'I' am also a 'we'

di scrittrice in canna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Presentazioni ***
Capitolo 2: *** L'inevitabile scoperta dell'essere ***
Capitolo 3: *** L'alchimia di anime ravvicinate ***
Capitolo 4: *** La consapevolezza del soggetto ***
Capitolo 5: *** Di segreti mai svelati ***
Capitolo 6: *** Salti improvvisi e incoraggiamenti necessari ***
Capitolo 7: *** L'esternazione della vera natura umana ***
Capitolo 8: *** Quando la famiglia ti abbandona... ***
Capitolo 9: *** ... gli amici rimettono insieme i pezzi ***
Capitolo 10: *** Venuto a sera del viver che daranno a te le stelle ***



Capitolo 1
*** Presentazioni ***


1.

Le spiagge di Lesbo non erano mai state più silenziose e tranquille come durante il giorno in cui Santana Lopez sperimentò la sua prima connessione.
Non era strano per lei fermarsi con lo sguardo ad ammirare qualche bella ragazza, era solo un altro pro del vivere in un’isola mediterranea. Sentiva che c’era qualcosa di strano, però, riguardo quella biondina sdraiata a pochi centimetri da lei: non aveva la tovaglia, né borse o altro, c’era solo lei, perfetta sotto i raggi del sole con la sua pelle candida, gli occhiali scuri che le coprivano il viso.
Non appena Santana sbatté le palpebre, l’altra sparì senza lasciare traccia, neanche un’impronta sulla sabbia. Era convinta di essere sull’orlo della follia, forse i suoi alunni la stavano davvero facendo impazzire o tutti gli esercizi alla sbarra e le capriole le avevano fatto arrivare il sangue al cervello. Fece spallucce, si mise comoda sulla schiena e cercò di pensare alle persone che erano davvero lì.
Tornò a casa dopo aver passato il pomeriggio in riva al mare senza l’interferenza di bionde fittizie e ammalianti che la distraevano dal suo meritato riposo, posò le chiavi in un piatto vicino alla porta, lanciò la borsa sul divano e si fiondò in bagno per togliersi di dosso il sale marino, si guardò allo specchio analizzando le guance rosse mentre la vasca si riempiva di acqua tiepida – doveva mettere una bella crema idratante per evitare una scottatura – e quando tornò con lo sguardo sul vetro non vide più il suo riflesso, lei non era così bassa e il suo naso non era così grande e  - di che colore erano le pareti dietro quella ragazza? Sembrava che ci avessero ucciso un fenicottero contro.
Santana alzò un sopracciglio, abbassò le mani che aveva portato ai capelli e rimase a fissare l’immagine che aveva appena poggiato la spazzola davanti a sé e curvato le sopracciglia, sporgendosi in avanti.

Rachel sapeva di star lavorando troppo duramente, ma avere le allucinazioni era tutta un’altra storia, specialmente se vedeva cose che non aveva mai nemmeno immaginato, come una ragazza dai lineamenti ispanici con la faccia rossa. Decise che, per una volta, il suo rituale si sarebbe dovuto interrompere: niente vasca d’acqua fredda per i suoi poveri pori. Invece si mise una tuta e si diresse in palestra, borsone alla mano ed auricolari alle orecchie. Avrebbe fatto un’ora di ginnastica, poi si sarebbe fatta una doccia e dritta in teatro per le prove generali di “Funny Girl” dove, modestamente parlando, interpretava la parte della protagonista. Stava per improvvisare un’esibizione di “I'm The Greatest Star” in ascensore quando il suo telefono cominciò a trillare e la interruppe proprio nel mezzo della prima strofa.
Era il suo manager, probabilmente voleva solo farle gli auguri per il suo debutto a Broadway.
“Rach! Come sta la mia star?”
“Alla grande, come sempre” rispose lei gioiosa.
“Senti, so che la prima di Funny è tra poco…” Rachel poteva sentire il ‘ma’ arrivare da lontano, puzzava di proposta indecente.
“Ma c’è una grande possibilità che ti aspetta proprio dietro l’angolo!”
“Dimmela allora!” Non poteva negare di essere curiosa, Puck era sempre quello che le aveva trovato il provino per Fanny.
“C’è questo tizio, Jessie St. James, che sta esordendo come sceneggiatore, mi ha mandato un copione e credo valga la pena provare.” 
Rachel era scettica, mise il telefono tra la spalla e la guancia per prendere un biglietto della metro e si diresse verso i binari.
“Non lo so, Puck. Sarò molto impegnata nei prossimi mesi, non posso permettermi-”
“Jessie deve ancora definire il progetto, è disposto ad aspettare l’inverno, quando avrai finito le serate.” Puck la stava praticamente implorando, doveva davvero valere molto quel copione.
“D’accordo, ci andrò. Quand’è il provino?” concesse lei.
“Oggi, alle quattro.” Era completamente pazzo o cosa? Rachel strabuzzò gli occhi.
“Come dovrei preparare un’audizione in un paio d’ore, Puckerman?” lo ammonì.
“Puoi fare ‘Don’t Rain On My Parade’! Ti viene sempre bene” le disse con un’aria da sfottò, più o meno come diceva l’ottante per cento delle cose che gli uscivano dalla bocca.
Rachel roteò gli occhi verso il cielo e salì sul vagone che l’avrebbe portata in palestra. Tanto valeva assecondarlo, avrebbe comunque continuato imperterrito a tormentarla. Che male avrebbe fatto perdere qualche minuto del suo tempo? La sua Fanny era già perfetta.

Jessie posò il copione sul tavolo e sprofondò nel sedile dietro al tavolo da giurato. Non sapeva quante volte l’aveva letto e riletto e controllato assicurandosi che tutto fosse al posto giusto.
Aveva già cominciato i casting e non sapeva nemmeno se quella che aveva in mano sarebbe stata la versione finale, sentiva che c’era qualcosa di sbagliato, qualcosa che mancava per rendere il suo lavoro degno delle luci della ribalta e dei Tony Awards. Sentiva l’urgenza di riscrivere tutto anche se ogni persona che l’aveva letto gli aveva consigliato di smettere le revisioni ossessive, non faceva che sentirsi dire: “Tranquillo, Jess. È perfetto!” oppure: “No, vedrai che andrà tutto bene!” quando chiedeva: “Pensi che dovrei cambiare qualcosa?” e quel finto ottimismo lo stava buttando giù, per non dire che era sempre più nervoso per colpa di quello stupido spettacolo e lo stupidissimo debutto e – perché non riusciva a trovare qualcuno per il ruolo di Matthew?
Stava per alzarsi dal suo posto sugli spalti del teatro quando sentì una voce venire dal palco, aveva voglia di urlare che le audizioni si erano concluse, che non avrebbe più fatto alcuno spettacolo, ma il ragazzo al piano aveva la voce perfetta per il protagonista. Certo, avrebbe preferito sentirlo in qualcosa che non fosse Katy Perry, ma la voce così piena di tristezza, così drammatica, come se fosse piena di fantasmi che non vogliono fare altro che divorargli l’animo… era lui, era il suo Matthew. Alla scelta del brano avrebbero pensato dopo.
Non riusciva a vederlo bene da lì, ma poteva anche essere un orco a tre occhi per quanto gl’importasse. Rimase in trance ad ascoltarlo mentre suonava le ultime note di una versione acustica di “Teenage Dream”, poi il ragazzo sparì, proprio quando Jessie stava andando a congratularsi con lui. Rimase immobile al centro del palco. Possibile che si fosse immaginato tutto? L’unica cosa che lo fece rinsalire fu la suoneria del telefono: rispose senza neanche controllare il mittente: “Pronto?” Era ancora deluso (e leggermente sconvolto) dall’esibizione del Matthew fantasma.
“Jessie? Sono Puckerman, Noah.”
Il volto di Jessie s’illuminò, forse la giornata poteva ancora prendere una buona piega. Aveva sentito tanto parlare di questa Rachel Berry, sapeva che era un astro nascente, se tutto quello che Puck gli aveva detto si fosse rivelato vero… be’, avrebbe trovato la persona perfetta per il ruolo di Penny.
“Ehi, Puck!”
L’altro rise sotto i baffi sentendosi chiamare in quel modo da qualcuno che non fosse un  suo ex compagno del liceo.
“Ho convinto Rachel, vedrai che non te ne pentirai, amico.”
“Lo spero” rivelò Jessie mettendosi la mano libera in tasca.
“Non ti abbattere, andrà tutto bene. Hai un successo per le mani.” Ed ecco di nuovo il finto positivismo.
“Già” sospirò Jessie sedendosi sul legno caldo segnato da anni di arte e spettacolo e pura Broadway. Sarebbe stato mai all’altezza?

Blaine si alzò dalla seggiola dietro al piano che una volta era stato di suo padre, passò di nuovo la mano sui tasti lasciando che quel vecchio pezzo di legno gli desse la forza di andare al funerale dei suoi genitori, non perché pensava che si sarebbe messo a piangere, al contrario aveva paura che non sarebbe successo, che tutto il dolore che gli avevano causato nel corso degli anni si sarebbe fatto spazio dentro di lui come un serpente viscido e meschino, magari mentre guardava la loro foto del giorno del matrimonio dove sorridevano spensierati e incoscienti, quando non sapevano che avrebbero avuto un figlio sbagliato.
Il solo essere a Parigi, il posto dove i suoi genitori l’avevano cresciuto, dal quale era scappato a soli diciotto anni, gli aveva riportato alla mente ricordi che aveva seppellito tempo addietro tra un’esibizione in un bar e una serata in discoteca cercando di dimenticare la sua famiglia con fiumi di alcool, ma gli aveva portato solo una nottata in ospedale, dopo la quale aveva deciso di darci un taglio e rimettersi in sesto.
“Blaine? Siamo pronti” lo informò il parroco lanciandogli un’occhiata mentre si dirigeva in giardino, dove si sarebbe tenuta la funzione.
A quanto pareva i suoi avevano deciso nel loro testamento che entrambi volevano ‘restare per sempre nella loro casa.’ Aveva sempre saputo che fossero persone eccentriche, ma quello era troppo anche per loro.
Qualche minuto dopo si ritrovò di fronte alla bara di sua madre, quella del padre alla destra, la pioggia ne bagnava le superfici lasciandole lucide, era quasi estate e tutto intorno al gruppo di persone vestite di nero era scuro e freddo, proprio come quella serata.
Blaine si rese conto che rimandare così tanto il funerale non era stata una buona idea, cominciava ad avere i brividi e il cappotto pesante non gli portava alcun conforto. Alzò gli occhi da terra per prendere un ombrello, l’acqua stava scendendo sempre più insistentemente e pensava che sarebbe stato bene coprirsi, ma venne sorpreso da uno schizzo di colore in mezzo a tutto quel nero: era un ragazzo alto e slanciato che si guardava intorno confuso, quando incontrò lo sguardo di Blaine lui sentì come se lo stomaco gli si stesse attorcigliando, lo sentì chiedere: “Dove diavolo sono?” Prima che un gruppo di persone gli impedisse di vederlo mettendosi tra di loro.
Blaine spintonò tutti cercando di raggiungerlo con una certa urgenza, solo che del ragazzo misterioso non c’era più traccia, era come sparito nel nulla.

“Kurt? Kurt!” Finn lo chiamò con più urgenza schioccandogli le dita di fronte al viso per farlo uscire dallo stato d’immobilità in cui era caduto.
L’altro sbatté le palpebre un paio di volte: “Eh?” riuscì a dire, ancora confuso, portando la testa da un lato.
“Stavi blaterando qualcosa sulla pioggia” gli spiegò il fratellastro buttandosi a peso morto sul divano.
“Certo, certo. La pioggia” si ripeté Kurt avviandosi verso la cucina.
“Mamma e papà saranno qui tra un’ora” lo informò Finn urlando e mettendosi comodo, prese il telecomando e accese il canale sportivo.
“Cosa? Un’ora?” Kurt tornò in salotto tutto trafelato, urlando: “Non mi basta un’ora per preparare una cena per cinque persone!”
Finn lo guardò con la sua classica espressione da pesce lesso, poi balbettò per un po’ aprendo e chiudendo la bocca prima di riuscire a dire: “Vuoi una mano?”
Kurt sembrò rifletterci, gli occhi gli si allargarono in maniera disumana al solo pensare che tipo di danni avrebbe potuto fare suo fratello ai fornelli, non gli avrebbe mai assegnato neanche un uovo da rompere, figuriamoci intere portate. Era l’unica volta che Finn tornava a casa prima di partire per il fronte quell’anno, lo avevano già avvertito che non avrebbero potuto dargli altre licenze fino a Natale ed era così lontano…
“No, no. Tu sta qui e guarda i Rovers.”
“Il Duntalk” lo corresse Finn, dopo tutti quegli anni non aveva ancora imparato il nome della squadra per cui lui e Burt tifavano, ma conosceva i primi in classifica ed era già un passo avanti.
“Quello che è!” mugugnò Kurt esasperato. Un’ora per cucinare per tutti, solo un’ora. Avrebbe fatto meglio a darsi da fare, magari così sarebbe anche riuscito a togliersi quel ragazzo dalla tesa. Non aveva mai fatto un sogno più lucido, non sapeva neanche da quale angolo remoto fosse riuscito a congiurarlo, era probabilmente qualche attore che aveva visto in un film anni addietro, forse era tutta colpa della calma piatta nella sua camera da letto. Non riusciva a trovare una soluzione più logica.
Finn intanto stava cercando di concentrarsi sulla partita di calcio, era così preso che non fece peso alla ragazza bionda accanto a lui che gli chiedeva: “Cosa stai guardando?”
“Calcio.”
“Hai un accento strano” gli disse, le sopracciglia corrugate.
“Sono irlandese, ho un accento irlandese. Tu piuttosto-“ Si girò e realizzò di star parlando con una sconosciuta, una sconosciuta che era sul divano accanto a lui. “Whoa!” esclamò portandosi le ginocchia al petto.
“Cosa? Non hai mai sentito parlare un Australiano prima d’ora?”
Finn rimase immobile, pensò fosse come i T-Rex dei film: se non mi muovo, non mi vede.
La ragazza rimase lì a fissarlo, gli occhioni lucidi e innocenti  le gambe incociate sul divano.
“Kurt!” urlò il marine senza distogliere lo sguardo, solo quando suo fratello tornò per l’ennesima volta nella stanza si voltò per domandare: “Chi è lei?”
Kurt aprì e chiuse gli occhi un paio di volte, scosse la testa, un vassoio pieno di patate tagliate e pronte per essere infornate tra le mani, guardò ancora un po’ meglio, una volta giunto alla conclusione che la sua vista non poteva andare così male, annunciò; “Non c’è nessuno lì.”
Finn strabuzzò gli occhi quando si rese conto che, in effetti, la ragazza era sparita.
“Dio, sto impazzendo!”

Brittany era rimasta un po’ delusa da Finn. Non sapeva come, ma era cosciente del fatto che quello fosse il nome del ragazzo irlandese, che suo fratello si chiamava Kurt e che si volevano bene ed erano felici.
Si alzò dal letto con quella consapevolezza e sorrise perché vedere tutte quelle persone la faceva stare bene, soprattutto se anche loro si sentivano allegri.
Pensando a Finn e Kurt le tornò in mente la ragazza di quella mattina – almeno per lei, per Santana, era stata mattina – lei sembrava spensierata, ma in realtà si portava dentro una profonda tristezza, una malinconia che fece storcere la bocca a Brittany, perché lei lo sentiva, quel senso di angoscia che circondava Santana ovunque andasse, lo sentiva più di quanto sentisse le emozioni dei due fratelli irlandesi, era come se avesse un legame particolare con lei che trascendeva gli altri.
Una cosa per volta, per prima doveva capire come riuscire a contattarla di nuovo, durante il giorni aveva provato l’esperienza di visitare qualcuno due volte, non sapeva quante persone avrebbero potuto collegarsi con lei, ma per il momento le interessava solo Santana, voleva capire cosa la facesse stare male per stringerla e fare sì che gioisse insieme a tutti gli atri, doveva essere bellissimo il suo sorriso, quello vero.
“Dove diavolo sono?” A quanto pare aveva sbagliato bersaglio, davanti a lei non c’era Santana, ma una donna di colore piuttosto nervosa – si chiamava Mercedes.
“Sono io a fare le domande qui. Chi diavolo sei tu, signorina?”
“Ehm…” Brittany strofinò le mani l’una contro l’altra coi polsi, si guardava intorno, osservava tutto dentro quell’appartamento, sembrava avere buon gusto questa Mercedes.
“Credo- credo di aver sbagliato” disse alle fine.
“Oh, sì che hai sbagliato!” urlò Mercedes prendendo il cellulare di casa: “Sto chiamando la polizia.”
Compose il numero e l’operatore le rispose gentile, chiedendole quale fosse la sua emergenza. Non si era ancora abituata a parlare Giapponese, nonostante fosse in città ormai da tre mesi. Si girò verso la ragazza per assicurarsi che non facesse cose strane, ma lei non c’era più.
“Signorina? Va tutto bene?” le chiese una voce dall’altro lato della linea.
“Sì, problema risolto. Grazie” rispose incredula staccando la chiamata.
Scosse la testa, ancora scioccata, e andò a mettersi a letto, forse aveva solo bisogno di dormire un po’.

 
Scrittrice in Canna's corner
Ecco che approdo nell'ennesimo nuovo fandom, c'è ancora qualcuno qui in giro?
Ci ho messo anche troppo a vedere Glee ma ci sono riuscita e ora sono piena di idee per questa storia! Spero che entusiasmi voi almeno la metà di quanto entusiasma me.
 Voglio dedicare questo capitolo a bookswhisperer senza la quale non saprei neanche dell'esistenza di un personaggio come Kurt (ma come ho fatto a vivere senza il mio pinguino?).
Vi assicuro che questo capitolo è l'unico con questa lunghezza abnorme, doveva presentare tutti in puro stile Sense8, mi dispiace avervi fatto perdere così tanto tempo :')
Vostra,
Scrittrice In Canna.

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Capitolo 2
*** L'inevitabile scoperta dell'essere ***


2.

Il suono del campanello fece scattare Kurt sull’attenti, erano arrivati i suoi parenti e lui non aveva ancora il pasticcio nel forno e i soufflé non erano pronti, le patate erano dure. Sarebbe impazzito presto.
Finn aprì la porta e si trovò davanti i suoi genitori sorridenti, nessuno sapeva che sarebbe tornato. Carol si mise a piangere di gioia e lo abbracciò stretto, ogni giorno passato lontano da suo figlio era una tortura, rivederlo sano e salvo l’aveva resa emotiva e adesso stava bagnando tutta la maglietta di Finn che la stringeva mentre Burt gli dava una pacca sulla spalla, sorridente. Potevano non essere legati da un rapporto di sangue, non era suo padre biologico, ma gli voleva bene come se lo fosse, l’aveva cresciuto si da quando aveva solo cinque anni, proprio come Carol era stata una madre per Kurt.
“Ben tornato, ragazzo” gli disse, fiero.
“Dov’è tuo fratello?” chiese lei, quasi come se avesse letto nella mente di suo marito.
“A sgobbare!” urlò Kurt dalla cucina, esausto.
Carol lasciò la presa sul fianco del ragazzo per andare ad aiutare l’altro giovane in crisi esistenziale, in quella casa era l’unica capace di farlo.
Finn cominciò a sentire una voce dolce e melodiosa come non ne aveva mai sentite. Non conosceva la canzone, ma l’avrebbe ascoltata anche tutto il giorno.
“Papà, lo senti?”
Burt abbassò il volume della televisione e si concentrò sui rumori della stanza ma l’unica cosa che riusciva a percepire era un leggero ronzio proveniente dal bagno: “Cos’è? La caldaia? Ho già detto a Kurt che deve sostituire le tubature…” Mentre lui continuava a parlare d’idraulica e di come suo figlio fosse ‘semplicemente troppo giovane per vivere da solo’, Finn seguì la melodia fino alla camera per gli ospiti dove aveva lasciato i suoi bagagli per i giorni successivi, aperta la porta vide una ragazza decisamente più bassa di lui con gli occhi chiusi e le mani sul petto, era così concentrata che non si era nemmeno accorta di non essere più… ovunque fosse in quel momento, sempre che il suo posto non fosse nelle fantasie più remote di Finn, come sospettava lui.
La ragazza – Rachel, il suo nome era Rachel – finì di cantare l’ultima nota e aprì gli occhi solo per ritrovarsi nella stanza di un estraneo. Stava per urlare, ma si trattenne mettendo le mani davanti alla bocca per poi abbassarle lentamente e puntare il dito verso Finn mormorando: “Chi sei tu?”
“Credo tu sappia esattamente chi sono.” Non sapeva come o perché, ma la sua presenza lì accanto a lui… era come se tutta la terra si fosse raddrizzata, come se non ci fosse più niente di sbagliato e il suo posto fosse in quella stanza, in quell’istante collegato da sempre nei suoi ricordi, doveva solo viverlo per capirlo.
Lei stava sentando la stessa cosa, lo sapeva con la stessa chiarezza con cui conosceva il suo nome.
L’espressione di Rachel cambiò distintamente, rilassandosi, sembrava molto più a suo agio.
“Cosa ci sta succedendo, Finn?” gli chiese, come se avesse la certezza che lui avesse tutte le risposte del mondo.
“Non ne ho la più pallida idea.”
“Io sì!” esclamò Brittany da dietro le spalle del ragazzo che saltò in aria e perse la connessione con Rachel.
“Cristo, Brittany!” urlò Finn portandosi una mano alla fronte: “Mi hai spaventato!”
Lei non sembrò curarsi della reazione esagerata e si sedette sul letto con le gambe incrociate, pronta a cominciare la sua spiegazione: “Siamo una cerchia.”
“Cosa?” Finn si sedette accanto a lei, le mani che si tormentavano a vicenda.
“Siamo tutti collegati, è come se… se la nostra empatia ci avesse resi una persona sola. Sentiamo tutto quello che sentono gli altri sette.”
Il ragazzo era estremamente confuso, non sapeva neanche se Brittany era un frammento della sua immaginazione, come faceva a crederle? Eppure il calore del suo corpo era così reale, come il suo profumo alla vaniglia che gli dava fastidio al naso perché era anche troppo forte.
Un secondo dopo si ritrovò seduto su di una panchina al sole, il mare alle spalle e una miriade di persone che gli passavano davanti, Brittany era ancora accanto a lui nel suo vestito floreale.
“Non dovrebbe fare freddo in Australia?”
Brittany fece spallucce: “Qui non fa mai veramente freddo.”
Finn rimase imbambolato a guardarsi intorno per qualche secondo, prima di ritornare in sé e riprendere la parte più importante del discorso: “Aspetta, hai detto altri sette?”
L’altra annuì: “Sì, sette… be’, sei. Siamo otto in tutto.”
“E tu come fai a saperlo?”
“Lo so e basta, credo che dovrai fidarti di me” affermò convinta e sorridente.
Per qualche strano motivo, le credeva, non comprendeva esattamente il perché ma Finn credeva alla strana ragazza Australiana, come non poteva quando sentiva dentro tutta l’eccitazione di Kurt, la sicurezza di Rachel e la calma di quella stessa persona che era contemporaneamente sul suo letto e su di un sedile nelle strade di Sidney? Così lui sorrise, poggiò una mano sulla gamba di Brittany e le confidò: “Mi fido di te.”

