero annuale al palazzetto dello sport, avrebbe di che ridire su questa rivisitazione della divisione del mar rosso!” Stark... che non sembrava però così divertito dall'intera faccenda.

L'istante successivo entrò in azione un cigolio sommesso che rimbombò per l'intero tunnel, creando un gioco di echi cupi e rabbiosi. Come se dal fondo di quello stesso labirinto si stesse annunciando a gran voce l'arrivo di un essere mostruoso. Un drago, un dinosauro. Uno dei leggendari coccodrilli albini. Gigantesco e temibile.

Ma nulla di tutto ciò accadde. Solo la parete di fondo prese a scomporsi. I mattoni a disintegrarsi in pixel disarticolati.

E poi l'eco di sorpresa che ne seguì arrivò in contemporanea con la comparsa di quella che aveva tutta l'aria di essere una porta blindata.

“Queste fognature sono meglio di un luna park.” di nuovo Stark. Mentre il silenzio di Clint – Natasha ne ebbe come l'impressione – non poteva essere interpretato in modo positivo.

Ma le sorprese a quanto pareva non erano ancora finite.

Qualche secondo d'attesa e la porta che stava loro di fronte cominciò ad aprirsi.

E Natasha fece un passo avanti, sempre da sola, sempre senza voltarsi.

L'istante successivo si trovò con le mani all'aria e un centinaio di puntatori di precisione a ricoprirli di puntini rossi.

Un'accoglienza più calorosa di quanto non si fosse attesa.

Stark sibilò qualcosa, Clint si mosse appena.

Una donna sulla cinquantina comparve improvvisamente nel loro campo visivo, accompagnata da un intero stuolo di soldatini meccanici. Tubolari robotici addetti alla sicurezza sulle strade. Apparentemente riprogrammati, privi del distintivo statale.

Aveva l'aria stanca e una smorfia severa, sul viso tirato.

I capelli avevano preso a ingrigirsi, ma solo su un ciuffo sulla fronte, a darle un'aria quasi sofisticata, nonostante indossasse la severa divisa dei corpi d'assalto.

Quando venne verso di loro, Natasha si rese conto che zoppicava. Molto più di quanto non ricordasse.

Poi quella sua smorfia prese una piega strana, e le sue labbra si piegarono all'insù, in un sorriso esausto, ma sollevato.

“Vi stavamo aspettando”, disse.

E Natasha si tuffò nelle sue braccia.

 

*

 

Note:

Bè, spero di aver sedato, in parte, un po' del resto della curiosità. Clint comincia a ricordare un po' tutto e... ebbene sì, si parla di Cyborg. O Androidi. Cap e la sua squadra mi sono sembrati i pretesti più adeguati alle esigenze. I tempi ovviamente sono diversi. Questa storia è ambientata nel futuro (non troppo distante, ma sempre nel futuro). Però Cap e compagnia, sì, vengono fuori direttamente dalla seconda guerra mondiale. Lo vedremo? Chi può dirlo. Spero di aver fatto quadrare tutto. Sennò chiedere a Dottor Who, lui saprà dare le risposte giuste. Le domande sono sicura non sono finite. Come sempre ringrazio tutti i lettori e chi mi lascia un commento, la mia socia e beta Sere... e basta. Oggi sono malata. Lucca Comics quest'anno mi ha distrutta. E il mio fisico da lanciatrice di coriandoli ne porta le conseguenze. Però ho incontrato Matt Fraction e ho il suo autografo sull'ultimo numero di Occhio di Falco! Ahem... angolino personale non richiesto. Ma è una giuoia. Dovevo condividerla. Ci sentiamo presto!

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


CAPITOLO 11

 

I vivi, pensò, non dovrebbero mai essere usati affinché i morti conseguano i loro propositi. Ma i morti... […] dovevano, se possibile, servire allo scopo dei vivi.

(Un Oscuro Scrutare)

 

*

 

Ormai non aveva più senso chiedersi se stesse ancora sognando.

Il modo in cui gli eventi si erano trasformati, precipitati in quelle ultime ventiquattro ore, lo fece sentire su una giostra lanciata a tutta birra giù per uno scosceso pendio.

E tutto quello che avrebbe dovuto fare era lasciarsi andare, semplicemente, per vedere dove sarebbe andato a finire.

Stark non sembrava meno confuso, ma da un lato era convinto che quella situazione lo eccitasse in qualche strampalato modo.

A Clint invece – straordinariamente – giravano proprio i coglioni.

Non capire cosa stesse succedendo era la condizione ideale per farglieli vorticare a elica. Quella e l’idea di essere stato preso per il culo. Se almeno gli fosse servito per alzarsi in volo e guardare la situazione da una prospettiva aerea... Invece no, era lì, dentro la bocca dell’inferno – che, invece che puzzare di zolfo, sapeva più di ammoniaca e ancestrali defecazioni – scortato da un mucchio di ferraglia e una donna sconosciuta che Natasha sembrava conoscere più intimamente di quanto dovuto.

Dove era Capitan America? Che cazzo c’entrava quel covo da Tartarughe Ninja?

La porta segreta si richiuse alle loro spalle con un clangore da ponte levatoio medievale, nemmeno si trovassero in qualche sperduto castello della Scozia; si rese conto di essere finito in un ampio salone. Una specie di bunker, più illuminato e asciutto di quello che in cui aveva dovuto vivere Stark per tre lunghi anni.

“Non sono venuto qui per finir rinchiuso in un altro buco…” lo sentì mormorare alle sue spalle.

Non che potesse davvero dargli torto. L’idea di essere lì sotto, in una base segreta apparentemente inespugnabile,  disarmato, non riusciva ad accoglierla nemmeno lui in modo positivo.

La donna confabulava con Natasha in gran segreto e se non furono le occhiate furtive che rivolgevano loro, fu il bisbiglio sommesso ad aggrovigliargli lo stomaco fino a farlo esplodere.

“Si può sapere dove cazzo siamo finiti?” esclamò, la pazienza ormai esaurita.

La sua voce rimbombò per qualche istante fra le pareti, prima di trovarsi di nuovo attaccato dallo sciame rosso di almeno una ventina di puntatori.

“Certo, ammazzatemi pure con la lucetta!” esclamò, prima che un colpo non partisse davvero, finendogli fra i piedi, sfiorandone le punte per un soffio.

Clint si zittì immediatamente, ma non poté fare a meno di alzare lo sguardo per individuare il figlio di puttana robotico che gli aveva letteralmente sparato addosso.

Qualcosa gli atterrò di fronte. Si stupì di trovarsi una pistola direttamente puntata in faccia.

Ma non era un robot a costituire l’improvvisa minaccia, bensì un uomo. Dal viso coperto.

“Cazzo, alla fine Shredder è arrivato davvero”, gli venne spontaneo commentare, maledicendosi rapidamente per la spavalderia; ma gli sembrò impossibile impedirselo: a quanto pareva il suo livello di disagio stava aumentando di pari passo con la sfrontatezza. E straordinariamente, adesso, gli veniva da ridere.

Perché per quanto la situazione fosse misteriosa, cupa e tutto il resto, affrontarla con le scarpe che puzzavano di merda e un mal di testa che minacciava consistenti schizzi di vomito, sembrava solo aumentare il tratto surrealista dell’intera faccenda.

“Chi diavolo è Shredder?” commentò l’uomo con voce rasposa e lo sguardo da omicida fuori controllo.

“Non hai mai visto le Tartarughe Ninja?”

Risposta sbagliata: l’uomo ricaricò il cane, pronto a fare fuoco per la seconda volta. Stavolta con l’intenzione di friggergli il cervello, tanto per cambiare.

“Fermo!” la donna con il ciuffo bicolor si era avvicinata al tizio, frenando il suo sconsiderato gesto.

Di fatto salvando a Clint la vita. A lui, di contro, ancora veniva da ridere. Forse era una reazione nervosa.

La vide poggiargli una mano sulla spalla, costringendolo ad abbassare l’arma, allontanandolo come se stesse trattando davvero con un pazzoide da mantenere sotto controllo.

Una volta assicuratasi che l’uomo rimettesse via quella sottospecie di cannone portatile, tornò a rivolgergli lo sguardo che colse più come un vago rimprovero che una richiesta di scuse.

“Signor Barton…”

Clint aggrottò la fronte, evitando spontaneamente di guardare in direzione di Natasha. Non aveva la benché  minima intenzione di farsi trascinare nel suo gioco perverso. Nelle sue manipolazioni. Avrebbe capito da solo che cosa stava succedendo. Non aveva bisogno di suggerimenti pilotati.

“Signora…” disse, fingendo di cercare di ragionare su chi fosse, “mi perdoni ma credo di essermi lasciato sfuggire il suo nome.”

“Carter. Margaret Carter…” si premurò di colmare l’imperdonabile lacuna – se mai fosse stata davvero intenzionata a scucirsi – “ma qui tutti mi chiamano Peggy.”

“Tutti chi?” s’interrogò Clint, “Shredder e i soldatini di piombo?” oh, e dimenticava… Natasha.

La donna rispose con un mezzo sorriso. Niente di più diverso dalla reazione che probabilmente voleva rivolgergli veramente.

“Mi piacerebbe poterle dare tutte le risposte di cui ha bisogno, signor Barton, ma credo sia opportuno arrivarci per gradi.”

“Per gradi?” esalò sbuffando una risata, “per gradi. Certo.” In fondo era solo tre anni che alle cose… ci stava arrivando per gradi.

“Sa dove se li può infilare i suoi gradi?”

“Posso immaginarlo, ma non sono sicura ci entrerebbero tutti. Sono tenente.”

Clint strabuzzò gli occhi perché la risposta a tono proprio non se l’era aspettata. Stark al suo fianco sembrò divertito ma ebbe il buon senso di non farlo passare per il coglione di turno.

Comunque una militare, niente di meno. O niente di peggio.

“Carino. Mi sta forse suggerendo che preferirebbe essere chiamata tenente? Tenente Carter? Tenente Margaret? O Peggy.”

“Questo dipenderà da lei. Di solito permetto di usare Peggy solo alle persone di mia fiducia.”

“Bè, allora, già mi piange il cuore a vedermi depennato.”

“Clint.” La voce di Natasha era intervenuta nella discussione e, per la prima volta dopo anni che la conosceva, decise deliberatamente di ignorarla. E non ignorarla con stizza, preoccupandosi di rivolgerle uno sguardo di sfida per farle capire chissà che. Decise di ignorarla. Punto. Come se non fosse affatto presente.

Ancora doveva elaborare per bene i motivi del suo risentimento, ma si preoccupò di prenderlo in considerazione in un secondo momento. Per ora preferiva fingere di non averla fra i piedi.

“Signor Barton…” riprese Peggy o Margaret o il tenente.

“Agente. Agente Barton, grazie.” La donna si era preoccupata di sfoggiare i suoi gradi non vedeva perché non potesse fare altrettanto. Era un uomo, sapeva come giocare a chi ce l’aveva più grosso...

l’orgoglio.

Agente Barton”, riprese lei, nascondendo un sorriso che non gli piacque per niente, “vorrei solo ricordarle che siete ospiti qui. E come tali verrete trattati. Non abbiamo intenzione di farvi del male, vi sarà dato tutto ciò di cui avete bisogno, non è necessaria tutta questa ostilità”, e nel dirlo si preoccupò di introdurre anche Stark nello sguardo benevolo.

“Dillo anche ad Hannibal Lecter lì…” voltò la testa sull’uomo che ancora li fissava con l’arma in pugno. La sua idea di ospitalità gli sembrava essere un tantino in contrasto con i principi dell’umana convivenza.

“Di contro…” lo interruppe Peggy con quel suo ma grosso come una casa, “di contro… questa è la nostra dimora. E abbiamo le nostre regole. Regole che pretendiamo che vengano seguite. Una su tutte il rispetto.”

Clint improvvisamente si sentì giudicato. Come fosse tornato a scuola. Il rimprovero di una maestra o di una madre. Anche perché, a ben guardare, il tenente Carter poteva benissimo avere l’età della sua… di madre. Anno più, anno meno.

“Regole o meno…” dovette però intervenire, “un paio di domande ce le avrei comunque.”

“Può fare tutte le domande che vuole, agente…”

“Chi diavolo siete voi?”

Il tenente Carter finalmente sorrise. E stavolta non ci lesse niente altro che soddisfazione, nel suo sguardo.

“Credevo ormai fosse chiaro.”

Chiaro, cristallino proprio.

“Ci chiamano terroristi.” La voce che aveva parlato però non era evidentemente quella del tenente Carter, che non aveva nemmeno mosso le labbra. Una voce più profonda. Esausta e pacata.

Clint sgranò gli occhi quando un’imponente figura fece capolino da uno dei corridoi illuminati. Venne alla luce, svelandosi passo passo, come una sottospecie di creatura della notte, di Batman, permeato di tenebra. L' aspetto autorevole, massiccio e il passo pesante di un gigante meccanico. La mascella squadrata, il mento rigido, l’espressione severa e statica. A Clint sembrò improvvisamente di star osservando una statua. Una statua straordinariamente realistica. Una statua che era sicuro di aver già visto, in qualche museo o qualche libro di storia. La statua del capitano Steve Rogers: Capitan America.

“A noi piace di più definirci… vigilanti.”

“Porca puttana”, fu il ricco contributo di Stark all’intera conversazione.

 

*

 

“Non sono sicuro di poter reggere un’altra cattiva notizia per oggi”, Stark stava in piedi, fra le mani reggeva il suo terzo o quarto bicchiere di whiskey e nonostante si sforzasse di sembrare totalmente padrone della situazione, per la prima volta dacché lo conosceva, appariva evidentemente nervoso. Le occhiaie che gli aveva visto sfoggiare appena arrivato, erano ora nascoste da un paio di spessi occhiali scuri dalle lenti a specchio. Clint poteva vedercisi riflesso.

“Nessuna cattiva notizia. Lo SHIELD ha deciso di appoggiare il tuo progetto.”

Clint vide l’uomo fissarlo o quantomeno puntare su di lui con la testa, per un lungo istante, prima di concedersi un altro sorso di whiskey. Incredulo o meno, aveva ottenuto la sua attenzione.

“Questo dovrebbe assicurarmi maggiore credibilità?”

“Al momento è l’unica credibilità che hai”, gli rispose bruscamente, “in fase processuale potrebbe essere determinante.”

“I miei progetti sono stati approvati mesi fa dal governo. Un branco di hacker di una presunta organizzazione criminale si insinuano nei miei server, tentano di compromettere la buona fede e la funzionalità dei miei prototipi e tutto quello che riesco a ottenere è l’appoggio di un’organizzazione che il governo già rifugge come la peste? Ora sì che mi sento estremamente tutelato.”

“Se preferisci hai sempre il carcere come alternativa.” Lo rimbeccò Natasha nelle retrovie. Stava in disparte da quando il confronto era iniziato, seduta su uno delle poltroncine del salotto di Stark.

“Le Stark Industries e lo SHIELD hanno già collaborato in passato e in modo piuttosto soddisfacente. Non fare il disfattista. Noi stiamo cercando di fare la nostra parte”, riprese Clint “Non abbiamo ancora prove sicure sull’organizzazione che sta cercando di metterti i bastoni fra le ruote, ma lo SHIELD, rendendosi garante della sicurezza dei tuoi progetti, se non altro ti permetterà di presentarli alla tua Expo.”

“… per poi trovarmi con un branco di sentinelle robotiche d’ultima generazione a fare la ruggine nei magazzini delle Stark Industries, aspettando di poter diventare operativi dopo infinite manovre burocratiche.”

“Oppure potrebbe caderti un meteorite in testa”, Clint allargò le braccia esasperato. Comprendeva la frustrazione di Stark, sul serio, ma lavorare in un simile stato di negatività avrebbe potuto diventare deleterio anche per loro. Si erano presi in carico le indagini. E lavoravano incessantemente da giorni per riuscire a individuare e annientare il pericolo che si era insinuato nella rete. Non era un’assoluta novità, quella di incontrare ostacoli. Un numero indefinito di associazioni aveva finito per opporsi al progetto di Stark. A molti non andava a genio che un privato potesse occuparsi del rinnovo dei prototipi robotici della sicurezza cittadina. Avevano collaborato per mesi, anni, con il dipartimento della difesa e quello che ne era uscito era qualcosa su cui molti avrebbero voluto mettere le mani.

Ora la minaccia sembrava più seria di quanto preventivato. Un errore e tutti i piani sarebbero esplosi come fuochi d’artificio.

“Per ora dovrai accontentarti di questo. Vedrai che riusciremo a prenderli. E incastrarli. È un’organizzazione molto ramificata, ma abbiamo fatto progressi in queste ultime due settimane.”

Stark  non sembrò convinto, ma quantomeno smise di lamentarsi.

“E come avete detto che si chiama questa presunta, pericolosissima organizzazione segreta?”

“HYDRA.”

“Suona incoraggiante.” E detto questo finì il suo quarto bicchiere di whiskey.

 

*

 

Li avevano condotti in una zona del bunker segreto che niente aveva a che fare con le fogne di New York.

Un salottino, piuttosto familiare. Qualche poltrona dall’aria decrepita. Un tavolino di metallo al centro della stanza a fungere da scrivania e una marea di aggeggi antiquati ai quali Clint non era sicuro di poter assegnare una funzionalità. Per quello che lo riguardava, poteva anche trattarsi di stravaganti oggetti da arredamento che si sposavano alla perfezione con la chincaglieria antica uscita direttamente dagli anni Cinquanta: vecchie fotografie a stampa, ingiallite dal tempo, a incorniciare visi di gente dall’aria antica, un giradischi che doveva aver visto tempi migliori, alcuni libri dalla copertina pesante e le pagine smangiucchiate dalle tarme, nonché un calamaio con un vecchio pennino e un numero di aggeggi sufficienti a fare la gioia di un antiquario.

Improvvisamente gli venne in mente l’appartamento di Natasha. Stracolmo delle stesse cose.

Direzionò a lei il suo secondo sguardo e straordinariamente se lo vide ricambiare con un’occhiata che sapeva di scuse.

Improvvisamente si chiese se tutta quella roba non fosse stata proprio lei a procurargliela. O se non fosse stato questo fantomatico Capitan America, risorto dai bei tempi andati, ad averle fatto dono di un po’ di quelle cose di cui non sapeva più come disfarsi. Come se il Capitano avesse disperatamente cercato di tenere con sé, fino a quel giorno, tutti gli anni perduti.

Coulson sarebbe andato matto per una cosa del genere.

A Coulson sarebbe piaciuto Capitan America.

Clint… doveva ancora farsi un’idea a riguardo.

“Posso offrirvi qualcosa?” s’interessò l’uomo che, per come si muoveva, sembrava un colosso fatto di muscoli e ossa indistruttibili.

Non aveva potuto fare a meno di notare come muovesse rigidamente la schiena. E nondimeno la lunga cicatrice che gli circondava la carotide e parte della nuca, prima di andare ad insinuarsi sotto quella massa di capelli biondi, nascondendosi alla vista.

In più era convinto di aver visto brillare qualcosa di metallico dallo scollo della maglia color blu elettrico che indossava.

Dopotutto non era uno dei sopravvissuti del progetto… Lazarus? La sola idea di essere al cospetto di una specie di cadavere ambulante gli fece riaffiorare una risata alle labbra. Risata che quantomeno si premurò di frenare prima che deflagrasse ferocemente fra quelle quattro mura.

“Delle spiegazioni sarebbero gradite”, s’intromise Stark al posto suo, che fremeva per dire qualcosa da quando era entrato in quella nuova, volontaria prigionia, “magari innaffiate di un buon bicchiere di bourbon. Liscio. Magari doppio.”

Rogers si volse nella sua direzione, preoccupandosi di rivolgergli un sorriso. Gli si dipinse sul viso in ritardo, come se al cervello fosse necessario qualche secondo di troppo per elaborare l’informazione di un’emozione.

“Anche Howard era un patito del bourbon.”

Stark alzò un sopracciglio e avanzò di un passo: “Ti ricordi di mio padre?”

“Come potrebbe essere il contrario?” esalò l’uomo, mentre recuperava una delle tante bottiglie accantonate su un angolo dello studiolo improvvisato, sistemate su una pila di fogli sparsi.

“Si è preso cura di me… dalle prime ore del mio risveglio…”

“Fino al giorno della tua fuga?” concluse per lui Stark, lasciandogli intuire di come fosse già a conoscenza di tutta la storia, risparmiando all’uomo il fastidio di dover dare anche quelle spiegazioni.

“Esattamente…” esalò il Capitano, lanciando una significativa occhiata a Carter.

“E invece di restare e ringraziarlo per l’egregio servizio, avete preferito scappare e rifugiarvi nelle fogne per giocare ai terroristi.”

“È più complesso di così, Stark”, disse porgendogli un bicchiere di bourbon, così come aveva chiesto. L’uomo non rifiutò, ma al contrario cominciò a bere avidamente, come fosse acqua fresca.

“E per lei… agente Barton?”

Clint gli lanciò un’occhiata sospetta.

“Sono astemio”, mentì di proposito, prima di squadrarlo da capo a piedi, “ma se proprio vuoi offrirci qualcosa, sono dalla parte di Stark. Delle spiegazioni. Rapide e indolore.”

Non era sicuro di saper giocare bene al gioco del duro e irritabile agente dello SHIELD, ma erano giorni che non faceva che ricevere spiegazioni e arrivati a questo punto, non era sicuro di poter immagazzinare stronzate all’infinito.

“Avete detto di essere terroristi – pardon – vigilanti…” incalzò senza dargli il tempo di elaborare il pippone che già sentiva veleggiare sulle loro teste. Decise di tagliare la testa al toro, “gli stessi vigilanti che hanno fatto esplodere le sentinelle robotiche una sera di qualche giorno fa?”

Rogers gli rivolse uno sguardo serio, ma affatto turbato dalla domanda.

“Sì, siamo stati noi.”

“Quanto vorrei avere un registratore in momenti come questi.” Disse, ma solo per scaricare l’agitazione, l’irritazione. Improvvisamente realizzò che Natasha doveva esserne al corrente, ma gli aveva deliberatamente taciuto la faccenda. E quello che lo faceva incazzare più di ogni altra cosa era che la situazione non aveva apparentemente niente a che fare con le memorie perdute o i piani di Stark. La faccenda stava su altri livelli. A coprire una porzione di storia di cui era completamente all’oscuro.

“Non ha bisogno di registratori, agente Barton.”

“Ah, tu dici? Ho in mano la chiave per essere completamente scagionato dalle accuse di FBI e polizia… sarei proprio un imbecille a non cogliere l’opportunità.”

Il grosso Capitan America rivolse a Natasha uno sguardo confuso. Come se si fosse aspettato una reazione del tutto differente. Come si aspettasse che Natasha li avesse già sufficientemente aggiornati almeno su... alcune delle novità. Cosa che ovviamente, la cara Natasha... non aveva fatto.

“Sarebbe controproducente, giacché le nostre vicende sono strettamente connesse alla questione che lei e Stark state portando avanti da tre anni a questa parte.”

Clint aggrottò la fronte, restando in silenzio. Non poteva certo dire di fidarsi, ma quantomeno l’uscita di Rogers ebbe la sua attenzione.

“Dimmi come”, lo incitò allora, “e prova ad essere credibile. Solo una cosa: niente paroloni e niente lei… sono due cose che mi mettono i brividi.”

Rogers annuì in modo artificioso, meccanico, ma sembrò fargli quella concessione.

“Il punto focale dell’intera vicenda è l’Hydra.”

Clint scambiò uno sguardo rapido con Stark: Rogers aveva spinto immediatamente sul tasto giusto.

“La stessa Hydra che ha compromesso i miei progetti.” intervenne Stark.

“La stessa Hydra che si è resa responsabile della strage di tre anni fa all’Expo di presentazione dei prototipi robotici delle Stark Industries”, precisò Rogers,  “un’organizzazione criminale che trova le sue radici in anni non sospetti, che si è ramificata in modo invisibile e silenzioso in tutte le istituzioni più importanti della città. La stessa organizzazione che adesso ha messo mano al dipartimento della difesa della città di New York e che probabilmente sta allungando i suoi tentacoli per espandere il dominio sulla sicurezza degli interi Stati Uniti d’America. Il controllo sulle strade è a zero, il crimine organizzato ha via libera in tutte le attività illecite. I robot di vigilanza non sono che fantocci riprogrammati esattamente sulle esigenze di questi nuovi burattinai. I nuovi modelli, che arrivano direttamente dalla nuova Robotics Inc. sono totalmente sotto il loro controllo.”

“E com’è che nessuno sa niente di questo fantomatico complotto?”

“Lo sospettano. Indagano. In questi tre anni FBI e polizia hanno combattuto per tenere sotto controllo questa insidia. Ma le indagini sono costantemente ostacolate, pilotate. Non vi siete mai chiesti come mai lo SHIELD sia stata la prima organizzazione ad essere smantellata dopo la strage dell’Expo?”

“Per aver appoggiato i progetti di Stark?” azzardò Clint, lanciando all’uomo uno sguardo incerto.

“Quella è stata una delle scuse ufficiali. Ma i processi che sono seguiti avrebbero ben presto scagionato il coinvolgimento di Stark e dello SHIELD in questa ignobile faccenda. Avete conservato le prove. O quantomeno c’erano agenti pronti a testimoniare che ne avevate conservate…”

Clint si portò una mano alla testa. I progetti di Stark, tutte le prove che sarebbero risultate schiaccianti a favore della loro innocenza, erano proprio lì a portata di mano, nella sua testa.

“La verità è che lo SHIELD avrebbe compromesso lo sviluppo di questo cancro. Una delle poche organizzazioni a non essere ancora state intaccate dalla malattia.”

“… e a tanto così dallo scoprire cosa stava succedendo.” Mormorò Clint. La memoria di quei giorni spesi a fare ricerche, indagini che non erano culminate in niente altro che una manciata di informazione e qualche nome. Se solo avessero avuto più tempo…

E poi si rese conto che di tempo Natasha invece ne aveva avuto. Che lei non aveva dimenticato.

Le lanciò uno sguardo strano, carico di confusione e qualcos'altro di indefinito.

Poi un dubbio: “Ma se voi sapevate… perché non vi siete fatti avanti per denunciare una cosa simile?”

“Con quali credenziali? Quali prove? Natasha ha fatto in modo di raccogliere informazioni, ma il tassello finale, le prove risolutive, erano custodite in un luogo inaccessibile, fino a qualche giorno fa.”

Clint, di nuovo, si portò una mano alla tempia.

“Esattamente.” Gli confermò Capitan America, con quella sua aria solida e pacata, in netto contrasto con la sua straordinaria mole.

“Però non siamo rimasti con le mani in mano. Abbiamo agito nell’ombra per tenere sotto controllo questa piaga. Agendo sulle strade come invisibili vigilanti, ostacolando la criminalità dilagante della città e mettendo fuori uso, per quanto possibile, i modelli robotici modificati…”

“Mettendo fuori uso o riprogrammando…” intervenne di nuovo Stark, “perché tutte le sentinelle che ci hanno accolto prima, sono gli stessi identici modelli che troviamo sulle strade.”

“Già… ogni tanto restano qui. Ogni tanto vengono riabilitati e rimessi in circolazione a fare il loro lavoro.”

“Strabiliante… e chi si occupa di queste modifiche?”

Rogers puntò uno sguardo sull’uomo mascherato alle sue spalle, che non aveva fatto altro che tenerli sotto mira per tutto lo svolgimento del colloquio.

“Un ingegnere di cui non conosco il nome?”

“Nessuno ne conosce il nome, di fatto è un fantasma come me…”

“Non mi dire che lui è…”

“Bucky Barnes.”

“L’esperimento mal riuscito!” Stark ci mise un po’ troppo entusiasmo a esprimere il suo giudizio e l’uomo fece scattare la sicura della sua arma, balzando in avanti con una spinta che dell’umano aveva bene poco.

“Bucky. No…” lo riavvicinò Rogers, bloccandolo per una spalla. Un solo sguardo, occhi negli occhi, sembrò placare l’uomo che ancora non aveva emesso una sola parola in loro presenza, “non ti voleva offendere”.

Clint lo vide arretrare, respirare in modo disarticolato e improvvisamente la maschera si presentò per quello che era: niente di più che un erogatore d'ossigeno.

Stark aveva parlato di un esperimento mal riuscito, era possibile che invece di ereditare lo stesso identico vigore di Rogers – nonché la sua placida calma e il suo lucido raziocinio – avesse bisogno di aiuti esterni per tenersi in piedi. Dalla maschera ad ossigeno, a quel braccio di metallo grezzo che per un istante gli ricordò quello di Natasha.

E a proposito di Natasha… improvvisamente Clint si chiese come avesse fatto a entrare in contatto con loro. Come a diventarne alleata. E poi quale era il suo ruolo? Quale quello del tenente Carter?

La testa, già stracolma di informazioni, sembrò diventata improvvisamente pesante. Si chiese per quanto tempo ancora sarebbe stato in grado di reggere senza crollare.

“Dunque quando il tenente Carter ha detto che ci stavate aspettando era perché si aspettava che ci unissimo a voi?” domandò Clint, pronto ad assorbire le ultime importanti rivelazioni.

“Precisamente. Aspettavamo da tempo, il giorno in cui sareste stati in grado di unirvi alla nostra causa.”

L’arciere ebbe un sussulto improvviso. E solo successivamente si rese conto essere una risata.

“E in tutto questo avete pensato di chiedere la nostra opinione o davate per scontato che ci saremmo uniti… a voi?”

“Ve lo stiamo chiedendo ora.” Incalzò Rogers, senza dare l’idea di avere molti dubbi a riguardo.

“E se non ci fidassimo di voi? Chi ci dice che non siate né più né meno che delle spie di questa fantomatica Hydra? Chi ci assicura che siate spinti dai motivi giusti? Che non vogliate solo manipolarci, rovistare nel mio cervello, impadronirvi dei piani? Un branco di esperimenti che si rintanano nelle fogne senza apparente motivo! Per quale motivo siete scappati dal progetto di Stark senior, tanto per cominciare?”

“Un buon numero di domande, Barton, non c’è che dire”, intervenne Stark, “Mi sento di concordare vivamente, comunque.” Si ostinava a mantenere un tono leggero, quasi scherzoso, dio solo sapeva cosa celasse veramente il suo animo.

“Non sono scappati dal progetto Lazarus”, il tenente Carter emerse dal suo placido silenzio per prendere finalmente parola, come se quella parte riguardasse lei in particolar modo, “Howard Stark si è assicurato che gli unici due esperimenti di successo ne venissero allontanati immediatamente, affidando a me il compito di prendermene cura. Subito dopo aver scoperto che qualcuno stava cercando di fare con i suoi progetti la stessa cosa che hanno cercato di fare con quelli di suo figlio.”

“L’Hydra? Già allora?” esalò Stark, incredulo. Di certo una spiegazione più che sufficiente a comprendere perché Howard avesse nascosto formule e progetti in uno dei laboratori segreti delle Stark Industries.

“Chi credi che abbia sabotato i motori dell’aereo il giorno dell’incidente mortale dei tuoi genitori?”

