La Terra dei Limoni in Fiore

di B e t c h i
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Willkommen in Napoli ***
Capitolo 2: *** La Smorfia ***
Capitolo 3: *** Il morso della tarantola ***



Capitolo 1
*** Willkommen in Napoli ***


La Terra dei Limoni in Fiore

Willkommen in Napoli
 

 
Napoli, autunno 1713
La prima impressione che ebbe Austria entrando in Napoli, fu quella di giungere in una città sporca e maleodorante, affogata nell’afrore umano dei suoi abitanti.
Italia, al contrario, riconobbe in quella cittadina il luogo più festoso e colorato che avesse mai visto.
«La casa del mio fratellone è così allegra.» aveva detto con un risolino, dopo aver dato una sbirciatina furtiva dal finestrino della carrozza.
L’austriaco socchiuse gli occhi e scosse il capo. Ciò che Italia aveva definito “allegro” in realtà era -a suo dire- totalmente fuori controllo. 
L’assordante vociare che proveniva dall’esterno del cocchio, gli suggerì che probabilmente stavano attraversando una delle zone più importanti della tumultuosa cittadina.
I cavalli rallentarono il passo e Italia ne approfittò per tuffare nuovamente il naso fuori dalla carrozza; strinse le manine attorno al telaietto del finestrino e si sporse in avanti in modo da poter godere di una visuale migliore.
Tutto il viale era ostruito da un caotico mercato -allestito dai bottegai e dai rivenditori ambulanti-  in cui era possibile trovare tutto e il falso di tutto, dal cibo all’argenteria contraffatta.
Una sinfonia di aromi forti e contrastanti pizzicò le narici del piccolo Veneziano: l’odore del pepe pestato nel mortaio, del salame stagionato, del bucato e della conserva di pomodoro si mescolavano nell’aria satura di vita e tradizioni.
Austria sputò le sue lamentele contro il fazzoletto di stoffa che teneva premuto sul naso e sulla bocca, nauseato dall’invadenza di quel tanfo sempre più intenso e penetrante.
«Song’ arrivat gli austriaci!1»
La voce acuta di una donna si levò fra una folla di centomila e più bocche.
In quell’istante si verificò un’incredibile trasformazione: la gente che si ammassava sulla strada cominciò a defluire, alcuni mercati si dileguarono, altri –invece- si rifugiarono nelle botteghe che costeggiavano il viale.
Una vecchietta -rigorosamente vestita di nero- si alzò dalla sua seggiola e con uno scatto inaudito per la sua età afferrò i tarocchi che usava per prevedere il futuro delle persone e li nascose sotto la gonna lunga, per poi risedersi e tirare fuori un rosario cominciando a pregare ad alta voce.
Italia sbatacchiò le palpebre incredulo; in un attimo il  viale era stato sgombrato, e del grande mercato che lo animava non vi era rimasto che lo spettro.
Quel tratto di strada, si era trasformato in un campo deserto in cui spiccavano i colori sgargianti delle bucce d’arancia, delle foglie di cavolo e dei pomodori crepati.
«Assurdo!» Ad Austria tremò un sopracciglio. Ordinò al cocchiere di fermare il calesse e aprì lo sportello.
«Cosa significa questo?» aveva chiesto guardandosi intorno, senza abbandonare l’abitacolo sicuro della carrozza.
La risposta non tardò ad arrivare.
Un pomodoro marcio cercò di colpirlo  in pieno viso, ma gli passò sulla testa sfiorandogli il ciuffo ribelle. Il frutto si sfracellò contro il vessillo dell'Impero Austriaco, macchiandolo di rosso.
Roderich ne seguì la traiettoria, incontrando lo sguardo crucciato di un ragazzino che all’apparenza dimostrava avere sedici anni appena.
Grazie all’incredibile somiglianza con Veneziano, capì subito che si trattava del fratello.
Romano.
Il problematico Sud Italia, nel cui sangue si fondevano le ardenti eredità arabe, normanne e spagnole.
Un sangue ricco il suo, che si arroventava nell’odio, bruciava nell’amore e si consumava nel sogno.
Il ragazzino fece scoccare la lingua tra gli incisivi. Incrociò le braccia al petto e alzò il mento con fare altezzoso -restando a debita dall' austriaco.-
«Tornatene a casa! Voi crucchi non mi avrete mai,bastardi.» stese le braccia lungo i fianchi e strinse i pugni in una morsa ferrea « anche se quel coglione di Spagna ha firmato quel fottutissimo trattato2
Romano deglutì un groppo di saliva amara come fiele. Strinse le dita con più forza affondando le unghie nei palmi chiusi e le nocche sbiancarono.
La testolina di Veneziano, sbucò dietro la figura austera di Roderich. Gli occhietti ambrati si posarono sul corpo sciupato del fratello, di gran lunga più alto e sviluppato di lui che dimostrava avere non più di dieci anni.
Quando gli occhi verdi di Romano si spostarono nelle iridi del fratello, il minore ebbe un fremito.
Erano anni che non si vedevano. Voleva correre verso lui e abbracciarlo così forte da farlo arrossire in volto. 
Questo però non avvenne.
Lo sguardo di Romano era carico d'astio, rancore e delusione, e per un momento Veneziano ebbe paura.
Abbassò la testolina, e tornò a nascondersi dietro le gambe del suo padrone. L'entusiasmo che lo aveva pervaso all'idea di rincontrarlo, era stato smorzato dalla gelida folata della consapevolezza.
Solo lui riuscì a cogliere negli occhi del meridionale, il dolore che tormetava il suo animo.
Romano soffriva a causa dell'abbandono di colui che aveva promesso di proteggerlo fino alla fine. Soffriva perché infondo, Spagna era stato l'unico a dimostrare di tenere a lui, ed improvvisamente era scomparso.
Ma non come aveva fatto Nonno Roma, no. Era scomparso perché era stato lui a decidere di volersi allontanare.
O almeno così gli era stato detto.
Senza aggiungere altro, il ragazzino voltò i tacchi e imboccò una stradina stretta e angusta immersa nell'ombra dei palazzoni altissimi che la costeggiavano.
Veneziano, vide la mantellina marrone che ricadeva sulle spalle esili del fratello muoversi appena al passar del vento, poi la sua figura venne inghiottita dal buio di quel tetro sentiero.
Austria si passò una mano sugli occhi stanchi, mandando fuori un sospiro frustato.
Italia Romano avrebbe messo a dura prova il suo raffinato temperamento aristocratico.
 

