Meant to be di Chipped Cup (/viewuser.php?uid=279748)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Un posto in cui tornare a casa ***
Capitolo 3: *** 2. Un incontro da dimenticare ***
Capitolo 4: *** 3. L'anniversario (parte1) ***
Capitolo 5: *** 3. L'anniversario (parte 2) ***
Capitolo 6: *** 4. L'amico di sempre ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Prologo
Belle si
rigirava il solitario
tra le dita, senza sosta, sembrava quasi essersi incantata. Non che
si rendesse veramente conto di quello che stava facendo,
benché meno
faceva caso a ciò che succedeva intorno a lei, troppo
impegnata a
scrutare con i suoi grandi e penetranti occhi blu lo schermo del suo
laptop.
Si dava della stupida da sola
per quello che l'angosciava, ovvero mandare o meno una richiesta
d'amicizia. Ecco, sembrava sciocco solamente dirlo e lei lo sapeva
benissimo, era la prima ad ammetterlo! Odiava tutta quella
tecnologia, quei social... com'era l'altra parola? Ah già,
network.
Belle reputava stupido chiunque preferisse passare delle ore a farsi
i fatti degli altri alla lettura di un buon libro.
Perché si era creata un
account? Non ricordava neanche come fosse successo, in effetti, era
in compagnia di Ruby, poco ma sicuro, la sua amica più
fidata.
Doveva essere stata la ragazza ad insistere tanto, non c'era altra
spiegazione, anzi, ora che ci pensava meglio, ricordava quanto Ruby
volesse che fosse al passo con i tempi e, soprattutto, che non si
comportasse come una vecchia zia zitella. Le aveva detto proprio
così: vecchia – zia – zitella.
Chinò appena il capo verso
destra, le ciglia sbattevano con intervalli regolari mentre, per
l'ennesima volta, leggeva il profilo di Emma Swan. C'era poco da
leggere, a dire la verità.
Donna, ventotto anni,
residente a Boston, luogo di nascita sconosciuto.
Un sorriso amaro si dipinse
sulla faccia della dolce ragazza, soprattutto mentre partì a
sfogliare le foto della giovane. Neal compariva ovunque, sembravano
inseparabili e felici ad ogni scatto. L'ultimo che li ritraeva
insieme risaliva a sei mesi prima: Emma sorrideva felice tra le
braccia del suo promesso sposo. L'immagine del profilo, invece, era
un misero selfie della donna, che lasciava trasparire solamente un
immenso vuoto e un'incredibile tristezza. Data di cinque mesi prima.
Belle sospirò. Aveva parlato
con Emma Swan e le era sempre parsa una ragazza forte e con la testa
sulle spalle, era contenta che il suo figlioccio, Neal, avesse deciso
di chiederle di sposarlo, sembravano fatti per stare insieme. Lei e
Robert, il suo compagno e padre del ragazzo, non avevano potuto
partecipare all'evento per impegni di lavoro, non che si fossero
persi chissà quale grande e spettacolare cerimonia, comunque.
Neal, infatti, si era presentato
a casa del genitore solo una settimana prima ed era rimasto per
quattro giorni in quella che era la città dove era
cresciuto. Era
solo, nessuna fede al dito, poche spiegazioni: aveva lasciato Emma
poco prima di entrare in chiesa. Non era pronto a compiere il grande
passo, diceva.
Ed era per questo che Belle si
era sentita in dovere di fare qualcosa, per quella ragazza. Voleva
contattarla, chiederle se stesse bene, scusarsi per una faccenda che
non la riguardava e per una colpa che a conti fatti non aveva. Ma,
soprattutto, Belle voleva aiutarla. Sentiva come Emma avesse
seriamente bisogno del suo aiuto.
Per questo motivo smise di
tormentarsi, mosse appena il mouse, cliccò due volte e
inviò la
richiesta, non avendo altri modi per contattarla.
Con
un pensiero in meno per la testa, volse le sue attenzioni al piccolo
Roland, piazzato davanti la tv a vedere Il
libro della giungla,
del resto il Signor Locksley
la pagava per fare da baby
sitter al bambino, non per svagarsi su
internet!
Proprio in quell'istante, a
Boston, il telefono di Emma Swan prese a vibrare rumorosamente e
fastidiosamente sulla superficie dura del tavolino sul quale era
poggiato.
La giovane donna, sdraiata sul
vecchio divano di pelle marrone chiaro, sobbalzò
improvvisamente,
portandosi una mano al cuore non appena avvertì il battito
accelerato per colpa del risveglio forzato. Controllò che ore
fossero prima
che lo schermo del cellulare si oscurasse, poi si strofinò
gli occhi
verdi con la mano sinistra, lentamente, provando a fare mente locale.
Si era addormentata? Beh,
sembrava proprio che fosse così, di certo non stava
controllando la
morbidezza (poca) del suo divano. Con tutte le cose che doveva fare
doveva proprio concedersi un attimo di relax? Soprattutto quando una
parte di lei sapeva che sarebbe andata a finire così? Che
sarebbe
crollata in pochi secondi? No Emma, sicuramente non era stata una
buona idea.
Poggiò i piedi, che sarebbero
stati completamente scalzi se non fosse stato per dei calzini di
colore giallo acceso che indossava da quella mattina, a terra, pronta
ad alzarsi. Lo scialle rosso che aveva usato a mo' di coperta cadde a
terra nel momento esatto in cui si ritrovò in piedi. Si
girò ad
osservarlo ma non si prese la briga di raccoglierlo, lo avrebbe fatto
sicuramente più tardi.
Si avvicinò alla dispensa della
cucina, colta da un improvviso senso di vuoto nello stomaco, la sua
pancia reclamava cibo da quando aveva aperto gli occhi poco prima. Si
rendeva conto che erano appena le sei del pomeriggio, ma decise che
avrebbe cenato presto, prima di morire di fame visto che neanche
aveva pranzato.
Cominciò ad aprire vari
sportelli, ma non vi trovò letteralmente niente, niente di
niente.
Nel frigo regnava la desolazione totale. La spesa era una delle tante
cose che doveva fare quella giornata, se solo non si fosse
addormentata!
Sbuffò prendendo il latte,
controllò la data di scadenza – era in anticipo di
un solo giorno,
la vita aveva cominciato finalmente a sorriderle – e richiuse
il
frigo con un calcetto leggero. Afferrò la scatola dei
cereali che
era rimasta sul tavolo da... la mattina precedente?!, una ciotola
pulita e un cucchiaio. Si sarebbe fatta andare bene quella, come
cena.
Poggiò tutto sul tavolo, prese
il telecomando e accese la tv, scoprendo uno stupidissimo reality
show. Si sedette su una sedia con una gamba incrociata e
cominciò a
“prepararsi” da mangiare.
«Complimenti Emma, Masterchef
ti fa un baffo!» Si disse fra sé, mentre mangiava
la prima
cucchiaiata di cereali.
Lanciò uno sguardo alle lettere
accumulate sul tavolo, bollette da pagare, per la maggior parte,
aveva perso anche il conto di quanto doveva sborsare, sperava di
cavarsela con meno di 200$ visto che era tutto quello che aveva al
momento. In realtà non sapeva neanche lei per quale motivo
non le
avevano ancora staccato la corrente elettrica.
No, non se la passava per niente
bene, Emma Swan, o almeno questo era quello che si poteva pensare in
un primo momento. La verità era che ormai si era abituata a
quella
vita, la ferita nel suo cuore non faceva più male da un po'.
Per un
periodo si era sentita naufragare, ma come Robinson Crusoe si era
rimessa in piedi e aveva affrontato ogni difficoltà a testa
alta.
Ehi, le piaceva quel paragone:
Robinson Crusoe! Non aveva mai letto il libro, ma già
credeva di
avere molte cose in comunque con quell'uomo. Tanto per cominciare
entrambi non erano del tutto soli, ma potevano contare sulla presenza
di un amico. Certo, Venerdì c'era sempre per Robinson,
mentre August
era perennemente fuori città per motivi di lavoro. E poi
c'era il
fatto di aver imparato a sopravvivere, era quello che sapeva fare
meglio, Emma.
Era fermamente convinta che lei
non stesse vivendo, ma sopravvivendo, e la differenza era abissale.
E, pensandoci, era anche una cosa molto triste.
Okay, continua pure a prendere
in giro te stessa, signorina Swan, anche se sai benissimo che la tua
vita fa altamente schifo. Schifo come i piatti abbandonati nel
lavandino da tre giorni, o come la spazzatura accumulata fuori, sul
piccolo balcone, da una settimana buona.
«Come potete non eliminare
quell'oca di Charlotte!» Esclamò indignata,
spalancando d'un tratto
la bocca e muovendo così freneticamente il cucchiaio che
aveva in
mano che cominciò a schizzare tutto di latte, rivolta alla
tv e ai
giudici di quella stupida competizione fra modelle, che adesso
piangevano falsamente per l'eliminazione di una rossa, dalle labbra,
naso, zigomi e probabilmente anche seno, rifatti.
Dio, si faceva pena da sola.
Finì di mangiare e si alzò
quasi nello stesso istante, di scatto, neanche avesse ricevuto una
scossa da sotto il sedere. Prese la ciotola osservando di sfuggita,
appena schifata, quella sottospecie di pappetta che si era venuta a
creare per via dell'ultimo sorso di latte e le piccole briciole
mollicce dei cereali. Non finiva mai di bere il suo latte se vi aveva
immerso dentro qualcosa, qualsiasi cosa, cereali, biscotti, brioche.
Odiava immensamente il sapore che assumevano quelle briciole
umidicce.
Posò tutto nel lavandino, fece
per allontanarsi ma poi si bloccò, guardò ancora
una volta la pila
di piatti sporchi ed esitò per qualche istante. La parte
responsabile le intimava di pulire tutto e di mettere in ordine,
quella vocina non smetteva mai di darle della sciatta e a lei tutte
quelle accuse davano fastidio, ma l'altra parte proprio non aveva
voglia. Si disse che lei, in tutta la sua vita, non aveva mai seguito
la vocina saggia e con i piedi per terra del suo cervello, quindi
diede le spalle al lavandino e se ne andò in bagno, per
farsi una
doccia.
Prima però accese la radio, le
note dell'ultimo successo radiofonico riempirono il suo piccolo
appartamento facendole storcere il naso. Non amava la musica
commerciale, non amava gli artisti musicali che andavano ultimamente,
quelli che facevano uscire un videoclip ogni settimana, un singolo
ogni venti giorni e un album di inediti all'anno.
Decise di mettere un cd e
scegliere quale non fu per niente difficile: The Dark Side Of
The
Moon, Pink Floyd, era già pronto, doveva solo
premere play,
non lo riponeva mai nella sua custodia perché non sarebbe
mai stata
stanca di ascoltarlo, lo sapeva, lo sentiva nelle vene. A detta sua
era il miglior album della storia musicale, anche se sapeva di essere
ignorante in materia e di saperne veramente poco. Ricordava la prima
volta che aveva ascoltato quella musica, il suo quinto padre adottivo
aveva un antico vinile di cui andava molto fiero e che custodiva
gelosamente, tanto che Emma doveva aspettare che questo andasse a
lavoro per poterlo ascoltare, la sua madre adottiva la assecondava,
ovviamente, e teneva nascosto tutto al marito.
Sorrise a quei ricordi, la
sensazione di essere voluta per la prima volta, a più o meno
dodici
anni, di essere amata da dei genitori, due persone che le avrebbero
dato anche la luna se solo lo avesse chiesto. Poi il padre aveva
perso il lavoro e, come se non bastasse, poco tempo dopo, quello che
lei aveva imparato a chiamare “nonno” si
trasferì da loro, in
seguito ad un ictus. I soldi scarseggiavano, sua madre faceva turni
impossibili per mandare avanti la famiglia, il padre badava al suo
vecchio ed Emma tornò a sentirsi sola. Ora, a quasi
trent'anni,
poteva affermare con tranquillità di averli perdonati, di
aver
capito che se l'avevano riportata in orfanotrofio era solo ed
esclusivamente per il suo bene, che non avrebbero mai voluto
separarsi da lei se avessero avuto una scelta.
Calpestò i vestiti che si era
appena tolta e che aveva buttato vicino la doccia così da
non
scivolare una volta fuori, con tanto di piedi bagnati, si
legò i
lunghi capelli biondi in una specie di chignon alto e disordinato, ed
andò a mettersi sotto il getto caldo dell'acqua.
«Breathe // breathe
in the air // don't be afraid to care»,
si ritrovò a
cantare senza rendersene conto, la mano sulla faccia a mandare via
l'acqua dagli occhi, i capelli che, nonostante tutte le attenzioni,
cominciavano a bagnarsi, come al solito del resto. Prese a
insaponarsi, respirò lentamente, calma, la mente svuotata da
tutto,
da qualsiasi preoccupazione. Era il momento della giornata che
preferiva proprio per questo, il calore sembrava dissolvere ogni
problema, l'acqua sciacquava e mandava via tutto.
«And all you touch and all
you see // is all your life will ever be».
Aprì gli
occhi di scattò e si poggiò contro la parete
bagnata. I capelli
erano ormai fradici, perciò li sciolse, passandoci poi una
mano
lentamente. Restò in quella posizione per un po', lo sguardo
perso
nel vuoto, tanti, troppi pensieri per la testa. Sapeva che sarebbe
andata a finire così, succedeva ogni volta con quella
canzone.
Alla fine fu distratta dal suono
del campanello. Uscì dalla doccia sbuffando, prese un
asciugamano e
se lo legò intorno al corpo, tanto sapeva già chi
poteva essere
alla porta. Difatti, poco dopo rientrò dentro casa
imprecando
sottovoce contro la vicina di casa che si lamentava del volume della
musica. Un classico.
Indossò il pigiama e tornò a
sdraiarsi sul divano. Solo in quel momento parve ricordarsi della
notifica che l'aveva bruscamente svegliata, ormai ore prima.
Afferrò
il telefono, abbandonato a se stesso già da un po', ed
entrò su
Facebook, evento più unico che raro. Con sorpresa
notò la richiesta
di amicizia, non era una cosa che succedeva spesso, non accadeva mai
in verità, così vi cliccò alla svelta,
curiosa.
Leggendo il nome corrugò la
fronte, assorta e, allo stesso tempo, stupita.
Belle French.
Neal.
Un coltello la attraversò da
parte a parte, il cuore cominciò a sanguinare. La mano
sinistra che
reggeva il telefono cominciò a tremare, gli occhi si
inumidirono nel
giro di pochi istanti. Neal Neal Neal Neal Neal Neal. La sua mente
non pensava ad altro, solo quel nome, quegli occhi, quel sorriso,
quell'ultima volta che le aveva spezzato il cuore. Il vestito bianco,
strappato. Neal.
Aveva ingannato se stessa in
quegli ultimi cinque mesi, a tal punto che aveva seriamente
cominciato a credere che lui non significasse più niente.
Pensava
che le fosse passata, non era il primo abbandono che affrontava, si
era detta, aveva imparato ad affrontarli e a superarli. E invece
eccola ancora lì, la stessa sofferenza provata prima di
uscire dal
loro appartamento, prima di salire sulla macchina che l'avrebbe
portata all'altare. “Ti amo, Emma”,
la sua voce si
insinuò prepotentemente nei suoi pensieri “ma
non posso
compiere questo passo”. Un bacio veloce lasciato
sulla fronte
di lei, come se bastasse a farle sciogliere quel nodo alla gola,
questo era l'ultimo ricordo che aveva del suo primo grande amore.
Cercando di accantonare
quell'immagine, cominciò a domandarsi il motivo che aveva
spinto
quella donna a cercarla. Aveva conosciuto Belle, forse, solo un anno
prima, e da all'ora si erano parlate solamente un'altra volta, quando
le aveva portato la partecipazione in vista delle nozze. La ricordava
come una ragazza dolce e mite, una persona che vedeva solamente il
buono che regnava nel cuore di chi le stava intorno e che incantava
tutti con i suoi grandi occhioni blu e il suo viso delicato che
pareva fatto di porcellana. Era molto giovane, forse di una decina
d'anni più grande di lei, ma sicuramente più
giovane del signor
Gold, il padre di Neal.
Belle aveva sempre mostrato dei
modi gentili nei confronti di Emma, aveva provato in continuazione a
farla sentire parte integrante della famiglia, ma la giovane Swan non
era mai riuscita a provare quella sensazione.
La bionda sbatté le ciglia un
paio di volte, non sapendo cosa fare. Magari quella richiesta di
amicizia non significava nulla, come tutte le altre che riceveva e
che ignorava. Doveva ignorare anche quella? O doveva accettarla?
Era bastato davvero poco
a far tornare quella sofferenza contro cui aveva
lottato per
troppo tempo. Non era pronta a riaffrontare tutto,
non voleva
leggere il nome di Neal nella sua bacheca, non voleva che la donna le
parlasse di lui scrivendole in privato. Ma, d'altro canto, non voleva
voltare le spalle a quella persona dall'animo nobile e gentile, che
magari non si sarebbe mai preso il disturbo di contattarla.
Accettò l'amicizia, alla fine,
poi il suo cellulare morì per colpa della batteria.
Angolo
dell'autrice:
1. Sì,
sono viva e vegeta!
2. Non so perché sto postando questa storia. Davvero non ne
ho idea. L'ultimo capitolo di Hello I Love you(...) è in
fabbricazione, lo giuro, e non credo manchi molto a finirlo. Ho scritto
tanto e dovrò scrivere ancora un pochino, ma farò
di tutto per aggiornare entro la settimana. Ho perso tempo
perché non sapevo ancora come strutturarlo (capirete poi e
spiegherò tutto lì lol), dopo quasi un mese ho
avuto l'illuminazione e ho preso a scrivere. Solo che nel frattempo
stava passando davvero troppo tempo e mi dispiaceva lasciarvi
all'asciutto (?) Pensavo di dedicarmi a questa storia una volta finita
l'altra, ma tanto valeva postarvi il prologo per non farvi sentire
troppo la mia mancanza (?) visto che tanto è pronto da
settimane e settimane.
3. Non so se si può definire un vero e proprio prologo. E'
più un'introduzione al personaggio di Emma e alla situazione
che comincia a crearsi. Si è spiegato un po' quello che
è il passato della nostra Swan e quello che non è
accaduto (matrimonio) e che le ha spezzato il cuore.
4. Come avrete intuito e già letto nell'introduzione, questa
storia sarà completamente AU, quindi non aspettatevi strani
poteri o fagioli magici o galline dalle uova d'oro. Vorrei
però, e spero davvero di riuscire a trasmettervelo nel corso
dei capitoli, mantenere quell'aura di mistero/magia (legata
principalmente al destino che lega i due protagonisti fra loro) che
aleggiava su Storybrooke nella prima stagione.
5. Ho intenzione di strutturare i capitoli alla OUAT/Lost, ovvero
alternare frammenti di presente a pezzi del passato. Mi sembrava
un'idea carina, soprattutto perché essendo un AU le storie
dei personaggi sono state completamente reinventate da me (pur
mantenendo piccoli dettagli della serie) e penso sia il modo migliore
per scoprire dettagli importanti della loro vita. Non so se
riuscirò a inserire flashback in ogni capitolo, io ci
proverò in ogni caso ma non assicuro nulla, non so dirlo con
certezza. Voi, nel frattempo, fatemi sapere cosa pensate dell'idea :)
Okay, ho finito con le precisazioni ^^ Qualcuno della sezione
già mi “conoscerà” o
avrà letto il mio nome in altre storie, per chi non mi
conoscesse: Ehilà, salve, io sono Sà :) Per chi
mi ha seguita nell'altra storia: TRANQUILLE, questa volta non mi
concentrerò solo sull'angst e sul #mainagioia, ve lo
prometto lol Questo è il mio primissimo AU e devo dire che
ci tengo particolarmente, fatemi sapere cosa ne pensate,
perché se non vi incuriosisce nemmeno un minimo lascio
perdere :'D
Btw, cosa ne pensate di questa incasinata vita della nostra cara Swan?
E Belle? Vuole aiutare Emma, ma cosa avrà in mente? Vi dico
subito che Killian comparirà nel 2° capitolo,
abbiate un po' di pazienza.
Con questo è tutto, le note sono LUNGHISSIME quindi grazie
se avete letto fino in fondo :') Aspetto le vostre recensioni
ragasssse, a presto!
Sà
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Capitolo 2 *** 1. Un posto in cui tornare a casa ***
1. Un posto in cui tornare a casa
Boston;
Aprile 2016
Alla fine
dimenticò di metterlo
a caricare, il cellulare. Emma interruppe il suo sonno, svegliata dal
cinguettio delle rondini che da un paio d'anni avevano deciso di
abitare proprio sopra la finestra della sua camera. Girandosi sul
fianco destro, dalla parte opposta alla luce del sole, si
domandò
ancora una volta perché, tra i quattro appartamenti situati
all'ultimo piano del condominio, quegli animali dovessero nidificare
proprio lì, in quel punto. Non che la infastidissero,
preferiva
decisamente il loro canto al suono infernale della sveglia. Aveva
anche combattuto con ogni sua energia contro gli altri condomini
affinché lasciassero il nido lì dov'era: volevano
abbatterlo per
degli stupidi capricci e interrompendo così il normale
svolgimento
della natura, ma lei non lo aveva permesso e l'aveva avuta vinta.
Doveva aver ereditato quel suo lato dai suoi genitori, attivisti di
Greenpeace o qualcosa del
genere, come
aveva scoperto anni prima durante le sue ricerche.
Si fece forza e tornò a girarsi
dall'altro lato, portandosi una mano sopra gli occhi per evitare
l'impatto con i raggi. Si tirò su con il gomito sinistro,
leggermente, socchiuse appena le palpebre e con la mano destra prese
a tastare il comodino affianco al suo letto, alla ricerca
dell'orologio da polso che si era tolta la sera prima. Fu costretta
ad allungarsi appena con il braccio e con il corpo, ma
perché lo
aveva poggiato in un punto così lontano?! Lo
afferrò e lo avvicinò
alla faccia, prima di strizzare appena gli occhi notando come le
lancette le apparissero tanto sfocate. Ci vollero all'incirca cinque,
o forse sei secondi, prima di mettere a fuoco quei piccoli numeri che
segnavano le 8:15.
8:15?! 8:15.
Merda.
Scattò subito in piedi,
scalciando via le coperte con un rapido movimento delle gambe,
correndo poi da una parte all'altra della casa senza però
concludere
un bel niente. Isaac, il suo capo, le aveva chiesto di aprire il bar,
quella mattina, e questo comportava il doversi presentare a lavoro
alle 8:30 spaccate. Ed Emma, l'unica cosa che aveva spaccato, era la
lente dei suoi occhiali da lettura che aveva, sbadatamente, lasciato
sopra il letto e che aveva fatto cadere a terra insieme alle
lenzuola.
Cominciò a saltellare per il
corridoio, fra le camere, mentre provava ad indossare un paio di
jeans chiari e stretti, i primi che aveva trovato in mezzo al mucchio
di vestiti che avrebbe dovuto stirare da... quattro, cinque giorni,
se la memoria non la ingannava. Si levò la canottiera
bianca,
restando in reggiseno, gettandola poi via, in direzione del letto che
mancò, neanche a dirlo, clamorosamente e cadde a terra. Non
aveva
tempo di raccoglierla, maledizione, sarebbe rimasta lì un
bel po'.
Corse in bagno e aprì il rubinetto del lavandino di ceramica
situato
sotto il grande specchio che rifletteva la sua immagine stravolta,
stanca, assonnata e isterica, quasi. Unì le mani e
cominciò a darsi
una sciacquata veloce al viso, cominciando ad imprecare sottovoce per
via del dentifricio che non aveva la minima intenzione di uscire
fuori dal tubetto, arrotolato completamente su se stesso e
praticamente vuoto. Riuscì comunque a recuperarne un po' e a
metterlo sul suo spazzolino arancione. Dio, quanto odiava quel
colore.
Prese a lavarsi i denti
velocemente, spostando il peso del corpo da una gamba all'altra, di
continuo, non riuscendo a stare ferma. Lanciava un'occhiata al suo
orologio all'incirca ogni dieci secondi, neanche avesse paura che le
lancette potessero muoversi d'un tratto più veloci.
Spostò il
volto, poi, verso la finestra aperta e non poté non beccare
Jefferson, un tizio che abitava nell'appartamento di fronte al suo e
che non perdeva mai occasione di farle delle avance più o
meno
spinte. Per lo più spinte. Solamente spinte.
Emma si incupì improvvisamente
e prese a lanciargli sguardi glaciali che avrebbero fatto
rabbrividire chiunque, mentre l'altro se la rideva soddisfatto. Corse
vicino alla finestra e posò una mano sul vetro gelido di
primo
mattino. «Pervertito!» Gridò, con tutta
la voce che aveva in corpo
e forse anche di più, sbattendo poi la finestra con un gesto
secco e
forte. Quel tipo era folle, completamente matto. Ed
aveva
anche una bambina di otto anni. O forse nove. Comunque sia, povera
piccola. La giovane Swan storse appena le labbra a quel pensiero,
prima di sputare nel lavandino e sciacquarsi la bocca. Jefferson non
era un cattivo padre, anzi, aveva avuto modo di constatarlo
più
volte lei stessa, era solo una figura un po' troppo eccentrica per i
suoi gusti. Anche se, pensandoci bene, era uno dei pochi, o forse
l'unico, a starle simpatico, in tutto il suo quartiere.
Tornò in camera di corsa ed
aprì un'anta del suo armadio, la mano sinistra percorreva
rapida
ogni stampella alla ricerca di qualcosa da mettere. Alla fine le sue
dita si fermarono su una maglia leggera color grigio pallido, la
indossò e poi si abbassò a raccogliere i suoi
stivali scuri, che si
infilò una volta essersi seduta meglio – non aveva
mai avuto un
buon equilibrio. Prese la sua giacca di pelle marroncino chiaro,
borsa sotto spalla e prese a correre per le scale, saltando gli
scalini, per colpa dell'ascensore perennemente rotto, mentre si
allacciava, come meglio poteva, i lunghi capelli in una coda non
troppo alta.
Arrivò al suo maggiolino giallo
che quasi non si reggeva in piedi. Entrò dentro cercando di
controllare il fiatone, mise in moto dando un'altra occhiata
all'orario: le 8:26. Non ce l'avrebbe mai fatta, lo sapeva. Sperava
solo che Isaac se la prendesse comoda, visto che per una volta non
era costretto ad arrivare per primo nel locale.