Stark sembrò sbiancare. I giornali avevano riportato una notizia diversa all’epoca, un giorno di almeno una ventina di anni prima. Il giovane Anthony Stark era rimasto orfano poco più che adolescente. Una tragica fatalità che però adesso sembrava assumere dei toni più foschi, da complotto, dove tutto combaciava con le recenti scoperte in modo sconcertante.

“E lo SHIELD in tutti questi anni non ne ha mai saputo niente?”

“Un’organizzazione fantasma che ancora non aveva assunto le caratteristiche che conosciamo. Pensavamo si trattasse di spionaggio internazionale, della concorrenza, ma ci sbagliavamo. Tre anni fa tutto è diventato chiaro, cristallino. Natasha Romanoff ci ha aiutato a portarci sui binari giusti.”

Clint si azzardò a spingere uno sguardo nella sua direzione ma non si stupì di non ricevere lo stesso trattamento. Natasha non lo stava più guardando. Clint pensò che non le era mai risultata più estranea di così.

“Ancora non lo sappiamo se possiamo fidarci di voi.” mormorò Clint, sentendo la testa pulsare, e il fischio alle orecchie divenire insistente.

“Avete ragione…” riprese Rogers, “però magari potete fidarvi di Howard.” E nel dirlo aveva allungato loro quello che sembrava un dispositivo portatile di riproduzione video. Aveva la grandezza e la forma di un grosso pennarello. Stark fu più rapido di lui ad afferrarlo.

“Potete consultare i documenti dell’epoca con tutta la calma di cui avete bisogno. Non avrete difficoltà a capire che sono autentici.”

Stark sembrava esausto quanto Clint, ma non si sottrasse all’idea di arrivare fino in fondo alla faccenda.

“Avrò bisogno di altro bourbon.” Disse.

“Anche io.” Si unì al coro Clint, ricevendo un’occhiata bonaria da Capitan America.

 

*

 

Note:

Eggià, il nostro esperimento riuscito male era proprio Bucky e la donna era proprio Peggy.

E stavolta le spiegazioni arrivano sottoforma di pippone dal mastodontico Steve Rogers in persona.

Non ancora proprio tutti… i misteri sono risolti. Ne manca uno, piuttosto consistente… che troverà la soluzione nel prossimo capitolo. Perciò… tremate.

Come sempre ringrazio tantissimo tutti, in particolar modo chi è sempre presente con commenti e considerazioni, la socia e beta reader Sere (che ultimamente ha proprio poco da betare… sono un po’ in calo d’ispirazione) e come sempre vi rimando alla prossima settimana.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


CAPITOLO 12

 

“Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l'abisso scruterà dentro di te.”

(Friedrich Nietzsche)

 

*

 

Doveva essere esploso un temporale, in superficie.

Il fragore del tuono appena percepibile sotto tutti quegli strati di ferraglia e solida muratura.

Eppure l’elettricità nell’aria riusciva ad avvertirla anche in quelle condizioni. L’odore della pioggia invece gli bastava riportarlo alla memoria. Epidermide ed ossa, esposti per troppo tempo al grigio cielo in perenne scompiglio meteorologico, trasudavano pioggia e umidità da tempi immemori.

Si rimise seduto su quella branda improvvisata. Rinchiuso in un claustrofobico stanzino che avevano adibito a camera da letto.

La maledetta insonnia era tornata. Volle dare la colpa all’eccitazione delle ultime rivelazioni. Volle dare la colpa alla difficoltà d’ambientazione in un luogo estraneo… la verità era che non voleva ammettere di essere tornato a soffrire di quel male incurabile che lo aveva afflitto per tre interminabili anni di oblio. Prima di sorseggiare tutti i giorni quel delizioso caffè drogato. Prima che Natasha Romanoff tornasse nella sua vita.

Si strofinò la faccia, trovandosi a scattare per il dolore quando il palmo della mano andò a scontrarsi con la cicatrice ancora fresca dell’ultima operazione. Serrò le labbra, soffocando un lamento stizzito. Si chiese solo vagamente quanto tempo ci avrebbe messo a rimarginarsi sul serio stavolta.

Alzò lo sguardo; gli occhi ormai abituati all’oscurità scandagliarono i dintorni.

Stark riposava nella branda accanto. Non aveva faticato a prender sonno. Tre anni a star chiuso tra oscurità e pareti di metallo dovevano aver modificato per sempre la sua percezione del giorno e della notte.

Si maledì solo quando, al primo tentativo di rimettersi in piedi, la branda scricchiolò in una gioiosa protesta di molle.

“Dannazione, Barton…” mugugnò l’uomo, voltandosi appena nella sua direzione, esponendo solo l’occhio sano alla vista.

“Scusa…” sussurrò a mezza bocca, esitando un solo istante prima di levarsi definitivamente in piedi.

“Non avrai intenzione di fare su e giù per la stanza tutta la notte, vero?”

“In realtà pensavo di uscire”, confessò candidamente, mentre l’uomo si voltava completamente nella sua direzione, guardandolo in modo strano.

“Sarà pieno di sentinelle armate, là fuori.”

Clint si strinse nelle spalle.

Avevano esaminato i filmati di Howard Stark. Avevano accettato di entrare a far parte della squadra di Capitan America. Doveva pur esserci un vantaggio in tal senso.

“Dovremmo essere liberi di girare per i corridoi di questo posto senza rischiare di venir impallinati, no?”

“Hai già dimenticato il pazzoide con la maschera?”

“Spero che trovi il tempo per dormire come un qualsiasi essere umano.”

“Di fatto è… un essere umano.”

“Potenziato.”

“Come lo sei tu con le tue orecchie bioniche.”

Clint si sentì a disagio a venir paragonato all’uomo che affiancava Steve Rogers. Eppure se doveva esserci qualcuno grato degli enormi passi avanti fatti dalle biotecnologie, quello doveva essere lui. L’alternativa sarebbe stata essere un povero sordo, senza alcuna percezione uditiva. Gli era già capitato da bambino. E ricordava ancora con terrore tutti quei giorni e quelle notte fatti di interminabili silenzi.

Terrore misto a una sorta di masochistico sollievo. L’isolamento a volte lo faceva stare bene, ma solo per brevi periodi di tempo.

“Vuoi andare a cercare Romanoff?” la domanda di Stark fu in grado di strapparlo alle sue elucubrazioni. No, non voleva andare a cercare Romanoff. O almeno non ci aveva pensato, non fino a quel momento. Improvvisamente la necessità di vederla e riempirla di domande divenne quasi fastidiosa, impellente.

“No.”

“Sei ancora incazzato con lei?” lo vide rimettersi seduto e scompigliarsi i capelli già distrutti dalle pieghe del cuscino.

“Non sono incazzato con lei.”

“Sì che lo sei. Sarò rimasto chiuso tre anni in un magazzino, ma le so ancora capire le persone”, gli puntò addosso uno sguardo odioso, “Sei incazzato perché non ci ha parlato di questa novità. E vuoi delle spiegazioni, ma non sai come fare a chiedergliene. Un po’ perché hai paura delle risposte, un po’ per orgoglio ferito. Sei un libro aperto Barton.”

“E tu da quando in qua sai leggere?”

Stark annuì concorde.

“Questa era effettivamente buona. Ma non cambia quello che penso.”

“Siamo in un paese libero…” disse più come frase fatta che non perché ci credesse veramente.

“Ci ha aiutato. Non fosse stato per lei probabilmente tu adesso non saresti qui. Io… non sarei qui. A dire la verità, non fosse stato per Romanoff, avremmo buttato letteralmente tre anni al vento.”

“Avremmo potuto gettarne via la metà se non si fosse eclissata per tre anni…”

“Quella, tecnicamente, è stata colpa mia. Cercavo un modo per farti tornare la memoria senza danni, devo aver un tantino calcato la mano con la prudenza. Non è stata colpa sua. E non lo è nemmeno il fatto che in tre anni abbia cercato di fare qualcosa… essersi unita al Capitan Ghiacciolo e Braccio di Ferro Asmatico non deve essere stata nemmeno la cosa peggiore in cui avrebbe potuto imbattersi.”

Clint dovette zittirsi perché in qualche modo sapeva che Stark aveva ragione. E sapeva di aver elaborato le stesse identiche conclusioni, a mente fresca. Eppure… c'era ancora qualcosa non riusciva a digerire. Una sensazione più che altro, come se la donna ancora nascondesse segreti ben più inconfessabili. O come se improvvisamente non la conoscesse affatto.

Tre anni erano stati davvero sufficienti a cancellare quello che erano stati l’uno per l’altra?

Prima ancora che amanti… amici, confidenti, compagni che si sarebbero affidati la propria vita l’un l’altro, ad occhi chiusi?

Abbassò lo sguardo, cercando di metabolizzare e trasformare la sua frustrazione, il suo inconsistente risentimento.

“Insomma, vuoi venire con me o no?” gli chiese, senza dargli la soddisfazione di concordare con lui o di averlo quantomeno preso in considerazione.

“Credo che ognuno, i propri tormenti, li debba affrontare in solitaria, Barton.” Esalò Stark rimettendosi steso. “Magari accompagnali con un po’ di alcool, se ne trovi. E pensa al tuo vecchio amico steso su una branda.”

Clint gli rivolse un ultimo sguardo, in parte rinfrancato dall’avere finalmente la possibilità di starsene da solo.

Aprì la porta della stanza, trovandola straordinariamente aperta.

L’attimo dopo si lasciò guidare dalla luce ammiccante dei corridoi.

 

*

 

“Ho anche questo.”

Natasha allungò a Peggy un contenitore di metallo. La donna ne aprì il coperchio inalando estatica l’aroma forte del caffè.

“Cominciavo a sognarlo la notte”, le disse, rivolgendole uno sguardo di ricca gratitudine.

“Mi spiace. Sono stata un po’ presa…”

“Non era un rimprovero, Natasha.” Le rispose richiudendo rapidamente il coperchio, come avesse timore che la polvere profumata potesse evaporare come acqua ragia.

“Avevo promesso di farmi viva. Le cose sono degenerate più di quanto immaginassi”, non riuscì a fare a meno di insistere. Da un lato sapeva perfettamente quali erano state le sue priorità in quegli ultimi giorni, dall’altro mancare così tanto tempo dai suoi impegni con Rogers e Carter l’aveva fatta precipitare in uno stato di costante ansia e agitazione.

Tener testa alle pressioni di Stark, andarci con i piedi di piombo con Clint e pensare a mantenere i contatti con i vigilanti. Un trittico di eventi che avrebbe messo alla prova chiunque.

In più era convinta di essersi arrugginita, in quegli ultimi tre anni. Non tanto dal lato pratico, quanto da quello mentale. Mantenere una facciata, una maschera… non le era mai risultato così difficile.

Si chiese se la sua corazza, nel tempo, non avesse subito troppi colpi e adesso non rischiasse di sfaldarsi rivelando l’essere oscuro che vi risiedeva all’interno.

Un essere informe, orribile al quale ancora non era riuscita a dare una forma, un’identità. Qualcuno aveva cercato di convincerla che era solo il suo lato umano più fragile… che avrebbe dovuto solo accoglierlo, custodirlo… ma, per quanto la riguardava, erano tutte stronzate.

Enormi stronzate.

Lo aveva colto, lo sguardo di Clint. La sua improvvisa diffidenza, la sua rabbia. Non c’era mai stato nessuno come lui che aveva saputo leggerle dentro. E se dopo tutti quegli anni era improvvisamente stata in grado di suscitargli determinate sensazioni, si chiese se l’uomo non avesse compreso –  inaspettatamente, come una rivelazione –  prima di lei, prima di chiunque altro, cosa albergasse nelle sue profondità.

La risposta che riusciva a darsi era sempre la stessa: un mostro.

Niente altro che un mostro. In grado di tacere, raggirare, fingere.

“Natasha…” Peggy la richiamò all’ordine, come avesse intuito cosa stava silenziosamente elaborando. Sempre pronta a rimetterla sui binari giusti, Peggy. A restituire un ordine al suo caos interiore. Anche solo con una parola. Un richiamo.

“Le cose sono migliorate… invece, più di quanto immaginassimo”, si permise di contraddirla, “Stark, Barton. Tutto ciò che abbiamo progettato per tre lunghi anni, forse riuscirà a concretizzarsi in qualcosa di consistente.”

“Lo spirito che ci metti è sempre ammirevole, Peggy”, una punta di sarcasmo, forse, che sperò che la donna non cogliesse.

“Non sono nata ieri”, la ammonì invece, “So che non sarà una passeggiata. Né un percorso rapido o indolore… ma il passo più importante è stato compiuto.”

“Stai cominciando a parlare come lui…” le disse, alzando su di lei uno sguardo sottile, allusivo.

Peggy le ricordava Rogers. La sua versione al femminile forse. Mossi dagli stessi ideali. Dalla stessa levatura morale. Forse non dallo stesso attacco di testosterone, ma…

Si chiese improvvisamente se invece non fosse il contrario. Se non fosse stato Rogers ad attingere alle qualità, alle caratteristiche della donna.

Dopotutto non era forse stata lei a prendersi cura di lui nei primi tempi, dopo il suo burrascoso risveglio?

Non lo aveva forse aiutato a prendere confidenza con un mondo che ormai gli era estraneo? A muovere i primi passi in un’epoca così diversa, frenetica, pulsante?

Il pensiero successivo la riportò bruscamente a Clint.

Aveva fatto la stessa cosa con lei.

Strappandola da un’esistenza che sì, forse poteva essere paragonata a un inferno di ghiaccio. Congelata per anni, nella convinzione che esistesse un solo modo di vivere. Prendendo ordini.

Per poi essere istruita del contrario. Dell’arbitrarietà della vita. Di prospettive diverse.

A modo suo Clint le aveva ridato la vita. Proprio come Howard, come Peggy avevano fatto con Rogers.

Deglutì a fatica mentre l’ennesimo attacco di panico rischiò di schiacciarla inesorabilmente.

Le capitavano sempre più spesso ultimamente. Sentiva lo stomaco contrarsi, il respiro divenir faticoso, affettato, e una sorta di mattone grezzo fare pressione sul suo stomaco.

Si impose di chiudere gli occhi, di respirare.

“Sta succedendo di nuovo?”

“E’ tutto sotto controllo.”

Inspirare.

“Sono solo molto stanca.”

Espirare.

Un altro paio di respiri e tutto sarebbe andato al suo posto.

Quando riaprì gli occhi, Peggy ancora la stava guardando.

“Non so come dirglielo”, disse solo, come se non fosse stata quella l’unica confidenza che aveva aspettato di farle da quando erano rimaste sole.

L’aveva imbonita con del caffè.

Come fosse un premio, un pretesto per costringersi a parlare. Ancora impossibilitata a elargire gratuitamente le sue confessioni.

“Dovrai farlo prima o poi… non esiste un modo diverso per farglielo sapere.”

“A meno che non gli racconti una bugia.”

Peggy fece una smorfia, disapprovando tacitamente quella mossa.

Persino il suo stomaco riprese a ribaltarsi in modo inappropriato alla sola idea di aver formulato quel proposito ad alta voce.

Non aveva mai mentito veramente a Clint. Mai. Nemmeno una volta. Lo aveva allontanato pur di impedirsi di scucirsi. Lo aveva forse raggirato, truccato in qualche modo la verità. Imbellettata, migliorata. Gli aveva taciuto cose, ma mai, nemmeno per una volta, si era permessa di mentirgli.

Lo aveva sempre trovato un gesto vigliacco, privo di senno. E adesso, dopo tre anni, dopo esserglisi di nuovo avvicinata, era pronta a farlo? A formularlo, anche solo a pensarlo?

Aveva paura.

Per la prima volta… paura. Paura di scoprire che Clint avrebbe definitivamente preso a considerarla alla stregua del mostro che aveva sempre pensato di essere. Paura di perderlo. Per sempre.

“Non cambierà niente, Natasha”.

Rialzò lo sguardo, puntandolo addosso a quella donna dall’aria fiera e rassicurante. Dietro le rughe, s'intravedeva più di uno scorcio della sua maestosa bellezza di un tempo.

“Non puoi esserne sicura.”

“Ho visto come ti guardava. È confuso, diffidente, ma è alla disperata ricerca di risposte. Gli farà più male il tuo silenzio che non la verità.”

Le uscì un sorriso amaro, quasi sprezzante.

“Tu sai sempre tutto, non è vero?” odiava il modo in cui ogni crisi di coscienza finiva per concretizzarsi in arroganza. Ma non riusciva a farci niente. Un’altra corazza.

Voleva solo avere la sua benedizione per mentirgli, invece si era trovata a stringere fra le mani l’unico consiglio che non voleva sentirsi dare.

Vigliacca.

Si allontanò dal centro della stanza, con tutte le intenzioni di uscire da lì. La solitudine avrebbe scatenato un altro mare di domande, ma almeno non le avrebbe permesso di analizzarle e renderle concrete come succedeva tutte le volte che parlava con Peggy.

“Nat…” cercò di richiamarla la donna, ma non si fermò se non sulla soglia della stanza.

“Non chiamarmi così.”

Si richiuse la porta alle spalle, senza un saluto.

Aveva bisogno di aria fresca, frizzante, ma il temporale sulle loro teste sembrava scandire rumorosamente anche il suo tormento interiore.

 

*

 

Scansò agilmente anche la decima sentinella robotica. Lo scansionavano nemmeno fosse un criminale della peggior specie. Per poi lasciarlo passare con metallica indifferenza.

Probabilmente erano stati istruiti a dovere sul fatto che ormai facevano parte del branco, della tribù.

Il bunker era molto più equipaggiato di quanto sospettasse.

Corridoi a non finire e porte a soffietto a nascondere stanzini dall’aria austera, simili più a celle di un carcere che non a laboratori.

Probabilmente un vecchio nascondiglio di epoche passate, riadattato alle nuove esigenze di questi fantomatici vigilanti.

Rogers aveva detto loro che non erano gli unici ad essersi uniti alla causa in quegli ultimi tre anni. Erano riusciti a reclutare un nutrito numero di persone, sufficientemente disperate o fuori di testa per tentare di lanciarsi ad ariete contro il sistema corrotto della città.

Avevano parlato di un uomo che teneva sottocontrollo i sobborghi di Hell’s Kitchen e di una squadra che si muoveva agilmente fra le periferie cittadine travestiti da uomini per bene, investigatori privati, ex carcerati.

A Clint sembrava di vivere una realtà alternativa. Come se si fossero tutti messi d’accordo per girare una serie televisiva alla quale si era unito in ritardo di almeno tre stagioni. Una serie della quale, non avendo visto le prime puntate, ora faticava a tenere il passo.

Il riassunto non era la stessa cosa che… vederla.

Tutto questo ragionamento solo per realizzare che gli mancavano le sue vecchie serie televisive. Che in realtà un po’ gli mancava la sua vecchia, noiosissima vita. Che nascondersi e scappare aveva dato una sonora botta d’adrenalina alla sua arrugginita esistenza, ma che andare avanti di quel passo, più che scrostare la ruggine, lo avrebbe messo in condizione di finire in rottamazione per direttissima.

Si chiese come si divertissero lì sotto quando non uscivano a giocare ai vigilanti per le strade della città, a piazzare robot bombaroli che rischiavano di uccidere onesti cittadini. Tipo lui.

Si chiese se, di fatto, Capitan America e la cyborg-marmaglia si concedessero almeno il meritato riposo dei giusti. Avevano bisogno di dormire? Di mangiare? Aveva parlato con un’entità psico-robotica o poteva riconoscergli una coscienza più umana che meccanica? Dopotutto era stato un uomo… congelato, ma pur sempre un uomo. Con un vissuto, dei ricordi ai quali restava persino tenacemente aggrappato, a giudicare da come si circondava di cimeli storici di epoche ormai estinte.

L’interrogativo era di difficile soluzione, ma di una cosa era certo: gli faceva venire i brividi.

Sebbene… se non fosse stato preparato a conoscere chi o cosa gli stava di fronte – se uomo o macchina –, difficilmente avrebbe potuto cogliere la differenza.

Poteva coglierla lui stesso… la differenza fra la sua testa dura, con l’apparato artificiale che ne aveva sostituito tessuti epidermici, ossa e apparato uditivo?

Forse era solo condizionamento.

Aveva letto troppi libri di fantascienza e horror per pensare, in modo razionale, a quanto straordinario fosse invece solo il fatto che una persona come Steve Rogers fosse viva. Così come lo era quel suo amico un po’ sbarellato e con la maschera. A quanto avrebbe potuto essere straordinario veder tornare in vita Barney da quell’ammasso di carne e ossa ancora potenzialmente pulsanti, in una teca conservata in un vecchio magazzino delle Stark Industries.

Gli faceva male la testa.

E ricordò perché faceva sempre di tutto per evitare di pensare.

Le serie tv, i libri, i filmacci di serie B in seconda serata, la musica ad alto volume, l’allenamento, il sesso occasionale. Tutti espedienti per impedirsi di pensare. E di perorare la causa dei suoi costanti mal di testa. Ne soffriva spesso, da bambino, dopo il primo intervento ai timpani. Poi, da quando ci avevano infilato dentro file di importanza risolutiva, non avevano fatto altro che tornare a tormentarlo.

Pensare, ragionare… o semplicemente attaccarsi a una serie di pippe mentali di una certa rilevanza, aiutavano a spingere in alto il malessere.

Si fermò al centro del corridoio solo quando gli sembrò di udire delle voci.

Se in una delle stanze accanto o lungo il corridoio, a restituirgli un’eco sbiadita, non seppe dirlo immediatamente.

Volse il capo solo quando si rese conto che provenivano da una delle cellette adiacenti. Gli bastò fare solo un paio di passi in quella direzione per convincersi che aveva ragione.

La porta a soffietto era appena accostata; dovette impedirsi di osare troppo per evitare di essere scoperto.

Riconobbe immediatamente la voce di Natasha.

Se da un lato avrebbe voluto proseguire e rimandare ulteriormente il confronto, dall’altro non riuscì a trattenersi dall’origliare. E poi sbirciare.

Molto poco professionale, Barton.

Molto poco… Barton.

Ma dopotutto era libero di andarsene dove voleva, no?

Intuì rapidamente chi era l’interlocutore della donna: capelli lunghi, braccio di metallo. E una maschera abbandonata su una sedia in fondo.

Natasha gli sedeva di fronte, in bilico su una vecchia scrivania di legno scrostato.

“Puoi toccarlo se vuoi…” la sentì pronunciare e si spinse più vicino all’apertura per capire di che diavolo stessero parlando.

Natasha tendeva il braccio bionico in direzione dell’uomo che con aria titubante faceva passi incerti nella sua direzione.

“Non morde.” Insistette la donna, solo vagamente divertita, mentre Bucky allungava la mano per sfiorare con le dita il suo braccio nudo. Intuì dal suo sguardo la sorpresa e lo stordimento di quel contatto.

Dopo un primo momento di perplessità si prodigò a risalire con cautela lungo l’avambraccio e poi sul bicipite, per arrivare a snudarle la spalla della maglia che indossava per esaminarne con cautela l’attaccatura praticamente invisibile.

“Non si vede la… cicatrice.” Pronunciò l’uomo, senza smettere un solo istante di esaminare il fine meccanismo con curiosità. “Ti fa mai… male?”

“La ferita? No. Solo se piove più del solito.”

“Se solo avessi la possibilità di… capire.”

“Hai Stark. Il prototipo è suo… Non guardarmi così. Puoi fidarti di lui.”

“Mi ha chiamato esperimento mal riuscito…”

“E’ solo il suo modo di – senti, si è meritato lui stesso epiteti ben peggiori. Il suo modo di esprimersi lascia a desiderare.”

Barnes la lasciò andare.

“Non significa che non abbia ragione.” E nel dirlo andò a recuperare la maschera dell'ossigeno, la voce che non era diventata che un sussurro. Lo sentì prendere un ampio respiro. Come se tornasse finalmente a vivere.

“Non sei un esperimento. Sei un essere umano. Come lo è Steve… come lo sono io. O Peggy.”

“Non siamo come Peggy e tu lo sai!” alzò improvvisamente la voce e Clint dovette fare uno sforzo per trattenersi dal sussultare. Si ritrasse appena, per avere una visuale migliore.

“Carne e sangue… sentimenti. Non sono queste le cose che fanno di te… un essere umano?”

“Carne? Sangue? Pompato artificialmente da organi riprogrammati! E’ un cuore quello che mi batte nel petto? Sono polmoni quelli che spingono a forza ossigeno nel mio organismo? È forse un braccio, questo?” alzò il suo arto di metallo, portandoglielo sotto al naso come a sottolineare la sua affermazione.

Natasha non disse niente, a lungo, come vinta da un conflitto interiore e improvvisamente Clint fu vinto da una sensazione strana, alienante. Si trovò a sperare – senza comprenderne il motivo – che Natasha convincesse l’uomo del contrario, che lo rassicurasse, che gli dicesse che sì, erano esseri umani. Ancora. Sotto strati di metallo e organi artificiali.

“E dei sentimenti? Che… cosa mi dici dei… sentimenti?”

“Sentimenti?” ringhiò l’uomo, “Da quando in qua parliamo di sentimenti?”

“Quello che provi per Steve…” lasciò la frase in sospeso, permettendogli di assorbire la forza delle sue parole, “non è forse la stessa cosa che Peggy prova per lui? Non sono… gli stessi impulsi? Non le stesse passioni, non lo stesso… amore… ? Siete… uguali.”

“Questo non significa niente. Sono solo gli strascichi di memorie passate. Una connessione di sinapsi. L’ombra di quello che sentivamo quando eravamo ancora vivi.”

“No.”

“No?”

“No…”

“Negarlo non lo renderà meno reale. Siamo macchine. Siamo cadaveri che camminano grazie a una riprogrammazione, Natasha.”

Clint sentì un formicolio risalirgli su dalla punta dei piedi, a bloccargli le gambe a raggelargli lo stomaco.

L’attesa di una conferma che non era pronto a sentire.

“Non siamo…” la voce di Natasha adesso solo un fiato, “non siamo solo macchine. Non siamo cadaveri. Io sono viva. Sono viva.”

“Non lo sei più di quanto sia io. O Steve. O di tutti quegli esperimenti falliti nel tentativo!”

“E quello che io provo? Quello che provo io non sono strascichi di memorie passate! Come potrebbero! Prima non c’era niente. Niente!”

“Prima di cosa?”

“Prima di…”

“Barton?”

Clint si ritrasse inciampando nel momento esatto in cui Barnes pronunciava il suo nome. Il cuore in tumulto, la testa un’infinità di guizzi di luce pulsante. Un bagno di informazioni che ebbero su di lui la forza di una scossa elettrica.

Che cosa stavano dicendo?
A quale cazzo di spettacolo dell’assurdo aveva appena assistito?

Natasha e Barnes avevano voltato in simultanea lo sguardo alla fessura della porta.

“Clint…”

La porta si aprì del tutto e, prima che potesse pronunciare una qualsiasi parola, il volto sbigottito e colpevole di Natasha bastò a fargli capire che no…  non stavano affatto recitando.

 

*

 

Note:

BOOM. Sono riuscita a sganciare una rivelazione shock?

Spero di sì, perché mi sono proprio “divertita” ad arrivare a questo punto. Divertita non è magari il termine corretto, data la drammaticità del tema del capitolo ma… ci siamo capiti.

Per tutto il resto, ringrazio come sempre tutti coloro che si trovano a leggere la storia, le recensioni mi fanno sempre molto piacere, perciò se ve ne scappa una… anche solo per dire: ma che ca*** stai scrivendo, insomma, sono qui (pomodori mi servono, anche per l’insalata). Poi una menzione sempre alla socia/beta reader Sere, che è sempre così gentile da leggere in anteprima capitoli che potrebbero contenere potenziali vaccate e si subisce i miei pipponi e… basta. Ci sentiamo presto.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


CAPITOLO 13

 

“Smetti un attimo di farti largo a spintoni, e affonderesti senza lasciare traccia; muoviti un po' troppo velocemente, e finiresti per spezzare la fragile tensione superficiale del mercato nero; in entrambi i casi spariresti senza che di te rimanesse niente”

(Neuromante)

 

*

 

Si trovò a masticare terra prima ancora di capire che era caduta.

La bocca le si riempì di sangue.

Si sentì strattonare di nuovo, presa per i capelli, costretta a rialzare la testa.

Una divisa. Una pistola. Il volto di un uomo. Rasato di fresco, un rigido taglio di capelli militare. E un profumo sferzante, insopportabile, di acqua di colonia.

“In piedi”, l’ordine perentorio – dal forte accento di Mosca – che non era affatto sicura fosse rivolto a lei. Un paio di braccia la sollevarono da terra, di peso.

Non era sicura nemmeno di riuscire a reggersi in piedi. Erano ormai passati quindici giorni e non aveva fatto altro che mangiare patate. O le bucce che era riuscita a trovare in giro. Rubando, nascondendosi.

Le energie l’avevano abbandonata, lasciando solo il fantasma di quello che era un tempo.

Si era lasciata trovare, come una principiante.

La verità era che l’avevano abbandonata. Tutti quanti. E per quanto fosse sempre riuscita a contare sempre e solo su se stessa, messa alle strette da soffiate sempre più frequenti, non aveva potuto far altro che arrendersi.

O far loro credere che… fosse così.

“Natalia Alianovna Romanova, finalmente ci conosciamo”, l’uomo aveva un che di familiare: probabilmente qualcuno del dipartimento che aveva incrociato fuori dalla Lubjanka. O più semplicemente l’omologazione degli ufficiali dell’NKVD era andata fuori controllo.

Una folata di vento le scompigliò i capelli. Rosso fuoco. Da sempre rosso fuoco. Un pregio per alcuni, una debolezza per altri. Si era rifiutata di tingerseli. Si era rifiutata di fare molte cose. Una su tutte l’omicidio coatto di un gruppo di presunti nemici del partito. Il suo primo e unico atto di ribellione. La sua prima, unica e probabilmente ultima iniziativa personale.

E adesso era qui, pronta a subire la sua condanna. Gulag o esecuzione. O entrambe le cose.

Combattuta tra il considerarla una punizione… o più una sorta di ultima liberazione.

Quando però il volto dell’uomo le fu troppo vicino, quando non fu solo l'acqua di colonia a colpirla, ma anche un fetido alito di vodka… e le sua mani cominciarono ad esplorarla in modo tutt’altro che professionale, il fuoco che le era rimasto dentro sembrò rianimarsi. La scintilla si riattizzò nella frazione di un secondo.

Gli sputò dritto in faccia. Un misto di sangue e saliva, diretto sul muso, a sgocciolargli in grumi sul naso, sulle labbra.

Non appena sentì arrivare lo schiaffo che si era attesa, crollò a terra, stavolta di propria volontà. Le risate degli ufficiali alle sue spalle le diedero solo l’occasione di localizzarli senza doverli nemmeno guardare in faccia.

Fece forza sui muscoli delle braccia e con uno scatto – dettato dalla disperazione – roteò su se stessa, falciando le gambe ad entrambi gli uomini.

