Vieni con Me di Celtica (/viewuser.php?uid=833314)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Vieni con me... ***
Capitolo 2: *** La strada nel bosco ***
Capitolo 3: *** Niente è più lo stesso da quando ci sei ***
Capitolo 4: *** La casa nel bosco ***
Capitolo 5: *** Il matrimonio ***
Capitolo 6: *** La fuga ***
Capitolo 7: *** Sandor Clegane ***
Capitolo 8: *** La casa ***
Capitolo 9: *** A piedi nudi ***
Capitolo 10: *** Era rimasta a guardare ***
Capitolo 11: *** Muro di ghiaccio ***
Capitolo 12: *** Un segreto ***
Capitolo 13: *** Incontri ***
Capitolo 14: *** Neve ***
Capitolo 15: *** Legami ***
Capitolo 16: *** Come una candela ***
Capitolo 17: *** Londra ***
Capitolo 18: *** Di rosso ***
Capitolo 19: *** Io non sono così ***
Capitolo 20: *** Arya Stark ***
Capitolo 21: *** Acqua e Sale ***
Capitolo 22: *** Di nuovo a Casa ***
Capitolo 23: *** So quello che avete Fatto ***
Capitolo 24: *** È solo nebbia ***
Capitolo 25: *** "Vattene" ***
Capitolo 26: *** Per lei ***
Capitolo 27: *** Uccellino ***
Capitolo 1 *** Vieni con me... ***
Vieni con me...
Questa
storia è nata come OS grazie a un prompt di Relie Diadamat
nella
pagina facebook Il Giardino di
Efp.
I
primi tre capitoli sono da considerarsi come uno solo.
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Trailer
Vieni con Me
a porta di casa
sembra l’unica cosa
che ha davanti.
Sansa corre fuori, fuggendo dalle
grida di Joffrey, dalle sue mani che, con violenza, si sono strette
intorno
alla sua gola. Non riesce più a pensare a lui, non riesce a
capire come possa
essersene innamorata.
Quelle labbra che tanto aveva
desiderato le ricordano tanto i vermi, adesso.
Corre lungo le
scale, corre per
arrivare fuori, sotto il cielo plumbeo, coprendosi il viso con le mani,
mentre lacrime salate le rigano il volto. Percorre il
marciapiede nel viale
alberato,
chiedendosi cosa le farà Joffrey quando riuscirà
a raggiungerla… Quando lo
incontrerà ancora.
Sansa sta
tremando.
È
primavera, eppure lei trema come
una foglia d’autunno, ormai pronta a cadere. Anche Sansa si
sente così… Sa di
essere perduta. Se Joffrey la mandasse via non saprebbe dove andare,
non
avrebbe più un posto, una casa…
Non ha più nessuno nella sua vita.
È
mentre si stringe i fianchi che
l’auto si ferma.
Sansa la
riconosce subito: è la
vecchia ford di un amico di
sua madre.
Sono anni che non lo vede, ne è sicura. I pugni
chiusi corrono ad
asciugare le lacrime; lei spera che Petyr non si accorga del suo stato.
Dipinge un falso sorriso sul volto
prima di cercare il suo viso: è esattamente come lo
ricordava, i lineamenti
taglienti, il sorriso beffardo, quello sguardo che sembra spogliarle
l’anima.
«Sansa»
è il suo esordio dopo aver
abbassato il finestrino, mentre la fissa negli occhi. «Hai
bisogno di un
passaggio?»
Lei abbassa il
mento, come a
rispondere di sì, ma non osa pronunciare
quell’unica sillaba. Sa che salire
comporterà dei problemi con Joffrey, problemi che non ha
nessuna voglia di
affrontare.
«Vieni
con me» dice Petyr, facendole
segno di salire in macchina.
Sansa non sa
perché, ma obbedisce. È
ciò che ha fatto per tutta la vita: obbedire. Sempre e
comunque.
Si sistema sul sedile del passeggero
e tiene la testa china.
Vede la mano di Petyr abbassare il freno a
mano, sente
il motore rombare mentre l’auto comincia a muoversi, ma i
suoi occhi rimangono
inchiodati sui pantaloni di tela bianchi. Li stringe con le dita,
sembra
graffiarli mentre una lacrima torna a solcarle la guancia.
Percorrono poca
strada, una strada
oscurata dalle nubi e dagli alberi folti, quando Petyr si ferma per
accostare.
Sansa sente il cuore a mille in quel
momento.
Cosa succede? Perché si è fermato?
Non sa cosa pensare, non sa cosa aspettarsi da lui. Ma è
Petyr e, anche se lei
sa che è sbagliato, sente nascere un barlume di fiducia.
Volta appena il
capo, cercando i suoi
occhi.
Occhi magnetici,
occhi che la scrutano dietro un velo di desiderio. Sansa riesce a
sentirlo.
Resta immobile a guardarlo, mentre la mano di lui vola verso il suo
viso,
afferrandole il mento.
Sansa pensa che
presto la bacerà,
pensa di non riuscire a divincolarsi.
Finché l’espressione di Petyr non
cambia…
Sente le dita
percorrere la guancia e
socchiude gli occhi: è dove Joffrey l’ha colpita,
poco prima che fuggisse di
casa. Fa male.
E fa ancora più male che Petyr l’abbia
notato.
«Perché?»
chiede soltanto,
percorrendo quel tratto di pelle ricoperto di lividi.
È un
tocco caldo, proprio come il
calore di cui Sansa sente la mancanza. È lieve, delicato,
come una musica
suadente.
Sansa frena un singhiozzo, non vuole
piangere davanti a lui, ma sente che sta per accadere. Scuote la testa,
come a
dire che il motivo non c’è, che Joffrey lo fa per
puro gusto di picchiarla.
Lo vede avvicinarsi tanto da
sfiorarla. Sente le sue labbra sulla guancia, mentre soffia quelle
ultime,
intriganti, parole.
«Non
tornerai più in quella casa.»
È
sulle sue labbra che termina.
«Penserò
io a te…»
E Sansa resta immobile, pensando che
forse, ormai, Joffrey è solo un lontano ricordo.
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Capitolo 2 *** La strada nel bosco ***
vieni con me - capitolo 2
Era
da tempo che volevo continuare
questa storia.
Con un prompt del gruppo Il Giardino di Efp ho l’occasione per farlo. Ma sappiate
che non è ancora finita!
Grazie a tutti quelli che
leggeranno.
La
Strada nel Bosco
Da quando
l’auto ha ripreso la
marcia, Sansa è rimasta a quanto accaduto prima con Petyr.
Al suo modo di sfiorarle la guancia,
proprio lì dove Joffrey l’aveva colpita, alle
labbra di lui che, come nella più
tenera delle carezze, si erano soffermate su quel punto dolente.
Si chiede se sia vero: non dovrà più
tornare in quella casa? Petyr la porterà lontano, la
proteggerà, si prenderà
cura di lei?
Come ad aver letto i suoi pensieri, Petyr
volta il capo, giusto un istante, il tempo che serve perché
quelle parole
abbiano effetto.
«Fidati
di me.»
Lei osserva le
sue mani sul volante,
mani che non hanno mai svolto lavori pesanti, mani dalla pelle liscia e
dal tocco
morbido. È come se Petyr si prendesse molta cura di loro, e
a Sansa viene
naturale chiedersi se farà lo stesso con lei.
Non ricorda niente di cosa faccia,
niente di come viva. Non sa nemmeno se sia sposato.
Non si accorge che l’auto ha svoltato
per uscire dalla città. Se ne rende conto troppo tardi,
quando riconosce i
campi di grano e, in lontananza, il bosco che dà sul lago.
Ha di nuovo paura.
«Dove
mi stai portando?»
È un sussurro, ma a lei sembra di
averlo gridato.
Si chiede cosa ci sia oltre gli alberi,
magari un luogo nascosto dove Petyr vuole farle del male.
Perché, se c’è una cosa che Sansa ha
imparato sugli uomini, è che provano piacere a provocare
dolore, a terrorizzare
le persone, a prendersi gioco delle ragazzine ingenue.
Proprio come lei.
«Ferma
la macchina» ordina Sansa,
posando la mano sulla maniglia. «Voglio scendere.»
Uno strano sorriso si forma sul volto
di Petyr, come se non capisse, come se lei avesse appena detto una
pazzia.
«Ma, Sansa…»
«Niente Sansa» dice lei, la voce resa
acuta dal tremore. «Fermati. Adesso!»
E Petyr
obbedisce.
L’auto si ferma in prossimità del
bosco, nel punto dove luce e ombra sembrano rincorrersi, unendosi nel
loro
gioco d’amore. E un soffio di vento, quello che sembra
spingerla a non
allontanarsi, percuote le cime degli alberi, facendole tremare.
Anche Sansa sta tremando, ma scende
ugualmente, lasciando la portiera aperta dietro di sé.
Non le importa di cosa le capiterà se
resta lì, sola. Non le importa di avere paura, di ricordare
tutte le minacce di
sangue di Joffrey… Le importa solo di essere lontana, di
essere in salvo.
L’ombra
di Petyr raggiunge la sua,
sembra quasi abbracciarla. E Sansa capisce che è dietro di
lei.
Si stringe nelle braccia e fissa la
sagoma nera sulla strada, come se lo stesse guardando negli occhi.
«Devi
fidarti di me!» grida lui,
sollevando le mani. «Non ti farei mai del male, Sansa. Mai.
Devi credermi!»
«Quando mai non l’ho fatto?»
E si volta con le lacrime agli occhi,
abbracciandosi come in un ultimo conforto.
«Vieni
con me…» ripete Petyr,
avvicinandosi piano, sfiorandole le spalle con le mani.
«Vieni.»
Sansa si
abbandona alle sue carezze.
Avrà tempo di tornare indietro, se vorrà farlo.
Ma non oggi.
Note dell'autrice:
Grazie
per aver letto questa storia. Contariamente a quanto potrebbe sembrare
è una delle mie preferite, tra quelle pubblicate sul sito.
Scriverla è estremamente bello.
Grazie ancora.
Celtica
|
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Capitolo 3 *** Niente è più lo stesso da quando ci sei ***
Vieni con me 3
Vi avevo
detto che sarei tornata presto!
Niente è
più lo stesso da quando ci Sei
Siedi qui
e lasciati andar così.
Lascia che
entri il sole dentro te.
E respira tutta l'aria che puoi…
I profumi che senti anche tu,
sparsi intorno a noi.
(Mediterraneo,
Mango)
ui pantaloni di
tela, Sansa vede riflettersi
giochi di luce e ombra.
Volta il capo verso il bosco, ai lati
della strada, e, di nuovo, si chiede dove Petyr la stia portando.
Non riesce ancora a credere di essere
fuggita da Joffrey, di non dover più subire le sue mani su
di lei… Sfiora con
le dita i lati del collo, lì dove si è sentita
stringere.
È successo solo un’ora prima, quando
ha creduto di morire.
Ora che può farlo, Sansa si trova a
chiedersi se davvero lui era pronto a ucciderla. Se non lo avesse
colpito
fuggendo, cosa ne sarebbe stato di lei?
Guarda il suo
salvatore, le mani
ferme sul volante, lo sguardo fisso sulla strada che ha davanti.
Troppi se riempiono la sua mente,
mentre sente il desiderio di parlargli.
Vorrebbe fargli domande, sentire la sua voce, sentirsi dire che
andrà tutto
bene. Che non dovrà più tornare da Joffrey, che
lui non le farà mai del male.
Vorrebbe sentirglielo dire e
ripetere, e ripetere ancora, fino alla nausea. Vorrebbe che
l’auto si fermasse,
che Petyr la stringesse tra le braccia, giusto un momento, solo per
poter
piangere su di lui.
Quando il mezzo
imbocca la strada
sterrata, facendola sobbalzare, Sansa ripensa alla città che
ha lasciato,
chiedendosi quando potrà tornare.
Forse lui vuole solo nasconderla…
Eppure, si dice, stringendo le mani sulle gambe, le mancheranno le vie
affollate di gente, i palazzi alti che riflettono il cielo. Le luci,
che le
hanno sempre impedito di guardare le stelle.
«Tutto
bene?» le chiede Petyr,
allontanando un istante gli occhi dalla strada che ha davanti.
Sansa sente l’auto rallentare, la
ventola del motore accendersi, ogni piccolo ostacolo riflettersi sul
suo
sedile. Sospira, quasi a convincersi della risposta che sta per dare.
«Sì» mormora, facendo un lieve cenno
con la testa. «Ora sì.»
Non si volta a
guardarlo, eppure sa
che Petyr sta sorridendo. È come se la sua espressione fosse
impressa in ogni
parte dell’abitacolo, nella sua guida tranquilla, nel modo
rilassato in cui
tende il braccio verso di lei, cercando la sua mano.
Sansa arrossisce quando si sente
stringere.
Eppure, eppure quel gesto è la sua
salvezza, è più di quanto avrebbe mai potuto
sperare di ricevere da Joffrey.
E, quando la mano torna sul volante,
è come se qualcuno avesse spento la luce.
Sansa torna a pensare alle cose
brutte, ai ricordi dolorosi di ciò che il suo ragazzo le
faceva.
In mezzo al
bosco appare una piccola
radura. Al centro, un lago circondato da cannetti, dalla forma lunga,
come se
fosse una ferita aperta sul terreno.
È
il cuore della terra, pensa Sansa.
«Siamo
quasi arrivati» dice Petyr,
prendendo un’ulteriore svolta.
C’è una montagna oltre le cime degli
alberi. Sansa ne osserva la punta, chiedendosi quanto sia alta.
«È piena di grotte» spiega lui, come
ad averle letto nel pensiero. «Un giorno ti
porterò lassù.»
Farà
freddo, si
dice… Ma
sarà bello.
In fondo, pensa, Joffrey non l’ha mai
portata da nessuna parte, costringendola a rimanere sempre in casa
mentre lui
usciva.
Quando
l’auto si ferma, Sansa vede una
baita di legno dai tetti spioventi e le finestre tonde. Ha un che di
fiabesco.
Dovrà vivere lì?
Comincia a rimpiangere di essersi
fidata di Petyr. Lei non vuole
restare lì, non vuole dormire in un bosco, ai piedi di un
monte. Vuole tornare
in città, sì, vuole andare via.
Potrebbe chiedere scusa a Joffrey,
potrebbe andare da qualche parente, tutto pur di non rimanere in quel
posto.
«Si
tratta di un giorno» Petyr,
seduto al suo fianco, inchioda gli occhi ai suoi. «Solo di un
giorno. Poi ti
porterò a casa.»
«Cosa facciamo qui?»
Dire che ha paura è inutile, Sansa è
sicura che lui riesca a leggerglielo in faccia, che non ci sia bisogno
di
dirglielo.
«Lo
faccio per te» continua lui,
prendendole la mano. «Tu sai che voglio solo il tuo bene,
vero?»
Mille risposte passano nella mente di
Sansa, mentre Petyr disegna dei cerchi sul suo palmo.
Un brivido, e un piccolo fuoco
comincia ad accendersi dentro di lei.
«Niente
è più lo stesso da quando ci
sei.»
Lo dice senza pensare, specchiandosi
nei suoi occhi che sanno di sale.
Note
dell’autrice:
Ringrazio Il
Giardino di Efp che mi
sta costringendo a riprendere sempre questa storia, con le sue sfide e
i suoi
prompt.
Nel prossimo capitolo scopriremo
perché Petyr l’ha portata così lontano.
Fatevi sentire, strigliatemi un po’,
anche perché arriveranno anche altri personaggi…
Celtica
|
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Capitolo 4 *** La casa nel bosco ***
Capitolo 4
Sorpresa
per voi! Trailer
La Casa nel Bosco
i
accorge del vento solo scendendo
dall’auto.
Sansa non sa perché lui l’abbia
portata lì, non sa cosa voglia Petyr da lei, né
cosa succederà dopo. Ha solo
paura. E non sapere non fa altro che peggiorare le cose.
«Dove siamo?» domanda,
abbracciandosi.
Non può fare a meno di guardarsi
intorno, di studiare il modo in cui il sole riflette sulla superficie
del lago,
e il movimento del bosco di conifere, quasi fosse vivo. La casa,
invece, rimane
in ombra, ai piedi del monte alto e aguzzo che a Sansa fa tanta paura.
Pensa che se dovesse rimanere da
sola, il suo cuore non reggerebbe.
Non potrebbe resistere al grido del
vento, al sospiro della notte, al tremore che sembra invaderla, anche
adesso.
Eppure, pensa, i suoi genitori l’hanno portata spesso in
montagna…
Ha sciato, ha camminato lungo i
sentieri, ha visto le capriole dei suoi fratelli sull’erba.
Non
c’è più nessuno di loro adesso.
O, almeno, così crede lei.
Non
sa che fine abbiano fatto da
quando si è trasferita nella casa di Joffrey, in
città. Ricorda il modo dolce
in cui le ha chiesto di uscire la prima volta, i suoi sguardi ammirati,
le sue
parole dolci.
Per un momento, Sansa torna a
chiedersi come abbia preso la sua fuga.
Come avà reagito, vedendola
imboccare la porta?
Quando si è accorto che non sarebbe
tornata… Che non avrebbe più potuto posare le sue
mani su di lei.
«Sansa»
la chiama Petyr,
raggiungendola alla soglia tra luce e ombra. «Hai
freddo?»
La prende per le spalle, tirandola
delicatamente verso la casa. Sembra volerla guidare, come a farle
capire che
d’ora in avanti dovrà ascoltarlo.
O, forse, è lei a vederla così.
È così confusa da non sapere cosa sia
giusto e cosa no, ha mille pensieri per la testa, decine di domande che
non
trovano una risposta. Vorrebbe solo dormire. E dimenticare.
«Vieni dentro.»
Solo
allora Sansa sembra ricordare
tutto ciò che ha lasciato:
l’università, la casa, i pochi amici…
Avrebbe dovuto telefonare a Jeyne
quella sera, ma come può pensare di farlo? Cosa potrebbe mai
dirle?
E poi, Sansa teme che lei possa
riferire a Joffrey, che lui possa venire a cercarla…
Sarebbe orribile.
«Sì…» sussurra, lasciandosi
accompagnare sugli scalini dell’entrata. Si ferma a un passo
dalla porta,
stringendosi nelle spalle. «Perché mi hai portata
qui?»
Petyr
la guarda.
Occhi attenti la scrutano, mentre lui
sembra valutare cosa e quanto dire. Riesce a metterla a disagio, quel
sorriso,
quello che accompagna ogni sua esitazione.
Sansa non riesce a sostenere il suo
viso, così prende a fissare le colonne di legno ai lati
della porta. Ci sono delle
incisioni e, con orrore, lei legge il nome di sua madre.
Catelyn
È
proprio a metà tra Lysa
e Petyr. Ma per Sansa è
come un tuffo in un passato che avrebbe
preferito dimenticare. Sua madre non c’è
più… e parlarne non è mai servito a
farla stare meglio.
Scorre il dito sulla scritta, come se
potesse aiutarla a sapere quando
Catelyn è stata in quel posto.
«Te
lo dirò» annuncia lui. Per un
istante, Sansa si è illusa che fosse la voce del
legno… pronta a raccontarle di
sua madre. «Ma prima sediamoci. Vieni.»
«No» dice Sansa con voce
irremovibile.
Rimane inchiodata lì dove si trova,
mentre la mano di Petyr è ancora sul suo braccio.
«Dimmelo
adesso» ordina, tirandosi
dritta. «Ti prego.»
Vorrebbe tanto fidarsi di lui,
vorrebbe sentirsi rassicurare, abbandonarsi alle sue parole giurando di
credergli. Ma non riesce.
«Cara…» mormora Petyr, con i suoi
soliti sorrisi. Fa un passo indietro e allarga le braccia.
«Non voglio farti
prendere freddo, ma va bene. Te lo dirò qui.»
Sansa
sta già meglio.
Prende un respiro profondo e aspetta,
osando di nuovo guardarlo negli occhi. Le dirà la
verità? Si chiede. O arriverà
a mentirle?
Ogni uomo mente, rammenta lei, mentre
il sorriso si spegne sul volto di Petyr.
«Oltre
il bosco c’è una chiesetta»
comincia, facendo un passo verso la porta. «È
piccola, antica, molto
romantica…»
Sansa si chiede cosa c’entri… Perché
le sta dicendo questo?
«Tua zia Lysa arriverà domattina»
confessa infine. «Dobbiamo sposarci.»
È
come se il vento si fosse fermato.
Come se il sole avesse smesso di illuminare il lago.
Lysa.
La sorella di sua madre. La donna che si è rifiutata di
raggiungerla per il
funerale.
Sansa preferirebbe non vederla… ma
non sa come fare. Dove altro potrebbe andare?
«Ah»
pronuncia lei, schiudendo le
labbra.
Deve aver sgranato gli occhi per lo
stupore, perché Petyr è fisso a guardarla. Sente
la testa girare e si regge
alla colonna, mentre una mano di lui la afferra per il fianco.
«Ti senti bene?»
«No. Io…»
Non termina la frase.
Tutto
vortica intorno a lei; il grido
di sua madre le perfora le orecchie, e il volto impassibile di suo
padre si
para davanti ai suoi occhi. Ma sono morti. Sono tutti,
irrimediabilmente, morti.
«Sansa!»
Eddard la sta chiamando… Com’è
possibile?
Quando
la testa smette di girare, e
Sansa mette a fuoco il viso che ha davanti, vede Petyr chino su di lei,
le sue
mani che reggono il suo corpo, scivolato lungo la colonna.
Sono vicini. Respiro su respiro,
mentre lui sembra scuoterla.
«Ti
porto dentro» dice, aiutandola ad
alzarsi. «Devi stenderti.»
Sente
le dita di lui sulle costole,
una leggera spinta ed è in piedi. È allora che,
con il volto nell’incavo del
collo di Petyr, Sansa riconosce l’odore di tabacco e menta.
Respira sulla lieve
barba che gli macchia il viso, mentre gli occhi di lui sono fissi sulle
sue
labbra.
Non
lo conosce affatto, eppure, in
quel pochissimo tempo in cui sono stati insieme, Sansa ha imparato a
riconoscere quello sguardo.
Sa che sta per baciarla. Lo sente.
E quando lui si avvicina, appena un
po’ di più, lei socchiude le palpebre.
Ma
non arriva nulla, se non la mano
di Petyr a scostarle una ciocca di capelli rossi dal viso. Sorride, in
quel
modo solo suo, e la accompagna alla porta. È ancora
lì a sorreggerla, a
guardarla, a sorriderle, quando estrae un mazzo di chiavi dalla tasca
della
giacca scegliendone una.
Ne ha tantissime, eppure non ha
bisogno di osservarle per riconoscere quella che gli serve.
Sansa
sente la serratura cedere alla
richiesta di Petyr, le basta un istante per ricordare il giorno in cui
Robb se
n’è andato di casa, anni prima, portandosi via
Rickon e Arya.
Non potrà mai dimenticare l’ultima
volta che li ha visti, quando lui ha vinto una cattedra a Londra, e i
suoi
fratelli hanno deciso di seguirlo… Ricorda di aver pianto,
di aver stretto
Brandon tra le braccia mentre li osservava dalla finestra.
Da quando Joffrey è entrato nella sua
vita, non li ha più visti.
“Non
mi piace tuo fratello!”
Era la frase che ripeteva più
spesso, ogni volta che Sansa rispondeva a uno schiaffo con: Robb non lo farebbe mai!
Robb
non picchia le donne!
Robb
è un uomo!
Erano
le sue frasi preferite… Era
uguale a colpirlo dritto in viso, rovinando il suo sorriso orrendo.
«Eccola.»
La voce di Petyr, bassa e tranquilla,
la riporta nel piccolo chalet, quello con la parete di pietra grezza,
con una
sedia a dondolo a fianco alla panca rivestita di velluto rosso. Un
colore che
le ricorda Joffrey.
Sansa odia il rosso adesso.
«Vieni a sederti.»
Lei si guarda intorno, mentre la mano
sicura di Petyr le stringe il fianco, accompagnandola proprio dal
ricordo del
ragazzo che ha lasciato. Appese alle pareti non ci sono fotografie,
solo
quadri.
Immagini inquietanti.
Leoni che divorano cervi, aquile che
stringono tra gli artigli pesci, carcasse di lupi
ammucchiate…
Sansa
sente la testa girare, di nuovo.
Si abbandona contro lo schienale,
striscia le scarpe chiare sul tappeto a righe dorate, cerca di pensare
a cosa
farà adesso, senza un posto in cui tornare.
“Mi
prenderò io cura di te.”
Ha detto Petyr. Ma Sansa non ci
crede. Non vuole crederci.
Perché
dovrebbe, in fondo?
Perché lui dovrebbe occuparsi di lei?
Forse,
pensa dopo un momento di
esitazione, potrebbe cercare Robb e raggiungerlo al sud…
Oppure, e questa idea
le piace già meno, informarsi su dove sia finito il suo
fratellastro, Jon.
Brandon aveva una teoria su di lui…
Diceva che non era davvero figlio di Eddard, diceva che era stato
rifiutato da
sua madre, e che loro padre aveva insistito per prendersene cura.
Aveva tirato fuori l’ipotesi, assurda,
che fosse figlio della loro zia
Lyanna, fuggita chissà dove in America quando erano tutti
troppo piccoli per
ricordare.
Lo
squillo di un cellulare sembra
farle presente che, ora come ora, Sansa non ha con sé nulla.
Non ha documenti,
non ha la borsa, non ha il telefono. Non ha soldi.
«Sì?» mormora Petyr al terzo
richiamo. Passeggia davanti a lei, scostando la tendina della finestra
tonda
per guardare fuori. «Sono già qui. Sì,
è tutto pronto. Me ne sono assicurato
personalmente…»
Con chi starà parlando? Si chiede
Sansa.
E quando lui si volta a guardarla,
appoggiato con la schiena alla parete, sente un moto di imbarazzo,
tanto da
abbassare gli occhi.
«Ma certo» continua, con il suo tono
enigmatico e allo stesso tempo deciso, inclinando la spalla verso il
basso. «Ti
aspetto…»
Chiude la chiamata senza toglierle
gli occhi di dosso.
«Dove…
dove dormirò io questa notte?»
Sansa lo chiede per fargli capire che
deve smetterla, che non è bene comportarsi così
il giorno prima delle nozze.
«Posso mostrartelo…»
«No» dice Sansa con voce ferma. Si
alza in piedi, ravvivandosi i capelli rossi. «Dimmi solo
dov’è. Per favore»
aggiunge infine, non reggendo il suo sguardo.
Le
succedeva lo stesso anche
all’università, ogni volta che Loras la
raggiungeva in biblioteca per chiederle
gli appunti. A Jeyne scappava sempre una risatina… Un suono
che Sansa riesce
ancora a sentire nelle orecchie.
«Puoi dormire nell’unica camera.»
«E tu?» chiede, troppo in fretta e
con un tono troppo ansioso, tanto da far sogghignare Petyr.
«Non preoccuparti per me… Resterò qui
sul divano.»
Sansa lancia una veloce occhiata al
velluto che ha appena lasciato, ma distoglie subito lo sguardo,
imbarazzata.
«Grazie» sussurra.
Raggiunge
la prima porta delle tre
che ci sono, trovando il bagno e chiudendosi la porta alle spalle. Ha
bisogno
di una rinfrescata. Ha bisogno di vedere in che stato Joffrey
l’ha ridotta,
questa volta.
Le serve un momento di coraggio,
perché sa che altrimenti scoppierà a piangere,
proprio come tutte le volte in
cui lui l’ha colpita.
Lo specchio è ovale, dalla cornice
nera, e non c’è niente di più di un
armadietto di legno scuro in quel bagno,
oltre ai servizi. Pavimento e pareti sono identici
all’ingresso, e Sansa
capisce che tutta la casa dev’essere stata costruita in quel
modo.
Finalmente
solleva gli occhi, vede se
stessa.
Sfiora lì dove Joffrey si è accanito,
dove Petyr l’ha baciata. Sullo zigomo dove è
comparso un grosso livido
violaceo.
E
invece ci vado!
Aveva gridato lei, alzandosi in piedi.
Non era durata molto…
Ti…prego…
Erano state le ultime parole, quando il respiro le era venuto meno,
quando ogni
frase sembrava un’agonia…
Dopo
essersi sciacquata il viso, esce
dal bagno e prova la seconda porta, e la trova.
La camera da letto.
Sansa non sa nemmeno di chi sia
quella casa. Non sa se appartenga a Petyr o a sua zia Lysa. Non sa chi
ha
dormito su quel materasso, chi si è coperto con quelle
lenzuola nere.
Prima di oltrepassare l’entrata, si
volta verso di lui, per vedere cosa sta facendo.
È
sempre lì. E la guarda.
La
studia come se Sansa non potesse
accorgersene, come se non fosse rivolta con il viso verso di lui.
Spinge la porta, lentamente, con gli
occhi fissi in quelli di Petyr. Finché non rimane la sua
mano sulle tavole di
legno. E una strana sensazione dentro di lei.
Ω
Tale
e quale a Cat.
Non
riesce a non pensarlo. Se solo si
fosse deciso prima a cercarla, se solo non avesse aspettato
tanto… Si è
accontentato di Lysa per i suoi soldi, per i suoi capelli rossi ormai
sbiaditi,
per il sangue che la unisce alla
sua
Catelyn.
Ma
Petyr sa che il loro non sarà un
matrimonio lungo…
Chi
potrebbe sopportare quella donna?
Eppure, se non avesse chiesto a Varys
di tenere d’occhio Sansa, di riferirgli i suoi progressi
all’università, mai, mai
si sarebbe spinto fino alla città
per trovarla.
Un po’ per curiosità, un po’ per un
malsano desiderio di rivedere in lei qualcosa di Cat.
E non è servito nemmeno darsi troppo
da fare con il vicinato per scoprire i segretucci di quei due
ragazzi… Urla
ogni sera, piatti rotti, grida di aiuto…
È bastato controllarla un po’ per
sapere che, prima o poi, sarebbe dovuto intervenire.
Di certo non si era aspettato di
prendersene cura a un giorno dal matrimonio. È pur sempre la
nipote di Lysa, e
Lysa odia tutto ciò che
riguarda Cat.
Anche i suoi figli.
Troppo gelosa, troppo possessiva.
Mentre Sansa, Dio, Sansa è uguale a
Catelyn! Forse è giusto un po’ più
bella di lei, e Petyr non è riuscito a fare
a meno di baciarla.
Ma deve trattenersi, adesso… Manca
meno di un giorno all’arrivo di Lysa, e dopo, dopo non
potrà più guardarla come
ha fatto finora, non potrà più desiderarla.
Almeno per un po’…
Almeno finché ci sarà Lysa.
Petyr
sa di non essere un santo, sa
di avere bisogni incontrollabili, ma ora che ha ritrovato la sua
piccola Cat, o
una parte di lei, pensa che sarà tutto più facile.
Vuole portarla a casa con loro, anche
se è grande abbastanza per vivere da sola. Lysa non
potrà dirgli di no, no,
proprio non potrà.
Estrae la sigaretta al primo tocco
del pacchetto, la porta alle labbra e si avvicina alla porta chiusa
dove c’è
lei.
È
giorno, eppure Sansa sta riposando.
Forse il colpo di Joffrey è stato
davvero molto forte… Avrebbe dovuto intervenire prima, lo
sapeva, ma sperava di
poter aspettare la fine del matrimonio…
Apre
la porta e, piano, spinge due
dita per guardare oltre la soglia.
Tutto è buio.
La persiana è stata chiusa, e la
striscia di luce sembra correre verso il corpo di Sansa. Basta
un’altra spinta
per illuminarle il volto. Per farle aprire gli occhi.
Petyr soffia via il fumo con il suo
mezzo sorriso, riconoscendo la paura in lei.
Vorrebbe poterle dire tutto ciò che
ha in mente, tutto le cose che vorrebbe fare, tutti i posti in cui
vorrebbe
portarla. Ma è troppo presto…
È ancora così innocente, così dolce.
Incrocia
le gambe appoggiandosi alla
porta, mentre lei si tira a sedere, stringendo le ginocchia al petto.
Sembra
chiedergli cosa ci faccia lì, e Petyr non tarda a darle una
risposta.
«Fumi, Sansa?»
Lei scrolla le spalle, alcune ciocche
scivolano lungo il petto, costringendola ad accompagnarle dietro
l’orecchio.
«Qualche volta.»
«Fuma
con me» aggiunge, facendo
alcuni passi per raggiungere il letto. Le offre il pacchetto.
«Sono le ultime
sigarette che potrò fumare…»
«Perché?»
Sansa ne estrae una dal pacco, gli
prende l’accendino dalle mani e una piccola fiamma crea
riflessi dorati sul suo
viso.
«Non lo sai? Tua zia odia i
fumatori.»
«Questo non le ha impedito di sposare
te.»
Suona come una sfida, il tono gli
ricorda tanto quello di Catelyn. Petyr siede sul letto, un gomito sul
ginocchio, e fissa la porta.
«Tu
ami mia zia?» chiede Sansa,
dubbiosa, come se non ci fosse nessuna linea da oltrepassare.
«Ma certo…»
Lei sembra sul punto di aggiungere
altro, ma non lo fa. Sussulta soltanto, quando una mano di Petyr
raggiunge il
suo viso, tirandolo verso di sé. Si guardano, quando Sansa
trova il coraggio di
fargli quella domanda. Quella a cui lui non ha nessuna paura di
rispondere.
Non con lei.
«Che cosa vuoi?»
«Ogni cosa.»
Note
dell’autrice:
E
rieccomi!
Vi chiedo scusa per la confusione: i
primi tre capitoli sono brevissimi, infatti io li considero un unico
testo. Una
serie di coincidenze mi hanno spinto a scriverli separati.
Ma da questo in poi non credo
dobbiate preoccuparvi, questa sarà la media di ogni capitolo!
Grazie mille, grazie per aver letto,
per aver aggiunto Vieni con Me alle vostre liste.
Io spero di continuare questa storia
insieme. Perché anch’io, come tutti quelli che
scrivono e pubblicano su Efp, ho
bisogno di sapere che ci siete.
Fatemi sapere cosa ne pensate (anche
del trailer). Mi rendereste molto felice!
Celtica
|
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Capitolo 5 *** Il matrimonio ***
capitolo 5
Trailer
Il Matrimonio
on è
come la ricordava.
Non è nemmeno come nelle foto di sua
madre. È una versione imbruttita e invecchiata di Catelyn.
Eppure Petyr sorride
a braccia aperte, andandole incontro. Sansa lo vede dare un buffetto
sulla
guancia di Robin, il figlio di Lysa, il cugino che lei non ricorda di
aver mai
visto.
Ha i capelli neri, tagliati in un
ridicolo caschetto, e si stringe a sua madre come un bambino. Ma ha
l’età di
Rickon… non è poi così piccolo.
È quando gli occhi della zia si
posano su di lei, che Sansa sente di nuovo quel tremito. Quello che
l’ha legata
a Joffrey per tanto tempo… Quello che l’ha fatta
sentire come una foglia pronta
a cadere.
Sta cadendo, Sansa, lo legge nello
sguardo gelido di Lysa, nel modo in cui ha imbronciato le labbra.
Sa di essere stata riconosciuta.
«Petyr»
pronuncia, fissandola come se
volesse sventrarla. «Posso parlarti un momento?»
Lei rimane ferma dietro la colonna di
legno, all’ingresso della casa, con gli stessi abiti del
giorno prima. Si
tortura un pollice, mentre Robin sembra occupato a studiare la gomma
delle
ruote nuove dell’auto.
Lysa e Petyr
sono poco distanti, le
lanciano veloci occhiate, mentre le mani di sua zia sembrano essersi
ancorate
ai fianchi. Sembra furiosa.
Pazza
di gelosia, direbbe Jeyne
se ora fosse con lei.
La rimanderanno a casa?
Joffrey accetterà di riprenderla con
sé?
No, si ripete Sansa, proprio come ha
fatto durante tutta la notte, mai
dovrà tornare da lui. Mai e poi mai. Nemmeno se cadesse il
mondo.
Quando si
riavvicinano, Lysa non la
guarda nemmeno, non le parla, si limita a entrare in casa.
«Vieni, bambino mio.»
Robin è proprio come uno di quei cani
fedeli: al primo richiamo corre dentro con lei.
Ma è
Petyr che Sansa aspetta. Petyr,
che deve dirle se restare o andarsene. I loro occhi non si staccano un
momento
mentre si avvicina pestando l’erba.
«Chi
ha fumato qui?!»
Il grido arriva da dentro e serve
solo a farla sentire peggio.
«Petyr, non dirmi che hai ripreso a
fumare!» Lysa torna fuori come un tornado, spazzando via le
poche certezze che
Sansa credeva di avere. «Ah, no, dev’essere stata
lei. Ma certo! Sei proprio
come tua madre!»
«L’ultima sigaretta» mormora Petyr
con voce melliflua. «Era la mia ultima sigaretta. Non
fumerò più.»
«Me lo giuri? Giuralo, Petyr!»
Sansa sa di aver
capito più cose di
lui di quante sua zia non potrà mai sapere. Riconosce lo
sguardo furbo, il
sorriso seducente, le palpebre socchiuse. Sa che sta per mentire.
Proprio come
ha fatto il giorno prima con lei, quando le ha detto di amare Lysa.
Petyr non può amare sua zia.
«Te lo
giuro» pronuncia, portandosi
le mani al petto.
«Oh, Petyr…» Lysa gli getta le
braccia al collo, lo bacia davanti a Sansa.
Lei ha l’impressione che sia uguale a
uno sturalavandini… e prova pena per Petyr.
«E va
bene» aggiunge sua zia,
staccandosi dalle sua labbra per guardarla. Ha gli artigli conficcati
sulle
spalle di lui, come se le stesse dicendo che è solo suo.
«Puoi rimanere con
noi. Un paio di giorni, ha detto Petyr.»
E
dopo? Sono le prime
parole che vengono in mente a Sansa.
«E la luna di miele?» chiede invece.
Lysa sembrava
non aspettare altro…
Ride, la mano aperta davanti alla bocca, le dita tra i capelli di Petyr.
«L’abbiamo già fatta. Anni e anni
fa.»
«Voi… stavate insieme?» domanda
ancora, come se l’occhiata di Petyr non fosse servita ad
avvertirla di farla
finita.
«Prima
di conoscere tuo zio…» spiega
Lysa, scambiando uno sguardo con lui. «I giorni
più belli della mia vita.»
«Si è trattato di un solo giorno, mia
cara...» la corregge Petyr.
«E con questo? Non è forse stato il
giorno più bello della tua vita?»
Sansa passa gli occhi da uno
all’altra, chiedendosi cosa stia facendo lei lì.
Non dovrebbe essere con loro,
non dovrebbe sentire certe cose…
«Ma certo…»
«Perché non vi siete sposati?»
Alla terza domanda, Petyr scosta le
braccia della sua futura moglie, le fa cenno di volerle parlare. Da
soli.
Non camminano
molto prima che lui si
decida a fermarsi.
La casa si vede da lontano, una
macchia scura in mezzo al verde degli alberi. Un falco si abbassa sul
lago,
infrangendone la superficie con le ali… Sansa pensa di non
aver mai visto
niente di più bello.
«Che
stai facendo?»
È Petyr a fare le domande, ora.
Le prende la mano con dolcezza,
intrecciando le dita alle sue.
«Devi fidarti di me» ripete, come ha
detto il giorno prima. «Penserò a tutto.»
A
cosa? Vorrebbe
chiedere, ma resta in silenzio, agognando
una di quelle carezze che tanto le sono mancate quando stava con
Joffrey.
«Non posso restare con voi…»
«Sì, invece.»
«E dopo? Tra qualche giorno dove
andrò?»
Petyr le afferra
il viso con entrambe
le mani, guardando nei suoi occhi come se potesse leggerle dentro, come
se
potesse imprimere quelle parole, quelle che sta per pronunciare, a
fondo nel
suo cuore.
«Ci penserò io. So già dove starai.
Verrò a trovarti spesso, non sarai troppo lontana
dall’università, vedrai.»
Sansa vuole credergli.
Perché sembra sincero, perché la sta
trattando bene. Perché ne ha bisogno.
«Me lo
prometti?»
Sente le dita salirle lungo il collo,
nel punto dove Joffrey l’ha stretta tanto da ucciderla. Ha la
pelle d’oca
mentre lo guarda, mentre vede i suoi occhi abbassarsi sulle sue labbra,
nel
modo che tanto le piace.
«Te lo prometto.»
Ω
L’ha
appena baciata, suggellando il
loro matrimonio.
Sorride ai pochi
invitati, cerca
Sansa seduta tra le prime file, il suo figlioccio Robin stretto vicino
a lei.
Sono in una piccola chiesa, eppure sembra quasi normale vista da
dentro. Lysa
ha insistito per riempirla di fiori di ogni colore, per chiamare
fotografi e
farne un grande spettacolo.
Ma lui si è rifiutato.
Perché avrebbe dovuto accettare? Uno
spreco di denaro, nient’altro.
Le ha chiesto lui di sposarsi lì, di
chiedere a poca gente di venire, di usare fiori più semplici
per addobbare le
panche.
Gli istanti
successivi scorrono
davanti ai suoi occhi senza che la minima emoziona riesca a scalfirlo.
Non
considera che sia una giornata stupenda, come invece sta ripetendo
Lysa. Non
grida di gioia mentre esce dalla chiesa tenendole la mano.
Sorride, niente di più.
Ma nessuno potrebbe dire che non sia
il suo giorno più bello. Nessuno.
Stanno correndo verso l’auto d’epoca
che sua moglie ha tanto insistito per avere.
“Ho
aspettato così tanto, Petyr!” Aveva detto,
rivedendolo
il giorno prima.
È
quando salgono, salutando con la
mano dai finestrini aperti, che Lysa gli scosta la giacca, aprendo due
bottoni
della camicia. Sentire il contatto con le sue mani non gli piace, ma si
limita
a voltarsi e a sorridere, mentre mette in moto.
Non è ancora giunto in momento, Petyr
ne è consapevole, ma si tratta solo di qualche
mese… Deve sopportarla per poco.
Sa già cosa fare di lei.
Ω
Sansa
è rimasta impassibile durante
la cerimonia.
Ha battuto le mani, ha sopportato la
vicinanza con Robin, ha seguito l’auto per un breve tratto,
insieme agli altri
invitati. Ha mangiato con loro, ha finto di essere felice di quel
matrimonio,
ha cercato di accontentare il suo capriccioso cugino in tutti i modi.
Ora che è tutto finito, seduta sul
sedile posteriore insieme a Robin, con Lysa e Petyr davanti, Sansa si
sente
sfinita.
Quando
è fuggita da Joffrey non l’ha
certo fatto per finire così…
No. Vedere l’amico di sua madre,
sentirgli dire quelle parole, sono state come un balsamo per le sue
ferite.
Quelle che non si vedono, ma che si porta dentro da tanto tempo.
Finché non ha incontrato Lysa…
Pensare di
vivere con loro, anche
solo per un paio di giorni, la mette a disagio.
Non è più una bambina, potrebbe
benissimo vivere in una casa da sola, cercarsi un lavoro, avere altre
possibilità.
Ma Petyr ha insistito per occuparsene
lui… Ha detto di avere il posto adatto a lei. Un luogo dove
solo Sansa potrà
vivere.
Non ha soldi per pagare un affitto
qualunque, non ha nemmeno i documenti con sé.
Dovrà trovare il modo di
recuperarli, di riprendere il cellulare, tutto senza incontrare
Joffrey…
Finirebbe in tragedia.
Sansa solleva
gli occhi, sentendosi
osservata. E infatti lui è lì, a guardarla nello
specchietto retrovisore.
La mette stranamente in soggezione,
come se tutte le sue paure si stessero concentrando sulla zia Lysa.
Cosa
farebbe, se si accorgesse dei loro sguardi?
Sansa china il capo, i capelli le
scendono ai lati del viso, stringe forte le mani.
Ha paura.
Ha paura che tutto ciò che ha vissuto
con Joffrey si ripeta.
Ω
Ha lasciato che
fosse Robin a
mostrare la casa a Sansa.
Petyr ha preferito non mostrarsi
troppo interessato a lei, non dare modo a Lysa di litigare, di
lamentarsi
ancora. Ma adesso, ora che percorre i corridoi nella luce soffusa, ora
che sua
moglie sta dormendo, dopo averlo costretto a una notte con lei, Petyr
si
avvicina alla stanza di Sansa.
Sa che nessuno potrà vederlo, sa che Robin
sta dormendo, chiuso a chiave, proprio come l’ha lasciato lui
prima di
raggiungere Lysa per i doveri coniugali, e sa anche che non dovrebbe
farlo.
È
bella e dolce come sua madre, ma
non è Cat.
Trova la porta semiaperta, la
finestra spalancata da cui entra una leggera brezza.
Sansa è sotto le lenzuola, i capelli
rossi sparsi sul cuscino, illuminata appena dalle luci della
città. I vestiti,
che aveva indosso quando le ha chiesto di salire in auto, sono
abbandonati su
una sedia in fondo al letto, il braccio nudo stretto al cuscino.
“Perché?
Perché, Petyr? La vuoi qui perché è la
figlia di Cat? Dimmi la verità!”
Lysa lo
aveva gridato il giorno
prima, quando avevano discusso per Sansa…
“Ho
fatto tutto per te! Tutto! E tu ti interessi a una
ragazzina… alla figlia di
mia sorella!”
Ecco perché avrebbe preferito
occuparsi di Sansa con più calma… Senza informare
Lysa.
C’è voluto un bacio per convincerla,
altri giuramenti, altre promesse.
Petyr scorre
l’indice sul braccio
scoperto, sente la pelle d’oca, la osserva dormire. Sta
sognando.
Lo capisce dal modo in cui stringe le
palpebre, da come le dita arpionano il cuscino.
Vorrebbe sapere cosa sta sognando.
Joffrey? Il male che le ha fatto?
Petyr raggiunge
la finestra
intenzionato a chiuderla: sta per nascere l’alba.
Rimane a osservare la città che si
sveglia, i palazzi alti che sembrano ergersi fino al cielo. Guarda
dall’alto
del loro appartamento, volta il capo in giro, studia le auto che
passano sotto
casa dal terrazzino.
Un lamento.
Sansa si è svegliata.
Non si volta a guardarla, lascia che
sia lei ad accorgersi della sua presenza. Qualche istante, e il verso
di
stupore lo spinge a girarsi.
«Cosa
ci fai qui?»
Si porta il lenzuolo fino al mento,
stringendolo con due mani. Non sembra intimorita. Non da lui.
«Volevo
sapere come hai dormito.»
Petyr fa alcuni passi verso il letto,
ignorando il piccolo comò grigio incorporato allo specchio.
Ha occhi solo per
lei.
«Bene» mormora Sansa, studiando ogni
suo movimento.
Ω
«Oggi
vorrei mostrarti la casa vicina
all’università. Così da renderla
vivibile in un paio di giorni. Ti va di venire
con me?»
Sansa vorrebbe tanto dirgli di sì,
ringraziarlo e fargli una marea di domande su dove si trovi, quanto
spazio
avrà, ogni quanto lui verrà a trovarla.
Ma non lo fa.
«Prima
devo passare da casa.»
Casa,
ha detto, eppure è come se fosse una parola strana nella sua
bocca. Ha l’odore
del dopobarba di Joffrey, la cucina ha i mobili blu come i suoi occhi,
il bagno
è giallo come i suoi capelli.
E quelle poltrone rosso sangue…
Quelle che Sansa ha tanto insistito per cambiare, senza mai ottenere un
sì da
lui.
Petyr annuisce con fare pratico.
«Ci andremo oggi.»
Sansa si rende
conto che è lunedì,
Joffrey tornerà a casa per pranzo. Lei non vuole assolutamente vederlo. Non vuole essere
umiliata ancora.
Soprattutto, non davanti a Petyr.
«Sì, ma non prima delle tre, ti
prego.»
Dallo sguardo di lui, Sansa capisce
che sa benissimo perché “non prima delle
tre”. Accompagna una ciocca dietro le
orecchie, dimenticando, per un momento, che sotto il lenzuolo ha solo
l’intimo.
«Non dovresti entrare nella mia
stanza così…» aggiunge, stringendo
ancora il tessuto contro la pelle. «Se la
zia Lysa dovesse scoprirlo… potrebbe pensare male.»
Petyr risponde con il solito sorriso,
quello che sembra dire so tutto.
«Ora
vorrei alzarmi… e vestirmi.»
Lo dice facendo un cenno verso gli
abiti sulla sedia, come a fargli presente che non è vestita.
Deve aspettare che
esca per poter scendere dal letto, ma Petyr è sempre fermo
lì.
«Ti lascio.»
Raggiunge la porta, le lancia una
veloce occhiata, e Sansa è di nuovo sola.
Ω
Uno squillo.
Il tempo di infilare la mano nella
tasca e ha già smesso.
Petyr osserva lo schermo per vedere
chi l’ha chiamato, ma sa già di chi si tratta.
Pigia il dito sul cellulare,
passa la lingua sulle labbra mentre aspetta di sentire quella voce.
«Pronto?»
«Sì» si limita a dire Petyr, sapendo
che Varys aspettava solo quel segnale.
«Baelish… come va la vita
matrimoniale?»
Riconosce la risatina all’altro capo
del telefono, ma non ha tempo per scherzare. Non ha proprio tempo da
perdere.
«Sai
perché ti ho chiamato?»
Fa alcuni passi
nella stanza, aggira
il divano di pelle che Lysa ha conservato dal precedente matrimonio,
lancia una
veloce occhiata in corridoio per assicurarsi che lei non sia
lì a sentirlo.
In genere preferisce uscire per
chiamare, fare una passeggiata in città, in mezzo al
traffico e al caos, così
che nessuno possa sentirlo.
Ma oggi c’è Sansa in casa. Sansa e
Lysa, sole, non è un’immagine che riesce a
sopportare.
«Puoi
averlo fatto solo per due
ragioni…» sogghigna Varys, con quel suo fare da
prete. «È ancora con te?»
Petyr sorride, si gratta una tempia
con fare divertito. Non chiede come faccia a saperlo, sa che il suo
“amico”
trova sempre il modo di scoprire tutto.
«Ovviamente…»
«Fa che non ci resti a lungo»
dichiara Varys, facendosi serio. «Joffrey la sta
cercando.»
La giacca
leggera di Petyr è appesa
all’entrata, sembra riflettere la luce del sole nascente. Non
ha bisogno di
restare a fissarla per sapere i giochi di luce che inizieranno da quel
momento
in poi.
Solleva la testa al soffitto, osserva
il lampadario di vetro grezzo, ricco di scaglie di pietra. Un dono di
Catelyn a
sua sorella…
«Lo
immaginavo…» risponde lui,
ricordando l’espressione severa di Cat, quando le aveva
chiesto di non
sposarsi. «Oggi dobbiamo passare da casa,
però.»
«È una pazzia» esclama Varys, come se
non si aspettasse nulla di diverso da lui. «Ha lasciato il
suo cane davanti
alla porta.»
Un bel modo per avvertirlo della
presenza di Sandor Clagane a casa di Joffrey.
Dato il mestiere pubblico di suo
padre, Cersei aveva voluto una scorta per la famiglia. E Sandor, Sandor
era
quello che più spesso faceva visita al suo primogenito.
«Il
Mastino?»
«Proprio lui.»
«Preferirei
non incontrarlo…»
sogghigna ancora Petyr, guardandosi le unghie. Sembra quasi una cosa
senza
importanza, eppure sa, sa benissimo che con lui non si può
scherzare.
«Se vai oggi, l’incontro è
certo.»
Sta per ribattere, Petyr, sta per
dire che Sansa ne ha bisogno, che ha lasciato i suoi effetti personali
a casa,
che ha bisogno di riprenderli. Soprattutto i documenti…
Ma il suono della porta lo spinge ad
allontanarsi dal corridoio, a rifugiarsi dalla parte opposta del
salotto. Pesta
il parquet con fare sicuro, mentre si appresta a chiudere la chiamata.
«Ci sentiamo…»
Il pavimento di
legno gli rivela dei
passi alle sue spalle, ma sono troppo leggeri per appartenere a Lysa.
Non si
volta, aspettando che lei gli dia conferma della sua presenza. Del suo
interesse.
«Chi era?»
Allora Petyr gira la testa, scrutando
Sansa con uno dei suoi sorrisi enigmatici. La somiglianza con Cat
è così forte
che vorrebbe attraversare la stanza e prenderla tra le braccia.
«Sei uguale a tua madre.»
Si avvicina con passo lento,
mantenendo il loro contatto visivo, vedendola arrossire appena. Il
pericolo è
vicino, Lysa è vicina.
Ma come
potrebbe importargli, proprio ora?
Ora che è così bella.
«Queste
guance rosse ti donano,
Sansa.»
Ormai è a un passo. Rallenta apposta,
per dare modo alla sua preda di velocizzare i battiti. Petyr lo sa,
è come
nella caccia, sa che basta poco per far sussultare un cuore giovane.
Le sfiora le gote con il dorso della
mano, lei non smette di guardarlo.
«Sei ancora più bella di quanto lo
era Cat alla tua età.»
Punta le labbra, con gli occhi e con
le sue, sa che Sansa non si tirerà indietro, sa che non lo
fermerà.
La sfiora appena, sente il sapore di
latte e miele, della colazione che non hanno diviso, della pelle
morbida sotto
la bocca.
Quando si discosta, Sansa è ancora
più rossa di prima.
È in quel momento che decide di
rischiare. In fondo, cosa potrà mai fargli la guardia del
corpo del Sindaco?
Andrà da solo, la
lascerà tranquilla
qualche ora, aprendosi la strada per la casa di Joffrey. E dopo, dopo
tornerà a
prenderla, a portarla a riprendere le sue cose.
A lasciare la chiave
sul tavolo di
Joffrey, magari un biglietto assurdo scritto con la sua penna.
Solo di una cosa
è sicuro, solo una
cosa non appartiene più al ragazzo.
Petyr ne è
certo, perché si tratta di
Sansa.
Ora, il suo gioco
può cominciare.
Note
dell’autrice:
Grazie
mille per essere arrivati fin qui!
Ho
intenzione di aggiornare ogni giovedì, di continuare questa
storia che, non so
perché, mi sta prendendo veramente tanto.
Vorrei
ringraziare tutte le persone che hanno aggiunto la storia alle
preferite e alle
seguite: davvero, mi avete resa felice!
Spero
che abbiate visto il trailer, perché rivela molte cose su
ciò che accadrà in
futuro. Non sarà tutto “latte e miele”,
ecco. Ho inserito il genere “thriller”
apposta.
Come
avrete capito, dal prossimo capitolo entrerà in scena un
nuovo personaggio (ma
ne arriveranno anche altri, statene certi!).
Fatemi
sapere cosa ne pensate, per voi sarà niente, ma per me vuol
dire moltissimo!
Celtica
|
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Capitolo 6 *** La fuga ***
Vieni con me cap 6
Trailer
La Fuga
ffacciata alla
finestra, Sansa
osserva Petyr attraversare la strada, il passo leggermente ciondolante,
l’aria
furba che non lo abbandona mai.
Sospira, pensando a cosa ne sarebbe
stato di lei senza l’amico di sua madre, ora suo zio
acquisito, se non fosse
intervenuto lui un paio di giorni prima. È stata davvero una
stranissima
coincidenza: quante probabilità potevano esserci al mondo di
incontrare proprio
lui sulla strada di casa?
Sansa si morde l’unghia del pollice,
guarda le auto fermarsi davanti alle strisce pedonali, lui che si
allontana
verso il parcheggio.
Ha quasi voglia di chiamarlo.
Se non fosse che non può farlo… Il
cellulare è rimasto a casa di Joffrey, e lei non conosce
nemmeno il numero di
Petyr. E poi, cosa direbbe Lysa se sapesse che si sentono al telefono?
«Vieni,
cara» la voce di sua zia
sembra arrivare da lontano, quasi come se avesse udito i suoi pensieri.
«Vieni
di là con me, ci sono dei pasticcini al limone.»
Sansa la raggiunge a passo svelto,
con il sorriso di chi comincia a fidarsi.
In fondo, che male potrà mai farle
Lysa? È pur sempre sua zia.
«Li adoro» confessa, lisciandosi
l’abito verde preso in prestito dall’armadio.
Attraversano la
sala, sua zia le
prende la mano, Sansa lancia una veloce occhiata a Robin, impegnato con
qualche
videogioco, cuffie nelle orecchie e occhi fissi sullo schermo.
Sta facendo una strage di nemici, il
sangue virtuale vola ovunque, mentre lui grida da vincitore.
«Lasciamolo giocare» dice Lysa,
tirandola verso la cucina.
Non ha le mani morbide come sua madre,
ma di più… sono unte di crema, un po’
viscide, ed estremamente calde.
«Siedi
qui, vicino a me.»
Una sedia viene spostata per Sansa,
una sedia rivestita di paglia, su un pavimento azzurro cielo.
Ci sono diversi banconi intorno a
lei, tutti dello stesso colore, e un tavolo guarnito di fiori e frutta.
I
dolci, che lei tanto adora, fanno la loro figura al centro della
tovaglia,
sopra il disegno di un’aquila in volo.
«Anche tua madre li adorava» racconta
Lysa, vedendo Sansa prenderne uno. «Da piccola non faceva
altro che ingozzarsi
di dolci… Se non si fosse sposata con tuo padre di certo
sarebbe diventata una
balena.»
Sansa si lecca
il dito, posa il dolce
sul tavolo con aria colpevole.
Sua madre una balena? Impossibile.
Catelyn era come un giunco e lei non
l’ha mai vista mangiare un dolce.
«Davvero,
zia? Quando la mamma era
viva, lei…» le fa ancora male parlarne, ma in
fondo si tratta di sua zia, chi
potrebbe capirla meglio di Lysa? «Lei non ci lasciava
mangiare molti dolci,
giusto una volta a settimana, la domenica. Diceva che potevamo
integrare lo
zucchero con la frutta.»
Lysa alza gli occhi al cielo,
sorridendole.
«Le manie rigide e salutiste di tuo
padre!» critica la zia, sporgendosi in avanti, come per
invitarla a continuare.
Lei accavalla le gambe sotto il
tavolo, tamburella le dita come su una tastiera, è tentata
di riprendere in
mano il dolce al limone. Ma non lo fa, si limita a fissarlo.
«Sì» ammette Sansa, lanciando una
veloce occhiata a Lysa. «Papà era un po’
severo in queste cose… Ma non ci ha
fatto mancare mai niente, lui… mi manca. Mi manca tanto,
zia.»
Lysa posa la mano sopra la sua,
gliela stringe concedendole un sorriso colmo di tenerezza.
«Lo
so, mia cara… Lo so» sussurra con
fare materno e, per un momento, a Sansa sembra di riconoscere la voce
di sua
madre. Ma non è lei. «Anche a Robin manca suo
padre. È un ragazzo così dolce!
Meraviglioso.»
Lei risponde con un sorriso. Non sa
cosa dire, non conosce suo cugino, non sa come sia. Ma è in
casa sua, ora, non
può certo negare quanto sta dicendo sua zia.
«Sarà fortunata la donna che lo
prenderà» dice lei, sapendo che è
ciò che sua zia vuole sentire.
«Proprio così, Sansa. Molto
fortunata.»
Non sa perché, ma le è dispiaciuto
cambiare argomento, smettere di parlare dei suoi genitori. Sperava,
forse, che
Lysa le dicesse qualcosa di nuovo?
Che li facesse rivivere, seppur per
un solo istante?
«Puoi
prenderlo» continua la zia,
facendo un cenno verso il dolcetto. Le sta ancora accarezzando la mano,
ma
Sansa vorrebbe che smettesse. «Puoi mangiare tutti i dolci
che vuoi. Robin non
ama il limone.»
«Piacciono a te, zia?»
«Nemmeno.»
La voce di Lysa
si è fatta più dura,
come se avessero toccato un argomento scottante. Sansa si chiede perché abbiano comprato quei
dolci senza
l’intenzione di mangiarli.
Le dita di sua zia afferrano le sue,
la presa si stringe appena, ma Sansa avverte qualcosa che non va.
«Li ha comprati Petyr» spiega Lysa,
guardandola fisso negli occhi. Ha una voce stranamente dolce,
stranamente dura,
come se stridesse sull’acciaio. «Stamattina.
Apposta per te.»
È gelosa.
Non ci voleva un genio per capirlo,
eppure Sansa, per un momento, ha creduto che sua zia potesse volerle
bene, che
potesse voler trascorrere qualche minuto con lei, a parlare di sua
madre.
«Petyr è… molto gentile.»
Non sa cosa rispondere, sente la mano
di Lysa stringere forte la sua, come se non potesse sfuggirle.
«Sì, Sansa. Come mai?»
Muove leggermente il polso, cercando
di liberarsi, di farle capire che non le piace quel contatto, che vuole
essere lasciata
in pace, che non ha più intenzione di restare lì,
in cucina, sola con lei.
«Cosa?» chiede, facendo pressione
sulle dita per liberarsi.
«Come
mai Petyr è così gentile con
te?»
Ha paura, Sansa
ha paura. Non ha idea
del perché Petyr passasse da quelle parti, perché
le abbia offerto di salire in
macchina. Non sa come mai sia sceso di prima mattina a cercarle dei
dolci al
limone. Vuole solo essere lasciata in pace. Perché Lysa non
riesce a capirlo?
«Sono tua nipote» tenta infine, sentendo
la mano di sua zia uguale a un artiglio nella pelle. «Lo
avrà fatto per questo.
Per l’affetto che…»
«Tua
madre ha cercato di portarmelo
via» racconta Lysa, piantando le unghie nella carne.
«Mi stai facendo male… Zia, per
favore…»
«Eravamo solo ragazze, Petyr moriva
dietro a lei, ma Cat era troppo orgogliosa per volerlo. Credeva di
meritare di
più» Lysa le afferra il polso con
l’altra mano, si avvicina tanto, troppo, e
Sansa sente il cuore battere all’impazzata. «Ma
c’ero io a consolarlo, povero
Petyr… Io. Quando la tua cara madre si è accorta
di me e Petyr… beh, voleva
raccontare tutto a nostro padre. Ha parlato con lui, gli ha chiesto di
lasciarmi.»
Adesso, la
tensione che corre nel
braccio di Sansa le fa sentire dolore. Le gira la testa, non riesce a
capire
cosa sia successo, vorrebbe solo andarsene, abbandonare quella casa,
non vedere
mai più sua zia.
«Per favore…» tenta ancora,
ricordando il modo in cui Joffrey le stringeva i polsi per farle del
male. Del
modo in cui la teneva ferma per i suoi comodi, mentre le lacrime
scorrevano sul
suo viso udendo la risata crudele di lui.
«Capisci?! È stata lei! È stata Cat a
dividerci!»
Lysa ha preso a
gridare sul suo viso,
il terrore dilaga fuori dagli occhi di Sansa.
«Ti prego! Lasciami, zia!»
«E adesso arrivi tu, proprio ora che
possiamo finalmente stare insieme. Perché sei venuta qui,
perché? Lo vuoi per
te, vero? Sei la sua amante?»
Non sente più la mano, solo tanto
dolore, mentre con l’altra cerca di liberarsi. Fa per alzarsi
in piedi, la
sedia cade sul pavimento, ma Sansa nemmeno se ne accorge.
«No,
no!» grida, in lacrime. «Cosa
dici? No, zia! Non è così! Per lui sono solo una
stupida ragazzina! Ti prego,
basta! Lasciami! Dice sempre che sono stupida, che ama te, che ha
sempre voluto
te! Per favore…»
In un istante si ritrova stretta tra
le braccia di Lysa, non riesce a trattenere i singhiozzi, mentre la
mano di sua
zia le accarezza i capelli. Sansa vorrebbe non sentirla, non saperla
vicina, ha
solo paura.
Ω
La casa di
Joffrey è in una zona
residenziale.
Bei giardini, case grandi, e l’enorme
palazzo dove Sansa divideva l’appartamento con lui.
Petyr si
appresta ad avvicinarsi al
portone, quando lo vede: il Mastino.
Fa la guardia, proprio come un cane.
Ha il volto sfregiato, i capelli lunghi che tentano in qualche modo di
coprire
quella cicatrice, il corpo alto e muscoloso di un buttafuori. Le
braccia
incrociate sul petto, un lieve accenno di barba, sicuramente mirato a
coprire i
segni sul viso.
Anche uno stupido capirebbe che è
partito tutto da un’idea di Cersei: lei ha sempre creduto di
poter comandare
gli altri a bacchetta, Petyr lo ricorda bene, anche lui ha lavorato per
quella
donna.
Bellissima e spietata, sempre attenta
a tutto ciò che succedeva.
Lascia la
macchina parcheggiata per
strada, segue il marciapiede rosso, raggiunge l’entrata del
palazzo.
«Clegane!» esordisce Petyr con un
sorriso, allargando le braccia. «Sempre di guardia?»
«Baelish…» La voce del Mastino
stride, i denti si digrignano quando lo vede. «Che ci fai
qui?»
Bambini che gridano correndo alle sue
spalle gli lasciano il tempo di pensare a cosa rispondere. Si gratta la
tempia,
facendo un passo avanti.
«C’è
Joffrey? Dovrei parlargli.»
Sandor solleva
una mano per fermarlo,
ha il volto di un cane rabbioso. Sposta il peso da un piede
all’altro con fare
nervoso.
Non è mai stato un tipo paziente,
Petyr lo ha sempre saputo.
«Dovremmo farci una bevuta, io e te…»
mormora lui, come a dirgli che sa benissimo di quanto spesso si
ubriachi. «Che
ne dici?»
Altro silenzio, il Mastino sembra
pronto ad afferrarlo con i denti pur di farlo girare indietro.
Petyr capisce che non c’è modo di
farlo spostare da lì, non può portare Sansa a
casa, farglielo incontrare. Sa
che Sandor la porterebbe dritta da Joffrey, che gliela consegnerebbe
come un
cane che riporta l’osso al padrone.
Fa per voltarsi
indietro, pronto a
tornare a casa, quando la voce raschiante del Mastino lo ferma.
«Magari telefona la prossima volta.»
È una battuta, e il sorriso orrendo
di Sandor è la più chiara delle minacce.
Il sole mette in risalto le
cicatrici, i capelli scuri che cadono a ciuffi per coprirli…
Petyr sorride e se
ne va.
È
tentato di chiamare Varys, di
chiedergli come fare per “comprare” il Mastino, ma
si risponde da solo: non è
in vendita.
Quel poco di dignità che poteva avere
è andata a Cersei Lannister, secoli prima.
È troppo tardi per conquistare la
fedeltà di un cane. Può solo tornare a casa,
sperare che Sansa capisca, che
decida di richiedere nuovi documenti, che accetti di farsi comprare un
nuovo
cellulare.
Raggiunge l’auto con passo sicuro,
svelto, apre la portiera senza guardarla nemmeno, i pensieri rivolti
altrove.
A una donna che non vedrà più, se non
negli occhi di sua figlia.
Mette in moto,
guida per un terzo
della città prima di raggiungere casa. Spera che Lysa gli
lasci un minimo di
privacy con Sansa, che non si ingelosisca ancora, che non minacci di
nuovo di
buttarla fuori dal loro appartamento.
Dopotutto, il piccolo attico è anche
suo, ora.
La divisione dei beni è stata
sufficiente a fargliene acquisire la proprietà.
