Sniper's soul

di Laylath
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. Ad occhi chiusi ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1. 1899. Sola ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2. 1899 - 1900. Chi si perde e chi no ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3. 1901. L'allievo venuto da lontano ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4. 1902. La diga che si rompe ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5. 1904-5. Sangue ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6. 1905. La gabbia aperta ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7. 1907-8. Nel mondo reale ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8. 1908. Che la diritta via era smarrita ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9. 1908. Il contrappasso di chi ha creduto ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10. 1908. Il fuoco che brucia il peccato ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11. 1908-9. Quel che resta del passato ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12. 1909. Il nuovo generale di East City ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13. 1909. Qualcuno da proteggere ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14. 1909. L'uomo della memoria ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15. 1909. Il mio rivale ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16. 1909. Lavoro di squadra ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17. 1910. Educazione sentimentale ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18. 1911. Le decisioni istintive ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19. 1911. Le diverse strade della vita ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20. 1914. Ordinary life ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21. 1914. Frammenti di passato ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22. 1914. Chi semina vento raccoglie tempesta ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23. 1914. Senso di perdita ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24. 1914. Sogno di una notte di mezz'estate ***
Capitolo 26: *** Capitolo 25. 1914. Come funziona una squadra ***
Capitolo 27: *** Capitolo 26. 1914. Guardie del corpo ***
Capitolo 28: *** Capitolo 27. 1914. Commiati ***
Capitolo 29: *** Capitolo 28. 1915. Vita da ostaggio ***
Capitolo 30: *** Capitolo 29. 1916. Reunion ***
Capitolo 31: *** Capitolo 30. 1916. Eroe e principessa ***
Capitolo 32: *** Capitolo 31. Risveglio ***
Capitolo 33: *** Epilogo. 1917. Guardando verso il futuro ***



Capitolo 1
*** Prologo. Ad occhi chiusi ***


Prologo
Ad occhi chiusi



 
Sotterranei di Central City, primavera 1916.
 
“Tenente!... Tenente!”
La voce proveniva da molto lontano, tanto che ad un certo punto Riza fu sicura di essersela solo sognata.
Attorno a lei era tutto buio e anche il suo corpo iniziava a perdere sensibilità del mondo che la circondava.
Le pareva di galleggiare in un mare fresco e avvolgente, dove il tempo non scorreva più: l’unica fonte di calore che continuava a sentire era nel suo collo, ma non riusciva a capire per quale strano motivo ci fosse un simile fenomeno.
“Tenente!”
La voce tornò prepotente dal sogno, facendola sobbalzare, o almeno fu certa che in una sua vecchia esistenza sarebbe stato quello l’effetto che avrebbe suscitato in lei. Si sforzò di collegarla a qualcuno, ma era troppo faticoso.
A dire il vero tutto quello che desiderava era stare in quel limbo fresco e confortevole, dove tutte le sofferenze non esistevano.
Perché di una cosa era certa: al di fuori di quel buio c’era un mondo pieno di dolore e paura. L’eco di un ricordo le fece tornare alla memoria delle sabbie roventi, con granelli di fuoco che le penetravano negli occhi che, tuttavia, non riuscivano a piangere. Le fece tornare alla mente un dolore tremendo e pungente alla schiena e poi un altro più devastante.
Si raggomitolò su se stessa: non voleva tornare, non voleva soffrire di nuovo.
Voleva cancellare tutto, persino la sua vera identità: che importava il suo nome, chi era, che cosa faceva?
Meglio addormentarsi per sempre lì, in quel posto sicuro ed isolato.
No, non voglio più riaprire gli occhi.
Troppa fatica, non ne voleva la pena.
“Tenente! Resta con me! Non lasciarmi!”
Quelle ultime due parole le procurarono un forte ed improvviso battito del cuore, risvegliandola bruscamente. Il buio era ancora attorno a lei, promessa di sicurezza ed oblio, ma qualcosa non andava.
Non riusciva più ad abbandonarsi ad esso come voleva.
Improvvisamente la sua memoria esplose di ricordi, di visi conosciuti, di voci che la chiamavano con insistenza. Le parve di impazzire, ma poi una voce prevalse su tutti.
Era la voce di una bambina, una voce che conosceva benissimo.
La sua.
“Non lasciarmi – continuava a ripetere tra i singhiozzi – non lasciarmi…”
E non c’era più il fresco, ma caldo… tanto caldo.
Il torrido e secco caldo di quella lontana estate.
Era il 2 agosto del 1899.
Era il giorno in cui si scoprì sola al mondo.





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Salve a tutti, eccomi qua, in barba alla mia buona intenzione di terminare prima la raccolta di Inside.
Ma come ho anticipato nella mia pagina facebook, quando l'ispirazione ti prende non ne puoi fare a meno.
E dunque eccoci all'anticipata long sulla vita di Riza.
Per chi ha già seguito le mie fic, seguirò lo schema già adottato nelle fic che raccontano il passato dei nostri personaggi (Brothers in arm e The memory man), parendo da un prologo che ci conduce nel passato per poi ricollegarmi ad esso e dunque, in questo caso, agli avvenimenti del giorno della promessa.
Spero che mi seguirete anche in questa avventura!
Ringrazio già chi la seguirà, la ricorderà, la preferirà e la recensirà! 
Enjoy!

Laylath

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1. 1899. Sola ***


Capitolo 1
1899. Sola




 
Poco lontano da East City.
 
Non lasciarmi, non lasciarmi…
La bambina si lasciò scivolare contro il muro scrostato del corridoio, accovacciandosi sui talloni e tappandosi le orecchie con le mani nel vano tentativo di cacciare via il terrore che la stava attanagliando, rendendole difficile persino respirare. Le lacrime scorrevano copiose sulle sue guance pallide e scavate e poi cadevano sul pavimento di legno impolverato, dove avevano ormai formato una piccola chiazza più scura.
Si sentiva impazzire ad attendere accanto a quella porta ormai chiusa da ore, dalla quale continuavano a trapelare delle voci e soprattutto quella tosse così tremenda, spesso accompagnata da rantoli disperati.
Era terrorizzata all’idea di quanto stava accadendo dentro quella stanza, al pensiero di restare sola con lui in quella casa così grande e cupa.
Ma sua madre stava morendo, non c’era speranza.
Era perfettamente consapevole che il dottore non poteva fare niente.
L’aveva capito subito, sin da quando, qualche ora prima, l’aveva vista accasciarsi nel pavimento tossendo sangue. Era stato l’attacco più brutto a cui la bambina avesse assistito in quegli ultimi anni, da quando la malattia materna si era aggravata: mai il corpo sottile e fragile della donna era stato squarciato dalla tosse con una simile violenza, come se fili invisibili la strattonassero senza alcuna pietà.
“… non lasciarmi…” mormorò con voce flebile, quasi a cercare di cacciare via quella tremenda prospettiva che stava diventando ogni minuto più reale.
Si raggomitolò ancora di più su se stessa, iniziando a dondolarsi lievemente in un precario equilibrio. La stanchezza e il dolore la portarono a ripetere quella frase come fosse una litania, facendole perdere la cognizione del tempo, le sensazioni del suo corpo, gli stimoli del mondo esterno. La sua mente esausta si convinse che restando in quella posizione sarebbe stata in qualche modo protetta e che la situazione non si sarebbe spostata da quel limbo d’attesa che, tutto sommato, offriva ancora una labile speranza.
 
Non seppe per quanto tempo rimase in quella posizione quasi fetale.
Venne ridestata dalle voci che, improvvisamente, avevano alzato il loro tono, come se non ci fosse più bisogno di parlare sommessamente per evitare di disturbare la malata.
 “… povera donna, ma almeno adesso ha smesso di soffrire…”
La bambina riconobbe a malapena la voce della grassa vicina di casa che già diverse volte era venuta ad aiutare quando sua madre era stata male.
“… era solo questione di tempo – la voce più dura del medico sembrava parecchio irritata – Del resto l’avevo detto più volte alla signora: in una casa come questa la malattia sarebbe prima o poi degenerata. Le avevo suggerito di andare in un posto più idoneo alla sua costituzione delicata: con la tisi non si scherza.”
“Oh, parole buttate al vento, dottore, lo sa benissimo! Con quella specie di marito la sua salute era sicuramente agli ultimi posti per importanza. Poveraccia! Chissà cosa ha spinto una giovane così carina ed educata a sposare uno come quello… non si è fatto più vedere da quando siamo arrivati: è sicuramente chiuso nel suo studio! Eppure le condizioni della signora erano apparse da subito critiche.”
“Misteri di questa famiglia, mia cara signora. Forza, andiamo ad avvisarlo che è tutto finito.”
La porta venne aperta con un fastidioso cigolare dei cardini poco oliati, un rumore che ebbe il potere di far scorrere un brivido lungo tutta la spina dorsale della bambina. Si alzò in piedi con apatia, sentendo le gambe che formicolavano e protestavano per la posizione accovacciata assunta per troppo tempo.
“Oh, cara – la signora Berth si accorse della sua presenza e le posò una mano grassoccia sulla spalla – sei rimasta qui tutto il tempo? Ehi, Riza, mi ascolti?”
Riza Hawkeye si riscosse nel sentir pronunciare il suo nome: alzò gli occhi lucidi su quel viso flaccido, non riuscendo ad esprimere né dolore né rabbia. Nessuna emozione: erano state tutte prosciugate in quell’attesa così tremenda, snervante e senza speranza.
“Riza, la mamma non c’è più.”
Annuì appena a quella dichiarazione: che altro poteva fare? Lo sapeva benissimo che sua madre non c’era più, l’aveva capito da molto prima di loro.
“Posso vederla?” lo chiese con voce flebile, sentendo che le labbra tiravano fastidiosamente per quanto erano secche.
Vide i due adulti scambiarsi una rapida occhiata, probabilmente si stavano chiedendo se era appropriato che una bambina di nove anni appena vedesse una persona morta. A dire il vero nemmeno Riza era sicura di volerla vedere: il ricordo di quel viso deformato dagli spasmi della tosse e dalle labbra chiazzate di sangue l’aveva turbata tanto. Sicuramente, dopo tante ore di agonia, la situazione non poteva che essere peggiorata.
E poi… com’era sua madre da morta? La morte era una cosa brutta, tremenda, ma non aveva idea di come potesse cambiare una persona: in qualche modo la portava via, ma il corpo restava.
“Ma sì, cara – la signora Berth annuì con pazienza – è più che giusto che tu la veda. Mi raccomando, non ti spaventare troppo: ci sono diversi asciugamani sporchi di sangue come quando aveva le sue crisi e forse vederla ti farà impressione. Ma è sempre tua madre, non dimenticarlo. Vieni, andiamo pure.”
“Allora io andrò ad avvisare il signor Hawkeye: bisogna organizzare i funerali… con questo caldo torrido è meglio provvedere al più presto.”
Riza girò il viso ad osservare l’anziano dottore che si allontanava nel corridoio, di contrasto la mano della signora Berth la spinse con gentilezza verso quella soglia semichiusa oltre la quale proveniva uno sgradevole odore di disinfettante misto a sangue, sudore e qualcosa di nuovo che la bambina non riuscì a definire che col nome di morte.
“Coraggio, mia cara…”
Le parole della signora Berth sembravano provenire da molto lontano mentre la porta veniva aperta del tutto. Riza si irrigidì e puntò lo sguardo sul pavimento di legno tarlato, dove alcune pezze chiazzate di rosso spiccavano come bizzarri fiori. Voleva scappare da quella stanza: tutto il suo corpo la implorava di correre via, lontano da quel bizzarro odore che le faceva salire la nausea.
Ma nel frattempo la mano della donna la guidava lentamente ed inesorabilmente verso il letto.
Un passo dopo l’altro, i suoi piedi parevano muoversi per una forza esterna che cozzava contro la sua volontà. Si fermarono solo quando le lenzuola entrarono nel suo campo visivo.
Erano le lenzuola buone della mamma, quelle bianche con una fantasia di piccoli fiori gialli che lei stessa aveva ricamato sul bordo. Ci teneva sempre che fossero ben tirate e sistemate, ma questa volta non era così: erano stropicciate, chiazzate in più punti… non solo di sangue. L’idea che sua madre si fosse lasciata andare in quel modo fece salire un conato di vomito che Riza represse a stento.
Istintivamente spostò lo sguardo verso la testa del letto, ma si bloccò quando vide una mano bianca, stranamente rigida nel tentativo di tenere la presa sul lenzuolo.
Ansimò con disperazione e d’istinto, nonostante non fosse una bambina propensa al contatto fisico, si strinse alla vita della signora Berth.
Non voleva guardare oltre, non poteva guardare oltre. Sarebbe stato orribile, lo sapeva: già quella mano era tremenda da vedere, come un artiglio di una strega malvagia.
Ma ancora una volta il suo corpo fece il contrario di quanto la sua volontà le chiedeva: i suoi occhi castani continuarono la loro scalata… dalla mano, al braccio coperto dalla leggera camicia da notte, così innaturalmente spiegazzata. E poi i capelli biondi, tanto uguali ai suoi, che tuttavia avevano assunto un colore più bagnato, vicino al castano: così scompigliati e spettinati, appiccicati sulle spalle e sul cuscino.
“Forse avrei dovuto farti attendere fuori mentre la sistemavo un po’…” la voce della signora Berth parlò ancora da molto lontano. Questa volta troppo.
Riza era appena arrivata al viso di sua madre.
Non è la mamma… non è la mamma…
La sua anima gridò quelle frasi mentre cercava in quei lineamenti storpiati e contratti il sorriso dolce e stanco di sua madre. C’era ben poco di Elizabeth Hawkeye in quella grottesca visione i cui zigomi risaltavano in maniera così tremenda e il cui pallore era accentuato da alcune chiazze livide sotto gli occhi… ancora aperti, praticamente spalancati, a fissare un qualcosa di grandioso e terribile che solo i morti potevano vedere.
C’era un non so che di surreale in quelle pupille dilatate, in quelle iridi il cui castano aveva perso qualsiasi forma di calore, facendo sembrare gli occhi qualcosa di ultraterreno. Per un tremendo secondo Riza ebbe l’impressione che quel viso storpiato dalla morte si girasse improvvisamente verso di lei, che quelle labbra gonfie e sporche di sangue pronunciassero il suo nome.
“… non… non lasciarmi…”
Le sue labbra si mossero appena in quella silenziosa preghiera che l’aveva cullata per così tanto tempo.
Ma in quel corpo devastato che stava davanti a lei, in quel letto disfatto, non c’era più una persona.
Quella non era più sua madre.
Era sola.
 
I funerali di Elisabeth Hawkeye si svolsero quella sera stessa, poco prima del tramonto.
Nel primo pomeriggio un uomo era venuto in tutta fretta a prendere le misure per  poter fare la cassa di legno dove deporre la defunta. Nell’arco di due ore nella casa era risuonato il rumore del martello che chiudeva per sempre quel coperchio di assi chiare.
“Già l’ambiente è malsano, questo caldo farebbe il resto: bisogna provvedere subito alla sepoltura.”
Era stata questa la decisione del medico, avvallata anche dall’odore nauseante che aveva invaso quasi da subito la stanza della defunta. C’era stato giusto il tempo di dare un minimo di contegno a quel povero cadavere straziato dall’ultima crisi della malattia. La signora Berth aveva sistemato i capelli, composto le braccia, chiuso gli occhi che fissavano un mondo che non c’era, almeno per i vivi.
Ma Riza non aveva visto niente di tutto ciò.
Era rimasta in camera sua, sdraiata nel suo letto, raggomitolata su se stessa, incurante dei rivoli di sudore che le colavano sul collo. Aveva cercato di cancellare dalla sua mente l’immagine del viso di sua madre, ma non c’era stato sforzo che avesse ottenuto un minimo risultato. E così era scivolata in un tormentato stato di dormiveglia dal quale l’aveva destata la signora Berth qualche ora dopo, quando l’aveva scossa gentilmente e le aveva suggerito di lavarsi il viso prima di indossare un abito scuro per andare al funerale.
E ora Riza si trovava lì, in quel povero cimitero di campagna, poco lontano da casa sua, dove a farla da padrone erano radi alberi scheletrici che non trovavano mai la forza di fiorire, davanti a quella fossa che veniva riempita da un becchino che sicuramente non vedeva l’ora di terminare il suo lavoro data l’ora tarda. Non c’era stato il tempo di fare una lapide decente, si sarebbe provveduto nei giorni successivi: per ora ci si doveva accontentare di un bastone piantato nel terreno con un cartello che indicava i poveri dati della defunta.
Elisabeth Hawkeye 4 Aprile 1866 – 2 agosto 1899.
“Possa trovare la pace che non ha avuto in vita, povera donna.”
La voce della signora Berth accompagnò l’ultima badilata di terra, spezzando il silenzio surreale che aveva fatto da contorno a quella sepoltura. Nessuno aveva detto niente fino a quel momento: né il dottore, né il becchino… né lui.
Riza pensò che sua madre se ne andava così, senza nemmeno un soffio di vento a salutarla veramente, solo un torrido caldo che rendeva l’aria irrespirabile anche quando il rosso del tramonto iniziava a comparire. Si sarebbe ricordato di lei solo il becchino quando avrebbe messo la lapide al posto di quel povero cartello appeso a quel ramo secco.
Poi niente, tutto finito.
Era dunque questa la morte, almeno per quanto concerneva sua madre.
Questi cupi pensieri la tennero con gli occhi incollati al suolo, mentre i passi attorno a lei indicavano che il funerale era terminato. La mano della signora Berth la incitò a girarsi da quel cumulo di terra scura.
Non aveva pianto, non aveva supplicato: si sentiva esausta, svuotata di tutto quanto potesse provare, con un senso di solitudine che diventava sempre più incombente. Sembrava che fosse del tutto dipendente da quella grassa donna che la incitava a compiere anche le azioni più ordinarie come camminare.
Seguì passivamente la sua accompagnatrice fuori dal cimitero, rendendosi solo vagamente conto che davanti a loro camminava un’altra figura, quella che forse era stata la più silenziosa in quella surreale giornata.
“Signor Hawkeye – disse la signora Berth, quando ormai furono vicini alla vecchia villa – lei e la bambina non avete mangiato niente per tutto il giorno. Volete che venga a preparare qualcosa? Immagino che non siate molto propensi a cucinare.”
“No, non sarà necessario: ci arrangeremo. Torni pure a casa, signora e grazie per essersi presa cura di mia moglie.”
Quella voce parlò per la prima volta, bassa e tagliente sebbene ci fosse un tentativo di essere educata nei confronti della donna che aveva assistito Elisabeth. Ma Riza sapeva che era una voce che raramente era capace di esprimere sentimenti e che, le poche volte che succedeva, non erano certo buoni. Se doveva essere sincera, la bambina preferiva suo padre nella solita versione silenziosa con la quale aveva imparato a convivere.
“Oh bene, come preferisce – annuì la signora Berth con una nota di sollievo che l’orecchio acuto della bimba riconobbe – cercate di riposare, mi raccomando. E tu, cara, mangia qualcosa di leggero e poi vai subito a dormire. Fatti forza, coraggio. Pensa che almeno ora la mamma non soffre più.”
Ma mi ha lasciato sola…
Riza avrebbe voluto dire quella frase che esprimeva tutta la sua disperazione, ma riuscì appena ad annuire.
Sentì la mano grassoccia che le stringeva la spalla in un gesto goffo di conforto e poi rimase lì, in mezzo al sentiero polveroso, con suo padre a pochi metri da lei.
Per la prima volta alzò lo sguardo sul genitore, su quella figura quasi estranea che viveva sotto il suo stesso tetto. Aveva sofferto per la morte della mamma? Pure lui stava provando quella tremenda sensazione di vuoto che attanagliava lo stomaco?
Gli occhi azzurri erano stanchi, i lunghi capelli castano chiari pettinati alla bell’e meglio, il viso tirato. Ma non c’era alcuna espressione di dolore, solo rassegnazione. Come se anche lui fosse stato consapevole che questo momento sarebbe prima o poi arrivato, senza che loro potessero fare niente.
Era una forma d’amore? Riza non lo seppe dire.
E a dire il vero non aveva nemmeno voglia di pensarci.
 
Il calare del buio la trovò in cucina, davanti ad un piatto di minestra che si era cucinata da sola di malavoglia e che non aveva ancora toccato. Si disse che avrebbe dovuto mangiare, fare i piatti, lavarsi ed andare a letto, proprio come era abituata a fare quando la mamma stava troppo male per occuparsi delle faccende domestiche.
Ma questa volta era diverso: non era più per un periodo di tempo ridotto, sarebbe stato per sempre.
I piatti da lavare sarebbero stati due e non tre, così come i bicchieri e le posate. Non sarebbe più stato necessario andare nella camera matrimoniale ed annunciare che tutto era in ordine e che era arrivata l’ora di dormire.
Che cosa devo fare adesso?
Se lo chiese con ansia, osservando quel piatto vuoto davanti a lei, il cui proprietario non si era nemmeno degnato di comparire in cucina. Non che fosse strano: era più che normale che Berthold Hawkeye passasse ore e ore nel suo studio, perdendo la cognizione del tempo. Ma quel giorno era morta sua moglie, forse avrebbe potuto fare un’eccezione.
Sono sola…
Prese il cucchiaio e rigirò la sua minestra per qualche secondo.
Poi con un sospiro si alzò dal tavolo e andò in camera sua, buttandosi nel letto ancora vestita.
Non aveva lavato i piatti, né si era preparata per la notte.
Non importava a nessuno del resto.
Chiudendo gli occhi pregò che il ricordo del viso di sua madre non si presentasse nei suoi sogni.
Sarebbe stata l’unica grazia dopo quella giornata che aveva sconvolto la sua esistenza.




__________________
Eccomi qua con il primo capitolo che ci introduce nell'infanzia di Riza.
Ho prefertio creare delle dinamiche molto diverse sulla morte di Elisabeth rispetto a quelle più gentili di Un anno per crescere in quanto si tratta di due universi completamente separati. Ho solo tenuto il giorno di nascita e quello di morte, sebbene siano cambiati gli anni di riferimento.
E' più breve del mio solito, lo so, ma preferisco aspettare il capitolo successivo per introdurre ulteriormente la figura di quel "gran padre" che è Berthold.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2. 1899 - 1900. Chi si perde e chi no ***


Capitolo 2
1899 - 1900. Chi si perde e chi no




 
Era il due agosto quando Elisabeth Hawkeye morì.
Per le settimane che seguirono Riza si lasciò completamente andare, diventando una sorta di pallido fantasma che vagava smarrito per le stanze impolverate e in penombra della villetta. Mangiava pochissimo e ad intervalli irregolari, quando il suo corpo la obbligava a cercare un minimo di nutrimento: si metteva il cibo in bocca senza sentirne il sapore, prendendolo direttamente dalla credenza, senza nemmeno preoccuparsi di cucinare veramente qualcosa. Si lavava pochissimo, limitandosi piuttosto a cambiarsi i vestiti quando il prurito sulla pelle diventava troppo fastidioso: i suoi bei capelli biondi, lunghi fin sotto le spalle erano lerci e pieni di nodi tanto che era diventato impossibile pettinarli.
Non usciva mai di casa, raramente andava nel giardino pieno di erbacce secche: camminava per le stanze con aria apatica fino a quando qualche dettaglio le riportava alla memoria un ricordo della madre. Allora si sdraiava sul pavimento impolverato, raggomitolandosi su se stessa, e chiudeva gli occhi, preferendo vivere in quel mondo d’illusione dove Elisabeth era ancora viva e si prendeva cura di lei.
Poteva restare ore ed ore in una simile posizione, persa in quello strano dormiveglia: poi qualche esigenza del suo corpo come fame o bisogni fisiologici la risvegliava e allora ritornava ad essere quel piccolo fantasma così inquietante.
Era vagamente consapevole che con un simile atteggiamento si sarebbe ammalata e alla lunga sarebbe morta; ma era una bambina di soli nove anni che aveva appena vissuto un trauma tremendo e che era stata abbandonata a se stessa. Di suo padre si era persino dimenticata l’esistenza: era come se per una strana legge magica fossero destinati a non incontrarsi mai nonostante fossero sotto lo stesso tetto. Forse era per merito suo che nella credenza c’era sempre cibo, ma a questo Riza non pensava ridotta com’era ad uno strano automa con la carica quasi finita.
L’unica cosa che sapeva era che nel mondo ad occhi chiusi c’era sua madre ed era questo che importava.
 
A fine agosto ormai era allo stremo delle forze.
Persino camminare era diventato difficoltoso e si doveva continuamente aggrappare a qualcosa per aiutare le gambe che ogni tre passi cedevano. Stare in piedi le provocava spesso nausee e tremendi capogiri, ma non se ne preoccupava troppo: bastava sdraiarsi, chiudere gli occhi ed andare nel mondo della mamma. Lì stava bene, era felice… iniziava a chiedersi se non era il caso di starci per sempre.
“Riza! Bambina mia, erano settimane che non ti vedevo… ma che hai?”
Alzò vagamente lo sguardo e si accorse di essere nel cortile: non si ricordava nemmeno di essere uscita, forse il corridoio era finito prima del previsto. Guardò con apatia quel donnone dagli spenti capelli castani raccolti in una grossa crocchia e si chiese dove l’aveva già visto. La sua voce le suonava familiare, ma non riusciva a ricollegarla a qualcuno.
“Santo cielo, piccola, ma come sei ridotta? Sei un fantasmino… ma stai mangiando? Sei così pallida… e scotti per la febbre! – una mano grassoccia e fresca le tastò la fronte, un contatto fisico che scosse la bambina come se un fulmine l’avesse colpita – Qui bisogna assolutamente chiamare il medico! Il cielo non voglia che ti stia ammalando come la tua povera mamma!”
Ammalata la mamma? – Riza non riuscì nemmeno a schiudere le labbra mentre veniva sollevata di peso – Ma non è vero… la mamma sta bene, abbiamo letto un libro fino a poco fa… mamma, diglielo anche tu… diglielo, per favore.
 
“Allora, dottore?”
“No, non è tisi.”
“Sia ringraziato il cielo, almeno in questo è stata fortunata. Ma questa febbre?”
“Trascurandosi in questo modo e con questo caldo di fine estate è una conseguenza più che normale. Dannazione, signor Hawkeye, non si rendeva conto che sua figlia le stava morendo sotto gli occhi.”
Ci fu un lungo e cupo silenzio in risposta.
“Doveva capire che la bambina aveva bisogno di assistenza: non è in un solo giorno che si è ridotta così – adesso quella voce maschile e profonda era davvero furiosa – ha nove anni! E lei è l’unico parente che abbia: è una sua responsabilità prendersi cura di sua figlia!”
Ci fu ancora un grave silenzio e poi la voce che aveva parlato per prima si sentì di nuovo.
“Se vuole, signor Hawkeye, in questi primi giorni che Riza è molto debole, posso darle una mano: mi sono spesso occupata di sua moglie e la bambina mi conosce. Ci vuole pazienza e dolcezza.”
“Grazie, signora Berth…”
Quella voce parlò per la prima volta e a quel punto Riza abbandonò quel briciolo di coscienza per tornare a sprofondare nell’oblio, dove però non c’era più sua madre.
 
La febbre la tormentò per quegli ultimi giorni di caldo afoso: riusciva a stare cosciente il tempo per venire imboccata con pazienza dalla signora Berth. In quei momenti, sebbene non avesse la forza di parlare, si rendeva conto di dove si trovava e del fatto che sua madre era morta, ma non riusciva a ricordare per quale motivo si fosse ridotta in quello stato.
“Oh, finalmente le piogge di settembre! – esclamò la signora Berth il quarto giorno, guardando dalla finestra – Adesso questo caldo torrido andrà via! Speriamo che un’estate così rovente non si presenti più per molto tempo, non ho ragione?”
La pioggia.
A Riza sembrava quasi un evento fantastico da tanto non la vedeva: trovò persino la forza di mettersi seduta con la schiena posata sul cuscino per potersi godere meglio lo spettacolo. Era la prima volta dopo la morte di sua madre che dava così tanta attenzione ad un fenomeno del mondo esterno.
Osservò quelle gocce scivolare sui vetri come se fossero la cosa più strana del mondo, così come il ticchettio che producevano. Erano tutte cose che risvegliavano i suoi sensi.
“Sudata…” disse con voce roca, toccandosi il colletto della camicia da notte.
“Sudata e sporca – annuì la signora Berth, lieta di vederla partecipe – non appena starai meglio la prima cosa che farai è un bagno per levare tutto lo strato di lerciume che hai addosso. Forse non ti rendi conto dell’odore che emani, bambina mia. E anche per questi capelli dovremo fare qualcosa: credo che diverse ciocche saranno proprio da tagliare.”
A quella frase fu come se il naso di Riza si stappasse e si rese conto dell’odore che invadeva la sua piccola persona. Arricciò il naso con disgusto, provando estrema vergogna nell’essersi lasciata andare in un simile modo. Come era stato possibile?
Non ebbe tempo di pensarci perché la signora Berth la aiutò ad alzarsi dal letto in modo da poter cambiare le lenzuola. Seduta su una sedia proprio accanto alla finestra, la bambina riprese ad osservare quelle gocce che scivolavano sui vetri.
Tutt’ad un tratto si accorse che delle lacrime stavano rotolando sulle sue guance: aveva iniziato a piangere senza nemmeno rendersene conto.
Perché? – si chiese con perplessità.
“Oh, povera anima! – la signora Berth si accostò a lei – la mamma ti deve mancare davvero tanto, eh?”
“La mamma?” mormorò con perplessità, guardandosi una mano con la quale si era asciugata la guancia umida delle sue lacrime.
Qualcosa si ruppe dentro di lei, facendo fuoriuscire un dolore nuovo e tremendo che era stato per settimane arginato dall’apatia. Le lacrime presero a scorrere più intense ed un forte e disperato singhiozzo le scoppiò in gola.
Era così: la mamma non sarebbe tornata mai più da lei. Aveva pensato di poterla rivedere in quel mondo ad occhi chiusi, ma era solo una bugia: adesso era sepolta nel cimitero del paese e non sarebbe mai più stata al suo fianco.
Fu questione di due secondi prima che finalmente sfogasse il dolore della sua perdita tra le braccia della signora Berth.
 
Una settimana dopo, grazie alle cure della corpulenta donna, Riza era di nuovo in grado di occuparsi di se stessa. La febbre le era sparita del tutto e aveva a ripreso a mangiare regolarmente, ridando energia al suo corpo debilitato. Il medico dopo averla visitata dichiarò che aveva completamente superato la crisi, per quanto restasse ancora leggermente sottopeso.
E si era tagliata i capelli.
A dire il vero era stato in parte necessario dato che alcune ciocche erano così annodate e sporche da arrendersi solo alle forbici. Tuttavia la bambina aveva chiesto alla signora Berth di tagliarli ancora più corti: sentirli sul collo e sulle spalle ora le dava fastidio e le ricordava gli spiacevoli giorni in cui il sudore non faceva altro che colare per poi infiltrarsi nella schiena. Fino a qualche mese prima aveva sempre voluto avere i capelli lunghi e belli come quelli della madre, ma ora non le importava più.
Finalmente riottenne la sua indipendenza: la signora Berth si convinse che ormai era in grado di gestirsi da sola anche per i pasti e così le sue visite divennero sempre più rade, limitandosi a qualche saluto o a qualche dolce occasionale che portava per lei e suo padre. Una discrezione che per una bambina solitaria come Riza fu più che gradita.
Era quindi metà settembre quando la ragazzina si sedette a cenare, particolarmente fiera di come le era uscito lo stufato.
Si mise diligentemente il tovagliolo in grembo e si apprestò a prendere la prima cucchiaiata quando suo padre entrò in cucina e si sedette davanti a lei. Subito calò un pesante silenzio, con Riza che abbassò timidamente lo sguardo sul suo piatto, chiedendosi cosa potesse volere da lei. Si rese conto che aveva apparecchiato solo per se stessa e chiese con voce flebile.
“D… devo apparecchiare anche per te?”
“No, ho mangiato prima.”
Non c’era niente da fare: quella voce continuava a procurarle un senso di disagio, così come quella presenza. Non riusciva nemmeno ad essere arrabbiata con lui per la sua mancanza come padre: era una figura così inquietante ed estranea che preferiva non averci troppo a che fare. E fino a qualche secondo fa era convinta che la cosa fosse stata reciproca. Insomma, era apparso chiaro che la morte della mamma non aveva assolutamente cambiato il rapporto di fredda ignoranza che intercorreva tra loro.
“Dobbiamo pensare alla tua educazione.”
Quella dichiarazione fu così sorprendente che Riza alzò lo sguardo su suo padre, soffermandosi per la prima volta su quel viso magro, su quegli occhi azzurri e stanchi, nascosti in parte dalle lunghe ciocche di capelli che cadevano sulla fronte. Stava parlando sul serio? Da quando gli importava della sua educazione? E poi, che cosa voleva dire? Lei sapeva già leggere e scrivere: gliel’aveva insegnato la mamma con i suoi bellissimi libri di poesie.
“Non… non credo che…” iniziò con timidezza.
“La signora Berth ed il medico mi hanno fatto notare che effettivamente non sei mai andata a scuola e questo non va bene. Dalle poesie di tua madre hai imparato ben poco del mondo.”
Riza scosse lievemente il capo, sentendosi in parte offesa. Tuttavia un lieve terrore si stava impossessando di lei: non era che suo padre aveva avuto la folle idea di farle da insegnante? Di che cosa poi? Di quella strana materia chiamata alchimia che lo assorbiva completamente.
Oh no, non voglio studiare quella brutta cosa… diventerei come lui!
“… la scuola è lontana…” ammise, ricordandosi che esisteva un edificio scolastico a più di mezz’ora di camminata dal piccolo agglomerato di case sparse dove abitavano lei e suo padre. E poi sua madre non aveva mai parlato di mandarla a scuola: sicuramente aveva intenzione di provvedere lei stessa alla sua educazione.
“La signora Berth mi ha parlato di una vecchia insegnate in pensione che abita poco distante da noi – disse il padre con voce piatta – da lunedì andrai da lei la mattina per qualche ora. Tramite la nostra vicina sono stati già presi accordi per il pagamento. E’ giusto che ti dia una buona educazione, ti servirà per la vita.”
Riza rimase senza parole davanti a quell’annuncio.
Voleva opporsi con tutte le sue forze: non aveva nessuna intenzione di andare a studiare con un’estranea.
“Potrei fare da sola…” pigolò alla fine, tenendo lo sguardo basso.
“Non dire sciocchezze – tagliò corto il padre – questo è quanto. Adesso finisci pure di cenare.”
Si alzò dalla sedia e uscì dalla cucina, lasciando sola la figlia con i suoi pensieri.
 
La signorina Magda Elliot era alta, secca e con gli occhi azzurri e duri. Teneva i capelli striati di grigio raccolti in una severa crocchia che le tirava la fronte fino a far sparire le rughe dell’età. Al contrario della pettinatura della signora Berth, nessun capello era fuori posto, complici svariate forcine che stavano ordinate ai lati della testa.
Aveva circa sessantacinque anni ed abitava in una casetta a dieci minuti dalla villetta degli Hawkeye.
Quando Riza la vide per la prima volta, completamente vestita di nero, fu tentata di correre via tanto quella donna la spaventava, ma fu costretta ad entrare per via del tacito ordine che esprimevano quegli occhi che sicuramente avevano fatto tremare intere classi di scolari.
Tenendo lo sguardo basso, la bambina venne condotta in un piccolo salotto, con un due finestre ai lati opposti: una aperta verso il lato dell’alba, l’altra verso quello del tramonto. Vinta dalla curiosità di trovarsi in un ambiente nuovo, la ragazzina sbirciò con attenzione l’arredamento: sui muri vi era una graziosa carta da parati verde chiaro che ben si accostava alle cornici di legno scuro di alcuni piccoli quadri; sulla parete opposta a quella dove stava il camino vi era una piccola ed ordinata libreria, sopra la quale stava una vecchia pendola le cui lancette avanzavano pesantemente.
Era una camera completamente diversa da qualsiasi ambiente di casa Hawkeye. Era pulita, luminosa, non c’era niente fuori posto: rifletteva sicuramente la meticolosità della padrona.
“Siediti al tavolo, in modo che la luce ti arrivi bene.”
La voce della signorina Elliot giunse sferzante ed improvvisa, tanto che Riza sussultò rischiando di far cadere i due quaderni vuoti che aveva portato con sé. Con esitazione obbedì all’ordine non osando nemmeno posare il suo materiale scolastico su quel tavolo di legno scuro dalla superficie lucida e perfetta.
“Presumo che ti abbiano detto come mi chiamo – iniziò la donna con voce calma, squadrandola con attenzione – ma è giusto fare le presentazioni di persona: sono la signorina Magda Elliot, ma tu puoi chiamarmi signorina Elliot o maestra, se ti viene più semplice. Ricordati di darmi sempre del lei, è fondamentale per una bambina ben educata. Adesso, innanzitutto, tieni ben dritta quella schiena e guardami negli occhi: presentati, coraggio.”
A Riza mancò il fiato, ma ancora una volta gli occhi di quella donna la obbligarono ad obbedire.
“Mi… mi chiamo Riza Hawkeye, signorina Elliot.”
“Quanti anni hai?”
“Ne ho compiuti nove a fine giugno, signorina Elliot.”
“Allora dovresti essere tra la quarta e la quinta classe: dimmi quello che hai imparato fino ad adesso.”
A quella domanda Riza si sentì il cuore in gola: intuiva che tutte le poesie che aveva letto non sarebbero di certo bastate a quella donna così severa. Certamente quello che si imparava a scuola era ben altro, ma lei non aveva la minima idea di cosa si trattasse.
“So… so leggere e scrivere, signorina Elliot.”
“Fare di conto?”
“… so… so contare fino a cento, signorina Elliot.”
“Addizioni, sottrazioni e quanto altro? Hmpf, dalla tua faccia capisco che non sai nemmeno di che cosa parlo, vero? Storia, geografia… la capitale di Amestris sai qual è?”
“No, signorina Elliot…” ammise Riza, vergognosa di dire che non sapeva nemmeno cosa fosse una capitale.
“La signora Berth mi aveva detto che eri un caso particolare, ma non pensavo così tanto – dichiarò la donna, andando verso la libreria e iniziando a prendere diversi volumi – ci sarà parecchio da lavorare. Tuo padre vuole che ti venga impartita una buona educazione e sono d’accordo con lui. E’ scandaloso che tu non sia andata a scuola.”
“Mi insegnava mia madre!” protestò Riza, sentendosi ferita nell’orgoglio.
“Ha tralasciato parecchio, mi pare – commentò la donna, andando a sedersi davanti a lei – forza, per prima cosa apri il quaderno: adesso ti detterò un brano perché voglio rendermi conto della tua ortografia. Poi vediamo come te la cavi in lettura. In questo modo potremmo buttare giù un programma di studio. E ti avviso: non mi piacciono le bambine svogliate e disattente.”
Era una minaccia? Riza non lo seppe dire, ma la sua schiena si raddrizzò ulteriormente.
 
Quando era viva sua madre Riza non aveva mai avuto una giornata regolare.
Sì certo, i pasti erano più o meno alle stesse ore, ma per il resto le varie attività si svolgevano a seconda della disponibilità materna: quando aveva salute e voglia Elisabeth si dedicava all’educazione scolastica della figlia, altre volte le insegnava a cucinare, tuttavia il tutto era sempre mischiato e confusionario.
La prima cosa che fece la signorina Elliot fu di dare a Riza l’impostazione della regolarità e della puntualità: ogni giorno della settimana aveva delle materie precise a cui dedicarsi e a queste la bambina si doveva attenere.
Per Riza, abituata a sfarfallare con la testa come e quando le andava, o comunque secondo i ritmi materni, quella novità fu molto destabilizzante. Non importava se la materia non le piacesse: se per un’ora e più ci si doveva dedicare così doveva essere. Fu così che scoprì come c’era ben altro oltre la poesia e che quello che le aveva insegnato sua madre non era che una piccola parte dell’immenso sapere che si imparava a scuola.
La signorina Elliot, nonostante la scorza dura e severa, era un’insegnante molto abile e fu rapida a trovare un metodo adatto per la sua particolare allieva.
“Stasera a casa devi fare tutta questa pagina di operazioni – disse una mattina, mentre facevano una pausa e Riza mangiava una fetta di torta che le era stata offerta – sei debole in matematica.”
“Ma devo già fare una composizione di storia!” protestò la bambina.
“Organizzati e vedrai che potrai fare entrambe le cose.”
Riza annuì, guardando con timore la bacchetta che stava posata sul tavolo, onnipresente.
L’aveva provata diverse volte i primi giorni, sempre sul dorso delle mani: se la signorina Elliot pretendeva una cosa da lei così doveva essere. Non fare i compiti a casa voleva dire venir puniti, una novità a cui Riza non era per niente abituata.
La prima volta era stata tentata di dirlo a suo padre, ma una volta rientrata a casa tutta la sua baldanza era svanita. Del resto era lui che l’aveva mandata dalla signorina Elliot: come minimo avrebbe preso le sue difese, o comunque non le avrebbe dato ascolto. Di conseguenza aveva stretto i denti nel curarsi da sola quelle ferite ed era arrivata alla triste conclusione che era una sua battaglia personale.
Così come lo era la matematica… come molte altre materie.
 
Nonostante tutto, col passare dei mesi, Riza si rese conto di apprezzare le ore passate in casa di quell’anziana signora. Col tempo anche le materie più ostiche iniziarono a diventare più leggere e la voglia di imparare prese il posto del timore reverenziale nei confronti della sua insegnante. Adesso riusciva ad andare oltre la severità di quegli occhi azzurri, riuscendovi a cogliere l’entusiasmo per l’insegnamento e la soddisfazione che provava nei confronti dell’allieva. Durante le lezioni ormai riuscivano a passare da un argomento all’altro con disinvoltura, a volte andando anche al di fuori delle materie prettamente scolastiche.
“Credo di capire perché a mia madre piacesse tanto la poesia – ammise un giorno – probabilmente la usava per fuggire da casa nostra. I posti di quei componimenti erano sempre giardini in fiore, boschi incantati: sicuramente la mamma voleva stare lì.”
“Piacevano anche a te?”
“In parte – rifletté Riza – ma ora ammetto di preferire altre materie. Non è che mi piaccia molto stare a casa, in questo capisco cosa provava mia madre… però forse lei non aveva nessun altro posto dove andare, nemmeno la mattina.”
“La poesia spesso viene scritta da sognatori a cui il mondo reale non piace.”
“L’alchimia invece di cosa parla?” chiese la bambina con curiosità.
“Non è una materia scolastica, bambina – spiegò con gentilezza la signorina Elliot – bisogna trovare un maestro specifico. E’ come una scienza, ma molto più complicata: direi che è l’opposto della poesia dove si vola con la mente. Da quanto so ci sono precise leggi fisiche da studiare: gli alchimisti si occupano di capire cosa compone le cose, l’aria, l’acqua e così via… è molto complicata.”
“A mio padre e mia madre piacevano degli opposti.” capì Riza.
“E tu che ne pensi?”
“Penso che si siano persi entrambi.”
Era il giorno del suo decimo compleanno quando arrivò ad una simile conclusione.
 
Da luglio ad agosto la signorina Elliot la lasciò libera, sebbene con una discreta dose di compiti da svolgere durante le vacanze. Forte di quanto aveva imparato, Riza riuscì ad organizzare le sue giornate con discreta disinvoltura, cercando di darsi delle tempistiche precise nello studio, nei pasti e nel tempo libero.
Spinta dall’esempio della casa pulita della sua maestra, decise di intraprendere, per quanto possibile un’opera di pulizia della villetta. Partì da ambienti essenziali come la sua camera e la cucina, combattendo contro la polvere che sembrava essere la padrona incontrastata. Se non proprio la guerra riuscì a vincere importanti battaglie e sentì che riusciva a respirare decisamente meglio.
Forse se mi fossi decisa a fare delle pulizie più approfondite, la malattia della mamma non sarebbe peggiorata in quel modo.
Lo pensò mentre passava con secchio e straccio davanti allo studio del padre: aveva passato la mattinata a ripulire con attenzione ogni angolino della stanza che sua madre aveva usato come salotto e dove erano custoditi tutti i suoi libri di poesia. Durante la pulizia di ogni singolo volume, Riza ne aveva approfittato per rileggere qualche strofa ed aveva constatato che parte della magia era ormai sfumata. Erano versi delicati e belli, certo, ma non la trasportavano più in quel mondo fatato ed illusorio.
“Penso che si siano persi entrambi.”
La sua stessa voce risuonò nella sua mente mentre si fermava davanti a quella porta, posando d’istinto secchio e stracci sul pavimento.
Non era mai entrata in quella stanza, era già tanto se l’aveva vista di sfuggita aperta qualche rara volta, passando nel corridoio. Le aveva sempre dato l’idea di un ambiente chiuso, polveroso e claustrofobico… adesso grazie alla signorina Elliot sapeva che nome dare a quella sensazione così fastidiosa che la pervadeva in determinate occasioni.
Per la prima volta in vita sua fu tentata di abbassare quella maniglia ed entrare per scoprire il mondo dove suo padre si era perso, quello per cui non aveva mai dato attenzioni né a lei né a sua madre. Ormai era venuta a patti con quella sorta di delusione, però era curiosa di conoscere quella sorellastra che aveva il posto d’onore nella vita di Berthold Hawkeye.
La sua manina si era appena protesa quando la porta venne aperta di scatto e Berthold fece la sua comparsa. Padre e figlia si guardarono con sorpresa per qualche secondo, non sapendo come spezzare quel momento imbarazzante che si era appena creato.
“Ecco io – iniziò Riza, sentendosi in dovere di giustificarsi – mi… volevo chiederti se a cena ti andava bene una semplice insalata, papà. La signora Berth ha portato delle verdure del suo orto proprio stamane.”
“Andrà benissimo – annuì lui – c’è altro?”
“Ci… ci sono dei piatti sporchi che posso prendere?” un’improvvisa iniziativa si impossessò di Riza. Sapeva che la maggior parte delle volte il padre si portava i pasti nello studio e riportava i piatti in cucina ad intervalli irregolari.
“Sì, sono nella scrivania.”
“Posso prenderli?”
“Fa pure.”annuì lui, scostandosi lievemente per farla passare.
Con il cuore in gola, la ragazzina fece quei pochi passi che le permisero di oltrepassare la soglia proibita. Trattenne il fiato, ma non accadde niente: non si trovò come per magia in un modo diverso, ma solo in una stanza dove l’odore di chiuso la faceva da padrone. La scrivania stava davanti all’unica grande finestra e subito individuò i piatti impilati di lato. Si avvicinò con cautela, notando come il pavimento fosse pieno di libri… libri che sembravano invadere la stanza. C’erano librerie in tutte le pareti, ma al contrario dei volumi della signorina Elliot, perfettamente ordinati, i testi erano sparsi in ogni dove, impilati, aperti, rovesciati: un caos assurdo che sconvolse pienamente la bambina.
Era questa l’alchimia? Era questa la scienza che si occupava delle leggi del mondo?
Se i bei libri di poesia avevano le copertine delicate e colorate, riflettendo il mondo incantato che contenevano, quei testi e quei fogli quasi buttati a caso sembravano rispecchiare solo follia.
Si affrettò a prendere i piatti e corse di nuovo nel corridoio, riuscendo a respirare meglio solo quando superò quella soglia maledetta.
“Tutto bene?” le chiese Berthold.
“Solo… solo un po’ di polvere – mentì Riza arrossendo – mi ha dato fastidio alla gola.”
“Già, beh, prima o poi dovrò dare una pulita là dentro.”
Rimasero a guardarsi in silenzio per cinque secondi: Riza stava per offrirsi di dare una mano e sembrava che anche Berthold volesse avanzare una proposta in tal senso. Ma poi fu come se una nuova forma di consapevolezza si facesse spazio nei loro cuori: la bambina non voleva aver niente a che fare con quella materia, non voleva che la scusa di mettere in ordine diventasse un modo per approcciarla a quegli studi. E sembrava che l’uomo avesse perfettamente capito che non era lei la persona giusta.
“Posso… posso pensarci io a portarti i pasti non appena li cucino – propose Riza – così non si freddano e non devi attendere. E poi posso passare a ritirarli dopo.”
“Sì, potrebbe essere una buona idea.” annuì Berthold.
Era l’unico compromesso che erano stati in grado di raggiungere.
 
Quando a settembre la signorina Elliot tornò dalle sue vacanze ad East City, dove vivevano alcuni suoi parenti, le portò come regalo una bell’astuccio di metallo dove riporre le sue penne.
La ragazzina accettò con gioia quel dono, ma fu ancora più felice di poter riprendere quelle lezioni che rendevano le sue mattinate così speciali. Ormai quella donna non le faceva più paura: rappresentava per lei l’ideale di razionalità ed ordine a cui si era accorta di voler aspirare. Era quello il segreto: prendere quello che ogni materia offriva, senza però eccedere. Trovare il giusto equilibrio senza perdersi nei meandri di mondi i cui sentieri non avevano alcun uscita.
“Hai mai pensato a quello che vuoi fare da grande?” le chiese la donna, mentre controllava i compiti che le aveva assegnato per le vacanze.
“Non lo so ancora – rispose con sincerità lei – ma sono sicura di non voler fare né l’alchimista né il poeta.”
Su di questo non aveva alcun dubbio.



_____________
nda.
Riflettendo su come impostare il capitolo ho fatto alcune considerazioni.
Andandomi a rivedere il manga, durante il flashback davanti alla tomba di Berthold, Riza sostiene che suo padre avesse provveduto a darle comunque una buona educazione. Questo mi ha portato a propendere per un Berthold ancora "soft" nei confronti della figlia, tra l'indifferente e l'imbarazzato. Forse è alla fine di questo capitolo che si crea una vera e propria spaccatura tra di loro, con la consapevolezza che non sarà Riza a raccogliere la sua eredità.
L'evoluzione del personaggio di Berthold andrà avanti con i capitoli.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3. 1901. L'allievo venuto da lontano ***


Capitolo 3
1901. L'allievo venuto da lontano




 
Quell’anno il freddo era particolarmente pungente già ad ottobre: nell’arco di pochi giorni, gli ultimi residui d’estate erano stati cacciati via da un forte vento che preannunciava l’arrivo imminente della stagione fredda, senza niente concedere ad una via di mezzo.
A Riza quel tempo non dispiaceva: preferiva di gran lunga il freddo al caldo, specie dopo quell’estate afosa che aveva visto la morte di sua madre. Di conseguenza era particolarmente serena quando, quella mattina, ben infagottata nel suo lungo cappotto marrone chiaro e nella sciarpa di lana bianca, tornava da casa della signorina Elliot, dopo la solita lezione. La sua maestra era stata molto contenta di lei: non solo tutti gli esercizi fatti a casa erano giusti, ma non aveva sbagliato nemmeno un verbo quando era stata interrogata in grammatica. Quella giornata era dunque cominciata sotto i migliori auspici e aveva tutta l’intenzione di farla proseguire in quel senso: adesso sarebbe rientrata a casa, avrebbe preparato un bel pranzo caldo, l’ideale con un simile tempo, e poi di sera si sarebbe messa in cucina a ripassare le materie del giorno successivo, magari con il forno acceso a farle compagnia con il suo bel calduccio.
Era così persa in questi suoi programmi che quasi andò a sbattere contro la persona che stava ferma davanti al cancelletto del giardino di casa sua.
“Scusi – mormorò imbarazzata – non l’avevo vista.”
Sbirciò con timidezza quella persona infagottata in un pesante cappotto scuro, con una sciarpa avvolta in modo tale da nascondere non solo bocca e naso, ma anche buona parte della capigliatura di cui si intravedevano solo alcuni ciuffi neri. L’altro tratto visibile erano gli occhi: sottili e neri, che la fissavano con curiosità.
Riza capì che non era nessuna delle persone che abitavano nel circondario: le conosceva più o meno tutte e nessuna aveva degli occhi così particolari. Trovandosi di fronte ad uno straniero, come denotava anche la grossa sacca che portava sulle spalle, il suo impulso fu quello di raggiungere il più in fretta possibile la sicurezza di casa sua, ma si trovò in netta difficoltà nel constatare che la sua via di fuga era bloccata da quella persona.
“Scusami – chiese lo sconosciuto, abbassandosi la sciarpa e mostrando un viso giovane e pallido – mi sai dire se questa è la casa del maestro Berthold Hawkeye?”
A quella domanda a Riza quasi caddero i quaderni che teneva in mano.
Chi mai poteva essere questa persona che cercava suo padre?
 
Una volta entrato in casa e levati cappotto scuro e sciarpa, lo straniero si rivelò essere un ragazzo di qualche anno più grande di Riza. Posò con un sospiro stanco il suo bagaglio all’ingresso e si stiracchiò per dare sollievo alle spalle provate da quel peso.
La ragazzina continuava ad osservarlo con timidezza, non sapendo come comportarsi con quello strano e primo ospite che capitava in casa sua. Non era come quando veniva la signora Berth: con lei c’era una determinata confidenza e sapeva benissimo che la cosa migliore era accoglierla nella calda ed ordinata cucina, anche perché le sue visite, la maggior parte delle volte, avevano a che vedere col qualche pietanza che portava.
Ma lui? Che cosa voleva?
Lo sbirciò mentre si guardava intorno come a chiedersi in che posto fosse capitato e questo fece irrigidire leggermente la schiena della fanciulla che andava particolarmente orgogliosa delle sue opere di casalinga.
“Allora, potrei vedere il maestro Hawkeye?” chiese quando ebbe terminato quella sua rapida ispezione visiva.
“Non… non saprei – rispose con imbarazzo Riza, abbassando lo sguardo – forse è impegnato.”
Forse…  che andava a dire? Sicuramente era impegnato a studiare: mancava ancora più di un’ora al momento di portargli il pasto nel suo studio.
Ma sembrava che quello strano giovane si aspettasse che lei facesse qualcosa, come andare a chiedere se poteva esser ricevuto. E per quanto fosse una cosa del tutto normale, Riza sentiva estremamente sconvolta la sua routine quotidiana tanto che restò per qualche secondo indecisa sul da farsi.
“Qualcosa non va?” le chiese il ragazzo, inclinando la testa scura con curiosità.
“No… no! – arrossì lei – Aspetti qui, signore. Vado ad avvisare mio padre del suo arrivo.”
“Ah, sei sua figlia… dovevo immaginarlo.”
Riza non rispose impegnata a posare il suo corredo scolastico a terra e levarsi a sua volta il cappotto.
Si avviò quindi nel corridoio arrivando sino alla fatidica porta, sperando che quell’intrusione prima del tempo non disturbasse troppo suo padre. Non che avesse paura che si arrabbiasse… ad essere sincera, la ragazzina non l’aveva mai visto in preda all’ira: il massimo che aveva espresso Berthold Hawkeye in sua presenza era stata irritazione, ma mai eccessiva. Però una forma di timore c’era: quell’equilibrio tutto sommato perfetto che si era creato tra padre e figlia stava in qualche modo venendo alterato da quell’entrata nello studio non prevista.
Fu quindi naturale per Riza prendere fiato ed esitare due secondi, prima di decidersi a bussare discretamente alla porta di legno.
“Vieni.” le rispose dopo qualche secondo la voce di Berthold, per fortuna in torno perfettamente neutro.
La ragazzina aprì l’uscio ed entrò, ormai abituata a quel caos che vedeva un paio di volte al giorno quando portava i piatti e li recuperava. Era riuscita a ritagliarsi una sorta di piccolo corridoio solo per lei, dove i libri non sembravano così incombenti sulla sua piccola persona: un tragitto che portava fino alla scrivania.
“Papà – disse a voce bassa, fermandosi a metà di quel tragitto – c’è un signore che vuole parlare con te.”
“Chi?”chiese Berthold con voce distratta, senza nemmeno alzare lo sguardo dal libro che stava studiando.
“Non lo conosco – ammise Riza, sentendosi una sciocca a non aver nemmeno chiesto il nome a quella persona – dev’essere straniero, di sicuro non è di qui. Ha chiesto di te chiamandoti maestro. L’ho… l’ho fatto entrare: è all’ingresso.”
All’improvviso le venne in mente che forse era stata una mossa sbagliata far entrare quel giovane. In fondo era un completo estraneo e non aveva la minima idea delle sue intenzioni: l’aveva invitato a casa spinta semplicemente dall’educazione e dal senso di ospitalità. Non era certo bello lasciare una persona in balia di quel vento gelido.
Ma forse non andava bene… forse, avrei dovuto dirgli di attendere fuori mentre venivo ad avvisare papà.
Tuttavia le sue paure sparirono quando vide gli occhi azzurri di suo padre alzarsi con curiosità da quelle pagine ingiallite. Era la prima volta che lo vedeva esprimere un interesse così palese per qualcosa di esterno al suo mondo d’alchimia.
Che cosa vuol dire? Magari lo conosce…
“Accompagnalo qui – la voce di Berthold fu rapida a dare quell’ordine, lasciando stordita la ragazzina – e non portarmi il pranzo: non voglio essere disturbato.”
“Va bene, papà.” rispose automaticamente.
Un altro strappo alla sua quotidianità: che stava succedendo in quella fredda mattina di fine ottobre?
 
L’orologio appeso alla parete della cucina continuava ad andare avanti.
Era più di un’ora che quel giovane era entrato nello studio di suo padre e ancora non usciva.
In quel tempo Riza aveva preparato il pranzo: indecisa se lo sconosciuto si sarebbe fermato da loro, aveva preparato una dose di stufato più abbondante del solito. Non sapendo come si sarebbe evoluta la situazione, aveva infine spento il fuoco sotto la pentola e si era seduta al tavolo, in attesa di disposizioni: non aveva apparecchiato nemmeno per se stessa, non sapendo come comportarsi.
Si limitava ad attendere, non riuscendo a cancellare dalla mente l’occhiata piena d’interesse che aveva fatto suo padre nel sentire la parola maestro. Dunque Berthold Hawkeye era un maestro d’alchimia? Questo Riza non l’aveva mai saputo, gli risultava persino inverosimile che suo padre avesse mai insegnato qualcosa a qualcuno. Ma forse era diverso dall’insegnare le solite materie.
Finalmente, quando le lancette furono andate avanti di un altro quarto d’ora, sentì la parta del corridoio aprirsi e dei passi procedere verso la cucina. Istintivamente si alzò in piedi e si mise composta, con le mani intrecciate in grembo.
“Mia figlia Riza l’hai già conosciuta – disse Berthold, entrando assieme a quel giovane, il cui viso pallido era tirato in un sorriso soddisfatto – per qualsiasi cosa potrai rivolgerti a lei. Riza, questo giovane da oggi sarà mio allievo…”
Allievo?
Riza sgranò gli occhi nel sentire quella parola: era dunque così? Quel giovane era davvero venuto per studiare quella materia così astrusa e strana che aveva portato suo padre in quella condizione di solitudine totale?
“Ciao.” la salutò con cortesia il ragazzo.
“… non avendo un posto dove alloggiare si fermerà da noi per tutta la durata dei suoi studi – continuò Berthold con tranquillità, la medesima di quando, più di un anno prima, le aveva annunciato che avrebbe iniziato a studiare presso la signorina Elliot – quindi preparagli una delle stanze degli ospiti. Mi raccomando di provvedere a qualsiasi sua necessità.”
“Certamente, papà.” rispose prontamente la ragazzina.
“Adesso ti prego di portarmi il pranzo nello studio. Quanto a te – disse infine, rivolgendosi al suo allievo – inizieremo domani: per oggi sistemati e riposati.”
“Certamente, maestro. La ringrazio ancora per la sua disponibilità.”
“Ringrazia la tua capacità di persuasione – commentò Berthold, lanciandogli una strana occhiata compiaciuta, tanto che Riza fu certa che, se suo padre ne avesse avuto la capacità, avrebbe anche sorriso – il tempo mi dirà se la tua mente è abile quanto la tua lingua.”
Senza attendere risposta, l’alchimista si ritirò di nuovo nel suo studio e questo fu il segnale per Riza per procedere come al solito. Adesso sapeva cosa doveva fare e questo le dava notevole sollievo: riaccese il fuoco sotto la pentola e rimestò con cura lo stufato, in attesa che raggiungesse la temperatura giusta. Quindi corse alla credenza e tirò fuori le stoviglie, andando a preparare il vassoio con cui avrebbe portato il pranzo a suo padre.
“Mangia sempre nel suo studio?” chiese il giovane, accostandosi al tavolo.
“Sì – annuì, tenendo lo sguardo basso e versando l’acqua in un bicchiere – così non si distrae troppo.”
Lui non disse altro: rimase in silenzio, ma per tutto quel tempo Riza fu conscia del suo sguardo che la osservava in ogni singolo movimento. Fu quasi sollevata di quel minuto di tempo che impiegò per portare il vassoio nello studio del padre. Ma una volta tornata in cucina il problema tornò a ripresentarsi.
Va bene, è l’allievo di papà – si disse per farsi coraggio, mentre tornava ad apparecchiare per due dato che era chiaro che avrebbe mangiato in cucina assieme a lei – devo essere educata e gentile, tutto qui.
“Comunque mi chiamo Roy, Roy Mustang – si presentò lui, sedendosi a tavola – e ti chiedo scusa per il disturbo che ti sto dando: per colpa mia stavi praticamente restando digiuna.”
“Nessun problema, signor Mustang – rispose Riza con educazione, prendendo la pentola con le presine e portandola direttamente in tavola – spero che le piaccia lo stufato.”
“Oh, dopo la camminata che ho fatto con questo vento, mi basta che sia caldo – sorrise, versandosi una generosa porzione sul piatto – E dal profumo si sente che è ottimo.”
“Dopo le preparo la stanza, la prego di aspettare.”
“Va bene – annuì lui, buttandosi sul cibo con grande entusiasmo. Un dettaglio che fece pensare a Riza che, forse, da quel momento, sarebbe stato meglio preparare pasti abbondanti – ma prima mangia con comodo: non è che devi sconvolgere la tua esistenza solo per il mio arrivo. Ti prometto che sarò il più discreto possibile.”
“Non si preoccupi, signor Mustang.”
“Ho sedici anni, puoi chiamarmi semplicemente Roy.”
“No – arrossì Riza – non sarebbe educato, signore.”
“Come preferisci.” scrollò le spalle lui, tornando a mangiare con appetito.
 
Verso le quattro di quel pomeriggio, Riza poté finalmente lasciarsi cadere sulla sedia della cucina, non vedendo l’ora di rifugiarsi nel ripasso di geografia e nei compiti di analisi logica. Aveva passato le ultime ore a cercare di rendere presentabile una delle stanze degli ospiti, ossia una delle poche camere dove davvero di rado faceva le pulizie e che erano diventate una sorta di ripostiglio per le cose che non servivano. Dunque si era trovata a spostare scatoloni, far arieggiare, trovare lenzuola e coperte decenti, spolverare… il tutto sperando che il signor Mustang non facesse troppo caso al disastro casalingo.
Gli aveva anche chiesto di restare in cucina, ma lui non ne aveva voluto sapere.
Si era offerto di aiutarla ed effettivamente era stato di grande aiuto quando si era trattato di spostare un vecchio tavolo, che avrebbe funto da scrivania, in modo che potesse godere maggiormente dell’esposizione della luce dall’unica finestra… i cui vetri ovviamente erano da pulire e le tende da mettere assolutamente a lavare, pena una nuvola di polvere al minimo tocco.
Ma alla fine avevano ottenuto un risultato più o meno decente, almeno per quel primo giorno. Una pulizia più approfondita sarebbe stata fatta nel corso della settimana.
Infine gli aveva procurato degli asciugamani e gli aveva indicato il bagno, in modo che si potesse lavare prima di andare a riposare: sicuramente ne aveva un gran bisogno, lo si capiva dal viso tirato e stanco. Era chiaro che aveva fatto un lungo viaggio per arrivare fino a casa Hawkeye.
Probabilmente si metterà subito a dormire… mi chiedo se sia il caso di svegliarlo per cena.
Scrollò le esili spalle aprendo libro e quaderno e preparandosi ad affrontare gli esercizi della signorina Elliot.
 
La mattina successiva, verso le otto, Riza si trovava come al solito in cucina a fare colazione.
Suo padre generalmente saltava questo pasto: spesso rimaneva alzato per buona parte della notte e mangiava qualcosa fuori orario.
Ma la signorina Elliot, e anche la signora Berth, avevano insegnato alla ragazzina che la colazione era il pasto più importante perché dava le energie per affrontare la giornata. Da tempo ormai aveva preso l’abitudine di prepararsi una tazza di latte caldo accompagnata da diverse fette di pane tostato con burro e marmellata.
“Buongiorno…” salutò il signor Mustang con voce leggermente assonnata, entrando in cucina e sedendosi al posto del giorno prima.
“Buongiorno, signore – rispose educatamente Riza – posso prepararle un caffè se vuole.”
“Tu che stai prendendo?”
“Oh, io solo latte…” arrossì.
“Latte mischiato con caffè? Mi pare un giusto mezzo.”
“Va benissimo: metto subito a preparare il caffè.”
Fortunatamente non si sentì il suo sguardo addosso come era successo ieri: girandosi timidamente vide che si stava spalmando un abbondante strato di burro su una fetta di pane tostato.
Adesso che aveva perso l’aria stanca e indossava vestiti più decenti rispetto a quelli umidicci e stropicciati dal viaggio del giorno prima, Riza notò che era un ragazzo di una certa classe. Stando a contatto con persone come la signorina Elliot e la signora Berth, si era resa conto che c’erano delle differenze sostanziali nei modi di fare e negli atteggiamenti. Del resto anche sua madre aveva sempre avuto una certa eleganza e raffinatezza nei modi di fare e di parlare, motivo per cui Riza si era convinta che dovesse provenire da una buona famiglia.
Sì, anche lui deve aver ricevuto una buona educazione.
“Ecco qua – annunciò, tornando a tavola con la caffettiera bollente e facendo cenno al giovane di girare la tazza che aveva preparato appositamente per lui – non so il quantitativo, mi dica lei.”
“Così basta. Il latte?”
“E’ qui… se vuole lo riscaldo di nuovo.”
“No, va bene così. Scusami ancora se ti creo così tanto disturbo.”
“Ma no – sorrise timidamente lei – ora che so cosa gradisce a colazione non mi crea nessun problema preparare anche del caffè.”
Ripresero a mangiare in silenzio, mentre Riza cercava di non far caso al lieve imbarazzo che ancora provava in sua presenza. Non sapeva se doveva parlare, fare conversazione, oppure se pure con lui valevano le medesime regole di silenzio che da tempo la facevano da padrone a casa Hawkeye. Alla fine si disse che la cosa migliore da fare era parlare solo se interpellata e sembrò che per tutta la durata della colazione andasse bene così.
“Devi andare a scuola?” chiese dopo un po’ lui, notando i quaderni pronti sulla parte pulita del tavolo.
“Dalla mia insegnante: la scuola è troppo lontana. Anzi, ora devo proprio andare: alle otto e mezza devo essere lì. Lasci pure le stoviglie nel lavandino: le lavo quando torno.”
“Perfetto. Il maestro è nello studio?”
“Sì, immagino di sì – esitò la ragazzina, raccogliendo i suoi quaderni – lei provi a bussare, le risponderà. Altrimenti vuol dire che è in camera a riposare. Sa certe volte resta a studiare fino a notte fonda.”
“Va bene, grazie mille.”
 
“Allievo, eh?” la signorina Elliot fisso Riza con intensità.
“Sì, mentre rimettevamo a posto la sua stanza, mi ha raccontato che ha fatto un lungo viaggio per venire fin qui: da Central City.”
“Quindi starà a casa vostra.”
“Pare di sì.”
“E tu come l’hai presa?”
“Io? – Riza rimase a pensarci per qualche tempo. A dire il vero la giornata di ieri era stata così surreale che non aveva pensato veramente al fatto che d’ora in poi quel giovane avrebbe abitato sotto il suo stesso tetto. Ma ancora più strano le veniva da pensare che suo padre lo avesse accettato come allievo – a dire il vero non saprei. Però credo che mio padre ne sia felice.”
Ecco, quello era un dettaglio interessante. Da tempo Riza non ci aveva più pensato, ma forse suo padre desiderava qualcuno con cui condividere il suo sapere. Si ricordò di quello strano imbarazzo che era calato tra di loro la prima volta che lei era entrata nel suo studio e di quel nascosto senso di inadeguatezza come figlia che l’aveva turbata in una piccola parte del suo animo.
“Riza, nessun genitore può pretendere che il proprio figlio segua la medesima strada. A volte succede a volte no – dichiarò la donna, come se le avesse letto nel pensiero – questo non ti sminuisce affatto come persona.”
La ragazzina annuì, cercando di convincersi che la sua maestra aveva ragione.
Però c’era qualcosa che non andava.
Lei non vedeva l’ora di uscire fuori di casa e andare dalla signorina Elliot; aveva trovato uno strano equilibrio con suo padre, ma non poteva dire di avere un vero e proprio rapporto con lui, tutt’altro. Si erano accordati sugli orari… era questo il modo più gentile per definire la questione. Per il resto erano due estranei, o quasi.
Invece in un’ora ha parlato a quel ragazzo più di quanto abbia fatto con me in undici anni.
Stavano sbagliando entrambi?
“Comunque il signor Mustang è stato gentile con me – disse con convinzione – sa, signorina, mi ha anche detto che gli potevo dare del tu, ma io ho rifiutato: sarebbe stato maleducato. E’ vero che ha sedici anni, ma è comunque un ospite.”
“Molto bene, Riza, è stato il miglior modo di agire.”
“E anche se ho dovuto sistemare la stanza per lui sono riuscita a fare tutti i compiti che mi aveva assegnato.” lo disse con urgenza, arrivando persino a tendere il quaderno, come se sentisse l’esigenza di cambiare argomento e rituffarsi nella quotidianità dello studio.
“Bene, allora controlliamoli.”
Per fortuna che la signorina Elliot la capiva meglio del previsto.
 
Che Berthold Hawkeye avesse instaurato un buon rapporto con il suo giovane allievo apparve chiaro sin dai primi tempi. Dopo colazione il giovane Mustang si chiudeva nello studio con il maestro e ne usciva solo all’ora di pranzo. Finito il pasto si recava nella sua stanza e proseguiva a studiare fino a quando Riza non lo chiamava per la cena.
Si inserì così bene nella quotidianità di quella villetta che persino la ragazzina, dopo qualche settimana, si rese conto che era come se quel giovane ci fosse da sempre. Era silenzioso, discreto; le poche occasioni che si incontravano, come la colazione, era sempre gentile: la aiutava a sparecchiare e ad apparecchiare, magari mentre buttava un’occhiata ad un quadernetto di appunti che portava sempre con sé. A volte, se non era troppo preso dai suoi studi, le chiedeva come andava con le varie materie che stava studiando, o le raccontava qualcosa di Central City, città dove era vissuto per diversi anni assieme ad una sua zia.
A Riza quelle brevi chiacchierate piacevano: era interessante sentire parlare della capitale in un modo del tutto diverso da come la descrivevano i libri. Le parole di quel ragazzo erano una nuova forma di evasione e conoscenza a cui si abituò molto in fretta: una sorta di aggiunta alle sue lezioni scolastiche.
Persino la signora Berth, dopo una prima reazione di scandalo, dato che non si era mai visto uno straniero, nemmeno un parente, che si insediasse con così tanta facilità a casa di uno di loro, si abituò a lui.
“Ciao, Riza, oggi bucato?” la salutò una domenica mattina di inizio dicembre, mentre la ragazzina stendeva i panni appena lavati.
“Buongiorno, signora Berth… sì, come ogni domenica: meno male che oggi c’è un bel sole.” rispose educatamente lei, recuperando dalla tasca della gonna alcune mollette per appendere una maglietta dell’allievo di suo padre.
“E come procedono le lezioni del giovanotto vostro ospite? Non lo si vede mai in giro.”
“Studia tanto – ammise Riza – la mattina con mio padre e poi il pomeriggio per conto suo. E’ molto concentrato, credo che papà sia felice di lui.”
“Si sta comportando bene con te?”
“Sì, certo – lanciò un’occhiata perplessa alla vicina di casa – ci parliamo poche volte, specie durante i pasti: è sempre molto educato e gentile. A volte mi aiuta anche a sparecchiare, quando non deve correre a studiare.”
“Ma senti – chiese ancora la signora Berth, appoggiandosi con curiosità alla staccionata di legno – non si sa proprio niente di lui?”
“Mi ha detto che è nato ad East City, ma poi è andato a vivere con una sua zia a Central City. Forse è per questo che ha cercato mio padre come maestro – si sorprese a riflettere Riza – del resto non siamo troppo lontani da East City. La signorina Elliot va ogni estate a trovare i suoi parenti… anche se il viaggio nel carro è davvero lungo: almeno quattro ore.”
I suoi occhi castani corsero all’orizzonte, a quelle colline dietro le quali sorgeva quella città, così vicina e così lontana. All’improvviso le sembrò di vivere in un posto senza tempo, in una surreale bolla che isolava tutti loro dal resto del mondo.
Almeno fino a quando è arrivato lui.
Adesso quei luoghi lontani le sembravano più a portata di mano, anche se la sua timida anima non voleva lasciare la sicura solitudine di quel piccolo gruppo di case a poca distanza tra di loro. Lì c’era la signorina Elliot, la signora Berth, il cimitero dove riposava sua madre. Era tutto quello che le bastava, quello che era riuscita, con tanta fatica, a far adattare alla sua piccola persona.
Roy Mustang era semplicemente una ventata di novità, come la fresca brezza autunnale che spazzava via il caldo dell’estate.
“Sai per quanto resterà?”
La domanda della signora Berth giunse improvvisa e destabilizzante.
“Non lo so – rispose Riza dopo qualche secondo – a dire il vero non ho la minima idea di quanto si debba studiare per imparare l’alchimia. Non è proprio una materia come le altre, almeno così mi ha spiegato la signorina Elliot.”
“Ah, questo è poco ma sicuro: forse dipenderà dall’allievo.”
“Può darsi.”
“Beh, ora ti lascio, cara: nel pomeriggio passa da me. Sto facendo la conserva di more e ne tengo da parte un bel barattolo per te.”
“La ringrazio!”
Rimasta sola, la ragazzina riprese a stendere di buona lena, fino a quando non rimase con una molletta in mano. Osservò con aria assorta il lenzuolo bianco davanti a lei che si agitava per il vento, quasi a volersi liberare e poter volare via, come uno strano, grande, volatile.
Prima o poi sarebbe successo, se lo sentiva. Il signor Mustang sarebbe andato via: avrebbe imparato tutto quello che doveva sapere sull’alchimia e sarebbe tornato nella grande città. Le sarebbe dispiaciuto, certo, ma non c’era niente da fare.
“Ehi, Riza! – la sua voce, manco fosse stato evocato, la chiamò con urgenza – oh no, hai già fatto il bucato!”
“Sì – annuì, girandosi verso l’ingresso di casa e vedendolo avanzare verso di lei con aria desolata – ha dimenticato di darmi qualcosa, signor Mustang?”
“Che disastro, i pantaloni! – sospirò lui, andando davanti ad un paio di pantaloni scuri stesi con diligenza – Avevo lasciato un paio di fogli di appunti nella tasca.”
“Li ho messi nella sua scrivania, signore – avvisò Riza, trattenendo un sorriso davanti a quell’espressione sconsolata – mi sono premurata di controllare se nelle tasche c’era qualcosa prima di lavarli.”
“Sul serio? – lui si girò a guardarla con gratitudine: in momenti simili il suo viso avvenente sembrava più giovane del previsto e si faticava a credere che avesse già sedici anni – Grazie mille, sei la mia salvatrice. Ti devo un favore enorme! Stasera le stoviglie le lavo io, promesso!”
“Non è il caso, non…” iniziò la ragazzina.
Tuttavia il suo ospite era già corso dentro casa a recuperare i preziosi appunti.
Guardando quell’unica molletta nella sua mano, Riza sospirò di nuovo.
Se fosse successa una cosa simile con suo padre, di certo non l’avrebbe ringraziata con tanto calore.
“… nessun genitore può pretendere che il proprio figlio segua la medesima strada. A volte succede a volte no: questo non ti sminuisce affatto come persona.”
Le parole della signorina Elliot le tornarono in mente.
Sapeva che era la verità, sapeva che era così. Tuttavia era impossibile non chiedersi per quale motivo un perfetto straniero, in così poco tempo, l’avesse ampiamente superata nella scala di valori di suo padre.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4. 1902. La diga che si rompe ***


Capitolo 4
1902. La diga che si rompe




 
“… l’invio delle truppe nel fronte di Ishval procede anche questa settimana e fonti autorevoli sostengono che presto verranno chiamati alle armi anche i soldati del settore Ovest. Il governo ha dichiarato che non ha nessuna intenzione di cedere alle richieste dei rivoltosi e dunque…”
Clic.
Il signor Mustang girò con aria irritata la manopola della vecchia radio e sbuffò con impazienza.
Riza, che in quel momento era con lui in cucina intenta a finire i compiti, lo sbirciò con timore, consapevole che negli ultimi tempi l’umore del loro ospite non era più lo stesso. E con molta probabilità la colpa era della guerra scoppiata alla fine dell’anno precedente, appena qualche settimana dopo il suo arrivo.
Con aria pensosa sfogliò il libro di geografia fino ad arrivare alla cartina di Amestris ed, istintivamente, sfiorò col dito la scritta Ishval. Le sembrava così surreale che quel posto dove tanti soldati stavano combattendo fosse relativamente vicino a casa sua, almeno a guardare quella pagina. La cosa la spaventava leggermente, ma non sapeva quanto e come la guerra si potesse spostare da un luogo all’altro. Spesso durante le lezioni di storia usava il verbo espandersi, riferendosi a combattimenti o influenze politiche, ma per ora tutto restava nel mondo, più o meno astratto, dei libri.
“Dannazione!” sbottò il moro, mettendosi seduto nella sedia davanti a lei.
Era passato un anno esatto da quando era diventato allievo di suo padre ed era cresciuto parecchio in altezza. Adesso aveva da poco compiuto diciassette anni, quasi un uomo: il suo viso aveva perso praticamente del tutto i tratti dell’adolescenza, così come le sue movenze. Riza non aveva mai pensato ai maschi in termini di bellezza, anche perché ne conosceva veramente pochi ed, eccetto il signor Mustang, tutti molto più grandi di lei, ma riteneva che lui fosse bello, perlomeno fisicamente.
Tuttavia lo preferiva quando ancora quella tristezza e quella rabbia non avevano fatto la comparsa nelle sue espressioni. Quando le sorrideva o parlava con lei le poche volte che non era impegnato a studiare alchimia con suo padre e…
“Non stai studiando…” proprio la voce di Berthold arrivò improvvisa e Riza arrossì colpevolmente, come se quell’osservazione fosse rivolta a lei. Tuttavia la voce del giovane rispose immediatamente.
“La guerra prosegue: devono inviare nuove truppe.”
“Guerra? Che ti aspettavi, ragazzo? Che si concludesse in un giorno?”
“Ma ormai è quasi un anno! I soldati…”
“Fanno quello per cui sono entrati nell’esercito – tagliò corto l’uomo osservando l’allievo con aria irritata – tu invece sei qui per studiare l’alchimia, non te ne ricordi?”
“Stiamo comunque parlando del nostro paese. E’ una situazione che ci riguarda tutti: solo poche centinaia di chilometri ci separano da Ishval!”
Riza si fece piccola piccola nel sentire il tono rabbioso con cui il giovane aveva osato rispondere a suo padre. Non le sembrava vero che qualcuno si opponesse in un simile modo a lui. Per una decina di secondi ebbe il timore che quello scoppio d’ira che non aveva mai visto, ma che temeva fosse sempre in agguato, si scatenasse in quella cucina. Sentiva come la tensione che si era venuta a creare tra maestro e allievo fosse così tangibile da potersi tagliare con un coltello.
Tuttavia non accadde niente.
“Stai pensando a cose veramente sciocche e fuori dalla tua portata, allievo – disse infine Berthold in tono sarcastico – torna con i piedi per terra: non ti tengo ospite a casa mia per sentire discorsi sulla guerra. Dov’è finita tutta la tua determinazione per diventare alchimista?”
La ragazzina sussultò a quella frase così pungente.
Non osò alzare lo sguardo, ma vide le mani del signor Mustang serrarsi a pugno fino a sbiancare, una vena azzurrognola perfettamente visibile suo dorso.
Perché devi trattarlo così? – si chiese, sentendosi mortificata – non dovresti… ci resta male.
“Certo, maestro – disse la voce cupa di lui – torno subito a studiare.”
Le mani sparirono dalla sua visuale, accompagnate dal rumore di passi gravi che, mano a mano, si allontanavano nel corridoio. Sentì che anche la presenza di suo padre andava via dalla cucina, senza nemmeno degnarla di uno sguardo. Ma attese almeno un minuto buono prima di osare sollevare il capo dalla posizione china che aveva assunto.
Con un sospiro chiuse i libri e li mise da parte.
Sicuramente quella sera avrebbe cenato da sola: era già successo altre volte, negli ultimi tempi, che suo padre ed il signor Mustang discutessero in un simile modo senza poi toccare cibo. Si avvicinò alla vecchia radio che stava sopra una bassa mensola e toccò la manopola: fino a qualche tempo fa era stata chiusa in una delle stanze disabitate, ma poi su insistenza del loro ospite era stata portata in cucina e ascoltata pressoché ogni giorno.
Era così che la guerra era entrata nella vita di Riza.
Prima, in quel piccolo angolo di Amestris, le notizie arrivavano frammentarie e con uno strano senso di distacco, come se non c’entrassero veramente con loro. Ma con la radio non funzionava così: la voce, leggermente disturbata, giungeva impietosa a dare notizie, rendendole incredibilmente reali e provocando nella ragazzina uno strano senso di ansia. Fosse dipeso da lei quell’odioso apparecchio sarebbe tornato nella scatola dove era custodito: in questo modo le cose, forse, sarebbero tornate normali.
 
“Signorina Elliot, lei crede che la guerra arriverà anche qui?”
La domanda le uscì improvvisa qualche giorno dopo, al termine della lezione di storia.
Riza sapeva bene che nella cucina della donna c’era una radio e dunque era verosimile che pure lei fosse aggiornata sulla guerra. A casa non osava parlarne per paura di scatenare la bufera: ogni giorno che passava vedeva il signor Mustang diventare sempre più insofferente e di conseguenza anche suo padre, come se uno determinasse il cattivo umore dell’altro. E quello la spaventava più del conflitto armato che si stava consumando nella parte sud del paese.
“Hai sentito pure tu le notizie alla radio?”
“Sì, il signor Mustang ci tiene a sentire il notiziario tutti i giorni – annuì con un lieve broncio – e la radio è in cucina, dove studio io. Hanno detto che verranno inviate nuove truppe, che la guerra è ben lontana dal concludersi.”
“Guerra, santo cielo – sospirò la donna, posandosi allo schienale e assumendo un’espressione malinconica – nella mia vita l’ho sentita spesso questa parola: ho anche perso mio padre in guerra, sai?”
“Davvero?” si sorprese Riza.
“Contro Aerugo, nel lontano 1846: avevo appena undici anni.”
“Era un soldato?”
“Non proprio, era un insegnante come me – spiegò lei – ma gli uomini scarseggiavano e così ci furono delle leve forzate.”
“Cos’è una leva forzata?”
“E’ quando chiamano a combattere anche i civili: fanno un rapido corso d’addestramento e poi li mandano al fronte. Mio padre era un uomo buono e gentile, non era fatto per combattere: morì nemmeno quattro mesi dopo esser stato arruolato.”
“Mi dispiace – mormorò la ragazzina, sentendosi in colpa per aver tirato fuori un argomento simile. Tuttavia un senso di urgenza si fece prepotentemente largo nel suo animo – Crede che anche questa volta faranno leve forzate?”
“No – la fissò con occhi penetranti la donna, riprendendo il suo solito autocontrollo – dopo quella guerra il governo di Amestris si è preoccupato di rinforzare l’esercito ed il numero dei soldati è molto aumentato. Lo so perché molti miei allievi, dopo la scuola, sono andati in Accademia: essere soldati ormai è una buona professione. Sai, anche mio nipote, il figlio di mia sorella, è un caporale.”
“Se il nostro esercito è così forte allora la guerra dovrebbe terminare in fretta.”
“Non è così facile, bambina: le pagine di storia semplificano molto le guerre. I fattori in gioco sono davvero tanti, specie quando c’è di mezzo un intero popolo. Sai che Ishval, nonostante sia parte di Amestris, ha tradizioni e cultura completamente diversi da noi, vero?”
“Sì, l’abbiamo studiato: anche fisicamente sono differenti.”
“Ci sono molto più che interessi politici in questa guerra: c’è l’orgoglio di un’etnia. No, Riza, il conflitto non finirà in fretta come tutti ci auguriamo… quanto all’arrivare qui, per ora sono sicura che non succederà.”
La ragazzina annuì, capendo che quel discorso era terminato; tuttavia una parte di lei capiva che la guerra era già arrivata a casa sua e che stava turbando in maniera irrimediabile gli equilibri che si erano formati con tanta pazienza.
Ishval era solo un nome, lontano ed indefinito, Roy Mustang e suo padre erano molto più reali.
 
Circa una settimana dopo, quando mancavano una quindicina di giorni alla fine di quel 1902, la neve arrivò anche da loro, anche se non nella forma dei bianchi e delicati fiocchi delle poesie di Elisabeth.
Nevischio mischiato a fango ricopriva i giardini spogli e le strade sterrate, rendendo il rischio di scivolate molto concreto.  Per l’occasione Riza si era comprata, al piccolo emporio poco distante, un paio di stivaletti con la suola rinforzata: raramente faceva qualche spesa personale, ma dopo che era tornata a casa con i piedi zuppi per diversi giorni, rischiando un brutto raffreddore, aveva seguito il consiglio della signorina Elliot e aveva provveduto a procurarsi calzature idonee.
Era lei che gestiva le finanze a casa, o meglio suo padre le lasciava ogni lunedì del denaro sul tavolo di cucina per provvedere alle spese: la ragazzina non sapeva da dove venissero quei soldi, dubitava del fatto che il signor Mustang stesse pagando per studiare da loro, del resto era un rito che avveniva da prima del suo arrivo. Forse erano di sua madre, chissà… fino a quando c’erano non era il caso di porsi delle domande troppo scomode.
In ogni caso era fiera del suo nuovo acquisto: mentre tornava da casa della sua maestra sentiva i piedi asciutti e caldi, merito anche delle doppie calze pesanti che la aiutavano a riempire la calzatura un po’ troppo grande. Quella mattina aveva intenzione di cucinare qualcosa di veramente sostanzioso per pranzo: la signora Berth, il giorno prima, le aveva regalato mezzo pollo e, dopo tanto pensarci, aveva deciso di usarlo per fare il brodo che sicuramente avrebbe fatto piacere a tutti quanti considerato il tempo da lupi.
Arrivò finalmente a casa pronta a cambiarsi e mettersi subito all’opera.
Tuttavia, mentre attraversava il corridoio, iniziando ad allentare la sciarpa umida, i suoi buoni propositi vennero spezzati dalla porta dello studio di suo padre che si apriva con violenza per far uscire un furentissimo Roy Mustang. Il suo bel viso era contratto in una smorfia di rabbia così profonda che Riza non aveva mai visto; i furenti occhi scuri si girarono appena verso di lei, prima che il giovane corresse verso la sua stanza, sbattendo con rabbia la porta.
La ragazzina rimase impietrita dove si trovava, sentendo il cuore che le batteva a mille.
Era successo: la differenza di vedute tra allievo e maestro era degenerata fino ad un brutto litigio. Sapeva che era solo questione di tempo, tuttavia era totalmente impreparata a quanto era appena accaduto. Sentendo dei rumori dallo studio di suo padre, girò lo sguardo e sbirciò paurosamente dalla porta ancora aperta. Berthold Hawkeye era alla scrivania, seduto come se fosse una normalissima giornata di studio, incurante del fatto che il suo allievo era appena uscito in maniera così violenta.
Fai qualcosa, ti prego – lo supplicò mentalmente la ragazzina – non puoi restare fermo in questo modo.
Ma ancora una volta l’alchimista sembrava chiuso nel suo mondo… perso: più che mai quella parola si adattava alla sua figura china ed isolata. E Riza seppe che non si sarebbe mosso da lì, non avrebbe fatto nulla per andare a richiamare il signor Mustang.
D’improvviso si chiese se forse poteva fare qualcosa lei: sarebbe stato sfacciato magari, però poteva tentare. Con lieve paura si avviò nel corridoio.
“Chiudi la porta.” chiamò la voce di suo padre, quasi proveniente dall’oltretomba.
“S… sì – sobbalzò Riza, chiedendosi quando e come l’aveva notata – subito.”
Provvide a quella piccola commissione, in parte lieta di chiudere quella strana finestra sul mondo privato del genitore e sentì come se un peso venisse levato dal suo cuore. Sentì che percorrere quel corridoio era più facile, i suoi passi decisamente più leggeri. Arrivò davanti alla porta della stanza del signor Mustang e, preso coraggio, bussò. Non ottenne nessuna risposta, ma dentro sentiva dei rumori così, spinta da un ardire che dimostrava ben poche volte, mise una mano sulla maniglia e l’abbasso.
“Signor Mustang – si annunciò – sto entrando.”
Avrebbe voluto chiedergli che cosa era accaduto, avrebbe voluto dirgli di non prendersela troppo, tanto sapeva come era fatto Berthold Hawkeye. Avrebbe voluto dirgli qualsiasi cosa in un simile momento, ma tutto quello che riuscì a fare fu di sgranare gli occhi nel vedere i lacci della vecchia sacca, con cui era arrivato un anno prima, che venivano chiusi con rabbia.
Va via!
Il giovane si girò verso di lei con un’occhiata ancora rabbiosa, ma con una componente di tristezza evidente.
Non disse niente, riprendendo a controllare se nella stanza, incredibilmente impersonale, ci fosse ancora qualche suo oggetto. Conclusa quella rapida ispezione, prese il pesante cappotto posato sul letto e lo indossò, le mani che tremavano di rabbia mentre lo abbottonava.
“Signor Mustang…” riuscì finalmente a mormorare Riza.
“Mi dispiace – rispose lui, recuperando la sciarpa e avvolgendosela blandamente attorno al collo – non volevo che andasse a finire così.”
Si mise la sacca in spalla, sistemandosela con una torsione e uscì dalla stanza, con Riza che si scostò all’ultimo per lasciarlo passare. Alla ragazzina non restò che seguirlo per il corridoio, troppo incredula e disperata per riuscire a dire o fare qualcosa. E poi che cosa avrebbe potuto fare? Dirgli di restare? Era inutile… per cosa sarebbe rimasto? Per fare compagnia a lei?
Il giovane si fermò improvvisamente davanti alla porta e si girò per attenderla.
Le mise una mano sulla spalla, sul cappotto ancora umido per il nevischio che cadeva impietoso là fuori.
“Prenditi cura di lui, Riza… e prenditi cura anche di te stessa, mi raccomando.”
Le sorrise: un sorriso amaro e triste che esprimeva tutta la sua rabbia per come le cose erano andate a finire. Durò solo due secondi, due secondi durante i quali lei non seppe cosa rispondere, limitandosi a fissarlo con incredulo dolore.
Poi la porta venne aperta ed il vento freddo ed umido le sferzò il viso non più protetto dalla sciarpa.
“Rimani dentro che fuori si gela.” le consigliò il ragazzo.
La porta si richiuse, escludendo finalmente l’aria gelida.
Alcuni vaghi fiocchi di nevischio caddero di malagrazia sul pavimento umido e sugli stivaletti inzuppati della ragazzina. Ma lei non ci fece caso: rimase diversi minuti davanti a quella porta chiusa, senza nemmeno sapere che cosa stava aspettando. Gli occhi castani fissavano vacui quel legno in parte rovinato, cercandovi un appiglio per superare quel nuovo trauma della sua vita.
Ma al posto del legno l’aiuto venne da quanto aveva imparato nel corso del tempo dalla signorina Elliot e dall’esperienza personale. Non si chiuse nella tristezza, non cercò un’inutile fuga dalla realtà: si disse che, in fondo, l’aveva saputo da principio che prima o poi il signor Mustang sarebbe andato via. Restarci troppo male era un atteggiamento stupido ed improduttivo.
Quasi rispondesse a quel comando del cervello, il suo corpo le comunicò che non era piacevole stare con il cappotto inzuppato a gocciolare sul pavimento. Bisognava cambiarsi, preparare un pranzo caldo, provvedere alle faccende di casa.
Semplicemente Roy Mustang era andato per la sua strada e lei non poteva farci niente.
 
Suo padre non si fece vedere per tutta la giornata.
Seguendo l’istinto Riza non gli portò il pranzo e cercò di essere il più silenziosa possibile in qualsiasi cosa facesse. Dopo che il primo impatto emotivo per la partenza del signor Mustang fu svanito, arrivò la consapevolezza che la casa si stava lentamente ed inesorabilmente riempiendo di una nuova forma di tensione che aveva un’unica fonte: lo studio di Berthold Hawkeye.
Era una sensazione del tutto nuova per Riza: non aveva mai creduto possibile che un qualcosa di astratto come un’emozione potesse imprigionare in un simile modo un luogo fisico. Ma era proprio quello che stava succedendo: era come se niente in casa potesse osare muoversi, nemmeno le gocce d’acqua cadere dal rubinetto malandato. Era una sensazione opprimente, pesante, tanto che a un certo punto, a metà pomeriggio, la ragazzina posò la penna sul tavolo ed iniziò ad ansimare pesantemente, serrando gli occhi e tappandosi le orecchie.
Voleva andare via da lì, sentiva di impazzire!
Avrebbe voluto correre lontano da quel posto, magari andare a casa della signora Berth o della signorina Elliot. Persino stare fuori in balia del tempaccio che imperversava pareva preferibile all’estenuante attesa… attesa di cosa poi?
La rabbia.
Non l’aveva mai vista su suo padre.
C’erano diverse emozioni che si potevano attribuire a Berthold Hawkeye: indifferenza, inquietudine, solitudine, persino lucida follia. Ma non rabbia, almeno fino a quel momento. Eppure, in cuor suo, Riza sapeva che prima o poi un sentimento simile avrebbe fatto la sua comparsa: forte e violento come una diga che cede all’improvviso, permettendo all’acqua di sommergere tutto quanto.
Di sommergere lei.
Quasi fosse stato evocato un urlo quasi animalesco rimbombò in tutta la casa, facendosi beffe delle mani che la ragazzina teneva premute contro le orecchie. Ci furono dieci secondi di calma e poi iniziarono i rumori: qualcosa che veniva sbattuto contro i muri… libri, mobilio, qualsiasi cosa fosse presente in quello studio maledetto. La rabbia era esplosa in tutta la sua violenza: perché quell’apparente calma che Berthold Hawkeye aveva mostrato quando il suo allievo era andato via non esisteva, non era mai esistita. C’era solo quella violenta ed impotente rabbia.
“Mamma…!” si trovò ad invocare Riza, rifugiandosi sotto il tavolo e facendosi più piccola che poteva.
Che cosa sarebbe successo? Suo padre sarebbe venuto a prendersela anche con lei?
Per la prima volta la ragazzina ebbe timore del suo genitore in un modo del tutto nuovo, più tangibile e fisico. Si rendeva conto di quanto potesse realmente farle male: era una persona adulta, poteva picchiarla o chissà che altro. E soprattutto non era mentalmente stabile: la sua vita era un precario equilibrio dove l’alchimia funzionava come una strana e perversa droga. Roy Mustang aveva in parte spezzato quel circolo, ma andando via aveva scatenato la tempesta.
Un nuovo botto, stavolta più vicino a lei: forse di qualcosa che veniva rotto contro la porta dello studio.
Riza ansimò e si raggomitolò ancora di più contro una gamba del tavolo.
“Mamma… mamma, ti prego… vieni a salvarmi… qualcuno venga, ve ne supplico!” pianse.
Continuò a supplicare, ancora e ancora.
Ma nessuno venne ad aiutarla in quella tempesta che la circondava.
 
La mattina seguente la sorprese addormentata sul freddo pavimento della cucina, le mani strette attorno alla gamba del tavolo contro la quale si era raggomitolata. Aprì gli occhi con aria stordita, non riuscendo a capire il motivo di quel gelo, di quell’indolenzimento alle ossa e ai muscoli: per qualche secondo le sembrò assurdo trovarsi in una posizione simile.
Ma poi i ricordi tornarono impietosi e subito si irrigidì, accorgendosi di aver perso la posa raggomitolata che, tutto sommato, l’aveva protetta dallo scoppio d’ira paterno. Perché una parte di lei si era convinta che la sua salvezza era dovuta all’esser stata immobile, facendo dimenticare a suo padre che c’era anche lei in quella casa.
Tuttavia i minuti passavano e piano piano Riza si rese conto del silenzio tranquillo che aleggiava nella casa, proprio come se fosse una mattinata come tutte le altre. Osò lanciare uno sguardo all’orologio alla parete e si rese conto che presto sarebbe dovuta andare dalla signorina Elliot: l’idea di uscire da quella casa le pareva più che mai allettante, ma per farlo doveva uscire da sotto il tavolo e prepararsi.
Poteva osare muoversi e dunque fare rumore?
Rimase per qualche minuto ad esitare, ma poi si decise e con tutto il silenzio di cui era capace si rimise in piedi, serrando gli occhi nel sentire i muscoli protestare in maniera più che vivace. Quando fece qualche passo si dovette aggrappare al tavolo per evitare che le gambe cedessero.
Stupida, a dormire nel pavimento in una notte così fredda cosa ti aspettavi?
Guardò il suo materiale scolastico sul tavolo e ringraziò mentalmente il cielo di aver tutto lì, a portata di mano: l’idea di andare in camera e dunque passare vicino allo studio di suo padre la terrorizzava come non mai. Raccolse tutto con ansia, sussultando quando la penna cadde per terra facendo un rumore che parve esplodere in tutta la cucina. Rimase per qualche secondo in attesa, ma non ci fu nessuna conseguenza.
Facendosi coraggio sistemò come poteva il suo corredo scolastico e andò all’ingresso, lieta che cappotto e stivali si trovassero lì e non in camera. E poco importava se indossava le calze più leggere e non quelle pesanti.
Le bastava andare via da quel posto, almeno per qualche ora.
 
“Mi… mi dispiace, non ho fatto in tempo a terminare i compiti.”
Esordì così quando la signorina Elliot aprì la porta.
Sapeva benissimo di essere in condizioni pessime: mentre camminava sfidando il freddo si era resa conto di non essersi nemmeno lavata il viso o pettinata. Doveva essere uno spettacolo disdicevole per quella donna che le aveva insegnato il decoro e la cura di se stessi, ma la situazione a casa era troppo difficile. Bagno e camera da letto erano praticamente irraggiungibili finché c’era quel corridoio da attraversare.
La signorina Elliot non disse niente per qualche secondo, limitandosi a squadrarla con attenzione.
Riza arrivò a temere un rimprovero aspro, addirittura l’ordine di tornare a casa e tornare con un aspetto più decente. Senza contare che non aveva terminato i compiti. Non era proprio in una buona posizione e…
“Vieni dentro, questo tempo è proprio da lupi.”
La voce della donna fu quella di sempre, senza alcun accenno di rimprovero.
Riza la osservò stranita, ma non c’era niente di strano nel caldo abito nero che indossava o nella tirata pettinatura. L’espressione era quella di sempre, giusto gli occhi esprimevano un minimo di preoccupazione, la stessa che aveva ogni volta che faceva un tempo così freddo.
“Mi perdoni – continuò la ragazzina mentre si avviava verso il salotto, rischiando di inciampare per via degli stivaletti inzuppati – non ho…”
“Levati quegli stivali e mettili davanti al fuoco, coraggio – la bloccò la donna – ti porto delle calze pesanti.”
Riza annuì, arrossendo con aria mortificata: sicuramente aveva fatto la figura della zotica.
Ma la signorina Elliot non fece alcun riferimento in tal senso.
Le procurò delle calze calde che diedero sollievo ai suoi piedi infreddoliti e irrigiditi; la fece quindi andare in bagno per lavarsi il viso con acqua calda e pettinarsi e poi le fece fare un’abbondante colazione. Il corredo scolastico rimase in un angolo del tavolo, completamente dimenticato.
Solo dopo qualche minuto Riza osò alzare lo sguardo dalla sua tazza di cioccolata calda e posarlo sulla sua insegnate. Se ne stava lì, in semplice attesa, senza forzarla a parlare.
“Il signor Mustang è andato via.”
Lo disse con voce piatta e calma, senza aggiungere altro. Tutto il resto era semplice conseguenza, non c’era bisogno di descrivere quel tremendo pomeriggio che aveva trascorso a casa sua.
E difatti la signorina Elliot non fece domande: si limitò ad annuire leggermente e a sospirare.
“Coraggio – le disse – bevila finché è calda: vado a prendere altri biscotti.”
Non fecero lezione quella mattina.
Riza ricordò solo che ad un certo punto, fissando le fiamme del caminetto, si assopì.
Si risvegliò nel morbido letto della signorina Elliot, con una calda coperta tirata fino al mento e le sue ossa che finalmente non dolevano più di tanto.
Guardando la finestra si accorse che si stava facendo buio e che dunque mancava da casa da ben più di mezza giornata. Ma non si alzò immediatamente: decise di concedersi ancora qualche minuto di riposo tra quelle coltri dove si sentiva al sicuro.
 
Si congedò con la signorina Elliot con imbarazzate parole di scuse e ringraziamento, ma tutto quello che la maestra le disse fu di non preoccuparsi dei compiti: la mattina successiva avrebbe spiegato e non ci sarebbe stata nessuna verifica. Così Magda Elliot superava quei momenti di crisi, inducendo anche Riza a tornare sui binari della quotidianità.
Fu così che, in maniera quasi surreale, si trovò con la mano sulla porta di casa, completamente ignara di cosa avrebbe trovato una volta aperto quell’uscio. Oggetti buttati a terra? Caos e disordine? Ancora quel senso di rabbia così forte che poteva travolgerla da un momento all’altro?
Una piccola parte di lei voleva ancora scappare via, ma poi la solita Riza prese il soppravvento e si preparò ad affrontare qualsiasi tempesta ci fosse là dentro.
Ad accoglierla fu il silenzio più assoluto.
Il solito silenzio surreale di casa Hawkeye che la accoglieva ogni volta che rientrava a casa.
Trattenendo il respiro cercò a tentoni l’interruttore e permise alla luce di illuminare l’ingresso ed il corridoio. Era un gesto temerario: avvisava suo padre del suo ritorno a casa. Ma che altro poteva fare? Non poteva passare la sua vita sotto il tavolo di cucina: doveva andare in camera sua, cambiarsi, lavarsi, preparare la cena. Doveva assolutamente recuperare la sua normalità, almeno in parte.
Si fece forza e si levò il cappotto e gli stivali bagnati; quindi iniziò a camminare lungo quel corridoio, sentendo che la tensione si faceva più forte mano a mano che la porta dello studio di suo padre si avvicinava. Ma non accadde nulla: lui non apparve all’improvviso per afferrarla e farle chissà che cosa.
La porta venne superata e con un'altra decina di passi raggiunse la relativa sicurezza della sua camera.
Posò il suo materiale scolastico sul comodino e si sedette sul letto con un sospiro tremante.
Era tornato tutto a posto? Poteva di nuovo muoversi liberamente?
Se lo chiese per una decina di secondi e poi, ancora, decise di darsi da fare.
Si lavò, si cambiò ed infine andò in cucina a preparare la cena.
Tutto procedeva come al solito, salvo che non aveva preparato il vassoio per suo padre.
 
