Another story: the daughter

di marea_lunare
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Rachel ***
Capitolo 2: *** He's only human, after all ***
Capitolo 3: *** A new life perspective ***
Capitolo 4: *** Nightmares ***
Capitolo 5: *** I believe in you ***
Capitolo 6: *** Goodbye, John ***
Capitolo 7: *** Don't leave me alone ***
Capitolo 8: *** Not dead ***
Capitolo 9: *** You're my guardian angel ***
Capitolo 10: *** Just shut up ***
Capitolo 11: *** You need me ***
Capitolo 12: *** You deserve to be happy ***
Capitolo 13: *** The gun, the bullet ***
Capitolo 14: *** Think, remember, live ***
Capitolo 15: *** Our daughter ***
Capitolo 16: *** What you want me to play? ***
Capitolo 17: *** Didn't you expect me to do that? ***
Capitolo 18: *** John, what are feelings? ***
Capitolo 19: *** Demons and truths ***
Capitolo 20: *** Everything will be alright ***



Capitolo 1
*** Rachel ***




“Ho paura..” disse, la voce ridotta ad un sussurro, sentendo una lacrima scorrerle lungo la guancia destra.
“Andrà tutto bene, ti aiuteremo a guarire. Tu non morirai così” affermò John con la voce rotta e le labbra tremanti.
Allora lei lo guardò negli occhi, accennando un piccolo sorriso che le illuminò il volto pallido e spaventato. Aveva la mano intrecciata con quella di John e glie la strinse ancora più forte.
“Sì, andrà tutto bene..” disse tra sé. “Poi torneremo a casa tutti insieme da Rosie.. Ci metteremo a bere il té sul divano, a vedere i programmi spazzatura in TV.. Poi io andrò a letto e vi lascerò soli a farvi le coccole, portando.. p-portanto Rosie in camera con me..” boccheggiava, aveva perso troppo sangue.
 
                                                                          ********************************
 
(1) Rachel

John l’aveva incontrata anni prima.
Era una tipica ed uggiosa giornata londinese, la pioggia era fitta e Watson dovette uscire con l’ombrello.
Doveva semplicemente andare a fare la spesa, cosa che Sherlock non faceva mai. E proprio quel giorno imparò che anche dall’azione più semplice può saltare fuori qualcosa (o qualcuno) di veramente buono.
 
“Sherlock io esco! Ti serve qualcosa in particolare?” chiese John sull’arco della porta.
“Potresti comprarmi del ghiaccio? Le mie lingue umane stanno andando in putrefazione!” gridò di rimando Sherlock dalla cucina.
Con un’espressione di disgusto, John scese le scale sospirando. Odiava la pioggia. E avere resti umani nel frigorifero.
 
Aprì il portone del 221B di Baker Street e poi aprì l’ombrello, chiudendosi alle spalle la porta.
Si girò verso sinistra e.. SBAM.
Qualcosa gli era venuto addosso e l’aveva fatto cadere a terra nel bel mezzo di una pozzanghera, inzuppandogli i pantaloni e in parte il maglione.
“Oddio.. Mi scusi, non l’avevo proprio vista, stavo guardando da tutta un’altra parte.. Sta bene?” chiese una voce limpida che fece subito sciogliere il cuore di John.
 
Quando alzò gli occhi, vide una mano lunga e affusolata che si tendeva verso di lui per aiutarlo ad alzarsi.
Seguendo la scia del braccio coperto da un cappotto rosso, arrivò alle labbra carnose, un naso aquilino e due occhi verdi che lo guardavano preoccupati.
C’era qualcosa di strano in quegli occhi. Sembravano gonfi, con qualche accenno di rosso e, soprattutto, stanchi. Delle profonde occhiaie le incorniciavano il viso.
Dopo pochi secondi si staccò dal viso della ragazza e le prese la mano. Aveva una stretta forte: doveva essere molto giovane.
 
“Stia tranquilla, sto bene” sorrise, guardandosi i vestiti zuppi.
Anche lei aveva i vestiti bagnati.
Con le portava uno zaino che sembrava pesare molto, come se portasse sempre con sé tutti i suoi averi.
John la guardò preoccupato: “Lei sta bene? Mi sembra sconvolta..”
Gli occhi di lei si riempirono di lacrime e sorrise: “No no, sto bene.” aggiunse, con voce tremante “E comunque può darmi del tu”.
“Va bene. Come ti chiami?” chiese, continuando a guardarla dalla testa ai piedi, cercando di avere delle deduzioni alla Sherlock Holmes (con scarso successo).
“Mi.. mi chiamo Rachel” disse.
“Ok, Rachel.. Mi sembra di aver già sentito questo nome” rispose John con aria pensierosa. “Ma guardati, sei zuppa come un pulcino. Vieni, ti offro una tazza di tè, così puoi riscaldarti. Stai tremando come una foglia” aggiunse intenerito. Quella ragazza doveva avere non più di 16 anni.
“La ringrazio..” disse Rachel con uno sguardo devoto e un sorriso sincero, che sembrò spazzarle via dalle spalle ogni peso.
 
Le aprì la porta e la lasciò passare per prima, poi si ricordò di Sherlock.
“Oh, aspetta!” esclamò all’improvviso. Rachel si girò verso di lui.
“Ecco.. Io ho un coinquilino, Sherlock Holmes”. Rachel sembrò sul punto di svenire.
“Come.. ha detto scusi? Il suo coinquilino è Sherlock Holmes? Ma allora lei è John Watson! O mio Dio, avevo lo sguardo appannato, non l’avevo nemmeno riconosciuta!” disse la ragazza sorridendogli entusiasta “Ho letto il suo blog ogni volta che ho potuto. È così affascinante leggere dei suoi casi” aggiunse con aria trasognata.
 
Il petto di John si gonfiò tacitamente di orgoglio. Era bello avere dei fan che non si concentrassero solo su Sherlock.
Salirono la rampa di scale e John aprì la porta.
“John? Sei già di ritorno? E il mio ghiaccio?” gridò con aria di protesta. Quando sentì un mugolio emozionato provenire dalla cucina e, vedendo la ragazza, restò sbigottito (ma non lo diede a vedere).
 
ANALISI: giovanissima, occhi verdi e gonfi. Accenno di rossore, ha recentemente pianto. Ha uno zaino    grande e compatto. Forse una turista? Una fuggitiva? Dal foulard sopra il collo si vede un livido viola, qualcuno forse l’ha picchiata.
 
“Sherlock non ti azzardare” disse John non appena Sherlock aveva provato a dire qualcosa.
Il detective capì al volo e sbuffando si ritirò in cucina per tornare ai suoi esperimenti.
“Tu accomodati, io mi vado a cambiare e poi ti preparo il tè” disse dolcemente John appendendo l’ombrello.
“Grazie, signor Watson” rispose candidamente Rachel. Si guardò intorno. Era così strano essere lì senza avere un caso da dare a Sherlock Holmes. L’appartamento era piccolo, ma in qualche modo accogliente. Quel tocco di antico che aveva serviva solamente a renderlo ancora più misterioso e, allora stesso tempo, rilassante.
 
Si avvicinò alla finestra e guardò fuori, osservando le persone che correvano sotto la pioggia. Ognuno aveva il suo posto nel mondo, il suo ora. Lei non più. Lei era solamente Rachel, un’ombra tra i miliardi di volti che popolavano la terra.
 
“Bene, eccomi!” annunciò allegramente John “Tè con o senza zucchero?”
“Senza zucchero” rispose Sherlock, beccandosi un’occhiataccia da John.
Rachel rise e li guardò inteneriti : “Anche per me senza zucchero, grazie dottor Watson”
“Puoi darmi del tu, stai tranquilla” rispose lui.
“Va bene, grazie John” sorrise emozionata, prendendo la tazza dalle mani di John. Non appena sentì quel calore , le spalle si sciolsero e la mente si svuotò per un breve momento. Sherlock le lanciava brevi occhiate, continuando a dedurre tutto di lei. Ebbe un guizzo di tristezza conoscendo la storia di quella ragazza, ma lo ricacciò subito indietro.
Lui non sapeva nulla di sentimenti umani.
 
Si era fatta sera, era quasi ora di cena.
“Bene, meglio che io vada. Si sta facendo tardi” disse Rachel tristemente.
“Oh che peccato.. Devi già tornare a casa?” chiese John dispiaciuto.
La ragazza fissò per un momento il vuoto. “Sì.. sì, devo”
“Hai ragione, i tuoi genitori saranno sicuramente preoccupati” rispose John senza pensare.
Rachel sembrò non essere più capace di respirare “Si, hai ragione. Si staranno preoccupando”
“Rachel, stai bene? Sei sbiancata improvvisamente”
“Sto bene, tranquillo. Sarà solo un calo di zuccheri”
“Bugia” affermò Sherlock, lasciando interdetti gli altri due.
 
“Come scusi?” chiese Rachel guardandolo.
“Non puoi andare a casa, perché tu non ce l’hai” spiegò il detective.
“Sherlock, smettila di dire idiozie” sbottò John.
Rachel gli appoggiò una mano sulla spalla. “Lascialo parlare”.
Sherlock stava ancora macchinando con alambicchi e boccette quando iniziò a parlare a ruota libera.
 
“Tu non puoi andare a casa perché non ne hai una” ripeté “Il tuo zaino è troppo grande perché tu sia una turista. Hai i capelli sporchi, non li lavi da almeno una settimana. Quel cappotto è malandato, il che significa che è stato indossato per molto tempo. Ha una macchia di fango incrostata sul braccio ed è molto sporco, perciò probabilmente ti fa anche da coperta. Anche il tuo foulard è malandato e ricordo di averlo visto in una bancarella di Portobello Road, perciò probabilmente lo hai comprato lì. Quando hai incontrato John stavi correndo e siete andati a sbattere, lui è caduto in una pozzanghera e questo spiegherebbe perché i suoi vestiti erano bagnati. Tieni il foulard solamente per nascondere i lividi che hai sul collo, ma uno te ne è sfuggito”.
 
Rachel si toccò istintivamente il collo, nascondendo quel segno che l’aveva tradita.
 
“Quando abbiamo nominato i tuoi genitori hai esitato, il che significa che significa che non hai un buon rapporto con loro oppure non li hai più. Il tuo labbro inferiore ha una piccola linea chiara sul lato destro, perciò deve essere appena guarito da una ferita inferta da un pungo”.
“Emani un leggero odore di alcol e, a giudicare dal colore dei lividi, tuo padre è, o era, un ubriacone che ti picchiava. Essendo ormai maggiorenne non eri più sotto la sua giurisdizione, così te ne sei andata.
Se tua madre fosse stata un’ulteriore vittima di tuo padre, non te ne saresti mai andata di casa. Perciò le conclusioni sono due: o è morta oppure osservava le scene di violenza senza muovere un dito. Ma conoscendo tutte le caratteristiche sull’istinto materno, sicuramente avrebbe fatto qualcosa.
 
CONCLUSIONE: tuo padre ti picchiava, sei orfana di madre e sei fuggita di casa, dormendo per strada”.
 
“Rachel..” sussurrò John.
Non ebbe bisogno di conferma. La ragazza guardava Sherlock negli occhi, mentre lacrime calde le colavano lungo il viso sconvolto. Né Sherlock né Watson ebbero il coraggio di muovere un muscolo.
“Sì. È tutto vero. È tutto dannatamente vero”
“Oh buon Dio..” sospirò John “Vuoi rimanere a dormire qui per stanotte?”
Lei iniziò a singhiozzare: “Sì, vi prego” disse con il volto tra le mani “Non dormo da giorni. Ogni notte rimango sveglia per paura che qualcuno possa aggredirmi. Di giorno riesco a dormire un po', ma ho sempre paura che mio padre venga a cercare. Non voglio andare in una casa famiglia, perché so che mio padre setaccerà mezza Londra pur di ritrovarmi, perché ha bisogno di qualcuno che faccia le faccende di casa. Ho paura” continuò piangendo.
 
John le si fece più vicino e lei gli buttò le braccia al collo, disperata.
“Shh, tranquilla. Sei al sicuro ora” disse John con fare paterno.
Vedendo quella scena, Sherlock gli regalò un mezzo sorriso.
John aveva un cuore veramente buono.
Quando si fu calmata, continuò ad abbracciare John, sussurrandogli un “Grazie”.
Lui le accarezzò dolcemente i capelli, mentre lei lo stringeva facendo dei respiri profondi, rincuorata da quell’affetto.

 
 
 
Angolo dell’autrice: Buonasera a tutti! Questa sera vi propongo il primo capitolo di una nuova fanfiction. In totale sono 14 capitoli e ne pubblicherò uno ogni lunedì, perciò ne avremo per un bel po' di tempo :’3 . E’ una storia un po' diversa, ma che mi ha entusiasmata fin da quando ho iniziato a scriverla. Come sempre vi ringrazio per essere giunti fino a qui e avermi dedicato qualche minuto del vostro tempo, sperando che vi abbia entusiasmato e che seguirete con piacere la storia completa. Critiche sempre ben accette!
A presto <3

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Capitolo 2
*** He's only human, after all ***


(2) He's only human, after all
 
I’m only human, after all.
  • Rag ‘n Bone
                                                                ************
“Bene Rachel, ho messo delle lenzuola pulite e tolto un po' di roba, così potrai stare più comoda” disse John sorridendo.
“Oh John.. Veramente, non so come ringraziarti per la tua gentilezza” disse la ragazza con occhi adoranti.
 “E ovviamente grazie anche a lei, signor Holmes” aggiunse.
Sherlock mugugnò un “prego” senza distogliere lo sguardo da ciò che stava facendo, ma John si accorse del piccolo sorriso che gli increspava le labbra.
Dopotutto, anche lui era umano.
“Vuoi farti una doccia, prima? Ti vedo un po' malandata” disse John mestamente.
“Se posso, molto volentieri. Così per qualche giorno sarò pulita” sorrise Rachel mentre i suoi occhi imploravano pietà.
“Però non hai un cambio” protestò John.
 
In quell’esatto momento la signora Hudson bussò alla porta.
“Miei cariii” cinguettò “Scusate il disturbo. Sherlock, ti ho portato quello che mi hai chiesto”.
Aveva in braccio uno scatolone stracolmo di vestiti.
“Grazie signora Hudson, li dia pure a Rachel” disse Sherlock, lo sguardo sempre puntato sul microscopio.
“Oh allora sei tu Rachel!” esclamò la ‘governante’. “Sei una ragazza così graziosa” aggiunse dandole un pizzicotto sulla guancia “Lì dentro ci sono tutti i vestiti che vuoi, anche qualcosa di intimo. Puoi prendere tutto ciò che ti piace, sono vestiti di quando ero giovane e che ora non porto più. Ah, bei vecchi tempi quelli!”
“Grazie signora” disse dolcemente Rachel osservandola con uno sguardo carico di amore.
 
“Sherlock, questa è opera tua?” chiese John perplesso quando la donna se ne fu andata.
Rachel, non mosse un muscolo, in attesa.
“Beh, appena l’ho vista ho dedotto tutto della sua vita, di conseguenza ho pensato che darle i vestiti della signora Hudson fosse un buon modo per svuotare casa e avere più spazio per i miei esperimenti” rispose il detective con noncuranza.
“Oh..” disse Rachel osservando quei vestiti come se fossero i più belli che avesse mai visto. E John lo vide, quello sguardo.
 
Per un momento, la ragazza si concentrò su Sherlock. Fece un respiro profondo e gli si avvicinò lentamente mentre Watson la guardava in interrogativo.
A piccoli passi, raggiunse il detective che era ancora di schiena. Allungò le mani tremanti sulle spalle di Sherlock, esercitando una leggera pressione. Ruppe completamente la distanza tra di loro e appoggiò la fronte sulla schiena del consulente investigativo che si era irrigidito.
“Grazie” sussurrò, spingendo brevemente la testa contro la sua schiena.
Il primo calore umano dopo John.
Si staccò immediatamente, immaginando che a Sherlock non dovesse piacere quel contatto.
Prese i suoi vestiti e andò a lavarsi.
 
John vide le spalle di Sherlock rilassarsi e questa volta fu il suo turno di avvicinarsi.
Osservò quella schiena che avrebbe voluto abbracciare dall’ istante in cui l’aveva visto la prima volta.
Appoggiò la mano aperta sulla sua schiena e sentì Sherlock sussultare. Dalla schiena risalì verso l’alto per arrivare ai suoi capelli ricci e corvini, che scompigliò accompagnandosi ad una risata.
 
Quando Rachel ebbe terminato, tornò in sala completamente diversa.
I capelli erano morbidi e ricci, quasi leonini; gli occhi brillavano di luce nuova e qualsiasi odore della strada era completamente sparito dalla sua pelle provata, erano rimasti solo i lividi.
John li esaminò uno ad uno, applicando una crema contro le contusioni e mormorando tra sé parole ingiuriose su come fosse possibile fare del male ad una creatura come Rachel.
 
                                                          ******************
 
Ormai era scesa la notte ed era ora di andare a dormire.
Rachel diede loro la buonanotte verso le dieci, gli occhi pesanti come non mai.
John si ritirò nella sua stanza poco dopo, mentre Sherlock rimase sveglio sul divano, in silenzio.
 
Watson si svegliò verso le tre del mattino a causa di uno dei suoi incubi sulla guerra.
Quei demoni non avevano la minima intenzione di lasciarlo andare e farlo dormire serenamente.
Si sarebbe portato quel peso addosso per tutto il resto della sua vita.
 
Scese al piano di sotto per bere un bicchiere d’acqua e trovò Sherlock che guardava fuori dalla finestra, pensieroso.
“Tutto bene?” gli chiese
“Stavo pensando” rispose Sherlock
“A che cosa?”
“A Rachel”
“A Rachel?”
“Sì. Cosa le accadrà quando se ne andrà da qui?”
 
John non ci aveva pensato.
Sarebbe tornata per strada ad avere paura, a piangere e con i capelli sporchi.
Avrebbe vissuto di nuovo in un incubo di solitudine e, se suo padre l’avesse riacciuffata, di violenza.
Era una ragazza così dolce, debole e bisognosa di protezione.
Continuava a sentire dentro quella cosa che lo aveva tormentato da quando le aveva visto quei lividi sulle braccia: l’istinto paterno.
Un tipo di amore che Rachel non aveva mai ricevuto.
 
“E se la facessimo rimanere qui con noi? Non possiamo ributtarla in strada, Sherlock. È praticamente una bambina rispetto a noi. Non ha mai avuto una sicurezza alle spalle, se non quella di essere picchiata se non avesse ubbidito al padre. È troppo fragile per il mondo dei tuoi amici senzatetto. L’hai vista come era ridotta? Dopo nemmeno una settimana era ridotta ad uno straccio. Non possiamo farle questo, proprio non possiamo” John aveva parlato tutto d’un fiato pur di convincere Sherlock.
 
Si fece più vicino al detective, fino a trovarsi anche lui di fronte alla finestra. Sfiorò la mano di Sherlock che stava toccando il vetro, intrecciando le dita con le sue.
Sherlock lo guardò negli occhi: il senso paterno di John si era destato per la prima volta, potente come un uragano.
Aveva ucciso molte persone in guerra e salvare quella ragazzina lo avrebbe reso non solo orgoglioso di sé e di Sherlock, ma avrebbe ripagato un minimo di quel debito che aveva con l’Inferno.
 
Sherlock lo guardò più intensamente ed annuì.
“A patto che si trovi un lavoro. Così divideremo l’affitto e si meriterà di vivere qui” disse, tornando a guardare fuori dalla finestra.
John sorrise felice, rendendosi conto solo in quel momento di quanto affetto provasse per Sherlock. Gli accarezzò brevemente una guancia.
 “Dopotutto, anche tu sei umano”
 
“E comunque non mi sono infatuato di lei, se è questo che vuoi sapere. È una ragazza giovane e ha bisogno di un padre” disse Sherlock
“O due” concluse mentalmente. 
 

 
 
 
Angolo dell’autrice: Ciao a tutti! Benvenuti in questo secondo capitolo, che spero vi piaccia! Ringrazio chi ha iniziato a seguire questa fic, spero di non deludervi!
Ci vediamo lunedì prossimo con il 3 capitolo! <3 

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Capitolo 3
*** A new life perspective ***


(3) A new life perspective
 
Il mattino dopo, Rachel fece il suo ingresso in salotto con un sorriso smagliante e completamente riposata.
 
“Buongiorno!” sorrise apertamente.
“Oh buongiorno! Ti sei svegliata di buon’ora” notò Sherlock, ricevendo un’occhiataccia da John.
“Se la disturbo posso tornare nella mia stanza, signor Holmes”
“No, puoi rimanere. La tua presenza non mi disturba eccessivamente” rispose serio l’altro.
“Oh ma quale onore” rise Rachel, seguita da John.
“Senti signorina, vedi di ridere di meno o il tuo livello di fastidio aumenterà progressivamente” sbottò Holmes.
“Scusi” disse mortificata la ragazza.
 
Mentre Sherlock tornava alla sua ‘meditazione’, John chiese a Rachel cosa volesse per colazione.
“Mi basta un caffè latte, grazie” gli sorrise lei.
 
Finito di fare colazione, la ragazza emise un sospiro sconsolato che spezzò il cuore a John e che Sherlock fece finta di non sentire.
“Grazie John, era veramente buonissimo” disse piano “Ora.. vado ad impacchettare le mie cose” continuò mestamente.
 
Non appena superò l’arco della porta sentì una stretta al polso.
Si girò e vide che John l’aveva fermata, mentre Sherlock si era alzato e la guardava.
Quei quattro occhi azzurri che la fissavano le accesero nel cuore una luce nuova.
 
“Tu non tornerai in strada” affermò John deciso “Sei troppo giovane. È un brutto posto, quello. Non ti permetteremo di finire la tua vita ancora piena su un marciapiede”.
Detto questo la ricondusse in sala, dove i coinquilini si sedettero sul divano e Rachel sulla poltrona di John (non quella di Sherlock).
 
Rachel aveva lo sguardo trasognato e stava per scoppiare a piangere, si vedeva fin troppo bene.
“Co-cosa vorresti dire?” balbettò.
“Sto dicendo che se vuoi puoi rimanere con noi” disse il dottore, regalandole un sorriso dolce.
“A patto che ti trovi un lavoro, così potremo dividere l’affitto. E dovrai renderti utile in casa, meritandoti di rimanere qui” aggiunse Sherlock mettendo in chiaro le cose.
 
Rachel rimase senza parole. Le sue spalle e le mani tremavano, le labbra si aprivano e si richiudevano mentre lacrime brillanti le scendevano lungo il volto.
Sherlock rimase perplesso.
“Ma non le abbiamo fatto un piacere?” sussurrò all’orecchio di John.
“Sentimenti umani” gli rispose John sottovoce.
“Ooh..”
 
La ragazza singhiozzava.
 “Siete.. sicuri? Al 100%?” boccheggiò, cercando di tornare a respirare regolarmente.
“Assolutamente sì” esclamò il detective “A queste cond…”
 
Non riuscì a terminare la frase, perché Rachel gli si era buttata addosso. Lo abbracciava stretto, John che le accarezzava i capelli ridendo.
“Mi avete salvato la vita!” disse tra i singhiozzi.
 
Sherlock rimase interdetto a quella dimostrazione così aperta di affetto, un po' diversa da quella del giorno prima. Non ricambiò l’abbraccio, ma non riuscì ad evitare che gli sfuggisse un sorriso, intenerito da quella ragazza così visibilmente fragile.
 
Quando Rachel si staccò Sherlock sentiva il cuore leggero, ma ricacciò subito quei sentimenti nel suo palazzo mentale, che sempre lo aveva salvato dalle sofferenze umane.
 
Così iniziò la loro vita a Baker Street.
La nuova arrivata era entusiasta di quella routine quotidiana che avevano costruito insieme.
Nonostante Sherlock volesse sembrare freddo e senza cuore, Rachel notava gli sguardi che lanciava all’ex soldato.
Un giorno Sherlock, mentre guardava John, si accorse della ragazza che lo osservava con aria complice e maliziosa, facendole segno di stare zitta e capendo di essersi fregato da solo.
Lei si fece il segno della croce sul cuore con un dito e in labiale gli disse “Il tuo segreto è al sicuro con me” sorridendo.
Sherlock sembrò un poco più tranquillo e iniziò a prendere confidenza con quegli sprazzi di sentimenti che avevano iniziato ad uscire dal suo ‘cuore’ dall’arrivo di Rachel in quella casa.
 
Sia lui che John si accorsero di quanto la casa fosse diventata più luminosa grazie alla presenza di quella ragazza che avevano salvato dalla strada.
Purtroppo però, questa felicità non era destinata a durare molto.

 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice: Buonsalve a tutti! Oggi sono qui con il 3° capitolo di questa storia. Spero che vi stia piacendo e mi scuso se questa volta il capitolo è un po' più corto del solito. Al prossimo lunedì!
Un abbraccio a tutti <3 

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Capitolo 4
*** Nightmares ***


(4) Nightmares

Le cose iniziarono a precipitare quando John cominciò ad uscire con delle donne.

Ogni tanto ne cambiava una e nessuna delle tante riuscì mai a dargli ciò che cercava.

In tutto questo, Sherlock soffriva in silenzio.

Spesso e volentieri, Rachel si svegliava nel cuore della notte e vedeva Sherlock suonare, guardando fuori dalla finestra con sguardo malinconico.

Quell’uomo aveva dentro più amore di quanto riuscisse ad ammettere a se stesso, un sentimento a lui sconosciuto e che ancora non riusciva a gestire.

Allora rimaneva in silenzio, cercando di razionalizzare il tutto con la musica.

Ogni volta che John usciva, Sherlock prendeva in mano il suo strumento e Rachel restava a guardare. Quella melodia le scaldava il cuore, era l’unico mezzo con cui Sherlock faceva trapelare i suoi sentimenti e lei era una delle poche persone a cui era concesso ascoltare.
                                                                     ********************
Una notte, dopo diversi mesi di convivenza con i due, Rachel ebbe un incubo.

Nel suo sogno camminava lungo un corridoio buio, non riuscendo a vedere nulla.

Chiamava John e Sherlock, ma nessuno le rispondeva.

Era di nuovo da sola.

Sentì una mano che le afferrava il polso e la tirava per i capelli, buttandola a terra e prendendola a calci sul viso e la pancia. Suo padre, quello vero, era tornato.

 Lei teneva gli occhi chiusi e piangeva disperatamente.

Sotto le palpebre aveva impressa l’immagine di un volto che le sembrava di aver già visto da qualche parte. Un viso gelido, freddo e distaccato.

Occhi scuri, profondi. Un mare di pece che ti prende alla gola e ti toglie il respiro ancor prima che tu possa rendertene conto.

Una faccia che, anche senza espressione, esprimeva una spietatezza senza confini. Gli si poteva leggere l’odio nelle pupille, che trafissero la mente della ragazza come spilli appuntiti.

“I will burn the heart, out of you”

“Ti brucerò il cuore, te lo garantisco”


Urlò.
 
 
Si svegliò di soprassalto nel suo letto, gemendo e madida di sudore.

Non aveva un incubo così spaventoso da molto ormai.

Cercò di alzarsi dal letto, ma le gambe le cedettero e con uno sforzo riuscì a mantenere l’equilibrio.

Scese le scale con difficoltà e il respiro affannoso.

Fortunatamente in salotto Sherlock stava suonando e, sentendo i suoi passi, la guardò allarmato.

“John! John!” gridò, correndo incontro a Rachel che si accasciò in quell’esatto punto.

“JOHN!” urlò più forte il detective.

La ragazza era in ginocchio, il volto chino e lacrime grandi e trasparenti che le bagnavano il viso, mentre Sherlock la reggeva per le spalle.

Poco dopo il dottore arrivò di corsa, preoccupato per le urla del detective.

“Ti brucerò il cuore” sussurrò Rachel.

“Cosa?” chiese John prendendole il viso tra le mani.

“Ti brucerò il cuore” ripeté.

Sherlock sbiancò di botto.

I will burn the heart, out of you.

“No..” disse all’improvviso lei, sembrava star delirando.

“No, ti prego papà, non mi picchiare! Ti prego, ho sbagliato! La prossima volta farò meglio! Per favore!”

Lanciò un grido spaventato.

Sherlock l’abbracciò.

La strinse forte e Rachel pianse, pianse amare lacrime di dolore e tristezza, singhiozzando in modo incontrollato. Sfogò tutta la paura che aveva in corpo, mentre Sherlock le sussurrava parole dolci per farla calmare.

La ragazza continuò a respirare profondamente finché, sfinita da tutte quelle emozioni improvvise, perse i sensi tra le braccia del consulente investigativo e di John.
 
Si svegliò l’indomani nel suo letto, le coperte a terra e un pile profumato che le scaldava il corpo fino a sotto le ascelle.

Guardò fuori dalla finestra e vide che ormai era giorno inoltrato.

Si stiracchiò, gli occhi le bruciavano come fossero in fiamme.

Scese in cucina, si preparò il solito caffè latte e lo bevve con calma, cercando di scacciare i pochi ricordi che aveva dell’incubo di quella notte.

Ti brucerò il cuore.

Quella minaccia continuava a rimbalzarle nella testa, senza mai darle pace.

John e Sherlock le avevano raccontato dell’episodio della piscina, dove avevano incontrato Moriarty e Sherlock si era lasciato sfuggire l’affermazione rivoltagli dal rivale.

Poco dopo i due coinquilini aprirono la porta dell’appartamento, probabilmente di ritorno da un caso di livello superiore al 6, dato che si erano scomodati ad uscire.

“Rachel, sei sveglia!” esclamò John raggiungendola per controllare come stesse.
“Va meglio?” chiese accarezzandole la fronte, accertandosi che non avesse la febbre.

“Mi dispiace.. È la prima volta che ho una crisi così acuta. Sinceramente non ricordo quasi nulla di quello che è successo ieri, dopo che mi sono svegliata” gli rispose mortificata.

La ragazza prese la mano di John e ne accarezzò il palmo, confortandosi di quel contatto umano.

Poi volse gli occhi sul detective.

“Grazie, Sherlock” gli sorrise debolmente. Tra le poche cose che ricordava di quella notte, c’era la sensazione delle lunghe braccia del detective che l’avvolgevano con dolcezza, la voce ridotta ad un sussurro che le assicurava di essere in salvo ora, che non sarebbe mai più accaduta una cosa del genere.

Holmes non rispose, non ce n’era bisogno.

Improvvisamente il volto della sera prima le tornò in mente, un lampo che l’abbagliò e si portò le mani alle tempie.

“Cos’hai?” le chiese Sherlock avvicinandosi di un passo.

“Io.. Non lo so. Ieri nel sogno avevo le palpebre chiuse, però vedevo comunque un.. un viso. Il viso di un uomo di cui non so nulla. Capelli castani, occhi neri come la pece. Un viso da difficile dimenticare, perché esprimeva perfidia senza dover contrarre un muscolo. Ho avuto veramente molta paura”. 

Poco dopo emise un lungo sospiro, cacciando via gli ultimi residui di quel terrore che le aveva attanagliato lo stomaco fino al ritorno dei due uomini e decise di continuare la ricerca di un lavoro, che in quei mesi era miseramente fallita.

Uscì dall’appartamento con uno sguardo cupo e ancora provato, cercando di forzare un sorriso per tranquillizzare i coinquilini.

Una volta soli, rimasero a lungo in silenzio.
 
“Moriarty”.

Quella di John non era una domanda.

“Come diavolo ha fatto ad imprimersi così nella mente di Rachel? Non l’ha mai visto!”

“Non ne ho la minima idea” rispose Sherlock “Anche perché se l’avesse visto ce lo avrebbe sicuramente detto”.

Le rotelle del suo cervello iniziarono a lavorare con ritmo incessante. Chiuse gli occhi e congiunse le mani, mentre esaminava tutti i possibili modi in cui Moriarty avrebbe potuto farsi vedere da Rachel senza che lei se ne ricordasse. Più ci pensava e più sembrava un’opzione quasi surreale.

Sapeva per certo però, che quella era una diretta minaccia di Moriarty. Quell’incubo era il messaggio di avvertimento, l’annuncio dell’imminente resa dei conti.

Il gioco era iniziato.
 


Note dell'autrice: Capitolo 4! Un incubo spaventoso e un nuovo legame che nasce. Spero apprezziate! Un abbraccio a tutti, a presto! <3 

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Capitolo 5
*** I believe in you ***


(5) I believe in you
 
Moriarty era un avversario tosto, scaltro.

Bisognava affrontarlo con i guanti, non dando nulla per scontato, prendendo ogni provvedimento possibile, considerando tutte le opzioni del caso.

Eppure era tremendamente furbo.

Un consulente criminale, una mente geniale utilizzata solo a scopi malefici: farsi pagare per salvare le chiappe ad assassini, cecchini, truffatori, la feccia della società.

Nonostante collaborasse e aiutasse queste persone, lui non era come loro.

Lui era un genio.

Malvagio, sadico, completamente pazzo ed ossessionato da Sherlock, l’unico capace di eguagliarlo in intelligenza.

Questo era il suo scopo: distruggerlo.

E Moriarty otteneva sempre ciò che voleva, con qualunque mezzo.

Fu così che lo fece a pezzi lentamente, ricoprendo un’enorme bugia di tante piccole verità, per trasformare ciò che era menzogna in realtà agli occhi della gente.

Perché quando un dubbio ti si insinua nella mente, quando inizi a non credere più che una persona sia ciò che sembra, quando quel tarlo ti corrode il cervello ed ogni certezza, non può essere scacciato.

Perché le chiacchiere e le voci di corridoio sono più forti di qualsiasi verità, incattiviscono chi le ascolta, fanno godere gli invidiosi della sfortuna altrui.

Così Moriarty sfruttò la pochezza intellettiva delle persone comuni, usò l’influenza dei giornali e di quell’enorme ragnatela mediatica che è l’umano, lasciando che le persone iniziassero a dubitare di quel detective che avevano sempre adulato come eroe cittadino.

Tutti iniziarono a non credergli più, persino chi lo conosceva bene, chi aveva spesso collaborato con lui.

Un particolare caso lasciò interdetta Sally Donovan, spingendola a credere che fosse giunto quel momento, che stavolta fosse veramente stato Sherlock ad organizzare tutto.

Coinvolse anche Anderson, continuando a confutare le sue ipotesi su delle semplici congetture, che però agli occhi dell’Ispettore Capo di NSY suonarono come delle accuse certe e verificate.

Il povero ispettore Lestrade non poté opporsi al mandato di arresto, preparandosi al peggio, sperando che Sherlock non facesse stupidaggini o continuasse a comportarsi come un’altezzosa prima donna.

Arrivare con le sirene spiegate a Baker Street non fu semplice, forse per Gregory fu quasi doloroso.

Mentre scendeva dall’auto seguito dalla chioma riccia di Donovan, si soffermò a pensare quante volte aveva salito quelle scale con disperazione, indispettendosi al solo pensiero di dover essere umiliato per l’ennesima volta dalle deduzioni di Sherlock.

Nel suo dipartimento quasi tutti odiavano il consulente, perché li faceva sentire dei perfetti idioti.