Sistema la giacca di pelle scendendo
dall’auto, cammina per un breve tratto prima di ritrovarsi
davanti alla porta
di casa. Ha usato l’ascensore, come sempre, e ora
è pronto a infilare la chiave
nella serratura.
Ma non ce n’è bisogno…
La trova aperta,
socchiusa di due
dita appena.
«Lysa?» chiama, chiedendosi cosa
possa essere successo durante la sua assenza.
«Robin?»
Attraversa l’ingresso: un’unica,
enorme, vetrata che si affaccia sulla città. Nel salotto, il
suo figlioccio sta
giocando a un videogame, Lysa è sdraiata sul divano dietro
di lui, intenta a
ricoprire di smalto rosso le unghie dei piedi.
«Ho trovato la porta aperta.»
Lei non solleva nemmeno gli occhi,
alza le spalle, come se non le importasse, come se non fosse affar suo.
«Dov’è
Sansa?»
Quando Lysa lo
fulmina con lo
sguardo, Petyr capisce che è successo qualcosa in sua
assenza.
Corre in corridoio, trova la camera
aperta, vuota, la finestra spalancata e le tende che si muovono come
onde del
mare. Ma lei non c’è.
Petyr controlla in ogni stanza, bussa
anche in bagno, prima di aprire per vedere se è
lì.
Non c’è traccia.
«Dov’è
Sansa?»
Stavolta lo chiede con voce dura,
stringendo la mano a pugno.
Lysa è capace di tutto, anche di
averla buttata giù dalla finestra. È pazza,
malata, e questo, Petyr lo ha
sempre saputo. Ma aveva bisogno di lei… Aveva bisogno delle
sue terre, dei suoi
soldi, dell’influenza che ha Lysa su certi uomini di potere.
«Perché
la vuoi tanto?» squittisce
sua moglie. Ha le lacrime agli occhi, il pennellino ancora in mano che
cola
smalto sul divano. «È solo una ragazzina,
Petyr!»
C’è
corrente, ora.
La finestra della camera di Sansa e
quella del bagno, con le porte aperte, hanno fatto entrare troppa aria,
e Petyr
deve sistemarsi i ricci prima di parlare.
Si avvicina, si inginocchia sul
tappeto davanti a Lysa, le sfiora la spalla.
«Ho sposato te, non lei.»
«A volte sembri dimenticartene.»
«Un
amico mi ha chiesto di
prendermene cura… Non mi importa nulla di Sansa.»
Lysa gli sorride, docile.
Sembra pronta a baciarlo, così Petyr
si tira in piedi, aspettando che gli dica quanto vuole sentire.
Cos’ha fatto a Sansa?
«Non
lo sapevo… Non mi dici mai
niente.»
Petyr trattiene
il disprezzo per sé:
è sempre stato bravo in questo.
Muove una mano per chiederle di
continuare, girando attorno al divano, ma Lysa non sembra intenzionata
a
sbottonarsi tanto facilmente…
Teme il peggio, eppure rimane
impassibile, grattandosi la tempia e aspettando che sua moglie si
decida a
dirgli la verità.
«Abbiamo
parlato» confessa Lysa,
evitando i suoi occhi. «Lei ha detto qualcosa e…
è andata via.»
«Di cosa avete parlato?»
Lysa muove la testa da una parte
all’altra, come se non riuscisse a ricordare.
«Cos’ha detto? Dov’è
andata?»
Petyr conosce già la risposta, eppure
è da sua moglie che vuole sentirla.
Non sembra
intenzionata a dirglielo.
Robin non si è accorto di nulla, con
le cuffie nelle orecchie e il volto piantato nel televisore. Indossa
ancora il
pigiama e ha il mento sporco di latte.
Le gambe di Petyr lo conducono alla
porta. Esce senza dire una parola.
Ω
È
bastato dire a Lysa di volersene
andare per ricevere dei soldi per il taxi.
Sansa non ha dovuto nemmeno
chiamarlo… Nel momento stesso in cui ha raggiunto il
marciapiede, ecco un’auto
gialla arrivare nella sua direzione.
Non si sente più coraggiosa, solo…
non le importa.
Ora come ora non le importa di cosa
dirà Joffrey, non le importa di cosa le farà. Le
basta andarsene, recuperare i
documenti, il telefono e i soldi sufficienti per raggiungere Robb a
Londra.
Ha pensato di andare da Jon, a nord,
ma è bastato un minuto per capire che era un’idea
stupida.
Sansa odia il freddo, ha seguito il
suo fidanzato nel caldo sud apposta…
Mentre il taxi
prosegue la sua corsa,
lei ripensa a Petyr: cosa dirà di lei?
Ormai non manca molto. Riconosce gli
ultimi isolati prima del palazzo, le case con giardino, i bambini che
corrono
gridando per strada. Il verde degli alberi che, per un momento, la
riporta al
bosco dove è stata con Petyr, dove lui l’ha
baciata…
Dove l’ha consolata per il suo
futuro, dove le ha promesso di occuparsi di lei. Sempre.
«Arrivati.»
Il tassista si volta per prendere i
soldi, la guarda uscire dall’auto, ma non dice nulla sul
livido giallastro che
ha sul viso: ha fatto presto a cambiare colore…
Ma è ancora in bella vista. Sansa lo
sa.
Quando scende
dal taxi sente le gambe
tremare: c’è il Mastino davanti al portone.
L’uomo orrendo dal volto sfigurato,
che non sorride mai, la cui sola voce basta per metterla a disagio.
È vestito
di nero, appoggiato con la schiena al muro rosso, le braccia incrociate
sul
petto.
Anche lui la vede.
Ed è qualcosa che la uccide dentro.
Improvvisamente, Sansa non ha più voglia di proseguire,
vorrebbe solo voltarsi
e fuggire, ma non riesce a muoversi, ha i piedi inchiodati a terra, le
braccia
ancorate al corpo.
Potrebbe mettersi a gridare, agitare
le mani e attirare l’attenzione.
Ma non ci riesce.
È come se qualcuno avesse tolto il
volume dalla sua bocca, come se le avesse tolto ogni energia.
E quando vede
Sandor fare alcuni passi
verso di lei, si sente perduta.
«Uccelletto» dice lui, sovrastandola
con la sua altezza. «Non dovevi tornare.»
Sansa sente la
mano possente di lui
accompagnarla verso il portone, ma le è tutto
così estraneo adesso… Come se non
lo stesse vivendo davvero, come se qualcun altro stesse per subire
quanto
toccherà a lei.
«Ti prego» mormora con voce
supplichevole. «Non portarmi da lui…»
Sta per
piangere, ma qualcosa la
trattiene: la speranza che il Mastino non sia il mostro che ha sempre
creduto.
Sì, forse ha capito il motivo per cui
è tornata… Forse la sta solo scortando dentro
l’appartamento, così che possa
riprendere quanto le serve e fuggire via.
Forse, pensa ancora Sansa, Joffrey
non è in casa.
Sandor sa cosa le ha fatto… Non può
voler vedere altri segni sul suo viso, non può voler sentire
altre grida, altre
suppliche. Non sarebbe umano.
«Non
dovevi tornare» ripete il
Mastino con voce dura.
Sembra arrabbiato, la tira per il
braccio, la sua presa è salda, eppure non la sta stringendo,
non le sta facendo
male. E con il fisico che ha, basterebbe davvero poco per distruggerla.
«Cosa ti è saltato in mente?»
Sansa non riesce
a rispondere… Si
chiede come abbia potuto essere così stupida, cosa le sia
passato per la testa
quando ha abbandonato il rifugio sicuro che era Petyr.
Lui non le avrebbe fatto del male.
Non l’avrebbe riconsegnata a Joffrey…
Lui voleva solo aiutarla.
«Per
favore…» sussurra ancora lei,
spingendo la mano di Sandor con la sua.
È ruvida e fredda come il ghiaccio,
eppure, nello sguardo di lui, Sansa riconosce qualcosa che è
abituata a vedere
da tutta una vita.
Qualcosa che ha spinto Joffrey a
essere geloso, qualcosa che la fa sentire indifesa davanti a un uomo.
Qualcosa
che ha letto anche negli occhi di Petyr.
Desiderio.
Note
dell’autrice:
Grazie
per aver letto anche questo capitolo!
E
vorrei ringraziare un paio di persone per avermi aiutata a cercare la
musica
per un altro video su Sansa e Petyr (stavolta non moderno): Rita e
Fabio.
Grazie di cuore! Rita mi ha fatto un elenco completo di musiche
perfette per un
video… fino a trovare quella giusta!
Spero
di leggere presto le vostre impressioni.
Celtica
|
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Capitolo 7 *** Sandor Clegane ***
Cap 7
Trailer
e
sorpresa a fine capitolo.
Sandor Clegane
l
piede affonda nell’acceleratore, le
case e i palazzi scorrono davanti agli occhi come su uno schermo.
Sembra non
accorgersi della velocità, una mano fissa sul volante,
l’altra sul cambio, in
un gioco che sa di pericolo.
Perché
è tornata? Forse Sansa è
davvero stupida come ha sempre detto Cersei. Forse ha deciso di farsi
malmenare
ancora, mandando in fumo i suoi piani di portarla via da quella casa.
Di
una cosa Petyr è certo: Cat non
sarebbe tornata.
No,
Cat non avrebbe lasciato che
qualcuno la picchiasse, lui lo sa bene.
Ricorda
il giorno in cui ha fatto a
botte con il primo ragazzo di Catelyn… Le grida di lei, che
voleva farli
smettere, i pianti isterici di Lysa, il pugno che gli ha quasi spaccato
la
mascella…
Non
era mai stato capace di fare a
botte, ma voleva farlo per lei, per dimostrarle che l’amava,
che la voleva, che
era pronto a tutto per averla.
Cat
non l’aveva presa bene…
Era
corsa dal suo ragazzo, in piedi,
che si accarezzava il dorso con cui aveva colpito, e aveva abbassato
gli occhi
su di lui.
Petyr
si era sentito morire.
Non
c’era niente in quello sguardo
che potesse fargli sperare in un lieto fine, non c’era niente
degli anni che
avevano trascorso insieme, crescendo e giocando, fino alla sera in cui
aveva
tentato di baciarla…
Avevano
ballato insieme tutta la
sera, una festa di paese, Lysa in un angolo a guardarli. Ma quando lui
si era
avvicinato un po’ di più, quando aveva preso a
fissarle le labbra, respirando
sul suo viso, Catelyn si era scostata, lasciandolo solo in mezzo alla
piazza.
Quanto
aveva bevuto quella notte!
Tanto
da lasciarsi convincere da Lysa
a seguirla, a fingere che si trattasse di sua sorella invece che di lei.
Un’altra,
al posto di sua moglie, lo
avrebbe colpito, insultato, rifiutato. Mentre lei, sentendosi chiamare
“Cat”,
lo aveva solo stretto più forte, baciato con più
foga, concedendosi
completamente.
No,
Sansa non è come sua madre.
È
più accomodante, meno divertente,
più dolce e meno dura.
Eppure,
ogni volta che la guarda,
Petyr vede Catelyn che gli sorride. Baciarla è come tornare
ad avere sedici
anni, l’età in cui Cat è rimasta
incinta la prima volta… Una bambina che si era
lasciata incantare da un rude uomo del nord, una bambina che lui
avrebbe voluto
per sé.
Petyr
non le avrebbe permesso di
abbandonare gli studi, non l’avrebbe rinchiusa in una casa a
sfornare bambini…
Manca
poco, i giardini delle villette
indicano che è quasi arrivato.
Vuole
riprendere Sansa, vuole una
seconda occasione.
Vede
i bambini che corrono ai lati
della strada, un cane dietro di loro, le madri, sedute sulle panchine
del
marciapiede, intente a parlare. C’è un furgoncino
parcheggiato davanti al
palazzo, sulla fiancata ha disegnate delle rose.
Di
Sansa non c’è traccia.
Che
sia già entrata? Che lo abbia già
rivisto?
Magari
è troppo tardi per salvarla,
magari è lei a non voler essere protetta.
Petyr
accosta l’auto davanti alle
panchine delle madri, inserisce le due frecce e scende, sistemandosi la
giacca.
Solleva lo sguardo al balcone di Joffrey, vorrebbe sapere cosa sta
succedendo
là dentro, se Sansa sia con lui…
Guarda
ai due lati della strada prima
di attraversare, anche se non ce ne sarebbe bisogno. È una
strada tranquilla,
sempre vuota.
Ma
c’è una cosa che Petyr nota prima
di raggiungere il portone… L’assenza del Mastino.
È
un brutto segno, perché può voler
dire solo una cosa.
Cerca
il nome Baratheon sul citofono,
vede il dito tremare lievemente mentre preme sul bottone, la sensazione
che sia
troppo tardi annidarsi dentro di lui.
Suona
ancora e ancora, ma continua a
non rispondere nessuno…
Forse
si è sbagliato, forse Joffrey è
andato via, forse ha portato con sé Sandor Clegane.
Petyr
schiaccia tutti i bottoni a
caso, premendo il palmo sulla superficie, finché una voce
non parla all’interfono.
«Chi
è?»
«Devo
fare una consegna.»
Nel
momento in cui il portone si
apre, Petyr si sente attraversare da un brivido.
È
ora.
Ω
Sansa
ricorda la prima volta che ha
incontrato il Mastino.
Joffrey
le aveva preso la mano, le
aveva sorriso, l’aveva rassicurata. “Non
si muove se non lo dico io.”
Le
era sembrata una cosa bellissima,
come se il suo ragazzo fosse stato un cavaliere e lei una principessa
in
pericolo.
Aveva
fatto presto a cambiare idea…
Il
primo schiaffo in pubblico, lo
sguardo raggelante di Cersei, l’impassibilità di
Sandor.
Nessuno
aveva detto nulla al grido di
Joffrey: “Sta zitta! Devi stare
zitta
quando parlo io, capito?!”
Non
una parola per difenderla, non un
gesto per dirle che non sarebbe più successo…
Sansa
si era illusa che fosse solo un
momento di rabbia, che non sarebbe più accaduto, che se
fosse rimasta in
silenzio più spesso Joffrey non l’avrebbe
più toccata.
Ora,
mentre il Mastino la trascina
per le scale, mentre lei implora di lasciarla andare, che non
tornerà più, che
non dirà mai nulla che possa rovinare la reputazione di
Joffrey, pensa alla
promessa di Petyr.
“Non
ti farei mai del male.”
Allora
perché è tornata? Perché non
è
rimasta con lui… Sansa non fa altro che ripetersi che
arriverà presto a
salvarla, che impedirà a Joffrey di toccarla ancora.
Ma
sa che non è possibile.
Così
come sa di non dover smettere di
illudersi. Come potrebbe affrontare quel mostro, altrimenti?
«Lasciami
andare!» tenta ancora,
quando riconosce il piano di casa sua.
Sandor
si ferma un istante, le lancia
una veloce occhiata, fa un sospiro pesante.
«Sai
che non posso…»
La
cicatrice sul suo viso sembra
pulsare, le guance si colorano di rosso mentre parla. Allenta appena la
presa
sul suo braccio, come se l’ultima cosa che volesse fosse
riportarla da lui.
«Non
contraddirlo, dagli ciò che
vuole… Smetti di farti del male.»
«E
come?» mormora Sansa mordendosi il
labbro. «Come?! Ogni scusa è buona per
picchiarmi… E tu non fai niente.»
Lo
sguardo che le lancia ora è di
rimprovero, come se avesse sbagliato a fare quell’accusa. La
prende per le
spalle, scuotendola come una bambola di pezza.
«Sono
fottuto, ragazzina» ringhia sul
suo viso, facendola tremare. «Non c’è
niente che mi dia piacere quanto la vista
del sangue… Ma cosa pensi accadrebbe se toccassi
Joffrey?»
Quando
la lascia andare, Sansa pensa
al sapore del sangue nella sua bocca, ai lividi sulle braccia, ai segni
sulle
gambe. È quasi tentata di mostrarglieli, di costringerlo a
guardarli, a
ripetere quelle parole dopo aver visto ciò che gli abiti
celano.
Sandor
non è mai stato presente
durante quei momenti.
Eppure,
Sansa è convinta che abbia
sentito tutto, che sia rimasto con l’orecchio attaccato alla
porta, a godersi
le sue urla di dolore.
«Sei
crudele.»
Tutto
l’odio che prova per Joffrey,
tutta la paura che ha, si tramutano in rabbia verso il Mastino, che
è lì
davanti a lei, come un prezzo da pagare per le pene che sta per subire.
La
sua piccola rivincita, che non sa di
niente, Sansa se la prende con lui, guardandolo con astio, scrutandolo
con
ribrezzo.
«Vieni»
ordina il Mastino
trascinandola per un braccio.
Stavolta
lei lo segue, docile,
sapendo che tentare di fuggire sarebbe inutile. Guarda la porta nera,
il nome
dei Baratheon inciso in caratteri dorati, e i primi ricordi di lei, di loro, le tornano alla mente.
“Ti
piacerà, vedrai.”
Joffrey usava un sorriso così dolce, a
volte… da farla sciogliere. “Ho
fatto
cambiare la tappezzeria tre volte. Non mi soddisfaceva mai…
Hai proprio un bel
viso, Sansa.”
E
il bacio, il bacio più romantico
che le avesse mai dato, proprio davanti all’entrata, un
momento prima di
attraversare l’uscio e restare incantata dai mobili.
“Guarda!”
Aveva gridato entusiasta, mostrandole il pomello a forma di testa di
leone. “Ti piace? Lo ha fatto fare
mia madre per
me.”
Mentre
il Mastino posa la mano sulla
criniera lucida, Sansa prova un senso di nausea all’idea di
rivederlo, di
rimettere piede in quell’appartamento.
Le
fauci del leone attirano il suo
sguardo, mentre Sandor infila la chiave nella bocca aperta
dell’animale, ma un
istante prima che possa far scattare la serratura, la porta di fronte
si apre.
«Sansa!»
Margaery si porta una mano
sul petto, un’espressione stupita sul viso. «Mio
Dio, per fortuna stai bene.»
La
scollatura a V mette in risalto il
seno, mentre l’abito color crema le scende fino alle
ginocchia. Ha due spacchi
ai lati, delle rose dorate ricamate in vita, e le spalline corte e
svolazzanti.
Margaery
era stato uno dei motivi per
cui Joffrey l’aveva colpita.
“Ho
visto come la guardi.”
Lo aveva accusato, Sansa. Ed era
stato il suo più terribile errore… “So
cosa vorresti…”
Sbam.
Un
colpo ed era finita a terra.
“Robb
non lo farebbe mai!”
Il
pugno di Joffrey aveva preso a torcersi
davanti a lei, le venature della mano in bella mostra.
“Robb
è un uomo! Non è come te.”
Era
stato quando aveva cercato di
rialzarsi che lui l’aveva afferrata per la vita.
L’aveva stretta a sé con la
fretta di un amante, e con una spinta l’aveva gettata contro
il tavolo di
legno.
E
i capelli… quei capelli che Joffrey
aveva elogiato al loro primo incontro, erano finiti nel suo palmo,
tirati forte
fino a farla gridare.
“Che
cosa hai detto?”
Aveva sussurrato sulla sua guancia. Il
tono era lieve, eppure Sansa aveva riconosciuto la crudeltà
nella sua voce.
“Non
sei un uomo…”
Un
colpo sul viso, il tavolo che si
era sollevato per affondarle nello zigomo, e le mani di Joffrey, calde
e
sudate, strette intorno alla sua gola.
Sansa
può ancora sentire i pollici
che affondano sotto il mento, i denti scoperti di lui, e gli
occhi… quegli
occhi che la stavano guardando morire. Che volevano
guardarla morire.
«Sansa?»
chiede Margaery, spostando
il peso del corpo in avanti. «È tutto
a posto?»
No,
come potrebbe? Mi ucciderà. Lui mi ucciderà!
Annuisce.
È
come un uccellino catturato da un
gatto, senza speranze e senza via d’uscita. Può
solo fingersi morta, e sperare
che lui abbocchi.
«Sei
caduta, di nuovo?» insiste
Margaery, studiando il segno sulla sua guancia. «Mi dispiace
così tanto…
Joffrey mi ha detto perché sei scappata.»
Pochi
passi, e la mano della sua
vicina è sul braccio. Sorride con finta innocenza, come se
non sapesse qual è
il vero motivo che l’ha spinta ad andare via.
«Un
po’ di gelosia non può rovinare
niente. Si aggiusterà tutto, vedrai.»
Quelle
parole sono un altro schiaffo.
Si aggiusterà tutto? Cosa,
dovrebbe
essere aggiustato?
Forse
che Margaery è convinta che lei
sia tornata per restare?
No.
Mai.
«Gelosia?»
ripete Sansa, scostandosi
dal tocco della sua vicina.
«Sì»
spiega, con fare comprensivo. Ai
lati delle labbra si formano due piccole fossette. «So tutto,
Sansa. Non devi
temere: non te lo porterei mai via.»
Sensazioni
contrastanti si affollano
dentro di lei.
“Non
te lo porterei mai via”?
Perché no?
«So
quanto Joffrey tenga a te.»
Lui
non tiene a me, pensa
subito Sansa. Sono il suo giocattolo.
È come un bambino che non vuole separarsi dal
gioco preferito.
Si
sentono dei rumori all’interno
dell’appartamento. Potrebbe essere Joffrey…
potrebbe aver riconosciuto la sua
voce.
Sansa
lancia una veloce occhiata al
Mastino, quasi per implorarlo un’ultima volta. Ma sa che
è tutto inutile. Sa
che non la lascerà andar via.
«Margaery,
posso parlarti un
momento?» si sente dire.
Spera
che la ragazza la inviti in
casa sua a bere un tè, che le dia l’occasione per
guadagnare tempo.
«Certo,
cara» risponde infatti,
raddrizzando la schiena. I boccoli castani si muovono ai lati del suo
viso,
incorniciandolo come il più bel quadro. «Un
tè?»
Non
serve nemmeno annuire, Sansa la
segue senza guardare il Mastino, lasciandolo lì, impietrito,
davanti alla
porta. Si è liberata di lui come un topolino che sfugge alle
grinfie del gatto,
un istante prima di essere mangiato.
Ferito,
sì, ma ancora in grado di
scappare.
La
scritta Tyrell troneggia in lettere
dorate sulla porta dell’appartamento,
con una piccola rosa incastonata nella T. L’entrata
è stretta, ma la sala che
segue è una delle più grandi che Sansa abbia mai
visto. Librerie e quadri
adornano le pareti, mazzi di rose fresche sui tavolini tondi che
affiancano le
varie poltrone, e un televisore enorme copre in parte la statua di un
cavallo
di legno.
Sansa
calpesta il tappeto persiano,
fa un sorriso al gatto a pelo lungo che si ritrova a dover aggirare, e
si
accomoda in poltrona.
«Oggi
sono sola» spiega Margaery con
il sorriso sulle labbra. Le prende la mano. «Loras
è agli allenamenti e la
nonna doveva incontrare tua… suocera.»
Ride
di una risata leggera,
portandosi le dita sulla pancia piatta.
«Di
cosa mi volevi parlare?»
Sansa
vorrebbe confidarle ciò che le
fa Joffrey, vorrebbe potersi fidare di lei come si è fidata
di Petyr. Vorrebbe
abbracciarla, chiederle di nasconderla, di non aprire mai al Mastino.
Ma
poi pensa ai muri confinanti, alle
grida che le hanno raschiato la gola, alle sue richieste
d’aiuto a cui nessuno ha
mai risposto.
Margaery
sa già tutto, deve sapere
già tutto. Perché era lì,
perché loro erano
lì.
«Volevo
solo stare un po’ con te… da
buone amiche» mente Sansa.
Si
costringe a sorridere, ma con il
pugno stringe un lembo dell’abito verde preso a casa di sua
zia, quasi che
sotto ci fosse un coltello pronto a colpire.
«Oh…»
Margaery sembra deliziata.
Stringe le mani in grembo e le siede di fronte.
Sansa
si costringe a pensare a
qualcosa da dire, ma viene fermata un istante prima di parlare. O
meglio, qualcuno la ferma, qualcuno
che ha preso
a bussare con insistenza alla porta.
È
Joffrey.
Il
Mastino deve averlo avvertito,
deve avergli detto che è tornata, che si è
nascosta in casa di Margaery. Tra
poco sarà tutto finito, tra poco verrà trascinata
di nuovo nell’altro
appartamento, a subire le angherie del suo fidanzato.
«Aspetta»
mormora Sansa, afferrando
il braccio di Margaery, in piedi davanti a lei, pronta a rispondere.
«Non
aprire… Ti prego.»
Per
un momento, Sansa si illude che
Margaery farà quanto le ha chiesto. Per un momento, si
convince che ci sarà un
altro futuro per lei, che nessuno la costringerà a tornare
con lui.
Ma
quando la ragazza le sorride,
quando cerca di rassicurarla posando una mano sulla sua, Sansa capisce
che è
tutto inutile.
A
Margaery non importa nulla di
quanto le accadrà.
Vuole
solo assecondare Joffrey.
Ogni
passo che le vede fare verso la
porta è uguale a udire la propria condanna a
morte… Ogni volta che Margery
ondeggia i fianchi, spostando il piede in avanti, Sansa sente il cuore
rallentare
la sua corsa per poi riprenderla di colpo, sempre più veloce.
Si
guarda intorno, cerca un
nascondiglio, un’arma per difendersi, qualunque cosa possa
aiutarla a tenere
lontano Joffrey… Ma non c’è un solo
movimento che riesca a fare, fatica persino
a respirare.
«Arrivo!»
cantilena Margaery con
dolcezza, il suono più spaventoso che Sansa potesse sentire.
Non
vuole più essere picchiata, non
vuole essere trovata.
Vuole
solo scomparire.
Quando
la porta si apre, Sansa si
abbandona sulla poltrona, vi affonda come il relitto di una nave in
mare
aperto. Perché non ha più speranza.
La
voce di Margaery finge sorpresa,
ma lei si tappa le orecchie, non vuole sentire le parole di Joffrey, la
sua
risata soddisfatta all’idea di averla di nuovo con
sé.
Sansa
si stringe le braccia intorno
al corpo, come in un ultimo, disperato tentativo di difendersi.
«Sansa»
Margaery si affaccia sulla
porta della sala, facendole segno di seguirla.
Ma
lei non si muove.
Se
Joffrey la vuole tanto, che venga
a prenderla. Che mandi il Mastino piuttosto.
Socchiude
gli occhi, il suono dei
passi che attraversano l’entrata non riesce più a
ferirla, si sente già morta,
è come se ogni alito di speranza fosse scivolato via da lei.
«Sansa.»
Sansa
apre gli occhi, vede Petyr al
fianco di Margaery, sente il cuore impazzire.
Sposta
il peso del corpo in avanti,
si aggrappa ai braccioli come se temesse di cadere da un momento
all’altro.
Poi,
come in un sogno, si alza, corre
da lui, gli stringe le braccia al collo. Affonda il viso
nell’incavo della spalla,
gode delle sue mani sulla schiena.
«Sansa»
Immagina il suo sorriso
mentre lo sente ripetere il suo nome.
«Sei
qui.»
Ha
voglia di piangere, di non
lasciarlo più andare. Non può pensare di fare un
passo senza di lui.
Respira
il suo profumo, si lascia inebriare
dall’odore di fumo, come se fosse qualcosa che appartiene a
loro soltanto, che
li unisce, proprio come la notte in cui hanno condiviso una sigaretta.
«Sono
qui. Vieni, andiamo.»
Sansa
si stacca da lui, ma non lo
lascia: rimane aggrappata al suo braccio, e non ha il coraggio di
sollevare gli
occhi per guardare Margaery.
Sa
che riferirà tutto ciò che ha
visto a Joffrey.
Sa
che non ci sarà perdono per
questo, sa anche che per il suo fidanzato quell’abbraccio
sarà il tradimento
peggiore. Ha firmato la sua condanna.
Non
la saluta nemmeno, si lascia
guidare alla porta godendo della vicinanza di Petyr, della mano che le
circonda
il fianco. Delle dita che le sollevano il mento, facendola sperare in
un bacio.
Sarebbe
pronta a qualunque cosa in
quel momento: ad abbandonarsi a lui, a seguirlo ovunque. A fidarsi,
come non
credeva potesse più succederle.
Sente
la tensione crescere a ogni
tocco, ogni volta che l’indice di Petyr scivola sulla sua
gola, prima di
tornare sul suo viso. Sansa piega la testa, socchiude gli occhi,
dimentica
persino la presenza di Margaery.
Vorrebbe
essere sola con lui, lontano
da lì.
Quando
la mano di Petyr si allontana
per posarsi sul pomello della porta, Sansa sente il suo respiro farsi
lento,
come se non potesse più aspettare.
Si
aggrappa alla sua maglia, la
stringe con le unghie.
Escono
sul piano, imboccano le scale,
raggiungono la seconda rampa.
«Sansa!»
Se
fossero fatti di ghiaccio, lei è
certa che basterebbe quel grido, quella voce, per mandarli in pezzi.
Scaglie
gelide che volano ovunque,
mutando tensione e brividi dovuti alla presenza di Petyr, in terrore
puro.
Joffrey
è dietro di loro, ma invece
che mettersi a correre, Petyr si volta, mostrandole il volto rabbioso
del
ragazzo con cui ha vissuto…
«Torna
qui, Sansa!» ordina, mentre il
Mastino la guarda scuotendo la testa.
È
tutto finito.
Note
dell’autrice:
Come
sempre, grazie mille per aver letto fin qui!
E
quindi, ecco la sorpresa
Un
altro video su Sansa e Petyr, stavolta in tema got.
Celtica
P.S.:
ho già i tre prossimi capitoli pronti! Quindi
sarò regolare con gli aggiornamenti... A presto!
|
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Capitolo 8 *** La casa ***
cap 8
Trailer
La Casa
etyr arriva al
piano giusto in un
momento.
Il Mastino è fermo a metà tra i due
appartamenti, l’espressione accigliata e le braccia lungo i
fianchi, come se
aspettasse qualcosa… E lui capisce subito.
Gli basta guardare da che parte è
girato, qual è la porta che fissa con insistenza: casa
Tyrell.
Se Sansa è davvero tornata, non può
che essere là dentro.
«Baelish» È un ringhio, eppure il
volto del Mastino non sembra troppo stupito di vederlo.
I passi di Petyr proseguono lungo gli
ultimi gradini, lo portano davanti all’entrata con una rosa
tra le scritte, e
prima che Sandor possa anche solo muoversi, il suo pugno prende a
battere con
impazienza contro il legno.
«Non
ci provare» minaccia il Mastino,
avanzando di un piede.
«Arrivo!»
La voce di Margaery è così soave che
Petyr non può fare a meno di sorridere. Sistema meglio la
giacca, lancia una
lunga occhiata a Sandor, come se la partita fosse ormai vinta, e
aspetta
davanti all’ingresso.
Lo stupore negli occhi della ragazza
Tyrell è qualcosa che capisce: aspettava qualcun altro,
aspettava Joffrey.
«Oh…»
pronuncia lei, portandosi una
mano sulla scollatura. «Mia nonna non è in
casa.»
A Petyr viene quasi da ridere… Gli
affari fatti con Olenna non sono stati dei migliori, ma
l’hanno aiutato a
liberarsi del lavoro per Cersei.
«Non
sono qui per la buona Olenna…»
spiega, allargando le braccia, prima di richiuderle con
l’ultima frase: «Sono
qui per Sansa.»
Lei sembra pensarci un momento prima
di farlo passare e, mentre sta entrando, Petyr lancia uno sguardo al
Mastino,
giusto un istante prima che la porta si chiuda dietro di lui.
Attraversa l’ingresso stretto, con
piccole lampade a forma di rosa distribuite lungo la parete,
finché non si
ritrova nella grande sala dove la vede.
Sansa.
Le braccia
strette intorno al corpo,
le palpebre socchiuse, le labbra stropicciate dalla disperazione.
Deve essersi convinta che Joffrey
abbia bussato alla porta.
«Sansa.»
Quando lei apre
gli occhi e lo vede,
sembra che il mondo abbia ritrovato i suoi colori. Balza in piedi, lo
raggiunge
correndo, lo stringe come non pensava avrebbe mai fatto.
E Petyr non può fare a meno di
ricambiare quell’abbraccio.
Guarda Margaery per dirle che se ne
stanno andando, e la lasciano lì, ferma sul tappeto,
infilandosi nell’entrata.
Sansa trema come
un cucciolo
impaurito tra le sue braccia, e a Petyr viene voglia di baciarla. Le
solleva il
mento con due dita, studia le sue labbra che sembrano essersi
rilassate, gode
del respiro lento e grave di lei.
Sente un formicolio lungo la mano
mentre le accarezza il collo, e il desiderio cresce dentro di lui.
Deve portarla via da lì, dopo potrà
pensare al resto.
Fa per aprire la
porta, sente le dita
di Sansa stringersi sulla sua maglia, il brivido di eccitazione, e
capisce.
Capisce che, se in quel momento fossero soli, si abbandonerebbe
completamente a
lui.
Può durare un attimo, potrebbe finire
con il cambiare idea in qualunque istante, ma adesso, adesso
è come prendersi
una piccola rivincita.
Esce sul piano,
scende le scale
tenendola per la vita, finché non lo sente.
Il momento di affrontarlo è giunto.
«Sansa!
Torna qui, Sansa!»
Nel voltarsi, Petyr sente la pelle
d’oca di Sansa, sa che è tutto svanito.
«Joffrey…» pronuncia lui, in un
saluto calmo. «Eravamo venuti proprio da te. Sansa ha bisogno
di riprendere
alcune cose.»
Se lo avesse
colpito in pieno viso,
capisce Petyr, gli avrebbe fatto meno male.
Joffrey rimane sgomento, cerca con
gli occhi il Mastino, stringe i pugni come se fosse davanti a un
nemico. Sul
bel completo rosso si formano delle pieghe quando decide di muoversi in
avanti.
«Sansa,
ho detto: torna qui. Non vai
da nessuna parte.»
Sembra quasi che
non lo abbia visto,
che non abbia udito le sue parole, e Petyr capisce di contare per lui
quanto
uno scarafaggio.
I gradini sono di granito, la
ringhiera nera ha dei disegni con strane forme: un cervo intento a
saltare, una
testa di leone, una rosa ormai sbocciata e una specie di balestra.
Joffrey segue ogni immagine con le
dita, ha ripreso sicurezza, e guarda Sansa come se l’avesse
già in pugno.
La luce entra dalla finestra alle
loro spalle, illuminando il volto crudele di lui, facendogli stringere
gli
occhi, e tenendo i loro visi in ombra.
«Abbiamo
una certa fretta» spiega
Petyr, stringendo a sé Sansa. «Ti saremmo grati se
ci permettessi di entrare a
prendere le cose che le servono. Poi non ti disturberemo
più.»
Joffrey sposta lo sguardo su di lui,
sembra finalmente accorgersi della sua presenza.
«Tu
puoi andare» ordina, mentre i
riverberi del sole creano strani giochi di luce sulle sue guance.
«Ma Sansa
resta.»
È inutile: Joffrey non li farà mai
entrare in casa, non la lascerà mai andare.
Margaery si
affaccia sulle scale,
segue la conversazione come se fosse qualcosa di normale. E lo sguardo
di Sansa
si solleva su di lei, in una muta richiesta d’aiuto.
Petyr la trascina giù per le scale,
sente i passi di Joffrey, quelli pesanti del Mastino, e si ferma un
istante
prima di arrivare alla porta.
«Fermi.
Fermi, ho detto!» grida
Joffrey, scoprendo i denti. «Dove la stai portando?»
Sansa sta per
mettersi a piangere,
forse crede che sia finita. Petyr la osserva mentre solleva gli occhi
sugli
uomini che ha davanti.
«Lasciami andare… Ti prego!»
supplica, anche se sembra più rivolta a Sandor che non a
Joffrey.
Petyr scosta il braccio da lei, la
lascia indietreggiare, mentre lui resta fermo in fondo alle scale.
Margaery li ha seguiti per un pezzo,
ora spia dalla ringhiera, seduta sugli ultimi gradini della seconda
rampa. Si
attorciglia un boccolo castano intorno al dito.
«Sansa,
non lo ripeterò più: TORNA
QUI.»
Lei ha
già una mano sulla porta,
Petyr vorrebbe solo che l’aprisse, che uscisse da
lì, per poterla seguire anche
lui. In fondo, si dice, non ha più nulla da temere da
Cersei: grazie a Olenna
ha potuto mettersi in proprio.
Certo, potrebbero distruggerlo
economicamente, ma ha sposato Lysa, non dovrebbe avere troppi problemi
se anche
i Lannister decidessero di mettersi contro di lui.
«Sansa»
Joffrey sbuffa adesso, sembra
concentrare tutte le energie per mantenere la calma. Eppure Petyr ha la
sensazione che l’abbia già persa, anzi, che non
l’abbia mai avuta. «Se esci da
quella porta… Tu lo sai.»
Joffrey lancia
una veloce occhiata
dietro di sé, dove Margaery sta ascoltando tutto, e sembra
impegnarsi per non
minacciare Sansa pubblicamente.
Ma è come se lo avesse già fatto…
Il Mastino
scende alcuni gradini,
finisce sotto la luce diretta del sole, che mette in risalto i segni
orrendi
sul suo viso, e posa una mano sulla spalla di Joffrey.
Il ragazzo si volta, non sembra
capire.
Ma Sansa invece sì.
Sgrana gli occhi, guarda Sandor come
se le avesse appena salvato la vita, nello stesso modo, grato, in cui
prima si
è rivolta a Petyr, e spalanca la porta, uscendo alla luce
del giorno.
I suoi capelli
brillano di un rosso
delicato che le addolcisce i lineamenti, e Petyr li segue come se
fossero la
sua guida.
Sa che le sensazioni provate prima
sono già finite, sa che Sansa non lo stringerà
più come prima, eppure ha idea
che sia stato un passo avanti nel loro rapporto.
E sorride.
Ω
Non riesce
ancora a crederci: è
libera.
Il Mastino si è interposto per lei,
ha fermato Joffrey, è il suo salvatore. Certo, se Petyr non
fosse tornato a
prenderla, Sandor non avrebbe mai cambiato idea, non sarebbe
intervenuto per
lei…
O forse sì?
Non può saperlo.
E spera di non scoprirlo mai.
Attraversa la
strada, ignora
l’abbaiare dei cani dal giardino di fronte, riconosce
l’auto di Petyr e si
gira, per assicurarsi che sia dietro di lei. Si ferma ad aspettarlo.
«Non ho i miei documenti…»
Lui posa una
mano sul suo fianco,
cammina con lei, china appena il mento per rispondere.
«Lo so…» sussurra, avvicinando il
viso al suo. «Rimedieremo, vedrai.»
Sansa ripensa a
ciò che ha provato
quando lo ha visto in casa di Margaery, al bisogno che aveva di sentire
il suo
contatto, alla voglia, cresciuta e morta troppo in fretta.
Non riesce a sentirla, non come
prima.
«Tornare
qui è stato inutile… Ora
Joffrey sa che sono con te.»
Dal modo in cui Petyr annuisce, Sansa
capisce che è la stessa cosa che ha pensato anche lui.
«Allontaniamoci da qui.»
Raggiungono l’auto, salgono, partono.
Tornano nella città fatta di palazzi
alti, fingendo di non essere mai stati nella via ricca di villette.
«Non
voglio tornare da Lysa» dice
Sansa, scuotendo la testa.
La macchina rallenta, la mano di Petyr
si sposta dal cambio alla sua gamba, accarezzandola.
«Lo so.»
E, infatti,
proseguono dritto,
ignorando la svolta che dovrebbe riportarli all’attico di sua
zia.
Attraversano mezza città, passano
davanti a parchi con bambini, a un piccolo maneggio, ai locali
più alla moda e
ai quartieri che vengono considerati alti,
quelli dove vivono le famiglie più influenti.
Sansa vede scorrere anche la
cittadella universitaria, come se fosse solo un lontano ricordo.
Si chiede se Jeyne sia là, ora,
magari in biblioteca, a puntare qualche ragazzo chino sui libri.
Sorride,
pensando di essere finalmente libera. Niente più confidenze
su Joffrey, niente
più pianti o consolazioni, conta solo lei adesso.
Lei e Petyr.
«Vorrei
mostrarti la casa prima di
risolvere questi problemi. Sei d’accordo, Sansa?»
Lei tiene gli occhi fissi davanti a
sé, come se fosse persa tra i suoi pensieri, mentre
l’auto accosta.
«Lysa mi ha minacciata…» dice,
stringendo
i pugni in grembo. Petyr li raggiunge con la mano, sciogliendoli,
intrecciando
le dita alle sue. «Crede che io sia la tua amante…
Lei mi odia.»
«Non ti odia» Petyr le sorride,
continuando a tenerla.
«Sì, invece. Mi odiano tutti. Lysa,
Joffrey, sua madre Cersei… Per loro sono solo una
stupida.»
Si libera della sua stretta, voltando
il capo verso il finestrino.
Petyr aspetta un momento prima di
parlare.
«E tu cosa credi?»
Quando Sansa si volta, non trova il
solito sorriso, ma l’espressione intrigante che tanto la
affascina e tanto la
spaventa. Abbassa gli occhi, prima che lui la prenda per le spalle.
«Sansa, tu sbagli ad ascoltarli.»
Ci sono rumori fuori, rumori che
arrivano dalla strada, dal parco con l’altalena di fronte al
piccolo palazzo. E
c’è il respiro di Petyr che si fa lento, mentre si
avvicina alle sue labbra,
parlandole.
«Non
hai ancora capito quanto tengo a
te?»
È a
un soffio dal suo viso, Sansa
riesce a sentire il fiato caldo sulle labbra. Si lascia baciare, lascia
che le
dita scorrano sulla sua gola, che arrivino ad accarezzarle le spalle,
ma non è
più come prima.
Se Petyr l’avesse baciata in casa di
Margaery sarebbe stato tutto diverso…
E, forse, lui se n’è appena accorto.
Si scosta da lei, le sfiora i capelli
ai lati del viso, studia ogni suo lineamento, ogni sua espressione, ma
non si
avvicina più alla sua bocca.
«Vieni» mormora a fatica, come se gli
costasse doversi allontanare da lei. «Ti mostro dove
starai.»
Quando scendono
dall’auto, Sansa
sente l’aria scorrerle sulla pelle, e capisce di essere
accaldata.
Eppure non se n’è resa conto…
Lo raggiunge a passo lento, senza
vitalità, senza voglia di scoprire.
In un altro momento sarebbe stata
entusiasta di una casa tutta per sé, ma ora, ora che si
è sentita di nuovo
sotto attacco da Joffrey, ora che il fuoco si è acceso
dentro di lei per Petyr,
finendo per spegnersi in fretta, ha la sensazione di aver vissuto
troppe cose,
come una vecchia che si prepara a morire.
È stanca. Stanca di tutto ciò che è
successo.
«Di
qua, seguimi.»
Il palazzo in cui entrano ha solo un
piano, la parete rivestita di bianco e di grigio, un terrazzo al posto
del
tetto. Eppure, entrare e sentire odore di limone e lavanda, vedere il
pavimento
di cotto, i pochi mobili coperti da un telo, la fanno sentire un
po’ meglio.
E stavolta, quando le braccia di
Petyr la circondano, Sansa sente un brivido.
«Ti
piace? È piccola, ma…»
«È perfetta.»
È
Sansa a cercare il suo viso, a
socchiudere gli occhi, ad abbassare le palpebre vicino a lui. A fargli capire.
Sono anni che nessun uomo è gentile
con lei, da quando suo padre è morto e i suoi fratelli si
sono trasferiti
lontano. Non li vede da molto, ma ora non le importa. Vuole essere
lì dov’è,
con lui.
Petyr sorride del suo sorriso
enigmatico, la stringe un po’ più forte, scorre le
dita sulla sua schiena. E
quando cerca le sue labbra, baciandola ancora, Sansa appoggia una mano
sul suo
petto, quasi fosse la cosa più naturale del mondo.
Ma non lo è.
Petyr è suo zio acquisito, è più
grande di lei, ha conosciuto sua madre.
E, di certo, suo padre Eddard non
approverebbe.
Quando Petyr
spinge sulla sua schiena
per aderire a lei, Sansa lo allontana, prende un respiro, appoggia la
fronte su
quella di lui.
Non può.
Non ora, non adesso, non con
l’immagine di suo padre nella mente.
Ascolta i sospiri di lui, le carezze
lente sulla schiena, ma si tira indietro, allontanandosi.
«La
cucina? Mi è venuta fame.»
Petyr incassa il
colpo con un
sorriso, come se non si aspettasse nulla di diverso, e la guida
attraverso una
stanza piccola, con un divano bianco, un tappeto con i colori
dell’inverno, e
una libreria che copre metà parete.
Nel dipinto appeso tra due finestre,
Sansa riconosce un branco di lupi grigi nella neve. Sembra quasi che ci
sia una
torre alle loro spalle, ma potrebbe anche essere un castello.
Non sa perché, ma quel quadro le
ricorda tutta la sua famiglia, come se ognuno di quegli esemplari
rappresentasse un suo fratello.
La cucina
è relativamente più
spaziosa.
Ha una fila di banconi, l’immagine di
uccellini che volano, il pavimento grigio scuro. E il tavolo con il
ripiano di
vetro trasparente, su cui Petyr poggia una mano mentre la guarda.
«Il
frigo è vuoto.»
Si tiene a distanza, ora, come se
aspettasse una sua mossa. Una mossa che Sansa non ha nessuna intenzione
di
fare…
«Forse dovremmo fare la spesa…»
Ma Petyr sorride, colpevole.
«La farai tu, io non posso restare
ancora molto.»
«Non ho i soldi. Non ho i documenti.
Credevo avremmo risolto dopo aver visto casa…»
Sansa è sicura che, in un momento
diverso, Petyr l’avrebbe presa per le spalle, rassicurandola.
Invece si tiene lontano da lei,
limitandosi a mettere dei soldi sul tavolo.
«Tornerò tra un paio d’ore e ci
penseremo. Insieme.»
Petyr china la testa prima di
voltarsi, ma è nei suoi occhi che Sansa legge il chiaro
desiderio di restare
con lei, di passare altro tempo in sua compagnia.
«Aspetta»
sussurra, giusto un istante
prima di non vederlo più.
Avanza piano,
pensando a quanto sta
per fare, sentendo il cuore rallentare la sua corsa. Lui è
fermo, le dà la
schiena, eppure Sansa è convinta che è come se la
stesse vedendo. Deve sapere
esattamente ciò che sta facendo, ciò che sta
provando. Nel poco tempo trascorso
insieme ha capito questo di lui.
Solleva una mano per sfiorargli il
braccio, senza sapere nemmeno lei se voglia solo chiedergli di
voltarsi, o se
la sua sia una richiesta più esplicita.
Sa solo di aver voglia di essere lì,
di guardarlo negli occhi, di lasciar decidere a lui se sia il momento
di
qualcosa di più.
E quando lui si volta, scrutandola
con quello sguardo, il suo sguardo,
il cuore di Sansa perde un battito.
L’auto
si è fermata, lui le ha
chiesto di salire. Vieni con me, ha
detto, penserò io a te.
E i giorni successivi scorrono come
immagini al rallentatore, soffermandosi sui momenti in cui sono stati
più a
contatto, come quando Petyr è entrato nella sua stanza con
una sigaretta per
lei, come quando l’ha portata nel bosco per spiegarle di
Lysa, e lì l’ha
baciata…
Ha avuto tante
occasioni di farle del
male, di ingannarla, di approfittarsi di lei. Ma non l’ha mai
fatto.
Ogni carezza che ha ricevuto è stata
un balsamo per le ferite inferte da Joffrey, ogni sguardo, ogni bacio,
il modo
migliore per ridarle fiducia.
Socchiude gli
occhi quando Petyr le
prende il viso tra le mani, aspetta che lui si chini sulla sua bocca,
che le
dica ancora che la proteggerà sempre. Ma le labbra scendono
a sfiorarle la
fronte, le dita le sistemano i capelli, e lo sguardo che lui le rivolge
sembra
dire che non può fare a meno di andare via.
Ma tornerà.
Di questo, Sansa è certa.
Ω
Il telefono
decide di squillare proprio
in quel momento.
Petyr ha appena chiuso la porta della
casa data a Sansa, l’ha appena lasciata sola. Fa un lungo
sospiro mentre estrae
il cellulare dalla tasca.
È
Robin.
«Zio
Petyr!» grida, all’altro capo
del telefono. «Mia madre… lei… corri,
presto! Sta male. Torna a casa, ti prego,
zio Petyr.»
«Sto arrivando.»
Raggiunge il parco di fronte, dove ha
l’auto parcheggiata, e guarda in alto, alla finestra dove,
come sperava, Sansa
è affacciata. Solleva una mano per salutarla.
Non sa cosa sia accaduto a Lysa,
anche se ha il sospetto che sia colpa di tutte quelle medicine. La
chiamata di
Robin è un bell’imprevisto…
Aveva un appuntamento prima
di
tornare da loro. È costretto a rimandarlo. Preme a casaccio
sullo schermo prima
di decidersi a chiamare.
Si umetta le labbra,
il telefono
suona, ma nessuno risponde. Altro imprevisto. Avrebbe dovuto
aspettarselo…
Ultimamente le cose
non vanno mai
come programmato.
Prima Sansa, di cui
ha dovuto
occuparsi prima del tempo, ora questo. Per non parlare dei guai che gli
porteranno
i Lannister, ora che Joffrey lo ha visto insieme alla sua fidanzata.
Ciò che
desiderava non gli è sembrato
mai tanto distante quanto oggi…
Ma
passerà. Deve passare.
Dopotutto, lui
è Petyr Baelish.
Note
dell’autrice:
Di
cosa si occupa Petyr lo scopriremo più avanti…
Così come troveremo altri
personaggi che non voglio svelarvi, ma facilmente intuibili.
Come
sempre, grazie!
Vi
lascio il link alla mia pagina facebook, se avete voglia di dare
un’occhiata:
Celtica
|
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Capitolo 9 *** A piedi nudi ***
Capitolo nove
Trailer
A Piedi Nudi
ansa lo aspetta
seduta a gambe
incrociate in cucina, un vassoio di dolcetti davanti e
l’espressione impaziente:
non vede l’ora di scorgere il suo viso.
Ha stretto di più il laccio
dell’abito dietro la schiena, affinché aderisse
meglio alle sue forme, ha
lisciato per bene le pieghe, sistemandole in modo che lo spacco resti
sulla
coscia sollevata, così da mostrare un lembo di pelle.
Ha lasciato i capelli sciolti come al
solito, cercando di acconciarli con le dita, sperando di avere
l’aria di una
donna. Non di una bambina. Non di una mocciosa, come a volte soleva
dire
Joffrey.
Persino il Mastino la chiamava spesso
ragazzina, come se fosse stata poi
così piccola…
No.
Sansa è grande ormai, studia
all’università e, come tutti, cerca il suo posto
nel mondo.
Per un po’ di tempo si è illusa che
quel posto fosse al fianco di Joffrey, finché non ha aperto
gli occhi: lui non
la ama, non l’ha mai amata. E mai
l’amerà, per sua fortuna. È in grado di
amare
solo se stesso, nessun altro.
Guarda
l’orologio, consapevole che le
due ore siano trascorse da un pezzo, e prende a battere un piede nudo
sul
pavimento.
Ha tolto le scarpe quando è rimasta
sola, si è fatta una doccia, ha strappato via un
po’ di teli bianchi da mobili
e poltrone, ed è rimasta scalza, senza sapere nemmeno lei
perché.
Sa solo che c’entra Petyr.
Che l’ha fatto pensando a lui.
Quando sente la
chiave girare nella
serratura, è quasi tentata di balzare in piedi e
raggiungerlo, di gettargli le
braccia al collo e chiedergli perdono. Perdono per averlo allontanato,
per aver
interrotto il bacio, perdono perché ora vuole stare con lui.
Ma non lo fa.
Resta ferma nella stessa posizione,
tirando più dritta la schiena e mantenendo
un’espressione seria.
Ormai può fidarsi solo di Petyr…
nessun altro farebbe nulla per lei.
Lui sì.
Perché? Si chiede Sansa.
«Sansa»
chiama lui, dall’ingresso.
«Sono qui.»
«Vieni in cucina» risponde, sperando
che si sbrighi.
Petyr entra
nella stanza a sguardo
basso, forse senza immaginare quanto l’ha fatta penare in
quelle ore di
assenza. Sansa è uscita da sola, ha trovato una fila di
negozi sotto casa, ha
comprato dei dolci per dividerli con lui.
E ora, ora che gli occhi si sollevano
dal pavimento, risalendo lungo le gambe lunghe di lei, scrutando le sue
forme
attraverso l’abito verde, Sansa sente un brivido quando
arrivano al suo viso.
Non lo sente commentare sul fatto che
sia scalza, o su come il vestito si sia adattato meglio alle sue forme,
e
neppure sui pasticcini in bella mostra sul tavolo.
Petyr avanza a testa alta, prende la
sedia di fronte a lei, spostandola a capotavola, forse per esserle
più vicino.
«Ho
fatto tardi.»
«Hai fatto tardi» ripete lei,
distogliendo gli occhi dai suoi.
Basta davvero
poco a Petyr per
metterla in imbarazzo. Una parola, un gesto, uno sguardo…
Eppure è una
situazione che le piace.
«È
successo qualcosa?»
Vorrebbe chiedergli di prendere un
dolcetto, di dividerlo con lei, di stringerle la mano. Ma resta in
silenzio,
vedendo un’ombra sul suo viso.
«A
dire il vero sì.»
Ω
Due ore prima,
Petyr è entrato di
corsa nell’attico di Lysa.
Si è lasciato guidare da Robin, ha
scoperto dell’imminente arrivo del medico, e ha trovato la
sua cara moglie
distesa sul divano, come addormentata.
Ma non c’era movimento sul suo petto…
Non c’era un suono proveniente dalle labbra.
«Io
continuavo a chiamarla, a
scuoterla. E lei niente! Perché, zio Petyr?»
Robin ha seguito ogni gesto, è rimasto
a osservare la mano di lui che tasta la fronte, che tocca il polso, e
il viso
che, piano, si è chinato sulle sue labbra, per sentire se
respira ancora.
«Chiama
un’ambulanza, Robin.»
Altro brutto
imprevisto… È troppo
presto per restare vedovo.
Lysa gli serve ancora. Gli servono i
suoi contatti, i suoi amici, la fiducia che viene riposta in lei. Gli
serve
averla a fianco, almeno per un altro po’.
Il polso è debolissimo, e non c’è
stata una sola reazione ai suoi pizzicotti. Nulla di nulla.
«Sì,
zio Petyr.»
Ascolta Robin parlare al telefono, la
preoccupazione nella voce e un lieve tremore alle mani. Non
è più un bambino, eppure
non si è ancora reso conto di cosa stia rischiando Lysa.
Non devono
aspettare molto.
Il medico non arriva, ma l’ambulanza
sì.
Lysa viene portata d’urgenza in
ospedale. Codice rosso. Coma vigile. Lei che reagisce ai rumori, che si
lascia
sfuggire qualche parola dalle labbra, che sembra non accorgersi di
nulla di
quanto la circonda…
Non ci vuole molto perché Petyr trovi
una scusa per allontanarsi. Prende Robin da parte, gli pone una mano su
una
spalla con fare paterno.
«Ho un
appuntamento di lavoro oggi.»
«Lo ricordo.»
«Bravo, ragazzo» Gli batte il palmo
sulla spalla e sorride. «Tornerò appena finisco.
Chiamami quando sai qualcosa.»
Lo lascia solo
nel corridoio della terapia
intensiva, e si prepara a raggiungere chi lo aspetta ormai da un pezzo.
Non è troppo
sicuro di quello che sta facendo, ha certi pensieri nella
mente… che non lasciano
spazio a certezze.
Ricorda quando tutto è cominciato, i
suoi progetti di avere Cat tutta per sé, di liberarsi di
Eddard Stark e,
magari, anche dei suoi figli. Non che gli importasse dei
bambini… Per amore di
lei avrebbe anche potuto accettarli.
Ma erano il seme del nord, dell’uomo
che gli aveva rubato ogni sogno.
Com’era stato innocente, anche lui…
così speranzoso di avere Catelyn tutta per sé, di
sposarla, di conquistare il
favore di suo padre. Poi aveva capito.
Hanno
appuntamento in un bar. Un bar
scelto da lui.
Un bar dove, tanti anni prima, Petyr
ha scorto Catelyn in compagnia delle sue figlie. Mangiavano un gelato
all’ombra, su poltroncine di vimini, e il sorriso impresso
sul suo viso… lui
non potrà mai dimenticarlo.
Simile a quello che colora il volto
di Sansa, forse più maturo, forse più duro. Cat
non è mai stata bella come ora
è Sansa, eppure non c’è stata donna che
lui abbia desiderato di più…
Quando arriva al
posto indicato, e
riconosce ombrelloni di un colore diverso da quelli che hanno adombrato
il viso
di Cat, Petyr fa una smorfia.
Sperava che tutto fosse come prima,
sperava di portarci Sansa, di godere del suo sorriso, dei suoi
lineamenti,
degli occhi azzurri e le gote rosse.
Sperava che lei lo aiutasse a
dimenticare sua madre, che non gli dicesse di no come aveva fatto lei.
Che
accettasse di restare con lui.
“Baelish.”
L’espressione di Cat era diventata di colpo così
severa…
“Cat,
che piacere vederti. E queste devono essere le tue
figlie…”
Lo sguardo di lei era corso alle
bambine con una certa inquietudine. Cosa poteva temere da lui? Non
ricordava il
suo amore, il suo tentativo di conquistarla?
“È
meglio se andiamo. Venite, bambine.”
“Ma
mamma!” Era stata la
più piccola a rimanere seduta quando Cat
aveva deciso di alzarsi. Non le assomigliava per niente…
Aveva i capelli scuri,
gli occhi grigi e il fare scontroso di un maschiaccio.
“Non
ho finito il gelato.” Aveva
brontolato, costringendo Sansa
a prenderla per un braccio per metterla in piedi.
Seduto a un
tavolo rotondo, con un
bicchiere di acqua tonica davanti, c’è Roose
Bolton. Sorride in modo enigmatico
quando lo vede arrivare.
«Ordiniamo qualcosa di più forte?»
esordisce Petyr, sedendo di fronte a lui. Solleva una mano per chiamare
la
cameriera.
«Io non bevo mai» spiega Roose,
muovendo appena le labbra. Non un solo movimento sfugge al suo
controllo mentre
lo guarda con i suoi occhi di ghiaccio. «Ottunde i
sensi.»
«Molti direbbero che si fa per
questo…» [1]
«Sei
in ritardo.»
Petyr arriccia
le labbra, inarca le
sopracciglia, e si prepara a discutere con lui. Non è un
discorso lungo, si
tratta solo di fare una mossa per togliere un po’ di potere a
Cersei,
all’azienda che dirige, al posto di lavoro che ha lasciato.
Olenna è stata indispensabile per
quello.
Senza di lei, Petyr non si troverebbe
al tavolo con Roose, ma lo guarderebbe da lontano, chiedendosi che
razza d’uomo
sia. Immagina l’espressione di Sansa e il commento che
farebbe se fosse lì con
lui.
“Fa
venire i brividi.”
Ma senza
Roose, Petyr non può sperare
di far salire la sua compagnia ai primi posti.
«I
Lannister si sono lamentati di te»
mormora a bassa voce Roose, incrociando le dita sopra il tavolo.
«Sembra che tu
abbia rubato la ragazza Stark a Joffrey.»
Petyr tira la
testa indietro,
ridendo, e proprio allora sopraggiunge la cameriera…
«Un bicchiere di vino bianco» ordina
con un cenno della mano. Poi torna a guardare l’uomo seduto
davanti a lui. «È
un problema per te?»
«Stark e Bolton arrivano entrambi dal
nord. Eddard Stark ha comprato le mie terre quando la mia azienda
è fallita»
sussurra in modo glaciale. «Le rivorrei indietro.»
«Sono qui anche per questo» Petyr
accavalla le gambe e si rilassa sulla poltrona, poggiando un gomito sul
bracciolo. «Quando i nostri affari andranno a buon
fine…»
«Se
andranno a buon fine» lo corregge Roose.
«Se andranno a buon fine le riavrai.
Hai la mia parola.»
Per un istante,
Petyr ha creduto che
scoppiasse a ridere in faccia alla cameriera, arrivata proprio in quel
momento
a portare il suo bianco. Ma Roose non si scompone, sorride in modo
quasi
invisibile, e la sua voce soave è come la più
terribile delle minacce.
«La
tua parola conta meno di uno
sputo, Baelish.»
Petyr incassa il colpo in silenzio,
come ha fatto per tutta la vita.
«E poi perché la ragazza Stark
dovrebbe ridarmi le mie terre?»
«Si
fida di me.»
«Allora
è sciocca come dice Cersei»
Roose affonda colpo su colpo, quasi avesse un fendente tra le mani e un
nemico
davanti agli occhi. «Ne abbiamo parlato… con Tywin
Lannister.»
«Il padre di Cersei?»
Petyr porta il bicchiere alle labbra,
stupito del fatto che Tywin si intrometta negli affari della figlia.
«Possiede buona parte dell’azienda»
spiega Roose, scorrendo l’indice sul labbro superiore.
«Il trentasei percento,
a quanto mi dicono.»
Ecco una notizia
nuova.
Lui non ne sapeva assolutamente
nulla. Era convinto che Cersei, come aveva affermato lei stessa tempo
prima,
non lasciasse entrare i familiari in certi affari. Evidentemente si
sbagliava.
“L’azienda
è solo mia”, soleva dire
quando camminavano fianco a
fianco per i corridoi. “Comando
solo io
qui, e tu devi fare ciò che dico. Non ci sarà
Robert a salvarti se sbaglierai.”
Robert forse no… Ma Olenna Tyrell sì.
Petyr sorride al ricordo della faccia
di Cersei quando le ha detto che avrebbe abbandonato
l’azienda.
“In
proprio?” Lo aveva
schernito. “E come faresti,
sentiamo. Senza i Lannister non sei nessuno. Come
dovrei chiamarti? Lord, forse?”
Cersei aveva riso e riso di lui, la
mano inanellata davanti alla bocca carnosa, i capelli biondi tirati
indietro
dallo chignon. Aveva smesso in fretta… nel momento esatto in
cui lui aveva
sorriso, fatto un inchino e raccolto le sue cose.
«Con
Tywin si può ragionare» commenta
Petyr, interrompendosi per bere un sorso. «Ma con Cersei
no.»
«Allora dimmi, Ditocorto» Un lampo
passa negli occhi di Roose mentre sussurra quel soprannome.
«È così che ti
chiamano, vero? Dimmi perché dovrei scegliere te, la tua
esigua compagnia,
invece che una potenza reale come quella dei
Lannister…»
Petyr resta a
pensarci, scrutando lo
sguardo di ghiaccio che ha davanti. Non lo perde un istante, convinto
che quel
contatto sia tutto, se vuole vincere.
«È vero» ammette, facendo dondolare
il liquido ambrato nel bicchiere. «L’azienda dei
Lannister è conosciuta, è potente.
È guidata da persone forti, che
ruggiscono al minimo avviso, facendo strage di nemici.»
Posa il calice sul tavolo e muove le
mani nell’aria, come se stesse guidando
un’orchestra. Vorrebbe che Sansa fosse
lì con lui, ad ascoltarlo, ad ammirare la sua mente.
«Così le piccole aziende spariscono
dal mercato o, più semplicemente, falliscono»
Petyr sorride, facendo brevi
pausa perché il suo discorso entri nella testa di Roose. Sa
che non è un uomo
stupido, sa che rifletterà su quanto sta sentendo.
«Non sono una potenza, sono la
potenza. Oggi ti vogliono al loro
fianco per distruggere me, la mia… - come l’hai
chiamata? - esigua compagnia. Ma
domani? Domani non
gli servirai più. Domani vorranno tornare a essere la sola e unica
potenza.»
Roose resta in
silenzio davanti a
lui, sembra seguire i suoi movimenti, studiati, mentre riafferra tra le
mani il
calice di vino bianco, bevendone un sorso.
Petyr vuole dare un’immagine di
sicurezza, ma sa che sono bastate le sue parole per convincere
l’uomo. Non
avrebbe accettato di incontrarlo se non avesse avuto un
interesse…
Se non avesse condiviso la sua
avversione verso i Lannister.
«Diciamo
che voglia crederti…» Le
parole pronunciate da Roose sono lente e calme come l’acqua
che ha davanti.
Afferra il bicchiere, scuotendolo mentre parla. «Come potrei
rifiutare una
richiesta di Tywin Lannister…»
«Non
dovrai, infatti.»
Petyr sorride, è pronto ad alzarsi,
pronto a raggiungere Sansa. Ha proprio voglia di stare un po’
con lei… Certe
discussioni lo caricano di un’energia particolare.
«Dovrò
firmare delle carte.»
«Firmale» conferma lui, sorseggiando
il bianco.
«Per affondare insieme a tutta la
nave Lannister?»
Petyr scuote la
testa, sorride, fa
cenno di no con il calice tra le mani. Si guarda intorno prima di
chinarsi
verso il tavolo. Anche lui prende a sussurrare ora…
«Niente stretta di mano. Niente
contratti, niente accordi.»
Il cellulare
prende a vibrare nel suo
taschino proprio in quel momento. Il nome, sullo schermo, gli porta
alla mente
un viso tondo, i ricci rossi ai lati del viso, le labbra di fuoco.
«Sì, Ros?»
Riconosce la risata all’altro capo
del telefono, sente la voce impastata da una gomma, come quella di una
ragazzina.
«È passato Tyrion Lannister… Vuole
vederti domani verso mezzogiorno» dice Ros e, conoscendola,
Petyr la immagina
mordersi il labbro, torturare il rossetto cremisi, guardarsi le unghie
dello
stesso colore.
«Perché non prima?»
Il giorno dopo
Sansa deve tornare a
lezione, le ha promesso di andarla a prendere… Non
può fare tardi.
«Ha
detto che fino a quell’ora
dorme…» racconta Ros, ridendo. «Vuoi che
lo richiami?»
«No, va bene così.»
Petyr riattacca con la sensazione che
il mondo intero sia intenzionato a fargli perdere tempo, ma da una
parte è
felice di poter finalmente incontrare Tyrion… Erano due
settimane che
continuava a farlo contattare da Ros.
«Chiudiamola
qui, Baelish» La voce di
Roose sembra arrivare da lontano.
«Allora
abbiamo un accordo?»
Petyr gli porge la mano, la lascia in
sospeso sopra il tavolo per un pezzo prima che l’uomo si
decida a sfiorarla con
le dita.
Quando si alza per raggiungere
l’auto, si sente addosso lo sguardo di ghiaccio di Roose, ma
non ha bisogno di
chiedersi quanto possa fidarsi di lui: conosce già la
risposta.
Corre un
po’ attraverso le strade, sa
di aver fatto tardi e spera che Sansa non sia troppo
arrabbiata…
Decide, all’ultimo istante, di
comprarle degli abiti per il giorno dopo, e un cellulare nuovo,
così da poterla
chiamare quando vuole.
Si ferma a pochi isolati dal parco di
fronte alla casa di lei, scende e entra nel primo negozio di
abbigliamento.
Sceglie un completo bianco virginale, con alcune perline bianche sulle
maniche,
jeans e maglietta nera scollata, e un abito lungo a fiori.