Note di Betchi_
No, non mi convince. Proprio non mi scende giù, ma siccome nell'ultimo periodo non faccio altro che scrivere e  cancellare il tutto subito dopo, ho deciso che questa volta avrei pubblicato a prescidere dalla mia opinione.
Sarete voi a giudicare ^_^. Se mi lascerete almeno un parerino continuerò questa raccolta dedicata interamente a Romano.
So che dovrei aggiornare la long Sfiorivano le Viole, ma per via dei vari impegni scolastici che in questo periodo mi hanno tolto un sacco di tempo, non ho potuto dedicarmi alla stesura del nuovo capitolo.
Quindi ecco che, in una delle piccole pause che mi sono concessa, ho sfornato questa piccola flash che come effetto benefico ha solo lo stimolo della diuresi.
Bene, non so più che altro scrivere xD
Godetevi pure i chiarimenti di fine capitolo (?)

1- "Sono arrivati gli austriaci!"
2- Romano si riferisce al Trattato di Utrecht firmato tra il marzo e aprile del 1713, con la quale la Spagna cedeva all'Austria il regno di Napoli e quello di Sardegna, chiudendo il capitolo storico della guerra di successione spagnola.

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Capitolo 2
*** La Smorfia ***


La Terra dei Limoni in Fiore

La Smorfia
 
Napoli, primavera 1884

«Scetate Felicià!1»
Feliciano mosse le orbite sotto le palpebre ancora chiuse. Contrasse il volto in un’espressione contrariata, ed esalò un flebile lamento tra le labbra dischiuse.
Le ciocche castane strisciarono sulla federa del cuscino, dove si allargava un piccolo alone di saliva. 
Un rivoletto di bava colato dall’angolo sinistro della bocca, si era seccato sulla pelle lattea, creando una scia biancastra che adesso gli solcava la guancia.
«Felicià, è juorno!2 »
L’ennesimo richiamo di Romano, costrinse il giovane settentrionale ad aprire gli occhi. 
Sbatacchiò le palpebre un paio di volte e poi le socchiuse, piegando gli angoli della bocca in un dolce sorriso.
Romano era lì. In piedi, affianco al lettino che avevano condiviso quella notte.
Aveva una mano stretta su un fianco e l’espressione crucciata –quasi infastidita- stampata in volto. La stessa che sembrò addolcirsi di fronte al sorriso del fratello.
«Buongiorno Fratellone, » uno sbadiglio impastò le parole di Feliciano. « ti sei svegliato prima di me anche questa mattina!»
Romano sollevò le spalle e sbuffò.
Dalla pelle tirata e dagli occhi verdi cerchiati da un reticolo di venuzze scure, si capiva chiaramente che non aveva chiuso occhio quella notte.
Dormire in due in un letto tanto piccolo, era stata una vera e propria tortura per il maggiore. 
Certo, non poteva immaginare che Feliciano fosse cresciuto così tanto dall’ultima volta che si erano incontrati. 
Quando lo aveva visto scendere dalla diligenza che lo aveva scortato fin lì la sera precedente, quasi non riusciva a credere ai suoi occhi: Feliciano lo aveva abbracciato, allacciando le braccia esili attorno al suo collo senza doversi sollevare sulle punte dei piedi; Romano ancora scosso, si era lasciato avvolgere dal calore e l’entusiasmo del più piccolo senza replicare.
La morsa ferrea della consapevolezza gli aveva bloccato ogni singola parola in gola, stringendo fino a fargli mancare l’aria.
Feliciano stava diventando grande. Più grande di lui.
«Oh che bello, mi hai portato la colazione!»
Feliciano con un saltello, si mise a sedere sul bordo del materasso, facendo ciondolare la gambe fuori dal letto. Gli assi di legno cigolarono sotto il suo peso.
Romano fece scoccare la lingua contro gli incisivi. «Adesso non farti strane idee.» disse porgendogli il bicchiere di latte che stringeva tra le mani.
Le dita dei due fratelli si sfiorarono, quando Feliciano afferrò entusiasta la sua umile colazione.
«Hai dormito bene?»
Feliciano annuì, osservando pensieroso il vetro del bicchiere.
Era sporco di terra.
La terra che incrostava le mani di Romano, già macchiate della fatica nei campi a quell’ora del mattino.
«Dalla faccia che hai fatto, non mi sembri molto convinto…»
Romano annodò le braccia al petto, stringendo le mani attorno ai gomiti.
Interpretò l’espressione del fratellino, come insoddisfazione difronte a quella misera colazione.
Provò vergogna. Ma si disse che, infondo, più di quello non poteva offrirgli.
«No…è che ho fatto un sogno bruttissimo, fratellone.»
Sospirò e con entrambe le mani, portò il bicchiere alla bocca mandando giù il latte tutto d’un fiato.
In cuor suo, aveva capito cos’era scattato nella testa del più grande, e adesso aveva deciso di rimediare pronunciando quella parolina che ogni giorno nutriva  le speranze di Romano: “sogno”.
Gli occhi del meridionale si animarono al sentirla. E Feliciano sorrise consapevole: di lì a poco Romano avrebbe cominciato a dare i numeri.
Nel vero senso della parola.
«Jamme Felicià,  racconta!»
Romano chinò il busto e poggiò le mani sulle spalle del fratellino.
Lo scosse appena, fremendo all’idea di sapere.
Feliciano strinse il bicchiere vuoto tra le mani, spostando lo sguardo sull’apertura della camicia di Romano che lasciava intravedere le clavicole fin troppo sporgenti.
«Ecco io…ho sognato il nonno.»
«’O muorto. Quarantasette.»
«E mi ha detto…»
«Parlava? Allora quarantotto, ‘o muorto che pparla
Feliciano si morse il labbro inferiore, alzando gli occhi al soffitto.
Romano attendeva impaziente.
«Non ricordo cosa ha detto, però ho avuto tanta paura.»
«Quindi novanta. ‘A paura
«Ho avuto paura perché...piangeva.»
«Hmm- sessantacinque. ‘O Chianto
«Piangeva perché aveva finito il vino.»
Romano scoccò un’occhiata perplessa al fratello. «Quarantacinque. ‘O vino» sibilò.
«E…Ah! Reggeva una bottiglia vuota.»
«Ah ecco! Piangeva perché aveva finito il vino. Quindi quattordici, ‘O mmbriaco
Feliciano rise, sinceramente divertito dall’entusiasmo del meridionale alle prese con i numeri o per meglio dire, alle prese con la smorfia.
La chiave dei sogni.
Romano la conosceva a memoria, applicandola su qualunque sogno o qualunque evento della vita reale.
Perché tutti gli avvenimenti, grandi o piccoli che siano, non accadono mai per caso, diceva.
E lui, che infondo viveva di sogni perché la vita non gli aveva concesso molto, cercava di interpretarli a modo suo ricavandone un briciolo di speranza.
«Felicià, poi questi numeri ce li giochiamo al lotto. »
Era questa la sua consolazione. Il suo modo di sperare.
E ogni settimana, Romano era solito rifare il suo grande sogno.
Sognava tutte le cose che la vita reale non poteva dargli.
Sogna una vita migliore per il suo popolo, che come lui viveva nella fantasticheria che il lotto gli aveva concesso: la visione felice che appaga gli oppressi, in cambio delle poche monete guadagnate nell’arco della settimana.

