No Such Thing As Fate

di Mysecretfanmoments
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Era lui ***
Capitolo 2: *** Dolorosi ricordi ***
Capitolo 3: *** Riuniti ***



Capitolo 1
*** Era lui ***


N.d.T.: ciao a tutti! Questa è la traduzione di una storia che troverete a questo link: http://archiveofourown.org/works/1165756/chapters/2370485 La storia fa riferimento al manga, a questo è dovuto l’avvertimento Spoiler, per chi segue solamente l’anime. Buona lettura!

Era lui

Lui era soltanto un ragazzino con una fervida immaginazione, fino a quando, una sera d’inverno, la ragazzina con la sciarpa rossa si presentò alla porta dei Jaeger: senza fiato, con le guance rosse dal freddo e i capelli neri che le incorniciavano il viso pallido. Il dottor Jaeger rimase a guardare l’imperturbabile ragazzina di sette anni e osservò che lo zainetto di Dora l’esploratrice che portava era l’unica cosa infantile di lei.

Eren e Carla erano in cucina a cenare, ignari del cambiamento che stava per accadere nelle loro vite.

“Eren vive qui?” chiese la ragazzina.

“Chi è?” disse Carla. “Cantano le canzoni di Natale ancora a quest’ora?”

È qualcuno per Eren,” rispose Grisha, mentre gli tornava in mente la sciarpa rossa che aveva visto nei disegni di Eren. Era un elemento ricorrente, come molti altri: un ragazzino dai capelli biondi a caschetto, un uomo imbronciato, una faccia sorridente con gli occhiali, cinture che si incrociavano, mantelli verdi, lame d’argento e, ovviamente, i mostri.

Almeno non erano i mostri ad essersi presentati alla loro porta della loro casa di periferia.

Eren comparve nel corridoio, aveva una macchia di spaghetti all’angolo della bocca. Curioso, sbirciò da dietro suo padre, ma quando vide chi stava alla porta la sua curiosità da ragazzino scomparve.

“Eren,” disse la ragazzina. Superò Grisha. Il padre di Eren fece come per allontanarla, ma Eren stava aprendo le braccia a quella strana ragazzina; il suo Eren, che non si era fatto molti amici, che aveva sempre la testa fra le nuvole. Il suo Eren, che non permetteva a nessuno di toccarlo, tranne ai suoi genitori. Si strinse alla ragazzina, e lei si strinse a lui.

Lo zainetto di Dora l’esploratrice rimase nella soglia vuota, abbandonato.

Il dottor Jaeger lo portò in casa e chiuse la porta dietro di lui.

***

L’arrivo di Mikasa segnò l’inizio di una nuova era per Eren, o meglio, gli permise di cominciare a vivere sul serio. I suoi strani sogni in cui volava in un mare di mostri, o ammirava delle mura che si innalzavano più in alto di qualsiasi albero, smisero di turbarlo. Smise di chiedersi se fosse pazzo.

Mikasa non se lo era nemmeno mai chiesto.

“Non ti chiedi mai degli altri?” chiese Eren una notte in cui lei era rimasta a dormire da lui. In realtà Eren lo aveva chiesto molte volte, dato che la sua amica viveva abbastanza vicino da poterlo venire spesso a trovare. I genitori di Mikasa si erano trasferiti nella città di Eren sotto l’insistenza della figlia, e né a loro, né ai genitori di Eren sembrava importasse il fatto che loro due passassero così tanto tempo insieme anche dopo aver raggiunto la adolescenza. Per una qualche ragione, i due si comportavano come fratello e sorella.

“Te l’ho detto,” disse Mikasa. “Non riesco a trovare Armin. Ci ho provato. A meno che non coinvolgiamo la polizia in qualche modo, o mandiamo loro un ritratto…”

Se ha lo stesso aspetto.”

“Noi sì,” disse lei.

Eren giocherellò con le coperte del letto. Ormai avevano tredici anni e non avevano trovato altri che l’un l’altro. Visto il miracolo (merito del fatto che Mikasa non dubitava mai di sé stessa), non poteva fare altro che sperare che ne avvenisse un altro. Non sentiva il bisogno di farsi amici tutti i loro vecchi compagni, tutte facce mezze dimenticate, ma voleva sapere se stessero tutti bene. Ricordava delle scene, scene molto cruente, di persone che conosceva coperte di sangue, o tagliate in due, o fatte a pezzi dopo una lunga, lunga caduta. Se avesse potuto vederli di nuovo, mentre vivevano una vita vera lontano dalle alte mura, magari gli incubi sarebbero cessati.

“Non soltanto Armin,” disse. “Tutti loro. E se credono di essere pazzi?”

Lei si avvicinò e con la mano coprì la sua. “Sono liberi, lontani dalle mura. Non è forse abbastanza sapere che la persone ricevono una seconda possibilità?”

È facile per te dirlo,” sbottò Eren. “Gli unici di cui ti importa siamo io e Armin.”

“Io…” iniziò lei, prima di ritirare di scatto la mano. Se la accarezzò, come se la pelle di Eren l’avesse ustionata. “Mi importa anche degli altri. Ma non voglio stare in ansia. Non voglio sprecare questa vita a ritrovare l’altra. Non ricordiamo nemmeno quello che è successo.”

“Ma tu ci credi ancora, vero? Che è successo davvero? Che non era un sogno?”

Mikasa rimase zitta.

“Mi manca Armin,” disse Eren.

“Anche a me.”

Si sistemarono per la notte, con la luce delle stelle da fuori come unica fonte di luce nella stanza. Eren voleva dormire, ma sentiva bruciare un fuoco dentro di lui, c’era sempre stato. Un fuoco inutile, insensato. Aveva dei genitori che lo amavano, una sorella che lo capiva e non c’erano mostri in questo mondo, o almeno, non dei veri mostri che lui doveva uccidere. Quindi perché si sentiva ancora così arrabbiato? Perché la sua ossessione lo aveva seguito anche in questa vita? Non aveva dubbi riguardo al fatto che l’altro lui era morto per poi rinascere, dando tutto ciò che aveva per combattere i mostri che invadevano il suo mondo. Perché questo fuoco non si era spento?

“Ci iscriveremo ad ogni programma di arti marziali che possiamo,” disse Mikasa, facendo sobbalzare Eren. Pensava che lei stesse dormendo. “Credo che gli altri sentano ancora il bisogno di combattere se hanno dei ricordi simili. E parlando di Armin, guarderemo tutti i quiz televisivi a cui partecipano ragazzi della nostra età, lui è abbastanza intelligente per farlo. Forse anche lui ci sta cercando. Hai tenuto d’occhio i forum?”

Eren aveva un account per ogni forum che fosse riuscito a trovare, dai giochi online con la sezione commenti fino ai siti esoterici sulle proiezioni astrali e le anime gemelle. Sperava di trovare da qualche parte qualche pazzoide che postava sulle mura e sull’apparecchiatura che permetteva di volare nel cielo. La sua ricerca era stata resa più facile quando i suoi genitori passarono alla banda larga, ma i risultati erano gli stessi.

“Sì, ma non c’è niente. Forse gli altri non stanno facendo ricerche.”

Mikasa dovette aver sentito il tono nella sua voce, perché rispose con un insolito ottimismo: “Invece sì.”

Nessuno dei due disse ad alta voce l’altra opzione: che forse gli altri non stavano facendo ricerche, non ricordavano nulla; perché quel mondo non valeva la pena di essere cercato.

***

Il sedicenne Eren diede uno sguardo a una delle liste nel suo taccuino sulla sua vita passata, una delle tante liste con lo scopo di ricordare quello che poteva sulle persone che prima conosceva. Non ricordava nomi e a volte non aveva nemmeno abbastanza informazioni per creare un soprannome. Quelli senza nome che ricordava meglio erano intitolati con nomi come “faccia da cavallo”, “ragazza patata” e “mordi lingua”.

C’era un nome che era certo di sapere, Armin Arlert. Ma non era quella la lista che stava guardando. Stava leggendo invece una lista breve che apparteneva a qualcuno di cui non ricordava nemmeno il nome e quella pagina del taccuino si era ammorbidita per averla tenuta troppo tra le dita.

 

Capitano(?)

-forte

-alto grado

-adora la pulizia(?)