Fort
Kent, Maine; Ottobre
2004
Camminava
lentamente, la mano
sinistra sulla pancia, lo sguardo basso attenta a mettere un piede
davanti l'altro e a non creare casini andando a sbattere contro
qualche scaffale. Passò davanti una porta frigo contenente
surgelati
di ogni tipo e vi si soffermò qualche secondo, giusto il
tempo di
catturare la sua immagine riflessa. Si mise di fianco e girò
il capo
per osservare bene ogni dettaglio, poi si volse dall'altro lato per
essere certa che non le sfuggisse niente. La camicetta bianca usciva
appena da sotto il giacchetto di jeans chiaro che indossava ormai da
anni e che cominciava ad andarle stretto, ma non era quello che stava
controllando, no di certo, non si era mai preoccupata di come
apparissero i suoi vestiti e di certo non avrebbe cominciato in quel
momento. Era concentrata sulla pancia, ben attenta a scovare anche il
minimo rigonfiamento che l'avrebbe messa senz'altro dei guai, e non
sarebbe stata la prima volta.
Era entrata nel supermercato più
grande della città, Emma, circa dieci minuti prima e dopo
essere
sgattaiolata via senza permesso dall'orfanotrofio. Non era una
novellina in quel fatto, anzi, ormai non veniva neanche rimproverata
dato che ci avevano fatto tutti l'abitudine, una volta capito (e ci
erano volute, più o meno, una quindicina di fughe tutte a
distanza
di tempo ravvicinate) che quel suo temperamento non sarebbe cambiato
neanche con dieci strigliate al giorno. Dopotutto frequentava le
lezioni del professor Hopper senza mai saltarne una, studiava e dava
sempre una mano per pulire i dormitori e, qualche volta, la mensa.
Quella era l'unica cosa che contava, per i tutori. In più,
tornava
sempre dopo le sue brevi fughe giornaliere, quindi perché
avrebbero
dovuto perdere tempo a preoccuparsi per quella ragazzina quando ne
avevano altri trenta o più a cui badare?
Quando fu fuori dal negoziò
cominciò a cercare un luogo sicuro e isolato per tirare
fuori il
bottino, esaminare la situazione e pensare a dove e come tenerlo
nascosto dalle tutrici, o dalle ragazze con cui condivideva la
stanza.
Percorse un centinaio di metri,
girò a destra e poi a sinistra. Sapeva bene dove si stava
dirigendo:
poco oltre il parco vi era una panchina isolata vicino a un piccolo
laghetto artificiale. Era il suo posto, fin da quando lo aveva
trovato per caso, tre anni prima, durante una delle sue vere fughe,
una di quelle serie dove riusciva a non farsi trovare per settimane
intere. Quella panchina era comparsa quasi magicamente; ricordava
ancora il sollievo che aveva provato sedendovisi sopra, dopo aver
corso, forse, per cinque chilometri o qualcosa di più, a
detta sua,
senza mai fermarsi. Nessuno era venuto a disturbarla, anche se ogni
tanto capitava di veder spuntare qualche passante, ma pareva quasi
che non riuscissero a scorgerla, o più probabilmente nessuno
dava
molta importanza a una ragazzina che se ne stava lì, seduta,
a
riflettere. E rifletteva davvero su tutto, ma più che altro
su i più
svariati piani di fuga. Programmava ogni cosa, nel minimo dettaglio.
Poi veniva beccata e riportata in orfanotrofio, non era importante
quanto si allontanasse (una volta l'avevano scovata anche fuori dal
Maine), sembrava che il suo destino volesse impedirle di fuggire
lontano e la rispedisse sempre in quel posto che mai e poi mai
sarebbe riuscita a definire come “casa”.
Si sedette sulla panchina di
legno mentre, dopo essersi guardata intorno, per sicurezza, tirava
giù la zip del suo giacchetto, rivelando una bottiglia di
spumante
di seconda categoria. Non si era mai azzardata a rubare cose di
valore, un po' per paura di finire doppiamente nei guai in caso
l'avessero beccata, un po' perché si sentiva in colpa. Non
le
piaceva rubare e non ne andava certo fiera, ma quello era il solo
modo che conosceva per mettere qualcosa di decente sotto ai denti.
Alle sue spalle, un ragazzino
non l'aveva persa di vista neanche per un istante, mentre la bionda
se ne stava lì, calma, a guardare prima la bottiglia tra le
mani e
poi l'acqua cristallina del lago. Un sorrisetto furbo si
disegnò sul
suo volto, prima di cominciare a muoversi di soppiatto, avvicinandosi
a lei. Piede destro in avanti, sinistro, destro, sinistro, destro.
Piano, piano. Così. La sua intenzione era quella di
prenderla di
sorpresa, saltando fuori all'improvviso e gridando un
“BU!” con
tutto il fiato che aveva in corpo. Ma Emma si era già
accorta di
ogni cosa e sorrideva divertita, pregustandosi il momento in cui gli
avrebbe rovinato la festa. Lo aveva sentito avvicinarsi, per quanto
provasse a non far rumore, riteneva che il suo amico avesse un passo
fin troppo pesante per poter credere di farla fessa. Aspettò
ancora
un secondo, parve avvertire la sua presenza proprio dietro di lei.
«Ciao, forestiero», esclamò
trattenendo forzatamente le risa, gli occhi non si erano staccati
neanche per un secondo da una paperella che pareva giocare con
l'acqua, immergendosi e riemergendo poco dopo, come se fosse una
danza. Il ragazzino rimase di sasso, imbambolato sulla figura della
ragazza, con la bocca aperta colto sul fatto. Alla fine si riscosse,
schiena dritta. Si sistemò appena la giacca di pelle, prima
di
prendere posto accanto all'amica, alla sua sinistra.
«Quella bottiglia?» Domandò
subito, l'indice destro proteso verso di essa per indicarla meglio.
Sapeva da sé da dove provenisse, non era la prima volta che
trovava
Emma con un qualche bottino proveniente dal supermercato, e
immaginava anche quale occasione l'avesse spinta a tanto. In altre
parole, la sua era una stupida domanda, dettata più che
altro dalla
curiosità e dalla voglia di vedere fondata quella sua idea.
«Lo sai», mormorò, difatti,
lei, veloce. I suoi occhi si abbassarono appena per scorgerla ancora
una volta, se la rigirò tra le mani e con la mente camminava
tra i
corridoi dell'orfanotrofio, passava accanto le donne dall'occhio
lungo con fare innocente e noncurante, arrivava nel suo dormitorio
e... e lì si fermava. Continuava a non trovare il luogo
adatto dove
nasconderla: il letto era fuori discussione, l'armadio era in comune
e più di una volta aveva avuto l'impressione che qualcuno
avesse
curiosato nel suo cassetto personale. «E' per
stasera», si ritrovò
a rispondere poi, sovrappensiero, tanto per confermare i sospetti del
ragazzo e non lasciare la domanda troppo in sospeso «ci
vediamo
stasera, vero?»
Lo chiese così teneramente che
il ragazzo non poté non sorridere leggermente. Emma era
ancora una
ragazzina, ma aveva già sofferto tanto nella sua vita, lui
sapeva
bene la sua storia, buona parte l'aveva vissuta in prima persona,
prima di essere adottato, oramai, quasi tre anni prima. Per questo si
era ripromesso che avrebbe fatto di tutto, anche l'impossibile, per
poter sgattaiolare via, quella sera, e raggiungerla in quel posto che
lei amava tanto. Annuì, quindi «Sai che non mi
perderei il tuo
compleanno per nulla al mondo. Soprattutto dopo aver visto questa
bottiglia di spumante», scherzò con leggerezza per
stemperare la
tensione «ma l'ultima volta che sono uscito di casa senza
permesso
ho rischiato di essere beccato, se non mi vedessi arrivare...»
«August», lo interruppe subito
Emma, imponendosi anche con lo sguardo duro e determinato
«non me ne
vado senza salutarti, lo sai», sentenziò
guardandolo dritto negli
occhi, per fargli capire quanto fosse irremovibile su quel fatto,
anche se non credeva che ce ne fosse particolarmente bisogno.
«Sei proprio decisa a partire,
quindi?» Fece lui, per tutta risposta. Aveva visto Emma
tentare la
fuga un'infinità di volte, ma non si era mai preoccupato
perché era
certo che in qualche modo sarebbe tornata, di sua spontanea
volontà
o meno. Eppure c'era qualcosa di diverso, quella volta, era come se,
attraverso i suoi occhi, riuscisse a scorgere il suo futuro e, in
esso, non c'erano altre giornate da passare a Fort Kent.
Deglutì
scoraggiato, non sapeva come dire addio anche alla sua migliore
amica. Emma, alla fine annuì, silenziosa. Riteneva che non
ci
fossero altre parole da aggiungere. Il giovane Booth
sospirò,
abbassò lo sguardo e scorse la bottiglia di vetro ancora tra
le
braccia della ragazza. «Questa penso che sia meglio che la
tenga
io», affermò togliendogliela dalle mani prima che
potesse
accorgersene «non riusciresti a fare neanche tre passi senza
fartela
requisire, e non vorrei mai che la cara Mulan si
ritrovasse a
festeggiare al posto nostro.»
Quelle parole fecero, finalmente,
sorridere Emma. Mulan, o meglio la Signorina Sun, era una delle loro
tutrici. Non era una cattiva persona, ma era incredibilmente severa e
non ammetteva nessuna trasgressione del regolamento. Era una tale
bacchettona, ma conoscendola meglio non si poteva non volerle bene.
«Ci vediamo questa sera, allora»,
sentenziò infine la ragazzina,
alzandosi di scatto dalla panchina e voltandosi appena a guardare
l'amico di sempre «non fare tardi.»
Boston;
Aprile 2016
Esausta.
Non c'erano altre
parole per descriverla in quel momento. Si chiuse la porta del suo
appartamento alle spalle velocemente, neanche fosse inseguita da un
branco di cani feroci. Si voltò appena, facendo scivolare
delicatamente i piedi sul pavimento, serrò l'occhio sinistro
e
osservò dallo spioncino, prima a sinistra, in direzione
della rampa
di scale, poi a destra, per accertarsi di non trovare nessuno. Alla
fine sospirò, si tolse la giacca di pelle e la
lanciò sul divano
poco lontano dall'ingresso, dopo essersi passata una mano veloce fra
i capelli per sistemarli come meglio poteva. Se li sentiva elettrici,
ed era una cosa che odiava.
Uscita dal lavoro era andata
subito a pagare le bollette più urgenti che aveva, per non
rischiare
di rimanere senza acqua calda o elettricità, ed era rimasta
con la
notevole somma di 25 bigliettoni. Non di più e non di meno.
Si era
rintanata scoraggiata nel suo maggiolino giallo che aveva senza
dubbio bisogno di una revisione anche lui – la spia del
motore era
praticamente accesa da anni, si chiedeva quando l'avrebbe abbandonata
definitivamente. Una volta parcheggiata l'auto nel posto a lei
riservato proprio davanti al palazzo dove abitava, si rese conto di
essere ancora indietro con l'affitto e che, quindi, doveva fare ben
attenzione a non incontrare i proprietari. Solitamente a quell'ora la
Signora Ashley portava la piccola Alexandra a fare una passeggiata,
molte volte Emma si era chiesta se quello fosse solamente un
fortuito caso o se, cosa di cui ormai era quasi certa, la donna non
lo facesse apposta per chiederle, tra le righe e comunque in modo
gentile, quando sarebbero arrivati i soldi dell'affitto. Ma non era
di Ashley che si preoccupava, ma del Signor Herman, il marito. Era
anche lui una persona tranquilla, ma riusciva a farle pressione e
più
di una volta le aveva detto che non potevano aspettare le rate
arretrate ancora per molto.
Così Emma era costretta a
sgattaiolare lungo la rampa di scale, scarpe o stivali in mano per
evitare anche il minimo suono, calze che più volte la
facevano quasi
scivolare giù se non fosse stata per la mano ferma sulla
ringhiera.
Entrava in casa più veloce della luce e, la maggior parte
delle
volte poteva giurare di sentire, proprio in quel momento, una porta
aprirsi nel piano inferiore al suo, quello dove vi era il modesto
appartamento dei signori Herman.
Aspettò ancora qualche istante,
fino a quando non udì una porta chiudersi, fino a quando non
poté
affermare a se stessa di averla scampata ancora una volta.
Espirò
appena, posò gli stivali che ancora le erano rimasti in mano
a
terra, poi si piazzò sul divano ed accese distratta la tv.
Neanche
aveva intenzione di guardarla, era solamente un gesto automatico che
faceva ogni volta che tornava a casa.
L'ennesima dichiarazione d'amore
del Dottor Stranamore, alias Derek Shepherd riempì la casa
vuota e
silenziosa. Gli occhi di Meredith Grey parvero sorridere di gioia,
quelli di Emma Swan rotearono, invece, verso l'alto, provata da tutto
quel miele che le faceva solamente venire la nausea.
«Ma lui non era morto, poi?!»
Domandò a voce alta, rivolta verso il televisore. Davvero,
non
capiva. Per giorni si era sorbita l'ultimo dei tanti traumi della
Dottoressa Grey, la morte del suo grande amore, ed ora eccolo
lì,
vivo e vegeto. No, non stava davvero capendo. Prese il telecomando e
curiosò tra le informazioni. Ah, era un episodio del 2012,
ora aveva
capito. Spense la televisione quasi subito, aspettò prima
che
mandassero la pubblicità, senza un particolare motivo.
Afferrò poi il cellulare, alla
ricerca di qualcosa per passare il tempo. Pigiò sul tasto
rotondo in
basso allo schermo, pronta a “scorrere per
sbloccare” con il
pollice destro, come da indicazione. Si domandò se ci fosse
davvero
qualcuno così stupido da non capire al volo cosa bisognava
fare per
sbloccare il proprio telefono, ma non si interrogò ancora
per molto,
impegnata com'era a continuare a spingere quel piccolo tasto, visto
che la prima volta non era successo niente. Ma lo schermo continuava
a restare nero. Okay Emma, non farti prendere dal panico. Panico,
sì, era
proprio la parola più azzeccata per descrivere il suo stato
d'animo;
cominciò a sudare freddo mentre partiva ad eseguire dei
respiri
profondi per non dare di matto. Era completamente al verde, non
poteva permettersi un nuovo cellulare, neanche uno dei più
economici! Tentò ancora, pigiando il tasto in alto, quello
di
blocco, tenendolo anche premuto qualche secondo dicendosi che magari
lo aveva spento e non se ne ricordava. Okay, non funzionava neanche
in quel modo. Calmati Emma, rifletti, non c'è niente che ti
sei
dimenticata di provare? La batteria! Si alzò di scatto, e un
po'
goffamente, dal divano e corse in camera sua, non senza rischiare di
cadere rovinosamente a terra per ben due volte. Collegò
immediatamente il cellulare al caricatore e, din din din din din,
bingo!
Sospirò sollevata e si lasciò
cadere sopra il letto, il telefono che si accendeva lentamente ancora
in mano. Quando tornò con lo sguardo sullo schermo
notò subito le
diverse notifiche segnalate in rosso, tutte provenienti da Facebook.
Rimase impalata per un po', la fronte aggrottata e pensierosa. Sapeva
che tra i soliti, numerosi e fastidiosi inviti a giocare a Candy
Crush e Farm Ville, ci fosse anche Belle. Cosa voleva quella donna da
lei? L'aveva cercata e adesso la contattava per quale motivo? Era
successo qualcosa a Neal? No, l'avrebbe saputo. Riguardava, lo
stesso, lui? Si domandò se lei e il Signor Gold fossero a
conoscenza
di quanto accaduto, del resto i rapporti tra Neal e suo padre erano
sempre stati difficili, sapeva che potevano arrivare a non rivolgersi
la parola per anni (ed era già successo), ma addirittura non
sapere
che suo figlio non si era più sposato? No, era una cosa
impensabile.
Ma non del tutto impossibile.
Maledisse Belle, maledisse Neal
e maledisse anche se stessa per aver incessantemente pensato a lui in
quelle ultime 24 ore. Doveva smetterla, darsi una calmata e
riprendere il suo solito contegno. Si alzò dal letto diretta
verso
il bagno, lasciò scorrere l'acqua fredda per una manciata di
secondi, dopodiché si bagnò il volto, dandosi una
rinfrescata.
Quando tornò in camera, pronta ad affrontare Belle, si
sentì al
sicuro protetta dalla sua fedele armatura.
- Ciao, Emma. Come stai? :)
La bionda
fissò a lungo quello
smile, esterrefatta. La futura matrigna del suo ex fidanzato le
chiedeva come stava e, soprattutto, aggiungeva anche uno stupido
smile. Ma c'era ancora gente che li usava, poi? Lasciò perde
e pensò
a come rispondere. Cosa si faceva in quei casi? Si mentiva o si
diceva la verità? Si poteva scrivere qualcosa come
“Il tuo figlioccio mi ha
spezzato il cuore, lavoro in una topaia, sono al verde e fra poco mi
cacceranno anche di casa. Ma per il resto va alla grande”?
- Salve Belle. Tutto bene, grazie.
Si
ritrovò a inviare, alla
fine, sbrigandosi subito ad aggiungere:
- Tu?
Si sentiva
una stupida senza
sapere bene il motivo. Tra l'altro, non aveva visto che la donna
fosse online, quindi la sua tempestiva risposta la sorprese e
allarmò
non poco. Alla fine, comunque, Emma si tranquillizzò sempre
più e
prese a rispondere alle sue domande eliminando qualsiasi monosillabo
dal suo vocabolario. Belle le chiese quasi ogni cosa, se vivesse
ancora a Boston, che lavoro facesse, se si trovasse bene e cose del
genere. Emma rispondeva cortesemente e con un filo di
curiosità che
la spingeva a continuare quell'inaspettata conversazione. Alla fine,
Miss French sputò il rospo, rivelandole il vero motivo di
quell'avvicinamento.
- Sono davvero felice che tu ti sia sistemata, Emma.
Nonostante questo, però, vorrei comunque offrirti un lavoro,
qui, nell'ormai storica libreria di Fort Kent. Come ben ricorderai,
sono l'attuale titolare e unica commessa, ma con i preparativi del
matrimonio fatico ad andare dietro a tutto (molte volte la libreria
è rimasta chiusa per intere giornate!). Ho davvero bisogno
di un aiuto, di una persona valida e di cui potermi fidare. Ho pensato
subito a te. Insieme al posto di lavoro, sarà tuo anche
l'appartamento sopra il negozio, non è molto grande ma
è accogliente. Allora, cosa ne pensi?
Cosa ne
pensava? Aveva passato
tutta la sua infanzia a cercare di fuggire da quel posto e ora doveva
ritornarci con la coda tra le gambe? No, grazie. Certo, il lavoro le
faceva gola. Era sicuramente ben retribuito e sarebbe stata
più che
felice di lasciare sia quello schifo di locale, sia la clientela e
sia il Signor Heller, che reputava un uomo viscido come pochi. Ma no,
non era così disperata. Non credeva di esserlo almeno e,
soprattutto, non se la sentiva ad accettare l'aiuto della futura
Signora Gold, le sembrava di cadere più in basso. Sapeva che
Belle
era una persona buona e generosa, ma non le andava di sentirsi in
debito con quella famiglia.
Per queste e molte altre
ragioni, alla fine, rifiutò il posto e salutò
Belle.
Fort
Kent, Maine; Ottobre
2004
Cominciava
a non sentirsi più
le dita, il naso, le labbra, le orecchie, la faccia. Le auto che le
passavano davanti a tutta velocità, facendo così
alzare il vento,
non l'aiutavano per niente a riscaldarsi, sperava solo che l'autobus
non ci mettesse ancora molto, speranzosa di trovare un minimo calore
al suo interno. Aveva aspettato August per ore, in quello che era il
loro posto, il suo posto al riparo dalla realtà che le
girava
intorno. Aveva guardato l'acqua calma del laghetto per due ore buone,
o almeno pensava, il conto del tempo era andato a farsi fottere dopo
poco, quando il gelo della notte autunnale più fredda era
calato su
di lei. Si era alzata, dicendo che muoversi le avrebbe fatto bene, e
anche sicura che ormai non l'avrebbe più raggiunta.
Ora sedeva amareggiata davanti
la fermata del bus, le mani nelle tasche del giubbotto grigio, la
destra stringeva i pochi bigliettoni che era riuscita a raccattare,
curiosando in giro per il dormitorio. Non ne andava fiera, ma sapeva
che a quelle ragazze non sarebbero mai veramente serviti, mentre a
lei procuravano un bel biglietto di sola andata per un qualsiasi
altro posto che non fosse il Maine. Le ginocchia si muovevano
velocemente, la faccia guardava a sinistra ogni cinque secondi,
speranzosa di vedere i fari gialli del suo tappeto volante.
Più che
altro cercava di non pensare.
Non vedeva l'ora di lasciarsi
quella stupida cittadina alle spalle, non le importava di nessuno,
sapeva che non le sarebbe mancata nessuna delle facce che aveva visto
in tutti quegli anni. Le ragazze dell'orfanotrofio, le tutrici,
quelli che l'avevano fatta sentire fuori posto e quelli che, invece,
l'avevano trattata dolcemente e con tutte le cure. Sapeva che si
sarebbe dimenticata presto tutti i loro nomi. August era l'eccezione,
e le aveva appena spezzato il cuore.
Si erano conosciuti
all'orfanotrofio, con Lily formavano un trio piuttosto combina guai,
avevano fatto venire i capelli bianchi a parecchia gente. Poi Lily se
n'era andata ed erano rimasti da soli; si erano avvicinati tanto e
non si erano mai separati, neanche dopo che August venne adottato dai
Booth, erano sempre riusciti a incontrarsi in un modo o nell'altro.
Sapeva di avergli detto che non sarebbe riuscita a partire senza
averlo salutato, ma anche di non poter mantenere quella promessa. Non
poteva più aspettare, sperava che lui avrebbe capito. Invece
di
essere arrabbiata, si preoccupava affinché non se la
prendesse, si
dava della ridicola da sola.
Due piccole luci si mostrarono a
qualche centinaio di metri di distanza: finalmente l'autobus
arrivava, e insieme a lui August, che correva a perdifiato dalla
parte opposta, gridando come un pazzo incurante dell'orario notturno.
«Emma!» La ragazza si
pietrificò, una volta essersi alzata dalla panca pronta ad
accogliere il bus «Emma, ti prego aspettami!» Mise
su l'espressione
più dura che potesse avere e si voltò di scatto,
decisa più che
mai a tenergli il muso, a farsi ricordare per sempre così,
come una
che non dimentica il minimo torto subito. Aveva sofferto,
aspettandolo su quella panchina per due ore, con solo la
consapevolezza che non avrebbe mai più festeggiato il
compleanno col
suo migliore amico. La consapevolezza che non avrebbe mai
più
rivisto quell'amico.
Ma poi lo vide, la sciarpa
svolazzante al collo, le gambe che correvano veloci, disperate e
colpevoli di non essere arrivate prima, il viso contratto per la
fatica e, forse anche per il dolore per quell'imminente addio. Quando
ormai le fu davanti non poté non sciogliersi. Gli occhi le
si
inumidirono ma riuscì a trattenere le lacrime. Gli si getto
al
collo, lo abbracciò forte e così fece lui.
«Mi dispiace», affermò
il ragazzo «Marc... mio padre mi teneva sorvegliato a vista.
Mi ha
anche requisito lo spumante, mi dispiace. Mi dispiace», non
smetteva
di ripeterlo. Emma annuì appena, la testa contro la sua
spalla,
mentre l'autobus si fermava davanti a loro.
«Devo andare», si limitò a
mormorare la biondina, staccandosi dall'abbraccio e poggiando un
piede sopra il primo scalino. L'altro, però, la
fermò prendendole
il braccio destro. La ragazza si girò e notò
subito il cellulare
che August le stava porgendo «Non capisco.»
«Regalo di compleanno»,
rispose semplicemente «il mio numero è
già salvato. Non voglio
perdere anche te, Emma». No, non lo avrebbero fatto, non si
sarebbero mai persi di vista, Emma cominciò a capirlo. Prese
il
cellulare, prima di stringergli la mano per qualche secondo. Entrambi
sorridevano, nessuno dei due si vergognava di farsi vedere commosso.
L'autista tossicchiò, aveva
fretta di andarsene. Emma gli lasciò andare la mano e
salì di un
altro scalino. Le porte si chiusero, gli occhi dei due ragazzi non
riuscirono a staccarsi dall'altro. August con le mani in tasca, Emma
con il cellulare stretto al petto, l'ultimo contatto che gli rimaneva
con quel mondo che stava, finalmente, abbandonando. Quando il mezzo
prese a muoversi, la bionda corse agli ultimi posti, si sedette con
le ginocchia su uno dei sedili in modo da guardare fuori.
Continuarono a fissarsi finché poterono, entrambi alzarono
la mano
sinistra in segno di saluto, prima di vedere l'altro scomparire.
Emma aspettò ancora un po'
prima di tornare composta, osservava Fort Kent senza un minimo di
nostalgia ma con un nuovo senso di liberazione che cresceva sempre
più. Non sarebbe più tornata in quella
città, avrebbe trovato la
sua casa altrove.
Boston;
Aprile 2016
Interminabili
attimi di assoluto
silenzio. Il locale non era poi così pieno, niente passava
inosservato, quindi. Nessuno fiatava, nessuno si muoveva. Nessuno
osava mangiare o bere, nessuno girava il cucchiaino nella sua tazzina
di caffè o giocava con la cannuccia del suo aperitivo. Emma
trattenne il fiato mentre tutti, come un unico corpo, si giravano
verso di lei e stavano semplicemente a guardare. La bocca aperta e
incredula, il palmo della mano destra ancora aperto e fermo a
mezz'aria, il cuore che le martellava neanche avesse corso la
maratona.
Lo aveva colpito, aveva davvero
alzato le mani contro un cliente. L'uomo si era subito portato la
mano sulla guancia colpita, ma Emma era riuscita a vedere il segno
rosso che gli aveva lasciato. Provò a parlare, ma le parole
le
morirono in gola. Le bastò un attimo prima di riscuotersi
del tutto;
le bastò vedere Isaac correre verso di lei furioso a farla
tornare
in sé e a fulminarlo con lo sguardo. Alla fine quel tipo se
l'era
cercata, non era dispiaciuta, affatto, anzi, lo avrebbe rifatto
ancora se ce ne fosse stata la possibilità.