La mattina dopo la crisi era quasi del tutto superata.
Era come se la sua piccola mente si fosse imposta di andare avanti a prescindere da quanto stava succedendo. Si era convinta che suo padre per adesso non voleva essere disturbato: quando avrebbe voluto di nuovo essere servito nello studio gliel’avrebbe detto.
Era così sicura di se stessa che quasi fece cadere la tazza di latte quando Berthold entrò improvvisamente in cucina. Riza non poté fare a meno di fissarlo con sgomento: era il fantasma di se stesso.
Non si era mai presentato bene: c’era sempre un’aria di trascuratezza che la faceva da padrone e che si evinceva soprattutto dai capelli spesso arruffati e dallo sguardo assente e distratto nei confronti del mondo. Ma adesso c’era un fattore di sfinimento fisico che la ragazzina non aveva mai conosciuto. Era come se le sue forze si fossero completamente prosciugate: sembrava un fantasma, pallido con gli occhi azzurri febbrili e leggermente iniettati di sangue.
“Papà…” osò chiamarlo Riza, quasi ad evocare il genitore da quella strana visione.
“Preparami da mangiare – disse lui con voce raschiata – e portalo nel mio studio.”
“Certo.” annuì lei, alzandosi in piedi.
Berthold non aggiunse altro e scomparve dalla cucina.
Con il cuore in gola la ragazzina si affannò per preparare una colazione decente: nel vassoio oltre ad una tazza di caffè molto forte mise anche dei biscotti, del pane tostato, persino una fetta di torta di due giorni prima che comunque si poteva ancora mangiare. Aveva la netta impressione che suo padre avesse disperato bisogno di cibarsi, altrimenti sarebbe definitivamente crollato.
Preparato il vassoio, arrivò finalmente alla porta dello studio, trovandola stranamente semichiusa.
Con il piede la aprì quel tanto che bastava per entrare e, come c’era d’aspettarsi, sgranò gli occhi per il disastro che le si presentò davanti. Era come se un uragano fosse passato in quella stanza non lasciando niente al proprio posto: le librerie erano praticamente vuote, tutti i volumi gettati a terra in maniera confusionaria e rabbiosa. Sul pavimento giacevano pezzi di mobilio, frammenti di vetro, macchie d’inchiostro… la grande e pesante scrivania era gettata di traverso. Con che forza un uomo tutto sommato esile come Berthold Hawkeye era riuscito a spostare in maniera così violenta un arredo massiccio come quello?
“Poggia pure nella scrivania.”
La voce dell’uomo riscosse Riza.
Stava in mezzo a quel caos di libri, prendendone qualcuno in mano e fissandolo con distrazione, come se si stesse chiedendo da che parte iniziare per rimettere a posto quel caos. Così come era arrivata la tempesta era passata, lasciando solo quell’uomo così strano e solo che si affidava nuovamente all’alchimia con tutto se stesso.
E quello era un qualcosa a cui Riza era abituata.
Posò il vassoio sulla scrivania incredibilmente libera e poi riguadagnò l’uscita.
“Vado dalla signorina Elliot – annunciò – torno a pranzo come al solito.”
Lui nemmeno le rispose, ma Riza non ci fece caso: sicuramente non si era nemmeno reso conto che il giorno prima era mancata più del previsto. Del resto era quello il padre con cui era abituata ad aver a che fare.
Quanto al signor Mustang… ormai apparteneva al passato.
Rientrò in cucina e lavò le stoviglie con le quali aveva fatto colazione: mentre si asciugava le mani con un canovaccio lo sguardo cadde sulla radio, incredibilmente muta dopo tutti quei mesi.
Si chiese se l’avrebbe dovuta rimettere nella scatola di cartone e rinchiuderla di nuovo nella stanza disabitata. Ma si disse che ci sarebbe stato tempo: adesso era il momento di andare a lezione.

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 5. 1904-5. Sangue ***


Capitolo 5
1904-5. Sangue




 
“Ad East City?”
Riza rimase incredula a fissare la signorina Elliot che, imperturbabile come sempre, chiudeva il libro della lezione appena terminata.
“Sì, cara – annuì la donna – entro le prossime due settimane mi trasferirò da mia sorella. Purtroppo suo figlio è deceduto al fronte ed era già vedova da tempo: non mi va di lasciarla sola.”
“Ma tornerà, vero signorina?” chiese l’allieva con urgenza.
“Ti ho insegnato davvero tanto, Riza – rispose lei scuotendo il capo – non hai più bisogno di me. In questi quattro anni hai assimilato più di quanto facciano la maggior parte dei ragazzi nel loro corso di studi.”
Ma invece di essere orgogliosa di quelle parole, la ragazzina si sentiva crollare il mondo addosso. In cuor suo sapeva che prima o poi le sue lezioni con la signorina Elliot sarebbero terminate, ma non così in fretta e soprattutto in una maniera così brusca. Anche perché andava a stare in un posto davvero lontano e questo significava non vederla mai più, nemmeno andare a trovarla. Come avrebbe fatto senza quel grande punto fermo della sua vita?
Sicuramente la sua espressione doveva essere eloquente perché la donna si alzò dalla sedia e le andò accanto, mettendole una mano sulla spalla.
“Ormai sei una signorina che può stare in piedi da sola – le disse – ti ho dato tutti gli strumenti per avere una vita più che dignitosa e sono sicura che tu ne farai tesoro. Sei più forte della maggior parte delle tue coetanee, non è un mistero: vedrai che ci riuscirai.”
“Ma io ho bisogno di lei!” ansimò Riza.
Non era giusto: non era possibile che ogni volta, ad intervalli irregolari, le venissero levati gli aspetti più belli della sua solitaria vita. Per lei la signorina Elliot era indispensabile: da maestra era diventata confidente, la persona che la capiva al volo. L’aveva aiutata a crescere, a venire a patti con la sua vita; le aveva persino spiegato come funzionava il corpo femminile quando le era arrivato il menarca.
Panico: ecco la parola giusta all’idea di stare senza la sua guida.
“Ti lascerò l’indirizzo di mia sorella: quando vorrai potrai scrivermi. Solo il cielo sa quanto la posta ritardi nell’arrivare qui e viceversa, ma se avrai bisogno di me non dovrai far altro che prendere carta e penna.”
“Come potrò stare a casa la mattina?” mormorò Riza cercando di trattenere le lacrime.
“Sono certa che riuscirai ad impiegare quelle ore in maniera più che produttiva, ragazza mia. Ti lascerò diversi libri, un programma di studi più adulto per i prossimi mesi: in questo modo abituarti al cambiamento sarà più facile.”
Mi porti con lei!
Le labbra di Riza si schiusero per iniziare a pronunciare quella frase, ma poi si bloccarono in un soffio appena percettibile. La sua era una proposta assurda che non era nemmeno il caso di esprimere.
“Se… se vuole posso aiutarla a sistemare le sue cose…” riuscì a dire invece.
“Con molto piacere – acconsentì la donna – la mia schiena non è più abituata a certi sforzi e l’aiuto di una giovane in forze come te sarà più che gradito.”
Era un piccolo contentino, non era nemmeno il caso di dirlo.
A quanto sembrava non poteva esserci di più.
 
Una ventina di giorni dopo, alla fine dell’estate del 1904, la signorina Elliot partì.
Le scatole con i suoi effetti personali vennero caricate su un grosso carro e lei stessa si sedette in cassetta assieme al vecchio conducente. Riza osservò quella sagoma traballante allontanarsi in quella strada polverosa, fino a quando scomparve in direzione delle colline oltre le quali c’era East City.
“Fa sempre specie quando qualcuno di noi va via – commentò la signora Berth che, accanto alla ragazzina, aveva provveduto a salutare l’anziana insegnante – chissà se mai qualcuno verrà ad occupare quella casa.”
Riza non rispose, osservando apatica quel paesaggio ormai vuoto: era appena riuscita a spiaccicare una parola di saluto quando la sua anziana maestra aveva preso congedo da lei.
“Puoi essere contenta – la consolò la vicina –hai avuto la fortuna di avere un’ottima insegnante. Tuo padre ha fatto davvero bene a seguire il mio suggerimento. A proposito, come si sente?”
“Credo stia bene – disse distrattamente Riza mentre si faceva guidare verso casa da quella mano gentile che le aveva circondato le spalle – non ha più avuto attacchi. Però continua a studiare tutto il giorno, non si riposa come ha consigliato il dottore.”
“Santa pazienza, quell’uomo è davvero impossibile! – sospirò la grossa donna – Eppure sa bene quanto la tisi possa essere grave dopo quanto è successo alla tua povera mamma.”
Riza non seppe cosa rispondere e rimase in silenzio fino a quando non prese congedo dalla vicina qualche minuto dopo.
 
La malattia di Berthold era comparsa circa cinque mesi prima e Riza l’aveva scoperto quasi per caso.
Nel fare il bucato si era accorta che alcune maniche dei vestiti di suo padre erano macchiate di sangue. Non ci avrebbe badato più di tanto, pensando a chissà quale incidente magari con qualche attrezzo d’alchimista, ma aveva subito notato la somiglianza con le macchie di sangue che sua madre lasciava nei fazzoletti quando aveva gli attacchi del suo male. Le stesse minuscole goccioline, quasi ci fosse un ordine preciso con cui la tisi faceva perdere sangue alle sue vittime.
Ovviamente questo l’aveva fatta ripiombare nell’incubo di cinque anni prima.
Si ricordava fin troppo bene di come il medico avesse più volte detto che quella casa era un posto totalmente inadatto per una persona tisica: umido, con muffe e polvere, senza nessun effettivo conforto per il malato. E questo poteva voler dire che Berthold Hawkeye avrebbe seguito lo stesso decorso della sua povera moglie.
Sulle prime Riza non aveva saputo come reagire: con suo padre continuava ad esserci la solita assenza di rapporto e di certo non si sarebbe mai permessa di consigliargli una visita del medico. Per diversi giorni era rimasta in silenziosa attesa, controllando minuziosamente il bucato che faceva e cercando ogni minima macchia di sangue che potesse indicare lo stato della malattia.
Tuttavia, come erano iniziate, dopo una decina di giorni quelle macchie erano sparite e la ragazzina aveva preferito dimenticare quello strano ed inquietante episodio.
Ma la sua tranquillità era durata solo una settimana quando, portando il pranzo a suo padre, l’aveva trovato piegato sulla scrivania in preda ad un forte attacco di tosse con una forte perdita di sangue. Il vassoio le era caduto di mano ed era corsa a chiamare la signora Berth ed il medico.
E così la tisi era di nuovo entrata nella sua vita.
“E’ ad uno stadio molto avanzato, non posso fare molto. Deve stare a riposo il più possibile, riguardarsi. In questo modo potrà andare avanti per diverso tempo senza che ci siano brutti attacchi. Certo, la cosa migliore sarebbe andare in un posto più sano di questo…”
Era stata questa la diagnosi del medico, ma ovviamente Berthold non aveva voluto saperne.
Era rimasto a letto i giorni necessari per riprendersi da quel brutto attacco, poi, incurante delle raccomandazioni, non appena era stato in grado di alzarsi era tornato a chiudersi nel suo studio con Riza che non poteva fare altro che affacciarsi più volte al giorno per vedere come stava. Non osava suggerirgli di seguire quanto gli aveva detto il medico: sarebbero state parole al vento nel migliore dei casi.
Non mi darebbe mai retta – pensò per l’ennesima volta Riza, rientrando a casa e cercando di farsi forza e trattenere le lacrime per la partenza della signorina Elliot.
L’abitudine la portò davanti alla porta dello studio che aprì il più silenziosamente possibile per sbirciare se tutto andava bene.
E lui era lì, chino sulla scrivania, posseduto da una foga che la figlia non gli aveva mai visto. Come se fosse subentrata una pressante urgenza, come se fosse strettamente necessario terminare qualcosa prima che fosse troppo tardi. Ma per Riza era un controsenso: il medico aveva detto che con le dovute attenzioni la malattia sarebbe progredita con maggior lentezza e dunque di tempo ne avrebbe avuto di più.
Suo padre non si rendeva conto che così peggiorava solo la situazione.
Resterò sola… e a lui non importa niente.
Era arrivata a pensarlo con quella che si poteva definire apatia.
A quanto pare avrebbe dovuto imparare a stare in piedi da sola molto presto.
Ma a pensarci bene era una cosa che faceva già da diversi anni.
 
L’autunno passò e arrivò l’inverno, portando alla fine di quel 1904 e l’inizio del 1905… il quarto anno di guerra.
Al contrario di quanto si era proposta di fare tempo prima, Riza aveva lasciato la vecchia radio in cucina e la ascoltava ogni sera dopo cena. E così sapeva che la situazione al fronte di Ishval era sempre più critica e che in diverse zone del settore Est erano scoppiate rivolte, la popolazione ormai stanca di determinate privazioni. E poi Creta e Aerugo… altri nomi che si aggiungevano alla lista dei nemici: altri fronti aperti che risucchiavano le forze militari di Amestris, con gli invii al fronte che continuavano giorno dopo giorno.
Era in quei momenti che la giovane si soffermava a pensare al signor Mustang. Chissà cosa stava facendo.
Si era forse arruolato per dare il suo contributo al paese? Del resto non aveva mai nascosto la sua insofferenza nel stare lì a studiare alchimia senza poter fare nulla.
Speriamo che non gli sia accaduto niente di grave – pregava la giovane – che non l’abbiano mandato in zone troppo pericolose.
E intanto lei continuava la sua vita solitaria: studiava dai libri che le aveva dato la signorina Elliot, cercava di rendere la casa più pulita possibile per evitare il peggiorare della malattia paterna… e quando poteva si permetteva di fare progetti per il futuro. A volte pensava che, dopo la morte di suo padre, sarebbe potuta andare pure lei ad East City: lì avrebbe potuto trovare un impiego, magari come insegnante, anche se non aveva mai avuto a che fare con i bambini in vita sua. Però sapeva che la sua istruzione era più che buona e, forse, grazie anche ai consigli della signorina Elliot, avrebbe potuto trovare un buon impiego e vivere quella vita dignitosa che la sua insegnante le aveva augurato.
Una sera in cui era particolarmente entusiasta a quell’idea, era impegnata a scrivere una lettera proprio all’anziana donna, in cui faceva un primo timido accenno a questa idea. La penna tuttavia ebbe un sussulto e lasciò una brutta riga sul foglio quando sentì un rumore sordo dallo studio di suo padre. Si alzò immediatamente in piedi: anche se non c’erano stati dei colpi di tosse ad annunciare un nuovo attacco, sembrava quasi che qualcuno avesse fatto un brusco movimento.
Cielo, sarà caduto dalla sedia o dalla scala della libreria? – si chiese la giovane, correndo allo studio e aprendo freneticamente la porta.
“Papà, tutto bene?” chiese con ansia, pronta a correre a chiamare il medico a prescindere dall’ora.
Ma Berthold Hawkeye non era né svenuto né caduto: il rumore che aveva sentito era stato provocato dalla pesante sedia di legno che veniva bruscamente spinta indietro. Berthold Hawkeye era in piedi, le mani posate sulla scrivania che tremavano visibilmente. I capelli cadevano sul viso, ma si poteva vedere come i lineamenti fossero tirati ed esausti, segno che si era spinto oltre qualsiasi limite consentito dalla malattia.
Eppure era febbrilmente trionfante: ansimava come se avesse appena corso per raggiungere il traguardo di tutta una vita. Le labbra secche e screpolate erano socchiuse in un sorriso quasi isterico.
“Fatta…” sussurrò, senza nemmeno rendersi conto che la figlia era entrata e l’aveva chiamato.
“Papà?” Riza si fece avanti, preoccupata da quella strana agitazione.
“Finita!” esclamò l’uomo scoppiando in una risata isterica che ebbe il potere di far bloccare la figlia a metà strada. Non aveva mai sentito suo padre ridere e non avrebbe mai voluto sentire un suono simile: stridente, fastidioso, folle … non aveva niente di una risata umana. Quasi a sottolineare l’insanita di quel gesto, Berthold si portò le mani al viso, come a trattenere la sua ilarità: questo fu sufficiente a fargli perdere l’equilibrio precario delle gambe indebolite e a farlo ricadere indietro sulla sedia.
A quel punto iniziò un violento attacco di tosse e, come vide le prime gocce di sangue, Riza si riscosse da quel muto sgomento che l’aveva bloccata a metà strada.
Non c’erano dubbi su quanto fosse necessario chiamare il medico.
 
Quell’attacco fu estremamente grave.
Quando Riza tornò col medico e la signora Berth trovò suo padre semisvenuto sul pavimento con tracce di vomito e sangue tutto attorno a lui. La febbre tisica lo tormentò per almeno una decina di giorni, tanto che il medico temette il peggio.
Per tutto quel tempo Riza fu costretta a stare al suo capezzale, concedendosi un po’ di riposo solo quando la signora Berth veniva a darle il cambio durante il giorno. Al contrario di sua madre che era sempre stata una paziente tutto sommato tranquilla, Berthold continuava nel suo delirio: in preda alla febbre continuava a farneticare di qualcosa finalmente portata a termine; c’erano momenti in cui tentava di mettersi seduto con prepotenza, scoppiando in nuove risate che non facevano che scatenare nuovi attacchi di tosse.
In quelle occasioni Riza era certa che suo padre non fosse mai stato sano di mente.
E si trovava a doverlo trattenere, a supplicarlo… ad avere con lui un contatto fisico che, onestamente, le faceva ribrezzo. A prescindere dall’odore di sudore, sangue e malattia, era proprio una sensazione a pelle che la spingeva a trattenere i conati di vomito
Quando finalmente quel delirio finì e l’uomo tornò ad essere più collaborativo, Riza si rifugiò in camera sua e dormì per un intero pomeriggio, lasciando suo padre alle cure della signora Berth. Tuttavia prima di assopirsi, rilesse quella lettera che stava scrivendo alla signorina Elliot prima che iniziasse quell’inferno.
East City… adesso più che mai desiderava andare via, fino a quella città.
Forse l’avrebbe dovuto fare da subito: in qualche modo imporsi e far andare suo padre con lei. Sicuramente in una grande città come quella c’erano dei sanatori adatti alla sua malattia e lì si sarebbero presi cura di lui. Si sarebbe in qualche modo liberata della sua presenza, sarebbe stata indipendente: avrebbe lavorato per pagare i medici, certo, non l’avrebbe abbandonato del tutto. Ma almeno avrebbe in parte allentato le spire che l’avvolgevano.
Ma la lettera ed i suoi sogni rimasero sotto il cuscino, troppo impegnativi dopo quei dieci giorni d’inferno.
 
Nonostante l’attacco non avesse ucciso Berthold Hawkeye, le ripercussioni sulla sua salute furono devastanti. Era costretto a restare a letto per la maggior parte del tempo, al massimo seduto su una poltrona. Il medico disse che non sarebbe arrivato alla fine di quel 1905: gli restavano massimo una decina di mesi di vita, a patto che si riguardasse.
A sapere che il conto alla rovescia si era drasticamente ridotto, Riza si sentì stranita.
Adesso che la fase critica era passata si rendeva conto che stava per perdere l’unica famiglia che avesse mai conosciuto. E con la quale, ormai, era costretta ad avere confidenza ogni giorno che passava: dal portargli i pasti, ad aiutarlo ad alzarsi… padre e figlia stavano interagendo come mai era successo in tutti quegli anni.
Curiosamente Berthold era più prodigo di parole con lei come mai era stato: semplici ringraziamenti o richieste, niente di più, ma era come se fosse maggiormente consapevole della presenza della figlia.
A venire fissata da quegli strani occhi azzurri, leggermente vacui, Riza si sentiva leggermente a disagio… tuttavia, per una strana forma di compensazione affettiva, arrivò a considerarli come primi accenni di interessamento paterno alla sua persona.
E lei non aveva ancora compiuto quindici anni… era sola: ci si buttò come un assettato si butta su una fonte d’acqua fresca in mezzo al deserto. In quei momenti arrivò persino a perdonarlo per averla trascurata così tanto in tutti quegli anni. Arrivò a pensare che, per quel poco che restava, potevano essere una strana forma di famiglia.
 
“Ecco, mi pare che sia tutto in ordine adesso.”
Era inizio giugno quando disse con orgoglio quella frase e si rivolse al padre con un sorriso.
Scese dalla scaletta e guardò con attenzione quello studio pieno di libri che di polveroso non aveva più nulla. Finalmente era venuta a patti anche con la stanza più ostica del villino quella in cui aveva sempre fatto fatica ad entrare. Non sapeva per quale motivo, ma ad inizio settimana suo padre le aveva chiesto di fare pulizia nel suo studio, ovviamente sotto la sua supervisione.
Dopo un’iniziale sorpresa Riza aveva accettato quell’impresa, arrivando a credere che suo padre, cosciente di quanto gli restava da vivere, volesse mettere ordine in quello che era stato il suo regno per tutti quegli anni. E così per diversi giorni non aveva fatto altro che spolverare scaffali e libri, dando finalmente un senso a tutta quella confusione che aveva dominato la stanza più grande della casa.
E Berthold era stato con lei tutto il tempo, totalmente indifferente alla polvere, seduto alla scrivania: le diceva dove riporre i libri, cosa buttare, come lavare alcuni strani strumenti. E poi leggeva… leggeva di continuo una piccola risma di fogli pregna della sua fitta calligrafia, l’unica cosa che Riza non ebbe mai l’autorizzazione di toccare in tutta la sua opera di pulizia.
Ogni tanto aveva osato sbirciarlo mentre sfogliava quei fogli, chiedendosi cosa ci fosse di così importante: era arrivata a convincersi che fosse quella la cosa finita per la quale si era sfiancato tanto.
“Molto bene – disse Berthold, richiamandola a sé con un gesto della mano scarna – sei stata brava, questo studio sembra completamente diverso.”
“Devo solo lavare le tende e sarà decisamente più luminoso – sorrise timidamente lei, arrossendo con piacere a quel complimento – ci penserò domani, però… adesso è tardi e dovresti tornare a letto.”
Forse avrebbe aggiunto anche altro a proposito della cena, ma il polso le venne afferrato con una forza davvero improbabile per un ammalato di tisi ad uno stadio così grave.
“Papà…” mormorò lei, preoccupata dallo sguardo febbrile che la imprigionava. Come poteva una persona cambiare così all’improvviso? Dov’era la sfiancata ma più o meno normale forma di genitore a cui aveva imparato ad affezionarsi in quegli strani mesi?
“Riza, bambina… tuo padre ha un estremo bisogno di te – disse lui con urgenza – è la cosa più importante che ho mai chiesto ad una persona, sei la mia unica speranza.”
“Papà, stai male? – chiese lei, credendo che ci fosse un nuovo malessere in arrivo – Dimmi pure, se devo fare qualcosa. Vuoi che vada a chiamare il medico?”
“No! – esclamò lui, stringendole ancora di più il polso – no… so bene che mi resta ben poco da vivere.”
“Però dovresti andare a letto, adesso…”
“Riza, ascolta… io sono un alchimista uno studioso: so che per te tutti questi libri non hanno alcun senso, ma sono stati tutta la mia vita. E infine, nonostante questo corpo malato, sono arrivato ai risultati che volevo.”
Riza non seppe che rispondere, si limitò ad annuire lievemente: sentiva il polso dolerle per quella stretta quasi da rapace, ma non osava proferir parola in merito. Era letteralmente in gabbia, come se quegli occhi azzurri avessero finalmente spezzato la loro maschera di normalità per tornare quelli di una volta: ossessionati.
“… in questi fogli c’è tutta la mia ricerca: l’alchimia perfetta, quella che nessuno è mai riuscito a creare… il fuoco, Riza! Con questa mia ricerca l’uomo può dominare il fuoco! Mi ci è voluta tutta la vita per capire come fare! E ora è conclusa… la mia missione è conclusa! – lo disse quasi con amarezza – mi resta solo un ultimo compito: trovare qualcuno a cui affidarla.”
Riza trattenne il fiato, credendo che ora suo padre le avrebbe chiesto di cercare il signor Mustang.
“Questa ricerca… Amestris non è pronta per questo! – continuò Berthold – Guerre, esercito, follia! Non hanno imparato niente in anni di guerre e sofferenze! Quale… no, come potrei pensare di lasciare l’alchimia del fuoco a chi non ne è degno…”
Una risata amara proruppe da quelle labbra secche e Riza finalmente trovò il coraggio di dimenarsi leggermente e liberarsi da quella stretta. Tuttavia non ebbe la forza di fuggire da quella stanza: rimase a guardare impotente suo padre che cercava di venire a patti con un accesso di tosse che gli squarciava il petto.
“Riza… ascoltami – ansimò quando quella crisi venne superata con difficoltà: le labbra erano chiazzate di sangue – sei l’unica… l’unica di cui mi posso fidare! Devi… devi custodire la mia ricerca! Sei… sei mia figlia, l’unica…”
“Papà, io… io non so niente di alchimia – protestò lei, sgranando gli occhi e capendo quanto le stava venendo chiesto – se vuoi potrò custodire i tuoi scritti, però…”
“No – lui si mise una mano sul petto e si posò con pesantezza allo schienale della sedia, facendo strozzati respiri – quei fogli… devono essere distrutti. Troppo facile che cadano in mani sbagliate!”
Riza scosse il capo non sapendo che altra soluzione proporre: era chiaro che lei non si potesse mettere di punto in bianco a studiare alchimia, di questo suo padre ne era perfettamente consapevole.
“… custodita… sì, custodita – continuò Berthold, quasi parlando a se stesso – dove nessuno possa trovarla.”
 
Ovviamente quel nuovo attacco obbligò l’uomo a letto per diversi giorni.
Riza lo accudiva con sollecitudine, ma l’argomento della custodia dei suoi studi non venne più tirato fuori, tanto che la ragazzina si convinse che era stato tutto un delirio del momento. Forse aveva sì intenzione di affidarle quegli appunti, ma di certo le modalità sarebbero state più specifiche: avrebbe avuto le spiegazioni a tempo debito.
Per questo fu totalmente impreparata quando, più di due settimane dopo, di notte, Berthold entrò nella sua camera proprio quando lei era pronta per andare a dormire.
“Papà! Qualcosa non va?” arrossì lei, finendo di abbassarsi in fretta la maglia del pigiama.
“Vieni con me – disse lui serio, tenendosi allo stipite della porta – è giunto il momento.”
“Momento?” chiese lei, iniziando a seguirlo, preoccupata per quei passi esitanti.
Percorsero lentamente tutto il corridoio: Riza non seppe mai spiegarsi il motivo, ma non si affiancò al padre per aiutarlo a camminare. Rimase indietro di qualche passo, sentendo che l’antico timore nei confronti di quell’adulto era tornato: lo stesso timore per il quale lei non doveva dire nulla.
Lo seguì nello studio e fu sorpresa nel vedere che la luce era accesa, le tende tirate: dunque suo padre era venuto lì prima di andare a chiamarla.
“Chiudi la porta a chiave e vieni qui…” disse ancora l’uomo.
A sentire quella richiesta il cuore della ragazzina iniziò a battere freneticamente: d’impulso serrò gli occhi, non desiderando altro che correre via da lì, scappare dalla signora Berth o in qualunque altro posto. Sentiva che una nuova minaccia si stava protendendo verso di lei… ma tutto quello che riuscì a fare fu eseguire l’ordine con mano tremante e consegnare la chiave da poco liberata dalla ruggine a suo padre che fu rapido a mettersela nella tasca della vestaglia.
Solo allora si accorse che la grande scrivania di legno era stata sgomberata del tutto e ricoperta da un lenzuolo.
“Denudati dalla cintola in su e sdraiati prona sulla scrivania.”
Fu un ordine dato senza alcun riguardo, senza alcun’emozione nella voce.
Ma Riza si sentì impazzire e strinse impulsivamente le dita attorno al colletto del suo indumento. Come poteva chiederle una cosa simile? Come poteva mostrarsi in un simile modo davanti a lui? Sentì le sue braccia che toccavano i seni che avevano da poco iniziato a gonfiarsi ed iniziò a piangere: che cosa voleva farle?
“Ti prego…” mormorò tra i singhiozzi.
“E’ l’unico modo… non resti che tu – disse Berthold, avvicinandosi a lei e prendendola per una spalla – ti tatuerò la formula dell’alchimia sulla schiena: in questo modo nessuno potrà averla… sarà salvata, preservata, non andrà perduta…”
“No… no…” ansimò la ragazzina mentre la casacca le veniva sfilata con gesti bruschi: sentiva il suo corpo completamente irrigidito, incapace di muoversi. Rimase così, nuda dalla cintola in su, con le braccia che ricoprivano vergognosamente il petto.
“Sali lì sopra, avanti – la spintonò il padre – non capisci che… non c’è altro da fare? Non può andare perduta!”
“Papà… papà, per favore…” supplicò, eseguendo l’ordine e salendo con difficoltà sulla scrivania per poi sdraiarsi prona, trovando un minimo sollievo che almeno il seno ora fosse in parte nascosto.
“… certo devi ancora crescere, ma non ci sarà problema – continuava a dire febbrilmente Berthold, completamente ignaro dei suoi lamenti e delle sue suppliche – le formule non verranno alterate… adesso… che dimensione dargli?”
Le sue mani secche e calde iniziarono ad esplorare la superficie della schiena di Riza, arrivando ad accarezzarla amorevolmente e provocandole la pelle d’oca. Mai suo padre l’aveva toccata in questo modo.
Lasciami! Non toccarmi! Non toccarmi!
E lei piangeva… piangeva disperata mentre il lenzuolo sotto il suo viso si inzuppava sempre di più. Ma i suoi singhiozzi erano silenziosi, per un arcano timore di scatenare la rabbia del genitore. Tuttavia, quando Berthold le abbasso i pantaloni del pigiama in quanto le arrivavano sopra la vita, non poté fare a meno di avere un moto di ribellione.
“No!” esclamò, cercando di alzarsi in piedi.
“Ferma! – la bloccò lui con una secca spinta che la obbligò contro il tavolo – è una fase importante! Devo prendere bene le misure o sarà un disastro!”
“… ti prego…” sussurrò la ragazzina sentendo la mano che le tirava giù i pantaloni a metà coscia.
Poi si arrese: non poté far altro che nascondere il viso tra le braccia che aveva messo conserte davanti a sé, le dita che stringevano quel lenzuolo che non riusciva a nascondere la durezza del tavolo. Si augurava solo che collaborando tutto finisse prima. Le sue orecchie rombavano e questo, misericordiosamente, attutiva la voce febbrile di suo padre che continuava a parlare e parlare.
Così fu del tutto impreparata quando venne afferrata per i corti capelli biondi e costretta a sollevare il viso.
“Coraggio, aspira profondamente – disse la voce di Berthold – ci vorranno solo pochi secondi…”
Qualcosa, forse un fazzoletto umido, le venne premuto contro il naso e fu costretta ad aspirare quell’odore strano e dolciastro. Una piccola parte della sua mente lucida riconobbe la medicina che il medico aveva prescritto per calmare suo padre quando la febbre lo tormentava.
La stava drogando.
Fu questione davvero di pochi secondi ed iniziò a perdere i sensi: tutto sommato fu una grazia.
 
“Coraggio, svegliati…”  
La voce proveniva da molto lontano, ma la richiamava inesorabilmente alla realtà, trascinandola via dal mondo buio dove miracolosamente era piombata.
Ancora prima di poter prendere veramente coscienza del proprio corpo, il dolore la fece strillare, facendola quasi soffocare con qualcosa che le era stato infilato tra i denti. Tossì con disperazione fino a quando una mano non si decise a liberarla da quell’impedimento.
“Piano… non dimenarti troppo!”
Dimenarsi… era quello che stava facendo perché era impossibile fare altrimenti. Nonostante una parte del suo corpo protestasse per la debolezza e per quei movimenti precocemente bruschi, lei non poteva fare a meno di dare violenti strattoni per cercare di far passare il fuoco che le bruciava la parte alta della schiena.
Ma più si muoveva, più si accorgeva che era bloccata: qualcosa di ruvido le teneva ferme le gambe e le braccia.
“Calma, Riza! – la voce si fece sferzante, obbligandola a bloccarsi – Respira profondamente, andiamo!”
Eseguì quell’ordine con disperazione, cercando di calmare quel dolore lancinante che sembrava propagarsi in tutto il suo corpo, come se centinaia di aghi la stessero penetrando. Cosa le era successo? Perché si sentiva così male… perché bruciava in una maniera così insopportabile?
Perché?
“… sì, pare che sia tutto a posto: il movimento non sta provocando danni. Adesso ti slego.”
Ancora la voce di lui: stanca, provata… ma con una nota di soddisfazione così tangibile e agghiacciante che la parte lucida della mente della ragazzina ne fu nauseata. Sentì che le sue gambe erano di nuovo libere, sebbene sentisse una fastidiosa irritazione all’altezza delle cosce e delle caviglie… poi toccò alle braccia.
Era libera… ma di fare cosa? Non riusciva ad alzarsi per il dolore che infuriava nella schiena.
“Coraggio, alzati a sedere… ti aiuto a scendere – il tono ora era premuroso – ti riaccompagno in camera: abbiamo entrambi bisogno di riposare dopo questa prima notte.”
“… male…” sussurrò debolmente lei mentre le lacrime colavano copiose sulle guance. Le gambe le cedettero come toccarono il suolo, ma venne prontamente sostenuta. Tuttavia quel movimento le provocò nuove scosse di dolore alla schiena tanto che gridò.
“Sssh, non fare così: adesso ti metti prona a dormire e vedrai che andrà meglio. Devi recuperare energie.”
Era così debole che non capì nemmeno quello che stava accadendo, di come veniva condotta per quel corridoio che le appariva sfocato, inciampando sui pantaloni ancora calati al ginocchio. Seppe solo che a un certo punto le sue mani toccarono una superficie morbida e che d’istinto vi si gettò prona.
Poi di nuovo misericordioso oblio.
 
Quella sera stessa si svegliò in maniera più lenta e meno traumatica.
Il dolore arrivò intenso, ma vagamente tollerabile, tanto che dovette soffocare delle grida sul cuscino.
Cosa mi ha fatto? Cosa mi ha fatto!
Finalmente trovò il coraggio di alzarsi seduta e di portarsi una mano alla spalla, sfiorando con le dita la parte della schiena immediatamente sotto di essa. Fu come scatenare l’inferno: fece solo in tempo a sentire la pelle stranamente in rilievo, come se ci fossero tanti puntini prima che il dolore la obbligasse a ritirare la mano.
“… no… no! – ansimò disperata – ma perché? Perché l’ha fatto?”
Barcollando ed ignorando il senso di nausea si alzò dal letto e andò fino allo specchio che stava sul comò.
Vide il suo viso gonfio e rosso per le lacrime versate, il mento sporco di saliva… si rese finalmente conto di essere nuda, i suoi piccoli seni pienamente esposti. Questo le fece notare che aveva ancora i pantaloni abbassati e con uno sforzo immane riuscì a provvedere almeno a quel dettaglio: nella parte alta delle cosce aveva una strisciata rossa, come se qualcosa avesse sfregato contro la pelle nuda.
Legata… l’aveva legata oltre che drogata.
“No – mormorò, mentre il muco le colava dalla narice destra – no…!”
Si girò quel tanto che bastava per vedere la parte della schiena ferita.
Poi cadde in ginocchio piangendo disperatamente.
 
Rimase così per diverso tempo, fino a quando non sentì la chiave girare nella serratura e la porta riaprirsi.
A chiave! Mi tiene chiusa a chiave!
Si raggomitolò su se stessa, sperando che si trattasse solo di un incubo. Dov’era il padre gravemente malato che aveva persino difficoltà a camminare? Perché adesso aveva così tante forze?
“Coraggio, Riza: è il momento di mangiare qualcosa, andare in bagno, controllare la schiena e procedere con la seconda seduta. Ho fatto un calcolo e andando di questo passo finiremo in cinque notti di lavoro.”
“Ti prego! – supplicò lei, cercando di ritrarsi davanti a quell’uomo così sconosciuto e pericoloso – Non voglio! Non… non puoi!”
“Non abbiamo altra scelta, capisci? Sei rimasta solo tu, figliola.”
Si inginocchiò accanto a lei e le asciugò una lacrima con la mano... poi la prese per un braccio e la obbligò ad alzarsi.
 
Cinque giorni di terrore.
Cinque notti in cui venne sedata per poi risvegliarsi con la schiena in fiamme.
In cui venne tenuta segregata nella sua stanza, sempre con quei pantaloni del pigiama e con quella biancheria sporca dato che non riusciva più ad avere il controllo sul suo corpo. In cui più volte vomitò e cadde in preda ai deliri per colpa del laudano di cui suo padre le faceva abusare.
Cinque giorni in cui perse qualsiasi speranza per se stessa.
Quando finalmente tutto terminò era la mattina del trenta giugno.
Quel giorno compiva quindici anni.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6. 1905. La gabbia aperta ***


Capitolo 6
1905. La gabbia aperta




 
“Mia cara! Finalmente ti vedo uscire! Iniziavo a preoccuparmi: in queste ultime due settimane non ti ho proprio vista.”
A quel richiamo della signora Berth Riza fece quasi cadere il cesto della biancheria da stendere e si costrinse a calmare i battiti del proprio cuore e ad assumere l’espressione più innocente che poteva. Da quel momento iniziava la sua recita con il resto del mondo e la sua vicina era il banco di prova: non poteva permettersi di fallire.
Lei non sa niente della schiena: basta non farglielo capire. Non ha nessun motivo per sospettare.
“Ho avuto un po’ d’influenza – rispose con un sorriso, iniziando ad appendere le lenzuola del suo letto di nuovo pulite dopo che le aveva lasciate a mollo per una notte intera – e ho ritenuto prudente limitare le uscite al minimo.”
La verità invece era che c’erano voluti almeno dieci giorni prima che il dolore alla schiena scemasse.
La quasi totalità di quel periodo l’aveva passata chiusa in camera sua, finalmente non chiusa a chiave, raggomitolata nel suo letto, terrorizzata all’idea che suo padre tornasse da un momento all’altro a tormentarla.
“Hai fatto bene: anche se siamo in estate è meglio evitare di prendere aria. Tuo padre come sta?”
“Come al solito – la sua espressione rimase totalmente limpida nel sentire nominare il genitore – passa la maggior parte del suo tempo a letto e ogni tanto ha qualche crisi, ma niente di grave.”
Anche questa era una menzogna bella e buona.
Suo padre si era fatto vedere solo nei primissimi giorni dopo la tortura ed esclusivamente per controllare come procedessero le ferite lasciate dall’ago: ogni volta le aveva esaminato con minuzia la schiena, lasciata scoperta per ovvie esigenze, passando una crema lenitiva con quelle che si potevano definire carezze amorevoli, per poi uscire dalla stanza con aria compiaciuta. Durante queste operazioni lei era rimasta sempre immobile, riducendo al minimo anche il respiro: il tocco di quelle mani le provocava ormai nausea, nonostante ci fosse il contrasto con il sollievo che l’unguento procurava.
Poi era praticamente sparito.
Qualche volta Riza sentiva dei rumori provenienti da fuori camera sua, a volte dei colpi di tosse, ma niente di più. A confermare il suo ragionamento, era come se dopo che si fosse sincerato che il tatuaggio fosse in via di guarigione non gli importasse di altro. A quanto sembrava era ancora in forze per provvedere da solo ai suoi pasti e ai suoi bisogni e questa era una gran consolazione: meno lo vedeva meglio era.
“Quindi possiamo dire che è ancora stabile. Beh, è un sollievo.”
“Sì è stabile. Anche quando ha le crisi non è nemmeno il caso di chiamare il dottore: tanto mi ha insegnato come procedere in casi simili. Bene, qui ho finito: le auguro una buona giornata, signora.”
Recuperò il cesto vuoto e fece per girarsi, ma la signora Berth la bloccò con un cenno della mano.
“Ecco, proprio a questo proposito volevo farti una domanda da tempo.”
“Mi dica pure.”
“Ormai sai bene che a tuo padre non resta molto da vivere – c’era una forma di imbarazzo nella sua voce e nei suoi gesti – hai idea di come farai una volta che non ci sarà più? Non hai parenti? Qualcuno che possa badare a te?”
“Posso badare a me stessa – rispose lei con tranquillità – del resto sono io che mi occupo della casa dalla morte di mia madre.”
“Parlo a livello economico – scosse il capo la donna – hai quindici anni e comunque…”
“La signorina Elliot ha detto che ho tutte le carte in regola per farcela – la bloccò Riza, rifugiandosi dietro la figura della sua insegnante – mio padre mi lascerà un minimo per vivere dignitosamente per qualche tempo, ne sono certa: qualche soldo da parte lo deve avere. Nel frattempo troverò un lavoretto… la casa da quanto ne so è nostra e non in affitto, quindi sotto quel punto di vista non ci sono problemi.”
Ecco… sembrava così facile parlarne: che problema c’era? La sua vita, tutto sommato, per il futuro più prossimo sembrava già stabilita. Bastava solo non pensare alla sua schiena e tutto filava liscio: quello che aveva programmato in fondo era ancora realizzabile, non era tutto perduto.
Ormai si era aggrappata con le unghie e con i denti a quel concetto e non l’avrebbe lasciato andare per niente al mondo, altrimenti sarebbe caduta nel baratro della disperazione più nera.
Preso congedo dalla vicina, rientrò in casa e provvide a riportare il cesto del bucato in bagno.
Passando davanti al lavandino e allo specchio non poté far a meno di osservarsi e annuì nel vedere che era tornata di aspetto normale rispetto ai primi giorni, quando era ridotta in condizioni pietose. Per paura di scatenare il dolore aveva evitato di sua iniziativa di lavarsi o di coprirsi, alzandosi dal letto solo quando strettamente necessario. Solo il quarto giorno dalla fine della tortura si era costretta ad andare in bagno, lavarsi almeno la parte inferiore del corpo, le braccia ed il viso e cambiarsi la biancheria. Alla fine aveva trovato anche la forza di guardarsi allo specchio e non aveva potuto fare a meno di provare ribrezzo per se stessa: capelli sporchi ed arruffati, occhi gonfi, occhiaie, guance pallide eppure con chiazze rosse… e poi quell’accenno di rossore che si intravedeva dalle spalle e che indicava il marchio che l’avrebbe condannata per tutta la vita.
In quel momento aveva realizzato che era prigioniera: suo padre l’aveva costretta con delle catene così tremende che il solo pensarci a fondo la faceva impazzire. L’alchimia, la sua odiata sorellastra, adesso si era impossessata anche del suo corpo, della sua dignità, levandole qualsiasi possibilità di una vita normale.
Sono solo uno strumento – si era detta iniziando a piangere e serrando le mani sul bordo del lavandino sporco – sono… è questa l’unica importanza che ho potuto avere per lui.
Il suo sguardo andò poi alla vasca da bagno, al ricordo di quando si era concessa di lavarsi decentemente quando la febbre l’aveva finalmente abbandonata. Aveva usato acqua bollente, nonostante il caldo estivo, sentendo l’esigenza di pulirsi a fondo. Come la schiena era entrata in contatto con il liquido aveva avvertito uno strano e fastidioso formicolio, ma si era obbligata a stare immersa, sperando che l’acqua calda in qualche modo potesse cancellare l’orrenda opera che le era stata incisa sopra. La sua tenacia era stata tale che, ignorando il fastidio e il fatto che comunque stava andando a toccare una zona del suo corpo ancora in fase di guarigione, aveva preso una spugna e aveva strofinato con vigore ogni parte della schiena che era riuscita a raggiungere. Aveva continuato fino a quando le sue braccia avevano avuto forza e l’acqua sulla vasca era diventata tiepida: la schiena le tirava e pizzicava, il classico effetto di quando si strofina troppo, e per qualche minuto si era illusa di aver ottenuto un minimo risultato. Quando era uscita dalla vasca quasi aveva esultato nel vedere strani detriti galleggiare nell’acqua.
Tuttavia la sua felicità era svanita quando si guardò allo specchio: il tatuaggio era lì, perfetto, forse più visibile di quanto lo fosse mai stato. Quello che aveva levato era solo una strana pellicina biancastra di cui rimaneva ancora qualche residuo nella parte centrale della schiena, dove non era riuscita ad arrivare.
Niente da fare – aveva pensato con amarezza – ormai l’inchiostro è penetrato nella pelle. Non me ne potrò mai liberare… mai più!
Le era venuto da piangere, ma nessuna lacrima era colata: all’improvviso si era accorta di essere svuotata sotto quel punto di vista. Basta, era stanca di piangere: l’aveva fatto troppe volte in quei giorni spinta anche dal dolore e dal trauma.
“Sarà il caso che mi dia una sforbiciata ai capelli…” disse a voce alta, scostandosi una delle ciocche che ormai arrivavano quasi agli occhi. Si rifugiò di nuovo nella sua quotidianità, imponendosi di andare avanti e cercando di essere razionale: in fondo la schiena non era una parte del corpo che veniva scoperta facilmente davanti agli altri. Certo, in estate avrebbe dovuto far attenzione agli abiti che indossava, ma bastava essere accorti ed eliminare dal proprio guardaroba quanto non andava bene.
Le catene c’erano e non sarebbero mai andate via… ma erano invisibili al resto del mondo: solo lei e suo padre lo sapevano e lui presto sarebbe morto.
Morirà… morirà a breve – rifletté, ricordando le parole della signora Berth – sicuramente quei cinque giorni sono stati un duro colpo per la sua salute. Avverrà prima di quanto avessi pensato.
L’aveva imprigionata nell’ultimo sprazzo di vita che gli era rimasto: l’aveva coinvolta in uno spietato calcolo dove lei non era altro che un supporto dove tramandare le sue ricerche.
Per la prima volta Riza provò un sentimento molto simile all’odio, ma si rifiutò di riconoscerlo obliandolo con il timore che ancora provava nei confronti di quella figura che di paterno non aveva nulla.
 
Luglio e agosto passarono silenziosi e caldi, lasciando a Riza almeno due centimetri d’altezza in più e una nuova maturità nel suo corpo che però si teneva ancora aggrappato all’adolescenza. Con sua somma curiosità la crescita in altezza non deformò il tatuaggio nella schiena, anzi sembrò rendere ancora più leggibili le varie parole e figure. Ogni volta che lo osservava allo specchio, fino a farsi venire il torcicollo, era costretta ad ammettere, non senza una punta d’amarezza, che aveva un non so che d’artistico con quelle strane spire che avvolgevano quelle parole che per lei non avevano alcun senso.
Ma se con il tatuaggio poteva venire a patti, con l’esecutore ben poco voleva aver a che fare.
Ormai Berthold era confinato in camera sua, nonostante diverse volte Riza lo vedesse trascinarsi con fatica verso il suo studio, come un assassino che torna sul luogo del delitto. Non sapeva cosa facesse là dentro dato che ormai la sua grande opera era compiuta: forse cercava solo un modo di distrarsi per evitare di pensare alla morte sempre più vicina. Ma se un tempo avrebbe provato compassione con lui, ora proprio non ci riusciva. Aveva ripreso a preparargli da mangiare e controllava che non avesse crisi troppo forti, ma per il resto evitava qualsiasi contatto con lui. E sembrava che anche Berthold non fosse minimamente interessato a lei.
Quella strana parentesi che avevano vissuto prima di quelle tremende notti si era conclusa bruscamente.
Nel frattempo lei badava alla casa e leggeva… oltre ai libri della signorina Elliot aveva riscoperto le poesie di sua madre: in quel periodo così vuoto, con quella strana attesa che non si sapeva quando sarebbe terminata, trovava quei versi particolarmente confortanti. Si trovò a pensare che se Elisabeth fosse stata viva tutto quello non sarebbe successo, era chiaro: se fosse rimasta viva il tempo che lei diventasse adulta, mai e poi mai avrebbe permesso a suo padre di tatuarle la schiena. Ma era inutile piangere sul latte versato da così tanto tempo.
Un tardo pomeriggio di metà settembre, il fresco che era arrivato prima del previsto, mentre era intenta nella lettura di una di quelle poesie, si disse che sarebbe dovuta andare a visitare la tomba di sua madre. A ben pensarci c’era stata solo pochissime volte e non di recente: il ricordo dei momenti così traumatici della sua morte e della sua sepoltura l’aveva sempre tenuta a distanza dal piccolo cimitero.
In quel momento poi indossava uno dei suoi vestiti che aveva riadattato alla sua persona, mettendoci sopra un maglioncino leggero: pensare a lei era quasi inevitabile.
Il bussare alla porta fu così discreto che a malapena lo sentì.
Si alzò dalla vecchia poltrona dove si era raggomitolata e si avviò verso la porta d’ingresso. Le sembrava strano che la signora Berth passasse ad una simile ora ed inoltre aveva sempre l’abitudine di avvisarla di una sua eventuale visita quando si incontravano in cortile. Solo quando aveva già abbassato la maniglia si rese conto che un bussare così tranquillo non era proprio della sua irruenta vicina.
Ma ormai la porta aveva iniziato ad aprirsi e Riza sgranò gli occhi nel vedere quel giovane alto e dal cappotto scuro che copriva in parte una divisa blu. Fu costretta a fare un passo indietro per il timore, non riuscendo a capire chi fosse, ma poi si concentrò sugli occhi e lui parlò.
“Buonasera, Riza, sei davvero cresciuta.”
Era una voce calma, così lontana da quella spesso irruenta che aveva sentito in un tempo che ormai le sembrava lontano. Tuttavia sentirla ebbe il potere di farle perdere qualche battito di cuore.
“Signor Mustang…” fu tutto quello che riuscì a mormorare.
 
Perché è tornato?
Quella domanda continuava a rimbalzare nella mente di Riza dopo che ebbe accompagnato il giovane nello studio di suo padre. Era tornata nel salottino, riprendendo in mano il libro di poesie, ma i suoi occhi fissavano quelle strofe senza nemmeno leggerle.
Era come se un fantasma del passato fosse ricomparso all’improvviso.
In cuor suo si era rassegnata da tempo all’idea che Roy Mustang non si sarebbe mai fatto più vedere dopo quell’uscita di scena così tragica di alcuni anni prima. Aveva ritenuto che avesse definitivamente tagliato i ponti con il suo vecchio maestro d’alchimia e dunque con lei. L’ultima cosa che si sarebbe aspettata era di trovarselo alla porta a chiederle di poter parlare con suo padre, mostrandosi persino rammaricato nel venire a sapere della sua malattia.
Se fosse rimasto… se non fosse mai andato via…
Quel pensiero arrivò come una tempesta, rischiando di farla impazzire.
No, non poteva fare una colpa a Roy Mustang di quanto era successo: lui non poteva minimamente prevedere la follia che suo padre avrebbe perpetrato qualche anno dopo la sua partenza. Se avesse saputo forse avrebbe fatto qualcosa, non l’avrebbe lasciata così sola, priva di protezione.
Ma anche la signorina Elliot non se ne sarebbe andata, che cosa vai a pensare? Riza sei solo…
“Maestro! Maestro Hawkeye!”
L’esclamazione terrorizzata del signor Mustang arrivò nitida e Riza scattò immediatamente in piedi, il libro di poesie che cadeva a terra. Spinta dall’urgenza iniziò a correre per quel corridoio che sembrava non terminare mai: doveva essere successo qualcosa di tremendo, non poteva essere altrimenti. Ed in cuor suo sapeva che cosa aspettarsi, in fondo era solo un conto alla rovescia che prima o poi sarebbe dovuto terminare.
“Qualcuno chiami un dottore! C’è qualcuno!?”
Il richiamo del soldato era sempre più vicino e Riza quasi cadde nel pavimento negli ultimi attimi di quella corsa a perdifiato. Spalancò la porta dello studio, ben sapendo che c’era poco da fare, ben sapendo che in fondo era preparata a quanto…
No che non lo era.
Come poteva essere pronta nel vedere il signor Mustang che sosteneva quel corpo inerme, la cui vestaglia scura era coperta da chiazze di sangue così come la scrivania ed il pavimento? Come poteva restare indifferente all’espressione disperata del soldato? Ma soprattutto… come poteva avvicinarsi ora che si sentiva come quella bambina di nove anni che aveva posato lo sguardo sul cadavere della madre?
Credeva di essere pronta ad affrontare di nuovo la morte, ma era stata solo una sciocca illusione.
No… lui non è mio padre! – ansimò fissando quel viso macchiato di sangue e dagli occhi semiaperti.
“Riza!” la chiamo il soldato.
E tutto quello che riuscì a fare fu di aggrapparsi alla porta, quasi a difendersi da un mostro tornato dopo tanto tempo a tormentarla.
 
Tre giorni dopo Riza vagava per la casa, la sua casa, che mai le era sembrata così grande e silenziosa.
Era entrata in tutte le stanze, anche in quelle chiuse da tempo, cercando di prendere possesso di quegli ambienti che tutto d’un tratto le sembravano così nuovi e sconosciuti. Cercò di capire se fosse l’aria ormai fredda di quell’autunno arrivato precocemente, oppure quel silenzio che aveva qualcosa di incredibilmente diverso da quello che l’aveva accompagnata per quindici anni.
O semplicemente era la mancanza della presenza che aveva dominato quel villino sin da quando era nata.
Adesso lui non c’era più: la tisi l’aveva portato via e giaceva nel cimitero, accanto alla tomba di sua madre.
Per Riza quel funerale era stato più surreale di quello vissuto anni prima: non c’era lo strazio della perdita a farla da padrone, non c’era il vuoto nel cuore, la ricerca estenuante di una persona che non sarebbe più tornata. No, non era stato dolore quello che l’aveva pervasa mentre osservava la terra ricoprire quella bara di legno… piuttosto incredulità: come se la sua gabbia fosse stata finalmente aperta e un nuovo mondo si aprisse davanti a lei, un nuovo spazio ancora troppo grande ed inesplorato dato che, a ben pensarci, per ora anche la sua stessa casa le appariva troppo grande.
“Non devi aver paura – disse a voce alta, convincendosi che non c’era nessuna nuova eco in quel corridoio che aveva percorso decine di volte in quelle ultime ore – non c’è niente di diverso.”
Andò in cucina e accese la radio, trovando un sincero conforto in quella voce squillante che dava gli ultimi bollettini del fronte contro Aerugo. Le dava l’impressione di non essere veramente sola.
Già, la guerra…
Quelle notizie la riportarono alla conversazione che aveva avuto con il signor Mustang il giorno del funerale.
Era stato così gentile da accollarsi tutte le spese dato che lei non aveva la minima idea di dove suo padre potesse tenere i soldi che le dava settimanalmente: non aveva voluto dirlo, ma questa era una problematica che era giunta improvvisa e che la preoccupava non poco.
Prese dalla tasca il bigliettino che le aveva dato: il suo recapito per andare a trovarlo nell’esercito. Sicuramente avrebbe pensato a lei se gliel’avesse chiesto e una parte del suo cuore avrebbe voluto agire in questo senso: non tanto per l’aiuto economico, quanto per la certezza di avere qualcuno da poter minimamente definire legato a sé, seppur per questioni pratiche e meschine come quella.
E poi lui era così… altruista.
“Posso credere in un futuro dove tutti vivano felicemente?”
Oh, era così meravigliosa come idea: solo dopo che lui aveva parlato dei suoi ideali e dei suoi sogni lei aveva osato porre una domanda simile. Aveva osato farsi coinvolgere da quelle splendide parole che parlavano di un futuro migliore per il paese, dove ciascuno dava una mano… mattone dopo mattone. Era così diverso da suo padre, così incredibilmente interessato al futuro: Riza si era ritrovata a chiedersi come sarebbe stato uscire dal suo piccolo angolo di mondo isolato e provare a fare qualcosa di importante, sebbene nel suo piccolo.
Se posso aiutarlo almeno un po’… potrebbe già essere qualcosa.
Si strinse la mano alla camicetta che indossava, arrossendo vistosamente all’idea di quanto la aspettava.
In cuor suo sentiva di aver preso la decisione giusta, ma questo voleva dire anche denudarsi davanti a lui. Questo in fondo era sbagliato: una brava ragazza non si sarebbe mai dovuta mostrare nuda ad un maschio che non fosse suo marito.
Il respiro le mancò, ma non ebbe tempo di pensare oltre perché sentì la porta della sua stanza, quella dove aveva dormito di nuovo dopo tanti anni, aprirsi.
Non aver paura di lui.
 
“Posso offrirle altro caffè, signor Mustang? – fece quella domanda sentendosi una grande stupida: come se lo stesse obbligando a giocare alla brava padrona di casa. Si accorse solo in quel momento che forse un soldato andava chiamato in un diverso modo – Mi scusi, ma non conosco i gradi militari”
Arrossì, vergognandosi nel non riuscire a ritrovare la cordiale confidenza che aveva un tempo con lui. Tuttavia con quella divisa, con quell’aspetto così adulto, le sembrava di aver a che fare con un’altra persona. E, quasi a conferma, non l’aveva fatto accomodare in cucina come al solito, ma nel salotto che aveva rimesso a posto nelle ore precedenti: come se quella fosse una visita più che formale
“No, grazie. Comunque sono un soldato semplice, non devi preoccuparti – disse lui con un mesto sorriso – certo se avessi il titolo di Alchimista di Stato avrei il grado di maggiore, ma…”
Si interruppe con una smorfia d’amarezza e Riza si pentì di avergli fatto quella domanda.
Certo, non è potuto diventare Alchimista di Stato perché non ha terminato gli studi con papà.
Il senso di colpa si fece prepotente, come se lei fosse in qualche modo responsabile di quell’amara delusione che era toccata al soldato. Tuttavia cercò far finta di niente
“Qualcosa non va?” chiese.
“No, va tutto bene”
Si scrutarono con attenzione per una decina di secondi mentre entrambi capivano che era finito il momento dei convenevoli. Del resto Riza sapeva che si trovavano lì per un motivo specifico: davanti alla tomba di suo padre gli aveva promesso di svelargli i segreti dell’alchimia del fuoco.
Forse era stata una decisione presa d’impulso, forse era un modo di vendicarsi di lui… in fondo sapeva bene che maestro e allievo non si erano lasciati con quella che si poteva definire cordialità. A ben pensarci Roy Mustang poteva essere la persona dalla quale suo padre voleva proteggere le sue scoperte.
Ma forse lui può…
“Ho detto che le avrei affidato la ricerca di mio padre, signore.” sospirò infine, abbassando lo sguardo sulla tazzina di caffè che giaceva intatta sul basso tavolino. L’aveva preparato per entrambi, ma nessuno ne aveva bevuto una goccia: se doveva essere sincera a lei non piaceva per niente, ma le era sembrato più indicato rispetto a qualsiasi altra bevanda.
Si alzò in piedi, decidendo che era inutile spiegare quanto era successo in quelle tremende cinque notti di qualche mese prima. La sola idea di parlargli della paura e del dolore che aveva provato le mozzavano il respiro in gola.
Capendo che esitare non avrebbe portato a nulla, andò al lato della stanza, in modo da avere la finestra davanti con la vista sulla campagna desolata: si sarebbe potuta concentrare sui dettagli dei pochi alberi che si vedevano in lontananza. Sarebbe stato meno orribile del previsto.
Fatti coraggio, Riza, fatti forza…
Trasse un profondo respiro cercando di calmare il tremore delle mani che si alzavano per sbottonare la giacca del completo scuro, lo stesso che indossava al funerale paterno.
Non fermarti, non esitare – continuava a ripetersi, ignorando il senso di calore che le saliva sulle guance ed il respiro più affannoso. Adesso era arrivata alla camicetta: dopo di questa non avrebbe avuto altro a proteggerla.
“Riza… non…”
Ma lei non fece caso a quel richiama, alla voce incredula di lui che sicuramente la stava prendendo per una poco di buono. Serrò gli occhi mentre il ricordo di come la maglia del pigiama le era stata levata bruscamente si ripresentava con forza. Trattenne una lacrima mentre si sfilava la camicetta dalle braccia e sentiva il tessuto scivolarle lungo la schiena.
E’ stato orribile! Orribile! – impazzì nel restare immobile – lei non ne ha idea!
“Questa è…” la voce dietro di lei era carica di incredulità, di timore quasi reverenziale.
“Questa è la ricerca di mio padre, signor Mustang” mormorò con voce flebile
 
Aveva da poco compiuto quindici anni, eppure sapeva che il suo corpo era quasi da donna.
Si vergognava da impazzire e nemmeno osservare gli alberi in lontananza le dava un minimo di conforto. Un uomo le stava osservando la schiena nuda e davanti lei era completamente scoperta, con le sole braccia a nasconderle il seno. Non sapeva che fare, come comportarsi: la signorina Elliot le aveva spiegato tutto della vita, dei segreti tra uomo e donna, ma non le aveva mai detto della vergogna che si provava a stare mezzo nuda davanti ad un uomo… che non era nemmeno suo marito.
Per favore… per favore, dica qualcosa… non mi lasci così!
Finalmente quel silenzio così surreale venne spezzato da un suo passo verso di lei.
“E’ così che custodivi la sua alchimia?” mormorò il soldato.
Il dolore e la rabbia insiti in quella domanda le fecero venire le lacrime agli occhi: il suo pensiero era andato prima a lei piuttosto che alla formula alchemica tatuata sulla schiena. Si era preoccupato, aveva messo davanti lei piuttosto che l’alchimia.
Grazie… grazie!
“Era un segreto che doveva essere tenuto nascosto –  riuscì a sussurrare, ma in realtà stava solo riprendendo le parole che le aveva detto suo padre, come se potessero davvero costituire una giustificazione per quanto le aveva fatto – non doveva cadere in mani sbagliate”
“E dunque l’ha marchiato nella tua schiena… con che coraggio ha potuto…” la voce del signor Mustang continuava a fremere di rabbia. Anche se non lo poteva vedere in volto, dato che era dietro di lei, Riza riuscì a riportare alla memoria lo sguardo furente di quel giovane che non riusciva a capire gli atteggiamenti egoisti del suo maestro. Ed era successo di nuovo.
“Era il solo modo in cui potevo davvero aiutarlo –  bisbigliò lei, sentendosi quasi in colpa per avergli provocato tanta rabbia. Ma almeno sarebbe stata utile al signor Mustang – Posso affidarglielo?”
“Come?”
“Posso affidarle il segreto di quest’alchimia? – ripeté la ragazza cercando di evitare che la voce le tremasse – Lo userà davvero per creare un mondo migliore?”
Darà un senso a tutto quello che ho subito in quelle cinque notti? Potrò sentirmi una persona migliore se saprò che lei la userà per fare del bene al nostro paese.
Lui stava zitto, nessun rumore indicava che si era mosso: era come se stesse riflettendo profondamente su quanto gli era stato detto e per qualche secondo Riza ebbe il timore che avrebbe rifiutato, spinto magari dal senso d’orgoglio e di rabbia che quelle rivelazioni avevano alimentato in lui.
Non scappare, ti prego…
“L’alchimia del fuoco è quello a cui… – esitò il soldato dopo qualche minuto – a cui tuo padre ha sempre lavorato. E’ un peso che non ti avrebbe mai dovuto caricare addosso. Ti prometto… ti giuro che la userò per creare il mondo migliore di cui ti ho parlato qualche giorno fa”
Un’ondata di strano sollievo percorse il corpo della giovane: il signor Mustang non l’avrebbe abbandonata. Aveva scoperto il suo segreto e l’aveva accettato, allentando in qualche modo le catene che suo padre aveva creato: sapere di non essere la sola a condividere quel peso era il più bel miracolo del mondo
“Grazie” riuscì a sussurrare.
“Perché… perché mi ringrazi?”
“Perché… sta dando un senso a tutto questo” mormorò lei, non riuscendo a nascondere un sorriso.
Di nuovo silenzio, ma questa volta meno carico di rabbia e dolore: come se si fossero entrambi rassegnati a quanto era successo. Il fresco della sera iniziò a far rabbrividire la ragazza e questo le fece capire che non potevano stare in quella posizione per sempre.
“V… va bene se sto in piedi… o preferisce che mi sdrai?” chiese, sentendosi impazzire di vergogna.
Che domanda imbarazzante… oh, la prego, non mi prenda per una poco di buono!
Stava per dirgli che glielo chiedeva solo perché suo padre l’aveva tatuata facendola stare sdraiata, e dunque non c’era niente di ambiguo nella sua domanda. Però forse aveva sbagliato tutto e…
Lui si schiarì la gola e lo sentì muoversi. Nell’arco di qualche secondo nel suo campo visivo comparve la sua mano che le porgeva la camicetta.
“Se per te va bene, puoi anche sederti nel divano – le disse con voce tranquillizzante, sebbene tremendamente imbarazzata – non so quanto mi ci vorrà… e… lo so che è veramente poco dignitoso, ma… sarebbe effettivamente più comodo per me se potessi, uhm, toccare anche la tua schiena: ho bisogno di seguire alla perfezione quei simboli.”
Riza si strinse la camicetta al seno con evidente sollievo, ma poi si rese conto della richiesta che era stata fatta. Farsi toccare la schiena? Il ricordo del senso di nausea che aveva provato ogni volta che suo padre l’aveva sfiorata le tornò prepotente. Come poteva? Sarebbe stato tremendo, orribile… non poteva accogliere una richiesta simile.
No, non farlo – si costrinse a calmarsi e a fare persino un timido sorriso mentre andava a sedersi nel divano con passi tremanti – non è lui, non è tuo padre. Non ti farà mai del male!
Si strinse ancora di più la camicetta al seno, serrando gli occhi, cercando con disperazione di ignorare quanto stava per succedere.
Il primo tocco fu sulla base del collo, dove il tatuaggio iniziava: delicato, tiepido, quasi timoroso.
Completamente diverso da quello di suo padre, ma non per questo facile da accettare.
Probabilmente faceva male ad entrambi.
 
“Che cosa farà adesso, signor Mustang?”
“Tornerò a Central City e come sarò pronto sosterrò l’esame per diventare Alchimista di Stato.”
Riza annuì, sperando con tutto il cuore che ci riuscisse.
Erano passati tre giorni da quando gli aveva svelato i segreti della sua schiena: tre giorni in cui lui era stato gentilissimo e si era comportato in maniera più che decorosa. Aveva diligentemente copiato le formule su una piccola agenda, cercando di concludere il più in fretto possibile quella situazione imbarazzante.
A Riza non era sembrato vero quando aveva sentito la coperta che le veniva posata con delicatezza sulla schiena e le parole “Ho terminato”.
“Riza – la richiamò lui – qui ormai non hai più nessuno: mi hai detto che saresti andata avanti senza problemi, però…”
“Non si preoccupi – si imbarazzò lei – ci riuscirò, non deve temere.”
Lui si arruffò i capelli con aria preoccupata, tornando per qualche secondo il ragazzo di qualche anno prima. Era chiaro che era turbato al pensiero di lasciarla sola, un pensiero che la fece commuovere.
“Hai il bigliettino che ti ho dato? Quello dell’esercito…”
“L’ho conservato.”
“Bene – annuì – come ti ho già detto è probabile che venga chiamato in guerra. Però, per qualsiasi evenienza, promettimi che non esiterai a cercarmi o comunque a chiedere una mano all’esercito. Mi sento decisamente in colpa a lasciarti da sola in questo posto.”
“E’ casa mia – sorrise Riza – va tutto bene.”
“Se lo dici tu… comunque prendi – le allungò una busta che lei prese con perplessità – non è molto ma…”
“Oh no! – arrossì lei cercando di restituirgliela – si è già accollato le spese del funerale di mio padre! Non deve, sul serio!”
“Riza, se non faccio qualcosa per te non me lo perdonerò mai.”
“Oh, l’ha già fatto – rispose Riza d’impulso – lei non ha idea… ha dato un senso a tutto quello che ha fatto mio padre.”
“… che ti ha fatto tuo padre, è diverso. Mi dispiace, me ne sento in parte responsabile: se non fossi andato via in quel modo… Comunque, prendi questi soldi, davvero! Usali per ripartire daccapo, va bene? Io ti prometto che cercherò di tornare non appena questa guerra finirà: ormai è da troppo tempo che dura… non può mancare molto.”
“Non muoia…” sussurrò lei, ripetendo quello che aveva già detto il giorno del funerale paterno.
“Dai, non fare l’uccello del malaugurio – ridacchiò lui, posandole l’indice sulla fronte – non morirò, cercherò di non farlo. Adesso è meglio che vada: il tizio con il carro mi ha detto che partiva alle quattro in punto e mi pare uno che non attende. A presto, Riza.”
“Arrivederci, signor Mustang.”
Lo guardò allontanarsi sulla strada, con quel cappotto nero posato sulle spalle che svolazzava come un mantello per via del vento. Come un eroe che in qualche modo aveva appena salvato la fanciulla imprigionata da un perfido maleficio.
Quelle catene invisibili era come se fossero sparite e la gabbia era aperta.





_________
Mamma mia che fatica, i capitoli di transizione non sono mai uno scherzo.
I dialoghi della parte in cui Riza mostra il tatuaggio a Roy sono ripresi quasi in toto dalla mia fic "From dusk till dawn", sebbene qui usi il POV di Riza e non quello di Roy. Tuttavia per quanto riguarderà la seconda parte della suddetta fic (ossia quando le viene bruciato il tatuaggio) penso che cambierò diverse cose data la maggiore "cura" che sto dando agli eventi. 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7. 1907-8. Nel mondo reale ***


Capitolo 7
1907-8. Nel mondo reale




 
“Squadra, sull’attenti! Pronte per l’ispezione!”
La voce della capo camerata risuonò improvvisa e nell’arco di dieci secondi una ventina di giovani reclute dell’Accademia Militare si misero sull’attenti, ciascuna accanto alla propria branda perfettamente rifatta.
Tennero tutte lo sguardo puntato davanti a sé, senza battere ciglio, mentre uno dei loro responsabili di dormitorio passava con aria marziale tra le brande alla ricerca del minimo dettaglio che non andasse bene.
Quando si fermò davanti al decimo letto della fila di destra la recluta chiamata in causa non si mosse di un millimetro dalla sua posizione sull’attenti. Il suo respiro rimase regolare mentre gli occhi critici del superiore scrutavano con attenzione il letto rifatto alla perfezione: sapeva benissimo di non aver commesso il minimo errore e che le lenzuola e la ruvida coperta militare non avevano una piega. Quasi a conferma l’uomo passò oltre con un breve cenno d’approvazione e dopo aver ripetuto la medesima ispezione altre tre volte uscì dalla stanza, permettendo alle ragazze del primo anno d’Accademia di rilassarsi e di prepararsi per le esercitazioni della mattina.
“Ottimo lavoro, Hawkeye – mormorò una delle ragazze con un sorrisetto – ho saputo che quel particolare ispettore se trova qualcosa che non gli piace è anche capace di mettere tutta la camerata in punizione.”
Riza sorrise a quel complimento e si affrettò a seguire le sue compagne nel corridoio: durante gli spostamenti si potevano permettere di chiacchierare e ridacchiare assieme, tornando ad essere semplici ragazze di diciassette anni. Qualcuna parlava dell’ultima lettera ricevuta dal fidanzato, altre delle vacanze ormai prossime e del ritorno a casa, diverse di loro spettegolavano sulla poco lontana Accademia maschile: sembravano più delle scolare che future soldatesse.
Riza non si aggregò a nessun gruppetto che si era formato, preferendo avanzare in silenzio: con quelle ragazze aveva raggiunto un buon grado di cameratismo, ma aveva scoperto che preferiva stare sulle sue quando poteva. Passare da una vita solitaria ad una dove lo spirito di gruppo costituiva una componente fondamentale era stato un passo destabilizzante e aveva dovuto faticare parecchio per trovare un compromesso che andasse bene a tutti.
Fortunatamente un grande aiuto era venuto dai suoi voti alti e dalla sua inaspettata bravura nell’uso delle armi: i suoi punteggi elevati avevano permesso alla sua camerata di ottenere grandi elogi da parte degli insegnanti e di questo le sue compagne erano molto contente. Senza sapere come, Riza Hawkeye era diventata una sorta di eroina del primo anno e spesso le capitava di chiedersi come avrebbero reagito le sue compagne nel sapere che, fino a poco tempo prima, viveva in uno sperduto angolo di mondo a qualche ora di viaggio da East City.
“Avete sentito la voce che circola? – disse una ragazza – pare che per l’addestramento su campo del secondo anno potrebbero mandare anche al fronte.”
Cosa? Ma no, è sicuramente una sciocchezza! Al secondo anno non siamo ancora pronte per cose simili: al fronte ci vanno soldati esperti… da chi hai sentito una simile notizia?”
“Da Molly, quella della prima camerata.”
“Ah quella! Di dieci cose che dice nove sono false, dammi retta… passiamo a cose più serie, per esempio: Hawkeye! – la richiamò una sua compagna – Che cosa farai per le vacanze?”
“Penso che tornerò a casa – rispose lei con neutralità – magari prima passerò a trovare alcune conoscenze che ho ad East City, ma niente di speciale.”
“Oh, ti capisco – sorrise complice l’altra, una graziosa e smaliziata brunetta che si chiamava Rebecca – prima dal fidanzato segreto e poi dalla famiglia!”
Riza rispose a quel sorriso con aria imbarazzata, preferendo che non venisse approfondito un simile argomento: si era fatta la fama di una ragazza molto discreta, addirittura maniacale. Questo era dovuto soprattutto all’elevata pudicizia che le faceva portare in doccia asciugamano e vestiario in modo da uscire da essa già vestita con intimo e maglietta. Alcune compagne avevano ridacchiato per questa timidezza, ma poi non avevano detto nulla: poteva esser strano per ragazze provenienti da diversi ambiti sociali dover condividere i bagni e le docce.
Ormai si era alla fine di quel 1907 e presto ci sarebbe stata la pausa di fine anno.
La guerra proseguiva, inasprendosi sempre di più, portando privazioni anche alle città lontane dai fronti. Razionamenti e coprifuoco erano ormai all’ordine del giorno e non erano rare le rivolte da parte dei civili, ormai esasperati dopo tanti anni di guerra. Tanti soldati avevano perso la vita e ancora ne venivano mandati al fronte: ai giovani veniva richiesto di entrare in Accademia per l’amore patrio ed erano diversi quelli che seguivano una simile strada, attirati anche dalla certezza di una paga in un momento in cui la situazione economica risentiva ampiamente dei troppi anni e delle troppe risorse spese nel conflitto.
Riza e le sue colleghe venivano considerate parte di una generazione votata alla causa ben sapendo che le loro vite sarebbero state messe a repentaglio dalla guerra. Nei loro confronti c’era un grande affetto e orgoglio, ma anche una tristezza e malinconia di fondo: come se fossero vittime sacrificali per una guerra che durava ormai da troppo tempo.
Però, stranamente, in Accademia le reclute vivevano come in una bolla: le notizie della guerra entravano da un orecchio ed uscivano dall’altro, dimenticate a favore delle lezioni e delle esercitazioni. Gli insegnanti stimolavano lo spirito di squadra e ben poco tempo era concesso per pensare a quanto succedeva nel mondo esterno: non era il momento, non erano ancora pronte.
“La tua famiglia sarà veramente orgogliosa di te – aggiunse un altra cadetta di nome Helena, forse una delle più gioviali del gruppo – hai voti davvero alti e tutti i docenti ti elogiano. Mio padre da ex soldato in pensione mi ha detto che dovevo far onore alla famiglia, ma non credo che sarà contento delle mie valutazioni nelle esercitazioni pratiche.”
“Sei più da amministrazione, Helena – disse Rebecca con aria convinta – come dicono i docenti ciascuno in squadra ha un ruolo ben definito. Se fossimo tutti con la mira perfetta come la nostra Riza sarebbe noioso, vero?”
“Già, proprio vero!” ridacchiò l’altra, coinvolgendo la bionda in una stretta di spalla cameratesca.
A quel gesto la Riza ridacchiò, ma quanto sarebbe stato difficile accettare una simile confidenza nemmeno dieci mesi prima.
 
Riza era entrata in Accademia nel gennaio del 1907.
La decisione aveva iniziato a covarla quando il signor Mustang era andato via, ma per più di un anno aveva rifiutato di prenderla in considerazione, a favore del progetto originario di diventare insegnante. In ogni caso per entrambe le idee era ancora troppo giovane e aveva dovuto pazientemente attendere che i mesi passassero. Nel frattempo aveva fatto tesoro dei soldi che le aveva dato il soldato, così come di quelli che le aveva lasciato suo padre e che, finalmente, era riuscita a trovare rimettendo a posto la sua camera. Una cifra modesta, certo, ma per lo stile di vita che conduceva era riuscita a viverci dignitosamente per più di un anno.
Poi i sedici anni erano arrivati e nei mesi che erano seguiti era diventata più pressante l’esigenza di decidere che cosa fare della propria vita. La corrispondenza che si scambiava con la signorina Elliot era neutrale, senza che nessuna delle due facesse cenno a qualche progetto futuro, ma Riza era abbastanza accorta da sapere che la sua maestra voleva che lei si dimostrasse del tutto autonoma.
E poi il bigliettino dell’esercito che le aveva dato il signor Mustang era risaltato fuori: era stato gelosamente custodito in un cassetto della scrivania, sotto il corredo per scrivere, fino a quando non era rimasto attaccato ad una busta per lettere. Erano gli inizi di dicembre del 1906.
Per diversi giorni era rimasta a rigirarselo tra le mani, fino a stropicciarlo: quella che prima era stata solo un’idea quasi senza senso, adesso sembrava tremendamente fattibile. Le parole di quel giovane tornarono alla memoria come se fossero state dette il giorno prima: l’idea di costruire un mondo migliore le sembrava così bella e coinvolgente e sicuramente avrebbe dato un senso del tutto particolare alla sua vita. Sentendo alla radio le notizie della guerra in continua evoluzione, si era sentita pervadere da un nuovo spirito d’iniziativa: davvero era giusto stare in quel posto così solitario, dove tutto quello che le restava erano una vecchia e malandata villetta e due lapidi nel povero cimitero?
A prescindere da quello che avrebbe fatto, non poteva restare lì.
Un’ora dopo aveva tirato fuori da una delle stanze chiuse una vecchia valigia e la stava riempiendo con i suoi pochi vestiti: sarebbe andata ad East City.
Aveva preso un rapido congedo dalla signora Berth, ringraziandola di cuore per tutte le volte che si era presa cura di lei: l’anziana donna era rimasta molto sorpresa da quella repentina decisione, ma come Riza aveva fatto accenno alla signorina Elliot si era tranquillizzata e le aveva augurato buona fortuna.
Proprio quel giorno passava il solito uomo con il carro… e nell’arco di diverse ore era arrivata nella grande East City.
Nella tasca del suo pesante cappotto aveva l’indirizzo della signorina Elliot, ma invece di chiedere a qualcuno dove si trovasse quella via, aveva chiesto informazioni per raggiungere l’Accademia Militare.
Quella che era iniziata come un’idea assurda ed embrionale, si era rivelata la sua scelta di vita.
“Posso credere in un futuro dove tutti vivano felicemente?”
L’aveva chiesto al signor Mustang più di un anno e mezzo prima: adesso voleva scoprire da sola la risposta.
 
“Dannazione, Hawkeye, ancora punteggio pieno! Sei stramaledettamente brava!”
L’istruttore del poligono di tiro era un vecchio veterano di guerra, il tenente Klyde: un tipo duro, arcigno, la cui voce riusciva persino a superare il rumore degli spari. Le sue allieve erano terrorizzate ogni volta che venivano riprese e molto spesso era difficile sparare con tranquillità sentendo quegli occhi scuri che ti fissavano come un rapace pronto ad avventarsi sulla preda al minimo errore. I suoi insegnamenti erano sempre conditi da insulti ed era raro che si lasciasse andare a complimenti così palesi come quelli che rivolgeva a Riza. Ma quando l’allieva su una serie da trenta otteneva il massimo in ogni tiro bisognava arrendersi all’evidenza.
“E’ quasi una dichiarazione d’amore da parte sua…” commentò Rebecca, nella postazione accanto a quella di Riza.
“Catalina, hai detto qualcosa? – il soldato le fu subito accanto squadrandola con aria furente – su trenta colpi ne hai mandati a segno solo venticinque, ti pare un buon risultato?”
“No, signore!”
“E allora ritenta, ragazza, dannazione a te! Pensa a quel cazzo di bersaglio e non a quello che fa la tua collega, mi sono spiegato?”
“Certo, signore!”
Come il tenente si fu allontanato per andare ad urlare improperi contro altre sfortunate cadette, la bruna strizzò l’occhio a Riza, riprendendo poi a caricare la sua arma per una nuova serie di spari.
“Non dovresti provocarlo così – disse la bionda con voce cautamente bassa – ti metti nei guai.”
“Figurati – ribatté l’altra – piuttosto ho una scatola di cioccolati nascosta in camerata…”
“Rebecca!” sibilò Riza, preoccupata che quell’infrazione del regolamento portasse guai a tutte loro.
“… stanotte sei invitata a far sparire il corpo del reato.”
“Io?” si sorprese Riza, non riuscendo a capire il motivo di una simile confidenza.
“Certamente, Hawkeye – Rebecca sparò il primo colpo – prendilo come un premio per quei trenta centri perfetti.”
 
Rebecca Catalina era certamente la cadetta più originale della camerata.
Non solo era vivace ed espansiva, ma era sempre capace di sorprendere le persone: per esempio Riza non si sarebbe mai aspettata di venir coinvolta in quello strano banchetto di mezzanotte a base di cioccolatini assortiti. Lei e Rebecca non avevano mai avuto chissà che rapporto d’amicizia, ma sembrava che per la bruna questi fossero dettagli trascurabili.
“Un giorno me li regalerà un bel ragazzo dei cioccolatini così – bisbigliò, nascondendo la luce della torcia con il cuscino e porgendo la scatola a Riza – aspetta e vedrai!”
“Non hai il fidanzato?” si trovò a chiedere la bionda.
“Non ancora, ma parola mia che sarà davvero bello e muscoloso. E a te che tipi piacciono?”
Riza rimase in silenzio, non sapendo come rispondere ad una domanda simile: lei non aveva un tipo ideale, a dire il vero mai si era soffermata a riflettere sui ragazzi. Era passata da un posto dove non c’era nessun suo coetaneo ad un’Accademia femminile, dove gli unici uomini erano alcuni insegnanti. Però sapeva benissimo che c’era anche la sezione maschile… e che comunque ad East City di certo non mancavano i ragazzi.
“Non lo so: non ci ho mai pensato…” rispose dopo qualche secondo, rifiutandosi di annoverare il signor Mustang tra le persone papabili sotto questo punto di vista.
“No? E allora quel famoso fidanzato segreto?”
“Veramente l’hai inventato tu.”
“Ma tu non hai ribattuto! Pensavo valesse la regola del chi tace acconsente – la torcia si mosse ed illuminò il broncio apparso sul viso della mora – uhm… meriteresti qualche cioccolatino in meno per questa falsa illusione che mi hai dato! Avrei voluto tanto sapere i dettagli su di lui… che ne pensi se finisci con un soldato?”
“Proprio la settimana scorsa ci hanno istruito sulle regole anti fraternizzazione.”
“Come sei implacabile! Basta fare con cautela. Devi proprio venire da un posto un po’ bigotto per stare sempre sulla difensiva, vero?”
Riza stava per ribattere che non era vero, ma poi si accorse che effettivamente il termine bigotto si accostava abbastanza bene alla sua vecchia vita. La stessa signorina Elliot l’aveva educata secondo determinate regole di modestia e pudore e di certo parlare così francamente dei ragazzi non era un qualcosa che rientrava nei suoi insegnamenti.
“Ehi, non ti volevo offendere – ridacchiò Rebecca, offrendole un altro cioccolatino – mi piaci, sul serio.”
“Davvero?” Riza arrossì, rendendosi conto che era la prima volta che qualcuno le diceva una cosa simile. Sentì il suo cuore battere all’impazzata e si sentì al contempo una stupidina: si stava esaltando per una frase così normale tra amiche. Ma come poteva spiegare a Rebecca che lei di amiche non ne aveva mai avute?
“Sei davvero buffa – constatò la mora, finendo l’ultimo cioccolatino – sei una vera macchina da guerra in tutte le materie, eppure per cose normali come questa sei totalmente impreparata.”
“Siamo amiche?” si trovò a chiedere Riza.
“Sì, lo siamo – annuì Rebecca senza alcuna esitazione – altrimenti non avrei diviso questi cioccolatini con te. Speriamo solo che non ci vengano dei brufoli: una volta me ne è spuntato uno proprio sulla fronte… ci credi che mi sono tagliata i capelli di davanti per fare la frangetta in modo da nasconderlo? Un vero e proprio disastro.”
Riza ridacchiò per il tono tragico assunto dall’amica, tanto che dovette nascondere il viso sul cuscino.
E così era questa l’amicizia, quella che fino a diciassette anni non aveva mai provato.
Il mondo reale non era poi così male, tutto sommato.
 
Quelle ultime settimane passarono ed arrivarono le tanto agognate vacanze tra il primo ed il secondo anno. Una quindicina di giorni di licenza che permisero alle cadette del primo anno di tornare dalle loro famiglie e alla loro vita di normali diciassettenni, per quanto la guerra lo consentisse.
Riza, come aveva preannunciato, decise di tornare a casa più che altro perché non aveva altro posto dove andare ed i dormitori dell’Accademia sarebbero rimasti chiusi. Tuttavia, decise prima di andare a trovare la signorina Elliot, una visita che aveva rimandato sin troppo tempo.
Attraversò le vie di East City sentendosi molto più sicura di sé con la divisa da cadetto dell’Accademia. Quando, un anno prima, aveva camminato per le medesime strade imbacuccata nel suo vecchio cappotto si era sentita completamente a disagio, come se quello non fosse il posto giusto per lei. Ma c’era qualcosa in quella divisa che la rendeva più forte e capace di tenere la testa alta con orgoglio.
Tuttavia come arrivò davanti all’indirizzo che cercava, si sentì in lieve imbarazzo e le venne da chiedersi che cosa avrebbe pensato la sua vecchia maestra della sua decisione di entrare nell’esercito. Forse era addirittura indelicato dato che il nipote era un soldato deceduto al fronte.
Questi pensieri la fecero esitare con la mano già protesa per bussare alla porta, ma poi scosse il capo e si convinse che ormai era abbastanza grande per prendersi la responsabilità delle sue azioni.
Attese con trepidazione che la porta venisse aperta, sentendo che quella donna le era mancata davvero tanto. Se non fosse stato per la lieve diffidenza che aveva col contatto fisico, avrebbe anche voluto abbracciarla.
“Chi… oh… oh, Riza!”
La porta si aprì e Magda Elliot fece la sua comparsa, identica a come Riza la ricordava. Uno dei suoi soliti vestiti severi, i capelli perfettamente tirati indietro, forse con qualche filo bianco in più, ma non era questo l’importante. Gli occhi penetranti e chiari della donna fissarono l’allieva come avevano fatto centinaia di volte, riuscendo a leggere dentro la sua anima più di qualunque altra persona. Tuttavia la ragazza poté anche scorgervi una notevole componente di commozione e questo le fece salire un groppo alla gola.
“Buongiorno, maestra – salutò – è passato così tanto tempo.”
“Direi, signorina – annuì l’altra, recuperando la solita compostezza – coraggio, entra. Con questo tempo freddo c’è proprio bisogno di una tazza di the caldo.”
“Non vorrei disturbare sua sorella.”
“Oh, lei è al piano di sopra che dorme: ha avuto delle noie con le ossa negli ultimi tempi, colpa del freddo.”
La donna la guidò nella casa e Riza notò che rispecchiava in parte quella ormai abbandonata da qualche anno. C’erano la medesima semplicità e buon gusto, nonché tanti libri e questo fece enormemente piacere all’allieva: sapere che la sua maestra stava in un posto confortevole non poteva che renderla felice.
Si accomodarono nella piccola e pulita cucina e subito la donna si mise a lavorare ai fornelli.
“Vorrei offrirti qualcosa di meglio assieme al the, ma ci sono solo dei biscotti secchi: i razionamenti si fanno sentire purtroppo.”
“Spero non patiate la fame!” si preoccupò immediatamente Riza, ricordando con rimorso la scatola di cioccolatini che aveva diviso poco tempo prima con Rebecca.
“Ma no, che dici? – la guardò con sorpresa l’altra portando in tavola un vassoio con un bel servizio da the – i beni di prima necessità ci sono ancora per fortuna: certo non possiamo permetterci una grande varietà di cibo, ma ce la caviamo egregiamente. Raccontami di te, piuttosto.”
“Ecco – Riza si sentì a disagio, come quando doveva affrontare un’interrogazione dove non era pronta: sentiva su di sé l’occhio indagatore dell’insegnante, acuto ed infallibile come sempre – ho appena terminato il primo anno dell’Accademia Militare. Sto tornando a casa per quindici giorni di vacanza.”
“Soldato, eh?”
La ragazza annuì e fissò la sua tazza di the, aspettando con ansia il commento della sua vecchia maestra.
Non si sentiva di giustificare le sue scelte, non con lei: le sarebbe sembrato patetico, quasi un’ammissione di colpa.
Forse sarebbe stato diverso… forse avrei fatto l’insegnante, non lo so. Se lui non fosse venuto, forse… No, non è vero: ho preso questa decisione da sola perché voglio contribuire al futuro del mio paese. Non voglio fare come mio padre che si è chiuso nel suo studio girando le spalle al mondo.
Fissò il liquido marrone che si muoveva appena, mentre gli tornava in mente l’ultima visita che aveva fatto alla tomba dei suoi genitori prima di partire per la grande città: sì, aveva provato un innegabile senso di rivalsa per quello che stava per fare. Si sentiva decisamente una persona migliore di lui.
“A volte mi pento di averti lasciata lì – disse la signorina Elliot interrompendo quel silenzio – ho preso commiato da te dicendoti che eri in grado di stare sulle tue gambe, ma ammetto che spesso avevo il cuore gonfio di rammarico per averti lasciata da sola con tuo padre.”
Riza alzò gli occhi con sorpresa.
Lo sa? Come ha fatto a capirlo? Non… non può… l’ho nascosto troppo bene.
“Immagino che l’ultimo periodo che hai trascorso con lui non sia stato facile – continuò la donna con un sospiro – non l’ho mai conosciuto, ma ci vuole ben poco per capire che era una persona instabile. Da quando sei venuta da me ho capito di costituire un rifugio, una fonte di salvezza… sai, durante la mia carriera mi è capitato di insegnare in diverse scuole e ho avuto alunni con situazioni familiari difficili, ma tu…”
Non proseguì oltre e scosse il capo con tristezza.
Riza si accorse di piangere e si dovette asciugare gli occhi con la manica della divisa.
“Mi ha salvato… certo che l’ha fatto.”
“Ti avrei potuto salvare di più?”
Per il tatuaggio? – Riza scosse il capo – No, non avrebbe mai potuto… ci sarebbe riuscito in ogni caso, adesso me ne rendo perfettamente conto.
“Come ha detto lei, ero in grado di reggermi sulle mie gambe.”
“E le tue gambe ti hanno portato a diventare un soldato… non posso che essere fiera dei progressi fatti da quella bambina che si era seduta nel mio salotto con aria così sperduta. Prego solo che la guerra non ti riservi lo stesso destino di mio nipote.”
“Per ora non ci sono problemi – la rassicurò Riza – devo ancora fare il secondo anno d’Accademia e chissà, magari nel frattempo la guerra terminerà, non crede possa succedere?”
Lo disse con sincerità e per la prima volta si accorse di aver paura: gli ideali, il voler costruire un mondo migliore… certo, che belle parole. Ma al fronte i soldati morivano.
“Farò attenzione – disse con voce ferma, prendendo le mani dell’anziana signora tra le sue – lo prometto, maestra, non si deve preoccupare. E poi tornerò a trovarla appena posso, glielo garantisco.”
No, la guerra non mi ucciderà… non ora che ho iniziato a vivere davvero.
 
Quei quindici giorni passarono lenti e monotoni, con quella vecchia casa che ora le andava stretta più che mai. Sentiva la mancanza delle sue compagne, specie di Rebecca con la quale ormai aveva stretto una sincera amicizia. Le mancavano le lezioni e le esercitazioni, persino le grida del tenente Klyde… l’ondata di stimoli che aveva avuto in quel primo anno d’Accademia era venuta a mancare.
Vagava per casa, non potendosi concedere delle passeggiate per via del brutto tempo. Ogni tanto prendeva il the con la signora Berth che in quell’anno d’assenza le sembrò invecchiata di colpo, nonostante la lingua lunga non le mancasse mai. Ma per il resto era un vero e proprio mortorio, tanto che spesso si chiedeva come aveva potuto resistere in un posto simile per sedici anni.
Fu un vero e proprio sollievo quando quelle vacanze terminarono e richiese un passaggio al vecchio signore col carro per tornare in città. E quando varcò di nuovo le soglie dell’Accademia, la divisa in perfetto ordine, si sentì di nuovo a suo agio.
“Riza! Ehi, Riza!”
“Rebecca!” salutò lei, mentre l’amica le correva incontro e l’abbracciava con calore.
“Meno male che sei arrivata… ci sono delle importanti novità!” il volto in genere sbarazzino della bruna si era fatto improvvisamente serio.
“Sì? E cosa?”
“Pare che per l’addestramento sul campo previsto quest’anno ci spediranno al fronte!”
“Al fronte?” gli occhi castani si dilatarono per la sorpresa.
“Mh – annuì l’altra con convinzione – non si sa ancora con quali modalità, però gira voce che al fronte ci sia una forte carenza di soldati e dunque servano forze nuove. Dannazione, e io che ho preso in giro chi ne parlava già l’anno prima!”
Ma Riza non rispose a quel commento: vedeva attorno a sé tutte le altre cadette parlottare nervosamente tra di loro. La guerra che prima arrivava ovattata adesso squarciava la bolla di protezione ed entrava in tutta la sua prepotente ferocia. Dov’erano le future soldatesse? In quel momento c’erano solo ragazze tra i diciassette ed i diciotto anni profondamente spaventate.
No… ho promesso di non morire.
Ma le mani sue e di Rebecca si stringevano con forza, a farsi coraggio contro quello spietato mondo reale che aveva appena messo gli occhi sulla generazione votata alla causa.
 
 

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Capitolo 9
*** Capitolo 8. 1908. Che la diritta via era smarrita ***


Capitolo 8
1908. Che la diritta via era smarrita




 
“Forza, forza! Non ho tutta la giornata da sprecare con voi! Mettetevi in riga! All’Accademia non ve l’hanno insegnato?”
Una cinquantina di cadetti del secondo anno, ancora leggermente impacciati con le nuove uniformi da combattimento in zone desertiche, si schierarono con fatica dove era stato loro indicato. Provenendo tutti da squadre e plotoni diversi, tanto che maschi e femmine erano mischiati, trovavano difficile sincronizzarsi tra di loro. Ma oltre a quella confusione pratica, grande difficoltà era data soprattutto dalla tensione che si poteva tagliare con un coltello e molti di loro non potevano fare a meno di lanciare occhiate stranite verso sud dove, ad un cinque chilometri di distanza, si vedevano colonne di fumo e scheletri di quelle che una volta erano state abitazioni.
La loro attenzione venne miracolosamente distratta da un soldato che corse trafelato verso il camion che li aveva portati lì e che già aveva il motore acceso per ripartire
“Torni ad East City?” chiese quasi gridando per farsi sentire in mezzo al caos di quel campo di retroguardia.
“Sì!”
“Allora riporti con te dei feriti! – lo bloccò, facendo un ampio gesto ad un soldato di guardia ad una grossa tenda color verde scuro – Forza, aiutate i più gravi: in fretta! In fretta!”
Dalla tenda iniziarono ad uscire dei feriti e definire alcuni gravi era un eufemismo: ancora in divisa, bendaggi di fortuna, aria sofferente eppure tenace… si facevano aiutare da alcuni compagni sani, ma avevano una grande disciplina nell’avanzare verso il camion. Si dette la precedenza a quelli che erano trasportati in barella, poi alcuni con le stampelle e così via, fino a quando il pietoso carico fu terminato ed il camion poté ripartire.
“Coraggio, mocciosi, non fatevi spaventare! – li esortò il tenente che stava al comando dei nuovi arrivati – Obbedite agli ordini e cercate di non finire come loro, va bene? Siamo già a corto di forze e non voglio sprecare tempo ad asciugare lacrime: qui si diventa soldati, chiaro?”
“Sissignore!” risposero in coro i cadetti, cercando di ritrovare un minimo di forza d’animo, rifugiandosi dietro quella disciplina e quelle risposte automatiche che li avevano cullati per oltre un anno della loro vita.
“Bene, almeno sapete rispondere! Allora, adesso chiamerò i vostri nomi e vi darò le assegnazioni: per la fanteria andrete in quella tenda laggiù e vi presenterete al capitano Smith, per il genio a quell’altra tenda dal capitano Jay, va bene? Abbot Jason!”
“Sissignore!” si fece avanti un cadetto.
“Fanteria. Adel Richard!”
“Sissignore!”
“Genio militare!”
 
Riza ascoltava quell’appello, osservando con apatia i suoi compagni che, di volta in volta, facevano un passo avanti e correvano verso la loro assegnazione. Il suo cuore continuava a battere all’impazzata, eppure cercava di mantenere la solita aria composta e marziale: era l'unica difesa contro la paura che le attanagliava ogni singola fibra del suo essere e le faceva sentire lo stomaco attorcigliato.
Era lì, a poca distanza dalle trincee, a poca distanza dalla morte.
Le sembrava inverosimile che fino quattro giorni prima si trovava al sicuro tra le mura dell’Accademia, il secondo anno iniziato in tutta tranquillità. E poi, ad inizio aprile, durante la pausa pranzo,un colonnello mai visto era entrato nella mensa gremita e, nel grave silenzio che era calato, aveva annunciato che due giorni dopo gli studenti del secondo anno sarebbero stati trasferiti e avrebbero terminato il loro addestramento sul campo: la terribile minaccia che aveva aleggiato su di loro per più di tre mesi si era avverata.
Si era ritrovata con tutte le ragazze del secondo anno radunata nel grande cortile, alle prime luci dell’alba, ciascuna con il proprio bagaglio militare ed erano salite su dei camion, gli occhi ancora assonnati, eppure una grande paura nei loro cuori. Erano state portate nel Quartier Generale di East City, in un campo da parata, dove si erano allineate fino a quando non erano arrivati i cadetti maschi che si erano schierati diligentemente accanto a loro; poi dei tenenti avevano iniziato a chiamare per nome e così era stata divisa dalla maggior parte delle ragazze che conosceva, in particolare da quelle della sua camerata.
Rebecca era stata chiamata prima di lei ed il suo gruppo si era mosso lasciando solo il tempo di una breve occhiata tra il rassicurante ed il terrorizzato: uno strano “speriamo di rivederci, fatti forza” che l’aveva lasciata spiazzata.
E poi sopra un camion, una delle poche femmine in mezzo a tanti cadetti maschi. Qualche battuta, qualche ipotesi sulla loro destinazione e su quella degli altri: con tutta probabilità, secondo i meglio informati, il gruppo dove stava Rebecca sarebbe rimasto in città o comunque non sarebbe andato al fronte; con la guerriglia che ormai era divampata in tutti i territori del settore est erano necessari soldati praticamente ovunque.
Ma loro erano diretti verso sud, lo sapevano bene.
Stazione dei treni, un viaggio in treno di circa dodici ore per arrivare a fino al binario morto che segnava la fine della linea ferroviaria, persino dopo Resembool. Erano scesi in una piattaforma di cemento in mezzo al vuoto quasi totale, eccettuati alcuni edifici di basso legno per i soldati che si occupavano di quell’avamposto: l’ultimo barlume di relativa pace prima di tuffarsi nell’inferno del territorio di Ishval. Un nuovo camion ad attenderli e poi altre due ore di viaggio, seduti uno accanto all’altra, consapevoli che su cinquanta che erano molti di loro sarebbero probabilmente morti.
“Ironat Sonia!”
“Sissignore!”
“Fanteria!”
La voce del tenente che chiamava una delle sue poche conoscenze di accademia la fece trasalire. Osservò la ragazza dai corti capelli castani correre verso la sua destinazione e di colpo si rese conto che il suo nome era stato saltato: possibile che non se ne fosse resa conto persa com’era nei suoi pensieri? Ma le sembrava strano che quel soldato così marziale non l’avesse richiamata, magari aggiungendo anche un aspro rimprovero per la sua disattenzione.
Tuttavia i nomi continuavano ad essere scanditi, in rigoroso ordine alfabetico: rimasero in venti, poi in dieci, poi in cinque… in quattro, tre, due…
“Zenken Robert!”
“Sissignore!”
“Genio militare!”
Perché?
Riza sentì il cuore in gola mentre vedeva quell’ultimo ragazzo allontanarsi, lasciandola sola in mezzo a quel terreno brullo, cercando di mantenere una posizione marziale nonostante la stanchezza per il viaggio e la paura. Era stata deliberatamente lasciata per ultima, non riusciva a capacitarsene.
“Hawkeye Riza...”
“Sissignore!” rispose con voce salda, facendo un passo avanti.
Il tenente la squadrò con attenzione, piegando con cura i fogli stropicciati dell’elenco. Con la massima discrezione che le concedeva la sua impassibilità, Riza provò a studiarlo a sua volta, confrontandolo con i vari insegnanti che aveva avuto. Era di statura media, un viso dai lineamenti comuni, i capelli biondi e corti: poteva avere una quarantina d’anni e gli occhi slavati non esitavano a mostrare una durezza sicuramente acquisita durante anni ed anni di guerra.
“Tu vieni con me, forza.” ordinò il soldato, girandosi di scatto ed iniziando ad incamminarsi, tanto che Riza dovette fare una breve corsa per raggiungerlo, imprecando silenziosamente contro un laccio del suo zaino che rischiava di rompersi.
Le domande continuavano ad accavallarsi nella mente della ragazza, ma non osava aprire bocca. A quanto sembrava né la fanteria né il genio militare erano le sue destinazioni, ma cosa poteva restare?
“Sono il tenente Morris e sono il tuo diretto superiore – iniziò a dire l’uomo, senza nemmeno girarsi a guardarla – che il cielo mi assista, è la prima volta che ho una ragazza così giovane nel mio gruppo. Ammetto che stavo per rifiutare, ma se i tuoi voti sono veri abbiamo bisogno di soldati con la tua mira: non posso permettermi di fare discriminazioni simili.”
“Signore?” riuscì a mormorare Riza mentre arrivavano ad una jeep e le veniva fatto cenno di posare il suo zaino nel sedile posteriore e di montare.
“Cerca solo di guadagnarti il rispetto dei tuoi compagni, Hawkeye – proseguì Morris mettendo in moto – quello che devi fare è semplice, maledettamente semplice: dalla tua scheda ho visto che in Accademia eri bravissima a farlo, no? Mira e spara, mira e spara… automatismo, è questo che deve diventare per te. Fallo bene e sarai dei nostri senza problemi.”
“Sì, signore…” annuì Riza osservando stordita il viso duro di quell’uomo che fissava la strada sterrata davanti a loro.
“Porca miseria… un cecchino di diciotto anni: questa guerra sta rasentando il surreale.”
Riza annuì distrattamente, ma non osò dirgli che diciotto anni li avrebbe compiuti solo tra due mesi.
 