Eppure Gregory lo conosceva meglio degli altri, sapeva quanto fosse indispensabile per la polizia londinese e per Londra stessa, continuando a chiedergli aiuto ogni volta che ne aveva bisogno.

Consapevole che Sherlock fosse un grand’uomo, in cuor suo sperava che un giorno sarebbe diventato anche bravo.

Quando suonò il campanello e Sally urlò di aprire, l’umore dell’ispettore non poteva essere più nero.

Non voleva arrestarlo, perché sapeva non avere colpe, che quegli idioti dei suoi collaboratori avevano spalato merda sul suo amico semplicemente perché non riuscivano a credere che esistesse una persona tanto intelligente, quasi per invidia.

Lui conosceva la verità, ma non poteva opporsi agli ordini del suo superiore.

Inoltre, con profonda vergogna, ammetteva a se stesso di aver dubitato anche lui, a volte, della veridicità delle parole del detective, dandosi dell’idiota da solo subito dopo.
 
 
Vedere la signora Hudson spaventata ed in camicia da notte non servì di certo a migliorare la situazione.

I poliziotti salirono immediatamente al pieno di sopra, dove Lestrade vide il consulente con indosso il cappotto e la sciarpa, evidente segno di arrendevolezza e rassegnazione, nonostante il suo sguardo trasmettesse la solita freddezza, quella sicurezza impenetrabile che avrebbe sempre voluto avere.

“Signor Holmes, la dichiaro in arresto per il rapimento di due bambini”

Quella fu probabilmente la frase più difficile di tutta la sua carriera, fissando quegli occhi impenetrabili che spesso e volentieri riuscivano a metterlo a disagio.

John era sconcertato da quelle formalità.

Stavano trattando Sherlock, il suo migliore amico, come un criminale qualunque. E questo non era accettabile.

Tentò invano di opporsi, guardando l’ispettore Lestrade contrastarlo con durezza.

Quest’ultimo scese le scale in silenzio insieme a Sherlock e i due agenti che lo scortavano.

Osservò il suo ammanettamento da lontano, vedendo poco dopo John che veniva sbattuto con forza contro la portiera della stessa auto dove stavano facendo entrare il suo amico.

Subito dietro di lui arrivo l’ispettore capo con il naso sanguinante e un fazzoletto imbrattato nella mano.

Senza farsi notare, Greg voltò le spalle a tutti i presenti e si lasciò sfuggire un sorriso, ringraziando mentalmente John per aver dato finalmente una lezione a quel pallone gonfiato che aveva sempre odiato.

Un uomo tronfio, supponente e soprattutto arrogante, capace solamente di comandare a bacchetta i suoi sottoposti e di ingozzarsi di ciambelle come un disgustoso maiale.

Quel sorriso venne però subito spento nello scorgere la figura di Rachel che camminava a testa bassa in direzione dell’appartamento.

Quando la ragazza alzò gli occhi, un’espressione di paura le si dipinse in volto, vedendo John e Sherlock ammanettati contro l’auto.

“John, Sherlock!” gridò lei cercando di raggiungerli, ma Gregory le si parò davanti.

I due uomini si girarono a quel richiamo, ma non poterono far nulla perché i poliziotti li tenevano inchiodati al loro posto, aspettando ulteriori istruzioni.

“Rachel, calmati” le disse Lestrade afferrandola per le spalle.

“Greg, mi dici che diavolo sta succedendo?” gli chiese lei fissandolo con quegli enormi occhi verde scuro.

“Mi dispiace piccola, abbiamo ricevuto un mandato d’arresto per Sherlock e John ha aggredito il mio superiore. Ho dovuto farli prendere entrambi” rispose l’altro con rammarico.

“Adesso dove li porteranno?” domandò Rachel con una punta di panico nella voce.

“In centrale. Sherlock dovrà essere interrogato, mentre riguardo a John vedremo cosa fare” le chiarì lui, gioendo che la ragazza avesse mantenuto la calma.

Credeva in Sherlock Holmes, in John Watson e in lui.

Confidava nell’amicizia e la lealtà che lo legavano a lei e ai due uomini alle loro spalle.

Rachel lo abbracciò piano, cercando un conforto dove rifugiare le sue paure.

Lui la strinse con affetto, chiedendosi come fosse possibile creare un legame del genere in così poco tempo, come quella ragazzina potesse dispensare così tanto affetto nonostante tutto ciò che si portava dietro.

Un grido improvviso di Sherlock e uno sparo squarciarono l’aria.

“GETTATE LE ARMI E SDRAIATEVI A TERRA, SUBITO!” gridò il detective.

“Oh Cristo…” imprecò Greg osservando il consulente investigativo arretrare ammanettato a John, puntando una pistola carica contro tutti i presenti.

“Sherlock cosa stai facendo?!” gridò la ragazza tentando di avvicinarsi ai due, trattenuta dall’ispettore.

“Ferma, Rachel, per favore. Qui la situazione potrebbe precipitare”

John la guardò rassicurante, sorridendole per darle coraggio.

Andrà tutto bene” le disse in labiale.

Non appena tutti gli agenti ebbero gettato a terra le armi, i due si dileguarono nell’ombra, correndo come dei fuggitivi, mentre Rachel raggiunse la signora Hudson che piangeva sull’arco della porta.
 
 
 
Riuscirono a fuggire, nascondendosi nel Bart’s ormai quasi deserto.

John ricevette una chiamata urgente e fuggì, lasciando Sherlock da solo con i suoi pensieri.

Lasciandolo da solo con il suo demone, la sua nemesi, che lo aspettava sul tetto per la resa dei conti.
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 6
*** Goodbye, John ***


(6) Goodbye, John

“Ciao Sherlock. Come stai?” lo accolse Moriarty con un terribile sorriso misto tra sarcasmo e fastidio.

“Come hai fatto ad entrarle nella mente? Lei non ti ha mai visto, non può conoscere il tuo volto!” disse Sherlock.

“Oh Sherlock, andiamo. Non c’è una sezione sulla ‘funzionalità della mente umana’ in quel tuo sconfinato palazzo mentale?”

Sherlock lo guardò interdetto, per la prima volta senza parole.

Provò a contestare, ma non trovò delle argomentazioni adeguate.

“Oh Sherlock, mi deludi così?” gli chiese l’altro, sporgendo il labbro inferiore come se fosse dispiaciuto.

“Non capisci? La mente umana è fragile, facilmente suggestionabile e… confondibile. Rachel è una mocciosa così debole, sola. È stato un giochetto ingannarla. Mi sono solo fatto vedere qualche volta di sfuggita, per pochi istanti. Questo è bastato per farle
ricordare i miei tratti somatici. Ovviamente però una mente debole come la sua non se ne sarebbe mai resa conto senza una piccola spinta. E grazie a te, questa spinta è arrivata anche prima di quanto mi aspettassi” ghignò.

“Naturalmente quella frase non l’ha sentita solamente da te, ma anche da me, qualche volta. Mi è piaciuto tanto passarle a fianco e sussurrarle quelle parole all’orecchio, vedendola girarsi e non trovando nessuno che le avrebbe potuto parlare così da vicino. Mi sono divertito come un bambino a vedere la sua espressione confusa. E sono stato fortunato. Mi aspettavo che ci avrebbe messo più tempo, invece per una volta si è rivelata utile” sorrise alla fine, un’espressione soddisfatta che gli contraeva il viso.

Sherlock era infuriato e perplesso.

Un giochetto così facile e comprensibile. E lui che si era lambiccato il cervello in quel modo pensando a chissà quale intruglio chimico. E invece era pura e semplice psicologia. Psicologia umana di una mente fragile come quella di una ragazzina.

In pochi secondi una sezione del suo palazzo mentale si spalancò, rivelandogli la verità.

“Messaggi subliminali” sussurrò sgranando gli occhi.

“Eeeh già” gli sorrise l’altro, emozionato come una ragazzina al suo primo appuntamento “Sono…”

“...stimoli sonoro-uditivi o visivi che il cervello umano assimila inconsciamente. Vengono particolarmente utilizzati in ambito pubblicitario, inserendo negli spot dei fotogrammi di particolari prodotti che spingono le persone ad aumentare il consumo di suddetto prodotto. Si iniziò a parlarne per la prima volta quando il sociologo statunitense Vance Packard pubblicò lo scritto ‘I persuasori occulti’. Questi incentivi attivano una particolare area del cervello, ma dal punto di vista psicologico non lasciano degli effetti duraturi nella mente o nel comportamento della persona a cui sono sottoposti” sparò Sherlock a ruota libera.

“Ma?”

“Più a lungo una persona li subisce, più duraturi sono gli effetti. Nel mondo della pubblicità è chiamato ‘martellamento mediatico’. Ergo, sottoponendo Rachel ad una breve ma continua immagine del tuo volto e del suono della tua voce, lei ti ha tenuto nel suo subconscio per diversi mesi finché il suo stesso cervello non le ha reso nota questa presenza attraverso un sogno” concluse Sherlock.

“Bravo il mio consulente investigativo, vedo che ti si è accesa la lampadina. Che ne dici di concludere il gioco ora? L’ultimo atto finale. Direi che hai scelto il luogo adatto per farlo.”

“Fare che cosa?”
 


John raggiunse Baker Street correndo.

Il taxi lo aveva lasciato a qualche isolato di distanza perché rimasto senza benzina.

Aveva pagato il tassista ed era scappato verso il suo appartamento, sperando che la signora Hudson stesse bene, che non stesse veramente morendo come gli era stato detto.

Pensò a come potesse stare Rachel in quel momento, a cosa stesse pensando, se stesse confortando quell’anziana donna che aveva dato loro così tanto nell’arco di tutti quegli anni.

Proprio in quell’istante vide la ragazza guardare fuori dalla finestra.

Si era accovacciata sul davanzale come le piaceva tanto fare, osservando la vita scorrerle davanti agli occhi, per poi riscrivere tutto nel suo quaderno, quel quaderno che lui e Sherlock le avevano regalato per il loro primo Natale tutti insieme.

Il portone era aperto e sentì la signora Hudson chiamare a gran voce la ragazza, che scese le scale e la raggiunse, aiutandola a portare qualcosa da mangiare al muratore che in quel momento stava lavorando in casa.

Quando il dottore entrò di slancio, Rachel sorrise e gli andò incontro, abbracciandolo sollevata.

“Grazie al cielo stai bene… Ma dov’eri?”

“Al Bart’s. Ci siamo rifugiati lì e poi ho ricevuto una chiamata, mi hanno detto che la signora Hudson è in fin di vita”

“Cosa? In fin di vita? John, la signora Hudson non potrebbe stare meglio!” disse lei con una piccola risata.

“Oh John, caro, menomale è qui! Stavo iniziando a preoccuparmi” disse l’anziana donna raggiungendoli, attirata dal loro vociare.

“Ma cosa… Mi avevano detto che lei… Oddio, no!” esclamò.

“John, che succede?” chiese Rachel, non capendo la reazione dell’ex soldato.

“Sherlock” disse semplicemente lui, uscendo dal portone di corsa, chiamando al volo un altro taxi.

Rachel lo seguì a ruota, ignorando le proteste di John.

“Io vengo con te!” disse con fermezza.

Il dottore desistette, pregando che Sherlock stesse bene.

 
 
 
“Non hai alternative, Sherlock. Devi saltare, altrimenti tutti coloro che ami moriranno. Sono tenuti d’occhio dai miei cecchini e posso farli uccidere in qualunque momento. Io non ho la minima intenzione di fermarli, perciò prenditi il tempo che ti serve per dire addio a tutto”

“Non ho la minima intenzione di fermarli”

Sherlock si mise a ridere, lasciando Moriarty alquanto confuso.

“Cosa c’è di così tanto divertente? Cosa mi è sfuggito?”

“Oh niente, solo che i tuoi cecchini possono essere fermati in qualche modo. Un codice, un numero, sai, le solite cose” ghignò il detective con un sorriso sornione stampato in faccia.

“Oh… Ma io non ho la minima intenzione di fermarli, Sherlock, credimi. E tu non entrerai mai in possesso di ciò che mi permetterà di evitare che uccidano i tuoi amici. Perciò rassegnati e salta. Non rendere il tutto ancor più difficile, il mio povero cuore ne
risentirebbe” sorrise maleficamente Moriarty, appoggiando una mano aperta sul petto in segno di finto dolore.

“Ho i miei assi nella manica. Posso utilizzare dei mezzi che tu neanche immagineresti”

“Mi stai facendo delle avance, per caso?” rispose il consulente criminale inarcando le sopracciglia e ridendo tra sé.

“Sei un uomo comune, Sherlock, come tutti gli altri. Sei uno sbruffone, ti credi tanto intelligente. Sei solamente un comune umano dalla parte degli angeli”

“Io potrò anche essere dalla parte degli angeli, ma non credere nemmeno per un secondo che io sia uno di loro. Se vuoi vedermi morire sappi che io ti aspetterò dall’altra parte e se mi stai sfidando, stai pur certo che non ho la minima intenzione di deluderti”

“Oh lo so, Sherlock. Tu non mi deluderai. Ed è per questo che ti aspetterò con ansia” affermò Moriarty con strana calma, stringendo la mano al detective.

Quest’ultimo non sapeva come intrepretare quel gesto così inconsueto e inaspettato, lasciando semplicemente che la sua mano entrasse in contatto con quella della sua nemesi, restando per sempre in allerta e pronto a scattare.

Era concentrato sul suo volto, troppo concentrato, quindi distratto dal resto del suo corpo.

Il nemico lo aveva inchiodato col suo sguardo carico di sfida e arroganza, senza dargli modo di accorgersi della pistola che in quell’esatto momento stava sfoderando dal suo cappotto.

Aprì la bocca e si sparò.

Il detective si allontanò di getto dall’uomo, ansimando dalla sorpresa, osservando quel cadavere che lentamente si accasciava al suolo mentre il proiettile si mescolava alla sua materia grigia, uscendo dal suo cranio in piccolo e letale rivolo di sangue.

Non c’era più alcuna chance che le cose potessero risolversi in altro modo.

Quel marciapiede doveva macchiarsi del suo sangue.

 
 
Arrivarono all’ospedale in pochi minuti.

Uscirono di corsa dalle portiere e John ricevette una chiamata.

“Sherlock, stai bene?”

“John”

“Sherlock, dove sei? Sto arrivando”

“No John, fermati esattamente dove sei!”

“Sherlock…”

“John, perdonami”

“Di che stai parlando?”

“Sono qui, John, sono sul tetto”

“Oh Cristo” imprecò, alzando lo sguardo verso il punto più alto dell’edificio, constatando con terrore che Sherlock era effettivamente lassù, in piedi sul cornicione.

“Sherlock, che cosa vuoi fare?”

“Mi dispiace John. Hanno ragione”

“Chi?”

“Tutti, John. Hanno tutti ragione. Io ti ho mentito, sempre. Sono solo un impostore. Io stesso ho creato Moriarty, il mio nemico più valido”

“Sherlock, smettila. Ti ricordi ciò che mi hai detto su mia sorella la prima volta che ci siamo incontrati? Non potevi conoscere tutte quelle cose senza mai nemmeno averti visto”

“Ho fatto delle ricerche, John. Era uno dei miei semplicissimi trucchi. Ma tu sei stato accecato da quella che credevi fosse una mia grande abilità ed ora continui a non voler vedere la verità. Perdonami, ma non sono chi tu credi io sia”

“Sherlock, ora basta. Che cosa hai intenzione di fare?” domandò il dottore con il terrore che gli rimbombava nella voce.

“Addio John” fu l’unica risposta che ottenne.

“Sherlock, non lo fare, TI PREGO!” gridò Rachel con tutto il fiato che aveva in corpo.

Il detective non l’ascoltò. La osservò un ultimo momento, spostando lo sguardo su John.

Il dottore aveva ancora il telefono all’orecchio ed osservava la sua figura stagliarsi nel cielo, il volto deformato dall’impotenza e il dolore che sapeva lo avrebbe travolto come una tempesta.

Il consulente gettò via il telefono, cercando in lontananza l’azzurro degli occhi dell’ex soldato.

“Perdonami, John. Non avrei mai voluto farti questo” disse tra sé e sé in una tacita preghiera di perdono.

Aprì le braccia e si gettò inesorabilmente nel vuoto.

“SHERLOCK!”

“NO!”
Le grida di John e Rachel lo accompagnarono nella sua caduta di pochi secondi, lasciando un segno indelebile di dolore e senso di colpa che lo avrebbe tormentato per il resto dell’eternità.

E mentre il suo Belstaff volteggiava attorno al suo corpo con il sordo suono del vento che lo trapassava, Sherlock Holmes si avvicinava all’Inferno per stringere la mano a Moriarty.
 

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Capitolo 7
*** Don't leave me alone ***


 (7) Don’t leave me alone

Un corpo che cade, un tonfo, il sangue che scorre copioso, poi il buio.

Rachel corse al fianco di John e raggiunsero Sherlock, una folla già formatasi attorno al suo cadavere. Tutti tentavano di allontanarli, ma la ragazza li prese a spintoni tenendo John per mano.

Lo raggiunsero e si misero al suo fianco. L’ex soldato gli prese la testa tra le mani sporcandosi del suo sangue. Rachel lo chiamava per nome, pregandolo di non abbandonarli, piangendo. Le persone la tiravano indietro ma lei si divincolava e si aggrappava a John, implorandolo di fare qualcosa. Il dottore non poteva. Non poteva far tornare Sherlock dalla morte.
 
Il funerale fu devastante.

John era rimasto solo.

Di fronte aveva solo quella lapide nera e lucida, dove il nome di Sherlock Holmes spiccava in lettere dorate.

“Una volta, tu mi hai detto di non essere un eroe. Beh, lascia che ti dica questo, Sherlock. Tu sei l’uomo migliore, il più umano che io abbia conosciuto e nessuno mai mi convincerà che tu mi abbia mentito. Io ero solo. E ti devo così tanto.
E un’ultima cosa Sherlock, un ultimo miracolo. Solo per me. Non essere… morto. Ti prego. Smettila, smettila tutto questo”.
 
Watson aveva parlato con la morte nel cuore. Quell’immagine aveva già iniziato a tormentarlo giorno dopo giorno senza lasciargli mai scampo. Altri incubi dai cui Sherlock non avrebbe mai potuto salvarlo. Si lasciò andare alle lacrime, riuscendo finalmente a scaricarsi, a buttare fuori una minima parte di quel dolore che provava. Ma sapeva di dover essere forte, doverlo essere non solo per lui se non per Rachel.
 

I primi mesi furono veramente duri: un fulmine a ciel sereno, un pungo nello stomaco.

Pian piano l’ex soldato sembrava star cadendo in depressione, Rachel aveva smesso di sorridere.

Ogni visita era sgradita, tranne la signora Hudson che continuava a prendersi cura di loro come un’anziana madre.

Nessuno dei due ormai dormiva più molto, ognuno tormentato dai propri mostri, entrambi sul punto di raggiungere il limite.

Una notte John tentò di superare quel limite, ma fortunatamente Rachel si svegliò di soprassalto, come sempre sudata e con il battito cardiaco accelerato.

Una brutta sensazione faceva capolino da un angolo della sua giovane mente. Con il tempo aveva iniziato a percepire quando qualcosa non andava, quando
John era più teso del solito o quando la tristezza e la paura affondavano più profondamente le radici nel suo cuore provato. E proprio in quei casi, i suoi sensi la mettevano in allerta anche nel sonno.
 
Si alzò e andò verso la camera di John in punta di piedi per evitare di svegliarlo o spaventarlo.

Vide la porta semichiusa e la luce accesa, probabilmente John non riusciva di nuovo a dormire. Lentamente l’aprì e lo spettacolo che le si parò davanti le fece tremare cuore e anima.

Il dottore era seduto su un lato del letto con in mano la sua pistola, unico ricordo del suo passato da soldato, rigirandosela tra le mani e avvicinandosela pericolosamente al viso.

Il suo bastone era appoggiato ad una sedia, accostata alla scrivania: la zoppia psicosomatica si era ripresentata.

“John…” esalò la ragazza in un sospiro strozzato.

Quando sentì il suo nome venir pronunciato, si girò lentamente verso Rachel e si alzò, guardandola negli occhi.

Watson stava piangendo.

Il volto non faceva trasparire alcuna particolare emozione, ma delle lacrime silenziose gli scorrevano lungo le guance.

La ragazza gli fu di fronte in pochi secondi stando attenta a non fare movimenti bruschi, dato ciò che John aveva in mano.

Occhi negli occhi, blu acceso nel verde smeraldo.

John stava gridando aiuto, aveva paura di sé stesso e di quella risolutezza irremovibile che la carriera militare gli aveva dato. Era fin troppo freddo e tranquillo in una situazione del genere. Sherlock se n’era andato, gli era rimasta solo Rachel.

E quando vide gli occhi di lei che urlavano il suo nome, che lo supplicavano di non lasciarla di nuovo da sola, l’odio verso se stesso si manifestò nel suo corpo come un forte scossone, un brivido che lo fece tremare fino alla punta dei piedi. Si costrinse ad abbassare lo sguardo, vergognandosi di quel suo cieco egoismo.

“Aspetta qui. Non muoverti di un millimetro” gli intimò Rachel guardandolo seria.

Corse in camera sua e tornò pochi secondi dopo, una scatolina di velluto bianco tra le mani.

Andò da John e gli accarezzò piano la guancia, facendogli alzare lo sguardo verso di lei.

Gli sorrise con dolcezza e gli fece vedere la scatolina che teneva in mano come fosse un tesoro prezioso.

Vedendo che l’ex soldato la guardava in interrogativo lei ampliò il sorriso e gli fece un cenno per spingerlo a prenderla, ma John non si mosse.

Perciò Rachel gli tolse con estrema lentezza la pistola, mettendo il regalo al suo posto.

Lui la guardò ancora negli occhi, trovando la conferma che cercava. C’era lei al suo fianco.

Quando aprì il cofanetto inspirò all’improvviso, portandosi una mano alla bocca.

Un’ancora color nero lucido troneggiava in mezzo alla scatola e il cuscinetto bianco su cui era poggiata.

La ragazza mise da parte l’arma e allacciò il ciondolo al collo del dottore, ancora inerme e silenzioso, nascondendoglielo sotto la maglietta del pigiama, appoggiando la sua fronte contro quella dell’altro.

“Questa per me è una promessa. Tu sarai la mia ancora, io sarò la tua. Questa battaglia la vinceremo insieme” disse semplicemente.

“Rachel…”

Senza dire una parola, John si buttò fra le sue braccia e la strinse forte, come volesse stritolarla.

“Perdonami ti prego, non so cosa diavolo mi sia preso, io…”

“Ti voglio bene. Tu per me sei come un padre. Mi hai salvato la vita e non potrai mai farmi un torto tanto grande da dovermi chiedere scusa. Voglio solo che tu rimanga con me. Sei tutto ciò che mi è rimasto” gli sussurrò lei piangendo.

Si strinsero così, uniti in un pianto di paura, gioia di essersi ritrovati così vicini e tristezza per il dolore che li accomunava. Da quel momento entrambi seppero che avrebbero sempre avuto un motivo per andare avanti anche nei momenti più bui.
                                                                     
 ********************
 
Con il passare del tempo, le cose sembrarono iniziare a sistemarsi.

John e Rachel uscivano spesso per fare delle lunghe passeggiate, anche stando in silenzio, tenendosi a braccetto.

Quando la ragazza non riusciva a dormire, John rimaneva con lei sul divano a guardare la TV finché entrambi non si addormentavano e si svegliavano nella stessa posizione della sera prima, senza aver avuto alcun incubo.

Se John si svegliava urlando, Rachel correva da lui a rassicurarlo, calmandolo con delle carezze sulla schiena e aiutandolo a rimettersi a letto.

L’ex soldato ricominciò anche ad avere degli appuntamenti e proprio ad uno di questi incontrò Mary, che gli cambiò radicalmente la vita.

Tornò di nuovo a sorridere sinceramente, riacquistò un minimo di quella parte di felicità che Sherlock si era portato via con la sua morte.

Rachel non poté che esserne immensamente felice. Vedere John uscire finalmente da quella cupa tristezza era il miracolo per cui aveva sempre pregato.

Dopo diversi mesi di frequentazione e fidanzamento, John decise di chiedere a Mary di sposarlo. Stavolta aveva trovato qualcuno che potesse dargli ciò che cercava da una relazione: stabilità, sicurezza e la forza di rialzarsi.

Era giunta la sera della proposta. John, vestito di tutto punto, fremeva dall’emozione.

“Come sto?” chiese raggiante.

“Sei più che perfetto. A parte i baffi…”

“Oh andiamo, a Mary piacciono!”

“Se lo dici tu…”

Prima di uscire, l’ex soldato l’abbracciò con forza. Quel gesto era ormai diventato quotidiano. Si abbracciavano ogni giorno, più volte al giorno. Nonostante John non fosse troppo propenso alle eccessive dimostrazioni di affetto, sapeva che quella era per entrambi la conferma di non essere più soli, accertandosi che non fosse solo un sogno e che nessuno dei due sarebbe sparito nel nulla in un battito di ciglia.

Lei gli si accoccolò tra le braccia chiudendo gli occhi, ma un’immediata lacrima le sfuggì dall’occhio e cadde sul collo di John.

“Ei, che succede?” le chiese subito lui, staccandosi per guardarla negli occhi.

“Non te ne andrai, vero?”

“Mi dici di che diavolo stai parlando?”

“I-io ho paura che quando ti sposerai con Mary, ti dimenticherai di me. Mi verrai a trovare, non è vero?”

“Oh tesoro, non lo dire nemmeno per scherzo. Ti voglio un bene così grande che sarebbe impossibile per me andare avanti senza te al mio fianco” le rispose facendole l’occhiolino.

“E inoltre ho già parlato con Mary della possibile trasformazione della nostra relazione. Le ho anche detto di quanto tu sia parte integrante della mia vita e lei stessa mi ha proposto di farti venire a stare con noi”.

Lei sorrise felice, entusiasta all’idea. Però Watson non si mosse, perché Rachel sembrava in procinto di dire qualcos’altro: e così fu.

“T-ti voglio bene, papà” sussurrò.

Papà.

A quella parola, il cuore di John si sciolse. Abbracciò di nuovo quella dolce ragazza incontrata in un giorno di pioggia.

Non aveva mai saputo cosa significasse essere padre fino a quel momento, avere qualcuno da proteggere con tutto il cuore e che fosse al suo fianco per farlo sempre sorridere. Ma da quando l’aveva incontrata, la sua vita aveva assunto nuovi colori e un nuovo significato.

Quando scese in strada per raggiungere Mary, anche Rachel si preparò per uscire.

Faceva freddo. Era abituata ad andare con John al cimitero ma quella sera, con la nuova consapevolezza di avere qualcuno che si sarebbe preso costantemente cura di lei, affrontò da sola (o non completamente) quel dolore che da due anni le trafiggeva il cuore notte e giorno.

Arrivò al cimitero accompagnata dal buio della sera e dalle nuvolette di vapore che il suo respiro produceva ad ogni passo. Aveva comprato un piccolo mazzo di fiori, dato che quelli vecchi erano ormai appassiti.

“Ciao Sherlock” sussurrò accarezzando la lapide.

Appoggiò i fiori sulla tomba e si inginocchiò di fronte ad essa, le mani giunte in preghiera e gli occhi umidi.

“Sai, oggi ho chiamato John papà per la prima volta. È stato bello. Lui si è commosso e mi ha detto che mi permetterà di andare a vivere con lui e Mary. Sono così felice, Sherlock.
Ancora non ho superato il fatto che tu, beh… sia, sia…” era ancora dannatamente difficile dirlo.
“…morto”.
 
“Però oggi mi sento più sicura. So che tu ci guardi dall’alto come fossi il nostro angelo custode. Ti sento sempre vicino, anche quando ho paura e ti chiamo per nome sento il tuo sguardo che si posa su di me. So che è molto diverso dall’averti qui in carne ed ossa, però uno si accontenta, no?” rise tra sé.
 
Presto il riso divenne singhiozzo e strinse gli occhi, appoggiando la fronte sulla lapide.

“Smettila Sherlock. Questo n-non… non è affatto divertente!” gridò.

“Torna da noi” sussurrò poco dopo, recuperando un respiro regolare.

In quel momento il suo cellulare squillò.










Angolo dell'autrice: Buonsalve a tutti e buona Pasquetta! Spero stiate passando al meglio questi pochi giorni di festa. Oggi sono qui con un capitolo a me particolarmente caro, perché rappresenta l'essenza del rapporto che ho voluto creare tra John e Rachel. Spero non urti la sensibilità di nessuno e tengo a sottolineare che nessuno dei temi delicati qui trattati (come Rachel che veniva picchiata dal padre) sono stati tratti con superficialità! Detto questo, vi auguro una buona lettura! 
Un abbraccio <3  

 

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Capitolo 8
*** Not dead ***


(8) Not dead
 
John era appena arrivato al ristorante, teso come una corda di violino.

“Quel violino che Sherlock amava tanto suonare”.

Mary lo raggiunse poco dopo scendendo da una scalinata, in vestito da sera, bella come non mai.

Un cameriere particolare notò la loro presenza: alto, capelli ricci e corvini, due ridicoli baffetti disegnati con una matita per occhi e un paio di occhiali la cui montatura stonava con il blu dei suoi occhi.

Quando si avvicinò al loro tavolo per prendere l’ordinazione, John incrociò il suo sguardo e fu sul punto di avere un infarto.

“Ciao John” disse Sherlock, sorridendo.

Il dottore lo guardava stralunato, Mary visibilmente preoccupata per la reazione del suo fidanzato.

“Sh-Sherlock?”

“Si, John. so che quest’entrata ad effetto non è…”.

Non poté terminare la frase perché il dottore gli era già addosso, le mani strette attorno al colletto della sua camicia, pronto a strozzarlo se metà staff del ristorante e Mary non fossero intervenuti per separarli.

Furono poco gentilmente sbattuti fuori dal ristorante e non solo quello, dato che le battute ironiche di Sherlock sui baffi di John non servirono a migliorare la situazione. Poco dopo, si ritrovarono dentro un tugurio di fish ‘n chips, John con la fronte dolorante e Sherlock il naso sanguinante per la testata appena ricevuta.

“Due anni, Sherlock, due dannatissimi, fottutissimi anni! Sparisci dalla circolazione fingendo il tuo suicidio per poi comparire dal nulla con quella tua faccia da schiaffi sperando che ti perdoni?! Una telefonata, una telefonata sarebbe bastata! Da poco ero riuscito finalmente a superare il pensiero di te morto su quel marciapiede, delle mie mani coperte dal tuo sangue! Rachel ne è uscita distrutta, ha avuto gli incubi per mesi!”

“John, ho dovuto farlo per-“

“Per che cosa? Proteggerci? Tu non hai la minima idea della fatica fatta in questi due anni per superare la tua morte, non lo puoi neanche lontanamente immaginare. Se non ci fosse stata Rachel, a questo punto io potrei non essere nemmeno qui. Lei mi ha dato la forza di andare avanti e mia figlia, hai capito bene mia figlia, mi ha salvato. Io e te eravamo tutto ciò che aveva e tu, dannato, sei sparito dalla sua vita come se nulla fosse, facendoti vedere mentre cadevi da un palazzo!”

Non aveva intenzione di dirgli altro. Sbuffava come un toro innervosito dal drappo rosso del torero. Sherlock lo guardò in interrogativo, irritato dall’idea di non capire cosa intendesse John. Forse nemmeno voleva capire.

“Adesso voglio che tu la chiami, la veda e le chieda immediatamente scusa” affermò con il tono autoritario da soldato che non ammetteva repliche.

“Meglio che la chiami tu, se lo facessi io potrebbe morire sul colpo” disse Sherlock tentando di mantenere un’espressione impassibile mentre il suo cuore, sempre che ne avesse uno, stava stranamente perdendo l’usuale autocontrollo, iniziando ad andare per conto suo.

Forse era il pensiero di Rachel distrutta da quell’esperienza che lo faceva sentire così? O il pensiero che John avesse tentato di…

“No. Va tutto bene” impose a sé stesso, ricacciando indietro qualsiasi dubbio.

John non rispose, ma si rese conto che Sherlock aveva ragione. Dio, come era irritante.

“Però ti è mancato”.

“Potresti mettere il vivavoce?” chiese in un bisbiglio il detective, un minuscolo accenno di apprensione nella voce pur di essere accontentato.

Senza nemmeno guardarlo in faccia John attivò la chiamata e, dopo diversi squilli, la voce limpida e giovanile di Rachel risuonò alle orecchie dei tre.

“Pronto? John, che succede?” chiese “Non dovresti essere con Mary?”

“Sì, è qui vicino a me” le rispose John.

“Oh, ciao Mary! Come stai?”

“Ciao cara, tutto bene, grazie” disse Mary con tono dolce, a cui la ragazza rispose con una piccola risata contenta.

“Ascolta tesoro” continuò John “ho bisogno che tu venga subito qui”.

“Qualcosa non va? Dove sei?” gli chiese, mentre l’eco dei suoi passi si velocizzava dall’altro capo del telefono.

L’uomo le indicò la strada e lei gli chiese di rimanere in linea.

“Sentire la tua voce mi tranquillizza” disse sorridendo, mentre il fiato le si accorciava pian piano nella corsa.

“Stai tranquilla, stiamo tutti bene. Non hai bisogno di preoccuparti, se non piuttosto di arrabbiarti” disse con acidità il dottore, squadrando Sherlock.

“Io veramente non capisco… Arrabbiarmi? Aspetta, cosa intendi con tutti? Non siete solo tu e Mary?” chiese la ragazza perplessa.

A quella domanda, John passò il telefono a Sherlock, il quale lo prese con mano ferma, ma le sue certezze vacillarono al solo pensiero di essere rifiutato e odiato anche da lei.

Non l’aveva mai ammesso, ma fin dal primo giorno aveva capito quanto fosse puro l’animo di quella ragazza e solo ora, dopo essere
tornato, si rese conto di cosa aveva effettivamente fatto a lei e a John.

Esitò un attimo, guardando lo schermo del telefono attivo sulla chiamata.

“John?” chiamò la ragazza, non ricevendo risposta.

“Ciao, Rachel” buttò fuori il detective.

Ci furono venti secondi di silenzio, non si sentì più nemmeno il respiro di lei.

Poi il rumore dei passi ricominciò ad uscire dal microfono del telefono, unito ai sussurri della ragazza: “Dio ti prego, ti prego, fa che non sia solo un sogno”.

Pochi attimi dopo si sentì uno scalpiccio che andava nella loro direzione e comparve Rachel, fradicia di sudore e il respiro accelerato.

Come vide Sherlock, un’espressione di furia cieca le deformò il volto, facendole digrignare i denti.

A quella reazione John si spaventò, entrando sulla difensiva. Probabilmente anche Rachel avrebbe preso a testate Sherlock, nonostante la differenza di altezza.

“Qual è il mio nome?” chiese la nuova arrivata, avvicinandosi di qualche passo.

Sherlock rimase in silenzio, quasi sbigottito da quella fermezza e la rabbia che riusciva a percepire nei movimenti e atteggiamenti di Rachel.

“Quale è il mio nome?” insisté l’altra.

“Ra-”

“Dove sei stato?! In questi due anni, dove cazzo sei stato?!” sbraitò all’improvviso la ragazza.