Sollevandosi in piedi, colpì l’ufficiale dall’alito di vodka con un gancio diretto sul viso, a spezzargli il setto nasale in un sonoro schiocco di ossa. E poi di nuovo ad accanirsi sugli altri due, fino a ridurre i loro volti a un cumulo di carne maciullata e insanguinata.

Li degnò solo di un ultimo sguardo, prima di mettersi a correre.

Di allungare il passo, di affondare i piedi nel fango, nella terra ammorbidita da neve ormai sciolta, risparmiando le ultime energie rimaste per tuffarsi nella boscaglia grigia che si profilava all’orizzonte.

Aveva fatto un errore. Non il primo… ma di certo l’ultimo.
Lo sparo riecheggiò nella luce di un pallido mattino autunnale.

Che sciocca. È la prima cosa che ti insegnano. Disarmare il nemico.

Evidentemente l’istinto di sopravvivenza dà la priorità alla fuga.

Atterrò nel fango.

Le gridavano epiteti osceni, mentre tutto finalmente svaniva…

 

*

 

“Clint…”

Li aveva sentiti. Nel momento esatto in cui lo aveva guardato in viso si era resa conto che adesso sapeva. Origliato consapevolmente o meno, sapeva.

Non era sicura che il battito frenetico del suo cuore stesse pompando sangue solo per il panico. Il brivido d’eccitazione che le prese lo stomaco era forse dovuto al fulmineo pensiero che, di tutte le spiegazioni che si era preparata silenziosamente, adesso non gliene sarebbe più servita nemmeno una.

Bucky le fu di fianco in un istante. Imbracciava di nuovo quella sua inutile arma, che usava più come inibitore che non come reale oggetto d’offesa.

La furia che animava il suo sguardo però, quella era reale.

“Che diavolo ci fai qui fuori?” gli sibilò contro, mentre l’arciere se ne restava lì, immobile e trasognato, come in preda a una sorta di cosciente… sonnambulismo.

Fece per andargli incontro e solo in quel momento l’uomo sembrò ridestarsi dal torpore. Vederlo arretrare, sgranare gli occhi e fissarla così come si osserva un incidente stradale – un misto d’orrore e attrazione – fu il peggiore dei riscontri.

“Stammi lontana…” non lo aveva pronunciato con ostilità, ma più con una sorta di recalcitrante ribrezzo e in quel momento seppe dare un nome al suo stato d’animo.

Le sue predizioni si stavano avverando.

Non forzò la mano, lo guardò senza sapere che dire, come giustificarsi o anche solo come dargli una sottospecie di raffazzonata spiegazione. Ma era cosciente dei suoi limiti. Del suo orgoglio e non di meno della sua difficoltà genetica nel relazionarsi con certi tipi di… situazioni.

Lasciò che si allontanasse, che l’allontanasse. Che se ne andasse per i corridoi, impedendo a Bucky di seguirlo.

“Non dovrebbe andarsene in giro da solo. Non sa nemmeno come muoversi qui sotto.” Sembrava non essersi reso conto del dramma in corso. O forse lo stava semplicemente evitando.

Una sorta di riguardo nei suoi confronti.

Era impallidita.

 

*

 

Nello stesso momento in cui aveva ripreso a respirare, la gola le si era contratta per il dolore.

Ci aveva messo un po’ troppa forza.

“Piano… piano…” una voce.

Inspira.

Espira.

Gli occhi cercarono freneticamente, oltre la luce al neon sopra di sé.

Inspira.

Espira.

Due soli imperativi. Non le era mai capitato di doversi rinfrescare la memoria su come si facesse a respirare.

Buffo. Surreale.

Richiuse le labbra, quando le scivolò in gola una soluzione viscida e pastosa. Sapeva di rancido, di menta e qualcosa di indefinito.

Si rese conto solo muovendo le dita che tutto il suo corpo ne era cosparso. Una soluzione gelatinosa, lucida come pellicola trasparente.

Cercò di sollevarsi, ma il mondo prese a vorticarle attorno.

“Non così in fretta…”

Di nuovo quella voce.

Volse il capo di lato, permettendo ai suoi occhi di abituarsi alla luce strana di quella stanza. Sì, era in una stanza.

Un uomo le sorrise. Folti capelli corvini, sorriso stanco, ma gentile. Era giovane. Straordinariamente giovane. Indossava un camice da dottore.

“Riesci a capire quello che dico?” aveva un marcato accento straniero. Del nord Europa.

Si rasserenò quando si rese conto di essere in grado di formulare un pensiero… razionale.

Annuì, una sola volta.

“È straordinario…” lo sentì trattenere una risata, contenendo a malapena l’emozione.

“Chi… s-sei… t-tu?” la voce le uscì in modo tale che non riuscì a riconoscersi e l’uomo di nuovo faticò a contenere lo stupore.

“Sono il Dottor Selvig.”

Socchiuse gli occhi, inspirò a fondo.

Selvig. Un nome che non conosceva. Ma si concentrò per imprimerlo nella mente.

Quando la sollevarono si rese conto di avere freddo. Ma il dettaglio le sembrò irrilevante, quando realizzò di essere seduta di fronte a una donna… che non conosceva. La fissava dall’altra parte della stanza. Completamente nuda. Poteva scorgere nel suo sguardo la sorpresa.

Pelle candida, fisico asciutto. Capelli tagliati corti, disordinatamente, rossi come il peccato.

Fece per allungare una mano e l'estranea fece lo stesso. Quando la ritrasse anche la donna sembrò volerla imitare.

Il pensiero successivo la colpì con la forza di uno schiaffo: stava guardando la propria immagine riflessa in uno specchio. Non si era riconosciuta.

 

*

 

“E io penso che andarsene là fuori a far esplodere robot come i fuochi d’artificio dell’ultimo dell’anno, non sia esattamente la forma più civile di diversivo.”

Stark aveva messo in piedi un suo personale teatrino.

Rogers sembrava aver finalmente capito con chi avesse a che fare.

Natasha aveva cercato di spiegarglielo e lui aveva dichiarato di essere più che consapevole di cosa volesse dire avere a che fare con uno Stark. Evidentemente non si era atteso niente di simile.

Tony aveva ereditato i caratteri del padre e li aveva spinti all’estremo: era quasi un’ora che discutevano di piani d’attacco.

“Siamo sempre stati attenti a non coinvolgere alcun civile nelle operazioni.”

“Sempre attenti tranne che con Barton”, lanciò la stoccata finale. Natasha solo a sentirlo nominare avvertì una dolorosa morsa allo stomaco: non lo aveva visto per tutta la mattina “voglio dire, mi rendo perfettamente conto che Barton non sempre possa essere definito: civile – ma mi sarebbe spiaciuto comunque vederlo esplodere come un mortaretto.”

“Immagina come sarebbe dispiaciuto a me…” una voce alle loro spalle.

Natasha volse la testa di scatto. Un movimento più brusco e non si sarebbe stupita di sentirla staccarsi dal collo e rotolare per terra, magari proprio ai piedi dell’uomo.

“Barton, qual buon vento? Pensavamo fossi scappato per unirti alla legione straniera. Ti rendi conto di che ore sono?”

“No.”

“No… in effetti, nemmeno io. Magari Rogers è tanto gentile da aggiornarci a riguardo. Son certo che la sua meridiana non sbaglia di mezzo secondo.”

Nemmeno ascoltò la risposta di Rogers o il dialogo che ne seguì. Tutta la concentrazione di Natasha rimase su Clint.

Lo seguì con lo sguardo per tutto il percorso che seguì per raggiungere il centro della stanza. Era pallido, due profonde occhiaie gli solcavano il viso. A giudicare da come lo aveva accolto Stark, non era nemmeno tornato nella sua stanza quella notte.  Non aveva dormito.

Di nuovo quella maledetta morsa allo stomaco.

Perché lui non la guardava. Era certa che l’avesse individuata, seduta in un angolo della stanza, ma la stesse ignorando di proposito. Come aveva fatto dal giorno in cui si era risvegliato dopo la riattivazione della sua memoria. Ma stavolta con delle motivazioni ben diverse, più concrete.

Avrebbe fatto di tutto pur di attirare la sua attenzione, negli intenti almeno. Di fatto se ne restò lì a guardarli mentre cercavano di mettere a punto un piano per tornare ai magazzini delle Stark Industries, recuperare gli esperimenti e il corpo di Barney Barton.

 

*

 

Il locale non era niente di particolare. Una pista da ballo, luci stroboscopiche, musica ad alto volume di decibel.

Se non altro le poltroncine del privé erano comode.

Natasha aveva appena finito di sciogliere una pasticca di quella che doveva essere la droga del secolo nel bicchiere del suo acquirente.

Un uomo tutto basette e pantaloni a zampa d’elefante. Il prototipo del cliente abituale di certi tipi di locali.

“Quanto mi costerà questa degustazione?” il tizio dal ventre prominente la osservava in un misto di sospetto e eccitazione. A giudicare da come fosse gonfio anche al di sotto della cintura, fu certa che la seconda opzione fosse, in percentuale, la più consistente.

Gli spinse il bicchiere alle labbra, mentre con l’altra mano si preoccupò di accarezzarlo lì, in pieno petto, a insinuare le dita esperte nello scollo della camicia, fra le catene d’oro e il pelo ricciuto che sembrava esibire con orgoglio.

“Il primo assaggio è gratis.”

“Sei molto sicura del tuo prodotto.”

Gli rispose con un sorriso mellifluo. Lo guardò ingollare l’intero contenuto del bicchiere, leccarsi i lunghi baffi a manubrio. Lo aiutò a posare a terra il bicchiere per godersi la reazione.

“Non mi sembra niente di particolare questa roba.”

“Aspetta… devi avere pazienza. Non ha niente a che vedere con quella merda chimica che vendono oggigiorno.”

Si rimise in piedi proprio mentre un’espressione di puro stupore gli si dipinse sul volto.

Il suo respiro si fece pesante, il risucchio dell’aria qualcosa di insopportabile. Prima che potesse rendersi conto di quello che stava accadendo, schiuma densa cominciò a fluire dalle sue labbra.

Le lanciò un ultimo sguardo di puro terrore.

“C-che cosa… che cosa mi hai… ?”

Natasha si strinse nelle spalle, come a liquidare rapidamente la sua responsabilità nell’intera vicenda.

“Niente di personale.”

Lo lasciò lì a morire, fra gorgoglii e inutili richieste d’aiuto appena bisbigliate. Inondato del suo stesso vomito.

Uscì dal locale accompagnata da un pezzo di Gloria Gaynor.

Le piaceva Gloria Gaynor. Non era sicura però le piacessero gli anni '70.

Attraversò rapidamente la strada sul retro del locale.

Doveva fare in fretta. Allontanarsi da lì, raggiungere i suoi mandanti e incassare la quota del suo lavoro. L'ennesimo. L'unico modo che aveva ritenuto ideale per racimolare un po' di soldi. A quanto pare non era in grado di fare niente altro che quello.

Buffo, non sapeva chi fosse o da dove venisse, ma aveva caratteristiche innate che si erano manifestate pochi giorno dopo il suo risveglio.

Almeno un paio di settimane dopo la sua fuga dai laboratori che la stavano trattando come una cavia. Era sua intenzione trovare informazioni su di sé. Ma per farlo ci volevano soldi: per aiutare i suoi spostamenti, i suoi travestimenti, trovare alloggio e cibo, per non crepare di fame e stenti. E per fare soldi, di regola, ci voleva un lavoro.

La città puzzava. Manchester non era esattamente il posto dove si sarebbe trasferita in pianta stabile. Individuò la salvezza a pochi passi, prima che una macchina nera non le tagliasse improvvisamente la strada.

Annusare il pericolo non fu sufficiente.

La scarica di mitra fu più rapida delle sue gambe.

L’avevano trovata di nuovo.

 

*

 

“Ci sarà un furgone ad attendervi una volta fuori da qui”, Peggy stava illustrando gli ultimi aggiornamenti del piano di recupero.

“Chi lo guida?” si interrogò Clint. Non si preoccupava nemmeno di nascondere quanto ancora diffidente fosse nei loro confronti. Poteva dargli torto?

“Una donna. Jones. Collabora con noi da anni… Natasha la conosce.”

di nuovo Clint sembrò ignorare il dettaglio. Ignorare il fatto che fosse lì. E che da lì a breve avrebbero dovuto collaborare. Forse gli sfuggiva il particolare, o forse si era semplicemente rimesso in carreggiata professionalmente, mettendo da parte il suo risentimento.

“Vai avanti.”

“Rogers e Barnes faranno in modo di creare un diversivo per darvi la possibilità di entrare indisturbati nella zona dei magazzini. A voi spetterà il resto.”

“Stark?”

“Stark rimarrà qui con noi. Dice che avrete l'aiuto del suo aiutante, una volta tornati dai magazzini.”

“Quell'ammasso di latta.”

Peggy lo guardò in modo interrogativo.

“Niente, so di chi si tratta, tutto qui.”

La donna tirò fuori dei cellulari: “Questi vi serviranno per comunicare con noi. E a noi per avvisarvi di eventuali pericoli. Non sono tracciabili. Monitoreremo l'intera operazione dall'esterno. Faremo in modo che nessuno venga a disturbarvi senza essere adeguatamente annunciato.”

“Odio i cellulari…”

Peggy sorrise.

“Non sono cellulari qualunque. Tutto merito di Natasha.”

Clint fece un gesto di stizza e si rimise in piedi rapidamente. Dovette reggersi a uno dei piloni della stanza per non barcollare.

“Sei sicuro di potercela fare?” gli chiese allora la donna vagamente preoccupata. Si era resa conto anche lei del suo stato di salute. Di quanto fosse pallido e forse ancora in parte debilitato dalla recente operazione.

“Ce la faccio. E' stato solo un momento. Probabilmente solo fame.”

“Sappi che posso prendere il tuo posto...”

“No, grazie. Ho bisogno di uscire”, le disse, “con tutto il rispetto, ma è un tantino claustrofobico qui dentro.”

“È solo questione di abitudine.”

“Spero di non doverci trascorrere abbastanza tempo da abituarmici.” disse con una punta di crudeltà gratuita. Peggy non sembrò aversene a male.

“Vado a dire a Stark che siamo pronti.” disse solamente l'uomo, prima di decidersi a prendere la strada verso l'uscita. Natasha decise di distanziarlo di almeno qualche misura.

“Che sta succedendo?” domandò Peggy, avvicinandola. Come al solito, sembrava aver capito tutto, chiedendo solo conferme ai suoi dubbi.

“Niente. È tutto sotto controllo.” le rispose, guardandola direttamente negli occhi, “gli vado dietro, prima che cada a terra come un sacco di patate.”

 

*

 

Una serie di numeri le scorrevano di fronte agli occhi.

Il download dei dati la teneva bloccata lì, ferma in quel posto, mentre fuori già sapeva che erano sulle sue tracce.

Era fondamentale, se non vitale, che finisse prima del loro arrivo.

Il sangue le pompava a velocità doppia nelle vene. La testa non era che un cumulo di informazioni che rischiavano di farle scoppiare il cervello.

Avrebbe potuto abbandonare tutto, scappare, ma non poteva permettere, non quella volta, che le impedissero di portare a termine il suo obbiettivo.

Se tutto fosse andato come pensava, come sperava, finalmente avrebbe avuto delle risposte. Tutte le risposte di cui aveva bisogno.

La finestra aperta le rimandò una folata di vento. L'istante successivo una freccia aveva sfondato lo schermo del pc, frantumandolo.

L'odore dei circuiti bruciati e il suo grido rabbioso, anticiparono la fine dei giochi.

Si levò in piedi a una velocità strabiliante, persino per i suoi standard. Riuscì a scansare un secondo attacco, prima di rotolare di lato e finalmente individuare la figura oscura che si stagliava nella cornice di quella dannata finestra.

Reggeva in mano un arco, e si apprestava a sferrare l'ennesimo attacco.

Un ringhio rabbioso le risalì dalla profondità della gola, straordinariamente nemmeno troppo preoccupata dal fatto che il suo assassino avesse le fattezze del fratello gemello cattivo di Robin Hood. La reminiscenza di un déjà-vu. La paura, l'impulso di scappare il più rapidamente possibile.

Memorie o stupide connessioni che le confermavano quel disturbo della personalità di cui sospettava da tempo.

L'illusione di aver vissuto cento vite, senza ricordarne nessuna.

L'impatto di uno sparo alla nuca. Il corpo crivellato dai proiettili di centinaia di pallottole di mitra. Una coltellata allo stomaco. E chissà quante altre fantasiose puttanate si ammassavano senza discernimento nei recessi della sua mente.

“Non di nuovo...” pronunciò senza afferrare il significato di quelle parole. O del perché le fossero affiorate alle labbra così rapide, così preparate.

Prima che l'uomo saltasse giù dal davanzale, Natasha aveva già programmato il suo attacco.

 

*

 

“Voglio il mio arco.”

Clint sembrava determinato a non cominciare la sua missione senza un'attrezzatura adeguata. Nello specifico: non senza i suoi strumenti di lavoro più efficaci.

Stark stava cercando di tenergli testa, ma straordinariamente con scarsi risultati.

“Barton, con tutto il rispetto. Arco e frecce non sono esattamente le prime armi che si sono preoccupati di procurarsi e poi, nello specifico, il tuo arco... chissà dove diavolo è andato a finire.”

“Non esco da qui senza il mio arco.”

“Stai diventando giusto un tantino infantile.”

“Non sono infantile. Voglio sentirmi a mio agio la fuori.”

Natasha varcò la porta dell'ingresso già adeguatamente preparata. Portava con sé un grosso borsone e una valigetta con l'attrezzatura necessaria per la missione.

Giusto in tempo per assistere a stralci di conversazione. Giusto in tempo per comprendere quale fosse il problema.

Non disse una parola, mentre porgeva a Clint la valigetta nera di finta pelle.

“Non è il tuo. Ma è un arco.”

L'uomo fu costretto, per la prima volta a rivolgerle uno sguardo, evidentemente combattuto tra il darle una risposta sferzante o accettare il dono con gratitudine. O almeno una parvenza.

Probabilmente comprese che portare avanti quel capriccio non lo avrebbe condotto da nessuna parte. Allungò una mano per recuperare la valigetta e, quando le loro mani per poco non si sfiorarono, Natasha accusò il colpo al modo in cui Clint evitò accuratamente di toccarla.

Ma stavolta nessuna morsa allo stomaco dovuta al senso di colpa. Se lo stomaco le faceva male stavolta riuscì ad identificarci tutti i sintomi di un attacco di rabbia.

Chi diavolo si credeva di essere? Improvvisamente gli parve di non riconoscere più, in quell'essere dall'aria distaccata e intollerante, il suo vecchio compagno d'armi.

“E adesso muoviamoci. Abbiamo già perso troppo tempo per queste stronzate”, disse, senza aggiungere una parola di più.

Lo superò stavolta senza preoccuparsi di rivolgergli uno sguardo di scuse.

Se era quello il gioco a cui voleva giocare, probabilmente aveva dimenticato con chi aveva a che fare.

 

*

 

New York sapeva di umido e polvere.

Le strade erano specchi sudici di pioggia sporca.

Era sicura di non aver mai visto una città tanto inquinata in vita sua. O tanto umida. Nemmeno Londra, durante il suo breve ma intenso periodo in Europa. Non le mancavano le giornate di sole: era sicura che niente fosse in grado di calmare il suo caos interiore come la pioggia. In un certo senso quella città le somigliava. Cupa, fredda... e sporca dentro.

Le avevano riservato un appartamento dall'aria austera nei pressi di Chinatown. A parte l'odore costante di cibi fritti, aveva fatto in fretta ad abituarcisi. Un bilocale con pochi, essenziali mobili. Nessun eccesso di tecnologia, fatta eccezione per il sistema di sicurezza che sembrava spiarla tutto il santo giorno.

Non si fidavano ancora di lei. Non totalmente.

Le faceva comodo che ancora lo credessero. Ma quanto si sbagliavano. C'erano almeno tre buoni motivi per rimanere con lo SHIELD.

Uno su tutti perché era certa che entrare a far par parte di un'organizzazione di spionaggio potesse esserle utile. Non aveva abbandonato le sue ricerche e, sebbene le permettessero l'accesso ai database dello SHIELD con estrema parsimonia, prima o poi avrebbe avuto modo di sfondare il muro di segretezza. Le ci sarebbero voluti forse degli anni. Si sarebbe assicurata di crescere professionalmente, di meritarsi la loro fiducia e poi... forse sarebbe finalmente riuscita a scoprire qualcosa di sé che ancora non conosceva. I suoi ricordi bloccati all'età di vent'anni. Solo stralci di memorie della sua vita passata. Un orfanotrofio. Una scuola. Il gelo intenso durante duri allenamenti.

Il secondo motivo era più pratico. Meno elaborato: aveva un lavoro. Aveva dei soldi. Un tetto sopra la testa. E poteva permettersi il lusso di abbassare la guardia di tanto in tanto. Di concedersi di vivere una vita che ancora non le era familiare. Che avrebbe avuto modo di riscoprire. Vero... era pur sempre prigioniera dello SHIELD: a modo loro le avevano imposto le loro regole... ma era sicura di poter gestire con più tranquillità una cosa del genere che non la costante adrenalina di una vita in fuga.

Il terzo motivo invece... era seduto sul divano e stava sistemando sul tavolino da caffè del cibo cinese a portar via.

“Non mi ricordavo se gli involtini primavera ti piacessero o no. Ne ho presi un paio... al massimo me li mangio io.”

Natasha abbandonò la sua postazione alla finestra per raggiungerlo.

Si rese conto di avere finalmente fame. Non lo avrebbe detto prima di vedere quanta roba aveva portato per cena Clint Barton.

“Hai preso il riso alla cantonese?” gli domandò, azzardandosi a parlare dopo minuti di interminabile silenzio.

Lui le rivolse uno sguardo consapevole, prima di porgerle una vaschetta.

“Sei prevedibile come le previsioni del tempo su New York, Romanoff.”

Non aveva ancora capito come fosse successo che da carnefice si fosse trasformato in complice, ma di fatto era quello che era successo nei sei mesi successivi alla sua cattura.

Ancora lo teneva sulle spine. La sua tenacia nel guadagnarsi la sua fiducia era ammirevole, ma ancora si chiedeva perché ci tenesse tanto a diventarle amico. Non aveva mai avuto amici. Non da quando aveva memoria. E la cosa peggiore era che... non sapeva perché ancora gli concedesse di crearsi spazio nella sua vita.

“Involtino o no?”

Natasha allungò una mano anche per quello, godendosi la sua smorfia frustrata.

“Sapevo che avrei dovuto prenderne di più.”

Mentre si sporgeva verso di lei, le arrivò una sferzata di profumo: Clint Barton sapeva di pioggia e caffè.

Forse era per quello.

Il caffè non era tanto male, no. Ma la pioggia.

 

Le piaceva la pioggia.

 

*

 

Note:

Lo so, ho saltato una settimana ma perché sto esaurendo i capitoli scritti. Non sono più sicura di come finire la storia. Mi ci vorrà del tempo, sono un po’ subissata di lavoro, vero e non.  In ogni caso, questa settimana sveliamo un po’ dei retroscena di Natasha. Il mistero ancora non è risolto del tutto, ma anche in questo caso le spiegazioni arriveranno… appena Clint si riprenderà. Se si riprenderà.

Come sempre grazie alle persone che ancora seguono la storia, silenziosi e non, e la socia/beta Sere che è sempre presente. Alla prossima.

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


CAPITOLO 14

 

Quando i robot sono più umani dell'umanità.

(Isaac Asimov)

 

*

 

Le strade erano deserte. Straordinariamente deserte. Quell'atmosfera tipica di placida, statica calma dopo la tempesta.

Persino il cielo aveva smesso di piangere lacrime amare.

Il temporale della sera precedente aveva restituito alla città la sua aria da post sbronza.

Trasudava degli odori mefitici delle fognature. I tombini colmi avevano regalato alle strade diversi ricordini, vomitando acque oleose dalle loro più intime profondità.

Clint teneva d'occhio la strada. Il furgone della Jones avrebbe dovuto già essere lì.

Cercò di non concedersi di essere nervoso. Non ce ne era motivo. Non ancora almeno.

Se non si considerava il fatto che Natasha fosse lì con lui, apparentemente affatto turbata dalla piega a precipizio che avevano preso gli eventi in quelle ultime ventiquattro ore.

Non che lui avesse fatto qualcosa per indurla a essere meno ostile. Si era trincerato dietro un ostinato silenzio. Nemmeno troppo difficile da tenere a bada dato che Natasha si stava preoccupando di fare la stessa identica cosa.

Aveva bisogno di tempo. Quanto gli era persino difficile dirlo. Di regola non si curava del tempo e, quando aveva qualcosa da dire, non si faceva troppi scrupoli a muovere quella sua lingua biforcuta.

Ma si trattava di Natasha. E della rottura di una promessa. In realtà la promessa non riguardava il tacere le cose, ma – per come la vedeva lui – omettere un segreto tanto importante equivaleva a mentire… per come si erano sempre sinceramente posti l’uno nei confronti dell’altra.

Aveva paura che per lui fosse uno shock?

Cazzo, certo che era stato uno shock! Avrebbe potuto biasimarlo? Aveva appena scoperto che la sua migliore amica, barra amante, barra collega era una sottospecie di esperimento da laboratorio. Un cadavere ambulante. Un cyborg riprogrammato dall’alba dei tempi!

Da quanto tempo lo sapeva? Perché, soprattutto, nessuno si era mai accorto di niente? Nemmeno lo SHIELD sapeva, sospettava? Eppure, fisicamente, quei cosi non avrebbero dovuto essere… diversi?

Si pentì del pensiero quando lo stava ancora formulando.

Natasha non era diversa in niente. Un bel niente.

Certo un tantino algida, ma questo era per via del suo lavoro. Del suo passato…

Già, ma quale passato?

In ogni caso era fatta di carne e sangue. E passioni. Che aveva scorto e testato sulla sua pelle.

L’aveva vista ridere, l’aveva vista piangere, gioire e soffrire. L’aveva assistita quando sofferente, amata con tutto se stesso quando lo aveva reclamato.

Quindi in che cosa era diversa? In cosa poteva essere diversa se non… per il fatto che probabilmente era stata surgelata, alla stregua di Rogers. O Barnes. O chissà quanti altri individui là fuori.

Avesse messo un braccio dentro un frigorifero si sarebbe gelato. Il sangue si sarebbe fermato, ma una volta scongelato… non avrebbe certo smesso di essere il suo… braccio.

O no?

Il rumore di un motore lo riportò alla realtà.

Un furgone color cenere si stava trascinando lungo la via. Un vecchio modello, un po’ vintage, come quelli che piacevano a lui. Sulla fiancata un scritta in nero titolava: Rigattieri Jones & Cage, subito seguito da un improbabile numero di telefono a cinque cifre. Le altre doveva essere state cancellate dal tempo. A giudicare dal rumore con cui avanzava verso di loro, la marmitta non avrebbe dovuto nemmeno superare la revisione.

Clint sperò con tutto se stesso che non fosse quello il mezzo che li avrebbe condotti ai magazzini Stark.

Continuò a sperarlo anche quando si fermò a pochi passi di distanza da loro. E lo sperò nonostante Natasha avesse fatto cenno all’autista.

E lo sperò anche quanto una donna, dai lunghi capelli neri e il viso dall’aria tutt’altro che ordinario,  si affacciò al finestrino con un grosso sorriso sghembo.

“Hola. Ma guarda un po’… tu devi essere il famoso Clint Barton.”

“Famoso non direi.” Si trovò a rispondere senza aver quasi registrato che quella doveva essere la Jones.

“Nell’ambiente – il nostro ambiente – sì, lo sei”.

Clint rivolse a Natasha una rapida occhiata che lei evitò per un soffio.

“Ma temo non ci sia il tempo per una stretta di mano di presentazione. Salite. Le strade già pullulano di polizia.”

Montarono sul furgone dalla porta posteriore. Non appena prese posto si trovò a stringere fra le mani una specie di telo.

“Dentro quel vecchio divano. Sotto i cuscini c’è abbastanza spazio per tutti e due.”

“Dentro… al divano?”

“Per le perquisizioni. C’è un doppio fondo.”

“Ma perché dentro al divano?”

“Preferivi entrare in una poltrona chiodata? L’ho lasciata al negozio, ma volendo…”

Clint alzò le mani senza protestare. Il suono stonato di una sirena in lontananza fu un incentivo particolarmente convincente.

Natasha aveva già preso a sistemare il divano. Improvvisamente realizzò che avrebbero dovuto condividere uno spazio estremamente ristretto, per almeno i prossimi… venti minuti. Prendere in considerazione la poltrona chiodata fu quasi un pensiero consolante.

“Non potremmo aspettare di incontrare un posto di blocco?” tentò di nuovo, ben sapendo che sperare di poter sfruttare di nuovo i veli fotostatici non sarebbe stato possibile.

La Jones rimise in moto.

“Posti di blocco?” rise, “Le sentinelle robotiche non ne fanno, di posti di blocco. Sbucano da sotto le panchine dei parchi, dai cestini della spazzatura, dalle fogne, pure nei cestini della merenda… ma i posti di blocco… Ma dove diavolo hai vissuto in questi ultimi tre anni?”

Clint non ebbe bisogno di rispondere. Anche perché dopo le rivelazioni degli ultimi giorni, non ne era più sicuro nemmeno lui.

Si limitò a seguire silenziosamente Natasha. Dopo averla vista sparire sotto i cuscini stese il telo e fece la stessa identica cosa.

 

*

 

Gli era venuta voglia di bere.

Era dai tempi della disintossicazione che non gli veniva voglia di farlo. In modo massiccio per giunta.

Nemmeno il tempo di materializzare il pensiero, l’intenzione, che si era trovato a varcare la soglia del primo pub disponibile.

Un locale cupo, indolente, che sapeva di puzzo d’ascelle e fumo.

Era alla terza o forse quarta birra quando lei gli si sedette accanto.

Come lo aveva trovato era tutto da stabilire.

“Ehi.”

“Ehi… guarda chi si rivede”, squadrò Natasha dalla testa ai piedi; era solo un po’ abbronzata, le donava quel colore sul viso,“come è andata al… Cairo?” le lanciò uno sguardo acquoso, esausto, che dava l’impressione che in realtà non gli importasse un accidenti di niente del Cairo, prima di finire l’ennesimo boccale. Non lo faceva sentire meglio. Ma nemmeno peggio. E questo bastava.

“È tutta la sera che ti cerco.”

“Bè… hai avuto fortuna, mi hai trovato.” Fece cenno al barista di versargliene dell’altro. Il tipo gli lanciò uno sguardo sospetto e Clint sbatté sul bancone una banconota da cinquanta dollari. Una sorta di assicurazione. Il barista ne sembrò rincuorato anche se perplesso.

“Di che avevi bisogno?” le domandò tentando pateticamente di tenersi dritto sullo sgabello. Quando finalmente si voltò a guardarla, Natasha non sembrava affatto contenta. Non che di solito esibisse espressioni di estatica gioia, ma ci lesse un che di pericolosamente cupo, nel suo sguardo.