“La regione di Ishval è prevalentemente sterile, composta per lo più da rocce e sabbia: le risorse del terreno sono scarse così come la terra coltivabile. Si può considerare come poco più di un deserto. Prima la popolazione si trovava sparsa in un territorio più vasto, ma adesso è stata accentrata in una zona formata da vari distretti: Gunja, Kanda e Daliha e così via… in questo modo è stato possibile per il governo centrale mantenere la situazione della rivolta sotto controllo per parecchio tempo. Sono un popolo ostile, radicato nelle loro usanze religiose, duro come la terra che abitano: una piccola parte di loro era anche disposta ad adattarsi alla cultura di Amestris, ma la maggior parte non ha fatto altro che opporsi in maniera sempre più violenta.”
Le parole dell’insegnante d’Accademia continuavano a risuonare nella mente di Riza mentre cercava di farle coincidere con la realtà che si parava davanti ai suoi occhi. Rocce e sabbia, la descrizione era più che azzeccata: sembrava che la pioggia non avesse mai toccato quel terreno polveroso e secco né avesse mai reso più piacevole quell’aria secca e pesante che le pizzicava la gola. Solo delle sottili nuvole ogni tanto schermavano da quel sole tremendo nonostante fosse solo aprile, ma questo non bastava a farla stare meglio.
“I primi giorni quest’aria secca ed i granelli di sabbia ti faranno impazzire – la avvisò il suo compagno mentre la conduceva verso un mucchio di edifici semidistrutti – usa il cappuccio del cappotto per proteggerti e nel caso bagnati un fazzoletto e legatelo per coprire naso e bocca. E cerca soprattutto di evitare che i granelli di sabbia ti vadano negli occhi: non metterti mai controvento.”
“Capito.” Riza annuì, cercando di tenere il passo in quel terreno così accidentato e allo stesso tempo controllare che non ci fossero nemici nascosti nelle vicinanze. Si chiedeva come fosse possibile che quel soldato così magro potesse camminare con tanta tranquillità, come se quella fosse una scampagnata e non un attraversamento di un territorio di guerra.
Si chiamava Dante e aveva la fama di essere uno dei cecchini migliori presenti sul campo di Ishval. A lui era stato assegnato il compito di buttare la novellina nella mischia. E così Riza si trovava a seguirlo, dopo aver passato la sua prima notte al fronte, in una tenda dove dormivano una decina di soldati e dove il sacco a pelo non era bastato a proteggerla dal freddo che calava la notte. Ma aveva dormito ben poco soprattutto per il silenzio irreale che era calato in quel posto, a malapena spezzato dal respiro dei suoi compagni e da qualche occasionale rumore esterno come il passo di qualche soldato. Come ci poteva essere una calma simile nel fulcro della guerra civile?
“Ecco, la nostra postazione è in questo palazzo – disse Dante, posando una mano su quello che rimaneva di un vecchio edificio a tre piani – metti i piedi dove li metto io: alcuni punti delle scale rischiano di cedere.”
Riza annuì e lo seguì, la presa sul fucile che diventava sempre più forte: il cuore le batteva all’impazzata nel capire che il suo momento era arrivato. Tra qualche minuto avrebbe dovuto dimostrare di essere una brava soldatessa e avrebbe dato il suo contributo alla guerra.
Tra qualche minuto avrebbe sparato ad una persona.
No… no! E’ un nemico, ricordalo – si rimproverò aspramente, cercando di controllare il respiro tremante mentre arrivava ad un pianerottolo con una finestra riparata e si accucciava a terra come le indicava Dante – sono le persone che hanno provocato questa guerra, sono pericolosi.
“Abbiamo una buona visuale ed il campo aperto è vasto – le fece notare l’uomo con voce calma, come se quella fosse una chiacchierata; nel frattempo controllava il fucile e Riza lo imitò, cercando di trovare un minimo di pace in quei gesti così automatici che le ricordavano quelli fatti centinaia di volte in Accademia – è un punto dove i nemici sono costretti a passare dato che le altre strade sono troppo disastrate. Per questa prima volta ti ho portato in un posto relativamente semplice dove non passano le nostre truppe: l’emozione può giocare strani scherzi, lo so bene. Mirino in ordine?”
“Sissignore – annuì Riza, cercando di apparire tranquilla – tutto in ordine.”
“Allora sistemati, mi raccomando non esporti troppo… e attendi, coraggio.”
“E poi…?” la ragazza si sentì un’idiota ad aver fatto quella domanda.
Gli occhi scuri di Dante la fissarono intensamente, scavandole l’anima, facendola sentire completamente nuda ed indifesa. Come se sapesse bene quello che sentiva, come se conoscesse perfettamente quale era il suo destino.
“E poi dimenticati qualsiasi altra cosa che non siano il fucile ed il bersaglio.”
 
Il tempo passava con una lentezza disarmante, come se i granelli di un’invisibile clessidra fossero troppo grandi per passare con agilità nella parte più stretta. Ogni secondo le sembrava infinito in quell’attesa che l’avrebbe portata faccia a faccia con la morte. Stava lì, immobile, ignorando la posizione accovacciata, tenendo l’occhio sinistro chiuso e l’altro puntato sul mirino, verso un punto della strada dove c’erano un paio di mattoni rossi che spiccavano in mezzo al color sabbia.
Era da lì che passava il sogno di un mondo migliore? Da quel posto così inospitale ormai dilaniato dalla guerra? In quel momento nemmeno riusciva a pensarci troppo: ben presto il suo unico pensiero si ridusse al fatto che prima o poi una persona sarebbe passata di lì e lei avrebbe dovuto premere il grilletto. Un bersaglio in movimento: questo indicava che sarebbe dovuta essere ancora più rapida nel prendere bene la mira e sparare, cercando un punto vitale come la testa. Una parte di lei si sentiva un mostro a quanto stava per succedere: togliere la vita ad una persona era orribile. Ma che cosa pensava quando era andata in Accademia? Ovvio che ad un soldato venivano richieste simili cose.
Sposta leggermente il peso del fucile sul braccio, altrimenti rischia di sbandare appena parte il colpo. Rilassa meglio la spalla o non otterrai il giusto equilibrio.
E mentre la sua anima si trovava in combutta con il dilemma morale di uccidere una persona, la sua razionalità la portava a sistemare meglio l’arma, conscia dello sguardo di Dante su di lei. Proprio come quando, da allieva di Accademia, correggeva da sola i propri errori sotto gli occhi penetranti del proprio insegnante al poligono di tiro. Massimo dei voti ogni volta: doveva pur valere qualcosa.
Trasse un breve respiro quando si rese conto di un movimento poco distante dal campo visivo del suo mirino. Lanciò una rapida occhiata a Dante che annuì impercettibilmente e le indicò con lo sguardo di tornare a fissare l’obbiettivo.
Il momento era giunto.
La mano prese a tremarle leggermente e si maledisse per quell’inconveniente comparso così all’improvviso. Il suo cuore sembrava esplodere ed uno strano rombo iniziò ad occultare qualsiasi altro suono presente in quel momento.
La sabbia della clessidra tornò ad essere fine, sin troppo, e di conseguenza il tempo prese a scorrere con maggiore velocità, mentre una persona vestita con delle vesti una volta bianche – riuscì persino a rendersi conto che il bianco era ormai sbiadito per lo sporco – e una cintura rossa e nera, usciva allo scoperto con aria guardinga per poi avviarsi nella strada, sempre più vicina ai due mattoni rossi.
Nell’arco di sette secondi entrò nel raggio del suo mirino.
Un uomo di mezza età, il viso segnato dalle rughe, ma anche da una determinazione fuori dal comune. Teneva stretto tra le mani un fucile, sebbene fosse chiaro che non fosse abituato a maneggiarlo.
Chioma bianca come la neve, occhi rossi come il sangue.
E’ così che è fatto un uomo di Ishval?
La domanda sorse spontanea nel momento in cui premette il grilletto e il rumore della detonazione cancellò quel quesito. Tutta la sua attenzione si rivolse a quella figura che ancora vedeva nel mirino, mentre la sua anima calcolava spietatamente i decimi di secondo che mancavano all’impatto.
Bersaglio in movimento: doveva esser fatto tutto alla perfezione per colpire il centro.
La testa.
E di colpo l’uomo cadde, mentre la parte sinistra del suo volto esplodeva in una strana poltiglia sanguinolenta che andò a macchiare il bianco dei capelli. Il collo ebbe una torsione innaturale come se un guinzaglio invisibile l’avesse improvvisamente strattonato. E poi quel corpo cadde riverso a terra, scosso da piccole convulsioni, il fucile bizzarramente ancora stretto tra le mani.
“Bel colpo, ragazza – annuì Dante, smentendo il complimento con il tono cupo della voce – la maggior parte delle volte il primo tentativo va male, ma tu hai tenuto la freddezza giusta.”
Riza trasalì, completamente dimentica della presenza del suo compagno per quell’arco di tempo così breve eppure così infinito: si girò a guardarlo con aria stordita, non riuscendo a credere che tutto fosse veramente finito e che lei avesse ucciso il suo primo uomo.
“… così facile…” mormorò scoprendo che le sue mani avevano ripreso a tremare e la sua presa sul fucile non era più così salda.
“Sì, così facile – le rispose l’altro impassibile alzandosi in piedi – dato che sembri avere una mano ferma direi che ci possiamo spostare in zone dove la nostra presenza è più utile. Qui è solo uno stupido tiro a segno che non giova molto ai nostri compagni: sono altre le zone da controllare. Forza, andiamo a recuperare il fucile di quel tipo: sono sicuro che è uno dei nostri fregato a chissà quale povero soldato.”
Riza si alzò in piedi e vacillò leggermente, le gambe che protestavano per la posizione accovacciata che aveva assunto per troppo tempo senza muoversi. Cercò lacrime ma non ne trovò. Cercò un senso di nausea che non venne… persino il rombo alle orecchie che l’aveva resa sorda era sparito.
Così facile.
Guardò Dante che era arrivato al primo gradino e la osservava con attenzione.
“E’ questione d’abitudine, ragazzina. E, credimi, qui le occasioni non ti mancheranno. Forza, andiamo: direi che il tuo battesimo di fuoco l’hai avuto.”
 
“Dodici uccisi, tenente. Qualche occasione persa, ma più che giusto considerata la vicinanza di nostri soldati: la cautela è stata la mossa migliore considerato che era il primo giorno. La squadra cecchini ha fatto un ottimo acquisto con il soldato Hawkeye.”
Per la prima volta Dante la chiamò soldato e non ragazzina, come aveva fatto fino a qualche minuto prima, quando erano tornati al campo base per fare rapporto. Se ne stava in piedi davanti al tavolo del tenente Morris, come se quella fosse solo una normale relazione e quelli elencati fossero solo numeri e non vite umane stroncate. Riza, sull’attenti accanto a lui, in qualche modo lo stava odiando, ma si diceva che non aveva nessun diritto di provare un simile sentimento. Perché era stato troppo facile prendere quelle dodici vite e, nonostante lei avesse sempre sentito il suo cuore battere all’impazzata ogni volta che intuiva che una preda si stava avvicinando al suo raggio d’azione, era sempre rimasta fredda quando si era trattato di calcolare il momento giusto in cui premere il grilletto, o l’angolazione da dare per colpire un punto vitale.
Se voleva provare odio era solo per la crescente consapevolezza che tra lei e Dante non c’era niente di diverso. Che entrambi erano bravi ad uccidere.
“Molto bene, Dante – annuì il tenente alzandosi in piedi – grazie per aver accompagnato la nuova arrivata nel suo primo giorno. Adesso puoi andare. Hawkeye tu resta ancora per due minuti.”
Riza rimase immobile, ma si sentì stranamente sollevata quando il suo compagno di quella giornata se ne andò via: come se uno strano muro fosse stato abbattuto riuscì a respirare con maggiore facilità, sentendo al contempo il groppo di emozioni che iniziava a salire all’improvviso.
Adesso era di nuovo Riza, ma si sentiva un mostro
Un’assassina.
“Inizio col botto, soldato – commentò il tenente Morris, aggirando la scrivania e andandole davanti per squadrarla con attenzione – non credo che nessuno abbia ottenuto i tuoi risultati il primo giorno. Dodici morti, eh? Ne hai guardato almeno uno bene in faccia prima di premere il grilletto?”
La domanda giunse così improvvisa che la giovane indietreggiò di un passo.
Come può saperlo?
Certo che l’aveva guardato in faccia quell’uomo col fucile, quegli occhi rossi carichi di rabbia e di paura, quel viso solcato dalle rughe di una vita troppo dura. E l’aveva imprigionato nel suo mirino, condannandolo a morte, non dandogli la possibilità di arrivare alla fine di quella strada polverosa. La sua vita era terminata vicino a quei due mattoni rossi che lei aveva scelto come punto di riferimento.
E l’aveva guardato anche da morto, quando erano andati a recuperare quel maledetto fucile. Non aveva potuto fare a meno di fissare con aria assente quel corpo che sembrava ormai una goffa e grossa marionetta gettata a terra dopo il gioco, quelle mani ancora strette con ostinazione all’arma. Non aveva potuto distogliere lo sguardo da quel viso sfigurato nella parte sinistra, con le cervella che fuoriuscivano miste ai frammenti di cranio.
Non aveva potuto evitare di guardare il suo operato.
“Ti voglio dare un consiglio, Hawkeye: non iniziare ad arrovellarti in circoli viziosi di morale o cazzate simili. Cercarli in un campo di battaglia, in una guerra civile che imperversa da otto anni, sarebbe pura follia. Si, hai ucciso degli esseri umani e lo rifarai… domani, dopodomani, fino a quando sarà necessario, mi capisci?”
“Sì, signore!” ansimò lei, rendendosi conto che quello era stato solo il primo giorno di una serie che non sapeva quando sarebbe finita.
“Non fermarti a contarli, ti basta il primo che hai ucciso, va bene? – Morris la prese addirittura per il braccio a sottolineare le sue parole – Quello che ti deve interessare sono le vite dei tuoi compagni che salverai, intesi? E’ un fottuto compromesso, ma serve a mantenere la sanità mentale in questo inferno!”
“Loro sono…”
“Sono i tuoi nemici, quelli che ti ucciderebbero se ti avessero tra le mani. Non si fanno scrupoli, così come noi: se prima potevamo permetterceli, dopo anni ed anni questa regola non vale più… è semplice logoramento, fino a quando qualcosa non cambierà o uno dei due fronti cederà.”
“Perché mi dice queste cose, signore?” supplicò Riza.
“Perché vedo che stai per piangere e come ho detto ieri non ho tempo per asciugare lacrime – sbottò – adesso vai, sfogati, ma poi lascia andare via la ragazzina e resta solo cecchino, Hawkeye, perché è del cecchino che ho bisogno! Ormai sei dentro l’inferno e la cadetta non va più bene.”
“Sì, signore.”
“Brava… forza, vai. Concediti un ultimo sprazzo di umanità, ma domani ti voglio di nuovo pronta all’azione, intesi?”
“Sì, signore.”
“Molto bene. Sei congedata.”
 
“Un mondo migliore…”
Accucciata nel suo sacco a pelo, Riza continuava a pensare a quella frase che ora le sembrava così irreale.
Il suo corpo reclamava riposo, ma lei non voleva addormentarsi: non voleva cedere al fatto che fosse così facile riposare dopo aver levato così tante vite.
Avrebbe voluto star male, piangere disperatamente come era stata sul punto di fare davanti al tenente Morris… ma una volta da sola non le erano uscite che poche ed irrisorie lacrime. Era come se il suo corpo e la sua mente stessero obbedendo agli ordini e stessero mettendo da parte la vecchia Riza.
Quella Riza che aveva creduto in un mondo migliore, in una vita dignitosa una volta che si era liberata dall’incubo di suo padre. Non aveva capito che stava entrando solo in un incubo più grande che l’aveva marchiata in una maniera ancora più orribile.
Adesso non era più innocente: dodici morti pesavano sulla sua anima… i primi di tanti, inutile negarlo.
Si trattava solo di aspettare le ore che mancavano alla sveglia e tutto sarebbe ricominciato.
Non era più un cadetto, ma un soldato… un cecchino.
Un’assassina.

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Capitolo 10
*** Capitolo 9. 1908. Il contrappasso di chi ha creduto ***


Capitolo 9
1908. Il contrappasso di chi ha creduto




 
“Dante, Alan e Conrad, voi andrete nel distretto a sud: è una zona appena conquistata e hanno ancora bisogno di parecchia copertura mentre provvedono alle ultime operazioni di pulizia.”
“Sissignore!” annuirono all’unisono i tre soldati per poi dirigersi verso la loro destinazione.
Mentre il tenente Morris continuava a dare gli assegnamenti agli altri cecchini della squadra, una ventina in tutto, Riza se ne stava composta al suo posto, sapendo che spesso veniva lasciata per ultima in quanto le venivano affidati degli incarichi speciali. I servizi dell’Occhio di Falco, come veniva ormai chiamata, erano parecchio richiesti ed il suo soprannome passava di bocca in bocca tra tutti i soldati.
Si era ormai a settembre del 1908 ed era quasi cinque mesi che si trovava al fronte: ormai la sua vita era una routine di appostamenti ed uccisioni che facevano da spietato contraltare alle vite dei suoi commilitoni che venivano salvate. Riza cercava di non pensarci troppo, come le aveva suggerito il suo superiore: sarebbe impazzita sicuramente e già si chiedeva come sarebbe potuta tornare ad una vita normale quando la guerra sarebbe finita. Come avrebbe potuto guardare in faccia le persone portando nel suo cuore così tante morti? Il pensiero le faceva così male che a volte sperava che quella guerra non terminasse mai, evitandole per sempre il confronto con il mondo civile che di quegli orrori ben poco sapeva.
“Veniamo a noi, Hawkeye – la richiamò il tenente Morris. E Riza non fu sorpresa nel constatare che nella tenda erano rimasti solo loro due – oggi voglio darti un compito non troppo impegnativo: negli ultimi giorni hai fatto gli straordinari, si vede dalla tua faccia e non ti voglio sforzare troppo.”
La soldatessa annuì e non protestò, conscia delle possibilità dei propri riflessi: sapeva bene che era necessario per i cecchini avere dei turni meno pesanti in modo che a rotazione potessero riposare. Era semplice buon senso: dovevano stare sempre all’erta e con la concentrazione elevata che non poteva essere mantenuta per troppi giorni di fila; un carico troppo grosso avrebbe potuto compromettere il rendimento.
“Meno male che gli alchimisti sono scesi in campo – commentò il tenente facendole cenno di avvicinarsi e indicandole un punto della mappa dove c’era un edificio che avevano usato più volte come luogo di appostamento – oso sperare che entro fine anno ce ne potremo tornare tutti a casa. Stanno facendo più loro da giugno che l’intero esercito in anni ed anni di conflitto. Certo che lo stato maggiore ci poteva pensare un po’ prima a questa soluzione. Mah, lascia stare: sono i soliti vaneggi di un soldato che è stanco di starsene in questo luogo dimenticato da qualunque divinità… di certo da Ishvala.”
C’era una nota amara in quelle ultime considerazioni e Riza sapeva bene il motivo: la discesa in campo degli alchimisti aveva dato una svolta decisiva alla guerra, certo, ma in un modo che la maggior parte dei soldati trovava ancora inquietante. I bollettini dei nemici uccisi erano diventati drasticamente più numerosi da quando l’alchimia si era affiancata alle tradizionali armi. Ormai i soldati ordinari spesso erano ridotti a mero accompagnamento, a fare un lavoro di coltello di certo non proprio onorevole. Ma, come aveva detto mesi prima il tenente Morris, in quel posto si potevano dimenticare parole come giustizia, moralità e onore.
E Riza, a malincuore, non poteva che essere d’accordo con lui.
 
La sua destinazione era in una torretta abbastanza tranquilla dove ormai l’esercito la faceva da padrone: venire mandati in quel posto voleva dire davvero un giorno di vacanza. Da una parte questo era un sollievo, ma dall’altra anche una maledizione: a dover stare da sola in attesa di qualche nemico che non sarebbe probabilmente arrivato, spesso ci si lasciava andare a riflessioni e pensieri… e questo non era un bene.
Tuttavia fu praticamente inevitabile, dopo un’oretta in cui aveva visto solo soldati in divisa blu e cappotto bianco, lasciare che la mente vagasse.
Forse fu il breve discorso del tenente Morris, ma i suoi pensieri tornarono al tatuaggio che aveva sulla schiena e all’alchimia del fuoco. La sua mano si strinse sul fucile mentre immaginava il ghigno soddisfatto di suo padre nel vedere che cosa era successo: sì, Berthold Hawkeye avrebbe provato solo amara soddisfazione nel constatare che lei aveva sbagliato nel rivelare il segreto di quel potere ad un soldato.
Sarebbe stato molto meglio se le formule fossero rimaste celate per sempre.
Perché non aveva dubbi che il signor Mustang fosse lì, ad Ishval, assieme agli altri alchimisti di stato chiamati dal governo per mettere in atto lo sterminio che avrebbe messo fine alla guerra. Armi umane, così venivano chiamati dai soldati comuni: titolo che denotava rispetto, timore, ma anche una strana forma di separazione. Certo, era un pensiero più che comprensibile: nella gerarchia di chi uccideva i soldati semplici stavano alla base, un gradino sotto rispetto ai cecchini che avevano questo specifico compito. E gli alchimisti erano al vertice di quella piramide, come non potevano?
Siamo stati così sciocchi ad aver sperato in un mondo migliore? Possibile che mio padre avesse visto così tanto giusto?
Ecco di nuovo il ghigno sarcastico di Berthold che si ripresentava davanti a lei: così irrisorio e odioso, fiero di averla illusa per poi tradirla in quel modo orribile pur di proteggere la sua vera figlia.
No! No! – scosse il capo con forza, allontanando quell’immagine – non può vincere in questo modo: ti ha già distrutto parte della tua giovinezza. Non dargli potere anche da morto!
Si sistemò meglio i guanti da cecchino e trasse un profondo respiro. Riprese a guardare dal mirino, spostandosi a destra e a sinistra per avere sotto controllo tutto il territorio che le era stato affidato. Alcuni soldati di Amestris passarono sotto il suo sguardo: visi stanchi, provati, che tuttavia cercavano di trovare un minimo di normalità in delle semplici chiacchiere. Riza lo sapeva, anche diversi della sua squadra facevano così: famiglia, casa, vita quotidiana… faceva male pensarci quando si era così distanti, ma era pure un modo per ricordare che esistevano oltre quella terra bruciata dal sole. Lei non lo faceva, evitava questo tipo di conversazioni: aveva scoperto che preferiva stare per sue, rimpiangendo la solida amicizia con Rebecca. A volte si ritrovava a chiedersi come se la stava cavando la sua amica, ma di certo non stava vivendo una situazione difficile come la sua.
Ma qualsiasi pensiero sulla spigliata moretta venne interrotto dal suo istinto che le diceva che qualcosa non andava. La canna del fucile tornò indietro di un cinque centimetri, in modo che il mirino potesse frugare in un pezzo di terra brulla dove apparentemente non c’era nulla, eccetto due suoi commilitoni che parlavano.
Ma i suoi occhi di falco, a dimostrazione che il titolo era stato più che meritato, colsero un movimento proveniente dal suolo, da quella che sembrava una piccola rientranza.
Agguato – capì immediatamente, tornando fredda ed impassibile.
Attese con pazienza quei tre secondi prima che il nemico si decidesse ad uscire fuori dal nascondiglio per attaccare quei due soldati che ancora non si erano resi conto di lui. Non era la prima volta che sventava un pericolo simile: aveva imparato che gli ishvalani erano tremendamente abili a nascondersi anche dove il territorio offriva pochissimo riparo. E sapeva benissimo che per un agguato simile chiunque ci fosse non avrebbe usato un’arma da fuoco, ma con tutta probabilità un coltello o qualcosa di contundente.
E poi accadde, secondo le tempistiche di una recita che lei conosceva bene.
L’ishvalano, i vestiti stracciati ed una smorfia folle sul volto, uscì con un balzo dal nascondiglio, spinto da una foga assassina perfettamente leggibile nei suoi occhi rossi.
E lei premette il grilletto, sicura di fare centro, come aveva già fatto centinaia di volte. Attese quei decimi di secondo, crogiolandosi in quel tempo che scorreva lento solo per lei, e poi vide l’uomo accasciarsi a terra come una bambola di pezza proprio davanti ai due soldati che avevano tentato di tirare fuori le loro armi
Seguendo la solita procedura puntò il mirino per assicurarsi che i suoi commilitoni fossero illesi e…
Il cuore le smise di battere per due secondi e gli occhi si sgranarono.
Signor Mustang!
 
Da quando aveva saputo della discesa in campo degli alchimisti di stato si era chiesta decine di volte se lei ed il signor Mustang si sarebbero mai incontrati in quella terra piena di sabbia e di sangue. Sebbene la tentazione di rivedere un volto tutto sommato amico fosse allettante, l’idea di incontrarlo in un simile contesto la terrorizzava. Una vita prima si erano lasciati carichi di speranze per il futuro, convinti di aver fatto la cosa migliore con la formula alchemica del fuoco.
Adesso invece le nostre mani sono sporche del sangue di centinaia di persone innocenti. Il mondo migliore che dovevamo costruire mattone su mattone in realtà ha come cemento le vite del popolo di Ishval.
Sapeva che lo stava pensando anche lui mentre si scrutavano a vicenda nell’accampamento dove si riposava dopo aver finito il proprio turno. In fondo si sarebbe dovuta aspettare che lui ed il suo amico sarebbero venuti a ringraziarla per aver salvato le loro vite. E faceva così male rivedersi in quelle condizioni: la divisa sporca, gli occhi spenti e rassegnati al proprio destino di assassini artefici dello sterminio di un intero popolo. Dov’erano il ragazzo avvolto nel pesante cappotto che sorrideva entusiasta all’idea di quello che avrebbe potuto fare con l’alchimia? E dov’era la ragazzina timida che si sentiva estremamente felice nel poter sedere davanti a lui durante i pasti, finalmente considerata da qualcuno nel silenzio di quella casa? Quella ragazzina che aveva creduto di poter far parte di qualcosa di grande.
Perché l’alchimia ci ha maledetti in questo modo? Come abbiamo fatto a sbagliarci così tanto?
Le vennero le lacrime agli occhi mentre osservava la sua aria di sorpresa nell’averla riconosciuta. Lui era così cresciuto: nonostante l’avesse già visto in divisa adesso c’era una nuova dolorosa maturità, la stessa che aveva lei nonostante i loro cinque anni di differenza. E non aveva bisogno di uno specchio per capire che si concentrava tutta negli occhi cerchiati dalle occhiaie, arrossati dalla sabbia calda e pungente spinta dal vento del deserto.
“Lieta di rivederla, signor Mustang – salutò, alzandosi in piedi – anzi no, forse dovrei chiamarla maggiore Mustang.”
Coraggio, mi dica qualcosa – dovette reprimere l’istinto di stringersi le braccia attorno al corpo: improvvisamente si sentiva una delusione per quell’uomo che si era prodigato tanto per lei – io ho bisogno di… di sentire la sua voce.
Ma lui stava zitto, continuava a fissarla come se non volesse credere ai suoi occhi, come se si rifiutasse di credere che lei fosse così lontana da casa e soprattutto indossasse la divisa e avesse accanto a sé un fucile ad alta precisione.
Sono Riza… Riza! Mi guardi! Sono sempre io!
“… comincia a ricordare?” chiese con voce piatta.
“Come potrei aver dimenticato?” mormorò lui con il medesimo tono.
La sua voce era così stanca: roca, la gola bruciata dal caldo… rassegnata. Come se alla fine si fosse arreso l’evidenza che pure lei si trovava in quel posto di morte e distruzione. Alla fine la guerra ed i suoi eventi non lo sorprendevano più.
E Riza si trovò ad essere perfettamente solidale con lui.
 
Dopo mesi di guerra impari a dormire ogni notte, a prescindere dal tuo stato d’animo. Diventa un’esigenza del tuo stesso corpo che ti obbliga ad ignorare tutto quanto per poter recuperare tutte le energie possibile in previsione di un altro giorno che sembrerà non finire mai, così tremendamente uguale agli altri.
Riza già dal terzo giorno dopo il suo arrivo si era abituata a questa regola, probabilmente anche confortata dal dormire dei suo compagni di squadra con i quali condivideva la tenda.
Tuttavia quella notte il sonno non venne, sebbene solo il cielo sapesse quanto ne aveva bisogno e quanto lei stessa lo desiderasse. Ma a mezzanotte rinunciò a qualsiasi tentativo e uscì dal suo sacco a pelo, rabbrividendo leggermente per l’aria fredda che riusciva a penetrare da alcuni spifferi sulla tenda. Escursioni termiche, proprio come succede nel deserto… proprio come la guerra che di giorno bruciava ed imperversava e di notte si fermava, cristallizzandosi in quei cadaveri sparsi per le strade e nei vivi che dormivano in attesa del nuovo sole. Con tutta la discrezione possibile si infilò gli stivali e recuperò il suo cappotto per poi scivolare fuori dalla tenda per essere accorta dal gelo della notte di Ishval.
Quello che stava provando in quel momento era terribile. Era come se la corazza che si era costruita giorno dopo giorno fosse stata irrimediabilmente distrutta, lasciandola di nuovo una ragazzina sola ed indifesa, senza alcuna certezza nella vita. Era come se Riza fosse finalmente riemersa dal soldato Hawkeye facendo così riesplodere con violenza tutti i dolorosi dubbi dell’anima, quelli che con le unghie e con i denti aveva cercato di tenere da parte.
Ma come poteva essere altrimenti dopo che la sua personalità era stata messa a nudo in maniera così violenta e sincera? Come se si trattasse semplicemente di dire che due più due fa quattro.
“… Quando uccidi il tuo nemico puoi giurarmi di non aver mai pensato “bene! L’ho preso!” e di non esserti mai sentita orgogliosa delle tue doti, provando una sensazione come di appagamento per il lavoro che hai compiuto?”
Non sapeva chi fosse quel soldato che si era intromesso nella discussione tra lei ed il signor Mustang, ma non le importava. Aveva espresso ad alta voce quello che la maggior parte di loro preferiva tenere dentro l’anima, senza dirlo ad alta voce. Sì, dannazione, c’erano quei bellissimi e tremendi secondi tra sparo e bersaglio che le davano una scarica di piacere… e quel piccolo brivido d’appagamento che sentiva ogni volta che vedeva il suo avversario cadere. I cecchini del resto sono bravi ad uccidere e lei stava semplicemente compiendo il suo lavoro: perché il sentirsi appagata doveva risultare così orribile?
Cielo, ma che vai a pensare? Il tuo lavoro è di levare vite umane! Come puoi trovarlo veramente piacevole?
Era diverso! Totalmente diverso! L’appagamento era solo per essere brava a mirare e colpire il bersaglio: il fatto che quel bersaglio fossero persone e non sagome di cartone… questa era la problematica.
E lui? Dannazione, lui ne uccide decine e decine alla volta. Che cosa ho fatto?
L’alchimista di fuoco, era così che lo chiamavano e non ci voleva molto a capire perché.
Come aveva potuto consegnargli un potere così tremendo? Un potere che non sarebbe mai dovuto esistere per quanto era pericoloso. In questo suo padre aveva ragione: non doveva cadere nelle mani sbagliate.
Davvero è stata la scelta sbagliata? – si strinse le braccia attorno al corpo, cercando riparo dal gelo notturno e da quello che sentiva nel cuore – Possibile che mi sia sbagliata così tanto su di lui? Oppure è solo la follia della guerra?
“… voglio continuare a credere che l’alchimia dia alla gente sogni e speranze, mentre l’esercito protegge il futuro del paese. La prego, maggiore, me lo dica: perché i soldati che dovrebbero proteggere i cittadini invece li uccidono? Perché l’alchimia che dovrebbe portare felicità alla gente viene invece usata per ucciderla?”
“Che stupida che sei stata – si rimproverò – gli sarai sembrata così patetica… e di certo non aveva bisogno di caricarsi addosso anche i tuoi sensi di colpa!”
Sensi di colpa… oh se ne aveva! Man mano che ci pensava si accorgeva che le sue mani erano sporche del sangue di centinaia di persone e non solo di quelle che aveva ucciso con il suo fucile. Ogni volta che lui aveva scatenato l’alchimia del fuoco in realtà era stata lei il motore primo. Forse la guerra sarebbe finita a rotoli lo stesso, forse non avrebbe fatto differenza, ma forse… centinaia di persone non sarebbero morte in maniera così orribile e chissà, forse qualcuno in più sarebbe potuto fuggire, scappare via. Qualche madre con bambino che si era nascosta bene, qualche innocente. Proprio come quando evitava di sparare ai civili in fuga che capitavano nel suo mirino.
Per cosa poi? Muoiono tutti nell’arco di poche ore uccisi da altri soldati. Il tuo gesto di pietà è solo uno specchietto per le allodole con cui ti inganni segretamente ogni volta per sentirti una persona migliore.
“Pensieri strani, Hawkeye?”
Riza trasalì quando Dante le parlò, proprio accanto a lei, arrivato silenzioso come la notte.
“No, niente – rispose timidamente – solo non riuscivo a dormire.”
“Brutto affare – rispose laconico il soldato – se non è per andare al bagno, stare alzati la notte non va bene. Significa che stai lavorando con la testa e questo ti provocherà solo grane.”
Si mosse per andare a raggiungere le latrine che stavano in fondo al campo, ma Riza decise di bloccarlo.
“Ci verrai mai a patti? – gli chiese, raggiungendolo e prendendolo per la manica del pesante maglione che indossava per proteggersi dal freddo della notte – Quando sei diventato soldato sul serio pensavi che avresti ucciso così tanti innocenti? Come faremo a tornare ad essere persone normali dopo la guerra? Come posso – le vennero le lacrime agli occhi – come potrò guardarmi allo specchio quando ci vedrò ogni singola persona che ho ucciso?”
“Come farai a sopravvivere a questa guerra se inizi a farti prendere dal rimorso ora che è ancora in svolgimento?” la fermò il soldato afferrandola per il braccio in una morsa di ferro.
“Io… io volevo – Riza esitò, non sapendo se quel soldato così magro e chiuso in se stesso l’avrebbe mai capita – volevo solo essere utile al mio paese, capisci? E’… è così sbagliata come speranza?”
“Speranza? – il sorriso amaro che comparve sul viso affilato di Dante fu simile a quello di una faina – E’ un termine adatto per una bambina in un simile frangente, Hawkeye, non per una soldatessa. Cos’è sei entrata in Accademia spinta da grandi ideali pensando di sparare petali di fiori invece che proiettili?”
“Lasciami!” ansimò lei.
“Speranza! Ecco la mia speranza! – continuò lui, accentuando la presa: a Riza sembrava di aver risvegliato un mostro a lei sconosciuto – Speravo di uscire dalla miseria che attanagliava il mio villaggio, costringendo mia madre ad elemosinare un pezzo di pane per me ed i miei fratelli… speravo di far terminare questa dannata guerra che ci ha ridotti allo stremo, facendo morire mia sorella di dieci anni di stenti, capisci? Ogni singolo colpo contro questi bastardi è un avvicinarsi alla mia speranza, ecco come la vedo! E mi chiedi se guarderò allo specchio una volta finita la guerra… beh, io sì! Perché saprò che la mia famiglia è sopravvissuta per i miseri soldi che gli mando quando ci pagano! Perché sarò consapevole che se la guerra finirà e la crisi economica smetterà di mietere vittime tra i poveri, sarà anche merito mio.”
“Sono un popolo allo stremo… lottano per non essere sterminati!”
“Allora dovevano pensarci due volte prima di accettare armi da Aerugo e ribellarsi, soldato! Azione e conseguenza, ecco come funziona.”
Lo sguardo di quegli occhi slavati, appena visibili nella luce delle torce poco distanti, si rasserenò, come se Dante tornasse ad essere il taciturno soldato di sempre. Lasciò con gentilezza la presa sul braccio di Riza e si sistemò il colletto del maglione.
“Ti è stato detto più volte, Hawkeye: non cercare giustizia in questo posto. Fai come gli altri: non guardare il presente, ma il futuro. Quello dove potrai tornare a casa e riabbracciare le persone che ami. Consolati con la consapevolezza che potranno vivere finalmente liberi da disagi e privazioni anche grazie a te. Loro non sapranno… tu sì, ma che cosa importerà a quel punto?”
Scrollò le spalle e si girò per andare alle latrine, lasciando Riza sola in mezzo a quelle tende piene di soldati che ormai guardavano solo al ritorno a casa. Davvero tutti avrebbero chiuso gli occhi davanti a quello commesso in quella terra?
No, non ci voglio credere… non potrei mai. Lui non potrebbe mai.
Non poteva pensare che l’esercito fosse composto da persone simili.
 
Il giorno successivo portò un nuovo assegnamento e la routine della guerra obbligò Riza a tornare ad essere il solito cecchino professionale e riservato. Non ebbe occasione di rivedere il maggiore Mustang, ma non se ne sorprese: con dei cambiamenti di posizione così repentini era difficile incontrarsi.
Per questo fu del tutto impreparata quando, due giorni dopo, quando ormai il sole tramontava e lei era tornata al suo campo, trovò proprio lui ad attenderla. Non seppe che dire: rimase ferma, il fucile ancora a tracolla, chiedendosi cosa l’avesse spinto a venire fino a quella zona controllata dall’esercito.
“Sei molto stanca?” le chiese con espressione neutra, come se il cappotto bianco sporco di fumo, così come il viso, fossero una tremenda ordinaria amministrazione.
“Va tutto bene, signore – rispose lei, sebbene la stanchezza si facesse davvero sentire – posso esserle utile in qualche modo?”
Lui si guardò attorno, notando come gli altri soldati della squadra li stessero fissando con curiosità e poi si incamminò verso il limite del campo, facendo cenno a Riza di seguirlo. E lei lo fece, come se fosse la cosa più naturale del mondo: due passi indietro, gli occhi puntati su quelle spalle orgogliose anche nella stanchezza.
Come sono diverse da quelle del ragazzo che era, signore.
Si fermarono sui resti di un vecchio muretto a secco e solo allora il maggiore si girò e la scrutò per diversi secondi prima di parlare.
“Domani dovrò partire per uno dei distretti più lontani – dichiarò infine – pare ci sia bisogno del mio intervento lì: sono l’unico disponibile.”
Riza non seppe cosa rispondere, ma lo vide armeggiare con qualcosa che aveva in tasca e alla fine notò che tirava fuori un paio di guanti bianchi che nel loro precedente incontro non aveva notato. Il suo occhio acuto notò, tra le pieghe della stoffa, alcuni disegni rossi e li riconobbe subito: erano quelli che tante volte si era vista nella parte centrale della schiena quando non poteva fare a meno di osservare il suo tatuaggio.
E’ così che funziona allora? – si chiese. Non aveva idea di come potesse agire l’alchimia, tantomeno quella del fuoco. A pensarci bene non aveva mai visto suo padre armeggiare con oggetti simili.
“… già – annuì Roy, notando il suo interesse – alla fine sono riuscito a sintetizzare la formula in questi guanti. Sono di un materiale speciale: se la stoffa si sfrega genera delle scintille e da lì posso governare gli elementi che compongono la fiamma.”
“Capisco.” annuì lei con diligenza, sentendosi vagamente a disagio per quella spiegazione. Ancora non le andava giù di sentire parlare della sua odiata sorellastra come materia. Finché era arma andava bene, ma come studio o spiegazione accademica le faceva uno strano e nauseante effetto.
“Qualche giorno fa… quel dannato non doveva parlare in quel modo. E’ uno fuori di testa, lo dicono tutti: lui ha solo…”
“… detto la verità – scosse il capo Riza terminando per lui la frase – Cercare giustizia in un posto come questo non è normale. Del resto quando abbiamo scelto di indossare questa divisa dovevamo immaginare a cosa andavamo incontro, no?” d’istinto si strinse la mano libera sul cappotto.
“Già, la divisa – annuì Mustang, riprendendo a fissarla con attenzione – io… effettivamente sono venuto qui per parlarti anche di questo. Riza, tu mi sei sempre sembrata tutto meno che… insomma eri una ragazzina così… perché sei entrata in Accademia? Non vorrei aver in qualche modo influenzato la tua scelta di vita con la mia venuta qualche anno fa.”
I suoi occhi stanchi esprimevano timore per la risposta che attendeva e Riza se ne sentì commossa. Era meraviglioso come quell’uomo si preoccupasse per lei anche lì, in mezzo alla guerra. Le dava sempre prova di grandissima umanità, sebbene non avesse una reale responsabilità nei suoi confronti: eppure era venuto appositamente a cercarla.
Sì, sono entrata in Accademia perché volevo prendere parte al suo sogno meraviglioso, signore.
Ma non lo disse: non gli parlò di quel bigliettino ormai stracciato che si era rigirata tra le mani per tanto tempo. Non sarebbe stato giusto caricarlo anche di quel peso. Si limitò a scuotere il capo con un lieve sorriso.
“Non si deve preoccupare per questo, signore – rispose – ho preso la mia decisione in completa autonomia, proprio come quando ho scelto di rivelarle la ricerca di mio padre.”
“Credevo che saresti diventata un’insegnante… non c’era una tua vecchia insegnate?”
“Era una delle tante possibilità, ma alla fine ho optato per l’esercito.”
“Una scelta che ora rimpiangi – fece un gesto significativo con la mano, sempre con aria di scusa: quasi che lui fosse comunque l’artefice di tutto quel disastro, compresa la sua infelicità – mi dispiace: speravo che la guerra finisse prima, in modo che tu non ne avessi mai a che fare.”
“Non è il caso di piangere sul latte versato: la signora Berth direbbe così.”
La signora Berth… cielo, è così assurdo parlare di lei.
E pensare che in un posto lontano da quell’inferno c’era un piccolo gruppetto di case, con la signora Berth che lavorava il suo piccolo orticello e dava da mangiare ai suoi polli. Adesso che era settembre l’estate stava lasciando il posto ai primi venti freschi dell’autunno, ma a casa sua presto sarebbe arrivata la pioggia insistente che avrebbe bagnato il terreno fino a renderlo fangoso.
“Ah sì, la tua vicina grassoccia – si ritrovò a sorridere Mustang – mi ricordo che faceva delle conserve molto buone: ogni tanto ne portavi a casa qualcuna.”
“Sono sicura che sarà in forma come sempre.”
Ma che stiamo facendo? Perché stiamo parlando di questo quando attorno a noi c’è solo morte?
“Un po’ mi manca casa tua – ammise l’uomo con una scrollata di spalle – alla fine mi ci ero abituato. Avrei preferito venire a trovarti lì a guerra finita.”
“Già, capisco…”
La piccola campana del campo risuonò, avvisando che era pronta la cena.
“Devi andare: il pasto è fondamentale per un soldato.”
“E dunque lei se ne andrà.”
“Sì, volevo solo venire a salutarti: ammetto che non mi è sembrato vero quando ti ho vista qualche giorno fa… sebbene avrei preferito una situazione totalmente differente. Bene, è meglio che vada. Fai attenzione, mi raccomando.”
Fece per avviarsi, ma Riza lo bloccò.
“Signore, io…”
Ci verrà mai a patti? Riuscirà a tornare alla vita normale quando tutto finirà? Potrà mai dimenticare tutte queste morti?
Lo vide girarsi e fissarla e per un tremendo istante la giovane ebbe paura di ritrovarsi davanti una nuova versione di Dante. Ma non fu così: gli occhi scuri parlavano di un tormento che non lo avrebbe mai abbandonato, di un dolore così forte da spezzare il cuore.
Ecco la punizione per chi aveva osato sperare in un modo migliore.
“… tu…?”
“Niente – scosse il capo, sentendosi tuttavia estremamente sollevata nell’aver compreso di non essere davvero sola nella sofferenza – faccia attenzione anche lei.”
Un ultimo sorriso e poi il maggiore riprese la sua strada.
Non si sarebbero rivisti che a guerra finita.

 


nda
capitolo difficilino, soprattutto perché alla fine ho preferito dare un taglio particolare. Mi sembrava stupido riprendere in toto quanto appare nel flashback del manga con la scenda dell'incontro con Kimbly, così ho optato per un prima ed un dopo.

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Capitolo 11
*** Capitolo 10. 1908. Il fuoco che brucia il peccato ***


Capitolo 10
1908. Il fuoco che brucia il peccato




 
“Le ultime resistenze nel distretto di Darhia hanno capitolato. La guerra è finita, signori.”
Poche parole, una normale comunicazione di servizio, com’era tipico del tenente Morris. Eppure la squadra di cecchini rimase stranita ad osservarlo mentre ripiegava il foglio con quella notizia che era giunta qualche minuto prima. Dieci Novembre 1908: dopo otto anni la guerra civile terminava. Sembrava quasi ingiusto che la comunicazione di un fatto così importante avvenisse in maniera così calma.
“Finita – mormorò infine Amy, l’unica donna della squadra assieme a Riza – non mi sembra vero.”
Serrò gli occhi e delle silenziose lacrime iniziano a scorrere sulle guance sporche di terra, lasciando delle righe più chiare, quasi fossero un primo inizio di purificazione dopo gli orrori della guerra. Era lì da due anni e Riza l’aveva sentita parlare di un marito e dei figli ancora piccoli: sicuramente adesso stava pensando che presto li avrebbe riabbracciati, che la guerra non li aveva separati per sempre.
E come se la sua frase fosse stata la crepa che fa scoppiare la diga, d’improvviso la squadra di diciotto cecchini tornò ad essere composta da uomini che si riscoprivano mariti, padri, parenti… abitanti di un posto che non era certo quell’inferno dove si trovavano. Un inferno che sembrava non esistere più mentre la gioia impazzava in quella tenda dove per tanti mesi si era deciso dove ciascuno di loro avrebbe ucciso.
“Sono fiero di voi, ragazzi – annuì il tenente Morris con calma, come se quella appena conclusa non fosse una guerra, ma un’esercitazione di routine – andate pure a festeggiare, ve lo meritate.”
Grida di gioia, applausi, pacche sulle spalle… che importava se ci sarebbero voluti ancora giorni prima di tornare a casa? Il tempo di essere soldati in guerra era finito: potevano tornare ad essere umani.
Riza fu l’unica a rimanere stranita davanti a quanto stava succedendo: ricevette strette di mano, pacche sulle spalle, persino arruffate di capelli, senza riuscire a dire parola. Fu quasi sollevata di non venir trascinata fuori dall’euforia generale che portò i suoi compagni alla ricerca di qualcosa da bere per festeggiare la grande notizia.
“Che c’è, Hawkeye? – chiese il tenente, osservandola con attenzione e rimettendo a posto alcune mappe che aveva nel tavolo – Non sei felice che la guerra sia finita?”
“Io… sì, signore…” annuì distrattamente lei, rimettendosi in ordine i capelli scompigliati.
“E allora che è quel visino, signorina? – l’uomo aggirò il tavolo e le si mise davanti – Non credo di averti mai visto sorridere da quando sei entrata in squadra. Adesso potresti anche provarci, no?”
Quasi eseguisse un ordine Riza piegò le labbra in un leggero sorriso, rammaricandosi in parte di non poter offrire qualcosa di più sincero a quell’uomo che, tutto sommato, era stato una sorta di guida nel caos della guerra, un punto fermo a cui si era potuta aggrappare e che spesso l’aveva capita più del previsto.
“Sai che ho una figlia della tua età? – le disse ancora Morris, dandole un buffetto sulla guancia – Mi sono venuti i brividi quando ho scoperto che una ragazzina dell’Accademia sarebbe venuta nella mia squadra. Continuavo a ripetermi che le ragazzine come Betty dovrebbero stare a casa, ad aiutare le madri… e le loro preoccupazioni dovrebbero essere solo i batticuori dell’amore o i primi lavoretti, magari in qualche negozio. Ma non qui… non a diciotto anni.”
Riza lo fissò con sorpresa, non aspettandosi che l’uomo ed il padre si rivelassero a lei in maniera così palese.
Era tutto tremendamente sconcertante: era come se delle maschere venissero levate e una orrida commedia avesse finalmente fine. Ma in cuor suo sapeva che non era così: non doveva essere così.
“Dimmi, hai una famiglia che ti aspetta?” le chiese Morris.
“No, signore.”
“Mhpf, un po’ me l’aspettavo – la osservò pensoso – Adesso, Hawkeye, mi farai il favore di seguire i consigli di questo soldato, per l’ultima volta, va bene?”
“Sì, signore…”
Senza preavviso Morris le posò entrambe le mani sulle spalle.
“Sei una brava ragazza e meriti una bella vita. Non lasciare che questa guerra, con tutto quello che hai visto e fatto, ti precluda la felicità. La guerra è una bolla di tempo a sé stante, dove vestiamo ruoli che non sono del tutto nostri… il tuo ruolo, la tua vita, sono via da qui: ad East City o dovunque vorrai andare. Ti parlo come padre dicendoti che la cosa migliore che puoi fare è lasciare l’esercito: sei giovane… trovarti un buon ragazzo, qualcuno che ti stia accanto e ti tratti come si deve… costruisciti una famiglia, perché è di questo che hai bisogno, credimi. La tua presenza qui, per quanto utile, a parer mio è stato un grande errore.”
Riza abbassò lo sguardo, confusa e commossa da quelle strane parole di commiato: se almeno gli altri si erano già dimenticati, o avevano voluto farlo, della guerra, il tenente l’aveva messa in un altro modo: ma la soluzione che le proponeva ora le sembrava altamente inverosimile.
Mi guardi, tenente, mi guardi! – avrebbe voluto gridare – Ho ucciso centinaia di persone in questi mesi: le mie mani sono sporche del loro sangue. Come posso pensare ad una famiglia, proprio io che ne ho distrutte tante? Io… io non merito niente di questo, nessuno di noi! Né Amy che parla dei suoi bimbi e di suo marito, né Dante con sua madre ed i suoi fratelli… né lei, con sua figlia! Siamo condannati… siamo perduti!
“Credimi, bambina, non sei una brutta persona: nessuno di noi lo è.”
C’era una grande sincerità e tenerezza nella sua voce in genere così pratica e calma e, per qualche istante, Riza desiderò solo stringersi a lui e piangere tutte le sue lacrime. Desiderò solo poterci credere, poter trovare un modo di venire a patti con la fine dell’inferno di Ishval e l’inizio di quello personale che si presentava davanti a lei. Quello dove sarebbe stata completamente sola.
“Spero che potrà presto tornare dalla sua famiglia, signore – si limitò a dire scostandosi con gentilezza da lui – la ringrazio per tutta la sua disponibilità in questi mesi e per queste parole.”
Aria, ho bisogno d’aria.
 
Ovviamente la fine della guerra non significò l’immediato ritorno a casa.
Ora che le ostilità erano concluse si poteva pensare ai feriti, alle comunicazioni, ai rifornimenti… a mettere ordine in tutte quelle cose che si erano trascurate per causa di forza maggiore. E così i diversi campi militari sparsi in giro per i distretti di Ishval sparirono per riunirsi in pochi e vicini agglomerati di tende dove tutti i soldati si radunavano in attesa del proprio turno di tornare a casa. Il tutto nell’ordine e nella disciplina, com’era giusto che fosse: bisognava risistemare alcune linee di comunicazione, organizzare treni supplementari e, nel frattempo, recuperare il senso della realtà.
E così ecco tanti soldati che si aiutavano tra di loro, sorridendo, chiacchierando: una perfetta macchina organizzativa che si apprestava a tornare a compiti più civili dopo aver sterminato quasi del tutto un’intera etnia. Semplicemente la mente umana cercava di difendersi come poteva: l’orrore sarebbe rimasto nell’anima pronto a venire fuori nei momenti più imprevedibili, una strana ferita di guerra che non sarebbe mai guarita. Ma per il momento erano vivi, erano i vincitori… e la loro vittoria era il ritorno a casa.
In tutto quel lavoro laborioso e felice, Riza si sentiva come un pesce fuor d’acqua.
Ormai non c’era più bisogno di lei: un cecchino è utile solo quando c’è da uccidere gente, mentre per altri compiti bastavano i soldati semplici. Così, appena poteva, si allontanava dal campo e camminava fino a quando non era ora di rientrare. Le sue giornate trascorrevano così, tra gli scheletri di quegli edifici dove la gente di Ishval aveva combattuto fino allo stremo per difendersi contro un nemico troppo forte per lei.
Spesso le capitava di vedere dei cadaveri dai capelli bianchi e allora il suo cuore, già colmo di dolore, si struggeva per la colpa. In quei momenti avrebbe voluto esser di nuovo di vedetta, con tutta l’attenzione volta al suo compito, senza che ci fosse spazio per simili esami di coscienza.
Ma adesso non poteva più rifugiarsi dietro il fucile ed il mirino, dietro il ruolo che le era stato assegnato.
Mi ha chiesto di dimenticare, tenente, ma come posso?
Come poteva costruirsi una famiglia se la guerra sarebbe sempre rimasta dentro di lei?
 
Passarono cinque giorni e finalmente arrivò la notizia che entro il giorno successivo sarebbe partita pure la sua squadra: finalmente quel limbo surreale sarebbe terminato e non le importava se sarebbe arrivato qualcosa di peggiore. Per come la stava vivendo qualsiasi cosa era meglio di quel vagare tra gli scheletri di quella civiltà che una volta popolava quella terra così ingrata.
Quel giorno deviò dal solito percorso che faceva nelle sue solitarie passeggiate e si diresse verso una zona con pochi resti di abitazioni, probabilmente quella che una volta era un piccolo agglomerato di periferia. Il silenzio era surreale, tanto che i suoi passi erano quasi fastidiosi da sentire: una testimonianza di vita dove invece era la morte a regnare.
Poi al rumore dei suoi stivali sul suolo polveroso si aggiunse un altro suono: un ronzio.
Alzando lo sguardo incuriosita notò un nugolo di mosche dietro un cumulo di terra e decise di andare a controllare. Non che ci fosse niente da temere, ma il fucile venne istintivamente preso e preparato a sparare.
E’ così che funzionerà, ti rimarrà per sempre l’istinto di uccidere.
Tuttavia l’arma le cadde desolatamente di mano quando arrivò abbastanza vicino per vedere cosa ci fosse dietro quel cumulo di terra.
Avrà avuto sì e no dieci anni.
Piccolo, magro, i vestiti ormai distrutti… un foro di proiettile proprio in mezzo alla fronte.
Riza si inginocchiò e sfiorò il corpo del piccolo Ishvalano, cercando di cacciare via le mosche. La decomposizione era già iniziata, come testimoniavano alcune macchie sulla carnagione scura, dove gli insetti preferivano banchettare. Non c’era niente di poetico in quel bimbo, anche se spesso si dice che per i più giovani anche la morte riesce ad essere dolce. Ma che dolcezza c’era in quegli occhi semiaperti a fissare il vuoto in un’ultima richiesta d’aiuto? Dov’era la poesia in quel corpicino emaciato, le cui ossa del torace erano tremendamente visibili?
No, non c’è nessuna bellezza e giustizia nella morte – si disse, trattenendo le lacrime, ricordando le espressioni dei suoi genitori gelate nel momento in cui la vita li aveva abbandonati.
Quel piccolo era lì, davanti a lei, vittima innocente di una guerra orribile. E cosa importava se lei aveva sempre cercato di evitare di colpire donne, vecchi e bambini? Dove non era arrivata lei, erano arrivati altri, oppure la fame e gli stenti.
Un’ennesima mosca si posò proprio sul foro del proiettile e lei la scacciò via con rabbia.
Non poteva lasciare lì quel piccolo, in balia degli insetti.
Senza chiedersi il senso di quello che stava facendo prese un pezzo di legno e cominciò a scavare.
Una fossa per quel piccolo senza nome, una fossa dove poter espiare le sue colpe.
Espiazione, no… non te la potrai mai permettere, lo sai bene!
Proseguì nella sepoltura di quel bambino fino a quando non sentì dei passi dietro di lei e una voce familiare che le fece battere il cuore.
“Non vai? Se non ti sbrighi ti lasceranno qui.”
Come puoi venire ogni volta, quando sembra che il mondo mi crolli addosso, e preoccuparti per me?
Avrebbe voluto piangere, ma tutto quello che riuscì a fare fu compattare la terra in quella tomba improvvisata che cercava di restituire un minimo di dignità alla morte crudele di un bambino.
E rifletté sul fatto che, tutto sommato, se non poteva espiare i suoi peccati, almeno qualcosa poteva fare.
 
Il muro davanti a lei era sporco di sangue, così come il pavimento di pietra: sicuramente quella stanza aveva visto qualche esecuzione sommaria. Si potevano vedere ancora i fori di alcune pallottole che avevano mancato il bersaglio o lo avevano attraversato. C’era ancora odore di morte in quella stanza di quell’edificio abbandonato, si potevano quasi sentire le grida di supplica di quelle persone spintonate contro il muro e poi fucilate senza pietà.
D’improvviso si sentì come una condannata che viene spinta a sua volta contro il luogo della sua sentenza e un brivido le percorse tutto il corpo. Il terrore ed il dolore per quello che aveva subito anni prima per mano di suo padre si ripresentarono come se tutto fosse successo solo qualche giorno prima: una paura primordiale che lei dovette ricacciare indietro stringendo i pugni fino a sentire le unghie conficcate sui palmi delle mani.
“Farà quanto le ho chiesto, signore?” chiese con voce flebile, quasi avesse paura che l’uomo dietro di lei ci ripensasse e la lasciasse sola, senza alcuna speranza.
“Vorrei poterti far desistere – rispose Mustang con voce cupa – non c’è bisogno anche di questo.
La rabbia e la delusione erano palesi in lui e, anche se gli dava le spalle, Riza poté immaginarsi il viso contratto in una smorfia di sofferenza. Di colpo capì che per lui usare l’alchimia del fuoco su degli esseri umani doveva essere ogni volta una tortura, specie dopo mesi e mesi di sterminio. Quell’ultima richiesta doveva essere un colpo al cuore per lui, come se l’alchimia gli si fosse ribellata contro per l’ennesima volta.
Lo so, è ingiusto… è tremendo. Ma devo essere certa che non nascerà nessun altro alchimista di fuoco.
Anche se sarebbe stato doloroso, anche se la paura la attanagliava tanto da farle mancare il fiato.
“Sa, signore, durante tutti questi mesi, mi sono chiesta se sia stato giusto rivelarle i segreti incisi nella mia schiena – si trovò a dire, alzando lo sguardo verso la finestrella rotonda posta alla sommità del muro: si potevano vedere le particelle di polvere galleggiare in quel fascio di luce – Ma per quanto mi sforzi non riesco a condannare del tutto la mia scelta: i suoi desideri di cambiare il mondo, di usare la ricerca di mio padre per il bene del paese erano… sono sinceri, di questo ne sono certa. E’ solo che… non riesco ancora a capire come degli ideali così belli possano essere distorti in questo modo dalla realtà”
D’improvviso sentì la mano di lui che le sfiorava il braccio.
“Perdonami”
“Signore?”
“Ti ho in qualche modo traviata, facendoti arrivare a questo punto”
Ancora quel senso di colpa: nemmeno lui si sarebbe mai liberato di quella convinzione. Oltre l’alchimia c’erano le amare catene di un rimorso reciproco ad unirli.
Mi aveva detto che sarebbe tornato da me a guerra finita… avrei dovuto attendere – si disse con rabbia – avrei dovuto dosare meglio le mie ambizioni e capire che era tutta una follia.
“Non deve prendersi responsabilità che non sono sue, signore – sorrise, girandosi verso di lui – Le mie scelte sono state autonome e volontarie. Ho condiviso i suoi sogni perché mi è sembrata la cosa migliore che potessi fare e non rinnego questa mia scelta”
“Però bruciando quel tatuaggio…” lui si guardò le mani ancora prive di guanti.
“Bruciando quel tatuaggio sarò liberata da un enorme peso: non verrà più creato alcun alchimista di fuoco. Non sarò più la custode di un simile segreto… non me la sento di dire che ho fatto un errore credendo in lei, signore, però…” abbassò lo sguardo, incapace di continuare la frase
“Ti stai caricando addosso anche il peso delle mie morti.”
“Non è così, signore?”
“La volontarietà è stata da parte di entrambi, non solo tua – scosse il capo l’alchimista – La verità è che… non siamo stati capaci di gestire al meglio la ricerca di tuo padre. Ma non sarà un errore che ripeteremo, questo te lo giuro… e questa volta manterrò il giuramento!”
C’era tanta disperazione nella sua voce e per qualche secondo Riza fu tentata di ascoltarlo e di desistere dal suo proposito. Voleva stringersi a lui e sfogare tutte le sue lacrime, tutta l’angoscia che l’aveva attanagliata in quei tremendi mesi. Non sarebbe servito a niente, non sarebbe servito a dare giustizia ai morti… ma forse sarebbe stata meglio, almeno per qualche minuto.
No… no, non cedere.
“Ne sono certa, signore… adesso… le posso chiedere di compiere quanto le ho richiesto?” chiese, levandosi il cappotto sporco di terra e lasciandolo cadere a terra.

Ecco, era arrivata di nuovo a quel punto: doversi denudare davanti a lui.
Gli diede le spalle e iniziò a sbottonarsi la giacca della divisa, perfettamente consapevole che se la prima volta era un’adolescente, adesso era una donna. Il seno le era cresciuto ancora, i fianchi si erano formati… era tutto molto più imbarazzante e vergognoso.
Non tremare, non farlo! – sospirò mentre faceva cadere la giacca a terra e metteva le mani sui lembi del leggero maglioncino scuro che indossava ancora – Non hai il diritto di avere vergogna in un momento simile.
Eppure sentì una vampata di calore salirle alle guance come iniziò a sollevare la stoffa, inarcando la schiena.
Pregò con tutto il cuore che lui stesse distogliendo lo sguardo, ma non osò sbirciare con la coda dell’occhio, nemmeno quando pure quell’indumento cadde a terra, lasciandola solo con la fascia del reggiseno.
Non seppe nemmeno lei come riuscì a slacciarsi anche quell’ultima protezione senza scoppiare a piangere.
Quando rimase completamente nuda, il freddo di novembre che comunque si faceva sentire, si coprì il seno con le braccia, proprio come aveva fatto anni prima.
Che vergogna! Che vergogna… se qualcuno ci vedesse.
Cercò di non pensarci e si concentrò sul sangue davanti a lei, in quel muro imbrattato.
Fu del tutto impreparata quando le mani di lui si serrarono sulle sue spalle, pelle contro pelle in un contatto al dir poco bruciante.
“Riza – disse con voce sommessa l’alchimista, enfatizzando le sue parole con una stretta maggiore – per l’amor del cielo, ascolta questo mio ultimo appello. Desisti da questa follia. Non marchiare le nostre anime anche di questo peccato!”
Non me lo chieda, la prego!
“Per favore… signore – mormorò lei, con la voce che parlava di un peso troppo grosso da sopportare: non poteva tornare indietro, non più – mi liberi da mio padre e da questa catena. Mi permetta di essere solo Riza…”
Si lasciò cadere in ginocchio, scivolando dalla sua presa.
Diverse volte aveva visto delle persone venir uccise in quel modo: in ginocchio, un colpo di pistola alla nuca.
Arrivò a chinare il capo per poter esporre completamente la sua schiena.
E poi di nuovo quel tocco bruciante, questa volta solo di un dito che la sfiorava ed iniziava a percorrere le linee del tatuaggio. Scariche di brividi la percorsero come mai era successo, obbligandola a serrare gli occhi. Tuttavia si ostinò a restare immobile.
“Solo una parte, non tutto – commentò Mustang – voglio lasciarti il minor danno possibile, capisci?”
“Signore…” sussurrò Riza, supplicandolo di smettere con quello strano esitare che non stava portando a niente e che, anzi, aveva solo il potere di farla impazzire di sensazioni che in un momento simile non doveva provare. Preferì, addirittura, concentrarsi sul dolore che avrebbe provato a breve: almeno quella paura era adatta a quanto stava accadendo.
“Hai qualche liquore? Una di quelle fiaschette che ormai circolano nel campo.” chiese lui a bruciapelo
“Prego?”
“Qualcosa di forte… per te. Non è necessario che tu sia così… almeno un minimo di protezione devi concedertelo!”
“Va tutto bene, signore – mormorò la donna, riuscendo persino a sorridere – non ne ho bisogno”
“La parte che brucerò sarà questa, a sinistra: – spiegò Mustang, cercando di tenere la voce calma – controllerò le fiamme e dovrebbe essere qualcosa di rapido, non più di qualche secondo… Dannazione, è follia: non abbiamo nemmeno acqua fredda e asciugamani puliti: dovrei poter avere tutto il necessario per assisterti a portata di mano”
“Provvederò a medicarmi una volta al campo – cercò di farsi forza lei, pensando che a quel dettaglio proprio non ci aveva fatto caso. Era stata così risoluta nella sua decisione da non riflettere nemmeno che comunque stava andando a subire ferite che andavano medicate. Ma scosse il capo: le persone uccise in quella stanza avevano subito di peggio – andrà bene.”
“Ti rimetterai gli indumenti con la bruciatura appena fatta? Sei folle… no, ascolta, non possiamo in simili condizioni.”
“Va bene così, lo giuro! – esclamò, serrando gli occhi – Andiamo, la prego! Finiamola adesso!”
 Basta procrastinare, non ce la faceva più: sentiva il coraggio scivolare via ogni secondo che passava.
Finalmente l’uomo parve capitolare: sentì un sospiro rassegnato ed il fruscio dei guanti che venivano indossati. Qualche passo indietro, come per prendere meglio la mira e poi silenzio, un tremendo e surreale silenzio.
“Cerca… – balbettò infine lui – cerca di stare immobile.”
D’istinto la giovane irrigidì la schiena, trattenendo il fiato: avrebbe fatto più male di quanto aveva provato ogni volta che suo padre la svegliava dopo una nottata di lavoro sulla sua schiena? Ce l’avrebbe fatta a restare immobile come le era stato chiesto?
Fatti forza, Riza…
Poi sentì lo schiocco di dita.
Due secondi dopo un dolore che non avrebbe mai immaginato.

Scusami… scusami…
La voce proveniva da molto lontano, arrivava insieme alla sofferenza che le dilaniava la schiena.
Non era il dolore che aveva provato quando le era stata tatuata la formula: questo era come se avesse scavato dentro la sua spalla per poi esplodere in tutta la sua violenza. Come se una fiamma liquida si fosse riversata sopra di lei.
Aprì gli occhi con un gemito e si trovò il viso premuto contro una stoffa che sapeva di polvere e di bruciato. Ma non era niente in confronto a quello che provava nella sua schiena: in ogni singolo centimetro di pelle.
Gridò di dolore: era impossibile non farlo. Si dimenò come poteva, scoprendosi imprigionata in una stretta tremante.
“No, non agitarti! – il proprietario della voce la sollevò ulteriormente, posandola contro di sé – dannazione, sapevo che non dovevamo farlo… sono stato uno stupido! Riza, coraggio!”
Con un gemito si aggrappò a quel cappotto, cercando di far fronte alle ondate di bruciante sofferenza che la assalivano ad intervalli di pochi secondi ciascuna.
Dolore! Dolore! Dolore! C’era solo quello: la sua mente impazzita non riusciva a recepire altro.
 
“Piano, appoggiati a me.”
“No, sto bene. Devo farcela da sola.”
Il labbro quasi sanguinava da quanto se lo stava mordendo, tuttavia non poteva cedere: doveva restare cosciente e camminare sulle sue gambe. Doveva tornare al campo e attendere di salire sul camion la mattina successiva: sopportare il dolore, ecco. Del resto l’aveva già fatto anni prima.
No, è diverso!
Ed era stata una follia bella e buona rimettersi maglioncino, giacca e cappotto della divisa: tiravano e premevano sulle ferite aumentando il dolore ad ogni minimo movimento. Senza contare le scarse condizioni igieniche a cui stava sottoponendo quelle ustioni. Qualsiasi medico l’avrebbe considerata una folle.
“Consentimi di accompagnarti in infermeria! – insistette Mustang, prendendola per un braccio – Non sei in condizioni di farcela!”
“Lei ha già fatto tanto – Riza si posò pesantemente contro un muretto, cercando di controllare le vertigini ed i migliaia di puntini luminosi che le danzavano davanti agli occhi – la prego, lasci stare. Non devono… non possono vedere!”
“Me ne rendo conto, però… oh, senti, siediti qui! – adesso la voce aveva assunto un tono di seccato comando – Adesso facciamo a modo mio. E stai tranquilla, non lo verrà a sapere nessuno del tatuaggio.”
A Riza non restò che sedersi per terra, ansimando con fatica: avrebbe dovuto opporsi, lo sapeva bene, ma era troppo provata per farlo. Posò la testa contro il muro, traendo quasi conforto da quella dura superficie, e attese, senza rendersi conto dello scorrere del tempo.
Perse quasi i sensi, ma poi, all’improvviso, sentì qualcuno che l’afferrava, le levava di forza il cappotto ed iniziava a slacciarle i vestiti.
“Co… cosa?”
“Sono asciugamani bagnati – la bloccò Mustang, aprendole la giacca e alzandole il maglioncino – almeno un minimo bisogna fare, altrimenti ti becchi un’infezione nell’arco di poco tempo.”
La pelle offesa tirava e bruciava ed il contatto con la nuova stoffa bagnata non fu per niente piacevole, almeno per i primi dieci secondi. Ma poi un minimo di sollievo iniziò ad arrivare, riducendo il dolore a poche e precise zone.
“E qui c’è una prima dose di antibiotico – continuò l’uomo, obbligandola ad aprire la bocca e mandare giù uno strano liquido vischioso – forza e coraggio, ragazza, adesso ci rimettiamo questo maglioncino.”
“Io… io…”
“Tu pensa solo a seguire i miei ordini: ti voglio caricare in quel camion in condizioni decenti.”
 
East City.
Non le sembrava vero di essere tornata in quella città.
I giorni di viaggio le erano sembrati infiniti, accompagnati da una fastidiosa febbre che l’aveva costretta a sonnecchiare per la maggior parte del tempo. Un bene, tutto sommato, se considerava che i momenti di coscienza erano pieni di sofferenza per le ferite. L’unica fortuna era stata che nessuno aveva fatto troppo caso a lei, rannicchiata nell’angolino del camion e poi in un sedile isolato del treno. Ogni soldato, tornando a casa, si porta il personale peso dei propri peccati e va rispettato il suo silenzio.
Nessuno poteva immaginare quanto era successo e l’entità delle sue ferite sulla schiena.
Ma lei lo sapeva e ora ne era spaventata.
Aveva preso ad intervalli irregolari i piccoli flaconcini di antibiotico che il maggiore Mustang le aveva messo nella tasca del cappotto, ma non sapeva se avevano fatto effetto. Il dolore era sempre presente, senza alcuna traccia di miglioramento. Quegli asciugamani bagnati erano ancora lì, un grosso e bizzarro cerotto fortunatamente nascosto dalla divisa e dal cappotto, e chissà come erano ridotti.
Ho paura… paura!
Singhiozzò appena come uscì dalla stazione ferroviaria, stordita da quella ressa di soldati che si ricongiungevano ai familiari. Dovette reprimere conati di vomito mentre cercava di allontanarsi da quella ressa rumorosa. Arrivò a stento ad una via secondaria dove finalmente si poté posare contro un solido muro e respirare profondamente.
No, non poteva farcela da sola.
Un passo dopo l’altro, con tante pause per riprendere fiato, si fece condurre dalla memoria fino ad un preciso indirizzo. Non le restava altra scelta: aveva bisogno d’aiuto.
Busso alla porta e attese.
“Riza! – la voce della signorina Elliot la scosse più di quanto aveva previsto e una lacrima le rotolò sulla guancia – Cielo, bambina, ma come sei ridotta!?”
“La prego – ansimò – la prego, mi giuri che non lo dirà a nessuno… nemmeno ad un medico!”
“Cosa? Cara, tu hai la febbre – l’anziana donna la prese per mano e la fece entrare in casa – non stai per niente bene.”
“Me lo prometta – supplicò ancora Riza – non lo dirà a nessuno, nemmeno a sua sorella… la prego!”
Non si rese nemmeno conto di venir condotta al piano di sopra, in una stanza da letto che sapeva di pulito e lavanda.
Confidava solo che la signorina Elliot l’avrebbe aiutata.
Come aveva sempre fatto.

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Capitolo 12
*** Capitolo 11. 1908-9. Quel che resta del passato ***


Capitolo 11
1908-9. Quel che resta del passato




 
Mancavano tre giorni alla fine di novembre quando Riza si presentò delirante per la febbre alla porta della sua vecchia insegnate. In quello stato rimase per altri tre giorni, riuscendo a malapena a bere del brodo caldo e dell’acqua ogni tanto prima di sprofondare nel delirio. I suoi sogni erano sempre tormentati dalle immagini della guerra che andavano a confondersi con quelle di suo padre, nella sua ultima malata versione che le aveva tatuato l’alchimia del fuoco sulla schiena. La sua schiena… era quello il fulcro del dolore: più  che la febbre era quel bruciore che non riusciva a passare, come se del fuoco liquido fosse stato versato sotto la sua pelle e fosse destinato a continuare a fluire per sempre. Gli impacchi che le venivano applicati regolarmente servivano a lenire le sofferenze solo per qualche ora, poi tutto ricominciava in un circolo vizioso di pazzia e patimento fisico che sembrava non avere fine.
Per la prima volta, in uno dei rari momenti di lucidità, arrivò a credere di morire. E l’idea non le sembrava così difficile da accettare, la vedeva anzi una liberazione da tutte le sofferenze terrene che aveva vissuto nel corso della sua giovane esistenza. Forse era da vigliacchi, anzi certamente lo era, ma era stanca di dimostrare una forza che non aveva, che non era davvero sua.
Tuttavia se il suo corpo sembrava in procinto di cedere, le privazioni e le fatiche della guerra che si facevano comunque sentire dopo tutti quei mesi, qualcosa la teneva ostinatamente attaccata alla vita, impedendole di lasciarsi andare del tutto. Era la persona che l’aveva già aiutata durante la sua difficile infanzia, l’unica che le aveva sempre imposto di risollevarsi ed andare avanti, a prescindere da quanto era successo. E adesso era di nuovo accanto a lei, con la solita ferma gentilezza: parlava poco, le stava accanto come la più sollecita delle infermiere, curandola ma rispettandola come solo lei aveva sempre saputo fare.
Fu per merito suo che, finalmente, verso il quarto giorno, la febbre iniziò a calare in maniera sensibile, lasciando la giovane soldatessa con un grande senso di sfinimento addosso ma abbastanza lucida per ricostruire quanto era successo dalla fine della guerra.
“Credo che il peggio sia passato – commentò quella sera la signorina Elliot, sostenendola per farle bene un poco di brodo caldo – senza la febbre anche le ferite alla schiena guariranno prima.”
Riza le lanciò un’occhiata interrogativa, rendendosi conto veramente per la prima volta che indossava solo una leggera camicia sopra i bendaggi che le fasciavano petto e schiena e che dunque il tatuaggio era stato scoperto. Tuttavia gli occhi grigi dell’insegnante la scrutarono con quella che si poteva definire ironia.
“Nessuno ha visto la tua schiena oltre me – disse tranquillamente – i medici scarseggiano dopo la guerra, non lo sapevi? Ci si arrangia da soli e meno male che per ferite come le tue bastano soprattutto impacchi delle erbe giuste e non medicine specifiche.”
“E’… è stato…” Riza annaspò, alla ricerca di una minima spiegazione per giustificare quel tatuaggio e quelle ferite così particolari.
“Immagino chi sia stato a farti quei segni sulla schiena – la bloccò la donna – quell’uomo non ha avuto il minimo ritegno verso la propria figlia, il cielo possa perdonarlo. Quanto alle ferite… non oso nemmeno immaginare quello che hai passato in quell’inferno, bambina. Quando ho saputo che saresti andata ad Ishval mi è sceso un brivido lungo la schiena, sul serio.”
Riza mandò giù il brodo con un sospiro di sollievo. Ma certo: se il tatuaggio era riconducibile a suo padre, la signorina Elliot non poteva certo sapere dell’alchimia del fuoco, di Roy Mustang e di quanto era successo in quelle terre quasi desertiche. Tutto sommato era stata scoperta solo una parte del suo segreto, quella più accettabile.
“Mi dispiace – mormorò, schiarendosi con fatica la gola – sto… sto arrecando tanto disturbo a lei… e a sua sorella.”
“Finiscila, non stai arrecando alcun disturbo – la rimproverò la donna, aiutandola a riadagiarsi di fianco sui cuscini – quanto alla mia povera sorella è passata a miglior vita alla fine dell’estate. Alla nostra età un malanno può degenerare in fretta.”
“Mi… mi dispiace.”
“E’ la vita, figliola. Comunque dimentica tutte queste sciocchezze: non vedo dove altro potresti andare in simili condizioni. C’è almeno da sperare che adesso i razionamenti finiranno, così potrai mangiare qualcosa di più sostanzioso non appena starai meglio.”
Ecco, la solita, cara ed affidabile, signorina Elliot: con lei Riza sapeva di essere al sicuro.
 
Passarono una decina di giorni prima che Riza si decidesse a guardarsi allo specchio, in uno strano deja-vu dei gesti che aveva compiuto anni prima a casa sua. Allora si era sorpresa di come il tatuaggio apparisse persino bello, invece questa volta quell’aggettivo era l’ultimo che si potesse riferire alla sua schiena. Le ferite, grazie alle cure ricevute, erano praticamente guarite, ma ormai la pelle era deturpata in più punti ed era orribile da vedere: in rilievo, rossastra… sembrava quasi appiccicata per quanto sembrava un elemento estraneo rispetto al resto della schiena. Partiva dalla spalla sinistra per procedere verso il centro, con delle forme strane ed irregolari, come se qualcuno le avesse gettato addosso della lava incandescente che poi era schizzata in diversi punti.
Devo essermi mossa per il dolore – capì la soldatessa, allungando le dita per sfiorare quella pelle dura e molliccia allo stesso tempo. Fu un contatto strano e destabilizzante ed un brivido le corse per tutto il corpo: non che prima si fosse considerata una bella ragazza, ma adesso sentiva che era irrimediabilmente compromessa sotto quel punto di vista. Ma se quel pensiero arrivò, durò solo per cinque secondi: era un qualcosa che andava fatto e, soprattutto, di fronte alle morti che aveva provocato ad Ishval, lei non aveva alcun diritto di lamentarsi.
E il maggiore Mustang? Santo cielo, sono andata a chiedergli una cosa orribile… ma che altro poteva fare?
Eppure si sentiva incredibilmente in colpa per quanto doveva aver provato il soldato: già aveva ucciso centinaia di persone con l’alchimia del fuoco e, quasi ad essere la beffa dopo il danno, si era ritrovato a dover scagliare le fiamme anche contro di lei.
Avrei dovuto almeno ringraziarlo per essersi preso cura di me in quelle tremende ore.
Il pensiero del soldato le fece tornare in mente che, chiusa nell’armadio della stanza che occupava a casa della signorina Elliot, lavata e tutto sommato decente c’era la sua divisa dell’esercito. Quella era una domanda che aveva evitato per tutti quei giorni di convalescenza, ma adesso non poteva più procrastinare: doveva decidere cosa fare della sua vita.
 
“Ovviamente non c’è nemmeno da dire che puoi restare qui quanto vuoi – dichiarò la vecchia donna quella sera, mentre cenavano con della semplice zuppa di cereali e del pane del giorno prima – non mi sei di nessun disturbo, anzi la tua presenza mi fa sempre piacere.”
Riza non rispose, limitandosi ad abbassare lo sguardo sul suo piatto quasi vuoto: sapeva bene che l’insegnante era sincera e una parte di lei avrebbe sinceramente voluto accettare quell’invito. Bastava prendere congedo dall’esercito, trovare un lavoretto in qualche negozio… del resto ora che la guerra era finita c’era bisogno di ricominciare daccapo per molte cose e una ragazza volenterosa come lei avrebbe sicuramente trovato qualcosa.
Proprio come avrebbe voluto il tenente Morris. Però… me lo posso permettere?
Davvero si meritava una vita tranquilla dopo i crimini che aveva commesso? Bastava la semplice consapevolezza che non ci sarebbe mai più stato un nuovo alchimista di fuoco a farla stare in pace con se stessa? No, non avrebbe mai funzionato: sarebbe potuto durare mesi, forse qualche anno, ma poi il rimorso sarebbe tornato e lei non avrebbe mai potuto accettare le sue nuove condizioni di vita.
“Sono ancora un soldato dell’esercito – disse infine, restando sul vago – con tutte le perdite che ci sono state in guerra non credo che si possano permettere il congedo di molti uomini, tutt’altro.”
“Nessuno è venuto a cercarti in questi giorni.”
Già, è vero – rifletté lei – forse è merito del tenente Morris…
Doveva cogliere al volo l’occasione di libertà che le veniva offerta?
“È un momento di confusione – si trovò a mentire – tutte le truppe stanno tornando dalla guerra e tra feriti, ritardi e quanto altro ancora non c’è un richiamo ufficiale. Senza contare che la mia squadra era stata formata apposta per la guerra: non sono più agli ordini di nessun superiore.”
Che strano pensiero: Dante, Amy e tutti gli altri che aveva visto ogni giorno nella tenda del tenente Morris… non facevano più parte della sua vita. Né un saluto, né la promessa di rivedersi: semplicemente si sarebbero dimenticati l’uno dell’altro e ciascuno sarebbe andato avanti per la sua strada.
“Ma dunque sei un soldato o ancora un’allieva dell’Accademia?”
“Credo… credo di non saperlo nemmeno io – ammise Riza – del resto… in teoria avrei dovuto terminare il secondo anno proprio adesso, a dicembre.”
“Una situazione davvero particolare – commentò la signorina Elliot, fissandola con attenzione – a quanto pare spetta solo a te decidere cosa fare della tua vita.”
“Lei...”
“Io non ti posso dare nessun consiglio, bambina – la bloccò la donna con un cenno – ti posso solo suggerire di valutare con attenzione e di guardare dentro te stessa. Posso dirti che ora la guerra civile è finita e dunque ci si augura che i soldati non vengano più mandati in qualche fronte; tuttavia l’esercito continuerà ad essere una componente fondamentale del paese… rimanere con la divisa potrà portarti ad avere compiti molto differenti, chissà. In ogni caso è una decisione che devi prendere da sola: giudica quanto hai vissuto in questi mesi e scegli. In determinati casi non c’è una risposta giusta, non te lo devo certo dire io.”
Riza annuì, sapendo bene quanta verità ci fosse nelle parole della sua insegnante. Aveva notato come non fosse stata nominata la possibilità della vita da civile e sapeva che non era stato fatto a caso. Che esperienze aveva avuto in quel senso? Nessuna… se non sedici anni vissuti in un piccolo angolo isolato di Amestris, in uno strano limbo che di vita vera non aveva nemmeno le sembianze. Ma l’esercito l’aveva segnata eccome… e paradossalmente non solo in negativo con la guerra. Per la prima volta si trovò a ripensare al breve periodo d’oro dell’Accademia, ai grandi ideali che l’avevano spinta ad indossare quella divisa.
Davvero è tutto morto ad Ishval? – si chiese – Davvero devo rinunciare alla possibilità di costruire un paese migliore… se non per me, almeno per le generazioni future?
Un piccolo fuoco che sembrava estinto iniziò a brillare nel profondo della sua anima, come non succedeva da ormai mesi e mesi. Forse non c’era nemmeno bisogno di riflettere sulla via da prendere.
 
E così a metà gennaio del 1909, quando l’intero paese festeggiava ancora l’inizio del primo anno senza guerra civile, Riza Hawkeye si presentò al Quartier Generale di East City, vestita con la divisa e pronta a giustificarsi della sua assenza per oltre un mese senza far pervenire sue notizie a chi di dovere.
Tuttavia la prima impressione che ebbe, una volta entrata nel complesso di edifici, fu di grande caos piuttosto che di organizzazione: i corridoi così come gli uffici erano pieni di scatoloni siglati in tutta fretta con codici spesso sbiaditi, risme di fogli accatastati, pezzi di materiali ovunque; ad intervalli irregolari si incontravano soldati che, armati di scale e attrezzi, si cimentavano nelle riparazioni di tubature, luci, soffitti, spesso mostrando espressioni non troppo convinte di quanto facevano.
E soprattutto nessuno sapeva dirle dove andare: il fantomatico ufficio personale sembra spostarsi ogni ora in qualche ala dell’edificio, alla ricerca di un posto dove non desse troppo fastidio e dove gli addetti preposti potessero finalmente sistemare i loro schedari.
Quando finalmente si trovò davanti alla scrivania di una soldatessa letteralmente nascosta dalle pile di documenti, Riza era ormai sicura che la sua assenza era passata inosservata e che dunque c’era ben poco da giustificare: non sarebbe stata né la prima né l’ultima a tornare dopo un congedo non proprio concordato.
“Ma dai, Riza! – il viso rotondetto della soldatessa si alzò dal foglio che le era stato appena consegnato – Riza Hawkeye, ma certo! Non ti ricordi di me? Sono Helena: eravamo assieme in Accademia!”
“Helena? – Riza trattenne il fiato, totalmente impreparata ad incontrare una delle sue vecchie compagne, quasi un fantasma che sbucava dal passato. Ma quei capelli castano chiari, quegli occhi illuminati di felicità.. non poteva sbagliarsi. E di colpo si sentì felice nello scoprire che anche lei era sopravvissuta alla guerra – Oh, non hai idea della felicità!”
Nell’arco di due secondi le due vecchie compagne erano strette in un abbraccio cameratesco, non riuscendo a trattenere le lacrime. Per entrambe era come se un piccolo frammento del loro felice passato fosse stato appena restituito: sapevano benissimo che delle venti ragazze che costituivano la vecchia camerata diverse non c’erano più, anche se non sapevano ancora chi. Potersi ritrovare era un sollievo, quasi una rassicurazione che la guerra era finita e che, in qualche modo, ora le cose sarebbero andate bene.
In quel momento Riza fu certa di aver fatto la scelta giusta a tornare nell’esercito, per quanto si trattasse di motivi puramente egoistici.
“Rebecca non ci vorrà credere quando verrà a sapere che sei tornata! – esclamò ancora Helena – Da quando è rientrata pure lei non fa altro che chiedere tue notizie.”
“Rebecca? – si sorprese Riza – è qui?”
“Certamente, non c’erano dubbi che una come lei sarebbe tornata indenne dalla guerriglia, no?”
 
Per Rebecca Catalina era come se il tempo non fosse mai trascorso e le privazioni della guerra non si fossero presentate: osservava Riza con aria estremamente compiaciuta, il viso perfettamente pieno e sorridente, come se il ritorno della sua migliore amica fosse esclusivamente merito suo.
“Dannazione a te – sbottò infine, abbracciando con calore la bionda – certo che potevi far avere notizie alla tua migliore amica, no? Sono settimane che cerco di capire che fine hai fatto!”
“Mi dispiace…”
“E io che sono persino andata a chiedere al tuo superiore, il tenente Morris, ma nemmeno lui mi ha saputo dire qualcosa. Tipico degli uomini! Una volta finita la guerra se ne fregano altamente di tutto quanto, come se tu non fossi sotto la sua responsabilità fino alla riconsegna al Quartier Generale.”
“E’ stato un periodo difficile e complesso – cercò di giustificarlo Riza – certe formalità sono completamente saltate. Agli uomini interessava solo tornare a casa.”
“Allora complimenti a te per essere tornata a casa senza farmi sapere niente.”
“Perdonami – abbassò lo sguardo lei, rendendosi conto di essere nel torto. Tuttavia non poteva spiegare a Rebecca quanto era successo ed i motivi di forza maggiore che l’avevano costretta a quell’assenza prolungata – è che non è stato semplice.”
“Ci credo – il braccio di Rebecca le cinse le spalle – essere l’Eroina di Ishval non è un compito semplice.”
“Eroina di Ishval?” gli occhi castani di Riza si sgranarono per la sorpresa nel sentire quello strano titolo.
“Oh, tu non sai le voci che circolano su di te! – la mora la fissò con sarcasmo – Il miglior cecchino di Ishval, una ragazza che all’epoca era al secondo anno d’Accademia: forse pochi sanno qual è il tuo vero nome, ma sulla tua persona ci sono storie e storie da raccontare… pare che metà esercito ti debba la vita, Riza.”
Tuttavia la giovane scosse il capo con aria inorridita: un’eroina? Il mondo stava impazzendo?
Come potevano proclamarla eroina proprio lei che era stata uno dei maggiori artefici di quello sterminio: come potevano elogiarla per tutte le morti che aveva provocato ad un popolo che, a conti fatti, stava solo cercando di non soccombere?
E’ tutto sbagliato! Tutto!
“Adesso sei un soldato vero e proprio – spiegò Helena, accanto alle due amiche – ma pare verrai promossa maresciallo a breve per i meriti di guerra. Un bel salto di gradi, non credi?”
“Mh! Ed io invece semplice sergente maggiore, un grado in meno – sbuffò Rebecca – a fare guerriglia nelle campagne dell’Est si guadagna poco.”
“Non dovresti dire così…” la rimproverò Riza, cercando di riprendersi.
“Scherzavo, suvvia! Forza, recuperiamo le altre ragazze e facciamo una riunione di camerata: alle amiche ritrovate e a quelle perdute!”
C’era una componente d’amarezza più che tangibile in quell’ultima frase: l’unica cosa giusta che Riza avesse sentito negli ultimi minuti.
 
Su venti ragazze ne mancavano una decina all’appello, solo due ancora disperse e le cui speranze si affievolivano giorno dopo giorno: dunque la riunione, per quanto carica di relativa gioia, non mancò di essere piena di nostalgia per chi non ce l’aveva fatta.
Riza osservò con attenzione le sue vecchie compagne, notando come la guerra, nella maggior parte dei casi, avesse levato quella spensieratezza che aveva caratterizzato il loro periodo di cadette. Eccetto Helena tutte loro avevano ucciso, questo era chiaro: si riconosceva dallo sguardo, da quella consapevolezza di essere cambiate in maniera irrimediabile, perdendo qualcosa per sempre. Alcune erano più brave a mascherarlo, ma per chi aveva subito la medesima esperienza era facile andare oltre le apparenze.
E c’era una strana componente di sollievo nello scoprire che anche per le altre era andata nel medesimo modo: forse credevano tutte che quel trauma fosse toccato solo a loro, che solo la loro esperienza fosse stata così brutale. Scoprirsi tutte mostri aveva un non so che di consolante, un primordiale senso d’appartenenza che aiutava a stare meglio.
Quando alla fine rimasero solo lei e Rebecca, sedute nel tavolo del locale dove si era consumato il festeggiamento, le due amiche osarono squadrarsi bene per la prima volta.
“Promozione a maresciallo e titolo di Eroina di Ishval – mormorò infine Riza – proprio non me l’aspettavo.”
“Ci vogliono solo dare un contentino per quanto abbiamo passato in guerra – scrollò le spalle Rebecca, prendendo una delle olive che ancora stavano nella ciotola davanti a lei – ci privano dell’innocenza, ci mandando a rischiare la vita… però poi con una promozione si risolve tutto, no? Una vera merda, Riza Hawkeye, una vera merda.”
“Dove sei stata in questi mesi?”
“Oh, in svariati posti. La guerriglia è una cosa infame – commentò la mora, mangiando l’oliva – bande di dannati che si spostano velocemente e tu li devi seguire come un cane. Capisco che dicevo sempre che mi sarebbe piaciuto vedere un sacco di posti… però avrei preferito farlo in tutt’altra maniera, soprattutto non con decine di soldati puzzolenti e scurrili. Il mio principe azzurro, bello e ricco, purtroppo non era tra di loro.”
“Io i miei compagni li vedevo solo ad inizio e fine giornata – confidò Riza – per il resto ero sola, nella mia postazione, ad osservare il mondo da un mirino.”
Non disse altro, sentendosi profondamente triste per se stessa. Era la pura verità: per quella che le era sembrata una vita intera il mondo era stato visto solo attraverso la lente di un mirino, in una versione distorta che la portava a sparare verso la maggior parte di persone che aveva visto. Sembrava quasi una maledizione: chiunque entrava nel suo campo visivo era in pericolo di vita.
Non era questo che volevo fare…
“Avrei preferito che ci avessero messo insieme a fare guerriglia – la scrollò Rebecca dopo qualche secondo di pesante silenzio – almeno ci saremmo sostenute a vicenda. E soprattutto saresti stata una compagna di tenda decisamente migliore di quelli che mi sono capitati.”
“Decisamente saresti stata una compagna migliore pure tu. Pensa… c’era solo un’altra ragazza oltre me.”
“E gli altri?”
“Gli altri? – le tornò in mente Dante con le sue acide parole e la sua spietatezza – Beh… soldati più navigati di me, su questo non ci sono dubbi. Non è che avessimo molto dialogo.”
“La solita fregatura.”
Altro silenzio, ancora decine e decine di esperienze negative che non venivano esplicitate a parole.
“Comunque la mia squadra è stata sciolta – spiegò Riza – ciascuno è tornato a casa, o comunque alla sua sede. Noi cecchini siamo stati messi assieme…”
“Anche la mia squadra è stata sciolta, funziona così con gli specialisti, no? – commentò Rebecca – Adesso si tratterà di attendere, come sto già facendo da giorni. Il Quartier Generale è un disastro, siamo ancora senza un generale, lo sapevi? Autogestione totale.”
“E poi cosa succederà?”
“Non lo so, ma è probabile che per mesi la situazione resterà così… e poi, chissà! Per dei reduci di guerra si troverà pur qualcosa da fare, non credi? Basterà restare a disposizione.”
“Magari possiamo dare una mano ad Helena.”
“Buona idea.”
Ancora silenzio.
“Reby…?”
“Dimmi.”
“Hai mai pensato, in questi mesi di… di mollare tutto?”
“Se non l’avessi fatto ogni santo giorno sarei impazzita.” rispose lei senza esitazione.
Riza la fissò con commossa gratitudine: solo in quel momento capiva quanto la sua migliore amica fosse importante ed indispensabile per lei.
Come possiamo definirci mostri?

 




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nda
in realtà avrei voluto scrivere anche di Grumman e di Roy, ma veniva troppo lungo così loro verranno messi direttamente nel prossimo capitolo

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Capitolo 13
*** Capitolo 12. 1909. Il nuovo generale di East City ***


Capitolo 12
1909. Il nuovo generale di East City




 
Esser stata per così tanti mesi in guerra e aver poi subito quella pausa forzata fece sì che il ritorno di Riza nella quotidianità di un esercito in pace fosse parecchio destabilizzante. Per quanto le giornate fossero piene di impegni, le prime settimane fu davvero strano non dover preparare il fucile e non doversi radunare in una tenda da campo per sapere l’assegnazione che le sarebbe toccata.
Niente di tutto questo: adesso all’esercito serviva che i propri uomini si dessero da fare con riparazioni, amministrazione, archiviazione… tutte attività che con la guerra non avevano niente a che fare e che dunque in quegli anni erano state ampiamente trascurate. Per la giovane fu dunque un rituffarsi nelle vecchie materie d’Accademia, quelle che si era quasi del tutto dimenticata a favore delle poche che servivano davvero nelle lande di Ishval.
Tuttavia, se Riza Hawkeye si era saputa adattare alla realtà della guerra, si sforzò con tutta se stessa di essere una perfetta soldatessa del reparto amministrativo. E così, dopo due settimane, la si poteva vedere lavorare con dedizione a decine e decine di pratiche irrisolte aiutando le sue colleghe a mettere ordine nel caos dei vari uffici. Presto si fece una discreta fama per la sua abilità con la modulistica, una vera sorpresa per chi pensava che l’eroina di Ishval fosse brava solo a premere il grilletto.
Ed in questa nuova dimensione Riza era felice, inutile negarlo: anche se sapeva che era solo una strana forma di pausa, non poteva fare a meno di godersi le soddisfazioni di quel lavoro che piano piano riportava l’ordine dove prima c’era il caos. Aveva scoperto che le piaceva sistemare i documenti, vedere gli schedari riempirsi lentamente di dossier finalmente in ordine: una sensazione simile a quella che aveva provato quando era solo una ragazzina ed era riuscita, con una poderosa opera di pulizia, ad imporsi sulla trascuratezza che dominava nella squallida villetta degli Hawkeye.
Ed in tutto questo non era sola: c’erano le altre soldatesse con cui scambiare ogni tanto qualche parola, senza contare Rebecca, ormai una presenza quotidiana nella sua vita, anche se avevano compiti diversi. Non più cecchini silenziosi e chiusi nei loro pensieri, ma soldatesse spensierate che, miracolosamente, riuscivano a sorridere al futuro, a parlare di ragazzi, di vestiti, come se la guerra non fosse mai esistita. Ma non era così, bastava guardare con attenzione: semplicemente era la dimostrazione di come l’animo umano fosse portato ad andare avanti a prescindere da quanto era successo. Quelle giovani donne volevano una normalità che era stata troppo a lungo negata: le loro chiacchiere erano solo una delle tante sfaccettature con cui la popolazione di Amestris si rialzava in piedi.
Come del resto stava facendo pure lei.
 
La promozione a maresciallo era arrivata nell’arco di poche settimane e con essa anche uno stipendio che non aveva mai ricevuto in periodo di guerra, un fatto più che normale se si considerava che all’epoca era ancora un’allieva d’Accademia e non un soldato vero e proprio.
Con quel modesto capitale che riceveva mensilmente fu in grado di prendersi un piccolo appartamento in una zona non distante dal Quartier Generale: tre stanze, bagno compreso, ma che le andava a meraviglia e che poteva considerare esclusivamente suo. Per quanto le dispiacesse lasciare la casa della sua insegnante, fu lieta di poter compiere questo grande passo verso l’indipendenza e fu certa di cogliere una nota d’orgoglio anche nello sguardo che l’anziana donna le rivolse quando le comunicò la sua scelta.
Così, lentamente, e con pochi semplici acquisti, riuscì a rendere quell’appartamento completamente suo, dando la sua personalissima impronta.
“Wow! Che meraviglia – commentò Rebecca quando venne a trovarla per la prima volta – Una casa tutta tua, che invidia! Non vedo l’ora di potermela permettere pure io e andare via dai dormitori! Come posso trovarmi un uomo se non ho un minimo di intimità!?”
“Secondo me stai buttando l’occhio su troppi soldati e questo non va bene – ritorse Riza, portando un vassoio con il the e con, meraviglia delle meraviglie, una torta fresca di pasticceria: i miracoli della fine del razionamento e del ritorno di beni di consumo a prezzi più abbordabili – le regole anti fraternizzazione…”
“Senti, non hai ancora capito che io nell’esercito non ci starò per sempre?” fece la bruna con aria furba, tagliando una grossa fetta di torta e annusandola con soddisfazione.
“Ah no?”
“No, ragazza mia! Mi troverò un uomo bello, affascinante e soprattutto ricco e mi sposerò con lui, dandomi poi alla bella vita.”
“Un alto grado dell’esercito?”
“Certo – Rebecca si sporse verso di lei con fare cospiratorio – Proprio come tu ti ritrovi maresciallo a nemmeno vent’anni, ci sono un sacco di bei giovanotti che sono saliti di grado durante la guerra: uomini stupendi che non aspettano altro che la sottoscritta, capisci?”
“Secondo me è un piano che fa acqua da tutte le parti – commentò causticamente Riza, bevendo un sorso del suo the – insomma, non credo che funzioni così per trovarsi un marito.”
“Parli proprio tu, Riza Hawkeye? Ti metti a fare la morale proprio tu che vieni dalla campagna e che sai ben poco della vita cittadina? Aspetta e vedrai. E nel frattempo ti do una notizia in anteprima, sebbene non la meriteresti antipatica come sei.”
“Anche se non me la dici la verrei a sapere nei prossimi giorni – rispose la bionda con un sorriso pratico – e come ben sai tra noi due non sono io quella che non sa resistere e cerca sempre di scoprire le sorprese o le cose che non la riguardano.”
“Mh, siamo proprio cattivelle, eh? Ancora non capisco perché sei la mia migliore amica.”
“Perché solo io compro la torta al tuo gusto preferito.”
“Giusto! – annuì Rebecca, mandando giù un altro boccone del dolce – Va bene, torniamo a noi: la settimana prossima il nostro Quartier Generale avrà finalmente un nuovo Generale. E’ finita l’anarchia di questi mesi, amica mia.”
“E’ una grande notizia – annuì Riza con soddisfazione – trovavo alquanto disdicevole la mancanza di un vero e proprio stato maggiore in quello che è il fulcro militare del Distretto Est. Sai anche chi è?”
“Ovviamente – strizzò l’occhi Rebecca – Generale Grumman, l’hai mai sentito?”
“No, mai.”
“Nemmeno io… ma spero che sia giovane, bello e…”
“Non ti sembra di puntare troppo in altro? Addirittura un generale?”
“Mi piace sognare in grande… credo che sarò una delle sue assistenti di campo, sai? A lavorare all’ufficio personale succedono simili miracoli, ci crederesti?”
Gli occhi castani di Riza si sgranarono davanti alla sfacciataggine e all’audacia dell’amica: Rebecca Catalina non si fermava davanti a niente pur di portare avanti i suoi discutibili piani. Per qualche secondo si chiese se dovesse farla desistere o ridurla a più miti consigli, ma poi scrollò le spalle: niente l’avrebbe fermata e comunque finché non si cacciava in guai seri non era il caso d’intervenire.
Dubito altamente che riesca a concludere qualcosa.
 
Questa premonizione si rivelò esatta, ma non per i motivi che Riza aveva immaginato.
Il nuovo Generale del Quartier Generale di East City arrivò la settimana successiva, proprio come era stato preannunciato e, con grande disappunto di Rebecca e sommo divertimento di Riza, si scoprì essere un uomo fin troppo maturo… sicuramente di più di sessantacinque anni.
“E’ un porco maniaco! – sbottò Rebecca dopo soli tre giorni che faceva parte del suo staff – Non hai idea di quante battute sconce abbia fatto ieri! Diamine, potrebbe essere mio nonno e ancora si comporta come un ragazzino in preda ai bollori dell’adolescenza! Ma se allunga le mani gliele amputo, parola mia!”
Davanti a quell’ennesima sfuriata Riza dovette trattenere un sorriso e si rifugiò nella ricerca di quanto le era stato richiesto dall’amica: l’elenco di tutti i soldati presenti al Quartier Generale. Una richiesta più che legittima da parte del nuovo superiore: in questo modo poteva farsi un’idea di tutto l’organico a sua disposizione.
“Vivacità a parte, come ti è sembrato?”
“Vecchio e brutto… con quei baffi poi! – sospirò Rebecca – L’unico tratto interessante sono gli occhi: un bel colore tra l’azzurro ed il violetto, sarei curiosa di vedere una sua foto da giovane.”
“Sai bene che non mi riferisco a questo.”
“Beh, se è generale ha sicuramente una certa esperienza e mi pare che sappia come muoversi se è questo che intendi. Del resto qualunque cosa sarà meglio del periodo di anarchia, no? E poi mica deve fare miracoli: non siamo più in guerra, si tratta solo di normale amministrazione.”
“Non è proprio così, Rebecca, lo sai. Si trova tra le mani un lavoro veramente poderoso: deve riorganizzare tutte le truppe del Distretto Est, quello che ha subito il maggior numero di perdite per la guerra. Senza contare che deve consolidare i confini lì ad Ishval… per non parlare dei profughi che ancora ci sono, delle ricostruzioni, di…”
“Certo, certo! Non farmi la morale, lo so bene!”
“Ed ecco qui l’elenco – concluse la bionda, dandole un grosso fascicolo – dai soldati semplici ai gradi più alti, tenendo conto che è ancora in aggiornamento: siamo ad aprile, ma ogni tanto continuano ad arrivare soldati che stavano su altri fronti. Senza contare i trasferimenti: pare che la settimana prossima ne arriveranno alcuni da Central City; vorranno colmare alcuni vuoti.”
“O dare il contentino a chi non vogliono tenere nella capitale…” propose Rebecca prendendo in mano il fascicolo e congedandosi con una strizzata d’occhio.
Scuotendo il capo con indulgenza la bionda pensò che il vecchio generale era la giusta punizione per l’avventatezza della sua amica. Ma cosa più importante sembrava saperci fare e questo era un grosso passo in avanti: l’esercito aveva bisogno di riprendersi per svolgere il suo reale compito, ossia quello di tenere al sicuro la popolazione civile. Adesso che il grosso errore che era stato Ishval era in buona parte concluso si poteva pensare a ricominciare con una nuova prospettiva.
I suoi pensieri andarono quindi al maggiore Mustang: chissà se anche lui era stato promosso…
Sicuramente lo è stato, che vai a pensare? Se tu sei l’eroina di Ishval, figurati lui.
E quel pensiero le fece male perché se quel titolo era un peso per lei figuriamoci per lui che aveva così tante vite sulla coscienza. Chissà se in qualche modo era riuscito a venire a patti con i suoi tormenti, con i suoi fantasmi… se aveva trovato pure lui una dimensione da cui ripartire.
Crederà ancora in quegli ideali? Crederà ancora in un mondo migliore?
Rifletté sul fatto che con tutta probabilità era a Central City, del resto era originario di quel posto. Le sarebbe piaciuto rivederlo un giorno, almeno per poterlo ringraziare per ciò che aveva fatto per lei a guerra finita: questo glielo doveva.
 
