Spooks

di Applepagly
(/viewuser.php?uid=611544)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #1 - Stroke of midnight ***
Capitolo 2: *** #2 - Dawning of old misteries ***
Capitolo 3: *** #3 - Fading of ancient sorrows ***



Capitolo 1
*** #1 - Stroke of midnight ***


D’accordo, non ce l’ho proprio fatta a lasciarlo a mollo nel PC.
Questa è una specie di seguito in tre capitoli (un po’ lunghetti) de “Il catalogo delle cose belle”; diciamo che sistema le questioni… irrisolte.
Lo so, oggi non è Halloween, ma qualche mesetto fa ero abbastanza ispirata per qualcosa di creepy (complice un sabato in cui sono tristemente rimasta a casa in solitudine e ad ogni scricchiolio del tetto stringevo il mattarello un po’ di più).
Le tre leggende metropolitane principali sono di origine cinese, anche se ne ho modificato qualche punto e da lì… beh, da lì iniziano le vicende vere e proprie!
Buona lettura!
Applepagly

 

 
 
La ragazza mosse un timido passo in avanti, incantata dal pallido riflesso che la luna proiettava di sé sullo specchio dello stagno. Immerse prima un piede, poi l’altro; avanzò fino a che si rese conto che l’acqua scura era giunta fino alle ginocchia.
Il letto limaccioso su cui camminava sembrava assorbirla lentamente, costringerla in un abbraccio di fango e melma che rendeva sempre più difficile avanzare oltre. Di nuovo, quella voce sottile della brezza le sussurrò tra i capelli e, prima di lasciarsi andare come le aveva suggerito, la giovane si volse un’ultima volta indietro, come se davvero avesse creduto di scorgere un’ombra, in lontananza.
Ma quell’ombra non venne, né in quel momento, né mai; e di lei, della sua promessa disattesa, non si seppe più nulla.
Quella stessa sera, tempo dopo, un ragazzetto volgeva le spalle allo stesso stagno, attendendo che la sua bella si facesse vedere come d’accordo. Un appuntamento in una notte di luna piena, in una notte in cui la luna era grande e luminosa anche se, per qualche curiosa ragione, non si rifletteva nitidamente come avrebbe dovuto.
Di tanto in tanto qualche refolo di vento smuoveva il profilo liscio di quella grande pozza e piccole bolle parevano salire in superficie, dissolvendosi in uno scoppiettio che iniziò a farsi sempre più molesto.
All’improvviso, al sussurro del vento parve sostituirsi un sibilo sinistro, una voce, come di donna; metallica, che annaspava e si affannava. Mormorava parole indicibili al suo orecchio, vomitando orrori che resero piena di urla di terrore una notte prima silenziosa e quieta.
Delle mani emersero dalle bolle, e l’afferrarono, lo tirarono, ne divorarono le carni lasciando solchi profondi, dilaniando la pelle come semplice stoffa; e lo stagno si tinse di nero putridume, eclissando ancor di più la fioca luce dell’unica testimone dello strazio. Quando l’amata giunse sul posto rinvenne solo denti ed occhi dell’amato, unici pegni di quella fuga che sarebbe dovuta essere per loro madre di nuovi inizi.
Ogni anno il fato sembrava riservare la stessa sorte ad un innamorato, ed ogni anno lo spirito irrequieto ed inquieto dello stagno cercava di arrestare il dolore che aveva vissuto nel vedere infranta una promessa per mano di un uomo e di un’altra donna che lo aveva portato con sé…
 
 
*
 
 
Spooks
#1 – Stroke of midnight
 
 
Maybe I’m a ghost
Just a whisper in a puff of smoke
A secret that nobody knows
No one will ever hear
Ghost Story, Coldplay
 
 
Lo scroscio della pioggia giungeva lì sotto ormai ovattato, quasi fosse stato solo un pallido ricordo; in un movimento brusco, il ragazzo si scrollò di dosso qualche goccia che era rimasta imprigionata tra le pieghe della giacca a vento.
Prese a frugare nelle tasche, alla ricerca della piccola torcia che era certo di aver preso con sé – uno Specialista che si rispettasse doveva sempre averne almeno una, a portata di mano. In quel mentre, dell’acqua filtrò attraversò la botola e precipitò per qualche metro fino a che, con suo sommo disappunto, precipitò proprio sulla punta del naso di lui.
Sbuffò, chiedendosi ancora una volta perché accidenti si fosse lasciato coinvolgere in quell’idea balzana. Dal giorno della festa aveva giurato che non ci avrebbe mai più messo piede, in quella sala gelida come i morti che molto probabilmente stavano seppelliti appena un paio di centimetri sotto il pavimento.
E poi… e poi quel posto gli ricordava quella pessima figura che aveva fatto, quando la sua linguaccia non aveva saputo trattenersi dallo sputacchiare cose che, in verità, non aveva mai seriamente pensato.
Si scostò un ricciolo dalla fronte e si rese conto di aver aggrottato le sopracciglia all’inverosimile; se qualche mese prima qualcuno gli avesse detto che un giorno si sarebbe ritrovato a conversare in maniera più o meno civile con certa gentaglia, beh, forse avrebbe accolto quell’affermazione con una pernacchia.
La flebile luce della torcia disegnò i contorni sfocati del grande portone, ancora pregno dell’odore dell’ultima verniciata di restauro che aveva ricevuto. Avendo entrambe le mani impegnate – e naturalmente sarebbe stato poco igienico o comunque contro i suoi saldi principi posare momentaneamente il prezioso carico che aveva nella destra – sferrò una pedata contro la maniglia per abbassarla.
Quando fece il suo ingresso, gli sembrò che l’aria si fosse fatta momentaneamente pesante. Ventidue paia di occhi sbarrati si fermarono sulla sua figura, con il fiato sospeso.
«Smettetela di guardarmi così» borbottò. «Non sono ancora un colosso di due metri con un pizzetto ridicolo ed il peso di un pachiderma»
«La grazia con cui apri le porte è la stessa, però» ghignò il gemello, alzandosi per aiutarlo. «Abbiamo davvero temuto che fosse Codatorta»
Il biondo lo trucidò con lo sguardo, porgendogli il sacchetto che aveva tra le mani. «È tutto quello che sono riuscito a sgraffignare dalle cucine. Credo che la cuoca mi abbia visto»
«Oh, va bene così» sorrise Helia, aprendo un pacchetto di arachidi glassate. «Comunque, Bloom… sul serio da voi sono considerate paurose, queste storie?»
La fulva sussultò sul posto, come ridestandosi. «Beh, sì… è una delle leggende metropolitane più spaventose che io conosca. Me l’hanno raccontata quando avevo sei anni e ho evitato il lago ed il mare per non so quanto tempo»
«Ma dai, bastava che il ragazzo avesse con sé un talismano, lo sanno tutti!» protestò Musa.
«Sulla Terra non funziona esattamente così…» si strinse nelle spalle l’altra.
«Cosa mi sono perso?» chiese Alan, stravaccandosi su una delle poltroncine che avevano disposto accanto ad una finestra.
Da qualche tempo a quella parte – da quando le acque sembravano essersi calmate e non c’era più lo spettro di mostri e nemici all’orizzonte – quelle fate avevano preso la pessima abitudine di sbucare dal sottopassaggio che collegava la scuola e di usare quel salone come luogo di ritrovo con i ragazzi.
Ovviamente quando c’erano di mezzo Looma, la fata delle piante e quella gallina petulante della principessa era pressoché impossibile che non facessero la propria comparsa divani, luci, fiorellini e quant’altro. Alla fine era venuto fuori un lavoro decente, ma era quasi impazzito a sentir parlare quelle tre di arredamenti per settimane e settimane.
Quasi quasi non ricordava come avesse potuto sopravvivere ad i preparativi per la festa, in mezzo a tutto il cicaleccio.
«Il primo racconto del terrore» riportò Timmy.
«E l’ha proposto Bloom, immagino» sospirò Alan. «Sulla Terra i ragazzini tra i sei e i tredici anni d’età non danno mai tregua a nessuno, con quelle storie»
«Ma quindi ne conosci qualcuna anche tu?» chiese Flora.
Sem rise e quasi si affogò con l’acqua che stava sorseggiando. «Oh, certo che ne conosce… i nostri compagni le raccontavano tutte a lui per fargliela fare addosso»
«Sta’ un po’ zitto, Sem» ringhiò l’altro, a denti stretti. «Sì, qualcuna sì. Ma scommetto che ne girano anche da dove venite voi… quindi, chi è il prossimo?»
«Oh, io, io!» esclamò Looma. «È veramente spaventosa, questa! Me l’ha raccontata Amaryl qualche sera fa, ma mi ha detto che in realtà gliel’aveva raccontata la sua amica di Torrenuvola»
«Ah, lo dicevo che c’era una ragione, se era così antipatica…» sospirò Musa, alzandosi per prendere qualche noce da sgusciare.
«Però la storia è davvero inquietante!»
 
*
 
Riven si corrucciò, prendendo ad accarezzarsi il mento con fare pensoso.
Masticava ripetutamente lo stecchino dello spiedino di caramelle che aveva divorato, riflettendo su quanto Looma aveva appena raccontato. «Quindi, fammi capire… loro vanno nella grotta e la sfera di cristallo ce l’ha il mostro. Poi lo sconfiggono e si scopre che era scontroso perché il veggente l’aveva buttata nella cascata ed il mostro non voleva che vi si gettassero i rifiuti?»
«Esatto! C’era finanche un cartello d’avviso»
«E quindi riportano la sfera al veggente» concluse Brandon.
«Sì, e lui aiuta i due forestieri nella loro ricerca»
«Scusa, Looma… ma qual è l’elemento spaventoso, in questa storia?» fece Timmy, piuttosto confuso.
«Ce ne sono molti! Il fatto che nessuno sappia da dove venga il veggente, il suo potere inquietante, l’amico ucciso dallo stesso tipo sulle cui tracce sono i due forestieri… ce ne sono!» ribadì, convinta.
«Looma cara, non credo che tu abbia capito lo scopo di queste storie…» intervenne Stella, esasperata. «Faceva paura meno di quella di Bloom»
«Hey, guarda che la mia faceva paura!» sbraitò la diretta interessata.
«Oh, ti prego… perfino la faccia di Griselda è più spaventosa» insistette la principessa, suscitando le risate delle compagne. «Anche se gira voce che le sopracciglia di Saladin la mattina presto abbiano poteri spaventosi che consentono loro di assumere il comando del proprietario e che il loro piano sia quello di assoggettare l’intera accademia… ecco perché è così burbero»
«Sì, e poi aggiungici un paio di ernie al disco ed il disprezzo viscerale per una matricola che è davvero incapace» confermò Helia. «Il mostro è bello e pronto»
«Io ho sentito che l’infermiere Quaquall tiene nell’armadietto dei medicinali scaduti che spaccia per antidolorifici, mentre invece si tratta di suoi stratagemmi per invasare gli studenti cosicché diano vita ad una rivolta» rabbrividì Looma.
«Dovresti chiedere a Sem, lui assume quella roba più di chiunque altro» commentò Alan, ottenendo un grugnito di risposta dal fratello. «A me avevano detto che la vostra insegnante di galateo se la intende con Palladium»
«E dove starebbe, la parte spaventosa?» fece Tecna.
«È da brividi!» esclamarono Bloom e Musa, insieme.
«Beh… direi che, se non avete dettagli più succulenti sulle sopracciglia di Saladin, le droghe di Quaquall o sull’affair segreto dei professori di Alfea… è ora che qualcuno tiri fuori un’altra storia» propose Brandon. «Chi è il prossimo?»
«Potrei… raccontarne una io. La conosce anche Alan» intervenne Sem, pensoso.
Il gemello strinse i pugni, sbiancando completamente. «Oh, dai, quella storia… non fa paura, non fa paura per niente»
In verità, quando dei ragazzi delle scuole superiori gliel’avevano raccontata – aveva ancora dieci anni, all’epoca – non aveva più voluto prendere i mezzi pubblici e ogni mattina si era alzato con un’ora d’anticipo per fare la strada a piedi.
La storia suonava più o meno in questo modo: in una fredda notte di novembre, quando la pioggia cadeva copiosa, l’autobus 375 aveva effettuato la propria ultima corsa.
Il protagonista del racconto in questione, un esile ed attaccabrighe ragazzino, era salito insieme ad un vecchio ed una coppia di fidanzati che, per tutto il tragitto, non avevano fatto altro che sbaciucchiarsi.
Ad un certo punto, l’autobus si era fermato ed avevano fatto il loro ingresso due figure che avevano in qualche modo appesantito l’atmosfera. Entrambe indossavano dei lunghissimi impermeabili che ne occultavano le forme, ed i cui cappucci erano tirati fino alla punta del naso.
L’attenzione di tutti i passeggeri si era focalizzata su di loro, ma era stato soprattutto un anziano a non distogliere mai lo sguardo dai nuovi venuti.
Ad un tratto, si era rivolto al ragazzino rachitico che aveva seduto accanto, sostenendo – al solito e burbero modo dei vecchi borbottoni che si incontrano sui pullman – di averlo sentito dire qualcosa di ingiurioso proprio riguardo a quel povero anziano che stava alla sua sinistra.
Il moccioso aveva stizzosamente replicato di non aver proferito parola e, siccome l’altro insisteva, lo prese a male parole. L’autista aveva fermato l’autobus, intimando ai due di scendere.
Inutile descrivere la folle rabbia del ragazzetto che, non solo si era trovato in un luogo del tutto sperduto e sotto la pioggia, ma sarebbe costantemente stato perseguitato da quel vecchio matto e strampalato che sentiva le voci… senonché, questi si era scusato e, con una serietà agghiacciante, aveva spiegato le proprie ragioni.
Quei due che erano saliti sul bus, come aveva detto, non erano umani. Li aveva osservati bene ed aveva notato che, in verità, quegli impermeabili non nascondevano piedi né caviglie, e che le maniche avevano spesso oscillato come se non vi fossero state braccia ad indossarle.
Il vecchio, poi aveva raccontato di aver sentito un terribile tanfo di carogna attorno a loro, quando era sceso.
E, in effetti, tre giorni dopo l’autobus era stato trovato molto lontano dalla città, in una campagna sterile, ribaltato. Al suo interno erano stati trovati dei cadaveri, ma due in particolare avevano turbato la polizia scientifica, dal momento che erano stati rinvenuti in un avanzatissimo stato di decomposizione, nonostante il poco tempo trascorso.
Ovviamente a tutti questi scemi fa paura solo perché il tono di Sem assolutamente incolore rende il racconto più lugubre… ma la storia non fa paura per niente. Beh, per un bambino che va a scuola in pullman, forse sì.
«Okay, diciamo che questa è servita come riscaldamento» fece Alan, spezzando l’atmosfera.
«Ehi, e allora la mia e quella di Looma?» protestò Bloom.
«Quelle erano un esempio di cosa non raccontare» intervenne Musa, sgranocchiando un cracker. «Qualcuno ne ha una da lacrime di panico nel cuore della notte?»
«Perché non ne racconti una tu, allora?» le rispose a tono la fulva, indispettita.
L’altra non si scompose, concedendosi qualche istante per riflettere. Poi s’alzò, gettò l’involucro dello snack e, con un incantesimo, fece spegnere le luci che illuminavano la sala.
«Ma sei impazzita?» esclamò Stella, colta alla sprovvista.
All’improvviso, un fascio d’energia si sprigionò dalle mani della fata della musica, illuminandone parzialmente il volto in una scena spettrale che, pensò Bloom, rendeva il tutto dannatamente simile a quei film horror in cui dei ragazzi si raccontano storie spaventose con la sola luce di una torcia, e poi la mattina dopo gli investigatori li ritrovano stecchiti a causa dell’ennesimo maniaco.
«Questa non sarà una storia come quelle proposte fino ad ora… perciò, se siete deboli di cuore, vi consiglio caldamente di andarvene adesso…» sussurrò Musa, con tono lugubre. «Ci tengo a precisare che i fatti che vi narrerò fanno riferimento a qualcosa di realmente accaduto in una buia notte di primavera come lo è questa…»
«Realmente… accaduto?» deglutì Flora, muovendosi un po’ a disagio sulla poltrona che occupava.
Musa annuì. «Bene, allora… dovete sapere che su Melody, poco distante dal mio paese, c’è un collegio piuttosto rinomato per aspiranti fate e maghi musicisti»
«E perché non sei andata lì?» chiese Stella, annoiata.
«Non interrompermi!» sbottò l’altra. «Dicevo… il collegio è molto famoso, ma non solo per la preparazione dei suoi allievi… esiste una strada, lungo i dormitori, chiamata “La strada della Treccia”. Pare che, di notte, ogni tanto appaia una ragazza con una lunga treccia corvina»
La fata ghignò, constatando di essere riuscita a creare la giusta atmosfera.
«Esistono diverse supposizioni, a riguardo, ma non si conoscono con esattezza le dinamiche. Tutte le versioni, però, riportano la storia di una ragazza che, per un motivo o per un altro, era ruzzolata giù da un treno a causa di uno scossone. Prima di esalare l’ultimo respiro, pare che avesse rivolto uno sguardo indietro e che, con orrore, avesse visto giacere poco lontano parte del proprio capo e del proprio volto… la treccia, invece, era rimasta impigliata tra i cardini della porta del treno»
Pausò, forse distratta dal mugolio di disagio emesso da Flora. Looma era pallida come un cencio, Alan tratteneva un po’ il respiro e stava diventando viola in volto, mentre il suo gemello si torceva le dita.
«Il giorno successivo, le forze dell’ordine avrebbero trovato i resti di una ragazza nel pozzo in disuso poco distante dal collegio, senza sapere come fossero finiti proprio lì» proseguì. «Una notte, uno studente che si era attardato in biblioteca e che stava tornando ai dormitori, si ritrovò a percorrere la Strada della Treccia. Canticchiava un motivetto ma, all’improvviso, la sagoma di una ragazza di spalle comparve lungo il tragitto, e lui si ammutolì. Di lei poteva distinguere con chiarezza solo la lunga treccia corvina che oscillava sinistramente al vento, insieme al turbine di petali degli alberi in fiore»
Bloom deglutì nervosamente. Era una sua impressione, o un refolo d’aria gelida si era intrufolato nella stanza?
Seduta sul tappeto, strinse con forza a sé il cuscino che aveva tra le braccia. Beh, almeno non era l’unica, dato che Tecna si era morsa le labbra quasi fino a farle sanguinare… perfino Helia sembrava turbato, per non parlare di Timmy che, per quanto razionale, teneva gli occhi sgranati e di tanto in tanto si guardava le spalle.
Gli unici impassibili erano Riven, che sembrava quasi soddisfatto delle abilità narrative della – forse/quasi/non si capiva – fidanzata, e Brandon, che forse stava solo occultando il tutto per non sfigurare.
Stella, che aveva la fama di essere una gran fifona quando si parlava di fantasmi e simili, stranamente non batteva ciglio.
«Lo studente provò allora ad attirare l’attenzione di lei, chiedendosi cosa ci facesse una ragazza fuori a quell’ora della notte… la chiamò, ma quella non si voltava, e quindi le si avvicinò e le posò una mano sulla spalla e, quando in fine si girò, il ragazzo svenne a terra per l’orrore…» continuò, abbassando ancora la voce. «…perché lo spirito non aveva il voltò, né naso né narici, e gli occhi penzolavano in una maniera oscena e lo avevano guardato in un modo che non avrebbe mai dimenticato. La ragazza con la treccia si mostra sempre agli studenti nelle notti di primavera, sulla stessa strada… lui è stato l’unico ad essere sopravvissuto all’esperienza per poterla raccontare»
Calò un silenzio di tomba e, proprio mentre Musa stava per dire qualcosa, per smorzare un po’ l’atmosfera pesante e prenderli tutti in giro, il rombo di un tuono squarciò il cielo con tanta violenza che si sentì fin là sotto.
Le ragazze – ed Alan – lanciarono un urlo di sgomento, e Looma pretese di riaccendere la luce con un incantesimo. Tuttavia, l’incantesimo non andò a buon fine.
Stella stessa, spazientita, fece un tentativo che ebbe il medesimo esito. «Ma cosa succede?»
Alan illuminò con una torcia i lampadari. O meglio, li avrebbe illuminati, se solo fossero stati ancora lì; ma sembravano scomparsi.
«C’è un problema…» biascicò come spiegazione. «Guardate…»
La torcia si fulminò, lasciando tutti a brancolare nel buio. Prima che il biondo potesse imprecare ad alta voce, come sarebbe stata sua premura fare, il cigolio del portone catturò la sua attenzione, insieme a quella degli altri.
Avrei proprio dovuto metterci dell’olio. Sì… un litro… o forse due; così se ne sarebbe stato buono e zitto. Stupido portone… ma è solo il vento.
Beh, non so come faccia il vento ad arrivare quaggiù, visto che c’è una botola e siamo in un sotterraneo. Però magari sono gli spifferi.
Sì… gli spifferi.
Sem si alzò, muovendosi incerto verso l’ingresso del salone, per sigillare le ante che ora stavano socchiuse in un modo alquanto sinistro… ma sussultò sul posto, perché il portone si era all’improvviso spalancato con un tonfo, ed il legno aveva sbattuto contro le pareti con talmente tanta veemenza che forse avrebbe lasciato un solco.
Raggelò, ed una miriade di pensieri prese ad infestargli la mente. Sarebbe dovuto restare fermo? Si sarebbe dovuto spostare? Forse urlare sarebbe stato poco virile?
A salvarlo fu la prontezza di spirito di Tecna che, senza perdere un attimo, aveva scagliato uno dei suoi lampi d’energia in direzione del corridoio che avevano di fronte. La saetta doveva essere stata davvero potente, perché aveva abbagliato la vista a tutti quanti, prima di infrangersi in una non meglio specificata area dell’antro.
Ma, in verità, non c’era stato proprio niente, da cui salvare Sem; o, almeno, così sembrò quando tornò la luce.
«Non capisco…» sussurrò Alan, tenendo il naso incollato all’insù.
Avrebbe potuto giurare di non aver visto i lampadari, poco prima.
«Ci… siamo presi un bello spavento, eh?» ironizzò Musa.
«Io no» ribatté Riven, anche se la sua voce trasudava concitazione. «Vi siete solo lasciati autosuggestionare»
«Allora… allora come si spiega… beh, tutto?» tremò Looma, stringendo le ginocchia al petto. «Non credo fosse solo un’illusione»
«Di cosa stai parlando, Looma?» fece Brandon, confuso.
«Voi non l’avete visto?» si fece coraggio, guardando indietro, sul fondo della sala. «Ecco… quando Tecna ha lanciato l’incantesimo e ha illuminato il corridoio… io…»
Non se l’era immaginato.
«Ho visto qualcosa… con… con la coda dell’occhio. C’era qualcosa… qualcuno che ci guardava» balbettò.
Musa si irrigidì.
La notte della festa, quando la creatura del nucleo di Fonterossa aveva trascinato Timmy sul fondo del sotterraneo e lei e Stella l’avevano trovato, aveva rimuginato sulla possibilità che il mostro fosse rimasto nascosto nell’ombra ad osservarli. Ricordava con precisione di aver sperato che non si trattasse effettivamente di una persona perché, per qualche ragione, la cosa la terrorizzava.
Ebbene, in verità, ne aveva avuto proprio l’impressione.
Non avrebbe mai saputo come spiegarlo – dopotutto, cose del genere erano strane perfino in un mondo di stranezze come quello – ma talvolta avvertiva qualcosa, in determinati posti… qualcosa che la mente non si sapeva spiegare, e che aveva sempre ricondotto al proprio udito sopraffino, che le permetteva di udire anche il minimo spostamento d’aria.
Eppure… quella volta era stato diverso.
«Che aspetto aveva?» indagò Tecna.
«Ecco… era buio, quindi non ho visto bene. Vedevo solo la sagoma, ma è durato un istante… il tempo di scorgerla» spiegò.
«Non è che hai visto male?» la buttò lì Alan.
«Non mi credi?» protestò Looma, infastidita.
L’altro sospirò. «Non è che non ti creda, è che magari hai solo scambiato qualcos’altro per una persona… che ne so… un attaccapanni»
«Non ci sono attaccapanni in questa stanza» fece notare Helia.
«Era per fare un esempio!» sbottò il biondo. «Andiamo… tutto quello che ci poteva essere di pericoloso qui sotto lo abbiamo debellato… creature secolari intrappolate nella scuola, pantegane viola…»
«Alan, piacerebbe anche a me credere che non ci fosse effettivamente nulla, ma… perché diamine il portone si è spalancato?» rifletté il fratello. «E poi non è solo questo. Mentre Musa raccontava ho sentito dell’aria gelida entrare qui dentro»
«Allora non l’ho sentita solo io!» esclamò Bloom incredula.
«Perché io non ho sentito o visto niente?» fece Riven.
«Perché tu sei un rozzone privo di sensibilità» replicò Musa. «Sentite… perché non ce ne andiamo a dormire? Forse siamo tutti stanchi… ne riparliamo domani»
Timmy fu il primo ad alzarsi. «Mi trovo assolutamente d’accordo con te, Musa»
Riven scosse la testa, borbottando un “coniglio”.
«È comprensibile che abbia paura, l’ultima volta ci ha quasi rimesso la pelle» lo difese Brandon. «Forse qualcuno dovrebbe andare con lui»
«Andremo tutti con lui» lo corresse Alan, nervoso. Magari questa volta sarebbe riuscito ad evitare di essere nuovamente rinchiuso da qualche parte. «Mi sono stufato di stare qui dentro… fa freddo»
Di certo non per colpa di una qualsiasi presenza… fa solo freddo. Dopotutto, ad occuparsi dell’impianto di riscaldamento sono stati quel becero di Riven, sua maestà il farlocco Brandon e qualche matricola mano di burro…
Ad uno ad uno uscirono di lì e il biondo, l’unico con le chiavi, fu l’ultimo. Guardò lo stanzone ancora una volta, con il respiro corto.
Non c’era proprio nessuno. Ci siamo solo autosuggestionati, come dice il brontolone… domani sarà tutto come prima. Magari schiafferò qualche talismano scaccia-spiriti qua e là, ma solo per precauzione…
«Alan, ti sbrighi?» borbottò Riven, aspettandolo.
Infilò la chiave nella toppa, dandole una doppia mandata. «Che c’è, hai paura che lo spirito del collegio di Melody di strozzi con la sua treccia?»
«Se la incontrassi sarebbe un bene, così potrei farmela prestare per strozzare te» replicò. «Datti una mossa»
«L’unico mistero, qui, è come i tuoi amici facciano a sopportarti» disse il biondo, tagliente.
«È mai possibile che tu litighi con tutti, Alan?» sospirò Helia, esasperato.
«Diciamo che parlare con Riven rende tutti più litigiosi» rise Brandon, che era poco lontano.
Alan gli lanciò un’occhiata infastidita ma, sotto sotto, un po’ grata. Insomma, nonostante i loro trascorsi l’altro aveva preso le sue parti. «Avete ragione entrambi… ma sono solo stanco. Il resto della giornata ho abbastanza energie per ignorare il borbottio continuo di questo tizio insopportabile»
Risero tutti e tre – beh, escluso Riven – e s’incamminarono dietro agli altri. Aveva smesso di piovere.
Una volta fuori di lì, era arrivato il momento di salutare quelle fastidiose fatine di Alfea che, eccezion fatta per Looma e Tecna, naturalmente, gli avevano sfondato i timpani con tutto il loro cicaleccio.
«È stato bello, ma… ecco, magari la prossima volta non ritroviamoci così tardi» sorrise Bloom, imbarazzata.
«Ci troviamo sempre alla stessa ora. Ciò che ci ha messi tutti a disagio non è stato l’orario, ma la tua volontà di raccontare storie dell’orrore» le ricordò Tecna.
«Quindi anche tu avevi paura, ammettilo!» fece vittoriosa l’altra. «E poi guarda che è stata Musa a “metterci a disagio”, come dici tu»
«Mentre loro litigano, vi salutiamo» disse Stella ai ragazzi.
Infilò la mano nella tasca della gonna per prendere l’anello – che stonava troppo con la mise per essere indossato – ma non lo trovò. Sconvolta, si mise a frugare con insistenza in ogni anfratto dei suoi vestiti.
«Va tutto bene, Stella?» chiese Flora.
«Ehm… ma sì, certo» balbettò la ragazza, combattendo con quelle stupide tasche che non ne volevano sapere, di farle avere indietro lo scettro.
«Ma cosa stai cercando?» domandò Bloom, che aveva smesso di accapigliarsi con Tecna. «Stella?»
La principessa si voltò piano, con il solito sorriso di scuse che sfoggiava quando ne aveva combinata una delle sue. Le altre capirono tutto al volo, mentre gli Specialisti rimasero ad osservare l’ennesimo litigio – o meglio, l’ennesima strigliata – senza capire a cosa dovessero il privilegio.
«Ti sei dimenticata l’anello? Ma ce l’hai, la testa?» strillò Bloom, infatti.
Per la prima volta in vita sua, forse, Alan trovò gratificante il tono petulante della fata del Fuoco, perché si vedeva d’accordo con lei.
L’ho sempre sostenuto, io, che quella è una gallina senza materia grigia…
«Dai, Bloom… possiamo pur sempre tornare per le gallerie sotterranee che collegano le scuole…» cercò di calmarla Looma. «Siamo arrivate qui così, no?»
«Non vorrei smontare il tuo ottimismo, ma dopo quello che è successo direi che girovagare a notte fonda per strade sottoterra non è una grande idea» ridacchiò Musa, nervosamente. «Senza contare che era una cosa così semplice! Doveva solo ricordarsi di portare quel dannato anello… se questa è la cura con cui lo tratta, beh, mi sorprende che le Trix non fossero riuscite a rubarlo al primo tentativo»
«Ehi, ehi» intervenne Sem. «Non dovreste litigare»
«Ha ragione. Volete svegliare tutti?» aggiunse Riven.
«Non intendevo questo…»
«Sentite, dov’è il problema? Potete restare qui ed andare via domattina presto, no?» rifletté Brandon. «Possiamo ospitarvi»
Alan aggrottò la fronte, contrariato.
Oh, di certo non staranno in camera mia. Alla pel di carota piacerebbe sicuramente ma, se proprio vuole, può dormire seduta a terra come l’ultima volta.
O forse pretenderebbe di dormire con Sem.
La guardò. Ora stava a braccia conserte, chiaramente in un futile tentativo di mantenere l’arrabbiatura di prima.
Scosse la testa. Ma cosa diavolo ci trovava, suo fratello?
È tappa e logorroica, goffa come un ragno su degli sci e petulante… per di più è depositaria di un potere per il quale per poco non siamo rimasti tutti ammazzati… perché ti dai pena per lei, Semmino?
Non gli erano mai piaciute le spasimanti del suo gemello.
C’era stata quella ragazza in terza media, Oksana, forse… quella racchia con la fissa per gli animali… poi un’occhialuta ed impacciata fata di Alfea…
E poi, beh… poi c’era stata Vesela. Però lei era sempre stata tutt’altro che racchia ed impacciata.
«Le stanze più spaziose sono la mia e quella di Brandon» ragionò Helia. «Tre in una e tre nell’altra»
«E voi?» chiese Flora.
Brandon si strinse nelle spalle. «So che Riven muore dalla voglia di dormire abbracciato a me. Condividere la camera, ormai, non è più abbastanza per lui»
«Cretino!» borbottò il diretto interessato.
«Andiamo, dai» gli sorrise l’altro.
Benché fosse ormai notte fonda, le camere di alcuni studenti rimandavano fuori la luce delle loro lampade e, accostando bene l’orecchio alle loro finestre, si sarebbero potuti udire i loro discorsi. Un ragazzo dell’ultimo anno stava fumando sotto la tettoia antistante l’accesso ai dormitori, ma non disse nemmeno una parola, quando vide quella lunga comitiva di ragazze muoversi nei dintorni.
«Cameratismo maschile?» chiese Bloom a Sem in un bisbiglio, appena furono dentro.
«È cieco»
«Oh»
 
