Frappuccino For Two

di calock_morgenloki
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


Frappuccino For Two

 

1.
 

C'erano tante cose- forse anche troppe- che Sherlock Holmes detestava a proposito del genere umano: non sopportava le risatine da oche di alcune ragazze che frequentavano la sua università, reputava irritanti e inopportuni i pettegolezzi, i giornali scandalistici non erano altro che spazzatura, la politica era inutile e noiosa, l'etichetta e le buone maniere erano semplicemente irritanti e, molto più in generale, trovava che all'incirca l'ottantasette virgola cinque per cento dei suoi conoscenti avesse un quoziente intellettivo troppo basso addirittura per un essere senziente come un lombrico, figurarsi un essere umano. Davvero, si sarebbe potuto riempire un libro con tutte le cose che Sherlock, vent'anni di acidità e sarcasmo concentrati in un secco spilungone di un metro e ottantatré con una massa di capelli ricci costantemente scompigliati e un paio di occhi grigi perennemente torvi, trovava deplorevoli e incredibilmente moleste nelle persone, ma a dirla tutta, a monte di tutto c'era soltanto un elemento che il ragazzo odiava a morte, più di ogni altra cosa e avrebbe volentieri raso al suolo a colpi di kalashnicov: il suo posto di lavoro. Più precisamente, Starbucks.

Sherlock Holmes era probabilmente il peggior barista che un locale avrebbe potuto avere, l'incubo di qualsiasi gestore: scontroso con ogni cliente, si divertiva a dedurre la loro vita semplicemente guardandoli, mettendoli in ridicolo davanti a chiunque fosse nei paraggi. Normalmente- e questo era il meno- si dilettava nello scrivere in modo volutamente sbagliato il nome della clientela sui bicchieri di carta e, quando era in vena particolarmente creativa, poteva addirittura arrivare a scrivere qualsiasi cosa gli passasse per la testa, il problema era che nella migliore delle ipotesi lo faceva in latino, greco antico o sanscrito. E davanti alle facce perplesse dei clienti, ecco che partiva una nuova sequela di commenti al vetriolo e battutine sarcastiche, intervallate qua e là da imbarazzanti deduzioni.

Era una giornata triste e grigia, quella: l'autunno dai mille colori era finito da un pezzo, lasciando campo libero a quella parte della stagione caratterizzata da alberi spogli, temperature in caduta libera e pioggia pressoché incessante. Il fatto che poi avrebbe dovuto passare buona parte della sua giornata stipato in quel buco dove era costretto a servire orridi intrugli di caffè dai nomi ridicoli a persone ancora più stupide, non faceva altro che innalzare il livello di nervosismo di Sherlock. Era venerdì e lui, dato che quel giorno non aveva lezioni, aveva avuto il meraviglioso turno di apertura, dalle cinque e mezza fino alle dieci e mezza: questo voleva dire che avrebbe dovuto interagire di prima mattina con tutti gli studenti diretti in università e poi di nuovo con loro durante le pause di metà mattina; diciamo pure che non era un fatto di grande attrattiva.

Nonostante ciò, arrivò in negozio in perfetto orario, giusto in tempo per dare un'ultima sistemata prima di aprire. Era un tipo puntuale, Sherlock, affidabile: aveva tanti difetti, ma si poteva contare su di lui, se prendeva un impegno. E visto che per portare avanti il suo "piccolo hobby dell'investigazione", come lo chiamava suo fratello Mycroft, aveva bisogno di soldi- la sua famiglia non approvava e, dunque, non sganciavano nemmeno un centesimo-, si poteva dire che fosse quasi costretto a farlo.

"Buongiorno, Sherlock!" lo salutò allegramente Molly, non appena si fu chiuso la porta alle spalle. Molly Hooper aveva la stessa età di Sherlock e studiava per diventare medico legale. Sherlock la considerava qualcosa di simile ad un'amica, insieme a quelle altre due povere anime che erano in grado di sopportarlo senza staccargli la testa a morsi, ma non le aveva mai dato molta confidenza. Aveva l'impressione che la ragazza avesse una cotta per lui- ed era un'impressione che durava da circa due anni, quando avevano iniziato a lavorare da Starbucks-, quindi meglio tenerla a debita distanza: non avrebbe saputo come comportarsi nel caso gli avesse fatto una straziante dichiarazione d'amore, più che altro non sapeva come avrebbe dovuto risponderle senza rischiare di ridurla in lacrime. Aveva già provato a dirle che non era il suo tipo, che le ragazze in generale non lo erano, ma lei sembrava non aver capito. Non era mai stato bravo in quel genere di cose, Victor, il suo migliore amico e coinquilino, lo diceva sempre.

Sherlock ricambiò il saluto con un cenno del capo e un grugnito, dirigendosi nel frattempo verso il retro del negozio. Ripose sull'appendiabiti il cappotto, stando bene attento a riporre con cura sciarpa blu e guanti nelle tasche, poi prese il proprio berretto dal gancio dove l'aveva abbandonato il giorno prima e osservò il suo riflesso nel vetro della locandina pubblicitaria del locale incorniciata e appesa alla parete. Come sempre, si sentì un perfetto idiota: la t-shirt verde con il logo dell'azienda sul petto gli stava innaturalmente larga e quel maledetto cappellino con la visiera, dello stesso colore dell'ingrata maglietta, gli schiacciava i capelli contro la testa, facendolo sembrare una sorta di barboncino mal tosato. Quando poi abbassò lo sguardo verso il pavimento, la situazione non fece altro che peggiorare: le scarpe nere antiurto erano tremendamente pesanti, scomode e antiestetiche e... Dannazione, quei pantaloni erano tremendi. Erano beige e lui odiava il beige, che razza di colore era? Quella divisa era un insulto al genere umano a suo parere, niente da fare.

Tornò in negozio con uno sbuffo, raggiungendo Molly dietro al bancone. Quello Starbucks in particolare non era molto grande, per coprire un turno bastavano due persone e Molly in un modo o nell'altro faceva sempre in modo di affiancare Sherlock, un po' perché nessun altro voleva farlo, un po' perché in fondo lavorare gomito a gomito per cinque ore con la sua cotta non era affatto male. Il fatto che la suddetta cotta non se la filasse di striscio era un altro discorso, ma Molly era una ragazza tenace e non si sarebbe data facilmente per vinta, con somma disperazione di Sherlock.

"Dormito bene?" chiese, sorridendo. Sherlock arricciò il naso e rispose:

"Non ho dormito, dovevo lavorare."

"Hai trovato un secondo lavoro?" domandò Molly, sgranando gli occhi. Il ragazzo roteò gli occhi, irritato.

"Non essere stupida, Molly, stavo lavorando all'esperimento sulle cornee. L'acido che ho utilizzato non ha dato risultati soddisfacenti, la corrosione non è come la volevo io."

"Hai provato con l'acido cloridrico?"

Sherlock si irrigidì, spalancando gli occhi; poi, lentamente, sorrise.

"L'acido cloridrico. Sì, potrebbe andare bene! Devo assolutamente fare una prova, potrebbe essere la volta buona!" esultò e Molly sorrise lievemente.

"Lieta di esserti stata utile... Ho già fatto io l'inventario della mattina, c'è tutto e ho preparato già le macchine per i caffè, cappuccini... Oh, è arrivata la nuova miscela per il frappuccino, questa è all'Eggnog. Sai, per Natale."

"Manca ancora un mese e mezzo a Natale."

"Beh, Halloween era settimana scorsa, ora che hanno ritirato il latte alla zucca e i pipistrelli di zucchero devono iniziare con i drink per le feste. Entro fine mese dovrebbero arrivare anche le nuove divise natalizie, a quanto pare quest'anno il cappellino sarà a punta, di panno verde e rosso e con un campanellino in cima. Chissà se ci daranno anche le bretelle rosse e bianche, come quelle dell'anno scorso, te le ricordi?"

"Purtroppo sì e non ci tengo a rivederle. Sono le cinque e trenta, vai ad aprire la porta." disse Sherlock, iniziando a disporre i dolci per la colazione nell'espositore. Molly sospirò e roteò gli occhi, cercando di non farsi scoraggiare dall'atteggiamento scontroso del ragazzo, poi si diresse verso la porta e girò il cartello attaccato al vetro, rendendo visibile la scritta "Open!".

Sherlock e Molly si conoscevano da due anni, ormai. Avevano iniziato a lavorare da Starbucks praticamente insieme e dopo qualche giorno Sherlock aveva dedotto che la ragazza avesse bisogno di denaro per pagarsi gli studi, l'affitto, cibo e bollette, vestiti e qualsiasi altro bene di prima necessità: a quanto pareva la sua famiglia viveva lontano e non era in grado di supportarla economicamente, perciò Molly, pur di inseguire il sogno di diventare medico legale, si era resa indipendente, facendosi in quattro pur di guadagnare qualche soldo. Sherlock non glielo aveva mai detto, ma in fondo l'ammirava molto: quella ragazzina bassa e minuta, sempre disponibile a dare una mano e un sorriso a chiunque, aveva una tempra d'acciaio e una determinazione non comune; era gentile e cortese con tutti, ma non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno, nemmeno quando si era trasferita a Londra completamente sola, a diciott'anni. Era ammirevole, lo pensava davvero.

Molly tornò dietro al bancone, calcandosi meglio il berretto verde sulla testa e aggiustandosi la coda di cavallo mentre Sherlock lanciava un'occhiata torva ai primi clienti della giornata, già intenti a discutere su quale frappuccino provare. Sin da quando aveva iniziato a lavorare in quel posto dimenticato da Dio, Sherlock si era sempre chiesto quale mentecatto avesse partorito quel nome francamente privo di senso. Forse era perché quegli intrugli disgustosi, in cui il ghiaccio galleggiava in mezzo a ondate di orrenda schiuma, nelle sue intenzioni dovevano essere una sorta di strano miscuglio tra un cappuccino e un frappé, due cose che non avevano nulla a che fare con l'altra, oppure perché in preda ad una crisi creativa senza precedenti aveva utilizzato un generatore casuale di nomi e voilà, ecco il nome del nuovo prodotto. Sherlock non avrebbe saputo dire quale fosse l'alternativa peggiore.

E poi, oh, poi c'erano i clienti: Sherlock li detestava tutti, dal primo all'ultimo. Detestava le ragazzine in età prepuberale che gli rompevano incessantemente le palle per avere il loro nome su un bicchiere, solo per farsi un ridicolo selfie- grazie a Dio la duckface era passata di moda, altrimenti si sarebbe volentieri sparato il caffè bollente dritto nelle orbite pur di non vederle- da postare su Instagram; detestava i vecchietti che non riuscivano a leggere i tabelloni con i menù e chiedevano a lui cosa potessero prendere e "Ma quanto caffè c'è in questa bibita? Ah non c'è caffè? E cosa c'è?" e a quel punto partivano in una infinita sequela di malattie e disturbi per cui non potevano mangiare questo o quello; detestava gli uomini e le donne d'affari che prima gli mettevano fretta perché "Giovanotto, ho un meeting tra ventitré minuti, sbrigati con quel ginseng" e poi lo facevano aspettare un'eternità per ritirare il loro ordine perché nel frattempo avevano ricevuto una importantissima chiamata che proprio non potevano rimandare e quindi lui restava lì, fermo come un pirla con quel dannato ginseng in mano.

Infine c'erano loro: i suoi compagni di università. Fashion bloggers, secchioni, zotici sportivi, bohémiens, gente a cui importava solo sbronzarsi e fare feste... C'erano tutti. E ognuno di loro aveva le sue preferenze, rispettivamente: frappuccino alla vaniglia con panna e fragole, categoricamente con latte scremato e senza zucchero, calorie zero perché la linea prima di tutto; caffè nero lungo, per restare svegli ore e ore con una sola sorsata; latte al cioccolato variegato al caramello con panna e granella di nocciole, rigorosamente accompagnate da dolcetti al cioccolato che grondavano burro e glassa di zucchero; tè e tisane alle erbe, in alternativa smoothies alla frutta rigorosamente green; agli alcolisti anonimi, invece, andava bene tutto, l'importante era che fosse pesantemente corretto con un alcolico e di solito Sherlock rifilava loro i fondi del caffè con un po' d'acqua spacciandoli per vodka aromatizzata, facendola franca solo perché erano troppo ubriachi per rendersi conto di cosa stessero bevendo. Sherlock odiava tutti loro, davvero. Tutti, tranne uno.

Normalmente, dopo aver aperto, Sherlock passava le prime ore di turno fissando l'orologio, aspettando con ansia le otto e cinque, l'ora in cui, ogni mattina, lui entrava in negozio, faceva la fila e ordinava sempre le stesse cose, un dolce alla cannella e un latte macchiato al caramello, d'estate sostituito da un frappuccino allo stesso gusto. Chiunque altro avesse ordinato un latte macchiato o un frappuccino al caramello con panna doppia e glassa si sarebbe guadagnato l'odio perpetuo e completamente ingiustificato di Sherlock nei suoi confronti, ma... Semplicemente, non lui. Sherlock ci aveva provato, davvero, aveva provato a farselo stare antipatico e a detestarlo, come faceva con chiunque altro, ma per qualche strana ragione, non ci riusciva. E lo spaventava.

Dopo due ore e mezza passate a servire a clienti irritanti bevande altrettanto moleste, il campanello della porta d'ingresso tintinnò di nuovo e Sherlock sollevò di scatto lo sguardo, puntandolo come un cane da caccia verso l'uscio. E come ogni mattina, per qualche attimo si scordò come respirare: eccolo lì, l'unico ragazzo che Sherlock non aveva mai odiato- a parte Victor, ma Victor meritava un discorso a parte-, che in qualche modo... Gli piaceva. Dio, quel ragazzo gli piaceva davvero tanto e sinceramente non sapeva nemmeno spiegarsi razionalmente il perché.

Si chiamava John Watson, aveva ventidue anni e frequentava il quinto anno alla facoltà di medicina: voleva diventare medico, salvare vite umane dalla morte e aiutare le persone a stare bene. Un nobile intento, che denotava una personalità altruista e gentile, sempre pronta a dare una mano a chi ne aveva più bisogno. Aveva i capelli biondi e gli occhi blu, John, del colore dell'oceano profondo; le labbra erano sottili e sempre distese in un sorriso, il naso un po' a patata, ma Sherlock non riusciva a odiare nemmeno quello. Lavorava lì da tre giorni, quando l'aveva visto per la prima volta: l'anno accademico era appena iniziato e Sherlock aveva già capito che i suoi professori non avrebbero potuto insegnargli nulla che già non sapesse e che quindi, se voleva ottenere la laurea, avrebbe dovuto passare gli anni seguenti ad annoiarsi a morte, cercando di trovare altrove stimoli per tenere occupato il suo cervello sovreccitato. Quel giorno in particolare, Sherlock stava sfogliando annoiato il libro di testo, classificandolo quasi immediatamente come mortalmente noioso e banale. Quel pomeriggio avrebbe avuto lezione, ma stava già ponderando di chiudersi in un laboratorio e portare avanti le ricerche e gli esperimenti per conto suo.

I corsi erano cominciati da poco, quindi gli studenti non invadevano ancora in massa il locale prima dell'inizio delle lezioni e i dipendenti avevano ancora un po' di tempo libero e di respiro, concessioni che a breve sarebbero state brutalmente strappate via dall'orda di clienti. Quella mattina Molly si era offerta di occuparsi dei pochi clienti presenti, lasciando a Sherlock campo libero per farsi gli affari suoi. Verso le otto, Holmes aveva sentito delle voci di ragazzi avvicinarsi rumorosamente all'ingresso e mentalmente si era già preparato una sequela infinita di battute al vetriolo e commenti sarcastici, ma non appena la porta si aprì, facendo tintinnare il campanello, e lui ebbe alzato lo sguardo, ogni proposito bellicoso gli era morto sulle labbra. C'erano tre ragazzi: uno basso, un po' robusto, dall'espressione gioviale e gli occhi chiari nascosti dietro ad un paio di occhiali da vista; un altro più alto e atletico, i capelli scuri gli coprivano la fronte ma non gli occhi castano scuro e si stringeva in un luogo trench scuro per ripararsi dal vento fresco di inizio autunno; l'ultimo... L'ultimo era semplicemente lui. Sherlock non era riuscito a pensare ad altro se non È lui, anche se tutt'ora faceva fatica ad attribuire un senso a quel pensiero.

Ricordava distintamente ogni particolare del John di quel giorno, come se avesse una sua fotografia impressa a fuoco dietro le palpebre: i capelli dorati erano più lunghi all'epoca, sparati un po' per aria e qualche ciocca minacciava di coprirgli gli occhi blu, mozzafiato sin da quel giorno; le labbra sottili erano piegate in un sorriso divertito mentre scherzava con gli altri due ragazzi e ai lati della bocca si formava l'ombra di una fossetta; Sherlock non aveva potuto fare a meno di ammirarlo da lontano, incantato. John aveva sempre avuto qualche cicatrice dovuta all'acne adolescenziale sulle guance, ma non abbastanza da rovinare il suo aspetto. No, per quello bastavano gli orrendi maglioni che indossava, un combo terrificante con quelle camice a quadri dai colori francamente inabbinabili tra loro. Sherlock aveva amato da subito anche quel particolare di lui: quel giorno, quella primissima volta, indossava jeans, un maglione color vinaccia e una camicia color crema con dei rombi rossi o comunque qualcosa del genere. Orrenda, davvero. Molly aveva preso la sua ordinazione e quando l'aveva chiamato per ritirare il suo frappuccino al caramello, Sherlock aveva udito forte e chiaro il suo nome: John.

Da quel giorno, ogni giorno, Sherlock l'aveva osservato da lontano, senza mai interferire nella sua vita: John era così vitale e allegro e generoso e... Cosa mai avrebbe potuto dargli un tipo come lui? Un tizio strambo fissato con la chimica, detestato da tutti e senza alcuna attrattiva per attività sociali di qualsiasi tipo? Nulla, Sherlock lo sapeva. Sapeva che John Watson era decisamente fuori dalla sua portata, probabilmente non si era nemmeno mai accorto della sua esistenza, ma alla fine a lui andava bene così. Non avrebbe sopportato il conoscerlo solo per vederselo strappar via subito dopo, era meglio osservarlo da lontano, dedurre come andasse la sua vita e... Sì, continuare a fantasticare su ciò che non sarebbe mai stato. Perché, sebbene si spacciasse per uno stronzo insensibile, Sherlock ce l'aveva, un cuore. E ogni volta che vedeva John Watson, batteva un po' più forte, per poi spegnersi lentamente ogni volta che se ne andava.

Quel giorno John era da solo, registrò Sherlock quando il ragazzo si chiuse la porta alle spalle: lanciando un'occhiata veloce al l'orologio appeso alla parete, notò che John era in anticipo di cinque minuti rispetto al solito. Strano, non è da lui pensò. Aveva i vestiti spiegazzati e in disordine, i capelli sparati in tutte le direzioni e sembrava stanco, giù di corda; Holmes iniziò a dedurre alla velocità della luce informazioni che potessero aiutarlo a capire cosa gli fosse successo.

Occhiaie profonde, non ha dormito; aria sciupata e contrariata, problemi che lo affliggono e lo hanno tenuto sveglio; non ha libri con sé, quindi non si tratta di un esame imminente, ma di una questione personale; non è un problema di natura economica, non sarebbe venuto a fare colazione in un bar e quindi spendendo denaro che avrebbe potuto risparmiare facilmente; non è in compagnia, di solito lo è sempre e oggi è anche in anticipo, dunque vuole restare da solo ed è venuto qui prima pur di non incontrare nessuno; se avesse litigato con un amico, sarebbe stato arrabbiato con lui, ma John non è un codardo, quindi non avrebbe cercato di evitarlo pur di non affrontarlo; famiglia e professori non c'entrano, altrimenti evitare gli amici non avrebbe avuto senso, ergo si tratta di qualcuno che conoscono bene anche loro; sguardo triste e sofferente, sta soffrendo e non si tratta di un litigio, altrimenti sarebbe solo arrabbiato e di nuovo, evitare gli amici non avrebbe alcun senso. Conclusione: ha rotto con... Oh. Ha rotto con Mary.

Sherlock dedusse tutto nell'arco di pochi attimi, il tempo necessario affinché John si mettesse in coda e avanzasse di qualche posto. Mary era la ragazza storica di John: quando l'aveva conosciuto- o meglio, visto la prima volta, loro stavano già insieme da tempo, fatto che lo fece deprimere seriamente per giorni e giorni. Da quanto aveva appreso, lei e John avevano la stessa età e studiavano entrambi medicina, l'unica differenza era che lui lo faceva per diventare dottore, lei infermiera. Era sempre stata carina, con un paio di luminosi occhi verdi e i capelli biondi - inizialmente corti, lisci e molto chiari, poi lunghi fino alle spalle, ricci e di un corposo color grano. Sembrava una ragazza in gamba, sveglia e affabile, sempre allegra e sorridente; qualche volta aveva anche scambiato con Sherlock qualche parola e lui, nonostante tutto, non era riuscito a detestarla come avrebbe voluto. L'aveva invidiata sempre e comunque, sin dal principio, ma odiata mai.

Tutto sommato, si ritrovò dispiaciuto per loro: li aveva sempre visti bene insieme, nonostante in passato avesse tanto voluto essere al posto di lei. Però, se John era felice, a lui andava bene lo stesso e con Mary lo era stato davvero e anche tanto. Era da un po' che effettivamente non li vedeva più insieme e più volte nei corridoi aveva sentito qualcuno parlare di un loro recente litigio, ma, non avendo mai avuto esperienze concrete, pensava che in una coppia quella fosse l'ordinaria routine. A quanto pareva, aveva completamente sbagliato.

"Sherlock!"

La voce di Molly lo richiamò alla realtà e per la sorpresa, Sherlock quasi lanciò nell'espositore il muffin ai mirtilli che teneva in mano con l'apposita pinza da diversi minuti a quella parte. Rivolse uno sguardo irritato a Molly e chiese, secco:

"Cosa c'è?"

"Potresti occuparti tu dei prossimi clienti, per favore? Ce ne sono solo due e io devo servirne ancora quattro." rispose lei, indicando con un cenno del capo i due clienti rimasti. Uno di loro era John. Cazzo. Boccheggiò per qualche istante, poi balbettò:

"I muffin, io... D-devo metterli ancora a posto e poi ci sono quelli al caramello e i dolci alla cannella, non... Sì, ecco, devo ancora ordinarli e-"

"Sherlock, per favore!" lo implorò lei e il ragazzo, dopo un attimo di esitazione, annuì con un sospiro. Molly sorrise e abbandonò la postazione in cassa, avvicinandoglisi e stampandogli un bacio sulla guancia mentre raggiungeva il bancone.

"Grazie." mormorò e lui rispose con un grugnito, avviandosi con passo da condannato al patibolo verso la cassa. Non aveva spiccicato parola con John per due anni, l'aveva spiato come uno stalker maniaco per tutto quel tempo senza mai avere il fegato di dirgli un singolo ciao e ora... Ora avrebbe dovuto fare un'intera conversazione con lui, per quanto asettica ed elementare fosse. E l'avrebbe fatto proprio nel giorno in cui John aveva appena rotto con la sua ragazza. Che tempismo di merda.

"Buongiorno, benvenuto da Starbucks, cosa posso servirle?" chiese meccanicamente Sherlock al primo cliente, un ometto stempiato sulla cinquantina con occhiali e un completo dozzinale, senza però mai staccare lo sguardo da John, momentaneamente occupato a fissare il pavimento con aria vacua. L'uomo in giacca e cravatta disse qualcosa, ma Sherlock, troppo distratto a osservare John, non ascoltò una parola.

"Scusa? Hai sentito quello che ho detto? Yu-huu, c'è nessuno?" esclamò il tizio, sventolandogli una mano davanti al naso. Sherlock sbatté le palpebre, rivolgendogli un'occhiata infastidita.

"Mi scusi, stavo-"

"Non mi interessa, ragazzino, mi stai facendo perdere tempo! Credi di essere in grado di prendere un ordine o cosa?" chiese quello, inviperito. Se non fosse stato sul luogo di lavoro, Sherlock l'avrebbe disintegrato, ridotto in lacrime come un bimbetto. Sfortunatamente però aveva bisogno di quell'impiego: di lì a pochi giorni avrebbe dovuto acquistare dei nuovi acidi per i suoi esperimenti, quei soldi gli servivano. Strinse le palpebre e ringhiò, cercando di controllare l'impulso di rispondere a tono a quell'idiota e farlo pentire di essere entrato in quel dannato bar:

"Sono desolato, mi scusi, se ora volessimo proseguire-"

"Voi baristi siete uno peggio dell'altro, non avete un minimo di professionalità! Vi fate gli affari vostri e se un cliente onesto vi fa notare le vostre colpe, fate i santarellini e vi scandalizzate, come se-"

"Ehi, amico, non so se abbia sentito, ma le ha già chiesto scusa per ben due volte. Non le sembra di esagerare?" proruppe una voce alle sue spalle e quando l'uomo si voltò per capire chi diavolo avesse osato parlare, Sherlock vide con stupore che John stava fissando in cagnesco il tizio con un'espressione irritata in volto, le braccia conserte sul petto. Quello sbatté un paio di volte le palpebre con fare incredulo, poi sbottò, oltraggiato:

"Ma come ti permetti, ragazzino, tu non sai con chi hai a che fare! Io sono un diretto collaboratore del Capo della Polizia!"

"E io sono uno studente di medicina perfettamente in grado di prenderla a calci in culo nel caso continuasse a trattare questo ragazzo di merda: sta facendo il suo lavoro, lei lo stronzo e non penso proprio rientri nei compiti della sua professione." rispose John, facendo una smorfia. Il diretto collaboratore del Capo della Polizia strinse le palpebre e sibilò:

"Potrei farti arrestare per questa tua brillante uscita, giovanotto."

"E io potrei spaccarle tutte le ossa del corpo chiamandole per nome. Come la mettiamo?" ribatté John, secco e l'uomo spalancò lievemente gli occhi, sgomento. Sherlock, dal canto suo, stava fissando John letteralmente a bocca aperta: l'aveva difeso, si era esposto per lui. E non lo conosceva nemmeno. Era una sensazione strana, ma sentì un lieve calore scaldargli il petto. Era piacevole, in fin dei conti. L'uomo dopo qualche attimo tornò a guardare Sherlock e ringhiò, mantenendo a stento un tono di voce civile:

"Un caffè americano venti (1), per favore."

"Vuole qualcosa da mangiare?"

"Te l'ho chiesto?"

"No, ma se non chiedo non mi pagano. Dunque?" domandò candidamente Sherlock e il poliziotto lo fissò in cagnesco.

"Una girella al cioccolato." disse, digrignando i denti. Sherlock annuì e inserì l'ordine nel computer.

"Sono quattro sterline e ottantanove."

"Eccone cinque, tieni il resto."

L'uomo gli passò una banconota da cinque sterline e Sherlock la mise in cassa. Subito dopo chiese:

"Nome?"

"Prego?"

"Il nome, a nome di chi devo fare l'ordine?" chiese nuovamente, alzando gli occhi al cielo. Il poliziotto storse il naso, poi disse, secco:

"Bill."

"Bene, Bill, ecco il suo scontrino. Quando il suo ordine sarà pronto, la chiameremo al bancone."

"Quanto ci vorrà?"

Sherlock fece un sorrisetto.

"Il tempo necessario, signore." rispose soltanto e Bill, più scazzato che mai, si fece da parte borbottando. John lo seguì con lo sguardo e Sherlock giurò di vedere una nota di pura soddisfazione brillare nei suoi occhi. Subito dopo, il ragazzo tornò a guardare davanti a sé e avanzò, fino a fermarsi esattamente davanti alla cassa. Inclinò un tantino la testa di lato, poi chiese, gentile:

"Tutto okay?"

"Certo. Sì, certo, sto... Bene."

"Mi fa piacere."

Sherlock annuì e abbassò lo sguardo, poi mormorò:

"Quello che hai fatto... È stato gentile da parte tua. Non necessario, ma gentile."

John si strinse nelle spalle e rispose:

"Non mi sono mai piaciuti i bulli: tu stavi facendo il tuo lavoro e quel tizio non aveva nulla da rimproverarti, capita a tutti di distrarsi. In più ti sei anche scusato, quindi era davvero un'angheria bella e buona, gratuita ed insensata. Non ne vado matto."

"Sei una sorta di paladino della giustizia, dunque." commentò Sherlock, prima di riuscire a controllare ciò che gli usciva di bocca. A volta faceva fatica ad applicare un filtro a ciò che pensava e, più frequentemente di quanto fosse opportuno, capitava che dicesse letteralmente tutto quello che gli passava per la testa. Tipo quella volta: non appena si rese conto della profonda nota di sarcasmo che gli era uscita, Sherlock desiderò ardentemente morire. Il ragazzo per cui aveva una cotta da tempo immemore non solo gli aveva parlato, ma l'aveva difeso, si era esposto per lui con un ufficiale di polizia. E lui cosa faceva? Lo sfotteva. Idiota, Sherlock, sei un povero idiota pensò, mantenendo lo sguardo fisso sulla cassa solo per impedirsi di prendere a testate il bancone e uccidersi.

"Qualcosa del genere, sì... E tu, invece? Sembra tu abbia una bella lingua lunga, come mai non gli hai risposto a tono?" disse John, divertito. Sherlock alzò di scatto lo sguardo su di lui, basito. John sembrava sinceramente incuriosito e per Dio, non se l'era presa. Anzi, era come se ci stesse ancora ridendo su. Si schiarì la voce e rispose, sfiorando con le dita il bordo del bancone:

"L'avrei fatto, ma... Ho già avuto esperienze del genere in passato. Ho reagito e diciamo pure che il mio capo non ha gradito avere ragazzini piangenti e donne urlanti nel suo ufficio a lamentarsi. Mi ha dato una sorta di ultimatum, del tipo 'fallo ancora e ti licenzio' o qualcosa del genere, non ricordo le parole esatte."

"Simpatico, il tuo capo."

"Non ne hai idea." commentò Sherlock con una smorfia e John rise. Sherlock sorrise di riflesso, osservando il modo in cui il viso del biondo cambiava quando rideva: sembrava una persona totalmente diversa da quella che era entrata poco prima nel locale e il barista si sentì un po' più leggero nel constatare che, almeno momentaneamente, John sembrasse tornato quello di sempre. Il ragazzo tornò a guardarlo, osservandolo con attenzione. Sherlock sentì il proprio cuore iniziare a battere all'impazzata sotto l'esame di quelle iridi blu e l'ombra di un sorriso che ancora piegava le labbra del ragazzo davanti a sé.

"Sai..." iniziò John e Sherlock dovette fare uno sforzo enorme per starlo a sentire e non fissargli le labbra come un maniaco, "Hai una faccia familiare, ho come l'impressione di averti già visto... Anche se ad essere onesto non ricordo dove."

Sherlock sospirò e rispose, arricciando il naso in una lievissima smorfia:

"Suppongo siano cose che capitano quando lavori qui da due anni e sei qui a servire caffè ogni mattina o pomeriggio."

"No, no, aspetta: tu lavori qui da due anni?!"

"Eh già."

"Tanto per sapere, non è che magari frequenti anche l'Università?"

"Terzo anno, facoltà di chimica."

John lo fissò sconvolto, poi disse, stringendo lievemente le palpebre:

"E quindi stai dicendo che, nonostante tu sia qui da due anni, in tutto questo tempo non ci siamo mai parlati? Seriamente?"

"Io non... Non sono un tipo molto socievole." E poi, a dirla tutta, quando venivi qui io mi eclissavo dietro al bancone, quindi...

"Oh. Beh... È un peccato." mormorò John e stavolta fu Sherlock a rivolgergli un'occhiata perplessa.

"Stai scherzando o...?"

"Dovrei?"

"Sì: di norma chiunque abbia a che fare con me ringrazia tutti i santi del paradiso per il mio non essere socievole, dato che in questo modo hanno a che fare con me il meno possibile."

"Beh, però io non sono chiunque, no?" mormorò John, tranquillo e Sherlock cercò di ignorare il fatto che il suo stomaco avesse appena fatto una pericolosa capriola nel suo addome. Si schiarì la voce e gracchiò, cercando (senza successo) di apparire sicuro di sé:

"Se pensi che il trovarmi simpatico ti renda in qualche modo speciale, ti avverto: sei totalmente fuori strada."

"Me ne farò una ragione." mormorò John in risposta e Sherlock, deglutì, senza sapere cos'altro aggiungere. Pensa in fretta, non dare a vedere il tuo... disagio? Forse no, è solo imbarazzo e- Per Dio, non farglielo vedere! Sherlock si schiarì la voce e chiese, rivolgendo un cenno del capo al menù appeso dietro di lui:

"Allora, cosa prendi? Il solito?"

"Perché, avrei un solito?"

"Latte macchiato al caramello con panna doppia e glassa in inverno, frappuccino al caramello con panna doppia e glassa in estate, in entrambi i casi accompagnati da uno di quei dolcetti alla cannella, quelle cose svedesi. Ti piace proprio tanto, quella roba." commentò Sherlock con una smorfia e John lo fissò in silenzio, scioccato.

"Fate così con tutti i clienti?" chiese dopo qualche attimo, cauto. Sherlock cercò di restare tranquillo e rispose, stringendosi nelle spalle:

"Solo con quelli che lo meritano."

"Non so cosa significhi, ma... Va bene. Okay, senti, facciamo così: voi conoscete bene i vostri clienti, giusto?"


"Fossi in te non generalizzerei, non è da tutti."

"Però da te sì."

"Sono bravo a decifrare le persone. Molto bravo."

John sorrise, poi disse, appoggiandosi al bancone:

"D'accordo, Mr. Mentalista. Ti propongo una sfida."

"Una sfida? Di che tipo?"

"Beh, se sei davvero così bravo a decifrarmi come dici... Dammi ciò che voglio prima ancora che io sappia di volerlo."

Sherlock sbatté un paio di volte le palpebre, perplesso.

"Mi stai dando carta bianca sulla tua colazione, in pratica." osservò e John annuì lentamente, arricciando appena le labbra.

"Come l'avevo messa io era più intrigante, ma... Sì. Sì, in pratica è questo."

John gli allungò una banconota da dieci sterline, che Sherlock fissò in trance per qualche secondo. Quando riportò lo sguardo sul ragazzo, John sorrise e affondò le mani nelle tasche della giacca, arretrando di qualche passo.

"Nel caso tu non sappia il mio nome, sono John. Ora datti da fare, Houdini: stupiscimi." disse, facendogli l'occhiolino. Dopodiché, si allontanò del tutto, andando a sistemarsi ad uno dei tavoli liberi. Sherlock fissò la banconota, ancora un tantino sotto shock. Poi serrò la mascella e iniziò ad inserire l'ordine nel computer, stampando uno scontrino e ritirando il resto. Ripose tutto nella tasca dei pantaloni, pronto a restituirlo a John non appena avesse preparato bevanda e dolce. John l'aveva sfidato: pensava che non sarebbe riuscito a stupirlo? Bene. Gli avrebbe dimostrato il contrario, poteva scommetterci. Era la sua occasione per impressionarlo, Sherlock lo sapeva benissimo e, che Dio lo fulminasse in caso contrario, non se la sarebbe lasciata scappare.

Molly, intenta a versare in un bicchiere venti un frappuccino al caffé ad una certa Zoey, gli rivolse uno sguardo a metà tra la confusione e il disagio. Sherlock era consapevole di avere uno sguardo allucinato negli occhi e un'espressione esaltata in viso, ma sinceramente non gli importava granché di come sembrasse dall'esterno: non si era mai sentito così vivo, non da quando aveva iniziato quell'insulso lavoro.

"Stai... bene?" gli chiese lei e Sherlock annuì, scartabellando freneticamente tra i vari barattoli e contenitori alla ricerca di quello che cercava.

"Dov'è la miscela per la cioccolata?" chiese, mentre faceva partire la macchina del caffè per l'Americano di Bill il poliziotto. Molly gli rivolse un'occhiata stranita, mentre consegnava a Zoey, una ragazza con i capelli verdi e blu, il suo ordine.

"L-la cioccolata?"

"Sì, Molly, esatto, lieto che tu ci senta, dove diavolo è quel barattolo?!"

"È sulla mensola, quella in alto a destra. Ti servono le spezie?"

"Caramello."

"È lì, guarda, accanto al frullatore."

"Che ci fa il caramello di fianco al frullatore?!"

"Non lo so, forse l'ho lasciato io lì poco fa. Mark e Steven!" chiamò Molly e due tizi, uno alto e magro dai capelli rossicci, l'altro più basso e tarchiato con i ricci neri, si avvicinarono al bancone, reggendo tra le mani plichi di quelle che sembravano sceneggiature. Molly sorrise e disse, porgendo loro due bicchieri tall colmi di cappuccio:

"Ecco i vostri cappuccini, ragazzi, buona giornata!"

I due salutarono Molly e si avviarono verso l'uscita con i loro bicchieri, mentre la ragazza tornava lentamente accanto a Sherlock, le mani incrociate dietro la schiena mentre lui armeggiava con latte, composto per cioccolata, caramello e alcune spezie che Molly non distinse. Era concentrato, raramente l'aveva visto così. Fece un sorriso nervoso e chiese, indicando con un cenno del capo il preparato:

"Sembra ottimo... Per chi è?"

"Un cliente."

"Okay..." mormorò Molly, esitante.


 

La giovane Molly Hooper gettò un'occhiata alle sue spalle, chiedendosi cosa accidenti stesse succedendo a Sherlock. Vide solo due persone intente ad aspettare il proprio ordine: l'uomo con cui Sherlock sembrava aver discusso poco prima e... oh no. John Watson. Molly non poté fare a meno di irrigidirsi. Conosceva John, non si poteva dire fossero amici, ma lo conosceva. Conosceva un po' meglio la sua ragazza, Mary: ogni tanto si incrociavano nei corridoi ed era capitato che si fermassero a fare due chiacchiere. In ogni caso, Molly era a conoscenza della fama del ragazzo: a medicina era una specie di rockstar, il migliore del suo corso; era popolare, amato da tutti, affabile, umile e gentile, praticamente il ragazzo perfetto. Era anche il capitano della squadra di rugby dell'Università, come se non fosse sufficiente.

Girava voce che prima di mettersi con Mary avesse anche passato i primi tre anni di università a fare il Don Giovanni e anche con discreto successo. Era carino, Molly non lo negava di certo: aveva la faccia onesta e gentile, pulita, quella del classico bravo ragazzo, ma aveva sentito dire che, oltre ad impersonare praticamente la fantasia di fidanzato ideale che ogni madre sognava per la propria figlia, ci sapesse decisamente fare anche sotto alle lenzuola. E che in quelle situazioni, avesse davvero ben poco del bravo ragazzo: non che fosse violento o chissà cosa, certo che no, ma dai racconti di alcune sue vecchie fiamme più che il ragazzo della porta accanto sembrava il Dio del Sesso.

Tuttavia, non erano le avventure del buon vecchio John con il gentil sesso a preoccuparla: da quanto ne sapeva, stava con Mary da due anni e prima di lei aveva frequentato seriamente solo un paio di altre giovani, limitandosi per il resto ad avventure di una notte e storie di solo sesso, ma voci di corridoio sostenevano che il giovane e aitante aspirante dottore non amasse solo la compagnia femminile. Molly aveva sentito dire che John fosse equamente interessato a ragazzi e ragazze, ma non aveva mai avuto conferme in proposito e fino a quel momento, ad essere onesti, non le era nemmeno mai interessato averne.

E Sherlock... Molly lavorava con lui da due anni, tutti i giorni lo vedeva e lo osservava. Era quindi impossibile non rendersi conto che John gli piacesse e anche tanto. Le bruciava? Sì e parecchio, se proprio doveva dirla tutta. Era da un po' che stava seriamente considerando di mettersi il cuore in pace e cercare di farsi passare quella imbarazzante cotta per Sherlock, andare avanti, ma alla fine aveva sempre rinunciato e continuato a farsi castelli in aria. Forse quella sarebbe stata la volta buona, anche se non stravedeva per quell'opzione. Aveva sempre saputo che Sherlock fosse interessato a John, ma il moro aveva sempre cercato di stargli alla larga, come se non volesse farsi coinvolgere o gli bastasse vederlo da lontano. E Molly, interpretando il suo comportamento come un ferreo (e anche un tantino disperato) tentativo di toglierselo dalla testa, aveva sempre pensato che prima o poi sarebbe arrivato il suo momento, che sarebbe riuscita a conquistarlo.

Quando aveva chiesto a Sherlock di occuparsi dei clienti non aveva visto John tra loro e quando aveva sentito quel tizio discutere con lui aveva udito anche qualcun altro intervenire, ma un cliente impaziente si era piantato davanti al bancone e le aveva ostruito la visuale, impedendole di vedere. Se si fosse accorta di John prima, dannazione, avrebbe fatto tutto da sola, anche a costo di tagliarsi in due per riuscirci. E invece aveva spinto Sherlock, il suo Sherlock, dritto nelle braccia di John Watson. L'unica consolazione che aveva era che, se non altro, John stava con Mary e, conoscendo Sherlock, non avrebbe mai fatto il terzo incomodo. Forse c'è ancora speranza, Molly. Tieni duro pensò, mordendosi appena il labbro mentre rivolgeva un'occhiata inquieta a John.






Sherlock guardò Molly con la coda dell'occhio, intenta a fissare un punto imprecisato alle sue spalle. Sembrava tesa, a disagio e Sherlock provò a dedurre il perché. Quando però vide cosa- o meglio, chi la ragazza stesse guardando, decise di rinunciare: era già tutto chiaro.

"Ti serve qualcosa, Molly?"

"Eh? Ah no, no, io stavo- no. Per chi è la cioccolata?"

"John Watson."

"Oh... Non lo facevo un tipo da cioccolata. Di solito prende sempre quella alla vaniglia Mary. Hai presente Mary, no? Mary Morstan. La sua ragazza, perché sai che John sta con lei, vero?"

"Stava, veramente." la corresse Sherlock e Molly si immobilizzò, gelata.

"Cosa? Si... S-si sono lasciati?" pigolò e Sherlock annuì.

"Sì, ma ti sarei molto grato se non lo urlassi ai quattro venti. È una cosa recente, probabilmente di ieri sera."

"E tu come lo sai? Cioè, che si sono lasciati, dico. Te l'ha detto John?"

"No, l'ho dedotto. Sai come funziona."

"Sì..." mormorò la ragazza, lanciando un'occhiata preoccupata in direzione di John.

Sherlock sentiva l'ansia e l'angoscia di Molly montargli addosso, attanagliarlo come una morsa e, quando notò un paio di persone alla cassa pronte ad ordinare, pensò che forse almeno loro sarebbero riuscite a tenere occupate Molly e la sua apprensione per un po'.

"Molly."

"Uhm?"

"Ci sono dei clienti in cassa, perché non vai a sentire cosa vogliono?" disse Sherlock,riempiendo un bicchiere di carta venti con il caffé americano di Bill il poliziotto. Molly annuì distrattamente, ma non si mosse di un passo. Dopo qualche attimo, Sherlock roteò gli occhi e sbuffò.

"Molly!"

La ragazza stavolta si voltò a guardarlo, confusa.

"Scusa, hai detto qualcosa?"

"La cassa, Molly. C'è gente in cassa."

"Oh, cielo, è vero, non me n'ero accorta!" esclamò la ragazza, correndo verso la clientela alla velocità della luce. E una è fatta. Sherlock tornò ad occuparsi del suo ordine. Il caffè di Bill era pronto e prese il pennarello per scrivere il nome del suo amico sbirro sul bicchiere, ma non era affatto soddisfatto. Quel tizio l'aveva messo in ridicolo, doveva pagargliela cara. Per qualche attimo ponderò cosa fare, magari del sale al posto dello zucchero sarebbe bastato; poi però gli venne un'idea migliore e si concesse un sorriso mefistofelico. Adesso mi diverto io, Billy lo Sbirro... pensò, scrivendo velocemente una scritta sul bicchiere.

Άντε γαμήσου, μπορείτε αιματηρή βλάκας

Rilesse più volte le parole scritte, controllando grammatica e sintassi, soddisfatto del risultato ottenuto. Alzando di nuovo gli occhi sulla saletta, si avvicinò al bancone e chiamò a gran voce il poliziotto.

"Bill!"

L'uomo si alzò e raggiunse placidamente il bancone, lanciando a Sherlock una sequela di occhiatacce. John, seduto poco distante da lui, sollevò la testa, incrociando lo sguardo di Sherlock. Il ragazzo cercò di non ridere e a quel punto John, incuriosito, si alzò a sua volta, raggiungendo il bancone con molta nonchalance e mantenendosi a distanza di sicurezza da Bill.

"Ecco il suo caffè e la girella, signore." disse Sherlock con un sorriso serafico, porgendo al cliente il suo ordine. Bill osservò critico per qualche attimo il proprio bicchiere, poi alzò lo sguardo su Sherlock e chiese, critico:

"Questo non è il mio nome. Che accidenti c'è scritto?"

"Dice: 'Grazie per la visita, torni a trovarci Bill'. È greco."

"Greco? A che serve il greco, perché non l'inglese?"

"È una campagna di sensibilizzazione verso le altre lingue e culture: Starbucks è in tutto il mondo, cerchiamo di diffondere i nostri valori in tutte le lingue e paesi." spiegò candidamente Sherlock e Bill serrò le palpebre, poco convinto. Sherlock notò con la coda dell'occhio John sporgersi appena verso l'uomo, quel poco che bastava per leggere a sua volta la scritta. Quando lo fece, lo vide girarsi di scatto e portarsi una mano alla bocca per impedirsi di scoppiare a ridere. Sherlock dovette mordersi l'interno della guancia per non fare lo stesso.

"D'accordo, come volete." borbottò Bill, portandosi il caffè alle labbra e bevendo un sorso, per poi avviarsi verso l'uscita e aprire la porta staccando un morso alla girella. Quando fu uscito, John scoppiò definitivamente a ridere, appoggiandosi al bancone con una mano e portandosi l'altra al petto, letteralmente piegato in due.

"Oh Dio, sto malissimo, non respiro... Ma come ti è venuto in mente?!"

"Perché, che cosa ho fatto di male?" domandò Sherlock, rivolgendo al biondo un finto sguardo ingenuo. John rispose con un ghigno e disse:

"Su quel bicchiere non c'era scritto per niente 'Grazie per la visita, torni a trovarci Bill'."

"Ah, no? E cosa c'era scritto?"

"Penso che 'Vaffanculo, maledetto idiota' (2) possa essere una traduzione piuttosto attendibile." rispose John e Sherlock spalancò lievemente gli occhi, piacevolmente sorpreso.

"Conosci il greco?"

"L'ho studiato un po' al liceo e qui i primi due anni: era greco antico, a dire il vero, ma capisco anche quello moderno. Aiuta parecchio con i nomi delle patologie e altri termini medici, è stato molto utile fino ad ora... Certo che quando si tratta di prendersi una rivincita su qualcuno, tu non lasci proprio scampo, eh?"

"Mi aveva urlato addosso, messo in imbarazzo e fatto passare per un idiota: se l'è meritato."

"La mia non era una critica." commentò John, rivolgendo a Sherlock un mezzo sorriso. Il ragazzo sentì le guance andargli in fiamme e si diede subito da fare per preparare l'ordine di John e consegnarglielo. Dopo pochi attimi, passò al ragazzo un sacchetto in carta cerata con la treccia svedese alla cannella (3) e un bicchiere Grande colmo di cioccolata bollente, il nome John vergato con una calligrafia elegante nell'esatto centro.

"La sua colazione, Dr. Watson: treccia svedese alla cannella, la sua preferita e cioccolata a sorpresa. Oh, qui c'è il resto." disse, consegnando a John cibarie e denaro. John aggrottò la fronte e commentò:

"Devo essere sincero, non mi aspettavo la cioccolata." Sherlock si umettò le labbra, riflettendo sulla risposta da dare.

"Dicono ... Dicono sia utile a trattare con un cuore spezzato. Non che io abbia mai avuto il piacere di provarci, ma... Sono voci che girano." rispose Sherlock e lo sguardo di John s'indurì, il suo viso si rabbuiò mentre abbassava gli occhi sulla sua cioccolata. Fece un sorrisetto amaro, scuotendo debolmente la testa, poi mormorò, facendo scorrere le dita sul bordo del bicchiere:

"Vedo che le voci girano in fretta. Ci siamo lasciati ieri sera ed è già notizia di dominio pubblico... Fantastico."

"No, non è di dominio pubblico."

"E allora tu come fai a saperlo?" chiese John, rivolgendogli un'occhiata stanca e Sherlock esitò qualche istante. Era indeciso, non sapeva cosa fare: da una parte, fremeva per la voglia di dirgli come l'avesse capito, quanto per lui fosse semplice osservare e dedurre di conseguenza; dall'altra, temeva che John l'avrebbe allontanato, nel caso avesse scoperto la verità. Nel corso della sua vita, erano state più le persone che lo avevano additato come "mostro" che quelle che l'avevano ammirato, una volta venute a conoscenza delle sue capacità. Normalmente Sherlock non se ne curava, ormai si era abituato a commenti del genere e ci aveva fatto il callo, ma con John... Con lui era diverso, anche se non sapeva perché. E in tal caso, sentirsi rivolgere l'ennesimo insulto sarebbe stato davvero troppo da sopportare.

Tuttavia, se davvero voleva in qualche modo entrare a far parte del mondo di John e viceversa, prima o poi avrebbe dovuto mostrarsi per quello che era, pregi e difetti. Se John doveva respingerlo per il modo in cui si comportava, il modo in cui pensava e ragionava, agiva, tanto valeva farlo subito e togliersi il dente. Per lo meno, se fosse andata male, sarebbe stato meno male che in futuro.

"Io l'ho... L'ho capito. Dedotto, a dire il vero." mormorò e John aggrottò la fronte.

"Che significa che l'hai dedotto? Come?" chiese e Sherlock sospirò, per poi esporgli con una certa riluttanza la catena di ragionamenti e osservazioni che l'avevano portato al risultato finale. Per tutto il tempo Sherlock si concentrò su differenti punti del locale, soprattutto tavoli vuoti e il bancone a cui era appoggiato. Non aveva il fegato di alzare lo sguardo e affrontare John durante il racconto, non era sicuro che sarebbe riuscito a restare concentrato. Quando ebbe finito, restò in silenzio per qualche attimo, imitato da John. Poi sospirò lievemente e mormorò:

"Ecco come ho fatto. Era piuttosto facile, tutto considerato."

"Facile... Io e te abbiamo concetti di facilità parecchio diversi."

"È possibile."

"È stato... Gesù, è stato-"

"Inquietante?"

"Strabiliante."

Sherlock sbarrò gli occhi e riportò di scatto lo sguardo su John, basito. Il giovane sembrava vagamente scioccato, ma non per l'orrore. Sembrava quasi piacevolmente colpito, fatto che confuse ancora di più il povero Sherlock.

"Cosa?" chiese, convinto di aver sentito male. John fece una risatina, grattandosi la nuca, poi disse, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi:

"È stato strabiliante. Non riesco a realizzarlo, insomma, nessuno normalmente riuscirebbe a capire tutte le cose che hai capito tu semplicemente guardando una persona, eppure ora che l'hai detto sembra così facile, così semplice e banale e... Davvero, è stato incredibile. Incredibile."

"Dici sul serio?" domandò Sherlock a fil di voce, cauto. John annuì con vigore, sorridendo.

"Certo che dico sul serio. Non te l'ha mai detto nessuno?" chiese lui di rimando e Sherlock scosse la testa.

"No. Non così." sussurrò e il sorriso di John scemò fino a spegnersi, trasformandosi in un'espressione a metà tra il dispiacere e la rabbia. Sherlock lo vide abbassare lo sguardo sulla sua cioccolata, probabilmente cercando le parole migliori da dire a quel punto. Probabilmente non ne trovò, perché dopo qualche attimo John prese lentamente in mano il bicchiere, portandosela alle labbra stando bene attento a coglierne il profumo. Assaggiò la bevanda e la assaporò con calma, Sherlock lo vide stringere un poco gli occhi mentre si concentrava per cercare di capire quali fossero gli aromi presenti.