 

Era la lista più priva di significato che avesse fatto, ma non perché non riuscisse a a ricordare. Era senza significato perché non riusciva a dare un senso ai ricordi, non riusciva a metterli su carta. Si sentiva stringere il petto quando pensava al capitano, uno strano nervosismo che assomigliava a agitazione, ma mescolato con confusione. Ricordava un uomo dallo sguardo assottigliato e il viso squadrato che lo guardava con qualcosa che poteva essere approvazione o affetto, ma ricordava anche che lo stesso uomo lo aveva picchiato a sangue. Senza il contesto che poteva spiegare perché lo picchiava, non riusciva proprio a capire perché gli altri ricordi dell’uomo erano così… rosei. C’era dell’ammirazione (adorazione, in realtà), accondiscendenza, e anche qualcosa di nascosto che poteva lasciar intendere a qualcosa di più. Erano stati insieme? Era possibile? Ma di sicuro lo avrebbe ricordato. Non ricordava nessuna relazione. Forse, rimpianto.

Da come poteva vederla, sembrava una cotta a senso unico nata dall’ammirazione. Ricordava una figura minuta con lo sventolante mantello verde che stava in piedi sopra i resti di un mostro. E guardava verso di loro.

Quell’uomo voleva essere trovato?

Il telefono di Eren suonò facendolo sobbalzare. Si aspettava che fosse una ragazza della scuola che chiamava per il loro lavoro di gruppo (cosa che Eren continuava a ignorare), ma era Mikasa.

“Pronto?” rispose.

“Eren,” disse lei senza fiato. “Ti ricordi quegli annunci che avevo pubblicato?”

“Sì. Perché?”

“Lui è qui. Ci ha trovati.”

Eren afferrò la giacca e iniziò a correre.

***

“Non credo che nessuno lo possa ignorare,” diceva Armin con voce decisa contro il vociare del ristorante del centro commerciale. Sembrava non gli importasse di come Eren e Mikasa continuassero a toccarlo come per assicurarsi che fosse reale. I suoi occhi blu brillavano mentre continuava. “Ma c‘è una buona probabilità che le persone che ricordiamo abbiano trovato quelli vicini a loro, come noi, e stiano continuando a cercare. Solo Eren ha lo stesso cognome, non è che un elenco telefonico ci sarebbe di grande aiuto.”

“Quindi pensi che ci siano dei piccoli gruppi come il nostro in giro per il mondo?” chiese Eren. Si chiedeva chi il capitano avrebbe cercato, in tal caso. Il comandante biondo, forse, e magari la scienziata pazza con gli occhiali. O meglio, lei lo avrebbe trovato. Avrebbe cercato la squadra che Eren ricordava fatta a pezzi e insanguinata? In qualche modo nella sua testa quel ricordo orrendo era collegato al capitano. La squadra del capitano, forse? I suoi amici?

“Magari. Non esiste un manuale per queste cose. E non ha senso, non importa come la vedi, anche se credi alla reincarnazione. Voglio dire, ho letto tutti i libri di storia… ma è come se i ricordi siano di un’altra dimensione. Non del nostro vero passato.”

“Una storia alternativa?” suggerì Mikasa.

“O un futuro alternativo. Molto, molto alternativo.” Incrociò le braccia sul tavolo, appoggiandoci la testa su un lato. “Vorrei poter trovare gli altri. Questa cosa mi urta.”

Eren trattenne una risata a pensare che Armin lo aveva fatto sembrare un problema normale e da nulla. Era felice. Era davvero tanto felice che Armin si ricordasse di loro e che fosse lì. Anche se quel mondo era stato creato per persone come Armin, persone astute e non spietate o cattive, Armin voleva comunque stare con lui e Mikasa.

Non che Mikasa di solito fosse il problema; si era solo lasciata trascinare dall’entusiasmo di Eren, perfino una seconda volta.

“Potremmo mandare in giro una nostra foto,” disse Armin. “Fingiamo che sia un esperimento dei sei gradi di separazione (*). O che stiamo cercando dei parenti scomparsi o qualcosa del genere. Usiamo i social.”

“Ci ho provato su Myspace,” disse Eren. “Non è servito a nulla.”

“Facebook ultimamente sta diventando più famoso.” Armin sorrise. “Mia madre ce l’ha e pubblica sempre post stupidi. Dobbiamo pur cominciare da qualcosa, no?”

Mikasa fu d’accordo, ma Eren non poteva fare a meno di pensare al fatto che la persona con cui voleva di più parlare non lo avrebbe mai incontrato. Eren doveva trovarlo, doveva chiedergli perché c’erano così tanti ricordi sconnessi di lui che vagavano nella sua testa: violenza e rabbia accanto a sguardi intensi e notti passate a parlare. In ogni caso, gli sarebbe piaciuto ricordarne degli altri.

“Eren?” disse Armin risollevandosi. “Stai bene?”

“Hm? Oh, sì. Solo un po’ frustrato. Vorrei fosse più semplice.”

“Il mondo è grande,” disse Armin; sembrava ci fosse stupore nella sua voce. “Molto, molto grande. Quando penso a… ehm. Comunque, non è così importante trovare gli altri. È solo per gioco, vero? Perché sarebbe bello rivederli.”

“Chi vorresti di più ritrovare?” chiese Eren.

“A parte voi due? Ho sempre voluto trovare voi.”

“A parte noi,” disse Mikasa; Eren la guardò sorpreso. Non era mai stata una che amava curiosare, ma forse per lei questo era una questione di vitale importanza.

Armin sospirò rumorosamente. “Non giudicate, ok? Annie. Voglio trovare lei.”

Mikasa aggrottò le sopracciglia e Eren chiese, “La… lei è la bionda? Che… si era trasformata in uno di loro?”

Il suo vecchio amico annuì. “Chissà cosa ricorda. Se ricorda. Voglio trovare un senso a quello che ha fatto, in più si era rinchiusa in quel cristallo, quindi potrebbe aver vissuto abbastanza a lungo per vedere cosa è successo dopo che noi siamo scomparsi. E mi chiedo come sarebbe per lei vivere in questo mondo. Se si sente colpevole. Sono curioso.”

“Non innamorato, allora?” chiese Eren, un po’ egoisticamente. Sarebbe stato d’aiuto se Armin avesse avuto anche una cotta della sua vita passata di cui occuparsi. Non gli importava così tanto che questo amore perduto potesse essere una ragazza che lui aveva odiato e a cui aveva giurato vendetta; se Armin fosse stato innamorato di lei, Eren avrebbe messo da parte il suo odio, sempre se lei non si sarebbe trasformata in un mostro questa volta.

“Non credo. Non lo so. Che cosa provavo prima? So solo che avevo bisogno di voi, che avevamo bisogno l’uno dell’altro. Sono contento che sia ancora così.”

Mikasa strinse le mani di entrambi, il suo viso per una volta non era inespressivo. C’era un velo di lacrime nei suoi occhi. “Anche io. Eren, lo so. Lo so che pensi che a me non importi nulla degli altri. Invece sì. Ma sono molto felice. Anche se non incontrassi nessun altro di noi, sarei felice.”

Fece un respiro profondo.

“Ma dato che abbiamo tutta la vita davanti a noi, non credo ci sia nulla di sbagliato nel cercare gli altri nel frattempo. Abbiamo qui con noi il nostro genio. Possiamo trovarli.” Guardò Eren. “È questo ciò che vuoi, vero? E io lo voglio per te. Per tutti noi.”

Armin sorrise. “Genio. Quando ero alle medie tutta questa fiducia in me stesso mi sarebbe servita. Lo sapete che vengo ancora preso in giro? Perfino questa volta. Devo avere una faccia…”

“Avresti dovuto cercarci prima,” disse Mikasa, sembrando vagamente inviperita. Eren si trattenne dal sorridere.

“Non era una questione importante, non come allora. E poi, io stavo cercando. Non è colpa mia se siamo nati in Stati diversi.”

“E adesso?” disse Mikasa. “Non puoi restare, vero?”

“Posso restare per un po’, e mi fermerò di più quest’estate. Ma, pensavo, quando andremo al college…”

“Ci andremo insieme,” disse Eren, qualcosa dentro di lui gli suggerì quella rivelazione. “Dove? Credo che i miei voti siano abbastanza alti, ma non voglio ostacolarti.”