*
 
 
Listen to me now
I need to let you know
You don’t have to go it alone
Sometimes You Can’t Make It On Your Own, U2
 
 
Musa si rigirò piano nel sacco a pelo che i ragazzi avevano improvvisato per lei.
Aprì gli occhi lentamente e, passatasi una mano sulla fronte, si accorse di averla imperlata di sudore.
Aveva di nuovo fatto quell’incubo.
L’anno precedente, quando le Trix si erano intrufolate ad Alfea attraverso il mostro che avevano evocato, lei aveva sognato sua madre. In effetti, ricordava di averla sognata spesso in quel periodo; ma poi, all’improvviso, aveva smesso.
Forse tutti quei racconti di fantasmi e quello che era successo quella notte l’avevano condizionata… eppure sapeva bene che, quando Wa-nin le appariva nel sonno, beh… qualcosa era destinato a succedere.
Lasciò vagare lo sguardo per il soffitto, seguendo gli arabeschi che si rincorrevano sulle pareti. Ad un tratto, le parve di udire chiaramente il ticchettio delle lancette di un orologio che, lontano, scandiva lo scorrere inesorabile dei secondi.
Voltò il capo da ogni parte, ma nella spartana stanza di Timmy ed Helia non v’era nemmeno l’ombra di una pendola o qualcosa del genere. Il comodino del primo, al contrario, faceva bella mostra di una sveglia che probabilmente aveva progettato il suo stesso proprietario, silenziosa e luminosa.
Eppure, avrebbe potuto giurare di averlo sentito. Anzi, ora il suono si era fatto fragore, ed era divenuto quasi molesto. Scostò le coperte repentinamente, mettendosi subito in piedi.
Barcollò fino alla finestra, avvertendo un’improvvisa emicrania – anche se non avrebbe saputo dire se fosse dovuta al fatto di essersi alzata in quel modo o al continuo ticchettio di quelle maledette lancette.
Gettò uno sguardo oltre il vetro e la prima impressione che ebbe la turbò.
La Luna si nascondeva ben bene dietro al grigio rimasuglio del temporale di qualche ora prima, e giungeva laggiù a sprazzi, illuminando qua e là macchie che brillavano di una luce sinistra, che alludeva a qualcosa che lei non avrebbe saputo spiegarsi.
Nel complesso, sapeva che avrebbe ricordato quella notte come di un silenzio spaventoso, di quelli che avvolgono chiunque quando è solo, quando non c’è nessuno ed ogni scricchiolio, ogni refolo d’aria sembra preludio ad un male terrificante.
Faceva sempre molta fatica ad addormentarsi in un letto che non era il suo e quel presagio nefasto, quello che aveva avuto dopo che Looma aveva raccontato ciò che aveva visto – o che credeva di aver visto – la rendeva tesa come non mai. Quel che aveva interrotto il sogno in cui era comparsa sua madre era stato un sussurro che aveva sentito con la parte di sé che restava sempre vigile, quando dormiva.
Un sussurro…
D’altra parte, la storia più spaventosa l’aveva raccontata proprio lei. Forse avrebbe dovuto evitare, forse avrebbe dovuto sceglierne un’altra; perché su Melody era risaputo: mai narrare una leggenda se essa aveva più punti scuri che chiari.
E quella storia, quella della ragazza con la treccia, restava mutila di dettagli, e di cose che nessuno sapeva con certezza e su cui tutti avevano sempre avuto opinioni diverse. A dir la verità, nemmeno ricordava con esattezza le circostanze in cui le era stata raccontata.
Forse quand’era all’asilo, o dalle bambine che facevano danza con lei… non ricordava, ma c’era stato fin da subito qualcosa che l’aveva resa inquieta. Perché aveva voluto riesumare quel racconto e non un altro?
Infilò il maglione che aveva lasciato su una sedia, e un mugolio la fece irrigidire.
Poi si rilassò; era solo stata Flora, nel sonno. Dormiva serena, il suo petto s’alzava e s’abbassava ritmicamente.
Chissà, forse sente il profumo di Helia sul cuscino…
Tecna, invece, sembrava quasi morta. Respirava impercettibilmente ed era esattamente nella stessa posizione in cui si era addormentata.
Musa sapeva che l’amica non era solita credere a quelle storie – fantasmi, spiriti e quant’altro – e che si faceva beffe di tutto ciò che non poteva essere razionalmente spiegato; però aveva avuto come l’impressione che anche lei fosse rimasta turbata dalle vicende delle ultime ore.
Chissà come faceva ad avere sempre quella prontezza di riflessi e quel sangue freddo…
Sospirò, muovendosi in punta di piedi per non svegliare nessuna delle due compagne. Posò piano la mano sulla maniglia della porta, abbassandola lentamente.
«Dove vai?» la voce bassa e atona della fata della tecnologia la fece trasalire.
Si voltò, e quasi le parse che gli occhi di giada dell’altra illuminassero il buio della stanza. «Vado a fare due passi... torna a dormire»
Prima che potesse dire qualsiasi cosa in un pressoché futile tentativo di dissuaderla, quella si era già messa in piedi, perfettamente vigile. «Ero già sveglia. Non riesco a riposare» spiegò. «Vengo con te, non puoi andare da sola. Non questa notte»
La guardò, dubbiosa. «Pensi quello che penso io?»
«Quello che penso in questo momento è che dovremmo svegliare Flora ed andare dalle altre» le rispose. «È meglio restare unite, adesso. Domani ne parleremo con Faragonda, per quanto ci possa costare l’ennesima punizione»
«Hai ripreso a fidarti dei presidi?» le chiese, sorridendo.
«Più o meno» sussurrò, guardando Flora, ancora assopita. «Ma certamente sapranno qualcosa. Tu credi che sia il nucleo?»
Musa scosse la testa. Il nucleo era stato qualcosa di maligno, ma si era sempre annunciato con una risata mista ad una richiesta d’aiuto.
Quello che aveva avvertito e che le aveva fatto rizzare i peli era stato ben diverso. Collera, un desiderio di vendetta implacabile e, forse, disperazione per qualcosa di doloroso e profondo. «Era diverso»
«Qualsiasi cosa sia,» si strinse nelle spalle. «non deve dividerci»
Si avvicinò al letto dove Flora riposava, chiamando il suo nome a voce bassa, con un tono delicato che non le si era mai sentito prima. «Flora… devi svegliarti» bisbigliò. «Flora? Mi senti?»
La fata dei fiori aprì gli occhi di scatto e, prima ancora che Tecna avesse il tempo di dire qualcosa, l’altra si era rizzata a sedere in un gesto che aveva fatto cozzare le loro teste sonoramente. «Oddio… scusa, Tecna! Scusa, scusa! Non volevo!»
«Lo spero» mugugnò la ragazza, portatasi una mano in fronte.
Musa scoppiò a ridere e non si scoraggiò nemmeno per la stilettata che l’amica le lanciò con lo sguardo. «Flora, ti verrà un bernoccolo grosso così!»
La diretta interessata, ora completamente sveglia, teneva il capo abbassato, sinceramente dispiaciuta. «Mi spiace molto»
«Tranquilla, ho ancora il pieno possesso delle mie facoltà intellettuali e cognitive» tentò di rasserenarla. «D’altronde, avrei potuto prevederlo… comunque, è il caso che ci sbrighiamo»
Flora la guardò interrogativa, ma la fata della musica la precedette. «Cos’hai intenzione di fare? Anche se andiamo dalle altre non credo che ci sia molto che si possa risolvere… se davvero c’è qualcosa, dobbiamo aspettare che si faccia vedere»
«L’ho considerato anch’io, ma credo che non sia necessario attendere poi molto» replicò, prendendo ad allacciare le stringhe delle proprie scarpe.
Le altre due si scambiarono un’occhiata perplessa, aspettando che proseguisse.
«Intendo dire che è mia convinzione che, di qualsiasi cosa si sia trattato, siamo stati noi ad evocarlo»
 