~¤~¤~¤~

Un ragazzino, affannato dopo una frenetica corsa, si fermò all’imbocco del vicolo.
Portò le mani a coppa davanti alle labbra e la sua voce stentorea penetrò attraverso la folla gremita di persone.
«Vintiquatto.»
«Sissantanove.»
«Quarantaroie.»
«Nove.»
«Cinquantacinche»
«Sittantaquatto.»
Un silenzio quasi irreale abbracciò il caotico quartiere della Pignasecca.
La delusione stampata sui volti della gente, venne smorzata da un sorriso stanco e rassegnato all’idea di aver perso tutti i risparmi anche quella settimana.
L’imprecazione di Romano, risuonò nell’aria satura di odori forti, animando nuovamente il viale con la voce dei suoi abitanti.
«Idiota di un fratello. È tutta colpa tua!»
«Non arrabbiarti –sigh-  mi dispiace… »
Feliciano diede due colpetti leggeri sulla schiena del fratello, non trovando modo migliore per consolarlo.
Erano seduti sul bordo di uno scalino in pietra, davanti al portone di un sontuoso palazzo antico. Il maggiore aveva i gomiti poggiati sulle ginocchia e le mani lasciate penzoloni tra le gambe.
La prossima settimana, ne era certo, avrebbe fatto terno secco giocando i suoi fedelissimi numeri; i sogni di Feliciano erano poco affidabili.
 
Uno.
Tredici.
E Quarantotto.

L’Italia.
Sant’Antonio.

E sì, anche lui ‘o muorto che pparla.



 
Angolo di Betchi_
Ecco. Appena devo scrivere in questo angolino, subito mi raggiunge anche il blocco dello scrittore.
Vabbé, proviamo a rompere il ghiaccio in questo modo.
Innanzi tuto ringrazio tantissimo Rapidash e IMmatura per aver lasciato una recensione al primo capitolo. Mi spiace non aver risposto, ma il tempo è mancato e farlo adesso non avrebbe molto senso. Quindi per farmi perdonare, questo capitolo lo dedico tutto a voi, che mi avete resa tanto felice invogliandomi a continuare questa raccolta.
Ringrazio anche chi avuto il coraggio di inserirla tra le preferite, seguite e ricordate. Davvero, vi voglio bene :')
Detto questo, passiamo alle spiegazioni.
La Smorfia Napoletana è una sorta di "dizionario" in cui a ciascun vocabolo (persona, oggetto, azione, situazione, ecc.) corrisponde un numero da giocare al Lotto. L'origine del termine è incerta, ma la spiegazione più frequente è che sia legata al nome di Morfeo, il dio del sonno nell'antica Grecia, in quanto è d'uso tradurre in "giocata" la descrizione di un sogno (ma a volte anche situazioni reali che hanno attratto l'attenzione popolare).
La smorfia è tradizionalmente legata alla città di Napoli, che ha una lunga tradizione nei confronti del gioco del lotto, ma esiste un gran numero di smorfie locali legate ad altre città.
E come potevo non scrivere un capitolo su una delle fissazioni più radicate di Romano?

1-"Feliciano svegliati."
2-"Feliciano, è giorno."

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Capitolo 3
*** Il morso della tarantola ***


La terra dei limoni in fiore
 
La Taranta vince quando tu
colpito al cuore dal tuo Sud
per ore e ore ballerai
finché nel ballo ti perderai;
è il passo che dovrai imitare
per liberarti del male d’amore
così ballando meridionale
comme na taranta ca te pizzica lu core.
 