Armin arrossì un po’, prima di chinarsi per prendere qualcosa nel suo zaino. Un attimo dopo tirò fuori una cartellina e la porse a loro.

È a New York,” disse mentre loro aprivano al cartellina trovando i documenti per l’ammissione. “Ho trovato quello dalla rivista con più abbonati; immagino che avere accesso agli articoli potrebbe aiutarci a trovare la scienziata.”

“Vuoi dire quella con gli occhiali?” disse Eren.

“Sì, quella che faceva ricerca sui giganti. È impossibile che lei non sia una scienziata in questa vita, e che non sia altrettanto bizzarra. Per quanto riguarda gli altri, suppongo che sia meglio stare in una città affollata. Con più persone. Se stanno cercando i loro amici…”

È un buon punto di partenza,” disse Eren. Armin sorrise a vedere che aveva capito, ma Eren lo spiazzò con uno sguardo serio. “Bene, dato che hai scelto il college per noi, quali sono i nostri corsi?”

Armin rimase spiazzato, proprio come Eren pensava, e tutti e tre scoppiarono a ridere. Non importava loro se attiravano sguardi, non importava quando iniziava a sembrare che piangessero invece di ridere. Finalmente il trio era al completo ed era meglio di quanto avrebbero potuto mai sperare.

***

I primi mesi nella grande città furono frenetici, nel senso più positivo del termine. C’erano così tante persone che Eren si aspettava continuamente di alzare lo sguardo e trovare una faccia familiare. Poteva accadere in qualunque momento.

Se non fosse che, beh, c’erano un sacco di persone.

“Sono certo che troveremo la scienziata pazza se continueremo a leggere giornali,” disse Armin una sera, nella loro stanza in comune del dormitorio. Aveva passato la maggior parte del suo tempo a setacciare il sito della biblioteca universitaria per trovare le pubblicazioni più sconosciute. “Qualsiasi cosa sulle varie dimensioni, l’universo, o forse sulle allucinazioni o qualcosa del genere. Potrebbe essersi interessata a cosa sta succedendo a noi.”

Aveva il compito di assegnare i materiali da leggere e Eren stava imparando di più durante la ricerca della scienziata pazza che durante le lezioni.

Mikasa sospirò, buttandosi sul letto di Eren. La sua stanza era dall'altro capo del corridoio e lei passava alcune delle sue ore da sveglia da loro. “E se fossero nati da qualche altra parte e non avessero potuto andare a scuola?”

“Sarebbero scappati,” disse Armin senza esitazione. “Avrebbero trovato un modo. E poi non è forse questa la città delle possibilità?”

“La città che non dorme mai,” lo corresse Eren, distratto da un pensiero. Lunghe notti passate a parlare…

“Comunque, come sono le lezioni?” chiese Armin. Era un anno avanti a loro per il numero di crediti, ciò stava a dire che l’unico corso che avevano con lui era educazione sanitaria, che era considerata da tutti una sciocchezza e non era molto frequentato.

“Bene,” dissero all’unisono Mikasa e Eren. I due erano nella stessa facoltà (Scienze Motorie) e avevano gli stessi corsi, ma Eren frequentava Arte come corso a scelta e Mikasa aveva optato per il corso di Introduzione alla Psicologia. Oltre all'università, lei frequentava ancora molti corsi di arti marziali e Eren esplorava la città ad ogni occasione che gli capitava. Passavano del tempo separati abbastanza da sentirsi delle persone reali, ma non era abbastanza.

“Ti trovi bene con i tuoi compagni di corso?” chiese Eren, più dettato dal senso di responsabilità che da un reale interesse. Sapeva che Armin e Mikasa ce la stavano mettendo tutta per vivere in modo normale. Più di lui, comunque. Aveva già perso i contatti con parecchi dei suoi compagni e conoscenze delle superiori e non si stava facendo molti amici al college. Era difficile fingere un interesse quando ricordi di scenari infernali e volti mezzi dimenticati lo tenevano lontano dal mondo che lo circondava.

“Sì,” disse Armin. “Sono tutti molto interessanti. A volte è difficile trovarsi in sintonia, ma se faccio finta che l’altro mondo sia solo un sogno strano che abbiamo avuto, non mi sento poi così lontano da loro. E poi mi chiedo se dovremmo proprio fare tutto questo, no? Cioè, continuare così.”

Era un pensiero ormai vecchio, che avevano consumato a furia di discuterci sopra. Stavano sprecando le loro vite continuando a fare ricerche? Era meglio non sapere?

“Lo so,” disse Eren. Forse il giorno dopo sarebbe rientrato invece di passare le ore prima delle lezioni a camminare per le strade spiando dentro le vetrine dei locali nella vana speranza di trovare qualcuno. L’altro Eren non aveva mai avuto molte possibilità di dormire al coperto; non avrebbe dovuto concederselo ora?

Finalmente arrivò la sera; da un miscuglio di fogli, compiti e discussioni si passò dolcemente al sonno, quando Mikasa se ne andò nella sua stanza.

Eren lasciò il dormitorio alle otto della mattina seguente. Come al solito.

***

Il vento freddo gelava le dita di Eren e gli scompigliava i capelli, amplificato dagli edifici da entrambi i lati della strada. Non c’era la neve, ma era abbastanza freddo perché iniziasse a cadere, e Eren era costretto a camminare con le mani infilate fino in fondo alle tasche del suo cappotto verde scuro. Di tanto in tanto si sistemava la sciarpa bianca che indossava, o alzava il cappuccio foderato di pelo del cappotto, così che il vento non riuscisse più di tanto a intrufolarsi, ma sembrava che nulla fosse d’aiuto.

Le caffetterie lo attiravano da entrambe le parti, mettevano in mostra ciambelle e bevande e calde in tutti i gusti invernali. Era dura andare avanti a camminare e superarle, sapeva che presto avrebbe ceduto.

Non troverai nessuno, pensava fra sé e sé. Il pensiero era la sua costante compagnia in queste passeggiate mattutine. A volte riusciva a liberarsene immaginando di volare nell’aria tra i grattacieli come uno Spiderman con la cintura, ma il freddo inibiva la sua immaginazione. Non riusciva a mantenerla viva.

Qualcuno si scontrò con la sua spalla facendolo incespicare da un lato. Si girò per guardare, ma si fermò di scatto: da questa nuova angolazione riusciva a vedere oltre quel tizio alto dietro cui aveva camminato per alcuni isolati. Ciò che vide lo immobilizzò.

Più avanti camminava un uomo più basso della media e dai capelli neri, con un taglio proprio come quello che portava il capitano. Come se non fosse abbastanza, l’uomo scansava agilmente i passanti che gli arrivavano troppo vicini, facendo sembrare che non alterasse minimamente il passo. A Eren il respiro si bloccò in gola, tutti i pensieri delle caffetterie e del freddo lasciarono la sua mente.

“C-capitano!” gridò iniziando a correre. Superò l’uomo alto che gli impediva di vedere. “Capitano!”

I passanti lo guardavano straniti e lo spazio attorno a lui si fece libero. Eren rallentò il passo. L’uomo non si girava. Non era lui. Non era lui. Non era lui.

L’uomo basso davanti a Eren si girò.

Era lui.

 

(*) La teoria dei sei gradi di separazione ipotizza che ogni persona possa essere collegata a qualunque altra persona attraverso una rete di conoscenze e relazioni.

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Capitolo 2
*** Dolorosi ricordi ***


N.d.T.: molti di voi probabilmente avranno aperto questa fanfiction e iniziato a leggere senza capire nulla, questo perché si tratta del secondo capitolo ed io ho abbandonato questa traduzione per quasi un anno ormai! Chiedo venia, l’università mi ha tenuta impegnata più del previsto. Ad ogni modo, sono tornata al lavoro! Vi lascio al secondo capitolo.

Dolorosi ricordi

Il capitano portò una mano al viso per cercare di nascondere la sua espressione scioccata. “M-moccioso,” disse, mentre un certo rossore appariva sopra la sua sciarpa. Eren rimase fermo a fissarlo, senza accorgersi nemmeno della gente che si scontrava contro di lui e degli sguardi infastiditi dei passanti. L’altro uomo diede segno di averlo riconosciuto immediatamente e dei brividi attraversarono il corpo di Eren.

