No Fun

di Kiki Daikiri
(/viewuser.php?uid=46873)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I - Belsen Was A Gas ***
Capitolo 2: *** Capitolo II - Avete mai la sensazione di essere stati ingannati? ***
Capitolo 3: *** Capitolo III - No fun, my babe, no fun. - Ultimo capitolo. ***



Capitolo 1
*** Capitolo I - Belsen Was A Gas ***


Note: Questa FF è di soli tre capitoli, ispirata ai fatti accaduti prima, dopo e durante l'ultimo concerto dei Sex Pistols (Stadio Winterland di San Francisco, 14.01.1978); mi sono permessa di reinterpretare la cosa, perchè i fatti originali avrebbero visto semplicemente la partenza di John per l'Inghilterra, il ricovero di Sid e la rottura del gruppo.
Malcolm McLaren è il manager dei Sex, nonché co-proprietario con la Westwood del negozio su King's Road, Tiberi è realmente esistito e faceva parte dell'entourage dei Pistols, Sid Vicious fu sottoposto ad agopuntura da lui, mentre John Lydon (aka Rotten) partiva per l'UK. Nella storia, il punto di vista è quello alternato di Sid e John.


No fun without you.
Prologo
Ci trovarono entrambi morti, quando entrarono nella stanza di motel che ci avevano affibbiato. Faceva schifo, era lurida, era marcia. Pessima.
Noi li guardammo senza in realtà vederli, mentre ci portavano via di lì per recarci chissà dove, non ricordo, non ci chiesero spiegazioni, diedero tutto per scontato.
Stemmo vicini per tutto il tragitto in limousine, una limousine che ormai era giunto il momento di restituire, semmai non ce l’avessero sottratta da sotto i sederi mentre stavamo per strada.
Era giunta la nostra fine, la fine della nostra pazzesca storia, la fine dei Sex Pistols. Sentivo il mio cervello lontano, come se fosse rimasto incatenato a quel motel di San Francisco.
Più consumavamo strada, più i miei pensieri venivano strappati via, ed io rimanevo come un vegetale sradicato, fermo, pallido, emaciato.
Sentivo il calore della sua spalla contro la mia, ma Sid non mi vedeva. Non vedevamo più nulla, eravamo vuoti e morti. Non vedevamo più nessuno, né noi stessi né il mondo che ci circondava. Non c’era nessun futuro, nessun futuro. Non era divertente.
No fun, my babe, no fun.
 
Capitolo I
Belsen was a gas.
 