«Lei è pazza, Miss Swan,»
prese a inveire il proprietario del pub, mentre partiva a gesticolare
come un pazzo, dopo aver dato un'occhiata rapida al cliente abituale
che ora minacciava di denunciare sia la cameriera che il locale
«pazza!» Ribadì il concetto a voce
più forte, come a volersi
assicurare che quella parola non sfuggisse a nessun orecchio. Si
girò
verso l'altro uomo cominciando a blaterale scuse su scuse; Emma
osservò la scena allibita e schifata, spalancando la bocca
prima di
scuotere la testa in modo contrariato.
«Mi stava molestando», esclamò
adirata, indicandolo con la mano sinistra come se quel gesto fosse
della minima utilità. Erano giorni che continuava a
importunarla con
battutine a sfondo sessuale, all'inizio era leggere e simpatiche ma
poi erano diventate pesanti, e quando le aveva palpato il sedere non
ci aveva visto più, la mano si era semplicemente mossa verso
la sua
guancia da sola. «Signor Heller!» Lo
richiamò ancora più
scocciata, dato che questi pareva non averla minimamente sentita.
Isaac Heller si voltò ad
osservarla di controvoglia, serrò i denti e ridusse gli
occhi a due
fessure dopo che l'affezionato cliente si era detto innocente
dall'accusa della giovane, non che lei si aspettasse il contrario.
«Si consideri licenziata. Da questo istante. Si tolga pure
quel
grembiule, posi quello stupido vassoio, prenda le sue cose e se ne
vada», la bionda rimase inorridita. Ferma sul posto prese a
studiare
l'espressione del suo capo, o forse avrebbe dovuto dire ex capo?, per
capire se fosse serio o stesse solo facendo scena, ma alla fine
scrollò le spalle, posò il vassoio sul bancone e
portò le mani
dietro la schiena per slacciarsi il grembiule.
«Bene», affermò anche se i
lacci non si decidevano a venir via «sono restata in questa
topaia
fin troppo a lungo», finalmente riuscì a
sciogliere il nodo che
teneva stretto da quella mattina, abbassò il capo per far
passare
gli altri sopra il collo e oltre la testa, dopodiché
posò anche il
grembiule sul bancone, tornando a fissare Isaac con occhi di fuoco
e un mezzo sorriso sulle labbra «sa cosa le dico, Signor
Heller? Grazie, questa sì che è una
liberazione.»
Mezz'ora dopo, appoggiata contro
la porta d'ingresso del suo appartamento, non era dello stesso
parere. Affatto. Quel lavoro era pessimo, la paga era minima, i
colleghi scorbutici, il capo un coglione e la clientela fin troppo
maniaca. Ma almeno era un lavoro, le portava dei soldi e
così il
modo di andare avanti, mentre adesso? Lei era al verde e i tempi per
trovare
un altro lavoro decisamente pessimi. Cosa avrebbe fatto?
Scoraggiata
tirò fuori il suo cellulare dalla borsa, entrò su
facebook e
selezionò la chat con la futura signora Gold. Non
salutò nemmeno,
digitando quelle poche parole che decretavano, interiormente, la sua
sconfitta.
- L'offerta di lavoro è ancora valida?
Nella sua
vita non era mai stata
ferma nello stesso posto per troppo tempo. Mai, neanche nel periodo
di convivenza con Neal, avevano sempre cambiato città o
casa, fino a
quando, dopo la proposta di matrimonio, non si erano fermati a
Boston, nel vecchio appartamento del Signor Gold. E lì Emma
era
rimasta anche per i cinque mesi dopo la loro rottura, anche se quelle
mura le sembravano sempre più strette, perché non
sapeva dove altro
andare. Per questo le fece strano consegnare le chiavi ad Ashley,
insieme alla promessa che le avrebbe pagato presto tutti gli
arretrati. La donna si era fidata e le aveva augurato ogni bene.
Aveva caricato tutte le sue cose
in macchina, sorprendendosi del fatto che era riuscita a far entrare
tutto in quel suo vecchio maggiolino giallo. Non che avesse molto,
due valigie e qualche scatolone con le cose alle quali era
più
affezionata. Jefferson le aveva dato una mano a portare quelli
più
pesanti. Non gli aveva chiesto niente, neanche aveva avuto occasione
di dirgli che stava andando via, l'uomo l'aveva colta sul fatto, con
due scatoloni tra le braccia, mentre usciva per andare a lavoro e
subito si era offerto di aiutarla. Le sarebbe mancato, quel tipo, lo
realizzò dopo aver abbracciato la figlioletta ed essere
salita in
macchina. Li aveva osservati dallo specchietto retrovisore per un
po', sembravano davvero dispiaciuti di vederla andare via.
Viaggiò per qualche oretta, si
fermò un paio di volte per mangiare e per fare
pipì, le due cose in
due fermate ben distinte ovviamente, giusto per farle perdere tempo.
Prese in pieno un dosso troppo alto per i suoi gusti che era scappato
dalla sua vista e sobbalzò appena, portandosi d'istinto una
mano
sulle tette. Ringraziò anche di non essere una tettona, una
volta
tanto. Cominciò a rallentare quando, anche se lontano, vide
il
cartello che indicava Fort Kent. Man mano che si avvicinava, in lei
cresceva la consapevolezza che quel posto non era cambiato
minimamente e questo le fece girare lo stomaco. Non era agitata, non
proprio almeno.
Il cartello assumeva la forma di
una casa, con tanto di caminetto sulla punta. Era fatto di legno,
proprio come lo ricordava. La scritta di benvenuto era piccola
rispetto a quella enorme e tutta in maiuscolo che segnava il nome
della città, colorata di uno strano e inusuale verde acqua
su una
striscia con lo sfondo giallo, a sua volta circondata da una striscia
colorata di verde. Quello che catturò l'attenzione di Emma,
comunque, era la scritta bianca posta proprio sotto al nome della
cittadina: “Un posto in cui tornare a Casa!”
Casa?
Le sembrava difficile che l'avrebbe trovata veramente lì, ma
quel
pensiero era meglio tenerselo per sé.
Sapeva che sarebbe restata poco,
giusto il tempo di mettere qualcosa da parte e trovare un nuovo
lavoro in qualche altra cittadina. Ecco, non era ancora arrivata e
già pensava a fare i bagagli. Si accorse di essersi fermata
proprio
davanti la linea di confine, quando era successo? E da quanto tempo era
ferma? Scosse la testa per riprendersi, mise la marcia e premette
sull'acceleratore.
Un po' di pace, questo chiedeva.
Qualche attimo di tranquillità prima di ripartire verso,
magari, una
metropoli più casinista.
Non le sembrava di chiedere poi
molto.
Angolo
dell'autrice:
Come promesso eccomi qui! Avrei
voluto postare prima di partire (lo scorso weekend), ma avevo il
terrore che il capitolo andasse perso visto i problemi del sito,
così
ho rimandato di una settimana ma alla fine ce l'ho fatta!
Mi è piaciuto DA MATTI scrivere
il flashback di Emma. Mi piace inventare le loro storie, anche se,
almeno per lei, qualcosa è rimasta la stessa. L'idea di
questo trio
formato da lei, August e Lily mi ha intrigato e alla fine ho deciso
di inserirlo. L'amicizia tra lei e August è andata avanti
anche dopo
l'adozione di lui ed è cresciuta con loro, anche quando Emma
se n'è
andata sono comunque rimasti in contatto. Per il resto, ora comincia
il divertimento VERO. Non vedo l'ora, sono emozionata. Nel prossimo
capitolo verrà FINALMENTE presentato Killian, come la
immaginate la
sua vita? :P
Spero di aggiornare presto,
giusto il tempo di organizzare le idee. Intanto, per chi non ci
avesse fatto caso, vi informo che Hello, I love you [...] è ufficialmente
conclusa,
quindi avrò mooolto più tempo da dedicare a
questa storia.
Fra pochi giorni, tra l'altro,
ricomincia la nuova stagione. Siete emozionati? Io personalmente non
ho molta ansia, ma non vedo l'ora di vedere la trama incentrata
finalmente su Storybrooke.
Come sempre vi invito a farmi
sapere i vostri pareri, sono davvero curiosa visto che si tratta di
un AU :)
Un bacio e a presto :*
Sà
|
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Capitolo 3 *** 2. Un incontro da dimenticare ***
2.
Un incontro da dimenticare
Una birra.
Una bellissima,
rinfrescante e rigenerante birra. Era tutto quello che desiderava dal
momento in cui la sveglia aveva suonato di primo mattino, sbattendolo
giù dal letto di controvoglia. Probabilmente aveva anche
sognato di
berla, magari in uno di quegli iconici boccali che aveva trovato in
diversi irish pub che aveva frequentato durante la sua giovinezza, i
suoi anni migliori. La schiuma che puntualmente andava a finire sulla
sua barba, il sapore amaro che gli scendeva in gola. Si stava facendo
del male da solo, con tutte quelle immagini. Già non aveva
pensato
ad altro per tutto il giorno: sognava il momento in cui sarebbe
rientrato a casa, avrebbe scalciato via le sue Converse nere e
bianche consumate sulle punte, si sarebbe buttato sul divano di casa
e si sarebbe goduto quella benedetta birra. O magari poteva
anticipare i tempi e fare un salto al Rabbit Hole,
proprio in
quel momento, bere qualcosa prima di andare a prendere Henry. Quanto
tempo aveva prima che il ragazzino uscisse da scuola? Guardò
il
polso sinistro, la lancetta dei secondi continuava a ticchettare
avanti e indietro. Ah già, orologio rotto. Comunque gli
rimanevano
una manciata di minuti, ad occhio e croce, quindi l'idea della birra
era da accantonare e rimandare a quella sera. Alzò gli occhi
blu
verso il semaforo che non si decideva a scattare, l'indice destro
picchiettava contro il volante della sua Ford, spazientito. Non gli
andava di far tardi, non voleva che suo figlio fosse costretto
adaspettarlo
fuori la scuola, da solo.
Voltò il capo alla sua sinistra, non sapendo come
trascorrere quei secondi interminabili e
si accorse di uno strambo catorcio di colore giallo, decisamente
molto vecchio e malandato, decisamente appariscente. Si
domandò come
avesse fatto a non vederlo prima e soprattutto da quanto tempo fosse
lì. Guardò, incuriosito, l'interno della vettura,
potendo solamente
notare una chioma bionda chinata verso il sedile del passeggero,
probabilmente alla ricerca di qualcosa. Sembrava stesse mettendo a
soqquadro quel piccolo spazietto e questo lo fece sorridere divertito
sotto i baffi, tanto che si dimenticò di essere fermo nel
bel mezzo
di una strada, si dimenticò del semaforo, che nel frattempo
era
diventato verde, e delle altre auto che aveva dietro. Anche la
bionda, evidentemente, si era dimenticata dove si trovasse,
tant'è
che gli altri automobilisti cominciarono a suonare i loro clacson per
ridestarli dal loro stato di trance. Killian mise in moto, non prima di
aver lanciato un'ultima occhiata alla donna, che adesso si era sporta
dal finestrino e mostrava un bel medio contro le altre vetture. Che
tipa! Poi lei proseguì diritta, verso la città,
mentre lui svoltò
a destra, in direzione della scuola elementare di Fort Kent.
Fort
Kent, Maine; Luglio
2013
Acqua
fredda, quasi ghiacciata,
scorreva dal lavandino della cucina, e rinfrescava le mani che,
pazientemente, lavavano i pochi piatti e le poche posate utilizzate
da Killian e da suo figlio per la cena. Qualche altro uomo single
avrebbe sicuramente utilizzato piatti, bicchieri e forchette di
carta, il tutto per evitare di lavare più cose possibili una
volta
terminato il pasto, ma lui no. Killian, in qualche modo, adorava quel
momento, lo trovava rilassante. Sapeva di essere pazzo, non era una
cosa normale amare quell'azione quotidiana quale era il lavare i
piatti, eppure in quegli istanti si ritrovava a sgombrare
completamente la mente, aiutato forse dallo scorrere dell'acqua. Era
come se il sapone sciacquasse via anche i suoi pensieri. Arrivava poi
il momento, tra un coltello e una pentola, in cui, con la coda
dell'occhio, osservava, o per meglio dire controllava, Henry che
giocava in giardino. Erano in piena estate, le giornate erano
più
lunghe, e il bambino approfittava veramente di ogni istante libero
per correre dalla sua personalissima altalena, alla macchinina
elettrica che gli aveva regalato suo padre lo scorso Natale. Una
volta assicuratosi che stesse bene e che non avesse bisogno di
niente, Killian chiudeva il rubinetto e cominciava ad asciugare
tutto.
Si asciugò, infine, le mani su
uno strofinaccio, mentre vedeva Henry spegnere e uscire dalla sua
piccola auto giocattolo blu, e correre a perdifiato verso qualcosa.
Killian non poté impedirsi di affrettarsi a vedere cosa
avesse
attirato l'attenzione del bambino, pronto ovviamente a fermarlo se
fosse stato necessario, ma poi notò la Berlina nera
parcheggiata nel
vialetto e si tranquillizzò. Un'occhiata rapida
all'orologio, giusto
per domandarsi il motivo di quella visita così improvvisa.
Uscì fuori anche lui, restando
appoggiato con la schiena allo stipite della porta, mano sinistra
nella tasca dei suoi jeans. Henry era corso fino alla portiera e
adesso saltellava prima su un piede e poi sull'altro, entusiasta di
vedere la sua zia preferita e, magari, anche speranzoso che gli
avesse portato qualcosa, un nuovo giocattolo sarebbe stato perfetto
ma anche qualche ottimo dolce al cioccolato poteva andare bene.
La donna dai corti capelli neri
uscì dall'auto e subito si abbassò per
abbracciare il bambino, che
si lasciò anche baciare la guancia sinistra procurandosi un
bel
segno rosso causato dal rossetto. Vide la mora prendere la sua borsa,
infilarci una mano dentro e cacciare fuori una vaschetta dalla quale
si intravedeva una fetta di torta al cioccolato e panna montata.
Henry batté le mani su di giri, le abbracciò la
vita velocemente,
le tolse la vaschetta dalle mani e corse verso casa. Notando il
padre, però, si fermò.
«Posso papà?» Aveva
cancellato l'ampio sorriso dalla faccia, nascondendo in quel modo il
piccolo spazio che aveva lasciato la caduta di un canino superiore da
latte che tanto faceva sorridere Killian, e messo sopra uno sguardo
da cucciolo arrendevole. L'aveva preso sicuramente da lui, Killian ne
era certo, quante volte aveva usato quello sguardo? Occhi penetranti
che non sbattevano ciglio, piccola smorfia con l'angolo della bocca,
capo appena appena chinato verso destra... nessuna donna era mai
riuscita a dire di no a quella faccia, e lui proprio non riusciva a
dire di no al figlioletto. Per cui sospirò sconfitto, gli
scompigliò
i capelli e gli disse di lasciargliene almeno un pezzettino.
«Però poi ti lavi i denti,
ragazzino, e fili a letto, intesi?» Henry parve accettare
quel
compromesso e non provò a negoziare l'orario delle nanne
come avrebbe fatto in
qualsiasi altra sera. Quando rientrò in casa, Killian si
voltò
verso la donna che ormai lo aveva raggiunto e lo guardava con aria
colpevole. «Che ti avevo detto sul non viziarlo troppo,
Regina?»
Quella non rispose, si limitò solamente ad alzare gli occhi
verso
l'alto per esprimere il suo disaccordo, strinse la mano intorno alla
borsa ed entrò in casa. Quel comportamento
insospettì l'uomo: non
era assolutamente da Regina perdere la minima occasioni di
bacchettarlo esprimendo il suo parere, perciò la raggiunse
accennando una piccola preoccupazione. «E' successo
qualcosa?»
«E' finita», pronunciò
flebile mentre si sedeva sul divano e, una volta essersi tolta i
tacchi a spillo e averli poggiati sul pavimento ben diritti,
allungava le gambe poggiando la schiena su un cuscino. Killian,
normalmente, le avrebbe detto senz'altro qualcosa, magari le avrebbe
fatto notare che anche lui voleva mettersi comodo sul suo
divano oppure le avrebbe chiesto gentilmente di
scansare i
suoi regal piedini, ma lasciò perdere, per quella volta. Si
poggiò
su uno dei due braccioli, ruotando scomodamente la schiena e il collo
così da poterla guardare in volto. Aprì la bocca
deciso a mettere
insieme qualche parola ma lei lo bloccò sul nascere.
«Non ti
azzardare, non voglio sentire nessun “mi dispiace”
o robaccia varia,
sai che li detesto.»
«Lo so bene», annuì con il
capo ed incrociò le braccia, notando che lei non osava
guardarlo in
volto, forse, si disse, per mantenere il solito tono freddo e
distaccato e non farsi leggere negli occhi, quei tristi occhi che si
riempivano, ogni tanto, di lacrime. Quando succedeva, Regina prendeva
un
respiro profondo, deglutiva, chiudeva le palpebre e aspettava che le
lacrime andassero via, poi concentrava la sua attenzione su tutto
quello che aveva intorno, ma non su Killian. Mai far trasparire
pienamente la propria debolezza, era la prima regola.
«Però è
così», continuò l'uomo, alludendo al
fatto che, volente o nolente,
a lui dispiaceva davvero per la loro rottura «Robin mi
è sempre
sembrato un brav'uomo, quello giusto; cos'è andato
storto?» Sapeva
che nell'ultimo periodo le cose tra i due, che avevano anche
cominciato a convivere, non stavano andando bene nonostante il forte
sentimento che li legava, ma nessuno si era mai preso la briga di
entrare nei dettagli.
«Diciamo che è difficile
mandare avanti un rapporto quando ti senti in obbligo verso la tua ex
moglie», sospirò, osservando i cuscini del divano
davanti a lei
«alla fine hanno deciso di riprovarci, per Roland».
Killian aveva
conosciuto Robin a lavoro circa un anno prima, appena divorziato
dalla moglie – neanche ricordava il nome della donna
– e con un
figlio di poco più di un anno che viveva con lei nella
Grande Mela.
Non aveva combinato nessun incontro con Regina, era capitato e basta
e ricordava quanto la donna era rimasta colpita dai modi gentili
dell'uomo. L'amore era sbocciato nel giro di poco, li trovava fatti
l'uno per l'altra, ma poi Marian – ah già, ecco
come si chiamava!
– era ricomparsa. Robin era un uomo d'onore, forse anche
troppo
secondo Killian, e quella notizia ne era la prova.
«Sapevo a cosa andavo incontro,
Jones, non fare quella faccia da imbecille», lo
rimbeccò la Mills,
che aveva tolto le gambe dal divano ed ora sedeva composta
«mi
preparo a questo momento da quando Marian è tornata in
città, non
sono sconvolta come pensi», su questo Killian aveva da
ridire, ma
alla fine accontentò la donna e lasciò cadere il
discorso. Non
nominarono più Robin per tutta la sera, non osò
nemmeno chiederle
se fosse già andato via di casa o se, per evitare di
vederlo,
avrebbe preferito dormire lì, per quella notte, nella stanza
degli
ospiti che praticamente usava solo lei. Tirò fuori del vino
rosso,
ne versò due bicchieri e accese la tv. Dopo circa un'ora e
mezza di
silenzio, interrotto di tanto in tanto da commenti rivolti allo show
che stavano guardando, fu di nuovo Regina a prendere la parola
«Da quanto tempo
non esci di casa?» Killian si voltò verso di lei
con il
sopracciglio sinistro alzato, guardandola interrogativo.
«Intendo
dire uscire, conoscere gente, svagarti un po'. Non
puoi
lasciare queste mura solo per andare a lavoro o a fare la
spesa!»
«Regina, nel caso non te lo
ricordassi, ho un figlio di sei anni», rispose pacato lui,
togliendole il bicchiere vuoto dalla mano mentre si alzava con
l'intenzione di posarli, entrambi, nel lavandino; lei lo
seguì, si
riprese il suo bicchiere e tornò a versarsi un altro po' di
vino «mi
sentirei un mostro a lasciarlo da solo. E per cosa poi? Conoscere
qualcuna? Non credo che lui sia pronto a vedere un'altra donna nella
mia vita», commentò risoluto, guardando d'istinto
verso la porta
chiusa della camera di Henry che era andato a dormire poco prima.
«Non ti ho detto mica di
trovarti moglie, Killian», replicò ancora l'altra,
apparentemente
decisa a smuoverlo da quell'assurda decisione che sembrava aver preso
ormai da tempo «Sono passati quasi due anni, devi
ricominciare a
vivere. Ti dico solo di prenderti delle serate per te, magari esci
con qualche collega. Ci sono io qui con Henry, se è questo
che ti
preoccupa. Ma torna a vivere.»
Fort
Kent, Maine; Aprile
2016
La prima
cosa che si trovò
davanti fu la cucina. O forse avrebbe dovuto dire sala da pranzo? O
magari era il salotto? Era confusa, le due stanze non erano separate
neanche da un piccolo muro, come avrebbe dovuto chiamarle adesso?
Be', il soggiorno si rivelò più grande di quello
che aveva
immaginato: subito alla sua destra vi trovò un vecchio
divano
coperto da un telo color panna molto vecchio stile – il suo
primo
pensiero fu quello di sbarazzarsene quanto prima –, sembrava
comodo
ma rimandò quel test a più tardi; ancora alla
destra del divano, a
sfiorare l'altra parete, vi era un mobile non troppo grande con sopra
una una piccola tv che sembrava piuttosto datata; sopra di essa, sul
muro, vi erano le tracce di due mensole perciò si disse che
avrebbe
fatto meglio a procurarsele anche lei. Dalla parte opposta della
stanza vi era un frigo di metallo, grigio, che si rivelò
piuttosto
graffiato; due banconi e un semplice angolo cucina; un tavolo e sei
sedie chiudevano quel quadretto. Era piuttosto spoglio, si disse
Emma, avrebbe pensato a come riempire gli spazi vuoti più
avanti. O
magari no, tanto era intenzionata a restare in quel posto per il
minor tempo possibile, giusto?
Percorse il piccolo corridoio
che separava l'ingresso dalla camera da letto, spinta da un briciolo
di curiosità di scoprire quella nuova casa. Alla sua destra
trovò
un piccolo bagno e una cameretta – praticamente vuota, tolta
una
piccola libreria senza nessun volume –, ma non vi ci
soffermò
troppo. La camera da letto era, per sua fortuna, la più
arredata con
tanto di comò in legno vecchio stile, letto matrimoniale,
due
comodini ovviamente in legno, un grande armadio e uno specchio subito
affianco. Si buttò sul letto, senza un reale motivo, e si
sentì
affondare in quel materasso davvero troppo morbido per i suoi gusti.
Cercò di non pensarci e prese a fissare il soffitto battendo
le
ciglia di tanto in tanto. Era tutto vero, aveva lasciato Boston per
tornare nella cittadina della sua infanzia, Fort Kent. In quel
momento si trovava nel vecchio appartamento di Belle French, che le
aveva già fatto fare il tour completo della libreria proprio
al
piano di sotto. Le aveva dato le chiavi di casa e l'aveva lasciata
salire, a scoprire quello che racchiudevano quelle piccole mura.
Probabilmente era ancora in libreria ad aspettarla, sorriso
soddisfatto e gentile sul volto, in attesa di sapere un suo parere.
Un parere su cosa? Sulla casa? Sul lavoro? Sulla città?
Sulla sua
nuova vita?
Sospirò, Emma, socchiudendo
appena gli occhi per poi riaprirli dopo qualche secondo, come a
volersi assicurare che non si trattasse di un sogno. Un sogno bello o
brutto? Non sapeva neanche come definirlo, non riusciva a capire cosa
fosse quella strana sensazione che le si era messa addosso fin dal
primo momento in cui aveva attraversato il confine della cittadina.
Non era emozionata, quello no. Non era benché meno
spaventata. Ma
qualcosa era, qualcosa cercava di farle arrivare un
messaggio
attraverso quella sensazione alla quale non sapeva dare un nome, ma
sapeva anche che non l'avrebbe scoperto così su due piedi.
Avrebbe voluto che August fosse
stato lì, a casa dei suoi genitori, e non in giro per gli
USA a
cercare storie interessanti per i suoi servizi. Avrebbe potuto
aiutarla con le valigie e gli scatoloni, maledizione certi erano
davvero troppo pesanti. Arricciò le labbra a quel pensiero,
dicendosi che avrebbe portato sopra solamente le cose più
leggere e
che avrebbe aspettato lui per prendere il resto.
Dopo circa cinque minuti si tirò
su, si alzò in piedi e, dopo aver osservato la sagoma che
aveva
lasciato sulle lenzuola bianche, decise di scendere al piano di sotto
e congedare Belle.
Il primo giorno
come libraia si
stava rivelando incredibilmente noioso, il tempo stava trascorrendo
davvero lentamente, tanto che cominciò a chiedersi se Belle
non se
la fosse svignata di proposito. La città era piccola, gli
abitanti
pochi, e nessuno di loro sembrava intenzionato a perdere tempo dietro
ai libri. La stessa Emma non era una donna amante della lettura,
anzi, i suoi libri si contavano sulla punta delle dita. Per questo
ebbe non poche difficoltà a scegliere cosa leggere per
passare il
tempo nel negozio; la libreria era davvero molto fornita, i volumi
divisi nei più svariati generi, tanto che lei non sapeva da
dove
cominciare. Passò subito oltre i romanzi rosa,
lasciò perdere la
narrativa e la letteratura classica, giudicò la fantascienza
un po'
troppo impegnativa per lei, così alla fine
ripiegò su uno degli
ultimi thriller usciti – nonché il suo primo
thriller in assoluto.
Abbassava gli occhi
continuamente per verificare quante pagine aveva letto in quell'arco
di tempo che lei reputava infinito; le sembrava di star leggendo da
ore, ma la pagina 27 le assicurava il contrario. La campanella
piazzata sopra la porta accorse in suo aiuto offrendole una scusa per
chiudere, finalmente, quel libro. Si alzò dalla sua
postazione
dietro il bancone e osservò la ragazza appena entrata, che
chiudeva
la porta alle sue spalle.
«'Giorno Belle, finalmente
avete riap-», si bloccò non appena la vide, dopo
essersi girata a
fronteggiarla. Mise su un'espressione più che confusa,
addirittura
si volse quasi ad assicurarsi di essere nel posto giusto: doveva
essere una cliente abituale, ma non così tanto da essere a
conoscenza del cambio del personale. «Tu non sei
Belle», osservò
la ragazza facendo scappare una risatina ad Emma, che subito tolse la
mano destra dalla tasca posteriore dei suoi jeans per porgergliela.