“DOVE?!” gridò ancora.

John tentò di avvicinarlesi, ma lei lo bloccò con un gesto della mano e un “Tu sta fermo dove sei” che chiarirono subito la situazione. Ora era il suo momento di sfuriare.

“Ogni giorno. Ogni notte. Abbiamo sempre pianto la tua morte” fece un respiro profondo per cercare di calmare il tremore che le stava invadendo ogni fibra del corpo.

“Indovina dove ero? Da bravo detective quale sei, credo sia arrivato il momento di fare le tue deduzioni” disse avvicinandosi ancora di più al consulente e mostrandogli le mani sporche di terra.

Sherlock capì al volo e la guardò negli occhi, cercando di chiederle scusa con lo sguardo. In quelli di lei, però, lesse solamente un duro rifiuto, un disprezzo incondizionato verso la sua persona e tutto ciò che lo riguardava, un disprezzo che Sherlock sapeva di meritare, ma che aveva sempre sperato di non ricevere mai.

“Bene, visto che l’unica volta in cui dovresti parlare con cognizione di causa il gatto ha deciso di mangiarti la lingua, te lo dirò io. Ero sulla tua stupidissima tomba, a sostituire i fiori appassiti con quelli nuovi e profumati. Come potrai notare dai miei occhi arrossati, ho provato a combattere da sola tutto il dolore che la tua perdita mi e ci ha causato!” aggiunse con rabbia sempre maggiore.

“E come se non bastasse, mi sono messa anche a parlare con quelle lettere dorate, l’unico ricordo che mi era rimasto di te. Hai una minima idea della portata del dolore che ci hai dato? Eh? Io ho avuto incubi continui e John…” si interruppe bruscamente, girandosi a guardare il soldato, sul cui volto trapelò per un momento il terrore.

Nessuno dei due avrebbe mai dimenticato quella sera, quando John si era reso conto che la sua vita sarebbe potuta finire ancor prima di capire cosa stesse facendo, se Rachel non fosse entrata nella sua stanza. Se non fosse venuta a salvarlo, facendolo uscire da quel torpore dovuto alla depressione e quella continua staticità che si erano impossessate di lui da mesi.

Come quel ricordo le tornò alla mente, tutti i suoi sentimenti si unirono in un unico sfogo di ira che non riversò su Sherlock con le urla, né su John o Mary con le parole, ma sul muro alla sua destra, tirandogli un pugno con tutta la forza e l’adrenalina che aveva accumulato fino a quel momento.

Quando le sue nocche entrarono in contatto con la dura pietra, le sfuggì dalle labbra un gemito di dolore che si concluse con un grido di rabbia e frustrazione, seguito da un pianto silenzioso. Si inginocchiò e Mary le andò incontro, John tentò di trattenersi dallo sfasciare la faccia a Sherlock.

“Bravo. Ci hai protetti alla grande” sibilò tra i denti, raggiungendo le altre due.

Sherlock rimase solo e li guardò prendersi cura l’uno dell’altro, con la consapevolezza che un tempo Rachel e John rivolgevano a lui quelle attenzioni, che ovviamente lui continuava a rifiutare e considerare effimere ed inutili.

“Ho una benda nella borsa” sussurrò Rachel guardando negli occhi John, mentre Mary le accarezzava i capelli con gentilezza e la aiutava a calmarsi.

Il dottore prese la benda dalla borsa che la ragazza portava a tracolla e, quando fu sul punto di medicarle la mano sanguinante, lei lo fermò.

Si alzò lentamente e si avvicinò ancora una volta al detective, senza guardarlo negli occhi. Tutta la spavalderia, l’odio e la rabbia di prima sembravano essere completamente sparite in quell’unico sfogo fisico, come se si rendesse conto in quel momento di ciò che aveva detto, come se volesse tacitamente scusarsi per una reazione più che normale e umana.

Alzò lo sguardo e porse la benda a Sherlock che, con un leggero tremore, si tolse i guanti e prese tra le sue dita lunghe e candide la mano abbronzata e leggermente sudata di lei medicandola con cura, come se quella stessa mano, così piccola in confronto alla sua, fosse sul punto di spezzarsi come una bambola di porcellana, crollando di nuovo dopo essersi appena rialzata.

Quando ebbe terminato, Rachel ritrasse la mano e lo guardò di nuovo.

Sherlock poté leggere ognuno di quei sentimenti che in quel momento si stavano mescolando dentro quegli occhi color smeraldo: odio, paura, delusione, affetto e… perdono.

Possibile? Corrugò la fronte nel vedere una piccola luce illuminare quelle due pietre verdi che fino a poco prima lo volevano incenerire.

Rachel sospirò portando lo sguardo a terra e, quando lo rialzò, Sherlock rimase stranito: sorrideva.

Era un sorriso piccolo ma sincero, quasi rassegnato, come a dire “Che altro mi sarei potuta aspettare da te?”.

Vedendo che le acque si erano calmate, John ne approfittò per mettere una mano sulla spalla della figlia e portarli dentro una tavola calda dove si sedettero, Rachel al fianco di Sherlock.

Quando il detective iniziò a raccontare delle varianti con cui sarebbe riuscito a scappare da quel tetto, gli occhi della ragazza si illuminarono di nuovo, ammaliati come sempre da tanta intelligenza e scaltrezza racchiuse in un solo uomo. Il suo sguardo si incupì quando venne a scoprire che Molly, Mycroft e addirittura dei senzatetto sapevano della sua finta morte, rimanendo particolarmente delusa dal ‘tradimento’ di Molly, che lei considerava come un’amica e confidente.

John rimase indignato a tale confessione e aggredì di nuovo Sherlock, facendoli ritrovare tutti e quattro per l’ennesima volta in strada, l’aria della sera che iniziava a farsi più tersa.

John si allontanò dal trio senza dire nulla in cerca di un taxi.

Quando arrivò, Mary si avviò per prima verso il veicolo, John rimase ad aspettare Rachel con la portiera aperta.

La ragazza decise di non rimanere con Sherlock. Sapeva quanto il detective soffrisse per la nuova vita che John si era fatto, ma sapeva anche che da un lato se lo aspettasse, dopo tutto quel tempo.

“Cosa farai, ora?” gli chiese.

“Andrò a trovare delle vecchie conoscenze” disse Sherlock, alludendo ovviamente a Lestrade, Molly e la sig.ra Hudson.

“Va bene. Io stanotte rimango da John, poi domani tornerò a Baker Street, d’accordo?”

Sherlock le sorrise, grato di sapere che lo amava incondizionatamente e che, nonostante tutto, lui fosse ancora un punto fermo per lei, un secondo padre, più severo e distaccato ma comunque premuroso, a differenza dell’affetto quasi materno di John.

Senza dire nulla, la ragazza si allontanò e raggiunse il taxi, sorridendo a John con amore e sedendosi tra lui e Mary.

Sherlock li guardò andare via mentre la ragazza appoggiava la testa sulla spalla del dottore, il quale inconsciamente sorrise a quel contatto.

Quando il taxi girò l’angolo, il detective si voltò dall’altra parte, allontanandosi nel buio della sua amata Londra notturna. Respirò a pieni polmoni ogni boccata della sua aria fresca che in quegli anni gli era così tanto mancata e, tenendo in mano un fazzoletto insanguinato, si incamminò verso il nuovo inizio della sua vecchia vita. 











Note dell'autrice: Buonsalve a tutti! Ecco che Sherlock fa il suo ritorno sulla scena :3
Spero che anche questa settimana il capitolo vi sia piaciuto. Commenti e critiche sono ben accetti, di qualsiasi tipo! 
Ci vediamo lunedì prossimo con il continuo della storia!
Un abbraccio <3 

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Capitolo 9
*** You're my guardian angel ***


(9) You’re my guardian angel

In poco tempo, al contrario di come John stesso aveva affermato, il dottore perdonò Sherlock. Fu un perdono strappatogli con l’inganno, visto che
John pensava fossero in punto di morte, ma non rettificò mai la sua affermazione. Anzi, gli chiese anche di fargli da testimone di nozze.

Nonostante tentasse di nasconderlo in tutti i modi, Sherlock era terrorizzato al pensiero di dover parlare in pubblico, persino Mary se ne accorse. Lui parlare davanti a chissà quante persone sconosciute? Non esiste!

Sarebbe stata un’impresa riuscire a scrivere il discorso per il matrimonio, “la più difficile della mia vita” aveva detto. In confronto, affrontare un serial killer armato fino ai denti sarebbe stata una passeggiata.

In tutto questo, Rachel lo affiancava ogni secondo.

Non riuscendo a trovare le parole, Sherlock componeva, a volte per giorni interi, senza spiccicare parola o mettere qualcosa sotto i denti a meno che non fosse costretto.

La ragazza vegliava su di lui, senza mai lasciarlo solo.

Così, come regalo personale agli sposi, il detective compose per loro un valzer, ma il problema del discorso sussisteva.

Un giorno Sherlock era seduto alla sua scrivania da più di due ore, tormentandosi i ricci corvini, scompigliandoli di continuo per la frustrazione.

All’improvviso sbatté con forza i pugni sul tavolo, facendo sobbalzare Rachel intenta a leggere un libro seduta sul divano.

“Al diavolo! Come si fa a scrivere un discorso per un matrimonio?!”

Espirava dalle narici come un toro infuriato. Odiava non avere la sua consueta sicurezza.

“Perché non scrivi quello che provi per John?” azzardò la ragazza, chiudendo il libro e avvicinandoglisi.

“John non è così stupido come credi. E non cambierebbe niente. Io non so nulla di queste ‘emozioni’ come le chiami tu” rispose Sherlock, sputando veleno sulla parola ‘emozioni’.

“Vuoi che ti dia una mano?” gli chiese Rachel, sorridendogli.

Il consulente si girò a guardare negli occhi la ragazza. Con lei si sentiva a suo agio, rispettava i suoi spazi e non si aspettava da lui nessuna dimostrazione di affetto come quelle datele da John. Le bastavano quei rari sorrisi che il detective le regalava o la piccola premura che si prendeva di coprirla con una coperta quando si addormentava, stremata, sul divano dopo averlo ascoltato suonare per ore.

Lui, espirando, tornò a fissare il suo pc, aperto su una pagina di documento ancora completamente bianco.

“Sì”.
 
                                                               ************************
 
Il gran giorno arrivò.

Sherlock riuscì a contenere il suo fare beffardo e l’aria gelida dietro dei costanti e goffi atteggiamenti di pura cortesia, mordendosi la lingua ogni volta che era sul punto di sparare a ruota libera deduzioni su quante fossero le coppie presenti in procinto di divorziare, chi fosse un alcolizzato o chi, quel giorno, avrebbe tradito il proprio partner con qualcuno degli invitati al matrimonio.

Poco prima di accompagnare John alla navata, Rachel prese il detective da parte, portandolo su un lato della chiesa.

“Stai veramente superando te stesso, oggi. Nessuno ha ancora avuto la tentazione di tirarti un pugno” rise lei bonariamente.

“Effettivamente, quando mi impegno divento molto più sopportabile” sorrise lui dall’alto del suo metro e ottantacinque, mentre lei era a malapena un metro e settanta.

“Dammi la mano” gli disse.

Sherlock glie la tese, guardandola in interrogativo.

Lei vi appoggiò sopra una collana a forma di angelo argentato, suscitando lo stupore del detective, che alzò lo sguardo verso di lei con le sopracciglia aggrottate e la bocca semichiusa.

“Prima che tu possa dire qualsiasi cosa: so che non sei tipo da queste cose. So che non porti gioielli perché li consideri superflui e pacchiani, infatti non voglio che tu la indossi. Te l’ho regalata semplicemente perché voglio che tu sappia di essere il mio angelo custode”.

“Il tuo cosa?” chiese il detective.

“Angelo custode” rispose lei.

Sherlock osservò quel piccolo oggetto come se provenisse da Marte. Nessuno gli aveva mai fatto un regalo simile e, soprattutto, non gli aveva mai attribuito un significato così profondo.

“Rachel!” gridò la sig.ra Hudson raggiungendoli.

“Oh per l’amor del cielo, ho setacciato mezza chiesa per trovarti! Devi accompagnare John, non ti ricordi?” le chiese trafelata l’anziana donna.

“Ha ragione! Andiamo, Sherlock?” chiese la ragazza con una punta di panico nella voce.

“Arrivo subito” le rispose.

Rachel e la signora Hudson lo distanziarono di qualche passo e dopo pochi secondi, senza che nessuno se ne accorgesse, Sherlock si mise al collo la catenina e la coprì con il colletto della camicia, onde evitare domande indiscrete, avviandosi anche lui verso la chiesa.
 
                                                                               ****************
 
Tutto andò liscio.

Arrivò il momento del pranzo, gli sposi avevano optato per qualcosa di elegante ma non esagerato: una bellissima e semplicissima sala completamente decorata a nozze che dava su un giardino ben curato, piccoli tavoli rotondi con tovaglie bianche, tutti gli invitati disposti secondo ordine di importanza.

Mary faceva sfoggio del ciondolo regalatole da Rachel: un lucente cuore d’argento.
 
Quando tutti ebbero finito di mangiare, Sherlock batté sul bicchiere con una forchetta, attirando l’attenzione di tutti gli invitati e si alzò in piedi per iniziare il suo discorso.

“Bene, come voi tutti saprete, per me non è facile fare questo tipo di discorsi, soprattutto a causa della mia estraniazione dai sentimenti umani.

Fortunatamente ho avuto un piccolo aiuto” disse guardando Rachel. “Vedendo John e Mary insieme, e documentandomi su internet, ho capito che l’amore è un sentimento puro, forte e duraturo”.

“Sempre che non sia un rapporto di convenienza” commentò mentalmente.

“Amore è perdonare, esserci sempre nel momento del bisogno ed essere un sostegno per l’altro. Amore è anche litigio e rabbia, dirsi cose che in realtà non si pensano e poi fare pace. Inoltre, questo è un sentimento che, la maggior parte delle volte, porta molta gioia, perciò questo io auguro agli sposi: gioia. Siete due persone che hanno finalmente trovato ciò che cercavano nella vita e vi auguro di essere felici fino alla fine dei vostri giorni. Grazie” concluse.

Un applauso si levò in mezzo alla sala, quando John si alzò per abbracciarlo.

“Come sono andato?” gli sussurrò il detective.

“Sei stato perfetto” sorrise John sulla sua spalla, causando un piccolo brivido sulla schiena di Sherlock.

Quando il consulting detective si sedette, vide Rachel fissare il vuoto, le mani che le tremavano. Ne sfiorò una con una carezza e la guardò, un leggero sorriso che gli aleggiava sul volto.

 “Andrai benissimo” la rassicurò.

La ragazza rimase sbigottita da quel contatto improvviso, così inusuale per Sherlock.

Alla fine prese coraggio e si alzò, mettendosi dietro agli sposi e appoggiando una mano sulla spalla di John, cercando di controllare l’emozione.

Il dottore si girò a guardare l’amico, chiedendogli con lo sguardo “Che cosa avete confabulato voi due?”.

Il detective gli disse semplicemente in labiale “Ascolta”.

“Salve a tutti. Il mio nome è Rachel e sono qui oggi per parlarvi di John Hamish Watson e Mary Elizabeth Monstran. Mary è la donna più dolce che io conosca. Da quando l’ho incontrata, un pezzetto del mio cuore è appartenuto solo a lei. Siamo entrate subito in confidenza grazie al suo meraviglioso carattere e il suo sorriso materno. Ma la cosa per cui la ringrazierò più di tutti, è aver reso John così felice” disse, mentre Mary le sorrideva con affetto.

“Di solito mi rivolgo a John come ‘papà’ ma non perché io sono figlia di un suo precedente matrimonio, semplicemente perché lo considero un padre a tutti gli effetti, nel mio cuore. Mi ha accolta nella sua vita come se fossi un tesoro prezioso, mi ha tolta dalla strada e dalla violenza, standomi sempre accanto e salvandomi dai miei incubi, aprendomi la prospettiva di una nuova vita piena di belle cose. In poche parole, John Hamish Watson mi ha salvato la vita”.

Quest’ultimo si asciugò una lacrima malandrina che tentava di fuggirgli dall’occhio, ridendo impacciato e stringendo a sé Rachel, che lo baciò sulla fronte.

“Ovviamente però” continuò la ragazza “non lo ha fatto da solo”.

A quel punto Sherlock divenne paonazzo: non sarebbe dovuto finire lì il discorso?

“Voi tutti conoscete Sherlock Holmes come il detective, il sociopatico iperattivo e il completamente esente ai sentimenti umani. Ma io ho avuto la fortuna di vederlo sotto una nuova luce. Per un lungo periodo è stato via, ma io lo sentivo sempre qui, vicino a me” disse portandosi una mano al cuore

“A modo suo mi ha sempre dimostrato l’affetto che prova per me e mi ha fatto sentire la sua amicizia. Ecco perché per me è un punto di riferimento.
Quindi, signori, oggi sono qui per celebrare non solo la felicità degli sposi, ma anche la mia. Perché è grazie a loro e a Sherlock Holmes se oggi posso dire di essere veramente felice”.

La signora Hudson si alzò in piedi per prima, seguita a ruota da Molly e tutti gli altri invitati.

Mary l’abbracciò stretta.

“Quello che hai detto è bellissimo” disse.

“E’ ciò che penso davvero” le rispose.
 
                                                                              ******************
 
In mezzo all’allegria generale la ragazza decise di rimanere in disparte, seduta di fianco a Lestrade, ammirando quello spettacolo di gioia che le scaldava il cuore.

L’umore dell’ispettore non era esattamente quello adatto ad una celebrazione, visto che si era già al terzo bicchiere di wisky.

Vedendo il sorriso dolce che incorniciava il volto della ragazza nel guardare tutti gli invitati così felici, Lestrade capì che John meritava di vedere la sua figlia adottiva ballare e che, diamine! , quello era un giorno di festa, perciò avrebbe potuto abbandonare almeno stavolta quell’aria da uomo frustrato e dal matrimonio distrutto che lo accompagnava ogni sacrosanto giorno della sua esistenza.

Si alzò dal suo posto e tese la mano a Rachel, che lo scrutò divertita.

“Mi concede questo ballo, signorina?” le sorrise.

Lei esitò un attimo, vedendo che Sherlock, John e Mary avevano interrotto le loro danze per guardarla, incoraggianti.

Allora si alzò a sua volta, mettendo la mano in quella dell’ispettore, facendosi guidare al centro della pista e iniziando a ballare. Ci volle qualche minuto prima che Rachel riuscisse a prendere confidenza con quelle poche conoscenze di danza che aveva e a seguire il ritmo altrettanto impacciato del DI, ma alla fine fu un successone.

Dopo l’ispettore fu Sherlock a farsi avanti per ballare con la ragazza. Stavolta, grazie all’eleganza e la bravura del detective, tutti si fermarono a guardarli, John compreso.

Nonostante avesse sempre affermato di non essere omosessuale, il dottore osservava estasiato la figura alta e prestante di Sherlock, mentre nella sua mente i pensieri più disparati si facevano strada senza che lui riuscisse a fermarli.

Il detective si accorse di come John li stesse osservando, ma fece finta di niente. Quando la musica stava per giungere al termine, lanciò una significativa occhiata a Mary, che capì al volo.

Sulle ultime note di quel valzer, Sherlock fece roteare Rachel su se stessa e Mary spinse in avanti il marito, così i due si ritrovarono abbracciati mentre una nuova musica, molto più movimentata rispetto a prima, iniziava a rimbombare nelle loro orecchie.

Quando Mary li raggiunse, Sherlock capì che era giunto il momento di andare. Il suo valzer aveva riscosso un notevole successo e John ne era stato entusiasta.

Così, senza salutare nessuno, inforcò il suo Belstaff e uscì, rifugiandosi nel buio della notte per tornare a Baker Street.
 
                                                               ****************
Una volta finiti i festeggiamenti, anche Rachel tornò a all’appartamento.

Appena aperta la porta di casa, trovò Sherlock intento a guardare fuori dalla finestra, Mycroft seduto sul divano a gambe accavallate, entrambe le mani appoggiate sul suo prezioso ombrello, in una posa fin troppo elegante per trovarsi in un piccolo appartamento nel centro di Londra.

“Oh, buonasera Rachel” le disse il maggiore degli Holmes, mentre il suo tipico sorriso di cortesia gli si stampava sulla faccia.

“Buonasera Mycroft, come stai?”

“Molto bene, ti ringrazio. Beh, dato che sei arrivata, direi che posso anche andarmene. A presto, Sherlock. Aspetto tue notizie” disse con calma, avviandosi lentamente verso la porta.

“Sai che non ne hai bisogno, Mycroft. Direi che bastano tutti i tuoi gatti randagi che fai girovagare per Londra, controllando ogni mio movimento” rispose freddo il fratello minore.

“Con te il controllo non è mai eccessivo, Sherlock” concluse Mycroft, salutando Rachel con un cenno del capo.

Quando la porta fu chiusa, la ragazza si tolse il cappotto e le scarpe, avviandosi verso la sua stanza, quando Sherlock parlò.

“Perché, Rachel?” chiese all’improvviso.

Lei si bloccò sul posto, gelata da quella domanda che, apparentemente, non aveva alcun senso.

“Perché cosa?”

“Perché ti comporti così?”

“Così come?” la ragazza capiva sempre di meno.

“Così come fai di solito” le rispose il detective senza nemmeno guardarla in faccia.

“Sherlock, puoi spiegarti? Non capisco cosa vuoi dire…”

“Oh andiamo! Ti facevo più sveglia!” sbottò l’altro spazientito, voltandosi nella sua direzione.
 
“Guarda come ti comporti ogni giorno! Sei sempre così dolce, a volte mi dai il voltastomaco, perché la tua bocca è sempre piena di belle parole, mai una cattiva! Soprattutto mi stupisce il tuo atteggiamento verso di me. Da quando sono tornato, non mi hai mai rinfacciato una volta la mia finta morte, non mi hai mai sbattuto in faccia il fatto che John abbia tentato di uccidersi a causa mia e che tu abbia avuto gli incubi per mesi, non hai fatto o detto nulla! Hai semplicemente ricominciato come se nulla fosse successo e voglio che tu mi spieghi il PERCHE’!” il detective aveva iniziato ad urlare mentre Rachel lo guardava sconcertata.
 
Sherlock non aveva mai perso il controllo in quel modo, almeno non davanti a lei.

“Allora?!” insistette il consulente investigativo.

“Perché voglio farmi perdonare, Sherlock” ammise la ragazza, gli occhi che le diventavano pian piano lucidi.

“Perdonare?” chiese l’altro, perplesso. Sinceramente non era questa la risposta che si aspettava.

“Sì. Ti ricordi cosa hai detto oggi al matrimonio? Amore è perdonare, amore è litigio, rabbia e dirsi cose che non si pensano. Beh, nei due anni della tua assenza io ho pensato tante cose di te, Sherlock, tante e tanto cattive. Ti odiavo e maledicevo il giorno in cui ti avevo incontrato. Ti odiavo per il modo in cui facevi soffrire John, ti detestavo con tutta me stessa per averci abbandonati dopo tutto quello che abbiamo passato insieme. Pregavo che il mondo si dimenticasse di te e ti cancellasse, perché non sopportavo l’idea di aver conosciuto un uomo meraviglioso come te e che ne fosse rimasto solo il ricordo. Cercavo di colmare la tua mancanza con l’odio e ho pensato e sperato così tante brutte cose che all’inizio mi vergognavo persino a guardarti in faccia. Quindi sì, Sherlock, ho fatto tutto questo non solo perché voglio recuperare il tempo perso, ma anche perché mi sento veramente uno schifo nei tuoi confronti.

Se ti ho regalato quella collana è perché tu sei sul serio il mio angelo custode. Io ti ho sempre sentito vicino durante la tua assenza, anche se cercavo di dimenticarti in qualche modo. Il giorno del tuo ritorno, poco prima che John mi chiamasse, io ero inginocchiata sulla tua tomba a piangere e a pregare per te. E sai cosa ho detto, vero? O almeno, lo puoi immaginare” gli sorrise lei.

Le lacrime ormai scendevano copiose sulle guance arrossate e lisce, mentre la voce si incrinava sotto il peso delle emozioni e del senso di colpa che la attanagliava da mesi, più precisamente da quando Sherlock era ricomparso nelle loro vite sbucando dal nulla.

Il detective la guardò più sorpreso di prima, paralizzato da quello scoppio improvviso. Di solito era John ad occuparsi di queste cose, ma stavolta non c’era.

Erano solo lui e Rachel.

“Torna da noi” le disse, indurendo il suo sguardo più per convincere se stesso che la ragazza che le stava di fronte.

“Esattamente” disse lei facendosi sfuggire una risata amara “E proprio due secondi dopo sei riapparso.        Il tempismo è sempre stato una tua caratteristica peculiare”.

Sherlock rimase in silenzio, pensieroso.

“Perché dovresti farti perdonare una cosa più che giusta?” le chiese con un tono quasi infantile, come un bambino quando non capisce un concetto.

“Che stai dicendo?”

“Rachel, è ovvio che tu mi abbia odiato con tutta te stessa. Ma anche tu lo hai ammesso, quelle cose erano semplicemente dettate dalla rabbia e dal dolore. Tutti quelli umani e sensibili come te avrebbero reagito nello stesso identico modo. Quindi perché dovresti farti perdonare una reazione così normale?”

La ragazza non riuscì più a trattenere i singhiozzi, nascondendo il volto tra le mani e inginocchiandosi.

Sherlock le si avvicinò piano e le si accucciò accanto, sollevandole delicatamente il volto contratto dallo sforzo del pianto.

Lei teneva comunque gli occhi bassi, mortificata.

Lui non le disse niente, si limitò ad accarezzarle il viso e ad asciugarle le lacrime che le cadevano sul collo e che le bagnavano i capelli ai lati delle guance.

Poi anche Rachel alzò lo sguardo e incrociò gli occhi del detective, il quale dolcemente le sorrise. E proprio in quel momento, entrambi si donarono il perdono reciproco.


























Note dell'autrice: Buonasera! Oggi purtroppo pubblico tardi perché in questi giorni non ho mai avuto tempo! 
Ringrazio come sempre chiunque stia seguendo la storia e si aggiorna ogni settima, spero vivamente che la fanfiction non stia diventando troppo "dolce da voltastomaco", per citare il nostro Holmes ;'3 
Comunque, in questo capitolo ho riassunto in pochi gesti il rapporto che con il tempo si è creato tra Rachel e Sherlock, che ovviamente è più freddo rispetto a quello che lei ha con Watson, ma a modo proprio sincero e forte. 
Augurandomi che la storia vi stia piacendo e non annoiando, vi do appuntamento al prossimo lunedì.
Buona settimana e un abbraccio a tutti! <3 

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Capitolo 10
*** Just shut up ***


(10)  Just shut up

Spesso è difficile prevedere quando si raggiunge il limite.

Capire quando giunge il momento di tacere, lasciare che le cose proseguano lungo il loro corso, così come il destino ha già predisposto.

Ma Sherlock Holmes non credeva nel destino.

La sua razionalità lo aveva sempre spinto a credere che il futuro una persona se lo crea da sé, che nulla è già scritto, che la vita è solamente un enorme libro dalle pagine bianche ancora tutte da scrivere.

Sherlock Holmes era un uomo molto intelligente.

La sua mente sembrava una sorta di enciclopedia tascabile, conosceva tutto sopra gli argomenti più disparati e strani, tematiche che una persona normale non si sarebbe sognata nemmeno di nominare.

Nonostante si definisse un sociopatico iperattivo e la sua natura umana fosse nascosta al mondo intero tranne che a John Watson e pochi altri fortunati, come tutti anche lui aveva pregi e difetti.

E il più grave di questi difetti, era la sua incapacità di capire l’animo umano, i sentimenti… e comprendere quando giungeva il momento di stare in silenzio.

Adorava mettersi in mostra.

Adorava provocare i criminali con i suoi interminabili discorsi da far venire il mal di testa.

Non sprecava mai occasione per dimostrare quanto lui fosse sveglio, intelligente, furbo, perspicace.

Era un maniaco del perfezionismo e dell’esibizionismo.

E fu proprio il suo esibizionismo a portarlo sull’orlo del baratro, gettandogli addosso un’ombra nera di colpa.

A causa del suo voler continuamente mettersi in mostra, spremere la mente delle persone fino all’ultima goccia, Mary morì.
 
 
 
Successe tutto in un attimo, senza che lui potesse fare nulla.

Il colpo partì, il bossolo scivolò a terra, la polvere da sparo sulle dita della donna, Mary gli si gettò davanti, il petto le si macchiò di sangue.

Il detective le si affiancò immediatamente, lei gemente al suolo dalla paura e dal dolore.

La rassicurò, dicendole che tutto sarebbe andato per il meglio, ma nemmeno lui ne era certo.

Vide gli occhi di quella donna che piangevano, vide le lacrime bagnarle il volto, le iridi consapevoli che non avrebbe mai più guardato il volto della sua adorata bambina, che non avrebbe mai più abbracciato con lo sguardo il viso di suo marito.

“Mycroft, chiama un’ambulanza” si appellò al fratello, il panico che gli fece tremare la voce.

Stava morendo, sapeva che i soccorsi non sarebbero mai arrivati in tempo.

“MARY!”

Un nome pronunciato con disperazione, incredulità e una silenziosa preghiera dentro di esso.

Quando il detective vide John raggiungere sua moglie, sentì il suo mondo andare completamente in pezzi.

Aveva promesso di proteggerla, di tenere al sicuro la famiglia Watson, perché in fondo erano tutto ciò che aveva.

Voleva bene a Mary nonostante tutto. Nonostante fosse la moglie di John, nonostante gli avesse sparato, nonostante avesse sempre mentito al suo migliore amico.

Quel piccolo nucleo familiare era la luce delle sue giornate e per mantenere almeno in parte quella sua personale felicità, si era assunto la responsabilità della vita di tutti e tre, insieme a Rachel. Ma non era riuscito a mantenere quella promessa fatta con
sincerità, una di quelle poche volte in cui aveva permesso alla sua umanità di fare capolino dietro la sua fredda indifferenza quotidiana.

“Mary, Mary, sono qui” disse il dottore, cercando lo sguardo della moglie ormai fin troppo debole.

“Mary, non te ne andare, ti prego” implorò con gli occhi lucidi.

La donna lo guardò con tristezza, facendogli capire con una sola occhiata che non ci sarebbe stato un domani, né per lei né per il loro matrimonio.

Lo ringraziò a cuore aperto, dimostrandogli tutto l’amore che non aveva mai espresso a parole, piangendo amare lacrime di rimpianto per una così breve felicità, sapendo però di aver fatto la scelta giusta lasciando John in buone mani. Accanto a Sherlock.

Pianse anche per la sua bambina, consapevole di non poterla veder crescere, ma sicura che John sarebbe stato un ottimo padre. Pianse per il terrore e la sofferenza, ma sentì il peso delle responsabilità scivolarle di dosso, andandosene insieme alla sua linfa vitale.

Quando chiuse gli occhi per l’ultima volta, una parte di John Watson si spense insieme a lei.
 
 
John non era arrabbiato. Era furioso, iracondo.

Guardò Sherlock con occhi gelidi, sentendo montare un disprezzo che mai aveva provato prima.

Quell’uomo gli aveva portato via due anni della sua vita, lasciandolo con una voragine vuota in mezzo al petto.

Gli aveva dato la possibilità di ricominciare da capo, poi aveva fatto finta di uccidersi.

Una volta tornato sua moglie muore, sacrificandosi pur di salvare quella faccia da schiaffi.

Nemmeno il rammarico nell’espressione detective riuscì a smuoverlo, sentì il cuore gelarglisi, i muscoli intirizzirsi come dopo una secchiata d’acqua fredda.

“Tu. Tu avevi fatto un voto”

Non urlò, non sbraitò, non disse nulla oltre a quella frase.

Guardò Mary un’ultima volta, sentendo le sirene dell’ambulanza accompagnare quella sera così buia.

Si alzò senza nemmeno guardare in faccia il consulente, decidendo in quel momento che l’uomo era ormai un capitolo chiuso della sua vita.

Non lo avrebbe rivisto mai più, lo avrebbe semplicemente evitato come si evita la peste.
 
 
Rachel quella sera era rimasta a casa a guardare un po' di TV, beandosi del camino che rendeva caldo e confortevole il salotto, avvolgendosi in un pile e spalmandosi sul divano in un dolce far niente, sicura e felice.

Poco dopo sentì il portone di Baker Street aprirsi, seguito dai passi pesanti del detective.

Probabilmente Sherlock non aveva avuto un caso decente per le mani, il che preannunciava un fine serata con i fiocchi, costellato da continue lamentele e scenate da crisi d’astinenza da casi e sigarette.

La ragazza fece un profondo respiro, invocando ogni santo del paradiso per darle la forza necessaria di sopportarlo ancora una volta, evitando di prenderlo a sediate sulla schiena per farlo tacere.

Quando vide il consulente sull’arco della porta, i suoi sensi andarono immediatamente in allerta.

“Sherlock, cos’è successo?” chiese alzandosi in piedi di scatto, seguendo con lo sguardo il detective che si mise seduto sulla sua poltrona nera, senza nemmeno togliersi il cappotto.

Non ricevette risposta, perciò seppe che qualcosa di irreparabile era appena accaduto.

La prima idea che le balenò nella mente fu la droga, perciò corse a controllare che le pupille di Sherlock non fossero dilatate, constatando con sollievo che si adeguavano perfettamente alla fioca luce della stanza.

Gli mise una mano sul polso e si accorse che aveva il battito accelerato, perciò doveva essere in stato di shock.

“Sherlock. È successo qualcosa a John?” chiese con preoccupazione, implorando il consulente con lo sguardo.

Quest’ultimo non le rispose di nuovo, ma tirò fuori dalla tasca del cappotto una collana.

La catenina con il cuore d’argento che Rachel aveva regalato a Mary per il matrimonio.

La appoggiò con delicatezza nelle mani della ragazza, che la guardò con gli occhi sbarrati e un’enorme paura crescente che le assaliva il cuore.

Quando alzò gli occhi sul detective, lui la fissava con sguardo vacuo, vuoto.

“Cristo” imprecò lei stringendo la collana tra le dita “Tu stai bene? Sei ferito?”

Per l’ennesima volta non ottenne risposta.

Accarezzò piano una guancia di Sherlock, il quale chiuse gli occhi con rassegnazione.

Non l’aveva mai visto così e tremò al solo pensiero di come avrebbe potuto trovare John.

“Mi dispiace” riuscì solo a dire il detective, aprendo le sue iridi chiare sul volto della ragazza, tanto teso quanto dolce.

Lei lo abbracciò senza dire una parola, stringendolo piano e correndo poi nella sua stanza.

Si cambiò in un attimo, pronta ad uscire.

“Forza, Sherlock, alzati” disse tornando in salotto ed infilandosi il cappotto.

“Cosa? Dove andiamo?”

“Tu vai da Mycroft”

“Perché?”