Due giorni dopo Riza era completamente assorbita dal suo lavoro e totalmente dimentica di quanto era successo. Di conseguenza fu del tutto impreparata quando le venne chiesto di presentarsi a rapporto dal Generale Grumman in persona.
Mentre camminava per i corridoi ormai in ordine del Quartier Generale si chiese cosa mai potesse volere da lei quell’uomo. L’idea che fosse una trovata di Rebecca non era per niente plausibile, non era da lei, e l’unica opzione possibile era legata alla sua fama di eroina di Ishval. Forse quell’uomo voleva elogiarla di persona o darle qualche ruolo speciale, un qualcosa che Riza voleva evitare con tutte le sue forze: quel titolo doveva essere dimenticato, seppellito, voleva farcela da sola, senza più alcuna spinta che le derivasse dalla guerra.
Oh, e sei certa di meritarti una simile indipendenza? In fondo non puoi permetterti di dimenticare: porta questo titolo con tutto il peso che comporta, Riza, altrimenti volterai le spalle a tutte le persone che hai ucciso e alle quali hai promesso di dare giustizia.
Arrivata davanti alla porta dell’ufficio del generale si guardò attorno, sperando che Rebecca o qualche altra conoscenza fossero lì per farle capire quanto stava succedendo. Ma la scrivania che stava fuori era vuota e non si vedeva nessuno nelle vicinanze. Così, traendo un profondo sospiro, bussò alla porta ed entrò, pronta ad affrontare quella novità.
Basterà saper rifiutare con educazione: dovrebbe essere mio diritto poterlo fare.
Tuttavia qualsiasi pensiero di quel tipo svanì quando mise piede in quel grande ufficio.
Rebecca le aveva parlato della mania di collezionismo del nuovo generale: più volte le aveva raccontato di come avesse riempito l’ufficio di oggetti strani e antichi, ma Riza non era assolutamente preparata a quello che vide.
Si ricordava com’era quell’ufficio prima dell’arrivo di Grumman: aveva aiutato lei stessa a portare via diversi scatoloni di documenti che erano stati gettati lungo le pareti. Era stato riverniciato, pulito e dotato di un arredamento semplice ed essenziale, dato che non ci si poteva permettere altro. Ed in effetti le librerie erano le stesse, così come l’ampia scrivania di legno… solo che era stato tutto riempito all’inverosimile di oggetti. Sembrava di esser entrati in un negozio d’antiquariato: vasi, statuine, armi, cofanetti… e altri oggetti strani e sconosciuti erano esposti in una confusa, eppure ordinata, maniera lungo gli scaffali e nella scrivania, alcuni persino sul pavimento. Per un attimo a Riza venne voglia di esplorare ogni singolo angolo di quella stanza che di ufficio aveva ben poco ormai e di scoprire chissà quali meravigliosi segreti nel prendere in mano quegli oggetti così affascinanti e carichi di mistero.
“Vedo che la mia modesta collezione ti affascina – commentò una voce dalla parte destra della stanza – ne sono felice.”
Quella voce gentile eppure con una punta d’ironia fece trasalire Riza che immediatamente si mise sull’attenti.
“Maresciallo Riza Hawkeye a rapporto, signore!” esclamò con prontezza facendo il saluto e tenendo lo sguardo fisso davanti alla scrivania vuota, sebbene morisse dalla curiosità di vedere il suo interlocutore. Dovette aspettare solo un paio di secondi prima che il generale comparisse nel suo campo visivo, andando proprio davanti a lei e squadrandola con le braccia dietro la schiena.
Ovviamente Riza l’aveva già intravisto qualche volta, ma non aveva mai avuto occasione di vederlo da vicino. Era alto quanto lei, sebbene fosse chiaro che questo dipendeva anche dall’età avanzata, e portava la divisa con quella che si poteva definire estrema disinvoltura. Fu una strana sensazione per Riza, abituata ad avere a che fare con superiori come il tenente Morris che l’uniforme la portavano con quella che si poteva definire grande dignità. Ma quell’arzillo generale differiva da quell’atteggiamento: sembrava che l’uniforme fosse solo un qualcosa che aveva deciso di mettere per suo piacere personale, ma che si sentisse in parte slegato da quello che rappresentava… slegato e anche divertito.
Quest’analisi sull’atteggiamento passò in secondo piano quando la sua attenzione si puntò sul viso: i capelli grigio chiaro ormai crescevano solo ai lati della testa, ma in compenso aveva dei lunghi e dritti baffi del medesimo colore. Il viso era segnato dalle rughe dell’età, ma alcune erano d’espressione, come quelle attorno alla bocca, ad indicare che era una persona propensa al riso. Però furono gli occhi a colpire maggiormente la soldatessa: dietro quegli occhiali tondi e piccoli, erano di un colore davvero particolare, proprio come le aveva detto Rebecca… un blu che sfumava nel violetto, mai visto prima.
“Riza Hawkeye, eh?” il generale pronunciò quella frase con voce leggermente tremante e questo riscosse la giovane dalla sua silenziosa e discreta osservazione.
“Al suo servizio, generale.”
“Cielo… è più difficile di quanto pensassi – ammise l’uomo dopo qualche secondo di silenzio, levandosi gli occhiali e pulendoli con un fazzoletto tirato fuori da una manica della divisa – forse troppo difficile, a ben pensarci. Non immaginavo che…”
Non finì la frase: si rimise gli occhiali e riprese a fissare Riza che, nel frattempo, si sentiva profondamente a disagio. Si era aspettata un anziano signore dalla battuta fin troppo facile, come le aveva raccontato Rebecca; tuttavia nel generale Grumman che vedeva davanti a lei non c’era niente di quanto le era stato descritto.
“Signore…?” mormorò dopo qualche secondo.
“Perdonami – sospirò lui, allungando una mano per sfiorarle la guancia, ma poi parve ripensarci e si bloccò a pochi centimetri da lei – è che… somigli così tanto a tua madre che è stato come vedere un fantasma.”
Quella frase detta con una strana esitazione bastò per far sprofondare Riza nello sconcerto più totale, mentre ricordi che lei credeva per sempre obliati tornavano prepotentemente in superficie, facendola tornare la bambina spaventata e timorosa che assisteva la madre sempre più debole. L’odore della tisi, del sangue e di quell’estate surreale le invase le narici e per qualche secondo ebbe difficoltà a trarre il nuovo respiro. Nella sua mente l’immagine di sua madre morta, con gli occhi fissi verso un punto indefinito della stanza, tornò vivida, come se tutto fosse successo solo il giorno prima.
“Non lasciarmi!” esclamò la sua voce di bambina nella sua testa.
“Perdonami – mormorò la voce del generale, facendola tornare miracolosamente alla realtà – devo averti portato alla memoria dei brutti ricordi.”
“Signore – scosse il capo Riza, cercando di razionalizzare quanto stava succedendo in quell’ufficio – devo dedurre che conoscesse mia madre. Mi perdoni, ma non ero a conoscenza di un simile dettaglio: non mi è mai stato detto niente di lei.”
O per meglio dire non le era stato detto niente di nessuno: i suoi genitori erano state delle persone senza radici, distaccati dalle loro famiglie probabilmente a causa del loro matrimonio. Era tutto quello che Riza poteva dire sulle sue origini: bastava ricordare che sulla lapide di sua madre non c’era nemmeno il cognome della sua famiglia.
Il cognome di famiglia…
Una strana intuizione iniziò a prender forma nella mente della giovane, un’idea davvero paradossale perché non trovava spiegazione per quanto era successo. Perché se aveva ragione, allora sua madre non sarebbe dovuta morire in piena solitudine, assistita solo dalla signora Berth e dal medico, in quella casa che non aveva fatto altro che acuire la sua malattia.
“Già, tu non sapevi niente di me, dovevo immaginarlo – sospirò Grumman, stavolta posando la sua mano sulla guancia della giovane: una mano calda e stranamente morbida – Elisabeth alla fine aveva completamente tagliato i ponti con me. Ma ti chiedo scusa, queste chiacchiere ti stanno solo confondendo, mi sa. Presumo che la cosa migliore non sia girarci troppo attorno e dirti chi sono…”
“Posso chiederle il cognome di mia madre, signore?” chiese Riza d’impulso.
“Mh, vedo che ci sei arrivata da sola, ragazza mia. Elisabeth Grumman era il suo nome da nubile… ed era la mia unica figliola. Immagino che non sia facile scoprire di avere un nonno quando ormai si è già così grandi, eh?”
No, non era per niente facile… e Riza dovette esercitare tutta la sua forza di volontà per ricordare che quello che aveva davanti era un suo superiore e che dunque non poteva permettersi di correre via da quell’ufficio come invece avrebbe voluto fare. Che assurdo scherzo del destino era quello? Perché la vita l’aveva lasciata sola quando invece aveva maggior bisogno della sua famiglia e le aveva fatto incontrare quella persona solo ora che…
Che non ho bisogno di te!
Gliel’avrebbe voluto gridare in faccia, avrebbe voluto tanto avere la faccia tosta di Rebecca per poter vomitare quel dolore sordo e impotente che era stato il suo compagno dell’infanzia.  Avrebbe voluto dirgli che sua madre era morta nella sofferenza e nell’indigenza, che il suo corpo era stato seppellito in tutta fretta per paura di contagio… avrebbe voluto gridargli che lei era stata abbandonata lì, sola con un padre che si era rivelato un mostro egoista. Avrebbe voluto accusarlo della divisa che indossava, perché se non fosse stata così sola forse la sua vita sarebbe stata estremamente diversa.
Ma non disse niente, rimase in silenzio ad accettare quella muta carezza, come se quel gesto potesse in qualche modo recuperare tutti quegli anni in cui quell’anziano signore, suo nonno, non era stato presente.
Poi, dopo una decina di secondi, le mani dell’uomo andarono a prendere le sue e le strinsero con quello che si poteva definire doloroso affetto.
“Avrei dovuto esserci…”
“E’ morta da quasi dieci anni ormai…” mormorò Riza in tutta risposta.
La stretta delle mani si fece più forte, tremante, e la giovane non poté fare a meno di provare una strana forma di pena per lui: il dolore era sincero, non c’erano dubbi. Ma per il dolore che dimostrava adesso c’erano tutti quegli anni d’assenza. Come potevano le cose bilanciarsi?
“… sarei dovuto essere meno sciocco ed orgoglioso per entrambi – sospirò Grumman – e soprattutto per te. Ma ora non sei più la bambinetta della foto sbiadita, è un po’ troppo tardi.”
“Foto?” Riza sgranò gli occhi.
“L’unica che abbia di mia nipote, quella che mi spedì mia figlia poco prima che i legami tra noi si deteriorassero del tutto e lei sparisse assieme a suo marito e alla bimba.” Grumman lasciò la presa e frugò nel taschino della divisa per tirare fuori una vecchia foto.
Riza rimase senza parole: a casa sua non aveva nessuna foto di lei e sua madre, nessuna. Quell’unica testimonianza era in possesso di una persona a lei totalmente sconosciuta. Osservò con il magone quella donna giovane e bella che teneva tra le braccia una bambina di circa un anno, dai corti capelli biondi e dal visino perplesso rivolto verso la macchina fotografica. Possibile che sua madre una volta fosse stata così sana, relativamente parlando? Per quanto apparisse comunque fragile, in quella foto la malattia ancora non aveva raggiunto il suo stadio peggiore… uno stadio che Riza aveva conosciuto per quasi tutta la sua infanzia.
“Era molto bella – si limitò a dire, cercando di tenere un tono di voce saldo – ma negli ultimi anni la tisi l’aveva ridotta al fantasma di se stessa. Il dottore disse che in una casa come la nostra non c’era possibilità di miglioramento.”
Il generale si girò verso la scrivania e Riza fu sicura di vedere le spalle contrarsi in uno spasmo, come per un singhiozzo trattenuto. Ancora quel dolore così sincero che aveva il potere di dividerla in due e di farle passare la rabbia nei confronti di quell’uomo.
“Povera Elisabeth – mormorò infine Grumman, girandosi di nuovo verso di lei – sono stato un pessimo genitore… e anche un pessimo nonno nei confronti della mia unica nipote. Però ci tenevo a farti sapere la verità, Riza, tutto sommato questo te lo dovevo.”
“Non so che cosa dire – ammise Riza, capendo che ci si aspettava una sua risposta – generale, sono veramente sorpresa da quanto mi ha appena detto, io non…”
“Eroina di Ishval… dannazione, questo l’avrei dovuto evitare con tutto me stesso.”
A quelle parole le mani di Riza si serrarono a pugno. Era tutto un tremendo incubo, non poteva che essere così: perché le possibilità di salvezza le si presentavano adesso che era tutto inutile?
“Non importa, signore – rispose con dignità – è stata una mia scelta quella di indossare questa divisa.”
“Mh, sei caparbia come tua madre – adesso gli occhi di quello strano colore la fissavano con una sfumatura di divertito orgoglio – tutto sommato sono felice di aver preso la decisione di averti convocato. Quando ho letto il tuo nome nell’elenco del personale mi è sceso un colpo e sono rimasto due giorni a riflettere se parlarti o meno. Sono proprio curioso di sapere che ne pensi.”
“Signore, io… – esitò Riza, sorpresa da quell’improvviso cambio d’umore, come se quell’uomo non fosse in grado di restare serio per troppo tempo – ammetto che ci sarebbero troppe cose da spiegare, non so se sono…”
“… sei in grado di provare affetto per questo vecchio generale? – concluse lui con un sorriso rammaricato – ammetto di non poter pretendere nulla da te sotto questo punto di vista.”
Una piccola parte di Riza fu tentata di dargli ragione e dirgli che non aveva assolutamente bisogno di lui, specie se si trattava solo di un modo di fare ammenda per i suoi errori passati. Eppure la bambina spaventata sepolta dentro di lei le impediva di troncare definitivamente quella discussione. Quella creatura sola ed affamata d’amore non credeva ai suoi occhi nel vedere un parente e dunque un briciolo di famiglia che in qualche modo si preoccupava di lei.
“Spero che si stia trovando bene qui al Quartier Generale – si trovò a dire con sua somma sorpresa – da parte mia posso garantirle che farò di tutto per… per aiutarla come meglio crede.”
Che cosa stai dicendo, stupida?
Ma non ci riusciva: non poteva piangere, o aggrapparsi a quel vecchio: dolore e strana felicità lottavano dentro di lei, impedendole di fare chiarezza nei sentimenti che poteva provare nei confronti di suo nonno.
Proprio questi scoppiò in una divertita risata e le sistemò una ciocca di capelli biondi sulla fronte.
“Ah, ragazza mia, sei davvero uno spasso. Ricordi tua madre, certo, ma per moltissime cose sei totalmente diversa da lei, mi è bastato stare con te cinque minuti per capirlo.”
“E’ così divertente?” arrossì Riza, uscendo d’impulso dalla rigidità militare.
“E’ divertente e meraviglioso allo stesso tempo, bambina – sorrise Grumman, dandole un buffetto sulla guancia – credimi, il mio trasferimento qui ha preso tutto un nuovo senso ora che ci sei tu.”
“Generale, io la prego di non… non fare favoritismi – Riza scosse il capo, incredula che le cose stessero andando così velocemente: insomma, si erano conosciuti da pochissimi minuti e lui sembrava estremamente convinto che ormai fosse tutto risolto. E la cosa assurda era che non riusciva a fermarlo, a dargli torto, a fargli capire che le cose non funzionavano in una simile maniera – non è il caso che si sappia che siamo… imparentati!”
“Ah, ligia al dovere e modesta proprio come mi avevano detto – annuì l’uomo con orgoglio – Stai tranquilla, cara, non ho intenzione di metterti in imbarazzo.”
Cara? Possibile che non possa fare a meno di usare tutti questi vezzeggiativi con me? Come se fossi la sua nipote preferita che conosce da una vita intera!
Ma una parte di lei si crogiolava in quelle parole così affettuose, una parte che proprio non riusciva a reprimere… una parte che assurdamente trovava divertente e piacevole l’idea che il generale fosse suo nonno.
“Gliene sarei davvero grata…” mormorò.
“Ma certo, sarò discretissimo: niente atteggiamenti da nonno in pubblico. Dannazione a te, sei diventata davvero una splendida signorina, sai? Eppure questo mi fa sentire estremamente vecchio e ciò non va proprio bene!”
E rimase ancora per qualche tempo a farle i complimenti, mentre Riza si limitava a rispondere pacatamente, non sapendo e non volendo fermare quel fiume in piena che era suo nonno. Così diverso da lei, eppure proprio per questo capace di esercitare un’estrema attrazione, proprio come una calamita.
Pensare al passato e restare fermi su accuse e rimpianti? Che senso aveva?
Avrebbero perso entrambi un’opportunità che la sorte aveva concesso, sebbene in ritardo.
E così quando, circa un’ora dopo, la soldatessa uscì dall’ufficio del generale, uno strano sorriso felice aleggiava sulle sue labbra. E nella tasca c’era l’unica foto di lei e sua madre, forse il più prezioso del tesori.
“Ritengo che la debba avere tu, cara: lei avrebbe voluto così.
E per la prima volta Riza era riuscita a ripensare a sua madre senza troppo dolore.
Di suo padre non avevano detto una parola e andava bene così: era chiaro che entrambi preferivano dimenticarlo.
 
“Quel vecchiaccio malefico! – sbuffò Rebecca due giorni dopo mentre con Riza tornava da una seduta al poligono di tiro – Ci credi che mi ha toccato il sedere? E avessi sentito la sua risata maliziosa.”
“Potrei ricordarti che sei stata tu a trafficare con le carte dell’ufficio personale per diventare sua assistente da campo, Rebecca. Diciamo che te la sei cercata.”
“Dannazione, ed io che speravo solo di coronare il mio sogno d’amore – sospirò la mora con aria tragica, mentre entrambe si cambiavano nello spogliatoio – che avrò fatto di male! E tu non ridere: vorrei vedere te alle prese con quel pervertito!”
Riza scosse il capo con un sorriso indulgente e non rispose. Non avrebbe certo detto a Rebecca che il generale Grumman non si sarebbe comportato in una simile maniera con la sua unica nipote.
Già, mio nonno…
Solo due giorni… erano bastati solo due giorni per accettare del tutto quell’idea. A volte le capitava di chiedersi se avesse sbagliato ad essere così permissiva, proprio lei che in genere era restia a concedere confidenza a qualcuno. Ma per suo nonno era diverso: sapere che c’era e che le voleva bene le restituiva una parte di lei che credeva andata irrimediabilmente perduta anni prima. Il concetto di famiglia adesso aveva una strana e gradita sfumatura, sebbene tutto sarebbe sempre stato tenuto nascosto alla maggior parte delle persone.
“E adesso mi tocca andare di nuovo da lui – sbottò Rebecca, riportandola alla realtà – non vedo l’ora che questa giornata finisca!”
“Non guardare l’orologio – le consigliò Riza con un cenno di saluto – altrimenti il tempo non passerà mai!”
Con un sorriso realizzato raggiunse la sua postazione di lavoro, all’ufficio di segreteria generale. Un ufficio finalmente in ordine, senza più pile e pile di fogli da compilare: alla fine il caos era stato sconfitto.
“Ah, Riza – la avvisò Helena, passando accanto a lei con alcune cartelle in mano e dandole dei fogli tenuti da una graffetta – ecco l’elenco dei trasferimenti da Central previsti per lunedì prossimo. Ci pensi tu a bollarli e a spedirli all’ufficio personale?”
“Certamente.”
“Grazie, sei un tesoro!”
Presi i moduli necessari, la soldatessa bionda diede una rapida occhiata all’elenco di cinque pagine.
Il suo cuore si fermò e le mani iniziarono a tremare quando arrivò al secondo nome del terzo foglio.
Tenente colonnello Roy Mustang – Alchimista di Stato.



____________________
Ahimè, per Roy ci tocca attendere il capitolo successivo, ma sarebbe stato sciocco comprimere due momenti così importanti senza reale necessità.
Per quanto riguarda Grumman ci tengo a fare alcune precisazioni. 
Che sia il nonno di Riza è un dato di fatto, così come viene specificato da Riza stessa, durante il funerale del padre, che non conosce nessun parente per via dell'allontanamento dei suoi genitori dalle rispettive famiglie, con tutta probabilità per dissapori sul loro matrimonio. Di conseguenza c'è l'incongruenza che Grumman sappia di Riza e non viceversa (in un artbook l'Arakawa specifica che nel suo ufficio Grumman ha diversi oggetti che ricordano l'infanzia di Riza, sebbene non venga specificato altro). Anche perché pare strano che i ponti siano stati tagliati in maniera così definitiva da non fargli sapere nemmeno della morte della propria figlia.
Di conseguenza ho deciso di ovviare come potevo, lasciando intendere anche una volontà di Grumman stesso di non cercare notizie della figlia per un periodo di tempo durato tantissimi anni. Rimpianto e chissà che altro... non sappiamo cosa sia passato nella mente del generale quando ha saputo che sua nipote era nell'esercito. Forse sono semplicemente quelle cose che crescono segretamente dentro di noi e aspettano solo l'occasione buona per essere tirate fuori. Del resto Grumman è un personaggio così originale di carattere che non ne resterei minimamente sorpresa.
Quanto alla reazione di Riza, ho cercato di essere coerente con il suo passato solitario. Sono sempre stata dell'idea che la sua infanzia l'abbia lasciata "affamata d'amore e d'attenzioni" ed è per questo che è stata quasi obbligata a passare sopra il silenzio di tutti quegli anni da parte di suo nonno.
In ogni caso, nel manga sappiamo che sono consapevoli della loro parentela e pare che Grumman sia particolarmente affezionato.

Per quanto riguarda il fatto che Roy sia a Central City, invece, oltre che basarmi sulla presenza di Madame Christmas lì, e dunque porla come città dove è cresciuto, mi sono basata anche sull'OAV "Yet Another Man's Battlefield". Questo racconta l'incontro tra Roy e Maes in Accademia e arriva sino alla fine della guerra di Ishval... proprio nella scena finale si vedono i due scendere dal treno con Glacier che poi corre verso Maes e quindi siamo sicuramente a Central City. Di conseguenza è stato solo per successivo trasferimento che Roy è andato di stanza ad East City
Alla prossima
Laylath

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 13. 1909. Qualcuno da proteggere ***


Capitolo 13
1909. Qualcuno da proteggere




 
Dal momento in cui lesse quel nome il tempo sembrò non passare più per Riza: i pochi giorni che la separavano da quel fatidico lunedì sembravano lunghi anni e le lancette degli orologi parevano andare deliberatamente più lente, uno stillicidio che la mandava in crisi.
Tuttavia una parte di lei era sollevata dal fatto che ancora non fosse giunto il momento dell’arrivo. Quella Riza non sapeva ancora come presentarsi a lui… se presentarsi a lui. Oggettivamente Roy Mustang poteva avere tutte le ragioni del mondo per non volerla rivedere: avrebbe risvegliato in lui gli orrendi ricordi della guerra e di quell’ultima follia che era stato obbligato a compiere poco prima del rientro a casa. Riza Hawkeye poteva rappresentare solo un triste e tremendo fantasma dal quale tenersi alla larga.
E non avrebbe avuto tutti i torti.
Del resto che cosa vuoi da lui? – si chiese in una di quelle notti insonni in cui non faceva altro che rigirarsi nel letto, tenendo stretto il cuscino – Ringraziarlo per averti aiutata dopo che la tua schiena era stata bruciata? Avresti un bel coraggio a presentarti solo per dirgli questo.
Era un vero tormento e non sapeva come risolverlo: l’idea di ringraziarlo adesso le risultava così stupida e banale, tanto che lui con tutta probabilità l’avrebbe presa per una stupida. Però qualcosa dentro di lei le gridava che il legame con quella persona non era terminato con la guerra, assolutamente. Le tornava di continuo in mentre lo sguardo tormentato di quegli occhi scuri e allungati, quella delusione così palese, così simile alla sua: le tornava il pensiero che, in mezzo a tutta quell’indifferenza da parte di soldati che volevano solo sopravvivere e tornare a casa, loro due erano stati gli unici che avevano mostrato senza vergogna il loro dolore per quel massacro ingiusto… quel massacro di cui erano stati tra i maggiori fautori.
Di colpo si rese conto che in quei mesi trascorsi tra documentazione e amministrazione lei non aveva fatto niente di speciale: si era rifugiata in una tranquilla realtà che la appagava, ma che a conti fatti non faceva niente per aiutare, migliorare, rendere quel lontano sogno una realtà. A ben vedere la sua era stata una fuga nascosta dalla divisa che indossava, solo adesso lo capiva.
Però che altro potevi fare? – si chiese, sedendosi nel letto e osservando il lieve chiarore dei lampioni che si vedeva dalle tende tirate – Come potevi pensare di cambiare il mondo tutta da sola?
Sarebbe stata una sciocchezza bella e buona: con che mezzi avrebbe potuto farlo? Per quanto avesse il grado di maresciallo ed un titolo pesante sulle sue giovani spalle, era comunque una soldatessa di soli diciannove anni che, finita la guerra, si trovava davanti ad una nuova realtà dove ancora non sapeva come muoversi. Certo, non era proprio sola, ma sentiva che né suo nonno né Rebecca e le altre potevano comprendere sino in fondo il suo desidero, la sua esigenza di cambiare le cose.
Solo una persona poteva farlo e questo la convinse che doveva incontrarla.
A prescindere dalla reazione che avrebbe suscitato.
Non possiamo permetterci di essere schizzinosi, signor Mustang… anzi no, tenente colonnello. I morti di Ishval pretendono giustizia e non guarderanno certo ai nostri sentimenti personali.
 
Così, quel lunedì 6 aprile 1909, quando il suo turno mattutino terminò, invece di andare al poligono di tiro o da qualche altra parte dove poteva essere d’aiuto, si recò nell’ufficio che era stato assegnato al tenente colonnello Mustang. Nella mano teneva una busta con il suo scarno e tuttavia pesante curriculum di soldatessa: aveva infatti preso la decisione di candidarsi per entrare al suo servizio.
Non le piaceva parlare di destino, ma forse in questo caso non poteva appellarsi ad altro termine: in fondo le catene con cui erano legati l’una all’altro non sarebbero mai sparite. Anche se il tatuaggio di suo padre era stato in parte bruciato restavano dei legami invisibili ancora più vincolanti e pesanti. Restava il senso di colpa per quanto era successo in guerra.
Facendosi forza arrivò davanti alla porta che le era stata indicata e bussò, aspettando il canonico “avanti” per entrare. Udire di nuovo quella voce le fece uno strano effetto: se la ricordava roca per il caldo, stanca e rassegnata, ma adesso era diversa già nel sentirla attutita dalla porta. C’era una nuova sicurezza che mai gli aveva sentito, un non so che di autoritario che la fece sentire leggermente a disagio.
Tuttavia mise da parte tutti questi pensieri ed entrò.
L’ufficio era provvisorio, non c’era da sorprendersi: la scrivania era praticamente vuota, eccetto qualche libro, senza nessun segno personale a contraddistinguerla. Istintivamente a Riza venne da pensare all’ufficio di suo nonno, fin troppo personalizzato con tutti quegli strani e curiosi oggetti.
E lui era lì, seduto e la fissava, proprio come se avesse visto un fantasma… di nuovo.
Era cambiato rispetto al soldato con il cappotto bianco sporco e trasandato: il viso era fresco e pulito, i capelli ordinati e pettinati, gli occhi finalmente liberi da quell’arrossamento provocato dai granelli di sabbia che ad Ishval non davano tregua. Ma era anche l’atteggiamento diverso: adesso stava seduto in una posa composta ed elegante, con le mani tenute incrociate sulla scrivania e la schiena dritta. Mancava la rassegnazione che l’aveva contraddistinto durante la guerra: adesso c’erano sicurezza ed autorità, quelle di un tenente colonnello che, a ben vedere, aveva raggiunto un grado davvero alto per avere circa venticinque anni.
In quei pochi secondi i due soldati si scrutarono con attenzione, la sorpresa iniziale che lasciava posto ad una strana consapevolezza: come se il fatto che si fossero ritrovati non fosse poi così straordinario. Questo fece ben sperare a Riza di aver fatto la scelta giusta: era Roy Mustang, la persona che aveva sempre ammirato, alla quale si era aggrappata nelle scelte più impegnative della sua vita. Forse il loro era stato un semplice errore di valutazione: il mondo migliore lo si doveva costruire assieme e non separati.
Così, forte di quella nuova consapevolezza, si accostò alla scrivania, posando la lettera con il suo curriculum; indietreggiò di tre passi e poi fece il saluto militare, presentandosi formalmente.
“Maresciallo Riza Hawkeye per servirla, tenente colonnello.”
Rimase ferma a farsi squadrare da quegli occhi scuri, rendendosi conto che era la prima volta che la studiava come un soldato esamina un proprio inferiore di grado. Prima, anche durante la guerra, l’aveva ancora vista come la figlia del suo maestro, la ragazzina solitaria che aveva subito le follie di un padre ossessionato dall’alchimia. Ma quella bambina a cui aveva offerto aiuto non c’era più: adesso c’era una soldatessa fatta e finita la cui divisa non sembrava più così grande e inadatta.
Sì, signore: siamo cresciuti entrambi in questi mesi dalla fine della guerra.
“Alla fine, dopo tutto quello che è successo ad Ishval, hai deciso di percorrere questa strada, eh?” chiese infine Mustang. Il tono era rimasto neutrale, senza più quel senso di colpa così tangibile: come se si fosse reso davvero conto che lei era in grado di prendere le proprie decisioni in completa autonomia. E questa era una forma di rispetto che Riza non mancò di notare ed apprezzare: un rapporto basato sul rispetto reciproco era il migliore da cui partire, piuttosto che uno che faceva ancora leva sui sentimenti di simpatia e pietà che si erano provati in un passato ormai lontano.
“Sì – rispose pacatamente, senza abbassare lo sguardo – quella di indossare l’uniforme è stata una mia scelta.”
Con quella dichiarazione il discorso si chiudeva definitivamente, entrambi ne erano consapevoli. Sì, era vero, restavano catene invisibili a legarli, ma la libertà di scelta l’avevano avuta e l’avevano sfruttata come meglio ritenevano: se le conseguenze non avevano rispettato le loro aspettative era un discorso differente.
Quasi a voler confermare che anche lui considerava chiuso quello strano limbo in cui era stato difficile riconoscersi come soldati, Mustang aprì la busta e spiegò l’unico foglio che costituiva il suo curriculum.
Dalle voci che aveva sentito negli ultimi giorni, Riza dubitava che avrebbe ricevuto qualche altra candidatura: oltre alla sua giovane età pesava anche il titolo di alchimista di fuoco, un dettaglio che faceva storcere il naso a parecchi soldati ordinari. Gli alchimisti erano stati l’elite che aveva consentito di vincere la guerra, certo, ma i militari raramente avevano a che fare con questa strana scienza e dunque non volevano ritrovarsi con un superiore che la praticava: sarebbe stato come uscire dall’ordinario e questo non andava bene.
Solo noi due? Beh, in fondo eravamo in due anche davanti alla tomba di mio padre, signore.
Intimamente provò uno strano senso di piacere: per quanto collaborasse senza problemi con le altre sue colleghe il senso di squadra le mancava quasi del tutto. I suoi compagni cecchini ad Ishval non erano stati proprio il massimo del cameratismo, ma non era stata colpa di nessuno: il loro ruolo di tiratori scelti impediva per definizione di potersi amalgamare e creare dei rapporti solidi.
“In che settore te la cavi bene?” la voce di Mustang giunse improvvisa e spiazzò la giovane. Che razza di domanda le andava a fare? Non aveva visto che ruolo svolgeva ad Ishval? Non si ricordava di come aveva salvato la vita sua e del suo compagno?
Perché me lo sta chiedendo, signore?
“Armi da fuoco…” rispose.
Lui annuì lievemente, osservando un particolare punto del curriculum, probabilmente quello dove c’era l’encomio speciale per meriti di guerra. Forse si era soffermato alla sua menzione di “eroina di Ishval”… il suo viso si contrasse per un millesimo di secondo in una smorfia sarcastica che gli occhi attenti di Riza furono rapidi a cogliere.
“Armi da fuoco, bene – disse infine l’uomo, sollevando lo sguardo dal foglio – Diversamente dalle armi bianche, un’arma da fuoco non ti lascia la sensazione di aver ucciso qualcuno con le tue mani.”
Oh, sì che la lascia! – avrebbe voluto gridare Riza: ancora non riusciva a capacitarsi che potesse credere ad una simile leggenda. Certo che li aveva uccisi con le sue mani: ogni dannata volta che aveva premuto quel grilletto. E anche se non aveva sentito il proiettile entrare nei loro corpi, aveva visto gli stessi accasciarsi al suolo con quei movimenti improvvisi e surreali, marionette rotte e buttate via – Li vedi… forse ne sei ancora più consapevole che se li uccidessi con una spada! E lei lo dovrebbe sapere, perché con l’alchimia non ha fatto niente di troppo diverso!
La sua rabbia si bloccò all’improvviso… e se fosse quello il punto dove voleva arrivare?
“E’ un inganno – proseguì Mustang, fissandola con calma – Hai intenzione di mentire a te stessa continuando a sporcarti le mani?”
Ecco il punto… ecco quello che voleva sapere: per tutti quei mesi successivi alla guerra lei si era occupata di amministrazione, usando le armi solo al poligono di tiro. Quello che le stava chiedendo era se se la sentiva davvero di riprendere in mano una pistola od un fucile da usare contro delle persone.
Ma su questo Riza era già venuta a patti con se stessa.
“Sì, è così: noi soldati dovremmo essere gli unici a sporcarci le mani di sangue – rispose senza esitazione e poi fece un profondo respiro prima di proseguire, prima di dare sfogo a ciò che pensava – I ricordi come quelli di Ishval dovremmo essere solo noi a portarceli dietro. Come dicono gli alchimisti – oh, quanto le faceva male usare una simile metafora, ma era la migliore – se la verità di questo mondo può essere mostrata attraverso lo scambio equivalente, allora la nuova generazione che nascerà potrà godersi la felicità. E per pagare quel prezzo noi dovremo caricarci addosso corpi senza vita e attraversare un fiume di sangue.”
Lui la guardava stranito, sicuramente non aspettandosi che un discorso simile uscisse proprio dalle sue labbra. Ma il tenente colonnello doveva essere informato anche di ciò che il curriculum non diceva, di quel testamento morale che era stato vergato durante e dopo la guerra. Riza Hawkeye non aveva nessuna intenzione di lasciarsi il passato alle spalle.
Alla fine Mustang chiuse gli occhi per qualche secondo, come se avesse desistito una volta per tutte. Quindi si alzò in piedi, posando entrambe le mani sulla scrivania.
“Penso che proporrò di farti lavorare come mia assistente – dichiarò – voglio che tu sia dietro di me, che mi protegga…”
Riza stava per annuire, ma lui proseguì quasi a bloccarla
“… Capisci cosa voglio dire? Lascerò che sia tu a guardarmi le spalle e ciò significa che potrai spararmi in qualsiasi momento. Se farò qualcosa che non dovrò fare, uccidimi con le tue mani: hai la mia autorizzazione.”
La ragazza lo guardò stranita per qualche secondo, sorpresa da quello strano capovolgimento di fronte: era come se anche lui l’avesse messa in guardia, facendole capire che il ragazzo idealista di anni prima era cresciuto, ed era consapevole che per andare avanti non bastava solo la buona volontà. Questa volta non avrebbe commesso le ingenuità del passato, non poteva permetterselo.
“Mi seguirai?” chiese ancora.
“Se è questo ciò che desidera sono pronta a seguirla sino all’inferno.”
Non ci fu esitazione nella risposta di Riza.
Erano entrambi condannati dal passato, ma non si sarebbero arresi. Negli occhi scuri di quell’uomo c’era ancora la voglia di costruire un mondo migliore e per farlo era disposto ad arrivare molto in alto. Questo era pericoloso, un gioco spietato in un esercito tutt’altro che quieto nei suoi piani alti, ma il tempo dei sogni e dei giochi, dove tutto era bello e semplice, era terminato.
Se dovevano agire, dovevano farlo da adulti… e lei doveva esser disposta a premere ancora quel grilletto.
Devo proteggerlo ad ogni costo – si disse – lui ha visto, lui sa… lui ha mostrato dolore. Lui è l’unico che può cambiare davvero questo paese.
Lui era quello da proteggere.
 
“Assistente dell’alchimista di fuoco! Ma tu sei pazza! Come hai potuto fare una cosa simile?”
Rebecca quasi rischiava di farla sbattere contro l’armadietto dello spogliatoio per quanto la stava scrollando, tanto che Riza si sentì in dovere di metterle le mani sulle spalle e bloccarla.
“Sono decisioni personali che non mi va di discutere – dichiarò – ed inoltre parli proprio tu che hai fatto carte false per diventare assistente da campo del generale Grumman.”
Gli occhi scuri di Rebecca si socchiusero con stizza.
“Aspettavi solo il momento buono, vero Hawkeye? – sibilò – hai controllato tutto alla perfezione per accaparrarti quello migliore sul mercato, eh?”
“Scusa?” Riza si dovette trattenere dal ridere per quanto erano ridicole quelle accuse. Tuttavia Rebecca sembrava convinta che se una cosa la poteva fare lei, allora tutte le altre l’avrebbero imitata; ma con tutta probabilità aveva semplicemente visto la palese differenza fisica ed anagrafica tra i due superiori in questione e l’invidia si era fatta largo in maniera più che prepotente.
“Dimmi la verità: stavi controllando quelle liste di nuovi arrivi da tempo. Da quando lo conosci quel… quel favoloso esemplare di moro?”
“Ti prego di avere più rispetto del mio superiore, che poi è anche tuo superiore – ribatté Riza in tono serio, liberandosi dalla stretta dell’amica – se proprio vuoi saperlo io ed il tenente colonnello ci siamo incontrati ad Ishval, ti basta?”
A sentire quel nome Rebecca parve sbollire leggermente e si mise a braccia conserte per osservarla con attenzione, come se stesse valutando bene quanto le era stato detto. In qualche modo Riza fu grata che Ishval fosse una sorta di parola tabù che bastava a concludere qualsiasi conversazione: conosceva abbastanza bene Rebecca per sapere che con i suoi interrogatori poteva essere implacabile.
“E così ora sei la sua assistente – dichiarò infine – va bene, ti perdono questo piccolo tradimento, ma solo perché sei la mia migliore amica.”
“Tradimento, certo!” sospirò Riza, alzando gli occhi al soffitto con rassegnazione.
“… te lo perdono a patto che tu mi presenti un ragazzo che sia molto più bello di lui, intese?”
“Scordatelo – la bloccò lei con decisione – te lo cerchi da sola un ragazzo: in queste faccende io non ci voglio mettere il naso. E adesso scusami, ma devo andare: devo aiutare il tenente colonnello a sistemare la sua roba in ufficio.”
Interpretò lo sbuffo di Rebecca come l’autorizzazione ad andare, ma proprio come stava aprendo la porta una risatina perfida la bloccò.
“C’è altro che mi vorresti dire, Rebecca Catalina?”
“Sai, mi sono premurata di fare qualche piccola indagine sul tuo tenente colonnello – sogghignò con malizia la mora, accostandosi a lei e posandole l’indice sulla fronte – penso proprio che ti divertirai a fare la sua balia… ops, scusami, assistente.”
“Che vorresti dire?”
“Niente niente! – scosse il capo lei, muovendo in maniera seducente i suoi bei capelli neri – Buon lavoro, maresciallo Hawkeye!”
 
Come sarebbe a dire che non ha compilato nessuno dei fascicoli?”
Riza si dovette trattenere dall’alzare troppo la voce e superare così i limiti dell’etichetta militare, tuttavia davanti al sorrisino di scusa che le rivolse il tenente colonnello non poté fare a meno di prendere la cartella che conteneva tutto il lavoro non svolto e sbatterla pesantemente sulla scrivania, tanto da rovesciare il portapenne.
“E dai, non mi pare il caso di prendersela così tanto – dichiarò Mustang alzando le spalle – me ne sono scordato, tutto qui.”
“Li avevo messi sulla sua scrivania da stamattina – sbottò Riza, mettendosi a braccia conserte e squadrandolo con stizza – con l’appunto di provvedere entro le tre perché poi vanno consegnati all’ufficio di archiviazione. Possibile che non faccia minimamente caso a queste cose?”
“E se li consegniamo domani che differenza fa?”
“Domani è sabato, l’ufficio è chiuso! – Riza cercò di recuperare la calma e controllò l’orologio appeso la parete. Le tredici e venti: saltando la pausa pranzo potevano farcela – Adesso lei mi fa il favore di sedersi e di compilare tutto quanto.”
“Ma è l’ora del pr…” osò protestare lui, indicando con esitazione la porta, chiaramente intenzionato alla fuga. Ma Riza questa volta non era disposta a concedergli un simile lusso.
Compili tutto quanto!” esclamò, indicandogli con un gesto secco la sedia.
“Sono delle stupide lungaggini burocratiche che non servono a niente – borbottò Mustang, mettendo il broncio ma obbedendo all’ordine – e tu sei davvero troppo ligia al dovere a volte, dovresti scioglierti di più…” l’ultima frase fu poco più di un sussurro.
“Prego?”
“Niente, niente – sospirò l’uomo iniziando a compilare il primo foglio – diamine, da ragazzina non eri così…”
“Vuole metterci attenzione, per favore?”
“Va bene, va bene…”
Finalmente la rivolta parve domata e l’alchimista si mise a compilare i documenti, con lo stesso broncio di un bambino che è obbligato a fare i compiti. Convinta della vittoria, Riza si concesse una posa più rilassata, ma rimase a fissare con cipiglio severo il proprio superiore, giusto a titolo precauzionale. E per la centesima volta, in tre settimane che era la sua assistente, si chiese che fine aveva fatto lo studente diligente che aveva dimorato a casa Hawkeye per più di un anno.
Perché non esisteva soldato più svogliato, insofferente e scansafatiche del tenente colonnello Roy Mustang… almeno per quanto concerneva la parte burocratica del lavoro d’ufficiale dell’esercito. E, come le aveva malignamente preannunciato Rebecca settimane prima, lei si ritrovava a fargli letteralmente da balia.
E la cosa le faceva davvero rabbia perché per il resto era un soldato davvero valido: mettendo a posto la documentazione che era arrivata assieme a lui, Riza aveva infatti scoperto che a Central aveva ricevuto diversi incarichi e li aveva portati a termine con grande successo. In effetti si diceva che era stato mandato ad East City per evitare che desse fastidio a chi aveva precedenze. E sembrava che Grumman avesse già messo l’occhio sulle qualità di questo giovane ufficiale: già più volte era stato convocato nel suo ufficio e Riza era sicura che non fosse solo per giocare a scacchi, come le aveva detto Mustang quando era tornato.
“Senti, e se ne faccio metà ora e poi il resto dopo pranzo?”
“Continui a lavorare!”
Proprio come una maestra che tiene d’occhio lo scolaro svogliato, Riza non mollò la sua presa visiva e questo parve ridurre il ribelle a più miti consigli.
Semplicemente non gli piace… e se non gli piace non lo vuole fare e cerca di evitarlo in tutti i modi.
Ma non poteva assumere certi atteggiamenti alla sua età: il lavoro era lavoro, che piacesse o meno. Che poi Riza non capiva cosa ci fosse di tremendo nel compilare i documenti: lei lo trovava semplice… l’impostazione di ordine e rigore che le aveva dato la signorina Elliot stava dando i suoi frutti. Destreggiarsi tra i vari fascicoli le riusciva persino appagante, proprio come se avesse rimesso a posto una stanza disordinata.
Ma per lei che metteva a posto c’era chi invece lasciava tutto in disordine.
Ed il tutto era abbastanza surreale.
Dov’era finito il soldato serio a cui aveva presentato il suo curriculum? Quello che aveva giurato di proteggere, quello per cui premere il grilletto… colui al quale aveva affidato, ancora una volta, tutte le sue speranze. Osservando quel viso avvenente contratto in una smorfia di disappunto si chiese se davvero Roy Mustang voleva arrivare in alto: stare al comando di uno Stato era anche burocrazia, possibile che fosse così difficile da capire? E se non lo accettava da semplice tenente colonnello…
“Che hai?” la voce dell’uomo la fece sussultare.
“Niente, coraggio, prosegua pure.”
“Pari delusa da qualcosa.”
“Ma che dice – scosse il capo – forza, signore, per favore: abbiamo una scadenza. Vada al prossimo foglio e…”
“Già, un foglio – la bloccò lui, prendendone in mano lui e fissandolo con attenzione – lo sai che è bastato un solo semplice foglio?”
“Cosa?”
“Ordine 3066, un solo unico foglio: l’ordine con cui il comandante supremo King Bradley ha condannato l’intero popolo di Ishval – gli occhi scuri si fecero remoti – un… un pezzo di carta come questo.”
Riza non seppe che dire: conosceva quel foglio che a suo tempo era stato diramato in più copie in tutti i Quartier Generali. Sicuramente nell’archivio ne era stata conservata qualcuna, un pezzo di storia così importante e così orribile.
Guardò con gentilezza il suo superiore e si diede della stupida per aver dubitato delle sue intenzioni anche solo per qualche secondo.
“Signore, per quanto concerne il pranzo…”
“Sì?” lui alzò lo sguardo speranzoso
“… quando termina le prenderò un panino e le permetterò di mangiarlo qui in ufficio fuori orario mensa.”
Dovette reprimere un sorriso nel vedere la sua aria irritata per quella speranza sfumata.
Testardo lei, signore, ma pure io non scherzo. Non gliela darò mai vinta su questo.
Anche se la lotta sarebbe durata per tutta la loro permanenza nell’esercito.
 
E così quell’aprile del 1909 passò con Riza che cercava di adattarsi alle esigenze del suo nuovo superiore.
O meglio… cercava di far adattare il suo superiore ai doveri che comportava il suo grado.
Non fu una cosa semplice: era un sottile gioco psicologico tra imposizione, accondiscendenza e tanto altro e sembrava quasi che Roy Mustang ci godesse parecchio a mettere alla prova, ogni santo giorno, le sue doti di pazienza e di persuasione. Considerato che in quel periodo di relativa stasi il lavoro d’ufficio occupava la maggior parte delle giornate, la lotta divenne quasi quotidiana, ma invece di stancarsi l’uno dell’altra i due scoprirono di avere un certo affiatamento.
E Riza scoprì che le veniva del tutto naturale camminare due passi dietro quell’uomo, guardandogli le spalle, sentendosi particolarmente fiera di lui e delle speranze che rappresentava. Adesso, ora che erano una squadra, sentiva che stavano facendo la cosa giusta, che quella era la via migliore da percorrere per poter realizzare quel vecchio sogno.
“Maresciallo – disse Mustang, un giorno che camminavano nel corridoio dopo che lui era stato nell’ufficio di Grumman per quasi un’ora – dopodomani ci trasferiamo in un nuovo ufficio: procura diversi scatoloni per portare la roba.”
“Nuovo ufficio – Riza quasi si fermò stranita a quella novità: non le era stato fatto accenno di nulla – come mai, signore?”
“Semplice, quello dove stiamo adesso è troppo piccolo.”
“Mi pare vada benissimo…” rispose lei, non riuscendo a capire cosa non andasse in quella stanza dove le due scrivanie, una più piccola per lei, l’armadio, lo schedario e la libreria stavano alla perfezione, lasciando anche una discreta superficie calpestabile.
“No, avremo bisogno di più spazio con gli altri.”
“Gli altri?” questa volta si fermò davvero in mezzo al corridoio, tanto che Mustang si girò a sua volta per guardarla con un sorriso furbo, sicuramente lieto di averla sorpresa.
“Non combinerò mai niente di buono senza una squadra, maresciallo: tuo nonno presto mi affiderà delle missioni e ho bisogno di uomini validi. Anzi, visto che ci sei nei prossimi giorni procurami anche l’elenco di tutti i soldati a disposizione, grazie.” quindi si girò e riprese a camminare, le mani intrecciate dietro la schiena.
“Squadra…? – Riza dovette riscuotersi e fare tre passi di corsa per raggiungerlo – E quanti… e poi quale missione… ha detto nonno?”
“Non ti preoccupare, sa che di me si può fidare – Mustang nemmeno si girò a guardarla – ed è davvero affezionato a te, si capisce. Quanto alla squadra… mah, direi che un tre uomini possono bastare, non credi? Ah, se hai qualche suggerimento fai pure.”
Ma Riza scosse il capo.
Una squadra? Dei soldati quasi sicuramente più grandi di lei di diversi anni che l’avrebbero squadrata con sospetto per il suo grado di maresciallo? Degli estranei con cui lavorare a stretto contatto giorno dopo giorno?
“No, non ho alcun suggerimento, signore.”
Non ne abbiamo bisogno…
Si sentiva una sciocca bambina, ma non ne poteva fare a meno.




_______________
Per quanto concerne il dialogo iniziale tra Riza e Roy ho ripreso in toto quello del manga. In genere preferisco evitare soluzioni simili, ma è un punto troppo importante per tralasciarlo, ma ho cercato di ovviare con tutte le sensazioni di Riza 

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Capitolo 15
*** Capitolo 14. 1909. L'uomo della memoria ***


Capitolo 14
1909. L'uomo della memoria




 
Venerdì cinque maggio, quando rimase sola in ufficio, il finesettimana finalmente iniziato, Riza tirò un sospiro di sollievo. A sua memoria non era mai stata così felice che la pausa settimanale arrivasse e tutto quello che bramava era tornare a casa, farsi un bagno bollente e coricarsi a letto con una tazza di camomilla: non aveva voglia nemmeno di cenare.
Finita di riordinare la scrivania del tenente colonnello, andò alla sua per recuperare la tracolla e d’istinto osservò ad una ad una quelle dove lavoravano i suoi nuovi compagni di squadra, coloro che avevano crepato il rapporto d’intesa che c’era tra lei e l’alchimista di fuoco.
Ripensò a quei tre fascicoli così spessi rispetto al suo che ora giacevano in un cassetto della scrivania di Mustang: leggendoli, qualche giorno prima, era rimasta abbastanza delusa nello scoprire che nessuno di loro era un suo conoscente. Si era illusa che con un soldato con cui aveva scambiato almeno qualche parola le cose sarebbero state più semplici.
Ma non era andata così, tutt’altro. E ripensando a quei curricula, che aveva sfogliato rapidamente prima di preparare le lettere di convocazione, si disse che il tenente colonnello aveva scelto veramente dei soldati d’eccezione, che tuttavia restavano degli enigmi ai quali non sapeva ancora come approcciarsi.
La scrivania davanti alla sua apparteneva al suo pari grado, il maresciallo Heymans Breda.
Aveva solo due anni più di lei, eppure il suo curriculum era di svariate pagine, un fatto più che ovvio considerato che era stato una delle punte di diamante della Squadra Falco. Quel corpo d’elite, che si era sciolto con la fine della guerra, era stato una vera e propria leggenda: aveva giocato un ruolo decisivo per sbaragliare le bande di ribelli nel settore Est e, voci più o meno confermate, dicevano che il capitano avesse preferito portare i suoi uomini nel fronte contro Aerugo, a combattere contro altri soldati, piuttosto che disonorarli con un massacro di civili ad Ishval.
E Breda ne era stato uno degli esponenti di spicco: eccellente stratega, tantissimi encomi durante la sua permanenza al fronte, un vero prodigio sin da quando era in Accademia.
Anche se a guardarlo proprio non si direbbe…
Con una mano la donna sistemò meglio una matita che fuoriusciva dal portapenne del suo collega. Piuttosto corpulento, con quei lineamenti marcati e gli occhi infossati, ancora non riusciva a decifrarlo: nonostante l’indubbia efficienza in ufficio la sua espressione restava tra l’impassibile e l’annoiato. Eppure Riza sapeva bene che quel soldato sapeva sondare le persone meglio del previsto: se ne era accorta sin da quando era andata a convocarli e aveva camminato davanti a loro per condurli nell’ufficio. Lo sguardo di quegli occhi penetranti l’aveva trafitta nonostante fosse di spalle: in pochi secondi Breda l’aveva studiata come solo un soldato navigato poteva fare.
Ma tutto era finito lì: non c’era stata altra tipologia d’interazione, se non per motivi puramente lavorativi. Non sembrava qualcosa dettato dalla gelosia o chissà che altro, semplicemente era come se il soldato dai capelli rossi non fosse interessato ad instaurare altro rapporto che andasse oltre quello che aveva con il suo vicino di scrivania, il collega con il quale Riza si sentiva maggiormente a disagio: il sergente maggiore Jean Havoc.
Sin da quando aveva visto la foto allegata al curriculum, senza nemmeno leggere le prime righe, le era sceso un brivido: aveva riconosciuto immediatamente l’impronta del tiratore scelto. Era lui quello di cui aveva temuto l’arrivo… se doveva essere sincera, aveva sperato con tutto il cuore che non ci fosse nessuno con la sua stessa specializzazione: non le andava di avere a che fare con un altro Dante o con qualcuno di simile ai suoi vecchi compagni di squadra ad Ishval. Senza contare che c’era anche una lieve componente di gelosia nei confronti di quel soldato alto, biondo e dagli occhi azzurri: al contrario di lei aveva evitato Ishval, in quanto facente parte della Squadra Falco.
E certo che potrebbe limitare le sigarette! – pensò con stizza, osservando un pacchetto vuoto che era stato lasciato nella scrivania, con tutta probabilità per prendersi gioco di lei. Tutto l’ufficio ormai sapeva di un lieve odore di nicotina dato il numero esorbitante di sigarette che veniva fumato ogni giorno. Tutto questo andava contro il regolamento, ma sembrava che Havoc se ne facesse beffe, pena diventare così irritabile da dar fastidio a tutto il resto dei colleghi. Ed il fatto che fosse stata costretta a cedere su questo punto le dava enorme fastidio.
A prescindere dall’età più giovane, era lei l’assistente del tenente colonnello, colei che organizzava e dirigeva il lavoro di quell’ufficio per quanto concerneva l’amministrazione spicciola. Sapeva di avere le carte in regola per farlo e dunque pretendeva rispetto. Ma sembrava che Havoc, almeno per la questione sigarette, si facesse beffa di qualunque rimprovero, come se si sentisse superiore a lei. E poi, per quanto se la cavasse con i dossier, era anche parecchio disordinato rispetto agli altri… e a Riza bastava Roy Mustang con questa caratteristica.
Decisamente doveva trovare un modo per imporsi maggiormente.
Imporsi… davvero è questo quello che devi fare?
Se per Havoc ed in parte Breda le sembrava quello il verbo giusto, il suo sguardo andò alla scrivania dell’ultimo componente della squadra che, al contrario degli altri due, aveva scelto di stare al lato opposto rispetto alle altre postazioni, in uno strano isolamento.
Vato Falman era un altro enigma, a partire dal fatto che era ancora un sergente nonostante fosse il più grande di tutti loro con i suoi ventinove anni. Se Breda ed Havoc avevano caratteristiche fisiche notevoli, Falman era un caso estremo: alto, magrissimo, con quei curiosi capelli bicolore e gli occhi dal taglio allungato. Era l’unico che Riza conoscesse di vista: sicuramente era rientrato solo da qualche settimana al Quartier Generale e stava sempre nell’archivio, dove ormai l’aiuto per rimettere in ordine non serviva quasi più. Non aveva mai avuto occasione di parlarci, ma l’impressione che aveva avuto nel vederlo di sfuggita era stata quella di un uomo fin troppo compassato che, con molta probabilità, non aveva mai partecipato alla guerra in veste di combattente: gli mancava una determinata disinvoltura che aveva imparato a riconoscere.
Tuttavia la lettura del fascicolo le aveva fatto rivalutare quel soldato così alto: si trattava di un ex componente del reparto investigativo, una vera rarità. I soldati provenienti da quel settore dell’esercito, ormai quasi del tutto centralizzato nella capitale, erano un vero mistero a quel che ne sapeva. Però il curriculum parlava di anni ed anni di missioni sotto un certo capitano Mc Dorian, a quanto sembrava una vera autorità in quel campo.
In ogni caso, in quei primi giorni, più che compassato Falman le era parso spaesato, come se trovasse difficile inserirsi all’interno di una squadra non ancora coesa. Tra Havoc e Breda che si conoscevano già e lei ed il tenente colonnello, il sergente era quello che si veniva a trovare tagliato fuori da qualsiasi dinamica di gruppo. Paradossalmente Riza provava per lui una strana forma di simpatia, come se riuscisse a capire il suo senso di disagio. Tuttavia non osava fare nessun passo in avanti per paura di indisporre gli altri o mettere in dubbio la sua autorità.
Sai qual è la verità, Riza? – si disse, infilandosi il cappotto – E’ che non sei minimamente abituata ad un ruolo attivo all’interno di una squadra. I tuoi compagni li vedevi ad inizio e fine giornata, ma non ci hai mai veramente interagito e di certo non avevi una posizione di responsabilità nei loro confronti.
Ed il suo più grande timore era che prima o poi il duo della Squadra Falco si accorgesse di questa sua lacuna e ne approfittasse.
 
La settimana successiva fu caratterizzata da questo strano limbo dove nessuno voleva dare confidenza agli altri. Nell’ufficio regnava il più assoluto silenzio, tanto che era possibile sentire le penne che scrivevano ed il soffio con cui Havoc gettava il fumo della sigaretta.
In tutta questa apparente calma Riza si sentiva continuamente sotto pressione, come se tutti aspettassero una sua mossa falsa. Di conseguenza preferiva interagire quasi esclusivamente con il tenente colonnello, cercando di recuperare almeno con lui il solito rapporto, sebbene non fosse semplicissimo.
Anche Roy Mustang era abbastanza stranito da quella nuova situazione: se ne stava tranquillo alla sua scrivania, svolgendo i suoi compiti con malagrazia ma non con la solita pigrizia. Era chiaro che non sapeva come comportarsi in presenza dei nuovi sottoposti: con tutta probabilità riteneva che esporsi troppo con i suoi tratti caratteristici sarebbe potuto essere dannoso. Se da una parte questa maggiore collaborazione poteva far piacere, dall’altra Riza ne era lievemente delusa: le dava fastidio vedere il suo superiore così trattenuto nei confronti degli uomini con i quali avrebbe invece dovuto interagire. A volte le sembrava un ragazzino che vorrebbe stringere amicizia con gli altri ma non sa se e come verrebbe accolto.
Una classe di bambini che non si conoscono, ecco cosa siamo. Solo che, mentre in Accademia partiamo tutti dallo stesso grado e dalla stessa età, qui ci troviamo in una situazione differente e non sappiamo come comportarci.
Fu questo quello che pensò Riza mentre compilava una particolare sezione di un dossier che si erano divisi tra loro. Per quanto la documentazione del Quartier Generale fosse ormai in ordine, i singoli dossier erano spesso lacunosi e rimetterli insieme era un vero problema.
“… maresciallo Hawkeye, anche lei ha dati differenti?”
La voce di Breda la fece riscuotere e vide che il corpulento soldato stava confrontando il suo fascicolo con quello di Havoc. Con disapprovazione si alzò e andò a visionare i fogli che le venivano offerti: quello sarebbe stato un grosso problema che avrebbe fatto perdere ore ed ore di lavoro.
“Falman, anche tu hai difficoltà? – continuò Breda – Se è sbagliato anche il tuo non vale la pena che continui a lavorare.”
“Che? Oh no, signore, non si preoccupi: ho già corretto le mie parti.”
A quella risposta data con lieve sorpresa tutta l’attenzione della squadra si spostò su quello che in genere era il componente più discreto e silenzioso. Riza vide quelle guance scavate arrossire leggermente, ma non ci fece nemmeno caso, presa com’era dalla prospettiva di poter risolvere il problema
“Come hai fatto? – chiese andando accanto a lui ed osservando quei fogli compilati alla perfezione – i dati che abbiamo…”
“Oh, sono refusi perfettamente individuabili, signora – le spiegò lui, restando seduto – in primis questi codici hanno le ultime due cifre sbagliate perché si sta parlando dell’anno scorso…”
E così, quello che era stato il soldato più silenzioso fino a quel momento iniziò una lunga e dettagliata spiegazione su come venire a patti con quei documenti così lacunosi. Man mano che lo ascoltava Riza ne restava affascinata, chiedendosi come fosse possibile che quell’uomo conoscesse così tanti dettagli su dei settori dell’esercito così diversi tra di loro: non era il tipo di capacità che si aspettava da un componente del reparto investigativo.
Fu quasi con sorpresa che si accorse che pure il tenente colonnello si era avvicinato assieme ad Havoc e Breda. E anche Falman rimase sorpreso quando, alzando lo sguardo da quei foglio trovò tutto quel pubblico ad osservarlo.
“E così – commentò Mustang – quello che si diceva di te era vero, sergente Falman”
“Signore?”
“Correva voce che un ex membro del reparto investigativo fosse qui al Quartier Generale dell’Est e non a Central City… ma quando ho letto la tua scheda, beh, hai doti di cui si fatica a credere, Falman. Ma oggi me ne hai dato ampia dimostrazione: con un problema del genere si resterebbe fermi per giorni”
“Reparto investigativo?” chiese Havoc
“Sì, sergente maggiore, – annuì Mustang – il nostro Falman non ha mai visto un campo di battaglia, ma ti assicuro che anche lui ha un po’ di storie da raccontare: devo dire che la lettura del tuo fascicolo è stata davvero interessante”
Sicuramente il tenente colonnello si riferiva alle ultime pagine del fascicolo, quelle che Riza non si era premurata di leggere. Tuttavia non era quello che le premeva: davanti alla possibilità di compilare quei documenti in tempi relativamente brevi non c’era che una cosa da fare.
“Ottimo! – disse, accorgendosi di essere entusiasta all’idea di imparare tutti quei trucchi – Allora, Falman, spostati nella scrivania vicino alla mia, così siamo tutti e quattro vicini: aiutaci a capire quali sono i refusi di questo rapporto; perderemo meno tempo del previsto”
E senza aspettare risposta prese il fascicolo che stava sulla scrivania del soldato e lo spostò in quella vuota che stava accanto alla sua: tutti e quattro vicini avrebbero di certo capito meglio le spiegazioni del soldato dalle grandi doti mentali.
“Va bene, signora” annuì Falman con lieve esitazione.
 
Quando quella sera uscì dal Quartier Generale Riza si sentì per la prima volta soddisfatta di come era andata la giornata lavorativa. Ascoltare le spiegazioni di Falman le aveva fatto riscoprire le gioia di imparare qualcosa di nuovo, una sensazione che non aveva più provato dai tempi dell’Accademia.
Ma oltre a questo c’era anche una strana e nuova sensazione, un particolare senso di simpatia e cameratismo che era riuscita a provare nei confronti di quel soldato così riservato.
Di conseguenza, quando arrivò a casa della signorina Elliot, per la canonica cena settimanale, era di umore così gaio che la sua vecchia insegnante non tardò a rendersene conto.
“Dev’essere successo qualcosa di importante per avere questo sorriso, mia cara.” commentò la vecchia signora, mentre le serviva del pasticcio di carne. Se c’era una cosa di cui Riza era lieta era il fatto che non ci fossero più razionamenti e che dunque la sua insegnante potesse ricevere un’alimentazione più che adeguata. Adesso che era di nuovo in forze e attiva si rendeva conto di quando la signorina Elliot fosse anziana, sebbene in forze, e dunque si premurava che non le mancasse mai nulla.
“Davvero si vede? – chiese con sorpresa – A dire il vero non è una cosa così importante, signorina.”
“Considerato che la settimana scorsa eri con un musone non indifferente, credo che invece sia importante.”
“No, è che – Riza arrossì lievemente, non sapendo come spiegarlo: a guardarla dall’esterno, quanto era successo in ufficio non aveva niente di rilevante – semplicemente ho lavorato bene con un mio collega, tutto qui. E abbiamo risolto un problema di documentazione che rischiava di prenderci molto tempo.”
L’anziana donna sorrise bonariamente.
“E’ incredibile come determinate reazioni rimangano le stesse anche quando si è ormai grandi. Mi ricordi molto i miei scolari quando li mettevo a lavorare assieme a qualche compito. Sulle prime si squadravano con sospetto, sai tendevo a formare gruppi di ragazzi che non si frequentavano, ma poi lo spirito di gruppo prendeva il sopravvento… spesso ritenevo che queste lezioni fossero più importanti di qualche ora di spiegazione di storia o geografia.”
“Però è stato solo per quei documenti…” obbiettò Riza.
“Il fatto che sia o meno un inizio è una scelta tua, mia cara.” la corresse la donna, riprendendo a mangiare.
 
Memore del giorno dopo, Riza si recò in ufficio più presto del previsto, decisa a lasciare da parte l’indecisione che aveva avuto negli ultimi giorni e prendere finalmente l’iniziativa. Certo, era perfettamente consapevole che c’era una percentuale di rischio, ma aveva anche alcuni indizi che le facevano pensare che con quella particolare persona le cose potessero andare bene.
Si sistemò quindi alla scrivania, memore che il tenente colonnello sarebbe arrivato più tardi, ed attese, ben consapevole che il suo obbiettivo tendeva ad arrivare abbastanza presto. Ed infatti dovette attendere solo una decina di minuti.
“Buongiorno, signora.” salutò Falman entrando e mostrandosi lievemente sorpreso di trovarla già lì.
“Buongiorno Falman.” rispose lei.
“Il tenente colonnello oggi non viene?”
“No, è stato chiamato dal Generale Grumman e verrà in ufficio quando potrà.”
“Capisco…” annuì il sergente, andando verso la sua solita scrivania e mettendo la mano sulla spalliera della sedia. A quel punto i loro sguardi si incontrarono e Riza fu certa che anche lui aveva avuto i suoi medesimi pensieri a proposito delle dinamiche di gruppo.
“Ecco… io…”
“Falman – lo incitò con un sorriso incoraggiante – perché non ti siedi accanto a me, come ieri? Del resto, non ha molto senso essere nella stessa squadra se poi creiamo da soli divisioni simili.”
Per qualche secondo ebbe timore di esser stata troppo schietta, ma poi vide un sincero sorriso di gratitudine nel volto allungato di Falman mentre si spostava nella scrivania accanto alla sua.
Lo osservò con attenzione sistemare la sua roba, accorgendosi che i suoi gesti, per quanto metodici, erano comunque accompagnati da una strana forma di gentilezza. Ecco, gentilezza era il termine giusto per quel soldato una volta che si andava oltre la scorza di compostezza e lieve rigidità.
“Maresciallo Hawkeye.”
“Sì?”
“Se c’è qualche problema con i rapporti o qualcosa di simile… io sono a completa disposizione, non ha che da chiedere. Nella mia vecchia squadra ero io che mi occupavo sempre di queste cose.”
“Il tenente colonnello ieri ha parlato di tue grandi doti – sorrise lei, lieta di quella prima forma di dialogo al di fuori del lavoro spicciolo – ma non è stato molto specifico. Potresti spiegarti meglio?”.
“Apra una pagina a caso – disse il soldato, indicando il rapporto del giorno prima che ancora stava sulla scrivania della donna – e inizi a leggere, non necessariamente a inizio foglio o inizio frase…”
Riza lo fissò perplessa per qualche secondo, chiedendosi dove volesse arrivare. Tuttavia, decisa a non spezzare quello strano momento di complicità, aprì una pagina a caso del rapporto e lesse:
“… condotte nel settore del terzo battaglione, hanno rivelato che la mancanza…
“… la mancanza di strutture adeguate – continuò Falman - ha impedito al personale di adempiere ai compiti che gli erano stati preposti. E’ stata dunque fatta richiesta, si veda a riguardo il protocollo 425, affinché venissero condotte delle indagini a proposito della sparizione di materiale dai magazzini dell’esercito. E’ questa una delle doti di cui parlava il tenente colonnello Mustang, signora: mi ricordo tutto quello che leggo.”
C’era una strana forma di timore ed aspettativa nella voce del sergente quando disse quest’ultima frase. Come se avesse appena reso partecipe Riza di un suo segreto e ora avesse timore della sua reazione.
La giovane dal canto suo non poté far altro che guardarlo con grande sorpresa, sinceramente colpita da quello che aveva appena sentito: una dote come quella di Falman era davvero fuori dal comune e questo finalmente le spiegava la sua perenne presenza in archivio a prescindere dal fatto di essere un ex componente del reparto investigativo.
Un uomo della memoria, certo – constatò – però non è solo per questo, ne sono certa.
Conosceva abbastanza bene il tenente colonnello per sapere che la sua scelta di quei tre soldati non era stata determinata solo dalle peculiarità di ciascuno. Se Mustang voleva arrivare al vertice per cambiare il paese aveva bisogno in primis di uomini di cui potersi fidare ciecamente, di questo Riza era sicurissima.
Lei stessa era un cecchino, ma era innanzitutto una delle persone che non aveva rinnegato quanto era successo ad Ishval e che era disposta a prendersi la sua dose di responsabilità quando sarebbe stato il momento.
“Il tenente colonnello Mustang vi ha scelto per un determinato motivo, Falman – disse infine con un sorriso comprensivo – Questa tua dote è certamente eccezionale, e se vorrai aiutarci con questa documentazione ne sarò più che felice, ma non cadere in errore: il nostro superiore ha guardato anche… anzi soprattutto altro, quando ha scelto voi tre.”
“E cosa…”
“Questo dovrete scoprirlo da soli.”
Lo disse con un lieve sorriso, cercando di non essere offensiva. Ma era un dato di fatto che ancora Falman non poteva capire cosa c’era dietro lei ed il tenente colonnello.
La cosa importante e che almeno io e te abbiamo fatto un primo passo.
 
“Ho notato che il sergente Falman finalmente è entrato in contatto con te.”
Mustang lo disse a fine giornata, quando lui e Riza erano rimasti ormai soli nell’ufficio.
La giovane annuì lievemente, cercando di trattenere la grande soddisfazione che aveva provato nell’interagire con il suo collega. Non si trattava solo di semplice collaborazione nel lavoro: anche durante la pausa avevano avuto occasione di scambiare qualche parola. Niente di particolare, certo, ma c’era un nuovo ed innegabile affiatamento tra lei e Falman.
“Abbiamo avuto occasione di approfondire maggiormente la nostra conoscenza – spiegò – del resto è più che giusto se si vuole lavorare come un gruppo, no?”
“E con la nostra coppia della Squadra Falco come procede?”
“Il maresciallo Breda ed il sergente maggiore Havoc hanno lavorato bene pure oggi.”
Sì, era una risposta molto evasiva e chiaramente si capiva che con loro non era stato fatto nessun passo avanti. Anzi, Riza era certa di aver notato una lieve sorpresa mista ad astio nel costatare che lei e Falman avevano una maggiore collaborazione rispetto ai primi giorni. Ma forse era anche colpa sua… se doveva essere sincera non aveva potuto fare a meno di lanciare uno sguardo malignamente compiaciuto ai suoi due rivali, mentre parlava con Falman.
Un po’ come dei bambini che si fanno i dispetti? Oh, dai Riza, smettila con queste sciocche idee… gli esempi della signorina Elliot vanno bene fino ad un certo punto! Siete soldati!
“… lavorato bene, già – annuì Mustang, squadrandola con sospetto – loro lavorano sempre bene.”
“Mi vuole dire qualcosa di specifico, signore?”
“No, assolutamente! Piuttosto tuo nonno ha chiesto di te.”
“Preferirei lo chiamasse generale Grumman, signore: siamo in un contesto lavorativo e sa bene come questa sia un’informazione riservata. E vorrei che restasse tale.”
“Siamo soli.”
“Non è questo il punto.” ribadì lei con serietà.
“Va bene, argomento chiuso – si arrese l’uomo, mettendosi il cappotto – piuttosto, ti volevo chiedere una cosa: ad Ishval voi tiratori scelti lavoravate sempre in solitaria, vero?”
“Sì, signore, lo dovrebbe sapere – annuì Riza, cercando di mostrarsi impassibile davanti a quello strano riferimento alla guerra – i distretti e le zone da coprire erano tante: ciascuno di noi veniva dislocato a seconda delle necessità.”
“Più che giusto.”
“Come mai una domanda simile?”
“Tutto a suo tempo, maresciallo – sorrise enigmatico Mustang – tutto a suo tempo.”
Riza sospirò e lo seguì fuori dall’ufficio: si intuiva che quell’uomo aveva qualcosa in mente, ma non era assolutamente in grado di capire. Certo c’era il fatto che fosse rimasto con suo nonno, anzi col generale Grumman, per quasi tutta la giornata e avendo un’idea ben precisa di quelle due personalità era certa che qualcosa stava bollendo in pentola.
Del resto non ha formato una squadra solo per restare a muffire con dossier e documentazioni. In qualche modo dovrà pur iniziare a farsi strada.
Però quella strana domanda sul suo trascorso da cecchino ad Ishval la preoccupava parecchio.





____________________
nda.
Scusate il ritardo con questo capitolo ma proprio non voleva uscire fuori e ve ne spiego il motivo.
La formazione del primo nucleo della squadra di Roy l'avevo già trattato in precedenti fic e quindi volevo evitare di ripetermi, pur mantenendo la coerenza (dato che considerto le mie storie profondamente collegate tra di loro). Tuttavia per la parte relativa a Falman mi sono dovuta arrendere all'evidenza e riprendere i dialoghi presenti in The memory man: era un punto troppo cruciale per non metterlo.
Ah, per quanto concerne i trascorsi di Havoc, Breda e Falman faccio ugualmente riferimento alle mie fic precedenti, ossia Brothers in arms e The memory man

 

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Capitolo 16
*** Capitolo 15. 1909. Il mio rivale ***


Capitolo 15
1909. Il mio rivale




 
Quella strana e breve conversazione con il tenente colonnello fece capire a Riza che qualcosa stava bollendo in pentola, sebbene lei non ne fosse stata ancora resa partecipe. Da una parte questa esclusione le dispiaceva, ma era anche abbastanza accorta da sapere che fino a quel momento non c’era stata alcuna missione ufficiale che la coinvolgesse e dunque modalità e tempistiche di comunicazione erano ancora da definire. Era chiaro che il tenente colonnello volesse prima abbozzare un piano prima di presentarlo a lei e successivamente al resto della squadra.
Di conseguenza fu totalmente impreparata quando, la mattina successiva, ci fu un palese cambiamento d’atteggiamento nel suo superiore: al posto della solita aria svogliata e disinteressata, che aveva assunto negli ultimi giorni, se ne stava alla scrivania ad osservare a turno ciascuno di loro. Ovviamente un simile gesto non poteva passare inosservato, ma lei preferì non farci caso, concentrandosi sul proprio lavoro: se Mustang aveva bisogno di riflettere in un simile modo per creare le linee d’azione era liberissimo di farlo e…
“Falman, Breda: venite qui, voglio parlarvi.”
Fu con grande sforzo che Riza rimase impassibile nel sentire quell’improvvisa chiamata. Guardò i due interessati che si alzavano dalle sedie con aria perplessa e poi riprese in mano il rapporto a cui stava lavorando. Tuttavia non si fidò di riprendere a scrivere: sentiva che la mano le tremava leggermente per la rabbia e la delusione.
Perché non me ne ha parlato prima, signore? – si chiese – Eppure sono la sua assistente, avevo il diritto di sapere qualcosa in anticipo.
Perché, a dire la verità, che qualcosa bolliva in pentola l’aveva intuito da sola e le poche domande che le aveva fatto Mustang le avevano detto poco e nulla. Ma per il legame che avevano, o comunque per un semplice motivo di ruoli, si era aspettata di avere una posizione privilegiata nei confronti del resto della squadra.
“Havoc, maresciallo Hawkeye – chiamò ancora la voce di Mustang e solo a quel punto Riza si rese conto di aver perso parte di quello che aveva detto il suo superiore – massimo una settimana di tempo e passeremo all’azione: ci sarà bisogno della vostra mira e anche di un determinato sincrono tra di voi… potete farlo?”
Che cosa?
A quel punto dalla sorpresa e delusione, Riza passò ad una strana forma di rabbia: non solo non le era stato anticipato nulla, ma adesso si trovava anche ad avere a che fare proprio con Havoc.
“Sissignore!”
La risposta giunse automatica da parte di entrambi, le voci salde e calme, come se l’ordine fosse stato quello di andare a prendere una normale pratica d’ufficio. Tuttavia mentre Mustang riprendeva a parlare con Falman e Breda circa i loro compiti, Riza ed Havoc si guardarono negli occhi, probabilmente per la prima volta in maniera seria. Quelle iridi azzurre avevano perso qualsiasi barriera, qualsiasi indifferenza, lasciando solo una forte componente di cacciatore pronto a contendersi la preda con l’avversario.
E Riza fu consapevole di avere il medesimo sguardo, quello che in fondo era un tratto distintivo dei tiratori scelti. Sì, poteva aver ucciso innocenti, persone di un popolo che voleva solo sopravvivere, ma ora con Jean Havoc si era aperta la sfida. Il tenente colonnello aveva chiesto mira e sincrono, certo, in realtà aveva appena scatenato la contesa per chi avrebbe preso il posto privilegiato.
E per la prima volta da dopo Ishval, Riza sentiva l’esigenza di far ingoiare la polvere a qualcuno che si credeva sicuramente migliore di lei nel suo campo.
 
Al contrario della maggior parte delle ragazze che trovava rilassante andare in giro per negozi o prendere un the con le amiche, per Riza il posto che la faceva sentire maggiormente a suo agio era il poligono di tiro. Lo considerava ormai come un suo personale territorio e niente la faceva sentire meglio di quando ci andava la sera, dopo lavoro, quando era praticamente vuoto e tutto per lei. Le sessioni di tiro la aiutavano a scaricare tutta la tensione meglio di un bagno caldo e, soprattutto, non c’era bisogno di nascondere il suo compiacimento per un colpo ben fatto.
Se doveva essere sincera preferiva praticare quest’attività da sola: solo Rebecca e qualche altra ogni tanto la accompagnavano in queste sessioni notturne, ma si capiva che loro non riuscivano a provare i medesimi sentimenti. E, ad onor del vero, eccetto la mora poche altre funzionavano da vero stimolo dato che i risultati erano nettamente inferiori ai suoi.
A rigor di logica avere a che fare con Havoc avrebbe dovuto rappresentare una grande occasione, specie per il poco tempo che restava loro per trovare quel determinato sincrono che aveva richiesto il tenente colonnello.
Tuttavia, entrando nel poligono di tiro vuoto, Riza si sentì piuttosto tesa e per la prima volta quel luogo non le sembrò più il suo rifugio sicuro: era come se sentisse la presenza di un intruso che aveva tutta l’intenzione di minacciare quello che era il suo dominio. Con tutta la noncuranza possibile andò alla sua postazione preferita, la numero sette, e posò il fucile contro il tavolino dove stavano già pronti alcuni pacchetti di munizioni. Si era già levata la giacca nello spogliatoio e dunque non le restò che controllare le protezioni per occhi e orecchie che avrebbe indossato poco dopo.
Collaborare.
Quella parola le sembrava inverosimile mentre lanciava un’occhiata all’orologio appeso alla parete laterale e notava come il suo collega fosse in ritardo di già cinque minuti. Havoc le aveva procurato una strana spinta emotiva che la spingeva verso una feroce competizione; in genere lei non era propensa alla sfida: preferiva di gran lunga la consapevolezza di aver svolto al meglio il suo lavoro senza curarsi troppo di quello che combinavano gli altri. La sfida non rientrava nel suo modo di agire e pensare, specie in una situazione come la loro dove i tempi erano veramente ristretti.
Eppure come sentì la porta aprirsi e vide Havoc entrare con il fucile in spalla e la sigaretta in bocca, sentì una scarica di rabbiosa adrenalina attraversarle tutta la spina dorsale. Iniziava a detestare quella sfacciata noncuranza, così diversa da quella del tenente colonnello: per Mustang era uno stile di vita, per Havoc era semplicemente una provocazione nei suoi confronti, ormai ne era certa.
“Sei in ritardo di più di cinque minuti, sergente maggiore – dichiarò, mentre lo osservava levarsi la giacca della divisa e agganciarla ad uno dei pannelli che dividevano le diverse postazioni – ti vorrei ricordare che il tempo a nostra disposizione è poco. La prossima volta ti prego di essere maggiormente puntuale.”
“Scusi tanto – rispose lui, guardandola con profonda malizia – allora, dove vuole che mi sistemi?”
Era una provocazione bella e buona per due tiratori scelti: postazioni vicine volevano dire un maggiore livello di difficoltà dato che si rischiava di perdere la concentrazione per sbirciare i risultati dell’altro.
Credi che abbia paura di sfidarti da postazioni vicine?
“Stai pure qui accanto a me, sergente – disse con noncuranza – non penso crei problemi, vero?”
“Proprio no, signora, sarei stato deluso del contrario.”
C’era una nota di compiacimento in quella dichiarazione? Riza non lo seppe dire intenta com’era a controllare per l’ennesima volta che il fucile fosse in perfetto ordine. Sentì che anche Havoc stava controllando la sua arma e dai rumori e scatti precisi dovette ammettere che ci sapeva senza dubbio fare nel maneggiare un fucile.
“Vuole l’onore del primo colpo, signora? – chiese il sergente con un sorriso sprezzante, lasciando gli occhiali protettivi al loro posto: un chiaro segnale di come li considerasse gingilli per principianti.
Riza prese la medesima decisione e poi scosse il capo.
“In contemporanea, lo trovo decisamente più interessante.”
Più interessante e anche richiedente maggiore concentrazione, questo lo sapevano entrambi, ma se proprio si dovevano battere tanto valeva farlo ad alti livelli, del resto si stavano confrontando due cecchini d’eccezione.
Solo che ti batterò dopo le prime cinque sessioni, ne sono certa – si disse, prendendo posizione – vedrai di cosa sono capace!
“Venti colpi a ripetizione – propose Havoc – valgono solo tre cerchi più interni, o forse li vuole tutti a disposizione per il punteggio, signora?”
“Se tu ne hai bisogno fai pure, sergente: io vado sugli ultimi due.”
“Agli ordini.”
Non dissero altro.
Con un tacito cenno d’intesa ciascuno sistemò il fucile e si concentrò sul proprio bersaglio.
Da tempo Riza non sentiva una simile tensione attraversarle ogni singola fibra del corpo, ma era una sensazione più che positiva che non faceva altro che stimolarla. Contò mentalmente fino a cinque e poi puntò il centro del suo bersaglio: non voleva mancare nessuno di quei venti colpi.
Quando sentì il rumore del primo sparo, praticamente contemporaneo a quello di Havoc, si lasciò sprofondare in quella strana e personale sfida.
 
Dopo due giorni che andava avanti questa sfida, la parità continuava a farla da padrona con punteggi elevatissimi. Ormai i due contendenti arrivavano al poligono di tiro senza nemmeno scambiarsi un saluto, decisi soltanto a vedere se quella sarebbe stata la volta buona in cui uno dei due avrebbe ceduto. Infatti ormai entrambi avevano capito che non sarebbe stato tanto uno a prevalere, quanto l’altro a fare quell’imprecisione che l’avrebbe allontanato dal punteggio massimo. E per semplice questione di statistica quel momento si avvicinava sempre più, mettendo a dura prova il sangue freddo di entrambi.
Mentre quella sfida procedeva, in ufficio la situazione diventava sempre più tesa e Riza era la prima ad ammetterlo: lei ed Havoc non si dicevano niente, ma facevano chiaramente capire come fossero ai ferri corti. Tuttavia, per quanto il suo buon senso le suggerisse come un simile atteggiamento fosse improduttivo, la maggior parte di lei non aveva la minima intenzione di darla vinta a Jean Havoc.
Lui era ormai diventato il suo rivale e questo le faceva provare sentimenti che mai si erano impossessati di lei: ne riconosceva il valore e allo stesso tempo lo detestava. Non poteva sopportare i suoi atteggiamenti menefreghisti e contemporaneamente non vedeva l’ora che arrivasse il momento della loro sfida.
Anche se, ufficialmente, si diceva che erano solo delle esercitazioni per trovare il sincrono richiesto dal tenente colonnello.
E, fortunatamente per lei, a livello inconscio stava davvero trovando uno strano feeling con Havoc: aveva imparato a conoscere i tratti distintivi del suo sparare. Spesso i profani ritengono che basti impugnare bene l’arma, prendere la mira e premere il grilletto: in realtà l’arte di sparare e fatta di decine di dettagli che rendono ogni tiratore diverso dall’altro. Ed un occhio attento come quello di Riza era stato rapido a cogliere tutte queste peculiarità: da come lui sicuramente dava il suo meglio se stava sul lato sinistro, al suo modo di inclinare la spalla che gli faceva deviare la traiettoria di qualche millimetro per compensare una lieve torsione della schiena.
E così, quella sera, procedeva verso il poligono rimuginando su tutti questi particolari e confrontandoli con il suo modo di sparare. Era così assorta che il cuore le balzò in gola quando Rebecca le piombò addosso e le cinse il collo in un abbraccio cameratesco.
“Non ti ricordi che mi devi un grosso favore?”
“Quale?” chiese sorpresa Riza.
“Mhpf! Fai la finta tonta? Circa un mese e mezza fa mi hai promesso che mi avresti trovato un bel ragazzo.”
“Veramente hai fatto tutto da sola come sempre – la corresse la bionda, per niente contenta di quell’intrusione mentre era in una fase delicata come quella pre poligono di tiro – e se ti fermi a pensare il minimo indispensabile, ti accorgerai che sono l’ultima a poter trovare un ragazzo a…”
“E quel meraviglioso pezzo scultoreo biondo e dagli occhi azzurri che lavora con te? – la bloccò Rebecca, spingendola contro il muro – Non mi dirai che ci hai messo tu gli occhi addosso, non te lo perdonerei mai. E poi tu hai Mustang, no?”
“Santo cielo, Reby, ma stai proprio parlando di Havoc?”
“Sì, proprio Jean Havoc – annuì la mora con occhi languidi – santo cielo, come l’ho visto la settimana scorsa mi è sceso un colpo al cuore. Hai visto che muscoli? E che altezza! Non credo che al quartier generale ce ne sia uno bello quanto lui!”
“Senti…”
“E tu da due giorni ci vai assieme al poligono di tiro, credi che non lo sappia?”
“Mi spii?”
“A te? – Rebecca la guardò stranita e poi fece un sorriso malizioso – Sei la mia migliore amica, ma non meriti simili attenzioni: spio lui, sciocchina.”
“Sei impossibile – sibilò Riza, liberandosi da quella posizione – e ti faccio un favore nel dirti che non ne vale assolutamente la pena. Sarà bello fisicamente, ma per il resto è insopportabile…”
“… chi disprezza compra – la squadrò Rebecca – mi vuoi allontanare da lui?”
“… e fuma come un dannato! Io interessata a lui? – Riza non poté fare a meno di fare una risata sarcastica – Catalina, ti assicuro che Jean Havoc è l’ultima persona a cui penserei, anche se non ci fossero le regole anti fraternizzazione, chiaro? Se ti dico che non mi piace è perché tu, nonostante tutto, sei la mia migliore amica e vorrei evitarti uscite con chi non ti merita.”
“Questo lascialo giudicare a me! – la bloccò la mora – allora sul serio non sei interessata a lui?”
“E’ un bravo tiratore scelto, è l’unico pregio che gli concedo. Se vado al poligono con lui è perché siamo nella stessa squadra ed è necessario trovare sincrono, capisci?”
Rebecca la fissò per dieci lunghi secondi, durante i quali Riza mantenne la sua espressione seccata. Non ci voleva credere che la sua migliore amica avesse perso la testa proprio per Havoc: certo, era bello, questo era innegabile, ma lei che ci aveva avuto a che fare quotidianamente lo trovava superficiale, irritante e provocatore. Metterlo assieme a Rebecca voleva dire gettare un fiammifero dentro un bidone di benzina.
“Ti credo – annuì infine la mora – ma quanto a sapere se va bene per me o meno preferisco deciderlo da sola: sono maggiorenne e vaccinata, no?”
“A volte non sembra…” sospirò Riza.
“Allora me lo presenti?”
“Senti… abbiamo una missione a breve, non mi pare il caso.”
“Allora dopo la missione, no? – strizzò l’occhio l’altra – tanto so aspettare. Mi prometti che lo farai? Ti prego, Riza! Sei l’approccio perfetto per avvicinarmi a lui.”
“Santo cielo…”
“Lo prendo per un sì! – applaudì Rebecca – adesso ti lascio andare: non vorrei lo facessi aspettare! Salutamelo tanto! Anzi no… no, dato che non mi conosce: potrei rovinare tutto!”
E fissando la sua amica allontanarsi, Riza non poté far altro che ammettere che c’erano tutti i presupposti per una strana trama, tipo quella dei romanzi rosa che spesso le raccontavano le sue colleghe degli uffici amministrativi.
Ma io non ho la minima intenzione di prendervi parte! A missione finita li presenterò e amen.
Liquidò così la questione, sentendo l’aspettativa per la nuova serata di sfida crescere dentro di lei. Adesso aveva un motivo in più per avercela con Havoc: in qualche modo aveva messo in mezzo la sua migliore amica.
 
Forse fu quella nuova rivelazione, forse fu semplicemente il fatto che uno dei due alla fine doveva per forza cedere, sta di fatto che Riza quella sera riuscì finalmente a battere il suo rivale: centottanta a centosettantotto, uno scarto di due punti provocato da una lieve imprecisione di Havoc sul penultimo tiro.
Quando vide che anche l’ultimo sparo andava a segno in maniera perfetta, Riza dovette trattenersi a stento dal lanciare un’esclamazione di gioia; invece si limitò a tenere lo sguardo impassibile e aprendo il caricatore ormai vuoto disse:
“Cerca di fare maggior attenzione, sergente maggiore Havoc. Il tenente colonnello vuole il meglio da noi.”
Porta a casa la sconfitta, sbruffone! Adesso la smetterai di fare il gradasso con me.
“Complimenti, signora – rispose Havoc, con rabbia nemmeno troppo nascosta – e non si preoccupi: durante la missione farò del mio meglio.”
Lanciando una rapida occhiata all’avversario, Riza vide come rimetteva a posto il fucile con mosse rigide e furenti: non si era certo aspettato di perdere quella sera. Gli occhi azzurri si girarono verso di lei e la gratificarono di uno sguardo d’odio e disprezzo.
E, con sua somma sorpresa, ci rimase malissimo.
 
Una volta, quando ancora era ragazzina, in un libro che le aveva prestato da leggere la signorina Elliot aveva trovato la frase attento a ciò che desideri perché potresti ottenerlo.
Più tardi, ormai in pigiama e sotto le coperte, Riza non faceva altro che pensare a quella frase e più lo faceva più si sentiva una stupida. Aveva ottenuto la sua vittoria su Havoc, certo, ma come risultato se l’era inimicato forse in maniera irreparabile con chissà quali ripercussioni sull’armonia della squadra.
Ma perché mi sono comportata in maniera così infantile?
Ancora non riusciva a crederci che in quegli ultimi giorni avesse anteposto il suo orgoglio alla missione che il tenente colonnello stava preparando. Certo, in parte era stata istigata anche da Havoc il quale non aveva assunto un atteggiamento più maturo del suo, ma questo non la giustificava. Era come se in quei giorni avesse buttato tutta la sua professionalità dalla finestra.
E poi c’era una parte più profonda di lei che era delusa dalla reazione che aveva avuto il suo rivale. A rigor di logica era ovvio che se la prendesse, del resto aveva già dato ampia dimostrazione del suo carattere, ma a disastro avvenuto Riza si scopriva dispiaciuta di aver con tutta probabilità distrutto ogni possibilità di buon rapporto con lui.
Havoc era completamente diverso da Falman, così gentile e pacato: in quei giorni l’aveva provocata, anche presa in giro, proprio come uno scolaretto bullo. Però tutto sommato lei era stata in qualche modo appagata da quei momenti passati assieme a lui: stranamente era riuscita ad accettare un altro tiratore scelto, un fatto che, dopo Ishval, riteneva praticamente impossibile.
Chiedergli scusa? – si chiese, rigirandosi per la decima volta nel letto – E per che cosa? No, come minimo mi prenderebbe per una scema…
Paventò addirittura l’idea di presentargli Rebecca quasi a farsi perdonare, ma era una cosa così meschina che si vergognò anche solo per averla pensata: due persone non erano merce di scambio.
“Dannazione, ma perché?” sospirò, accendendo la luce sul comodino e alzandosi per andare a preparare una camomilla.
Proprio nel momento in cui aveva dato una lezione al suo rivale si era accorta di aver sbagliato tutto.
Sono proprio negata per i rapporti con le persone.
 
“Buongiorno, maresciallo.”
La mattina dopo, nel sentire quel saluto gioviale proprio da parte di Havoc, Riza quasi fece scivolare la sua tracolla dalla spalla. Si guardò attorno in ufficio, cercando di capire se ci fosse qualcosa di strano, ma tutto quello che vide furono i suoi compagni di squadra, ciascuno al suo posto, impegnati nel solito lavoro.
“Buongiorno a tutti.” mormorò andando alla sua scrivania.
C’era qualcosa di estremamente diverso e non riguardava solo Havoc: osservando Breda e Falman si accorse che anche loro avevano un’aria estremamente soddisfatta e le venne spontaneo chiedersi se la sera prima non fossero usciti tutti e tre assieme… mentre lei stava a casa sua a crogiolarsi nel senso di colpa.
Però osservando come Havoc continuasse ad avere un atteggiamento tranquillo, senza palesare l’ostilità della sera prima, si sentì incredibilmente sollevata: le speranze di creare un rapporto con lui forse non erano svanite del tutto. Perché se fino alla settimana prima non era troppo interessata ad instaurare un legame con quel tiratore scelto d’eccezione, anzi temeva una simile eventualità, adesso invece era una possibilità che non le riusciva così sgradita.
Havoc non era Dante, non era nessuno dei suoi vecchi compagni di squadra ad Ishval: non c’era la morte nei suoi occhi, né nessuno di quei sentimenti che cercavano di mascherare l’orrore che stavano compiendo in quelle lande quasi desertiche. Havoc era un cecchino, eppure completamente diverso dalla tipologia che aveva imparato a conoscere. Forse questo dipendeva dall’aver evitato Ishval, ma in ogni caso era un punto che esercitava una strana forma d’attrazione su di lei.
La mia migliore amica si è presa una cotta per te – le venne da dire quando i loro sguardi si incontrarono.
Si immaginò un dialogo tra loro due, con lei che cercava di presentare Rebecca sotto i migliori punti di vista… e cercava di capire quale potesse essere la sua reazione. Era bello Jean Havoc, certo.
Però… no, proprio no…
“Abbiamo trovato il luogo di stoccaggio dei materiali rubati, signore.”
La voce di Breda fece quasi sobbalzare Riza.
Girandosi verso la scrivania del tenente colonnello vide che il rosso aveva srotolato una piantina di East City e indicava un particolare punto. Accanto a lui Falman annuiva con un sorriso soddisfatto.
Ecco, loro sì che erano una coppia che aveva lavorato bene in quei giorni: le menti della squadra avevano unito le loro forze ottenendo grandi risultati. Cosa che lei ed Havoc forse non avevano fatto.
“Ottimo lavoro: non preoccupatevi di abbondare con i dettagli.” commentò Mustang.
E i dettagli furono tanti, talmente precisi che si sapeva persino quando i ricercati avevano intenzione di agire: quella sera stessa.
Stasera? – si chiese Riza, alla fine di quelle spiegazioni, fissando dubbiosa il tenente colonnello – Signore, davvero pensa di agire stasera stessa? Non ci siamo mai collaudati come squadra, sarebbe un azzardo… sarebbe follia.
Eppure una piccola parte di lei le diceva che non era impossibile quanto ci si proponeva di fare: grazie ai dettagli forniti da Breda e Falman circa l’edificio, il numero degli avversari e così via, il piano poteva esser articolato senza troppi problemi e rischi.
Ma tu sei un cecchino, che ne vuoi sapere?
“Va bene – disse Mustang, alzandosi in piedi e distogliendola dai suoi pensieri – Sono le nove e mezza… Breda, a che ora dovrebbe partire l’operazione per il nuovo furto?”
“Parlavano di muoversi verso le dieci di notte, signore: dopo la fine dell’ultimo turno”
“Bene: per prendere tutta la banda è necessario andare nel loro covo… in questo palazzo. Falman, gli hai dato un’occhiata? Sai più o meno cosa possiamo aspettarci da edifici come questo?”
“E’ una tipologia abitativa che conosco bene, signore”
Così in fretta? Non stiamo correndo troppo?
“Havoc, maresciallo, siete in grado di…”
“Nessun problema, signore – sorrise Havoc, prima che Riza potesse dire qualcosa – siamo pronti all’azione”
“Allora iniziamo: abbiamo dodici ore per prepararci all’azione”
Riza scosse il capo e rimase interdetta: le cose non dovevano funzionare così. Una missione richiedeva preparazione, tempistiche… non si poteva procedere in una simile maniera totalmente fuori dall’ordinario.
“Io sul lato sinistro e lei sul destro, signora – strizzò l’occhio Havoc, dandole una lieve gomitata – così non ci intralciamo a vicenda, va bene?”
E che altro poteva dire Riza Hawkeye?
A quanto sembrava veniva trascinata dagli eventi… e dalla sua squadra.




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Anche questo capitolo una sofferenza: purtroppo mi trovo ancora a dovermi collegare a the memory man e così sarà anche per il prossimo.

 

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Capitolo 17
*** Capitolo 16. 1909. Lavoro di squadra ***


Capitolo 16
1909. Lavoro di squadra




 
La missione che il Generale Grumman aveva affidato a Mustang non era di grandissimo rilievo e, sicuramente, non avrebbe avuto grande risonanza all’interno dell’esercito. Si trattava di un compito che sarebbe servito a riportare alla normalità il Quartier Generale dopo il periodo di anarchia che si era avuto durante la guerra e che ancora faceva sentire i suoi postumi. La questione era abbastanza semplice: approfittando dei controlli ancora poco rigidi, c’erano stati dei furti di materiali dai magazzini dell’esercito. Nel gergo militare un’azione simile veniva definita sciacallaggio post guerra, ma ad una più attenta analisi era risultato che si aveva a che fare con una vera e propria organizzazione di almeno una trentina di componenti che provvedeva a contraffare e poi smerciare i materiali lontano da East City. Le indagini condotte da Falman e Breda avevano portato all’individuazione di almeno una trentina di persone, facenti parte dell’esercito e no, e dei locali che utilizzavano per il loro giro di contrabbando.
Per una fortunata coincidenza si era venuti a sapere anche della riunione prevista per quella sera stessa e dunque, considerato che poteva passare molto tempo da un furto all’altro dato che la situazione non era più così caotica, era stato deciso di agire immediatamente.
E dunque Riza, alle nove di quella sera, entrava in quel vecchio magazzino assieme ad Havoc, pronta a prendere la sua posizione.
“Quel loggiato è perfetto – commentò il sergente maggiore, accendendosi una sigaretta – lei a destra e io a sinistra, signora: mi pare che in questo modo li teniamo tutti sotto controllo, ne conviene?”
Riza si dovette trattenere dal rispondere con un sissignore, ricordandosi che Havoc le era inferiore di grado. Tuttavia era innegabilmente più esperto di lei ed aveva una sicurezza che ancora le mancava: aveva sempre ricevuto ordini sulle posizioni da assumere e su quanto fare, non le era mai capitato il contrario. La sua unica esperienza in compagnia era stata quel primo appostamento con Dante, quando aveva scoperto quanto era facile uccidere una persona.
Ma questa volta non dobbiamo uccidere, solo ferire e rendere inoffensivi.
Anche quello era un bel cambiamento e per la decima volta si chiese se sarebbe stata in grado di fare una cosa simile: per mesi e mesi il suo obbiettivo era stato colpire i punti vitali e non ferire. Aveva il terrore che il vecchio istinto tornasse a farla da padrone proprio nei momenti cruciali.
Calma, stai calma…
Trasse un profondo respiro ed annuì al suo compagno, iniziando a camminare per raggiungere le scale di legno che li avrebbero condotti alle loro postazioni.
“Tutto bene?” le chiese improvvisamente Havoc.
“Certo.”
“Posso darle un suggerimento? – continuò il biondo squadrandola con attenzione quando arrivarono a destinazione – Senza nessuna presunzione, sia ben chiaro.”
“Dimmi pure…” annuì Riza, cercando di apparire calma ed impassibile.
“Le gambe sono la parte migliore da colpire, non cerchi il braccio, specie quello che tiene eventuali armi.”
“Il colpo può partire in ogni caso.”
“Lo so, ma con le gambe la tendenza è di allentare la presa sull’arma piuttosto che premere il grilletto: esperienza, tutto qua. Gliel’ho detto perché immagino che lei non abbia mai avuto occasione di partecipare a missioni il cui scopo è catturare.”
Gli occhi azzurri del sergente la trafissero da parte a parte, facendola sentire completamente nuda. Sarebbe stato sempre così? Ogni volta che qualcuno avrebbe esternato la dura realtà dei fatti si sarebbe sentita in quel modo orribile, privo di qualsiasi difesa?
“Ti ringrazio per il consiglio.” si costrinse a dire, girandogli le spalle e andando verso il suo angolo nascosto.
“Ehi, signora – la richiamò Havoc – non morirà nessuno stanotte, sul serio. E sa qual è la parte migliore?”
“No – mormorò girandosi a guardarlo – quale?”
“Che sarà merito nostro.” sogghignò Havoc con una strizzata d’occhio.
 