«No, infatti», cominciò con
ancora il sorrisetto divertito sulle labbra «sono Emma, la
nuova...
libraia», si presentò, facendo ancora un po' di
fatica ad accettare
quel grande cambiamento che stava affrontando. La ragazza le strinse
la mano gentilmente, Emma la osservò attentamente mentre
mostrava un
sorriso di scuse e si portava una ciocca, sfuggita dalla sua lunga
treccia laterale, dietro l'orecchio sinistro.
«E' un piacere, Emma. Io sono
Elsa», era molto... bionda, notò Emma, sicuramente
molto più di
lei; era alta e snella, aveva dei lineamenti molto delicati, occhi
grandi e bocca carnosa. Avrebbe potuto fare la modella,
giudicò la
giovane Swan, ma la vedeva troppo introversa e immaginò che
lavorasse in tutt'altro settore. «Sei nuova in
città, vero?» Le
domandò subito, portando entrambe la mani sulla sua borsa a
mo' di
protezione – Emma era brava a studiare le persone e si
divertiva a
definire il loro carattere.
«Diciamo di sì», rispose,
chinando appena il capo. Aveva imparato a conoscere Fort Kent come le
sue tasche, ma in qualche modo era pur sempre l'ultima arrivata e di
certo non aveva intenzione di annoiare l'altra con la storia della
sua vita. Era troppo lunga, tra l'altro, ci sarebbero volute delle ore.
«Allora, in cosa posso esserti utile?»
Improvvisamente si ricordò
in cosa consistesse il suo lavoro e quasi rimpianse il tempo passato
nella lettura. Avrebbe dovuto consigliarla? Sperava fortemente di no,
non aveva avuto materialmente il tempo per accrescere la sua
conoscenza; Belle aveva imparato a conoscere i suoi clienti e,
sicuramente, sapeva a memoria le trame della maggior parte dei libri
presenti in negozio, mentre lei brancolava nel buio totale.
«Ho ordinato un libro qualche
settimana fa,» la informò l'altra, mentre Emma si
tranquillizzava,
Elsa la vide rilassare anche le spalle, abbassandole, ma non disse
niente al riguardo e nascose il sorrisetto con la mano destra,
fingendo di grattarsi la punta del naso «speravo fosse
arrivato, altrimenti
ripasserò fra qualche giorno». La giovane Swan si
mise subito a
trafficare col computer, guardando tra i nuovi arrivi alla ricerca
del romanzo storico tanto atteso dalla ragazza. Alla fine lo
trovò e
non le fu neanche difficile rintracciarlo tra gli scaffali.
Domandò
ad Elsa se fosse un regalo per impacchettarlo, ma l'altra scosse la
testa, porgendole i soldi. «Grazie mille, Emma», si
avvicinò verso
l'uscita ma poi tornò indietro, verso il bancone, tirando
fuori un
foglio di carta e una penna dalla sua borsa «Questo
è il mio
numero», affermò scribacchiando qualche cifra
sopra il pezzo di
carta «so cosa vuol dire essere la nuova arrivata in
città,
immagino che non conoscerai ancora nessuno del posto». Emma
la
ringraziò, senza preoccuparsi di nascondere la sua faccia
più che sorpresa da quell'azione, e la salutò con
la mano quando la vide girarsi dall'altra
parte della vetrina. Non sapeva bene come fosse successo, ma aveva
appena trovato un'amica.
Fort
Kent, Maine;
Novembre 2013
Non
passò molto tempo prima che
Regina cominciò a pentirsi del consiglio dato a Killian
Jones.
Sapeva come fosse da ragazzo, sempre in mezzo ai guai, sempre ubriaco
con i suoi amichetti e sempre in cerca di qualche ragazza da portarsi
a letto. Avrebbe dovuto pensarci meglio, prima di lanciarlo
nuovamente nella mischia come un cane sciolto. L'amore, per sua
moglie e per Henry, aveva in qualche modo calmato quel lato del suo
carattere. Forse lui stesso aveva creduto di essere riuscito a
soffocare quella parte di sé, e invece era bastato davvero
poco a
farla riemergere.
Le cose ormai andavano così:
Henry passava, ogni due settimane, la notte a casa di Regina. Il
bambino era sempre contentissimo di dormire a casa della sua zietta
preferita che lo riempiva di dolci e giochi nuovi e Regina era felice
di passare del tempo col bambino che tanto amava come fosse un
figlio. Killian ogni tanto usciva con Robin – Regina gli
aveva
detto che le andava bene – o con altri conoscenti; si
chiudeva in
qualche locale, beveva una birra o si concedeva un qualche alcolico;
solitamente l'altro gli faceva da spalla, anche se la maggior parte
delle donne cadeva ai suoi piedi già all'accenno di un suo
sorriso.
Scambiava il suo numero con le più carine, o le
più formose, o,
anzi soprattutto, con quelle che non cercavano niente di serio.
Regina gli aveva detto che non doveva cercarsi una moglie e, beh, lui
l'aveva presa assolutamente sulla parola.
Regina era uscita, una sera di
metà novembre, insieme a una sua vecchia amica, Kathryn
Nolan. La
classe di Henry era in gita scolastica, perciò la donna
dubitava che
Killian se ne sarebbe rimasto chiuso in casa. Con quell'idea in
testa, entrò in uno dei suoi vestiti migliori, rosso fuoco,
corto
fino al ginocchio (si premurò di indossare delle calze nere
per non
rischiare di ritrovarsi due ghiaccioli al posto delle gambe) e con una
scollatura importante che metteva più che in evidenza il
seno: non
sapeva se l'uomo fosse uscito insieme a Robin o se ci fosse stata
anche solo una piccola possibilità di incontrarli, in ogni
caso lei
era determinata di farsi trovare in forma smagliante. Ebbe solamente
un ripensamento, mentre agguantava la borsa nera e passava davanti
allo specchio nell'ingresso. Si domandò cosa stesse facendo
e cosa
voleva ottenere nel farsi vedere in quel modo dal suo ex compagno;
girò anche i tacchi, decisa a cambiarsi, e l'avrebbe fatto
se non
fosse stato per il tempestivo arrivo di Kathryn.
Le due donne non si vedevano da
qualche settimana, cenarono insieme mentre Regina si impegnava con
tutta se stessa di non parlare di lavoro, cosa che era diventata un
po' la sua ossessione e il suo argomento preferito negli ultimi mesi,
perciò non fu per niente facile. Entrando, poi, in un locale
e
sedendosi in uno dei pochi tavoli liberi, cominciò a
chiedersi
quanto tempo fosse passato dalla sua ultima serata 'tra donne'. Non
riusciva a venirle in mente una data precisa, questo significava che
era passato davvero molto, molto tempo.
«Regina!» L'inconfondibile
voce di Killian Jones interruppe il noioso monologo di Kathryn sulla
sua volontà di cambiare taglio di capelli; la mora
ringraziò,
mentalmente, il cielo per quell'interruzione, anche se poi si
ritrovò
a roteare gli occhi notando le occhiate accattivanti che l'uomo aveva
preso a lanciare alla bionda. «Non ricordo neanche
quand'è stata
l'ultima volta che sei uscita di casa fuori dall'orario di lavoro,
siamo già a Natale per caso?» Scherzò
lui, poggiandosi col gomito
sinistro sopra all'alto tavolo, guardando di sfuggita Regina per poi
tornare a concentrarsi sull'altra donna. Non si era mai tolto il
sorriso sornione dalla faccia, e alla Mills cominciò a dare
fastidio
quel suo atteggiamento.
«Killian», lo salutò
schioccando la lingua, decidendo di ignorare la sua battutina e anche
la risata sciocca della sua amica. Davvero l'aveva trovato
divertente? Preferì non sapere la risposta, lasciando
correre. «Ti
ho mai presentato la mia amica?» Domandò
retoricamente, notando come i due continuassero a lanciarsi occhiatine.
Diede una bottarella
alla gamba della bionda, sperando che si ricomponesse: il suo
matrimonio non stava andando molto bene, negli ultimi tempi, ma
diamine, un po' di contegno!
«Kathryn Nolan, Killian Jones», li
presentò, infine.
Killian afferrò delicatamente
la mano destra della donna e la sfiorò con la bocca,
restando con
gli occhi blu incollati nei suoi per tutto il tempo
«Incantato»,
mormorò, ignorando quasi completamente Regina che non perse
tempo e
lo colpì con un pugno sulla spalla alla prima occasione.
L'uomo si
girò non capendo cosa avesse fatto per meritarlo, trovandola
con uno
sguardo di fuoco che gli procurò altre domande. Regina
indicò, con
la coda dell'occhio, la mano sinistra di Kathryn e Killian non si
fece troppi problemi nell'abbassare lo sguardo in modo da scoprire, e
osservare, la fede che portava all'anulare. «Mi stavo solo
presentando!» Affermò, alzando le mani, in tono
innocente ma
divertito. Lei, allora, decise di non ribattere, tanto sarebbe stato
completamente inutile, e lo guardò aspettandosi di vederlo
andare
via nel più breve tempo possibile. Quello, invece,
afferrò uno
sgabello vuoto dal tavolo alle loro spalle e lo piazzò in
mezzo alle
due donne. Regina, allarmata, spalancò la bocca e
voltò la testa da
una parte all'altra, immaginando di vedere Robin comparire da un
momento all'altro. Calma Regina, calma, ti stai comportando come
un'adolescente in crisi ormonale. «Sono solo,
tranquilla», le
sussurrò lui, piegandosi appena verso di lei così
da avvicinarsi al
suo orecchio, una volta notato quel suo attimo di panico.
«Cosa diamine stai
combinando?!» Lo rimbeccò lei, parlando,
sì a voce bassa, ma
duramente. Aveva lanciato un'occhiata alla sua amica che, o davvero
non si stava accorgendo – o magari non gli stava dando
semplicemente importanza – del loro scambio di battute, o era
troppo imbarazzata da mettersi a ribattere, stava di fatto che aveva
preso, per la terza volta quella sera, il menù degli
alcolici e
stava scorrendo la lista con l'indice destro.
Killian alzò il capo e allargò
le braccia, sorridendo allegramente a entrambe, «Vi offro da
bere!»
Esclamò a voce alta, in modo da farsi sentire forte e chiaro
dalla
bionda che adesso aveva alzato gli occhi verso di lui e sorrideva
incantata. Regina era disgustata dal comportamento di entrambi, tanto
che dopo poco tempo si alzò, scusandosi, e dicendo di aver
bisogno
di una boccata d'aria. Fuori, però, trovo un paio di
fumatori
impegnati in un'accesa discussione. Il vento freddo trasportava il
fumo delle sigarette e lo sbatteva tutto in faccia alla mora che
cominciò a scacciarlo via con la mano sinistra. Fu tutto
inutile e
nel giro di mezzo minuto girò i tacchi infastidita. Tornando
al
tavolo trovò Killian solo, intento a finire il suo Martini.
Si tolse
la giacca nera, mentre lui intercettò il suo sguardo
smarrito.
«Kathryn è andata un istante in bagno»,
la informò con
semplicità. Regina neanche si sedette che lo
colpì, per la seconda
volta quella sera e decisamente più forte, sulla spalla
sinistra con
un pugno. «Ahi! E questo per cos'era?!»
«Lei è sposata, razza
di imbecille!» Lo rimproverò impegnandosi con
tutta se stessa nel
mantenere un tono basso per non attirare l'attenzione della gente, ma
le risultò molto, molto, complicato. Era tanto adirata
perché
voleva bene ad entrambi, si diceva, ed odiava vedere lui provarci con
lei come se fosse una delle tante, facendo finta di non aver notato
la fede nuziale, tanto quanto odiava vedere lei fargli gli occhi
dolci incurante di avere un marito premuroso a casa che voleva
tentarle tutte per salvare il matrimonio.
«Questo lascialo decidere a
lei», scherzò lui incurvando gli angoli della
bocca verso l'alto.
Non aveva intenzione di rubare la moglie di nessuno, non gli avrebbe
fatto onore. Certo, se era lei la prima a volerlo le cose erano ben
diverse; alla fine Killian aveva semplicemente flirtato un po', per
come la vedeva lui, Regina stava leggermente gonfiando le cose.
«Lei... lei è incinta!» Si
ritrovò a esclamare la mora, prendendo alla sprovvista
l'amico e,
soprattutto, se stessa. L'aveva sparata grossa, e soprattutto,
perché
si era lasciata sfuggire una cosa del genere? Soprattutto quando
Kathryn le aveva semplicemente confessato di essere un tantino
preoccupata per un ritardo, non c'era niente di certo e sicuramente
la bionda avrebbe potuto strozzarla con le sue mani se lo avesse
scoperto, se ne avesse avuto sia il coraggio che la forza ovviamente.
«Lei è... cosa?» Ripeté
Killian, sollevando le sopracciglia e sbarrando gli occhi sorpreso e,
appena appena, sconcertato «Stai dicendo sul
serio?» Si beccò lo
sguardo di fuoco di Regina e decise che non era il momento
più
adatto di mettere in dubbio le parole della Mills. Abbassò
il capo,
grattandosi appena il lobo sinistro, si sentiva un verme per i
pensieri che aveva avuto solo qualche attimo prima «Va bene,
va
bene», affermò a un tratto alzandosi e poggiando
delle banconote
sopra al tavolo «sarà meglio che vada allora,
saluta Kathryn da parte mia
e dille che è stato un piacere conoscerla»,
mormorò posando il
portafogli nella tasca posteriore dei suoi pantaloni, prima di
infilarsi la sua amata giacca di pelle. «A proposito,
Regina», la
richiamò prima di andare via «dovresti metterlo
più spesso questo
vestito, mette in luce la tua parte migliore», non si
vergognò
minimamente ad osservare, con piacere, il davanzale dell'altra,
sorridendo sghembo e scappando via prima che potesse ucciderlo.
Regina abbassò lo sguardo
all'istante e notò subito come la scollatura si fosse
abbassata e
mostrasse più del necessario. Sentì le guance
arrossarsi, forse per
la terza volta in tutta la sua vita, e si sbrigò a tirare su
il
vestito. Alzò la testa, poi, per affrontarlo, ma lui era
già
lontano.
Fort
Kent, Maine; Aprile
2016
Aveva preso lo stipendio il
giorno prima, così non aveva perso tempo per pagare le
bollette e
riempire il frigo e la dispensa. Aveva dimenticato solamente di
comprare una torta gelato per quella sera, ricordando, solo una volta
a casa, di essere stato invitato, insieme a Henry, da Regina a cena.
Era uscito di nuovo, quindi, lasciando l'auto in centro e
incamminandosi a piedi verso il supermercato. Dopo circa un centinaio
di metri, la sua attenzione fu rapita dall'insolito maggiolino
giallo, che aveva visto, quando? Due, forse tre giorni prima?,
parcheggiato davanti la Chipped Library. Non se lo
ripeté due
volte e si precipitò dentro al negozio, curioso di conoscere
la sua
proprietaria: se l'immaginava altrettanto stramba e unica nel suo
genere.
«Salve!» Salutò, lasciando
che la porta si richiudesse da sola alle sue spalle e cercando la
donna con lo sguardo. Sapeva soltanto che fosse bionda, nient'altro,
non era riuscito a vederla bene. Aspettò che Miss French gli
venisse
incontro ad accoglierlo e quando non successe decise di dare
un'occhiata in giro. La libreria era formata da due stanze: le
novità
e i più venduti erano sistemati in quella d'ingresso, quelli
invece
più datati, o i grandi classici, si trovavano nell'altra.
Non
trovando nessuno nella prima, non perse tempo e si avviò
verso la
seconda. Non fu difficile notare la donna bionda dalle gambe lunghe,
impegnata ad ordinare i libri da una scala non troppo alta. Lo
sguardo di Killian non poté non soffermarsi sul fondoschiena
della
giovane, sodo e messo in risalto dai jeans stretti. «Ma che
bel
panorama», sentenziò sorridendo sotto i baffi,
immaginandosi una
qualche reazione che però non arrivò; fu allora
che, guardandola
meglio, notò gli auricolari nelle orecchie e gli fu tutto
chiaro.
Si morse il labbro inferiore,
con le braccia incrociate al petto, godendosi la scena il
più a
lungo possibile. Quando capì che quella ne aveva ancora per
molto,
si avvicinò lentamente alla scala e le diede un piccolo
colpetto con
il piede. La scala traballò, la giovane si
spaventò colta alla
sprovvista e perse così l'equilibrio. Killian
l'afferrò al volo
senza troppi problemi, specchiandosi subito negli occhi verdi della
bionda che gli era appena caduta tra le braccia e che, adesso, lo
guardava con un mix di spavento e sollievo. L'aveva immaginata in tanti modi, nella sua testa, mentre aspettava che suo figlio uscisse da scuola, qualche giorno prima, ma non era andato mai lontanamente vicino a quella disarmante bellezza che si trovava davanti. Le lunghe ciglia si muovevano piano, la mano sinistra si era posata istintivamente sulla spalla dell'uomo e Killian sorrise nel ritrovarsi quelle sottili e dall'apparenza morbide labbra a pochi centimetri dal suo viso. La giovane fece per
aprire bocca, probabilmente per ringraziarlo o elogiare i suoi pronti
riflessi, ma l'altro spostò, quasi senza accorgersene, la
mano
sinistra di pochi centimetri dal corpo della donna, andando a posarla
proprio sul suo sedere, e lì vi rimase il tempo necessario
per far andare la giovane Swan su tutte le furie.
«Mi tolga le mani di dosso!»
Scattò Emma, tirandosi via dalla presa e dimenticando subito
le
buone maniere «E' pazzo? Come si permette?»
Esclamò fuori di sé,
cominciando a colpire l'uomo con il libro, dalla copertina flessibile e dalle poche pagine che le era rimasto in mano per tutto il tempo, un paio di volte sulla spalla destra, mentre lui
alzava il braccio per coprirsi, o forse per nascondere il ghigno
divertito che aveva messo su.
«Ehy, calma! Calma! Non l'ho
fatto apposta», esclamò sulla difensiva, non
convincendo neanche se
stesso. In compenso, la bionda posò il libro, forse temendo
una
possibile denuncia per aggressione che per altro, e lo
guardò in
attesa di sentire le sue scuse. Killian si ricompose, si
sistemò la
giacca ed allungò la mano verso di lei «Killian
Jones», si
presentò «è davvero un piacere.» Emma lo
guardò inorridita e accigliata,
incrociò le braccia e continuò ad aspettare delle
scuse. «Tu
sei?», domandò alla fine lui, ignorando qualsiasi
formalità e
dandole subito del tu.
«Stanca», mormorò lei a denti
stretti, guardandolo torva. Okay, doveva mantenere il sangue freddo e comportarsi in modo superiore, doveva reprimere l'istinto che aveva di urlargli contro fino a farlo scappare via, così come doveva resistere dal saltargli addosso. Per pestarlo. Calma Emma, sei nuova in città, nessuno ti conosce e ti faresti solamente tanti nemici. Per quanto poteva saperne, si trovava davanti un brav'uomo che, per davvero, accidentalmente le aveva tastato il sedere, soffermandovicisi a lungo con un mal celato piacere. Sì, certo, e lei era la Fata Turchina. Tra l'altro c'era la faccenda della scala, era stato sicuramente lui a procurare quell'incidente, non poteva di certo traballare improvvisamente da sola, no? Si trovava davanti un pazzo bello e buono, a suo parere, ma doveva comunque rimanere calma e non scendere alle provocazioni o Belle l'avrebbe cacciata su due piedi; se invece quello avrebbe continuato a darle fastidio, o avesse anche solo provato a provocarla in qualche modo, sarebbe tornata alla carica «Senta, se non è qui
per acquistare dei
libri, può anche andarsene. Ho del lavoro da
sbrigare», concluse,
senza smettere di fissarlo dritto negli occhi neanche per un istante.
Non guardò neanche la sua mano destra, tesa e in attesa di
stringere
la sua, non le balzò per la testa l'idea di accontentarlo e
di
presentarsi. Non ne aveva la minima intenzione e soprattutto aveva
altro da fare invece di perdere tempo con una persona del genere.
Killian
arricciò le labbra e alzò le mani in segno di
resa «Va bene, ho
recepito il messaggio», affermò, comunque
divertito da quella
situazione e soprattutto da quella donna. Passò accanto al
bancone e
lanciò un'occhiata veloce ad uno dei fogli sparsi accanto
alla
cassa, riuscì a leggere un nome, non ebbe tempo di fare
altro perché
lei prese a seguirlo fino alla porta, per assicurarsi di vederlo
andare via. «E' stato comunque un piacere»,
affermò lui,
improvvisando un mezzo inchino «Miss Swan», si
tirò su e andò
via, riuscendo, però, a notare l'ultima occhiataccia
sorpresa e
scocciata della nuova arrivata in città.
Emma lo osservò allontanarsi, la strana sensazione di
qualche giorno prima, tornò a farle compagnia.
Angolo
dell'autrice:
Okay, è stato un PARTO. Scusate
il ritardo, per mesi mi sono detta 'sarà sicuramente
più facile
scrivere l'AU, sicuramente non ci metterò troppo tempo ad
aggiornare' e poi eccomi qui, IN RITARDO. Vi dirò, scrivere
questa
storia si sta rivelando sicuramente più facile dell'altra
(come
avevo previsto), e il ritardo è dovuto principalmente a due
cose: 1)
non avevo ben chiaro come strutturare i flashback, l'ispirazione
è
venuta scrivendo praticamente, e 2) .... sapete quando cominciate una
nuova serietv senza troppe aspettative, ma poi questa serie vi prende
a tal punto che DOVETE finirla, al costo di non dormire/bere/mangiare
per giorni? Ecco, sono io con Doctor Who. In più il risultato neanche mi soddisfa pienamente, anzi secondo me il capitolo fa abbastanza schifino, ma vabbè, scusate.
Scuse a parte, mi sono divertita
a mettere tanta carne sul fuoco in questo capitolo, e tante cose non
erano neanche premeditate. Il primo incontro non poteva non essere
disastroso, così come lo è stato nella serie.
Speravo di rendere
meglio l'idea che avevo in testa, ma alla fine è venuto
fuori questo
:/ ma isomma, finalmente il nostro Jones è arrivato. Pareri?
lol Il
primo flashback ce lo mostra calmo e gentile, ma già dal
secondo è
più sfacciato e pieno di sé (quanto mi manca Hook
ç.ç)
Ah, spero di riuscire a
mantenere i caratteri dei personaggi, soprattutto con Killian spero
di essere riuscita a trasmettervi e a mantenere il suo lato pirata
stravolto in una chiave più moderna. Fatemi sapere se ci sto
riuscendo o se sto completamente sbagliando strada perché ci
tengo!
Oltre a Killian, ho introdotto
Regina (su tutti), e qui vi chiedo... quale sarà il rapporto
tra i
due? Cosa li ha legati e come si saranno evolute le cose nel corso
degli anni tra loro? Abbiamo poi visto Elsa (non potevo non
inserirla, mi manca davvero tanto), e... Kathryn NOLAN? Incinta?
Sì,
sto ridendo da sola immaginando le vostre reazioni. Chi saranno i
prossimi a comparire nella storia? Vi dico subito che ho già
cominciato a scrivere il terzo capitolo, e, se non cambio idea,
dovrebbero comparire ben QUATTRO personaggi dello show. Secondo voi
chi sono? :P E la madre di Henry? E' Milah o qualcun altra? E che
fine ha fatto? Davvero non vedo l'ora di farvi leggere il prossimo
capitolo ragazze!
Questo angolo è lunghissimo,
per cui vi saluto e vi ringrazio per continuare a seguirmi :)
Un bacio a tutte, a presto :*
Sà
|
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Capitolo 4 *** 3. L'anniversario (parte1) ***
3.
L'anniversario (parte1)
Fort
Kent, Maine; Maggio 2016
Entrò
nel Rabbit Hole
guardandosi subito intorno nella speranza di trovare Elsa, nel caso
fosse già arrivata. Avrebbe dovuto memorizzare il suo numero
in
rubrica, stupida Swan. L'interno del locale era più piccolo
di
quello che si aspettava, le luci erano basse, la musica era mandata
da due casse poste in due angoli opposti della sala, il volume
permetteva di godersi qualsiasi canzone e allo stesso tempo di
chiacchierare con il proprio vicino. Notò anche degli
strumenti e
una specie di palchetto, immaginò che venissero organizzate
anche
delle serate a tema in cui suonava qualche band o qualcosa del
genere. I tavoli erano quasi tutti pieni ma non riusciva a vedere
bene tutte le persone sedute, osservò meglio il bancone
notando
subito due baristi che servivano le poche persone che avevano scelto
di passare la serata su quegli sgabelli così scomodi.
Emma smise subito di ispezionare
quel posto con lo sguardo, interrotta da un'esuberante brunetta che
le si parò davanti così all'improvviso che quasi
non se ne accorse.
«Buonasera e benvenuta al Rabbit Hole! Sei nuova in
città, vero?
Hai ordinato un tavolo?» Quasi non prese fiato. Emma la
guardò con
gli occhi aperti senza nascondere un'espressione smarrita.
Pensò che
indossasse dei pattini al posto delle scarpe, facevano molto stile
anni 50 era vero, ma era stata così veloce che concluse
fosse
l'unica spiegazione. Abbassò velocemente gli occhi,
addirittura,
tanto per accertarsene ma, no, la ragazza era stata semplicemente
molto rapida a venirle incontro.
«Come l'hai capito?» Le
domandò come prima cosa, incrociando le braccia davanti al
petto con
fare indagatore. Era una posa e un modo di fare che si portava dietro
dall'infanzia, difficile separarsene o anche solo controllarlo.
«Comunque no, non credo almeno», non credo? Ma che
cavolo di
risposta era? «ho un appuntamento con una...»,
persona conosciuta
solo qualche giorno fa e con la quale avrò scambiato neanche
sette
battute? «amica, mi ha detto che mi avrebbe aspettato
dentro».
La bruna si aprì in un sorriso
smagliante, così da mostrare una dentatura da far invidia a
qualsiasi modella che si vedeva nelle pubblicità dei
dentifrici.
Sembrava quasi divertita. «Questa è una piccola
cittadina», rise
lei per tutta risposta «lavorando nel suo locale
più importante,
per anni, finisci di conoscere più o meno tutti i suoi
abitanti.