Era sempre stato così basso? Così facile da decifrare? Il cuore di Eren fece una capriola, ma non sapeva il perché. Non riusciva a iniziare a parlare.

“Questa volta sei silenzioso,” disse il capitano mentre la sua espressione si rilassava di nuovo. Era il movimento nervoso delle sue mani che lo tradiva, rivelandogli che non era così calmo e impassibile come lui avrebbe voluto fargli credere.

“Possiamo parlare da qualche parte?” chiese Eren.

Il capitano annuì.

Si incamminarono a passo svelto. Eren poteva a mala pena sentire le sue gambe per lo shock avuto, ma era fiducioso che lo avrebbero sorretto mentre riversava tutta la sua attenzione sull’uomo a fianco a lui. Il capitano (maledizione, qual era il suo nome?) indossava un cappotto ampio nero e una sciarpa blu, vestito come tutti gli altri uomini d’affari e alla moda tra cui Eren non si sentiva molto a suo agio. Lo avrebbe riconosciuto senza il familiare taglio di capelli? Pensò di no. Fu enormemente grato del fatto che il capitano non avesse voluto cambiare il suo aspetto. Armin aveva abbandonato da tempo il taglio a scodella dell’Altro Armin e nessuno lo avrebbe riconosciuto per strada senza di esso.

Il suo accompagnatore entrò in una caffetteria, senza controllare se Eren lo stesse seguendo. Sì, eccome se lo seguiva.

“Cosa vuoi prendere?” chiese il capitano, togliendosi i guanti di pelle. Eren osservò mentre lo faceva cercando di ricordare la domanda.

Cosa vuoi prendere. Giusto.

“Qualcosa di caldo,” disse. Abbassò la cerniera della giacca e iniziò a rovistare nella tasca interna cercando il portafoglio, ma una mano lo fermò.

“Vai a sederti.”

Quella voce ferma non permetteva discussioni ed Eren lasciò il capitano stare in fila, scegliendo un tavolino in un angolo del locale. La sua testa era un brulicare di domande, ma una spiccava sulle altre: quale diavolo era il vero nome del capitano?

Forse iniziava con la L. Gli era già capitato di pensarci, ma consultare le liste di nomi per bambini non aveva aiutato per niente. Davvero iniziava per L? L’unico nome che iniziava per L che gli venne in mente in quel momento fu Leeroy Jenkins.

Era abbastanza sicuro che non fosse quello giusto.

Dovette interrompere il suo brainstorming quando il capitano lo raggiunse con in mano due bicchieri di carta. Ne porse uno a Eren prima di sedersi di fronte a lui e di togliersi cappotto e sciarpa. Aveva un’espressione corrucciata ed Eren si chiese perché avesse accettato di parlare con lui se non voleva.

No. Non era quello. Semplicemente, il capitano non voleva esprimersi come facevano gli altri. Non ci sarebbero stati sorrisi pieni di lacrime e abbracci, non come era stato con Mikasa e Armin.

“Qual è il tuo nome?” chiese Eren, aveva deciso di gettare la prudenza al vento. Poteva sempre fingere di aver capito come si chiamava attualmente, non qual era il suo nome prima.

È lo stesso,” rispose il capitano.

Dannazione!

“Il tuo?”

Ehm, è lo stesso. Eren. Eren Jaeger. Sono entrambi gli stessi.”

Il capitano alzò un sopracciglio. “Io so qual era il tuo nome. Pensavi lo avessi dimenticato?”

Eren scrutò con attenzione la sua bevanda. Sperava si fosse raffreddata abbastanza per poterne bere un sorso.

Tu lo hai dimenticato,” disse il capitano, la voce non nascondeva la sorpresa. “Ah. Ecco allora perché mi chiamavi capitano.”

Si poteva morire per l’imbarazzo? “Era così come la gente ti chiamava. Come io ti chiamavo.”

“Non mi sono offeso,” disse l’uomo, ma per quanto ne sapeva Eren, dietro quell’espressione vacua poteva nascondersi una rabbia mostruosa. “È Levi.”

“Levi,” mormorò Eren, si sentì come se tutto fosse tornato a posto. “Capitano Levi.”

“Solo Levi.”

Eren arrossì. “Giusto.”

“Volevi parlare,” disse Levi. Non sembrava proprio impaziente, invece era come se stesse ricordando a Eren qualcosa che potrebbe aver dimenticato.

Eren aveva dimenticato tante cose, ma non che volesse parlare con quest’uomo.

“Non saprei da dove iniziare,” disse per scusarsi. “Dopo così tanto, no?”

Levi si avvicinò con dell’interesse nel suo sguardo. “Hai trovato gli altri?”

“Sì, due,” disse Eren, pensando potesse essere divertente fare un esperimento. “Indovina chi.”

“Tua sorella,” rispose subito Levi. “E… quello con la testa a fungo. Il biondino. Quello intelligente.”

Eren stava per chiedergli i loro nomi, ma preferì di no. “Indovinato, Mikasa mi ha trovato quando avevamo sette anni, infatti non mi fido dei miei ricordi di prima di allora, e abbiamo trovato Armin quando avevamo sedici anni.”

“Siete coetanei?”

Eren si accigliò. “Lo siamo sempre stati. Perché?”

Levi distolse lo sguardo. “Ho trovato degli altri. Sono più vecchi di quanto lo erano, almeno rispetto a me. Erano più giovani. E tu sembri avere più anni di quelli che dovresti avere.”

Eren sorrise interdetto. “Più anni di quelli che dovrei avere? Quanti? Quanti anni hai tu?”

“Ventotto.”

“Cosa significa?”

Levi bevve un sorso dal suo bicchiere, the, dall’etichetta che sporgeva, poggiò le mani sul tavolo e, con gesto deciso, girò la testa altrove. “Ho una teoria. Siamo passati attraverso... una porta d'accesso. Siamo nati nel momento in cui siamo usciti dall’altra linea temporale.”

C’era qualcosa nella voce di Levi che fece crescere l’ansia in Eren. Una porta d'accesso? Uscire dalla linea temporale? Tra i suoi pensieri gli sorse un’idea terrificante. “Usciti dalla linea temporale. Vuoi dire morti?”

Levi annuì.

“Ma tu ora hai dieci anni più di me,” disse Eren, appena sorridendo. “Significa che sei-sei…”

Cominciò a sentire il proprio stomaco attorcigliarsi. Avanzò con la sedia, preso completamente alla sprovvista. Ricordava di aver passato delle lunghe notti a parlare, di essere picchiato, ricordava un grande rimpianto. Non ricordava… non ricordava…

Aveva sentito il suo nome, ma non riusciva a dipanare la fitta nebbia dei suoi pensieri, l’annebbiamento della sofferenza. Il dolore lo aveva lasciato annebbiato, cieco, sordo. Nell’altra vita aveva potuto sapere com’era vedere il suo eroe morire, e ne aveva cancellato il ricordo. Avrebbe voluto continuare con la sua vita senza riaverlo.

“Eren.” Questa volta delle mani accompagnarono la voce, costringendolo a raddrizzarsi. Fece un respiro profondo nonostante le lame che sentiva nei polmoni e aprì gli occhi. Denti stretti. L’uomo che gli ricambiava lo sguardo gli apparve all’improvviso molto più intrigante.

“Capitano,” disse Eren. Anzi, rantolò.

Alle sue parole apparve un mezzo sorriso. “Levi.”

“Non…”

Levi annuì appoggiandosi sulla sedia. “Va bene. Nemmeno io ricordo molto. O almeno, per molto tempo non ho ricordato nulla.”

“Vorrei chiederti una cosa su questo, se non ti dispiace.”

“Spara.”

Eren intrecciò le dita, mentre un’ansia diversa lo riempiva. Perlomeno questa scoperta la faceva sembrare una cosa di poco conto. “Ho un certo ricordo,” esordì. “In un tribunale, o qualcosa di simile.”

Levi trasalì. “Credo di sapere quale ricordo intenda.”

Se lo sapeva, Eren non lo avrebbe descritto a voce. Aspettò che fosse Levi a parlare, avvertendo la tensione attorno alla sua bocca.