Non eravamo in vacanza, si trattava di lavoro lavoro lavoro. Non credevo sarebbe diventato un lavoro, quello di suonare nella mia band preferita. Non doveva essere un lavoro, non avrebbe dovuto essere un lavoro.
Tutto il tour era stato un vero disastro, uno schifo indicibile, per cui ci avevano privato della maggior parte degli attrezzisti e gente varia.
Ero una star del rock’n’roll internazionale, eppure mi spostavo con il basso in spalla, come avrei fatto quasi due anni prima, camminando per King’s Road.
Cook e Jones stavano sempre più in disparte, tra di loro, fatto a cui ci eravamo tutti un po’ abituati. Spesso si parlava di separazione, ma il gruppo aveva ancora troppe cose in ballo per poterci dividere: dopo la data a San Francisco, nel giro di nemmeno un mese, sarebbe iniziata un’altra turnée in Svezia.
Chi mi preoccupava davvero, ad essere sincero, era John.
Camminava sempre più chino, più gobbo, con lo sguardo rabbuiato e un sacco di lamentele sempre in bocca. Mi chiedevo davvero cosa stesse succedendo a tutti noi, cosa stessimo combinando.
«Signor McLaren, dopo il disastro a Dallas, credete che il gruppo riuscirà a conquistare San Francisco?» la cronista spingeva il microfono verso la bocca di Malcolm, quasi fino a farglielo leccare, ma lui si rifiutò di rispondere ad ogni domanda, mentre varcavamo le porte del MiYako Hotel.
Gli americani avevano due opinioni totalmente opposte sui Sex Pistols: o li amavano, o li odiavano a morte.
Alcuni di quegli zotici avrebbero voluto vederci morire in un lago di sangue, avrebbero voluto farci fuori con le loro mani. Più ci addentravamo nella logica americana, più questo ci appariva chiaro.
Vedevo John soffrire dell’intera situazione, dei concerti che erano stati cancellati, delle bugie che venivano dette sul nostro conto, anche dai nostri stessi impresari.
Era stressante, se non trovavi qualcosa a cui aggrapparti.
Io qualcosa avevo, avevo l’alcol, e, si, avevo anche Nancy ad aspettarmi in Inghilterra.
Improvvisamente, mi sentii assalire da un’ondata di malinconia e di straziante malessere fisico, era parecchio che non stavo così male.
John se ne accorse, ma non disse nulla, era troppo occupato a litigare con Malcolm, il quale ci stava informando con fin troppo garbo che non c’erano stanze per me, in quell’albergo. Il direttore non mi voleva: la mia trista fama mi aveva preceduto anche lì.
Estremamente scocciato, John l’aveva ricoperto di insulti, per poi afferrarmi malamente per un braccio e trascinarmi fuori, accompagnati da due guardie del corpo.
John mi odiava per il fatto della droga, io l’avevo ormai capito, ma eravamo grandi amici sin dai tempi della scuola, sapevo che non mi avrebbe mai abbandonato.
«Stammi lontano, non mi va di parlare con te.» «Lasciami in pace Sid, non abbiamo nulla a che spartire» «Malcolm, non intendo viaggiare con Sid Vicious.» Erano queste le cose che diceva, sempre più spesso.
Parlava così, ma era sempre lui a prendersi i miei sputi in faccia, quando rimaneva chiuso in una stanza con me per intere giornate, durante le disintossicazioni e le conseguenti crisi d’astinenza.
«Senti, Malcolm non ci vuole qui, e tu devi essere in grado almeno di stare in piedi domani…»mi rimproverò, quando fummo su un devastatissimo camioncino in compagnia delle guardie del corpo e dei roadies.
Quando John mi sgridava, il suo sguardo si ammorbidiva sempre. Faceva uno strano effetto: più era arrabbiato, più lo sguardo duro da psicopatico scivolava via dal suo volto contorto, dalla mascella serrata nelle più grottesche smorfie, fino a lasciare lì, di fronte a me, il timidissimo ragazzino irlandese emaciato e gobbo che avevo conosciuto nella mia primissima adolescenza.
Non so come accadesse, forse, semplicemente, John non amava imporsi su di me, oppure non si sentiva nella posizione di consigliare chiunque, o, più probabilmente, io non stavo deludendo Johnny Rotten, stavo deludendo il ragazzino conosciuto a Finsbury Park.
Annuii senza dire una parola, totalmente immerso nella valanga di pensieri negativi che il malessere e quel senso di colpa mi stavano insediando nel cervello da ormai parecchi giorni.
Con il basso in spalla e senza guardie del corpo, che avevano deciso di aver concluso con l’incarico, ci arrampicammo su una rampa di scale scivolosa ed angusta, su, fino al secondo piano del Motel San José, un posto squallido e terribile, ma un posto dove ci volevano.
Avevamo pochi soldi, così si decise per dividere una stanza, anche se l’idea non faceva di certo piacere a John.
 