“Perché non posso portarti da Molly, vedere Rosie sarebbe una carica emotiva eccessiva persino per te. Se ti lasciassi dalla signora Hudson tenterebbe di sollevarti il morale ed inizierebbe a parlare a ruota libera di qualsiasi cosa, il che ti porterebbe a risponderle male o solo Dio sa cos’altro. Perciò ti porto da Mycroft, l’unico capace di darti conforto con il suo solo silenzio” concluse lei spingendolo fuori dall’appartamento e scendendo le scale.

“Beh… Direi che hai appreso bene le mie tecniche” assentì lui con un piccolo sorriso tirato.

Lei non disse nulla, chiamando un taxi e dando le indicazioni per la villetta di Mycroft.

“Tu sai dov’è John?” gli chiese Rachel dopo qualche minuto di viaggio.

“Probabilmente sarebbe voluto tornare a casa, ma aveva paura di essere assalito dai ricordi di Mary. Sa che Rosie è da Molly, perciò è tranquillo che lei sia al sicuro. Tu… Sa che lo raggiungerai non appena ne avrai la possibilità, mentre io non sono più un suo problema” disse recuperando il suo naturale stato di freddezza grazie alle deduzioni, nonostante i suoi occhi tradissero una profonda tristezza “Perciò sarà andato al solito pub a bere una birra per riuscire ad affogare una parte di tutta la sofferenza nell’alcol. Quel pub però è lo stesso dove va con Lestrade ogni giovedì e, dato che oggi è giovedì, probabilmente avrà incontrato l’ispettore. Raccontandogli tutto, Goomer lo avrà invitato a stare da lui per la notte, oppure avrà ricevuto una chiamata per un caso improvviso e lo ha portato con sé. Perciò o è a casa di George, oppure a New Scotland Yard”.

“D’accordo, grazie Sherlock” gli sorrise lei con affetto.

Quando giunsero a casa di Mycroft videro la luce del salotto accesa, fortunatamente il maggiore degli Holmes era ancora sveglio.

“Ti mando un messaggio più tardi, va bene? E per favore, Sherlock, non fare idiozie” gli disse ancora con apprensione.

Lui le sorrise solamente e scese dalla vettura dirigendosi verso la porta color bianco panna, mentre lei lo osservava dal taxi per assicurarsi che entrasse davvero in casa, salutandolo con un cenno della mano.
 
 
Si fece portare al pub che Sherlock le aveva indicato e pagò la corsa, cercando con lo sguardo John o Lestrade.

Non vedendo nessuno prese il cellulare e compose il numero dell’ispettore.

“Greg, ciao, sono io”

“Oh, Rachel, ciao” rispose l’ispettore con voce flebile “Ho saputo di Mary, mi dispiace tanto”

“Anche a me, Greg, anche a me…” disse la ragazza, chinando il capo e guardandosi le scarpe “Ad ogni modo, John è con te?”

“Si, è qui con me a Scotland Yard. L’ho incontrato al pub e ho visto la sua faccia da funerale. Mi ha raccontato tutto e non me la sono sentita di lasciarlo da solo. Ho ricevuto una chiamata improvvisa e l’ho convinto a venire qui con me “

“Che Dio ti benedica, Lestrade. Arrivo subito”
 
Cinque minuti dopo Rachel entrò correndo nella stazione di polizia di NSY.

“Rachel, dove stai andando?” le chiese Anderson parandolesi davanti per fermarla.

“Phil, per piacere, spostati devo trovare Gregory” disse lei riprendendo fiato.

“Il capo al momento è occupato” disse acidamente una voce spiacevolmente familiare alle loro spalle.

“Donovan… Devo dire che non è affatto un piacere vederti” rispose Rachel con tono altrettanto acido.

“La cosa è reciproca. Come ti ho già detto, l’ispettore al momento non è disponibile, perciò sei pregata di levarti dai piedi”

“Non è vero, Sally. Greg è con mio padre e io sono venuta qui apposta per lui. Perciò fammi il favore di stare in silenzio e tornare a fare il tuo lavoro” continuò la ragazza con insolita durezza.

“Hey mocciosetta, datti una calmata. Se John è qui, come mai non c’è il freak?”

“Smettila di chiamarlo freak. Sherlock non è un freak. Non permetterti di parlare così di lui”

“Oh va bene. Comunque dicevo che è strano che il freak” continuò Donovan incalzando sull’ultima parola “non sia qui. Dove se ne va senza il suo cagnolino?”

Le mani le fremevano dalla rabbia, il respiro si fece più pesante nell’invano tentativo di calmarsi.

“Il nome del cagnolino, come lo chiami tu, è John. E John è qui con Lestrade perché Mary è appena morta e Greg non se l’è sentita di lasciarlo da solo!” sbraitò la ragazza facendo diversi passi verso Sally, fino ad arrivarle a pochi centimetri di distanza dal volto.

Nonostante Rachel fosse qualche centimetro più bassa della donna, lo sguardo furente che le deformava il volto servì a farla finalmente tacere.

“I-io non-“

“Stai zitta. Hai già fatto una figura da schifo, perciò meglio che tu te ne vada prima di peggiorare la situazione. Oh, un piccolo appunto. Visto che ti credi tanto intelligente, qualche volta cerca di farlo funzionare quel cervello, ti risparmierà tante grane. Ciao,
Donovan” concluse l’altra dandole le spalle e superando Anderson che la guardava allibita.

Sentendo la ragazza gridare, tutti i poliziotti che in quel momento si trovavano in stazione avevano interrotto le loro attività ascoltando l’incredibile figuraccia di Sally, la quale se ne era andata a capo chino e livida di rabbia.

John aveva riconosciuto la voce di Rachel non appena aveva parlato con Anderson, così lui e Lestrade si erano affacciati dalla caffetteria per vedere cosa stesse succedendo, sorridendo entrambi con soddisfazione alle risposte pronte di lei.

Non appena la ragazza li riconobbe corse incontro a John per abbracciarlo, così che lui potesse nascondere il volto nei morbidi ricci di sua figlia adottiva, lasciandosi scivolare addosso il dolore come un’enorme ondata che lo travolse pienamente, facendogli tremare le gambe.

Non singhiozzò, ma si lasciò cullare dal calore di Rachel e dalle sue parole rassicuranti, mentre Lestrade si sedeva per finire con calma il suo caffè, chiedendosi se sua figlia, una volta cresciuta, lo avrebbe mai abbracciato in quel modo.  
 
 
 
Note dell'autrice: Ciao a tutti! Finalmente sono tornata con la mia long! Sono emozionata *^* Perdonatemi il lungo periodo di assenza, ma per cause di forza maggiore ho smesso di pubblicare per un pò e ho anche avuto modo di rimettere mano ai capitoli già scritti ma ancora non pubblicati. Ho fatto molte modifiche, vedo il mio stile molto cambiato, quasi più maturo e di questo sono molto felice. I capitoli 5 e 6 li ho praticamente riscritti da capo perché non mi piacevano, erano troppo simili alla serie TV, perciò chi ha letto la versione precedente, penso che probabilmente preferirà quella di adesso! Quindi eccovi il capitolo 10 <3 Non vi garantisco la pubblicazione regolare di ogni lunedì come facevo prima, però cercherò di fare il possibile, promesso. Detto questo, come sempre critiche e/o recensioni sono ben accette. Buona lettura e alla prossima! <3 
 

 
 
 
 
 
 

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Capitolo 11
*** You need me ***


(11) You need me

I ricordi sono dei coltelli.

Armi bianche, taglienti, che ti colgono alla sprovvista e da cui non puoi fuggire.

Ottenebrano la mente e afferrano ogni neurone ancora funzionante del cervello, spingendoti a pensare ad un particolare evento o momento della tua vita.

Più tu ti opponi, più vieni spinto.

John Watson sentì per mesi quel peso.

Giorno dopo giorno delle lame affilate gli penetrarono la carne e lo ferirono nel profondo.

Secondo dopo secondo, John Watson morì lentamente.

Cercò di farsi forza osservando gli occhi azzurri della sua piccola Rosie, incrociando quelli verde smeraldo di Rachel.

Ricordava Mary, sognando sempre la sua morte, il sangue di lei nelle sue mani impotenti.

Poi vedeva il sangue di Sherlock coprire il duro asfalto del Bart’s mentre lui osservava allibito.

Una notte si svegliò urlando.

Non appena aprì gli occhi, quel grido di dolore si trasformò in pura rabbia, dove il soldato chiese a sé stesso perché gli fosse dovuto capitare un destino del genere.

Da quando aveva quegli incubi persistenti, Rachel aveva portato Rosie a dormire nella sua camera, per evitare che venisse disturbata dalle grida del padre.
 


Il mattino dopo, Rachel trovò John in cucina con i capelli spettinati, il pigiama sgualcito e sudato.

“Di nuovo?” chiese lei mettendo a bollire l’acqua per il tè.

“Sì” ammise lui con un sospiro, rigirandosi tra le mani la tazza ancora vuota.

Lei gli si sedette di fronte, accarezzandogli piano un braccio.

“John, non puoi continuare così. Hai delle occhiaie molto profonde, non riesci quasi più a dormire. Se almeno provassi ad accettare di nuovo Sherlock nella tua vita, le cose potrebbero cambiare” gli suggerì Rachel con dolcezza.

“No, non cambierebbe niente. Ed io non riuscirei mai ad averlo di nuovo con me, non dopo ciò che è successo a Mary” rispose sottovoce il dottore.

“John, non è così. La colpa non è stata di Sherlock, ma dato che non sai con chi prendertela perché è stata una cosa totalmente imprevedibile, addossi tutto a lui solo perché aveva promesso di proteggerci”

“Non lo aveva promesso, Rachel, lo aveva giurato. Aveva fatto un voto”

“Voto che lui ha rispettato nei suoi limiti. John, se avesse dovuto difenderci veramente come aveva giurato, ci sarebbe dovuto stare addosso ventiquattro ore al giorno e sarebbe stata una cosa impossibile. Lui ha sempre tenuto d’occhio te, Mary e Rosie da lontano, vi ha sempre osservati e anche grazie a Mycroft si è assicurato che non vi accadesse nulla di male. Io ero lì con lui, John, sentivo le sue conversazioni al telefono” continuò lei con convinzione, stringendogli il braccio come segno di incoraggiamento.

“No” disse l’ex soldato ritraendosi dalla presa della ragazza.

“No?”

“No, Rachel. Io non ho la minima intenzione di accettarlo di nuovo. Gli ho perdonato due anni di assenza, ma non gli perdonerò mai la morte di mia moglie”

“Ancora? John, per l’amor del cielo, non è stata colpa sua! Come te lo devo far capire?”

“Chi ha provocato quella donna, Rachel? E’ stata forse Mary, per caso? È stata lei a spingerla a sparare?” disse lui alzandosi in piedi, appoggiando le mani sullo schienale della sedia.

“Non è stato nemmeno Sherlock. L’unico sbaglio che ha commesso è stato quello di lasciarsi trasportare dall’esibizionismo, ma non è certo il colpevole per la morte di tua moglie” rispose lei cercando di sembrare ferma.

“E grazie al suo stupido esibizionismo quella donna ha sparato, così Mary è morta”

“Non è stato di certo lui a chiedere a Mary di gettarglisi davanti. La donna che amavi si è sacrificata per salvare il tuo migliore amico. Ha visto quanto hai sofferto e ha scelto di morire, di rinunciare alla sua felicità per preservare la tua. Sai che Mary non vorrebbe questo” gli rispose infine, passandosi una mano sul viso per scacciare la tristezza e la stanchezza che affrontare quell’argomento le provocava.

“No, non lo so. Perché nemmeno io so più cosa pensare. La vedo ovunque. Vado a fare la spesa, lei è lì. Vado a letto, la vedo sdraiata al mio fianco ed ho l’istinto di abbracciarla. Poi come se non bastasse, ogni volta che mi avvicino a Baker Street immagino Sherlock uscire da un vicolo e so che lo ammazzerei di botte, oppure gli urlerei in faccia, oppure… Non lo so”

“Non lo faresti, John. E proprio per questo voglio che tu torni da lui. È una presenza necessaria per te, lo è sempre stato, anche quando avevi Mary. Tu hai bisogno qualcuno che ti faccia sentire vivo, che ti dia modo di avere la testa occupata, che ti ami a modo proprio, ed è proprio quello che Sherlock sta tentando di fare”

“Smettila, Rachel. Tu non sai cosa significa vedere sempre le mie mani sporche del sangue di Mary, del sangue di Sherlock. Non dormo più, qualsiasi azione quotidiana è diventata per me un peso enorme che mi lascia con un vuoto incolmabile perché io non so cosa farne della mia inutile vita” disse John alzando la voce, iniziando a dimostrare un nervosismo che mai Rachel aveva visto in lui.

“John, la tua vita non è inutile. Sei semplicemente combattuto su cosa pensi sia giusto e cosa no. Torna da Sherlock, te ne prego. Lui potrà aiutarti. Anche se non ha fatto nulla di male, continuerà a farsi perdonare giorno dopo giorno. Ne hai bisogno, papà”

“Adesso basta! Stai zitta!” urlò lui chinando il capo e stringendo con forza la sedia “Non tentare invano di capirmi, perché non puoi! Nessuno può! Nessuno saprà mai cosa significa veder morire chi si ama e sentirsi in dovere di allontanarsi da una delle persone più importanti della propria vita!”

“Ma ti ascolti, John? Tu stesso hai detto che ti ‘senti in dovere’ di stare lontano da Sherlock, il che significa che in realtà tu non vuoi la sua lontananza, ma hai bisogno della sua presenza specialmente in un momento come questo!” insistette la ragazza alzando a sua volta la voce per riuscire a sovrastare la rabbia del dottore.

“Taci una buona volta! Tu non sai come ci si sente!”

“PERCHE’ TU LO SAI?!” gridò all’improvviso Rachel, sbattendo i palmi delle mani sul tavolo.

L’ex soldato la guardò stralunato, sorpreso da una reazione così violenta e repentina.

“Tu sai cosa si prova, John? Eh? Tu sai cosa si prova nel vedere la propria figura di riferimento che si punta una pistola alla testa?” disse lei fissandolo con furore “Sai cosa si prova nell’avere timore a lasciare quella persona da sola, vivendo ogni giorno con il terrore di poter trovare i muri macchiati di sangue e cervella, un bossolo accanto ad un cadavere steso a terra? Sai cosa significa sostenere un uomo adulto che si sta lasciando andare pur avendo una bellissima figlia di pochi mesi di cui prendersi cura? Tu, John, ti stai lasciando morire. Te ne rendi conto, vero?

Pensavo che io e Rosie fossimo due buoni motivi per continuare a vivere e combattere, ma a quanto pare non è così” concluse con amarezza, uscendo dalla cucina.

L’ex soldato non disse nulla, seguendola con lo sguardo mentre se ne andava.

In quel momento la realtà arrivò agli occhi del dottore come un pugno nello stomaco.

Per anni lei era rimasta al suo fianco.

Non lo aveva mai lasciato, lo aveva amato come un padre dal primo giorno.

Si aiutavano a vicenda nelle difficoltà, in una complicità a volte incredibile.

Si rese conto di aver passato tutta la sua vita ad autocommiserarsi, dopo la guerra, dopo la finta morte di Sherlock, ora dopo Mary.

In tutta la sua esistenza non aveva mai avuto nulla di costruttivo che non fosse la guerra.

Ora che aveva due figlie a cui badare, una famiglia da amare e di cui prendersi cura, accecato dal dolore, non lo capiva.

Era facile piangersi addosso, cadere, soffrire e rialzarsi con lentezza quasi esasperante, in attesa che qualcuno accorresse in suo aiuto.

Ripensò alla notte del suo tentato suicidio.

Se non ci fosse stata Rachel, cosa sarebbe accaduto?

Probabilmente non sarebbe più nemmeno vivo. Se ne sarebbe andato da questo mondo come se nulla fosse, fuggendo dal dolore e tutto ciò che esso comporta.

Si sentiva un vigliacco, in quel momento, capendo che lui aveva sempre combattuto due tipi diversi di guerra, ma sempre per gli altri, mai per sé stesso.

Non aveva mai combattuto per la sua felicità. Ora che aveva l’occasione di essere felice, buttava tutto a monte, temendo che quella fosse un’altra apparenza di gioia, che sarebbe stata spazzata via dal vento come un castello di carte.

“Rachel…” chiamò sottovoce.

La ragazza si fermò sull’arco della porta, guardandolo.

“Se per me non ne vale la pena, almeno cerca di tirarti su per Rosie. Lei ha bisogno di suo padre” concluse uscendo di casa, sbattendo con forza la porta e incamminandosi verso Baker Street.

“Cazzo…” disse John in un lungo e stanco sospiro.

Andò in camera di Rachel e vide che Rosie si stava svegliando, aprendo la piccola bocca in uno sbadiglio assonnato. La prese in braccio e la cullò con dolcezza, tornando in cucina per darle il latte.

Mentre il biberon si scaldava, l’ex soldato si sedette a tavola accanto al seggiolone di Rosie, lasciandola giocare con un pupazzetto che Sherlock le aveva regalato per il suo primo Natale.

La guardò bearsi di quel piccolo pezzo di stoffa imbottito, sorridendo contenta, alzando poi quegli enormi occhi azzurri sul dottore che rimase incantato dalla bellezza di sua figlia.

Appena arrivato a Londra non si sarebbe mai immaginato di poter diventare padre.

Non pensava nemmeno alla possibilità di avere qualcuno da amare in maniera così profonda e sincera come quel piccolo batuffolo che ora era accanto a lui.

La bimba lasciò andare il pupazzetto sul tavolo, alzando le mani paffute verso il viso di John, il quale le si avvicinò.

Lei appoggiò le piccole dita sulle guance del dottore, ridendo gaiamente con la sua boccuccia ancora priva di denti.

Un’incredibile calore improvviso avvolse il petto dell’ex soldato in un caldo abbraccio e gli riempì gli occhi di lacrime, dandogli finalmente modo di godere appieno e gioire di quel momento così intimo e semplice che non era mai riuscito ad assaporare del tutto.

Era stato cieco, ora lo sapeva.

Aveva amato Mary, gli aveva regalato quell’incredibile dono che era loro figlia.

L’aveva amata ma qualcosa sembrava non andare più nel loro matrimonio, in lui, come se non gli bastasse più.

Ripensò a Sherlock.

Ripensò agli anni che avevano trascorso insieme, i casi che avevano affrontato e risolto per mezza Londra.

Ripensò a quel carattere così irritante eppure alle volte così dolce nella sua semplicità, nei gesti.

Ripensò a tutte le volte in cui aveva chiuso la bocca ad Anderson e Donovan, mentre lui rideva beatamente della scaltrezza del suo migliore amico.

Ripensò al guscio vuoto che era prima di incontrare il detective, Rachel, Mary, prima di avere Rosie.

Era triste, solo, senza nessuno al suo fianco e senza la minima idea di ciò che sarebbe stato di lui.

Ripensò a quanto quelle poche persone che aveva incontrato avessero cambiato in modo indelebile il corso della sua vita.

Ripensò a quanto tutto fosse iniziato con Sherlock.

Quel cappotto lungo, quei ricci neri come l’ebano, quella pelle marmorea, quel fisico asciutto e perfetto, quegli occhi di ghiaccio che ogni volta lo inchiodavano sul posto, quella voce baritonale e rassicurante.

Quelle mani lunghe e affusolate, curatissime e che con in mano archetto e violino erano in grado di creare la perfetta sinfonia della sua felicità.

Ripensò alle notti insonni di Sherlock che lo controllava, che vegliava su di lui e che non appena lo sentiva avere un incubo correva in suo soccorso. Apriva di slancio la porta della sua stanza e andava a consolarlo, calmarlo con la sua presenza, le sue parole, il suo calore.

John ripensò a quanto fosse stato stupido nel non capire cosa veramente Sherlock significasse per lui, lasciandosi annebbiare la mente dalle convenzioni sociali, da quel “non sono gay” che non gli aveva mai permesso di vedere da un altro punto di vista il legame che aveva con il detective.

John Watson guardò sua figlia, immergendosi completamente nella calma che quelle iridi blu mare come le sue emanavano, amandola con tutto se stesso come mai aveva fatto fino a quel momento.

Vide quel piccolo tesoro prezioso che gli accarezzava il volto e che raccolse con una manina l’unica lacrima che l’ex soldato si permise di lasciar scendere, trovando finalmente significato alle parole di Rachel.

“Se per me non ne vale la pena, almeno cerca di tirarti su per Rosie. Lei ha bisogno di suo padre”

“Tu hai bisogno di me” disse sottovoce, avvicinandosi ancora di più per sfiorare il suo naso con quello della figlia.

Come se avesse capito, la piccola batté le manine sulle guance del dottore, come se cercasse di fargli un applauso, di assentire a ciò che aveva appena detto.

“Oh, tesoro mio” sorrise il dottore prendendola in braccio e stringendola a sé, baciandole con amore la fronte.

Guardò fuori dalla finestra osservando il cielo plumbeo e la strada pullulante di persone, anime che non potevano opporsi all’inesorabile scorrere del tempo, così come lui.

Corse in camera sua e si cambiò al volo mettendo una camicia a quadri azzurra e nera con un paio di pantaloni scuri. Si pettinò i capelli all’indietro, si sciacquò la faccia e tornò di sotto, prendendo in braccio la piccola ed uscendo in strada pronto a raggiungere il suo vecchio appartamento.

Decise che era giunto il momento di smettere di fuggire, di autocommiserarsi.

Avrebbe risolto più avanti insieme a Sherlock la questione sulla morte di Mary, ne era certo.

L’unica cosa che sapeva di volere in quel momento, era rimettere insieme non solo la sua famiglia, ma anche il suo cuore a pezzi. 

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Capitolo 12
*** You deserve to be happy ***


(12) You deserve to be happy

Arrivò poco dopo a Baker Street, marciando come ai vecchi tempi.

Avrebbe potuto prendere un taxi, ma sentiva l’adrenalina scorrergli in corpo al punto di rendergli impossibile anche solo pensare di sedersi.

Il suo turbinio di pensieri venne bruscamente interrotto nel vedere la limousine nero lucido, una macchina extra lusso che avrebbe riconosciuto tra mille: Mycroft.

Subito un leggero timore lo assalì, perché non sapeva per quale motivo il maggiore dei fratelli Holmes si fosse presentato lì.

Cercò di tranquillizzarsi, tentando di autoconvincersi che si trattasse semplicemente di un caso di importanza nazionale, più complicato degli altri e per cui fosse necessario l’intervento di Sherlock.

Quando però vide Rachel uscire di corsa da Baker Street e aprire lo sportello con foga mentre parlava al telefono, ogni suo tentativo divenne vano.

“Lestrade, sto arrivando. Dobbiamo setacciare l’intera città, non può essere sparito così!”

Solo questo John riuscì a captare della conversazione telefonica della ragazza, il che non gli piacque affatto.

Salì le scale il più velocemente possibile, dovendo fare attenzione dato che aveva Rosie con sé, e raggiunse il salotto in un lampo, trovandolo pieno zeppo di agenti dell’MI6 che curiosavano tutt’ intorno, in mezzo alla stanza Mycroft e la signora Hudson che parlavano tra di loro.

“Signor Watson, che piacere vederla”

“Oh John, caro, finalmente è qui!” disse la donna con un pizzico di apprensione.

“Signora Hudson, che sta succedendo?” chiese l’ex soldato appoggiando la piccola sulla sua poltrona rossa, assicurandosi che non cadesse.

“Stiamo facendo delle ricerche, signor Watson. Riguarda mio fratello” rispose Mycroft con il suo tipico sorriso di cortesia.

“Droga?” chiese immediatamente l’altro.

“No, dottor Watson. È proprio mio fratello che stiamo cercando”

John si guardò attorno, vedendo tutti quegli uomini in divisa scura che frugavano tra le cose che erano state sue e di Sherlock. Non stavano cercando droga, non erano lì per un caso. Non sapevano dove si trovasse Sherlock, nemmeno l’MI6 era riuscito a trovarlo.

“E’ scomparso, non è vero?” chiese con voce flebile, come se anche solo formulare quel pensiero lo distruggesse completamente.

“Sì. Non abbiamo la minima idea di dove sia”

“Non è possibile” pensò, mentre sentiva la preoccupazione montargli dentro.

“Dove lo avete cercato?” chiese, appellandosi alla sua fermezza di militare.

“Ovunque, signor Watson. Abbiamo praticamente girato tutta la città, ci siamo addirittura rivolti a New Scotland Yard e a Gregory Lestrade pur di avere più uomini possibili sul campo. Rachel ha deciso di partecipare personalmente alle ricerche e sta raggiungendo ora l’ispettore” spiegò Mycroft brevemente.

“Non può essere sparito così, Mycroft” protestò l’altro “Ogni vicolo? I luoghi frequentati dai senzatetto, dai tossici o da qualsiasi altro delinquente della città? Per l’amor di Dio, lo fai monitorare ventiquattro ore su ventiquattro, non si sarà mica volatilizzato!”

“Non si è volatilizzato, dottor Watson, ha semplicemente eluso tutti i nostri sistemi di sicurezza e monitoraggio, non lasciando alcuna traccia. Nemmeno coloro che ho ingaggiato apposta per pedinarlo e controllare ogni sua mossa sanno dove sia. Sembra impossibile, eppure ci è riuscito” concluse il maggiore degli Holmes, lasciando che sui suoi interlocutori calasse il più completo silenzio.

John incrociò le braccia e spostò il peso su una gamba sola cercando di scaricare la tensione, tenendo sempre un occhio fisso sulla sua bambina che si era appisolata contro il morbido velluto, il ciuccio stretto tra le dita.

“Oh John, non si preoccupi, sa come è fatto Sherlock” disse la signora Hudson tentando di rincuorarlo e appoggiando entrambe le mani sul suo braccio robusto “Quando non vuole sapere niente di nessuno fugge da tutti e si isola, ma alla fine torna sempre qui. Quando è arrabbiato o annoiato cosa fa? Prende e spara ai muri, oppure disegna un inquietante smile giallo. È un uomo molto particolare e difficile da capire, ma, nonostante non voglia ammetterlo, è umano e sono certa che farò ritorno al luogo che lui considera casa sua”

Senza ben capire il perché, John sciolse le braccia e le circondò le spalle, stringendola brevemente e con immenso affetto. Quella era un’altra conferma per dimostrare che la signora Hudson non era la loro governante, ma una santa in tutto e per tutto.

All’improvviso, come fosse stato attirato da qualcosa, osservò attentamente il ripiano sopra il camino e vide il coltello infilzato in verticale.

Il coltello che indicava qualcosa di importante, qualcosa di nuovo e interessante.

Si avvicinò come un automa, sapendo che lì avrebbe trovato la sua risposta.

“Un DVD?” disse ad alta voce, mentre Mycroft gli si avvicinava.
 
 

 
Un DVD.

Sherlock si era quasi fatto ammazzare per un DVD.

Nonostante fossero passate diverse ore, ricordava ancora perfettamente il suono della voce di Mary che intimava a Sherlock di rischiare la vita, di andare all’Inferno per lui.

E la cosa che lo aveva stupito di più, è che il suo migliore amico non aveva esitato un attimo a farlo.

I suoi occhi ripercorrevano l’orribile immagine del volto di Sherlock tra le mani guantate di quell’uomo disgustoso. Quell’essere dai denti gialli e storti, verso cui aveva provato indifferenza e ripugnanza sin dal primo momento, davanti al quale, però, non aveva esitato un attimo a picchiare il suo ex coinquilino.

Gli aveva fatto delle accuse pesanti, lo aveva pestato a sangue, lasciandolo dolorante e con le lacrime per l’accecante dolore che gli attanagliava il volto e il corpo.

Si sentì un verme per avergli messo le mani addosso in quel modo, per averlo usato come sacco da boxe per sfogare tutti i suoi istinti e la sua rabbia repressi, per aver lasciato che la sofferenza offuscasse la sua lucidità.

Lo guardò, seduto al suo posto con una tazza di tè tra le mani tremanti, la barba incolta, i capelli sporchi e arruffati: sembrava un bambino indifeso.

Evitava di guardare nella sua direzione, come se avesse timore di un’altra sfuriata, di essere di nuovo malmenato.

Al solo pensiero di come aveva potuto ridurre l’animo e la fiducia di Sherlock, non riuscendo nemmeno a capire il perché ancora lui gli rivolgesse la parola nonostante tutto, arrivando ad accusarlo della morte di sua moglie.

Rachel aveva ragione. Non sapeva a chi dare la colpa e aveva deciso di fare a pezzi Sherlock, l’unico che sapeva non avrebbe avuto alcun modo di difendersi dato che sua moglie si era sacrificata proprio per salvarlo.

Percepì tutta la cattiveria che gli aveva avvelenato il cuore per mesi interi, capendo di essere come tutti: umano e pieno di difetti.
“Non l’hai uccisa tu” disse all’improvviso, stupendo persino se stesso.

 Sherlock alzò il volto di scatto, come una freccia che viene scoccata.

“Che cosa?” sussurrò timoroso.

“Non l’hai uccisa tu, Sherlock. Non sei stato tu ad uccidere Mary e io non avrei mai dovuto fare quello che ho fatto”

Un silenzio surreale cadde sui due uomini, Sherlock gli occhi fissi a terra, John gli occhi fissi su Sherlock.

“John, io…”

“Perdonami, Sherlock. Io non avrei mai voluto che tu facessi quello che hai fatto, anche se te lo ha chiesto Mary. Non avresti dovuto rischiare la vita in modo così incosciente”

“Ma John…”

“Zitto” disse fermamente l’ex soldato facendo serrare immediatamente le labbra del detective “Non dire una parola. Per una volta mi ascolterai e aprirai bene le orecchie”

Il suono di un gemito di donna irruppe nella stanza, lasciando stupito il dottore e imbarazzando in maniera spropositata il detective che ora stringeva la tazza con più forza, guardandosi attorno con fare spaesato, come se quel suono non provenisse dal telefonino appoggiato al suo fianco.

“E’ Irene” disse John. Non era una domanda.

Non provò gelosia, non provò niente.

Mary vegliava su di lui, guardandolo con la sua solita espressione beffarda e di rimprovero materno impressa sul volto, in piedi alle spalle di Sherlock e con le mani in tasca. Le bastò uno sguardo per far capire a John che lei stava bene, che non li avrebbe mai lasciati soli.

Era diventata il loro angelo custode e aveva dato a suo marito la possibilità di essere felice con l’uomo che non aveva mai capito di amare. Ma lei lo sapeva. Rachel lo sapeva.

E proprio per questo gli aveva sbattuto in faccia la verità sulla morte di sua moglie.

Ha visto quanto hai sofferto nel superare il lutto del tuo migliore amico. La donna che amavi ha deciso di sacrificarsi per salvare Sherlock, rinunciando alla sua felicità pur di preservare la tua

Guardò Sherlock con occhi nuovi, come se non fosse più il detective freddo e distaccato che aveva conosciuto anni prima, ma un semplice essere umano ferito e solo, che doveva essere protetto.

Non seppe che cosa gli diede il coraggio di fare ciò che fece, che cosa lo spinse ad avvicinarsi a Sherlock fino a ritrovarsi a un passo da lui.

Il consulente alzò i suoi enormi occhi color ghiaccio su di lui, guardandolo come se temesse di vederlo scomparire da un momento all’altro, voltargli le spalle e andarsene definitivamente dalla sua vita.

John però non voltò le spalle, non pensò o disse nulla.

Guardò Sherlock e gli fece cenno con la testa di alzarsi.

Il detective lo osservò stralunato, ma si fece condurre in bagno senza fare storie.

“Aspettami qui” gli disse John con tono calmo, avviandosi verso la camera di Sherlock.

Tornò con pigiama e mutande puliti, un accappatoio e la tanto amata vestaglia azzurra.

Aprì il rubinetto dell’acqua calda della vasca, lasciando che gli scorresse sulla mano per assicurarsi che non scottasse.

Mentre questa si riempiva, John volse lo sguardo verso Sherlock, impalato sulla porta in un misto di stupore e apprensione.

“Sherlock… Ti vergogni di me?” chiese il dottore non riuscendo a nascondere un sorriso, al quale il consulente rispose, rilassando un poco le spalle.

“Vieni qui, ti coprirò con l’accappatoio così non ti vedrò” gli disse.

Il detective si avvicinò lentamente e si nascose dietro all’accappatoio che John teneva aperto con entrambe le braccia, giusto all’altezza della vita per poter nascondere ciò che Sherlock non si sentiva di voler mostrare.

“È abbastanza calda l’acqua?” chiese.

“Penso di sì” rispose l’altro.

“Allora che cosa stai aspettando?”

Sherlock entrò in acqua in silenzio e John mise da parte l’accappatoio, sedendosi poi a lato della vasca.

Senza dire una parola, gli bagnò i capelli con un po' d’acqua e si versò dello shampoo sulle mani, iniziando a massaggiargli lentamente la testa, producendo tanta schiuma bianca.

“Ti dà fastidio?” domandò titubante, non avendo pensato prima all’effetto che l’eccessivo contatto umano potesse avere sul suo amico.

“No, va bene” gli rispose il detective “E’… piacevole”

Quando ebbe terminato, Sherlock uscì e si accomodò per terra con l’accappatoio appoggiato sulle gambe incrociate.

John gli si sedette di fronte e gli mise un asciugamano sulla testa, sfregando delicatamente e lasciando i ricci corvini umidi e ribelli.

A una distanza così ravvicinata, fu impossibile per il dottore non notare le ferite che aveva lasciato il volto di Sherlock.

Sul naso, sullo zigomo destro, sulla fronte.

Ognuna di quelle cicatrici era stata causata da un suo pugno, dalla sua debolezza, dalla sua furia.

Scosse la testa e si alzò, aprendo un’anta dell’armadietto vicino allo specchio, tirandone fuori schiuma da barba e rasoio.

Con la stessa cura che aveva usato per lavargli i capelli, sparse uno spesso strato di schiuma sul volto del detective e iniziò a raderlo.

Sherlock rimase immobile, il corpo in tensione, in contrasto con l’espressione del volto distesa e serena.

John aggirava accuratamente i tagli, facendo attenzione a non toccarli con il rasoio e cercando di non ferirlo ulteriormente.

Non sapeva perché lo stesse facendo, ma gli sembrava l’unico modo adatto per scusarsi.

Le parole non sarebbero mai bastate.

Una volta finito, Sherlock prese l’asciugamano e se lo passò sul volto.

Con i capelli bagnati ma puliti e sbarbato, John si accorse per la prima volta di quanto Sherlock fosse realmente bello.

Aveva sempre pensato che se il suo migliore amico non fosse stato un sociopatico iperattivo asessuato, sarebbe potuto essere un dongiovanni migliore persino di lui.

I lineamenti del volto erano taglienti, gli occhi di un colore indefinibile, la pelle sembrava morbida solamente guardandola e John sentì la volontà di accarezzarla crescergli dentro. 

Avendo paura di essere già andato fin troppo oltre, si limitò a carezzare lo zigomo ferito, sfiorando il taglio talmente piano da avere l’impressione di non averlo nemmeno toccato.

Quando fu sul punto di ritirare la mano e distogliere gli occhi dalla guancia di Sherlock, quest’ultimo gli prese il polso e John non riuscì a nascondere il suo battito cardiaco accelerato.