Il morso della tarantola
Napoli, estate 1713
 
«Madre de Dios, Lovino!»
Antonio si alzò dalla poltrona con uno scatto, sbattendo i palmi sulla superficie lignea dello scrittoio.
L'inchiostro nel calamaio vacillò, inondò le pareti d'ottone e fuoriuscì dai bordi macchiando la pergamena ancora immacolata. La penna, la cui punta era stata da poco immersa nel liquido color pece, restò incastrata tra il legno e le dita di Spagna.
Romano barcollò. Si appese allo stipite della porta che aveva appena spalancato con la furia di un uragano e lanciò un'occhiata carica d'astio da sotto la frangia inumidita dal sudore che gli imperlava la fronte.
Il corpo tremante, scosso da violente convulsioni, faticava a stare in piedi.
Antonio spalancò gli occhi e un brivido – freddo, viscido – camminò lungo la colonna vertebrale per poi esplodere in panico puro alla bocca dello stomaco. Corse incontro a Romano e appena gli fu davanti, le ginocchia del ragazzo cedettero e cadde tra le sue braccia. 
Spagna vacillò. Mosse due passi di lato, toccò il muro con la schiena e nel tentativo di sorreggere Romano scivolò lungo la parete sotto il peso della sua colonia. 
Il pavimento li accolse in un tonfo sordo che risuonò all'interno della piccola stanza.
«Ohi! ¿Qué tienes?»
Pallido e bruciante di febbre, Romano si contorceva aggrappandosi alla stoffa della giubba di Antonio che odorava di mare e sole. 
Dalla sua bocca uscì un lamento, seguito da un singulto che venne prontamente assorbito dal tessuto che copriva la spalla di Spagna, lì dove Romano teneva premute le labbra secche e screpolate.
Antonio posò una mano sulla sua nuca. Inarcò la schiena in avanti costringendo Romano a staccarsi dalla sua spalla. Si ritrovò chino su quel corpo convulso, con le spalle ingobbite e gli occhi carichi di preoccupazione.
Ansia, paura, impotenza – nell’arco di pochi istanti la mente dello spagnolo ne fu pervasa, e la sua lunga vita immortale parve fermarsi e vacillare di fronte alla singhiozzante richiesta d’aiuto del suo protetto.
«Mirame. Guardami, Lovino!» E Romano gemette, ingoiando un groppo di saliva che strisciò lungo le pareti della gola come se avesse mandato giù una cucchiaiata di spine. 
Il ragazzo strizzò gli occhi e serrò le dita tremanti sull'orlo della camicia di Antonio. Lo tirò verso sé aiutandosi con le poche forze rimaste in corpo. Schiuse le labbra, tremarono e con esse tremò anche la voce. Una fitta al collo, così forte da farlo annaspare, gli mozzò il fiato impedendogli di proferir parola e Antonio se ne accorse.
Gli accarezzò la fronte, spostando le ciocche brune con il dorso del pollice e le loro fronti si sfiorarono.
«Lovino...» mormorò.
Lovino. Lovino. Lovino.
Romano odiava quel nome. 
Ebbe la lucidità di ricordare che era stato proprio Spagna il primo a chiamarlo in quel modo; era successo una sera quando, reduce dall'ennesima discussione avuta con il suo sovrano, Antonio si era ritirato nella sua stanza trovando il piccolo Romano raggomitolato tra le lenzuola del suo letto; sporche di terra, come al solito, perché Romano le aveva macchiate con i suoi piedi - lui che amava camminare a piedi nudi per i campi di grano.
E Antonio, sedendosi al suo fianco, si era lasciato sfuggire un sospiro sommesso "Sei la mia rovina," aveva detto accarezzando la schiena di quello scricciolo che se ne stava abbracciato al suo cuscino "la mia rovina"  e lo aveva ripetuto, questa volta però, sorridendo.
Era nato così quel nome tanto strano, dalle rovine lasciate da quell'uragano indomabile che lui, Italia del Sud, era diventato. 
Un altro spasmo, questa volta più forte, scosse il corpo del meridionale. 
La presa sulla camicia di Antonio si allentò per un momento, per poi diventare più ferrea e disperata di prima. Un rivolo di sudore colò dall'attaccatura dei cappelli, la goccia scivolò dietro l’orecchio e solleticò la pelle del collo.
Romano digrignò i denti, provò a sollevare la testa sforzando tutti i muscoli, ma i suoi tentativi furono vani.
Prima che il dolore gli offuscasse la vista, guardò un’ultima volta gli occhi di Spagna. Lo maledì e maledì l’intensità di quello sguardo verde capace di portargli via anche quell’ultimo grammo di energia rimastagli in corpo.
«Chiama...mi» inspirò e trattenne l’aria nei polmoni per alcuni istanti «Chia...mami Ro...man-o, bastardo.»
Fu l’unica cosa che riuscì a dire, poi il nero lo avvolse e perse i sensi.