Quella stessa mattina, ci avevano portati a fare una breve sosta in uno di quei locali per camionisti, lungo la strada. Io e Sid amavamo quei posti, ci entusiasmavano. Li trovavamo deliziosamente disgustosi ed erano pieni di CowBoys terribili, di cui Sid amava copiare l’abbigliamento. Non appena cambiavamo città, bang, Sid si andava a comprare degli stivali da rodeo o un cappello, così da poter assomigliare a quei tizi. Aveva già una giacca di pelle. Era veramente terribile, terribile.
A San Francisco, in uno di questi posti, ordinammo della birra a colazione, poiché non avevamo dormito e per noi il senso del tempo era diventato un contro-senso. Inutile seguire una serie di abitudini, se estrapolate dal contesto.
Ordinammo queste birre, e Sid si mise a berciare con un tipo ubriaco -mi ricordò molto la situazione del Bill Grundy Show- e, per irritarlo ancora di più, prese a canticchiare Belsen Was a Gas. Già per un europeo era a dir poco inaccettabile ed oscena, quella canzone, ma cantata ad un americano ubriaco, gli effetti furono quelli che furono.
Potete immaginare cosa potesse significare fare a botte con un motociclista di quel genere, in un locale pieno gremito di suoi simili. In un attimo, ci furono tutti addosso. Sid cerco di defilarsi, come faceva sempre, ma, quando ebbe capito che ormai eravamo dentro fino al collo, afferrò una sedia e la fracassò in testa ad uno di quei bastardi. Io avevo iniziato a fare rissa già dal primo minuto, non perché mi piacesse, ma perché odiavo la situazione in generale e provavo piacere nel poter sfogare queste acidità. Steve e Cook si unirono ben presto alla caciara, nella maniera più violenta possibile, come loro solito: in particolare Steve cercava sempre di sottomettere il pubblico durante i nostri concerti, sfidandolo a muso duro ed istigando risse epocali, perciò non gli sembrava proprio vero di avere l’opportunità, finalmente, di pestare qualcuno con diritto.
«CowBoy del cazzo!» sentii strillare Sid, spaccando l’ennesima sedia in testa a qualcuno, il quale cadde riverso sul pavimento, trascinandosi dietro la mia disgrazia. Mentre mi impegnavo per scansare l’ennesimo cazzotto, vidi Sid rotolare sul proprio avversario.
Era incredibile, pensai, come quel ragazzo alto ed allampanato, vagamente sottopeso, riuscisse a tenere testa senza troppa difficoltà ad un uomo che sarà pesato su per giù due volte lui. Cosa poteva dargli tutta quell’energia? Io avevo la rabbia, Steve aveva un’infanzia di violenze da espiare, Paul era semplicemente un bonaccione, ma Sid? Cosa spingeva Sid, un ragazzo intelligente, buono e ingenuo ad essere così violento?
Poi un fulmine mi attraversò il cervello, proprio nell’istante in cui un orrido individuo gli fracassava sulla faccia un boccale vuoto di birra, in un’esplosione di sangue. La droga, era la droga a dargli quell’energia innaturale. Sentii la nausea strizzarmi le viscere, mentre la rissa scemava ed io barcollavo verso un Sid Vicious delirante e straziato, che menava ancora fendenti come se non si fosse affatto accorto di avere la faccia irrorata della sua stessa linfa vitale.
Ero abbastanza abituato, oramai, ad asciugare il sangue che gli colava giù, lungo il mento. Capitava spesso e non mi preoccupava affatto: per quanto mi divertissi assieme a lui, io desideravo davvero che Sid morisse.
Lo pensavo così spesso, con tanta rabbia, che mi auto convinsi che fosse così, che io odiassi davvero Sid.
È triste, davvero triste non riuscire ad essere sinceri con se stessi, quando con gli altri sono in assoluto la persona più onesta che esista su questo lerciume di pianeta.
«Cazzo, fottuto, bastardo.» biascicò Sid, scostando la mia mano con delicatezza e passando rudemente la sua sul labbro ferito. «Cazzo.» sputò a terra un grume di sangue arancionastro.
«Andiamo, prima che si risvegli.» osservai, notando che l’uomo a terra si stava muovendo, soccorso malamente da uno degli uomini ancora interessati, mentre il resto della banda si era già ricomposta, per ricominciare a bere.
Il gioco è bello finché dura poco.
 