Rachel era scossa, aveva provato coì tante emozioni in quella stanza di Dublino che non sapeva cosa fosse vero e cosa solo uno scherzo della sua mente stanca da tutte le prove, ma non poteva fare altro, la sua Fanny doveva essere più che perfetta per onorare Barbra.
Di una cosa era certe, però, non avrebbe mai più cantato “My Man” senza pensare a Finn, quel ragazzo dall’accento strano che l’aveva ascoltata con aria così rapita da togliere il fiato, si sentiva profondamente connessa a lui e non sapeva neanche perché. Cercò di tornare alle prove, fare finta di non essersi appena esibita in una casa oltreoceano le sembrò un po’ più difficile di quanto non avesse immaginato.
Ricominciò dall’inizio, aveva il teatro tutto per sé per altri quaranta minuti, avrebbe avuto tutto il tempo di provare e riprovare.

Jessie stava dirigendosi al teatro per recuperare il cellulare che aveva dimenticato poco prima, si era sentito un idiota quando aveva realizzato di non poter parlare con nessuno, ma qualche ora lontana dal ‘beep’ continuo del telefono lo avevano calmato e si sentiva pronto ad affrontare un’altra giornata di casting.
Doveva essere fin troppo pronto, perché sentì qualcuno – una ragazza – cantare “I’m The Greatest Star” da Funny Girl in maniera impeccabile e se il suo cervello aveva deciso di fargli un altro scherzo tanto valeva goderselo, così si sedette in una poltrona in penombra e ascoltò, timoroso che se la sua fantasia l’avesse visto sarebbe scappata come il ragazzo di quella mattina, il suo Matthew fantasma.
Al contrario dell’ultima volta, la ragazza non scomparve dopo aver finito il che incoraggiò Jessie a battere le mani per vedere la sua reazione stupita.
Rachel non si aspettate di avere un pubblico, fortunatamente era soltanto un ragazzo – forse di due anni più grande di lei – con un sorriso sghembo, quasi soddisfatto, che applaudiva lentamente avvicinandosi al palco.
“Brava, davvero brava!” la complimentò. Poteva anche essere solo un tipo qualunque ma sembrava avere buon gusto e un orecchio funzionante, Rachel era sempre felice di ricevere dei complimenti, fece un piccolo inchino e sorrise soddisfatta.
“Grazie mille! La mia prima è tra poco” lo informò come faceva con tutti da due settimane, più persone sapevano meglio era.
Lui s’illuminò, come se avesse capito una battuta divertentissima e la indicò con l’indice: “Rachel Berry!”
“In carne ed ossa” rispose lei, sempre più onorata. Addirittura un fan? Doveva seguire la sua pagina su My-Space.
Lui s’indicò a sua volta e si presentò porgendole l’altra mano: “Jessie St. James, abbiamo un incontro programmato?”
Oh, Dio. Il ragazzo con cui Puck l’aveva incastrata. Ovviamente Rachel non poteva fare altro che fingere di essere effettivamente felice di vederlo: “Ma certo! Che piacere! Il copione è geniale!” Bugia. Non aveva idea di cosa parlasse, non l’aveva neanche sbirciato. Non voleva il ruolo, ma avrebbe voluto comunque fare l’audizione per fare un favore al suo agente, tutto ciò Jessie St. James non doveva necessariamente saperlo.
L’unico problema era che lui sentiva che qualcosa non andava bene in ciò che Rachel gli aveva appena detto, era un sesto senso.
“Non ha neanche visto il titolo del mio progetto, vero?” le chiese, le mani in tasca e quel sorriso ancora fisso sul volto, come se sapesse tutti i suoi segreti. Rachel si sentiva scoperta accanto a lui, vulnerabile, la cosa non le piaceva per niente.
“Co- certo che l’ho visto!”
“E qual è?”
“Ok, non lo so” ammise sconfitta guardando verso il basso.
Jessie rise e Rachel pensò che stesse ridendo di lei, invece lo stava facendo perché la trovava semplicemente adorabile. Lei si allontanò per dirigersi al piano a sistemare gli spartiti, giusto per allontanarsi da lui.
“Se t’interessa ancora il ruolo” le disse Jessie mentre tornava al tavolo dove era stato seduto fino a un’ora prima per recuperare il telefono che aveva causato tutto quel casino: “Quello che ho visto mi è piaciuto molto, mi piacerebbe lavorare con lei” finì. Era sulle scale che portavano fuori, si sbatteva leggermente il retro del cellulare sul polso: era nervoso.
Rachel pensava fosse molto arrogante, ma non aveva neppure letto il copione, come poteva rifiutare il lavoro? E dopo Fanny avrebbe sicuramente avuto bisogno di un cuscino di salvataggio, giusto per evitare brutte sorprese.
“Ci penserò.”
“Non volevo sentire altro.”

La sala era vuota, le lezioni non sarebbero cominciate per un paio d’ore e Santana aveva tempo di riscaldarsi per la prossima classe, avevano lo spettacolo di fine anno quella sera e non avrebbe permesso a nessuno di sbagliare anche solo un passo.
Dopo aver visto quelle ragazze il giorno prima non le era più capitato di avere visite di nessun tipo e ne era grata, poteva tornare a far finta che non stesse succedendo nulla di strano, era una persona sana, lucida e-
“Merda.”
Non conosceva quella voce, nessuno dei suoi alunni aveva un tono così acuto, si girò e si ritrovò davanti un ragazzo in preda al panico, nella sua cucina. Com’era finita nella cucina di un gay depresso? – perché non poteva vestirsi in quel modo ed essere etero.
"Che problema c’è, porcellana?” Santana sapeva, in qualche modo, che il suo nome era Kurt, ma ‘porcellana’ gli stava meglio, s’intonava con la sua carnagione chiara che si era leggermente arrossata per colpa del nervosismo.
“Perfetto” mugugnò raccogliendo un vassoio da terra: “Adesso m’immagino anche i bulletti delle superiori.”
Santana si sentì leggermente offesa: non era un’immaginazione e non aveva bullizato nessuno alle superiori, anche se era sempre stata un po’ una stronza. “Mi stai dicendo che sei capace d’immaginarti anche le ragazze?” Ok, era ancora una stronza, ma il ragazzo l’aveva offesa.
“Certo, chiamami anche ‘checca’ e abbiamo completato la lista di ricordi deprimenti.” Si sentiva stupido a parlare da solo, ma doveva pur sfogarsi con qualcuno, no?
“Ehi. Respira, compagno unicorno. Volevo solo sapere cosa ti stesse facendo dare di matto.”
Kurt fermò il suo movimento spasmodico, appoggiò le mani sul bancone da cucina e prese un respiro profondo. C’erano così tante cose che non andavano: prima di tutto suo fratello era un marine che stava per andare in guerra, suo padre era appena uscito dall’ospedale dopo un infarto, non aveva un piano per il futuro, l’unica cosa che aveva era un appartamento e un lavoro in un bar schifoso e non riusciva neanche a preparare una colazione decente per Finn.
Fece un altro respiro cercando di non mettersi a piangere e si girò verso il frigo, avrebbe ricominciato tutto, partendo dall’impasto dei pancakes che si erano bruciati e finendo col pulire il vassoio sporco che gli era caduto a terra prima.
Finn lo vide fare su e giù per la stanza dalla sua posizione appoggiata allo stipite della porta e gli chiese: “Ti è successo di nuovo, vero?”
Kurt si bloccò fissando suo fratello: “Successo cosa, Finn?” Aveva l’aria stanca.
L’altro si sedette al tavolo facendogli cenno di fare la stessa cosa e Kurt obbedì anche se era un po’ riluttante.
“Ieri sera, prima che arrivassero i nostri genitori, hai fatto visita a qualcuno, vero?”
Kurt strinse gli occhi, non capiva una parola di quello che stesse dicendo Finn.
“Ti sei trovato all’improvviso in un altro posto, senza motivo?”
Ripensò alla pioggia che gli bagnava i vestivi, a quello che era così chiaramente un funerale, al ragazzo triste e bagnato e si trovò a fermarsi sul modo in cui le gocce d’acqua gli evidenziassero le ciglia lunghe, al cappotto lungo che indossava. Era davvero caduto in basso, stava inventando qualcuno su cui rilasciare le sue frustrazioni.
Chiuse gli occhi, stanco di quella conversazione che era appena iniziata.
“Non sono veramente andato da qualche parte, era solo-“ provò a spiegare, come se stesse parlando con un bambino piccolo.
“Cosa? Un sogno ad occhi aperti?” finì Finn per lui.
“Sì!” rispose Kurt esasperato, quella spiegazione gli bastava.
“Che mi dici della pioggia allora?” Sorrise, consapevole di averlo messo in difficoltà: “Siamo in otto, tutti collegati, è una cerchia di persone da tutto il mondo, possiamo farci visita e toccarci, ma solo noi sappiamo cosa sta accadendo perché è tutto un fatto di empatia.”
Kurt rimase in silenzio per qualche secondo, poi chiese, scettico: “E chi ti avrebbe detto questa cosa?”
“Brittany. Una ragazza della nostra cerchia, dovresti conoscerla!” 
“Certo, sicuro. Smetti di farti, Finn.” Lo attaccò alzandosi e andando a prendere una giacca e un cappello. Era davvero esausto, stanco di tutto e di tutti.
“Dove vai?” urlò Finn seguendolo fino all’uscio.
“A farmi una passeggiata per cercare di ‘connettermi’ con qualcuno!” lo prese in giro prima di sbattersi la porta alle spalle.


 
Scrittirce in canna's corner
Ed ecco il secondo capitolo! 
D'ora in poi le scene saranno tutte così: un po' di meno, ma molto più lunghe. 
Inoltre, scrivendo e scrivendo, mi sono accorta che almeno per i prossimi tre capitoli, ad aprire saranno sempre le Brittana o Kurt, il che forse non è proprio l'ideale, ma la linea temporale non mi lascia scelta. Giuro che non l'ho fatto apposta!
Vedo che - nonostante lo show sia finito e EFP stia lentamente cadendo nel baratro dei dimenticati - la storia è stata discretamente aprezzata e ve ne sono grata! 
Non ho altro con cui assilarvi, ci vediamo nel finesettimana/all'inizio della rpossiam settimana con il terzo capitolo.
Vostra, 
Scrittrice In Canna.

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Capitolo 3
*** L'alchimia di anime ravvicinate ***


3.

Guardare il mare l’aveva sempre calmata quando stavano in America, viaggiava fino alla spiaggia ogni volta che suo padre tornava a casa troppo ubriaco per intendere o volere, guidava e guidava lungo la costa di Los Angeles e lasciava che le onde la cullassero col loro rumore e l’odore salmastro.
Purtroppo, da quando era andata a vivere in Giappone, non aveva più avuto quel privilegio. Quanto le sarebbe piaciuto sentire la sensazione della sabbia sotto i piedi solo un’altra volta.
Fu così che si ritrovò seduta accanto a un ragazzo triste di nome Kurt che si teneva le gambe abbracciate al petto, la testa sulle ginocchia. Non piangeva, ma era miserabile, Mercedes lo poteva sentire. Doveva ancora abituarsi a questa cosa strana che le stava capitando, ma non era brutto sentirsi connesso a qualcuno quando si trovava in una nuova, terrificante città. Appoggiò la mano sulla spalla del ragazzo, doveva consolarlo in qualche modo.
“Ehi?” provò con voce leggera.
Lui alzò il capo, sembrava che non avesse dormito tutta la notte, invece erano passate solo un paio d’ore da quando si era rintanato in quella parte dispersa di mondo.
“Dove siamo?” gli chiese Mercedes guardano in avanti, verso il mare aperto. Erano su di un promontorio naturale ricoperto d’erba, non esattamente la spiaggia che aveva sperato, ma le colline offrivano uno spettacolo naturale da mozzare il fiato e l’odore di terreno umido le riempiva le narici, doveva aver piovuto da poco perché i ciuffi d’erba erano colmi di rugiada.
“Perfetto” rispose Kurt portando gli occhi al cielo: “Sei anche tu parte della mia ‘cerchia’?” chiese in tono sarcastico. Sinceramente pensava solo di essere impazzito del tutto.
Mercedes sbatté le palpebre, cercava di capire cosa volesse dire con ‘cerchia’, ma non trovava molti significati logici.
“La tua… cosa?” domandò alla fine.
“A quanto pare le mie allucinazioni sono persone vere, mio fratello l’ha scoperto da una ragazza che si chiama Brittany. Lei è Australiana, mai sentita nominare prima d’ora.”  E ora stava anche spiegando i complessi di suo fratello al frutto della sua immaginazione. Perfetto, semplicemente perfetto. Fece una risata amara, senza una briciola di umorismo.
Mercedes aveva l’aria di aver riconosciuto quel nome e in effetti sapeva che Brittany era una delle persone a cui era collegata.
“E tu non gli credi?” Stava cominciando a capire quale fosse il problema che lo aveva portato ad isolarsi dal resto del mondo.
“Come posso credergli?” Ribatté lui: “È da pazzi!”
“Dammi il tuo telefono” gli ordinò lei dopo aver riflettuto per un po’, stendendo la mano. Kurt le obbedì, la vide digitare qualcosa, poi premere il pulsante di chiamata, in poco tempo il cellulare della ragazza cominciò a vibrare e lei mostrò a Kurt il suo numero sullo schermo.
“Fammi chiamare da qualcuno che non ha le allucinazioni; se sentirà la mia voce avrai la prova che sono reale.”

Brittany era delusa, non aveva visto Santana, non ci era riuscita, e lei era ancora triste.
Mise le mani sotto il mento e sbuffò, coi gomiti appoggiati al tavolo rimase immobile a fissare il muro vuoto.
Le sarebbe piaciuto tanto rivederla, era stata in contatto con Finn e si era divertita tantissimo a vedere il suo sguardo perso nel vuoto mentre gli spiegava cosa volesse dire essere un sensate, sospettava che avrebbe visto molto spesso quell’espressione.
L’idea la fece sorridere, sapeva che almeno lui era tranquillo riguardo alla nuova situazione, l’aveva abbracciata ed accettata – probabilmente Rachel aveva molto a che fare con quella sua improvvisa accettazione – al contrario di suo fratello Kurt, che ancora non conosceva le sue nuove possibilità, non avevano mai parlato, ma Brittany sapeva che nella sua vita c’era un vuoto grande quanto un cratere, sperava solo che la cerchia l’avrebbe aiutato a sentirsi meglio.
“Siamo pensierose oggi.”
Brittany s’illuminò, lasciò cadere le mani sul tavolo e disse, quasi urlando: “Ti ho cercata tutto il giorno!”
Santana ridacchiò sotto i baffi, da dov’era appoggiata al bordo del tavolo da pranzo riusciva a vedere solo il profilo della bionda, ma le bastava anche in quel modo.
“Sono felice che tu mi abbia trovata” sussurrò alzandosi per sedersi di fronte a Brittany.
“Veramente sei stata tu a trovare me” la corresse l’altra indicandola.
Santana rise di nuovo, non aveva mai sorriso così tanto da quanto potesse ricordare.
“Diciamo che ci siamo trovate a vicenda.”
Ci fu un momento in cui le due ragazze trovarono piacere nello scrutare l’altra, ogni piccola imprecisione, per imprimerla nella loro memoria, poi Brittany prese un respiro profondo e chiese: “Allora, dov’è che sei tu? C’era un sole fantastico ieri!”
“Lesbo, è un’isoletta nel mare Egeo.”
La biondina corrugò la fronte, si sarebbe dovuta informare meglio su quell’isola.
“Non hai l’accento greco” disse, invece di fare qualche domanda inappropriata.
“Vivevo in Messico, prima.” Quello spiegava tante cose. Brittany annuì e si alzò per preparare del caffè, dando le spalle a Santana e cominciando a parlare: “Devo riuscire a venire da te ogni tanto, perché-” solo che quando si girò non c’era più nessuno al tavolo.
Intanto in un piccolo studio di danza di un’isola molto più piccola dell’ Australia, una ragazza cercava di trattenere le lacrime.

Negli ultimi giorni Blaine si era ritrovato ad essere estremamente triste e anche se molti gli avrebbero detto – logicamente – che era perché i suoi genitori erano appena morti, lui sapeva che non era quello il motivo, non gli mancava la presenza ostile di suo padre, era come se non importasse quanto riuscisse ad andare lontano da Parigi, da qualche parte lui lo stava giudicando perché non poteva credere che il suo prezioso bambino, il suo talentuoso primo ed unico figlio, fosse un diverso. Così, improvvisamente, il suo desiderio di diventare un artista divenne un sogno stupido e ogni scelta che facesse era semplicemente di seconda categoria agli occhi di suo padre.
Il solo pensiero lo fece rabbrividire, così si diresse verso l’unico oggetto in quella enorme villa che gli avesse mai dato un po’ di conforto, da sempre: il pianoforte di suo nonno.
Si mise a suonare una delle prime canzoni che gli vennero in testa: “Baby, It’s Cold Outside”, non era Katy Perry e di sicuro non era proprio il massimo per la sua situazione, ma se la sarebbe fatta bastare, l’importante era cantare nonostante quella canzone si dovesse fare in due, nonostante tutto.
Dopo le prime due righe di spartito chiuse gli occhi, si rese conto che tutto ciò che suonava in quei giorni sembrava più malinconico del solito.
This evening has been, so very nice.” Una voce più alta, più melodiosa della sua si unì all’improvviso. Blaine guardò il nuovo arrivato con un po’ di paura, tanto che saltò la sua parte per un paio di volte, l’aveva preso di sorpresa, però vedendo che era il ragazzo del funerale non poté fare altro che sorridere e andare avanti con l’esibizione. Una volta passato l’imbarazzo entrambi cantarono tranquillamente la loro battuta al momento giusto, come se avessero provato per giorni. Non aveva mai cantato così bene con nessun’altro, solo uno dei tanti motivi che portarono Blaine a rattristarsi nuovamente quando suonò l’ultima nota.
L’altro ragazzo rimase in piedi di fronte al piano, un sorriso da ebete – adorabile, commentò Blaine tra sé e sé – sul viso.
“Sei molto bravo” lo complimentò, la voce piena di adorazione.
Kurt – si chiamava in quel modo, non sapeva perché ma quella consapevolezza lo colpì all’improvviso. Ripeté il nome nella sua mente un paio di volte: gli piaceva – abbassò lo sguardo, chiaramente imbarazzato. “È solo un passatempo, non lo faccio spesso” disse prima di sedersi accanto a Blaine sulla seggiola in pelle dietro al pianoforte. E tutto d’un tratto quest’ultimo voleva solo togliersi il papillon perché la stanza stava diventando stranamente calda.
“Dovresti” lo riprese Blaine poggiando le mani su dei tasti a caso, non sapeva cosa fare con sé stesso e sulle guance di Kurt si era formato un leggero rossore.
“Grazie” mormorò a quel punto, consapevole che sarebbe stato inutile combattere contro Blaine – quando si erano presentati esattamente? Poteva anche averlo dimenticato, dubitava di ricordarsi il suo stesso nome in quel momento – e poi aveva sempre amato i complimenti, facevano bene al suo ego.
“Parigi, eh?” notò, per cambiare discorso. Dalla finestra si vedeva il museo Louvre.
Il riccio annuì, troppo emozionato per formare delle frasi di senso compiuto.
“Ho sempre voluto visitarla” ammise Kurt, gli occhi ancora puntati alla finestra.
“Te la mostrerò, allora” affermò sicuro Blaine.
L’altro si girò di scatto e i due si trovarono quasi naso a naso.
“Mi piacerebbe.”