"Com'è?" chiese Sherlock, mascherando a stento il nervosismo nella propria voce. John, bevve un secondo sorso, schioccò la lingua e rispose:

"Ha un gusto particolare: è caldo e corposo, speziato, ma c'è anche una nota fresca alla fine... Che cos'è?"

"Cioccolata al caramello aromatizzata con menta e cannella."

"È strana... Mi piace." disse dopo un po', rivolgendo a Sherlock un sorriso. Lui ricambiò di riflesso, quasi senza accorgersene.


"Te l'avevo detto che ero bravo a decifrare le persone."

"Adesso non te la tirare, hai azzeccato solo una cioccolata!"

"Per ora." commentò Sherlock con un ghigno e John ridacchiò, scuotendo lievemente la testa. Quando tornò a guardarlo, Sherlock perse un battito per colpa di quelle iridi, che lo stavano osservando con un interesse e un divertimento non trascurabile. Restarono in silenzio per qualche istante, semplicemente studiandosi a vicenda. Ad un tratto John si schiarì la voce, portando l'attenzione sul suo orologio da polso.

"Io... È tardi, tra poco ho lezione. È meglio che vada."

"Certo, tu... Certo. Buona giornata, allora."

"Anche a te. E grazie per... Sì, per tutto quanto."

"Non ho fatto niente."

John sorrise.

"Hai fatto molto più di quanto credi, invece. Bene, io... Ci si becca in giro, Mr. Mentalista."

"Ci vediamo, John."

John annuì e si voltò, avviandosi lentamente verso l'uscita mentre riponeva nella sua tracolla il sacchetto con la treccia. Sherlock lo seguì con lo sguardo, senza spostarsi di un millimetro. Quando raggiunse la porta, John mise una mano sulla maniglia, ma a quel punto si bloccò. Sherlock lo vide esitare qualche istante, come se stesse decidendo cosa fosse meglio fare a quel punto. Ad un tratto alzò lo sguardo, riportandolo sul ragazzo dai capelli neri. Alzò timidamente una mano in segno di saluto, rivolgendogli un sorriso appena accennato, ma sincero. Sherlock si ritrovò a fare lo stesso quasi senza accorgersene. Si scrutarono per alcuni attimi, dopodiché John abbassò la testa e uscì. Mentre varcava la soglia, Sherlock lo vide scuotere lievemente il capo, il suo sorriso farsi più ampio. Nonostante la tristezza nel vederlo andare via, fu un'immagine che riuscì a scaldargli il cuore.

Dopo che John fu uscito, a Sherlock sembrò che il locale fosse tornato vuoto, sebbene ci fossero ancora parecchi clienti. Erano quasi le otto e un quarto e di lì a poco Starbucks si sarebbe riempito di studenti diretti in università, ma a lui sarebbero sembrati tutti uguali, molesti, irritanti e uguali.

"Va tutto bene?" chiese Molly, appoggiandogli una mano sul braccio con fare materno. Sembrava sinceramente preoccupata e Sherlock si affrettò ad annuire.

"Sì, sì, tutto a posto. Ero solo- è tutto a posto. Hai finito con gli altri clienti?"

"Devo preparare ancora un Chai Tea Latte Grande (4), ma c'è già altra gente ad aspettare, quindi... Avrò ancora un po' da fare."

"Me ne occupo io."

Molly aggrottò la fronte, inclinando un tantino la testa di lato.

"Sei sicuro? Mi sembri un po'... Non so, scosso?"

"Sto bene. Ho solo bisogno di tenere la mente occupata con altro, il lavoro sembra una buona idea."

"Non pensi sarebbe meglio fermarti un attimo? Davvero, prenditi un attimo, io posso farcela da sola e-"

"Siamo nel bel mezzo del turno, Molly, non è il momento di riposarsi. Quindi per favore, dimenticati dei sentimentalismi e lasciami fare il mio lavoro." sibilò Sherlock, rivolgendo alla ragazza un'occhiata spazientita. Molly arretrò di un passo, colta alla sprovvista e sul suo viso apparve un'espressione ferita. Annuì e abbassò lo sguardo, torturandosi le mani mentre osservava la macchina del caffè.

"Hai ragione, forse è... È meglio che pensi al lavoro. Non volevo essere inopportuna. Perdonami." sussurrò, allontanandosi con aria affranta. Sherlock sentì un groppo alla gola guardando Molly andarsene a testa bassa: lei aveva cercato di metterlo a proprio agio, di supportarlo e lui l'aveva trattata malissimo senza alcuna ragione. Un improvviso senso di colpa sembrò quasi schiacciargli il petto. Emise un sibilo frustrato attraverso i denti, piegando le labbra in una smorfia.

"Molly, aspetta." disse di getto, prima che potesse ripensarci. Molly si voltò, sorpresa e gli rivolse uno sguardo cauto.

"Sì, Sherlock?"

Lui emise un respiro forzato, serrando e rilassando ritmicamente i pugni. Era come se stesse per fare qualcosa che gli richiedesse uno sforzo immane. Non che la verità fosse poi tanto diversa, riconobbe Sherlock con uno schiocco di lingua.

"Senti... Mi dispiace, okay? Ho fatto lo stronzo e non te lo meritavi, lo so. Scusa." bofonchiò, affondando le mani nelle tasche dei pantaloni e disegnando con un piede figure immaginarie sul linoleum del pavimento. Molly non rispose e, quando lui sollevò timidamente gli occhi per guardarla, notò che lo stava fissando, basita. Sherlock roteò gli occhi con una smorfia esasperata, poi esclamò, stizzito:

"Per l'amor di Dio, Molly, non stare lì a fissarmi!"

"Sì, io... Okay, scusa. Non ti fisso più, d'accordo." rispose Molly, imbarazzata e Sherlock sospirò:

"Molly, non c'è bisogno di abbassare lo sguardo e fare la martire ogni volta che ti parlo."

"Non faccio la martire. È solo che... È più forte di me. Tu sei così sicuro di te e autorevole e io-"

"Ehi, scusate! Io vorrei ordinare!" esclamò una voce femminile alle loro spalle e Sherlock, voltandosi di scatto, ringhiò alla donna:

"Un attimo, non vede che siamo occupati?!"

"Ma io-"

"Ce la fa a contare fino a dieci?"

"Cosa?"

"Le ho chiesto: è capace di contare fino a dieci?"

"Sì, certo che-"

"E allora lo faccia." tagliò corto Sherlock, fulminandola con lo sguardo. La donna tornò quieta, a metà tra la rabbia e la vergogna, ma restò in silenzio. Sherlock tornò a guardare Molly e, quando incrociò di nuovo il suo sguardo, vide l'ombra di un sorriso divertito incresparle le labbra sottili e, suo malgrado, non poté fare a meno di fare lo stesso. Restò in silenzio qualche istante, poi mormorò:

"So di non essere sempre gentile e premuroso e amichevole e così via, però... Questo non vuol dire che tu debba sempre sopportare in silenzio. Devi imparare a reagire, Molly. Se la situazione lo richiede, anche a mandarmi al diavolo."

Molly ridacchiò, tirando su con il naso. Sherlock sorrise appena e inclinò lievemente la testa, cercando di incrociare lo sguardo della ragazza: aveva gli occhi lucidi, ma sembrava felice, tutto sommato. Era rincuorante.

"Quindi d'ora in poi, anche se il tuo primo istinto sarà quello di abbassare il capo e lasciar correre, rispondimi, tienimi testa. Ho un carattere di merda, ne sono consapevole, ma questo non giustifica il fatto che tu debba soffrirne. E se ti terrò il broncio pazienza, poi mi passerà."

"Lo so. Sei sempre stato eccessivamente melodrammatico." mormorò Molly e Sherlock inarcò le sopracciglia.

"Quando ho detto d'ora in poi, non intendevo adesso." disse e Molly alzò lo sguardo su di lui, divertita.

"Ormai la frittata è fatta, temo dovrai portarne le conseguenze tutta la vita. Adesso muoviti, vai a lavorare: i clienti aspettano."

"Chi sei tu, cosa hai fatto a Molly Hooper?"

"Sta bene, non ti preoccupare."

"Temo di avere appena creato un mostro."

"Fattene una ragione. Su, vai a guadagnarti lo stipendio, smettila di cazzeggiare."

"Non sto cazzeggiando!"

"Ah no?" chiese Molly divertita, dirigendosi verso la macchina del caffè. Sherlock fece una smorfia, poi esclamò:

"Sei di ghiaccio, Hooper!"

"Mai quanto te!"

Sherlock non poté fare a meno di ridere.

"Scusa?!" esclamò la cliente di prima e Sherlock, facendo una smorfia seccata, sbottò:

"Arrivo, arrivo, un attimo!"

Sarebbe stata una lunghissima giornata.



 

Sherlock passò il resto della giornata a pensare a John, alla loro conversazione e a tutto quello che c'era stato quella mattina. Non che fosse successo chissà cosa, ma era già stato un incontro superiore a tutte le sue più ardite aspettative. Trascorse il pomeriggio, le ore di lezione, persino tutta la notte a rimuginare sull'accaduto e ogni volta gli sembrava sempre più di aver fatto la figura dell'idiota. In cuor suo sperava che John non la pensasse così, ma probabilmente, si disse Sherlock con una vena di amarezza, nemmeno si sarebbe ricordato di lui.

Il giorno dopo aveva il turno serale, dalle otto e mezza fino alla chiusura, all'una: era sabato e nessuno, nessuno voleva lavorare il sabato sera. Lui non aveva mai grandi impegni, era raro che avesse qualcosa di irrimandabile da fare. Così, facendo la felicità di tutti i suoi colleghi, di solito si offriva sempre volontario per coprire quel turno ingrato. Ogni volta Victor gli diceva che era un pazzo squinternato a sacrificare così il sabato sera e per tutta risposta Sherlock gli tirava in testa un cuscino, mettendolo a tacere.

La residenza studentesca non era molto lontano da Starbucks, un quarto d'ora a piedi circa, quindi Sherlock se la prese comoda. Indossava già la divisa- con suo sommo disgusto- e mancava all'appello solo l'odiato berretto con visiera, perciò era praticamente già pronto a prendere servizio. Non avrebbe lavorato con Molly quel giorno, lo sapeva: qualche giorno prima gli aveva detto che quel week-end sarebbe andata a Liverpool dai suoi, perciò aveva chiesto un paio di giorni di ferie. Non aveva però idea di chi avrebbe avuto in turno con lui: tra tutti i suoi colleghi, Molly era una dei pochi eletti che riusciva a tollerare e la cosa era reciproca. Non era un pensiero entusiasmante.

Già avvicinandosi alle vetrine, vide che il locale era deserto: sarebbe rimasto così ancora per un po', poi sarebbero arrivati gli ultimi clienti della giornata- di solito erano tutti studenti, era raro che ci fosse qualcuno sopra i venticinque- per il loro frappuccino serale. Per lo meno sarà una serata tranquilla. Magari riuscirò a leggere un po' pensò, un tantino rincuorato.

Quando varcò la soglia, per poco temette di trovarsi dinanzi a Philip Anderson e alla sua fidanzata Sally Donovan, di gran lunga gli esseri umani più irritanti che avesse mai conosciuto. Sally non lavorava lì, ma lei e Anderson erano sempre appiccicati, quindi dove andava lui c'era lei e viceversa. In ogni caso, o non c'erano o Sherlock aveva sempre entrambi tra i piedi. Lo detestavano, pensavano fosse una specie di mostro da quando aveva dedotto la loro tresca- all'epoca clandestina- due anni prima. Sherlock poteva affermare con sicurezza che il sentimento fosse assolutamente reciproco.

Quando invece vide Soo Lin Yao, secondo anno alla facoltà di archeologia, tirò un sospiro di sollievo. Soo Lin se ne stava sempre sulle sue, parlava raramente e quando lo faceva era per sciorinare nozioni su tazze di tè e antiche teiere cinesi, a quanto pareva erano la sua ossessione. Andavano d'accordo, lei e Sherlock. Più che altro perché non parlavano e nessuno dei due sembrava soffrirne.

"Ciao, Soo Lin."

"Ciao, Sherlock. Sei in turno tu stasera?"

"Sì. Perché, tu no?"

"No, me ne sto andando adesso."

"Ti prego, non dirmi che c'è Anderson o, peggio ancora, Dimmock."

Dimmock lo odiava: forse perché riconosceva che Sherlock fosse di gran lunga sveglio di lui. Era un tipo irritante, su questo non c'erano dubbi: non quanto Anderson e Donovan, ma anche lui riusciva a fargli saltare i nervi con estrema facilità. In più gli constava ammetterlo, ma quando lo metteva in ridicolo, Dimmock tendeva a non dargli grandi soddisfazioni. Con Anderson, invece, per lo meno si divertiva. "No, tranquillo: stasera c'è Sarah."

Sherlock dovette reprimere a stento l'impulso di correre fuori dal locale e non tornare più. Sarah Sawyer, come metà delle persone che in un modo o nell'altro entravano a far parte della sua vita, frequentava medicina e Sherlock aveva sempre fatto fatica ad ingranare con lei. Era troppo briosa e ficcanaso per i suoi gusti, troppo desiderosa di socializzare sempre e comunque. Inizialmente l'aveva semplicemente classificata come "molesta", ma non l'aveva mai reputata una grande minaccia. Poi venne a saperlo: l'anno prima del suo arrivo, Sarah aveva frequentato John per qualche tempo e non come semplici amici. La loro storia era finita poco dopo, senza urla e strepiti, in totale pace e armonia: erano rimasti amici, ma ogni volta che John entrava da Starbucks e lei era lì, Sarah iniziava a ciarlare e scherzare con lui, provocando in Sherlock un massiccio reflusso di bile.

Victor, dopo che Sherlock si era lamentato con lui riguardo alla questione, aveva provato all'inizio molto pazientemente- poi si era arreso e aveva perso ogni speranza al riguardo- a spiegargli che, nel mondo reale, le persone potevano anche sviluppare un legame d'amicizia a seguito di un rapporto romantico, che quello di John e Sarah era esattamente quel caso e che non c'era alcun bisogno che lui continuasse a comportarsi da pazzo isterico e iperprotettivo. Anzi, no: geloso. Perché lui era semplicemente quello: era geloso di John, pur non avendo mai scambiato nemmeno un saluto con lui. Non fino a quel giorno, per lo meno.

In ogni caso, lavorare con Sarah non gli era mai piaciuto e a fronte di quella novità lo faceva ancora meno. Entrò nel locale a testa bassa, dirigendosi digrignando i denti verso il retro. Sarebbe stata una lunga serata, ne era consapevole. Come sempre, eseguì il consueto rituale: si tolse sciarpa, guanti e cappotto, riponendoli con cura sull'attaccapanni; indossò il berretto con la visiera e si guardò allo specchiò, deprimendosi ancora una volta vedendo il suo riflesso. Detestava quel dannato cappello.

Tornò nel locale scuro in volto, trovando Soo Lin già pronta ad andarsene.

"Sarah dovrebbe arrivare tra poco, ti dispiace se io inizio ad andare?"

"No, va' pure. Me la sbrigherò da solo."

"D'accordo. Ah, qualcuno ha lasciato un messaggio in bacheca stamattina, me l'ha detto la ragazza nuova, come si chiama... Kathy qualcosa? Quella con i capelli rossicci che studia giornalismo, ha sempre le trecce."

"Kitty Riley."

"Sì, Kitty. Cielo, spero di ricordarmelo, prima o poi..."

"Sarà il solito cane smarrito."

"Non so, mi ha detto che l'ha portato un tizio biondo di cui non ricordava il nome ed era per 'il ragazzo moro che c'era qui ieri mattina'. Non è stata molto precisa, in effetti, ma pensò che prima o poi si scoprirà a chi si riferisse." disse tranquillamente Soo Lin, indossando trench e basco nel frattempo, ma a Sherlock bastò per avere un mezzo infarto. Un tizio biondo per il ragazzo moro di ieri mattina. Che sia... No, non ti illudere. Potrebbe essere una cosa tra clienti, tu che puoi saperne? pensò Sherlock.

La bacheca era appesa sulla parete opposta al bancone e ne occupava la maggior parte: era un tabellone in sughero ed era a disposizione per affiggere annunci, offerte di Starbucks, messaggi, a volte anche fotografie. Sherlock l'aveva sempre trovata una cosa stupida, ma in quel momento non riuscì a fare a meno di gravitarle attorno. Le si avvicinò lentamente, cauto, fino a trovarcisi davanti. La scrutò per qualche istante, alla ricerca di una new entry in mezzo a quella bolgia di fogli e cartoncini; dopo una manciata di secondi, vide poco distante da sé un foglio a righe piegato in quattro, con una scritta in penna blu- a giudicare dal tratto una semplice penna a sfera.

"To the black & curly haired guy who served me that amazing hot chocolate - aka Mr. Mentalist"

Sherlock sorrise, incredulo e staccò la puntina che teneva bloccato il foglio. Se lo rigirò in mano un paio di volte, sentiva il cuore battergli a mille e per un attimo temette che gli sarebbe esploso in gola. La calligrafia di John era chiara e tondeggiante, infondeva un senso di gentilezza e sicurezza... Ispirava fiducia ed era amichevole, per quanto una calligrafia potesse esserlo. La sua non era così, pensò Sherlock: nel complesso era elegante, aggraziata, ma non era piacevole come quella del biondo, era meno... gentile; le lettere non erano così distanziate come quelle di John, erano tutte attaccate, tra le parole c'era sempre uno spazio molto maggiore rispetto a quello che intercorreva tra i singoli caratteri e aveva un tratto secco, spigoloso e allungato. A volte, quando scriveva di fretta, faceva lui stesso fatica a decifrare cosa avesse annotato. Nel complesso, si poteva dire che il loro modo di scrivere riflettesse le loro personalità: John, gentile e affidabile, amichevole; Sherlock, scostante e freddo, altezzoso.

"Sherlock, io vado. Ci vediamo in settimana!" lo salutò Soo Lin, aprendo la porta con un sorriso e uscendo altrettanto velocemente. Sherlock emise un grugnito e fece distrattamente un cenno con il capo in segno di saluto, senza staccare lo sguardo dal foglio. Mentre Soo Lin si richiudeva la porta alle spalle, lo aprì lentamente, cercando di ignorare le dita tremanti. Righe di lettere e parole gli riempirono gli occhi e Sherlock, prima di mettersi a leggere, fece un respiro profondo per farsi coraggio: non sapeva cosa aspettarsi e sentiva uno strano mix di paura ed eccitazione a torcergli lo stomaco. Quando finalmente si decise, si appoggiò con la schiena al tabellone, immergendosi totalmente nella lettura.

Ciao, Mr. Mentalista,
ehi, sono John. John Watson. Probabilmente ti starai chiedendo "Chi?" e non posso nemmeno darti torto: vedrai centinaia di persone ogni giorno, pretendere che ti ricordi proprio di me sarebbe egocentrico da parte mia. Ci spero, certo, però a volte è utile essere realisti.

Sherlock sospirò: se John pensava che si sarebbe mai potuto dimenticare di lui, dei suoi occhi blu e il sorriso gentile, era davvero davvero fuori strada. Era più probabile l'opzione contraria, a ben guardare.

Se stai leggendo questa... cosa, probabilmente qualcuno dei tuoi colleghi ti ha detto che sono passato a cercarti- ovviamente senza buoni risultati. Se non sei tu, amico, molla l'osso e fatti gli affari tuoi. È una questione privata e preferirei restasse tale.
Comunque, dicevo: ieri pomeriggio, dopo le lezioni, sono passato a cercarti, ma un certo Philip- mi pare di averlo intravisto a medicina per il quarto anno, ma non ne sono sicuro-mi ha detto di non sapere chi fossi. Ho l'impressione che mentisse, la sua fidanzata ridacchiava lì accanto, ma voglio comunque credere che non lo sapesse davvero. Mi piace avere fiducia nelle persone, a volte ne ho anche troppa. Deformazione professionale, presumo.
La scena si è ripetuta identica stamattina, ma la ragazza a cui ho chiesto sembrava sinceramente confusa, come se non ti conoscesse per davvero. Quando dicevi di non essere molto socievole facevi proprio sul serio, eh?

Sherlock sorrise suo malgrado. Sapeva chi fosse Kitty, ma all'ultima riunione del personale, quella in cui il loro capo l'aveva presentata ufficialmente agli altri, lui aveva dato forfait e quindi non l'aveva mai vista di persona. Non che ne morisse dalla voglia, ben inteso.

Onde evitare di sprofondare in una specie di spirale senza uscita tutti i giorni ad ogni ora del giorno, ho deciso di lasciarti un biglietto. È più pratico e... Beh, posso riflettere meglio su cosa dire e come farlo.
Innanzitutto, volevo ringraziarti per ieri: ero un po' giù per Mary e la nostra rottura- anzi, più che essere giù ero proprio depresso. È stata una rottura "indolore", per così dire, di comune accordo. Ciò non toglie che abbia fatto comunque male. Sai come va in questi casi, no?

Sherlock fece una smorfia: no, non sapeva come andava in quei casi e prima di John non era nemmeno mai stato interessato a scoprirlo. Andò avanti a leggere, cercando di non far caso al senso di amaro in bocca.

Forse è anche per questo che, davanti agli insulti che ti ha rivolto quel tizio, ho reagito in quel modo. Non dico che normalmente non sarei intervenuto, se vedo qualcuno in difficoltà far finta di nulla non è nella mia natura- mia sorella Harriet dice che fare "il paladino delle cause perse" sembra essere la mia unica missione nella vita-, però probabilmente avrei gestito la cosa con più calma. E senza minacce di spedirlo fuori da Starbucks a calci nel sedere. A volte tendo a essere un po' troppo impulsivo, dovrei riflettere di più su ciò che faccio. In ogni caso, spero di non averti creato problemi; se così è stato, ti prego di scusarmi.

Sherlock serrò la mascella. Sentì la carta scricchiolare lievemente tra le dita mentre abbassava lo sguardo sul pavimento. Si è pentito.

Nel caso lo stessi pensando, no, non mi sono pentito. Quel tizio se l'è meritato e se fosse necessario, lo rifarei anche adesso. Okay, mi sono appena contraddetto, di solito non mi La mia unica preoccupazione è quella di non averti messo nei guai, perché ecco, sì, mi dispiacerebbe.

Sherlock sbatté un paio di volte le palpebre, incredulo. Poi, poco a poco, sorrise.

Avrei voluto dirti tutto questo di persona, ma non ti ho trovato. Ho provato a cercarti anche in università, ma sembra che nessuno ti conosca: uno dei ragazzi del terzo anno di chimica- perché è quella la tua facoltà, giusto? Oddio, non dirmi che ho chiesto nella facoltà sbagliata- se n'è uscito con un "di ragazzi mori e alti qui dentro ce ne sono tanti, non saprei". Bello, eh? Sono tipo un segugio. Un segugio incapace, però, uno di quelli che si perde a metà caccia e manda tutto in malora. Non sono stato nemmeno capace di trovarti chiedendo ai tuoi colleghi, figurati. Sto diventando patetico, lo so, scusami. È solo che... Dio, non ti conosco, non so nulla di te ed è parecchio frustrante. Ad un certo punto sono addirittura arrivato a pensare di averti immaginato- poi, grazie a Dio, ho chiesto al mio amico Mike se ti avesse mai visto e lui ha detto di sì, però non ti aveva mai parlato. Per lo meno so che esisti, ma è tutto ciò che conosco su di te. Non so neanche il tuo nome.

Sherlock si rese conto che era vero: non gli aveva detto come si chiamava. E a quel punto prima si diede del deficiente per non averci pensato prima, poi però sentì un piacevole calore al petto. Il motivo era semplice, facilmente intuibile: John l'aveva cercato. Dovette reprimere con forza l'impulso di sorridere come un idiota.

So che suonerà parecchio strano e forse anche un tantino inquietante, ma anche se non ci conosciamo, sei riuscito a risollevarmi la giornata. Per tutto il giorno, mi è bastato ripensare a quello che è successo ieri mattina per tornare di buon umore. E oltretutto, la tua cioccolata era davvero buona.
Insomma, quello che sto cercando di dire- in modo del tutto fallimentare, lo ammetto- è che mi piacerebbe conoscerti meglio. Ieri hai detto che praticamente tutti quelli che ti conoscono preferiscono starti alla larga, ma per me non vale lo stesso. Non so dirti perché, ma vorrei farmi perdonare: insomma, ti ho trascurato per due anni, penso proprio che sia arrivato il momento di rimediare, no?
Okay, okay, lo so, suonava malissimo. Sembrava un patetico tentativo di rimorchio, mi dispiace. Però è vero. Cioè, non che ti stessi rimorchiando e. Lunedì mattina magari passo ancora in negozio. Sai, per la colazione e così via. Spero di rivederti, sarebbe... fico? Diciamo che sarebbe bello, limitiamoci al bello. Ci vediamo- presto, spero.
John

Sherlock fissò quegli ultimi paragrafi senza riuscire a muoversi. Era come se fosse appena stato colto da una paralisi, non sapeva più come fare alcunché, nemmeno respirare. John voleva conoscerlo. Frequentarlo, addirittura e lui non riusciva a crederci, era più forte di lui. Per un attimo gli balenò in testa l'idea che John con quelle frasi avesse solo voluto prenderlo in giro, ma riflettendoci meglio decise che non era assolutamente così: il John Watson che vedeva quasi ogni giorno, che aveva imparato a conoscere da lontano, il ragazzo con cui aveva parlato la mattina prima era buono, gentile. Era una brava persona e non avrebbe mai fatto una cosa del genere, mettere in ridicolo e prendere un giro qualcuno solo per il gusto di farlo. Non era da lui, Sherlock lo sapeva.

Appoggiò la nuca contro il tabellone, sollevando la testa e facendo scricchiolare qualche foglio sotto il suo peso. Sentiva di avere parecchio da metabolizzare e non era affatto sicuro di essere in grado di farlo nel modo corretto, per lo meno non nell'immediato. In quel momento la porta si riaprì e Sarah entrò nel locale, avvolta in una nuvola svolazzante formata dai suoi lunghi capelli, lasciati ricadere sciolti sulle spalle.

"Ciao, Sherlock!" lo salutò allegramente e lui le rispose con un cenno. La ragazza iniziò a blaterare di faccende che a lui apparivano francamente senza senso, tipo un asciugacapelli rotto e schiuma per capelli esplosa, quindi Sherlock decise di tornare a riflettere sulla lettera di John e mettere Sarah in modalità silenziosa. Gli era sembrato stranamente impacciato, John, ma, in fin dei conti, anche molto tenero- Dio, non lo stava pensando per davvero, non lui! Victor avrebbe tentato di esorcizzarlo, già se lo immaginava... Oppure avrebbe riso fino a star male e quell'ipotesi a ben pensarci era ancora più probabile. E poi, santo cielo, gli pareva quasi surreale che John davvero avesse pensato a lui, fosse addirittura arrivato a pensare di essersi solo sognato la sua esistenza e il loro incontro. Sherlock avrebbe potuto rispondere che lui, di incontri del genere, ne aveva sognati anche fin troppi, quindi non sarebbe stato del tutto certo che quello fosse avvenuto per davvero, se non fosse stato per quel messaggio. Era una strana sensazione, terrificante ma allo stesso tempo esaltante.

"Che cos'hai lì?" domandò ad un tratto Sarah, riportandolo bruscamente alla realtà. Si era avvicinata e puntava pericolosamente alla sua lettera e Sherlock, in un impulsivo gesto dettato dalla gelosia, si affrettò a ripiegare in quattro il foglio e a riporlo nella tasca dei suoi pantaloni, sottraendolo dalle grinfie della ragazza davanti a sé.

"Nulla. Un foglio scritto, niente di che."

"Ah, capisco... È una lettera d'amore, vero?" chiese Sarah, divertita, mentre incrociava le braccia dietro la schiena e gli rivolgeva un sorriso furbo. Sherlock avvampò e rispose di getto, maledicendosi per la voce stridula che gli uscì: "No, certo che no, non essere ridicola!"

"Cielo, Sherlock, guardati: sei rosso come un peperone!"

"Non sono affatto rosso, ho solo... Ho solo caldo, questo posto è una dannata fornace!" "Guarda che non c'è niente di male, sai? Sia per il fatto di arrossire che per quello di avere un'ammiratrice... O un ammiratore, non saprei. È normalissimo, ci siamo passati tutti e-"

"Sì, certo, davvero molto interessante, ora scusami, ma devo riordinare i muffin nell'espositore per ordine crescente di apporto calorico, perdonami." tagliò corto Sherlock, dirigendosi a passo di marcia verso il bancone. Sarah lo fissò per qualche attimo, poi si avviò verso il retro, ridacchiando tra sé. Sherlock la fulminò con lo sguardo.

"Si può sapere che hai adesso da ridere?"

"Nulla, nulla, è che..." Sarah si fermò sulla soglia, pensosa; poi liquidò tutto con un gesto della mano e sorrise, scuotendo debolmente il capo, "La calligrafia della persona che ha scritto quel biglietto somiglia tantissimo a quella di un mio amico, John Watson... Sarà suggestione, ignorami."

Sherlock distolse velocemente lo sguardo mentre Sarah spariva nel retro: era certo di essere prima sbiancato, poi di aver assunto ogni sfumatura possibile ed immaginabile nello spettro del rosso e per uno come lui non c'era niente di più denigrante. Accidenti a te, John Watson, tutto per colpa tua! pensò con una smorfia. Subito dopo però la sua mano volò alla tasca dove aveva riposto il suo messaggio e, sfiorando la carta con le dita, si sentì subito più tranquillo, felice. E, dopo qualche altro secondo, non poté fare a meno di sorridere.





 

(1) documentandomi in rete, ho scoperto che, per quanto riguarda caffè e compagnia bella, le classiche taglie small, medium e large da Starbucks non esistono, hanno dei nomi tutti loro. Eccoli con la relativa "traduzione":

-Mini = mini (lo so, chi l'avrebbe mai detto?)
-Short = un po' più grande del mini, più piccolo del tall
-Tall = piccolo
-Grande = medio
-Venti = grande
-Trenta = extra large

Trenta e Mini non sono molto comuni e sono disponibili solo per determinati articoli, mentre gli altri tre sono di norma disponibili per tutte le bevande.
 

(2) la traduzione greco-inglese è: "Άντε γαμήσου, μπορείτε αιματηρή βλάκας = Fuck you, you bloody moron". Ringraziamo Google Translate per il servizio meravigliosamente reso
 

(3) in inglese è "Cinnamon Swedish Bun" e, sia basandomi sul nome che guardando la foto, ho cercato e i tradurlo come meglio potevo- non so se ci sia riuscita o meno, a voi l'ardua sentenza
 

(4) questo invece non avevo la più pallida idea di come tradurlo, quindi onde evitare di far danni, ho preferito lasciarlo così



Note:
Non so come sia nata questa long, di preciso. Come al solito doveva essere una oneshot, ma because of reasons... Beh. Non sono capace a scrivere shot, ci provo e inevitabilmente si trasformano in long. Comunque, una sera ho pensato che l'idea di uno Sherlock barista che scrive sbagliati i nomi sui bicchieri di proposito (e in lingue diverse) potesse essere divertente e da qui è nato tutto il resto. E poi era da un po' che volevo scrivere una teen/uni!lock, quindi combo.
Se volete farmi sapere che ne dite, segnalare qualche errore (quelli di battitura dovrebbero essere stati sterminati, spero valga lo stesso per quelli del correttore automatico) o semplicemente fare due chiacchiere, potete lasciarmi una recensione, sono sempre apprezzate :)
A settimana prossima con il capitolo 2, un bacio!
Cami

 

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Capitolo 2
*** 2. ***


2.
 
.


 

Lunedì mattina Sherlock si presentò al lavoro vittima di un'eccitazione febbrile, irrequieto come non mai: nell'arco di tempo tra le cinque e mezza e le sei e venticinque bevve ben otto caffè e sarebbe anche andato avanti se non fosse stato per Molly, che, preoccupata per il suo comportamento via via sempre più nevrotico, lo aveva spedito a fare i conti in cassa e tenuto lontano dalla macchinetta con la forza, costringendolo a preparare solo tè, tisane e camomille. Sherlock l'aveva odiata a morte, in quel momento.

In preda ad un'ansia nuova e incontrollabile, alle sette e mezza Sherlock fuggì in bagno con la scusa di avere un bisogno impellente da soddisfare, quando invece si chiuse nel cubicolo e, aperta la finestra, si mise a fumare contemporaneamente due sigarette per calmarsi- ad un certo punto fu quasi tentato di aggiungerne una terza, ma la minaccia dell'allarme antincendio, pronto a scattare al minimo rilevamento di fumo, lo dissuase dal tentare ulteriormente la sorte. In ogni caso, la nicotina non sortì l'effetto desiderato: contribuì solo a renderlo ancora più nervoso, riducendolo ad un fascio di nervi scoperti. Gli mancava solo un tic all'occhio, poi sarebbe stato perfetto.

Non sapeva cosa aspettarsi da John: sarebbe entrato e gli avrebbe parlato come se nulla fosse? Avrebbe aspettato che fosse lui a fare la prima mossa? Non ne aveva la più pallida idea e non gli piaceva affatto, lui detestava non sapere e non avere tutto sotto controllo, era... Era frustrante. Tra l'altro, John gli aveva scritto che forse sarebbe passato quella mattina, ma non aveva specificato se e soprattutto quando. E se fosse venuto, che ne sapeva, a mezzogiorno? Era sempre mattina, ma lui avrebbe già finito il turno da un'ora e mezza. E no, aspettarlo lì dentro non era certo la prospettiva migliore, grazie tante per l'interessamento. Ci mise un quarto d'ora solo per preparare un tè e, al posto di Janine, sul bicchiere scrisse distrattamente Johanna. La ragazza gli rivolse uno sguardo interrogativo e Sherlock per tutta risposta la fulminò con lo sguardo, facendola praticamente fuggire dal negozio. Era talmente agitato da non trarre nemmeno un accenno di piacere da quella scena.

Successe tutto talmente in fretta che Sherlock nemmeno se ne accorse: erano le sette e quarantanove e lui, immerso nelle sue riflessioni, non aveva nemmeno fatto caso al campanello attaccato in cima alla porta, che aveva improvvisamente preso a tintinnare dopo l'entrata di un nuovo cliente. Stava preparando un caffè venti ad una ragazza, chiedendosi se John sarebbe davvero mai arrivato e, in preda all'ennesimo attacco di sconforto, ne bevve quasi un terzo con due sorsate.

"Sai, penso che a Janette non farà piacere sapere che hai appena bevuto... quanto, metà del suo caffè?" esordì una voce alle sue spalle e Sherlock si irrigidì, voltandosi lentamente ad occhi spalancati. Reggeva ancora il caffè in mano e, quando vide John, mollò la presa, riprendendo il bicchiere al volo subito dopo. Il biondo, appoggiato al bancone, sorrise e gli rivolse uno sguardo colpito, condito da un cenno del capo.

"Però, che riflessi." commentò e Sherlock fece una smorfia. Gli lanciò il copri bicchiere, che il ragazzo afferrò senza alcuno sforzo. Sherlock ribatté:

"Potrei dire lo stesso di te. E comunque, ne ho bevuto meno di un terzo."

"Oh, beh, allora cambia tutto... Come pensi di risolvere?"

"Allungherò quello che è rimasto con dell'acqua e dello sciroppo al caffè." rispose tranquillamente e stavolta John rise. Sherlock si sentì istantaneamente più rilassato, come se tutto il suo nervosismo se ne fosse andato d'un colpo. La presenza di John viveva uno strano effetto su di lui, qualcosa di inedito e mai provato prima. Non era affatto spiacevole, Sherlock doveva riconoscerlo.

"Allora..." iniziò John, abbassando lo sguardo sul pannello di compensato laccato del bancone, "Hai ricevuto il mio biglietto?"

"Questo, dici?" chiese Sherlock di rimando, estraendo dalla tasca dei pantaloni beige il messaggio di John. Questi sgranò gli occhi e lo fissò, sorpreso.

"Ma te lo porti dietro?"

"È un problema per te?"

"No, no, certo che no, è solo che... Non me l'aspettavo. Tutto qui." rispose John e Sherlock, riponendo in tasca il foglio, sospirò, per poi dire:

"A volte ho come l'impressione di essermi immaginato quello che c'era scritto sopra, quindi meglio portarselo dietro per fugare ogni dubbio, quando necessario."

"Fammi un esempio."

"Cosa?"

"Un esempio. Hai detto di aver avuto l'impressione di esserti immaginato quello che c'era scritto su quel foglio, fammi un esempio."

"Oh beh... Potrei citarti mezza lettera, ma probabilmente l'esempio più lampante è il passaggio dove dici di volermi frequentare per conoscermi meglio. È roba da fantascienza."

"Tipo Star Trek?"

"Sì, tipo Star Trek."

"Hai qualcosa dell'ultimo Khan, effettivamente."

"Non ne ho dubbi." commentò Sherlock con una smorfia, mettendo in un sacchetto il muffin ai mirtilli ordinato da Janis- Jennifer? Non se lo ricordava più e sinceramente non gli interessava nemmeno.

"Perché ti sembra fantascienza?" chiese John, incuriosito e Sherlock si strinse nelle spalle.

"Come ho detto venerdì, le persone tendono a starmi lontano. Non sono quel che si dice un tipo socievole, men che meno uno facile."

"E ti sta bene?"

"Sì: sono gli altri ad avere un problema con me, non io. E tu?"

"Beh, mi sembrava di essere stato chiaro."

"Sii ancora più esplicito." lo incitò Sherlock e John inclinò lievemente il capo.

"Non mi interessa quello che pensano le persone: se hanno un problema con te, peggio per loro. Io giudico in base a quello che vedo e per farlo... Beh, ho bisogno di conoscerti."

"Quindi è pura curiosità scientifica. Un esperimento."

"La tua mente è sempre tarata sulla chimica, vero?"

Sherlock aggrottò la fronte, perplesso.

"Temo di non aver capito."

"Nel senso, tu vedi tutto come se fosse un esperimento scientifico, un'analisi di qualche tipo e credimi, è davvero affascinante, ma... Ecco, non funziona sempre così, non con le persone. Noi siamo più..." John socchiuse lievemente le palpebre, pressando la punta della lingua tra le labbra mentre cercava le parole adatte per proseguire, "complicati. Sì, complicati: gli esseri umani non sono come una reazione chimica, sempre con lo stesso risultato e un percorso più o meno lineare e prevedibile. Non funziona così."

"Sarebbe tutto più facile se lo fosse." borbottò Sherlock, a voce talmente bassa da essere a malapena udibile. Tuttavia John riuscì a cogliere quel commento, perché si mise a ridere e disse:

"Concordo, è vero... Ma alle volte non è proprio questo il bello della vita? Il suo essere imprevedibile, mai scontata. Altrimenti, che divertimento c'è?"

Sherlock restò in silenzio, senza sapere cos'altro aggiungere. C'era una luce particolare nel locale, in quel momento, calda e soffusa; illuminava parzialmente il volto di John, facendo risplendere i capelli biondi spettinati di mille sfumature dorate, come un campo di grano maturo e i suoi occhi... Diamine, erano così blu da sembrare d'essere fatti direttamente con le acque più profonde dell'oceano, talmente profondi da poterci affogare dentro e colorati di centinaia di differenti tonalità, in alcuni punti più tendenti al celeste e in altri al blu notte. In una parola: meravigliosi.

Sherlock seguì la linea del naso dalla punta lievemente a patata e all'insù, per poi approdare sull'arco di cupido e le sue labbra: sottili, armoniose, sempre pronte a sorridere... Avrebbe passato la vita a guardarle, a sfiorarne il contorno con la punta delle dita. Avrebbe passato la vita ad insieme a John, senza mai lasciarlo, se solo lui glielo avesse chiesto.

Sherlock abbassò lo sguardo, ad un tratto sopraffatto da quello che stava provando. Il cuore gli batteva come un tamburo e per un attimo ebbe paura che John riuscisse a sentirlo, sembrava volesse esplodergli fuori dal petto e ne fu spaventato. Era la prima volta che si sentiva così con qualcuno, non sapeva come comportarsi. E, come aveva detto John, quello non era uno dei suoi soliti esperimenti, non era nel suo campo. Sherlock si chiese se sarebbe stato proprio quel ragazzo a insegnargli cosa fare e come comportarsi. Per riscuotersi dai suoi pensieri, rifece di nuovo il caffè alla ragazza di cui non ricordava il nome (Josie?), bevendo quello che restava del vecchio con un paio di sorsi. John era sempre lì fermo, a studiarlo e Sherlock si sforzò di non fare lo stesso, per lo meno non in modo così palese. Non voleva dare a vedere ulteriormente quanto gli morisse dietro. Prese un bicchiere pulito e fece per scrivere con l'indelebile il nome della ragazza, fermandosi quando si rese conto di non avere la più pallida idea di come si chiamasse. Accidenti, ma com'era? Josette? Jolene?

"Janette." disse John e Sherlock voltò di scatto la testa verso di lui.

"Scusa, cosa?"

"Janette. La ragazza del caffè, si chiama Janette." rispose lui, indicando con un cenno della testa il bicchiere. Sherlock giurò di aver sentito il sangue affluire violentemente verso le sue guance, colorandole di un'imbarazzante rosso pomodoro.

"Io... Sì, certo, ovvio. Grazie." mormorò, abbassando lo sguardo sul bicchiere con aria a suo malgrado imbarazzata. Scrisse velocemente il nome, poi versò al suo interno il caffè e chiamò Janette, consegnandole il suo ordine sotto lo sguardo attento di John. Quando la ragazza si avvicinò al bancone, fulminò Sherlock con lo sguardo, poi si voltò parzialmente e sorrise a John, amabile-

"Ciao, John, come va?"

"Bene, Janette, grazie."

"Come sta Mary? È da un po' che non la vedo."

"Sta bene anche lei, ma pensavo lo sapessi già: vi ho viste chiacchierare pochi giorni fa a pranzo, quando sono andato a portarle il suo quaderno di anatomia." commentò John e Janette prima sbiancò, poi arrossì violentemente. Sherlock soffocò un ghigno divertito.

"Oh, già, è vero, che stupida... Allora, ci si vede in giro?"

"Può darsi, sì." tagliò corto John, sempre gentile ma anche risoluto. Sherlock provò un'ondata di potente soddisfazione vedendo Janette andarsene a testa bassa, a metà tra l'irritato e il deluso. John tornò a guardarlo e, vedendo
la sua espressione, si concesse un sorriso divertito. Sherlock sentì il volto arrossarglisi di nuovo. Dannazione.

"Sarà meglio che torni al lavoro, adesso... Se passi in cassa, ti faccio l'ordine."

"Certo, volentieri, però..."

"Però?"

"Vorrei fare un altro tentativo."

"Ovvero?"

"Stupiscimi, parte due." ribatté John, indicando il numero due con indice e medio della mano destra. Si avviò verso la coda della cassa e Sherlock lo seguì con lo sguardo. Vide Molly fissarlo incerta con la coda dell'occhio, ma al momento non se ne curò. Fece gli ultimi ordini che gli mancavano alla velocità della luce, poi si precipitò in cassa appena in tempo per prendere l'ordine di John. Il ragazzo gli passò una banconota da dieci senza emettere una sillaba, Sherlock la prese e gli diede la ricevuta, per poi avviarsi a preparare l'ordine. John gli aveva chiesto di stupirlo? Lui l'avrebbe fatto, poteva scommetterci. Preparò subito la solita treccia, poi si dedicò alla bevanda: optò per un Vanilla Spice Latte Tall, a cui aggiunse cannella e un po' di succo di mela. Provò ad assaggiarne un sorso e schioccò la lingua, soddisfatto: era buono, poteva giocarsela. Prese il bicchiere di carta, ma al momento di tracciare la J di John si bloccò.

Non so nemmeno il tuo nome.

Sherlock rifletté qualche attimo, indeciso. E se... Oh, al diavolo! Iniziò a far scorrere la punta del pennarello sulla superficie liscia e, una volta finita la scritta, alzò lo sguardo sulla sala: John aveva un'espressione irritata mentre digitava qualcosa al cellulare; Sherlock distinse la schermata di una chat e John sembrava davvero poco felice di ciò che stava leggendo e a cui stava rispondendo. Si fece coraggio, ne aveva davvero bisogno, poi lo chiamò. Si sorprese nel sentire la sua voce tremare un poco verso la fine.

"John!"

John alzò la testa e mise in fretta il telefono nella tasca dei jeans, poi si avvicino al banco con aria colpevole.

"Mike, il mio amico... Abbiamo alcuni corsi in comune e mi ha appena scritto che il professore di medicina legale vuole che assistiamo ad una autopsia tra mezz'ora. Ergo, devo essere lì tra dieci minuti."

"Oh. Beh... Le autopsie sono interessanti. Piacerebbe anche a me assistere, ma di solito mi cacciano fuori. A quanto pare gli studenti di chimica non sono graditi." commentò Sherlock con una smorfia. John ridacchiò e disse:

"Se vuoi qualche volta ti ci porto io, tanto se sei con me ti fanno passare."

Sherlock sgranò gli occhi, sorpreso.

"Dici sul serio?" chiese e John annuì.

"Perché no?"

"Già, perché no... Ah sì, il tuo... Il tuo ordine. Dovrebbe piacerti."

Sherlock consegnò il sacchetto con la treccia e il bicchiere a John, che ne bevve subito un sorso senza nemmeno annusare l'odore della bevanda al suo interno. Restò fermo un attimo, poi fece un mugolio d'apprezzamento e disse, prendendo un'altra sorsata:

"Gesù, è fantastico... Ma come diavolo fai?!"

"Me la cavo in chimica." rispose Sherlock con un sorriso, a cui John non esitò ricambiare.

"Bene, allora ... Io vado. Senti, prima però volevo chiederti... Oggi a che ora stacchi?" chiese John, esitante e Sherlock perse un battito. Oh mio Dio.

"Alle... A-alle dieci e mezza, ma poi ho lezione dalle undici fino alle due."

"Bene, anche io. Mi chiedevo, sempre se ti va... Ti andrebbe di fare un giro, oggi pomeriggio? Niente di impegnativo, solo una passeggiata per il campus."

"Pensavo avessi gli allenamenti di rugby, oggi."

"Sì, ma sono alle sei e- aspetta e tu come diavolo fai a saperlo?!"

"I-io... Potrei averlo sentito dire in giro."

"Ah davvero?"

"Già." balbettò Sherlock, avvampando di nuovo. In realtà lo sapeva perché a volte si nascondeva sotto gli spalti, dietro ai pannelli di compensato dove durante le partite appendevano gli stemmi e gli striscioni delle squadre in gioco, a guardare gli allenamenti, senza rischiare di essere notato. Ma questo non poteva certo dirglielo in faccia, andiamo: avrebbe fatto per davvero la figura dello stalker maniaco. John non sembrò del tutto convinto, ma sorrise lo stesso e Sherlock, come un deficiente, si sciolse di nuovo.

"Va bene, mi fido... Comunque, dicevo: se ti va, fino alle sei sono libero e potremmo-"

"Mi va." lo interruppe Sherlock e John rise.

"Non ho nemmeno detto cosa-"

"Non fa niente: tu ti sei fidato per la colazione, io mi fiderò per l'appu- per il pomeriggio. Per il pomeriggio, certo."

"Okay, grande. Allora ci vediamo qui fuori alle... Non so, le due e mezza può andare?"

"Certo, va benissimo."

"Bene. A dopo, allora."

"Sì, a dopo."

Sherlock e John si sorrisero, poi il biondo abbassò la testa e si diresse verso la porta. A metà strada però notò qualcosa di poco chiaro e si voltò di nuovo verso l'altro.

"Ma che diavolo è uno Sherlock?!" chiese, confuso, mentre indicava con il capo il bicchiere. Sherlock restò immobile per qualche istante, poi sogghignò e rispose:

"È il nome di una rarissima e incredibile specie di batterio tropicale che porta alla paralisi e poi alla morte per arresto cardio-respiratorio nel giro di dieci minuti. Te ne ho messi un po' nel bicchiere."

"...mi stai prendendo in giro, vero?"

"Però, acuto."

"No, seriamente, che cosa vuol dire?"

Sherlock scosse la testa, divertito suo malgrado. Se non fosse stato John, avrebbe staccato la testa a morsi a chiunque gli avesse detto una cosa del genere. Ma John no, lui... Lui era salvo. Per ora.

"Dicevi di non sapere come mi chiamavo, ho provveduto." rispose e John aggrottò la fronte.

"E quindi? È un anagramma, un codice?"

"E quindi è il mio nome, idiota."

John spalancò gli occhi e, per la prima volta, Sherlock lo vide arrossire. Dio santo, era ancora più carino quando arrossiva, quando era imbarazzato era... Wow.

"I-io... Cristo, che figura di merda... Senti, io vado che è meglio, ci... C-ci vediamo dopo." balbettò John, avviandosi a testa bassa fuori da Starbucks. Sherlock rise e non riuscì a smettere di sorridere. Non si era mai sentito così felice, così leggero in tutta la sua vita. Se quello era l'effetto che John aveva su di lui... Beh, l'avrebbe accolto con piacere. Sempre e comunque.

 

 

 

Le settimane passarono veloci e, prima che se ne rendessero conto, gli studenti si ritrovarono alla fine della prima decade di dicembre, sempre più prossimi alle soglie delle vacanze natalizie. La neve aveva già ricoperto l'Inghilterra di un soffice manto bianco e durante le pause pranzo, era piuttosto frequente vedere palle di neve volare per aria e schiantarsi sulla nuca di qualcuno. Era toccato anche a Sherlock, quando qualche giorno prima Victor aveva pensato bene di interrompere la sua "seduta sigaretta" lanciandogli in faccia un mucchio di neve fredda e bagnata, con il solo risultato di fargli la doccia e distruggere la sua Marlboro, inzuppandola completamente. Sherlock l'aveva rincorso per mezzo campus con la minaccia di ucciderlo brutalmente e occultare il suo cadavere all'interno di un pupazzo di neve. Nel complesso, l'atmosfera era gioiosa, allegra e spensierata, erano tutti felici. Tutti tranne Sherlock, che, invece, fremeva: detestava tutta quella situazione, lo starsene fermo a fare nulla, impotente. Lo stop alle lezioni sarebbe iniziato di lì a pochi giorni e John, com'era ovvio, sarebbe tornato a casa dalla sua famiglia, ma soprattutto lontano da lui. In quelle settimane aveva sviluppato un profondo attaccamento al ragazzo, con lui stava bene come con nessun altro e... Dio, amava averlo attorno. John, dal canto suo, sembrava provare lo stesso, Sherlock non aveva mai dedotto nulla che potesse fargli pensare il contrario. Appena avevano un momento libero si precipitavano dall'altro, il giovane Holmes aveva ormai perso il conto di tutte le ore che nelle ultime settimane John aveva trascorso o insieme a lui in laboratorio, aiutandolo con gli esperimenti e le sue indagini- e si era anche rivelato sorprendentemente utile, doveva ammetterlo- o appollaiato accanto al bancone di Starbucks, facendo compagnia e chiacchierando con Sherlock per tutta la durata del turno. All'inizio il moro aveva avuto l'impressione- e poi la certezza- che Molly non gradisse affatto l'avere praticamente sempre John attorno, ma poco a poco era riuscito a conquistarla, facendosela amica. Sherlock non se n'era affatto sorpreso: John era fatto così, veniva naturale affezionarglisi.

Quella mattina di metà dicembre, Sherlock non doveva lavorare, avrebbe avuto il turno del pomeriggio e John, sfortunatamente, avrebbe avuto lezione fino a quel momento. In un impeto di compassione per lo stato pietoso in cui versava il suo amico, il buon Victor Trevor pensò bene di trascinarlo di peso verso il primo centro commerciale vicino.

