Diario di un transessuale

di Intouchable
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo I ***
Capitolo 2: *** Prologo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo I ***
Capitolo 4: *** Capitolo II ***



Capitolo 1
*** Prologo I ***


Quello che dico sempre è che la parte più difficile di ogni percorso è l’inizio.
Per quanto complesso, struggente o lungo possa essere il percorso in sé, trovare la forza per cominciarlo sembra sempre essere il momento più destabilizzante. Almeno per me.
Nella corsa, per esempio. Dovete sapere che a me è sempre piaciuto andare a correre. Però non ci sono mai andato.  Capito cosa voglio dire, no?
Come uno che paga un sacco di soldi per fare bungee jumping sul Grand Canyon e convince la moglie e prenota il treno e prenota il volo e rinnova il passaporto e noleggia la macchina e paga la guida e paga l’istruttore e poi arriva al Grand Canyon e quando arriva al Grand Canyon non riesce ad avvicinarsi al bordo. Magari il salto lo riuscirebbe anche a fare, ma di avvicinarsi proprio non se ne parla.
Poi c’è il tizio un po’ stronzo che lo spinge a tradimento ma quella è un’altra storia. Perché nessuno ti spinge dalle scale per farti andare a correre.
Come non c’è nessuno che ti insegni ad essere ciò che senti di essere. E’ una cosa che devi fare da solo, in un modo o nell’altro. Dovete sapere che a me è sempre piaciuto essere un uomo. Però non lo sono mai stato.

Per ora. 

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Capitolo 2
*** Prologo II ***


Mi chiamo Francesco, ma sono nato sotto il nome di Francesca. Questo non è errore di nessuno: né dell’anagrafe né di Dio.
A proposito, devo dire che il mio rapporto con Dio non è mai stato dei migliori, probabilmente perché io non credo in lui e lui non crede in me. Da piccolo ho frequentato scout e catechismo, ho detto un sacco di preghiere e confessato tutti i miei peccati, ma non ho mai sentito quella forza divina travolgente e dolce che mi aspettavo.
Poi un giorno ho smesso di aspettare e di pregare e di confessare i miei peccati, perché mi sentivo un po’ cretino a parlare con qualcuno che in tredici anni non si era degnato di rispondermi neanche una volta. L’ho fatto con dispiacere, però, come un bambino che aspetta un regalo, sicuro che arriverà, affezionandosi al pensiero di averlo con sé. Passano tredici anni ed il regalo non arriva. A quel punto il bambino, ormai ventenne, si dà una ridimensionata e si arrende all’evidenza, ma quell’immagine affettuosa rimane ancora per un po’ e quindi è un dispiacere, proprio un dispiacere. Uguale io con Dio.
In compenso, è stato il primo a sapere del mio più grande desiderio: essere un maschio. Praticamente, in quei tredici anni di attesa, ogni sera, prima di dormire, pregavo. Chiedevo a Dio di proteggere mia mamma, mia nonna ed il mio gatto dalle malattie brutte. Poi gli chiedevo di farmi svegliare l’indomani con cinque centimetri in più e con il nome di Mattia.

Amen.

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Capitolo 3
*** Capitolo I ***


«Francesca, sono le sette, tirati su da quel letto!».
Mi scopro una parte del corpo alla volta, partendo da un braccio. Le sette di mattina, a dicembre, in questa casa sembrano le sette di mattina che affrontano i Siberiani. L’azione di ‘’scoprimento’’, come la definiamo io e la mia migliore amica Marta, ha una durata fissa di dieci minuti, che nel mondo di mia madre, devono essere circa quarantacinque, visto che la sento inveire contro di me come una pazza.
La mamma è così, a volte le capita di svegliarsi con il piede sbagliato e allora non c’è Santo che tenga. Ecco perché metto il turbo ed in un batter d’occhio mi ritrovo seduta al tavolo in cucina, con mamma al lavello che pulisce la sua tazza e la caffettiera ad un ritmo che farebbe imbarazzare il Pit Stop della Ferrari.
«Lì ci sono le fette biscottate, il miele e la Nutella, vedi tu cosa preferisci. Ti ho fatto anche un tè perché mi sono accorta che bevi poco», si gira a guardarmi con il guanto in gomma ancora immerso nella tazza ed aggiunge: «te lo dico sempre, dovresti bere almeno un litro e mezzo d'acqua». È vero, me lo dice sempre, ma a me bere per forza fa schifo. Però i tè che mi prepara la mamma sono buonissimi e mi riscaldano tutto il corpo e io spero che d’ora in poi me li prepari tutte le mattine.
Finita la colazione sparecchio, sistemo la tovaglia e mi fiondo a prepararmi nel bagno riscaldato dalla stufetta. (La mamma la chiama stufetta, Marta la chiama stufina ed io vorrei solo che loro due si mettessero d’accordo perché mi fanno diventare un po’ matta a volte.) Come sempre, trovo i miei vestiti già pronti e profumati sulla cesta verde di fianco alla doccia e penso che la mamma a volte riesce a leggere nella mia testa. I vestiti sono proprio quelli che volevo io: un pantalone cargo di colore beige ed una maglietta nera di cotone a maniche lunghe con una moto ricoperta di fiamme sulla schiena.
Mi vesto, mi guardo allo specchio e sono proprio contenta: questi vestiti si abbinano perfettamente alla mia testina quasi pelata.
 