“Di niente”, gli disse, scoccandogli un’occhiata valutativa, “volevo solo essere sicura che andasse tutto bene.”

“Bene? Alla grande! Sto festeggiando! Anzi dovresti proprio unirti al party. Johnny, un’altra pinta, per favore.”

“Non mi chiamo Johnny”, intervenne il barista, passando a entrambi il proprio boccale.

“Fa’ lo stesso… domani non ricorderò comunque come ti chiami.” Lo liquidò rapidamente per tornare a fissare Natasha.

“Che cosa staremmo festeggiando?” gli domandò lei, attirando a sé la sua birra.

“Come, non lo sai? Credevo ormai fosse di dominio pubblico.”

“No. Sono rientrata meno di due ore fa.”

Clint recuperò il proprio bicchiere e se lo portò alle labbra, concedendosi l’ennesima corposa sorsata, senza toglierle gli occhi di dosso.

“Bobbi mi ha chiesto il divorzio.”

“Come… ?”

“Ehi, sono io quello duro d’orecchi, non tu. Bobbi ed io–”

“Lo so, ho capito. Volevo dire: come è successo?”

“È successo che lei me lo ha chiesto… ed io ho detto di sì”, le rispose, “un po’ come quando le ho chiesto di sposarmi. Domanda. Risposta. Solo che stavolta non c’è stato del sesso… dopo.”

“Clint…” lo sguardo di rimprovero lo aveva colto. Rimprovero e pietà? No, la pietà proprio non se la meritava.

“Se te lo stessi chiedendo: no, non è stata solo colpa mia.”

“Non me lo stavo chiedendo.”

“Ah, ecco, grande… perché non lo è stata.” E di nuovo ad ingollar birra, che adesso scendeva un po’ più a fatica, “Differenze… inconciliabili. Che poi che cazzo vuol dire, dico io? Solo perché, che ne so, lei voleva un figlio ed io no? O perché me ne sto sempre in giro per il mondo… e ci si incrociava per sbaglio un fine settimana no e quell’altro pure? Oppure che io non abbia preso poi così bene la sua idea di un trasferimento sulla costa ovest? Insomma, fammi un elenco almeno. Differenze inconciliabili per me non vuol dire un cazzo!” si asciugò le labbra umide di birra prima di riprendere fiato. “Penso mi creda un fallimento. Tipo un fallimento su tutta la linea.”

“Non sei un fallimento.”

“No? Bè, magari non nel lavoro, quella è l’unica cosa che so fare… bene.”

“Non mi sembra irrilevante.”

Le lanciò uno sguardo strano. Natasha non sembrava cogliere il problema, ma non se ne stupì. Natasha non era granché incline a relazionarsi o empatizzare con certi tipi di cose.

“No certo, non per te. Se ti salvo il culo in missione o tu lo fai con me… irrilevante non lo è… per niente. Ma… non basta questo in un matrimonio.”

“No, però basta a me…” le sembrò di sentir pronunciare a mezza bocca, ma non volle indagare oltre. Le sue percezioni erano già abbastanza falsate dall’alcool, “Comunque pensavo il matrimonio fosse una battaglia.”

Questo l’aveva sentito bene però, e sorrise amaramente a quella constatazione.

“Quante volte me lo hai… sentito dire?”
“Abbastanza per ricordarmelo.”

“Dunque immagino avrei dovuto aspettarmi questo epilogo.”

Natasha non rispose immediatamente, ma il solo fatto di averla lì di fianco ad ascoltare i suoi disillusi deliri, lo fece sentire meno miserabile di quanto non vi riuscisse l'alcool.

“Ci si riprende più facilmente da un cuore spezzato che da una testa rotta.”

Rialzò la testa perché un’uscita del genere, da Natasha, proprio non se la sarebbe mai aspettata.

“Credi che io e Bobbi avremmo finito per farci fuori a vicenda?”

“L’agente Morse non ha la fama di essere esattamente uno stinco di santo. E tu non sei da meno.”

“Grazie tante.”

“Non c’è di che.” Gli sorrise nel suo modo un po’ ambiguo e poi la vide alzare il boccale: “Credevo che fossimo qui per festeggiare.”

“Giusto”, si riprese, “Allora a che festeggiamo?”

“Ai fallimenti, no?”

Clint, per la prima volta da giorni, scoppiò a ridere.

 

*

 

Il lento dondolio del camioncino della Jones avrebbe finito con il conciliargli il sonno.

Certo, non fosse stato a pochi centimetri dal viso di Natasha Romanoff.

Di buono c’era che non poteva vederla. Forse intuirne appena le forme o il baluginio dei suoi occhi aperti dai pochi, soffusi spiragli di luce che penetravano dalla trama di quel divano enorme.

Però ne sentiva il respiro. Caldo e familiare, a solleticargli la pelle.

Il silenzio e la vicinanza si erano fatti scomodi da subito. E qualsiasi movimento, sebbene misurato onde evitare crampi di sorta, diveniva difficile. Anche solo per la paura di entrare inaspettatamente in un più intimo contatto l'uno con l’altra.

Si chiese se non avrebbe dovuto spezzare il silenzio. Se non le avrebbe dovuto dire qualcosa. Ma la mancanza d’aria – o la quasi mancanza – lo costringevano a tacere. A restare lì. A sbirciarla nell’oscurità, a sentire il calore dei suoi respiri e la tensione dei suoi muscoli.

E cosa avrebbe potuto dirle dopotutto? Non era il momento giusto per delle spiegazioni… o delle scuse. Perché sì, le doveva delle scuse, certo. Non era ancora così ottuso da non aver capito dove… avesse sbagliato. Solo non era sicuro che il suo orgoglio o la sua scarsa capacità di relazione diplomatica gli avrebbero permesso di farlo.

Cercò di muoversi su un fianco quando il dolore alla spalla diventò improvvisamente insopportabile.

Con la mano, che si era agitata per un secondo nell’oscurità, aveva finito per urtarle il viso.

“Scusa…” disse solo, vagamente congestionato, mentre si ritraeva nemmeno avesse preso la scossa per paura che se ne avesse a male.

Dalla donna non arrivò nessuna risposta, ma la vide ritrarsi di conseguenza, come a facilitargli il compito di distanziarla. La mossa per un istante lo confuse.

Poi comprese. O pensò di farlo. Ancora vivida nella memoria la pessima mossa giù, nel bunker di Steve Rogers, quando si era ritratto nemmeno avesse a che fare con il mostro della laguna.

Doveva dire qualcosa, qualsiasi cosa, per sbloccare la situazione; peccato che il suo cervello sembrasse essere andato completamente in tilt.

Il suo respiro, il suo timore, la delusione, le cose taciute. Un peso che poteva quasi sentire, massiccio e concreto, stretti in pochissimi centimetri quadri.

“Non è una cosa facile da digerire… Natasha.” Esordì all’improvviso, senza preamboli, introduzione, niente. Glielo disse così come si strappa un cerotto: all’improvviso.

Il respiro di lei era cambiato. O così gli sembrò.

“Perché non me lo hai mai detto?”

Di nuovo gli rispose il silenzio, ma quando volse il capo per individuarne le forme, si rese conto che il baluginio dei suoi occhi era vivido e attento.

“Ci conosciamo da più di dieci anni… e non me lo hai mai… detto.”

Serrò le labbra quando, di nuovo, non sembrò intenzionata a rispondere. Non era sicuro di capire a che gioco stesse giocando, ma forse non era intenzionata nemmeno in quel momento, nemmeno a carte scoperte, ad ammettere di avergli mentito. A concedergli una spiegazione.

Si passò una mano sul viso, mantenendola lì ferma sugli occhi che gli dolevano per la mancanza di sonno o l’indolenzimento dovuto a tutte le violenze mentali delle ultime ore.

“Non sapevo nemmeno io cosa fossi… fino a tre anni fa.” Una replica flebile, incerta. Un tono rigido, ma che sapeva di scuse, se aveva imparato a interpretarla un poco in quegli anni.

Si scoprì il viso e tornò a voltare la testa. Di nuovo fu solo la luce raccolta dai suoi occhi quella che poteva scorgere.

Doveva crederle? E perché no?

“Allora è vero”, le rispose, “Sei come Rogers? Come… Barnes?”

“… e come te.”

Assorbì il colpo come avrebbe fatto con uno schiaffo: stavolta se lo era meritato.

“Non volevo dire…”

“So cosa volevi dire”, la sentì riprendere fiato, “e sì, in parte hai ragione. Sono come Rogers. Come Barnes.”

Clint rimase in silenzio a rielaborare la notizia. A farla sua, definitivamente. Nessun fraintendimento, nessuna conversazione percepita attraverso una porta socchiusa. Una confessione in piena regola, finalmente.

“Di' qualcosa…” sentì la sua voce per la prima volta carica di tensione, timore, aspettativa.

“Non so cosa dire.” Rispose e si stupì nell’apprendere che era vero. Non sapeva cosa dire, come reagire. Non in modo razionale almeno.

“Pensi che io sia uno scherzo della natura”, pronunciò dunque per lui. E le parole erano arrivate così brusche e dirette, così cariche di amaro sarcasmo che dovette fare uno sforzo per non risponderle immediatamente con un secco diniego.

“Non penso niente del genere”, ribatté non senza dimenticare il tono piccato. Nemmeno lui sapeva che diavolo pensava di lei. O di quello che aveva scoperto fosse, “Penso… che vorrei che mi raccontassi tutto.”

E per la prima volta, in quell’assurdo dialogo fatto di lunghe pause e frasi a mezza bocca, si sentì sincero. Non era così che era abituato a parlare con lei. Ora che ricordava cosa volesse dire… parlare con Natasha. Che i suoi ricordi, uno dopo l’altro, cominciavano ad accavallarsi senza sosta, permettendogli di rammentare quello che lei aveva rappresentato in quegli ultimi anni, di riportare alla mente tutte quelle sensazioni, quei sentimenti che aveva provato… per lei. E che adesso erano così tanti, così confusi, così mischiati indissolubilmente alla gamma di tutto ciò che aveva sentito in quelle ultime ore che gli era difficile ricollocarli, capirli, selezionarli. Dar loro un ordine.

Ordine… era ciò di cui aveva disperatamente bisogno. Doveva conoscere i fatti, trarre le sue conclusioni, rimettere ordine in quella sua testa sconvolta.

La sentì sbuffare una risata: “Non ti piacerà quello che sentirai.”

“Lascia giudicare me.”

Il camioncino sobbalzò bruscamente e frenò.

“Ispezione!” Sentirono la voce della Jones dall’abitacolo.

La conversazione avrebbe dovuto essere rimandata.

 

*

 

Attraversò la strada, lasciando che un taxi frenasse bruscamente.

“Anche a tua sorella!” rispose all’epiteto poco carino che gli era arrivato per direttissima dall’autista.

“Per poco non mi ammazzava.” Raggiunse Natasha sotto uno dei portici, scrollandosi di dosso la pioggia che gli doveva essere entrata fin dentro le mutande.

“Hai attraversato senza aspettare il semaforo verde.”

“Bè, non c’era nessuno.”

“Voi americani siete molto fantasiosi con l’interpretazione dei regolamenti.”

“Noi americani abbiamo vinto il primo premio per le manifestazioni pubbliche di libero arbitrio…”

Natasha gli scoccò un’occhiata perplessa. E per un attimo si sentì in colpa. Era ancora in piena fase di reclutamento. Spesso e volentieri assorbiva informazioni come una spugna. Tragicamente, sembrava che la sua influenza avesse giocato un ruolo fin troppo consistente nella sua formazione emotiva.

“Stavo scherzando”, si decise a specificare, “non dovresti prendermi sempre così seriamente, sai?”

“Infatti non lo faccio. Ho preferito esercitare il mio libero arbitro nel non commentare la tua battuta scadente.”

Clint assorbì il colpo e poi scoppiò a ridere.

Woah… questa sì che era un stoccata.”

“Che dovevi prendere?” gli domandò alzando il cappuccio della felpa, pronta ad affrontare la lunga strada verso casa.

“Questi…” tirò fuori dalle tasche una busta per potergliela passare.

“Una busta di plastica?”

“Dovresti aprirla.”

“Ma è roba tua.”

“Natasha… aprila e basta, okay?”

La vide di nuovo lanciargli quello sguardo strano, diffidente e perplesso. Cominciava a farci l’abitudine, ma una volta era in grado di frustrarlo enormemente.

“Sono post-it.”

“Già... avevi detto che volevi provarli, ne ho presi un po’ anche per te.”

“Come quelli che ha il tuo pc a lavoro. O sul frigorifero di casa.”

“Esattamente come quelli.”

Natasha era sempre stata affascinata da quei cavolo di foglietti gialli. Abituata come era a ricordare tutto a memoria, o a usare i promemoria digitalizzati, si era sempre chiesta a cosa servissero. Di tanto in tanti Clint gliene lasciava uno sulla scrivania. Spesso e volentieri solo per augurarle il buongiorno o salutarla con qualche orribile battuta prima di un’imminente partenza.

Clint era arpionato alle vecchie tradizioni. Di fatto uno dei pochi al mondo che ancora li usavano.

La vide porgergli la busta.

“Che fai?”

“Non ho soldi da restituirti.”

“Finiscila, è un regalo.”

“Non voglio regali. Non mi piacciono i regali.”

“Non dire stupidaggini, a tutti piacciono i regali.”

La vide scuotere la testa e guardarlo dritto negli occhi. Un lampo di paura o forse solo di confusione.

“Ma avevi detto che volevi provarli…”

“No. Sì, voglio provarli, ma non voglio essere in debito con te.”

“Non sei in… che cavolo stai dicendo, Nat? Non c’è nessun debito, per quello che costano, poi? Non voglio niente in cambio. Mi andava solo di farlo.”

Recuperò la busta solo per infilarglieli nella tasca della giacca.

“Davvero?”

“Davvero”,  allargò le braccia, per dimostrare che non aveva niente da nascondere, che non voleva niente in cambio.

“Okay.”

Le sorrise: “Benone.”

La vide esitare solo un momento, prima di fare un passo nella sua direzione: era convinto non sapesse come ringraziarlo e tentò di levarla dall’impiccio, cercando l’ennesima battuta idiota da elargirle.

Ma prima che potesse anche solo arrivargli alle labbra una soluzione, furono quelle di lei ad impedire alle sue di dire alcunché. Prima ancora che potesse capire che stava succedendo, Natasha lo stava baciando.

Non uno di quei baci casti, di ringraziamento, teneri e soffici. Ma uno di quelli di slancio. Un incontro di labbra, denti e lingua. Non si sorprese nemmeno abbastanza, quando si trovò a risponderle senza indugi.

Era la prima volta che baciava Natasha Romanoff. La prima volta dacché aveva realizzato quanto avrebbe desiderato farlo, un giorno. Quello e altro, certo, ma per come la vedeva lui, non riusciva a immaginare niente di meglio per cominciare.

Si scostò che era ancora piuttosto confuso e disorientato. Nello sguardo un’unica domanda: perché?

“Mi andava solo di farlo.” Gli rispose lei, facendo sparire il labbro inferiore fra i denti, come a non lasciarsi sfuggire l’ultimo assaggio di lui.

Si infilò la busta nelle tasche e si sistemò il cappuccio che le era scivolato dalla testa.

“Muoviamoci o ci daranno per dispersi”, disse.

La seguì con lo sguardo per un solo istante, prima di decidersi a seguirla, chiedendosi che cosa sarebbe successo se invece dei post-it le avesse regalato un’intera confezione di quelle penne a sfera che sembrava amare tanto.

 

*

 

“Il nostro viaggio finisce qui.”

La Jones venne a liberarli dopo quella che a Clint era sembrata un’eternità. Nemmeno da dire quanto ossigeno avessero consumato nel timore di essere scoperti durante l’ispezione sommaria di una sentinella robotica. Avevano sentito un rumore secco e poi il furgone era ripartito.

I resti della sentinella robotica giacevano ai piedi del divano, ancora bollenti.

“Sei stata tu?”

Le domandò uscendo a fatica, tendendo una mano a Natasha che sembrò sorpresa del gesto.

“Sì. Succede quando devi giustificare perché non hai una patente… o guidi in stato di ebbrezza”, Clint non riuscì a dire se fosse sincera o meno, nel caso lo fosse, strano a dirsi, non se ne sarebbe stupito. “Comunque mi serviva qualche pezzo di ricambio. Sono modelli vecchiotti, di periferia, ma alcune componenti non le trovi più da nessuna parte.”

“Voglio sapere come hai fatto a disattivarlo?”

“Se hai un paio d’ore.”

Clint si sfregò gli occhi e sgranchì le gambe, le braccia e la schiena, avvertendo distintamente lo scricchiolio delle ossa ad ogni movimento. Sbirciò fuori dal vetro del parabrezza solo per rendersi conto che erano incastrati in un vicolo della periferia.

“E ora che succede?”

“Aspettiamo un paio di minuti.”

“Aspettiamo cosa?”

Nemmeno il tempo di finire la frase che l’aria si riempì del suono di una miriade di sirene della polizia.

“Questo”, sorrise la Jones, passando a Natasha le sue armi, “Rogers e Barnes devono aver fatto saltare qualche esplosivo là fuori. Il vostro diversivo.”

“Che discrezione.”

“Vi conviene muovervi. Da questo momento mi sento di dire che avrete al massimo mezz’ora per andare a recuperare le teche. Mi farò trovare fuori con il furgone.” Li guardò uno dopo l’altro, “se qualcosa va storto, usate il bat-segnale”, mostrò loro il cellulare, “buona fortuna ragazzi.”

Rivolse a Natasha uno sguardo significativo, prima di smontare e tornare a collocarsi al posto di guida.

Clint non poté far altro che saltare giù e infilarsi la giacca. Cominciava a fare un freddo cane, là fuori e il respiro gli si condensava in nuvole bianche vicino alla fessura fra le labbra.

Le tenebre erano scese da qualche minuto e già non si percepiva più un cazzo dei dintorni; per di più un leggero strato di nebbia velava l’intero isolato.

“Vieni…” gli disse Natasha, cominciando a muovere passi veloci e sicuri in una precisa direzione.

Pensò – con l’esatta sensazione di essere ingiusto – se, oltre ad essere una specie di cyborg, non avesse sviluppato anche la visione notturna.

Scacciò il pensiero che quella strada doveva averla percorsa talmente tante volte da risultarle più familiare del suo stesso appartamento.

Si sfregò la testa, ripromettendosi di avere pazienza. Che quello non era il tempo e il luogo adatto per le spiegazioni, ma che sarebbe arrivato.

Un paio di lunghi nastri olografici della polizia delimitavano la zona. Senza ombra di dubbio direttive dell’FBI, in attesa delle tanto agognate svolte burocratiche.

Man mano che si avvicinavano però, Natasha sembrò esitare, rallentare il passo per poi riguadagnare l’andatura fin quasi a mettersi a correre.

La vide fermarsi proprio di fronte a quella che doveva essere la porta dei laboratori di Stark.

Persino Clint, una volta vicino, si rese conto del danno: l’intera struttura dell’ingresso era stata sradicata, ceduta come sotto la forza distruttrice di una palla da demolizioni.

Il primo pensiero fu che qualcuno da fuori avesse forzato la faccenda; la cosa straordinaria però fu che ad un’occhiata più approfondita Clint comprese che lo slancio che aveva abbattuto la porta arrivava dall’interno.

“Ma che diavolo… ?”

Natasha non restò ad ascoltare il resto della sua esclamazione, inforcò l’ingresso e prese a correre lungo i corridoi.

Clint non poté far altro che seguirla. Solo fantasmi di luci al neon ad illuminare scarsamente quel dedalo di passaggi, e lo scalpiccio dei loro passi sui pavimenti inondati d’acqua. Una sensazione peggiore di quando erano finiti nelle fogne a far compagnia a ratti e schifezze di ogni genere, perché l’urgenza di capire cosa fosse successo, adesso, andava a rinfoltire la già nutrita schiera delle loro ansie.

Barney era ancora vivo? Al sicuro? La stanza era ben nascosta, ma chi poteva assicurare loro che non fosse stata ritrovata?

Il dubbio venne fugato pochi istanti dopo: il laboratorio di Stark sembrava esploso e tutti gli attrezzi dell’uomo erano stati sparpagliati in giro; così come i robot che, invece di essere impiccati in una macabra esposizione meccanica, adesso giacevano al suolo – né più né meno come la sentinella robotica fatta a fuori dalla Jones, dopo l’ispezione del furgone.

La porta segreta che custodiva le teche di vetro era spalancata.

Clint, per una volta tanto, fu più veloce di Natasha a raggiungere la stanza e con il cuore che ancora batteva furiosamente nel petto per la corsa, per la paura e l’aspettativa, dovette reprimere un gemito frustrato alla realizzazione che persino le teche erano state distrutte, i vetri frantumati, disseminati come cristalli su tutto il pavimento. E la stanza era completamente vuota.

Natasha apparve immediatamente al suo fianco, il respiro affannato e il timore di dire qualsiasi cosa.

“Che cazzo è successo qui?” esalò Clint, più una rabbiosa invocazione che una reale richiesta di spiegazioni.

Un rumore alle loro spalle fece voltare entrambi di scatto. La mano di Clint già sollevata verso l’arco agganciato alla schiena, quella di Natasha pronta sul grilletto.

Si ritrovò a sgranare gli occhi quando di fronte a loro sembrò materializzarsi una visione da sogno.

Un uomo di altissima statura si ergeva loro davanti, aveva fattezze umane ma niente, né il colore della pelle – che sembrava più una tuta lucida – né gli occhi freddi e indagatori, suggerivano che lo fosse veramente. Clint riconobbe quella sottospecie di cyborg steso nella teca accanto al corpo di Barney. Non un essere umano,  non un vero robot.

“Il signor Barton se ne è andato”, disse solo.

L’accento e il timbro del suo esordio vocale, così simile alla voce di Jarvis.

 

*

 

Note:

Quando dicevo che sarebbero comparsi altri personaggi, sono sicura che nessuno si aspettava quello che compare alla fine del capitolo. O della nostra Jessica Jones (quando ho scritto il capitolo non sapevo chi fosse Jessica Jones, all’effettivo. L’avevo usata come pretesto. Ora che lo so, sono ancora più felice di averla usata nella storia, anche se solo come breve comparsata).

Clint e Natasha hanno ancora diverse cose da dirsi, ma almeno adesso si parlano, no? Mezzo muro è stato abbattuto. Così come i laboratori Stark. Dove è finito Barney? Lo scopriremo… presto.

Forse prima di Natale, se mi ricordo di pubblicare… ma come dicevo, sono coooosì presa… e ho cosììììì poco tempo.

Grazie come sempre a tutti quanti leggono, commentano, alla socia beta Sere che sti giorni ho assillato più con Star Wars che la Marvel… insomma… che la Forza sia con voi. Sempre.

Alla prossima!

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


CAPITOLO 15

 

Il cielo sopra il porto aveva il colore della televisione sintonizzata su un canale morto.

(Neuromante)

 

*

 

“Questo che cazzo significa?”

Clint aveva incoccato una freccia, sebbene affatto sicuro che un dardo avrebbe prodotto l’effetto desiderato su quello strano individuo che gli stava di fronte.

“Non voglio farvi del male.”

“No, però magari ne facciamo noi a te, che dici?”

“Clint, sentiamo che cosa ha da dirci.” Lo redarguì Natasha che aveva già abbassato di poco la guardia.

Dovette serrare le labbra per non esibirsi nel suo miglior repertorio di imprecazioni suburbane.

“Che significa che Barton se n’è andato?” domandò allora, cercando di racimolare tutta la diplomazia di cui era capace… in quel momento.

“Se n’è andato”, riprese il tizio. “Mi ha chiesto di aiutarlo a forzare le porte ed è uscito dai magazzini.”

“P-perché non sei andato con lui?”

“Perché non avevo alcun interesse… a seguirlo. Il mio posto è qui. In attesa del ritorno del signor Stark.”

Clint deglutì a fatica. Barney si era svegliato. Già, ma in quale stato fisico… e mentale?

“Ma stava bene? Voglio dire… come diavolo avete fatto a… svegliarvi?”

“Immagino si sia attivato il sistema di allarme automatico. Il signor Stark lo aveva programmato in caso di pericolo. Jarvis, la sentinella del signor Stark, aveva ordine di distruggere il progetto. Ma deve aver deciso in modo diverso.”

“Deciso?” a Clint sfuggì una risata. “È una macchina! Le macchine non hanno il libero arbitrio.”

“Devo correggerla su questo punto, signor Barton. Jarvis aveva una vasta gamma di opzioni, nel suo database.”

“Aveva?”

L’uomo, la cosa, l’androide, indicò un punto in lontananza: il tubolare robotico che una volta aveva contenuto la pseudo coscienza di Jarvis era disattivato.

“Ha trasferito i suoi dati nella mia memoria centrale.”

Clint cominciò ad essere seriamente confuso.

“Quindi ora tu… sei Jarvis?”

“Non proprio… di fatto ho assorbito la sua coscienza, ma Stark mi ha creato per…”

“Va bene, va bene, non me ne frega un cazzo di chi o cosa sei. Dov’è Barney adesso?”

“Non ho chiari i suoi piani, in questo momento. Faticava a parlare, ma mi sembra di aver compreso che il suo obiettivo fosse la Stark Tower.”

Clint lanciò a Natasha uno sguardo sorpreso.

“Non esiste più la Stark Tower. La società è passata nelle mani della Robotics Inc. che rifornisce il dipartimento di sicurezza…”

“Immagino che per il signor Barton non faccia alcuna differenza.”

Improvvisamente Clint cominciò a sviluppare un dubbio. Un’idea, più che altro: che i ricordi di Barney fossero rimasti congelati al giorno della sua pseudo morte? Che il suo cervello si fosse fossilizzato, in loop, sul compito che l’Hydra gli aveva affidato?

Sabotaggio, distruzione, liberazione di virus.

Improvvisamente il ricordo della strage dell’Expo tornò a colpirlo con una nitidezza sconcertante.

I colori, i rumori, persino gli odori di quel giorno. La fuga di tutte quelle persone, la morte di Coulson, lo scontro con Barney, il braccio di Natasha.

“Merda…” mormorò andando a cercare gli occhi della compagna che, nel frattempo, doveva essere giunta alla stessa conclusione.

“Lo fermeranno ancora prima di entrare dalla porta d’ingresso…” gli disse, cercando di placare la sua agitazione.

“Già, è il come lo fermeranno che mi fa paura. Si è risvegliato dopo tre anni, non voglio nemmeno pensare in che razza di condizioni psicologiche sia…”

“Spera che non si ricordi come maneggiare un computer.”

L’istinto di chiedere a Natasha un paio di cose sul risveglio dopo il trattamento Lazarus erano tante, troppe, ma la priorità stava nell’impedire che Barney facesse qualche sciocchezza e che qualcuno lo ritrovasse, lo catturasse e avesse anche solo la possibilità di comprendere cosa fosse… o cosa fosse diventato.

“Che cazzo facciamo adesso?”

“Dobbiamo avvisare Rogers e Stark. E portare lui con noi”, indicò l’androide che doveva essere Jarvis… ma non era Jarvis.

“Il signor Stark è con voi?” domandò questi, apparentemente ancora legato in modo fastidiosamente morboso al suo creatore.

“Sì, è con noi. E non credo tornerà in questo posto.”

A giudicare da come era stato conciato il laboratorio e il disastro alle porte, all’FBI non ci sarebbe voluto molto per entrare e rendersi conto di quello che stava succedendo. E la cosa peggiore era che avrebbero avuto accesso ai segreti di Stark. O comunque a degli indizi che avrebbero potuto portarli a delle conclusioni.

“Dovremmo distruggere questo posto”, dichiarò con risolutezza.

“Stark non sarà d’accordo.”

“Si è portato via tutti i programmi di cui aveva bisogno. E i macchinari si ricomprano. Non credo sia poi così affezionato a questo tugurio.”

Natasha si mosse nervosa per la stanza.

“E come pensi di farlo?” Allargò le braccia.

“Non lo so. Appiccando un incendio? Un paio di cartacce… un fiammifero e qui prende fuoco tutto. Credo.”

“Se permettete, ho un metodo più veloce…” s’intromise l’androide guardandolo con quei suoi occhi di vetro.

Clint gli fece cenno di procedere.

“Fatevi da parte, prego”, disse solo prima di scansarli e allungare una delle sue eleganti braccia.

Prima che potesse anche solo chiedersi che diavolo stesse facendo, la mano robotica produsse una sfera di luce che andò a schiantarsi contro uno dei gruppi di robot al suolo, generando un incendio di tutto rispetto.

“Porca puttana!” esclamò Clint, che istintivamente si era portato accanto a Natasha per trascinarla via. “Potevi dircelo che cosa avevi intenzione di fare!”

“Pardon”, fu tutto ciò che il pazzoide pseudo robotico disse, “se volete prendere l’uscita, e mettervi al sicuro, credo di avere un po’ di lavoro da fare.”

Clint lo osservò sconvolto, le braccia ancora attorno alle spalle di Natasha.

“Non azzardarti a bruciare pure tu o Stark ci farà un culo come la Stark Tower”’, lo ammonì soltanto, prima di prendere il corridoio e allontanarsi.

Nell’ultima occhiata che lanciò al suo viso, fu quasi convinto di vederlo sorridere.

 

*

 

Clint non se lo ricordava proprio così lungo il corridoio. Il fumo e il crepitio delle piccole esplosioni prodotte dall’androide di Stark li raggiungevano alle spalle, mettendogli addosso una fretta del diavolo.

Avevano guadagnato l’uscita solo una manciata di istanti dopo, ma del furgone della Jones non c’era traccia alcuna.

“Dove cazzo è andata a finire?” Natasha. Che per una volta tanto sembrava agitata quanto lui.

“Provo a chiamarla.” Il cellulare gli sfuggiva da sotto le mani e si trovò a constatare quanto fossero sudate, “non risponde.”

“Prova di nuovo.”

“Non –” il segnale sembrò improvvisamente disturbato e, prima che potesse anche solo pensare a un’alternativa, le sirene dell’intero perimetro cominciarono a suonare all’unisono.

“E adesso che cazzo succede?”

“Devono essere gli allarmi antincendio.” Esalò Natasha; Clint si sentì un perfetto imbecille per non averci pensato subito.

“Pensavo che questo cazzo di posto fosse abbandonato! Che la pagano a fare tutta questa elettricità?”

“Non mi sembra il caso di pensare ai soldi dei contribuenti, in questo momento.”

Al segnale antincendio seguirono in caduta libera le sirene della polizia.

“Ma senti che bel concerto!” tentò di nuovo con il cellulare, ma dalla Jones nessun segno di vita, “Ma dove cazzo è andata a infilarsi!”

“Deve aver avuto dei problemi.”

“Oppure è una cacasotto!”

“Non è una cacasotto. Prova con Stark.”

“Certo e che fa? Ci manda dei missili terra/aria per volare via di qui?”