Ad Ishval la vita dei soldati era spesso sacrificabile, semplici pedine per le ambizioni dei loro superiori, tuttavia c’erano delle eccezioni costituite dalle forze speciali come i cecchini: ogni singolo tiratore scelto aveva un’importanza cruciale, di conseguenza i rischi dovevano sempre esser ridotti al minimo; postazioni sicure quanto possibile, studio logistico… a conti fatti un tiratore scelto quasi sempre si trovava in una botte di ferro, il luogo ideale dal quale poter svolgere il suo lavoro. E la dimostrazione di quanto tutto questo fosse vero era il fatto che in tutti quegli anni di guerra solo una decina di cecchini erano deceduti e nemmeno uno quando era nella sua postazione.
A Riza sembrava di impazzire mentre capiva i rischi che stavano correndo quella sera: in un colpo solo rischiavano di morire cinque tra i migliori soldati del Quartier Generale di East City, per mero calcolo matematico. I loro avversari erano una trentina di cui almeno una decina militari e dunque persone abituate a maneggiare le armi. Vedendoli entrare un poco alla volta sentiva il nervosismo prendere possesso di lei: sapeva bene quale era la sua area di competenza, i suoi bersagli, ma sapeva anche che il fattore imprevedibilità aumentava esponenzialmente ad ogni persona che entrava. Ed era così strano vedere nel suo mirino la pelle chiara ed i lineamenti tipici di Amestris: per mesi aveva ucciso solo gente dalla pelle scura e dagli occhi rossi… sparare a qualcuno di differente era una vera e propria novità a cui era del tutto impreparata, specie per quelli che indossavano la sua stessa divisa.
No, Riza, così non va bene: hai giurato di proteggerlo… se esiti già da adesso sarà tutto vano.
Istintivamente il suo sguardo andò alle grosse casse dietro le quali erano nascosti il tenente colonnello e Falman. Erano così vicini al nemico che la soldatessa ebbe un brivido lungo la schiena: era tutta una follia, un piano basato più sulla psicologia che su una strategia vera e propria. E questo non era il modo di operare di Riza, assolutamente.
Un piccolo richiamo venne colto dal suo udito attento e alzò lo sguardo verso la sua sinistra. Girandosi vide Havoc che le faceva un lieve cenno del capo, segno che il momento era arrivato. Adesso veniva la parte più rischiosa della loro improvvisata.
Trattenendo il respiro osservò Breda, al piano di sotto, uscire placidamente dal suo nascondiglio e portarsi davanti ai contrabbandieri che avevano iniziato a parlare tra di loro circa il furto di quella notte.
“Mi dispiace interrompere questa discussione, ma siete tutti in arresto.”
La voce del rosso era chiara e limpida, con una nota di sarcasmo che Riza aveva già sentito altre volte in ufficio. Tuttavia c’era una nuova nota di sicurezza e autorità che, chiaramente, era stata tenuta nascosta fino a quel momento. La tentazione fu troppo forte e, per una frazione di secondo, la soldatessa spostò il suo sguardo su quel soldato così corpulento che teneva la pistola puntata contro quelle trenta persone, come se quella fosse normale amministrazione. Nessun timore od incertezza, solo una spavalderia fuori dal comune.
Come fai?
Ma quel pensiero le passò di mente quando vide con la coda dell’occhio il primo soldato che estraeva la propria pistola. A quel punto fu come se un interruttore venisse premuto e una fredda calma che conosceva fin troppo bene si impossessò di lei: con un automatismo che non l’aveva mai abbandonata puntò verso il primo nemico, avendo cura di mirare alla gamba. Premette il grilletto trovando di nuovo quella scarica d’adrenalina che un bersaglio di cartone non era in grado di darle, assaporò di nuovo quel brevissimo tempo d’attesa prima di vedere il suo bersaglio cadere a terra.
Una piccola parte di lei registro il rumore di altri spari, di altri nemici che venivano colpiti: non le diede fastidio, non interferiva con la sua area d’azione. Fu incredibile, ma riuscì a scivolare nella sua parte con una facilità che fino a qualche minuto prima le sembrava surreale.
 
Sono troppi – pensò poco dopo, mentre con un colpo riusciva a mettere fuori combattimento un soldato che stava per sparare a Breda – non riusciremo a prenderli tutti.
A terra c’erano una quindicina di avversari, ma gli altri avevano ormai capito che la situazione non volgeva a loro favore e stavano cercando di guadagnare la via di fuga. Se fossero usciti dall’edificio sarebbe stato praticamente impossibile riprenderli.
E poi accadde.
Un muro di fuoco si frappose tra i fuggiaschi e la porta: fiamme alte e roventi, capaci di rendere un’idea di spessore che era difficile pensare per il fuoco. A Riza mancò il fiato: non aveva ancora visto l’alchimia di suo padre scatenarsi in tutta la sua potenza.
E’ questo che ho custodito nella mia schiena per così tanto tempo? E’ questo il potere per cui si è consumato fino a morirne?
Serrò gli occhi cercando di ricacciare indietro tutti i suoi demoni.
“Vi consiglio di restare fermi e non tentare la fuga.”
Con un sussultò li riaprì e vide come davanti al muro di fuoco si fosse piazzato Mustang, completamente solo e senza alcuna arma apparente. Il cuore della soldatessa smise di battere per due secondi: non poteva mettersi in pericolo in maniera così sfacciata.
Pericolo? Santo cielo, ha un muro di fuoco dietro di sé!
“Sono il tenete colonnello Roy Mustang: vi dichiaro tutti in arresto per contrabbando e sottrazione di materiale appartenente all’esercito. Adesso fate cadere tutte le armi a terra.”
Ed il rumore di pistole lasciate cadere, unito a gemiti ed esclamazioni di sgomento indicò che la missione si poteva considerare conclusa.
 
Nemmeno mezz’ora dopo lei ed il tenente colonnello si allontanavano dal luogo della missione, mentre il compito di scortare i prigionieri in cella veniva svolto da altri soldati che erano stati chiamati a giochi conclusi. Avevano preso congedo da Havoc, Breda e Falman e Riza era certa che i tre soldati stessero andando a festeggiare: i loro sorrisi euforici a fine missione parlavano chiaramente e si intuiva che Havoc era un grande trascinatore.
Già, proprio Havoc.
“Maresciallo Hawkeye, ha visto? Sono stato preciso come le avevo promesso.”
Quel sorriso sfacciato la lasciava ogni volta interdetta; adesso che l’astio nei suoi confronti era finito, Riza si accorgeva che Havoc costituiva un qualcosa di speciale per lei, sebbene non fosse ancora riuscita a definirne i tratti. Riusciva a capire i suoi turbamenti in una maniera più profonda rispetto a tutte le altre persone che conosceva, persino il tenente colonnello, eppure il suo modo di parlare e di agire era completamente diverso da quello di Dante, o persino del tenente Morris. Era come se lui fosse riuscito a raggiungere un compromesso… quello che Riza riteneva impossibile per se stessa. Del resto la differenza tra lei ed il soldato biondo era chiara: su Havoc non pesavano vite innocenti, ma quelle di criminali di guerriglia. Probabilmente in simili occasioni il rimpianto per aver ucciso era diverso.
In ogni caso era come se lui avesse il potere di farla sentire meglio e…
“Ovviamente nei ringraziamenti che ho fatto alla squadra eri inclusa pure tu, maresciallo.”
Riza alzò lo sguardo per osservare Mustang che procedeva un passo davanti a lei. Si era levato il cappotto scuro che teneva elegantemente sul braccio e anche i guanti bianchi erano spariti. Se non fosse stato per la divisa si poteva dire che stava rientrando da una serata a teatro piuttosto che da una missione.
“La ringrazio, signore.”
“Allora, come ti sei trovata con Havoc?”
“Molto bene – rispose senza esitazioni – ci sono state alcune incomprensioni all’inizio, ma poi abbiamo capito come collaborare al meglio. E’ un grande tiratore scelto, non ci sono dubbi.”
“E sono davvero sorpreso pure di Breda: sapevo che non era nuovo a ruoli simili in missioni speciali, ma vederlo all’opera è tutt’altra cosa che leggere un curriculum. Senza contare che assieme a Falman ha fatto un ottimo lavoro di preparazione.”
“Può essere fiero dei suoi uomini, signore: le sue scelte si sono rivelate le migliori. Il generale Grumman sarà veramente contento di lei.”
“E anche della sua nipote… anzi, ne approfitto per chiederti scusa.”
“Signore?” si sorprese Riza.
“Ti ho tenuta all’oscuro della missione fino all’ultimo, quando invece avevi il diritto di essere informata prima degli altri in quanto mia assistente…”
“… non se ne deve preoccupare. Ha fatto quello che riteneva giusto.”
“Ti confesso che non sapevo ancora come gestire bene gli altri, non che adesso ne sia del tutto certo – ammise Mustang, girandosi verso di lei e fissandola con aria di scusa – e ho avuto timore che dandoti un ruolo privilegiato in questa prima missione si potessero creare delle incomprensioni. E’ strano a dirlo, ma siete la mia prima esperienza come superiore e in certi momenti mi trovo spiazzato.”
Riza sorrise teneramente, capendo benissimo quello che provava Mustang: cecchino e alchimista… la guerra li aveva resi dei solisti, mentre ora era necessario far parte di un’orchestra con più componenti.
“Sai che avevo una squadra ad Ishval?” proseguì il moro.
“Sul serio?” si sorprese Riza.
“Li ho conosciuti a guerra finita, pensa te – ridacchiò lui, riprendendo a camminare – io andavo avanti e non mi preoccupavo d’altro, non avevo nemmeno idea che me li avessero inviati come sottoposti. Però pare che abbia salvato loro la vita con la mia alchimia, sai?”
“Salvato vite… certo – Riza alzò gli occhi al cielo, sentendo che le parole le uscivano spontanee: un avvenimento piuttosto raro considerato l’argomento – a volte provo anche io a pensare a tutti i miei commilitoni che ho salvato, ma non riesco a creare un nuovo piatto della bilancia.”
“Sarebbe ipocrita, non credi?”
“Infatti.”
“Però hai salvato me e il mio migliore amico, se ben ricordi… sai, salvare la vita di persone conosciute forse aiuta a stare meglio, no?”
“Forse ha ragione – annuì Riza – e poi… credo che anche Havoc e gli altri ci aiutino a stare meglio, no?”
“Affermazione interessante, maresciallo – sorrise Mustang – stiamo iniziando ad affezionarci a loro?”
“Ci lavoriamo assieme, sono i nostri sottoposti… sarebbe così sbagliato?”
“No, però un minimo di paura lo fa.”
Non dissero altro: ripresero a camminare fino a quando non si salutarono ad un bivio per andare ciascuno a casa propria. Nel suo piccolo appartamento, subito dopo una doccia calda, Riza si mise a letto e ripensò a quanto era successo: si sentiva felice per la missione conclusa, per le prime confidenze che era riuscita a scambiare con i suoi compagni di squadra… una parte di lei rimpianse anche di non essere con loro a festeggiare.
Ma forse sarei di troppo… forse non sono una giusta compagnia per certe cose.
Erano tutti maschi del resto e forse volevano passare la classica serata tra uomini: con tutta probabilità si trattava di quelle dinamiche da cui sarebbe sempre rimasta esclusa.
Del resto va bene così: sarebbero sicuramente serate troppo rumorose… se proprio voglio festeggiare esco con Rebecca e… ah già.
Adesso che la missione era finita le toccava fare quella famosa presentazione.
 
Una settimana dopo Riza si trovava da sola in ufficio assieme a Breda, intenta a sistemare alcune pratiche urgenti che andavano consegnate la mattina successiva. Ormai era felice di lavorare con la sua squadra: dopo la missione era come se tutti loro si fossero finalmente convinti che gli altri erano le persone giuste e che dunque non era più il caso di nascondersi dietro atteggiamenti che nascondevano la propria personalità. Heymans Breda forse era l’esempio più eclatante: da soldato silenzioso che però faceva capire come ti stesse studiando in ogni momento della giornata, adesso era diventato più sornione e affabile, rivelando alcune sfumature del suo carattere che lo indicavano come persona estremamente amichevole.
“Tenga, signora – disse proprio lui, tirando fuori dalla sua borsa dei tramezzini avvolti in carta trasparente – tanto a questo giro ci siamo giocati la cena.”
Guardando l’orologio Riza convenne che aveva proprio ragione e dunque accetto quello spuntino che le era stato offerto: l’idea di tornare a casa e mettersi a cucinare qualcosa proprio non le andava e potersi infilare sotto le coperte a stomaco pieno le avrebbe evitato fastidiosi crampi durante la notte.
“Sei stato davvero previdente – lo ringraziò, mentre il rosso si sedeva poco formalmente sulla scrivania e iniziava a svolgere i propri – li hai fatti tu?”
“Ovviamente, signora – strizzò l’occhio – e sentirà la differenza rispetto ai pasti della mensa.”
Quella frase venne detta in concomitanza con il primo boccone e Riza non poté che convenirne: l’esplosione di sapori che le inondò il palato fu spettacolare. Era raro che le capitasse di gustare qualcosa in maniera così intensa.
“Avresti dovuto fare il cuoco: se i tramezzini solo così buoni immagino che te la cavi splendidamente ai fornelli.”
“Organizzerò una cena di squadra per far gustare a tutti i miei talenti una di queste sere. Chissà, magari riesco a distrarre anche quello zuccone di Havoc.”
“Proprio lui! – Riza colse la palla al balzo – Che cosa gli è successo? E’ così cupo d’umore in questi giorni, anche quando siamo al poligono di tiro… però non gli ho chiesto nulla, non volevo essere indiscreta.”
Lo ammise con lieve dispiacere, ben sapendo di non potersi permettere una grande confidenza con il suo collega: per quanto ormai parlassero tranquillamente c’era ancora la paura di fare un passo più lungo della gamba.
“Ah, maresciallo – sogghignò Breda – quando vedi quello scemo di umore simile non ti devi assolutamente preoccupare: è semplicemente stato scaricato per l’ennesima volta.”
“Scaricato?”
“Usciva da qualche settimana con una ragazza, non ricordo nemmeno il nome… e lei tre giorni fa l’ha mollato dopo l’ennesimo litigio. E mi creda, per Havoc non è la prima volta: è da quando l’ho conosciuto in Accademia che va avanti così.”
“E’ un… donnaiolo?” Riza non si accorse nemmeno di aver parlato con la bocca piena. L’idea che Havoc fosse uno sciupa femmine le riusciva davvero difficile da elaborare.
Breda la fissò per qualche secondo e poi scoppiò a ridere, tanto che il boccone gli andò di traverso e dovette tossire più volte prima di riprendersi, una lacrima che gli colava dall’occhio destro.
“Donnaiolo lui? Jean Havoc? Signora, non ci può essere realtà più lontana per quello zuccone!”
“Però cambia spesso compagna…”
“Lui casca come una pera ogni volta che vede una bella ragazza, è diverso. Un donnaiolo corteggia le donne, fa lo splendido… il mio miglior amico semplicemente si innamora. O almeno, io penso che sia semplicemente innamorato del concetto di avere una fidanzata.”
“Ah capisco – mentì Riza che, invece, non riusciva a capire un atteggiamento simile – e quindi ora che succederà?”
“Niente – scrollò le spalle Breda – come tutte le altre volte ci starà male, sfogandosi con il sottoscritto, e poi tra una settimana sarà di nuovo in splendida forma, pronto ad innamorarsi di nuovo.”
“Ma è sincero quando si innamora?” chiese con curiosità.
“Sì, anche se non è amore vero – spiegò il rosso – Havoc è sincero in tutte le sue manifestazioni, su questo non ci sono dubbi. E’ un ragazzo di campagna, non si nasconde dietro giochini strani… solo che a volte può risultare immaturo, ma non lo fa apposta, proprio no.”
“E’ bello – confessò Riza con un sorriso – lo conosci proprio come se fosse tuo fratello.”
“In fondo lo è – strizzò l’occhio Breda – anche se è troppo rumoroso a volte. Ma persone come lui si incontrano raramente e se stringono amicizia è un qualcosa di prezioso.”
“Mh…” Riza mandò giù l’ultimo boccone sentendosi lievemente a disagio.
“Ehi, maresciallo – la riscosse lui, prendendole di mano la pellicola trasparente – guarda che per Havoc sei importante in maniera speciale: non si innamorerà di te, stai tranquilla.”
“Cosa? Oh no! Proprio no! E che volevo presentargli una mia amica!”
Arrossì profondamente, dandosi della stupida per essersi lasciata sfuggire così quel dettaglio: a dire il vero era giorni che pensava a come concretizzare quell’incontro, ma ogni volta che ci rifletteva arrivava sempre alla conclusione che lei proprio non ci sapeva fare per simili cose. E ora che aveva saputo maggiori dettagli sull’indole di Havoc, l’idea che lui e Rebecca stessero assieme le pareva surreale.
“Potrebbe essere una buona idea, magari gli passa prima per l’altra.”
“Lei è una soldatessa, è la mia migliore amica – confidò Riza – e non è che abbia un carattere tranquillo.”
“Soldatessa? Ahia, qui siamo contro le regole anti fraternizzazione – la squadrò Breda – mi pare assurdo che proprio lei proponga una cosa simile, maresciallo. In genere è così attenta a questi particolari.”
Oh ma sapessi il potere di persuasione di Rebecca
“In fondo non sono nella stessa squadra… e poi non è detto che…”
“Gliel’ha chiesto lei, vero? E non faccia quell’espressione sorpresa… ci sono passato pure io su richieste simili. E sa a quale risposta sono sempre arrivato?”
“No, quale?”
“Che sono adulti, vaccinati e non hanno bisogno della balia… almeno in teoria. Quindi se la gestiranno loro e se sono rose fioriranno.”
“Pare semplice detta così – commentò Riza, ripensando al carattere focoso di entrambi gli interessati – ma può essere anche che poi se va male ci passeremo anche noi.”
“E’ a questo che servono gli amici del resto. Beh, ce ne dice? Terminiamo questi documenti e ce ne torniamo a casa?”
Riza annuì con un sorriso e si rimise a lavoro: ancora non le era capitato di parlare in maniera così schietta con Breda e come risultato si sentiva estremamente appagata. Era come se anche l’ultimo membro della squadra fosse finalmente capitolato, nonostante prima fosse stato sempre gentile e disponibile. Ed inoltre le aveva dato lo sprone giusto per fare quella fatidica presentazione.
 
Così, tre giorni dopo, Riza attendeva che Havoc uscisse dall’armeria dove era andato per fare alcune riparazioni alla sua pistola. Si torceva le mani con nervosismo, ben sapendo che Rebecca la attendeva appena fuori dal poligono di tiro, estremamente felice ed eccitata, tanto che ad un certo punto si era messa a saltellare come una bambina.
Bene, è semplice… gli dici che gli vuoi presentare una tua amica e poi lo porti da Rebecca e fai le presentazioni. Da lì faranno tutto loro.
Eppure si sentiva estremamente a disagio, quasi fosse la responsabile della felicità di quei due: proprio non li vedeva bene assieme e dopo aver saputo dei precedenti di Havoc i dubbi erano aumentati in maniera esponenziale. Però, dall’altra, come aveva detto Breda erano abbastanza grandi per gestirsela da soli e…
“Maresciallo, mi cercava?” la voce gioviale di Havoc la riscosse.
“No… cioè sì! – si imbarazzò lei – Ecco, dovrei dirti una cosa importante.”
“Si sente bene? E’ tutta rossa in viso…”
“Davvero? Sarà il caldo…”
Oh, Riza! Calmati!
“Se lo dice lei… allora?”
“Ecco, sei libero adesso? Dovrei… uhm, presentarti una persona.”
“Sì, sono libero: purtroppo ho dovuto lasciare il fucile in armeria perché mancava il pezzo di ricambio. Ma chi mi deve presentare?” adesso la faccia di Havoc era davvero perplessa, e Riza per qualche tremendo secondo ebbe addirittura il timore che lui fraintendesse tutto e la vedesse come una scusa per…
Ma no, non può arrivare a pensare che tenti un approccio con lui.
“E’ una mia amica.”
“Amica? Oh, certo…”
“Ha chiesto di te, vorrebbe conoscerti.” adesso si sentiva rovente: doveva essere rossa come un peperone.
Dannazione, ma perché finisco a dover fare certe cose?
“Adesso?”
“Adesso!”
 
“Rebecca, lui è Jean Havoc… Havoc, lei è Rebecca Catalina, la mia migliore amica.”
A quel punto Riza desiderava solo poter scappare via, ma qualcosa le disse che non poteva farlo e dunque rimase ad osservare timidamente i due che si squadravano a vicenda.
Anche fisicamente non c’entrano nulla l’uno con l’altra.
“Ciao – salutò Havoc – tanto piacere.”
“Ciao – Rebecca, al contrario delle aspettative, aveva perso l’entusiasmo di prima – piacere mio.”
Il silenzio si fece pesante e durò per una decina di secondi, durante i quali Riza fu sicura di sentire uno strano turbamento delle forze attorno a lei.
“E così sei un tiratore scelto…”
“Già, e tu?”
“Assistente di campo, ma nella guerriglia ho fatto anche assalto diretto.”
“Zona est?”
“Nella parte settentrionale: una volta ci siamo quasi beccati con la Squadra Falco, ci siamo mancati di qualche ora.”
“Capisco.”
Ancora quel silenzio che Riza proprio non riusciva a capire: dov’era finito tutto l’entusiasmo di Rebecca. Sembrava quasi che fosse stata lei a trascinarla a quell’incontro piuttosto che il contrario.
“Dicono che non te la cavi male al poligono di tiro – riprese Rebecca – vero?”
“Sono uno dei migliori!” sorrise Havoc con una certa baldanza.
“Ma so anche che Riza ti ha fatto il culo.”
“Rebecca!”
“Cosa? Ma come osi! Erano solo due punti!”
“Sì, sì, dicono tutti così – continuò lei, assumendo un’espressione spavalda – intanto la mia migliore amica ti ha battuto.”
“Rebecca, ma che dici?”
“La verità, no?”
“Sì, ma non è questo che…”
“Mi volevi conoscere solo per prendermi in giro? – l’espressione di Havoc era furente – senti, cocca, io ho ben altro da fare, non credo che…”
“Quanto sei noioso… allora, mi inviti ad uscire sì o no?”
“Cosa?” a Riza mancò il fiato nel sentire quell’ultima domanda: c’erano momenti in cui la sfacciataggine di Rebecca raggiungeva livelli oltre il consentito. Se Havoc le avesse risposto male avrebbe avuto tutte le ragioni di questo mondo e…
“Domani alle otto e mezza… e cerca di essere carina – sbottò il soldato – ma tu guarda…”
“E tu cerca di essere puntuale – acconsentì Rebecca, come se fosse stata lei a concedergli questo grande favore – a presto, Jean.”
E con fare sdegnoso si allontanò, lasciando Riza ed Havoc da soli.
“Ecco io…” ansimò Riza, sentendosi in gran colpa.
“Rebecca Catalina, eh?”
“Sì, ma non…”
“Mi piace – annuì Havoc – grazie per avermela presentata, maresciallo!”
A quel punto Riza rinunciò a capire simili dinamiche. L’amore proprio non faceva per lei, specie se coinvolti c’erano Havoc e Rebecca.

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Capitolo 18
*** Capitolo 17. 1910. Educazione sentimentale ***


Capitolo 17
1910. Educazione sentimentale




 
“Io e quel maledetto abbiamo rotto, capisci? E’ finita tra noi due, non c’è altro da dire.”
Rebecca aveva un’espressione così sconvolta che Riza non disse niente e si limitò a farla entrare in casa, senza nemmeno farle notare che l’ora era davvero tarda e che il suo improvviso bussare l’aveva svegliata e le aveva fatto prendere la pistola pensando chissà a quale malintenzionato.
Era la prima volta che vedeva la sua migliore amica in simili condizioni: il viso in genere sorridente e sicuro era pallido e angosciato, le lacrime che continuavano a colare dagli occhi gonfi e arrossati. Si stringeva nel cappotto leggero che aveva indossato sopra un abito color verde chiaro e, da come era abbottonato male e dal modo in cui la borsetta le pendeva da una spalla, si capiva che era venuta da lei di corsa.
“Che cosa è successo? – le chiese con gentilezza Riza, facendola sedere al tavolo – vuoi qualcosa? Una camomilla? Una tisana… io…”
“Non hai qualcosa di forte che faccia dimenticare quell’idiota?”
“Sai che non bevo alcolici.”
“Dannata purista – sospirò Rebecca, tirando fuori un fazzoletto e soffiandosi rumorosamente il naso – dovresti tenere almeno una bottiglia d’emergenza per me.”
“Allora non vuoi niente?” chiese ancora Riza, recuperando un po’ del suo pragmatismo.
“Camomilla…” si arrese Rebecca.
“Bene – la bionda si avviò in cucina, non facendo caso al fatto di essere in pigiama: con qualsiasi altra persona si sarebbe vergognata, ma Rebecca la conosceva sin dall’Accademia e dunque si erano viste altre volte in versione notturna – allora, ti va di raccontarmi cosa è successo? Eppure tu ed Havoc mi sembravate così affiatati.”
Nonostante i litigi, era chiaro, ma questo Riza evitò accuratamente di specificarlo. Però con sua somma sorpresa la coppia Havoc-Rebecca era andata avanti per quasi una decina di mesi prima di arrivare a questa conclusione. A detta di Breda, raramente una relazione del maresciallo (perché, eccetto Mustang, erano tutti saliti di grado) era durata così tanto. Era vero che litigavano almeno una volta alla settimana, ma erano pronti a fare pace in maniera appassionata già il giorno successivo: Riza era diventata paonazza la volta che aveva capito che Havoc e Rebecca andavano a letto assieme… per come era stata educata, quella cosa andava fatta solo dopo il matrimonio: solo il proprio marito aveva il diritto di vederla senza vestiti. Per quanto se ne vergognasse profondamente a pensarlo, ai suoi occhi Rebecca si era in qualche modo compromessa e disonorata e l’unica soluzione che le restava era di convolare a nozze con Havoc. Un’idea più che surreale date le leggi anti fraternizzazione dell’esercito.
E ora come farà? – ingenuamente, mentre metteva il filtro di camomilla nell’acqua bollente, si immaginò Rebecca ridotta ai margini della società – non posso abbandonarla in un momento così difficile.
“Reby, non dovevi andare così a fondo con lui – osò dire, tornando al tavolo con due tazze fumanti – adesso come farai?”
“Lui e la sua testa vuota! E’ così testardo! Ancora non capisco come la nostra storia possa esser andata avanti per così tanto tempo.”
“Non ci saresti dovuta andare a letto.”
“Cosa? – la mora si girò a guardarla con lieve sorpresa – Ma che dici? Forse andarci a letto è stata la parte migliore di tutta questa storia… almeno se ne stava zitto e non diceva tutte quelle cavolate.”
Riza abbassò lo sguardo con aria imbarazzata, non riuscendo a capire come Rebecca potesse essere così disinvolta su un argomento simile. E la sola idea di lei ed Havoc tra le coperte era troppo agghiacciante per poterci anche solo pensare.
“Allora, che è successo? – chiese per cambiare argomento – Dev’esser stato davvero un litigio grave per essere arrivati alla chiusura della vostra relazione.”
“A dire il vero è iniziato per un motivo stupido – sospirò Rebecca, bevendo un primo sorso di camomilla – ecco, lui ha salutato la cameriera del locale dove siamo andati a cenare…”
“… cavolo, Rebecca, la discrezione! – sibilò Riza – se le autorità militari vengono a saperlo, finireste nei guai tutti e due!”
“… oh, ma cosa vuoi che me ne importi! Insomma, mi sono ingelosita e abbiamo passato la mezz’ora successiva a litigare, tirando fuori le peggio cose. E sai, non è stato come le altre volte… una parola tira l’altra, ci siamo lasciati andare ed alla fine è successo.”
“Beh, da come la metti non è dissimile ad altre volte – cercò di consolarla Riza – tu stai già sbollendo, vedrai che farete pace, se non domani tra poco tempo.”
“No, Riza, la verità è che sono stanca…” confessò Rebecca.
“Stanca? Di lui?”
“Di litigare così tanto – scosse il capo la mora – prima non era così: certo, litigavamo, ma non con tanta frequenza e tanta foga… adesso uscire insieme è diventato un peso, pare quasi che siamo entrambi in attesa del momento in cui si scatenerà la discussione. Non mi va di andare avanti in questo modo.”
“Mi dispiace…” mormorò Riza, non sapendo cosa dire.
“E’ dura – continuò Rebecca – insomma, Jean è stata la mia prima storia importante: prima ero uscita con qualche ragazzo, certo, ma non ero mai andata sino in fondo. E’ stato il primo, capisci? E nei primi tempi era tutto così perfetto… figurati che fantasticavo persino sul fatto che un giorno ci saremmo sposati. Che sciocca che sono stata.”
“Non è stata una sciocchezza, suvvia. E Havoc è un bravo ragazzo.”
“Dannazione a lui, lo so bene. Solo che, evidentemente, siamo noi due assieme che non andiamo bene.”
C’era una così forte rassegnazione nella voce della mora che Riza non osò insistere. Era vero, Rebecca era stanca: adesso riusciva a decifrare l’espressione nel suo viso arrossato dal pianto. La sua grande forza di volontà era come scemata, lasciandola come un guscio vuoto: una relazione amorosa non poteva ridurre in un simile modo una persona.
“E dunque ora che succederà?”
“Niente… riprenderemo le nostre vite. Scusami, cercherò di non piombare più a casa tua ad un orario simile. Ma ti giuro che tornare a casa e stare da sola questa notte mi deprimeva troppo.”
“Ma figurati – scrollò le spalle Riza – aspetta, vado a recuperare dei biscotti.”
Almeno questo genere di conforto lo poteva offrire.
 
La mattina successiva entrare in ufficio e vedere la faccia da funerale di Havoc fu un duro colpo.
A conti fatti Riza non riusciva ad avercela con lui: sicuramente ci stava malissimo, proprio come Rebecca e la fine della loro relazione era dovuta ai caratteri difficili di entrambi. Se le dispiaceva per la sua migliore amica, lo stesso valeva per il suo collega… ed amico, dato che nel corso dei mesi era timidamente arrivata a considerarlo come tale.
“Brutta storia ieri sera – commentò Breda, passandole accanto e lanciando un’occhiata eloquente al biondo che stava seduto alla scrivania con lo sguardo perso – è proprio finita male tra lui e Rebecca.”
“E’ venuto da te?”
“Come dopo ogni litigio, ma questa volta è stato ben diverso. Stessa cosa per lei, signora?”
“Già, medesima cosa; credi che possiamo aiutarli in qualche modo?”
Il rosso si grattò la chioma con fare pensoso, ma poi scosse il capo: per quanto diverse volte fosse stato lui a prendere l’iniziativa e spronare Havoc dopo qualche litigio, adesso capiva che non c’era molto da fare e che era meglio lasciarlo assimilare il colpo.
“Buongiorno, ragazzi.” salutò Mustang, entrando con aria più che allegra.
Tutti quanti i soldati si scambiarono un’occhiata eloquente: dopo quasi un anno di lavoro assieme sapevano bene che un simile atteggiamento era dovuto al fatto che la sera prima aveva avuto un appuntamento galante. E, per ironia della sorte, era combaciato con la fine della relazione di Havoc.
“Splendida serata ieri a teatro – continuò il tenente colonnello – lo spettacolo era davvero di alto livello, le recensioni sul giornale non gli rendono pienamente giustizia.”
“Con chi è andato questa volta, signore?” chiese causticamente Breda, ormai consapevole di quanto a Mustang piacesse pavoneggiarsi delle sue conquiste, almeno con i suoi uomini. Per il resto sapeva essere estremamente discreto.
“Una splendida e graziosa signora della buona società – strizzò l’occhio il moro – era da tempo che progettavo un’uscita con lei e ne è valsa davvero la pena. Ehi, ma che hai, Havoc?”
“Niente – fu pronto ad intervenire Breda – questioni personali. Uscirà di nuovo con lei, signore?”
“Con molta probabilità, almeno fino a quando suo marito non tornerà in città dopo il suo viaggio d’affari.”
A quel punto scoppiò in una risata divertita, lasciando il resto nella squadra in un imbarazzato silenzio.
Sì, col tempo Roy Mustang si era rivelato un dongiovanni piuttosto impenitente che non si faceva scrupoli se la preda di turno era impegnata o meno, anzi con tutta probabilità questo aggiungeva un gusto particolare alla conquista. Le sue uscite erano frequenti, almeno un paio al mese: con alcune usciva più volte, col altre una sola, ma tutto con una galanteria fuori dal comune che rendeva impossibile per qualsiasi donna odiarlo o provare sentimenti di astio. Senza troppi giri di parole Roy Mustang era uno scapolo molto ricercato ad East City.
Riza sotto quel punto di vista non sapeva come comportarsi e dunque cercava di restare indifferente. Certo le faceva strano pensare che quel ragazzo che studiava alchimia fosse circondato da belle donne fuori dall’orario lavorativo, ma si dava anche della stupida: lei aveva conosciuto il giovane Mustang solo per un anno, quando ancora non era un uomo, non aveva la minima idea di come fosse stata la sua vita per tutto il resto del tempo. Più di una volta aveva sentito i commenti sussurrati dalle soldatesse e non era un mistero che diverse avrebbero voluto avere una relazione, seppur clandestina, con lui. Del resto aveva venticinque anni, era bello, fin troppo… affascinante: era in grado di far cadere ai suoi piedi la maggior parte delle donne.
Quando aveva scoperto questa sua dote, Riza aveva provato un lieve senso di gelosia: sapere che c’erano così tante donne nella sua vita non le piaceva per niente. Si era data della stupida, dicendosi che non era infatuata di lui e dunque non aveva motivo di provare sentimenti simili, però una lieve delusione era stata innegabile: in fondo si andava un po’ ad offuscare la sua idea di ideale della quale aveva inconsapevolmente ammantato Mustang.
“Signore, oggi deve andare a rapporto dal generale Grumman, non se ne dimentichi – disse con voce pratica, andando accanto a lui – tra un quarto d’ora esatto.”
“Ah, giusto! – annuì il moro, alzandosi in piedi e mettendo da parte il giornale – Beh, sarà ansioso pure lui di conoscere i dettagli della serata: faccio giusto in tempo a passare alla mensa per mangiare qualcosa… sapete, non c’è stato il tempo di fare colazione stamane. Ci pensi tu qui, sottotenente?”
“Ma certo, signore, vada pure.”
Osservandolo uscire con aria baldanzosa, Riza sospirò e si consolò col fatto che tutto sommato lei era l’unica donna a costituire un punto fisso nella sua vita. Il che la rendeva in qualche modo speciale.
Lui cambierà il paese, ne sono certa: questi dettagli della sua vita privata non lo distoglieranno da quelli che sono i suoi veri obbiettivi.
Appunto. Era quella la differenza tra lei e tutte le altre: loro non avevano consegnato l’alchimia del fuoco nelle sue mani, loro non avevano vissuto Ishval, non avevano provato il fuoco nelle loro schiene. Il suo legame con Roy Mustang, per quanto doloroso e carico di rimorsi per entrambi, era più forte di qualsiasi altro e niente avrebbe cambiato questa realtà.
“Sottotenente – la chiamò Havoc, parlando per la prima volta – Rebecca come sta?”
“Come te – rispose sinceramente Riza – allora è proprio finita, eh?”
“Forse è meglio così – i suoi occhi azzurri erano stranamente asciutti, ma l’espressione la diceva lunga sulla nottata d’inferno che aveva trascorso – insomma, nessuno di noi due era più felice. Non aveva senso continuare, vero?”
“Non te lo so dire; non sono brava in questo genere di cose.”
“Coraggio, vecchio mio – si intromise Breda – adesso cerca di non pensarci: stasera noi due e Falman ce ne andiamo a bere qualcosa, vero sergente maggiore? A tua moglie non dispiacerà di certo.”
“La avviso durante la pausa pranzo – annuì Falman – non ci saranno problemi.”
“Non ho nemmeno voglia di fumare – dichiarò il biondo con voce cupa – oggi la vita fa davvero schifo… ed il tenente colonnello, invece, accumula una conquista dopo l’altra. Sono ingiustizie belle e buone!”
“Ehi, la tua storia con Rebecca è stata importante – lo riscosse Riza – quasi un anno: non è uno scherzo.”
“Lei è furente con me, vero?”
“Ma no, solo triste.”
“Già, triste… quando le cose finiscono in una simile maniera non c’è altro che tristezza.”
 
Dopo una decina di giorni sembrava che sia Havoc che Rebecca si fossero in parte ripresi dalla fine della loro relazione. E sembrava che entrambi volessero dimostrarlo al mondo uscendo con altre persone.
Breda aveva fatto spallucce, ben sapendo che era un atteggiamento tipico del suo amico e che dunque era un normale evolversi della situazione. Riza invece rimase spiazzata quando Rebecca le annunciò che aveva organizzato un appuntamento a quattro con due suoi amici di vecchia data.
“Scordatelo!” esclamò la bionda quando le venne proposto.
“Troppo tardi – scosse il capo Rebecca con aria decisa, arrivando addirittura a puntarle l’indice sul petto – è già tutto organizzato per domani sera e non puoi lasciarmi sola in una simile occasione.”
“Potevi chiedere ad Helena o a qualcun’altra delle nostre colleghe! – arrossì Riza, cercando una scappatoia – perché proprio io? Sai bene che non sono mai uscita.”
“Proprio per questo ho scelto te, non capisci? – Rebecca strizzò l’occhio – è ora che ci diamo una mossa entrambe: io mi devo riprendere dalla storia con Jean, non posso stare sempre chiusa a casa come una vecchia zitella. E tu a maggior ragione: non sei mai uscita con nessuno e hai praticamente vent’anni. Ti devi sciogliere, mia cara: lo sai che il tuo caro tenente colonnello esce con donne diverse almeno tre volte al mese? Cosa vuoi restare ad aspettarlo per sempre come una stupida?”
“Non ti permetto di fare insinuazioni tra me e il mio superiore – ribatté Riza con aria seccata – il nostro è un rapporto esclusivamente lavorativo: come trascorre le sue ore al di fuori dell’esercito è affar suo, a patto che non metta a rischio la sua incolumità.”
“Ti senti come parli? Ho proprio ragione io! Ti devi sciogliere! Che cosa ci sarà di terribile nell’uscire con due ragazzi e farsi quattro chiacchiere in un tranquillo ristorante? Li conosco, sono persone tranquille e simpatiche, suvvia.”
“Ma io non ho intenzione di intraprendere nessuna relazione sentimentale.”
“E chi ti dice che lo debba fare? Santo cielo, Riza, anche se sei cresciuta in campagna ormai vivi in città da tempo: abbandona i tuoi atteggiamenti bigotti almeno per una sera.”
“Io non sono bigotta!”
“Sei una suora di clausura, credimi! E comunque non accetto rifiuti, va bene? Tu rilassati, mettiti qualcosa di carino e vedrai che sarà una serata più che divertente: fidati di me!”
 
Andrea e Simon erano proprio come li aveva descritti Rebecca: tranquilli, simpatici, a modo. Nessuno di loro due ricordava i modi di fare di Havoc o di Mustang e questo ebbe il potere di far sentire sollevata Riza, ma al contempo di provocarle uno strano senso di spiazzamento che proprio non riusciva a spiegarsi.
Rebecca, per fortuna, parlava per entrambe, riuscendo a suscitare l’ilarità dei due uomini che sembravano perfettamente consapevoli della donna con cui avevano a che fare. Ogni tanto Simon lanciava qualche occhiata interrogativa a Riza che, tuttavia, era rapida ad abbassare lo sguardo sul suo piatto.
Si sentiva leggermente a disagio con quella gonna al ginocchio e quella camicetta, ma non perché non fossero vestiti che non aveva già indossato, ma perché in quella determinata situazione la facevano sentire particolarmente esposta.
“Allora, signorina Riza, immagino che il suo lavoro sia impegnativo.” le disse ad un tratto Simon.
“Più che impegnativo dato che ha a che fare con una banda di scansafatiche! – rispose per lei Rebecca – Eh, voi uomini proprio ci mettete in difficoltà.”
“Ma dai – la riprese Riza – comunque sì, è un lavoro impegnativo. Tuttavia ne sono pienamente appagata e con la mia squadra mi trovo benissimo.”
Intercettò l’occhiata di Rebecca e arrossì. L’aveva fatto di nuovo: aveva usato un tono chiaramente marziale, come se stesse rispondendo a qualche altro militare. Con aria imbarazzata cercò di sciogliere le spalle troppo rigide e si concesse un sorso di vino, trovandone il sapore decisamente troppo forte.
“Mi scusi – mormorò quindi, rivolta a Simon – non sono abituata a simili uscite.”
“Rebecca è una gran trascinatrice se ha convinto anche lei – le sorrise lui di rimando, a farle capire che non c’era nessun problema – non si deve preoccupare. Io e Andrea la conosciamo da quando era una ragazzina impertinente e non è per nulla cambiata.”
“Ma che dici? – sbottò l’interessata – Se proprio vuoi tiriamo fuori episodi imbarazzanti di quell’epoca, quando pure voi eravate solo ragazzini.”
Oh, brava Rebecca! Svia l’attenzione da me, ti prego!
Mai e poi mai avrebbe più accettato un appuntamento a quattro.
 
“Vedi che dobbiamo uscire più spesso? – commentò Rebecca alla fine della serata, mentre rientravano a casa – ne hai bisogno se non hai la minima idea di come fare conversazione. Cavolo, non c’erano secondi fini: erano solo miei amici. Non avevano intenzione di provarci con te: Simon è anche fidanzato.”
“Se si tratta di uscire con te o le altre non c’è nessun problema – ribadì Riza – ma con sconosciuti non mi pare più il caso.”
“Mamma mia, vorrei proprio vedere il posto dove sei cresciuta: c’era qualche locale almeno?”
“No, proprio no: l’unica attrazione sociale era l’emporio che si trovava a venti minuti da casa mia, va bene? Ma non è questo il problema. Semplicemente non mi piace andare in giro con sconosciuti, anche se sono bravissime persone.”
“Sei davvero impossibile.”
“Sono uscita perché mi ci hai praticamente costretta.”
“Allora rilassati pure: la serata è finita e io sono arrivata a casa – sbottò Rebecca – Buonanotte.”
Vedendo la mora scomparire dentro il palazzo, Riza sospirò e si sentì leggermente in colpa: a pensarci bene era stata lei a rovinare una serata tutto sommato simpatica che non aveva niente di male. Però non ci poteva fare niente: con gli estranei si sentiva a disagio. Era completamente diverso da quando indossava la divisa e aveva a che fare con altri soldati: anche se non li conosceva, sapeva benissimo come comportarsi in base ai gradi segnalati dalle mostrine sulla divisa. C’era un’etichetta precisa, delle norme di comportamento che le permettevano di stare sempre sulla carreggiata giusta.
“Sottotenente, allora sei davvero tu? – una voce la fece trasalire e la sua mano andò istintivamente a tastare la borsetta dove c’era la pistola. Certo, perché ad un’uscita a quattro una ragazza normale porta sempre una pistola… se Rebecca l’avesse saputo l’avrebbe presa in giro a vita: bigotta e paranoica – Non mi volevo capacitare.”
Finalmente riconobbe quella voce e le venne istintivo girarsi e fare un saluto militare. Tuttavia non poté fare a meno di restare interdetta nel vedere Mustang con quell’abito elegante, con tanto di sciarpa bianca sulle spalle, a braccetto con una donna con un vestito al dir poco favoloso e una collana sfavillante ad enfatizzare un petto generoso. Capelli biondi acconciati in maniera ricercata, trucco perfetto ad enfatizzare un viso morbido e nobile… il paragone fu impietoso e Riza desiderò seduta stante essere con la sua solita divisa e non con quella camicetta rosa e quella gonna verde scuro dal taglio semplice e severo.
“Buonasera, tenente colonnello.” salutò con voce comunque ferma.
“La conosci, Roy?”
“E’ la mia assistente – rispose l’uomo con un sorriso – semplicemente sono sorpreso di vederla in giro la sera. Credo che da quando lavoriamo insieme sia la prima volta che ti vedo in borghese.”
“Ero semplicemente uscita con una mia amica, signore – rispose Riza, lieta che la luce soffusa dei lampioni non facesse notare il rossore delle sue guance – stavo tornando a casa.”
“Spero che abbia passato una buona serata.”
“Certo, signore, spero altrettanto di lei.”
“Decisamente. Allora buonanotte, sottotenente: ci vediamo domani a lavoro.”
“Ma certo, tenente colonnello: buona serata a lei e alla signora.”
Con un cenno di saluto l’uomo si girò e riprese la sua strada: Riza fu certa di sentire quella donna ridacchiare e per qualche secondo fu certa che la stesse prendendo in giro. Si sentì umiliata come poche volte era successo: oggettivamente quella serata si stava rivelando un vero e proprio disastro.
Decidendo che non era il caso di prolungarla oltre, affrettò il passo per raggiungere casa sua: purtroppo per lei Rebecca aveva scelto un ristorante parecchio lontano e dunque c’era da camminare per diversi minuti prima di tornare nella sua zona.
Dopo qualche isolato si rese conto che il destino quella sera aveva deciso di farle fare un sacco di incontri notturni: ecco davanti a lei Havoc e Breda che passeggiavano tranquillamente per strada.
“Ehilà, signora – la salutò Breda con aria sorpresa – che piacere vederla.”
“Ehi, quanto siamo carine – commentò Havoc, strizzando l’occhio – appuntamento galante?”
Per la prima volta Riza riuscì a sorridere con sincerità a quel complimento.
“No, solo una serata con amiche… sì, anche con Rebecca, prima che tu me lo chieda. E voi, invece?”
“Cenetta in una bettola di nostra conoscenza, ma con cibo più che eccellente – rispose Breda – e ora stavamo andando a farci qualche bicchiere in un localino tranquillo. Ma non abbiamo intenzione di fare tardi, glielo assicuro: domani a lavoro saremo puntualissimi.”
“Si vuole unire a noi? – propose Havoc, mettendosi le mani in tasca – Ci offriamo come sue guardie del corpo e nessuno le darà fastidio.”
Riza stava per scuotere il capo e rifiutare, ma poi la sua idea di accantonare mestamente quella serata le sembrò fuori luogo. In fondo erano Havoc e Breda: li conosceva da quasi un anno e aveva uno splendido rapporto con loro: forse sarebbe stata un’esperienza interessante.
In fondo che male c’è ad uscire con dei miei colleghi? Se posso uscire con Rebecca e due sconosciuti…
 
“Ha un sapore stranissimo!”
Riza si leccò le labbra e si accorse di avere la schiuma della birra a farle i baffi proprio sotto il naso. Prese quindi un fazzoletto e provvide a pulirsi, ignorando le risatine di Havoc.
“Sottotenente io la adoro – esclamò il biondo, mandando giù una sorsata generosa dal suo bicchiere – Non aveva mai bevuto una birra in vita sua?”
“No, mai – ammise lei, sentendo il naso pizzicare in una maniera piacevole – è strana…”
Annusò la bevanda e ne provò un altro sorsetto, non riuscendo ancora a definirne bene il sapore ma trovandolo stranamente piacevole. Tuttavia preferì posare il bicchiere e prendere qualcuno dei salatini che stavano su delle ciotole che la cameriera aveva portato assieme alle bevande.
“Fa un effetto strano per i neofiti – spiegò Breda – la birra di East City è davvero particolare. Non si senta in dovere di finirla se non le piace.”
“Ma no, tranquillo: preferisco però andare a piccoli sorsi.”
Si guardò attorno, trovando quel locale scarsamente illuminato stranamente piacevole. C’erano diverse altre persone, e le ragazze non mancavano: tutto sommato non si sentiva fuori posto con il suo abbigliamento.
“Questi salatini sono fantastici!” commentò, mangiandone altri.
“E ora portano anche le olive e le arachidi… diamine, ma ha mangiato a cena?”
“Poca roba – ammise lei, ripensando al cibo che aveva toccato ben poco presa com’era dall’imbarazzo – ma non fa niente e…”
“Ehi, Judy! – esclamò Breda, facendo un ampio gesto alla cameriera – assieme al resto porta anche tre dei tuoi grandiosi panini: quelli con tutto dentro!”
“Ci penso io, Heymans!” annuì la ragazza, strizzando l’occhio.
“Ma siete matti? – ansimò Riza – voi avete cenato e…”
“Per questi panini c’è sempre spazio, se ne accorgerà, signora – scosse il capo il rosso con aria di chi la sa lunga – e sono ottimi per mandare giù quella birra. Altro che il tenente colonnello con le sue serate eleganti.”
“L’ho visto prima – confessò – ci siamo salutati e lui era con una bella signora: sicuramente era parecchio benestante visto l’abito che indossava. Del resto lui va spesso a teatro.”
“E poi sa come finisce?” chiese Havoc, fissandola con attenzione.
“No e non credo che ci riguardi.”
“Modera i termini in presenza della signora, Havoc – lo reguardì Breda – va bene che siamo tra colleghi, ma non mi pare il caso di esagerare.”
“Vi sto rovinando la serata, lo sapevo.”
“La pianti di farti tante paranoie, signorina? – la riprese il biondo – E non fare quella faccia se ti ho dato del tu… forse ti aiuta a capire il concetto. Non ci stai dando nessun fastidio: ci fa piacere se stai con noi. E Breda ha ragione nel dire che spesso sono troppo volgare, va bene?”
“Sul serio, sottotenente – la tranquillizzò il rosso – potevamo semplicemente augurarle la buonanotte e andare per i fatti nostri: se le abbiamo chiesto di unirsi a noi è perché troviamo piacevole passare del tempo con lei anche fuori dall’orario d’ufficio. Che c’è di strano?”
“Ammetto di non essere di grande compagnia.”
“Sciocchezze: è che bisogna essere nella giusta compagnia,è diverso – la corresse Havoc con aria di chi la sa lunga – le va di sentire qualche episodio di guerra della Squadra Falco? A questi due soldati piace vantarsi delle proprie esperienze… ehi, ovviamente nessun ricambio di favore, sia ben chiaro.”
“Sì, sottotenente, ascolti di quella volta che questo scemo ha preteso di guidare un mezzo cingolato: quella è davvero divertente… oh, ma prima ecco i panini! E’ la nostra vera cena, signori.”
E addentando quel panino che dentro aveva davvero di tutto, tanto che rischiava di fare un disastro sulla sua camicetta, Riza sentì che non solo era la vera cena, ma anche la vera serata.
Niente sentimenti in ballo oltre l’amicizia.




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nda
Per quanto concerne Havoc e Rebecca, vorrei precisare che questa loro rottura pre manga era inevitabile: quando lasciano East City per trasferirsi a Centra, Havoc viene lasciato da una sconosciuta fanciulla e pare strano che si tratti proprio di Rebecca. Quindi preferisco ipotizzare che si tratti di qualche altra sua conquista posteriore.
Inoltre ho voluto introdurre anche le numerose conquiste di Mustang: nel manga sono già un dato di fatto, ma è chiaro che Riza ne è venuta a conoscenza solo lavorando con lui. Tengo a precisare che quella che prova Riza in questo momento non è gelosia da innamorata: semplicemente le risulta fastidioso che proprio lui sia sempre circondato da belle donne. Del resto, a ben pensarci, anche se non per questioni amorose, Roy è il suo unico punto di riferimento da tempo, quello verso cui lei riversa tutte le sue energie. 
In ogni caso è interessante constatare come l'educazione puritana di Riza (forse anche un po' bigotta, non ci sarebbe nulla di strano) ancora si fa sentire in questi suoi primi anni post guerra. La compagnia di sconosciuti ancora la mette in crisi, specie in ambito borghese.
Bene, chiusa questa parentesi... vi preannuncio che il prossimo capitolo sarà ambientato più di un anno dopo, nel 1911, e chi ha letto le mie storie sa benissimo che cosa succede per colpa di una radio che non funziona (vabbè è lo spoiler definitivo).
A presto!

 

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Capitolo 19
*** Capitolo 18. 1911. Le decisioni istintive ***


Capitolo 18
1911. Le decisioni istintive




 
“Comunque la scelta del fermaglio è stata davvero perfetta – commentò Rebecca, sistemando un ciuffo dei capelli biondi di Riza – ammetto che quando mi hai detto che volevi farti crescere i capelli ero un po’ scettica, ma probabilmente era dovuto al fatto che ti ho sempre vista con il taglio corto.”
“Felice che tu abbia cambiato parere.” rispose Riza, sentendosi realizzata da quell’acconciatura comoda e pratica per il lavoro: quel fermaglio semplice, comprato un paio di settimane prima, era stata una vera e propria svolta.
“Sai, ora che hai i capelli lunghi e acconciati sembri anche più adulta del solito.”
“Mi devi per caso chiedere qualcosa? Quando fai tutti questi complimenti sei più che sospetta.”
“No, nessuna uscita o altre richieste – mise il broncio Rebecca – però se uno di questi giorni ti va di prendere un the nel nuovo locale che hanno aperto a pochi isolati da qui non mi offendo.”
“Ne ho sentito parlare: organizziamo per la settimana prossima?”
“Andata: magari avviso pure Helena e qualche altra. Bene, ora ti lascio: quel maniaco di Grumman mi aspetta. Buona giornata di lavoro!”
“Anche a te!” salutò Riza, osservando l’amica che correva verso l’uscita dello spogliatoio.
Con un pizzico di vanità si portò davanti ad uno dei lavandini per guardarsi allo specchio, sentendosi pienamente soddisfatta della donna vestita con maglioncino scuro e con le pistole già assicurate dalle bretelle di cuoio che passavano attorno alle spalle. C’era ben poco, forse nulla, di quella ragazza timida ed impacciata che un anno prima si era trovata in estremo imbarazzo per una cena a quattro e che era finita in un locale con due suoi compagni di squadra a mangiare panini e bere birra.
Un anno e passa e numerose missioni aiutano crescere notevolmente, facendo sparire persino il lieve imbarazzo che si prova ad essere così giovani ed avere già un grado più alto del previsto nei ranghi dell’esercito. Ma soprattutto Riza era riuscita a venire a patti con il suo corpo e con la sua identità: aveva in parte modificato il suo guardaroba borghese, permettendosi anche qualcosa di meno castigato. Era stato un processo del tutto naturale, senza che né Rebecca o qualcun’altra ci mettesse il naso: semplicemente quando le era capitato di passare davanti a qualche negozio e vedere qualcosa che le piaceva aveva messo da parte la timidezza ed era entrata a provare. In tutto questo magari c’entrava anche la maggiore confidenza che aveva con l’altro sesso, almeno a livello di relazioni interpersonali: di questo doveva ringraziare soprattutto la sua squadra ed in particolare Havoc e Breda. Adesso sentire battute taglienti non la faceva più sentire a disagio ed il fatto di essere l’unica femmina in quell’ufficio non comportava nessuna discriminazione.
Tornata all’armadietto recuperò la giacca della divisa e si preparò per una nuova giornata di lavoro.
 
Mentre percorreva i corridoi le venne da pensare che quell’autunno si presentava più gentile del solito, tanto che in ottobre c’era ancora un clima quasi estivo. Istintivamente le venne da pensare alla bucolica campagna di Resembool che aveva visto un anno prima, nel medesimo periodo.
E’ già passato un anno… sul serio ha ragione il colonnello nel dire che quel ragazzo verrà a fare l’esame per diventare Alchimista di Stato?
Una parte di lei pregò che non andasse così, che Edward Elric venisse a patti con le sue menomazioni e con le condizioni di suo fratello e cercasse di vivere una vita normale in quel piccolo angolo di mondo. Lei sapeva bene a cosa erano spesso obbligati gli alchimisti di stato e pensare che un simile destino toccasse anche ad un ragazzino che aveva già sofferto così tanto le lacerava il cuore.
Tuttavia se da una piccola parte di lei si aggrappava a quella vana speranza, dall’altra era spietatamente consapevole che per il colonnello Mustang aver scoperto un talento così giovane avrebbe procurato grande prestigio e dunque lo avrebbe aiutato nella scalata al potere.
Sì, in fondo Edward Elric diventerà una pedina del colonnello, ma se questo lo porterà in cima andrà bene.
Era Roy Mustang quello che doveva proteggere, non quel ragazzino così giovane che aveva osato così tanto: per quanto provasse pietà per lui, la sua parte più nascosta continuava a ripetersi che era ovvio che l’alchimia avesse fatto solo danni. Era una vecchia storia che si ripeteva e, per quanto razionalmente sapesse che non era proprio così, i ricordi del passato continuavano a punzecchiarla.
Tuttavia mise da parte quei pensieri come entrò in ufficio e si accorse che il colonnello era al telefono, mentre gli altri ascoltavano in silenzio, ciascuno al proprio posto.
“No – stava dicendo Mustang, con sarcasmo nemmeno troppo velato – evidentemente se sto chiamando vuol dire che non ci siamo riusciti.”
“Ancora la radio?” chiese Riza, rivolgendosi a Breda.
“Ancora la radio… come da due settimane a questa parte.” annuì il rosso con un sorrisetto.
“Non me ne importa se nessuno del reparto tecnico è disponibile! – la voce di Mustang si alzò di tono, facendo capire che era davvero indisposto – Trovate qualcuno che se ne intenda, non dovrebbe essere difficile!... no, non mi importa se… ascoltami bene, chiunque tu sia e qualunque sia il tuo grado! Sono lo stramaledetto alchimista di fuoco, se non vuoi che di te resti solo cenere mi mandi un tecnico entro i prossimi dieci minuti: non mi importa se sarà un generale, un tenente, un inserviente della mensa o uno preso dalla strada. Basta che mi faccia funzionare questa dannatissima radio!”
La violenza con cui venne sbattuta la cornetta fu chiaro indice di come non fosse la prima volta che veniva effettuata quella chiamata. Per quanto non fosse d’accordo con simili comportamenti, per una volta tanto Riza sentì di dover giustificare il suo superiore: quella radio era un vero e proprio dramma da quando era approdata nel loro ufficio una quindicina di giorni prima.
La circolare con cui era arrivata parlava di modernizzazione al fine di garantire maggiore efficienza, tuttavia anche per una persona non esperta era chiaro che si trattava di un apparecchio così datato tanto da apparire come una presa in giro. Ed i fatti avevano confermato quanto era apparso evidente da subito: segnale praticamente assente, continui disturbi, stazioni irraggiungibili… per quanto ci fossero delle istruzioni per l’uso allegate era la radio in sé a non andare bene.
“Con simili minacce credo che il tecnico arriverà prima del previsto – commentò Breda – ha superato se stesso, signore.”
“Se quella cosa non funzionerà entro oggi verrà incenerita – rispose Mustang, passandosi una mano dai capelli e cercando di recuperare il suo solito contegno – non ci resta che aspettare il fantomatico tecnico. Colonnello Mustang – riprese immediatamente il telefono che aveva iniziato a squillare – ah, l’avete trovato? Sul serio? Va benissimo, basta che ci sia fare: mandatelo qui.”
“Abbiamo il tecnico?” chiese Falman.
“Sarà qui in cinque minuti.”
“Bene – si intromise Riza – allora mentre attendiamo possiamo cominciare a lavorare. Sbrighiamo la corrispondenza, colonnello?”
“Tutto pur di non vedere quel dannato arnese – sospirò l’uomo, prendendo la prima delle lettere – a proposito, tra un paio di settimane dovrò essere a Central, procura biglietti del treno per me e per te, tenente.”
“Certo, signore, posso chiederle il motivo del viaggio?”
“Ci saranno gli esami di alchimista di stato – un lieve sorrisetto apparve sul bel volto di Mustang – e sono sicuro che ci sarà qualcuno di nostra conoscenza.”
Si scambiarono una rapida occhiata e ancora una volta Riza ripensò a quella cantina piena di macchie di sangue, con quei cerchi alchemici disegnati sul pavimento. Ripensò a quel ragazzino sulla sedia a rotelle e a quell’armatura che parlava con una voce infantile che rimbombava in maniera così surreale in quel metallo vuoto. E ripensò anche a quella ragazzina bionda, colei che le aveva dato l’idea di farsi crescere i capelli: le aveva detto che se Edward decideva di intraprendere quella strada sarebbe stata una sua scelta, certo, ma adesso…
No, adesso proprio niente! Se devono attraversare un mare di fango e disperazione per riottenere i loro corpi che sia. Tu ed il colonnello avete attraversato ben altro e la strada è ancora lunga.
“Comunque – la voce di Havoc le fece sollevare lo sguardo e vide che il biondo si era alzato dalla sedia andando verso la scrivania vuota dove stava la radio – secondo me non è necessario aspettare… a mali estremi, estremi rimedi.”
“Dannazione, Havoc – si alzò Breda allarmato, vedendo che il compagno si era sollevato leggermente la manica della divisa – Si può sapere che cosa stai combinando?”
“Lasciami fare, Breda! Vedrai che con un paio di colpi ben assestati questo stupido aggeggio tornerà a funzionare senza bisogno di un tecnico!”
“Non credo che sia una buona idea…” azzardò Falman con preoccupazione
“Eddai, ragazzi, fatemi provare!” sbottò il biondo lanciando un’occhiata tra il supplichevole e l’esasperato.
“Havoc, ti avviso – intervenne Mustang con voce irritata – non ho nessuna intenzione di fare richiesta per una nuova radio e giustificare il fatto che quella che abbiamo sia stata ridotta in pezzi.”
Anche Riza stava per intervenire per evitare quella tragedia incombente, ma prima che potesse aprir bocca la porta si aprì e comparve un…
Ma quanti anni ha?
Aveva la divisa, certo, ma più che un soldato sembrava un ragazzino: più basso di lei, esile, con un visino delicato che accentuava ancora di più l’espressione timida ed imbarazzata. Dietro dei grossi occhiali neri, due occhi scuri scrutavano tutti loro con timore, quasi avesse paura di venir aggredito.
“Scusate, ho provato a bussare, ma non mi avete sentito…” mormorò il nuovo arrivato con voce flebile e non ancora del tutto adulta. Una mano era ancora posata sulla porta e dall’atteggiamento era chiaro che una parte di lui desiderava scappare via dall’ufficio.
“E questo nanetto chi sarebbe?” commentò Havoc, squadrandolo con sospetto misto a sorpresa.
“Che ci fai qui, recluta? – gli chiese Breda, rivolgendosi direttamente al giovane – Guarda che l’asilo per voi è dall’altra parte del Quartier Generale.”
Solo allora Riza spostò l’attenzione alle spalline del ragazzino dai dritti capelli neri: un soldato semplice, sicuramente appena uscito dall’Accademia. Anche se a vederlo sarebbe ancora dovuto essere alle scuole superiori.
“Veramente… – esitò questi arrossendo lievemente – mi è stato detto di venire qui per una radio.”
“Saresti il tecnico?” Havoc si avvicinò a lui, rendendo evidente l’impietoso confronto fisico. Riza fu quasi tentata di dirgli di non minacciarlo in un simile modo.
“Si… – annaspò giovane con fare disperato, cercando di recuperare la calma – cioè, volevo dire...soldato semplice Kain Fury a rapporto, signore!”
“Havoc smettila di spaventarlo incombendogli addosso in quel modo – intervenne Mustang, prendendo finalmente la parola – Non lo vedi che lo stai terrorizzando? Vieni qui, soldato, e fatti vedere bene.”
Riza lo osservò scivolare lontano da Havoc e portarsi davanti alla scrivania. Da vicino sembrava ancora più piccolo e spaventato del previsto, un pulcino bagnato che si è allontanato dal nido: era la prima volta che le capitava di vedere un soldato maschio con un aspetto così infantile. Di colpo le tornò la medesima sensazione di fastidio nel sapere che un ragazzino era coinvolto in cose più grandi di lui.
No, un vero adulto non ci guarderebbe con tanto timore e reverenza.
“Quanti anni hai, soldato?” chiese il colonnello.
“Diciotto, signore.” rispose Fury, cercando di tenere un tono di voce saldo.
“E hai già finito l’Accademia?” il sopracciglio destro dell'alchimista si inarcò leggermente, segno che era particolarmente interessato e sorpreso.
“Sì, signore. Ho completato sei mesi fa.”
“Capisco. Hai fatto due anni in uno, vero?”
“Sì signore.”
“Davvero notevole. In ogni caso quella è la radio che ci hanno gentilmente fornito. Ma a quanto pare fa di tutto meno che funzionare. Mi hanno riferito che sei parecchio bravo con queste cose: vediamo che sai fare.”
Fury si era girato vero l’oggetto in questione e dalla sua posizione Riza poté vedere l’incredibile cambiamento che avvenne nella sua espressione. Paura e timidezza vennero sostituite da una vera e propria preoccupazione per quella vecchia radio.
“Qualcuno di voi ci ha per caso fatto qualcosa o la situazione era questa da principio?”
“Diciamo che abbiamo provato a cimentarci un po’ tutti; – rispose Mustang – ma forse abbiamo solo peggiorato la situazione.”
Ma sembrava che questa risposa non avesse scoraggiato il giovane: dalle tasche aveva iniziato a tirare fuori diversi strumenti piccoli e delicati ed aveva aperto la cassa della radio con una disinvoltura non indifferente.
“Ehi, ragazzino, sei sicuro di sapere quello che fai?” chiese Breda accostandosi con curiosità.
“I fili sono vecchi ed i circuiti interni pure, ma non è questo il problema principale. Credo che…ecco! Alcune valvole di trasmissione sono saltate dalle loro posizioni... accidenti, hanno perso la loro sede ed è impossibile che ci siano ancora pezzi di questo tipo in circolazione.”
“Quindi niente possibilità?”
“Non ci saranno mai pezzi simili in magazzino, ma forse...” adesso era completamente estraniato da qualsiasi cosa non fosse quella radio. Era incredibile come il suo atteggiamento fosse cambiato nell’arco di nemmeno un minuto; eppure restava una strana componente infantile a farla da padrone, come se quello che stesse facendo non fosse solo lavoro, ma una vera e propria passione. Le sue mani iniziarono a montare delle rondelle tra di loro e Riza si rese conto di quanto erano snelle e delicate, con le dita affusolate che erano perfette per svolgere lavori di precisione come quello che stava facendo.
Cogliendo un movimento alla sua sinistra, la soldatessa notò che anche il colonnello osservava con estrema attenzione il giovane tecnico: i suoi occhi scuri erano concentrati su quella figura così esile, specie ora che era circondata da Havoc, Breda e Falman e questo era un chiaro segnale di come la sua mente stesse valutando da cima a fondo quel ragazzino.
Ma è così piccolo – lo pensò con una strana sfumatura di tenerezza che, paradossalmente, non era riuscita a provare nei confronti di Edward Elric.
Un lieve rumore indicò che le nuove rondelle erano state messe in sede e riportando l’attenzione su Fury fece in tempo a vedere come non ci fosse alcuna esitazione nel premere il pulsante d’accensione. E, incredibilmente, la radio che aveva dato così tanti problemi si accese, senza nemmeno un fastidioso fruscio di sottofondo: la spia verde sembrava brillare più del solito quasi a prendere in giro tutti quanti loro.
“Ehi…il pivellino ce l’ha fatta!” esclamò Havoc.
“La radio ora funziona, signore!” sorrise il soldato semplice chiudendo l’apparecchio con gentilezza e iniziando a rimettere i suoi attrezzi in tasca. Ora che aveva eseguito il suo compito esprimeva una nuova sicurezza, ma soprattutto una grande soddisfazione e felicità: un atteggiamento che denotava quanto fosse ancora ingenuo e poco avvezzo al mondo militare.
In ogni caso l’occhio attento di Riza notò come il saluto militare che fece quando si portò davanti al colonnello, fosse scattante e preciso… un po’ rovinato dal sorriso timido che proprio non riusciva ad andare via.
“Ottimo lavoro, soldato Fury, – sorrise Mustang con soddisfazione – puoi tornare al tuo plotone. Se la radio ci darà altri problemi saprò chi chiamare.”
“Grazie mille, signore! – salutò il giovane, arrossendo, prima di girarsi e di dirigersi verso la porta – Per qualsiasi cosa sono sempre a sua disposizione.”

Riza conosceva bene il colonnello: il tempo passato come sua assistente aveva ulteriormente rafforzato il loro legame e le aveva insegnato a cogliere ulteriori sfumature del suo carattere. Per esempio ormai sapeva che le sue conquiste amorose avevano un peso relativo, teso più a compiacere l’ego dell’alchimista che a un vero e proprio interesse romantico. Così come era conscia che sapeva essere più che spietato nella sua scalata al potere: il modo con cui oggettivamente stava usando i fratelli Elric parlava chiaro… e del resto anche Havoc, Breda e Falman erano stati chiamati in squadra perché servivano al suo scopo. Certo, era anche vero che, col passare dei mesi, loro erano diventati parte importante dei suoi progetti e della sua vita, non più semplici pedine come poteva sembrare all’inizio.
In ogni caso una cosa era certa: Roy Mustang non faceva mai niente senza un motivo e dunque, quando il giorno dopo la riparazione della radio annunciò che voleva il soldato semplice Kain Fury nella squadra, Riza non rimase troppo sorpresa. Il modo in cui il colonnello aveva squadrato quel ragazzino era stato eloquente, sebbene le motivazioni fossero leggermente diverse da quelle che la donna aveva immaginato.
“…se devo essere sincero, di quel soldato mi ha colpito proprio la gentilezza e la timidezza... e quando ho letto la parte del rapporto relativa al suo carattere non ho avuto altri dubbi. Voglio una squadra affiatata e collaborativa: non che consideri gli altri dei cattivi soggetti, tutt'altro, ormai li conosco da tempo, ma credo che qualcuno con il buon carattere di Fury aiuterebbe ad amalgamare meglio il team. Secondo me può dare un fondamentale contributo: l’ho visto carico di entusiasmo e buona volontà. Se Havoc non lo distrugge nelle prime settimane penso che il piccoletto diventerà un ottimo elemento per tutti noi.”
E così, all’improvviso, Riza si era trovata ad avere sotto la sua ala protettiva quel giovane soldato che, ovviamente, trovava netta difficoltà a muovere i primi passi all’interno di una squadra di soldati d’eccezione come loro. Era stata una richiesta del colonnello e con tutta probabilità voleva controbilanciare l’aperta ostilità che Havoc aveva immediatamente manifestato nei confronti di Fury.
Per la prima volta in vita sua, Riza non approvava assolutamente l’atteggiamento del suo compagno di squadra. Poteva capire la perplessità che mostravano Falman e Breda, ma non tollerava che ci fosse un’ostilità così aperta nei confronti di chi aveva invece bisogno di essere incoraggiato: i commenti sarcastici erano all’ordine del giorno e sembrava che qualsiasi cosa dicesse o facesse il nuovo arrivato, Havoc avesse qualcosa da dire in negativo. Ovviamente Fury non osava controbattere, ma si capiva come questo atteggiamento lo rendesse più insicuro di quanto già non fosse: capire di non piacere ad una persona non era mai una bella esperienza.
Ed era per questo che, in quel momento, ad una settimana dall’arrivo di Fury in squadra, lei ed Havoc si squadravano con stizza mentre aspettavano che il ragazzo finisse di sistemarsi le protezioni per poter sparare al poligono di tiro. Il colonnello aveva ottenuto l’autorizzazione a fargli avere un’arma più decente rispetto alle pistole d’ordinanza che venivano concesse ai soldati appena usciti dall’Accademia e la scelta era caduta sulla pistola M5. Semplice, maneggevole ma con un buon equilibrio e potenza.
“Dieci cents che si distrugge…” mormorò il biondo.
“Finiscila! – sibilò lei – non sei per nulla divertente. Usare una pistola professionale per la prima volta non è mai semplice.”
“Per me e per lei lo è stato, signora, non dica sciocchezze. Sa benissimo che quel nano è una frana con le armi: si vede da come ha difficoltà anche nel mettersi le protezioni. Ribadisco il mio pensiero: il colonnello ha fatto una grossa sciocchezza a volerlo in squadra… e spero che se ne renda conto.”
Riza stava per ribattere, ma un timido richiamo di Fury la fece andare accanto al soldato.
“Bene – annuì – proprio non puoi levare gli occhiali? La protezione non aderisce bene…”
“Lo so, signora – ammise Fury – è sempre stato così anche in Accademia. Ma senza occhiali vedo male, non riuscirei a prendere la mira.”
“Quattrocchi…” commentò Havoc.
“Adesso concentrati e prova a colpire il bersaglio – ordinò Riza, lanciando un’occhiataccia al compagno e allontanandosi di qualche passo dalla postazione di Fury – non ti preoccupare troppo di fare centro: questi primi tiri servono a imparare a maneggiare la nuova arma, intesi?”
“Va bene, signora – annuì il giovane – adesso provo.”
Riza lo osservò sistemarsi meglio, cercando anche di sciogliere le spalle troppo rigide: ovviamente c’erano diversi errori di postura da correggere e non ne era per niente sorpresa. Dal curriculum aveva visto come a fare da contraltare a voti altissimi nelle materie teoriche ci fossero prestazioni modeste nelle attività pratiche. All’Accademia avevano puntato sul suo talento nell’elettronica, dandogli anche corsi supplementari ed avevano preferito passare sopra voti non proprio eccelsi in altre materie.
Qui bisognerà lavorarci molto di più rispetto alla compilazione dei documenti…
Fece in tempo a lanciare un’occhiata ad Havoc che se ne stava a braccia conserte dall’altra parte della postazione. Sicuramente anche lui aveva notato i medesimi errori e…
Il rumore della detonazione la fece sobbalzare.
Si girò verso Fury in tempo per vederlo cadere a terra mentre la pistola rimbalzava a qualche passo da lui.
“Maledetto cretino! Imbecille! – imprecò Havoc, raggiungendo il ragazzo e sollevandolo a sedere – Non sa nemmeno tenere in mano una cazzo di pistola! Guarda che disastro! Idiota…”
“Fury! Fury – ansimò Riza, inginocchiandosi davanti a lui e osservando con orrore il viso pieno di sangue – santo cielo, ti sei fatto molto male?”
Il ragazzo provò a dire qualcosa, ma tutto quello che gli uscì dalla bocca fu un gemito spaventato e dolorante. Ed il sangue che dalla fronte gli stava colando sugli occhi di certo non aiutava la situazione.
Con preoccupazione Riza recuperò un fazzoletto e cercò di individuare le ferite vere e proprie.
“Resta fermo – consigliò – hai delle schegge in questi tagli… ti si sono rotti gli occhiali nel colpo.”
“Già – annuì Havoc con uno sbuffo, recuperando gli occhiali in parte distrutti e con le lenti a pezzi – steso da un rinculo di pistola: complimenti, nano, hai fatto il botto.”
“Mi dispiace…” mormorò Fury, chiaramente cercando di trattenere le lacrime.
“Forza, alzati – lo aiutò Riza – bisogna portarti subito in infermeria: questi frammenti di lenti vanno subito levati dalle ferite.”
 
Per tutto il percorso fino all’infermeria Riza si sentì il cuore in gola. Sapeva benissimo che non doveva essere niente di grave, ma vedere il suo protetto con l’espressione così dolorante e con tutto quel sangue a bagnargli il viso ed inzupparli la maglietta bianca che indossava non faceva altro che procurarle angoscia.
“Coraggio, siamo arrivati – mormorò infine, aprendo la porta dell’infermeria – scusate, questo soldato si è ferito in viso.”
Il medico di turno lanciò un’imprecazione come vide le condizioni di Fury.
Immediatamente lo fece sedere su un lettino e con delle garze iniziò a pulire le ferite.
“Dovrebbero esserci delle schegge nei tagli – avvertì Riza, accostandosi a loro e cercando di mantenere un tono di voce calmo, a beneficio suo e dello stesso Fury – gli occhiali si sono rotti.”
Annuendo il medico andò ad un mobiletto e prese un paio di pinzette.
“Fermo così, soldato – ordinò – adesso leviamo tutto quanto.”
Non fu un’esperienza piacevole, tutt’altro: ad ogni frammento levato il ragazzo emetteva dei lamenti simili a dei guaiti di un cagnolino. Tuttavia si ostinava a stare fermo, le mani serrate sul lettino per evitare la tentazione di portarle alla parte offesa.
“Ragazzino, nessuno ti ha detto che non si gioca con le armi di papà?” gli chiese quando levò gli ultimi pezzi di lente.
“Ma…io…” balbettò Fury.
“E’ stata una prova andata male – si ritenne in dovere di intervenire Riza – non si aspettava un rinculo simile da una nuova pistola.”
“Che mammoletta! - concluse il medico mettendo un grosso cerotto sul naso e un altro sulla fronte – Ti è andata bene: gli occhi sono illesi e la botta solo superficiale: tanto sangue, ma pochi danni... quando sei entrato qui con la maglietta zuppa di sangue pensavo peggio. Procurati nuovi occhiali e tieni questi cerotti per una settimana prima di tornare qui.”
“Sissignore... grazie mille per la medicazione” mormorò il soldato balzando giù dal lettino, prontamente sostenuto dalla donna. Ma il medico nemmeno lo ascoltava più: con mosse pratiche stava gettando le garze sporche di sangue per poi andare alla scrivania ed aggiornare il registro delle medicazioni.
“Vieni, Fury – lo richiamò Riza – andiamo.”
Iniziarono a camminare in silenzio per il corridoio, con lui che non cercava di far caso alle occhiate che gli altri soldati gli lanciavano, attirati dalla sua maglietta sporca di sangue.
“Come va?” chiese Riza dopo qualche minuto, riuscendo a spezzare lo strano silenzio che era calato tra di loro.
“Tutto bene, signora.” rispose lui.
“Mi dispiace. Avrei dovuto preparati maggiormente al contraccolpo; non eri abituato, ci dovevo pensare.”
Sarei dovuta stare più attenta e non fare troppo caso ad Havoc. Anzi, sarebbe stato meglio se ci fossi stata solo io ad aiutarti.
“Oh, ma non si deve scusare, signora. E’ stato un incidente: la prossima volta farò attenzione.” promise Fury tenendo lo sguardo basso.
“Ehi, non è il caso di stare con lo sguardo a terra: può succedere a chiunque.”
“Cosa? Oh no, tenente, non si preoccupi. E’ che senza occhiali vedo sfocato e preferisco tenere lo sguardo sul pavimento per evitare fastidio agli occhi”
“Hai occhiali di riserva?”
“Certo, sono previdente”
“Bene. Adesso vai nel dormitorio e riposa un po’. La botta che hai preso è stata comunque forte e tra poco avrai un bel mal di testa: e prima che tu ribatta che stai bene, sappi che questo è un ordine, soldato. Niente discussioni.” dichiarò posandogli una mano sulla spalla esile.
“Va bene, signora. Grazie mille per la sua premura.”
Lo guardò allontanarsi con passo ancora leggermente esitante e si disse che la strada per farlo sparare decentemente sarebbe stata davvero lunga. Forse era stato davvero un azzardo prendere in squadra un soldato così giovane e privo d’esperienza: comportava che loro colmassero le lacune che l’Accademia aveva lasciato.
Ci siamo davvero sbagliati su di lui?
 
Nonostante tutti i suoi dubbi, quella sera prima di tornare a casa, Riza non poté fare a meno di andare nei dormitori e cercare la camera dove stava Fury. Per sua fortuna il fatto di essere entrato a far parte di una delle squadre scelte del Quartier Generale gli aveva dato il diritto di avere una stanza da condividere solo con un altro soldato che, a quanto ne sapeva Riza, al momento ancora non c’era.
Bussò con discrezione, domandandosi se Fury non fosse andato in mensa a cenare.
Non ottenendo risposta si disse che doveva essere proprio così e stava per allontanarsi, ma poi un sesto senso le disse che il soldato doveva essere in camera. Con discrezione aprì la porta e sospirò con preoccupazione nel vederlo profondamente addormentato nel suo letto.
Adesso che non aveva gli occhiali il suo viso sembrava ancora più infantile ed i grossi cerotti che aveva sulla fronte e sul naso contribuivano a dare un aspetto tutt’altro che militare.
Forse davvero doveva parlare col colonnello ed invitarlo a rivalutare la situazione.
Tuttavia dopo qualche secondo scosse il capo con forza.
Proprio no! Lui è sotto la mia protezione e farò di lui un soldato più che valido.
Si rifiutò di ascoltare quella piccola parte di lei che non voleva assolutamente che Fury andasse via dalla squadra.


 



______________
Nda
Ancora una volta mi sono trovata nella difficile situazione di dover riprendere una mia vecchia fic e riadattarla dal punto di vista di Riza.
In questo caso, emozione delle emozioni, si tratta de La squadra è la famiglia, la mia prima storia pubblicata in questo sito anni orsono. 
Come ben sapete per me il rapporto tra Fury è Riza è qualcosa di davvero particolare e dunque anche il prossimo capitolo dovrebbe (condizionale d'obbligo) vederne l'evoluzione.
Alla prossima e grazie a tutti quelli che mi seguono :)

 

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Capitolo 20
*** Capitolo 19. 1911. Le diverse strade della vita ***


Capitolo 19
1911. Le diverse strade della vita




 
Central City era davvero grande, tanto che Riza si era dovuta trattenere più volte dal restare a bocca aperta davanti a quella maestosità che faceva sembrare East City una cittadina di campagna. Le strade della capitale suscitavano in lei uno strano senso di disagio, come se qualcosa le dicesse che quel posto, quegli edifici, quelle persone, non erano adatte a lei. La sua anima solitaria fu più volte tentata di rifugiarsi nel ricordo di quello sperduto angolino del distretto Est dove c’era la sua villetta decadente ma sicura, lontana da tutto quel rumore e da quella vita che non le apparteneva veramente.
Ma anche se era questo che le passava per la testa, per il mondo esterno lei era solo l’efficientissima assistente e guardia del corpo del colonnello Mustang, venuto in visita per assistere all’esame di alchimista di un giovane da lui scoperto.
“Il caratterino di Edward procurerà diverse grane, me lo sento – commentò proprio il colonnello, mentre guidava la macchina in dotazione per le vie della città: dopo tre giorni di soggiorno finalmente gli esami si erano conclusi e tra qualche ora avrebbero preso il treno che li avrebbe ricondotti a casa – ma sarà anche quello che lo spingerà a rialzarsi ogni volta che cadrà: ce ne ha dato ampia dimostrazione.”
“A lei piace quel ragazzo, vero signore?” chiese Riza, guardando discretamente fuori dal finestrino e notando come ci fossero molti più negozi rispetto alle vie di East City: Rebecca ne sarebbe stata davvero estasiata.
“Uno che attacca in modo così spudorato King Bradley non può che starmi simpatico – sorrise con furbizia l’uomo – sono certo che in futuro ci riserverà grandi sorprese. E’ stato un ottimo acquisto per me, su questo non ci sono dubbi.”
“Edward non fa parte della squadra – gli ricordò – per quanto da ora in avanti abbia un’autorità pari a quella di maggiore non è un soldato. E poi non mi pare il tipo di persona fatta per lavorare in gruppo.”
“Mai detto di volerlo in squadra, infatti – ribatté Mustang, scuotendo il capo – quello farà sempre di testa sua, credimi. A me servono uomini che riconoscano la mia autorità e abbiano determinate doti… e mi pare di averli trovati, non credi? No, Edward tornerà utile al momento giusto, così come io sarò utile a lui quando servirà.”
“Crede davvero che riuscirà a trovare il modo per riavere i suoi arti e ridare il corpo a suo fratello?”
“Non lo so, ma non lo escludo – il viso del moro si fece estremamente serio – quello che hanno commesso è un peccato bello e buono: hanno sfidato le leggi dell’alchimia, rompendole a loro piacimento. Forse dovrebbero romperle ancora per ottenere ciò che vogliono, ma è un terreno troppo complicato dove non mi voglio addentrare. Sciocchi – mormorò ancora – a confronto le mie ambizioni sono ben poca cosa.”
“Proprio di questo volevo parlarle, signore – Riza prese la palla al volo – perché si è scoperto in questo modo davanti ad Edward? Era proprio necessario essere così spudorato nelle sue intenzioni? Persino ai ragazzi non ha mai parlato in maniera così esplicita dei suoi progetti.”
“Credi che non l’abbiano capito? Mio caro tenente – sorrise Mustang – loro ce l’hanno chiaro sin da quando hanno messo piede nel mio ufficio due anni fa. Solo Fury non ha ancora un’idea precisa su quali siano i miei obbiettivi, ma per svezzare il cucciolo c’è ancora tempo, non credi? Ora che anche Havoc l’ha preso a benvolere la strada è in discesa, no?”
“Fury ha ancora molto da imparare: è poco più di un mese che è in squadra e la strada è ancora lunga.”
“Non sei per niente brava…” ridacchiò Mustang.
“Prego, colonnello?”
“A nascondere il tuo orgoglio per il ragazzino. Ammetto che sono rimasto davvero sorpreso quando ho visto che ti sei affezionata così tanto a lui.”
“Le attenzioni che riservo al soldato semplice Fury – e fece attenzione a porre l’accento sulle parole soldato semplice – sono puramente professionali. E’ stato lei, del resto, a dirmi di prendermi cura di lui in questi primi tempi.”
Cercò di assumere un’aria ancora più seria, ma era innegabile che fosse orgogliosa di lui: in quelle settimane era riuscito ad ottenere il rispetto di Havoc e aveva dimostrato una tenacia fuori dal comune. Tuttavia, nonostante queste indubbie note positive a livello professionale, Riza non poteva far a meno di essere profondamente attratta dal carattere dolce ed ingenuo del suo protetto: era come se questa caratteristica per lei risultasse più importante di miglioramenti con la pistola o nella compilazione dei dossier. Mai e poi mai l’avrebbe ammesso a voce alta.
“Mettila come vuoi – scrollò le spalle Mustang, girando in una via laterale – sta di fatto che Fury ti adora e questo è innegabile. Scodinzola come un cagnolino ogni volta che gli rivolgi la parola.”
“Spero che non voglia sottintendere niente di sconveniente, signore: sarebbe completamente errato e del tutto fuori luogo. Fury ha appena diciotto anni.”
“Innamorato di te? – gli occhi scuri di lui si girarono a guardarla con sorpresa – non fraintendermi, tenente, credo che sia molto ingenuo in materia d’amore. No, semplicemente ti… uhm… vuole bene? E’ un termine da fanciulli, ma per lui ci può stare.”
“Sono il suo punto di riferimento a livello professionale e se ha bisogno di qualche consiglio, data la sua inesperienza, sono pronta ad aiutarlo, tutto qui. Ora posso chiederle dove stiamo andando?”
“Già, perdonami se ti ho portato con me in questa piccola deviazione prima di andare alla stazione a prendere il treno – il colonnello si guardò attorno, come se stesse cercando una specifica casa tra quelle del quartiere residenziale dove erano arrivati – ma, dato che ci avanzava del tempo, mi sembrava opportuno fare una visita ad un mio amico. Me lo riprometto da anni, ma ancora non ho avuto occasione. Ah, ecco, il numero è quello.”
“Un suo collega?” chiese Riza, mentre la macchina veniva parcheggiata.
“Lo conosci pure tu, e credo che sarà felice di rivederti – sorrise enigmatico Mustang – gli hai salvato la vita ad Ishval.”
 
Riza ricordava appena quell’uomo bruno dai piccoli occhiali che aveva salvato anni prima assieme al colonnello.
All’epoca per lei i soldati erano, salvo qualche rara eccezione, tutti uguali: solo la divisa contava, in modo da poterli distinguere dal popolo dagli occhi rossi. Maes Hughes sarebbe rimasto solo un volto destinato a mischiarsi a centinaia di altri che erano passati attraverso il suo mirino, uscendone miracolosamente illesi perché stavano dalla parte giusta dello schieramento. Tuttavia, nel rincontrarlo, la sua fisionomia non le risultò così sconosciuta, ma forse dipendeva dal fatto che il soldato era comunque collegato ad un episodio che riguardava anche Mustang e che dunque risaltava in quei giorni monotoni e terribili di tre anni prima.
Di una cosa comunque Riza era sorpresa: sembrava che Maes Hughes non fosse mai stato ad Ishval. In lui c’era una felicità quasi fuori luogo per chi aveva vissuto l’esperienza di quello sterminio di massa. Ed invece stava lì, seduto nel divano davanti a lei ed il colonnello, ridendo felice e decantando le doti di sua moglie e della bambina appena nata che teneva in braccio.
“Sono felicissimo che finalmente ti sia deciso a passare qui, Roy – stava dicendo in quel momento – è dal mio matrimonio che non ci siamo più visti. Eppure siamo migliori amici! Dovresti farti una vita sociale, amico mio: una bella famiglia ti cambierebbe la vita.”
“Come sai il lavoro mi ha tenuto impegnato e non è che posso lasciare East City molto spesso.”
“In ogni caso la sua visita è veramente gradita, colonnello – sorrise Glacier, la graziosa moglie di Hughes, tornando con un vassoio con un caffè e una torta – lei e la signorina Hawkeye siete sempre i benvenuti in questa casa.”
“Aspetta, tesoro! – esclamò Hughes, con un sorriso esagerato – hai partorito da poco e non devi sforzarti troppo. Il caffè lo servo io, tu pensa solo alla torta… per quello sarei un disastro! Ecco, Roy, tieni tu Elicia, ma non farla cadere, eh!”
Fu una mossa rapida e improvvisa che colse i due soldati in divisa di sorpresa: nell’arco di due secondi Mustang si trovò con la neonata, avvolta in una copertina, tra le braccia. Fece una faccia così allibita che per qualche secondo Riza ebbe la certezza che avrebbe mollato la presa, facendo cadere la bambina, ma per fortuna questo non accadde.
“Maes! Non era il caso! – protestò Glacier – E poi ho partorito da più di tre settimane, sono perfettamente in grado di…”
“No! No! Proprio no! Tesoro, tu devi evitare sforzi il più possibile – disse lui – e poi guarda come sta bene Roy nelle vesti di padre.”
“Proprio non hai intenzione di cambiare, eh? – sospirò Mustang con irritazione, fissando con aria dubbiosa la bambina. Poi sembrò prendere una decisione e si girò verso Riza – Tenente, coraggio, prendila tu: io non ci sono per niente abituato con i neonati.”
Perché, io sì? – annaspò Riza con disperazione, mentre Elicia le veniva messa tra le braccia con goffa delicatezza. Si irrigidì completamente, chiedendosi come andasse tenuta una creatura così fragile come una neonata di nemmeno un mese.
“Oh, aspetti, signorina – le venne in soccorso Glacier con un sorriso – la aiuto io. Ecco, vede, se la appoggi contro il braccio. Tanto la mia piccolina è davvero tranquilla: quando si addormenta non si sveglia per niente al mondo.”
“E’ davvero adorabile come la madre! – la voce di Hughes era melensa, come quella di un attore romantico volutamente esagerato – Sono stato davvero fortunato in amore, non c’è che dire! Sul serio, Roy, davanti a un simile quadretto non ti viene voglia di accasarti una buona volta?”
Sentendo quelle parole e fissando quel visino placido e addormentato che compariva dalla copertina rosa, Riza tornò indietro nel tempo, a quella surreale mattina in cui venne annunciata la fine della guerra, alle mani del tenente Morris che le tenevano le spalle, alla sua voce che la invitava a voltare le spalle a quanto era successo.
“…trovarti un buon ragazzo, qualcuno che ti stia accanto e ti tratti come si deve… costruisciti una famiglia, perché è di questo che hai bisogno, credimi. La tua presenza qui, per quanto utile, a parer mio è stato un grande errore.”
E davanti a lei stava quello che avrebbe potuto essere se avesse seguito quel consiglio. Un marito, dei figli, una vita tutto sommato più facile: avrebbe potuto trovare un buon lavoro come segretaria, dimenticarsi di come si usano le pistole e le armi da fuoco.
O meglio ancora, sarei potuta restare ad attenderlo.
Fu un pensiero ancora più assurdo e surreale, ma non poté fare a meno di girarsi a guardare il colonnello che la fissava con un’aria di scusa mischiata a curiosità, come se fosse sorpreso di vederla con un bambino in braccio. Eppure lei… lei sarebbe potuta restare in quella villetta solitaria, ad aspettare che la guerra finisse, ad aspettare che lui tornasse, perché sicuramente l’avrebbe fatto. Forse solo per dovere, forse perché l’alchimia di Berthold li aveva uniti in maniera indissolubile, forse perché… in fondo non avevano l’uno che l’altra in un simile momento.
Una minuscola parte della sua anima voleva continuare a immaginare come sarebbero andate le cose, se magari sarebbe riuscita a renderlo felice, a consolarlo da quanto era accaduto…
Ma venne spietatamente ricacciata indietro, come se non fosse mai esistita: chi la guardava era il colonnello Roy Mustang, colui che aveva giurato di proteggere per cambiare le sorti di un paese distrutto da anni ed anni di guerra civile. Il sogno egoista di una ragazzina non aveva senso di esistere, così come quello di una famiglia normale, di una vita serena: le sue scelte l’avevano portata a percorrere una strada piena di sangue e morte, dove la redenzione passava da tutte le volte che premeva il grilletto per proteggere quell’uomo.
Famiglia… no, tenente Morris, non avrei mai potuto.
Guardando gli occhi scuri ed allungati di Mustang ricercò quel ragazzo così speranzoso di fare del bene, quello che ingenuamente credeva che con l’alchimia il mondo si potesse rendere esclusivamente migliore, ma non c’era più… c’era l’uomo che aveva distrutto un’intera etnia con quella che doveva essere l’arma della speranza.
Ed improvvisamente capì che anche lui si sentiva fuori luogo in una casa normale, con una famiglia normale, dove la guerra era stata volutamente dimenticata.
Sei un vigliacco, Maes Hughes – si trovò a pensare – o forse, sei stato più coraggioso di noi due.
La bambina emise un piccolo verso e sorrise nel sonno. Ammirando quelle labbra simili ad un bocciolo di rosa, Riza rifletté che tutto sommato quell’uomo aveva semplicemente deciso di dare speranza al mondo in un altro modo.
 
“Devi scusarlo – disse Mustang qualche ora dopo, quando ormai il treno aveva lasciato la capitale per addentrarsi nelle fertili campagne del distretto centrale – non può fare a meno di essere rumoroso ed inopportuno: era così sin dai tempi dell’Accademia.”
Riza rispose con un lieve cenno di diniego e con un lieve sorriso: tutto sommato le aveva fatto piacere conoscere meglio quel soldato e la sua famiglia. Era uno spaccato di vita che le era del tutto oscuro: marito e moglie che si amano, una figlia desiderata che sicuramente avrebbe avuto tutto dalla vita… era una normalità che le era sempre stata negata e per la quale, probabilmente, non sarebbe mai stata pronta.
Ma questo non voleva dire non provare piacere nel vederla sugli altri.
“… nonostante quelle apparenze è un buon soldato – continuò il colonnello – sai, lavorare al reparto investigativo non è da tutti. Dovremmo dirlo a Falman, lui del resto ha prestato servizio a Central fino a qualche mese prima di entrare nella squadra.”
“Già, Falman… pensavo… lui e sua moglie sono davvero una bella coppia, sebbene a lavoro non ne parli praticamente mai.” le venne da sorridere nel pensare al discretissimo maresciallo e alla sua dolce metà, Elisa: aveva avuto occasione di vederli assieme solo poche volte, ma ora non poteva fare a meno di pensare a come il viso magro di lui si illuminasse di una felicità del tutto particolare in quei momenti.
“Sei pensierosa.”
“No, niente – scosse il capo – sono solo un po’ stanca ed il viaggio è ancora lungo, tutto qui.”
Lui non rispose e questo indusse Riza a spostare lo sguardo sulla sua figura. Aveva abbandonato la solita posa elegante a gambe incrociate: adesso stava con gomito posato alla rientranza del finestrino ed osservava con aria stranamente malinconica la campagna illuminata dal primo rosso del tramonto.
“Maes semplicemente non voleva morire – disse dopo qualche secondo di silenzio – il suo obbiettivo era uscire vivo da quella guerra e tornare dalla sua Glacier. Si aggrappava alle lettere che lei gli spediva come se fossero la cosa più preziosa del mondo. Perché combattiamo? Sul serio è la cosa giusta sterminare un intero popolo? Erano quesiti troppo scomodi se voleva sperare in una felicità a fine guerra, tutto qui. E non posso biasimare né lui né tutti gli altri soldati che hanno seguito il medesimo ragionamento.”
“Poteva seguirlo anche lei, signore…” provò a suggerire Riza, non provando nemmeno ad includersi in un simile discorso. Ma lui parve leggerle nel pensiero.
“Potevi farlo pure tu, tenente. Ma non l’hai fatto e sai perché? – il suo sorriso era amaro – Perché come me ne hai uccisi troppi: gli eroi di Ishval, incredibile come un titolo possa essere così fuorviante. Sai che ho pensato quando l’ho visto correre da Glacier alla stazione, quando tornammo a Central dalla guerra?”
Riza scosse appena il capo.
“Che il suo tempo era il presente… i miei sarebbero stati il passato con i suoi peccati ed il futuro al quale miro. Dei tempi che, per un motivo o per un altro, non potrò mai godermi perché il passato è già devastato dalla guerra ed il futuro è comunque compromesso dal rimorso: un dannato serpente che si morde la coda, ma non posso lamentarmi.”
“Non possiamo lamentarci entrambi, signore – lo corresse Riza – del resto se potremmo garantire a quella neonata e agli altri bambini un futuro di pace e serenità ne sarà valsa la pena, non crede?”
“Futuro di pace e serenità – sospirò lui – pare strano, ma si torna sempre a quell’assurdo sogno giovanile che ti confessai anni fa davanti alla tomba di tuo padre. Pare che la guerra non ci abbia insegnato più di tanto se caschiamo ancora in simili parole utopiche.”
Il silenzio che cadde tra di loro fu carico di amarezza, tanto che Riza si pentì che il discorso fosse andato avanti in una simile maniera. Voleva cambiare argomento, ma non ci riusciva: si ostinava a stare in silenzio, fissandosi le mani posate in grembo e sentendo che la stanchezza di due viaggi così ravvicinati. Tornare alla solita routine di East City sarebbe stato più che gradito.
“Ci sei più tornata a casa tua?”
La domanda giunse così inaspettata che quasi sobbalzò.
“No, signore, non c’è stata occasione.”
“Sai, la zia che ho a Central… da lei sono passato avant’ieri notte. Perdonami, non ti ho avvisato – finalmente il sorriso fu uno dei soliti, leggermente beffardo e sarcastico – ma non sentirti svilita come guardia del corpo: non è per mancanza di fiducia che non ti ho detto niente.”
“E’ stato un imprudente, signore – lo guardò male Riza, sentendosi profondamente offesa – sa bene che la sua incolumità non va presa alla leggera.”
“Credimi, conosco Central abbastanza bene per sapere come muovermi e poi – esitò per qualche secondo, come se stesse cercando le parole adatte per spiegarsi – non era un posto adatto a te, lo ammetto. Anche se ho parlato di te a mia zia in termini più che buoni.”
“Non è un posto adatto a me? – Riza inarcò un sopracciglio con aria dubbiosa – colonnello, le vorrei ricordare che non è il caso di pensare a simili convenevoli quando…”
“Mia zia gestisce una casa di appuntamenti o, come viene volgarmente definito, un bordello.”
A quella dichiarazione la filippica di Riza si interruppe e sentì le guance diventare calde, segno che era arrossita. Ricordava bene che da giovane il colonnello le aveva a volte parlato di una zia che l’aveva cresciuto dopo la morte dei genitori, ma non le aveva mai accennato di questo particolare dettaglio.
“Non farti idee strane – ridacchiò lui – vivevo al piano di sopra, in un ambiente del tutto separato da quanto accadeva nel locale o negli alloggi delle ragazze: non sono stato coinvolto in niente di sconveniente durante la mia infanzia.”
“Non… non intendevo…”
“E non immaginarti quelle ragazze come chissà quali depravate – continuò – sono delle bravissime persone, credimi. Loro e mia zia sono state un’interessante famiglia alternativa, lo ammetto. Però mi sembrava un po’ prematuro portarti con me: non ti vedo molto portata per entrare in un locale di appuntamenti.”
Riza scosse il capo, non sapendo come ribattere a quella che in fondo era un’affermazione più che veritiera: per quanto adesso non si vergognasse più di uscire ed andare in qualche locale con le amiche o con la sua squadra, un bordello andava oltre le sue… possibilità. Le era stato insegnato che un bordello è un luogo di perdizione, dove gli uomini spesso vengono meno alla fedeltà coniugale e, per quanto una parte di lei non dubitasse che quelle ragazze non fossero persone malvagie, l’idea di quello che facevano non poteva che metterla a disagio.
“Chissà – propose ancora Mustang – forse noi abbiamo un destino diverso da quello di Hughes perché abbiamo avuto delle infanzie completamente fuori dal comune.”
“Probabile, signore.”
“Che ne dici? Andiamo al vagone ristorante a mangiare qualcosa e poi ci concediamo qualche ora di sonno? Tanto l’arrivo ad East City è previsto domani mattina alle nove.”
“Mi pare un’ottima idea, signore.”
“Comunque – continuò Mustang mentre si alzavano – non eri assolutamente male con la bambina tra le braccia, tenente: anche se abbiamo avuto un’infanzia fuori dal comune credo che certe cose siano completamente naturali.”
“Era una bambina molto tranquilla – sorrise lei – tutto qui.”
 
La mattina successiva, complice anche la stanchezza, Riza acconsentì che lei ed il colonnello si prendessero una giornata di riposo. Dunque Havoc, che era venuto a prenderli in stazione con la macchina, li accompagnò ciascuno a casa propria.
La donna si concesse una lunga doccia calda, riuscendo finalmente a rilassare le ossa irrigidite per gli scomodi sedili di legno del treno. L’idea di mangiare qualcosa di caldo e poi mettersi a letto con un buon libro rispondeva esattamente al suo ideale di passare quella giornata uggiosa di fine novembre.
Tuttavia aveva appena finito di infilarsi un paio di pantaloni e un maglione pesante che qualcuno busso con urgenza alla porta.
“Tenente, sono Fury!” chiamò una ben nota voce.
“Soldato, che ci fai qui? – chiese Riza, aprendo la porta con sorpresa e trovandosi davanti il ragazzo completamente fradicio nonostante l’ombrello che teneva in mano – Havoc non vi ha avvisato che torniamo direttamente domani a lavoro?”
“Sì, signora – annuì lui, mettendosi sull’attenti – ma dovevo darle un’importante comunicazione. Volevo chiamarla a casa, ma il suo telefono è come staccato.”
“Sì? – chiese lei, non troppo sorpresa, girandosi a guardare il piccolo apparecchio che stava sul ripiano di legno appena oltre l’ingresso – A volte quando ci sono temporali succede: non è molto affidabile. Forse ci potresti dare un’occhiata quando hai tempo.”
“Certo, però non è per questo che sono qui – disse il giovane con urgenza, armeggiando per prendere un foglietto stropicciato ed umido dalla tasca della divisa e porgerglielo – non riuscendosi a mettere in contatto con lei a casa, hanno chiamato in ufficio: si tratta dell’ospedale, a quanto pare una sua conoscente è stata ricoverata d’urgenza. Mi sono permesso di venire subito…”
Riza ansimò con terrore e prese in mano quel foglietto, leggendo il breve messaggio nella calligrafia insolitamente tremante di Fury: come arrivò al nome della signorina Elliot il suo cuore smise di battere per qualche secondo e tutto quello che riuscì a fare fu di correre a prendere delle scarpe ed infilarsi in tutta fretta un cappotto.
 