La scuola non è come me la immaginavo. Mi aspettavo un palazzo grigio e buio come quello che avevo visto in alcuni film, invece già dal finestrino della macchina si intravedeva lontana una struttura con mattoni a vista circondata da un immenso e verdissimo giardino. Quando scendo, la mamma mi prende per mano e mi guarda intensamente, pensando che io non me ne accorga. «Cosa c’è, mamma?», le chiedo. Subito si volta a fissare un punto avanti a sé e dice: «Niente, niente». Però sorride felice e quindi io so che è una bugia.
 
Dopo averla salutata con due grossi baci sulle guance, entro in classe insieme alla mia migliore amica Marta, che ovviamente scalpita all’idea di essere alle elementari insieme a me. Prendiamo due banchi vicini in seconda fila, perché io non voglio stare troppo vicina alla maestra ma non voglio neanche sembrare una che "se la fa sotto’’, come ho sentito dire una volta da uno dei miei zii. Quest’espressione mi faceva molto ridere perché mi immaginavo lo zio grande che faceva la pipì a letto come i piccoli, poi lui mi ha spiegato che questo si dice quando qualcosa ti fa paura e allora non mi ha fatto più molto ridere, però mi piace.
Un po’ me la faccio sotto davvero quando arriva la maestra, che mi sembra altissima ed ha tantissimi capelli ricci e rossi da sembrarmi un albero in autunno. Si siede dietro la cattedra, poi si alza subito e viene verso di noi.
«Bambini, bambine, io mi chiamo Clarissa e sarò la vostra maestra in tutte le materie, fatta eccezione per matematica ed inglese. Come immaginerete, ci vedremo molto spesso, quindi vorrei conoscervi un po’ fin da ora, perciò che ne dite se cominciamo dall’appello e quando arriva il vostro nome mi raccontate qualcosa di voi?» Nessuno dice di sì, ma lei prende il registro e chiama il primo bambino della lista.
Non so bene cosa dirò quando toccherà a me perché non so cosa possa interessare alla maestra. Mi piacciono i gatti, però magari a lei stanno antipatici; poi mi piace tanto mangiare la cioccolata ma una volta ho visto una bambina diventare tutta rossa e gonfia in faccia dopo aver mangiato una merendina e la mamma mi ha detto che questa si chiama "allergia’’. E se dico alla maestra della cioccolata e lei si gonfia tutta? Ce ne mandano un'altra?
È mentre penso a cosa dire che sento il mio nome. «Cicconetti Francesca?», io alzo la mano come hanno fatto gli altri e mi rendo conto che si sono girati tutti e che mi guardano. E non è come quando vedi qualcuno per la prima volta e sei curioso, è più come quando vai al Toys Center e vedi un giocattolo molto strano. Anche la maestra all’inizio è un po’ stupita, ma si riprende subito e dice: «Ciao Francesca, cosa ci dici di te?»
Io divento tutta rossa e allora penso che sono un po’ allergica ai bambini che mi guardano in quel modo.
 