"Io devo comprare i regali di Natale e tu," aveva detto quella mattina, cercando di districare Sherlock dal bozzolo di coperte e piumone in cui si era avvolto, "hai bisogno di uscire e cambiare aria, altrimenti va a finire che ti trasformerai in Van Gogh."

"Diventerò famoso e geniale?" aveva mugugnato Sherlock dal piumone. Victor aveva risposto con una smorfia.

"No, pazzo e depresso."

"Tranquillo, non c'è pericolo: non ho intenzione di mettermi a dipingere, men che meno di tagliarmi un orecchio. Mi serve."

"Nel dubbio preferisco non rischiare, quindi muovi il culo e alzati da questo dannato letto!"

E così, dopo un'altra buona mezz'ora di lotta greco-romana per convincere Sherlock ad alzarsi e vestirsi, Victor era riuscito a portarselo dietro al Primark Store del centro commerciale vicino all'università, con la minaccia di distruggere le sue colonie di batteri in caso contrario. Sherlock non l'aveva mai odiato così tanto, perché no, non bastava che l'avesse praticamente rapito, doveva pure portarlo dritto all'Inferno, in un negozio di vestiti. Femminili, per lo più. Dio, l'avrebbe avvelenato.

"Che ne dici di questa qui? Potrebbe andare bene per mia sorella, no?" chiese Victor, estraendo da un espositore una gruccia con un'orrenda maglietta rosa con un unicorno bianco nel mezzo e la scritta "You may have stopped believing in unicorns, but they have never stopped believing in you!". Sherlock notò solo dopo qualche attimo il baloon accanto allo pseudo -cavallo con le parole "You're the best!" al suo interno. Era la cosa più idiota e ridicola che avesse mai visto.

"Se fossi in tua sorella e mi regalassi quella... cosa, non ti rivolgerei mai più la parola." commentò, secco e Victor emise un gemito esasperato.

"Andiamo, è la ventesima che mi bocci! E poi lei ha quattordici anni, che cosa accidenti dovrei regalarle?!"

"Non un unicorno, Victor!" sbottò Sherlock e Victor roteò gli occhi. Rimise a posto la gruccia e chiese, ricominciando a scartabellare tra le magliette:

"Tu invece? Che cosa hai comprato a Eurus e Mycroft?"

"Una penna."

"Una penna?!"

"Una a testa, ovvio. Non possono certo condividerne una sola." mormorò Sherlock e Victor lo squadrò come se fosse ad un tratto impazzito. Sherlock lo fissò a sua volta, per nulla intimidito e dopo qualche attimo Trevor riportò lo sguardo sulle magliette con un borbottio confuso.

Victor e Sherlock avevano la stessa età e Holmes ormai lo considerava qualcosa di più simile ad un fratello che un semplice amico e coinquilino, anche se non glielo aveva mai detto. Sherlock non negava di essersi invaghito di lui in un primo momento, ma era tutto scemato abbastanza in fretta, un po' perché si era reso conto che Victor gli avrebbe dato molto di più come amico che come compagno, un po' perché... Beh, aveva conosciuto John. E poi, Victor era robustamente etero: aveva subito dimostrato di essere molto interessato al sesso femminile facendosi beccare mentre pomiciava- in modo anche abbastanza spinto, oltretutto- con un'altra matricola sulla scrivania della loro stanza, questo dopo nemmeno una settimana di convivenza. In seguito aveva più e più volte palesato il proprio disinteresse verso la prospettiva di avere una relazione con un ragazzo: il fatto che una persona potesse trovare attraenti e desiderabili sia fisicamente che romanticamente qualcuno del medesimo sesso non gli creava problemi, anzi; solo che lui non era interessato e mai lo sarebbe stato, semplicemente questo. In ogni caso, Sherlock aveva capito immediatamente che provarci con lui non avrebbe avuto alcun riscontro positivo, quindi aveva subito lasciato perdere per questo e quel motivo. Stranamente, con John questo discorso aveva avuto valenza praticamente nulla, ma Sherlock cercava di non pensarci.

Ciò non toglieva che Victor fosse esteticamente molto attraente e non solo per una singola caratteristica del suo aspetto, Sherlock poteva elencarne diverse: luminosi occhi verde-azzurro armati di uno sguardo ammiccante, liscia chioma biondo ramata che faceva finta di non curare, ma a cui in realtà riservava attenzioni tali da rasentare la psicosi, naso dritto e regolare evidenziato da tratti armoniosi, ben definiti ma allo stesso tempo delicati, labbra sottili sempre piegate in un sorrisetto sornione e un fisico esile e slanciato, ma comunque compatto e dalla muscolatura ben delineata sotto la pelle. Era più alto di Sherlock- non di molto, ma quei sei centimetri erano sufficienti a evidenziare il distacco. Tuttavia, nonostante fosse senza alcun dubbio un gran bel ragazzo, a Sherlock piaceva non per motivazioni puramente estetiche, ma per il suo essere, la persona che Victor era in realtà. A detta di chiunque li conoscesse, i due ragazzi erano come il giorno e la notte, sotto certi aspetti caratterialmente agli antipodi: Sherlock nel tempo libero tendeva a starsene per conto suo o al massimo con un'altra singola persona, preferendo la compagnia di libri, ricerche, esperimenti e indagini a quella umana, Victor invece amava stare tra la gente, cercava di interagire sempre con il maggior numero possibile di individui; erano entrambi dotati di una cospicua dose di sarcasmo, ma quello di Sherlock era sempre più cupo, cinico e asciutto rispetto a quello dell'amico, più scherzoso e meno caustico; Victor era socievole, vulcanico e sempre allegro, non era raro che spronasse il coinquilino ad uscire di più dal suo guscio e mollare quel suo atteggiamento da eremita inacidito, strepitandogli dietro ad ogni occasione mancata "Hai vent'anni, Cristo Santo, non centotrenta: esci da questo buco e fatti una vita sociale!", frase a cui Sherlock puntualmente replicava con un commento velenoso e piccato, rifiutandosi poi di rivolgergli la parola minimo per le tre ore successive.

A dispetto di tutte le loro differenze- e anche di quello che Sherlock pensava all'inizio-, avevano sviluppato un legame non comune, indistruttibile: riponevano cieca fiducia l'uno nell'altro, avrebbero fatto di tutto per il bene dell'amico e probabilmente si conoscevano meglio di loro stessi, fatto alquanto sconvolgente quando si aveva a che fare con uno come Sherlock Holmes. Il moro aveva dei fratelli di sangue, ma nessuno dei due lo conosceva bene quanto Victor- forse Mycroft sì grazie alle sue dannate spie ed Eurus avrebbe potuto dedurlo e decifrarlo senza sforzo, ma non era la stessa cosa: Victor lo capiva e prima di lui nessuno l'aveva mai fatto. Era una bella sensazione. E poi... Beh, Victor era uno dei pochi in grado di urlargli contro e metterlo a tacere quando lo meritava. Non era da tutti.

"Hai deciso cosa prendergli?" chiese Victor ad un tratto, distogliendo Sherlock dalle sue riflessioni. Gli rivolse uno sguardo confuso, poi domandò:

"Deciso cosa prendere a chi?"

"A John. Cosa gli regalerai per Natale?"

Sherlock sbatté un paio di volte le palpebre, poi mormorò, cauto:

"Perché, dovrei comprargli qualcosa?"

"Beh, non dico un solitario con diamante, ma una cazzata magari sì. Sai, giusto per augurargli buon Natale."

"E cosa dovrei comprargli?"

"Ma non lo so, qualcosa come una maglietta, un portachiavi, una saponetta... Roba normale, niente di costoso o troppo impegnativo, ma che... Ecco, qualcosa che per te abbia un significato. Capisci quello che intendo?"

"Sì, io... Credo di sì." sussurrò Sherlock, piano e Victor si voltò a guardarlo. Si mise a braccia conserte, squadrandolo in silenzio per qualche istante.

"Che c'è?" chiese Holmes e lui disse di rimando:

"Non gli hai ancora parlato, non è vero? Di quello che provi per lui, non gli hai ancora detto nulla. O mi sbaglio?"

Sherlock boccheggiò per qualche attimo, per poi abbassare lo sguardo sul pavimento e rispondere:

"Beh, ecco..."

"Oh, Cristo." gemette Victor, affondando il viso nella t-shirt che aveva in mano. Sherlock trattenne a stento un sospiro, mentre Victor continuava a mugugnare frasi indistinte nella stoffa. Continuò così per quasi un minuto, poi rinvenne dal tessuto e rivolse all'amico uno sguardo esasperato.

"Sei un idiota." disse soltanto e Sherlock non riuscì a risparmiarsi un'espressione totalmente oltraggiata.

"Non è vero, non-"

"Sì, invece. Dio santo, ti credi tanto intelligente ma in realtà sei un povero idiota... Anzi, no, siete due idioti, perché tu sei senza speranza, questo è poco ma sicuro, ma anche quell'altro non è da meno: siete sempre appiccicati, avete un rapporto quasi morboso, tu sei totalmente ossessionato da lui e John Watson viceversa, perché ormai è più di un mese che me lo ritrovo costantemente tra i piedi! Non lo so, si può sapere cosa accidenti state aspettando a parlarne e ufficializzare la cosa?!"

"Non c'è nulla da ufficializzare, Victor. A John io... Io non gli piaccio, non in quel senso. Siamo solo amici."

"Ma solo amici dove, che a momenti tu gli srotoli la lingua davanti stile tappeto rosso appena ti passa accanto e lui ti guarda con gli occhi da trota ogni volta che gli dai le spalle!" sbottò Victor, rosso in viso per l'eccessivo impeto con cui aveva parlato. Sherlock, rosso per altri motivi, notò due ragazze poco lontane fissarli con aria interrogativa e non poté fare altro che incassare la testa nelle spalle e dirigersi a passo di marcia verso il settore dei pigiami. Victor se ne rese conto solo dopo qualche istante e lo seguì, raggiungendolo proprio mentre Sherlock, scuro in volto, iniziava a scartabellare tra le camicie da notte con foga.

"Che stai facendo?" chiese Victor, esasperato. L'amico fece una smorfia e borbottò:

"Cerco un regalo per tua sorella, non siamo qui per questo?"

"Sì, ma stavamo parlando e sei praticamente scappato via."

"Non stavamo parlando, Vic, eri semplicemente tu a urlarmi addosso."

"Ti ho urlato addosso perché davvero non capisco, Sherlock: lui ti piace da matti, questo è evidente, come d'altro canto lo è che anche tu piaci a lui e-"

"Non per me. Per me non è affatto evidente."

"Per che tu sei più cieco dei tre topi bianchi di Shrek." ribatté Victor, stizzito e Sherlock gli rivolse uno sguardo vacuo.

"Cos'è uno Shrek?"

"Cosa?"

"Ti ho chiesto cos'è uno Shrek."

"È... È un orco. Quello della Dreamworks, hai presente?"

"Un orco? E cosa c'entrano i topi con un orco?" chiese Sherlock, sinceramente confuso. Victor roteò gli occhi con un sospiro.

"Senti, fai finta che non l'abbia citato, okay? Quello che volevo dire è che tu, per citare le tue stesse parole, vedi ma non osservi, brutto idiota: fidati se ti dico che John Watson stravede per te tanto quanto tu stravedi per lui."

"Ma lui questo non lo sa."

"Certo che non lo sa, tu sei un pirla: se non gli dici nulla come pretendi che possa farlo, con la telepatia?" chiese Victor, ironico. Sherlock restò zitto per qualche istante, poi mormorò:

"Ma se è davvero così evidente come dici tu, allora perché lui non lo sa?"

"Per lo stesso motivo per cui nemmeno tu lo sapevi."

"Cioè?"

"Non vorrei essere ripetitivo, quindi cercherò di trovare un altro insulto: è perché siete due cretini, Sherlock, ecco perché."

"E allora cosa dovrei fare? Dimmelo tu, mago del rimorchio, avanti!"

Victor gli rivolse un'occhiataccia, poi sbuffò e disse, passandosi una mano tra i capelli chiari e spostando un ciuffo ribelle dagli occhi:

"Potresti cominciare con il parlargli di quello che provi per lui: magari prova a buttarla sul flirt e guarda come reagisce; a quel punto, se è il caso, passa all'artiglieria pesante."

"Se è il caso...?"

"Dio santo, Sherlock, se ci sta: se non scappa via, se risponde a sua volta alle tue provocazioni, se ti lascia intendere di essere serio e di non stare semplicemente scherzando... Cose così. Credi di poterlo fare o è chiedere troppo?"

"Penso di sì... Alla fine è come dedurre, no?"

Victor sorrise davanti all'espressione incerta dell'amico e gli diede una sonora pacca sulla spalla.

"Esatto, amico, è esattamente come dedurre e tu sei un mostro con tutta quella roba."

"Okay. E dopo la deduzione cosa faccio?"

"Te l'ho detto, se ci sta inizi a fare sul serio."

"Victor, quante volte devo ripetertelo? Sii esplicito e parla chiaro, per l'amor del cielo, sai che ho esperienza zero in questo campo!"

"Lo so e fidati, il fatto che condivida la stanza con un quasi ventunenne vergine, nonostante tu abbia qualcosa come tipo cinque o sei persone a morirti dietro, mi dà i brividi, sul serio: fossi stato ace avrei capito questo tuo totale disinteresse, ma così... Bah. Per lo meno so che hai anche tu degli impulsi, è quasi rincuorante: mi sarei sentito una specie di animale fissato con il sesso, altrimenti." commentò Trevor e Sherlock gli rivolse uno sguardo dapprima perplesso, poi inorridito.

"Passando oltre al fatto che tu sei un animale..."

"Ma che carino."

"Come fai a sapere dei miei... impulsi?"

"Ti ricordo che dividiamo la stessa stanza da tre anni, Sherl. E ti svelerò un segreto: non sei poi così bravo a capire quando qualcuno sta dormendo veramente o ha solo gli occhi chiusi." disse Victor con un ghigno e Sherlock, osservando il suo volto, sbiancò.

"Non stai scherzando."

"Sfortunatamente no. Anche se devo ammetterlo, è stato quasi divertente sentirti cercare di soffocare il nome del tuo John nel cuscino. Sembravi piuttosto preso, accidenti, magari riuscissi io a farmi una sega con quei risultati." "Vic, per l'amor di Dio!"

"No, dico sul serio, è ammirevole! Per un attimo sono quasi stato tentato di scendere dal letto per andare a prendere un bicchiere d'acqua, giusto per farti venire un mezzo infarto, poi mi sono detto che non sarebbe stato carino interrompere il tuo appuntamento a luci rosse con le fantasie su John Watson e ti ho lasciato finire in pace. Insomma, già non scopi, se poi ti faccio pure saltare quegli sporadici e solitari lavori di mano con cui ti sfoghi va a finire che mi esplodi per l'eccessivo accumulo di tensione sessuale."

Sherlock era certo di essere diventato bordeaux e l'impulso di correre fuori da quel posto e gettarsi sotto un autobus era dannatamente forte. Non era mai stato così tanto imbarazzato in vita sua, mai. Victor, notando il suo mutismo, il colorito rosso fuoco e lo sguardo fisso sul pavimento, ridacchiò e disse, serafico:

"Non devi vergognarti, è normale. Fisiologico, oserei dire. Non puoi mica avere sempre qualcuno nel tuo letto per aiutarti a soddisfare i tuoi bisogni, quindi è giusto sbrigarsela da soli, a volte. Nel tuo caso sempre, fatto alquanto triste, ma spero che al più presto il buon John vi ponga rimedio. Secondo me un po' di sesso ti farebbe bene, diventeresti meno intrattabile. La verginità ti fa male, sei sempre con il muso... Un po' di moto ti tirerebbe su."

Sherlock fece una smorfia, poi disse:

"La perdita della verginità è un concetto sopravvalutato: non ho bisogno che qualcun altro mi porti all'orgasmo per sentirmi completo, raggiungere nirvana e pace dei sensi o per superare la soglia dell'età adulta, grazie mille."

"Lo stai facendo sembrare una sorta di rito di iniziazione a una qualche setta."

"La setta dei drogati di sesso, ecco quale, setta di cui tu sei il Capo Supremo."

"Oddio, mi sembrava di sentir parlare mia nonna e lei era tipo una puritana, una di quelle che distribuivano i volantini contro i preservativi davanti alla chiesa, perché 'la vita è un dono di Dio, Victor, solo lui può decidere quando darla e quando toglierla'."

"Beh, vedo che con te la sua propaganda ha fatto davvero centro."

Victor si strinse nelle spalle, poi tornò a guardarlo e disse:

"Per quanto adori disquisire sulla mia vita sessuale, mi sembra che ci siamo un po' allontanati dal problema di fondo, non trovi?"

"Non c'è nessun problema di fondo."

"Sì, invece: tu e la tua cotta, che con il vostro rapporto alla Romeo e Giulietta, tutto sguardi e sospiri, non vi decidete a fare il passo decisivo."

"Non siamo così patetici, in realtà, stai esagerando." bofonchiò Sherlock, assumendo una parvenza di broncio mentre incrociava le braccia sul petto. Victor, per tutta risposta, emise un gemito esasperato.

"Gesù, non fate altro che flirtare e lanciarvi sguardi languidi e flirtare di nuovo e scambiarvi occhiatine ammiccanti... Siete stucchevoli, Sherl."

"Noi non... N-Noi non flirtiamo affatto!" squittì Sherlock e Victor gli lanciò uno sguardo stizzito, subito prima di scuotere la testa e schiarirsi la voce.

"Quel cappuccino non era male, ma non aveva niente a che fare con i tuoi, quelli sono speciali!" civettò Victor con un sorriso stucchevole e una mano appoggiata all'avambraccio del moro, in un esagerata imitazione di John che fece arricciare il naso a Sherlock. A quel punto Trevor si mise a braccia conserte e chiese, rivolgendogli uno sguardo seccato:

"E quello come lo chiameresti, se non 'flirtare con la F maiuscola'?"

"Amichevole conversazione tra pari."

"Amichevole quanto una sega, Sherlock, ecco cosa... Mmh, questa non è malaccio, potrei regalarla a Carly." commentò Victor, osservando una maglietta con la scritta "My Daddy Calls Me Baby". Sherlock boccheggiò per qualche istante, poi sibilò:

"Potresti per favore smetterla di parlare così?! Quando ti ho chiesto di essere esplicito non intendevo questo, stai diventando irritante! E metti giù quella maglietta, è volgare!"

"Non è colpa mia se le tue pudiche orecchie da verginello innocente si scandalizzano per un nonnulla!"

"E quello tu me lo chiami un nonnulla?!"

"Amico, fidati: con te non sono mai stato volgare. Mai. Altrimenti ti avrebbero già ricoverato in un qualche reparto di psichiatria perché i tuoi fragili e delicati nervi non avrebbero sopportato il colpo e l'affronto e oh, cielo, quale oscenità, sarò condannato a bruciare all'Inferno per l'eternità come una salsiccia!" gemette Victor, coprendosi gli occhi con un braccio e lasciandosi cadere con aria affranta addosso all'amico.

"Perché proprio una salsiccia?" chiese Sherlock, confuso. Le labbra di Victor si piegarono in un ghigno malefico quando alzò lo sguardo sul volto di Holmes.

"Beh, stavamo parlando di pessime battute a sfondo sessuale: mi sembrava in tema."

"Oh, ma falla finita!"

"Certo, certo, come vuoi, Principessa. Comunque... Che stavo dicendo? Ah sì, ora mi ricordo. Ogni volta che vi vedo mi sento male per voi, dannazione, c'è così tanta tensione sessuale repressa tra voi persino quando analizzate roba al microscopio o parlate di malattie mortali, è... Diamine, è ingombrante." disse Victor, tornando in posizione eretta davanti a Sherlock. Lui sospirò e ribatté, passandosi una mano sul collo con aria stanca:

"Ingombrante o meno, non posso certo presentarmi da John e dirgli: 'Ehi, John, ti ho mai detto di avere una cotta per te da tipo due anni? No sai, perché secondo il mio amico Victor sarebbe meglio se andassimo a letto insieme, ridurrebbe la tensione e saremmo tutti e due più felici!'."

"Perché no? A me sembra un gran discorso."

"Vic, non so nemmeno se io possa... piacergli. Fino ad ora l'ho sempre e solo visto con una donna al suo fianco e io sono tutto tranne che una ragazza." mormorò Sherlock, amareggiato. Victor lo squadrò, allibito, poi commentò:

"Tu ai pettegolezzi non ci badi proprio, eh?"

"No. Dovrei?"

"Sì, perché a volte riguardano fatti succosi sul tuo caro John Watson."

"Del tipo?" chiese Sherlock, sulle spine. Victor sorrise e disse, le mani intrecciate dietro la schiena:

"Beh, si vocifera che il buon vecchio John, prima di mettere la testa a posto e diventare Mr. Morstan, fosse una sorta di playboy. E che non spopolasse solo tra le signore, non so se mi spiego..."

"Fermo, fermo: stai dicendo che non è etero?"

"È pensiero comune che non lo sia, no."

"Quindi è... Cosa, bisessuale?"

"Bisessuale, pansessuale, bicurioso, eteroflessibile, non ho idea di quale sia il suo vero orientamento, quindi mettila come preferisci. Sta di fatto che, a quanto pare, non è interessato esclusivamente al gentil sesso e questo, amico mio, ti dà libertà d'azione."

"E se fossero solo pettegolezzi, spazzatura inventata da chicchessia?"

"Se non provi, non lo saprai mai. Anzi no, lo saprai quando te lo ritroverai a gironzolare per il campus mano nella mano con un altro tizio."

"Fermati, ti prego."

"Qualcuno di molto meno attraente di te, di mortalmente stupido e oh, Dio, così banale!"

"Piantala, Vic!"

"Pensa se fosse quel suo amico, quello di criminologia... Come si chiama, Graham? Oppure quello in sovrappeso che studia con lui medicina, quello sì che sarebbe divertente da vedere. O peggio ancora: Anderson."

"La vuoi smettere?!"

"Me lo immagino già a passeggiare romanticamente con lui dinanzi al tramonto, a sbaciucchiarsi sotto un ciliegio in fiore, per non parlare del ses-"

"Basta!" strillò Sherlock, la voce stranamente acuta. Victor si lasciò sfuggire un ghigno malefico.

"Ti ho solo illustrato alcune possibilità per il futuro nel caso tu non ti dia una mossa, Sherly caro. Ora è il tuo turno." commentò Trevor, soddisfatto. Sherlock lo fulminò con uno sguardo omicida e Victor si strinse nelle spalle.

"Dammi retta, Sherlock: anche se non ho esperienza diretta con un ragazzo, so come funzionano le relazioni. Quanto potrà mai essere diverso se invece di far la corte a una femmina la fai ad un maschio?"

"Cosa suggerisci di fare?"

"Potresti approfittare di una delle vostre uscite e parlargli di quello che senti: come ho detto prima, magari inizia con qualcosa di scherzoso per tastare il terreno, come se stessi giocando; poi, di nuovo, puoi abbandonare i piedi di piombo e fare sul serio. Devi cercare di essere esplicito ma allo stesso tempo non indiscreto, John deve capire quello che vuoi dirgli senza però sentirsi pressato, quello non piace a nessuno. Siete amici, state bene insieme e siete molto affiatati, è palese a chiunque: questa vostra complicità vi aiuterà ad affrontare più serenamente la questione, secondo me ti renderà più facile il lavoro. E John potrebbe sempre capire prima della fine del discorso e risparmiarti la fatica, oppure aiutarti nel caso ti veda in difficoltà: è un idiota, ma è anche una brava persona, sono certo che lo farebbe." spiegò Victor, tornando a dare un'occhiata agli indumenti appesi alle grucce. Sherlock si morse il labbro e restò in silenzio, osservando distrattamente i vestiti che Victor gli mostrava. L'amico si rese conto del suo disagio e sospirò, per poi dargli un colpetto sul braccio e chiedere:

"Che c'è che non va?"

"Nulla."

"Piantala di dire cazzate, Sherlock: ti conosco, non sarò un genio ma riesco a capire quando c'è qualcosa che non quadra. Quindi, qual è il problema?"

Sherlock non disse nulla per quale istante, sotto lo sguardo attento di Victor, poi fece un respiro profondo.

"È che... Ho paura di non esserne capace, Vic." disse, amareggiato, "Tengo troppo a lui, come non ho mai fatto prima. Non voglio rovinare tutto."

Victor annuì, meditabondo. Dopo qualche istante disse soltanto:

"Avevo capito male."

"Che vuoi dire?"

"Beh, voglio dire che pensavo fosse una semplice cotta, questa. Avevo capito male: tu sei davvero innamorato di lui." mormorò Victor, sorridendo lievemente. Sherlock sentì le guance farsi sempre più rosse e calde, però riuscì comunque a reggere lo sguardo dell'amico. Lentamente, annuì.

"Sì, lo sono. Non pensavo mi sarebbe mai successo, ma a quanto pare mi sbagliavo." mormorò Sherlock e Victor rise.

"Sembra che alla fine sia umano pure tu. Chi l'avrebbe mai detto?"

"Probabilmente Molly, lei è sempre così ottimista e fiduciosa... A volte è snervante."

"Non ne ho dubbi. Comunque, tornando a noi: aiutami a scegliere il regalo per quella santa di mia sorella, così poi io aiuto te con quello per John."

"Ancora una volta, perché dovrei prendergli un regalo? È davvero così importante?"

"Sherlock, sei dotato di un meraviglioso encefalo, quindi usalo: devi parlargli di voi due, dichiararti addirittura; non credi quindi che un regalo possa fare al caso tuo e aiutarti nell'impresa?"

"...tu credi?"

"Certo che lo credo. Ora, non dico che tu debba fargli una proposta di matrimonio, però potresti iniziare a portarti avanti così. Anzi, perché non lo chiami e lo inviti a uscire? Sarebbe più pratico, avresti già la data fissata e potresti iniziare a preparare il tuo discorso da premio Nobel."

"Non... N-non posso."

"È vero, hai ragione, ora ha lezione... Beh, puoi sempre scrivergli, così quando avrà finito leggerà il messaggio e voilà, fisserete il vostro appuntamento."

"No, Vic, non hai capito, non posso farlo, non ho-"

"Ora però stai facendo il difficile, cosa ti costa mandargli un messaggio?! Hai paura che costi troppo, sei davvero così tirchio?!"

"No, è che-"

"E allora perché non puoi, cosa-"

"È perché non ho il suo numero, Victor!" sbottò Sherlock e Victor si bloccò di colpo. Lo fissò per qualche attimo senza muoversi, completamente allibito.

"Aspetta, aspetta, fammi capire..." disse dopo un po', ancora incredulo, "Vi frequentate da quasi due mesi, vi vedete tutti i giorni, siete sempre appiccicati, eppure... Eppure non gli hai mai chiesto il suo numero?!"

"No. Non ce n'è mai stato bisogno."

"E come facevate a mettervi d'accordo per vedervi?"

"Ne parlavamo giorno per giorno e decidevamo quando e dove vederci in base ai nostri impegni."

"E non ti è mai passato per l'anticamera del cervello di chiedergli il numero per... Non so, altri motivi? Fargli capire che sei interessato a lui?"

"Veramente... No." mormorò Sherlock, pensoso. Victor si sbatté una mano in faccia con aria rassegnata, poi fulminò l'amico con lo sguardo.

"Ma dico io, sei impazzito?! No, non sei pazzo, sei solo un deficiente e quell'altro è pure peggio, perché nemmeno lui ha mai emesso una sillaba in proposito! Cosa diavolo avete nel cervello, la segatura?! Capisco te, che sei un povero piccolo verginello innocente, ma John dovrebbe essere un minimo più pratico, più specializzato nell'arte del rimorchio, però apparentemente siete entrambi due poveri imbecilli!" sbraitò Victor e Sherlock si limitò a sbattere le palpebre in silenzio, imbarazzato. Effettivamente, il suo amico non aveva certo tutti i torti, perché non l'aveva mai fatto prima? Si sentì incredibilmente stupido.

"Non è possibile, non è possibile... Senti," disse Victor, massaggiandosi la radice del naso con aria irritata, "devi darti una svegliata, Sherlock, dico sul serio. Quando lo rivedrai?"

"Domani pomeriggio: in mattinata io lavoro e lui ha lezione. Ci vedremo verso le cinque e mezza, dopo il mio corso di chimica."

"Ottimo. Prima di tutto, sistema questa cosa. Poi vedi di farti avanti, altrimenti giuro che piuttosto lo rimorchio io per esasperazione. Sono stato chiaro, William?"

"Non chiamarmi William, sai che lo detesto."

"Me ne frego, non è questo il punto. Hai capito?"

"Ho capito, ho capito... Cercherò di sistemare tutto." mormorò Sherlock, alzando gli occhi al cielo e Victor si concesse un sorriso soddisfatto.

"Bene. Ora, ho bisogno di un favore."

"Che tipo di favore?"

Victor afferrò una gruccia e mostrò a Sherlock una maglietta rosa, al cui centro spiccava il disegno di un gatto e la scritta, in caratteri dei colori dell'arcobaleno, "Ameowzing!'.

"Ho bisogno che qualcuno la provi." disse Victor sorridendo candidamente, "Io non posso, ho il torace troppo largo, ma tu... Saresti purrfetto con questa addosso."

"Scordatelo. Io quell'orrore non lo metto nemmeno se mi paghi: non mi renderò ridicolo davanti a tutti, non se ne parla."

"Dai, ti offro un frappuccino alla fragola, così anche se te lo rovesci addosso non si vede!"

"A me i frappuccini fanno schifo, lo sai."

"Lavori da Starbucks, amare i frappuccini non dovrebbe essere uno dei requisiti di assunzione?"

"Fortunatamente no. E metti giù quella maglietta, non me la metto!"

"Andiamo, Sherl, giuro che non manderò la foto a tanta gente, solo a tipo mezzo campus!"

"No!"

"Ti prego, non- e dai, amico, torna qui! Sherlock!"

 

 

 

"...non so, forse sarebbe meglio un latte macchiato. Però effettivamente anche il cappuccino non sarebbe male, anche se di solito non lo digerisco. E muffin o treccia? Sembrano entrambi ottimi. Tu cosa mi consigli?"

Sherlock fissò con sguardo truce la donna di mezza età davanti a lui, piccola come uno scricciolo e nascosta dietro ad un paio di occhiali talmente spessi da sembrare finti. Insegnava matematica, se non ricordava male, forse trigonometria. Sherlock non sapeva se fosse più inutile lei o la sua materia.

"Io opterei per il cianuro." mugugnò con un sospiro e la donna gli rivolse uno sguardo vacuo.

"Come, scusa? Temo di aver frainteso."

"Nulla, lasci perdere."

"Allora, credo proprio che prenderò..."

Sherlock distolse lo sguardo con una smorfia, mentre la donna ricominciava a blaterare su cosa fosse meglio ordinare, e finì per posarlo sui propri abiti. Avevano già le divise natalizie e lui le detestava: Molly aveva ragione, quell'anno gli avevano propinato di nuovo le bretelle a righe bianche e rosse e i cappellini di feltro a punta, rosso cangiante e con un maledetto campanellino in cima. Sherlock si sentiva un perfetto idiota vestito così, non vedeva l'ora che le feste passassero e tutto tornasse alla normalità.

La vista di quelle orrende bretelle gli diede la nausea e Sherlock si trovò quasi costretto a guardare altrove. Erano le undici passate e, complice il tempo nevoso, il locale era quasi deserto a quell'ora. Non avendo granché da fare- piuttosto che dare corda a quella pazza logorroica si sarebbe ammazzato-, il ragazzo osservò la strada coperta di neve, gli alberi e i lampioni imbiancati e le persone che passeggiavano sui marciapiedi armate del loro ombrello: sembrava una cartolina, un paesaggio di finzione. Sherlock si era sempre chiesto perché la gente li amasse così tanto: lui preferiva la realtà, era cento volte più interessante.

Ad un tratto, nel suo campo visivo entrò un ragazzo con un piumino arancione e un trapper (1) in testa, diretto verso l'ingresso del locale: era dall'altro lato della strada, ma ci avrebbe messo pochi istanti ad attraversare e raggiungere Starbucks. In ogni caso, Sherlock non aveva certo bisogno che si facesse più vicino per riconoscerlo: lo avrebbe fatto anche ad un chilometro di distanza, figurarsi a pochi metri. Quando varcò la soglia e si tolse il cappello, incrociò subito lo sguardo del barista e a quel punto Sherlock aggrottò la fronte.

"Che ci fai qui?" chiese ad alta voce, interrompendo gli sproloqui solitari della cliente. John lo raggiunse e rispose, appoggiandosi con i gomiti al bancone:

"C'è stato un cambio di programma, mi hanno sposato una lezione a questo pomeriggio e, ultime notizie, il coach vuole farci fare l'ultimo allentamento dell'anno stasera."

"Stasera? Ma il campo sarà coperto di neve, come farete a giocare?"

"Secondo me infatti non giocheremo affatto, ma fallo capire a quel testone, alla fine è sempre lui quello che decide."

"Suppongo quindi che oggi non ci vedremo." dedusse Sherlock e John fece una smorfia, passandosi una mano sul collo.

"Forse stasera, ma non ci giurerei... Sono passato per questo, per avvisarti e salutarti, non mi andava di aspettare fino a domani senza vederti." mormorò John e Sherlock sorrise.

"Gentile da parte tua."

"Io sono gentile. Sono così gentile che aspetterò il mio turno per fare due chiacchiere, non voglio certo rubare il posto alla professoressa Turner." disse John, rivolgendo un sorriso affabile alla donna accanto a lui. Lei rispose con uno soddisfatto, tornando a guardare Sherlock. Fece per aprire di nuovo la bocca, ancora incerta e lui la interruppe sul nascere.

"Senta, se per lei non è un problema, posso occuparmene io: credo di avere un'idea dei suoi gusti, posso improvvisare qualcosa."

"Oh, beh... Se per te non è un problema-"

"No, non è affatto un problema. Sono due sterline e dieci." disse Sherlock, stremato. La donna gli consegnò il denaro e lui, dopo averle detto che l'avrebbe chiamata a ordine fatto- la professoressa aveva lasciato "Pam" come nome per essere chiamata e Sherlock non riusciva a realizzare che in realtà avesse un nome-, passò al cliente successivo, ossia John. Molly gli si affiancò in quel momento, prima che i due potessero mettersi a parlare, e chiese:

"Vuoi che mi occupi io dell'ordine di Mrs. Turner?"

"Non hai altri clienti?"

"No, ho finito adesso con l'ultimo. Ciao, John."

"Ciao, Molly." disse John, rivolgendole un sorriso. Sherlock passò alla ragazza lo scontrino.

"Un Espresso Con Panna Venti da consegnare a Pam."

"D'accordo, me ne occupo io."

Molly tornò ad armeggiare con la macchinetta del caffè e Sherlock tornò a John, che nel frattempo si era messo a fissare con un certo divertimento il suo cappello a punta.

"Non commentare." sibilò Sherlock con una smorfia e John ridacchiò.

"Perché no? Ti sta bene, sembri un elfo troppo cresciuto."

"Staresti meglio tu, in fin dei conti l'altezza è giusta."

"Ha ha ha, molto divertente." ribatté John, stizzito e stavolta fu Sherlock a ridere.

"Il solito?" chiese e John annuì.

"Il solito, sì."

"La cioccolata o il Latte?"

"Tu cosa consigli?"

"Ti prego, non metterti a fare come la Turner."

"Vada per il Latte, allora." disse John, consegnandogli direttamente la quantità di denaro richiesta. Sherlock gli consegnò la ricevuta, poi si spostarono verso l'area di preparazione degli ordini.

"Come procede l'indagine?" chiese John e Sherlock si strinse nelle spalle.

"La presunta stalker era l'ex fidanzata di Keith: non aveva preso bene la rottura."

"E ora?"

"E ora non sono più affari nostri: il nostro lavoro è fatto e Keith lo sa, ora sta a lui mettere le cose a posto tra lui e la sua ex psicopatica." mormorò Sherlock e John annuì. Restarono in silenzio per qualche attimo e Sherlock osservò di tanto in tanto John di sottecchi: faceva finta di nulla, ma il suo nervosismo era più che palese. Era agitato e sembrava sempre sul punto di dire qualcosa, per poi fermarsi e rinunciare. Dopo un paio di istanti, ritornava alla carica. Tempo due minuti e crolla pensò, preparando la miscela per il Latte.

"Allora..." iniziò John dopo nemmeno trenta secondi e Sherlock, cercando di non sembrare troppo compiaciuto, voltò la testa verso di lui.

"Allora cosa?"

"No, mi chiedevo... Hai programmi per le vacanze?"

"Torno a casa, nel Sussex. Niente di particolarmente eccitante, a parte il fatto che mi hanno dato le ferie fino al sette gennaio. Tu, invece?"

"Torno a casa anche io, ma forse farò un salto a Brighton per Capodanno."

"Non per rovinarti i programmi, ma temo che fine dicembre non sia il periodo più adatto per andare al mare."

"Ci sono molte altre cose da fare a Brighton oltre ad una nuotata in mare."

"Del tipo?"

"Bere una birra in un locale, feste, passeggiate sul molo, incontrare persone nuove... Cose così." mormorò John e Sherlock cercò di restare impassibile davanti a quel "incontrare persone nuove". Non seppe dire se ci riuscì, ma dentro avrebbe solo voluto urlare: John non aveva bisogno di altre persone, aveva lui. Se glielo avesse chiesto, avrebbe fatto di tutto, sarebbe stato qualsiasi cosa John avesse voluto. Forse non sei abbastanza, Sherlock, forse
non sei alla sua altezza: magari è per questo che non te l'ha chiesto, ci hai mai pensato?
mormorò sibillina una voce nella sua testa e Sherlock sentì un groppo in gola a quella prospettiva. In fondo non aveva tutti i torti: John era così bello e gentile e speciale e lui era... lui. Provò pietà per se stesso per aver anche solo pensato di poter essere minimamente degno di qualcuno come John.

"Beh, ti auguro di trovare quello che fa al caso tuo, io cercherò di farlo per quanto riguarda il mio." disse a denti stretti, iniziando a riporre nel sacchetto di carta la treccia alla cannella. Probabilmente se lo immaginò soltanto, ma per un attimo gli sembrò quasi che John avesse sgranato gli occhi, come se avesse appena ricevuto uno schiaffo in pieno viso. Fece un sorriso esitante, un sorriso che a Sherlock sembrò quasi nervoso, poi disse:

"Non che tu ne abbia bisogna, insomma... Hai già tutto: un lavoro, voti eccellenti, una grande mente... Una ragazza?"

John rivolse uno sguardo veloce a Molly, intenta ad osservarli con la coda dell'occhio e Sherlock fece una smorfia.

"No."

"No?"

"No: diciamo che le ragazze non rientrano nella mia area di interesse."

"...oh. Oh, okay, allora... Un ragazzo, magari?" buttò lì John con finta nonchalance e Sherlock inarcò un sopracciglio.

"Farebbe qualche differenza?"

"No, no, solo così per dire... A me va bene, non c'è nulla di male."

"Lo so."

"Ecco, appunto... Quindi?"

"Quindi che?"

"Quindi... Hai un ragazzo?"

"No." disse e John gli parve quasi... sollevato.

"Dunque sei single. Senza legami. Come me... Ottimo. Bene." mormorò, quasi più rivolto a se stesso che altro. Sherlock aggrottò la fronte, perplesso.

"John, cosa diavolo stai-"

"Niente, assolutamente niente. Stavo solo- niente."

"Io non direi. Sei strano."

"Fidati, non sono mai stato meglio... Il mio Latte?" chiese il biondo, ad un tratto molto più allegro. Sherlock gli rivolse uno sguardo diffidente, poi scrisse velocemente il suo nome sul bicchiere e versò la bevanda al suo interno, per poi consegnare il tutto a John.

"Eccolo. Ora hai lezione?" chiese Sherlock e John, mentre buttava giù due ampie sorsate, annuì.

"Cardiologia. Dio, saranno due ore infinite..."

"Pensa a me, io sarò confinato qui per molto di più."

"Non ti invidio."

"Immaginavo."

Lo sguardo di Sherlock cadde su un paio di clienti intenti ad aspettare di essere serviti e fece una smorfia: Molly era occupata, toccava a lui.

"Temo sia ora che ritorni al lavoro. Ci... Ci vediamo domani, allora."

"Forse anche stasera, non lo so... Dipende da come vanno gli allenamenti." mormorò John, bevendo quello che restava del Latte. Sherlock annuì, abbattuto, ma non ebbe nemmeno il tempo di deprimersi, perché John chiese:

"Prima che me ne vada, mi passeresti quel pennarello, per favore?"

"Il... Il pennarello? A cosa ti serve?"

"Tu passamelo, poi ti faccio vedere."

Sherlock aggrottò la fronte, titubante, poi però fece come John gli aveva chiesto. Il ragazzo tolse il tappo e iniziò a scrivere velocemente sulla superficie liscia. Dopo qualche attimo, restituì l'indelebile a Sherlock, passandogli qualche istante dopo anche il bicchiere. Il barista inarcò un sopracciglio.

"John, vieni qui da anni: sai che non ci occupiamo noi dello smaltimento rifiuti."

"Oh, lo so... Però penso che quel rifiuto in particolare possa interessarti." mormorò il biondo con un sorriso furbo, intrecciando le mani dietro la schiena e iniziando ad indietreggiare. Sherlock lo guardò stranito, poi si girò il bicchiere tra le mani fino a far entrare nel proprio campo visivo ciò che aveva scritto. Perse un battito, forse anche due o tre: sulla parte alta spiccava il nome di John, scritto nella sua calligrafia secca e spigolosa; più in basso però c'era una nuova aggiunta, una sequenza numerica opera della grafia più gentile e tondeggiante di John. Dopo l'ultima cifra, l'aspirante medico aveva aggiunto un "Text me ;)". Sherlock sollevò di scatto la testa, rivolgendo a John uno sguardo vagamente sconvolto. Lui, invece, sorrise.

"Mi sembrava di aver aspettato fin troppo, a te no?" esordì, poggiando la mano sulla maniglia della porta. Sherlock, ancora inebetito, annuì lentamente. John restò fermo a guardarlo per qualche istante, poi sorrise e scosse lievemente la testa, aprendo la porta nel frattempo.

"Mi aspetto di trovare un tuo messaggio alla fine di cardiologia."

"È... È-È più che probabile." ribatté Sherlock, senza riuscire a trattenere a sua volta un sorriso. John sembrò soddisfatto e alzò una mano per salutarlo, poi aprì la porta e uscì. "Ci sentiamo dopo!" esclamò, mentre richiudeva l'uscio alle sue spalle. Sherlock lo seguì con lo sguardo fino a che non sparì in mezzo alla neve; solo a quel punto riportò l'attenzione sul bicchiere, osservando con aria rapita la successione di cifre che John gli aveva lasciato. Quasi senza realizzarlo, estrasse il cellulare dalla tasca dei pantaloni e aprì la rubrica.

*Opzioni*
->*Nuovo Contatto*
-->*Nome Contatto: John*
*Numero: 0370 010 0222* (2)
--->*Salvare?: *
---->*Salvataggio In Corso...*
*Salvataggio Completato*






 

(1) i trapper sono quei cappelli di tessuto e pelliccia che coprono anche le orecchie, una sorta di colbacco- almeno, così sostiene Google. Per capire meglio, vi lascio qui un link con una foto:
https://www.winterstyle.com/images_wm/large/Tough_Duck_Canvas_Aviator_Hat_Brown_1665.jpg

(2) questo è il numero del servizio clienti della BBC, volevo un numero vero ma non sapevo inventarlo, quindi perché non utilizzare direttamente il numero di telefono degli Inferi?




Note:
Ed eccoci alla fine del capitolo 2!
Innanzitutto vorrei ringraziare tutti coloro che hanno letto, salvato e recensito la storia: non mi aspettavo un seguito così ampio e... Beh, sono felice che ne siate rimasti colpiti! Spero che questo capitolo vi abbia entusiasmato quanto il precedente- e soprattutto mi auguro vivamente di non dover litigare ogni volta con l'html, sta diventando una tortura.
Piccole precisazioni su Victor: nelle storie che leggo o scrivo Victor è sempre un personaggio diverso, più che altro perché alla fin fine è come se non fosse mai stato introdotto nella serie, non ha avuto una caratterizzazione definita e perciò è possibile giocare molto con lui, specialmente con carattere e personalità. In questa storia è uscito così, praticamente un "anti-Sherlock": molto cheeky, leggero, un po' irascibile, spudorato, sarcastico e con un sense of humor stracolmo di battute a luci rosse... Ammetto di avere un debole per questa versione. Onde evitare ulteriori drammi e complicazioni, ho preferito tenere Vic del tutto fuori dalla sfera di interesse di Sherlock e viceversa: uno è etero, l'altro gay e sono migliori amici. Punto. Per questa storia, il ruolo di Victor sarà esclusivamente questo: lo rivedremo più avanti, ma qui non avrà mai il ruolo di "fiamma", ci tenevo a specificarlo.
Come sempre, se volete fare due chiacchiere, segnalare qualche errore sfuggito alla revisione o farmi sapere cosa ne pensate, potete lasciarmi una recensione.
Un bacio, ci rivediamo al capitolo 3!
Cami

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Capitolo 3
*** 3. ***


3.


Dove sei?

2:29 pM

 

Sto arrivando, dammi il tempo di vestirmi.

2:33 pM

 

Cosa significa "Dammi il tempo di vestirmi"?

2:35 pM

 

Significa che sono momentaneamente nudo come un verme e che vorrei mettermi una maglietta addosso. Sai, per non crepare congelato.

2:37 pM

 

Oh? Ci sei ancora o ti è venuto un aneurisma per lo shock?

2:40 pM

 

Sei nudo?

2:40 pM

 

Solo per te, Sherly caro ;)

2:41 pM

 

Piantala di fare il cretino e rispondi alla domanda, Watson.

2:41 pM

 

Ero sotto la doccia, appena uscito. Ora per lo meno ho le mutande addosso.

2:42 pM

 

Grazie per l'informazione. Non avrei dormito la notte, altrimenti.

2:43 pM

 

Tu che stai facendo? Sei già lì?

2:43 pM

 

John, non fare domande stupide: io ci lavoro, qui.

In ogni caso, sto fumando.

2:44 pM

 

Scusa, ho avuto qualche problema con i jeans: stoffa e pelle bagnata non vanno d'accordo.

Nel senso, hai già finito il turno? Sei già fuori?

E non dovresti fumare: quella robaccia ti distruggere i polmoni.

2:47 pM

 

Ovvio. Altrimenti non potrei fermarmi ogni due minuti e mezzo a rispondere ai tuoi messaggi.

I miei polmoni stanno benissimo. Pensa ai fatti tuoi.

2:49 pM

 

Tanto per sapere, è l'atmosfera natalizia a renderti così acido o Molly ti ha rovesciato addosso un bicchiere di caffè bollente?

2:50 pM

 

Facciamo che non te lo dico, così per lo meno ti sbrighi a raggiungermi: mi sto trasformando in un surgelato, ho la neve persino nei calzini.

2:50 pM

 

Scusa, ma non puoi rientrare da Starbucks? Sei lì davanti, no?

2:51 pM

 

Mi hanno fatto staccare prima per miracolo e ora sono in ferie: piuttosto che ritornare in quel posto dimenticato da Dio prima del tempo mi amputerei una mano. E tu sai quanto tenga alle mie mani, sono fondamentali per il mio lavoro.

2:52 pM

 

 

Come sei melodrammatico.

2:52 pM

 

Disse il ragazzo che ieri sera è scoppiato a piangere come un bambino alla fine di quel film infinito e smielato con la nave da crociera che affonda nell'oceano.

2:54 pM

 

 

Stai parlando di Titanic?

2:54 pM

 

John, quanti film di quasi tre ore con navi che affondano e inutili drammi sentimentali abbiamo visto ieri sera? Usa il cervello, lasciarlo inutilizzato non ti recherà alcun beneficio.

2:55 pM

 

Di' la verità: stai cercando di eludere la mia domanda perché non ti ricordi più il titolo, vero?

2:56 pM

 

Comunque non stavo piangendo: avevo la polverina delle tue Pringles alla cipolla negli occhi.

2:57 pM

 

Sherlock? Ci sei?

3:01 pM

 

Scusa, Molly è appena uscita e ha attaccato bottone. E non sembra intenzionata a lasciarmi andare.

3:03 pM

 

Suppongo di dover intervenire per salvarti, donzella in pericolo.

3:05 pM

 

Se ti sbrigassi, potresti farlo.

3:06 pM

 

E tanto per la cronaca, mi ricordavo perfettamente il titolo di quel film. E anche l'attore principale, quello che muore di ipotermia.

3:07 pM

 

Ah sì? E come si chiama? Sbirciare su Google non vale.

3:09 pM

 

Leopoldo Dicarmio, qualcosa del genere. Non è importante.

3:10 pM

 

Questa è bella, me la segno!

3:11 pM

 

E vedi di non morire tu di ipotermia: sono in fondo al viale.

3:11 pM

 

Lo so. Ti vedo.

3:12 pM

 

 

 

Sherlock non aveva mai avuto grandi dubbi riguardo la sua identità, chi fosse davvero: sapeva perfettamente cosa gli piacesse e cosa no, cosa avrebbe fatto in futuro e il modo di raggiungere i suoi obbiettivi, come avrebbe reagito a determinate provocazioni e come si sarebbe sentito subito dopo, cosa avrebbe lasciato vedere agli altri e cosa avrebbe nascosto ai loro occhi. Era completamente conscio dei suoi punti deboli e forti, del suo carattere, delle sue passioni e interessi e, soprattutto, del suo modo di pensare: se glielo avessero chiesto, sarebbe stato sicuramente in grado di prevedere le sue azioni e scelte davanti a questa e quella problematica, si conosceva talmente bene che probabilmente avrebbe addirittura predetto le esatte parole che avrebbe utilizzato. Senza dubbio, le sue doti deduttive gli rendevano più facile l'impresa.

Sherlock era totalmente consapevole di chi fosse e di chi volesse diventare, il primo Consulente Investigativo al mondo, nessuno lo conosceva meglio di se stesso. Almeno, questo era ciò che pensava prima di John Watson.

Aveva iniziato a notare leggeri cambiamenti in sé poco dopo averlo visto per la prima volta, come ad esempio il fatto che la sua mente, da sempre disinteressata in qualsivoglia attività di natura fisica, aveva iniziato a fantasticare sempre più su quel ragazzo dagli occhi blu, distraendolo da ciò che per lui aveva sempre contato veramente. Gli esperimenti, ad esempio. La situazione era precipitata vertiginosamente quando avevano iniziato a parlare e frequentarsi, Sherlock era regredito al livello di un adolescente tenuto sotto scacco dagli ormoni e dai sentimenti: si ritrovava a fare sogni e fantasie ad occhi aperti nei momenti meno opportuni, a controllare compulsivamente l'orologio quando dovevano incontrarsi e lo stava aspettando, oppure il cellulare quando non riuscivano a vedersi, sperando di ricevere un nuovo messaggio.

Da quando poi John gli aveva dato il suo numero, Sherlock aveva rinunciato a qualsiasi grammo di dignità gli fosse rimasta, preferendo invece telefonate infinite a tarda notte-cosa per cui Victor iniziava a detestarlo e a tirargli i cuscini in faccia al grido di "Maledetto il giorno in cui ti ho convinto a chiedergli il numero, tornassi indietro col cavolo che lo farei!" quando, alle tre e mezza, lui se la rideva per una battuta di John e puntualmente lo svegliava- e un flusso continuo di messaggi.

Non riusciva più a riconoscersi: se John non c'era, le indagini si concludevano con minor soddisfazione e divertimento, gli esperimenti gli sembravano privi di importanza se John non era lì per dare il suo parere e dargli dritte sulla parte medica; in più, era come se si stesse trasformando in uno di quegli estranei fissati con l'amore che aveva sempre disprezzato. E la parte più terrificante era stata rendersi conto che, a dirla tutta, non gli dispiaceva poi così tanto.