Le due ore sono passate da un po’, ma
ha ancora una cosa da fare, la più importante.
Entra nel negozio di fronte, si fa
intestare una scheda telefonica e sceglie un modello moderno, bianco,
pensando
che le piacerà moltissimo.
Raggiunge il
palazzo dove vive lei,
esaltandosi al solo pensiero di vederla.
E quando entra in casa, abbandonando
le borse con gli acquisti sulla poltrona in sala, sente la voce di
Sansa.
«Vieni
in cucina» risponde lei al suo
richiamo.
Si chiede se sia
riuscita a mangiare,
se il frigo vuoto sia stato un problema, ma fa presto a dimenticare
tutte
queste cose.
Non appena oltrepassa l’ingresso e la
vede, l’espressione seria e i capelli rossi intorno al viso,
il mondo sembra
fermarsi.
È scalza, i piedi nudi dondolano
davanti a Petyr, quasi a dirgli che è nervosa. Risale
lentamente lungo le gambe
accavallate verso di lui, con lo spacco dell’abito a scoprire
parte della
coscia. Riesce quasi a toccarla con gli occhi, nota il vestito stretto
a
fasciarle il petto, la linea del collo sottile, sfiorata appena da una
ciocca
purpurea.
E quando arriva a guardarla in viso
ha solo voglia di baciarla.
Nemmeno Cat è mai stata così
seducente come ora è Sansa. Nemmeno Cat è
riuscita a provocarlo come sta
facendo lei.
Se fosse una donna qualunque, Petyr
si sarebbe già lasciato andare, cedendo al suo invito.
Ma si tratta di Sansa… ed è troppo
presto.
Avanza fino al tavolo, prende una
sedia e la sposta a capotavola, in modo da poter vedere ogni centimetro
di lei.
«Ho
fatto tardi.»
«Hai fatto tardi» Sansa sembra
volergli chiedere di più, lo guarda, ancora, come nei
momenti in cui si è
lasciata baciare da lui. «È successo
qualcosa?»
Petyr si chiede
quanto possa
raccontarle.
Dei suoi piani con Bolton,
dell’azienda di Cersei, dell’incontro con
Tyrion… Vorrebbe condividere tutto
con lei, raccontarle ogni cosa, ogni mossa che è
intenzionato a fare.
«A
dire il vero sì.»
Sansa inclina la testa di lato,
aggrottando la fronte.
«Tua
zia Lysa è in ospedale. Credo
sia per via di tutti i farmaci che prende» spiega, prima che
lei possa fargli
qualche domanda. «Se vorrai, domani ti
accompagnerò a trovarla.»
Un’ombra passa negli occhi cerulei di
Sansa, come se temesse quell’incontro. Abbassa gli occhi un
istante prima di
rispondere.
«Sì, certo.»
Preferirebbe di no, Petyr lo capisce
dal modo in cui ha spostato le mani in grembo, da come ha sciolto le
gambe.
Raggiunge il palmo di lei e lo stringe tra le dita, scorrendovi
l’indice.
«Ho
qualcosa per te.»
«Cosa?»
«Vieni
con me» Le tiene la mano,
accompagnandola in sala.
Ignora le lenzuola ammucchiate sotto
la finestra, quelle che fino a qualche ora prima ricoprivano i mobili
della
casa, e abbassa gli occhi sui piedi nudi di Sansa. È
eccitante vederla
camminare scalza sul cotto dell’appartamento, non sentire
nessun suono a ogni
suo passo.
Petyr sorride, fermandosi un
istante
prima della poltrona dove ha posato le borse.
L’attira a
sé, scorre le mani sulle
sue spalle, studia la linea delle labbra.
Vorrebbe solo poterla
portare sempre
con sé.
Note
dell’autrice:
[1]
Frasi rubate alla penultima puntata della terza serie del Trono.
Grazie
per aver letto anche questo
capitolo! Mi è stato suggerito di farvi presente gli
spoiler… che potrete avere
sulla mia pagina facebook: Celtica
Vi
aspetto numerosi per discutere insieme del mio adorato Petyr (e di
Sansa,
ovviamente)!
|
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Capitolo 10 *** Era rimasta a guardare ***
Vieni con me 10
Trailer
Era Rimasta a
Guardare
requentare un
Corso di Storia le era
sembrata la scelta migliore, almeno fino all’anno prima.
Ma oggi, Sansa cammina per i corridoi
dell’università con un certo timore. Ha paura di
incontrare qualcuno che la
conosca, magari un amico di Joffrey pronto a raccontargli ogni suo
movimento.
L’unica consolazione è che, alla fine
della mattinata, Petyr verrà a prenderla.
Spinge la sacca
sulla spalla, si
prepara a entrare in aula.
C’è pieno di ragazzi intorno a lei,
ma meno di quelli che erano in cortile.
Sansa non fa altro che guardarsi
intorno, scrutando con sospetto ogni faccia che incontra.
Si chiede perché la stiano osservando,
se siano spie di Joffrey, se arriverà a cercarla.
«Sansa!»
La voce di Jeyne
la raggiunge dalla
parte opposta del corridoio, il braccio sollevato a mezz’aria
e l’espressione
stupita di vederla. È vestita come al solito, con una gonna
chiara e una
camicia azzurra. Porta le solite scarpe con il tacco, quelle che
indossa ogni
volta che vuole fare colpo su qualcuno.
Sansa si chiede chi sia la vittima,
stavolta.
«Sansa, ma che fine hai fatto?»
Jeyne si
avvicina per darle un bacio
sulla guancia, le sfiora una spalla mentre la squadra dalla testa ai
piedi.
«Non ti avevo mai visto questa
maglia… Carina.»
Sa che sta
mentendo, Sansa lo capisce
dal modo in cui ha storto il naso mentre lo diceva, ma a lei non
importa. È un
regalo di Petyr, e lui ha detto che il nero le dona.
La rende deliziosamente dark,
gliel’ha sussurrato il giorno prima, quando
Sansa è uscita dalla sua stanza per mostrargli come le
stavano gli abiti scelti
da lui.
Petyr si è alzato in piedi, l’ha
raggiunta per parlarle all’orecchio, facendole provare un
brivido.
L’ha fatto con tutti e tre i vestiti
che le ha portato, ogni volta che Sansa ha attraversato la sala per
mostrarglieli.
Per farsi vedere. Per capire la sua reazione.
«Joffrey
mi ha chiamato tre volte» le
confida Jeyne, passando lo sguardo sul soffitto imbiancato.
«Pensava che fossi
venuta da me. Ha detto che avete litigato, che eri gelosa della vicina
e sei scappata.»
Jeyne sembra
studiare ogni sua
espressione.
«Era molto preoccupato per te…»
Questa è una bugia, un’enorme bugia.
E se Jeyne fosse davvero sua amica non direbbe una cosa simile. Lei sa
quello
che Joffrey le ha fatto, sa dei lividi sul suo corpo, delle umiliazioni
che le
ha inflitto.
Era anche presente durante una di
quelle che Joffrey chiama liti.
«Dici
davvero?»
Lo chiede con candida innocenza, la
stessa che Petyr adora.
«Ma certo…»
Jeyne la prende a braccetto, la
accompagna lungo il pavimento a scacchi fino all’aula di
Storia Romana.
«Cosa devo dirgli?» insiste la sua
amica, stringendosi di più al suo braccio. «Quando
mi richiamerà, intendo… Ma
poi perché non mi hai risposto al telefono?»
Perché
è rimasto a casa di Joffrey, insieme ai miei documenti e al
mio libretto
universitario.
«Io…
credo di averlo perso.»
Mente, non sa di cosa abbiano parlato
Jeyne e Joffrey, non sa se lui abbia frugato tra le sue cose,
trovandolo. Ma
non ha più voglia di risponderle.
«Oh» mormora Jeyne, mentre entrano in
aula. Salgono a metà della gradinata e si sistemano una
accanto all’altra. «Quando
tornerai da Joffrey?»
Sansa sta per rispondere, sta per
dire mai, è quasi
tentata di
raccontarle di Petyr, di com’è diverso, di come
non le abbia mai gridato
contro, mai messo le mani addosso…
Ma poi Jeyne continua.
«Lui
ti ha perdonata.»
Per un istante,
Sansa la guarda a
occhi sgranati, ha quasi voglia di piangere.
Non ricorda le
grida di Joffrey, gli
insulti davanti a tutti i loro amici?
Non ricorda il modo in cui l’ha strattonata
per portarla via dalla sala da ballo, ingelosito dallo sguardo di un
altro
ragazzo? Il modo in cui l’ha spinta a terra, impedendole di
danzare ancora, un
momento prima di stringerle forte il polso, rimetterla in piedi e
trascinarla
via dalla festa.
Jeyne era
presente.
Jeyne era rimasta a guardare.
Jeyne l’aveva abbracciata il giorno
successivo, quando si erano viste a lezione.
E Sansa l’aveva considerata un’amica,
una vera amica.
Gliel’aveva anche
detto, mettendosi a piangere sulla sua spalla.
Prende a
mordersi il pollice, finge
di non averla sentita. La ignora, ignora le sue chiacchiere, i suoi
pettegolezzi, le domande su dove sia stata in quei giorni.
Si chiede dove sia Petyr, se anche
lui la stia pensando…
Ω
Ros ha scherzato
con Tyrion fino adesso.
Si è piegata in avanti, mettendo in
mostra il seno prosperoso, e ha consegnato il caffè nelle
mani del nano. Petyr
ha seguito il loro breve scambio seduto in poltrona, i gomiti sui
braccioli e
le dita incrociate.
«Ros,
mia cara, tu lo sai che non
bevo caffè…» Tyrion le prende la mano,
chiudendole le dita intorno al manico
della tazzina. «Dicono che faccia male.»
«E cosa gradiresti?» domanda Ros
esibendo il suo sorriso migliore.
«Hai
del vino?»
Tyrion volta il capo verso di lui,
inarca le sopracciglia e lascia andare la mano di Ros.
«Anche
il vino fa male…» spiega Ros
con estrema dolcezza.
«Oh,
qui ti sbagli. Il vino è la
cura. Mia sorella ne beve barili, eppure guarda
com’è in forma!»
Ros gli lancia uno sguardo
rassegnato, senza perdere il sorriso. Osserva anche Petyr prima di
voltarsi e
uscire dall’ufficio.
«Segretaria
adorabile» commenta il
nano. «Se non volesse più lavorare per te, mandala
da me. C’è sempre posto per
un tipetto sorridente.»
«Ero convinto non volessi spie.»
Petyr lo studia,
osserva il modo in
cui si guarda in giro, in cui ammira la statua dell’aquila
vicino alla finestra
ad arco, la piccola libreria dove tiene la contabilità, e il
computer,
rigorosamente spento, in bella mostra sulla scrivania.
Ha anche un piccolo telefono, mai
usato, che sembra servirgli solo come fermacarte, e una cornice vuota.
«Spie?»
gli fa il verso Tyrion
stringendo gli occhi. «Vorresti forse dirmi che la tua bella
Ros è una spia? E
di chi, se posso chiedere.»
Non
puoi,
pensa Petyr, ma sorride affabile con un lieve movimento della mano.
«Per
ora solo mia» dichiara,
vedendola entrare proprio in quell’istante.
Ha un bicchiere di vetro rosso con
incisi tanti minuscoli uccellini. Quando lo consegna a Tyrion,
è Petyr che
guarda.
Esce lentamente, per lasciare il
tempo al nano di vederla per bene.
«Bene,
Baelish» prosegue il nano,
sorseggiando il vino. «Siamo qui per parlare della disfatta
della mia cara
sorellina… Come intendiamo procedere?»
Petyr torna a
intrecciare le dita
davanti a sé, come se lo aiutasse a pensare. Si inumidisce
le labbra,
ripensando all’immagine di Sansa, la sera prima.
Le belle gambe che non ha toccato, i
piedi scalzi che avanzavano sul suo pavimento in cotto, lo sguardo di
lei, il
modo di schiudere le labbra quando i loro occhi si sono incontrati.
«Mi
è stato detto che tuo padre
possiede gran parte dei titoli dell’azienda di
Cersei…»
«Ti è stato riferito… da chi,
precisamente?»
Petyr non sa
ancora se fidarsi di
lui, non può dirgli di Roose e del loro incontro. Tyrion
è un Lannister, ha
troppo da perdere dalla sconfitta della famiglia per poterla tradire.
Oltretutto, Petyr nota le differenze
con Bolton: quanto più Roose è silenzioso e
calmo, tanto più Tyrion è chiassoso
e allegro. Il primo non beve mai… il secondo sempre.
Quanta fiducia si può avere in un
nano ubriaco e chiacchierone?
Sorride e non risponde.
«Ho
capito… Non me lo vuoi dire.
Presumo ci sia una certa diffidenza nei miei confronti. Posso chiedere
perché?»
Petyr resta in silenzio, si limita a
fissarlo negli occhi.
«Va
bene… Le parole non sono più il
tuo forte, vero, lord Baelish?»
A un
suo sguardo il nano ride. «No, scusami, scusami. È
solo che a furia di sentirlo
da Cersei… è un soprannome carino, non trovi?
Sempre meglio di quello che ha
affibbiato a me. Folletto, mi
chiama,
anche in presenza di nostro padre. È umiliante.»
Tyrion fa un sorriso di scherno e
torna a bere lunghi sorsi dal bicchiere rosso.
«A
nulla serve che lui le dica di non
farlo più. Non appena restiamo soli prende a ripeterlo. Una
vera lagna» Beve e
beve ancora, poi gli punta contro l’indice.
«È vero che hai rapito Sansa Stark
e che intendi divorziare da Lysa, per sposarti con lei?»
Prima che lui possa rispondere, il
nano scoppia a ridere.
«Menzogne»
commenta Petyr con il
sorriso. «La ragazza è venuta con me
spontaneamente. Joffrey le metteva le mani
addosso.»
Finalmente,
Tyrion ha smesso di
ridere. Scruta dentro il bicchiere come se volesse ammettere qualche
colpa.
«È sempre stato un ragazzo difficile.
Difficile e crudele.»
«E
amante della violenza» aggiunge
Petyr stendendosi meglio sulla poltrona.
«Non lo nego» Il nano posa il
bicchiere sulla scrivania che ha davanti, quella che Petyr ha voluto
nera come
l’inchiostro. «E gran parte della colpa
è di Cersei… Ha fatto di tutto per
viziarlo. Ogni suo capriccio veniva sempre accontentato. E non
è diverso ora
che è un uomo fatto.»
Petyr non vuole parlare di Joffrey,
non ha tempo da perdere con Tyrion… Vuole sbrigarsela in
fretta e correre da
Sansa, rubarle un altro bacio, guardarla mentre arrossisce.
«Allora,
Petyr… posso chiamarti
Petyr, vero? Allora, cosa dovrei fare per mettere fine
all’impero della mia
adorata sorella?»
Il sole proietta
un’ombra strana in
mezzo a loro, arriva dall’aquila, eppure ha le sembianze di
un drago. Lui
ripensa a quando era solo un bambino, e insieme a Cat e a Lysa giocava
a essere
un drago…
Le due sorelle
interpretavano la
parte delle cacciatrici, lo inseguivano nel bosco, fingevano di
lanciargli
addosso le lance. Era sempre Cat a raggiungerlo. Una spinta e
rotolavano
sull’erba, tra le risate.
Forse era stato proprio in quei
giorni di pace, nei periodi in cui il padre di Catelyn li portava nella
baita
sotto la montagna, affidandoli alla custodia del fratello
più grande, Edmure,
che Petyr aveva cominciato a provare qualcosa per lei…
Erano sempre
insieme.
Lysa in mezzo a
loro. Lysa, il
cucciolo da proteggere, che rideva e piangeva continuamente facendosi
abbracciare da Cat. Ma Lysa era un pesce fuor d’acqua in quei
boschi… Non era
brava a correre, non era in grado di raggiungerlo, scoppiava a piangere
ogni
volta che li trovava insieme, sdraiati per terra.
Non era solo gelosia, Lysa mostrava
già i segni che in seguito l’avrebbero costretta a
continue visite mediche,
pastiglie su pastiglie, sonniferi e calmanti per dormire.
Mentre
Cat… Cat era la cacciatrice.
Cat lo
inseguiva, minacciava di
uccidere il drago, tanto da spingerlo a rallentare per farsi prendere.
Cat lo
afferrava per la maglia e lo spingeva a terra, cadendo con lui.
Cat era la vita.
Lysa solo la sua ombra.
Insieme a Cat, Petyr non poteva
desiderare di essere da nessun’altra parte, non aveva
pensieri per nessun altro
gioco. Solo per lei.
«Baelish?»
chiede Tyrion, con titubanza.
Ha di nuovo il bicchiere in mano, e un’espressione confusa
sul volto largo.
«Tutto bene?»
No,
non va tutto bene. Cat è morta, Cat, che era la vita. Mentre
Lysa… Lysa è
ancora qui.
«Stavamo
dicendo?» chiede con un
sorriso che sa di finto.
Cat
non c’è più. Ho solo Sansa
ormai… Ho solo Sansa da stringere nei momenti di
buio. Ho solo Sansa a ricordarmi che sono ancora vivo.
«Che
ruolo dovrei svolgere in questo
gioco?» Tyrion lo guarda come se stesse cercando di carpire i
suoi pensieri.
«Contro l’azienda di mia sorella? Contro mio padre.
Che cosa dovrei fare?»
Cat non
approverebbe.
Cat gli direbbe che non c’è orgoglio
in un’azione simile.
Ma Cat ha passato troppo tempo al
nord, insieme a suo marito Eddard Stark… Non conosce le
regole.
«Assolutamente
niente» mormora Petyr,
sistemandosi meglio.
Ω
Il cortile
interno dell’università è
enorme.
Circondato dall’edificio, con tre
archi che consentono l’accesso senza dover varcare alcuna
porta, riceve la luce
diretta del sole, ha due fontane, una a forma di fanciulla intenta a
leggere,
l’altra con le sembianze di un uomo che ne sta giudicando un
altro.
Ma la cosa che Sansa ama di più è
l’olmo bianco. Dev’essere alto almeno venti metri,
e una volta le è stato
raccontato che esiste da prima dell’ateneo stesso…
«Sansa?»
Jeyne non vuole proprio lasciarla in
pace. Le lezioni sono finite da poco, ma lei continua a tornare sulla
questione
Joffrey.
È
abbastanza stufa di parlarne. Non
vuole tornare a casa, non le importa nulla di lui, non vuole
più vederlo.
Vorrebbe solo che Jeyne capisse…
E vorrebbe restare in silenzio,
seduta all’ombra dell’olmo, a osservare
l’acqua che zampilla dalla bocca della
fanciulla nella fontana che ha di fronte. Ma non può.
Aspettare Petyr la mette a disagio,
la fa sentire sola, e nonostante tutto, nonostante il bisogno di pace,
la voce
di Jeyne riesce a distrarla.
«Ho
conosciuto un ragazzo…» sussurra
infine la sua amica, sedendo al suo fianco. Sono le parole che Sansa ha
aspettato per tutta la mattina. «Alla fine devo ringraziare
te per questo
incontro.»
Lei la guarda stranita, come se fosse
una cosa assurda da sentire, come se non avesse fatto assolutamente
nulla. Si
stringe le ginocchia al petto, lascia che i capelli rossi scivolino
oltre la
spalla, e aspetta una spiegazione.
«Era insieme a un amico di tuo
fratello…»
Quale?
Vorrebbe chiedere Sansa, ma è a corto di parole.
«Il
migliore amico di tuo fratello»
precisa Jeyne, decisa a continuare. «Quegli occhi…
ti farebbero gelare il
sangue, Sansa. Subito mi hanno fatto paura, ma quando mi ha sorriso
tutto è
cambiato.»
«Dove lo hai conosciuto?» si sforza
di chiedere lei.
«Al “Terrore Bianco”, quel pub dove
siamo state quando…»
Quando
ho conosciuto Joffrey, rovinandomi inevitabilmente la vita.
«Quando
Robb e Jon si sono azzuffati
per quella ragazza… Igritte» spiega Jeyne con un
sorrisetto.
Sansa ricorda ancora la cotta della
sua amica per suo fratello Robb.
«Non
si sono azzuffati…» la corregge
Sansa, poggiando una guancia sulla spalla. «Hanno
solo… discusso. È stata
quella Ygritte a provocare Jon.»
«Lo ricordo» conferma Jeyne,
incrociando le gambe sotto di sé. «Si è
messa a gridare “sono libera, faccio
quello che voglio, bacio chi voglio”…»
«E ha baciato Robb davanti a Jon…
durante un’uscita con lui.»
Alle parole baciato Robb, Jeyne ha smesso di
sorridere, prendendo a fissare la
fontana. Aveva pianto per giorni dopo quell’episodio.
Sansa ripensa al matrimonio di Petyr,
a quando lo ha visto posare le labbra su Lysa, stringerla a
sé, sorridere come
se fosse il giorno più bello della sua vita.
Non ha provato niente, quel giorno. Niente.
Si chiede, se dovesse riviverlo ora,
cambierebbe qualcosa? Piangerebbe come Jeyne, per giorni e per notti,
pensando
all’amore perduto?
Non sa perché, ma Sansa non riesce a
essere gelosa di Lysa. Sa che Petyr non prova nulla per sua moglie, sa
che
Petyr ama baciare lei, Sansa, e sa che vorrebbe passare più
tempo insieme.
Cosa che non accade con Lysa.
«Un
po’ mi manca» confessa Jeyne.
«Chi?»
«Tuo fratello… Robb.»
Si guardano e,
per un momento, Sansa
crede di aver ritrovato la sua amica. Ma sbaglia, e sbaglia a fidarsi.
«Da quanto non lo senti?» insiste
Jeyne, guardandosi le unghie smaltate di fucsia.
Troppo
tempo. Joffrey non mi ha mai permesso di chiamarlo, dovevo farlo di
nascosto da
lui.
«Da
molto» risponde Sansa, osservando
gli occhi marroni della sua amica.
Non
ho nemmeno più il suo numero… È tutto
a casa di Joffrey. Come farò a sentirli?
Un’idea le attraversa la mente come
un lampo in un cielo nero.
Casa.
Nord. Jon.
Può
chiamare un numero a caso nel
luogo dove ha trascorso l’infanzia, magari cercando
sull’elenco potrebbe
capitare il nome di qualcuno che conosce la sua famiglia, che sa di Jon
e come
rintracciarlo.
Chiamare lui e farsi dare il numero
di Robb le sembra l’idea migliore.
È trascorso molto tempo dall’ultima
volta che ha parlato con il suo fratellastro, non sa nemmeno come stia.
Potrebbe essersi sposato nel frattempo, potrebbe essersi
trasferito…
Sansa pensa che l’unico modo per
scoprirlo sia fare quel numero.
Il numero di uno sconosciuto.
«Sarà
meglio che vada» annuncia
Sansa, alzandosi in piedi. Batte le mani sui pantaloni di jeans, come
per
scrollarsi di dosso le ultime incertezze, e fa per andarsene.
«Domani ci sei?» domanda Jeyne,
imitandola. «Perché non mi dai il tuo nuovo
numero? Così ti chiamo.»
Così
puoi darlo a Joffrey…
«Non
lo so a memoria… Te lo passo
questi giorni.»
La saluta con la mano,
allontanandosi.
Il cortile
è zeppo di gente. Le
risate di un gruppo di ragazze, alcuni studenti intenti a fare dei
passaggi con
un pallone, l’odore di disinfettante che esce dalle finestre
al piano terra,
mischiandosi a quello dell’erba tagliata di fresco.
Il miagolio di un gatto, che spinge
Sansa a guardarsi in giro per individuarlo, il profumo di pizza calda
tra le
mani di un docente, seduto sulla panchina più vicina
all’arco di entrata, tutte
cose che la illudono di essere di nuovo in salvo.
Non teme Joffrey. È coraggiosa. Lo
odia, odia lui, sua madre, odia persino sua zia Lysa. Ma è
forte, si sente così
forte da poterli anche perdonare.
Passa sotto la
volta dell’arco, vede
le auto parcheggiate fuori, alcune persone intente a parlare. Di Petyr
nessuna
traccia.
Decide di fumare una sigaretta mentre
lo aspetta, appoggiandosi al muro di pietra, restando
all’ombra dell’arco. È il
pacchetto di Petyr, quello che ha deciso di lasciare a casa sua,
così da non
far insospettire Lysa o Robin.
È il pacchetto che hanno condiviso la
sera prima, quando Sansa gli ha chiesto di non andare via.
“C’è
Robin che mi aspetta. Non posso lasciarlo solo.”
Sansa avrebbe
voluto stringergli le
braccia al collo e baciarlo, per convincerlo a non lasciarla sola.
Non le è mai piaciuto restare sola…
nemmeno ora che è così in ombra da non essere
vista da nessuno.
Può
vedere la gente, può osservarla,
può addirittura sentirla. Ma non è lo stesso per
gli altri.
Fa un altro tiro, lascia che il fumo
si sparga nell’aria, anche se sa che è proibito
fumare all’interno
dell’università. Non le importa.
È coraggiosa adesso, non ha paura.
Non…
Una mano si
stringe intorno al suo
braccio, qualcuno la trascina all’interno di una porta
aperta, e Sansa smette
di respirare.
Non è vero che è coraggiosa. Non è
mai stata coraggiosa. Non ha mai voluto essere coraggiosa.
Vuole solo tornare a casa, vedere il
volto rassicurante di Petyr, sentire le sue parole dolci.
Non possono averla trovata, averla
presa, non possono di nuovo farle incontrare Joffrey. Sarebbe troppo
ingiusto,
troppo spaventoso. No, no, non è possibile.
Sansa finisce
con la schiena contro
il muro. Non c’è luce in quella stanza, eppure
basta il riflesso del sole sulla
finestra per illuminare la figura che ha davanti, per permetterle di
dare un
volto a quella voce…
«Non
dovresti fumare, uccellino.»
Sandor Clegane, il Mastino, è a un
passo dal suo viso.
Note
dell’autrice:
Scusate,
scusate il ritardo! Non sono
a casa queste settimane, mi è un po’ difficile
aggiornare, ma ci sto provando.
Spero che non vogliate abbandonare la storia e che decidiate di
aspettarmi. È
importante per me!
Celtica
|
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Capitolo 11 *** Muro di ghiaccio ***
Cap 11
Trailer
Muro di Ghiaccio
os ha le unghie
smaltate di rosso, si
tortura le labbra mentre parla.
Il bel sorriso, quello che è
costretta a mostrare sempre, è tornato a essere una lunga
linea frastagliata.
Un luccichio negli occhi fa capire a Petyr che vorrebbe piangere, e non
lo fa.
Non lo fa per paura. Perché sa, Ros
sa che le lacrime non farebbero altro che peggiorare la sua situazione.
Eppure non riesce a trattenere un
singhiozzo…
… e Petyr ne approfitta per sedere
accanto a lei, scorrerle un braccio intorno alle spalle e avvicinare le
labbra
al suo orecchio, scostandole un riccio cremisi dalla pelle liscia.
«Odio
fare cattivi investimenti...»
«Lo-lo so.»
«Avanti,
Ros…» Petyr cerca di
persuaderla a forza di sussurri. «Cos’hai detto a
Varys? Al mio buon vecchio
amico?»
Le persiano socchiuse lasciano la
stanza nella penombra, e la luce flebile sulla scrivania di Ros riesce
appena a
illuminarne il volto. Non c’è nessuno con loro,
Tyrion è andato via da poco, ma
è dalla sera prima che Petyr aspetta di fare quella
conversazione.
«Niente»
mente, lanciandogli uno
sguardo supplichevole.
Stringe tra le dita le frange della
gonna, trascinandole verso le ginocchia.
«Questa
è una bugia, Ros.»
Al suono di quelle parole, di quel
tono così amabile, Ros sussulta vicino a lui, sgranando gli
occhi dal terrore.
Prende a scuotere la testa, come se in ogni movimento, in ogni
espressione del
suo viso, fosse impressa la parola “perdono”.
«No,
no…»
«Sh…»
Petyr le sfiora la guancia con
il dorso delle dita, sorride appena. «Raccontami, Ros.
Raccontami e non mi
pentirò di averti assunta.»
La mano tremante di Ros corre al
volto, asciuga le lacrime, sembra darsi un contegno. Si fa coraggio, si
prepara
a parlare.
«È
venuto a cercarti una decina di
giorni fa. Tu non c’eri» Ros lo guarda come se
fosse colpa sua ciò che è venuto
dopo. «Aveva notizie riguardo a qualcosa che gli avevi
chiesto di controllare,
ma quando gli ho spiegato che saresti stato via per giorni ha chinato
la testa
e se n’è andato.
«Il giorno dopo squilla il telefono…
ed era lui. Gli ho ripetuto le stesse cose, che non c’eri,
che non ci saresti
stato per giorni! Ha riso… Ha riso e ha detto di essere
sbadato. Salvo poi
aggiungere che era con me che voleva parlare.»
Ros solleva gli occhi su di lui,
Petyr li vede riempirsi di nuove lacrime. Sembra maledirsi per aver
risposto al
telefono.
«Ha chiamato e chiamato ancora, ogni
giorno, per tutta la settimana. Voleva sapere dov’eri,
perché non rispondevi
alle sue telefonate, se potevamo vederci… Ho sempre detto
no» aggiunge con
fierezza, sollevando il mento.
Le sue mani
tremano, si tortura il
labbro e trattiene le lacrime. Eppure mostra fierezza…
Una fierezza in cui Petyr non crede.
Afferra la mano pallida e delicata di
Ros, la stringe mentre parla.
«Non
sono venuto per perdere tempo»
sussurra impercettibilmente, facendola scoppiare in singhiozzi
«E va bene! Gli detto di sì… Quando
mi ha chiesto di vederci, gli ho risposto di passare in ufficio, che
ero sola.
È arrivato dopo dieci minuti.»
Il
che significa che era già qui sotto ad aspettare…
«Mi ha
detto delle cose… Non il primo
giorno, non da molto, ma io non gli volevo credere. Cose che riguardano
te. Te
e una ragazza.
«Varys afferma che te la sei portata
via, che la tieni nascosta, che è il tuo asso nella manica.
Lui voleva sapere
con chi dovevi incontrarti questi giorni… Ma soprattutto di
lei. Dov’è? Mi ha
chiesto, ma io non ho saputo rispondere.»
Petyr si
inumidisce le labbra, si
scosta appena dalla figura di lei, lasciando libera la sua mano.
«Cosa gli hai detto dei miei… amici?»
Ros lo guarda, abbassa gli occhi, lo
guarda ancora. Petyr sa che sta per mentire.
«Ho detto solo che dopo essertene
andato dai Lannister, sono stati i Tyrell ad
aiutarti…»
«Cos’altro?»
Gli basta
chinarsi ancora, studiare
la linea morbida del naso, perché Ros torni a raccontargli
una nuova versione.
«Che mi avevi chiesto di fissarti un
appuntamento con Roose Bolton… e con Tyrion Lannister.
Proprio qui, proprio
oggi.»
Petyr sente il cuore accelerare la
sua corsa, giusto un po’, il tempo per lasciarla riflettere.
«Dimmi che non l’hai chiamato.»
Ros solleva gli occhi così in fretta
da ricordargli un cerbiatto in fuga. Ma lei non può
fuggire… Non ha posto dove
nascondersi, solo una verità da barattare.
«No.»
Petyr inarca le sopracciglia, stringe
le labbra, aspetta che lei continui.
«No… Sì» confessa poi.
«Ma solo un
minuto, niente di più. Gli ho solo confermato
l’arrivo di Tyrion.»
Non è vero, non del tutto, e Petyr,
sfortunatamente per Ros, questo lo sa.
«Cosa gli hai detto dei miei piani?»
«Che non li condividi con me…» Ros si
lascia sfuggire un singhiozzo, ma trattiene gli altri. «Che
non conosco le tue
intenzioni.»
«Ma
oggi hai sentito.»
Ros scuote la
testa così in fretta da
creare un turbine di fuoco davanti ai suoi occhi.
«Ho sentito… ma ho sentito poco.»
È
tardi. Sansa lo starà aspettando.
Deve sbrigarsi.
Petyr si alza in piedi, sistema la
maglia e scrolla le spalle: per lui la questione con Ros è
conclusa.
«Hai
sentito abbastanza» la corregge,
un momento prima di uscire dalla stanza.
Ω
Il muro alle sue
spalle sa di
ghiaccio.
È molto diverso dal fuoco impetuoso
che legge negli occhi del Mastino, mentre la costringe
all’angolo come un
animale. Sansa vorrebbe fuggire, è vero, vorrebbe non dover
più vedere la sua
brutta faccia, respirare il suo odore di alcol, sentire le sue mani
callose su
di sé.
Ma è lì, ormai.
Prigioniera del Mastino, condannata a
tornare in catene da Joffrey.
«Sei
stata una sciocca a tornare
qui.»
Sansa lo guarda male, come se odiasse
sentirsi ripetere sempre le stesse cose. Sono parole identiche a quelle
usate
durante il loro ultimo incontro, quando lei era tornata a casa per
riprendere i
documenti.
«Che
cosa vuoi?» chiede, a denti
stretti, ricordando che è stato proprio lui a permetterle di
fuggire.
«Joffrey mi ha mandato a prenderti.»
Sansa sgrana gli
occhi, non riesce a
crederci. Che senso ha avuto salvarla, lasciarla scappare, trattenere
Joffrey?
Se alla fine è tornato per lei, se alla fine è
tornato a prenderla, a
riportarla a casa, a torturarla ancora… perché
proteggerla una prima volta?
Sente il cuore andare in pezzi.
Tutto ciò che aveva temuto, tutto ciò
in cui aveva sperato, sono tornati a essere fumo. Esiste solo la
realtà di
Clegane, lui che la sovrasta, che le impedisce di scappare.
«Perché?» sussurra Sansa con
disperazione.
Vorrebbe solo andare via, non vedere
più nessuno, sparire per sempre da quella città
maledetta. Da quando vi si è
trasferita sono accadute solo cose orribili.
«Ha ricevuto una chiamata e si è
messo a sbraitare ordini.»
Una
chiamata… una chiamata di chi?
Sansa osserva la
mano possente che la
trattiene per la spalla, inchiodandola al muro, e solleva gli occhi sul
volto
sfigurato che ha davanti. Si chiede quanto ci sia di umano sotto quella
cicatrice, se davvero Sandor sia intenzionato a riportarla indietro.
«Perché mi hai lasciato fuggire?»
chiede invece.
Il Mastino sembra percepire una
leggera sfida nella sua voce, perché digrigna i denti e
stringe la presa sulla
sua spalla.
«Non…»
«Dimmelo» insiste Sansa,
interrompendo il ringhio.
«Pensavi che quella fichetta ti
avrebbe protetto?» Sandor Clegane distende le labbra in un
sorriso di scherno.
«Baelish è infido e traditore. Ti avrebbe
rivenduto in fretta a Joffrey, pur di
salvarsi.»
Sansa stringe
gli occhi, lo guarda
con tutto il disprezzo di cui è capace.
«Lui mi ha salvata.»
«No» ringhia il Mastino, premendola
con più forza contro il muro. Tanto da farle male.
«Sono stato io a
salvarti, io, non quella fichetta
con cui te la fai adesso.»
Sansa prende a
dimenarsi, batte un
pugno sul torace largo che le impedisce la fuga, e comincia a gridare.
«Lasciami andare! Lasciami,
lasciami!»
Sandor si guarda
in giro mentre
chiude una mano sulla sua bocca, intimandole di fare silenzio.
È così rude,
così doloroso, che Sansa sente il bisogno di piangere.
Di disperazione. Di rabbia. Di
delusione.
Non riesce a credere che Petyr la
tradirebbe, non può nemmeno pensarci…
È come se Sandor le avesse tolto ogni
speranza, ogni remota illusione di poter essere felice.
«Basta!
Sta ferma.»
Sansa obbedisce, ma non perché voglia
farlo. Sa che sprecare energie è inutile, sa che nessuna
mossa, nessun gesto,
riuscirebbero a liberarla da quelle grinfie.
«Perché
mi stai facendo questo?»
domanda ancora.
Il Mastino la
guarda, una strana luce
gli brilla negli occhi mentre si avvicina a lei. Sansa riesce a sentire
il suo
alito acre e vinoso, il respiro stranamente grave.
«Sono fottuto» ripete, a un soffio
dalle sue labbra. Sansa è sicura che stia per baciarla.
«Non ho altra scelta.»
È così vicino da spingerla a sperare
che passi in fretta. Il gelo alle sue spalle è fatto di
pietra, di intonaco e
cemento, ma il calore che ha davanti ha un nome: Sandor Clegane. Il
Mastino.
«Il cane di Joffrey» sussurra,
lasciandosi sfuggire quelle parole.
Sandor si ferma.
È come se qualcuno
lo avesse appena risvegliato dal torpore. Le emozioni sembrano
inseguirsi sul
suo volto, prima una glaciale delusione, poi una rabbia fredda, infine
solo
pacata certezza.
Si allontana da lei quel tanto che
basta a farle estrarre una nuova sigaretta dal pacchetto di Petyr.
Sansa sente i suoi occhi addosso,
vede le mani enormi di lui stringersi a pugno, torcersi abbandonate ai
lati del
corpo. Sa che non la colpirà, eppure ha solo
paura…
«Puoi lasciarmi sola, per favore?»
Lo chiede con l’accendino in mano,
mentre la fiamma sembra disegnare un contrasto sul volto sfigurato del
Mastino.
«No.»
«Vuoi
ancora riportarmi da Joffrey,
non è vero?»
Lo chiede tra il
disperato e
l’arrendevole, come se quella fioca speranza rimasta si
stesse affievolendo in
quello stesso istante.
Lui solleva la testa, la scruta come
se la vedesse per la prima volta. Le solleva il mento, rudemente,
afferrandolo
con la mano, e osserva il segno giallastro sul suo viso.
È il marchio che Joffrey le ha
lasciato, la sua dimostrazione d’amore.
È ciò che il Mastino non sembra
condividere.
Sansa fa un
tiro, poi un altro e un
altro ancora, cerca di restare calma, ma è difficile farlo
quando qualcuno con
il volto di Sandor resta lì a fissarti.
«Non sai che fa male?» ringhia lui.
Sandor Clegane le ruba la sigaretta
con le dita e se la porta alle labbra.
«A te non fa male?» lo sfida Sansa,
incrociando le braccia al petto.
Ascolta il suono
burrascoso della sua
risata, il modo in cui stride, facendola tremare. E, di nuovo, gli
occhi del
Mastino si posano su di lei.
Sansa è abituata agli sguardi carichi
di desiderio, ma quelli che Sandor le lancia ora riescono solo a farla
vergognare. Non si è mosso, ma è come se
l’avesse fatto, è come se l’avesse
spinta contro il muro.
Tanto da farle chiedere che sapore
avrebbe avuto il suo bacio, se solo lei non lo avesse
fermato…
«Cosa dirai a Joffrey?»
Gli
dirà che mi ha visto? Inventerà che sono riuscita
a fuggire? No… Joffrey
potrebbe chiedersi come mai, potrebbe capire che è stato di
nuovo il Mastino a
lasciarmi andare.
Perché
tutto ciò di cui Sansa è
sicura è che Sandor non la riporterà indietro.
Assapora a fondo il filtro della
sigaretta, e quel gesto, per quanto insignificante, ha per Sansa
più
significato di un bacio.
La passa da una parte all’altra delle
labbra in modo rude, come se al posto della cicca ci fosse la bocca di
lei.
Sembra qualcosa bramato dal tempo stesso, un contatto violento, un
desiderio
feroce.
Sansa arrossisce senza accorgersene.
«In
culo Joffrey.»
Sono le ultime parole prima di
vederlo sparire nel cortile.
Ω
Il campanello
suona una volta sola.
La porta, alta e nera, con incisioni
di rubino agli angoli, si apre immediatamente davanti ai suoi occhi.
Lei è lì,
i capelli rossi scivolano sulla lunga vestaglia, il labbro trema appena
quando
lo vede, giusto un istante prima di sorridere.
«Entra» mormora con la sua voce di
velluto, scostandosi per lasciarlo passare.
Lo guida lungo il corridoio, apre la
prima porta a sinistra e gli concede di entrare per primo. La sala
è quadrata,
con un enorme camino spento, due finestre ad arco da cui arrivano i
rumori
della strada, e due lunghi tappeti persiani. Li percorre fino ad
accomodarsi su
uno dei due divani a pois.
Lei non si siede, sembra nervosa.
Stringe i lacci della vestaglia, le unghie rosse mandano lampi di fuoco
verso i
suoi occhi, i denti, bianchissimi, mordono il labbro.
«Sei
venuto in pace?» chiede, mentre
la bocca di porpora trema.
Un cenno del capo e tutto torna
apposto.
«Preparo un caffè.»
Lei si
allontana, lasciandolo solo.
Può guardarsi in giro, ora. Può vedere, capire,
scoprire come fare. I lacci
delle tende? No, troppo sospetto… L’attizzatoio?
La sala messa a soqquadro, la
finestra lasciata aperta? No… troppo prevedibile. E troppi
problemi.
Sente una vena pulsare sul collo
mentre si alza. Tutta questa situazione lo mette stranamente a suo
agio. I
guanti di pelle nera non gli hanno mai donato come quel giorno, il
completo
nuovo sembra brillare di luce propria mentre cammina, lento e sicuro,
verso il
corridoio.
Fuori, il sole
è già calato,
lasciando il posto a una falce di luna. Non è orario di
visite, ma si conoscono
da così tanto… e hanno così tante cose
da dirsi. Non avrebbe potuto rimandare,
perché non c’è momento più
adatto di questo.
Accarezza la tasca dove è nascosta,
come per assicurarsi che sia sempre lì, pronta
all’uso. È un movimento lento,
sicuro, come i suoi passi sul pavimento. Sente i rumori provenienti
dalla
cucina, lei che traffica con qualcosa… Lo scroscio
dell’acqua dal rubinetto
aperto, il cozzare delle pentole d’acciaio.
Cerca di imprimere ogni suono nella
sua mente, ogni odore, come quello del detersivo al limone, e ogni
sensazione
che sta provando.
Può quasi fiutare la paura,
l’eccitazione della morte, la bramosia delle mani su un corpo
che non può più
reagire…
Lo fa sentire
vivo.
Non
c’è niente che potrebbe farlo
urlare, fargli sollevare la testa al cielo, niente più di
quello.
Il potere sulla morte. Il potere
sulla vita. Il potere su un altro essere umano.
È meglio del sesso, è la droga più
potente che conosca.
Non lo farebbe
se non fosse
costretto… Non lo farebbe se in cucina ci fosse lei, invece della rossa. Rifiuterebbe di
obbedire all’ordine, si
godrebbe il suo caffè stuzzicandola con uno sguardo,
bramando una sua parola.
Ma della donna nell’altra stanza non
gli importa nulla.
Non gli importa dei suoi seni
prosperosi, delle sue ciglia lunghe, delle sue ciocche ribelli. Sa che
potrebbe
averla, sa che si lascerebbe prendere in qualsiasi istante pur di avere
un
altro giorno, un solo altro giorno
di
vita.
«È
quasi pronto.»
La voce cammina con lentezza fino a
lui, come se non avesse alcuna voglia del prossimo passo, quasi come se
sapesse
cosa la aspetta.
Un sussurro, un grido, un tonfo…
Non c’è altro nel suo futuro. Nulla,
se non quell’odore di caffè che si sta spargendo
per casa, il sapore del
rossetto quando tirerà fuori la lingua per
un’ultima frase, l’immagine del suo
viso…
No. Questo no.
Non può essere tanto crudele. Lei non
lo merita.
Non meriterebbe nemmeno di morire, ma
questi sono gli ordini… Non c’è altro
modo, questo lui lo sa. Non c’è più
fiducia che lei meriti, non può permettere che
un’altra parola sfugga dalle sua
bocca carnosa, giungendo alle orecchie sbagliate.
Lei non
capirebbe…
Se solo provasse
a spiegarle, non
capirebbe. È inutile spaventarla, farle vivere gli ultimi
momenti nel terrore.
Non è questo che vuole.
Solo sbarazzarsi di lei.
«Ci
sei?»
Esce dalla cucina con il suo
portamento altero, reggendo in mano un vassoio con lo zucchero e due
tazzine.
La ceramica ha l’aspetto di un velo… un velo rosso
sangue, striato di bianco.
«Ah,
sei qui» sussurra, trovandolo in
corridoio. «Vieni.»
Gli fa strada con un certo timore,
come se non volesse averlo alle spalle.
Fai
bene,
pensa lui, studiando la linea perfetta della gambe.
Si accomodano sullo stesso divano,
portano la tazza alle labbra nello stesso istante, mentre vige il
silenzio.
«Io…»
comincia lei, ma basta un cenno
per zittirla.
Non vuole
sentirla parlare, non di
quello. Non vuole che l’ultimo ricordo che ha di lei sia
così… inutile.
No, vuole sentirla parlare di sé,
della sua infanzia, dei suoi amori. Dei suoi sogni di ragazza, di tutto
ciò che
non lo riguardi.
«Tornerai
a casa?» domanda lui in
tono lieve, dandole quell’ultima, dolce, speranza che non
credeva possibile.
«Nel nord? Oh, no…»
Ecco che il tono è già cambiato, la
voce si è fatta più delicata, più
decisa, più felice.
Illusioni, non sono altro che questo. Le parole non valgono
nulla, non in quella stanza, non in quel momento.
«Vorrei
andare a sud… Attraversare il
mare, raggiungere il cuore d’Europa.»
E riesce quasi a
vederla, la
speranza, brillare nei suoi occhi.
È la luce di un sogno, l’alba prima
del giorno, la bellezza sognata a un passo da lei.
«Come
sarà?» chiede con un sorriso.
«Non sono mai uscita dalla Gran Bretagna. Ho girato alcune
città, questo sì, ma
mai quelle che avrei voluto. Adesso che sono libera penso che
tornerò a
viaggiare.»
Lo dice con una nota incrinata alla
parola “libera”, come se non fosse stata una sua
decisione… una sua scelta.
Tutto
ciò che facciamo dipende da noi.
È
tardi. Non c’è più tempo di parole,
non può fare altro per lei, oltre a donarle un ultimo
sogno…
Le sfiora la mano, la gola, i capelli
di fuoco, così diversi da come vorrebbe che
fossero… La stringe a sé,
accompagnandola sul suo petto.
Ora che è rilassata è così facile
farle voltare il viso di lato, liberare il lato del collo dai
boccoli… e
pungerla con il suo ago.
Le pupille si
dilatano giusto un
istante per guardarlo, il corpo si irrigidisce, ma è
tardi… È troppo tardi per
qualunque reazione.
E quando le palpebre si abbassano,
non deve fare altro che caricarsela in spalla e attraversare il
corridoio. Là,
in fondo, c’è ancora una porta,
l’ultima, quella che non avrebbe mai dovuto
varcare.
Uno sforzo per aprirla, con il peso
di lei a gravare sulla schiena, e le scale che scendono
nell’antro oscuro.
La sua corsa
è finita.
Non sarà lui a
percorrere quei
gradini, ad accendere la luce, a scoprire cosa c’è
nella cantina buia. Non è
più un suo compito.
La guarda ancora una
volta, ascolta
il suo sospiro mentre se la adagia tra le braccia.
E poi la lascia
andare.
Note
dell’autrice:
Vorrei
dedicare questo capitolo, per
quanto un po’ fuori tema, a due persone che ho conosciuto la
settimana scorsa,
e con cui ho trascorso delle ore davvero piacevoli. Magari non
leggeranno mai
questa dedica, ma mi sembra carino farlo comunque!
Cosa
importante:
grazie, in particolare a _Elthanin_Riddle_
(senza di te, forse, questo
capitolo sarebbe arrivato molto più tardi! Ma il tuo
messaggio mi ha
rincuorato, mi ha fatto capire che c’è chi
apprezza, tanto da spingermi a non
abbandonare la storia);
A lady
dyane (anche il tuo messaggio mi è stato di
grande aiuto! Grazie!);
A Diomache
(sei tra le poche persone che hanno letto e recensito tutti i
capitoli.
Grazie! Di cuore.);
E grazie
anche a tutti quelli che mi hanno scritto in privato!
Ovviamente non c'è bisogno di citare anche quelle due/tre
persone che mi seguono sempre, vero? Grazie mille!
Confesso
di
aver avuto qualche dubbio sul continuare a pubblicare questa
storia… Il mio
timore è che questo dubbio torni, quindi grazie a chi ha
cercato/sta cercando
di farmi capire che Vieni con Me merita di andare avanti!
Spero di
sentirvi presto (e vi aspetto sulla mia Pagina per due chiacchiere!).
Celtica
P.S.: vorrei provare
a fare un gioco anche qui, un gioco cominciato su Celtica (Fb).
Il
gioco dello spoiler.
In genere uso capitoli già pronti, dando, a chi me lo
chiede, un
piccolo estratto di quanto avverrà in seguito. Al momento
però non ho
materiale a disposizione, quindi vi lascio la possibilità di
chiedermi
ciò che volete! Domande aperte naturalmente. Sono tutta
vostra!
|
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Capitolo 12 *** Un segreto ***
Cap 12
Trailer
Un Segreto
nche oggi, Sansa
ha deciso di non
dire a Petyr del Mastino. Proprio come ieri, quando è stata
spinta contro un
muro, con il suo fiato addosso… Con la certezza che stesse
per baciarla.
A Petyr non farebbe piacere saperlo.
Ha quasi paura che possa diventare
geloso, come un tempo è stato Joffrey… Che possa
arrivare ad alzare le mani su…
No. No, si dice, Petyr non lo farebbe mai.
Non a lei.
«Dicono che Lysa si sveglierà presto»
mormora, per spezzare quella tensione creata dal silenzio.
E dalle sue bugie.
«Sì, potrebbe essere già sveglia al
nostro arrivo.»
Petyr lo dice lanciandole
un’occhiata, come per capire se tema quel momento, o se lo
aspetti.
La
verità è che nemmeno Sansa lo sa.
Non vuole
più parlare con lei. Non
vuole nemmeno saperla morta, certo… Ma non vuole parlare con
lei.
Dover fingere che vada tutto bene,
che siano una famiglia felice, dover fingere di essere indifferente a
Petyr!
No, già una volta, tempo prima, ha dovuto fare una cosa
simile.
Adesso basta.
I primi tempi
con Joffrey erano stati
felici e spensierati, e per un po’ lei si era illusa di poter
essere libera di
fare ogni cosa.
Aveva conosciuto Loras, il fratello
di Margaery, all’università. Frequentava lo stesso
corso suo e di Jeyne, ed era
stata una gioia scoprirlo. Una gioia anche per Jeyne…
“Tu
hai Joffrey”, le aveva
detto, il giorno in cui si
erano confrontate. “Lasciami almeno
Loras.”
“Ti
sbagli. A me non importa affatto di Loras.”
Era una menzogna, ma Jeyne aveva
bisogno di sentirla.
Lo avevano
ammirato giocare a calcio
dagli spalti, gridando il suo nome, tifando per il suo trionfo.
E infatti aveva vinto… Era bravo,
Loras. Bravo a tirare in rete, a correre in mezzo al campo, respirando
l’inno
della gente, la loro gioia.
Ed era stato bravo con lei, dopo una
partita, quando l’aveva scelta per caricarla in spalla, a
mo’ di trofeo.
Jeyne non le
aveva parlato per due
interi giorni…
E nemmeno Joffrey.
Forse era da lì che tutto era
cominciato.
“Sei
una lurida puttana!” Joffrey lo
aveva gridato in casa,
sbattendo i pugni sul tavolo. Non l’aveva toccata, non quel
giorno. Solo
insultata e offesa, violentata nel suo animo di ragazzina innocente.
Aveva scherzato
con Loras, questo sì.
Ma non aveva fatto altro con lui, forse nemmeno lo aveva desiderato.
Loras era stato, per lei, l’immagine
del principe perfetto, del cavaliere che dona un fiore,
dell’uomo da presentare
ai genitori.
E se i suoi fossero stati ancora
vivi, Sansa avrebbe voluto portare Loras a casa, non Joffrey. Non dopo
ciò che
le aveva fatto… Non dopo quel primo schiaffo, alla festa di
compleanno di
Cersei.
“Devi
stare zitta quando parlo io!”
Ma
cos’è che gli aveva detto? Sansa
proprio non riusciva a ricordarlo…
Sapeva solo di aver riso a una battuta
di Tyrion, di aver consegnato timidamente il regalo a Cersei, di aver
ascoltato
la richiesta di un ballo da parte di Tommen, il fratello minore di
Joffrey.
«Sei
pronta?»
Quelle due
parole interrompono il
flusso dei suoi ricordi, riportandola a una realtà a cui
avrebbe preferito non
tornare… Rivedere Lysa, magari anche doverle parlare, non
sono cose che
attraggono Sansa.
Le fanno venir voglia di fuggire, di
aprire la portiera dell’auto e cominciare a correre nella
direzione opposta
all’ospedale.
Annuisce appena, lasciando che le
mani di Petyr avvolgano la sua.
“Andrà
bene”, sembra dirle
con quello sguardo. Ma Sansa non riesce
a crederci…
Scende dalla
macchina sentendosi tesa
in ogni parte del corpo. Qualunque altro luogo andrebbe bene, tranne
questo.
Sansa odia gli ospedali, li odia da quando i suoi genitori sono morti,
da
quando Robb è stato costretto a entrare
nell’obitorio per il riconoscimento,
mentre lei aspettava seduta fuori.
Arya era abbracciata a Jon, piangendo
disperata, battendo i pugni sul suo petto.
Bran e Rickon
erano rimasti a casa
con Rodrik Cassel, un amico di loro padre… In teoria,
ricorda Sansa, Robb aveva
chiesto anche a lei e ad Arya di restare con loro, ma non avevano
voluto.
La più piccola si era messa a
sbraitare, a lanciare cose per aria, implorando Jon – il suo
caro Jon – di
portarla in ospedale.
“Se
viene lei, vengo anch’io”, aveva detto
Sansa, incrociando le
braccia sul petto.
“Sansa…”
“No,
Robb, non dire altro. Erano anche i miei genitori, è giusto
che ci sia anche
io.”
Era
stato Jon a guardare il
fratellastro, annuendo appena.
“E
va bene… Tanto si sarà trattato
senz’altro di un errore.”
Oh, quanta
speranza le avevano dato
quelle parole! Quanto aveva ammirato Robb, quanto lo aveva ringraziato,
nella
sua mente, per averle lasciato il beneficio del dubbio!
Erano due anime affini, lei e Robb.
Positive. Soprattutto lui.
Non c’era momento di sconforto per
suo fratello, non mancava mai il sorriso sul suo viso…
Jon era stato
diverso, invece.
E ora, mentre Sansa attraversa i
corridoi freddi dell’ospedale, ha come
l’impressione di rivedere il suo volto.
Cupo. Scuro. Con la morte impressa negli occhi.
Perché Jon sapeva.
Jon lo aveva capito.
Non
c’era stato nessun errore…
I due corpi
ritrovati nell’auto erano
proprio quelli di Catelyn e di Eddard.
Nessun furto di macchine, nessun
prestito, niente che potesse indurli a pensare che fossero riusciti a
prendere
quell’aereo. Quello che avrebbe dovuto portarli un week-end
in Italia, per un
affare da concludere.
«Vieni»
sussurra Petyr, prendendole
la mano. La conduce all’ascensore, sorridendole mentre la
guarda salire. Gli
basta un movimento per premere il tasto del quarto piano.
Ho
paura, vorrebbe dire
Sansa. Ma non lo fa.
Resta in
silenzio, lasciandosi andare
ai ricordi.
Le mani di Jon strette alla giacca di
Arya. Le pieghe sul tessuto… Le dita come artigli sulla
schiena di sua sorella.
Non una lacrima, non un singhiozzo. Non da parte di lui.
Ma il dolore era impresso sul suo
volto, nel suo modo di stringere occhi e labbra, quasi si rifiutasse di
vedere.
Sansa si era
sentita mancare.
Si era alzata in
piedi, riconoscendo
la verità sul viso di Robb. E in un istante, in un solo
istante, aveva sentito
le ginocchia cedere sotto di sé, come se qualcuno
l’avesse costretta a piegarle
con un colpo.
Robb non se n’era nemmeno accorto…
Era corso a cercare il medico legale, forse anche per nascondere le
lacrime. E
Arya gli era andata dietro, come se fosse una notizia troppo
sconvolgente per
lei.
Nessuno dei due
si era accorto di
Sansa.
Del suo respiro affannato, del suo
cuore impazzito.
Finché
Jon non si era piegato accanto
a lei per aiutarla a rialzarsi.
“Respira”,
le aveva detto, prendendola per le spalle e facendola sedere. “Calmati! E respira. Devi respirare,
Sansa.
Respira. Sì, brava, così. Respira.”
Era rimasto a fissarla da vicino
finché non aveva preso a fare respiri lenti e gravi.
Era stato dopo, che aveva cominciato
a tremare…
Sansa può quasi sentire il calore del
corpo di Jon quando l’ha stretta tra le braccia, dicendole
quelle stesse,
identiche, parole che Petyr ha usato poco prima con lei. Parlandole con
uno
sguardo.
“Andrà
tutto bene.”
Ormai Sansa sa
fare un’unica
associazione con quel tipo di “bene”: pena.
Tormento. Male.
E quando si ritrova davanti alla
stanza dove riposa sua zia, ora che è stata spostata dal
reparto di Terapia
Intensiva, non può fare a meno di ricordare la voce di Robb.
“Sansa!”
Se lo era
ritrovato davanti, nello
stesso momento in cui Jon si scostava da lei. E aveva ricevuto anche il
suo
abbraccio… e quello di Arya, mentre il fratellastro si
allontanava da loro.
Eppure erano cresciuti insieme…
Eppure, ricorda Sansa, prima di quel momento lo ha sempre detestato.
Perché
così la pensava sua madre, perché Catelyn non
riusciva nemmeno a guardarlo.
«Petyr…»
«Zio
Petyr!»
Robin corre da lui, mentre Lysa
sorride sdraiata nel letto. Sembra invecchiata di dieci anni.
«Sansa… ci sei anche tu…» Sua
zia la
guarda con la dolcezza negli occhi, come se non ricordasse nulla di
quanto
accaduto in precedenza. «Avvicinati, avvicinati,
cara…»
Petyr le fa cenno di sì con la testa,
ma Sansa riesce a pensare solo a quanti farmaci le stiano dando, per
poterla
desiderare vicino…
Obbedisce, sfiorando le lenzuola
bianche con le dita.
«Ti
sono mancata?» mormora Lysa,
muovendo la mano a scatti per dirle di avvicinarsi ancora.
«Piccola cara… ti
fai sempre più bella.»
Sansa non sa se fidarsi, non sa
quanta verità possa esserci nelle parole di una donna sotto
farmaci… Sa solo di
aver paura di sua zia.
«Vi
lascio un po’ da sole» dice
Petyr, facendo pressione sulla spalla di Robin per farlo uscire.
Lei vorrebbe chiedergli di restare,
vorrebbe chiedergli di dirle cosa pensa dei suoi abiti, oggi, di cosa
ha
intenzione di fare stasera. Vorrebbe dirgli di non lasciarla da sola
con sua
zia, di non permettere che le faccia ancora del male.
Ma si limita a guardarlo uscire, un
solo sguardo, per evitare che Lysa si accorga del modo in cui lo
osserva.
«Dammi
la mano, Sansa» le chiede
Lysa, muovendo appena le dita. «Hai la pelle così
morbida…»
Non può fare a meno di pensare a come
sua zia non si sia mai fatta viva, dopo la morte di sua madre. A come
non si
sia offerta di aiutarli, di occuparsi di bambini così
piccoli…
Se non ci fosse stato Robb, allora sì
che sarebbero stati nei guai.
«Presto
potrai tornare a casa, zia»
mormora Sansa, incrociando i suoi occhi.
«Ah, sì?»
Lysa sembra domandarsi perché si
trovi lì, ma basta un istante perché il suo
sguardo cambi.
«È
colpa tua» dice. «Finirai per
uccidermi, proprio come ha sempre voluto tua madre.»
Ω
«Mi
è sembrata diversa» commenta
Robin, mentre attraversano il corridoio per raggiungere le scale.
Petyr gli ha appena promesso una
barretta di cioccolato e una bibita, devono solo raggiungere
l’atrio.
«Chi?»
«Mia madre» conclude Robin,
guardandolo di sbieco. «Pensi davvero che volesse
uccidersi?»
Un’infermiera sorride, vedendoli, e
fa un cenno di assenso a Petyr. Ma ora, ora non ha tempo per
questo…
«Tua
madre sta molto male, Robin»
comincia, fermandosi al primo gradino. Posa la mano sulla ringhiera
smaltata di
nero prima di riprendere, lasciandogli il tempo di assimilare quelle
parole.
«La depressione… Lei…»
«No» lo interrompe subito Robin. «Non
parlarmi di depressione, zio Petyr. Non aveva mai fatto niente di
simile. È
cominciato tutto da quando Sansa è venuta a stare con
noi.»
È un
terreno pericoloso, quello dove
si stanno addentrando. E a Petyr il rischio non piace…
Non ora.
«È
logico: Sansa le ricorda sua
sorella. Tua madre è una donna molto fragile… Non
ha ancora accettato la sua
scomparsa. È difficile perdere qualcuno con cui si ha
trascorso una parte
importante della propria vita.»
L’espressione di Robin cambia sul suo
volto. Sembra aver capito.
«Non ci avevo pensato…»
Petyr gli sorride, incoraggiante.
Posa una mano sulla sua spalla con fare paterno.
«Andiamo, ora.»
Procedono lungo
le scale. Tutto
sembra essere tornato apposto. Ma Petyr sa che non è
così, sa che presto
accadrà qualcos’altro, qualcosa che
rischierà di dividerlo ancora da Sansa.
Non può permetterlo.
Sa solo questo.
Ricorda il tuffo
al cuore, la prima
volta che l’ha incontrata dopo la scomparsa di Cat. Ricorda
il profumo di
limone, nella serra in cui l’aveva spiata, mentre comprava
frutta insieme alla
sua amica.
Ricorda di essere rimasto in
disparte, nascosto, affinché non lo riconoscesse…
E ricorda la sensazione di gioventù
che sembrava emanare da lei, il suo desiderio di accarezzarle i
capelli, la
tentazione di guardarla negli occhi.
Sono
io,
avrebbe voluto dire. Mi riconosci?
La mano sarebbe
scesa lungo la sua
guancia, per bearsi di lei, della moltitudine di ricordi, del fantasma che si era trovato davanti.
Invece era rimasto lontano, a spiarne
i movimenti, la voce, il modo di sorridere.
Finché non l’aveva vista andare via.
«Un
amico mi ha chiesto di dormire da
lui tra qualche giorno. I genitori non ci sono.»
Robin lo riporta
in quell’atrio vuoto
e gelido, che odora di alcol e disinfettante, con il telegiornale in
sottofondo, impedendogli di continuare la sua visione.
Eppure sembrava così reale…
Come se fosse tornato indietro nel
tempo.
«Chi
è questo amico?»
«Non lo conosci, ma è stata mia madre
a dirmi di chiedere anche a te. Per lei va bene.»
Guardando Robin, per un momento Petyr
ha visto qualcos’altro nei capelli neri del
ragazzo… Una sera libera, una notte
libera. Da trascorrere dove vuole.
Con chi vuole.
Qualche ora di pace dopo l’inferno
che sta vivendo. Tenere in piedi la compagnia, cercare di affondarne
un’altra,
stringere alleanze e creare spie non è certo qualcosa di
semplice…
«Allora?
Sei d’accordo?»
Robin fa una
smorfia, come se lo
trovasse d’improvviso strano. Guarda le macchinette delle
bevande facendogli un
cenno, e stringendo le labbra.
Gli basta avvicinarsi e infilare la
moneta per far tornare il sorriso sul viso del suo figlioccio.
Petyr resta a osservarlo mentre preme con sicurezza
“uno” e “otto”, esattamente il
codice che serve per ottenere una Sprite.
«Se
tua madre dice di sì, non vedo
perché dovrei smentirla.»
Il suono della
lattina che sbatte
contro la macchinetta, e il grido entusiasta di Robin, lo illudono di
essere
sugli spalti, a seguire una partita di calcio.
Con
lei lì a fare il tifo.
«Grazie!
Grazie, zio Petyr!»
Come la volta in
cui l’ha seguita,
dopo aver scoperto da Varys che sarebbe andata allo stadio.
Un campo piccolo, cittadino, poche
tribune e pochi posti su cui sedersi.
Guardarla esultare, sollevarsi in
piedi e splendere nel sole, erano stati momenti di felicità
per lui. Gli
avevano ricordato Cat, l’entusiasmo che metteva nelle cose da
ragazza…
«Quella
non è la tua segretaria,
zio?»
Senza nemmeno
rendersene conto, gli
occhi di Petyr seguono l’indice pallido di Robin, puntato
contro lo schermo
piatto sopra le loro teste.
Il viso di Ros, bello e altero, è lì
che l’osserva, come a giudicarlo.
«…È
stata trovata dalla donna di
servizio, venuta a fare i soliti lavori di casa. Ma sentiamo ora le sue
dichiarazioni:
«”È caduta dalle scale, vi dico! Una
donna attenta come lei… Come è potuto accadere?
Sì, sì, sono entrata – io ho la
chiave, me l’ha data la signora – e per prima cosa
ho steso fuori i tappeti. Ho
trovato il letto intatto, ma non mi è sembrato strano,
perché so che a volte la
signora dorme fuori. Dormiva! Mi
servivano scopa e spazzolone, e lei non li voleva in giro per casa,
così li
teneva nello scantinato… E io sono scesa. Ho persino
rischiato di inciampare in
quel… cadavere! Ma vi
dico che non è
possibile, non è possibile.”»
La mano di Robin
si stringe sulla sua
giacca, costringendolo a voltarsi. È quasi uno shock
ritrovarselo davanti.
«Allora? È la tua segretaria o no?»
Petyr non risponde, troppo preso dal
servizio in televisione.
«…La
polizia ha scoperto che si
trattava di una giovane segretaria, impegnata presso la Baelish
Company. Il
passato della donna rimane incerto. Nella casa sono state rinvenute
solo foto
recenti, e un documento di cui si discute la dubbia provenienza. Sembra
che le
autorità siano impegnate in continui colloqui con le persone
che l’hanno
conosciuta, per scoprire se avesse mai avuto a che fare con la
malavita.»
La temperatura
sembra essere scesa di
colpo. Petyr riconosce un brivido scorrergli lungo la schiena, come se
si fosse
ritrovato in una camera mortuaria, con Ros davanti a lui.
Prende un profondo respiro e si
stringe nella giacca, cercando di calmarsi: non è il momento
né il luogo per
lasciarsi andare, non può, non lui, non può
perdere per nessun motivo il
controllo.
«Zio
Petyr…»
Lo sguardo
perplesso di Robin sembra
dirgli che ogni suo pensiero è stampato sul suo volto.
Sembra preoccupato per
lui, per come si sente.
Ma non può proprio averne idea…
Tempo prima Ros
aveva varcato la
soglia del suo ufficio con una minigonna e un top a righe. Masticava
una gomma
e portava enormi occhiali scuri sopra i capelli di fuoco.
Petyr le aveva sorriso subito.
“Salve”,
si era presentata solo con quel “salve” e non
c’era stato bisogno di molto
altro. Lui sapeva di poter puntare più in alto, di potersi
permettere una
segretaria migliore…
Ma non la voleva.