***

La mano di Antonio sfiorò la fronte di Romano.
Le dita dello spagnolo si insinuarono tra i capelli della sua colonia, pettinarono un ciuffo ribelle dietro l’orecchio e scesero lungo il collo. Le nocche sfiorarono la stoffa del fazzoletto rosso che il ragazzo portava legato al collo.
Romano afferrò il polso di Antonio costringendolo ad allontanare la mano da sé. Lo guardò di sbieco, lanciandogli una delle sue occhiate che sapevano comunicare più delle parole.
«Smettila di toccarmi» sibilò con il muso ancora sporco del succo dell’arancia che reggeva nella mano libera.
Lo spagnolo rise sollevato. Era proprio quella la reazione che sperava di ottenere.
«Maldito sea, Lovino» ridacchiò liberandosi dalla flebile morsa del ragazzo. Portò le braccia dietro la schiena e riprese a camminare sotto il lungo porticato in pietra che li proteggeva dall’arsura d’agosto. «Ieri sera hai fatto spaventare il tuo boss, ¿lo sabes?»
Romano staccò un altro spicchio dal frutto, masticò il boccone silenziosamente e seguì di malavoglia i passi del suo padrone. Le mani erano scosse da lievi tremori che cercava di ignorare con malcelato nervosismo.
A Spagna, invece, veniva naturale far finta di nulla davanti ai quei sintomi.
Erano settimane che andava avanti così. Febbre, brividi e convulsioni aggiunte ad un abbondante dose di stanchezza.
Era un dolore lancinante quello che provava Romano, partiva dalla testa e arrivava dritto al cuore e lui, Antonio, non se ne accorgeva se non in quei momenti in cui quella malattia latente emergeva violenta fino a tramortirlo.
L’ultimo spicchio d’arancia cadde a terra – colpa dei tremori che diventavano sempre più forti e ingestibili – e Romano lo pestò con rabbia sfogando parte del suo rancore in quel gesto che lui stesso aveva definito stupido nel compierlo.
Gemette irritato e calciò con la punta del piede la pellicina trasparente che rimaneva dello spicchio.
«Dovresti saperlo mi querido. Se stai male tu anche una parte di me soffre.»
L’echeggiare dei passi e la voce di Spagna rimbalzarono tra le pareti e le colonne in pietra del peristilio. Romano – con il piede sollevato ancora a mezz’aria – si fermò ad osservare la camminata placida e sinuosa del suo boss.
Portò un braccio davanti al viso e strofinò il muso sporco del succo appiccicoso dell’arancia contro la stoffa sottile della manica.
«Smettila di dire cazzate» ringhiò. Le parole ovattate dal braccio premuto contro la bocca « ché con ‘ste  inutili smancerie sembri ancora più ebete.»
Anche Antonio si fermò. Si voltò di profilo e sorrise al ragazzo che lo stava scrutando con quella sua aria costantemente insospettita: le sopracciglia inarcate, il broncio finalmente scoperto – ancora un po’ sporco d’arancia.
Spagna sospirò e scosse la testa. Percorse la distanza che lo divideva da Romano e gli si parò davanti. Ingobbì leggermente le spalle per poterlo guardare negli occhi e la sua colonia, questa volta, sostenne lo sguardo, rosso in volto non per l’imbarazzo. Romano lo stava sfidando e Antonio, anche questa volta, fece finta di non accorgersene guardandolo con quel fare intenerito con cui solitamente ci si rivolge ai bambini.
Romano non lo era più.
«Ma è la verità, Lovinito.»
«Che sei ebete? Sicuramente. Su questo non ho mai avuto dubbi, infatti.»
«Ecco…io in realtà mi riferivo a– Oh, non importa» Antonio fece spallucce. Drizzò la schiena e si accarezzò la nuca.
Gli occhi rivolti al soffitto e quel dannato sorriso a piegargli le labbra, quello che usava quando – puntualmente – gliela dava vinta, fecero innervosire ancora di più Romano «Con te sarà sempre una battaglia persa, non è così?»
La mano di Antonio tornò a tuffarsi nella chioma bruna dell’italiano. Gli scompigliò i capelli e prima che il più piccolo potesse sottrarsi, ritirò prontamente l’arto sfoggiando un sorriso vittorioso e beffardo.
Romano sbuffò. Mise le braccia in conserta e nascose le mani tra l’incavo dei gomiti.
L’irritazione aveva contribuito ad aumentare l’intensità dei tremori o, forse, la vera colpevole era  la collera che provava nel veder Antonio così distante da ciò che stava scomparendo proprio sotto i suoi occhi.
Qualunque fosse stato il motivo, Romano capì subito che stava per avere un altro dei suoi attacchi e che doveva allontanarsi al più presto dal bastardo spagnolo.
Sapeva, però, che sarebbe stato difficile scollarselo di dosso. Antonio sembrava intenzionato a continuare il discorso e a renderlo addirittura più serio, dato che il sorriso che aveva sempre stampato in volto pareva essersi quasi intristito. In modo impercettibile, ma Romano se ne accorse comunque.
L’idea di tentare la fuga andò in fumo prima ancora che questa sfiorasse la mente di Romano. Non si era accorto che, indietreggiando, la sua schiena toccò una delle colonne del porticato ritrovandosi incastrato tra essa e il corpo di Antonio.
Perfetto, insomma.
«Cosa ti sta succedendo nell’ultimo secolo, Romano?»
Romano inarcò un sopracciglio. Perplesso si chiese cosa stesse passando per la mente dello spagnolo, stava quasi per insultarlo – come prevedeva il copione della sua vita – e prenderlo a cazzotti nello stomaco quando, guardandolo negli occhi, capì.
Le immagini della Rivolta di Masaniello tornarono vivide nella sua mente e con esse, anche la fame e le sofferenze patite.
Un fremito di rabbia scosse il corpo di Romano e se prima erano sole le mani a tremare, adesso ci si era messo anche il piede destro che sbatteva sul pavimento di pietra seguendo un ritmo irregolare, tutto suo.
«Sei cresciuto così tanto. Finirò per perderti.»
Antonio aveva poggiato una mano sulla superficie fredda della colonna, poco sopra la testa di Romano.
Le nocche della mano libera tornarono ad accarezzare la pelle della sua colonia e Romano – che non aveva più intenzione di trasgredire al suo copione – posò le mani sul petto dello spagnolo facendo pressione per allontanarlo.
Antonio sobbalzò. Quel tocco debole che tremava contro il suo torace, bruciava più delle fiamme dell’inferno.
Essere rifiutato da Romano non era certo una novità, ma in quel contesto, sentì che quel gesto non era semplicemente frutto del carattere difficile dell’italiano.
Romano alzò gli occhi su quelli di Antonio e nel farlo lo spinse di nuovo, riuscendo finalmente ad allontanarlo da sé.
«Finirò per perdermi in te e poi morirò.»
«Romano, ma cosa…»
«Sparirò e sarà tutta colpa del tuo egoismo, del tuo tenermi stretto a te. Sto perdendo ogni potere, ma tu sei così maledettamente cieco che…Dio! Non ti accorgi di nulla, che razza di idiota! Vivi in un mondo tutto tuo e quindi fanculo il resto, no?  E non te ne fotte se il mio corpo diventa ogni giorno più pesante. Non te ne fotte del mio popolo che sta male! Non te ne fotte di niente e di nessuno, perché tu stai fottutamente bene, non è così?»
Lo aveva raggiunto, Romano. Aveva preso Antonio per il bavero della sua camicia e – con quella violenza che prendeva forza dalla rabbia che covava dentro da ormai cento anni – era riuscito a invertire le posizioni facendo sbattere la schiena dello spagnolo contro la pietra fredda della colonna.
Antonio non reagì. Il corpo di Romano era scosso da violenti tremori, anche il ciuffo ribelle tremava. Gli occhi iniettati di sangue, inumiditi da lacrime sul procinto di uscire, gridavano tutta la sua disperazione.
«Non ho più il controllo di me stesso. Dimenticherò chi sono e smetterò di esistere.»
Antonio sbatacchiò le palpebre. Scosse la testa e posò le mani sui pugni stretti di Romano, ancora avvinghiati alla sua camicia.
Riuscì a scioglierli da quella presa e a chiuderli tra i suoi palmi. Una mano di Antonio scivolò lungo il suo braccio, le dita strinsero attorno al gomito. Con uno strattone lo tirò verso sé per poi posare una mano sulla nuca di Romano, costringendolo a premere il viso contro la sua spalla.
Italia del Sud cercò inutilmente di  divincolarsi. I suoi tentativi si sciolsero in quell’abbraccio forzato e il profumo di Spagna – tanto intenso e così vicino – contribuì a togliergli la forza di reagire.
«Sono distrutto» fu l’unica cosa che riuscì a dire e Antonio scosse di nuovo la testa, accarezzandogli dolcemente i capelli.
«Non dirlo. Non dirlo più, me entiendes?»
«Sei tu che mi fai stare così. Cosa mi hai fatto? È una fattura, vero?»
Antonio sospirò. Il suo Romano viveva in un guazzabuglio di misticismo e errore in cui, effettivamente, era stato proprio lui a spingerlo.
La fattura. Nel sentir pronunciare quella parola, Spagna si sentì colpevole.
Romano, nel suo credere così ferventemente in Dio, era caduto nella trappola delle superstizioni: un culto così esterno e pagano degno dei popoli più selvaggi.
E quella che lui chiamava fattura, non era altro che un miscuglio di scongiuri e preghiere che hanno un soccorso per tutte le necessità sentimentali e brutali, per tutti i desideri gentili e cruenti.
La fattura era dunque un maleficio con la quale una persona veniva irrimediabilmente legata ad un'altra.
E Antonio proprio non capiva come Romano potesse pensare una cosa simile. Non riusciva a capirlo perché, in fondo, nelle parole della sua colonia c’era un velo di verità: Lui era cieco e ancora non si era accorto che nella miseria profonda in cui era caduto Romano c’era un male che gli rodeva l’anima e adesso anche il corpo.
Antonio posò le labbra sui capelli di Romano e ancora immerso in quel vortice di pensieri sussurrò: « Tú estás loco...» e Romano, che nel suo piccolo ne era consapevole, si trattenne dal mollargli un cazzotto solo perché non ne aveva più le forze.
La malattia stava per prendere di nuovo sopravvento, e tra le braccia di Spagna si sentì mancare.
« È tutta colpa tua se sto impazzendo.»
Lo maledì di nuovo. Lo maledì con l’intensità del rancore che gli stringeva il cuore, lo maledì perché come al solito non aveva capito.
Le palpebre caddero pesanti davanti ai suoi occhi e la presa di Antonio si fece ancora più forte attorno al suo corpo.
Il profumo del sole che si mescolava a quello del mare fu l’ultima cosa che sentì, poi di nuovo il buio.