Finn tornò dal negozio con la spesa per i prossimi giorni, si chiuse la porta alle spalle e chiamò: “Kurt! Sono tornato! Dammi una mano con le buste!” L’unica cosa che vide però fu suo fratello seduto con una tazza di caffè appoggiata alle labbra e un’espressione sognante sul viso.
Finn poggiò le buste sul tavolo e fece schioccare le dita davanti agli occhi dell’altro che si riprese dalla trance e poggiò la tazza sul tavolo.
“Sai? Forse questa storia della cerchia ha un senso. Torno subito.” Si alzò senza dare troppe spiegazioni e se ne andò.
“Cosa gli prende ora?” chiese Mercedes che era alla destra di Finn con le braccia conserte.
“Non ne ho la più pallida idea” ammise Finn guardando il corridoio. Era impressione sua o Kurt stava cantando nell’altra stanza?
“Lo so io cosa gli prende” intervenne Rachel, alla sinistra del ragazzo: “Si è preso una cotta.”
“Oh, No!” si lamentarono gli altri due.
Rachel annuì teatralmente, con gli occhi chiusi: “Anche bella grossa.”

Rachel rise divertita dalla reazione di Finn, peccato che la connessione si fosse interrotta, le sarebbe piaciuto poter vedere cosa avrebbe fatto dopo, se fosse scappato da suo fratello con quella faccia a metà tra lo scioccato e il terrorizzato, urlando il suo nome a vuoto, o se fosse rimasto lì in piedi, a fissare il corridoio.
Mise da parte ogni pensiero che riguardasse la cerchia e cominciò a sistemare la stanza da dov’era rimasta poco prima mentre cantava “Rolling In The Deep” che rimbombava in tutta la stanza.
Rimise i piedi in terra dopo una piroetta particolarmente ben fatta e si trovo di fronte Jessie St. James con il suo sorriso sornione, di nuovo.
Rachel alzò le sopracciglia per lo stupore, cominciò a boccheggiare. Il suo primo istinto era stato di prendere il telefono e chiamare la polizia, poi aveva realizzato che se lui era proprio lì c’era una sola spiegazione: erano collegati, il che le faceva venire la pelle d’oca.
Con quale sfrontatezza se ne stava tutto sorridente con le mani in tasca e l’atteggiamento da padrone di casa?
“che ci fa tu qui?” gli chiese alla fine senza guardarlo negli occhi, aveva ricominciato a mettere apposto.
“Rachel, fino a prova contraria nessuno di noi ha imparato a gestire queste…” Non trovava il termine giusto, gesticolò con una mano: “Visite.”
“Non posso crederci” mormorò Rachel mentre continuava a ignorarlo riprendendo le sue faccende, se non lo guardava il collegamento spariva, non era così che funzionavano le cose?
Apparentemente no perché Jessie era ancora nel suo salotto, magicamente seduto sulla poltrona davanti a lei.
Rachel stava cominciando a perdere la pazienza, i suoi movimenti erano sempre più rigidi e carichi d’ira, voleva prenderlo a pugni, ma non sapeva se il segno sul viso sarebbe rimasto o meno, non sarebbe stato divertente se il suo viso fosse rimasto integro.
“Potresti andartene?” domandò con finta gentilezza, le mani sui fianchi.
Jessie ghignò, sembrava persino che la situazione lo divertisse.
“Ci sto provando!” ammise, ma non era molto serio o credibile.
Sarebbe stata una giornata molto lunga con lui in mezzo ai piedi che la fissava.
“Hai ricevuto il mio copione?”
“No.” Buttò delle cartacce nel cestino.
Lui annuì, anche se lei non lo stava guardando e non aveva intenzione di farlo. Dato che Rachel aveva deciso d’ignorarlo, Jessie si era preso la libertà di guardarsi intorno, aveva sempre pensato che il modo più efficace di conoscere qualcuno fosse sapere cosa si trovava nella loro casa, almeno per lui era così. L’appartamento di Rachel Berry urlava: star di Broadway. C’erano poster dei più grandi musical degli ultimi sessant’anni su tutte le pareti, specialmente di Barbra, alcuni erano anche autografati. La ragazza sognava in grande, ammirava la sua dedizione.
Stava girando sui talloni per chiederle da dove venisse una foto in particolare, ma si ritrovò sul palco del teatro dov’era prima, solo.

Blaine aveva deciso che, dopo due giorni passati a vivere di cibi d’asporto, era il momento giusto di andare al supermercato e fare rifornimento. Se avesse dovuto vivere il resto della vita nella casa dei suoi tanto valeva farlo in grande stile e lui era sempre stato una buona forchetta, in più si sentiva rinvigorito dopo il duetto con Kurt. Aveva persino fatto una lista dove aveva scritto tutto l’occorrente per la cena di quella sera: si sarebbe cimentato in cucina, cosa che aveva fatto forse due volte nel corso della sua breve esistenza. Era così impaziente di tornare a casa che andò a sbattere contro un uomo più grande di lui, circa sulla cinquantina, che quando lo guardò negli occhi, mentre Blaine si scusava, sorrise e lo rassicurò con voce tranquilla: “Oh, non c’è problema, caro.”
Il più giovane gli sistemò il costoso cappotto scuro, assicurandosi di non aver fatto alcun danno: “Mi dispiace davvero tanto!” disse un’ultima volta prima di andarsene.

 
Scrittrice in canna's corner
Qualcuno mi dice che dovrei migliorare il mio effetto sorpresa, spero di non fare davvero così schifo come dicono *inserire faccina a disagio qui*
Anche questo capitolo è andato, momentaneamente sto scrivendo il sesto, ma avrò molto da fare nei prossimi giorni quindi non credo di poter aggiornare settimana prossima. Un po' mi dispiace, è l'unica storia in quattro anni che aggiorno e scrivo con regolarità, ma va be', andrà meglio col resto. 
Spero che la mia parte da Klainer disperata non sia troppo ovvia (?) giuro che cerco di essere imparziale, e lo vedrete nel prossimo capitolo che è anche quello in cui le cose cominciano a muoversi un po'.
Vostra,
Scrittrice In Canna, che litiga con l'HTML.

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Capitolo 4
*** La consapevolezza del soggetto ***


4.


Kurt rimase a fissare il cellulare nelle sue mani, spiando di sottecchi il padre ogni tanto dal suo posto sul divano, le gambe accavallate e un piede che tamburellava per il nervosismo. Ripensò alle parole di Mercedes e sospirò rumorosamente. Se non voleva impazzire doveva sapere se tutto quello che gli stava succedendo era solo una fantasia bellissima, ma che gli avrebbe assicurato un posto nella casa di cura più vicina, o una strana connessione psichica come diceva suo fratello. 
"Allora, cosa aspetti?" chiese Mercedes, seduta accanto a lui.
Kurt si girò a guardarla con un sopracciglio sollevato verso l'alto, ormai non si stupiva nemmeno di queste strane visite improvvise. 
"Cosa aspetto a fare cosa?" Faceva finta di non capire, eppure aveva ben chiaro a cosa si riferisse la ragazza. Lei si limitò a dargli uno spintone che lo fece quasi cadere a terra di faccia, fortunatamente si era sollevato in tempo ma il suo grido spaventato aveva messo in allerta Burt: "Tutto ok, ragazzo?" chiese allungando il collo verso il salone per assicurarsi che suo figlio stesse bene. 
"Sì, sì. Sto bene!" lo rassicurò Kurt lisciandosi la giacca e sorridendo forzatamente. 
Mercedes rideva di gusto, conscia del fatto che l'uomo più grande non l'avrebbe sentita e quindi non si sarebbe offeso. 
"Ehm..." Il ragazzo si guardò intorno incerto sul da farsi, sapeva solo che suo padre lo stava guardando con un'espressione molto preoccupata. 
"Potresti farmi un favore?" Burt si avvicinò lentamente alle parole del figlio come se stesse camminando verso un leone pronto a divorarlo. 
"Cosa c'è, Kurt?" domandò a voce basa, mettendogli una mano sulla spalla. Era da un paio di giorni che si comportava in modo strano, pensava fosse solo perché suo fratello stava per andare in guerra, non riusciva a pensare a nient'altro che potesse turbarlo.
Kurt gli porse il telefono e disse: "Potresti chiamare questo numero? Non so chi sia e ho un po' paura, so che potrebbero semplicemente aver sbagliato, ma vorrei esserne sicuro." tutto d'un fiato. Era una scusa stupida, ma cosa poteva inventarsi? 
Mercedes lo raggiunse, aspettando con il fiato sospeso che Burt facesse quella chiamata. Il telefono in mano, silenzioso. Poteva fingere quanto voleva che ciò che le stava accadendo fosse normale e che a lei andasse bene, la verità era che non era sicura di nulla, si sentiva come se il suo mondo stesse crollando su sé stesso e lei non avesse la forza di rimetterlo in piedi. SI sentiva così impotente e lo odiava. 
Nel momento in cui Burt fece partire la chiamata, Kurt si alzò sulle punte per vedere meglio lo schermo e ordinò: "Metti il vivavoce, per favore." Era leggermente più impaziente di quanto sarebbe dovuto essere. 
Passarono degli interminabili secondi durante i quali Mercedes e Kurt attesero che il cellulare nelle mani della ragazza suonasse, quando - finalmente - lo fece e lei rispose, la voce che rimbombava con un po' di ritardo dalle casse del telefono nelle mani incoscienti di Burt regalò un po' di sollievo ai due, sollievo che si trasformò in gioia nel momento in cui l'uomo rispose: "Pronto? Signorina? Ha chiamato mio figlio Kurt?" 
Mercedes scosse la testa, sorridendo: "Oh, mi dispiace, devo aver sbagliato" mentì. 
Burt restituì il telefono a Kurt che aveva un sorriso così largo da dividergli il viso in due. Guardò l'oggetto che aveva in mano con gli occhi che brillavano e sussurrò: "È reale."
"Cosa?" chiese suo padre, sempre più confuso.
"Cenare!" esclamò l'altro alzando la testa di scatto: "Dobbiamo cenare!" 
"Sono solo le cinque!" Burt cercò di corrergli dietro, ma suo figlio si era già fiondato in cucina.

Santana era terrorizzata, anche se non era certo la prima volta che i suoi ragazzi si esibivano si sentiva come se lo fosse perché avevano lavorato davvero tanto su quello spettacolo e sarebbe stata l'ultima volta in cui li avrebbe visti ed erano l'unica classe che aveva accompagnato sin dal primo anno, non voleva che andassero alla classe successiva, senza di lei. Era sempre duro lasciarli andare, sentiva come se una parte di sé se ne andasse ogni singola volta e Santana aveva già dato via troppi pezzi della sua vita alle persone sbagliate.
Sospirò e diede una breve occhiata dietro la tenda verso il pubblico che stava prendendo posto, c'erano così tante persone, sentiva che i ragazzi sarebbero stati ancora più emozionati del solito, il che non era esattamente positivo. 
Si sentì strattonare dalla manica della camicia, quando guardò giù vide una delle sue studentesse che la guardava con sguardo fermo: "Tutto bene, Signorina Lopez?" chiese lei, Clio, come se conoscesse già la risposta.
Santana fece un sorriso d'incoraggiamento e annuì tornando con gli occhi sul pubblico. Sapevano entrambe che stava mentendo. 
Clio non si mosse, restò accanto a lei. Dall'alto dei suoi dodici anni era più sicura delle emozioni della sua maestra di quanto non lo fosse lei stessa. Avevano costruito un rapporto particolare, molto simile a quello di due sorelle. 
"Mi mancherete, tutto qui" ammise Santana scuotendo la testa come se si stesse rimproverando delle sue lacrime. Era comunque solo mezza verità. 
Clio le prese la mano e la strinse forte, quasi come per dire: 'Sono qui, io non la abbandonerò."
Le luci rosse illuminarono tutto il retroscena, era il momento di cominciare. Santana diede una piccola spinta alla bambina per farle raggiungere i suoi compagni di corso mentre lei rimase lì, ad ammirare dal lato i suoi alunni che si muovevano sul palco con infinita grazia e leggerezza. Era così fiera di loro. 

Jessie si ritrovò all'improvviso ad osservare dei bambini che non aveva amai visto prima danzare su un palcoscenico, erano così leggiadri e sicuri, gli ricordavano la sua prima volta in scena: era poco più piccolo di loro quando lui e la sua classe avevano organizzato la prima recita natalizia. Ricordava bene il volto orgoglioso dei suoi genitori, suo padre che filmava tutto e sua madre che lo guardava con gli occhi lucidi per colpa delle lacrime, ricordava anche di aver visto il girato di quelle sera dopo un'importante gara col coro scolastico e di aver arricciato il naso in segno di disgusto. Aveva cantato malissimo, era davvero pessimo. 
Certo, anche i ragazzi sul palco sarebbero migliorati col tempo, ma partivano già con basi solide, poteva vedere del grande potenziale in ciascuno di loro. 
"Sono davvero bravi" si complimentò con Santana che era tanto intenta ad ammirare il saggio quanto lo era stato lui fino a pochi secondi prima. 
"Una delle migliori classi, non so come farò a lasciarli andare" rivelò lei rilasciando un respiro e sembrò quasi come se, insieme all'aria, avesse lasciato andare anche quel fastidioso nodo che aveva in gola dal giorno prima. 
Jessie le poggiò una mano sul braccio per confortarla, farle sapere che non solo lui, ma tutti i ragazzi della cerchia le erano vicini in quel momento. 
Santana chiuse gli occhi, inspirò e lasciò che una lacrima solitaria le rigasse il viso, solo una - si ripeteva - solo una lacrima, non farà male a nessuno se non possono vedermi. Giusto?
Si sentiva come se avesse dimenticato come si faccia a respirare.
Jessie la guardava preoccupato, riusciva a percepire tutta la rabbia e il dolore che stava provando Santana. Non potevano essere tutte emozioni provocate da quei bambini, aveva già detto addio a un discreto numero di alunni nel corso dei suoi cinque anni d'insegnamento eppure quelle sensazioni non gli erano nuove: era quello che aveva sperimentato quando l'ennesima cosa era andata storta durante la creazione delle coreografie per il suo musical eppure i suoi collaboratori gli dicevano che era solo uno stupido passo, si poteva cambiare; era la frustrazione che aveva sentito il giorno prima quando aveva fatto cadere una tazza, una sola fottutissima tazza, ma non era quello il problema, non davvero, era un insieme di cose che gli si erano accumulate dentro, alle quali non aveva dato la possibilità di uscire. SI sentiva come una mina vagante: pronto ad esplodere al primo contatto e sapeva che Santana era nella stessa situazione, così le disse una sola parola sperando che lei potesse intendere tutto il significato che si portava dietro: "Sfogati."
Lei si passò una mano sulle guance per asciugarle, le spalle cominciarono a tremare e si morse il labbro per bloccare i singhiozzi insieme a tutto quello che aveva dentro. Si era trasformata in un magnete per le emozioni negative: captava tutta la tristezza di Finn, l'agitazione nervosa di Rachel, la malinconia di Mercedes, la rassegnazione di Kurt e la depressione soffocante di Blaine. Era tutto così opprimente.
Cadde a terra, svenuta ed esausta.

Quando il corpo privo di sensi di Santana colpì il pavimento, Brittany lo percepì all'istante, non sapeva esattamente cosa fosse successo, ma non era bello. Non riusciva a connettersi con lei. Spalancò gli occhi e si mise a mangiucchiarsi le unghie, impotente. 
Non aveva idea di come comportarsi in quelle circostanze, Elizabeth non gliel'aveva detto.
Jessie apparve dietro di lei, lo sguardo colmo di comprensione.
"Eri con lei?" gli chiese Brittany, leggermente sollevata. 
"Sì, è svenuta. Credo sia troppo per lei" le spiegò schiettamente. 
La ragazza scosse la testa: "No, non è possibile. Non può."
"Di cosa stai blaterando?"
Brittany si morse la guancia, forse non avrebbe dovuto fare una cosa simile, non erano pronti, era troppo presto.
Si dice che l'ignoranza a volte sia una benedizione e nel loro caso era vero. Non avrebbe mai voluto tenere segreta una cosa così importante alla sua cerchia, ma caricarli di un peso così grande? Si erano appena conosciuti, la connessione era così fragile e giovane che non riuscivano nemmeno a condividere le conoscenze altrui. Eppure la vita di Santana dipendeva da quello, se l'avessero portata in ospedale e lei fosse stata inerme... Brittany rabbrividì al solo pensiero. 
Forse la consapevolezza era il pezzo mancante del puzzle, quello che li avrebbe resi una cerchia a tutti gli effetti.
"Devo dirti un paio di cose" cominciò indicando a Jessie di sedersi sul divano, sarebbe stata una lunga discussione. 
"Questa cosa che ci sta succedendo ha un motivo valido" cominciò. Non riusciva a trovare le parole giuste.
"C'è una cosa nel nostro DNA che ci rende diversi da loro, siamo sensates."
"Cosa vuol dire?" le chiese Mercedes che era appoggiata al tavolo.
"Che siamo differenti, una specie più evoluta" rispose Brittany girandosi verso l'ultima arrivata.
"Quindi vuol dire che siamo tipo... alieni?" Finn era visibilmente confuso.
"Una cosa del genere, ma veniamo dalla terra" confermò Brittany seria.
"Ed è per questo che possiamo connetterci tra di noi" continuò Blaine pensieroso.
"Esatto!" esclamò Brittany puntandogli un dito contro. "Ma è tutto nella nostra mente, voi siete ancora a casa vostra, solo noi possiamo vederci e sentirci."
"Tutto qui?" domandò Rachel.
"Possiamo anche condividere pensieri, informazioni, abilità."
"E perché non riusciamo a sapere cosa sanno gli altri? A meno che Finn non abbia imparato a fare un arrosto..." commentò Kurt.
"Non lo so ancora, forse la chiave è proprio questa: dovevate sapere." 
Tutti restarono in silenzio, attendendo che Brittany continuasse. Si era formato una specie di cerchio intorno a lei e tutti volevano delle risposte che lei non sapeva come dare, ma se voleva farlo doveva trovare le parole giuste in fretta, Santana non aveva molto tempo.
"C'è un'altra cosa che dovete sapere. Promettetemi che presterete la massima attenzione." Non sapeva da dove fosse uscita tutta quella determinazione.
Annuirono tutti, Rachel mormorò: "Promesso." 
"C'è una persona che ci da la caccia, lo chiamano Whisper. Vuole usarci per qualche motivo di cui non sono a coscienza. Non so molto su di lui, sto ancora cercando, ma so che se Santana verrà portata in ospedale e i medici riveleranno qualcosa di anomalo, lui la troverà."
"Io sono un dottore! Potrei curarmi di lei" suggerì Mercedes speranzosa. 
Brittany scosse la testa: "Uno di noi dovrebbe essere lì con lei fisicamente."
"Allora che facciamo? Non arriveremo mai in tempo e non possiamo stare con le mani in mano" disse Finn visibilmente preoccupato.
"Possiamo solo aspettare e sperare che lei sappia di doversi guardare le spalle quando si sveglierà."
Brittany sentiva delle voci, vedeva delle luci accecanti, era tutto così confuso e la testa le faceva male. Perse il contatto con gli altri e si ritrovò al fianco di Santana che era abbastanza lucida da percepire la sua presenza. 
"Brit?" chiamò mentre un bambino le poggiava una mano sulla fronte. 
Lei si precipitò accanto a Santana, in ginocchio, e le prese la mano. 
"Sono qui, devi riprenderti" le ordinò in tono autoritario.
"Whisper" borbottò Santana scattando in piedi, incurante del mal di testa che le stava facendo pulsare la testa. Un genitore stava per chiamare un'ambulanza, ma lei mise le mani in avanti e urlò: "No!"
L'uomo si bloccò e la guardò, aspettando una qualunque spiegazione. 
"Niente ospedale, sto bene." Per dimostrarlo salutò i bambini e, combattendo contro ogni singolo muscolo del suo corpo, s'incamminò verso casa per riposare.