«Dimmi Bebe, com’è andato il tuo primo giorno di scuola?». La mamma, quando non è arrabbiata, mi chiama Bebe, perché quando ero più piccola e sapevo parlare poco guardavo i film del maialino Babe e lo chiamavo Bebe.
Le dico che è andata bene e che mi sono divertita molto, che i miei compagni sono simpatici e che la maestra sembra un albero. Non le dico che mi hanno guardata in quel modo strano perché so che si preoccuperebbe.
Mentre siamo a cena dice: «Pensavo che stasera potremmo andare al cinema, fanno vedere un film che si chiama Alla ricerca della felicità. Racconta la storia di padre e figlio che stanno insieme e sono felici anche se tutto è molto difficile». Sembra proprio un bel film, allora le dico di sì con un sorrisone, che mi si spegne subito quando mi chiedo perché il mio papà non sia rimasto con noi quando tutto era difficile.

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Capitolo 4
*** Capitolo II ***


La mamma non parla mai del babbo. Io non so neanche di che colore abbia i capelli, però immagino siano neri come i miei visto che quelli della mamma sono tanto chiari. Non mi dispiace che non ne parli, anzi, proprio non me ne importa, perché tanto lui non l’ho mai visto e non c’è mai stato, quindi non ho mai sentito alcuna mancanza. Mi ha solo detto che quando lei aveva la pancia enorme con me dentro, lui è uscito dalla porta e non è più tornato e io sono rimasta sconvolta perché non riesco a capire come io potessi stare dentro alla pancia della mia mamma, che è così piccola.
Solo due volte mi sono chiesta perché in casa ci fossimo solo io e lei: la prima quando, in un film, il bambino festeggiava il Natale a tavola con i suoi genitori, che si baciavano e si abbracciavano stretti di continuo e poi allargavano le braccia per farci entrare il figlio; la seconda, quando la mamma mi ha portata per la prima volta a casa di Marta e c’erano il suo babbo e la sua mamma che guardavano la TV insieme a noi sul divano. Li ho invidiati un po’ quella sera, sembravano tanto felici e sereni, poi in realtà poco tempo dopo lui se n’è andato e non ha mai più guardato la TV in quella casa e a me è dispiaciuto molto per Marta, però ero anche contenta perché sapevo che la mia mamma avrebbe guardato la televisione insieme a me per sempre.
Fatto sta che non ho un papà e questo incuriosisce molto i bambini della mia classe, che, in qualche modo, lo sono venuti a sapere. Ce n’è uno, Paolo, che mi parla spesso e una volta mi ha chiesto perché ho un solo genitore. Allora io gli ho chiesto perché non si fa gli affari suoi e lui si è un po’ arrabbiato, ma dopo poco è scoppiato a ridere ed ho iniziato a ridere anche io. E’ così che siamo diventati amici.
 
Il momento più magico della scuola è sicuramente la ricreazione. Ne facciamo una corta durante la mattina ed una lunghissima dopo il pranzo e quasi sempre giochiamo a nascondino o ad acchiapparello. Al centro del grande giardino c’è un grandissimo albero tutto curvo, cresciuto parallelo al terreno ma molto robusto e che sembra quasi un signore anziano molto gobbo. Ci divertiamo a salirci perché abbiamo tutti letto Tarzan e ci sembra di essere un po’ come lui, ma senza pantere e senza orsi. Marta non sale mai, io ci vado con Paolo e con tutti gli altri maschi perché loro fanno le cose che piace fare a me. Le femmine invece stanno sempre sedute in cerchio a guardarsi le unghie e giocare a pettinarsi, che secondo me è un gioco veramente stupido e poco divertente, ma penso anche che io non ne posso sapere niente visto che non ho mai avuto i capelli lunghi in vita mia. Non mi piacciono proprio, sembrano molto scomodi e poi quando corri ti finiscono tutti in bocca e non potrei sopportarlo visto che io corro di continuo avanti e indietro.
Adesso che ho sette anni e mi sento grande posso dire che le femmine non mi piacciono proprio, a parte Marta che è mia amica da sempre. Anche io sono una femmina, però non sono come le altre femmine, che giocano con le Barbie e si fingono fotomodelle con i trucchi delle mamme. Io preferisco le macchinine telecomandate che filano sul vialetto di casa a cui devi cambiare i pezzi sporcandoti di grasso le mani. Poi, come ho detto, io sono quasi pelata, mentre le altre hanno capelli lunghissimi che si accarezzano di continuo e si vestono tutte di rosa. Il rosa a me fa proprio schifo. Infatti quando ho scoperto che avrei dovuto mettere un grembiule rosa con il pizzo per andare a scuola mi veniva da piangere – e alla fine ho pianto – , perché è orribile e secondo me mi sta malissimo. Penso che se fosse come quello di Paolo starei molto meglio e anche che i bambini non mi avrebbero guardato così strano quel giorno, se avessi avuto il grembiule blu. Non so perché lo so: lo so e basta.
 