“Credo che in quel momento sia stato necessario,” disse Levi. “Non sono sicuro… no, invece sì. Era per fare scena, anche se non ricordo il perché. Aveva qualcosa a che fare con il tuo mutare forma. Ricordo anche che stavi in una cella. Ciò che facevo riguardava quello, ma è tutto ciò che riesco a ricordare.”

Era già qualcosa, anche se Eren avrebbe sperato in una spiegazione migliore.

“Sia Mikasa sia Armin ricordano che io mutavo forma,” disse Eren. “Ma io no. Non ricordo nulla di tutto ciò. Ricordo solo che potevo guarirmi le ferite.”

Levi annuì e calò tra di loro un silenzio imbarazzante. Riportarono la loro attenzione ai loro bicchieri ed Eren bevve un sorso. Era dolce, un tipo di mocha. Forse caramello. Chiuse gli occhi mentre beveva un sorso più lungo, gustandosi l’aroma del caffè e il sapore dolce sulla sua lingua. Sì. Era sicuramente caramello.

Quando rialzò lo sguardo, Levi lo stava guardando e un’ondata di calore pervase il corpo di Eren, e non dipendeva dal caffè. Ripensò alle altre domande che voleva fargli, che tipo di rapporto c’era esattamente fra di loro, se sapeva che a Eren in qualche modo piacesse, ma anche se tutte queste cose erano successe in un’altra vita si sentiva comunque troppo in imbarazzo per chiederle.

“Chi hai trovato?” chiese Eren sperando di non svelare il suo imbarazzo.

“La mia squadra,” disse Levi con voce quieta. “Quelli che sono morti mentre tentavano di fermare il gigante femmina. Loro sono quelli più vecchi. Vivono la loro bella vita, sono impiegati in una specie di casa produttrice di videogiochi che sta cercando di ricreare il sistema di movimento tridimensionale. Ci stanno lavorando da anni. Poi mi hanno trovato Erwin e Hange, vivono poco lontano da qui. Tecnicamente, non si chiama più Hange, ma si fa ancora chiamare così. Erwin è sempre Erwin, è nato in Olanda.”

“Il comandante e la scienziata pazza?”

Levi ridacchiò. “Sì. Entrambi sono più giovani di me, questa volta, quindi deduco che prima mi siano sopravvissuti. Bastardi.”

Eren avrebbe voluto ridere alla battuta ma il dolore di prima lo stava attanagliando allo stomaco, non poté fare altro che stringere i denti e far sembrare un sorriso la smorfia che stava facendo. Si sarebbe ricordato come era morto Levi se ci avesse pensato abbastanza a lungo? Aveva la sensazione di essere stato lì presente, ma non sapeva come era stato ai suoi occhi o cosa era successo. Gli venne in mente un’ipotesi orribile.

“Moccioso? Oi, moccioso.”

Eren lo guardò e si sentì torcere dentro. “Non ti ho ucciso io, vero? Nell’altra mia forma? So che…“

“Non essere stupido. Non avresti potuto uccidermi neanche provandoci, forse per sbaglio. Non ricordo esattamente come sono morto, ma non è stata colpa tua.”

“Ma io ero lì?”

Levi tamburellò le dita sul tavolo, come se stesse per mentire od omettere qualcosa di importante, ma tutto ciò che disse fu: “Tu eri lì.”

Allora Eren come avrebbe potuto dimenticarlo? Aveva vissuto dieci anni senza di Levi, se la sua teoria fosse stata esatta. Ne sarebbe impazzito, no? O era davvero quello il problema? Ricordava luoghi, odori, sensazioni, ma i suoi pensieri dell’altra vita erano annebbiati.

“Come stanno Erwin e Hange?” chiese, cercando di distrarsi dal dolore nel suo stomaco. Ricordò a sé stesso che non sapeva se Levi sarebbe stato ancora così collaborativo, o se avrebbe perfino voluto mantenere i contatti ora che avevano parlato. Proprio non ce la faceva a stare lì seduto e autocommiserarsi.

“Hange è la stessa. Esattamente la stessa. Sarebbe potuta nascere in qualsiasi mondo e sarebbe la stessa rompiscatole che è sempre stata. Sta studiando per il dottorato in una qualche strana specie di psicologia. Erwin è un padre di famiglia, anzi, lo diventerà presto. Cazzo, quanto è felice. È tutto ciò per cui ha sempre lottato, è il suo paradiso personale.”

Eren deglutì. “E tu?”

Levi rise. “Guardami. Sembro diverso? Sono sempre stato stronzo e cinico. L’essere nato in questo mondo non ha cambiato niente, a parte il fatto che adesso io non abbia proprio motivo di esistere.”

“Cosa vuoi dire?” chiese Eren con la voce che non nascondeva il panico. Le sue mani si chiusero in pugni sul tavolo.

Levi lo guardò e il suo sguardo tagliente si addolcì. “Non intendevo proprio quello.”

“Ah sì?” Eren non riuscì a trattenere la rabbia nella sua voce. “Cosa intendevi, allora?”

“Calmati un po’, moccioso. Non ho nessuna intenzione di suicidarmi nei prossimi giorni. Intendo questo mondo. Non sto dicendo che mi manchi uccidere i giganti, ma almeno quello era semplice.”

“Quindi che cosa fai ora?”

“Lavoro,” disse. Guardò l’orologio. “Supponendo che non venga licenziato per questo.”

Eren spalancò gli occhi. “Potrebbero licenziarti?”

“Forse. Magari no.”

Sembrava che per lui fosse la cosa meno importante del mondo.

“Dovrei lasciarti andare a lavoro, allora,” disse Eren, senza riuscire a nascondere il suo disappunto.

Levi alzò un sopracciglio. “Spero tu abbia pensato di darmi prima il tuo numero.”

“Cosa? Io… sì, certo. Non intendevo… certo che lo avrei fatto.” Afferrò un tovagliolo e lo piegò, quando si ricordò di non avere una penna. Le sue orecchie diventarono fucsia. “Ehm, penna?”

Levi gliela diede, insieme al biglietto da visita.

“Non è importante,” disse lui. “Il lavoro, voglio dire. Posso restare.”

Eren avrebbe voluto, ma era troppo nervoso per darlo a vedere. “Le lezioni iniziano tra poco.” Terminò di scrivere il suo numero e aggiunse il suo indirizzo. “Posso dire a Mikasa e Armin di te? Abbiamo cercato Hange per mesi ormai e se Armin sapesse che l’abbiamo trovata la smetterebbe di farmi leggere tutti gli articoli che lui pensa essere suoi.”

“Perché non avresti dovuto dire loro?” fu la sola risposta di Levi, ed Eren si sentì in imbarazzo un’altra volta. Giusto. Perché a Levi sarebbe andato bene conoscere lui, ma non Mikasa e Armin? Era una cosa stupida. Eren finì il contenuto del suo bicchiere sperando di dissimulare le sue mani tremanti. Quando lo poggiò, il bicchiere si accartocciò da quanto lo stava stringendo forte.

“Grazie,” disse, fissando il tavolo. “Non avrei mai pensato che ti avrei rincontrato così. Pensavo avrei dovuto darti la caccia.”

Levi annuì. “Vai a lezione, moccioso.”

Eren assentì. “A presto,” disse impacciato. Si alzò in piedi e in quel momento volle toccare l’altro, ma non si erano mai abbracciati o toccati molto, non che Eren sapesse, e non sapeva come cominciare.

“Sì,” disse Levi. “Presto.”

Eren rindossò la sciarpa e la giacca e si diresse verso la porta, dando un ultimo sguardo dietro le spalle verso Levi. Fu solo un istante, un solo passo dell’andatura veloce di Eren, ma vide Levi abbandonarsi e poggiare il mento sulle mani. Vedere quel momento di debolezza del capitano gli provocò una fitta al cuore.

Cosa aveva detto Eren per farlo rimanere così?