Dimmi, come si chiama questa tua amica? Ho accolto io tutto i
clienti, questa sera, se è già arrivata
l'avrò sicuramente già
vista.» Sembrava sinceramente cortese e pronta ad aiutare,
mentre
passava il piccolo vassoio nero dal braccio destro a quello sinistro,
posando quindi la mano libera sul medesimo fianco.
«Elsa,» rispose la bionda,
speranzosa «Elsa Sleety *».
Il sorriso
dell'altra si ingrandì maggiormente, cosa che Emma non
credeva
minimamente possibile e annuì con il capo, prima di girarsi
veloce
verso la sua sinistra, facendo svolazzare così i lunghi
capelli, dai
quali risaltava un nastro di colore rosso acceso.
«Ma certo, Elsa! Andavo in
classe con sua sorella Anna, sai? E' una brava ragazza, tutte e due
lo sono, anche se è un po' chiusa e solitaria... Elsa, dico,
non
Anna, Anna è completamente l'opposto: esuberante e
chiacchierona»,
come qualcun altro, qui, si ritrovò a pensare la giovane
Swan,
accennando appena un sorriso. «E' arrivata pochi minuti fa,
comunque. Solito tavolo, in fondo a destra», mi
indicò il tavolo –
anche se la ragazza continuava a rimanere nascosta dagli altri
clienti – neanche le avesse chiesto un indicazione stradale,
prima
di tornare a guardarla e a rivolgerle l'ennesimo sorriso «a
proposito, io sono Ruby, benvenuta a Fort Kent, miss...?»
«Swan, Emma», le due ragazze
si strinsero cordialmente la mano, prima che la nuova arrivata la
lasciasse ai suoi clienti, diretta dalla sua nuova conoscenza
«grazie
mille, Ruby.» Dopo soli pochi passi, fu già
più semplice trovare
Elsa, che stava digitando qualcosa sul suo telefono, probabilmente un
messaggio, con la testa poggiata tranquilla sul dorso della sua mano.
Aveva i capelli raccolti in uno chignon basso e appena spettinato,
indossava un top blu monospalla e dei pantaloni neri, nessuno strappo
come ormai andava di moda tra le ragazze – ed Emma
apprezzò
immensamente quella mancanza.
«Ciao Elsa!» La salutò subito
Emma, posando la borsa sopra una delle tre sedie vuote e sedendosi
sopra un'altra, quella situata davanti la ragazza «Perdona il
ritardo», mormorò dopo, guardandosi intorno in
cerca di Ruby, o di
un altro cameriere così da ordinare da bere. Qualcosa di
fresco
magari, visto che nel locale si moriva di caldo.
Elsa aveva già incurvato gli
angoli della bocca verso l'alto, vedendola arrivare, e si era
affrettata a chiudere la conversazione con sua sorella, Emma non
aveva intenzione di curiosare nei suoi affari, ma era riuscita a
leggere il nome sullo schermo, prima che l'altra chiudesse la
finestra dei messaggi. «Oh no, Emma, tranquilla»,
esclamò questa,
riponendo il cellulare nella borsa, color argento che sicuramente non
passava inosservata, che teneva attaccata allo schienale della sua
sedia «sono arrivata da poco anche io, non preoccuparti. E'
stato
difficile trovare il posto?» Scosse appena la testa, posando
i
gomiti sul tavolo.
Parlarono
per una buona oretta e mezza, senza interruzioni o pause
imbarazzanti. Elsa sapeva fare le giuste domande, soddisfacendo la
propria curiosità ma senza essere inopportuna o entrare
troppo nella
vita privata di Emma. L'altra rispondeva spontaneamente, ricambiando
le sue domande o facendone di nuove. Elsa, scoprì, era nata
nel Maine, ma aveva poi passato la sua adolescenza in Canada, nel Québec, per motivi di lavoro dei genitori. Le
raccontò del freddo, davvero pungente una volta arrivata,
quando
aveva solo tredici anni, e che poi aveva imparato ad amare e ad
apprezzare. Emma rise tra sé, trovando buffo l'accostamento
tra il
suo cognome e il clima che tanto amava. Una volta grande, aveva
ottenuto una borsa di studio dalla prestigiosa università di
Princeton,
era quindi tornata negli USA e lì vi era rimasta. Si era
laureata in
economia e, adesso, viveva a Fort Kent, lavorando come assistente del
sindaco. Sua madre e sua sorella erano rimaste in Canada e le vedeva
raramente.
Emma
aveva ascoltato la ragazza sinceramente interessata, fino a quando un
tono di voce piuttosto brusco non interruppe il clima di
ilarità di
gran parte della sala, e fece sobbalzare i presenti più
vicini al
suo proprietario. «Cerchi rogne, amico?» Anche Emma
e Elsa si
voltarono, quasi in sincronia, per vedere cosa stava succedendo. Alle
spalle di quest'ultima, a qualche metro di distanza, si trovavano una
ragazza piuttosto minuta, di lei potevano notare solamente i capelli,
rosso fiamma, perché era girata dall'altra parte, ma non
era,
comunque, l'attrazione principale della scena. Un uomo basso e
robusto, calvo, dagli occhi scavati che trasudavano di stanchezza e
da una barba piuttosto folta, più grigia che nera, e
punteggiata da
un po' di bianco qua e là, fronteggiava una delle ultime
conoscenze
della giovane Swan.
Killian
Jones, il nome dell'uomo le scattò in automatico nella
mente, le
sembrò piuttosto alticcio e visibilmente infastidito. Era
stato lui
a inveire, poco prima, l'altro sembrava tranquillo, rosso in viso ma
tranquillo, forse provava a trattenersi. «Ehy, fratello,
rilassati.
Ti ho solo detto di spostare l'auto, intralcia l'ingresso»,
ribatté
quello, stringendo appena i pugni. Elsa volse la testa verso Emma e
la guardò preoccupata, ma l'altra non la notò,
impegnata com'era a
seguire la discussione, non per farsi gli affari loro, ma per
intervenire se necessario.
«E io ti ho già detto di
andare al diavolo!» Esclamò Jones, prendendolo in
giro con
un'espressione irriverente sul volto «E poi sei dentro, no?
Se
avesse ostruito l'ingresso non saresti riuscito ad entrare»,
allargò
le braccia con fare ovvio e un sorriso sfacciato, in seguito gli
diede completamente le spalle e, seppur rivolgendosi ancora lui,
tornò a guardare la ragazza profondamente «stavo
conversando con
questa splendida creatura, se non te ne fossi accorto.»
«No, me ne stavo andando via»,
affermò lei risoluta, passò davanti ad entrambi e
si avviò verso
l'uscita. Emma non riusciva a staccare gli occhi di dosso da quei
tre, Elsa aveva capito che non sarebbe riuscita a distrarla per
nessun motivo al mondo, così anche lei tornò ad
osservarli,
lanciando poi delle veloci occhiate alla sua nuova amica.
«Ecco, vedi Leroy? Sei riuscito
a infastidire anche lei!» Così dicendo, Killian
Jones prese ad
incamminarsi verso la rossa, barcollando a vista d'occhio. Vedendo
che Leroy non aveva la minima intenzione di impicciarsi oltre, Emma
scattò in piedi, pronta a raggiungere i due che avevano
quasi
raggiunto l'uscita. Ormai nessuno prestava loro molta attenzione.
Elsa, invece, afferrò di scatto
il polso destro della bionda con entrambe le mani, mormorandole un
soffocato «Emma, no!». Emma non la
guardò nemmeno, sentiva guai
nell'aria, quell'uomo non le era piaciuto da sobrio, figuriamoci se
le sarebbe piaciuto da ubriaco! I clienti erano tornati a farsi gli
affari propri e a lei questa cosa non andava giù, odiava
l'indifferenza della gente. Scrollò appena il polso, Elsa
lasciò la
presa scoraggiata e sospirò. Emma raggiunse i due quel tanto
che
bastava ad ascoltare ciò che si dicevano, ma non intervenne
subito.
Elsa, alla fine, si alzò anche lei e raggiunse la donna,
restando
qualche passo più indietro.
«Andiamo Sirenetta,
l'altra volta ti era piaciuto», sentirono
l'uomo, che con
fare sornione si era avvicinando alla ragazza, credendo di risultare
affascinante «casa mia è qui vicino, ma questo lo
sai già»,
sorrise divertito, prima di inumidirsi le labbra e avvicinarsi
maggiormente alla ragazza. Questa volse appena il capo, simulando
un'espressione disgustata, probabilmente per via dell'alito del suo
interlocutore.
«L'altra volta non eri ubriaco,
Jones», ribatté questa, con una calma che Emma le
invidiò.
Sembrava sapere quello che facesse, sembrava conoscerlo e, a dirla
tutta, sembrava anche attratta da quell'uomo, ma era sempre risoluta
a non accontentarlo, quella volta, non con lui in quelle condizioni.
Non sembrava avercela con lui, la Swan si domandò che
problemi
avesse quella ragazza, lei avrebbe già dato di matto, si
disse. «Non
ho intenzione di venire a casa tua.»
L'uomo rise, visibilmente
divertito da quello che era appena stato affermato
«Oh», partì,
pronto a colpire in pieno la sua compagna «ma l'altra volta
lo hai
fatto eccome. E più volte, devo dire», concluse
allusivo e con una
sfacciataggine tale da disgustare completamente Emma, come se
già il
loro primo incontro non fosse stato abbastanza. Elsa, invece, alle
sue spalle, restava impassibile e silenziosa, l'altra neanche si era
accorta della sua presenza.
Anche la rossa apparve
disgustata da quella affermazione, anzi, infastidita più che
altro.
Roteò gli occhi verso l'alto e girò i tacchi,
decisa a lasciarlo lì
senza nemmeno concedergli una replica. Killian, però, le
prese la
mano di getto, neanche si accorse di quello che aveva fatto o,
comunque, neanche ebbe il tempo di accorgersene, dato che Emma non ci
aveva visto più, gli aveva messo una mano sulla spalla e con
un
«Ehy» lo aveva richiamato affinché lui
si girasse. Non appena,
questi, ebbe girato completamente il capo nella sua direzione, mossa
da una sorta di solidarietà femminile, o forse dall'immensa
voglia
che aveva di colpirlo fin da quando l'aveva palpata qualche giorno
prima, gli tirò un pugno in pieno volto. Elsa
strillò, la rossa
trattenne il respiro, Jones aveva ancora addosso un'espressione
più
che confusa, che presto si tramutò in una stordita. Cadde a
terra
svenuto, le tre donne lo osservarono neanche fosse la scena al
rallenty di un film. «Wow, non credevo di averlo colpito
tanto forte
da spedirlo al tappeto», commentò la bionda, la
mano ancora ferma a
mezz'aria, aperta però, il viso contratto in uno sguardo
sorpreso.
«Colpa dell'alcol», commentò
la ragazza dai capelli rossi, che nel frattempo si era chinata verso
Jones «sarebbe crollato da un momento all'altro»,
aggiunse poco
dopo, prima di voltarsi, seguita da Emma e Elsa, verso Ruby e altri
due camerieri che erano subito accorsi a vedere cosa stava
succedendo.
«Non l'ho mai visto così
ubriaco», commentò a bassa voce Ruby, mentre gli
altri provavano a
svegliare l'uomo, invano tra l'altro. «E' inutile ragazzi, ne
avrà
per un bel po'», fece poi, mordendosi un labbro forse non
sapendo
come risolvere la questione o cosa farne di lui, visto che non le
sembrava fosse entrato accompagnato nel locale. Decise allora di
spostarlo da lì e di portarlo nell'ufficio del loro capo
che,
fortunatamente, non si trovava in sede per una volta tanto.
Invitò i
clienti a tornare a gustarsi la loro serata, scusandosi per quanto
accaduto, dopo di che si allontanò in direzione
dell'ufficio. Emma
li seguì, dopotutto era in parte responsabile, ed Elsa le
andò
dietro, non potendo sopportare un secondo di più gli sguardi
curiosi
della gente che parlottava tra loro. «Solitamente se ne
occupa
David...», sembrava stesse solamente riflettendo ad alta
voce, ma
Emma non poté fare a meno di ascoltarla e chiederle curiosa
«David?»
Ruby si voltò a guardarla con occhi aperti e sopracciglia
alzate,
quasi si fosse appena accorta della presenza delle due donne.
«Sì,
David Nolan, un suo amico. Solitamente vengono insieme, David
è
astemio, a quanto ne so, e non beve. E' lui a riportarlo a casa ogni
volta così da non farlo guidare. Se non è qui
stasera, probabilmente è di turno in
ospedale... magari può assentarsi per qualche minuto, giusto
il
tempo di riportarlo a casa...», provò a ipotizzare
ancora la
ragazza, col dito sul mento.
«E' un'idea sì,» annuì Emma,
incrociando le braccia «potete contattarlo?» Si
affrettò a
domandare, non sapendo bene perché sentiva che sarebbe
rimasta
fregata in qualche modo. Proprio non poteva farsi gli affari suoi e
rimanersene seduta al suo posto come Elsa le aveva, tra l'altro,
intimato di fare? Doveva proprio mettersi in mezzo e improvvisarsi
paladina, difendendo una ragazza che, forse, neanche ne aveva tutto
questo bisogno visto che era andata via più che tranquilla?
«No, non ho il suo numero e
immagino che il telefono di Killian abbia un codice di
sblocco...»,
uno degli uomini riuscì a trovare il telefono, accese lo
schermo e
mostrò la tastiera bloccata «appunto. Penso
proprio che non rimanga
altro da fare se non portarlo noi stessi da David.»
Emma prese ad annuire
silenziosamente, gli occhi puntati su Jones che, ormai bello comodo
su una vecchia poltrona, aveva cominciato a russare, quasi a voler
farsi beffe di tutto quel casino che aveva creato. O che aveva creato
Emma. Oh no, decise di declinare quella responsabilità
cominciando a
togliersi l'aria colpevole dalla faccia; alla fine se lui non le
avesse scocciato tanto qualche settimana prima, lei non sarebbe mai
partita con un tale pregiudizio e non avrebbe mai reagito in quel
modo. Smise di annuire nel momento in cui percepì gli occhi
di ogni
persona nella stanza fissi su di sé, si voltò a
guardare Ruby e
notò il suo sguardo implorante e ammagliatore, le lunghe
ciglia che
sbattevano piano. «Cosa?» Domandò
istintivamente la bionda, che
però aveva già capito tutto «Volete che
ce lo porti io?»
«Se non ti crea disturbo»,
tentò l'altra, mentre incurvava le labbra in un piccolo
sorriso che
forse voleva mostrare gratitudine «è sabato sera e
noi siamo di
turno fino a domani mattina, non possiamo allontanarci», si
morse il labbro guardandola supplichevole, incrociò le mani
a mo' di
preghiera e molleggiò lievemente sulle ginocchia. Ad Emma
ricordò
tanto una bambina che chiedeva una bambola nuova. «Per
favore,
l'ospedale non è molto lontano da qui»,
provò ancora ma Emma alzò
gli occhi al cielo, provando in tutti i modi di non sbuffare e
soprattutto ad uscire da quella situazione «se lo farai tutti
noi
chiuderemo un occhio su quanto accaduto. Alla fine si è
trattato pur
sempre di un'aggressione, lo hai colpito davanti parecchi testimoni e
potresti aver macchiato il buon nome del locale. Gli affari caleranno
e saremmo costretti a chiudere, e poi...»
«D'accordo, d'accordo», sbottò
la bionda, sbrigandosi a chiudere quel soliloquio così
melodrammatico che la brunetta aveva messo su. La paura di beccarsi
una qualche denuncia per aggressione le saltò per la mente e
decise
di abbassarsi ad accompagnare quel tale che proprio non riusciva a
digerire. Perfino vederlo dormire le scatenava della rabbia dentro di
sé. «Elsa, tu sei venuta a piedi vero? Ti do un
passaggio in
macchina.»
Si era scusata con
Elsa
un'infinità di volte mentre la riaccompagnava a casa. Non si
sentiva
in colpa per aver colpito Jones, che non smetteva di russare disteso
malamente nei sedili posteriori del maggiolino giallo, quanto
piuttosto di aver rovinato una piacevole serata e aver messo anche
l'altra donna in imbarazzo. Ad Emma non importava molto di quello che
le persone pensavano di lei, ma Elsa se ne era rimasta in disparte
visibilmente a disagio per tutto il tempo, e di questo se ne
dispiaceva, e molto. L'altra l'aveva rassicurata e le aveva detto di
non preoccuparsi, prima di scendere dall'auto le aveva anche detto
che sarebbe passata a trovarla in libreria così da
organizzare
un'altra uscita. Emma si domandò quanto di quelle parole
fosse vero,
immaginando che una persona normale non avrebbe più voluto
avere niente a
che fare con lei dopo una serata tanto disastrosa.
Non le risultò difficile
trovare l'ospedale, Elsa le aveva spiegato dettagliatamente la
strada. Parcheggiò vicino l'entrata principale e corse
dentro, non
prima di aver lanciato una rapida occhiata al suo passeggero,
l'ultima cosa che voleva era che se ne andasse in giro
chissà dove e
da solo, ubriaco fradicio. Domandò di David Nolan e un
infermiere fu
tanto gentile da andarlo a chiamare personalmente; Emma gli disse,
prima di andare, che lo avrebbe aspettato fuori, vicino la macchina.
E così la trovò David, circa 5 minuti dopo,
mentre se ne stava
appoggiata col sedere sul cofano, le gambe allungate in avanti e le
mani infilate nelle tasche della giacca.
Emma lo aveva notato subito
mentre si precipitava di corsa fuori dall'ospedale, il camice bianco
che svolazzava all'indietro, gli occhi chiari preoccupati per le
condizioni del suo amico. Quando le fu abbastanza vicino si disse che
quell'uomo poteva benissimo passare per un suo famigliare, per non
dire suo fratello, con quei capelli biondi e quella carnagione
così
chiara come la sua. «Sei
David?»
Domandò tanto per essere sicura. Quello annuì,
così scivolò
rapida e andò ad aprire lo sportello del passeggero, tirando
in
avanti il sedile così da mostrare Jones «Eccolo
qui, dorme da
parecchio ormai».
«Si è preso una bella sbornia,
eh», commentò, lui, abbassandosi in modo da poter
controllare
Killian, una mano appoggiata sul sedile e l'altra sul tettino
dell'auto. Emma non poté trattenersi troppo e gli
domandò se fosse
una cosa che accadeva spesso, David si voltò a guardarla,
alzandosi,
e scosse la testa «No, solitamente beve qualche drink, sono
anni che
non si spinge così oltre, a quanto ne so.» Chiuse
lo sportello
della macchina, guadagnandosi un'occhiataccia smarrita da parte della
Swan. «Deve essere colpa dell'anniversario di
domani...», pensò a
voce alta, prima di guardare la bionda ed essersi reso conto di non
aver tenuto quei pensieri per sé «oh,
beh», cominciò imbarazzato
«lunga storia.»
«Non
mi interessa», affermò Emma sincera, anche se la
parola
'anniversario' aveva acceso non poca curiosità dentro di
lei. Jones
era sposato? Era a quello che si riferiva David? O magari era
divorziato e quel turbamento nasceva proprio da questo? Al diavolo,
non doveva importarle niente che riguardasse quell'uomo.
«Puoi
riportarlo a casa?» Notò l'espressione accigliata
del dottore, dal
camice che indossava doveva essere un chirurgo e immaginò
che
chiedergli di allontanarsi dall'ospedale, durante un turno di notte
addirittura, non era una cosa possibile. «O magari puoi farlo
stare
qui... non so, come paziente o cose del genere»,
tentò lei, ma
l'altro aveva già cominciato a scuotere il capo.
«No,
mi dispiace Emma, non si può fare. Se cominciamo a
ricoverare gente
per una semplice sbronza si creerebbe il caos, no.
Ascolta...», Emma
era già pronta a ribattere ma, insieme a David, si
bloccò sentendo
una sorta di bip,
provenire da una delle tasche dell'uomo. Lui tirò fuori un
piccolo aggeggio
che doveva essere un cerca persone, ora che ci pensava Emma non ne
aveva mai visto davvero uno, quella era la prima volta
«Maledizione!»
Esclamò quello, voltandosi di getto verso l'ospedale, pronto
a
tornarsene dentro «Ho un'emergenza, mi dispiace.
Ascolta», ripeté
tirando fuori, dall'altra tasca, un blocchetto e una penna dove vi
scribacchiò sopra qualcosa «questo è il
suo indirizzo, è qui
vicino, non saranno neanche 400 metri. Prosegui dritta fino
all'incrocio, poi gira a destra. Le chiavi di casa le tiene nella
tasca interna della giacca, se non dovessi trovarle sono dietro a un
vaso vicino la porta. Okay? Grazie mille, ti devo un favore!»
Furono le ultime parole che le
disse, poi corse via non lasciandole neanche il tempo di dire di no,
o accettare il fatto che non ci fossero altre alternative. La giovane
Swan rimase lì, con la bocca aperta e gli occhi spalancati,
il
cervello in moto che cercava di metabolizzare quegli ultimi
avvenimenti. Alla fine salì in macchina e chiuse lo
sportello con
violenza, facendo sussultare anche Jones che però non si
svegliò.
Maledisse il giorno in cui quell'uomo era entrato in libreria e mise
in moto, dopo aver dato un'occhiata all'indirizzo scarabocchiato di
fretta dal dottor Nolan.
Proprio in quell'istante, in
ospedale, mentre imboccava per la sala operatoria, David si rese
conto di aver dimenticato qualcosa, qualcosa di importante, da dire a
quella donna, ma ben presto quello divenne l'ultimo dei suoi
pensieri.
Rockford,
Illinois; Gennaio 2001
Sapeva che
il giorno dopo, al
suo risveglio, sarebbe stato costretto a fare i conti con un tremendo
mal di testa. Liam gli avrebbe rotto le palle in tutti i modi, sapeva
anche quello, disturbandolo con ogni mezzo a disposizione
così da
fargli rimpiangere di aver bevuto tanto. A volte suo fratello si
dimostrava una vera piaga, così rigido con le sue buone
maniere e il
suo continuo disprezzo per ogni forma di divertimento. Era sempre
stato così, anche da bambino, Killian amava sporcarsi nel
fango
mentre lui se ne rimaneva per tutto il tempo chiuso in casa a leggere
libri. Molto spesso lo aveva apostrofato col nome di
“femminuccia”,
abitudine che aveva perso col tempo, con la crescita. Ma non con la
maturità, come diceva Liam, la maturità non era
ancora giunta per
il suo fratellino e spesso era costretto a tirarlo fuori dai guai.
Come quella sera, si era raccomandato così tante volte di
non
lasciarsi trasportare dai suoi amici e di controllarsi con l'alcol
che quasi gli aveva fatto venire la nausea. “Non mischiare
gli
alcolici, Killian. Non fumare, Killian. Divertiti, ma con il
cervello, Killian. Non commettere casini, Killian”. Poteva
benissimo dirgli di non vivere, sarebbe stato uguale.
E, comunque, si trovava ad un
addio al celibato, cosa pretendeva suo fratello? Non poteva mica
restarsene in disparte a bere acqua per tutta la sera. Non poteva
mica rifiutare quello spinello che i suoi amici, più grandi
di pochi anni, gli avevano passato. Non poteva mica non fingersi lo
sposo
per incitare la spogliarellista a mettere su uno spettacolino nel
privè solo per lui. Beh, quest'ultimo punto forse non
avrebbe dovuto
farlo per davvero, ma poco male, Will si era subito messo in mezzo,
scansandolo
via, sfregandosi poi le mani nell'attesa che la ragazza cominciasse a
mettersi all'opera. Come se Anastasia non lo soddisfacesse
già
troppo, pensò Killian mentre si faceva versare dell'altro
rum –
Dio, quanto amava il rum –, o almeno così amava
vantarsi Scarlet
da quando l'aveva conosciuta. Killian lo invidiava parecchio, su
questo fronte, solitamente tutte le sue ragazze dopo un paio di mesi
cominciavano a stufarlo, perfino il sesso dopo un po' lo stancava.
Invidiava Will, e non per il matrimonio, per quello mai lo avrebbe
fatto. Lo invidiava perché era riuscito a trovare una
persona come
Anastasia, una ragazza bella, divertente, sexy, intelligente, sexy,
alla mano, incredibilmente sexy... aveva detto sexy troppe volte,
vero?
La torta esplose, un'altra
ragazza dal top crop nero, rosso e dannatamente scollato, e dal
perizoma in pizzo dei medesimi colori, ne uscì fuori con le
braccia
rivolte verso l'alto, urlando a squarciagola. Pezzetti di torta
colpirono i ragazzi, la maggior parte di loro prese ad esultare, gli
altri si limitarono ad abbracciarsi a gruppi di due o di tre e a
godersi lo spettacolo, a Killian, invece, quell'odore di crema,
panna, cioccolato e pan di Spagna mischiati all'alcol gli diede la
nausea. Cominciò a sentire muoversi qualcosa dentro di lui e
sapeva
che per una volta tanto non era dovuto all'eccitazione. Quando
percepì tutto il liquido che aveva ingerito in quelle poche
ore,
risalirgli su per la gola, si precipitò fuori dal pub in
fretta e
furia, una mano sulla pancia e una sulla bocca, come se sperasse di
trattenersi in quel modo.
In seguito Liam gli domandò
perché non fosse andato semplicemente in bagno, lui stesso
si diede
del coglione dopo quella domanda, ma in quel momento era fin troppo
brillo per poter decidere lucidamente. Arrivò sullo
spiazzale, si
avvicinò ad una fontana di marmo, con una grossa palla
proprio nel
centro che illuminava i due piani inferiori pieni d'acqua, e
vomitò
tutto quello che aveva in corpo, le mani, adesso, sulle ginocchia
piegate.
La prima cosa che vide di lei
furono i suoi tacchi a spillo neri, quasi non sentì il suono
che
fecero mentre lo raggiungeva a passo lento ma deciso, senza nessuna
fretta, gustandosi quasi lo spettacolo. Si fermò esattamente
davanti
alla sua faccia, Killian se ne rimaneva immobile col fiato corto
ancora per qualche secondo, poi si pulì la bocca sulla
manica
sinistra della sua camicia (bianca, tra l'altro, buttata il giorno
dopo) e alzò lo sguardo piano piano, salendo con gli occhi
per
quelle gambe lunghe coperte da calze nere e trasparenti, arrivando
alla minigonna nera che quasi gli fece mancare il respiro di nuovo,
le mani poggiate sui fianchi con fare minaccioso, unghie laccate di
un inusuale viola e una giacca nera con la zip abbassata fino a
metà,
che lasciava intravedere un maglioncino a girocollo color panna.