È passata più di metà dell’anno scolastico e l’aria comincia a profumare di vacanza. Nel vento si sente quel profumo tipico dei fiori che nascono in primavera e ci tengono compagnia per tutta l’estate, fiori coloratissimi che mi ricordano un po’ il mega ombrello che la mamma usa per proteggerci dal Sole quando siamo in spiaggia.
Non siamo andati quasi mai in giardino durante questi mesi perché fa un gran freddo e se ci mettiamo a correre quando fa freddo ci viene la febbre alta e tossiamo di continuo, o almeno così dice la mamma. Io non ci credo molto, secondo me è un modo per non farmi correre sempre, così lei si può riposare un po’.
Scusa o no, anche le maestre la pensano così e per un bel po’ l’albero è rimasto lontano da me e dalla finestra della classe lo guardavo mentre cambiava e si copriva di pioggia e poi di neve. Adesso è più verde che mai e finalmente dopo pranzo potrò tornarci.
Prima, però, bisogna aspettare la campanella della mensa, che arriva proprio quando il mio stomaco comincia a brontolare. Scendiamo e mi siedo in mezzo a Marta e Paolo, come sempre. Di fronte a noi si mette Gianluca, un bambino che mangia sempre e solo pasta in bianco con parmigiano. Nient’altro. Tutti si vogliono sedere vicino a lui: quando arriva qualcosa di buono da mangiare e ne vogliamo un secondo o un terzo piatto, gli chiediamo di darci il suo e di solito se lo aggiudica chi gli si trova vicino.
Io però penso che tutti si vogliano sedere vicino a lui perché è un bambino molto bello e simpatico ed è quello seguito da tutti i maschi quando facciamo i giochi. È un po’ come se fosse il capo, il più importante e lo fa con naturalezza, come se non sapesse neanche di esserlo ed in effetti secondo me non lo sa, forse solo io me ne sono accorta. Quando lo guardo penso che mi piacerebbe essere come lui, oppure essere lui e di nuovo sento dentro di me che se io avessi il grembiule blu e fossi maschio come lui gli altri seguirebbero me. Cerco di non pensarci più perché questo mi rende triste e mi concentro sull’orribile pasta in brodo che la mensa ci offre in questo caldo giorno di maggio.
 
Adoro andare in macchina con la mamma. Mi rilassa tantissimo anche se mi fa sedere dietro da sola, lasciando libero il posto davanti vicino a lei, sul quale io vorrei stare. Una volta le ho chiesto di potermi sedere lì e lei mi ha risposto che è pericoloso, allora non ho insistito perché so che quando la mamma dice che una cosa è pericolosa non c’è modo di convincerla. La cosa positiva è che sedendomi dietro posso appoggiare la testa al finestrino e guardare il paesaggio che scorre mentre ascoltiamo le canzoni di Laura Pausini, che entrambe amiamo.
«Resta in ascolto che c’è un messaggio per te…», canticchia a bassa voce la mamma. Chissà a chi pensa quando ascolta queste parole. Anzi, chissà se pensa a qualcuno.
Quando la canzone finisce noi siamo arrivate a casa ed è ora di andare a cena dalla nonna, che abita proprio sopra di noi. Forse è grazie a questa vicinanza, o forse è solo perché mi vuole tanto bene, che lei è per me il padre che non ho, nel senso che se la nonna non esistesse forse sentirei la mancanza di mio papà. Forse.
Quello che preferisco di lei è il fatto che appena mi siedo mi porta da mangiare; il pranzo e la cena sono sempre pronti, come se non li preparasse lei, come se andasse in cucina e ordinasse pasti già pronti dal forno. E la cosa meravigliosa è che tutto è buonissimo, anche se lei non mangia mai niente. Cucina e basta, dice che non ha tempo di mangiare, altrimenti quello che prepara a me non viene buono come vuole lei.
In più, in casa con lei vivono la sua mamma e suo marito, che è mio nonno e tutti e due non stanno molto bene, quindi la nonna si occupa sempre di loro, li lava, gli prepara colazione, pranzo e cena, va sempre a comprare le cose più buone da mangiare e tanti vestiti caldi.
È un po’ come un supereroe, però al posto del mantello indossa un grembiule rosso con una casetta sopra e la scritta “Ristorante da La Nonna”, grembiule che le abbiamo regalato io e la mamma per Natale.
«Cosa ci racconta questa piccola ranocchia?», dice la nonna dandomi un pizzico sulla guancia, «come va la scuola?». Le vorrei dire che a volte quando sto in mezzo ai bambini mi sento triste e un po’ fuori posto, anche se non so perché. Invece le dico: “Va benissimo nonna, ma se tu potessi stare in classe con me andrebbe molto meglio”.
 