I giorni erano passati in fretta, più di quanto Sherlock si era aspettato: in un battito di ciglia, tra esami e visite a tarda notte in obitorio per studiare i cadaveri, erano giunti all'ultimo giorno prima delle vacanze e lui era letteralmente terrorizzato. Per quanto possibile, in quelle due settimane il legame tra lui e John si era fatto ancora più forte, complici fughe notturne per il campus e appostamenti per tenere d'occhio uno studente del quinto anno fuoricorso, sospettato da Sherlock di spacciare stupefacenti alle matricole a basso prezzo. Tre giorni prima, all'una e trenta, l'avevano beccato al campo da rugby mentre faceva rifornimento da uno spacciatore locale- un pesce piccolo della malavita londinese, aveva detto Sherlock, era già stato arrestato qualche mese prima e poi rilasciato per mancanza di prove. Ad un'occhiata sospettosa da parte di John, Sherlock aveva sospirato.

"L'ho letto su un verbale di Scotland Yard: ho trovato il modo di accedere agli schedari informatici."

"Come?"

"Non vuoi saperlo veramente." aveva risposto Sherlock, infossandosi ancora di più nella neve. Si erano appostati sulla collinetta a lato del campo, nascosti dai cumuli di neve in cui si erano sdraiati, proprio accanto all'albero dove in estate Sherlock amava fermarsi a leggere- e sì, anche ad ammirare di nascosto John giocare durante gli allenamenti. John per tutta risposta l'aveva osservato in silenzio, poi si era avvicinato ancora di più a lui, stringendoglisi contro il fianco e passandogli un braccio attorno alle spalle, per poi frizionarlo con vigore. Sherlock gli aveva rivolto uno sguardo confuso e John si era stretto nelle spalle.

"Stai tremando: fa un freddo cane e siamo immersi fino al collo nella neve. Meglio cercare di scaldarsi un po', per quanto possibile." aveva mormorato, schiarendosi la voce. A Sherlock era sembrato di averlo visto arrossire un poco, ma avrebbe potuto essere un effetto dell'eccessivo freddo, oppure poteva semplicemente aver visto male per colpa del buio. Avevano scattato alcune fotografie in cui il sospettato e lo spacciatore erano ritratti proprio nel momento dello scambio droga-soldi: il giorno dopo le avevano sbattute sulla cattedra del rettore e nemmeno mezz'ora dopo la polizia aveva fatto irruzione nel campus. Quel giorno c'erano stati due arresti e un'espulsione, il tutto grazie alla segnalazione anonima di un qualche studente ligio al dovere. O almeno, questo era quello che Sherlock e John avevano sentito.

In tutto questo, Sherlock aveva faticosamente cercato di capire come stessero davvero le cose tra lui e John: Victor il giorno prima, davanti ai suoi dubbi amletici, aveva semplicemente detto che a quanto pareva, al posto nei neuroni, Sherlock nel cervello doveva avere dei girini, perché più tardi di così non si poteva essere.

Nonostante quel suo atteggiamento incazzoso, Victor l'aveva aiutato parecchio in quell'ultimo periodo, specialmente per quanto riguardava la scelta del regalo e il buttare giù una parvenza di dichiarazione da sciorinare a John, complici numerose nottate in bianco e innumerevoli pacchetti di sigarette da parte di entrambi. La verità era che, nonostante li maledicesse praticamente ad ogni ora del giorno, Victor teneva al suo amico e desiderava vedere lui e John felici ma soprattutto insieme, perché, in fin dei conti, era quello il loro posto.

E così Sherlock, mezzo assiderato per aver aspettato per più di mezz'ora John in mezzo alla neve- come aveva detto via messaggio, aveva staccato prima dal lavoro per miracolo e col cavolo che sarebbe rientrato prima del tempo in quel posto maledetto-, stava cercando di racimolare le idee dopo il congedo con Molly, perché quella era l'ultima occasione che aveva per dire tutto a John prima delle vacanze e dannazione, non voleva rimandare ulteriormente quella conversazione, specialmente sapendo che non era l'unico ad avere messo gli occhi su John e che, se non fosse stato abbastanza attento, glielo avrebbero portato via.

Il regalo era in camera sua, troppo ingombrante da portarsi dietro: alla fine aveva risolto la faccenda da solo, Victor gli aveva dato l'input quasi per scherzo e voilà, Sherlock aveva avuto l'illuminazione. Qualche giorno prima- sì, si era ridotto esattamente a qualche giorno prima, nonostante tutto il tempo che aveva avuto- Victor l'aveva trascinato di nuovo a fare shopping e, a fine giornata, l'aveva portato in un inutile negozio danese pieno di ciarpame e cianfrusaglie di ogni sorta (1), dai vasi da fiori agli attrezzi da fitness, passando per caramelle e cioccolatini. C'era di tutto, davvero, e inizialmente Sherlock si era dimostrato accomodante quanto un membro della Santa Inquisizione medievale, ma Victor aveva continuato a fare il cretino e a mostrargli roba a caso facendo battute di dubbio gusto.

Ad un certo punto, però, gli aveva passato sghignazzando dei cuori e dei cervelli di gomma, una sorta di anti stress, e aveva detto: "Dovresti regalarli a John, non sia mai che riusciate finalmente a capirci qualcosa!" e, nonostante la vena sarcastica, Sherlock l'aveva preso sul serio: aveva acquistato entrambi, cuore e cervello, insieme ad una scatola, un nastro rosso e un sobrio biglietto color panna, un semplice cartoncino.

Qualche tempo prima, chiacchierando con John, era saltato fuori che all'aspirante medico piacevano i rompicapi, gli enigmi da risolvere- si era vantato per una buona decina di minuti di aver finito in soli due giorni uno dei videogiochi del Professor Layton e Sherlock, non sapendo cosa fosse, la sera stessa aveva svolto un'approfondita ricerca online. Inutile dire che il giorno dopo aveva comprato anche lui una console e tutti i giochi: c'erano un paio di enigmi che gli davano ancora filo da torcere, a dire il vero, ma piuttosto che ammetterlo si sarebbe tagliato la lingua. Quel bastardo con la tuba non l'avrebbe mai avuta vinta con lui, mai.

Comunque, aveva messo nella scatola cuore, cervello e il biglietto, su cui aveva scritto un anagramma per John che, nelle sue intenzioni, avrebbe chiarito una volta per tutti i suoi sentimenti. Non restava che sperare che John fosse davvero bravo come diceva e capisse ciò che voleva dirgli. In caso contrario, avrebbe avuto due anti stress sicuramente apprezzabili da uno studente di medicina.

John era apparso qualche istante prima in fondo alla strada e Sherlock, che aveva ancora tra due dita il mozzicone ormai spento della sua sigaretta, lo buttò nel cestino lì accanto. Indossava sempre il Belstaff, lo sentiva quasi come una parte di sé, mentre John aveva sostituito il piumino arancione di qualche tempo prima con un bomber verde militare decisamente più sobrio. Sherlock notò che aveva ancora i capelli vagamente arricciati e mossi, come se non li avesse asciugati come si deve una volta uscito dalla doccia: era combattuto tra lo sbavargli dietro e il preoccuparsi che non prendesse qualche accidente. Quando il ragazzo individuò l'alta sagoma vestita di scuro ferma ad aspettarlo davanti a Starbucks, sorrise.

"Scusa se ci ho messo tanto, ma asciugarmi ha richiesto più tempo del previsto."

"E a giudicare dai tuoi capelli non hai nemmeno completato l'opera. Che hai nel borsone?" chiese Holmes, lasciando cadere lo sguardo sulla tracolla che John portava su un fianco. Lui le lanciò un'occhiata veloce e tentennò qualche istante, cosa che fece insospettire ulteriormente il più giovane.

"Qui, dici? Nulla, solo... Dei libri di testo, sai, anatomia e cose del genere. Niente di interessante." bofonchiò John e Sherlock assottigliò le palpebre.

"Sei appena arrivato dalla tua stanza nel dormitorio, però, non da una lezione: potresti averli già lasciati lì, quindi perché invece te li porti ancora dietro? Non ha alcun senso pensando che siano davvero libri di testo e a giudicare dal peso e dalle dimensioni proprio non direi. No, sono dell'altro, qualcosa che ti serve e che non potevi lasciare nella tua stanza..." dedusse Sherlock, lasciando teatralmente in sospeso la frase. John roteò gli occhi con un sospiro, infastidito.

"Certo che non ti si può proprio nascondere nulla, eh?"

"Non se menti così male, era piuttosto intuibile che tu non avessi dei testi universitari lì dentro, li ho visti tutti molteplici volte e non ve ne sono di così sottili. L'estensione tuttavia è considerevole, quindi potrebbe essere un album da disegno, forse per anatomia, o-"

"Il tuo regalo di Natale." lo interruppe John, secco. Sherlock si bloccò di colpo, spalancando gli occhi grigi e fissandoli su John con aria sgomenta. Sbatté un paio di volte le palpebre e dopo qualche attimo si lasciò sfuggire un singolo:

"Oh."

"Oh, già. Speravo non te ne saresti accorto, portarlo dietro a mano sarebbe stato troppo vistoso, ma probabilmente sarebbe stato meglio. Ti sei comunque rovinato la sorpresa."

"Mi... Mi dispiace. Non era mia intenzione."

John si strinse nelle spalle e si lasciò sfuggire un sorriso vagamente divertito.

"Non fa niente, so che non l'hai fatto apposta. Ora però puoi cercare per lo meno di non dedurre cosa sia? Per lo meno ti resterà questo." chiese, ironico e Sherlock annuì rigidamente. Aveva involontariamente assunto il suo caratteristico atteggiamento un po' algido e distaccato, freddo, ma solo per nascondere la mortificazione: come sempre non era riuscito a controllarsi e stavolta era stato John a subirne gli effetti. Grandioso, Sherlock. Davvero bravo.

"Ehi, guarda che stavo scherzando: non me la sono presa, non ci rimuginare troppo su." disse John, dandogli una lieve gomitata. Sherlock lo squadrò diffidente, indeciso se credergli o meno, ma durò ben poco: il sorriso che John gli rivolse valse più di mille parole e Sherlock si ritrovò ad abbassare lo sguardo. Detestava John quando si comportava in quel modo, quando lo faceva sentire esposto, fragile, un semplice ragazzo innamorato, così... così. Osservò di sottecchi il suo viso per un singolo istante e si corresse: no, non lo detestava affatto. Lo amava più di ogni altra cosa.

"Dai, andiamo, altrimenti finisce che ci trasformiamo in due ghiaccioli." mormorò John e Sherlock annuì, iniziando a camminare al suo fianco. Quell'anno, per celebrare il Natale, l'amministrazione cittadina aveva organizzato poco lontano dal campus dei mercatini natalizi: John aveva proposto di andarci quel giorno e dare un'occhiata, come ultimo pomeriggio insieme prima della vacanze e Sherlock, sebbene non ne fosse granché entusiasta, pur di farlo contento aveva accettato. John restò in silenzio per qualche minuto, poi si illuminò e voltò la testa verso il più giovane, rivolgendogli un sorrisetto divertito.

"Ho scoperto una cosa stamattina, sai?"

"No, non lo so, ma suppongo che a breve non sarà più così. Cosa hai scoperto?"

"Una notizia molto succosa, caro il mio William."

Sherlock si fermò di botto in mezzo al marciapiede, rivolgendo a John uno sguardo sgomento.

"Come mi hai chiamato?"

"William. È il tuo nome, no?"

"Come l'hai scoperto?" chiese Sherlock, scuro in volto. John sogghignò.

"So leggere nel pensiero."

"John, dico sul serio. Te l'ha detto Victor?"

"No. Perché, lui lo sapeva?"

"Sì: un giorno, durante il primo anno, mia madre è piombata nel campus, hanno parlato e gli ha spifferato metà della mia infanzia. Victor mi sfotte ancora oggi per quelle storie."

"Dovrò chiedergli di raccontarmele." mormorò John, divertito, e Sherlock lo fulminò con lo sguardo.

"Non ti azzardare."

"Perché no?"

"Perché sono storie ridicole, non... Non voglio che tu veda quel lato di me, il marmocchio di otto anni che corre dietro alle api e si apposta sotto agli alveari. È imbarazzante."

"No, non è imbarazzante. È carino."

Sherlock non rispose, limitandosi a fissare John in silenzio. Sentiva le gote in fiamme, ma sperò che John lo scambiasse per un effetto del freddo eccessivo. Il ragazzo ad un certo punto ridacchiò, scuotendo lievemente il capo. Quando tornò a guardare il più giovane, ammise, mentre riprendevano a camminare:

"Ho un'amica che lavora part-time in segreteria: l'ho convinta a farmi dare un'occhiata alla tua scheda."

"Ah. Voglio dire, perché l'hai fatto?"

"Perché ero curioso: non mi hai mai detto nulla di banale su di te, tipo il giorno del tuo compleanno. A tal proposito, manca poco: hai già organizzato qualcosa?"

"Per esempio?"

"Che so, una festa?"

"Non sono un tipo da feste."

"Mmh. Qualcosa per festeggiare però va fatto." commentò John e Sherlock roteò gli occhi, esasperato.

"Perché siete tutti così fissati con i compleanni? Sono giorni uguali agli altri, concretamente non cambia nulla, eppure ci fate tutti su una questione di stato! Perché?"

"Beh, non è detto che non cambi nulla. Prendi il tuo prossimo compleanno, ad esempio: il ventunesimo è una data importante, da quel momento in poi sarai abbastanza grande per sbronzarti legalmente!"

L'entusiasmo di John si scontrò contro il muro di totale indifferenza mostrato da Sherlock riguardo alla questione.

"Non sono un tipo da alcolici."

"L'hai detto due minuti fa per le feste, non puoi dire così per tutto!"

"Scommettiamo?"

John sospirò, poi disse, alzando le mani guantate in segno di resa:

"Okay, ho capito: ne parlerò io con Victor, ce ne occuperemo noi."

"Prevedo uno sfacelo con tanto di sbronza sul tetto."

"Non è una brutta idea, in effetti..." mormorò John, assorto e Sherlock sbuffò. John a quel punto si schiarì la voce, assumendo tutto d'un tratto un'aria più rigida e imbarazzata:

"E a casa non festeggi mai? Non so, magari qualcuno ti organizzerà una festa, qualcosa di... intimo, forse."

Sherlock inarcò un sopracciglio.

"Definisci intimo."

"Dai, hai capito..." bofonchiò John, dando un calcio alla neve sul selciato. Sherlock sospirò, poi rispose:

"No, John, niente festini a base di sesso, con sommo disappunto di Victor."

"Victor? Che c'entra Victor con la tua vita sessuale, scusa?" domandò John, ad un tratto cauto e diffidente. Sherlock si strinse nelle spalle e rispose, annoiato:

"Secondo lui fare sesso migliorerebbe il mio temperamento e blah blah blah, mi renderebbe meno intrattabile e più gioioso, blah blah, meno stressato e idrofobo... Roba del genere."

"E tu cosa ne pensi?"

"Riguardo a cosa?"

"Riguardo al sesso."

"Perché ti interessa?"

"No, così... Tanto per parlare di qualcosa."

"Ci sono centinaia di altre cose di cui potremmo parlare, John, perché proprio questo?" ribatté Sherlock, mettendosi sulla difensiva. Stavolta toccò a John sospirare, stringendosi nel bomber con fare piuttosto teso.

"Perché, ad essere sincero, mi sembra troppo strano, Sherlock."

"Cosa ti sembra strano?"

"Che tu non abbia nessuno accanto, né qui né altrove... Non me lo spiego, sto solo cercando di capire."

"Non c'è molto da capire, in realtà, è tutto piuttosto semplice: io non piaccio alle persone, le persone non piacciono a me, quindi ci evitiamo a vicenda. Fine."

"Non è vero."

"Che cosa?"

"Non è vero che non piaci alle persone. Prendi Molly, Victor, prendi me: a me tu piaci. E in più, non ci eviti. E poi sei un bel ragazzo, intelligente, attraente anche... A volte non molto simpatico, ma non sei poi così male. Quindi non riesco a spiegarmi perché tu sia solo." concluse John e Sherlock lo osservò in silenzio, titubante. Quelle frasi avevano iniziato a far galoppare il suo cuore alla velocità della luce, quel a me tu piaci aveva avuto lo stesso effetto di una bomba nucleare sul suo cervello, lasciandolo in un degradante stato di tabula rasa totale. Ad un tratto le parole di Victor tornarono a lampeggiargli davanti agli occhi, Devi darti una svegliata, Sherlock, devi dirglielo e, forse, era arrivato il momento di fare un primo passo.

"C'è... C'è un altro motivo, in realtà." sussurrò, riportando istantaneamente lo sguardo di John su di sé.

"Ah sì? E quale?"

"Beh, veramente... V-Veramente una persona ci sarebbe. Da un po', a dire il vero, ma non abbiamo mai... Non abbiamo mai detto o fatto nulla, più che altro perché non penso che sia interessato ad avere qualcosa con me. Lui è molto... come dire, richiesto e io non sono certo l'offerente migliore." confessò Sherlock con un sorriso amaro. Quando guardò John, gli sembrò di vederlo più abbattuto, demoralizzato quasi. Non gli piaceva vederlo così.

"Va tutto bene?" chiese, cauto e John fece una smorfia.

"Sì. Cioè, no. Insomma, conosco bene quella sensazione, quella di essere innamorati di qualcuno decisamente fuori dalla tua portata e di sapere che non ne sarai mai all'altezza. Fa schifo."

"Sì, è vero... Mary?"

"No, macché, è... È una cosa più recente. Senti, posso farti una domanda?" chiese John di punto in bianco, lasciando Sherlock spiazzato. Il ragazzo sbatté un paio di volte le palpebre, perplesso, poi annuì.

"Certo. Chiedi pure."

"Come si fa a capire se piaci a uno come te? Perché davvero, io ci ho provato, ma non ci riesco, sarò scemo io a questo punto!" sbottò John, attirando su di sé gli sguardi di due ragazze di passaggio. John rivolse loro un cenno imbarazzato, mentre Sherlock lo squadrava allibito.

"No, aspetta, tu... Vuoi sapere come fare a capire se tu possa piacere a qualcuno come... me." ripeté Sherlock lentamente, come se stesse parlando ad un bambino. John annuì, poi disse, gesticolando animatamente:

"Tipo, supponiamo che io ti piaccia."

"Lo supponiamo e basta, no?"

"Certo, certo... Comunque, io ti piaccio."

"D'accordo."

"Ecco. Come faccio io a capirlo? E soprattutto, come faccio a farti capire che Dio, sono innamorato pazzo di te?" chiese John, esasperato. Sherlock non sapeva esattamente come reagire e finì per sprofondare in uno stato di mutismo totale per alcuni momenti. Quella situazione era surreale, anche troppo, e a tratti gli sembrava solo uno scherzo crudele: John che gli diceva quelle cose, con quel tono, riferendosi a lui... Aveva l'impressione di star per morire.

Il problema era che, a quanto sembrava, a John piaceva qualcuno e, come da manuale, quel qualcuno non era lui. Tipico. Tuttavia il fatto che John fosse innamorato di qualcun altro non intaccava certo la natura dei suoi sentimenti, ci teneva davvero a lui: gli aveva chiesto aiuto e Sherlock, che potessero amputargli una gamba in caso contrario, avrebbe fatto di tutto per aiutarlo.

"Beh..." mormorò, sbattendo un paio di volte le palpebre per riscuotersi dalla trance improvvisa, "La cosa migliore da fare è essere diretti: perdersi in inutili fronzoli romantici non avrebbe senso, non con qualcuno con un carattere simile al mio... Se proprio devi, parla chiaro. Eviterai irritanti sprechi di tempo ed energie."

"E se..."

John lasciò in sospeso la frase, titubante, e Sherlock alzò con gli occhi al cielo con un sospiro.

"E se?"

"E se chiedessi a questa persona di uscire... Non so, tipo per un vero appuntamento... Pensi che accetterebbe?" domandò John, mordendosi lievemente il labbro inferiore mentre rivolgeva a Sherlock uno sguardo esitante. Il ragazzo restò in silenzio, perplesso. Ma che razza di domanda era? Come avrebbe potuto saperlo, lui? Si strinse nelle spalle e rispose:

"Non lo so, come faccio a dirlo?"

"Tu come reagiresti?"

"A cosa?"

"A un... Un mio invito a uscire. Accetteresti?"

"John, per favore, non è il momento di-"

"Sherlock, dico sul serio." lo interruppe John, fermo. Aveva uno sguardo mortalmente serio e una luce risoluta e determinata negli occhi, particolari che disorientarono parecchio Sherlock. Cosa gli importava di lui, in fondo? Perché fissarsi su di lui, non era quella persona, per quanto potesse somigliarle, quindi perché continuare con quella recita?

"Credo... Credo di sì, ma che c'entro io? Solo perché a quanto pare ci somigliamo, non significa che le mie scelte rispecchino necessariamente le sue." mormorò Sherlock. John restò zitto per qualche istante, poi, contro ogni previsione fatta dal moro, si mise a ridere. "Che c'è, perché adesso stai ridendo? Ho detto qualcosa di divertente?" chiese Sherlock, a metà tra la perplessità e l'irritazione. John scosse la testa, senza smettere di ridacchiare, e fece un cenno con la mano.

"No, no, è solo che... Gesù, sei tipo un genio, ma a volte sai essere così dannatamente ingenuo... È stupefacente."

"E questo cosa vorrebbe significare?"

"Te lo spiego dopo, quando sarai più grande. Andiamo?"

Sherlock, ancora vagamente spiazzato, guardò John riprendere a camminare dopo avergli dato un lieve colpetto sul braccio. Che cosa diavolo era appena successo? Cosa si era perso? Perché doveva per forza essersi perso qualcosa, non c'era altra soluzione. John era tornato allegro, probabilmente la sua risposta l'aveva rincuorato, ma Sherlock, dall'alto della sua suprema intelligenza, davvero non riuscire a capire perché.

"Sherlock?"

Il richiamo di John gli fece alzare il capo, incrociando istantaneamente il suo sguardo. John gli fece cenno con il capo di raggiungerlo e Sherlock sentì qualsiasi sua difesa cedere e crollare miseramente davanti a quel sorriso luminoso: non poté fare altro se non accelerare il passo per raggiungerlo, sorridendo come un idiota nel mentre. Maledetto John Watson, l'aveva trasformato in una ridicola e sentimentale caricatura di se stesso.

Restarono in silenzio per un po', rimuginando su quello che si erano appena detti mentre raggiungevano i mercatini. Sherlock osservò con aria critica le bancarelle decorate di rosso, oro e rametti di abete, cercando di dare una parvenza natalizia a quell'ammasso di ciarpame a costi spesso esorbitanti. John invece sembrava gradire quell'atmosfera, le decorazioni e anche il ciarpame, cosa che lasciò alquanto perplesso il giovane Holmes: come John facesse a farsi piacere tutte quelle cose sarebbe rimasto un mistero per il resto della sua esistenza.

"Ehi, guarda, quella bancarella vende dolci: ti va di prendere qualcosa?"

"Che tipo di dolci?"

"Mmh, mi sembra di vedere un po' di tutto: mele caramellate, cioccolata, zucchero filato... Oh, ci sono anche le frittelle di mele, buone!"

"Sicuramente saranno migliori di quelle di Starbucks." commentò Sherlock con una smorfia e John rise. Raggiunsero la bancarella e diedero un'occhiata più da vicino: Sherlock, contrariamente a quanto si potesse pensare, andava matto per i dolci, specialmente per quelli allo zenzero. E quella dannata bancarella ne era piena.

"Buon pomeriggio, ragazzi! Cosa posso fare per voi?" chiese una donna sulla sessantina dietro al bancone, rivolgendo loro un sorriso affabile. John ricambiò senza esitazione e rispose:

"Salve, io vorrei... Una cioccolata calda e una frittella alla mela, grazie. Tu, Sherlock?"

"Anche io una cioccolata calda. E un Ginger Nut (2)."

"Uno solo?" chiese la donna, già con sacchetto e pinza in mano. Sherlock rivolse uno sguardo titubante ai biscotti, ampi quando un pugno chiuso e tragicamente invitanti. Sospirò e sentì il sangue affluire velocemente al volto e alle orecchie quando bofonchiò:

"Magari due o tre."

La donna ridacchiò e Sherlock si maledisse per il suo rossore inopportuno- perché ora tutt'un tratto arrossiva così facilmente? Perché?- quando notò John sorridere a sua volta. Dannazione.

"Sono cinque sterline e sessanta, ragazzi." disse la signora e Sherlock portò la mano al cappotto, cercando il portafoglio, ma John lo fermò.

"Non ti azzardare. Offro io." disse e Sherlock fece una smorfia.

"Non è necessario, John."

"No, davvero, lo faccio volentieri: non ci vedremo per un po', quindi... Sai com'è."

Ancora una volta, Sherlock avrebbe voluto dirgli che no, non lo sapeva com'era, ma la verità era che da quando avevano iniziato a frequentarsi aveva cominciato ad intuirlo e a farsene un'idea. Quindi, per una delle poche volte in vita sua, lasciò perdere, limitandosi ad annuire.

"Grazie." sussurrò e John, mentre scambiava il denaro con i loro acquisti, gli rispose con un sorriso. Salutarono la commerciante, poi iniziarono a girare tra le varie bancarelle bevendo cioccolata e mangiando i rispettivi dolci.

"E così," disse John, masticando un pezzetto di frittella, "ti piacciono i Ginger Nuts." Sherlock, che ne stava addentando uno proprio in quel momento dopo aver accuratamente riposto il sacchetto in una tasca del cappotto, pregò di non arrossire di nuovo mentre annuiva lentamente.

"Quando ero piccolo, mio fratello mi prendeva in giro dicendo che, se fossi andato avanti a mangiarli nella quantità giornaliera con cui li assumevo, mi sarei trasformato in una palla di lardo. Le situazioni si sono comicamente invertite di lì a pochi anni, io magro come un chiodo e lui una sorta di pachiderma, ma i Giner Nuts mi sono sempre piaciuti."

"Capito... Facciamo un gioco, ti va?" propose John e Sherlock inarcò un sopracciglio.

"Che tipo di gioco?" chiese, guardingo. John sorrise e rispose:

"Io e mia sorella lo chiamavamo Il Gioco Domande: quando ci annoiavamo, da bambini, ci chiedevamo tutto quello che ci passava per la testa, per passare il tempo."

"Non è che sia proprio un gioco."

"No, ma aiuta a conoscere meglio le persone. E poi, è divertente. L'unica regola è essere onesti, per il resto non ci sono risposte giuste o sbagliate."

"Mmh. E perché lo vuoi fare con me?"

"Perché, come ti ho detto tipo mezz'ora fa, non mi hai mai detto cose banali su di te, quel tipo di cose che si dice la gente per conoscersi. Con questo gioco si è costretti a farlo, praticamente si basa su queste domande."

Sherlock restò zitto qualche istante. Normalmente non gli piaceva parlare di sé, con gli altri non lo faceva mai, ma con John... Con lui lo faceva quasi costantemente, quasi senza accorgersene. Erano sempre cose di poca entità, semplici particolari, ma per uno come lui erano già tantissimo. E se John davvero ci teneva tanto... Che chiedesse pure, non sarebbe certo stato lui a fermarlo.

"D'accordo. Se ci tieni tanto, per me va bene."

"Okay, parto io, allora... Il tuo colore preferito?"

Sherlock rise e commentò:

"Più banale di così davvero non si può, John."

"Beh, il segno zodiacale lo sapevo già, dovevo ripiegare sulla seconda scelta."

"Certo, certo... Blu. Il tuo?"

"Scusa, chi era quello banale?"

"Tu, sempre e comunque. Allora?"

"Rosso."

"Okay... Cantante preferito?" chiese Sherlock e John all'improvviso assunse la tinta del suo colore preferito, sgranando un po' gli occhi.

"Giura che non mi prenderai per il culo."

"Perché dovrei? È così imbarazzante?"

"Più che altro è... inaspettato da parte mia. Me lo dicono sempre."

"Farò uno sforzo per trattenermi." disse Sherlock, cercando di contenere la curiosità crescente. John sospirò, poi mormorò, nascondendo la bocca con il bicchiere di cioccolata:

"Madonna (3)."

"...Madonna?" ripeté Sherlock, perplesso. John incassò la testa nelle spalle e annuì, bevendo un paio di sorsate di cioccolata. Sherlock a quel punto, dopo un paio di attimi di intenso riflettere, aggrottò la fronte.

"E chi è?"

"Cosa intendi con chi è?"

"Quante interpretazioni credi possa avere quella domanda, John?"

"No. Andiamo, non... No. Non ci credo. Tu davvero non la conosci?!"

Sherlock schioccò la lingua.

"Evidentemente no."

"Ma... M-Ma andiamo, com'è possibile?! Alcune sue canzoni sono famosissime, è statisticamente quasi impossibile che tu non le abbia mai sentite!"

"Non sono un appassionato di musica pop, ne ascolto veramente poca e suppongo che questa Madonna sia una cantante attiva in questo genere."

"Lo è. Dagli anni '80." disse John finendo la sua frittella, stizzito e Sherlock inarcò un sopracciglio.

"Ma allora è vecchia."

"Ma che vuol dire?!"

"Che non pensavo fossi un tipo da cougars."

John sbarrò gli occhi ed esclamò, la voce innaturalmente acuta:

"Non sono un tipo da cougars!"

"Ah no?"

"No! E comunque, davvero, è impossibile che tu non la conosca! Insomma, canzoni tipo Like A Virgin, Papa Don't Preach, La Isla Bonita, 4 Minutes... Hanno fatto la storia, Sherlock!"

"Non esagerare."

"Non sto esagerando!"

"Sì, invece. Adesso, da bravo, bevi la cioccolata e calmati."

"Ma-"

"Calmati, John."

John sembrava ancora un po' stralunato, come sé quella conversazione l'avesse scosso nel profondo, ma la voce di Sherlock, calma e inflessibile, sembrò sortire l'effetto desiderato. Sbatté un paio di volte le palpebre e, preso un respiro profondo, tornò alla normalità. Più o meno.

"Okay. Okay, sto bene... Credo. E sappi che appena torneremo qui, dopo le vacanze, ti toccherà una full immersion di canzoni di Madonna, anche a costo di incollarti le cuffie alle orecchie!"

"Agli ordini, capitano."

"Sì, sì, fai lo spiritoso... E tu, invece? So che ti piace la musica classica e non ascolti musica pop-"

"Non è che non l'ascolto per niente, è che non ne vado matto e preferisco la musica classica."

"Allora dimmi, cantante pop preferito?" chiese John, curiosamente divertito. Sherlock scosse la testa, risoluto, mentre gettavano in un cestino i bicchieri della cioccolata ormai vuoti.

"Non risponderò a questa domanda."

"Dai, ti prego!"

"John, nel caso questa cosa dovesse venire fuori, sappi che anche la tua passione per Madonna e le cougars diventerà di pubblico dominio. Sono stato chiaro?"

"Trasparente. Adesso me lo dici?" chiese John, facendoglisi più vicino. Sherlock sospirò, poi mormorò:

"So già che me ne pentirò amaramente... D'accordo, facciamolo: Beyoncé.(4)"

John restò immobile qualche secondo, quasi fosse sotto shock; subito dopo, scoppiò fragorosamente a ridere. Sherlock fece una smorfia.

"Non mi ridere in faccia, John Watson: è altamente scorretto da parte tua."

"Mi dispiace, veramente, però... Oddio, immaginarti cantare a squarciagola Single Ladies in dormitorio, magari pure con quella cosa che indossa nel video... È troppo per me, scusa."

"Beh," commentò Sherlock, esternando ogni milligrammo di saccenza in suo possesso, "veramente preferisco Crazy In Love, ma suppongo che a questo punto sia un dettaglio di trascurabile rilevanza."

"Cantami il ritornello."

"No."

"Se ti fa sentire meglio, ti offro la possibilità di fare un duetto."

"Per l'amor di Dio, John, siamo circondati dalla gente, non ho intenzione di mandare al diavolo così la mia reputazione!" sibilò Sherlock, anche se sotto sotto era curioso di sapere se John l'avrebbe fatto davvero. Non l'aveva mai sentito cantare e la cosa lo attraeva non poco. John per tutta risposta sogghignò, poi rispose:

"Che la gente si fotta, non mi spaventano certo un paio di vecchiette scandalizzate."

"John-"

"D'accordo, inizio io: got me looking so crazy right now, your love's..." iniziò John, canticchiando il primo verso del ritornello. Sherlock, nonostante stesse rischiando una sincope perché Dio mio, ha pure una bella voce..., gli lanciò un'occhiataccia, a cui John rispose con un sorriso di sfida che sembrava dire "Vediamo cosa sai fare, se hai spina dorsale". Al che il giovane Holmes, masticando un'imprecazione tra i denti e guardandosi attorno attentamente, proseguì a bassa voce:

"Got me looking so crazy right now, got me looking so crazy right now, your touch..."

John ridacchiò, deliziato, e continuò, la voce più alta:

"Got me looking so crazy right now, got me hoping you'll page me right now, your kiss..."

Sherlock rise a sua volta, senza più riuscire a trattenersi.

"Got me hoping you'll save me right now." concluse, prima che entrambi finissero il ritornello insieme, praticamente urlando a squarciagola in mezzo alla strada:

"Looking so crazy in love, got me looking, got me looking so crazy in love!"

Quando ebbero finito la loro performance alla X-Factor, Sherlock notò con una cospicua dose di imbarazzo che praticamente chiunque li stava fissando, quasi tutti sconvolti per la scena a cui avevano appena assistito. John si stava guardando attorno a sua volta e, quando ebbe appurato che la situazione non era a loro favore, sussurrò a Sherlock:

"Ce ne andiamo?"

"Direi di sì. Strada sulla destra?"

"Di corsa. Via!"

Scattarono in contemporanea, schivando passanti stupefatti e saltando cumuli di neve ancora fresca. Smisero di correre solo dopo aver attraversato due strade e altrettanti incroci, ovvero quando praticamente si ritrovarono alle porte del campus. Sherlock si appoggiò al muro di mattoni dell'edificio accanto a loro, appoggiando la nuca alla parete mentre riprendeva fiato. John si era accovacciato, le mani sulle ginocchia e dopo qualche istante Sherlock lo sentì ridere.

"Dio santo," ansimò, assumendo la stessa posizione del ragazzo dai capelli scuri, "questa... Questa rientra assolutamente nella Top Five delle più grandi cazzate che ho fatto in vita mia. E credimi, di cazzate ne ho fatte davvero tante..."

Sherlock rise a sua volta e annuì.

"Sì, beh... Se non altro abbiamo fornito intrattenimento di prima qualità agli altri visitatori."

"Già... Canti bene. Hai una bella voce."

Sherlock abbassò lo sguardo su John, intento a studiarlo in silenzio dopo quel commento. Fece un lieve sorriso, sentendo un piacevole calore propagarsi per il petto.

"Anche tu non eri male. Vuoi tornare indietro?" chiese e John scosse vigorosamente il capo.

"No, direi di no. Camera tua?"

"Camera mia." acconsentì Sherlock e si rimisero lentamente in cammino, lasciando che le loro braccia si sfiorassero attraverso i soprabiti.

"E a parte Beyoncé, che musica ti piace?" chiese John poco dopo e Sherlock si strinse nelle spalle.

"La musica classica, lo sai. A volte anche opera, dipende dalle composizioni."

"Quindi tipo, che so, musica italiana o francese?"

"Mmh, veramente no, preferisco i compositori tedeschi. Wagner e Bach, ad esempio."

"Come... Come si chiama quello che mi suoni sempre, quello che mi piace? È tedesco anche lui?"

Sherlock gli rivolse uno sguardo piacevolmente sorpreso, scrutando con attenzione l'espressione assorta di John. Annuì.

"Sì. È Mendelssohn."

"Come si chiama il brano?"

"È un adattamento per violino di un'opera delle Lieder Ohne Worte, le Canzoni Senza Nome. Erano state scritte per pianoforte, all'inizio."

"Di tutto quello che mi hai fatto sentire, credo che quella sia una delle mie preferite. A te piace?"

"Sì, mi piace. Non è stucchevole, come Smetana (5) ad esempio, però non è nemmeno troppo pesante. È gradevole."

"Victor che ne pensa?"

Sherlock roteò gli occhi con un'espressione nauseata.

"Lui va matto per quella robaccia elettronica, come si chiama... EDM. A volte anche rap e hip-hop. E io ci vivo insieme, ti rendi conto?"

"Cielo, che orrore." mormorò John, fingendo di rabbrividire. Sherlock gli rivolse un'occhiataccia.

"È un problema serio, John, non scherzare: tu non hai idea di cosa significhi convivere con uno che nel bel mezzo del pomeriggio si mette a strillare canzoni- no, non sono definibili canzoni... Insomma, inizia a emulare Eminem, sebbene non ne sia minimamene in grado."

John rise di gusto, gettando un poco la testa all'indietro e Sherlock si dimenticò quasi all'istante della sua stizza verso i deplorevoli gusti musicali di Victor. Sorrise e si strinse nelle spalle, emettendo un lieve sospiro.

"Okay, d'accordo, ammetto che alla fine non è poi così male: io lo stresso con il violino e le colonie di batteri, suppongo abbia il diritto di farmela pagare."

"Non gli piace proprio la musica classica?"

"Tendenzialmente no: sono riuscito a fargli sorbire un po' di Saint-Saëns, la Danse Macabre è stata l'unica che non gli ha fatto schifo, ma per il resto... Non è il suo genere, purtroppo."

"Nemmeno se suoni tu?"

"Lo sopporta un po' di più, ma di solito dopo una decina di minuti o se ne va o si mette le cuffie e si mette a canticchiare per conto suo. Non ti dico che battaglie musicali abbiamo fatto in questi tre anni, una volta ci siamo ritrovati il dormitorio intero fuori dalla porta." confessò Sherlock e John rise di nuovo. Quando smise, guardò Sherlock con l'ombra di un sorriso sulle labbra.

"Potrei compensare io quello che non ascolta lui, che ne dici? Sarebbe possibile?" Sherlock sbatté un paio di volte le palpebre, poi sorrise a sua volta.

"Sì, sarebbe possibile."

Continuarono a camminare parlando di cosa amassero e cosa no, senza fare caso alla neve che aveva ricominciato a cadere dal cielo. Erano rientrati nel campus e avevano preso uno dei tanti sentieri che si ramificava attraverso il dedalo di dormitori, collegando ogni edificio all'altro: era una sorta di labirinto per coloro che non conoscevano il campus, ma per loro non fu affatto difficile orientarsi in quella rete, prendendo questo e quel sentiero senza mai perdere la via.

Raggiunsero il dormitorio dove Sherlock alloggiava da ormai tre anni ed entrarono scrollandosi la neve di dosso, salendo poi fino al secondo piano. Sherlock infilò la chiave nella toppa, ma quando constatò che la porta era già aperta, si bloccò per qualche istante, gelato. Per esperienza diretta aveva imparato che non era saggio entrare di colpo nella stanza se la porta non era chiusa a chiave: l'ultima volta che l'aveva fatto, aveva trovato Victor intento a rimuovere un reggiseno color pesca dal petto di una ragazza del suo corso e no, non era stato un incontro piacevole. Quindi, onde evitare ulteriori spiacevoli malintesi, fece cenno a John di aspettare un momento e bussò un paio di volte.

"Chi è?" rispose una voce dall'interno, palesemente disinteressata alla risposta che avrebbe ricevuto. Sherlock tirò un sospiro di sollievo: era da solo, meno male. Aprì la porta e mise la testa dentro la stanza, rivolgendo al coinquilino una smorfia.

"Secondo te chi potrà mai essere, Vic?"

"Mah, speravo nella biondina del terzo anno, ma vista la voce non ne sono sicuro al cento per cento." rispose Victor, sdraiato sul suo letto con un numero di Playboy tra le mani. Sherlock roteò gli occhi e aprì del tutto la porta, invitando poi John a seguirlo mentre entrava nella stanza togliendosi sciarpa, guanti e cappotto. John si richiuse l'uscio alle spalle e fece un cenno in segno di saluto a Victor.

"Ciao, Vic."

Il ragazzo abbassò la rivista quel tanto che bastava per far entrare il giovane Watson nel suo campo visivo e sogghignò.

"Guarda guarda, ciao Johnny Boy... Sherlock ti ha portato qui per un focoso pomeriggio di sesso clandestino prima dell'astinenza natalizia?" chiese, trasudando malizia da ogni poro e Sherlock trasalì.

"Victor!" squittì, inorridito e l'amico gli fece l'occhiolino.

"Tranquillo, Sherl: lo so che tu sbavi solo per Colin Firth." commentò e Sherlock fu sicuro di aver appena attraversato ogni possibile gradazione nello spettro del rosso. John d'altro canto, dopo essersi tolto il bomber e essersi sistemato meglio la tracolla sulla spalla, si sedette accanto a Victor sul suo letto e diede un'occhiata veloce al numero di Playboy. "Penso di doverti delle scuse, Victor." mormorò e Victor aggrottò la fronte.

"Delle scuse?"

"Mmh-hm: sesso o non sesso, ho l'impressione che con questa nostra incursione ti abbiamo rovinato il divertimento... Deve essere davvero dura andare avanti solo con le foto di Sasha Grey, non è vero?" mormorò John, fingendo comprensione e Sherlock dovette soffocare un poderoso scoppio di risa nel vedere il volto di Victor diventare bordeaux mentre sbarrava gli occhi. John gli rivolse un sorriso zuccheroso.

"Oh, sta' tranquillo: sappiamo che tu sbavi solo per Sharon Stone." disse e, sebbene fosse ancora rosso, Victor schioccò la lingua, chiudendo la rivista e riponendola nel cassetto del proprio comodino.

"Touché, Watson. E comunque dai, come puoi non sbavare dietro a Sharon Stone? Quella scena in Basic Instinct è stata alla base dei miei sogni erotici per anni, tipo tutta la pubertà."

"Non solo dei tuoi, credimi."

"Ah, vedo che un po' di buon gusto ti è rimasto, sono colpito... Parlando di cose serie, che ci fate qui?" chiese Victor, sedendosi a gambe incrociate sul letto. Sherlock si buttò a peso morto sul suo e rispose, fissando il soffitto:

"Abbiamo fatto un giro in centro e, dopo esserci resi ridicoli davanti a mezza città, abbiamo reputato saggio tornare qui, per evitare altre pubbliche umiliazioni."

"Non è stato così male, dai."

"Male, no." mormorò Sherlock, rivolgendo un lieve sorriso a John, "Imbarazzante, sì."

John rise e Victor, insospettito da quell'improvviso eccesso di zucchero e dolcezza e tutta quella roba lì, inarcò un sopracciglio.

"Che cosa avete fatto, tanto per sapere?" chiese e John rispose:

"Beh... Diciamo che abbiamo cercato-"

"Fallendo miseramente." aggiunse Sherlock, ancora sdraiato a pancia in su. John gli rivolse uno sguardo divertito.

"Non esagerare, adesso. Comunque, abbiamo cercato di fornire ai nostri concittadini un intrattenimento di prim'ordine." completò John, guardando Victor. Il ragazzo sbatté le palpebre qualche volta, poi disse:

"Temo di non aver capito."

"Ci siamo messi a cantare Crazy In Love a squarciagola in mezzo ai mercatini natalizi, Victor." lo freddò Sherlock e l'amico gli rivolse uno sguardo sconvolto.

"Voi cosa? Fate sul serio?"

John annuì con aria solenne e Sherlock si strinse nelle spalle. Victor scoppiò a ridere qualche attimo dopo, provocando nel giovane Holmes una smorfia.

"Non c'è niente di divertente."

"S-sì, invece! John, ti prego, dimmi che l'hai filmato, ti scongiuro!"

"Temo di doverti deludere." mormorò John sorridendo e Victor sembrò calmarsi giusto un pochino.

"Oh signore, non respiro... Devi assolutamente dirmi come hai fatto a convincerlo, ho bisogno di saperlo."

"Non è che ci sia stato un vero e proprio metodo in realtà, è stato tutto molto random... Oh, a proposito, dobbiamo organizzare qualcosa per il suo compleanno: manca poco e non vuole fare nulla."

"Vergognati, Sherlock Holmes, buttare via così un compleanno... Mi deludi."

"Per l'amor del cielo, è solo uno dei tanti, non cambia nulla!" gemette Sherlock, esasperato e Victor si mise le mani tra i capelli.

"Sì, invece, cambia eccome! A ventun anni puoi comprarti alcolici legalmente, è una tappa importante, per non dire fondamentale, per uno studente universitario!"

"Gliel'ho detto anche io, ma dice che non è un tipo da alcol, così come non è un tipo da feste."

"È un morto, in pratica."

"Guardate che io sono ancora qui." mugugnò Sherlock, gli occhi chiusi e le mani intrecciate dietro la testa, interrompendo il siparietto tra John e Victor. Trevor roteò gli occhi, poi si alzò in piedi e disse, afferrando un plico di fogli dalla scrivania:

"D'accordo, ragazzi, vi lascio alle vostre elucubrazioni sui compleanni e su quanto per questo idiota qui siano inutili e così via, manca poco alle vacanze e ho un rimorchio da portare a termine."

"Chi è la vittima, stavolta?" chiese Sherlock e Victor lo fulminò con lo sguardo.

"La biondina del terzo anno, ovviamente. E tanto per la cronaca," disse, con aria esageratamente oltraggiata, "non è una vittima."

"Questo lo dici tu." ribatté Holmes e per tutta risposta Victor gli tirò il suo cuscino in faccia. Sherlock si tirò a sedere di scatto con un davvero poco dignitoso urletto, provocando una risata nel coinquilino. Victor fece appena in tempo ad aprire la porta e abbassarsi prima che Sherlock gli lanciasse dietro il cuscino.

"Me la pagherai, Trevor!" gli urlò e l'amico rise dal corridoio, rilanciandogli il guanciale.

"Certo, contaci! Buon Natale, John!"

"Buon Natale anche a te!" rispose John, mentre Victor chiudeva la porta. Sherlock fece una smorfia, assumendo il suo caratteristico broncio scocciato e John ridacchiò.

"Piantala, non fa ridere."

"Il tuo strillo sì, però." commentò John e Sherlock sbuffò, alzandosi dal letto con un movimento fluido. Si diresse verso l'armadio e aprì le ante, che poi richiuse con un calcio una volta presa la scatola color panna chiusa con un nastro rosso. Si avvicinò al John lentamente, fermandosi davanti al letto un po' titubante. Non aveva mai fatto qualcosa del genere, mai. Non sapeva come comportarsi, cosa fare: doveva semplicemente dargli il pacchetto o c'era una prassi da seguire? Un cerimoniale di qualche tipo da rispettare? Non ne aveva la più pallida idea. Alla fine si arrese e sospirò, allungando semplicemente a John il suo regalo.

"Buon Natale, suppongo." mormorò, mentre John prendeva lentamente la scatola tra le mani, quasi fosse un bambino o una bomba nucleare. Sherlock non aveva preferenze sull'uno o sull'altro. John la osservò in silenzio per qualche istante, rapito. Poi alzò lo sguardo su Sherlock e gli rivolse il più bel sorriso che il ragazzo avesse mai visto.

"Mi hai fatto un regalo." disse e Sherlock si strinse nelle spalle, imbarazzato.

"Mi è stato detto che è questo che le persone normali fanno in questo periodo dell'anno, perciò... Sì, ti ho fatto un regalo."

"Posso aprirlo adesso?" chiese John, già cercando di sbirciare sotto il coperchio. Sherlock si irrigidì e disse:

"Assolutamente no."

"Nemmeno se ti do il tuo?" propose John e la fermezza morale di Sherlock vacillò un pochino.

"Beh, io..." si schiarì la voce, poi sbuffò, "E va bene, d'accordo."

"Come sei cedevole, Sherlock Holmes..." mormorò John ridacchiando e il più giovane fece una smorfia.

"Taci, altrimenti scordati il regalo." sibilò, mettendosi a braccia conserte, e John alzò le mani in segno di resa. Dopodiché lo guardò, sorridendo leggermente; diede un paio di colpetti con la mano al materasso, indicandogli il posto libero e invitandolo a sistemarsi accanto a lui. Sherlock tentennò qualche istante, poi si fece coraggio e lentamente lo raggiunse, sedendosi sul letto a sua volta. Erano vicinissimi, Sherlock percepiva chiaramente il fianco di John contro il suo, le cosce praticamente attaccate, le braccia che si sfioravano... Era così intenso, quasi indescrivibile.

John aprì la sua tracolla e ne estrasse un pacchetto verde e rosso con un fiocco dorato, per poi porgerlo a Sherlock. Era lungo e ampio, ma sottile; in un primo momento Sherlock pensò fosse una tavola in legno o qualcosa del genere, però subito dopo distinse il profilo di una copertina rigida e delle pagine. Quaderno dedusse, cercando però di mostrarsi incerto e totalmente all'oscuro del contenuto del suo regalo. John sospirò.

"Tanto lo so che hai capito, puoi smetterla di fingere." disse e Sherlock arrossì, irrigidendosi un poco.

"Scusa. È stato più forte di me." mormorò e John scosse la testa, divertito.

"Non importa. Che facciamo, li apriamo?"

"Sei qui per questo, no?"

"Più o meno... D'accordo, adesso scarta il pacchetto: non sto più nella pelle, voglio sapere se ti piace." disse John allegramente e Sherlock roteò gli occhi. Iniziò a strappare la carta, mostrandosi calmo e quasi annoiato fuori, quando invece dentro rodeva dalla curiosità e il cuore era sul punto di esplodergli nel petto. Quando vide ciò che la carta nascondeva, fu sinceramente stupito nel constatare che no, non era un semplice quaderno: era un quaderno nero, rigido e dai fogli a righe, ma con una bellissima tavola periodica sulla copertina. La osservò meravigliato, sfiorando i bordi della caselle con le dita. Era uno dei più bei regali che gli avessero mai fatto e non lo pensava solo perché era un regalo di John, ma perché era davvero così: era qualcosa che era stato pensato apposta per lui, tagliato sui suoi interessi e lo adorava.

"È... È bellissimo, John." sussurrò e il ragazzo lo guardò esitante, mordendosi lievemente il labbro.

"Ti piace davvero? Non è banale o, che so io, scontato?" chiese, dubbioso e Sherlock sorrise.

"È perfetto. Grazie." sussurrò e John si rilassò, rasserenato. Ad un tratto si illuminò, come se tutto d'un tratto si fosse ricordato di qualcosa.

"C'è un'altra cosa, veramente." disse e Sherlock aggrottò la fronte.

"Un altro regalo?"

"No. Cioè, non... Non lo definirei così."

"E allora cos'è?"

John sorrise, poi indicò il quaderno con il capo.

"Aprilo." disse e Sherlock, un po' diffidente, fece lentamente come John gli aveva chiesto. Sulla prima pagina c'era una fila di numeri, notò Sherlock, dei numeri che per lui non avevano alcun senso.

53-95-53-7-71-23-74-53-90-39-8-92

Provò a pensare a qualche sequenza numerica, come la matematica successione di Fibonacci, ma non riuscì ad individuare alcuno schema. Il 53 si ripeteva diverse volte, era l'unico numero a farlo, però questo fatto non accese nessuna lampadina nella sua testa.

"Che cosa significano questi numeri?" chiese, continuando ad osservarli e John ridacchiò.

"È un enigma, Sherlock. Tocca a te risolverlo." rispose, per poi tentennare qualche istante prima di proseguire, "Però, quando lo farai... Non fare caso alla grammatica: era l'unico modo per ottenere quel risultato, non potevo fare altrimenti."

Sherlock sbatté un paio di volte le palpebre, ancora più confuso. La grammatica? Quei numeri erano lettere? Erano un codice, una formula, cosa diavolo voleva dire?! Non riusciva a capire, questo lo faceva sentire uno stupido e maledizione, non c'era nulla che odiasse più di sentirsi stupido.

John prese il suo mutismo come un pacifico momento di riflessione e a quel punto abbassò lo sguardo sulla sua scatola; inclinò lievemente il capo, osservandola attentamente. Sherlock lo notò e prese un respiro profondo, raddrizzando rigidamente le spalle. Era nervoso, agitato: e se a John non fosse piaciuto il suo regalo? Cosa avrebbe fatto a quel punto? Ancora, non ne aveva la più pallida idea. John tornò a guardarlo e chiese, contenendo a malapena la curiosità:

"Posso aprirlo, adesso?"