“Il cuore ha semplicemente ceduto – spiegò il medico – alla sua età sono cose che accadono all’improvviso, senza che ci siano avvisaglie. E’ stato un puro caso che sia successo mentre stava sulla porta di casa a parlare con una vicina… poteva succedere quando era sola e nessuno se ne sarebbe reso conto. Lei è sua parente?”
“No – scosse il capo Riza, facendo cadere alcune gocce di pioggia dai capelli biondi – nessuno della sua famiglia era più in vita. Ma sono stata una sua allieva, andavo a trovarla tutte le settimane: non aveva altri che me… posso vederla?”
Il medico la fissò dubbioso per qualche secondo, ma inaspettatamente intervenne Fury.
“La signorina Elliot aveva i recapiti del tenente Hawkeye – mormorò – è chiaro che voleva che venisse chiamata lei in caso di emergenza.”
Solo allora Riza parve accorgersi della sua presenza: aveva corso così tanto per arrivare in ospedale che non aveva fatto nemmeno caso al soldato che l’aveva seguita come poteva, cercando di proteggerla con l’ombrello. Adesso stava vicino a lei, fradicio e ansimante, ma non per questo privo della sua solita buona volontà.
“Considerate le circostanze e le condizioni della paziente direi che può vederla anche se non è sua parente: mi raccomando di non parlare a voce troppo alta, non è il caso di agitarla troppo.”
“Ma si riprenderà?” chiese ancora Riza.
“Signorina – sospirò il medico – lei arriva giusto in tempo per dirle addio: con tutta probabilità non arriverà alla notte.”
A quelle parole Riza sentì come se qualcuno le avesse appena levato la terra da sotto i piedi. Come poteva la signorina Elliot morire così? Per la maggior parte della sua vita era stata il suo grande punto di riferimento, colei che l’aveva salvata da una vita che altrimenti sarebbe stata troppo difficile da affrontare: era a lei che doveva tutto.
Sentì solo distrattamente la vocetta tremante di Fury che esprimeva il suo dispiacere: si fece condurre con apatia attraverso i corridoi, fino alla corsia dove, separato da delle tende dal resto dei pazienti, stava il letto dove giaceva la signorina Elliot.
Negli ultimi anni si era davvero rimpicciolita, tanto che Riza faceva fatica a ricordarsi di quella donna alta e dritta che l’aveva fatta tremare di timore il giorno che l’aveva conosciuta. Adesso giaceva lì, con i capelli quasi del tutto bianchi sparsi morbidamente nel cuscino, il viso pallido e con tantissime nuove rughe, come se quell’attacco di cuore le avesse di colpo aggiunto almeno altri dieci anni d’età. Aveva una maschera per l’ossigeno a coprirle la bocca ed una flebo attaccata al braccio destro. Mai Riza l’aveva vista in una simile condizione: dov’era il suo solito vestito scuro e perfettamente stirato? Dov’era la pettinatura tirata e severa?
“Signorina – mormorò, sedendosi accanto a lei e prendendo quella mano morbida tra le sue – sono Riza, riesce a sentirmi?”
Ci volle qualche secondo, ma la donna aprì debolmente gli occhi e riuscì a girare il viso verso di lei. La fissò con stanchezza e poi parlò flebilmente, la sua voce attutita dalla maschera trasparente che le copriva la bocca ed il naso.
“A quanto pare è… è arrivato il momento anche per me, cara.”
Lo disse con semplicità, come se quella fosse solo una nuova lezione da insegnare alla sua allieva: non c’era paura o dolore, semplicemente una lucida consapevolezza che prima o poi sarebbe dovuto succedere.
“Mi dispiace – Riza non riuscì a trattenere le lacrime – avrei… avrei dovuto…”
“Ci siamo lasciate venerdì che stavo bene, no?” la interruppe la donna.
“Sì, però…”
“Doveva semplicemente succedere – sicuramente, se avesse potuto, avrebbe scrollato le spalle – meglio così che… che per una malattia lunga, no?”
“Io…”
“Il viaggio a Central è andato bene?”
“Sì – annuì Riza, trovando ingiusto che in un simile momento fosse la moribonda a farle forza e non viceversa: possibile che in momenti simili si dimostrasse così debole? – ma non dovrebbe parlare, maestra, dovrebbe riposare.”
“Il mio testamento è nel primo cassetto del comò in camera – spiegò ancora lei – la casa non è mia… ma quel poco che ho è per te, Riza. Ci sono anche le mie volontà per la sepoltura: posso affidarmi a te?”
“Ovviamente, ma non parli di queste cose, la prego.”
Gli occhi grigi della donna la fissarono con estrema dolcezza, una cosa che non era mai accaduta in tutti questi anni che la conosceva: la sua personalità rigida le aveva sempre impedito delle manifestazioni così plateali d’affetto, ma non per questo Riza non era stata consapevole di quanto provavano l’una per l’altra.
“Sei stata la mia migliore allieva… ragazza mia…”
La mano che Riza teneva si strinse leggermente, come a sottolineare quell’ultima frase. Poi la donna chiuse gli occhi e parve convincersi che riposare era l’idea migliore: un respiro e poi un altro, sempre uguali e faticosi.
La giovane rimase così per diverse ore, senza lasciar andare quella mano, non facendo nemmeno caso al freddo che le pervadeva il corpo per via dei vestiti fradici. Si rese a malapena conto di quando Fury si avvicinò discretamente a lei, limitandosi a posarle una coperta sulle spalle. Non disse niente, non mangiò, rimase a fissare quel corpo il cui petto si alzava ed abbassava sempre più lievemente.
Perse completamente la cognizione del tempo, tanto che non si rese conto di quando le luci furono accese.
L’unica cosa di cui si accorse fu di quando il petto della sua maestra non si alzò più. Semplicemente era finita.
Una mano si posò sulla sua spalla e solo allora lei si girò.
“Mi dispiace – mormorò il colonnello, con accanto Fury – so quanto significava per te.”
“Non si doveva prendere questo disturbo, signore – disse con voce roca, baciando la mano che teneva tra le sue un’ultima volta e posandola con dolcezza sul petto della defunta – sul serio… e tu, Fury, non dovevi restare qui per tutto questo tempo.”
Si alzò faticosamente in piedi, sentendo le gambe tremendamente rigide. La mancanza di cibo e quell’improvviso movimento le procurarono un capogiro, ma venne prontamente aiutata da Mustang.
“Tenente!” esclamò Fury, accostandosi pure lui e prendendole una mano.
Come sono calde le tue mani, Kain – pensò Riza con una strana forma di gratitudine – come sono calde…

 
 
 

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Capitolo 21
*** Capitolo 20. 1914. Ordinary life ***


Capitolo 20
1914. Ordinary life




 
Act. 1: Lavoro
 
La pioggia era quella tipica di gennaio: insistente, fastidiosa e pesante. Sembrava avere come unico scopo quello di farti sentire un vero e proprio magone da cui non riuscivi a liberarti per tutto il giorno, del resto con un cielo perennemente cupo era difficile stare allegri. Tutta East City ormai da una settimana era imprigionata in quelle condizioni meteorologiche, tanto che ormai si vedevano solo poche persone uscire per le strade mezzo allagate, dove spesso i tombini non riuscivano a fare del tutto il loro dovere.
Le solite problematiche di una città che, per la maggior parte dell’anno, convive con un clima secco.
Tuttavia nessuno di questi pensieri passava per la mente di Riza in quella mattinata: i piccoli torrenti che correvano lungo i lati della strada erano considerati come non pertinenti, così come le gocce di pioggia che ogni tanto si infiltravano dal soffitto marcio dell’edificio abbandonato dove si trovava e cadevano a terra con un lento plic plic.
Lei era ferma all’angolo della finestra, immobile, con la pazienza di chi è abituato ad attendere la sua preda. Il fucile già carico era tenuto con mano salda e non importava se era puntato sulla strada da già un quarto d’ora.
Lei attendeva, lei ascoltava.
“Perché questi imbecilli dovevano scegliere proprio questo periodo per mettersi in moto? – la voce di Mustang sbuffò irritata nell’auricolare che la donna portava all’orecchio destro – pioggia… umido… come se non bastasse già il mal di testa che ho da ieri mattina.”
“Diciamo piuttosto che questo tempo non le garba perché sotto la pioggia la sua alchimia è inutile, colonnello – Breda intervenne con voce sarcastica, tanto che Riza poté quasi vedere il suo sorriso – e quindi ci tocca a fare tutto con i cari vecchi metodi tradizionali.”
“Non è una missione che richiede l’uso dell’alchimia, sottotenente, lo sai bene.”
“Oh, andiamo, signore! – Havoc fece da spalla al collega, nonostante fossero in due punti diversi del quartiere – sappiamo che a lei piace esibirsi di tanto in tanto. Comunque io qui ne ho due proprio sotto tiro: non appena mi date il segnale parto con l’azione.”
“Breda, Fury, voi siete in posizione?”
“Affermativo, signore?”
“Falman?”
“In posizione, colonnello.”
“Tenente?”
“Pronta a catturare il pesce grosso, signore.” rispose Riza senza alcuna esitazione.
“Allora procediamo pure: ricordate, cinque sono e cinque ne voglio… vivi. Devono spiegare molte cose alle autorità militari, intesi?”
“Adesso li stano io questi idioti!” dichiarò Havoc.
La sua voce venne immediatamente seguita da alcuni spari che risuonarono nell’auricolare di Riza. In quel momento fu come se qualcosa scattasse in lei: la sua mente immaginò il suo compagno che premeva il grilletto e faceva partire il colpo e altrettanto nitidamente vide le reazioni dei due criminali che venivano colpiti, magari alla gamba o al braccio.
Le voci nel suo auricolare si susseguivano calme e allo stesso tempo concitate, come un branco di lupi che caccia la sua preda con foga, ma sapendo bene qual è il ruolo di ciascuno. E tutti spingevano la preda grossa verso di lei, ben sapendo che era lei quella destinata a catturarlo.
“Ancora cinquanta metri ed entra nel suo raggio d’azione, tenente – disse la voce di Fury dopo qualche minuto – ha imboccato la via adiacente alla sua.”
“Ricevuto!”
A quel punto i muscoli si tesero e sentì l’istinto del cacciatore farsi prepotente. Il suo sguardo rimase fermo sul mirino di precisione, aspettando che la sua preda vi entrasse dentro: non si girò a guardare all’ingresso della via, non ce n’era bisogno. Contò mentalmente fino a trenta, calcolando la velocità del suo nemico, la difficoltà data dall’asfalto scivoloso… questione ancora di pochi secondi.
L’uomo entrò nel mirino.
Lei puntò la gamba destra e premette il grilletto.
Due secondi dopo l’avversario era a terra e gridava di dolore.
“Obbiettivo catturato, colonnello – dichiarò con impassibilità – missione compiuta.”
“Molto bene – la voce di Mustang esprimeva soddisfazione – Fury, appena puoi avvisa di mandare un furgone per portare in cella questi qui. Direi che il nostro lavoro è terminato.”
“Ricevuto, signore! Tenente, non si preoccupi: stiamo arrivando ad ammanettare il suo uomo.”
“Lo tengo sotto tiro, sergente, giusto nel caso abbia intenzione di fare qualche brutto scherzo.”
“Non sia mai che il nano venga ferito, eh?”
“Havoc, smettila.”
“Ma io… sottotenente, è solo precauzione, lo sa bene.”
“Dobbiamo davvero dare spettacolo anche via radio?”
“Sto aspettando, eh!”
“Arrivo, signora!”
 
Act 2. Amicizia
 
“E dovevi vedere come gongolavano quei due – sbuffò Rebecca – ci sono volte in cui non so chi sia peggio, se Grumman o Mustang. Ancora non capisco come possano farla franca ogni volta.”
“Di quale evento si stavano congratulando a vicenda questa volta? – chiese Riza con aria esasperata, porgendo una tazza di caffè all’amica e accomodandosi in una delle poltrone dell’area relax del Quartier Generale per riprendersi dal freddo della missione – della scommessa con quel tenente Harryn di qualche settimana fa?”
“Proprio così – annuì la mora – certo che il tuo colonnello arriva a fare cose davvero estreme! Non posso credere che abbia praticamente segregato Fury per farlo lavorare a quel progetto. Anzi, più che altro sono sorpresa che tu non abbia stroncato la cosa sul nascere.”
“Non l’ho fatto perché ne sono venuta a conoscenza quando ormai tutto era già in movimento – lo sguardo irritato di Riza indicò chiaramente che ancora non mandava giù il suo essere stata così ingenua davanti a certi segnali – ma farò in modo che simili iniziative non si ripetano più. Non permetterò che il lavoro venga messo da parte per mere questioni d’orgoglio e di denaro.”
“Ah, amica mia. Tu vivi troppo per quella squadra e per il lavoro: sul serio non vorresti provare ad uscire con qualcuno? Sarebbe una bella valvola di sfogo, te lo garantisco.”
Il lieve sorriso di Rebecca suggerì a Riza che la sua relazione con la sua nuova fiamma andava estremamente bene: ancora non conosceva questo fantomatico fusto, come l’aveva soprannominato la sua amica, sapeva solo che lavorava in un negozio non poco lontano da casa di lei. Tuttavia la bionda conosceva abbastanza bene l’altra per sapere che, dato che non c’era ancora stata una presentazione ufficiale, la relazione non era ancora da considerarsi veramente seria. Al contrario di quanto succedeva ad Havoc, Rebecca aveva una strana forma di riservatezza nei confronti dei suoi spasimanti: si proclamava impegnata, ma senza descrivere troppo nei dettagli la persona in questione. Preferiva lasciare tutto in una strana forma di sfumato, quasi che la relazione non dovesse entrare nell’ambito lavorativo.
“Non sento la necessità di frequentare qualcuno, tutto qui – dichiarò con aria serena – la mia  vita va benissimo così. Del resto spesso usciamo assieme con le altre ragazze, no?”
“Non è la stessa cosa – scosse il capo Rebecca – per esempio… hai mai preparato una bella cenetta per qualcuno?”
“E questo cosa c’entra?”
“C’entra eccome, Riza – la mora la guardò con espressione di chi la sapeva lunga – insomma, ti perdi un sacco di esperienze con questa tua vita basata solo sulla squadra: non sai la grande soddisfazione di sentire i complimenti che ti fa qualcuno per un qualcosa preparato esclusivamente da te.”
La bionda scosse il capo e si rifugiò nel bere un altro sorso di caffè. Non poteva certo dirle che lei in passato aveva già preparato cene e pranzi per Roy Mustang, ma che ovviamente non c’era alcun fine romantico. E, ad essere sinceri, spesso lui si era congratulato per la sua cucina e questo le aveva fatto estremo piacere. Ma quella era un’altra vita, un’altra Riza… una ragazzina che pendeva come un cagnolino da qualsiasi gesto o parola gentile che squarciasse per qualche secondo la sua solitudine.
 
Act 3. Lavoro (ancora)
 
“Il colonnello Mustang ha ritenuto opportuno agire in questa maniera – la sua voce era impassibile, come sempre; lo sguardo puntato sull’interlocutore senza far caso all’espressione furente di quest’ultimo – il generale Grumman aveva dato autorizzazione di procedere già diversi mesi prima.”
Ecco un’altra forzatura bella e buona: in realtà quello che suo nonno aveva autorizzato mesi prima si riferiva a tutt’altra missione. Ma in qualche modo lei doveva giustificare il fatto che la sua squadra avesse invaso le sfere d’influenza di quell’altro colonnello del Quartier Generale: di certo non poteva andare a dirgli che era stato per mero calcolo che Mustang aveva fatto intercettare a Fury le telefonate e che poi si era appropriato in maniera piuttosto ambigua di fascicoli in teoria non accessibili.
“Quel caso era di mia competenza! – sbraitò l’uomo, alzandosi in piedi e battendo le mani sulla scrivania – Erano più di sei mesi che ero sulle tracce di quei criminali!”
“Allora dovrebbe essere felice che sono tutti imprigionati ed in attesa di essere interrogati – dichiarò Riza, con tutta la faccia tosta possibile, posando un fascicolo sul piano di legno – il colonnello Mustang le manda il rapporto della missione: il suo unico interesse era di assicurare quelle persone alla giustizia…”
… e prendersi il merito…
“… ed è certo che lei svolgerà con altrettanto zelo le parti relative al processo. Adesso mi scusi, colonnello – fece un perfetto saluto militare ed indietreggiò di un passo – devo tornare ai miei doveri. Le auguro un buona giornata.”
Con mosse ormai collaudate, Riza guadagnò l’uscita di quell’ufficio prima che si scatenasse la tempesta.
Ormai da anni andava avanti così: Roy Mustang riusciva sempre ad infilarsi nelle missioni che gli interessavano e prendersi i meriti migliori, lasciando i concorrenti con un pugno di mosche. Questo non faceva che procurargli fama, certo, ma poi toccava sempre alla sua assistente provvedere alla parte diplomatica per cercare di giustificare l’intrusione dell’alchimista di fuoco. Anche se aveva il pieno appoggio di Grumman, c’erano comunque svariati altri gradi elevati che andavano tenuti relativamente buoni.
“Tutto risolto, tenente?” chiese Fury che l’aveva accompagnata e attendeva nel corridoio.
“Come sempre, sergente, possiamo tornare a lavoro.”
“Crede che ci saranno problemi per le intercettazioni che il colonnello mi ha fatto fare?” il giovane era nervoso e Riza si dovette trattenere per cingergli le esili spalle con un braccio. Era cresciuto, e tanto… però per lei restava sempre il piccolo soldato insicuro da proteggere, anche se questo non gliel’avrebbe mai detto apertamente.
“Tranquillo, Fury, è tutto giustificato ed in ordine: non devi temere nessuna denuncia o simili. Sai bene che il colonnello non ti metterebbe mai in guai simili.”
“Meno male! E’ un vero sollievo… è che ogni volta che ci sono queste situazioni mi sembra di sforare nell’illegalità. Ma con il colonnello non è proprio così, vero?”
“No, proprio no…” sorrise lei.
 
Act 4. Colleghi
 
“Pausa forzata, eh?” Riza si mise a braccia conserte e squadrò i suoi compagni. Eccetto Falman che sembrava profondamente imbarazzato, come se fosse stato trascinato per forza in quella rivoluzione, il resto della squadra sembrava convinto di quanto proponeva… persino Fury la fissava con aspettativa.
“Il colonnello ha avuto impegni urgenti – annuì Havoc – dato che dovevamo approntare del lavoro con lui direi che non possiamo fare niente finché non torna.”
“Di lavoro da fare ce n’è sempre – ribatté il tenente – e si può fare anche senza il colonnello. Per esempio la compilazione di dossier che è rimasta in arretrato nelle ultime settimane, no?”
“In effetti io avevo proposto…” iniziò Falman, subito zittito da un’occhiataccia del biondo.
“Andiamo, signora – sospirò Breda – negli ultimi giorni abbiamo lavorato come asini per tutta questa storia di prendere quei cretini e farla in barba all’intero esercito. Fury non ha dormito che poche ore le ultime tre notti per intercettare ogni singola telefonata…”
“… sei ore di sonno totali.” precisò il giovane sergente, levandosi gli occhiali per mostrare le occhiaie fin troppo evidenti.
“… più che una pausa è un doveroso fermarsi.”
Riza sospirò, non sapendo cosa replicare: da una parte avevano perfettamente ragione e, ad essere sincera, pure lei sentiva la stanchezza farla da padrone. Ma dall’altra quello poteva essere il primo passo verso una pericolosa anarchia che…
Lo squillo del telefono procrastinò la sua risposta.
“Ufficio del colonnello Mustang.”
“Ah, tenente, sei tu! Risolto tutto con Ronsy?”
“Il colonnello Ronsy è stato messo al corrente della situazione – annuì con serietà – posso sapere dei suoi impegni urgenti, signore?”
“Impegni… già… beh, in effetti ero stanco e sono tornato a casa.”
Cosa?! – la donna si irrigidì per quella risposta a metà tra lo spavaldo e la mortificazione – Signore! Ci sono ancora cinque ore di lavoro da fare e…”
“E dai, tenente, cosa sarà mai! Che poi mica sono egoista… tu e i ragazzi potete uscire anche adesso, se volete. Siete in libertà!”
Dannazione alla telepatia fra lei e gli altri! – pensò mentalmente la donna.
“Tutto questo ovviamente non è di bell’esempio.”
“Quanta formalità, suvvia! Dai che un po’ di riposo farà bene a tutti! Allora a domani, eh!”
“Aspetti, colon…”
… tu… tu… tu…
Telefonata chiusa: un’uscita di scena in perfetto stile Roy Mustang.
Riza dovette trattenersi dal sbattere ferocemente la cornetta sull’apparecchio telefonico: non solo sei si sbatteva per risolvere tutti i guai diplomatici del suo superiore, ma ora doveva subire anche la beffa di subire una simile insubordinazione.
“Allora?” chiese Havoc.
Dannazione, come vorrei trattenervi tutti a lavorare fino a notte fonda!
Tuttavia non era giusto che le colpe di uno solo ricadessero su tutti, se ne rendeva perfettamente conto.
Era destino che quella giornata dovesse issare bandiera bianca.
“Libera uscita – dichiarò – il colonnello ci dà il pomeriggio libero.”
 
Act 5. Iniziativa
 
Avere un pomeriggio libero tutto sommato poteva tornare positivo.
Riza si dedicò alle faccende domestiche che qualche volta venivano trascurate: pulì il suo appartamento da cima a fondo, fece il bucato in arretrato, si preoccupò persino di andare a fare la spesa per la settimana.
Tuttavia, mentre era al mercato, si accorse che le avanzava ancora molto tempo: casa sua era così piccola che aveva pulito tutto quanto in nemmeno un’ora e mezza.
Anche a fare la spesa con calma sarebbe rientrata che non sarebbero state nemmeno le cinque e mezza del pomeriggio. Cosa fare in tutto quel tempo libero? Rebecca e le altre erano a lavoro e, ad essere sincera, non aveva nessuna voglia di rimettersi la divisa ed andare al poligono di tiro.
Insomma sembrava rimanere a casa a rigirarsi i pollici fosse il suo destino.
“… e quindi ho provato la ricetta di mia madre – disse una signora che parlava con un’amica a pochi passi da lei – e la torta è venuta buonissimo. Il segreto? La conserva fatta in casa!”
Un dolce?
L’idea le balzò improvvisa alla mente, così strana e surreale che rimase con il braccio proteso verso la bottiglia d’olio che stava per prendere. A dire il vero lei non si era mai cimentata troppo con i dolci: quando viveva con suo padre non erano la tipologia di cibo che andava a preparare. I pochi che aveva mangiato li aveva sempre portati la signora Berth.
“… non sai la grande soddisfazione di sentire i complimenti che ti fa qualcuno per un qualcosa preparato esclusivamente da te.”
Le parole di Rebecca suonarono quasi profetiche, come se fosse destino che quel giorno si dovesse cimentare in qualcosa di nuovo. Decise quindi di raccogliere quella strana sfida e alla sua spesa aggiunse anche gli ingredienti necessari per preparare qualche dolce… non appena fosse passata in libreria a comprare un libro di ricette.
Così le dimostrerò che non vivo solo per il lavoro.
 
Act 6. Disastro
 
“Non è male…” dichiarò Breda, ammucchiando la strana poltiglia gialla e grumosa su un lato del piattino.
“Bugiardo…” sospirò Riza, mettendosi a braccia conserte ed osservando l’impietoso risultato del suo esperimento culinario che, per la cronaca, le aveva sporcato tutta la cucina ripulita qualche ora prima.
“E’ la parodia di dolce peggiore del mondo – ammise il rosso, scuotendo il capo con aria triste – certo che anche lei voler partire da qualcosa di complicato come una torta a più strati…”
“Lasciamo stare che è meglio.”
Era stato un completo fallimento, tanto che la venuta di Breda per portarle la tracolla che aveva lasciato in ufficio era stata solo la ciliegina sulla torta. Non solo era stata scoperta nelle vesti di casalinga disperata, ma a farlo era stato anche quello che aveva il palato più fine di tutta la sua squadra.
Almeno fosse venuto Fury… lui avrebbe detto che era buona in ogni caso.
E stupidamente ne sarebbe stata felice, come se la torta le fosse venuta perfetta.
“Che quanto hai visto resti tra me e te.”
“Stia tranquilla – promise lui – sarò muto come una tomba: nessuno saprà che l’ho vista con la faccia sporca di strane sostanze non identificate.”
“Non è stata proprio una gran giornata di riposo… decisamente avrei bisogno di trovarmi qualche altra attività che non sia il poligono di tiro e applicarmici seriamente. Adesso rimetto a posto questo disastro, tu vai pure.”
“Problemi esistenziali, tenente? – chiese Breda alzandosi dalla sedia e prendendo il piattino per portarlo nel lavandino già colmo di stoviglie – Guardi che a noi piace così com’è.”
“Pensieri di una giornata stressante, tutto qui. Ci vediamo domani a lavoro, sperando che questo tempaccio si decida a finire.”
 
Act 7. Inaspettato
 
E così adesso aveva un cane.
Ancora le sembrava incredibile e fuori luogo, ma c’era un cucciolo bianco e nero che esplorava con curiosità ogni singolo angolo del suo appartamento. Riempiendo una bacinella di acqua poco più che tiepida, Riza si chiese ancora se aveva fatto la scelta giusta, oppure se si era semplicemente lasciata impietosire da Fury che cercava con ansia un padrone per quella bestiolina trovata sotto la pioggia.
Anche lui prendere certe iniziative! Non doveva raccoglierlo se sapeva di non poterlo tenere.
“Forza, Hayate, vieni – chiamò, inginocchiandosi e tendendo una mano – dobbiamo levare questa puzza di pelo bagnato che hai addosso.”
Il cagnolino trotterellò subito verso di lei, chiaramente felice di ricevere attenzioni. Prendendolo in braccio Riza si chiese quale sarebbe stata la sua reazione all’acqua, ma poi si disse che un cucciolo così piccolo era di facile gestione. Tuttavia sembrava che Hayate fosse abbastanza collaborativo, forse trovava piacevole quel calore dopo esser stato al freddo per tanto tempo.
Bene… e ora che farai? Non hai la minima idea di come si tenga un cane… e non hai nemmeno un cortile.
Era stata troppo impulsiva, era chiaro: avrebbe dovuto soppesare i pro ed i contro di prendersi una simile responsabilità. Davanti agli altri si era dimostrata sicura, ma adesso…
“Beh, almeno non sembri molto irrequieto – commentò, avvolgendo la bestiola in un asciugamano e iniziando a frizionargli il pelo bianco e nero – potremmo andare d’accordo, me lo sento.”
E lui era davvero carino e affettuoso, non ci voleva molto a capire perché Fury gli si fosse affezionato in così poco tempo. Peccato che per un soldato entusiasta ce n’era un altro cinofobico: scoprire questo dettaglio di Breda era stata una vera e propria sorpresa e già si intravvedevano guai all’orizzonte.
“Potrei addestrarti, non credi? – si sedette nel divano, tenendo il cucciolo sulle sue ginocchia – Secondo me potresti diventare un buon cane dell’esercito. Oh, una battuta davvero stupida… lascia stare.”
E comunque stai parlando con un cane…
Però quegli occhietti scuri e vivaci sembravano capirla in qualche maniera.
Il cucciolo abbaiò entusiasta, quasi approvasse quanto gli era stato appena proposto.
Del resto che aveva detto Breda, il giorno prima? Aveva parlato di problemi esistenziali. E anche Rebecca aveva detto che doveva in qualche modo staccare dal lavoro.
“Beh, tu sei uno stacco perfetto, Hayate – sorrise, allungando un dito per farselo leccare – credo proprio di aver fatto la scelta giusta.”




__________________
La vicenda a cui si riferisce Rebecca è narrata nella mia long "Una scommessa all'ultima valvola"
L'arrivo di Hayate è immediatamente precedente alla long "Cinofobia"
Per quanto mi riguarda, sono finalmente riuscita a terminare questo capitolo che proprio non voleva uscire... non solo è un periodo pieno d'impegni, ma era anche tosto da buttare giù (l'ho riscritto e modificato almeno tre volte).
Il prossimo aggiornamento sperò sarà entro la settimana prossima.

A presto :)

 

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Capitolo 22
*** Capitolo 21. 1914. Frammenti di passato ***


Capitolo 21
1914. Frammenti di passato




 
“Crede che ripartiranno subito?” chiese Havoc, dando un profondo tiro alla sigaretta.
“Non lo so – scrollò le spalle Riza, finendo di firmare alcuni documenti e consegnandoli ad un soldato che prese immediatamente congedo da loro due con un rapido saluto – credo che ne stiano parlando in questo momento con il colonnello, in ufficio. Del resto non ci sarebbe niente di sorprendente: quei due sono sempre in viaggio.”
… e le volte che vengono qui succede sempre qualcosa.
Non disse quest’ultima osservazione a voce alta, tuttavia lei ed Havoc si scambiarono un’occhiata eloquente. Conoscevano da diversi anni i fratelli Elric e sapevano bene che, molto spesso, le loro venute ad East City erano foriere di problemi. Certo la loro ricerca non era per niente semplice, se non impossibile: mettersi sulle tracce della pietra filosofale era praticamente un’utopia e, difatti, fino a quel momento, i loro viaggi si erano sempre conclusi con un nulla di fatto.
Riza ammirava la tenacia di Edward, così come apprezzava la gentile determinazione di Alphonse: durante le loro visite ne aveva seguito la crescita e maturazione e sperava, con tutto il cuore, che alla fine riuscissero a trovare una soluzione per recuperare il corpo del più giovane dei due… o almeno a venire a patti con quella terribile conseguenza del loro gesto temerario.
Questo era quello che pensava Riza Hawkeye, ma il tenente dell’esercito avrebbe avuto parecchio da ridire su di loro, specie su Edward. Ma fortunatamente questo non era affar suo perché quel ragazzino di quindici anni non era un soldato, ma solo un alchimista di stato: certo, rientrava sotto la giurisdizione del colonnello, che ne poteva esigere i servizi, ma non faceva parte dell’esercito e dunque della squadra. Semplicemente Edward non era fatto per la vita militare: era troppo indipendente e sfrontato, ma non come poteva esserlo lo stesso Mustang… in lui c’era un’insofferenza quasi spietata nei confronti dell’ordine costituito: sembrava fosse quasi inevitabile che si scontrasse sempre con qualche cosa che non andava bene al suo modo di fare.
Ma se il colonnello sapeva aggirare simili imprevisti con la giusta discrezione, Edward non si faceva scrupoli a romperli in maniera più che spettacolare. Con tutta probabilità questo dipendeva anche dalla giovane età, tuttavia Riza non la vedeva come una giustificazione, essendo lei per prima dovuta maturare tantissimo durante l’infanzia e l’adolescenza.
Senza contare che Alphonse aveva un carattere decisamente diverso e molto più maturo, a dirla tutta: a volte era difficile credere che fossero fratelli.
Nei confronti del più piccolo degli Elric, Riza provava una strana forma di dolcezza, lontanamente paragonabile a quella che molto spesso le veniva spontanea nei confronti di Fury – fatto opportunamente tenuto nascosto in primis al diretto interessato: mai dimostrare delle preferenze nei confronti dei propri sottoposti. Nonostante quell’armatura, dove la voce infantile risuonava in maniera così surreale, era in grado di esprimere se stesso… e anche se era in qualche modo cresciuto, in lui c’era una componente a volte ingenua che le faceva ben capire come la parte più importante di lui fosse ancora nel mondo.
“Certo che per il colonnello è stata una bella fortuna che gli Elric fossero su quel treno – continuò il biondo – in qualche modo si prenderà il merito di aver salvato le penne al vecchio Hakuro. Del resto il boss Acciaio è comunque alle sue dipendenze.”
“Siamo sicuri che il colonnello saprà come gestire la situazione – rispose Riza, mentre riprendevano ad avanzare per i corridoi: ovviamente sapevano entrambi cosa voleva dire quel gestire e altrettanto bene erano consapevoli che avrebbero continuato a seguire Roy Mustang. In tutti quegli anni di lavoro assieme il senso di squadra si era consolidato e sapevano bene quale era la meta ultima del loro superiore – auguriamoci solo che nel frattempo non succeda altro.”
“… altro di esplosivo – ridacchiò Havoc – ci è bastato quanto successo il mese scorso per via del cane.”
La donna stava per ribattere, ma in quel momento vide il colonnello avanzare nella loro direzione, seguito dai fratelli Elric, l’armatura di Alphonse che faceva un vero e proprio fracasso nei corridoi silenziosi del Quartier Generale.
“Torno tra un’oretta – spiegò Mustang – devo accompagnare Acciaio ed Alphonse da una persona.”
“Serve che veniamo anche noi?” chiese subito Riza.
“No, la persona in questione abita a poca distanza da qui – scosse il capo l’altro – ci impiegherò relativamente poco.”
“Arrivederci, tenente Hawkeye; arrivederci sottotenente Havoc!” salutò educatamente Alphonse, mentre Edward si limitava ad un cenno impaziente.
“Ciao…” fece in tempo a dire Havoc, prima che lui e Riza venissero lasciati in quel corridoio.
“Non ho la minima idea di chi possa essere la persona in questione – ammise lei, anticipando la domanda del suo compagno – il colonnello non mi ha mai accennato nulla a riguardo. Dev’esser stata una decisione presa in questi ultimi minuti.”
“Guai in vista?”
“Spero proprio di no.”
 
Fu una speranza vana, ma in qualche modo se l’era aspettato: ormai conosceva quel sesto senso che la avvisava di prossime difficoltà in vista. Tuttavia non aveva previsto l’orribile portata di quello che la aspettava quando il telefono dell’ufficio squillò nemmeno una settimana dopo.
Le sembrò che accadesse troppo in fretta, come spesso succede negli incubi dove tutto sembra essere ridotto ad una strana sequenza di eventi stranamente legati tra loro: dall’espressione di Mustang che si faceva sempre più sconvolta man mano che la telefonata proseguiva, all’ordine di andare subito a casa dell’alchimista Shou Tucker, all’espressione stravolta di Edward, fino al ritrovarsi da sola, in quel salone polveroso, attendendo che il suo superiore finisse di dare disposizioni ai soldati chiamati di gran fretta.
Sola… non era il termine giusto: in realtà il suo compito era di vegliare quella chimera che era stata creata dalla follia umana. Riza sapeva ben poco dell’alchimista intreccia vite, così era chiamato Tucker: ne era venuta a conoscenza solo perché negli ultimi giorni i fratelli Elric si recavano da lui per poter consultare la sua biblioteca alla ricerca di qualcosa di utile. Non aveva chiesto al colonnello il motivo di quell’appellativo, né lui aveva dato spiegazioni: del resto la questione alchimia rischiava sempre di rievocare dolorosi ricordi.
Ma quello che le toccava vedere andava oltre qualsiasi aberrazione: persino quello che le aveva fatto suo padre anni prima appariva come poca cosa.
“Pa – pà…” la voce gutturale della chimera risuonò in quella stanza, facendola sussultare.
Riza fu costretta a spostare lo sguardo su quella specie di grosso cane bianco… dai lunghi capelli castani. Si guardava attorno, smarrito, non riuscendo a capire cosa stava succedendo attorno a lui. O lei… perché fino a qualche ora prima al posto di quella creatura c’erano una bambina ed il suo compagno a quattro zampe.
Ecco di nuovo che la follia si ripeteva: ecco un’altra bambina sola che niente aveva potuto contro la sua sorellastra fatta di formule e simboli.
Gli occhi rossi della chimera si puntarono su di lei, timorosi e allo stesso tempo curiosi, forse speranzosi di ricevere qualche notizia del genitore che aveva appena chiamato. Come doveva comportarsi con lei? Come se fosse una bimba o come se avesse a che fare con Hayate? Era un quesito così surreale e aberrante che si detestò per esserselo posto.
Ed intanto nella sua mente ripercorreva quanto doveva essere successo a quella bambina: se la immaginò seguire il genitore verso quello studio dove le era sempre stato proibito d’entrare, riuscì a percepirne la paura, ma anche l’estrema fiducia nel genitore, la stessa che la faceva andare verso quella mano tesa. E poi l’orrore, la sofferenza…
“Tra poco arriva – si costrinse a dire – non ti preoccupare.”
Non disse che Shou Tucker stava subendo un interrogatorio in una stanza poco lontana, né che con tutta probabilità sarebbe stato condannato a morte per il tremendo crimine che aveva commesso. Non erano discorsi da fare ad una creatura innocente e grottesca che non riusciva chiaramente ad esprimere tutto quello che provava dentro la sua mente confusa dove sensazioni animali e umane si mischiavano.
Si inginocchiò davanti all’animale che si tirò indietro, timoroso e le venne spontaneo porgere una mano per farsela annusare, proprio come aveva fatto con Hayate nemmeno due mesi prima.
Era stato molto doloroso subire quella trasmutazione? Era stato come sentire il fuoco sulla schiena per le ferite provocate dall’ago?
E quanto era durata? Istanti, minuti oppure ore ed ore… giorni! Tanto che alla fine non erano rimaste nemmeno le lacrime per piangere?
E tu allora lo odi, lo odi con tutta te stessa… non solo ti ha sempre evitata, ma poi ti ha fatto anche quello! Ha sempre anteposto la sua alchimia a te, arrivando a farlo in maniera così orribile. E tu… tu nonostante tutto…
“… tu non dirai mai niente contro di lui, vero? Perché siamo rimaste così tanto ad attendere che i loro occhi si volgessero verso di noi che… che non ci è sembrato possibile – dovette trattenere una lacrima vecchia di anni – noi… noi in fondo volevamo solo un padre, no?”
“Pa – pà…” la chimera si avvicinò a lei, forse incoraggiata dalla voce gentile.
“Sì, Nina, un papà.”
 Che qualcuno venga a portarmi via da questo incubo…Colonnello, la prego torni qui.

Non seppe quanto dovette attendere in quella stanza assieme alla chimera: i minuti sembravano ore, addirittura anni… anni che invece di andare avanti tornavano indietro, tanto che ad un certo punto le parve quasi di essere nella sua vecchia villetta e non nel salotto polveroso di una casa che non conosceva.
Era tutto così surreale che quando la porta venne aperta e Mustang entrò, fu come se venisse spezzato uno strano incantesimo che l’aveva tenuta per tutto quel tempo tenuta prigioniera vicino alla creatura che sembrava averla presa in simpatia, o come fonte di conforto.
“Vieni, tenente, dobbiamo tornare al Quartier Generale a fare rapporto di quanto è successo. Di certo manderanno qualcuno da Central.”
Quella fase detta in tono neutrale ebbe la capacità di farla ritornare l’efficiente soldatessa, come se fosse stato premuto un interruttore che momentaneamente obliava quanto aveva appena passato in quella stanza.
Tuttavia, mentre si alzava in piedi, non poté fare a meno di guardare con estrema pietà la chimera che, impaurita dall’arrivo di Mustang, aveva fatto un passo indietro, aprendo appena la bocca in un primo accenno di domanda, salvo poi fermarsi. Che ne sarebbe stato di lei? Quale destino attendeva quella povera creatura che comunque aveva ancora il diritto di essere considerata senziente.
“La lasciamo qui?” chiese sommessamente.
“Lui sta per tornare qui – rispose Mustang – appena finiscono di medicargli il viso. Lascerò uomini attorno alla villa, lui potrà muoversi per le stanze: non ci sono motivi per cui tenti qualcosa di pericoloso.”
“Pa – pà? Pa – pà?” la chimera parve aver capito di chi si stava parlando e alzò il muso con dolorosa aspettativa. La grossa coda dai lisci capelli castani, perché non c’era dubbio che fossero capelli, si mosse leggermente ad indicare uno stato d’animo simile alla felicità. Riza, che aveva girato lo sguardo verso il suo superiore, vide il bel volto del colonnello contrarsi in una smorfia di pietà e di rabbia, subito però nascosta da un’espressione impassibile.
“Andiamo, tenente – mormorò infine – qui non possiamo fare altro.”
 
 Fu così che uscirono da quella casa, la pioggia che mai le risultò così gradita, e tornarono al Quartier Generale. Nessuno di loro due disse una parola riguardo lo strano commiato che avevano avuto con la chimera: si rifugiarono entrambi nel lavoro, nei rapporti da fare, nel mettersi in contatto con Central City per esporre quanto era successo. E lei continuava a fare il suo dovere, proprio come quando da ragazzina si costringeva ad andare avanti, come le aveva insegnato la signorina Elliot. Rifugiarsi nella quotidianità: era quello il segreto contro qualsiasi cosa la turbasse, la ferisse, la distruggesse dentro.
Riuscì persino ad accorgersi di quanto Fury fosse sconvolto da quanto era successo e a seguirlo discretamente nel corridoio quando lo vide uscire.
“L’ha vista… quella bambina?” chiese sommessamente, quando la vide appoggiarsi di schiena contro il muro, ad imitazione della sua posizione.
“Sì, l’ho vista.”
“E’… è una cosa orribile…” la voce era spezzata e si vedeva come le lacrime fossero trattenute a stento. A Riza venne da pensare che Fury era l’unico che si stesse concedendo la giusta reazione per quanto era accaduto: loro altri, invece, cercavano di trattare il fatto come se fosse un normalissimo dossier da compilare. Un assassino, un criminale… del resto era quello che era Tucker. In teoria non dovevano restare più sconvolti rispetto a qualsiasi altro scellerato che avesse fatto del male alla propria famiglia.
Ma qui è diverso – ammise Riza, non sapendo come rispondere all’ultima affermazione del sergente – è il modo… il motivo… il risultato. E’ qualcosa che… che fa male!
“Mi scusi – sospirò Fury, levandosi gli occhiali e prendendo un fazzoletto per pulire una delle lenti. Non aveva ancora ventuno anni e gli stava così male quell’espressione addolorata: per quanto fosse un soldato e sapesse bene quali fossero i suoi doveri, ancora si chiedeva come potesse il mondo dimostrarsi così crudele in determinate occasioni – non è la reazione che ci si aspetta da un sergente maggiore dell’esercito.”
“Non dire così – lo consolò, mettendogli una mano sulla spalla – sei semplicemente sensibile, piccolo soldato, e non sai quanto apprezzi questa tua dote. Non hai nulla da rimproverarti per la tua reazione.”
“Povera bambina, aveva solo quattro anni… e si fidava così tanto di suo padre. E’ che – esitò qualche secondo prima di trovare le parole giuste – mi viene spontaneo pensare al mio di padre e all’idea che possa fare una cosa simile a me o a mia madre… è un pensiero così surreale. Un genitore non dovrebbe mai comportarsi in questo modo.”
“Sì, hai ragione, non dovrebbe mai… ma non sempre e così.”
Se tu sapessi, piccolo soldato…
 
Quella giornata miracolosamente finì e Riza si ritrovò sotto la pioggia ad attendere che il colonnello entrasse in macchina prima di prendere congedo da lui. Adesso si sentiva veramente stanca e, come se non bastasse, c’era stata anche un’ultima sfuriata da parte di Edward, nemmeno due minuti prima.
“… siamo soltanto dei minuscoli esseri umani…”
Le frasi dolorose di quel ragazzo le avevano provocato una fitta al cuore e sicuramente lo stesso era successo a Mustang. Che ne poteva sapere quel ragazzino? Le frasi provocatorie del colonnello erano state dette per spronarlo ad andare avanti. Ma quanto all’essere dei demoni e sul non aver rispetto per la vita… oh, Edward non era stato ad Ishval, non aveva visto! Non poteva sapere quanto il conflitto dentro un essere umano potesse essere dilaniante.
“Tenente – la chiamò Mustang – Sali in macchina: ti do un passaggio fino a casa. Il tempo oggi è un vero schifo.”
In altre occasioni Riza avrebbe declinato quell’invito, sostenendo che ci avrebbe impiegato poco per arrivare alla palazzina dove abitava, ma stavolta non oppose nessuna resistenza e annuendo si limitò a salire al posto del passeggero, prendendo un fazzoletto dalla tasca e asciugandosi distrattamente il viso bagnato.
Lui prese posto e accese la macchina, azionando immediatamente i tergicristalli.
Il motore era l’unico rumore, assieme al tamburellare delle gocce sul parabrezza.
Mentre le vie scorrevano da quel vetro a tratti offuscato dalla pioggia, Riza sentiva tutta la stanchezza e l’inquietudine crollarle addosso. Ora che la giornata era finita, il suo essere soldato stava venendo meno assieme all’aura di tranquillità che era miracolosamente riuscita a tenere.
Tornata a casa cosa poteva succedere? Sarebbero tornata a tormentarla gli incubi che credeva sepolti da tempo? Era stata così brava a preoccuparsi di Fury e per come potessero reagire Edward e Alphonse a quanto era successo, ma ora che si trovava a pensare a lei stessa…
“Come ti senti?”
La domanda giunse improvvisa e solo allora si accorse che la macchina si era fermata e che solo i tergicristalli continuavano a muoversi ritmicamente.
“Sto bene, colonnello: la ringrazio per il passaggio.”
Si girò a guardarlo, trovando difficile reggere lo sguardo di quegli occhi scuri e allungati: sapeva benissimo di star mentendo e le dispiaceva farlo proprio con lui. Tuttavia adesso erano soldati, nemmeno pari di grado, non si poteva permettere determinati cedimenti.
“Mi dispiace…” mormorò inaspettatamente lui, riprendendo a guardare la pioggia che batteva sul vetro.
“Signore, non si deve preoccupare per quanto ha detto ai fratelli Elric – scosse il capo Riza – a rifletterci bene ha fatto la cosa giusta a dire quelle parole. Per quanto dure li aiuteranno a superare quanto è accaduto e andare avanti…”
“Non pensavo ad Acciaio e al fratello – la bloccò Mustang – mi riferivo a te. Sono stato davvero un idiota a lasciarti sola con quella disgraziata creatura.”
Il cuore di Riza smise di battere per qualche secondo, mentre uno strano groppo le saliva in gola. Perché lui doveva sempre capire quanto era successo, mettendola in difficoltà? Prima era solo l’allievo di suo padre, adesso era il suo superiore… era comunque una persona al di fuori della sua portata per poter avere il conforto emotivo di cui aveva bisogno.
Non è come consolare Fury, non è la stessa cosa…
“Non la si poteva lasciare sola – si sforzò di dire – spero solo che… che in qualche modo abbiano pietà di lei, qualunque sarà il posto dove la porteranno.”
“… Riza – fu così strano sentire la sua voce pronunciare il suo nome dopo anni ed anni: la sua espressione era stranamente imbarazzata, facendolo bizzarramente somigliare al ragazzo che era stato – quello che voglio dire  è che…”
“… crede che l’avrebbe fatto, signore? – mormorò lei, trovando il coraggio di esprimere parte dei suoi pensieri – Crede che se mio padre si fosse dedicato ad intrecciare vite, piuttosto che al fuoco, io sarei…”
“Non sarebbe arrivato a tanto.”
Oh sì – lo smentì mentalmente, sentendo una strana rabbia montarle dentro: per Nina, certo, ma anche per se stessa – sì che l’avrebbe fatto, perché mentire? Ha fatto i suoi calcoli freddi e lucidi per diverso tempo prima di imprimere il marchio dell’alchimia su di me!
Merda! – sbottò l’uomo, battendo la mano sul volante – ancora questa dannata storia che si ripete! Ancora un’innocente che viene travolta dalla follia di un alchimista. Siamo davvero condannati, Riza? Siamo davvero dei folli senza speranza? Tuo padre, i fratelli Elric, Tucker, Ishval… sono solo la stessa lezione che ancora ci rifiutiamo di imparare?”
Riza scosse il capo, ricacciando indietro le lacrime: come poteva dare una risposta ad una domanda simile? Si posò pesantemente al sedile, traendo alcuni profondi respiri.
“Al diavolo – continuò Mustang – cerco di darti conforto ed invece peggioro solo la situazione. A quanto pare non riesco mai a salvarti davvero: o arrivo troppo tardi o ti arreco altro dolore.”
C’era una grossa componente di rimpianto in quell’ultima affermazione, tanto che Riza spostò di nuovo lo sguardo su di lui. Adesso l’imbarazzo e la rabbia erano spariti, lasciando solo tanta stanchezza.
“… siamo esseri umani… è questo che ha detto Acciaio – continuò – e non siamo stati in grado di salvare una piccola bambina.”
Riza annuì e poi schiuse le labbra, permettendo ad una prima parola di uscire.
“Fuoco…” sussurrò.
“Cosa?”
“… era… era quello che provavo ogni volta che mi risvegliavo dopo che lui aveva tatuato la mia schiena durante la notte – confessò – mi sentivo male per la droga che usava per sedarmi, eppure il dolore era più forte di qualsiasi altra sensazione.”
D’improvviso sentì in bocca il sapore dolciastro che il laudano le lasciava ogni volta e le sue gambe, nonostante fosse seduta, diventarono di colpo molli, proprio come era successo in quei giorni. Sentì di nuovo la sensazione di sporco, di nausea, dei suoi stessi escrementi… il senso di dignità levata che l’aveva privata del suo adolescenziale pudore.
“…volevo solo morire – confessò – quando ho visto quello che mi ha fatto… mi sentivo completamente perduta… Mi scusi, colonnello, non è il momento di parlarne – cercò di riprendersi, allungando una mano verso la maniglia della portiera – ho solo bisogno di riposare un po’. La ringrazio per il pas…”
“Tuo padre, come Shou Tucker, sono stati degli emeriti stronzi – disse Mustang, prendendola per un braccio e bloccando il suo tentativo di scendere dalla macchina – io sono stato uno stupido: sapevo bene che tuo padre non era una persona di cui fidarsi… sapevo che lasciandoti sola con lui sarebbe potuto succedere qualcosa di grave. Io… dannazione, ha proprio ragione Acciaio nel dire che siamo solo dei piccoli esseri umani… degli stupidissimi esseri umani.”
“Ha dato un senso a tutto questo, signore – disse Riza, rifugiandosi in quell’antica frase – lei ha già fatto sin troppo per me, non se lo dimentichi.”
“E’ davvero così?”
“Le auguro una buona serata, colonnello – si svicolò dalla sua presa con gentilezza – le consiglio di riposare il più possibile: domani arriveranno i funzionari del reparto investigativo da Central e dobbiamo essere in forma.”
 
Hayate in quei quasi due mesi di vita assieme si era dimostrato un cagnolino molto sensibile.
Anche adesso ne dava ampia dimostrazione, stando accucciato accanto a lei, nel letto, con il musetto infilato tra il collo e la spalla. Stava tranquillo, immobile, offrendo alla sua padroncina uno strano, silenzioso conforto.
Riza cercava di dormire, ma proprio non ci riusciva.
Non era bastata la doccia calda e la camomilla a rilassarla, niente avrebbe potuto farlo quella sera.
Sentiva i ricordi del passato avvolgerla come delle spire spinose, facendola sentire di nuovo una ragazzina e privandola di tutta la sicurezza che aveva faticosamente guadagnato nel corso degli anni. Sentiva il suo cuore battere all’impazzata, l’antica paura tornare, come se suo padre potesse entrare da un momento all’altro in quella stanza e ricominciare di nuovo quella tremenda tortura.
Non può farlo, lui è morto – si disse, tentando di calmarsi – e anche se lui fosse davvero qui, non sono più una ragazzina spaventata e sola.
Ma quella povera creatura?
Riza si trovò a considerare un tremendo parallelismo: lei era a casa, con il suo cucciolo… Nina ed il suo grosso cagnolone bianco non ce l’avevano fatta. Il destino aveva creato le loro due storie dando dei finali così diversi eppure accomunati da un tremendo destino: quello di avere un padre che aveva anteposto l’alchimia alle loro stesse figlie.
“… A quanto pare non riesco mai a salvarti davvero: o arrivo troppo tardi o ti arreco altro dolore.”
Ma almeno Roy Mustang era arrivato a dare un senso a quanto era stato fatto, a darle una nuova prospettiva di vita. Per Nina Tucker invece che prospettiva c’era? L’avrebbero separata da suo padre al quale, nonostante tutto, era fortemente legata… l’avrebbero rinchiusa in una gabbia di qualche laboratorio, studiandola e usandola, magari, per qualche esperimento alchemico.
E lei avrà paura! Non capiranno che dietro quelle sembianze c’è ancora una bambina di quattro anni!
Come si poteva arrivare a una cosa simile?
Fu quello l’ultimo pensiero prima che un sonno tormentato l’avvolgesse, ma non ci fu molto da riposare. Gli incubi la tormentarono… incubi in cui frammenti del suo passato e della vicenda di Nina si intrecciavano tra di loro. Ad un certo punto fu sicura di essere lei stessa una chimera alla quale suo padre tatuava la formula dell’alchimia del fuoco.
E questa volta non c’era nessuno a salvarla.
 
Fu con sollievo che venne svegliata da Hayate che abbaiava e dal telefono che squillava.
Barcollando arrivò all’apparecchio e alzò la cornetta.
“Hawkeye…” mormorò con voce assonnata.
“Tenente, sono Breda. Scusi l’ora, ma è successo un disastro: qualcuno si è introdotto a casa di Tucker e… li ha fatti fuori entrambi.”
“Cosa? – a quel punto Riza recuperò tutta la lucidità – Ma… c’erano delle guardie…”
“Uccise, signora. Il colonnello sta già andando lì.”
“Sì, ho capito. Vado subito pure io.”
Chiudendo la telefonata diede un’occhiata all’orologio: le sei e mezza del mattino.
No, siamo solo dei piccoli esseri umani che non sono riusciti a salvare una bambina… nemmeno questa volta.






______________
Ancora una volta una mia storia si lega ad una fic precedente, in questo caso la one shot "schegge di destino".
Come avete potuto vedere, siamo finalmente arrivati agli eventi del manga che, ovviamente, verranno seguiti fedelmente con qualche sorpresina che ho già in mente ma che sarà più avanti ;)

 

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Capitolo 23
*** Capitolo 22. 1914. Chi semina vento raccoglie tempesta ***


Capitolo 22
1914. Chi semina vento raccoglie tempesta




 
Chi semina vento raccoglie tempesta.
Era uno dei proverbi che la signorina Elliot amava citare quando voleva ricordare alla sua allieva l’importanza di ponderare bene le proprie decisioni e pensare alle conseguenze future.
Ancora una volta Riza non poté che pensare con nostalgia alla sua vecchia maestra e alla sua saggezza: nonostante fossero passati alcuni anni dalla sua morte e ancora di più da quando le faceva lezione, i suoi insegnamenti si rivelavano sempre attuali.
“Ishval, eh? La nostra gatta da pelare si fa ancora più pericolosa, Roy, non c’è che dire.”
La frase del tenente colonnello Hughes le fece spostare l’attenzione verso i due uomini che sedevano, uno di fronte all’altro, nei due divani che stavano al centro dell’ufficio. Entrambi avevano il volto cupo, come se un fantasma vecchio di anni fosse improvvisamente tornato a pesare sulle loro coscienze. E Riza poteva vederlo, perché era lo stesso che pesava sulla sua anima: occhi rossi, capelli bianchi… con in più una cicatrice sul viso, ecco la tempesta che avevano seminato anni prima in quelle terre desertiche.
“Lo troverò – si limitò a dire Mustang, mettendosi a braccia conserte – va assolutamente fermato.”
Sembrava tranquillo e sicuro come sempre, ma la donna poteva avvertire il turbamento che provava: un’alchimista del popolo che era stato sterminato proprio da quella scienza. Era un vero e proprio paradosso davanti al quale il suo superiore non poteva restare indifferente.
“Credevo che quel popolo non praticasse l’alchimia – continuò Hughes con aria pensosa – mi pare addirittura che fosse contro la loro religione.”
“Probabilmente è una specie di reietto – sbuffò Mustang – se avessero praticato l’alchimia stai certo che avrebbero reagito con maggior ferocia ai nostri attacchi durante la guerra. E di certo non con le armi di Aerugo o con quelle rubate ai nostri soldati.”
“Comunque ribadisco il mio avviso: hai visto pure tu quanto è potente… stai attento e circondati di guardie del corpo.”
“Semplicemente pioveva e non ho potuto usare la mia alchimia, altrimenti avrei chiuso la pratica nell’arco di due minuti – ribadì il colonnello, lanciando un’occhiataccia a Riza – di certo non mi aspettavo di essere messo a terra dalla mia personale guardia del corpo.”
“Non ho il minimo rimpianto del mio gesto, signore – disse Riza con serietà – piuttosto lei deve fare attenzione a dettagli come la pioggia.”
“Meno male che hai qualcuno che pensa a te – sghignazzò Hughes, alzandosi in piedi – Bene, è ora che vada: il treno per Central parte tra poco meno di due ore e ho ancora alcune cose da sbrigare. Non immaginavo che un semplice trasferimento di prigionieri si trasformasse in un disastro simile.”
“Spiacente di averti recato così tanto disturbo. Ma vedrò di occuparmene io – Mustang si alzò a sua volta – non mi lascerò sfuggire una simile occasione. E’ qui, ad East City, nel mio territorio… è solo una nuova caccia al topo.”
“Attento che il topo morde parecchio – d’improvviso il volto del tenente colonnello si fece serio – può essere un bel trampolino, Roy, certo… ma quello è un pazzo assettato di vendetta che ne ha già fatti fuori dieci di alchimisti, in nemmeno due mesi. Vedi di non essere l’undicesimo.”
“Non lo sarò, stanne certo.”
 
Non appena la porta si chiuse dietro Hughes, il colonnello si portò davanti alla finestra ed iniziò a fissare il cortile del Quartier Generale con aria pensosa. Riza si accostò a lui e attese in silenzio: sapeva bene che prima o poi avrebbe detto qualcosa e che in simili momenti gli serviva qualcuno per riflettere a voce alta e dare sfogo ai suoi pensieri.
“Che cosa ne pensi, tenente?” chiese infatti dopo qualche minuto.
“Penso che tutto sommato non è per niente strano che un Ishvalano cerchi vendetta – rispose lei con sincerità – sono piuttosto sorpresa della sua conoscenza dell’alchimia, tutto qui. E sono preoccupata per la sua incolumità, signore, inutile dirlo: adesso che sa che lei è l’alchimista di fuoco la considererà l’obbiettivo principale.”
“E così il mio titolo di Eroe di Ishval mi procura grane invece che privilegi – il sorriso sarcastico che gli apparve in viso ebbe qualcosa di felino e diabolico, come se in cuor suo fosse malignamente soddisfatto di quanto stava accadendo – finalmente il mondo si mette sui giusti binari.”
“Trova giusto il comportamento di quell’uomo?” chiese Riza con lieve sorpresa.
“No, ed è mia intenzione fermarlo il più presto possibile – l’uomo appoggiò una mano sul vetro della finestra – ma… ammetto di provare una strana forma di soddisfazione nel vedere che qualcuno da voce a quello che è successo veramente ad Ishval.”
“Però lei intende fermare questa voce.”
“Ovvio: non gli permetterò di andare in giro ad uccidere alchimisti in maniera così indiscriminata… stava per fare fuori Acciaio che con Ishval non ha avuto niente a che fare. Una mina vagante simile va assolutamente fermata. E’ una voce giusta ma con metodi sbagliati, non so se mi spiego.”
Riza inclinò la testa, incuriosita dalla piega che il discorso stava prendendo: osservando il viso di Mustang si rese conto che i suoi pensieri stavano andando ben oltre la questione di Scar, come se stesse seminando nuovo vento per raccogliere una tempesta ancora più grande.
“Supponiamo che catturerà Scar e lo assicurerà alla giustizia – ipotizzò – sicuramente ne ricaverà grande prestigio, probabilmente riceverà una promozione.”
“Un altro passo verso l’alto – annuì lui, girandosi a guardarla – potrebbe essere l’inizio di una nuova fase dopo tutti questi anni qui ad East City, tenente. Forse è arrivato il momento di affrontare un discorso molto importante.”
“Mi dica pure, signore.”
Il colonnello la fissò ancora per dieci secondi e poi si voltò per andare a sedersi alla scrivania, intrecciando le mani sulla superficie di legno pregiato. Riza si accostò a lui e notò come quell’ufficio sembrasse vuoto senza il resto della squadra: avrebbe voluto che ci fossero pure loro, per condividere tutto come ormai facevano da anni.
“Con gli altri preferisco parlare quando avrò più elementi in mano – sorrise lievemente Mustang, come se avesse seguito la linea dei suoi pensieri – ma preferisco prima discutere con te di determinate cose che riguardano Ishval.”
“Come preferisce, colonnello.”
Lui si posò sullo schienale della poltrona e si girò a guardarla.
“Per quanto Scar stia agendo come un criminale, è innegabile che i crimini di guerra commessi durante la guerra civile debbano essere pagati. Sai qual è la vera problematica, tenente? E’ che siamo un paese che si basa soprattutto sulla politica militare… siamo dei veri e propri guerrafondai: sono ormai anni ed anni che non c’è una pace stabile. C’è sempre qualche settore del confine impegnato in contese, qualche paese vicino con cui siamo in guerra: se non fosse per il grande deserto probabilmente saremmo in guerra anche con Xing.”
Riza annuì, ben conscia della realtà di Amestris.
L’ascesa del Comandante Supremo King Bradley, anni prima, non aveva fatto altro che aumentare una politica già di per sé aggressiva. A ben pensarci lo stesso Amestris era nato e cresciuto grazie alla conquista di paesi limitrofi: Ishval era stata solo l’ultima parte ad essere fagocitata, ed era stato inevitabile scontrarsi con un popolo dalla cultura così diversa.
“Devo diventare Comandante Supremo per poter cambiare radicalmente le cose.”
“Faccia attenzione con queste affermazioni, signore – lo ammonì Riza – non sappiamo mai chi ci potrebbe ascoltare, non è prudente.”
“Se da Comandante Supremo cambiassi la Costituzione e ridessi potere al Parlamento?”
Riza sgranò gli occhi, non avendo mai pensato a quell’ipotesi: aveva sempre creduto che Mustang volesse tenere per sé il potere, in modo da poter agire in prima persona. Tuttavia era anche vero che continuando a tenere il ruolo di Comandante Supremo, Amestris avrebbe continuato ad essere uno stato pesantemente militarizzato, con un soldato come leader: per quanto Mustang potesse essere un buon capo di stato, non sarebbe stato possibile cambiare radicalmente la realtà delle cose e dunque la visione che i paesi confinanti avevano di loro.
“Il parlamento è un organo ormai puramente consultivo, signore.”
“Se fosse pronto a riavere il potere… una volta dicesti che affinché la nuova generazione possa avere la pace ci dev’essere una sorta di scambio equivalente per cui la precedente si sacrifica, no?”
Riza sentì un leggero brivido percorrerle la schiena: che ragionamento stava facendo? Fino a dove si spingeva la sua ambizione… o adesso non era nemmeno più ambizione ma altro?
Sacrificarsi?
“Signore…”
“In un paese democratico quello che è successo ad Ishval sarebbe considerato un crimine di guerra, no?”
Gli occhi scuri la fissarono con intensità, tanto che lei si sentì una criminale, una sensazione che non provava più da tanto tempo e che, inconsapevolmente, aveva nascosto nei reconditi della sua anima. Sì, sapeva di essere un’assassina e non aveva scusanti: si sarebbe potuta rifugiare dietro la scusa che, in fondo, lei eseguiva solo gli ordini… ma avrebbe sempre potuto rifiutarsi.
Per cosa? Per il plotone d’esecuzione?
Facile dirlo ora… ma si rendeva perfettamente conto che lei non voleva morire. Per quanto si sentisse un mostro, per quanto i suoi peccati la facessero stare male, l’idea di essere messa davanti ad un plotone d’esecuzione od impiccata la faceva impazzire. Lei non era un’eroina, quella prospettiva la terrorizzava più dell’essere uccisa in battaglia: quello era un rischio paradossalmente più accettabile.
“Tu, così come gli altri, non subirete alcuna conseguenza – le disse Mustang, alzandosi in piedi e posandole le mani sulle spalle – se questa sarà la via più giusta da intraprendere, farò in modo che nessuna colpa ricada su di te o sugli altri soldati: sarebbe una follia… non si possono uccidere centinaia di militari che avevano come unico obbiettivo quello di restare vivi. Sarebbe come scatenare una nuova guerra civile, non credi?”
“Una morte… simbolica, colonnello?”
“Beh – sorrise mestamente lui – del resto sono un vero e proprio simbolo di quella guerra, no?”
Riza non seppe cosa rispondere. Sentiva come se il mondo avesse improvvisamente deciso di crollarle addosso, privandola del sostegno più importante della sua vita. Possibile che fosse questa l’unica via percorribile? Adesso si pentiva di aver detto delle cose simili anni prima: rendersi conto che quella famosa strada di sangue e fango, della quale aveva parlato, passava anche attraverso la morte di Mustang la faceva stare male.
Eppure una piccola parte di lei non poteva fare a meno di restare ammirata e folgorata dallo spirito altruista e di sacrificio del suo superiore. La sua ambizione in realtà lo poteva portare alla morte, eppure non retrocedeva di un millimetro. E se quella fosse stata davvero la via giusta da percorrere? Forse un cambio radicale era quello di cui davvero c’era bisogno per poter costruire un paese migliore.
“Non era proprio questo il suo progetto iniziale, colonnello…” riuscì a mormorare infine.
“Il mio progetto iniziale non prevedeva che venisse sterminato un intero popolo – le ricordò lui, scrollando le spalle – Tuttavia, non ti preoccupare, tenente: la strada da percorrere è ancora lunga e dobbiamo fare un passo alla volta. Nel frattempo le cose potrebbero cambiare ed offrirci un’altra via, non credi?”
“Colonnello…”
“Te lo dico per cancellare dal tuo viso quella faccia da funerale che hai ormai da qualche minuto – le strizzò l’occhio con malizia, come se quello appena detto fosse stato solo uno stupido scherzo da dimenticare – va bene che sorridi poco, va bene che in genere mi guardi con rimprovero… però l’aria da funerale proprio non ti si addice, tenente Hawkeye.”
Riza si trovò ad arrossire davanti a quelle parole.
Eppure questo era Roy Mustang: riusciva a spiazzarla anche dopo che credeva di conoscerlo come le sue tasche. Prima faceva discorsi seri ed elevati e qualche secondo dopo, per consolarla, la buttava sullo scherzo.
Non l’avrebbe mai capito del tutto.
 
In ogni caso, a prescindere da quali sarebbero stati gli avvenimenti futuri, bisognava trovare Scar prima che si spostasse da East City. Mustang aveva ipotizzato che con tutta probabilità sarebbe rimasto nei paraggi per diverso tempo: adesso era lui il suo obbiettivo e di sicuro avrebbe fatto qualche altro tentativo per farlo fuori. Senza contare che durante lo scontro che aveva avuto con tutti loro era rimasto ferito, sebbene non fossero in grado di stabilire l’entità del danno, e dunque i suoi movimenti erano rallentati.
Di conseguenza la squadra si mise al lavoro come era solita fare: l’ufficio venne invaso da mappe della città, di segnalazioni da parte di persone che sostenevano di aver visto l’uomo dagli occhialini scuri e dalla cicatrice sul viso. Eppure la loro preda continuava a sfuggire, dimostrandosi più abile del previsto.
Nonostante tutto questo impegno, era come se la squadra sentisse che c’era qualcosa di diverso: a questo giro era il loro superiore ad essere direttamente coinvolto con il ricercato e questo li caricava di una strana forma di tensione. Tutti loro avevano visto cosa era in grado di fare Scar e sicuramente erano preoccupati per l’incolumità di Mustang.
Era quindi raro che si potessero concedere una pausa, ma qualche volta capitava.
“Segnalazioni inutili anche oggi – sospirò Falman, una sera che era rimasto solo con Riza in ufficio – è come cercare un ago in un pagliaio.”
“Non ti ho mai visto così depresso, maresciallo – sorrise Riza, avvicinandosi alla scrivania e aiutandolo a rimettere in ordine quei fogli che, ad essere sinceri, avevano il medesimo valore della carta straccia – troppo lavoro, vero?”
“No… è che si tratta del tipo di situazione che mi indispone – ammise l’uomo – non è la prima volta che mi capita, lo ammetto, però è come girare in tondo senza andare avanti. Dubito che queste segnalazioni ci porteranno a qualcosa: non abbiamo ancora il nesso logico, l’indizio che ci aiuti veramente.”
“Il nesso logico, eh?” Riza osservò una piantina della città.
“E’ ovunque eppure in nessun posto… e non agisce come un criminale qualsiasi. Ha un obbiettivo eppure non si muove: certo, potrebbe trattarsi della sua ferita, eppure non è da una persona simile lasciarsi bloccare da un dettaglio. L’abbiamo visto all’opera: la sua foga va ben oltre il dolore che può provocargli un proiettile.”
Riza annuì, trovandosi pienamente d’accordo con il suo collega: dopo il disastro che aveva impiantato appena dopo l’uccisione di Tucker, sembrava strano che Scar si prendesse una pausa simile. Il suo obbiettivo era uccidere quanti più alchimisti di stato possibile: non faceva piani o strategie, si limitava a cercarli ed attaccarli.
“Ho saputo che tua moglie è tornata a casa – disse per cambiare argomento – sono felice per te.”
“La ringrazio, signora – un lieve rossore apparve sulle guance scavate di Falman, assieme all’ombra di un sorriso – a dire il vero resterà solo sei mesi prima di partire per un nuovo corso.”
“La ammiro tanto, sai? Ha fatto l’infermiera al fronte e adesso tiene corsi specializzati: ha una dedizione al lavoro davvero encomiabile.”
“Come lei, signora.”
Falman la osservò con attenzione, quasi con preoccupazione.
“No, non sono stanca se è quello che credi – lo rassicurò – ma come ben sai non si tratta di un caso semplice ed il fatto che il colonnello sia l’obbiettivo di Scar alza il livello di guardia, tutto qui.”
“Comunque si prenda qualche ora di pausa ogni tanto, non come questi pochi minuti che ci stiamo concedendo adesso – le consigliò il maresciallo, mettendosi a braccia conserte – siamo solo uomini, tenente, non macchine.”
“Si vede proprio che è tornata tua moglie – si trovò a sorridere Riza – adesso non ti butti più sul lavoro come un disperato, ma valuti il tempo con maggiore saggezza. Ti doveva mancare davvero tanto.”
E un po’ invidiava la situazione di Falman: lui ora aveva quello stacco che stava diventando indispensabile. Poteva tornare a casa e trovare la sua compagna che lo attendeva a braccia aperte, proteggendolo da quella realtà alienante che era diventata la loro caccia a Scar. Hayate era un cucciolo fantastico e stava crescendo davvero tanto, però a volte Riza sentiva la mancanza di qualcuno con cui poter sfogare la sua ansia. Avrebbe tanto voluto che la signorina Elliot fosse ancora con lei: si sarebbe potuta rifugiare nelle sue parole, nei suoi saggi consigli… nella sicurezza che era in grado di emanare con la sua sola presenza.
Forse lei riuscirebbe a farmi capire se davvero quella proposta dal colonnello è la soluzione giusta per il paese… e se la mia paura in fondo è solo dettata dall’egoismo.
“Tenente – Fury entrò di corsa nell’ufficio, le cuffie ancora in testa ed il cavo pendente dietro la schiena – hanno appena comunicato che il ponte sulla settima strada è saltato in aria.”
“Cosa? – Riza scattò subito verso di lui – saltato in aria? Avvisa subito il colonnello… e anche Havoc! Dobbiamo recarci immediatamente sul posto!”
“Sissignora!”
“Che sia lui?” chiese Falman.
“Potrebbe essere il famoso indizio che ancora ci manca – annuì Riza – tu resta qui nel caso ci siano altre segnalazioni.”
 
I ponti erano stati una delle cose che avevano colpito l’immaginazione di Riza quando, anni prima, aveva messo per la prima volta ad East City. Li considerava maestosi, delle opere d’architettura superbe in confronto ai bassi ponticelli di legno che si trovavano nei radi fiumiciattoli stagnanti vicino a dove viveva. Le davano un senso di potenza e di stabilità, tanto che spesso faceva in modo di poterci passare sopra durante le sue commissioni o le passeggiate con Hayate, uno strano gesto infantile che non era riuscita a perdere.
Di conseguenza, vedere quello che era uno dei principali ponti della città quasi del tutto distrutto era destabilizzante. Era come se in quel periodo le sue certezze stessero giocando a crollare una dopo l’altra.
Eppure, nonostante tutto, non poteva fare a meno di restare in qualche modo affascinata dal contorto ammasso di pietre, tubi che fuoriuscivano, lamiere… era come se un corpo fosse stato squarciato rivelando tutti i suoi segreti interni.
“Credo ben poco all’ipotesi della fuga di gas – commentò Havoc, accendendosi una sigaretta quasi a voler dimostrare la sua ipotesi – guarda qua che casino. Di sicuro è stato quel dannato.”
“Di sicuro era qui quando è successo – annuì lei – l’aver ritrovato la sua giacca parla chiaro, no? Tuttavia ho seri dubbi che troveremo anche il suo cadavere.”
“Peccato che il colonnello mi abbia messo a lavoro fino a quando questa montagna di macerie non sarà levata e non si scoprirà se ci sono cadaveri lì sotto – il biondo si stiracchiò con fastidio – mi aspettano settimane di dura fatica… accidenti a lui.”
“Per un ragazzo di campagna come te la fatica non dovrebbe essere un problema.” lo prese in giro.
“Beh, almeno ogni tanto ricordatevi di me, mentre state comodamente seduti in ufficio.”
“Sono sicura che te la caverai benissimo.”
“Ma sì – sorrise Havoc – adesso inizio ad organizzare una squadra. Lei intanto vada, signora: il colonnello la sta aspettando alla macchina.”
Riza annuì e, tenendo stretta la giacca di Scar macchiata di sangue, raggiunse Mustang che era già seduto al posto di guida. Come lei si fu seduta, mise in moto e si allontanò dal luogo dell’incidente senza proferire alcuna parola. Solo quando arrivarono in prossimità del Quartier Generale si decise a parlare.
“Vorrei proprio sapere che cosa gli è successo per provocare un’esplosione simile – ammise, spegnendo il motore – dev’essersi scontrato con qualcosa o qualcuno di veramente potente.”
“Dunque nemmeno lei crede all’ipotesi della fuga di gas.”
“No, sono altamente fiducioso nelle condutture della nostra città – sorrise sarcasticamente – sono meno fiducioso sul senso civico di Scar. Bene, adesso almeno sappiamo che è davvero ancora ad East City e che è ferito in maniera abbastanza grave.”
“Sì – annuì Riza, fissando quella giacca – ammetto che non sono in grado di capire se questo sangue è dovuto al mio sparo o se è stato provocato da altro. Ma è tanto: sicuramente non è in grado di fare grossi spostamenti. “
“Dubito che Havoc troverà quel corpo, ma tanto vale tentare, no? Di certo stiamo ottenendo più noi rispetto a quanto hanno finora ottenuto quelli di Central.”
“Si riferisce a quanto le ha detto il generale Hakuro poco tempo fa?”
“Di lui mi interessa ben poco – il colonnello aprì la portiera ed uscì – per me quello che conta è il risultato e tutto quello che ne conseguirà.”
“Chi semina vento raccoglie tempesta…” citò Riza.
“A volte ci vuole una tempesta per cambiare le cose, no?”






 

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Capitolo 24
*** Capitolo 23. 1914. Senso di perdita ***


Capitolo 23
1914. Senso di perdita




 
A tutti i funerali a cui aveva sin a quel momento assistito non le era mai capitato di vedere una bambina. L’unica bambina era stata lei quando era morta sua madre, ma in quell’occasione non era nemmeno riuscita a piangere sconvolta com’era dalla perdita e dalla vista del suo cadavere nemmeno poche ore prima. Davanti alla tomba di suo padre aveva provato tutto meno che dolore, ma che altro si poteva aspettare da lei dopo quanto era successo nemmeno un mese prima? L’unica volta in cui aveva pianto sincere lacrime era stato davanti alla discreta tomba della signorina Elliot, sebbene fosse ormai una soldatessa ed una donna adulta. Tuttavia, mischiata al dolore, c’era anche la dolce consapevolezza che la sua insegnante aveva vissuto una vita tranquilla e carica di soddisfazioni e che dunque aveva lasciato il mondo senza nessun rimpianto.
Di conseguenza sentire il pianto e le invocazioni di Elicia Hughes era qualcosa di davvero destabilizzante. Eppure lei ne aveva visti tanti di bambini piangenti ad Ishval, come poteva questa situazione sconvolgerla in una maniera simile?
Forse durante la guerra è tutto così strano che anche avvenimenti che ti dovrebbero suscitare emozioni non riescono a toglierti dalla bolla d’indifferenza che sei costretta a creare per andare avanti.
O forse era perché durante la guerra i lutti e le perdite diventano una dolorosa quotidianità davanti alla quale non è nemmeno il caso di fermarsi.
Ma in tempo di pace è tutto diverso e le persone si fermano per piangere la scomparsa di una persona cara. E il dolore diventa ancora più forte quando questa morte è improvvisa e violenta… e ingiusta. Perché se le centinaia di bambini piangenti di Ishval facevano male in un modo ovattato, il pianto di quella singola bambina di tre anni aveva la capacità di penetrare l’anima come un coltello.
Riza ricordava Elicia quando era una neonata di poche settimane: morbida, sorridente, amata… come se il mondo per lei promettesse solo gioia e felicità. Invece, adesso, ad appena tre anni, aveva perso il suo amato genitore ed era costretta ad imparare il concetto di morte ad un’età in cui invece si dovrebbero scoprire solo nuovi giochi.
Scuotendo lievemente il capo per cercare di escludere quel pianto e quei richiami, la soldatessa si concentrò su quella fossa che veniva inesorabilmente riempita di terra, il rumore delle zolle incredibilmente pesante. Provò a riflettere su quanto quella morte fosse misteriosa e recante un sacco di pericolosi quesiti che, con tutta probabilità avrebbero coinvolto pure il colonnello.
Già, il colonnello…
Per quanto tutti, persino il comandante supremo in persona, stessero piangendo sinceramente la morte di Maes Hughes, era lui quello che soffriva maggiormente la perdita. Negli anni Riza aveva imparato a riconoscere la solida amicizia che si celava dietro quello strano rapporto fatto di insulti e prese in giro, con continue spinte verso la formazione di una famiglia e l’accasarsi. Una persona superficiale solo in apparenza Maes Hughes: dopo la squadra e Grumman era uno dei maggiori promotori della carriera militare di Mustang e, anche se avevano collaborato a distanza, il suo contributo era stato prezioso in diverse occasioni. Ma in questo caso era soprattutto l’amico che era venuto a mancare… e dietro quell’espressione impassibile, celata in parte dal berretto, Roy Mustang soffriva come forse mai gli era successo in vita sua.
Come posso consolarla, signore? – si chiese spontaneamente – è sempre stato il contrario… non credo che sarò mai pronta ad un ruolo simile. Sarò anche la sua guardia del corpo, ma è sempre stato lei a sostenere me, sin da quando non ero ancora un soldato.
Che cosa poteva fare se non continuare ad essere la solita precisa assistente? Non poteva spingerlo a parlare, figuriamoci, avrebbe dovuto solo attendere, ma anche in quel caso avrebbe potuto fare ben poco. Frasi di circostanza che, sicuramente, sarebbero apparse ridicole di fronte all’immenso dolore della perdita.
Era una strana forma di impotenza, simile a quella che alcune volte aveva provato nei confronti di Fury, quando le era sembrato solo e spaesato, eppure il suo rango le aveva impedito di abbracciarlo e consolarlo come avrebbe voluto fare.
“La squadra è un po’ come la famiglia, no?”
Erano queste le parole che il sergente maggiore amava spesso dire, a sottolineare il forte legame che intercorreva tra tutti loro. Ma sembrava che in situazioni particolari, specie quando si aveva bisogno l’uno dell’altro, il rango la dovesse far da padrone e molte cose dovessero esser taciute.
“Papà!” gridò disperata Elicia, in braccio alla madre.
Santo cielo! – supplicò Riza, abbassando lo sguardo – Finite in fretta questa cerimonia e portate via quella povera bambina. E’ stata qui anche troppo!
 
Quella notte lei ed il colonnello avevano preso alloggio in uno degli alberghi riservati ai militari.
Avevano cenato in silenzio, dicendo poco e niente persino di quanto aveva rivelato loro il maggiore Armstrong: le loro conclusioni le avevano tratte quello stesso pomeriggio e adesso era il tempo di riflettere da soli.
Riza si ritrovò dunque nella sua stanza, sdraiata nel letto già in pigiama, con il sonno che proprio non ne voleva sapere di arrivare. Nella sua mente tutti gli avvenimenti che si erano succeduti in quell’ultimo periodo venivano finalmente messi in un preciso ordine con dei fili logici a collegarli.
Prima la comparsa di Scar la cui vicenda, se presa singolarmente, poteva apparire del tutto scollegata.
Tuttavia poco dopo la partenza dei fratelli Elric era arrivata la notizia che la prima sezione della biblioteca centrale di Central City era bruciata in un incendio di cause ancora sconosciute… una biblioteca nella quale era custodito tutto il materiale del reparto investigativo, quello di Hughes, e ora l’assassino proprio del tenente colonnello, anzi generale di brigata, che aveva avuto contatti con…
Edward e Alphonse… la pietra filosofale.
“Fino a qualche giorno fa i fratelli Elric si trovavano proprio qui.”
“Penso che c’entri anche quella cosa che i fratelli Elric stanno cercando. In altre parole la pietra filosofale.”
Riza si mise supina e fissò il soffitto della stanza, come se quel color bianco sporco le potesse fornire tutte le risposte di cui aveva bisogno. Sentiva che erano stati messi in moto gli ingranaggi di una strana e pericolosa macchina e che loro erano proprio in mezzo ai meccanismi, anzi tra poco sarebbero stati proprio al centro del ciclone se era vera la notizia del prossimo trasferimento di Mustang nella capitale.
E così il nostro periodo ad East City finirà presto…
Lo pensò con una componente di nostalgia non indifferente.
Per quanto sapesse che prima o poi una cosa simile era inevitabile se si volevano seguire i propri progetti, una parte di lei si era sentita protetta ed emotivamente al sicuro nel prestare servizio al Quartier generale dove comandava suo nonno. Lì c’era la sua squadra, la sua famiglia, un ambiente che conosceva e amava con tanti soldati che ormai facevano parte della sua vita. Il lavoro in ufficio, le missioni, i piccoli grandi guai quotidiani della sua squadra, le follie di Rebecca, il discreto affetto di suo nonno… tutto ad un tratto sembrava così difficile staccarsi da quello che era diventato il suo mondo.
Quel mondo che, nemmeno dieci anni prima le era sembrato così irraggiungibile.
Ma non puoi soffermarti a pensare a queste cose: hai giurato di proteggerlo, lui significa troppo per te.
Certo che l’avrebbe seguito a Central City, non c’era nemmeno da chiederselo.
Proprio in quel momento il suo orecchio attento sentì la porta della camera accanto alla sua, quella del colonnello, che veniva chiusa con una certa discrezione. Si alzò immediatamente in piedi e andò ad infilarsi la giacca della divisa, convinta che il suo superiore avrebbe bussato da lei per informarla di qualcosa o darle un qualche compito.
Attese una decina di secondi, ma non accadde nulla.
Sta uscendo! – intuì con sommo sconcerto.
Uscire da solo, a Central City, dopo che da poco era stato assassinato un soldato a lui strettamente legato e con tutti i pericoli conseguenti. Erano queste le cose che avevano la capacità di farla imbestialire.
Con tutta la velocità di cui era capace si cambiò, mettendosi solo dei pantaloni e il maglioncino a maniche corte che indossava sotto la divisa e preoccupandosi di nascondere la fondina della pistola con una leggera giacca. Santa abitudine quella di portarsi dietro degli abiti informali e comodi a prescindere dall’occasione: non si poteva mai sapere.
Non si preoccupò nemmeno di legarsi i capelli: con tutta la velocità di cui era capace corse fuori dall’albergo ormai silenzioso, data l’ora notturna, in tempo per vedere la sagoma del colonnello, illuminata dai lampioni, che svoltava l’angolo.
Magari voleva stare solo, andare di nuovo al cimitero, del resto non l’aveva chiamata… Riza dunque decise di seguirlo discretamente e di intervenire solo se strettamente necessario. Iniziò così a pedinarlo, sentendosi in imbarazzo e anche un briciolo in colpa. Notò, vedendolo passare sotto i lampioni, che non indossava la divisa ma uno dei suoi completi, sebbene non il più elegante.
Forse si deve incontrare con qualche informatore, magari di nuovo col maggiore Armstrong e non mi ha voluto dire nulla…
Che ipotesi assurda! Dopo che, proprio quel pomeriggio, l’aveva resa partecipe sino a quel punto delle sue riflessioni, che senso aveva escluderla in un simile modo?
La sua mente iniziò a fare assurde teorie fino a quando non vide il suo uomo arrivare a destinazione. Guardandosi attorno si rese conto di essere in un quartiere della capitale dove non era mai stata e che, sicuramente, si trovava abbastanza lontano dal cimitero e dal Quartier Generale.
Lo vide indugiare per qualche secondo davanti all’ingresso di un locale dal quale filtrava una calda luce.
“Ciao, Roy! – salutò una ragazza vestita in maniera succinta: aveva spalancato la porta ed era corsa ad abbracciarlo – Che sorpresa!”
“Ciao, Abigail – rispose lui con un sorriso sprezzante – Serata impegnativa?”
“No, a metà settimana c’è sempre un po’ di pace: pochi e scelti clienti.”
“Madame ha molto da fare?”
“Per te ha sempre tempo, caro mio! Forza, vieni dentro!”
“Tenente, vuoi entrare anche tu?” chiese a quel punto Mustang, senza nemmeno girarsi.
 
Il concetto di bordello era sempre stato qualcosa di astratto per Riza.
Sapeva che era il posto dove delle donne vendevano il proprio corpo a pagamento e questo bastava per renderlo un posto dove una brava ragazza non doveva entrare e nemmeno pensare. Anche quando era entrata nell’esercito non aveva mai avuto a che fare con una simile realtà: morti, uccisioni e tanti altri orrori… ma questo non era riuscito a farle perdere quell’educazione puritana che le era stata impartita nella prima parte della sua vita.
E così, paradossalmente, adesso si trovava in estremo imbarazzo ad essere in quel posto, con tutte quelle ragazze vestite con abiti al dir poco provocanti. A guardarlo bene non era un locale che si poteva dire malfamato: c’era un bancone ben pulito e dietro dei ripiani con le bottiglie di liquore ben disposte assieme ai bicchieri… alcuni tavoli e alcuni divani, sistemati in modo da ottenere la giusta discrezione, riempivano la sala dal pavimento di legno scuro. Le luci erano leggermente soffuse e la musica bassa che proveniva da una radio rendeva l’atmosfera tutto sommato piacevole. Forse l’unica cosa fastidiosa era l’odore che proveniva dalla sigaretta che fumava la proprietaria del locale… una tipologia diversa da quella di Havoc alla quale Riza era ormai abituata: questa era meno intensa, ma più dolciastra.
“Tenente, ti presento mia zia: Chris Mustang, ma tutti la chiamano Madame Christmas, me compreso.”
“Beh, finalmente ti decidi a presentarmi questa fantomatica ragazza, Roy - boy.”
“… e questo è il nomignolo con cui si ostina a chiamarmi, nonostante io abbia ormai ventinove anni.”
Per la prima volta da quando aveva ricevuto la notizia della morte di Hughes, Riza vide il colonnello sorridere con sincerità, sebbene ci fosse ancora una grossa componente di tristezza nella sua espressione.
Tuttavia l’attenzione della soldatessa tornò a quel grosso donnone che, ad essere sincere, ben pochi legami di parentela sembrava avere con l’avvenente Roy Mustang. Stazza massiccia, viso dai tratti duri e marcati che la pettinatura tirata indietro non faceva altro che sottolineare; occhi piccoli ed infossati, con sopracciglia sottili, quasi assenti… un forte rossetto scuro ad enfatizzare le labbra dove la sigaretta sembrava non mancare mai. E, come se non fosse per niente consapevole del suo aspetto, vestiva degli abiti che mettevano in risalto il seno troppo abbondante, e indossava dei pesanti gioielli che contribuivano a rendere particolarmente surreale la sua persona.
“Che c’è, colombina? Hai perso la parola?” chiese il donnone, rivolgendosi a Riza con voce roca.
“Mi scusi, signora, io… io…” improvvisamente la soldatessa si sentì in pieno imbarazzo: come ci si rivolgeva ad una persona che gestiva una casa d’appuntamenti?
“Signora? – sbuffò lei – Semmai signorina! Madame va più che bene.”
“Tranquilla, tenente – ridacchiò Mustang – Madame non mangia nessuno.”
Riza stava per ribattere, sentendosi fortemente presa in giro e sminuita nel suo ruolo di guardia del corpo: solo perché non indossava la divisa non era diritto del colonnello insultarla così. D’improvviso le tornò in mente di quando l’aveva incontrato in una delle sue uscite galanti, quando si era sentita completamente inadeguata nei suoi modesti abiti borghesi. Possibile che si dovesse trovare di nuovo in una situazione simile? Per di più in mezzo a tutte quelle ragazze… prostitute.
Tuttavia si rese conto che il suo superiore sembrava più rilassato, come se un balsamo fosse stato spalmato su delle ferite doloranti. Capì che quello scambio di battute che l’aveva coinvolta faceva parte di uno strano gioco tra lui e sua zia e che non c’era nessuna malizia nei suoi confronti.
Ma certo… che senso avrebbe? Sono davvero una stupida.
“Perdonami per averti trascinato fuori nel cuore della notte, tenente – continuò Roy, mentre gli veniva versato un abbondante bicchiere di liquore senza che nemmeno l’avesse chiesto – dovevo immaginarlo che mi avresti sentito e mi avresti seguito. Forse avrei fatto meglio a bussare alla tua porta e chiamarti, almeno avresti avuto il tempo di legarti i capelli… a proposito ti stanno davvero bene sciolti, sai?”
“Grazie, signore…” mormorò lei, cercando di non arrossire.
“Tu bevi qualcosa, colombina?” le chiese Madame Christmas.
“No, grazie.”
“Volevo solo stare un po’ rilassato in un luogo che mi è familiare – continuò Mustang – tutto qui. Dimenticarmi per qualche ora del cammino fangoso ed in salita che ci aspetta e piangere la morte del mio miglior amico come si deve.”
“Brutto affare, caro mio – commentò Madame, rimettendo a posto la bottiglia – un soldato non viene mai ucciso per caso qui a Central City. Chissà in che guai si era cacciato: doveva essere più discreto. Comunque si vocifera che presto verrai trasferito qui: spero ti ricorderai di venire a trovare più spesso tua zia.”
“Lo farò, promesso.”
Riza osservò impassibile quello scambio di battute e poi si accorse di una risatina che veniva da un angolo della sala, da uno dei divanetti: una ragazza si alzò, tenendo la mano ad un uomo sulla quarantina, vestito elegantemente, e scomparvero dietro ad una tenda. Conscia di quanto stava accadendo la giovane arrossì con violenza.
“Sei proprio timida, colombina – commentò Madame, notando quel rossore – non si direbbe proprio che sei la nipote di quella vecchia volpe di Grumman.”
“Conosce mio nonno?” si sorprese lei.
“Se lo conosco? – scoppiò a ridere sguaiatamente – Credimi, non ho mai incontrato uno della sua età arzillo come lui: è davvero impossibile!”
A quel punto Riza non poté fare a meno di lanciare un’occhiata interrogativa a Mustang che rispose con una scrollata di spalle.
“Sai bene che tuo nonno spesso e volentieri si avvale dei collaboratori più disparati. Mia zia è particolarmente abile nel cercare informazioni. E’ sempre utile avere un contatto simile nella capitale. Comunque questo posto non è adatto per chiacchierare. Ci possiamo spostare in una delle salette private?”
“Oggi non c’è il pienone – sogghignò la donna – vai pure in quella che preferisci.”
 
La saletta era piccola e confortevole, con un singolo divano foderato di rosso e un basso tavolino con accanto un carrello con bicchieri e liquori. Era separato dal resto del locale da una tenda di pesante velluto che riprendeva il colore del divano e rendeva il tutto ovattato.
Appena entrati, Mustang si sistemò sul divano senza troppe cerimonie, allentandosi la cravatta elegante e passandosi una mano sui capelli arruffati. Riza, non sapendo cosa fare, rimase in piedi accanto al tavolino.
“Tutta questa formalità anche qui? – chiese l’uomo, con lieve fastidio – andiamo, tenente, potresti anche sederti accanto a me, no?”
“Non credo sarebbe corretto, colonnello – rispose lei, cercando di mantenere le opportune distanze – sto benissimo in piedi, non si preoccupi.”
Lui la fissò con incredulità per qualche secondo e poi scosse il capo e si servì un altro abbondante bicchiere di liquore dal carrello. Mentre lo osservava trangugiare un ampio sorso di quel liquido arancio scuro, Riza si chiese con imbarazzo se le ragazze fuori da quella saletta non stessero immaginando chissà che scene.
Non penseranno che stiamo facendo sesso!
Eppure la situazione era abbastanza ambigua, a partire dal posto dove si trovavano: a guardarla da fuori sembrava quasi che Mustang l’avesse deliberatamente portata lì per poter stare assieme a lei in quel modo. Del resto non era stato perfettamente consapevole che lei lo stava seguendo?
Ma che vai a pensare, Riza Hawkeye? – si rimproverò mentalmente, tenendo la sua espressione più impassibile e cercando di figurarsi in divisa – E’ solo questo posto che ti mette a disagio, ma per il resto è tutto nella norma.
“A Maes Hughes – disse in quel momento il colonnello, sollevando il bicchiere mezzo vuoto – soldato eccellente, padre, marito… amico. Alla sua grande idea di esser morto prima di me giusto per superarmi di grado.”
“Non dica così, signore.”
“Lo so, sono solo uno stupido – sospirò l’uomo, finendo di bere – ma ti giuro che queste promozioni post mortem le trovo davvero ridicole ed irritanti. Più che un contentino per i vivi mi paiono una presa in giro! Come se a quella donna e a quella bambina importasse qualcosa di quel generale di brigata scritto sulla lapide.”
“Sono solo onori militari.”
“Scusa, in questo momento non sono proprio il massimo dell’intrattenimento. Cerco nuove lacrime ma non ce ne sono… tutto quello a cui riesco a pensare è che l’assassino di Hughes è ancora in libertà e questo mi fa imbestialire.”
“Lo troveremo, colonnello. E se tutto è legato alla vicenda della pietra filosofale, ancora meglio: risolveremo entrambi i misteri.”
Lui annuì distrattamente e riprese in mano il bicchiere vuoto, fissando con attenzione alcune gocce di liquore che erano rimaste. Rimase in quella posizione per diverso tempo, osservando una di quelle stille che scivolava lentamente verso il fondo.
“L’alchimia proprio non può fare a meno di essere presente nella mia vita, vero? E lo stesso vale per te…”
“Colonnello…”
“Prima, questo pomeriggio, ti ho chiesto se mi avresti seguito e tu non hai esitato nel dirmi di sì… ammetto che mi pare quasi di spingerti verso una nuova Ishval, proprio come è successo anni prima. Allora era davanti alla tomba di tuo padre, adesso davanti a quella del mio migliore amico.”
“Sono vecchi discorsi, signore – sorrise mestamente Riza – e ancora una volta le rispondo che è una mia scelta autonoma quella di seguirla.”
“Forse dovrei procedere da solo… no, fammi finire – posò il bicchiere sul tavolo e alzò lo sguardo su di lei. Ed era così strano vedere quegli occhi esprimere una strana forma di morbidezza, se così si poteva definire: in quel momento era come vedere il ragazzo che era anni prima – è che ora come ora mi sembra di costituire un grosso pericolo per tutti quanti voi. Per quanto sappia bene che ogni soldato corre il rischio di morire, l’idea di farti correre deliberatamente un rischio simile mi spaventa.”
“Non si deve preoccupare per la mia incolumità – disse la donna con un tenero sorriso – starò attenta. Ma non può pensare che la lasci sola in un momento simile.”
“Io… fino a poco tempo fa pensavo di portare pure gli altri con me a Central, ma forse non è più il caso.”
A quell’affermazione Riza esitò nel dare la risposta. Lei era un discorso particolare, ma gli altri? Era il caso di esporli ad un pericolo che si prospettava sempre maggiore? E che con tutta probabilità aveva a che fare con la pietra filosofale. Ad essere sincera era preoccupata per loro: era come se li vedesse maggiormente esposti.
“Sarebbero innegabilmente una grande risorsa per noi – continuò Mustang – ma… dannazione, anni fa non avrei immaginato che essere a capo di una squadra comportasse un così grande peso emotivo!”
“Lo so – ammise infine lei – le sue preoccupazioni sono le stesse mie, colonnello. Se da una parte vorrei che loro venissero con noi per tutto il sostegno che possono darci, dall’altra non posso fare a meno di temere per loro… hanno ucciso senza pietà il tenente colonnello Hughes, sono persone senza scrupoli…”
“… e questo vuol dire che non si farebbero problemi ad usare ciascuno di voi contro di me.”
“Io posso solo suggerirle di ponderare bene la sua decisione, signore – dichiarò alla fine Riza, rifiutandosi di cedere all’immagine di Fury ucciso biecamente solo perché aveva osato seguire Mustang – sono i suoi sottoposti: si fidano di lei e del suo giudizio. Sanno bene a cosa punta e sono consci che la strada non sarà priva di pericoli. Credo che… che qualunque decisione prenderà sarà quella giusta.”
“Solo… non voglio perdere più nessuno…” sospirò Mustang chiudendo gli occhi.
Riza annuì in silenzio e rimase lì, a fornire sostegno emotivo nell’unico modo di cui era capace.
 
“E’ molto grande Central?” chiese Fury mentre finiva di sigillare una scatola con del nastro adesivo.
“Credo che ne resterai sorpreso, sergente – rispose Riza, finendo di svuotare un cassetto della sua scrivania – ma vedrai che dopo una prima impressione di spaesamento andrà meglio.”
“Oh, l’importante è che saremo tutti assieme – sorrise timidamente lui, avvicinandosi per portarle una scatola di cartone vuota – sa, sono davvero felice che il colonnello abbia deciso di portarci tutti con lui: se la squadra si fosse smembrata non sarebbe stato per niente bello.”
“Ovviamente sei consapevole che ci aspettano grossi pericoli lì a Central, vero? – lo ammonì Riza, non riuscendo a capire tutto quel buonumore – Dobbiamo fare molta attenzione e tu…”
… dannazione, tu con le tue radio potreste avere un ruolo davvero importante. Ma non voglio che venga esposto più del necessario, non sei pronto… non lo sarai mai ai miei occhi, non del tutto.
“… io farò del mio meglio per aiutare il colonnello – dichiarò sicuro Fury – e sono perfettamente conscio che non sarà facile. Ma mi creda, tenente, per me sarebbe stato peggio essere lasciato indietro e non poter far niente per aiutarvi.”
Si era inginocchiato accanto a lei e la aiutava a sistemare la roba nella scatola di cartone: sembrava un bimbo volenteroso che rimette a posto i giocattoli. Per qualche secondo Riza fu tentata di chiedere al colonnello di lasciare indietro almeno Fury, di tenerlo al sicuro, ma poi si convinse che non poteva fare una cosa simile a quel soldato.
“Saperti al sicuro sarebbe una gran cosa, sai? Potresti essere d’aiuto al generale Grumman, tenere i contatti tra noi e questo Quartier Generale…”
“Potrei – ammise Fury dopo qualche secondo di riflessione, ma poi volse i suoi grandi occhi scuri su di lei, reggendo pienamente il suo sguardo – ma se aveste bisogno di me ed io non ci fossi… sarebbe un qualcosa che non mi perdonerei mai, signora.”
“Kain…” si sorprese Riza, trovando così strana quella determinazione. Come poteva diventare di colpo così adulto? Come poteva voler ribaltare i ruoli ed essere lui a proteggere e non viceversa?
Che cosa succederà lì a Central?
“Vedrà che andrà tutto bene, tenente – sorrise Fury – ne sono certo.”
Forse avrebbe aggiunto altro, ma in quel momento la porta si aprì per far entrare Havoc, Breda e Falman provvisti di svariate scatole vuote per il trasloco.
“Comunque io tra dieci minuti vado a mangiare – dichiarò il rosso – chi mi ama mi segua: questi trasferimenti improvvisi proprio non vanno bene. Mi scombussolano tutti gli orari.”
“Gli orari, eh? – sbottò Havoc – e cosa dovrei dire io che sono stato bellamente mollato dalla mia fidanzata? Per una volta che andava tutto bene, ecco che mi devo trasferire! Beato te, Falman, che tua moglie è comunque in giro per il paese a fare corsi di medicina.”
“Non sono situazioni paragonabili, sottotenente… e la prego, non butti i dossier a casaccio come ha fatto per la precedente scatola. Se proprio vuole ci penso io.”
“Apriti cielo!”
“Basta che poi si vada a mangiare, eh!”
“Vede, signora? – sorrise timidamente Fury – La squadra è la famiglia e le famiglie affrontano le difficoltà assieme.”
Riza annuì dolcemente.
... non voglio perdere nessuno di loro.





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Bene, siamo al capitolo 23 e siamo più o meno al numero 8 del manga! Stiamo procedendo abbastanza spediti con questi missing moments.