Lunghi capelli mori incorniciavano il suo viso duro, dal quale
risaltavano sicuramente gli occhi verde chiaro.
Davanti a sé si trovava la
donna più bella che aveva mai visto.
«Era la mia giornata libera»,
esordì scandendo ogni parola, con la voce scocciata, rivolta
più
che altro a se stessa «mi sembrava strano che non fosse
successo
ancora niente», continuò alzando gli occhi al
cielo prima di
puntarli di nuovo su Killian che, nel frattempo, si era rizzato in
piedi e la fissava incantato. Ma sembrava che lei non ci stesse
facendo caso. «Dovevi per forza farlo sotto ai miei occhi?
Aspettare
cinque minuti ti costava troppo?» Cominciò a
trafficare nella
borsetta alla ricerca di qualcosa, Killian non pareva farsi troppe
domande anzi, era più che divertito di vederla inveirgli
contro come
una matta «Ovviamente dovrò multarti,
adesso», finalmente quelle
parole fecero scattare qualcosa nel cervello del ragazzo, che adesso
notava il blocchetto in mano alla mora.
«Cosa?» Fece lui, allargando
le braccia «Mi sono sentito male, dovrei essere multato per
questo?»
Domandò retoricamente, omettendo la parte in cui si era
ubriacato
fino a rimettere tutto quello che aveva ingerito nelle ultime ore. Si
avvicinò maggiormente alla donna, doveva avere non
più di 25 anni,
al massimo 26, aprendo le labbra in un sorriso, nella speranza di
incantarla tanto da convincerla a lasciar perdere. «Infondo
è la
sua serata libera, no? E nessuno ha assistito alla scena, chiuda un
occhio... resterà il nostro piccolo segreto.»
La poliziotta si allontanò di
mezzo passo non appena lui le fu più vicino, non
riuscì a resistere
a quel mix di vomito e alcol che si portava dietro e probabilmente la
sua espressione schifata non si premurò di nasconderlo.
«Non è la prima
volta in cui ho a che fare con una sbornia di voi ragazzi»,
“voi
ragazzi”? Ma si sentiva? Sembrava un'anziana signora che
rimproverava degli adolescenti «uscite a fare i vostri comodi
addosso a statue o ancora meglio dentro delle fontane»,
continuò a
dire, mentre nel frattempo aveva preso a riempire il foglietto di
scritte «e poi ci guardate con la coda tra le gambe e gli
occhi da
cucciolo impaurito, nella speranza di impietosirci tanto da lasciarvi
andare, ma no,
questa storia non attacca la maggior parte delle volte. Carta
d'identità?»
«Ho gli occhi da cucciolo?»
Chiese divertito, senza nascondere un sorriso soddisfatto
all'occhiataccia che ne seguì. «E' rimasta nella
mia giacca, dentro
al locale», rispose poi serio, vedendo che la donna proprio
non
aveva intenzione di smuoversi «immagino che non mi
lascerà andare
dentro a prenderla, vero?» Domanda retorica, quella
già aveva
scosso piano la testa con un sorrisetto ironico sulla faccia
«Può
venire dentro con me, le offro anche da bere. Del rum, o forse lei
è
più un tipo da cocktail... un sex on the
bitch, magari»,
suggerì con tono furbo, rimarcando con forza la parola
“sex”.
La poliziotta non poteva dirsi
più scandalizzata «Ma ce l'hai l'età
per bere, perlomeno?» Chiese
retoricamente, colpendo Killian nell'orgoglio che subito si offese.
Aveva quasi 19 anni, sembrava ancora un ragazzino? No, tutti i suoi
conoscenti gli dicevano il contrario, evidentemente quella donna
vaneggiava. «Ti pregherei di non peggiorare la tua
situazione,
comunque. Ora, dammi i tuoi dati così da risolvere questa
faccenda e
tornarcene entrambi alle nostre serate. E senza allusioni sessuali,
magari, o sarò costretta a sbatterti in cella per questa
notte.»
«Oh», si illuminò il ragazzo,
che proprio non riuscì a trattenersi o a darsi una calmata
(magari a
mente lucida avrebbe saputo darsi un freno, stupido Jones, dovevi
proprio bere così tanto?) «Allora è
così? Vorrebbe sbattermi?»
Si pentì subito di aver parlato, vedendo lo sguardo di fuoco
che gli
arrivò e le manette che spuntavano fuori dal nulla,
così parve a
lui almeno, che un secondo dopo si ritrovò ai polsi, braccia
dietro
la schiena.
Stupido, stupido Jones. Non
poteva proprio controllarsi? E stupido Liam e le sue raccomandazioni,
chi lo avrebbe sentito d'ora in avanti? E stupido Will col suo addio
al celibato, era costretto a passare la notte al fresco per colpa
sua. E stupida poliziotta. Stupida e sexy poliziotta. Bellissima
poliziotta. Anche se, pensandoci, quale sano di mente se ne andava in
giro con delle manette nella borsetta?
* dopo aver
passato vari minuti
a pensare a un cognome adeguato per Elsa (escludendo subito Frozen
perché... beh, perché no e basta) ho cercato un
po' di parole su
internet e mi divertiva l'idea di accostarla alla parola Nevischio,
per l'appunto sleet/sleety in
inglese
Note dell'autrice:
Hola people! Speravo di metterci
di meno ma ormai siete abituati ai miei tempi di aggiornamento eh
^^'' Ho preferito dividere il capitolo in due parti arrivata alle 10
pagine di word, tante cose devo ancora raccontare, compreso un
secondo flashback sul passato di Killian, tante scene Captain Swan da
scrivere, e non potevo di certo postarvi un capitolo di 20 pagine,
no? Così eccovi qui la prima parte, nella speranza di non
metterci
troppo con la seconda.
Abbiamo conosciuto parecchia
gente e visto il primo incontro tra Killian e Milah. Cosa ve
n'è
parso? E cosa ve n'è parso del secondo, disastroso, incontro
tra lui
ed Emma?
Fatemi sapere quello che ne
pensate perché, momento serio, ultimamente mi sembra di
andare da
tutt'altra parte rispetto a dove vorrei. Scrivo, scrivo parecchio,
poi rileggo e tutto quello che vedo mi fa abbastanza schifino. Non
so, forse è un periodo mio, forse sto facendo veramente
schifo e la
storia ne risente. Ditemi voi cosa ne pensate, soprattutto se
è il
caso di continuare visto che i capitoli sono lunghi e mi portano via
parecchio tempo, se la storia non piace, per un motivo o per un
altro, perché portarla avanti? :') Davvero, fatemi sapere i
vostri
pareri, anche consigli o critiche, magari riesco a tornare sulla
carreggiata giusta.
Grazie mille a chi ha letto fino
a qui, un bacio a tutti!
Sà
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Capitolo 5 *** 3. L'anniversario (parte 2) ***
3.
L'anniversario (parte2)
Sabato sera, pochi minuti dopo la mezzanotte, e in quella strada non c'era anima viva. Emma era abituata alla vita di Boston, non che uscisse poi molto, pensandoci, ma era sicura che fosse decisamente più frenetica di quella di Fort Kent. Sicuramente le strade non apparivano così deserte a quell'ora nel weekend, neanche nei quartieri più isolati. C'era decisamente troppo silenzio, poteva sentire tutti i piccoli rumori sospetti del suo vecchio motore che tanto provava a ignorare. Sempre meglio del russare di Jones, comunque, che diventava più forte di secondo in secondo. Le sembrava di trasportare un trapano in funzione, una trivella, un martello pneumatico, sui sedili posteriori. Il fastidio che le stava causando era il medesimo.
«Jones», provò a chiamarlo, dopo aver svoltato a destra e imboccato la via di casa sua; controllò un'altra volta il fogliettino scarabocchiato dal dottor Nolan, poggiato sul sedile del passeggero e rivolto verso di lei, tanto per essere sicura. «Jones, siamo arrivati», lo informò, o almeno tentò di informarlo visto che l'uomo prese a russare ancora più forte, quasi a voler farle capire che non aveva la minima intenzione di svegliarsi.
Ma Emma non aveva la minima intenzione di mollare, perciò afferrò rapida il bigliettino di David, lo accartocciò appallottolandolo nella sua mano destra e glielo lanciò dritto in faccia, controllando dallo specchietto di beccarlo per bene. Il tiro andò a segno, Jones sussultò ma non si svegliò, si grattò appena il naso e tornò a ronfare. Nessuno dei due voleva darla vinta all'altro, a quanto pareva. La giovane Swan individuò il numero civico che cercava, i fari del suo maggiolino scoprirono un vialetto con un piccolo giardino ben curato e un parcheggio per l'auto vuoto - la macchina di Jones era ancora ferma al Rabbit Hole, dopotutto.
Imboccò, accelerando debolmente prima di frenare di colpo. Fu tirata indietro dalla cinta, le mani ben ancorate sul volante, ma la stessa cosa non si poteva dire di Jones che rotolò rovinosamente sul tappetino. «Ma che diavolo-», esclamò, la voce impastata dall'alcol o dal sonno, oppure da tutte e due.
Emma voltò appena la schiena e lo guardò divertita, più che divertita, avrebbe osato dire appagata «Siamo arrivati», ripeté con un sorrisetto e un'aria da sufficienza, indicando con le dita della mano la dimora dell'uomo. Questo la guardò, una volta essersi tirato su con le braccia, confuso; strizzò appena gli occhi e si passò una mano su di essi per essere sicuro di non avere un'allucinazione. Ma quanto aveva bevuto? L'ultimo ricordo che aveva di quella donna, di quella folle donna, era il pugno in faccia che gli aveva dato nel locale. E ora lo aveva accompagnato, dove? Guardò fuori dal finestrino e notò di trovarsi nel vialetto di casa sua. Sì, aveva decisamente perso qualche pezzo per strada. «Non ho tutta la notte», sbottò di punto in bianco lei, «ti sbrighi a scendere o hai bisogno di una mano?»
Killian imprecò sottovoce mentre si sedeva sul sedile posteriore ed apriva lo sportello, mosse appena la mano in sua direzione, un invito a lasciar perdere, di non aver voglia (e la forza) di continuare quella stupida discussione e scese dall'auto. Emma mise in moto non appena ebbe richiuso lo sportello, ma aspettò ancora qualche istante prima di partire. Non perdeva di vista Jones neanche per un istante, lo osservava senza sbattere ciglia mentre inciampava sui suoi stessi piedi e barcollava verso la porta d'ingresso. Inciampò di nuovo e cadde subito sul primo scalino della veranda. Emma sbuffò alzando gli occhi al cielo, spense la macchina, tolse cinta e chiave, afferrò la sua borsa e scese anche lei, raggiungendolo in pochi passi. Gli fece passare il braccio destro intorno alle sue spalle, lo afferrò per la vita e lo tirò su, non senza poca fatica considerando la differenza delle loro stazze.
«Non riesco a credere che io lo stia davvero facendo», mormorò a bassa voce, parlottando tra sé, mentre saliva trascinandosi dietro l'uomo per un gradino alla volta. Lui le mugugnò qualcosa nelle orecchie, qualcosa di incomprensibile e che non riuscì neanche a capire, per tutta risposta. La puzza di alcol le arrivò alle narici, strinse i denti e storse il naso, più scocciata di quanto non fosse solo un minuto prima. Sentì le dita di Killian aggrapparsi al colletto della sua giacca di pelle blu scura poco prima di arrivare davanti la porta d'ingresso.
Emma individuò subito il vaso di cui le aveva parlato David, ma non si arrischiò a mollare Jones così da potersi chinare e trovare la chiave di scorta, terrorizzata che potesse cadere e trascinarsi lei dietro, aggrappato com'era. Così gli aprì la giacca e cominciò a cercare la tasca giusta, cercando di ignorare il sorrisetto soddisfatto che si era appena disegnato sul volto dell'uomo. Da ubriaco le sembrava ancora più irritante. Trovò la chiave e la infilò nella serratura, girò due volte e riuscì finalmente ad aprire.
Non fece in tempo a mettere un solo piede oltre la porta che qualcosa le saltò addosso, facendole scappare un urlo per la sorpresa. La cosa parve allontanarsi, andar via, Emma entrò in casa e subito ascoltò i passetti veloci di un quattro zampe di media taglia. Quattro zampe che le fu di nuovo addosso nel giro di un secondo.
Jones si allontanò dalla sua presa e con fare sicuro allungò la mano verso la parete vicina, così da accendere le luci dell'intero soggiorno. «Buono Pongo, buono», mormorò rivolto al cane, un bellissimo esemplare di dalmata che non smetteva più di scodinzolargli intorno e poggiare le zampe anteriori sulle sue gambe. Emma, dopo aver richiuso la porta alle sue spalle, pensò che lo avrebbe fatto barcollare e cadere nel giro di poco, mentre guardava quella scena. E come se avesse captato i suoi pensieri, il cane, Pongo, si fermò dal fare le feste al padrone e girò la testa verso di lei, guardandola con sospetto e avvicinandosi per annusarla. «Lei è un'amica, bello», affermò dopo Jones, guadagnandosi un'occhiataccia, che però non notò, da parte della bionda.
Emma lo lasciò andare, lo osservò con le mani nelle tasche posteriori dei jeans, sperava di vederlo camminare con più equilibrio, quel tanto che bastava per arrivare alla sua camera almeno, ma pochi passi dopo lo vide inciampare sui suoi stessi piedi e, quasi meccanicamente, corse ad aiutarlo.
«Non ce la fai proprio a lasciarmi, eh?» Rise lui mentre tornava ad aggrapparsi a lei come poco prima. Emma alzò gli occhi al cielo, combattendo l'istinto di lasciarlo lì a cavarsela da solo. Ma perché si trovava ancora lì e perché lo stava aiutando, poi? Il dottor Nolan le aveva chiesto - o era meglio dire imposto? - di riportarlo a casa e lei lo aveva fatto, il suo compito finiva lì. Però lo guardava e non riusciva ad andarsene come se niente fosse: poteva anche essere un coglione, in quel momento aveva bisogno di aiuto e lei era l'unica nei paraggi. Lo vide portarsi la mano libera sulla bocca e cominciò ad andare in panico: un conto era aiutarlo a raggiungere il suo letto, un altro era ripulire il suo vomito e, no, non aveva la minima intenzione di farlo.
«No, no, no, no. Ti porto in bagno, trattieni. Resisti. Resisti», cominciò a dire a raffica mentre lo trascinava lungo il corridoio. Sperava ardentemente che il bagno non fosse al piano di sopra, non avrebbe avuto il tempo o la forza di farlo salire altre scale. Aprì una porta a caso - delle quattro che si trovò davanti - che si rivelò essere solamente uno studio, a giudicare dalla grande libreria e dalla disordinata scrivania che riuscì a intravedere in quella frazione di secondo. Non si scoraggiò e aprì quella subito alla sua destra che, per sua fortuna, si rivelò quella esatta.
Lo lasciò andare e gli diede le spalle mentre l'uomo si inginocchiava ai piedi del water. Sospirò tra sé dopo avergli acceso la luce, ripetendosi che doveva trattarsi sicuramente di un incubo perché mai in tutta la sua vita si era ritrovata in una situazione del genere. E forse proprio per questo accettò il fatto che fosse tutto vero, neanche nella sua più fervida immaginazione poteva creare una catena di eventi così angosciante per lei.
«Hai finito?» Gli domandò quando non sentì più il minimo suono, dopo essersi tolta le mani dalle orecchie; poteva benissimo essersi addormentato sulla ceramica per quanto poteva saperne. Anzi, no, perché avrebbe cominciato a russare e l'intero quartiere lo avrebbe sentito. E non riusciva proprio a girarsi per controllare lei stessa perché il vomito la schifava. Tuttavia, quando non arrivò nessuna risposta, girò lievemente la testa verso destra, il poco che le permetteva di lanciargli un'occhiata con la coda dell'occhio. Riuscì a vederlo, ancora seduto sulle sue ginocchia, appoggiato al water col braccio destro.
«Non lo so», borbottò lui alle sue spalle, respirando piano. Ottimo, davvero, davvero ottimo. Ma non poteva semplicemente lasciarlo lì, seduto sul pavimento, a cavarsela da solo? Doveva per forza sentire quel dannatissimo senso di colpa opprimerla nel petto? E perché quella vocina nella sua testa che le intimava di fare la cosa giusta non poteva starsene zitta e farsi gli affaricci suoi?
«Andiamo, ti metto a let-», fece per voltarsi ma Jones fu più veloce di lei e tornò a piegarsi ancora una volta sul water. La bionda cominciò a sentire lo stomaco sottosopra e si portò istintivamente una mano alla bocca, stanca, stremata e schifata. «Fottiti, Jones!» Imprecò tra sé mentre si allontanava dal bagno e prendeva a camminare per il lungo corridoio, cercando di passare il tempo e non pensare a quello che aveva appena visto. Maledetto, stupido Jones. «Dovevi proprio bere così tanto, eh?» Gli urlò ad un certo punto, le mani sui fianchi, la testa bassa. Lui non rispose e lei non aggiunse altro. Sentì dei movimenti, ad un tratto, ed alzò la testa verso il bagno appena in tempo per vederlo in piedi, una mano sulla porta e l'altra sulla parete, strascinava i piedi e la guardava imbarazzato. «Tutto bene?» Gli domandò, tanto per accertarsi di non correre altri pericoli. Lui annuì silenziosamente e lei sospirò sollevata prima di avvicinarsi così che lui potesse appoggiarsi nuovamente a lei. «Ti porto a letto e non fare battute», sibilò non appena l'uomo fece per aprire bocca.
Piano piano lo accompagnò fino in camera, lui riuscì ad indicarle la porta giusta. Emma riusciva a percepire la presenza di Pongo, il dalmata, subito alle sue spalle; l'aveva seguita, anzi li aveva seguiti, per tutto il tempo, restandosene comunque buono e a qualche manciata di passi di distanza a limitarsi a scodinzolare. Il suo padrone gli aveva intimato di fare il bravo e lui aveva ubbidito subito, la bionda ne era molto sorpresa, più che altro perché non aveva mai avuto a che fare con un animale domestico in tutta la sua vita.
Jones si sedette subito sulle coperte, occupando il lato destro del letto matrimoniale situato nel centro della stanza; Emma non accese nessuna luce perciò non riuscì a distinguere bene le altre cose che la componevano, anche se le interessavano ben poco, non vedeva l'ora di andarsene a dirla tutta. Killian si levò la scarpa sinistra col piede destro, scalciandola via, ripeté lo stesso gesto anche con la scarpa destra. Tirò giù le coperte e fece per infilarvisi sotto, ma Emma lo fermò con un «Aspetta!», gli afferrò la giacca che ancora teneva addosso e lasciò che scivolasse lungo le sue braccia. Ignorò il sorrisetto che gli si dipinse sul volto e alzò gli occhi al cielo capendo al volo la battuta volgare che riuscì, però, a trattenere.
Si rese conto solo in quel momento di aver lasciato la sua borsa nel salotto, chissà quando. Tornò indietro, mentre l'uomo si stendeva finalmente nelle lenzuola pulite a pancia in giù, posò la sua giacca nell'attaccapanni vicino la porta d'ingresso e recuperò la sua borsa, cominciando a mettere tutto all'aria alla ricerca delle pasticche che portava sempre con sé in caso di emergenza. Non appena le trovò ne cacciò fuori una e, con una strana sicurezza, si diresse in cucina a recuperare un bicchiere. Lo riempì d'acqua e tornò in camera di Killian Jones, che aprì leggermente l'occhio sinistro - la faccia completamente schiacciata sul cuscino - quando la sentì arrivare. Emma posò tutto sul suo comodino e sospirò, finalmente quell'incubo era finito.
Fece per andarsene, ma Jones le afferrò di scatto il polso destro. «Dove vai?» Domandò, la voce impastata, l'occhio che faceva fatica a restare aperto, con la palpebra che sbatteva rapida. Emma lo guardò stranita, guardò la sua mano sinistra intorno al suo polso per qualche secondo, incapace di formulare qualsiasi parola. L'uomo era lì disteso, ancora ubriaco e mezzo addormentato, eppure la sua presa riusciva ad essere davvero forte, pur senza stringerla troppo per farle male.
«Vado a casa», riuscì, alla fine, a dire, aggrottando appena la fronte pensierosa. Cosa c'era di sbagliato in quelle parole? Cos'altro doveva fare, arrivata a quel punto? Non era più di nessun aiuto, ora Jones non doveva fare altro che farsi una bella dormita, nient'altro.
«Emma...», cominciò a dire l'altro, incerto, lasciando che il nome della donna andasse perso in un profondo respiro. Le lasciò andare debolmente il polso, il sonno si stava via via impadronendo di lui e la sua mano scivolò via da quella della bionda senza che potesse rendersene conto. Emma restava in attesa, aspettando che le parlasse, che le spiegasse perché stesse continuando a trattenerla. Voleva che restasse lì per tutta la notte per vegliarlo? In quel caso poteva scordarselo, non aveva voglia di restare a vegliare quello che, a conti fatti, era un completo sconosciuto che si era ridotto in quel modo di sua spontanea volontà. «Mi... Dispfiave», mugugnò, la bocca contro il cuscino.
«Cosa?» Domandò in modo spontaneo la donna, che davvero non aveva in alcun modo capito una sola parola di quello che le aveva detto Jones. Una parte di lei si chiese se l'uomo stesse davvero cercando di dirle qualcosa, o se stesse solamente pronunciando parole a caso, in preda ai fumi dell'alcol e colto dal sonno. In realtà poteva benissimo essere così, ma decise comunque di rimanere in attesa per qualche altro secondo.
«Mi-dis-pia-ce», ripeté il moro, alzando di poco la testa dal cuscino e scandendo bene ogni sillaba, sperando che Emma, quella seconda volta, lo capisse. Lei, dal canto suo, aveva capito perfettamente e proprio per questo non riuscì ad affermare nulla, non una parola di senso compiuto. Gli dispiaceva, per cosa? Per il disturbo, per come si era comportato quella sera, per essersi ubriacato o per come l'aveva trattata in libreria? Restò in silenzio, cercando qualcosa da dire, e Killian intuì, in quel silenzio, un'esortazione a spiegarsi meglio. «Solitamente non mi comporto così», mormorò, prima di crollare nuovamente con la testa sul cuscino. Si era spiegato, certo, ma non per questo Emma aveva la situazione ben chiara in testa.
«Non... Non preoccuparti?» Affermò incerta, guardandolo pensierosa. Le parole dell'uomo potevano riferirsi a tante cose, ma si rese conto che non sarebbero arrivate ulteriori spiegazioni: Killian Jones era ormai crollato tra le braccia di Morfeo e adesso dormiva pesantemente. Si domandò, tra le altre cose, se fossero scuse sentite o se parlasse solamente attraverso l'alcol. Quei bicchieri di troppo lo avevano reso più sincero? O stava veramente sparando parole a caso, senza rendersene conto?
Emma si disse che fosse inutile continuare ad interrogarsi a riguardo, alla fine neanche le importava così tanto saperlo. Uscì dalla camera senza premurarsi di far poco rumore, certa che il moro non sarebbe stato svegliato neanche da un'esplosione nucleare. Afferrò la sua borsa, lasciata nell'ingresso, Pongo la osservava curioso mentre lei riponeva dentro tutto il contenuto poggiato di fretta, poco prima, sopra al primo mobile che aveva trovato.
Aprì la porta, pronta ad andarsene, ma si sentì, nuovamente, chiamare. «Swan?» Sobbalzò sorpresa, ma rimase ferma dove stava, convinta che Jones stesse solamente parlando tra il sonno e che non la stesse effettivamente chiamando. Aspettò, nuovamente, tanto per esserne certa e non avere pesi sulla coscienza. Un secondo, due secondi, tre secondi, cinque, otto, undici. Poteva andarsene, pensò. «Eri maledettamente bella, stasera».
Silenzio. Emma non fiatò. Pongo se ne tornò nella sua cuccia. Killian, dopo pochi istanti, russò. Emma tornò a casa.
Elsa era passata in libreria, verso le undici di mattina, a salutarla e a portarle una fetta di crostata d'albicocca. Emma rimase sorpresa da quel gesto: alla fine era stata lei a rovinare la loro serata immischiandosi in una situazione che non la riguardava minimamente, stava a lei cercare la donna per scusarsi e rimediare in qualche modo. Ma evidentemente quello era il modo che Elsa aveva per farle sapere che andava tutto bene, che non ce l'aveva con lei e che, incidente con Jones a parte, si era divertita. Emma mangiò la crostata lodando le doti culinarie di quella sua nuova e gentile amica, decidendo di non rivelare che a lei l'albicocca faceva in realtà abbastanza ribrezzo. Magari più avanti ci avrebbero riso sopra entrambe, davanti a un bel dolce al cioccolato, ma per il momento era preferibile non darle quell'informazione così da non rovinare tutto.
Elsa poi la salutò, dovendo ritornare a lavoro. Emma si ritrovò di nuovo sola, Belle ormai aveva piena fiducia nei suoi confronti e non passava più a controllarla o ad aiutarla, anche perché il matrimonio era ormai alle porte e lei era sempre più impegnata. Ad Emma mancavano, un po', le incursione di Belle nel negozio, in quanto, perlomeno, aveva la possibilità di scambiare quattro chiacchiere con qualcuno: gli affari della libreria non andavano poi tanto male, ma capitavano, ogni tanto, interi pomeriggi passati senza il minimo accenno di un cliente e, quindi, in perfetta solitudine. Gli abitanti della cittadina, tra l'altro, non le chiedevano quasi mai una mano per scegliere i libri, andavano dritti alla meta e si presentavano da lei, al bancone, già con i soldi in mano. Non c'era modo di scambiare troppe parole, non c'era modo di fare nulla. La donna odiava davvero restare tutta la giornata nello stesso posto, senza concludere niente, ma era comunque un buon lavoro, aveva un tetto sopra la testa e, almeno per il momento, la cosa le bastava.