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Capitolo 3
*** Riuniti ***


n.d.t: come promesso, sono tornata con un nuovo capitolo! E non dopo… 10 mesi di hiatus come l’ultima volta. Spero mi perdonerete. Ad ogni modo, ecco a voi alcune PRECISAZIONI RIGUARDO LA STORIA importanti (vedi capslock per attirare l’attenzione) per questo e i capitoli a venire: guardando le date di pubblicazione della fanfiction e dei capitoli del manga, l’autrice l’ha conclusa quando più o meno era stato pubblicato il capitolo 60. Per questo motivo, avvenimenti come il colpo di Stato o l’arco di Shiganshina (lettori del manga, you know what I mean) non erano ancora noti all’autrice, o ha scelto di ignorarli per mantenere la storia come l’aveva pensata. Detto questo vi lascio al capitolo, spero che la mia traduzione vi piaccia!

Riuniti

Armin era davvero sul punto di arrabbiarsi, il che per lui significava infastidirsi e dire al massimo “Non posso credere che tu sia stato così irragionevole”. Marciava di fronte a Eren, facendo sembrare la piccola stanzetta del dormitorio ancora più piccola.

“Tu hai incontrato quell’uomo, il soldato più forte dell’umanità, uno degli ufficiali più prestigiosi dell’Armata Ricognitiva per strada e non ci hai chiamati? Ti ha detto che conosceva alcuni degli altri, tra cui quella che cercavamo da mesi e non ci hai chiamati? Che cosa stavi pensando? Questa era la svolta che stavamo aspettando! E se venisse preso sotto da una macchina o qualcosa del genere?”

Eren portò le gambe sopra il letto, si sentiva colpevole. Cosa avrebbe potuto dire? Che la cosa non gli era nemmeno venuta in mente?

“Non è come con te e Mikasa,” disse dispiaciuto. “Non era uno dei miei migliori amici nell’altra vita. Sarebbe stato imbarazzante.”

Armin si accigliò e si fermò di fronte ad Eren, fissandolo incredulo. La rabbia nella sua voce si mutò in preoccupazione. “Non credi che rinascere insieme possa far superare l’imbarazzo? Avresti potuto chiedergli di volare sulla luna con lui e forse lo avrebbe fatto.”

“Cosa?”

“Pensaci. Se ti avesse chiesto di andare da qualche parte o fare qualcosa con lui, ti saresti rifiutato?”

Eren scosse la testa, pensando che avrebbe avuto ben altre ragioni per accettare.

“Esattamente. Non importa quanto eravate poco legati nell’altra vita, ora avete qualcosa di grande che vi lega. E poi, avete passato un sacco di tempo insieme, quindi sono sicuro che ti considerasse molto più che un semplice conoscente.”

“Mi dispiace,” disse Eren.

Armin sospirò. “Non sono arrabbiato Eren, solo…”

“… deluso,” disse Eren, attirandosi un’occhiata di rimprovero, che diventò presto un sorriso quando Eren scoppiò a ridere.

Armin si buttò su letto vicino a lui.

“Credo che sia stato innamorato di Annie,” disse Armin guardando il soffitto. Lo disse come se non fosse più di tanto importante, al punto che Eren non era sicuro di aver sentito bene.

“Cosa?”

“Beh, dopo aver sentito quella teoria sull’età, mi sento frustrato. Più di quanto dovrei esserlo, a pensare che lei potrebbe essere molto più giovane. Quindi penso che forse mi importi di più di quanto dovrebbe.”

Eren aspettò che il suo amico aggiungesse qualcosa.

“Credo che lei mi facesse sentire speciale. Era il nostro nemico, ma mi faceva sentire come se fossi importante. Avrebbe potuto uccidermi mille volte, ma non lo ha fatto. Inoltre, sembrava che le importasse di cosa io pensassi di lei, perfino quando diceva chiaro e tondo che non le importava degli altri. In quella vita, era importante. Per così tanto tempo ho pensato di essere un peso inutile.”

“Non lo sei mai stato. Tu lo sai.”

“Lo so ora.”

Eren circondò le gambe con le proprie braccia. “Sai, il fatto che ti avrebbe potuto uccidere mille volte ma non lo ha fatto, non è proprio il miglior presupposto per una relazione.”

Armin rise. “Già. E tu?”

“Non siamo in una gara. Vuoi Annie, puoi tenertela.”

“Sai che non intendo quello.”

Eren guardò la porta chiedendosi quando Mikasa sarebbe tornata da lezione. Per un qualche motivo, era più preoccupato che lei lo venisse a sapere, piuttosto che Armin. Probabilmente perché nei suoi ricordi lei odiava Levi.

Ne aveva motivo.

“Come fai sempre a capirlo?” chiese di rimando Eren.

“Diciamo che lo si capisce da come sei rimasto completamente incantato da lui. Questo, e poi, con qualunque altro avresti rotto le scatole fino a obbligare il malcapitato a incontrarci. Levi lo hai lasciato andare, questo perché lo hai sempre messo una spanna sopra gli altri esseri umani normali.”

Il viso di Eren andò in fiamme. “Non volevo.”

“Ah, sì? Aveva detto che doveva andare?”

“Non esattamente. Ma stava saltando il lavoro e sembrava ne svolga uno importante.”

“Che cosa ha detto, esattamente?”

Diventò ancora più rosso. “Che non doveva per forza andare.”

Armin non disse nulla, ma la sua espressione d’intesa parlava per lui.

“Andiamo,” disse Eren, imbarazzato. “Non credo che gli farebbe piacere un ragazzino qualsiasi innamorato come una scolaretta di lui.”

“Non sei un ragazzino qualsiasi, Eren,” gli disse l’amico. “Sei l’opposto di un ragazzino qualsiasi. A prescindere dai suoi sentimenti, ci andrebbe piano con te. Abbiamo tutti passato un inferno, non riserveremmo la stessa sorte l’uno all’altro.”

Ci fu un rumore alla porta, un rumore sospetto che sembrava quello di un corpo che cadeva contro il metallo, e Mikasa la spalancò un momento dopo, prima che uno dei due potesse rispondere. Aveva il viso arrossato per la corsa.

“Hai detto di aver trovato Levi?” chiese, con in mano il telefono. “Il capitano? Cosa mi sono persa?”

Dopo tutto, lei ci teneva. Sorridendo di fronte al suo entusiasmo, Eren le spiegò tutto.

 

 

“Moccioso.”

La voce dall’altro capo del telefono era piatta, senza alcun segno di agitazione o nervosismo. Decisamente il contrario di Eren, che aveva quasi fatto cadere il telefono quando la chiamata era iniziata.

“Ehi, ehm… Levi.”

“Vuoi ancora chiamarmi capitano?”

Eren arrossì. “Prima o poi mi ci abituerò.”

“Non farlo, è lusingante. Mi dà l’impressione che possa ancora darti degli ordini. Che c’è?”

Tu puoi ancora darmi degli ordini, pensò Eren, prima di portare una mano alla bocca. Non lo avrebbe mai detto, per nessun motivo. Stupida, bellissima voce, stava cercando di ritrasformarlo in un cadetto quindicenne ossessionato dal compiacere il suo superiore. In questo mondo, lui e Levi erano dei pari.

Beh, in teoria.

“Moccioso? Andiamo. Sei stato tu a chiamarmi.”

“Possiamo incontrarci?” chiese Eren. Calò il silenzio dall’altro capo del telefono, quindi si affrettò a spiegarsi meglio. “L’ho detto a Mikasa e Armin. Si chiedevano se magari ci potessimo riunire tutti insieme. Tutti quelli che vivono qui.”

“Sì, stavo pensando a qualcosa del genere. Hange ed Erwin sono entusiasti. Beh, Hange è entusiasta, Erwin è semplicemente contento. Siete tutti liberi domani sera? Si è offerto di invitarci a casa sua.”

Eren era abbastanza sicuro che Mikasa avesse lezioni di arti marziali il venerdì sera, ma aveva detto che avrebbe potuto disdire qualsiasi impegno in caso di un raduno. “Sì, siamo tutti liberi. Ma Erwin non ha una famiglia?”

È sposato. Non preoccuparti, se ci ha invitati, va bene.”

Eren non sapeva se fosse vero, ma non fece domande. Continuarono a progettare i dettagli insieme. Mentre parlavano, Eren ripensò a ciò che aveva detto Armin, chiedendosi se davvero l’altro ci tenesse a lui solo perché avevano passato lo stesso schifoso inferno. Sembrava impossibile. Levi appariva così inavvicinabile, così tanto superiore a lui.

Eppure eccolo lì, ad organizzare un raduno con tutti gli altri. Forse c’era qualcosa di vero in tutto ciò.