“Volare?” Non-Jarvis doveva aver concluso la sua opera distruttiva perché ora stava alle loro spalle, con l'aplomb invidiabile di chi non ha fatto altro che leggere giornali e bere tè negli ultimi dieci minuti.

“Volare. Sì. L’unico modo per andarcene di qui, a quanto pare.”

“Non dovrebbero esserci problemi.”

Clint gli rivolse uno sguardo stranito e Natasha non sembrò da meno.

“Se volete favorire, prego.” Lo videro allargare le braccia come a invitarli a stringersi davvero a lui.

“Stai scherzando?”

“Perché dovrei, signor Barton? Il signor Stark mi ha progettato perché fossi provvisto di diversi… optional.”

“Penso di sentirmi male.”

“Muoviamoci.” Esalò Natasha che, sebbene vagamente riluttante si era già allacciata all’androide, davvero pronta a fare chissà che.

“Ma siete seri? Io questa cosa non la…”

“Una stretta vigorosa, mi raccomando.”

“Vigorosa un cazzo. Non esiste!”

“Clint!”

“Signor Barton?”

La luce delle prime sentinelle robotiche in avanscoperta si riversò lungo tutto il piazzale.

“Con permesso.” Decretò Non-Jarvis e Clint non ebbe più il tempo di prendere una decisione: l’androide l’aveva improvvisamente presa per lui. Agganciò un braccio attorno alla vita dell’arciere e si sollevò da terra con la leggerezza di un palloncino gonfiato ad elio.

“Cazzo, cazzo, cazzo!” esclamò Clint che adesso cercava freneticamente di afferrargli almeno il braccio per impedirsi di cadere. Il terreno che si allontanava sotto di loro di almeno un centinaio di metri. Il bunker di Stark ormai un rogo di fuoco guizzante e le sentinelle robotiche che si aggiravano freneticamente attorno all’incidente, cercando il responsabile.

“Non la lascio, non si preoccupi.”

“Non mi preoccupo che mi lasci, mi preoccupo di non farmela addosso!”

“Quella se la risparmi per ciò che verrà dopo”.

“Dopo?”

Non-Jarvis fece solo un microscopico sorriso, prima di partire con la velocità di un falco verso lidi sconosciuti.

Clint gridò qualcosa, ma di sicuro non si lamentò della sua… di stretta vigorosa.

 

*

 

Si passò la mano fra i capelli.

Dovevano essere peggio di quando si svegliava la mattina più strapazzato di un uovo in padella.

Natasha sedeva sul parapetto di uno dei palazzi in costruzione di New York, i capelli non meno scomposti dei suoi e un colorito roseo ad animarle il viso. Non sembrava agitata, non più di quanto avrebbe dovuto esserlo comunque.

Parlava al telefono con Stark, o con Rogers. In attesa di istruzioni.

Per quanto lo riguardava, Clint si trovò  improvvisamente ansioso di andare a riprendersi Barney. Oltre al ricordo del disastro di New York, alla paura di aver liberato un potenziale terrorista psicotico si sommava il fatto che ancora si preoccupava per lui. Che nonostante tutto era il suo stracazzo di fratello, che forse non meritava redenzione, ma un briciolo di riguardo sì.

Per tutte le cose pessime che poteva aver compiuto in vita, un’altra porzione della sua esistenza Barney l’aveva dedicata a fare qualcosa di buono. Una su tutti essersi preso cura di lui, proteggendolo da un padre violento, insegnandogli le prime regole per potersela cavare. Clint gli aveva voluto bene. Probabilmente gliene voleva tutt’ora.

Strana cosa i legami di sangue.

“Stark ha detto di poter localizzare Barney”, le parole di Natasha erano tutto ciò che aveva bisogno di sentire.

“Sul serio?” Le si avvicinò, occhieggiando appena Non-Jarvis che sedeva a terra, poco distante, fissando il cielo, l’universo o solo il dio dei robot sapeva cosa.

“Già… gli ci vorrà un po’. Ma deve avergli impiantato un qualche chip. O qualcosa di simile.”

“Come ha reagito… alla notizia?”

“Quale delle due? Del risveglio dei suoi esperimenti o della distruzione dei suoi laboratori?”

“Tutte e due?”

Natasha si strinse nelle spalle.

“Ha imprecato, più volte, a entrambe. Poi ha cominciato a straparlare. Ho smesso di ascoltarlo.”

Clint sorrise, vagamente divertito, prima di mettersi a sedere di fianco a lei.

“Rogers e Barnes si sono tenuti a disposizione. Sono già alla ricerca, probabilmente hanno sguinzagliato tutti i vigilanti della città.”

“Dovremmo essere là fuori anche noi… invece di starcene su un tetto a rimirare le stelle.”

“Potrebbe essere ovunque… e tu ancora non ti sei ripreso del tutto. Partiremo quando avremo indizi concreti.”

Clint serrò le labbra, ricordando improvvisamente quanto odiasse, a volte, la sua razionalità.

“Che dovremmo fare? Aspettare? Qui?”

“Direi di sì… e poi abbiamo un mezzo di trasporto d’eccezione.”

“Non mi farò più trascinare in giro, svolazzando, da quel coso…” lo indicò Clint. L’idea delle altezze non lo avevano mai spaventato, ma volare senza appigli un qualche problema glielo aveva dato. Più che altro la velocità estrema. Tutto quel vento non aveva fatto granché bene ai suoi circuiti ancora danneggiati.  Da quando si erano fermati, un sibilo sinistro aveva preso a tormentarlo.

“Credo che ce l’abbia un nome”, mormorò Natasha, lo sguardo mesto su quell’ammasso di latta e circuiti.

“Ha detto di non essere Jarvis.”

“No… infatti non credo lo sia.”

Clint le lanciò uno sguardo strano, prima di passarsi di nuovo la mano fra i capelli scombinati.

“È una cosa… nuova, questo… tizio. Non è come voi?” azzardò, andando dritto al punto. L’idea di farsi dare più di una spiegazione da Natasha, affatto abbandonata.

Vide la donna irrigidirsi appena e qualcosa gli disse che avrebbe sperato che la conversazione venisse rimandata all’infinito.

“No… credo che lui sia più… una specie di androide, senziente.”

“Non era un essere umano, prima?”

Natasha scosse la testa.

“Penso che Stark lo abbia creato per sviluppare i primi test del progetto Lazarus”, si voltò a guardarlo, “non voleva sbagliare con Barney.”

Una premura affatto degna di Stark. O forse… Clint lo aveva sempre sottovalutato troppo.

“Qualcosa è andato storto comunque. Barney è sveglio. E se ne va in giro per New York…” e in quali condizioni poi? Probabilmente persino in mutande. O peggio. Una sorta di resurrezione alla Terminator. Nudo e determinato a uccidere.

“Storto non direi. Semmai il contrario. Stark gli aveva già somministrato le prime fiale del siero… il processo non era ancora completo, ma penso che Barney fosse quasi pronto.”

Clint inspirò a fondo, cercando di scacciare quella sensazione di assoluto stordimento.

“Voglio sapere di te. Credi di potermene parlare adesso?”

Natasha non disse niente ma capì dal suo sguardo che nonostante la riluttanza lo avrebbe fatto.

“Okay…” disse solo, come aspettandosi che fosse lui a fare le domande.

La conversazione gli ricordò immensamente quella avuta con lei sulle origini della sua formazione. Una racconto doloroso, ma necessario. Fu quello il giorno in cui il loro rapporto mutò per sempre. Dove il debito di riconoscenza divenne… amicizia.

“Il progetto Lazarus non è nato con Howard Stark e lo SHIELD. Il progetto Lazarus venne sviluppato ai primi anni del Novecento, da una costola speciale dei servizi segreti dell’ex Unione Sovietica.”

“Il luogo dove… sei nata tu?”

La donna annuì appena, stringendosi nelle spalle.

“Fui la prima con cui lo sperimentarono.”

La prima. Significava ancora prima di provarci con Rogers e tutta la sua squadra?

“Di che anno stiamo parlando… ?” decise allora di chiederle. Il punto, comprese ora, stava tutto lì.

“Del 1937.”

L’arciere dovette combattere con se stesso per non mostrarsi troppo stupito… o scioccato dalla notizia.

Questo significava che Natasha… aveva più di un secolo sulle spalle? I suoi capelli, il suo volto giovanile, l’incarnato ancora roseo dopo il volo… appartenevano davvero a una donna di più di cento anni?

“Puoi anche dirlo…”

“C-cosa… ?”

Come li porti bene, Natasha.”

“Non volevo che ti… montassi la testa”, solo l’azzardo di uno scherzo. Non era così certo che volesse spingersi troppo oltre.

“E il progetto Black Widow? La Red Room?”

“Quella storia è rimasta la stessa. Solo che le mie memorie devono essere ricollocate a un’altra epoca. Ti avevo detto di non avere ricordi chiari della mia formazione. Di avere diversi buchi di memoria. Credevo si trattasse di un problema dovuto ai farmaci che mi avevano somministrato da… bambina. Alla fine ho scoperto che non era quello il motivo.”

“Parli della tua…”

“Resurrezione?” la sentì sbuffare una risata amara, “Avvenuta più volte di quante ne ricordi, a quanto pare.”

“Che vuoi dire?”

“Negli anni Trenta facevo parte dei servizi segreti russi. Ho fatto un passo falso. Il primo di molti. E’ stato lì che sono…” prese un profondissimo respiro come se il peso di quelle dichiarazioni fosse ancora troppo per lei, da sopportare, “morta.”

La sensazione che quelle parole produssero su di lui fu raggelante. Ma lottò con tutto se stesso per non darglielo a vedere, per non lasciarsene sopraffare.

“Dovevano avermi selezionata. Tenuta d’occhio, probabilmente dai tempi della Red Room… perché qualche tempo dopo mi sono trovata a rinascere sull'asettico bancone di un laboratorio tedesco. Non ricordavo niente. Nemmeno il mio nome. Il professor Selvig…”

“Selvig?”

“Già… il padre del nostro Selvig, lo avresti mai detto? Uno degli scienziati che hanno sviluppato la formula embrionale del progetto Lazarus.”

“E il nostro Selvig lo sapeva?”

“No… è stata una scoperta per lui tanto quanto lo fu per me. In questi tre anni abbiamo lavorato insieme per arrivare alle origini di questa storia.”

La collaborazione si stava allargando a macchia d’olio. Le trame si stavano infittendo e nonostante tutto diventavano più chiare.

“E poi che è successo?”

“Ho fatto come Rogers”, disse, stringendosi nelle spalle, “sono scappata. Avevo bisogno di cercare una mia identità, di capire a che gioco stessero giocando. Ho vissuto di espedienti, usufruendo di tutte le capacità che mi sembravano innate, ma che in realtà erano solo il frutto degli insegnamenti che avevo ricevuto da bambina. Ho rubato, ucciso, lavorato per gente disgustosa, mi sono inoltrata nelle più torbide fogne della società per cercare informazioni… ma non è servito a nulla. Non a granché almeno. Mi trovarono… una seconda volta.”

In quelle parole capì che era tornata ad essere una vittima, in quello scenario.

“Sono morta e rinata. Ancora… e ancora… più le misure di sicurezza per tenermi legata a loro divenivano serrate, più le mie capacità di sfuggirgli si affinavano e specializzavano. Dirti quante vite ho vissuto… prima che ci conoscessimo… è una cosa che ancora devo scoprire. Ma non sono nemmeno più sicura di volerlo sapere… ormai.”

Vite vissute e dimenticate, una dopo l’altra. Solo coriandoli di memorie, impossibili da ricollocare per ricostruire un’intera esistenza.

“Le mille… vite di Natasha Romanoff…” le disse, cercando di farle capire che, per quanto turbato, non era così scioccato da non poter sostenere la verità.

La vide voltarsi e sorridere appena.

“E dire che ne abbiamo sempre parlato come fosse una metafora.”

“Già…” inspirò a fondo, “pensi di essere al sicuro adesso?”

“Io credo… credo di sì. Non deve essere rimasto più nessuno del progetto originario. E l’Hydra non è la Red Room. Lazarus è stato rinvenuto da Howard Stark in tempi recenti. Il progetto è passato in mano loro per poi essere distrutto, abbandonato per sempre. Fino al giorno in cui Tony l’ha ritrovato e ha deciso di… provare qualcosa di nuovo.”

Clint si passò una mano sul collo. Le informazioni erano tante, ma adesso il quadro cominciava finalmente a prendere forma. In un certo senso invece di assorbirne il peso, se ne sentì liberato.

“Sei entrata allo SHIELD e non sapevi niente di questa cosa: perché non hai approfittato del fatto di poter frugare nei loro archivi per cercare informazioni sulla vita che avevi… dimenticato?”

Natasha sorrise: “Ci ho pensato, i primi tempi. Avevo solo bisogno di crescere nell’organizzazione. Di guadagnarmi la loro fiducia per poi avere accesso a tutte le informazioni top-secret dei loro database…”

“Ma… ?” azzardò, non del tutto sicuro di sapere dove sarebbe andata a parare con quel discorso.

“Ma ad un certo punto… non mi è più sembrato così importante”, disse e si preoccupò di guardarlo, stavolta dritto negli occhi, per poi distoglierli di nuovo come se avesse osato troppo.

“La mia vita… era diventata quella. Non c’era bisogno di capire cosa fossi stata. Andava bene così. Avevo un lavoro. Ero circondata da gente che non mi era… ostile. E poi…” esitò per un istante, “e poi c’eri tu.”

Clint avvertì qualcosa di bollente risalirgli su per il collo e le guance, ma non le rispose.

“Tu che mi dicevi che l’importante era guardare avanti, che mi aiutavi a conoscere una realtà di cui non sapevo niente. Mi piaceva quella Natasha Romanoff. Mi piaceva come mi faceva sentire…  sapere di poter prendere le mie decisioni, di poter diventare tutto ciò che avrei voluto essere. Di lasciarmi il passato alle spalle. In un certo senso… mi piaceva l’idea di essere diventata una persona… migliore.” Scosse la testa.

“E poi è successo il disastro dell’Expo”, proseguì Clint per lei. Senza aggiungere che non voleva prendersi nessun merito per quello che Natasha aveva deciso di essere, ma ben cosciente di essere stato, successivamente, l'inconsapevole responsabile dell’ennesima svolta della sua vita.

La vide annuire una sola volta e l’atmosfera ricadde di nuovo nella nebbia tetra delle ultime ore.

“Tu non ricordavi niente. E Stark si raccomandava di non forzare la tua memoria. Non ho trovato altra soluzione che allontanarti e cercare di risolvere a modo mio la situazione. Le mie ricerche hanno portato a scoperte del tutto diverse da quelle che mi ero attesa. Ho scoperto di Rogers. Di Barnes. Del progetto Lazarus… e di come anche io ne facessi parte.”

“E hai deciso di unirti a loro.”

“Avevo alternative? Mi sentivo… inutile. E…”

Sola…

Clint si sentì opprimere ancora da quel peso al petto e per l’ennesima volta si trovò a fare i conti con quella fetta di senso di colpa che aveva tentato di soffocare con le sue ragioni per… avercela con lei.

“Rogers e Barnes a modo loro mi hanno aiutata a superare lo shock di scoprire cosa fossi. Peggy… Peggy mi è stata vicina più di quanto avrebbe potuto esserlo una sorella, una madre. E dopotutto… lavoravamo tutti dalla stessa parte”, concluse e poi lo sbirciò da sopra una spalla.

Poi si rizzò dritta, impettendosi, forse per darsi coraggio o per scacciare via quell’aria mesta della conversazione.

“Dunque… eccoci. Ora sai tutto.” Esalò, adesso guardandolo in pieno viso, forse per sfidarlo, per dimostrare una sicurezza che – Clint riconobbe – non possedeva per niente. La facciata che di solito era così esperta a erigere, stavolta era incrinata e gli permetteva fin troppo chiaramente di percepire cosa nascondesse.

Vergogna, paura di essere giudicata. Le sue parole non le aveva dimenticate. Né quelle che aveva detto a Barnes dietro la porta di quello stanzino spoglio, né quelle che gli aveva detto all’ombra del nascondiglio sul furgone della Jones.

Uno scherzo della natura.

Aveva paura… no, era terrorizzata che la sua valutazione fosse mutata, per sempre. Che la sua opinione di lei si fosse trasformata in un giudizio orribile e inappellabile.

“Niente peli sulla lingua, Barton. Puoi anche trarre le tue conclusioni”, riprese dunque, e il sarcasmo, il cinismo dietro cui si trincerava cominciò a montarle addosso orgoglioso e nocivo, “non me la prenderò con te se non vorrai avere più a che fare con me. So di essere una specie di…  mostro.”

Mostro.

Quelle parole furono in grado di mettergli addosso una strana e incontenibile furia. Si levò in piedi senza quasi registrarlo. Le mani che gli fremevano di rabbia o frustrazione.

“Finiscila di mettermi in bocca parole che non direi mai”, le disse allora, secco, vedendola levare il capo e di nuovo lasciar trasparire, dietro la maschera, scorci della sua agitazione.

“Non posso certo dire che non sia stata una… sorpresa. Uno shock? Sì, chiamiamolo pure shock. Ma di questi tempi credo di non poter fare troppo lo schizzinoso. Con tutto quello che sto scoprendo in questi ultimi giorni, uno shock è un lusso che non posso permettermi di protrarre troppo a lungo. Q-quindi sì, è stato uno shock!” allargò le braccia come a farle capire quanto… fosse stata sorprendente quella svolta.

Non-Jarvis, da qualche parte, aveva preso a osservarli, ma non si diede la pena di preoccuparsene.

“Ma dire che sei un mostro… sei  l’unica a pensarlo. E non ti permetterò di attribuirmi un’opinione del genere per avallare la tua stupida tesi. Se tu sei un mostro io cosa sono? Ho mezza testa rifatta, i ricordi scombinati, non ci sento dall’età di dodici anni e mi servo di un apparato bionico per poter fingere di essere una persona normale. Se tu sei un mostro lo è Stark con quella sua faccia maciullata, le sue crisi depressive e le sue manie da super genio salvatore della patria. I veri mostri sono… quelli che se ne stanno seduti dietro a delle scrivanie e reggono fra le dita le sorti di questa città corrotta. I veri mostri sono le persone che si permettono di plagiarne altre per mettere in atto i loro piani perversi. I veri mostri non sono qui, fra noi quattro stronzi che tiriamo a campare dalla notte dei tempi, che abbiamo solo avuto la sfortuna di doverci adattare a delle posizioni scomode. Non sono io. Non sei tu… e probabilmente non lo è neppure Non-Jarvis seduto là in fondo che adesso ci sta ascoltando come uno spione di bassa lega.”

Le si inginocchiò di fronte.

“Avrei solo voluto esserti vicino per potertelo dire prima che potessi anche solo sviluppare l’idea. Ma non c’ero. Non ti ho cercata più di quanto tu non abbia fatto con me in questi tre anni… e… m-me ne scuso. Non c’ero quando avevi più bisogno di me. Magari non serve a un cazzo di niente dirtelo adesso, dopo tutto quello che hai dovuto affrontare, ma me ne scuso e me ne v-vergogno.”

Gli occhi di Natasha si erano fatti lucidi, ma solo lui sapeva quanto si sarebbe trattenuta fino a diventare livida pur di non crollare.

In qualche modo sentì che aveva accettato la sua ammissione di colpa.

“Non sei un mostro”, ribadì il concetto, allungando una mano per raccogliere una delle sue e solo allora si rese conto di quanto fossero gelide, come se il sangue avesse smesso di scorrerle nelle vene. “Anzi, vuoi mettere? Adesso posso dire di essermela fatta con una donna matura. Questo mi rende più figo di quanto non sia mai stato in vita mia.”

Smorzare la tensione, sempre e comunque. Si odiò per questo, ma al contrario Natasha sembrò apprezzare il gesto.

“Perdono o meno, attento a come parli, Barton. Sono ancora in grado di staccarti la testa, come da tradizione.”

“Lo so… ma finiscila di farmela pesare, ah?” la prese in giro, accostando una mano al suo viso che, a differenza delle mani, era caldo. Tornò serio solo per un istante, per poterla accarezzare.

Quel volto, quell’espressione. Un mostro… come aveva solo potuto pensarlo?

Si sentì improvvisamente pervadere dalla realizzazione che non avrebbe mai potuto amarla più di quanto non stesse facendo in quel preciso momento.

Il pensiero ebbe il potere di destabilizzarlo e renderlo euforico nello stesso istante.

Provò l’impulso di dirglielo, così, su due piedi. Forse solo la seconda volta che si azzardava a pronunciare una frase simile ad una donna. La prima era stata Bobbi e non era del tutto sicuro di non averglielo detto solo per l'impeto di un amplesso.

Ma stavolta era una sensazione forte, reale, così potente che quasi poté percepirla battergli forte e pulsante nel petto, sotto strati di carne, muscoli e ossa.

Aprì le labbra per parlare, ignaro o meno del fatto che forse avrebbe potuto confonderla ma fu la voce di Natasha a interromperlo. Volontariamente o meno.

“Ora che sai tutto... davvero tutto, Clint... ho una richiesta da farti.”

Richiuse le labbra, la sensazione bloccata, inesplosa a un passo dalla deflagrazione.

Un solo cenno del capo a dirle che poteva proseguire, che se avesse parlato non era certo che la voce non gli sarebbe uscita come un sibilo imbarazzante.

“Non te lo chiederei se non fossi una delle persone di cui... forse l'unica persona di cui mi fidi veramente.”

“Suona un tantino impegnativa questa affermazione.”

La vide sorridere, ma nessun sorriso gli era mai sembrato tanto lontano dall'essere lieto.

“Lo è...” prese fiato, “Ho bisogno che tu mi prometta – che mi giuri. Che mi giuri che se dovesse succedermi qualcosa. Se dovessi... morire... di nuovo...”

Improvvisamente ebbe la sensazione di ritrarsi, di non ascoltarla più.

Lei gli trattenne la mano, con la forza straordinaria che possedeva. Non grazie al suo braccio robotico.

“Clint, ho bisogno che mi giuri che se dovessi morire di nuovo, non mi faranno tornare indietro. C-che nemmeno tu... mi farai tornare indietro.”

“Natasha...”

“No”, ribadì seccamente, non una traccia di indugio negli occhi, “giurami che ti assicurerai di lasciare che sia finita... una volta per tutte. Questa è l'ultima vita che voglio vivere. L'unica che per quanto mi è dato di ricordare – l'unica che sia valsa la pena vivere. Non voglio dimenticare. E non voglio un'altra stupida occasione. V-Voglio essere trattata dignitosamente. Da essere umano.”

Perché quelle parole gli suonarono improvvisamente tanto ostili? Sentì la paura serpeggiargli lungo la schiena alla stregua di un vero addio.

Non sembrò intenzionata a lasciarlo andare finché non si concesse di annuire.

“Va bene. Lo giuro”, cedette e solo allora Natasha gli liberò la mano.

“Questo non significa che non abbia intenzione di godermela ancora per molti anni”, aggiunse poi, apparentemente soddisfatta, sorridendo di nuovo senza distogliere lo sguardo.

“Come se potessi invecchiare...” le rispose.

“Certo che posso invecchiare. Ma sicuramente invecchio meglio di te.”

In tutti quegli anni non si era mai posto il problema, ma di certo l'aveva vista crescere, maturare. Rimasta bloccata per troppo tempo in una sequenza infinita di vite e rigenerazioni costanti. Quegli ultimi dieci anni erano stati la tappa più lunga della sua esistenza senza subire... congelamenti.

“Sai quanti anni ti sarà concesso vivere?”

La vide stringersi nelle spalle.

“E tu lo puoi sapere?” gli ribaltò la domanda, provocandogli il primo vero sorriso della serata.

“Bene...”

“Volevi dirmi qualcos'altro?” indagò lei, come se avesse percepito quell'attimo sospeso di qualche minuto prima.

“Ahm... niente che non possa aspettare.” si rimise in piedi, proprio mentre il cellulare di Natasha riprese a suonare.

L'attimo era arrivato e passato. Avrebbe dovuto aspettare un altro attacco simile prima di concedersi il lusso di dirle quello che significava per lui.

“È Stark”, la donna s'intromise nei suoi pensieri, “... ha localizzato Barney.”

 

*

 

Note:

Ebbene sì, sono ancora viva. E mi scuso immensamente per la latitanza, soprattutto per chi (se è rimasto davvero qualcuno) seguiva la storia costantemente. Ho avuto un po’ di impegni e le feste… non hanno aiutato.

La storia va a rilento, ma va… assicuro senza ombra di ragionevole dubbio che la concluderò. Devo solo trovare il tempo e il momento per farlo. Detto questo, come sempre, ringrazio tutti quanti leggono e commentano, supportando questo angolino delirante. Ringrazio la mia socia e beta Sere, sperando che i nostri impegni si sciolgano come neve al sole, prima o poi.

E che Oscar Isaac, sia con v- volevo dire che la Forza… sia con voi.
Buon anno nuovo!

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


CAPITOLO 16

 

La memoria umana è veramente qualcosa di strano: c'è conservata dentro un sacco di roba inutile, un sacco di cianfrusaglie, come in un cassetto. Mentre le cose importanti, quelle realmente necessarie, svaniscono una dopo l'altra. 

(Murakami)

 

*

 

“Ti sei mai chiesto cosa vuoi fare da grande, Barney?”

“Vorresti…”

“Come?”

“Vorresti – fare da grande. Condizionale presente, Clint.”

“Okay… vorresti fare il professore.”

“E questo chi te lo ha detto?”

“Tu, adesso. Condizionale presente. Sembravi la signorina Holly.”

“Non credo che diventare professore sia la mia aspirazione. Tu… che cosa vorresti fare da grande, Clint?”

“Io? L’esploratore.”

“Credevo che fino alla settimana scorsa volessi diventare un astronauta.”

“Bè, potrei fare l’esploratore astronauta. L’esploratore spaziale!”

“Hai idea di quanto dovrai studiare per fare un lavoro del genere?”

“Bò…”

“Almeno dieci anni.”

“Ma avrò vent’anni, fra dieci anni! Sarò vecchissimo!”

“… se ti va bene. Magari ti ci vorranno vent’anni.”

“E diventare astronauta a trent’anni? Ma sei scemo?”

“Neil Armstrong ne aveva 39, quando arrivò sulla luna.”

“Sì ma era astronauta da tantisssssssimo tempo.”

“Bè, in ogni caso devi prepararti a studiare.”

“Non mi serve la grammatica per andare sulla luna.”

“No, quella no, però sicuramente dovresti migliorare i tuoi voti in matematica.”

“Non mi piace la matematica. Non mi piace… studiare.”

“Allora forse dovremo trovarti un lavoro meno intellettuale.”

“Non mi hai detto tu… cosa vorresti fare da grande? A parte il professore rompiscatole.”

“Da grande…” un respiro profondo, come qualcuno che ha già una risposta, ponderata da tempo “vorrei aiutare la gente. Inventare cose fichissime per migliorare la vita alle persone che non possono aiutarsi.”

“Wow, quindi vuoi fare l’inventore. Cosa devi studiare per diventare un inventore?”

“Non lo so. Ingegneria probabilmente. Informatica.”

“Dovresti convincere papà a comprarci uno di quei… computer.”

Barney rise.

“Faresti prima tu ad arrivare sulla luna.”

“Se arriverò sulla luna te lo regalerò io un computer.”

“Allora sono a posto.”

Sghignazzarono entrambi.

 

*

 

Era stordito. E la testa pulsava. Nondimeno la vista sembrava compromessa: uno spesso strato di impalpabile nebbia gli ostruiva la visuale.

Aveva evitato il palazzo della Robotics Inc. per un soffio. C’erano troppe sentinelle. Di quelle moderne. Sentinelle che non aveva mai visto.

Ne aveva approfittato per studiare un piano. Per quanto la sua testa, la sua memoria, persino le sue percezioni fossero confuse. Come si fosse svegliato da un sogno. Di certo i primi attimi dopo il suo risveglio erano stati piuttosto… singolari. Ma era possibile che molte cose gli fossero risultate assurde per via… della botta.

Quale botta, Trickshot? Quale botta?

Si era procurato dei vestiti puliti da una lavanderia a gettoni. E aveva raggirato un ragazzotto, dall’aria poco sveglia: chiedergli informazioni per rubargli il portafoglio, una cosa da niente. Ricordi di una vita passata.

Passaporto, tessera universitaria, scontrini di un thailandese a portar via e di un bar del centro, la foto di una donna anziana, la foto di un ragazzo attraente, un preservativo, bancomat e carta di credito. Una banconota da venti dollari. Se la sarebbe fatta bastare. Gettò il resto nel cestino della spazzatura.

I carretti degli hot dog ancora facevano prezzi abbordabili. Più di McDonalds. Aveva optato per un panino e una bottiglia d’acqua. Con il resto ci comprò un pacchetto di chewing-gum e una di quelle mantelle a basso costo che alcuni ragazzi indiani vendevano agli angoli delle strade.

La pioggia. Quella non cambiava mai. New York, sempre la stessa, da dieci anni.

Era tornato al palazzo della Robotics Inc, masticando quella gomma che sapeva di menta fresca.

E attese.

Attese che le tenebre fossero a un livello accettabile di oscurità e poi si attivò per raggiungere l’ingresso principale del palazzo.

Le sentinelle. Un lavoro che sapevano fare bene.

“Si identifichi, prego.”

“Sicurezza”, si assicurò di avere il cappuccio della felpa ben calato sulla testa, “Agente Clinton, Francis, Barton.”

La scansione avvenne in maniera rapida e meticolosa. Sullo schermo olografico, comparve il volto dell’agente Barton, accanto a quella della foto appena scattata. Le due immagini straordinariamente simili, se non per alcuni, significativi particolari.

“Non troviamo alcun riscontro.”

“Prova ancora”, disse, prendendo fra le dita la gomma da masticare. Mentre questi riprendeva il calcolo fisiognomico identificativo, allungò una mano e andò a sistemare la gomma su uno dei pannelli della sentinella robotica. Una piccola scintilla.

Il calcolo venne interrotto all’istante.

“Mani in alto”, un’altra sentinella. L’ordine perentorio ma freddo.

Barney alzò le braccia.

“Agente: Clinton, Francis, Barton”, confermò di nuovo la prima sentinella, l’istante successivo, “confermato.”

“Posso entrare?”

“Non senza autorizzazione, agente.”

“Ma io ce l’ho l’autorizzazione”, mostrò la mano.

Incrociò le dita che le impronte digitali non lo tradissero in quello stesso momento.

 

*

 

Aveva ripreso a piovere, come da copione.

Grazie al cielo, era il caso di dire: cominciava a sentirsi a disagio senza il costante picchiettio della pioggia e l’umidità che andava a tormentare le ossa.

Non-Jarvis alla fine aveva avuto la meglio. Da androide senziente, galoppino di Stark, a mezzo di trasporto eccezionale e volante.

Barney Barton era stato individuato, anche quello come da pronostico, nei pressi della nuova sede della Robotics Inc. – ex Stark Tower.

Il dubbio su come avesse fatto a entrare venne rapidamente sedato dai fatti.

Riconoscimento retinico ed epidermico convalidato all’ingresso.