"Abbiamo fatto un patto, no?" sospirò Sherlock e John sorrise. Sciolse il nodo del nastro e alzò lentamente il coperchio, sbirciando all'interno della scatola. Sherlock iniziò a torturarsi le mani per l'agitazione, affondando le unghie nella carne dei palmi e restò in apnea fino a quando non lo sentì ridere.

"Beh, mi sembra appropriato." commentò John, estraendo dalla scatola il cervello di gomma e osservandolo con aria divertita. Prese anche in mano in cuore e sorrise quando lo strinse tra le dita. Sembrava felice e Sherlock si sentì leggermente rincuorato, anche se la parte che temeva di più non era ancora arrivata.

"E questo cos'è?" chiese John, notando solo in quel momento il foglio ripiegato sul fondo. Ecco, appunto pensò Sherlock, prendendo un respiro profondo. John prese il foglio e lo aprì, leggendo le parole scritte a penna.

"Former soul away deny even whale vain libbey." lesse John ad alta voce, aggrottando poi la fronte, "Non capisco, che cosa significa?"

"Come hai detto tu stesso poco fa, è un enigma, John: devi risolverlo tu." rispose Sherlock con un ghigno- adesso è il tuo turno, John- e John si accigliò un poco.

"Mmh... È un anagramma, vero?" chiese subito dopo e Sherlock annuì, aggiungendo:

"Ti servirà tutta la scatola per completare il messaggio."

"È una cosa piuttosto elaborata."

"Mi sono impegnato."

John rise, riponendo biglietto e organi finti nella scatola. Quando tornò a guardarlo, a Sherlock sembrò di intravedere una luce diversa nei suoi occhi.

"Grazie. Per il cuore, il cervello, l'anagramma... Tutto, è tutto fantastico. Spero solo di riuscire a risolvere l'enigma: mi vanto tanto ma in realtà non sono un granché."

"Ho fiducia in te, John: sei un idiota, ma non così tanto." mormorò Sherlock e John gli scoccò un'occhiataccia, lasciandosi però sfuggire un sorriso.

"Sei davvero odioso quando fai così, lo sai?" mormorò Watson e Sherlock l'avrebbe presa davvero male, se non fosse stato per il tono lievemente canzonatorio e quel sorriso. Si strinse nelle spalle e annuì.

"È anche per questo che ti piaccio, no?" chiese di rimando. Non realizzò subito quello che gli era uscito di bocca, lo fece solo quando vide John spalancare un poco gli occhi, sorpreso. Sherlock sentì il sangue colorargli il volto di nuovo e a quel punto, passandosi una mano sugli occhi, desiderò ardentemente aprire la finestra e buttarsi di sotto.

"Sì. È anche per questo." ripeté John dopo qualche istante e Sherlock si irrigidì, riportando all'istante lo sguardo su di lui. Erano vicini, più di quanto avessero previsto: riusciva quasi a sentire il respiro di John sul viso e distinguere tutte le sfumature di blu delle sue iridi ora era un gioco da ragazzi. Sherlock si perse ancora una volta nel contemplare quel volto, riscoprendosene sempre e comunque perdutamente innamorato: amava tutto di lui, dai lisci capelli biondi a quelle labbra sottili, ogni piccolo particolare.

Amava quegli occhi blu, quelle iridi color dell'oceano che riuscivano a fargli tremare le gambe solo con un singolo sguardo e che in quel momento lo stavano guardando come se non esistesse altro all'infuori di loro, insieme in quella stanza. Lo stavano guardando come se fosse la cosa più bella su cui avessero mai posato lo sguardo e Sherlock sentì lo stomaco torcersi nel mezzo del suo addome, mentre quasi senza farlo apposta le sue dita finivano per sfiorare quelle di John.

Bacialo, Sherlock: devi solo avvicinarti un po' di più, solo questo... Ce la puoi fare, coraggio! si disse il giovane Holmes, abbassando lo sguardo sulle labbra del ragazzo davanti a sé. John sembrò pensare lo stesso o per lo meno intuire quello che Sherlock stesse pensando, perché gli si avvicinò ancora di più: potevano quasi sentire il calore dell'altro sulla loro pelle, sulle loro labbra. Sarebbe stato un momento perfetto, un meraviglioso primo bacio... Se solo non fosse stato per quel cellulare. Quello di John, ad essere precisi.

L'apparecchio iniziò a squillare in quel momento e l'incantesimo si spezzò: Sherlock sbatté un paio di volte le palpebre, confuso, mentre progressivamente lui e John si separavano; Watson estrasse con foga il cellulare dalla tasca dei jeans e si alzò in piedi, facendo qualche passo nella stanza prima di rispondere.

"Ehi, Harry, che c'è? Mmh-hm. Sì, sì sto- Sì, il solito, un borsone e basta. No, no, dovrei essere lì per le- no, Harry, non parto domattina. No, sarò lì per le dieci e mezza, più o meno. Okay, d'accordo, ci vediamo dopo... Sì, sì, ciao."

John riattaccò e si girò il telefono tra le mani, mentre Sherlock, ancora seduto sul letto di Victor, si fissava la punta delle scarpe. Non aveva ben chiaro cosa fosse successo qualche attimo prima. Stavano per baciarsi? Era così che ci si sentiva? Davvero non lo sapeva. Per lui era tutto una grande prima volta e non sapeva più da che parte sbattere la testa: stava facendo le cose nel modo giusto o sbagliava qualcosa? E quella cosa che c'era appena stata tra loro significava qualcosa? Era importante o ...? Ma soprattutto: quello che aveva visto negli occhi di John era la verità o semplice suggestione? Lui lo voleva davvero o era solo un flirt senza significato, uno di quegli scherzi che tra i ragazzi della loro età sembravano essere così comuni? Avrebbe davvero voluto avere una risposta a tutte quelle domande, ma la verità era che non ci stava capendo più un accidente e aveva paura di perderlo. Aveva paura di perdere John, ma non sapeva nemmeno cosa fosse opportuno fare per tenerlo al suo fianco.

Perché le faccende di cuore erano così complesse? Doveva per forza essere tutto così complicato, perché i sentimenti non somigliavano di più alla logica, così prevedibile e lineare? Sarebbe stato così semplice in quel caso, niente più fraintendimenti e cuori spezzati, solo certezze. E per uno come lui, che con i sentimenti aveva sempre ingranato ben poco, sarebbe stata una gran bella cosa.

"Io... Devo andare, adesso: si è fatto tardi e devo ancora preparare il borsone, non... Non ho più molto tempo." mormorò John, quasi sulle spine e Sherlock, dopo un attimo di immobilità, annuì.

"Certo. Certo, è giusto."

"Tu quando te ne vai?"

"Domani. Ho ancora tempo."

"Bene. D'accordo, allora... È meglio che vada."

"Ti accompagno di sotto."

John si rivestì lentamente e ripose con cura il regalo di Sherlock nella borsa a tracolla, poi entrambi si avviarono verso l'ingresso, scambiandosi di tanto in tanto qualche sguardo fugace. Ora l'atmosfera tra loro era cambiata, Sherlock lo sentiva: era diversa, c'era tutto il peso delle cose non dette da portare ed era un peso enorme. Scesero le scale in silenzio e Sherlock accompagnò John fino ai gradini d'ingresso al dormitorio, fermandosi sulla soglia.

"Quindi... Penso che ora dovremmo salutarci." mormorò John, mentre i fiocchi di neve riprendevano subito a posarsi tra i suoi capelli. Sherlock si strinse nelle spalle, appoggiandosi allo stipite della porta aperta.

"Le convenzioni sociali vorrebbero questo."

"E tu cosa vuoi?"

Sherlock restò in silenzio per qualche istante, senza sapere come rispondere.

"Non lo so." sussurrò, affondando le mani nelle tasche dei pantaloni. John abbassò lo sguardo sul gradino in pietra su cui era fermo, calciando via la neve dalle sue scarpe.

"Ti troverò ancora qui, quando torneremo?"

"Direi di sì, a meno che non mi capiti qualche fatale incidente e muoia prima del previsto."

"Sherlock!"

"Cosa? È vero, non posso certo controllare il mio destino, ammesso che esista qualcosa del genere." ribatté Sherlock e John scosse la testa, continuando a tenere lo sguardo basso. Fece qualche passo verso il selciato, iniziando ad allontanarsi da lui: Sherlock non avrebbe voluto lasciarlo andare, non così, ma cosa poteva fare ancora per trattenerlo? Aveva avuto la sua occasione e l'aveva persa, ora c'era ben poco da fare. Stava quasi per decidersi a rientrare quando vide John fermarsi di nuovo e, a testa bassa, tornargli davanti. Quando tornò a guardarlo in faccia, Sherlock fu sorpreso di notare una luce nuova, determinata e ferma, nei suoi occhi.

"John, cosa-"

"No, lasciami parlare. Se non lo faccio ora non lo farò mai più, quindi... D'accordo. È vero, non possiamo controllare il destino, ammesso che esista. Però io stufo di starmene fermo ad aspettare che le cose accadano per magia, voglio poter scegliere cosa fare della mia vita: posso decidere che strada prendere per il mio futuro, Sherlock, e lo farò facendo questo." disse John, risoluto. Prima che uno Sherlock alquanto confuso potesse chiedere chiarimenti, gli prese il viso tra le mani, premendo delicatamente le labbra sulle sue.

Sherlock in un primo momento sbarrò gli occhi e si irrigidì come un tronco d'albero, totalmente scioccato; quando però realizzò quello che stava accadendo, si lasciò andare: chiuse gli occhi e appoggiò le mani sulla vita di John, tenendolo più vicino a sé mentre si davano il loro primo bacio. Fu un semplice sfiorarsi di labbra, un contatto dolce e delicato, innamorato: Sherlock lo amò alla follia e si chiese perché non l'avessero fatto prima. Si sentiva leggero, in pace e soprattutto felice come non mai: John lo faceva stare bene e... Dio, non pensava che baciare ed essere baciati fosse così, facesse quell'effetto.

Sorprendentemente, si riscoprì ad amarlo.

Quando John pose fine al bacio, guardandolo negli occhi, si sorrisero e Sherlock si sentì il ragazzo più felice della Terra.

"Buon Natale, Sherlock." sussurrò John, accarezzandogli la guancia con una mano. Sherlock si beò di quel contatto e disse:

"Buon Natale anche a te, John."

John Watson a quel punto prese una decisione per entrambi e si separò dal ragazzo, voltandosi e scendendo la scalinata dell'ingresso fino all'imbocco della stradina che portava agli altri alloggi. Solo a quel punto si fermò e tornò a guardare Sherlock.

"Tornerò qui l'uno gennaio, nel pomeriggio." disse e Sherlock sorrise, intuendo l'implicita domanda nascosta dietro a quelle parole. Tu ci sarai?

"Ci vediamo quella sera, allora. Alle otto davanti al tuo dormitorio?"

"Perfetto... Ci sentiamo domani."

"A domani."

John sorrise, poi riprese a camminare e Sherlock, ancora fermo sulla soglia, lo guardò allontanarsi con un po' di malinconia, che scomparve momentaneamente quando John si voltò di nuovo a guardarlo. Mentre lo guardava andarsene, ripensò a quel bacio, quel bacio che John gli aveva dato senza che lui se lo aspettasse. Era stato il suo primo bacio. Non sarebbe potuto andare meglio.

Senza nemmeno rendersene conto, sorrise.


 

 

 

 

(1) leggasi: Flying Tiger, da Copenaghen con furore

 

(2) dalla S4 in poi, questo è diventato uno dei miei headcanon: i Ginger Nuts hanno soppiantato i dolci generici e no, non me ne pento

 

(3) so che non è confermato praticamente da nessuna parte e che Madonna è stata scelta a caso sul giornale da uno Sherlock mezzo sbronzo nella 3x02, ma questo è tipo da sempre uno dei miei personalissimi headcanon, finisco sempre per inserirlo da qualche parte in ogni fic e I'll go down with this ship, I swear

 

(4) per chi ha familiarità con gli account Twitter- sfortunatamente fake, ma chissene frega perché loro sì che danno gioie- @ContactSH e @contactJHW probabilmente la questione Beyoncé non sarà nuova; per gli altri, in sintesi: c'è stata una volta in cui Sherlock ha velatamente lasciato intendere di conoscere tipo a memoria le lyrics di una canzone- o erano tutte e due, non ricordo- di Beyoncé, correggendo John e dicendo qualcosa tipo "quella è un'altra canzone, non fa così" e mi pare che le canzoni in questione fossero Love On Top e Crazy In Love. Un'altra volta qualcuno ha pubblicato una gif di Beyoncé che cucina con aria molto cheeky, taggando Sherlock e scrivendo "questo è come immagino Sherlock fare il tè", lui ha risposto "Non sono così negato da preparare il tè in una padella; il resto però è uguale" e John, concludendo in bellezza, commenta paragonando Sherlock alla Beyoncé del Crimine Londinese. Inutile dire che anche la passione di Sherlock per Queen B è diventata uno dei miei (troppi) headcanon


(5) Disprezzo per Smetana e amore per Mendelssohn = strizzatina d'occhio ad una delle mie fic preferite, You're No God della suprema nightswimming; in più anche secondo il Canone l'opera ivi citata di Mendelssohn è una delle composizioni preferite da John, una di quelle che spesso chiede a Sherlock di suonargli, perciò... Due piccioni con una fava

 

 

 

Note:

Ciao a tutti, ben arrivati alle note del capitolo 3!
Se siete arrivati fin qui, vuol dire che non siete morti a causa del diabete e siete sopravvissuti ai vagoni di melassa e zucchero che vi ho propinato in questo capitolo: probabilmente una delle cose più fluff che abbia mai scritto in vita mia, giuro.
Che dire? I due testoni ce l'hanno fatta, hallelujah! Ringraziamo Jawn che ha colto la palla al balzo e ha risposto alle vostre preghiere. In qualche risposta e su Twitter avevo già accennato qualcosina, ma non ero sicura se la scena del Bacio™ sarebbe stata in questo capitolo o nel prossimo, dipendeva tutto da come avrei tagliato il capitolo. Alla fine è venuto così e penso che ne sarete contenti tutti quanti.
Io devo davvero ringraziarvi di cuore: ringrazio chi legge in silenzio, chi ha salvato la storia, chi recensisce e ne parla anche su Twitter, perché prima di pubblicare questa fic non pensavo che avrebbe riscosso tanto successo: questa storia è nata quasi per caso, ha solo qualche mese, eppure sta avendo un seguito che non avrei mai immaginato e ne sono davvero felice e onorata. Spero che i prossimi capitoli (a tal proposito, saranno ancora 2, epilogo compreso... sigh) riescano a soddisfare le vostre aspettative e a non annoiarvi, conquistandovi come i precedenti hanno fatto.
Ora parliamo del prossimo capitolo: settimana prossima, penso sempre venerdì, lo avrete, ma vorrei avvisarvi già da ora, onde non trovarmi gente con i forconi sotto casa (scherzo).
Ci sarà dell'angst. All'inizio non tanto, ma poi mi sa che vorrete il mio scalpo per cena, quindi io metto le mani avanti e vi regalo questo bellissimo cliffhanger, giusto per lasciravi un retrogusto amaro dopo tutto l'eccesso di glucosio del capitolo.
Alla prossima, un bacio a tutti!
Cami

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Capitolo 4
*** 4. ***


4.
 


Sherlock non amava particolarmente tornare a casa. Più che altro era perché la sua famiglia l'avrebbe riempito di domande, specialmente sua madre, cose del tipo Mangi? Studi? Esci? Il fidanzato? e non era affatto una prospettiva allettante. E poi ci sarebbero stati i suoi fratelli, Mycroft con la sua sgradevole tendenza allo stalking- lui amava chiamarla "protezione", ma farlo spiare e mettergli il cellulare sotto controllo, come aveva già fatto in passato, era penalmente perseguibile a quanto Sherlock sapeva- ed Eurus che iniziava ad esaminarlo come se fosse una rana da vivisezionare. L'unico che era propenso a lasciarlo in pace era suo padre, che al suo arrivo si limitava ad un neutro "Come stai, figliolo?", per poi lasciarlo cuocere nel suo brodo: probabilmente il buon vecchio Siger Holmes sapeva che in famiglia c'era già abbastanza gente che l'avrebbe tartassato per tutta la durata delle vacanze e non reputava certo necessario aggiungerne un'altra. Sherlock gliene era immensamente grato.

L'autista gentilmente mandato da Mycroft accostò su richiesta di Sherlock davanti alla cancellata d'ingresso di Musgrave Hall, la tenuta nel Sussex della famiglia Holmes: l'auto nera ripartì avanzando per il vialetto in silenzio, mentre Sherlock, con le mani affondate nelle tasche del cappotto e una sigaretta tra le labbra, proseguì a piedi. Nevicava, come sempre in quel periodo dell'anno, e i giardini un po' inselvatichiti dall'edera si erano già parzialmente coperti di bianco. Sherlock aveva perso il conto di tutti gli infiniti pomeriggi che aveva passato giocando tra gli arbusti, di norma fingendosi un pirata. Ogni tanto giocava anche Eurus con lui, ma... Beh, lei non era mai stata granché come corsaro. E Barbarosa non era un nome credibile.

Sbuffò pigramente una boccata di fumo nell'aria, ricevendo in cambio un fiocco di neve dritto sul naso: sua madre detestava il fumo, quindi lui e Mycroft erano costretti a rintanarsi da qualche parte e fumare di nascosto; quella era la sua ultima sigaretta libera e Dio, aveva intenzione di godersela fino all'ultimo soffio. Il tragitto che portava dai cancelli fino all'ingresso della tenuta era percorribile in circa un quarto d'ora a piedi, dieci minuti prendendo le scorciatoie e i sentieri secondari, ma Sherlock aveva bisogno di riflettere e optò per il percorso integrale.

Erano passate meno di ventiquattr'ore da quel bacio con John e lui, ovviamente, non riusciva a pensare ad altro. La sua mente non faceva altro che focalizzarsi su quegli attimi, su quella manciata di istanti in cui tutto sembrava perfetto. Sentiva ancora le labbra di John sulle sue, il calore del suo corpo stretto al suo, le sue mani sul viso... Era ancora tutto così vivido, come se John fosse ancora lì con lui. Sherlock non aveva mai provato niente del genere e ancora non riusciva a metabolizzare completamente l'accaduto.


Arrivò nel giardino davanti a casa poco dopo e, come sempre, si fermò a osservare le lapidi in pietra conficcate nel terreno mentre finiva la sua sigaretta. Non erano tombe vere-Sherlock l'aveva scoperto circa a cinque anni, dopo mesi passati a pianificare come dissotterrare i cadaveri, quando per la prima volta si era fermato a riflettere sulle date incise nella pietra- ma solo un elemento decorativo, seppur un po' macabro. Nessuno se n'era mai lamentato, in ogni caso.

Rimase fermo ad osservare la lapide di Nemo Holmes, nato nel 1617 e morto nel 1822 alla veneranda età di 32 anni. Rispetto a quando era bambino la lapide, già all'epoca massivamente decorata da fioriture di muschio verde e licheni grigiastri, sembrava quasi foderata da uno spesso strato di quegli organismi, rendendo a malapena visibili i caratteri incisi. Sherlock non ne aveva bisogno, ad essere onesti, da bambino aveva passato intere estati giocando tra quei piccoli monumenti alla memoria di nessuno e ormai conosceva a memoria tutte le scritte che vi erano riportate. Quel giorno, ad esempio, il nome di Nemo era nascosto, oltre che dal muschio, da un soffice manto di candida neve, ma lui conosceva con precisione millimetrica l'esatta ubicazione di ogni singola lettera e numero. Sbuffò l'ultima boccata di fumo e si liberò del mozzicone, appena in tempo prima che la porta di casa si aprisse e Violet Holmes uscisse sul patio.

"William!" lo chiamò, agitando una mano in aria. Sherlock prese un respiro profondo, cercando di farsi coraggio; poi assunse il suo miglior sorriso di circostanza e raggiunse la madre all'ingresso.

"Ciao, mamma." la salutò, mentre lei lo abbracciava praticamente stritolandolo.

"Billy, tesoro, finalmente sei arrivato! Quando abbiamo visto arrivare solo la macchina, senza di te, ho iniziato a preoccuparmi, ma avrei dovuto immagine che avresti preferito fare la tua solita passeggiata tra le lapidi. Ma adesso entriamo, coraggio, si gela qui fuori." disse lei, dandogli un paio di colpetti sulla spalla per farlo muovere.

Violet Holmes era la colonna portante della famiglia: madre amorevole e attenta, moglie devota e fedele, una padrona di casa eccellente. Prima di sposarsi e avere figli, era una matematica di incredibile talento, una mente geniale senza pari. Sherlock aveva sempre avuto la certezza che lui e i suoi fratelli avessero ereditato il loro cervello e le capacità deduttive dal ramo materno: suo padre aveva tanti pregi, ma certamente l'acume dei fratelli Holmes non era farina del suo sacco. Violet stava attraversando il suo quinto decennio di vita e i suoi capelli, un tempo di un fulgido biondo rossiccio, erano già venati da ciocche bianche e ingrigite, ma gli occhi erano rimasti esattamente quelli di un tempo: Sherlock aveva ereditato da lei quello sguardo acuto e penetrante, reso ancora più intenso da quel particolare colore che virava dall'azzurro ghiaccio al verde, passando per il grigio. Era più bassa di Sherlock, gli arrivava circa alle spalle, e nel corso degli anni il suo fisico, un tempo esile e longilineo, si era irrobustito, risultando comunque gradevole e ben proporzionato. Vestiva sempre con la consueta eleganza tipica degli Holmes, con il suo immancabile filo di perle sempre attorno al collo e gli orecchini abbinati ai lobi.

"Come stai, caro?" gli chiese e Sherlock si strinse nelle spalle mentre riponeva sull'appendiabiti nell'ingresso sciarpa, guanti e cappotto.

"Al solito."


"Mangi abbastanza? Ti vedo dimagrito."

Sherlock roteò gli occhi: ecco che comincia l'interrogatorio, pensò.

"Sì, mamma, mangio quanto basta."

"Vale a dire nulla: ti conosco, William, non cercare di-"

"Sherlock, mamma, non William: Sherlock."

Violet sospirò e si corresse, lanciando un'occhiataccia al figlio:

"D'accordo, Sherlock. E comunque dovresti mangiare di più, tesoro, sei magro come un chiodo. Scambia la tua dieta con quella di tuo fratello, sono certa che farebbe bene a entrambi."

Sherlock sogghignò alla frecciatina, poi seguì sua madre in salotto. Come aveva già previsto, Mycroft era seduto sul divano con il computer sulle ginocchia, Eurus era accanto a lui, palesemente annoiata mentre scorreva la timeline del suo account Twitter e Siger era sprofondato nella sua poltrona con il naso affondato tra le pagine di un romanzo di Stephen King.

"Ragazzi, è arrivato vostro fratello. Siger, metti via quel libro e saluta tuo figlio." esordì Violet, facendo alzare lo sguardo dei tre Holmes su lei e il nuovo arrivato. Sherlock sospirò, così come il resto della famiglia, ma riuscì comunque a ritagliarsi qualche istante per osservare i suoi parenti.

Suo padre aveva la straordinaria capacità di restare immutato nel tempo: gli unici cambiamenti erano stati l'arrivo delle rughe e il passaggio del colore dei capelli da castano scuro, quasi nero, a grigio. Vestiva sempre allo stesso modo, con i suoi maglioni, i cardigan e le camicie, per non parlare dei pantaloni di velluto a coste e l'immancabile papillon. Aveva sempre la sua caratteristica aria placida e serena, calma, in netto contrasto con la perenne iperattività della moglie. Sherlock li aveva sempre trovati una strana coppia, ma ben assortita.

Mycroft, osservò con una punta di ironia, sembrava dilatarsi insieme al tempo: i capelli di quello strano castano rossiccio molto scuro erano sempre ben pettinati e i vestiti eleganti e impeccabili, come si addiceva a un funzionario del governo, ma la stazza... Sherlock valutò di regalargli l'abbonamento a una qualche palestra, la prossima volta.

E poi c'era Eurus, la piccola di casa: mentre Siger, Sherlock e Mycroft avevano all'incirca la stessa statura, lei sembrava aver ereditato la sua da Violet, insieme al colore degli occhi che condivideva anche con Sherlock. Normalmente vestiva di colori chiari, come il bianco o il color panna, anche se Sherlock non aveva mai capito perché; i lunghi capelli scuri in quel momento erano raccolti in una crocchia morbida sulla nuca, ma molto spesso Eurus li lasciava semplicemente sciolti sulle spalle. A detta di tutti- anche se Sherlock non aveva mai ben capito il perché- Eurus era la più intelligente della famiglia: oltre ad avere le capacità analitiche e deduttive tipiche dei ragazzi Holmes, la ragazza riusciva in tutto, non c'era un singolo ambito in cui fallisse,
fatto che aveva sempre irritato e allo stesso tempo affascinato Sherlock. Forse aveva problemi solo sul piano relazionale, perché se Sherlock faceva fatica ad integrarsi e considerava un idiota chiunque lo circondasse, per lei le altre persone erano paragonabili a insetti, al massimo strani organismi da studiare e analizzare. Niente di più.

"Ben arrivato, fratellino. Ti stavamo aspettando." esordì Mycroft, alzandosi dal divano con un movimento lento e legato. Sherlock sogghignò.

"È un piacere rivederti, Fatcroft. Ti trovo bene, particolarmente florido... Come va la dieta?" chiese candidamente. Mycroft fece una smorfia mascherata da sorriso di circostanza.

"
Bene. Sei sempre così gentile e premuroso, fratellino."

"È una dote di famiglia."

"Su, su, ragazzi, adesso smettetela. Eurus, cara, saluta tuo fratello."

"Ciao, fratello." mormorò Eurus, alzando a malapena lo sguardo dal suo smartphone. Sherlock rispose con un cenno del capo, andando a lasciarsi cadere sul posto appena liberato da Mycroft sul divano. Lanciò un'occhiata allo schermo del cellulare della sorella e commentò:

"Mi chiedo come tu faccia a stare così tanto tempo su Twitter senza rimbecillirti."

"Tu sei un imbecille anche senza, direi che il problema davvero non si pone." osservò la sorella e Sherlock inarcò un sopracciglio. Mycroft sogghignò, mentre Violet andava a dare un colpetto sul braccio al marito, che aveva preso a canticchiare tra sé leggendo il suo libro. Siger smise all'istante, scambiandosi subito dopo uno sguardo affettuoso con la moglie. Sherlock sospirò.

"Vedo che non è cambiato nulla."


"E come potrebbe? Questa sarà solo un'altra tipica giornata in casa Holmes... Ben tornato, Sherlock." disse Mycroft e Sherlock, con una smorfia, si lasciò cadere all'indietro, testa sul cuscino e braccia incrociate sul petto. Sarebbero state le vacanze più lunghe della sua vita.





Erano le dieci e mezza del suo terzo giorno a Musgrave Hall e Sherlock iniziava già ad annoiarsi a morte: era la Vigilia di Natale e lui, steso sul divano del salotto con l'Enrico V in grembo, stava sfogliando svogliatamente le pagine mentre in sottofondo Violet intimava a Siger di smettere di barare e farle vedere le carte.

"Ti ho visto, Siger, non fare finta di aver sempre avuto quella carta!"

"Era il mio asso nella manica, cara."

"Beh, lo era letteralmente! Mycroft, per l'amor del cielo, digli qualcosa!"

Mycroft, seduto al tavolo tra i genitori, roteò gli occhi e si passò una mano sul volto con un sospiro stanco. Sherlock sogghignò mentre i genitori riprendevano a bisticciare con rinnovato vigore e Mycroft si accingeva a fare da paciere per l'ennesima volta.

"Ti annoi, fratello?" chiese una voce femminile alle sue spalle e pochi istanti dopo Sherlock vide Eurus raggiungerlo e accomodarsi accanto a lui, costringendolo a piegare le gambe per farle spazio.

"Secondo te?" mormorò con un sospiro, "È tutto così monotono qui, ogni anno è sempre la stessa storia."

"Alle persone piacciono le tradizioni, la monotonia: le rassicura avere l'illusione che tutto possa restare per sempre lo stesso, senza cambiare mai."

"È una cosa stupida."


"Ho detto che alle persone piace," commentò Eurus, "non che sia intelligente."

Sherlock sbuffò, fissando lo sguardo sul soffitto. Si chiese dove fosse John in quel momento, cosa stesse facendo: probabilmente si stava godendo la Vigilia con la sua famiglia, come chiunque faceva a Natale. Chiunque tranne i fratelli Holmes, ovvio, ma al momento a Sherlock non interessava soffermarsi ad analizzare le differenze tra la sua famiglia e il resto del mondo. In realtà voleva solo pensare a John, parlare a John, stare con John... Voleva John.


Si erano sentiti poco prima di cena via Skype e per quella mezz'ora o giù di lì a Sherlock era sembrato quasi di averlo sul serio accanto a sé. Poi avevano dovuto chiudere la chiamata e puff!, tutto si era dissolto nell'aria, lasciando Sherlock ancora una volta solo perso nei pensieri e nei ricordi. Specialmente nel bacio, sì: quello ormai era diventato un evergreen per il suo cervello. La morbidezza delle sue labbra, il contatto con la pelle screpolata, il calore del corpo di lui contro il suo, il sapore della frittella alla mela ancora sulla sua bocca, la-

"A cosa stai pensando?" chiese Eurus, riportandolo alla noiosa e irritante realtà. Sherlock sbatté per qualche istante le palpebre, disorientato. Poi, contraendo il viso in una smorfia, si lasciò cadere il libro aperto sulla faccia.

"A niente." mugugnò da sotto le pagine. Eurus schioccò la lingua e Sherlock, pur avendo il volto coperto, poté quasi vedere la smorfia assunta dalla sorella.

"Non è vero."


"Sì, invece."

"No, non lo è: io riesco a leggerti, lo sai."

"E sentiamo, cosa stai leggendo adesso?"

"Stai pensando a qualcosa. Anzi, no..." mormorò Eurus, "Stai pensando a qualcuno."

Sherlock abbassò il libro di quel poco che bastava per far entrare la sorella nel suo campo visivo. Strinse le palpebre, poi chiese:

"Come lo sai?"

"Non lo sapevo," ammise Eurus con un ghigno, "ma grazie per aver confermato la mia ipotesi."

"Sei insopportabile." borbottò Sherlock, tirandosi a sedere. Eurus inclinò la testa e chiese, incuriosita:

"Lui chi è?"

"Chi?"

"Il ragazzo a cui pensavi."

"Chi ti dice che fosse un ragazzo?"

"Se fosse stata una donna non avresti avuto quell'espressione ebete."

"Touché. E comunque non sono affari tuoi." mormorò Sherlock, alzandosi in piedi e iniziando ad incamminarsi alla svelta verso la sua stanza. Eurus però non sembrava intenzionata a lasciar cadere la questione e lo seguì all'istante, continuando a stargli attaccata come una sanguisuga.

"Me lo dici o no?"

"Dirti cosa?"

"Non fare l'idiota, dimmi chi è lui!"

"Te l'ho già detto, Eurus, non sono affari tuoi!"

"Non è quel tuo amico che sta in stanza con te, vero?"

"Victor?" Sherlock aggrottò la fronte, fermandosi all'imbocco delle scale per il piano di sopra, "Perché lo chiedi?"

Eurus si strinse nelle spalle, lanciando uno sguardo distratto al resto della famiglia, ancora riunita in salotto a discutere sulle carte.

"Perché non mi piace: quando era qui l'estate scorsa ve ne stavate sempre per conto vostro, non potevo mai stare con te."

"Premesso che non è a te che i miei amici devono piacere, lascia perdere Victor."

"Quindi non è lui. Lavora con te?" chiese Eurus mentre Sherlock sbuffava e iniziava a salire le scale.

"No."

"Mmh. Non è uno del tuo corso, di solito dici sempre che sono tutti idioti."

"Eurus, piantala."

"Secondo me studia medicina: da quando hai sviluppato quella sorta di kink per militari e uomini in divisa, hai sempre avuto un debole per i ragazzi con la sindrome del supereroe, quelli che vogliono salvare la gente e il mondo dal male e blah blah blah..." disse Eurus, roteando gli occhi con una smorfia nauseata. Quando il fratello si fermò di botto davanti alla porta della sua stanza, gelato, sorrise soddisfatta.

"Oh, ho indovinato, vero? Studia medicina." gongolò e Sherlock le rivolse un'occhiataccia.

"Vuoi lasciarmi in pace, per favore?" sibilò, cercando poi di chiudersi in camera lasciando Eurus fuori. La ragazza però aveva tutt'altro in mente e bloccò la porta con un piede, seguendo poi il fratello in camera. Sherlock fece una smorfia e ringhiò, spazientito:


"Non mi lascerai in pace finché non ti darò le risposte che vuoi, non è vero?"

Eurus si strinse nelle spalle.


"Mi annoio." disse e Sherlock emise un gemito esasperato.

"E va bene, allora fai come ti pare, come sempre!" sbottò, allontanandosi dalla sorella. Lo sguardo di Eurus assunse un'aria compiaciuta di sé.

"Come si chiama?" domandò poi, sedendosi sul letto di Sherlock a gambe incrociate. Lui nel frattempo si avvicinò alla finestra e, aperto il vetro, si accinse ad accendersi una sigaretta seduto sul davanzale. Quando ebbe tirato la prima boccata di fumo, liberata poi nell'aria popolata da fiocchi di neve, rispose:

"John."

"È il ragazzo con cui stavi parlando prima di cena su Skype."

"... Sì. Come lo sai?" chiese Sherlock, sospettoso ed Eurus si strinse nelle spalle.

"Non sono una stupida, a differenza di tutti gli altri. Tu gli piaci?"

"Ha importanza?"


"Sì, dal momento che tu sei cotto di lui."

"Io non... I-io non sono cotto di lui!" squittì Sherlock e la sorella sogghignò.

"Ovviamente. State insieme?"

"No."

"Ma tu lo vorresti."

"Eurus, dove vuoi andare a parare?" chiese Sherlock, stizzito e lei commentò, cominciando ad innervosirsi:

"Voglio capire. Pensavo non ti interessasse l'amore, invece ne sei caduto vittima."

"Non mi interessa, infatti."

"Sì, invece e anche parecchio. A differenza degli altri, io noto queste cose." mormorò Eurus e Sherlock inclinò lievemente il capo, senza smettere di osservare la sorella.

"Gli altri lo sanno?" chiese soltanto, la voce flebile ed Eurus roteò gli occhi, annoiata. Si lasciò cadere con la schiena contro il materasso, poi, fissando il soffitto, rispose:


"No, ovviamente no: la mamma e Mycroft hanno intuito qualcosa, è da quando sei arrivato qui che sei strano... Papà invece non ha capito niente, come al solito."

"Tu invece hai capito tutto subito."


"Non che ci volesse molto, era palese che fossi innamorato. Ma gli altri sono tutti così lenti... Non mi sorprende che stiano ancora cercando di capire cosa non vada in te in questo periodo. Lui com'è?"

"Lui?"

"John. Ci sarà un motivo se ti sei innamorato proprio di lui... È meno idiota degli altri?" chiese Eurus e Sherlock ridacchiò.

"A volte."

"E allora perché lui? Non capisco."

Sherlock guardò la sorella minore: sembrava infastidita, come se il non comprendere le facesse rodere il fegato. Sherlock conosceva bene quella sensazione, l'aveva provata lui stesso innumerevoli volte. Era un tratto di famiglia, a quanto sembrava.

"Lui è..." mormorò Sherlock, riportando lo sguardo sul giardino innevato, "È coraggioso, altruista, forte... Mi fa ridere e in più è anche bello. Ma soprattutto lui riesce a farmi sentire come se non ci fosse nulla di sbagliato in me, riesce a... A farmi sentire a casa, come se il mio posto nel mondo fosse accanto a lui. Non ho mai provato niente del genere in tutta la mia vita."

Eurus restò in silenzio per qualche istante, immobile. Poi arricciò naso e labbra in una smorfia.

"Ti sei rammollito, fratello." disse, alzandosi in piedi, "Stai diventando un patetico sentimentale come tutti gli altri, non usi più il cervello."

"Come fai ad esserne così sicura?"


"Parli di lui come se fosse una delle sette meraviglie della Terra, pur sapendo che un giorno ti farà soffrire: questo non è certo usare il cervello, Sherlock."

"Quindi secondo te dovrei lasciarlo perdere solo perché un giorno potrebbe farmi soffrire? È ridicolo, Eurus."

"Tu sei ridicolo. Ti sei preso una sbandata per quel tizio e hai spento il cervello. Ti pensavo superiore a meri impulsi fisici."

"John è diverso. E se sei venuta qui solo per farmi la paternale, allora esci, vattene!" ringhiò Sherlock, fulminando la sorella con lo sguardo. Eurus restò apparentemente imperturbabile, ma Sherlock distinse una luce rabbiosa farsi strada nelle sue iridi chiare. La ragazza si alzò dal letto con un movimento fluido e si avviò verso l'uscita, imperterrita. Si sbatté la porta alle spalle e Sherlock non la fermò: rimase seduto sul davanzale della finestra a guardare la neve che cadeva dall'alto.

Non gli importava cosa pensasse sua sorella, non gli sarebbe importato nemmeno quello che gli avrebbe detto la sua famiglia, specialmente Mycroft: lui si fidava di John. Non aveva la certezza che sarebbe finita bene, che non avrebbe sofferto, ma non gli importava, perché lui si fidava di John. E sarebbe sempre stato così.





La sua sveglia segnava le diciotto e ventotto minuti del trenta dicembre e Sherlock, seduto alla sua scrivania, si annoiava a morte. Era seduto davanti al PC, lo sguardo fisso sullo schermo e le immagini che vi si susseguivano, ma quella sera nemmeno Netflix e Breaking Bad sembravano in grado di catturare la sua attenzione.

Chiuse il computer con uno sbuffo, inarcandosi all'indietro e passandosi le mani sul viso. Forse sarebbe dovuto sgattaiolare in camera di Mycroft, rubargli i dolci che nascondeva nell'armadio e nasconderli da qualche parte in giro per casa. Magari avrebbe potuto seppellirli in giardino: ci avrebbe messo settimane a trovarli e a quel punto... Beh. Che peccato. La noia gioca brutti scherzi, eh?, pensò con un velo di amarezza. Sherlock era quasi sicuro che, se John fosse stato lì con lui, il suo soggiorno a Musgrave Hall sarebbe stato infinitamente più gradevole, nel peggiore dei casi per lo meno sopportabile.

Lo sguardo andò a posarglisi quasi per caso sul quaderno che John gli aveva regalato, custodito con cura quasi maniacale sulla scrivania, proprio accanto al PC. Sherlock lo prese tra le mani, iniziando a osservarlo per la quattrocentesima volta nell'arco di quelle vacanze. Sfiorò la copertina con la punta delle dita, poi, come sempre, lo aprì, fissando lo sguardo su quella striscia di numeri che lo stava facendo dannare da quando aveva scartato il suo regalo. Sherlock si mise a studiarla ancora una volta, cercando di intuire uno schema, ma come succedeva praticamente ogni volta dopo qualche minuto distolse lo sguardo con uno sbuffo irritato: le aveva provate tutte, davvero, si era arrovellato per ore, giorni interi, ma niente, la soluzione di quell'enigma per lui restava ancora avvolta nel mistero. In preda alla disperazione, era addirittura arrivato a prendere in considerazione l'ipotesi di farsi aiutare da Mycroft- Eurus no, neanche per sogno: dopo quella discussione in cui aveva dovuto difendere John è ciò che sentiva per lui dalla rabbia della sorella, chiedere aiuto a lei era impensabile-, ma il suo spropositato orgoglio si era subito opposto a gran voce, dando man forte al pensiero che, in fondo, John aveva pensato quell'enigma apposta per lui, sicuro che sarebbe stato in grado di farcela e Sherlock non voleva certo deludere le sue aspettative. No, doveva farcela da solo, non poteva fare altrimenti.

Emise un sospiro esasperato e si massaggiò la radice del naso con due dita, richiudendo il quaderno con un gesto secco nel frattempo. Aveva ancora tempo, si diceva, ma il momento di tornare all'università si faceva sempre più vicino e lui non stava assolutamente facendo progressi: d'accordo che doveva farcela da solo, ma non poteva nemmeno presentarsi da John e dirgli "Sai com'è, dico di essere tanto intelligente ma non sono riuscito a risolvere il tuo enigma". Che figura ci avrebbe fatto? Forse John si sarebbe anche pentito di averlo baciato, in fondo nessuno voleva avere a che fare spontaneamente con un idiota di quelle proporzioni, quindi... No, Sherlock decise di non pensarci. Doveva risolverlo e farlo alla svelta, era l'unica soluzione.

Poi, ad un tratto, successe una cosa strana: Sherlock riportò un po' scoraggiato lo sguardo sulla tavola periodica della copertina e il suo sguardo si posò su un numero che in quei giorni gli aveva letteralmente tolto il sonno. 53. Sherlock aggrottò la fronte, confuso: era un'illusione o cosa, inizialmente non capì. Suggestione, forse, si disse, ma quando rivolse alla tabella un secondo sguardo dovette per forza ricredersi: il 53 c'era davvero, era il numero atomico dello iodio, il cui simbolo era la lettera I.

Quando lo risolverai, non fare caso alla grammatica: le parole di John gli risuonarono in testa e Sherlock fu colto dall'illuminazione. Dio, aveva avuto la soluzione a quell'enigma per tutto il tempo, come aveva potuto essere così cieco? Afferrò alla cieca una penna dalla scrivania e iniziò freneticamente a cercare sulla tavola i simboli relativi ai numeri scritti nella sequenza indicata da John: le lettere iniziarono a sommarsi formando parole e Sherlock fu quasi certo di sentire il proprio cuore tentare di sfondargli lo sterno, non ricordava di essere mai stato così agitato. Finì di scrivere in meno di due minuti e a quel punto, fissando la scritta che la sequenza di lettere aveva formato, ebbe un tuffo al cuore.

I Am IN LuV WITh YOU


Gli occhi iniziarono a pungere e a farsi pericolosamente lucidi e Sherlock, nonostante tutto, scoppiò a ridere, coprendosi la bocca con le mani. John era innamorato di lui. E glielo aveva detto con un enigma, così come aveva fatto lui stesso. John lo ricambiava, Cristo santo, lo ricambiava! Non poteva crederci, era ... incredibile. E Sherlock non si capacitava del fatto di essere stato così fortunato da conquistare l'amore di qualcuno di così fantastico e incredibile come John, non riusciva a realizzarlo. John. Devo parlare con John, subito, devo vederlo!

Riprese il PC tra le mani e si collegò su Skype veloce come non mai, eseguendo i passaggi del login in tempo record e maledicendo il server per quella lentezza eccessiva. Non appena ne fu in grado, selezionò il contatto di John e fece partire la videochiamata, pregando che l'altro rispondesse. Aveva bisogno di vederlo, di sentire la sua voce e vedere il suo sorriso, dopo quella rivelazione aspettare ancora due giorni era impensabile. Andiamo, John, rispondi, avanti!, pensò, mordendosi lievemente il labbro inferiore per il nervosismo. Era raggiungibile, lo sapeva, altrimenti la chiamata non sarebbe nemmeno partita. Ma allora perché ci metteva tanto a rispondere? Era con qualcuno? Non voleva parlargli? Le ipotesi più disparate e catastrofiche si ammassarono senza sosta nella mente di Sherlock, che iniziava ad avere l'accenno di un infarto. Quando finalmente John accettò la chiamata e un muro color crema apparve sullo schermo, Sherlock tirò un sospiro di sollievo. Quando però un John Watson con i capelli umidi e spettinati, sorridente, ma soprattutto a torso nudo fece la sua comparsa, il suo encefalogramma si ridusse ad una linea drasticamente piatta.

"Ehi, Sherlock! Scusa se ci ho messo un po' a rispondere, sono appena uscito dalla doccia."

"N-non... Non ti preoccupare. Io stavo solo... Nulla. Mi annoiavo." balbettò Sherlock e John rise.

"Chissà perché non ne sono sorpreso. I tuoi fratelli non ti fanno compagnia?"

"Per Dio, no!" mormorò Sherlock, abbandonando il suo shock in favore di un'espressione di puro schifo, "Non sono così disperato!"

"Beh, devi esserlo comunque parecchio per chiamare me." commentò John, divertito, e Sherlock si concesse l'accenno di un sorriso.

"Qualcosa del genere." concesse, cercando di racimolare il coraggio necessario per parlargli del suo regalo. John sembrò non rendersene conto e continuò a ciarlare allegramente, parlando del più e del meno per qualche minuto.


"...questo pub fichissimo, certo ogni sera musica dal vivo, birra e patatine fritte a volontà, è davvero forte. Secondo me piacerebbe anche a te."

"Ne dubito."


"Perché?"

"I pub non sono proprio il mio genere."

"Come gli alcolici e le feste, giusto?"

"Precisamente."

"Ah-ha... Senti, si è fatto un po' tardi: tra poco devo uscire e vado un po' di fretta. Ti serviva qualcosa?"

"Io... Perché lo chiedi?"

"Beh, mi hai chiamato su Skype: se non fosse stato davvero importante, mi avresti mandato solo un messaggio, no?" mormorò John, inclinando lievemente il capo. Sherlock sentiva la bocca secca, la lingua impastata e totalmente incapace di emettere alcun suono. Si schiarì la voce e prese coraggio, preparandosi a parlargli di quella cosa.

"Sì, io... In effetti una cosa ci sarebbe."


"D'accordo... Di cosa si tratta?"

"I-io... Io ho... Sai, poco fa ho... Dannazione!"

"Sherlock, mi sto preoccupando: cosa-"

"Ho risolto il tuo enigma, John!" lo interruppe Sherlock, fissando lo sguardo sul volto di John. Il ragazzo restò in silenzio per qualche istante, sorpreso. Aveva la labbra lievemente dischiuse e gli occhi un poco spalancati, come se la notizia l'avesse davvero colto alla sprovvista. Per un attimo Sherlock ebbe quasi paura che la connessione fosse saltata e che John avesse detto o fatto qualcos'altro che lui non aveva sentito. E poi, proprio quando Sherlock stava meditando di andare a cercare un defibrillatore da tenere accanto a sé- giusto per precauzione, certo-, la postura di John si rilassò e il suo volto si sciolse in un sorriso che Sherlock giudicò davvero molto dolce.

"Bene, mi... Mi fa piacere. E hai capito cosa volevo dire?"


"Sì, io... Credo di sì."

"Ottimo, perché anche io ho risolto il tuo." disse John e Sherlock ebbe un tuffo al cuore.

"L'hai risolto?"


"Sì. Ci ho messo un po': l'anagramma mi ha dato parecchio filo da torcere, ma... Penso proprio di esserci riuscito. E credo che ora anche tu sappia che anche per me vale lo stesso."

"Davvero?" sussurrò Sherlock e John annuì. Sherlock si ritrovò a ricambiare il suo sorriso senza nemmeno accorgersene.

"Non mi sembra vero." mormorò, passandosi le mani tra i capelli, e sia lui che John si misero a ridere.

"Sì, neanche a me... E non vedo l'ora di rivederti per parlare di tutto questo di persona." disse John, assumendo una smorfia imbarazzata subito dopo, "E magari anche baciarti ancora. Anche quello mi piacerebbe."

"Sì, effettivamente non sarebbe affatto male." commentò Sherlock e John tornò a sorridere. Ad un tratto si sentì il suono di una porta sbattere e John voltò la testa verso la fonte del suono, ad un tratto sull'attenti. Quando tornò a guardare Sherlock sorrideva ancora, ma sembrava aver perso l'aura di calma e serenità di pochi istanti prima.

"Senti, ora devo proprio andare. Ci sentiamo domani, okay?"


"Sì, io.... Certo. Va bene. A domani." rispose Sherlock, confuso dall'improvviso cambio d'atteggiamento di John. Okay, anche all'inizio della chiamata gli aveva detto di andare di fretta, ma solo pochi istanti prima sembrava così tranquillo, perché ora aveva tutta quella fretta di chiudere? Forse era per quella porta che aveva sbattuto e- oh. Aveva fretta perché era arrivato qualcuno. Già, ma chi?

"A domani, buona notte." disse John, adoperandosi per chiudere la comunicazione. Prima che ci riuscisse, però, successe qualcosa che Sherlock non sarebbe mai riuscito a dimenticare e che gli fece gelare il sangue nelle vene: qualcuno stava chiamando John. E quel qualcuno aveva una voce decisamente poco virile.

"Johnny, dove sei? Ho finito la doccia, tu sei pronto?" chiese quel qualcuno e Sherlock, gelato, ebbe un ulteriore tuffo al cuore quando vide John voltarsi di scatto, il cellulare ancora in mano, mentre una silhouette palesemente femminile e con un solo asciugamano addosso apparve alle sue spalle. La comunicazione si interruppe proprio in quel momento e Sherlock restò fermo immobile a fissare la schermata di Skype con aria smarrita.

Era... Dio, quella era una donna, John era con una donna! Che accidenti ci faceva una donna- seminuda oltretutto- con lui? E quel Johnny, poi, da dove l'aveva tirato fuori? Perché si era rivolta a lui in quel modo, chi era, come osava chiamare così il suo John? Sherlock se lo chiese sul serio, ma più di ogni altra cosa si chiese questo: alla luce di quello che si erano appena detti, perché John lo aveva permesso? Sherlock non era sicuro di volere la risposta a quella domanda. Forse perché avrebbe fatto troppo male.

L'eccitazione e la felicità dovute al regalo di John erano state bruscamente sostituite da un groppo in gola e un disagio mai provato: un misto di ansia e tristezza, qualcosa di veramente sgradevole. Sherlock chiuse con un gesto secco il computer e si rannicchiò sulla sedia girevole con una smorfia, appoggiando la testa allo schienale. Una parte di lui gli diceva che non era giusto da parte sua condannare John così su due piedi, doveva dargli un po' di fiducia e concedergli il beneficio del dubbio: poteva anche non essere una situazione così scontata e deplorevole, forse c'era tutt'altra spiegazione dietro... Poi però interveniva l'altra parte del suo cervello, quella che gli diceva chiaro e tondo che a quello che aveva visto e sentito c'era una spiegazione soltanto, davvero molto difficile da fraintendere.


Non aveva idea di quanto tempo restò fermo su quella sedia, rannicchiato su se stesso in preda allo sconforto. Probabilmente per parecchio, perché ad un certo punto sentì qualcuno chiamarlo per cena, probabilmente sua madre, ma non ci fece caso: era come sentire una voce lontana, un eco di dubbia importanza. In quel momento aveva ben altro a cui badare, non aveva voglia di passare un'ora a fare buon viso a cattivo gioco per non farsi psicanalizzare da tutti i presenti a tavola: era talmente giù che persino suo padre avrebbe iniziato a fare domande, perciò no grazie, sarebbe rimasto ben lontano dalla sala da pranzo.

Lo sguardo tornò a posarsi sulla scrivania, più precisamente sul quaderno: Sherlock sentì il peso che aveva sul petto farsi più ingente, insopportabile, e fu costretto a guardare altrove. La sua stanza si era improvvisamente fatta minuscola, soffocante a causa di tutte le speranze e i sogni apparentemente infranti che Sherlock aveva coltivato entro quelle quattro mura. Gli sembrava che tutto gli ricordasse di quelle sue fantasie così effimere che un tempo gli erano parse così reali, la possibilità di quel futuro con John che nel giro di pochi secondi gli si era sgretolata davanti agli occhi e che, lo sapeva, l'avrebbe tormentato in continuazione. È come una prigione... È una prigione. E io sono in gabbia, pensò, in preda all'ansia, Devo andarmene di qui.