*
 
Di tutti i ricordi traumatici che aveva, quello di quando i ragazzi delle superiori lo avevano rinchiuso in uno sgabuzzino era sicuramente il peggiore – beh, oltre a quella di circa un mesetto prima, quando era rimasto in un ripostiglio per ore ed ore.
Quel giorno delle elementari lo avrebbe conservato nel cuore finché fosse campato, come prova di quanto effettivamente stare al mondo potesse fare schifo se si aveva la disgrazia di essere circondati da babbuini stupidi.
La situazione, in quel momento, era piuttosto analoga… solo che i babbuini non erano fuori dal bugigattolo, ma dentro; ed il bugigattolo era camera sua e restava un mistero come avrebbe fatto ad uscire di lì per andare in bagno.
Grugnì di disappunto e subito gli rispose il frastuono che proveniva dalle soavi labbra di Riven quando russava.
Il bisbetico giaceva proprio a qualche centimetro dal letto, rigido come un soldato e totalmente scoperto; poco più in là dormiva Timmy, che evidentemente doveva avere freddo nonostante fosse abbracciato da un piumone e avesse sopra anche la coperta che il burbero carciofo gli aveva rivoltato addosso per il caldo.
Helia stava rannicchiato in un angolo, con i lunghi capelli sparsi in ogni dove, che nascondevano un po’ la sua espressione serena e che invadevano lo spazio vitale di Brandon, che gli dava le spalle. Nel complesso, l’avrebbe trovato un quadretto comico, se solo non avesse interposto una quantità ragguardevole di metri tra la sua persona ed il bagno.
Non c’era nemmeno una vaga fessura tra un corpo e l’altro che gli permettesse di fare lo slalom, perché camera sua era ormai allo stesso livello del tugurio in cui aveva per la prima volta scoperto di essere claustrofobico. Sbuffò, facendo lavorare il cervello per trovare una soluzione.
Forse sarebbe potuto saltare sul letto di Sem e poi fare qualche piroetta nello spazio che intercorreva tra la testata e le gambe di Brandon… anche se forse avrebbe rischiato di svegliare il fratello.
Ma il fratello non c’è…
Dove poteva essere andato? A ben pensarci, lui era sveglio da una buona ventina di minuti e non l’aveva visto uscire, quindi doveva essersi allontanato molto prima e, certamente, non doveva essere in bagno, altrimenti avrebbe già fatto ritorno.
Che avesse sbattuto la testa contro il soffitto di quel cubicolo? Gli accadeva spesso di picchiare il capo quando si muoveva lì dentro e si dimenticava quanto quelle maledette travi fossero basse.
Però Sem aveva una capoccia dura – in tutti i sensi – perciò era da escludere. Che fine aveva fatto?
Avrebbe dovuto aspettare che facesse ritorno?
E se gli fosse davvero successo qualcosa?
Si cacciava sempre nei guai ed era assurdo come cercasse di farsi forte anche nelle avversità, anche quando i suoi amati draghetti lo accarezzavano con gli artigli. Sospirò, rassegnato.
Buttò un occhio in basso, verso Riven, che aveva preso a russare più forte. Ma come diavolo faceva, Brandon, a dormire ogni notte con quel baccano di sottofondo? E come facevano gli altri?
Scivolò fuori, scavalcò il re dell’apnea notturna e, sfruttando il corridoio tra questi e il bozzolo che avvolgeva Timmy, superò Helia con un’ampia falcata. Proprio mentre si apprestava a compiere l’ultimo salto acrobatico per oltrepassare Brandon, quest’ultimo si mosse all’improvviso, facendo sì che Alan perdesse l’equilibrio e si trovasse spiaccicato contro la porta.
Ovviamente, in tutto questo, le dolci melodie di Riven avevano coperto tutto il trambusto e nessuno si era svegliato.
Non capirò mai come funziona il mondo…
Se non altro, aveva raggiunto la propria destinazione.
Una volta fuori di lì, respirò a pieni polmoni la fragranza di chiuso imbastardita dall’umido che era penetrato nei corridoi – e che comunque rendeva l’aria meno pesante di quella che c’era in camera.
Mentre si incamminava, si rese conto di essere scalzo. Le piastrelle erano fredde e scivolose e, in prossimità dei bagni, si facevano quasi bagnate.
Un rivolo d’acqua trotterellò sulla ceramica, seguita a ruota da una pozza che si espandeva sempre più.
Ma che cosa…?
Si avvicinò all’ingresso dei bagni e, sbirciando oltre la porta socchiusa, si accorse che la luce era accesa. S’irrigidì e pensò che suo fratello potesse aver davvero sbattuto la testa lì dentro.
Fece irruzione chiamandolo, per poi accorgersi che non c’era proprio nessuno. Come mise piede lì dentro, il getto d’acqua cessò all’improvviso, come per magia; al suo posto, solo il ticchettio di gocce che, dal rubinetto, si infrangevano a terra.
C’era qualcosa di terribilmente sinistro, in tutta quella vicenda.
Non v’era un angolo del pavimento che fosse stato risparmiato, e fu quasi faticoso spostarsi senza ruzzolare all’indietro. Chiunque avesse allagato il bagno – perché di certo era stato qualcuno, a farlo – doveva averlo fatto una buona mezz’ora prima che lui arrivasse lì, per aver combinato quel disastro.
E, in verità, pareva quasi fosse stato tutto pianificato per essere un invito ad un gioco a cui Alan non era del tutto certo di voler partecipare.
Con circospezione camminò per le cabine, nella speranza di scorgere il fratello. Il rumore delle goccioline divenne corrosivo, e si ricordò di quelle leggende metropolitane che alle elementari gli avevano raccontato. Tremò appena; ma doveva farsi forza, non aveva più dieci anni.
Maledisse quelle fate da quattro soldi, era tutta colpa loro se si trovava in quella stupida situazione. Se camera sua non fosse stata invasa da quattro scimmioni che occupavano lo spazio di otto, allora, sicuramente avrebbe potuto rispettare il proprio orologio biologico, che gli imponeva di usufruire del bagno sempre alla stessa ora.
Invece no, erano arrivate loro a scombussolare tutto.
Beh, in verità, un po’ la colpa era anche sua: avrebbe dovuto farsi i fattacci propri quando Looma gli aveva proposto di sistemare quella dannata stanza sotto la scuola; almeno avrebbe evitato di fare la conoscenza della pel di carota insopportabile e, soprattutto, avrebbe impedito a suo fratello di restarne invaghito e di rimanere coinvolto in quella combriccola scadente alla quale, per riflesso, si era trovato legato anche Alan stesso.
Digrignò i denti, lì lì per dar voce a tutte le imprecazioni che aveva in mente; quand’ecco che un rumore catturò la sua attenzione. Un fruscio, come di vestiti; era stato ovattato, e lui non aveva potuto capire da dove fosse venuto.
Deglutì, cercando di scacciare quella vocina che gli suggeriva di filarsela a gambe levate. Restava solo un’ultima cabina, da controllare, no?
Sentiva il cuore palpitare come mai prima, così veementemente che sembrava volergli uscire dal petto; e quello che era ormai il frastuono delle gocce si fece sempre più pressante e molesto, e poté sentirlo risuonare per quelli che parvero minuti.
Si avvicinò, fece per abbassare la maniglia della porta dell’ultimo anfratto; quand’ecco che una mano gli si strinse attorno all’altro braccio.
Urlò e saltò, divincolandosi come un gatto randagio, mentre una voce che detestava cercava di placarlo.
«Alan!» lo chiamò, prendendogli le mani. «Alan, sono io! Ti vuoi calmare? Alan!»
Il biondo aprì prima un occhio e poi l’altro, come aspettandosi che qualcosa lo colpisse da un momento all’altro. «Tu?!» sbraitò incredulo.
Ma come aveva fatto a spaventarsi tanto? Era solo quella stupida mocciosa, tappa, infagottata in un pigiama ed antipatica; quella che suo fratello adorava tanto.
«Ma ad Alfea non vi insegnano come si sta al mondo? Non potevi semplicemente chiamarmi per nome?» inveì, provando una voglia matta di dar sfogo alla fervida immaginazione che riesumava quando si trattava di parolacce.
«L’ho fatto» ribatté a tono lei. «Ma sembrava che tu non mi sentissi»
Alan deglutì. Forse si era concentrato talmente tanto su quelle maledette gocce e sulla porta e su quanto quella situazione lo rendesse teso che, beh, addirittura era arrivato a non sentire quella vocetta insignificante.
«Che ci fai qui?» le chiese, sospettoso.
«Beh… dovevo… usare il bagno. L’hai allagato tu?» fece, imbarazzata.
«Ma sei scema? Ti sembra?» sbraitò, stentando davvero a credere alle proprie orecchie.
«Non lo so… è solo…» distolse lo sguardo.
La guardò, perplesso. La pel di carota che capitolava?
Non era da lei quel tono assorto. «Che c’è, hai sentito un rumore nella notte ed avevi paura? In tal caso la colpa è solo tua, hai proposto tu di raccontare quelle stupide storie» la prese in giro.
«È successo qualcosa, Alan» disse, criptica. «Io credo a quello che ha detto Looma. Abbiamo avvertito tutti qualcosa di strano. Beh… a parte Riven»
«Riven è l’unico ad averci visto giusto, per quanto sia odioso. Ci siamo tutti lasciati condizionare» replicò, esitante. «Voglio bene a Looma, ma alle volte lei… bah, lasciamo stare»
Con rinnovato coraggio, si decise ad abbassare quella maledetta maniglia e scoprire finalmente se Sem fosse là dentro o meno. In un sospiro – forse sollevato, forse rassegnato – constatò che non c’era nessuno.
«Ma cosa stai cercando?» gli chiese Bloom, guardandosi attorno tesa come una corda di violino. Si allontanò, ispezionando ogni cubicolo.
«Mio fratello» rispose, fissando il vuoto.
Ma dove poteva essere finito?
«Alan…»
Era stato un verso strozzato, il suo; stupore ed orrore insieme, nella sua voce e in quegli occhi che ora stavano più sgranati del solito, non per meraviglia del mondo ma per paura dello stesso. Ritta di fronte a quella porta che aveva spalancato – quella di una cabina che lui aveva già controllato, ne era certo – sembrava aver perso vita e colore, e perfino il rosso di quella sua zazzera sembrava essersi fatto di uno scialbo arancio che aveva qualcosa di vecchio, morto.
Sem era seduto a terra, davanti a lei, con le braccia spalancate e le orbite rivoltate come calzini; rivoli di sangue colavano da uno strano taglio che aveva lungo il lato destro del viso, e la casacca bianca che indossava si era tinta di un rubino scuro, denso, che quasi era nero.
Alan inorridì, ed una serie di pensieri presero a vorticargli per la testa e si chiese come fosse mai stato possibile che il gemello fosse lì, se prima non c’era stato; e come mai il sangue si perdesse nell’acqua così lentamente; e quanto tempo fosse passato da che lui era stato ridotto in quelle condizioni.
La spintonò in malo modo, chinandosi sul fratello, cercando di capire cosa gli fosse successo, come si fosse procurato quelle ferite.
«Va’ da Aibao e digli di venire qui; la stanza è accanto alla mia» disse alla fata, febbrilmente. «Sbrigati!»
Con la coda dell’occhio la vide schizzare via come una saetta; e, nella speranza che facesse presto, tentò di richiamare alla mente qualsiasi tipo di nozione utile.
Sem era del tutto incosciente; forse per l’emorragia, forse per il troppo dolore. Certamente non aveva sbattuto il capo contro una trave; anzi, lo squarcio che aveva in faccia sembrava quasi suggerire che qualcuno gli avesse rigato il volto con un coltellaccio.
Cercò di spostarlo di lì, trascinandolo fuori. Nel mentre, si accorse che il retro della sua schiena era semiscoperto, lacerato laddove il sangue sgorgava nuovo – ed erano le sue vecchie ferite, quelle dei draghi e dei duelli che aveva perso.
Tremò, ubriaco di panico e di terrore, sentendosi infinitamente piccolo e stupido, inutile; e cosa avrebbe dovuto fare? Svegliare il preside? Codatorta? L’infermiere?
E cos’avrebbe spiegato? Che c’era qualcosa di strano, quella sera?
Che c’era una presenza inquietante che doveva aver deciso di agire proprio nel cuore di quella maledetta notte? Oh, sì; perché la presenza inquietante c’era ed Alan lo sapeva.
Lo sapeva, anche se non l’aveva voluto ammettere; ma era così. Looma aveva fantasia da vendere, ma alcune cose non erano frutto di un’invenzione di quella mente allegra e spensierata che si trovava.
Perché Looma non sbagliava, Looma li vedeva; era quello, il suo potere.
E, a dirla tutta, lui stesso aveva avuto l’impressione di scorgere qualcosa sulla destra, quando aveva spostato suo fratello. Una sagoma sfocata, per qualche istante; una che lo aveva osservato ed era subito svanita.
Ma non era lei, la presenza inquietante. Alan lo sapeva, lo percepiva; non era lei.
Per la prima volta pensò a Sem, al sorriso di Sem, a quanto fosse straziante vederlo così, a quanto fosse straziante l’idea di vederlo svanire così, per una ragione forse destinata a restare per sempre oscura; proprio come quel rosso che deturpava i suoi lineamenti.
E lo stesso pensava Bloom mentre camminava per il corridoio senza rendersi conto della direzione, con gli occhi vuoti, nei quali si rifletteva la luce calda di una fiamma evocata più per conforto che per esigenza.
Ed eccola là, la stanza di Aibao, di quello che all’accademia tutti conoscevano perché le donne della sua famiglia erano fate guaritrici e perché ci si aspettava che da un giorno all’altro le ali spuntassero anche a lui, per gli incantesimi di guarigione che sapeva fare.
Bussò piano, poi un po’ più forte; e vide nell’ombra una figura senza volto, e bussò ancor più forte, con insistenza, e la vide avvicinarsi, camminare verso di lei come un automa, ed il cuore si fermò, come debole, come morto, come quello del corpo che la stava raggiungendo.
La porta si spalancò, rivelando quel ragazzo, Aibao, stupito e assonnato; e la figura se n’era andata, ma Bloom sapeva che non se n’era andata per davvero, che aspettava da qualche parte la sua prossima mossa, acquattata nell’ombra.
Che cosa stava succedendo?
«Aibao…» e che cosa avrebbe dovuto dirgli?
Perché in quei frangenti le parole venivano sempre a mancare, quando il resto del giorno e dei giorni abbondavano senza che ce ne fosse davvero bisogno?
Lo prese per mano, corsero; e lui non capì del tutto o, forse, capì fin troppo bene e fu subito lucido. Quando arrivarono nel bagno, Bloom non comprese cosa lui ed Alan si fossero detti; era stato qualcosa a proposito di ferite e tagli, e tutte altre cose che lei non avrebbe mai più voluto sentir nominare.
Sem stava male; Sem stava male.
Lei provava dolore alla testa, alla schiena; sentiva le membra pulsare e bruciare di un male che le avrebbe fatto esalare l’anima; ma non era reale, era un’impressione, forse un’immagine troppo viva di quello che Sem doveva star avvertendo in quel momento.
Oppure non stava avvertendo proprio nulla, solo il vuoto, tutto nero; e così vedeva Bloom. Amare qualcuno era soffrire delle sue stesse pene?
Perché Sem stava male? Perché qualcuno lo aveva voluto?
Aibao non pensava, invece; agiva e si concentrava, seguendo le mani con lo sguardo, di tanto in tanto domandandosi quale margine di possibilità di riuscita ci fosse.
Ma la sua magia davvero sorprendente, perché niente avrebbe lasciato trasparire quanto fosse agitato in quel momento, e quanto far scomparire tutto quell’orrore fosse spossante, in ogni senso.
C’era una clausola, una premessa che ogni fata guaritrice non poteva mai trascurare, per cui sanare i mali degli altri li trasferiva su di sé; e lui lo sapeva, sua madre e sua nonna glielo avevano detto spesso: alcuni gettavano la spugna, perché non capivano che il dolore che assorbivano non si poteva vedere sulla carne, che era tutto un altro sforzo.
E lui poteva sopportarlo, perché il segreto per riuscire era sopportare; ma per quanto ancora? Avrebbe davvero salvato la situazione?
Perché Sem aveva le orbite spalancate?
«Ha degli strani segni, sul collo» disse, con la freddezza di un analista.
«La colpa è sua. Ma credo starà bene, se saprete fare qualcosa»
Delicata e leggera, una voce di donna li aveva raggiunti tutti e tre come sospinta dalla brezza che lasciava danzare gli alberi in quei giorni di primavera; un sussurro leggiadro che il cuore di Alan accolse con nostalgia, senza che potesse tuttavia spiegarsi a cosa questa fosse dovuta e per quale ragione avesse evocato ricordi lontani di una ragazza, dei suoi sorrisi materni.
Bloom si voltò, cercando con lo sguardo colei che, criptica, si era annunciata in quel modo; ma non c’era nessuno, né sembrava che fosse intenzionata a mostrarsi. Cos’aveva voluto dire?
Di chi era la colpa? Chi sarebbe stato bene?
E chi avrebbero dovuto aiutare?
Sem o qualcun altro?
 
 
Drink up one more time and I’ll make you mine
Keep you apart, deep in my heart
Separate from the rest, where I like you the best
And keep the things you forgot
Betweem the Bars, Elliott Smith
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** #2 - Dawning of old misteries ***


Lei era proprio come la ricordava nei suoi giorni migliori, quelli di quando aveva indossato quel vestito e lui l’aveva vista scendere per le gradinate della scuola. Bellissima, bagnata dal Sole, che si era riflesso sulla sua pelle lunare e che l’aveva fatta risplendere di luce propria, insieme a quella sua lunga treccia che si confondeva in mezzo a tanta luminosità.
Sorrideva, come aveva fatto allora; e lui le era andato in contro, sorridendo di rimando e facendola volteggiare per aria; una stella che ballava nel vento.
Memorie di quel giorno, quel giorno di festa in cui lui si era lasciato immortalare dalla destrezza di un amico con la macchina fotografica, ed aveva accettato che restasse un segno tangibile della sua allegria.
Ricordi di discorsi, di lei; dei discorsi che facevano insieme, senza sapere.
«Pensi che smettiamo di amare qualcuno, quando muore?» le aveva chiesto. «Se iniziamo ad amare qualcun altro, credi che smettiamo di amare la persona che è morta?»
«Tutto questo perché tuo padre vuole risposarsi?»
«No»
Forse un po’, in realtà.
«Credo che amare sia un po’ come… come suonare uno strumento musicale» gli aveva detto, dopo un po’. «Ci sono periodi in cui, per un motivo o per un altro, non puoi più dedicarti al tuo flauto, o al tuo sassofono, però… puoi riporlo nella sua custodia, in attesa del momento giusto per tirarlo fuori»
Chissà se lei aveva subodorato quello che sarebbe stato il suo destino. Ogni volta che ci ripensava, non poteva fare a meno di domandarselo.
«Intanto che resta lì non si rovina e, se davvero lo hai suonato con tutto te stesso, non perde valore ai tuoi occhi» aveva continuato. «Ma questo non significa che tu non possa suonare la chitarra o il violino, nel mentre. Tutti gli strumenti ti saranno utili, alla fine. Conoscendoli, potrai produrre una musica anche più bella di prima»
La ricordava così, con una delle ultime riflessioni che avevano condiviso. Quella sera stessa si erano amati per la prima volta e, in quegli istanti, lui aveva davvero avuto l’impressione che lei fosse stata un bellissimo strumento musicale, che riusciva a fare vibrare di un suono bellissimo al tatto; e viceversa.
E in quel sogno?
Era felice? Nelle sue memorie lo era stata; eppure, in quel momento, non lo sembrava più.
La piega perfetta delle sue labbra e dei suoi bei tratti di pesca si distorse, contorta dall’ira, dal rancore e dal disprezzo; tutto ciò che non le aveva mai visto in volto finché era stata in vita. E lo guardò con quegli occhi ora infuocati e, sputando le parole in una foga che gli lasciò assaporare tutto l’odio di lei, gli strinse le mani al collo.
In verità, più che di starsi strozzando, lui aveva avuto l’impressione di affogare; e l’aveva sentita urlare con voce dolorante, con la voce di chi vuole uccidere e soffre.
Forse lei non voleva che lui si dimenticasse. Forse non voleva che lui suonasse un altro strumento, che lui fosse felice, pensò prima di sentirsi svanire.
 
 
*
 
 
Spooks
#2 – Dawning of old misteries
 
 
Go lightly down your darkened way
Go lightly underground
I’ll be down there in another day
I won’t rest until you’re found
The Ground Beneath Her Feet, U2
 
 
«Come sarebbe a dire che non sai dove lei sia?» sbottò Tecna, incredula.
«Beh… mi aveva detto che andava in bagno e allora mi sono rimessa a dormire. Solo che non è più tornata, quindi non so dove sia!» replicò la bionda. «Non mi sembra tanto difficile, da capire!»
Musa scosse la testa, cercando di ricordare a se stessa ed all’amica con chi avessero a che fare. «Non ti è venuto in mente che, forse, sarebbe stato il caso di andare a cercarla una volta passati, che ne so, venti minuti?»
«Oh, ma quante storie…» sbuffò Stella, buttandosi a peso morto sul letto di Brandon. «Non capisco perché vi stiate preoccupando tanto. Magari è andata a prendersi una boccata d’aria… a farsi un giro. Magari è andata da Sem, no?»
«Escludo la prima ipotesi, dal momento che minaccia di piovere da un momento all’altro; la seconda è forse la più plausibile, dato che la camera di Sem è attualmente occupata da altri quattro ragazzi e dubito possa ospitare qualcuno in più» considerò la fata della tecnologia.
Sospirò, prendendo posto accanto a Looma, che ancora faticava a svegliarsi del tutto. «Non credo che abbia deciso di farsi un giro… insomma, Bloom non conosce Fonterossa e rischierebbe solo di perdersi. Non è così stupida…»
Le altre ragazze si volsero a guardarla, con un’espressione che la diceva lunga.
«Stupida no, ma un po’ avventata sì…» disse Flora.
«Un po’ ficcanaso» annuì Musa.
«Del tutto irrazionale, quando si tratta di certe cose» affermò Tecna.
«Sì, sì, abbiamo capito…» borbottò Stella. «Sentite… per quanto Bloom sia sciocca ed impulsiva ed in cerca di grane, non penso sia stata così scema da trattenersi a lungo in giro. Avrà per forza incontrato qualcuno e si sarà dilungata»
«Hai detto bene» fece la fata della tecnologia, improvvisamente pensosa. «Potrebbe aver incontrato qualcuno»
Le altre la guardarono, stranite. La sua migliore amica sapeva bene che quando lei assumeva quel particolare cipiglio e stringeva le labbra all’inverosimile, la sua mente stava lavorando così prepotentemente che quasi si sarebbe potuto udire il clangore di quegli ingranaggi che lavoravano tanto complessamente.
«Potresti spiegare?» mugugnò la principessa, stancamente.
«È mia convinzione che sia successo qualcosa, questa notte» sospirò. «Penso che i nostri racconti abbiano riportato in vita delle memorie che non sarebbero dovute riaffiorare»
«Tradotto?» insistette la bionda.
«Tecna crede che abbiamo evocato qualcosa, una specie di spirito» spiegò Musa. «Quello che è successo là sotto… o altre cose che abbiamo percepito…»
«…Sarebbe opera di un fantasma?» impallidì Flora.
«Per quanto illogico e assurdo possa essere…» considerò Tecna. «Ormai non dovrei più meravigliarmene, comunque. Temo che Bloom possa essersi imbattuta nel “fantasma”»
In quel momento, Looma sgranò gli occhi, come se avesse avuto una qualche intuizione. Si alzò all’improvviso, cercando con fare frenetico le scarpe che aveva abbandonato sotto la scrivania della stanza.
«Dobbiamo sbrigarci» sussurrò, febbrilmente. «Non è solo Bloom, ad essere in pericolo!»
 