Evidentemente le falle del sistema erano più di quante ne potessero immaginare. A uno come Stark non sarebbe successo, ma l’Hydra doveva aver mantenuto un database piuttosto ristretto di accessi. E Barney Barton si erano dimenticati di eliminarlo dalla lista. Dopotutto risultava morto, no?

In piedi sul tetto di uno dei palazzi adiacenti alla nuova sede della Robotics. Inc, Clint osservava la torre che svettava nel cielo con le sue luci artificiali. Un totem di cento piani, frustato dalla pioggia battente, oscuro e imponente, come una grottesca mastodontica sentinella, protettrice dell’intera città di New York.

Con le rivelazioni degli ultimi giorni però non c’era niente che non gli apparisse più come un mostruoso, tentacolare Cthulhu dell’immaginario horror, più che come un bonario e solido guardiano della città.

Lo scenario gli metteva i comunque, da sempre, i brividi e aveva sempre faticato a comprenderne le ragioni (le sue amnesie avevano sedato ricordi e traumi), ma adesso… adesso che ricordava, adesso che sapeva, la sola idea di tornare in quella sottospecie di sepolcro fatto di vetro e cemento, lo metteva in difficoltà. Un dolore lontano ma costante a contrargli i muscoli addominali. Una mano contratta sul ventre come a cercare di contenere l’esplosione di ricordi imminente.

“Rogers e Barnes sono nelle vicinanze”, la voce di Natasha alle sue spalle. Stava ricaricando una pistola, evitando sapientemente il raggio delle luci deambulanti del palazzo di fronte, “hanno radunato anche gli altri vigilanti, nel caso fosse… necessario.”

Clint inspirò a fondo e lasciò ricadere la mano. La donna sembrava tranquilla, più di quanto lui non fosse. Cercò di dissimulare.

“Speriamo di non dover arrivare a tanto.”

Fermare Barney adesso diventava una questione prioritaria. Per quante forze fossero dalla loro, nessuno avrebbe potuto prevenire un nuovo disastro, nel caso fosse riuscito a metterlo in moto.

Di nuovo l’immagine del disastro dell’Expo. I volti ferrei, inespressivi di quelle macchine distruttrici.

Non un mistero ora perché gli fossero così indigesti quei robot dall’aria distaccata. Non un mistero che non gli piacesse Non-Jarvis.

Però gli permise di nuovo di afferrarlo per la vita. E di volare sui tetti della città per arrivare al culmine del palazzo della Robotics Inc.

 

*

 

Superare i controlli non era stato difficile.

Ingannare i robot e la sicurezza, mai così semplice.

Qualche interferenza nel suo personale sistema, lasciava che percepisse i colori e i movimenti in modo assai anomalo, ma si decise a ignorarlo.

L’obiettivo ben delineato.

Si affiancò ad uno degli operatori notturni, mentre prendeva il caffè da una macchinetta.

“Ehi, amico, hai moneta?” la mano a sottolineare la richiesta.

“Ahm… ho solo qualche… ehi, ma che hai fatto alla mano?”

Barney abbassò il capo, rendendosi conto della superficie metallica totalmente priva di epidermide. In qualche modo lo sapeva. Eppure lo aveva rimosso. Di nuovo.

Gli sorrise…

… prima che quella stessa mano andasse a catturargli il viso. A stringere con quelle dita metalliche, serrare la presa che soffocava i singulti dell’uomo, che faceva scricchiolare le ossa del suo cranio.

Quando lo lasciò andare si rese conto che aveva smesso di respirare.

La telecamera di sicurezza viva e pulsante, solo fuori dall’area di ristoro.

Si preoccupò di nascondere il cadavere… e di raccogliere il badge identificativo e le chiavi d’accesso di tale: Frederick Winston.

 

*

 

Natasha aveva sparato un paio di colpi e la porta della scala che conduceva ai piani tecnici inferiori saltò senza troppi problemi.

Clint scostò un paio di sentinelle robotiche che aveva mandato in tilt a distanza con un paio di frecce ben calibrate.

Giacevano ai suoi piedi con il loro unico occhio ciclopico che a malapena rimandava lampi di luce… coscienti.

Alle sue spalle l’ingombrante presenza di Non-Jarvis che sembrava osservarli incuriosito e un po’ inquietante.

“Che fai, vieni con noi?” gli domandò Clint, non del tutto sicuro che, nel caso avessero incrociato qualcuno, avrebbero saputo spiegare senza incidenti la sua presenza.

“Credo sarebbe opportuno mi trattenga qui. Monitorerò la situazione. Vi avviserò dei rischi. E terrò d’occhio i vostri amici di sotto.”

“Sono sicuro che Rogers e Barnes se la sapranno cavare benissimo anche da soli.”

“Non ne dubito.” Gli rispose, ma di fatto, non si mosse di un solo passo.

“Senti… volevo… ringraziarti. Per quello che hai fatto.”

Il cyborg sembrò guardarlo con una punta di sincera curiosità.

“Sono qui per agevolare la missione. E assicurarmi di proteggere i progetti del signor Stark.”

Sorrise, vagamente divertito. Non si era certo atteso una risposta diversa, ma per certi versi aveva sperato gliene fornisse una più elaborata. Dimostrare che fosse lì per scelta, non per obbligo. Che anche un cyborg dopotutto fosse dotato di libero arbitrio.

“Bè, allora ci si vede… Non-Jarvis.”

Il cyborg di nuovo lo fissò con occhio fermo e analitico, ma quando fece per congedarsi la risposta che gli diede, fu certo diversa da quella che si era attesa.

“Visione.”

“Come prego?”

“Il mio nome… è Visione.”

“Oh…” Clint fu lì lì per domandargli se per caso se lo fosse dato da solo, quell’assurdo nome. Ma tacque. Un po’ per fretta, un po’ per amor proprio.

Non era forse una risposta spontanea che stava cercando dall’androide? Quella fu più che sufficiente a decretare che nemmeno lui era solo una macchina.

“È stato un piacere, Visione.” Si congedò mentre Natasha ancora lo aspettava sulla porta spalancata verso i piani inferiori.

“Il piacere è stato tutto mio, agente Barton.”

“Clint…” mormorò, “puoi davvero chiamarmi solo… Clint.”

Scorse lo sguardo di Natasha, un misto di consapevolezza e approvazione. Non era stato facile assorbire tutte quelle assurde verità, nella manciata di poche ore, ma accettarle in così poco tempo, fu qualcosa che riuscì a sorprendere persino lui stesso.

“Andiamo”, le disse richiudendo l’arco che aveva fra le mani fino a renderlo a misura di zaino.

L’attimo successivo erano finalmente dentro il palazzo della Robotics Inc.

 

*

 

La stanza non era per niente come quella che ricordava. Ne aveva studiati di piani e cartine, per mesi, eppure gli sembrava di essere finito in un ambiente nuovo, completamente diverso.

Si passò una mano sul viso, tra i capelli, ancora impiastricciati di una qualche sostanza viscida.

I computer che serpeggiavano con i loro schermi colorati lungo tutto il locale sembravano indicargli la via. Un ultimo pannello. Quello centrale.

Cercò su uno dei monitor l’orario.

Le quattro del mattino.

Secondo i piani avrebbe dovuto attendere le undici.

Per qualche strano motivo, non gli sembrò poi così importante rispettare le scadenze.

Si avviò con passo claudicante verso il pannello centrale. Dietro quell’ultima porta, il suo primario obiettivo.

 

*

 

“Sei pronto? Al mio tre…”

“Barney… non sono sicuro che dovremmo farlo.”

“Oh andiamo! È una buona mezz’ora che pianifichiamo il colpo, non vorrai mollarmi proprio adesso?”

“Non… non voglio mollarti, ma non sono sicuro che sia una buona idea. C’è la biblioteca, se ti serve un computer… e…”

“Non è la stessa cosa, Clint. Quel tizio ha esattamente il modello di cui ho bisogno.”

Clint voltò la testa per esaminare di nuovo la povera vittima designata.

Uno studente, probabilmente. Benestante a giudicare dall’abito. Fisso con lo sguardo a quel suo cellulare dall’aria altrettanto costosa. Un sandwich al tonno ammezzato sulla panchina. Una lattina di coca cola a rotolargli fra i piedi. E lì accanto una valigetta, nella quale aveva sistemato con cura un laptop di ultima generazione.

Di furti Clint e Barney ormai potevano dirsi esperti. Portafogli, orologi, cellulari, tutte operazioni che ormai non richiedevano nemmeno grandi sforzi.

Ma stavolta era diverso. Stavolta si trattava di rubare qualcosa di veramente costoso. E potenzialmente pericoloso. Erano ben consapevoli del fatto che un aggeggio del genere potesse avere un dispositivo tracciabile. Barney gli aveva assicurato che tempo cinque minuti e avrebbe disinserito il dispositivo e assicurato loro un furto sicuro al cento per cento.

Clint si fidava di Barney, lo aveva sempre fatto. Da quando erano bambini, da prima dell’incidente che li aveva resi orfani, e dopo, quando avevano dovuto imparare a cavarsela da soli.

Ma era da qualche tempo che c’era qualcosa, nello sguardo del fratello che Clint non riusciva del tutto a comprendere. Una sorta di sordida cupidigia, un’inconsapevole malignità. Ardeva nel profondo dei suoi occhi qualcosa di diverso: ambizioni taciute, senso di rivalsa, e una profonda amarezza inespressa.

Per quello sì, certo, non avrebbe mai smesso di sostenerlo, ma non a costo di non esprimere anche il suo… di modesto parere. Ancora troppo forte però l’influenza che riusciva a esercitare su di lui per non mettere da parte i dubbi e cedere, ormai a scoppio ritardato, ad ogni suo capriccio.

Persino rubare, non era mai stata una sua idea. Sopravvivenza o meno.

“Allora… ci siamo o no?” una sorta di delusa minaccia nel tono della sua voce.

La delusione, fra tutti i sentimenti che sperava di non suscitare nel fratello era di certo la più umiliante. E la più insopportabile.

“Ci siamo…” cedette.

“Al mio tre allora: uno… due…”

 

*

 

Tre.

Avevano atterrano altre tre sentinelle robotiche prima di riuscire ad accedere all’ultimo piano. Le disposizioni che Barnes aveva dato loro per la disattivazione sembravano funzionare in modo eccellente.

Nessuna di loro aveva fatto in tempo a lanciare l’allarme. E le telecamere erano state sedate agilmente da Natasha, prima che potessero riprendere movimenti sospetti.

“Da qui in poi dovremmo essere tranquilli.” Disse la donna, mentre Clint tornava a sistemarsi il cappuccio sulla testa, come protezione e camuffamento.

“Avremmo dovuto procurarci degli abiti più consoni.”

“Saranno sufficienti. Non dobbiamo esattamente passarci tutta la notte qui dentro… o almeno…”

“Lo speri.”

Clint si mosse rapidamente fino al corridoio successivo. Le telecamere, vistose come occhi vigili ad ogni angolo.

“Comportati in modo naturale. Andrà tutto bene.”

“Non ho bisogno che tu mi dica cosa devo fare…”

La sentì afferrargli il cappuccio e levarglielo dalla testa.

“Ehi…”

“Comportati… in modo naturale.”

Clint stronfiò qualcosa, prima di riprendere a muoversi, un passo dopo l’altro.

Il palazzo gli era del tutto estraneo. Eppure sapeva essere la stessa identica struttura che solo tre anni prima aveva percorso in lungo e in largo… il giorno dell’Expo.

Le ristrutturazioni erano state lunghe e vistose. La forma era rimasta intatta a imperitura memoria del massacro, ma all’interno tutto sembrava essere mutato.

Quelle mura però...

D’improvviso i ricordi di quel giorno ripresero a riaffiorare dai recessi della sua memoria in modo del tutto inarrestabile.

Il fumo, il fuoco, le fiamme, il rumore delle esplosioni, delle grida. I suoi passi su pavimenti di linoleum anneriti dalla cenere. I calcinacci a pioggia. Uno dopo l’altro.

Occhi ad ogni angolo, imploranti, impotenti. E le grida, tutte quelle grida…

“Clint…” la mano di Natasha sulla sua spalla. A fermarlo o impedirgli di cadere.

Le rivolse uno sguardo strano, carico di insofferenza.

“Va tutto bene”, una rassicurazione troppo frettolosa.

“Resta concentrato.”

Si guardò attorno e il silenzio permeato di ronzii riuscì a riportarlo alla realtà.

“Il computer centrale si trova al piano di sotto.”

“Come facciamo ad accedere alla stanza?”

“Una difficoltà per volta.”

Passarono sotto alcune telecamere di sorveglianza che si volsero a seguire i loro spostamenti con il loro occhio luminoso.

“Senza fretta. Non guardarti attorno in modo circospetto.”

“Nat… so cosa devo fare”, ribadì per l’ennesima volta, esasperato dal comportamento della donna. Non era ancora arrivato al punto di non ritorno. Aveva solo avuto una defaillance, ma sapeva perfettamente come comportarsi in un momento del genere.

Il rumore alle loro spalle, però riportò entrambi all’attenzione.

Un’altra sentinella veniva verso di loro, apparentemente senza alcun interesse bellico.

Natasha di nuovo gli rivolse quello sguardo, e le avrebbe voluto urlare, che sì, aveva capito e che no, non avrebbe fatto niente per compromettere la missione. Che era ancora convalescente, in un qualche assurdo modo ma che poteva controllarsi e non aveva disperatamente perso qualsiasi abilità spionistica che aveva imparato dopo tanti anni di onorato servizio allo SHIELD.

“Agente: Clinton, Francis, Barton?” una nota di colore nella tonalità di voce che di solito si limitava ad affermare. Mai a chiedere. Ogni domanda di quei vigilanti di latta appariva sempre più come un’affermazione senza inflessione alcuna, che una gentile richiesta.

Clint restò in silenzio per un lungo attimo, prima di lanciare uno sguardo a Natasha.

Non fu semplice prendere una decisione. Rispondere, atterrarlo e rischiare di essere visti dalle telecamere.

Come diavolo facevano a sapere che era lui?

Lo scanner facciale che per un attimo lo accecò senza preavviso, diede alla sentinella, la risposta che cercava.

Il fischio metallico che ne seguì non sembrò una cosa positiva.

“Agente: Clinton, Francis, Barton. Ricercato dalla polizia di New York per atti di presunto terrorismo, resistenza all’arresto e fuga. E’ pregato di seguirci senza opporre resistenza.”

L’arma in dotazione ai tubolari già puntata verso di lui. Natasha al suo fianco si irrigidì, pronta all’attacco, in barba ai sistemi di sicurezza e controllo.

La sua mano fece appena in tempo a raggiungere l’arco, sapientemente accartocciato dietro la schiena che il suono di uno sparo andò a riempire l’aria.

La sentinella robotica cadde al suolo con un tonfo sordo e una nebbia di circuiti esplosi.

Nel caso non le fosse venuto un collasso spontaneo, la soluzione a quell’inaspettato cambio di avvenimenti era da attribuire al fatto che qualcuno aveva freddato la sentinella prima che potessero anche solo azzardare una contromossa.

Dalla nebbia maleodorante emerse un altro tubero di metallo. L’arma ancora fumante, puntata contro il suo simile, appena divenuto vittima.

“Che cazzo sta succedendo?”

“Potete proseguire.”

Clint gli scoccò uno sguardo strano e dopo aver guardato Natasha gli sembrò piuttosto chiaro quello che stava succedendo: Barnes era riuscito a infiltrare alcuni dei modelli che aveva personalmente modificato lì dentro.

“Certo che se ce lo avesse detto, ci avrebbe risparmiato un patema…” confermò l’arciere, riprendendo a camminare, prima che il rumore dei cingoli di almeno uno squadrone di sentinelle si apprestasse a sbarrar loro la strada.

“Dietro di me, prego.” Di nuovo il tubolare robotico. Clint non se lo fece ripete due volte.

Catturò Natasha per mano e si lanciò letteralmente nel corridoio adiacente. Il rumore degli spari a riecheggiar per i corridoi, non fu che il misero preludio a quello che venne dopo.

L’allarme centrale aveva preso a suonare.

Stranamente se ne sentì rinfrancato. Il frastuono che stava sentendo lui, probabilmente era arrivato anche a suo fratello Barney.

 

*

 

Si volse di scatto non appena l’allarme esplose fra le mura della stanza.

Il computer centrale rimase statico e inespressivo mentre tutt’intorno si scatenava il caos.

Forse si erano resi conto della sua intrusione. Forse era stato inviato l’allarme per quel motivo.

Barney tornò ad armeggiare con tastiere e codici, procedendo con rigore. La fretta forse avrebbe messo in moto i meccanismi inceppati di quella sua difettosa memoria.

Sotto stress aveva sempre lavorato meglio di chiunque altro.

Era il migliore.

L’Hydra lo aveva scelto per quel motivo.

Non poteva deluderli. Non permetter loro di pensare che fosse al di sotto delle loro aspettative.

La testa gli doleva e quella mano di metallo digitava a fatica sulle tastiere luminose. Il monitor continuava a recapitargli sempre lo stesso messaggio di errore.

Represse l’ira, ricalcolò il percorso, ricominciò.

Un gioco, un enigma.

Era sempre stato un mostro con i rebus e le parole crociate. Cercò di considerarlo come uno di quei giochi sulle riviste enigmistiche con cui riempiva le sue giornate da ragazzino. Completando le parole crociate di suo padre sulle definizioni più complesse, imitandone alla perfezione la scrittura.

Quando Harold Barton riusciva a completare uno schema, finiva le sue giornate di buon umore. Un modo come un altro per Barney di rimandare l’avvento dell’orco sempre in agguato.

Si sorprese nel ricordare un dettaglio tanto insignificante, quando non riusciva ad accedere ai dati di un programma che lui stesso aveva contribuito a creare.

Il successo di quel particolare schema di codici, nel peggiore dei casi gli avrebbe permesso di attivare il programma dell’Hydra e scappare illeso. Nel migliore invece… di attivare il programma dell’Hydra, sabotare comunque il progetto di… (come si chiamava?) Stark ed essere arrestato.

Probabilmente da Clint Barton.

Sapeva di essere stato monitorato. Sapeva di essere stato scoperto. E sapeva che Clint era sulle sue tracce. Lui e la sua partner. Lui e lo SHIELD tutto.

Non il peggior modo in cui concludere quella triste esperienza.

Si trovò a sorridere a come, man mano che prendeva familiarità con il computer centrale, i ricordi tornassero a riaffiorare, uno dopo l’altro. La confusione dopo quel singolare risveglio, si diradasse, aiutandolo ad affrontare più lucidamente la sua missione.

La consapevolezza che ancora qualcosa non tornasse, che qualcosa si fosse perso, in quel subbuglio di emozioni e ricordi.

L’Hydra lo aveva scelto, era vero. L’Hydra lo aveva accolto, viziato…

E poi… e poi piegato, sedato, riabilitato, intrappolato.

Non aveva fatto una scelta. Si era limitato ad obbedire. Così come si erano assicurati che facesse, con i tutti i mezzi a loro disposizione. Ricatto, minacce, torture, plagi.

Li aveva convinti. Si era convinto.

Ed ora avrebbe concluso quello sconclusionato piano. Un caro prezzo per la libertà. Qualsiasi tipo di libertà.

Il computer centrale gli rimandò un altro segnale luminoso.

Il codice di errore era stato risolto.

La schermata da rosso fuoco divenne verde acceso.

Era riuscito ad ottenere l’accesso.

 

*


 

Note:

Che mi scuso per il ritardo ormai è una cosa talmente scontata che non mi dilungherò oltre.

Siamo alla resa dei conti. E l’anticipazione che… in tre capitoli, dovremmo arrivare alla fine della storia. Come sempre ringrazio gli affezionatissimi, con cui mi scuso… e la mia socia e beta Sere, sempre in prima linea per taaaaante cose.

Alla prossima.

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


CAPITOLO 17

 

“La verità non esiste e la vita come la immaginiamo di solito è una rete arbitraria e artificiale di illusioni da cui ci lasciamo circondare.

(H.P. Lovecraft)

 

*

 

Sei anni. Aveva solo sei anni, la prima volta che aveva avuto a che fare con gli aghi del dottore. Uno di quelli che suo padre chiamava segaossa. O qualcosa di altrettanto grottesco.

Riusciva a malapena a sentire quello che gli stava dicendo. La sua espressione era comprensiva, docile, gli faceva delle domande alle quali… Clint non aveva alcuna intenzione di rispondere.

Il suo sguardo seguiva distrattamente il lenzuolo del lettino su cui lo avevano messo a sedere, apparentemente più rammaricato di averlo sporcato di sangue di quanto percepisse il dolore diffuso alla testa, alla tempia.

I suoni gli arrivavano ovattati, adesso. Non era riuscito a percepire alcun suono per tutta la durata della corsa dalla fattoria Barton, al pronto soccorso.

Il bambino è caduto.

Ha picchiato la testa.

Perde sangue.

No, non aveva sentito sua madre pronunciare quelle parole, ma avrebbe potuto tirare a indovinare. Era la solita scusa che propinava a qualsiasi dottore della zona, quando il gigantesco signor Barton faceva calare le sue pesanti mani sui suoi figli.

Ogni santa volta Clint si chiedeva cosa avesse fatto di male. Perché era ovvio che suo padre… lo stesse punendo per qualcosa. Non si picchia qualcuno se non ha fatto niente di male, no?

Clint era cresciuto con la convinzione di essere una pessima persona.

Perciò sopportava il dolore. O almeno ci provava. Era la sua punizione. Doveva accettarla.

Il sangue e il lenzuolo sporco, invece… gli ricordavano che doveva chiedere scusa.

Ma quel dottore non la smetteva di blaterare.

Le parole si confondevano su un tappeto di suoni afoni e sgradevoli.

Gli puntò lo sguardo addosso solo quando il punto che gli stava mettendo sulla fronte gli fece male. Più male degli altri.

Il dottore lo guardò stupito. E le sue labbra pronunciarono una cosa che non dimenticò mai: “non ho mai visto qualcuno sopportare così bene il dolore come sai fare tu, campione.

Nel suo sguardo c’era sincera ammirazione.

Nessuno lo aveva mai guardato così. Nemmeno suo fratello Barney.

In quel preciso istante decise di far sue quelle parole.

Avrebbe sopportato. Tutto il dolore del mondo. E forse, un giorno, suo padre lo avrebbe guardato alla stessa maniera.

 

*

 

“Merda, ah merda!” gridò, accasciandosi al suolo. Natasha dovette fermarsi e tornare sui suoi passi per capire che diavolo stesse succedendo.

“Clint.”

La guardò in viso solo per scoprire che la sua voce se l’era solo immaginata. Che il rimbombo delle sirene era ormai divenuto solo un sibilo assordante. Il dolore alla testa così estremo e fulminante che dovette voltarsi dalla parte opposta per vomitare… tutto ciò che non aveva mangiato in almeno dodici ore.

Natasha trattenne una mano sulla sua schiena. Poteva sentirla, calda e rassicurante, ma il dolore non spariva e la cosa più preoccupante era che, per una volta tanto, nemmeno riusciva a sentire il classico odore di circuiti e plastica bruciata a cui ormai era tanto affezionato.

No… solo qualcosa di caldo e pastoso scivolargli giù dalle orecchie. Entrambe le orecchie.

Quando ebbe la forza di riaprire gli occhi, il pavimento sotto di sé era costellato di lacrime scarlatte.

Sangue.

“S-sto bene”, mentì. Sapeva che Natasha non gli avrebbe creduto, ma lo disse come si fa per un riflesso incondizionato. Una di quelle necessità da sopportare. A non essere un peso, per nessuno, mai.

Cercò di rimettersi in piedi solo quando, improvvisamente, il sibilo svanì. E così con quello anche tutti gli altri suoni.

Le labbra di Natasha si muovevano ancora; se l’avesse guardata con più attenzione avrebbe saputo comprendere che cosa gli stava dicendo, ma lo spirito di conservazione e concentrazione che ci stava mettendo per tornare stabile sulle gambe gli impedì di fare due cose contemporaneamente.

“Va bene, sto bene.” Ripeté di nuovo, una mano aggrappata alla parete, l’altra al braccio della donna.

Barney era più importante della sua sordità. A quella ormai ci era abituato. Quello a cui non poteva certo permettersi di abituarsi era veder distrutto quel palazzo da un branco di droidi impazziti… per la seconda volta.

Perciò serrò i denti, cercò di relegare il dolore in un angolo della sua testa, da sempre convinto che potesse vincerlo, alienarlo, e annuì, una volta sicuro di potersi muovere agilmente.

“Muoviamoci.” Disse solo, e Natasha non si fece ripetere la richiesta una seconda volta.

 

*

 

Non era tanto il rumore assordante delle sirene, ma la difficoltà nell'inserire i giusti comandi per il movimento dei droidi. Non era così che li aveva programmati. Non così che ricordava aver apportato le necessarie modifiche.

Alcuni di loro rispondevano bene agli stimoli, altri sembravano non aver alcuna connessione con la sua programmazione. Come se facessero capo a un altro silente burattinaio.

Barney cominciò febbrilmente a sganciare i primi droidi. Un esercito di almeno una cinquantina di modernissime macchine, che a quanto risultava erano rimaste ferme per troppo tempo.

La porta della stanza si spalancò l’istante successivo.

“Mani in alto!”

La voce robotica di uno di quei tubolari di ferraglia. Antichi come le sue ossa.

“E’ troppo tardi, amico.” Sorrise, di un sorriso sghembo, vittorioso, folle.

Il tubolare alzò l’arma per sparare, prima che un’ombra non gli si portasse alle spalle e non gli strappasse letteralmente la ciclopica testa dal corpo.

Barney rimase fermo a osservare la sagoma del nuovo arrivato, incuriosito.

“E tu… chi sei?”

*

 

Natasha cercava di farsi strada fra i corridoi, sforzandosi di recuperare in corner le deviazioni di Clint, che a quanto pareva non riusciva più a capire un accidenti di niente.

I rudimenti del linguaggio dei segni che lui stesso aveva provveduto ad insegnarle le erano totalmente inutili, occupati come erano a raggiungere la stanza del comando centrale.

Lo prese per la collottola appena in tempo, quando il rumore di almeno una decina di gambe robotiche passò un po’ troppo vicino a loro.

“Fermi!” una voce imperiosa, ma meccanica, dall’altra parte del corridoio.

Un boato strappò l’atmosfera come un tuono e una scia di fuoco passò loro accanto, appena in tempo per andare ad abbattersi su un gruppo di tubolari robotici di vecchia generazione.

Natasha si ritrasse e spronò Clint – a cui non aveva permesso di vedere niente – a prendere un’altra direzione.

“C-che cazzo sta succedendo?” lo sentì pronunciare.

Avrebbe voluto dirgli che probabilmente Barney aveva già dato il via alle operazioni. Ma era certa che la spiegazione gli sarebbe diventata evidente non appena fossero riusciti ad arrivare alla maledetta stanza.

La cosa che la preoccupava più di qualsiasi altra, era non essere in grado di invertire il processo.

Perché nell’attimo esatto in cui si erano introdotti nella torre, Natasha sapeva bene quale sarebbe stato il suo compito.

E permettere a Barney di accedere ai dati, suo malgrado, faceva parte del piano che tanto si era premurata di tener segreto, persino a Clint.

Inserirsi nel computer centrale e recuperare tutti i file necessari a scagionare Stark, a portare acqua alla causa dei vigilanti, dei ribelli. Quelli, più i file dei progetti conservati nella testa di Clint, sarebbero stati le prove schiaccianti della loro innocenza, del coinvolgimento della Robotics Inc. in un complotto ben più massiccio e ramificato di quanto lo stesso governo degli Stati Uniti d’America avrebbe mai potuto immaginare.

Tutto cominciava da lì. Tutto sarebbe terminato lì.

“Di qua!” esclamò, più per istinto che per la certezza che l’uomo l’avesse sentita.

Scivolarono come ombre da un ufficio all’altro, da un piano all’altro. Mentre il rumore delle esplosioni, tutt’intorno, andavano a coprire quello dell’allarme che non aveva smesso un solo istante di suonare.

Fu sollevata dal fatto che Clint non potesse sentirlo. Che non potesse lasciarsi coinvolgere dal remake di quell’incubo che aveva cancellato per tre interi anni.

Aveva fiducia in lui, certo, ma sapere di non doversi preoccupare anche del suo stato mentale, le permetteva di muoversi con più facilità.

Aprì una delle porte tagliafuoco che davano sul piano inferiore. Di nuovo scalpiccio di passi. E poi un’esplosione che deflagrò solo a qualche metro di distanza.

Sentì la mano di Clint afferrarle la spalla, le dita artigliate a lei, e due occhi grandi come monete a farle capire che sì, adesso ce l’aveva una vaga idea di quello che stava succedendo.

“Posso fermarlo, Clint. Posso farlo.” Si preoccupò di scandire, di farsi leggere, così come sapeva che avrebbe compreso.

La mano a stringere la sua e poi a costringerlo a riabbassarla e riprendere a correre, ovunque, il più lontano possibile da lì e più vicino alla stanza dei comandi.

 

*

 

Kate fermò il maggiolone con una frenata tanto poderosa da produrre un vago odore di gomme bruciate.

Una sagoma oscura era precipitata giù dal cielo e l’aveva evitata per un soffio.

Rimase ferma a fissare il fumo che si levava dal cofano della macchina o più in basso, lo sguardo incastrato fra le sbarre metalliche del volante.

Cercò la maniglia della portiera per scendere il più rapidamente possibile.

Era sicura di non averlo investito, era sicura che le fosse finito di fronte senza che potesse fare nulla per evitarlo. Mentre nel suo cervello si affastellavano scuse più o meno plausibili sulla sua buona fede, riconobbe qualche difficoltà a capire che cosa stesse veramente osservando.

Il primo impatto fu l’odore disgustoso di plastica bruciata. Poi, una volta che il fumo si fu diradato, non le ci volle poi molto per capire che quella massa informe che se ne stava adagiata sul cemento non era altri che un grosso robot che doveva aver visto giorni migliori.

Non un essere umano. Un cazzo di robot.

Non riuscì comunque a godersi a lungo il senso di sollievo nell’apprendere di non aver causato nessun danno irreversibile.

“Ma che… ?” seguì con lo sguardo la scia di fumo che aveva portato con sé.

Dietro di lei, l’imponente palazzo della Robotics Inc. fumava dalle finestre come fossero narici di un grosso drago.

Si portò le mani alle labbra, cercando di non gridare quando si rese conto che un numero incerto di grossi droidi volanti stavano planando da una delle finestre rotte per approdare sulla strada.

Allora la segnalazione che aveva captato dal canale radio della polizia era vera.

Era tutto vero.

Si era precipitata fuori casa, cercando inutilmente di contattare quello stupido di Barton o la Romanoff, senza ricevere risposta alcuna.

Attorno al palazzo un assembramento di droidi e macchine della polizia che se ne stavano in disparte, lasciando che i robot facessero tutto il lavoro.