Il detective appoggiò il palmo della mano sul dorso di quella di John, facendo una leggera pressione e portando la mano di John totalmente a contatto con la sua guancia, invadendola immediatamente di un calore nuovo, naturale.

 
 
“Ciao John” disse Mary, staccandosi dalla parete del bagno e accucciandosi affianco al marito.

Il dottore sbarrò gli occhi e fissò un punto impreciso oltre Sherlock, il quale lo guardava incuriosito.

Mary si sporse e lo baciò sulla guancia, sorridendo.

Gli occhi dell’ex soldato si riempirono di lacrime.

“Va tutto bene, John. Ti ho già perdonato. Tu mi hai amata, di questo ne sono certa e non potrò mai ringraziarti abbastanza per tutto ciò che mi hai permesso di avere”

L’uomo non riuscì a dire nulla.

Davanti a sé, vide solo sé stesso intento a picchiare Sherlock, Mary a terra, insanguinata, lui tra le braccia di Rachel. Una sequenza di immagini che si mescolavano insieme, non permettendogli di distinguere la realtà dai ricordi, lasciandolo destabilizzato, causandogli un senso di solitudine mai provato prima.

“Se pensi di non essere mai stato l’uomo che io volevo tu fossi, allora cerca di diventarlo. Meriti di essere felice. Addio, tesoro mio. Prenditi cura di Rosie, mi accomando”

La donna alzò e uscì dal bagno, ma John non sentì dei passi.

Capì che non l'avrebbe rivista mai più.

“John… Perché stai piangendo? Ho fatto qualcosa di sbagliato?”

Guardò ancora quelle ferite e si soffermò sulle iridi di Sherlock.

Sentì il suo animo di cristallo creparsi pian piano, fino a spaccarsi del tutto.

Sentì pezzi di sé volare via, allontanarsi da lui con una violenza inaudita.

Sentì la sua sicurezza sbattere contro il muro e sgretolarsi, ogni sua certezza evaporò come fumo e gli annebbiò gli occhi.

“John, ti senti bene?” chiese allora il detective, prendendogli inconsciamente il volto con entrambe le mani.

A quel tocco, con la sensazione delle affusolate e delicate dita di Sherlock che gli accarezzavano la pelle provata, scoppiò completamente.

Con un breve slancio, raggiunse le labbra di Sherlock e ci appoggiò sopra le sue.

Piano, con cura e attenzione, ma lo fece.

Sherlock, attonito, non seppe cosa fare.

Avrebbe dovuto ricambiare? Avrebbe dovuto rimanere fermo? Frugò nel suo mind place per cercare una soluzione, senza ottenere alcun risultato.

Perciò chiuse gli occhi anche lui, piegando la schiena in segno di rilassamento e serenità, accogliendo tutto il dolore di John dentro di sé, condividendo con lui quelle sensazioni così devastanti, sentendosi per la prima volta veramente vivo.

Quel bacio sembrò durare all’infinito, mentre Sherlock realizzava piccoli cerchi con il pollice sulle guance bagnate del dottore.

Il consulente fu il primo a staccarsi con un piccolo sorriso sulle labbra, senza però guardare l’altro negli occhi.

Aprì leggermente le gambe ancora coperte dall’accappatoio e lasciò che John si inginocchiasse in mezzo, ancor più vicino a lui. Gli appoggiò la mano sinistra sulla schiena mentre la destra scese fino alla base del collo, permettendo all’ex soldato di appoggiare la fronte sul suo petto nudo, caldo e asciutto.

Non parlarono per tutto il resto della sera.

Quando John si fu calmato, Sherlock gli accarezzò la testa con affetto, accettando silenziosamente le sue scuse.

Si alzarono, Sherlock si vestì e ordinarono d’asporto al cinese.

John passò l’intera serata ad ascoltare il consulente che parlava a ruota libera di un nuovo caso per cui Lestrade lo aveva chiamato, iniziando a sparare deduzioni a destra e a manca.

Si sentì felice in quel momento. Come non si era mai sentito prima d’ora.

E quando udì il rumore dei passi di Rachel lungo le scale, accompagnato dal pianto della piccola Rosie che probabilmente la ragazza aveva in braccio, seppe che la sua vita era ormai al completo.

Perfetta come non avrebbe mai immaginato sarebbe potuta essere.
 
 
 
 

“Ciao tesoro” disse John il giorno entrando in cucina, Rachel seduta al tavolo intenta a bere il suo caffèlatte mattutino.

“Ciao” sussurrò lei di rimando, nascondendo lo sguardo nella tazza.

Lui mise a bollire l’acqua per il tè e le si sedette di fianco.

“Rachel, ascoltami, io…”

“Non dire niente, per favore” l’interruppe lei.

John si zittì, temendo di aver distrutto totalmente il rapporto con sua figlia adottiva.

“Mi dispiace” disse lei.

“Che cosa?” chiese stupito.

“Ho detto che mi dispiace, papà. Io ti voglio bene e non avrei mai dovuto dirti quelle cose, ma stavo scoppiando. Non riuscivo più a sentirti dire che non potevo comprendere il tuo dolore perché non è così. La sofferenza l’abbiamo sempre condivisa e io so perfettamente cosa stavi provando durante la morte di Sherlock, cosa provi ora che Mary non c’è più anche se sono passati diversi mesi” disse lei a raffica, sapendo che se si fosse fermata non avrebbe avuto il coraggio di continuare a parlare.

Abbassò lo sguardo sul tavolo, tormentandosi le dita in evidente segno di nervosismo.

“Io…”

“Tu cosa, Rachel?” la incoraggiò il dottore con una carezza sul volto, spostandole dalla guancia una ciocca di ricci.

 “Io volevo solamente che non mi tagliassi fuori dal tuo mondo, ecco tutto” rispose la ragazza.

John la guardò negli occhi, si alzò e l’abbracciò con tutto se stesso.

“Rachel, come puoi anche solo pensare che io voglia tagliarti fuori dal mio mondo? Non essere sciocca. Sai quanto ti voglio bene e sono io a doverti chiedere scusa. Ti ho sovraccaricata della mia autocommiserazione, non rendendomi conto dello sforzo che tu facevi ogni giorno nel sorridere e nell’andare avanti solo per me e Rosie. Hai fatto bene a gridarmi addosso in quel modo perché solo così sono riuscito finalmente a capire come si deve comportare un padre. Ti prometto che da oggi tornerò ad essere la tua roccia e non ti lascerò mai da sola” affermò con convinzione, accarezzandole i capelli e stringendola a sé con maggior forza, mentre lei si lasciava andare in un enorme sorriso e un sospiro di sollievo.









Note dell'autrice: Buonasera a tutti! So che oggi non sarebbe giorno di pubblicazione, ma questo è un mio piccolo pegno di scuse per avervi fatto aspettare così tanto per ricominciare a pubblicare e per ringraziare di cuore chi segue la mia storia fin dagli inizi, la mia prima long e quella che mi ha, fino ad ora, regalato più emozioni. 
Spero che possa piacervi sempre di più settimana dopo settimana. 
Vi auguro una buonanotte e ci vediamo lunedì con il prossimo (struggente) capitolo. Un abbraccio enorme! <3 

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Capitolo 13
*** The gun, the bullet ***


(13) The gun, the bullet
 
Spesso cose di cui non conosciamo nulla, cose che nemmeno ricordiamo fanno parte delle nostre esistenze, ci temprano, ci formano.

A volte sono cose che noi stessi scegliamo di dimenticare.

Distorciamo inconsciamente ma allo stesso tempo volontariamente la realtà e la nostra mente.

Può sembrare un paradosso, ma in questi casi si attiva quel fondamentale meccanismo di cui siamo dotati e che ci spinge a cercare di sopravvivere anche psicologicamente: l’autoconservazione.

Ed è per questo che Sherlock aveva deciso di dimenticare sua sorella.

Le aveva portato via una delle cose più importanti della sua vita ed era intelligente più di lui e Mycroft messi insieme.

Una mente criminale degna dello stesso James Moriarty.

Sadica, completamente pazza eppure contemporaneamente così scaltra e intelligente da lasciare senza parole, capace di raggirare qualsiasi mente umana.

Con il suo sadismo e la sua perfidia riuscì a distruggere la vita di John Watson e del fratello minore per l’ennesima volta, costringendo il giovane Holmes a fare una scelta impossibile persino per lui e il suo cuore ormai non più di pietra.

“Chi vuoi far morire, Sherlock? Tuo fratello Mycroft o il tuo caro amico John Watson?”

La pressione psicologica fu devastante, aggiungendosi a quella che già aveva indebolito notevolmente il detective.

Fu difficile pensare in modo razionale, soprattutto con Mycroft che tentava di utilizzare uno stratagemma basilare eppure allo stesso tempo sottile per farsi sparare e rendere più facile la scelta di Sherlock, senza però alcun risultato.

“Perché non io, Eurus?” chiese Rachel parandosi davanti a John “Perché io non sono contemplata come possibile vittima?”

“Rachel smettila!” sibilò John.

“Oh, mia cara Rachel, che eroina che sei. Vorresti sacrificarti per salvare il tuo papà? Mi dispiace, tesoro, ma non puoi. Sei così fragile. Piccola, fragile, stupida ragazzina” sorrise Eurus in tono languido e divertito “Non è facile per te, vero? Eppure sei stata abituata alla violenza, fin da bambina. Tuo padre ti picchiava molto forte, una volta ti ha quasi uccisa, ricordi?”

“Che cosa?!” esclamò John, sbarrando gli occhi e prendendo Rachel per le spalle.

“Perché non me lo hai mai detto?”

“Che senso avrebbe avuto?” disse lei con gli occhi lucidi.

“Ora basta parlare, signori. Sherlock, è ora di scegliere” affermò Eurus.

Durante tutta la conversazione, il detective aveva tenuto la pistola puntata contro Rachel e John come se tentasse di usare l’arma per concentrarsi su qualcosa, su un punto in particolare per riuscire a ragionare.

La voce acuta di Eurus ruppe quel torpore in cui era caduto ascoltando le voci del dottore e della ragazza, riuscendo a distrarsi per la prima volta nella sua vita, quasi a non pensare.

Tenne la pistola ancora puntata contro Watson che lo guardava teso.

Rachel tentava di mantenere la calma mentre Mycroft sembrava a proprio agio, nonostante Sherlock sapesse che non era così.

Non voleva macchiare le sue mani e il suo animo del sangue di qualcuno a lui caro.

Dentro quella stanza c’erano le uniche tre persone che, a parte altre pochissime, lo avevano sempre amato.

Non poteva fare questo a nessuna di loro.

Perciò applicò l’unica soluzione che gli sembrò possibile in quel momento.

Si puntò la pistola sotto il mento e iniziò a contare.

“Dieci”

“Sherlock, che cosa stai facendo?!” disse Eurus con una punta di panico nella voce.

“Nove”

“Sherlock per l’amor di Dio metti giù quella pistola!” gridò John, ma il consulente non gli diede ascolto.

“Otto”

“Sherlock, ora smettila!” disse Mycroft, mostrando la sua preoccupazione.

“Sette”

Rachel non aprì bocca, sapeva che sarebbe stato tutto inutile.

“Sei”

Sherlock era l’uomo più cocciuto che avesse mai conosciuto e non si sarebbe persuaso grazie a due paroline dolci ben dette.

“Cinque”

Doveva fare assolutamente qualcosa o quel pazzo si sarebbe sparato davvero.

“Sherlock, metti giù quella dannata arma!” stridé Eurus, sovrastando la voce del consulente che continuava a contare.

“Quattro”

Secondi inesorabili che scorrevano come l’acqua di un fiume in piena: veloci, disastrosi, dolorosi.

“Tre”

La ragazza agì senza esitare un attimo.

“Due”

Era perfettamente consapevole di ciò che stava facendo, non le importava cosa sarebbe accaduto.

Ciò che veramente contava è che Sherlock e John, insieme a Mycroft, si sarebbero salvati.

Non era mai stato nella sua indole il rimanere a guardare quando qualcuno soffriva, quando c’era un modo per risolvere una determinata situazione.

E questo caso non fu un’eccezione.

“Mi dispiace papà” sussurrò superando John di corsa, senza che l’ex soldato potesse risponderle o fare qualcosa.

Raggiunse Sherlock e gli strappò la pistola di mano.

“Uno”

Il detective la guardò spaesato, riuscendo a capire le sue intenzioni solo quando la ragazza si era già puntata l’arma allo stomaco.

“NO, FERMATI!” gridò allungando la mano verso di lei.

Troppo tardi.

Un colpo secco partì dalla pistola e la sua eco rimbombò per tutta la stanza.
 
 
 
“RACHEL!” il grido di John irruppe tra quelle quattro mura che sembravano rimpicciolirsi di secondo in secondo.

Watson avrebbe voluto fosse così.

Avrebbe voluto vedere le pareti arrivare a soffocarlo, svegliarsi madido di sudore nel suo letto e scoprire che era stato un altro dei suoi innumerevoli incubi. Scendere dal letto e arrivare in salotto, dove avrebbe trovato Sherlock ad accoglierlo suonando il violino, mentre Rachel e Rosie giocavano per terra con i ninnoli della bimba.

Implorò un Dio in cui non credeva più che fosse così, ma le sue preghiere non vennero ascoltate.

“No, no, no, NO” mormorò correndole incontro.

L’arma le era scivolata dalle mani, il bossolo del proiettile era rotolato fino alla parete opposta e la ragazza si era accasciata su se stessa mentre una pozza di sangue si stava espandendo sulla sua maglietta e sotto di lei.

Il dottore la sorresse, circondandole la vita un braccio e reggendole la testa, tremando come raramente aveva fatto in vita sua, solo in guerra.

Anche lui, come Sherlock, venne travolto da un ricordo ancora troppo fresco, una ferita ancora non del tutto chiusa che si riaprì in uno squarcio, con una violenza che li stordì entrambi e li fece temere persino per il loro rapporto: Mary.

 Di nuovo qualcuno si era sacrificato per salvare le loro vite senza che nessuno dei due potesse fare nulla.

La consapevolezza di non aver agito abbastanza in fretta sovrastò Sherlock come un cumulo di macerie, spezzandogli la schiena per l’ennesima volta.

Era rimasto paralizzato a causa del precedente crollo nervoso e del gesto di Rachel, il suo corpo e le sue emozioni avevano prevalso sulla mente.

“Sherlock, aiutami!” gridò il dottore mentre cercava di tranquillizzare la ragazza e di capire cosa diavolo le fosse saltato in mente.

Il detective non si mosse. Con un’espressione pietrificata impressa sul volto continuava a guardare John come se provenisse da un altro pianeta, come se quella che teneva tra le braccia non fosse sua figlia adottiva, non fosse la ragazza che lui e John avevano cresciuto insieme come una seconda Rosie.

“SHERLOCK, TI PREGO!” gridò più forte il dottore con voce spezzata.

A quel richiamo, il corpo del consulente rispose in un riflesso condizionato e le sue gambe si mossero da sole, i neuroni si riattivarono in un lampo.

Corse verso di loro e si tolse la giacca, legandola sul ventre di Rachel in un vano tentativo di bloccare l’emorragia.

“Hey” le sussurrò con un breve sorriso, inginocchiandosi al suo fianco.

“Hey Sherlock” sorrise lei a sua volta tra le lacrime, tra un affanno e l’altro.

“Che diavolo hai combinato” mormorò il detective.

“Lo so, ma era la cosa… giusta da fare”

“Avremmo potuto trovare una soluzione insieme” le disse.

“Ti sbagli, sai che non è così” affermò decisa la ragazza.

Sherlock sapeva quanto avesse ragione.

Eurus aveva imposto le sue condizioni e nulla le avrebbe fatto cambiare idea.

Così Rachel aveva optato per un disperato tentativo di salvare loro la vita.

“Dobbiamo trovare il modo di fermare l’emorragia, Sherlock” disse John tentando di non crollare.

“Lo so, John. Sto cercando di pensare più velocemente che posso”
 
 

La ragazza guadò Mycroft, alle spalle di John.

Il maggiore degli Holmes a volte sapeva essere più perspicace di Sherlock, perciò non fu difficile per lui capire cosa Rachel nascondesse in quello sguardo.

Era una silenziosa preghiera per lui.

In quegli anni di convivenza con John e Sherlock, i due non avevano mai instaurato un rapporto affettivo di qualsiasi tipo e poche volte si erano rivolti la parola per dirsi cose come “Buongiorno” o “Buonasera”, ma di questo non si erano mai preoccupati.

Ora, invece, era diverso.

In quel momento gli stava chiedendo con gli occhi di proteggere Sherlock, e di conseguenza John, come aveva sempre fatto. Di continuare a salvarli dal mondo circostante e da loro stessi, di prestare attenzione che non accadesse loro nulla di male e che continuassero le loro vite tra casi, serial killer e corse infinite per Londra.

Il rammarico era ben visibile nella sua espressione, però solo il governatore inglese se ne accorse. Lei non voleva veramente morire, eppure le era sembrata un’aspettativa migliore piuttosto che perdere uno dei due uomini che ormai lei considerava genitori.

Mycroft le rispose con un leggero cenno d’assenso e un piccolo sorriso compassionevole, aprendo uno spiraglio di umanità grande quanto la capocchia di uno spillo, che per la ragazza fu abbastanza.

“Hai ottenuto la tua vittima, Eurus! Ora facci uscire da qui!” chiamò l’uomo, mantenendo la sua maschera di calma apparente.

“E’ inutile Mycroft” lo interruppe il minore “La vittima non sei tu, non è John e Rachel non è ancora morta. Perciò a meno che non ti sia venuto in mente un modo concreto per salvarla, sei pregato di chiudere la bocca!” concluse con un’esclamazione irritata.
 
“Tesoro, sono qui. Non chiudere gli occhi per nessun motivo, soprattutto se hai sonno, d’accordo?” le mormorò John avvicinandola a sé, come a voler riscaldare quel corpo che diventava sempre più pallido.

Le pulsazioni cardiache erano diminuite drasticamente e secondo dopo secondo rallentavano sempre di più.

“Andrà tutto bene, Rachel. Torneremo a casa tutti insieme, sono convinto che Rosie già sente la tua mancanza” disse Watson sorridendo più per incoraggiare se stesso.

“Quando torneremo, imparerai che io a colazione non voglio il tè?” rispose lei con una risata appena accennata.

“Sì, vuoi il caffélatte. Lo imparerò, promesso” ribatté l’altro, non riuscendo più a trattenersi e chinando il capo per permettere alle lacrime di uscire copiose ma invisibili.
 
“Perdonami” disse all’improvviso Sherlock.

Rachel lo guardò con occhi acquosi, quasi vitrei, il che smosse l’animo dell’uomo.

“Non sono riuscito a proteggere nemmeno te” continuò.

A quell’affermazione John alzò il volto di scatto, non nascondendo più il viso deformato dal dolore e dalle lacrime, sentendo l’affetto che lo univa a Sherlock crescere ancor di più.

“Va bene così, Sherlock. È stata una mia decisione e non la rimpiango assolutamente. I-io voglio che voi stiate bene. Tu rimarrai sempre il mio angelo custode” gli rispose lei, tendendogli la mano che, incredibilmente, Sherlock strinse con forza.

“Io…” provò a dire, ma Rachel venne scossa da una fitta di dolore che la stordì, facendola piegare in due e gemere.

Una volta passata, John le controllò ancora il battito cardiaco, impallidendo a quel rintocco così leggero.

“Non abbandonarmi anche tu” sussurrò inconsciamente.

A quelle parole, Rachel raccolse tutte le sue ultime forze in uno slancio che la portò ad abbracciare Watson, il quale la strinse a sé con una forza quasi delicata. Non appena sentì il profumo dei suoi capelli rossi contro il naso iniziò a singhiozzare in modo incontrollato, mentre lei gli parlava nell’orecchio.

“Io non avrei voluto farlo, ma sapevo che le cose dovevano andare così. Sherlock si prenderà cura di te, per questo sono tranquilla” disse, interrompendosi per riprendere fiato a causa dello sforzo.

“L-lui ti ama, come nessun altro ha mai fatto. Prendetevi cura l’uno dell’altro” concluse, il volto disteso e sereno “Ti voglio bene, papà”.

“Anche io, piccola mia”
 
 

Una nuova ondata di dolore arrivò all’improvviso, stavolta però non terminò.

Rachel soffrì in silenzio.

Continuò a digrignare i denti, aggrappandosi a John, cercando di non urlare.

La fitta continuò ad intensificarsi, occludendo il petto della ragazza in una morsa letale, pesante, senza scampo.

Un singhiozzo le morì in gola mentre le palpebre iniziarono a chiudersi lentamente, il cuore flemmatico e flebile come il battito d’ali di una farfalla.

Guardò il soffitto, piangendo e chiedendo che quel dolore terminasse prima possibile.

Dolore, dolore, dolore, buio.  

Il peso opprimente si dissolse all’improvviso.

Tutto sembrò sparire in una nuvola di niente.

Le forze le mancarono tutte d’un colpo, le palpebre si abbassarono completamente.

La bocca rimase semiaperta.

Le braccia scivolarono piano lungo la schiena di John fino a raggiungere il suolo con un tonfo sordo.

A quel rumore, l’ex soldato spalancò gli occhi, reggendo la testa di Rachel con una mano e nascondendole il viso dietro la spalla.

Cercò lo sguardo del compagno, pregando che almeno lui lo disilludesse da quella realtà così orribile.

Ciò che invece gli confermò Sherlock, fu solamente che lui era un dottore: non poteva sbagliare in questi casi.

Il consulente aveva gli occhi arrossati nonostante non avesse pianto, la mano ancora aperta come se aspettasse che Rachel glie la riprendesse.

“No. Rachel, ti prego, no. Non puoi farmi questo, non puoi! Avevi promesso che saresti tornata a casa con me!” mugugnò tra un singhiozzo e l’altro, ripetendo quelle poche frasi come fossero una litania.

Quando ebbe il coraggio di guardare il volto della ragazza e si accorse del piccolo sorriso tranquillo, sereno nella consapevolezza di averli salvati, che lo incorniciava, non riuscì a trattenere un grido.

Aprì i polmoni e spinse in alto il diaframma, volgendo la testa al soffitto, spalancando le porte al dolore che per mesi, per anni aveva portato dentro di sé come un tarlo che gli corrodeva l’anima.

Appoggiò delicatamente la ragazza sul pavimento e si alzò, barcollando, ubriaco d’ira.

“Eurus!” gridò “Eurus, dove sei?! Vieni fuori pazza psicopatica! Facci uscire da qui! Apri questa cazzo di porta prima che butti giù a testate tutte le pareti di questa maledettissima stanza!!”

Sherlock rimase folgorato da quello sfogo così violento, non lo aveva mai visto così furioso.

Immediatamente si alzò e lo raggiunse, tentando di bloccarlo mentre tempestava di pugni e calci la parete alla sua sinistra.

“John. John, calmati” gli disse avvicinandosi, tentando di sovrastare le grida di Watson.

“Facci uscire da qui!”

“John per l’amor del cielo, smettila!” urlò Sherlock.

“NO!” sbraitò l’altro girandosi di colpo verso di lui, il volto deformato dalla rabbia “IO VOGLIO AMMAZZARLA TUA SORELLA! VOGLIO FARLA SPARIRE DALLA FACCIA DELLA TERRA!”

“John, adesso BASTA!” gridò ancora una volta il consulente afferrandolo da dietro e bloccandogli le braccia lungo il corpo.

“Lasciami andare, Sherlock, lasciami!” protestò John, ma Holmes non lo ascoltò, continuando a stringere per tenerlo fermo.

Quando Watson capì di non poter fare nulla e di non potersi più muovere, si inginocchiò all'improvviso, come se la scarica di adrenalina di poco prima si fosse esaurita tutta insieme.

“Mi dispiace, John. Mi dispiace” disse Sherlock mettendosi di fronte al compagno, abbracciandolo davvero stavolta, compiendo un gesto che nemmeno lui si sarebbe mai aspettato di poter realizzare.

Quando le mani candide del detective raggiunsero i suoi capelli biondo grano, John si lasciò andare ad un pianto disperato che non poté durare molto.

Lo schermo da cui Eurus parlava si era spento pochi secondi prima della sfuriata del dottore, ed ora era nero e silenzioso.

Al suo posto, però, si udirono tre piccoli click.

Una freccetta piena di sonnifero colpì ognuno dei tre uomini al collo.

Mycroft fu il primo a svenire.

John si afflosciò sul pavimento mentre ancora era tra le braccia di Holmes.

Sherlock riuscì a mantenere per qualche secondo la lucidità e si spinse verso Rachel, senza ben sapere il perché.

Quando sentì le gambe cedergli, cadde prima sulle ginocchia per evitare di sbattere la faccia sul duro pavimento di pietra.

Poco dopo il petto arrivò con forza a terra, la sua mano destra si allungò verso il polso sinistro di Rachel, l’indice e il medio vi si appoggiarono sopra per pochi millesimi di secondo.

Poi tutto fu buio.
 




TUM-TUM.
 

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Capitolo 14
*** Think, remember, live ***


(14) Think, remember, live
 
Erano passati sei mesi dalla morte di Rachel.

Sei lunghi mesi in cui John era andato avanti per inerzia, combattendo per Sherlock e Rosie come aveva promesso.

Era cambiato.

Nonostante avesse perso un’altra delle persone più importanti della sua vita, non aveva ceduto.

Aveva continuato a ripetersi le parole di Rachel nella mente, trovando conforto.

Era andato avanti insieme al suo dolore, non abbandonando mai il suo compagno e sua figlia.

Aveva già commesso un errore del genere e non avrebbe mai permesso a se stesso di ripeterlo.

Aveva pianto al funerale, questo era innegabile.

Non c’era stato un cadavere, ma la cerimonia era stata comunque celebrata.

Venne tormentato per settimane dall’idea che sotto quella lapide non ci fosse un corpo, che non sapesse che fine avesse fatto il cadavere della ragazza.

Sherlock lo consolò meglio che poté con i suoi semplici e piccoli gesti che aiutarono il dottore a guarire in parte.

Watson cercava di distrarsi in tutti i modi evitando che i suoi pensieri tornassero alla morte di Rachel, perché sapeva che sarebbe stata la fine.

Aveva fatto una promessa a sé stesso e aveva intenzione di mantenerla.

 
 
Un giorno tornò tardi per l’ora di pranzo, dopo un estenuante turno nel suo studio medico.

Salendo le scale sentì il rumore della tastiera del laptop di Sherlock.

Erano quasi quattro del pomeriggio e il detective era davanti al computer, scrivendo freneticamente.

“Hey” sorrise il dottore, appoggiando la ventiquattr’ore per terra e mettendo da parte il cappotto.

“Ciao John” rispose Sherlock senza distogliere lo sguardo dallo schermo.

“Che stai facendo?”

“Ricerche”

“Per cosa, se posso sapere?” chiese Watson preparando due tazze per il tè.

“Un caso”

“Oh, d’accordo”

Ci furono cinque minuti di silenzio in cui John aspettò che l’acqua bollisse.

Una volta messo il tè in infusione, si avvicinò al consulente.

Gli lasciò un leggero bacio sulla tempia destra, appoggiando entrambe le mani sullo schienale della sua sedia e sbirciando per vedere che tipo di ricerche stava conducendo.

“Tabulati d’ospedale? A cosa ti servono, Sherlock?”

“Te l’ho detto, John, per un caso”

John non gli credette e quando vide uno spesso libro ricoperto di velluto rosso, ricevette la conferma ai suoi sospetti.

“Il caso Rachel?” chiese con voce piatta.

Il detective smise per un secondo di scrivere, un’esitazione che gli costò molto, facendo saltare ogni copertura.

“Sherlock, spero che tu stia scherzando” disse il dottore afferrando l’album di fotografie e allontanandosi dalla scrivania.

“John, io-”

“Tu cosa? Perché continui ad illuderti, Sherlock?”

“Non mi sto illudendo, John. Sono certo che Rachel è ancora viva”

“Sherlock, ma ti ascolti almeno? Tu stai dicendo che Rachel è viva quando in realtà l’ultima volta che l’abbiamo vista è stato sei mesi fa, mentre aveva un’emorragia in corso che se l’è portata via!” rispose Watson con rabbia.

“John io le ho sentito il polso!”

“Oh santo cielo, di nuovo con questa storia? Sherlock eri mezzo addormentato, tua sorella ci aveva narcotizzato!”

“Invece tu John eri mezzo impazzito per il dolore e sai bene che quando sei coinvolto emotivamente non conta più nulla!” affermò il detective alzandosi in piedi, allungando la mano aperta verso di lui “E ora ridammi quell’album”

John non gli diede ascolto e si sedette in cucina, aprendolo in una pagina a caso.

Immediatamente il suo cuore venne travolto da un’ondata di malinconia che gli spense il sorriso.

In silenzio, Sherlock si avvicinò e gli si sedette di fianco, guardando anche lui quelle foto.

“Questa ce l’ha scattata la signora Hudson” disse il consulente sottovoce, indicando una foto che ritraeva lui, John, Rosie e Rachel in salotto.

Sherlock suonava il violino, mentre John stava giocando con sua figlia e Rachel leggeva un libro spaparanzata sul divano.

Una piccola immagine familiare che il flash aveva impresso per sempre sulla carta lucida, grazie al dolce pensiero dell’anziana padrona di casa.

Vide la cascata di capelli rossi della ragazza e ripensò ai suoi enormi occhi verdi.

Mancava molto a tutti, Sherlock compreso.

Al suo funerale il detective non aveva pianto. Semplicemente si era portato con sé il violino e aveva suonato durante la cerimonia, commuovendo tutti quanti.

John lo aveva ringraziato mille volte, perché quel gesto era valso più di qualsiasi esternazione emotiva.

Guardò negli occhi l’uomo al suo fianco, riuscendo a vedere ancor più nitidamente quale fosse il suo valore, quanto buono fosse e quanto amore gli avesse dato nell’arco di quei sei mesi. In silenzio, ma facendosi comunque sentire.

Aveva promesso di combattere.

Aveva fatto un voto.

“Ne sei certo, Sherlock? Sei assolutamente sicuro di non esserti sbagliato?”

“No, John. Non ne sono del tutto certo, ma so che c’è più del 50% di probabilità che io abbia ragione” rispose Sherlock sorridendo, sfiorandogli la base del collo con una carezza.

Watson chiuse di scatto l’album e si alzò.

“Va bene. Coraggio, diamo un’occhiata a quei tabulati” disse sedendosi di fronte al PC.
 
 
 
 
 
“Rachel…”

Silenzio.

“Rachel, tesoro, svegliati”

Si sentì chiamare come in sogno.

Ogni suono ovattato, come se avesse le orecchie tappate.

Alzò lentamente le palpebre ma non vide nulla attorno a sé, solo buio.

Ebbe paura di essere diventata cieca.

Poi i suoi occhi iniziarono a ritrovare il bianco della luce.

Quando finalmente mise tutto a fuoco, si trovò stesa su un letto d’ospedale.

Non vide finestre, non vide medici, non vide macchinari attaccati al suo corpo.

“Rachel…”

Di nuovo quella voce così familiare la chiamò.

“Mary? Mary, sei tu?” chiese la ragazza girando la testa alla sua sinistra.

Accanto al suo letto, su una poltrona nera, era seduta Mary.

Al suo fianco una poltrona rossa era vuota, come se aspettasse di essere occupata.

“Ciao Rachel, finalmente” sorrise la donna, alzandosi in piedi per entrare meglio nel campo visivo dell’altra.

“Mary, cos’è successo? Mi gira la testa… Un momento, tu sei… Quindi questo significa che… sono morta anche io?”

“No, tesoro, non ancora. Quando ti hanno portata all’ospedale eri in gravissime condizioni. Sei in coma farmacologico da sei mesi, ma i medici non hanno ancora perso la speranza. Le tue condizioni migliorano giorno dopo giorno e stanno aspettando il momento del tuo risveglio mentale, per toglierti dal coma”

“Okay, con calma. L’unica cosa che ricordo è che mi sono sparata, John che piangeva… Infine un dolore lancinante che mi ha preso il petto” disse appoggiandosi una mano sul cuore, accorgendosi solo dopo di indossare un camice  color acqua marina “e poi sono… morta”

“No tesoro, non sei morta” le rispose Mary con un sorriso “Vieni qui vicino a me”

Rahcel si mise seduta con qualche difficoltà, cercando di non lasciarsi andare ai conati di vomito e ai giramenti di testa.

Aggrappandosi al letto, appoggiò i piedi nudi a terra e si avvicinò alla poltrona rossa, sedendosi cercando di non perdere l’equilibrio.

Quando si fu accomodata, si prese la testa fra le mani.

“Non capisco… Se ora sono qui con te, come puoi dirmi che non sono ancora morta? Tu sei deceduta da mesi, Mary, perciò anche io dovrei esserlo”

“Ne sei certa? Io potrei essere solamente una visione del tuo subconscio, potrei essere una tua finzione, un’immaginazione”

“Se fosse così lo saprei”

“Non è detto che tu lo sappia. La mente umana è qualcosa di non totalmente conoscibile, penso che Sherlock te lo abbia spiegato più di una volta” disse la donna accavallando le gambe.

“In realtà me lo ha detto John. Sherlock considera qualsiasi mente umana al di fuori della sua e quella di Mycroft come obsoleta, media. Praticamente al mondo sono, o meglio siamo, tutti stupidi” le rispose la ragazza sorridendo, sentendosi più a proprio agio.

“Mi mancano le nostre chiacchierate da vecchie comari” rise Mary guardandola negli occhi.

“Anche a me” rispose malinconica la ragazza.

“Ad ogni modo ora siamo qui, insieme. Perciò meglio approfittare del tempo che ci rimane. Tra poco ti sveglierai, mia cara”

“Come lo sai? E inoltre… Ancora non riesco a capire come possa essere possibile tutto questo. Io non ho mai creduto nelle esperienze di premorte, non… Santo Cielo, Mary, mi dici cosa diavolo mi è successo in quella stanza?”

“Stai tranquilla, va tutto bene”

“Come può andare tutto bene? Sono morta!” disse Rachel iniziando a mostrarsi nervosa.

“Rachel, calmati. Ci sono qui io. Analizziamo le cose con calma affinché tu possa capire in modo più chiaro possibile, d’accordo?”

La ragazza rispose con un breve cenno d’assenso, facendo dei respiri profondi per calmarsi.

“Bene. Ricordi cosa è successo quando eravate prigionieri di Eurus?”

“Ecco… Eurus ha chiesto a Sherlock di scegliere chi uccidere, se me o… no aspetta. Doveva scegliere tra Mycroft e John, sì. Dato che non aveva fatto il mio nome, ho chiesto il perché, ma non mi ha risposto. Allora Sherlock ha capito che non ci sarebbe stato scampo, che non saremmo usciti da lì senza che uno dei due morisse. Mycroft ha provato a farsi uccidere, ma Sherlock ha capito che stava mentendo. Poi… mgh!” la ragazza si bloccò di colpo, una forte fitta alla testa aveva bloccato il flusso dei suoi pensieri, facendola gemere dal dolore.

“Brava Rachel, così. Continua a ricordare. Cos’è successo poi?”

“Poi… Sherlock si è puntato la pistola sotto il mento e ha iniziato a contare, ma non ho capito perché”
 
“Dieci, nove, otto, sette”
 
“Tu che cosa hai fatto?”