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Capitolo 25
*** Capitolo 24. 1914. Sogno di una notte di mezz'estate ***


Capitolo 24
1914. Sogno di una notte di mezz'estate




 
Diverse sue colleghe di East City, Rebecca per prima, avevano sempre decantato la vita nella capitale: non facevano altro che immaginare tutti i negozi, le occasioni mondane, la moda, lo stile di vita più cittadino. Central era una sorta di paradiso che tutte, prima o poi volevano visitare.
Di conseguenza, quando Riza aveva annunciato il suo trasferimento, era stata subissata di commenti, consigli di posti dove andare e così via. Attorno a lei si era creato un capannello di eccitazione come raramente succedeva tra le soldatesse del Quartier Generale. Rebecca, poi, aveva preso in mano la situazione, o almeno così aveva detto, e l’aveva costretta ad un pomeriggio di shopping sfrenato per rinnovare il suo guardaroba civile per adattarlo ad una donna della capitale.
La sua amica vestiva bene… anzi era più corretto che sapeva quali abiti scegliere per la sua persona frizzante e vivace. Però non era proprio la persona più indicata per consigliare vestiti ad una personalità tranquilla e discreta come quella di Riza. E dunque non c’era da stupirsi che sopra un vestito nero, quella sera tardi, la bionda indossasse una giacca tutt’altro che elegante.
Ma se la mora sarebbe inorridita, Riza non ci faceva caso: l’unica cosa che le interessava era che quell’abito fosse abbastanza comodo e che lo spacco della gonna le permettesse di arrivare con facilità alla pistola che teneva legata alla coscia (altro dettaglio che avrebbe lasciato Rebecca sconvolta perché rischiava di allontanare gli uomini più che avvicinarli).
Finalmente, dopo più di una settimana dal trasferimento, aveva avuto un giorno di ferie e ne aveva approfittato per fare compere urgenti per il suo nuovo appartamento: quello di cui aveva meno bisogno era qualcosa di scomodo da indossare.
La vita cittadina non è certo così entusiasmante come si potrebbe pensare…
Lo pensò con un pizzico di rammarico, tuttavia era anche vero che non poteva pretendere di avere molto tempo libero: il trasferimento dell’intera squadra aveva comportato molto più lavoro del previsto e la parte burocratica era toccata per la maggior parte a lei. Senza contare che, oltre al lavoro ufficiale, c’era anche quello relativo alle indagini della squadra sull’omicidio di Hughes. Per ora si era trattato di semplici sopralluoghi, ricerche di posti adatti ad eventuali incontri, ma comunque avevano preso tempo.
Di conseguenza il suo nuovo piccolo appartamento era ancora pieno di scatoloni e non era stato sistemato: aveva avuto giusto il tempo di fare un minimo di pulizia e tirare fuori le cose indispensabili. Ma per il resto era un vero disastro e persino Hayate, ormai cresciuto parecchio, restava perplesso davanti a tutto quel caos e passava il suo tempo annusando incuriosito le scatole di cartone.
Almeno quella sera si sarebbe potuta dedicare un po’ a lui e alla casa e forse sarebbe riuscita ad ottenere un risultato decente almeno in cucina e nella sua camera da letto.
“Dolcezza, è pericoloso camminare da sola a quest’ora – disse improvvisamente una voce che aveva una strana eco – se vuoi posso accompagnarti a casa io…”
 
Incredibile ma vero: aveva un corteggiatore.
Rebecca ne sarebbe stata estasiata in condizioni normali.
Peccato che il suo spasimante fosse un assassino trasmutato in un' armatura vuota e che il suo modo di esternare l’amore fosse fare a fette la gente. E soprattutto, era rimasto folgorato da lei dopo che aveva ricevuto un paio di pallottole in testa.
C’è una strana forma di ingiustizia in tutto questo – rifletté mentre attendeva che il colonnello arrivasse. Oggettivamente questo strano incontro che aveva fatto sembrava legarsi alla perfezione con le vicende della pietra filosofale e sotto questo punto di vista era un bel colpo di fortuna. Tuttavia una parte di lei, che si sentiva un poco Havoc, si sentiva veramente sfortunata: possibile che il suo primo spasimante dovesse essere un’armatura maniaca di sangue e carne tagliata a fette?
“Dai, dolcezza, fatti tagliuzzare almeno un poco!”
“No.” sospirò per la centesima volta, sperando che Mustang arrivasse il più presto possibile.
“Saresti la donna più bella che ho mai tagliuzzato, dovresti esserne felice!”
“Ho detto di no, Barry.”
Con un sospiro Riza si sedette nel basso muretto che stava vicino alla cabina telefonica e notò come il cielo, nonostante le luci della città, lasciasse intravedere qualche stella. Sì, quella era una di quelle serate che si potevano definire perfette per una passeggiata romantica, mano nella mano: perché proprio a lei era toccata una disgrazia simile?
Che è tutto questo pensar d’amore, Riza? – si chiese stizzita – non ti rendi conto della situazione in cui ti trovi e dell’importanza che può avere Barry?
Dei passi le fecero alzare lo sguardo e vide il colonnello, vestito in borghese, che si avvicinava a loro. Le poche volte che l’aveva visto in abiti civili era sempre stato estremamente elegante, ma questa volta indossava solo pantaloni, camicia e giacca, senza alcuna cravatta pregiata o qualche altro dettaglio. E Riza, paradossalmente, pensò che stava benissimo anche in questo modo: a rifletterci lui stava sempre bene.
Persino quando l’ho incontrato ad Ishval riusciva ad essere in qualche modo bello…
Questo pensiero irriverente e poco professionale la fece scattare in piedi.
“Mi scusi per averla fatta venire sin qui, colonnello.” si scusò. Avrebbe aggiunto anche altro, ma Barry le afferrò la vita con fare possessivo e romantico.
“Ehi, dolcezza, chi è questo beota?” chiese l’armatura con voce seccata.
“Basta! Chiudi quella bocca!” lo apostrofò, cercando di liberarsi da quella stretta e dandogli una gomitata all’elmo. Tra tutte le situazioni assurde le doveva capitare quella in cui sembrava una donna contesa tra due amanti.
“Fatti da parte, tenente – esclamò il colonnello, chiaramente offeso da quel beota – stasera sento il fuoco esplodere in me!”
“Si calmi, colonnello! – lo bloccò Riza, cercando di recuperare il controllo della situazione… che rischiava di degenerare – Questo tipo è Barry lo Squartatore, quell’omicida che era stato condannato alla pena di morte!”
E non è il mio spasimante!
 
No, non era il suo spasimante.
A conti fatti le vicende di Barry erano molto più complesse di quelle di uno spietato omicida quale era stato prima di venir trasmutato dentro quell’armatura. Gli avvenimenti sembravano succedersi senza sosta in quella notte: l’arrivo al capannone, la chiamata a Falman, l’attesa del maresciallo… e poi quell’interrogatorio senza sosta: nomi e date di omicidi che Barry ricordava con un piacere fuori dal comune, come quello di un collezionista che mostra i pezzi rari della sua raccolta.
E poi, al posto del patibolo, una condanna ancora peggiore… se si poteva odiare l’assassino in qualche modo si provava una strana forma di pietà per quello che aveva subito: fosse stato impiccato un simile sentimento non si sarebbe mai presentato, di questo Riza ne era certa.
In che tunnel siamo finiti, signore?
Se lo chiese mentre osservava Mustang finire di scrivere alcuni appunti nel taccuino che si era portato dietro e li osservava con attenzione. Il rompicapo stava iniziando a prendere forma e parlava di qualcosa che si era infilato nelle viscere del sistema di Amestris: se c’erano state delle sperimentazioni segrete su esseri umani allo scopo di creare la pietra filosofale, allora la questione arrivava fino ai piani alti.
Del resto ad Ishval sperimentavano sui prigionieri – si ricordò.
Era stato una volta che si era recata col tenente Morris per ricevere alcune informazioni importanti in una delle postazioni dei capi maggiori. Da un edificio poco distante continuavano a provenire urla strazianti, sia di uomini che di donne: le erano penetrate nel cervello come tanti aghi invisibili. Sarebbe rimasta lì imbambolata a subirle se il tenente Morris non le avesse messo una mano sulla spalla e non l’avesse gentilmente incitata ad andare avanti.
Forse già allora iniziavano a sperimentare sulla pietra filosofale.
Guardando il colonnello rifletté che non ci sarebbe stato nulla di straordinario: il Comandante Supremo aveva dato grande importanza agli alchimisti di stato, usandoli come armi umane durante la guerra. Una politica simile, a livello ufficiale, poteva nascondere ben altri progetti che non potevano essere portati alla luce del sole.
Specie se gli ingredienti sono esseri umani ancora vivi.
Ingredienti… usare un simile termine provocava un tremendo brivido lungo la schiena. Ma alla fine era quello che erano: si poteva definirli componenti, elementi, ingredienti, in ogni caso era come se quelle persone venissero private della loro dignità umana. Ecco perché Barry faceva pena nonostante il suo passato d’assassino: sarebbe dovuto morire da persona, per quanto spregevole, ma gli era stato levato questo strano e naturale diritto.
“… un’ultima domanda – la voce del colonnello riportò l’attenzione su quanto stava succedendo – sei stato tu ad uccidere un ufficiale militare in una cabina telefonica di Central City poco più di un mese fa?”
La domanda era stata posta con una calma letale, tuttavia lei e Falman non poterono far a meno di scambiarsi una rapida occhiata: da quando era morto il tenente colonnello Hughes, mai Mustang aveva ritirato fuori l’argomento. Eppure tutti loro sapevano che il suo proposito di vendetta covava lentamente ed inesorabilmente dentro di lui.
Entrambi sapevano benissimo che se la risposta fosse stata affermativa, per Barry non ci sarebbe stata nessuna possibilità di uscire illeso da quel capannone.
“Non so di che parli – rispose l’armatura – perché? L’hanno fatto a pezzi?”
Tutto sommato Riza tirò un sospiro di sollievo nel sentire quelle parole.
 
Poco dopo lei ed il colonnello camminavano per le vie della città silenziosa, uno accanto all’altra.
Faceva uno strano effetto: quando erano in divisa a Riza veniva spontaneo camminare due passi indietro rispetto a lui, ma ora che erano in borghese sembrava altrettanto naturale venire meno a questa regola dell'etichetta militare.
“E’ stato sicuro affidarlo a Falman?” si chiese all’improvviso, parlando a voce alta quasi per condividere i suoi dubbi col colonnello.
A pensarci bene non era stata una mossa molto sicura: Falman era in gamba, certo, ma l’avevano messo a guardia di una creatura praticamente immortale, che non provava né dolore né altro. Sarebbe stato sveglio anche quando il maresciallo avrebbe avuto bisogno di dormire, i suoi riflessi non sarebbero mai diminuiti e la sua personalità folle non era certo una bella garanzia. A ben pensarci avevano messo Falman a fare la guardia alla morte stessa: una minima mossa falsa e Barry avrebbe tirato fuori i suoi istinti omicidi, alla faccia di quanto le aveva promesso.
“Ce la farà, ne sono certo…” disse Mustang, mettendosi le mani in tasca e sorridendo furbescamente.
“Ne sembra molto convinto. Tuttavia anche se Barry ha stretto un patto con noi, non possiamo mai sapere come agirà e quali siano le sue vere intenzioni.”
“Barry non è un pazzo omicida qualsiasi – continuò l’uomo – c’è qualcosa di lucido nel suo modo di fare, credimi. Per tenerlo a bada ci vuole una persona con un buon cervello, che sappia gestire il gioco psicologico: Falman è uno dei migliori in questo, credi a me.”
“Non potremo tenerlo nascosto per molto.”
“Quello che è successo al laboratorio numero cinque non lascerà il nostro nemico indifferente. Ed inoltre scopriranno presto che Barry è fuggito: è un testimone troppo scomodo da lasciare in giro… saranno costretti ad esporsi. E cadranno nella nostra rete.”
“Ha delle disposizioni da dare, colonnello?”
“Stanotte voglio riflettere bene su quanto è accaduto e su quanto ci ha detto Barry… a conti fatti la presenza dei ragazzi qui a Central mi sarà più che utile: devo mettere in moto Fury per fargli fare un sistema di comunicazione coi controfiocchi, questo è poco ma sicuro. Ho come il sospetto che i nostri precedenti sopralluoghi ci torneranno presto utili.”
“Saremo pronti ed operativi come sempre.”
Lui annuì ma non rispose. Continuarono a camminare in silenzio per diversi minuti, con Riza che teneva stretta la busta con gli acquisti fatti qualche ora prima. Sicuramente Hayate la stava attendendo e si chiedeva come mai tardasse così tanto rispetto al solito orario: era diventato abbastanza abitudinario con il passare dei mesi, segno di quanto ormai fossero affiatati tra di loro.
Ormai è tardi… però lo porto lo stesso a fare una passeggiatina, poverino. In questi giorni mi sono potuta dedicare poco a lui con tutto il lavoro che c’era da fare…
“Spero che Barry non ti abbia importunato troppo.”
“Che? Oh non si preoccupi, signore, lui non…”
“Comunque non posso che concordare con i suoi gusti: stai davvero bene così, sai?”
Era una dichiarazione così inaspettata che Riza si sentì avvampare e fu costretta ad esercitare tutto il suo autocontrollo per mantenere un’espressione impassibile, anche se non fu sicura di riuscirci. Perché quelle parole dette da lui riuscivano a farla sentire in un simile modo? A farle perdere tutta la sua calma? Eppure tra loro non c’era niente oltre un rapporto lavorativo e di stima. Certo, lui era stato un suo pilastro emotivo in diverse occasioni, ma questo non bastava a…
Beh, e adesso che vuoi fare? Seguire l’esempio di Rebecca? Svegliati, Riza, è Roy Mustang!
E doveva pensare a lui solo in termini di leader e promotore dei suoi ideali: era quella l’unica luce di cui doveva risplendere ai suoi occhi. Senza contare che una loro relazione era destinata a fallire in partenza per tutta una serie di motivi che andavano oltre le regole anti fraternizzazione: accanto alla sua indubbia ambizione di cambiare Amestris, al suo idealismo, c’era una controparte egocentrica e fin troppo sicura di sé che, molto spesso, si esternava con doti di seduzione fin troppo palesi. A farla breve era un dongiovanni per il puro gusto di esserlo. Come avrebbe potuto avere una relazione con una persona come lui?
Ma che stai pensando? – si disse, stringendo ancora di più la busta di carta, tanto che la scatola delle crocchette di Hayate si deformò leggermente – Ti ha fatto un semplice complimento e tu ti sei già creata un assurdo castello in aria. Queste cose lasciale nei libri di poesia della mamma, Riza!
“E’ un tipo di abbigliamento pratico per nascondere le pistole – dichiarò – essendo a Central City non si sa mai quello che può succedere. Stasera ne abbiamo avuto ampia dimostrazione.”
Mustang la fissò interdetto per qualche secondo e poi scoppiò a ridere.
“Ah, tenente, riesci sempre a sorprendermi, non so proprio cosa farei senza di te. Ho espresso semplicemente una mia opinione, non ti devi sentire in dovere di giustificarti: trovi così sconveniente che ti abbia detto che stai molto bene così?”
“No… no, signore.”
“Di certo non avrei affidato Barry alle tue cure: sarei stato estremamente geloso di saperlo con te.”
“Colonnello, la prego!” adesso Riza era davvero in difficoltà: dove finiva il complimento ed iniziava la presa in giro?
“Dai, non arrossire così. Torniamo a parlare di lavoro, va bene?”
“Credo che sia opportuno.”
“Inizio a pensare che il mio trasferimento qui non sia dovuto solo a meriti personali, per quanto questo mi dispiaccia non poco.”
“Crede che vogliano tenerla sotto controllo, signore?” chiese la donna, riuscendo a calarsi con naturalezza nel suo ruolo di professionale guardia del corpo. Fortunatamente per loro funzionava così: un secondo prima stavano parlando di tutt’altro, con emozioni completamente diverse, e ora eccoli tornati ai loro soliti ruoli, quelli giusti.
“Per ora è un sospetto, ma non dubito che nel prossimo periodo ne avremo una conferma. Sanno della mia amicizia con Hughes e di certo verrà loro in mente che ho intenzione di scoprire chi è stato il suo assassino. Se tutto è collegato alla pietra filosofale, direi che la nostra preda è bella grossa.”
“E’ un quadro preoccupante, colonnello: oso dire che la sua incolumità è messa a repentaglio.”
“Ecco perché non ho intenzione di condividere la mia guardia del corpo con Barry! E dai, non fare quella faccia: scherzavo!”
“Colonnello, certe volte lei è veramente inopportuno – sbottò Riza – in ogni caso, lei è praticamente arrivato: le auguro una buonanotte e mi scusi tanto per averla disturbata ad un’ora così tarda.”
Forse lui avrebbe voluto rispondere con qualche battuta, ma l’occhiata con cui lo fulminò lo ridusse a più miti consigli e si limitò ad augurarle la buonanotte. Acidamente soddisfatta di aver avuto ragione in quel piccolo duello, la donna si avviò a passo sicuro per la sua strada.
Per l’umore che aveva, qualsiasi altro maniaco od assassino avrebbe fatto bene a tenersi alla larga da lei.
 
“Credo di essermi innamorato di te, signorina!”
“Ti rendi conto? A quanto pare faccio innamorare i maniaci assassini!”
Riza non poté fare a meno di sbottare quando la dichiarazione d’amore di Barry le tornò in mente nel bel mezzo della cena. Hayate alzò il viso dalla ciotola e la fissò con perplessità, arrivando persino ad inclinare il muso in un’espressione fin troppo umana.
Si bene, adesso parla anche col cane. Sei solo una stupida.
Si stavano cacciando in un guaio più grosso di loro e tutto quello a cui riusciva a pensare era alle smancerie di quell’armatura e alle battutine, perché erano battutine, del colonnello. La cosa la faceva così infuriare che, una volta per tutte, dichiarò se stessa e l’amore come due opposti mai destinati ad incontrarsi.
Ecco qual era il risultato: la sua razionalità andava a farsi benedire e questo poteva compromettere le sue prestazioni di guardia del corpo e soldatessa.
Comunque se su Barry posso passarci sopra, qualcun altro potrebbe evitare certe idiozie.
Prese il piatto e lo portò nel lavabo, sentendo l’appetito che le veniva completamente a mancare. Decisamente la versione di Mustang che preferiva era quella in divisa, quella che la faceva infuriare per negligenza, pigrizia e quanto altro, ma che non la rendeva così insicura di se stessa come era successo poco prima. Era come se fosse in grado di annientare tutto il lavoro di autostima che aveva fatto in quegli anni, da quando si sentiva una goffa ed impacciata provinciale non appena usciva con qualcuno che fosse diverso dalle sue compagne di corso.
Tutto questo è veramente poco professionale!
Quella notte di mezz’estate era stata veramente surreale sotto tutti i punti di vista.
L’unica cosa di positivo che poteva venirne era che Barry si dimostrasse davvero la loro carta vincente per smuovere le acque e stanare fuori il nemico.
Di nuovo i suoi pensieri tornarono a Falman e al compito che gli era stato affidato.
Sì, il colonnello in questo era stato tremendamente serio: non avrebbe messo il maresciallo a guardia di quell’assassino se non fosse stato sicuro delle sue capacità di gestione. Del resto Falman aveva avuto ben altre esperienze prima di entrare in squadra e certamente se la sarebbe cavata in maniera più che egregia.
“Ecco, è così che mi piace – disse, mentre finiva di infilarsi il pigiama e andava a letto, seguita immediatamente dal cagnolino – senza quell’aria divertita che non mi fa capire se sta scherzando o sta dicendo la verità.”
Hayate saltò ai piedi del letto e si accucciò, fissandola con tranquillità, come a rassicurarla che lui non si sarebbe mai comportato in maniera simile. Fu un’intenzione così palese che alla donna venne spontaneo sorridere e allungare una mano per accarezzarlo.
“Ma sì, hai ragione, mi sto perdendo in un bicchiere d’acqua. E’ che… la serata è stata diversa dal solito e sai come va quando si esce dagli schemi per determinate cose, no? Come se un giorno tu o Fury mi salvaste la vita… originale, vero? Senza offesa, ovviamente.”
Hayate uggiolò e chiuse gli occhi con soddisfazione.
“Sì, è vero: è ora di dormire.”
E comunque non mi piace per niente essere chiamata dolcezza!







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Per l'incontro con Barry ho usato la versione del manga dove Riza sta tornando a casa senza Hayate.
Su Falman e Barry vi consiglio una mia one shot: Il settimo sigillo, partita a scacchi con la morte ^^
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1955759&i=1


   

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Capitolo 26
*** Capitolo 25. 1914. Come funziona una squadra ***


Capitolo 25
1914. Come funziona una squadra




 
Circa una settimana dopo tutte le questioni sentimentali erano state messe da parte per far tornare a pieno regime la soldatessa. Non c’era niente di meglio che una missione per cancellare tutte le insicurezze: l’obbiettivo era stato prefissato, i ruoli dati, ciascuno sistemato al proprio posto, insomma non c’era niente che non fosse fuori norma.
Persino la questione Maria Ross era stata rapidamente risolta, così come l’eventualità di intrusioni da parte di Edward. L’esca era stata lanciata e rimaneva solo da attendere che il pesce abboccasse.
“Mi raccomando, Hayate, non dare fastidio al sergente.”
“Oh, ma lui non mi dà mai fastidio, signora. E’ bravissimo.”
Quasi a conferma il cagnolino scodinzolò e si sedette sul pavimento accanto a Fury e al suo grosso complesso di radio che, nell’arco di nemmeno un giorno, aveva preso possesso della maggior parte della superficie calpestabile del piccolo appartamento che avevano requisito la settimana prima. Havoc l’aveva definito il rifugio ideale di Fury quando l’ultima antenna era stata sistemata e non si poteva dargli torto: vedere il ragazzo destreggiarsi in mezzo a quelle apparecchiature senza altri elementi a disturbarlo era come vedere un pesce che sguazza nel suo habitat naturale.
“Bene, allora io vado – annuì la soldatessa, prendendo d’istinto una leggera coperta che stava sul pavimento e drappeggiandola sulle spalle del soldato – fai attenzione, questo posto è pieno d’umidità: a maniche corte rischi di buscarti qualcosa.”
“Ma io sono sempre attento, tenente – arrossì lui – non si deve preoccupare.”
“Non sono preoccupata, infatti – sorrise la donna di rimando – ma se facessi uno starnuto nel bel mezzo della missione e lo sentissimo tutti quanti ci potrebbe distrarre nel momento fatidico, no?”
Fury non seppe che rispondere e Riza ne approfittò per uscire da quel piccolo palazzo e andare nell’edificio nella via accanto, dove stava la strana torre che aveva scelto come postazione. Controllò che il suo fucile fosse in ordine, così come il resto delle armi che aveva nascosto lì il giorno prima: verificato con soddisfazione che tutto era a posto, si mise le cuffie e attese il collegamento con il colonnello. Nel frattempo il suo occhio acuto vigilava sull’abitazione dove stava un ignaro Falman assieme a Barry e a quel ragazzo xinghese che, improvvisamente, si era aggiunto al loro gruppo.
E dove, in un’altra stanza, stava nascosto Havoc in pieno assetto da battaglia.
Proprio pensando a lui, la soldatessa non poté fare a meno di sorridere: circa una settimana prima le aveva rivelato, con somma felicità, di avere una ragazza. A prescindere da quanto sarebbe durata questa nuova relazione, era comunque un bene che Havoc avesse questa valvola di sfogo. Ormai, dopo diversi anni dalla rottura con Rebecca, Havoc aveva ripreso ad innamorarsi con disarmante facilità: certo, molto spesso erano storie che finivano in tempi molto brevi, ma i primi giorni si dimostrava davvero al settimo cielo. Vedere quel familiare sprazzo di serenità l’aveva fatta sentire incredibilmente a casa.
Effettivamente uno dei maggiori crucci di Riza, da quando si erano trasferiti a Central City, era che la squadra non aveva avuto la possibilità di avere un ufficio tutto per loro: lo condividevano con altri soldati e questo impediva di ricreare del tutto il clima di familiarità che invece avevano ad East City. Ogni giorno le loro mosse ed i loro discorsi dovevano essere misurati, non solo per una semplice questione di buon senso, dato che si trovavano in un territorio nemico, ma anche perché riusciva difficile comportasi spontaneamente in presenza di estranei. Questo faceva sì che le dinamiche tra di loro fossero in parte smorzate: i loro disagi per il trasferimento venivano quasi del tutto taciuti e il circolo di solidarietà che in genere si attivava quando qualcuno di loro era in crisi non aveva occasione di funzionare come si doveva.
Con una situazione simile la felicità di Havoc era più che benvenuta.
“Ehilà, Elizabeth, come stai?” la voce del colonnello nelle cuffie interruppe le sue riflessioni.
“Signor Roy, che piacere sentirla – rispose con voce lieta, dando inizio alla loro recita – è davvero gentile a chiamare così spesso.”
Ishval le aveva insegnato la pazienza, il saper stare ad attendere senza che il tempo pesasse sulla sua persona. Sapeva che il suo bersaglio prima o poi sarebbe arrivato e questo era tutto quello che le serviva. Pochi minuti o un’ora non facevano la differenza: tutto stava nel rimanere con l’attenzione focalizzata su quanto succedeva.
Così non fu per niente disturbata nel veder arrivare quello strano essere che si dirigeva verso il rifugio di Barry e Falman: con tutta la calma possibile diede disposizioni affinché Havoc entrasse in azione e poi attese pazientemente. Non batté ciglio nemmeno quando la colluttazione si spostò in strada e dovette intervenire per aiutare i suoi compagni, complice un proiettile inceppato dello stesso Havoc: erano evenienze a cui era stato pensato, a cui era in grado di rispondere con prontezza. Rientrava tutto nei ruoli che ciascuno aveva.
Era persino previsto che arrivasse un ospite d’onore. Per questo riuscì a mantenere la calma quando sentì i passi dietro di lei e, girandosi, vide quella strana, grossa creatura: sapeva di doversi aspettare qualcosa di totalmente diverso da un essere umano e, nonostante non si trattasse di un’armatura, era perfettamente consapevole di aver a che fare con una creatura nemica che probabilmente aveva a che fare con la pietra filosofale.
Ma Riza Hawkeye aveva un solo modo di affrontare il nemico, a prescindere dalla sua natura.
Sparò ancora ed ancora, confidando che i proiettili non la tradissero, confidando nella sua mira perfetta e nella convinzione che, tutto sommato, è tipica di ogni soldato, ossia che le armi fanno sempre la differenza.
L’alchimista è comunque mortale e può essere ucciso da un proiettile.
Ma quella creatura non era un alchimista e soprattutto non era umano.
I proiettili venivano letteralmente assorbiti dal suo flaccido e grasso corpo: l’impatto lo spingeva indietro, certo, ma era un vantaggio che durava pochi secondi. E in quei pochi secondi la sicurezza della donna si trasformò in disagio e quasi contemporaneamente in terrore.
“Hai finito? – chiese la creatura con un sorriso tra l’inquietante e l’ingenuo, quando non ci fu altro proiettile da sparargli contro – Tutto finito? Adesso posso mangiarti?”
La domanda fu così assurda che Riza rimase paralizzata quegli attimi necessari perché quel mostro la afferrasse per la gola e la sollevasse dal pavimento. Non le era mai capitato di provare una sensazione così tremenda come quella di soffocare: era qualcosa di totalmente diverso dal dolore, qualcosa che le faceva mancare qualcosa di indispensabile come il respiro. Annaspare senza possibilità, cercando di allentare la presa formidabile di quell’essere fu uno dei momenti peggiori della sua vita: nei suoi incubi si sarebbe sempre ricordata del sorriso famelico che la osservava agonizzare.
Non voglio morire! – supplicò, mentre si dibatteva sempre più debolmente.
E poi il miracolo arrivò: un forte ringhiare e la presa del mostro cessò d’improvviso, facendola cadere a terra.
“Hayate!” annaspò, levandosi dalla portata del mostro e osservando il suo cagnolino mordere con ferocia la collottola di quell’essere che, fortunatamente, non riusciva a liberarsi di lui.
“Tenente!” chiamò subito un’altra voce e questa volta Riza capì di essere salva. Girandosi vide Fury che arrivava di corsa e le lanciava una pistola. Non gli chiese come aveva fatto a raggiungerla in così poco tempo, non gli disse che era pericoloso e che non avrebbe mai dovuto lasciare la sua postazione. Non gli disse che il suo ruolo era tutt’altro. Lui era lì ed era ciò che importava.
Non pronunciarono parola, si misero a sparare all’unisono contro quel mostro, mentre Hayate si levava da lui per evitare di venir colpito dai proiettili. E Riza sapeva che sarebbe stato tutto inutile, proprio come prima… tuttavia per la sciocca mentalità umana non poteva fare a meno di provarci ancora, sperando che in due sarebbero riusciti a salvarsi. Ma ovviamente fu tutto inutile e quando anche l’ultimo proiettile venne assorbito, il mostro tornò a farsi avanti.
“Finiti i proiettili? Finiti? – chiese – allora buon appetito a me!”
L’unico pensiero di Riza fu di dire “Scappa!” al sergente, ma non fece in tempo che una fiammata passò tra lei e Fury. Ne percepì il calore sulle guance, il crepitare delle scintille… riuscì a percepire persino la rabbia di chi le stava scagliando.
Colonnello! – sospirò di sollievo, quell’incredibile e meraviglioso sollievo che provava ogni volta che lui arrivava a salvarla. In quel momento non riusciva a pensare ad altro.
 
Diverse ore dopo quel senso di sollievo che aveva provato la faceva sentire tremendamente in colpa.
Continuava a dirsi che era lei la guardia del corpo, era lei quella che doveva proteggere Roy Mustang e non viceversa. E dunque era totalmente sbagliato che l’alchimista si trovasse in quel letto d’ospedale, privo di sensi, con la mano destra fasciata e una bruttissima ustione sul fianco.
Era come se tutto fosse precipitato in un tremendo incubo: ormai tutto le stava sfuggendo di mano e si rendeva conto che le sue capacità non potevano niente contro i nemici che si erano presentati. Era così: sia contro quel mostro adiposo che contro quella donna, l’unica arma che aveva potuto qualcosa era stata l’alchimia. Lei, invece, era stata completamente inutile, brava solo a piangere, a sfogare una rabbia cieca ed impotente quando aveva creduto di aver perso il colonnello.
E questo era sbagliato, totalmente sbagliato: non era questo l’atteggiamento che avrebbe dovuto tenere. A prescindere dall’utilità o meno di scaricare decine di proiettili su quella donna, non si sarebbe mai dovuta far travolgere in questo modo dalle emozioni. Perché sapeva benissimo che il dolore che provava per quanto era successo a Mustang era molto diverso da quello che provava per Havoc, che ora si trovava nel letto proprio accanto a quello del colonnello, con Breda a vegliarlo.
Chissà cosa pensava il soldato rosso che, appena rientrato dalla sua missione nell’estremo est, si era trovato con il suo miglior amico in simili condizioni. Ogni tanto non poteva far a meno di alzare lo sguardo su di lui, ma appena vedeva quell’espressione impassibile si sentiva colpevole e piena di vergogna. Perché lei, tra tutti quelli che erano entrati in quel posto, era l’unica illesa… l’unica che non era servita a niente.
Era come se il suo ruolo fosse ormai terminato e…
“Non pensare idiozie, tenente” disse all’improvviso la voce pacata di Breda, spezzando il silenzio della stanza, interrotto solo dal plic plic delle flebo.
“Cosa?” rimase interdetta, non riuscendo a capire il senso di quella frase.
“Lo vedo chiaramente che ti stai distruggendo dai sensi di colpa. – continuò l’uomo – Non ti servirà a nulla”
E’ facile per te pensarlo – pensò quasi con rabbia Riza – ma tu non eri lì a subire tutto questo e sentirti completamente inutile.
 “Breda, tu non puoi capire…” iniziò
“Capisco fin troppo bene, invece. – sbottò lui, senza cambiare posizione nella sedia – In questi letti ci sono le persone a cui teniamo, e che noi non siamo stati capaci di proteggerli: credi che il mio senso di colpa aiuterà Havoc a guarire? Credi che il tuo sentirti impotente sarà d’aiuto al colonnello?”
Riza girò di scatto la faccia, come se fosse stata schiaffeggiata. Erano parole brucianti, eppure contenevano una grande verità, bruciante a dire il vero: le impediva di stare in quel circolo di autocommiserazione dove, tutto sommato, era facile rifugiarsi.
“Sono dei mostri – mormorò, quasi cercasse di trovare una giustificazione – solo l’alchimia può qualcosa contro di loro. Noi…”
“Noi siamo i sottoposti dell’alchimista di fuoco – terminò la frase lui – gli siamo fedeli e lo seguiremo ovunque. Le tue pistole, come quelle di Havoc, non servono a nulla contro quelle creature… ma, porca miseria, signora, non mi starai dicendo che credi di essere solo una brava tiratrice? – la fissò per qualche secondo e poi proseguì – A lui frega ben poco se le tue pistole non feriscono quelle cose. A lui importa che stiamo dalla sua parte, approvando le sue idee, fornendogli sostegno.”
Come puoi farla così semplice?
“E che tipo di sostegno gli offrirai, sottotenente Breda?” gli chiese in tono di sfida.
Il robusto soldato si irrigidì per un secondo, quasi non si aspettasse una simile reazione, ma poi recuperò la sua solita calma e sogghignò.
“Da parte mia cercherò di far rimettere in sesto questo idiota biondo. Mi prenderò cura di lui e degli altri finché il colonnello sarà ricoverato. E poi ho già iniziato a dargli sostegno: sto impedendo che il suo sottoposto più fidato si lasci andare in un circolo vizioso di sensi di colpa che non lo porteranno da nessuna parte”
Riza non poté fare a meno di sorridere a quelle parole ed una singola lacrima le colò sulla guancia. Quando c’erano stati Fury e Falman non era stata in grado di percepire davvero il loro conforto: forse erano ancora tutti sconvolti, forse aveva bisogno dello sprone giusto.
“Perdonami – sospirò tremante – E’ stata una giornata davvero dura…”
“Vuoi un consiglio, tenente? Al piano terra dell’ospedale c’è un bar: è aperto anche adesso. Vai e chiedi una cioccolata calda, anzi due… portale qui che penso io a correggerle con qualche goccia di liquore. Quando questi due si sveglieranno dobbiamo essere ben carburati.”
Riza riuscì persino a sorridere a quelle parole: ecco il solito Breda, quello che nei momenti impensati sapeva cosa dire. Adesso l’idea di quella cioccolata corretta le sembrava davvero buona: si sentiva stanca e sfinita e una bevanda simile l’avrebbe aiutata.
“Mi sembra una buona idea, sottotenente. Tanto queste flebo dureranno ancora per un bel po’”
 
Per i giorni successivi Riza non lasciò che poche volte l’ospedale.
Ebbe dunque occasione di assistere al riprendersi del colonnello e di assistere alla brutta notizia delle gambe di Havoc. Anche se non lo diede a vedere quella notizia lo sconvolse più del previsto: non era mai capitato che un membro della sua squadra ricevesse ferite simili tanto da restare paralizzato. Pensare che il suo amico così vitale non avrebbe avuto più la possibilità di muoversi la faceva stare malissimo: non poteva succedere proprio a lui, non doveva succedere a nessuno di loro.
Che stupida situazione: ad ogni soldato viene insegnata l’eventualità di essere ferito in maniera grave. Assieme al venir uccisi è il maggior rischio che si corre, eppure fino all’ultimo si crede che non toccherà mai a se stessi o ad un membro della propria squadra. Nemmeno la guerra era riuscita a levarle questa convinzione.
Invece Havoc era disteso in quel letto, con le gambe paralizzate, i nervi troncati, come se l’homunculus avesse studiato con precisione il punto dove trafiggerlo. E anche se cercava di far finta di niente, si capiva che la sua condizione lo deprimeva più di quanto fosse possibile tollerare: le sue capacità di reazione divennero minime, tanto che persino l’unica sigaretta giornaliera che gli era concessa sembrava non avere alcun sapore per lui.
Se da un lato le indagini proseguivano in maniera tutto sommato positiva, con l’ipotesi che fosse lo stesso comandante supremo ad essere coinvolto in tutta la vicenda, dall’altra era come se la squadra avesse il timore di muoversi senza il suo uomo d’assalto. Breda era silenzioso, così come Falman e Fury a stento riusciva a nascondere il suo stato d’animo. Ma quello che più preoccupava la soldatessa era il colonnello: per quanto si fosse ripreso in maniera più che discreta, la ferita del suo sottoposto l’aveva provato in una maniera del tutto nuovo. Riza ricordava come, anni prima, l’uomo avesse esposto i suoi timori a proposito di essere a capo di una squadra: c’era la responsabilità, certo, ma c’era anche la creazione di un legame emotivo che non poteva essere taciuto. Roy Mustang non era stato in grado di proteggere il suo uomo, era questa la realtà dei fatti.
Così, circa una settimana dopo l’incidente, Riza si sdraiò nel suo letto che era sfinita.
Mustang le aveva imposto di tornare a casa e di concedersi una mezza giornata di riposo. Lei ovviamente aveva opposto resistenza, ma alla fine era stata costretta a cedere, sentendo che la stanchezza non le avrebbe concesso ancora troppo tempo.
Hayate parve capire il suo sfinimento e si limitò a sdraiarsi nel pavimento accanto a lei. Ma se il suo cagnolino aveva deciso di lasciarla riposare, il telefono sembrava non essere dello stesso avviso.
Per qualche secondo fu tentata di non rispondere, ma poi rifletté che poteva essere qualcuno di loro che la avvisava di qualche novità e quindi si costrinse ad alzarsi.
“Pronto?”
“Ehi, Riza! Finalmente ti trovo a casa! – la voce di Rebecca squillò felice – Nelle ultime settimane sei praticamente irreperibile!”
Nel sentire l’amica, la bionda si dovette posare pesantemente al tavolo.
Come poteva dirle quello che era successo ad Havoc?
“Ciao – salutò, con voce più salda che poteva – è stato un periodo molto impegnativo, tutto qui…”
“Le grandi missioni a Central City, certo! Scommetto che ti stai divertendo alla grande nella capitale, ammettilo!”
Divertendo? Certo… con uno dei miei amici più cari che è stato ferito in maniera terribile e con tutta probabilità non camminerà più.
Dovette trattenere un singulto e si mise la mano davanti alla bocca prima di riuscire a parlare di nuovo.
“E’… è giusto un poco stressante.”
Ci furono cinque secondi di silenzio e poi la voce di Rebecca si fece seria.
“Che è successo?”
“Non è successo nien…”
“E pensi che io ti creda? – Rebecca sembrava parecchio irritata – già ti immagino, ferma davanti al telefono con gli occhi bassi, le lacrime trattenute… quando fai questa voce sei proprio così. Avanti, che cosa ha combinato Mustang?”
“E’ che… io – si trattenne per qualche secondo, incerta se dirlo o meno, ma poi cedette – Reby, Havoc qualche giorno fa è stato ferito in maniera piuttosto grave.”
Silenzio.
Questa volta un silenzio molto più pesante. Se prima Rebecca si era immaginata Riza, adesso era la bionda a vedere nella sua mente l’amica con lo sguardo vacuo e la mano tremante posata sul telefono.
“Quanto grave?”
“C’è… c’è la concreta possibilità che non possa più camminare…”
“… lui… lui… dannato idiota! – c’era un singhiozzo nemmeno troppo trattenuto in quell’esclamazione – lo sapevo che prima o poi si sarebbe cacciato in un guaio simile! Ed è… ed è tutta colpa di quello stupido colonnello, vero?”
“Reby, credimi… è più complicato di quanto tu creda. Io non… non so più cosa pensare.”
“Pensa io che sono qui… come una scema! A pensare di fare in fretta e furia le valige e venire lì.”
“No!”
“Riza!”
“No, è troppo pericoloso – fu tremendamente seria nell’avvisarla – credimi, Reby, non devi muoverti da East City. Credo che… abbiamo scoperto qualcosa di veramente grosso, ma la situazione è più complicata del previsto e non voglio che ne venga coinvolta.”
“E quello scemo è in ospedale…”
“Noi faremo il possibile per lui.”
Ma io sono… oh, lasciamo stare!”
“Perdonami, non volevo darti queste notizie.”
“E io non le avrei volute ricevere… non sono arrabbiata con te. Come stai?”
“Da schifo, lo ammetto: sono tornata a casa perché il colonnello mi ha dato mezza giornata di riposo… anzi me l’ha imposta.”
“Per una volta tanto sono d’accordo con lui… hai una voce. Va bene, ti lascio riposare, ma hai l’obbligo di tenermi informata quando puoi… almeno su Jea… sul sottotenente Havoc.”
“Va bene, promesso.”
“Allora ciao…”
Riza nemmeno ebbe la forza di rispondere. Posò la cornetta e si buttò di nuovo nel divano.
Basta, non voglio più pensare ad altro.
Hayate stava per sdraiarsi di nuovo sul pavimento, ma drizzò le orecchie e corse alla porta, uggiolando festoso.
“Tenente – bussarono – sono Fury…”
“Arrivo…” sospirò lei, rassegnata al fatto che non era destino potersi riposare.
Come aprì la porta si trovò davanti il ragazzo con una grossa busta di carta tra le mani.
“La sua cena, signora – sorrise volenteroso – il colonnello mi ha incaricato di portarle qualcosa da mangiare. Le ho fatto dei panini, sono incartati, così non deve nemmeno riscaldarli.”
“Ma dai, non dovevate…” arrossì lei, prendendo quella busta.
“In una squadra funziona così, non si deve preoccupare – rispose il sergente, accarezzando la testa di Hayate – adesso la lascio riposare, anzi mi scusi se prima non ho chiamato per annunciare il mio arrivo.”
“Non ti devi scusare… grazie…”
Mettendosi sull’attenti, Fury si girò e corse via, lasciando la donna sulla porta di casa con quella busta tra le mani.
“Dopo – riuscì a sorridere, mentre Hayate le scodinzolava accanto – li mangeremo dopo.”









__________________
Che fatica finire questo capitolo... ormai la storia di Riza va avanti a missing moments.
Per questo motivo ho deciso che comunque i salti di trama saranno abbastanza presenti, tanto sono tutti eventi che conoscete già.
Annuncio intanto che, ad occhio e croce, voglio terminare assolutamente prima dei 35 capitolo, è il numero massimo che mi impongo (e spero siano anche di meno). Purtroppo la trama di Riza è molto presente nel manga e dunque non mi va di fare una mera ripetizione degli eventi.

Il dialogo con Breda è ripreso dalla mia one shot "Gocce nella flebo".

A presto!
Laylath

 

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Capitolo 27
*** Capitolo 26. 1914. Guardie del corpo ***


Capitolo 26
1914. Guardie del corpo




 
La stanza era spoglia, eccetto un basso letto cigolante ed un comodino con una gamba storta dove stava una lampada dalla luce tremula. Le pareti di legno, vagamente illuminate, emanavano un forte odore di umidità e muffa, le cui chiazze si intravedevano tra le ombre proiettate dai pochi oggetti presenti. Non c’erano finestre, l’unica via d’uscita era una piccola porta in fondo: l’odore di chiuso era tremendo ed il fatto che un grosso strato di polvere la facesse da padrone nel pavimento contribuiva a creare un forte senso di claustrofobia.
Riza trasse un profondo respiro, cercando di reprimere il pensiero che quello era tutto meno che il posto ideale dove portare una persona ferita, ed iniziò a levare i vestiti sudici di melma alla giovane che giaceva sul letto. Considerato che sfilarli era praticamente impossibile, date anche la particolarità dell’abbigliamento, non le restava che aiutarsi con delle rozze forbici da lavoro che aveva trovato in un vecchio mobile in un altro ambiente… pregando con tutta se stessa di non peggiorare una situazione già molto critica.
Cercò di essere il più delicata possibile, ma era chiaro che ogni movimento provocava fitte di dolore alla tremenda ferita che c’era all’altezza della spalla sinistra, là dove una volta si attaccava il braccio. Come arrivò in quella zona ed iniziò a tirare via la stoffa sporca, tirando inevitabilmente la carne viva, la ragazza di Xing emise un profondo lamento, simile al verso di un animale: i suoi occhi scuri si serrarono per cercare di trattenere il dolore, ma quasi a smentirla, delle lacrime iniziarono a colare sulle sue guance, lasciando solchi sulla pelle sporca.
“Mi dispiace – mormorò Riza, aiutandosi con un asciugamano bagnato per cercare di liberare la ferita dai lembi di stoffa rimasti attaccati – ma è necessario pulirla il meglio possibile.”
“Fai pure…” ansimò lei, parlando per la prima volta da quando Ling Yao l’aveva caricata in macchina, dopo quella rocambolesca fuga per le vie di Central City.
Era una voce molto giovane, la sofferenza la rendeva quasi infantile. A guardar bene quel corpo, ormai privato dei vestiti nella parte superiore, Riza intuì che la ragazza doveva essere poco più che un’adolescente: certo, c’era una grossa componente dovuta a un grande esercizio fisico, tuttavia si riconoscevano ancora i segni di una femminilità appena sbocciata e non del tutto adulta.
Quel dettaglio le fece provare una grande pena: quella giovane ragazza, per il resto della sua vita, avrebbe dovuto fare i conti con una menomazione grave come la perdita di un braccio. Di fronte ad una cosa simile persino la sua schiena sfregiata le sembrava ben poca cosa.
Abbassando di nuovo lo sguardo su quel viso tondo, che in altre occasioni sarebbe stato davvero delizioso, Riza si trovò scrutata dai profondi occhi scuri. Era come se la giovane avesse seguito il filo dei suoi pensieri e avesse realizzato che il suo braccio davvero non c’era più. C’era una strana forma di angosciosa sorpresa nella sua espressione, quasi non ci volesse credere, non sul serio… come se la supplicasse, di dirle qualcosa di confortante, che smentisse la realtà dei fatti.
Sì, un comportamento del genere era del tutto normale e lei lo sapeva: durante Ishval le era capitato di vedere soldati ai quali i medici erano stati costretti ad amputare qualche altro. L’incredulità era la stessa, così come il dolore e l’angoscia che trapelavano dallo sguardo della fanciulla.
“Allora ti chiami Lan Fan, vero? – disse, cercando di distrarla almeno per qualche minuto, sperando che il colonnello arrivasse presto con il medico promesso – non sono esperta di nomi di Xing, ma il tuo è davvero bello.”
“… il mio nome è bello?” lo chiese con sincera curiosità, come se non si fosse mai posta simili domande sul suo nome. A Riza sembrò davvero strano: persino lei, nella sua solitaria infanzia, si era spesso soffermata a pensare sul suo nome. A volte nei libri di poesie materni ne aveva trovato alcuni davvero meravigliosi, ma considerato che a scegliere il suo era stata proprio sua madre aveva finito per affezionarsi e a non volerne nessun altro.
Ma l’importante era che fosse riuscita nel suo intento di distrarla dalla ferita.
“Lo trovo molto musicale – annuì Riza, tornando a pulire la ferita – e ti sta bene.”
Lei annuì distrattamente e rimase per qualche secondo a farsi medicare come una brava bambina. Ma poi parve svegliarsi da quello strano limbo e si guardò attorno, cercando di identificare il posto dove si trovavano.
“… sua altezza! – mormorò, agitandosi lievemente, quasi volesse alzarsi a sedere – dov’è il principe?”
“No, stai ferma – la bloccò Riza, non potendo fare a meno di metterle una mano sulla spalla sana, ma provocando comunque una nuova ondata di dolore – se ti riferisci a Ling Yao, è fuori a fare la guardia e ad attendere l’arrivo del mio superiore con un medico per te.”
“Sta bene?” chiese con urgenza.
“Ha solo qualche taglio superficiale, niente di grave. Sei tu quella che ha bisogno di cure, non dovresti agitarti in un simile modo.”
“Ma io… non posso – protestò lei – …non posso stare ferma qui mentre sua altezza…”
Forse avrebbe aggiunto altro, ma una vertigine la costrinse a serrare gli occhi e posarsi pesantemente sul rozzo cuscino. Il suo respiro si fece ancora più ansimante e questo spinse Riza a passarle l’asciugamano bagnato sulla fronte e sul polso che ancora le restava, sperando che i suoi battiti si regolarizzassero.
“Così non fai che peggiorare la perdita di sangue – le spiegò, come se cercasse di far ragionare una bambina recalcitrante – credi che il giovane Yao sarebbe felice di sapere che non stai collaborando e stai rendendo le cose ancora più difficili? Durante il viaggio non eri cosciente, ma sappi che era molto preoccupato per te: continuava a chiamarti, a cercare di svegliarti. Sono sicura che quello che vuole è che tu ti riprenda.”
Lan Fan aveva riaperto gli occhi a quelle parole e la fissava mentre un timido rossore appariva sulle sue guance sporche.
“… preoccupato…” mormorò.
“Ci tiene a te – scrollò le spalle la soldatessa, lieta di averla calmata – altrimenti non mi avrebbe letteralmente obbligato a deviare dal percorso per venire a cercarti. E’ una brava persona.”
La giovane ferita la guardò ancora per qualche secondo, ma poi chiuse gli occhi.
“E’ il principe del mio clan – spiegò con voce roca, che sforzava di mantenere salda – il mio compito è proteggerlo.”
“Proteggerlo…”
“Sono la sua… guardia del corpo.”
A quell’affermazione Riza rimase leggermente interdetta: le sembrava inverosimile che lei e quella ragazzina svolgessero il medesimo ruolo. Eppure quell’affermazione ebbe il potere di farla andare oltre le apparenza adolescenziali di Lan Fan e di farle vedere la profonda determinazione che l’aiutava a restare cosciente.
Possibile che io e te siamo simili?
Avrebbe chiesto pure lei del colonnello, proprio come Lan Fan aveva chiesto di Ling Yao? Si sarebbe sentita pure lei in tremenda colpa per essere ferita e dunque non svolgere il proprio dovere di difendere il suo protetto? Si sarebbe sentita impotente…?
Ti sei già sentita così, stupida!
Sì, a ben pensarci capiva fin troppo bene cosa stava passando quella ragazzina… forse capiva persino il rossore che aveva tinto le sue guance qualche minuto prima. Ma quell’ultimo era un pensiero di una Riza che non poteva permettersi di esistere, quella che lei aveva rinunciato ad essere quando aveva indossato la divisa dell’esercito anni prima.
“Anche io sono una guardia del corpo, sai – si costrinse a dire – e… e ammetto che negli ultimi tempi non sono riuscita a svolgere il mio dovere come volevo.”
Lan Fan la guardò con stanco dubbio per qualche secondo, come se ritenesse che quella frase fosse detta solo per tenerla buona in quel letto.
“Contro gli homunculus la mia bravura con le armi da fuoco non ha potuto molto – continuò Riza, riuscendo persino a fare un timido sorriso davanti alla sua impotenza – l’unica cosa che sembra poter valere qualcosa è l’alchimia del mio superiore, colui che dovrei proteggere. Qualche giorno fa… è stato lui a salvare me e non viceversa, e non una ma ben due volte… mettendo in pericolo la sua incolumità.”
“… il mio signore spesso sparisce… fa di testa sua – sospirò Lan Fan – mi avrebbe dovuto lasciare in quella fogna… me la sarei cavata.”
Riza annuì, in realtà rivedeva se stessa quando aveva fatto la sfuriata al colonnello per essere intervenuto quando aveva rischiato di venir mangiata da Gluttony. No, Lan Fan non ce l’avrebbe mai fatta da sola in quelle fogne: la perdita di sangue era stata troppo copiosa e sicuramente non sarebbe mai riuscita a riguadagnare la superficie, non nelle sue condizioni. Proprio come lei non si sarebbe mai potuta salvare da quell’homunculus, nemmeno dopo che era intervenuto Fury.
“Ti capisco…”
“Se… se mi capisci… allora, fammi alz…”
“Ti capisco, ma so anche che non funziona così – la bloccò Riza – credimi, non è solo perché siamo guardie del corpo che siamo importanti per loro.”
Sì, stava per riprendere in toto quanto le aveva detto Breda qualche giorno prima. Ma adesso ne era convinta, non era solo una giustificazione per se stessa. Ne era convinta perché aveva visto l’espressione del colonnello quando Havoc si era ritirato dalla squadra, aveva visto la sofferenza di entrambi nel dover arrendersi a quella separazione forzata. Il senso di aver fallito era così tangibile da fare male. Sia in Havoc che nel colonnello perché…
“… non so come stanno le cose a Xing – continuò – ma quello che c’è tra una guardia del corpo ed il suo protetto non è un qualcosa a senso unico. Io faccio parte di una squadra e... per il mio superiore ciascuno di noi è importante, capisci? A prescindere che io possa combattere un homunculus o meno, per il colonnello è fondamentale il mio appoggio come persona… il mio credere in lui e nelle sue azioni.”
“… no – lei scosse debolmente il capo, facendo scivolare di lato l’asciugamano bagnato – se… se non lo puoi proteggere… hai fallito… io… io non posso più…” una nuova lacrima scese sulla guancia destra.
“Ti sbagli – scosse il capo la bionda, rimettendole l’asciugamano sulla fronte – se non ci proteggessimo a vicenda avremmo fallito…”
Non funziona così, Lan Fan… altrimenti il sacrificio di Havoc non avrebbe senso.
Al ricordo di come il biondo si fosse appoggiato pesantemente nel letto al limite delle lacrime… di come il colonnello le avesse chiesto la divisa, non curandosi della ferita al fianco, Riza sentì una gelida rabbia montarle dentro.
Tuttavia non poté esternare nessun pensiero in merito: vedendo che la fanciulla aveva quasi del tutto perso conoscenza dopo quello sforzo, riprese a pulirle le ferite. Ogni tanto si girava verso la porta e pensava a quel nobile xinghese che, all’ingresso dell’abitazione, attendeva con ansia l’arrivo del colonnello col dottore.
Forse Lan Fan non si era accorta della grande preoccupazione che aveva mostrato, o forse non l’aveva voluta vedere. Perché in fondo quando sei guardia del corpo ti viene più facile pensare che sia davvero un qualcosa a senso unico, dove il ruoli sono ben definiti… e tutto è molto semplice come un’addizione.
Ma non era assolutamente così.
Proprio in quel momento si sentì il rumore di una macchina.
 
Durante la guerra le era capitato diverse volte di dover assistere qualche commilitone ferito: i medici scarseggiavano e spesso ci si doveva arrangiare, magari facendosi aiutare dagli altri. Così, qualche volta, non si era tirata indietro quando c’era da stringere qualche benda malconcia o versare acqua su qualche taglio. In alcune occasioni aveva persino assistito all’estrazione di una pallottola da degli arti, per poi veder suturare la ferita con della polvere da sparo a cui veniva dato fuoco: il metodo del soldato… veloce, rapido e quasi del tutto indolore.
Non le era mai capitato, invece, di assistere ad un’operazione vera e propria. I medici esercitavano molto distante da dove si trovava di stanza con il suo plotone e non aveva mai accompagnato un ferito grave in quelle postazioni.
Ma sembrava che questo non importasse al dottor Knox.
Appena entrato nella stanza aveva dato una rapida occhiata a Lan Fan e poi aveva annunciato a Riza che gli serviva qualcuno per aiutarlo: l’aveva nominata sua assistente nell’arco di cinque secondi, senza nemmeno chiederle se avesse avuto esperienze in ambito medico.
Riza avrebbe potuto obbiettare, ma si era limitata ad annuire, prevenendo anche le eventuali proteste del colonnello che era entrato assieme a Knox nella stanza. Tutto sommato erano in guerra, e quando si è in guerra si deve tener conto di dover svolgere compiti che non sono i propri.
“Se non si prende il tetano sarà una gran fortuna – borbottò l’uomo, quando rimasero soli. Aveva levato dalla sua borsa una serie di strumenti chirurgici, posandoli sul tavolino malfermo – non posso garantire del risultato che ne ricaverò.”
Lan Fan, fortunatamente, continuava ad essere priva di sensi. L’idea che la sua ferita venisse suturata senza l’uso di anestetici faceva venire un brivido persino a una soldatessa navigata come Riza.
Knox osservò attentamente la spalla della paziente, toccando delicatamente la parte dove una parte dell’osso si vedeva ancora, recisa quasi di netto da chissà quale arma.
“Se l’è amputata da sola… ne ha di fegato – commentò Knox cupamente – non è da meno dei soldati che si sono recisi da soli le gambe ferite pur di poter uscire vivi da crolli di palazzi. Ascoltami, ragazza: devo levare del tutto l’omero… quest’ultima parte rimasta non serve ed è dannosa perché è recisa male e ci sono schegge. La cosa migliore… sì, non ci sono dubbi, dobbiamo arrivare alla spalla: una volta lì potrò suturare la ferita e sperare che tutto vada per il meglio… in simili condizioni.”
“Mi dica pure quello che devo fare.”
“Il tuo ruolo è più semplice di quanto creda – l’uomo frugò nella borsa e tirò fuori un pezzo di cuoio, attorno al quale avvolse alcune bende. Quindi aprì la bocca di Lan Fan e lo inserì a forza – tienila ferma più che puoi: senza anestesia le sue reazioni sono imprevedibili, anche se ora è priva di sensi. Avessi avuto del laudano… ma si sa, sui cadaveri non serve…”
Riza non seppe cosa rispondere: sembrava che quell’uomo sentisse l’esigenza di fare del sarcasmo a prescindere da chi lo ascoltava. Aveva un viso duro, segnato dalle rughe, l’espressione tipica di chi ha visto davvero tanto in guerra: il cinismo, con tutta probabilità, gli era esponenzialmente aumentato dopo quell’esperienza. Tuttavia quando spostava lo sguardo su Lan Fan, qualcosa di simile alla paura appariva nei suoi occhi infossati: era come se si stesse chiedendo se fosse all’altezza della situazione, come se operare su una persona viva lo spaventasse più del previsto.
“… merda, questa non ha nemmeno vent’anni, credi a me. Credevo che simili stronzate fossero finite con la guerra. Allora, ragazza, tieni qua e prepararti a tamponare con quell’asciugamano: ci sarà un ben po’ di sangue, spero che non ti impressioni troppo.”
“Non si preoccupi.” garantì Riza, consolidando la presa nel punto dove le era stato indicato.
“E se senti di dover vomitare girati dall’altra parte.”
La bionda stava per dirgli che non era debole di stomaco, ma poi lo vide prendere in mano un seghetto e dovette trattenere il respiro.
Quando poi iniziò a sentire il rumore raschiante che la lama produceva a contatto con l’osso rimasto, dovette serrare gli occhi e deglutire con forza.
 
Lan Fan emise un lieve lamento, ma per fortuna non riprese conoscenza.
Il dottor Knox nemmeno ci fece caso impegnato com’era a cucire i lembi di pelle rimasti.
“In teoria la ferita dovrebbe esser lasciata in parte aperta e drenata con cura per i prossimi giorni, ma con questa muffa e queste porcherie è meglio chiuderla del tutto.”
Il suo commento, come tutti gli altri durante l’operazione, non era rivolto a Riza ma a se stesso. La soldatessa arrivò a pensare che lavorare con i cadaveri produceva strani effetti collaterali. In ogni caso era stato bravo, per quanto lei fosse una completa profana in materia: le sue mani erano state decise e, tutto sommato, l’operazione non era durata molto. Adesso non era privo di una certa delicatezza mentre usava ago e filo all’altezza della spalla della paziente.
“Sei l’assistente di Mustang, vero? Novità su quel vostro soldato ferito alla spina dorsale?”
“Si è congedato, signore – mormorò Riza, sorpresa di esser stata chiamata in causa – credo che presto tornerà ad East City.”
Non gli disse del tentativo di Breda di cercare la pietra filosofale, né della rabbia che aveva provato il colonnello nel trovarsi costretto a lasciare indietro Havoc.
“Scommetto che a quel testone di Mustang la cosa brucia più del fuoco.”
“Lui… lui semplicemente si sente responsabile nei confronti di noi, suoi sottoposti.”
“Bene, qui ho fatto… ora bendiamo pure – Knox si drizzò, emettendo un lieve lamento nello stiracchiare la schiena. Si girò verso il tavolino per prendere un rotolo di garza – Non ti ho mai visto, ma non vorrei sbagliare nel dire che sei stata ad Ishval, vero?”
“Sì, è vero.”
“L’ho capito dai tuoi occhi appena sono entrato. Ci si riconosce sempre tra di noi, eh?”
Riza non rispose, limitandosi a posare una mano sulla fronte accaldata di Lan Fan.
“Non dubito che sei al corrente di quello che ha combinato il colonnello in quel posto… lui bruciava, io sezionavo: una vera e propria squadra. E, a quanto pare, continua a cacciarsi nei guai… non si è stancato? Tu non ti sei stancata?”
“No, signore, non sono stanca – scosse il capo la soldatessa – non posso permettermelo.”
“Senso di colpa, eh? Quello forse è lo sprone peggiore di tutti… sollevale il busto con delicatezza, coraggio. Ed invece cosa ha spinto questa ragazzina a ridursi così?”
“La fiducia che ha nel proprio signore.”
“La stessa che nutri tu nei confronti di Mustang.”
“Sì, in qualche modo sì…”
Knox alzò lo sguardo su di lei e poi commentò con massima serietà:
“Che non ti venga in mente di farti ferire in un simile modo, ragazza, sia chiaro. Come assistente puoi andar bene, ma come paziente mi rifiuto categoricamente.”
Riza si trovò ad annuire ed arrossire lievemente.
Che strano personaggio il dottor Knox, eppure in qualche modo riusciva a risultare rassicurante. Forse Ishval non aveva spento del tutto l’animo del medico che era in lui.
“Vado a chiamare gli altri per dire che l’intervento è finito.”









Capitolo più breve del solito, ma non si legava bene con la parte che volevo scrivere dopo e quindi ho deciso di spezzare.
Avevo in mente questo confronto tra le due guardie del corpo per eccellenza di FMA, spero abbiate gradito :)
E Knox... beh, lui è sempre un piacere inserirlo

 

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Capitolo 28
*** Capitolo 27. 1914. Commiati ***


Capitolo 27
1914. Commiati




 
Non era mai stata nell’appartamento del colonnello.
Qualche volta si era chiesta come dovesse essere il posto dove viveva e, chissà perché, le sue idee andavano in qualche modo ad intrecciarsi alla sua fama di dongiovanni. Invece quell’abitazione di quattro stanze non aveva niente fuori dall’ordinario: i mobili erano semplici, sebbene non privi di una certa eleganza, e c’era un ordine quasi inaspettato se si andava a pensare quanto era svogliato Mustang in ufficio.
Del resto che cosa si era aspettata? Biancheria intima femminile sparsa ovunque? Profumo di qualche donna che era stata da lui?
Riza si diede della sciocca mentre l’unico profumo che sentiva era quello della doccia che il colonnello si era appena fatto.
“Dammi una mano a stringere la fasciatura, tenente” le chiese proprio lui, mentre si abbottonava i polsini della camicia appena indossata e ancora aperta .
La donna annuì e si accostò, afferrando il lembo della garza che penzolava dal torso muscoloso. Con gesti pratici iniziò a stringere con delicatezza, in modo che la fasciatura aderisse alla perfezione al corpo senza risultare troppo fastidiosa. Fortunatamente, nonostante lo scontro in quel boschetto, le conseguenze erano state minime, seppur dolorose. Alla fine assicurò l’estremità della garza nella schiena, arrivando a toccare inevitabilmente quella pelle bianca e piacevolmente liscia.
Arrossendo lievemente, tanto che fu lieta di essere fuori dalla sua visuale, si rese conto che era la prima volta che vedeva e toccava un uomo in una simile maniera. Certo ne aveva visto di commilitoni levarsi la giacca e la maglietta in determinate situazioni, ma appunto in contesti totalmente normali e quando non erano soli. A ben pensarci aveva anche visto Havoc a torso nudo alla fine di un’esercitazione.
Di colpo tornò il ricordo della mano di un giovane Mustang posata sulla sua schiena, quando ancora non c’era la cicatrice a devastarla. Era stato un contatto inquietante, quasi doloroso, ma all’epoca non poteva essere altrimenti. D’istinto le venne da chiedersi se adesso la sensazione sarebbe stata diversa.
“E’ sicuro di quello che vuole fare, signore?” si trovò a chiedere d’impulso, cacciando via quei pensieri davvero irriverenti per il momento che stavano vivendo.
“Se è vero quello che ha detto Ling Yao su Bradley non ho altra scelta: devo trovare appoggi nei piani alti dell’esercito”.
Il suo bel viso era stanco ma determinato: la doccia non era riuscita a levare via la sofferenza per la ferita e per le ultime ore passate tutt’altro che a riposo. Ma era Roy Mustang e questi erano dettagli che non importavano: aveva uno scopo da raggiungere e negli ultimi giorni si erano aggiunte motivazioni tutt’altro che di poco conto. Nei suoi occhi scuri brillava una determinazione del tutto nuova, tanto che Riza ebbe la certezza che in quel momento avrebbe potuto sollevare il mondo da solo.
“Piuttosto tu – continuò Mustang – sei sicura di volermi accompagnare?”
“Certo, colonnello – rispose con aria leggermente seccata, come se quella domanda non dovesse venir nemmeno posta – sono in perfetta forma”.
Lui la guardò con aria perplessa e poi sorrise. Un sorriso strano, un misto tra tenero e sollevato, ma con una briciola di rimpianto. Si avvicinò a lei, mettendosi a braccia conserte, quasi avesse paura di fare qualche gesto sconsiderato come prenderle la mano.
“E’ assurdo, tenente – dichiarò – anche adesso che mi sto mettendo in guai davvero grossi, una parte di me è felicissima che tu sia ancora al mio fianco. E sono uno stupido perché dovrei essere più sollevato se tu ne stessi fuori il più possibile”.
Riza riuscì a rispondere a quel sorriso, mentre il suo cuore perdeva un battito.
“E’ un po’ tardi per i ripensamenti, colonnello, non crede?”
“Forse hai ragione. Andiamo: se siamo fortunati il generale Raven sarà al Quartier Generale”.
 
La lingua rasposa di Hayate, unita al trillare della sveglia, la destò da quel sogno fin troppo realistico di quanto era successo due giorni prima. Mettendosi a sedere sul letto e posando una mano per far tacere la sveglia si sentì stranamente riposata: almeno quel sogno era stato relativamente tranquillo, non come quando gli incubi di Ishval tornavano a tormentarla. E considerando che nemmeno dieci ore prima aveva raccontato ad Edward della guerra c’erano state concrete possibilità di rivedere quelle tremende scene durante il suo sonno.
“Sì, ora mi alzo” annuì, vedendo Hayate che raspava davanti al letto quasi ad incitarla.
Come se quella fosse una normalissima giornata di lavoro. Del resto lo era, no? Anche se da quella mattina sarebbe stata l’assistente del comandante supremo King Bradley, uno degli homunculus che stavano combattendo. Praticamente un ostaggio per tenere a freno il colonnello.
“Beh dai – si sforzò di sorridere per rassicurare il cane che la fissava con perplessità. O forse per rassicurare se stessa, sarebbe stato più che comprensibile – sono certa che andrà tutto per il meglio”.
Anche se ora sarebbe stata sola con il nemico, anche se il resto della squadra sarebbe stato disperso ai quattro angoli di Amestris. D’istinto si strinse le braccia attorno al corpo: non era un brivido, ma un tremendo senso di vuoto che improvvisamente si faceva sentire.
Il ricordo di Fury che le annunciava con voce spaventata del suo trasferimento tornò ferocemente alla memoria. Come avrebbero fatto separati l’uno dall’altro? Come funzionava una squadra i cui membri stavano per essere allontanati in una simile maniera?
Il sorriso si spense definitivamente, almeno per quei minuti precedenti il suo iniziare la giornata.
Il tenente Riza Hawkeye si sarebbe presentata con puntualità a lavoro, ma fino a quel momento la ragazza aveva tutto il diritto di sentirsi sperduta.
 
Come si dice addio ai propri compagni?
Riza non se l’era mai chiesto anche perché da quando si era formata la squadra non ce n’era mai stato bisogno. Quando si era salutata con le sue compagne d’Accademia durante la guerra era stato del tutto differente: la chiamata alle armi era stata improvvisa e loro erano così giovani che non avevano avuto il tempo di capire realmente cosa stava succedendo. E quando l’avevano fatto erano già sul campo di battaglia, dove tutto quello che importava era sopravvivere.
Ma adesso lei era più grande e aveva avuto tutto il tempo di assimilare la notizia. A Central, oltre a lei ed il colonnello, sarebbe rimasto solo Havoc, almeno fino al suo trasferimento in un ospedale di East City. Era una piccola consolazione in quell’oceano di solitudine che proprio non riusciva ad abbandonarla. Sebbene continuasse a ripetersi che erano tra i soldati migliori di Amestris, una pare di lei gridava che era sempre stata l’unione a fare la forza.
Entrò nel Quartier Generale dandosi il maggior contegno che poteva, come se quella fosse una normalissima giornata. Si recò all’ufficio personale, sbrigò le pratiche necessarie al trasferimento, ignorando volutamente lo sguardo degli altri soldati. Ovviamente la notizia si era già diffusa e tutti si chiedevano cosa potesse esser successo per quell’improvviso cambio di ruoli: Mustang era sempre stata una figura che aveva provocato chiacchiere e più di uno aveva pronosticato che il suo arrivo a Central l’avrebbe messo nei guai.
Guai? No, forse è la nostra occasione.
Si cullò in quel pensiero, l’unico positivo al quale potesse aggrapparsi. Sbrigate le pratiche si diresse verso il suo ufficio, anzi il suo ex ufficio, sperando che non ci fosse nessuno e che potesse ritirare la sua roba in tutta tranquillità. Tuttavia come aprì la porta scoprì che c’era qualcun altro che stava provvedendo al trasloco.
“Buongiorno, tenente – la salutò Breda, senza però il suo solito sorriso – dormito bene?”
“Buongiorno, Breda. Sì, dormito discretamente bene, e tu?”
“Solo qualche ora: avevo diverse cose da fare. Un trasferimento al Quartier Generale dell’Ovest richiede parecchio tempo rispetto ad un semplice trasferimento d’ufficio, non crede?”
Fu inevitabile arrossire per quella strana frecciatina. Ovviamente non era nelle intenzioni del rosso prendersela con lei, tuttavia Riza non poté fare a meno di sentirsi in colpa. Silenziosamente andò alla sua scrivania ed iniziò a tirare fuori le sue cose dai cassetti.
“Il colonnello?” le venne spontaneo chiedere.
“Non si è ancora visto – scrollò le spalle l’altro, chiudendo col nastro adesivo una scatola di cartone – presumo che preferisca aspettare per evitare scene di commiato collettivo. Ma vedrò di salutarlo prima della partenza: mi sono fatto i calcoli e penso che riuscirò ad andare anche da Havoc prima che parta il treno delle quattro”.
Così presto – si disperò Riza, guardando l’orologio alla parete e notando che erano già le dieci e mezza.
“E’ dunque un addio?” mormorò, sedendosi mestamente sul pavimento.
Non ci fu nessuna risposta, ma dopo qualche secondo sentì la robusta presenza di Breda accanto a lei. Il sottotenente teneva in mano una bustina di cartone che le porse con un gesto secco.
“Addio non è una parola che mi piace – dichiarò – implica che non ci si vedrà più. Non crede che sia meglio un arrivederci, signora?”
“Cos’è?” chiese Riza prendendo quel piccolo pacchetto.
“Tramezzini decenti preparati da me. Scommetto che stamane non ha fatto colazione. Non che la possa biasimare: in situazioni simili lo stomaco si chiude. Ma un ultimo pasto decente prima di lasciarla in balia della schifosa mensa dell’esercito glielo volevo offrire”.
“Pensi sempre a tutto – riuscì a sorridere lei, alzandosi in piedi e trovando quel gesto come il più prezioso dei regali – sei proprio insostituibile, sottotenente”.
“Ce la caveremo tutti, signora. Ci siamo semplicemente viziati troppo stando a stretto contatto… ma il gioco non finisce qui, coraggio. Anzi, è appena cominciato”.
“Giusto, è appena cominciato”.
“Bene, meglio che vada. Posso contare su di lei per tenere a bada quello scemo di Havoc fino a quando starà qui a Central?”
“Lo farò. E tu promettimi che farai attenzione – le venne spontaneo prendere una delle robuste mani tra le sue – il vostro trasferimento…”
“Sì, immagino che troveranno simpatico mandarci nei fronti caldi. Ma ce la faremo, ne sono certo. E quando tutta questa storia sarà finita ci faremo una belle cena di squadra, alla faccia di tutti quelli che ci vogliono male”.
Il sorriso sarcastico di Breda era sempre lo stesso: riusciva ad essere come l’abbraccio che non si potevano permettere. Alla soldatessa sarebbe mancata tremendamente la sua presenza: ciascuno di loro a modo suo era fondamentale nella sua quotidianità.
Ma il sottotenente rosso le chiedeva di essere forte, così come gliel’avrebbero chiesto gli altri. Non poteva permettersi di cedere, non adesso.
 
“Hai la fama di essere un’assistente molto valida e ligia al dovere: sarà un vero piacere averti al mio fianco, tenente Hawkeye”.
Il sorriso di King Bradley era incredibilmente affabile e sincero, come se lei fosse stata solo un buon acquisto nella sua squadra di collaboratori. Nessun accenno a Mustang o a quanto era successo: era come se il comandante supremo considerasse l’iter che aveva portato all’arrivo di Riza come una cosa di poco conto.
Lui era lì, come il migliore dei superiori che dà il benvenuto alla nuova sottoposta.
“Vieni pure, ti mostro la tua scrivania: se noti che manca qualcosa non fare complimenti e chiedi pure. Ci tengo che tu possa lavorare al meglio. Solo il cielo sa quante noie burocratiche ci sono da sbrigare!”
Sembrava quasi di avere a che fare con un Mustang felice di potersi liberare di una dose di lavoro: le fece strada fino alla scrivania, addirittura prendendole la scatola di effetti personali dalle mani. La lasciava completamente interdetta perché… oggettivamente non è l’atteggiamento che ti aspetti dal tuo nemico.
“La ringrazio per le sue attenzioni, eccellenza – si trovò a dire con un lieve rossore sulle guance – non si deve disturbare in questo modo”.
“Suvvia, suvvia, per così poco! – sorrise ancora lui – Comunque non ti preoccupare: per stamane mi farebbe piacere che mi accompagnassi in alcuni giri che devo fare negli uffici. Ti aiuterà a prendere confidenza con le mie mansioni che, ahimè, sono più impegnative del previsto”.
“A sua disposizione, eccellenza”.
“Bene, ti lascio a sistemare le tue cose: il giro lo iniziamo tra una ventina di minuti”.
A che gioco stai giocando? – si chiese Riza, mentre faceva un perfetto saluto militare e lo guardava scomparire dentro il suo ufficio. Era come se un uragano d’entusiasmo fosse appena passato, lasciandola completamente stordita. Perché stava facendo di tutto per non farle sentire il disagio di essere un ostaggio?
Con un sospiro iniziò a tirare fuori i suoi effetti personali dalla scatola.
“Ah, tenente! – chiamò Bradley uscendo improvvisamente dall’ufficio e facendola sobbalzare – una sola cosa”.
“Mi dica, eccellenza…” mormorò Riza.
Ecco, ci siamo. Avanti, svelati per chi sei veramente.
“Sai preparare il the?”
“Il the? – chiese stordita – s… sì, lo so fare”.
“Ottimo, ottimo! – sorrise lui, mettendole una mano sulla spalla – Sai, il mio precedente assistente proprio non ci riusciva… ed io adoro il the. Ma scusami, ti ho interrotto: prosegui pure nella tua sistemazione”.
 
Il giro come nuova assistente del comandante supremo si rivelò straordinariamente normale, come se in presenza di Bradley nessuno osasse lanciarle occhiate sospette. Lui era sempre amabile e pronto alla risata e molto spesso, come prendevano congedo da qualcuno, non mancava di fare qualche battuta per metterla a suo agio.
Riza ancora non capiva se stesse giocando, aspettando una sua mossa falsa, oppure si considerasse talmente sicuro di quanto aveva fatto da potersi permettere simili atteggiamenti con lei. Forse poteva essere entrambe le cose, ma di una cosa era certa: riusciva a mascherare perfettamente i suoi intenti.
E di conseguenza la sua tensione continuava a salire: cercava di cogliere il minimo dettaglio rivelatore di qualcosa, un dannato segnale che rimettesse le cose al posto giusto. Perché quella strana recita dove tutto sembrava perfetto proprio non le andava giù.
“Ah, generale! – salutò Bradley, fermandosi a salutare amichevolmente un soldato – Volevo proprio vederti, sai a proposito….”
Mentre i due parlavano con affabilità, Riza rimase discretamente a tre passi di distanza, lo sguardo basso, pronta a seguire il suo superiore non appena avesse ripreso il suo giro d’ispezione. All’improvviso si sentì osservata e questo la indusse ad alzare gli occhi dall’altra parte del corridoio.
Fury?
Il sergente era lì, come imbambolato: sicuramente non si aspettava di vederla già nel suo ruolo di assistente di Bradley. Certo, Kain ancora non sapeva della vera natura del comandante supremo: lei ed il colonnello ancora non avevano avuto occasione di parlarne con gli altri. Sicuramente Mustang aveva intenzione di comunicarlo in qualche modo discreto e…
Lo sguardo di Fury si fece improvvisamente stranito, come se stesse arrivando ad una conclusione tutta nuova. Nonostante fossero distanti, Riza intuì perfettamente che cosa aveva capito e non ne fu nemmeno troppo sorpresa.
Dannazione, lui ha visto Gluttony! Sa che sensazione si prova nell’avere a che fare con un homunculus!
Con tutta probabilità aveva appena percepito la vera identità di Bradley.
D’istinto lanciò al giovane uno sguardo urgente, supplicando che lo recepisse.
Vai via, immediatamente! Non stare a guardarlo!
E fu con vero sollievo che lo vide annuire lievemente ed andare via.
Fino all’ultimo avrebbe cercato di proteggerlo: era parte della sua squadra, quella vera. Non era un attore di quella stupida recita a cui era costretta a partecipare.
 
Di pomeriggio le venne accordata un’ora libera e ne approfittò per finire di sistemare le sue cose.
Accorgendosi di aver dimenticato alcuni fascicoli nel vecchio studio, decise di andare a recuperarli: era una visita del tutto innocente e nessuno avrebbe avuto sospetti. Che sentissero pure quello che lei ed il colonnello si fossero detti.
Del resto non abbiano nemmeno avuto occasione di congedarci.
Era un pensiero triste ed era ancora più triste pensare che da adesso non avrebbe più avuto occasione di stargli accanto come invece si era ripromessa. E non era il senso di mancanza come guardia del corpo a farsi sentire, quanto piuttosto uno più personale ed intimo: nel bene o nel male avevano lavorato assieme per anni, uniti dalle stesse speranze e dagli stessi obbiettivi. Persino la sua pigrizia ed indolenza le sarebbero mancate da morire, già lo sapeva.
Si dovette fare forza e trarre un profondo respiro quando bussò a quella porta ed abbassò la maniglia.
Tranquilla e formale come sempre, Riza: ce la puoi fare.
“Mi scusi, signor colonnello”.
“Tenente” la guardò lui con sorpresa.
“Sono venuta a prendere delle cose che ho dimenticato” spiegò immediatamente, dirigendosi verso una libreria. Non poté fare a meno di notare come l’ufficio sembrasse troppo grande ora che tutti loro avevano sgomberato le loro cose. Ironicamente si ricordò di quando, anni prima, aveva storto il naso all’idea di un posto più grande per l’arrivo degli altri componenti della squadra. Quanto era stata stupida…
Quanto mi sembra sperduto in questo posto, signore – pensò con amarezza – non era l’evoluzione che avremmo voluto, proprio no.
“Sembra che Scar sia ancora in giro – disse, per spezzare quel silenzio – è stato Edward a dirmelo”.
“Scar, eh? – commentò lui con noncuranza, come se quella fosse una semplice comunicazione di servizio – Allora dovrò stare attento quando cammino per strada… dopotutto la mia migliore guardia del corpo non c’è più”.
Oh, quel lieve sarcasmo: come poteva farne a meno? Come aveva potuto disprezzarlo in determinate occasioni? Era una parte di lui.
“Sì, ha ragione – si trovò a dire con un lieve sorriso. E poi aggiunse, continuando a guardare i fascicoli che stava prendendo – La prego di non morire”.
Sul serio, non muoia… non può!
“Ho capito – questa volta la sua voce era morbida e gentile – e tu non strapazzarti troppo”.
Questa volta si girò, guardandolo con sincero affetto. Sarebbero state tante le cose che avrebbe voluto dire, come se quello fosse uno strano addio, come se si fossero divisi per sempre. Loro che, invece, sarebbero rimasti nel medesimo Quartier Generale.
“Forse non ho seguito la persona giusta” sorrise.
“Se lo credi davvero, allora usa la pistola ed uccidilo – disse seriamente lui – era quella la promessa che ci siamo fatti quel giorno, ricordi?”
“Non si preoccupi, rientra ancora nel mio livello di tolleranza”.
Lo sentì ridere, una risata solo per loro due, per quella promessa che si erano scambiati. No, lei non avrebbe premuto quel grilletto: in fondo la sua vera missione non era per niente terminata. Doveva solo ricordarsene.
 
Uscì da quell’ufficio sentendosi in parte svuotata: non vedeva l’ora che la giornata finisse. Questi sbalzi d’umore, tra speranza e pessimismo, non le facevano per niente piacere.
Tuttavia mise da parte i suoi pensieri quando intravide un’altra persona da cui doveva prendere congedo: il suo discreto uomo della memoria. Colui che con la sua calma ed educazione le era sempre stato d’aiuto, disponibile e gentile come pochi. Forse era una presenza meno solida di Breda, ma non per questo priva d’importanza.
“Maresciallo”.
“Tenente Hawkeye” salutò con sorpresa l’uomo.
Aveva già una borsa sulla spalla, segno che era in partenza. Se ne andava nel freddo nord, un posto che ora sembrava ancora più isolato di quanto in realtà fosse. Freddo e neve, erano queste le immagini inevitabilmente evocate… non era giusto, Falman non sarebbe mai dovuto andare lì, dove la sua memoria non sarebbe stata utile a nessuno.
“Stai andando a prendere congedo dal colonnello?”
“Sì, signora… e, dato che ci sono, direi che è il caso che provveda a salutare anche lei”.
Ecco il solito pratico Falman, quello che non si dimenticava mai dell’etichetta militare.
“Giusto… commiato” annuì lei, preparandosi a rispondere al suo scattare sull’attenti.
“Ce la caveremo tutti quanti” disse invece l’uomo.
Il tenente lo guardò con sorpresa: di certo erano poche volte che l’aveva sentito dire frasi così spontanee; ma la sorpresa si trasformò subito in un sorriso.
“Ci conto, davvero… Tornate tutti sani e salvi, mi raccomando – avrebbe voluto prendergli la mano, proprio come aveva fatto con Breda, ma poi ci ripensò. Per Falman sarebbe stato davvero troppo. Così si limitò a fare un cenno ai fascicoli che teneva sotto braccio e a dire – Adesso devo proprio andare”.
“E lei si prenda cura di se stessa, signora” salutò Falman rispondendo al sorriso.
Tutto dannatamente liscio, persino troppo. Eppure incredibilmente difficile.
E le mancava il commiato più temuto.
 
Fu Fury a venirla a cercare, ma in una modalità che non si era aspettata.
Stava per andare via quando lui venne a cercarla per chiederle se poteva tenere a casa le sue preziose radio clandestine, quelle che avevano usato durante l’appostamento per stanare il nemico. E così, se prima aveva trasportato le scatole con i suoi effetti personali, si trovò ad aiutare il sergente a portare diverse scatole piene di materiale elettronico… che avrebbero sicuramente aumentato il caos del suo piccolo appartamento.
Ma come poteva dire di no al suo protetto? Anzi, una parte di lei era davvero felice di fargli quel favore.
E paradossalmente passarono quella mezz’ora di trasporto in perfetta armonia, rimandando fino all’ultimo il momento del commiato. Come ebbero finito, il fiato leggermente corto per tutti i viaggi fatti, Riza gli offrì persino una cioccolata, mentre Hayate faceva le feste per la presenza del suo amico umano.

“Ah, che indisciplinato – esclamò, quando tornò dalla cucina con le due tazza e vedendo Hayate in braccio al sergente – Quando vede te qualsiasi buona maniera sparisce”.
“Ma no, signora, a me non dispiace affatto”.
“Gli hai di nuovo dato da mangiare qualcosa fuori dai pasti, vero?” intuì lei.
“Io? Ehr… forse” arrossì colpevolmente il giovane.
“Ecco perché era così felice di vederti… più del solito, s’intende”.
“Non si arrabbi, tenente. Lo prenda come… un piccolo regalo di commiato” disse lui cercando di aggirare il rimprovero, come sempre quando si trattava di Hayate e dei piccoli strappi alla regola.
“Già, di commiato…”
Con un sospiro gli allungò la tazza di cioccolata e prese la sua tra le mani, annusandone il buon sapore. Con Kain era ancora più difficile iniziare quel discorso: che avrebbe dovuto dire? Di stare attento? Che la trincea era un posto pieno di pericoli e che non avrebbe avuto nessuno di loro a proteggerlo?
“Come è andato il suo primo giorno, signora?” chiese Fury, rompendo quel teso silenzio.
“Non c’è male – ammise lei, cercando di essere la più noncurante possibile, come se stesse parlando di un semplice nuovo incarico a breve termine – di certo è più impegnativo di essere l’assistente del colonnello, ma mi ci abituerò”.
“E’ stato… insomma, è stata trattata bene?”
Oh, Fury, ti preoccupi sempre… come farei senza di te?
“Sì, sergente. Non ti preoccupare – sorrise. Ma poi si ricordò che la preoccupazione del giovane aveva una motivazione ben precisa e così decise di affrontare subito l’argomento: non aveva molto tempo per metterlo in guardia – Fury, stamattina che cosa hai visto che ti ha turbato tanto?”
Il sergente fissò la sua cioccolata con aria pensosa, come se stesse riflettendo attentamente su cosa dire. Poi parve prendere coraggio e alzò lo sguardo su di lei.
“Mi ha turbato il fatto di vederla dietro un uomo che non sia il colonnello. – iniziò – Vederla al servizio di una persona che è probabilmente il nostro nemico più pericoloso. Tenente, io… perché nel guardare quell’uomo ho avuto la stessa sensazione che ho provato davanti a quel mostro che voleva ucciderci?”
Come avevo immaginato…
“Certo, mi aspettavo che avresti intuito. – sospirò – Hai visto da vicino quell’homunculus che ci ha aggredito ed è una sensazione che non puoi dimenticare. Però vorrei che tenessi il silenzio in proposito”.
“Allora il Comandante Supremo…”
“Fury, basta. Ti ho chiesto di tenere il silenzio” gli disse con pacatezza ma con un tono che non ammetteva repliche. Non voleva che si arrovellasse su questo dettaglio: tra qualche giorno si sarebbe trovato in trincea, a lottare con la morte. Non poteva permettersi di perdere la concentrazione che gli avrebbe potuto salvare la vita.
“Basta? – esclamò sconvolto il giovane, sbattendo la tazza sul tavolo tanto che alcune gocce di liquido sporcarono il piano di legno – Tenente! Lei non può stare al servizio di un hom…”
“Ho detto basta, sergente maggiore!” lo ammonì, usando un tono brusco che mai aveva usato con lui.
“M… mi perdoni signora, – arrossì, tornando ad essere il ragazzo timido e gentile di sempre – non mi sarei mai dovuto permettere di usare questi toni”.
“Fury, scusa – disse lei dopo una decina di interminabili secondi, non volendo che quei momenti di tensione proseguissero, non con lui: perché il loro commiato non riusciva ad essere tutto sommato sereno come quelli avuti con Breda e Falman? – Non volevo sgridarti in questo modo, davvero. Ma devi capire che la situazione è davvero delicata. Quello che hai scoperto potrebbe metterti in pericolo più di quanto non lo sia già e questa è l’ultima cosa che voglio”.
“Perché per loro io non sono che una pedina…” lo disse con tristezza, profondamente turbato che una persona potesse esser ridotta a quel mero ruolo.
“Esatto: a me e al colonnello tengono sotto stretta sorveglianza e se ci lasciano vivi vuol dire che abbiamo una qualche importanza nei loro giochi. Sono perfettamente consapevole di essere un ostaggio nelle loro mani per tenere buono il colonnello… ma se per me è così, non posso dimenticare che Havoc è vivo per miracolo e non per la loro misericordia. C’è il concreto rischio che per te non si farebbero scrupoli. Meglio che credano che tu non sappia”.
Non ancora, sarebbe troppo difficile.
“E cosa possiamo fare?” chiese lui con disperazione, cercando una via d’uscita che proprio non riusciva a vedere.
“Per ora assecondarli – spiegò lei con un pragmatismo che si stupiva di poter dimostrare – Io continuerò ad essere l’assistente del Comandante Supremo e approfitterò della situazione per controllarlo. Tu vai a sud e cerca di resistere e di vivere, tenendo per te quello che hai capito”.
“Tenente, non ha paura di stare così vicino a quell’uomo?” chiese lui dopo qualche secondo passato a riflettere su quelle parole.
Ecco le tue domande scomode, Fury… sei riuscito a fare quella che io stessa ho paura di pormi.
Ma proprio per questo non poté fare a meno di rispondere, come se avesse solo aspettato di avere l’interlocutore giusto.
“Certo che ne ho, soldato. A dire il vero, non credo di essere mai stata così spaventata” ammise, sentendo finalmente tutta l’angoscia che provava e che quel giorno era stata tenuta in disparte. La solitudine che si avvicinava rapidamente parve allungare un primo tentacolo su di lei.
Ma arrivò uno strano cavaliere a cacciarlo via. Fury si alzò e si accostò a lei con fare gentile.
“Si ricorda la notte precedente la mia prima missione? Quando ero terrorizzato all’idea di poter sparare a una persona?” chiese.
“Certo – annuì – eri così confuso. All’epoca eri appena diciottenne. Sei troppo grande perché io ti tenga ancora la mano, non credi?” sorrise, ricordando quel gesto materno con il quale aveva consolato quel giovane soldato semplice. Ricordava come le sue mani fossero tiepide e morbide, in qualche modo delicate… aveva pensato che mani simili avrebbero dovuto maneggiare solo radio e non armi.
“Non era proprio questo che intendevo – ribatté Fury prendendole le mani e stringendole, nel medesimo gesto fatto da lei anni prima – E’ vero, ormai sono grande ed è giusto che sia il mio turno di dare conforto a lei, signora. Credo che, in determinate situazioni, non si sia mai troppo adulti per certi gesti”.
Davanti a quelle parole, a quell’affetto così sincero, Riza abbandonò qualsiasi difesa emotiva, lasciandosi andare a quella stretta che di colpo era diventata rassicurante, come se i ruoli si fossero invertiti. Non era come la stretta di Breda, più da commilitoni, questa era… qualcosa di completamente diverso e altrettanto importante. Rimasero così per una decina di secondi, crogiolandosi in quella rassicurazione reciproca, poi lei capì che era il momento di lasciarlo andare.
“Mio piccolo soldato…” riuscì a dire, tornando a quel vezzeggiativo che non usava da tempo.
“Adesso devo proprio andare” dichiarò Fury, quasi avesse capito.
“Buon viaggio – lo salutò lei, alzandosi dalla sedia e accompagnandolo verso la porta, seguita da Hayate – e promettimi di fare attenzione”.
“Lo farò, signora”.
Riza annuì mettendo una mano sulla maniglia, ma poi rifletté sul fatto che non aveva messo in guardia il ragazzo sulla trincea. In fondo era un suo sgradito compito: l’aveva cresciuto lei come soldato, assieme a tutti gli altri. Non poteva tirarsi indietro, non poteva dargli tutta la protezione di cui era capace.
“Fury, tu non sei mai stato in un campo di battaglia…” iniziò
Il soldato ebbe un sospiro tremante e la cercò con lo sguardo, invocando un disperato soccorso. Adesso era di nuovo il ragazzo spaventato di anni prima… e lei non ci sarebbe stata quando la situazione sarebbe diventata infernale.
Esitò solo per un secondo, poi allungò una mano per accarezzare con dolcezza la chioma corvina, tanto che lui chiuse gli occhi.
“So che gli altri ti avranno sicuramente riempito di consigli e forse te ne dovrei dare anche io. – mormorò – Ma… proprio come tre anni fa, non posso preparati né proteggerti da quello che sarai costretto a vivere, e non puoi nemmeno immaginare quanto la cosa mi faccia sentire impotente”.
“E’ così orribile… come quando ho ucciso la prima volta?” chiese Fury
Lei non rispose, ma smise di accarezzargli i capelli, inducendolo ad aprire gli occhi
“Ti posso chiedere un enorme favore, mio piccolo soldato?”
“Ma certo…”
“Non lasciare che quello che sarai costretto a vivere ti distrugga, ti prego. – supplicò, fissandolo con profonda, dolce, tristezza - Non permettere che l’orrore abbia la meglio su di te, Fury. Dimmi che lo farai”.
Ancora non lo sai, ma ti sto chiedendo una cosa difficilissima… ma non mi perdonerei mai se ti vedessi tornare distrutto dalla guerra. Tu l’hai evitata, Kain, sei stato la mia salvezza quando ancora credevo che la mia anima fosse perduta nelle sabbie di Ishval. Non puoi perdere questo tuo dono.
“Lo farò, signora – annuì solennemente Fury dopo qualche secondo. E poi fece uno dei suoi ingenui sorrisi - E quando il colonnello avrà bisogno di noi… torneremo, tutti quanti. E la nostra squadra vincerà, come ha sempre fatto: tutti insieme”
“La nostra squadra insieme… sì, hai ragione” non poté fare a meno di sorridere Riza.
Perché adesso osava sperare in quel futuro dove sarebbero tornati assieme. Certo per dovere, per continuare la loro missione… ma soprattutto perché erano uniti da un legame indissolubile.
D’istinto prese tra le mani la testa del sergente e depose un bacio sulla fronte.
“Arrivederci, piccolo soldato. Tieni fede a quanto mi hai promesso” lo salutò lasciandolo andare
“Arrivederci, tenente” salutò Fury.
 
“… e così sono partiti tutti e tre…” commentò Havoc il giorno successivo.
“Già – annuì Riza, seduta accanto a lui – tutti e tre…”
“Il colonnello?”
“Presumo sia a lavoro”.
“Bene – sospirò il biondo – fra dieci minuti torneremo ad essere propositivi e fiduciosi che tutto si risolverà per il meglio. Saremo i soliti soldati determinati e persino un po’ incoscienti… lo sarò persino io anche se ormai sono in congedo”.
“Tra dieci minuti?” si sorprese lei.
“Già… per i prossimi dieci minuti ci concederemo di sentirci delle merde per questa situazione del cazzo. Me la passa una sigaretta? Ne dovrei fumare una al giorno, ma la situazione lo richiede… e fanculo le infermiere”.
“Meno male che sei rimasto tu…” confessò Riza, passandogli il pacchetto che stava sul comodino.
Le serviva l’irruenta franchezza di Havoc per scrollarsi di dosso il malessere che la tormentava da quando Fury aveva preso congedo da lei.
“Mi sono fatto infilzare apposta, no? – sorrise amaramente lui, accendendo la sigaretta – Sono un uomo previdente”.
Riza non rispose, si limitò a chiudere gli occhi e a sentire il familiare odore di nicotina che le riempiva le narici. Si concesse di sentirsi una merda proprio come le aveva suggerito Havoc.
Se voleva ripartire non ne poteva fare a meno.






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Faticaccia delle faticacce, ma ce l'ho fatta xD
Allora, a parte il dialogo con Mustang che è tratto paro paro dal manga, il commiato con Falman e quello con Fury sono ripresi rispettivamente da The memory man e da Il cielo sopra la scacchiera.

 

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Capitolo 29
*** Capitolo 28. 1915. Vita da ostaggio ***


Capitolo 28
1915. Vita da ostaggio




 
Il nuovo anno era iniziato assieme alla sua nuova condizione di assistente del comandante supremo e di ostaggio degli homunculus. Pensare alla sua reale condizione avrebbe fatto venire i brividi a chiunque e lei stessa la sera, quando tornava a casa, sentiva lo stomaco attanagliato dalla tensione, come se non le sembrasse vero che anche quella giornata non era successo niente di pericoloso.
Eppure queste paure venivano messe in secondo piano quando la mattina successiva si ripresentava a lavoro: era come se ci fosse una Riza che riusciva a trovare gratificante la sua mansione di assistente di King Bradley. A guardarlo bene era un lavoro davvero complesso e pieno di cose da fare e da imparare, ma lei dopo qualche esitazione iniziale l’aveva fatto completamente suo, dimostrandosi più efficiente del previsto.
Paradossalmente anche il comandante supremo faceva la sua parte: per quanto in alcune occasioni si defilasse, in maniera nemmeno troppo dissimile a Mustang, per il resto lavorava alacremente e sembrava sinceramente interessato al futuro del paese. Attento all’amministrazione, alla burocrazia, all’esercito… non c’era ramo della vita di Amestris che non volesse controllare.
E mai una volta che la trattasse da ostaggio: era sempre e solo la sua assistente.
Era accattivante come personaggio, doveva ammetterlo: anche quando era serio non mancava di dimostrarsi magnetico. Se non avesse saputo gli altarini, sarebbe stato davvero difficile pensare la sua natura non era più umana e che avesse organizzato la guerra di Ishval a tavolino per chissà quale scopo.
 
“Tenente – la chiamò Bradley una mattina – annulla tutti i miei impegni: ho una faccenda molto delicata tra le mani che richiede tutta la mia attenzione”.
Riza stava per protestare, data la vastità di documenti che dovevano controllare. Ma se per Mustang non si sarebbe fatta problemi a esprimere le sue rimostranze, con il comandante supremo stette prudentemente in silenzio.
“Come desidera, eccellenza. Devo venire con lei?”
“No, non è necessario. Anzi se riuscissi a sbrogliare parte di quel carteggio a mio nome te ne sarei davvero grato – sorrise l’uomo, passandole accanto e mettendole una mano sulla spalla, un contatto forte e nelle intenzioni rassicurante, ma che non mancò di suscitarle uno strano brivido – con te sono sicuro di essere in ottime mani. Comunque dovrei tornare stasera sul tardi: se ci vediamo direttamente domani ti auguro già da adesso una buona serata”.
Come l’uomo fu andato via, Riza si chiese in cosa consistesse quella faccenda così delicata. Forse poteva riguardare la sua vera natura di homunculus o comunque qualcosa connesso con i piani di quelle creature.
Per una frazione di secondo fu tentata di indagare con discrezione, ma poi si disse che non poteva permettersi un rischio simile: non tanto per lei stessa quanto per tutti gli altri che restavano comunque nelle mani del nemico.
Ormai era passato più mese da quando la squadra era stata smembrata e le notizie che aveva degli altri erano poche e frammentarie. Non si potevano permettere comunicazioni troppo frequenti che avrebbero attirato l’attenzione dei loro carcerieri: dovevano più che mai affidarsi al buonsenso e ad un rapido ed efficiente passaparola. Uno si faceva sentire da un altro e così via in una catena di montaggio che alla fine riusciva a giungere a Central City e a loro.
Era così che lei ed il colonnello erano venuti a sapere del ferimento di Fury al fronte: fortunatamente non era stato niente di grave, ma dal breve rapporto che aveva fatto Breda sembrava che il ragazzo avesse subito un contraccolpo emotivo abbastanza pesante. Una cosa più che prevedibile data la realtà della trincea, ma anche inevitabile, così come inevitabile era stato il senso di colpa che aveva provato lei la sera stessa della notizia.
E lo stesso Breda era impegnato in un fronte caldo come quello ad Ovest: proprio come Fury non avevano perso tempo a trasferirlo nelle prime linee. Ma, per fortuna, il grosso soldato aveva ampia esperienza di quella tipologia di battaglia e se la stava cavando in maniera più che egregia.
E Falman a Briggs, in quella fortezza che sembrava ai confini del mondo. L’unica consolazione era che lì la situazione era relativamente calma e che dunque non c’erano battaglie che mettessero a rischio l’incolumità del maresciallo. Del resto Briggs era sotto il comando del Generale Armstrong e Riza sapeva quanto valesse quella donna: l’aveva conosciuta durante gli addestramenti congiunti e conosceva bene il suo carattere e la sua tempra, tanto che le riusciva inverosimile pensare che lei e quel bonaccione del maggiore fossero fratelli.
Guardando con aria malinconica la pila di documenti che avrebbe dovuto sbrigare da sola, rifletté sul fatto che quel giorno era previsto un contatto e questo bastò a rallegrarle la mattinata. Era era un segnale che erano ancora lì, caparbi e tenaci fino all’ultimo.
 
Era impossibile usare il telefono di casa data l’elevata probabilità che fosse tenuto sotto controllo.
Ma il team aveva un suo componente in ospedale e lì i telefoni pubblici non mancavano.
Havoc aveva iniziato la riabilitazione per rimettere in sesto la schiena e questo gli consentiva di poter usare la sedia a rotelle per un paio di ore al giorno: in questo modo si poteva concedere qualche momento d’aria in cortile, spezzando così la monotonia della sua camera ormai vuota, ma soprattutto gli permetteva di andare nella sala dove si trovavano i telefoni.
Riza non aveva mai smesso di fargli visita regolarmente.
Con il colonnello i rapporti erano più che mai proibiti, ma con il sottotenente ormai in congedo non c’erano delle restrizioni. Del resto Havoc era con tutta probabilità considerato come tagliato fuori dai giochi e dunque andare a visitarlo non veniva visto con sospetto.
Così, nella pausa pranzo, non mancò di trovarsi nel cortile dell’ospedale, accanto al suo amico che spingeva da solo la sua sedia a rotelle. Faceva freddo dato che erano a gennaio, ma lui indossava solo una giacca di lana sopra il camice da paziente, segno che ormai aveva del tutto recuperato la forma fisica, eccettuate le gambe.
“Com’è andata oggi col grande capo?” le chiese il biondo.
“L’ho visto ben poco dato che si è allontanato a metà mattina: ha detto che c’era una faccenda delicata che richiedeva tutta la sua attenzione”.
“Mphf – sbuffò Havoc – sembra quasi la strega che cerca di attirare i bambini nella casetta di dolciumi. Non è che stava solo cercando di farle fare un passo falso?”
“Ammetto che l’ho pensato – scrollò le spalle Riza – ma non ho ceduto alla tentazione, non me lo posso permettere. Però potrebbe riguardare il generale Raven: è andato a Briggs qualche giorno fa per non so quale motivo, ma penso che fosse una cosa abbastanza importante”.
“Quello che ha fregato il colonnello? Beh, direi che è da tenere d’occhio, così come tutto lo stato maggiore dell’esercito. Chissà se alla prossima chiamata Falman mi saprà dire qualcosa in più”.
“A proposito di chiamate, non hai niente da dirmi?”
“Ho sentito Breda proprio ieri e lui a sua volta ha sentito Falman e Fury: sono tutti sani e salvi”.
“Questo è un vero sollievo – annuì Riza – notizie più specifiche?”
“Il sergente è completamente guarito dalla ferita tanto che è stato rimandato nelle prime linee. Hanno avuto la decenza di non usarlo come semplice soldato, ma di dargli un ruolo più consono alle sue capacità: adesso si occupa di creare un apparato di comunicazione dietro le trincee. Certo, corre sempre dei bei rischi, ma almeno è tornato a fare qualcosa di cui è capace e questo dovrebbe essere un nuovo stimolo per lui – Havoc fermò la sedia a rotelle accanto ad una panchina, in modo che la donna potesse sedersi – si faccia forza, signora: direi che il ragazzino ha superato anche questo battesimo del fuoco”.
“Non era questa l’esperienza che volevamo per lui, ma è inutile rimuginarsi sopra. Che mi dici di Breda e Falman?”
“Il nostro maresciallo si gela nel freddo nord: ormai è di stanza a Briggs, ma da quanto so ogni tanto gli è concesso di tornare a North City. Probabilmente è un modo per non impazzire del tutto in quel posto così fuori dal mondo. Sono arrivati i fratelli Elric lì, lo sapeva?”
L’occhiata che le lanciarono quegli occhi azzurri era carica di sottintesi e la donna fece un rapido sorriso.
“Davvero? No, non ne avevo la minima idea – mentì, consapevole che Havoc avrebbe capito – chissà come ci saranno rimasti nel scoprire che al comando della fortezza c’è la sorella del maggiore”.
“Misteri – sogghignò il sottotenente – comunque le giornate di Falman sono scandite dallo staccare pezzi di ghiaccio e, se è fortunato, qualche lavoro nei magazzini. Poveri scemi, il freddo li ha così rincoglioniti da non sapere che soldato d’eccezione hanno tra di loro. Ma quelli del nord non hanno mai fatto caso a queste finezze, me ne ero accorto già negli addestramenti congiunti”.
Era strano sentire Havoc tessere le lodi di Falman in maniera così palese. Erano due tipologie di soldato così differente che spesso avevano bisogno del ponte di qualcuno come Breda per riuscire a comprendersi. Non che fosse mancata l’amicizia o la stima tra di loro, semplicemente avevano due modi di operare differenti.
“Ed invece Breda?” chiese per cambiare argomento.
“Quel bestione ha avuto il tempo di provare le specialità dell’Ovest e dice che non sono affatto male. Ci pensa, signora? Quello viene mandato a combattere, ma non manca mai di farsi uno spuntino”.
Forse avrebbe aggiunto anche altro, ma poi serrò le labbra: parlare del suo migliore amico non era mai semplice; era chiaro che Havoc vedesse quasi come una mancanza personale il fatto di non essere accanto a lui in simili momenti.
“Mi mancano i suoi spuntini: ammetto che il cibo della mensa non è il massimo” commentò Riza per cambiare argomento.
“Se vuole facciamo cambio con il pasto schifoso dell’ospedale. Sono stanco di brodini e pesce lesso che non sa di nulla: dovrebbero capire che non sono più malato e che un pasto più decente non rischia di farmi male, tutt’altro”.
“Siamo stati viziati troppo, è questa la verità. Piuttosto – esitò qualche secondo prima di fare quella domanda con noncuranza – il colonnello è venuto a trovarti?”
“Presumo verrà dopodomani: in genere viene ogni quattro giorni: certo che non vi beccate mai… sembra quasi che l’abbiate fatto apposta di sincronizzarvi così”.
“Ma quando mai”.
“L’ha più visto al Quartier Generale?”
“Operiamo in sezioni differenti e abbiamo le giornate molto impegnate: da quanto so ha smesso di fare il lavativo e si sta dando da fare, ma queste sono le classiche voci di corridoio”.
“Quindi tutto bene, vero?”
“Tutto bene…” sospirò Riza.
 