Quelli appena precipitati giù dal palazzo come uno sciame di angeli vendicatori però non sembravano inclini a lasciar fuori dai giochi i poliziotti in carne ed ossa. Grosse bolle di fuoco vennero lanciare su alcune macchine che volarono come cartone dalla parte opposta della strada.

Kate fece appena in tempo a nascondersi dietro alla sua auto per evitare detriti e scintille esplosive.

Quando rialzò la testa, una scia di blu e bianco le passò di fronte e le sembrò di vedere un grosso scudo di metallo abbattere almeno un paio di giganteschi droidi.

“Ma che diavolo… ?”

Il rombo dei motori di un furgone color cenere e lo sfrigolio dei freni.

“Bishop!” trasalì quando si sentì richiamare. Il faccione mezzo abbrustolito di Tony Stark fece capolino dal finestrino del passeggero.

“Stark?”

“Ma che ci fai qui?”

“Il cazzo se lo so!” protestò lei, sottolineando la domanda idiota.

“Bè, come vedi, non è proprio il momento per un’allegra serata di shopping in centro.”

“E me lo dici tu?” esclamò fra il perplesso e lo scioccato. “Ma che cosa sta succedendo?! Sono qui per Clint!”

“Siamo tutti qui per Barton, ragazzina. Muovi il culo e monta sul furgone. Gli saremo più d’aiuto qui dentro che lì fuori.”

“Che v-vuoi dire?” si alzò tentativamente, prima che l’esplosione di altri droidi alle sue spalle non la facesse trasalire.

“Se permetti, te lo spiego dopo. Muoviti!”

Kate non si fece ripetere la richiesta una volta di più. La donna che stava al volante sgommò sulla strada, mentre il paesaggio da guerriglia urbana sfrecciava loro di fianco in un terrificante déjà-vu.

 

*

 

“Barney!” la voce di Clint rimbombò per il locale nonostante il frastuono delle sirene e degli spari.

La stanza era a malapena illuminata dalle luci degli schermi dei terminali e le mille spie dei bottoni in movimento. Ombre sinistre si proiettavano sulle pareti.

Barney Barton sedeva in mezzo alla stanza, le braccia abbandonate lungo i fianchi, l’espressione assente, nonostante il richiamo del fratello. Alle sue spalle, un uomo gli stava puntando una pistola alla nuca.

Natasha fu di fianco all’arciere giusto in tempo per rendersi conto di quello che stava osservando.

“Bucky…” le uscì a malapena dalle labbra, mentre la consapevolezza si faceva strada anche sul viso di Clint.

“Mi chiedevo che fine aveste fatto.” La voce asmatica dell’uomo che stranamente non indossava il suo respiratore – abbandonato in un punto lontano della stanza, come se vi fosse stato scagliato –, la postura rigida, tesa.

Natasha comprese immediatamente che c’era qualcosa che non andava. Qualcosa di ostile gli illuminava lo sguardo. Ebbe l’improvvisa e fastidiosa sensazione che Bucky non fosse lì per aiutarli.

“Che ci fai qui? Dove sono gli altri?” decise di tergiversare, di prendere tempo per analizzare la situazione e tutte le sue variabili.

“Il Capitano si sta occupando dei droidi là fuori. Lui e tutta la squadra di vigilanti”, le sue labbra presero una piega strana, “Dovreste uscire a dare loro una mano. Ho la situazione sotto controllo.”

“Sotto controllo? Barney ha già attivato il processo distruttivo. Sei in grado di fermarlo? Posso pensarci io se…”

“Io invece credo che dovreste allontanarvi.”

Una cosa su Bucky Barnes, in tre anni di frequentazione, l’aveva capita: non era in grado di mentire. Né di nascondere le proprie emozioni. Lo aveva sempre considerato un cane sciolto. Pronto a difendere il suo capitano a costo della vita, a eliminare ogni ostacolo alla sua causa. Il fatto che ora stesse nascondendo qualcosa era talmente evidente che non le ci volle molto a capire che la sua inflessione suonava come una minaccia bella e buona. Nello sforzo di mantenere la calma il lucido braccio di metallo fremeva in trepidazione.

Clint al suo fianco si mosse appena. Non era sicura che stesse comprendendo ciò che stava succedendo, ma tutto in lui le dava l’impressione avesse capito che qualcosa non quadrasse in quello scenario atipico.

Le bastò un’occhiata per sapere che Clint aveva intenzione di agire. Decisamente in modo più rapido di quello in cui lei avrebbe saputo portare avanti trattative diplomatiche.

Per questo sollevò la pistola e la puntò direttamente sull’uomo. Che le era stato amico. Che ora sembrava aver deciso di intraprendere una variazione di percorso decisamente contro ogni buon senso.

“Metti giù la pistola Bucky. E allontanati da lì.”

Clint al suo fianco aveva messo mano ad arco e frecce, ad assecondare il prurito che lo aveva colto da quando aveva varcato la soglia della stanza dei bottoni. Ma era ancora frastornato. Debilitato. Lo sguardo vacillava così come la presa sul suo arco.

“Sennò cosa fai? Mi spari?”

“Potrei farlo.”

“Non costringermi ad uccidere questo tizio una seconda volta.”

“Che diavolo significa?” esalò Clint confuso e arrabbiato. Probabilmente indeciso se essere indignato per la piega degli eventi o solo smanioso di mettere le mani sul fratello perduto.

Natasha sapeva che non potevano permettersi nessun passo falso. Né permettere a Clint, ancora una volta, di farsi vincere dall’emozione. Si sentì improvvisamente come il perno d’equilibrio dell’intera situazione. Non era sicura di essere all’altezza del compito.

Però decise di esporsi in prima persona. Fece un passo in direzione di Bucky che improvvisamente esitò se puntare la pistola verso di lei o Barney che continuava a fissare il pavimento con sguardo vacuo. Si rese conto con un po’ di ritardo che lo zigomo gli sanguinava, che il labbro gli sanguinava. Una traccia cremisi ai suoi piedi.

Una colluttazione.

“Bucky… qualsiasi cosa tu abbia in mente… per favore… lasciami invertire il processo di distruzione. Di recuperare tutti i dati dal computer centrale. E’ l’unica cosa che–”

“Non c’è più niente da recuperare. Non lo hai ancora capito che è proprio quello che… sto cercando di impedirti di fare?”

Natasha gli lanciò uno sguardo confuso: “Perché? Non è quello per cui ci siamo battuti in questi tre anni? L’obiettivo che Steve e Peggy –”

“Steve e Peggy non hanno valutato tutti i pro e i contro di questa faccenda!” la zittì per l’ennesima volta, parlandole sopra.

“Ma di che stai parlando? Quali contro?”

“Non credevo fossi così stupida. O peggio, forse… forse…” si fermò per recuperare fiato, “forse sei solo un’idealista. Credevo tu ed io fossimo… f-fossimo molto più simili di così.”

Di nuovo lo guardò confusa, ma si decise a tener duro. A lasciarlo parlare. Le forze non lo avrebbero sorretto ancora per molto. Non senza il suo stupido respiratore.

“Non lo capisci che una volta portata a galla… la verità sull’Hydra… verranno anche a conoscenza del progetto Lazarus?”

Le parole di Bucky la colpirono come uno schiaffo in pieno viso. Il progetto Lazarus. Il progetto Lazarus era ormai morto e sepolto. Tutto quello che ne restava era solo nei database segreti di Tony Stark. Non era forse così… ? Non lo era?

“E lo sai anche tu che cosa significherebbe rendere il mondo partecipe… d-del progetto. Steve… tu… ed io… di nuovo cavie. Cavie da laboratorio. H-hai solo una mezza idea di come potrebbero decidere di sfruttare la cosa? E se… e se nel migliore dei casi dovessero decidere di lasciarci liberi… liberi di vivere le nostre vite… saremo mai… d-davvero al sicuro da chi… il progetto Lazarus non lo ha mai abbandonato? Ci hai mai pensato Natasha? Ci hai mai pensato… che i tuoi carnefici… potrebbero essere ancora là fuori… da… da qualche parte… e ti stiano… ti stiano cercando?”

Una serie di pensieri sepolti cominciarono a scavare per tornare a galla. E con loro la paura. Che prese a serpeggiarle nello stomaco con le sue spire velenose.

Il progetto Lazarus. Nessuno era più tornato a cercarla dopo l’ultima resurrezione. Erano passati più di dieci anni. Era pulita. Si erano dimenticati tutti… del progetto Lazarus.

Riportare a galla i file più segreti dell’Hydra... questo non avrebbe dovuto significare niente. Se avessero voluta trovarla lo avrebbero già fatto.

Non era forse così?

Lo osservò a lungo o così le parve. Volle convincersi che Bucky le stesse dicendo quelle cose solo per convincerla a stare dalla sua parte. A manipolarla. Eppure il dubbio. Quello stupido dubbio…

“Stanno uccidendo delle persone là fuori!” si sentì gridare, la rabbia che vinceva sul dubbio, la deflagrazione finale di tutta la sua frustrazione. “Hai intenzione di sacrificare tutta quella gente solo per tenere al sicuro uno stupido progetto? Tu sei meglio di così, Bucky! Per quale motivo avresti lavorato per tutti questi anni, costretto a vivere nelle fogne?”

Ma nel momento in cui pronunciava quella domanda, sapeva già di essersi data una risposta.

La chiave di tutto era Steve. Era sempre stato Steve. Guardia fedele, amico e compagno. Di tutte le cose che Bucky si era preoccupato di tenere al sicuro… Capitan America era sempre stato in cima ad ogni sua lista. Non gli era mai importato niente delle persone là fuori. Dei progetti, dell’Hydra. Della causa dei ribelli. Non gli era mai importato nient'altro.

A discapito delle sue convinzioni che fossero solo delle stupide macchine… la devozione per Steve aveva raggiunto dei livelli di ossessione talmente umana da fare quasi male al pensiero.

“Moriranno presto delle persone anche qui dentro”, e nel dirlo sembrò intenzionato a liberare il proiettile dritto nella testa di Barney Barton. Tenuto in vita, fino a quel momento, forse solo per avere una chance nel caso tutto fosse andato storto.

Il rumore della corda dell’arco di Clint Barton però arrivò prima della deflagrazione. La mano di Bucky fu passata da parte a parte dal dardo, ma la pistola, invece di cadere a terra, fu passata alla mano di metallo.

Natasha scattò in avanti, ma lo sparo arrivò prima che potesse anche solo rendersi conto della velocità con cui aveva preso a muoversi l’universo attorno a loro.

Un solo lamento alle sue spalle, la testa di Clint che frustava all’indietro e la reazione arrivò rapida e istantanea. Natasha sollevò una mano e scaricò uno due, tre colpi in direzione di Bucky che assorbì i proiettili così come avrebbe potuto fare un giubbotto in kevlar, ma finì in ginocchio, forse troppo debilitato per potersi permettere più di così.

Natasha si voltò giusto il tempo di rendersi conto che Clint era riverso al suolo, mentre una pozza di sangue rosso si stava allargando sotto di lui.

Gli scivolò di fianco, ricadendo sulle ginocchia.

“Clint… Clint!” esclamò cercando di capire da che parte fosse stato colpito. La testa, i capelli, completamente incrostati di sangue vecchio e nuovo. Il suo silenzio le fece serpeggiare un brivido di terrore giù per la spina dorsale, nello stomaco, con quel sapore rancido che poche altre volte nella vita avrebbe saputo riconoscere.

Le mani a tastargli il viso, il collo, prima che qualcosa di poderoso quanto un pugno d'acciaio non le si schiantasse sulla nuca.

Per un istante il mondo divenne bianco come luce pura, i suoni si fecero ovattati e le sembrò di sentire di nuovo quel saporaccio in bocca. Di metallo.

Il senso di nausea talmente forte da farle sperare di perdere i sensi immediatamente piuttosto che continuare a sentire quel fischio alle orecchie. Poi una sensazione, lo spostamento d'aria prima di un altro schianto.

Si mosse tanto rapidamente quanto istintivamente. Il mondo tornò dei suoi colori cupi e decadenti e un pugno di metallo andò a schiantarsi direttamente sul pavimento accanto al suo viso.

Si rese subito conto che se l'avesse colpita una seconda volta, non avrebbe avuto scampo.

Si diede lo slancio con i piedi per falciare le gambe di Bucky che cadde a terra con un tonfo sordo.

E gli si lanciò addosso, con un grido carico di frustrazione e dolore.

L'uomo fece di tutto per rispondere ai suoi attacchi, ma il respiro era ormai un rantolo esile e frammentato. La colpì a un fianco. A una spalla, sentì le ossa della mano sana frantumarsi sotto la presa feroce dell'uomo. Il colpo che le infierì allo stomaco le fermò il respiro per un lungo, tragico istante.

Ogni colpo era come se una palla da demolizione le si schiantasse addosso, portandosi via una parte di lei.

Gli affondi però cominciarono a diventare più fragili, meno sicuri. Con le ultime forze rimaste Natasha riuscì a prendere il sopravvento.

Gli fu sopra, mentre Bucky la osservava in un misto di odio e supplica. Il braccio meccanico che le si serrava attorno al collo.

Lo colpì al viso, per non doversi concentrare sulla sua espressione. Lo colpì più volte. Lo colpì con tutta la forza che il braccio meccanico di Stark poteva esercitare. Nonostante il respiro venisse meno, nonostante Bucky non la lasciasse andare. Vide il viso dell'uomo diventare una maschera di sangue e ossa rotte. Continuò a colpire sentendo qualcosa dentro di lei, rompersi in un'immensità di fragili pezzi.

 

“Siamo uguali, tu ed io, Natasha Romanoff. Tu ed io... tu e Steve.”

“Ora lo so.”

“Questa è anche la tua casa, adesso.”

 

Lo sentì esalare un ultimo rantolo, eppure non si fermò. Mentre le lacrime le scendevano copiose, lasciando lunghi solchi sul viso sporco di sangue. I singhiozzi spezzati dal respiro ormai esile.

Si fermò solo quando la presa di Bucky al suo collo venne meno. Quando il braccio metallico cadde al suolo in uno schianto secco, definitivo.

Le mani le tremavano. Il corpo tutto, tremava, mentre dalle profondità del suo stomaco un verso innaturale prendeva il sopravvento, lacerando l'ultima barriera al suo dolore.

 

*

 

Note:

Ebbene sì, credo stavolta di essere stata piuttosto… drammatica o crudele (per usare un eufemismo). Per tutti i fan di Barney mi scuso. Gli voglio bene anche io, anche se non si direbbe. E comunque… chi ha detto che sia finita qui?
Per chi si stesse chiedendo (nessuno) a che punto sia con la storia… L’HO FINITA. Sì, conclusa pochi giorni fa una volta per tutte, compreso l’epilogo. Annuncio con allegria che il prossimo è l’ultimo capitolo. E poi c’è l’epilogo. Quindi in pratica… mancano due appuntamenti alla fine. Yay.

Ma per i saluti ci risentiremo. Come al solito ringrazio i lettori silenti e non, la socia e beta Sere, con cui in questi giorni la follia Clintasha è esplosa più che mai (è ciclica…). E bon. Alla prossima!

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


CAPITOLO 18

 

 “Come lacrime nella pioggia…”

(Blade Runner)

 

*

 

Gli faceva male la testa. Quel dolore che si insinuava sotto le palpebre, che sapeva non gli sarebbe passato tanto presto. Aveva dormito troppo, o troppo poco. In ogni caso restare fermo a fissare il soffitto sembrava l’unica attività utile per passare il tempo.

Quella o cominciare a prendere a testate i muri. Per farsi passare il dolore o tentare di stordirsi a tal punto da non pensarci.

Quando sentì aprirsi la porta della stanza (preferiva chiamarla stanza – cella era un po’ troppo melodrammatico per i suoi gusti) non si diede nemmeno la pena di abbassare lo sguardo per vedere chi fosse. C’era solo una persona che veniva a fargli visita. E francamente era stufo di vedere quella sua stupida faccia, dall’unica, incomprensibile espressione.

“Caffè, Barton?”

L’ultima offerta che si sarebbe atteso di sentire. L’unica che gli fece abbassare lo sguardo per squadrare l’agente Coulson… per capire se non lo stesse prendendo per il culo.

Ma il bicchiere di caffè era nelle sue mani e l’aroma non ci mise molto a stuzzicargli le narici.

Si mise seduto, tentativamente, cercando di dimenticare il mal di testa, vivido e pulsante.

“L’ultima cosa con cui credevo avresti avuto il coraggio di corrompermi, agente Coulson”, lo apostrofò, sperando che, nonostante quello, il caffè glielo avrebbe offerto comunque.

“Nessun tentativo di corruzione, siamo pur sempre un’agenzia governativa”, gli disse, passandogli il bicchiere fumante, “non so se lo prende amaro, ci ho messo poco zucchero.”

“Lo prenderei anche con una manciata di sale, tanto ne ho sentito la mancanza in questi giorni.”

L’uomo gli rivolse un sorriso: ormai poteva dire quando sorrideva per davvero o quando lo fissava impassibile solo con le labbra piegate all’insù. Un progresso, in tre giorni. Forse stava cominciando ad inquadrarlo. O forse no. Non che gli importasse. Il suo potere, in quel contesto, era proprio ridotto ai minimi termini. Interrogatori a non finire per tre giorni, senza cavarne un ragno dal buco. Sicuro stava cominciando a diventare frustrante per loro, tanto quanto ormai lo era per lui.

Non aveva fatto niente di male. Solo era andato in giro a fare troppe domande per una storiaccia in cui erano stati coinvolti dei terroristi o presunti tali. Niente polizia. Un interrogatorio con la CIA – o sa il cazzo di come si chiamavano veramente – per direttissima. Era la prima volta che finiva nei guai con un’agenzia di intelligence. Magari avrebbe potuto metterlo sul curriculum.

“Dunque sentiamo: quali sono le strabilianti proposte di oggi?”

Oltre agli interrogatori, erano tre giorni che Coulson tentava pateticamente di sottolineare di come alcune delle sue… particolari abilità sarebbero state utili al servizio della legge… quella istituzionalizzata.

Coulson posò sulla piccola scrivania, posta su un lato dello stanzino asettico, un plico di fogli.

“Nessuna proposta, Barton. La lasciamo andare.”

Per poco non gli andò di traverso il caffè.

“C-come?”

“Già. A quanto pare non abbiamo altre scuse per trattenerla. Le prove sono risultate insufficienti e dunque… la lasciamo andare.”

“Ah! Dove devo firmare?”

“Fuori, alla reception. Un paio di scartoffie per il rilascio.”

Clint non si fece ripetere due volte la buona notizia. Il caffè però non lo lasciò.

“Bè, è stato bello e tante care cose!” disse, superandolo, per qualche istante.

“Barton…” si sentì richiamare e, solo per una sorta di sorda gratitudine per quel caffè che sapeva di polvere, si fermò in mezzo alla stanza.

“La prego di prendere in considerazione la proposta che le ho fatto in questi giorni.”

“Fossi matto.”

“Barton”, lo vide riprendere in mano la cartellina e porgergliela, “almeno si prenda qualche giorno per pensarci.”

“Non ho bisogno di qualche giorno, ho già deciso…”

Ma Coulson non mollava. Continuava a porgergli quella cazzo di cartellina, come se ne andasse della sua stessa vita. E, cosa più inquietante, aveva smesso di sorridere. O di mostrare quella sua espressione estatica e beata.

Clint, che sentiva già il profumo della libertà, si scoprì di buon umore, nonostante il mal di testa e il caffè di sabbia, quindi recuperò la cartellina. Che male avrebbe mai potuto fare?

“Ci vediamo presto, Barton.”

“Ti piacerebbe.” Disse, cercando di godersi appieno quella temporanea soddisfazione.

L’aria frizzante di ottobre gli riempì le narici una volta fuori da quelle austere quattro mura.

La città faceva schifo esattamente come la ricordava. Pioveva meno del solito comunque. Perciò la considerò una buona giornata, dopotutto.

Gettò il caffè nel cestino più vicino e fu tentato di fare lo stesso anche con la cartellina di Coulson.

Ma si fermò a mezza strada, proprio quando realizzò che quel caffè era proprio una schifezza e… che non aveva soldi per comprarsene un altro. O che l’unico posto in cui avrebbe potuto tornare era quel suo diroccato ufficio in periferia… finché non fossero arrivati quelli dello sfratto a cacciarlo fuori a calci in culo. E ricordò improvvisamente di come l’impianto bionico che gli permetteva di usare ancora l’udito, ultimamente, aveva cominciato a produrre fischi tutt’altro che incoraggianti.

Le prospettive si facevano sempre meno rosee. La sua vita era precipitata in un vortice tutt’altro che positivo da quando i federali, o quell'organizzazione di cui faticava a ricordare la sigla, erano arrivati con le loro indagini del cazzo a ficcare il naso nelle sue, di attività investigative. Gli avevano portato via, letteralmente, tutto ciò che possedeva.

Era un uomo finito. E lo sapeva. A soli ventiquattro anni… si sentiva un uomo finito.

Nelle tasche un portafoglio vuoto, un buono per un biglietto gratuito del cinema… e quella cazzo di cartellina che Coulson aveva voluto a tutti i costi che portasse via con sé.

Decise di risparmiarle un volo per direttissima dentro il cestino della spazzatura.

Al cinema davano di nuovo Blade Runner. L’ennesima riedizione rimaneggiata per renderlo sempre più incomprensibile.

Umore e clima erano quelli giusti per dare un’altra possibilità a Blade Runner.

Nel caso si fosse scoperto troppo annoiato… allora avrebbe aperto quella stupida cartellina.

 

*

 

Aveva freddo. Troppo freddo.

 

Solo i morti hanno tanto freddo.

Ma i morti non sentono freddo.

 

Allora non era morto. Eppure il gelo sembrava non volersene andare e le braccia, le gambe, le palpebre erano così pesanti…

Coulson.

Non doveva forse tornare dall’agente Coulson?

Doveva dirgli che dopotutto… la sua proposta non era poi così male. Solo aveva un certo problema a gestire l’autorità. Era giusto che lo sapesse.

Magari sarebbero giunti a un compromesso. Dopotutto lo aveva cercato lui.

Doveva muoversi ma non poteva… muoversi.

Come lacrime… nella pioggia.

Dalla cortina di fumo comparve un volto conosciuto. Pazzesco. Il cinema in treddì aveva fatto passi da gigante. Gli sembrava quasi di poter toccare il volto di Harrison Ford che arrivava direttamente dal passato con quella sua smorfia da canaglia, in una delle sequenze conclusive più iconiche della cinematografia di fantascienza.

E poi quel volto prese a sfigurarsi fino a diventare più familiare di quanto si fosse mai aspettato…

“Agente Coulson.”

“Ha cambiato idea, signor Barton?”

“Solo se la smetti di darmi del lei.”

“E questo è il tizio che dovrei allenare?”

Capelli biondi, sguardo sfrontato. Il viso di Coulson si era sfaldato per lasciar trasparire i lineamenti di una delle donne più irritanti che avesse mai conosciuto.

“E’ un po’ che stiamo insieme, Bobbi…”

“Cos’è, un modo carino per dirmi che vorresti lasciami?”

“In realtà vorrei sposarti.”

Rabbrividì di nuovo. E le mani, che stringevano un anello troppo piccolo per essere davvero prezioso, adesso sfogliavano le pagine di un pesante fascicolo dello SHIELD.

“La chiamano Vedova Nera.”

“Vedova Nera, ma che razza di nome è?”

“Non è il mio nome.”

Alzò lo sguardo e Natasha lo stava guardando, un misto di divertimento e malizia.

Le sorrise di rimando, prima di trovarsi a stringere le dita su una chiave.

“Questa te l’ho regalata… perché me la restituisci?”

“Non sono sicura che potremo tornarci insieme, sai?”

“Che significa?”

“Che non sono sicura che potremo tornarci insieme… vivi.”

Una risata strana prese vita dalla sua gola, prima di rendersi conto che quel gelo no, non se ne era ancora andato.

Il volto di Natasha divenne quello di un clown dalla pelle grigia, prima che gli occhi pallidi, riconoscibili di Barney non gli si puntassero addosso.

“Niente è come sembra”, disse. E d’improvviso fu come se tutto l’ossigeno che aveva scordato di respirare in quel lasso di tempo venisse spinto a forza nei suoi polmoni, fino a farglieli bruciare.

La nebbia che lo aveva avvolto fino a quel momento prese a diradarsi. E l’oscurità lo inghiottì, non appena gli sembrò di aprire le palpebre.

 

L’oscurità e le luci intermittenti di un numero indefinito di macchine e terminali.

Era vivo. Dopotutto era vivo. O almeno così gli parve.

La testa era solo un agglomerato di dolore sordo e diffuso.

Ci mise qualche secondo per ricordare dove fosse e cosa stesse facendo. Solo un istante per ricordare l’improvvisa follia di Barnes, i messaggi confusi che era solo riuscito ad intuire prima che gli sparasse… in testa.

Si tastò tentativamente la fronte, trovando immediatamente l’anomalia.

Il proiettile doveva essersi incastrato fra le lamine rinforzate del suo apparato bionico. Non era sicuro di voler sapere in che razza di condizioni fosse la sua faccia in quel momento. Per la prima volta dacché aveva perso l’udito – qualcosa come triliardi di anni prima – si trovò a benedire l’insperata fortuna di un tale marchingegno tecnologico. Il fatto che probabilmente lo avesse compromesso per sempre… fu un pensiero di poco conto.

Si rimise a sedere solo per realizzare che di corpi a terra ce ne erano due: uno, quello di Barnes steso al suolo e l’altro quello di Natasha, seduta accanto al primo e mantenuta in quella posizione da una forza sconosciuta. Non riconobbe in lei alcun segno vigile. Le palpebre erano semi aperte, ma lo sguardo sembrava spento, fisso.

Mentre di Barney… no di Barney non c’era traccia alcuna.

“N-Natasha…” biascicò, rendendosi conto di avere serie difficoltà ad articolare le parole. Il proiettile non gli era finito nel cervello, ma doveva aver infiammato qualche terminazione nervosa.

Il formicolio nella parte destra del viso gli suggerì che doveva essere così.

Cercò di rimettersi in piedi, provando a raggiungere il corpo esausto di Natasha.

Strisciò sui gomiti, nel tentativo di riportare attivi i muscoli, ma finì per raggiungerla in quelle condizioni, aggrappandosi a lei per rimettersi dritto e poterla scuotere.

“Nat… Natasha!” esclamò con tutta l’enfasi che riuscì a metterci, prima di vederla sussultare, come scossa da un brivido e voltare lentamente la testa nella sua direzione.

“Clint”, esalò in parte incredula, in parte esausta, distrutta. Il dolore vivo sul suo viso e nel suo sguardo.

La vide sgranare gli occhi prima di gettarsi su di lui, e stringere la presa. Non aveva bisogno dell’udito per comprendere che gli stava dicendo qualcosa, che non la smetteva di dire qualcosa.

Ma Clint non capiva, avrebbe almeno voluto leggerle le labbra ma, così stretto come lo teneva, non riusciva a recepire altro che il suo fiato caldo sul collo.

“Natasha… a-abbiamo ancora una cosa da fare.”

La sentì annuire, scostarsi di malavoglia, gli occhi atterriti, ma con la volontà evidente di recuperare il controllo.

“Mi ha spezzato la mano…” gli sembrò di leggerle sulle labbra. Abbassò lo sguardo solo per constatare lo stato di quelle dita ora piegate innaturalmente ad artiglio. Poteva percepire il tremolio delle sue membra; cercò di non pensare che la sua Natasha avesse appena fatto a pezzi un uomo, con quelle sue mani. E sperò che lei riuscisse a superare momentaneamente quell’attimo di puro shock per smuovere quell’assurda situazione.

“Dimmi cosa devo fare, Nat”, la guardò dritta negli occhi, spronandola a mantenere viva la concentrazione, “la f-finiamo insieme questa storia.”

“E… Barney?”

“Barney è l’ultimo dei nostri problemi in questo momento.”

La vide annuire e provare ad alzarsi. Il dolore le contrasse il viso ancora una volta, mentre la mano ormai distrutta andava a coprire lo stomaco come vi fosse annidato un dolore incontenibile.

Nonostante questo gli allungò il braccio bionico affinché ci si aggrappasse e lo aiutò a rimettersi in piedi. A raggiungere il terminale, a sostenerlo, nonostante tutto.

“Un passo alla volta, Natasha. Lo sai che io con questa roba… ho sempre voluto averci poco a che fare.”

La donna annuì una sola volta e cominciò a dargli istruzioni.

 

*

 

Kate era sicura di non aver mai assistito a un macello simile.

Sì, d’accordo, solo tre anni prima erano passate per televisione le immagini del disastro dell’Expo, ma erano, appunto, solo immagini, filtrate dai cristalli liquidi di un mega schermo.

Era ancora un’universitaria piuttosto indecisa su quello che avrebbe voluto fare della sua vita. Combattuta tra il prendere una dannata laurea in economia e seguire le orme di suo padre o… seguire il cuore e le aspirazioni personali che la portavano a saltare le lezioni per andare a tirare con l’arco in quello sgangherato poligono di tiro ai limiti della città.

Era lì che aveva conosciuto Clint Barton. Lì che Clint Barton le aveva detto di prenderla sì, quella cazzo di laurea in economia e poi di tornare… per capire che farne, non necessariamente per seguire le orme di un padre dall’impero corrotto.

Barton. Quel maledetto Barton. Imprigionato, esattamente come tre anni prima, in quella diabolica trappola di cristallo e cemento. E, esattamente come tre anni prima, si trovò ad osservare il palazzo ormai in fiamme, con lo stomaco che si divertiva a ballare il mambo con la sua cena.

Eppure esserci in mezzo, stavolta, era totalmente diverso. Non c’era tempo per provare il brivido della paura, quello della compassione o del dolore.

Il suo sguardo, i suoi sensi, si limitavano a registrare gli eventi, a conservarli, forse per una memoria futura.

Mentre tutt’intorno polizia e forze dell’ordine cercavano di contenere quell’orrore urbano.

Cyborg di ultima generazione e tubolari della polizia. Polizia in divisa antisommossa e militari a tenere il più lontano possibile i civili dall’occhio del ciclone.

I vigilanti (o così almeno le era parso di capire li chiamasse Stark) davano il loro contributo; su tutti, il maestoso Capitan America dirigeva le operazioni di evacuazione dei vigili del fuoco con ammirevole freddezza e dedizione.

Lo stesso Capitan America di cui aveva letto sui libri di storia.

Praticamente una leggenda vivente che combatteva al fianco di robot e polizia, senza che nessuno avesse la più pallida idea di chi lo avesse autorizzato – non che qualcuno si fosse posto il problema di allontanarlo o, alla peggio, arrestarlo per questo.

“Ragazzina, tira dentro la testa se non vuoi fare la fine di Maria Antonietta e tutti i suoi più spregevoli sudditi!” la voce di Stark la richiamò dentro al furgone, ma Kate era già a un passo dall’uscire perché il suo sguardo era finito oltre. Oltre la cortina di fumo, oltre le scie di civili in fuga, lontano dalle vie principali della città. A individuare un agente colpito, impossibilitato a muovere un solo passo verso la salvezza.