Balzò in piedi con uno scatto e, dopo aver afferrato sigarette e accendino dal cassetto del proprio comodino, corse fuori dalla sua stanza, lasciando la porta spalancata dietro di sé. Scese a due a due i gradini delle scale che portavano al piano terra è una volta giunto lì si diresse verso l'ingresso, ignorando l'ennesimo richiamo di sua madre ad unirsi alla cena. Devo uscire, ho bisogno di uscire, era l'unica cosa che riusciva a pensare mentre si allacciava frettolosamente le scarpe e si apprestava ad afferrare il cappotto, appeso ad uno dei ganci dell'attaccapanni a muro.

"William Sherlock Scott Holmes, non te lo ripeterò un'altra volta: esci da quella stanza e vieni a cenare con la tua famiglia, subito!" sbraitò Violet Holmes, uscendo dalla sala da pranzo come una furia e sporgendosi verso le scale. Sherlock, solo a pochi metri di distanza da lei, si augurò con tutto il cuore che sua madre non lo vedesse e non venisse a fargli il terzo grado, non sarebbe davvero riuscito a sopportarlo. Quindi, onde evitare spiacevoli inconvenienti, cercò di fare tutto il più piano e lentamente possibile, in modo da non dare nell'occhio e sgattaiolare via senza essere notato. Mycroft ed Eurus raggiunsero la madre subito dopo, proprio mentre lei esclamava:

"Siger, per l'amor del cielo, va' da tuo figlio e digli qualcosa!"

"Lascia in pace il ragazzo, Violet: avrà altro per la testa in questo momento, mangerà quando ne sentirà il bisogno." rispose pacatamente il marito, raggiungendo il resto della famiglia davanti alle scale. Eurus fece una smorfia infastidita e distolse lo sguardo: Sherlock sapeva benissimo che la conversazione avuta con lui qualche giorno prima era ancora impressa a fuoco nella mente della sorella, che non accettava quasi per partito preso che lui potesse essere interessato a qualcuno. E Sherlock sapeva ancora meglio che Eurus considerava la loro discussione come un affronto personale e che lei non dimenticava mai un affronto; se non faceva niente al riguardo per un po', era solo perché era troppo impegnata a pianificare la sua vendetta, che probabilmente non sarebbe tardata ad arrivare. Proprio mentre finalmente prendeva il Belstaff tra le mani, Eurus spostò lo sguardo su di lui e i due fratelli si fissarono in silenzio per qualche istante, mentre Violet continuava a discutere prima col figlio, poi con Siger.

Ti prego, Eurus, non farlo, sembrò chiederle Sherlock con lo sguardo.


Ti prego, Sherlock, risparmiami le suppliche, sembrò rispondergli lei, mentre le labbra si piegavano lentamente in un ghigno.

"Oh, guardate," esclamò la ragazza come se avesse visto il fratello solo in quel momento, "eccolo lì!"

Istantaneamente tutti gli occhi della famiglia Holmes furono puntati su di lui e Sherlock rivolse alla sorella un "vipera" con il labiale, al quale Eurus rispose con un sorrisetto soddisfatto.

"Sherlock, si può sapere che cosa diamine stai facendo?!" esclamò Violet, dirigendosi con passo deciso - e anche vagamente furibondo, sì- verso il figlio. Sherlock, ormai consapevole di non poter più scappare, si limitò a sospirare mentre indossava una volta per tutte il cappotto.

"Sto uscendo." rispose, lapidario. Violet fece una smorfia e si mise a braccia conserte, squadrando con aria critica il suo secondogenito.

"E dove credi di andare?"


"Fuori."

"Sherlock, ti avverto, sto perdendo la pazienza: adesso togliti quel cappotto e vieni a mangiare, dopo cena potrai fare tutte le passeggiate che vorrai."

"Non ho fame." sibilò, digrignando i denti. Iniziava ad innervosirsi, si sentiva in gabbia e aveva bisogno di stare da solo, di pensare, non di tutta quella confusione, quel vociare, quel rumore: c'era già abbastanza caos nella sua testa senza bisogno di aggiungere quello provocato dalla sua famiglia. Mycroft probabilmente notò la sua aria da animale braccato, perché mise una mano sulla spalla della madre e tentò un:

"Mamma, perché non cominciamo ad andare a mangiare? Sherlock ci raggiungerà quando-"

"Non cominciare, Mycroft! Tuo fratello verrà con noi adesso, non ammetto repliche, chiaro?!"

"Violet, cara, Mycroft ha ragione, non c'è bisogno di farne una tragedia."

"Povero piccolo Sherlock, vuole starsene per conto suo..."

"Eurus, da brava, perché non vai a vedere se la zuppa è già in tavola e-"

"Non ci vado perché non sono la tua serva, fratello caro, vacci tu!"

"Eurus, non parlare così a tuo fratello, chiedigli scusa subito!"

"Ma ha iniziato Mycroft, mamma!"

"Zitta, Eurus, fai come ti dico! E Siger, per Dio, non startene lì impalato, fa' qualcosa!"

"E cosa dovrei fare? Stai già facendo tutto da sola!"

Quell'accozzaglia di voci andò sempre più in crescendo e man mano che il suo volume aumentava, Sherlock sentiva l'irritazione montare dentro di sé come l'onda di uno tzunami, fino a quando l'ultimo strillo di sua madre non andò a sommarsi a tutti gli altri, rappresentando alla perfezione l'iconica goccia che fece traboccare il vaso già ampiamente danneggiato della sua pazienza.

"Volete stare zitti, una volta tanto?! Non vi sopporto più, fatela finita!" si ritrovò a urlare, mettendo freno al casino che regnava nell'ingresso fino a pochi istanti prima. Sherlock si rese conto- anche se in modo piuttosto astratto- di avere gli occhi di tutti puntati su di sé, ma con sguardi nettamente differenti: Eurus lo fissava come se tutt'un tratto fosse impazzito, Mycroft sbalordito per quella scioccante perdita di contegno davanti ai loro genitori, mentre questi ultimi... Beh, iniziavano ad essere un po' preoccupati, anche se questo non fermò Sherlock dal proseguire con il suo sfogo.

"Ho ben altro a cui pensare che ad una stupida cena, non ho fame, voglio stare da solo, quindi smettetela di assillarmi e lasciatemi stare!"

"Sherlock, tesoro... Prendi un respiro profondo e calmati, okay? Sono certa che non-"

"No, basta, lasciatemi in pace! Mi manca l'aria qui dentro!"

Siger pensò che la situazione si stesse facendo più seria del previsto e, mentre Sherlock si apprestava ad aprire la porta e uscire, cercò di trattenerlo con una mano sul braccio.

"Sherlock, figliolo, adesso non-"


"Non toccarmi, stammi lontano!" sbottò Sherlock, voltandosi di scatto e fulminandolo con lo sguardo. Siger fece un passo indietro, costringendo anche la moglie ad arretrare. Nella stanza calò un silenzio surreale, quasi assordante, e vedendo che addirittura Eurus ora sembrava preoccupata per lui, la parte razionale di Sherlock, momentaneamente soffocata dalle emozioni, gli fece capire che probabilmente aveva esagerato a strepitare in quel modo.

"I-io non..." balbettò con un fil di voce, ma le parole faticavano a uscire, restavano incastrate nel maledetto groppo che aveva in gola e si concentravano in quelle maledette lacrime che minacciavano di uscire da un momento all'altro per la vergogna, la frustrazione, la tristezza... "Mi dispiace. Non volevo, io... Scusatemi."

A testa bassa aprì velocemente la porta e corse fuori, ignorando la voce di sua madre- sorprendentemente gli sembrò di sentire anche Mycroft- che gli diceva di tornare indietro. Ma lui non le ascoltò: continuò a correre in mezzo alla neve, senza curarsi del freddo che gli si infiltrava nelle ossa e della neve che gli bagnava i capelli, scendendo copiosa dalle nuvole blu-grigiastre nel cielo di fine dicembre. Ad un certo punto, quando fu abbastanza lontano dalla casa e completamente senza fiato, si fermò sotto ad uno degli alberi dove, da bambini, lui ed Eurus giocavano sempre: era un faggio, se non ricordava male. Eurus l'aveva inserito anche in una filastrocca piuttosto inquietante che gli ripeteva sempre quando erano piccoli, puntualmente a notte fonda o quando era certa di poter terrorizzare suo fratello. Una sorella amorevole, davvero.

Sherlock si abbandonò contro il tronco per riprendere fiato e si asciugò con un gesto stizzito della mano quelle lacrime solitarie che, maledette, erano riuscite ad eludere il suo controllo e se n'erano andate allegramente a spasso per le sue guance. Per quale razza di motivo adesso piangeva? Non c'era alcuna ragione, doveva smetterla di comportarsi come un lattante e fare l'uomo, Cristo santo, aveva quasi ventun anni: il momento in cui i pianti isterici potevano essere definiti accettabili era già passato e finito da un pezzo.

Affondò una mano nella tasca del cappotto, emettendo un gemito infastidito quando la trovò completamente vuota: le sigarette. Nella confusione di quei momenti doveva averle dimenticate in casa, forse gli erano cadute. Un soffio di aria gelida lo investì in pieno e Sherlock realizzò in quel momento di essersi scordato anche la sciarpa e i guanti. Grandioso.

Chiuse gli occhi e alzò il viso verso il cielo, inspirando a pieni polmoni l'aria gelida della sera dicembrina: era quasi dolorosa talmente era fredda e pungente e i fiocchi di neve sul viso non erano così piacevoli come poteva sembrare. In un momento di follia totale si paragonò a uno di quegli eroi romantici di cui aveva studiato al liceo sui libri di letteratura, immersi nella natura e in stato catatonico-depresso-contemplativo, con tanto di cappotto o mantello svolazzante. Se Victor fosse stato lì l'avrebbe sicuramente preso in giro iniziando a chiamarlo "Lord Byron", ma se in un'altra occasione quel pensiero l'avrebbe fatto sorridere, in quel momento non fece altro che irritarlo ulteriormente.

Si era un po' calmato, aveva riacquistato la lucidità momentaneamente perduta e ora stava cercando di razionalizzare l'accaduto: aveva esagerato, quello era poco ma sicuro; gli capitava piuttosto frequentemente di sbraitare, specialmente se era irritato, ma perdere totalmente il senno come era successo poco prima mai. Riusciva ancora a vedere le espressioni dei suoi genitori, a sentire il silenzio assordante della stanza... Dio, ma cosa gli era preso?

Riprese a camminare nella neve, stringendosi di più nel cappotto. La neve aveva iniziato a scioglierglisi addosso e i ricci scuri avevano preso a farsi via via sempre più umidi e pesanti, appiccicati alla pelle. Sherlock aveva voglia di urlare, di gridare a pieni polmoni: non si riconosceva più, il ragazzo che era diventato non era lui, era... Non sapeva chi fosse. Qualcuno che gli somigliava, ma i cui tratti erano stati storpiati dall'amore e dalle emozioni. Il cervello era diventato schiavo del cuore e Sherlock si chiese per la prima volta se ne valesse davvero la pena.

, rispose quasi subito una voce nel suo cervello, certo che ne vale la pena: stiamo parlando di John.

Sherlock si fermò di nuovo, stavolta davanti alle finte lapidi in giardino. Era John, lo stesso John che gli aveva scritto quella lettera, lo aveva baciato e non vedeva l'ora di rivederlo per dirgli in faccia che era innamorato di lui, Sherlock lo sapeva e si fidava di lui: lo amava, era ovvio che si fidasse. Ma subito dopo nella sua testa tornava a palesarsi quella silhouette, quell'ombra sconosciuta che minacciava di farli sprofondare nel buio, senza che lui sapesse come riportare la luce.

E Sherlock, stringendosi il cappotto addosso come una coperta, si sentì ancora una volta come un bambino sperduto.




Mycroft guardò Sherlock correre via in mezzo alla neve, preoccupato.

"Sherlock!" provò a chiamarlo, ma il fratello non si voltò né si fermò. Sembrava del tutto intenzionato a sparire. Mycroft pensò in fretta cosa fare e prese una decisione, probabilmente un po' affrettata, ma sul momento gli sembrò la migliore: non aveva mai visto Sherlock così sconvolto, doveva essergli per forza successo qualcosa di serio per ridurlo così. E lui non poteva semplicemente fare finta di niente, davvero non poteva: era il suo fratellino, non l'avrebbe lasciato solo per nessun motivo al mondo.

I loro genitori erano sconvolti, Mycroft lo vedeva: Sherlock era sempre stato il più emotivo tra i tre fratelli, ma non era mai arrivato a tanto. Violet era impallidita e anche Siger, sempre serafico e tranquillo, sembrava teso. Eurus invece no, notò con una certa sorpresa: lei sembrava solo amareggiata, irritata. Sa qualcosa.

"Oh, William, il mio piccolo William... Che cosa gli è successo, Siger?" sussurrò Violet, rivolgendo al marito uno sguardo addolorato. Siger scosse la testa, ricambiando lo sguardo con uno della medesima entità.

"Non lo so, cara. Non l'ho mai visto così."

"Nemmeno io, è questo che mi spaventa... Che si sia messo nei guai? Cielo, e se fosse drogato?"

"Per favore..." sibilò Eurus, ma il suo commento fu uditp solo da Mycroft. Il ragazzo le rivolse uno sguardo sospettoso, al quale la sorella rispose con uno gelidamente composto.

"Mamma, papà... Perché voi non andate a farvi una tazza di tè? Vado io fuori a cercare Sherlock, non vi preoccupate." disse, spostando l'attenzione sui genitori. Siger e Violet gli rivolsero uno sguardo preoccupato, ma anche commosso.

"Sei sicuro? Vengo con te." mormorò Siger, ma Mycroft scosse la testa, risoluto.

"No, stai con la mamma: a Sherlock ci penso io."

"D'accordo, io... Vado a fare un po' di tè, allora."

Siger sfiorò il braccio della moglie con le dita, poi si diresse in cucina. Violet guardava ancora fuori dalla porta aperta, lo sguardo perso in mezzo alla neve. Quando lo portò su Mycroft, sembrava ancora piuttosto scossa. Gli si avvicinò, appoggiandogli una mano sulla guancia.

"Riporta tuo fratello a casa, Mycroft. Riportamelo qui." sussurrò e Mycroft annuì. Violet accennò un sorriso grato, poi seguì Siger in cucina. Eurus si accinse a fare lo stesso, ma Mycroft la fermò.

"No, tu no. Dobbiamo parlare, sorellina."

"Parlare di cosa? Non ho niente da dirti."

"Ma io ho parecchio da chiederti."

Eurus roteò gli occhi, annoiata, e incrociò le braccia sotto al seno.

"Del tipo?" chiese, irritiata. Mycroft fece una smorfia, poi disse:

"Tu sai cosa sta succedendo a Sherlock."

"Ha avuto un esaurimento nervoso e ha dato i numeri. Non che ci volesse granché per capirlo, potevi arrivarci persino tu."

"Tu sai perché è successo. Tu conosci la causa."

Eurus restò in silenzio qualche istante, poi, imperturbabile, annuì.

"Sì."

"Dimmela."

"Arrivaci da solo."

"Non fare la bambina, Eurus: stiamo parlando di Sherlock e da quanto abbiamo visto nei giorni passati potrebbe anche essere..." sibilò Mycroft, lasciando cadere la frase quando si accorse di quanto sarebbe suonata ridicola agli occhi della sorella. Eurus sogghignò.

"Cosa? Innamorato?" commentò e Mycroft alzò di scatto lo sguardo su di lei.

"Non essere ridicola. Sherlock-"

"Lo è, Mycroft: si è fatto coinvolgere e ora ci sta male. Non è così sveglio come credevi." mormorò Eurus, riportando lo sguardo sul giardino innevato. Mycroft annuì, quasi in trance. Sherlock... innamorato. Dio, quella sì che era una cosa che non aveva previsto. E che oira non avrebbe più potuto controllare, perché lei stava già controllando suo fratello.

"Da quanto?" chiese ed Eurus fece spallucce.

"Non lo so. A giudicare dal suo stato, direi da parecchio, questo fantomatico John deve essere il suo pensiero fisso da chissà quanto; il problema sono stati gli sviluppi recenti."

"Quali sviluppi?"

Eurus emise un gemito esasperato e rivolse uno sguardo incredulo al fratello maggiore.

"Sono davvero l'unica in questa casa ad avere un briciolo di spirito d'osservazione? Possibile che non vi siate accordi di niente?"

"Eurus, spiegati."

"Vive attaccato al cellulare, ma sorride quando risponde ai messaggi; ogni sera si collega su Skype e ci passa minimo mezz'ora, se non di più; telefona: Sherlock non lo fa mai."

"L'ho notato anche io."

"E allora fa' due più due, fratello caro: è innamorato. E ora gli hanno spezzato il cuore. Dio, è davvero un idiota..."

"Non è colpa sua." mormorò Mycroft ed Eurus gli rivolse uno sguardo sprezzante.

"Non potrai proteggerlo per sempre, Mycroft, men che meno tirarlo fuori dai guai ogni qual volta Sherlock ci si ficchi. Abituatici." disse, prima di voltarsi e andare verso il piano superiore, in camera sua. Mycroft la seguì con lo sguardo, lasciandosi sfuggire un sospiro mentre si passava una mano sul viso. Dio, l'avrebbero fatto ammattire, prima o poi... Ma quella era la sua famiglia: non poteva certo far finta di niente e abbandonarli. Sopratutto se si trattava di Sherlock.

Indossò in fretta il cappotto e la sciarpa, poi uscì di casa, chiudendosi la porta alle spalle e armato di torcia. La neve ora cadeva copiosa e Mycroft quasi aprì l'ombrello senza rendersene conto. Uscì in giardino, cercando di remprimere una smorfia quando le sue costose scarpe in pelle affondarono nella neve. Le impronte di Sherlock erano già state coperte da un nuovo stato di neve fresca, ma erano ancora abbastanza visibili. Mycroft le seguì fino ad un certo punto, quando vide che iniziavano a sovrapporsi, per poi virare e cambiare direzione. Mycroft alzò lo sguardo e sospirò: avrebbe dovuto immaginarlo.

La lapide di Nemo Holmes era coperta di neve, ma Mycroft l'avrebbe comunque riconosciuta senza problemi in mezzo a tutte le altre. Specialmente se suo fratello era seduto lì davanti, la schiena contro la pietra e lo sguardo puntato a terra. Sembrava triste, confuso... Mycroft non l'aveva mai visto così: anche se non l'avrebbe mai ammesso, gli si strinse il cuore.

Fece qualche passo avanti, fino a fermarglisi accanto. Sherlock l'aveva notato, ma non si decideva ad alzare lo sguardo. Si limitò a stringersi nel cappotto, scrollandosi un po' di neve di dosso. Mycroft inclinò lievemente il capo.

"Sherlock..."

"Che vuoi? Sei venuto a farmi la partenale per la mia deplorevole scenata? In tal caso sta' tranquillo, non ti disturbare." mormorò Sherlock, amareggiato. Mycroft sospirò.

"No, non sono qui per questo."

"Per cosa, allora?"

Mycroft estrasse dal cappotto un pacchetto di sigarette e un accendino: quelli di Sherlock, a dire il vero. Sherlock alzò lo sguardo su di lui, diffidente, e Mycroft emise un gemito esasperato.

"Ti erano caduti nell'ingresso. Ho pensato li rivolessi." spiegò e Sherlock spalancò lievemente gli occhi. Prese pacchetto e accendino dalle mani del fratello, rigirandoseli tra le dita.

"Per una volta hai pensato bene.", sussurrò, "Grazie."

"Sherlock Holmes che ringrazia, quale onore..."

"Posso sempre rimangiarmelo, sai?" soffiò il ragazzo e Mycroft sorrise.

"Sì, lo so... Che cos'è successo, Sherlock? Me lo dici?" chiese, paziente. Sherlock si strinse nelle spalle, accendendosi una sigaretta e porgendone un'altra al fratello.

"Niente di importante."

"Non direi: a te sembra importare parecchio. Come sta... John?"

Sherlock alzò di scatto lo sguardo su di lui, la sigaretta a penzoloni tra le labbra, mentre Mycroft faceva un primo tiro. Quando incrociò il suo sguardo, capì e fece una smorfia.

"Eurus... Cosa ti ha detto?" disse, prendendo a sua volta una boccata di fumo. Mycroft sospirò.

"Non molto, solo informazioni generali... Tu hai qualcosa da dirmi in proposito?"

"Non c'è niente da dire." mormorò Sherlock, a denti stretti. Mycroft colse il suo disagio e si chiese cosa avesse sconvolto così profondamente il suo fratellino: Sherlock alla lunga aveva sviluppato un certo pelo sullo stomaco, ormai insulti e prese in giro lo scalfivano davvero poco, almeno in apparenza. Per ridurlo così, quel John doveva esserci andato davvero giù pesante.

"Credi... Credi che ci sia qualcosa di sbagliato in noi?" chiese Sherlock ad un certo punto, talmente piano che Mycroft pensò di averlo immaginato. Aggrottò la fronte.

"Cosa vuoi dire?"

"Niente, è che... Perché le persone sono così complicate? Perché è così difficile capire cosa pensino, perché facciano questo e quello o si comportino in un certo modo? Siamo noi ad essere sbagliati o... Non lo so nemmeno io.", sussurrò, scoraggiato. Quando alzò lo sguardo sul suo viso, Mycroft sentì lo stomaco torcersi per tutto il dolore concentrato nelle iridi di suo fratello.

"Perché è tutto così difficile?" chiese Sherlock, sofferente. Mycroft serrò la mascella e, preso un respiro profondo, si mise a sedere accanto a lui, tenendo l'ombrello aperto sopra le loro teste. Restarono in silenzio a fumare per un po', poi mormorò:

"Le persone ragionano in modo diverso da noi, Sherlock... Hanno altre priorità. Avresti dovuto metterlo in conto, quando hai iniziato a frequentare questo John."

"Lui è diverso. Lui... A lui piaccio per ciò che sono." mormorò Sherlock. Mycroft gli rivolse uno sguardo cauto.

"Ne sei davvero così sicuro?"

Sherlock emise un respiro spezzato, prendendosi la testa tra le mani.

"Non lo so più." sussurrò. Mycroft esitò qualche istante, incerto su come comportarsi. Cosa doveva fare, adesso? Abbracciarlo? Non era davvero nel suo stile, men che meno in quello di Sherlock... Semplicemente, non era da loro. Così si limitò a sospirare, alzandosi in piedi e porgendo al fratello una mano per fare lo stesso.

"Coraggio, torniamo a casa." disse e Sherlock restò ancora fermo un attimo a guardarlo, prima di abbassare lo sguardo e accettare l'aiuto. Mycroft riparò entrambi sotto l'ombrello e scrollò la neve dalla testa e dal cappotto di suo fratello. Sherlock lo lasciò fare, continuando a fumare in silenzio. Finirono tranquillamente le rispettive sigarette, procendendo lentamente verso Musgrave Hall. A pochi passi dall'ingresso, Sherlock disse:

"Mycroft?"

"Che c'è?"

"Nel caso la mamma si accorgesse che abbiamo fumato..." mormorò Sherlock, fermandosi sul patio mentre nascondevano nella neve i mozziconi.

"Sì?" lo incitò Mycroft. Sherlock sogghignò.

"Sappi che darò la colpa a te."

Sherlock si voltò e tornò in casa, senza voltarsi indietro. E Mycroft, nonostante tutto, non poté fare a meno di sorridere.






Il ritorno in università fu penoso, pieno d'ansia e tensione: Sherlock davvero non riusciva a calmarsi, a mettere un freno ai pensieri e tutta l'aria attorno a lui sembrava risentirne, crepitando di elettricità.

Quando, dopo il suo sfogo, Mycroft l'aveva riaccompagnao a casa, si era scusato per il suo comportamento con tutta la famiglia, riunita in salotto e preoccupata per lui. Sua madre l'aveva abbracciato e lui l'aveva lasciata fare, non aveva davvero né la voglia né la forza di discutere di nuovo. A giudicare dalle espressioni dei suoi, Eurus doveva aver vuotato il sacco anche con loro: normalmente Sherlock si sarebbe infuriato, ma in quel momento l'unica cosa che voleva fare era chiudersi in camera sua, dormire e sperare di svegliarsi il più tardi possibile con la certezza che quella serata fosse stata solo un incubo.

Alla fine, poco prima dell'ora di pranzo del primo gennaio, era letteralmente fuggito da Musgrave Hall: doveva vedere John e l'esasperazione l'aveva portato a precipitarsi il prima possibile in università, sperando di poter chiarire una volta per tutte con John la loro situazione e ricevere spiegazioni per quello che aveva visto.

Quando aprì la porta della stanza, la prima cosa che fece fu buttare il borsone con i propri abiti a terra e lasciarsi cadere sul letto, passandosi le mani sul viso con aria stanca. Non ce la faceva più. Dio, erano tre giorni che il ricordo di quella videochiamata lo perseguitava e oltretutto non aveva avuto l'occasione di chiedere a John come stessero le cose: si erano sentiti via messaggio il giorno dopo, ma erano stati contatti sporadici e limitati, quasi sbrigativi. E a Sherlock non piaceva per niente.

Tornò a fissare il soffitto, rimuginando sul da farsi: era meglio aspettare l'ora concordata con John per farsi vedere o era accettabile manifestarsi anche prima? Magari aspettandolo fuori dal suo dormitorio finché non fosse arrivato. Era primo pomeriggio, forse ci sarebbe voluto un po', ma in fondo che aveva da perdere, a parte salute e reputazione? Niente.

"...mmh-hm, okay, allora ci vediamo tra poco. Sì, sì, tranquilla, Sherlock non- oh, Cristo!"

Victor Trevor, appena aperta la porta e messo un piede in stanza, aveva fatto un salto di due metri per lo spavento individuando il suo coinquilino e migliore amico steso come una balenottera spiaggiato sul suo letto, quasi cinque ore prima dell'ora prevista per il suo ritorno in università. Inizialmente Victor doveva ver sicuramente preso in considerazione l'idea di mettersi a urlare e ricoprirlo di insulti, ma Sherlock fu abbastanza certo che una singola occhiata allo stato pietoso in cui versava fu più che sufficiente a fargli cambiare idea.


"Carly? Sì, tesoro, scusami ma temo proprio che non potremo vederci, oggi. Lo so, lo so, mi dispiace. Senti, ti chiamo stasera, okay? D'accordo, ciao."

Victor chiuse la chiamata e si avvicinò lentamente al letto di Sherlock, sedendosi ai piedi dell'amico. Diede un lieve strattone alla gamba del pantalone per richiamare la sua attenzione e Sherlock abbassò lo sguardo su di lui con una flemma estenuante e del tutto inusuale per i suoi standard.

"Allora?" chiese Victor e Sherlock sbatté un paio di volte le palpebre.

"Allora che?"

"Che ci fai qui a quest'ora? Mi avevi detto che saresti tornato per le sei, adesso sono le tre passate da una manciata di minuti: sei in anticipo di tre ore, Sherlock."

"Avevo di meglio da fare." commentò Sherlock e Victor lanciò uno sguardo scettico verso l'alto.

"Tipo guardare il soffitto con aria da cane bastonato? Perché in effetti sì, questa sì che è davvero un'occupazione intrigante."

Sherlock gli rivolse uno sguardo irritato, poi tornò si voltò verso il muro rannicchiandosi su se stesso.


"Piantala, non sono in vena di sarcasmo."

"Tu sei sempre in vena di sarcasmo, tu vivi di sarcasmo."

"Non stavolta, Victor, okay?!" esclamò Sherlock irritato, voltandosi di nuovo verso di lui e Victor gli rivolse un'occhiata sorpresa. Restarono in silenzio a fissarsi per qualche istante, poi Sherlock sospirò e disse, passandosi le mani sul viso:

"Scusa, non volevo urlarti addosso."

"Non fa niente. Cos'è successo?"

"Cosa non è successo, semmai."

"Okay, dimmi pure. Ti ascolto." lo incitò Victor, a metà tra l'incuriosito e il cauto. Sherlock sospirò di nuovo, poi mormorò:

"John."

"John cosa? È morto?"

"No! Perché dovrebbe essere morto, scusa?!" esclamò Sherlock, tirandosi sui gomiti con un'espressione stizzita. Victor si strinse nelle spalle.

"Che ne so, era la prima cosa a venirmi in mente. Allora? Che è successo?"

"È innamorato di me. O almeno, così mi è sembrato di capire." sussurrò tristemente Sherlock, lasciando Victor di stucco.

"E si può sapere perché hai quella faccia da funerale, allora? Dovresti essere entusiasta, al settimo cielo!"

"E invece no, perché proprio mentre chiudeva la chiamata su Skype ho sentito una ragazza chiamarlo 'Johnny', chiedergli dove fosse e se fosse pronto, perché lei aveva finito la doccia. E oh, giusto, aveva solo un asciugamano addosso!"

Sherlock vide lo sguardo e l'espressione di Victor attraversare tutti ogni possibile spettro dell'emotività umana nel giro di tre secondi, passando da uno stadio di shock ad uno di furia cieca, il tutto sostando nella tristezza.

"Sai chi era? La ragazza, dico, l'avevi mai vista?" chiese, gelidamente calmo e Sherlock scosse la testa.

"Non l'ho vista in faccia, l'ho solo sentita parlare e ho visto la sua silhouette proiettata sulla parete e credimi, sotto quell'asciugamano c'era solo pelle bagnata. In ogni caso, non avevo mai sentito quella voce prima d'ora, quindi direi di no."

"Ah... Io lo ammazzo. Vado lì e lo ammazzo di botte, ma che cazzo ha nel cervello?!" sbottò Victor, furibondo. Era saltato in piedi e Sherlock si alzò a sua volta, cercando di trattenere Victor dal mettere in atto i suoi propositi: John giocava a rugby, quindi sapeva come fare a botte, ma Victor aveva frequentato insieme a lui pugilato, quindi... Beh. Meglio evitare che si ammazzassero a vicenda.

"Vic, calmo, calmati!"

"Calmati un cazzo, Sherlock! Che ci faceva una donna nuda con lui?!"

"Non lo so, Victor! È quello che speravo di scoprire stasera: dovevamo vederci davanti al suo dormitorio alle otto."

"Sai se sia già tornato?"

"Non lo so, non me l'ha detto. Perché?"

"Perché andiamo lì adesso. Mettiti il cappotto, usciamo."

"Cosa?" pigolò Sherlock, nel panico. Victor gli lanciò addosso il Belstaff e gli rivolse una smorfia.

"Magari non è niente, questo non lo so: fino ad ora John mi è sempre stato simpatico, quindi posso anche concedergli il beneficio del dubbio. Ma se scopro che c'è davvero qualcuno che non sia tu al suo fianco e che per tutti questi mesi ti ha solo preso per il culo, che Dio possa avere pietà di lui, perché di certo io non ne avrò." ringhiò, indossando la giaccia con un gesto secco.

Sherlock lo fissò senza emettere una sillaba, sgomento: aveva già visto Victor arrabbiarsi in passato, ma così... Dannazione, così mai, era la prima volta. E il fatto che si fosse infuriato a quel modo perché temeva che l'avessero solo preso in giro era... Sherlock non sapeva cosa fosse. Di certo non se lo sarebbe mai aspettato. Victor notò lo stato di paralisi di Sherlock solo dopo qualche istante, realizzandolo concretamente solo quando lo vide con il cappotto ancora stretto tra le braccia nella medesima posizione in cui lui glielo aveva lasciato addosso. Allargò le braccia, inarcando le sopracciglia.

"Beh? Che ti prende, adesso? Ti si è inceppato il disco?"


"Tu... Lo faresti davvero. Per me."

"Fare cosa?"

"Fare a botte, dare inizio ad una rissa. Lo faresti."

"Certo che lo farei, sei tipo mio fratello: se qualcuno ti spezza il cuore, ho il sacrosanto diritto e dovere di spezzare lui. Anche se si tratta di John Watson, chi sia a quel punto davvero non mi tange. Perché quella faccia da trota, adesso?"

"Niente, è che... Non me l'aspettavo. Tutto qui." sussurrò Sherlock, mettendosi lentamente il cappotto. Victor sorrise appena, scuotendo debolmente il capo mentre indossava il suo berretto di lana rosso.

"Te l'ho mai detto che il mio migliore amico è un maledetto idiota?"

"Qualche volta, sì."

"Mmh, dovrei fartelo conoscere. Sarebbe come guardarsi allo specchio per te."

"Molto divertente, Victor, davvero... Sei sicuro di volerlo fare? Di andare da John adesso, dico."

"Io sì. Che mi dici di te, invece?" chiese Victor, mentre procedevano verso la porta della loro stanza. Sherlock, allacciata la sciarpa blu, si mise i guanti con un sospiro.

"Non lo so: mi fido di John, davvero, è solo che... Credo di aver paura di cosa potrei trovare una volta lì. Nel caso ci fosse davvero quella ragazza con lui, nel caso mi dicesse che in realtà ha sbagliato e che non vuole più avere niente a che fare con me... Non credo che ce la farei a sopportarlo. Dio, è ridicolo, non so cosa mi sia preso, io-"

"Ehi, ascoltami." Victor gli mise una mano sulla spalla, attirando lo sguardo di uno spaventatissimo Sherlock sul suo viso, "Qualsiasi cosa troveremo, la affronteremo insieme. Sei il mio migliore amico, non ti lascio solo. Intesi?"

"Intesi... Grazie." sussurrò Sherlock, abbassando lo sguardo sulle sue scarpe. Victor chiuse la porta dietro di loro e si strinse nelle spalle.

"Lo faccio volentieri. Spera solo che il tuo John sia puro e innocente come un agnellino, altrimenti giuro che gli spaccherò il culo."

Sherlock non realizzò concretamente i minuti che seguirono: era come se li stesse vivendo per inerzia, senza capire veramente quello che stava facendo. Victor gli camminava accanto, seguendo con un certo sforzo le sue falcate chilometriche: nonostante fosse più alto, era sempre stato anche più lento. Riusciva solo ad avanzare, aumentando sempre di più velocità e ampiezza delle falcate.

Aveva paura. Dio, era terrorizzato di cosa avrebbe trovato al suo arrivo. E se John fosse stato ancora con quella ragazza? Cosa gli avrebbe detto? E cosa avrebbe fatto lui? Davvero non lo sapeva. Era a malapena consapevole di cosa stesse facendo in quel momento, figurarsi predire azioni future, altrui per di più. No, al momento l'unica cosa su cui riusciva a concentrarsi era il suo cuore in tachicardia: avrebbe avuto un infarto, probabilmente sarebbe morto da un momento all'altro, batteva troppo forte. Sherlock non aveva mai provato un terrore più cieco in tutta la sua vita e sinceramente non pensava nemmeno che l'avrebbe mai sperimentato, ma con John... Beh, con lui aveva scoperto un'intera gamma di emozioni e sensazioni che gli erano state precluse fino ad allora: forse quella era soltanto l'ultima aggiunta alla lista.

"Sherlock, Cristo santo, ho capito che è urgente, ma per Dio, rallenta un po'!" Sherlock si bloccò all'istante, voltando la testa verso Victor: era rimasto indietro di parecchio e ora stava arrancando nella neve fresca per raggiungerlo. Sherlock in un istante ebbe dinanzi a sé l'immagine di una scena a dir poco atroce: nel caso fosse andata male e Victor fosse stato con lui, John se la sarebbe vista bruttissima. A dire il vero, entrambi l'avrebbero vista brutta e nonostante tutto, Sherlock non voleva affatto che andasse in quel modo: non voleva che John o Victor si facessero del male a causa sua, semplicemente non sarebbe riuscito a sopportarlo. Così, anche se a malincuore, decise di fare la cosa giusta: privarsi del suo unico appiglio prima di cadere nell'oblio, in modo da salvare entrambi.

"Vic, io... Scusa, ma... M-ma ho cambiato idea." disse quando l'amico lo ebbe raggiunto. Victor aggrottò la fronte.

"Che significa?"

"Significa che voglio farlo da solo, io... Io credo sia meglio così. Meglio per tutti, per me soprattutto: sarà già difficile così, non voglio che tu assista ad una scena tanto patetica."

"Sherlock, guarda che per me non c'è problema, io-"


"Vic, ti prego, io..." Sherlock si interruppe, limitandosi a sospirare e a rivolgere all'amico uno sguardo straziato, "Non rendermi le cose ancora più insopportabili. Per favore."

Victor restò immobile qualche istante, per un tempo che a Sherlock sembrò infinito; poi però distolse lo sguardo, serrando le labbra in una linea dura.

"D'accordo. Come preferisci. Vuoi che ti aspetti qui o...?"


"Ci vediamo in camera."

Victor lo guardò ancora per qualche istante, subito prima di annuire lentamente e con ben poca convinzione.

"Ci vediamo lì. Se hai bisogno chiama, d'accordo? Sono sempre pronto a spaccare un naso, se la situazione lo richiede."

Sherlock fece un debole sorriso.

"Te lo farò sapere."

Victor a quel punto gli diede una breve pacca sulla spalla, poi si voltò e tornò da dove erano venuti. Sherlock restò fermo a guardarlo, seguendolo con lo sguardo fino a che la neve non lo ebbe avvolto nella sua coltre bianca, rendendolo invisibile. Fatto questo, prese tutto il coraggio in suo possesso a due mani e a testa bassa riprese il cammino: mancava poco al dormitorio di John, così poco che Sherlock si sentiva già male al pensiero di affrontarlo.

Aveva fatto la cosa giusta: conosceva Victor, sapeva che avrebbe perso le staffe facilmente in qualsiasi caso, ma quella volta proprio non poteva permetterlo; l'aveva fatto per il bene dei due ragazzi a cui teneva di più al mondo, anche se in due modi differenti: era la cosa giusta, lo sapeva. Ma questo non riuscì a distoglierlo dal pensiero che ora sarebbe stato completamento solo. E non farcela non era più un'opzione contemplabile.

Quando arrivò davanti al dormitorio, per un attimo sembrò che l'edificio fosse deserto: le finestre erano tutte chiuse, con le tende tirate o le tapparelle abbassate. La rastrelliera delle biciclette era vuota e le poche che erano rimaste lì erano coperte di neve, così come le aiuole. L'unica traccia di vita erano le impronte sbiadite di scarpe e stivali impresse nel soffice manto candido che ricopriva erba e selciato, fino ai gradini d'ingresso. Alcune erano vecchie, altre fresche e Sherlock sentì un rivolo di sudore freddo correre lungo la sua spina dorsale quando distinse tra le tracce recenti quelle di un paio di stivali da donna accompagnate passo passo da un paio di scarpe da ginnastica Adidas. Lo stesso modello di John. Non farti condizionare, si disse, è una marca comune: probabilmente mezzo dormitorio ne avrà un paio, non è detto che siano di John.


Alzò lo sguardo verso il secondo piano, più precisamente sulla finestra che sapeva essere quella della stanza di John: era chiusa, le tapparelle abbassate e dall'interno sembrava non filtrasse il minimo accenno di luce. Sherlock sospirò, sollevato. Vedi che non era lui? Che idiota che sei, Sherlock Holmes. Si lasciò sfuggire una risatina incredula, passandosi una mano sul viso: come aveva fatto a ridursi così? Lui non era mai stato un tipo geloso, mai. E John non gli aveva mai dato motivo di esserlo, chissà chi era quella ragazza... Magari era pure sua madre, che ne poteva sapere lui? Scosse debolmente il capo e si voltò, riprendendo a camminare con più calma in direzione del suo dormitorio. Fece una decina di passi, raggiungendo uno dei grossi arbusti che qualche idiota aveva piantato anni prima nel punto sbagliato e ora coprivano parzialmente la vista dell'ingresso degli alloggi, talmente erano cresciuti. A quel punto, però, successe qualcosa che lo fece bloccare di colpo, gelandolo sul posto. Già quando aveva iniziato ad allontanarsi, aveva iniziato a sentire delle voci in lontananza avvicinarsi, ma sul momento non vi aveva fatto caso. Ma ora, sentendo la voce di John, tutto acquistò un valore differente. Soprattutto perché John non era da solo.

Una risata femminile. Una risata emessa da una ragazza, la cui voce aveva tormentato Sherlock sin dal momento in cui l'aveva sentita la prima volta. Non può essere. Dio, non può essere, non... Ti prego, no.

Sherlock, parzialmente nascosto dal cespuglio, si voltò lentamente, il cuore in gola; quando vide chi aveva appena raggiunto il dormitorio dalla strada opposta, ridendo e scherzando, quel suo povero cuore martoriato si ruppe definitivamente, diventando più gelido della neve che lo circondava: John era lì, sorridente e allegro come sempre, bello come Sherlock lo ricordava; aveva le guance e il naso arrossati per il freddo e i capelli pieni di neve fresca, ma a lui sembrava non importare. Rideva, John, rideva spensierato, mentre teneva un borsone a tracolla e il braccio destro stretto attorno alla vita di una ragazza, anch'essa sorridente. Era la ragazza della videochiamata, Sherlock me era sicuro: l'altezza era la stessa e vedendola così, quella silhouette proiettata sul muro sembrava proprio la sua; per di più, la voce combaciava perfettamente con quella che Sherlock aveva sentito. Perciò non c'era alcun dubbio: la fantomatica ragazza esisteva e in quel momento aveva preso il posto che Sherlock credeva sarebbe stato suo. Quello accanto a John.

Era carina, sembrava rientrare pienamente negli standard di John: capelli biondo grano dalle sfumature color paglierino nascosti sotto a un berretto color vinaccia, lisci e lunghi fino alle spalle con frangetta annessa; occhi che da lontano gli parvero chiari, forse blu e naso dritto, lievemente a patata, labbra sottili dipinte di rosso e un fisico minuto- era addirittura più bassa di John, il che era tutto dire-, ma comunque dalle forme ben evidenti sotto il cappotto nocciola e la sciarpa in tinta col cappello; aveva un paio di stivali neri, in netto contrasto con le Adidas Stan Smith del ragazzo accanto a lei. Sembrava una ragazza allegra, spigliata, vulcanica, la sua risata era davvero coinvolgente. C'era qualcosa di familiare nei suoi tratti, anche se Sherlock al momento non era davvero in vena di mettersi a dedurre e analizzarla. Poteva solo dire che aveva scelto bene, John. Aveva davvero scelto bene con chi rimpiazzarlo, se mai c'era veramente stato qualcosa da rimpiazzare.

Sherlock si appoggiò alla pianta, restando ad osservare la scena senza rischiare di essere visto: raggiunto l'ingresso, John buttò il borsone a terra mentre la ragazza diceva qualcosa, armata di un sorrisetto malizioso e uno sguardo ammiccante; John si strinse nelle spalle e le rispose, rivolgendole un sorriso appena accennato, un po' timido. Sherlock si ritrovò a pensare che quel sorriso l'aveva rivolto anche a lui, in passato, e Dio, faceva male. La ragazza scoppiò a ridere, scuotendo la testa, poi fece quella che a Sherlock, a giudicare dalla smorfia assunta da John, parve una battuta poco gradita. Per farsi perdonare la giovane diede un buffetto con la mano guantata a John, che lo accettò con un sorriso divertito.

Sherlock lo vide farsi più serio mentre si avvicinava ancora di più a lei e le chiedeva qualcosa, inclinando un poco la testa per incontrare il suo sguardo, al momento fisso sul suolo. La ragazza rispose dopo pochi attimi e John annuì, dicendole qualcosa in tono probabilmente rassicurante e mettendole una mano sulla spalla. Lei gli rivolse un sorriso grato, sincero, poi coprì quei pochi passi che ancora li separavano e si strinse a lui, abbracciandolo stretto e appoggiando la testa alla sua spalla. John la strinse a sua volta, sfiorandole la schiena con gesti affettuosi. Sherlock si ritrovò a distogliere lo sguardo, ormai offuscato dalle lacrime. Era decisamente troppo da sopportare.

Avrebbe potuto fare tante cose, a quel punto: andare da John e chiedere spiegazioni; iniziare a strepitare, urlare e fare casino, probabilmente cercando di ammazzare la ragazza dagli occhi chiari che gli aveva portato via il suo John; chiamare Victor e chiedergli di raggiungerlo per dare una lezione a John. Avrebbe davvero potuto fare tante cose, di alternative tra cui scegliere ne aveva tante.

E invece fece la cosa più difficile e meschina che avrebbe potuto fare: a testa bassa e con gli occhi che ormai non riuscivano più a frenare l'avanzata della lacrime, si voltò e stretto nel suo cappotto se ne andò in silenzio, senza dire una parola.

Aveva il cuore spezzato, Sherlock Holmes: come un idiota aveva creduto che la felicità, così effimera e ingannatrice, sarebbe potuta durare per sempre e l'avrebbe fatto con lui accanto a John, che lo amava almeno la metà di quanto lui lo amava. Si era lasciato sopraffare dai sentimenti, aveva ignorato la logica che gli urlava di fare attenzione, di non fidarsi e di preparare un piano B per rialzarsi con dignità in caso le cose fossero andate male. E invece lui non aveva fatto niente, si era lasciato andare e fatto trascinare dai sentimenti; era andato alla deriva e non se n'era neanche accorto, talmente era inebriato da quella sua illusione di paradiso.

Ma ora la realtà l'aveva riportato alla presente con un colpo ben assestato, come un pugno allo stomaco: John aveva un'altra persona accanto a sé, qualcuno che sicuramente l'avrebbe reso più felice di quanto Sherlock avrebbe mai potuto fare. John aveva quella ragazza, con cui aveva passato le feste e che l'aveva riaccompagnato in università e che ora era stretta a lui davanti al loro dormitorio; lui non era altro che un tentativo fallito relegato al passato, una storia finita prima di iniziare con un tizio strambo che non avrebbe mai potuto dargli il futuro che John auspicava. Sherlock si era immaginato per tutto quel tempo al posto di quella ragazza, in un ipotetico futuro, ma solo ora realizzava che quel futuro non ci sarebbe mai e poi mai stato. Era semplicemente una fantasia, una bugia ben costruita, un castello di carta pronto a crollare al minimo soffio di vento.

E Sherlock, come una foglia appena nata piegata dai venti gelidi dell'inverno, non poteva fare altro che sperare di resistere al tempo e al dolore di quel suo fragile cuore spezzato per la prima volta, cercando di non crollare sotto il peso opprimente di tutte quelle speranze infrante.






Note:
Ciao a tutti!
E questo, signore e signori, era il capitolo 4. E la svolta angst è arrivata, anche se non subitissimo. Ditelo che per un po' vi ho illuso di avervi solo preso in giro, ditelo.
Comunque, che dire? Sherlock l'ha presa piuttosto male, ma direi che vista la situazione non avrebbe potuto essere altrimenti. Nel prossimo capitolo (l'ultimo... sigh) lo vedrete cercare di elaborare l'accaduto, rimettersi in sesto e... andare avanti? Sì, credo si possa dire così, anche se sarà più difficile del previsto e non solo per lui. Riusciranno lui e John ad avere il loro lieto fine? Chi lo sa.
Cioè, io lo so, ma non spoilero niente. Sorry not sorry.
Per quanto riguarda il capitolo, qualche giorno fa avevo accennato su Twitter di non essere affatto convinta riguardo ad una scena: temevo fosse troppo OOC per il personaggio, ma alla fine mi sono dimenticata di postare lo screen, così alla fine ho detto "al diavolo" e here you are, quello che avete letto era il capitolo versione integrale. La scena in questione era quella della "crisi di nervi" di Sherlock davanti alla sua famiglia: è stata un azzardo, come la scena di Beyoncé e Crazy In Love, ma in modo più cupo. Spero non risulti stonata, volevo sottolineare lo stato d'animo innervosito, esasperato e impaurito di Sherlock in quel momento e... Non so, mi auguro non risulti esagerata.
Dunque, come sempre vorrei ringraziarvi di cuore: il vostro entusiasmo per la storia sembra aumentare con il numero dei capitoli e non potrei esserne più felice. Spero che il capitolo non vi abbia deluso- è stato un po' diverso dagli altri, ma era una svolta che pianificavo sin dall'inizio, quindi non volevo rinunciarvi- e mi auguro che l'epilogo di settimana prossima sia degno delle vostre aspettative.
Per quanto riguarda gli enigmi, la soluzione di quello di Sherlock verrà fuori nel prossimo capitolo. Voi siete riusciti a risolverlo? ;)
Quel "luv" sarebbe tipo il nostro "TVB" ma mi sono resa conto troppo tardi che si poteva fare anche "Lov" con la tavola periodica e, visto che avrei dovuto cambiare troppe cose, l'ho lasciato così.
Bene, per ora è tutto. Spero che non vogliate uccidermi per tutto... questo. In caso, accolgo il mio destino di morte a braccia aperte.
Un bacio, al prossimo capitolo!
Cami

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Capitolo 5
*** 5. ***


5.
 

Sherlock non era mai stato un tipo dalla lacrima facile, nemmeno da bambino. Non perché non sentisse dolore o provasse tristezza come gli altri, semplicemente non gli veniva naturale. Aveva sempre reputato il pianto una manifestazione di debolezza e l'opinione generale dei suoi fratelli riguardo i sentimenti non aveva fatto altro che accrescere quella sua riluttanza nel mostrare le proprie emozioni. Non riusciva quindi a spiegarsi come mai quella volta fosse andata diversamente: era adulto, dannazione, aveva odiato il pianto sin dall'infanzia, quindi perché iniziare a bagnare il cuscino di lacrime proprio ora? Per John, ecco perché.

Non era tornato subito in camera, dopo aver visto John insieme a quella ragazza: il pensiero di affrontare Victor, raccontargli tutto quello che era successo e quindi rivivere quello che aveva visto era stato semplicemente insopportabile in quel momento. L'unica cosa che in quel momento aveva desiderato era stare da solo, scappare da tutto e da tutti e andarsene lontano, dimenticare tutto almeno per un po'. E lo voleva ancora, a ben guardare.

Aveva passato diverse ore a girare per il campus, finendo per andare a sedersi sotto gli spalti del campo da rugby, l'unico punto non ancora invaso dalla neve: era rimasto lì per un tempo che gli era parso infinito, inviando a John un singolo "Scusa, John, stasera non ce la faccio: sarà per la prossima volta" e ignorando ogni singola chiamata e messaggio che seguì da quel momento. Il freddo pungente lo aveva aiutato a pensare, ma non a sedare quel dolore sordo che gli premeva sul petto: John non lo riteneva abbastanza, ecco perché lo aveva fatto. Si era reso conto che Sherlock non valeva niente, che non avrebbe mai potuto dargli nient'altro e cosa si faceva con qualcosa che si era scoperto fosse inutile? Lo si eliminava dalla propria vita, lo si sostituiva con qualcosa- in questo caso qualcuno- di più valido e soddisfacente. John aveva fatto semplicemente questo, niente di più, era tutto così logico... Ma allora perché faceva così male? Sherlock se l'era chiesto davvero quella notte, al campo da rugby. Non era riuscito a darsi una risposta.

Era tornato in camera diverse ore dopo il tramonto, coperto di neve e con il gelo fin nelle ossa, ma non sarebbe potuto importargliene meno. Sorprendentemente - ma a ben pensarci nemmeno così tanto-, Victor era rimasto sveglio ad aspettarlo: quando l'aveva visto entrare in camera, completamente fradicio e con gli occhi ancora gonfi e arrossati dalle lacrime, Sherlock non aveva avuto bisogno di dire neanche una parola, era già tutto scritto sul suo volto.

E Victor aveva sospirato, serrando la mascella: i due amici si erano guardati in silenzio per qualche istante, statici in quegli attimi di quiete irreale; poi Sherlock era crollato di nuovo, abbassando il capo e stringendosi più forte nel Belstaff mentre le lacrime tornavano a scorrergli sulle guance, fuori controllo. Victor allora aveva abbandonato il suo libro sul letto, si era alzato e gli era andato incontro, abbracciandolo forte e lasciando che Sherlock si sfogasse, affondando il viso nella sua maglietta senza smettere di singhiozzare.

"Andrà tutto bene, Sherlock, andrà tutto bene..." gli aveva detto, "Ci sono io con te, adesso. Andrà bene, vedrai."