“Io non ho fatto niente, almeno all’inizio. Mycroft e John hanno… Ah!”

Un’altra fitta le attraversò le tempie, facendola piegare su sé stessa.

“Gli hanno detto di fermarsi e anche Eurus ci ha provato, ma lui non ascoltava nessuno. Io non ho detto nulla perché pensavo sarebbe stato inutile, ma sapevo che si sarebbe sparato sul serio se non fossi intervenuta”

“Così tu ti sei gettata verso di lui, giusto?”

“Sì, l’ho fatto. Gli ho strappato la pistola dalle mani e mi sono sparata” continuò Rachel, accorgendosi solo dopo della macchia di sangue che le si stava allargando sul camice.

“Mary, oddio…”

“Tranquilla, tesoro. Questo non farà male. Cosa è successo dopo che ti sei sparata?”

“Non ricordo bene… Mi sono accasciata a terra, Sherlock mi aveva detto di fermarmi, John ha urlato il mio nome e mi è corso incontro, mi ha sorretta. Si è trattenuto, ma poi ha iniziato a piangere. Mi ha pregato di rimanere con lui, di non andarmene. Io piangevo perché mi sentivo in colpa, ma allo stesso tempo ero felice, perché pensavo di aver fatto qualcosa di bello, di essere riuscita veramente a salvarli. Poi è iniziata la sofferenza. Sentivo la morte sopraggiungere, avevo le palpebre pesanti, non riuscivo più a pensare. E quando… dannazione!”

Un’ennesima stilettata le affondò nel cranio, facendola alzare in piedi di scatto mentre si teneva la fronte con una mano.

“Parlami dei tuoi ultimi momenti”

“Mary, perché sento questi dolori così forti? Fa-fa male” le chiese la ragazza con voce spezzata.

“So che fa male, ma è una cosa buona. Rachel, ti stai risvegliando”

“Che cosa? Di nuovo? Mary, non posso risvegliarmi, io sono morta!”

“Ricorda, Rachel. Ricorda, forza!” rispose la donna ancora seduta sulla poltrona.

“D’accordo, va bene… Allora” la voce tremava come scossa da un terremoto “John piangeva, Sherlock mi ha chiesto scusa per non essere riuscito a salvare anche me” disse guardandola negli occhi, ricordando a entrambe il voto che il detective aveva fatto tempo prima.

“Io gli ho detto che lo perdonavo, che sarebbe ancora stato il mio angelo custode. E quando John ha ceduto, io l’ho abbracciato, gli ho chiesto di prendersi cura di Sherlock. Ah, poi ho chiesto silenziosamente a Mycroft di proteggerli entrambi…”

“Bravissima tesoro. Ci sei quasi!” la incoraggiò Mary.

“Poi… Oh buon Dio” ansimò Rachel, vedendo il sangue imbrattare sempre di più il camice “Poi ho iniziato a sentire un dolore fortissimo. Una sofferenza che mai avevo provato prima di allora, sentivo il petto come oppresso da un macigno, un peso enorme e insopportabile. Questo dolore ha iniziato a crescere sempre di più, mi sentivo… morire”

“Ma?”

“Ma…AH!” gridò la ragazza sentendo un’altra puntura stravolgerle la mente.

“Rachel, forza!” disse Mary alzandosi in piedi a sua volta.

“Mary, non riesco… Non riesco a ricordare!”

“Rachel, devi farlo! Impegnati!” le disse prendendola per le spalle.

“Ma ad un certo punto, tutto è svanito. Il petto si è liberato improvvisamente e le forze mi hanno completamente abbandonata. Non ho visto più nulla e mi sono ritrovata qui!” rispose Rachel a voce alta, quasi urlando “E’ lì che è accaduto, è lì che sono morta!”

“No, non sei morta”

“Mary…” mormorò l’altra.

Osservò il suo camice d’ospedale.

Osservò la macchia di sangue che le si propagava lungo il corpo.

Pensò alle fitte di dolore.

“Rachel, ti stai risvegliando”

“Mary…” esclamò sbarrando gli occhi “Non sono morta!”

La donna le sorrise.

“Ti voglio bene, Rachel”

“Mary, non andare via” implorò la ragazza tentando di allungare il braccio verso di lei.

“Pensa, tesoro. Pensa, ricorda, vivi”

“Mary… Io non sono morta. Io…”

“Vivi, Rachel. John e Sherlock sono in pericolo. Devi salvarli. Svegliati. Ora. Va. Li affido a te”

“IO SONO SVENUTA! MARY, POSSO ANCORA VIVERE! MARY!”
 
 


Tutto scomparve all’improvviso.

Quando la ragazza aprì di nuovo gli occhi, un nugolo di medici le ronzava attorno.

Migliaia di suoni le inondarono le orecchie.

La propria voce, gli ordini che il caporeparto dava ai collaboratori, il bip accelerato del suo battito cardiaco che risuonava nella macchina, il suo respiro pesante e le gocce di sudore che le colavano lungo il volto.

“Si è svegliata! Ha aperto gli occhi!” esclamò un’infermiera che le stava asciugando la fronte con un panno.

“Ragazzina, guardami. Ascolta la mia voce” le disse un medico dagli occhi color nocciola.

“Mary… Mary…” continuava a mormorare l’altra.

“Stai tranquilla. Va tutto bene. Hai avuto una crisi epilettica che ti ha risvegliata dal coma. Va tutto bene, ora ci prenderemo cura di te. Dimmi solo come ti chiami. Riesci a ricordare come ti chiami?” le disse il dottore con calma e voce rassicurante.

“Io… Io mi chiamo Rachel”

Un’ombra di delusione apparve sul volto del giovane medico.

“Mi dispiace, ma ti sbagli” le disse con un sorriso “Prova a pensarci meglio”

“Io mi chiamo Rachel, me lo ricordo perfettamente” gli rispose con voce impastata ma mente lucida.

“Dopo sei mesi di coma non mi stupisco che non si ricordi il suo nome, poverina” disse un’infermiera paffuta, gli occhi azzurri e un viso pieno di dolcezza “Coraggio tesoro, prova a ricordare”

“Io mi chiamo Rachel…”

“Niente, non riesce. Forse è ancora troppo presto” disse il dottore, ricevendo un cenno d’assenso dalla donna al suo fianco.

 “Se Rachel non è il mio nome, allora come mi chiamo?” chiese la ragazza, mettendosi seduta aiutata dall’infermiera.


“Ti chiami Rosamund” le disse il dottore “Rosamund Norbury

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Capitolo 15
*** Our daughter ***


(15) Our daughter
 
“C-come ha detto scusi?”

“Rosamund Norbury. È questo il tuo nome”

“N-no, deve esserci un errore. Io mi chiamo Rachel” affermò la ragazza guardando spaesata il medico.

“Nella tua cartella clinica c’è scritto così, mia cara”

“Come sono arrivata qui?”

“Un’ambulanza era stata avvertita da una chiamata anonima rispetto alla tua posizione. Ti hanno trovata con la schiena appoggiata ad un pozzo, vicino ad un campo deserto. Avevi una giacca nera legata sul ventre per bloccare l’emorragia. Nessuno era con te, eppure qualcuno ha saputo dire al pronto soccorso dove trovarti. Sei entrata in coma e abbiamo aspettato a lungo il tuo risveglio. Poi hai avuto questa crisi e ti sei svegliata”

“Sono stata in coma per sei mesi, vero?”

“Sì”

“Che ore sono? Che giorno è?”

“Sono le quattro del pomeriggio del 20 ottobre”

“Dov’è la giacca di cui mi ha parlato?”

“Affianco a te, su quell’attaccapanni”

Rachel girò lo sguardo e trovò la camicia di Sherlock pulita e profumata appesa a circa mezzo metro da terra.

La prese tra le mani e venne colpita da dei flash.

La giacca.

Rosamund Norbury.

Rosamund Mary.

Norbury.

“John e Sherlock sono in pericolo. Devi salvarli. Ora. Va. Li affido a te”

 

“Posso scendere dal letto?”

“Di già? Non penso sia il caso di-“

“La prego” chiese con occhi imploranti.

“Oh, d’accordo. Hai bisogno di aiuto o ce la fai da sola?”

“Ce la faccio da sola, grazie”

La ragazza si infilò la giacca sopra il camice d’ospedale e mise i piedi a terra, cercando di non perdere l’equilibrio dovuto a mesi di inattività.

Mosse qualche passo attorno alla stanza, pregando il cielo che il suo piano funzionasse.

“Posso uscire dalla stanza?”

“In realtà preferirei di no, ma se proprio sei convinta di riuscire a muoverti fino a questo punto, almeno appoggiati al muro per non cadere” le raccomandò il medico.

Rachel uscì seguita dall’infermiera paffuta.

Si accertò di riuscire a camminare tranquillamente, aumentando pian piano l’andatura.

“Hey ragazzina rallenta! Così rischi di cadere!” l’avvertì la donna mentre la vedeva guadagnare terreno.

Senza prestarle attenzione, Rachel iniziò a correre prima lentamente per poi acquistare velocità e confidenza col suo corpo ancora barcollante.

“Fermati! Dove stai andando?” le gridò dietro l’infermiera.

La ragazza corse per il lunghissimo corridoio, guardandosi attorno.

“Dove diavolo sono?” pensò.

Ad un tratto parve riconoscere quelle porte, quei muri per metà colorati di azzurro.

Riconobbe persino l’odore di quell’ospedale che aveva tante volte visitato e di cui aveva registrato tutti i dettagli senza nemmeno rendersene conto.

“Sono a Londra… Sono al Bart’s!” esclamò raggiungendo l’ascensore.

Si trovava al terzo piano e cliccò automaticamente sul piano -1: l’obitorio.

Sapeva che lì avrebbe trovato un’amica, una salvezza.

Come le porte si aprirono, camminò il più velocemente possibile, appigliandosi alla parete.

Percorse con gli occhi tutti i corridoi in cui il piano si diramava finché non trovò il settore che cercava.

“Molly!” esclamò, scorgendo la giovane donna in camice e guanti dietro una porta a vetri, intenta ad esaminare un cadavere.

Accanto a lei Lestrade l’ascoltava, stanco ma interessato.

“Oh grazie al cielo!” si disse sorridendo.

Con una leggera spinta si staccò dal muro e aprì di slancio la porta a due ante che conduceva nella stanza.

“Molly! Lestrade! Per fortuna siete qui!” disse attirando l’attenzione dei due.

Molly restò sbigottita, Lestrade sembrò sul punto di avere un principio d’infarto.

La ragazza si inginocchiò, distrutta da tutta quell’attività fisica in un sol colpo.

“Rachel! Com’è possibile? Tu eri… Da dove sbuchi?” chiese a raffica l’ispettore correndole incontro, mentre Molly si toglieva i guanti in preda al panico e le prendeva una sedia.

“Rachel, amica mia, dove sei stata in questi sei mesi? Tu dovresti essere… morta” mormorò la patologa abbracciandola.

Lestrade la sollevò con delicatezza di peso e la fece sedere, mentre lei cercava di recuperare più fiato possibile.

“Non so come sono riuscita ad arrivare in ospedale, non lo so. Il medico mi ha detto che una chiamata anonima ha avvertito il pronto soccorso della mia posizione e sono venuti a prendermi” disse ansimando.

“Va bene, sta tranquilla” le disse Lestrade accucciandosi al suo fianco “Ora ti portiamo a casa da John e Sherlock, d’accordo?”

Rachel gli gettò le braccia al collo, stringendolo e ringraziandolo in ogni modo esprimibile a parole.

“Però dobbiamo fare attenzione, non possiamo andare con la macchina della polizia. Greg, dobbiamo lasciare il veicolo dietro un angolo della strada, poi andremo a piedi a Baker Street”

“E perché mai?” chiese Molly, infilandosi la giacca aiutata dall’ispettore.

“Perché John e Sherlock sono in pericolo. Me lo ha detto Mary”

“Mary?” chiesero in coro i due.

Rachel assentì.

“Ascoltatemi, so che vi sembrerà strano quello che sto per dirvi, ma mi dovete assolutamente credere. Non sono pazza e non mi sono inventata niente. Io credo… di aver incontrato Mary dall’altra parte”

“O cielo…” esclamò la donna.

“Molly, tesoro, io vado a prendere la macchina e la porto all’entrata sotterranea. Tu e Rachel raggiungetemi di sotto con l’ascensore”

“D’accordo, ti aspettiamo lì” rispose lei con un sorriso dolce mentre il DI usciva di corsa.

“Tesoro?” chiese Rachel mentre l’altra le cingeva la vita con un braccio per aiutarla a camminare.

Molly arrossì violentemente mentre si avviavano.

“Quante altre cose mi sono persa in questi sei mesi?”


 
 
 
“Nemmeno qui” affermò sbuffando il dottore “Stiamo cercando da un’ora e mezza e ancora nulla. Abbiamo setacciato i tabulati di Dio solo sa quanti ospedali sparsi per l’Inghilterra e niente, nemmeno l’ombra di Rachel”

“Coraggio John, ce ne sono ancora tanti altri. Dovrà pur essere da qualche parte. Sai che una persona non sparisce così all’improvviso”

“Lo so, Sherlock, lo so…”

“La troveremo, vedrai” disse il detective con voce calma e rassicurante, quel tono che a John dava sempre i brividi di piacere lungo tutta la schiena.

“Aspetta un momento, Sherlock. Dove ho detto che abbiamo cercato Rachel?”

“Come scusa?” chiese il consulente staccando lo sguardo dal suo PC.

“Ti ho chiesto: dov’è che abbiamo cercato Rachel? In quali ospedali intendo”

“Ti devo fare l’elenco di tutti i nomi degli ospedali?”

“No, Sherlock. Ripeti solamente la stessa identica cosa che ho detto io”

“Abbiamo setacciato i tabulati di solo Dio sa quanti ospedali sparsi per l’Inghilterra e niente, nemmeno l’ombra di Rachel” ripeté a pappagallo Holmes.

Non appena concluse la frase, spalancò gli occhi.

“Un momento, i tabulati del Bart’s li abbiamo già guardati” disse John meditabondo “Però aspetta un minuto. Rachel non ha un cognome” concluse guardando il compagno.

“Elementare mio caro Watson. Lei non è certificata come tua figlia, all’anagrafe ha ripudiato il cognome del padre, quello della madre nemmeno lo conosceva. Perciò lei è Rachel e basta. Però così non l’avrebbero potuta accettare in un ospedale, quindi avranno creato un cognome fittizio per lei, forse le hanno persino cambiato il nome”

“Ecco perché non l’abbiamo trovata!” esclamò Watson rincuorato.

“Esattamente” sorrise l’altro facendogli l’occhiolino “Ora cerco il file”

“Sherlock, posso farti una domanda?”

“Mh, dimmi”

“Secondo te è stata Eurus a salvarla?”

“Di che parli, John?” chiese il consulente stralunato.

“Voglio dire… Rachel non può essersi salvata da sola, se si è salvata. Non aveva il cellulare, non aveva le forze necessarie. Io, te e Mycroft eravamo narcotizzati. Nessun’altro oltre a Eurus sapeva dove ci trovavamo. Quindi deve essere stata per forza lei a salvarla. Il punto è: perché? Perché prima causarci tutto quel dolore, spingere te ad uccidere o me o tuo fratello per poi salvare Rachel? Lei stessa godeva nel vederla soffrire e io non riesco a capire come sia possibile tutto questo” gli rispose il dottore prendendosi la testa tra le mani.

“Forse c’entra qualcosa con i sentimenti?”

“A cosa ti riferisci?”

“Mi riferisco alle emozioni, John. Magari mia sorella ha sentito come un legame con Rachel e quindi di conseguenza l’ha risparmiata”

“Penso che tu abbia ragione, Sherlock. Forse… Si è ritrovata in nostra figlia. Si è ricordata di sé e della sua solitudine e, trovando un altro essere umano nelle sue stesse condizioni, ha provato compassione per la prima volta nella sua vita. Sembra una spiegazione un po' banale, ma è l’unica possibile” ragionò tra sé Watson.

“Come l’hai chiamata?” chiese Sherlock incerto, sbarrando leggermente gli occhi.

“Mh?” chiese John distratto, ancora intento a pensare.

“John, come hai chiamato Rachel?”

“Non ti seguo, Sherlock, perdonami. Come l’ho chiamata in che senso?”

“Non ci hai fatto caso?”

“Sherlock, puoi parlare chiaro?”

“John, l’hai chiamata ‘nostra figlia’” affermò Sherlock, un’espressione di leggero stupore gli velava il volto.

“E con ciò?”

“No, niente… Solo non mi aspettavo che mi potessi considerare come il padre di Rachel”

“Sherlock, se è per questo tu sei anche il padre di Rosie” gli sorrise il dottore.

“Ma non è sangue del mio sangue” protestò l’altro, ricominciando a digitare piano, cercando quel dannato file.

“Questo non significa niente, Sherlock. Nemmeno Rachel è sangue del mio sangue, eppure io la considero mia figlia adottiva, lei mi considera suo padre adottivo. Anche per lei sei come un padre, solo che non lo esterna apertamente perché non sa come potresti reagire. Ti vuole bene esattamente quanto ne vuole a me, ma lo dimostra in modi diversi. Con Rosie sarà la stessa cosa, anzi, non mi stupirei se chiamasse anche te papà” gli rispose Watson avvicinandosi.

Gli prese il volto con una mano e delicatamente lo fece girare verso di sé, sfiorandogli le labbra.

Sentì Sherlock essere scosso da un minuscolo brivido e sorrise.

Il detective lo guardò con occhi da cerbiatto smarrito, ma pochi millesimi di secondo dopo, spinse il viso in avanti, per unire di nuovo le labbra a quelle di John.

Stavolta il bacio fu un poco più lungo, ma si staccarono quando il consulente li riportò alla realtà.

“Troviamola, coraggio”

Aprì i tabulati ospedalieri del Bart’s ed iniziarono a scorrere velocemente.

“Mia sorella ha un quoziente intellettivo persino superiore a me e Mycroft” spiegò Sherlock “perciò, se è stata lei a salvarla, non le ha lasciato il suo stesso nome. Sarebbe stata troppo facile da rintracciare. Probabilmente Mycroft ha incaricato i suoi collaboratori di dare un’occhiata ai nomi e certamente questi ultimi hanno guardato ma non osservato, come sempre. Perciò, John, dobbiamo osservare, prestare la massima attenzione anche alla più piccola cosa”

“Intendi qualcosa che possa ricondurci a lei, ma che non sia comprensibile a chiunque se non a una mente geniale come la tua?”

“Sì, qualcosa del genere. Allora vediamo… Alice McLeon, Barbara Honey… Ronnie Lionel…”

“Fermo, guarda qui” lo bloccò John, indicando col dito un nome in grassetto “Rosamund Norbury”

“Norbury è il cognome della donna dell’acquario, quella che ha ecco… ucciso Mary” disse Sherlock abbassando gli occhi.

“E Rosamund era il primo nome di Mary!” esclamò Watson sorridendo raggiante “Controlla da quanto tempo è in ospedale”

“Da esattamente sei mesi” rispose il detective sorridendo a sua volta in direzione del compagno.

“Sherlock, è lei! È viva!”

“L’abbiamo trovata, John”

“Grazie di non avermi fatto perdere la speranza”

“Coraggio, nostra figlia ci aspetta” affermò l’altro afferrando il cappotto.
 



“Credo che purtroppo dovrà aspettare ancora un po', signori” ghignò dall’ombra una voce orribilmente familiare “Direi che dovreste prestare più attenzione a chi entra in casa vostra. Essere così distratto non è da te, Sherlock. Cos’è che ti ha preso al punto di non farti nemmeno percepire lo scricchiolio di queste dannate e vecchissime scale?”

“Moran. Qual buon vento ti porta qui?” chiese freddamente Sherlock.

“Oh, niente di che. Una semplice vendetta”




 

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Capitolo 16
*** What you want me to play? ***


(16) What you want me to play?
 
“Una vendetta? E cosa mai abbiamo fatto noi per scatenare l’ira funesta del pelide Achille?” lo stuzzicò Sherlock con un sorriso sfrontato.

“Non giocare con me, signor Holmes, non sei in condizioni di poterlo fare” rispose Moran tirando fuori una calibro 9 con silenziatore, puntandola nella loro direzione.

“Sherlock, non è questo il momento di fare la prima donna” bisbigliò Watson tenendo lo sguardo fisso sull’arma.

“Tranquillo, John. Moran non ha abbastanza fegato per spararci”

“Fidati, Sherlock, ne ho più di quanto tu possa credere. E non ti conviene provocarmi. Vuoi che ti ricordi l’episodio di Mary? Lì il tuo esibizionismo non è stato molto di aiuto, vero?” sorrise maleficamente il cecchino.

Il consulente si zittì immediatamente, lanciando uno sguardo fuggevole a John, il quale aveva distolto lo sguardo.

“Oh bene. Mi piace questo nuovo te, sai Sherlock? È diventato così facile farti stare zitto che provo quasi piacere per la morte di quella donna”

“Figlio di…” iniziò John facendo un passo in avanti, ma Sherlock lo bloccò con il braccio, tornando a posare lo sguardo sull’uomo armato in tuta nera che era sbucato da dietro la loro porta principale.

“Non ti permettere di parlare di Mary, Moran. Non hai il diritto nemmeno di pronunciare il suo nome”

“Oh, beh… Allora vogliamo parlare di Rachel?”

John fremeva di rabbia, Holmes lo percepì.

Notò il tremore eccessivo delle mani strette a pugno, il respiro più pesante del normale, le spalle leggermente incurvate e le narici che si allargavano ad ogni respiro come quelle di un toro.

Watson era sul punto di perdere il controllo e lui avrebbe dovuto fare di tutto pur di evitarlo, altrimenti sarebbe stato troppo esposto al pericolo del proiettile.

“Voi credete ancora che sia viva, vero?” ghignò Moran “Sinceramente penso che vi sbagliate di grosso. Ho visto il suo cadavere”

“Che cosa?” gemette John.

“Ha capito bene, mio caro dottore, io ho visto il suo cadavere. Ho anche assistito a tutta la scena, sa? Commovente, davvero. Vederla piangere in quel modo, implorarla. Mi si è sciolto il cuore osservandovi da una piccola finestra nascosta” rise l’altro.

“Taci, razza di bastardo. Rachel è ancora viva, l’abbiamo trovata!”

“Oh davvero? E allora questa cos’è?” chiese Moran, prendendo da una tasca dei pantaloni una collana fin troppo familiare a entrambi.

“John… Quella non è la collana che le abbiamo regalato per il nostro primo Natale tutti insieme?”

“Prendi, caro Holmes”

Il cecchino lanciò il gioiello in direzione di Sherlock.

Quando il detective l’ebbe tra le mani, capì di non essersi sbagliato.

Un ciondolo colorato a forma di rosa rossa pendeva da una catenina d’oro.

“Dove l’hai trovata?” gli chiese rigirandosela tra le mani.

“Sul suo cadavere”

“Che cosa hai fatto?!” gridò il dottore.

“John, calmati, per favore. Sta solo applicando una forte pressione psicologica, non lo ascoltare”

“Tu hai osato toccare mia figlia?”

“Sì, dottor Watson, ma non si preoccupi, le ho solo sfilato il ciondolo. E devo dire che ha proprio un bel visino. Peccato fosse così pallido e smorto”

“Non dire un’altra parola” lo minacciò l’ex soldato, puntandogli il dito contro.

“Perché, cosa pensa di potermi fare? Si rassegni soldato Watson, quinto fuciliere di Northumberland. Sua figlia è morta e non potrà fare niente per riaverla indietro”
 
 
 
 

“Siamo arrivati” disse Lestrade parcheggiando l’auto in un vicolo a circa cento metri da Baker Street.

“Sicura che te la senti? Sei ancora molto debole, rischieresti di peggiorare la tua situazione” disse Molly mettendo in guardia Rachel, aiutandola ad uscire dall’auto.

“Sto bene, Molly, non ti preoccupare. Mary li ha affidati a me e io non posso deluderla. Non posso proprio”

“D’accordo. Chiamo dei rinforzi” concluse Lestrade.

Quando si furono accertati che ci fossero pochissime persone in circolazione, si avviarono furtivamente verso l’appartamento, rimanendo il più possibile attaccati al muro.

“Che ore sono?”

“Le sei” rispose Molly.

“Sherlock suona sempre a quest’ora. Non è affatto un buon segno”

“Magari hanno avuto un cliente che li ha tenuti più occupati del previsto”

“Forse, ma non ne sarei così certa” concluse la ragazza.

“Il problema è: come entriamo? Non possiamo di certo suonare il campanello” disse l’ispettore.

“Questo lo so, Greg, ma non abbiamo altra scelta. Anche suonassimo alla signora Hudson, il rumore arriverebbe fino al piano di sopra”

“I-io potrei fare da esca” balbettò Molly.

“Non se ne parla” controbatté il DI “Non ti permetterò di rischiare la vita. Non abbiamo la minima idea di quanto pericoloso possa essere quel criminale, se ce n’è uno in quella casa”

“Lo so Gregory, ma non puoi fare tu da esca. Devi aiutare Rachel a salvare John e Sherlock, hai più forza rispetto a me. E Rachel non può ricoprire questo ruolo, è troppo debole e rischierebbe di aver un collasso emotivo, complicando ancor di più tutta la faccenda” affermò decisa la donna.

Lestrade rimase stupito da questo suo atto di coraggio e, a malincuore, dovette darle ragione.

“Promettimi che farai attenzione” le disse accarezzandole il fianco.

“Promesso” rispose lei baciandolo sulle labbra.

Giunti in prossimità del portone, Lestrade e Rachel si nascosero nel vano d’entrata di un negozio, mentre Molly si avvicinò e suonò il campanello, tremando come una foglia.

Quando il portone nero lucido venne aperto, Molly vide la signora Hudson sorriderle raggiante, la porta al piano di sopra era stata chiusa.

Con un veloce gesto della mano, fece entrare anche Rachel e Lestrade che tappò subito la bocca alla padrona di casa, la quale stava per urlare alla vista della ragazzina.

“Simulate un dialogo, presto!” sibilò l’ispettore.

“Oh Molly cara! È da tanto che non ti vedo. Come stai?” esclamò l’anziana donna con voce quasi spezzata.

“Signora Hudson è un piacere. I-io sto bene, solo sono sempre piena di lavoro, sa… con tutti gli omicidi che avvengono!” rispose l’altra con una risata fin troppo falsa.

“Vorresti una tazza di tè?”

“Oh no, grazie, volevo solo vedere Sherlock. Ho bisogno del suo aiuto per l’identificazione di un cadavere”

“Dica che la accompagnerà di sopra, poi coordini i passi con i miei” sussurrò Rachel all’orecchio della non-governante.

“Va bene, cara. Ti accompagno di sopra” affermò Martha Hudson, mostrandosi un poco riluttante.

Salirono le scale con estrema attenzione, allo stesso passo per non far capire che più di due persone stavano salendo.

Giunte davanti alla porta, le donne fecero ancora un po' di rumore per coprire gli altri due che si appostarono dietro il muro.

“Stia pronta, signora Hudson. Questo non le piacerà” bisbigliò la patologa prima di bussare.
 
 
 


“Cristo santo, ci mancava anche Molly” sospirò John massaggiandosi la radice del naso con due dita.

“Prometti che non farai del male né a lei né alla signora Hudson” disse il detective mantenendo la sua distaccata serietà.

“Non faccio promesse che non posso mantenere, Sherlock, non come te”

“Vedo che Moriarty ti ha addestrato bene”

Moran continuava a stuzzicare la sua emotività.

Stava sfruttando la ferita scoperta che ancora lui e John si portavano dentro, sicuramente per farli discutere, litigare, magari anche dividere.

Così lui non avrebbe più avuto nemmeno John al suo fianco e sarebbe stato del tutto vunerabile.

Nemmeno la sorveglianza di Mycroft avrebbe potuto salvarlo da sé stesso.
 
 
 


“Avanti” disse Sherlock, spalle dritte e mento alto, mentre John guardava con ansia l’entrata.

“Sherlock? Posso?” mormorò Molly entrando.

Quando videro Moran, lei e la signora Hudson sobbalzarono, l’ispettore e Rachel si attaccarono ancora di più al muro.

“Bene, due signore ci hanno onorato con la loro presenza” sorrise il cecchino, tirando fuori un’altra pistola e puntandola verso le donne.

“Che cosa…?”

“Stia tranquilla, signora Hudson, non ci accadrà nulla di male” disse John tentando di rassicurarla.

“Se ne è convinto lei” ribatté Moran guardandolo di sottecchi.

“Che cosa vuoi da noi?” chiese il consulente.

“Te l’ho detto, Sherlock. Pura e semplice vendetta. Jim è morto per quella stupida ossessione che aveva per te. Non pensava altro, non viveva per altro. Una volta uccisosi mi ha lasciato nelle mani di quella tua patetica sorellina. Tanto intelligente eppure allo stesso tempo così stupida. Si è fatta fregare da un abbraccio del suo fratellino minore, mandando tutto all’aria. Non era all’altezza di James. Non lo sarebbe mai stata” sibilò con rabbia l’uomo in nero, stringendo con più forza entrambe le armi.

Parlando, Moran aveva fatto il giro della stanza, dando le spalle alla porta aperta, ignaro di chi potesse celarsi lì vicino.

Sherlock, invece, se ne accorse.

Aveva notato l’intonazione troppo alta delle voci, l’esaltazione di cose futili nel discorso, il tremore che le due donne tentavano di dissimulare.

C’era qualcun altro con loro, ne era certo, ma non aveva mosso nemmeno un sopracciglio e, fortunatamente, il cecchino era stato abbastanza ottuso da non percepire il trambusto troppo forte per solo due persone nonostante i passi fossero stati coordinati.

Quando poi vide un ciuffo di capelli grigi fare capolino dallo stipite destro della porta, capì che Lestrade era lì.

Ciò che invece dovette nascondere ancor meglio, fu la sorpresa mista a gioia che provò nel vedere due luccicanti occhi verdi che gli sorridevano.

“John, abbraccia la signora Hudson” affermò il detective girandosi verso il compagno.

“Cosa?”

“Ti ho detto di abbracciare la signora Hudson! Non vedi come è spaventata? Mostra un minimo di umanità!” lo rimbeccò, andando ad inforcare il violino.

L’anziana donna aveva capito tutto dallo sguardo del detective, andò a nascondersi tra le braccia di John e, in un movimento fintamente involontario, lo fece girare verso la finestra, dando così anche lui le spalle alla porta.

“Che stai facendo, Sherlock?” chiese l’uomo armato.

“Come sei irrispettoso, Sebastian. Stai per ucciderci tutti e non mi dai nemmeno l’opportunità di suonare un’ultima volta nella mia vita?”

“Non posso darti torto” rise l’altro “Mi accomodo, se non ti dispiace”

“Oh ma figurati, usa pure la poltrona rossa” disse il detective indicandogli la seduta con l’archetto.

“Sherlock, quella è la mia poltrona se non ricordo male” lo interruppe il dottore.

 “Appunto” rispose senza nemmeno lanciargli un’occhiata.

“Cosa hai intenzione di suonare?” domandò Moran.

“La primavera di Vivaldi”

“Non è un po' troppo allegra per la nostra situazione?” chiese John, il volto nascosto nella spalla della signora Hudson.

“Oh beh, cosa vuoi che suoni allora?” sbottò spazientito il detective.

“La mia preferita” rispose l’altro posando gli occhi su di lui, con amore.

Sherlock non poté far altro che sorridere a quella richiesta, cimentandosi con passione in quella sinfonia che tante notti aveva suonato per John, dandogli conforto con le tristi note di “Crisantemi” di Puccini.

Quando iniziò a suonare, Lestrade e Rachel si assicurarono che il cecchino fosse disattento, che nessuno stesse guardando nella loro direzione.

Sherlock stava eseguendo egregiamente quella melodia, guardando fuori dalla finestra con malinconia come tanto piaceva al suo compagno. Celata in quella malinconia, però, l’adrenalina iniziò a scorrergli in corpo. Sapeva di aver fatto ben capire ai due dietro la porta quali erano le sue intenzioni.

Suonare era solo una distrazione, uno stratagemma per far deconcentrare Moran.

L’uomo, infatti, si era rilassato sulla poltrona come se avesse momentaneamente dimenticato gli ostaggi.

Gregory teneva in mano la sua fidata pistola, Rachel si era armata di un vecchio attizzatoio arrugginito e appuntito che la signora Hudson aveva abbandonato nel portaombrelli all’ingresso, dimenticandosi continuamente di buttarlo via.

Con passo più leggero possibile entrarono nella stanza, evitando di fare un qualsiasi rumore che non fosse quello delle vecchie assi di legno, fortunatamente coperto dal violino.

“Andiamo, Sherlock” si intromise Sebastian “tu non ti arrendi così facilmente. Qual è il tuo asso nella manica?”

Sherlock interruppe la sinfonia e lo guardò, sorridendo soddisfatto “Io l’ho già sfoderato, Sebastian. Purtroppo però tu, come tutti, guardi ma non osservi. O, in questo caso, senti ma non ascolti”





In quel momento Lestrade fece un passo di troppo e non ci fu nulla che impedì al cecchino di sentirlo.

Quest’ultimo si girò di scatto, impugnando la pistola e sparando un colpo che il DI, fortunatamente, riuscì a schivare.

Molly gridò il nome dell’ispettore, terrorizzata.

Solo dopo Sebastian notò Rachel avventarglisi contro.

L’uomo era più alto di lei, poco meno di Sherlock, ma comunque un avversario troppo forte.

Anche John si era girato, mollando la presa sulla signora Hudson non appena aveva sentito l’asse del pavimento scricchiolare così forte.

Vedendo Lestrade aveva provato un enorme sollievo.

Successivamente un’improvvisa cascata di ricci rossi aveva attraversato il suo campo visivo, lasciandolo pietrificato.

Un grido di rabbia uscì dalla bocca di Rachel, la quale si tuffò con furore su Sebastian piantandogli l’attizzatoio a fondo nella coscia.

L’uomo lasciò la pistola e strinse la ferita con entrambe le mani, spalancando la bocca in un roco grido di sofferenza, il bastone di metallo ancora conficcato nella carne che formava una sorta di angolo ottuso rispetto alla gamba.

Lei atterrò qualche centimetrò più avanti rispetto a Moran, ansimando per la paura e lo sforzo.

“Tu dovresti essere morta, brutta mocciosa!” gridò l’altro con la bava alla bocca, prendendola al volo mentre tentava di fuggire e gettandola con forza inaudita verso l’uscita, come se volesse farla cadere oltre la ringhiera delle scale.

“RACHEL!”

John la raggiunse con uno scatto repentino, prendendola poco prima che lei riuscisse ad aggrapparsi al corrimano.

“Tesoro mio, allora sei viva” ansimò l’ex soldato affiancandola, accertandosi delle sue condizioni.

Quando lei alzò gli occhi su di lui, John non poté far altro stringerla in un abbraccio di conforto e amore sconfinato, piangendo calde lacrime di sollievo mentre altre volanti della polizia si avvicinavano all’appartamento a serene spiegate.