John era fantastico, sapeva trasformarsi da ragazzino dall’aspetto bislacco ma quasi innocuo in un’arma letale. Davvero, mi faceva impressione. Ero io quello che si cacciava sempre nei guai, ero io che cercavo sempre qualcuno con cui fare a botte, anche se poi tendevo a tirarmi indietro. Avevo una gran paura del dolore, prima di conoscere Nancy, ero un codardo. Fu dopo, dopo la droga e dopo Nancy che compresi quanto poco valesse la mia salute. Vivere o morire, per cosa? Nulla, niente, nessuna importanza. L’importante era fare ciò che mi andava di fare e farlo a modo mio.
John no, lui non amava cercare lo scontro fisico, lui era una mitraglia verbale, lui sapeva sfidare, affrontare e sotterrare una persona con le sole parole ed un decimo della fatica che facevo io per prendere a schiaffi una di quelle facce barbute. Eppure era lì, a pochi metri da me, pronto a vincere una rissa al mio fianco. Nonostante mi odiasse, nonostante non riuscisse più nemmeno a guardarmi in faccia senza provare disgusto –sentimento estremamente visibile sul suo volto così espressivo-, nonostante non provasse più nessun sentimento nei miei confronti. Un uomo mi si avvicinò, credo fosse il barista, ma non ci feci caso, mi disse che voleva che ce ne andassimo. Era stranamente calmo e gentile. Presi una sedie e gliela ruppi in testa, beandomi del rumore sordo che fece il suo corpo afflosciandosi a terra. Ma non mi sentivo meglio, mi sentivo solo molto più furioso.
«CowBoy del cazzo!» cominciai a strillare, atterrandone un altro e poi un altro, finché uno non mi tirò giù con sé.
Mentre provavo a difendermi, tirandomi contemporaneamente su, qualcuno mi colpì in faccia con qualcosa. I ricordi di ciò che accadde dopo sono confusi, ma so che non mi fermai. Non sentivo dolore, non avevo paura, non provavo nulla se non il cieco desiderio di uccidere. Uccidere me stesso.
Pochi secondi dopo mi trovavo appeso ad un braccio di Cook, mentre John mi passava una mano sulle labbra e sul mento. La sua mano.
Improvvisamente mi sembrò di fuoco, cinque lunghe e strette lingue di fuoco che lambivano la mia carne scoperta e vulnerabile, le spostai, poi il dolore giunse tutto d’un colpo.
Attraverso le pupille sporche di sangue, potevo vedere il volto di John a pochi millimetri dal mio, il suo volto indifferente, gelido e tagliente come i versi delle canzoni che scriveva. Sembrava cattivo, sembrava distaccato allo stesso tempo. Come se non gli importasse nulla, mi fece cenno di muovermi e disse qualcosa che io non capii.
Imprecando e sputando, uscimmo dal locale.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo II - Avete mai la sensazione di essere stati ingannati? ***


Capitolo II
Avete mai la sensazione di essere stati ingannati?.
 