Almeno stava scoprendo di avere una passione per i romanzi gialli. In quelle poche settimane di lavoro aveva già concluso due libri da 429 e 351 pagine, e ora si apprestava a finirne un terzo. Il caso era interessante, il protagonista stava quasi per arrivare alla soluzione, ma Emma proprio non riusciva a concentrarsi, la mente da tutt'altra parte. Da quando aveva visto Elsa, non riusciva a non pensare alla serata precedente, non riusciva a togliersi dalla testa Jones e il modo in cui lo aveva lasciato.
Pensava di sapere che razza di uomo fosse, ovvero uno che non perdeva l'occasione di provarci con qualsiasi individuo di sesso femminile, consapevole di essere (oggettivamente parlando, neanche Emma poteva in alcun modo negarlo) attraente e forse abituato ad avere costantemente donne che cadevano ai suoi piedi. Emma odiava questo tipo d'uomo. Eppure le sue scuse continuano a risuonarle nel cervello, seguite dalle parole “solitamente non mi comporto così”. Faticava a crederci, ad essere onesti, ma qualcosa, dentro di lei, le diceva che Jones, in quel momento, fosse sincero e, in qualche modo, lucido, e difficilmente quel suo super potere di riconoscere sempre le verità dalle menzogne faceva cilecca. In più pensava al dottor Nolan, che sembrava senz'altro una brava persona che teneva a Jones, e una brava persona non perdeva il proprio tempo con cattivi soggetti, no? Perciò Emma si domandava cosa avesse spinto un brav'uomo a distruggersi in quel modo.
Una parte di lei si sentiva in colpa ad averlo lasciato, la sera prima, ma un'altra le ribadiva che non doveva esserlo in alcun modo. Con ogni probabilità, Jones aveva dormito fino a tarda mattinata, svegliandosi di sicuro con un forte mal di testa, questo era tutto. Forse doveva controllare che stesse bene? No, per quale motivo avrebbe dovuto farlo? Non era una sua parente, non era sua amica. Eppure continuava a sentirsi tremendamente in colpa e cominciava ad odiare quella sensazione.
Nessuno aveva intenzione di mettere piede in libreria, così la Swan decise di chiudere con un'ora e mezza d'anticipo, dicendosi che avrebbe fatto uno straordinario il giorno seguente. Entrò nel suo maggiolino giallo, posò entrambe le mani sul volante e guardò fisso oltre il vetro, sentendosi stupida. Stava veramente andando a casa di Jones per vedere se aveva bisogno di qualcosa? Come minimo le avrebbe rifilato una battuta a sfondo sessuale, tanto per non smentirsi, e si sarebbe guadagnato un altro pugno in faccia. Sospirò, infilò la chiave e mise in moto. Stupida, stupida, stupida. Ripercorse la stessa strada fatta neanche 24 ore prima, passò davanti al Rabbit Hole, poi all'ospedale e infine si fermò allo stesso semaforo rosso. Stupida, stupida, stupida. Girò a destra all'incrocio e imboccò la via di casa Jones. Cosa diamine stava facendo? E, soprattutto, perché? Stupida. Il vialetto era vuoto, non c'era nessuna macchina e questo le faceva pensare che non fosse minimamente uscito di casa per tutto il giorno, lasciando la vettura ancora davanti al locale.
Emma parcheggiò al suo posto e scese dalla macchina dandosi, per l'ultima volta, della stupida. Continuando a non sapere per quale motivo si trovasse lì, bussò un paio di volte alla porta, prima di decidersi a suonare il campanello. Nessuno le rispose. Suonò ancora ma la situazione non cambiò, non percepì il minimo rumore dall'altra parte della parete. Nessuno era in casa, quindi, e lei aveva fatto tanta strada per niente, ma soprattutto aveva avuto tanti sensi di colpa per niente, visto che, a quanto pareva, Jones stava più che bene per andarsene in giro. In qualche modo si sentì sollevata, non era più costretta a pensarci.
Sulla via del ritorno a casa, però, incrociò una faccia conosciuta. Il dottor Nolan camminava lungo il marciapiede alla sua sinistra, carico di buste della spesa. Emma cominciò ad accostare, prima di suonare il clacson un paio di volte per attirare la sua attenzione. Questi si voltò e lei gli si fermò davanti, rivolgendogli un sorriso incerto. «Salve, dottor Nolan», lo salutò mente il biondo, per tutta risposta, strizzava appena gli occhi e aggrottava la fronte, come se stesse cercando di capire dove l'avesse già vista. Alla fine la sua espressione si illuminò, mettendola finalmente a fuoco.
«Oh... oh!, ma certo, sì, salve, ehm, miss...»
«Swan, Emma», si presentò lei, il gomito poggiato sulla portiera, dopo aver abbassato completamente il finestrino così da poter parlare con l'uomo. Si era appena resa conto di non essersi neanche presentata la sera prima, ma d'altronde entrambi andavano piuttosto di fretta: lei non vedeva l'ora di sbarazzarsi di Jones e lui doveva tornare dai suoi pazienti. «Vuole... vuole un passaggio?» Domandò incerta, non sapendo bene se il dottore abitasse nelle vicinanze così da potersi permettere di trascinare tante buste, a piedi, fino a casa, o se stesse solamente andando verso la propria auto, parcheggiata da qualche parte. Le sembrava, comunque, opportuno chiederglielo, soprattutto dopo averlo fermato per salutarlo. Non sapeva neanche lei perché lo avesse fatto, tra l'altro.
«Oh», esclamò il dottor Nolan, sorpreso da quella domanda, prima di aprirsi in un radioso sorriso, «oh, magari, te ne sarei eternamente grato!» Disse infine, facendo ridacchiare la bionda, che gli indicò di salire a bordo del suo maggiolino.
«Dove abita?» Domandò, una volta che fu salito. A guardarlo meglio, appariva piuttosto provato e accaldato; Emma era piuttosto pratica di quella zona e sapeva che il supermercato più vicino distava più o meno un chilometro, in più il caldo sole di maggio picchiava piuttosto forte quel giorno e il biondo, così carico di buste, non era neanche riuscito a togliersi la giacca che, per quanto leggera fosse, doveva infastidirlo molto. Emma si premurò di accendere l'aria condizionata, tenendola comunque bassa per non fargli venire un colpo.
«Ti prego, dammi del tu. Chiamami David», affermò mostrandosi divertito da tutte quelle formalità. In effetti dovevano avere la stessa età, anno più o anno meno, tante cerimonie apparivano piuttosto sceme, pensò la bionda. David le indicò la strada da percorrere come se non fosse del luogo, ignorando che Emma aveva trascorso in quel posto tutta la sua infanzia e che, probabilmente, quelle strade erano più note a lei che a lui. «Allora, sei in città da poco, vero?» Le domandò infine, voltandosi a guardarla con un sorriso che, ne era certa, non aveva mai abbandonato la sua faccia.
«Qualche settimana», rispose lei, volgendo appena appena la testa verso destra, in modo da guardarlo velocemente, arricciando il naso. Non era la prima persona ad avergli fatto quella domanda: c'era stata Ruby la sera prima e poi la maggior parte dei clienti della libreria. Cominciava a chiedersi se qualcuno non le avesse attaccato un foglio con su scritto nuova arrivata dietro la schiena. Ma in quel caso se ne sarebbe accorta, forse. «Davvero, è una cosa così ovvia?» Si ritrovò a chiedere, senza staccare gli occhi dalla strada, piuttosto incuriosita dalla risposta. «Continuano tutti a chiedermelo: “Sei nuova in città?” “Non sei di queste parti, vero?” “Come ti trovi?” “Nuova arrivata, eh?” Sul serio, come fate a capirlo?»
David, per tutta risposta, si mise a ridere. «Non devi prenderla sul personale, davvero. È una piccola cittadina, siamo tutti cresciuti insieme, ci conosciamo più o meno tutti di vista». Spiegò lui, senza smettere di mostrarsi divertito. Emma lo guardò sospettosa: quella era la risposta più gettonata alla sua domanda, ma continuava a ritenere impossible che tutti conoscessero tutti. «E poi, non prenderla male, ma si vede dalla tua espressione».
Emma si voltò, questa volta, per guardarlo in faccia. «La mia espressione?» Ripeté incredula, spalancando leggermente la bocca con fare sciocco, non capendo seriamente il nesso che potesse esserci tra le due cose.
«È...», David parve prendersi un momento per pensare al termine corretto, forse per non offenderla o infastidirla, «diffidente», affermò alla fine. Emma non rispose, non poteva e non sapeva come ribattere. Era diffidente, era vero, lo era stata per tutta la sua vita, in special modo a Fort Kent. Quel posto non le riportava alla memoria bellissimi momenti, era ovvio che non potesse mostrarsi entusiasta di essere tornata. O appena arrivata, come pensavano i suoi abitanti. L'uomo notò i suoi occhi freddi e decise di alleggerire la situazione. «In realtà, questo è il ragionamento che fanno le persone normali. Io posso leggere nella mente, sai, ho questo super potere!» Emma si rilassò, concedendosi una piccola risata, scuotendo il capo scettica mentre svoltava a sinistra. «È la verità!» Rimbeccò David, fingendosi offeso. «Te lo dimostrerò: lavori nella libreria di Belle, vero?»
Emma frenò, ritrovandosi davanti ad un semaforo rosso scattato all'ultimo istante, prima di voltarsi verso l'altro. «Come diavolo fai a saperlo?!» Esclamò sconvolta, accettava di passare facilmente come nuova arrivata, ma quello era troppo, soprattutto quando lei non era mai stata un libro aperto, per nessuno, nemmeno per Neal.
«Te l'avevo detto, io. Sono un indovino!» Ribatté, mettendosi in una posa plastica da supereroe. Scoppiò poi a ridere. «Stesso discorso, città piccola, le voci corrono. Nuova arrivata, nuova libraia. E poi Killian mi ha parlato del vostro incontro». Emma aveva appena rimesso in moto l'auto, ma quasi non tornò a frenare di colpo dopo quella secchiata d'acqua gelida; David lo notò «Non mi ha detto poi molto, solo che eri “maledettamente bella”, parole sue», ancora quelle parole, pensò la bionda, «dalla tua reazione devo immaginare che non si sia comportato proprio a modo, ti chiedo scusa da parte sua. Killian è... una brava persona, davvero, solo che alle volte tende ad esagerare».
Emma non disse niente e prese a rimuginare su quelle parole. Era ferma nella decisione di non voler cambiare opinione su Killian Jones, ma d'altra parte era curiosa di vederlo con gli occhi di David perché sembrava una versione totalmente differente da quella che aveva conosciuto. «Ieri sera», cominciò a dire, mentre parcheggiava davanti casa Nolan, «mi hai detto che solitamente non si ubriaca in quel modo; prima sono passata a casa sua e non c'era nessuno. Non credi che sia...»
«No, non è tornato ad ubriacarsi, potrei metterci la mano sul fuoco», affermò, scurendosi un poco in volto, «probabilmente sarà andato al cimitero».
Fort Kent, Maine; Maggio 2011
Killian non riusciva nemmeno a ricordare come fosse la sua vita prima dell'arrivo di Milah; spesso cercava di pensare a come fosse, dieci anni prima, a cosa facesse, chi frequentasse, ma tutto appariva come sbiadito, nella sua mente, grigio, come se non avesse più la minima importanza. Gli sembrava di averla sempre avuta al suo fianco, in ogni ricordo, in ogni occasione importante, o anche brutta, lei era presente, non lo aveva mai abbandonato. Non era stato semplice entrare nelle sue grazie, soprattutto per colpa del suo vecchio carattere libertino e della loro differenza d'età - quasi 7 anni -, ma alla fine era riuscito a conquistarla e da allora non si erano più lasciati. La osservava con la coda dell'occhio e un sorriso radioso, mentre passava un piccolo cono gelato a un Henry in trepidante attesa. Cosa aveva fatto per essere così fortunato? Ordinarono altri due gelati per loro, Killian pagò e, dopo aver preso il bimbo per mano, uscirono dalla gelateria.
Non si erano ancora veramente abituati a quella nuova vita a Fort Kent, sicuramente Henry con i suoi quattro anni e mezzo d'età l'aveva presa meglio di loro, ma infondo erano arrivati in città solamente da qualche mese. I primi tempi erano stati piuttosto frenetici, lui e Milah, per colpa dei rispettivi lavori, si vedevano poco e niente, Henry era costantemente con una babysitter e Killian si domandava se avessero fatto bene a trasferirsi. Ma ben presto, Milah decise di prendersi un anno sabbatico per il bene del bambino e questo parve funzionare.
«Henry, attento!» Esclamò ad un tratto il moro, chinandosi verso il bambino e tirando subito fuori un fazzoletto «Ti sta colando tutto il cioccolato», lo avvertì, cogliendo l'occasione per pulirgli anche la bocca, completamente sporca di gelato. Il bimbo rise e riprese a mangiare; Killian si alzò, riprendendo a camminare, consapevole che nel giro di pochi minuti avrebbe dovuto compiere di nuovo quell'operazione.
«Perché non andiamo a mangiare da Marco, stasera?» Propose Milah improvvisamente, voltandosi a guardarlo con un sorriso, una volta che ebbe mangiato l'ultimo pezzo del suo cono. Marco era un vecchio ristoratore conosciuto da tutti in città; avevano mangiato da lui qualche volta, aveva sempre offerto loro il dolce e raccontato qualche vecchia storiella per divertire Henry. Era davvero un brav'uomo.
«Non dovevamo ordinare cibo d'asporto e passare tutta la serata sul divano?» Domandò retoricamente l'altro, ricordandole quello che lei stessa aveva suggerito solo poche ore prima, mentre leggeva a Henry un libro che parlava di una buffa scimmietta il cui unico scopo della vita pareva quello di mangiare banane.
«Sì, beh... cambio di programma», alzò le spalle e arricciò il naso, divertita. Killian le mise una mano dietro la schiena e la avvicinò a sé, stampandole quindi un bacio sulla guancia. Prese poi il cono - privato completamente del suo gelato - di Henry, e la manina del piccolo con l'altra mano, anche se un secondo dopo fu costretto a prenderlo in braccio, visto che aveva cominciato a fare i capricci per un motivo o per un altro.
Proprio in quel momento una donna, alle loro spalle, gridò; non fece in tempo a voltarsi per controllare che fosse tutto okay, che fu urtato violentemente da qualcuno, non riuscì neanche a vederlo in faccia per quanto corresse veloce. Una piccola folla aveva circondato la giovane donna che aveva urlato poco prima, riuscì solamente a catturare le parole “furto” e “borsa”, prima di girarsi confuso verso Milah. Ebbe appena il tempo di lanciarle un'ultima occhiata, che quella partì all'inseguimento del ladro senza pensarci sopra due volte. Killian le urlò contro, per fermarla, ma lei non lo ascoltò e girò l'angolo prima ancora che potesse accorgersene.
Killian fece per andarle dietro, Henry aggrappato alla sua giacca sembrava non capire nulla di quello che stava accadendo, non che il padre stesse riuscendo a tenere il filo degli ultimi avvenimenti meglio di lui. Il tempo di fare un passo, che il suono, il rumore, di uno sparo gli gelò il sangue.
Gridò con tutto il fiato che aveva in corpo, Henry scoppiò a piangere quasi nello stesso momento.
Fort Kent, Maine; Maggio 2016
Aveva salutato David da poco e adesso si ritrovava a gironzolare intorno al cimitero. Non sapeva neanche lei perché si trovava lì, anzi in realtà la sua intenzione era quella di tornare a casa. Si era distratta un attimo, poi, davanti a un semaforo rosso che pareva infinito, si era persa nei suoi pensieri e un secondo dopo si era ritrovata in quel posto. Il maggiolino giallo parcheggiato accanto a una Ford nera, vecchia di qualche anno, che proprio non riusciva a smettere di fissare, la mente da tutt'altra parte. Doveva scendere dall'auto e andarlo a cercare o doveva mettere in moto e tornarsene a casa come aveva programmato all'inizio? E poi, andarlo a cercare per dirgli cosa, esattamente?
Swan, hai completamente perso il cervello. Non erano assolutamente affari che la riguardavano in prima persona. Non era affar suo sapere cosa passasse per la testa di Jones, la sua storia non era affar suo, la sua vita non era affar suo. Killian Jones non era affar suo. E non voleva che lo diventasse, tra l'altro. Quindi afferrò furiosamente le chiavi, ma non le girò. Ispirò profondamente e rilasciò fuori l'aria qualche istante dopo.
Si odiava come non mai. Uscì ben presto dall'auto ed entrò nel cimitero. Il sole cominciava a tramontare e il posto pareva deserto, per questo non le fu difficile individuare una figura nera, in piedi davanti ad una lapide non troppo lontana da lei. Gli si avvicinò lentamente, fermandosi alle sue spalle. Cosa doveva fare? Consolarlo? Chiuse gli occhi per farsi coraggio prima di distruggere la distanza che li separava, posizionandosi al suo fianco, senza dire una parola. Killian Jones si accorse della sua presenza, volse leggermente lo sguardo nella sua direzione, poi lo riportò verso la tomba.
Emma lesse “Milah Jones, 1976 - 2011”. Si rese conto solo in quel momento di non aver chiesto a David la minima informazione sull'argomento; non sapeva neanche chi fosse quella Milah, una sorella? La sua compagna? A giudicare dall'età e dagli occhi vuoti di Jones, Emma scelse mentalmente la seconda opzione. Pensò al modo in cui si era ridotto la sera prima. Erano passati 5 anni ed ancora il solo pensiero lo portava a di struggersi completamente. Si sentì in colpa per averlo definito una persona disgustosa, solo qualche giorno prima. Pensiero che cancellò subito dalla sua mente. Era dispiaciuta per lui, ma la sua opinione non era mutata.
Nonostante tutto, restò lì, al suo fianco. Decise di non andare da nessuna parte, decise di non muoversi e decise di non parlare. Non c'era niente che potesse dire capace di farlo sentire meglio, non aveva bisogno sicuramente delle parole di una sconosciuta. Restarono lì per una buona mezz'ora, senza emettere un singolo fiato, senza guardarsi né toccarsi. Il sole, ormai, completamente tramontato li nascondeva dal resto del mondo.
Note dell'autrice:
Miss me? : )
... davvero, non so come scusarmi per questo tremendo ritardo! Ho avuto problemi con internet sul pc, cioè in realtà li ho ancora, infatti sto postando via cellulare. Mentirei se vi dicessi che il capitolo è pronto da mesi, in realtà a novembre/dicembre ho scritto pochissimo, colpa dell'ansia pre-quarta stagione di Sherlock (vi giuro che non ho pensato ad altro per un mese intero se non di più, non sto esagerando), poi il pc ha smesso di funzionare e non l'ho toccato per settimane (dal 25 dicembre) e solo qualche giorno fa mi sono rimessa a scrivere il capitolo (che era rimasto fermo a pagina 4, tipo). Well, storia lunga, l'importante è che stia riuscendo finalmente a postare! Ehm, per dire, ho dovuto ricopiare 11 pagine piene di word sulle note del telefono, un trauma!!
Btw, spero che abbiate apprezzato il capitolo, tanti momenti captain swan finalmente, con una piccola incursione di David e, sì, anche di Milah, ma è morta ormai, non preoccupiamocene più lol
Piccolo annuncio che non centra con la storia: mi farò perdonare per questi mesi di assenza con 2 one shot belle belle (spero almeno) che ho già iniziato a scrivere ma non so quanto posterò. Ovviamente sui captainswan! Ah, visto che ci sono mi faccio anche un po' di pubblicità, se qualcuno è interessato a Sherlock (seriamente, se ancora non lo guardate RIMEDIATE SUBITO) e/o alla Johnlock, nel weekend o al massimo lunedì posterò una one shot anche su di loro (e se vi va, ne ho altre due pubblicate, se volete farci un salto), perciò tenete d'occhio il mio profilo ;) e magari fatemi sapere che ve ne pare.
Ah, avete visto la nuova versione di Hook in questo nuovo universo parallelo? Aiuto.
Grazie a chiunque abbia letto fino a qui, un bacione :)
Sà
Ps. Perdonate gli errori di battitura, sono colpa del telefono. Correggerò tutto con calma non appena avrò un po' di tempo
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Capitolo 6 *** 4. L'amico di sempre ***
4.
L'amico di sempre
Knock,
knock, knock
Emma
mugugnò qualcosa nel
sonno, lievemente infastidita da quel rumore che aveva cominciato ad
insidiarsi tra i suoi sogni, mentre volgeva la testa dall'altra
parte.
Knock,
knock, knock
Il rumore
cominciava a risuonare
più forte, seppur le appariva lo stesso abbastanza ovattato
da non
farle capire se fosse solamente l'ennesimo frutto della sua
immaginazione o se stesse accadendo nella realtà. Il mal di
testa
provocato da un bicchierino di troppo prima di mettersi a letto, la
sera prima, non l'aiutava decisamente a capire.
Knock,
knock, knock
Era
sveglia, adesso. Strinse
forte gli occhi e arricciò il naso; era certa di aver messo
la
sveglia: alcolici o meno, la teneva impostata sempre sulla stessa ora
da settimane e il fatto che non fosse ancora suonata la mandava su
tutte le furie. Odiava essere svegliata prima del dovuto. Strinse
forte il cuscino tra le mani, prima di sollevarlo così da
potervi
infilare la testa sotto, sperando di lasciare qualsiasi tipo di
rumore fuori.
Knock,
knock, knock, knock, knock
Questa
volta quel continuo
battere divenne più veloce e più violento. Emma
lanciò via il
cuscino, scocciata. Si tirò su nello stesso istante, i
capelli
biondi le ricaddero sul volto, se li scostò portandoli
all'indietro senza aspettare
troppo con un rapido gesto della mano. Sbatté un paio di
volte le
ciglia, afferrò il cellulare e osservò l'ora:
erano le 6:47. Chi
era il folle che si presentava a casa di una persona prima delle 7 di
mattina? Pensò che dovesse trattarsi di un'emergenza e
andò nel
panico per qualche secondo. Realizzò presto,
però, che davvero in
pochi erano a conoscenza del suo indirizzo e che tutti loro avevano
il suo numero, ergo se fosse successo davvero qualcosa di grave
l'avrebbero senz'altra chiamata, prima di presentarsi a casa sua.
Doveva
trattarsi di qualcuno il
cui unico scopo era quello di farla irritare, decisamente.
«Un
momento!» Urlò con tutto
il fiato che aveva in corpo, prevenendo un'altra ondata di
quell'odioso battere alla sua porta.
Afferrò al volo la
vestaglia nera abbandonata su una sedia e la indossò,
escludendo
qualsiasi possibilità di andare ad accogliere chiunque
vestita
soltanto con una canottiera e delle mutande. Passò a piedi
nudi
davanti lo specchio, si osservò al volo notando il mascara
leggermente sbavato sotto l'occhio destro e i capelli scompigliati.
Vi passò una mano sopra, cercando di sistemarli come poteva,
spostandoli tutti sulla spalla sinistra – non che apparissero
più
ordinati. Arrivò davanti alla porta pronta ad aggredire con
numerose
parolacce chiunque l'avesse disturbata così di prima
mattina,
privandola addirittura della sua ultima ora di sonno. Le si
mozzò il
fiato, comunque, una volta aver sbirciato dallo spioncino; con il
cuore in gola si affretto ad aprire. «August!»
L'uomo
rimase ad osservarla per
qualche istante, senza dire una parola né muovere un solo
passo, con
un sorrisetto divertito dipinto sul volto. I loro occhi correvano
rapidi da una parte all'altra, si studiavano a vicenda quasi
volessero individuare al primo colpo tutte le differenze che
quell'anno e mezzo di lontananza aveva messo in piedi. Emma si disse
di non averlo mai visto così abbronzato in tutta la sua
vita:
indossava una camicia rosso porpora, i primi due bottini lasciati
aperti, infilata ordinatamente dentro un paio di jeans scuri; sopra
l'immancabile giacca di pelle dalla quale non si separava mai, faceva
parte del suo abbigliamento da quando era bambino, Emma molte volte
pensava che se la sarebbe portata perfino sull'altare – se
mai si
fosse sposato, ovvio. I tratti del viso erano sempre gli stessi, gli
occhi curiosi e arroganti che l'avevano osservata e messa in
soggezione parecchie volte non la lasciavano andare neanche per un
istante; poté giurare di intravedere delle piccole rughe
sulla
fronte, ma per il resto appariva più che rilassato e,
soprattutto,
felice. Aveva in mano un vassoio con due tazze di caffè da
asporto,
più una busta contenente probabilmente il resto della
colazione
nell'altra.
«Sorpresa!»
Esclamò, infine,
dopo un secondo di silenzio che appariva come un'eternità.
Distese
la bocca in un sorriso più grande, contento di rivederla
dopo tutto
quel tempo, e aprì le braccia invitandola a farsi stringere.
La
bionda non se lo fece ripetere due volte e, seppure ancora
visibilmente scossa, mosse quei pochi passi che li separavano,
mettendogli le braccia intorno al collo. Riuscì a catturare
l'odore
del solito dopobarba, mentre si rendeva conto della massa muscolosa
che aveva messo su il suo amico. O forse era lei che non ricordava
più come fosse la sensazione del suo corpo contro il suo,
non sapeva
dirlo. Lo lasciò andare subito, le mani sulle spalle,
l'espressione
ebete in pieno volto che non riusciva proprio ad abbandonarla.
«Non
te l'aspettavi, eh?» Mormorò lui, sempre
più divertito.
«Quando
sei tornato?» Domandò
lei per tutta risposta, rendendosi improvvisamente conto di avere la
bocca completamente spalancata oramai da vari secondi. Sicuramente il
suo migliore amico era l'ultima persona che si aspettava di trovarsi
davanti, e lui lo sapeva benissimo a giudicare dalle occhiate
soddisfatte che le lanciava. Si fece da parte per lasciarlo entrare,
chiuse poi la porta alle sue spalle e cominciò a correre da
una
parte all'altra del suo appartamento, recuperando cartacce sparse e
bicchieri sporchi: l'ordine non era mai stato il suo forte.
«Ieri
sera», rispose lui
seguendola in cucina e poggiando la colazione da asporto sul tavolo
che Emma aveva appena liberato dalle più svariate
cianfrusaglie. «A
mezzanotte passata ero in città, ho mandato giù
qualche boccone e,
nel frattempo, papà mi ha detto che ti avrei trovata
qui», le
lanciò uno sguardo eloquente, Emma si sentì
colpita in pieno ed
abbassò gli occhi. «Puoi immaginare il mio
stupore», continuò
quello, «sarei corso qui se non fosse stato tanto tardi, al
diavolo
la stanchezza per il viaggio! Volevo verificare con i miei occhi che
fosse tutto vero», Emma lo ascoltava in silenzio, sentendosi
sempre
più colpevole e mormorando un leggero “Mh
mh” mentre
prendeva ad aprire la bustina e rivelando due brioche alla crema. Ne
afferrò subito una. «Non mi hai detto di essere
tornata a Fort
Kent.»