Almeno un pomeriggio a settimana, la mamma mi porta a fare la spesa insieme a lei. Quando ero più piccola mi piaceva tantissimo perché lei mi metteva seduta nel carrello e mi sembrava di essere il capitano di una navicella spaziale, come quelle che avevo visto in Star Wars. A volte imitavo il rumore di un’esplosione urlando «BAM! BAM! BAM!» facendo scontrare due carote che pilotavo come aeroplani e mi ricordo che un giorno, mentre le due carote stavano per finire una contro l’altra, sono stata interrotta da una voce un po’ fastidiosa che gridava: «Carla!»
Carla è il nome di mia mamma, un nome che secondo me è stato creato apposta per lei. Per esempio, la mia amica Marta si chiama Marta, però io preferirei si chiamasse Ginevra, che è il nome di una bambina che ho visto in TV e che secondo me è uguale a lei. Invece mia mamma si chiama Carla e non lo cambierei per niente al mondo.
«Oh mio dio, ma allora sei proprio tu! Da quanto tempo!» continua ad urlare la signora, alla quale mamma risponde con altrettanta gioia: «Veronica! Che piacere incontrarti, ti vedo bene, come stai? Pensavo ti fossi trasferita a Leeds.»
«Sì, sì! Ci ho vissuto tredici anni, dopodiché mi hanno richiamata a lavorare qui e sono stata perfino un po’ felice di tornare a Rimini. Mi mancava proprio questa città, che ora sembra piccolissima!» ridacchia «Leeds è meravigliosa, ma molto caotica e comunque Marco aveva proprio voglia di tornare a vivere vicino ai suoi genitori», sembra triste mentre lo dice, ma si riprende subito quando dice: «Entrambi pensiamo che sia bene per nostro figlio avere i nonni vicini.»
«Non potrei essere più d’accordo», risponde la mamma, «non per niente i miei abitano nella nostra palazzina.»
«Ah, che bello! Sarà comodo per te e tuo figlio raggiungerli con una rampa di scale» e prosegue guardandomi senza dar tempo a mia mamma di dire qualcosa: «sei davvero un bel bimbo, quanti anni hai?»
Si piega sulle ginocchia mentre me lo chiede e io ho notato che tutti i grandi lo fanno, lo trovo davvero buffo ed inutile perché io sento benissimo quello che dicono anche se restano in piedi.
Infatti sento chiaramente il tossire di mia mamma e la sua voce mentre risponde tranquilla: «Veramente è una femmina, si chiama Francesca e ha quasi otto anni.» La Signora Veronica si tira velocemente su in piedi e comincia a balbettare qualcosa di incomprensibile, e così la mamma continua: «succede spesso che la gente si confonda, perché a lei piace tenere i capelli cortissimi e vestirsi da maschiaccio.»
«Adesso che la guardo meglio si capisce chiaramente che è una femmina’», mi sorride, proprio una bella bambina. «Carla, dai, noi magari una di queste sere ci sentiamo e ci incontriamo per due chiacchiere!»
La mamma dice di sì, ma non mi sembra tanto convinta. Quando poi Signora Veronica se n’è andata, mi guarda e accarezzandomi una guancia mi dice: «Non essere triste, Bebe. Sei bellissima e non sembri affatto un maschio».
Nessuno sa che è proprio per questo che sono triste. 

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