Il concerto doveva svolgersi al Winterland di San Francisco, uno stadio enorme e dall’acustica pessima. Le premesse per il concerto erano già di per sé terribili, figurarsi con Steve e Paul che estraniavano me e Sid sempre più, Sid che a momenti faceva fatica a reggersi in piedi ed io, bhé, io semplicemente non volevo essere lì.
Credo che il pubblico se ne accorse, già dalla prima canzone. Iniziai come al solito, in una sequela di sguardi e movimenti robotici, ma, piano piano, io per primo sentivo l’energia svanire, lasciando il posto ad un indicibile malinconia. Non era raro che successe, era raro che accadesse mentre stavo sul palco, durante una mia performance. Quello si.
Mi sforzai di ingoiare il grumo di bile che mi si stava formando in cima alla gola, concentrandomi sui difetti degli altri, la cosa che più in assoluto mi divertiva, durante i live. C’era una coppia di ragazzine vestite con un sacchetto dell’immondizia ed i capelli colorati di verde, erano in prima fila.
Li avevo avuti verdi anche io, i capelli, ai tempi della scuola statale.
Fu allora che conobbi Sid, fu allora che cominciammo a frequentare Sex, a King’s Road. Ripensandoci, sembrava essere passata una vita intera, quando si trattava appena di due anni prima. È incredibile quante cose possono accadere in due anni, quanto le persone possono cambiare, quanto ogni situazione possa degenerare.
Posai distrattamente lo sguardo su Sid, per appena qualche secondo, il tempo che mi bastò per sentirmi sopraffare di nuovo da quel senso di nausea, di ineluttabilità e di sconfitta.
Stava suonando da quasi mezz’ora, e ancora non si era accorto del fatto che Steve gli avesse staccato il basso dalla corrente, subito prima di iniziare. Non era in grado, non potevamo lasciarlo suonare.
Non sapevo perché, ma ero convinto che, che io l’avessi voluto o no, Sid mi avrebbe lasciato, in un futuro non troppo lontano.
Mi aggrappai convulsamente all’asta del microfono, come il Gobbo di Notre-Dame. Amavo quel personaggio: era grottescamente simile a me.  Ormai riuscivo a stento a portare a termine le canzoni, la mia voce si faceva calante, volevo vomitare sul pubblico, provavo a stare male, a causarmi il vomito, ma non riuscivo.
Solitamente, era tramite la musica che sfogavo la mia angoscia, non il contrario. Invece, quella sera, tutto mi piombò addosso come un macigno, sulla schiena, proprio lì, in mezzo alle scapole.
Sopraffatto, mi inginocchiai sul legno ruvido dello stage, senza tuttavia smettere di cantare. Non potevo: sapevo che gli altri componenti della band non si sarebbero fermati se io l’avessi fatto, avrei reso ancora più insopportabile un qualcosa che già lo era fin troppo.
Fu durante l’ultima canzone, fu durante l’esibizione finale, che compresi tutto. Vidi chiaramente cosa stava accadendo, che genere di persone stavano sotto di me ed attorno a me, le vidi così bene che l’intera situazione sbiadì, perdendo importanza.
«No fun, my babe, no fun
Non era più divertente, non era affatto divertente. Non sapeva più di nulla, era tutto così annacquato e sciatto.
«No fun to be alone…»
Essere solo, ancora ed ancora. Sembrava che io fossi destinato a questo, a restare solo.
Inconsciamente, sapevo che quella sarebbe stata la mia ultima volta.
Dentro di me, mentre le pronunciavo, sapevo che quelle sarebbero state le mie ultime famose parole da Sex Pistol.
Fu quando mi resi conto di aver perso interi minuti in silenzio, mentre la musica ancora si agitava attorno a me nei colpi di grancassa di Paul, nel suono schizofrenico di Steve, nelle dita di Sid che si muovevano disordinatamente sulle corde di quel basso spento, fu allora che mi lasciai sfuggire ciò che stavo pensando: «Avete mai la sensazione di essere stati ingannati?»
 