*
 
La stanza di Aibao era quanto di più bello Bloom avesse mai visto.
Le pareti erano tappezzate di fotografie di ogni tipo che, per qualche sorta di incantesimo che lui doveva avervi apposto, restavano seppiate fino a che qualcuno non le osservava, animandosi in quel momento di luci e colori reali.
Non condivideva la camera con nessuno, dal momento che il suo precedente coinquilino si era appena trasferito in un’altra scuola; ma, nello spiegarlo, il ragazzo non sembrava troppo dispiaciuto.
Mentre aspettavano che Sem si riprendesse e desse segni di vita dal letto su cui lo avevano lasciato, un po’ per smorzare la tensione e un po’ per passare il tempo, parlarono del più e del meno, di tutto.
Beh, in verità era Aibao, a parlare. La fata scoprì quella notte che, a discapito di ogni apparenza, lui non era affatto riservato come poteva sembrare di primo acchito e, anzi, avrebbe potuto fare concorrenza a quello che – presumibilmente – era il suo fidanzato.
Alan taceva, ascoltando senza sembrare tuttavia troppo coinvolto; e un po’ era grato che il tempismo della nanerottola le avesse imposto di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Certo, quella sciocca ragazzina non la smetteva di lasciare timide carezze sulla fronte di Sem; ma, forse, glielo avrebbe potuto concedere, almeno per quella nottata.
«E insomma… Looma ha visto qualcosa?» disse Aibao, ad un certo punto.
«Qualcuno» lo corresse il biondo, come rianimandosi. «Mi duole ammetterlo ma… credo di averlo visto anch’io»
«All’improvviso hai poteri magici anche tu?» fece l’altro.
«No, scemo» sospirò, abbozzando un sorriso.
Bloom si accigliò. Era piuttosto inusuale vedere Alan così docile.
«Looma ha visto chi ha fatto questo a Sem» spiegò. «Io ho visto… qualcun altro»
«Intendi la voce che ha parlato prima, nel bagno?» intervenne la ragazza.
Quello annuì, volgendo lo sguardo verso il fratello. Si chiese se potesse sentirli, ascoltare i loro discorsi.
«Quando sei andata a cercare Aibao, io… l’ho intravista. E ho riconosciuto la sua voce, anche se aveva qualcosa di un po’ diverso» raccontò. «Non so perché sia qui, però»
Si alzò, lasciando vagare gli occhi per tutta quella miriade di istantanee che facevano bella mostra di sé per tutta la stanza. Ne individuò una, e quella subito riprese vita.
Sorrise e, con cautela, sfilò la puntina che la teneva affissa alla parete.
La mente tornò a quel giorno – curiosamente era stata una giornata di primavera, proprio come in quel momento – in cui la fotografia era stata scattata. La lasciò tra le mani di Bloom; perché Aiabao aveva già capito tutto.
La tessera ritraeva tre figure che lei riconobbe subito, e che accolse con un sorriso che, lì per lì, non comprese a cosa fosse dovuto.
Congelato in una risata, c’era il Sem due anni prima; il viso più morbido, gli occhi un po’ più luminosi ed un’espressione che gli aveva visto in volto forse una sola volta da che si conoscevano. Vicino a lui c’erano Alan e Looma, probabilmente impegnati in una qualche chiacchierata.
La foto doveva essere il ricordo di una festa o di un momento ugualmente felice, perché nessuno, in mezzo a quella marmaglia che faceva da sfondo ai suoi amici, sembrava distante da quella gioia che Bloom poté percepire anche così, filtrata dalla mano di Aibao e dal tempo.
La sua attenzione, però, fu quasi subito catturata dalla ragazza che sorrideva a Sem.
Era abbastanza sicura di non conoscerla. Forse l’aveva vista qualche volta, a scuola.
La bellezza di lei la colpì nel profondo, come la luce del giorno quando ci si risveglia; come la luce che lei sembrava emanare in quel sorriso sereno e fermo, che pareva scaturire dalla risata dello Specialista che le stava accanto.
Tutto, in lei, evocava una sorta di purezza e di freschezza che la fulva non avrebbe mai saputo attribuire a qualcosa nello specifico; non a quel chiaro vestito che si confondeva con la sua pelle alabastrina, non a quei lunghi capelli di vaniglia intrecciati o a quei suoi occhi piccoli, franchi e verdi.
All’improvviso la colse il suo nome, il suono di quella parola.
Vesela.
Quella con la targhetta bianca e lilla, quella con la grafia tonda e bassa. La fidanzata di Sem, portata via dalla follia.
L’aveva immaginata spesso e, comunque, la sua immaginazione non era mai riuscita a concepirla in tutta quella sua squisitezza.
«Lei è…» iniziò, tacendo immediatamente dopo.
Quel suo sguardo aveva qualcosa di estremamente magnetico, dal quale Bloom rimase turbata. O forse si stava solo lasciando trascinare dal momento?
Alan fece per dire qualcosa, ma un’occhiata di Aibao fu abbastanza perché capisse di dover tacere. La nanerottola sembrava così assorta.
È la prima volta che la vedi? La prima volta che riesci a dare un nome a quella ragazza che chissà quante volte avrai incontrato, a scuola?
Chissà che genere di effetto doveva farle. Vedere qualcuno che aveva amato la persona che, forse, anche lei avrebbe amato… vederlo, sapere che aveva fatto tanto per quella stessa persona…
Sapere che era morto. Sapere che la ragazza nella foto era morta.
«Pensi che sia stata lei?» chiese la tappetta.
«A parlarci? Sicuramente» le rispose. «A farci questi simpatici scherzi? Non penso. Perché avrebbe dovuto?»
La pel di carota sospirò, facendo lavorare quel suo buffo cervello con manie da investigatore. «Non lo so… potrebbe aver avuto le sue ragioni»
Sta seriamente pensando che quella pover’anima possa aver fatto una cosa del genere a mio fratello? D’accordo, capisco la rivalità, ma…
«Senti, ovviamente non hai idea di chi e di come Vesela fosse, ma ti garantisco che “rancorosa” non rientra per nulla tra le parole con cui la si sarebbe potuta definire. Perciò, se anche ci fosse un qualche motivo per cui qualcuno possa volere morto o tumefatto Sem, beh, certamente non sarebbe lei a volerlo» disse, un po’ risentito.
Quella sembrò ponderare attentamente le sue parole; ma non doveva essere troppo convinta, perché assunse quella sua odiosa espressione di quando la sua testardaggine le impediva di riconoscere di aver torto.
«E poi… che diamine, lo amava!» sbraitò in conclusione.
«Abbassa la voce, Al» lo riprese l’altro ragazzo.
«So che… lo amava» mormorò Bloom, trovando difficile dire una cosa del genere. «Però… beh, hai presenti tutte le leggende metropolitane su spiriti di defunti che infestano i loro cari per qualcosa che hanno fatto?»
«Oh, mio-» sbraitò il biondo. «Stai seriamente paragonando tutta questa situazione a quelle storielle idiote?»
«Tutta questa situazione è iniziata quando abbiamo cominciato a raccontare le “storielle idiote”!»
«Quando hai iniziato a raccontare le storielle idiote!»
«Abbassate la voce!» sbuffò Aibao.
«Come preferisci! In ogni caso, mi sembra evidente che l’intera faccenda abbia a che fare con quei racconti!» continuò lei imperterrita.
Alan sospirò esasperato, costretto a capitolare. Quanto era insopportabile, quella marmocchia!
Pretendeva sempre di avere ragione!
Si buttò sul letto dove stava seduto l’altro Specialista, affondando la faccia nel cuscino.
«E va bene» mugugnò, tra le piaghe della federa. «Ce li ho presenti, quelli spiriti. Va’ avanti»
«Beh… Vesela potrebbe essere uno di quelli. Forse ce l’ha con Sem per qualche motivo e ha pensato di… tormentarlo?» tentò.
Dal giaciglio di Alan provenne un borbottio sconsolato. Perché quella ragazza sapeva dire solo idiozie?
«Bloom… è trascorso quasi un anno, da quando… da quando se n’è andata. Se avesse voluto fargliela pagare per qualcosa… avrebbe potuto farlo molto prima» fortuna che c’era Aibao, a far ragionare quella testa di legno. «Perché pensi che abbia deciso di farlo proprio ora? E, soprattutto, perché siete entrambi convinti che sia un fantasma?»
«Diamine, Aibao!» disse l’altro. «So ancora riconoscere la voce di un’amica!»
«Forse è ritornata qui sotto forma di spirito per… delle questioni irrisolte. Almeno, sulla Terra si dice così» fece Bloom. «Mia sorella…»
Sospirò. Certo, non sapeva con certezza le ragioni per cui, le volte in cui aveva incontrato Dafne, lei fosse rimasta incorporea; però era abbastanza sicura del fatto che, anche da defunta, una parte di lei fosse rimasta in quel mondo sotto quella forma.
«Anche lei era un fantasma. Forse aveva ancora qualcosa da fare» riprese. «Forse è lo stesso per Vesela… e forse quel qualcosa è…»
«Non esiste!» insistette Alan. «Non Vesela!»
«Non puoi esserne sicuro!»
«Nemmeno tu!»
«Smettetela!»
All’improvviso, la porta della stanza cigolò piano, lasciandoli tutti e tre con il fiato sospeso. L’ingresso era immerso nella penombra e, per qualche istante, nulla si mosse.
Un passo si fece vicino, e Bloom strinse le nocche fino a farle sbiancare, pronta a scagliare il primo incantesimo che le fosse venuto in mente.
Poi, con suo estremo sollievo, il volto fanciullesco di Looma si distinse da tutto quel grigiore. «Ragazzi… vi si sentiva da fuori»
Alan si lasciò andare ad un lungo sospiro, sprofondando di nuovo nel cuscino.
«Ma che ci fate, tutte qui?» chiese Bloom, quando si accorse delle altre ragazze.
«Ti stavamo cercando!» disse Flora, con ovvietà.
«Ma dove ti eri andata a cacciare? Non hai idea di quanto queste due» disse Stella, riferendosi a Musa e Tecna. «mi abbiano stressata perché non tornavi più»
«Ero andata in bagno e poi…» rispose, volgendo lo sguardo verso Sem.
«Ma che è successo?» fece la fata della musica, sconvolta come le altre.
Looma si richiuse la porta alle spalle, abbassando il capo. Non si era sbagliata.
Mentre Alan raccontava l’accaduto, lei si convinse sempre più di averci visto giusto: aveva davvero visto qualcuno e, come sosteneva Tecna, erano stati loro ad evocarlo.
Forse, considerarono tutti insieme, nemmeno l’idea di Bloom era del tutto errata; forse chi era stato richiamato era tornato lì perché aveva ancora qualche questione da sistemare, nel loro mondo. Però…
«Non riesco a credere che possa trattarsi di Vesela» disse Looma.
«Vedi se almeno tu riesci a farglielo capire» commentò il biondo.
«Forse no; però ci dev’essere un motivo, se anche lei è comparsa proprio questa notte. Voglio dire…» considerò Musa. «Non è un po’ strano, il fatto che due spiriti vengano richiamati nello stesso posto e nello stesso momento… e che entrambi appaiano alle stesse persone?»
Che fossero collegati, in qualche modo?
«Che tipo di legame potrebbe avere, il fantasma di una persona tanto in pace con se stessa, con quello di qualcuno che non riesce a riposare sereno nemmeno dopo che ha tirato le cuoia?» rifletté Alan.
«Più che altro, resta da stabilire che legame abbia il fantasma inquieto con noi. Con Sem» disse Tecna.
Tutti la guardarono perplessi.
«Non ci avevo pensato…» ammise la sua migliore amica.
«Lo immaginavo. Ci siamo soffermati troppo a lungo su una questione marginale, mentre il vero quesito è un altro» continuò quella.
Prese a vagare per la stanza, di tanto in tanto osservando il ragazzo che giaceva addormentato.
«Ricapitoliamo» iniziò. «Bloom ha iniziato a raccontare delle “leggende metropolitane”, e alcuni-»
«Ehi, io l’ho solo proposto!» mugugnò quella, ferita.
«Certamente, ma il primo racconto l’hai narrato tu. Comunque, dicevo…» proseguì. «Alcuni di noi ne hanno raccontate altre. Il mostro della cascata, l’autobus maledetto e la ragazza con la treccia. Tralasciamo i pettegolezzi sul personale delle scuole»
«Perché? Potrebbero esserci le sopracciglia di Saladin, dietro a tutto questo. Forse sono adirate con noi perché abbiamo infranto il regolamento scolastico due volte» disse Stella.
«La seconda delle quali a causa tua. Vi pregherei di smettere di interrompermi» fece Tecna, stizzita. «Accidentalmente, le nostre novelle hanno evocato una delle presenze inquietanti che facevano da protagoniste ai racconti, la quale si è immediatamente palesata attraverso una serie di spiacevoli… convenevoli»
Si avvicinò a Sem, chinandosi su di lui.
Prese a studiarne le ferite, accuratamente richiuse da Aibao e non per questo meno visibili.
«Da escludersi il mostro della cascata. A quanto ne sappiamo, lo si può mettere fuori gioco, ma è eterno. Non è defunto» ponderò. «Abbiamo altri tre sospettati»
«Tre?» rifletté Aibao.
«Il fantasma della storia di Bloom, quello della storia di Musa e quelli della storia di Sem» spiegò. «Il problema è che ciascuno di questi, secondo la leggenda, è ancorato al luogo o ad un simbolo che ne ha determinato il decesso. Non posso credere di star davvero discutendo di cose del genere, ma… tecnicamente, la comparsa di ognuno di loro dovrebbe essere legata esclusivamente a qualcosa che ha in qualche modo a che fare con loro morte»
«D’accordo… la ragazza dello stagno si è suicidata lì, ma non sappiamo nulla degli spettri dell’autobus» ragionò Stella. «E, per quanto riguarda la ragazza con la treccia… lei è morta ruzzolando da un treno, ed i suoi resti erano in un pozzo vicino alla scuola di Melody. In teoria ha tirato le quoia lontano da dove appare»
«Accidenti… che ragionamento intricato per essere stato elaborato da te, principessa» ghignò Alan.
«Sei stupido» lo aggredì Looma, prima che la diretta interessata potesse aprire bocca.
«Possiamo presumere che i due spettri dell’autobus fossero da esso stati investiti o che, in ogni caso, la loro morte sia legata allo stesso» ipotizzò Tecna. «Da escludere, dunque. Da escludere anche la ragazza dello stagno»
«Sulla base di?»
«Sulla base del metodo adottato per uccidere le sue vittime. Stando al racconto, le strazia lasciandone intatti i denti e poco altro» ricordò.
«Quindi resta la ragazza con la treccia?» domandò Bloom.
«Mi pare la più plausibile» annuì la fata della tecnologia.
Sgranò gli occhi. Era proprio come pensava.
«Ma come facciamo, a dirlo? Non sappiamo cosa facesse» disse Flora. «Oh, mi sembra così orribile, parlare in questo modo…»
«Non lo sappiamo, però le ferite di Sem sono per lo più tagli. Forse lo spettro cerca di rendere il volto delle vittime senza… beh, senza più nulla o quasi, come il suo» intuì Aibao. «Tagli e…»
«…segni di un tentativo di strangolamento. Esattamente» concluse Tecna.
Alan si mise a sedere di scatto, ricordandosi dello scambio di battute che era avvenuto tra lui e Riven poche ore prima. «La treccia!» esclamò. «Potrebbe aver cercato di strangolarlo con la treccia!»
Chi l’avrebbe mai detto, che quel carciofo bisbetico potesse tornare utile… chissà come se la ronfa alla grossa, nella mia camera.
«D’accordo, tutto rimanda alla ragazza con la treccia. Ma non sappiamo ancora perché… ci dev’essere un motivo, se è comparsa oggi e se ha attaccato proprio Sem» sbuffò la principessa. «Musa, non è che ti sei dimenticata qualche dettaglio?»
«No, io… vi ho raccontato tutto quello che è rimasto della storia» assicurò quella.
«“Tutto quello che è rimasto”? Che significa?» fece Tecna, perplessa.
«Ecco… vediamo… quella leggenda metropolitana è poco chiara. Io ho raccontato quello che si è… conservato» sussurrò, abbassando lo sguardo.
«Ma… su Melody è risaputo…» intervenne Aibao, con un’espressione quanto mai inorridita.
«Che ti prende?» fece l’altro Specialista. «“Su Melody è risaputo” cosa?»
«“Mai raccontare una leggenda se essa ha più punti scuri che chiari”» recitarono lui e la fata della musica, insieme.
«Ovvero?» insistette Stella.
«Il comune “stai zitto se non sai di cosa parli”» spiegò Bloom.
I due melodyani si scambiarono un’occhiata preoccupata.
«Oh, su… non è mica una tragedia… è un vecchio detto, no? Adesso… non è che…» tentò la bionda.
«Invece è esattamente così» sbuffò Tecna. «Qualcosa di indicibile dev’essere legato a quella leggenda. La ragione per cui il tempo l’ha censurata»
«Sì, però se qualcuno ne sa ancora una parte significa che lo spettro non appare semplicemente raccontandone la storia» suggerì Flora. «Ci dev’essere dell’altro che, se raccontato in particolari circostanze, richiama il fantasma»
Qualcosa che lo richiami e che sia sufficiente perché il fantasma se la prenda con Sem.
«Il problema è: di che si tratta?»
La fata della tecnologia esaminò le ferite di Sem ancora per qualche istante.
Sembrava che fossero giunti ad un punto morto. «Se il dato storico è andato perduto con il tempo… sarà improbabile riuscire a determinare il nesso tra queste faccende. Anche se ci trovassimo su Melody, dove le vicende sembrerebbero essere accadute, non ci sarebbe anima viva che le possa raccontare» fece.
«Forse dovremmo concentrarci su come scacciare lo spettro, piuttosto» propose Alan.
L’altra si trovò costretta ad assentire; ma come fare? I talismani scaccia-spettro funzionavano solo se il fantasma in questione si fosse manifestato ma, come i fatti avevano dimostrato, lo spirito sarebbe comparso per tormentare Sem e Sem soltanto.
Sarebbe stato rischioso lasciarlo senza un briciolo di protezione.
«No… Tecna ha detto bene. Non c’è nessuno che possa raccontarci la storia così come dovrebbe essere…» iniziò Looma, criptica. «Almeno… non c’è tra i vivi»
«Che… cosa intendi?» domandò Bloom, confusa.
«Possiamo consultare qualche altra anima!» rispose quella, come se fosse stato elementare. «L’anima di qualche defunto che sia legato alla ragazza con la treccia, in un modo o nell’altro»
«Looma, non vorrei sembrarti scortese» iniziò Musa, sempre – curiosamente – garbata, quando si rivolgeva a lei. «ma mi sembra un po’… come dire… impossibile. Come si fa a richiamare un morto e a parlarci? Voglio dire…»
«Tu non leggi molto, vero?» sbuffò Alan, ottenendo una linguaccia in risposta.
Looma sorrise, mettendosi in piedi con un piccolo balzo. «Lasciate fare a me!»
Prima che chiunque potesse proferir parola, la ragazza era già trotterellata fuori dalla stanza, diretta nessuno seppe dove.
«Looma! Ma dove vai?» la chiamò Bloom, andandole dietro.
«Aspetta, Bloom!» la seguì a ruota Alan. «Non è prudente che andiate da sole!»
Tecna fece per fermarlo ma, come mise piede nell’oscurità del corridoio, non fu più in grado di distinguere i tre amici. «Che incoscienti…» scosse la testa.
Rientrò, concedendosi uno sbuffo.
Apprezzava lo spirito di iniziativa di Looma, ma non avrebbe potuto fare lo sforzo di parlare chiaro, per una volta? «Dove credi che sia andata?» chiese a Stella, quella che meglio conosceva quella ragazza.
«Non ne ho idea» sospirò lei. «Ma credo che abbia intenzione di fare come ha detto»
«Di chiamare… qualcuno?» chiese Musa, non esattamente convinta.
La principessa annuì. «È questo che fa, Looma»
«Ma… e allora…» continuò l’altra, sempre più confusa. «E allora… tutto quel gran parlare che si fa di lei… di Looma… della moda…»
«È una montatura?» sussurrò Flora.
«Certo che no!» sbraitò la bionda. «Solo che… forse non tutti nascono con le doti che vorrebbero avere; e lei… lei è nata con questa. Non so come funzioni; lei non… ne parla spesso»
«È come diceva Bloom prima» iniziò Aibao, rimasto in silenzio fino a quel momento.
Sorrise, in un modo un po’ malinconico.
Una volta Looma si era soffermata sulle fotografie della camera di lui, scrutandole una ad una, quando ancora erano poche.
Non erano mai stati particolarmente affiatati… forse perché avevano un temperamento diverso, o forse perché entrambi sgomitavano per un posto d’onore nel cuore di Alan; tuttavia, quel giorno, lei aveva voluto aprirsi un po’ e mostrare un lato di sé, quello misterioso, che raramente aveva l’occasione di emergere.
E, come raccontò alle Winx, quel che la ragazza gli aveva confessato lo aveva turbato più di quanto si sarebbe aspettato. Senz’altro i due gemelli ne erano a conoscenza perché, come gli disse, aveva quella inquietante capacità fin da quando erano piccoli tutti e tre.
«Li aveva definiti come “quelli che hanno ancora qualcosa da fare”; quelli che, come dice Bloom, hanno questioni irrisolte da sistemare. Looma li vedeva, li vede» spiegò. «Come fossero dei passanti, come fossero lì per caso; ma li sa riconoscere. Non solo perché hanno qualcosa di desueto, no… lo percepisce»
Li vedeva; ed erano spesso tristi, dalle espressioni cupe, e sussurravano qualcosa tra sé e sé – e di quei sussurri orribili, ma antichi rimpianti che giungevano sempre all’orecchio di lei.
«E li può… chiamare? Quelli che hanno ancora qualcosa da fare?» chiese Flora.
«Può chiamare anche chi…» mormorò Musa, intenta ad osservare il pavimento.
Poteva richiamare anche chi, di cose da fare in quel mondo, non ne aveva più?
«Penso che l’unica ragione per cui lei possa interagire con loro sia il fatto che qualche faccenda li tiene ancorati a questo posto» concluse Aibao.
Calò il silenzio; e il pensiero di ciascuno andò alle cose più oscure che covava nella mente, nel cuore.
Cosa accadeva, a chi si trovava in quella condizione? Morto senza poter riposare; era quello che ci si sarebbe dovuti aspettare se, una volta varcata la soglia, si aveva comunque la consapevolezza di non aver fatto tutto?
Che cos’erano, coloro che restavano intrappolati lì? Cosa sentivano? Quanto, del dopo, avevano potuto vedere? Quanto si ricordavano, del prima?
«Dobbiamo trovarla» fece Tecna, ad un certo punto. «Dobbiamo trovarli tutti e tre»
«Ci dividiamo?» suggerì Musa.
L’amica si volse a guardarla, sospirando. Nei suoi occhi, lesse tutte le sue preoccupazioni.
So che è proprio quello che volevi evitare… ma non abbiamo scelta.
«Uno di noi dovrebbe restare qui per sincerarsi delle condizioni di Sem» annuì dunque.
«Posso occuparmene io» propose Aibao.
«Forse dovrebbe rimanere anche qualcun’altra, per intervenire qualora lo spettro si faccia vivo di nuovo» considerò Stella. «Io… lo farei più che volentieri»
«Fifona» ridacchiò Musa.
«Tesoro, guarda che se quella pazza ricompare me la devo sorbire io» le fece notare. «E poi non ho molta voglia di camminare»
Tecna sospirò, non essendosi aspettata nulla di diverso da lei.
«Fate attenzione» disse solamente, mentre usciva.
«Non temere» replicò, con ovvietà.
Quando anche Flora fu fuori di lì e si fu richiusa la porta alle spalle, la principessa si lasciò andare ad un lungo sospiro.
«Sei… agitata?» chiese Aibao.
Stella scosse la testa. L’occhio le cadde sulla fotografia che era stata abbandonata sulla scrivania del ragazzo.
«Non sono agitata» smentì.
Prese in mano l’istantanea.
«Non per noi due, almeno»
 