Sebastian si girò verso gli altri ostaggi con rabbia.

Non appena realizzò ciò che stava per accadere, Sherlock non gli diede tempo di reagire e lo colpì con un destro che fece male persino alle nocche del detective.

Il crack inconfondibile di un naso rotto gli risuonò nelle orecchie, strappandogli un sorriso soddisfatto.

Lo afferrò per la maglietta nera e lo alzò verso di sé.

“Azzardati di nuovo a fare una cosa del genere a Rachel o John e ti giuro che il tuo quoziente intellettivo sarà inqualificabile, perché di te non rimarrà che un ammasso di carne e sangue” gli sibilò a due centimetri dal volto, lasciandolo poi cadere a terra con un tonfo.

Raggiunse John e Rachel, abbracciando la ragazzina forte come non pensava sarebbe mai stato capace di fare, mentre cinque poliziotti sfondavano il portone e sfilavano al loro fianco sulle scale, intimando a Moran di non muoversi.

“Hey” sussurrò Holmes.

“Ciao Sherlock. Mi sei mancato tanto” sorrise lei, iniziando a piangere dopo la scarica d’adrenalina.

“Anche tu ci sei mancata, più di quanto tu possa credere” rispose Sherlock, abbracciandola ancora. 



















Note dell'autrice: Ciao a tutti! Finalmente la famiglia è stata ricongiunta :3 Ovviamente, però, non è finita qui. Ci sono ancora diverse cose in sospeso che devono essere risolte e vi prometto che cercherò di dare una risposta a tutte le domande che (forse) vi stanno ronzando in testa. Spero che fino ad ora la storia sia abbastanza scorrevole, chiara e comprensibile. Per quanto riguarda la seconda parte di "Taking care of you", vi chiedo umilmente scusa se vi sto facendo aspettare così tanto, ma quando una cosa non mi viene, quando non riesco a scrivere di getto, non ho la forza mentale di mettermi davanti al computer e scrivere qualcosa che so non sarà al 100% mio. Inoltre nella mia città è sempre stato un caldo micidiale, perciò anche quello non ha aiutato! >.< 
Comunque prometto che farò del mio meglio per portare a termine sia questa storia che la mini-long. 
Preparatevi, perché ho già un'altra idea per un'altra long, che però sarà completamente diversa da questa! Sono una bambina emozionata *^* 
Quindi, bando alle ciance e scusatemi se ho sclerato come al solito nelle note! Spero che il capitolo vi sia piaciuto così come i successivi, alla prossima, un abbraccio! <3 
PS: Questa settimana sicuramente pubblicherò un altro capitolo, perciò stay tuned! <3 

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Capitolo 17
*** Didn't you expect me to do that? ***


(17) Didn’t you expect me to do that?
 
Moran venne portato via dai poliziotti, guardando in cagnesco Rachel, Sherlock e John, il quale lo minacciò con gli occhi.

Rientrarono in casa e fecero sedere la ragazzina sul divano, mentre due uomini del pronto soccorso salivano le scale, chiamati da Lestrade per controllare le condizioni di lei.

Fortunatamente il risveglio così brusco dal coma e lo sforzo fisico non avevano portato a nessun tipo di complicazione, ma era molto pallida e soprattutto molto debole.  

“Grazie, ce ne occuperemo noi” disse John sedendosi vicino alla figlia.

“Vuoi mangiare qualcosa?” chiese la signora Hudson.

“Se non le crea disturbo, vorrei un brodo di pollo caldo” sorrise Rachel.

“Certo tesoro, te lo porto subito”

“Volete rimanere a cena con noi?” chiese Sherlock all’ispettore e a Molly, lasciando tutti con un palmo di naso.

“Sherlock… Tu ci hai appena invitato a cena?” chiese Lestrade con un sorriso stupito.

“Beh… Avete aiutato Rachel a tornare a casa” rispose lui semplicemente.

“Ecco, noi…” iniziò Molly.

“Per noi non è un problema” mormorò Rachel, parlando per lei e John “Io avrò tempo di riposarmi”

John assentì con un cenno della testa.

“Allora… direi che dobbiamo approfittare di quest’occasione più unica che rara” rise il DI, togliendosi il cappotto.

“Bene, vado ad avvertire la signora Hudson, le chiedo se vuole unirsi a noi e poi vado a prendere Rosie da Mike” disse John alzandosi

“Per te va bene, Sherlock?”

“Certo”
 
 
 
Circa mezz’ora dopo, John tornò di sopra con un vassoio ricolmo di roastbeef, patate arrosto e verdure.

“Sherlock, potresti andare a prendere il tavolino pieghevole in soffitta?” gridò la signora Hudson che stava salendo le scale con in mano il brodo per Rachel.

“Perché? Non usiamo il tavolo della cucina?” chiese John.

“La signora Hudson non vuole che Rachel si alzi dal divano. Ha girà fatto troppa fatica e vuole che stia il più comoda possibile” gli rispose Sherlock superandolo e avviandosi verso la soffitta.

Prese il tavolino di plastica bianca e lo aprì di fronte al divano, prendendo poi una sedia per sé, John e la signora Hudson.

“Prima di mangiare vorrei cambiarmi” disse Rachel.

“Vieni, ti accompagno io” le rispose Molly aiutandola ad alzarsi.

Fortunatamente i medici si erano sempre presi cura di lei in quei mesi, perciò non ebbe nemmeno bisogno di lavarsi.

Aiutata da Molly si tolse la giacca di Sherlock che aveva indossato fino a quel momento, appendendola nell’armadio del detective, e infilò un pigiama pulito.

Quando tornarono in salotto il tavolo era già apparecchiato e la signora Hudson stava riempiendo i piatti di ognuno.

Molly e Lestrade erano sul divano insieme a Rachel, al cui fianco era seduto Sherlock, poi John e la padrona di casa.

“Sherlock, ti ho appeso la giacca nell’armadio. All’ospedale le hanno fatto fare un giro di lavatrice” sorrise la ragazza sedendosi e prendendo in mano il cucchiaio.

“Grazie” le rispose il consulente mangiando un pezzo di roastbeef.
 
 
 
Rachel immerse il cucchiaio nel brodo e se lo portò con lentezza alla bocca, ma la mano tremò violentemente e metà ne ricadde nel piatto.

Quando il consulente mangiò un altro boccone, la mano di Rachel sussultò ancora una volta.

“Aspetta, ti aiuto” le disse Sherlock pulendosi la bocca con il tovagliolo e prendendole con delicatezza la posata dalla mano.

Raccolse un po' di brodo e lo avvicinò alle labbra di lei che mangiò con gusto, ma un “Ah!” le sfuggì dalla bocca a causa della temperatura incandescente della pietanza.

“Scusa, è troppo caldo?” le chiese l’uomo.

“Prova a soffiarci sopra” gli sussurrò John in un orecchio.

“Oh giusto”

Quando anche la signora Hudson, Lestrade e Molly si resero conto di quello che Sherlock stava facendo smisero di mangiare, guardandolo a bocca aperta.

Un sociopatico iperattivo, un uomo freddo e distaccato che si emozionava per gli omicidi stava imboccando Rachel come fosse veramente suo padre. Questo era un comportamento più da John e nessuno, a parte l’ex soldato, si sarebbe mai aspettato una cosa del genere da lui.

Quando si accorse del silenzio tombale che era calato sulla stanza, si girò verso gli altri e li guardò stralunato.

“Cosa c’è? Mi sono sporcato la camicia?” chiese guardandosi il petto in cerca della macchia incriminata “Oh… E’ perché sto imboccando Rachel e da me non ve lo sareste mi aspettato? Capisco di non essere il più emotivo in questa stanza, ma solo un’idiota come Anderson sarebbe rimasto a guardarla mentre non riusciva nemmeno a mangiare, suvvia”

“Effettivamente…” assentì Lestrade, Molly si lasciò sfuggire una risata.

“Ne vuoi ancora?” chiese Sherlock alla ragazza.

“No, grazie. Sono piena” gli sorrise lei.

“Va bene. Allora, Grunt, hai qualche nuovo caso per me?” domandò l’uomo ricominciando a mangiare dal suo piatto.

“Oh ma andiamo, Sherlock! Grunt?” protestò il DI.

“Che c’è? Che ho detto?”

“Sherlock, il suo nome è Greg. Quanti anni ancora ti ci vorranno per ricordartelo?” rise John.

“Non posso pretendere chissà cosa, a malapena sa qualcosa del sistema solare, non potrà mai ricordarsi un nome difficile come Gregory!” lo stuzzicò l’ispettore, beccandosi un’occhiataccia dal consulente.

“Non conoscerò nulla riguardo al sistema solare, ma posso elencarti in questo preciso momento tutti i 239 modi in cui posso ucciderti usando un qualche tipo di acido corrosivo” rispose Sherlock con supponenza, continuando a mangiare.

Rachel rise di cuore, felice come non mai.

“Comunque non ho nulla di nuovo, le solite cose. Furti…” cominciò Lestrade.

“Noioso”

“…arresti per contrabbando…”

“Noioso”

“…e un omicidio a porte chiuse”

“Uh, finalmente qualcosa che mi interessa. Dimmi di più”

“La vittima si chiama Richard Anderson”

“Peccato non si chiami Philipp” affermò l’altro alzando gli occhi al cielo.

“Sherlock” lo rimbeccò John.

“Va bene va bene… Come è morto?”
 
 
 
Continuarono così ancora a lungo.

La signora Hudson e Molly scesero di sotto e prendere un tè, Lestrade volle un caffè, mentre John e Sherlock continuavano a discutere
con lui riguardo al caso, facendo ogni possibile congettura e riuscendo, infine, a trovare la soluzione.

Rachel coccolò la piccola Rosie e la fece giocare con il suo pupazzetto preferito, quello di Sherlock, ascoltando incuriosita il discorso dei tre uomini.

Concluso quel frangente di conversazione, John non riuscì a trattenersi dal farle una domanda.

“Come facevi a sapere che eravamo in pericolo?”

Il sorriso si spense sul volto della ragazza.

Si girò verso Lestrade che la guardò dubbioso, ma alla fine le sorrise per incoraggiarla.

“Rachel…” chiese Sherlock “cos’è successo in ospedale?”

Sapeva che tutto era basato su quello. Doveva essere successo qualcosa mentre era lì, perché altrimenti non sarebbe mai riuscita a
sapere che le loro vite erano a rischio, riuscendo persino a pianificare una strategia insieme a Molly e Lestrade lungo la strada.

La ragazza sospirò e guardò John negli occhi: “Ho incontrato Mary dall’altra parte”

Il dottore spalancò gli occhi, Lestrade fece scorrere lo sguardo su Sherlock, il quale non aveva avuto alcun tipo di reazione.

“Che significa l’hai incontrata?” domandò John al limite dell’incredulità.

“Significa che l’ho vista, John. L’ho vista e le ho parlato. Mi ha aiutata a ricordare cosa fosse successo in quella stanza ed è grazie a lei se il mio cervello si è risvegliato” iniziò la ragazza “Ho ripensato agli ultimi momenti passati con voi. Quando ho aperto gli occhi nel vedere Mary, ho visto anche una poltrona nera e una rossa. Poi ha iniziato a domandarmi cosa fosse accaduto, facendomi capire che io in realtà ero solamente svenuta dal dolore, che non tutto era perduto, che potevo ricominciare a vivere. Così mi sono svegliata all’improvviso e mi hanno detto che mi chiamavo Rosamund Norbury…”

“Sì. Norbury è il cognome dell’assassina, Rosamund il primo nome di Mary” le confermò Sherlock.

“Esattamente. E Mary, prima che mi riprendessi, mi ha detto che le vostre vite erano in pericolo, anche se non so come facesse a saperlo. È stato tutto molto confuso e a ripensarci adesso, ho meno risposte di prima”

“Io non…” iniziò John.

Lui voleva delle risposte tanto quanto Rachel, ma sapeva non essere il momento adatto. Non poteva obbligarla a parlare, a ricordare fatti disordinati ed ovattati dal coma. Era un momento oltremodo delicato e se nemmeno Sherlock le aveva fatto qualche domanda, significava che la situazione pendeva sul filo di un rasoio. Rachel era sempre stata una ragazza molto emotiva ma allo stesso tempo forte di carattere, eppure nemmeno lei sarebbe riuscita a riprendersi così in fretta da una debolezza fisica incredibilmente alta e sei mesi di coma.

Ancora non riusciva a spiegarsi come fosse riuscita anche solo a compiere un passo, ma sapeva che ci sarebbe stato tempo anche per quello. Per le spiegazioni, per i chiarimenti e per le ipotesi che a Sherlock piacevano tanto. In quel momento l’unica cosa di cui gli importava era che Sherlock, Rachel e lui stesso riuscissero a riacquistare i propri ritmi quotidiani, riportando la normalità, se così si poteva definire, e la serenità in Baker Street.

 “Niente” s’interruppe dopo aver formulato questi pensieri “Ora non ti sforzare, sei ancora troppo debilitata. Vuoi che ti accompagno in camera tua, così puoi dormire?” le chiese il dottore con fare paterno.

“Se non ti dispiace, vorrei mettermi sulla tua poltrona davanti al camino”

“Va bene”

John si alzò e spostò la sua poltrona vicino al camino, così che la ragazza potesse scaldarsi e le prese un libro da leggere pensando che avesse un gran bisogno di distrarsi.

Passarono due ore tranquille e quando Gregory si alzò per salutare dato che si era fatto tardi, Sherlock disse loro di parlare piano, perché la ragazza si era addormentata con il libro in grembo.

Scesero tutti di sotto e, quando finalmente rimasero soli, Sherlock e John diedero la buonanotte alla signora Hudson, salendo finalmente nella tranquillità della loro casa.

La loro.

Di John, Sherlock e le due figlie, nessun’altro.

“Rachel…” bisbigliò John.

“Mh?” la ragazza aprì lentamente gli occhi “Altri cinque minuti, John, ho sonno”

“Lo so Rachel, ma voglio solo portarti a letto, poi potrai dormire quanto vuoi” le disse facendola alzare.

Lei si appoggiò al suo braccio e, come toccò il materasso, crollò in un profondo sonno ristoratore.

Mentre John era nell’altra stanza, Sherlock spostò la poltrona al solito posto e si accomodò sulla sua, aspettando che il compagno tornasse per suonare un po'.

 
 
“Finalmente” sospirò John lasciandosi andare di peso sulla seduta morbida.

“Giornata intensa, direi” osservò Holmes mentre accordava lo strumento.

“Concordo pienamente” rispose l’altro massaggiandosi le tempie con entrambe le mani.

“Un ritorno in grande stile, più che altro” aggiunse dopo qualche secondo di silenzio.

“Già. L’ultima cosa che mi sarei aspettato era una tale coincidenza”

“Sherlock, tu non hai sempre detto di non credere nelle coincidenze?”

“Sì e non ci credo nemmeno ora, ma non ho un’altra spiegazione logica a tutto questo. Ed è molto fastidioso” ribatté l’altro infastidito.

“Quando la smetterai di voler trovare una spiegazione logica a qualsiasi cosa accada su questo dannatissimo mondo?”

“Mai, John. Perché io non credo nelle coincidenze, nella magia, nel destino. Credo solo nella scienza e nella logica”

“E nei sentimenti?” chiese all’improvviso il dottore. 

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Capitolo 18
*** John, what are feelings? ***


(18) John, what are feelings?
 
“Come scusa?”

Holmes era certo di non aver capito bene. Il suo udito gli aveva sicuramente giocato un brutto scherzo.

“Ti ho chiesto, Sherlock, se credi nei sentimenti”

“John… Cosa sono questi sentimenti di cui continui a parlare?” chiese il detective un po' spaesato.

“Sherlock ci siamo baciati, hai abbracciato e imboccato Rachel come fosse tua figlia e tu ancora mi chiedi cosa sono i sentimenti?”

Il detective aprì la bocca per ribattere, ma John lo interruppe.

“No, Sherlock, i sentimenti non sono un difetto chimico. Non lo sono ora e non lo saranno mai finché ci sarà un essere vivente su questa terra. Per l’amor di Dio, sei una contraddizione che cammina” continuò alzandosi in piedi.

“John, ti sbagli, non ho aggiunto nulla di contraddittorio al mio discorso. Più che altro sei tu che ti stai contraddicendo, contraddicendomi sul fatto che io non mi sto contraddicendo dicendo che in realtà io mi sto contraddicendo”

“Tu ti sai contraddicendo, Sherlock. Vuoi che ti spieghi cosa sono i sentimenti?”

“Sì, John, sarebbe carino da parte tua. Cerca solo di non essere troppo smielato perché ti ricordo che io non sono una di quelle donnine con cui uscivi e che ho avuto, solo in rari casi grazie al cielo, la sfortuna di conoscere”

“Sì Sherlock, lo so, non ho bisogno di un ulteriore monologo su ‘quanto fosse basso il QI delle donne con cui uscivo e su quanto futili e/o monotone fossero le loro vite, facendo cadere così la mia esistenza in un buio baratro di noia e tristezza sconfinate ed incalcolabili’ ” sbottò John alzando gli occhi al cielo, citando a memoria le esatte parole che il compagno gli rivolgeva dopo ogni singolo appuntamento finito miserabilmente male.

Il consulente sbuffò, non riuscendo però a trattenere un piccolo sorriso malizioso e sfrontato.

“Ora voglio farti una domanda, mio caro cuore di ghiaccio” iniziò John piantandosi i pugni sui fianchi “Cos’è che ti ha spinto ad imboccare Rachel come fosse una bambina, o come se fosse tua figlia?”

“John, io non l’ho aiutata credendo che fosse mia figlia, ma semplicemente perché non riusciva a mangiare. La sua mano tremava terribilmente e metà del brodo che metteva nel cucchiaio cadeva irrimediabilmente o sulla tovaglia oppure di nuovo nel piatto. A quella velocità avrebbe impiegato ore intere per finire tutto, inoltre non…” il detective si bloccò, tentennando un momento di troppo e completando la frase con un goffo “non credo che qualcuno sarebbe stato capace di rimanere a guardare”.

“Sherlock Holmes, tu hai esitato” rispose John sorridendo compiaciuto.

“No, non ho affatto esitato”

“Oh sì che lo hai fatto”

“Non ho la minima idea di che cosa tu stia parlando”

“Che cosa volevi dire veramente?”

“Non ti capisco, John”

“No, tu fai finta di non capire. Sei l’uomo più intelligente al mondo, te lo concedo, ma non credere ti potermi ingannare in questo caso. Volevi dire che ti faceva pena perché le vuoi bene, giusto?”

Sherlock tacque, il che diede al dottore la conferma che cercava.

“Non c’è nulla di male nel fatto che ti facesse pena, dimostra solamente la tua natura umana. Ed essere almeno in parte umano non è un disonore, anzi, rende il tuo gesto ancor più importante. Sherlock, questa parte la possiamo vedere solamente noi. Io, Rachel, Molly, la signora Hudson, Lestrade. Noi e non Mycroft, nonostante sia tuo fratello. Con lui hai un rapporto diverso, vi volete bene a modo vostro anche se sembra una continua combutta tra acerrimi nemici. Lo stesso Mycroft il giorno in cui ci siamo conosciuti mi ha fatto prelevare e mi si è presentato come il tuo arci nemico, ma col tempo ho capito che è semplicemente un fratello maggiore petulante, supponente e rompipalle che cerca di proteggerti” disse John, strappando un sorriso mal trattenuto al compagno.

“Non devi avere paura di mostrare ciò che sei a noi, perché sappiamo che ci vuoi bene nonostante tu non lo dica mai o, peggio, dimostri tutto il contrario trattandoci da schifo. Però, Sherlock, se noi siamo rimasti nonostante i tuoi stupidi comportamenti e il male reciproco che ci siamo fatti, significa che c’è del buono in te e noi siamo tra quei pochi privilegiati che hanno avuto modo di conoscere anche il tuo io più profondo. E sai cosa ti dico? Non me ne frega un cazzo se tutto ciò che sto per dirti lo considererai come un ammasso di futili sdolcinatezze, perché ti conosco e so che tu queste cose da me le accetti, altrimenti non mi avresti mai permesso di farti il bagno o piangerti addosso per un’ora subito dopo” continuò a raffica il dottore.

“John…”

Sherlock rimase a bocca aperta davanti a quel fiume di parole interminabili che uscivano dalla bocca dell’ex soldato. Era abituato a ridicole dichiarazioni che il coinquilino provava fino allo sfinimento chiuso nella sua stanza, ridicole tecniche di rimorchio che lui vedeva più come infantili pantomime adolescenziali ma che, purtroppo, spesso e volentieri andavano a segno, nonostante tutto scomparisse in una nuvola di fumo poco dopo a causa di una stupida affermazione da parte della donnina in questione, che urtava sensibilmente l’animo focoso e impulsivo di John.

Eppure ciò che stava dicendo in quel momento non sembrava affatto preparato, tutt’altro. Ogni singola sillaba era così vera e cristallina che Sherlock sentì le sue pupille dilatarsi, le sue iridi brillare di stupore infantile e gioia ingiustificata, ma non riusciva a non rimanere affascinato da quell’animo da poeta che in quel momento aveva reso John ancor più attraente ai suoi occhi, mentre in passato aveva avuto modo di cogliere solo qualche stralcio di quel suo aspetto.

Tutto in quel discorso era rivolto a lui e veniva detto mentre si guardavano, faccia a faccia, frasi sputate sul suo viso senza il minimo terrore del rifiuto, perché con solo sguardo e poi un bacio si erano detti tutto ciò che doveva essere detto.

“Ti ricordi quella volta in metropolitana, quando dovevamo sventare quell’attacco terroristico? Lì ho avuto paura che tutto sarebbe finito con un semplice boom, che non sarebbe più esistito nulla di ciò a cui ero ormai abituato. Non potevo di accettare di morire il giorno dopo il tuo ritorno. Volevo vivere al tuo fianco ancora a lungo, perché riaverti vicino a me dopo due anni, ritrovare il mio migliore amico è stata una di quelle poche cose che mi ha spinto ad andare avanti”

“Rachel è stata una di quelle, vero?” sussurrò il detective distogliendo lo sguardo, riportando alla mente quello che la ragazza aveva urlato davanti a quel ristorante, dopo che lui l’aveva chiamata.

John capì a cosa Sherlock si stesse riferendo e sentì la sua sicurezza vacillare per un momento.

Chiuse gli occhi e inspirò a fondo, sentendo di nuovo il freddo del metallo contro la sua tempia, il tremore del dito sul grilletto, l’umido delle lacrime che gli incorniciava il volto stanco.

“Sì. Da un lato, però, sapevo che tu non avresti mai voluto vedermi morire. A questo pensavo mentre mi puntavo la pistola alla testa. Ti immaginavo guardarmi con il tuo solito fare saccente, osservandomi deluso e pensando che ero un uomo debole, incapace non solo di trovare qualcuno al mio fianco all’infuori di te, ma anche di occuparmi di quella che avevo ribattezzato come mia figlia adottiva, a cui avevo promesso una nuova vita felice e che invece ha dovuto sopportare per due anni le mie continue lamentele e la mia depressione. Dall’altro lato invece mi immaginavo il momento in cui ti avrei ritrovato dopo la morte e mi chiedevo se saremmo arrivati a cercare di risolvere casi persino in Paradiso pur di combattere la tua noia cronica” sorrise John con gli occhi umidi.

Sherlock tentava di non dimostrarlo, ma era emotivamente sconvolto.

Sapeva che la sua reazione sarebbe stata totalmente diversa da quella che si aspettava John.

Lui non lo avrebbe guardato con supponenza, ma avrebbe gridato il suo nome fino a sfibrarsi le corde vocali.

Sarebbe sceso dal Paradiso o risalito dall’Inferno pur di evitare che si sparasse in testa.

Avrebbe percorso tutta Londra in pochi minuti solamente per strappargli l’arma dalle mani e dirgli che era stato un completo imbecille ad andarsene così, a fargli credere di essersene andato per sempre.

Ancora non riusciva a concepire che se non fosse intervenuto qualcuno, ora l’unica traccia rimasta di John sarebbe una macchia di sangue rattrappito su una fatiscente parete di legno.

 “No, John, non lo avrei mai accettato”

“Sherlock?”

“Non avrei mai potuto accettare che di te non rimanesse null’altro che una nuvola di niente. Nei miei ricordi, John, saresti sempre e comunque stato presente e non sarei più riuscito a distinguere la realtà da ciò che io volevo vedere. Avrei perso completamente la testa” continuò il detective, fissando l’uomo di fronte a lui con un ardore che non avrebbe mai pensato di possedere.

“Come sei sicuro che sarei finito in Paradiso?” sussurrò poi, alzandosi a sua volta e avvicinandoglisi di qualche passo “Ti ricordo che io non sono un angelo, non sono come te. Inoltre, non è stata appurata l’esistenza di nessun Paradiso o Inferno, sono tutte vecchie credenze per fare in modo che la gente ottusa si comporti in modo corretto, che non solo sia timorata di Dio, ma della vita stessa e di ogni sua conseguenza”

“E tu hai paura di Dio, della vita stessa e di ogni sua conseguenza?”

“No, affatto” affermò deciso Sherlock “E tu?”

“Non più da quando ti conosco”

Holmes era fermo in mezzo alla stanza e un piccolo brivido di sorpresa gli colse la schiena.

“Quindi… Io per te sarei come non so, un… una…?”

Era impossibile riuscire a parlare normalmente di un argomento del genere senza risultare ridicolo e smielato fino allo stremo, eppure non gli diede fastidio sentire parole del genere uscire dalla sua bocca e da quella di John.

“Sherlock, non sei definibile per me”

La cosa stava diventando ancor più confusa.

“Allora come puoi dire di provare dei sentimenti verso di me se per te sono indefinibile, ovvero niente?” sbottò l’altro.

Odiava non capire.

“Sherlock, quando si dice indefinibile non è inteso solo in senso negativo. Voglio dire che tu per me sei talmente importante che non riesco nemmeno a definirti in qualche modo” sorrise dolcemente John.

“Beh ecco… Ricordo di aver letto da qualche parte che… che se due persone decidono di intrattenere una relazione seria dopo aver esplicitato i reciproci sentimenti, si possono definire a vicenda come fidanzati…” borbottò impacciato Holmes.

Da dove era spuntata fuori quella sua volontà di essere definito come qualcosa per John?

“Fidanzati sembra molto adolescenziale, non trovi?” rise l’ex soldato compiendo un altro passo verso di lui.

Sherlock aprì la bocca per ribattere, ma la richiuse subito, rendendosi immediatamente conto di non conoscere alcun sinonimo di “fidanzato” e si affrettò a correre tra le stanze e i cassetti della sua mente per trovare qualcosa di vagamente adeguato.

Watson notò il suo evidente imbarazzo, rimediando per lui.

“Compagno. Ti piacerebbe se ti definissi come mio compagno?”

Si stava facendo sempre più vicino a Sherlock.

Lo trovava incredibilmente tenero in una situazione del genere, il che cozzava brutalmente contro il suo aspetto.

Alto, fisico asciutto, degli zigomi così affilati da sembrare delle lame, pelle pallida come porcellana, occhi penetranti che con un solo sguardo inchiodavano sul posto senza lasciare scampo a nessuno.

Espressione costantemente seria, annoiata, esasperata dalla stupidità umana, oppure corrucciata mentre era alla ricerca della soluzione ad un caso. 

John adorava vedere come però il suo volto cambiava non appena lo colpiva un lampo di genio, quando dopo un ragionamento interminabile ed ore trascorse con la fronte corrugata e le sopracciglia aggrottate in una costante concentrazione, ogni ruga si distendeva improvvisamente mentre spalancava gli occhi e apriva la bocca in un mix di stupore e personale soddisfazione.

Sherlock era l’uomo più affascinante con il quale il dottore avesse mai avuto a che fare ed era certo che non avrebbe saputo scegliere un compagno migliore. 

“Non era Mary la tua compagna?” domandò il detective con ritrosia.

“Mary era mia moglie e l’ho amata con tutto me stesso, Sherlock, questo non lo posso negare. Mi ha salvato da uno dei momenti più cupi della mia vita e mi ha dato una splendida figlia che adoro e di cui ho tutta l’intenzione di prendermi di cura, vederla crescere e sbocciare come un bellissimo fiore” rispose John tranquillamente, senza che la minima ombra di tristezza gli attraversasse il volto “Ma…”

“Ma?” lo incitò Sherlock.

“Ma Mary è stata uccisa. Si è sacrificata per salvarti, perché sapeva che non avrei sopportato di perderti di nuovo. Aveva assistito già una volta a quel mio immenso dolore e Dio solo sa quante lacrime mi ha asciugato, quante volte mi ha afferrato per le spalle e preso a calci in culo per farmi rialzare. È stata una parte fondamentale della mia vita, Sherlock, una parte che ora è scomparsa e che non tornerà mai più. Proprio per questo il nostro rapporto ora ha ancora più valore, perché è anche grazie a Mary se adesso le cose stanno così, se adesso siamo davvero noi due soli contro il mondo”

Holmes sentì gli occhi inumidirsi.

Un moto irreprimibile lo spinse ad annullare la distanza tra lui e il dottore, abbracciandolo con forza come se rischiasse di dissolverglisi tra le braccia da un momento all’altro.

“John…” mormorò sentendo la voce incrinarsi.

“Sherlock…”

“Io sarei stato perso se tu fossi morto, John. Perso. Con la tua assenza, non sarebbe mai più esistito un luogo che io avrei potuto definire casa. Mi dispiace, John” continuò Sherlock nascondendo il viso nel maglione di John, mentre sentiva il compagno abbracciarlo a sua volta.

“Sono qui, Sherlock, non temere” rispose l’altro sorridendo.

“Non te ne andare, John. Non lasciarmi da solo”

La solitudine lo aveva sempre accompagnato durante ogni singolo anno della sua vita.

Niente amici, solo ed esclusivamente la famiglia dalla quale si era poi distaccato con il passare del tempo.

Poi era arrivato John e aveva capito di non essere più solo. 

Da quando gli aveva preso il telefono dalla mano per mandare un messaggio, da quando le loro dita si erano sfiorate e John aveva posato lo sguardo su di lui, Sherlock aveva sentito accendersi in lui la sensazione che forse un posto nel mondo c’era per lui. E quell’uomo che ora stava abbracciando glie lo aveva dato. Gli aveva dato una definizione, era finalmente qualcuno per qualcun altro.

“Mai, Sherlock. Non lo farò mai” disse John scostandogli piano il volto dalla sua spalla, accarezzandogli i morbidi ricci scuri.

Si baciarono e si amarono quella notte, mentre il fuoco scoppiettava nel camino e inondava di un bagliore arancione tutto il salotto di quell’appartamento nel centro di Londra che aveva dato inizio alle vite di Sherlock Holmes e John Watson. 

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Capitolo 19
*** Demons and truths ***


(19) Demons and truths

Ognuno ha i propri demoni.

Ognuno ha i propri segreti, i propri incubi, le proprie fobie.

Non sempre però i demoni sono solamente qualcosa di immateriale, possono essere addirittura persone.

Per Rachel, l’incubo più spaventoso era suo padre.

Da quando l’aveva incontrata, John le aveva chiesto poche cose su quell’uomo che le aveva sempre fatto del male, che l’aveva picchiata, umiliata. A volte temeva di chiedersi se non si fosse spinto oltre, sentendo immediatamente una terribile rabbia salirgli in tutto il corpo.

Una volta prigionieri di Eurus, aveva persino scoperto che quel verme aveva rischiato di ucciderla e ciò gli aveva causato diverse notti insonni che Sherlock aveva passato a discutere con lui. La ragazza non aveva voluto nemmeno denunciarlo, considerandolo semplicemente un capitolo chiuso della sua vita nonostante spesso lui e Sherlock avessero tentato di convincerla.

“Vi ho detto di lasciar perdere. Ora sono con voi e solo questo conta” rispondeva severamente ogni volta uscendo dalla stanza in cui si trovavano e lasciando i due con l’amaro in bocca.

Per quanto Sherlock potesse sembrare impacciato riguardo ai sentimenti, si era molto affezionato a Rachel e persino ai suoi occhi sembrava inaccettabile che una persona del genere rimanesse impunita.
 
 
 
Erano passati ormai due mesi dal ritorno della ragazza dopo il coma, periodo nel quale si era ripresa perfettamente, circondata dall’amore e da tanta sicurezza datele da quelli che erano ormai dei genitori a tutti gli effetti tranne che sulla carta.

Una sera si ritrovarono tutti in salotto, nella tranquillità familiare che ormai incorniciava le loro giornate.

Sherlock stava scrivendo freneticamente sul laptop, aggiornando il suo amato blog, John stava leggendo un libro, Rachel stava guardando la televisione seduta sul divano a gambe incrociate mentre Rosie le dormiva beatamente in grembo.

Per un momento la ragazza distolse lo sguardo dallo schermo illuminato e osservò Watson e Holmes sereni, immersi nel loro mondo.

Studiò ogni ruga del loro volto, ogni sfumatura delle loro iridi e contò i capelli che avevano in testa, rendendosi conto di quanto per le altre persone potessero sembrare due comuni uomini londinesi, mentre lei li considerava come le persone più meravigliose che avesse mai conosciuto.

Continuava a ringraziarli ogni giorno per ciò che avevano fatto per lei e capì che l’avrebbero sempre protetta, in qualsiasi caso. L’avevano amata fin dal primo giorno, le avevano aperto le porte ad una nuova vita e finalmente sapeva cosa significava sentirsi accettata, coccolata, accudita.

Fu questa consapevolezza a spingerla a parlare, a dire una frase che non avrebbe mai pensato di riuscire a pronunciare, per dimostrare loro la sua gratitudine e l’immensa fiducia che nutriva nei loro confronti.

“Voglio parlarvi del mio padre biologico”

Lo disse tutto d’un fiato.

Sherlock interruppe bruscamente il suo frenetico scrivere, John sbarrò gli occhi e alzò lo sguardo dal libro, osservandola come se venisse dalla luna.

“C-cosa hai detto?”

“Ho detto che voglio parlarvi del mio padre biologico, John” gli sorrise lei, determinata e sicura di sé.

Quell’ambiente le dava tanti sentimenti positivi e benediceva se stessa per aver avuto il coraggio di fuggire dalla sua vecchia casa piena di dolore e rancore.

“Ne sei sicura, Rachel? Sai che non devi sentirti obbligata, dato l’impatto emotivo che avrebbe su di te” disse il consulente investigativo.

John ormai conosceva Sherlock, ma riusciva a stupirlo ogni volta di più con il fare paterno che aveva assunto da quando Rosie e la ragazza erano entrate nelle loro vite.

Aveva avuto un enorme tatto nel parlarle e per questo fu incredibilmente orgoglioso dell’uomo che amava.

“Sì, Sherlock. Devo… smettere di avere paura, parlarne non potrà farmi altro che bene” sorrise la ragazza di rimando.

“Va bene. Però interrompiti quando non te la senti più, d’accordo?” affermò l’altro alzandosi dalla scrivania e accomodandosi sulla sua poltrona nera, esattamente di fronte a John.

“D’accordo”

John chiuse lentamente il libro e si mise il più comodo possibile, imponendo a se stesso fin da quel momento di controllarsi, sapendo che sarebbe stato difficile.