«E
tu non mi hai detto che
saresti tornato a giorni», ribadì lei, cercando di
rigirare la
frittata neanche avessero di nuovo 12 anni. Si sedette su una sedia,
invitando August ad imitarla e diede un morso alla brioche –
mh,
soffice e profumata. «Comunque contavo sul fatto di trovare
un altro
impiego e un'altra sistemazione prima del tuo ritorno, così
dal non
dover sprecare fiato in queste inutili chiacchiere.»
August
scosse la testa
afferrando la sua tazza di caffè fortunatamente ancora caldo
«Non
sei cambiata per niente in questo ultimo anno»,
commentò,
nascondendosi poi dietro la sua colazione notando l'occhiata funesta
che la donna gli aveva appena rivolto; capì così
che l'ultima cosa
che doveva fare era quella di nominare quell'ultimo anno e,
soprattutto, la sua lontananza. «Allora»,
cominciò poi,
grattandosi appena la testa, imbarazzato «la libreria French.
Appena
mio padre me lo ha detto stavo quasi per strozzarmi: Emma Swan in una
libreria, non è una cosa che si sente tutti i
giorni.»
Emma
alzò gli occhi al cielo,
prima di bere un sorso di caffè, più rilassata.
«Nessuno di noi
due lo avrebbe mai predetto, te lo concedo. Non è il mio
ambiente:
non faccio altro che leggere per passare il tempo e i clienti non
riescono a fidarsi di me, non chiedono mai un consiglio e mi
rivolgono a stento la parola. E' una noia mortale, per questo non
vedo l'ora di andarmene.»
«Aspetta...
tu... che leggi dei
libri?» Esclamò August mostrandosi sorpreso, con
occhi sgranati e
una voce teatrale. Emma accartocciò la busta di carta del
bar e
gliela tirò addosso, ridacchiando e insultandolo teneramente.
*
August gli
aveva parlato della
California senza riprendere fiato neanche per un secondo, Emma lo
aveva lasciato fare, il sorriso sulle labbra e la bocca occupata a
masticare la sua brioche. L'amico l'aveva presa in giro per dei
minuti interi quando, dando l'ennesimo morso, si era fatta cadere
della crema addosso, sporcandosi tutta come una bambina di pochi
anni. Era andata a farsi una doccia, dopo mangiato, e a prepararsi
per il lavoro, nel mentre aveva dato le chiavi del maggiolino ad
August così che lui potesse recuperare gli ultimi scatoloni
che
erano rimasti nel bagagliaio – erano passati così
tanti giorni dal
suo trasloco che non ricordava neanche cosa contenessero, forse
scarpe.
Quando
uscì dal bagno lo
ritrovò a mettere un po' d'ordine in cucina, la bottiglia di
tequila
vuota sopra il tavolo, dove prima non c'era. Appena lo raggiunse,
l'uomo si voltò a guardarla, ammonendola con un'occhiata. La
bionda
alzò gli occhi al cielo, recuperando la bottiglia per
gettarla via.
Aveva bevuto solamente due, o tre bicchieri, prima di andare a letto:
era una delle sue serate no, non riusciva a dormire e tutto
perché,
tornando a casa dopo quello strambo momento in compagnia di Killian
Jones, al cimitero, era passata davanti ad un negozio di abiti da
sposa ed aveva pensato che il modello in vetrina fosse simile a
quello che aveva comprato lei, neanche un anno prima. Aveva pensato a
Neal, a quella che poteva essere la sua vita se si fossero sposati, a
quello che invece avevano perso. Pensò a tutte queste cose,
mentre
si versava un bicchiere, e poi un altro. Non era un'abitudine che
aveva, era raro che si attaccasse alla bottiglia, non aveva un
problema e August non doveva preoccuparsi.
Era quello
che provò a fargli
capire, assottigliando lo sguardo per invitarlo a non proseguire il
discorso, se non volevano finire poi con il litigare. August
ricevette il messaggio, si asciugò le mani bagnate con un
pezzo di
carta e la seguì al piano di sotto. Non aveva dei programmi
per la
giornata, era tornato a Fort Kent per un periodo di vacanza e aveva
intenzione di godersi quei giorni per il meglio, quella mattinata
però voleva dedicarla ad Emma: non essendosi visti per
più di un
anno pensava avessero molte cose da dirsi e troppo tempo da
recuperare. E poi era curioso di vederla alle prese con una libreria,
sapendo che non era affatto il suo ambiente.
E infatti
non aveva perso tempo
e aveva cominciato a lanciarle sorrisetti divertiti ogni volta che
entrava un cliente e a ricevere sguardi di fuoco come risposta; alla
fine aveva afferrato un libro ed era andato a sedersi su una
poltroncina lontana dalla cassa, prima che la donna potesse
strangolarlo. E poi non è che potesse fare molto, avrebbe
voluto
essere utile ma Emma non sapeva cosa fargli fare, così fu
costretto
a rintanarsi in quel suo angolino per leggere. Fu in tarda mattinata
che le cose cominciarono a farsi interessanti.
La porta
della libreria si aprì,
August alzò lo sguardo dal suo libro – Dan Brown,
ed Emma fece lo
stesso, volgendo gli occhi verso la porta per poi rimanere di sasso
vedendo entrare Killian Jones. Indossava dei pantaloni neri, una
camicia bianca e una giacca di pelle sopra, si domandò come
facesse
a non sentire caldo. Aveva un paio di Ray Ban a coprirgli gli occhi,
che si tolse subito ponendoseli tra i capelli. Nella mano destra,
invece, aveva una tazza di caffè di plastica, tazza che un
secondo dopo
era poggiata sul bancone dietro cui si trovava Emma.
«Buongiorno,
Swan», la salutò
con un sorriso sornione dipinto sulla faccia. La bionda continuava,
invece, a guardarlo interdetta, non riuscendo ad immaginare che cosa
volesse. Perché era chiaro che non si fosse ritrovato
lì per caso,
no? Era arrivato addirittura con del caffè, dubitava che la
sua
intenzione principale fosse quella di comprare un libro.
«Jones»,
replicò lei,
entrambe le mani sul banco, gli occhi fissi in quelli dell'uomo. Era
completamente l'opposto del giorno precedente: appariva sereno,
rilassato, tranquillo, quasi sulla cima del mondo, mentre neanche 24
ore prima era scuro, silenzioso e triste. Pensò che aveva
incontrato
quell'uomo quattro volte e si era trovata davanti quattro sfumature
diverse di Killian Jones. Non sapeva dire quale fosse quella vera,
forse tutte e quattro, forse neanche una. «Posso esserti
utile?»
«Passavo
di qua e ho pensato di
portarti un caffè», fece quello, subito, mettendo
su un'aria
innocente; August, alle loro spalle, cercava di capire cosa stesse
succedendo, chi fosse quell'uomo e cosa si fosse perso mentre era
via. Emma arricciò le labbra, per tutta risposta, e
alzò le
sopracciglia come a dirgli un sarcastico “davvero?
Non lo avevo
notato!”, alla fine però cedette, prese
la tazza, tolse il
coperchio e ne bevve un sorso. «E poi, avevo intenzione di
chiederti
di uscire: questa sera, a cena, tu ed io.»
Ad Emma
quasi non andò la
bevanda calda per traverso, cominciò a tossicchiare e a
darsi
piccoli colpetti sul petto con la mano libera, prima di rivolgergli
un'occhiata disgustata, sapeva che non avrebbe dovuto abbassare la
guardia e fidarsi. «Cosa ti fa presumere che io abbia voglia
di
uscire con te?» Gli chiese forse con troppo impeto.
Un'espressione
realmente stupita fece breccia sul volto di Killian Jones, la bionda
non poteva credere che quell'uomo si fosse costruito dei castelli in
aria, tutto per una singola buona azione che aveva fatto.
«Stammi a
sentire, Jones», cominciò a dire con foga,
guardandolo dritto negli
occhi con fermezza, «l'episodio di ieri non significa niente,
non ho
cambiato idea su di te. Cercavo soltanto di essere gentile,
nient'altro», concluse abbassando leggermente i toni
ricordando il
giorno prima. Lo aveva raggiunto al cimitero ed era rimasta al suo
fianco per non farlo sentire solo, non si erano rivolti parola ed
erano restati fermi e immobili per parecchio tempo, fino a quando
l'uomo non si era girato per dirle qualcosa e lei aveva voltato la
schiena ed era tornata a casa.
Non aveva
significato niente,
però. Quell'uomo continuava a non andarle a genio e il modo
in cui
si era presentato da lei, quella mattina, sicuro di poterle strappare
un appuntamento, altro non fece che confermarle l'idea che aveva di
lui.
«Non
potrai mai cambiare
opinione su di me se non mi dai una possibilità»,
affermò lui,
ferito forse, riuscì a non darlo comunque a vedere, magari
per
orgoglio o per non dargliela veramente vinta.
«Magari
non sono interessata,
né a te né a cambiare opinione»,
rincarò lei, incrociando le
braccia al petto. Lanciò un'occhiata ad August, dietro le
spalle di
Jones, quello capì che era arrivato il momento di entrare in
scena o
quantomeno di far notare la sua presenza.
«Ti
dà noie?» Esordì
tranquillo, raggiungendo Emma dietro al bancone, le mani nelle tasche
dei pantaloni e l'andatura lenta. Guardò per un secondo la
bionda,
divertito, poi si rivolse direttamente a Jones, rimasto visibilmente
sorpreso della piega che stava prendendo quella situazione.
«E
tu saresti?» Si ritrovò a
chiedere come uno sciocco. Si domandò se in
realtà non fosse il suo
fidanzato o qualcosa del genere, gli era capitato di incontrare Emma
solamente tre volte, erano stati tutti incontri rapidi e lei era
sempre stata sola. Fredda, distaccata e sulle sue, ma sola. L'ipotesi
che fosse già occupata non gli era mai balzata per la testa,
e
vedere quell'uomo, lì, al suo fianco, come un complice, lo
fece
rimanere di sasso. «E' il tuo ragazzo?»
«August
Booth», rispose
quello, con un sorrisetto ironico sulle labbra, «potrei
esserlo.»
Emma alzò gli occhi al cielo e gli diede un calcetto,
nascosta dal
bancone.
«Comunque»,
affermò, quindi,
dopo aver guardato l'amico di sfuggita, «non sono affari
tuoi,
Jones». Killian serrò la mascella, la osservava
dritto negli occhi
per cercare di capire quanto di quella storia fosse vero, ma la
bionda ricambiava quell'occhiata decisa, non volendo assolutamente
dargliela vinta.
«Beh,
puoi avere di meglio»,
sentenziò l'uomo, alla fine, voltandosi a guardare August,
adesso,
sprezzante e arrogante. L'uomo gli ridacchiò in faccia,
facendo
andare Jones su tutte le furie. Gli avrebbe volentieri tirato un
pugno, proprio lì su quel naso ingombrante che si ritrovava,
così
da cancellargli quel sorrisetto infantile dal volto. Ma si trattenne,
per Emma.
Assottigliò
lo sguardo, per
circa mezzo secondo, rivolse un'occhiataccia ad August, si
voltò poi
verso la bionda salutandola con un cenno del capo prima di girare i
tacchi e uscire dalla libreria.
*
I signori
Booth l'avevano
invitata a cena, quella sera stessa, ma lei aveva gentilmente
declinato l'invito con la scusa di non sentirsi troppo bene,
promettendo ad entrambi che ci sarebbe stata senz'altro una seconda
occasione. La verità era (anche August ne era a conoscenza)
che si
era sempre sentita a disagio, nella loro famiglia, non che non le
volessero realmente bene o che non fossero brave persone, anzi, Emma
li adorava, soprattutto Marco, però li guardava, vedeva
quella
famiglia che il suo migliore amico era riuscito a trovare
nell'adozione, la famiglia che, invece, lei non era mai stata in
grado di tenersi stretta.
Si era
riscaldata, quindi, della
pasta ai quattro formaggi al microonde e aveva cenato in silenzio,
nel suo appartamento vuoto, da sola, in compagnia unicamente delle
immagini di un reality che stava mandando la televisione. August
l'aveva raggiunta, comunque, poco più tardi, senza un motivo
preciso
in apparenza. In realtà, poi, il motivo saltò
fuori: Killian Jones.
Emma si era chiesta per quanto tempo avrebbe girato intorno
all'argomento, tastando il terreno, all'inizio, per poi partire con
il terzo grado. Lo immaginava, se lo aspettava, era preparata.
«Hai
intenzione di parlarmi
dell'uomo di stamattina?» Le chiese, quindi, mentre si
buttava a
peso morto sul suo divano. Emma gli lanciò un'occhiataccia,
prendendo a muoversi da una parte all'altra della cucina, recuperando
i piatti sporchi così da poterli lavare.
«Quale
uomo?» Fece lei,
puntando a rimanere sul vago, almeno in partenza. Sapeva di non poter
imbrogliare August in quel modo, ma la verità era che non
c'era
proprio niente da dire su Killian Jones, era un uomo come tanti
–
più o meno, non c'era nessuna storia da raccontare.
«Alto,
moro, occhi azzurri che
hanno cercato di spogliarti per tutto il tempo...»
continuò
l'altro, ridacchiando appena sotto i baffi, come se la cosa fosse
incredibilmente divertente. «Non sapevo che la donna di
ghiaccio
avesse un ammiratore, avevi intenzione di dirmelo?»
«Non
è un ammiratore»,
sospirò lei, storcendo appena il naso, «Killian
Jones è solamente
un uomo che vuole aggiungermi alla sua lista di conquiste. Non
c'è
altro, davvero», ora gli dava le spalle, impegnata com'era a
bagnarsi le mani con l'acqua del rubinetto che scorreva, il sapone
sulla spugnetta e lo sporco dei piatti che veniva lavato via.
«Killian
Jones», August fece
da eco, mostrandosi pensieroso, «quindi non c'è
stato niente tra di
voi?» Emma sospirò ancora, più
sonoramente, per fargli capire di
voler chiudere l'argomento. Certe volte il suo amico riusciva ad
essere peggio di una vecchia pettegola, soprattutto quando
l'argomento erano lei e le sue questioni di cuore. Non che ce ne
fossero state troppe, comunque, nel corso degli anni. «Non
sembra il
tuo tipo, in ogni caso.»
«Mh
mh», mugugnò Emma, non
volendo assecondarlo in quella sua follia, annuendo anche appena con
il capo. Jones non era il suo tipo, no, non che lei ne avesse
realmente uno, ma in ogni caso non erano affari che riguardavano
August, soprattutto quando a lei di quell'uomo non importava un fico
secco.
«Comunque
non ti farebbe male
uscire con qualcuno», affermò l'uomo
all'improvviso, facendola
raggelare; fortunatamente continuava a dargli le spalle,
così che
non riuscisse a vedere la sua espressione scossa in pieno viso:
cominciava a stancarsi di quell'argomento, non aveva la minima
intenzione di vedere qualcuno da quando il suo promesso sposo l'aveva
piantata – quasi – sull'altare «magari
non con lui, se quello
che dici è vero, non voglio che tu soffra.» Emma
si ritrovò a
sbattere i piatti nel lavandino con forza, senza volerlo e senza
riuscire a controllarsi. Chiuse l'acqua e strinse i pugni, non si
premurò di controllare se qualcosa si fosse scheggiato o
rotto, poco
le importava. Si morse la lingua e prese a fare dei respiri profondi,
non voleva litigare col suo migliore amico, era troppo stanca per
farlo. August, però, non riuscì a interpretare
quell'atteggiamento
improvviso, si alzò dal divano con fare incerto, resto
lì in piedi
non osando avvicinarsi, prendendo a guardarla spaesato.
«Cosa?»
La bionda
alzò la mano sinistra
a fargli cenno che fosse tutto okay, scuotendo appena il capo
«Niente, August. Lascia stare», gli rispose,
riscuotendosi. Asciugò
i pochi piatti in silenzio, sentendo gli occhi dell'altro addosso per
tutto il tempo: stava cercando di capire cosa l'avesse scossa, Emma,
dal canto suo, preferiva non dover affrontare la discussione.
«Allora», fece poi, cominciando a trovare quel
lungo silenzio
piuttosto scomodo, «non mi hai ancora parlato delle tue, di
conquiste? A quante ragazze californiane hai spezzato il
cuore?»
August, per tutta risposta, incrociò le braccia.
«A
meno di quante tu possa
pensare. Ma non provare a cambiare argomento, Emma. Ho detto qualcosa
che ti ha dato fastidio, cosa c'è?»
Provò ancora, ma lei alzò gli
occhi al cielo e cominciò a camminare per la stanza, posando
i
piatti nella credenza e togliendo delle briciole invisibile dal
tavolo, giusto per far qualcosa.
«Non
c'è niente», mormorò
piano, «lascia stare.»
«No,
invece», August era
determinato a non lasciarla andare e a farla sfogare. Era sempre
stato difficile far sfogare Emma Swan, la trovava un'impresa
impossibile, ma alla fine riusciva sempre a convincerla ad aprirsi,
prendendola forse per sfinimento. «Sai che puoi dirmelo.
Riguarda
Jones?»
Emma
arricciò il naso,
guardandolo sorpresa. «Perché pensi che c'entri
qualcosa quel
tipo?» Domandò piuttosto perplessa, voltandosi
subito dopo. «Non
riguarda lui, stai sereno. E, seriamente, lascia stare, non mi va di
parlarne adesso.»
August si
decise ad avvicinarla,
le si parò davanti, la prese per le spalle e la costrinse a
guardarlo. «Emma», cominciò deciso,
«sai che puoi dirmi qualsiasi
cosa. Non devi sentirti imbarazzata se–»
«Imbarazzata?»
Ripeté lei,
scocciata. «Non sono imbarazzata, August. Mi stupisce
solamente
sentirti dire determinate cose. Non vuoi che io soffra? Bene, sono
commossa. Ma dov'eri quando Neal mi ha lasciata?»
L'uomo
rimase a guardarla in
silenzio per qualche istante. Abbassò entrambe le braccia
per
lasciarla libera di indietreggiare di qualche passo, e magari anche
di schiaffeggiarlo e se lo sarebbe più che meritato. La
verità era
che non gli era passato neanche per l'anticamera del cervello che lei
potesse ancora sentirsi ferita da quell'uomo che le aveva spezzato il
cuore dal giorno alla notte, ed era vero che lui non aveva
contribuito a farla stare meglio, in quei mesi. «Io... io non
pensavo che...», Emma sorrise ironica e alzò gli
occhi al cielo,
facendo schioccare la lingua sul palato, sarcasticamente, «mi
avevi
detto più volte di stare bene!» Esclamò
alla fine, sulla
difensiva, sbagliando completamente.
«Come
potevi credere che fosse
la verità? Qualche parola mormorata dietro la cornetta di un
telefono, non ti sei mai preso la libertà di venire a
controllare
con i tuoi occhi, comunque.»
«Sai
che non potevo lasciare il
lavoro così.»
«Ma
certo, il lavoro. Prima la
nuova famiglia, poi i nuovi amici, poi la nuova conquista, poi il nuovo
lavoro. C'è sempre qualcosa che viene prima di me, non dire
di no,
sai che è così», lo ammonì
con tanto di dito indice alzato,
quando notò che stava per aprire bocca pronto a replicare.
«Io
sarei corsa in qualsiasi momento per te, se i ruoli fossero stati
invertiti.»
L'uomo
abbassò il capo,
colpito e affondato. Non poteva fare altro, Emma aveva ragione, non
poteva darle
torto su nessun fronte. Non era mai stato il migliore amico che lei
meritava, ne era consapevole lui stesso, eppure il loro legame era
incredibilmente forte per poter essere distrutto in qualche modo. Non
sapeva come replicare, si sentiva immensamente in colpa per non
essere stato in grado di starle accanto in quei mesi e sapeva di non
poter recuperare in alcun modo. Le si avvicinò piano e la
prese
semplicemente fra le braccia; Emma sgranò leggermente gli
occhi,
presa alla sprovvista, ma poggiò il capo sul suo petto e si
lasciò
stringere quel tanto che bastava. Non ricambiò l'abbraccio,
i pugni
ancora stretti e le braccia abbandonate lungo i fianchi. Chiuse
appena gli occhi, per calmarsi e calmare i suoi pensieri: mesi di
parole non dette che cominciavano ad uscire dalla sua bocca senza che
potesse controllarsi. «Sai che ti voglio bene, vero? E sai
che,
qualunque cosa succeda, io tornerò sempre da te.»
Emma
sorrise amaramente,
staccandosi dall'uomo così da poterlo guardare in faccia,
gli occhi
lucidi. «Lo so, ma io non ho bisogno di qualcuno che torni,
ho bisogno di qualcuno che resti.» Gli
fece poi capire di
voler essere lasciata sola, ed August, senza replicare,
ubbidì,
attraversando la stanza e richiudendosi la porta alle spalle.
Solo in
quel momento Emma si
lasciò cadere sulla sedia più vicina, stanca e
spossata da
quell'ultimo avvenimento. Non avrebbe mai voluto dire quelle cose,
per quanto l'avessero fatta soffrire era sempre stata determinata a
tenerle nascoste. In generale non le piaceva rinfacciare le cose,
figuriamoci a farlo con il suo migliore amico! Non sapeva neanche
cosa l'avesse sconvolta tanto; il parlare di uomini, di uscire con
qualcuno, l'aveva innervosita. Era tornata a pensare a Neal –
non
che avesse mai davvero smesso, e questo l'aveva allarmata e
infastidita. Si era ritrovata a pensare a quella che era la sua
vecchia vita, con lui al suo fianco, e a quella che aveva adesso. Non
avrebbe mai perdonato quell'uomo per averle inferto quella ferita
così, senza nessun preavviso, ma era scomparso completamente
dalla
sua vita – e ne era grata, e lei non aveva nessuno da
incolpare,
nessuno su cui riversare la sua rabbia, il suo rancore. August si era
ritrovato sul sentiero di guerra, vittima e colpevole al tempo
stesso. Durante il periodo di preparazione al matrimonio, l'aveva
avvertita che non sarebbe riuscito a liberarsi e che il lavoro lo
avrebbe trattenuto; una volta saputo dell'accaduto l'aveva tempestata
di chiamate, chiamate a cui lei rispondeva fingendosi tranquilla e
distaccata. Forse per questo non era mai riuscita ad odiarlo, non si
era mai messa in condizione di farsi aiutare. O di far capire di aver
bisogno di aiuto.
Quando
avesse cominciato a
piangere neanche lo ricordava, ma adesso si ritrovava con il viso
completamente bagnato di lacrime nascosto da delle mari macchiate
ormai di mascara. Scossa dai singhiozzi, saltò leggermente
quando
sentì qualcuno bussare alla porta. Certa che fosse August
fece finta
di nulla, gli avrebbe mandato un messaggio più tardi, una
volta
tranquillizzata, chiedendogli di raggiungerla la mattina seguente in
libreria. Ma il bussare continuava, imperterrito, anzi si faceva
sempre più forte. Di nuovo scocciata per il fatto che avesse
bellamente ignorato la sua richiesta e il suo desiderio di restare da
sola, si alzò dal divano e aprì bruscamente la
porta, pronta ad
inveire contro l'amico. Quello che si trovò davanti,
però, la
lasciò come pietrificata.
Killian
Jones la osservava,
adesso, allarmato, la mano destra ancora alta pronta a picchiettare
nuovamente sulla porta. La bocca spalancata e una rughetta
preoccupata dipinta sulla fronte, un suono strano venne fuori dalla
sua gola, il principio di una parola strozzata che non ebbe il
coraggio di uscire fuori.
«Per
l'amor del cielo, Jones.
Lasciami in pace!» Urlò la bionda, spazientita,
senza perdere altro
tempo prezioso. Gli chiuse la porta in faccia senza neanche pensarci,
cadendo poi a terra poggiata contro la sua superficie. Nascose la
testa contro le ginocchia e continuò a sfogarsi, silenziosa.
Anche
Killian restò fermò, dietro la porta, come
inebetito. Provava a
metabolizzare quello che era appena successo, ciò che aveva
appena
visto: la bella, sicura e forte Emma Swan completamente indifesa
lontana da ogni suo muro. Alzò di nuovo il pugno, ma
abbandonò la
mano a mezz'aria, capendo da solo come quell'idea fosse terribile.
Non poteva sapere che soltanto una misera parete lo separava dalla
donna, così come lei ignorava completamente la sua presenza,
sicura
del fatto che fosse ormai andato via. Invece l'uomo restò
lì,
seduto a terra anche lui, la testa contro la porta. Restò
per
mezz'ora, forse qualcosa di più, così come aveva
fatto lei il
giorno prima, determinato a non volerla lasciare da sola, anche se
lei non poteva saperlo. Tornò a casa, alla fine, non appena
la donna
spense le luci dell'appartamento.
Angolo
dell'autrice: Mi domando se qualcuno si ricorda ancora di
questa storia o è ancora qui ad aspettare un aggiornamento.
Non so davvero come scusarmi per questo immenso ritardo, ma voglio
essere completamente onesta: non pensavo di aggiornare più.
Non per le poche idee o per la poca voglia/tempo di scrivere, quanto
per la mancanza di un riscontro positivo/negativo. Per farla bene mi
sono fatta due domandine, della serie: questa storia sta piacendo? Mi
sono risposta di no, quindi che motivo c'era di andare avanti?
Però mi dispiaceva, mi dispiaceva abbandonare Emma e Killian
e non sono riuscita a stare troppo tempo lontano da questa fanfiction.
Se vedrò qualche commento/abbastanza letture non
tarderò troppo ad aggiornare, promesso, altrimenti... non lo
so, non voglio lasciarla incompleta ma non voglio neanche
perderci troppo tempo a scriverla, se nessuno la legge, ecco.
In ogni caso, ho deciso di abbandonare i flashback. Magari ogni tanto
ne inserirò uno, ma sicuramente non compariranno in ogni
capitolo. Spero che questo incredibile tempo di attesa sia valso a
qualcosa e di non aver deluso aspettative; Emma e Killian cominceranno
ad avvicinarsi presto, ve lo prometto!
Fatemi sapere e a presto,
Sà
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