O forse era semplicemente annoiato.

 

 

Mentre si avviavano verso la casa di Erwin a Westchester, Eren si era sempre più ammutolito. Armin e Mikasa probabilmente lo notarono, ma non dissero nulla. Quando salirono sul gradino di casa, Mikasa gli strinse la mano sorridendogli, e lui gliela strinse di rimando. Era felice che lei fosse lì.

Ma quando la porta si aprì, si dimenticò della sua agitazione: una pazzoide si fiondò su di loro e li abbracciò così forte quasi da sollevarli tutti e tre assieme.

“Il golden trio!” esclamò Hange, stringendoli più forte. “I miei nuovi bellissimi, meravigliosi soggetti per la mia ricerca.”

Amici, Hange,” corresse un uomo alto che stava dietro Hange. Sorrideva. “Per favore, cerca di chiamarli amici. Non vorrai che scappino via.”

Eren era contento che Hange lo stesse ancora abbracciando, perché l’istinto a fare il saluto quando vide Erwin era troppo forte da poterlo ignorare. Lei mollò la presa subito dopo.

“I miei nuovi amici,” disse. I suoi occhi, grandi e vigili, ricordarono a Eren Dobby.

“Venite,” disse Erwin, facendo spostare Hange di lato. “Levi è dentro.”

Tutti lo seguirono, lasciando le scarpe e i cappotti nell’ingresso e guardandosi attorno incuriositi nel salotto. Era accogliente, con un deciso tocco femminile. Sopra la mensola del camino era appesa una foto di matrimonio incorniciata e la donna raffigurata era in piedi sulla porta della stanza accanto: indossava un grembiule con una stampa di ciliegie e sembrava la sua gemella un po’ meno elegante.

“Altri svitati?” chiese, sorridendo a Erwin. Osservandola, Eren ricordò le parole di Levi: è il suo paradiso personale. Ne capiva il perché. Era un bel po’ più bassa di suo marito, con i capelli castano chiaro ricci acconciati su una spalla e un viso dolce a forma di cuore.

Inoltre, era incinta. Molto incinta.

“Questa è mia moglie, Marie,” disse Erwin, cercando di non far sembrare che si stesse vantando. “Marie, questo è il golden trio. Armin, Eren, Mikasa.”

“Svitati?” chiese Mikasa,

È una battuta,” disse una voce proveniente dalla cucina. Un momento dopo apparve Levi, vestito in modo molto casual con jeans e una maglia nera a maniche lunghe. “Per favore, non ucciderla. Ricordo che in quello eri molto brava.”

Mikasa aprì la bocca per replicare, ma Armin la batté sul tempo. “È bello rivederti, Capitano,” disse sorridente.

Levi gli passò una mano sul viso ed Eren non riusciva a capire se la sua espressione fosse contenta o infastidita. “Ciao, moccioso. Sentiti libero di usare il mio vero nome.”

“Non possiamo farne a meno,” disse Armin. “Per così tanto tempo avevate solo dei soprannomi.” Li indicò uno alla volta. “Capitano, comandante, scienziata pazza. Posso mostrarvi le liste, se volete.”

Hange rise. “Tutta quella faticaccia a fare la Caposquadra e finisco con l’essere chiamata scienziata pazza. Non avrei dovuto impegnarmi così tanto.”

“Te lo meriti,” disse Levi. “Sei un’eccentrica del cazzo.”

“Grazie, Capitano.”

Marie sollevò una mano. “Credo che ora io debba uscire di scena. Il cibo è in cucina. Io sarò in sala da pranzo a litigare con la mia macchina da cucire.”

Non dovette nominare il cibo due volte. Si spostarono tutti in cucina e riempirono i piatti con finger food preparati a regola d’arte, una vasta scelta di pizzette e verdure, e molti altri stuzzichini. Eren fu più lento degli altri, distratto dalla vista di Erwin e sua moglie insieme nella stanza accanto. La porta che dava sulla sala da pranzo era aperta ed Erwin stava stringendo la moglie in un abbraccio. La baciò incurante degli altri, più come un soldato che andava in guerra che come un marito che stava per lasciare la stanza. Una mano accarezzava il pancione, l’altra era tra i suoi capelli. Eren si chiese come fosse possibile amare in questo modo, come essere così intimi con qualcuno che non condivideva i ricordi di un mondo circondato dalle mura. Avvertì un leggero fastidio alla gola.

“Ehi,” disse qualcuno, tirandogli una gomitata sul fianco. Gli si mozzò il fiato quando vide che era Levi. “È da maleducati fissare.”

Eren arrossì violentemente, girandosi subito verso il cibo. Ne mise un po’ sul suo piatto senza guardare, pronto alla fuga, nonostante la voce di Levi fosse stata gentile. Sapeva di essere ancora rosso in faccia quando tornò in salotto, ma Levi non sembrava affatto imbarazzato mentre era entrato e aveva preso posto sul divano. Eren si sedette sul pavimento, dall’altro lato del tavolino.

“Dovete raccontarmi tutto,” stava dicendo Hange a Mikasa e Armin. “Su questa vita e l’altra. Siete arrivati alla cantina? Ucciderei pur di sapere cosa c’era lì dentro.”

Armin scosse la testa. “Le cose tecniche non mi sono chiare. Ricordo alcuni flash.”

“Persone e sensazioni, giusto?” disse Hange, e Armin annuì. “Anche noi. È come se il mondo non volesse che noi ricordiamo. Stupido mondo.”

“Oppure vuole che ci concentriamo sulle cose importanti,” disse Mikasa. Stava fissando il suo piatto. “Come la possibilità che abbiamo questa volta di vivere una vita vera e le persone con cui vorremmo trascorrerla.”

“Stronzate sentimentali,” disse Levi, facendo girare tutti verso di lui. “Al mondo non importa di cosa noi facciamo. Certo, sarebbe una bella teoria, ma sei tu quella che decide. Non c’è nessun disegno. Chiunque dica il contrario sta mentendo a sé stesso.”

Eren si aspettava che Mikasa si irritasse, invece annuì e disse, “Questo è un altro modo di vederla, ma secondo me si riduce alla stessa cosa. Sono molto grata per questa possibilità.”

“Eren è morto prima di te, non è vero?” chiese all’improvviso Hange. Si sporse più in avanti sul divano, aveva i gomiti appoggiati sulle ginocchia e lo sguardo serio. “Te lo ricordi.”

Eren guardò Mikasa, sbarrò gli occhi. Non aveva mai parlato di niente del genere. Non ricordava esattamente di quando fosse morto; ricordava battaglie interminabili, molte delle quali sarebbero potute essere le ultime, ma non aveva mai pensato a cosa la sua morte fosse significata per gli altri.

“Come ho detto,” disse Mikasa. “Sono grata.”

Dal suo sguardo, si intuì che Levi era d’accordo,  ma non le disse nulla. “Ad ogni modo,” disse invece, “Questa è la peggior conversazione a tavola a cui abbia mai partecipato.”

Hange ridacchiò. “Disse quello che pensa si possano dire battute sulla merda nelle conversazioni educate.”

Armin tossì, anche se sembrava vagamente una risata, ed Eren sorrise senza nemmeno accorgersi. Il momento imbarazzante finì quando Erwin entrò nella stanza e si sedette nella grande poltrona, che sembrava fatta apposta per lui.

“Erwin, onestamente,” disse Levi una volta che Erwin era seduto, “Non riesci a tenere le mani lontane da lei per cinque secondi? Hai degli ospiti.”

Erwin in tutta risposta arricciò il naso, era molto diverso dal comandante che tutti ricordavano. “Solo perché tu sei un guastafeste con cui nessuno sano di mente starebbe insieme, non significa che noi non possiamo essere felici.”

“Oh, grazie. Vorresti anche insultare il mio senso dell’umorismo? Hange stava giusto iniziando.”

“Il tuo umorismo è di merda,” disse Erwin. “Letteralmente.”

Questa volta, Armin non trattenne la sua risata, neppure Eren riuscì a non muovere le spalle mentre si nascondeva la bocca con le mani. Fu contento di vedere che anche Mikasa stava ridendo.

Aveva forse perdonato Levi per ciò che aveva fatto nella vita precedente?