“Bene” iniziò la ragazza prendendo un bel respiro “Il mio padre biologico si chiama Lionel Campbell. Il nostro appartamento era un monolocale molto spoglio, semplice ma illuminato, nella periferia di Londra. Eravamo solamente io e lui. Nell’arco di diciotto anni, non ho mai incontrato nessun altro parente, perciò non avrei avuto nemmeno a chi rivolgermi una volta scappata. Come vi ho già detto, era un ubriacone e non aveva un impiego, dato che vivevamo con la sua pensione di invalidità. Credo che avesse avuto un brutto incidente sul lavoro che gli aveva compromesso la corretta mobilità, infatti passava metà delle sue giornate a dormire. L’altra metà beveva e, quando era molto arrabbiato, mi metteva le mani addosso. Come ha detto Eurus, una volta mi ha mandata all’ospedale”

“Che cosa è successo, quel giorno?” sussurrò Watson.

Lei sospirò, mantenendo la sua fermezza “Quel giorno Lionel era particolarmente ubriaco e nervoso. Io ero ancora piccola, avrò avuto all’incirca 14 anni e, nonostante mi rendessi conto di dover tacere, mi sono fatta sfuggire una domanda su mia madre”

“Non ci hai detto che era morta quando eri molto piccola?” le chiese Sherlock.

“Sì, ma solo perché questa è l’unica versione che conosco. Mi ha detto che è morta, ma io non ne sono mai stata del tutto sicura. Non mi ha mai detto il giorno della sua morte, non mi ha mai portata al cimitero a vedere la sua tomba, per casa non c’era nessuna foto che la ritraesse. O meglio, non c’erano foto e basta”

“Quindi tu pensi che possa averti abbandonata”

“Esattamente. Penso che sia proprio per questo che Lionel non ha lasciato alcuna foto di lei in casa. Perché sapeva che sarei potuta andare alla polizia e chiedere notizie di lei, riuscendo magari a rintracciarla e fuggire dal suo controllo, ritrovandosi senza nessuno a fare le faccende di casa”

“Si appoggiava molto a te, vero?” domandò Sherlock, intrecciando le mani sotto il mento.

“Io ero praticamente la sua unica fonte di sostentamento. Facevo tutto per lui: la spesa, cucinare, pulire. È anche a causa di questo e della sua mancanza di soldi che non sono potuta andare alle scuole superiori. La retta e i libri costavano fin troppo”

“Perciò lui non voleva che te ne andassi, perché aveva bisogno di te” affermò John.

“Esatto, lui mi voleva obbligare a rimanere lì per sempre. Infatti quando quella sera ho osato chiedergli il nome di mia madre, ha iniziato a picchiarmi forte come non aveva mai fatto. Prima mi ha tirato i capelli e poi mi ha gettata a terra, prendendomi a calci dove capitava tranne che sul viso, l’unico punto che non potevo coprire in qualche modo. È un uomo incredibilmente stupido, ma sa essere furbo quando vuole” continuò lei con disprezzo e disgusto nell’intonazione “Faceva male, davvero molto. Sentivo la punta della scarpa colpire con forza ogni parte del mio corpo e mi ricordo di aver iniziato a piangere, addirittura gridavo, ma nessuno nei dintorni mi ha sentita o, perlomeno, nessuno è venuto a bussare alla nostra porta”

John artigliò il bracciolo della poltrona con le unghie, sentendo l’imminente bisogno di alzarsi e uscire per una lunga passeggiata.

Sherlock non mosse un muscolo, rimanendo freddo ed impassibile, sapendo che il compagno era sul punto di perdere le staffe e osservando Rachel con sguardo penetrante, invitandola silenziosamente a continuare.

“Quel giorno mi ha incrinato due costole. Probabilmente dopo è stato preso da un moto di lucidità e mi ha portata in ospedale, giustificando le tumefazioni e il danno alla gabbia toracica con una mia misteriosa caduta dalle scale. Quella fu l’unica volta in cui ebbi veramente paura di morire. Le altre volte ero spaventata dalle sue grida e da quanto potesse far male ogni schiaffo. Mi diceva che ero la rovina della sua vita. Se commettevo un errore, mi puniva picchiandomi”

“Ricordo bene l’incubo che hai avuto anni fa” disse Sherlock, ripensando a quella notte in cui aveva per la prima volta abbracciato Rachel, piangente e spaventata tra le sue braccia per un sogno oppressivo fin troppo realistico, causato dalla sadica mente di Moriarty.

“Io purtroppo non rammento nulla se non i flash con impresso il viso di Moriarty…” sospirò la ragazza, accarezzando il volto della bambina sdraiata su di lei “In ogni caso, è un uomo per cui non ho mai nutrito né nutrirò il minimo affetto o di cui mai avrò la minima stima. Proprio per questo ho deciso, appena compiuti diciotto anni, di fuggire da lì. Mi ero resa conto che la mia vita ormai non aveva più alcun senso, perché vivevo esclusivamente per prendermi cura di quell’ameba che aveva contribuito alla mia procreazione. Iniziai a provare un fortissimo rancore nei suoi confronti, ma capii che non potevo oppormi al suo volere, altrimenti avrebbe capito la mia intenzione di scappare e, soprattutto, mi avrebbe picchiata ulteriormente”

“Rachel… Lui ha anche…” domandò John titubante, non sapendo se avere più paura della risposta o del crollo emotivo che la figlia poteva avere.

“Abusato sessualmente di me, vuoi dire?” domandò lei sorridendogli teneramente “No, fortunatamente questo no. Era più interessato alle prostitute che a me, perciò mi ha sempre lasciata in pace” gli rispose, così il dottore poté tirare un sospiro di sollievo, rendendosi subito dopo conto di quello che la ragazza aveva detto.

“Un momento, andava a prostitute?” domandò sconcertato.

“E’ ovvio, John. Un uomo con un quoziente intellettivo simile e, vista la scarsa cura personale che possiamo dedurre dai racconti di Rachel, quale donna con un minimo di buonsenso andrebbe mai al letto con una bestia del genere se non sotto cospicuo pagamento?” disse Sherlock con tono beffardo.

“Continua tesoro” le disse John alzandosi in piedi ed iniziando a camminare avanti e indietro per tutta la stanza, prendendosi il volto tra le mani.

“Papà, stai calmo. Ora è tutto passato, sto bene e sono qui con voi. Mi fa molto male parlare di tutto questo, ma avevo bisogno di raccontarvelo. In anni di convivenza e di adozione ancora non ufficiale, questa è l’unica cosa riguardo alla quale non mi sono mai aperta con voi e ho capito che era giunto il momento di farlo. Tenendomi tutto dentro mi sono praticamente fatta da sola del male, perché avevo paura che sareste andati voi stessi a denunciarlo. Non lo conoscete e vi assicuro che è una persona tutt’altro che tenera o comprensiva. Voi siete diventati la mia luce, mi avete dato una speranza dopo anni praticamente di reclusione, continui pianti e abusi fisici e non avrei mai permesso al mio passato di intrufolarsi in questa nuova armonia. Sapevo che denunciandolo, Lionel avrebbe fatto di tutto per riprendersi la sua vendetta. Inoltre la fama che ha Sherlock avrebbe giocato solamente a vostro sfavore, perché sarebbe potuto venire qui a distruggermi di nuovo quando voleva. Non voglio che voi ci andiate di mezzo, non mi perdonerei mai di aver distrutto la mia nuova esistenza con le mie stesse mani, solamente per far pagare un torto ad un uomo che io non considero nemmeno tale”

“Rachel, io capisco cosa tu voglia dire, ma sai che non è giusto. Hai vissuto nel terrore per quasi due decenni. Denunciare un abuso fisico o una violenza su minore è sempre la cosa giusta da fare, perché a questo punto Lionel sarebbe in carcere già da un pezzo” disse John fermandosi in mezzo al salotto a guardarla.

“Lo so papà, ma cosa avrei potuto fare, me lo spieghi? Non ero io che non me lo permettevo, ma la situazione. Ero da sola al mondo, John, ancora non avevo voi, non conoscevo nessuno oltre a mio padre, capisci? Ero una minorenne e sarei stata per forza affidata ad una casa famiglia, nella quale però Lionel avrebbe potuto rintracciarmi. Una volta maggiorenne, il discorso sarebbe stato sempre lo stesso, l’unica differenza è che avrei potuto fare tutto da sola. Poi una volta che ho trovato voi, ho considerato tutta quella storia come da dimenticare, anche se so bene che avrei dovuto denunciarlo. Ma ormai sono più di tre anni che non lo vedo, non so nemmeno se sia morto per qualche disfunzione al fegato causata dall’alcol, se si sia trasferito o cosa diavolo ne so io. Ma ve lo giuro, se vi avessi incontrati prima di fuggire di casa, state pur certi che l’avrei denunciato. Appena arrivata a Baker Street ero ancora troppo insicura e spaventata, perciò non me la sono sentita. Vi chiedo scusa per non solo aver avuto paura, ma avervi anche fatti preoccupare per me” concluse la ragazza con sguardo triste.

Sherlock si alzò dalla poltrona e le si sedette di fianco, accarezzandole con delicatezza la mano non occupata a sorreggere la piccola Watson.

“Va bene così, Rachel. Ti senti bene?”

“Sì, Sherlock, sto bene e sono felice” sorrise la ragazza, orgogliosa di non aver pianto e di aver reso John e Sherlock partecipi persino di quel frangente della sua vita

“Solo vorrei sapere cos’è veramente successo a mia madre. C’è una parte di me che mi dice che non è morta, anche se so che rimarrò per sempre con questo dubbio” continuò leggermente sconsolata.

“Possiamo provare comunque a cercare nei database di Lestrade, se Lionel ha qualche precedente sicuramente sarà schedato negli archivi di NYS e ci sarà anche scritto il nome di sua moglie, o ex-moglie” le disse Sherlock tentando di essere rassicurante.

“Pensi di poterlo fare?” chiese la ragazza speranzosa.

“Immediatamente se vuoi. John, per te va bene?” chiese Sherlock guardando il compagno, il quale gli sorrise stancamente, sentendo il peso della rabbia scivolargli addosso.

“Certo che va bene”

Il detective si alzò di slancio e aprì di nuovo il suo laptop, entrando, ovviamente con i dati che aveva carpito a Lestrade in uno dei suoi tanti momenti di noia, nell’archivio della polizia.

“Sei sicura di non ricordarti assolutamente niente di tua madre? Niente di niente?” chiese Watson alla ragazza che si era andata a rifugiare tra le sue braccia per calmare sia se stessa che lui.

“No. Non mi è mai stato raccontato nulla di lei, non so nemmeno il suo nome”

“Pensaci bene, tesoro, magari Lionel si sarà lasciato sfuggire qualcosa…”

“Mh…”
 
“Bene, vediamo… Lionel Campbell…” sussurrò Sherlock digitando il nome.

Immediatamente sullo schermo apparve una foto segnaletica dell’uomo, affianco i suoi precedenti penali.

“Sesso maschile, sulla cinquantina, cura estetica praticamente assente, sento la puzza del suo alito solo guardandogli i denti. Niente di esageratamente grave, solo ripetuti atti osceni in luogo pubblico. Probabilmente lo hanno trovato insieme ad una delle sue ‘compagne’ in un luogo troppo frequentato” sbuffò il detective sembrando quasi deluso dalla mancanza di dettagli cruenti, ma al contempo sollevato dato che si trattava dell’uomo con cui Rachel aveva vissuto tre quarti della sua vita.

“Sherlock, guarda… Non c’è nulla… Non vedo il nome della moglie o ex-moglie, non è nemmeno vedovo… Qui è segnato come scapolo!” esclamò John indicando lo schermo del PC.

“Già… Ma perché? Rachel, sai se i tuoi genitori fossero sposati? Magari non avevano celebrato alcun matrimonio, ma ti hanno avuta quando erano solo fidanzati, molte coppie lo fanno. O almeno, così ho letto su internet” continuò Sherlock, alzando gli occhi sulla ragazza alle sue spalle.

“Purtroppo non so dirti nulla, Sherlock, sai che Lionel non mi ha mai rivelato niente riguardo mia madre” sospirò la ragazza, tentando di concentrarsi per ricordare qualcosa.

All’improvviso spalancò gli occhi mormorando “Aspetta…Ci sono!”

“Cosa ti è venuto in mente?” le chiese John.

“Una volta… Lionel si è infuriato con me perché gli avevo detto che il mio colore preferito era il rosa” disse la ragazza socchiudendo le palpebre, come a focalizzare le testuali parole del padre biologico.

“Perché si sarebbe dovuto infuriare per una cosa del genere?” domandò Sherlock inarcando le sopracciglia.

“Mi ha detto che mia madre era ossessionata dal rosa” affermò Rachel.
 
 
 

Nello stesso momento, Sherlock e John girarono di scatto il volto per guardarsi negli occhi.

“Sherlock…” espirò il dottore “il rosa…”

“Il nome di Rachel scritto sul pavimento con le unghie…” il detective sembrò essere colto in pieno da un fulmine, perché si alzò di scatto dalla sedia gridando “Uno studio in rosa! Oh buon Dio come ho potuto essere così idiota! La donna di uno studio in rosa, era lei tua madre!”

“Non può essere… John sul suo blog ha scritto che Rachel era il nome della figlia nata morta di quella donna” protestò la ragazza.

“Ed è qui che sono caduto in errore” le disse il detective “Lei stava pensando a te. Alla figlia che aveva abbandonato appena nata. Lionel era il suo amante, non il marito.

Era una donna in affari e nonostante il suo matrimonio fosse molto infelice, non sembrava il tipo da lasciarsi maltrattare e picchiare. Perciò Lionel non doveva essere un tipo violento. Ma poi la donna in rosa lo ha lasciato brutalmente. Lionel non sapeva fosse sposata e il marito di lei era sul punto di scoprire la relazione extraconiugale, così lei l’ha troncata immediatamente. Sicuramente ti avrà lasciata a Lionel perché suo marito era sterile e perciò impossibile che fosse rimasta incinta di lui, altrimenti ti avrebbe tenuta come possibile punto di ricongiungimento del loro rapporto fallito. Essendo praticamente sempre fuori casa per lavoro è riuscita a portare avanti la gravidanza senza che il marito lo scoprisse, mantenendo la più completa segretezza. Credeva fossi in buone mani, ma Lionel deve aver pensato che fossi tu la causa della rottura tra lui e tua madre e questo spiega tutti gli anni di punizione fisica ingiustificata che ti ha inflitto, oltre al fatto di essere un completo imbecille” sparò a raffica il detective.

“Il suo matrimonio, oltre che infelice, sarà stato il risultato di un amore troppo passionale. Avrà conosciuto il marito quando era molto giovane e si sono sposati altrettanto presto, ecco perché il rapporto si è deteriorato così in fretta. Ma tua madre, invece di sprecare tempo e denaro per il divorzio, ha deciso di farsi un amante, o più. E qui si intrecciano le tempistiche. Tua madre e Lionel si sono conosciuti poco più di diciotto anni fa. Si saranno frequentati per qualche mese, all’insaputa del marito di lei, e poi ti hanno concepita ma tu non eri una figlia voluta, come ti ho spiegato prima. Perciò dopo diciotto anni con tuo padre sei fuggita ed hai incontrato noi” concluse Sherlock sfregandosi le mani, felice di aver finalmente trovato la soluzione a quel caso.

“Quindi mia madre ha pensato a me nel momento della sua morte, come se volesse redimersi dall’avermi abbandonata, giusto?” chiese la ragazza.

“Sì, tesoro. Però, come ha detto Sherlock, pensava che fossi al sicuro con il suo amante, non credo sapesse che razza di mostro sarebbe diventato…” le disse John, nascondendo i suoi reali pensieri.

Per il bene di Rachel, doveva mantenere una facciata tranquilla e rimanere calmo, ma dentro di sé sentiva un turbinio di emozioni prendere forma. Come poteva una donna aver abbandonato sua figlia in quel modo? Perché non aveva lasciato il marito invece di Lionel, risparmiando così a Rachel un’intera vita di soprusi?

D’altro canto, però, sapeva che se tutto questo non fosse successo, la ragazza non sarebbe mai entrata a far parte della sua vita e, probabilmente, lui non sarebbe stato nemmeno lì a raccontarlo. La parte cattiva di sé, la stessa che aveva picchiato Sherlock a sangue, sembrava sul punto di prendere di nuovo il controllo, stavolta però aveva una giusta motivazione.

Quando Sherlock intrecciò la mano con la sua mentre continuava a parlare con la ragazza, sentì quell’ira rinchiudersi istantaneamente in un angolo buio della sua mente, dove sapeva sarebbe rimasta fin quando il compagno fosse rimasto al suo fianco.
 
 
 
 
 
Rachel sospirò e si diresse in cucina, mettendo a bollire l’acqua per il tè.

John guardò Sherlock titubante.

Il detective gli sorrise, gli strinse con più forza la mano e con l’altra gli diede una leggera spinta in direzione della ragazza che si era seduta al tavolo.

L’ex soldato tirò fuori tre tazze e il miele, dato che a Rachel piaceva così, e si sedette al suo fianco.

“Che succede?” le chiese accarezzandole la testa.

“Non lo so…” rispose la ragazza appoggiando la fronte sul palmo della mano “Ora che so cosa le è successo, che so che è veramente morta… Mi sento strana, quasi vuota, forse persino tradita da lei”

“Oh Rachel” mormorò John abbracciandola “So cosa provi, perché è esattamente ciò che provavo io appena arrivato qui a Londra”

“Cosa vuoi dire?”

“Intendo dire che ero solo. Mi sentivo perso, non avevo nessuno che potesse ospitarmi, soprattutto perché con Harriet le cose andavano più che male, Sherlock lo aveva capito fin dal primo momento” continuò il dottore sorridendo, strappando un sorriso anche al detective che ora teneva in braccio Rosie.

“Non avevo nessuno a parte Harry, perciò pensavo che presto me ne sarei andato da lì e non avevo la minima idea di dove sarei finito. Non avevo alcuna prospettiva futura, ecco. Poi però ho incontrato Sherlock, e da lì la mia vita ha assunto tutta un’altra forma. Sherlock mi ha dato di nuovo una ragione per continuare ad andare avanti che non fosse la guerra, mi ha mostrato cose nuove e, che tu ci creda o meno, mi ha aiutato a capire meglio persino me stesso e la mia sessualità. Mi ha saputo perdonare, perciò io ora so di non essere più solo, come non ero solo quando ci siamo ritrovati insieme io e te perché Sherlock era in Est Europa. Insomma, quello che voglio dire è che purtroppo tua madre non ha mai fatto parte della tua vita, ma questo non ti impedisce di considerarla come la tua genitrice. Ti ha abbandonata, ma so che non lo ha fatto con cattiveria nonostante il mio cuore mi dica altro. Tu sai però quanto io sia caratterialmente impulsivo, perciò ascolta il tuo cuore, Rachel, non il mio. Che cosa ti dice?”

Sherlock si era fermato in mezzo al salotto con gli occhi spalancati e la bocca semiaperta, freddato da quell’inaspettata dichiarazione, nonostante il loro rapporto avesse già raggiunto un determinato livello. Erano parole uscite spontaneamente dalle labbra di John, un fiume in piena di concetti sfuggiti a quell’animo romantico, lasciandolo basito dalla facilità con la quale il suo compagno riuscisse a mettere a proprio agio le persone.

Rachel alzò lo guardo prima su John, poi sul detective e sorrise, ricacciando indietro gli enormi lacrimoni che le si erano formati sugli occhi “Il mio cuore mi dice che sono al sicuro, che ho una vera famiglia e che Sherlock o è sul punto di avere un attacco di cuore o vuole disperatamente abbracciarti”

John si girò e rise nel vedere l’impaccio e l’imbarazzo comparire sul viso di Sherlock come due grandi macchie rosse sulle guance cerulee. La ragazza si alzò e si diresse verso Sherlock, gli accarezzò una guancia e gli prese la piccola Watson dalle braccia con un sorriso.

“Vado a prendere qualche biscotto dalla signora Hudson, chiamami quando il tè è pronto” gli disse scendendo le scale.

L’uomo le fece un cenno d’assenso e si voltò a guardare John, ancora seduto alla sedia della cucina.

Gli si avvicinò e sfiorò le labbra con le sue, sorridendo.

“Allora, lo vuoi questo abbraccio?” gli chiese John. 

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Capitolo 20
*** Everything will be alright ***


(20) Everything will be alright

“Ci prendiamo un caffè?” propose John.

Quella mattina erano usciti tutti e tre insieme per una lunga passeggiata della quale, stranamente, Sherlock non si era lamentato. John pensava che Sherlock odiasse questa parvenza di clima familiare che regnava tra loro tre, eppure non dimostrò mai il suo disappunto.

“Per me va bene” assentì Rachel con un largo sorriso, seguita dal detective che fece cenno di sì con il capo.

Entrarono in una piccola caffetteria nella cui vetrina svettavano enormi fette di torta di qualsiasi tipo e Sherlock vide l’immediata dilatazione delle pupille dei suoi due accompagnatori alla vista di quelle delizie.

Si sedettero ad un tavolo d’angolo ed ordinarono, chiacchierando durante l’attesa e Rachel ascoltò con gioia ogni singolo dettaglio del caso che i suoi coinquilini erano riusciti a risolvere quella stessa mattina.

La ragazza li ascoltò rapita ed entusiasta, mentre una dolce cameriera dagli occhi azzurri portava loro le fette di torta e i caffè. Rachel notò che la donna si era soffermata molto su John, guardando lei e Sherlock a malapena in faccia.

“Grazie signorina” disse il dottore con gentilezza.

“Ma si figuri! Se avete bisogno di altro, sono a vostra disposizione” rispose la cameriera facendosi ‘sfuggire’ un occhiolino del tutto intenzionale.

Sherlock notò poi il foglietto che spuntava malamente sotto la tazzina di John, capendo immediatamente che quello si trattava del numero della donna, fingendo indifferenza.

“Scusi signorina, potrebbe portarmi lo zucchero?” chiese con un sorriso di circostanza.

“Sì signore” rispose lei avviandosi al bancone e tornando poco dopo.

La cameriera appoggiò il contenitore dello zucchero di fronte a John chiedendo ancora una volta “Avete bisogno d’altro?”

“John, potresti passarmi lo zucchero?” chiese Sherlock interrompendo a metà la risposta dell’altro.

Quando il dottore si girò verso di lui, l’indice e il pollice della sua mano sinistra saettarono verso il mento di John, facendo avvicinare i loro volti finché Sherlock non sentì le loro bocche entrare in contatto.

Dopo circa tre secondi si staccò, sussurrandogli un “Grazie” sulle labbra.

Rachel si coprì la bocca mentre le spalle sussultarono in una risata mal trattenuta mentre John aveva gli occhi spalancati dalla sorpresa e dal piacere.

“P-prego” balbettò tornando a concentrarsi sul suo caffè con espressione vagamente confusa.

“La ringrazio, siamo a posto” disse Sherlock sorridendo soddisfatto alla cameriera, la quale se ne andò con il volto tirato ed imbronciato.
 


“Sherlock, almeno avvertimi la prossima volta. Sembravo un idiota” borbottò John non riuscendo a non ridere “E poi non eri tu quello che considerava la gelosia come una grave mancanza di fiducia?”

“Sai John, si dice che ciò che una persona sembra la maggior parte delle volte corrisponde a ciò che quella persona in realtà è” rispose il consulente investigativo con noncuranza “E questa non era gelosia o mancanza di fiducia, ma un puro e semplice atto di ‘rimarcazione della territorialità’”.

“Mi stai dicendo che sono un idiota e che sono di tua proprietà?” gli domandò Watson.

“Uhm… sì” concluse Holmes sorseggiando il suo caffè.
 
 
Rachel rise di cuore guardando quei due bisticciare come una vecchia coppia, percependo l’affetto reciproco sprizzare da ogni parola pronunciata dalle loro bocche.

Poco dopo il campanello d’entrata annunciò l’arrivo di un nuovo cliente, il quale si aggiunse agli altri che già affollavano il locale in quella rigida mattinata.

La ragazza alzò distrattamente lo sguardo verso quella figura e si pentì immediatamente di averlo fatto.

L’uomo tarchiato che era appena entrato sfoggiava una calvizie considerevole mascherata da un orribile riporto rosso. Aveva indosso un vecchio cappotto consunto che lo faceva assomigliare ad un senzatetto e la barba incolta denotava la sua scarsa igiene personale.

Rachel sentì il cuore fermarsi nel petto mentre ogni immagine di quegli anni d’inferno si ripresentava come una ferita ancora calda, nonostante avesse pensato di essere riuscita almeno in parte a dimenticare.

Chinò lentamente il capo stringendo talmente tanto la forchetta da farsi diventare bianche le nocche. Il respiro rischiava di diventare irregolare, perciò cercò di calmarsi inspirando ed espirando con lentezza, ma i suoi polmoni volevano più aria. Stava per andare in panico.

Sherlock notò immediatamente quel cambiamento così repentino e, mentre John continuava a parlare, si guardò attorno con discrezione per avere la conferma alle sue deduzioni.

Poco lontano da loro sedeva un uomo che lui conosceva, che, almeno in foto, aveva già visto e riconosciuto solamente osservandogli i capelli.

“Rachel, cos’hai?” domandò John alla ragazza, vedendo le sue spalle tremare.

In un immediato istinto paterno le si sedette vicino, lasciando vuoto il posto al fianco di Sherlock.

“Tesoro, che ti prende?” le chiese scostandole i capelli dal volto.

La ragazza gli afferrò immediatamente la mano e la strinse con forza.

“Rachel…” mormorò “Sherlock, Rachel sta male, dobbiamo portarla a casa”

“John” lo fermò il compagno “Ora calmati. Dobbiamo andarcene con discrezione, non dobbiamo attirare l’attenzione di nessuno, chiaro?”

“Mi spieghi che cosa le è successo?” domandò il dottore esasperato.

“John, per l’amor del Cielo, ragiona!” lo rimproverò Sherlock.

 “Che cosa è successo secondo te? Siamo in un locale pubblico dove chiunque può entrare indisturbato. Rachel ha alzato lo sguardo quando si è aperta la porta ed ha iniziato ad avere paura. Ora assimila questi dati e trova la tua soluzione al caso” concluse il detective prendendo delle banconote dal portafoglio e lasciandole sul tavolo.
John rifletté e pregò di starsi sbagliando di grosso.

“È entrato il padre, vero?” domandò.

A quelle parole Rachel gli strinse la mano con ancora più forza e il dottore non ebbe bisogno di risposte.

“Il mio Boswell sta imparando” rispose Sherlock con un piccolo sorriso per poi alzarsi ed infilarsi la sciarpa al collo.

Uscirono dal locale in silenzio, cercando di passare inosservati tra il marasma e le chiacchiere della gente.

Non appena Rachel mise piede fuori dalla caffetteria, scattò in avanti e corse velocemente oltre la vetrina, incespicando e svoltando l’angolo con il terrore negli occhi.

“Rachel!” la chiamò John rincorrendola, mentre Sherlock continuò con la sua normale andatura, notando che, nel locale, Lionel Campbell aveva lo sguardo rivolto verso di loro.

Quando raggiunse gli altri due, vide Rachel in ginocchio e John che l’abbracciava.

La ragazza respirava a fatica e un singhiozzo ogni tanto interrompeva quel flusso di disperazione che l’aveva afferrata.

“Io avevo superato tutto… P-perché mi è successo questo?!” mormorava la ragazza aggrappandosi a John.

“Calmati tesoro, per favore. Sei al sicuro ora, noi ti proteggeremo. Lionel non ti porterà via” sussurrò John baciandole la testa con sguardo affranto.
 


Sherlock percepì appena in tempo i passi dietro di lui, venendo subito dopo colpito da un violento pugno che lo buttò a terra con uno zigomo sanguinante.

“Sherlock!” gridò Rachel staccandosi da John e fiondandosi al fianco del detective, piangendo.

“Sherlock, ti senti bene?” gli domandò tamponando la ferita con un fazzoletto di stoffa.

Intanto l’ex soldato si era alzato in piedi e si era piazzato di fronte al compagno e la figlia adottiva con le gambe semiaperte, pronto a scattare per proteggerli.
 
“E tu quindi te ne saresti andata di casa solo per andare con questi due? Sei una troia esattamente come tua madre!” esclamò Lionel Campbell guardando la ragazza in cagnesco.

“Hai già messo le mani addosso al mio compagno, Lionel, e sto facendo viva forza su me stesso per non saltarti addosso e spaccarti quella faccia da cazzo che hai, perciò non osare parlarle in questo modo o giuro che non risponderò più delle mie azioni” ringhiò John stringendo i pugni mentre Sherlock si era alzato in piedi e Rachel si reggeva a lui.

“Oh…” mormorò Lionel sbarrando gli occhi, fingendosi sorpreso “Quindi sei scappata di casa per andare a vivere con una coppia di frocetti? E tu cosa ci guadagni? Non hai nessuno che ti sbatta” sputò con disgusto l’uomo.

“Vedi di tacere, Lionel, stai abbassando il nostro quoziente intellettivo con ogni singola sillaba uscente dalle tue disgustose labbra. John ti ha già detto di non parlare così di lei, ma mi sembri un po’ duro d’orecchi” rispose Sherlock affiancandosi al dottore.

Il detective poteva percepire l’odio e l’idiozia di quell’uomo da ogni sua singola azione, persino dallo sbattere delle palpebre. Era solo e senza alcuno scopo nella vita, l’unica donna che aveva la possibilità di possedere era una qualche meretrice trovata in una strada poco trafficata che poi doveva essere profumatamente pagata. Viveva in una casa con scarsa illuminazione e probabilmente teneva sempre le finestre chiuse, a giudicare dal modo in cui strizzava gli occhi al minimo raggio di sole. La solitudine lo aveva sicuramente incattivito ulteriormente, rendendolo più rancoroso di quanto non fosse prima, tanto da fargli dire cose offensive ed insensate verso chiunque gli capitasse a tiro, concentrandosi in questo caso su Rachel.

“Levatevi di mezzo, ho una questione in sospeso con quella ragazza. Spostate i vostri culi da omosessuali e lasciatemi in pace prima che io perda completamente le staffe”

“Non ti azzardare nemmeno a sfiorarla” rispose duramente John quando l’uomo di fronte a lui fece un passo in avanti.

“Io sono suo padre, posso farle tutto quello che voglio” disse Lionel con un sorriso orripilante.

“No, ti sbagli. Sono io suo padre” affermò il dottore.
 
Lionel gli si gettò addosso ed entrambi caddero a terra. L’uomo tentò di colpire John in faccia, ma Sherlock gli mise un braccio attorno al collo e lo tirò indietro permettendo al compagno di rialzarsi. Lionel fece scattare la testa all’indietro, ma Sherlock evitò il colpo e John rifilò un destro sul naso di Lionel, il quale gridò dal dolore.

John sembrava aver perso completamente le staffe, la fronte era corrugata e i denti digrignati, esattamente come quando aveva pestato Sherlock a sangue.

Il detective si accorse di questo e mollò Lionel facendolo cadere a terra, ma John continuava a colpirlo.

Una furia cieca si agitava nei suoi occhi e l’uomo sotto di lui non riusciva quasi più a respirare, tanto forti e ripetitivi erano i pugni.

Le poche persone che si trovavano per strada assistevano alla scena completamente interdette, ma Sherlock sapeva che qualcuno aveva già chiamato la polizia ed era certo che la volante che sarebbe arrivata sarebbe stata guidata da Lestrade.

“John, ora basta!” esclamò mentre le sirene iniziavano a farsi sentire in lontananza.

John ansimava e non sembrava intenzionato a fermarsi.

“John, ti ho detto basta, così lo uccidi!” gridò allora il consulente afferrandolo per un braccio.

Rachel corse verso di loro e gli afferrò l’altro braccio, così in due riuscirono a tirarlo indietro, lasciando Lionel a terra, gemente e sanguinante.

“John, basta. Sto bene, vedi? Non mi ha nemmeno toccata” sorrise la ragazza allargando le braccia per farsi vedere.

Watson continuò ad ansimare, ma l’adrenalina era già scemata.

“M-mi dispiace” mormorò.
 


In quel momento Lestrade li raggiunse correndo.

“Che diavolo avete combinato?!” esclamò osservando l’uomo a terra.

“Ci ha aggrediti, Lestrade. Quello è Lionel Campbell, il padre biologico di Rachel”

“Vi ha aggrediti?”

“Sì, Greg” intervenne Rachel “Ci ha aggrediti senza alcun motivo e noi ci siamo semplicemente difesi”

“Esattamente, quanto vi siete difesi?”

“Abbastanza da ripagare tutti gli abusi che Rachel ha dovuto subire nell’arco di diciotto anni” disse Sherlock sorridendo complice verso la ragazza.

“Abusi?” Lestrade era completamente stralunato “D’accordo, d’accordo, ora andiamo tutti in centrale e mi spiegate bene cosa è successo”

“Stai bene, papà?” chiese la ragazza, sentendo John alquanto silenzioso.

“Sì, sto bene. Mi dispiace. Non sarei voluto diventare così violento” rispose Watson, guardando Sherlock mentre pronunciava l’ultima frase.

Per l’ennesima volta, John si era scusato per ciò che aveva fatto a Sherlock, un errore che probabilmente non si sarebbe mai perdonato.

“Andrà tutto bene” gli rispose il detective, guardandolo intensamente per tranquillizzarlo.

“Sì, ne sono sicura anche io. Andrà tutto per il meglio” concordò Rachel abbracciando prima Sherlock, poi John.



E tutti e tre sapevano che era vero: tutto sarebbe finalmente andato per il verso giusto.
 
 
 
 
 
 
Note dell’autrice: Che dire… eccoci qua. Lavoro a questa fanfiction da interi mesi, sono arrivata a riscriverla quasi da capo. Tutto era iniziato come un gioco, come una storia che sarebbe dovuta essere molto più breve e probabilmente anche diversa da come poi è venuta fuori. Quest’ultimo capitolo è stato un parto, perché non sapevo come concludere. Far incontrare o meno i tre protagonisti con il vero padre di Rachel? Mettere un qualche epilogo? Alla fine ho deciso che Lionel se la meritava una bella lezione e che per concludere tutti questi mesi di lavoro, una frase era più che sufficiente: “Tutto sarebbe finalmente andato per il verso giusto”. Non so di preciso quante persone abbiano seguito questa storia, quante l’abbiano abbandonata, ma vorrei ringraziare ogni singola ragazza e ogni singolo ragazzo che abbia letto la mia storia, anche se per abbandonarla più tardi. Questa è stata la mia primissima long che mi ha regalato moltissime emozioni, ma che necessitava di essere conclusa nel migliore dei modi per poter lasciare spazio ad un progetto ancora più grande che ho già in cantiere, un’altra long totalmente nuova che aspetta di essere scritta, ma certamente impiegherà molto più lavoro. Comunque grazie di nuovo a chiunque sia rimasto con me e mi abbia seguita, perché è stato un lungo viaggio che abbiamo intrapreso insieme, io scrivendo e voi aspettando le varie pubblicazioni.
Detto questo, vi auguro una felice giornata. Vi voglio bene, un abbraccio e alla prossima! <3 

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