“Ehi! Bishop! Bishop, torna indietro!” la voce dell’uomo era ormai troppo lontana. Kate si tenne rasente al muro di uno dei palazzi adiacenti. Erano solo cento metri, poteva farcela, poteva aiutarlo.

Si precipitò a testa bassa per evitare detriti e lanci di proiettili, finché non ebbe raggiunto la donna che aveva riconosciuto ancora prima di capire che stava andando a soccorrere proprio lei.

“Agente Morse!” esclamò.

“K-Kate?”

“Ti sembra il caso di restartene qui sdraiata in mezzo la strada, a riposare?” disse, raggiungendola, rendendosi conto che doveva avere una gamba rotta… oltre a una vistosa fasciatura al braccio.

“S-sai com’è… non riesco a dire di no a un comodo t-tappeto di cemento.”

Kate fece leva sotto le braccia, aiutandola a rimettersi in piedi.

“Non faccio fatica a capire perché tu e quel deficiente di Barton eravate sposati.”

“Perché siamo una coppia da copertina?”

“No, perché avete un umorismo di merda.”

La donna si lasciò sfuggire un gemito ma non accennò una sola lamentela mentre veniva trascinata via.

“Clint è ancora là dentro, vero?” la sentì domandare, mentre si avvicinavano sempre più al furgone di Stark.

“Già… quando si parla di ottime idee…”

“Siamo stati allertati della sua presenza da un avviso della polizia… arriviamo qui… e il palazzo era in fiamme e sputava orde di robot assassini…”

“Non puoi dire che Barton sia una persona con cui ci si annoia.”

“La cosa peggiore è che non l’ho mai… detto.”

Kate aprì la portiera laterale del furgoncino, aiutando l’agente Morse a salire.

“Bishop! Ma che cazzo! Ti pare un’ambulanza questa?”

“Sta' zitto, Stark.”

“S-Stark?” Bobbi alzò la testa appena in tempo per rendersi conto che il viso che stava osservando non era altri che quello del compianto milionario.

“In carne… abbrustolita e ossa?”

Kate frenò una sequela di domande che era certa la Morse non si sarebbe risparmiata. I guai legali di quella nuova scoperta non erano niente a confronto con quello che stava succedendo là fuori.

“Le domande a dopo…. dobbiamo andarcene da qui.”

“Se tu non te ne fossi uscita in gita di piacere, ce ne saremmo andati da un pezzo.”

Il motore fremette per un istante, prima che qualcosa di enorme non esplodesse sul parabrezza, facendo sobbalzare l’intero furgone.

“Che cazzo sta succedendo?” strillò la Jones al volante, ritrovandosi intrappolata da un air-bag di cui non sapeva nemmeno il furgone fosse dotato.

Stark era rimasto pietrificato ad osservare la scena, mentre Kate, sporgendosi, riusciva ad individuare un cyborg spiaccicato come un moscerino sul parabrezza ormai distrutto.

Seguirono altri rumori, tonfi attutiti più o meno vicini al punto in cui si erano fermati.

Kate tornò a riaprire la portiera laterale del furgone.

Al di là di una cortina di polvere e fumo, di pioggia sporca e proiettili, corpi di cyborg crollavano al suolo uno dopo l’altro come un nugolo di mosche colpite dalla folgore.

La guerriglia cominciava a quietarsi, a spegnersi, attonita di fronte all'inatteso spettacolo, mentre gli invincibili avversari crollavano, uno dopo l’altro, disattivati da una forza sconosciuta.

Lo sguardo corse allora oltre la strada, oltre la piazza, oltre gli sbarramenti di tubolari robotici, e su per i piani del palazzo in fiamme, su, fino a raggiungere le cima dell’inferno di vetri infranti, cuore pulsante di quel disastro annunciato.

E l’unica certezza che Kate ebbe in quel preciso istante… fu che Barton era ancora vivo.

 

*

 

Lo schermo emise un rumore inaspettato. E poi si spense.

Clint fu improvvisamente certo che era finita. In un modo o nell’altro… finita.

Natasha al suo fianco lo lasciò andare, crollando a terra, lasciandosi finalmente vincere dallo sfinimento. E lui non fu da meno nel seguirla lì, sul pavimento lucido in cui si riflettevano tutte le luci a intermittenza di quella sala buia.

“Non avremmo potuto fare più di così”, mormorò solo, indeciso se gridarlo o se perdersi nel silenzio catartico di quel preciso istante.

Era esausto. Ed era sicuro che non sarebbe riuscito a trascinarsi fuori da quel posto. Così come non ci sarebbe riuscita Natasha. Non poteva avvertire che il rumore delle esplosioni tutt’intorno si era quietato, non il crepitio del fuoco che divampava in un po’ tutte le aree del palazzo. Ma poteva vedere il fumo, quel fumo denso, oscuro che aveva preso a filtrare dai bocchettoni d’aria della stanza.

Contrariamente a qualsiasi buon senso non ne fu spaventato.

Erano riusciti a fermare i cyborg. Erano riusciti a chiudere il programma. A inviare, secondo richiesta di Natasha tutte le informazioni riguardanti il progetto a Stark, e sì, non avrebbero potuto fare più di così… letteralmente, non più di così.

Sentì il capo di Natasha poggiare sulla sua spalla, andò a cercare la sua mano, che si serrò attorno alla sua, di rimando.

Avrebbero aspettato.

Insieme. Qualsiasi cosa. Esattamente come l’ultima volta.

“Mi spiace di non averti cercato… in questi tre anni”, le disse, forse per svuotarsi la coscienza, o forse solo perché lo sentiva ancora, quel peso. Il peso di tutte le cose che si era perso in tre anni. Tutta la solitudine a cui l’aveva costretta, in tre anni. A quella in cui lui stesso si era obbligato a trincerarsi.

Di rimando sentì solo la presa alla sua mano farsi più forte; non gli ci volle uno sforzo per capire che Natasha non gli rimproverava un bel niente. Non più almeno.

Avrebbe voluto dirle altro. Rassicurarla che se anche là fuori fossero venuti a conoscenza del progetto Lazarus l’avrebbe tenuta al sicuro, l’avrebbe aiutata a sparire. Avrebbe voluto dare sfogo alle parole che non era riuscito a dirle sul tetto del palazzo solo qualche ora prima. Quando ancora non avevano idea di come si sarebbe conclusa quella storia.

Ma si limitò a restare in silenzio. A risparmiare il fiato, prima che la cortina di fumo nero non invadesse completamente la stanza.

Sentiva i sussulti del corpo di Natasha al suo fianco, sentì i suoi stessi polmoni collassare sotto la trappola mortale del fumo.
Strinse a sé la donna finché non ebbe più un solo briciolo di forza in corpo.

E poi si lasciò inghiottire dall’oblio.

 

*

 

C’era una luce.

Una cazzo di luce… alla fine del tunnel.

Era così che l’avevano sempre descritta, la fine.

Non ci aveva mai creduto ma… adesso sarebbe stato costretto a rivedere alcune delle sue convinzioni. Non che avesse poi molto importanza, ormai.

Da morto c’erano davvero cose che avevano ancora importanza?

La luce però era rassicurante.

Gli sembrava di sentirne il calore, sulla pelle.

Non faticò a credere a tutte quelle storie di gente che non riusciva proprio a distoglierne lo sguardo.

O di sentirsi un po’ come quelle cazzo di zanzare attratte dalla luce per poi venirne drammaticamente arrostite.

Perciò non si sottrasse a quell’influenza.

Ma di fatto era sicuro non si stesse muovendo. Solo quella luce diveniva sempre più intensa, sempre più materica, sempre più... somigliante a uno schiaffo in pieno viso.

“C-che cazzo... ?”

“Clint? Clint Barton, agente...”

La luce che lo stava accecando arrivava direttamente da una sottospecie di pila frontale.

Al di sotto della luce, il volto placido di Non-Jarvis ad osservarlo ad una distanza un po' troppo ravvicinata per i suoi gusti.

Represse un grido di stupore, prima che il cyborg si scostasse per dargli il tempo di respirare in modo decente.

“C-cosa? Che diavolo? Non sono…”

“Morto?”

Annuì, come a ricevere una conferma.

Il cyborg scosse la testa, prima di alzare lo sguardo sulla pioggia fitta che aveva preso a cadere all’interno dei locali.

“Meno male, s-sarebbe stata la terza volta nel giro di tre giorni.”

“L’impianto antincendio non ci tirerà fuori da qui, Clint Barton”, il cyborg non parve cogliere l’ironia, “credo dovremmo muoverci. E temo dovrai di nuovo affidarti alle mie… prestazioni.”

“Visione… un giorno parleremo in modo serio sul modo in cui ti esprimi” e poi di nuovo, “c-come hai fatto a trovarci?”

“Il signor Barton.”

“Il signor…”

“Tuo fratello. Credo. E’ sbucato dal tetto, mi ha suggerito dove trovarvi. A patto che lo aiutassi a scappare.”

“E t-tu lo hai… f-fatto?”

“Perché non avrei dovuto?”

Già, perché non avrebbe dovuto? Il bene e il male, il giusto e lo sbagliato. Barney avrebbe potuto ignorarli. O avrebbe potuto suggerire a Visione di farli fuori, per quello che ne poteva sapere… ed invece. Quanta umanità era rimasta… nel corpo di Barney?

Si ripromise di approfondire i dettagli di quell’evento in un altro momento. C’erano cose un po’ più urgenti da fare, adesso.

Fece per accettare la sua offerta a rimettersi in piedi, quando si rese conto che la propria mano era ancora stretta attorno a quella di Natasha. Rigida e fredda.

“Non respira da un po’”, sentì dire alla voce placida del cyborg, mentre una glaciale consapevolezza gli scendeva nello stomaco.

“Portaci lontano da qui, Visione”, furono le ultime parole che disse.

 

*

 

Note:

Eeeeeeee, fine! Questo era ufficialmente l’ultimo capitolo della storia. Ma non temete, manca l’epilogo. Che verrà pubblicato la prossima settimana. Questo finale necessita di qualche spiegazione. E… anche se di regola odio gli spiegoni… stavolta avremo un finale degno.

Spero.

Con questo al solito rimando i ringraziamenti finali nell’epilogo, stavolta come sempre però ringrazio tutti quelli che leggono e commentano. La mia socia e beta Sere, come sempre in prima fila e… alla prossima settimana!

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Capitolo 19
*** Epilogo ***


EPILOGO

 

 

Una gloriosa giornata di sole.

Di quelle che non si vedevano da anni, nella città di New York. Le strade erano ancora umide, ma le nubi si erano diradate quella mattina, lasciando intravedere spicchi di un cielo indaco che credeva ormai archiviato.

Central Park non era mai stata tanto bella. O popolata. Orde di bambini si rincorrevano lungo il viale mentre una piccola folla si era ormai stabilmente assiepata di fronte al palco allestito per le celebrazioni della giornata. Volevano fare le cose in grande. Senza mettere in conto che con una giornata così… chi mai avrebbe voluto assistere ad una cerimonia d’assegnazione di riconoscimenti e medaglie? A quanto pareva, l’affitto delle barche giù al lago aveva fatto il botto.

Clint stabilì che il sole caldo sulle spalle era una sensazione nuova; si chiese quando fosse stata l’ultima volta che si era sentito riscaldare da un simile tepore.

Di certo non sorseggiando quel terribile caffè che sapeva di sabbia. Lo stesso che Coulson era solito offrirgli quando c’era un nuovo caso all’orizzonte. Lo stesso che, nonostante tutto, non rifiutava mai.

“Ehi, Batman.” Non dovette nemmeno voltarsi per capire che Kate Bishop lo aveva trovato. La mocciosa aveva un formidabile sesto senso, quando si trattava di lui.

“Speravo che le bandierine colorate e gli striscioni fossero sufficienti a tenerti occupata per un po’.”

“… disse quello che teneva in mano un bastoncino di zucchero colorato.”

“Io non ho in mano…” ma prima che potesse finire la frase Kate gli aveva allungato l’oggetto del peccato zuccherino.

“So che ti piacciono tanto.”

“Che gesto carino… lo devo a qualcosa o… ?”

“Ne regalavano tanti, là sotto.” Sminuì il gesto, indicando un paio di bancarelle in prossimità del palco.

Clint non disse altro, e infilò il bastoncino di zucchero nella tasca della camicia. Gli faceva strano non indossare più nemmeno la giacca. La primavera era esplosa in modo del tutto inaspettato. Si chiese se non fosse il caso di dare una rinfrescata al suo triste guardaroba.

“Il fatto che tu te ne stia in disparte e ti sia fatto crescere quel cespuglio sulla faccia… mi dice che non hai intenzione di partecipare… alla festa.” Gli chiese Kate, allungando una mano per tirare quella novità di barba biondo cenere che sembrava necessitare di un po’ più di cure.

L’uomo le scacciò la mano di malagrazia, appoggiandosi con i gomiti al parapetto del ponticello da cui si stava godendo lo spettacolo a distanza. Una piccola orchestrina, ingaggiata per l’occasione, prese a suonare qualcosa di allegro all’arrivo del sindaco. I flash dei fotografi fecero il resto. Gli sembrò di assistere a qualcosa di assurdamente antico, anacronistico. La sensazione però era piacevole. Con tutto quello che era successo con la tecnologia, in quegli ultimi mesi… in quegli ultimi anni, un po’ di sana atmosfera vintage non la disdegnava per niente.

“Per quale motivo dovrei andarci?” domandò allora, prendendo coscienza del fatto che non era più tanto sicuro di appartenere ancora a quella realtà.

“Per ricevere un ornamento di pregevole fattura? Una medaglia dal dipartimento di polizia… non è una cosa che succede tutti i giorni.”

“Grazie al cielo.”

“Il tuo cinismo mi uccide, Barton.”

“Mica tanto. Sei ancora qui.”

“Ehi… non fosse stato perché sembravi un povero rapace depresso sul pontile, adesso sarei in prima fila, davanti al palco.”

“Non sono depresso. E tu puoi ancora andare a goderti lo spettacolo.”

“Dovresti venire con me, Clint.” La voce di Kate si era incupita, e Clint avrebbe saputo dire con certezza che razza di espressione aveva dipinta in viso. Ma non la guardò. Sapeva che si stava preoccupando per lui, ma le sue richieste erano qualcosa che non voleva assecondare.

Finì dunque il suo caffè che sapeva di sabbia e si sbarazzò del bicchiere vuoto, passandolo a Kate, prima di cominciare ad allontanarsi.

“Ehi! Ma ti pare il modo! Per cosa mi hai preso, la tua raccolta differenziata?”

“Ci vediamo Katie…”

“E non chiamarmi Katie, razza di idiota!”

“Anche io ti voglio bene, Katie!”

I passi che avevano preso a seguirlo si arrestarono: “Io no!” gli gridò, ma riuscì a percepire un sorriso represso nel suo tono di voce.

“Quando ci rivediamo?”

Clint rallentò appena, prima di voltarsi e camminare al contrario, il tempo di vederla allargare le braccia, in attesa.

“Quando vuoi. L’indirizzo lo conosci.” Si preoccupò di non gridarlo, sapeva che Kate aveva capito comunque.

“Allora non aspetto un invito.”

Si portò due dita alla fronte e la congedò con un secco saluto militare.

Aveva mai avuto bisogno di un invito comunque?

Si trovò a sorridere e superare un gruppo di chiassosi adolescenti. Aveva adempiuto al suo dovere. Stark gli aveva espressamente chiesto di presenziare alla cerimonia e così aveva fatto. In parte. E da lontano. Ma l’importante ero l’intento, dopotutto.

Non si rammaricò di non averlo incrociato. Aveva frequentato Stark fin troppo assiduamente, in quegli ultimi mesi, per i suoi gusti.

Mesi difficili e piuttosto frenetici.

Dal giorno del rilascio dei cyborg assassini erano successe molte cose.

La sua vita, da sempre piuttosto solitaria e riservata, si era trasformata in un vortice di burocrazia, interventi chirurgici, funerali, interrogatori, processi e conferenze stampa.

Nonostante tutto, stavolta fu felice di avere la possibilità di ricordare ogni cosa.

Stark e quel che restava dello SHIELD risultarono scagionati da tutti i capi d’accusa. Grazie ai file presenti nel microchip impiantato nel suo cervello e i file che erano riusciti a recuperare del computer centrale della Robotics Inc. il governo aveva ammesso l’esistenza dell’Hydra e preso coscienza del progetto Lazarus che venne congelato e relegato a qualche dipartimento segreto del caso. Contro ogni pronostico, nessuno si era accanito sulla mera esistenza di Steve Rogers. Per quel che ne sapeva, il Capitano era stato inserito in un programma specifico di reintegro e protezione. Probabilmente avrebbe continuato la sua personale missione fra le file di qualche organizzazione governativa. Peggy si sarebbe comunque presa cura di lui.

Bucky Barnes era morto davvero quel giorno. Ma il cadavere non fu mai trovato. Clint si era solo preoccupato di comunicare i fatti a chi di dovere. Rogers si occupò personalmente dell’intera faccenda. In che modo… non era più affar suo.

Mentre di Barney… di suo fratello Barney, Clint non aveva più avuto notizia. Stark aveva dato fondo a tutte le sue risorse per ritrovarlo, ma l’uomo sembrava essersi volatilizzato.

In un certo senso la notizia consolò Clint più di quanto avrebbe dovuto preoccuparlo. Libero dai vincoli dell’Hydra, Barney avrebbe potuto andare ovunque… essere chiunque. Sperò solo che fosse pronto, stavolta, ad affrontare quello che la vita gli offriva. Una seconda chance.

Se mai fosse arrivato il giorno di un vero e definitivo confronto, Clint sarebbe stato pronto.

Mentre per quanto riguardava la sua vita…

“Clint.”

Aveva già messo mano alle chiavi della macchina, quando vide comparire una sagoma fin troppo conosciuta.

“Barbara…”

La donna venne verso di lui, vestita nel suo miglior completo da cerimonia. Elegante e austera… come sempre.

“Sapevo che ti saresti defilato.”

“No, ti sbagli…” la contraddisse, “non mi sono defilato. Non ci sono proprio stato.”

“Guardavi da lontano. Non ti conoscessi...”

“Bè, dopotutto lo sai che…”

“Vedi meglio da una certa distanza”, completò per lui la frase, sorridendogli.

Il volto di Bobbi era disteso. Dovette fare un calcolo mentale per ricordare quando era stata l’ultima volta che lo aveva guardato così.

Forse provava pena per lui. Patetico come cercasse sempre di sminuire anche il più piccolo briciolo di simpatia nei suoi confronti.

“Stai partendo?” doveva aver notato lo stato del suo bagagliaio. Zeppo di scatole e borsoni. La macchina di uno sfollato… non si poteva certo dire che stesse cercando di mettere ordine nella sua vita o di nascondere la cosa.

“Sì, comincio a portare via un po’ di roba. Ti interessa un appartamento a Brooklyn, per caso?”

“Se ricordo lo stato del tuo appartamento… direi che sto bene dove sto”, confessò con il sarcasmo che finalmente seppe riconoscerle, prima di vederla avanzare di qualche passo, farsi singolarmente seria e porgergli una scatolina di velluto blu.

“Mi sono… permessa di ritirarla io…”

“Che cos’è?” le domandò, ma nel momento in cui si trovò in mano la scatola, non ebbe grossi dubbi a riguardo. Quando la aprì, la targhetta placcata in oro riportava il nome di Natasha Romanoff.

Sentì qualcosa di amaro risalirgli su per l’esofago, si prese del tempo per dire qualsiasi cosa, prima di annuire e richiudere la scatola per non essere costretto a guardare di nuovo la targa.

“Grazie.”

“E di che?” gli passò una mano sulla spalla, in un gesto di consolazione che ebbe solo l’effetto contrario.

Si sentì improvvisamente in colpa e si costrinse di rivolgerle un sorriso.

“Ho saputo che lo SHIELD ti ha chiesto di tornare, da quando hanno riaperto i battenti”, gli disse invece, forse per stemperare l’attenzione e deviare da argomenti scottanti.

Non che l’argomento SHIELD fosse meno scottante, ma almeno, in quel caso, non avrebbe avuto difficoltà a risponderle.

“Già, bè… ho chiuso con quella roba.”

“Credevo non ti avrei mai sentito dire una cosa del genere.”

“Se vuoi saperla tutta… nemmeno io.”

“Cosa farai adesso?”

Adesso che aveva risolto tutti i suoi guai? Adesso che la polizia e la città di New York erano disposti a offrirgli una seconda possibilità, che gli avevano riconosciuto persino una medaglia al valore. Poteva dirsi un’esistenza carica di scelte e opportunità allettanti ma…

“In tutta sincerità… non ne ho la più pallida idea.”

“Clint Barton, che rinuncia a una vita sul filo del rasoio.”

“Chi ti dice che io ci rinunci? Dopotutto un nuovo inizio…”

“Suona spaventoso.”

“Precisamente.”

Seppe in quell’istante che il momento del congedo era vicino. Non che si sentisse protagonista di un dramma cinematografico dove i protagonisti sono costretti a dirsi addio per sempre… ma per qualche assurda ragione si convinse che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe visto Bobbi.

Si sorprese persino di pensare che non gli sarebbe spiaciuto abbracciarla. Ma il momento arrivò e passò, così come gli era balenato nel cervello. Dopotutto avevano divorziato.

Non ci credeva granché, nelle riconciliazioni melense. E poi Bobbi era una stronza. Che diavolo.

“Allora ci si rivede”, le disse quindi, per non suonare troppo definitivo, per lasciarsi un ampio margine di rientro.

“Prima o poi…” gli rispose lei, lasciandogli lo spazio necessario per aprire la portiera dell’auto e montare in macchina.

“Porgi i miei saluti a Fury, se ti capita di incrociarlo.”

“Porgiglieli tu. Non ho intenzione di parlare con il vecchio più di quanto non voglia farlo tu.”

Le fece solo un cenno del capo, prima di accendere il motore. Quando partì sgasando appena, la salutò definitivamente con una strombettata di clacson.


*

 

La porta sul retro cigolava ancora come il giorno in cui aveva comprato quella catapecchia da quattro soldi nel New Jersey.

La casa aveva ancora bisogno di parecchie ristrutturazioni, ma Clint non sembrò preoccuparsi eccessivamente. I risparmi che si era preoccupato di accantonare per una vita gli sarebbero stati sufficienti per quello ed altro… almeno finché non avesse deciso di che farsene di tutto il tempo libero di cui avrebbe disposto da lì ai mesi a venire. O di cambiare di nuovo… Stato.

Aveva fatto bene a non sbarazzarsi di quel posto. L’unico vero investimento utile della sua vita. Il vicinato era silenzioso e discreto. Ed era abbastanza distante dalla città da potersi dichiarare in procinto di una sana e (forse) definitiva disintossicazione.

E poi il clima era migliore. O così gli sembrava di solito. Quella giornata era stata una grazia inattesa un po’ ovunque, sul territorio nazionale.

Lo volle considerare un regalo d’addio. O forse solo il clima che stava, di nuovo, impazzendo.

Trascinò dentro almeno uno scatolone.

Si passò una mano fra i capelli, spettinandoli abbastanza per assicurarsi che non mostrassero la cicatrice che lo costringeva a tenerli più lunghi di quanto fosse stato abituato. Si fermò al centro della stanza per osservare lo stato d’avanzamento dei lavori nel soggiorno.

Le pareti, imbiancate di fresco, trasudavano ancora l’odore delle vernici, e i teli sparsi su tutti i mobili rendevano la stanza principale un luogo infestato da candide sagome spettrali.

Non male come metafora per quel nuovo inizio che aveva preannunciato a Bobbi. Una parete bianca. Una stanza semi vuota. Tutta da arredare.

Patetico.

Probabilmente una birra gli avrebbe fatto tornare la ragione.

… o quell'abbraccio inaspettato che lo prese alle spalle.

“Sei tornato presto.”

“Bè, sai come funziona con queste cose: un discorso scritto da una tirocinante, un sindaco con le lacrime artificiali a portata di mano, un invito a comprare da Dunkin' Donuts e saluti finali.”

“Non ti ci sei nemmeno avvicinato, al palco, non è vero?”

Clint non poté fare altro che stringersi nelle spalle. Non era capace di mentirle. Anche perché lei era sempre in grado di scovarle, quelle sue patetiche menzogne.

“Ti avevo detto che sarei solo passato a vedere che aria tira da quelle parti.”

“Lo so… e che aria tira?”

Inspirò a fondò prima di pensare a una risposta decente.

“Di primavera?”

Lei gli massaggiò lo stomaco e gli baciò una spalla, prima di lasciarlo andare.

Clint sapeva che avrebbe voluto più informazioni, che la sera, quando tornava dalle sue incursioni in città, durante i mesi passati, sarebbe rimasta ad ascoltarlo per ore. Unico collegamento con quella che era stata la sua ultima, definitiva vita. Ma sapeva anche che non gli chiedeva niente perché Clint, quando si trattava di New York, provava sempre un ingiustificato senso di colpa. Per averla costretta a rinunciarvi, per averla aiutata a sparire per sempre. Lontana dagli occhi indiscreti della gente che la credeva morta per regalarle quell'esistenza anonima che le avrebbe permesso di vivere finalmente libera dai vincoli imposti da qualsiasi scienziato psicopatico o associazione che la voleva usare per i suoi scopi.

Natasha ora gli stava di fronte. I capelli, una volta lunghi e rosso cupo, erano adesso corti, giovanili e di un biondo luminoso e vitale.

Si trovò a guardare in quei suoi occhi verdi che invece non avrebbero potuto cambiare in un milione di anni. Quegli stessi occhi che ancora, dopo dieci anni, erano in grado di mettere in subbuglio ogni sua convinzione. Gli stessi occhi che sapevano scrutarlo ben più a fondo di quanto lui stesso si sarebbe mai spinto a indagare. E che adesso lo guardavano con un'ara di rimprovero e un muto ringraziamento che non aveva bisogno di essere espresso.

“Hai la faccia di uno che sta pensando a un sacco di stronzate, lo sai?” lo apostrofò senza ritegno.

Clint aveva scoperto che Natasha... era migliore di lui a stemperare le situazioni scomode. Migliore a fargli capire quanto fosse paranoico.

“Dimmi qualcosa che ancora non so”, le rispose allora.

“Ti amo.”

Migliore a spiazzarlo.

Migliore a dire le cose.

“Ma quello lo so.”

Non le rispose come avrebbe dovuto fare, ma concluse che, per una volta tanto, chiudere la storia con un bacio da favola non sarebbe stato poi così patetico.

 

Peccato che il campanello prese a suonare in modo insistente.

 

“Chi cazzo è adesso?” esclamò, prima di intravedere, fra le tende che davano sul vialetto flash di un maggiolone giallo e viola.

“Oh merda...”

“Che significa?” Natasha parve preoccupata per un istante, ma Clint sembrava solo infastidito e non ci volle molto a comprendere che non doveva esserlo nemmeno lei.

“Potrei, forse, aver detto... a Kate Bishop di venire... a farmi visita. Anche senza invito.”

“Davvero?”

“Sì, credo mi abbia preso alla... lettera.”

Natasha sembrò valutare la sua risposta. Nessuno sapeva che era viva a parte Stark. Che le aveva sistemato il braccio e l'aveva aiutata con le pratiche necessarie per stabilirne il finto... decesso.

Ma Kate era Kate, dopotutto.

“Va' ad aprirle la porta o non la smetterà più di rompere le palle.”

Natasha gli rivolse uno sguardo di pura gioia e si precipitò alla porta, senza guardarsi indietro.

Mentre il sole primaverile tornava a dare vita all'ingresso di quella casa vuota, si trovò a pensare che non era proprio quello il futuro che si era immaginato.

New York, la pioggia. Diceva di odiarle. Ma gli sarebbero mancate.

Gli sarebbe sempre mancata quella pioggia sporca.

Gli sarebbe mancato Coulson. O le visioni che la sua mente proiettava... di Coulson, negli anni delle incomprensibili amnesie. Gli sarebbe mancato il caffè che sapeva di sabbia, gli sarebbe mancato lo SHIELD. Gli sarebbe persino mancata quella faccia da cazzo di Stark.

Non era detto che non avrebbe mai più rivisto New York, o che non si sarebbe sempre e comunque sentito dentro, nelle ossa, quella sensazione di umida afflizione.

Sensazioni che sarebbero sempre state a portata di mano, nel caso fosse stato assalito da un acuto attacco di malinconia.

Inutile pensarci troppo.

Posò la targa con il nome di Natasha e il bastoncino di zucchero colorato su una mensola dell'ingresso, prima di raggiungere il luminoso porticato.

Fintanto che c'era il sole... tanto valeva goderselo.

 

Fine.

 

*

 

Note:

Ero quasi tentata di non scrivere note e prendermi silenziosamente tutti gli accidenti.

Ma non lo faccio perché è tradizione ringraziare tutti quelli che mi hanno seguita fino a qui. E chi non ci è arrivato... lo ringrazio comunque, perché sono felice che si siano almeno interessati alla storia. Una storia che ho cominciato con l'intenzione di finire in pochi capitoli, ma che poi mi ha presa più di quanto immaginassi. Una storia che si è trasformata e che ha subito più colpi di scena di quanti io stessa avessi preventivato. Tirando le somme, sono soddisfatta. In fondo la fantascienza mi è sempre piaciuta. Non sono una maestra del genere, ma che dire, tentar non nuoce. E poi, diciamola tutta, non mi sono nemmeno sbilanciata troppo.

Spero di aver soddisfatto le aspettative, e se così non fosse, mi scuso.

Passiamo ai ringraziamenti, menzione speciale a Ragdoll_Cat, che è sempre presente e commenta sempre (hai una costanza e una pazienza senza pari, se fossi giovine ti scriverei l'orribile: ti lovvo, ma sono anziana e ti dico solo: Grazie. Che poi è la cosa migliore), alla mia impareggiabile socia e beta Hermione_Weasley, perché se lei non ci fosse, bisognerebbe inventarla. Oggi viaggio per luoghi comuni, ma per me comune non lo sei per niente. Grazie per il sostegno, il fangileggiamento e tutte cose. I nostri scambi sono sempre stimolanti, in qualsiasi contesto e soprattutto in quello del fandom che, manco a dirlo, portano sempre a buone ispirazioni. E se non sono buone sono stupide e fanno ridere, ma ridere fa bene al cuore, un po' meno alle rughe... spero che a seppellirci sarà una risata e non l'MCU.

Poi ringrazio: hikaru90, Zoe_79, Fireslot, jodie_always, Hamartia, blue_sun23... e basta, credo. Ovviamente ringrazio anche tutti i lettori silenti la fuori, fatevi vivi, se volete, mi farebbe piacere sentire la vostra voce.

Con questa vi saluto. Non so esattamente quando mi rifarò viva. Qualcosa bolle (un, deux. trois, plié) in pentola, ma non so quando vedrà effettivamente la luce, su questi schermi. Tanto abbiamo Civil War da aspettare.
Insomma, grazie a tutti e ci si risente, prima o poi.

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