Quando si era calmato, Victor l'aveva fatto sedere sul letto e con il piccolo bollitore elettrico che avevano in camera aveva preparato due tazze di tè- Sherlock non si era nemmeno premurato di informarsi sulla sua provenienza, era troppo stravolto in quel momento. Con la bevanda calda tra le mani e l'orologio della loro stanza che segnava le undici meno un quarto, Sherlock gli aveva raccontato tutto, da quando era arrivato al dormitorio di John da solo, dopo averlo congedato, alle ore passate sotto gli spalti, intirizzito dal gelo ma troppo sconvolto per realizzarlo. Victor si era arrabbiato, glielo aveva letto in faccia: probabilmente però il suo stato era talmente pietoso da convincerlo a restare con lui e abbandonare ogni proposito bellicoso contro John, colui che aveva causato tanta sofferenza.

"Io lo sapevo, Cristo santo, lo sapevo che non dovevo lasciarti andare da solo..." aveva ringhiato a racconto finito e Sherlock gli aveva rivolto uno sguardo stanco.

"Avrebbe fatto qualche differenza?"

"Sì: avrei subito spaccato il naso a quel coglione di Watson, invece di starmene qui a guardarti soffrire come un cane."

"Sarebbe stato peggio." aveva mormorato Sherlock e Victor aveva scosso la testa e distolto lo sguardo, senza però aggiungere altro. Dopo un po' Victor era stato vinto dal sonno e si era addormentato come un bambino, mezzo sdraiato a testa in giù; Sherlock invece era rimasto sveglio tutta la notte, senza chiudere occhio: aveva visto l'alba, i primi albori del giorno farsi largo nella coltre di nubi cariche di neve che ricoprivano il cielo inglese. Da quel momento in poi, anche i giorni seguenti, non chiuse più occhio, né uscì dalla stanza: non avrebbe ripreso a lavorare prima del sette gennaio e ormai non aveva altri motivi per uscire, quindi perché prendersi il disturbo? Questa era la scusa propinata a Victor, scusa alla quale, sebbene non avesse fiatato, probabilmente non aveva creduto nemmeno per un secondo: era evidente che aveva paura di incontrare John, ma dirlo sarebbe stato ancora peggio di pensarlo e basta, quindi Sherlock aveva cercato di auto convincersi che in realtà non fosse affatto così. Anche dopo alcuni giorni, non c'era ancora riuscito del tutto.

Victor gli era rimasto accanto tutto il tempo, spronandolo a uscire insieme per fare questo o quello e finendo sempre per restare con lui in camera pur di non lasciarlo da solo: Sherlock l'aveva pregato di andarsene, di lasciarlo in pace, ma in fondo era grato al suo migliore amico per quello che stava facendo; con quel suo inutile chiacchiericcio, a volte Vic riusciva quasi a distrarlo da tutti quei pensieri scomodi che gli si affollavano davanti agli occhi e che sembravano non volerlo mai abbandonare. E anche quando non ci riusciva, gli era comunque utile: aveva voglia di piangere ancora, a volte, ma l'idea di farlo di nuovo davanti a lui lo inorridiva, quindi era un buon motivo per trattenersi e sedare le sue emozioni impazzite; aveva già pianto davanti a Victor e ancora non riusciva a perdonarsi quel momento di ridicola e deplorevole debolezza, non avrebbe mai e poi mai replicato l'esperienza. Non avrebbe mai voluto farsi vedere da lui in quello stato, eppure era successo: non sarebbe capitato ancora.

I giorni e le ore passavano lenti, come se stesse monitorando lo scorrere del tempo con un orologio rotto o dalla batteria scarica: era la sera del cinque gennaio e nonostante fossero passati solo quattro giorni da quella serata orrenda, a Sherlock sembrava trascorsa una vita intera. Non aveva toccato cibo in quei giorni, solo una tazza di tè ogni tanto e, se proprio Victor si intestardiva, un biscotto, ma niente di più; passava le notti a fissare il soffitto o a guardare fuori dalla finestra, seduto sul suo letto o sul davanzale; non usciva, non faceva niente, al massimo leggeva qualcosa, ma le parole non gli restavano in mente, era come fissare il vuoto. Se prima stentava a riconoscersi, in quei quattro giorni si era trasformato in uno spettro di ciò che era stato: avrebbe tanto voluto scomparire, senza mai farsi più vedere.

Il dolore sordo e lancinante del primo momento si era trasformato in un perpetuo stato di malinconica tristezza: continuava a ripensare a John e a quel che era successo, a come fino a poco tempo prima gli sembrasse di toccare il cielo con un dito e ora di sprofondare nell'oblio, in un baratro cupo e senza uscita. Avevano ragione, Eurus e Mycroft: i sentimenti facevano schifo, le emozioni facevano schifo... L'amore faceva schifo. Era tutta una grande bugia, niente di reale, solo un'effimera illusione: John l'aveva ingannato, masticato a dovere e poi sputato via una volta stufo. Sherlock non si era mai sentito così tradito, usato e deluso in tutta la sua vita.

Era arrabbiato, dannazione, era furibondo. Ma non lo era con John, in fondo: lo era con se stesso, perché andiamo, aveva davvero creduto che stavolta sarebbe stato diverso? Come aveva potuto pensare che fidarsi fosse un'opzione considerabile, come aveva fatto a lasciarsi abbindolare così, come uno stupido? Sapeva come ragionavano le persone, sapeva cosa aspettarsi, eppure aveva commesso un errore imperdonabile: si era fidato, si era lasciato andare e si era fatto rubare il cuore, solo per poi vederlo gettato via e frantumato da uno stivale femminile immerso nella neve.

Era un inganno da manuale, qualcosa che si leggeva tutti i giorni in un romanzo rosa o si vedeva al cinema in un film strappalacrime: era il classico esempio del "sedotto e abbandonato", del bel ragazzo che si prendeva una sbandata per un soggetto atipico e che avrebbe fatto di tutto per averlo, lasciandolo perdere come se niente fosse successo una volta raggiunto il suo obbiettivo. In pratica non era niente di nuovo ma era francamente scontato, tutto già visto e sentito. Eppure Sherlock c'era cascato lo stesso e Dio, si sentiva uno stupido per questo. E il fatto che avesse pensato per tutto il tempo che John non l'avrebbe mai tradito, che nonostante lui fosse quello strano e odiato da praticamente tutti non gli avrebbe mai fatto qualcosa del genere... Beh, era soltanto un altro punto a suo sfavore: un errore di valutazione così clamoroso non poteva che essere opera di un perfetto idiota.

"Caring is Not an advantage, Sherlock" gli aveva detto tempo prima Mycroft ed era vero, Sherlock lo capiva soltanto ora. Forse, per la prima volta in vita sua, avrebbe fatto bene a dar retta a suo fratello.

Era la sera del cinque gennaio: erano passati quattro giorni da quando Sherlock aveva visto John e Jane- non aveva idea di chi fosse e una parte di lui non voleva nemmeno saperlo, quindi aveva optato per riferirsi a lei con il canonico Jane Doe, in prefetto abbinamento con il nome del suo nuovo ragazzo- abbracciati e stretti l'uno all'altra davanti al dormitorio di lui, mancavano circa quaranta minuti a mezzanotte e quindi ai ventun anni di Sherlock, ma il diretto interessato non avrebbe potuto curarsene di meno.

Pigiama e vestaglia addosso, stava leggendo per la quattrocentesima volta l'Amleto, cercando di concentrarsi sulle battute del Principe di Danimarca invece che sui suoi pensieri impazziti, che in un modo o nell'altro finivano sempre per tornare a John. Era confuso, ferito, triste e arrabbiato, ma l'unica emozione che finiva per esternare e rendere visibile al mondo esterno era l'indifferenza più totale, fredda e distaccata.

Aveva preso una decisione, Sherlock: da quel momento in avanti, avrebbe chiuso con i sentimenti, avrebbe tenuto fuori dalla sua vita tutta quella robaccia per il resto della sua esistenza. Le emozioni lo rendevano debole, vulnerabile e Sherlock non voleva più sentirsi così, mai più. Era troppo da sopportare, sapendo come avrebbe reagito ad una nuova delusione. No, ne avrebbe fatto a meno, ormai aveva deciso.

Non potendo dare un taglio netto per separarsi del tutto da una parte di sé, Sherlock aveva deciso che avrebbe iniziato dalle piccole cose: meno sorrisi, più sarcasmo cinico e umorismo pungente, avrebbe cercato di curarsi il meno possibile delle possibili reazioni altrui, escludendo del tutto dalle sue azioni la già di per sé ristretta quantità di empatia in suo possesso. Sarebbe passato per uno psicopatico, un bastardo senza cuore, una macchina? Sì, era probabile. Ma piuttosto che farsi nuovamente spezzare il cuore dal mondo, lo avrebbe chiuso fuori.

Il cellulare prese a vibrare contro la sua coscia e Sherlock lo recuperò distrattamente, volgendo lo sguardo al display solo quando fu ad un palmo dal suo naso. Quando lesse il nome di chi lo stava chiamando, il suo viso si contrasse involontariamente in una smorfia, per poi distogliere subito dopo lo sguardo mentre rifiutava la chiamata e lasciava cadere nuovamente il telefono sul materasso. John non aveva smesso di chiamarlo neanche per un giorno: a volte gli scriveva anche, ma Sherlock non aveva mai risposto a nessun tipo di contatto. Rifiutava le telefonate e lasciava i messaggi senza risposta, non li leggeva nemmeno. Sapeva che, se avesse letto le parole di John o sentito di nuovo la sua voce, sarebbe capitolato, letteralmente caduto ai suoi piedi e non poteva permetterselo. Aveva già sofferto abbastanza, non ci teneva a fare un secondo round.

Victor tornò in camera in quel momento, buttando sul suo letto il cesto con i vestiti appena ritirati dalla lavanderia.

"Ho chiesto anche i tuoi, ma mi ero scordato che tu ritiri sempre tutto prima delle vacanze e visto che in questi giorni hai fatto il barbone giustamente non avevano nemmeno un tuo calzino." commentò, mettendosi a riporre praticamente a caso i vestiti nell'armadio. Sherlock rispose con un grugnito, chiudendo definitivamente il libro e iniziando a mordicchiarsi l'unghia del pollice. Victor gli rivolse uno sguardo con la coda dell'occhio, giusto per assicurarsi che Sherlock l'avesse sentito. Quando lo vide in trance, a fissare il vuoto, sospirò.

"Dovresti uscire a prendere una boccata d'aria. Dico sul serio."

"Sto bene."

"No che non stai bene, dannazione!" sbottò Victor, lasciando cadere a terra il cesto con i vestiti e posizionandosi davanti all'amico, per poi indicarlo con un gesto stizzito ed esclamare:

"Guarda come ti sei ridotto, sembri un drogato! Sono quattro giorni che non esci, non mangi, non dormi, non fai una sega se non piangerti addosso! Non ti sei neanche rasato."

"Adesso non farne una questione di stato."

"Sherlock, hai la barba, cazzo, tu non hai mai la barba! Appena vedi un minimo di ricrescita sei sempre lì con il rasoio in mano, Cristo santissimo, tra qualche giorno invece potrai farti le trecce!"

"Oddio, non ho toccato il rasoio per qualche giorno e allora? Qual'è il problema?"

"Mettiamola così: adesso sei ruvido dentro e fuori, il problema è che normalmente l'essere ruvido dentro ti lascerebbe indifferente, ma l'esserlo fuori ti irriterebbe a morte, perché tu detesti la barba!"

"Non la detesto." mormorò Sherlock, fissando il vuoto. Victor fece una smorfia.

"L'anno scorso mi hai perseguitato per settimane perché volevo farmela crescere, me ne hai dette di tutti i colori, dagli insulti alle malattie che avrei potuto contrarre."

"È perché con il tuo viso avrebbe fatto l'effetto di una barba posticcia addosso ad un bambino, Vic."

"Perché invece a te sta d'incanto, vero?!"

"Sinceramente? Non mi interessa."

"È proprio questo il problema: prima te ne sarebbe importato eccome e invece adesso non te ne frega assolutamente niente, Sherlock. Gesù, non... Non sei più tu, non riesco più a riconoscerti." disse Victor e quando Sherlock spostò lo sguardo su di lui, lo vide sinceramente preoccupato. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma non ne uscì alcun suono e finì per richiuderla senza emettere una sillaba. Forse perché in realtà non aveva molto da dire: Victor ci aveva visto giusto, come sempre. E lui non aveva argomenti per ribattere, perché quella era la pura e semplice verità.

Victor intuì i suoi pensieri e scosse la testa, sedendosi sul letto accanto a lui. Restò in silenzio per qualche istante, poi, tornando a fissare lo sguardo nelle iridi cristalline di Sherlock, disse:

"So che quella di John è stata una bella batosta per te: le prime delusioni amorose sono sempre le peggiori. Non che andando avanti diventino indolori, ma... Beh, le prime sono diverse. E tu tenevi davvero tanto a quel cretino, quindi la situazione non poteva certo migliorare. Però devi risollevarti, Sherlock: non puoi passare il resto della tua vita a piangerti addosso, a commiserarti per quello che è successo e quello che sarebbe potuto essere ma non è stato, la vita va avanti. Tu devi andare avanti. Fossilizzarsi su qualcosa che non puoi cambiare non ha alcun senso."

"Non mi sto fossilizzando."

Victor piegò le labbra in un ghigno di scherno, che però risultò più simile ad una smorfia.

"Certo, come no. Stai ancora pensando a lui, guarda che l'ho capito, ti conosco. E proprio perché ti conosco ti dico che sarebbe meglio mettere una pietra sopra a questa faccenda una volta per tutte: continuare in questo modo ti farà solo stare male, Sherlock, ti farà solo soffrire. Non è andata bene e abbiamo scoperto che in realtà John Watson è uno stronzo, d'accordo: so che fa male e che stai da cani, ma passerà. Un giorno smetterai di pensare a lui e probabilmente tra una decina d'anni nemmeno ti ricorderai che faccia avesse. Tra venti forse nemmeno ti ricorderai il suo nome o cosa ci trovassi di tanto speciale in lui. Con il tempo tutto questo diventerà solo un ricordo sbiadito, Sherlock. L'importante adesso è non lasciare che sbiadisca te."

Sherlock non rispose, si limitò a guardare il suo amico in silenzio. Aveva ragione Victor, lo sapeva: prima o poi probabilmente avrebbe dimenticato tutto, prima o poi tutto quello che stava passando non avrebbe contato più nulla ai suoi occhi. Il problema era che in quel momento contava tantissimo e dannazione, gli faceva ancora così tanto male da non poter respirare. E John... Beh. Dubitava davvero che sarebbe riuscito a dimenticarlo. Forse avrebbe dimenticato il dolore, i piccoli dettagli e le sensazioni, ma il ricordo di lui sarebbe rimasto intatto. Uno come John Watson non si dimenticava facilmente.

"E cosa suggerisci di fare in proposito?" mormorò, abbassando lo sguardo sul suo libro e sfiorando la copertina con la punta delle dita. Victor si strinse nelle spalle e rispose:

"Beh, magari potresti iniziare col darti una sistemata. Farti la barba e tutto il resto, sai... E poi potresti uscire."

"Per andare dove?"

"Fuori."

"E a fare cosa?"

"Beh, non lo so... Le solite cose. Potremmo andare a bere una cosa insieme: insomma, tra poco sarà il tuo compleanno e tutti i pub sono ancora aperti, voglio offrirti la tua prima birra acquistata legalmente. Dobbiamo festeggiare, no?"

Sherlock accennò un sorriso davanti all'espressione speranzosa di Victor.

"Magari un'altra volta, Vic." mormorò e Victor sospirò. Il suo cellulare iniziò a squillare in quel momento e Sherlock lo vide lanciare uno sguardo di sottecchi al display, prima di contrarre le labbra in una linea dura e rifiutare la chiamata. Sherlock inclinò un poco la testa, rivolgendogli uno sguardo incuriosito.

"Era Carly?" chiese. Victor annuì.

"Era Carly, sì."

"Mmh. Da quanto vi frequentate?"

"Saranno... Boh, tre o quattro mesi."

"E ti ronza ancora attorno, accidenti."

"Sorprendentemente sì."

"E l'altra?"

Victor aggrottò la fronte.

"L'altra chi?"

"Quando io e John siamo venuti qui, il giorno prima che partissi per le vacanze, hai parlato di un rimorchio e di una biondina del terzo anno. Non che sia un grande esperto, ma le ragazze tendono a prenderla male quando scoprono di condividere lo stesso uomo." commentò Sherlock e Victor sbatté un paio di volte le palpebre, incredulo.

"Mi stai prendendo in giro, per caso?"

"Perché?"

"Perché non puoi davvero essere così ritardato." mormorò Victor e davanti allo sguardo confuso di Sherlock emise un gemito esasperato.

"Sei davvero un idiota."

"Perché adesso te la prendi con me, sei tu il bigamo!"

"Me la prendo con te perché Carly è la biondina del terzo anno!" esclamò Victor e Sherlock gli rivolse uno sguardo vacuo.

"Oh. Ma allora perché-"

"Perché se ti parlo di lei chiamandola per nome non capisci nemmeno a chi mi stia riferendo, allora mi sono rassegnato e ho iniziato a chiamarla 'la biondina del terzo anno'. Scusa, ma se sei così scandalizzato, chi credevi che fosse Carly?"

"La tizia con l'acconciatura afro."

Victor roteò gli occhi con un sospiro, per poi rispondere:

"Quella era Carol. Ci uscivo l'anno scorso."

"Ci ero andato vicino. È una cosa seria, comunque. Tra te e Carly."

"Diciamo di sì."

"Victor Trevor messo al guinzaglio... Accidenti, è stata brava." commentò Sherlock, divertito e Victor sorrise, alzando gli occhi al cielo.

"Molto divertente, Sherlock, davvero."

"Perché non hai risposto quando ti ha chiamato?"

"Perché mi avrebbe chiesto per l'ennesima la stessa cosa e non mi andava di dirle ancora di no."

"Cosa ti avrebbe chiesto?"

Victor distolse lo sguardo e non rispose. Sherlock assottigliò le palpebre, osservando più attentamente il suo amico. Quando finalmente riuscì a dedurre almeno in parte di cosa si trattasse, fece una smorfia.

"Avresti dovuto dirle di sì." mormorò e Victor alzò di nuovo lo sguardo su di lui.

"No, invece."

"Vic, è la tua vita: solo perché tra me e John non... Solo perché io sono così non significa che tu debba rinunciare a tutto solo per cameratismo, okay?"

"Non rinuncio a tutto, solo-"

"Carly ti ha chiesto qualcosa di importante, qualcosa a cui lei tiene molto, vista la sua determinazione e la sua volontà a non vedersi rifiutata; non hai risposto al telefono perché eri qui con me e hai detto che avresti dovuto dirle di no, quindi c'entra almeno parzialmente con me e visti i recenti avvenimenti, direi che la richiesta di Carly avrebbe supposto il raggiungerla e lasciarmi qui da solo, cosa che ti sei sempre opposto di fare negli ultimi quattro giorni. Quando ti ho chiesto cosa volesse, tu hai abbassato lo sguardo e non hai risposto, questo perché avrebbe significato ammettere che hai rinunciato a qualcosa di importante per la vostra storia per paura che mettesse me a disagio. Quindi è vero, non è tutto, ma è comunque importante per voi e tu stai buttando via tutto per delle paranoie inutili. Allora, cosa ti ha chiesto?"

Victor restò in silenzio qualche istante, poi mormorò:

"Mi ha chiesto di passare la notte con lei. E per passare la notte intendo... Sai, tutto il pacchetto. Anche la parte del dormire e svegliarsi insieme e fare colazione e così via... Su quella non sono molto ferrato, di solito me ne vado prima."

"Mmh. E tu le hai detto di no."

"Questa era l'ultima sera disponibile: domani tornerà la sua coinquilina e dubito che vorrà fare una cosa a tre... Però ho rifiutato lo stesso, sì."

"Perché l'hai fatto? Hai paura di cosa comporterebbe?"

"No, no, nient'affatto. Le ho detto di no perché tu... Sai, saresti rimasto qui da solo, tra qualche ora sarà anche il tuo compleanno. Non mi andava di andarmene a spassarmela mentre tu restavi qui a deprimerti." ammise Victor, grattandosi la nuca con aria imbarazzata. Sherlock roteò gli occhi, la bocca piegata in una smorfia. Quando tornò a guardare l'amico, disse:

"Victor, vai. Muoviti, forse sei ancora in tempo."

"No, Sherlock, ormai le ho detto di no. E poi tu-"

"Io niente, Vic, non sarei comunque dell'umore per festeggiare: non lo ero prima, figurati se lo sono adesso. E poi davvero, liberarmi della tua logorroica e asfissiante compagnia per un po' non mi dispiacerebbe affatto, sai? Sono quattro giorni che non mi dai tregua, stai diventando insopportabile."

"Ma senti chi parla, tu sei depresso ventiquattr'ore su ventiquattro!"

"Appunto, non sono certo di grande compagnia." Sherlock sospirò e la sua espressione arcigna si sciolse in un lieve sorriso, "Va' da lei, Vic: sii felice almeno tu, visto che ne hai l'occasione, e non buttare tutto all'aria solo perché a me non è andata bene e ti dispiace lasciarmi solo. Non ne varrebbe la pena."

Victor si inumidì le labbra, pensieroso. Quando tornò a guardarlo, Sherlock distinse una luce diversa nel suo sguardo, esitante.

"Ne sei sicuro? Davvero, Sherlock, posso rimanere con te, per me non è un-"

"Per me lo è. Adesso vattene, muoviti, altrimenti giuro che ti caccio fuori di qui a calci."

"Non ce la faresti."

"Non sottovalutarmi, Trevor." mormorò Sherlock e, dopo aver riso con Victor, osservò l'amico prepararsi in fretta e furia, per poi bloccarsi una volta raggiunta la soglia. Victor tornò a guardarlo e fece per dire qualcosa, bloccandosi subito dopo. Sembrava incerto, insicuro.

"Sherlock, io-"

"Vai. Io starò bene, tranquillo."

"Okay. Solo... Promettimi che non farai nulla di stupido mentre non ci sono, d'accordo?" mormorò Victor, allacciandosi la sciarpa attorno al collo. Sherlock aggrottò la fronte e chiese:

"Qualcosa di stupido in che senso?"

"Non lo so. In tutti i sensi, diciamo, così per lo meno sono certo di coprire ogni area a rischio. Promettimelo."

"Victor, dai..."

"No, promettimelo, Sherlock, altrimenti non me ne vado."

Davanti all'espressione cocciuta dell'amico, Sherlock sbuffò, alzando gli occhi al cielo. Però poi disse:

"D'accordo, d'accordo... Te lo prometto. Contento?"

"Molto. Okay, allora io vado... Augurami buona fortuna."

"Buona fortuna per cosa? Temi che Carly ti lasci a bocca asciutta? Fossi in lei farei bene, non sprecherei quest'occasione." commentò Sherlock con un ghigno. Victor fece una smorfia e sibilò, puntandogli l'indice contro:

"Sei un bastardo, Holmes, sappilo!"

"Te ne sei accorto solo ora? Sorprendente!" mormorò Sherlock, riprendendo in mano il suo libro e iniziando di nuovo a leggere. Victor restò fermo qualche istante, poi scosse la testa e uscì, richiudendosi la porta alle spalle. Sherlock a quel punto rialzò lo sguardo dal libro, fissandolo sulla porta chiusa. Sospirò, stringendosi le ginocchia al petto e appoggiando la guancia alle articolazioni magre e appuntite.

Era invidioso, non poteva negarlo: vedere Victor felice, innamorato e soprattutto ricambiato... Gli dava un senso di nausea e per tutto il tempo, nonostante tutto, Sherlock non aveva fatto altro che chiedersi "Perché lui sì e io no? Cosa c'è di sbagliato in me?". Non era Victor in sé a renderlo geloso, era il legame che aveva con Carly, la fortuna di avere qualcuno accanto. Per l'amor del cielo, era felicissimo per loro, non conosceva Carly ma conosceva Victor e Sherlock pensava davvero che nessuno più di lui meritasse di essere felice. Ciò però non toglieva che, dopo quello che era successo con John, gli bruciasse parecchio.

Il cellulare iniziò a vibrare di nuovo e Sherlock voltò il capo con un sospiro verso il dispositivo, guardando direttamente il nome del chiamante sul display. Quando lesse "PRIVATE NUMBER", arricciò il naso alzando gli occhi al cielo. Mycroft e la sua maledetta ossessione per il potere, ma cosa gli costava contattarlo normalmente, una volta tanto? Si lasciò cadere all'indietro, testa sul cuscino, poi accettò la chiamata e si portò il telefono all'orecchio per rispondere.

"Mycroft, ho il tuo numero, Cristo santo, la vuoi smettere di chiamarmi con un numero anonimo?" mugugnò, passandosi una mano sul viso. Il suo interlocutore emise una risatina nervosa e Sherlock iniziò ad allarmarsi: Mycroft non ridacchiava e anche in caso l'avesse fatto, non sarebbe stato in quel modo.

"Tu non sei Mycroft." mormorò. L'altro rise ancora.

"No, direi di no..." rispose e Sherlock sbarrò gli occhi, irrigidendosi d'un colpo. John. Stava per avere un infarto, non riusciva più a muovere un singolo muscolo e... Oh Dio, la sua voce. Quanto gli era mancata. Ricomponiti, Sherlock, datti un contengo!, urlò una vocina nel suo cervello e Sherlock si diede da fare per ascoltarla.

"John, qual buon vento... Che cosa vuoi?" chiese dopo essersi schiarito la voce, gelido. John sospirò.

"Beh, vederci per parlare non mi dispiacerebbe. Sai, fare due chiacchiere, io e te." rispose e Sherlock schioccò la lingua. Col cavolo, John, torna da Barbie.

"Mi dispiace deluderti, ma temo non sia possibile."

"Ah no? E come mai?"

"Non sono in università." azzardò Sherlock, buttando fuori la prima cosa che gli passò per la testa. Non una scusa brillante, doveva ammetterlo, ma per il momento era sempre meglio che niente. John però rise di nuovo, anche se stavolta la sua sembrava una risata vuota, quasi di scherno.

"Davvero?" chiese, come se non ci credesse. Sherlock, a dir poco indispettito, rispose:

"Davvero."

"Mmh. E allora, scusa se insisto, ma dato che Victor è appena uscito dal dormitorio- dormitorio in cui tecnicamente dovrebbe avere una stanza tutta per sé, a quanto dici-sapresti dirmi perché in camera vostra le luci sono ancora accese?"

Sherlock restò in silenzio qualche istante.

"Beh, le avrà dimenticate accese lui, che ne so io?" mormorò dopo un po'. La risposta di John non tardò ad arrivare.

"Non credo proprio, sai? Mentre se ne andava si è voltato indietro e ha lanciato un'occhiata alla vostra finestra, quindi dubito sia stata una svista."

"E tu come sai che si è girato e le luci sono accese e così via?"

"Guarda fuori."

Sherlock si alzò lentamente dal letto e, con il telefono ancora premuto contro l'orecchio, si avvicinò alla finestra, guardando giù in giardino. John, fermo accanto ad uno dei grossi cespugli dirimpetto all'entrata dell'edificio, alzò una mano in segno di saluto e Sherlock fece una smorfia. Non riusciva a vedere la sua espressione, era troppo lontano, però... Dio, John era lì. Già, ma che ci faceva John proprio lì?

"Senti, dobbiamo parlare." disse John con un sospiro, interrompendo il filo dei pensieri di Sherlock. Questi si accigliò e chiese di rimando:

"Parlare di cosa?"

"Lo sai di cosa. Puoi scendere?"

Sherlock restò fermo per qualche istante, completamente immobile e in silenzio; poi sospirò e annuì.

"D'accordo. Dammi qualche minuto."

"Ti aspetto qui."

Sherlock chiuse la comunicazione e restò qualche istante ancora davanti alla finestra: John, dal basso, aveva riposto in tasca il suo telefono e ora, le braccia conserte sul petto, lo stava guardando, cercando probabilmente di decifrare qualcosa dalla sua postura e comportamento. Sherlock scosse il capo, distogliendo all'istante lo sguardo. Probabilmente avrebbe dovuto scusarsi con Victor, perché quella che stava per fare era davvero una cazzata bella e buona: ma cosa gli era saltato in mente? E tutti i suoi buoni propositi di non parlare più a John, di non vederlo più, di chiudere tutti fuori dalla sua vita che fine avevano fatto? Sherlock se lo chiese, ma, mentre indossava il cappotto, non seppe darsi una risposta.

In più era inutile negarlo e fare finta di niente: quando aveva sentito la voce di John provenire dall'apparecchio, aveva avuto un tuffo al cuore e non necessariamente in modo negativo. Aveva provato nostalgia nel risentirla, felicità quasi: la rabbia, il dolore e la tristezza erano arrivate solo in seguito. E Sherlock davvero non riusciva a capacitarsene, non sapeva cosa fare. Ormai però aveva detto a John che sarebbe sceso a parlargli- ma perché l'aveva fatto, perché?!- e rimangiarsi la parola data per codardia non era davvero nel suo stile. Quindi si fece forza, si strinse di più nel cappotto e via, uscì dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle.

Attraversò il corridoio con il cuore in gola, quando iniziò a scendere le scale lo stomaco era ormai quasi disintegrato e raggiunto l'atrio della residenza studentesca, non sentiva altro che terrore cieco. Prima di aprire la porta d'ingresso di fermò, guardando verso il basso: si rendeva conto solo in quel momento di avere addosso solo pigiama, vestaglia e pantofole, coperti solo dal suo cappotto. E poi oddio, aveva la barba. E i capelli, cielo, chissà com'erano conciati... Victor aveva ragione quando gli aveva detto che sembrava un barbone. John non doveva assolutamente vederlo così, altrimenti... Altrimenti cosa, Sherlock? Non avevi deciso di chiudere con lui? Non dovrebbe importarti ciò che pensa. Il problema era che non era certo fosse così.

Sherlock scosse la testa, stringendo forte la maniglia della porta tra le dita e serrando le palpebre con una smorfia. Al diavolo. Uscì dall'edificio, fermandosi sotto alla piccola tettoia in pietra che, all'imbocco della breve scalinata che portava al giardino, segnalava l'ingresso alla residenza. John era ancora fermo dove Sherlock l'aveva visto alla finestra, le mani affondate nelle tasche della giacca nera. Sembrava infreddolito, a disagio e Sherlock sentì un groppo alla gola quando si rese conto di non averlo mai visto in quel modo.

Quando lo sentì uscire, John sollevò la testa verso di lui, incrociando il suo sguardo. In un primo momento restarono immobili a fissarsi, senza sapere cosa dire o fare. John sembrava sorpreso, ma non ci volle molto a realizzare che non lo fosse positivamente: quando la sua espressione sgomenta si trasformò in una preoccupata, Sherlock si ritrovò a distogliere lo sguardo, stringendosi le braccia attorno al petto. John lo raggiunse subito dopo, salendo piano i pochi scalini che li separavano e fermandosi davanti a lui, anche se, notò Sherlock, a distanza di sicurezza.

"Ciao." mormorò John e Sherlock rispose con un cenno del capo, senza riportare lo sguardo sul suo viso.

"Ciao." rispose dopo qualche istante, a bassa voce. John si inumidì le labbra, poi chiese, teso:

"Che sta succedendo, Sherlock? Dimmelo tu, perché onestamente io non ci sto capendo più niente."

"Non c'è granché da capire, John."

John emise una risatina secca, vuota, attirando lo sguardo sorpreso di Sherlock su di sé: quando John tornò a guardarlo in faccia, Sherlock restò totalmente basito nel cogliere il suo sguardo arrabbiato, deluso e ferito, reso ancora più tagliente da quel sorrisetto appena accennato.

"Non me la dai a bere, Sherlock. Non stavolta." sibilò, gelido. Sherlock aggrottò la fronte, stringendo un poco le palpebre.

"Non è questione di dartela a bere o meno, John: non c'è davvero niente da dire."

"Sì, invece, cazzo!" sbottò John, perdendo definitivamente la calma, "Prima ci frequentiamo per due mesi, ci vediamo tutti i giorni e praticamente viviamo attaccati al cellulare quando non siamo insieme. È stato così anche durante le vacanze, abbiamo passato ore su Skype! E poi c'è stato quel bacio e tu che sembravi ricambiare quello che provavo io e gli enigmi... Sembrava andasse tutto bene, forse anche troppo. E infatti poi tu che fai?"

John si interruppe per ridere di nuovo, quasi isterico. Scosse la testa, facendo un paio di passi avanti e indietro e scuotendo la testa, le mani nei capelli. Ad un tratto si fermò di nuovo, davanti a Sherlock, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi. Gli rivolse un sorriso ironico e vuoto, accompagnato da uno sguardo ferito.

"Mi scrivi quel maledetto messaggio nemmeno un'ora prima del nostro appuntamento, scaricandomi con un patetico 'Scusa, John, stasera non ce la faccio: sarà per la prossima volta'. Peccato che quella prossima volta non ci sia mai stata, visto che sei praticamente sparito dalla faccia della Terra senza dire una parola!"

"Non sono sparito."

"No, certo che no: ti sei solo limitato a non farti più vedere, a non rispondere alle mie chiamate. Non mi hai nemmeno scritto un messaggio, Sherlock, un singolo messaggio. Era troppo faticoso per te scrivermi un dannato SMS per dirmelo? Neanche in faccia, tra l'altro."

Sherlock aggrottò la fronte.

"Un messaggio per dirti cosa?"

"Oh beh, questo devi dirmelo tu: dopo tutto, non sono io quello che sta trattando l'altro come un maledetto estraneo, no?" ringhiò John a denti stretti. Era arrabbiato, furibondo Sherlock l'aveva intuito. Da una parte gli dispiaceva, ma d'altronde lui cosa avrebbe potuto fare, altrimenti? John aveva scelto quella ragazza, per lui non c'era più posto. Che senso avrebbe avuto rima spero e rimandare un addio ormai inevitabile? Subito dopo quel suo ragionamento, però, Sherlock vide l'espressione e lo sguardo rabbioso di John cambiare, facendosi più sofferenti.

"È perché non sono abbastanza per te, non è vero?" mormorò John, con un sorriso che voleva sembrare ironico ma risultò solo triste e ferito, "Io sono solo lo stupido John Watson: un idiota come tanti altri, non sono niente di speciale. Sono troppo normale per te, non sono mai stato abbastanza e poteva anche andare bene fino a quando non ti fossi annoiato con me, non ti fossi stancato di avere attorno qualcuno di così banale. Non sono mai stato alla tua altezza, l'ho sempre saputo. È inutile dire però che per un po' io ci ho sperato lo stesso, anche se con il senno di poi... Beh, fa un po' troppo male, cazzo."

Sherlock, impietrito per l'orrore, guardò John abbassare lo sguardo e stringersi nella giacca, a disagio. Sentiva la testa vuota, il cuore pesante: aveva fatto soffrire John. Nonostante tutto, quel pensiero, la consapevolezza di aver fatto star male l'unica persona che avesse mai amato davvero... Gli spezzò il cuore un'altra volta.

"N-non... Non è andata così." balbettò e John sollevò di nuovo lo sguardo su di lui. Inarcò un sopracciglio, mettendosi a braccia conserte.

"Ah no?" mormorò, distaccato, "E allora com'è andata, Sherlock? Eh? Dimmelo tu, avanti!"

Quando si rese conto che la rabbia di John era tornata alla carica, qualcosa scattò come una molla nel cervello di Sherlock: John non aveva alcun motivo di essere arrabbiato, semmai era lui a dover essere furioso. Tutto quello che era successo non era certo stato a causa sua, quindi se c'era qualcuno che avrebbe dovuto arrabbiarsi tra loro due, quello era proprio lui. Non John, lui non ne aveva alcun diritto. E così Sherlock lo fece, per la prima volta dopo giorni reagì, abbandonando quell'atteggiamento da vittima che ormai l'aveva stancato. Le parole iniziarono ad affollarsi nella sua mente, a riempirgli la bocca e controllargli la lingua, fino a quando Sherlock non riuscì più a starsene zitto e scoppiò.

"D'accordo, John, te lo dico io com'è andata, dato anche apparentemente sei o troppo stupido per capirlo o troppo ipocrita per accettarlo: non è andata così come dici tu. Non è stata colpa mia, non sono certo io quello che si è stancato e ha deciso tutt'un tratto di rimpiazzare l'altro, quello che fino a due giorni prima si diceva tanto innamorato e invece già si vedeva con qualcun altro! Non sono io quello che si annoiava e che ha deciso di scaricare l'altro- anzi, no, non di scaricare, ma di continuare a prenderlo in giro come se niente fosse! Quindi scusami se ti ho chiuso fuori, John, scusa tanto, non volevo farti soffrire, ma guarda un po'? A quanto pare la colpa non è mia, come vorresti farla passare tu!"

John, colto alla sprovvista da quello sfogo improvviso, lo fissò in completo mutismo, sgomento. Aveva aggrottato la fronte, gli occhi leggermente spalancati in un'espressione di pura confusione. Non capiva, quello era evidente. E infatti dopo pochi attimi chiese:

"Ma di che diavolo stai parlando?!"

"Oh, ma non mi dire: chi è che ora vuole darla a bere all'altro, John? Allora, chi?" sibilò Sherlock e John scosse la testa, per poi esclamare:

"Non voglio darti a bere proprio niente, Sherlock, non capisco sul serio di cosa tu stia parlando! Vedersi con qualcun altro, ma che stai dicendo?!"

"Basta, John, credi che non lo sappia? Smettila di fingere."

"Non sto fingendo, Sherlock, non capisco davvero che cosa stia succedendo!"

"Oh, falla finita! L'altra sera ti ho visto, okay? Ti ho visto con quella ragazza, abbracciati davanti al tuo dormitorio, ti ho visto fare il fidanzatino con lei, farci l'idiota! E vogliamo parlare di quando dopo la nostra ultima videochiamata lei ti ha chiamato 'Johnny', appena uscita dalla doccia e mezza nuda? Vuoi davvero farmi credere che lei non esista, di essermi immaginato tutto?"

Sherlock si fermò per riprendere fiato, ma senza che se ne accorgesse il dolore e l'amarezza presero il posto della rabbia con cui aveva parlato fino a quel momento, riportandolo di nuovo a soffrire per ciò che stava passando.

"Vuoi davvero farmi credere di essere tu quello che non si sente abbastanza perché non è mai veramente abbastanza, quello che viene scaricato sempre e comunque perché in realtà è solo un idiota, un idiota che crede che prima o poi qualcosa cambierà e invece finisce sempre allo stesso modo, quello che... Q-quello che si illude di aver finalmente trovato qualcuno che lo veda in modo diverso, ma che in fondo lo crede solo un fenomeno da baraccone con cui è facile divertirsi, perché lui è così stupido da cascarci sempre."

Sherlock interruppe il suo sfogo, il respiro accelerato dalla foga con cui le parole gli erano uscite di bocca. Distolse lo sguardo da John- non che ce ne fosse bisogno: ormai le lacrime imminenti gli impedivano di vedere alcunché. Tirò su col naso e si asciugò gli occhi con una manica del cappotto, prendendo un respiro tremante.

"Pensavo sarebbe andata diversamente, ma in fondo che mi aspettavo? Siete tutti uguali, alla fine, Eurus aveva ragione... Aveva ragione su tutta la linea." sussurrò, le labbra piegate in un sorriso amaro. John scosse la testa.

"No, Sherlock, non è così, lasciami spiegare." disse facendo un passo verso di lui e allungando la mano verso il ragazzo. Sherlock si ritrasse, indietreggiando verso l'ingresso del dormitorio.

"No, io... Risparmiami le scuse, ne ho abbastanza, davvero. Scusami, ma si è fatto tardi, dovrei rientrare." mormorò, voltandosi verso la porta e accingendosi ad aprirla per sparire al suo interno, segnando la rottura definitiva di quello che c'era stato tra lui e John. L'avrebbe anche fatto, a ben guardare. L'avrebbe fatto davvero, se non fosse stato per John, che con uno scatto avanti gli afferrò il polso tra le dita, trattenendolo sul portico. Sherlock aveva già aperto la porta, ma girò lo stesso la testa verso di lui, rivolgendogli uno sguardo gelido quando constatò che John non si sarebbe arreso facilmente.

"Lasciami andare." sibilò e John scosse la testa.

"No."

"Lasciami, ho detto!"

"E io ti ho detto di no, cazzo, non ti lascio!" sbottò John e a quel punto qualcuno spalancò una finestra, mettendo la testa fuori e urlando:

"Avete finito di sbraitare, Watson?! Qui c'è qualcuno che vorrebbe dormire!"

"E allora torna dentro e vai a farlo, no?! Io e Sherlock siamo un tantino impegnati, se non ti dispiace!"

"Perché, altrimenti che fai? Ti metti a urlare anche contro di me?!"

"Non provocarmi, Billy: studio medicina, so come slogare un'articolazione e so come farlo in modo molto doloroso!" minacciò John, guardando il tizio biondo e con l'aria da tossico che aveva osato interromperli. Billy roteò gli occhi, poi però rientrò e chiuse di nuovo la finestra. John tornò a rivolgere a Sherlock la sua attenzione e lui, decisamente irritato, sibilò, cercando di nuovo di divincolarsi:

"Si può sapere che cosa vuoi ancora da me? Non ti sembra di aver già fatto abbastanza, non ti sembra il caso di smetterla con questa recita una volta per tutte?!"

"Cristo santo, Sherlock, ma in che lingua devo dirtelo per fartelo capire?!" esclamò John, lasciandolo andare con uno scatto per poter gesticolare ampiamente, così come richiedeva il suo stato d'animo, "Io sono innamorato di te, dannazione, è così difficile da capire?!"

"Certo, e immagino che tu abbia detto lo stesso anche alla tua nuova fiamma, la biondina che ama chiamarti Johnny. A proposito, come si chiama? Hai anche tu un nomignolo per lei o non siete ancora così... intimi?" sibilò Sherlock, acido. John scosse la testa, lasciandosi sfuggire un sorriso sarcastico. Quando tornò a guardare Sherlock, si inumidì le labbra e disse:

"Si chiama Harriet... Anche se tutti la chiamiamo Harry."

"Oh bene... Vedo che la confidenza allora non vi manca, siete a posto!"

"Beh, sai com'è..." commentò John, schioccando la lingua mentre incrociava le braccia sul petto, "Sono cose che succedono quando conosci una persona praticamente dalla nascita."

"Ma perfetto, allora è anche un'amica di famiglia, grandioso!"

"No, Sherlock, non è un'amica di famiglia."

"Ah no? E allora chi è, sentiamo!"

"È mia sorella, dannazione!" sbottò John, spalancando le braccia in un gesto esasperato. Sherlock si tramutò in una statua di sale, completamente impietrito. Sbatté un paio di volte le palpebre, poi balbettò:

"Tua... T-tua sorella?"

"Sì, per la miseria, mia sorella." disse John, scandendo quelle ultime due parole come se avesse a che fare con un bambino. Sherlock in quell'attimo ebbe un flash del giorno in cui si erano baciati, quando quella telefonata li aveva interrotti. John aveva ricevuto una telefonata da qualcuno che si chiamava Harry e lo aspettava a casa... Ma certo, John stava parlando con Harry, sua sorella! Come aveva potuto essere così stupido e non fare quel collegamento? E sì che la ragazza gli era sembrata familiare e John in passato gli aveva accennato di avere una sorella maggiore, accidenti a lui che non gli aveva mai chiesto come si chiamasse. Si sarebbe risparmiato diversi giorni d'Inferno.

John continuava a fissarlo in silenzio, le labbra contratte in una linea dura. Sembrava arrabbiato, forse anche irritato e sicuramente deluso, ma la tristezza e il dolore di poco prima erano spariti. Anche Sherlock doveva ammettere di sentirsi più sollevato, anche se ad essere onesti, tutta la sofferenza provata in quei giorni ora era stata sostituita da una massiccia dose di imbarazzo misto a vergogna.

"I-io... Io credo di doverti delle... scuse." bofonchiò Sherlock, affondando le mani nel cappotto e tenendo lo sguardo fisso sulle punte delle sue pantofole. Erano orrende, quelle pantofole, ma dove diavolo le aveva prese?! Aspetta, ma... Oh, non sono le mie, sono quelle di Victor. Risolto il mistero. John, di nuovo a braccia conserte, inarcò un sopracciglio.

"Ma non mi dire." commentò soltanto e Sherlock fece una smorfia.

"Il sarcasmo non ha mai portato nessuno a grandi risultati, John."

"Chissà perché però con te funziona alla grande."

"Beh, si vede che lo uso meglio." mormorò Sherlock, schiarendosi la voce con un colpo secco. John scosse la testa, rivolgendo uno sguardo al giardino innevato attorno a loro. Dopo qualche attimo, iniziò a parlare.

"Quando hai visto Harry chiamarmi, dopo la doccia... Eravamo a Brighton per Capodanno, a casa della sua ragazza."

"La sua ragazza?"

"Harry è omosessuale." spiegò tranquillamente John, riportando lo sguardo sul volto di Sherlock, che si lasciò sfuggire un'espressione genuinamente sorpresa e un singolo:

"Oh."

"Lei e Clara, la sua ragazza, volevano passare l'ultimo giorno dell'anno insieme, così come il primo del nuovo arrivato. I miei avevano prenotato un soggiorno per due non ricordo dove, quindi Harry e Clara hanno pensato bene di ospitarmi. Io..." John si fermò un attimo, schiarendosi la voce, "Forse quel giorno sono stato un po' frettoloso chiudendo la chiamata, me ne rendo conto solo adesso. Il fatto è che non volevo che Harry sapesse, non subito. Lei tende a buttarsi a capofitto nelle cose, senza curarsi delle conseguenze e cogliendomi in flagrante a parlare con te, credo proprio che si sarebbe intromessa e vista la sua delicatezza da elefante in una cristalleria e io che continuavo a farmi fisime... Diciamo che non mi sembrava il caso di presentarvi così e allora ho affrettato le cose, forse un po' troppo."

Sherlock restò in silenzio mentre John sospirava, per poi riprendere il discorso.

"Harry decise di riaccompagnarmi qui in auto, la mattina del primo: Clara aveva dato l'okay e sarebbe venuta con noi e... Beh, diciamolo pure: le ho stressate entrambe così tanto con te che morivano dalla voglia di vederti, anche se io mi sono sempre opposto fermamente."

"Perché?" chiese Sherlock, confuso. John ridacchiò.

"Perché non volevo fare mosse avventate, Sherlock: prima dovevo vederti e parlarti, assicurarmi di come stessero le cose tra noi. Poi, e solo poi, ti avrei fatto conoscere quella matta di Harry. E vedendo com'è andata a finire, direi che ho fatto bene." e qui John gli scoccò un'occhiataccia, a cui Sherlock rispose incassando la testa nelle spalle, "Comunque, mi hanno dato uno strappo qui. Harry ha voluto a tutti i costi aiutarmi a scaricare il borsone e mi ha accompagnato fino all'ingresso. È lì che ci hai visti?"

Sherlock annuì.

"Sì, voi... Eravate abbracciati, scherzavate e sembravate così... intimi."

"Tranquillo, non siamo Cersei e Jaime Lannister: l'incesto non è mai stato nelle nostre corde." commentò John e Sherlock aggrottò la fronte.

"Chi sono Cersei e Jaime Lannister?" chiese, confuso. John sorrise e scosse la testa, per poi rispondere:

"Te lo spiegherò più tardi, adesso non è il momento. Quando ci hai visti abbracciati... Stavo chiedendo a Harry come stesse. Se seguisse la terapia prescritta dal medico, se prendesse i farmaci... Se ce la stesse facendo da sola. E in caso così non fosse, le ho ricordato che io ci sarei stato."

"È... È malata?" chiese Sherlock, cauto. John aggrottò la fronte, perplesso, poi si rese conto del malinteso e scosse la testa, dicendo nel frattempo:

"No, no, lei... Lei ha avuto un problema con l'alcol. Ora sta bene, ne è uscita, ma... Beh, non è stato facile e le ricadute in questi casi sono sfortunatamente comuni. Volevo assicurarmi che stesse bene."

"È normale, sei suo fratello."

"Sì, però così facendo ho perso te." commentò John, tranquillo e Sherlock ebbe un tuffo al cuore. Abbassò lo sguardo e deglutì, stringendosi nel Belstaff.

"Credevo che lei fosse la tua ragazza. Credevo che... Sì, che volessi lei al posto mio, perché io non ero abbastanza per te. Lei invece sì: ti avrebbe dato quello che io non sarei nemmeno stato in grado di prevedere e ti avrebbe reso felice. Non volevo mettermi in mezzo, lei sembrava farti felice. Chi ero io per rovinare tutto?"

"Quindi è per questo che sei... Beh, in questo stato. Capelli, pigiama, aria sciupata e barba... Non ti avevo mai visto con la barba."

"Questo perché generalmente la detesto. Ma stavolta avevo ben altro a cui pensare."

"Mmh. E suppongo sia sempre per questo che sei sparito. Perché credevi di non essere abbastanza."

"Lo credo ancora. In più ho fatto un errore di valutazione piuttosto serio: mi avevi accennato a tua sorella in passato, prima che ci baciassimo lei ti aveva anche telefonato e quando l'ho vista mi sembrava familiare, anche se non ho capito che mi era familiare perché mi ricordava te. Solo un idiota farebbe sbagli del genere e nessuno vuole avere a che fare con un idiota, perciò... Forse non sono così intelligente come mi piace credere." mormorò e John sospirò, scuotendo la testa. Si massaggiò la radice del naso con aria stanca, poi gli rivolse uno sguardo esasperato, anche se con un sottofondo piuttosto evidente di affetto.

"Che cosa devo fare con te, Sherlock Holmes?"

"Non lo so. Però ti capirei se... Se volessi tagliare i ponti con me. Mi sembra giusto, insomma-"

"Ma mi ascolti quando parlo?" lo interruppe John, in apparenza irritato ma sotto sotto divertito. Sherlock, sinceramente confuso, aggrottò lievemente la fronte.

"Sì?"

"E invece mi sa di no. Dio, Sherlock, io ... Io sono pazzo di te: lo sono da quel giorno da Starbucks, quando ci siamo parlati per la prima volta, e lo sono rimasto per tutte queste settimane, sempre e comunque. Mi sono innamorato del tuo modo di parlare, di pensare, di vedere il mondo e le persone, del tuo essere così atipico e unico, meraviglioso... Mi sono innamorato di te, brutto idiota che non sei altro: in che lingua devo dirtelo per fartelo capire?" disse John, portandosi ad una distanza francamente ridicola da Sherlock. Il giovane Holmes sollevò appena un angolo delle labbra in un timido sorriso, tenendo lo sguardo basso.

"L'inglese può andare bene, credo. Ma se preferisci il greco..." commentò a bassa voce e John rise. Subito dopo, con una lentezza estenuante, il biondo estrasse dalla tasca dei jeans un biglietto, quasi consumato per tutte le volte che era stato aperto e tenuto in mano: era ricoperto da cima a fondo da scritte a matita, alcune cancellate con delle righe, altre con la gomma, altre conservate ma sbiadite a forza di passarci sopra involontariamente la mano. John tornò a guardare Sherlock negli occhi e si lasciò sfuggire un sorriso nervoso, esitante.

"Te l'avevo detto che l'avevo risolto. Ci ho messo un po', ma... Alla fine ce l'ho fatta."

"E la soluzione corretta qual'è?"

"Beh... Speravo che me lo dicessi tu." mormorò, porgendogli il biglietto. Sherlock lo prese tra le dita e, lentamente, lo aprì. Le scritte in matita erano sparse in giro attorno all'anagramma scritto da Sherlock tempo prima, ma sotto quella frase priva di senso c'era una nuova aggiunta in penna. La soluzione.

Former Soul Away Deny Even Whale Vain Libbey

You Have Always Been And Forever Will Be In My

Sherlock lesse la frase e sorrise.

"È corretto," disse, "ma incompleto: manca qualcosa, non trovi?"