Non voleva studi di chissà quale
tipo, non voleva menti fini a cui badare. Petyr aveva bisogno di Ros,
di un
tipo come lei, sveglia solo quando c’era bisogno.
Certo non si sarebbe aspettato il suo
tradimento… non dopo tutto quel tempo. Proprio quando aveva
iniziato a fidarsi
di lei, ecco arrivare Varys a ficcanasare nei suoi affari. Per chi
lavorasse
davvero, però, non era ancora riuscito a capirlo.
Non certo per i Lannister, o se li
sarebbe ritrovati addosso in un baleno.
Lo squillo del
cellulare, l’occhiata
di Robin e la voce distante del cronista, sembrano avere un effetto
balsamico
su di lui. Si sente d’improvviso padrone di sé.
Lo estrae dal taschino con una certa
calma, come se tutto fosse tornato normale, e quando vede il nome di
Tyrion
comparire sullo schermo, non può fare a meno di sorridere.
Quasi che l’altro
possa vederlo…
«Baelish?»
«Sì?» risponde Petyr, come se non
sapesse a chi appartiene quella voce.
«Ho appena sentito la notizia…»
Tyrion sembra aver perso il solito sarcasmo. La sua voce è
venata di tristezza.
«Volevo farti le mie condoglianze.»
Il viso altero di Ros gli compare
davanti agli occhi, quasi come se ce l’avesse di fronte. Ma
Ros è morta, e lui
non potrà più vederla. Mai più.
Sogghigna al telefono, come se il
tutto lo lasciasse indifferente.
«Dovrò
cercarmi una nuova
segretaria.»
Gli sembra quasi di fare un torto
alla memoria di Ros, con quelle parole. Ma non è
così…
«Ho la
ragazza giusta per te» afferma
il nano, cambiando tono.
Petyr vorrebbe dirgli che non ne ha
bisogno, che può benissimo cercarla da solo. Ma poi ripensa
alla gola nivea di
Ros, al modo in cui gli ha offerto la tazzina di caffè sul
divano… Al modo in
cui ha desiderato lasciare l’Inghilterra.
E non è sicuro di essere pronto a
rischiare ancora.
Note
dell’autrice:
Sono
tornata a scrivere dopo più di
un mese! Spero davvero di non aver scritto sciocchezze, di essere
rimasta
fedele alla storia e ai precedenti capitoli…
Questo, ad esempio, è solo di
passaggio. Spero non sia troppo noioso.
Ci terrei a ringraziare chi mi
sostiene sempre… è davvero importante per me.
Sb89,
Ladyhawke83, Relie Diadamat, _Elthanin_Riddle_,
CaptainKonny lady_diane (grazie per il tuo messaggio!), e i
nuovi lettori: Joanna Snow e ghim92.
Ah!
Nuovo video per voi… E mi farebbe
piacere se lo guardaste (ma solo se avete visto TUTTA la serie
completa,
altrimenti potreste trovarvi di fronte a una quantità
infinita di spoiler…).
Questa volta è tutto incentrato sulla mia amata famiglia
Stark. Video su
Casa Stark
Come
vi sembra il nuovo banner? È
molto diverso da quelli che avevo creato per questa storia…
Ma vista la presenza di sempre più
personaggi mi è sembrato meglio
“ampliare”.
E, come sempre, la mia pagina
facebook:
Celtica
|
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Capitolo 13 *** Incontri ***
Capitolo 13
Trailer
Incontri
on
c’è.
Il Mastino non c’è…
Sansa resta ferma davanti al grande
portone dell’Università, ma non lo vede arrivare
da nessuna parte. Eppure
sperava di vederlo…
Sì, perché conoscendo Joffrey, lei
era sicura che avrebbe mandato di nuovo Sandor a cercarla.
«Sansa,
che fai? Vieni!» grida Jeyne,
spingendo il pomello per entrare.
Ha una lunga
treccia a colorare la
camicia bianca, e la accarezza un istante prima di attraversare
l’ingresso. Si
atteggia a… a lei.
Ecco una cosa tipica di Jeyne… manca
di originalità.
Sansa ricorda il
giorno in cui si è
presentata acconciata in quel modo, con una camicia identica.
“Ma
cosa sei? Una monaca?”
Può ancora sentire la sua risata
fendere l’aria. Ma lei sapeva che sarebbe
successo… Sapeva che Jeyne l’avrebbe
copiata. È l’unica cosa che sa fare.
Quello, e provarci con i ragazzi
sbagliati…
«Vieni,
manca ancora un’ora alle
lezioni» Jeyne la prende a braccetto. «Passiamo
dalla Facoltà di Chirurgia…»
Dal modo in cui lo dice, Sansa
capisce subito che c’è qualcuno
a
Chirurgia, qualcuno di sbagliato.
Qualcuno che le dirà di no…
Attraversano
diversi corridoi,
salgono e scendono scale, mentre fuori il tempo sembra promettere
pioggia. Il
cortile è immerso in una coltre di nebbia, e Sansa stringe
gli occhi per
cercare di vedere meglio.
Spera di vedere una figura che le
ricordi lui, che le dica non sei sola,
ti proteggerò io da Joffrey.
Riesce ancora a sentire l’odore di
fumo e alcol, il brivido che ha provato quando le ha tolto la sigaretta
dalle
labbra. Quando l’ha gustata, quasi come se fosse una
donna…
«Ecco,
Sansa…» sussurra Jeyne al suo
orecchio. «Ci siamo!»
Lei cerca di ricordare cosa ha
raccontato la sua amica su questo nuovo ragazzo…
“L’ho
conosciuto al Terrore Bianco, Sansa. Dove Robb e
Jon…”
Sa benissimo
cos’è accaduto tra di
loro. C’era anche lei quella sera.
Jon si era presentato con la sua
nuova fidanzata, Ygritte, per presentarla a lei e a Robb. Jeyne era
andata con
loro per suo fratello… per la cotta tremenda che si era
presa per lui. Ygritte
aveva bevuto molto, e Sansa si era sentita a disagio.
Poi Jon l’aveva presa per mano,
portandola a ballare… ma era durato poco. Troppo poco.
«Lo
vedi? È lui, Sansa!»
A Sansa viene un
colpo.
È Theon, è Theon il ragazzo a cui si
riferiva Jeyne? Theon, sparito nel nulla dopo aver confessato i suoi
sentimenti
a Robb?
Non può essere… Theon è…
“Era
insieme al migliore amico di tuo fratello!” Aveva detto
Jeyne.
Mentre camminano
lente verso di loro,
Sansa non può fare a meno di squadrare l’altro
ragazzo.
Cos’aveva detto Jeyne?
“Quegli
occhi ti farebbero gelare il sangue.”
E nel momento in
cui si sollevano su
di lei, Sansa capisce cosa intendesse dire. Sembra di specchiarsi in
una lastra
di ghiaccio, e lei non può fare a meno di chiedersi se
riuscirà a cambiare
idea, come a suo tempo ha fatto Jeyne.
Ma quando labbra rosse si allungano
in un sorriso, Sansa sa con certezza di non riuscire a vederlo come la
sua
amica… È il gelo. È tenebra.
È terrore.
È ciò che Joffrey non sarà mai.
Ciò
che nessuno tra quelli che Sansa conosce, potrà mai essere.
«Sansa?»
La voce di Theon la porta a
distogliere lo sguardo da quei pozzi azzurri, belli e crudeli, che
tanto
l’hanno colpita.
Ha paura del compagno di Theon. Non
sa perché, ma è come se in un passato lontano, un
passato che Sansa non riesce
a ricordare, lui le avesse fatto del male.
«Sansa!»
Jeyne la tira forte per la manica,
lanciandole un’occhiataccia. “Sbrigati”,
sembra dirle. “Su, parla, fai in
modo che
ci presentino!”
«Theon»
mormora, come se si fosse
appena destata.
«Studi
qui?» chiede Theon, che sembra
indeciso se mostrarsi in imbarazzo o essere felice di vederla.
«Sì, cioè no, non qui.»
«Storia» si intromette Jeyne,
spingendola in avanti e sorridendo. «Noi studiamo
Storia.»
«E
cosa ci fate qui?» Il compagno di
Theon ha una voce sottile, limpida quanto il colore degli occhi. E
altrettanto
gelida.
Lo domanda con il sorriso sulle
labbra, ma è un sorriso che a Sansa non piace. Le mette i
brividi.
«Ecco,
noi…»
Jeyne si guarda le scarpe, forse in
cerca di una soluzione.
«Facevamo una passeggiata» esclama
Sansa, tirandola fuori dagli impicci. «Manca ancora molto
alle lezioni.»
«Facevate
una passeggiata… qui?» il
compagno di Theon punta l’indice verso il pavimento, apre la
bocca, mostrando
una fila di denti bianchi e perfetti, ma non riesce a convincerla.
«Sì»
insiste Sansa. «Qui.»
C’è come un momento di tensione tra
loro, Jeyne sembra temere il peggio, forse è convinta che se
ne andranno senza
salutarsi… Senza presentarsi.
Ma poi Theon
scuote la testa.
«Non posso credere di averti qui
davanti» sembra avere tutt’altro significato, e se
Sansa non sapesse dei reali
gusti di Theon, forse si convincerebbe di piacergli. «Non
è incredibile?
Frequentiamo la stessa Università. Noi, cresciuti nel
nord.»
In effetti è la stessa cosa che pensa
anche lei.
«Ma
come sta Robb… Come stanno i tuoi
fratelli?» si corregge così in fretta che Sansa
non è nemmeno sicura di aver
udito quel nome.
«Sono divisi… Jon è tornato a
casa» E
stavolta, con “casa”, Sansa intende il nord.
«Robb non ha resistito dopo la
morte dei… Ha preferito partire per Londra. Arya, Bran e
Rickon hanno deciso di
seguirlo.»
«E
tu?» domanda Theon. «Cosa ci fai
qui?»
Sansa non sa
quanto dire. Jeyne è lì,
al suo fianco, e non può correre il rischio che informi
Joffrey. Eppure non può
nemmeno mentire…
«Durante le vacanze ho conosciuto un ragazzo…
e quando è ripartito per il sud ho deciso di
seguirlo.»
Ora, più di prima, lo sguardo che il
compagno di Theon le regala riesce a farla tremare.
È colmo di interesse. Colmo di
interesse per lei.
Theon sgrana gli
occhi, si passa una
mano dietro il collo e lancia una veloce occhiata a Jeyne.
È allora che Sansa si ricorda.
«Oh, posso presentarti Jeyne?»
Li guarda stringersi la mano e
sorridersi, poi è il turno di Theon. Ma un istante prima che
possa presentarli,
è il suo compagno a farsi avanti.
«Ramsay Bolton, molto piacere.»
Le stringe la
mano in modo viscido, e
Sansa sposta lo sguardo su Theon, accorgendosi della paura nei suoi
occhi. Non
è una paura che possa temere anche lei…
È solo ciò che accompagna altri
sentimenti.
Come la gelosia. O l’amore.
«Jeyne»
mormora lei allungando una
mano verso Ramsay. Occhi languidi sembrano voler sciogliere il gelo
degli
occhi, senza riuscirci…
La cosa che più fa tremare Sansa è
vederlo sorridere solo con le labbra.
Ω
Negli ultimi
giorni, Sansa è stata
strana.
Petyr lo ha capito dal modo in cui ha
abbassato gli occhi a ogni sua domanda… Dal modo incerto di
sorridere, come se
fosse con la mente assente.
Gli sta nascondendo qualcosa, ma cosa
resta un mistero. Almeno per lui.
Ha preso in considerazione l’idea di chiedere a Varys di
controllare, ma è
bastato pensare a Ros per cambiare idea.
Per chi lavora Varys?
Cosa vuole davvero?
L’unica cosa che Petyr sa con
certezza è di non potersi fidare di lui. Voleva sapere
troppo, davvero troppo…
e a lui non va giù quest’idea.
Ora, seduto al solito tavolo del
“Pesce d’Argento”, uno dei ristoranti di
ritrovo per Tyrion, aspetta proprio di
vedere quest’ultimo, insieme alla famosa segretaria di cui ha
tanto parlato.
Fa cenno di no
al cameriere, quando
lo vede avvicinarsi per prendere la sua ordinazione. Estrae il
cellulare dalla
tasca e decide di sentire la sua
voce.
È sicuro che lo aiuterà a dargli la
carica.
«Pronto?
Petyr?»
La sente bisbigliare qualcosa e
capisce che non è sola. Può udire il suono dei
suoi passi sul pavimento, finché
non si ferma.
«Non so a che ora finirò oggi.»
«Va bene, prenderò l’autobus»
Sansa
sospira, come se si fosse già arresa a quell’idea.
«Ora devo andare. Ho lezione
tra un po’.»
«Aspetta» La verità è che la
sente
sempre più distante, e ogni giorno è peggio.
«Usciamo insieme, stasera?»
Da quando
l’ha portata via dalla casa
di Joffrey, questa è la prima volta che le chiede di uscire.
Hanno passato
diverso tempo insieme, è vero, l’ha anche baciata,
ma non sono mai stati fuori,
in mezzo alla gente, come le persone normali.
«Stasera?
Mmh, ok.»
Stavolta Petyr si è sbagliato. Era
convinto di farle un piacere, di sentirla felice. Invece,
quell’ok freddo ha
messo fine a tutte le sue speranze.
«Passo a prenderti io. Facciamo alle
sette?»
“Non
puoi venire prima?” Si immagina che
gli chieda. “Come fai
sempre.”
«Va
bene, a dopo.»
Sono le parole che Petyr non si
sarebbe aspettato. Il segnale di chiamata terminata lo mette a disagio.
Cosa sta succedendo a Sansa?
Possibile che si sia già stancata di
lui?
«Baelish»
dice Tyrion, avvicinandosi
al fianco di una donna slanciata, con ricci capelli neri. «Ho
visto che stavi
parlando al telefono e ho aspettato al bar. Posso
avvicinarmi?»
Lo shock sul volto di Petyr svanisce
in un istante. Si alza in piedi, stringe la mano della ragazza che ha
di
fronte, e cerca di immaginarsela al posto di Ros.
No,
non sarai mai come Ros. Non puoi prendere il suo posto.
«Shae,
ti presento Petyr Baelish.
Potrebbe anche decidere di assumerti.»
Shae sorride con malizia, sbattendo
gli occhi scuri, e prende posto di fronte a lui.
«Allora,
vogliamo iniziare a
discutere di affari?» propone Tyrion, facendo al cameriere di
avvicinarsi.
«Vino a volontà» ordina.
Ω
Se qualcuno
avesse detto a Sansa che
avrebbe passato del tempo a pensare al Mastino, si sarebbe fatta una
risata.
Una risata e un pianto. Perché non c’era nulla,
prima, che la spaventasse
quanto lui.
Quel volto sfigurato, quelle
cicatrici sul viso, le mettevano i brividi.
Ora, a farle
provare paura sono
soprattutto gli occhi di Ramsay Bolton, l’amico di Theon con
cui dovrà uscire
una di quelle sere.
L’idea è stata di Jeyne, lei che
spera tanto di conquistarlo…
L’unica cosa positiva, pensa Sansa, è
che da Theon non ha nulla da temere. A Theon non interessano le donne,
soprattutto non lei, sorella del suo migliore amico…
Mentre raccatta
i libri per infilarli
nello zaino, si chiede se sia il caso di informare Petyr. Dovrebbe
dirgli che
deve uscire con loro?
Potrebbe ingelosirsi, sapendo che
esce con altri ragazzi?
Sansa non sa cosa pensare.
«Grazie,
Sansa» sussurra Jeyne,
raccogliendo la penna che le era caduta durante la lezione.
«Senza di te non so
quanto avrei dovuto aspettare prima di conoscerlo…»
La verità è che senza di lei non lo
avrebbe conosciuto. E forse, forse sarebbe stato meglio…
«Non
lo dirò a Joffrey» dichiara la
sua amica, muovendo l’indice sotto il suo naso.
«Non temere.»
«Perché mai dovresti farlo?»
Jeyne abbassa gli occhi, lancia
un’occhiata alla finestra vicina, poi si volta per prendere
il suo zaino.
«Non lo farò, infatti.»
C’è
qualcosa che non torna.
Sansa comincia a
capire come stanno
le cose. Quando la vede uscire dall’aula, le corre dietro.
Basta afferrarla per
un braccio per farla voltare.
«Ehi!» esclama Jeyne, liberandosi con
uno strattone.
«Sei stata tu» dice Sansa.
È un’accusa, vorrebbe tanto sentirsi
dire che si sbaglia, ma nel momento in cui Jeyne abbassa ancora gli
occhi –
contrariamente a quanto fa di solito – lei sa con certezza
che è colpevole.
«No, io…»
«Non
mentirmi! Sei stata tu, Jeyne!
Tu hai chiamato Joffrey! Gli hai detto che ero tornata!»
Jeyne riprende a
camminare, poi si
blocca e si volta indietro.
«Io… Io non sapevo che non volessi
vederlo! Credevo di farti un favore!»
«Mi ha messo le mani addosso, Jeyne!
Joffrey mi ha picchiata!»
«Ne
parlavi sempre così bene! Dicevi
che era il tuo ragazzo ideale!» Ora, la voce di Jeyne
è diventata stridula.
«Dicevi di non volerlo lasciare, che gli avresti perdonato
qualsiasi cosa!»
No, non è così… Non può
essere vero.
Non può essere stata davvero lei ad aver detto quelle parole.
«Dicevi
di amarlo.»
È
come se qualcuno le avesse tirato
un pugno nello stomaco.
Lei amare Joffrey. Dopo quello che le
ha fatto. Dopo ciò che ha detto, dopo averle stretto le mani
intorno alla gola…
Scuola la testa, improvvisamente
sente pulsare le tempie.
«Io ti avevo detto che non era come
Robb… Ma tu continuavi a dire che lo amavi, che volevi stare
con lui, che
avresti perso tutto, lasciandolo» Jeyne fa un lungo sospiro
prima di
continuare. «Io pensavo di farti un
favore…»
È
stata Jeyne. Jeyne ha chiamato
Joffrey. Jeyne le ha fatto incontrare il Mastino…
Certo, vedere
lui è stata una delle
cose più eccitanti degli ultimi giorni. Eppure, nonostante
Sansa brami ancora
quelle sensazioni che Sandor le ha fatto provare, ciò che ha
fatto Jeyne è
sbagliato.
«Credevo fossi mia amica.»
La disperazione
negli occhi di Jeyne
è evidente.
«Lo sono, Sansa! Lo sono. Ho fatto
ciò che tu volevi che facessi.»
«Di
cosa stai parlando?» Sansa storce
la bocca, incredula.
«Non ti ricordi più? È successo dopo
aver conosciuto Joffrey. Quando ti sei trasferita qui.»
E, in un momento, le immagini
prendono a scorrere davanti al suo viso.
Joffrey
aveva sorriso a Margaery, quella sera.
Sulla
porta di casa, dopo aver dato un bacio sulle labbra a Sansa, si era
voltato a
guardare la loro vicina.
“Non
so quando torno” aveva detto,
sfiorandole
una spalla. “Non aspettarmi sveglia.”
Ma
Sansa non riusciva a fare nulla… Lo sguardo
d’intesa con Margaery non le era
piaciuto. Che stesse cercando di portarglielo via? Si era stretta
l’accappatoio
addosso, dopo la doccia.
Sansa
non aveva mai bevuto in vita sua, ma quella sera, quella sera sentiva
di averne
bisogno.
Un
bicchiere di liquore, uno qualunque dall’armadietto, non le
importava nemmeno
sapere il nome… Aveva un gusto strano, amaro, e Sansa lo
sentì scendere fino
allo stomaco, bruciando.
Non
le interessava… Aveva bisogno di piangere.
E
di sentire Jeyne… Oh, Jeyne! La cara vecchia Jeyne! Lei non
l’avrebbe delusa…
Udire
la sua voce era bastato a farla scoppiare in lacrime.
“Jeyne,
ti prego. Ti prego, Jeyne… Vieni qui, passa la notte qui,
non lasciarmi sola.
Lui non c’è… Lui preferisce
un’altra. Promettimelo, Jeyne: giurami che non
permetterai mai che ci separino. Giuralo, Jeyne! Sei mia amica, devi
giurarlo!”
«No…»
riesce a sussurrare.
Come ha fatto a rimuovere quel
ricordo? Non è possibile. Che fosse solo una scusa di Jeyne?
Lei non rammenta
nulla.
«Invece sì, credimi, Sansa. Mi hai
raccontato tutto al telefono, ogni cosa. La doccia, il liquore, il
sorriso di
Joffrey… Ogni cosa che so, sei stata tu a dirmela.»
Sansa la lascia da sola, nel
corridoio della Facoltà di Storia, dirigendosi verso
l’uscita.
«Non
puoi avercela con me, Sansa!»
grida Jeyne, da lontano. «Non lo merito. Io non lo
merito!»
Doveva essere
ubriaca, non c’è altra
spiegazione.
Si chiede come sia possibile
dimenticare tutta una serata… Non succede quasi a nessuno.
Arriva al
cortile bianco di nebbia e
si guarda intorno.
Spera di vederlo, ne ha davvero
bisogno. Oltrepassa l’ingresso a testa bassa, senza speranza.
Lui non c’è.
Rinuncerebbe alla sua serata con Petyr pur di vederlo, rinuncerebbe
all’uscita
con Theon e Jeyne, pur di sentirsi di nuovo così…
Protetta.
Ma lui non
è qui.
Sansa raggiunge
la fermata
dell’autobus, infila le mani nelle tasche strette dei jeans,
e rimane a pensare
a tutto ciò che è successo.
Petyr l’ha portata via dalla casa di
Joffrey… Petyr le ha trovato un posto dove stare. Petyr
è buono, Petyr tiene a
lei più di chiunque altro. Ma poi è arrivato il
Mastino…
Perché l’ha protetta? Perché non
l’ha
riconsegnata a Joffrey?
Non riesce a spiegarselo.
Vorrebbe un po’ di tempo per sé, per
schiarirsi le idee, tempo da dedicare solo a se stessa. Senza pensare a
nessuno. Senza chiedersi chi tenga davvero a lei…
Tutti hanno un
secondo fine, questo
Sansa l’ha capito. Ma quale possa essere quello di Petyr,
questo non riesce a
spiegarselo…
Dovrà passare la serata con lui,
ridere alle sue battute, illuderlo che tutto vada bene.
Ma tutto non va bene, pensa Sansa. È
sola, in un mondo di leoni pronti a sbranarla, a farla a pezzi, a
trasformarla
in una bambola di pezza. Ciò che lei non vuole
più essere…
Non vuole più sentirsi così, non
vuole più sottomettersi.
A nessuno.
Quando vede il
mezzo arrivare, quasi
non se ne accorge. È troppo presa da quella rabbiosa
malinconia che vorrebbe
riportarla a casa, su nel nord. Ma non c’è
più nessuno per lei… Non c’è
più la
sua famiglia ad attenderla, i suoi fratelli ad abbracciarla.
C’è
Jon, è vero. Ma Sansa non sa
nemmeno che fine abbia fatto Jon. Non sa se sia sposato, magari proprio
con
quella Ygritte che tanto lo aveva deluso. Magari non vive
più nella loro
vecchia casa, magari, senza dirle nulla, Robb ha deciso di venderla.
Partire per il nord sarebbe un
errore, pensa Sansa, salendo sull’autobus.
Potrebbe fuggire, certo… Mettere fine
all’agonia che le provoca Joffrey, interrompere quel gioco,
strano e
pericoloso, che sta facendo a tratti con Petyr, a tratti con il Mastino.
Lei non è brava a giocare. E farlo
con loro può costarle caro…
Allora
perché non parto? Perché resto qui?
Non
ho altro posto dove andare…
Note
dell’autrice:
Entrano
in scena nuovi personaggi, ma
vi avverto: non sono tutti. Piano piano ne vedrete tanti, appartenenti
al mondo
di got… La storia deve ancora delinearsi.
Vorrei
ringraziarvi, di nuovo, e
ancora e ancora, perché scrivere è la mia
passione più grande, ma senza di voi
che bisogno avrei di condividerla su Efp?
Ecco che i più sentiti ringraziamenti
vanno a sb89, che non manca mai di
farmi sapere cosa pensa di ogni cosa che scrivo (e preme per vedere
presto il
suo personaggio preferito, con cui è segretamente sposata), Relie_Diadamat, che
legge tutto, CaptainKonny, che
è riuscita ad
apprezzare l’ultimo capitolo, nonostante ci fossero poche
cose interessanti, Elthanin_Riddle_,
che con i suoi
messaggi e recensioni riesce sempre a tirarmi su di morale, Diomache, che condivide con me una
certa attrattiva per un determinato personaggio, e
Ladyhawke83, che sta recuperando alla velocità
della luce tutti i
capitoli!
E grazie, grazie anche a chi mette mi
piace ai capitoli, è una delle cose che danno le carica,
sappiatelo.
Scusate se mi dilungo sempre!
A presto!
|
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Capitolo 14 *** Neve ***
Capitolo 14
Neve
a trova seduta
nella penombra del
salotto, con addosso un semplice abito nero.
Quando Sansa si muove, finendo con
metà del volto sotto la luce, le labbra scarlatte brillano
davanti a lui. Non
l’aveva mai vista così truccata…
Vede la bocca schiudersi,
accartocciarsi come la carta di un cioccolatino, per poi distendersi in
un
sorriso.
Ed è a quello che Petyr si aggrappa,
avanzando verso di lei.
«Sei
bellissima.»
Non sa cosa sia
successo nell’ultimo
periodo, l’ha sentita allontanarsi lentamente da lui, come se
avesse smesso di
fidarsi.
Perché? Si chiede Petyr, fermandosi a
un passo dal divano. Le offre la mano per aiutarla ad alzarsi, sicuro
che
accetterà. Ma Sansa si discosta appena, mettendosi in piedi
senza il suo aiuto.
«Andiamo?»
Petyr sorride,
scuote la testa in
quel suo modo che anticipa il sì, quasi stesse chiedendo
“perché no?” Allarga
le braccia, le fa segno verso la porta, la lascia passare.
Sansa è troppo bella per ricevere un
no.
Un: “no, adesso ci sediamo e ne
parliamo.”
Anche
perché tutto ciò che vorrebbe
chiederle Petyr è cosa sia successo per farle perdere
fiducia in lui…
Raggiungono l’auto senza dire una
parola; Sansa cammina davanti a lui, spinge spesso i capelli dietro le
spalle,
si guarda in giro, come se aspettasse qualcuno.
Chi?
Si chiede Petyr.
Domandarlo
sarebbe inutile,
servirebbe soltanto a metterla in guardia, impedendo a Petyr di
scoprire cosa
ci sia sotto.
Un ragazzo? Magari qualcuno
all’univerisità… un compagno di corso,
qualcuno con cui divide il pranzo.
Potrebbero esserci mille risposte, e non è detto che ce ne
sia una giusta.
La cosa migliore è fare in modo che
si senta a suo agio, che ritorni a fidarsi di lui. Allora
sarà lei a
raccontargli tutto… Deve solo aspettare.
Entrano in
macchina, Petyr resta
indifferente, lanciandole solo qualche occhiata. Mette in moto e parte,
immettendosi nel traffico serale. È un quartiere tranquillo,
ma di sera sembra
ripopolarsi.
Non deve andare molto lontano… Il
ristorante che ha scelto è appena fuori città,
con un dehor in uno spazio
verde, candele sui tavoli e una lunga vetrata a proteggerli dal freddo.
Le
stelle non si vedono lì dentro, ma fuori dal locale Petyr
scopre Sansa a
sollevare gli occhi verso il cielo…
Forse le ricordano casa, nel nord,
dove viveva con i suoi fratelli. Forse ricorda un posto senza le luci
della
città, dove la notte è trapunta di
stelle…
«Buonasera,
avete prenotato?»
«Baelish» risponde Petyr,
all’entrata, posando una mano sul fianco di Sansa per
accompagnarla dentro.
«Da questa parte, prego.»
Nel dehor
c’è un po’ di gente, ma i
tavolini sono distanti l’uno dall’altro, concedendo
una certa intimità. Ci sono
rose vicino alle candele, piante alle vetrate, da cui si vedono le luci
della
città.
È molto bello, e Petyr spera che
Sansa lo apprezzi.
«Vieni» le sussurra, accompagnandola
nel loro angolo… C’è una vista
spettacolare da quel punto. È isolato, è
perfetto per loro.
«Perché
mi hai portata qui?»
«Non
ti piace? Se non ti piace noi…»
«È bellissimo» dice Sansa, senza
sorridere. «Ma perché siamo venuti qui?»
«Avresti
preferito qualcosa di più…
semplice?»
Sperava di impressionarla, di
riconquistarla, di spingerla ad aprirsi. Ma forse ha solo
sbagliato… forse
avrebbe dovuto portarla lì per restare un po’ da
solo con lei, mentre Robin è a
casa del suo amico.
«Forse» mormora lei, sedendo di
fronte a lui. Scorre l’indice sul bordo del calice,
è distratta da altri
pensieri.
“Forse”,
sono le parole peggiori. Una risposta decisa sarebbe stata un aiuto, un
modo
per dirgli cosa può aver sbagliato. Ma quel
“forse” si intrufola nell’orecchio
di Petyr, dandogli un altro messaggio…
Non
vuole restare qui. Ma non è il posto, è per me.
Vorrebbe essere da tutt’altra
parte.
«Sansa»
Petyr allunga la mano sul
tavolo, afferra con delicatezza la sua. «Ti ho portato qui
perché ho bisogno di
parlarti.»
“Di
cosa?” Sembrano
domandare gli occhi di lei.
«So cosa ti ha fatto Joffrey e voglio
fargliela pagare.»
“Come?”
Petyr continua a fissarla, le
accarezza il dorso della mano con le dita. Ha deciso di raccontarle
tutto, di
fidarsi di lei. Di dirle dei suoi piani.
«Prima deve crollare Cersei» dice, sfiorando
la carta del menù. «Io lavoravo per lei. Non ti
nascondo che ho più di un
motivo per volerla distruggere…»
Le labbra di
Sansa si stropicciano,
libera la mano dalla sua, lo guarda di sbieco.
«È davvero questo ciò che
vuoi?»
Petyr scrolla la
testa, si china in
avanti, le sorride enigmatico, in quel modo in cui sa di
piacerle…
«Una
villa fuori città, non come la
casa dove ti ho portata il primo giorno… Un posto in
campagna, un parco
intorno, un cancello smaltato di nero. Da dividere con te.»
Lascia l’ultima frase in sospeso,
come per concederle il tempo di assimilare quelle parole.
È un grosso passo quello che le sta
chiedendo, e forse questo non è il momento giusto per
dirglielo, ma non ha
altra scelta… è tutto ciò che
può offrirle.
«E
Lysa?»
Ora è
Sansa a non togliergli gli
occhi di dosso, scrutandolo in modo torvo.
Petyr sorride, cerca ancora la sua
mano, la prende, intreccia le dita alle sue… ma non risponde.
Ω
Hanno mangiato
pies e sono usciti.
Lui voleva farle vedere le stelle… di certo, pensa Sansa,
non saranno mai come
a casa sua. Ricorda una coperta nera sopra la testa, la Via Lattea che
sembrava
dividere il cielo in due, la voce di Robb, accanto a lei, che le
raccontava le
leggende legate alle costellazioni…
E Arya, che rimaneva ad ascoltare,
ridendo ogni volta che Jon allungava una mano per farle il solletico.
Bran, in
silenzio, serio e attento a ciò che veniva detto. Rickon, il
più piccolo, che
non restava mai fermo, vorticando loro intorno.
È
tutto finito.
Sansa sa solo questo.
Non ci saranno più nottate a
osservare le stelle, non con loro, non nel nord.
«Ti
ricorda casa?» chiede Petyr, che
sembra leggerle dentro. Sono appoggiati al cofano dell’auto,
in una zona
boschiva lontana dalle luci, dove possono vedere bene il cielo.
La
verità è che le manca il nord, la
famiglia da cui è quasi fuggita dopo la scomparsa dei suoi
genitori.
Le manca Robb, le manca Arya, le
mancano i suoi fratelli, Bran e Rickon. Le manca persino Jon, quello
che
avrebbe dovuto considerare un fratellastro, senza mai riuscirci.
Sua madre, Catelyn, era gelosa di
lui, forse lo odiava… E Sansa ha sempre creduto di dover
essere come lei.
Ma non è così.
«Sì»
sussurra appena, restando con il
mento sollevato verso la notte. «Andavamo spesso a vedere le
stelle. Una volta
dopo una nevicata… Non riuscimmo a vedere nulla. Robb disse
che era colpa del nevischio,
ma Jon lo chiamò inverno. “È solo
l’inverno”, disse. Io non lo so… So che
è
successo qualche mese prima dell’incidente. So di aver
pensato che fosse un
brutto segno.»
In quel momento,
Sansa vorrebbe solo
essere stretta.
Vorrebbe rivedere i suoi fratelli,
ritornare indietro per smettere di litigare con Arya. Vorrebbe tante
cose, ma
non può averle… Non ora.
C’è Petyr con lei, si fa più vicino,
Sansa vorrebbe solo il coraggio di gettarsi tra le sue braccia. Ma non
lo fa.
«Torniamo
a casa?»
Preferirebbe non chiamarla casa. Casa
è nel nord, casa è dove ci sono Robb, Bran, Jon,
Arya e Rickon. Casa non è in
quella città, non lo è mai stata.
«Va
bene» Petyr fa un cenno con la
testa, come se lei lo avesse appena interrotto, come se gli avesse
impedito la
prossima mossa.
«Devo alzarmi presto domani.»
Non è
una bugia, ma nemmeno la
verità… Non ha più voglia di stare
fuori, non ha più voglia di ricordare. Vuole
solo infilarsi sotto le coperte e dimenticare.
Dimenticare la città in cui si trova,
dimenticare Joffrey, dimenticare persino la sua famiglia…
Perché quei ricordi
felici non fanno altro che rattristarla.
C’è solo malinconia nel ripensare ai
suoi fratelli, è solo neve.
È
come quella sera, la notte
d’inverno, quando ha avuto la sensazione che qualcosa sarebbe
andata male… Ora
è la stessa cosa: sa che le cose peggioreranno.
Peggiorano sempre.
Ω
L’ha
accompagnata fino alla porta di
casa, è rimasto a guardarla mentre cercava le chiavi nella
borsa, mentre gli
lanciava continue occhiate preoccupate.
Cosa
mi nascondi, Sansa?
Vorrebbe
dirglielo, prenderla tra le
braccia e baciarla. È da molto che non sente il suo sapore,
ne avverte la
mancanza. Fa un passo avanti, le sfiora la mano, scostandola dalla
borsa.
Risale lungo il braccio, la spalla,
segue la linea del collo, arriva al viso. Lo accarezza con il dorso,
sulla
guancia, lì dove il segno del colpo di Joffrey è
coperto dal trucco.
C’è ancora, una pallida traccia
giallastra che le colora lo zigomo, ma non si vede.
«Sei
molto bella, Sansa.»
China il viso su
di lei, la vede
socchiudere gli occhi, forse in attesa di un bacio… ma non
è ciò che l’aspetta.
Le sfiora la fronte con le labbra, poi estrae dalla tasca dei pantaloni
le sue
chiavi.
È giusto che ne abbia un paio anche
lui, in fondo è pur sempre casa sua…
La guarda arrossire, apre la porta e
rimane fuori.
«Buonanotte,
Sansa» dice, prendendole
le mani tra le sue. Le accarezza con le labbra prima di lasciarle
andare.
La guarda entrare, si volta e se ne
va.
Ω
«No,
sei sicura che Theon abbia detto
la verità? Vuole tornare al Terrore Bianco?»
La voce di Jeyne
è squillante, tanto
da far voltare i ragazzi intorno a loro. Ma Sansa non bada a lei,
osserva il
cortile della facoltà dalla finestra all’ultimo
piano. Il tempo è bello, ma
sono giorni che lui non si fa vedere.
Non ci spera più. Nemmeno oggi.
In fondo, pensa,
gli uomini sono
tutti uguali. Si fanno la guerra uno con l’altro, si
ingannano, e nei loro
giochi trascinano dentro anche lei… Sandor l’ha
messa in guardia da Petyr,
Joffrey dai suoi fratelli…
Nessuno si è limitato a difenderla.
Prima si è illusa di essere amata da
Joffrey, poi di essere salvata da Petyr, infine di essere protetta dal
Mastino.
Ma a nessuno di
loro importa davvero
di lei. Tutti hanno uno scopo, si
ripete.
Persino Jeyne, la sua amica, l’ha
usata. Sansa le è stata utile per conoscere
Ramsay…
Dovrei
sparire, dice tra
sé e sé, prendere e
andare via, da sola.
Ma sa di non poterlo fare… Non ha un
posto, non ha nessuno. Non ha soldi suoi, non ha più niente.
Uno dopo l’altro, quegli uomini le
hanno tolto ogni cosa.
Come
posso averlo capito solo ora? Si chiede.
«Sansa!»
Jeyne la scuote per un braccio, per
farla voltare.
«Sì, Jeyne. Sono sicura. Theon ha
parlato del Terrore Bianco» risponde, tornando a guardare il
cortile. «Però non
so se mi va di venire…»
«Perché?»
Perché
avevi ragione su Ramsay, pensa Sansa. Mi fa paura.
«Ti
farò sapere, va bene?»
Jeyne non sembra felice. Senza di lei
potrebbero decidere di annullare tutto… e non è
ciò che vuole. Sansa lo sa
bene.
«Ti prego» insiste Jeyne, sfiorandole
la spalla. «Non ti chiederò mai più
niente. Se manchi tu non verranno nemmeno
loro. L’incontro è nato tra te e Theon, ricordalo,
in amicizia!»
Lei scuote la
testa, non è il momento
di sentirsi in colpa.
«Lo so, ma per favore: non insistere.
Non ora. Ne riparliamo, ok?»
Sansa prende ad
allontanarsi, le fa
un cenno con la mano, ignora la voce di Jeyne che la chiama.
«Sansa! Sansa, aspetta!» grida la sua
amica. «Sansa!»
Ma lei la ignora, non può fare altro.
Non ha nessuna intenzione di tornare indietro, né di
continuare a parlarne.
Vuole restare sola, tornare a casa e
sdraiarsi sul letto. Cadere in un sonno profondo… e magari
svegliarsi altrove,
in un posto diverso. Con persone diverse.
Quando si
ritrova nel cortile vede
Loras in lontananza: è insieme a sua sorella e a quel suo
compagno di corso,
con cui una volta lei ha seguito Storia Romana: Renly.
Accelera il passo, non vuole che
Margaery la veda. Finirebbe con il chiamare Joffrey, magari trattenere
lei, per
poi godersi lo spettacolo.
Non può permetterlo.
Lancia una
veloce occhiata dietro di
sé, sente gli occhi di Margaery addosso, sa di essere stata
vista.
«Sansa!»
Fingi
di non sentirla.
Raggiunge il
portico adombrato e tira
un sospiro di sollievo. Non le importa di essere stata vista. Non le
importa
più di niente ormai. È solo stanca.
«Uccelletto» la voce del Mastino la
spinge a fermarsi. Si guarda in giro. «Sono qui.»
Dietro la porta dove l’ha trascinata
l’ultima volta, è lì che deve entrare.
Sansa resta un istante a pensarci… tanto
da spingere lui ad allungare una mano e a tirarla dentro.
«Che
cosa vuoi?» domanda, sentendo il
respiro farsi lento e grave.
Ancora quell’odore di alcol, cuoio e fumo.
Quell’odore che la fa sentire prigioniera, che la
immobilizza, che la spinge a
sfidarlo. Almeno a parole…
Solleva il mento, lascia che la mano
di Sandor lo prenda tra le dita, avvicinando la brutta cicatrice al suo
viso.
«Non
sono qui per giocare,
uccellino.»
Sansa sente di
nuovo quell’alito che
sa di vino, lancia uno sguardo veloce a quegli occhi carichi di
desiderio,
eppure, pensa, c’è qualcosa.
C’è qualcosa che non va.
Sente di tremare quando capisce… Lui
vuole riportarla da Joffrey. Vuole trasformarla nel suo giocattolo.
No, non può accettarlo.
Proprio non può…
«Perché sei qui?» Per un istante,
Sansa si è illusa che sia tornato per lei, per vederla, per
assicurarsi della
sua salute. Per essere certo che sia felice, lì dove si
trova, con – come
l’aveva chiamato? – quella fichetta
di Petyr.
«Non
ti piacerà sentirlo.»
Un brivido le attraversa la schiena.
È come aveva temuto… il Mastino è
venuto a prenderla.
«Vuoi
riportarmi da lui?»
Il silenzio che segue quella domanda
è la più chiara delle risposte. Allora aveva
ragione, rivedrà Joffrey, dovrà
subire la sua rabbia, sopportare ciò che vorrà
infliggerle.
Sansa fa per andarsene, ma Sandor la
afferra per le spalle, e quando lei dà uno strattone per
liberarsi, il Mastino
la spinge contro il muro.
«Non
riportarmi da lui! Andrò via, lo
prometto! Ma non riportarmi da lui, ti prego!»
Lo guarda
scuotere la testa, sente le
lacrime lambirle gli occhi, ha solo paura. Non vuole tornare indietro,
è
disposta a tutto, a qualsiasi cosa, tranne tornare da
Joffrey…
«Ti prego…» implora, un momento prima
che il dito del Mastino si fermi sulle sue labbra.
«Aye» dice, ma Sansa non sa a cosa si
riferisca. «Devo.»
Devo
cosa? Si chiede lei.
Riportarla da Joffrey? Lasciarla
andare? Sente solo una gran confusione in testa.
«Per
favore…» sussurra, sotto
l’indice che Sandor tiene premuto sulla sua bocca.
Sente le dita ruvide e callose
spostarsi sulla sua guancia, socchiude gli occhi mentre un singhiozzo
le sfugge
dalle labbra.
«Guardami»
dice lui, la voce
arrochita.
Sansa si
costringe a guardarlo, ma
dura un istante, e subito i suoi occhi si chiudono. Ha paura. Ha solo
paura.
«Non riesci nemmeno a guardarmi…»
«Non riportarmi da lui, ti prego.»
Quando lo sente allontanarsi, Sansa
non sa se sentirsi triste o sollevata. Non vuole più fidarsi
di nessuno, è ciò
che sta imparando, ma il Mastino ha iniziato a piacerle, ha iniziato a
sentirsi
protetta da lui… Cosa deve fare?
«Sono
qui per un motivo, Sansa.»
La voce è tornata dura, lei non sa
cosa gli abbia fatto, sa solo di averlo ferito. In qualche
modo… Non l’ha mai
chiamata per nome e, forse, è solo l’ennesimo
segno che le cose peggioreranno,
che la riporterà da Joffrey.
«Non
voglio tornare da lui» insiste,
tanto da fargli scoprire i denti in un ringhio.
«Ora ascolta, ragazzina» Suona come
una minaccia, pensa Sansa, vedendolo tirarsi dritto davanti a lei.
È costretta
a sollevare gli occhi verso l’alto per poterlo guardare.
«Non sono qui per quel
fottuto di Joffrey, non sono qui per i tuoi fottuti motivi
cavallereschi…»
Il Mastino si china appena su di lei,
abbassa la voce, rendendosi ancor più minaccioso.
«Sono venuto qui ad avvertirti.»
Da
cosa?
«Che
cosa vuoi?» domanda Sansa, con
la voce incrinata dalla paura.
Non sapere è la cosa peggiore… Se
sapesse cosa sta per dirle, potrebbe farsi trovare preparata, fingersi
sorpresa, o mantenere un controllo che, è sicura,
perderà presto.
«Joffrey
pensa di rivederti presto»
dice Sandor. «Pensa che sarai tu a tornare da lui, da brava
mogliettina.»
«Noi non siamo sposati.»
«Zitta
e ascolta» ringhia Sandor,
facendola aderire al muro alle sue spalle. «Joffrey si
sbaglia, perché tu non
andrai da lui.»
La speranza,
quella dolce sensazione
che rinasce dentro di lei, la spinge ad allungare le labbra in un
sorriso.
«No, io non andrò da lui, lo prometto.»
Basta uno sguardo del Mastino per
spingerla al silenzio.
«Joffrey
ha qualcosa che potrebbe
spingerti a tornare a casa. Non farlo, uccelletto. Non farlo o non
potrò più
proteggerti.»
Sansa inclina la
testa di lato: non
le sembra vero…
«Lo so. Documenti, soldi e cellulare.
Ho recuperato più o meno tutto. Non preoccuparti, non
tornerò da lui. Mai…»
Sandor la sbatte
contro il muro,
facendola gemere di dolore. Le sta ringhiando in faccia, ma Sansa non
capisce
perché.
«Tu
non ascolti!» grida, a un soffio
dal suo viso. «Non sono i tuoi fottuti documenti che Joffrey
ha trovato. Sei
così stupida da non esserci ancora arrivata?»
Vorrebbe piangere. Quegli insulti le
ricordano Cersei, la madre di Joffrey…
No, non ci arriva, non sa nemmeno se
vuole davvero saperlo. Se il suo ex è così
convinto che basterà a farla
tornare… forse è meglio rimanere ignoranti.
«No…» sussurra, stringendo gli occhi
alla vista della cicatrice.
Sandor scuote la
testa, allenta la
presa sulle sue spalle, si allontana appena dal suo viso.
«Il bastardo… quel fottuto
fratellastro è venuto a trovarti.»
Jon, pensa Sansa. Jon è qui.
Note
dell’autrice:
Questo
capitolo è un po’ mollo,
almeno, in alcuni punti. C’è un motivo se Petyr si
sente debole: anche nella
serie, nel momento in cui Sansa lo rifiuta, lui cambia
approccio…
Per quanto riguarda la confusione di
Sansa: non sa di chi fidarsi, è “spenta”
e io volevo che trasmettesse questa
cupezza.
Ringrazio tantissimo chi
legge/segue/preferisce, chi mette mi piace (danno la carica, ve
l’ho detto), e
i miei “fedelissimi”: Relie, sb89, Ladyhawke83,
Elthanin_Riddle_, ghim92,
Diomache… Insomma: grazie!
Spero di discutere con voi della
storia, anche sulla pagina Facebook: Celtica
|
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Capitolo 15 *** Legami ***
Capitolo 15
Trailer
Legami
etyr non sa
nulla di Sansa,
nulla di quanto gli stia nascondendo.
Vorrebbe chiedere a Varys
di controllarla, di spiarla, come ha fatto negli ultimi anni. Ma non lo
fa. Non
sarebbe giusto, ed è strano il pensiero da parte di un uomo
che, nella
giustizia, non ha mai creduto. Ma si tratta anche di Sansa, non solo di
lui, e
concederle del tempo gli sembra l’idea migliore.
A quest’ora dev’essere
ancora in facoltà e, forse, si dice, starà
finendo le lezioni. Se la immagina
alla fermata del bus, intirizzita, più per le sue paure che
per il freddo.
È una
bella giornata di
primavera, con un sole caldo e l’aria gelida, e Petyr si
appresta ad
attraversare la strada. Dalla parte opposta c’è un
ristorante carino, dove
vorrebbe organizzare il prossimo incontro con i suoi… amici.
Roose e Tyrion
non sanno
bene l’uno dell’altro, non sanno di essere,
attraverso lui, alleati.
Petyr sogghigna
ripensando
al loro ultimo incontro, durante una serata organizzata da Cersei: gli
sguardi
raggelanti di Bolton, le battute sarcastiche di Tyrion, il filo del
disprezzo
che li legava, tessendo la sconfitta di Cersei…
Era stato durante una di
quelle serate che lui, Petyr, aveva deciso di lasciare il posto
nell’azienda di
lei.
Osserva
l’insegna ad arco
sopra l’ingresso del ristorante, giusto un istante prima di
entrare. È proprio
un luogo carino, con diverse vetrate che danno sulla strada, pesanti
tende di
velluto bianco, e il nome del locale impresso in lettere gotiche sulle
lastre
delle finestre.
Piante verdi accolgono
Petyr, entrando, così come il sorriso della donna che ha
davanti.
«Lord Baelish»
dice, gelida. «Anche tu qui. Che strana
coincidenza.»
Persino lui
rimane stupito
di vederla.
Cersei
è davanti a lui,
avvolta in un abito color crema. Solleva il mento, tirandosi dritta,
mostrando
tutta la sua fierezza. Una ciocca di capelli, bionda e lucida come oro,
scivola
nel decolleté, costringendo lo sguardo di Petyr a seguirla.
Vista così, con quel
portamento, sembra essere una regina.
«Mi stai forse seguendo?»
chiede poi, la luce del disprezzo ben impressa negli occhi.
«Chi
potrebbe smettere di
guardare il sole?»
Il fulmine che
attraversa
gli occhi di Cersei viene interrotto da una sagoma alle loro spalle:
è Roose
Bolton, e Petyr non si è mai sentito tanto infelice di
vederlo.
Lo saluta con un cenno del
capo, mentre l’altro si limita a ignorarlo.
«Vogliamo
andare?» domanda
Roose, venendo affiancato da un ragazzo.
Nessuno, vedendoli,
potrebbe negare la loro somiglianza. Hanno gli stessi, identici, occhi
di
ghiaccio e, mentre il giovane sorride a Petyr, il padre varca
l’ingresso,
raggiungendo Cersei.
«Ramsay»
esclama lei,
felice come se le avessero detto che l’azienda di Petyr sta
chiudendo.
«Dobbiamo proprio organizzare un incontro con Joff!
È dai tempi della scuola
che non vi vedete.»
«Assolutamente»
dichiara
l’altro, con un cenno della mano. «La differenza
d’età ormai non si sentirà
più. È un ragazzo grande ormai.»
Petyr lo vede allargare la
bocca in un sorriso, mostrare i denti bianchi e perfetti. Eppure,
pensa, non
c’è altro oltre le sue parole, oltre le sue
labbra, testimone della sua gioia.
«Volete
scusarmi solo un
istante?» proclama Cersei, chinando la testa di lato, come se
bastasse quel
gesto a dire che vuole parlare con lui. Sola.
«Aspettiamo al tavolo.»
«Oh, certo» Cersei si
volta, solleva lentamente il braccio per chiamare il cameriere, e ogni
movimento sembra studiato per mettere in risalto la sua bellezza.
«Accompagnali. Lannister
è la
prenotazione.»
Lo guarda al di
sopra della
spalla, squadrando il modo in cui è vestito.
Non è una giornata
particolare per lui… e di certo, se avesse intuito
quell’incontro, avrebbe
badato a cosa indossare. Invece una camicia bianca e un pantalone
grigio sono
tutto ciò che Cersei può blandire.
E sembra non aspettare
altro…
«Carino il tuo… completo.
L’hai comprato sul mercatino?» Lei sorride, giunge
le mani e fa due passi
avanti. Sembra individuare una saletta lontana dai Bolton, dove vengono
servite
bibite e caffè.
È lì che lo guida.
«O
devo pensare che sia un
dono?» insiste, sedendo sullo sgabello di cuoio del bar.
«Un dono?»
«Un dono, Baelish, da parte
di quella sciacquetta che ti sei portato via.»
Petyr le siede accanto, non
perde una parola di quanto sta dicendo, ma la lascia continuare.
«Credi
che non lo sappia?»
Il ringhio muta in un miagolio, in un sorriso dolce, di sfida.
Di minaccia.
«Due
caffè» ordina Petyr al
barista, sollevando due dita. Poi torna a scrutare lei, la bella donna
che ha
davanti, dalle gambe lunghe e scoperte, i tacchi alti, la pelle nivea.
«No» risponde, appoggiando
il gomito sul bancone. «Credo che tu lo sapessi
già da diverso tempo.»
Cersei inclina
la testa, ed
è come se un leone si fosse fermato davanti a lui,
chiedendosi se fosse il
momento giusto di divorarlo. Sorride, scuote la criniera dorata, sembra
quasi
pronta a ridere di lui.
«Credo,
anzi» si corregge
Petyr, sporgendosi in avanti e abbassando le palpebre. «di
averti fatto un
favore. Un grosso favore.»
La guarda sgranare gli
occhi per la sorpresa.
«Credo» continua,
mellifluo, sicuro di essere sulla strada giusta. «che tu
sperassi di vederla
sparire. Che il tuo desiderio fosse quello di liberarti di
lei.»
«Sansa
Stark non mi è mai
piaciuta» conferma Cersei, improvvisamente seria. Si volta
verso il barista,
come se la sola vista del caffè potesse offenderla.
«Un bicchiere di vino» lo
corregge, e basta uno sguardo per evitare domande.
«Con quella vocetta» dice,
stizzita. «Quei modi gentili… Sansa è
sempre stata una sciocca. L’ho detto a
Joff di lasciarla perdere, di divertirsi e basta… ma non ha
voluto ascoltarmi.
Convivere insieme! Con lei! Tanto varrebbe che tu diventassi
Sindaco.»
Petyr accenna un inchino,
prende la tazzina tra le mani e beve un sorso. Tutto, pur di non
risponderle.
«Forse
ciò che hai detto è
vero, Baelish, ma Joff rivuole il suo giocattolo.»
Cersei si
accarezza una
gamba con fare seducente, finché non si accorge del calice
rosso sul banco,
pronto per lei. Si aggrappa a quell’oggetto come se non
potesse farne a meno, e
studia il proprio riflesso nel liquido purpureo un attimo prima di
berlo.
Questa, pensa Petyr, è una
cosa che Cersei ha in comune con suo fratello Tyrion…
«Cosa
mi stai
consigliando?» domanda lui, giocando con il manico della
tazzina.
Gli occhi di lei lo
investono come onde.
«Non
ho bisogno di dare
consigli, Baelish. Te lo sto ordinando.»
«Non lavoro più per te, lo
sai.»
Una risata, ed
è come se
mille cristalli andassero in pezzi. Cersei allunga una mano per
reggersi al
bancone, incrocia le gambe e lo guarda come se davvero non lo credesse
così
stupido…
«Pensi che non sappia cosa
stai tramando?» lo sfida lei, mostrando le unghie curate.
«Ti sei divertito
abbastanza con quella ragazzina, adesso è ora che torni
all’ovile.»
Per un istante,
in cui una
goccia di sudore freddo gli è scesa lungo la schiena, Petyr
ha creduto che lei sapesse.
«Cosa
starei tramando?»
«Oh, ma è così logico!»
esclama Cersei, sollevando gli occhi al cielo. «Vuoi
divorziare da tua moglie –
a proposito, come sta Lysa?
– e
magari ritirarti a vita tranquilla con quella sciocchina.»
Petyr incrocia
le dita,
sorride con uno di quei sorrisi che solo Sansa sembra capire, e resta
in
silenzio.
«Potrei anche aiutarti,
sai… Rilevare la tua azienda, farti fare un bel guadagno, e
permetterti di
andartene via…» Sembra che sia ciò che
più Cersei desidera, mentre lo dice. «Ma
devi lasciare qui la ragazza Stark.»
«Non
l’ho mai toccata» si
indigna Petyr, con una finta smorfia.
«Ma vorresti.»
«Mi offende anche solo
pensarlo.»
«Mmh…»
Petyr batte le
mani sulle
gambe, un’espressione contrita sul volto, e fa un altro
inchino.
«Credo che questa
conversazione possa dirsi conclusa, Maestà.»
«Solo per il momento, Lord Baelish.»
Ω
Jon
è qui. Jon è qui. Jon è qui.
La mente di
Sansa sembra
ripeterlo come un mantra. Cosa sia venuto a fare in città,
perché sia andato a
casa di Joffrey, restano domande senza risposta. Ma non conta, ora non
conta.
Mentre è sul bus che deve
riportarla al suo appartamento – quello che Petyr le ha
ceduto come rifugio –
non riesce a fare a meno di pensarci.
Non le importa della gomma
appesa allo schienale del sedile davanti a lei, non le importa dei due
uomini
che la fissano con arroganza. Non le importa nemmeno del pianto del
bambino
alle sue spalle, e dei vani tentativi della madre di calmarlo.
Il mondo va
avanti, fuori
dal finestrino al suo fianco, e nessuno sembra accorgersi di come il
suo si sia
improvvisamente fermato.
Sansa era senza
famiglia,
senza amici, senza protezione. Viveva senza la sua vita. Fino a quella
mattina…
fino a mezz’ora prima.
Ora, ora che il Mastino le
ha dato quella notizia, ora che le ha confessato ciò che
Joffrey ha contro di
lei – Jon, il suo
fratellastro,
quello con cui ha avuto il rapporto peggiore, seguendo
l’esempio di sua madre
Catelyn – nient’altro sembra contare nei pensieri
di Sansa.
Nemmeno ricorda il momento
in cui dovrà vedersi con Jeyne, Theon e Ramsay, nemmeno desidera ricordare.
Il mondo va
avanti, e
quello di Sansa torna indietro.
Rivede la neve,
le risate
di Arya e Bran, le corse di Rickon. Jon e Robb che si inseguivano come
ragazzini…
E lei, avvolta di pelliccia, che strofinava i guanti e sorrideva
guardandoli.
Se si concentra, può ancora
sentire le loro voci, Robb che insiste perché vada anche lei
a giocare, Arya
che le lancia addosso palle di neve… E le sue urla contro di
lei, contro quella
sorella più piccola, così diversa.
Il mio opposto.
“Prometto
che non andrò”, era
stata l’ultima frase al Mastino, ma ora, ora che nei suoi
occhi e nelle sue
orecchie rivive il passato con i suoi fratelli, Sansa è
tentata di mancare alla
parola data.
Non le importa di Joffrey,
di ciò che potrà dire. Ci sarà Jon con
lei.
Jon,
che non ho mai considerato.
Si alza in
piedi, suona il
bottone della fermata, e si avvicina all’uscita.
Ha cambiato idea. Ha fatto
presto. È bastato ripensare ai suoi fratelli…
è bastato chiedersi cosa ci
faccia Jon in città.
In realtà, nemmeno le importa
di scoprirlo. Vuole vederlo, sapere se è solo, se ha
intenzione di raggiungere
anche gli altri. Se vuole, forse, riunire il branco.
Potrebbe andare
con lui, si
dice, mentre il bus frena, mentre le porte si aprono e Sansa si
appresta a
scendere.
Potrebbe rivedere Arya, e
Bran, e Rickon. Potrebbe riabbracciare Robb… sentire qualche
storia su sua
madre, scoprire qualche avventura di suo padre.
Ci sono così tante cose che
Sansa non sa… che non ricorda, e che non ha mai voluto
ascoltare.
È un
po’ distante dalla
casa di Joffrey, e proprio non sa come fare per affrettare le
cose… Vorrebbe volare da
lui, ignorarlo, prendere Jon e
partire per Londra. Vorrebbe tante cose, ma il tempo è poco
e, non conoscendo
la zona, non sa quali autobus prendere.
Non è mai stata da quella
parte della città. Mai con Joffrey.
L’ha attraversata con
Petyr, in macchina, e qualche rara volta sui mezzi pubblici…
Sansa pensa di
fermare un
taxi, di indicare l’indirizzo all’autista e farsi
portare nella strada giusta.
Solleva un braccio, pronta a imitare le protagoniste di film di
successo che,
con un solo fischio, riescono a fermare qualunque auto…
Ma non lo fa.
Estrae il
cellulare dalla
tasca, la mossa più rischiosa che possa fare, nasconde il
numero con il
privato, e digita quei numeri, mai dimenticati, che la porteranno alla
velocità
della luce a casa di Joffrey.
È
l’unico modo, si
dice, mentre lo squillo le rimbomba nelle orecchie.
C’è traffico per strada;
Sansa cerca il nome della via in cui si trova, stringe gli occhi mentre
aspetta
di sentire quella voce. E il cuore sembra mancare un battito quando la
sente.
«Pronto?»
Il terrore le
impedisce di
parlare, costringendola al silenzio. È ferma e immobile come
una statua, e sa
con certezza che se ora si trovasse in mezzo alla strada, niente e
nessuno
potrebbero impedirle di farsi investire.
«Pronto?!
Ma chi diavolo
è!?»
«Pr-pronto, Joffrey?»
mormora, vedendo la mano tremare. «Sono Sansa.»
«So benissimo chi diavolo
sei.»
Sorpresa.
Nemmeno lui se lo
aspettava.
Beh, nemmeno io,
fino a due minuti fa.
«Puoi
farmi venire a
prendere?» dice, cercando di mantenere un tono più
controllato. Ma è difficile
sapendo chi c’è dall’altra
parte…
Sansa pensa che Joffrey le
urlerà, che si rifiuterà di mandare qualcuno.
Immagina la sua risposta carica
di disprezzo.
«Dove
ti trovi?» chiede
invece.
Una risposta sussurrata, il
sottofondo del traffico intorno a lei, delle voci della gente, e quella
di
Joffrey che le domanda di ripetere. Che le ordina
di ripetere.
Sansa obbedisce, come ha
sempre fatto.
«Il
mio Mastino verrà a
prenderti. Non muoverti da lì» sibila Joffrey,
chiudendo la chiamata.
La tentazione
è quella di
scappare, di andare via e non farsi più trovare. Di non
aspettare Jon, di
lasciar perdere Petyr, di prendere il treno e correre a Londra. Di
infischiarsene di tutto e di tutti, pensando solo a se stessa. Almeno per una volta.
Non è poi così vero… Sansa
ci pensa mentre aspetta il Mastino. È stata egoista seguendo
Joffrey al sud, è
stata egoista lasciando Robb, solo, con i loro fratelli più
piccoli. È stata
egoista con Jon… trattandolo come ha sempre fatto sua madre.
Quando il
Mastino arriva,
alla guida di una BMW nera, Sansa si stringe nelle spalle e sale.
Non ha bisogno di guardarlo
in volto per sapere che è infuriato. Per capirlo
è bastato vederlo arrivare… un
guidatore nervoso si riconosce anche a distanza.
Un guidatore nervoso come il Mastino
è inconfondibile.
«Hai
perso la testa?»
ringhia, mentre Sansa si allaccia la cintura di sicurezza.
«Sei impazzita!? No…
no, lo sei sempre stata.»
Sansa lo ignora.
Si stringe
le mani in grembo e preferisce il silenzio.
«Altrimenti non si spiega»
prosegue lui, partendo a tutta velocità senza badare alle
altre auto. «Sì, è così,
devi essere tutta fuori di testa. Sapevo che era meglio non dirti
niente, e
avrei fatto meglio a tacere. Maledetto me.»
Diversi clacson suonano
dietro di loro, Sandor solleva il dito medio davanti allo specchietto
retrovisore, e accelera, dando voce al motore.
«Non
succederà niente»
risponde Sansa, abbracciandosi e mettendo il muso.
«Parlerò con Jon e ce ne
andremo.»
La frenata del
Mastino la
spinge a reggersi al cruscotto. I capelli le volano in faccia mentre si
porta
una mano sul cuore.
Dietro di loro un altro
autista nervoso…
«In culo!» comincia a
gridare Sandor dal finestrino, lasciandosi sorpassare dalla macchina
dietro di
loro. «Guarda che mi fai fare.»
«Io!?»
Sansa si volta,
offesa. «Sei tu che ti comporti come un pericolo
pubblico.»
«Ascoltami bene, ragazzina»
ripete, come ha fatto più volte mezz’ora prima.
«Joffrey non ti lascerà andare
da nessuna fottuta parte, è chiaro?»
Riprendono la
marcia, il
silenzio regna tra loro come un veto, almeno finché Sansa
non decide di
infrangerlo.
«Tu non conosci Joffrey»
spiega, scuotendo la testa. «Non mi toccherà mai
davanti a mio fratello. Sa
cosa rischia.»
«Tuo fratello?»
le fa il verso Sandor, una mano stretta sul cambio e
l’altra sul volante. «Sei davvero stupida come
dicono tutti? A Joffrey non
importa niente del tuo bastardo.»
«Non
mi toccherà! È troppo
vigliacco per farlo» Sansa incrocia le caviglie, accarezza il
tessuto dei
pantaloni e prega, prega di avere ragione. Cosa
ne sarebbe di me se non l’avessi? «Tu,
piuttosto. Dov’è finito il tuo
mandare a quel paese Joffrey?»
«Di che parli?»
Sansa emette un sospiro
prima di rispondere. Si mangia appena le parole…
«L’ultima
volta che ci
siamo visti» tenta, arrossendo al ricordo della sua sigaretta tra le labbra del Mastino.
«Non te la ricordi?»
Evita di guardarlo, ma
basta un’occhiata intorno, le villette sparse, il parco con i
bambini, per
dirle che sono quasi arrivati. Non c’è
più tempo per le parole.
«Eri…
molto vicino a me»
Una vampata di calore le sale fino al viso mentre pronuncia quelle
parole. «E poi…»
«Non andare» la interrompe
Sandor, fermando l’auto in mezzo alla strada.
«Dirò di non averti trovata.»
Mentre si slaccia la
cintura, Sansa sente un moto improvviso di tenerezza. Vorrebbe dirgli
di sì,
chiedergli di portarla in stazione, di venire con lei a Londra.
«Posso
accompagnarti dov…»
Questa volta è lei a
interromperlo, prendendogli il viso tra le mani. Chiude gli occhi, non
vede la
cicatrice, i segni orribili sul volto, non sente odore di cuoio e alcol
e fumo.
Posa le labbra sulle sue, come se non ci fosse un modo migliore per
dirglielo.
Non
lo sto ringraziando,
pensa Sansa, accorgendosi di come lui sia rimasto immobile. È solo ciò che
volevo… dall’ultima volta che
l’ho visto.
«Grazie» sussurra,
allontanandosi da lui. «Davvero, grazie.»
Scende
dall’auto
lasciandolo solo, in macchina, a osservarla attraversare la strada.
Trova il
portone aperto, come un invito a entrare, e sale le scale con una certa
calma,
come se non avesse fretta di vedere Joffrey.
Quando arriva sul
pianerottolo, Sansa si sfiora le labbra, come se il bacio dato al
Mastino
servisse a darle coraggio.
Perché
non l’ho fatto prima? Si chiede,
sollevando il pugno all’altezza della porta. Proprio
ora, ora che sto per partire, che
non lo rivedrò più? E perché lui non
ha risposto?
Un tocco, due
tocchi, Sansa
si schiarisce la voce e si allontana dall’uscio.
Non se lo
aspettava… si
risponde, giungendo le mani. Non se lo
aspettava per niente. Altrimenti avrebbe reagito.
Udire i passi
oltre l’uscio
non rincuora Sansa. Sapere che sta per rivedere il volto di Joffrey,
per
sentire ancora la sua voce, faccia a
faccia, le fa tremare le gambe.
Avrei dovuto
accettare l’invito del Mastino e andare via con
lui.
E quando se lo
trova
davanti, riconoscendo il sorriso del trionfo sul suo viso, sente di
poter
cedere da un momento all’altro. Che non riuscirà a
sorreggersi, a seguirlo
dentro, ad affrontarlo.
Finché non lo sente…
«Sansa?»
Jon è
cambiato, per quanto
gli fosse possibile cambiare. Si è fatto crescere i capelli
e, ora, li tiene
legati dietro la testa, come un samurai. Ha l’ombra di una
cicatrice sotto
l’occhio, ma invece che sfigurarlo, riesce solo a renderlo
più affascinante.
Più maturo.
Si camminano
incontro a
vicenda, come se Joffrey non esistesse, e Sansa gli finisce tra le
braccia.