***
« Non c’è dubbio, Don Antò. Il ragazzo è stato sicuramente morso dalla tarantola. Ahh, è un brutto male, ma brutt’ assai eh!
Chi viene morso da quella bestiaccia, sembra posseduto dal demonio! Ve lo giuro quanto è vero Iddio, ho assistito a scene orribili.
Ma state tranquillo, Don Antò, il modo per guarire c’è.»
«Me lo dica, por favor
«Con la musica. Questa notte portate il ragazzo in piazza, davanti alla chiesa di San Paolo. Lì inizieremo il rito.
E state allegro, buon Dio, avete ‘na faccia orribile!»

Un leggero buffetto accarezzò la guancia di Antonio che, a quel tocco, non poté far a meno di accennare un sorriso.
Lo spagnolo non riusciva a credere che l’uomo che gli stava seduto di fronte appartenesse al popolo di Romano.
Quel contadino l’aveva accolto in casa sua come se si conoscessero da anni, gli aveva offerto del vino e quel po’ di pane che aveva, gli aveva addirittura presentato la figlia e lei, che al vederlo era arrossita, si era fiondata subito in cucina per preparare una cena degna del suo ospite.
“Restare a cena? Siete molto gentili ma non posso accettare, davvero” aveva detto Antonio notando la miseria in cui riversava quell’umile casa, ma la figlia del contadino era stata lapidaria: “Così mi offendete, Don Antò. Ma vi pare che vi lascio tornare a casa a stomaco vuoto, a chest’ora poi? Ohimè, cosa mi tocca sentire!
E davanti ad un misero piatto di minestra e al calore di quell’accoglienza inaspettata, Antonio si era sentito al sicuro e libero di parlare delle sue preoccupazioni, descrivendo ai due contadini lo strano comportamento del suo protetto.
Nelle parole di Antonio, l’uomo aveva subito riconosciuto i sintomi del Ballo di San Vito, malattia causata dal morso della tarantola.
 
«Non so proprio come sdebitarmi con voi, siete un signore molto gentile. Chiedetemi tutto quello che volete, ve lo farò avere il prima possibile.»
«Ehish…puozz’ fa l’ova, Don Antò! Ma che mi venite a dire? Non voglio niente, l’unica cosa che potete fare per sdebitarvi è trattare bene quel ragazzo. D’altronde chi più di noi vuole il suo bene?»
 
Interagire con il popolo di Romano era stato senza dubbio strano per Antonio. L’ospitalità e l’allegria di quella gente era distante da Sud Italia anni luce eppure, tornando a casa, Spagna non riuscì a non pensare al modo in cui Romano si mostrava a loro.
Non lo aveva mai visto alle prese con la sua gente, a dire il vero, ma lo immaginò disponibile e solare quanto loro.
Sorrise poi, pensando che se quel contadino non lo aveva cacciato via a pedate allora, forse, Romano non lo odiava poi così tanto – come invece i suoi atteggiamenti lasciavano credere.
I crampi allo stomaco, però, gli ricordarono che la cena appena consumata non era riuscito a sfamarlo.
Un briciolo di consapevolezza balenò nei suoi occhi. Era forse questo il vero problema?