"Heart e Mind: ho capito dopo che il cervello non era da intendere in senso letterale, però ammetto di averci speso parecchio tempo e soprattutto neuroni."

"E ne è valsa la pena?" mormorò Sherlock e John sorrise, facendoglisi ancora più vicino.

"Per me sì. Che mi dici di te?" chiese e Sherlock sospirò, abbassando lo sguardo a terra.

"Mi dispiace, John: ho fatto un casino, mi sono sbagliato e ho fatto stare male entrambi, mi dispiace davvero e-"

"Ehi, zitto, stai zitto una volta tanto e ascoltami." lo interruppe John, prendendogli il viso tra le mani e portando lo sguardo di Sherlock sul suo volto, "Ormai quello che è successo è successo, non ha senso continuare a rimuginarci su. In futuro ti chiedo solo di fidarti di me, Sherlock, di fidarti di me e lasciare che ti renda felice, perché sono certo di poterlo fare."

"Io mi fido di te. Davvero, lo faccio, è che ti ho visto con lei e non-"

"Non fa niente, Sherlock, davvero. E... Beh, posso capire cosa ti sia passato per la testa: al posto tuo non so come avrei reagito. Okay, forse lo so, probabilmente avrei fatto a botte con il ragazzo che avesse provato a prendere il mio posto, in queste situazioni tendo a perdere la calma un po' troppo facilmente."

"Victor voleva spaccarti il naso, pensa." commentò Sherlock e John sollevò le sopracciglia in un'espressione sorpresa.

"Ah, ecco perché quando l'ho visto ieri mi ha guardato così male, adesso è tutto più chiaro. Beh, non l'avrei biasimato, in caso l'avesse fatto: per come credevate stessero le cose, sarebbe stato abbastanza naturale. Mi dispiace solo che... Sì, insomma, che tu non mi abbia detto nulla. Avremmo risolto molto più in fretta."

"Lo so e credimi, mi dispiace così tanto, John. Sei arrabbiato con me?"

John alzò gli occhi al cielo, scuotendo poi la testa con un sorriso mascherato da smorfia.

"No, scemo, non ce l'ho con te... Anche se a dirla tutta avrei preferito che ti fosse fidato un po' più di me."

"Te l'ho detto, John, mi dispiace, ma-"

"Sherlock, per l'amor del cielo, vuoi piantarla di scusarti? Ho capito che ti dispiace, non c'è bisogno di continuare a ripeterlo."

"Non mi sembra di aver detto abbastanza, però. Non mi sembra di aver fatto abbastanza, di essere abbastanza. Non voglio deluderti, John." sussurrò Sherlock, piano. John gli sorrise dolcemente e gli sfiorò lo zigomo con il pollice, intenerito.

"Se tu provi almeno un decimo di quello che io provo per te, allora credimi: per me è già molto più che abbastanza."

"Davvero?"

"Davvero." mormorò John, senza smettere di sorridergli. Sherlock iniziò a farlo a sua volta, appoggiando le mani sulla vita di John per tenerlo più stretto a sé, e in quel momento il campanile della città prese a rintoccare la mezzanotte. Entrambi alzarono lo sguardo in alto, verso il cielo scuso da cui aveva ricominciato a fioccare leggera la neve. Qualche cristallo, sospinto dalla lieve e fredda brezza della notte, li raggiunse e andò a posarsi sui loro abiti, risaltando sulla stoffa scura e pesante indossata da entrambi. John, le mani ormai appoggiate alle sue spalle, tornò a guardarlo, armato di un sorriso ancora più luminoso e smagliante.

"È mezzanotte!" esclamò e Sherlock, confuso dal suo entusiasmo, inarcò un sopracciglio.

"Dunque?"

John lo squadrò per qualche istante, probabilmente cercando di capire se lo stesse prendendo in giro o meno; quando poi si rese conto che Sherlock fosse sinceramente perplesso, scoppiò a ridere, divertito.

"Sei incredibile, maledizione, sei davvero incredibile..."

"In senso buono o...?"

John gli sorrise. Gli accarezzò la guancia con una mano, dicendo poi:

"Buon compleanno, idiota."

"...oh. Cioè, io- grazie. Me n'ero dimenticato."

"Me n'ero accorto. Meno male che ci sono io a ricordartelo, allora."

Sherlock ricambiò il sorriso.

"Sì, direi di sì."

John rise leggermente e, quando la sua risata si trasformò nuovamente in un sorriso silenzioso, Sherlock raccolse il coraggio a due mani e fece quello che aveva sempre sognato di fare, sin dal primo momento in cui i suoi occhi si erano posati su John: lo strinse di più a sé, accentuando la presa sui suoi fianchi, inclinò lievemente il capo e lo baciò, chiudendo gli occhi e beandosi di quel contatto così a lungo sospirato. Aveva desiderato così tanto quel momento con John, aveva bramato per anni quel bacio, un bacio che lui stesso stava dando al ragazzo che amava e che sospettava avrebbe amato fino a che il suo cuore non avesse cessato di battere.

John ricambiò subito il bacio, le dita affondate nei ricci scuri di Sherlock e muovendo le labbra contro le sue in un contatto dolce e delicato, tenero e soprattutto pregno dell'amore che provavano l'uno per l'altro e che ormai era diventato del tutto inutile, oltre che impossibile, celare allo sguardo. Non fu un bacio da film, da copertina o chissà che, tutt'altro: fu lento, un po' impacciato e scoordinato, del tutto imperfetto. Fu proprio per questo che Sherlock però lo amò alla follia: perché quel suo essere imperfetto lo rendeva anche essere unico e quindi solo e soltanto loro. Era semplicemente il bacio di Sherlock e John, due ragazzi follemente innamorati e felici per ciò che avevano duramente lottato è pazientemente aspettato: il loro amore, qualcosa che nessuno avrebbe potuto portargli via.

Quando John pose fine a quel bacio, lo fece sorridendo contro le labbra di Sherlock, senza accennare a spostarsi nemmeno di un millimetro.

"Sai, con questa tua trovata ti sei quasi fatto perdonare del tutto."

"Ah sì? E cosa manca per completare quel tutto?"

"Un paio di cose."

"Quali?"

"Beh," iniziò John, sfiorandogli la guancia, "innanzitutto spero che tu ricominci a farti la barba o che per lo meno tu la tenga curata."

"È perché sembro un vecchio e tu non vuoi farti vedere in giro con un vecchio, vero?"

"Diciamo di sì. Anche se devo confessartelo: di solito preferisco i miei chimici e aspiranti detective ben rasati."

"Mmh, direi che posso accordarti questa condizione senza alcun problema, la faccia inizia a prudere e lo odio. L'altra?"

"L'altra è tosta, Sherlock. È davvero una prova d'amore, estrema per la sua pericolosità." mormorò John, palesemente preoccupato per finta. Sherlock inarcò un sopracciglio, per nulla intimidito e parecchio incuriosito.

"Correrò questo rischio. Ora parla, di che si tratta?"

John sogghignò e con uno scatto di separò da lui, le mani dietro la schiena.

"Dovrai dividere in frappuccino con me. E per 'dividere' intendo 'metà io e metà tu'." esordì John con aria solenne e Sherlock, inorridito, strabuzzò gli occhi.

"Cosa?! Non se ne parla, neanche morto!"

"E allora non ti perdono."

"Stai scherzando, spero."

"No, veramente no."

"John, ti prego, non puoi farmi questo!"

"Oh sì, invece, e lo farò. Scegli: prendere o lasciare." disse John, mettendosi a braccia conserte davanti ad uno Sherlock pietrificato dal disgusto.

"Sei una persona crudele, lo sai?" mugugnò Sherlock dopo un po', abbassando lo sguardo con aria sconfitta. John si illuminò e sorrise.

"Significa che lo farai? Berrai un frappuccino con me?"

"Vedi di non rinfacciarmelo ogni trenta secondi, potrei anche cambiare idea!" sibilò Sherlock, disgustato. John rise e tornò ad abbracciarlo, stringendogli le braccia attorno alle spalle mentre Sherlock faceva lo stesso con la sua vita.

"Un frappuccino per due. È romantico, non credi?"

"È vomitevole, direi. Però... Diciamo che per te potrei anche fare un'eccezione."

"Davvero?" chiese John. Sherlock sorrise.

"Neanche te lo immagini, John." mormorò e John lo strinse più forte, lasciando che Sherlock affondasse il viso nell'incavo del suo collo.

Sherlock avrebbe fatto ogni eccezione possibile e immaginabile, se John solo glielo avesse chiesto e aveva l'impressione che sarebbe stato così per un lungo tempo.

Stranamente, quel pensiero lo fece sorridere.


 

 

 

"Ripetimi di nuovo cosa ci facciamo qui dentro, John: ti prego, ripetimelo, perché per me questa tappa è assolutamente priva di alcun nesso logico! Ma soprattutto, a chi diavolo può piacere una zuccheriera a forma di ananas dorato, eh?! C'è davvero qualcuno disposto a comprare questo obbrobrio?"

"Beh, se l'hanno fatto penso di sì."

"Ma che diavolo hanno nel cervello i danesi, che razza di gusti hanno?! E qualcuno vuole spiegarmi questa insana mania che è dilagata recentemente per gli ananas? Per Dio, perché farci addirittura delle lampade e osannarli come fossero delle icone sacre?! C'è un culto segreto, una specie di nuova setta di cui non sono al corrente? L'Ordine Dei Cavalieri Dell'Ananas?"

"Ma come ti escono certe battute?!"

"Tu prima spiegami perché questa fissazione con quegli affari gialli."

"Perché sono... carini?"

"Carini? Carini?! John, noi due abbiamo un concetto di 'carino' davvero diverso."

"Non esagerare, adesso."

"Oh, ma andiamo, è solo un frutto, per la miseria, un maledetto frutto e fa pure schifo! Perché proprio gli ananas, perché non usare, che so, mele o banane?!"

"Sherlock, non per interrompere il tuo interessantissimo monologo ai danni degli ananas e romperti le uova nel paniere, ma in realtà le banane sono molto usate nella cultura moderna, solo che generalmente nel gergo comune lo sono per indicare altri... ambiti."

"Quali altri ambiti?"

"Sono certo che con un po' di fantasia tu ci possa arrivare da solo."

"...Ah. Tu parli di quell'ambito, quello... Quello. Beh... Sì, i -insomma, le banane sarebbero comunque più interessanti di un ananas e- oh, per l'amor del cielo, John, hai venticinque anni, cresci un po' e smettila di ridermi in faccia, non c'è niente di divertente in un dannatissimo ananas!"

C'erano tante cose- forse anche troppe- che Sherlock Holmes detestava a proposito del genere umano, anche se doveva ammetterlo, il loro numero era considerevolmente diminuito da due anni a quella parte. Stare con John lo aveva ammorbidito - rimbecillito, avrebbe detto affettuosamente Victor-, ma sorprendentemente Sherlock lo accettava senza troppi problemi. Forse era perché John invece aveva assorbito la sua acidità perduta e ora era un po' più insofferente rispetto a quando l'aveva conosciuto: se poi si teneva conto della sua indole passionale e facilmente irascibile, si otteneva un combo micidiale. Sherlock adorava vederlo perdere le staffe e mettersi a inveire contro chicchessia- a patto che, cosa che accadeva alquanto spesso, quel chicchessia non fosse lui. In quel caso non c'era davvero niente di divertente.

Sherlock Holmes, ventitré anni di sarcasmo concentrati sempre in uno spilungone di un metro e ottantatré ora meno secco e più in forma rispetto al passato- maledetto John che lo costringeva a mangiare nei momenti meno opportuni con un sordido ricatto-, era in procinto di laurearsi: di lì a una settimana avrebbe discusso la tesi e poi libertà!, finalmente il suo periodo di tortura all'università sarebbe terminato per sempre e lui sarebbe stato libero di seguire la sua strada, fare quello che voleva e soprattutto dedicarsi a tempo pieno a quello che ormai considerava già il suo lavoro: le indagini e la caccia ai criminali.

Alcune cose nella sua vita erano rimaste le stesse, in quei due anni: Starbucks, ad esempio. Sherlock ci lavorava ancora- anche se pure quel periodo della sua vita era ormai ridotto agli sgoccioli- e continuava a detestare le bevande, i clienti, ma soprattutto i frappuccini. Quelli li avrebbe odiati sempre e comunque senza riserva, ormai era un dato assodato. John ogni tanto riusciva a berne uno insieme a lui, ma poi doveva sdebitarsi ampiamente con il suo ragazzo- e quello sdebitarsi di solito implicava loro due chiusi in camera di Sherlock o rintanati nell'appartamento di John per ore e ore a fare Dio solo sa cosa. I vicini, dai suoni provenienti da uno o l'altro luogo, ne avevano una mezza idea, ma avevano imparato a loro spese che provocare uno dei due era già di per sé pericoloso, ma provocarli insieme era praticamente un tentativo di suicidio.

Victor era un'altra delle poche costanti nella sua vita ed era naturalmente rimasta tale: di lì a poco aveva iniziato a fare coppia fissa con Carly e qualche volta, con sommo orrore di Sherlock, avevano anche fatto delle uscite a quattro, in cui inevitabilmente dei Victor e John lievemente sbronzi finivano per giocare a braccio di ferro e dei Sherlock e Carly parecchio esasperati finivano per fare commenti acidi sui loro partner sperando che non si rompessero qualche osso nel frattempo. Era cinica e sarcastica, Carly, a volte persino un po' acida. A Sherlock, tutto sommato, non dispiaceva.

In ogni caso, il suo amico aveva ripreso a vedere John di buon occhio- c'era voluto un po' per fargli capire che no, quella ragazza era davvero Harriet Watson e non un trucco per ingannare Sherlock- e in quei due anni di frequentazione erano persino diventati amici, fatto che a Sherlock non poteva che fare piacere, anche se non l'avrebbe mai ammesso. Victor era rimasto lo stesso bastardo sarcastico e idiota di sempre, non era cambiato di una virgola: sfotteva ancora Sherlock per le sue paranoie quando si parlava di John e di come lui si sentisse inadeguato e incredulo riguardo al fatto di averlo ancora accanto dopo tutto quel tempo, gli urlava addosso quando Sherlock si rifiutava di uscire e fare vita sociale - anche se in questo casi poi subentrava John che, in un modo o nell'altro, riusciva a fargli prendere una boccata d'aria per un po'-, ma soprattutto c'era sempre e comunque per lui, qualsiasi cosa Sherlock avesse fatto poteva stare certo che Victor l'avrebbe supportato e sopportato.

E poi... Beh. Poi c'era John.

Da quella notte di gennaio, John era diventato ufficialmente il suo ragazzo e anche a distanza di due anni, Sherlock lo amava come se fosse il loro primo giorno insieme. Avrebbe fatto di tutto per lui, non esagerava, l'avrebbe fatto davvero. Aveva anche bevuto dei frappuccini per lui, fatto alquanto sconvolgente e disgustoso ai suoi occhi. John lo aveva cambiato, ma Sherlock era sicuro che l'avesse fatto in meglio e non poteva che esserne felice.

Si sentiva così maledettamente fortunato ad avere qualcuno come John, cosa aveva fatto per meritare il suo amore, per meritarsi una persona così speciale come lui? Sherlock non riusciva a capirlo ed era terrorizzato alla prospettiva che anche John un giorno si facesse quelle stesse domande e decidesse che era vero, Sherlock non lo meritava, e che quindi avrebbe fatto bene a trovarsi qualcun altro. La prospettiva di perderlo era diventata il suo peggior incubo, Sherlock non poteva farci niente. C'erano delle volte in cui però la paura di essere abbandonato dall'uomo- perché sì, ormai John era un uomo, ai suoi occhi- che amava veniva eclissata dalla felicità accecante che lo stare con John scatenava in lui. John lo faceva ridere, cosa che con altri succedeva piuttosto raramente. John lo capiva, seguiva i suoi ragionamenti quando deduceva e non lo considerava strano o inquietante, al contrario: lo sosteneva e lo incitava a continuare, dandogli persino una mano con i suoi assurdi esperimenti e le indagini. John lo amava, glielo dimostrava ogni giorno in ogni modo possibile.

Sherlock ricordava ancora la prima volta che gli aveva detto "Ti amo", un paio di mesi dopo il ventunesimo compleanno di Sherlock: stavano dissezionando un cervello in piena notte, di nascosto in uno dei laboratori dell'università; Sherlock aveva bisogno di un campione di tessuto cerebrale per un esperimento e John aveva sentito qualche giorno prima dal suo professore di anatomia che ormai quel cervello era vecchio, non era più buono per le dimostrazioni e le lezioni, e che quindi di lì a pochi giorni se ne sarebbero liberati. John l'aveva detto a Sherlock e il moro aveva commentato con un "Potremmo prenderne un campione: dovranno disfarsene in ogni caso, quindi perché non approfittarne?". E così era stato: mentre John tagliava un pezzo di corteccia con il bisturi, Sherlock aveva fatto una qualche battuta delle sue e l'aspirante medico era scoppiato a ridere, aveva le lacrime agli occhi.

"Dio, Sherlock, quanto ti amo..." aveva commentato poi, ancora divertito mentre scuoteva lievemente il capo. Sherlock aveva sbarrato gli occhi, gelato.

"Ripetilo."

"Che cosa?"

"Quello che hai detto, il fatto che tu mi... Ripetilo."

John aveva alzato lo sguardo dal cervello, fissandolo su di lui. Gli aveva sorriso, dolcemente.

"Ti amo." gli aveva detto, come se fosse la cosa più semplice e naturale del mondo. E Sherlock, per tutta risposta, gli era praticamente saltato in braccio e l'aveva baciato, mentre un John pericolosamente prossimo al perdere l'equilibrio posava il bisturi, si appoggiava al tavolo e lo stringeva a sé. Era stata una nottata divertente, in fin dei conti. Sherlock a volte si fermava a riflettere su quanto fosse stato fortunato a conquistare John, a quanto quel ragazzo gli avesse stravolto la vita e l'avesse riempita di sé, rendendola ancora più speciale: di solito lo faceva dopo aver fatto l'amore con John, quando lui gli passava un braccio attorno alle spalle, tenendolo stretto al suo corpo, e Sherlock appoggiava la testa sul suo petto, intrecciando le gambe e le mani con quelle del suo ragazzo. Vedendolo perso nei pensieri, John gli avrebbe chiesto se andasse tutto bene e Sherlock sorridendogli appena avrebbe detto che sì, andava tutto a meraviglia. Si sarebbero baciati, poi Sherlock avrebbe affondato il viso nell'incavo del suo collo e John gli avrebbe dato un bacio tra i capelli, accarezzandogli la spalla con tocchi leggeri nel frattempo.

Sherlock amava John alla follia, di questo ormai era sicuro al cento per cento. Nonostante ciò, c'erano tuttavia delle volte in cui avrebbe tanto voluto strozzarlo.

Come quel giorno, ad esempio.

Sherlock era di riposo, non sarebbe dovuto andare da Starbucks a preparare caffè e obbrobriosi intrugli col ghiaccio- erano agli albori di giugno e, col caldo in aumento, anche il numero di frappuccini e bevande fredde cresceva in modo direttamente proporzionale. Caso volle che anche John fosse a casa, libero dai turni all'ospedale vicino all'università dove aveva trovato un posto stagionale per proseguire con le sue attività di praticantato. Da quando aveva finito l'università, John si era rimboccato le maniche e non aveva smesso neanche un attimo di lavorare: faceva la spola tra una clinica privata, lo studio di un medico generico e l'ospedale, alternando i periodi in qui lavorava qui e lì a seconda delle necessità dei suoi datori di lavoro.

Stava facendo strada, era davvero bravo e Sherlock era così orgoglioso di lui: era fiero di poter dire "Guardate, quello è il mio ragazzo e ha il mondo ai suoi piedi", era fiero di ciò che stava facendo, del suo essere sempre pronto a correre in aiuto di chi ne avesse bisogno e di salvare vite. Era fiero di lui e lo sarebbe sempre stato: lo aveva capito già il giorno della sua laurea, quando John aveva lanciato in aria il tocco insieme agli altri studenti e poi lo aveva guardato, rivolgendogli il sorriso più luminoso che Sherlock avesse mai visto. Poco dopo il fotografo della cerimonia aveva scattato una foto di loro due insieme, Sherlock in giacca e cravatta, elegantissimo, e John con la toga e il tocco, stretto a lui: in quella foto entrambe sorridevano all'obbiettivo, erano felici e innamorati. John ne teneva una copia incorniciata appesa al muro del salotto, in casa sua, Sherlock in una cornice sulla sua scrivania. Adorava quella foto e non era raro che si perdesse a guardarla in silenzio, sorridendo come un cretino senza motivo apparente- anche se, in realtà, il motivo c'era eccome.

Comunque, quel giorno anche John non doveva lavorare e la sera prima aveva chiamato il suo ragazzo, proponendogli una giornata insieme a Londra. Ultimamente, tra il lavoro di tutti e due, la stesura e la revisione della tesi da parte sua e un progetto di cui John si ostinava a non volergli parlare, Sherlock lo vedeva meno di prima: certo, John passava sempre al campus e alla fine riuscivano comunque a ritagliarsi minimo un paio d'ore per stare insieme, ma poteva capitare che alle volte fossero entrambi stanchi per lo studio o il lavoro e nessuno dei due riuscisse a godersi quei momenti come avrebbe voluto. Era quindi naturale che Sherlock accettasse con un certo entusiasmo, anche se fosse stato per lui sarebbero benissimo potuti restare a casa di John- dove, tra l'altro, ormai non metteva piede da settimane e iniziava a sentirne nostalgia- a guardasi un film o... a fare altro. L'importante era staccare la spina e stare insieme, a Sherlock davvero non importava fare chissà cosa, ma John aveva insistito per Londra, sostenendo di aver già programmato tutto e di avere bisogno di lui per fare delle cose non definite- e purtroppo adatte ad essere viste anche al grande pubblico, quindi decisamente lontane dal genere di attività che in un primo momento erano gravitate nella mente di Sherlock.

"Vada per Londra, allora!" aveva concesso Sherlock la sera prima, quasi esasperato. Durante la notte si era immaginato gli scenari più improbabili e allucinanti, tipo gite per i musei o lanciare il pane alle anatre nei laghetti di un qualche parco. Aveva anche considerato l'ipotesi dello zoo e ne era sinceramente rimasto inorridito. Si era immaginato davvero tutto, ogni cosa.

Tutto, tranne quello.

Erano partiti in treno verso le otto e arrivati alla capitale, John aveva messo in chiaro che quel giorno le tappe del loro giro per Londra erano già decise e fissate e che Sherlock non avrebbe avuto alcuna voce in capitolo in proposito. Il giovane Holmes si era opposto, ma John aveva interrotto le sue lamentele con un bacio, riportandolo al silenzio nel giro di pochi secondi.

La prima tappa fu la colazione. E il posto prescelto fu ... Starbucks. Sherlock, davanti all'ingresso del locale, aveva guardato John come se fosse impazzito.

"Stai scherzando, vero?" gli aveva chiesto. John si era stretto nelle spalle, rivolgendogli uno sguardo falsamente dispiaciuto mentre serrava le labbra in un sorriso per metà smorfia.

"Uhm... No. Non sto scherzando. Io prendo un frappuccino, tu che vuoi?"

Quella prima fermata della loro allucinante giornata fu un duro colpo per Sherlock, il primo di una purtroppo lunghissima serie: John non fece altro che trascinarlo per tutta la mattina in negozi di vestiti, cianfrusaglie, alcuni erano anche negozi di arredamento e lui avrebbe davvero voluto buttarsi sotto un autobus per porre fine a quella sofferenza. Più le ore passavano, più i posti in cui John lo portava diventavano impossibili: per pranzo lo portò da McDonald's. Quel cretino di John osò portare lui, Sherlock Holmes, da McDonald's! Lo avrebbe soffocato con un Cheeseburger, aveva deciso.

"Okay, io ho fatto, ora tocca a te."

"Qual'è il tuo ordine?"

"Questo qui, in basso al display."

"Un Crispy McBacon, un Big Tasty, patatine grandi, salsa BBQ e... Una Coca-Cola grande? Ma quanto mangi, John?!"

"Quando vado da McDonald's prendo sempre cose del genere, se ci fossi venuto prima con me l'avresti saputo. Allora, tu cosa prendi?"

"Ah, non lo so, mi sembrano tutte porcherie. Okay, allora magari acqua, patatine piccole e... Non lo so, un toast?"

"Un toast?"

"Hai voluto portarmi a mangiare in questo posto? Ora ti adegui!"

"Ma andiamo, Sherlock, vieni da McDonald's e prendi un toast! Prendi un hamburger, almeno, uno semplice."

"No, John, scordatelo, non prenderò uno di quegli abomini, tipo... Cos'è quello, un Big Mac? Beh, qualunque cosa sia, no!"

"Ma perché?!"

"Perché no, per l'amor del cielo! Ti sembro mio fratello, per caso?!"

"Tuo fratello, che c'entra tuo fratello, adesso?"

"Questo è il genere di cibo per cui Mycroft segretamente stravede: dolci, cibo spazzatura... Dio, quella fogna ingurgiterebbe di tutto."

"Tu no, invece."

"No, appunto e- John, che stai facendo, non ti azzardare a ordinare i Milkshake, guarda che me ne vado! Non lo voglio, John, non lo bevo, non... Ti odio."

"Lo so, ti amo anche io. Andiamo alla cassa a pagare?"

Sherlock per un po' aveva pensato che quella di McDonald's fosse stata la tappa finale a quel Tour Degli Orrori per Londra, se ne era autoconvinto: i suoi nervi non potevano sopportare ancora quella tortura, basta. Purtroppo, Sherlock si sbagliava: il peggio doveva ancora arrivare e aveva un nome, anche.

Flying Tiger Copenaghen.

Sherlock conosceva bene quel posto: era lì che aveva acquistato i regali di John per quel Natale, cuore, biglietto, scatola e cervello. In seguito aveva scoperto che anche John aveva acquistato lì il suo quaderno: senza nemmeno saperlo avevano preso i rispettivi regali nello stesso posto e si erano fatti entrambi una risata a quel pensiero. Però in quel momento l'unica cosa che Sherlock voleva fare era prendere a testate il muro fino a perdere i sensi.

Quando erano entrati nel negozio, John aveva preso un cestino per riporre la merce da acquistare, scaricando ad uno scocciatissimo Sherlock parte delle borse con gli acquisti precedentemente fatti- tutte cose inutili, a detta di Sherlock: cosa diavolo se ne sarebbe fatto John di uno stura-lavandino decorato come se fosse una rana? Cosa? E le cose che stava prendendo adesso, ma cosa aveva intenzione di farsene? Piatti, bicchieri, posate, mollette per il bucato, aveva preso e messo in quel maledetto cestino di tutto e di più. E ora, che Iddio lo fulminasse in quel preciso istante, stava mirando a quella maledetta zuccheriera a forma di ananas dorato, nonostante tutte le critiche che Sherlock aveva appena fatto a proposito di quell'affare.

"Non vorrai prendere anche quella cosa, spero." sibilò e John si strinse nelle spalle.

"Mi serve una zuccheriera."

"A cosa ti serve una zuccheriera, John?! A cosa ti serve tutta quella roba, a dire il vero! Devi rivenderla, contrabbandarla, cosa?!" sbottò, allargando le braccia esasperato e facendo ondeggiare le borse con le lenzuola riportanti una tavola periodica gigante e due cuscini con le stampe di alcuni simboli chimici. Sotto sotto a Sherlock piacevano davvero tanto e dannazione, avrebbe davvero voluto tenerli per sé. Da se stesso si sarebbe potuto aspettare un acquisto del genere, ma John capiva poco o niente di chimica, giusto le basi, quindi perché prendere tutta quella roba? Da mettere in un appartamento in affitto già provvisto di tutto dal proprietario, oltretutto? Davvero non capiva. John sospirò e riportò lo sguardo sugli articoli davanti a sé.

"Dai, dammi una mano a scegliere una cornice per le foto: quale tra queste?"

"John, a cosa serve tutto questo, vuoi spiegarmelo?!"

"Tu rispondi alla domanda delle cornici."

"Quella lì, quella in legno nero. Tra tutte è la più decente."

"D'accordo, allora prendo questa. E delle salviette per le mani? Che dici, quella a quadri rossi? O forse è meglio blu?"

"John, per Dio!"

"Sherlock, prima di aiuti a scegliere cosa prendere, prima possiamo andarcene da Tiger."

"Per andare dove? Torniamo a casa?" chiese Sherlock, speranzoso di porre fine a quella giornata di sofferenze. John fece un'espressione strana, poi tornò a guardare le cornici.

"Sì... Qualcosa del genere. Prima però dobbiamo fermarci in un ultimo posto."

"Ancora?! John, ti prego, basta, dammi tregua!"

"Abbi ancora un po' di pazienza, solo un po' di pazienza."

"Ma-"

"Ti fidi di me?"

"John, ma c'entra questo adesso, non è il caso di tirare in mezzo la questione della fiducia!"

"Sì invece, rispondi: ti fidi di me?" chiese John, appoggiando il cestino a terra e prendendo il viso di uno Sherlock più che confuso tra le mani. Sherlock sbatté un paio di volte le palpebre, poi annuì.

"Certo che mi fido, anche se con la tua fantastica gita di oggi ha rischiato di giocarti questa carta. Adesso vuoi dirmi che sta succedendo?"

"Più tardi. Più tardi te lo spiegherò, promesso. Ora però scegli, forza: salvietta a quadri rossi o blu?"

Uscirono da Tiger mezz'ora più tardi, armati di altri cinque chili di quelle che Sherlock reputava cianfrusaglie e persino una abat-jour dal fusto nero con una fantasia di coltelli e armi da fuoco sul paralume grigio antracite- l'unica cosa che Sherlock, preso dalla frenesia degli acquisti, aveva preso di sua spontanea volontà al grido di "Se proprio dobbiamo buttare via un patrimonio in roba inutile, almeno facciamolo per qualcosa ne valga la pena!". John aveva sorriso a quel commento.

Erano stracarichi di borse, almeno cinque per braccio per entrambi e tutte piene di oggetti di uso comune in una casa- ma che nessuno dei due necessitava, dannazione!

"Allora, qual'è la prossima tappa? Ci fermiamo alla Nespresso a prendere una macchinetta del caffè e una selezione di cialde aromatizzate alle torte?" chiese Sherlock, ironico. John inarcò un sopracciglio, poi si strinse nelle spalle e disse:

"Una macchinetta del caffè? Beh, se la vuoi prendere possiamo-"

"Era sarcasmo, John!" strillò Sherlock, praticamente isterico. John roteò gli occhi e si sporse verso la strada, fermando un taxi libero di passaggio.

"Dai, monta su e dammi una mano a caricare tutto." disse poi al suo ragazzo, che rispose con una smorfia esasperata. Riuscirono a salire sulla macchina con tutte le borse a seguito dopo pochi minuti e a quel punto il tassista chiese a Sherlock:

"Per dove, signore?"

Sherlock lo fulminò con un'occhiata sprezzante e sibilò, acido:

"Lo chieda a lui, che tanto ha già pianificato tutto, come il mio rapimento per questa giornata d'inferno!"

Il tassista rivolse a John uno sguardo perplesso e il giovane Watson si ritrovò a sospirare alzando gli occhi al cielo.

"Lo scusi, quando è irritato diventa insopportabile, come i bambini."

"Non sono un bambino, John!"

"Certo, certo. Comunque, 221B di Baker Street, per favore." disse John, rivolgendo al proprio fidanzato a malapena un'occhiata e facendo un cenno d'intesa al tassista. L'uomo annuì e mise l'auto in moto, iniziando il viaggio per le vie di Londra. Sherlock nel frattempo rivolse a John uno sguardo dubbioso.

"Cosa c'è al 221B di Baker Street?" chiese e John, lo sguardo perso fuori dal finestrino, gli rispose con un:

"Abbi pazienza e vedrai."

"Questa storia della pazienza ti sta sfuggendo di mano, Watson."

"Sei proprio sicuro che stia sfuggendo di mano a me?" mormorò John e Sherlock lo fulminò con un'occhiataccia. Dopo averlo fatto, però, si fermò ad osservare con più attenzione il suo fidanzato, ad un tratto incuriosito: John era nervoso, il suo sguardo, la sue espressione e ogni piccolo particolare della sua postura ne erano la riprova. L'idea di andare in quel posto, l'idea di farlo con lui lo rendeva nervoso. Già, ma perché?

Il viaggio durò relativamente poco, ma ad entrambi sembrò un'eternità. Quando l'auto si fermò, accostandosi al marciapiede, Sherlock praticamente si precipitò giù dal veicolo, scavalcando John e le borse senza curarsi dei richiami indignati del fidanzato. Non c'era nessun negozio: davanti a lui c'era solo un piccolo bar, una specie di tavola calda/ caffetteria chiamata "Speedy's". Notò solo in seguito il numero 221B affisso ad una porta nera, in numeri di quello che sembrava ottone. Aggrottò la fronte, voltandosi verso il taxi e quindi verso un John esasperato che, dopo aver pagato il tassista, stava scaricando le borse da solo.

"Non c'è niente qui, John." esclamò, tornando poi a guardare l'edificio, "C'è solo una casa, nessun negozio d dubbio gusto."

"Certo che c'è una casa, cosa ti aspettavi?"

"Te l'ho detto, un altro negozio di ciarpame. Che ci facciamo qui?"

"Se ti degnassi di aiutarmi con le borse invece di contemplare la porta, te lo farei vedere." commentò John, secco. Sherlock gli rivolse l'ennesima occhiataccia della giornata, poi però tornò indietro e prese a sua volta alcuni sacchetti, fino a che sul marciapiede non restò più nulla. A quel punto John avanzò verso la porta, suonò il campanello e restò in attesa, fino a che una donna sulla sessantina non venne ad aprire la porta.

"John, caro, ben arrivato! Su, su, entra, dammi qualche borsa!" esclamò la signora, scostandosi quanto bastava per permettere il passaggio. John sorrise e disse, entrando in casa:

"Non si disturbi, Mrs. Hudson, non sono così pesanti come sembra."

"Parla per te." bofonchiò Sherlock a bassa voce, ma abbastanza forte affinché John lo sentisse. Sherlock vide le sue spalle alzarsi e abbassarsi a causa del sospiro emesso, poi lo sentì dire:

"Mrs. Hudson, lui è Sherlock Holmes, il ragazzo di cui le avevo parlato."

La donna spostò istantaneamente lo sguardo su di lui e sgranò gli occhi, sorpresa. Sherlock la studiò per qualche istante in uno stato di perfetto silenzio e immobilità, per poi limitarsi a salutarla con un cenno del capo.

"Benvenuto, Sherlock, ben arrivato!" disse, gioviale. A quel punto guardò John, in piedi accanto a lei, e bisbigliò:

"Avevi ragione, caro, è davvero molto carino."

"Glielo avevo detto che non era male." mormorò John con un mezzo sorriso e Sherlock, più stranito che mai, decise di averne avuto abbastanza.

"John, possiamo lasciare giù le borse? Non mi sento più le braccia e le spalle mi urlano di dolore." si lamentò e John portò lo sguardo su di lui per un istante, tornando poi a Mrs. Hudson.

"È un problema se le lasciamo di sopra?" chiese e l'anziana scosse la testa, dandogli un colpetto sulla spalla.

"Nient'affatto, caro, andate pure."

"Grazie. Sherlock, vieni con me." disse John, iniziando a salire le scale. Sherlock roteò gli occhi, poi si decise a seguirlo: ora era tutto più chiaro. John l'aveva portato a fare la spesa per la casa di quella donna. Dio mio, che giornata sprecata! Passandole accanto, Sherlock si fermò davanti a Mrs. Hudson, riprendendo a studiarla come se niente fosse. L'anziana, un po' perplessa, lanciò uno sguardo a John, poi azzardò un:

"Credo che John ti stia as-"

"Aspetterà. Suo marito era uno spacciatore." osservò Sherlock, atono. La donna sollevò entrambe le sopracciglia in un'espressione sorpresa, gli occhi un poco spalancati.

"Sì, lo era, ma ora è-"

"Morto, sì. In America, giusto? Florida, probabilmente."

"Ma come fai a-"

"È una storia lunga. E comunque dovrebbe smetterla con l'erba: alla sua età non è molto salutare." commentò Sherlock, quasi annoiato. Mrs. Hudson, ad occhi sgranati, sbatté un paio di volte le palpebre, incredula, e John, che nel frattempo era tornato indietro per vedere che fine avesse fatto e aveva sentito tutto, esclamò, scioccato per quella scenetta:

"Sherlock!"

"Che c'è? È vero!"

"Lo so, ma non- senti, sali e basta."

"Ma John-"

"No, stai zitto e sali. Subito." ordinò John con fare perentorio, per poi rivolgere la sua attenzione a Mrs. Hudson, "Lo perdoni, Mrs. Hudson, a volte perde il controllo delle corde vocali."

"Non è vero!"

"Sì, invece, e stai zitto!"

"Oh, non ti preoccupare, John: non è la prima testa calda con cui ho a che fare." commentò la donna, rivolgendo un sorrisetto complice e un occhiolino a Sherlock, che invece la squadrava totalmente allibito. Riprese a salire le scale mentre la donna si voltava e spariva oltre una porta lungo un piccolo corridoio, lì al piano terra, e decise che quella era assolutamente la giornata più assurda che gli fosse capitata nell'ultimo periodo.

Raggiunse John al primo piano, entrando in un salotto spoglio, privo di qualsiasi elemento d'arredamento, fatta eccezione per i mobili base: due poltrone- a Sherlock piacque molto quella più moderna, fatta di morbidi cuscini di pelle grigio scura posizionato su uno scheletro di ferro... Era molto nel suo stile-, un divano, librerie lungo la parete con il caminetto, specchio alla parete, sopra il caminetto, un tavolo con due sedie posto tra due finestre. John era sparito oltre la porta di quella che Sherlock suppose essere la cucina e quando tornò indietro era sprovvisto delle sue borse.

"Allora," chiese, "che ne dici?"

"Dell'appartamento, intendi?"

John annuì, le braccia conserte. Sherlock si strinse nelle spalle, appoggiando i sacchetti a terra e facendo qualche passo nella stanza.

"Non saprei... Carino. Un po' spoglio, forse, si potrebbe migliorare. Mrs. Hudson si è appena trasferita?"

"No, lei... Lei abita al piano terra. Senti, Sherlock, io devo... Devo parlarti di una cosa. Una cosa importante." disse John, tornando agitato e sulle spine tutto d'un colpo. Sherlock percepì un rivolo di sudore freddo scendergli lungo la spina dorsale. Forse non era nulla, forse non avrebbe dovuto preoccuparsi... Ma nella sua mente gli scenari catastrofici e apocalittici avevano già iniziato ad ammassarsi e sovrapporsi e lui si stava già preparando al peggio.

"Cosa?" chiese, a fil di voce. John si inumidì le labbra con la punta della lingua, torturandosi le mani con fare nervoso. Ad un tratto tornò a guardarlo negli occhi e proruppe con un:

"Ieri sera ti ho mentito, Sherlock."

"Mi hai mentito... Riguardo a cosa?"

"Ad oggi: io non ero di riposo, oggi. Settimana scorsa, quando tu non eri lì, sono passato da Starbucks e ho chiesto a Molly i tuoi turni: quando ho saputo che oggi saresti stato di riposo, ho chiesto un giorno di permesso in ambulatorio." mormorò John e Sherlock aggrottò la fronte, confuso.

"Perché l'hai fatto? Il giorno di permesso, dico, perché?"

"Beh, in realtà non ho proprio preso un giorno di permesso, ho semplicemente finito un giorno prima di lavorare: mi hanno pagato meno, quindi erano anche contenti..."

"Non capisco, John. Perché tutto questo, qual'è la ragione?"

"Perché volevo e soprattutto dovevo portarti qui."

"Per 'qui' intendi 'qui a Londra'?"

"No, per 'qui' intendo 'qui qui', Sherlock. In questa casa." disse John e Sherlock inizialmente non capì. Poi però, alle spalle di John, notò qualcosa che lo raggelò: una stampa appesa al muro, la stampa di un teschio bianco su fondo nero. La stampa che lui stesso gli aveva regalato l'anno prima a Natale e che fino a poco tempo prima era appesa alle pareti di casa Watson, nel suo appartamento vicino all'università.

In quel momento tutto acquistò un senso e Sherlock capì: John che per un po' non l'aveva più portato a casa sua; la stampa che gli aveva regalato improvvisamente finita in un appartamento vuoto; la spesa di tutti quegli oggetti da casa, oggetti per una casa vuota; "Stiamo tornando a casa?" "Qualcosa del genere."; l'essere così schivo e riservato di John riguardo a tutta quella giornata e quel famoso progetto di cui non voleva parlargli, la fantomatica sorpresa... Dio, come aveva fatto ad essere così stupido?

"Questa non è una casa qualunque." mormorò, ricominciando a camminare lentamente per la stanza e poi fermandosi di nuovo e voltandosi verso John, "Ti stai trasferendo qui."

John annuì, tenendo lo sguardo fisso a terra. Sherlock prese un respiro profondo, poi chiese:

"Perché non me l'hai detto prima?"

"Volevo farti una sorpresa: il mio contratto in ambulatorio stava per finire e Mike- te lo ricordi Mike, no? Quello che studiava medicina con me, robusto e con gli occhiali- mi ha trovato un posto al St. Barts, qui vicino: lavora lì, stavano cercando qualcuno per un posto fisso e lui ha fatto il mio nome; ho fatto qualche settimana fa il colloquio e... Beh, mi hanno preso. Comincerò tra un mese."

"Oh. Sono... Sono felice per te, è una bella notizia. Ma come farai ad andare avanti in questo mese? Il trasloco, la spesa... Tutto."

"Ho messo un po' di soldi da parte per l'occasione. E il trasloco è già tutto pagato, mancano solo una manciata di scatoloni. I mobili qui ci sono già tutti, sai? Letto, tavoli, cucina... Tutto. Mancavano solo piatti, bicchieri e il resto delle cose che abbiamo comprato oggi."

"Ah. Quindi... Quindi oggi mi hai portato con te per scegliere biancheria e stoviglie."

"In pratica sì: a volte trovi i miei gusti orrendi, non volevo rischiare di scegliere qualcosa che non ti piacesse." mormorò John, imbarazzato e Sherlock inarcò un sopracciglio, per poi dire:

"John, apprezzo il pensiero, davvero, ma non è a me che questa roba deve piacere: dopo tutto, stiamo sempre parlando di casa tua."

"Io pensavo più a casa nostra, a dire il vero." sussurrò John, rivolgendo a Sherlock un'occhiata esitante. Il ragazzo sbatté un paio di volte le palpebre, sicuro di non aver sentito bene.

"Io non... Non c-credo di... Potresti ripetere, per favore, John?" balbettò, sconvolto. John sorrise, avanzando lentamente fino a quando non si trovò davanti a lui. "Casa nostra, Sherlock. Mia e tua."

"Nostra. Mia e tua. Nostra..." ripeté Sherlock, sempre più incredulo ad ogni tentativo. John abbassò lo sguardo sul pavimento, poi lo riportò di nuovo sul suo ragazzo e, intrecciando le mani con le sue, iniziò a spiegare:

"Il mio nuovo lavoro mi legherà a Londra, che mi piaccia o meno: per un po' ho pensato di fare la spola tra qui e Cambridge, non sono vicine ma mi sono detto che avrei potuto farlo. L'appartamento è in centro, è ben servito dai mezzi- la fermata della metropolitana è proprio qui a due passi- e alla fine il viaggio Londra-Cambridge è circa un'ora di treno, c'è gente che fa di molto peggio per lavorare. L'avrei fatto per te, solo per stare con te, non lo nego. Poi però mi sono reso conto che non avrebbe avuto senso: stai per laurearti, Sherlock, dopo l'università è chiaro che vorrai andare avanti con la tua vita e questo, conoscendoti, probabilmente avrebbe significato venire qui, a Londra. E allora ho pensato che potesse essere una buona idea: insomma, tutti e due a Londra, avremmo comunque avuto bisogno di un appartamento e sicuramente avremmo dovuto condividerlo per poterci premettere le spese- almeno, io avrei dovuto farlo. E poi ho conosciuto Mrs. Hudson: era con me in sala d'aspetto quando sono andato al Barts per il colloquio; abbiamo chiacchierato un po', mi ha detto della casa e ci siamo scambiati i numeri. Sai, in caso mi avessero preso e avessi avuto bisogno di una casa qui in città. Ma a parte tutto questo, il vero nocciolo della questione è che..."

John s'interruppe, emettendo una risata tremante con quella sua voce spezzata per l'emozione.

"Oh, Sherlock, io ti amo da impazzire, tu non sai neanche quanto. Voglio condividere ogni singolo giorno, ora, minuto e secondo, affrontare ogni ogni ostacolo, ogni novità e avvenimento con la persona che amo di più al mondo: voglio svegliarmi accanto a lei ogni mattina, voglio farci colazione insieme, vedere la TV, preparare l'albero di Natale e soffrire il caldo in estate, litigare per chi dovrà uscire a comprare il latte, passare notti insonni a fare l'amore... Voglio tutto questo con una sola persona e quella persona sei tu, sempre e solo tu e lo sarai per il resto dei miei giorni. Ho venticinque anni, non ho visto molto del mondo, ma so cosa voglio, l'ho sempre saputo da quel giorno, dal momento in cui ho capito di amarti alla follia: c'è solo una cosa che desidero più di ogni altra e questa cosa è trascorrere il resto della mia vita accanto a te, Sherlock Holmes. E questo mi sembrava un buon modo per iniziare a farlo."

Sherlock restò in silenzio, sgomento. Per un attimo, all'inizio aveva pensato che John stesse per mollarlo, non lo nascondeva. Ma questo... Dio, questo era davvero oltre ogni sua più ardita speranza. John lo amava davvero, voleva passare il resto della sua vita con lui, solo e soltanto con lui. Cielo, Sherlock faceva fatica a realizzarlo: lui provava esattamente lo stesso nei confronti di John, ma pensare che fosse proprio John a desiderare di non avere nessuno accanto che non fosse lui... Era incredibile.

Quella di John era... Era stata la più bella dichiarazione d'amore che avesse mai sentito. Nessun film, libro o poesia avrebbe potuto competere, ai suoi occhi: era stata incredibile, semplicemente meravigliosa ed era stata per lui. Tirò su con il naso e realizzò solo in quel momento di avere le lacrime agli occhi. Accidenti a te, John Watson, guarda cosa mi hai fatto..., pensò, asciugandosi gli occhi con una manica del leggero giubbotto che portava quel giorno.

"Hai... Hai fatto un bel discorso, davvero. Mirato, molto... Mmh-hm, molto efficace, d'effetto." mormorò e John chiese, inclinando lievemente il capo con fare un po' timoroso:

"E ha funzionato?"

Sherlock fece per rispondere, ma il suono di qualcuno che bussava alla porta lo distrasse. Entrambi volsero lo sguardo in direzione dell'ingresso del salotto e Mrs. Hudson fece la sua comparsa nel loro campo visivo.

"Allora, ragazzi, che ne dite? Vi piace?" chiese, tutta contenta; poi assunse un'aria più comprensiva e aggiunse:

"C'è un'altra camera vuota al piano di sopra, nel caso ve ne servissero due." Sherlock vide John arrossire e aprire la bocca per rispondere, ma fu più veloce.

"Credo che una sarà più che sufficiente, Mrs. Hudson." disse sorridendo e John strabuzzò gli occhi, voltando di scatto la testa verso di lui. Sembrava incredulo, ma a poco a poco la sorpresa lasciò spazio all'entusiasmo e alla felicità, mentre un sorriso si allargava sul suo volto e prendeva quello di Sherlock tra le mani, avvicinandolo al suo. Sherlock poggiò le dita sulle sue, ricambiando dolcemente quel sorriso e quello sguardo che John riservava solo a lui.

Mrs. Hudson provò una tenerezza indescrivibile guardando quella giovane coppia. Quasi si commosse nel vedere quanto si amassero, l'amore che provavano l'uno per l'altro. Capì che forse per momento era speciale per loro, unico e irripetibile; in punta di piedi fece dietrofront e li lasciò soli. Sherlock apprezzò molto quel gesto; alla fine quella vecchia signora gli era simpatica, sarebbero andati molto d'accordo.

"Era un sì, quindi?" chiese John, speranzoso. Sherlock sorrise.

"Per il resto dei miei giorni, John." sussurrò in risposta e John, trattenendosi a stento dal ridere, lo baciò con slancio, premendo le labbra sulle sue. Sherlock lo strinse a sé, ricambiando il bacio e lasciando che John si abbandonasse contro di lui. Entrambi soffocarono una risata sulla bocca dell'altro, ma andava bene così: erano giovani, innamorati, avevano un lungo avvenire davanti a loro, una vita intera davanti da vivere con coraggio, speranza e passione.

Insieme.

 

FINE


 

 

Note:
Ciao a tutti!
Eccoci qui, il momento è arrivato. Il Gran Finale! So bene che quella di settimana scorsa è stata una fine ingrata (e so anche di essere in ritardo con la pubblicazione, but Carry On My Wayward Son), ma credo di essermi fatta perdonare con questo epilogo francamente sdolcinato e lungherrimo. Siete d'accordo?
Ora, passando al capitolo: io credevo di aver avuto l'ideona del secolo, invece SBAM!, avete capito tutti che la ragazza era Harry. Però ehi, il dubbio è rimasto quasi a tutti e questo un pochino mi consola. Per la scena-sclero su Tiger e gli ananas ringraziate Chipped Cup, che su Twitter ha invocato a gran voce una OS a parte con questo prompt e io, lunga come una lumaca e indecisa come una malattia che sembra se ne vada poi ritorna, non avendo ancora finito l'epilogo ho pensato bene di inserirlo qui (la cosa divertente è che in tre settimane avrò scritto sì e no sette pagine, in due giorni diciannove, evviva le cadenze regolari). Oltretutto mi ha reso anche più divertente e credibile tutta la parte del 221B, quindi thank you very much, Sà <3. Però la scena di McDonald's è stata farina del mio sacco, perché se proprio devo fare una cosa trash tanto vale farla per bene... E scrivere di Sherlock in quella situazione, mezzo sclerato e tanto desideroso di asfaltare il suo Jawn, mi ha fatta morire dalle risate.
Io vi voglio ringraziare di cuore, a tutti quanti: grazie per aver letto, grazie per aver commentato, grazie per aver fatto questo viaggio con me e aver accompagnato questi due idioti alla fine, che poi sarà solo l'inizio della loro vita insieme. Ringrazio chi ha letto e basta, chi ha parlato con me della storia attraverso messaggi e recensioni, chi ne ha parlato ancora di più su Twitter e mi ha non solo fatta felice, ma innamorare ancora di più di questi due idioti e delle loro storie, del modo in cui solo loro sanno e possono amarsi. L'avrò ripetuto ormai trecento volte, ma davvero, non avrei mai pensato che questa storia avrebbe avuto un tale successo e invece eccoci qui. Grazie di cuore, a tutti voi <3
Parlando ancora di Twitter, in settimana ho lanciato un sondaggio per decidere quando pubblicare la prossima fic e, visti i risultati, tra qualche giorno inizierò a postarla. In ogni caso avviserò anche sul mio profilo, anzi se volete fare due chiacchiere mi trovate all'account @_damn_sherlock_
Bene, momento spam finito. Ancora, grazie di cuore a tutti, ad ognuno di voi.
Se volete farmi sapere che ne dite o semplicemente fare due chiacchiere, potete lasciarmi un messaggio, una recensione o semplicemente contattarmi su Twitter, parlare con voi è sempre bellissimo e, oltre a divertirmi, imparo sempre qualcosa di nuovo, sia dalle critiche che dalle chiacchiere.
Direi che... Beh, ho finito. Stavolta per davvero.
Un bacio e un abbraccio fortissimo a tutti, alla prossima!
Cami



P.S.: qualche settimana fa ho fatto questa cosa, una specie souvenir di questa fic, ma ho voluto aspettare la fine per allegarla alla storia
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