Jon non è il suo vero
fratello, ma in quel momento è come se lo fosse.
È sangue di suo padre, di
Robb, di Arya, di Bran e di Rickon. È casa.
Quella che ha lasciato nel
nord, alla morte dei suoi genitori, restando alla finestra mentre Robb
partiva
con i suoi fratelli più piccoli.
Jon è la sua famiglia.
«Che
cosa ci fai qui?»
mormora, scostandosi per guardarlo in viso.
«Come sei… diversa, Sansa»
Jon la guarda negli occhi, sembra commosso. «È
troppo tempo che non rivedo
Robb. Sto andando a Londra, Sansa. Vieni con me, per favore.»
La risata di Joffrey sembra
rompere quel momento. Sansa si volta a guardarlo, fa due passi indietro
e resta
in silenzio.
«Te
l’ho detto che non può
partire…» dice, con quelle labbra che un tempo
Sansa ha amato. «Ci stiamo
organizzando. Non può mancare proprio ora.»
Sansa inclina la testa,
confusa. Non riesce a seguirlo.
«Ma di cosa stai parlando?»
Il trionfo – o forse è solo
pazzia, pensa Sansa – si allarga prepotente negli occhi di
Joffrey.
«Ma del matrimonio, Di
cos’altro dovrei parlare? È chiaro che siete tutti
invitati. Tu e… la tua
famiglia» aggiunge, rivolto al suo fratellastro.
Sansa torna a
guardare Jon,
fa una smorfia.
«Non riesco a seguirti. Di
quale matrimoni parli?»
«Ma del nostro! Del
nostro matrimonio, Sansa!»
Lei fa alcuni passi
indietro, oltrepassa l’uscio della porta. «Tu sei
pazzo.»
Il volto di
Joffrey torna
serio, la guarda con tutto il disprezzo possibile. «Non te lo
chiederò di
nuovo.»
«Non voglio che tu lo
faccia» risponde Sansa, sentendo i muscoli irrigidirsi.
È pronta alla fuga…
basta una sola parola sbagliata.
«Chiunque
ne sarebbe onorato.»
«Allora chiedilo a qualcun
altro, io non posso.»
Jon li segue
fuori, sul
pianerottolo, non sembra capire cosa stia succedendo. «Non
puoi?» domanda,
storcendo la bocca.
«Non posso» ripete Sansa,
appoggiando la mano alla ringhiera di ferro. «Sto andando a
Londra.»
Il volto di
Joffrey si
ricopre di una maschera di rabbia.
«Dov’è il Mastino?
MASTINO!»
Sansa gli ride in faccia.
«Credo sia andato a parcheggiare la
macchina…»
Fa un segno a
Jon e scende
le scale. Ha quasi paura che Joffrey decida di seguirla da solo, che
alzi
ancora le mani su di lei, magari davanti al suo
fratellastro… Ma sa che non può
farlo. Sa che, con la posizione di suo padre – il Sindaco
– non può permettersi
problemi con la Giustizia.
Sansa non lo avrebbe mai
denunciato: aveva troppo da perdere.
Ma con Jon è diverso. E
Joffrey, proprio, non ama il rischio.
Con le grida di Joff in
sottofondo,
con Jon che la segue a distanza, Sansa esce dal palazzo, si sente
toccare da un
raggio di sole.
Chiude gli occhi e
cerca di
sentire il sapore di Sandor sulle labbra.
Note
dell’autrice:
Vorrei
chiarire una cosa:
questa non è una
Jon/Sansa. Preferisco
non esprimermi in merito, ma se vorrete sapere di più
basterà chiedere.
Questa, nata come una
Petyr/Sansa pura, sta diventando
anche una SanSan. Spero che non sia un problema. Vi confesso: oscillo
tra
questi due come sta facendo Sansa dall’inizio di questa fan
fiction. Quindi sì,
Petyr sta per tornare alla carica – e alla grande,
aggiungerei – ma non
dimenticatevi di Sandor. Avrà la sua importanza (come avrete
capito da questo
capitolo).
Grazie a tutti quelli che
seguono/preferiscono/recensiscono. Senza di voi non avrebbe senso
pubblicare
qui.
Celtica
P.S.:
visto che i capitoli
stanno diventando tanti, penso che inserirò un titolo per
ognuno, perché
possiate ritrovarli più facilmente.
|
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Capitolo 16 *** Come una candela ***
Capitolo 16
Noterete
la breve presenza di Sansa in questo pezzo, ma non volevo rendere il
capitolo
troppo lungo. Spero di essere perdonata!
Trailer
Come una Candela
a penna
stilografica ha disegni d’oro
e d’argento sopra l’acciaio scuro, sembra brillare
alla luce della candela. Il
resto della stanza è avvolto nell’ombra,
così come il volto di Lysa.
“Solo
una candela, Petyr”, lo aveva
implorato, tornata
dall’ospedale. “Come nel
nostro viaggio
di nozze… Lo ricordi, Petyr? Ricordi come siamo stati bene?
Finché Cat non è
arrivata a rovinare tutto...”
La punta gratta sulla carta, avanza
lenta e inesorabile, disegnando un ampio cerchio lì dove
dovrebbe esserci la
“g” di Garante. Non
vede quasi nulla
di ciò che sta facendo, ha solo la luce tenue della candela,
così come Lysa ha
desiderato.
Quando finisce, posa la penna sulla
scrivania di ciliegio, soffia sulla carta e rilegge ciò che
ha scritto.
«Petyr,
amor mio, hai finito?» Lysa è
sdraiata a letto, così come il suo medico di fiducia,
Pycelle, ha voluto. «Vieni
da me, ora.»
Lui si alza e la raggiunge. Lei
protende le braccia verso l’alto.
«Stringimi, Petyr, non lasciarmi
dormire da sola.»
«Sta
arrivando il medico, è di là con
Robin…» sussurra, chinandosi al suo capezzale.
«Devi solo firmare questo
foglio, e potrò dirgli di entrare. Deve visitarti, mia
cara.»
Lysa scuote forte la testa. «Non
voglio, Petyr. Non farlo venire. Voglio restare con te! Solo con te! Ho
aspettato così a lungo…»
Petyr la bacia, ed è un bacio freddo,
distaccato, frettoloso. «Firma» lo dice mettendole
la stilografica tra le mani,
reggendo il grosso tomo che dovrà farle da scrittoio.
Lysa prende la penna. E firma.
Il sorriso che
si forma sul volto di
Petyr è qualcosa che lei non è in grado di
capire. Lo interpreta male,
sorridendogli a sua volta, mormorando quanto sia innamorata di
lui…
«Ti chiamo Pycelle» aggiunge.
«Resterà un po’ a farti
compagnia.»
«Dov’è mio figlio? Fai venire Robin,
ti prego.»
Petyr annuisce appena.
Si chiude la porta alle spalle,
attraversa il corridoio e raggiunge la sala, dove Robin sta –
come al solito – video
giocando. Pycelle
è voltato di spalle, intento a conversare con la bella
brunetta che ha di
fronte: Shae. Una telefonata a Tyrion, ed ecco che Shae si è
trasformata in una
perfetta babysitter.
Non
segretaria.
«Pycelle»
esordisce Petyr, allargando
le braccia. «Solo un momento. Lysa vorrebbe prima vedere
Robin. Robin!» chiama,
senza nessun risultato.
Shae sorride, china il capo e si
avvicina al ragazzo, sfilandogli le cuffie dalle orecchie.
«Non hai sentito?» dice lei, con un
forte accento del sud. «Ti stanno chiamando.»
«Sì,
Robin. Tua madre vuole vederti.»
Pycelle fa un passo avanti, solleva
le mani. «Perché non le presenti Shae? Devo fare
due… chiacchiere con il tuo
patrigno.»
Petyr solleva un sopracciglio, ma non
dice niente. Lascia che i due si allontanino prima di giungere le mani
e
avvicinarsi al vecchio. A Pycelle, ormai, non sembrano restare
più molti anni
da vivere… La lunga barba bianca che si è fatto
crescere è folta, e non fa
altro che invecchiarlo ancora.
«Lysa
sta dando di matto» spiega il
vecchio, sedendo a fatica su una sedia. Quando Petyr gli indica il
divano,
Pycelle fa cenno di no con la mano. «Non riuscirei
più ad alzarmi. Ah, i miei
lombi…»
Lui gli gira intorno, gli siede di
fronte.
«Cosa
posso fare per te?»
«Avevo bisogno di parlarti, Baelish.
Si tratta di Lysa e dei suoi attacchi» Pycelle si accarezza
la barba mentre
parla. «Capita che perda la ragione e, le cose che
racconta… sono un po’ strane,
ecco.»
Petyr si piega in avanti, voltando
appena il capo. «Strane,
come?»
Dalla strada arriva lo strombazzare
di un clacson. Sembra quello di un camion, e Pycelle fa una pausa
scenica prima
di continuare.
«Cose sul suo vecchio marito.»
Lui si alza per chiudere la finestra,
in quella calda giornata di primavera. Gli dà le spalle,
eppure non perde un
solo battito del cuore impaurito dell’uomo.
«Cose
su di te.»
Quando Petyr si
volta, Pycelle
distoglie subito lo sguardo da lui, fissando il pavimento. Potrebbe
chiedergli
cos’abbia detto Lysa… Potrebbe domandargli il
piacere di riferirgli ogni
parola.
Ma non lo fa.
«E tu,
gran maestro, le credi?»
Il tono di
Ditocorto è il più
scherzoso e amichevole possibile, Pycelle sembra quasi fidarsi di lui,
eppure,
eppure Petyr sa che se in quella stanza fosse presente anche Sansa, lei
sarebbe
in grado di capire cosa realmente stia provando.
«Certo che no» la risposta di Pycelle
arriva troppo agitata, e troppo in fretta… «Sono i
deliri di una malata, è
chiaro!»
Ciò che Petyr si chiede è perché
Pycelle glielo abbia raccontato.
Se non ci crede, se sono i deliri
di
un momento di follia, perché riferire a lui?
«Lysa è sempre stata portata a
esagerare» mormora Petyr, camminando lentamente verso il suo
posto, di fronte
al vecchio. «Abbiamo avuto una storia, prima che si sposasse.
Lo sapevi?»
Pycelle scuote la testa; forse, pensa
Petyr, è preoccupato di ciò che
accadrà…
«Cat
– ah, la cara vecchia Cat! – ci
ha scoperti, e ha minacciato di raccontare tutto a loro padre. Venivo
da una
famiglia povera… Loro erano ricchi, cariche prestigiose,
lavori importanti. Lui
non mi avrebbe mai voluto con loro, e Lysa lo sapeva bene.»
La porta della camera che si apre, e
la magia finisce. Petyr allunga le labbra in un sorriso, abbassa le
palpebre
mentre Shae e Robin tornano nella stanza.
«Se
sarai ancora qui, al mio ritorno,
finirò il mio racconto.»
«Devi
uscire, zio Petyr?»
Robin ha già il joystick stretto in
una mano, le cuffie nell’altra.
«Tornerò presto» mormora, prendendo
la giacca e facendo segno a Shae di badare al ragazzo.
Quando esce, ha
nella mente una cosa
sola: ritrovare Sansa.
Sono ore, ormai,
che ha il cellulare
staccato, e a casa non c’è nessuno, ha
già controllato. C’è un solo posto dove
può essere andata, ed è lì che Petyr
è diretto. Prende la ford, attraversa
diversi isolati, supera persino l’università
– è sicuro che non sia chiusa in
biblioteca – e raggiunge il viale più lussuoso
della città.
Lì, dove c’è la casa di Joffrey.
Ripensare
all’incontro con sua madre
è strano: prova sentimenti contrastanti per Cersei.
Da una parte c’è il risentimento, per
averlo sempre considerato inferiore, per non avergli dato la giusta
importanza;
dall’altra tanta ammirazione.
Cersei è una bella donna, eppure non
è stato il suo corpo a farla arrivare in alto. Era persino
destinata a un altro
uomo… e mai, da ragazza, avrebbe immaginato di finire in
sposa a
quell’ubriacone del Sindaco.
Ma l’azienda è la sua, la sta mandando
avanti lei. E bene, anche.
Petyr lascia
l’auto vicino al
marciapiede, di fronte al palazzo dove risiede Joffrey. È
sicuro di trovarla
lì. Deve trovarla, come
potrebbe fare
altrimenti? Sansa è la sua chiave, l’unica in
grado di aprire ogni serratura.
Forse, si dice, persino del suo
cuore.
Sempre che lo abbia ancora…
Quando arriva al
portone lo trova
aperto. Ha quasi la sensazione di sentire il profumo dolce di lei, di
avvertire
la sua presenza. La immagina, mentre posa il piede sul gradino, avvolta
da un
mantello di paura.
Perché
sei tornata? Si chiede
Petyr. Cosa sei venuta a fare qui, tesoro?
Sale in fretta
le scale, arriva
davanti alla porta con il pomello a testa di leone, e la scritta a
lettere
dorate: Lannister. Bussa, una
volta,
due, tre, e davanti a lui si para la sagoma mastodontica del Mastino.
«Dov’è Sansa?» domanda senza
indugio,
mentre l’uomo esce sul pianerottolo, chiudendosi la porta
alle spalle.
«E così non lo sai, eh, Baelish?»
ringhia Sandor con un sorriso cattivo. «Torna dalla tua
mogliettina. Ti darà
più soddisfazioni.»
«Che significa?» Petyr fa un passo
indietro e solleva il mento. «Non è qui?»
«Aye,
e ci stiamo divertendo, tutti
soli soletti.»
Il Mastino
incrocia le braccia al
petto prominente, ed è un lungo sbuffo quello che lascia le
sue labbra.
«Dov’è Joffrey?» domanda, ma
capisce
subito che Sandor provi quasi piacere
a tenerlo sulle spine. A sapere qualcosa che lui non sa.
La
conoscenza è potere.
Il Mastino
sogghigna senza
rispondere.
«Tornatene a casa, Ditocorto. Sarà
meglio. L’uccelletto è ben ammaestrato per le
bugie.»
«Che cosa intendi?»
«Mastino!»
Il grido di Joffrey li
interrompe, facendo sì che anche Margaery esca sul
pianerottolo.
Petyr la vede avvicinarsi, giovane e
bella, al ragazzo. «Dove diavolo eri finito!?»
«Stai bene?» domanda lei, quasi che
fosse appena tornato da una scazzottata. «Quel bruto non ti
ha fatto del male,
vero?»
Joffrey scrolla le spalle, sembra
infastidito. «Certo che no.»
«Oh, meno male. Ero così
preoccupata!» Quando Margaery allunga una mano per
accarezzare il braccio di
Joffrey, lui la lascia fare. «Ma sapevo che non avrebbe
potuto niente contro di
te…»
Petyr si accorge
subito di come il
ragazzo si senta compiaciuto, tanto da dimenticare – quasi
– il suo cane sulla
porta. Ma è un attimo, e subito gli occhi azzurro cielo
tornano a posarsi sul
Mastino.
«Ti-avevo-detto-di-portarla-qui»
dice, facendo continuamente segno con l’indice verso terra.
«E io l’ho portata.»
Basta un momento perché alle spalle di
Joffrey compaia anche Cersei.
Ecco
dov’era andato. A chiamare la mammina.
«Quale
bruto?» chiede Petyr, rivolto
a Margaery.
Il Mastino si fa avanti, quasi come
se volesse impedire a lei di rispondere, ma è Cersei a
intervenire. Cersei a
rubare l’attenzione della ragazza. «Stai bene,
cara?»
«Sì» Margaery china la testa con
rispetto.
Petyr vede la donna sorriderle, farle
un cenno di assenso con il capo, ma capisce che si tratta di una finta.
Cersei non sopporta Margaery. Si
chiede
se questa cosa possa volgersi a suo
vantaggio.
«Cosa fai qui, Ditocorto?»
Ora è a lui che si rivolge,
accarezzando la criniera leonina. Joffrey batte i piedi a terra, sembra
spazientirsi di quella scena, si fa avanti, e il Mastino con lui.
«Digli
di riportarmela, mamma. Digli
di riportarla qui subito.»
Il Cane avanza
verso di lui, fa
scrocchiare le nocche delle mani, e Petyr si irrigidisce. Sandor sembra
aspettare un ordine – forse una sola parola – per
colpirlo. Il suo sguardo è
molto chiaro: “ti farò a
pezzi.”
Un solo sguardo sbagliato e, Petyr ne
è certo, il Mastino metterà in pratica la sua
minaccia.
Ma Cersei
solleva una mano. Una mano,
liscia e pallida, dalle dita affusolate, e il mondo sembra fermarsi.
Margaery trattiene il respiro,
Joffrey si volta a guardarla, Sandor abbassa i pugni.
«Hai
sentito, Lord Baelish?»
dice, con voce chiara, muovendo le labbra in modo
sensuale mentre pronuncia quel nomignolo. «Joff la rivuole.
Hai passato diverso
tempo con lei… Riportala, e tutto questo sarà
dimenticato.»
«Tutto questo?» domanda Petyr.
«Il tuo divertimento… l’aver rapito Sansa. Andiamo,
Petyr…» spiega,
con tono suadente. «Quando mai una ragazza bella come lei
verrebbe con un tipo
come te?»
Il Mastino
sembra farsi di pietra.
«Sono
suo zio» ribatte Petyr,
schiudendo appena le labbra. «E non l’ho rapita.
È venuta al mio matrimonio, ha
vissuto con me e Lysa.»
«E tu vorresti farmi credere che lei
sia rimasta? Volontariamente?»
Cersei
posa una mano sul braccio di Joffrey, sorride, anche a Margaery.
«Con te e
Lysa?»
Cersei ride, suo figlio sembra
tranquillizzarsi, e Margaery rimane attenta e sorridente al fianco di
Joffrey.
Solo il Mastino sembra desiderare di essere altrove.
«Potresti
essere suo padre» ribadisce
lei.
«In tutto questo» la interrompe Petyr,
facendo un cenno con la mano. «In tutto questo non ho ancora
capito dove sia
mia nipote.»
«Lei non è Cat» sibila Cersei,
sollevando il mento. Il sorriso sembra essersi incrinato nel suo volto.
“Lei
non è Cat.”
“Lei
non è Cat…”
Cat.
«Non
so dove tu abbia sentito certe
storie, ma io ho sposato Lysa. Amo Lysa. Ed è stata proprio
Lysa a chiedermi di
riportare Sansa a casa» Petyr fa presto a riprendere
sicurezza. «Non la
riteneva al sicuro qui…»
Il bel viso di Cersei sembra
deformarsi, come quello di un leone intento a ruggire. «Ma
come osi… Non sai
chi ho sposato io, invece? Non sai quello che rischi? Clegane, sbattilo
fuori.
Ora.»
Il Mastino sembra tornare in sé. Sta
per afferrarlo per la collottola quando Petyr solleva le braccia.
«Ehi, ehi. Me ne vado da solo.»
È
alla seconda rampa di scale che
sente la voce di lei, lì dove non può
più vederla.
«Seguilo, Sandor. E riporta qui
Sansa.»
Ω
Ore intere. Il
treno attraversa
campi, radure, città. Londra non è mai sembrata
più lontana.
Jon è
di fronte a lei, intento a
guardare fuori dal finestrino. Da quando sono partiti, Sansa gli ha
sentito
pronunciare poche, strascicate, parole. Per lo più domande
sulla sua vita,
sulla sua storia con Joffrey.
Sansa ha preferito evitargli la
vergogna di conoscere la verità… Non gli ha detto
degli schiaffi, degli insulti,
dei lividi sul suo corpo. Non gli ha detto nemmeno di come Petyr
l’abbia
portata via, offrendole un riparo lontana da Joffrey. Ha evitato anche
di
parlare di Sandor… soprattutto di
quello.
È sicura che Jon la riterrebbe una
brutta persona se sapesse.
Penserebbe che è una poco di buono,
che… che se li sceglie tutti lei.
Sospira, si
accoccola contro il
sedile, e gli occhi del suo fratellastro si posano su di lei.
«Cosa pensi dirà Robb?»
Lei sorride. «Non lo so, ma immagino
quello che farà Arya. Arya! Farà i salti di gioia
quando ti vedrà.»
Non
si può dire lo stesso di me.
«Anche
con te.»
Sansa scuote la testa, giunge le mani
in grembo e riprende a guardare fuori.
«Sì, invece. Chissà quanto le sarai
mancata.»
La porta si
apre, a entrare è una
donna. Una donna rossa. A parte la
pelle, il resto di lei è rosso come il fuoco. I capelli sono
un groviglio
scomposto, l’abito è lungo ed elegante. Se non
fosse per il baluginio che Sansa
le legge negli occhi, troverebbe quella donna bellissima.
Invece ha solo paura.
«Vi
disturbo?»
Jon le fa cenno di no, invitandola a
sedersi. Sansa accenna un sorriso, il migliore che le riesca di fare.
«Dicono che il tempo sarà tremendo a
Londra, questi giorni…» mormora.
«Sta andando a Londra?» domanda Jon,
chinandosi in avanti. Al cenno di assenso di lei, si sente invitato a
continuare. «Anche noi.»
«Motivi famigliari?»
«Proprio così. Non vedo i miei
fratelli da molto tempo. Saranno cresciuti ormai.»
La donna rossa
allunga le labbra,
sembra sorridere, ma Sansa legge altro sul suo viso. «Uno di
loro potrebbe
essere… spezzato.»
Sansa e Jon si voltano entrambi a
guardarla. Non riescono a capire.
«Spezzato?»
«Tutto a tempo debito, tutto a tempo
debito» dice, alzandosi in piedi. Non sembra intenzionata a
rimanere oltre.
«Riguardati dalle ombre di tua sorella» aggiunge,
rivolta a Jon.
«Prego?»
Sansa sembra accigliarsi.
«Ci conosciamo?» chiede lui, facendo
segno a Sansa di tacere.
«Forse.»
«Eppure io so di non averla mai
vista, signora. Signora…?»
È un sussurro. Lo pronuncia prima di
uscire. «Tu non sai niente, Jon Snow.»
Ω
Il Mastino al
volante è uno
spericolato.
Petyr guarda la sua auto parcheggiata
fuori dal suo attico, affacciandosi alla finestra che divide con Shae.
È stata
lei a chiedergli di parlare.
«Non ho dovuto fare niente. Robin
pensa solo a giocare.»
Lui inclina la testa e sorride.
«Meglio così» mormora, prima di
allontanarsi.
Lysa
è a letto, imbottita di
medicine. Pycelle lo sta aspettando nello studio, in quello studio dove
solo
lui, Petyr, è autorizzato a entrare. La prima cosa che fa
è raggiungere il
vecchio. Vuole chiarire quella storia.
Vuole sapere.
«Rieccomi,
amico mio» Fa il suo
esordio chiudendosi la porta alle spalle. Lo trova accomodato sul
divano. «No,
no, rimani comodo. Mi fa piacere sapere che la tua schiena è
migliorata.»
Pycelle borbotta qualcosa di
incomprensibile.
«Dovevamo finire il mio racconto,
ricordi?»
Petyr si versa da bere, vorrebbe
offrirne anche al vecchio, ma lo vede rifiutare.
«Insomma,
io vengo cacciato da Cat –
la mia amata Cat – e Lysa
si sposa
con un altro. Lo conoscevi, giusto?» Eravate
amici, pensa. Dillo che
è così. «Ma
non ha mai smesso di amarmi… Qualche anno fa, prima che la
dolce Cat perisse in
un incidente, è stato il turno del paparino. Infarto, hanno
detto i medici. Tu
sei un medico, giusto?» Il sorriso di Petyr fa voltare il
capo a Pycelle. «Sai
com’è facile che il cuore ceda con
un’età avanzata…»
Si avvicina lentamente, poi gli siede
accanto. Sul bel divano di pelle nera, scostando un paio dei bei
cuscini
ricamati. Sono circondati da merletti bianchi, e Lysa è
sempre stata
attentissima a non sporcarli.
«Poi
è stato il turno di Ned Stark. E
di Cat» Qui la sua voce tradisce una certa emozione.
Rammarico, forse? «In
realtà, quel giorno in auto avrebbe dovuto esserci solo
Eddard… Cat decise
all’ultimo minuto di andare con lui.»
Pycelle si fa lontano, rintanandosi
nell’angolino del divano. Allora Petyr si alza, un cuscino
tra le mani, cammina
per la stanza. Raggiunge la porta.
«Io come potevo saperlo?» sussurra,
girando la chiave nella toppa. «Avrei agito
altrimenti.»
Pycelle sgrana
gli occhi, rivolge lo
sguardo ai muri spessi – insonorizzati
–
che Lysa ha insistito tanto per avere.
«Cat dovrebbe essere viva, adesso.»
Fuori, il cielo sembra tingersi di
grigio. Un grigio che si riflette anche negli occhi di Petyr.
«Dovrebbe
essere qui, con me, al
posto di Lysa.»
Pycelle si alza
di scatto, pone le
mani davanti a sé. «Io… io, non
dirò niente.»
Un gesto, la richiesta di sedersi, e
il vecchio si lascia cascare sul divano. Petyr dritto davanti a lui, i
merletti
del cuscino stretti tra le dita.
«Che
altra scelta mi rimaneva? Lysa
era sposata…» dice, muovendo il capo in maniera
teatrale. «Ciò che ti ha
riferito è vero, Gran Maestro.
Si è
liberata di suo marito.»
Solleva la nuvola bianca ricca di
ricami, resta a osservarla un istante.
«Le ho detto io di farlo» sussurra,
chinandosi sul vecchio, premendogli il cuscino sulla faccia. Lo spinge
giù, sul
divano, digrigna i denti mentre lo sente agitarsi, mentre le mani
rugose
cercano un appiglio; carica il peso di tutto il corpo sulle mani e
calca sulla
stoffa.
Petyr sente una
scarica di adrenalina
e, pensa, vorrebbe che Sansa fosse lì, insieme a lui. Lei
non approverebbe,
lancerebbe un gridolino e si coprirebbe il viso con le mani. Magari lo
implorerebbe di smetterla…
La verità è che non può farlo. Non
può interrompersi, non può permettergli di
vivere, di raccontare ciò che Lysa
ha fatto. Ci andrebbe di mezzo anche lui, i suoi contatti, il suo
futuro. Il
suo sogno.
Significherebbe rinunciare a Sansa, e
questo, Petyr, non vuole farlo.
Quando le
braccia di Pycelle ricadono
sul divano e il suono disgustoso della sua bocca termina, Petyr rimane
un
istante immobile, contempla la sua opera con un brivido,
finché non solleva il
cuscino. Lo getta dietro il divano, corre ad aprire la porta e comincia
a
gridare.
«Aiuto! Un medico, chiamate un
medico!» si porta una mano sul petto mentre lo dice, mentre
Shae spalanca la
porta e rimane a fissarlo. «Un colpo. Gli è venuto
un colpo… Chiama qualcuno,
Shae. Fai venire qualcuno.»
I suoi pensieri
corrono a Sansa. Dove sei andata?
Perché, Sansa? Perché sei
fuggita via? Se qualcuno potesse sentirli, o vedere
l’eccitazione che
prova, si ritroverebbe in manette nel giro di pochi minuti.
Ma il suo volto è una maschera di
tristezza.
«Digli di fare in fretta, Shae»
aggiunge. «È probabile che io domani debba
partire.»
Dove
può essere andata, se non dai
suoi fratelli? Magari dal bastardo di Ned Stark, nel nord…
o, forse, è più
probabile che abbia raggiunto gli altri nel sud.
L’unico che possa aiutarlo è anche
l’ultimo uomo disposto a farlo… Il Mastino.
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Capitolo 17 *** Londra ***
Capitolo 17
A F.,
che ha saputo apprezzare ciò che io nemmeno capivo.
Trailer
n sospiro e scende dal treno.
Sansa si guarda intorno, osservando
la gente che affolla la banchina della Waterloo Station: loro non ci sono.
Non possono esserci. Non sanno del loro
arrivo, non si aspettano di rivederli.
Ricorda i loro nomi. Robb, Arya, Bran
e Rickon.
Sente l’emozione crescere a ogni
sillaba, mentre li ripete nella sua mente. Poi vede Jon: è accanto a lei.
«Andiamo?»
Sansa annuisce. Se solo sapessi dove.
Camminano fianco a fianco, escono
dalla stazione e la coltre di nebbia che li colpisce spinge Sansa a sfiorarsi
le labbra. È ormai sera, e devono ancora raggiungere la Queen’s Walk e aggirare
Jubilee Gardens. Jon ha parlato di un appartamento vicino all’acquario…
Nebbia.
Il cortile dell’università. Poi, quel nome. Sandor.
E loro due chiusi in macchina, con il
Mastino che si stava preoccupando per lei, che la stava implorando di restare…
di non entrare in quel palazzo, di non bussare alla porta di Joffrey, di non
farsi del male. Non di nuovo…
Il bacio.
Un bacio durato un solo istante, un
bacio che Sansa aveva desiderato per giorni. Un bacio che era partito da lei,
che lei aveva voluto.
Da quando prendeva l’iniziativa?
Quando era stata l’ultima volta che aveva baciato qualcuno?
Niente attesa, niente tensione in
attesa di un contatto, aspettando una mossa da parte di qualcun altro.
Solo un brivido.
Poteva riassumerlo così: un brivido
che l’aveva attraversata mentre agiva, quasi senza accorgersi di ciò che stava
facendo… Ed ecco, in un attimo le sua labbra erano su quelle di lui, le sue
mani sul suo volto sfigurato.
Non si era preoccupata della
cicatrice e, ora, mentre ci pensa, mentre cerca di rivivere quel momento, Sansa
non riesce a ricordarsi di aver provato ribrezzo scostandosi da lui, guardando
i segni sul suo viso.
Niente. Solo pace. Solo desiderio.
«Sansa» la chiama Jon, ignaro dei
suoi pensieri. Se solo sapesse… «Da
questa parte.»
«Sei già stato a Londra?»
«No, ma non è difficile orientarsi
una volta che ci sei abituato.»
Il sorriso che le rivolge la fa
vergognare. Dei suoi pensieri, del bacio dato al Mastino, di quello ricevuto da
Petyr.
Petyr.
Dio
mio, Petyr. Lui non sa che sono qui.
Ma è ormai sera, i lampioni
illuminano la Queen’s Walk come tante sfere di luce, allungandosi verso gli
alberi che, di giorno, adombrano le panchine. Non è l’ora adatta per chiamarlo.
«Sai» prosegue Jon, mentre superano
un incrocio, trovandosi ad affiancare il Tamigi. C’è un battello nel fiume, lei
lo guarda scivolare sull’acqua. «Da quando ve ne siete andati ho viaggiato
molto. Ricordi zio Benjen? Mi ha ospitato in Irlanda.»
Sansa sgrana gli occhi.
«Che cosa? Ero convinta che fosse
morto!»
Jon scuote la testa. «Era una casa
troppo grande per me solo. Ero… tentato
di venire al sud, da Robb, trovarmi qualcosa qui, ma poi ho conosciuto Tormund
e abbiamo preso a viaggiare. È stato all’estremo nord che ho sentito parlare
dello zio. Una conoscenza in comune. E in un attimo mi sono ritrovato suo
ospite in Irlanda…»
Sansa lo guarda stringersi nelle
spalle.
«Chi è Tormund?»
Allora Jon si volta e i loro occhi si
incontrano. Solo adesso lei si rende conto che si sono fermati, che hanno
passeggiato sulle rive del Tamigi, a un passo dai loro fratelli. Si chiede cosa
sia accaduto, nel nord, per trasformarlo in quel modo.
Non è più il ragazzo che tirava palle
di neve contro Robb, non è più quello che stringeva Arya, sollevandola al
cielo.
È cambiato, diverso, non solo
nell’aspetto.
«Un amico.»
Non è una risposta sufficiente, ma
Sansa annuisce e riprende a camminare. C’è qualcosa di strano in lui, come se
avesse fatto o vissuto cose di cui non vuole parlare. Non più.
Forse, si dice, se un tempo fosse
stata diversa, se fosse stata più simile ad Arya, ora lui direbbe la verità, si
confiderebbe con lei.
Non
ho da lamentarmi, pensa. Anch’io gli sto nascondendo delle cose…
Forse
per lui è lo stesso. Forse non sa se fidarsi di me.
C’è tanta bellezza davanti a lei. Le
luci di Londra, la scalinata che scende fino al London Film Museum, il Big Ben
che affianca il Parlamento, e il meglio di tutto: l’acquario, che sembra
essersi trasformato nel simbolo della famiglia, di casa, di Robb, Arya, Bran e
Rickon. Degli Stark.
«Stai sorridendo» dice Jon,
allungando le labbra. Sente la sua presa intorno al braccio. «Anch’io sono
felice di vederli.»
«Non pensi che avremmo dovuto
chiamare? Proprio non ci aspettano…»
Scendono la scalinata che deve
riunirli alla famiglia, e il passo di lui si fa più leggero, come se si
sentisse benissimo. Sansa prova lo stesso.
«Per questo» dice Jon, indicando la
via in cui si trova il palazzo. «Sarà una sorpresa.»
«E se non rispondessero?» chiede
Sansa, più a se stessa che a lui. «È molto tardi.»
Lui si ferma un gradino sotto di lei,
le prende le mani. Sorride.
«Ce la caveremo.»
A un tratto Sansa si sente
tranquilla. Niente può andare male, non stasera, non nel momento in cui deve
rivedere i suoi fratelli. Le sono mancati, tutti, e non vede l’ora di poterli
riabbracciare. Uno a uno, godendo dei loro sorrisi, dei loro sguardi, di ciò
che hanno vissuto lì, lontano da lei.
E
io? Gli sarò mancata? Mi avranno pensato?
Ricorda Petyr, le sue promesse, la
protezione che le ha offerto. Il suo bacio controllato, proprio quando non
avrebbe dovuto… E Sandor, che l’ha avuta con gli occhi, con il sapore di una
sigaretta, con fragili parole che l’hanno portata a baciarlo.
Non sa con chi vorrebbe condividere
quel momento…
Forse nessuno.
Nessuno a parte Jon.
«Di qua» dice lui, guidandola fino a
un portone grigio, con un anello di ferro smaltato di bianco. Qui vivono loro.
Lo sente. «Sei pronta?»
Sansa vede il dito di Jon appoggiato
sul citofono ed emette un lungo sospiro prima di annuire.
«Chi è?» la voce all’interfono suona
leggermente contraffatta, eppure Sansa vede Jon sussultare.
«Arya?» domanda, quasi con timore.
«Sei tu?»
Silenzio.
Poi, come se temesse di svegliare
qualcuno, sussurra: «Jon.»
«Jon? Sei davvero tu? O è uno
scherzo? Gendry, se è uno dei tuoi scherzi scendo e ti prendo a calci.»
«Chi è Gendry?» si intromette Sansa,
avvicinandosi al microfono.
«Ma chi c’è?» La voce di Arya è quasi
timorosa. E forse è quello a dare coraggio a Jon.
«Arya, apri. Siamo noi: Jon e Sansa.
Abbiamo viaggiato in treno per ore.»
Si scambiano uno sguardo, e lei si fa
avanti. «Avanti, Arya. Chiama Robb e apri questa porta. Siamo stanchi di
giocare.»
Arya sbuffa. «Puff. Allora sei
proprio Sansa.»
Il portone viene aperto, Jon sorride,
spingendo con entrambe le mani, e le fa segno di seguirlo. Stanno per salire le
scale quando lei nota l’ascensore.
«Il piano!» gridano entrambi,
scoppiando a ridere.
Non sanno a quale piano salire… Ma
sono così felici da essere pronti a bussare a ogni porta, pur di trovare quella
giusta.
Poi sentono delle voci dal primo
piano, qualcuno che scende le scale, la luce che viene accesa…
E Robb è lì.
Arya è con lui, aggrappata alla
ringhiera di ferro. Sta tremando, Sansa può vederlo chiaramente.
«Arya…» sussurra, finché non vede Jon
correre per le scale.
Resta a guardarli, i suoi fratelli, mentre si riuniscono.
Mentre la figura elegante di Robb scende, e i suoi occhi azzurri incrociano
quelli di Jon; mentre Arya continua a reggersi alla balaustra, come se le gambe
non fossero in grado di sostenerla.
A Sansa sembra di vederle gli occhi
luccicare, ma non sa se sia possibile… Arya è sempre stata così dura, così
determinata… non riesce a credere che stia per piangere.
Pochi gradini che sembrano dividere
in due il mondo.
Da una parte c’è lei, Sansa, in fondo
alle scale, con Jon che le sta salendo a due a due, file interminabili di granito
che separano chi è rimasto solo troppo a lungo da chi ha preferito restare in
branco.
Ora
il branco è riunito, pensa Sansa. Come vorrebbe nostro padre.
Robb è il primo a raggiungere Jon, lo
stringe con forza, e lei gli vede chiudere gli occhi, come se vederlo non
bastasse, come se, per ricordarlo, per viverlo,
non fosse sufficiente un abbraccio.
È il mondo a essersi riunito. È la
metà della mela, che si è riunita all’altra parte, che li ha fatti rincontrare.
Poi è il turno di Arya.
Sansa rischia di perdersi quel
momento, perché Robb la sta raggiungendo. Ma non vuole, non vuole rischiare di
non vederli, di perdersi le lacrime di sua sorella, i gesti impazienti di suo
fratello.
Avviene in modo molto diverso da
com’è successo con lei. Non si corrono incontro, non si stringono solo a
vedersi.
Restano a studiarsi, come due
avversari, come se la pioggia avesse bagnato il viso di Arya, e non il pianto.
Come se avessero bisogno di riconoscersi, di guardarsi, di capire cosa ci sia di
diverso nell’altro.
E poi accade.
I singhiozzi di Arya sono
all’orecchio di Jon, eppure Sansa li avverte dal fondo delle scale, mentre Robb
la attira a sé, stringendola, mormorandole parole di affetto.
«Venite a riposarvi» dice Robb,
accarezzandole una guancia. «Domani vedrete Bran e Rickon.»
Perché
non ora? Vorrebbe chiedere Sansa.
«Sei identica a nostra madre» le
sussurra Robb. «Sono felice di vederti.»
È mattina.
Sansa apre gli occhi, osserva la luce
filtrare dalla finestra, oltre la tenda di raso. Intorno a lei è il caos: lo zaino di Jon, la sua sacca, le
loro giacche. E pile traballanti di dischi, libri sparsi sui mobili,
giocattoli… Sorride e pensa a sua madre, a Catelyn, che odiava il disordine.
Che non li lasciava uscire se, prima, non l’avevano aiutata a rassettare…
E
le occhiate che lanciava a Jon… Con lui era diversa.
Sbadiglia, scosta la coperta e scende
dal divano – è lì che Arya ha insistito
per farla dormire – ripensa a Robb, che voleva mandarli in albergo per
mancanza di spazio.
E Arya… Arya che aveva guardato anche
lei, Sansa, forse pentendosi delle loro litigate. Arya che aveva passato la
serata a piangere, con la mano di Jon sulla schiena e i rimproveri di Robb
nelle orecchie.
“Rischi
di svegliare Bran.”
“Come
sta Bran?” Era stato Jon a chiederlo per primo.
E i loro fratelli… loro si erano
guardati. Arya aveva persino smesso di piangere.
“Lo
vedrai domani.”
Ma Sansa aveva provato paura per
quella risposta. E ora, ora che manca poco al loro incontro, al rivedere Bran e
Rickon, si sente impaziente. È sola in quel salotto disordinato, mentre Jon ha
dormito nella camera di Robb.
E poi, un momento prima di uscire da
quella stanza, gli occhi di lei si posano sulla sua borsa.
E improvvisamente ricorda.
Prende il telefono, lo riaccende,
trova le chiamate di Petyr, i suoi messaggi, e non li legge nemmeno. Lo chiama.
Sarà preoccupato, e non è giusto, non
è giusto essere sparita senza avergli detto niente, senza avergli fatto sapere
dove sarebbe andata. Lui c’è stato per lei… L’ha protetta, le ha dato un tetto
quando non aveva modo di ripararsi, attenzioni quando nessun altro era disposto
a dargliele.
Quando il cellulare smette di
squillare, e un respiro grave è all’altro capo, lei sente che qualcosa non
torna.
Non è il respiro di Petyr, non è lui
dall’altra parte, non sentirà la sua voce… È tentata di interrompere la
chiamata, ma poi la curiosità è troppo forte. O forse la paura, paura per lui,
per non sapere dove si trovi…
«Petyr?»
«Ciao, uccelletto.»
«Sandor!?» Sansa balza in piedi.
«Questo non è il tuo telefono.»
«Sempre più sveglia, uccellino…»
Poi sente uno strano rumore, come il
rombo di un auto.
«Passami il telefono!» è un’altra
voce.
E qualcosa che assomiglia a una
zuffa, una specie di colpo, ma è tutto troppo confuso, e alla fine la
conversazione sembra interrompersi. Sansa allontana l’apparecchio, lo osserva
come se non capisse, e quando lo riavvicina c’è di nuovo una voce.
«Ma che succede?» domanda, portandosi
una mano alla gola.
«Stiamo venendo a prenderti.»
Ω
È l’alba.
Il medico legale ha ufficializzato la
morte di Pycelle la sera prima. Non c’era niente che potesse fargli richiedere
l’autopsia, così, sul suo certificato di morte, Petyr è riuscito a scorgere la
scritta “morte naturale”.
E ora, mentre scende le scale di casa,
dopo aver chiesto a Shae di restare a controllare Robin e Lysa, pensa al
Mastino, e spera che la sua auto sia ancora parcheggiata lì fuori.
Non poteva certo uscire di notte a
cercarlo… A chiedergli dove si trovi Sansa, a proporgli di collaborare per ritrovarla.
In fondo, per quanto Joffrey, Cersei
e Sandor sappiano dove sia, deve mancargli un tassello… O Cersei non avrebbe
detto “Và con lui, riporta qui Sansa.”
Si sarebbe limitata a mandare il suo Cane fedele a riportarle l’osso.
Un boccone succulento per il suo
cucciolo.
C’è
ancora.
Vede la BMW nera, illuminata dai
primi raggi del sole. E si avvicina.
Il Mastino sta dormendo seduto sul
sedile dell’autista, sul lato destro dell’auto. Ma non sta dormendo, ha un
occhio aperto.
Allora lui aggira la macchina, bussa
al finestrino.
«Sei rimasto qui fuori tutta la
notte» afferma, riconoscendo una scintilla di rabbia nei suoi gesti, una volta
che lo sportello è stato aperto. «Posso sapere perché?»
Sandor accarezza il volante e
distoglie lo sguardo. «Vogliamo la stessa cosa, Ditocorto. Riportare la ragazza
a casa.»
Già,
ma quale casa? La mia o quella di Joffrey?
«Io non so dove si trovi.»
«Ma io sì.»
Petyr si guarda intorno, sorride, uno
di quei sorrisi che Sansa comprende così bene…
«E io a cosa ti servo? Se già lo
sai…»
«Sali in macchina» lo interrompe il
ringhio di Sandor. «O dovrò farti salire con le maniere forti.»
«È questo che ti ha ordinato la cara
Cersei?» Petyr continua a sorridere, e guarda il pugno del Mastino abbattersi
sul cruscotto. «Potrei non esserti di nessun aiuto così…»
«Intendi a pezzi? Di nessun aiuto, se
fossi ridotto in tanti pezzettini dentro il bagagliaio?» Sandor non fa nemmeno
l’atto di scendere, ride, trasformando la cicatrice in un segno orrendo. «Non
tentarmi, Ditocorto.»
Petyr inclina la testa, solleva un
angolo della bocca e sta per salire in macchina, quando si ferma.
«E ora che c’è?» domanda il Mastino,
con il brutto muso arrabbiato.
«Se accetto di aiutarti, voglio
guidare io» afferma Petyr, tornando davanti allo sportello aperto. Incrocia le
braccia al petto. «Almeno questo.»
«Scordatelo.»
«E allora niente. E niente me
significa niente Sansa.»
Lentamente, si avvia verso casa,
arriva fin quasi al portone… e la voce arrochita di Sandor lo ferma.
«Torna qui, maledizione!»
Petyr fa pochi passi, vede la figura
imponente del Mastino sporgersi fuori dall’auto.
Fa un gesto molto chiaro, come a
domandargli: mi lascerai guidare?
«E va bene» accetta Sandor, salendo
dalla parte del passeggero. «Ma al ritorno non aspettarti lo stesso
trattamento.»
Lo
so,
pensa Petyr. Al ritorno speri di essere
solo con Sansa. Speri che io venga in treno, o, magari, che sia morto… chissà.
Possono accadere tante cose.
«Allora?» domanda, salendo dalla
parte destra dell’auto. «Cosa sai? Dov’è?»
Ma
soprattutto: perché vi servo?
Il Mastino non sembra incline a
parlare, deve fare uno sforzo enorme per distogliere lo sguardo e aprire bocca.
«È stato quel suo fratello bastardo» dice. «Ha parlato di Londra.»
Londra.
Dove vivono i figli di Cat.
«E cosa posso fare per te?»
Dal modo in cui lo vede agitarsi,
Petyr capisce che è accaduto qualcosa. Qualcosa di cui nemmeno Cersei è a
conoscenza… «A Londra vive suo fratello.»
«Se sai dov’è…»
«Non so dov’è. E non posso
presentarmi laggiù a chiedere di lei.»
Già…
Se fossero a conoscenza di ciò che Joffrey ha fatto a Sansa, non te la
passeresti bene… E non la troveresti.
«Quindi vuoi che io, in quanto zio, lo faccia al posto tuo.»
Per
poi lasciarmi a bocca asciutta.
Allora Sandor si volta, lo guarda
negli occhi. È davvero successo qualcosa, ora Petyr ne ha la certezza. Sansa è
bella, è possibile che un mostro come il Mastino si sia invaghito di lei? Che
la voglia per sé e non per darla a Joffrey?
No,
si dice. È un cane fedele.
«Se decidessi io, ora viaggeresti nel
bagagliaio» E, dal modo in cui lo dice, Petyr sa che è la verità.
«Intendi dove si tengono i cani?»
Sandor sembra trattenersi dal
strangolarlo, qui e ora. «Sentimi bene: quando la ragazza sarà di nuovo qui, dovrai
finirla con le stronzate.»
Petyr inclina la testa e sorride.
Sono in viaggio da due ore sulla A1
road. Ne mancano almeno tre prima di arrivare a Londra.
Poi, il cellulare di Petyr inizia a
suonare, e lui sa con certezza chi lo sta chiamando.
Sapevo
che mi avresti cercato, Sansa.
«Chi cazzo è?» sbotta il Mastino, al
suo fianco. Il telefono di Petyr è davanti a lui, nel cruscotto.
«Ora mi fermo e vediamo.»
Ma Sandor non gli lascia il tempo…
Afferra l’apparecchio, vede il nome sullo schermo e uno strano sorriso si forma
sul suo volto sfigurato. Un sorriso che si trasforma presto in collera.
«Non rispondere» gli intima Petyr,
cercando una zona di sosta. «Sto per fermarmi.»
Ma è troppo tardi.
«Ciao, uccelletto.»
Uccelletto?
Pagherebbe per sapere cosa stia
dicendo lei.
«Sempre più sveglia, uccellino…»
Finalmente, ecco un posto dove
fermarsi. Petyr accosta, gridando: «Passami il telefono!»
Spegne il motore e fa per togliere il
cellulare dall’orecchio di Sandor. La mano del Mastino è sul suo braccio, lo
stringe così forte da fargli mollare la presa, e l’apparecchio cade in grembo
al cane.
«Non riprovarci» ringhia, a voce
bassissima.
Petyr si massaggia il punto dolente,
e lo guarda riprendere la conversazione con lei.
«Stiamo venendo a prenderti.»
Che
le abbia fatto qualcosa? Per questo è fuggita?
«No, ragazzina. Non lo farai.
Resterai ferma ad aspettarci, è chiaro?»
«Fare cosa?» chiede Petyr in un
sussurro.
Ma poi capisce da solo: crede che ci sia Joffrey con lui… Vuole
andarsene.
Poi Sandor gli lancia il telefono in
modo brusco, tanto che lui deve chinarsi con due mani per afferrarlo.
«Sansa?»
«Petyr? Stai bene?» mormora, e lui
capisce che sperava di sentirlo.
«Cos’è successo? Perché sei andata
via in quel modo?»
Vede il Mastino osservarlo in malo
modo, come se fosse geloso.
«Io… Jon è venuto a prendermi. Siamo
a casa di Robb ora» sussurra, come se temesse di farsi sentire. «Chi c’è con
te? A parte Sandor.»
“Sandor.”
Da quando lo chiama così?
«Nessun altro» dice, appoggiando il
gomito al finestrino. «Siamo solo noi.»
Sente un respiro di sollievo da parte
di lei, e vorrebbe averla davanti, vorrebbe portarla via dalla città, via da
Londra, lontano dal mondo, in un posto da dividere con lui soltanto.
Chiude gli occhi, cerca di immaginare
i suoi capelli rossi, ma è un’altra la sfumatura che vede, un’altra la chioma
che sogna.
Cat.
«Sandor ha detto che state venendo a
prendermi» prosegue lei. «Perché?»
A questo Petyr non aveva pensato.
Cosa dirle?
«Lui non so cosa voglia» mente,
lanciandogli un’occhiata fugace. «Ma io voglio sapere che stai bene.»
«Sto bene» dice Sansa, stroncando i
suoi progetti sul nascere.
«Vorrei accertarmene personalmente.»
Lei sembra cercare le parole… «Non
c’è bisogno, Petyr. Davvero. Bada a zia Lysa, nient’altro. Ti chiamerò io di
tanto in tanto…»
«Che dici, Sansa?» chiede, intuendo
ciò che desidera. «Non vorrai restare a Londra, vero?»
Una pausa. Un secondo di troppo, e la
risposta è già ovvia.
«A dire il vero ci sto pensando, sì.»
Petyr vede il suo progetto crollare
come un castello di carte.
Ha mille domande in testa, vorrebbe
chiederle di lui, di loro, della casa, dell’università… Vorrebbe sapere cosa
pensa, cosa vuole, cosa sia accaduto con il Mastino, e perché non ne abbia
parlato con lui… Ma non dice niente di tutto questo.
Non sorride, stranamente non riesce a
farlo, nemmeno per trarre in inganno Sandor, intento a studiare le sue
espressioni.
Stringe i denti e poi parla.
«Permettimi di vederti, Sansa» mormora, quasi come un’invocazione. «Permettimi
di sapere che stai bene, che starai bene lì, a Londra.»
Senza
di me.
«E va bene» la sente dire, ma non sa
a cosa stia pensando, se sia per lui, per il Mastino, o solo perché non ha
voglia di lottare, di opporsi alla sua supplica. «Ma non cercare di farmi
cambiare idea, Petyr. Non ci riusciresti.»
«Non oserei mai…»
Note
dell’autrice:
Dunque, confesso che l’incontro
sarebbe dovuto avvenire già nel precedente capitolo… Ma Pycelle si è divertito
a rubare spazio ai miei piccoli Stark, e abbiamo dovuto rinviare. Idem, come
sopra, anche in questo capitolo avevo programmato di inserire più cose – molte più cose – tant’è che la
permanenza a Londra sarebbe dovuta durare giusto un capitolo o due.
Avete presente quei libri – testi interi – dove tutta la storia si svolge
nel giro di un paio di giorni? Ecco, se pensate a quelli non dovreste avere
problemi ad accettare i miei capitoli. XD
Sono successe tante cose dall’inizio
della storia, quindi grazie, grazie perché siamo al capitolo diciassette e
siete ancora in tanti a seguirla. GRAZIE.
Celtica
|
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Capitolo 18 *** Di rosso ***
Capitolo 18
Chiedo
scusa.
Per
essere sparita, per aver dato l’idea di abbandonare la storia.
Non
è così.
Ma
posso impegnarmi perché non ricapiti.
Spero di farmi perdonare, almeno in parte, con questo
capitolo (intriso di ship).
uarda il viso di Jon e capisce che è
solo il riflesso del suo.
Anche lei è in lacrime, inorridita da
ciò che è capitato a Bran. Poi solleva gli occhi su Robb e aspetta.
«Un incidente» ripete lui, prendendo
la mano di Sansa. «Non potrà più camminare…»
«Non preoccupatevi» dice Bran. «Ormai
ci ho fatto l’abitudine. Non è poi così male…»
Jon lo abbraccia, chinandosi sulla
sedia a rotelle. «Chi è stato?»
Ma Robb scuote la testa. «Non lo
sappiamo, non con certezza.»
«Che significa?» chiede Sansa,
guardando Arya, seduta sul divano in fondo alla stanza. «Avete dei sospetti?»
Arya abbassa appena il capo, ma la sua
espressione dura non cambia.
È come se sapesse qualcosa che non
vuole dire, come se volesse risolvere tutto da sola.
Sansa attraversa la camera tappezzata
di bianco, dal pavimento grigio, dove i libri sono presenti in ogni angolo.
«Posso aiutarti» sussurra a sua
sorella. «Se mi dici quello che sai.»
Arya la guarda per un istante prima
di parlare. «Posso pensarci da sola.»
Robb batte le mani, e tutti gli occhi
si spostano su di lui. «Basta parlare di queste cose. Stasera…»
«No.»
Somiglia a un ringhio, ma è la voce
di Jon, e Sansa pensa di non riconoscerlo mentre lo vede alzarsi in piedi.
«Perché non me l’hai detto? Sarei
corso qui. Avrei potuto aiutare.»
Lei vorrebbe dire le stesse cose, ma
qualcosa la trattiene. Sa che Robb ha voluto proteggerli… sa che ha preferito
accollarsi ogni ingrato compito, ogni momento di disperazione, e prova
dispiacere per Arya, indurita a tal punto da sembrare un’altra persona.
Quando Robb sta per parlare, Sansa fa
un passo avanti.
«Jon» chiama, sollevando il mento. Robb
si volta verso di lei. «È inutile parlarne. Ormai è andata così… Ma possiamo
renderci utili, ora che siamo qui.»
So
quello che provi, vorrebbe dirgli.
«Ho bisogno di sapere» insiste Jon.
Lei ripensa al treno… “Tu non sai niente, Jon Snow”, “Uno di loro potrebbe essere spezzato”…
“Riguardati
dalle ombre di tua sorella.”
Quella donna dai capelli rossi ha
detto la verità: hanno trovato un fratello spezzato ad aspettarli…
Ma quali ombre potrebbero far del
male a Jon? Quali ombre circondano Sansa?
«No, non ne hai bisogno» ribatte lei.
Hai
bisogno di restare lontano da me, se ciò che ha detto è vero.
«Sansa…»
«No, Jon, sai che è così. Ci siamo
ritrovati. Finalmente siamo insieme,
e tu vuoi discutere? Non te lo permetto.»
Robb si interpone tra loro, mentre
Arya resta in silenzio a guardarli.
«Sono felice di avervi qui» dice,
voltandosi verso Jon. «Davvero. Siete la mia famiglia, e se non vi ho detto
niente è stato per non farvi preoccupare. Avevate la vostra vita e sapevo che
raccontarvi di Bran ve l’avrebbe portata via.»
Sansa è tentata di abbracciarlo, ma
si trattiene.
Vuole solo trascorrere il resto della
giornata con i suoi fratelli, il resto della sua vita al loro fianco.
Non le interessa tornare indietro,
riprendere a studiare. Solo restare uniti. Insieme.
C’è stato un tempo in cui ha
rischiato di dimenticarli, in cui ha dato più importanza a Joffrey che alla sua
famiglia.
C’è stato un tempo in cui ha creduto
di poter fare a meno di loro, di averli persi.
Ora sa che non è così.
«Usciamo» propone, guardando Robb.
«Mostrateci Londra.»
Suo fratello annuisce, mentre Jon si
abbandona sul divano accanto ad Arya.
«Per stasera ho già organizzato. Non
vi annoierete.»
Jon solleva gli occhi su di lui:
sembra aver perso ogni voglia di vivere. «Non siamo venuti qui per divertirci.»
«Ma lo farete» dichiara Robb,
drizzando la schiena. «Non si può venire a Londra e restare in casa. So già
dove portarvi.»
Arya sposta il peso del corpo sul
bracciolo del divano. Sbuffa. «Non al solito posto.»
«Proprio quello.»
Ω
Sandor è impaziente.
Petyr è sicuro che se fosse da solo,
irromperebbe in casa Stark per portare via Sansa. Magari se la caricherebbe in
spalla, spintonando i suoi fratelli, e riportandola da Joffrey.
Non può permetterlo.
È ormai sera, e per tutto il giorno
sono rimasti insieme. Senza di lei.
I fari delle auto illuminano la
figura imponente del Mastino, appoggiato all’angolo del vicolo con le braccia
incrociate. Non riesce più ad aspettare.
«Calmati» mormora Petyr, in piedi di
fronte a lui.
«Calmati un cazzo. Dovrebbero essere
già arrivati. La ragazzina ci ha fregato.»
Sansa? Ingannarli? Si vede che non la
conosce per niente…
Petyr sorride, mellifluo. «Ha mandato
l’ultimo messaggio due ore fa… Arriverà.»
Ma il Mastino ha uno sguardo
assassino e, forse, se Sansa dovesse arrivare in quel preciso momento, non
sarebbe al sicuro. Non con lui.
Petyr è quasi tentato di andarsene,
di riportarlo in albergo, dove hanno prenotato due stanze nel pomeriggio.
Ha capito subito che le cose
sarebbero andate per le lunghe, che Sansa non avrebbe ceduto facilmente… e il
fatto di aver rimandato il loro incontro a quella sera, è un segnale fin troppo
chiaro circa le sue intenzioni.
Vuole restare a Londra. E
preferirebbe non vederli. Né lui, né Clegane.
Ma sa che non può evitarli, sa che
non andranno via finché non avranno parlato.
Per questo ha scritto, dando loro appuntamento
in quel locale affollato, dove saranno presenti anche i suoi fratelli.
«Basta» ringhia il Mastino, facendo
alcuni passi verso la strada. «Andiamo a prenderla.»
È la cosa peggiore che potesse dire.
Petyr sta per fermarlo, per
convincerlo ad aspettare, ma poi riconosce qualcuno nel parcheggio vicino: è
Sansa.
E come si era aspettato, ha con sé
tutto il branco. Mancano solo i due fratelli più piccoli.
Anche Sandor la vede, e fa l’atto di
raggiungerla.
«Fermo» Petyr lo prende per un
braccio, rischiando di beccarsi un pugno. «Ha chiesto di lasciarli entrare, di
non farci vedere. Non subito.»
Spaventarla – o irritarla, che sia –
non servirebbe ai loro piani.
Meno di un minuto è il tempo
sufficiente: eccoli entrare. Il bastardo del nord che tiene la porta, gli altri
che seguono.
Fa un cenno al Mastino con la testa,
per dirgli di andare, anche se Petyr è tentato di lasciarlo fuori, proprio come
un bravo cagnolino.
«Non fare scherzi» gli dice Sandor,
quasi ad avergli letto nel pensiero.
Lui sorride ed entrano insieme.
Deve chiudere gli occhi un istante,
perché le luci della sala – enorme – sono abbaglianti. C’è gente ammucchiata
ovunque, ragazzi che si danno da fare sulla pista da ballo, altri seduti ai
tavoli in pose scomode.
Rosso e giallo investono ogni cosa e
persona presente.
La musica è assordante, tanto che il
Mastino si copre le orecchie con le mani. Digrigna i denti, cosa che Petyr
preferirebbe non facesse.
Devono proprio essere una coppia male
assortita, visto il modo in cui una cameriera si è fermata a guardarli.
Lui, avanti con l’età, vestito come
un uomo d’affari, in compagnia di quello che potrebbe tranquillamente passare
per il suo bodyguard. Sì, forse la ragazza si è fatta l’idea sbagliata, forse
pensa si tratti di un losco uomo
d’affari e del suo tirapugni.
Petyr le sorride. Basta questo per
vederla scappare a gambe levate.
«Là» indica Sandor, avviandosi.
Lui gli posa una mano sul braccio, di
nuovo – la cosa peggiore che potesse fare – e in un istante il pugno del
Mastino è stretto sulla sua camicia.
«Dammi una scusa» lo minaccia,
mostrandogli i denti.
Sono così vicini che Petyr riesce a
sentire la puzza del suo alito, di tabacco e sigarette, di vino e sudore.
Quando Sandor lo lascia andare, lui
si sistema meglio gli abiti.
«Sansa ha chiesto di non farci
vedere» ripete, cercando di mantenere un tono calmo.
In realtà vorrebbe essere grosso
quanto il fratello del Mastino, e spaccargli quel faccione deturpato.
L’altro lo guarda, poi svanisce nella
calca di gente.
Ω
Da quanto tempo non rideva?
Sansa non lo ricorda, non con
precisione.
«Gendry, sei proprio uno stupido!»
grida Arya, guardandolo dimenarsi sulla pista.
Poi scoppia a ridere anche lei, e Jon
se la tira vicino, baciandole i capelli.
«Mi siete mancati» dice, ma Robb non
può sentirlo: è troppo distante. Invece Sansa è accanto a loro, e si diverte a
provocare Arya.
«Dove l’hai conosciuto?» le chiede,
con sguardo eloquente. Anche Jon si volta a guardarla.
Ma sua sorella non cede… Scrolla le
spalle e fissa Gendry sulla pista.
Sembra più grande con quella linea di
eyeliner sugli occhi, con quell’abito scollato che sembra fatto di cinte di
cuoio, e persino Gendry se n’è accorto. Sansa lo ha visto: non è riuscito a
rimanere un solo istante senza guardare Arya.
«Dovresti raggiungerlo» suggerisce Jon,
facendo un cenno verso il ragazzo.
Nonostante le luci rosse, Sansa vede
sua sorella arrossire.
«Non ci penso neanche» dice a parole,
ma il suo sguardo parla diversamente. Sansa lo sa bene: lo ha visto milioni di
volte negli occhi delle altre ragazze, accompagnato da timidi sorrisi e frasi
indulgenti.
Ma Arya non è come le altre.
Arya non sogna un ballo con Gendry,
non spera che le chieda di raggiungerlo, o che le prenda dolcemente la mano.
Arya è tempesta, e lupo, e sangue. È
diversa dalle altre, è diversa da lei.
Vuole
Gendry,
solo che ancora non lo sa.
«Allora non ti dispiace se ballo con
lui?» chiede Sansa, sorridendo ambigua.
Ha imparato da qualcuno che potrebbe
essere già nella sala, qualcuno che è costretta a vedere. Che la sta
aspettando, che forse li osserva da qualche angolo remoto, nascosto in quel
mare di gente.
Arya assume un’aria contrita. Le
dispiace eccome. «Non me ne importa.»
Sansa sgrana gli occhi, inclina la
testa e si alza.
Raggiungere Gendry è la sua scusa, in
realtà aveva bisogno di allontanarsi per poter parlare con Petyr. Deve essere
decisa, fargli capire che non si muoverà da Londra. Non senza i suoi fratelli.
Attraversa la pista, lancia uno
sguardo ad Arya e si allontana.
Nemmeno si avvicina a Gendry. Non
ora.
Si guarda intorno, certa che sarà lui
a trovarla, e quando si sente afferrare il braccio capisce che è il momento.
Ma la stretta le provoca dolore,
qualcuno la sta spingendo oltre la pista, alla parete opposta rispetto ai suoi
fratelli. Non può vederli, eppure sa che non è di Petyr la mano che la stringe.
Petyr non le farebbe male, mai. Petyr
sarebbe gentile, non la trascinerebbe lontano, in un angolo buio dove Sansa non
vuole andare.
«Lasciami!» grida, finendo con la
guancia contro il muro. «Ma chi sei? Che vuoi?»
Come ha fatto a non capirlo? Come ha
fatto a essere così stupida?
Lui la volta con una sola mossa.
Potrebbe farla a pezzi con una sola mano, costringerla a subire qualunque cosa.
Ma Sansa si è fidata del Mastino… non ha mai pensato che volesse farle del
male.
«Ciao, uccellino.»
Si chiede perché Petyr l’abbia
portato.
Nel messaggio era stata chiara: parleremo noi due, da soli. E poi te ne andrai.
O così o niente; perché Petyr non
l’ha ascoltata?
Per un istante, mentre vede il
sorriso allargarsi sul volto di Sandor, si chiede dove sia Petyr, se il Mastino
gli abbia fatto del male.
Arrivare a tanto? Per cosa?
Riportarla da Joffrey non dovrebbe essere nei suoi piani.
«Non dici niente?» chiede lui,
imprigionandola con il suo corpo.
Avrebbe avuto molte occasioni per
tradirla, per riportarla indietro. E non l’ha mai fatto. No, non è venuto per
questo, ne è sicura.
Quando sta per abbassare le palpebre,
accecata dalla luce forte, Sandor le afferra il mento e lo solleva. «No» È un
ringhio basso e acuto, e Sansa prova un brivido. «Guardami.»
Cosa
ci fai qui? Vorrebbe chiedere, ma lui si fa ancora
più vicino, annullando ogni distanza tra loro.
Sente tutto: il suo respiro lento e
grave, l’odore di alcol e fumo, e persino il cuoio del giubbotto contro il
petto.
Non può muoversi, è la sua preda.
«Com’è che avevi fatto l’ultima
volta?» chiede ancora, soffiandole sulle labbra.
Sansa sente il calore del suo fiato,
del corpo di lui contro il suo, della sua mano rovente che scende lungo il
collo, imprigionando una ciocca di capelli rossi tra le dita.
Non vorrebbe scappare, ma la sua
famiglia è lì, a un passo da lei, da loro, dal vederli insieme.
Pensa a qualcosa da dire, perché
tutto finisca in fretta. Perché lui capisca che non lo sta allontanando, che
non lo teme, ma che è costretta a lasciarlo, a fuggire da lì, da lui, da quel
che potrebbe accadere.
Sandor lascia scivolare la ciocca tra
le dita, e risale al suo viso. Le sfiora la guancia con delicatezza, con troppa dolcezza, come se si stesse
trattenendo, come se fosse a un passo dal strapparle i vestiti di dosso.
Aspetta solo il suo invito…
…un invito che è costretta a
rifiutare.
«Aspetta» sussurra, accorgendosi del
fiato corto. È come se avesse fatto una lunga corsa, eppure non si è mossa.
È l’ansia? La paura di essere vista,
di essere scoperta?
Ma anche lui si accorge della sua
agitazione, e forse era la scusa che aspettava.
«No» ringhia, provocandole un brivido
che prende a correre lungo il suo corpo. «Ho aspettato abbastanza.»
Termina la dolcezza, quando Sandor si
avventa su di lei. La bacia, non come aveva fatto Sansa in auto, non con quella
delicatezza che, fino a un momento prima, si sarebbe aspettata.
Morde e preme la sua pelle, senza
concederle respiro, risalendo con l’altra mano lungo il fianco, infilandosi
sotto la maglietta.
Sansa cerca di spingerlo via, di
gridare, di fermarlo. No! Pensa,
senza riuscire a frenarlo.
E quando il Mastino riprende fiato,
allontanandosi appena da lei, Sansa preme le mani sul suo petto per porre
ulteriore distanza tra loro.
«Basta» dice, respirando con affanno.
Si passa il dorso della mano sulle
labbra e scivola contro il muro.
Vorrebbe chiedergli dove sia Petyr,
di parlare, ma non riesce a farlo. Non può, dopo quel bacio che Sandor le ha
rubato, sapendo che potrebbe rifarlo.
E lei non vuole.