Se ne stava lì, sul palco, accovacciato a terra e con lo sguardo severo perso nel pubblico, come se non lo vedesse affatto.
Quello scricciolo cadaverico ed allucinante, tutto avvolto nei suoi pantaloni stretti, nella camicia bianca troppo larga e in quel gilet di pelle consunto, rattoppato e tenuto assieme dalle spille.
Io stavo malissimo solo a guardarlo, mentre, ridendo sguaiatamente, ghignava il suo No Fun , che, quella sera, appariva così dannatamente reale da essere chiaramente un dialogo tra John e se stesso, più che il verso di una canzone.
Non era divertente, non più. In un mix di sensazioni tra l’adrenalina del concerto, il bisogno di una dose e la pena sconfinata che provavo per John, finii con il deprimermi. Finii con il fare a botte con un tipo del pubblico, un americanaccio grande e grosso con una folta barba da boscaiolo e una camicia di flanella.
Gli scaraventai il basso in testa, mentre gli strillavo “Fuck off!”, e la cosa non mi svagò affatto.
Lo odiavo, odiavo lui, odiavo il paese, odiavo lo stadio, odiavo la nostra musica, odiavo suonare il basso, odiavo Malcolm, odiavo Cook, Jones e me stesso. L’unica persona per la quale ancora riuscivo a mostrare dei sentimenti positivi, quella sera, era John.
Mi resi conto di amarlo, amavo John, più di quanto non avessi mai amato nessun altro. Anche più di Nancy, pensai, e mi sentii terrorizzato al punto da arretrare sul palco, barcollante, desideroso di poter fuggire e basta.
Usavo sempre la parola amore in maniera del tutto onesta e liberatoria, forse anche troppo, per questo quel mio particolare pensiero mi devastò, lasciandomi inebetito e sconcertato.
Io amavo John? O amavo Johnny? O nessuno dei due o entrambi?
«Avete mai la sensazione di essere stati ingannati?»
Disorientato ed in crisi d’astinenza, al termine del concerto fuggii via.
Correndo a perdifiato fuori dal locale, rischiando più volte di inciampare, mi imbattei in un ragazzino che doveva avere più o meno la mia età, oppure un vecchio, non ricordo. Tremava e si grattava la nuca con insistenza. Io conoscevo quel prurito, conoscevo quello sguardo, conoscevo il tono disperato d’urgenza nella sua voce.
«Ehi, amico. Hai uno spicciolo?»
Dovetti fargli ripetere due volte ciò che aveva detto, prima di riuscire a capire qualcosa dei suoi farfugliamenti.
«Si, si… ecco.» infilai una mano tremante in tasca, estraendone le poche monetine che avevo e mettendogliele sul palmo bianco . Quando ritrasse la mano, notai che ne aveva il dorso coperto di buchi.
«Grazie amico.» biascicò, rivolgendomi un intenso paio di occhi azzurri. Ricordo solo che erano molto belli, che stonavano con i capelli sporchi e tutto il resto.
«Portami con te, ci deve essere un posto…» sapevo che non potevo tornare al San José, non dove Lydon dormiva. Dovevo stare lontano da John, dovevo trovare un posto dove poter sistemare in pace quelle faccende private.
Il ragazzo, o l’uomo, che avevo appena aiutato, si sdebitò assecondandomi e portandomi in una casa occupata all’angolo tra Haight e Ashbury, un covo di tossici, un posto magnifico in cui riflettere.
Scelsi un materasso pidocchioso in un angolo, un materasso azzurro, e mi gettai lì.
Avevo tutta una notte davanti, un sacco di tempo per pensare.
 