“Che hanno detto quelli della squadra speciale quando hai detto loro di aver trovato Eren?” chiese Hange a Levi. A quanto pareva, era un argomento adatto di cui parlare a cena.

“Ne sono stati felici. Penso che ognuno di loro si senta ancora in colpa per non essere stati in grado di proteggerlo.”

Loro si sentono in colpa?” chiese incredulo Eren. Li ricordava nella foresta, con i corpi schiacciati e distrutti dal gigante femmina. Era sicuro che non lo avrebbe mai dimenticato.

“Non ho detto che dovrebbero, ho detto che effettivamente si sentono in colpa.”

Armin aveva la bocca serrata. Eren pensò a chi fosse in realtà il gigante femmina e decise di mollare completamente la conversazione. Fu Hange a riprenderla in mano.

“Dico davvero, voi dovete raccontarmi tutti i vostri ricordi,” disse. “Non qui a cena, ma se mi permetterete di farvi qualche domanda prima o poi, mi aiutereste moltissimo con la mia ricerca.”

Lo sguardo di Eren si spostò sulla sua espressione seria. “Io in realtà non ricordo molto.”

Lei scosse la testa. “Nessun problema. Ho avuto degli ottimi risultati con l’utilizzo dell’ipnosi…”

“Hange,” disse Erwin interrompendoli. “Non credo sia qualcosa che debbano prendere in considerazione adesso.”

Eren guardò il comandante con riconoscenza. Dopo la rivelazione del giorno prima, non era sicuro di quanto volesse ricordare.

Lo sguardo da pazzoide di Hange scemò in un istante. Per ripicca, iniziò a parlare della sua ricerca, o meglio, della parte ufficiosa, in cui aveva utilizzato Erwin e Levi come soggetti per i test. Eren rimase sorpreso che Levi avesse voluto prenderne parte.

“Ovviamente, non significa molto,” ripeteva lei. “Non posso trarre conclusioni da due sole persone. Beh, tre, se contate me.”

“Hanno afferrato il concetto,” disse Levi dopo la quarta volta.

Poi venne il momento di raccontare la propria vita e tutti, tranne Levi, riportarono numerosi aneddoti. Grazie ad Erwin e Hange, appresero che Levi era cresciuto in Francia e che, da quando era adolescente fino ai vent’anni circa, aveva vinto molti campionati internazionali di arti marziali. La cosa scioccò Eren, dal momento che non riusciva ad immaginare che Levi si fosse iscritto per puro divertimento. L’unica spiegazione che potesse avere senso era che Levi avesse cercato di far sapere dove fosse.

Il che voleva dire che voleva essere trovato.

Da quel momento, Eren per un po’ perse il filo della conversazione: era diviso tra la soddisfazione per aver avuto la prova che a Levi ciò importava, e la frustrazione per non averlo trovato in quel modo. Ovviamente avrebbe dovuto cercare tra i campioni di arti marziali. Perché non ci aveva pensato?

La serata passò velocemente e presto Marie tornò in salotto per ricordare a tutti che era ora di andare a dormire. Si alzarono in piedi e si scambiarono i numeri di telefono e gli indirizzi email, freneticamente, come se da un giorno all’altro avrebbero potuto perdere le loro tracce. Eren avvertì una leggera fitta quando capì che così non avrebbe avuto più scuse per chiamare Levi, ma il suo disappunto scomparve quando si trovò da solo insieme a lui sulla porta d’entrata, mentre si abbottonavano i cappotti e gli altri si stavano congedando nel salotto. Si affrettò a intavolare una conversazione, determinato a non perdersi quella possibilità di parlare insieme.

“Fra poco sarà il tuo compleanno, vero?”

Levi alzò la testa, quasi sorpreso di vedere Eren davanti a lui. Subito dopo la sua espressione si rilassò.

“Vorresti farmi una torta?”

È un sì? Quale giorno?”

“No. A meno che valga ancora il mio vecchio compleanno. In tal caso, il venticinque, e alla vaniglia, grazie.”

Eren arrossì un poco. Giusto. Erano tutti nati una seconda volta, anche se non riusciva ad immaginare che Levi fosse nato in un mese più caldo di quello. Al venticinque mancava solo una settimana e mezza ed Eren aveva lezioni fino al ventuno.

“Ti posso sempre preparare qualcosa, se vuoi,” disse guardando il pavimento. Poi riformulò. “Anche se… condivido la cucina con altri cento ragazzi del college. Non credo che rispetti i tuoi standard e mi ci vorrebbero mesi per pulirla a dovere.”

Il capitano lo guardò compiaciuto. “Oh? Almeno ricordi ancora delle cose importanti. Quindici anni senza sapere come pulire decentemente sono sufficienti per non so quante vite.”

“Non saprei come avrei potuto dimenticarmene…” iniziò Eren, prima che un dettaglio della frase di Levi lo fermasse. “Aspetta. Quali sono le cose importanti che non ricordo, se ne ricordo solo alcune?”

Levi distolse lo sguardo per un momento, prima che una mano da dietro afferrasse la spalla di Eren.

“Un sacco,” disse Hange. “Ed è per questo che dovresti farti ipnotizzare da me qualche volta. Se passerò un’altra vita senza scoprire cosa c’era in quella cantina, allora sarò davvero degna del mio soprannome.”

Eren si girò e vide il resto del gruppo in piedi dietro Hange, pronti a prendere i cappotti ed andarsene. Lui e Levi uscirono per fare loro spazio nell’ingresso ed Eren pensò che significasse la fine di quel momento privato tra loro due, finché Levi lo guardò con le guance pallide che cominciavano a diventare rosa per il freddo.

“Ti manderò un messaggio con il mio indirizzo,” disse. “Se avrai bisogno di una cucina decente o… solo per parlare. Anche per gli altri.”

Eren dovette ricordarsi di respirare, non era sicuro di cosa significasse. “Tutto pur di avere una torta di compleanno,” disse a voce bassa. “Non sapevo amassi i dolci.”

“Non io, tu.”

Quell’affermazione, calma e veritiera, fu il colpo di grazia per Eren e le sue già ridotte capacità oratorie. Non io, tu. Nessuna domanda, né esitazione. Levi era certo che Eren conoscesse i suoi gusti e c’era una tale confidenza in questo che Eren iniziò a dubitare dei suoi ricordi. Ma no. Eren era sicuro, anzi più che sicuro, che lui e Levi non fossero stati così tanto intimi. Ricordava di aver passato delle notti brancolando nel buio con alcune persone, ma non con il capitano. Non con qualcuno di cui gli importava. Allora perché Levi era così sicuro di sé?

L’arrivo degli altri salvò nuovamente Eren dal silenzio imbarazzante. Tutti e cinque salutarono Erwin e Marie mentre percorrevano il vialetto del giardino e imboccavano la strada verso la metropolitana. Levi ed Hange li lasciarono per prendere un’altra linea, così Eren fu di nuovo solo con i suoi amici. Sospirò mentre si sedeva sul sedile del treno, tra Armin e Mikasa.

È stato molto divertente,” disse Armin mentre le ruote iniziavano a girare e il treno partiva. Eren e Mikasa annuirono. “Chissà se li rivedremo.”

“Da come ci guardava Hange?” disse Mikasa. “Presto.”

Eren era d’accordo, ma non disse nulla. Nessuno di loro aveva ancora voglia di parlare di quanto scoperto; era troppo presto, anche se non si era parlato di cattive notizie. Avevano bisogno di elaborare tutto ciò ed Eren non aveva dimenticato la rivelazione di Hange: Mikasa lo aveva visto morire, o almeno, era sopravvissuta a lui. In quei undici anni trascorsi insieme in quella nuova vita, non ne aveva mai parlato.

Quando arrivarono a casa, tutti e tre erano esausti e non si reggevano in piedi. Mikasa mormorò un ciao prima di andare in camera sua, Armin ed Eren crollarono dentro la loro un momento dopo. Eren stava indossando il suo pigiama quando il telefono vibrò ad un messaggio di Levi: il suo indirizzo, non una parola di più.

Eren cercò di non pensarci troppo, ma mentre si metteva a letto si ritrovò ad aspettare in silenzio il suono della vibrazione del telefono di Armin ad un messaggio simile.

Non arrivò mai.

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