*
 
Bury me in armour
When I’m dead and hit the ground
My nerves are poles that unfroze
And if you love me, won’t you let me know?
Violet Hill, Coldplay
 
 
Era stato piuttosto faticoso riuscire a non perdere di vista le sagome di quelle due che, l’una a poca distanza dall’altra, correvano per i labirintici dormitori di quella maledetta accademia in cui, purtroppo, sapeva che sarebbe dovuto restare ancora troppo a lungo.
Altrettanto a lungo, quindi, avrebbe dovuto affrontare situazioni tremendamente scomode e lugubri come quella; in compagnia di quelle.
L’ho sempre saputo che le donne portano guai.
In particolare, la fulva lillipuziana e la dolce Looma si stavano rivelando una perfetta parabola di quella savia consapevolezza di cui Alan non aveva mai dubitato in vita sua e che, quella notte, era destinata ad accrescere il proprio fondamento su base empirica.
Un quesito continuava a martellargli la materia grigia.
Dove diamine vuole andare, Looma?
Perse quasi la cognizione del tempo e, proiettandosi nei propri pensieri, nemmeno si rese conto di dove fossero finiti, tutti e tre.
L’aria pesante ed il gelido sussurro della botola che si richiudeva gli suggerirono la meta ultima del loro gran correre a destra e a manca. Il salone sotterraneo.
Ma certo… per stabilire un contatto deve andare nel posto in cui il fantasma le è apparso per la prima volta…
Vide che Bloom si era fermata sulla soglia, osservando ciò che aveva davanti come completamente assorbita dallo spettacolo di Looma che parlava. Alan raggiunse la fulva e si fermò ad un soffio da lei, catturato allo stesso modo da quelle parole dolci che l’altra ragazza scandiva, al centro della stanza.
E allora entrambi pensarono; e lei pensò a quei genitori che non aveva mai conosciuto, a Dafne svanita nel nulla quando non l’aveva potuta aiutare, a Sky; mentre lui pensò alla madre e a quei baci della buonanotte di cui ancora ricordava il profumo sulle guance.
E si chiesero se Looma, qualche volta, li avesse visti o ci avesse parlato.
Si domandarono se fossero di quelle anime che vivevano serene da qualche parte, o se appartenessero a quei poveri destinati alla dannazione, al limbo in cui si trovavano la ragazza con la treccia e, a quanto sembrava, anche Vesela. Che genere di rimpianto o di rimorso avrebbe potuto trattenerli?
Che genere di dolore poteva essere così forte da trascendere il limite ultimo?
E all’improvviso, di fronte a tutto ciò, Alan capì Bloom, per la prima volta; capì il suo male e capì quell’ombra che ogni tanto turbava i suoi occhi. Tutti avevano perso un pezzo, no?
Le strinse una mano, senza quasi che se ne fosse reso conto. Lei non fece domande.
Io ho perso i baci della buonanotte; mentre tu…
Looma aveva finito di parlare, ed ora era accerchiata da quelle che gli altri due avrebbero percepito come luci di diversi colori; ne cercava una in particolare, e non riusciva a trovarla.
Poi la scorse e la chiamò, ma quella non si voltò e scomparve; ne scorse poco dopo una che doveva essere lei, una che le era molto simile. Sorrise, la richiamò, senza sapere la verità.
La stanza tornò buia e fredda, animata solo dall’espressione soddisfatta e contenta della fata, che ora si era volta verso i due amici. «L’ho fatto!»
«Hai… chiamato qualcuno?» fece Bloom, dubbiosa.
Quella annuì. «Penso che lei ne sappia più di chiunque altro… oh, guardate… è lì!»
Indicò loro un punto imprecisato alle loro spalle, forse poco sotto la botola. Assottigliarono lo sguardo per mettere a fuoco una macchia scura; e quella mosse un passo verso di loro e, sebbene Looma ne fosse entusiasta, ad Alan non piacque, non piacque per nulla.
Se fosse stato un gatto, pensò, gli si sarebbe rizzata la coda.
«È lì» continuò l’amica. «È Vesela»
«Hai chiamato Vesela?» le chiese, stringendo un po’ più forte la mano di Bloom ed arretrando inconsciamente. «È Vesela?»
«Certo che sì. Ho pensato che lei potesse saperne di più» spiegò. «Ci dev’essere un legame, tra loro due. Forse ci sa dire qualcosa»
Il ragazzo arretrò di un'altra manciata di centimetri, cercando di convincersi che la ragazza avesse ragione e che quel brutto brivido che l’aveva colto fosse solo un riflesso involontario, determinato solo dal fatto di trovarsi davanti ad un fantasma, a qualcuno che non sarebbe dovuto essere là.
Eppure, man mano che la presunta Vesela si avvicinava, non si faceva più nitida né i suoi contorni più chiari, come quelli della presenza che si era mostrata nel bagno ed aveva parlato. «Sei… sicura che sia lei?» balbettò la fulva.
«Non vi fidate?» replicò Looma, infastidita.
«Looma…» biascicò Alan, zittendosi subito dopo.
Il fantasma si avvicinava sempre di più, sempre più rapidamente; e Bloom rivisse quegli interminabili istanti in cui aveva atteso che Aibao le aprisse, gli istanti in cui qualcosa si era mosso nell’ombra. Rivide allora lo stesso spirito, e capì che, di chiunque si trattasse, non doveva avere le migliori intenzioni del mondo.
Un rantolo provenne da quella massa informe che si approssimava sempre più all’ingresso del salone, rischiarato solo da quelle piccole candele che rimandavano un chiarore opaco ed insufficiente ad illuminare la via e l’identità dello spettro.
«Looma… secondo quale criterio hai potuto stabilire che quella che hai chiamato è Vesela?» insistette Alan, indietreggiando ancora.
Un altro suono agghiacciante echeggiò tra le pareti del salone, accompagnato da un sussurro che nessuno dei tre poté capire.
«Beh… l’anima che ho chiamato era quasi identica alla sua» spiegò.
I versi orribili la fecero iniziare a vacillare rispetto alle proprie posizioni. «Sai che siamo tutti diversi a questo mondo, vero? Che anche il minimo dettaglio è rilevante?» fece il ragazzo allarmato. «Looma, chi diamine hai evocato?»
«Io…» si zittì, perché ora lo spettro era arrivato, ora aveva smesso di strisciare sul pavimento; ora si era ammutolito e aspettava.
«Alan» sussurrò Bloom.
Fu l’ultima cosa che Alan riuscì a sentire perché, come il fantasma scattò in avanti, tutto perse di significato ed avvertì la mano della nanerottola abbandonarlo, scivolare via, costretta; ed urla, urla terrificanti e piene di terrore, le urla di lei, di quella sciocca tappetta che non era stata abbastanza intelligente da restare dietro di lui quando si era frapposto tra lei e lo spirito.
Tra lei e l’anima che l’aveva portata via; l’anima senza volto, la ragazza con la treccia.
Stupida pel di carota… non è nemmeno capace di lasciarsi proteggere…
Poi tutto divenne cupo e, più lui spalancava gli occhi per vedere, più l’oscurità s’infiltrava tra le sue ciglia e gli annebbiava le iridi chiare; e chiamava Looma e la udiva rispondere ma, ancora, non poteva vedere nulla.
Richiuse gli occhi ed allora vide, e davanti a lui c’era qualcuno; forse era Vesela, forse era Bloom.
«Devi aprire gli occhi»
Lei – chiunque fosse – sorrideva.
Perché? Riesco a vedere solo ad occhi chiusi…
«Apri gli occhi, Alan»
Sbuffò.
Se ci tieni così tanto…
«Apri gli occhi, Alan!»
Lo scossone subito lo fece risvegliare da un sonno piacevole, di quelli lunghi e tiepidi d’estate. Sbatté un po’ le palpebre, domandandosi cosa ci facesse riverso sul pavimento di quella stupida stanza sotterranea e, soprattutto, perché diamine Tecna non la smettesse di strapazzarlo con aria terrorizzata.
«Sono aperti» le fece notare.
«Grazie al cielo…» sentì Flora bisbigliare poco più in là.
La fata della tecnologia mollò la presa, sdraiandosi ella stessa sulle fredde mattonelle e lasciandosi andare ad un lungo sospiro. Tutte quelle forti emozioni a distanza ravvicinata la stavano distruggendo.
«Cos’è successo?» chiese il ragazzo, stordito.
Looma – fu grato di vederla sana e salva – lo aiutò a rimettersi in piedi.
«Dovreste spiegarcelo voi» fece notare Musa. «Noi vi stavamo cercando e ad un certo punto abbiamo sentito un urlo provenire da qui»
Lo Specialista sgranò gli occhi. «Bloom!»
Si volse a guardare l’amica, come a chiederle spiegazioni. «Ne so quanto te…»
«Lo spettro… Bloom…» mormorò.
«L’ha rapita. Questo lo abbiamo capito» sbuffò la fata della musica. «Ma non il perché»
«Mi chiedo come mai sia apparso proprio in queste circostanze» iniziò Tecna.
«Beh… è possibile che io l’abbia… accidentalmente evocato» ridacchiò Looma. «Cioè… beh… in realtà ne ho… evocati due. Forse. Cioè… prima ne ho chiamato uno, ma non si è voltato ed è scomparso… poi ne ho visto un altro, era molto simile, quindi ho provato a chiamarlo di nuovo»
«Uno “molto simile”?» fece Flora, dubbiosa. «Che significa? Quindi hai evocato due fantasmi? E che ne è del secondo?»
«Vabbe’, ne riparliamo dopo, eh? Per intanto dovremmo proprio ispezionare quel corridoio sospetto oltre la finestra» intervenne Musa, guadagnandosi un’occhiata basita da parte di Alan. «Lo spettro deve averti spinto contro la parete, perché hai praticamente disintegrato una vetrata»
Il ragazzo si volse verso la direzione che la fata gli stava indicando, senza tuttavia riuscire a capire. Era abbastanza sicuro di essere stramazzato a terra, nel punto in cui si era rialzato.
«Quale che sia la ragione, dietro l’edera che per qualche motivo cresceva dietro la finestra c’è un corridoio. Riesci a vederlo?» gli chiese Tecna.
In quel preciso istante, il cellulare di Musa prese a vibrare, rimandando sul display il nome di Stella. La ragazza impallidì, accostando il telefono all’orecchio e preparandosi al peggio.
«Pronto?» starnazzò la principessa dall’altro capo, ad un tono così alto che costrinse l’altra ad allontanare il dispositivo.
«Si sente anche se non urli» le fece notare, scocciata.
«Musa, state tutti bene?» le chiese, ignorando la sua predica. «Sem si è svegliato»
«Non fare domande se poi non ti interessa la risposta» borbottò. «È una notizia grandiosa. È un peccato che Bloom sia stata rapita»
Un “che cosa?” risuonò per tutta la sala.
«Chi è stato?» gridò Stella, agitata. «Lei dov’è? Starà bene?»
«Se conoscessimo le risposte non saremmo qui a girarci i pollici» fece Alan.
Musa passò il cellulare a Tecna. «Stella, in che condizioni è Sem?»
In superficie, nella stanza di Aibao, la bionda si volse a guardare il moro. Quest’ultimo corrugò la fronte, domandandosi che cos’avesse da strillare e, soprattutto, perché mai lo stesse scrutando con quel fare indagatorio.
Per quanto lo Specialista terapeuta potesse decantare doti eccezionali, certamente quella lunga cicatrice non se ne sarebbe andata tanto facilmente dalla faccia di Sem.
Che aspetto rozzo e trasandato, conferiscono le cicatrici.
Tranne che a Brandon, naturalmente.
«Orribili» rispose, dopo un’attenta analisi. «È tutto spettinato e quella cicatrice…»
«Stella» sbraitò l’altra, spazientita. «Ce la fa a mettersi in piedi?»
«Oh, ma certo! Penso che quando saprà che Bloom è stata rapita niente e nessuno potrà fermarlo!» scherzò la principessa.
«Bloom è stata rapita?» commentò il ragazzo, con orrore.
«Bene» riprese Tecna. «Dovete venire tutti qui giù, nel salone; c’è una vetrata rotta, la riconoscerete subito perché ci sono dei vistosi tralci di piante rampicanti in prossimità dei cardini della finestra… dovete oltrepassarla e vi troverete in un’altra area della vecchia scuola. Noi iniziamo a controllare. Voi sbrigatevi»
«Signorsì» concluse Stella, chiudendo la conversazione.
In quel mentre, Alan si era affacciato sul corridoio nascosto dall’edera, riconoscendo in terra gli stessi motivi delle piastrelle del grande salone; tuttavia, le condizioni di quell’ambiente erano pressoché disastrose allo stesso modo – se non peggio – di quelle della sala da ballo quando l’avevano trovata.
Il soffitto si faceva vistosamente più alto e lungo le pareti si diramavano degli arabeschi che si ricongiungevano sui piedritti a sostegno di ampie arcate, dall’antico bianco ormai morto e mangiato dal tempo e da tutta quella umidità dal cui olezzo il ragazzo fu investito come mise piede lì dentro.
C’era, però, qualcos’altro a metterlo sull’attenti; una sensazione di oppressione, come di uno sguardo che gravava su di lui e lo seguiva in ogni movimento. Presto Looma lo raggiunse insieme alle altre tre ragazze e, nonostante avessero tutte rischiarato un po’ quelle gallerie immerse nel buio, restava impossibile scorgerne la fine.
«Perché quest’ala della scuola si è conservata così bene?» ragionò Flora.
«“Bene”? Ma non hai visto quanta muffa c’è in giro?» borbottò Alan.
«Flora ha ragione: rispetto alle altre gallerie, che sono ormai inagibili, queste sono abbastanza praticabili» replicò Musa. «Solo… mi domando dove portino»
«Io mi domando invece a cosa sia dovuta questa foschia» cambiò argomento Tecna. «Mi chiedo chi l’abbia evocata»
«Credi che sia un incantesimo?» le chiese la sua migliore amica.
Quella sospirò. «Non saprei. Sembrerebbe; ma le uniche a praticare l’arte magica, qui, siamo noi»
«A meno che non ci sia qualcun altro…» rabbrividì Flora.
«Intendi dire… qualcuno tipo quella persona che ci sta aspettando lì, sulla destra?» balbettò Alan, cadaverico.
Ad avanzare fu solo Looma che, come in uno stato di trance – o, forse, molto più lucida degli altri – riconobbe in quella presenza un’anima defunta, che doveva aver deciso di mostrarsi a tutti loro.
In un attimo, lo Specialista comprese a cosa fosse stata dovuta l’impressione che aveva avuto nel momento in cui si era affacciato su quei corridoi.
Quella figura immersa nella nube nera fece loro cenno di seguirla, forse per dare loro delle risposte che nessuno era sicuro di volere per davvero. Lui e Tecna si scambiarono un’occhiata colma d’apprensione, nella tacita promessa di adoperare la massima cautela; poi, si decisero ad andare dietro a quella ragazzina.
Dopotutto, la situazione non avrebbe potuto prendere una piega peggiore di quella, giusto?
 