Blaine rimase a fissare il tetto, era sdraiato a pancia in su sul letto e stava cercando di mettere insieme i suoi pensieri. Aveva appena ricevuto una quantità enorme d'informazione da Brittany. Non sapeva cosa farci, a dirla tutta. Si era ritrovato in una stanza con altre sei persone che non aveva mai visto - a parte Kurt, ma lui era tutta un'altra faccenda - eppure si sentiva più a casa in un appartamento nella periferia di Sydney che nella villa in cui era cresciuto. Forse perché quel maniero imponente non era mai stato altro che una grande gabbia d'oro: sempre troppo vuota, sempre troppo fredda.
Finn stava pensando la stessa cosa, seduto sulla poltrona in un angolo della stanza di Blaine. Da lì si  poteva vedere il Louvre. 
"Bella vista" notò il marine guardando la città che si espandeva sotto i suoi occhi.
L'altro ragazzo si mise seduto e sorrise leggermente. 
"È piaciuta anche a tuo fratello." Gli uscì quasi spontaneo.
Finn si girò di scatto a guardarlo. No - pensò - no, no, no. Non riusciva a pensare ad altro, solo "no". 
Si schiarì la gola, altrimenti era sicuro che se avesse aperto bocca ne sarebbe uscito un falsetto spaventoso. Sapeva che c'erano cose molto più urgenti di cui occuparsi in quel momento, insomma Santana era svenuta perché non riusciva a reggere le loro emozioni e uno psicopatico dava loro la caccia. Si sentiva colpevole, in fondo era stata anche la sua paura del fronte a far andare la ragazza in tilt, ma aveva appena scoperto il motivo dell'improvviso ottimismo di Kurt quel pomeriggio - Mercedes e Rachel l'avevano avvertito, ma semplicemente non aveva voluto crederci - e doveva fermare quella situazione il prima possibile, non poteva lasciare che suo fratello s'infatuasse di un ragazzo così lontano da loro, che non avrebbe mai potuto realmente vedere e-
"Hai conosciuto Kurt?" riuscì a chiedere Finn, cercando di sembrare il più calmo possibile, anche se aveva l'impressione di star fallendo miseramente. Blaine arrossì visibilmente, abbassò la testa e cercò di nascondere un sorriso. Eccome se l'aveva conosciuto, era stato il suo raggio di felicità.
Finn si portò una mano alla fronte, erano fregati.
"Ma d- dovresti capire" tentò il più basso. "È la stessa cosa che è successa tra te e Rachel."
Questa volta era stato il turno di Finn di arrossire, leggermente imbarazzato. Quando aveva visto Rachel cantare, nel suo ambiente naturale, si era sentito circondato da una calma fuori dal normale, era sicuro che anche se non fossero stati così irrimediabilmente collegato l'uno all'altra, la voce di Rachel lo avrebbe commosso allo stesso modo. 
"In cosa ci siamo cacciati?" commentò Blaine quasi sarcasticamente.
"Non ne ho la più pallida idea."



 
Scrittrice in canna's corner
Ce l'ho fatta! Ho aggiornato anche questa settimana non ostante tutti gli impegni e il blocco dello scrittore e tutto il resto. 
Insomma, sono leggermente indietro con il sesto capitolo, ma il quinto è pronto quindi almeno per la prossima settimana siamo apposto.
Adesso che sono libera dalla scuola potrò scrivere molto di più, cercherò di essere il più regolare possibile!
Vostra,
Scrittrice In Canna.

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Capitolo 5
*** Di segreti mai svelati ***


5.

Stava preparando la cena alle cinque e mezza del pomeriggio, aveva due possibilità per evitare gli sguardi preoccupati di suo padre e il mezzo sorriso di Finn: doveva preparare qualcosa d'incredibilmente complesso che gli avrebbe occupato le prossime due ore, oppure avrebbe costretto i suoi familiari a mangiare ad un orario improponibile per poi inventarsi una scusa e scappare dall'appartamento. 
Kurt poggiò la testa contro il frigorifero, aveva voglia di sbattere contro la superfice fino a far andare via quel gene in più . Non era neanche sicuro che una cosa del genere fosse scientificamente possibile, ma provare non ha mai fatto male a nessuno.
Passarono dei secondi interminabili prima che Finn facesse capolino in cucina. Kurt sobbalzò e aprì l'anta del frigo, cercando di sembrare disinvolto. 
"Ricordami di andare a comprare le uova" borbottò, la testa ancora piegata dentro l'elettrodomestico alla ricerca di neanche lui sapeva cosa.
Il fratello fece un suono d'assenso e uscì dalla stanza con un'occhiata guardinga.
Non capiva cosa gli fosse preso, le troppe informazioni forse gli avevano dato alla testa.
Kurt decise d'ignorarlo bellamente e tornò alle sue crisi interiori, gli bastavano quelle per il momento.
Aveva fatto una figuraccia di fronte a suo padre e, se non voleva essere portato da uno strizzacervelli, doveva cercare di nascondergli la verità, il che gli riusciva incredibilmente difficile; non aveva mai tenuto nulla segreto a Burt e viceversa, da quando sua madre era morta avevano stretto un patto silenzioso, si fidavano l'uno dell'altro e ancora prima da quando lei lo aveva abbandonato. SI sentiva uno schifo a nascondergli una cosa del genere, ma cosa poteva dirgli? Non sapeva neanche lui cosa volesse dire essere un sensate, come li chiamava Brittany.
Lasciò perdere i pensieri che gli giravano in testa, le insicurezze e i dubbi e si mise a cucinare un piatto di pesce, concentrandosi ardentemente sul pulire tutte le parti dalle spine, cosa che non aveva mai fatto: odiava pulire il pesce. 

Blaine ci stava davvero provando a cucinare, non aveva neanche scelto una ricetta difficile, almeno la ragazza nel video lo faceva sembrare molto più facile di quanto in realtà non fosse, se la stava cavando abbastanza bene - almeno pensava, per il momento nulla aveva preso a fuoco. 
Si fece passare la mano sul viso, quando la lasciò cadere si rese conto di non essere più nella cucina dei suoi genitori, ma in una più modesta che sicuramente profumava meglio, sapeva di spezie e di dolci. 
Non ci mise molto a notare la figura slanciata di Kurt che armeggiava ai fornelli e un sorriso cominciò a prendere forma sul suo volto, era una scena così domestica e allo stesso tempo inusuale ai suoi occhi... non aveva mai trovato sua madre ai fornelli quando tornava da scuola e di sicuro nessuno aveva mai cucinato per lui, non qualcuno che importasse almeno. Si avvicinò senza fare rumore cercando di capire cosa stesse cuocendo sul fuoco, si mise sulle punte e guardò sopra le spalle del ragazzo più alto, ma stava per perdere l'equilibrio così si aggrappò alle spalle di Kurt facendolo sobbalzare, si morse il labbro per non mettersi a ridere: anche se non fosse stato così sbadato, l'avrebbe notato comunque. 
"Cosa prepari?"
"Pesce" rispose semplicemente, facendo il finto indifferente, Non poteva far notare a nessuno come la presenza di Blaine lo condizionasse, men che meno al diretto interessato. 
"Hai- volevo dire: ha un buon odore. Il- il pesce" commentò l'altro portandosi le mani dietro la schiena e spostandosi di lato, leggermente in imbarazzo.
"Assaggia" gli ordinò Kurt passandogli un boccone e soffiandoci su. 
"Come stai?" gli chiese mentre masticava lentamente. Si bruciò leggermente l lingua, ma ne valse la pena, si stava trattenendo dal non fare versi d'apprezzamento poco idonei alla situazione. Si era già reso abbastanza ridicolo.
Kurt rimase leggermente scioccato da quella domanda. Insomma, in un qualsiasi momento gli avrebbe detto di masticare con la bocca chiusa, ma erano successe così tante cose negli ultimi due giorni, eppure nessuno si era disturbato  a chiedere come lo facessero sentire tutte quelle novità nella sua vita. Era letteralmente sopraffatto da una miriade di emozioni e la parte peggiore era che non sapeva quali fossero sue e quali dei suoi compagni di cerchia. DI una cosa era sicuro: sperava che le farfalle che gli svolazzavano nello stomaco stessero facendo visita anche al ragazzo accanto a lui - era così vicino che il suo petto gli sfiorava il braccio - ma di certo non poteva dirglielo.
"Un po' scosso" rivelò dopo essersi ripreso.
"La mia proposta è ancora valida, se vuoi evadere per un paio di giorni." Bastò una piccola illusione per ricordare ad entrambi quel duetto e quel momento in cui erano stati così vicini ma non abbastanza, mai abbastanza.
"Potrei anche prenderti sulla parola" lo avvisò Kurt tornando alla pentola e cercando di alleggerire l'atmosfera.
"E che male c'è?" Già, che male c'era?

Rachel sarebbe dovuta salire sul palco quella sera, interpretando il suo ruolo di Fanny come se il suo universo non fosse cambiato nel corso di poche ore. Come poteva diventare qualcun altro se non sapeva nemmeno più chi era? Inoltre Santana era in pericolo perché anche se era andata a casa c'era comunque il rischio che le succedesse qualcosa di grave. Non sapevano nemmeno da cosa dovevano guardarsi, aveva un nome subdolo come i suoi scopi, il che lo rendeva ancora più terrificante.
In un battito di ciglia si ritrovò nell'appartamento di Santana, la trovò sdraiata sulla schiena che contemplava il soffitto, ancora truccata e vestita, non aveva neanche la forza di cambiarsi.
"Ehi" provò Rachel a bassa voce.
L'altra ragazza si girò e roteò gli occhi all'indietro, ma si spostò comunque in modo che la nuova arrivata potesse sedersi. 
Rachel deglutì a vuoto e accettò l'invito silenzioso. Di solito era sempre spavalda e pronta a tutto, ma quando si parlava di persone alle quali teneva non riusciva proprio a mantenere la maschera della diva eccentrica che voleva far credere di essere. 
"Stai- stai meglio?" Sapeva esattamente come si sentiva Santana, poteva distinguerlo dalle emozioni degli altri se si fosse concentrata abbastanza, ma non aveva altre idee su come cominciare il discorso.
L'ispanica mosse la testa da un lato e mugugnò qualcosa d'incomprensibile, poi aggiunse, a voce alta: "Adesso che Porcellana si è calmato, molto meglio." 
Rachel sorrise, ma non c'era nessun divertimento nella sua risata, era carica solo d'incredulità e compassione. 
Santana si sentiva così debole, era stata l'unica ad avere quel tipo di problemi in tutta la cerchia e per poco non metteva tutti in pericolo di vita per la sua fragilità. Se uno di loro fosse stato preso - se fosse successo qualcosa a Brittany - non se lo sarebbe mai perdonato, sarebbe stata tutta colpa sua. 
"Smettila" le ordinò Mercedes, che aveva preso il posto di Rachel, poggiandole una mano sulla spalla: "So cosa stai facendo, solo... smettila." 
Santana era pronta a dire qualcosa di acido e cattivo giusto per allontanarla, per evitare che si facesse male standole troppo vicino. Forse se l'avesse desiderato abbastanza ardentemente sarebbe riuscita a separarsi dagli altri e lasciare che continuassero la loro vita senza di lei. SI chiese cosa succedeva ai sensate che si toglievano la vita: i suoi compagni di cerchia avrebbero sofferto tutto il suo dolore?
"Vattene, Mercedes. Andatevene tutti" disse soltanto, lasciando che il veleno che avrebbe voluto trasportare con la sa voce le bruciasse la bocca. Si girò di fianco e chiuse gli occhi: "Voglio stare da sola."

Mercedes sospirò sconsolata e tornò ai suoi libri, uno dei suoi pazienti le aveva raccontato una leggenda affascinante qualche minuto prima, parlava di come esistesse un nastro rosso che legava le anime gemelle per tutta la vita, in modo da farli inevitabilmente scontrare prima o poi. 
Si ritrovò a chiedersi se fosse questo quello che era successo a Finn e Rachel, o a tutti loro a dire il vero. Forse non aveva tutti dei sentimenti così importanti nei confronti degli altri - anche perché sarebbe stata una situazione piuttosto complicata - ma loro otto erano in un certo senso 'legati' e forse non era una coincidenza che la sua ricerca sui sensate l'avesse trovata con un libro sulle leggende giapponesi regalatole da un tizio che soffriva di bulimia.
"Trovato qualcosa?" le domandò Brittany. Aveva le mani sotto il mento. Si sentiva piuttosto giù da quando Santana si era sentita male. 
'Anche loro sono legate dal filo rosso' pensò Mercedes ridendo al nulla. 
"Nessun accenno a Whisper o qualche tipo di bisbiglio simbolico. Siamo bloccati."
Brittany rifletté qualche secondo, prese il libro e cominciò a sfogliarlo con poco interesse. Se Mercedes non aveva trovato nulla dopo ore di ricerca sui suoi libri di psicologia, come poteva pretendere di essere fortunata in così poco tempo? Sospirò e rimise tutto com'era prima.
"Forse Rachel e Jessie possono cercare qualcosa alla biblioteca di New York!"  esclamò dopo un po'.
Mercedes fece un'espressione contrariata: "No, sono entrambi molto occupati. Non vorrei fargli perdere tempo."
La biondina era d'accordo, sarebbe stato tempo perso perché lei sapeva bene dove avrebbero ricevuto tutte le informazioni che gli servivano sul loro inseguitore, proprio come aveva ottenuto le altre, ma non era ancora sicura che i suoi compagni fossero pronti a ricevere una notizia del genere, soprattutto Kurt. Voleva piangere solo pensando alla reazione che avrebbe potuto avere il piccolo, fragile Kurt. No, non l'avrebbe fatto, avrebbe aspettato ancora e quando sarebbe arrivato il momento Brittany l'avrebbe saputo. 
"Non possiamo starcene con le mani in mano mentre Santana soffre. Dobbiamo fare qualcosa." Sembrava di sentire Finn. 
"Lo so, hai ragione. Ecco perché andrò a farmi un pisolino" annunciò Brittany.
"Cos- Brittany?" provò Mercedes, ma lei se n'era già andata.

La stanza degli ospiti della casa di Kurt era completamente diversa dalla sua cameretta nella casa di Burt e Carol, quella coi cowboy sulla carta da parati e le tendine bianche che lasciavano entrare la luce del sole; la stanza dove suo fratello lo stava facendo restare era spoglia, priva di calore - e non parlava della temperatura, ma di un caldo tipico di casa - ma gli era comunque grato di poter passare quei pochi giorni insieme a qualcuno a cui teneva così tanto. Sì, perché in un paio di giorni sarebbe partito per la Turchia e non sapeva se sarebbe mai tornato a casa sulle sue gambe o dentro una bara di ferro. L'idea di Carol che piangeva sulla sua tomba con Kurt e Burt dietro di lei che stringevano la sua giacca di football lo perseguitava tutte le notti da quando aveva scoperto che sarebbe andato nel pieno dell'azione, nel centro del mirino. SI chiedeva se anche gli altri lo sapevano, se riuscivano a percepire tutto il suo sconforto. Forse Santana si sentiva annegare sotto il peso delle sue insicurezze, nient'altro che un nodo in più in gola. 
"Sei troppo altruista" lo ammonì Rachel prendendo posto accanto a lui sul letto, una gamba piegata sotto di lei e l'altra a penzoloni fuori dal materasso.
Finn sorrise: "Non dovresti provare Fanny?" 
Lei annuì e fece roteare gli occhi fino al soffitto: "Lo stavo facendo, ma tu stai pensando troppo forte." 
Lui corrugò la fronte e si mise seduto: "È una cosa che esiste?"
"Per noi sì, a quanto pare." Era bello come la maggior parte di loro fosse arrivato ad accettare la loro situazione, si stava cominciando a formare un senso di cameratismo. Non avevano mai conosciuto altre cerchie - non sapeva nemmeno se esistevano altre cerchie - ma sicuramente era quello che si doveva provare. Era giusto.
Rachel gli prese la mano e lo guardò negli occhi, più che seria, affermò: "Finn Hudson, tu non morirai. Chiaro?" 
"Chiaro."
Fu un secondo, un attimo durante il quale entrambi sapevano esattamente cosa sarebbe successo: Finn chiuse gli occhi, Rachel si sporse in avanti e lo baciò teneramente sulle labbra, per un breve secondo, prima di sparire nuovamente e lasciare il ragazzo solo. Dopodiché, come se tutto il peso degli ultimi giorni lo avesse colpito con la forza di un macigno, in pieno viso, si sentì stanco. Si sdraiò, chiuse gli occhi e si mise a dormire sperando che al suo risveglio avrebbe avuto le risposte alle mille domande che gli ronzavano in testa.



 
Scrittrice in canna's corner
Un paio di giorni di ritardo, lo so, ma mi sono portata notevolmente avanti coi capitoli! Sono arrivata a scrivere l'ottavo :D (sì, è quello che mi racconto per risparmiarmi i sensi di colpa)
Comunque potevate anche dirmelo che il primo capitolo era pieno di errori di battitura! L'ho ricontrollato, adesso dovrebbe andare tutto bene.  >.<
Piccola nota: per chi non lo sapesse o no navesse capito, la parte dove Mercedes dice "Nessun accenno a un Whisper o qualche tipo di bisbiglio simbolico" si riferisce al fatto che whisper in italiano si traduce, appunto, in "sussurro" o "bisbiglio."
Ho così tanti plot secondari da scrivere che mi gira la testa hahaha, spero di riuscire a renderli tutti al meglio. Facendo qualche calcolo i capitolo dovrebbero essere su per giù una ventina più l'epilogo, la storia più lunga e complessa che io abbia mai scritto D: 
Ci vediamo la settimana prossima.
Vostra,
Scrittrice in Canna.

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Capitolo 6
*** Salti improvvisi e incoraggiamenti necessari ***


6.


Era tutto distrutto, non una traccia di vita restante. Un villaggio brulicante di vita devastato dalla guerra e dal dolore, neanche le madri erano rimaste lì per piangere i loro figli stringendoli al petto.

Finn stava lì, immobile davanti ai resti silenziosi e non poteva non pensare che era stata tutta colpa sua, lui aveva causato tutto quello, lui aveva ucciso e si era sporcato le mani del sangue di persone innocenti. Con quale diritto? Chi era lui per decidere chi meritava di vivere e chi di morire? Si sentiva così male che avrebbe voluto vomitare.
Sentiva il peso del fucile che teneva in mano, sapeva quale fosse il suo compito ma in quel momento non era in allenamento, era sul campo di battaglia e tutto sembrava così reale...
Tutto d'un tratto una donna sbucò fuori dalla polvere che si sollevava all'orizzonte. Sembrava una figura eterea, i capelli scuri del tutto in contrasto con la pelle candida e il vestito bianco, privo di ogni macchia, quasi come se ciò che la circondasse non potesse toccarla, sorrideva mentre si Avvicinava a Finn, gli poggiò una mano sulla guancia e immediatamente la sua espressione si rabbuiò mostrando le prime rughe d'età che le solcavano il viso. Sembrò scrutare l'anima del ragazzo con lo sguardo quando gli disse: "Nasconditi Finn, salva gli altri e nasconditi" con voce preoccupata, poi sparì i una nuvola di fumo.