Non lì. Non ora. Non con qualcuno
disposto a prenderla in quel luogo affollato, senza nemmeno chiederle il
permesso.
Fa alcuni passi nella sala, e lo
vede: Petyr la sta guardando. Ha visto tutto.
Sente le guance in fiamme mentre lo
raggiunge.
«Ciao» mormora, a un passo da lui,
sentendosi in colpa.
Cosa penserà di lei? Cosa
penserebbero i suoi fratelli, Robb, Jon, Arya?
Sua sorella non riesce nemmeno ad ammettere di avere una cotta; cosa penserebbe
di lei se sapesse?
Petyr le lancia un’occhiata confusa.
Di certo, tra tutto ciò che si era aspettato, non era compreso uno spettacolo
con il Mastino.
«Sansa» sussurra, riprendendo il
controllo di sé, a poco a poco.
«Ci hai visti?»
Lo chiede in un miagolio, e quando lo
vede annuire si sente morire. Abbassa il capo, e d’improvviso non vorrebbe
trovarsi lì, ma solo a miglia di distanza da tutti quelli che la conoscono.
«Non sono stata io» dice, come se
fosse tornata la ragazzina spaventata che era un tempo.
Quando Joffrey la picchiava, la
insultava, la incolpava di cose assurde, che non avevano niente a che fare con
lei.
«Lo so.»
Petyr allunga una mano per avvolgerle
le spalle, ed è un gesto così protettivo, così dolce, che Sansa non riesce a
dirgli di no.
È Petyr. Non le farebbe del male.
Mai.
«Stai bene?» chiede, contrariamente a
quanto farebbe il Mastino.
Lei annuisce, in una muta bugia.
Non sta bene, come potrebbe essere il
contrario? Suo fratello non camminerà più, i suoi genitori sono morti, Joffrey
la considera il suo giocattolo e prima o poi la ucciderà, ne è sicura.
La sua famiglia vive a Londra,
lontana da lei, e Sansa non è nemmeno sicura di poter davvero restare.
«È giusto» sussurra Petyr,
stringendole la spalla. «Fai bene a rimanere con i tuoi fratelli, è quello che
vorrebbe Catelyn. Desiderava che foste uniti e indipendenti…»
Indipendenti.
Sansa potrebbe definirsi in tanti modi, ma non certo indipendente.
«E forti» continua lui, guardandola
con uno di quei sorrisi che Sansa conosce tanto bene. Poi fa una pausa. «Sai di
avere una casa tutta per te, in città. Un corso universitario e un futuro
promettente. Ma niente ti impedisce di restare con i tuoi fratelli…»
«Pensi che stia sbagliando?»
Vorrebbe non averlo chiesto, perché è
sicura che sia stato lui a guidarla fino a quella domanda.
Ma Petyr non risponde.
Abbassa gli occhi sulla sua spalla,
sembra pensarci un istante prima di sollevare lo sguardo su di lei.
«È una tua scelta» dice.
Sansa vorrebbe credergli, ma sa che è
solo ciò che vorrebbe sentire… e il peggio è che lo sa anche lui.
«Infatti» sussurra, pronta a tornare
dai suoi fratelli. «Resterò a Londra, almeno per un po’. Vuoi indietro le
chiavi di casa?»
«Tienile. Ti serviranno quando
tornerai.»
Sansa vorrebbe rispondere “se tornerò”, ma non lo fa. China la
testa e fa per voltarsi, ma la voce di lui la ferma.
«Sei come tua madre, Sansa.»
«Ma non sono lei.»
Si getta nel mare di gente,
scomparendo agli occhi di Petyr. Qualcosa le dice che lo rivedrà ancora a
Londra, che non si arrenderà così facilmente, eppure non le importa. Non lo
teme.
Riconosce il tavolo, vede Robb ridere
insieme ad Arya, mentre Jon si guarda intorno. Si chiede se la ragazza che Robb
sta frequentando – quella che vuole presentarle – sia già arrivata.
Ma nel momento in cui riemerge dalla
folla, in cui fa l’atto di sollevare un braccio per avvertirli del suo ritorno,
qualcuno le si para davanti.
Uno sconosciuto pelato, con una barba
grigia. Il suo abito sembra fatto d’oro, tanto che Sansa riesce a chiedersi se
sia solo l’effetto della luce.
«Posso offrirti qualcosa?» dice,
abbassandosi su di lei.
«No» risponde Sansa, scuotendo la
testa, e quando fa per superarlo, l’uomo la afferra per un braccio.
«Andiamo. Solo un bicchiere.»
Lei lancia un’occhiata al suo tavolo,
e Jon risponde alla sua richiesta, raggiungendoli. Robb è dietro di lui.
«Ho detto di no» ripete, a voce alta,
per farsi sentire dai suoi fratelli.
Arya non si è accorta di niente; sta
parlando con Gendry e non fa altro che ridere.
«Hai sentito?» dice Jon, togliendole
la mano dell’uomo dal braccio e spingendolo lontano.
«Janos?» mormora Robb, con un
sorriso. «Janos Slynt? Lascialo, Jon. Lo conosco. Lavorava come Bobby fino a
qualche tempo fa. Come va, Janos?»
Janos sembra ubriaco, solo questo
riesce a vedere Sansa.
«Robb! Ehi, Robb! Vieni qui!» grida
Arya, richiamando la sua attenzione.
«Dai, lasciatelo perdere e venite.
Arrivo!»
Robb torna al tavolo, mentre Jon
sfiora Sansa. «Ti senti bene?» le chiede.
Lei arrossisce.
Si domanda cosa sarebbe accaduto se
Jon avesse visto Sandor e Petyr… se si fosse accorto del bacio famelico del
primo, e del modo in cui la guarda il secondo.
Forse li ucciderebbe entrambi.
«Tu» ringhia Janos, sollevando il
dito. Ha le spalle appena incurvate, come se faticasse a reggersi in piedi. «Tu,
bastardo! Come ti permetti di toccarmi? Non sai chi sono io? Ero un poliziotto!
Brutto…»
Janos si getta su Jon, e Sansa non
capisce la fine della frase. Vede suo fratello spingerlo via in un solo colpo,
come se non gli costasse nessuna fatica.
L’uomo finisce a terra, tanto da
costringere le persone a spostarsi.
«Andiamo» mormora Jon, facendole
cenno verso il tavolo.
È un istante.
Sansa vede la scena prima che accada.
La lama compare nella mano di Janos come per magia, Jon che gli dà la schiena,
guardando lei, che sembra non rendersi conto delle dita dell’uomo sul suo
petto, mentre se lo tira addosso, mentre il coltello cala sulla sua pancia in
un colpo secco, facendogli sgranare gli occhi.
«NO!»
Sansa grida, si getta sul suo corpo a
terra, e tutti i rumori, le luci, i colori sembrano mescolarsi dentro di lei.
Sente la testa girare, nausea e vuoto, come sul bordo di un precipizio.
Sta cadendo, Sansa. Cade e grida,
mentre la musica e la gente e il mondo sembrano fermarsi, lasciandola sola con
suo fratello.
Sono rimasti soli?
Tutto diventa bianco, e silenzio, e
distacco.
Janos è svanito tra la gente, i suoi
fratelli sono intorno a lei, ma Sansa quasi non li vede.
Osserva solo il rosso delle luci che
sembra nascondere la macchia di sangue sul pavimento.
Senza riuscirci.
Note
dell’autrice:
Se siete ancora qui, devo dirvi
grazie. C’è chi si è stancato di aspettare, preferendo togliere la storia da
preferiti e seguite.
Quindi: grazie.
Celtica
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Capitolo 19 *** Io non sono così ***
Capitolo 19
Trailer
utti gli ospedali sono uguali, ma
ogni volta che Sansa varca quella soglia, prova sensazioni diverse.
Ha voglia di una sigaretta ora, tanto
che è uscita fuori dalla camera di Jon e ha attraversato il corridoio per
raggiungere l’atrio.
È fuori adesso, a respirare.
Ricorda i suoi genitori, ricorda il
giorno in cui Jon, bruciandosi una mano, è stato costretto a passare una
settimana in ospedale. Ricorda la volta in cui Arya ha colpito un ragazzo, ricevendo
in cambio un pugno in faccia.
C’è gente che parla, gente che
telefona e gente che mangia.
Sansa ha voglia di mettere qualcosa
sotto i denti, ma solo per soffocare quel desiderio di fumare. Non può farlo
vicino agli ospedali, è proibito.
Accarezza la camicia azzurra e
pesante, quella che ha rubato dall’armadio di Robb per usarla a mo’ di giacca.
L’odore di naftalina le sale alle narici.
È la prima volta che Sansa sente la
paura scorrerle addosso.
E il senso di colpa… quell’animale
famelico che nutre da anni, e che sperava di aver ucciso.
Si appoggia al muro vicino
all’entrata, dove il viavai di gente è insopportabile. Dovrebbe aiutarla a non
pensare, ma le voci nella sua testa sono più forti.
Non ha avuto paura quando sono
mancati i suoi genitori: c’era Robb.
Né quando Jon si era scottato: Robb
aveva detto che era cosa da poco.
Né quando Arya era stata al Pronto
Soccorso… si trattava solo di un dente da latte.
Ma ora tutto è cambiato.
Si accarezza le labbra e chiude gli
occhi, tenendo una sigaretta invisibile tra le dita.
Sansa ha avuto paura di tante cose,
di tante persone e situazioni, ma non ha mai avuto paura per Jon… Non come ora,
ora che lo vede disteso in un letto d’ospedale, assuefatto dai farmaci.
Arya è rimasta tutta la notte al suo
capezzale, e al mattino è sparita. Non ha versato nemmeno una lacrima, come
invece ha fatto lei.
“Occupati
di lui”, ha detto, un momento prima di uscire dalla stanza.
“Dove
vai? Non resti qui? Arya!”
Ma Sansa sa dov’è andata sua sorella.
Non ha bisogno di sentirlo per averne la certezza.
Se Robb si sta occupando della
faccenda in modo legale, con avvocati
e polizia, è anche vero che Arya sta facendo l’opposto.
Bran è a casa con Rickon, e Sansa è
sola con Jon. Non vuole lasciarlo, anche se il primario le ha detto di andare a
casa, di riposarsi, ma come potrebbe?
Come può abbandonarlo in un letto
d’ospedale, con il rischio che si svegli senza qualcuno vicino?
Senza un volto familiare, una
presenza che tenga a lui…
Jon l’ha portata via da Joffrey, l’ha
riaccompagnata dai loro fratelli, qualcosa che nemmeno Petyr aveva fatto per
lei…
«Uccelletto.»
Ancora
tu.
Sansa apre gli occhi e lo guarda.
Sente il sangue ribollire nelle vene.
Cosa
ci fai qui?
«Non sei ripartito» dice, il respiro
lento e grave.
Incrocia le braccia al petto e
aspetta, sentendo il corpo irrigidirsi. È ciò che lui le provoca con una sola
occhiata.
Inconsciamente, Sansa si sfiora le
labbra, lì dove Sandor l’ha baciata. Sente la pelle bruciare.
«Ho saputo…» ringhia sottovoce,
appoggiando una mano sul muro di fianco a lei.
Il pensiero di Jon è sufficiente a
farla arrossire. Come può fare certi pensieri ora? Mentre suo fratello rischia la vita in un letto d’ospedale?
Sente l’adrenalina scorrerle addosso.
Rabbia e angoscia la soffocano, quando ripensa alla notte prima.
È
tutta colpa mia.
Se non si fosse allontanata, se non
avesse cercato Petyr, se non avesse perso tempo con Sandor… un secondo, forse,
sarebbe stato sufficiente a non farle incontrare Janos. E Jon starebbe bene
adesso.
Sarebbero insieme, a percorrere
Londra e a fare progetti sul loro futuro.
Prenderebbero in giro Arya, cercando
di farla arrossire e di farla parlare di Gendry; riderebbero con – e di – Robb, intento a fare lezione
anche a loro, a spiegare tutta la storia della città…
Vedrebbero crescere Rickon, e questo
pensiero le provoca un tremito.
Se ne rende conto solo ora: Jon non lo vedrà crescere.
Jon non lo ascolterà parlare della
scuola, della sua prima cotta; non troverà scuse per non prendergli un cane,
come tanto desidera.
E Bran… Oh, Bran! Bran starà sempre
peggio, pensando a Jon.
È
tutta colpa di Janos.
«Stai tremando.»
È vero. Sansa trema, pensando a tutto
ciò che ha perso. Pensando che se non fosse mai partita, ora Jon starebbe bene.
Ha un groppo in gola, ma è solo senso di colpa.
Anche Arya è in pericolo, e le viene
in mente solo adesso.
Arya è uscita a cercare Janos, ne è
sicura. Arya cerca di vendicare Bran, e ora anche Jon. Arya rischia la vita.
È solo una ragazzina…
«Sto bene» mente Sansa, affondando le
unghie nella camicia.
«Dovresti tornare indietro con me.»
«Il mio posto è vicino alla mia
famiglia.» Ricorda i loro nomi: Jon,
Robb, Arya, Bran e Rickon.
«Io potrei tenerti al sicuro…»
Sansa solleva gli occhi su di lui. Capisce
a chi si stia riferendo. Joffrey.
Da un intero giorno, la sua mente è
stata libera dal pensiero di lui, dall’immagine delle sue mani che si
abbattevano su di lei. Dall’idea del suo amore malato.
«Non posso tornare.»
«Perché?»
«Perché non voglio.»
Sansa abbassa gli occhi, sente il
respiro del Mastino sfiorarle la fronte.
Lui non può capire.
«Guardami» ordina Sandor, spingendola
a obbedire.
Lo guarda, e vede la soluzione ai
suoi problemi. O almeno una parte.
Schiude le labbra per parlare, per
piegare le parole al suo volere. Ma il suo nome, pronunciato da qualcuno che
non è il Mastino, la ferma.
Sansa sgrana gli occhi, cercando la
fonte di quella voce. Petyr.
«Ho lasciato la macchina dietro
l’ospedale.»
Petyr fa un passo avanti, e d’istinto
Sandor ne fa uno indietro. Sansa si trova tra loro, con il muro alle spalle.
Non può scappare.
«Non sei partito nemmeno tu»
sussurra, sentendosi in trappola.
Non dovrebbe essere con loro,
dovrebbe tornare di corsa da Jon, da chi ha bisogno di lei.
«E come avrei potuto…»
Sansa lo guarda, mentre il Mastino le
dà le spalle e si allontana. È come se Petyr fosse un repellente naturale per
lui.
O
forse per me. Per proteggermi.
Quel pensiero le provoca un fremito.
Non appena restano soli, Petyr fa un
altro passo, restando ad appena un metro di distanza da lei. Di tutta risposta,
Sansa si appiattisce contro il muro, come se avesse paura di lui.
Non
è paura...
«Sei venuto per aiutarmi?» chiede,
giocando con le parole come gli ha visto fare tante volte.
Non ha bisogno di tendergli una
trappola per ottenere quello che vuole. Sa che le basterebbe dirlo… Petyr non
le direbbe mai di no.
Mai.
«Sono venuto per te.»
«Che cosa vuoi?»
Me,
vuole me. Sansa glielo legge negli occhi, e in un istante
dimentica tutto. Jon, l’ospedale, il pericolo che corre sua sorella. Dimentica
Londra e la sua intenzione di restare.
«Darti ciò di cui hai bisogno.»
«E di cosa avrei bisogno?»
Di
te. Tu potresti risolvere tutto con la tua sola voce.
Petyr non sorride, si limita a
guardarla. Ed è tutto ciò che le serve per spingersi ancor più contro il muro,
quasi a voler diventare una cosa sola con lui.
«Quando ho sentito la notizia sono
corso alla macchina. Sapevo che ti avrei trovata qui. Vicina alla tua famiglia… proprio come vorrebbe tua madre.»
Sentir nominare sua madre le provoca
fastidio e senso di colpa, come un pizzicore sulla pelle.
«Perché sei qui?»
Avrebbe preferito non chiederlo. Si
sente un mostro, ma avrebbe preferito continuare quel gioco con lui.
Un
passo dopo l’altro, e sarebbe arrivata a domandarglielo, mentre
ora è costretta ad anticipare la sua mossa.
«Potresti fare una cosa per me» dice,
senza lasciargli il tempo di replicare.
«Qualunque cosa.»
Sansa sente torcersi lo stomaco e
d’istinto lo copre con la mano.
Non sa perché, ma ogni frase, detta
da lui, assume un significato particolare.
«Sei sicuro?»
Vorrebbe risultare decisa, ma sente
la voce affievolirsi. Diventa come una carezza, come un soffio sulle labbra,
come se il resto del mondo non esistesse.
Due parole, eppure Sansa non sa cosa
darebbe per poter fermare il tempo e assaporare l’attesa. Sa cosa le
risponderà, e questa consapevolezza le blocca il respiro.
Vorrei
sentirmi sempre così. Sull’orlo del precipizio. Pronta a saltare.
«Non dovrei?»
Ma
io non sono così, pensa. Gli occhi di Petyr incatenano i
suoi, sembrano sondarle l’anima. Io ho
paura del vuoto. Voglio certezze, non attese.
«Dimmelo tu.»
Il primo sorriso di Petyr accende un
piccolo fuoco nella sua pancia, come se si fosse appena guadagnata il suo
rispetto.
«Sono sicuro» dice, superando la poca
distanza che li divide.
Poi resta in silenzio, e Sansa sa che
tocca a lei. È il loro gioco.
«L’uomo che ha accoltellato Jon… Arya
lo sta cercando.»
Fa una pausa, certa che lui abbia già
capito cosa si aspetta.
Lo vede abbassare gli occhi sulla sua
gola e risalire lentamente il suo viso. Sansa sente ardere ogni punto dove
Petyr l’ha appena accarezzata con lo sguardo.
Non può fare a meno di chiedersi cosa
accadrebbe, ora, se fosse lei a oltrepassare quella linea invisibile che li
separa… Lo lascerebbe senza parole? Lo stupirebbe?
Stringe la stoffa che le copre lo
stomaco per non commettere quell’errore.
Non
sono così, si ripete.
«Temo per la sua incolumità» dice,
riferendosi ad Arya. Eppure sembra parlare per se stessa. «Non so dove sia ora,
se sia riuscita a trovarlo… Anche la polizia lo sta cercando.»
Petyr le risponde con gli occhi.
C’è un intero linguaggio che
conoscono loro due soltanto. Sansa abbassa il mento, prende a fissare il pugno
chiuso sulla sua pancia. Ed è il suo errore.
«Non lo troverà» mormora Petyr.
Non deve nemmeno allungare la mano
per prendere la sua: sono così vicini che gli basta muovere le dita per
sfiorarla. E la pelle di Sansa diventa bollente dove lui l’ha toccata, avanzando
sul suo braccio ed estendendosi su tutto il corpo.
«Ma io voglio che lo trovi» dice
Sansa, con un filo di voce.
Ha un lieve sussulto quando lo sente
arrivare al polso, sotto la manica della camicia.
La
camicia di Robb. È
tutto sbagliato…
«Cosa farai di lui?» chiede Petyr in
un sussurro.
Non sembra nemmeno una domanda, da
tanto è bassa la sua voce. Prende la sua mano delicatamente, racchiudendola tra
le sue.
Sansa schiude le labbra quando sente
le dita scorrere sul dorso della mano, indugiando a stento sulle nocche prima
di intrecciarsi con le sue.
Voglio
che muoia.
«Non lo so» mente, vergognandosi dei
suoi desideri.
Petyr volta la mano sul palmo,
scorrendo un dito dalla manica rigida della camicia fino al suo polpastrello.
«Lo sai» ribatte, interrompendo il
loro contatto.
Vuole
che sia io a dirlo.
Sansa allunga il mento verso di lui,
tanto da non riuscire più a guardarlo negli occhi. «Non posso» sussurra,
soffiandogli sulla guancia. Non posso
dirlo.
È la prima volta che cerca di
provocarlo, che è lei ad avvicinarsi. Si chiede cosa sia cambiato… quando sia cambiata, per arrivare a
tanto.
È un invito sufficiente: Petyr la
prende per le spalle, percorre lentamente le spalline e il colletto che lo
separano dalla sua pelle. Eppure Sansa riesce a sentirlo… a percepire il suo
tocco, così diverso dall’irruenza di tutti gli altri.
Petyr non ha fretta, non le mette
fretta. Sa aspettare.
E forse è la cosa che più apprezza di
lui.
«Sì che puoi» risponde al suo
orecchio, sfiorandole il lobo con le labbra.
Non le provoca un brivido, ma
un’esplosione di luce, come se non aspettasse altro che potergli confessare
ogni cosa, che essere convertita a quel lato oscuro.
Vorrei
che morisse, pensa Sansa, gridandolo nella sua mente
più e più volte.
«No» mormora, afferrando la mano di
lui che sta varcando il limite del colletto. La allontana senza sforzo,
sollevandola davanti al viso. «Non posso.»
Sfiora le dita con le labbra, prima
di lasciargli la mano.
«Voglio solo che Arya stia al sicuro.
Puoi fare questo per me?»
Petyr
sa attendere, lo sapeva e ne ha ulteriore conferma
adesso che lo vede sorridere, mentre inclina la testa di lato in un muto sì.
«Farò questo… per te.»
«Grazie» dice Sansa, muovendo appena
le labbra.
Vede il desiderio negli occhi di
Petyr riaccendersi, come se fosse tentato di lasciarsi andare, di sollevare una
mano e toccarla, di baciarla, come se intorno a loro non ci fosse niente.
Ma c’è tutto, invece.
Ω
Sandor fuma una sigaretta, appoggiato
alla sua auto.
È primavera, e la brezza ricorda a
Petyr il sorriso di Sansa, mentre raggiunge il Mastino. Solleva gli occhi al
cielo, osserva un aereo sorvolare Londra, la nebbia abbattersi sulla città.
Gli manca casa, lì dove vorrebbe
tornare con Sansa. Sistemare alcuni affari, piegare
alcuni nemici, sbaragliare la concorrenza… e poi partire con lei.
Sa già dove portarla.
Ha già in mente tutto.
Una casa isolata, avvolta nel verde,
dove tornare giovane al suo fianco. Dove vivere le cose che ha perso, durante
la sua scalata al successo.
«Andiamo» dice Petyr, facendogli
cenno di spostarsi. Vuole guidare lui.
«Allora sali.»
Petyr sorride, fermandosi davanti
all’uomo. «Mi sembrava chiaro ormai: guido io.»
«Oggi no.»
C’è una strana luce negli occhi del
Mastino, come se avesse risvegliato qualche demone dormiente. Batte un pugno
contro il vetro, come a dire che l’auto è sua, e sua è la decisione.
Cos’è
cambiato?
Ma conosce la risposta: Sansa.
«Dobbiamo cercare la sorella di
Sansa…» comincia Petyr, sperando di volgere le parole a suo vantaggio.
Ma Sandor non ha orecchie, quando la
sente nominare. Allunga le braccia possenti e lo afferra per la collottola,
come se fosse pronto a colpirlo.
Petyr lo vede digrignare i denti.
«Me l’ha chiesto lei» insiste,
sollevando le mani in segno di resa. «Stava per chiederlo a te, ma poi te ne
sei andato.»
Gliel’ho
letto negli occhi… se non fossi arrivato, forse non mi avrebbe detto niente.
Il Mastino rafforza la presa, tanto
da consentirgli una mappatura precisa della sua cicatrice.
Come
ha fatto, Sansa, a stargli vicino?
«Non mi piaci» ringhia Sandor. «E mi
piaci ancora meno quando le ronzi intorno.»
«Non faccio niente che non voglia
anche lei.» Anche solo con uno sguardo.
Lo dice con un ghigno, ed è
consapevole di quanto grande sia il suo errore.
«Ah sì?» Sandor stringe così forte da
allargargli la maglia. «Non cerca proprio niente da uno come te.»
«E da uno come te, Mastino? Cosa può volere dal cane di
Joffrey?»
Per un istante, sembra che l’altro
stia per colpirlo; per divorarlo tra le sue fauci e farlo a pezzi. Renderlo
introvabile, così che Sansa non possa più raggiungerlo.
Ma poi Sandor molla la presa e lo
spinge via.
«Mi hai stancato, Ditocorto.
Trovatela da solo la lupacchiotta, io torno a casa.»
«Lei vuole che ci sia anche tu.»
È un attimo. Sul volto del Mastino si
agita una certa indecisione, tanto che Petyr allunga lo sguardo verso
l’ospedale, come a dirgli che Sansa è lì dentro, e si aspetta qualcosa da lui.
«Non lo faccio per te» ringhia
l’altro, cedendogli le chiavi.
So
bene perché lo fai. Per lo stesso motivo per cui sei venuto a Londra.
Petyr sorride, fa un cenno con la
testa e sale in auto.
Partono che è ancora mattina, mentre
Sandor volge il capo all’edificio che stanno lasciando.
«Non la troveremo» dice, spingendo
Petyr a rallentare per guardarlo.
«Invece sì» ribatte, spostando la
mano sul cambio. «Sappiamo cosa sta cercando. Trovarla sarà facile.»
«Cosa sta cercando?»
«L’uomo che ha accoltellato suo…
fratello.»
«Il fratello bastardo» lo corregge
Sandor, estraendo una sigaretta. «Non la troveremo comunque.»
Passano un paio d’ore, Petyr si ferma
per fare alcune telefonate, lontano dalle orecchie del Mastino, e scopre dove
trovarla.
In fondo, pensa, scovare lei è la
parte meno complicata.
Proteggerla sarà più difficile.
La sorellina di Sansa sta cercando
Janos Slynt, e un quinto della città sembra esserne a conoscenza.
Quando ripartono, lui guida dritto
nell’ultimo punto dove è stata vista, certo di trovarla ancora lì. È la casa di
un suo amico… forse qualcuno che potrebbe aiutarla?
Restano fuori dal palazzo, aspettando
che la ragazza esca, un po’ come la sera prima hanno atteso Sansa.
E poi, finalmente, Arya Stark è
fuori, sola.
«Le parlo io» dice Petyr, certo di
poterla convincere.
Fa un passo avanti, ma il Mastino lo
anticipa, muovendosi come un cane feroce che ha puntato una preda.
Lei lo vede arrivare, sgrana gli
occhi e sembra pronta a reagire, ma Sandor è più veloce; la afferra e se la
carica sotto il braccio, come se fosse un cesto di verdura.
Forse
ho sbagliato a portarlo. Sansa si arrabbierà con me quando lo saprà…
Arya finisce sul sedile posteriore
dell’auto, come se fosse vittima di un rapimento. Comincia a gridare, a cercare
di aprire le portiere, a prendere a pugni i vetri.
«Sta zitta!» grida Sandor, salendo
dietro con lei.
«Ma che hai fatto?» chiede Petyr,
mettendosi al volante. Per una cosa come quella c’è la galera. «Arya, calmati
per favore. Ci manda tua sorella.»
«Non ti credo! Non ha mai parlato di
voi!»
La ragazza prende ad agitarsi, a
battere i pugni contro il torace massiccio del Mastino, tanto da costringerlo a
immobilizzarla.
«Tu sei Arya Stark» dice Petyr,
voltandosi e appoggiando una mano sul sedile. «È Sansa a mandarci. Vuole che ti
aiutiamo a trovare Janos Slynt.»
Lei sembra calmarsi, come se stesse
valutando la sua proposta. «Perché?»
«Per ucciderlo.»
Ω
Robb è al fianco di Sansa e le
stringe la mano.
Sono soli con il primario, intenti a
capire cosa capiterà a Jon, quali rischi correrà… A dire il vero, Sansa si
lascia andare ai ricordi, lasciando che le voci degli altri due sfumino nella
sua mente, come i suoi che sbucano dalla nebbia londinese. Suoni che sanno di
lontananza…
Come quando suo padre li portava tra
i monti, a rincorrersi nella neve. E Robb e Jon si fingevano audaci cavalieri,
impugnando i loro bastoni e combattendo davanti ad Arya e Bran.
Rickon era così piccolo… Lui e Sansa
restavano al caldo, accanto alla loro madre.
Ricorda i capelli scuri dei suoi
fratelli, quando tornavano dentro, e le loro corone di neve.
Ricorda le risate, i giochi, gli
sguardi severi che Catelyn riservava a Jon. Gli stessi che Sansa imitava.
Si pente di tutto. Di non averlo mai
considerato, di non averlo mai voluto con sé. Si pente di aver dato ascolto a
sua madre, unica tra i fratelli.
Sono
stata così sciocca… Loro avevano capito tutto.
Mentre ora, ora che Jon si è
presentato a casa di Joffrey, ora che l’ha riconosciuto come fratello, sangue
del suo sangue, Sansa trema al pensiero che possa essere in pericolo.
Vorrebbe fare qualcosa per lui…
«Sansa?» Robb aumenta la stretta
sulla sua mano e la guarda. «Hai sentito?»
Lei sbatte le palpebre, riconosce
l’occhiata scettica del medico, il modo in cui sta battendo un piede sul
pavimento.
«Beh, vi lascio» dice il primario,
allontanandosi.
«Stai male?»
Robb la prende per le spalle, come un
paio d’ore prima ha fatto Petyr… Sansa arrossisce al pensiero di essere
scoperta.
«No, sono solo stanca.»
«Cosa ne pensi?»
Sansa solleva gli occhi su di lui,
specchiandosi nello sguardo ceruleo tipico dei Tully. «Di cosa?»
«Non hai ascoltato, vero?»
Lei fa cenno di no, lasciando che suo
fratello si volti verso la stanza dove Jon è in coma farmacologico.
«Tu ricordi niente di quanto diceva
nostro padre?»
Sansa osserva la luce giocare con i
capelli ramati di Robb, altro dono di Catelyn… Cosa farebbe se fosse qui? Lo lascerebbe morire?
«Riguardo a cosa?»
«Alla madre di Jon.»
Sansa scuote la testa, non riesce a
capire. La madre di Jon? Non sanno nemmeno chi sia… C’erano voci, Bran aveva
ascoltato telefonate di loro padre, ma niente è certo.
«Jon deve essere trasferito in una
clinica per un po’. Ha subito danni che… Dobbiamo trovarla, Sansa.»
Perché?
Si chiede, pensando che Robb abbia lo stesso temperamento di Ned.
Riconosce suo padre persino nel modo
di parlare, nel modo di ragionare, nella freddezza e nella giustizia che
caratterizzano suo fratello.
Nostro
padre sapeva… sapeva che Robb ci avrebbe protetti. Voleva che restassimo
insieme.
«Dobbiamo trovarla subito» insiste,
calcando sull’ultima parola.
«Perché?»
«Jon avrà bisogno di lei.»
Note
dell’autrice:
Qualcuno ricorda, nei primi capitoli
(quelli ambientati nella baita), quando Sansa ripensa alla sua famiglia e a
quanto Bran diceva sulle origini di Jon? Finalmente ci stiamo arrivando.
Ho cercato di seminare tante
bricioline su questo cammino (non per niente si chiama Vieni con Me, ahah) e se
la memoria non mi tradirà, le ritroveremo tutte strada facendo.
Ah, posso dirlo? Posso? “Petyr, mi
sei mancato!”
Celtica
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Capitolo 20 *** Arya Stark ***
Capitolo 20
Trailer
rya Stark è una ragazzina. L’opposto
di sua sorella Sansa.
Questo, Petyr l’ha sempre saputo, ma
ora può accertarsene di persona. E non gli piace.
Non gli piace il modo in cui lei lo
guarda – come se fosse solo uno scarafaggio, come se sapesse qualcosa di lui
che non dovrebbe sapere, come se fosse pronta a ucciderlo – né il modo in cui gli risponde.
«Janos Slynt è mio» dichiara, come se
fosse una legge appena entrata in vigore. Una legge che Petyr non può
permettersi di infrangere. «È sulla
mia lista.»
Il Mastino la guarda, deridendola.
Con un ghigno che pare un ringhio. «Quale lista? Hai una lista?»
E Petyr è sicuro di una cosa: non gli piace Arya Stark.
Non ora che lo guarda come se fosse
appena stato messo su quella lista di cui tanto parla.
«Ce l’ho» dice lei, guardandolo
attraverso lo specchietto retrovisore. «E c’è ancora posto, se ti interessa.»
Quando Arya interrompe il contatto
con i suoi occhi per guardare Sandor, Petyr sente di essere più tranquillo.
Arya Stark lo inquieta in un modo
diverso da sua sorella. Non c’è brivido, non c’è eccitazione, ma solo sfida. Prima o poi potrebbero
giocarsela, lui e quella ragazzina, e il premio in palio potrebbe essere
proprio Sansa.
«Attenta, ragazzina» minaccia Sandor,
mostrandole il pugno chiuso.
Non può permetterle di vincere…
«Janos Slynt è tuo» afferma Petyr,
mettendo fine ai loro battibecchi e ottenendo la sua attenzione. «Ma avrai
bisogno di noi per trovarlo.»
«Io non ho bisogno di nessuno.»
«Ora ce l’hai.»
Petyr fa un cenno verso la strada,
come se conoscesse a memoria le vie di Londra. Non si aspetta che lei capisca,
ma quando legge una scintilla di comprensione nei suoi occhi – così diversi da quelli di Cat, da quelli di
Sansa – si sente soddisfatto.
«Sai dove si trova?»
Lui le risponde con un sorriso, stringendo
con più forza il volante.
«Posso cavarmela da sola.»
«Non puoi» ringhia il Mastino. Nella
sua voce, Petyr riesce a distinguere qualcos’altro, qualcosa che Sandor non
dice: Sansa.
C’è il suo nome nell’aria, come se la
sua presenza fosse impressa in ogni cosa e persona all’interno dell’abitacolo.
«Possiamo portarti da lui» insiste
Petyr, svoltando in una stradina secondaria. «Ma dovrai permetterci di
accompagnarti.»
Di
assicurarci che muoia.
«Perché?»
Lui sorride, di nuovo, in quella
maniera che Sansa capisce così bene. Fa una pausa prima di rispondere. «L’abbiamo
promesso a tua sorella.»
«Cos’altro?»
«Avrai bisogno di aiuto, quando ti troverai
sola con lui. E noi possiamo offrirtelo. Non ti fermeremo, non ti impediremo di
fare nulla, ma dovrai consentirci di venire con te.»
Petyr scandisce bene le ultime
parole, come per lasciarle il tempo di assimilarle. Di capire. Di accettare.
Arya Stark è dura, ma non gli dirà di
no. Non può dirgli di no. Deve accettare.
«E va bene» risponde lei, muovendo
appena le labbra. «Ma solo se mi porterai da lui ora.»
Ha
capito il gioco, pensa Petyr con un ghigno. Non ha parlato al plurale, si è rivolta solo
a me.
Lui fa un cenno di assenso, piegando
appena la testa di lato. Spinge il piede sull’acceleratore e in un quarto d’ora
si trova nel luogo giusto.
«Come fai a sapere che è qui?»
«Contatti, bambina» mormora,
scendendo dall’auto. «È sempre utile avere amici, tanti e sparsi.»
«Anche a Londra?» Arya assume un’aria
sospettosa.
«Soprattutto
a Londra.»
Lei non sembra convinta. Solleva il
volto verso i palazzi alti intorno a loro, e ruota la testa al cielo. Nebbia e
solo nebbia, come quella che li aspetta sul loro cammino.
Arya si guarda intorno, come se
volesse indovinare dove si trova Janos.
Petyr le fa un cenno, indicando un
vicolo stretto e buio, che fa contrasto con la strada a cui è collegato. Sembra
uscito da un film.
«Io lì non ci entro» dice Arya,
scuotendo appena la testa.
«Se vuoi Janos, è lì che lo
troverai.»
Lei sembra pensarci, si morde il
labbro e fissa il vicolo. Poi fa un cenno di assenso.
«Slynt era un poliziotto; potrebbe
essere armato» aggiunge Petyr, allungando un braccio per invitarli a proseguire.
«Io resto qui» ribatte Sandor,
estraendo una sigaretta.
«Non volevate accompagnarmi?»
«Lo abbiamo fatto.»
Arya distoglie lo sguardo da lui e
punta decisa il vicolo. Non sembra importarle di essere sola, di non avere armi
per difendersi, di non sapere nemmeno dove trovarlo…
«Sansa ci ha chiesto di proteggerla»
mormora Petyr, prima di avviarsi dietro alla ragazza.
Il Mastino fa un lungo tiro, lascia
che una nuvola di fumo si pari tra loro. «Fanculo.»
Arya sta puntando nella direzione
sbagliata. Prosegue dritta, e Petyr deve fare un fischio per chiederle di
voltarsi e tornare indietro.
Muove appena la testa, indicando una
porticina seminascosta dietro dei bidoni dell’immondizia.
Non vorrebbe dover salire da solo.
Non vorrebbe doverlo affrontare, doverlo vedere.
Ma Sandor è rimasto fuori, e Arya è
solo una ragazzina.
Toccherà a lui.
E se non riuscisse? Se Janos fosse
più veloce?
Mentre spinge la porta per far
entrare Arya, Petyr si ferma. Rimane immobile, giusto un istante, il tempo di
prendere un lungo respiro e chiedersi se sia il caso di seguirla.
L’ho
promesso a Sansa.
Ma non è solo questo… E non può
tirarsi indietro, non può lasciar salire la Stark da sola. Non può rinunciare a
quell’occasione, a quell’aiuto, a cui Sansa resterebbe legata per sempre.
«Non vieni?»
Arya prende a salire le scale senza
aspettarlo.
Sansa.
È per Sansa che ha fatto tutte quelle cose, è stato pensando a lei che si è
permesso di agire, che ora è lì, pronto a fare quanto va fatto.
La segue a passo spedito, lisciandosi
la giacca di pelle. Le sfiora appena il braccio per dirle di fermarsi, quando
vede la porta.
Arya lo guarda dritto negli occhi. “Come fai a sapere che è qui? Proprio dietro
questa porta?”
Petyr sorride nel suo modo.
La
conoscenza è potere…
Arya osserva la maniglia, solleva un
pugno contro il legno, come se fosse pronta a bussare. Una mano si infila sotto
il cappotto, e lui capisce.
È
armata.
Si chiede con cosa, perché. Ma poi
lei estrae una lama corta e sottile, di quelle presenti in ogni casa, in ogni
cucina.
Vorrebbe farle cenno di no, fermarla,
impedirle di commettere quell’errore. Un coltello sporca, lascia tracce, attira
l’attenzione. Di un coltello bisogna liberarsi, bisogna ripulirsi.
Ma è tardi… Arya è voltata verso la
porta, la lama davanti a sé, e ha appena bussato.
Petyr la vede fare un passo di lato,
pronta a colpire.
Lui non sa cosa fare, non sa cosa
stia facendo lì, su quel pianerottolo lurido, ad aspettare l’uccisione di un
uomo che porterà solo problemi. A lui, a lei, a Sansa.
Si sposta, in modo da rendersi
invisibile a chiunque aprirà la porta.
E poi questa si apre… e la testa
pelata di Janos spunta da sotto lo stipite. Quando i suoi occhi si posano su
Arya sembra tardi… La lama lo rincorre, tanto da fargli fare un passo indietro,
lo accarezza appena, stracciandogli la canotta bianca e colorandola di sangue.
Lei avanza contro di lui, con un
salto gli finisce addosso… ma la mano di Janos si chiude sul suo polso,
impedendole di finirlo.
Petyr li sente gridare, non capisce
cosa stiano dicendo, e decide di raggiungerli. Gli sembra di non vedere nulla
di utile in quella stanza sporca, ma poi si calma, respira e capisce che ogni cosa può diventare utile. Ogni cosa
può diventare un’arma.
Arya è ancora sopra di lui, finché
Janos non la spinge di lato, scartando la lama.
«Janos!» grida Petyr, tra i respiri
affannati degli altri due.
Loro si fermano. Arya è a quattro
zampe sul pavimento, il coltello stretto tra le dita, e Janos preme una mano
sulla pancia, lì dove la ferita è appena superficiale. Poi alza gli occhi e lo
guarda.
«Tu.»
Anche Arya prende a fissarlo, come se
si sentisse tradita.
«Janos Slynt… quanto tempo.»
«Lo conosci?» ringhia la ragazzina,
indirizzando il coltello nella sua direzione.
Janos si alza, reggendosi al muro, e
in quel momento, prima che Petyr possa stordirlo con le parole, prima che possa
tentare di ingannarlo, di calmarlo,
al suo fianco compare il Mastino, mandando in frantumi ogni istante di pace.
«Traditore! Sei un traditore! Lo dirà
a Sansa!» grida Arya, lanciandosi contro di lui, mentre Sandor si mette a
urlare di finirla, di stare zitta. Entrambi coprono la voce bassa di Janos,
impedendo a Petyr di sentire cosa stia dicendo mentre si avvicina alla
finestra.
Scale
di emergenza.
«Ferma!» Sandor blocca il braccio di
Arya prima che possa colpire Petyr.
Ma
certo, come ho fatto a non pensarci.
Li lascia a dimenarsi, inseguendo
Janos. Sono al quarto piano, la scala di ferro traballa sotto il loro peso, e
loro si trovano uno di fronte all’altro.
Janos potrebbe fuggire – o almeno tentare di farlo – potrebbe aggredirlo o
chissà cos’altro.
Dov’è
la pistola? Si chiede Petyr, oltrepassando la poca
distanza che li separa.
Non
è con lui, capisce poi. O
avrebbe sparato ad Arya. E a me.
Janos sta per parlare, e dall’interno
del monolocale non si sente più niente. Presto arriveranno Arya e Sandor. Non
c’è tempo.
«Janos, vecchio mio…» dice Petyr,
impedendogli di aprire bocca. «Abbiamo fatto affari insieme, sono stato io a
trovarti quel lavoro di bobby quando sei venuto a Londra… Ricordi?»
Janos si appoggia alla ringhiera
bassa di ferro, lo guarda come se capisse cosa accadrà di lì a poco. La mano
corre al fianco, lì dove non c’è fondina, dove non c’è pistola…
«Potrei aiutarti» sussurra Petyr,
allungando una mano verso il suo braccio. «Potrei mettere una buona parola per
te, o nasconderti.»
Lo guarda dritto negli occhi, gli
sorride. «Ma non lo farò.»
Una spinta e Janos dovrebbe finire di
sotto, ma c’è la ringhiera a trattenerlo.
«No!» grida Arya, raggiungendoli con
Sandor nell’istante in cui Janos porta le mani al collo di Petyr.
Il coltello di Arya gli si conficca
nel fianco, veloce come il morso di un serpente, tanto che la presa sulla sua
gola si allenta, e la testa dell’uomo finisce sulla spalla di Petyr. Gli
sussurra qualcosa all’orecchio – qualcosa che solo lui può sentire – ma dura un
millesimo di secondo, perché il Mastino li divide, prendendo Janos per le gambe
e facendogli saltare la ringhiera.
La ringhiera che gli ha salvato la
vita… e che ora, mentre è libero nel vuoto, non può più fare niente per lui.
«Via, via di qui!» grida Petyr,
massaggiandosi il collo.
«Era mio! Avevi detto che era mio!»
Arya lo dice mentre attraversano la
stanza di Janos, ripulendo la lama sulla manica mentre scendono di corsa le
scale.
«Lo era, ma poi ti sei lanciata su di
me.»
Quando raggiungono il vicolo, Arya
punta alla strada opposta, quella dove l’uomo è saltato. Petyr la raggiunge e
le afferra una spalla, vedendo ciò che vede lei…
Una macchia rossa che si espande
sulla strada, il corpo inerme girato sulla schiena, una gamba curvata in modo
innaturale.
Petyr teme che Arya griderà, che si
coprirà la bocca con la mano, attirando l’attenzione su di loro.
Invece lei rimane impassibile,
tornando nel vicolo insieme a lui.
«Ha avuto ciò che meritava» dice in
tono freddo – distaccato – e Petyr, per la prima volta da quando l’ha
incontrata, ha un brivido.
«Mi hai reso complice» ringhia il
Mastino, quando lo raggiungono. «Sono stato io a spingerlo giù.»
Petyr non dice nulla, e Arya ne
approfitta per riprendere a parlare.
«Perché lo conoscevi?»
«Te l’ho detto… Avere conoscenze è
utile.»
«Anche una conoscenza come Janos
Slynt?»
«Anche una conoscenza come Janos
Slynt…»
Arya sembra pensarci mentre si
avviano all’auto di Sandor. Ha la manica della giacca sporca di sangue – il sangue di Janos – e non sembra
importarle.
«Potete portarmi da Payne?» chiede,
facendoli fermare entrambi.
«Payne?»
«Ha investito mio fratello Bran. Ma
Robb non lo sa, non sa che l’ho trovato.»
Petyr conosce bene quel nome – così
come Sandor – risale all’epoca in cui lavorava ancora per Cersei, nella sua
azienda, e ricorda la fedeltà assoluta dell’uomo verso i Lannister.
«Sai dove si trova?»
«Sì, ma non deve saperlo nessuno.»
«Perché?» ringhia Sandor, e Petyr
capisce più di quanto dovrebbe…
Sono
stati i Lannister… Loro hanno mandato Payne.
Ma perché prendersela con un
ragazzino? Perché renderlo invalido? Per quale ragione?
«Robb mi impedirebbe di occuparmene.
E io voglio ucciderlo.»
Ω
Robb accenna un sorriso, sfiorandole
le spalle.
«Hai ancora la mia camicia» mormora.
E Sansa fa cenno di sì con la testa. «Sta meglio a te.»
«Cosa accadrà a Jon?»
«Lo trasferiranno in una clinica. Ma
prima dobbiamo trovare i suoi parenti in vita.»
Sansa aggrotta la fronte, incerta.
«Non siamo noi?»
La presa di Robb si fa più stretta,
come se non volesse condividere con lei quella notizia. «A quanto pare non
trovano i documenti… non c’è niente che attesti che Jon è effettivamente figlio
di nostro padre.»
«Dovrebbero cercarli meglio.»
Robb allunga le labbra in un sorriso
pieno, come se provasse tenerezza per lei. «Non sta a loro dimostrare che Jon è
nostro fratello… sta a noi.»
«Non è giusto.»
«La vita non è mai giusta» dice lui,
baciandole la fronte.
Sansa chiude gli occhi, si lascia
cullare da quel contatto, come se arrivasse dai suoi genitori. C’è Ned in
quella stretta, c’è Catelyn in quel bacio.
«Vorrei aiutarlo» insiste lei, mentre
Robb si volta verso la stanza di Jon.
«Anche io, Sansa. Anche io.»
Per loro è diverso. Se Sansa ha
scoperto solo ora ciò che sente per Jon – ritrovando un fratello – Robb invece lo ha sempre saputo.
«Forse…» L’idea che le sfiora la
mente è assurda, eppure vuole crederci. Ha bisogno
di crederci. «A casa potremmo trovare qualcosa.»
Casa,
questa volta, ha un sapore diverso da tutte le altre.
Non è la casa di Joffrey, né quella
di Petyr. Non è la casa di Londra, né quella dove Sansa vorrebbe rifugiarsi. È davvero casa, quella in cui è cresciuta
insieme ai suoi fratelli, con i suoi genitori, la stessa in cui crede di poter
trovare ciò che cerca.
Robb la guarda, e capisce subito a
cosa si stia riferendo.
«Sansa… no.»
«Perché no?»
«Io non posso lasciare Londra. E tu…
no, non ti chiederei mai di andare fin lassù.»
Lei solleva il mento verso l’alto.
«Non devi chiedermelo infatti.»
«Sansa… non puoi andare da sola.»
Ma
io non sarò sola.
«Non devi preoccuparti per me. Hai
parlato con Bran?»
Robb si appoggia al muro con aria
stanca. Fa cenno di sì con la testa. «Non ricorda niente di preciso. Solo
voci.»
«Nelle voci può esserci la verità.»
Sansa lo vede piegarsi in avanti,
come per raggiungerla. E la sua voce è un sussurro. «Ha nominato Lyanna, Sansa.
Lyanna. Non sappiamo nemmeno che fine
abbia fatto…»
«Nostra madre diceva che è fuggita in
America.» Non potremmo mai rintracciarla.
«Non ha importanza, Sansa. Se trovi
quei documenti, noi…»
«Potremo dimostrare di essere suoi
cugini. Sempre se è vero» Benjen. Sansa
afferra Robb per un braccio, perché ciò che le è venuto in mente potrebbe
essere importantissimo. «C’è anche Benjen, Robb.»
Lui scuote la testa. «Zio Benjen? È
morto, Sansa.»
«No, non lo è. Jon lo ha incontrato.»
Quando lo vede sgranare gli occhi,
Sansa capisce che c’è poco tempo per parlare. Deve partire, tornare a casa.
Cercare quei documenti.
«Stai scherzando.»
«No, Robb, ascoltami» Ora è Sansa a
guardarlo dritto negli occhi. «Ora non c’è tempo. Hai detto che Jon deve essere
trasferito in clinica. Non possiamo parlarne, non adesso. Ti chiamerò non
appena arrivata.»
«Vuoi andare subito? Sansa, no…»
«Sì, Robb. Ti prego, ascoltami»
mormora, lanciando una veloce occhiata alla stanza di Jon. Sposta il peso da un
piede all’altro e socchiude gli occhi. «Non abbiamo tempo… Jon lotta per la
vita. E noi dobbiamo lottare con lui.»
Sansa gli posa una mano su una spalla
e gli bacia la guancia. «Tornerò» sussurra. Tornerò
in tempo per te. Tornerò in tempo per Jon. Aspettatemi.
Si volta e corre fuori dall’ospedale.
Si trova il cellulare tra le mani, e in un istante, nel suo orecchio, rimbomba
il trillo di attesa.
«Sansa?» È la voce di Petyr.
«Vienimi a prendere» dice, come in
una supplica. «Ti aspetto fuori dall’ospedale. Fai presto.»
«È successo qualcosa?»
No,
ma succederà presto se non mi sbrigo.
Sansa sospira. «Vieni» dice, prima di
chiudere la chiamata.
Improvvisamente, il freddo la
attraversa con un brivido. La camicia di Robb non riesce a scaldarla – le sue parole, i suoi incoraggiamenti, le sue speranze
– c’è solo il gelo dentro di lei.
Ghiaccio che la riporta a casa, che
penetra fino alle ossa. E non è colpa del tempo, non è colpa della primavera
fresca… è solo incertezza.
Sansa fa alcuni passi, sperando che
Petyr si sbrighi, che accetti di portarla a nord, a casa. Che accetti di
aiutarla…
E quando l’auto arriva, e Arya si
affaccia al finestrino posteriore, Sansa non si perde in chiacchiere.
«Scendi, Arya.»
«Cosa? Perché?»
Sansa apre la portiera, facendole
cenno di allontanarsi.
«Non me ne vado se non mi dici cosa
succede.»
«Sansa…» Petyr la raggiunge,
lasciando Sandor sul sedile del passeggero. «Che cosa…»
«Dopo» lo interrompe lei, guardando
sua sorella. «C’è Robb di sopra. Per favore, vai da lui. Ti spiegherà tutto.»
Ma Arya non si muove, rimane seduta
dietro, incrociando braccia e gambe. «Ci stavamo occupando di una cosa» dice,
facendo un cenno a Petyr. «Abbiamo interrotto per causa tua.»
«Senti» Sansa prende un respiro per
mantenere la calma. Ma è difficile con Arya, è difficile con quello sguardo
addosso. Quell’aria di sfida che Catelyn le ha sempre criticato. «Si tratta di
Jon. Di salvargli la vita.»
Con un balzo, Arya è fuori. «Posso
farlo io.»
«No, non puoi. Devo tornare a casa. E
non intendo a Londra.»
Petyr la guarda come se non capisse.
E se non accettasse? Se le dicesse di no? Se non potesse accompagnarla?
Ha un’azienda, una moglie, una casa.
Perché dovrebbe andare con lei a nord?
«Vengo con te.»
Anche il Mastino scende dall’auto, e
Sansa si volta per riprendere il controllo. Non può affrontarli tutti… non lì,
non con Jon in quel letto d’ospedale.
«Robb ha bisogno di te qui» dice lei.
«E Petyr non ha ancora detto di sì…»
«Cosa accadrebbe» si intromette lui,
facendo un passo verso Sansa. «Se rispondessi di no?»
Si guardano, e lei è sicura di
avergli già dato quella risposta, quella che si appresta a lasciare le sue
labbra.
«Andrei da sola.»
Sandor posa una mano sul cofano con
una certa violenza, facendo piangere l’auto.
«Verrei io con te» insiste Arya.
«Robb capirà. Ci sarò io con te, qualunque cosa tu debba fare.»
«Arya, no… io…»
«Non ti lascerei andare sola, Sansa,
lo sai» sussurra Petyr, a pochi passi da lei.
Non
ne dubitavo.
«Ma forse il nostro amico dovrà
tornare di corsa da Cersei…» aggiunge, lanciando un’occhiata obliqua a Sandor.
Sansa lo sente ringhiare, come un
cane rabbioso pronto a mordere. Posa gli occhi su di lui, e non c’è imbarazzo,
nonostante quel bacio che non avrebbe dovuto darle.
«Verrò» risponde il Mastino,
sgranchendosi le nocche. Sembra che tra lui e Petyr ci sia qualcosa di non
detto, qualcosa che dovranno risolvere, prima o poi.
«Grazie» sussurra Sansa, guardandolo.
«Allora siamo in quattro» interviene
Arya, prendendola a braccetto. «Di qualunque cosa Jon abbia bisogno, in quattro
faremo prima.»
Sansa fa un sospiro, arrendendosi
alla veridicità di quelle parole.
«E va bene» dice, guardando uno alla
volta i suoi accompagnatori. «Saremo in quattro. Ma farete solo ciò che vi dirò
io.»
Arya fa un sorriso – il primo di quel
giorno – e stringe con più forza la presa.
Note
dell’autrice:
Vi avevo detto che avrei ripreso le
“voci”, i ricordi di Sansa del… quarto capitolo? Ora mi sorge il dubbio. In
ogni caso, Lyanna veniva nominata anche lì, sempre grazie a Bran.
Comunque, almeno per il momento non
ho intenzione di viaggi alla Syberia (anche se confesso di averci fatto un
pensierino), non credo che le farò attraversare l’oceano per firmare un
documento (avete presente la trama del gioco?), ma almeno a nord (!) dobbiamo
andare!
È da non so quanti capitoli che
aspetto.
Grazie a chi ha recensito, messo mi
piace o aggiunto la storia nelle preferite/seguite. Mi avete resa felice,
davvero.
Ah, e già che ci sono, posso
lasciarvi il link a una storia di un altro fandom (the walking dead), una OS,
ambientata in un universo alternativo, che potete leggere tranquillamente senza
conoscere personaggi/trama? Ci tengo tantissimo, dal momento in cui l’ho
scritta è diventata una delle mie storie preferite, tra quelle pubblicate su
Efp. – Fiore d'Inverno –
Grazie ancora.
Celtica
|
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Capitolo 21 *** Acqua e Sale ***
Vieni con me 21
Trailer
ono acqua e sale, Sansa e Arya,
sorelle che potrebbero completarsi senza riuscirci mai davvero.
Petyr le guarda camminare davanti a
sé, mentre salgono le scale per raggiungere Robb.
Lo
vedrò anch’io.
Cosa dirà quando lo troverà con loro?
Quando saprà del suo ruolo di accompagnatore? Cercherà di impedirglielo? O si
sentirà più sollevato…?
«Robb!» chiama Arya, correndogli
incontro. «Parto anch’io.»
Il primogenito di Cat ha i suoi
stessi occhi ribelli, il colore dei capelli simile a quello di sua madre,
eppure, nel suo sguardo, Petyr vede la freddezza degli Stark. E riconosce il
sospetto, quando li vede posarsi su di lui.
«Arya? No» mormora, lanciando
un’occhiata di rimprovero a Sansa. «Mi servi qui. Chi baderà a Bran? Non posso
permetterti di andare.»
«Non puoi impedirglielo.»
Stranamente, a parlare è proprio
Sansa, mentre Robb posa ancora gli occhi su Petyr senza riconoscerlo. Poi,
finalmente, sembra riuscirci.
«Baelish? Il compagno di scuola di
nostra madre, giusto?»
Non
solo quello. Petyr fa un cenno con la testa per dire di
sì, e rimane in silenzio.
«È con me» riprende Sansa, facendogli
segno di restare indietro. «Ma è una storia troppo lunga da raccontare.»
«Robb, non puoi impedirmi di andare!»
«E Bran? Chi si occuperà di Bran e
Rickon?»
Sansa posa una mano sul braccio di
Robb, e Petyr – senza sapere perché – sente un piccolo moto di gelosia
nascergli dentro.
Sono
fratelli, dice tra sé e sé, come se servisse a placare quel
calore.
«Parlerò con Bran. È grande
abbastanza da capire, Robb. E poi ci saresti tu.»
«Io lavoro, Sansa! Come puoi
pensare…»
Ma Sansa solleva una mano per
interromperlo. «Lo so, ma puoi prenderti una pausa. Chiedere qualche giorno.
Noi torneremo presto, te lo prometto.»
«Sì, non devi temere per noi» dice
Arya, chiudendo la mano a pugno e spostando il peso da un piede all’altro.
Petyr sa a cosa sta pensando, a quale
episodio. «E poi ci sarà lui con noi.»
Robb lo guarda, ed è come se gli
stesse chiedendo di badare alle sue sorelle, di proteggerle. Senza conoscerlo, senza sapere ciò che ha fatto – ciò
che farà – il giovane Stark si sta
fidando di lui.
Perché?
Si chiede Petyr. Come può essere così
ingenuo? Così simile a suo padre?
Lui annuisce lentamente.
Non aveva bisogno della sua richiesta…
se ha deciso di partire con Sansa è proprio per poter badare a lei. Per avvicinarsi ancora.
«Saluto Jon» dice Arya, nel momento
in cui Robb acconsente. Petyr la vede raggiungere il letto dove riposa il
ragazzo, i tubicini che escono da sotto le lenzuola, le macchine a cui è
collegato, il cui ticchettio arriva fino in corridoio.
Sansa si avvicina a Robb, china la
testa e si morde un labbro. Ha paura,
capisce Petyr. E cerca conforto da lui.
Li guarda stringersi, socchiudere gli occhi, godere di quella vicinanza di cui
si sono privati per tanto tempo.
Non c’è imbarazzo, solo amore per la
famiglia e bisogno di ritrovarsi.
Nella stanza in fondo, Arya si è
appena chinata sul fratellastro, e Petyr percepisce il bacio sulla fronte senza
vederlo, come se ce l’avesse davanti… Le dita che artigliano le lenzuola, le
labbra che sfiorano la pelle, come mute promesse di ritorno, di speranze, di
aiuto.
Sono diverse, le sorelle Stark,
eppure, in fondo, così simili…
Sansa raggiunge Arya, chiudendosi la
porta alle spalle, e Petyr perde ogni contatto con quel momento così intimo.
Robb sembra volergli parlare, fa un passo avanti e si ferma.
Ha
cambiato idea, pensa Petyr, osservandolo tornare
indietro e raggiungere le sorelle.
Lui rimane isolato da quel mondo, da
quella famiglia a cui ha dato – e tolto
– così tanto, per cui si è perso, struggendosi per anni, fino alla resa.
E
alla ripresa, quando ho incontrato Sansa.
Quando le ragazze escono, non servono
parole per sapere quale sia il prossimo passo prima della partenza.
Sandor sta fumando una sigaretta, e
Petyr riesce a scorgere i suoi occhi posati su Sansa mentre si avvicina
all’auto. C’è brama, e desiderio, e
qualcosa di celato tra loro, che forse lui non scoprirà mai.
Sansa si stringe le mani intorno al
corpo, come se quel gesto potesse proteggerla da tutti loro. Ha la stessa
camicia che indossava al mattino, quando Petyr è stato così vicino a lei, a un
soffio dal baciarla…
Quando ha scorto quella vena di
morte, e vendetta, e speranza, sentendo una voglia folle di prenderla e farla
sua, anelando alla sua innocenza, a quella sorta di luce e oscurità che sembra
caratterizzarla. E che lo fa impazzire.
“Lo
voglio morto”, Sansa non lo ha mai detto, eppure Petyr
le ha letto quel messaggio negli occhi, l’ha sentita implorare piano, senza
bisogno di usare le parole.
E l’ha accontentata.
Non
l’ho fatto solo per lei, confessa a se stesso. Ma ricaccia
quella verità a fondo dentro di lui, come se non potesse permettersi di
lasciarla fuggire.
«Non possiamo andare via!» grida
Arya, riportandolo nel tiepido parcheggio dell’ospedale, con gli occhi puntati
sul profilo di Sansa. E sul modo in cui
il Mastino la guarda…
Sandor sbuffa, come se non ne potesse
più di aspettare. Getta il mozzicone a terra e lo calpesta con la scarpa.
«Perché?» domanda Sansa. Ha il volto
stanco, come se avesse passato la notte insonne.
«Devo avvertire Gendry. Dovevamo
vederci questa sera.»
«Dobbiamo anche passare da casa. Devo
controllare una cosa…» spiega lei, prendendo a fissare le ruote della macchina.
«Qualcosa di utile per Jon?»
Le due sorelle si guardano – occhi
diversi che si scambiano messaggi diversi – ma Petyr non riesce a comprendere i
loro sguardi.
«Forse» sussurra lei, prima di salire
in auto.
L’appartamento di Londra non dista
molto dall’ospedale, e Petyr fa presto a raggiungerlo. Quando accosta, Arya è
la prima a scendere, spingendo contro la porta della macchina, dalla parte di
Sandor.
«Voi restate qui.»
Un colpo secco del Mastino allo
sportello e la ragazzina è a terra.
«Arya!» grida Sansa, preoccupata.
Petyr scende, osservandola raggiungere la sorella. «Ti sei fatta male?»
«No» mormora, rialzandosi. «Ma loro
restano qui.»
Sansa non sembra d’accordo; lancia
un’occhiata a Petyr come a chiedergli scusa, come a dirgli che è per Sandor –
per ciò che ha appena fatto – se non insiste, se li lascia fuori.
Lui fa un cenno con la testa, e le
guarda sparire nel portone.
«Non hai detto niente» ringhia il
Mastino, con una nuova sigaretta tra le dita. «Ci ha lasciati qui come cani
alla catena.»
«Non è una novità per te» sogghigna
Petyr.
Sandor gli mostra il dito medio e
solleva gli occhi al palazzo alto dove sono appena entrate le ragazze.
Sansa
mi avrebbe fatto entrare, pensa lui, chiedendosi da quale
finestra potrebbe affacciarsi la figlia di Cat. Se fossi stato da solo… ora sarei di sopra con lei, invece che qui
sotto con lui.
Non passa molto che il cellulare di
Petyr prende a squillare. Che sia Lysa? Shae avrà avuto problemi con Robin?
O si tratta di affari?
Sandor posa gli occhi su di lui,
tanto che Petyr si vede costretto ad allontanarsi. Il numero è sconosciuto,
così fa un bel respiro prima di rispondere.
«Sì?»
«Lord
Baelish, che sorpresa. Ti credevamo tutti morto.»
Cersei.
Petyr si allontana ancora dal Mastino,
prima di rispondere. «A cosa devo il piacere di…»
«Nessun piacere» lo interrompe lei,
glaciale. «Almeno, non per me.»
Petyr riesce a immaginarla, mento in
alto e schiena dritta, mentre lo guarda con freddezza.
«È un vero peccato…»
«Non credo, Ditocorto» Ora, dalla sua
voce, Petyr è certo che lei abbia appena sorriso. «Nemmeno per te è un piacere
sentirmi.»
Lui resta in silenzio, si sfiora la
gola, quasi come se avesse il nodo di una cravatta da allentare. E aspetta.
«Sai» riprende Cersei, e dal tono
sembra pronta a infierire su di lui. «Ci chiedevamo tutti dove fossi finito… Tu
e quella stupida di Sansa.»
Lei fa una pausa, e a Petyr sembra di
vederla mentre abbassa un momento le palpebre per mantenere il controllo.
«Finché qualcuno non ci ha chiamato…
e vi abbiamo trovati a Londra» dice Cersei, gelida. «E il cane… è con voi. Non lo pensavo, non credevo che sarebbe arrivato a
tradire. Quanto gli hai offerto, Ditocorto? Quanto gli hai dato per voltarci le
spalle?»
D’istinto, lo sguardo di Petyr corre
a cercare Sandor, trovandolo appoggiato al muro di fianco al portone. Stringe
le labbra prima di parlare.
«Niente.»
Silenzio. Persino Cersei sembra
incredula. Non quanto me quando l’ho
capito.
«Che significa?»
Che
il cane ha cambiato padrone.
«Non ho fatto nessuna offerta. Non ce
n’è stato bisogno» sussurra, sapendo che sono le parole giuste per ferirla.
«Che cosa gli hai detto, Ditocorto?»
Mi
basta nominare Sansa per farlo girare in tondo come una trottola.
«Perché non lo chiedi a lui, maestà?»
«Lo chiedo a te.»
Petyr sogghigna, abbassa ancora la
voce accarezzandosi il mento con le mani. «Dov’è Payne, Cersei?»
«Payne? Che c’entra, ora?»
Lo
sa… o forse no.
«Sembra che si nasconda a Londra. Non
era uno dei tuoi?»
«Lo è ancora.»
Petyr sorride, infila una mano in
tasca e solleva gli occhi a osservare le finestre del palazzo. Dietro uno di
quei vetri c’è Sansa.
«Devo supporre che sia stata tu a
mandarlo qui, allora…»
«Ha una commissione da fare. Perché
me lo stai dicendo?»
«Sembra che il tuo amico abbia investito il fratellino di
Sansa…»
Cersei resta zitta. Non ne sapeva
nulla, non è stata lei. Ma questo, pensa Petyr, non gli impedisce di sfruttare
quel vantaggio. Anche se non è stata lei…
«Non ti credo.»
«È la verità. C’è chi lo sta
cercando…» sussurra, mellifluo, prima di incrociare lo sguardo sospettoso di
Clegane. «E quando lo troverà, non c’è bisogno che ti dica chi sarà il
prossimo, vero?»
«Maledetto. Sarai tu il prossimo!
Jamie ti ucciderà quando saprà delle tue minacce! Verrà a prenderti, Ditocorto,
e non c’è bisogno che io ti dica cosa
ti farà quando sarai nelle sue mani…»
Petyr prova un brivido. Fa un passo
verso il Mastino, chiedendosi chi abbia mandato Payne.
Se
scopro questo, Jamie Lannister non potrà toccarmi. E nemmeno Cersei…
«È stato Joffrey» riprende lui,
ignorando gli avvertimenti di Cersei. «Non è vero? Quello che mi chiedo è perché colpire un ragazzino. Quale
offesa può avergli recato?»
«Tu» La voce di lei è talmente bassa
e roca da attraversarlo, come un fulmine. «Tieni fuori Joff dai tuoi intrighi…»
È
stato lui… Deve essere stato lui.
«Chiediglielo» risponde Petyr,
passandosi la lingua sulle labbra. «E poi richiamami.»
Ω
Arya sta parlando con Gendry al
telefono in camera sua, e Sansa ne approfitta per sgattaiolare nel salotto dove
ha dormito, e dove lo zaino e la sacca di Jon sono ancora nel pieno disordine.
Bran è appisolato sulla sedia a
rotelle, di fianco al divano.
Lei fa un sospiro, spera di non
svegliarlo, e raggiunge le cose del suo fratellastro. Lancia un’occhiata al
ragazzino, giusto un istante prima di mettersi a frugare tra quella roba.