*
 
Le sembrò di percepire qualcosa; un profumo freddo e familiare, che parte di sé doveva aver memorizzato inconsciamente; come quando la mente cattura un’informazione di sfuggita da un libro ed essa resta impressa più delle altre, per qualche ragione.
Sapeva di avere gli occhi chiusi e di non poterli aprire, per un motivo che lì per lì non avrebbe saputo spiegare; tuttavia, più quel profumo si faceva vicino, più aumentava il desiderio di aprirli, di dare un nome a un ricordo.
Ad una persona.
Perché lo sapeva: doveva trattarsi di qualcuno. C’era traccia di umanità, in quella fragranza fresca che si avvicinava; una traccia di donna.
Poi parlò, quella voce così bassa che conosceva e che sembrava però più lugubre, come venuta dall’oltretomba; e non ebbe bisogno di guardarla per capire che era lei.
Forse quella Icy era solo un sogno; forse era lì perché per qualche settimana Bloom aveva rimuginato su quei brevissimi attimi in cui l’aveva vista in un sobborgo di Magix e non aveva saputo definire quell’emozione che l’aveva resa attonita, incapace di pensare.
Forse era lì perché aveva qualcosa da dirle, qualcosa che avrebbe voluto dirle quella volta. Oppure era lei stessa, a sentire la necessità di parlarle?
La strega sussurrò delle parole e, in qualche modo, le parve di immaginarla in un modo in cui non l’aveva mai vista. Per la prima volta, si rese conto di quanto quella perfida arpia avesse sempre celato una bellezza sinistra dietro ai suoi sorrisi di pazzia; una bellezza quasi delicata, che quel suo trucco sempre così opprimente non aveva mai reso possibile intravvedere oltre le iridi cristalline.
Come se fossero state sempre lì, le due sorelle fecero la loro comparsa, senza che lei avesse il bisogno di guardarle per riconoscere quelle presenze, quel qualcosa che le aveva sempre fatto accapponare la pelle e che, pur senza volerlo, aveva suscitato in lei una sorta di fascino che non avrebbe potuto attribuire a nulla di specifico, in quelle tre.
La mano fredda di Icy le sfiorò una guancia e, in quel preciso istante, Bloom provò dolore. Era stata lei, a provocarlo?
Non rideva, non come ci si sarebbe aspettati che facesse dopo averle fatto del male, com’era suo solito. E allora capì, e quelle dita di ghiaccio le diedero sollievo ad una ferita che doveva averle inferto qualcun altro, probabilmente.
Poteva percepire lo sguardo penetrante di lei imprimersi sulla pelle e forarla, lasciando una traccia indelebile che racchiudeva in sé tutte quelle volte che l’aveva osservata, l’aveva studiata e si era chiesta, probabilmente, perché una fatina tanto insulsa avesse un potere così grande. Tuttavia, in quel modo che aveva di scrutarla, non vi era più lo stesso astio di un tempo – o, per lo meno, questa era la sensazione che provava Bloom.
Fu una delle sorelle – non seppe chi – a dirle di svegliarsi, come le accadeva quando era ancora una normalissima terrestre e nei suoi sogni qualche amica irrompeva a dirle che era in ritardo per la scuola e che la sveglia stava suonando già da un pezzo.
La prima cosa che percepì una volta vigile fu un terribile e pungente sapore di ferro fare violenza nella sua bocca ed annebbiarle per un momento i sensi.
Ne avvertì perfino l’odore ed il tanfo le fece venire le lacrime agli occhi. Sarebbe stato difficile determinare dove lei si trovasse.
Quel poco che restava alla vista concedeva la possibilità di identificare le sagome di mobili l’uno a ridosso dell’altro, come di una vecchia stanza in cui qualcuno aveva riposto tutto ciò che non poteva più tornare di alcuna utilità e che, in ogni caso, non aveva troppa premura di far sparire.
Capì di trovarsi esattamente in un anfratto tra quella che doveva essere una libreria e qualcos’altro di simile. Come ci era finita, lì?
Una fitta di dolore la costrinse a portare una mano al volto e a scorgere con il tatto ciò che, con tutta probabilità, aveva determinato un risveglio denso di sangue.
Una lunga ferita le deturpava il lato sinistro del viso; come quello che aveva Sem.
Tuttavia, ben presto Bloom si rese conto di avere delle perdite anche dal labbro e dal naso. Era stata picchiata?
Eppure, non ne aveva memoria. Non del tutto; solo di un dolore intenso e di mani orribili che le toccavano il volto.
Non era la mano di Icy.
Aveva rimosso?
Perché sta succedendo tutto questo?
A che scopo tumefarle la faccia e lasciarla lì, ad agonizzare? Era stato lo spettro?
Morirò qui?
S’irrigidì al solo pensiero ed il panico la morse; prese a tirare delle botte contro il mobilio che la circondava, senza spostarlo di un respiro.
Era troppo debole per trasformarsi e anche il flebile incantesimo che pronunciò così non fu sufficiente nemmeno a scalfire gli ostacoli che la separavano dall’uscita.
E se neanche ci fosse, un’uscita?
Gridò, ma le sue grida si dispersero rapide, come se non fossero esistite.
Una vertigine la colse alla sprovvista, accompagnata da conati che trattenne, anche a costo di fare violenza a se stessa. Si accovacciò, sentendo calde lacrime bagnarle le guance e confondersi con quello scempio che aveva in viso e che non la smetteva di fare male.
E adesso?
Perché era lì? Perché qualcuno l’aveva aggredita?
Perché non poteva, non potevano, vivere in serenità come tutti gli altri?
«Non ti devi disperare»
Era stata una voce calma e delicata a parlarle.
All’improvviso, Bloom percepì una leggera pressione sulla spalla e, come sollevò il capo, vide una figura bellissima, avvolta dalla luce.
«Andrà tutto bene, vedrai»
La ragazza la osservò e poté vedere in lei solo un sorriso in cui scorse qualcosa di familiare. A metterla subito in allarme, però, fu la lunga treccia che oscillò appena la nuova venuta si mosse.
Fece per sfiorarle una guancia, ma la fata si ritrasse subito.
«Hai paura di me?»
Lo disse come ferita e, senza saperne il motivo, la fulva si sentì colpevole. Come poteva, una creatura tanto luminosa, volerle del male?
Quella le tese una mano, non scoraggiandosi.
«Fidati di me, Bloom. Ti sentirai molto meglio»
Tese una mano che le sfiorò la guancia, proprio nel punto in cui, nel sogno, Icy aveva posato la sua e le aveva trasmesso quella curiosa e fresca sensazione.
Com’era possibile?
«Non devi avere paura. Stringi la mia mano»
La ragazza esitò qualche istante. Come avrebbe potuto?
«Non devi pensarci troppo… devi farlo e basta»
Annuì, fece come le era stato detto e si ricordò di Alan; si chiese che ne fosse di lui, di Looma… degli altri. Di Sem.
Chissà… forse la stavano cercando. Come al solito, non faceva altro che creare problemi…
«Non essere così dura. Sei una persona buona»
«Mi conosci?» si decise infine a dire.
La figura non rispose; si concentrò e, pian piano, la fata iniziò a percepire un prurito lungo la ferita. Il sangue si stava coagulando ad una velocità inaudita.
Cosa diamine stava succedendo?
«Sì, io ti conosco. Tu mi conosci, invece?»
«Non lo so» ammise. «Sarebbe più semplice se potessi vederti in volto»
Quella rise, per poi fermarsi di colpo.
«Ti stanno cercando, sai?»
«I miei amici? Preferirei che non dovessero farlo in continuazione» ammise.
«Tu lo faresti, no? Se loro fossero scomparsi»
«Sì, però…»
«Lo fanno per te, perché ti vogliono bene. Per te è uguale»
La ragazza annuì, sospirando e sorridendo.
La figura mosse il braccio e, come per incanto, Bloom appurò che qualcosa di straordinario era appena successo e, della lunga lacerazione che le aveva dato tanto dolore non era più rimasto nulla.
Proprio come nel suo sogno; proprio come ciò che aveva compiuto la mano di Icy.
Non seppe attribuire un nome, però, a quell’emozione che si era scatenata in lei al ricordo di quella visione. Chissà poi perché proprio la strega dei ghiacci…
«Dovresti riposarti un po’. Loro verranno a riprenderti» spiegò. «Non posso fare altro. Indicherò loro la via»
Rivolse un’ultima volta un sorriso a quella ragazza, sfiorandole nuovamente il viso affinché, con quel poco di energia che le era ancora rimasta, potesse conciliarne il sonno, in attesa che le persone che amava la tirassero fuori di lì.
Conscia di non poter fare di più, la lasciò e nella mente vide coloro che cercava.
Li trovò in quel corridoio segreto, lungo la strada che era stato detto loro di intraprendere; e, in un attimo, sbarrò il passo di quei tre ragazzi che, come la videro, s’irrigidirono.
La sagoma di luce non si spostò neppure, lasciandosi attraversare da quella scia di scintille che la fata del Sole e della Luna le scagliò contro, senza successo. Ritentò, amplificando la potenza del sortilegio.
«Fermati, Stella!» la implorò Sem. «Non è la ragazza con la treccia!»
«Ah, no?» fece, digrignando i denti e trattenendo un altro colpo.
«Quella… non è… lei è…» sussurrò, come paralizzato.
La principessa s’immobilizzò, confusa; e così anche Aibao.
La figura sorrise e si fece più nitida.
Se Bloom avesse prestato più attenzione, avrebbe riconosciuto in lei la ragazza della foto; ed allora avrebbe capito.
 
 
I need somebody and always
This sick strange darkness
Comes creeping on so haunting every time
I Miss You, Blink 182
 
Salve a tutti coloro che ce l'hanno fatta anche questa volta; come state?
Sì, questo capitolo è giunto con un po' di ritardo, principalmente perché non volevo pubblicarlo senza aver finito il terzo (che mi ha dato parecchi grattacapi, soprattutto perché quasi alla fine ho avuto l'ispirazione per sviluppi diversi e quindi l'ho dovuto riscrivere).
Ma sorvoliamoooo...
Per intanto ringrazio tutti coloro che hanno letto, coloro che hanno inserito la storia tra i preferiti e le due anime pie che hanno lasciato un commento (giuro che appena finisco qui rispondo, cascasse il mondo)!
Al prossimo capitolo!
Applepagly

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** #3 - Fading of ancient sorrows ***


Salve! Come andiamo?
Fuhuhuh, che cosa posso dire, per iniziare?
Questo capitolo dovrebbe essere appena più breve rispetto agli altri (con vostra somma gioia; dovrebbero dedicare almeno una targhetta a chi ha avuto il coraggio di arrivare fino a qui) e, soprattutto, più intricato. L'ho riletto molte volte alla ricerca di errori e di punti poco chiari ma, siccome io sono stupida e non vedo mai niente, perdonatemi per qualsiasi scempio e, se qualche passaggio dovesse apparirvi oscuro, non fatevi problemi a dirmelo (mi rendo conto che, per me che l'ho scritto e partorito, magari possano apparire ovvi dettagli che non lo sono).
Dunque... questo è anche il capitolo conclusivo della storia e... beh, anche della serie. E non so cosa dire, perché è meraviglioso averla finita ed essere riuscita a pubblicare questa cosuccia come ultima, ma è anche un po' triste.
Sì, vabbe', non voglio rattristarmi troppo... alla fine è sempre così, no? Perciò, passiamo a qualcosa di allegro.
Vorrei ringraziare chi legge, chi ha letto e chi non lo ha fatto; vorrei ringraziare le due ninfette a cui devo rispondere se non oggi stesso almeno domani (dal momento che avrei dovuto farlo già prima; ma ovviamente io sono troppo stupida anche a scuola e a ricordarmi la fisica ci metto settimane, e questa è stata quella in cui non mi ricordavo come si disegnasse un multimetro e quindi in verifica, al posto di quello che dovevo disegnare, ho riportato l'esperimento che abbiamo fatto collegando delle arance a un coso che non so manco se fosse il multimetro. Vabbe', ho disegnato delle arance su una verifica, quindi vi prego: abbiate pietà di me).
Vorrei ringraziare chi mi ha sostenuta fin qui e... vorrei ringraziare un sacco di gente, in effetti, ma mi sto dilungando troppo troppissimo.
Quindi, bando alle ciance.
Buona lettura, e grazie di cuore!
Applepagly



Esisteva una volta una fanciulla come tante, una fanciulla che aveva grandi desideri nel cuore. Il più potente di essi era la musica.
La vedeva nel mondo e la sognava di notte; la scriveva di giorno e la ascoltava da sola. La percepiva sulle dita, scorreva leggera e fluiva dalla mente nell’aria.
Era un potere e lo volle coltivare, laddove sul suo pianeta i sognatori avevano un pregio e come tale esso veniva trattato. Volle andare in quella scuola di musici che sorgeva oltre il mare, al di là del colle dai peschi e dai ciliegi che fioriscono in un turbine di petali quando arriva il momento.
Tuttavia, la ragazza conservava anche un'altra grande bellezza a cui non aveva mai saputo dare volto finché non l’aveva conosciuta; ed essa era l’amore.
Così accadde che un tempo, quando gli alberi si riempivano di colori, ella fece lo stesso e la sua mente diede vita a melodie nuove, che mai avrebbe creduto di poter udire; ma talvolta, si sa, la forza con cui il sentimento pervade le membra da una parte non vive anche dall’altra con la medesima intensità.
Ed avvenne dunque che il suo amore non l’amò, smise presto e finse d’amarla come prima, amando alle sue spalle, amando a metà.
La seguì nel suo sogno, la seguì verso la scuola di musici; lassù, sul treno che attraversava i cieli ed i mari in un lungo viaggio; e la fanciulla sorrideva, ignara di ciò che il suo amore e la sua amata avevano ordito contro la sua felicità.
Il treno volava e ad ogni scossa la ragazza era più vicina al suo sogno; ma una fu troppo forte o forse troppo forte fu la spinta. Lei ruzzolò fuori, giù, e la sua treccia rimase impigliata tra i vetri di quella corsa della morte, come monito, come maledizione.
E per l’amore e l’amata non fu abbastanza, non fu abbastanza che la fanciulla non avesse più un viso e la treccia, e allora ne devastarono le carni e la fecero scomparire; e con lei scomparve anche quella magia che aveva in grembo, quel dono che non avrebbe mai avuto un nome ed un volto.
Di lei non vollero sapere più nulla; ma la treccia era rimasta, un segno nel vento.
Un segno di quella vita che avevano stroncato quando era radiosa e di quell’altra che avevano reciso prima che potesse vedere la luce; un segno che non avrebbe dimenticato o perdonato.
Da allora, chiunque avesse osato raccontare o ascoltare quella triste fiaba ed avesse avuto nel cuore la consapevolezza o il sentimento di aver fatto qualcosa di simile a quell’orrenda novella, sarebbe stato perseguitato dall’ombra della ragazza senza volto, dalla sua felicità senza nome.
Gli spettri del passato lo avrebbero inseguito, ed avrebbe avuto un solo modo, per liberarsene.
 
 
*
 
 
Spooks
#3 – Fading of ancient sorrows
 
 
Well I know that you’re gonna cry
Tears are runnin’ from your eyes
The piece of my life you take
Is one that so often breaks
Rainy Day, America
 
 
Se qualcuno avesse domandato ad Alan – fino a qualche mese prima, per lo meno – se gli piacessero i bambini, lui avrebbe senza esitazione risposto di sì.
Benché non avesse una gran pazienza pressoché con nessuno, aveva sempre pensato a se stesso come ad uno che un giorno l’avrebbe in qualche modo acquisita ed avrebbe fatto la parte del padre iperprotettivo; e questo sarebbe stato particolarmente vero se avesse avuto una figlia di quelle che, quando raggiungevano l’adolescenza, diventavano complicate ed insopportabili.
Un segreto per il quale si vedeva alle prese con pannolini, protezioni solari al profumo di bimbo e tutte quelle cose con cui Looma, quando erano piccoli, gli aveva trivellato la mente fino ad inculcargliele dentro. Un segreto che, ovviamente, non aveva mia condiviso con anima viva o ne sarebbe andato della sua reputazione.
Ora, invece, le circostanze e le continue apparizioni di mocciosi inquietanti lo avevano costretto a ricredersi e storcere spesso il naso quando, vagando per Magix, scorgeva da lontano qualche marmocchio pestifero.
In particolare, il fatto che a raccontare quella storiella atroce fosse stata una ragazzina lo aveva piuttosto turbato.
Sulle prime, quando si erano avvicinati a quell’enigmatica sagoma apparsa dal nulla, aveva pensato che in un’altra situazione l’avrebbe potuta scambiare per una bambina qualunque, riconoscibile più per gli abiti fuori moda che indossava, che non per particolari fattezze somatiche. Una figura avvolta da un abito azzurro, dello stesso tono di quel nastro che aveva intrecciato tra il corvino dei capelli brutalmente potati; minuta e, allo stesso tempo, dall’aria grave ed austera, che la faceva apparire più grande di quanto in realtà non fosse.
Aveva i tratti esotici di chiunque venisse da Melody, e questo aveva subito lasciato intendere come quel fantasma fosse in qualche modo legato alla leggenda che aveva raccontato Musa; l’unica vera stranezza di quel suo viso diafano, che si era resa più visibile quando l’avevano raggiunta, era la piega delle labbra.
C’era qualcosa di profondamente disturbante nel modo che aveva di corrucciarle da un lato, mentre raccontava loro la vera storia della ragazza con la treccia.
Aveva chiare difficoltà a parlare, e le parole le si srotolavano in bocca con lentezza e con fastidiosi schiocchi della lingua. Il suo sguardo, per tutto il tempo, era guizzato su ognuno di loro in una maniera che ad Alan aveva ricordato il divincolarsi di un pesce fuor d’acqua.
La sensazione di disagio, poi, era amplificata dall’ignorare per quale ragione lei avesse effettivamente deciso di parlare loro, di raccontare tutta quella storia e, soprattutto, che cosa c’entrasse lei con la medesima.
Looma era abbastanza sicura di aver visto anche la sua anima, tra le tante; ma non riusciva proprio a comprendere come avesse potuto evocarla. Se quel che aveva detto corrispondeva alla realtà, allora, tutti i tasselli avrebbero trovato il proprio posto.
Ciò che si tende a dimenticare o ad ignorare, quando si pensa al male, è che spesso quello stesso male è scaturito da altro, da una sofferenza ben più grande e profonda, che lacera l’anima e, nel caso della ragazza con la treccia, anche tutto il resto.
E non era stato lo stesso, per le Trix? L’ingiustizia della natura, rifletté Musa, aveva portato via loro l’unica bellezza che avessero mai conosciuto, e allora gli altri non avrebbero potuto usufruirne allo stesso modo.
Tuttavia… tuttavia quella volta era stata diversa; quella volta era stato qualcosa più grande di loro, a privarle del bello.
La ragazza con la treccia, invece, l’aveva perduto per una questione orribilmente umana e crudele; per un gioco di parole non dette e tramate alle sue spalle, alle spalle del suo amore. Alle spalle della concretizzazione più assoluta del sentimento che può legare due individui.
«Perché ci hai raccontato tutto questo?» intervenne Tecna, senza tanti giri di parole.
«Perché possiate capire… capire come fare…» rispose la ragazzina, con un’infinita flemma. «Perché sappiate la verità…»
«E tu? Che ruolo hai?» continuò la fata.
La bambina parve esitare per qualche istante, corrugando le labbra in quel suo modo e lasciando vagare i suoi occhi d’oltretomba tutt’intorno. «Io sono la figlia di lui e dell’amante… la ragazza con la treccia ha ucciso me per prima… io sono rimasta qui per indicare la via a chi ne ha bisogno… la via per allontanare la ragazza…»
La figlia di lui e dell’amante… l’ha uccisa per prima per contrappasso? Perché loro, togliendo di mezzo la ragazza con la treccia, hanno spezzato anche la vita del figlio che portava in grembo?
«Come facciamo, a sconfiggerla?» chiese Alan.
Ancora, la risposta giunse dopo una lunga attesa, come se nemmeno la ragazzina fosse stata certa sul da farsi. «Non si può sconfiggere… si può solo allontanare, ma la persona perseguitata deve… morire…»
Musa aggrottò la fronte, dubbiosa. «Sul serio?»
«Com’è possibile?» scosse la testa Flora.
Tecna strinse le labbra.
Per quanto poco se ne intendesse di quelle faccende, era pressoché certa di aver captato qualcosa di marcio, in quella versione dei fatti.
Lasciò scivolare una mano dietro la schiena, sfilando lentamente il cellulare dalla tasca dei pantaloni. Non poteva lasciare che quel fantasma la vedesse digitare dei tasti, altrimenti avrebbe fallito; allora si concentrò.
Le sembrò quasi di vederli, i dati che cercava. Cifre che scorrevano, che si ripetevano in un periodo senza fine che, per altri, non avrebbe avuto il minimo senso; per lei, invece, era un linguaggio più efficace di quello che si usava quotidianamente.
Lo sforzo mentale di instaurare una connessione con il dispositivo era davvero stremante ma, date le circostanze, non vi era altra soluzione. Aveva ricevuto un messaggio da Stella, che recitava “Abbiamo scoperto la verità”.
Riuscì a comporre un ultimo testo di risposta, prima che la bambina potesse scorgere, con quel suo sguardo sbilenco, ciò che la fata aveva in mano. Tecna non poté nemmeno gustare quella piccola vittoria nel veder avvalorate le proprie tesi, perché quello spettro mostrò il suo vero volto e li aggredì.
Delle sue reali fattezze non avrebbero ricordato molto; solo quell’abominio che doveva aver avuto in volto.
 
 
Anche noi. Ce l’ha raccontata la figlia di lui e della sua amante. La bambina che è stata uccisa per prima
“Non c’è nessuna figlia di lui e della sua amante, Tecna”
 