***

La piazza era stata allestita per il rito.
Un falò ardeva di fronte alla chiesa di San Paolo;  le sue scintille scoppiettavano alte in cielo come piccoli fuochi d’artificio.
Al centro della piazza era stato steso un telo bianco attorno al quale si erano sistemati tre uomini.
Il primo se ne stava seduto su una seggiola in legno e sulle gambe reggeva una grossa fisarmonica rossa e nera. Alla sua destra, il violinista stava accordando il suo strumento. L’arco strofinava sulle corde tese producendo una melodia triste e malinconica.
Alcuni bambini, incuriositi, si fermarono ad ascoltarlo prendendo posto sugli scalini della chiesa.
Il terzo uomo si guardava intorno con impazienza, sbattendo ritmicamente le sue dita sul tamburello, poi, appena vide arrivare Antonio e Romano gli corse incontro sfoggiando un sorriso radioso.
«Oh! Eccovi qua finalmente!» esclamò e Spagna riconobbe subito il viso del contadino che quella sera lo aveva ospitato. Lo salutò ricambiando il sorriso.
L’uomo spostò subito il suo sguardo su Romano. Antonio lo aveva aiutato a camminare fin lì, avvolgendo un braccio di Romano attorno alle sue spalle. Con il braccio libero, invece, lo spagnolo gli aveva circondato la vita tenendolo stretto a sé.
L’italiano aveva il capo reclinato sul petto e le palpebre socchiuse. Respirava a fatica e tremava come una foglia.
Il contadino annuì pensieroso. « È ridotto proprio male, poveraccio. Seguitemi, Don Antò. Fatelo stendere su quel telo» disse.
Antonio obbedì. Seguì il contadino e si chinò sul lenzuolo bianco. Aiutò Romano a stendersi tenendo una mano premuta dietro la sua nuca, giusto per evitare che sbattesse la testa.
Prima di alzarsi gli accarezzò una guancia, si chiese se affidarlo a quei tre uomini fosse la scelta giusta e la mano del contadino gli strinse la spalla dandogli la risposta.
Sì, poteva fidarsi. Il suo popolo poteva aiutarlo.
«Tenete questo, Don Antò.» Antonio alzò lo sguardo, l’uomo gli stava porgendo il tamburello. Non lo prese subito e,  infatti, il contadino lo guardò inarcando un sopracciglio «Sapete suonarlo, si?»
«Oh, certo!»
«Bene, allora aiutateci anche voi.»
Antonio si alzò da terra e prese tra le mani lo strumento. Lo studiò attentamente e le dita andarono ad accarezzarono la pelle tesa, scivolando lungo i bordi per poi sfiorare i sonagli incastrati nel legno.
I lamenti di Romano richiamarono la sua attenzione e tornò a guardare il suo protetto con un velo d’apprensione.
Romano si era raggomitolato su se stesso. Aveva portato le ginocchia al petto e nascosto il viso tra esse.
Tremava più di prima e dalla sua bocca uscivano frasi sconnesse che fecero accapponare la pelle al povero Antonio.
«Signori, direi di inziare.» esordì il contadino e la fisarmonica e il violino cominciarono a suonare all’unisono. Era una melodia allegra e travolgente, Antonio la definì subito simpatica, paragonandola agli strambi modi di fare dell’uomo che aveva incontrato quell’oggi.
Era musica popolare, gioiosa e festosa ma soprattutto improvvisata.
Non fu difficile per Spagna assecondare quel ritmo, sbattendo ripetutamente i palmi delle mani contro la membrana del tamburello.
Ben presto, anche i tremori di Romano si unirono a quella melodia. Antonio fu il primo ad accorgersi che le convulsioni sembravano essersi attenuate per poter seguire il ritmo contagioso di quella musica che raccontava delle sue terre. 
 
 
Scaccia scaccia satanasso
scaccia il diavolo che ti passa

le nocche si consumano
ecco iniziano i tremori
 della taranta, della taranta
della tarantolata

E così Romano era riuscito a sedersi con le gambe stese in avanti, reggendosi sulle braccia tese.
Gli occhi assenti sembravano fissare i piedi che dondolavano prima a destra e poi a sinistra. Le gambe avevano smesso di tremare e Romano parve volerne approfittarne per provare ad alzarsi.
Si rotolò sul lenzuolo e rimase a pancia in giù, poi fece pressioni sulle mani e si mise gattoni.
Le braccia erano scosse da lievi tremori e più di una volta Romano era scivolato a terra nel tentativo di mettersi in piedi.
Antonio si avvicinò a lui senza smettere di suonare il tamburello. Gli girò intorno aumentando il ritmo della sua musica.
Romano sembrò accorgersi della sua presenza. Tornò gattoni e con uno slancio più potente riuscì a mettersi in piedi.
Vacillò e incrociò le gambe nel tentativo di trovare l’equilibrio, poi infilò le mani tra i capelli e strinse alcune ciocche tra le dita.
Anche gli altri due musicisti aumentarono il tempo e Romano cominciò a saltellare sul posto, sollevando prima un piede e poi l’altro seguendo un ritmo ben preciso, quello del suo cuore che andava di pari passo con la musica.
Antonio gettò un’occhiata ai due uomini alle sue spalle, che colsero subito il suo messaggio.
Questa volta la melodia divenne man mano più grave mandando Romano in confusione. Il ragazzo cominciò a volteggiare a braccia spalancate, spostandosi da un angolo all’altro del lenzuolo finché non travolse Antonio. Il tamburello scivolò dalle mani dello spagnolo e le sue braccia si aggrapparono alla vita di Romano.
Cascò di schiena a terra sul lenzuolo stropicciato che di certo non attutì la caduta. Il peso di Romano che gravava sullo stomaco fu d’aiuto per distogliere i suoi pensieri dal dolore lancinante ai reni.
E la musica si arrestò improvvisamente, lasciando cadere la piazza in un silenzio che, dopo tanto frastuono, a Spagna sembrò quasi irreale.
Fu in quel momento che sentì il respiro regolare di Romano soffiare contro il suo petto. Il ragazzo era in un bagno di sudore, ma adesso dormiva tranquillo come non succedeva ormai da tempo.
Antonio alzò il collo per poterlo guardare. Gli accarezzo la schiena e gli occhi gli si inumidirono.
Adesso aveva capito tutto.
« Romano » lo chiamò, ma in fondo non aveva proprio voglia di svegliarlo « Avevi ragione tu, Romano. Sono stato io a ridurti in questo stato.»
Il fuoco del falò si era spento e le braci del falò si stavano rapidamente raffreddando. Il rito era finito.