Finn si svegliò di soprassalto, il fiato corto e la fronte sudata. Si passò una mano sul viso e si alzò lentamente dal letto, non avrebbe ripreso sonno i ogni caso quindi perché provarci? Si limitò ad andare in cucina con l'intenzione di farsi un bicchiere di latte e cercare di tranquillizzarsi, quella donna lo aveva inquietato, non perché lei fosse spaventosa, ma per quello che aveva detto, unito alla sua convinzione e la terrore puro che aveva letto nel suo viso. Forse stava solo esagerando, era teso e stressato per la sua partenza.
Seduto al tavolo della cucina c'era suo fratello, una tazza in mano e lo sguardo perso nel vuoto, come se stesse cercando di vedere qualcosa che gli sfuggiva. 
"Ehi" provò Finn poggiandogli una mano sulla spalla, per risposta Kurt scattò sul posto, preso di sorpresa. 
"Non- non volevo spaventarti." Dopo il loro litigio erano riusciti a riappacificarsi, Kurt gli aveva spiegato la storia del telefono, gli aveva preso le mani e - con un largo sorriso - aveva ammesso di credere a quello che gli aveva raccontato. Finn si sentiva notevolmente meglio dopo quella confessione, era stato un passo avanti verso l'accettazione per entrambi. 
Il ragazzo più alto si sedette e mise la testa tra le braccia sbuffando.
"Agitato?"
"Ho fatto un sogno" ammise, gli occhi chiusi quasi a ricordare tutti i dettagli: "Ero in guerra, tutto distrutto, poi questa donna si avvicina, mi dice di salvarvi tutti e sparisce."
Kurt pensò fosse perfettamente normale, sarebbe dovuto partire a breve ed era solo un ragazzo, di sicuro non era pronto a una cosa del genere e i suoi cari non erano pronti a dirgli addio. 
La piccola mano di Rachel prese quella più grande di Finn, ma lei non disse nulla, sapeva bene che entrambi i ragazzi non avevano bisogno di spiegazioni, riuscivano a sentire tutta la sua preoccupazione e le parole di conforto che avrebbe voluto rivolgergli, frasi come 'Sarà un passeggiata' e 'Non ti accadrà niente!', ma tutti e tre sapevano che era una bugia, promesse vuote, la Turchia era pericolosa, Finn si sarebbe sicuramente ferito perché era un dannatissimo soldato a piedi, non un cecchino, e il fatto di essere uno dei migliori del suo corso di sicuro non li faceva stare più tranquilli. Cosi rimasero tutti e tre in silenzio, la testa di Rachel sulla spalla di Finn mentre con la mano libera stringeva quella di Kurt. Come loro anche tutti gli altri, ovunque fossero e qualunque cosa stessero facendo, si fermarono per qualche secondo e abbassarono il capo. Nessuno pianse.

Mercedes non sapeva davvero come superare il suo senso d'impotenza. Tutti potevano fare qualcosa per i due fratelli che stavano soffrendo e, benché avesse già aiutato Kurt ad ammettere ed accettare di essere un sensate, pensava di poter fare ancora di più per Santana soprattutto, ma come poteva se si trovava dall'altra parte del mondo? La rabbia e il nervosismo la portarono a digrignare i denti così forte da farsi quasi male. 
Non era riuscita ad aiutare suo padre quando aveva raggiunto un livello patologico di dipendenza all'alcool, non era riuscita ad aiutare sua madre quando si era ammalata di leucemia e adesso non poteva neanche salvare le persone che erano parte di lei. Allora a cosa serviva la sua laurea? Era solo un pezzo di carta, anni di studio inutili. 
Alzò gli occhi al cielo e solo a quel punto lo vide: Blaine era appoggiato al piano in marmo della zona relax, le braccia conserte e il volto contratto in un'espressione a metà tra il comprensivo e il preoccupato. 
"Quanto sai?" gli chiese semplicemente Mercedes, era sulla difensiva. 
"Abbastanza da sapere perché sei qui." Se fosse stato qualcun altro gli avrebbe detto che non la conosceva affatto, ma...
"Stai facendo esattamente quello che ho fatto io, stai scappando" continuò lui senza muoversi dalla sua posizione.
Mercedes aggrottò le sopracciglia e si ritrasse su se stessa, non era abituata a quel tipo di attenzioni, di solito era lei a leggere l'animo degli altri, non viceversa, infatti non fece altro che negare: "Non sto scappando, è solo che qui ci sono più possibilità di lavoro." Era la stessa bugia che continuava a ripetersi da quando si era trasferita in Giappone più di tre mesi prima, la verità era che non riusciva a sopportare di stare nella stessa casa in cui era morta sua madre, poi fu la città ad essere troppo soffocante, piena di ricordi, e prima che se ne accorgesse l'intera America era diventata il simbolo dei suoi fallimenti così aveva preso un aereo per l'altra parte del mondo, solo andata, per lasciarsi tutto alle spalle. Era diventata la regia della negazione, proprio come aveva fatto Blaine per scappare da suo padre.
Erano talmente simili da far paura e, all'improvviso, il motivo dei loro collegamenti divenne molto più chiaro. Avevano la stessa storia, gli stessi fantasmi che li 
avevano resi miserabili. Forse, per una volta, avrebbe fatto bene ad accettare un po' di aiuto. 
Blaine si sedette accanto a lei e le raccontò la sua storia, parendo da quando aveva fatto coming out fino a qualche giorno fa, il momento in cui lo chiamarono a Budapest e lo informarono dell'incidente mortale che aveva coinvolto entrambi i suoi genitori e pur conoscendo già i fatti, a grandi linee, Mercedes lo ascoltò e cercò d'imparare dai suoi errori.
"Non ti penti mai di essere scappato?" gli chiese dopo, quando sentì di aver lasciato che il silenzio prendesse il racconto di Blaine per custodirlo tra le mura di quell'ospedale come qualcosa di prezioso. 
"No, perché in un certi senso mi ha fatto crescere, il mio sbaglio mi ha reso chi sono oggi e ne sono fiero" detto ciò si alzò e le disse: "Io non posso rimediare, per me è troppo tardi, ma tuo padre è ancora vivo."
Mercedes pensò all'ospizio in cui stava, a quel giorno in cui l'aveva trovato a terra, svenuto per avvelenamento da alcool, e le vennero i brividi. Avrebbe trovato la forza di tornare in quel posto sperduto, solo non in quel momento. 

Il poster sul muro sembrava prendersi gioco di Kurt, continuava a fissarlo con aria di sfida e tutto ciò che il ragazzo riusciva a fare era restare lì a guardarlo di rimando.
Una compagnia teatrale di zona metteva in scena 'Into The Woods' e avevano bisogno di qualcuno per il ruolo del lupo. 
Era una parte piccola, Kurt lo sapeva, aveva visto il musical circa un centinaio di volte, ma da qualche parte di doveva pur cominciare, no?
Fino a un paio di giorni prima non avrebbe neanche preso in considerazione l'idea di fare parte di un'opera così famosa e difficile, ma dopo il duetto con Blaine era come se quella sua piccola passione fosse esplosa volendolo soffocare con il desiderio di cantare. 
Rachel lo guardava con lo sguardo di chi sa di sapere e un sorriso maligno sul viso.
"Tu ci vai" gli disse semplicemente, impassibile.
Kurt allargò gli occhi, terribilmente preso contropiede. 
"No, no no!" cantilenò mettendosi a camminare verso una meta sconosciuta anche a lui. Voleva solo scappare da Rachel Berry, il che era virtualmente impossibile dato che erano la stessa persona, ma tentare non aveva mai fatto male a nessuno. 
"Andiamo! Ti ho sentito mentre cantavi da solo stamattina, sei bravo. Certo dovresti prendere qualche lezione per imparare a gestire meglio il diaframma, ma hai una bella estensione vocale e sono sicura che-" Lo seguiva a pochi passi di distanza, così quando lui si fermò e si girò per urlarle quasi contro, non curante della gente che lo guardava come se fosse uno svitato cronico, Rachel andò a sbattergli addosso involontariamente.
"Io non farò quell'audizione" ribadì scandendo le parole e fissando la ragazza negli occhi, lo sguardo leggermente rattristato. Rachel sapeva che lui voleva salire su un palco e cantare, lo desiderava con ogni fibra del suo essere, era a conoscenza delle ore passare dentro una stanza da solo, con l'ultimo album di Lady Gaga a tutto volume in modo che i suoi acuti non coprissero la base. 
"Ma vuoi farlo" disse semplicemente Rachel, come se fosse un dato di fatto palese quanto il blu del cielo limpido di quella mattinata primaverile. Restarono a guardarsi per qualche secondo, intenti in una conversione non verbale che, ne erano certi, solo due sensates della stesa cerchia cerchia potevano avere con quello facilità, ancora li straniva. Quella intesa immediata, il modo istantaneo con il quale riuscivano a capirsi. 
Alla fine Kurt sembrò cedere, fece un respiro profondo e le spalle che aveva alzato in difesa di se stesso si abbassarono. Bisbigliò: "Ci- ci penserò. Ok?"
La ragazza sorrise ampiamente e batté le mani: "Sarai grandioso! Secondo me dovresti portare qualcosa che metta in risalto le tue capacità, come 'Defying Gravity' da Wicked! So che il fa naturale è una nota difficile ma con un po' del mio prezioso aiuto-" Intanto l'altro aveva ricominciato a camminare e lei gli andava dietro, straparlando senza sosta.
Kurt chiuse gli occhi, innervosito, e le ricordò: "Ho detto che ci penserò. Non che lo farò." 
Rachel s'interruppe all'Improvviso: Vedremo" lo sfidò con un ghigno trionfante.

Santana era tornata a insegnare. Non pensava che ci avrebbe messo così poco tempo a riprendersi eppure una buona quantità di riposo e due giorni passati a vedere 'Project Runway' - ancora non aveva chiaro il motivo per cui avesse fatto una cosa del genere - l'avevano rimesse in piedi e all'improvviso stare chiusa in casa sembrava solo una perdita di tempo.
Non sarebbe dovuta essere lì, le lezioni erano interrotte per lei, aveva una pausa di un paio di settimane prima di tornare e conoscere una nuova classe composta da bambini che non volevano fare altro che imparare. L'adrenalina le percorreva la schiena ogni volta che pensava alle immense possibilità che un nuovo gruppo avrebbe portato, tutte le coreografie che avrebbe potuto sperimentare. Si sentiva pervasa da un ottimismo contagioso che non fece altro che mettere in allerta i suoi collaboratori: non era mai stata così allegra, specialmente non durante le prime ore del mattino. Nemmeno al pomeriggio a dirla tutta.

Brittany appoggiò il vaso riempito dai fiori freschi che aveva comprato tornando dal lavoro quella mattina sul tavolo del salotto. Era stata una bella giornata, molto produttiva e incredibilmente soleggiata. Ritrovarsi improvvisamente nello studio di danza accanto a Santana fu soltanto l'ennesima cosa positiva.
"Brit! Vieni qui!" Santana le corse incontro e le prese le mani, cominciando a farla girare avanti e indietro. Non esattamente un comportamento che ci si aspetterebbe da lei, era più una cosa da Brittany... oh, no.
Nessuna delle due se ne curò molto, era la loro prima volta in cui riuscivano a condividere uno stato d'animo e una era troppo su di giri per accorgersene, mentre l'altra era totalmente all'oscuro di quello che le stava accadendo. Passarono dieci minuti buoni ballando al ritmo di una musica che non c'era, come se non avessero un singolo problema, come se non ci fosse un pazzo psicopatico che li cercava, erano solo loro due.
Purtroppo però la magia venne interrotta quando un uomo si schiarì la voce sulla soglia della porta, contemporaneamente Brittany svanì e Santana rimase immobile con un mezzo sorriso sul viso, i piedi ancora in prima (forza dell'abitudine, o deformazione professionale) mentre analizzava la figura snella davanti a lei: indossava uno smoking nonostante fuori facesse molto caldo, aveva i capelli ben divisi da una riga, era alto e mostrava un sorriso di circostanza.
"Posso aiutarla?" gli chiese dopo essersi schiarita la gola.
"Signorina Lopez?" allungò una mano, Santana non la strinse.
"Non è qui al momento, lei chi è?" Santana vide la scintilla di... qualcosa passare negli occhi dell'uomo prima che distogliesse lo sguardo per recuperare un biglietto da visita dal taschino della sua giacca. Tese il pezzo di carta come se fosse un'arma pericolosa e lo puntò verso Santana, lei fece un passo in avanti, titubante prese il biglietto da visita e tentò di limitare la sua espressione di sorpresa al minimo quando lesse: 'Dottor Metzger, neurologo.'
"Mi avevano detto che l'avrei trovata qui, mi dispiace disturbarla. Può darle quello se la vede?" si spiegò il dottore con un tono di falsa gentilezza. Non c'era una singola cosa riguardo quell'individuo che non lo rendesse sospetto.
"Posso chiedere perché la cercava?" 
"Ho saputo che ha avuto dei problemi, mi è stato indicato da un caro amico di farle una visita, una cosa rapida e indolore."
Santana annuì lentamente, mise la carta in una tasca dei pantaloni e lo congedò con un semplice: "Glielo farò sapere."
Metzger la salutò con un cenno della testa e se ne andò così com'era arrivato lasciandosi dietro la puzza della sua falsità. 
"Brit, abbiamo un problema" sussurrò alla stanza vuota prendendo un respiro profondo. Doveva scoprire chi era stato a mandare quel tizio da lei e aveva già una mezza idea. 






 

Scrittrice in canna's corner
Buondì gente! Eccomi qui, puntuale come un orologio svizzero(?) 
Devo ammettere di essere un po' in ansia (ma va', che novità) perché questo è l'uinico capitolo a non essere stato approvato dal mio mentore, la cara bookswhisper che mi ha costretta alla visione dello show e poi ha proceduto a seguirmi con la manina per tutto il tempo.
Oltretutto qui introduco un personaggio di Sense8, se sapete che ruolo ha buon per voi, altrimenti... be'... vedremo. 
Le Brittana in questo faranno un po' la parte delle Nomanita, ho in mente tante tante cose per loro! 
Piccola postilla: ho usato un sito per revisionare il testo, se c'è qualche errore di battitura ancora in giro lo sistemerò subito. Se vedete qualcosa di strano con la formattazione del testo è proprio perché è passato da questa terza parte prima di arrivare a voi.
Vi lascio, ci sentiamo la settimana prossima.
Vostra,
Scrittrice in Canna.

 

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Capitolo 7
*** L'esternazione della vera natura umana ***


7.

Erano passate ben due ore da quando Jessie si era seduto alla sua scrivania e non aveva fatto altro che guardare e riguardare i provini di quella mattina scartando ogni singola persona più e più volte.
Si sentiva uno schifo da tutto il giorno, come se fosse passato sotto una mietitrebbia mentre andava a lavoro.
Chiuse arrabbiato il video del provino che stava girando sullo schermo a ripetizione da minuti interi come se esigesse l’attenzione di un pubblico inesistente, dopodiché si dedicò intensamente al suo mal di stomaco. Eppure in quei giorni non aveva mangiato granché di speciale o di poco salutare, era sempre in dieta ferrea e non sentiva nemmeno l’odore di frittura da prima di entrare nel coro della scuola in seconda superiore, ricordava benissimo il suo primo assolo e- fantastico, si stava mettendo a piangere. Era sempre stato leggermente drammatico (ok, forse a volte era molto drammatico. Come biasimarlo? Aveva avuto un’istruzione destinata ai palchi di Broadway, per diamine!) ma non si sarebbe mai commosso fino a quel punto per una motivazione tanto stupida come le rimembranze del liceo, insomma, odiava la maggior parte dei ragazzi del suo gruppo e di sicuro non gli mancavano, quindi perché si sentiva improvvisamente triste?

Mercedes corrugò la fronte e gli appoggiò una mano sulle spalle per consolarlo, ottenne scarsi risultati perché Jessie continuava a singhiozzare.  
“È successo qualcosa che non so?” gli chiese passandogli la bottiglietta d’acqua lì vicino.
Lui scosse la testa e prese un sorso cercando di calmarsi.
“No, solo… mi sento così stanco! E- le mie occhiaie sono più visibili del solito e solo gonfio e-”
All’improvviso Mercedes si poggiò una mano sul ventre, piegandosi leggermente in avanti e stringendo i denti, il che riportò Jessie alla realtà, si assicurò che le fosse passato e  chiese: “Cos’è stato?”
Mercedes gli sorrise, rassicurante e leggermente in imbarazzo: “Oh, non ti preoccupare.” Prese un respiro profondo: “Sono, sai…”
Jessie allargò gli occhi in maniera comica aspettando che lei completasse la frase. A volte la gente non capiva se era stupido o ne faceva solo la parte.
“Nel mio periodo del mese, ecco” gli spiegò con tutta la gentilezza possibile.
“Oh!” esclamò l’altro scattando dritto, stranamente a disagio con se stesso.
Fece passare lo sguardo su tutta la stanza, non sapeva cosa fare o come comportarsi, tutti gli dicevano che era la persona più inopportuna del pianeta quindi si limitò a boccheggiare come un pesce fuor d’acqua.
Forse sapeva cosa gli stava succedendo. Ebbero la conferma inconfutabile quando una fitta poco sotto lo stomaco li colpì in contemporanea qualche secondo dopo.
“Se era questo che intendeva Brittany quando parlava di condividere delle esperienze, non credo di voler abbracciare totalmente la mia cerchia” si lamentò Jessie mentre si poggiava una borsa d’acqua calda addosso.
Mercedes rise sotto i baffi leggermente, poi notò lo schermo del computer acceso e puntò il dito verso un video che le sembrava particolarmente interessante, almeno dall’anteprima.
“Chi è quella?”
Jessie prese in mano il mouse e aprì il video, lo guardò con occhi diversi, come se fosse la prima volta, e si rese conto che quella tizia era davvero brava.
“Signorina Jones, lei è un genio!”

 

Damian era, agli occhi di tutti, un bravo ragazzo. Non aveva mai fatto niente di male nemmeno ad una mosca, si era appena laureato all’Accademia di Belle Arti della sua città e aveva cominciato uno stage nello studio di danza dove lavorava Santana. Era lì ormai da due mesi..
Era arrivato portandosi dietro sorrisi cordiali e “buongiorno, signorina Lopez” ogni mattina. C’era solo un piccolo, ma insormontabile problema: aveva una cotta imbarazzante per Santana che lo aveva portato a rendersi ridicolo in più di un’occasione durante le quali la ragazza aveva provato a spiegargli - nel suo greco tendente allo spagnolo - che non giocava nella sua squadra, era dell’altra sponde, insomma non le piacevano gli uomini e anche se fosse stato il caso, lui era cinque anni più piccolo di lei e per niente attraente.
In altre circostanze non si sarebbe fatta problemi a dirgli in faccia tutto quello che stava pensando, ma quel giorno la personalità calma e composta di Mercedes la stava trattenendo dal fare una cosa così avventata. Si diresse verso il novellino che stava prendendo un caffè nella zona relax e lo riprese: “Damian, posso parlarti un secondo?”
Il ragazzo posò rapidamente la sua attenzione su di lei, un sorriso speranzoso dipinto in volto.
Usò la mano libera dalla tazza di ceramica per sistemarsi il ciuffo di capelli biondi e a Santana fece pena per esattamente cinque secondi.
“Sei stato tu a chiamare il dottor Metzger?”
Lui sembrò preso alla sprovvista, aprì la bocca senza dire niente di concreto, cercava una spiegazione logica a quello che stava succedendo, probabilmente si sarebbe aspettato di essere considerato il paladino della situazione in modo che Santana cadesse tra le sue braccia. Evidentemente il tono nervoso e a malapena contenuto della ragazza gli aveva fatto capire di aver fatto un bel casino.
“Io- ehm- sì.”
“E cosa ti ha fatto credere che fare una cosa del genere senza, non so…” fece finta di pensare a cosa voleva dire dopo: “Chiedermelo?! Fosse una buona idea?” concluse con una punta di acidità. Ok, magari la sua rabbia stava prendendo il sopravvento. Chi diceva che fosse una cosa negativa? Il tipo non aveva idea del danno che aveva causato.
“Pensavo solo che- sa, sarebbe stato d’aiuto dopo quello che è successo allo spettacolo.” Santana sgranò gli occhi e strinse i pugni: “Come fai a saperlo?”
“Tutti ne parlano, signorina Lopez.” Stava continuando a blaterare su come Metzger fosse il suo medico di fiducia da sempre e sì, veniva dall’America ma aveva aperto dei piccoli studi un po’ ovunque e…
“No, no. Sta’ zitto” gli impose con un gesto della mano, chiudendo gli occhi per isolare completamente la sua figura. Lei e la sua cerchia erano a un passo dall’essere scoperti e lui pensava a rimorchiare.
Avrebbe voluto dargli un pugno in pieno faccia, invece si limitò a portare gli occhi verso il cielo e dirigersi alla sala dove stava portando per raccogliere le sue cose e trovare un posto tranquillo dove poter contattare Brittany.

 

Rachel si guardò allo specchio per l’ennesima volta, controllando che tutto fosse assolutamente perfetto. Le piccole luci che contornavano il vetro le illuminavano il viso come una sua piccola versione personale dei riflettori che da un momento all’altro avrebbero rischiarito la scena dall’altra parte del muro.
“Sei una star, Rachel” si ripeté come faceva ogni volta che doveva esibirsi.
“Vorrei darti un regalo, ma non credo sia possibile” le disse Finn tenendole dolcemente le spalle. Era in piedi dietro di lei e sosteneva il suo sguardo attraverso lo specchio.
“Potrai darmelo quando ci vedremo davvero” ribadì dolcemente.
Finn sorrise tristemente e le accarezzò leggermente il collo con la scusa di toglierle una ciocca di capelli dalla faccia. Decisero entrambi di ignorare il brivido che la pervase al contatto. Era normale provare delle emozioni così soffocanti per qualcuno che non aveva mai veramente visto di persona? Forse la loro situazione era leggermente più particolare.
“Brillerai più di tutte le stelle stanotte” le assicurò.
Rachel si girò sulla sedia e alzò la testa per guardarlo negli occhi, non era facile era notevolmente più alto di lei ma ne valeva la pena perché aveva la fiducia nel suo successo stampata sul viso, tra le pieghe di una risata. Era così facile leggere le sue emozioni, onesto e trasparente com’era.
Si baciarono, in maniera normale, come se avessero passato la vita insieme e quello fosse soltanto un altro gesto quotidiano. Faceva male pensare di esseri abituati così tanto l’uno all’altra in così poco tempo.
All’improvviso una mano bussò contro il legno della porta e Finn sparì, lasciando soltanto un ragazzo sui vent’anni con un microfono all’orecchio che aveva cinque dita alzate: “Cinque minuti, signorina Berry.”