 
*
 
Non vi era stato dolore nella voce di Vesela, mentre aveva parlato; solo una nota melanconica, come se ella stessa avesse sperimentato una sofferenza simile molto tempo prima e fosse stata in grado di superarla e di guardarla con quel sorriso lontano che ora aveva sulle labbra.
Nessuno avrebbe saputo spiegare con chiarezza che genere di pensiero avesse attraversato la propria mente nel prestare ascolto a quella storia.
C’era stato chi aveva ascoltato ed aveva avvertito qualcosa torcersi nello stomaco, ma con fare involontariamente distante, in quel modo in cui si accoglie la notizia della morte di qualcuno che si conosce appena. Qualcun altro non aveva pensato proprio a nulla, aveva immaginato ogni scena e l’aveva vissuta sulla pelle con un brivido.
Qualcuno, ancora, aveva potuto leggere nel racconto la ragione di quell’ombra che lo aveva inseguito nella notte.
E dunque, in quei corridoi che prima di allora non aveva mai rinvenuto nessuno, tutto si fece più nitido e un cuore vacillò, domandandosi se tutti i dubbi e le incertezze superati con tanta fatica fossero stati poi così sciocchi come ci si era convinti all’inizio.
Sem guardava la donna che un tempo lo aveva amato, che lui aveva amato; e, quasi immerso in una visione che non avrebbe saputo definire sogno o incubo, vedeva in lei un’ombra luminosa di qualcuno che il suo cuore non aveva mai dimenticato per davvero.
Rivedeva se stesso senza quella luce; e, anche se adesso c’era un’altra luce, con lui, parlare a lei era difficile e quasi surreale. Parlare e non sapere cosa dire; o non sapere come farlo, come esprimere qualcosa che, nella mente, aveva una sua logicità per quanto confusionaria potesse esserne la disposizione.
«Perché sei qui?» le chiese, ad un certo punto.
Forse… forse un po’ lo sapeva, forse una parte di sé lo immaginava.
Il fantasma della ragazza sorrise con fare un po’ triste. Lui la guardò ancora e, nonostante quella sua forma eterea ed indescrivibile, la trovò ancora sorprendentemente bella e simile a se stessa.
Era ancora la ragazza che aveva fatto danzare nel cielo, quella mattina di tanto tempo prima.
«Non mi sono allontanata. Non per davvero, almeno» rispose, criptica. «Sono sempre rimasta qui. Avevo qualcosa da fare»
«Qualcosa da fare…» continuò lui, abbassando lo sguardo.
«Ehm… noi… forse dovremmo levare il disturbo» sussurrò Aibao a Stella.
«Ma io voglio sentire» sbuffò, dando però retta all’altro.
Si allontanarono un po’ e, prima di volgere le spalle a quella scena, la principessa rivolse un’occhiata a quei due.
Sem e Vesela non si lasciavano andare con lo sguardo, e negli occhi di lui si potevano leggere una gioia ed un dolore che la fata non aveva mai visto in nessuno e che, ancora una volta, la ancoravano a quanto di misterioso, bello e terribile ci potesse essere in quel mondo.
«Rifletti su te stesso. Troverai la risposta, Sem» le sembrò che lo spirito gli avesse sussurrato. «Volevo solo ricordati qualcosa… ciò che ti dissi, mesi e mesi fa»
Lui aveva risposto in un sussurro; forse bisbigli colpevoli.
«Non smettere di suonare. Quel racconto è diverso» gli aveva risposto.
Si scambiarono qualche altra parola che Stella, per la lontananza o per il rispetto che riscoprì in quel momento, non volle ascoltare. Colse solo ciò che Vesela disse per ultimo.
La vide muoversi appena verso di lui, come spinta da una brezza che non esisteva; lo aveva avvolto in una danza che ricordava un pallido abbraccio e si era sporta sulle sue labbra, che non avrebbero sentito quella stessa carnosità di un tempo ma, ugualmente, ne avrebbero conservato per sempre il ricordo.
«Un giorno ci ritroveremo. Allora suoneremo tutti insieme» sorrise. «Ascolterò la vostra musica, è sarà davvero bellissima»
Il ricordo di un bacio triste e leggero.
E allora la ragazza rifletté e, mentre l’altra si dissolveva e ballava nel suo sonno di pace, pensò a Brandon, a come sarebbe stato se lui fosse svanito, se la vita si fosse tenuta solo uno dei due. Lasciò vagare l’immaginazione a tutti i momenti di interminabile paura che tempo prima avevano vissuto e a quelli che sarebbero venuti; e così l’angoscia s’insinuava nel suo sorriso commosso, non incontrando alcuna opposizione.
Lasciò che qualche lacrima s’impigliasse tra le ciglia, in silenzio, non curandosi minimamente del fatto che Aibao la potesse vedere, perché non aveva importanza che vedesse in lei una sciocca femminuccia; pianse, senza sapere che quell’ultimo scambio tra i due innamorati, quell’ultima e breve melodia, aveva commosso anche lui nella medesima maniera.
Guardò Sem, ora solo al centro di quel mosaico sulle piastrelle che, poco prima, si erano illuminate di quei pochi attimi che erano rimasti di un’esistenza buona e di luce; quella era stata per lui l’ultima occasione per salutare la vecchia e bella parte di sé, per scoprirne una ancora migliore, giorno dopo giorno.
Non si sarebbe disperato, perché una delle sue più grandi qualità consisteva nell’accogliere il dolore e trarne forza per affrontare il dolore che sarebbe venuto dopo; tuttavia, sebbene Stella non avesse tatto e conoscesse il ragazzo meno di altri, poté comunque cogliere quella chiara tristezza che aveva negli occhi e che chiedeva solo di poter essere liberata.
Forse, pensò, un giorno gli avrebbe fatto bene lasciarla andare.
Bloom una volta le aveva spiegato che, sulla Terra, esisteva gente che ascoltava gli altri di professione. Qualche volta l’aveva presa in giro, perché le era parso assurdo che qualcuno venisse pagato per ascoltare; aveva detto alla fulva che, se proprio fosse stata negata come fata, avrebbe potuto considerare la carriera da “ascoltatrice”, visto che le riusciva abbastanza bene.
Forse Sem avrebbe avuto semplicemente bisogno di qualcuno che lo ascoltasse?
Brandon dice che le persone che parlano poco sono spesso quelle che avrebbero più cose da dire…
«Dovremmo… cercare gli altri. Spiegare tutto anche a loro la storia e come liberarci dello spettro» la voce dal ragazzo la risvegliò da quelle riflessioni, dura forse più del solito.
Presa alla sprovvista, non seppe cosa dire. Sdrammatizzare com’era suo uso?
Perché, all’improvviso, le sembrava di poter capire meglio tanti dettagli che non aveva mai, fino a quel momento, preso in considerazione?
«Scrivo… scrivo un messaggio a Tecna» rispose, ripresasi. «Non capisco dove possano essere, oltretutto. Avevano detto che ci saremmo trovati qui»
Attesero in un silenzio quanto mai imbarazzante, ringraziando l’intervento del volume assordante di quella stupida suoneria quando comunicò loro che l’altra fata aveva risposto.
«Dice che anche loro hanno scoperto tutto… gliel’ha raccontato…» pausò, accertandosi di aver letto correttamente. «La figlia di “lui e dell’amante”…»
«Quale figlia?» fece Aibao, perplesso.
«Infatti non…» iniziò Sem, per poi interrompersi.
Si guardarono e, senza dirsi nulla, Stella prese a digitare tasti con frenesia; ma Tecna non rispondeva, ed anche il tentativo di contattare Musa fallì miseramente.
Che cosa poteva essere successo loro?
«Perché raccontare una bugia?» rifletté la principessa. «Forse ho capito male io la storia, forse l’abbiamo capita male tutti…»
«In tre?» scosse la testa Aibao. «Dobbiamo trovarli… e se fossero stati attaccati?»
«Sì, ma a che scopo?» ragionò l’altro Specialista.
Presero a vagare per quei corridoi, con disperazione e con la crescente sensazione di trovarsi in un labirinto; ogni passo era uguale al primo, ma sempre più stanco ed angoscioso, un crescendo di panico e timore.
«Dobbiamo trovare anche Bloom. Vesela… lei mi ha indicato la via» continuò. «Forse dovremmo dividerci»
«D’accordo, però…» sospirò Stella. «Teniamoci in contatto, okay?»
Quello annuì e corse, scomparendo presto in quella fitta rete di gallerie.
Gli altri due si trovarono nuovamente soli, senza sapere che cosa dire.
Entrambi erano agitati e continuamente si domandavano che cosa ne fosse di Tecna, se la sua mente sensazionale avesse trovato un modo per salvarli da quella che, presumibilmente, era un’orribile situazione… si domandavano se Looma fosse in lacrime, come le accadeva spesso quand’era in difficoltà o in pericolo.
Forse, in quel momento, Alan stava inveendo a più non posso, forse stava insultando la bambina bugiarda dando bella mostra di un ricco lessico preso in prestito da Riven; magari Musa gli stava dando man forte, con la sua voce che si faceva sempre sentire.
Camminavano vicini, cercando con gli occhi un segno tangibile del passaggio dei loro amici lì, invano; ignari che, di tutti loro, l’unica ancora vigile fosse Flora.
Si era risvegliata grazie a dei sussurri dolci, che le erano giunti all’orecchio come non poi troppo lontani: era stata la voce della natura a parlarle, abbastanza vicina perché potesse farsi sentire. Aveva subito compreso di non trovarsi più esattamente nei sotterranei di Fonterossa, ma in prossimità di un’area dove cresceva la vita; forse, pensava, quelle gallerie risalivano in superficie, snodandosi attorno ad un tronco centrale come un petalo in volo avrebbe fatto avviluppandosi attorno alla corteccia di un albero.
La fata aveva aperto gli occhi a fatica e, sempre a fatica, era riuscita a ricordarsi per quale ragione lei e gli altri giacessero a terra; un frammento di un’immagine spaventosa saettò nella sua mente e, con infinita pena, si rese conto della fitta che la coglieva nel muovere il capo.
Il collo era dolorante, caldo, pulsava come fosse stato scorticato; sfiorandolo, apprese di aver riportato un qualche taglio di cui non si spiegava l’origine. Anche Musa, sdraiata poco più in là, riportava gli stessi segni.
Alan aveva invece una lunga ferita che faceva da cornice al suo bel viso e da cui, curiosamente, quasi non sgorgava sangue. Nell’aggredirli, evidentemente, quella bambina non aveva voluto ucciderli; o, almeno, non aveva voluto ridurli nelle stesse condizioni pietose in cui la ragazza con la treccia aveva lasciato Sem.
Allora, perché li aveva attaccati? Se aveva voluto avvertirli perché potessero essere d’aiuto ai loro amici in pericolo, perché aveva all’improvviso si era comportata esattamente come quell’anima da cui aveva cercato di metterli in guardia?
Forse, ragionò, aveva solo voluto trattenerli e guadagnare del tempo; ma a che scopo?
Con uno sforzo che non avrebbe mai ritenuto possibile, si avvicinò a ciascuno dei suoi amici, perché si svegliassero anche loro. Quanto tempo poteva essere trascorso, da che erano stati messi tutti fuori gioco?
Scrollò un po’ Looma, e lo Specialista, entrambi intontiti.
«Tecna… mi senti?» la chiamò con fermezza.
Non fu nemmeno necessario che la sfiorasse, perché quelle semplici parole furono sufficienti affinché Tecna spalancasse gli occhi e si mettesse subito in piedi.
«Le mie deduzioni erano esatte» esclamò, enigmatica.
«Spero che sia qualcosa di grosso, se parli a voce così alta…» mugugnò Musa, da poco ridestatasi. «Di che si tratta?»
«Adesso sono curiosa anch’io» intervenne da lontano la voce di Stella, come una piacevole ventata fresca che, in qualche modo – e con sommo rammarico di Alan – fece vibrare i loro cuori di allegria.
Flora le sorrise, sinceramente contenta di vederla sana e salva. La leggerezza dell’altra era sempre d’aiuto, in quei momenti.
«Ma che vi è successo? Avete delle facce orribili» proseguì la principessa, avvicinandosi. «Fatemi indovinare… è stata la “figlia di lui e dell’amante”»
Tecna sospirò, sentendosi chiamata in causa. «Chiaramente non era quella, la sua identità» sbuffò. «Avevo intuito fin dall’inizio che ci stesse raccontando una menzogna. Se davvero fosse stata chi diceva di essere, non avrebbe potuto sapere tutti quei dettagli. I suoi genitori non si sarebbero presi la briga di raccontarglieli»
«Allora non potevi dircelo prima?» borbottò Alan.
«Un momento» intervenne Flora. «Siamo certi che, una volta morti, quelli che hanno ancora qualcosa da fare non vengano a conoscenza di tutti i dettagli che li collegano alla loro morte?»
La fata della tecnologia strinse le labbra. Proprio non se ne intendeva, di quelle questioni.
«Non solo di quelli legati direttamente alla loro morte… vengono a conoscenza di tutto ciò che, in qualche modo, li accomuna ad altri che hanno vissuto una vicenda più o meno simile» spiegò Aiabo, mentre tendeva una mano verso il viso dell’altro Specialista, per curarlo.
«È… è vero» confermò Looma. «Come fai a saperlo?»
«Ce l’ha spiegato una… un’amica» sorrise Stella. «Perché non ci dite quello che la mocciosa vi ha raccontato? Così possiamo capire quanto di vero c’è»
Presero così a vagare per una landa di parole e di labirintici tratti del sotterraneo, confrontando storie altrettanto raccapriccianti nei dettagli, ma profondamente diverse nei contenuti scabrosi. Fu subito chiaro il parallelismo, allora, tra la ragazza con la treccia e la tanto compianta Vesela sebbene, in verità, le cause della dipartita delle due fossero piuttosto divergenti.
Restava, tuttavia, ancora un’incognita se la ragazzina avesse detto il vero o meno sulla possibilità di sconfiggere lo spirito che perseguitava Sem e, di riflesso, anche Bloom. Certamente aveva raggiunto il proprio obiettivo, che doveva essere stato quello di separarli dagli altri fin dall’inizio; ed ecco che il ragazzo aveva appena lasciato loro un conciso messaggio nel quale spiegava di essere finito insieme a lei non si sapeva bene dove.
«Sentite, dato che certamente non li troveremo» fece Musa, appena Stella ebbe risposto al cellulare. «che ne direste di sfondare una parete e volare fuori per cercarli? Dal momento che sono precipitati, significa che questa zona del sotterraneo è rialzata»
«La struttura potrebbe cedere, no?» rifletté Looma.
«Non se la fenditura è fatta a regola d’arte» considerò Tecna, avvicinandosi alle pareti.
In una maniera che ritenne un po’ infantile, provò quasi repulsione nell’accostare le mani a quei disegni dalle fantasie tutt’altro che rassicuranti per valutare lo spessore di ciò che la separava dal nulla della notte. Una sonda le comunicò che la proposta dell’altra era di fatto attuabile.
«Bisogna adoperare la massima cautela, però» ricordò. «Siete pronte?»
Si trasformarono e, senza perdere un attimo, Musa iniziò a canalizzare dell’energia attraverso il proprio Charmix nel mentre in cui Looma intesseva una fitta trama di stoffa attraverso sinuosi movimenti della mano.
Tecna osservò il suo operato, pronta ad intervenire al termine.
Si concesse un altro pensiero sciocco, perché non si era mai effettivamente soffermata – né aveva mai avuto motivo di farlo – sull’aria maestosa che la migliore amica di Alan emanava in quelle condizioni. Il blu dei suoi abiti era così intenso e magnetico che quasi rendeva tali i suoi grandi occhi ridenti; e nelle ali aveva una forma che ricordava la regalità di una corona.
Quali capacità si celavano, dietro a quel folletto insolitamente cupo?
«Allontanati un po’» le disse la principessa.
Stella, pur senza lo scettro e senza l’ausilio della trasformazione, tracciò la sagoma del varco che si sarebbe aperto, alla quale la rete sarebbe stata applicata; e, nel momento in cui la fata della musica liberò l’incantesimo e la sua potenza vibrò celere in direzione della parete, Tecna fu rapida ad imporre su ogni filamento parte di un codice di dati che trattenne il suono all’interno delle maglie, impedendo così che rimbombasse anche al di fuori e che mettesse a repentaglio l’intera struttura, come aveva fatto la creatura del nucleo di Fonterossa muovendosi là sotto.
Chissà che non avesse esplorato anche quelle gallerie nascoste.
La principessa, dunque, fece esplodere il sigillo che aveva dapprima tratteggiato ed il boato, ormai imbastardito dell’eco continua di quello generato da Musa, fu sufficiente perché la parete si sgretolasse come previsto; così Flora richiamò subito le uniche forze vegetali che percepiva da lì, ed alte e robuste piante crebbero alla sua parola e si arrampicarono verso di loro, verso quella frattura poco stabile.
Dietro comando, corsero lungo i margini della stessa, abbracciandola e sorreggendola da ogni parte, con ampie e spesse volute che quasi diedero vita ad una nuova e più vitale facciata, che segnava una brusca interruzione rispetto ai sinistri ghirigori della carta da parati.
«Devo ammetterlo… non me l’aspettavo» mormorò Aibao, colpito.
«Nemmeno noi» annuì Stella. «Tutto merito mio, ovviamente. Andiamo?»
«Di grazia, come credi che dovremmo fare, io ed Aiabo? Non abbiamo ali per volare» borbottò Alan, forse un po’ invidioso. «Non credo che vogliate portarci in spalla»
Flora sorrise. «Niente paura»
Lasciò una carezza lungo il liscio e massiccio fusto di uno dei rampicanti e, poco dopo, uno dei suoi simili li raggiunse. Pareva di molto più grande degli altri, alla vista.
«Oh, no» balbettò il biondo. «Non ti aspetterai che salga su quel coso»
«Vedi altre alternative?» mugugnò Musa.
«Smettila di fare la suocera e sbrigati» lo redarguì Looma, spingendolo appena verso la pianta, che si era avvicinata.
Sbuffò ancora, rassegnato.
Sicuramente scivolerò e cadrò di sotto. Va sempre a finire così.
Con una naturalezza che non gli riuscì ad imitare, vide la fata dei fiori prendere posto sul corpo solido di quel maledetto fiore che doveva essere stato geneticamente modificato, o che aveva sicuramente fatto uso di qualche integratore alimentare.
Che idee geniali che hanno, queste fatine. Sedersi su un alberello.
Aiabo gli fece cenno di affrettarsi.
Farsi scarrozzare in giro da un fuscello simile… oh, sì, proprio geniale. Forse, la lunghezza delle loro gonne è direttamente proporzionale alla grandezza dei loro cervelli.
L’unica a comprendere e condividere il suo punto di vista fu Tecna, quella santa donna che osò mettere in dubbio la robustezza di quell’affare e che si beccò pure un’occhiata esasperata.
Sarà per quello che è l’unica con dei pantaloni? Forse è un pensiero sessista. Dopotutto, anche Looma ce li ha, ma resta un po’ scema.
Allora non capisco.
Con estrema riluttanza, si posizionò accanto alla fata della tecnologia, agitato come non mai. Non di era sentito così nemmeno quando, il primo anno, aveva affrontato il test finale e per poco non ci aveva rimesso le penne come quel povero cadetto che era scomparso, Levi.
Avrei dovuto fare come voleva la nonna e pregare un po’ di più.
«Reggetevi» suggerì la fatina del pot-pourri.
Prima che Alan pronunciasse la prima sarcastica sillaba di “dove diamine dovrei reggermi?”, il rampicante iniziò la sua veloce ascesa, in un movimento che ricordò allo Specialista quello di quando ci si lasciava sospingere dalle onde del mare, nei giorni in cui era più agitato.
A Flora, invece, faceva venire in mente quella notte poco prima del Soldì, quella giostra a bordo della quale aveva capito il reale senso di ciò che la circondava; e sorrise, sussurrando alla pianta ciò che cercava e ricevendo una timida risposta non dalla pianta stessa, ma da forti fiori che riposavano più in là, e che avevano visto.
Era dunque chiara la meta; ma sarebbero arrivati in tempo?
 
*
 
Talk, talk, talk, talk
I’ve felt the coldness of my winter
I never thought it would ever go
I cursed the gloom that set upon us, ‘pon us, ‘pon us
But I know that I love you so
Oh, but I know that I love you so
Rain Song, Led Zeppelin
 