Vestiti, scarpe, documenti e una
mappa.
Chiavi, acqua, biglietto del treno.
Niente di ciò che sperava di trovare,
anche se alla fine, cercando di non farle tintinnare, Sansa infila le chiavi in
tasca.
«Che cosa fai?»
Lei si volta, trovandosi sotto lo
sguardo attento di Bran. Vederlo su quella sedia fa male, ma non quanto l’idea
di Jon in quel letto d’ospedale, non quanto sapere di non poterlo aiutare.
«Dobbiamo andare via» mormora piano,
come se lui stesse ancora dormendo e Sansa temesse di svegliarlo. «Io e Arya.»
«Dove?»
«A casa.»
È una parola. Eppure Bran sgrana gli
occhi, un istante prima di assottigliarli. Come se lei avesse appena nominato
suo padre e sua madre, come se gli avesse appena detto che li rivedrà presto.
«Vorrei venire anch’io.»
Ma
non puoi…
Sansa annuisce, lo raggiunge e si
inginocchia davanti a lui, posandogli le mani sulle ginocchia.
«Torneremo presto.» Torneremo, è il vero messaggio che gli
sta dando.
Bran abbassa gli occhi sulle sue
gambe; c’è un velo di rimpianto. Come se fosse colpa sua il non poter partire,
il non poter camminare. Come se avesse perso qualcosa di più importante della
vita stessa.
«Perché frugavi tra la roba di Jon?»
Speravo
di trovare risposte.
«Per lo stesso motivo per cui devo
andare a nord.»
«Me ne parlerà Robb?»
Sansa fa cenno di sì. «Te ne parlerà
Robb.»
Dieci minuti e sono di nuovo in
strada.
Arya sembra arrabbiata con Gendry,
Sandor non le toglie gli occhi di dosso, e Petyr – lui, che Sansa crede di
conoscere più di tutti – è strano. Assente.
Mentre sua sorella sale in auto, Sansa
si avvicina proprio a lui, tenendosi a distanza dal Mastino.
«È successo qualcosa?» sussurra,
trovando nei suoi occhi una risposta vaga. Vuota.
Petyr scuote la testa, poi le sorride.
In ritardo, come se davvero avesse
qualcosa da nascondere. «Possiamo partire?»
«No» dice Arya, affacciandosi al
finestrino. «Devi portarmi da Gendry a dirgliene quattro.»
«Arya…»
«Niente “Arya”, Sansa! Gli ho chiesto
di venire con noi e non ha voluto.»
Petyr ne approfitta per salire in
auto, evitando di dover rispondere alle sue domande.
«Basta deviazioni» ringhia Sandor,
battendo un colpo contro lo sportello.
«Sì, Arya… Pensa a Jon. Non può più
aspettare.»
Sansa lo dice sedendole vicino, sui
sedili posteriori. Vorrebbe sorriderle, dirle qualcosa di carino, rassicurarla.
Ma non si sente tranquilla.
Non con loro tre in auto, non con due
uomini di cui non conosce quasi nulla, se non i difetti peggiori. Non con sua
sorella… con la persona che se n’è andata insieme a Robb tanto – troppo – tempo
prima, quando Sansa ha preferito Joffrey alla sua famiglia.
“Robb
non lo farebbe mai!” gridava contro di lui, ogni volta che si
sentiva sola. Ogni volta che il suo fidanzato alzava le mani contro di lei.
“Robb
non picchia le donne!”
Glielo rinfacciava continuamente. Al
minimo insulto, alle prime strette di Joffrey, al suo primo schiaffo.
“Robb
è un uomo. Non è come te.”
Era il suo ritornello preferito;
mentre il resto della canzone erano umiliazioni e suppliche, Sansa si
aggrappava a quelle parole per restare in piedi. Per affrontarlo. Sola.
Quante volte si era pentita di non
essere partita per Londra? Quante volte aveva desiderato – sognato – il
coraggio di prendere e tornare a casa, anche a costo di non avere nessuno
accanto?
«Facciamo una sosta?» chiede Petyr,
riscuotendola.
Un pensiero tira l’altro, e Sansa non
si è accorta del tempo trascorso. Arya si spinge contro il sedile del
guidatore, facendo cenno di sì, mentre lei resta in silenzio.
«Sì» dice Sandor, togliendosi la
cintura che Petyr gli ha costretto a mettere. «Devo pisciare.»
Quando si fermano in una stazione di
servizio, il Mastino sparisce all’istante. Anche sua sorella, che si fionda a
comprare qualcosa da mangiare.
Petyr scende e si appoggia all’auto,
accendendosi una sigaretta. Sansa è di fianco a lui.
«Me ne dai una?»
Si guardano e, all’improvviso, tutte
le risposte che cercava diventano nulle. Le loro mani si sfiorano mentre Sansa
sfila una sigaretta dal pacchetto, mentre spinge la schiena contro il vetro, e
Petyr le si para davanti.
Sono così vicini che quando la fiamma
dell’accendino prende a bruciare tabacco e cartina, è un altro il fuoco che
vede. Negli occhi di lui, nella scintilla – più bella e luminosa – che gli ha
visto anche quella stessa mattina.
Aspira e butta fuori il fumo girando
la testa di lato, in modo da non colpire lui.
Fumano insieme, come se ci fosse
stato altro tra loro, come se stessero condividendo chissà quale segreto. Sono
così vicini che quando Petyr appoggia una mano contro il vetro dell’auto –
proprio accanto a lei – il respiro di Sansa rallenta, si acquieta, come se
servisse a ossigenare quel fuoco che brucia dentro di lei.
«Sei bella, Sansa.»
Quante volte ha sentito quella frase?
Persino da Joffrey… Ma nella bocca di Petyr ha un altro sapore. Lo stesso di
casa.
«Perché fai tutto questo?»
Non gliel’ha mai chiesto, pur
desiderando farlo fin dal primo giorno.
Un altro risponderebbe alla sua
domanda con un’altra domanda. Un altro resterebbe in silenzio, fingendo di non
aver capito.
Ma Petyr allunga le labbra in un
sorriso. In quel sorriso, che Sansa
conosce tanto bene. Solleva la mano dal vetro e la posa con delicatezza sulla
sua guancia, come in una carezza.
Le sfiora le labbra con il pollice,
mentre abbassa lo sguardo.
«Per un sogno.»
Note
dell’autrice:
E ce l’abbiamo fatta! A dirla tutta
avevo previsto anche l’arrivo a “casa” per questo capitolo, considerando che
dovevano solo salutare i fratelli e
avvertirli. Pazienza. È leggermente più breve dei precedenti, ma non penso sia
un problema.
Adoro Petyr, e contando che scrivo di
uno dei personaggi più odiati del fandom, vi ringrazio per continuare a seguire
questa storia.
Fatemi sapere cosa ne pensate!
Celtica
|
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Capitolo 22 *** Di nuovo a Casa ***
Capitolo 22
asa
ha il sapore delle cose semplici.
Di quel cancello di ferro
arrugginito, che Sansa rimane a guardare prima che Arya si faccia avanti per
aprirlo.
«Andiamo» dice sua sorella.
Ma lei rimane immobile a fissare la
ruggine, gli alberi alti e verdi che circondano il muro d’entrata. In
lontananza, una macchia grigia sembra dirle che l’edificio c’è ancora, che non
è crollato, che nessuno è venuto a distruggerlo.
Sansa ha immaginato tante volte di
tornare lì. Di piangere guardando casa. Di pensare ai suoi genitori, alle
giornate trascorse con loro, ai momenti vissuti con i suoi fratelli.
Ma non sente niente ora.
Non ci sono lacrime sul suo viso, non
c’è malinconia nel suo cuore.
Solo un posto vuoto nel petto, simile
a un pozzo senza fondo che nessuno sembra in grado di riempire.
«Vieni o no?» chiede Arya, risalendo
in auto.
Sansa guarda ancora una volta quel
cancello. Poi si volta. «Vengo a piedi. Voi andate avanti.»
Lo sguardo di sua sorella è
raggelante. «Stai perdendo tempo.»
Lei non risponde, allunga una mano
per accarezzare la ruggine e abbassa le palpebre. Casa. Sono a casa.
«Ed è il tempo di Jon.»
Bastano quelle parole per farla
scostare e spingerla a riaprire gli occhi.
L’auto le passa accanto, nessuno la
sta guardando, ma Sansa sente i loro sguardi addosso.
Sto
perdendo tempo. E Jon non ne ha più.
Eppure, nonostante quella
consapevolezza, nonostante sappia che è l’unica cosa certa di quel viaggio,
Sansa oltrepassa il cancello con lentezza, come se il primo tocco su quella
terra – la terra chiamata casa – meritasse attenzione.
Sono
tornata.
«Sono tornata a casa!»
Fa una giravolta su se stessa, guardando
il cielo. Intorno a lei c’è solo silenzio.
Attraversa quella porzione di parco
che la separa dai suoi compagni di viaggio, e riesce a studiarli oltre il
profilo degli alberi.
Qui
è dove Bran si arrampicava.
Casa è fatta di pietra, un po’ come
il temperamento di suo padre. Di suo fratello. Persino di Jon.
Casa ha finestre lunghe al
pianterreno, e una serie scomposta e ovale ai due piani superiori. Casa ha una
porta nera, alta quanto quella di una chiesa, con scalini in marmo bianco su
cui ora Arya è seduta.
È la statua di un lupo a lato
dell’entrata, che guarda in alto a bocca spalancata. I suoi fratelli amavano
giocare lì, fingendo che fosse reale.
Sandor ha una lattina in mano,
sicuramente qualcosa che ha acquistato durante il viaggio. La beve con avidità,
e sembra impaziente.
Ma
cosa è venuto a fare?
Sono una strana squadra. Due sorelle
e due uomini agli antipodi. Niente li accumuna, niente li unisce. Niente
avrebbe dovuto convincerli ad accompagnarla a nord.
«Sansa.»
Petyr.
E infatti, voltandosi, se lo trova di
fianco. Vorrebbe restare da sola. Dopotutto è casa sua.
«Stai bene?»
Sansa ha sognato tante volte di
tornare in quella casa, con i suoi fratelli. Persino con Jon. Ma ora che Petyr
le è vicino, ora che la guarda con preoccupazione, capisce che va bene così.
«Sì» mormora, restando nascosta alla
vista degli altri due. «Credo di sì.»
Lui si avvicina, le sfiora il mento.
«Credi?»
Vorrebbe piangere. Lì, ora, davanti a
lui.
Non ha provato niente davanti a quel
cancello, se non il vuoto. Ha sentito un pozzo profondo e impossibile da
riempire. Ma non adesso, non adesso che Petyr la guarda e Sansa vorrebbe solo
morire.
Perché è tornata? Perché ha creduto
di non sentire niente?
Tutto ciò che pensava si sta avverando,
ora.
Malinconia, rabbia, tristezza,
dolore. Emozioni che la confondono e si mischiano dentro di lei, facendola
impazzire.
La testa scoppia, il respiro
accelera. I pensieri si fanno cattivi, brutali, e non c’è tempo per cambiarli.
Non c’è modo di evitarli, non si può
premere l’interruttore e smettere di pensare.
Sansa si lascia guidare dalla sua
mente annebbiata contro il tronco di un albero. Si appoggia, si spinge, sente
la corteccia ruvida premere contro il maglioncino con cui ha sostituito la
camicia, e Petyr è da lei.
«Sansa!» dice ad alta voce, ma non
abbastanza forte perché gli altri possano sentirlo.
Sono soli, e ogni cosa assume per lei
contorni sfumati.
Quando si è accorta di stare male?
Quando ha capito che c’era sofferenza
in quel vuoto, in quel buco nero nel suo petto?
Le mani di Petyr le tastano la
fronte, le sfiorano le guance. Vuole accertarsi che stia bene, ma Sansa non sta bene, non può stare bene.
È a casa.
E non c’è più nessuno.
I suoi genitori sono morti, suo
fratello non camminerà più, Jon rischia la vita. E lei, Sansa, ha vissuto
piccole tragedie che avrebbe potuto evitare, se solo fosse stata più furba.
Se solo non avesse guardato nel modo
sbagliato un ragazzo che non poteva avere, convincendosi di esserne innamorata.
«Sansa, guardami.»
E lei obbedisce. Solleva gli occhi su
di lui e lo osserva.
«Respira, Sansa. Fai respiri lenti e
profondi. Prendi fiato.»
Petyr la sorregge, e Sansa lo
ascolta. Poi, senza sapere perché, senza rendersi conto del suo gesto, di dove
l’abbiano condotta i suoi pensieri, si allunga verso di lui, intrecciando le
dita dietro la sua nuca.
Baciami.
Potrebbe dirlo. Ora, lì, stringendosi a lui. Supplicandolo di darle un po’ di
conforto, di dirle che andrà tutto bene.
Ma tutto quello che fa è spingersi
avanti per cercare le sue labbra.
Stringe forte gli occhi, sente le
mani di lui afferrarla per i fianchi per allontanarla con dolcezza. Ma non
demorde.
È
solo un rifiuto.
Preme sulla sua bocca, e più lui
cerca di separarsi da lei, più Sansa lo esorta a restare. È rimasta sola. Non
c’è più nessuno ormai. Una casa vuota – la sua
casa vuota – che ha visto tanti sorrisi. A cui sono rimaste solo lacrime.
«Ti prego» sussurra, seguendo con
l’indice la linea della sua spalla.
«Sansa… no. Non ora. Non qui.»
Ma gli altri non possono vederli, non
possono sentirli. Ne è sicura. Così sicura da tirarlo verso di sé, rimanendo
incastrata contro l’albero.
«Solo un istante.»
Non sa se è quello che vuole, non sa
perché lo stia facendo. Non sa perché abbia scelto lui, perché non abbia
preferito cacciarlo e restare sola in quel parco.
Un bacio per smettere di pensare, per
fingere che tutto vada bene, che ci sia ancora amore a Grande Inverno, e non
solo fredde pietre e pianti.
«Solo una volta» sussurra sulla sua
bocca.
Petyr la stringe ancora per i
fianchi, ma non più per allontanarla. È come se avesse messo da parte l’attesa
per lei.
È
il suo sacrificio. Infrangerla per lei, solo per lei.
Lo sente risalire fino alla vita e
poi fermarsi, come se avesse osato troppo. Questa volta è lui a baciarla, un
piccolo fuoco che muta in incendio. Si avventa su di lei, una volta soltanto,
spegnendo la sua mente per un istante.
E quando si stacca, piano, Sansa riapre
lentamente gli occhi.
«Perché sei qui?»
Le mani di Petyr la avvolgono, come
se temesse in una sua fuga. Lei lo vede stropicciare le labbra, come se – ancora – volesse sentire il sapore di
lei sulla bocca.
Sa cosa sta per dire, la cosa più
banale e futile, eppure, nonostante tutto, Sansa ha bisogno di sentirlo. Ha bisogno di lui, di quel momento, di sentirsi
protetta. Di sentirsi amata.
«Non lo sai?»
Lei non risponde. Fa scivolare le
mani dalle sue spalle, fermandosi sul suo petto. E scuote la testa.
«Ho un sogno, Sansa. E tu sei al mio
fianco.»
«Quale sogno?»
Ora è Sansa a staccarsi da lui,
adesso che la magia è rotta. Sente le sue dita accarezzarle la guancia e
soffermarsi sul suo viso.
«Lo vedrai» sussurra, seguendo lo
zigomo con il pollice. «Ti insegnerò io.»
«A fare cosa?»
Per un brevissimo istante, Sansa ha
ricordato la sua richiesta. La vita di un
uomo sulla coscienza. Ma Petyr non le ha detto niente, non può averlo fatto
davvero.
Eppure, ancora, Sansa ricorda lo
sguardo di lui carico di desiderio, nel momento in cui ha capito ciò che lei voleva.
Arya non sarebbe rimasta in silenzio,
lo avrebbe gridato al mondo se Janos Slynt fosse morto. Glielo avrebbe detto, e
lo avrebbe detto anche a Robb. E a Jon.
Petyr sorride, le sfiora la bocca con
le dita e non dice niente.
«Vieni» sussurra poi, prendendola per
mano. «Torniamo dagli altri.»
Ω
Grande Inverno.
Un posto dove avrebbe preferito non
andare. Il desiderio segreto dei Bolton, il luogo che ha tenuto Petyr lontano
da Cat.
Eppure, pensa ora, è proprio questa
casa a unirlo a Sansa. Ad averla presa e posata tra le sue braccia.
«Vuoi restare lì?» chiede Arya,
mentre sua sorella apre il portone.
Lui le raggiunge in cima alla
scalinata, lanciando un’occhiata al Mastino. Sta guardando Sansa.
Quando entrano, l’atrio ha l’aspetto
di quelle tenute di buona famiglia, abbandonato dal tempo. Ci sono due scale
che salgono ai piani superiori, incrociandosi davanti alle loro teste.
E, ovunque, Petyr riconosce
l’impronta di Catelyn.
In alcuni soprammobili, nel
lampadario in vetro soffiato, nei quadri che raffigurano animali…
Allunga una mano per toccarne uno,
dove un usignolo sorvola le acque di un fiume dove nuotano i pesci.
«Lo ha portato nostra madre» dice
Arya, mentre Sansa china la testa. «A me non è mai piaciuto.»
Petyr annuisce. «Gliel’ho regalato
io.»
«Davvero?» chiedono in coro le due
sorelle Stark.
Lui fa cenno di sì e si infila la
mano in tasca, stringendola a pugno. L’ultima
volta che ci siamo visti.
Sansa fa un passo avanti,
appoggiandosi alla ringhiera delle scale. «È quasi sera. Dovremmo cominciare a
cercare.»
«Adesso?» chiede Sandor.
«Prima li troviamo, prima possiamo
tornare indietro.»
«Per questa notte potremmo restare
qui» dice Petyr, guardandosi intorno.
«Jon non ha tempo da perdere» ribatte
Arya, incrociando le braccia al petto.
Guidare di notte non è un problema
per Petyr. Ma avrebbe preferito perdersi un momento tra quelle mura, restare a
pensare. A ricordare.
«Allora vi aiuteremo a cercare.»
Sansa scuote la testa. «Restate qui.
Non sapreste da dove iniziare e non abbiamo tempo per spiegarvelo.»
Arya annuisce con vigore, un attimo
prima di sparire su per le scale dietro alla sorella.
Il Mastino prende a girare per le
stanze al pianterreno, guardandosi in giro, toccando oggetti impolverati abbandonati
sui mobili.
Petyr non fa altrettanto… posa gli
occhi su una bella sedia rivestita e si siede, in attesa.
Ha avuto una giornata intensa… e
vorrebbe solo chiudere gli occhi e riposarsi. Controlla l’orologio, di
continuo, fissando la lancetta dei secondi come se fosse in trance.
«Ci stanno mettendo troppo» ringhia
Sandor, aprendo le ante di un armadietto. Continua a rovistare, finché non
trova ciò che stava cercando: alcolici. «Un bicchiere?»
Petyr accenna un sorriso e scuote la
testa, sollevando una mano. «Passo.»
«Peggio per te.»
A Petyr piace avere la mente lucida;
soprattutto se in programma c’è una strada, la notte e… Sansa, seduta sul sedile posteriore dell’auto.
Cosa succederà quando torneranno
indietro? Dovranno dividersi? Lei non accetterà di tornare in città… lo ha già
detto. Lo ha già deciso.
«Niente» dice Arya, scendendo le
scale. «Abbiamo guardato dappertutto, ma di sopra non c’è niente. Ora proviamo
qui.»
Sansa è dietro di lei, cupa in volto.
Petyr le osserva entrare in un’altra
stanza, e aspetta.
Aspetta che trovino, che tornino da
lui, che gli dicano di ripartire.
Ma non succede.
Quando le guarda, non servono parole
per capire che hanno fallito. Che non hanno trovato ciò che stavano cercando. E
Sandor è già al quarto bicchiere…
«Deve
esserci qualcosa. Non è possibile.»
«Non c’è, Sansa» ribatte Arya,
incrociando le braccia al petto. «Conviene pensare a un’altra soluzione.»
«E quale? Non sappiamo niente di Jon,
o di nostra zia… Non sappiamo nemmeno se è davvero sua madre!»
Petyr abbassa gli occhi sul
pavimento. Non sa ancora come, ma forse, forse,
quella situazione potrebbe volgersi a suo vantaggio. Se solo sapesse come
risolverla… Sansa lo guarderebbe diversamente. Magari sarebbe disposta a
tornare in città con lui.
«Hai parlato dello zio Benjen»
mormora Arya, raggiungendo la porta. «Conviene raggiungerlo.»
«E come, Arya? Non ho idea di dove
sia ora. Magari Jon si è sbagliato, magari è morto…»
«Jon non si è sbagliato. Se ha detto di averlo visto, è così, lo ha
visto davvero. Dobbiamo solo trovarlo.»
Sansa china la testa, come se si
fosse arresa.
Non sa perché, ma Petyr si sente
dispiaciuto per lei.
«Perché non restiamo qui?» propone,
cercando i suoi occhi. «Almeno per stanotte. Domani cercheremo il modo di
trovare vostro zio.»
Arya lo guarda incredula. «Jon è in
un letto d’ospedale.»
Lui inclina appena la testa di lato.
«Lo so, ma non vedo come mettersi a viaggiare di notte, senza una meta, possa
essergli d’aiuto.»
«Sarà certo meglio che restare qui a
non fare niente!»
Sansa allunga una mano e sfiora il
braccio di sua sorella, come per calmarla. «Ha ragione» sussurra.
Lo sguardo di Arya è di puro
disprezzo.
«Non servirebbe a niente uscire a
quest’ora. È già buio.»
E voltando la testa verso la
finestra, anche Petyr si rende conto di quanto sia tardi. Il sole è ormai
svanito, e il parco della villa si sta colorando di rosso.
«Sei uguale a lui» sibila Arya, prima
di sparire su per le scale.
Sansa sgrana gli occhi, lo guarda un
istante, poi segue la sorella al piano superiore. Non restano lassù per molto,
e dopo un po’, quando ritornano, sembrano entrambe sovrappensiero. Petyr
capisce subito dove siano rivolte le loro menti.
«Resteremo qui» mormora Sansa, lisciandosi
il maglioncino. Poi, prima di continuare, guarda proprio lui. «Solo per
stanotte.»
Sandor posa il bicchierino con forza
sul tavolo – dev’essere il settimo – e fa un grugnito. Petyr china appena la
testa per dire di sì.
«Jon è stato qui per un po’, controlliamo
cos’ha lasciato da mangiare. Di sopra abbiamo tirato fuori lenzuola pulite per
tutti e abbiamo rifatto i letti.»
Arya solleva la testa al soffitto, e
Petyr capisce: solo Sansa si è data da fare, magari mentre stavano discutendo
di qualcosa.
Ma
cosa? Si chiede lui.
«Perché dovrebbe aver lasciato
qualcosa se poi è partito?»
Sansa scrolla le spalle. «Non sapeva
cosa sarebbe successo, forse era convinto di tornare qui con tutti noi.»
La cena è abbastanza povera,
interrotta a tratti da Sandor che apre nuove bottiglie di birra, ma nessuno
sembra avere molta fame.
Mangiano in silenzio, e quando è ora
di salire, Sansa gli lancia una lunga occhiata, come se sapesse.
Cosa si sono dette? Cos’è successo
con Arya?
Ha parlato? Le ha confessato ciò che
hanno fatto a Janos?
E Sansa come l’ha presa?
«Buonanotte» dice, guidandoli al
piano superiore, prima di indicar loro le stanze.
Sandor si ferma a metà corridoio, e
non ci vuole molto per capire a cosa stia pensando. È ubriaco, e ha gli occhi
puntati su Sansa. Se solo fossero soli, Petyr ne è certo, non esiterebbe a
prendere ciò che vuole.
Stringe la mano a pugno, trattenendo
la rabbia. La gelosia.
«Buonanotte» risponde, aspettando di
vedere il Mastino entrare in camera, prima di fare lo stesso.
E quando Sansa sparisce dietro una
porta, Sandor emette un lungo sospiro.
Non
è tua, pensa Petyr. Non
puoi averla.
Anche lui raggiunge la sua stanza –
gli sembra quasi di sentire l’odore di Sansa, ma sa che è solo una mera
illusione – e si infila sotto le coperte.
Non riesce a dormire. Non può, non
lì, non senza sapere cosa si siano dette, non senza conoscere il proprietario
di quel letto.
Chi ha dormito in quella camera?
Forse Sansa? Forse il suo caro Robb? Jon?
Petyr si alza in piedi, le calze
strusciano sul pavimento; alle pareti, i muri sono spogli. Non ci sono
fotografie, né niente che possa dargli un indizio. Solo una treccia di vimini,
con al centro una candela, e nient’altro.
Poi capisce.
Nessuno è stato in quella stanza. Né
Sansa, né i suoi fratelli.
Ha scelto di dargli la stanza degli
ospiti, come se fosse uno qualunque, o come se non si fidasse di lui… Non più.
Petyr siede davanti alla finestra, a
godere la vista del parco. È notte, e ci sono solo due luci fuori – i due
faretti che illuminano l’entrata – il cielo è nero, ma per lui è come se
nevicasse.
Una sottile nebbia attraversa gli
alberi, arriva fino alla porta sottostante. È uno scintillio. Come neve.
Come se lui avesse la vista
annebbiata e, fuori, il parco fosse ricoperto da un manto bianco.
Un’illusione.
Eppure, in quel momento, Petyr vuole
crederci.
Vuole credere di aver baciato Sansa
in mezzo alla neve, di aver deciso lui di farlo, di non essersi lasciato
supplicare. Vuole credere di essere tornato ragazzo a Grande Inverno, di aver
trascorso lì la sua giovinezza, i tempi passati.
Vuole credere che ci sia ancora una
speranza.
Per lui, per loro, per Sansa. Per
rinascere. Per stare insieme. Per tornare giovane, e avere tutto ciò che non ha
avuto.
Finché qualcuno bussa alla porta – è tardi, è notte – e Petyr si alza per
aprire.
Il sogno si è infranto? La neve si è
sciolta?
E quando gira la manopola e tira
verso di sé, è Sansa che si ritrova davanti. Sgrana gli occhi e la guarda,
scostandosi appena per lasciarla passare.
«Scusami» sussurra lei, entrando in
punta di piedi. Non vuole essere sentita,
non vuole che si sappia. Unisce le mani e abbassa il capo. «Avevo bisogno
di parlarti.»
La neve non si è sciolta, è ancora
fuori, in volo davanti alla sua finestra, come un pulviscolo di stelle. Petyr
le sfiora il dorso con le dita e le fa un cenno.
«Vieni con me.»
La guida alla finestra, rimandando
quella loro conversazione, quella che potrebbe rovinare quel momento.
«Guarda.»
L’indice incontra il vetro
trasparente, si perde nei meandri della nebbia – della neve – e, senza rendersene conto, attira Sansa a sé,
stringendola per la vita.
«Sembra neve.»
Non glielo sta chiedendo, glielo sta dicendo. E la vede abbandonarsi a quella
visione – perdersi e poi ritrovarsi –
come in un sogno.
Sansa è insieme a lui, in mezzo alla
neve, in mezzo al nulla. Ci sono solo loro due, nient’altro.
E anche lei sembra accorgersene.
Socchiude gli occhi, schiude le labbra, e posa una mano su quella di Petyr –
quella che ora è sul suo ventre.
«È vero» sussurra. «Sembra neve.»
Note
dell’autrice:
E fino all’anno prossimo non ci vedremo più! Tanti auguri a tutti! E spero di sentirvi!
Celtica
|
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Capitolo 23 *** So quello che avete Fatto ***
Capitolo 23
Stavolta
il capitolo è tutto
dedicato a Sansa.
E
ai segreti.
enzuola bianche si gonfiano come vele
spiegate.
Sansa aspetta che siano loro a
posarsi dolcemente sul letto, in attesa che Arya le dia una mano.
Ma sua sorella rimane appoggiata allo
stipite della porta, imbronciata.
«Sei uguale a lui» ripete, come ha
fatto poco prima al piano di sotto, davanti a Sandor e Petyr.
«Perché?»
Sente qualcosa, come un leggero
tramestio nel petto, che sembra metterla in guardia.
«Non ti vedi?» sibila. «Sei diventata
fredda. Ti importa solo di te.»
Ma
cosa dici? Vorrebbe gridarlo, battere i piedi sul marmo e
cacciarla via dalla sua stanza come quando erano bambine.
Ma non lo sono più… e il dolore che
Sansa sente dentro la spinge a rimanere. Ferma, immobile. In silenzio.
Socchiude gli occhi e aspetta.
«Siamo qui per Jon» ribadisce Arya,
sputandoglielo addosso come se lo avesse dimenticato. «Non per quel tuo…»
«Tuo
cosa?»
«Potrebbe essere tuo padre, Sansa!»
Lei si volta, la guarda in faccia e
scuote la testa. «Stai sbagliando. Non c’è nulla tra noi.»
«Noi»
le fa il verso, chiudendo le mani a pugno. «Ma ti senti?»
Adesso, di nuovo, Sansa vorrebbe
prenderla per un braccio e spingerla fuori. Restare sola, in attesa che sua
madre entri dalla porta a rincuorarla.
Ma sua madre è morta… e Arya è ciò
che le resta di lei.
Arya,
Robb, Bran e Rickon.
«Adesso basta, Arya. Petyr ci sta
aiutando!»
«Sta aiutando te» la corregge, facendo un passo avanti. «Solo te.»
«E non è la stessa cosa?»
Vorrebbe solo smetterla. Smettere di
parlare, smettere di pensare. Smettere di dare spiegazioni. Di cercarle nella sua testa, senza riuscire
a trovarle davvero.
Perché sa che sono solo scuse…
«No, non lo è» insiste Arya,
portandosi una mano al fianco. «A lui non importa di Jon. Non gli importa di
me. Ma a te, Sansa… a te importa? Ti importa di noi, di cosa capiterà a Jon?»
Ora è lei a fare un passo avanti,
decisa. «Non dovresti nemmeno chiederlo. Sono qui per lui.»
«Allora dimostralo.»
Sansa sgrana gli occhi, ma resta al
gioco. «Dimmi come.»
«Mandali via. Entrambi. Non abbiamo
bisogno di loro.»
Lei scuote forte la testa, vede un
sorriso di scherno sul volto dell’altra e non sa cosa dire.
«Mandali via» ripete, a bassa voce,
come se qualcuno potesse sentirla. «Possiamo farcela da sole.»
«Non abbiamo nemmeno un mezzo per
tornare a casa. Ragiona!»
«Siamo già a casa!» grida Arya,
scalfendo l’aria con la mano aperta. Poi sembra calmarsi, china appena il capo
senza smettere di guardarla. «A Londra…» comincia, interrompendosi subito.
Sansa osserva le sue nocche diventare
bianche, si chiede cosa le stia nascondendo. Cosa le stiano nascondendo tutti.
Ma vuole davvero saperlo? E se fosse
qualcosa di cattivo, se fosse qualcosa che potrebbe metterla in pericolo,
vorrebbe saperlo comunque?
No,
si dice. Finché non solleva appena il mento e parla.
«Cos’è successo a Londra?»
Un lungo sguardo di Arya è
sufficiente.
Pericolo, paura, sangue. Altro sangue che scorre per quelle strade… e Sansa arriva a
chiedersi se ne avesse mai visto – percepito
– così tanto, prima di allora.
«Cos’è successo a Londra, Arya?»
Lo ripete a voce alta, come se fosse
necessario.
Niente è necessario. Non più. Non più
da quando Ned e Cat sono morti, da quando Bran è finito sotto le ruote di un
auto e Jon vittima di un pazzo. Solo tentare
e sperare di farcela.
Di aiutare suo fratello – sì, è mio fratello! – di farlo stare
meglio.
«Non vuoi saperlo davvero.»
Perché?
Vorrebbe chiedere, ma l’immagine del sangue – del rosso – torna prepotente nella sua mente, tanto da mostrarle ancora
Jon a terra, in un lago purpureo.
Che c’entri proprio lui? Che c’entri
Janos? No, come avrebbero potuto trovarlo? Sono spariti per qualche ora, da
quando Sansa ha chiesto a Petyr di trovare Arya e di proteggerla.
«Sì, invece.»
Sua sorella fa cenno di no, e prende
a fissare le lenzuola bianche stese sul materasso.
Sono così diverse – così abbaglianti – rispetto alla sua immagine di sangue.
Come se fossero irreali.
«Lo abbiamo ucciso.»
Non c’è’ bisogno di fare nomi per
sapere a chi Arya si stia riferendo.
Sansa si porta una mano alla bocca e
aspetta. Non sa perché, ma si sente responsabile.
«Anche Petyr?»
Era convinta di averla solo pensata,
quella domanda. Era convinta di non trovare il coraggio di rivolgerla proprio a
lei. Perché immagina la risposta… e sa che non le piacerà.
Gliel’ho
chiesto io. Sono stata io.
Arya annuisce appena. «Anche lui.»
Vorrebbe chiederle i dettagli,
vorrebbe sapere com’è andata, chi si è mosso per primo, chi ha sparato-colpito-ucciso.
Chi gli ha dato il colpo di grazia…
Ma poi pensa alle parole di sua
sorella: “Sei uguale a lui.”
E non vuole essere come Petyr, non
vuole abituarsi alla vista del sangue, non vuole diventare un pezzo di ghiaccio
a ogni brutta notizia.
Sansa vuole piangere; vuole essere
forte, è vero, ma vuole anche piangere. È così che fanno le ragazze, è così che
è giusto comportarsi. È così che deve essere.
«Volevo usare il coltello» dice Arya,
come se fosse una cosa naturale. «Come lui ha fatto con Jon. Ma Petyr me l’ha
impedito.»
«E poi?»
«Sandor l’ha sollevato di peso e l’ha
buttato di sotto.»
«È…» Smetti di fare domande, si ammonisce. «È morto subito?»
Arya annuisce con vigore. «È stato
Petyr» aggiunge poi, mentre Sansa si volta per sistemare le lenzuola.
«A fare cosa?»
Una pausa, e lei sente gli occhi di
sua sorella sulla schiena. Sembrano sondarle l’anima, proprio come quelli di
Petyr, come se attendessero una sua reazione.
«A portarmi da lui. Sapeva dov’era
Janos, lo conosceva. E quando gli ho chiesto perché, mi ha risposto che è utile avere conoscenze in una città come
Londra.»
Lo
conosceva. Due parole che Sansa sente ripetersi nella sua
mente, rimbalzando da una parte all’altra del cranio. Le fanno venire il mal di
testa, tanto che china il capo e stringe forte gli occhi.
Come faceva a sapere il suo
nascondiglio?
“Ma
io voglio che lo trovi.”
“Cosa
farai di lui?”
Una domanda. Petyr lo aveva chiesto
davanti all’ospedale, mentre parlavano di Arya e della sua ricerca di Janos.
Mentre erano vicini, tanto che Sansa
riesce ancora a sentire quel calore…
«Mi ha portato al suo appartamento»
continua Arya, scostandosi una ciocca scura dal volto. «E lui l’ha riconosciuto
subito.»
Si
conoscevano.
Forse si conoscevano bene. Fin
troppo. O forse no?
Sansa prova l’impulso di abbandonare
la stanza e scendere al piano di sotto; di mettere Petyr alle strette e farsi
raccontare tutto.
Ma
lo direbbe, a me?
«Sai cosa significa?»
No, Sansa non lo sa. E non è sicura
di volerlo sapere.
«Che Petyr sapeva tutto fin
dall’inizio. Che quando ha saputo di Jon, invece che andare alla polizia, ha
parlato con te.»
Sansa si volta lentamente, sollevando
le palpebre. «Se non lo avesse fatto» comincia, soffiando appena quelle parole.
«Ora Janos sarebbe vivo.»
E
io non avrei paura.
«Vivo e in galera.»
«Pronto a uscire in pochi giorni…»
Arya muove i piedi in modo nervoso,
sposta il peso da una gamba all’altra e incrocia le braccia al petto.
«Quindi approvi?»
«Che cosa?»
Sua sorella la guarda dritto negli
occhi prima di rispondere. «Che lo abbiamo ucciso.»
Una pausa. Sansa vorrebbe rispondere
di sì, vorrebbe confessare al mondo – e a se stessa – di essere felice di
quella vendetta. Di aver ripagato il sangue di Jon.
Ma poi scuote la testa.
«Perché no?»
Non sa cosa rispondere. La verità è
che il cuore palpita un sì troppo irruente per poterlo ammettere.
Ma si sono presi troppe libertà.
Lei
stessa si è presa troppe libertà. Sbagliando.
«Andiamo di sotto» sussurra, tornando
a fare il letto. «Finiamo le camere e torniamo di sotto.»
«Da Petyr.»
Anche
da lui.
Quando è ora di andare a dormire,
dopo aver mangiato, Sansa lo guarda per un lungo istante.
Petyr.
Vorrebbe non dover aspettare,
prenderlo in disparte e chiederglielo.
Vorrebbe solo sapere perché. Perché le abbia nascosto Janos,
perché non ha lasciato decidere lei.
Perché non gliel’ha detto.
«Buonanotte» mormora, mentre li guida
in cima alle scale e mostra loro le stanze.
Non ha voglia di guardarli, di
parlare con loro, di pensare a dove
siano.
Nella sua casa, nella casa dei suoi genitori.
Non ha voluto farli dormire nelle
camere dei suoi fratelli… Non vuole che domani – o chissà quando – arrivino
Robb, Bran e Rickon – e Jon, non
dimenticarti di Jon – e siano costretti a coricarsi dove ora sono loro.
Sansa entra nella sua stanza, si
chiude la porta alle spalle e si abbandona contro il legno.
Vorrebbe piangere, implorare aiuto –
per Jon, per Bran, per tutti loro – vorrebbe vedere sua madre, suo padre e
lasciare che siano loro a risolvere tutto.
Ma non può…
C’è solo lei a Grande Inverno. Lei e
Arya.
Arya
ha ucciso un uomo, pensa Sansa. Perché Petyr gliel’ha permesso?
Altri pensieri si librano nella sua
mente, mentre si corica a letto.
Un’ora, due ore, non riesce a
dormire. Allora si alza e, girando piano il pomello della porta, esce in
corridoio.
È tardi, è buio. C’è silenzio.
La camera di Petyr è poco distante
dalla sua. La raggiunge in fretta e bussa alla sua stanza.
«Scusami» sussurra, entrando. Spera
che Arya non si svegli – che il Mastino non si svegli – che nessuno la senta.
«Avevo bisogno di parlarti.»
«Vieni con me» dice Petyr, come il
giorno in cui si sono incontrati.
Le sfiora la mano – quella che Sansa
ha stretto all’altra – e la guida alla finestra.
«Guarda.»
E Sansa obbedisce, come ha sempre
fatto.
Vede la nebbia spargersi nel parco,
coprire appena le luci dei fari. Sembra che un manto bianco – di neve, di casa – si stenda davanti a lei.
«Sembra neve» dice Petyr, attirandola
a sé.
Sente la sua mano sul ventre e non
dice niente. Come potrebbe? Quella visione l’ha riportata indietro nel tempo, a
quando vivevano tutti in quella casa.
«È vero» conferma, in un sussurro.
«Sembra neve.»
E quando Petyr cerca i suoi occhi –
trovandoli a poca distanza dai suoi – Sansa china il mento, scostandosi appena.
«Conoscevi Janos.»
La magia si è rotta. Basta vedere lo
sguardo sperso di lui per capirlo.
L’incanto della neve è tornato
nebbia, la vicinanza di Petyr solo un’altra mancanza.
Perché Sansa è sola, ormai.
«Lo conoscevo.»
Ha
capito, pensa. Ha
capito che so.
«Perché non me l’hai detto?»
Petyr si scosta da lei e allarga le
braccia. «Non me l’hai chiesto.»
Vorrebbe riservargli uno di quei
sorrisi di scherno tipici di Arya, ma si limita a scuotere la testa.
«Come posso fidarmi di te?»
«È stata tua sorella a dirtelo?»
sussurra, studiandola.
«Non avrebbe dovuto?»
No,
lui non voleva che lo sapessi. Non così.
«Te l’avrei detto io, al momento
giusto.»
Sansa lancia un’occhiata alla porta,
come se fosse pronta a fuggire via da lì.
Da lui, dalle sue bugie.
«Non c’è un momento giusto. Avete
ucciso un uomo.»
«Quell’uomo ha accoltellato il tuo
fratellastro…»
È
mio fratello, vorrebbe dire. Gridarlo a mondo, tanto
forte da non farlo dimenticare più a nessuno.
«Credevo lo volessi» continua Petyr,
inclinando la testa di lato.
Ero
convinta di volerlo.
«Ti sei sbagliato.»
«Davvero?»
Di nuovo uno di quei sorrisi
enigmatici, quelli che riescono a metterle i brividi. Cosa sarebbe in grado di
fare, se solo volesse?
Fin dove si spingerebbe un uomo come
Petyr?
Ha
ucciso un uomo.
Anche
Arya,
risponde una vocina nella sua testa.
«Torna a dormire» mormora Sansa,
prima di avviarsi verso la porta.
Sente il telefono squillare e volta
il capo verso il comodino – è tardi, è
notte – si chiede chi possa essere a quell’ora.
Non le importa.
«Aspetta.»
Lo sente implorare, un istante prima
di aprire. Le basta guardarlo per vederlo improvvisamente invecchiato – la magia è conclusa, l’incanto è finito
– come se temesse per lei.
O
per sé?
«Dovresti rispondere» dice Sansa,
uscendo in corridoio.
Socchiude gli occhi nel buio della
casa, nel silenzio sovrano, tanto da chiedersi perché, quando è cambiata, come
ha fatto a non rendersene conto?
Arya ha ragione su di lei? Davvero è
uguale a lui?
Non ha il tempo di pensarci. Una
figura scura e imponente è davanti alla porta della sua stanza, tanto da farle
fare un salto.
«Sandor!» dice, tenendo il tono di
voce più basso possibile.
Non può vederlo, eppure sente i suoi
occhi addosso. Occhi che sanno di colpa.
«Cosa ci facevi da lui?»
Quel lui sputato con tanto disprezzo le ricorda Arya. In fondo sono
simili, lui e sua sorella.
«Dovevo parlargli.» Come dovrei fare con te.
Una risata che ha il sapore di un
ringhio, e Sansa sa che il Mastino non le crede.
Non può vederlo, ma le basta… le
basta sentire la sua presenza, i suoi occhi addosso, la sua figura imponente.
«Non qui» mormora, aprendo la porta
della sua stanza e spingendolo a entrare.
Se ne pente subito, tanto da
chiedersi se non sia il caso di uscire e chiuderlo lì dentro.
Avrebbero
potuto sentirci, pensa, come se fosse una giustificazione
sufficiente.
«So quello che avete fatto» riprende,
accendendo una luce e guardandolo finalmente in volto.
È orrendo, come sempre. Eppure anche
confortante.
Ha
salvato Arya, ha ucciso Janos.
Sandor non ha bisogno di parlare per
risponderle. Basta la sua espressione cupa.
«So quello che tu hai fatto» insiste Sansa, sperando di farlo parlare.
Lui fa un passo verso di lei, tanto
da farla indietreggiare.
«E tu allora? Che aspetti il buio per
sgattaiolare nella stanza di un uomo con il doppio dei tuoi anni?»
Sente le sue accuse scivolarle
addosso, come se non fosse vero niente.
Come se Petyr non le suscitasse
nulla.
«Cosa vorresti dire? Volevo
parlargli» risponde, imbronciata, stringendosi le braccia al petto.
«Voglio dire» Sandor fa un altro
passo avanti, minaccioso. «Che dovresti smetterla con le tue bugie…»
«Io non mento. Sono andata da lui per
chiedergli di Janos.»
«Nel cuore della notte, mentre tutti
dormono?» Ora il tono del Mastino è rude, tanto che Sansa ha paura. «Come una
puttana?»
Lo schiaffo lo colpisce in pieno; in
una frazione di secondo la paura di Sansa svanisce e ricompare, più forte di
prima – cosa le farà ora? – e il volto di Sandor viene deformato dalla rabbia.
Vorrebbe parlare – chiedere scusa, ma per cosa poi? – cancellare il suo
gesto.
Tornare indietro e non invitarlo
nella sua stanza, lasciarlo fuori, in corridoio, senza nessuna spiegazione.
Ma le mani di Sandor sono veloci – troppo veloci – e Sansa non riesce a
scappare.
La stringono per le spalle, la
scaraventano sul letto, e quando lei si ritrova il suo viso a un soffio dal suo
– per uno schiaffo, per uno stupido schiaffo – resta solo la paura.
Senza la forza di reagire.
«Guardami» ordina, afferrandole il
mento. Sansa stringe forte gli occhi, vorrebbe essere da un’altra parte – non
aver mai tirato quello schiaffo, non averlo invitato in camera sua, non avergli
chiesto di seguirla al nord. «Guardami!»
E Sansa obbedisce. Lo guarda.
«Potrei farlo» ringhia Sandor, come
se non riuscisse a trattenere la rabbia. «Potrei fare ciò che voglio. Ma non lo
farò.»
Si rialza lentamente, allontanandosi
da lei, lasciandola inerme su quel letto bianco.
«Forse Ditocorto lo farebbe, al posto
mio. Forse tutte quelle paroline che ti insegna – tutte quelle bugie con cui ti tiene in gabbia – ti
faranno aprire le gambe per lui» Ringhia, sputa rabbia contro di lei, ma tutto
quello che percepisce Sansa è dolore.
«Tanto meglio. Ricordati questo, uccelletto: io ho potuto prenderti e non l’ho
fatto. Ma lui…»
«Nemmeno lui» trova il coraggio di
rispondere Sansa, restando coricata.
«Questo è quello che lui vuole farti
credere.»
Di nuovo, negli occhi del Mastino,
lei riconosce sofferenza e rabbia, una miscela esplosiva che potrebbe fargli
cambiare idea. Spingerlo ad agire.
Così resta in silenzio.
«Vieni» mormora, mentre la sua voce
sembra raschiare contro le pareti del suo cuore. «Andiamo via. Stanotte.»
Sansa muove la testa, impercettibilmente.
Un gesto quasi invisibile che riesce a spezzare un uomo.
Sandor.
«Potrei aiutarti. Potrei proteggerti
da Joffrey. Lui ti sta cercando.»
«Non lo hai fatto prima» sussurra
Sansa, sollevandosi appena. «Perché dovresti farlo adesso?»
Ancora – sempre – è come se lei gli avesse piantato un coltello dritto al
cuore.
«Resta con lui allora» ringhia,
ancora – sempre – raggiungendo la porta. «Non è quello che credi. Ditocorto
parla con Cersei. Si sono sentiti oggi al telefono.»
Se l’avesse insultata le avrebbe
fatto meno male.
Perché Petyr dovrebbe sentire lei?
«Non ti credo.»
Non è vero. In realtà gli crede
benissimo.
E la cosa fa male.
Un verso di disprezzo, e la porta si
apre – ultima speranza, ultimo amico che se ne va. «Farai meglio a credermi,
uccellino. Lui non si fermerà come ho fatto io.»
Sansa si solleva dal letto, dritta,
in piedi, e stringe il pugno. «Sei crudele.»
«Dimmi, perché pensi che sia venuto
qui? Perché pensi che ti stia proteggendo?» Sandor torna indietro, la scuote
per un polso. «Vuole qualcosa da te. Pensaci, la prossima volta che sarai con
lui.»
E quando il Mastino se ne va, Sansa
sente il gelo scendere nella stanza.
Osserva le lenzuola bianche – fredde,
sanno di ghiaccio – e sbarra forte gli occhi.
Ora
sono sola. Lo sono davvero.
Note
dell’autrice:
Primo capitolo dell’anno nuovo!
Quindi, sentiti ringraziamenti vanno a Sb89
(lo sai!), a Stellina1990, a Relie_Diadamat, ghim92 e a BurnTheCandle,
che mi fanno sempre conoscere il loro parere.
Vi aspetto nei commenti!
Celtica
|
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Capitolo 24 *** È solo nebbia ***
Vieni con me 24
on
ha dormito.
La
notte è corsa incontro a lei,
volteggiandole intorno, come se fosse solo un desiderio lontano.
Sansa
non è riuscita a riposare, a
chiudere gli occhi e smettere di pensare.
E
ora, mentre scende le scale della
grande casa in cui è cresciuta, sente.
Ciò
che è successo.
La
verità.
La
realtà.
Sandor
non è più qui. Via, lontano,
da lei, da loro, da un mondo che non sembra capire.
Da
Petyr. Perché lo odia?
Perché le ha detto quelle cose?
Eppure
sono vere. Sono tutte vere.
Quando
Arya la vede, è un lungo
sguardo quello che invade gli occhi di Sansa. Sospetto, dubbio, rancore. Non si fida di lei, forse sa. Forse pensa le stesse cose del
Mastino.
«Siamo
a piedi» mormora sua sorella,
seduta al tavolo della cucina a gambe incrociate. «Sandor se
n’è andato.»
Lei
non dice niente, si ferma sulla
porta, appoggiando la schiena al muro.
«Come
lo sai?»
«L’ho
visto.»
Sansa
fa un passo avanti, scuote il
capo. «Cosa ci facevi lì fuori?»
«Non
avevo bisogno di essere lì fuori
per saperlo» sussurra in modo letale.
Li
ha visti. L’ha vista.
Entrare
nella camera di un uomo,
portarne un altro in stanza… Cosa può aver
pensato? Come funziona la mente di
Arya, ora?
Anni
fa, Sansa ne è sicura, avrebbe
frainteso quelle immagini. Ma ora? Sarà forse peggio?
«Cosa
pensi di fare?» chiede poi sua
sorella.
Non
si stacca nemmeno un istante dai
suoi occhi, tanto che Sansa si sente costretta ad abbassarli per
tornare a
respirare.
Non
lo sa. Non sa cosa fare. Non sa
cosa dire.
«Pensi
che Petyr abbia una
soluzione?»
Ancora
disprezzo, sempre disprezzo. Nei
suoi confronti,
nei confronti dell’unica persona rimasta ad aiutarle.
Non
è giusto,
pensa Sansa.
«Come
mai non è ancora sceso, a
proposito?»
«Non
lo so» risponde lei in tono
secco.
Non
ne può più di domande, di accuse
velate, di quegli sguardi. La fanno
sentire in colpa, più di quanto non si sentisse
già prima di tutto questo.
«Dovresti
chiamarlo.»
Sansa
alza la testa e stringe i
pugni. È arrabbiata ora. Prende un lungo sospiro, e quando
è pronta a parlare –
a rispondere, a litigare
– una mano
sulla spalla la avverte che non ce n’è
più bisogno.
«Chiamare
chi?» chiede Petyr.
Arya
incenerisce quel gesto – dita che
scorrono sul suo braccio – con
un solo sguardo.
Se
avesse un’arma, Sansa ne è certa,
lo ucciderebbe senza pensare.
«Te»
sibila sua sorella, lasciando la
sedia.
«Me.
Perché me?»
Ora
Petyr le gira intorno, tanto che
Sansa incontra il suo viso. Non vorrebbe dover essere lei a rispondere.
Preferirebbe silenzio, pace, calma.
Zero
pensieri e preoccupazioni. Solo
questo.
Ma
Arya resta in silenzio, braccia
incrociate e un piede che tamburella sul pavimento, in attesa.
«Sandor
se n’è andato.»
Per
una frazione di secondo, Sansa ha
scorto un cambiamento nell’espressione di Petyr. Ma
è stato così breve, così
lesto, che non è nemmeno tanto sicura di averlo visto
davvero.
Che
si sia sbagliata?
«Andato
dove?»
«Via»
interviene Arya. «Con la nostra
auto.»
«Con
la sua auto» la corregge
lui. «È venuto a prendermi sotto casa per
venire a cercare te.»
Ora
è rivolto a Sansa, e lei non
riesce a fare altro che spostare il peso da un piede
all’altro.
Aveva
ragione… Tutto è partito da
Cersei, come sospettava.
Altrimenti
perché Sandor avrebbe
chiesto aiuto a Petyr? Perché si sarebbe spinto fino a lui?
«Per
portarmi indietro?»
Petyr
resta in silenzio, ma la
risposta è eloquente. «Sì»
dice infine, studiandola.
«Cos’è
successo poi?»
Lui
non sembra ben disposto verso quella
domanda. Come se non fosse un argomento di cui parlare.
O
come se non lo sapesse.
«Ti
abbiamo incontrata.»
«Che
significa?»
Nonostante
Arya, nonostante siano a
Grande Inverno e abbiano discusso solo la sera prima, Petyr lascia
scorrere la
mano sul suo braccio, fino alla mano.
Quando
la raggiunge, solleva di colpo
il capo e sorride in quel suo modo enigmatico.
«È
stato sufficiente. Joffrey,
Cersei… ti avrebbero fatto del male. Avrebbero cercato
vendetta. Non potevo
permetterlo.»
Sansa
stringe forte le labbra. «E
Sandor?» Perché era
d’accordo?
Di
nuovo, l’espressione di Petyr
muta, si trasforma per un brevissimo istante. Ed è di nuovo
lui.
«Il
Mastino» la corregge lui.
«Non è stato difficile da convincere. Mi
serviva che fosse dalla nostra parte. Dalla tua.»
Non
sa perché, ma Sansa è sempre più
convinta che sia tutta una grande bugia.
Sandor
odia Petyr. Perché avrebbe dovuto accettare?
Lo
ha fatto per me…
si risponde poi. Solo per me. Non per lui.
Petyr non ha avuto bisogno di convincerlo.
«Ti
ringrazio» Sansa sorride – impara
da lui. “Sei come lui.” – e fa
un
passo indietro, perdendo il contatto con la sua mano.
«Questo
non significa che non
desideri ancora il tuo ritorno in città. Protetta,
ovviamente.»
Arya
fa un verso disgustato ed esce
dalla stanza.
Ha
ragione.
Ma non posso
fare altro. Non ora.
«Scusami»
sussurra, seguendo sua
sorella.
Ha
lasciato la porta aperta, e Sansa
ne segue le tracce fino alla strada nel parco.
E
poi, scorgendo la macchia nera che
si sta avvicinando – un’auto, allora è
tornato? – si fermano entrambe ai
cancelli di Grande Inverno.
Arya
intreccia le dita alle sue e
stringe gli occhi. Ora,
c’è solo da
sperare.
Ω
La
notte precedente.
Sansa
è appena uscita dalla sua
stanza, il telefono sta ancora squillando, ma Petyr aspetta.
Immagina
chi possa esserci dall’altra
parte, chi possa averlo chiamato.
Vuole
davvero affrontare quella
conversazione?
Vuole
davvero sentirla?
Pochi
passi e raggiunge il comodino.
Afferra l’apparecchio e lo osserva, come se potesse
confidargli ciò che lo
attende. Ciò che li attende tutti.
Quando
preme il tasto di risposta, si
strofina gli occhi, e respira contro il cellulare.
«Sì?»
«Sei
sempre vivo, noto.»
«Fortunatamente
sì.»
Prende
a muoversi nella stanza,
raggiunge ancora la finestra. Nebbia e
neve; Sansa.
«Sfortunatamente»
lo corregge Cersei.
«Punti
di vista.»
Un
momento di silenzio, e per un
istante è la donna bionda che Petyr immagina nella coltre
bianca.
Lei,
il suo viso diafano, i suoi
occhi che ruggiscono come quelli di un leone.
«Hai
trovato ciò che volevi?»
Vorrebbe
aggiungere maestà, ma si
trattiene. Aspetta che sia
lei a sfidarlo.
Che
ci provi…
Cersei
resta zitta, tanto che Petyr
allontana il cellulare per controllare che sia sempre in linea.
C’è.
«Non
direi, Ditocorto» dice Cersei
con voce aspra. Non sembra contenta. «Sai come funziona,
vero? Se il cane ti si
rivolta contro, va soppresso…»
Lui
non riesce a capire se si stia
riferendo a sé o al Mastino.
È
nella stanza accanto alla sua, non
corre pericoli. E Petyr con lui.
«Così
come un ragazzo che ama il
sangue» ribatte. «Dicono che sia meglio ucciderli
da piccoli…»
Un
ghigno si forma sul suo volto, e
anche se Cersei non può vederlo, è sicuro che
riesca a percepirlo, a sentirlo,
come se lo avesse davanti.
«Minaccia
Joff e sei morto, Baelish.
Se provi ad avvicinarti a lui, o anche solo a parlargli…
sei morto. Sei avvertito. Jamie non te lo perdonerà
mai.»
«Già»
esclama lui, certo del suo
potere. Perché è stato
Joffrey, ha dato
l’ordine a Payne; deve essere
stato
lui! «Che strano rapporto… una sorella e
un fratello che proteggono il
figlio di lei, più di quanto non faccia il padre.»
E
ora, Petyr ce l’ha davanti:
riconosce il suo sguardo di fuoco, il modo in cui allunga una mano per
puntare
il dito contro di lui. La vede.
«Bada…»
sibila, ed è come se la terra
tremasse in quel momento. Poi fa una pausa, e quando parla, il tono
è diverso,
stranamente dolce. «Non quanto quello di un uomo rifiutato
che si prende cura
della figlia di un altro. Speri che sia lei a sostituire Cat?»
No,
risponde Petyr nella sua mente. D’istinto, come se fosse
necessario. Non più.
«Joffrey
ha mandato Payne a Londra»
riprende lui, ignorando l’ultimo colpo – che fa
male. «È stato lui a investire
il fratellino di Sansa, Cersei. E nasconderlo, proteggerlo,
non ti servirà. Presto tutti sapranno ciò che ha
fatto. E ciò che tu hai fatto per lui…»
Un
rumore.
Cersei
deve aver stritolato il
telefono, e Petyr la sente imprecare, come se servisse a qualcosa.
«È
mio figlio.»
Lo
so bene,
pensa Petyr con un sorriso. E sarà
la tua rovina.
La
disfatta dei Lannister dipende da
questo, da quella telefonata, da quanto riuscirà a giocare
bene le sue carte.
«Tienilo
fuori da tutto questo.»
«Tu
tienilo fuori da tutto questo» risponde lui, sfiorando con le
dita il vetro
della finestra. Nebbia, è solo
nebbia…
«E forse potrei dimenticare chi ha mandato Payne…
se sei disposta a
sacrificarlo, ovviamente.»
Il
respiro si Cersei si fa pesante,
come se fosse in preda all’ira e si stesse trattenendo dal
dargli addosso.
Meglio…
Diventa una donna stupida quando è arrabbiata.
«Che
cosa vuoi?»
Lo
chiede a denti stretti, tanto che
Petyr si ritrova a sorridere. Da vincente.
«Ho
un elenco di cose… sei disposta
ad ascoltare?»
«Un
elenco?» Cersei sembra aver
ritrovato la solita sicurezza, ma lui capisce che è solo un
inganno. La sente
ridere. Ancora disprezzo.
«Dimmi cosa
vuoi. E forse, se tra un minuto sarò ancora di buonumore,
non chiederò a Jamie
di ucciderti.»
Prima
deve trovarmi.
Petyr
si schiarisce la voce. «Sansa»
mormora, stupendosi lui stesso di averla messa in cima ai suoi pensieri.
«Vuoi
Sansa?» Cersei ride, incredula.
Come se fosse una cosa troppo assurda. Persino per lui…
«Mi avevano detto che
eri invecchiato, Ditocorto. Che avevi abbassato la guardia. Ma non
pensavo fino
a questo punto…»
Petyr
chiude gli occhi, cammina verso
la porta, la raggiunge.
Accarezza
la maniglia come se potesse
essere lei, come se fosse
ciò di cui
ha bisogno.
«Non
voglio ciò che non puoi darmi»
risponde, facendola zittire. «Ma Joffrey dovrà
lasciarla in pace. Dimenticarla.
Fallo consolare da Margaery…»
«Quella
sciacquetta! Tanto varrebbe
lasciarlo in pasto a qualche sgualdrina…»
«Pensi
questo dei Tyrell? Dei tuoi…
alleati?»
La
voce di Cersei si abbassa,
scivolando lenta nel suo orecchio. Un misto tra fascino e abnegazione.
«So che
Olenna Tyrell ti ha aiutato. Non sono stupida, Ditocorto. So che
complotta
contro di me da sempre. Tutta invidia! Lei e quella serpe di sua
nipote…
credono di sapere tutto di me. Ma non sanno niente.»
Lui
ascolta quelle confidenze in
silenzio.
Per
un momento, sentendo quelle
parole, ha percepito ciò che celano. Ciò che
prova anche lui, e che è costretto
a nascondere al mondo.
Non
sono più così diversi.
«Lascia
in pace Sansa» dice,
ignorando quei pensieri. «Questa è la prima
condizione.»
«La
seconda?»
Petyr
accenna un sorriso, si
allontana dalla porta e si appoggia contro il muro bianco. Nebbia… la nebbia è
realtà.
«Smetti
di intralciarmi. Smetti di
rubarmi i clienti. Smetti di attaccare la mia compagnia…
Lascia che ci provi,
che tenti di farla crescere. L’azienda dei Lannister
è troppo potente per preoccuparsi
della mia.»
«È
vero» lo interrompe Cersei,
compiaciuta. Arrabbiata o compiaciuta,
ecco come deve essere. «Siamo troppo importanti per
occuparci di te,
Ditocorto. Ti lasceremo in pace. C’è
altro?»
«Payne»
sussurra Petyr, pensando ad
Arya. Alla promessa. A Sansa… «Dimmi dove
trovarlo.»
Cersei
ride per poi tornare seria.
«Vuoi
davvero che ti venda uno dei
miei uomini? Non sono te.»
No,
non sei me… al tuo posto avrei già fatto briciole
della mia piccola azienda.
O
l’avrebbe inglobata, rendendosi l’unica
realtà esistente.
«È
la terza condizione, Cersei. E a
questa non puoi dire di no.» A
nessuna…
«Se
ti dicessi di sì, se ti dicessi
che Payne è ancora a Londra, ma che sta tornando…
Che tra una settimana farà da
autista a me e alla mia famiglia, per il discorso del
Sindaco?»
«Ti
ringrazierei, maestà.»
Cersei
fa l’ennesima pausa, e Petyr è
sicuro di averla sentita muovere.
Chiude
gli occhi e la immagina seduta
davanti a sé, mentre si accarezza una gamba sporgendosi in
avanti.
«Ora
basta con i tuoi giochetti,
Ditocorto. Joffrey è… intoccabile.»
«Hai
la mia parola.»
Sguardo
cupo, serio, e d’improvviso
la risata. «Non mi serve la tua parola, Lord
Baelish… Non mi basta. Per bastarmi dovrei fidarmi
di te…»
Ora,
nella mente di Petyr, Cersei è
in piedi; cammina sinuosa verso la porta, come se fosse il momento di
salutarsi. Bella e letale.
«Cosa
vuoi allora?»
Altra
pausa, altro silenzio. Lei è
davanti a lui, intenta a pensare a una risposta.
Cosa
potrebbe mai chiedere?
«Avrai
Payne» dice poi, ignorando la
sua domanda. «Ma se ti vedo vicino a Joffrey, se sento anche solo il tuo odore…
se penso che tu possa tradirmi… non
ci sarà luogo in cui potrai nasconderti, Ditocorto. Jamie ti
troverà e ti
ucciderà. E Sansa tornerà nelle mani di
Joff… e non come fidanzata. Scomparirà
agli occhi del mondo; questo te lo posso giurare.»
Petyr
stringe i pugni, resta al
gioco. «Faresti del male a lei, dopo averla a lungo
cercata?»
«Sansa
è la chiave del nord. Se…»
«Ti
sbagli» la interrompe lui. «Ha
diversi fratelli, di cui uno più grande di
lei…»
«E
gli altri tutti minorenni. Lo so
bene.»
Un
lampo, e Petyr capisce.
È
stato Joffrey a mandare Payne, ma
non per il piccolo Stark… un incidente che poteva costargli
la vita… e che
avrebbe dovuto colpire qualcun altro. Robb.
«Joffrey»
riprende lui, scegliendo le
parole con cura. «Non voleva colpire Bran.»
Il
silenzio di Cersei, questa volta,
è la più chiara delle risposte. La immagina
fermarsi davanti all’uscita, la
vede deglutire… Chiude gli occhi e osserva la sua gola.
«Perché
Robb? Per il nord? Per
rendere Sansa unica erede? E una volta cresciuti i suoi
fratelli… si sarebbe
liberato anche di loro?»
«Taci…»
«Ormai
possiamo parlarne. L’accordo è
concluso…»
Cersei
che socchiude le palpebre, che
si porta una mano al volto chinando il capo. Quando lo rialza, nella
mente di
Petyr, è più bella di prima. Più
furiosa di prima.
«Non
dirai niente a Sansa?»
Non
sembra credergli. Ma che
interesse potrebbe avere, Petyr, nel dire la verità?
A
cosa potrebbe servire?
Sansa
starebbe peggio, e Arya
vorrebbe vendicarsi anche dei Lannister. No, è
un’informazione preziosa… che va
svelata al momento opportuno.
«Perché
dovrei?»
Cersei
sospira, e quella davanti ai
suoi occhi ha appena scostato una ciocca dalla spalla. «Joff
odiava Robb, lo
voleva morto. Ma non per i nostri interessi… Non ha voluto
dirmi il motivo, ma
ha chiesto a Payne di ucciderlo, di farlo sembrare un
incidente…»
Perché?
Si chiede Petyr.
Sansa
lo saprebbe? Capirebbe cosa può
aver scatenato questo odio verso suo fratello? Magari è
stata lei… magari, per
lei, Robb è intervenuto in sua difesa…
No,
Sansa non mi ha mai raccontato niente del
genere.
«Avrebbe
fatto anche gli interessi
della famiglia.»
«Sì»
conferma Cersei. «Ma nessuno ne
sapeva niente.»
Petyr
pensa a Tyrion, a ciò che ha
detto di Joffrey… un ragazzo strano, sanguinario, violento.
E
Sansa sarebbe tornata da lui…
«Allora
l’accordo è concluso?»
Gli
sembra così strano, essere lui a
voler chiudere la chiamata. Ma la serata non è andata
esattamente come avrebbe
voluto, e Sansa non è felice.
Non
con lui. Non a Grande Inverno.
«Spero
per te, Ditocorto.»
La
chiamata si interrompe, Cersei
esce dalla porta senza nemmeno salutarlo…
Petyr
allunga una mano, come se
trattenesse tra le dita un calice invisibile. Alla
prossima, maestà.
Ora.
Sansa
e Arya sono appena uscite, lui
è tentato di seguirle.
C’è
qualcosa che non va… perché il
Mastino se n’è andato? Lo ha sentito, stanotte,
camminare in corridoio, lo ha
sentito scendere le scale, aprire una porta. Ha sentito bisbigliare.
Ma
se anche avesse incontrato Sansa,
Petyr non riesce a capire cosa sia accaduto per spingerlo ad andarsene.
Contava
sul suo aiuto. Contava su di
lui per sgominare i Lannister.
Ma
adesso? Dove può essere andato?
Di
certo, pensa, non sarà tornato da
loro… non sarebbe da lui.
Un
grido.
La
voce di Sansa che lo chiama. Petyr
corre fuori, riconosce la sua figura sottile sulla strada sterrata,
mentre
agita le mani nella sua direzione.
«Che
succede?»
Scende
la scalinata. Un punto nero in
lontananza, un’auto che si fa sempre più vicina.