Rachel annuì e si sistemò il costume di scena un’ultima volta, uscì dal camerino e si chiuse la porta alle spalle; respirò una, due, tre volte fino a sentire l’aria arrivarle dritto al cervello, dopodiché partì in autopilota e Fanny Bride si posizionò dietro il sipario, in attesa.

 

Avanti, indietro, inspira, espira, gorgheggio a bassa voce; ripeti.
Kurt era più che nervoso, era sull’orlo di una crisi isterica. Al diavolo Rachel Berry, aveva ancora tre minuti per scappare il più velocemente possibile da quel teatro. Che ci faceva ancora lì, in ogni caso?
Era facile per la ragazza invogliarlo a buttarsi nella tana del lupo (Ah! Il sarcasmo gli veniva naturale sotto stress), lei stava affrontando la sua prima serata a Broadway, cos’era una piccola parte in un musical di città in confronto?
“Ti sento pensare da qui” lo informò Blaine, e se era vero i suoi pensieri dovevano essere dannatamente rumorosi in quel momento.
Kurt si fermò, lo guardò leggermente interdetto e cercò di non farsi notare dalle altre tre o quattro persone che aspettavano il loro turno per provare.
“Non canto da anni davanti a qualcun altro” bisbigliò.
“Hai cantato con me” constatò l’altro divertito.
Kurt lo ammonì con un’occhiataccia: “Non- non è la stessa cosa.”
“Allora facciamo così” cominciò Blaine stringendogli le braccia per farlo smettere di saltellare su e giù sul posto: “immagina che ci sia io davanti a te.”
Avrebbe voluto rispondere che la cosa non avrebbe aiutato, no, neanche un po’, però in fondo sapeva che sarebbe stata una bugia bella e buona, quindi annuì lentamente e si morse il labbro per non ridere. Ci volle un po’ prima che notassero il contatto eccessivamente ravvicinato e arrossirono entrambi quando Blaine fece cadere le mani lungo i fianchi e poi dietro la schiena, facendo un passo indietro.
“Andrai benissimo” gli assicurò e fece l’occhiolino.
“Non sai neanche cosa canterò.” Si beò dell’indifferenza degli altri, immersi nelle loro prove e si concesse di essere leggermente più spavaldo.
“Qualsiasi cosa sia, sarà bellissima.” Era in quei momenti che si chiedeva perché il destino ce l’avesse così tanto con lui da lasciare che incontrasse il ragazzo perfetto solo dopo che lui si era stanziato a un oceano e un’isola di distanza. Insomma, aveva passato tutta la sua vita a viaggiare, cosa gli costava un altro piccolo viaggio a Dublino?
“Kurt E. Hummel” lo chiamarono e lui scattò verso il palco.
Blaine gli mostrò due pollici all’insù e una risata a trentaquattro denti per incoraggiarlo.

 

Si sentiva messa apposto, il pezzo di un puzzle che s’incastrava con gli altri e magicamente tutta l’immagine aveva un senso nuovo.
Il calore dei fari le scaldava il viso, lo scrosciare di applausi le riempiva le orecchie. Quando cominciò ad intonare “I’m The Greatest Star” si rese conto che, per una volta nella sua vita, tutto era proprio come doveva essere: stava facendo quello che amava più di tutto, Finn era seduto sulle scale a guardarla con gli occhi illuminati di felicità. Non importava che tra qualche giorno sarebbe partito per il fronte, non in quel momento.
E mentre Fanny implorava per non essere licenziata, Rachel si godeva il suo lavoro.

 

Le prime note di “Being Alive” partirono dal piccolo stereo che Kurt aveva portato.
All’inizio si sentiva insicuro, incerto, dopo poco decise di seguire il consiglio di Blaine e chiuse gli occhi, si concentrò solo su quello che stava facendo. Soltanto lui e Blaine in quell’immensa stanza col piano, lui alla tastiera era lì che lo guardava cantare, orgoglioso. Tutto venne più facile. Finì la canzone senza problemi tranne una lacrima traditrice che gli rigava il viso: quelle parole gli facevano sempre pensare a sua madre anche se si era ripromesso più volte di non farlo più, di dimenticarla.
I responsabili del casting batterono le mani all’unisono e lo ringraziarono ampiamente per la sua brillante performance. Parole loro, non sue.

 

Brittany non sapeva come venire a capo di quella situazione, era troppo difficile per lei. Se non avesse trovato la soluzione il prima possibile, però, sarebbe solo peggiorato tutto.
Elizabeth le aveva detto di stare attenta a Finn: “Tienilo d’occhio, e salva gli altri.” Non sapeva davvero cosa fare, lui era un marine addestrato che da lì a poco sarebbe partito per la guerra, cosa avrebbe mai potuto fare una ragazzina come lei?
Continuava a fissare lo schermo del computer davanti a lei come se le avesse recato una grossa offesa, la sua presentazione era ridotta a un foglio bianco. Al suo capo non sarebbe piaciuto di sicuro, continuava a dire che lei era la punta di diamante dell’azienda.
Quel giorno l’ufficio era anche particolarmente rumoroso, il che non aiutava per niente la sua concentrazione. Alzò lo sguardo sulla folla, la gente che andava e veniva più indaffarata che mai con la grande conferenza alle porte, tutte quelle persone stavano con lei per sei ore al giorno, cinque giorni su sette, le conosceva bene, sapeva chi era sposato, chi divorziato, se avevano figli, i loro impegni per i prossimi giorni perché: “Ehi, Britt! Ti va di venire al cinema con noi sabato?” (rigorosamente seguito dalla sua risposta standard: “Vorrei, ma devo finire questo fascicolo.”) quindi perché si trovava a sospettare di ognuno di loro come se fossero estranei? Perché aveva l’acuta sensazione che tra quelli che non erano mai stati più di semplici colleghi di lavoro si nascondesse Whisper, il carnefice personale della sua cerchia?
Scosse la testa, si disse che era solo paranoia, non poteva essere un altro motivo, vero? Non aveva trovato nulla su di lui, era come se fosse un fantasma, il che la stava portando ad assumere comportamenti inusuali. Sì, doveva essere per quello. Si auto-convinse di non avere nulla di cui preoccuparsi e tornò a lavoro: la presentazione.
“Ad oggi si contano centoventi mila sedi della nostra-” S’interruppe a metà frase. Lampo di genio.
“Britt, grazie al cielo! Devo dirti una cosa” si affrettò a spiegare Santana, aveva gli occhi lucidi e l’aria preoccupata. Male.


“Io stavo cercando di venire da te!” esclamò Brittany, poi prese qualche secondo per guardarsi intorno: “Aspetta, siamo nel bagno dello studio di danza?”
Santana mosse la mano come per mettere il dettaglio in secondo piano.
“Conosco il nome del canarino che ha cantato nell’orecchio del dottor Metzger.”
Brittany sbatté le ciglia confusa, non era esattamente quello che le interessava sapere.
“Dobbiamo scoprire se è affiliato a Whisper. Tutti sono sospettati, persino il tuo pediatra.”
Santana aveva la faccia di chi aveva capito qualcosa d’importante. Si portò la mano alla tempia e borbottò: “Stupida, stupida, stupida!” Girando avanti e indietro nello spazio vuoto.
“Cosa?”
“Metzger ha aperto dei piccoli studi un po’ ovunque. A me sembra sospetto. Scommetto che ce n’è uno - convenientemente - anche a Sydney.”
La bionda cominciò a mangiucchiarsi le unghie per la concentrazione, arrivò ad un’unica conclusione e non le piaceva neanche un po’: “Devi andare da lui.”






 
Scrittrice in canna's corner
Ok, anche questa è fatta :')
Avevo detto che non avrei più postato capitoli lunghissimi eppure eccomi qui! Ceedo che possa compensare per il ritardo che ci sarà la settimana prossima, almeno lo spero. (Lo so, ho lasciato la storia con un cliffhanger ma io sono fatta così.)
Tributo al magniifo Miguel Angel aka Lito e la sua scena in macchina, sapete quale.
Copiare questo capitolo è stato più difficile di un parto naturale, ci sono stata due giorni! 
Avrei aggiornato ieri sera ma mentre stavo per finire di copiare, mia zia e io abbiamo cominciato a vedere i nostri due episodi di Orphan Black... che poi sono diventati tre. Sorry, guys.
Per tutti i conoscitori di Sense8 che molto probabilmente stanno storcendo il naso a determinate cose: mi sono presa un po' di liberà creativa sul come funzioni la connessione tra i ragazzi, quindi le incoerenze con la serie non solo perché io non so le cose, ma sono tutte intenzionali. Ho un piano, fidatevi di me. 
Vostra,
Scrittrice in Canna.
 

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Capitolo 8
*** Quando la famiglia ti abbandona... ***


8.

 

Devi andare da lui.”

“Come?!” urlò Santana lanciando le mani verso l’alto: “Vuoi che vada dritta nella tana del lupo? L’hai detto tu stessa: niente ospedali.”
“Lo so, lo so. Ma ascoltami un secondo” cerco di calmarla Brittany perdendole le mani: “Tu vai per un consulto, niente di più, e io ti manderò una chiavetta USB, devi solo riuscire a inserirla nel computer di Metzger per qualche secondo e avremo tutte le informazioni che ci servono.”

“Ma ci vorranno settimane prima che arrivi!” si lamentò Santana appoggiandosi alla scrivania dell’ufficio.
“La manderò come posta prioritaria. Fidati di me” bisbigliò la bionda, quasi implorandola.
La mora prese un grande respiro, si guardò intorno e ci pensò un paio di secondi prima di annuire: “Mi fido.”
 

Finn avrebbe passato il resto della sua vita su quella scalinata ad ascoltare Rachel cantare, era come se tutti i suoi problemi fossero svaniti. Però si sentiva come se qualcuno stesse interrompendo quel momento; si girò verso destra e lo vide: Jessie St. James era seduto due file più indietro, impeccabile nella sua giacca di pelle scura che sorrideva e batteva il ritmo della canzone col piede. Un’ondata di gelosia s’impossessò del ragazzo più alto che sfrecciò verso il suo rivale noncurante del fatto che probabilmente non l’avrebbe neanche visto, invece quando fu abbastanza vicino Jessie si girò nella sua direzione e gli fece l’occhiolino.
Finn si appostò dietro la sua sedia, in ginocchio, così da potergli sussurrare all’orecchio senza disturbare Rachel anche se dubitava che lo stesse ancora considerando, era molto occupata ad urlare contro Mr. Austen.
“Ehi, amico. Ti stai divertendo?” Se Jessie notò la nota passivo-aggressiva nella sua voce non lo diede a vedere, se non per un piccolo sorriso sornione.
“Non sono qui per rubarti la ragazza” lo rassicurò. Fece una pausa, guardò Finn con la coda degli occhi e rimarcò: “Amico.”
La donna seduta accanto a Jessie corrugò la fronte.
“Bene, meglio così” disse Finn, preso alla sprovvista, prima di schiarirsi la voce.
Il biondino stava per scoppiare a ridere, ma coprì il tutto con un colpo di tosse che fece scattare la donna già stranita dal suo strano comportamento. Lui le lanciò un sorriso carismatico e tornò a guardare lo spettacolo.

“Per la cronaca” urlò Jessie dalla stanza da letto di Finn per richiamarlo, dato che l’aveva visto uscire. Il più alto si fermò e si girò a guardarlo.
“Lei si merita di meglio. Di - di me, intendo” lo informò con un sorriso a metà tra il triste e il rassegnato.
“Tu hai qualcosa che io non potrò mai avere” soffiò Finn abbassando lo sguardo fino a guardarsi la punta delle scarpe, aveva l’espressione di un cagnolino bastonato. Jessie rimase in silenzio, semplicemente perché era sconvolto.
“Sei lì” si limitò a dire Finn prima di andarsene e chiudersi la porta alle spalle con un sonoro ‘tump.’
 

Kurt non provava quel tipo di euforia contagiosa da troppo tempo, era al settimo cielo, si sentiva come se il cielo non fosse poi così lontano, doveva solo alzare un dito; era come se non fosse mai sceso da quel palco, la strada era la sua scena e la sua voce arrivava fino alle stelle. Si trattava solo di una stupida parte secondaria in uno stupido musical di città, continuava ripeterselo, ma non riusciva a convincersene. Per una volta nella sua miserabile vita si sentiva felice, capace di tutto.
Fu così che lo trovò Blaine: con un sorriso enorme sul viso mentre sistemava le ultime cose per l’apertura di quella sera del locale. Stava canticchiando sottovoce, Blaine si chiese se se ne stesse accorgendo; sorrise anche lui quando si rese conto che lo stava facendo senza pensarci, gli veniva così naturale e la sua voce… avrebbe potuto interpretare ogni melodia conosciuta senza troppa difficoltà, era semplicemente perfetto. Decise di restare a guardarlo ancora per qualche secondo, stava diventando il suo passatempo preferito ultimamente. I suoi sentimenti per il ragazzo non erano mai stati un segreto, fin dal giorno in cui l’aveva visto bagnato fradicio sotto la pioggia che aveva deciso di bagnare il funerale dei suoi genitori.
“So che sei lì” lo ammonì Kurt ancora di schiena.
Blaine calò la testa, colpevole, e scese abilmente dal bancone sul quale era seduto per avvicinarsi all’altro.
“Ti ho sentito prima, in teatro” gli disse come se non lo sapessero entrambi perfettamente, come se non percepissero tutta la felicità e l’orgoglio che sbocciava nei loro petti insieme ad un’altra cosa, piccola e nuova e meravigliosa che nessuno dei due aveva ancora il coraggio di nominare. Presto, ma non in quel momento.
Kurt sorrise ancora di più e gonfiò leggermente il petto, non ricordava un giorno in cui si fosse sentito come in quel momento.
“Ti è piaciuto?” chiese con la voce di un bambino che mostra un disegno di cui è particolarmente fiero.
“Sei stato strepitoso” lo complimentò Blaine, gli occhi che brillavano. “Sentirti cantare così liberamente… hai messo tutto il tuo cuore in quella canzone.” Ed eccolo lì, lo sguardo da cucciolo che lo stordiva ogni volta, avrebbe voluto dire qualcosa, qualunque cosa, per rompere il silenzio e cambiare discorso passando a qualcosa di più leggero o per confessargli amore eterno come in Romeo e Giulietta, Kurt non aveva ancora deciso, ma apparentemente Blaine non aveva ancora finito: “C’è stato un momento in cui ho pensato: oh, eccoti qui. Ti cercavo da una vita.” Un secondo dopo Blaine si stava alzando sulle punte e - oh, era passato fin troppo tempo da quando avevano baciato qualcuno, men che meno qualcuno a cui tenevano così tanto. Kurt gli poggiò le mani sulle spalle per tenerlo più vicino. Era possibile vivere in un frammento di secondo per il resto della vita?

 

Il camerino che l’aveva ospitata in tutti quei mesi sembrava un altro posto dopo essere stata sul palco e aver affrontato la folla con la sua chiamata alla ribalta, un ragazzo le aveva persino lanciato dei fiori, adorabile. O forse era solo lei ad essere diversa, più matura, era stato un processo lento, durato molto tempo, ma la donna che era seduta a quello sgabello non era la stessa ragazza che aveva fatto l’audizione tempo prima.
Si stava togliendo il trucco, con ogni movimento deciso sentiva Fanny scivolarle via dal viso e Rachel Berry tornare in superficie con un sorriso raggiante. Era stanca, esausta a dire il vero, ma non poteva negare di essere anche al settimo cielo. Aveva appena realizzato il suo sogno.
Prese una grossa boccata d’aria e le sembrò di raccogliere dentro di sé tutta la gloria che Funny Girl avrebbe portato.
Sentì bussare alla porta, doveva sicuramente essere il suo direttore che veniva a congratularsi per la fantastica performance.
“Jessie” disse, con una punta di disappunto, dopo aver aperto la porta. Rimase immobile sulla soglia della stanza, una mano sullo stipite per non farlo entrare.
“Questi sono per te” la informò mostrando il cestino colmo di fiori di campo che aveva in mano. Non era nulla di esagerato ma emanava un profumo leggero e meraviglioso. Rachel lo prese e giocò un po’ col nastro viola che adornava il manico, fece scorrere l’occhio sui piccoli nontiscordardime e le margherite bianche; nel complesso facevano la loro figura, un esplosione di bianco e di blu.
“sei stata eccezionale, credo che questo spettacolo sarà molto, molto longevo” disse Jessie sinceramente.
“Grazie” ripose lei, ma sembrava più una domanda che un’affermazione. Fece due passi indietro e lasciò che il ragazzo entrasse all’interno del camerino prima di chiudere la porta alle sue spalle.
“Il che vorrebbe dire che, anche volendo, non potresti di certo prendere parte al mio musical” continuò lui con le mani dietro la schiena.
Rachel annuì con la testa e lo guardò cercando di capire quali fossero le sue intenzioni. Fino a quel momento non c’era ancora riuscita. Lo lasciò parlare.
“Ed è per questo che sono venuto ad informarti che ho trovato una ragazza per coprire la tua parte. Non è te, ma per ora è perfetta.”
Quello era di sicuro un sollievo.
“Ma se mai cambiassi idea, sai dove trovarmi.” Rachel non sapeva come reagire, l’unica cosa che avrebbe voluto fare era spingerlo via dal suo camerino e avere un paio di secondi da sola, finalmente, prima che arrivasse davvero il direttore dello spettacolo per portarla alla festa in suo onore, però fece vincere il buon senso e si limitò a dire: “”Fantastico, buona fortuna.”
Jessie fece una piccola reverenza di commiato (drammaticità, sì) e si affrettò ad arrivare alla porta dalla quale non si era allontanato granché, quando l’aprì si ritrovò davanti un uomo bassino sulla cinquantina che teneva in mano il programma del musical. “Via, via!” lo cacciò malamente per farsi spazio all’interno della stanza.
L’ultima cosa che Jessie riuscì a vedere fu l’uomo che prendeva le spalle di Rachel e urlava: “Un successo! È stato un successo!” Così il ragazzo sorrise e se ne andò, con le mano in tasca, verso casa.

 

Chi l’avrebbe mai detto che un musical gli sarebbe piaciuto così tanto? Avrebbe dovuto vederne uno prima. Magari avrebbe chiesto a Kurt di prestargli uno dei suoi, di quelli con cui cantava quando pensava che nessuno potesse sentirlo. Forse avrebbe dovuto dirgli che da quando era arrivato l’aveva sentito eccome, tutti i giorni, ma d’altro canto forse era meglio evitare, voleva continuare a mangiare durante la sua residenza.
Entrò nella stanza di suo fratello, approfittando del fatto che lui fosse a lavoro, per prendere un DVD e non appena vide proprio quello di Funny Girl si mise a ridere, un lato della bocca più alto dell’altro.
Quella volta Brittany non lo prese di sorpresa, il che lo fece sentire fiero di se stesso, giusto un po’.
“Finn, dobbiamo parlare” soffiò con un tono serio indicando il letto sul quale era seduta per dirgli di sedersi accanto a lei.
“Certo. Cosa c’è?”
Brittany si morse l’interno della guancia e abbassò lo sguardo solo per notare che si stava tormentando le mani; mise immediatamente ma - sempre senza accorgersene - subito dopo cominciò a punzecchiare con due dita il leggings che stava indossando. Finn si rese conto di quanto fosse nervosa ma non disse nulla, piuttosto aspettò che fosse lei a rivelargli perché stesse così male.
“Ricordi quando stavamo cercando delle informazioni su cosa fosse un sensate e io ho detto che sarei andata a dormire?”
Il ragazzo cercò nei meandri della sua mente di ricordare quell’avvenimento, ma non trovò nulla: “Sei sicura che sia successo davvero?”
Brittany stava per annuire, poi sembrò realizzare il suo errore e s’inumidì le labbra: “Forse era Mercedes” si corresse. “Ma non è questo il punto” continuò scuotendo la testa. Si sistemò in modo da essere faccia a faccia con Finn prima di rivelare: “Sono andata a dormire perché quello è l’unico modo che ho per parlare con Elizabeth” concluse, supponendo che il ragazzo sapesse esattamente di cosa stava parlando, ma a dirla tutta era estremamente disorientato. Certo, Brittany era sempre stata la più ingenua del gruppo, quindi contraddirla non era un’opzione: tutti volevano preservare la sua innocenza, compresi i suoi genitori.
“Ok… chi è Elizabeth?” Tutto ciò non voleva dire che non potevano cercare di capirla anche solo parzialmente.
“La madre della nostra cerchia.”
Finn ebbe bisogno di un paio di secondi per riprendersi, continuava a non capire però, lui aveva una madre ed era Carol inoltre era più che sicuro che una persona potesse avere solo una mamma.
Brittany prese il suo silenzio come un invito ad andare avanti con il suo racconto: “Mi ha detto che devi stare attento, molto attento, e-”
“Di salvare gli altri” finì lui quasi automaticamente. Gli occhi della ragazza s’illuminarono: “Sì, esatto.”
Finn si alzò di scatto come se qualcuno lo avesse punto. La signora di quella sera gli avev adetto la stesa cosa. La cosa più strana, in quel momento, era che aveva l’impressione di averla già vista da qualche parte prima del sogno, pensandoci bene. Posò lo sguardo sulla stanza, come se la risposta fosse scritta sui muri di suoi fratello.
Poi la rivelazione lo colpì come un lampo.
Prese il telefono e passò velocemente alle foto meno recenti, quando trovò quello che stava cercando diede il cellulare a Brittany che lo prese e strinse gli occhi, ingrandì sulla faccia della donna e guardò di nuovo Finn: “Perché hai una foto di Elizabeth?
Il ragazzo riprese il suo posto accanto alla bionda e toccò due volte lo schermo velocemente in modo da poter vedere tutta la foto: Elizabeth aveva un bambino in braccio, non poteva avere più di qualche mese e teneva due dita infilate in bocca mentre sorrideva sdentato alla fotocamera. A dirla tutta si trattava dello scatto digitale di una vecchia polaroid a colori poggiata su di un tavolo.
Finn prese un respiro profondo e guardò Brittany negli occhi: “Perché quella è la madre di Kurt.”