 
Mentre procedeva, si accorse che i motivi sulle pareti e sulle piastrelle si facevano sempre più indecifrabili. Presto rallentò, ed un’inspiegabile terrore lo colse nel constatare che i disegni non erano rovinati, ma diversi e, per qualche ragione, inquietanti.
Delle linee sinuose si diramavano da un unico viso che si ripeteva su ogni mattonella e che, su ognuna di esse, riproponeva sempre la stessa espressione orribile; un misto di ira e sofferenza, che lui aveva visto in quel sogno che aveva fatto prima che la ragazza con la treccia tentasse di strozzarlo.
Che cosa significavano, quei volti?
Non avrebbe più potuto convincersi in alcun modo che si trattasse di una casualità perché, in mezzo a tutte quelle vicende, aveva imparato che ciò che appariva casuale nascondeva spesso ragioni oscure dietro di sé; e quella foschia incipiente non fece altro che avvalorare la sua convinzione.
Tuttavia, non doveva lasciare che la paura avesse il sopravvento: c’era qualcuno, qualcuno di caro che aspettava e soffriva senza meritarlo; qualcuno da salvare, qualcuno che amava.
Riprese la sua corsa contro il tempo, ripensando alle parole di Vesela.
In verità, quando aveva conosciuto Bloom e si erano avvicinati, lui si era così concentrato sul volere che lei si riscoprisse, che aveva quasi dimenticato quella parte di sé che provava la sua stessa scissione: il desiderio di andare avanti e, allo stesso tempo, di non trasgredire un legame a cui entrambi avevano sentito di dover in qualche modo restare fedeli.
E quel senso di colpa lo attanagliava da giorni e giorni, e lo aveva reso più freddo e distante, senza che potesse rendersi conto del reale pensiero che aveva destato il lui un’aria più scostante del solito.
Quella storia di sofferenza lo aveva dapprima turbato più degli altri, perché la sua anima aveva tratto da essa un frammento di dolore e lo aveva fatto proprio, cosicché essa si vedesse peccatrice e colpevole, proprio come la ragazza con la treccia aveva voluto. Ed era stato l’aver vacillato nei propri sentimenti, ad aver richiamato quello spettro che adesso cercava lui, che cercava Bloom per punirli entrambi; e con loro gli amici, i complici, i dannati.
Corse e gli parve di salire sempre più, perché la strada si era fatta ripida. Si fermò; ecco l’ingresso, ecco che quel volto infernale si ripeteva grande e minaccioso, ma corroso dal tempo e, proprio per questo, ancor più raccapricciante.
Non esitò, ma strinse le dita attorno alla maniglia ed aprì la porta, in un gesto rapido ed istintivo. La stanza che gli si parò davanti era poco più che un ripostiglio dal cui buio truculento emergeva la minuta figura di quella fata forte ed addormentata.
Un’emozione nuova gli balzò nel petto, simile forse solo a quella di quando, prima del Soldì, avevano ballato insieme in silenzio; si chinò su di lei, che giaceva rannicchiata e serena. Sorrise; scostò dalla fronte di lei quelle ciocche di rame che le nascondevano le ciglia chiare e vide una cicatrice frastagliata increspare quel mare di lentiggini che riposava sotto i suoi occhi.
Aveva sofferto, doveva aver sofferto; ma certamente era stata la mano di Vesela a salvarla, perché quasi il suo tocco era ancora impresso sulla pelle di Bloom, come una carezza. La chiamò a bassa voce, forse dispiaciuto di risvegliarla da un sonno che sembrava portarle quiete.
Lei si ridestò piano, e fu piacevolmente sorpresa di vedere Sem e solo Sem, Sem che sorrideva allo stesso modo di quella foto che c’era in camera di Aibao. Per qualche istante, quasi si dimenticò di tutta quella brutta storia e fu capace di vedere soltanto la bellezza che aveva ancora in mente dalle ultime parole che aveva sentito in sogno.
«Cerbero… sei qui» trovò la forza di scherzare.
«E chi altri avrebbe potuto salvarla, una nanerottola del genere?» sospirò lui, senza smettere di sorridere.
Risero ma, in uno spasmo, Sem perse l’equilibrio proiettandosi verso di lei, verso una parete che si sfaldò come piccoli tasselli di un gioco rovinato; caddero a lungo, senza sapere che cosa stesse succedendo fino a che un morbido profumo di prato non attutì la loro caduta.
Avevano entrambi tenuto gli occhi serrati e fu quasi un miracolo pensare di poterli aprire di nuovo. Possibile che, in quei sotterranei, fosse sempre tutto così fragile?
Bloom, poi, era particolarmente confusa. Quando si era svegliata la prima volta aveva percepito attorno a sé soltanto un mobilio opprimente in una stanza infinita, quando in realtà si era trattato di un cubicolo; ed ora, a quanto pareva, quel cubicolo era sempre stato a ridosso del nulla, dell’aria.
Si mise a sedere, portandosi una mano al volto. Avvertì un leggero fastidio in prossimità della guancia e ricordò.
Chissà chi era…
«Dove… dove siamo?» sussurrò, frastornata.
Il ragazzo assottigliò lo sguardo; nella notte senza stelle fu difficile distinguere ad un palmo dal proprio naso. Sembrava che quel posto fosse come un’ampia aiuola dimenticata su una balconata di cui ancora restavano intatte le grate.
Lei si guardò attorno e apprese di essere stata salvata da dei fiori che conosceva, dei fiori che vivevano solo a quell’ora; come la bella di notte della Terra, ma forse un po’ più cupa ed accogliente.
«Credi che siano magici?» chiese, sfiorando con delicatezza qualche petalo di luna.
«Non chiederlo a me… sei tu la fata» rispose, alzandosi.
Le tese una mano, aiutandola ad issarsi in piedi.
«Non si spiega, altrimenti» continuò lei, pensierosa.
«Non credo che dovremmo preoccuparcene, per ora» considerò Sem. «Non ho idea di dove siamo. Soprattutto, non ho idea di come tornare indietro… dubito che tu sia abbastanza in forze per portarci tutti e due»
Bloom annuì e si allontanò un po’, muovendosi silenziosa fino a sporgersi un poco oltre la balconata che, vide, li separava da uno strapiombo senza fine. Tremò, un po’ per l’aria gelida di quella fredda notte primaverile che giungeva al termine, e un po’ per le sequenze che non avevano mai, da che si era svegliata, smesso di vorticarle in mente.
«Sai… prima che tu mi trovassi mi sono svegliata. Qualcuno mi ha curata… non so chi fosse» iniziò lei. «Prima di svegliarmi ho fatto un sogno in cui c’era Icy che faceva lo stesso gesto della figura che ho visto dopo»
Anche se, a pensarci bene, Icy mi curerebbe solo se fosse buona, dolce e non si chiamasse Icy…
«Poi mi sono riaddormentata e l’ho vista di nuovo. Icy, intendo» proseguì, facendo mente locale delle immagini fugaci che si erano susseguite in quel sogno. «C’era una bambina, con lei… era un po’ inquietante. Era vestita come una bambolina, tutta d’azzurro. Non so perché, ma vivevano in una città in cui erano tutti morti o malfamati e loro due giocavano sotto il portico di una chiesetta. Facevano un gioco strano»
Sem s’irrigidì, non riuscendo a non pensare a quel messaggio che Stella aveva ricevuto da Tecna. «Pettinavano delle bambole e si raccontavano il modo in cui le loro madri erano morte» disse ancora Bloom.
«E come… com’erano morte? Com’era morta, la madre dell’altra bambina?» deglutì lui.
«Qualcuno l’aveva uccisa. Se non ricordo male, quando la bambina era appena nata, sua madre era stata assassinata da… beh, da suo padre» raccontò. «Da suo padre e dall’amante»
Seguirono attimi di silenzio, in cui la fata non fece altro che domandarsi quale fosse il legame tra il sogno e la realtà mentre, al contrario, Sem non aveva alcun dubbio.
«Che cos’altro succedeva?» le chiese.
«Non sono sicura… Icy mi parlava. Mi diceva di stare attenta a quella bambina, perché era morta anche lei» spiegò. «Diceva che, da dove viene lei, chi muore di morte violenta vuole che anche gli altri muoiano così. Forse non dovrei pensarci troppo, però… era solo un sogno, giusto?»
«Bloom…» mormorò lui. «Sei più vicina alla verità di quanto tu possa pensare»
«Che… che cosa vuoi dire?»
Sem sospirò, stanco. Era arrivato il momento di riferirle ciò che Vesela aveva raccontato loro, per quanto orribile potesse essere.
«Prima dobbiamo contattare Stella. Spero che abbia trovato gli altri» continuò il ragazzo.
«Li avete… persi di vista?» chiese lei, sospirando.
«Sì. Ti stavano cercando» replicò, digitando i tasti del cellulare con agitazione.
La fata sospirò ancora. Quella figura che l’aveva salvata aveva detto il vero; eppure, era sempre abbastanza difficile accettare che qualcuno fosse costantemente in apprensione per lei.
«Forse sono io, ad avere qualcosa che non va. Voglio dire, prima che arrivassi ad Alfea stavano sempre tutti bene e le Trix non avrebbero mai trovato la Fiamma del Drago, se fossi rimasta sulla Terra… così i nuclei delle scuole non si sarebbero mai risvegliati, no? E adesso ho combinato un disastro senza nemmeno che c’entrasse il potere che mi trascino fin dalla nascita» rifletté. «Insomma… da quando ci sono io succede sempre qualcosa di male, in un modo o nell’altro. Anche a te»
Sem, che all’inizio non aveva prestato molta attenzione al discorso perché troppo impegnato, colse strascichi di ciò che aveva detto per ultimo. Alzò lo sguardo, incerto.
«Insomma… se me ne fossi rimasta a Gardenia, forse, le Trix non avrebbero mai pensato di poter usare la mia magia per i loro scopi, non avrebbero mai cercato il talismano e quindi non ci sarebbe stata alcuna battaglia» continuò. «E lei… Vesela… sarebbe ancora viva. Invece, le cose non stanno così ed ora c’è addirittura uno spettro che ti perseguita»
Improvvisamente fu tutto chiaro. Lui sbuffò, scuotendo la testa.
Si ricordò delle ultime parole del fantasma di lei e, ancora una volta, pensò a quanto Bloom potesse essere sciocca. A quanto potessero essere sciocchi entrambi.
«Talvolta sei stupida, lo sai?» commentò, avvicinandosi.
«Cos’è, hai dato retta a tuo fratello e ti sei lasciato persuadere?» rispose la ragazza, inviperita. «Io ti dico quello che penso e tu-»
«Anche io sono stupido» la anticipò.
«Sono d’accordo, ma mi piacerebbe molto ascoltare i motivi per cui tu credi di essere stupido» fece, incrociando le braccia. «Sono tutt’orecchi»
Sem sospirò, inginocchiandosi e mettendosi nuovamente seduto tra i fiori.
«Non facciamo altro che sentirci colpevoli, vero? Anche quando la colpa non è davvero nostra…» s’interruppe. «È per questo, che lo spettro ci perseguita»
«Non capisco…» mormorò Bloom.
«La bambina che tu hai visto giocare con Icy… la bambina morta, cioè» iniziò. «Sua madre… è stata davvero assassinata nel modo in cui ti è stato descritto: da suo padre e dall’amante di lui. Ciò che non sai, però, è che la ragazzina stessa è stata uccisa dalle medesime persone»
«E questo vorrebbe dire che-»
«La ragazzina è stata uccisa dal padre e dalla sua amante, sì» continuò. «Ma non nel mondo in cui hanno tolto di mezzo la madre»
«Mi stai dicendo che sua madre era la ragazza con la treccia?» ragionò, dubbiosa.
Lui scosse la testa. «Non sua madre. È la bambina, ad essere la ragazza con la treccia»
La ragazza sgranò gli occhi, sconvolta.
«La leggenda di Melody è stata obliata con il tempo, e nessuno sa più la verità. Nessuno voleva ricordarsi la storia atroce di una ragazzina spinta da un treno e fatta a pezzi» spiegò, non trovando parole meno dirette e crude. «La storia di come nessuno l’avesse mai amata perché frutto di un amore che era d’ostacolo ad un altro»
Bloom, disorientata più che mai, non riuscì a formulare nessun pensiero che avesse un senso logico. «Ma… perché?» fu tutto quel che riuscì a dire.
«Non ha più… alcuna importanza…»
Un rantolo come annuncio; ed ecco la bambina vestita d’azzurro, la bambina con i nastri intrecciati tra i capelli mozzati e dallo sguardo che guizzava, quella che nel sogno pettinava una bambola dalla lunghissima chioma come la pece.
Ecco la ragazza con la treccia, la ragazza con il corpo di ragazzina ed il viso di donna, poi di vecchia ed infine di una smorfia di odio, di brama di vendetta. «Non ha più… alcuna… importanza…» ripeté, a fatica.
Stette lì, in piedi e ricurva su di sé, con le braccia che ciondolavano spente lungo i fianchi. Vedeva quei due, quei due traditori infami di un’anima simile a sé; lì vedeva vicini in un gesto di cui non ricordava il nome, ansioso, che la fece ribollire di odio – lei la serpe rossa tentatrice, lui lo stolto di ghiaccio che si era lasciato sciogliere dalle spire di quel mostro dallo sguardo sperduto.
«Sperduto…» sibilò, per poi ridere.
Per il resto dei propri giorni, Sem avrebbe ricordato quella risata in ogni momento di tristezza e solitudine, in ogni momento di smarrimento; una risata di una voce pazza che singhiozzava ed annaspava in continuazione, che ballava come i suoi occhi sbilenchi e le sue occhiate di sbieco, perforanti.
Tremava, stringeva convulsamente le nocche e rideva, rideva quale la folle che era, che era diventata; ma non era ancora tutto, non era ancora la vera se stessa e lui lo sapeva, aveva visto ciò che era in realtà e, per quanto non potesse ricordarlo con certezza, sapeva quanto fosse spaventoso.
«Perduto…» biascicò, avanzando di un passo verso quei due patetici vermi che avevano cercato di sfuggirle a più riprese, che avevano osato infangarne il nome e la memoria senza sapere. «Io ho… perduto il mio volto… la mia treccia…»
Si mosse ancora, ridendo di nuovo, ma questa volta tristemente. «Ho perduto… la mia magia… la mia… musica…» rise. «Il mio… amore…»
Si fermò, inchiodata al terreno, corrugando le labbra. Come un automa, sfiorò i capelli con le dita, e questi crebbero quasi per incanto.
Aprì la bocca e, prima che gridasse, Bloom si accorse che non aveva né denti né lingua.
E riaprì gli occhi dopo averli serrati d’istinto, ed il suo cuore ricordò tutto: la treccia avvolta attorno al collo, la treccia che l’aveva trascinata via in quel cubicolo delle allucinazioni; ricordò le sue unghie che le laceravano le carni e le artigliavano il volto, mentre i suoi strilli acuti la intrappolavano in un incubo di ricordi di una sofferenza antica quanto quegli abiti che la ragazza aveva indosso da secoli.
Sì, ora ricordava di aver visto la verità nel sogno: Icy gliel’aveva mostrata per un attimo attraverso la purezza cristallina delle sue iridi, in cui si era riflessa la storia di una donna che aveva amato e che aveva creduto di essere amata, che era stata assassinata e che era nata di nuovo in quel corpo a cui aveva dato la vita e che, ugualmente, le era stato strappato un’altra volta e dalle stesse mani.
Quel che nessuno sapeva, quel segreto che la ragazza con la treccia nascondeva sulla propria origine, sulla propria nascita; ecco che riaffiorava tutto, con chiarezza.
Non respirava più, perché avvertiva attorno al collo la morsa del dolore di lei e del senso di colpa che non aveva mai davvero abbandonato Bloom stessa; e tutte le battaglie precedenti, le memorie di coloro che avevano sofferto a causa sua si accalcarono nella mente e le urlarono parole indicibili, arrabbiate.
Tuttavia, mentre la coscienza volava via, in un riflesso di lucidità vide Sem che soffriva e che scrollava la ragazza con la treccia, che l’implorava e spendeva ogni briciolo di forza che aveva in corpo per lei; e, forse, forse questa volta non avevano davvero nessuna colpa. Forse… forse, per una volta, i mali di qualcuno non dipendevano da loro, da lei.
Qualcuno aveva reso quell’anima quel che era; l’ingiustizia, la crudeltà. Era colpa, di nuovo, della Fiamma del Drago, perché l’aveva creata? Era colpa della Fiamma, se esisteva il dolore?
Oppure… oppure le cose stavano diversamente? Si ricordò dei nuclei, di quegli spiriti che erano stati incatenati lì e che non avevano avuto scelta; e apprese che non era lo stesso, che quelle essenze che camminavano sulla terra, volavano tra i cieli e si libravano sotto le onde compiendo meraviglie di magia avevano una libertà che le creature dei cuori delle scuole non avevano mai avuto.
Allora quell’uomo e quella donna, che avevano ucciso la ragazza con la treccia ed i suoi sogni – il suo amore – per ben due volte, sempre per ben due volte avevano avuto la possibilità di una scelta che non avevano mai rinnegato per volontà propria; e quella vendetta che si leggeva nella rabbia dello spettro altro non era che un disperato desiderio di capire perché fosse andata in quel modo e perché continuasse a farlo.
Allora doveva aver iniziato ad inseguire che sapeva di lei e, in cuor suo, aveva almeno una volta provato un senso di colpevolezza dovuto a vicende a quelle di lei affini, senza sapere che lo fossero; ed aveva inseguito loro due così, allo scopo di vendicarsi e di far piangere loro del sangue che non l’avrebbe saziata comunque e che l’avrebbe spinta a cercarne dell’altro, in un ciclo inestinguibile.
Morire sarebbe equivalso ad allontanarla; ma non poteva, non doveva essere l’unica via.
Sem lo sapeva, lo aveva visto nelle parole di Vesela; ma non riusciva a mostrarlo alla ragazza con la treccia, perché ormai non vi era più parte del suo cuore che non fosse stata divorata dall’odio nel tempo, ed era sorda. Leggeva la rivelazione nello sguardo quasi spento di Bloom, senza sapere come fare per salvarla, per liberarla.
Poi, come colto da un brivido, realizzò tutto quanto e ripensò a quelle volte che, gli era stato detto, quella ragazzetta ficcanaso aveva saputo farsi da parte ed anteporre la necessità di ascoltare a quella di combattere. Rivide il racconto di come fosse riuscita non a liberarsi, ma a liberare attraverso l’ascolto e la parola, la pietà e la comprensione; e decise di tentare con un ultimo sforzo di bontà.
La ragazza con la treccia ora rideva e singhiozzava sempre più forte, mentre dalle orbite spalancate colava tutto il nero della sua anima affamata del dolore di quell’insulsa vittima che teneva tra le proprie tenaglie nere; non si aspettava certo quella strana novità che prese a pervaderle il petto quando lui, lo stolto di ghiaccio, decise di sciogliersi non per le spire della serpe rossa, ma per il calore che emanava quel drago che ora la guardava con quegli occhi d’acqua.
Lui, lo stolto di ghiaccio, l’avvolgeva in quello strano modo in cui l’aveva visto avvolgere il drago; una sensazione insolita, curiosa, che mai aveva davvero vissuto. Neppure quando ricordava di essere stata adulta e bambina ed aveva creduto di essere amata: perché non era mai stato amore vero fino a quel momento, fino a quel momento in cui apprese per la prima volta che cosa fosse l’affetto.
Ricordò il nome di quel gesto, l’abbraccio; pianse, ma non più di nero. Lo stolto di ghiaccio sciolto profumava di quell’emozione sconosciuta ed indefinibile, che forse era un po’ gioia, forse un po’ di paura e di qualcos’altro che non sapeva più come si chiamasse.
Lasciò andare il drago, imbrigliata dalla sua maestosa bontà, e scorse nei suoi colori ogni errore scuro che aveva commesso. Rivide un frammento di sé infante, una voce di madre che le raccontava dei draghi che volavano per i cieli della scuola di musici, tra i peschi ed i ciliegi che respiravano i sospiri di quelle creature; lo rivide in quella creatura bellissima che ora l’abbracciava insieme al ragazzo di ghiaccio fondendosi in lui.
Chiese allora perdono per tutti quei volti, quelle trecce, le magie, le musiche e gli amori che aveva stroncato; e nel perdono vide una meraviglia che l’accompagnò in quegli istanti in cui si sentì, finalmente, libera e serena.
Scorse da lontano altre anime vicine al drago ed al ragazzo, altre anime che aveva tormentato; sorrise sincera a quella fanciulla che aveva già incontrato tante volte senza che lei lo sapesse, e la ringraziò, li ringraziò tutti.
Mentre chiudeva gli occhi ebbe come l’impressione che la treccia si fosse disciolta in tante ciocche sottili; le parve di intravvederle piegarsi leggere alla brezza, mentre il nastro azzurro che le aveva tenute intrecciate volare lontano.
 
*
 
«Quindi state dicendo che c’era effettivamente qualcosa che vi perseguitava?» ripeté Brandon, sbigottito. «Perché non ci avete svegliati?»
«Sì, come no. Saremmo dovuti venire lì e dire: “Brandon, ragazzi, c’è uno spettro che ha cercato di strozzare un po’ tutti con una treccia; perché non venite a farvi strozzare anche voi?”» replicò Musa. «Ti pare?»
«Lo sapevo che avrebbe cercato di strozzarti» sussurrò Riven ad Alan.
«Sta’ zitto, corvaccio della malora» borbottò il diretto interessato. «Sono l’unico della combriccola per il quale il trattamento è stato sostituito con un affresco sulla mia faccia»
L’altro si strinse nelle spalle. «Sarà stata così brutta, in quel momento, che le avrà fatto venire lo schifo. D’altronde, aveva già la luna storta»
«Se siamo ancora tutti vivi, allora, dobbiamo esserti grato per non esserti mostrato» replicò. «Avrebbe fatto implodere questo mondo»
«Potreste finirla di litigare come due ragazzini?» sospirò Helia.
«Non dire quella parola. Da questo momento in poi, dichiaro bandita qualsiasi parola come “bambino”, “ragazzino”, “moccioso” e quant’altro» fece Alan, buttandosi sul proprio letto con l’intenzione di non alzarsi mai più. «Non voglio più saperne. E non voglio neanche più saperne di piante. Ho ancora il mal di mare»
Risero un po’, sereni.
Timmy, benché fosse ormai l’alba e non facesse più così freddo, era di nuovo avvolto nel suo bozzolo di coperte, sebbene ne avesse gentilmente concessa una a Flora. «Forse non dovremmo più raccontarle, quelle storie» suggerì il ragazzo. «A meno che non vi sia una documentazione storica dietro, ecco»
«Sono più che a favore dell’idea di non cimentarci mai più in racconti dell’orrore» annuì Tecna, osservando il cielo oltre alla finestra. «Ed anche di non ritrovarci più là sotto. Per dirla come la direste voi… mi mette i brividi»
Sorrise, contenta che nessuno potesse vederla poiché di spalle. In verità – anche se non lo avrebbe ammesso nemmeno se ne fosse andato della sua esistenza – era stata un’esperienza emozionante, nel bene e nel male.
Si prospettava una giornata luminosa all’orizzonte, annunciata dalle calde striature di celeste di cui si tingeva il pallore delle prime ore di quella mattinata; e fu improvvisamente contenta di trovarsi lì, con loro.
Con i suoi amici.
«Nah… basta semplicemente che la smettiamo tutti di farci pippe mentali» minimizzò Stella. «A proposito di pippe mentali… dove sono pippa rossa e pippa antipatica?»
«Si chiamano “tappetta insopportabile” e “povero Sem”» la informò Alan, abbracciato al cuscino. «Se proprio devi, esprimiti con una certa proprietà di linguaggio»
La principessa sbuffò, scocciata. Looma, lì accanto, si guardò intorno e rinvenne una perfetta arma del delitto con cui colpire quella portinaia inacidita del suo migliore amico. La cuscinata fu così sonora e vigorosa che quasi tutti si aspettarono di vedere qualche piuma svolazzare per la stanza. «Tu non esprimerti proprio, megera!»
«Sei una traditrice» l’accusò.
«Oh, vi prego… basta storie di tradimenti» disse Aibao, con tono supplice. «Altrimenti compare qualche altro fantasma a perseguitare noi, o quei due»
«Ma quanto ci mettono? Vorrei tornarmene ad Alfea» sbraitò Stella, affacciandosi alla finestra, accanto a Tecna, cercando invano la sua migliore amica e la statua ambulante con lei.
«Mi spiace ricordartelo, Stellina, ma è colpa tua se siete qui» dovette ricordarle Brandon. «E poi, lasciali in pace. Non lo vedi che sono a sbaciucchiarsi, finalmente?»
Un altro “che cosa?” – di intensità pari solo a quella del “che cosa?” pronunciato quella notte, al telefono – risuonò per la camera, otturando le orecchie dei presenti.
«Che ti aspettavi?» rise Alan. «Lei si sarà fatta le solite pippe mentali e lui avrà deciso di farla tacere, una buona volta»
 
 
Moats and boats, and waterfalls,
Alleways, and payphone calls
I been everywhere with you (that’s true)
Home, Edwars Sharpe And The Magnetic Zeros

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3757700