Che
sia tornato? Che sia lui? Che
abbia cambiato idea?
«Arriva
qualcuno» dice Arya,
stringendo la mano di sua sorella. Entrambe corrono verso il cancello.
Petyr
le segue, nella bruma del
mattino il silenzio è interrotto dal frusciare del vento tra
gli alberi, dal
cinguettio degli uccelli.
E
poi lo vede.
È
un uomo, un estraneo. Mai visto,
mai conosciuto, dalla faccia poco raccomandabile.
Arya
e Sansa indietreggiano quando
capiscono che non è il Mastino.
L’auto
si ferma, un gigante dai
capelli rossi scende e le guarda. Poi esplode una risata che sa di
paura, di
tremolii sommessi, di violenza.
«Chi
sei?» domanda Arya, mentre Sansa
le va più vicina.
Oltre
le loro spalle, oltre le loro
teste, Petyr osserva l’uomo accarezzarsi la barba, smettere
di ridere.
«Tormund.
Dov’è il ragazzo? JON!
Vieni fuori, corvo! Sei stato via fin troppo a
lungo…»
Arya
solleva una spalla. «Corvo?»
Tormund
le guarda, prima una e poi
l’altra. «Con quei capelli, come pensi che dovrei
chiamarlo?»
Sansa
fa appena un cenno, eppure
Petyr percepisce la sua paura.
«Jon
mi ha parlato di te» esclama
poi, sforzandosi di fare un passo avanti. «Mi ha detto che
avete fatto visita a
nostro zio Benjen.»
Arya
resta in silenzio adesso.
Incrocia le braccia al petto e si lascia scompigliare i capelli dal
vento.
Sansa
li trattiene tra le dita,
un’immagine che Petyr vorrebbe portare sempre con
sé.
«È
così» tuona l’altro.
«Dov’è? Sta
ancora dormendo, scommetto. JOOON.»
«Non
è qui» interviene Arya.
«Puoi
portarci da lui? Da Benjen?»
riprende Sansa. Petyr la vede giungere le mani.
«Il
ragazzo. Dov’è?»
Petyr
pensa che sarà Arya a
rispondere, che sarà Arya a dire cos’è
successo a Jon… ma è Sansa che fa un
altro passo avanti, sollevando in alto la testa.
Ma
prima che lui possa ascoltare la
risposta, il suo cellulare vibra, attirando la sua attenzione.
È
un messaggio.
Il
cane è tornato a casa.
Divertiti
nel nord, Lord Baelish.
Note
dell’autrice:
Un
po’ in ritardo, ma arrivo! Se
seguite The Walking Dead, mi sento di riproporvi Fiore d'Inverno e una nuova long
(commedia) che ho iniziato
da poco, La prossima Volta.
Grazie a chi legge, recensisce, segue
o preferisce.
Celtica
|
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Capitolo 25 *** "Vattene" ***
Capitolo 25
iena di speranza.
Sansa si sente così: come se il solo
trovarsi su quell’auto, con Tormund che preme sull’acceleratore, fosse già una
certezza. Trovare zio Benjen, scoprire la storia di Jon, farlo trasferire in
una clinica.
È seduta dietro con Arya, ma nota le
continue occhiate che Petyr le lancia tramite lo specchietto.
Da quel giorno lontano in cui è
fuggita da Joffrey, lui non l’ha più lasciata.
È rimasto al suo fianco, le ha dato
conforto, l’ha aiutata.
Il Mastino non può avere ragione. No. Petyr tiene a lei, più di Sandor, che se
n’è andato senza una spiegazione.
Gelosia.
Forse è per quello… ma ora, mentre il
gigante dai capelli rossi ride per qualcosa detto da Arya, Sansa si abbandona
ai ricordi.
“Dov’è
il ragazzo? Jon!”
Arya che fa un passo avanti, che
solleva il mento, che lo invita a entrare. Arya che gli racconta…
Che rivive quanto accaduto a loro fratello.
“Puoi
portarci da lui? Da Benjen?”
Silenzio. Passi pesanti sul pavimento
della cucina, il liquido ambrato che trema nel bicchiere tra le sue mani. E un
cenno.
Un cenno e una conferma che si
trasformano in un fiume di parole.
La corsa in auto… Sansa che ripensa a
Sandor, a quanto le ha detto prima di andarsene.
“Lui
non si fermerà.”
Eppure, in quel momento, mentre
incontra gli occhi di Petyr riflessi nello specchietto, lei allunga le labbra e
sorride.
È rimasto, non se n’è andato. E Sansa
si fida di lui…
Come potrebbe essere altrimenti?
Joffrey le ha stretto le mani intorno
al collo; Petyr ha fermato l’auto e le ha chiesto di salire…
“Penserò
io a te.”
Sandor può dire ciò che vuole, ma è
rimasto inerte, fuori dalla porta, mentre il ragazzo che amava – che credeva di amare – alzava le mani su di
lei.
Petyr le ha offerto una via di fuga:
perché non dovrebbe fidarsi di lui?
Arya stringe le dita sulla sua mano:
si è accorta di quel sorriso. Forse ha capito a chi era rivolto.
Per il resto del tragitto, Sansa
tiene gli occhi fissi sulla strada, mentre la brughiera si fa sempre più tetra.
Distese immense e vuote, dove sono solo loro.
Lei che ama i colori… che adora il
calore del sole, il profumo del mare, la vita di città.
Mentre lì c’è solo silenzio.
Proseguono, Arya fa una battuta a cui
scoppiano tutti a ridere.
L’idea di trovare Benjen sembra aver
calmato anche lei.
E poi, dopo ore, Tormund rallenta e
indica un punto davanti a loro, così lontano da risultare minuscolo.
«Cairnryan. Da lì prenderemo un
traghetto per Belfast.»
«Pensi che lo troveremo in Irlanda?»
chiede Sansa, sentendo il respiro farsi irregolare.
Il gigante solleva le braccia e
spinge al massimo sul pedale, tanto che persino Petyr cerca dei punti dove
reggersi.
Arya, invece, è di nuovo concentrata,
come se l’idea di non trovare lo zio si fosse tramutata in certezza.
Da Belfast, Tormund li porta verso
Dublino, come se fosse un suo obbligo personale. Eppure Jon non ha mai parlato
di lui… Solo un accenno, solo una parola per definirlo: amico.
Nient’altro.
Quando raggiungono la città, è tardi.
Sansa pensa di non aver visto niente di tanto bello da troppo tempo… superano
la St. Patrick Cathedral, poi Tormund ferma l’auto e li guida a piedi per le
strade di Dublino.
Sansa si guarda intorno, ammira i
palazzi alti, gli acciottolati, il ponte sul fiume Liffey, e si chiede perché Benjen sia venuto lì. Che cosa
fa? Perché non ha cercato la famiglia di suo fratello, i suoi nipoti, perché
non è andato da loro?
Petyr cammina al suo fianco, e quando
lei si volta – attratta dall’odore di un chips and lips – le prende la mano.
Arya è davanti a loro, al fianco di
Tormund. Non può vederli.
Forse è per quello che ricambia la
stretta, che china la testa, lasciando scivolare le ciocche rosse sul petto,
che gli lancia una lunga occhiata.
Lui
fa lo stesso.
Restano a guardarsi, mentre le voci
della gente riempiono le strade illuminate dalle luci dei pub.
Poi il gigante si ferma. Arya con
lui.
Mentre solleva il capo verso la
chiesa, Sansa ritira la mano, giungendola all’altra.
«È qui?»
Arya storce il naso. «In una chiesa?»
Non hanno bisogno nemmeno di entrare.
Vedono uscire un prete e Tormund lo raggiunge. Forse, pensa Sansa, vuole
chiedere informazioni.
Parlano fitto fitto, e lei non riesce
a sentire una parola.
Ma poi, quando solleva gli occhi e lo
guarda meglio, riconosce i lineamenti. Lo sguardo. Il sorriso.
È
lui.
Sono seduti in un ristorante, per la
felicità di sua sorella.
Petyr è sulla panca vicino a Sansa,
una mano sul bordo del tavolo e l’altra sulle ginocchia. Ha un sorriso – quel sorriso – che sembra dire quanto
sia interessato a quel racconto.
Ma lei sa che non è così…
«Non avrei mai pensato di trovarti
vestito di nero» dice Arya, scorrendo l’indice sul menù.
«Non lo pensavo neanch’io. Ma era la
volontà di mio padre.»
Sansa si china appena in avanti.
«Come mai non ne sapevamo niente?»
Benjen scrolla le spalle, beve un sorso
di birra. «Dopo l’incidente era doloroso per me pensare di rivedervi. Diciamo
che è stato allora che ho trovato la fede.»
Arya scambia uno sguardo con lei,
interrotto dal cameriere che poggia un piatto sul tavolo. Sono focacce. Focacce
a forma di lupo.
«Dicci di Jon» esclama sua sorella,
con la bocca piena del piatto omaggio. «Come vi siete trovati?»
«Amici. Alcuni amici gli hanno detto
dov’ero.»
D’istinto, Sansa lancia un’occhiata
alla finestra, dove Tormund sta fumando una sigaretta sul marciapiede. Amici.
Non sa perché, ma tutto le ricorda
Jon. Tutto. Il modo brutale che ha il
gigante di ridere, l’espressione tetra di zio Benjen – come se sapesse già il motivo per cui sono lì – persino il cielo
cupo sopra Dublino.
«L’hai riconosciuto subito?»
«Ma certo. Come ho riconosciuto voi.»
Senza volerlo, Sansa coglie un
luccichio divertito negli occhi di Petyr. Senza
volerlo, sotto il tavolo, allunga il mignolo verso di lui, a toccare la sua
mano.
«Sono passati anni» Arya fa una
smorfia.
«Eppure vi ho riconosciuto.»
«Magnifico.»
«Ma ditemi» prosegue Benjen. «Non mi
avete ancora spiegato come mai Jon non è con voi.»
Uno sguardo, poi Arya comincia a
raccontare. Ancora.
Come se rivivere quella notte potesse
aiutarle ad accettarla.
E quando finisce di ricordare, l’espressione
dello zio non sembra stupita. Non quanto dovrebbe.
«Si è messo nei guai…»
«No» lo corregge Sansa, mentre le
dita si Petyr si intrecciano alle sue. «Jon voleva solo proteggermi. Non poteva
immaginare che…»
«C’è un motivo se hanno fatto tanta strada»
la interrompe Petyr, lasciandola. Appoggia i gomiti al bordo del tavolo e si
regge il mento con le mani. «Il ragazzo… ha un problema. Servono documenti,
informazioni, un foglio firmato da un parente che permetta lo spostamento in
una clinica privata.»
Arya stringe gli occhi e aspetta una
risposta da Benjen.
«Cosa posso fare per voi? Perché non
se n’è occupato Robb? O Sansa…»
Lei giunge le mani e si sporge in
avanti. «Non potevamo, zio. Abbiamo guardato dappertutto… ma non abbiamo
trovato niente. Nessun documento di Jon, niente di niente. Come se non fosse
nostro fratello…»
Petyr le sorride: ha capito il suo
gioco.
Nominare subito loro zia, fuggita
chissà dove, non avrebbe portato a niente. Deve essere lui a decidere di
parlarne.
«Non bastava una firma, o qualcuno di
voi che ne attestasse la parentela…»
«No» dice Arya, facendosi più vicina
a Benjen, come se volesse impedirgli di andarsene.
«E avete fatto tanta strada solo per…
per cosa?» chiede, dopo una pausa.
Stavolta è Sansa a guardare sua
sorella, a stringere le labbra un istante prima di rispondere.
Poi fa un sospiro.
«Speravamo che tu potessi dirci chi
è. Chi sono i suoi genitori. Sappiamo che non è davvero nostro fratello»
aggiunge, mentendo, come se fosse l’unico modo per ottenere la verità.
«E come lo sapete?»
«Lo sappiamo e basta» dice Arya,
voltando tutto il corpo verso di lui.
Benjen abbassa gli occhi, si volta
verso la finestra, dove il cielo sembra minacciare pioggia.
Come
starà Jon?
«È una storia che non dovreste
sapere» mormora.
Poi, comincia a raccontare.
Ω
Petyr non pensava che avrebbe mai
dormito a Dublino, che avrebbe affittato diverse camere per la notte solo per
stare vicino a Sansa.
Invece ora è lì che cerca di prendere
sonno, l’occhio fisso sulla porta. Come se lei
potesse entrare in quella stanza, come se potesse voler stare con lui.
Non
è così.
Non stanotte, non dopo quello che ha
scoperto. Che possa volgere a suo vantaggio? O a vantaggio di lei, in qualche
modo?
Non lo sa, e forse nemmeno gli
importa. Non ora, non con lei dall’altra parte del muro, rannicchiata sotto le
coperte mentre cerca di dormire.
Forse, se Cat avesse saputo, non
avrebbe odiato il ragazzo. Forse lo avrebbe accettato, compatito, forse persino
apprezzato.
Petyr ricorda un giorno lontano, in
cui l’aveva incontrata. Lei, Eddard e i bambini. Tutti i bambini. Anche il bastardo.
Ricorda il modo in cui lei sembrava
escluderlo, il modo in cui allungava carezze e sorrisi a tutti gli altri.
Tranne che a lui.
Povera
Cat.
Se solo avesse saputo…
Se
anch’io avessi saputo… le cose sarebbero andate diversamente. Forse ora non ci
troveremmo qui.
Un bussare alla porta, la certezza
che si tratti di lei.
Petyr balza in piedi, raggiunge
l’uscio e lo apre.
«Sansa» sussurra, scostandosi.
«Entra.»
Lei china la testa e obbedisce, come
se ci fosse abituata.
Quando sono soli, davvero
soli, con le luci del corridoio svanite, si lascia andare a un lungo sospiro. E
lo guarda.
«Tu lo sapevi?»
«No» risponde, con un cenno della
testa. «Certo che no.»
Ed
è stata una grave mancanza, la mia…
Sansa resta a studiarlo, incerta. È
come se Petyr potesse sentire la sua mente – il suo cuore – mentre decide se fidarsi di lui.
«E ora?» domanda, stringendo gli
occhi rivolti alla finestra, da cui entra l’unica luce.
Nella penombra, Petyr scorge i
riflessi dei suoi capelli, che appaiono neri.
Non sa nemmeno lui cosa fare, cosa
dire.
Cambierà qualcosa, ora?
«Non me lo aspettavo» aggiunge Sansa.
«Nessuno di noi se lo aspettava.»
Benjen
si era tirato indietro, contro lo schienale della sedia. “Quattro fratelli,
Lyanna sempre tra i piedi… non era come le altre. Ned la ammirava.
Tutti la ammiravamo. Amava gli sport, e
credo sia per questo che sia io che Ned abbiamo fatto di tutto per non farci
superare da lei.
“Da
bambini è così che funziona… Competizione.”
Arya
aveva sorriso guardando Sansa.
“Ma
crescendo… impari che le cose non vanno come ti è stato insegnato.”
Nella penombra, Petyr fa un passo
verso di lei, giusto un istante prima che Sansa frapponga una mano tra loro.
«Dovresti andartene» mormora lei con
un filo di voce, socchiudendo gli occhi.
«Perché?»
«È meglio per tutti. È meglio per me.»
«Ho fatto qualcosa?»
È la prima volta che si sente così,
con lei. Come se la neve vista – immaginata,
sognata – a Grande Inverno, la nebbia languida sui fari esterni, fosse
penetrata fino alle ossa. E con lei il freddo.
Sansa spinge il palmo contro il suo
petto, e fa male, fa male come aver
guardato Cat danzare con un altro. Baciare
un altro.
«Per
favore» insiste, guardandolo negli occhi. «Non farti trovare domattina. Va’
via.»
«Sansa, se potessi cancellare…»
«Non dirlo. Ti credo. Non ne sapevi
niente, in fondo chi poteva immaginarlo? Ma voglio che tu te ne vada.»
“E
Lyanna aveva degli ammiratori?” aveva chiesto Sansa.
“Oh,
sì. Molti. Ma Lyanna ha il sangue del lupo… e tu, Arya, tu le somigli molto.”
«Perché?» Petyr resta immobile,
osservandola raggiungere la porta. «Se mi dirai perché, me ne andrò.»
«Non hai bisogno di un motivo…
Vattene, per favore.»
Sansa si ferma davanti all’uscio, la
mano sulla maniglia e la testa china.
Lui la conosce troppo bene, crede di conoscerla troppo bene, per non
capire. Per non sapere.
Un passo, si avvicina a lei, lento
come se temesse una sua fuga.
«Continui a dirmi di andarmene…»
sussurra, girandole intorno, bloccando l’uscita. «Ma sei ancora qui.»
E quando Sansa sgrana gli occhi, sa
di aver visto giusto. Sa che non se ne andrà.
Scorre la mano sul legno, fino alla
maniglia. Basta sfiorarle la mano per sentirla sussultare.
«Credevo che tu sapessi. Che fosse
colpa tua quanto accaduto a Jon. Credevo fossi stato tu…»
«E mi hai tenuto vicino?»
«Sì» “Come mi hai insegnato” è una frase che rimane sospesa nell’aria
tra loro, come un segreto che custodiscono entrambi.
“Lo
diceva anche mio padre”, aveva risposto Arya, compiaciuta. “Mi piacerebbe
conoscerla…”
“Lei
non è qui. Non so dove sia, da quando ha preso a viaggiare nessuno ha più
saputo niente di lei. Potrebbe anche essere morta… Ah, Lyanna…”
Petyr
aveva inclinato la testa di lato, studiandolo. “Da come ne parli, sembra che tu
l’abbia conosciuta molto
a fondo…”
“È
sua sorella” era intervenuta subito Arya. “Funziona così tra fratelli,
Baelish.”
“Zio”
Sansa si era fatta avanti, posando il palmo aperto sul tavolo. “Non siamo qui
per la storia di Lyanna, ma per Jon. E non abbiamo… tempo. Jon non ha tempo.”
“Puoi
dirci chi sono i suoi genitori? Nostro padre c’entra qualcosa con lui?”
“Sì”
aveva sussurrato Benjen dopo una pausa. “Vostro padre sapeva tutto. E li ha
protetti… Ci ha protetti.”
«Perché?» chiede ancora Petyr. «Sei
venuta qui per mandarmi via, ma ora sei tu a restare. Perché, Sansa?»
Nel buio, coglie il suo sguardo, ciò
che vorrebbe dire e non dice.
«Io… devo andare.»
Un colpo incerto, la maniglia che si
abbassa, lasciando entrare la luce del corridoio.
Sansa stringe gli occhi, accecata,
mentre lui ritrova i suoi colori, quei colori che ricordano Cat.
In un istante, la mano di Petyr si
stringe intorno al suo polso, tirandola dentro.
«No» sussurra, spingendo la porta per
richiuderla. «Non devi.»
“È
stato… un caso? Dopo una partita di calcio, Lyanna che faceva equitazione lì
vicino. Un temporale, la casa vuota… è successo e basta.”
“Cosa
intendi?” aveva chiesto Sansa. “Non capisco.”
“Lyanna
è la madre di Jon” risponde Benjen, mentre lo stupore si allarga sul volto di
Petyr. “E io sono… dovrei
essere suo padre.”
“Per
questo sei venuto qui? Per questo non ti sei mai fatto vivo con noi?”
Il
cielo scuro riflesso negli occhi, Benjen aveva fatto appena un cenno. “Lyanna è
scappata. E io… io ho fatto lo stesso.”
«Non devi» ripete Petyr, tirandola
verso di sé. «Non devi andare più da nessuna parte.»
«Ma non capisci? Siamo venuti qui per
niente!»
Ora, nella sua voce, riesce a sentire
tutto. Tutto ciò che ha provato, il
sospetto nei suo confronti, chiedergli di andarsene, di lasciarle sole…
pensando che sia tutto perduto.
Fa scorrere le mani intorno al collo,
lungo le spalle, fino alle braccia. Si china per baciarla quando qualcuno bussa
alla porta.
Sansa si scosta subito, mentre Petyr
va ad aprire. È Arya.
«Sansa» chiama, con un’espressione
indecifrabile. «Non eri in camera tua, così ti ho cercato qui.»
La vede arrossire, gote e capelli
rossi che evidenziano gli occhi chiari.
Se solo non fosse arrivata Arya…
«Cosa c’è?»
Sua sorella sembra arrabbiarsi,
eppure, in un momento, un sorriso si allarga sul suo volto.
Come se non potesse trattenersi dalla
felicità.
Che
abbia sentito Benjen? Che lui abbia trovato dei documenti?
«Jon» dice Arya, concentrandosi solo
su Sansa. «Mi ha chiamato Robb. Ha detto che tu non rispondi mai, che ha
provato a chiamarti per tutto il pomeriggio…»
«Sì, sì, vai avanti. Come sta Jon?»
Lei sorride, ancora, forse persino
più di prima. «I dottori dicono che è fuori pericolo. È salvo, Sansa. Jon ce la
farà.»
Note
dell’autrice:
Ciao a tutti!
Mi dispiace davvero tantissimo di
essere in ritardo. Odio essere in
ritardo, ma è un mese che arrivano complicazioni, una dietro l’altra. Spero che
il capitolo vi sia piaciuto, anche la mia interpretazione sulle origini di Jon.
In fondo, dai libri non arrivano ancora certezze di nulla, no?
Grazie a chi ha letto, a chi vorrà
lasciarmi un parere o aggiungere la storia tra preferite/seguite.
Scusatemi ancora per il ritardo.
A presto!
Celtica
P.S.: vi lascio anche il link a una
storica pubblicata da poco: Alba Cosacca. Grazie a chi deciderà di leggere!
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Capitolo 26 *** Per lei ***
Vieni con me 26
Dove
eravamo rimasti?
Sansa, Arya, Sandor e Petyr
giungono al nord
in cerca di un
documento che
potrebbe salvare la vita di Jon.
Non lo trovano. Dopo
una
discussione, Sandor abbandona il gruppo e torna da Cersei.
Tormund, un vecchio
amico di Jon,
arriva a Grande
Inverno e accetta
di accompagnare il trio dallo zio Benjen,
che racconta loro le
origini di
Jon: è lui suo padre.
Dopo che Sansa ha
chiesto a Petyr
di andarsene,
Arya riceve un
messaggio da Robb:
Jon è fuori pericolo.
embrano passati
mesi. Sansa abbandona
il capo contro il finestrino dell’auto, improvvisamente
stanca. Turmund e Arya
stanno parlando, ma lei non ascolta. Petyr è in silenzio.
C’è allegria nell’aria. Eppure lei
non riesce a provarla…
“Jon
ce la farà.”
Cosa accadrà ora, quando torneranno a
Londra? Cosa accadrà quando avranno visto Jon, quando tutto
sarà finito?
Di chi può davvero fidarsi? Se è vero
che Petyr si sente con Cersei… se è vero che ha
uno scopo…
“Non
hai bisogno di un motivo… Vattene.”
Respira contro
il finestrino,
appannandolo. Ciò che è successo dopo quelle
parole è confuso nella sua mente,
come se lo avesse solo sognato.
Arya che informa zio Benjen. Arya che
chiama Tormund. Arya che decide di partire all’alba.
Non ha dormito.
E dubita che qualcuno
di loro ci sia riuscito.
Benjen li ha salutati, li ha
benedetti. Ha chiesto di mantenere il segreto, soprattutto con Jon. Ma
Sansa
non è sicura, non è sicura di niente
ormai… E se avesse mentito? Se avesse
mentito come ha fatto loro padre, come fa Petyr?
“Ricordati
questo, uccelletto: io ho potuto prenderti e non l’ho fatto.
Ma lui…”
Non ha
più avuto notizie di Sandor.
Vorrebbe che fosse con loro, che rendesse quella situazione
reale… Lui direbbe
le cose sbagliate, non gli importerebbe nulla di quanto accaduto a Jon.
Sansa ne sente
la mancanza. Di cuoio
e alcol e violenza. Di una voce rude. Di uno sguardo duro.
Lui sa qualcosa
– su Petyr, su
Joffrey – che non vuole dire. Ma lei ha bisogno di
sentirlo… Ha bisogno di
capire, di chiarirsi le idee, di prendere una decisione.
Sente gli occhi farsi pesanti. Li
chiude. Un sospiro e cade nel sonno.
Quando li
riapre, non è più in auto.
I boschi la circondano, e una montagna la sovrasta. La terra sembra
tremare. Dove sono gli altri?
Sansa gira su se stessa, vede una
casa di legno, riconosce il lago. C’è Jon,
inginocchiato sulla riva. Lei
vorrebbe raggiungerlo, ma ha le gambe così
pesanti… Si volta, e la casa è
scomparsa. Al suo posto c’è un palazzo alto, con
una porta nera e i caratteri
dorati: Baratheon, dice la scritta.
La
testa di leone.
Osserva con
orrore il pomello della
porta. Joffrey è qui.
Deve averla
trovata. Sansa cerca di raggiungere Jon, ma i piedi affondano nel fango
e lei
viene tirata giù, sempre più giù,
finché non riesce nemmeno a respirare…
“Sansa”,
chiama una voce. “Sansa…”
Solleva le braccia in alto, annaspa
nella terra molle, cerca di gridare. Non interviene nessuno…
«Sansa!»
Sansa apre gli
occhi, specchiandosi
in quelli di Arya. Il respiro le si ferma in gola. «Siamo
quasi arrivati.»
«Ma…
eravamo appena scesi dal
traghetto… Io…»
«Sì»
sospira Arya. «Tu hai dormito
tutto il tempo. Stanotte non hai chiuso occhio nemmeno tu,
eh?»
Sua sorella
sembra stranamente
allegra. Come se tutto fosse risolto.
Poi Sansa spalanca gli occhi, guarda
l’interno dell’abitacolo.
«Dov’è
Petyr?»
Tormund
è alla guida dell’auto. Arya
è riuscita a convincerlo ad accompagnarle a sud. Ma Petyr?
Non riesce a deglutire.
Arya scrolla le
spalle. «Andato. È
sceso più di un’ora fa, ha detto che si sarebbe
fatto venire a prendere.»
E
io?,
pensa Sansa. Non mi ha svegliato. Non mi
ha nemmeno salutato.
La delusione nei suoi occhi
dev’essere evidente, perché Arya continua a
fissarla…
Ricorda le parole di Sandor, le
promesse di Petyr. Si chiede a chi dei due deve credere… Chi
è davvero dalla
sua parte?
«Ha
lasciato una cosa…» riprende
Arya, assecondando i movimenti dell’auto. «Per
te.»
«Cosa?»
Immagina una
lettera. Lunga, piena di
giuramenti, parole che sua sorella non può e non deve
leggere.
Le sembra di averla già tra le mani.
Quando una busta compare davanti ai
suoi occhi, Sansa ha quasi timore di prenderla. Poi lo fa, se la
stringe sullo
stomaco.
«Non
la apri?»
Lei scuote la
testa. Non ancora. Vuole aspettare
di essere
sola.
La città compare in lontananza, palazzi
e brividi, vie affollate, Jon in ospedale… Cosa
accadrà dopo? Joffrey
continuerà a cercarla? Petyr la proteggerà ancora?
Non
devi contare sugli altri.
Quando
l’auto si ferma, Arya scende
di corsa, sparendo oltre le porte scorrevoli. Tormund lascia la
macchina in doppia
fila e scende anche lui.
Sansa li segue.
«Sansa!»
Robb sembra
felice di vederla. È più
bello con la barba curata e i vestiti sportivi. Gli brillano gli occhi.
Lei si lascia stringere, affonda il
viso nell’incavo della sua spalla, aspira il suo profumo,
l’acqua di colonia
che usava anche loro padre, e aspetta.
Aspetta che tutto passi, che
l’abbraccio sciolga ogni dubbio, che rimangano solo certezze.
Che Robb risolva
tutto, che Jon si risvegli e Petyr e il Mastino svaniscano dalla sua
vita.
Non vuole più pensare. Vuole solo
svegliarsi da quell’incubo. Dimenticare ciò che le
ha fatto Joffrey,
l’umiliazione e la violenza.
«Andrà
tutto bene. Jon si riprenderà,
vedrai…»
Arya
è già nella sua stanza, china
sul suo letto. Gli stringe la mano.
Sansa si fa più piccola tra le
braccia di Robb. Sì, può restare lì, a
Londra, con la sua famiglia. Può
coccolare i suoi fratellini, stringersi a Robb ogni volta che vuole.
Fare pace
con Arya…
«Lo
so» sussurra. Ora ci siete voi.
Trascorre il
resto del tempo con lui,
alla macchinetta del caffè, a parlare della loro avventura
nel nord. Tormund è
con Arya nella stanza di Jon.
«E com’è?» chiede Robb, seduto
al suo
fianco.
«Cosa?»
«Grande
Inverno.»
Sansa sorseggia
il suo caffè. Neve…
Ha la neve nel cuore. «Come la
ricordavo… Come quando c’eri anche tu. A parte il
cancello arrugginito…»
«Jon
ha lasciato arrugginire il
cancello?!» Robb sorride di sollievo. «Non lo avrei
mai detto.»
«Sì, invece.» Sansa ride con lui. Robb è perfetto. Proprio come ho sempre
immaginato Joffrey.
Poi lui solleva
gli occhi – gli
stessi suoi e di sua madre – verso il soffitto. Sembra
tranquillo. «Mi ricordo
un giorno d’inverno, tu e Arya che litigavate nella
neve… Nostro padre ha riso
tutto il tempo senza intervenire.»
Sansa annuisce. «Tu e Jon siete
venuti a dividerci. Lo ricordo bene.»
«E tu te la sei presa con Jon»
riprende Robb, guardandola. «L’hai chiamato
bastardo…»
«Me ne
pentirò sempre.» Ma ora
è mio fratello. Ora conosco la
differenza.
Sì,
non vuole più lasciare Londra.
Può studiare anche lì, insieme a loro. Cambiare
corso e amicizie, restare con
la sua famiglia.
Sua madre approverebbe.
Trascorrono
un’altra ora a parlare,
poi è Robb il primo ad alzarsi. «Devo andare a
casa, da Bran e Rickon. Perché
non vieni con me? Resterà Arya al capezzale di
Jon.»
Sansa sorride
come se fosse la prima
volta. È felice. Sbottona il primo bottone della camicetta
ed è subito in
piedi. Fa un cenno verso la camera di Jon, parlando a Robb con gli
occhi: devo avvertire Arya.
«Ti
aspetto fuori.»
Lo guarda andare
via, dritto e bello
come non lo ricordava.
Raggiunge sua sorella e le chiede di
uscire dalla stanza.
«Robb
va a casa. Mi ha chiesto di
andare con lui. Non mancheremo molto.»
«È
già sceso? Volevo parlargli…»
«Potrai
farlo al nostro ritorno.»
Arya la ignora e
prende a scendere le
scale insieme a lei. Lo vedono parlare con un’infermiera al
piano terra. Sansa
sorride guardandolo raggiungere la porta.
Ancora pochi gradini. Lo hanno quasi
raggiunto.
«Robb!»
chiama Arya.
Sansa continua a
sorridere, infila le
mani nelle tasche dei pantaloni e… c’è
qualcosa. La lettera.
I suoi fratelli devono parlare, forse
può approfittarne per dare un’occhiata…
Robb
è fermo davanti alle strisce
pedonali.
Arya accenna una
corsa, poi si ferma.
Suona il suo telefono.
La carta bianca non è liscia, si
accorge Sansa. Come se fosse stata piegata. Apre la busta pensando di
trovare
centinaia di parole scritte per lei… Invece no. Dentro
c’è solo un biglietto.
«Pronto?»
Robb si volta,
come per aspettarle.
Solleva gli occhi al cielo, in trionfo, e sorride. Come se tutto fosse
andato
bene, come se la vita si fosse improvvisamente ricordata di lui.
Sansa è felice di guardarlo. Estrae
il biglietto.
«Che
significa?» La voce di Arya si
incrina. Il suo volto sbianca di colpo.
Non centinaia di
parole, nemmeno
dieci. Sansa inclina la testa di lato, confusa. Non riesce a capire.
Rilegge il
biglietto con più attenzione.
Attenta
ai tuoi fratelli. Sono stati i Lannister.
Solleva la testa
di scatto. Arya è a
pochi metri da lei. Robb sta per attraversare.
In lontananza risuona la sirena di
un’ambulanza.
«No…»
Sua sorella barcolla in avanti.
«Ci sono i miei fratelli lì
dentro…»
«Arya,
cosa succede? Arya!» Sansa la
afferra per un braccio, la costringe a voltarsi. Cerca Robb con uno
sguardo.
Sta attraversando la strada. «Robb!» chiama.
L’allarme è sempre più vicino.
«Quando
è scoppiato l’incendio?»
chiede Arya, gli occhi vacui.
Sansa ha una
brutta sensazione. Sente
i denti tremare. «Robb!» chiama ancora. Robb,
vieni qui. Dimmi che non è vero niente.
Lui si ferma sulle strisce. Si volta.
Ha ancora un sorriso stampato sul volto.
L’allarme risuona nelle orecchie,
come un avvertimento. Sansa lo capisce troppo tardi. «No!
Robb, Robb!»
L’ambulanza compare
all’improvviso
oltre la curva. Robb è sul suo cammino.
Ω
Petyr si
è fatto lasciare ai confini
della città. Non vuole tornare a Londra, forse non
può.
Fa una telefonata e aspetta. Poi ne
fa un’altra. Alla terza, sente l’animo
più pesante e il cuore grave.
Sansa.
Le ha lasciato un biglietto. Non si è
perso in chiacchiere, sa che non sarebbe servito a niente.
Passa mezz’ora prima che l’auto lo
raggiunga.
«Mi
aspettavo chiunque» esordisce
Petyr quando il finestrino si abbassa. «Ma non te.»
Tyrion abbassa
gli occhiali da sole e
lo guarda con il sorriso stampato in faccia. «Mia sorella ha
mandato me. A
quanto pare hai qualcosa in sospeso con il Mastino… Si
può sapere di che si
tratta?»
È una giornata di sole. Una giornata
che Sansa apprezzerebbe. Petyr sorride e sale in macchina –
un’auto fatta
apposta per un nano – l’immagine di lei davanti
agli occhi.
«No.»
«Certo
che siete proprio strani…
Prima mi chiami per distruggerla, poi Cersei mi manda a prenderti per
un
incontro. Che diavolo è successo?»
Tante
cose,
pensa Petyr mentre l’auto riparte.
Il nano è quasi ridicolo. Vestito
tutto di rosso, occhiali scuri, gel nei capelli.
«Oh,
questo? L’hai notato» mormora
Tyrion, dando gas al motore. «Una scommessa
persa…»
«Con
chi, se posso chiedere?»
Uno sguardo e la
risposta è chiara.
«Il Mastino.»
Petyr ride. Non aveva idea che il
Mastino avesse una vena ironica. «Che tipo di
scommessa?»
Adesso il
sorriso di Tyrion si
allarga. «Su te e Sansa Stark. Oh, non guardarmi
così! Era una scommessa
innocente… e fortunatamente non ho perso del tutto. Solo la
parte che
riguardava te.»
Se
Sansa fosse qui…
Cambierebbe qualcosa?
«Illuminami.»
«Alle
spalle di mia sorella,
ovviamente. Joffrey e Cersei non ne sanno nulla. Uno scherzetto
innocente tra
me e Clegane… O meglio: tra me e me.»
Petyr inclina la
testa di lato,
confuso. «Che significa?»
La città è così familiare…
come se
fosse il paese in cui è cresciuto. Gli alberi hanno smesso
di fiorire e i
bambini di affollare le strade.
In lontananza c’è l’hotel dove lo
attende Cersei…
«Oh,
io so tutto sul Mastino… Non
siamo poi così diversi nel nostro modo di
“desiderare”.» Tyrion rallenta,
sembra pronto ad accostare. «Quando ha abbandonato Joffrey ho
capito dove fosse
diretto… E con chi fosse.»
«L’ha
mandato Cersei», lo corregge
Petyr.
Tyrion lo guarda negli occhi un
istante, soddisfatto. «Questo è quello che ha
voluto farti credere.»
«È
venuto da me perché lo aiutassi a
riportarla indietro.»
L’altro
scuote la testa e continua a
guidare.
«C’ero quando si sono sentiti.»
Una risata, poi
Tyrion riprende a
parlare. «In ogni caso… sapevo cosa stava cercando
il Mastino. Magari non
sapevo dove lo avrebbe trovato… però ero certo
che sarebbe successo.»
Petyr abbassa il
finestrino. Ha
bisogno d’aria.
L’hotel gli sta di fronte, con le sue
vetrate azzurre e l’arco all’ingresso, le auto
veloci parcheggiate fuori… e
lui, Sandor Clegane. Tyrion fa un giro più lungo, aggirando
il parco che ruota
intorno all’albergo.
«Sansa
è incantevole, non è vero? Una
fanciulla graziosa. È naturale che anche un uomo rozzo come
lui ne sia stato
attratto.»
Petyr fatica a
parlare. «La scommessa.»
«Oh,
sì, giusto! La scommessa.»
Tyrion sembra divertirsi un mondo. Non è poi così
diverso da Cersei… pensa
Petyr. «Ho scommesso con me stesso che Sandor non sarebbe
riuscito a… come
dire? Conquistare quel fragile cuoricino.» Lo guarda.
C’è un mondo in quello
sguardo. «E nemmeno tu.»
Sono arrivati
nel parcheggio. Petyr
non se n’era nemmeno accorto. Cerca di ricordare come si
deglutisce.
Poi, lentamente, apre lo sportello e
scende.
«Ma
sulla seconda parte non ci ho
azzeccato. Ecco perché mi sono vestito così. A
presto, Ditocorto!»
Tyrion riparte
sgommando, lasciandolo
nel parcheggio dell’hotel.
Ci sono circa cinquanta metri da lì
all’entrata, e Petyr non è sicuro di farcela. Non
vuole incontrare il Mastino.
Osserva il viavai di gente che entra
ed esce dall’albergo. È indeciso.
Dovrei
girarmi indietro e tornarmene a casa. In fondo,
pensa, quello
che avevano da dirsi è già stato detto.
L’incontro con Cersei è più una
formalità che altro…
Cammina fino all’entrata, ed è lì che
lo trova.
«Non
si saluta un vecchio amico?»
Sandor solleva
il capo e digrigna i
denti. Non sembra disposto a giocare.
Petyr gli gira intorno, pronto a
entrare nell’hotel… ed è in quel
momento che il Mastino lo afferra per la gola
e lo spinge contro il muro, davanti allo sguardo sgomento del portiere.
«Lo
sapevo che non c’era da fidarsi»
ringhia. Stringe la presa fino a farlo annaspare.
«Dov’è?»
Non ha bisogno di chiedere “chi”. Non
ne ha nemmeno la forza. Lo afferra per i polsi, ma non riesce a
smuoverlo.
«Sei
uno sporco traditore.»
Gli manca
l’aria. Non può rispondere.
Agita una mano per chiedergli di lasciarlo andare.
Il portiere è sparito all’interno
dell’albergo.
«Perché
dovrei lasciarti respirare?
Finiamola qui e ora, tu e io.»
Alle spalle di
Sandor compaiono due
uomini vestiti da camerieri. Lo afferrano per le spalle, lo tirano, ma
Clegane
è irremovibile. Gli gridano di lasciarlo andare.
Petyr chiude gli occhi, li riapre un
momento dopo. Cerca di pronunciare quel nome…
l’unico che potrebbe convincere
il Mastino a lasciarlo andare.
San…
San…
Muove le labbra e un ghigno si forma sul volto dell’altro.
Scuote le mani per scacciare i due
uomini, come fossero solo due insetti fastidiosi. E la stretta si
allenta,
permettendogli di prendere aria.
«Sì.
Dov’è? Ti ha cacciato lei?»
La mano di Petyr
corre al pollice –
almeno quello deve riuscire a spostarlo – tira con tutta la
forza che ha in
quel momento, fino a liberarsi.
Si accarezza la gola, come a
liberarsi da un laccio invisibile.
«No…»
Un respiro, poi un altro.
L’affanno sembra aumentare mentre fa cenno di no con la
testa. «È… è tornata
a…
a Londra.»
Il volto di Sandor sembra oscurarsi.
«Perché sei qui? Perché devi vedere
Cersei?»
«Potrei…
potrei chiederti la stessa
cosa…»
Il Mastino lo
spinge ancora contro il
muro. Mostra i denti come il cane rabbioso che è.
«Vuoi davvero provarci,
Ditocorto? Vuoi fare questo gioco con me?»
Petyr scuote la testa, poi la
appoggia all’intonaco grigio dell’edificio.
«Sansa. Ho fatto un patto con
Cersei per lei.»
«Per
averla?»
«Per
impedire a Joffrey di avvicinarla
ancora.»
Sandor spinge il
suo corpo contro il
suo, torcendogli un braccio. «Perché dovrei
crederti? Sei un infame bugiardo.»
Petyr si lamenta e continua a
parlare. Non ha altra scelta. «E tu, allora? Sei tornato di
corsa sotto la
gonna di Cersei…»
Il pugno lo colpisce allo stomaco.
Questa volta Petyr ha tutto lo spazio che gli serve per piegarsi a
terra e
trattenere un conato. Gli uomini continuano a gridare. Uno dice di aver
chiamato la polizia.
A Clegane basta una mano per
sollevarlo e rimetterlo in piedi.
«Ti ho
chiesto: vuoi davvero fare
questo gioco con me?»
«No»
si affretta a rispondere Petyr.
Il dolore è… quasi una novità per lui.
Sono anni e anni che non viene colpito
da qualcuno. «Ma devi permettermi di difendermi…
Tu sei tornato qui, come me…»
«L’ho
fatto per lei» lo interrompe il
Mastino, rabbioso. Sembra pronto a colpirlo ancora.
D’istinto, Petyr porta le
mani a coprire viso e stomaco.
«Per
Sansa?»
Non gli
risponde, ma il suo sguardo è
chiaro: “Per Sansa.”
Petyr è troppo intelligente per non
capire. Anche Tyrion l’ha
capito… Vuole
Sansa. E per proteggerla non aveva altra scelta che tornare qui.
Annuisce lentamente, come se fosse
stato Sandor a dirglielo.
«Anch’io
sono qui per lei. Ho stretto
un patto con Cersei.»
Un altro pugno.
Stavolta contro il
muro al suo fianco. «Che cosa le hai offerto in
cambio?»
Te.
Vorrebbe tanto dirlo, provocarlo per vendicarsi del suo colpo. Ma ha
troppa
paura che succeda di nuovo. Il Mastino non ha niente da
perdere…
«Il
mio silenzio…»
«Su
cosa?»
È un’informazione troppo preziosa…
Non può sprecarla così. Non ora.
«Su cosa?» Il pugno colpisce il suo
braccio, facendolo gridare.
«Su
Joffrey! Su Joffrey! È stato lui
a colpire Sansa, su questo!»
«Colpire
Sansa? Intendi il bastardo?
È stato Joffrey a mandare Janos Slynt? Rispondi!»
È
un’informazione troppo importante…
«Sì»
mente. «È stato lui. Janos è
stato mandato da Joffrey. Voleva vendicarsi per avergli portato via
Sansa.»
Finalmente
Sandor lo lascia andare.
Non sembra soddisfatto, come se non gli credesse.
Petyr china il capo, guardandolo dal
basso. Fa dei lunghi sospiri per riprendere fiato.
«Va’»
ringhia il Mastino. «Vattene da
Cersei.»
Note
dell’autrice:
Ehm…
ciao! Sono sparita per così
tanto tempo… da non volervi annoiare con sterili motivazioni.
Questa storia mi mancava, e mi
mancava Efp. Solo che me ne sono accorta tardi…
Per quanto
riguarda la settima
stagione (specialmente il trattamento riservato a Petyr) non mi
pronuncio: c’è
bisogno di dire che più delusa di così non potrei
essere? E non tanto per una
certa morte… ma per come è avvenuta, per
ciò che l’ha preceduta e per come si è
svolta.
Se qualcuno volesse parlarne, sa dove
trovarmi.
Per quanto
riguarda il capitolo:
piano piano torniamo a collegarci con i personaggi e gli eventi della
“città”
in cui Petyr è tornato.
Spero che qualcuno ci sia ancora, che
non abbiate perso la voglia di leggere questa storia.
A presto!
P.S.:
quanto mi era mancato il
Mastino! E a dire il vero: quanto mi manca ancora… Ma ci
rifaremo!
P.S.2:
per il riassunto iniziale ho preso spunto dal quinto capitolo della mia
long Catene.
|
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Capitolo 27 *** Uccellino ***
Capitolo 27
a la gola secca.
Si fa accompagnare dal portiere
fino alla sala bar. Scrolla polvere inesistente dalla manica, scuote la testa e
si prepara ad attraversare il portico.
La luce entra dalle vetrate che
circondano i due terzi della sala. Lei è seduta sullo sgabello di velluto blu
davanti al bancone, un bicchiere da martini stretto tra le dita affusolate,
l’espressione imbronciata.
È sola.
Petyr è pronto a chiamarla, ma non
lo fa. Non si fa annunciare. Un giro più lungo, tra i tavoli tondi, le
poltroncine comode ed eleganti, la gente di un livello più alto del suo.
«Baelish» esordisce Cersei senza
voltarsi.
Solo allora se ne accorge: lo sta
guardando attraverso lo specchio dietro il bancone, quello che lui non ha
notato. Era troppo impegnato a studiarla.
Petyr fa un inchino. «Maestà.»
Le belle labbra di Cersei si
stropicciano. «Finiamola con i giochetti. Che cosa vuoi?»
«Ammirarti.» Prende posto accanto a
lei e fa cenno al barista di servirgli lo stesso cocktail di Cersei.
«Sei sempre stato così infido…» sussurra,
il bicchiere che le ruota tra le mani. Poi la voce si abbassa, si fa
minacciosa. «Se sei venuto per minacciare Joffrey…»
«Non sono venuto per minacciare
Joffrey.»
Lei lo guarda. «Bene. Allora a cosa
devo la tua… visita?»
Petyr è abituato al disprezzo.
Sorride. «Devi darmi Payne.»
«L’ho già fatto.»
Un bicchiere di martini viene
servito davanti a lui. «Non per mettere in dubbio le tue parole… ma ho saputo
che Payne deve prendere un aereo… tra due giorni.»
«Tornerà in tempo.»
«Dalla Giamaica?» Petyr si sistema
meglio sullo sgabello e beve un sorso. «Non c’è bisogno che ti dica…»
«No» lo interrompe Cersei, brusca.
«Non c’è bisogno che tu dica niente. Se provi anche solo a nominare Joffrey…»
«Impedisci a Payne di partire»
mormora. Si china in avanti, seguendo la linea perfetta delle gambe accavallate
e risalendo fino al suo viso. «Sarebbe un vero peccato se mancasse al discorso
del Sindaco…»
Lei digrigna i denti, un po’ come
fa sempre il Mastino. Solo che le labbra di Cersei sono piene e invitanti,
forse ancora più belle di un suo sorriso.
Petyr sorseggia il suo martini e
guarda dritto davanti a sé.
«Non mancherà» ruggisce Cersei. «Ma
ora vattene, Ditocorto, se non vuoi che chiami il Mastino.»
Lui si indica lo stomaco, lì dove
il pugno gli fa ancora male. «Ci siamo già incrociati.»
«Spero di non doverti mai più
rivedere.»
La sala è fresca e calma, come una
ventata di primavera. Petyr sorride, finendo in un sorso il suo bicchiere.
Si rimette in piedi con un inchino,
ed è in quel momento che sente una vibrazione all’altezza del cuore. Estrae il
cellulare dal taschino e vede un messaggio di Sansa.
«Addio, maestà.»
Lei nemmeno risponde. Petyr si
affretta a lasciare la sala, ed è all’entrata che si ferma, l’apparecchio
stretto tra le mani. Un’altra vibrazione, poi una terza e una quarta.
Sandor compare davanti a lui nel
momento stesso in cui sta aprendo il primo messaggio. Gli ruba il telefono
dalle mani.
«Ti ho visto» ringhia. «È lei?»
Non aspetta nemmeno una risposta,
cominciando a leggere. Sul suo volto rabbia, gelosia, stupore… espressioni che
si alternano deformando la brutta cicatrice.
Poi il Mastino solleva gli occhi su
di lui e lo guarda, come se sapesse. Ma
non sa niente…
«I ragazzini Stark…»
Petyr inclina la testa e allunga
una mano. Un gesto affrettato a cui Sandor risponde lasciando cadere il
telefono. Lo pesta con il piede fino a frantumarlo.
Il portiere si allontana sconvolto
– di nuovo – come se l’aggressione di
poco prima non gli fosse bastata.
Il volto di Petyr rimane impassibile.
«Non mi fido di te, Ditocorto» dice
a bassa voce. «Non credo a un cazzo di quello che mi hai detto.»
Petyr solleva le braccia. «E quindi
vuoi impedirmi di sentire Sansa?»
Sandor fa un passo avanti,
chinandosi su di lui. Ha i denti gialli dal fumo, l’alito che puzza di vino.
Gli occhi scintillano di violenza. Sorride, come se gustasse solo il momento in
cui potrà colpirlo ancora. Farlo a pezzi.
«È stata Sansa a chiamarmi. Cosa ha
scritto dei suoi fratelli?»
La sua voce è troppo sicura, troppo
tranquilla. Il Mastino se ne accorge. «Se ti avvicini ancora a lei… Se scopro
che l’hai infastidita in qualche modo, o anche solo che l’hai guardata con quei
tuoi occhietti del cazzo… non ci sarà un posto in cui potrai nasconderti.»
«Tutto questo per cosa?» insiste Petyr.
«Perché ti sei invaghito di lei?»
Sandor si trattiene, eppure sembra
pronto a saltargli alla gola. Solleva la testa, come a dirgli di non sfidare la
sua imponenza.
In uno scontro diretto non potrebbe
mai vincere…
«Pensi davvero che ti vorrà, quando
l’avrai liberata di Joffrey? Quando l’avrai liberata di me?»
Il portiere, alle sue spalle,
sembra aspettare il primo accenno di violenza per intervenire. È insieme a due
uomini, e tutti e tre sembrano pregare di non doverlo fare…
«Una bella ragazza come Sansa… Non
pensi meriti di meglio? In fondo, cosa potrebbe mai offrirle il cane di
Joffrey?»
A quelle parole il corpo di Sandor
scatta in avanti. Lo afferra per le spalle e lo lancia contro il banco della
reception. Petyr chiude gli occhi per il dolore, la schiena a pezzi.
Non vede gli uomini che si chinano
su di lui, quelli che cercano di spingere fuori il Mastino. Non sente la
cameriera che gli chiede come stia, di rispondere, di riprendersi. Non sa
nemmeno della presenza di Cersei ai confini della sala bar.
Capisce solo di aver osato troppo,
di aver detto le uniche quattro parole che potevano spingere Sandor a reagire.
Il
cane di Joffrey.
Non vede e non sente niente in quel
momento, eppure la sua mente fa l’unico collegamento possibile: c’entra Sansa.
Sansa è la chiave di tutto.
Ω
vestita di nero. Indossa occhiali scuri, anche
se non c’è traccia di sole. Non può permettere che qualcuno veda i suoi occhi
privi di lacrime.
Stringe Arya per un braccio mentre
escono dalla chiesa, la gente che affolla i gradini e il terreno intorno.
Dietro il piccolo edificio c’è un cimitero, ma non è lì che sono diretti.
«Condoglianze.»
Mancano due ore, poi i corpi di
Bran e Rickon verranno cremati.
Sansa non sente niente. Solo un buco
nel petto che nessuno può più colmare. Nessuno.
Londra era un sogno, ora è solo
l’inferno in cui è precipitata.
«Condoglianze… poveri bambini»
sussurrano le persone intorno.
Volti senza nome, alcuni familiari,
altri che lei preferirebbe non vedere.
La sua vita è finita. Senza Jon,
senza Robb a difenderla, Sansa è sola. Il branco è stato scisso, forse
distrutto.
Arya la attira a sé, stringendola
in un abbraccio. Ma è solo per dirle quelle parole… quelle che continua a
ripetere da due giorni.
«Hai fatto bene a dirgli di non
venire.»
Sansa sa che ha ragione, eppure la
presenza di Petyr la conforterebbe.
Non
puoi sapere che non fosse d’accordo con i Lannister…
Il messaggio del biglietto è
qualcosa che ha preferito tenere per sé. Arya? Arya sarebbe corsa a reclamare
vendetta.
«Zia Lysa non è venuta nemmeno per
i nostri genitori…»
Poi sua sorella si stacca. Entrambe
chinano i capo.
Gendry – che nei tre giorni passati
è stato al loro fianco – fa un cenno ad Arya, e lei si allontana.
«Dopo la cremazione li porterete al
nord?» L’uomo, che Sansa non riconosce, si china per baciarle la mano. Gli occhi… sa di averli già visti.
Lo guarda e non risponde. Non
subito. Poi fa un cenno di assenso.
«Riposeranno accanto a tuo padre…»
«È il loro posto.»
«Aye. È anche il mio. Il nostro.»
L’espressione sembra dispiaciuta,
eppure negli occhi ha il gelo. Ecco dove
li ho già visti.
Quando il ragazzo accanto a lui si
mette di profilo, Sansa lo riconosce. L’amico
di Theon. Jeyne!
«Conoscevi mio padre?» domanda, lo
sguardo puntato sul giovane.
«Molto bene.» Un sorriso. «Mi è
dispiaciuto non riuscire a rendergli omaggio quando è mancato… Ero all’estero.»
Sansa inclina la testa e lo studia.
Calvo, il volto affilato, vestito di scuro. Non lo ricorda. «Grazie per essere
venuto oggi. Per i miei fratelli…»
«Bolton, Roose Bolton, Sansa.»
«Grazie.»
Sta per voltarsi e raggiungere sua
sorella quando lo vede. Il cuore prende a batterle più forte nel petto.
No,
non qui, non ora.
«Ti ricordi di mio figlio?»
continua Bolton. Sfiora la spalla del ragazzo, facendolo voltare. «Ramsay, ti
ricordi di Sansa?»
Il desiderio di fuggire si fa
impellente. Il giovane si volta, solleva le sopracciglia, stupito. E sorride,
sorride come non è cortesia fare a un funerale.
«Come dimenticarla? Ci siamo visti
nella facoltà di Chirurgia.»
«La conoscevi già, Ramsay. Vi
conoscevate da bambini…»
Il ragazzo continua a sorridere.
Sansa vuole solo andare via. Lui la
sta cercando tra la gente.
Fa un passo indietro, d’istinto, e
gli occhi di lui catturano il suo movimento.
Non riesce a parlare, forse nemmeno
a respirare.
«Bolton…»
Roose gira il capo e sorride a
Joffrey. Anche Ramsay lo osserva. «Come sta tua madre, ragazzo?»
«Tira avanti. Posso rubarvi la mia
fidanzata?»
È Ramsay a sgranare gli occhi per
primo. E a sorridere, in quel modo orribile che l’ha tanto spaventata il primo
giorno. «Fidanzata?»
Sansa è una statua di sale. Joffrey
la afferra per la vita, attirandola a sé. Poi annuisce e la trascina lontano.
Lei non sa cosa dire, non sa cosa
fare. In quel momento vorrebbe solo morire.
Le dita di Joffrey le accarezzano
il fianco, con la stessa dolcezza di quando si sono conosciuti. Ma non è più un
principe… non è più il suo principe.
E forse è questa certezza a darle la forza di parlare.
«Cosa ci fai qui?»
Lui la lascia, solleva le braccia
con sicurezza. «Potevo mancare a un evento così importante per la mia
fidanzata?»
«Non sono più la tua fidanzata.»
Stranamente, Joffrey incassa il
colpo e non risponde. Il suo volto cela quella punta di rabbia che Sansa
avverte così forte dentro di sé. Lo conosce troppo bene.
Un istante, e le labbra di lui si
allungano in un sorriso.
«Come sta Robb?»
La gente intorno non se ne accorge,
ma Sansa sbianca di colpo. Schiude la bocca per ribattere, ma non ci riesce. La
figura massiccia di Sandor ha appena riempito il suo campo visivo.
Joffrey lo vede e sorride.
«Ah, Mastino! Come vedi, non c’è
più bisogno che cerchi Sansa. L’ho trovata per conto mio.»
Il cielo è grigio. Sansa toglie gli
occhiali da sole e lo guarda. Vorrebbe vomitare.
Vorrebbe prendere lui, il suo cane
da guardia e chiuderli in un sepolcro. Sandor distoglie lo sguardo da lei.
Poi Joffrey allunga il braccio
davanti a sé e osserva l’orologio.
«Quanto dura ancora questa cosa?
Dobbiamo ripartire stasera stessa. Preparati, Sansa.»
«Partire?»
Joffrey sembra un po’ stanco di
dare spiegazioni. Non è tutto così ovvio? «Sì, partire. Torniamo a casa.»
«Non vengo.»
Lui sta per rispondere, sta per
arrabbiarsi. Sansa lo vede dai muscoli della mascella, dalla linea tesa del
collo. Ma un attimo prima che le parole lascino le sue labbra, una mano si posa
sulla sua spalla.
Ma non è la mano del Mastino. E
nemmeno quella di Petyr.
«Joffrey, amico mio.»
Ramsay, senza saperlo, è corso in
suo aiuto. «Un fatto molto originale che dobbiamo rincontrarci proprio qui, in
un’occasione così triste… ma così è la vita.»
L’altro si volta per rispondere, ed
è in quel momento che Sandor la afferra per un braccio, spingendola lontano. Le
fa cenno di andarsene.
«Ma dov’è Sansa? Sansa!» La voce di
Joffrey. «Cercala, Mastino. Riportala qui!»
Gli occhi di Sansa cercano
disperatamente un rifugio. Non vede Arya, né Gendry. Nessun volto amico. La
vista del cimitero la coglie impreparata, e forse è per non dover più pensare
che Sansa raggiunge il cancello e lo oltrepassa. Vaga tra le tombe.
«Ti ho detto di andare via.»
Il Mastino è dietro di lei, come se
non l’avesse mai persa di vista. Lei scrolla le spalle.
«Cosa mi può capitare di peggio?
Morire, forse?»
Parla con noncuranza, lo stesso
modo che faceva sempre infuriare Joffrey. Sfiora con le dita la lapide di marmo
davanti a sé. È liscia e fredda, come sarebbe la sua pelle se fosse morta.
Dovrei
esserlo.
«Qualsiasi cosa è peggio che
morire.»
Sansa si volta e lo guarda. Non ha
più paura di lui, della sua cicatrice, del suo volto sfigurato. Non teme
nemmeno più che se ne vada… L’ha già abbandonata, l’ha già tradita. Non si
aspetta e non vuole più niente da lui. Né da nessuno.
«Sei tornato da Joffrey» dice, in
un tono che sembra un’accusa.
Non aggiunge altro, non ce n’è
bisogno. Sandor non ha bisogno di sentirla per sapere. Lo capisce dai suoi
occhi… C’è un’intera conversazione sospesa tra loro, a cui lui non sa come
ribattere.
Il Mastino si fa avanti, calpesta
la terra che copre una tomba, si ferma a due passi da lei, come se qualcosa gli
impedisse di avvicinarsi ancora.
«Mi hai tradita…»
È come un bisbiglio. Un suono
sottile, lento, dolce. Una nenia in grado di sconvolgere un uomo. Sandor sembra
spezzarsi a quelle parole.
Sansa spera di ricevere una
risposta. Almeno un no, un gesto, uno sguardo che dica qualcosa di più di ciò
che vi legge ora. Ha bisogno di sentirlo. In quell’istante, la sua vita dipende
da quello.
Lui sospira, china gli occhi.
Annulla la distanza tra loro. E quando solleva una mano sul suo viso, Sansa
resta immobile.
Non dovrebbe. La sua mente ordina
di spostarsi, di evitare quel contatto, di rispettare la memoria dei suoi
fratelli. Poi si spegne.
Quando Sandor appoggia le labbra
sulle sue, Sansa chiude gli occhi e ode solo il silenzio.
È un bacio breve, delicato. Come
non avrebbe mai pensato di ricevere da lui.
Il suo cuore traballa.
Poi il Mastino si stacca, il suo
respiro caldo ancora sul viso.
«Joffrey non ti toccherà. Ma non
farti trovare. Tieniti a distanza da lui.»
Poi si volta, camminando verso il
cancello.
«Sandor, aspetta!» Sansa sente il
calore salirle fino al collo. Prende un respiro profondo prima di parlare.
«Cos’è successo… tra te e Petyr?»
Vede la sua figura irrigidirsi, le
mani chiudersi a pugno. Quando se lo ritrova davanti, Sansa smette di
respirare.
«Che cazzo ti ha detto?»
Sansa china gli occhi a terra,
gioca con i lacci della giacca. «Io
gli ho chiesto di non venire… e lui… lui ha detto che l’hai colpito.» Poi lo
guarda, vede la mascella rilassarsi sotto la sottile barba. «Perché?»
L’aria è fredda. O forse è solo
Sansa a sentirla.
«Ciao, uccellino.»
Sandor si volta ed esce dal
cimitero. Quando lei decide di seguirlo, non ha più il terrore di incontrare
Joffrey. Riconosce la figura esile di Arya, vede con chi sta parlando… e li
raggiunge.
«Theon!»
«Ciao, Sansa.»
Arya li lascia soli, raggiungendo
Gendry. Sansa vorrebbe chiedere tante cose – cosa ci fai qui, come hai saputo…
con chi sei venuto? – ma Theon la anticipa.
«Sono qui per Robb… Come sta?»
Lei abbassa gli occhi, cerca gli
occhiali scuri nella tasca. Quando li trova, solleva le mani e li indossa.
«Come hai… come hai saputo di
Robb?»
Theon scrolla le spalle, lancia una
veloce occhiata ai Bolton. «Le voci corrono…»
«È in ospedale. Come Jon.»
«Jon… quanto tempo.»
«Già…» Sansa non sa cosa
aggiungere, non sa cosa dire. Non vuole domande. «Lui… sta bene. Come può stare
bene una persona investita.»
Theon sembra pronto a ribattere, a
fare altre domande, magari vorrebbe pure vederlo. Ma Sansa non si sente pronta
a tanto… Poi le viene in mente: Jeyne!
Lei non sa niente…
Allunga la mano ed estrae il
telefono, facendo cenno a Theon di tacere. Scrive un veloce messaggio alla sua
amica. Lei aveva una cotta per Robb… come
Theon.
«Senti…» comincia Theon. «Pensi che
potrei andare a trovarlo?»
Sansa non ha il tempo di
rispondere.
«Scusatemi…» dice qualcuno alle sue
spalle. «Sansa, sono venuto.»
Lei si volta. «Zio Benjen!»
Si allontanano. «Arya mi ha
chiamato… Prima che partiste si è fatta dare il numero della chiesa.»
«Non ne sapevo niente.»
«Nemmeno io.» Zio Benjen sorride,
ed è un sorriso diverso da quello che serpeggia sui volti della gente.
«Sono felice che tu sia qui.»
Vorrebbe stringerlo, ma non ce la fa. Non con i corpi di Bran e Rickon – loro
che nemmeno ricordavano loro zio… - ancora caldi.
Le sembra ingiusto. Non può farsi
abbracciare, non può farsi consolare. Non può, perché loro non possono più
farlo…
«Sei… sei venuto anche per Jon?»
Ti
prego, rispondi di sì.
«Per Jon…» conferma lui abbassando
il mento. Il sorriso si spegne sul suo viso. «E per Robb.»
E Sansa piange. Piange come non
pensava di poter più fare. Si aggrappa a lui, a quel corpo che sa di casa, di
famiglia, di padri assenti e fratelli persi, e si lascia andare.
Non ha versato lacrime quando è
successo. Non ha versato lacrime quando Robb è stato investito – anche lui no, ricorda di aver pensato –
quando ha saputo – capito – cos’era
successo a Bran e Rickon.
Né quando Rickon ha lottato in un
letto di ospedale per un giorno intero, da vero lupo, prima che la morte
venisse a prenderlo.
«La
morte lo ha colpito con le sue frecce» aveva detto il
reverendo. «Non poteva sopravvivere.»
Arya lo aveva spinto a terra. Poi
era fuggita via.
Sansa non aveva avuto la forza di
aiutarlo a rialzarsi… non si era nemmeno scusata.
«Andiamo via di qui» sussurra zio
Benjen, prima che Arya li raggiunga.
Ora che ha iniziato, Sansa non
riesce a smettere di piangere.
«È stato quell’uomo orribile?»
mormora sua sorella. «Quello con cui parlavi prima?»
«B-bolton? No…» Cerca di calmarsi,
si stacca da Benjen ed è Arya che guarda. «Sai chi è? Dice di aver conosciuto
nostro padre…»
Un cenno di assenso. «Non ha più
terre nel nord. Sono nostre. Nostro padre ha comprato tutto per salvarlo dal
fallimento.» Arya scuote la testa, osservando Roose da lontano. Benjen
raggiunge Rodrick, lasciandole sole. «Non mi è mai piaciuto.»
«Come mai ti ricordi di lui?» Come mai io non lo ricordo?
Il volto di sua sorella muta, come
se di colpo fosse arrivato l’inverno. E il gelo. «È venuto a trovarci la sera
prima dell’incidente… prima che papà e mamma…»
«Davvero?» la interrompe Sansa.
«Perché io non lo ricordo?»
Arya scrolla le spalle. «Andavi
sempre ad aprire tu. Quella sera abbiamo litigato e hai mandato me. Tu eri al
telefono con Joffrey…»
Sansa sente il calore abbandonare
il suo viso. Ha un brivido.
Ho
preferito Joff all’ultima sera con i miei genitori…
«Che cosa voleva?»
«Non lo immagini? Rivoleva le sue
terre. Diceva di avere un amico disposto a prestargli i soldi per comprarle.»
«Come mai papà ti ha permesso di
assistere?» chiede, anche se ha mille domande da farle. Chi è questo amico, cos’ha risposto nostro padre, come si sono
lasciati… da amici o da nemici?
E la domanda più importante di
tutte, quella che non può permettersi di fare, non ad Arya: c’entra qualcosa con la morte dei nostri
genitori?
«Non me l’ha permesso, infatti.»
Nonostante tutto ciò che è accaduto, Arya ha un guizzo divertito negli occhi.
Ma svanisce subito. «Stavo cercando di acciuffare il nostro gatto…»
«Il gatto?»
«Nostro padre ha detto di no»
mormora sua sorella, posando gli occhi sui Bolton. «Ha detto di avergli fatto
un favore a comprarle, che l’ha tirato fuori dai guai… E ha chiesto chi fosse
questo amico…» Poi la guarda, ed è come se il buio fosse sceso all’improvviso.
«Chi era?»
«Non lo sai?»
Perché
dovrei saperlo?
Sansa non ne ha idea, eppure il suo
corpo reagisce per lei. Il suo ventre capisce. Un brivido, poi calore che si
snoda nel petto. La chiesa, la gente, tutto prende a vorticarle intorno.
«Petyr Baelish.»
Stavolta non c’è disprezzo nella
voce di Arya. Non c’è nemmeno il sospetto. Solo una cupa e calma certezza.
Le gambe di Sansa cedono sotto di
lei. E d’un tratto il cielo si spegne.
Note
dell’autrice:
Ecco che ci ricolleghiamo con i
primi capitoli (all’incontro tra Petyr e Roose), e piano tornano i vecchi
personaggi. Spero che il capitolo via sia piaciuto! Fatemi sapere cosa ne pensate!
A presto! Celtica
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