 

Scrittrice in canna's corner
In questo capitolo avete ammirato Scrittrice in Canna Passione Giardiniera®
Da qui cominciano i problemi seri, stiamo finendo la prima parte della storia e - fidatevi - questa era solo l'introduzione a tutto quello che deve succedere nei prossimi 10+ capitoli. 
Comincerò a scrivere la storia su Word, il che vuol dire che ci metterò meno tempo a scrivere e ci saranno meno errori di battitura (yey? Yey!) 
Ci vediamo la settimana prossima.
Vostra,
Scrittrice in Canna.
 

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Capitolo 9
*** ... gli amici rimettono insieme i pezzi ***


9.

 

Kurt era tornato dal lavoro incredibilmente tardi ma non gliene poteva fregare assolutamente nulla, era troppo felice per potersi innervosire - niente l’avrebbe fatto arrabbiare per i prossimi giorni.

Gl vibrò il telefono proprio mentre chiudeva la porta di casa, era un messaggio di Blaine che gli augurava la buonanotte. Sorrise e lasciò il cellulare sul comodino dell’entrata. Se avesse voluto una risposta avrebbe potuto fargli visita, gliel’avrebbe data volentieri.
Vide suo fratello seduto al tavolo della cucina, lo prese per un altro episodio d’insonnia e si diresse direttamente alla caffettiera per versarsi del caffè; era felice, vero, ma non sarebbe rimasto sveglio soltanto con la forza della sua euforia.
“Cos’hai sognato sta volta?” gli chiese senza girarsi.
“Era tua madre” sputò fuori Finn senza nessuna cautela.
Kurt s’immobilizzò, lasciò la tazza che stava tenendo e per circa un minuto l’unico rumore all’interno della stanza fu quello della ceramica che urtava il pavimento e si spargeva in mille pezzi. Il caffè caldo macchiò le mattonelle e ne inghiottì le rifiniture arrivando fino ai piedi coperti solo dai calzini di Finn.
Dopo aver metabolizzato le parole del ragazzo, Kurt si rivolse a lui col viso più pallido del solito e un’espressione stoica: “Co- come lo sai?” borbottò inciampando sulle sue stesse parole.
“Brittany l’ha riconosciuta dalla foto che ho nel telefono” ammise.
Kurt inghiottì a vuoto e sbatté le palpebre per trattenere le lacrime, ma non ci riuscì, perché una linea lucida gli solcò la guancia seguita da un’altra e un’altra ancora, sembravano non volersi fermare mai. Aveva tolto la base al castello di carte che si era costruito nella sua mente e tutte le sue convinzioni stavano crollando alla velocità della luce: Non mi fa più male. Lei mi ha abbandonato ma l’ho accettato, non è stata colpa mia. Come potevo saperlo? Avevo solo tre anni. E lei ha preso le sue cose e se n’è andata, senza dirmi neanche addio o ‘mi raccomando, fai il bravo, Kurt. Ti voglio bene.’ Ma è tutto apposto.
Bugie, bugie, bugie, solo bugie.
Aveva il viso rosso. Si passò una mano sotto gli occhi per asciugarli perché lui era forte, lui poteva affrontarlo. Si mentiva da tutta la vita, poteva farlo anche per quello, poteva convincersi di essere forte abbastanza giusto il tempo che bastava per raggiungere la sua camera da letto e piangere in pace.
Tirò su col naso e fece un’unica, semplice constatazione: “Ti avevo detto di cancellarla. Perché ce l’hai ancora?” Aveva la voce rotta da un pianto costipato.
Finn sollevò le spalle: “Non è questa la parte più importante, amico. Ti sto dicendo che ho sognato tua madre ed è urgente!” 
“Ti avevo chiesto di cancellarla!” ripeté l’altro con voce più autoritaria sbattendo i pugni contro il marmo con forza. Sentì la pelle delle nocche rompersi all’impatto, ma l’unica cosa che fece in risposta fu stringere i pugni più saldamente.
Finn abbassò la testa, si sentiva colpevole, sapeva cosa provocava in suo fratello il pensiero di Elizabeth, ma doveva dirglielo, era la cosa giusta da fare: “Io e Brittany siamo riusciti a connetterci con lei, cioè, lei si è connessa con noi perché è la madre della nostra cerchia” spiegò tutto d’un fiato.
Kurt spalancò gli occhi e strinse le labbra, aveva  il naso gonfio per tutte le volte che l’aveva strofinato, eppure sembrava così forte nella sua postura dritta e sicura, con le mani dietro al busto, incurante del sangue che gli stava sporcando la divisa da lavoro.
“Dov’è Brittany?” domandò con voce sicura. 
Finn boccheggiò, capiva che fosse sotto shock, ma cominciava a fare domande stupide.
“Devo parlare con Brittany” sbraitò uscendo dalla stanza e chiudendosi nella sua, senza preoccuparsi della porta che sbatteva dietro di sé.

Brittany si sarebbe aspettata di tutto, davvero, ma non che Kurt apparisse davanti a lei mentre si stava facendo il bagno, che le tirasse addosso un asciugamano e le urlasse: “Esci. Immediatamente.”
Cinque minuti dopo erano seduto al tavolo del salone, ai due lati opposti. Il ragazzo non aveva perso la sua compostezza. Era comunque molto arrabbiato, si vedeva chiaramente.
“Che ti ha detto lei? Com’è possibile che sia la… ‘madre’ della nostra cerchia? Cosa vuol dire?” Quella parola gli bruciava la lingua.
La ragazza si schiarì la voce e cominciò a spiegare: “Quando due sensate della stessa cerchia hanno una connessione particolare possono dare vita ad un’altra cerchia.”
Kurt aggrottò la fronte: “Cioè Elizabeth era come noi?”
Brittany annuì, l’altro si mise una mano in fronte e disse qualcosa sottovoce che sembrava: “E non me l’hai mai detto, mai - mai fatto dire.” Non poteva dirglielo, aveva solo tre anni quando lei aveva deciso di sparire senza motivo, quando aveva deciso di lasciarlo da solo. E per cosa? Per raggiungere un tizio che non aveva mia visto. Era suo figlio, porca miseria.
“Mi ha avvertita di proteggere Finn.”
Kurt sembrava rassegnato, sbatté la mano sporca di sangue sul pantalone: “Ovvio. Finn. E non poteva dirlo a me? Sono suo figlio! Sono il fratello di Finn! Non ha pensato che magari avrei potuto aiutarlo meglio?!” Era arrivato all’isteria, aveva bisogno di calmarsi quindi Brittany si mise in ginocchio davanti a lui e gli prese le mani, attenta a non fargli male.
“Devi rilassarti, ok? Chiaramente non sei nella condizione giusta per parlarne ora. Prenditi del tempo. Io e Santana abbiamo un piano.”
Kurt la guardò e fu come se un po’ della sua tranquillità gli si fosse trasferita dentro di lui tramite le loro mani. Prese il suo primo vero respiro da quando era cominciata tutta quella storia, dopo minuti interi di apnea, deglutì a vuoto e annuì: “Hai ragione. E mi dispiace… per averti aggredita” disse stringendo la presa sui polsi di Brittany quanto bastava per farle capire che era tornato.

 

Stava davvero facendo le valigie, c’era stato un momento in cui aveva pensato: “Basta, non posso più aspettare.” In fondo chi poteva sapere per quanto suo padre sarebbe rimasto vivo? Non se lo sarebbe mai perdonato se fosse morto senza aver chiarito le cose con lei, se lo meritavano entrambi.
Mercedes prese l’ennesima maglietta e la piegò ordinatamente prima di metterla con le altre. Non stava tornando indietro, sarebbe stato stupido, semplicemente aveva bisogno di risposte come chiunque, ma la sua famiglia si era sempre rifiutata di darle qualsiasi tipo di spiegazione. Avrebbe fatto tutto da sola, come sempre.
“Lo stai facendo davvero!” si stupì Blaine guardando la valigia quasi piena. Si passò un palmo della mano sulle nocche dell’altra, c’era qualcosa che gli dava fastidio.
Mercedes annuì profondamente e raccolse il biglietto aereo dal beauty in un angolo della stanza per sventolarlo orgogliosa sulla testa.
“L.A., caro mio!”
“Sono molto felice per te” si complimentò il ragazzo ammirando l’egregio lavoro che Mercedes era riuscita a fare coi vestiti. Lui non era mai stato capace di sistemare una valigia in maniera ordinata, nonostante tutti i suoi viaggi.
“Grazie, sto solo-” Diventò improvvisamente seria, gli occhi che guardavano ogni dettaglio del biglietto aereo, come se lo stesse vedendo per la prima volta. “Sto seguendo il tuo consiglio” finì, con un sorriso tirato lanciando un’occhiata a Blaine da sotto le ciglia scure.
“Non ci stai ripensando, vero?”
“No, no!” Mercedes mise le mani avanti: “È solo che…” sbuffò, spostò il peso da un piede all’altro. Le parole non volevano proprio uscirle dalla bocca. Dopo aver superato tutti i dubbi e le incertezze aveva ancora un sassolino nella scarpa: “E se non mi vuole vedere?”
“Non lo saprai mai se non vai.”
“Lo so, è difficile. Tutto qui.”
Blaine si avvicinò con cautela e le poggiò una mano sulla spalla per confortarla: “Saremo tutti qui per te.” Potevano solo sperare che andasse tutto per il verso giusto.
Il ragazzo continuava a toccarsi le nocche; Mercedes se ne accorse quando spostò il braccio per strofinare di nuovo le mani l’una contro l’altra e corrugò la fronte.
“Tutto okay?”
“Non lo so… mi sento come se avessi colpito qualcosa con le mani. Mi fanno male, ma non ho nulla.”
Nel loro caso poteva significare una cosa sola: “Dev’essere qualcun altro. Cerca di non pensarci.”
Blaine cercò di non preoccuparsi, ci provò davvero, pensò che forse Santana era caduta provando un passo particolarmente complesso, forse Rachel aveva sbattuto contro qualcosa nella sua foga di arrivare al teatro per le prove generali della seconda serata - quella donna si muoveva sempre come se fosse in ritardo per qualcosa - ma niente lo calmava, sentiva che c’era qualcosa di sbagliato ma non riusciva a capire cosa fosse.


Dormire ormai era diventato un optional per Santana che passava le sue nottate camminando avanti e indietro per casa con una coperta leggera sulle spalle. Aveva anche sviluppato una sua routine: prima provava a chiudere gli occhi per mezz’ora, poi si alzava e accendeva la televisione del salone, sperando di addormentarsi sul divano, quando neanche quello funzionava si recava in cucina e si preparava una tisana rilassante che riusciva solo a farla andare in bagno ogni dieci minuti di orologio; alla fine si arrendeva e tornava a letto con un libro o col cellulare in mano, aspettando l’alba, cosciente del fatto che si sarebbe addormentata mezz’ora prima del suono della sveglia per recarsi allo studio di danza - cosa che effettivamente era inutile, perché non aveva nessuno a cui insegnare e tutti i suoi colleghi stavano cominciando a notare le sue occhiaie, ma aveva bisogno di evadere in qualche modo e il ballo era sempre stato quello più efficace.
Era arrivata alla seconda replica di Desperate Housewives quando sentì la voce di Jessie accanto a lei: “Davvero? Guardi questa roba?”
Santana sbuffò e cambiò canale alla cieca, andando a finire su un telegiornale della notte che mandava le notizie ripetute del mattino.
“È l’unica cosa che non mi fa venire voglia di sbattere la testa dei personaggi l’una contro l’altra come due piatti. Il più delle volte, almeno.”
Jessie annuì divertito, le braccia incrociate sul petto.
“E poi tu che ci fai qui, non dovresti essere in giro a reclutare scimmie saltellanti per il tuo show?”
“Non sto mettendo in scena ‘Il Mago di OZ’, lo sai.” Era abituato a quel genere di sarcasmo, usato come mezzo difensivo, anche lui lo faceva, troppo spesso, il problema era che lo stava capendo solo in quei giorni, dopo anni sprecati a tenere tutti a distanza. Quei ragazzi gli stavano dando più di quanto non pensassero.
Santana grugnì, voleva essere palesemente lasciata in pace, ma non sapevano come fare. Controllavano le visite abbastanza bene ma ancora non potevano evitare certe apparizioni casuali o come interrompere il contatto a comando; avevano imparato che uno shock o un cambiamento improvviso d’umore aiutava, ma non sempre.
“Hai mai pensato di ballare professionalmente?” chiese Jessie guardando verso la televisione.
La ragazza era stata presa alla sprovvista, quel suggerimento stava letteralmente arrivando dal nulla, di punto in bianco.
“Non mi hai mai vista ballare” gli ricordò girandosi verso di lui con uno sguardo sospetto, non sapeva bene dove voleva andare a parare ma in ogni caso non le piaceva.
“Ho visto i tuoi ragazzi, se loro sono a quei livelli tu sicuramente sarai spettacolare.”
“Oh.” Era da tempo che non riceveva un complimento, Brittany era l’unica ripeterle quanto fantastica fosse ogni volta che la vedeva preparare una coreografia.
“Pensi che potresti… non so… lasciare tutto e venire a ballare nel mio spettacolo?”
“Sei impazzito?!” Ecco cos’era tutta quella gentilezza, un resoconto personale. Santana si diede della stupida, per un secondo aveva pensato che fosse sincero e che fosse preoccupato per lei. La personalità di Mercedes la stava influenzando fin troppo.
“Perché? Odi metà delle persone in quello studio, non stai facendo nulla di produttivo con la tua vita e i tuoi colleghi sono a un passo dal mandarti in una casa di cura, in ogni caso” elencò gesticolando ampiamente con le braccia verso il televisore, come se gli avesse fatto un torto.
“No è vero” mormorò Santana con quella voce infantile tipica di Brittany e Finn. Abbracciò la coperta più stretta intorno a sé.
“Sappiamo entrambi che lo è.” Jessie alzò un sopracciglio e la guardò con un mezzo sorriso.
Santana sbuffò e si mosse nervosamente sul divano, sentiva inaspettatamente caldo, stava scomoda e che cavolo avevano le sue mani? Continuavano a darle fastidio, stupide zanzare. Dovevano averla punta.
“Pensaci, ok?”
La ragazza fece un grugnito per confermare che aveva sentito e ci avrebbe pensato, ma al momento aveva bisogno solo di dormire.
Restarono lì, immobili per qualche secondo, finché Jessie non prese il telecomando e rimise Desperate Housewives. Finirono di guardare l’episodio in silenzio, fino a quando lui non scomparve e Santana si ritrovò da sola. In quel momento avrebbe voluto avere qualcuno con lei, fisicamente, perché le emozioni della sua cerchia la stavano uccidendo e poteva sentire tutta la rabbia di Kurt ribollirle nelle vene, doveva essere successo qualcosa di grosso: Finn si sentiva in colpa; il tutto era completamente in contrasto con l’eccitazione di Mercedes. Le veniva da vomitare.

Tutti i dubbi di Blaine furono chiariti quando si ritrovò ai piedi del letto di Kurt ad osservarlo: era in posizione fetale, stava abbracciando un cuscino e poteva vederlo muoversi su e giù, colpito da quelli che sicuramente erano singhiozzi.
Si sedette in modo da poterlo abbracciare se ne avesse avuto bisogno, sul bordo del materasso. Sapeva che Kurt poteva percepire la sua presenza, lo vedeva nel modo in cui stava cercando di trattenere le lacrime, si sava asciugando le guance umide con la manica della maglietta, cosa assolutamente fuori dal comune per lui: avrebbe preferito qualsiasi cosa al rovinare una maglietta, anche se si trattava di quella del lavoro. Fu solo quando si degnò di sistemare la manica e scoprirsi le mani che Blaine vide le nocche rovinate e il sangue incrostato.
“Alzati” gli ordinò, ma non era arrabbiato, solo triste e rassegnato.
Kurt obbedì, sapeva bene che sarebbe stato inutile cercare di negargli qualcosa se stava cercando di prendersi cura di lui.
Blaine lo trascinò per mano fino al bagno, stando attento a non stringere troppo o sfiorare la pelle rovinata con il pollice. Notò con aria sorpresa che Finn non sembrava essere in casa, oppure si era rilegato nei confini della sua camera.
Una volta arrivati a destinazione lasciò che l’acqua fredda lavasse via il sangue asciutto dalle mani di Kurt e prese le garze e il disinfettante. Nessuno dei due commentò sul fatto che sapeva esattamente dove fossero senza neanche un cenno da parte del padrone di casa. Solo dopo che Blaine gli ebbe asciugato le dita tamponando leggermente con un asciugamano uno di loro si permise di rompere il silenzio: “Vuoi dirmi cos’è successo?”
Kurt scosse la testa e si morse il labbro: “Non dovresti saperlo?” rispose con un’altra domanda. Sarebbe andato avanti così anche tutto il giorno se fosse servito a sviare la situazione.
“Non posso essere al corrente di tutto quello che succede, Kurt. E tu lo sai benissimo” rispose l’altro con voce annoiata, ma il suo tocco rimaneva sempre leggero mentre passava la garza umida sulle nocche danneggiate.
Kurt sobbalzò un po’ per il tono nervoso dell’altro ragazzo, un po’ perché il disinfettante bruciava davvero tanto.
“Blaine” lo implorò sospirando, chiedendogli silenziosamente di lasciar stare, almeno per il momento. Avrebbero potuto recuperare l’argomento quando Kurt non si sarebbe sentito come se un treno gli fosse appena passato addosso.
“Hai ragione. Scusa. Sono preoccupato, tutto qui.”
Il ragazzo più alto sbuffò e fece per portarsi una mano sotto il mento, prima di ricordarsi che Blaine stava diligentemente tendendo le sue ferite. Non erano per niente gravi, avrebbe benissimo potuto farlo da solo, ma entrambi sapevano che non ci avrebbe pensato quella sera, era troppo stanco sia fisicamente che mentalmente e più tempo sarebbe passato più difficile sarebbe stato far andare via il sangue incrostato dalle dita.
L’indomani avrebbe potuto ripensare agli eventi della giornata a mente lucida, trovando il modo giusto per scusarsi con Finn che sarebbe partito il giorno dopo e non voleva neanche pensare a quanto potesse essere doloroso avere suo fratello rischiare la sua vita e - pensando alla peggiore delle opzioni - morire pensando che Kurt non gli volesse bene. Non l’avrebbe permesso.
Si mise sotto le coperte, incurante della divisa sporca che aveva ancora addosso, e lanciò un sorriso al ragazzo che era ancora lì accanto a lui, avrebbe voluto rassicurarlo, dirgli che sarebbe andato tutto bene, ma non era sicuro di nulla in quel momento, così si limitò a stringergli la mano leggermente in segno di ringraziamento prima di girarsi di fianco e chiudere gli occhi.