Quella sera finì di lavorare davvero tardi e sulla scrivania le rimasero solo dei documenti molto importanti da far vedere al Comandante Supremo. Non le era mai capitato di prendere un’iniziativa simile, ma l’urgenza era tale che decise di portarli direttamente nella sua dimora privata.
Non era mai stata in quella zona che era racchiusa entro le mura del Quartier Generale: sembrava quasi di uscire dal mondo militare, tramite un portico, ed entrare in una bella tenuta nobiliare. Furono solo le guardie del corpo così presenti a ricordarle che quella villa era sotto stretta sorveglianza.
Ad aprirle fu un sorridente maggiordomo, ma non fece in tempo a dire una parola che subito una donna apparve sulle scale.
“Salve, ma lei chi è?” domandò.
“Signora, perdoni l’ora – rispose con educazione – sono il tenente Riza Hawkeye, guardia personale di sua eccellenza, il comandante supremo. Sono venuta a recapitare questi documenti urgenti a sua eccellenza”.
“Accipicchia, povera ragazza – commentò la donna – lavorare fino a quest’ora dev’essere duro”.
La signora Bradley le ispirò immediata simpatia: era una donna ormai matura, dal viso sorridente e gentile, una di quelle persone pacate che tendono ad emanare serenità e calma. A Riza venne spontaneo domandarsi come dovesse essere il comandante supremo come marito, ma dal sorriso che fece la donna parve chiaro che il loro matrimonio fosse felice.
Che strana idea – pensò mentre parlavano – lei non è consapevole della vera natura del marito. Possibile che siano in grado di mescolarsi a noi fino a questo punto? A ben pensarci nemmeno Havoc ha sospettato qualcosa della donna che si faceva chiamare Solaris.
I suoi pensieri, tuttavia, così come le sue parole, vennero interrotti da un qualcosa di tremendamente viscido e forte che le arrivò alle spalle. Non fu un vero e proprio impatto fisico, eppure trovò istintivo girarsi e fu solo per autocontrollo che non tirò fuori la pistola.
“Selim, sei ancora sveglio?” chiese la signora Bradley, mentre il bambino sorrideva docilmente a Riza.
“Signorino Selim…”
“Sì – ammise lui con voce innocente – ho sentito qualcuno entrare e ho pensato fosse papà”.
 
Selim Bradley appariva come un bambino gentile e carino, il figlio ideale per quella coppia così particolare come i Bradley. A pensarci bene per una donna così buona come la signora, non poteva esserci benedizione migliore di quel bambino adottato: amorevole, riconoscente, educato.
Eppure quello stesso bambino, nemmeno cinque minuti dopo che Riza l’aveva conosciuto, l’aveva intrappolata con decine di piccoli tentacoli che erano scivolati attorno al suo corpo. Una sensazione viscida e tagliente, molto peggio di quello che aveva provato quando Gluttony l’aveva quasi soffocata con le sue enormi mani. Dove Gluttony era goffo, Pride, il primo homunculus, era invece potente come una frusta che ti colpisce e ti cattura, come le spire di un serpente che si avvolgono sempre più strette attorno alla tua persona soffocandoti.
“Io la terrò sempre d’occhio dall’oscurità”.
La sua vera voce era così strana: aveva un non so che di riecheggiante e sovrannaturale che, tuttavia, in qualche modo si ricollegava a quella squillante del piccolo Selim. Era come se la voce infantile fosse stata corrotta e stuprata per dar luogo a quella del primo homunculus.
Proprio quella voce riecheggiante che l’aveva minacciata tacque e di colpo tutti i tentacolini neri che avvolgevano il suo corpo si tirarono indietro. Contemporaneamente il portico si svuotò della presenza di Pride e fu una cosa così rapida che, per qualche secondo, parve davvero inverosimile che fino a poco prima fosse stato lì.
Girandosi a guardare in quel portico fiocamente illuminato dalla luce della luna e dei lampioni che stavano nel giardino, Riza non vide niente di sospetto: nessuna traccia dei tentacoli che l’avevano imprigionata, l’unica prova restava quel taglietto sulla guancia… dove quella minuscola manina l’aveva accarezzata con quella che poteva definire brama, prima di diventare una piccola lama e inciderle la pelle.
Come era riuscita a mantenere la calma e gestire il gioco psicologico con quella creatura era un mistero che nemmeno lei riusciva a spiegare.
Si costrinse a riprendere il suo cammino, ad allontanarsi il più possibile da quel posto per avere almeno l’illusione di andare al sicuro. Sapeva benissimo che le minacce di Pride non erano fatte così per caso, non erano il gioco di un bambino. La forza e l’onnipresenza che aveva recepito in quei tremendi minuti erano tali da farle capire che poteva essere raggiunta da un momento all’altro.
Sì, era un ostaggio bello e buono e se fino a poco prima le avevano in qualche modo alleggerito questo ruolo, ci aveva pensato Pride a ricordarglielo.
“Se ciò che è successo qui arrivasse alle orecchie di qualcuno lei sa cosa accadrebbe, vero? I suoi compagni, colonnello Mustang compreso, ne pagherebbero le conseguenze”.
Ecco il sottile filo rosso che legava tutti loro, la ragnatela dove erano caduti. Lei era intrappolata proprio al centro, senza possibilità di chiedere aiuto.
 
Uscita dalle mura del Quartier Generale cercò di respirare meglio ma non ci riusciva.
Ogni angolo, ogni strada, ogni ombra che incontrava le sembravano un tremendo pericolo, come se Pride potesse spuntare da un momento all’altro… perché lui era in grado di farlo. Ne aveva terrore, le sembrava di aver ingaggiato una gara con un avversario molto più forte di lei e talmente imprevedibile da poter cambiare idea in ogni momento.
Se aveva creduto di sentirsi sola fino a quella mattina, adesso capiva l’abisso di isolamento in cui era capitata, come se quei tentacoli fossero onnipresenti e creassero un vuoto attorno a lei, impedendole di comunicare con chiunque.
Ebbe paura per se stessa, per Havoc che era andata a trovare quella mattina: possibile che la strana libertà che aveva avuto facesse davvero solo parte di un gioco che avevano fatto con lei?
Con questo magone, unito al terrore per quanto aveva appena vissuto, raggiunse finalmente il suo appartamento ed aprì la porta.
Immediatamente le scese un colpo al cuore nel vedere due occhi rossi che la fissavano dal buio, ma poi Hayate si fece avanti nel fascio di luce proiettato dalla porta aperta e la scrutò con curiosità. Il sollievo fu tale che, chiusa la porta, si lasciò scivolare contro di essa, sentendo le gambe mancare.
“Non preoccuparti, va tutto bene… tutto bene…”
Lo disse al cane o a se stessa? Forse la seconda, anzi sicuramente la seconda.
Ma la sua voce le sembrava così flebile: si sentiva come quando era rimasta rannicchiata sotto il tavolo mentre suo padre sfogava la rabbia per l’andata via del suo unico allievo. Impotente e sola contro una tempesta che infuriava attorno a lei. Ma adesso non c’era una signorina Elliot dalla quale rifugiarsi, non c’era una cioccolata calda a darle conforto, né delle morbide coperte nelle quali risvegliarsi con le membra finalmente rilassate dopo tanto penare. Se la ragazzina poteva esser salvata, la soldatessa no e…
Driiin… Driiin
Quel suono così improvviso e sgradevole la fece sussultare: alzò lo sguardo verso il telefono che stava sopra il tavolo.
Chi poteva chiamarla a quell’ora e dopo quello che era successo? Dovette farsi coraggio per alzarsi in piedi ed andare ad alzare la cornetta.
Era Selim o chi per lui che la minacciava? Era qualcuno che le comunicava la morte di uno dei suoi compagni o del colonnello stesso? Sarebbe stata tutta colpa sua! Per aver scoperto quel dannato segreto.
“Sì?” rispose con voce più salda che poteva.
Grazie per aver chiamato! Parla il suo fioraio preferito!”
La voce era allegra e squillante, conosciuta sebbene fossero ormai settimane che non aveva occasione di sentirla. Veniva a salvarla ancora una volta, come solo lui era in grado di fare: d’improvviso i tentacoli invisibili che ancora immaginava attorno a lei scomparvero, spaventati da quel qualcosa di umano e tangibile che le provocava un’ondata di sollievo in tutto il corpo, persino nel taglietto sulla guancia che ancora bruciava.
“Guardi che non ho nessun fioraio preferito” disse con voce seria e persino seccata, ma in realtà avrebbe voluto piangere lacrime di gioia.
“Scusa… mi sono ubriacato così tanto che alla fine ho comprato una montagna di fiori. Ti sarei grato se potessi aiutarmi a disfarmene”.
Tra tutte le idiozie che poteva dire, questa era la più assurda. Ma almeno era lì, al telefono con lei, vivo e vegeto dato che era in grado di combinare cavolate come quella.
Forse Pride avrebbe mantenuto la sua parola, forse non avrebbe fatto niente fino a quando lei avrebbe tenuto il silenzio.
“Che c’è? – la voce al telefono si fece improvvisamente seria – è successo qualcosa?”
Di colpo capì che Mustang doveva aver intuito il disagio che si era celato dietro il suo mutismo. Dovette serrare le labbra per cacciare via la voglia di raccontargli quanto era successo e condividere il suo terrore. Ma non se lo poteva permette.
“No, niente” si costrinse a dire.
“E’ davvero così? Ne sei proprio sicura?”
“Niente, non è successo niente – annuì e poi, per disperazione, si riagganciò all’inizio della chiamata – no grazie, a ogni modo in casa non ho nessun vaso di fiori. Comunque grazie per avermelo chiesto, colonnello…”
Riagganciò il telefono con un sospiro, come se dopo averlo chiamato, invocato, avesse esaurito tutte le energie residue. Trovò solo la forza di inginocchiarsi sul pavimento ed abbracciare Hayate. Si sentiva sollevata, come se per quella notte l’incubo fosse stato allontanato.
“Chissà perché ha sempre un tempismo così perfetto…” mormorò con un lieve sorriso.
 
La signorina Elliot le aveva insegnato ad andare avanti, a superare le difficoltà: il giorno dopo la scenataccia di suo padre era tornata a casa ed era riuscita a riprendere in mano la situazione, un fatto più encomiabile per una ragazzina.
La soldatessa continuava a seguire quegli insegnamenti e così la mattina dopo andò a lavoro come se non fosse accaduto niente. La notte era riuscita a dormire profondamente, confortata dalla presenza di Hayate accanto a lei, ma soprattutto da quella voce amica ancora così tangibile nella sua testa.
Quando arrivò il comandante supremo, ringraziandola per i documenti portati a casa sua, rispose con la solita educazione, come se niente fosse. A dire il vero Bradley sembrava completamente all’oscuro della scoperta che aveva fatto su suo figlio, ma Riza ormai era completamente al di fuori di quello strano gioco che la vedeva non come ostaggio ma solo come assistente. Ormai non c’era cortesia o sorriso che l’avrebbe spiazzata.
E così la sua mattinata proseguì senza intoppi, con il solito lavoro incessante.
Fu quasi un sollievo avere la pausa pranzo, sebbene il cibo della mensa non fosse un granché, proprio come aveva detto più volte Breda.
“E’ libero qui?” chiese una voce all’improvviso.
Alzando lo sguardo vide Mustang con il vassoio in mano.
Per un secondo si chiese cosa gli fosse saltato in mente per esporsi in una simile maniera. Erano riusciti a non incontrarsi mai in quel periodo, perché adesso cambiava così le regole del gioco?
Sei una stupida, è ovvio che dopo la chiamata di ieri si sia preoccupato per te.
Ecco il principe azzurro delle favole che veniva a salvarla, a sincerarsi che stesse bene. Nelle vesti di fioraio oppure di colonnello oberato di lavoro, come dimostravano i fascicoli che si portava dietro, lui trovava sempre il modo.
“Colonnello – salutò, abbassando immediatamente lo sguardo sul piatto e facendosi più seria che poteva, come se lei non fosse la prima felice di quest’incontro – prego”.
“Ehi, siamo di buon umore – commentò sarcasticamente lui, sedendosi – successo qualcosa di spiacevole?”
Riza fu sicura che si riferisse al taglietto che ancora spiccava sulla sua guancia, come un sottile filo rosso.
Il ricordo di quei tentacolini viscidi tornò prepotente alla sua memoria e dovette reprimere un brivido.
Ma nel contempo qualcosa si risvegliò in lei, quello stesso insegnamento della signorina Elliot di andare avanti. E a recepirlo fu la guardia del corpo del colonnello Mustang, il tenente della squadra.
Quella che conosceva alla perfezione il linguaggio in codice che avevano creato con tanta pazienza e lavoro di squadra.
“No, niente – disse con calma – come va il lavoro?”
“Come vedi – rispose lui – i miei migliori aiutanti sono andati e spesso devo lavorare anche la pausa pranzo. A te invece come va?”
Parlarono ancora qualche minuto del più e del meno, dei rispettivi lavoro, come se quella fosse una semplice chiacchierata tra due soldati che non si vedono da qualche tempo. Ma poi, quando Mustang fece un riferimento al generale Armstrong, appena giunto a Central, Riza colse la palla al balzo.
“A proposito del nord…” iniziò, battendo la tazza sul tavolo in una determinata maniera.
Lo sguardo degli occhi scuri fu chiarissimo: aveva capito.
Adesso vi facciamo vedere come lavora una squadra – pensò con soddisfazione mentre iniziava a pensare ai nomi da dire.
 
“Sembra che tu sia al corrente di Selim, eh?” chiese Bradley il giorno dopo, mentre lei gli preparava il solito the.
“Sì” rispose con calma.
“E sei anche al corrente della mia vera identità, non è così?”
A quella seconda domanda Riza si sorprese. Possibile che credesse che ancora ne era all’oscuro? Oppure era solo un’altra falla nel sistema degli homunculus?
“Sì – ammise ancora – adesso che so tutto mi ucciderà?”
Riuscì a restare fredda davanti a quell’evenienza, pronta ad accettare una morte istantanea impossibile da evitare. Tuttavia qualcosa le diceva che non sarebbe andata così.
E comunque non sono solo io a saperlo, eccellenza. Non ci avete tarpato le ali come pensavate.
Gli sputò in faccia tutta la verità, com’era solita fare: con garbo ed educazione. E lui fu altrettanto gentile ad esporre le sue ragioni, quello che gli era stato donato da qualcuno di molto più potente.
“… tuttavia mia moglie l’ho scelta io”.
A quell’ultima dichiarazione Riza sgranò leggermente gli occhi.
Pensò a quella donna così dolce ed umana che viveva in compagnia di due mostri senza esserne consapevole, che a loro dava tutto l’amore di questo mondo. Si sentì arrabbiata per lei, per la menzogna in cui l’avevano avvolta… quella nota di strano orgoglio che aveva sentito nella voce di Bradley doveva essere solo una nuova bugia.
“Devo ancora aspettare molto per il mio the?”
“Ah, eccolo…” si riscosse, portandogli la tazza.
Lui lo sorseggiò, assaporandone pienamente il sapore, un gesto così incredibilmente umano come solo lui poteva fare. Né Gluttony né Pride avevano una simile capacità.
“Mh, ottimo…” commentò soddisfatto.
Dannazione a te King Bradley, ma chi diavolo sei?

 






__________________________-
Primo del mese e nuovo capitolo che, per fortuna, è venuto fuori senza troppe difficoltà.
La mia partenza per le vacanze è prevista per il 21, ma credo di potercela fare a finire la storia, considerando che mancano al massimo cinque capitoli 

 

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Capitolo 30
*** Capitolo 29. 1916. Reunion ***


Capitolo 29
1916. Reunion




 
Il 1915 era passato, tranquillo come solo la quiete prima della tempesta riesce ad esserlo.
La maggior parte di Amestris proseguiva la sua vita come se niente fosse, felice che, tutto sommato, le guerre non avessero più di tanto coinvolto la popolazione civile con privazioni, tasse o chissà che altro. Le battaglie erano lungo i confini e dunque riguardavano soltanto gli eserciti in contesa, senza andare a sfiorare le città ed i civili.
A Central si respirava la solita aria da capitale: strade affollate, negozi, concerti… sembrava che la città si risvegliasse dopo l’inverno per festeggiare l’arrivo della primavera. Tutti erano particolarmente eccitati per l’eclissi solare prevista per quel giorno successivo, un evento così raro che sicuramente sarebbe rimasto negli annali.
Tuttavia c’era una ridotto numero di persone che attendeva questo giorno per un diverso motivo e per i quali l’eclissi era fonte di timore piuttosto che di meraviglia. Tuttavia era innegabile che ci fosse anche la determinazione di giocare sino all’ultima carta: del resto quando il ballo c’è la propria vita e quella di un intero stato i sentimenti in gioco non possono che essere di questo tipo.
 
Riza faceva parte di questa minoranza.
Sapeva che quel giorno di primavera, all’apparenza da ricordare solo per l’eclissi, era in realtà il Giorno della Promessa, quello in cui si sarebbe sferrato il colpo di stato che, se tutto andava bene, avrebbe rovesciato il governo di King Bradley e dunque degli homunculus. Ma, soprattutto, avrebbe impedito a quelle creature di utilizzare le oltre cinquanta milioni di vite presenti ad Amestris di venir assorbite dall’enorme cerchio di trasmutazione che era stato creato attorno al paese… un lavoro certosino, costato secoli ed infinita pazienza, un qualcosa che era iniziato con la creazione stessa del paese.
Faceva paura pensarlo: faceva sentire come dei piccoli granelli di polvere, delle gocce d’acqua che si perdevano nel mare ad una velocità disarmante. Gli homunculus ed il loro Padre avevano atteso un tempo pari a decine di volte la durata di una vita umana per arrivare a questo momento cruciale. Loro, invece, stavano tentando di rovesciare tutto in nemmeno ventiquattro ore.
Doveva andare tutto alla perfezione o avrebbero fallito.
 
Per la soldatessa era come uscire da uno strano limbo in cui era vissuta in tutti quei mesi.
Aveva pazientato, continuato il suo ruolo di assistente del comandante supremo, contando i giorni del calendario con una strana calma, sebbene in fondo alla sua anima l’eccitazione aumentasse ogni giorno che passava. Sapeva di essere una delle pedine di quel gioco spietato che ormai si era messa in moto e anche se non sapeva usare l’alchimia, e dunque non poteva certo considerarsi una delle giocatrici più forti, aveva intenzione di fare la sua parte sino all’ultimo.
Del resto, tempo prima, Breda le aveva ricordato che il loro ruolo era uno e fondamentale: dare appoggio e sostegno al colonnello Mustang.
Ed era vero: in quel giorno in parte andavano anche a chiudersi i conti con Ishval. Certo, il rimorso della guerra non sarebbe mai finito, semmai ne fossero usciti vivi. Ma almeno avrebbero impedito che quelle creature mietessero altre vittime anche tra i reduci di quel popolo dei quali avevano segnato la scomparsa quasi totale.
Tuttavia, quel primo pomeriggio la sua mente era invasa da un altro pensiero che arrivava ad offuscare persino la grande missione che l’attendeva. Vestiva borghese, addosso aveva tutte le armi possibili, ma non importava: non era la divisa a renderla parte della squadra del colonnello. Quella squadra che, se tutto andava bene, entro il giorno dopo, sarebbe stata finalmente riunita.
Dopo mesi e mesi di separazione, durante i quali, ogni giorno, ciascuno di loro aveva rischiato la vita, finalmente tornavano a lavorare assieme, come se quel tremendo periodo fosse stato solo una brutta parentesi da cancellare. Come se un osso uscito dalla sua giuntura venisse finalmente rimesso al suo posto, ponendo così fine alla sofferenza.
Arrivata al capannone prestabilito, con parecchio anticipo rispetto a quanto concordato, vide che Hayate iniziava a raspare con eccitazione alla porta. Non fece in tempo ad aprire che già l’animale era sgusciato dentro.
“Hayate!” lo chiamò con un bisbiglio, ma il suo animale sembrava fuori controllo tirando. Tuttavia capì cosa era successo quando lo vide tirare con i denti la manica del cappotto di Fury, ancora con la sporca divisa del settore sud, profondamente addormentato.

La guerra aveva lasciato profondi segni sul piccolo della squadra.
Era notevolmente dimagrito e questo lo faceva sembrare più slanciato, ma era un qualcosa di così innaturale per lui che sembrava gli avessero dato una divisa di una taglia più grande. In viso aveva due grossi cerotti, niente di grave come aveva assicurato lui stesso, ma non era questo a risaltare nel pallore di quei lineamenti. L’espressione era quella di chi ha visto e vissuto gli orrori della guerra. Era una cosa che Riza aveva notato non appena l’aveva visto addormentato, riconoscendo il sonno del soldato che si deve concedere qualsiasi momento di riposo perché non sa mai quando potrà essere il prossimo. Era un sonno che non riusciva ad essere del tutto rilassato, quello che sa che il giorno dopo sarebbe riniziato tutto daccapo, senza tregua, senza speranza.
La soldatessa si era riconosciuta fin troppo bene in lui ed il suo cuore era piombato nella disperazione: aveva sperato con tutto il cuore che la guerra in qualche modo lo preservasse dall’orrore. Ma era stata una sciocca: come aveva potuto sperare in un simile miracolo?
Poi il giovane si era svegliato, sorpreso di trovarla accanto a lui.
Com’era stato curioso sentire la sua voce dopo tanti mesi in cui non era stato possibile contattarlo. Le sembrava sempre la stessa, ma c’era qualcosa di nuovo che ancora non riusciva a definire… qualcosa di adulto, di forzato. Ma forse la cosa peggiore era stata quando si erano guardati negli occhi: nelle iridi scure  non aveva avuto difficoltà a leggere dolore e angoscia: vide con chiarezza la trincea, le bombe, i morti, la paura di non farcela. Vide quel terrore troppo grande per essere raccontato sino in fondo.
E poi il sergente aveva cominciato a parlare di quell’argomento così difficile, come un fiume in piena che ha appena rotto la diga e non può essere fermato; come se avesse atteso di essere di nuovo assieme a lei per sfogare tutto l’orrore che aveva vissuto.
E Riza, tenendogli stretta la mano sporca, non aveva potuto fare a meno di ascoltarlo, lieta di esserci almeno in quel difficile momento.
“I primi tempi… ho creduto che non ce l’avrei mai fatta. Era come essere perduto in un limbo di dolore che ti fa dimenticare il motivo stesso per cui vivi – stava dicendo in quel momento il giovane – Sei lì, in quella trincea, a chiederti se le prossime ore saranno le ultime, se la prossima granata ucciderà anche te. E la cosa terribile è che dopo un po’ non te ne importa nemmeno… in fondo è un modo come un altro per far smettere quella follia. Ne muoiono tanti accanto a te, cosa avresti tu di speciale per essere graziato?”
Rassegnazione, era l’unico sentimento espresso da quelle parole.
“Non sei mai stato sacrificabile” mormorò, con dolcezza Riza accentuando la stretta sulla sua mano.
“Adesso lo so… ma ho dovuto toccare il fondo prima di capirlo. E’ dura dirlo, ma stavo per venire meno alla promessa, signora. E’ stato grazie al sottotenente Breda che sono tornato alla vita: sentire una voce amica al telefono dopo settimane di trincea è stato come rinascere”.
Rinascere – si sorprese. Una parola simile dopo la guerra lei non l’aveva mai usata, anzi con tutta probabilità l’aveva tenuta fuori dal suo vocabolario per mesi e mesi.
“E’ perché siamo una squadra, Fury – scrollò le spalle, decidendo di assecondare il suo sottoposto – L’hai detto tu stesso che vinciamo sempre insieme”.
“Già – un timido sorriso affiorò sul viso pallido del giovane – E da quel momento ho capito che non ero sacrificabile: non potevo fare un torto alle persone che amo e che voglio proteggere. Ho capito che stavo rischiando di morire, non solo fisicamente, ma anche in un modo più orribile, quello contro cui lei mi aveva messo in guardia. Stavo dando per scontata la morte delle persone intorno a me. Siamo soldati, è vero… ma siamo prima di tutto persone. E come tali proviamo sentimenti e abbiamo bisogno l’uno dell’altro, anche nei momenti peggiori. Non è giusto evitare di ricordare i nomi dei tuoi commilitoni solo perché da un momento all’altro potresti perderli; non è giusto lasciare un soldato a morire da solo, perché non c’è più niente da fare. Non è giusto rinunciare a me stesso… solo perché nella trincea è più facile dimenticare e lasciarsi andare. Io… io voglio continuare ad essere felice. E lo so che forse sembrano parole sconsiderate di fronte a tutti quelli che sono morti… ma forse è un torto più grande nei confronti della vita che ho ancora e che condivido con le persone che amo”.
Ed era assurdo come la sua espressione fosse cambiata man mano che parlava: come se fosse davvero rinato solo per essere di nuovo assieme a loro. Restando ormai il soldato che aveva vissuto la guerra, certo, ma ritirando fuori la sua anima candida ed ottimista, come se l’avesse tenuta preziosamente nascosta fino a quel momento. E Riza non poteva che guardarlo, sentendosi così fiera di lui, sentendo il vuoto nella sua anima che si riempiva di sollievo. Alla fine non poté fare a meno di posare la fronte contro la sua, cercando di tenere la voce salda per la commozione.
“Oh Fury, grazie davvero! Hai mantenuto la promessa, piccolo soldato… e non sai che sollievo mi hai dato con queste parole”.
Il sergente arrossì a questo gesto e fece scivolare il discorso su Hayate che, intanto abbaiava festoso, ma poi la guardò di nuovo negli occhi e tornò serio.
“Signora, è andato tutto bene? In questi mesi ho potuto parlare solo col sottotenente Breda e qualche volta con il maresciallo Falman… insomma, sapevo che eravate tutti vivi, ma…”
“E’ andato tutto bene – lo rassicurò, come se adesso quell’anno da ostaggio fosse stato solo un brutto sogno – non è stato facile nemmeno per me e per il colonnello, ma ce la siamo cavata. In fondo non siamo mai stati veramente soli”.
Fury sorrise e si alzò in piedi, recuperando il suo zaino impolverato.
“E’ quasi ora di muoversi, vero?”
“Sì, manca ancora Breda e siamo pronti ad andare”.
In quel momento sentirono un rumore e si girarono verso l’ingresso e subito sorrisero quando videro la robusta figura del sottotenente che entrava, quasi evocata dalle loro parole. Vedendolo avanzare verso di loro con il solito sogghigno sarcastico, a Riza sembrò che un sostegno fondamentale fosse finalmente tornato al suo posto, solido come una roccia.
“Sottotenente!” esclamò Fury con gioia.
“Dannazione, ragazzo, sei proprio impresentabile – sghignazzò il rosso arruffandogli i capelli – avresti bisogno di una bella doccia”.
“Non ne ho avuto occasione” sorrise il sergente, come se quella fosse una normale giornata d’ufficio e non fossero mesi che non si rivedevano.
“Questa volta passi – annuì Breda prendendolo per il mento e fissandolo – Niente di grave questi due cerotti, vero?”
“Solo tagli superficiali”.
“Ottimo. Allora signora, è un piacere rivederti” sorrise, rivolgendosi a Riza e strizzandole l’occhio.
Bastava così, non c’era bisogno di altre parole. Al contrario di Fury, Breda era un veterano della guerra e non aveva bisogno di parlare degli orrori che aveva visto o delle ferite che aveva subito. Aveva già archiviato la questione come non pertinente a quanto stavano per fare e quindi non serviva parlarne.
Riza sorrise mentre si sistemava la giacca e prendeva in mano il fucile: con quei due accanto si sentiva di nuovo forte e al sicuro, in un ruolo che finalmente tornava suo.
E sebbene Havoc non fosse con loro e nemmeno Falman, dato che sarebbe stato con le truppe di Briggs, per ora le bastava quel pezzo di squadra e di vita per poter andare avanti.
“Domani le cose si metteranno in moto – disse – Facciamo ciò che dobbiamo, sottotenente Breda, sergente Fury…”
“Smettila con questa storia del sottotenente – sorrise Breda – Adesso sono solo un normale disertore”.
“Le cose si fanno torbide” sospirò Fury rassegnato, come se si rendesse conto solo ora dell’enorme guaio in cui stavano andando a cacciarsi.
Riza si voltò verso di lui e sorrise
“Quando sarà tutto finito, il colonnello dovrà prendersi le sue responsabilità”.
Fury non poté fare a meno di ricambiare il sorriso ed annuire.
Due minuti dopo tre disertori e un cane uscirono dal capannone per andare a incontrare il loro re.
 
La notte era calata a Central City e mancavano poche ore all’inizio del Giorno della Promessa.
Tuttavia il gruppetto non si era reso conto del passare della luce se non guardando i propri orologi: si trovavano infatti nei sotterranei della città, nell’intricata rete di cunicoli di cui la maggior parte degli abitanti ignorava l’esistenza.
Alla fine erano giunti in una sorta di stanzetta e lì avevano atteso: avevano mangiato qualcosa, scambiato qualche parola, ma per lo più avevano preferito restare in silenzio, in attesa dell’arrivo del loro superiore.
Era come se ciascuno meditasse profondamente sull’anno trascorso separato dal resto della squadra, rimuginando sulle proprie esperienze, sulle proprie motivazioni, ma soprattutto su quell’uomo per il quale erano tornati, colui nel quale avevano riposto tutte la loro fiducia e le loro speranze.
Riza stava seduta su una vecchia cassa di legno, con Hayate accoccolato ai suoi piedi.
Sebbene in apparenza fosse calma e tranquilla, tanto da avere gli occhi chiusi, il suo cuore in realtà era in pieno tumulto.
Sarebbe stato così strano essere di nuovo al suo fianco dopo tanto tempo che non si erano visti. La loro recita agli occhi del mondo era proseguita così bene che rarissimi erano stati i contatti veri e propri, anzi praticamente nulli dopo quel faccia a faccia nella mensa.
Sarà sempre lo stesso, colonnello? Sarà come se non fosse passato un giorno?
Paradossalmente le veniva da chiedersi se era ancora in grado di essere la sua guardia del corpo. Ma si rimproverò immediatamente per un simile pensiero: quello era il ruolo per cui viveva e affondava le sue radici più profonde in un passato ormai lontano. Ancora prima di Ishval, ancora prima dell’Accademia… quando gli aveva affidato i segreti dell’alchimia: si era fidata di lui, si era affidata a lui con tutta se stessa.
All’epoca forse non aveva compreso quanto profonda fosse la devozione che aveva nei confronti di quel giovane che voleva cambiare il mondo.
L’aveva visto distrutto dalla guerra, spezzato nei suoi ideali, ma altresì l’aveva visto rialzarsi ed andare avanti, dimostrandole che in fondo lei aveva avuto ragione, aveva visto giusto.
In quel momento la piccola porta di legno marcio scricchiolò e tutti loro si alzarono in piedi.
Mustang scivolò dentro quell’ambiente fiocamente illuminato da alcune torce.
Vestiva in borghese, come se fosse appena arrivato da un’elegante serata a teatro.
A Riza il cuore smise di battere per un secondo nel rivedere quel viso avvenente, quei capelli neri e sottili, gli occhi scuri e allungati. Se in Fury aveva visto il cambiamento della guerra, Mustang invece era lì, fresco come una rosa, come se si fosse messo elegante per dar loro il bentornato in squadra.
“E’ in ritardo, colonnello – commentò Breda – stavamo per lasciarla qui”.
“Ora come ora, anche il tuo sarcasmo mi conforta” sogghignò il moro.
E quanto era bello sentire di nuovo la sua voce.
 
Una volta Fury le aveva detto che non ci si dimentica di come andare in bicicletta, nemmeno se passano anni ed anni.
Per loro, a quanto sembrava, era la stessa cosa: anche se era passato tanto tempo non si erano assolutamente dimenticati di come si lavorava in squadra: i loro cenni d’intesa, il loro sapersi anticipare, erano sempre gli stessi, senza che nessuno avesse bisogno di dire o chiedere qualcosa.
“Tra poco dovrebbe arrivare la macchina – disse Mustang guardando l’orologio – Fury, Breda, andate a controllare”.
I due annuirono e scesero dalla vettura che stava ferma poco fuori la strada che attraversava quel viale alberato: a breve avrebbero preso come ostaggio la signora Bradley.
Il colonnello e Riza stavano seduti sul davanti: lui si era precedentemente cambiato ed indossava di nuovo la sua divisa con il cappotto scuro, pronto all’azione come quando erano in grande spolvero. Riza avrebbe voluto dirgli tante cose, ma non ci sarebbe stato né tempo né coraggio.
Voleva dirgli che ora che stava di nuovo accanto a lui si sentiva bene, completa… ed era una sensazione che prima non aveva mai provato con una tale intensità.
Se dovesse morire, colonnello – pensò con amarezza – io non ce la potrei mai fare. Anche se lei mi ha detto di andare avanti, di non farmi tradire dalle emozioni, ci sono dei limiti che non posso superare.
“Pensierosa, tenente?” le chiese Mustang, distogliendola dai suoi pensieri.
“Concentrata” corresse lei.
Il colonnello la guardò e poi sorrise, posando le mani sul volante.
“Sono contento di riaverti di nuovo a mio fianco, sai? L’ho detto già quando eravate tutti assieme, ma a te lo volevo dire in maniera particolare”.
“Sono pure io felice di essere di nuovo la sua guardia del corpo, colonnello”.
Riza si rese conto che, in altre occasioni, un simile dialogo l’avrebbe messa in estremo imbarazzo e non avrebbe desiderato altro che scendere dalla macchina e scappare via. Ma adesso si sentiva estremamente felice di quelle parole, come se fosse finalmente pronta ad accettare l’importanza fondamentale che costituivano l’uno per l’altra… e non una cosa a senso unico come aveva sempre ritenuto.
“Ci siamo, tenente – ammise lui – questo è il momento in cui mi sto giocando tutto, compresi voi. Tra pochi minuti entreremo in scena ed allora non dovrò avere più dubbi o tentennamenti… come se adesso potessi permettermi di averli. Però ammetto di essere teso come mai è stato prima: volevo confidartelo, anche se a questo punto è sciocco e addirittura improduttivo”.
“E’ solo umano, signore, se la può consolare pure io condivido i suoi stessi sentimenti”.
“Pensavo fossi concentrata” sorrise.
“Posso essere entrambe le cose”
“Tenente, promettimelo di nuovo”
“Che cosa, signore?”
“Che non morirai”
Riza sorrise dolcemente e dovette trattenersi per posare una mano sul braccio di lui.
“No, colonnello, le prometto che non morirò. Lo stesso valga per lei”
Forse Mustang avrebbe risposto, ma in quel momento si sentirono dei rumori e Breda e Fury tornarono di corsa per risalire in macchina.
“Arrivano! – avvisò il sergente – meno di due minuti”.
“Si entra in scena, ragazzi – dichiarò il colonnello – facciamogli vedere cosa siamo in grado di fare”.
Il loro giorno della promessa iniziava in quel momento.






________________________
Capitolo più corto del solito, ma come sempre mi sono soffermata sui missing moments piuttosto che sui fatti ben noti della storia.
Più che altro volevo approfondire il momento della riunione tra questi tre membri della squadra. Come sempre per Fury ho ripreso parte dei dialoghi dalla sua fic, perché questa era una scena che avevo trattato ampiamente.
Anyway: siamo quasi agli sgoccioli: nel prossimo capitolo arriveremo al punto del prologo e poi andremo direttamente al post battaglia :)
Considerato il tutto dovrei riuscire a terminare la storia prima della mia partenza.
A presto :D

 

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Capitolo 31
*** Capitolo 30. 1916. Eroe e principessa ***


Capitolo 30
1916. Eroe e principessa




 
Nelle favole molto spesso i mostri peggiori si trovano nelle grotte o nei sotterranei dei castelli.
Forse la parte peggiore della storia è ascoltare la descrizione di quei posti così scuri ed inquietanti: sono il preludio all’arrivo del nemico e senti la tensione crescere perché sai bene che prima o poi accadrà qualcosa. Allora ti raggomitoli ancora di più nel letto, quasi a volerti proteggere da quella creatura che, come per magia, potrebbe uscire dal libro e attaccarti, ignorando completamente l’eroe.
Questo è quello che si pensa da bambini e, ogni volta, a quella paura segue sempre il sollievo nel vedere che il cavaliere riesce ad avere la meglio sul mostro: dopo un difficile duello lo uccide e corre a salvare la principessa che per anni ed anni era stata tenuta prigioniera.
E vissero felici e contenti.
 
Con sua madre amante delle poesie, Riza aveva avuto poca occasione di avere a che fare con storie simili, ma le poche volte che le erano state raccontante le avevano lasciato sempre quello strano susseguirsi di sensazioni di paura e di sollievo. Nella sua solitaria infanzia quelle favole avevano avuto il merito di restare particolarmente impresse rispetto ai versi delicati ed idilliaci dei poeti romantici di sua madre.
Paura per i sotterranei, orrore per il mostro, ma poi ecco! L’eroe riesce nell’impresa e tutto torna luminoso e sereno. Una trama forse troppo usata nelle favole, ma che non smette mai di incantare: in fondo è in questi stereotipi che i bambini vogliono riconoscere il mondo no? Con l’eroe che riesce a superare le avversità e a mandare via le paure.
Ma cosa succede quando vedi l’eroe diventare un mostro più orribile del vero nemico?
Riza era lì, con la pistola in mano, in quella grande stanza dalle pareti bianche con un grosso portale sul fondo, dove erano appena spariti Edward, Scar ed i loro compagni. Sul pavimento decine e decine di strani manichini bruciati, patetiche imitazioni di vita che erano andati incontro all’alchimia del fuoco.
E poi Envy, nella sua vera natura: un mostro così grosso da occupare buona parte della stanza. Una creatura troppo difficile da descrivere con tutte quelle appendici umane che gli uscivano da varie parti del corpo. Se Gluttony, Bradley e Pride avevano suscitato reazioni contrastanti in Riza, questa volta la soldatessa non aveva dubbi su quella da attribuire all’homunculus dell’invidia: schifo.
Ma non era lui a spaventarla davvero, non più di quanto avessero fatto i suoi fratelli.
A preoccuparla era Mustang che, dopo le rivelazioni di Envy a proposito dell’uccisione di Hughes, aveva subito una stupefacente metamorfosi. Quel bel viso era storpiato dal proposito di vendetta, gli occhi scuri che non guardavano altro che l’homunculus con un’unica intenzione: ucciderlo. Tutta la sua persona emanava un qualcosa di brutale, disumano, come se fosse stato spogliato di tutto fuorché dei più crudeli istinti che si tengono nascosti nelle profondità dell’animo.
Dov’era il suo eroe? Quello che veniva a salvarla sempre sin da quando era ragazza?
Dov’era la persona che aveva giurato di proteggere? Quella a cui si sarebbe affidata con tutta se stessa?
“Adesso capisco cosa hanno provato quei ragazzi quando hanno tentato di trasmutare la loro madre”
Quella frase detta davanti alla tomba di Hughes, la voce sottile che cercava di nascondere il dolore, le ritornò paradossalmente alla memoria. Quanta umanità c’era in quelle parole? Forse non aveva mai visto il colonnello così vulnerabile.
E se per il suo migliore amico aveva provato un dolore così umano, adesso si era trasformato in una bestia senza alcun sentimento.
“Sta indietro tenente – disse lui, allungando il braccio per non farla avanzare – è arrivato il momento di rendere omaggio a Hughes”
La voce era calma e letale, ma proprio per questo faceva paura. Non era la voce di quando era comparso ferito per uccidere Lust: lì c’erano sì calma e letalità, ma non erano solo un patetico modo per nascondere la furia cieca ed omicida. Allora ad agire era stato il soldato che sa bene in che modo uccidere il suo avversario. Qui il soldato era sparito.
Intanto Envy, quasi a raccogliere quella sfida, si era ingigantito ancora di più, andando a toccare il soffitto della sala.
“Con questo corpo non riesco a controllarmi – rise con spavalderia, con quella fastidiosa voce che riecheggiava di milioni di altre – chissà come finirà?”
Stupido – pensò freddamente Riza – così non fai altro che offrire un bersaglio maggiore.
E come vide le fiamme del colonnello colpirlo agli occhi cercò di riscuotersi.
L’eroe non c’era più, al suo posto c’era solo un mostro che stava continuando ad attaccare Envy con le fiamme: doveva smetterla di pensare come una principessa e far fare a lui. Intuiva che stava rischiando di perderlo in una maniera ben peggiore di quella fisica.
“Alzati, mostro! – lo incitò Mustang – e rigenerati. Continuerai a provare questa sofferenza sino alla morte”
Riza stava per dire qualcosa, ma in quel momento Envy decise di cambiare strategia e con un poderoso colpo di coda provocò dei crolli dal soffitto già malandato. Questo diversivo gli consentì di riprendere le sue sembianze simil umane e di scappare via dal portale ancora semiaperto.
“Aspetta!” lo chiamò rabbiosamente Mustang, iniziando a farsi strada tra quei detriti.
“Colonnello!”
“Tenente aspetta qui – le ordinò lui, girandosi a malapena a guardarla – a quello ci penso io da solo!”
Poi scattò in avanti per continuare la sua caccia, quella che avrebbe terminato solo con la morte di Envy.
No – si disse Riza – non lo deve uccidere, non in queste condizioni.
Sarebbe stato come rompere una diga e provocare il disastro, mandando in frantumi tutto quello in cui avevano sempre creduto.
Aspettò solo una decina di secondi e poi corse anche lei verso quel portale.
“C’è qualcuno che devo proteggere” era questo ciò che aveva detto anni prima alla ragazzina di Resembool.
Adesso capiva che doveva proteggerlo da se stesso.
 
Errare humanum est, perseverare autem diabolicum.
Riza si era scontrata più volte contro la forza degli homunculus, constatando che la sua mira ed i suoi proiettili potevano fare ben poco contro quelle creature dal potere rigenerativo immenso. Davanti a Gluttony aveva provato l’angoscia della morte che ti soffoca, con Lust invece si era scagliata con furia cieca, senza però ottenere alcun risultato. Con Bradley e Pride non aveva rischiato nessuna mossa falsa, ma percepiva la loro potenza, molto maggiore rispetto a quella dei primi due: l’avrebbero fatta a pezzi in pochi secondi.
Eppure, nonostante fosse chiaro che anche Envy era un nemico al di sopra delle sue possibilità, non aveva esitato a dargli la caccia pure lei. Si era avventurata in quei corridoi bui e pieni di tubi e cavi, tenendo strette le sue pistole, affidandosi ad esse più di quanto razionalmente fosse possibile, nonostante una parte di lei sapesse bene quanto poco potevano fare. Indebolirlo, almeno di qualche vita, sarebbe stato un piccolo passo avanti e chissà… magari già provato dalle fiamme del colonnello avrebbe ceduto ai suoi miseri proiettili.
Tuttavia non era andata così e anche questa volta aveva pagato le conseguenze della sua iniziativa che, con un altro avversario, sarebbe andata a buon fine. La dinamica era sempre la stessa: venivano colpiti dai proiettili, indietreggiavano, forse morivano almeno una volta, ma poi si rialzavano in piedi come se nulla fosse, deridendola per la sua idiozia.
“Spari troppo, donna!” esclamò Envy, afferrandola con uno dei suoi tentacoli e sbattendola pesantemente contro il pavimento.
L’impatto fu così violento che il fiato le si mozzò in gola, mentre sentiva tutta la sua spina dorsale irrigidirsi per quel dolore improvviso. Il soffitto sopra di lei per un secondo divenne di pura luce, mentre gli occhi reagivano al dolore. La sua nuca ebbe una fitta dolorosa quando il suo duro fermaglio, nell’impatto, si ruppe.
Fine? E’ la fine? – si chiese, imprigionata da quella morsa feroce.
“Ahah! – rise l’homunculus – ti restituirò al colonnello un pezzo alla volta!”
Riza riuscì a spostare lo sguardo su di lui, su quel viso affilato completamente distorto da una folle gioia che di umano non aveva niente. Ma un secondo dopo si liquefece davanti ai suoi occhi, con quell’espressione che fu l’ultima cosa a sparire.
E’ venuto a salvarmi! – una pare dell’anima della soldatessa esultò, avendo ben capito cosa era successo.
Il rumore del grasso che sfrigolava venne in parte occultato da dei passi pesanti: Mustang arrivò da un corridoio laterale, puntando i suoi occhi verso l’homunculus che tentava una nuova rigenerazione.
“Che cosa hai osato fare alla mia preziosa subordinata?” chiese con voce letale.
No – capì Riza – è venuto per lui.
 
“… voglio che tu sia dietro di me, che mi protegga. Capisci cosa voglio dire? Lascerò che sia tu a guardarmi le spalle e ciò significa che potrai spararmi in qualsiasi momento. Se farò qualcosa che non dovrò fare, uccidimi con le tue mani: hai la mia autorizzazione”
Quando l’allora tenente colonnello Mustang le aveva detto simili parole, Riza aveva annuito, ma era convinta che non si sarebbe mai arrivati ad un simile punto. E come poteva essere altrimenti? Era appena finita la guerra che li aveva massacrati nel profondo dell’anima, quella che li aveva fatti scoprire dei mostri: era ovvio che non avrebbero più agito in un modo così spregevole, privandosi ancora una volta della propria umanità.
Non volontariamente.
Non possiamo arrivare a questo, non possiamo! Colonnello, non può… non deve!
Eppure Riza era lì, dietro a quell’uomo, come aveva fatto per quella che ormai le sembrava la sua vera vita. Ma c’era qualcosa di tremendamente sbagliato questa volta: la pistola che avrebbe dovuto proteggerlo era invece puntata contro la sua testa, la sicura abbassata, l’indice sul grilletto che tremava all’idea di dare quella fatale pressione.
Ma se cedeva alla bestia non poteva farne a meno. Per Amestris, per il mondo, ma soprattutto per lui stesso. Adesso capiva il significato di quella promessa fatta anni prima, adesso capiva la paura che l’aveva portato a dirle delle simili cose: era già stato un mostro, non voleva esserlo di nuovo. Aveva già visto cosa era in grado di fare e non voleva ripiombare nel baratro.
Il baratro che ora era aperto davanti a lui più di quanto lo fosse mai stato ad Ishval.
E la chiave di tutto era in quella specie di vermicello verde, la vera forma di Envy, che teneva stretto nella mano, pronto a dargli il colpo di grazia. Quel colpo che l’avrebbe fatto perdere per sempre.
“… metti giù la pistola” mormorò Mustang con un tono di voce che mai e poi mai aveva usato con lei.
No, questo non è lei, signore.
“Mi dispiace, ma non posso eseguire il suo ordine – rispose con voce più calma che poteva – metta giù la mano”
“Non dire stronzate! – esclamò lui, mentre la sua schiena si irrigidiva: fu quasi una benedizione per Riza non poter vedere quel viso contratto dall’ira – Ti ho detto di toglierti di mezzo!”
Il pavimento che si sollevava e gli faceva perdere la presa su Envy fu quasi un miracolo.
 
Nelle favole l’eroe ha il cuore puro e non si lascia corrompere: è forte e coraggioso e l’odio non fa parte di lui. Uccide i nemici perché sono quelli che fanno male alle persone, perché per loro non c’è nessuna possibilità di cambiare: lui è il buono e loro i cattivi, funziona sempre così.
Nella realtà c’era un mostro che non poteva essere ucciso dall’eroe… perché il cuore dell’eroe era in preda all’odio e tutto quello che voleva era vendetta. Un qualcosa di fin troppo umano, perfettamente comprensibile, ma che Riza non era disposta ad accettare.
Non per lui, non per il suo eroe.
E non importava se c’erano Edward e Scar a cercare di ravvederlo, di fargli aprire gli occhi.
E lui era al limite della tensione: poteva vederlo dalla sua schiena, da tutto il suo corpo che sembrava pronto a scattare come una molla. La rabbia, il dolore, la frustrazione che provava erano così tangibili che a Riza veniva da piangere. Ed era come se lui fosse pronto a scatenare un inferno di fuoco in quel corridoio da un momento all’altro: provocato, offeso, privato della sua preda…era stato spinto fino alla sottilissima linea che lo separava dal punto di non ritorno.
Era quasi un azzardo dirgli qualcosa in un momento simile, ma Riza sapeva di dovergli lanciare un’ancora di salvezza in mezzo a tutto quel folle orgoglio e dolore.
“Colonnello, non posso permetterle di uccidere Envy – disse con calma, sempre tenendo quella maledetta pistola puntata alla sua nuca – ciononostante non ho neanche intenzione di lasciarlo in vita. Lasci che ci pensi io”
“Proprio adesso! – gridò lui, piegandosi quasi fosse stato colpito da un pugno – Proprio adesso che lo avevo!”
“La capisco! – alzò la voce pure lei, quasi avesse paura di non venir sentita in mezzo alla tempesta che imperversava nella sua anima – Tuttavia adesso non lo farebbe né per il paese né per salvare un suo compagno! Far svanire l’odio che la divora… ecco per cosa lo farebbe adesso! La prego, colonnello – la mano che reggeva la pistola iniziò a tremare visibilmente – lei non può lasciarsi andare…”
Non può farmi questo! Pensi anche a me, a tutti noi che in lei abbiamo sempre creduto!
Dovette trattenere le lacrime nel pensare a quanto stava rischiando di perdere in quel momento.
“Se vuoi spararmi allora fallo…” mormorò l’uomo con voce calma.
No, non può dirlo davvero…
“… ma dimmi una cosa, dopo che sarò morto, che cosa farai?”
Ha anche la faccia tosta di chiedermelo, signore? Come se non lo sapesse…
“Non ho intenzione di passare una vita in spensierata solitudine – mormorò, abbassando lo sguardo: nessuna esitazione nella voce… la medesima sicurezza di quando gli aveva chiesto di bruciargli la schiena – perciò una volta finita questa battaglia, cancellerò il corpo dell’alchimista di fuoco ed il mio da questo mondo”
 
“Mi dispiace, non volevo che andasse a finire così” le aveva detto l’allievo che andava via dal maestro, lasciandola sola in quella casa così polverosa.
“Mi dispiace, me ne sento in parte responsabile… se non me ne fossi andato via in quel modo” le aveva detto il soldato semplice al quale aveva appena affidato i segreti dell’alchimia del fuoco.
“Mi dispiace: speravo che la guerra finisse prima in modo che tu non ci avessi mai a che fare” le aveva detto l’alchimista di fuoco quando si erano incontrati nelle lande di Ishval.
Ogni volta che aveva detto quelle due parole, il suo volto, a prescindere dall’occasione, si era mostrato incredibilmente giovane, umano, vulnerabile. Come se provocarle dispiacere o dolore fosse per lui uno dei più grandi peccati del mondo. Riza non ci aveva apparentemente fatto caso, tesa com’era a garantirgli che non era mai colpa sua, eppure una parte della sua anima aveva assorbito quelle espressioni.
“… abbassa la pistola, tenente. Mi dispiace…”
Si era girato verso di lei per poter mettere la mano sulla canna della pistola.
Ed eccolo il suo Roy Mustang: il ragazzo venuto da lontano, il giovane soldato, il colonnello… quel meraviglioso essere umano alla quale lei si era affidata totalmente. Come se un incantesimo fosse stato appena sciolto, ecco di nuovo il suo eroe. Non senza macchia, non puro, ma incredibilmente imperfetto eppure proprio per questo la persona giusta che lei avrebbe seguito per sempre.
Lo vide lasciarsi cadere seduto a gambe incrociate su quel pavimento pieno di detriti e non poté fare a meno di seguirlo in quel gesto, come se le sue gambe avessero deciso di cedere nel medesimo momento dopo quei minuti di incredibile, tremenda tensione che aveva vissuto.
E non le importava se Envy stava strillando qualcosa.
Lei era lì, davanti a Roy Mustang, e si sentiva svuotata come poche volte in vita sua.
Ma era riuscita a non perderlo, a salvarlo.
Nel profondo della sua anima, a prescindere dalla situazione, si sentiva la miglior guardia del corpo di questo mondo, sebbene un personaggio simile non esistesse nelle favole.
 
Nelle favole la principessa viene tenuta prigioniera in una torre e aspetta di venir salvata dall’eroe
Riza non si sentiva una principessa, era un titolo che avrebbe dato a tutte meno che a se stessa.
La morte, la guerra, il sangue avevano strappato quella timida illusione che forse aveva avuto da bambina, ma non c’era nessun rimpianto: in fondo questo le aveva permesso di salvare l’eroe in tutti i modi in cui è possibile salvare una persona.
E lo salvò ancora, nemmeno mezz’ora dopo, quando trovò la forza di fargli quel cenno verso l’alto, quando gli impedì di compiere la trasmutazione umana che avrebbe avuto chissà quali ripercussioni su di lui.
Si sentiva stranamente superiore a quel dottore dal dente d’oro e dai suoi aguzzini, uno dei quali l’aveva ferita al collo e l’aveva trascinata al centro di quel pavimento con un cerchio alchemico.
Man mano che la debolezza per la perdita di sangue aumentava e sentiva l’incoscienza avvicinarsi, si diceva che quelle persone erano solo delle sciocche. Che fuori da quei sotterranei la sua meravigliosa squadra stava combattendo e che anche questa volta ce l’avrebbe fatta. E poi, che ne sapevano loro di quel giuramento fatto nei sotterranei?
Mi è stato ordinato di non morire…
Se lo ripeté ancora e ancora mentre teneva lo sguardo puntato sul suo eroe, imprigionato nella presa di due uomini. Ma quanto erano sciocchi? Non capivano che ormai lui era salvo? Che non potevano fargli nulla perché aveva vinto la sua battaglia personale contro i suoi demoni?
Poi divenne troppo faticoso restare cosciente.
Attorno a lei sentiva suoni di combattimento, ma capendo che non poteva prendervi parte preferì chiudere gli occhi. Attorno a lei tutto si fece fresco e morbido, come un lenzuolo appena lavato, oppure un lago placido. Era una sensazione così riposante che, paradossalmente, le fece capire quanto era stanca. Una stanchezza accumulata nel corso degli anni, tanta… troppa.
Non si meritava forse un buon riposo? Tanto il tempo non sembrava aver alcun senso in quel posto…
“Tenente… tenente!”
All’improvviso quella voce che sembrava provenire da tanto lontano, forse solo da un sogno.
O da una favola.






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Suonino le trombe, mi sono finalmente ricollegata al prologo e dunque ho terminato la parte più rognosa della fic, ossia quella che si atteneva al manga.
Anche questo capitolo mi ha dato il suo bel daffare, alla fine ne sono soddisfatta: il punto clou è costituito dalla famosa scena con Envy, lì si raggiunge proprio l'apice della tensione e del rapporto Roy - Riza. Qualcuno potrà dire che ho "trascurato" la parte successiva, ossia quando viene ferita... ma proprio perché si riccolega al prologo, in parte l'avevo già trattata.
Comunque mancano solo due capitoli (in discesa, si spera), quindi riesco a terminare prima della partenza per le vacanze.

A presto :)

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Capitolo 32
*** Capitolo 31. Risveglio ***


Capitolo 31
1916. Risveglio




 
Il primo rumore che sentì dopo quello che sembrava un lungo e riposante sonno fu il cantare di un uccellino poco distante da lei. Contemporaneamente alle sue narici arrivò uno splendido odore di cornetto appena sfornato con marmellata accompagnato da quello intenso del caffè.
“Breda, se non ci fossi tu ti dovrebbero inventare – disse una voce carica di soddisfazione – la colazione dell’ospedale proprio non fa per me. Fossi malato, poi: sono semplicemente senza vista”
“Siete tutti deperiti senza di me, colonnello: guardi Fury ha perso almeno otto chili. Ma adesso ci penso io a rimettervi in sesto. Tranne te, Falman: magro ti ho lasciato e magro ti ritrovo”
“Lieto di essere una certezza, sottotenente”
“Mamma mia, che bontà: in trincea me le sognavo simili delizie”
“Mangia, ragazzino, ne hai proprio bisogno”
Com’erano familiari e rassicuranti quelle voci: facevano da perfetto contorno a quell’odore, a quei rumori di natura che venivano da poco lontano. Riza ebbe quasi la certezza che, come si fosse alzata, si sarebbe trovata davanti ad una bella tavola imbandita per la colazione, con tutta la sua squadra assieme a lei: come quella vecchia foto dove erano tutti assieme in un tavolino di legno nel parco intenti a consumare il pranzo.
Ehi, allora che aspetti a svegliarti? – le chiese una vocina interiore.
“Comunque facciamo piano – disse una voce gentile – la signora sta ancora dormendo. Cosa ha detto il medico stamane?”
“Sta bene, la ferita al collo è in buone condizioni, ma è necessario che riposi molto: le hanno fatto più trasfusioni per tutto il sangue che ha perso. In fondo sono passati solo due giorni. A proposito, come procedono le cose al Quartier Generale?”
“Fervono i lavori, ma pare che la popolazione abbia accettato abbastanza bene la nuova situazione. Anche se sono addolorati per la dipartita di Bradley, sono in qualche modo rassicurati nel vedere che l’esercito è presente e sta rimettendo le cose in ordine”
“A proposito di questo: ho ricevuto una comunicazione del generale Grumman. Arriverà qui tra qualche giorno”
“Quella vecchia volpe non perde tempo. Credo che sarà fin troppo veloce a prendere il ruolo di Comandante Supremo. Ma per adesso va bene così: non è il caso di bruciare le tappe”
Riza a quel punto aprì gli occhi, ben consapevole di trovarsi in ospedale: permise all’odore di disinfettante di aggiungersi a quelli più piacevoli che aveva sentito prima. Così come permise al suo corpo di percepire il lieve tirare dei piccoli punti che chiudevano la ferita sul collo. Si sentiva riposata e pronta ad iniziare una nuova giornata impegnativa, sebbene obbligata in quel letto.
“Buongiorno a tutti” salutò con voce impastata, trovandosi così a suo agio con la sua squadra da non far caso al pigiama sgualcito ed ai capelli sciolti ed arruffati.
“Buongiorno, tenente – Fury le fu subito accanto – Ci scusi se l’abbiamo svegliata”
“Tranquillo, credo di aver dormito abbastanza per adesso”
“Prima che passi l’infermiera con quella parodia di colazione le posso offrire caffè e cornetti caldi? – propose Breda con una strizzata d’occhio, mostrando un sacchetto di carta ed un thermos ancora posato sul comodino – Con questi vede come si riprende molto più in fretta”
“Non posso che concordare con lui – annuì Mustang, girandosi verso di lei come se quegli occhi grigi per la cecità potessero osservarla – ti consiglio quello con sopra la granella”
 
E così il giorno della promessa era passato e, in qualche modo, erano riusciti a sconfiggere il padre e gli homunculus. Era Edward quello a cui andava attribuita la vittoria, ma avevano tutti contribuito e dunque si poteva definire un trionfo collettivo. Certo era stato pagato a caro prezzo: tantissimi morti, il Quartier generale per la maggior parte distrutto e ovviamente un vuoto di potere che al più presto doveva venir colmato. Personalmente Riza aveva ricevuto quella tremenda ferita al collo che l’aveva portata vicinissima alla morte, ed era stata solo l’alkaestry della principessa di Xing a salvarla in extremis: i medici erano ottimisti sulla sua guarigione e parlavano solo di una settimana di degenza in ospedale, in modo che recuperasse del tutto il sangue perso. Con tutta probabilità le sarebbe rimasta una cicatrice biancastra, ma era l’ultima delle sue preoccupazioni.
Chi invece aveva subito di più era stato il colonnello che aveva pagato l’attraversamento forzato del portale con la perdita della vista. Era stato un duro colpo scoprire una simile disgrazia durante la battaglia, ma non si erano persi d’animo: avevano combattuto fino all’ultimo, facendo leva su quella perfetta sintonia che ormai intercorreva tra di loro.
Certo era che, ora che la situazione si era stabilizzata ed il pericolo era cessato, quell’handicap fisico si presentava come un bel problema per un uomo ambizioso come Mustang. Anche se lui sembrava non farci caso, deciso ad andare avanti a prescindere, Riza e gli altri si rendevano conto che la sua carriera militare poteva subire una brusca battuta d’arresto, mandando in frantumi tutti i suoi sogni di gloria.
Vederlo fare completo affidamento sui ragazzi, affinché gli leggessero informazioni su Ishval, come se la ricostruzione di quel paese iniziasse la settimana successiva, le procurava una notevole fitta al cuore. Ma subito la ricacciava indietro, dicendosi che era solo una stupida a vedere il lato negativo delle cose.
Erano vivi, erano di nuovo assieme: avevano subito il distaccamento delle loro anime, un’esperienza terribile, eppure erano sopravvissuti e se l’erano cavata, a ben pensarci, con poco. Invece di rimuginare sulle difficoltà doveva seguire l’esempio del colonnello ed aiutarlo come poteva.
Certo che… con gli occhi di quello strano grigio sembra una persona completamente diversa, signore – pensò una mattina, mentre attendevano che il resto della squadra arrivasse con il solito carico di libri.
Guardò con discrezione quella figura seduta nel letto accanto al suo che fissava fuori dalla finestra, probabilmente guidato dai rumori che provenivano dal cortile dell’ospedale. In quel momento in cui non credeva di essere osservato, aveva concesso al suo viso di assumere un’espressione di malinconia: come se stesse pensando agli alberi, agli uccelli, al cielo… quasi a cercare di imprimersi il loro ricordo ora che non avrebbe avuto più occasione di vederli.
“Pare che dovrò fare sempre affidamento su di te da d’ora in poi, tenente” mormorò infine, girandosi verso di lei e sorridendo mestamente.
Riza rispose a quel sorriso, sicura che lui avrebbe capito, proprio come aveva capito che lo stava guardando mentre era volto verso la finestra.
“Sa che potrà sempre contare su di me, colonnello” rispose con semplicità.
“Fa strano sentire questa quiete nella stanza – proseguì lui dopo qualche secondo di silenzio – ho scoperto che senza la vista tendo ad essere molto più sensibile nei confronti dei suoni. Persino il silenzio ha un suo strano rumore”
“E’ un bene che il corpo reagisca in questa maniera: cerca di colmare la lacuna e la rende più reattivo”
“Ho sempre adorato questo tuo lato pragmatico, sai? – ridacchiò lui – Devo ammettere che ci sono state solo due occasioni in cui mi sono reso conto del silenzio: una, come puoi ben immaginare, era durante le notti ad Ishval… credo che quel silenzio l’avrai sentito pure tu”
“Ti rimane impresso nell’anima – annuì Riza – come potrei dimenticarlo. E qual è stata l’altra occasione?”
“A casa tua”
Quell’affermazione lasciò stupita la donna. Mai e poi mai in tutti quegli anni di lavoro assieme era stato ritirato fuori quel pezzo di passato. Automaticamente tornarono tutti i ricordi di quella vecchia villetta malridotta dove il silenzio la faceva da padrone per non disturbare suo padre ed i suoi folli studi.
“Era un silenzio così strano – proseguì l’uomo con un sospiro, abbassando il viso verso il letto – devo ammettere che le prime notti che ho dormito lì ho provato un grande disagio. Capirai, ero abituato a dormire nella stanza che stava sopra il locale di mia zia e quindi i rumori della città e del piano di sotto non mancavano… però, oltre a questa differenza, c’era un qualcosa di tangibile. Come se quell’assenza di rumore racchiudesse qualcosa”
Tensione, infelicità, paura – gli rispose silenziosamente Riza – so bene cosa si provava.
“E anche tu avevi quasi paura di respirare. Non eri solo discreta: era come se avessi paura di esistere”
“E’ un periodo completamente dimenticato, signore – sorrise, scuotendo il capo con noncuranza – del resto sa bene che persona particolare fosse mio padre. Non era proprio un ambiente per una ragazzina”
“Già, proprio non lo era… ma perdonami, erano solo vaneggiamenti di uno stupido che si deve ancora abituare all’idea che non vedrà più. La verità punisce così coloro che hanno il coraggio di guardare al futuro, no?”
“Non è un qualcosa che merita una punizione, tutt’altro. E lei, signore, non ha bisogno degli occhi per guardare al futuro: del resto ha già visto tutto nei suoi sogni”
“Povero me – rise amaramente – in questi primi giorni ammetto che è difficile. Ho paura che piano piano i ricordi dei colori, degli oggetti e di tutto il resto svaniscano. Forse era più facile nascere ciechi piuttosto che diventarlo: non si può perdere qualcosa che non hai mai avuto”
“Colonnello, non si lasci andare così – Riza si alzò in piedi e andò accanto al suo letto: sentì un lieve senso di debolezza nel fare quei pochi passi, ma non ci fece caso – non è da lei. Io ed i ragazzi le saremo sempre accanto, non ne deve dubitare. E poi, chissà, proprio come Alphonse ha recuperato il suo corpo, un giorno pure lei recupererà la vista”
“Già, Alphonse… sono felice per quei due, sul serio – sorrise con sincerità l’alchimista – finalmente hanno chiuso quel doloroso capitolo delle loro vite. Appena potranno torneranno nel loro paese, dalla loro amica, e le loro esistenze saranno meravigliosamente normali. Se lo meritano”
“Presumo che non direbbe mai queste cose davanti ad Edward” ridacchiò Riza.
“Quali cose? – sogghignò – Non ho mai detto niente in merito”.
 
La soldatessa non l’avrebbe mai detto che la sua speranzosa ipotesi di recuperare la vista si concretizzasse in pochissimo tempo. Quello stesso giorno, mentre erano impegnati nel solito studio su Ishval, vennero a trovarli il dottor Knox ed il dottor Marcoh, quest’ultimo recante con se una pietra filosofale.
A Riza venne quasi da piangere per la gioia quando si rese conto che il colonnello avrebbe recuperato la vista in così breve tempo: quegli occhi grigi sarebbero tornati di quel caldo nero del quale aveva imparato a riconoscere la minima sfumatura e del quale non poteva fare a meno di adorare la morbidezza che assumeva in pochi e scelti momenti.
“… userò la pietra solo dopo che ne avrà usufruito un'altra persona”
Erano state queste le parole di Mustang dopo che il dottor Marcoh aveva esposto le sue condizioni e Riza aveva sorriso, ben intuendo quello che voleva dire. Era giusto così, finalmente sarebbe sparito il senso di colpa per la paralisi di Havoc: la squadra sarebbe tornata unita, con quel prezioso elemento che si era allontanato solo per un breve periodo.
Del resto il colonnello l’aveva detto che avrebbe atteso Havoc quando sarebbe stato in cima.
 
Così, nemmeno sei giorni dopo era in divisa, perfettamente a suo agio con la lieve fasciatura quasi del tutto nascosta dal solito maglioncino a collo alto. Osservava il cortile dalla finestra della stanza d’ospedale, attendendo l’arrivo di Havoc e Breda dalla stazione: in una panchina poco sulla destra poteva vedere Falman e Fury che chiacchieravano tranquillamente e poteva immaginare come il sergente stesse ascoltando estasiato qualche racconto riguardante Briggs. Era una scena così quotidiana da farle venire un sussulto al cuore per la gioia.
“Gran giorno oggi, tenente – sorrise Mustang, più allegro del solito, indossante la divisa piuttosto che il pigiama d’ospedale – finalmente ci liberiamo di queste imprevisti e possiamo tornare a lavoro, no? Ho intenzione di tornare il più presto possibile ad East City, ci sono un sacco di cose da fare”
“Ne potrà parlare con il generale Grumman, allora – dichiarò Riza di rimando – sta giusto attraversando il cortile in questo momento e presumo sia qui per visitarla”
“Ah, quella vecchia volpe di tuo nonno ha finalmente deciso di venire a trovarmi: beh, ha fatto giusto in tempo dato che domani verrò dimesso”
Si sorrisero con complicità, ben sapendo che quella non sarebbe stata una semplice visita di cortesia: Falman, che era quello che maggiormente controllava la situazione al Quartier Generale, aveva detto che a breve Grumman avrebbe preso il ruolo di Comandante Supremo, proprio com’era stato pronosticato: una nomina che accontentava un po’ tutti quanti dato che si presentava come il compromesso giusto tra passato e futuro.
“La aiuto a sistemarsi la giacca – si avvicinò lei – si vorrà presentare al meglio, no?”
Poi si avvicinò alla porta e dovette aspettare solo pochi minuti prima di veder comparire suo nonno con alcuni uomini di scorta. Immediatamente Grumman fece loro cenno di attenderlo fuori dalla porta, chiudendola alle loro spalle.
“Presumo che sia il caso che li raggiunga” dichiarò Riza con un cenno del capo
“Aspetta tu, signorina – la prese per mano il vecchio generale – fatti vedere…”
Le sfiorò con delicatezza la lieve fasciatura che sporgeva dal maglioncino e poi le posò la mano sulla guancia. Negli occhi violetti si lesse un grande sollievo
“Vediamo di non spaventare più questo povero vecchio, mi raccomando – si raccomandò Grumman – ci tengo alla mia unica nipotina”
“Cercherò di non recarle più simili preoccupazioni, generale – arrossì dolcemente la giovane, dimentica di quanto potessero essere piacevoli quelle rare carezze – non deve temere”
“Molto bene, adesso puoi andare – il tono si fece quello solito, furbo e irriverente – ho parecchio da dire a questa canaglia di ragazzo: ho grandi idee per il suo futuro”
 
Nemmeno un’ora dopo il colloquio tra Grumman ed il colonnello si era concluso e nella stanza era presente tutta la squadra. L’attenzione era rivolta al letto ormai vuoto di Riza dove si era appena disteso prono Havoc che il dottor Marcoh stava visitando con attenzione, tastandogli la schiena.
“Bene, ho individuato la lesione – annunciò infine il medico, prendendo la pietra filosofale– Ora rilassati”
“Come vuole, dottore” annuì il biondo
Riza non poté fare a meno di torcersi le mani con apprensione mentre vedeva un lieve bagliore sprigionarsi da quella pietra. Non le sembrava vero che il suo caro amico, finalmente, riprendesse l’uso delle gambe: quella distorsione della sua vita stava tornando normale… fu persino grata dell’esistenza della pietra filosofale, sebbene sapesse a che prezzo era stata creata. Ma per motivi simili ne poteva tollerare l’utilizzo.
Adesso Havoc sarebbe tornato il solito rumoroso elemento della squadra e, per qualche assurdo motivo intuì che anche Rebecca, tornata ad East City quasi subito dopo il giorno della promessa, ne sarebbe stata più che felice.
“Ho finito” disse il medico dopo cinque secondi di quel trattamento, interrompendo quei pensieri
“Cosa? – si stupì Havoc – Ma non ho sentito nulla”
“Provare per credere, soldato. Muovi le gambe”
Il soldato ubbidì esitante a quell’ordine e mosse entrambi gli arti inferiori, senza apparente difficoltà.
“Oh merda… ha funzionato davvero!” esclamò alzandosi in piedi e posandosi alla testiera del letto.
“Non è necessario esitare così – disse il medico – sei completamente guarito”
“Ah si?” Havoc si mosse distrattamente per la stanza, come se volesse continuare a collaudare le gambe.
“Wah! – esclamò Fury rompendo quel silenzio carico di meraviglia – Signore! E’ guarito davvero!”
“Ho bisogno di un’ultima prova! – esclamò Havoc accostandosi a lui e prendendolo rapidamente per la vita per sollevarlo sopra la sua testa con braccio – Allora sergente! Come ci si sente a guardare il mondo da una prospettiva così alta, eh?”
“Sottotenente, no!” esclamò Riza, accostandosi a lui con ansia.
Una scena così assurda, ma che era così spontanea per loro: quante volte era successo in ufficio di vedere esibizioni simili? Tante, forse troppe, ma in qualche modo era stupendo… anche se non era proprio il sentimento che mostrava Riza in quel momento.
“Che cosa sta facendo quello scemo?” chiese Mustang
“Niente capo! – sghignazzò Breda – Havoc ha appena deciso di far provare a Fury l’ebbrezza del volo. Come va lassù, ragazzo?”
“Mi metta giù, per favore!” supplicò Fury annaspando
“Beh, se sollevare un nanetto come te e non mi crea problemi di cedimento, direi che sono guarito davvero! – ridacchiò Havoc  – E poi di che ti preoccupi Fury, ti farei mai cadere?”
“Non mi farebbe mai cadere, signore. Però… sto seriamente rischiando di rigettare su di lei la colazione, se non la smette di premere sul mio stomaco”
“Cosa? - esclamò il biondo affrettandosi a farlo scendere – Non ci provare!”
“Bene, è una scena che ho evitato volentieri di vedere” commentò il colonnello con un sospiro.
Ci fu ancora qualche secondo di ilarità generale mentre Riza si accostava a Fury verificando che non ci fosse nulla di fuori posto. Riuscì persino a lanciare un occhiataccia ad Havoc e dargli una gomitata sullo stomaco.
Poi il dottor Marcoh si schiarì la gola e si rivolse a Mustang
“Come d’accordo ho guarito prima il suo uomo. Adesso le ridarò la vista, colonnello: così potrà adempiere a quanto promesso”
A quelle parole tutta la squadra si mise in riga davanti al letto del colonnello, lanciandosi occhiate trepidanti, come se quello fosse il momento che avessero atteso per tutto quel periodo che era iniziato con l’arrivo di Scar. Era la loro vera promessa, il loro personalissimo scopo: adesso avrebbero potuto iniziare la scalata verso l’alto che preparavano da tempo.
A Riza il cuore batteva a mille mentre il bagliore della pietra filosofale splendeva davanti al viso di Mustang che teneva le palpebre abbassate. Furono cinque interminabili secondi, ma alla fine il medico si scostò dal suo paziente che, con esitante lentezza aprì gli occhi.
Rivedere quelle iridi nere come la notte fu il momento più bello degli ultimi giorni per Riza.
“La sua squadra è pronta a qualsiasi azione, signore!” esclamò con voce salda facendo un perfetto saluto, imitata immediatamente da tutti gli altri.
Mustang annuì, fissando ciascuno di loro, come se quella fosse la più normale giornata d’ufficio. Poi si rivolse al dottor Marcoh
“Non si preoccupi dottore: la mia squadra mi aiuterà a ricostruire Ishval… e io non potrei chiedere un sostegno migliore”
 
Lasciarono l’ospedale che ormai era il tramonto.
Il colonnello, in quello che Havoc aveva definito uno strano momento di magnanimità, aveva deciso di invitare loro la cena in un ristorante di specialità dell’Ovest che Breda aveva tanto decantato.
Lui e Riza camminavano dietro il quartetto spensierato di compagni di squadra, godendo finalmente di quella calma passeggiata nella tiepida brezza del tramonto primaverile: era tutto così perfetto da sembrare surreale. In quel momento erano tutti tesi a godersi quella serata, lasciando da parte per qualche ora i progetti futuri e i dolori passati. Era un qualcosa che si dovevano da troppo tempo
“Me ne sto già pentendo…” borbottò Mustang osservando Havoc che agitava un pugno in aria, chiaro segnale che aveva intenzioni più che bellicose per quella sera.
“I ragazzi sono solo felici di essere tutti insieme – sorrise Riza – Per loro vuol dire molto che la squadra sia di nuovo riunita”
Voleva dire tantissimo anche per loro due, ma era sottinteso: certe cose non era nemmeno il caso di dirle.
Il colonnello attese qualche secondo prima di rispondere, come se stesse riflettendo su qualcosa di estremamente importante.
“Già. Sai, tenente,lo so che importerà a pochi, però quei quattro avrebbero…” esitò, come se fosse sorpreso delle sue stesse conclusioni.
“Avrebbero cosa, signore?” chiese Riza con perplessità.
“Quando ho capito che la faccenda andava oltre Scar, ho temuto per loro ogni momento – cercò di spiegarsi lui – E loro avrebbero potuto fuggire via, chiedermi di tornare ad East City e io non avrei obbiettato… avrei firmato loro quell’ordine senza pensarci due volte. Invece sono rimasti ad affrontare qualcosa che era decisamente troppo grande per loro e che poteva… anzi, ha seriamente rischiato di ucciderli tutti”
“Non l’avrebbero mai lasciata, signore, lo sa bene”
“Sono stati fantastici – continuò Mustang – non si sono persi d’animo nemmeno quando tutto sembrava perduto. Sono rimasti uniti per quanto ci fossero distanze incredibili tra di loro: si sono confortati a vicenda, sapendo che uno era accanto all’altro… che fosse nella parete di Briggs o nelle trincee di Fotcett, che si combattesse contro Creta o contro la perdita della possibilità di camminare. Loro… tenente, loro sanno poco o niente di alchimia, eppure sono stati un perfetto cerchio alchemico”
“Signore?” Riza cercò di capire quel ragionamento, ma proprio non ci riusciva.
“Uno a nord, uno ad ovest, uno a sud…e uno che poi è tornato ad est. Erano ai quattro angoli di Amestris, e hanno creato un cerchio di energia invisibile: una specialissima alchimia, solo per loro quattro. E noi due ne eravamo al centro, in qualche modo protetti e coinvolti”
A quella spiegazione la donna non poté fare a meno di sorridere: quell’idea di alchimia le riusciva più gradita di quanto avesse mai creduto.
“Sì è vero – annuì – e quando uno aveva bisogno d’aiuto, gli altri riuscivano sempre a sostenerlo. Così è stato per Havoc quando è stato ferito e così è stato per il nostro piccolo sergente, quando la trincea lo stava per uccidere”
“Lui è quello che mi ha fatto temere di più, ma grazie ai suoi compagni ce l’ha fatta anche questa volta –  ammise Mustang – E’ che non ha ancora ventidue anni, ma appena sarà possibile, tra un annetto, una bella promozione a maresciallo se la merita, così come promuoverò Havoc e Breda”
“Fury è davvero maturato così tanto da quando arrivò da noi più di tre anni fa – sorrise Riza con grande orgoglio – Anche quando stava per partire ed era spaventatissimo ha sempre cercato di mostrarsi coraggioso per rassicurare tutti gli altri”
“Anche se era difficile credergli… non sapeva proprio nascondere la sua paura”
“Ma, nonostante tutto, ha trovato la forza di dare conforto a me” ricordò lei con estrema tenerezza.
“Eh?”
“Pensavo che le radio di Fury sono ancora a casa mia”
“Ah sì, la sua strumentazione infernale. Beh, di certo sarà un vero piacere vederlo tornare a gingillarsi con le sue radio: – sorrise Mustang – è difficile pensare a Fury senza cuffie al collo per molto tempo, vero? E’ un po’ come pensare ad Havoc senza una sigaretta in bocca”
“O come Falman senza un libro, o Breda senza qualcosa da mangiare” ridacchiò lei, spensierata come non era da mesi e mesi, forse da un anno e più.
“Sai tenente, se ci fosse una storia che narrasse tutta questa vicenda, quei quattro sarebbero solo citati… gli uomini del grande alchimista di fuoco che ha aiutato i fratelli Elric a salvare il mondo. Probabilmente solo noi due sappiamo cosa hanno realmente passato e che coraggio incredibile hanno avuto: sono semplici soldati, eppure c’è molto da imparare da loro. Sono così dannatamente orgoglioso che siano i miei uomini”
“E allora dimostri più entusiasmo ad andare a cena con loro – sorrise Riza con indulgenza – E poi, insomma, non penso che si comporteranno così male, per quanto siano un po’ euforici”
“E per festeggiare: oggi facciamo ubriacare Fury!” gridò la voce di Havoc
“Cosa?” protestò l’interessato
“Cosa dicevi a proposito del loro comportamento, tenente?” ridacchiò Mustang
“Niente, signore: – sospirò lei – mi accerterò solo che si contengano il minimo indispensabile e che non riducano il sergente come altre volte”
“Sarà una bella impresa… come quella che hanno fatto loro – poi si rivolse al gruppo –  Ehi voi, ricordatevi che se riducete Fury a un relitto, poi dovete pensare anche a rimetterlo in piedi entro domani mattina”
“A qualcuno potrebbe interessare il fatto che io non voglia bere?”
"Ovviamente no, Fury!" ridacchiò Breda
 Mentre il quartetto proseguiva in quella discussione, Mustang si girò verso di lei e le strizzò l’occhio.
“Ti prometto che prima o poi faremo una cena noi due da soli”
Era una battuta? Una semplice proposta tra superiore e sottoposta? Riza non lo seppe, si limitò a sorridere ed annuire, senza chiedersi se mai una cosa simile si sarebbe concretizzata.
Voleva solo godersi gli ultimi raggi di quel sole tiepido che le accarezzavano il viso, facendola sentire viva.








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Per quanto abbia seguito fedelmente la trama del manga, per quest'ultima parte sono sempre stata propensa alla versione dell'anime, dove la proposta del dottor Marcoh arriva che Roy è in ospedale, qualche giorno dopo il giorno della promessa. Lo trovo più che giusto, soprattutto per la richiesta di guarire Havoc: non tanto perché l'idea di una riabilitazione normale mi sia sgradita (anche se lo trovo un po' contradditorio con il fatto che prima avessero detto che il danno ai nervi era tale che nemmeno gli automail potevano risolvere), ma perché è proprio da Roy pensare al suo sottoposto (specie dopo quelle bellissime ed intense scene quando Havoc prende congedo).
Anche in questo capitolo ho attinto a piene mani dalla fiction Il cielo sopra la scacchiera: la scena della guarigione di Havoc e quella della successiva andata a cena le avevo già scritte per quell'occasione, sebbene le ultime frasi tra Roy e Riza le abbia aggiunte ex novo per l'occasione.
Bene, manca solo l'epilogo che conto di postare entro questa settimana :)
A presto

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Capitolo 33
*** Epilogo. 1917. Guardando verso il futuro ***


Epilogo
1917. Guardando verso il futuro




 
“Va bene, ti concedo di essere sincera – annaspò Rebecca con aria trafelata, lisciandosi per l’ultima volta la larga gonna dell’abito da sposa e guardandosi allo specchio – sono ridicola, vero?”
“Sei ridicola nel farti tutte queste paranoie – sbuffò Riza, non riuscendo a reprimere un sorriso. Le andò accanto e le mise le mani sulle spalle – sei bellissima, Reby, sul serio”
“Dannazione – sospirò la mora, guardando le loro immagini riflesse allo specchio, sposa e damigella d’onore – ci pensi che tra poco sarò la signora Havoc? Credi che stia facendo il più grosso errore della mia vita a legarmi per sempre a quell’idiota?”
“Credo che quell’idiota stia facendo le medesime domande al povero Breda – la prese in giro Riza, posando il capo sulla spalla dell’amica, i corti capelli biondi che andavano a mischiarsi con quelli scuri e mossi – ehi, Rebecca Catalina, ti ricordi quando in accademia mangiavamo di nascosto i cioccolatini e mi parlavi dei tuoi grandi progetti d’amore? Direi che ce l’hai fatta, no? Forse lui non è ricchissimo e di successo come ti immaginavi, ma a parer mio è molto meglio: è quello giusto per te, credimi”
Nemmeno otto anni fa… così poco tempo era passato da quando erano cadette d’accademia della generazione votata alla guerra. Eppure sembrava un’esistenza intera, specie ora che davanti a una di loro si spalancavano le porte di una vita completamente diversa. Ormai Rebecca da qualche mese non era più una soldatessa dato che le leggi anti fraternizzazione impedivano a due militari di sposarsi, ma nella coppia nessuno aveva mai avuto dubbi su chi avrebbe lasciato la divisa. Del resto non era sempre stato quello il progetto della mora?
“L’accademia e le nostre festicciole notturne – sospirò Rebecca, mentre il suo viso si ammorbidiva in un sorriso stranamente dolce e nostalgico che faceva intuire quando buono fosse il suo animo – sai, amica mia, quando ero in guerra ed il pericolo di morire era sempre dietro l’angolo, la notte mi veniva da piangere e mi dicevo che non era giusto: mi dicevo che non sarei dovuta morire così giovane, che mi dovevo sposare e aver te come damigella d’onore… supplicavo che la guerra non mi portasse via tutti questi progetti. Ed ora eccoci qua: 12 luglio 1917, il mio matrimonio”
“Ehi, sposa – le consigliò l’amica, sistemandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio – le lacrime per dopo. Adesso rischi di rovinarti il trucco”
“Beh dai – tirò su col naso la mora – mi distrarrò pensando al fatto che a questo giro non ti sei potuta tirare indietro: vedere Riza Hawkeye in un così bell’abito da damigella è un evento più unico che raro. Le foto verranno conservate con cura, parola mia: sono da lasciare ai posteri”
“Davvero spiritosa!” fece un finto broncio l’altra, tuttavia affascinata dall’abito azzurro chiaro che metteva splendidamente in risalto la sua persona. Quasi quasi rimpiangeva di essersi tagliata i capelli qualche mese prima: lunghi e sciolti sulla schiena avrebbero fatto una gran figura.
“Ehi, sorellona – chiamò la sorella di Rebecca, bussando discretamente alla porta – mamma dice che è ora di andare. Hai finito di prepararti?”
“Sono pronta – rispose lei – un minuto e scendiamo”
Le due amiche si guardarono ancora per qualche istante riflesse nello specchio: i loro corpi giovani, i loro visi freschi e ridenti sembravano parlare solo di speranza per il futuro. Niente dolore o paura, la guerra così come quanto era successo poco più di un anno prima dovevano essere lasciati da parte: quel giorno, per quel matrimonio, ci dovevano essere solo gioia e felicità.
“Sei pronta, Catalina?” chiese Riza, stringendole la mano.
“Mai stata più pronta” rispose Rebecca.
 
Diverse ore dopo, quando ormai il sole iniziava a calare, il cortile dove si era svolta la grande festa vedeva ormai pochi invitati. Si respirava una grande tranquillità tra quei tavoli ormai vuoti con le tovaglie bianche spiegazzate, dove ancora stavano piattini con resti di torta, bicchieri ancora pieni a metà, bottiglie, confetti, petali di fiori bianchi e rosa… era la conclusione di un matrimonio ben riuscito dove si era festeggiato alla grande con risate, scherzi, canti e balli.
I neo sposi erano esausti: si erano lasciati andare in un dondolo che stava leggermente lontano dai tavoli e sembravano chiacchierare sommessamente, Rebecca sdraiata con la testa posata sul grembo del marito. Le gambe erano comodamente sul bordo del dondolo e la gonna dell’abito si era in parte sollevata, lasciando vedere i piedi ormai scalzi e le gambe snelle e candide. Havoc, rimasto in camicia e con la cravatta mezzo sciolta, teneva il braccio sinistro dietro la nuca mentre il destro stava posato sul ventre di lei.
Riza in quel momento decise di imitare l’amica e si levò le scarpe con discrezione, emettendo un sospiro di sollievo quando i suoi piedi furono finalmente liberi da quella tortura. Calzature bellissime, per carità, ma non avevano un briciolo della comodità degli stivali militari.
Si passò una mano tra i corti capelli biondi e spostò lo sguardo sul bouquet che giaceva sul tavolo vicino a lei.
Ancora non riusciva a capire come le fosse capitato tra le mani, rimbalzando tra varie invitate che avevano cercato di prenderlo al volo nel momento del lancio.
“Sarai la prossima a sposarti, tenente, ne sei consapevole?” chiese Mustang sedendosi accanto a lei e offrendole un bicchiere pieno di succo di spremuta d’arancia. Una vera fortuna dato che non aveva nessuna voglia di eccedere con gli alcolici e i brindisi in onore degli sposi le erano già bastati.
“E’ solo una tradizione – scosse il capo lei, sfiorando appena il nastro bianco alla base del bouquet – senza contare che mi è praticamente caduto addosso: credo che sia valido solo se cerchi di prenderlo. Gli altri sono andati via?”
“Falman con moglie e figlio sono andati via già qualche ora fa”
“Sì, loro li ho salutati. Spero che lei stia bene, non aveva una bella faccia nell’ultima parte del ricevimento”
“Forse sono stati il caldo e la stanchezza, tutto qui”
“Fury e Breda?”
“Credo che siano da qualche parte dentro il locale, esausti pure loro quanto noi”
“Non ha per niente la faccia esausta, colonnello – sorrise Riza – fa la sua splendida figura come sempre. Tutti gli occhi femminili erano per lei a questo matrimonio”
“Lo scapolo d’oro? – ridacchiò Mustang, allentandosi con eleganza l’ascot grigio scuro. Tutti loro avevano approvato la richiesta di Rebecca di non indossare l’uniforme – Continuo dunque a mantenere questa nomea qui ad East City? Eppure mi sono dato una calmata con le uscite galanti”
“Se ne faccia una ragione”
“Comunque è stata una bella festa, rumorosa com’era tipico di Havoc e della sua consorte: scommetto che a breve ci delizieranno con un marmocchio”
“Con tutta probabilità” Riza non poté far a meno di arrossire, pensando a quando Rebecca le aveva confidato, anni prima, che il suo rapporto con Havoc andava ben oltre i baci.
“Ehilà, eccovi – salutò Breda, arrivando assieme a Fury – ci stavamo giusto chiedendo se eravate andati via senza salutare”
“No, siamo rimasti a goderci questi attimi di tranquillità – strizzò l’occhio Mustang – il tenente è così rilassato che si è persino levata le scarpe”
“Colonnello, la prego!” esclamò Riza, nascondendo i piedi sotto il tavolo dalla lunga tovaglia.
“Oh accidenti! Quale segno di umanità – ridacchiò Breda mentre con il sergente si sedeva al tavolo – non ci faccia caso, signora: quelle scarpe che indossava sembravano tutto meno che comode”
“Hai proprio indovinato…” sospirò lei, pensando con piacere al pediluvio che si sarebbe concessa una volta a casa.
“Non che questi abiti siano da meno – le fece eco Fury – ammetto che preferisco di gran lunga la divisa”
“Coraggio che da domani la rimetti – lo prese in giro Mustang – proprio ieri parlavo al telefono con Grumman e finalmente le mie proposte sulla ricostruzione di Ishval sono state approvate. Da settembre inizieranno i lavori”
“Questa è una grande notizia – annuì Breda, prendendo una bottiglia ancora piena dal tavolo e bevendone un sorso, alla faccia dell’etichetta – e vuol dire che dovremo fare parecchi viaggi da qui ad Ishval. Se la conosco bene, signore, ha intenzione di seguire tutte le fasi da vicino”
“Confermo che mi conosci bene – sorrise con aria di scusa Mustang – del resto è il minimo che possa fare dopo la guerra civile. E questo vuol dire che chiederò alla mia squadra di seguirmi: spero che il clima desertico non vi dia troppo fastidio”
“Pronti come sempre, colonnello” garantì Fury
“Non avevo dubbi, ma suvvia, adesso godiamoci questa quiete di luglio – invitò Mustang – un ultimo giro di champagne in onore degli sposi. E soprattutto in onore dei rispettivi migliori amici, qui presenti al tavolo, che dovranno appianare i futuri litigi coniugali”
Riza e Breda si scambiarono un’occhiata sconsolata, ma come testimone e damigella d’onore si erano assunti anche questo compito. Non era colpa loro se i rispettivi migliori amici avevano dei caratteri simili.
Anche se a vederli ora non si direbbe – sorrise la bionda, guardando poi i due sposi.
Per loro ne sarebbe valsa la pena.
 
Poco più di un mese dopo, a fine agosto, mancava ormai poco alla partenza per quella che sarebbe diventata New Ishval. La vecchia linea ferroviaria che, anni prima, aveva trasportato tanti soldati al fronte, era stata rimessa a nuovo e nelle ultime settimane aveva visto un grosso traffico di materiali da costruzione, scorte alimentari, operai e, soprattutto, tantissimi ishvalani che avevano raccolto l’invito a tornare nella loro terra natia.
Il primo settembre sarebbero iniziati ufficialmente i lavori di ricostruzione: un progetto ambizioso che prevedeva una vera e propria rifondazione di Ishval. Sarebbe stato un percorso lungo e difficile, su questo non c’erano dubbi: se la ricostruzione materiale non avrebbe creato troppi problemi, ben altro sarebbe stato trovare un giusto equilibrio tra il popolo dagli occhi rossi e la gente di Amestris. New Ishval, nell’idea di Mustang, si profilava come una zona con diverse autonomie rispetto agli altri distretti e questo non sarebbe piaciuto a molti. Senza contare che una buona parte degli ishvalani, a lavori completi se non prima, avrebbe preteso una completa indipendenza.
Insomma ci sarebbe stato davvero tanto lavoro da fare, ma il colonnello con la sua squadra non ne erano spaventati, piuttosto motivati. In particolare Riza finalmente vedeva realizzate le parole di quel giovane soldato che, anni prima, gli confidava le sue speranze davanti alla tomba di suo padre. Era quello il ruolo che l’esercito doveva avere: aiutare le persone, non distruggere.
Lo pensò proprio mentre la jeep si fermava davanti alla vecchia villetta degli Hawkeye, in un piccolo angolo di mondo dove non credeva avrebbe mai rimesso piede.
Il cortile ormai invaso dalle erbacce, dove uno dei pali che sostenevano i fili per stendere era crollato, ormai marcito. Per il resto il davanti del villino era coperto da rampicanti, muffe e quanto altro dando un senso d’abbandono veramente tangibile.
Del resto erano passati più di dieci anni.
Dal retro della jeep recuperò alcune scatole di cartone: la sua intenzione era di recuperare i vecchi libri di poesia di sua madre, ma in realtà qualche giorno prima, visitando la tomba della signorina Elliot, si era resa conto che era da tanto tempo che non tornava lì. E forse era il caso di chiudere i conti anche con quel passato.
“Riza Hawkeye, sei davvero tu?” disse una voce che riaffiorava dai ricordi.
 
Gli anni passavano anche per la signora Berth, che adesso doveva esser prossima ai settanta.
Eppure la sua figura grassoccia continuava a mantenere quella vitalità che Riza le aveva sempre attribuito. Anche ora che era vedova andava avanti con la sua vita, mantenendo i rapporti con quei pochi vicini che c’erano in quel gruppetto di casette un po’ distanti uno dall’altra.
La sua cucina era sempre immacolata e non mancava mai l’odore di qualche pietanza.
Mentre attendeva che venisse servita una torta con del succo di more, Riza non poté far a meno di notare la tovaglia che sapeva di bucato, i vasetti di fiori alla finestra, le stoviglie ben lavate. E subito fuori l’orticello ed il recinto dove zampettavano allegre alcune galline.
Faceva davvero specie pensare che solo uno steccato di legno separava quella casa tutto sommato confortevole da una villetta ormai in rovina.
“Ma guardati, cara – commentò la donna, arrivando con un piatto da portata con la torta già tagliata a fette – sei davvero splendida. E la divisa ti sta davvero bene”
“La ringrazio, signora, e lei non è molto cambiata”
“Oh, non me ne parlare, gli acciacchi dell’età si fanno sentire. Quindi vuoi recuperare quei libri, eh? Tua madre ne sarebbe felice. Me li ricordo, stavano nel suo salotto: erano di gran pregio”
“Già”
“Senti, ma poi l’hai più rivisto quel giovane? – chiese ancora la curiosa vicina, dimostrando come l’età non avesse diminuito la sua voglia di pettegolezzo – Sai di chi parlo, dell’allievo di tuo padre”
“Lavoro con lui – spiegò Riza con semplicità – è il mio superiore. Verrà presto nominato generale e si occuperà della ricostruzione di Ishval… sa, la guerra civile di anni fa”
“Ah… ah, sì – annuì distrattamente la donna – forse ne parlava il droghiere la settimana prima. Ma cosa vuoi che ne sappia una povera vecchia di cose così importanti”
Infatti non era il caso di parlarne: fu facile dirottare l’argomento sulla signorina Elliot e su altre cose più frivole. Solo dopo qualche ora la giovane fu finalmente libera di mettere piede nella sua vecchia casa.
La chiave girò con difficoltà nella serratura e la porta cigolò sinistramente mentre un forte odore di chiuso costringeva Riza ad indietreggiare. Lasciando aperta la soglia, andò in cucina ed aprì con difficoltà la finestra e poi procedette a fare lo stesso con quella del salotto. Adesso nella parte anteriore della casa c’era abbastanza luce per vedere lo strato di polvere che si era accumulato negli anni. I mobili, che lei non aveva avuto cura di coprire con vecchi lenzuoli, ne erano pregi e ogni movimento scatenava una piccola tempesta.
Cercando di trattenere gli inevitabili starnuti, Riza si recò in salotto con le scatole di cartone, ricordando quella ragazzina che aveva ingaggiato una lotta estenuante contro la trascuratezza della villetta.
Le sue prime battaglie, le sue prime piccole vittorie.
I piccoli volumi stavano nel mobiletto di legno: fortunatamente la polvere aveva avuto poco spazio per infilarsi ed erano relativamente illesi. Li recuperò tutti, contandoli: tra romanzi e poesie erano una trentina.
Una volta portati fuori li caricò nella macchina e richiuse di nuovo la casa.
Forse non ci sarebbe mai più tornata, ma non poteva dirlo con certezza.
In teoria sarebbe dovuta tornare ad East City, quindi era meglio prendere congedo dalla vecchia vicina e partire.
Ma i suoi occhi si volsero verso il sentiero.
 
Il vecchio cimitero era come lo ricordava, sebbene ci fosse andata solo poche volte nella sua giovinezza. Forse c’era qualche sepoltura in più, ma le due povere tombe, una accanto all’altra, erano sempre le stesse. Qualche ramo in più, l’erba secca attorno, facevano malinconia e tristezza.
La soldatessa si chino accanto a quella di sua madre e levò una brutta erbaccia. Pensò che avrebbe dovuto parlarne a suo nonno, magari le avrebbe dato una sepoltura più degna. Ripensò a quel viso malinconico, devastato dalla tisi… provò dolore, ma durò poco. Era un dolce e triste ricordo che spariva piano piano: aveva smesso di soffrire.
Poi, finalmente, volse lo sguardo a quell’altra.
Berthold Hawkeye 1860 – 1905
Rimase lì a fissarla con aria apatica, mentre la sua mente rimuginava tutto il dolore e la sofferenza che le aveva provocato quella persona che una volta aveva chiamato padre. Gli disse tante cose mentalmente, tutte quelle cose che una ragazzina spaventata non aveva la forza di dire.
Ma ora c’era la soldatessa, la donna.
E i suoi ultimi pensieri, prima di lasciar andare del tutto quella scomoda figura, furono i seguenti
 
E ora sono qui, la quarta ed ultima volta davanti alla tua tomba, papà.
E’ passato tanto tempo: quei due ragazzi che c’erano al tuo funerale sono cresciuti tantissimo e sono riusciti a cambiare il mondo, come avevano sempre voluto.
Non è stato facile e ci è costato tanto dolore e sacrificio, ma ora possiamo guardarci negli occhi e dire che ce l’abbiamo fatta. Persino Ishval sta risorgendo dalle sue ceneri… come la fenice, quell’uccello di fuoco che tanto ispirava la tua alchimia. Ma non è stata l’alchimia a far rinascere quel paese: è stato lo sforzo di decine di persone che ci hanno creduto. C’era anche lui, certamente, ma non è stato per le sue fiamme che io e gli altri l’abbiamo seguito… l’abbiamo fatto perché è una persona eccezionale che non ha mai smesso di sognare e credere, anche quando sembrava impossibile; anche quando tutto il mondo sembrava contro di lui.
Ed, inoltre, sai una cosa, papà? Quest’ultima volta che vengo a trovarti lo faccio con la consapevolezza di non essere sola. Ora ho una famiglia. E non è fatta di legami di sangue… la nostra storia ha dimostrato che a volte questi valgono ben poco.
No, sono semplicemente gli uomini della mia squadra. Vuoi sapere i loro nomi? Roy, Jean, Heymans, Vato, Kain e Black Hayate… persino un cagnolino ha avuto più considerazione per me.
Avresti molto da imparare da loro, caro papà. Impareresti che per cambiare la vita di una persona basta davvero poco, semplici gesti quotidiani che ti fanno sorridere. Mi rammarico: tu non sai cosa vuol dire sentire l’odore rassicurante di una sigaretta, o quello di roba da mangiare che viene puntualmente offerta. Non hai mai visto un sorriso sincero in una persona che ti porge un libro o quello imbarazzato di un ragazzo che ha portato di nascosto in ufficio un cucciolo trovato sotto la pioggia. 
Non sai cosa vuol dire preoccuparsi davvero l’uno per l’altro.
Avresti potuto trovarle in me cose simili, non sai quanto l’avrei voluto, ma non me l’hai permesso. 
Ma con loro è diverso: per loro sono importante e non una persona indesiderata.
Tu non desideravi altro che la tua alchimia. 
Non hai voluto accettare nemmeno che nei suoi occhi brillassero tanti ideali che andavano al di fuori di essa.
Ma l’alchimia per lui non è tutto, anzi, è forse l’ultima delle sue priorità.
Lui non sarà mai come te, Berthold Hawkeye. 
E non hai idea di quanto questo mi renda felice. 

 
Perché adesso lei era felice e guardava al futuro ed era questo che contava.







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E finalmente siamo arrivati alla fine di questa sofferta long su Riza.
La facciamo finire dove era iniziata tutta la sua storia, in quel sperduto angolo di mondo dove si era piano piano affacciata alla vita, supportata da figure come la signorina Elliot e l'allievo venuto da lontano. Ne è passata di acqua sotto i ponti da quegli anni, vero?
Adesso Riza è soldatessa, è donna, è sicura di sè: stare davanti a quella tomba non la mette più in soggezione e così si affranca del tutto dalla figura paterna che tanto l'ha tormentata. Quell'ultimo pensiero l'ho recuperato dalla mia one shot In front of the grave (sì, questa long è stata diverse volte un copia ed incolla di vecchie storie, ma non è colpa mia se Riza era già stata trattata da altri punti di vista e la mia spropositata coerenza u.u)

Bene, che altro dire?
Vi ringrazio sentitamente per avermi seguito anche in quest'avventura: ringrazio chi l'ha recensita (in particolare Green Star, xingxhan, Alsha e narclinghe, ormai mie affezionate lettrici), chi l'ha seguita/ricordata/preferita e così via. Chi vuole lasciare anche una breve recensione finale mi farà davvero piacere :)

Per il resto, chi segue la mia pagina fb (che trovate nel mio profilo), sa già che a settembre ho intenzione di far partire l'atteso seguito di Un anno per crescere, quindi tornerò bella attiva dopo le vacanze.

Un saluto a tutti
Laylath




 

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