***
Austria, inverno 1713


Romano si sedette a terra, addentò la mela che era riuscito a rubare dalla cucina e osservò il fratellino muoversi freneticamente da una parte all’altra della stanza, armato di scopone e secchio d’acqua sicuramente troppo pesante per lui.
Sospirò, era davvero troppo umiliante guardare il proprio fratello sgobbare dalla mattina alla sera per servire quei crucchi infami, vestito da femmina, per giunta.
Da quando Spagna aveva ceduto Romano ad Austria con il trattato di Utrecht, ogni volta che il meridionale si recava presso la residenza austriaca, trovava sempre qualcosa capace di mandarlo in confusione e una di queste era proprio l’abbigliamento del fratello.
“Felicià, non sarai per caso un invertito? Perché diavolo ti vesti da femmina?” gli aveva chiesto un giorno, mentre lo aiutava ad allacciargli il grembiulino dietro la schiena.
Era stato proprio Romano ad offrirsi vedendolo in difficoltà con i lacci.
“Ungheria dice che sono carino vestito così. Non sono carino secondo te, Fratellone?”  e la candida risposta di Feliciano alterò non poco il povero Romano.
“Ma che cazz- Ascolta Felicià questi crucchi sono dei pervertiti. Ti stanno allevando come si fa con i maiali, poi quando sarai abbastanza grande invece di cuocerti a puntino chissà in quali fantasie perverse ti coinvolgeranno. Ahh, a Maronna ca nun l’appiccia a tutt’ quant’!”
E come al solito Feliciano era scoppiato a piangere, tremando come una fogliolina alla mercé del vento e farneticando cose assurde su quel tale Sacro Romano Impero – perché lui era bravo anche se era crucco e quindi la madonnina non doveva arrabbiarsi con lui – portando Romano ad odiarlo anche se di lui conosceva solo il nome – che a proposito “Che cazzo di nome! Ma chi si crede di essere quel crucco?” non si risparmiò di commentare.
Fortunatamente non ebbe occasione di conoscerlo, era partito per una guerra e ancora non era tornato. O almeno così gli era stato detto.
Diede un ultimo morso alla mela e gettò il torsolo alle sue spalle. Si alzò da terra e si avvicinò al fratello con l’intento di togliergli quel secchio d’acqua delle mani.
Quando lo sollevò maledì mentalmente quell’austriaco effeminato. Era davvero troppo pesante per un bambino piccolo quanto Feliciano.
«Wahh! Grazie Fratellone! Riesci a tenerlo con una sola mano, che forza!»
Feliciano aveva cominciato a girare intorno al fratello, guardandolo con curiosità e ammirazione.
Romano fece spallucce  scoccando la lingua contro gli incisivi. «Questo è niente per me » aveva detto con fierezza. «Porto sulle spalle pesi più grandi.»
Feliciano continuava a trottolargli intorno entusiasta, vantando di avere un fratello forte quanto Nonno Roma e Romano arrivò al punto da non riuscire più a seguirlo con lo sguardo.
Un’altra cosa che proprio non riusciva a capire in di Feliciano, era quel suo essere così irrefrenabile.
Una possibile risposta a sfiorò la sua mente proprio in quel momento e improvvisamente gli si gelò il sangue nelle vene. “Che fosse…”
« Felicià! Ma per caso ti ha morso la tarantola?»
«Veh?»


 

 
Angolo di Betchi_
Allora, innanzitutto ringrazio chi ha avuto il coraggio di leggere fin qui. Davvero, vi abbraccerei tutti – tanto siete sicuramente in pochi, gn.
E vabbé, smancerie a parte so che siete al quanto confusi e disorientati, quindi vi do qualche dritta su questo capitolo che è nato nel delirio ed finito nel delirio.
Scritto tra la composizione della tesina e la lettura di alcuni appunti di francese, il capitolo si ispira – stranamente -  ad un fenomeno che si diffuse in Sud Italia, meglio noto come Ballo di San Vito.
La malattia ebbe origine a Napoli ai tempi della dominazione spagnola e la causa era il morso di un ragno velenoso – la tarantola.
Colpiva  il sistema nervoso ed era caratterizzata da movimenti involontari bruschi e irregolari e da alterazioni mentali. Solitamente, iniziava progressivamente con insonnia, mal di testa, stato di agitazione, febbre incostante.
Attraverso la musica e la danza era però possibile dare guarigione a chi ne era affetto, realizzando un vero e proprio esorcismo a carattere musicale. Ogni volta che un qualcuno esibiva i sintomi associati al ballo di San Vito, dei suonatori di tamburello, violino, organetto, armonica a bocca ed altri strumenti musicali andavano nella piazza principale del paese. I musicisti cominciavano a suonare la pizzica o la tarantella, musiche dal ritmo sfrenato, e il malato cominciava a danzare e urlare per lunghe ore sino allo sfinimento. La credenza voleva infatti, che mentre si consumavano le proprie energie nella danza, anche la taranta si consumasse e soffrisse sino ad essere annientata. Tuttavia, nel rito esorcistico erano impiegate anche altre musiche dal ritmo lento e dalla melodia malinconica.
Alla leggenda popolare può essere in realtà legata anche una spiegazione strettamente scientifica: il ballo convulso, accelerando il battito cardiaco, stimolando abbondante sudore e il rilascio di endorfine, favorisce l'eliminazione del veleno e contribuisce ad alleviare il dolore provocato dal morso del ragno e di simili insetti. Non è quindi da escludere che il ballo venisse utilizzato originariamente come vero e proprio rimedio medico, a cui solo in seguito sono stati aggiunti connotati religiosi ed esoterici.
Il nome di Lovino - Un’altra cosa che sicuramente non vi sarà chiara è il significato che ho dato al nome Lovino, perché…andiamo dai! Lovino non è un nome italiano, o quanto meno non ho mai conosciuto in vita mia un tizio di nome Lovino.
L’ho anche cercato su facebook e a parte i profili fake non me n’è uscito neanche uno.
Dunque, mi sono ispirata alla motivazione offerta gentilmente da Wikipedia che riporterò qui sotto:
L'origine del suo nome umano (Lovino) non è chiara, ma a giudicare dalla pronuncia giapponese dello stesso ("Rovino"), deriverebbe del verbo italiano "rovinare".
Differenza d'età tra Romano e Feliciano - Ebbene in questo capitolo Romano ha il corpo di un ragazzo di 16 anni e mentre  Feliciano è un tenero bambinello di 10. Ho deciso di fare così per una questione di date.
Feliciano, nel anime, cambia voce dopo la caduta del Sacro Impero Romano, quindi siccome questo capitolo è ambientato quasi 100 anni prima ho preferito lasciarlo ancora piccolino, mentre Romano che  geograficamente a - quell'epoca - aveva anche un territorio più esteso, dimostra avere qualche annetto in più.
Beh non ho altro da dire. O forse sì? Perché quando arrivo qui non ricordo più cosa devo scrivere? Gnn...
Ah! Giusto un’altra cosa dovrei dirla, in effetti. Sono cilentana, il mio dialetto è diverso da quello napoletano, quindi se c’è qualche errore segnalate come se non ci fosse un domani.
Ringrazio tantissimo IMmatura, Co Neko e Gwen Chan per aver lasciato una recensione allo scorso capitolo.
Come al solito non sono riuscita a rispondere, ma sappiate che se  continuo questa raccolta è solo per il sostegno che riuscite a darmi scrivendomi.
Perché è brutto scrivere a vuoto, sigh.
E nulla, questa volta risponderò! Cascasse il cielo e la terra. Sempre se riceverò qualche parere, ovviamente.X’D
Oh...mi porto sfiga da sola, finirò per diventare superstiziosa quanto Romano.

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