 
Scrittrice in canna's corner 
Ovviamente dico che sarei stata più veloce e ci metto due settimane a caricare un capitolo di transito. G-giusto. 
Chiedo venia, ho avuto diecimila progetti a cui lavorare e probabilmente li vedrete tutti qui su EFP presto :) 
Non ho molto da dire su questo capitolo, come ho detto è uno di transito, il successivo sarà la fine della prima parte (wahh!!) quindi si chiuderanno i plot che ho aperto in questa aprte e se ne aprirano altri, come un vero e proprio finale di stagione insomma :3
Molto probabilmente questa storia sarà disponibile in Inglese su Archive Of Our Own il mese prossimo. Cheers for me!
Vostra,
Scrittrice In Canna.

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Capitolo 10
*** Venuto a sera del viver che daranno a te le stelle ***


10.



Calzini, magliette, pantaloni, tutto quello che aveva portato con sé sarebbe rimasto lì. Non gli sarebbero serviti i suoi vestiti da civile. Kurt gli aveva permesso di tenere tutto nella cassettiera della stanza per gli ospiti, diceva che se non sarebbe tornato avrebbe dato tutto agli orfani.
Entrambi sapevano che si era irritato soltanto perché avrebbe voluto una qualche assicurazione che suo fratello sarebbe tornato, prima o poi, che avrebbe dormito in quel letto e visto le partite di baseball sul divano mentre Kurt leggeva Vouge, proprio come faceva con Burt. Doveva tornare, non c’erano altre possibilità.

Finn inspirò e chiuse il cassetto, si ritrovò ad inciampare sul suo stesso respiro che per poco non si trasformava in un singhiozzo. Suo fratello si era svegliato quella mattina e si era comportato come se tutto quello che era successo la sera prima fosse stato soltanto un sogno orrendo, e forse era stato davvero così se Finn poteva avere il privilegio di sedersi al tavolo della cucina e aspettare il suo piatto ben riempito per cominciare bene la giornata.
Ormai erano le dieci del mattino, in un’ora sarebbe dovuto essere già sull’aereo e i suoi genitori stavano per arrivare sotto casa per accompagnarlo (Kurt aveva deciso di restare a casa, non ce l’avrebbe fatta), aveva circa dieci minuti per recuperare le funzioni cognitive ed essere sicuro che una volta uscito da quella porta non sarebbe scoppiato in lacrime.
Rachel era seduta sul bordo del letto, quando si era connessa non aveva aperto bocca, sarebbe stato tutto inutile, le avevano sempre detto che aveva un atteggiamento eccessivo e l’unica cosa che voleva in quel momento era fare in modo che Finn si sentisse a suo agio nei suoi ultimi minuti come civile prima dell’imminente partenza perciò decise che era meglio stare zitta e aspettare che fosse lui a fare il primo passo, aveva già pensato a un miliardo di cose che avrebbe potuto dire, altrettante risposte che avrebbe potuto dare a tutte le domande che le avrebbero fatto nei giorni successivi, perché sapeva bene che non sarebbe stata euforica come sempre, non finché lui sarebbe stato in un posto che non era Dublino, sotto l’occhio protettivo di suo fratello. Tutto quel discorso poteva far pensare che Finn non fosse capace di badare a se stesso, che fosse solo un bambino troppo cresciuto, e se una volta poteva essere stato vero - nei giorni lontani delle superiori - era riuscito a diventare un uomo maturo con l’addestramento militare. Certo a volte poteva essere ancora un po’ ottuso, ma tutti lo adoravano anche per quello.
Finn finì di sistemare le ultime cose in silenzio, lanciando sorrisi rassicuranti a Rachel che ricambiava senza metterci davvero il cuore. Solo dopo che si mise il borsone in spalla riuscì a trovare la forza di avvicinarsi a lei e dirle: “Andrà tutto bene.” Le prese una mano accarezzando lentamente il palmo con le sue dita troppo grandi. “Sei stata tu a dirmelo.”
Rachel non trovò il coraggio di rispondere a parole per paura di scoppiare a piangere: sembrava tutto più reale in quel momento, vedendolo pronto per andare via. Annuì e si alzò in piedi per dargli un ultimo bacio d’addio, sarebbe stato umido per colpa delle loro lacrime, ma non se lo permisero. Rachel pensava di essere lì per consolarlo, ma ancora una volta Finn si rivelava essere la sua ancora.
“Okay” sussurrò Finn abbassando lo sguardo verso i suoi stivaloni; deglutì e girò i tacchi per raggiungere suo fratello che lo stava aspettando davanti alla porta dell’appartamento.
Appoggiato al muro del corridoio c’era Jessie, gli occhi indirizzati verso qualcosa che non era all’interno della casa, spostò lo sguardo sul ragazzo più alto solo dopo qualche secondo, sembrava si fosse accorto solo in quel momento di non essere esattamente dove si trovava poco prima.
“Buona fortuna.”
Finn annuì, di nuovo. Non sapeva esattamente come prendere quel genere di auguri. “Prenditi cura di lei, amico.”
Il viso dell’altro ragazzo tradì la sua sorpresa nonostante stesse provando a mantenere un’espressione stoica, si rendeva conto giorno dopo giorno di star perdendo quel suo particolare talento. Si bagnò le labbra con la lingua, un po’ perché non sapeva che dire e un po’ perché la sua gola era improvvisamente diventata asciutta.
“Te lo prometto.” Così com’era comparso, Jessie St. James sparì senza lasciare traccia se non un nodo nella gola di Finn che non si sarebbe sciolto presto.
Girò l’angolo per ritrovarsi faccia a faccia con Kurt che si stava torturando le mani, non sapeva bene cosa fare, come comportarsi; quando era partito per l’accademia non era stato così traumatico, si trovava solo a qualche chilometro da casa e poteva tornare a visitare ogni fine-settimana, invece quello che sarebbe successo dopo quel momento non avrebbe lasciato possibilità di visite o cartoline mandate per gioco che avrebbero lasciato Burt a prendere giocosamente in giro suo figlio dicendo: “Vi vedere domani! Non la riceverà mai in tempo!”
Suo fratello si avvicinava a passo lento, sembrava voler prolungare il suo calvario, non pensava che in quel modo separarsi avrebbe fatto ancora più male. Quando finalmente lo raggiunse, Kurt tirò su col naso e si portò alla bocca il fazzoletto che aveva in mano per smorzare un singhiozzo.
Il ragazzo più alto lo guardò per qualche secondo, poi lo prese tra le braccia senza dire una parola e lo strinse forte nascondendo il viso nella spalla di Kurt, senza preoccuparsi che il fratello gli arrivasse appena al mento.
“Mi mancherai, Finn” ammise lui con voce strozzata rovinando il tessuto della maglietta alla quale si stava aggrappando con tutte le sue forze.
L’altro ci mise qualche secondo prima di rispondere: “Mi mancherai anche tu, fratello” con una pacca sulla schiena prima di lasciarlo andare.
Si fissarono rilasciando una risata forzata prima che Finn staccasse i piedi dal suolo e si dirigesse verso la porta per poi chiudersela alle spalle lasciando un vuoto colmato solo dall’eco del metallo che sbatteva. Il rimbombo rimase più a lungo nella testa di Kurt che teneva i pugni stretti per non far andare via la sensazione del corpo solido di suo fratello che lo abbracciava.
Si scosse dal torpore in cui era caduto solo quando il telefono, che aveva precedentemente abbandonato sul tavolo, squillò. Lo prese con mani tremanti, strinse gli occhi quando rispondendo la voce gli uscì leggermente soffocata.
“Pronto?”
“Kurt Hummel? Sono Lizzie, della compagnia teatrale.” 
Aveva completamente dimenticato il suo provino. “Sì, sì. Certo.” Annuì furiosamente mentre prendeva posto al tavolo della cucina, non si fidava delle sue gambe in quel momento.
“L’ho chiamata per informarla che non abbiamo più bisogno di un esterno per la parte, il nostro lupo si è magicamente ripreso.” Aveva la voce leggermente troppo acuta, Kurt non sapeva bene se fosse
perché stava mentendo. In un altro momento avrebbe pensato che se non volevano prenderlo avrebbero almeno potuto avere la decenza di dirgli la verità senza inventarsi qualche scusa assurda, ma non aveva proprio tempo di preoccuparsi per altre cose, così chiuse la discussione con una frase tanto fintamente cordiale quanto lo era stata Lizzie fino a quel momento: “Capisco perfettamente, non si preoccupi.” Aggiunse anche una risatina per far capire che davvero non era un problema. 

La donna sembrò essere soddisfatta, perché lo congedò con un semplice: “Va bene, buona giornata signor…” si bloccò, probabilmente per guardare di nuovo il suo nome e non fare una gaffe: “Hummel.”
Kurt stava per rispondere: “Anche lei” ma gli avevano già staccato il telefono in faccia. Se quelli erano gli elementi che componevano la compagnia era felice di non aver ottenuto la parte. 
Improvvisamente Kurt realizzò che non c’era più niente che lo ancorava a Dublino: Finn era partito, non era nella produzione di Into The Woods e aveva accumulato così tanti giorni di malattia da potersi permettere di mancare per un po’. Non c’era nessun motivo per cui non dovesse prendere il primo aereo diretto a Parigi e onorare la promessa che aveva fatto a Blaine tempo addietro, anche solo per distrarsi da tutto e tornare alla sua vita vera con un minimo di voglia di vivere. Aveva bisogno di conforto, aveva bisogno di sentire le braccia di Blaine intorno a lui vere e solide. Già s’immaginava le mattinate passate nel letto della grande tenuta degli Anderson, i caffè con i tavoli sulle strade che portavano alla Tourre Eiffel, entrambi avrebbero passato più tempo a fissare l’altro che a godersi il loro pasto. Sarebbero stati una di quelle coppie che Kurt prendeva spesso in giro e l’avrebbero potuto fare alla luce del sole.


Mercedes non sapeva come era arrivata nella casa di cura, gli avvenimenti si accavallavano tra di loro e quello che era sembrato il viaggio più lungo della sua vita fino a qualche ora prima si era trasformato in un battito di ciglia.
La receptionist che avrebbe dovuto indicargli la stanza di suo padre sembrava essersi persa negli immensi corridoi, era andata via dal bancone solo cinque minuti prima eppure a Mercedes sembravano secoli, aveva perso del tutto il concetto di tempo per colpa del nervosismo. Non sapeva come avrebbe reagito davanti al suo genitore più elusivo dopo tutti quegli anni, non sapeva neanche se l’avrebbe riconosciuta, in fondo era cambiata molto da quando era partita per il college a diciotto anni. La sua immaginazione stava viaggiando a mille miglia al secondo e non sembrava volersi fermare, non finché una mano non si poggiò sulla sua spalla e lei si girò per trovare lo sguardo comprensivo di un ragazzo col camice bianco.
“Sono sicuro che andrà tutto bene” la rassicurò, come se potesse leggerle nel pensiero, ma Mercedes sapeva con certezza che non era parte della cerchia, l’avrebbe percepito prima, quello era semplicemente un giovane americano come tanti altri che voleva toglierle l’espressione angosciata che doveva avere in viso, era parte del suo lavoro per quanto potesse saperne lei.
“Non vogliono portarmi da mio padre” disse lei dal nulla. Non era una bugia, non del tutto almeno, era seriamente convinta che l’infermiera di prima stesse aspettando dietro l'angolo che lei se ne andasse e che la stava solo prendendo in giro, ma il ragazzo corrugò la fronte e lasciò cadere la mano che era ancora sulla spalla di Mercedes.
“Ne sei sicura? Come mai?” le chiese leggermente più preoccupato una volta che notò le lacrime che stavano per uscire dagli occhi della ragazza.
“La- la signora.” Indicò verso il corridoio dietro la porta chiusa a chiave che portava alle stanze dei pazienti. Dovette fermarsi per prendere un respiro profondo e sopprimere un singhiozzo. “Lei non mi vuole dire dov'è mio padre.” Forse avrebbe dovuto informarlo dell’animata discussione che avevano avuto, quella durante la quale la donna aveva insistito che Robert Jones non aveva avuto alcuna visita durante tutta la sua residenza alla casa di riposo e che non aveva mai nominato una figlia, anche se quell’ultima parte aveva spezzato il cuore di Mercedes, facendole capire quanto fosse doloroso non avere un rapporto con la sua vera famiglia.
Il ragazzo sembrò discutere qualcosa tra sé e sé per i secondi successivi, le mani nelle tasche del camice e le spalle leggermente alzate, era sulla difensiva.
“Ti ci porto io” dichiarò muovendosi a passi svelti verso l’entrata, Mercedes si affrettò ad andargli dietro.
“Chi è tuo padre?” Le chiese facendo passare una tessera nel macchinario accanto alla porta che produsse un piccolo suono prima di lasciare che la serratura si sbloccasse. Mercedes continuò a seguirlo stando attenta a non sbattere contro una delle due porte mentre entrava nel reparto.
“Jones. Robert Jones.”
Il ragazzo si guardò intorno spazientito, non avevano molto tempo e probabilmente non ricordava la stanza esatta, poi fu come se un fulmine l’avesse colpito e si diresse spedito verso quella che doveva essere la loro meta.
“Uno-uno-quattro” recitò ad alta voce.
Dopo un paio di svolte si fermarono davanti all’uscio della stanza, Mercedes poteva guardare all’interno dato che la porta era aperta: suo padre era ancora come lo ricordava, soltanto con qualche ruga in più e i capelli bianchi, sdraiato sul grande letto bianco fissava il vuoto come sovrappensiero.
La ragazza fece dei passi piccoli verso il letto e non osò parlare fino a quando non si trovò a pochi passi da lui, le lacrime che prima le riempivano semplicemente gli occhi stavano scendendo copiose sul suo viso, riuscì a dire un leggero: “Papà?” per chiamarlo, chiedendogli silenziosamente di guardarla in viso ma lui rimase immobile, lo sguardo vitreo.
Il dottore che l’aveva accompagnata si trovava dall’altro lato del letto, guardava uno schermo al quale Robert era collegato tramite dei fili e sembrava rassegnato mentre scriveva il suo resoconto in una cartellina poggiata sull’unico comodino della stanza.
“Cosa gli è successo?” domandò Mercedes alzando lo sguardo, cercando delle risposta che non sembravano voler arrivare.
Il ragazzo alzò la testa di scatto sentendo la voce ferita della ragazza, si mise dritto e guardò il suo paziente per un lungo istante prima di rispondere: “Ha dovuto fare un intervento al cervello, però è riuscito male. Non l’ha superato bene. Credevo lo sapessi.”
La fiducia cieca di quel ragazzo nell’umanità gli avrebbe portato molti problemi nella vita, pensò Mercedes.
“Senti…” Voleva chiamarlo per nome, ma si accorse che in realtà non si erano mai presentati, l’aveva semplicemente condotta in quella stanza senza chiedere spiegazioni.
“Sam. Mi… mi chiamo Sam” si presentò alzando una mano.
“Sam. Io e mio padre non andiamo esattamente d’accordo. È il motivo per cui sono venuta qui, per chiedere scusa” rivelò mentre si asciugava il viso con il dorso di una mano.
“Mi dispiace, ma ha perso tutte le capacità motorie. Non so neanche se può sentirti adesso” le spiegò con calma.
Mercedes annuì, tutta l’adrenalina lasciò il suo corpo in un istante. “Posso avere un paio di secondi da sola con lui, per favore?”
Sam abbassò la testa e se ne andò senza dire una parola, assicurandosi di chiudersi la porta alle spalle.
La ragazza rimase lì, prese la mano di suo padre e lo chiamò un paio di volte sperando che potesse muoversi per qualche miracolo, ma non accadde.
 

Santana venne sopraffatta da un'ondata di tristezza, imprecò sotto voce e si portò i palmi delle mani sugli occhi premendo più forte che poteva: “Cazzo. Cazzo. Cazzo. Non oggi. Ti prego, non oggi” si ripeteva ispirando ed espirando più normalmente possibile.
Il pacco di Brittany sarebbe dovuto arrivare da un momento all’altro, dopodiché avrebbero dato il via al loro piano per smascherare Metzger, l'ultima cosa di cui aveva bisogno era una crisi di pianto.
“Jones, datti un contegno. Porca miseria!” urlò al nulla appoggiando le braccia sul tavolo e sbattendo le palpebre un paio di volte.
Suonarono alla porta proprio in quel momento e Santana si alzò con forza scagliando la sedia lontana dal tavolo della sala da pranzo.
“Sì?” chiese dura al postino.
“Una consegna per lei, signorina Lopez” la informò il ragazzino leggermente spaventato porgendole una penna e un foglio.
Santana firmò senza davvero curarsi che fosse leggibile e prese il piccolo pacco per poi chiudersi dentro senza neanche ringraziare. Era troppo nervosa per essere gentile con qualcuno.
Si sedette sul divano e aprì la confezione rivelando una piccola chiavetta USB, apparentemente innocua.
E questa cosa dovrebbe aiutarci a depositare quella faccia da trota?” Sapeva che Brittany era lì accanto a lei, poteva sentire il calore del suo corpo e il profumo del suo shampoo.
“Sì, esatto” confermò la biondina, poi si sporse per dare un bacio sulla guancia a Santana come riconoscimento della sua furbizia e l’altra arrossì leggermente, anche se la sua carnagione scura lo nascondeva bene.
“Quindi io la metto nel suo computer per qualche secondo e…”
“Sapremo se lavora davvero con Whisper.”
“Ma come?” domandò Santana leggermente confusa. “Non abbiamo idea di chi sia.”
Brittany sorrise e alzò un dito per indicarsi il petto: “Elizabeth mi ha detto che Whisper cerca solo altri sensate come noi, se tra i pazienti di Metzger ce n’è qualcuno sapremo che qualcosa non va.”
“E qualcuno di loro dovrà sapere di più su Whisper. Tu puoi contattarli” finì Santana con un ghigno, Brittany era davvero un genio quando voleva.
L’altra ragazza annuì e si mise dritta sul divano incrociando le gambe. “Adesso l’unica cosa che dobbiamo fare è prendere un appuntamento.”

 

Kurt aveva passato gli ultimi giorni programmando il volo e studiando ogni modo per non far capire a nessuno che sarebbe partito.
Tenerlo nascosto a Blaine non era stato per niente difficile, specialmente perché la loro ultima connessione risaliva a un paio di giorni prima (venti preziosi minuti accoccolati sul divano, non erano mai stati così tanto tempo insieme) dopodiché non aveva più avuto sue notizie, nessuno sbalzo d’umore o improvvisa voglia d’intonare l’ultima hit di Katy Perry a squarciagola; si vietava di preoccuparsene, poteva essere una cosa normale, in fondo non aveva seguito un corso su come essere sensate, c’erano delle cose che stava ancora imparando col tempo, poteva essere normale che un membro della cerchia non si percepisse ogni giorno. 
Si ritrovò all’indirizzo di casa Anderson prima di quanto avesse potuto sperare, non aveva avuto tempo di guardarsi intorno ed ammirare la vastità della dimora perché aveva preso immediatamente le valigie dal taxi e le aveva portate fino all’entrata pronto a sorprendere Blaine non appena avrebbe aperto. Si rese conto che la porta era aperta, così sgattaiolò dentro (c’era già stato, in un certo senso) e corse nella direzione della stanza del su ragazzo, ma non vi trovò nessuno. Fece il giro di tutte le stanze almeno due volte, controllò nel giardino sul retro e nella stanza del piano, ma lui non c’era. Kurt entrò nel panico più totale, non riusciva più a muovere un singolo muscolo del corpo, si sentiva pietrificato. 
Mercedes gli poggiò una mano sulla guancia per cacciare via una lacrima e gli chiese con voce preoccupata: “Cos’hai, tesoro?” 
Kurt deglutì e si bagnò le labbra, doveva ammettere ciò che in cuor suo sapeva già da giorni, ma era riuscito a cacciare il pensiero così in profondità che nemmeno i suoi compagni riuscivano a percepirlo. Prese un respiro profondo, doveva dirlo ad alta voce il che avrebbe reso tutto reale e non era pronto, non ancora. 
“Credo che Blaine sia in pericolo.”




 

Scrittrice in canna'scorner
MAMMA MIA IL RITARDO ENORME.
Ho avuto un mese di pausa che pausa non è perché ho scritto altra roba pubblicata e non (Ah, ho un account AO3 adesso. Qua. Anche se c'è solo una OS da Settembre dovrebbe riempirsi di cose varie), mi sono anche presa un paio di giorni di meritate vacanze saltando da casa di bookswhisper a casa di un'altra amica. Insomma, ho avuto Da Fare.
Abbiamo finito la prima parte della storia! Mi sento abbastanza soffisdatta, sta venedo come me l'ero immaginata, adesso comincia la parte più movimentata, possiamo dire così, sono una persona orribile quindi chiedo scusa già prima per evitare di doverlo fare più avanti, preparate i forconi, gente. Nessuno è al sicuro. 

Vostra,
Scrittrice in Canna.

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