A concerto finito, sapevo che avevamo fatto schifo. Davvero, nessuno poteva saperlo meglio di me. Ero assai autocritico per quanto riguardava questo genere di cose.
Improvvisamente, mi ritrovai scaraventato in una situazione, una situazione che, per la prima volta, stavo totalmente subendo. Avevano già architettato tutto, avevano preparato tutto in modo che io non potessi oppormi, e, se mi fossi opposto, Malcolm avrebbe avuto un ottimo motivo per licenziarmi, finalmente.
Non gliene diedi l’occasione, me ne andai.
Malcolm aveva organizzato con Paul e Steve un viaggio in Brasile, per andare a trovare Ronnie Biggs, un ex rapinatore di treni, un uomo orribile, sperando di shockare ancora una volta il mondo. Una cosa grottesca e ridicola, mi disgustava la sola idea di farci pubblicità sulle spalle di un uomo che aveva ridotto un ferroviere innocente ad un vegetale senza capacità motorie.
Diedi loro un’ultima scelta: o me, o Malcolm e il suo Biggs. Scelsero Malcolm e Biggs. Sid non c’era, non avevo idea di dove fosse finito, non sapevo se l’avrei più rivisto.
Rimasto solo e in uno stato di catalessi, sorpresi me stesso per primo, prendendo le redini della cosa e gestendo in modo responsabile il mio immediato futuro: scelsi di tornare al San José, dove mi assicurai di avere la camera per una notte ancora, dopodiché cominciai con un giro di telefonate, sperando di riuscire ad ottenere dalla Warner Brothers i biglietti aerei o per lo meno i soldi necessari a rimpatriare, senza risultati.
Fu allora che il telefono della mia camera squillò, e un uomo della reception mi passò un certo Tiberi, dell’entourage dei Pistols.
«Signor Rotten.»
«Lydon.» mi affrettai a correggerlo.
«Certo, come vuole.» colsi una certa vena di sarcasmo, nel suo tono, e l’unico sarcasmo che mi diverte è il mio.
«Fanculo, tu e McLaren.»
Stavo per riagganciare, quando quell’uomo sconosciuto pronunciò le parole che mi cambiarono la vita. Sollevarono la sua testa e la sgozzarono.
«Abbiamo appena individuato Sid… sta morendo.»
Con un groppo in gola, soppesai quelle parole così familiari, ma così aliene da sentirsi dire.
Morendo? Ma solo poche ore prima era accanto a me, suonando, era lì.
«Dove si trova?»
Fui all’angolo tra Haight e Ashbury in meno di un quarto d’ora, non so nemmeno come fu possibile.
La casa era un tipico palazzotto occupato, simile a quelli che costellavano Londra a decine, centinaia.
Quando ne varcai l’ingresso, la prima impressione fu che vi aleggiava un odore sgradevole di morte e vomito, un mix cattivo ed acido. Passai accanto ad alcuni barboni e a dei ragazzini vestiti come me, troppo storditi dai loro acidi per rendersi conto di chi io fossi. E a quel punto mi venne da chiedermi: chi ero io?
Tiberi se ne andò subito, lasciandomi solo ad affrontare la figura di un Sid agonizzante stesa su un materassino lurido e pieno di parassiti, in una stanza del primo piano.
Aveva ancora la siringa infilata nel braccio: dovetti sconfiggere la paralisi ed estrarla io, mentre scuotevo il volto di Sid.
«Svegliati brutto bastardo, figlio di puttana, inutile figlio di un hippie.»
Più lo insultavo, più mi pareva di stare meglio. Racimolai così la forza necessaria a prenderlo e trascinarlo fuori da lì. Volevo chiamare un taxi, ma lui si svegliò. Aveva udito i miei improperi, la mia lingua lunga era andata a ripescarlo all’inferno, dove sicuramente era già indirizzato.
«John…» lo sentii bisbigliare.
In quel momento riuscii a pensare soltanto “Non mi lasciare, avanti, non adesso che ti odio. Facciamo almeno pace, prima.” Ma mi trattenni, perché ero certo che, se avessi aperto bocca, l’avrei fatto solo per sputargli addosso.
Avevo ancora la macchia del suo sangue, schizzato fuori con la siringa, sul mio volto. Non potevo pensare di volergli bene, no. Non riuscivo ad accettarlo perché mi faceva ribrezzo ciò che era diventato il mio amico.
È incredibile quante cose possono accadere in due anni, quanto le persone possono cambiare, quanto ogni situazione possa degenerare. Incredibile quanto lui fosse diverso, quando mi ero innamorato della sua genuinità. Avete mai la sensazione di essere stati ingannati?

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo III - No fun, my babe, no fun. - Ultimo capitolo. ***


Ok, ed ecco che giungiamo alla fine di questa breve avventura xD Anche se non ho ricevuto commenti e probabilmente questa FlashFic ha fatto schifo, io sono cocciuta e rompiballe, perciò pubblico anche il terzo ed ultimo capitolo. Goodbye! ^^


Capitolo III

No fun. My babe, no fun.
 
Mi risvegliai con un centinaio di aghi infilzati in tutto il corpo: credetti che fosse una specie di sogno, invece era reale.
«Stai tranquillo, è agopuntura.»
La voce di una donna in camice lilla mi tranquillizzò, pregandomi di restare immobile ancora per qualche minuto soltanto. Avevo sentito parlare di agopuntura, ma mi sembrava una gran stronzata prima di allora, invece, in quel momento, mi sentivo incredibilmente meglio.
«Era ad un passo dall’overdose, lo sa? Un suo amico l’ha lasciata qui… è stato fortunato: in ospedale, quelli come lei, li lasciano morire nella sala d’aspetto.»
Mentre mi toglieva l’infinità di piccoli aghetti dalla pelle, sentivo tutto formicolare, e mi chiedevo cosa intendesse per “quelli come me”.
«Il mio amico, se ne è andato, vero?»
Non ottenni risposta.
«Fanculo.» soffiai, sentendo una strana angoscia rabbiosa invadermi cervello e gola. Era parecchio tempo che non piangevo, ma non ero il genere di persona che si vergogna di farlo. «Fanculo, cazzo. La mia band si è sciolta, sai? Ed ho perso l’unica persona al mondo a cui frega qualcosa se schiatto su un pavimento pulcioso oppure no. Cazzo…»
L’infermiera mi passò un panno sulla fronte sudata, per poi farmi cenno di alzarmi a sedere.
«Ecco qua. Mi stia a sentire, è inutile piangere: non so cosa la spinga a fare quello che fa, ma ci rifletta bene. Potrebbe essere proprio quella la causa dei suoi mali. Ed ora la prego, veda di non doversi fare ricoverare per overdose.»
La donna aveva un tono severo, ma allo stesso tempo estremamente dolce, quasi mellifluo, il tipico tono da commessa di una pasticceria quando sorprende un ragazzino a rubare.
Annuii concitatamente, tenendo lo sguardo basso.
Sul lettino stavo così bene che avrei voluto stare a morire lì, forse sarebbe stata anche la cosa più giusta da fare, invece sollevai lo sguardo: davanti a me c’era un grosso specchio.
Ed eccomi lì, appena diciannovenne, seduto su un lettino bianco con indosso solo dei pantaloni neri sdruciti e il petto nudo straziato dai graffi.
Mi fecero impressione le braccia livide piene di ematomi e vene in vista. Erano piste rosse, serpenti che si arrampicavano lungo il mio avambraccio cadaverico e scarno. Ormai erano rimasti solo i muscoli.
Il mio bel volto, o quello che avevo sempre considerato un bel volto, era ridotto ad un teschio orribile e malamente avvolto nel suo involucro di pelle grigiastra.
Mi passai entrambe le mani tra i capelli, solo quelli erano sempre gli stessi, ed all’improvviso provai l’impulso di tagliarli via tutti, con una forbice, con qualcosa di grosso ed impreciso.
Volevo essere nauseante.
Volevo davvero che la gente mi trovasse antipatico, che mi detestasse.
Come John mi detestava. Ero riuscito a fare allontanare una persona così irriverente ed eccentrica, mentre piacevo sempre di più alle masse a cui io stesso appartenevo. «Oddio, cazzo…»
Mentre ringhiavo al me stesso riflesso nello specchio, notai una figura riflessa come me, un omino in lontananza, poggiato alla parete opposta della stanza.
Mi voltai di scatto, sentendo gli occhi asciugarsi di colpo e la gola stringersi.
John era lì, non se n’era mai andato.
«Sei proprio un cazzone, Sid.»
Lui non si mosse, mentre io, barcollando in maniera incerta sulle gambe, mi accingevo a raggiungerlo. Non sapevo cos’avessi intenzione di fare. Abbracciarlo? Non l’avevo mai fatto. Scusarmi? Di cosa. Piangere? Mi aveva già visto piangere molte volte, forse lo stavo facendo in quel momento e non me ne rendevo nemmeno conto.
Decisi di non fare niente.
Arrivai accanto a lui, sulla porta, e stetti in silenzio.
Lui mi dedico una tipica espressione alla Johnny Rotten, ma non disse nulla.
Quando mi sentii vagamente i grado di muovere qualche passo, sorretto da John, ci avviammo verso l’uscita.
 
Uscimmo dal centro di medicina alternativa dove l’avevo portato, sotto consiglio di Tiberi. Era così distrutto che mi sorprese l’energia con cui riuscì ad affrontare i minuti successivi all’agopuntura. Riuscì a trascinarsi fino all’angolo, a circa cinquanta metri dall’ingresso del centro, con me come unico sostegno.
Con molta fatica, riuscii a fermare un taxi e farci portare fino al San José: non fu semplice, perché nessun autista voleva accogliere Sid nella propria vettura. Era conciato troppo male, sembrava già morto.
Stava veramente male e non faceva che blaterare frasi sconnesse sulla morte. Voglio morire voglio morire voglio morire.
E io non gli rispondevo, non gli dicevo No, Non Devi Morire. Perché avrei dovuto farlo? Mi interessava davvero di Sid Vicious? Per me avrebbe potuto morire.
«John.»
Chiusi la portiera con calcio, lanciando sul sedile anteriore gli ultimi dollari che mi erano rimasti in assoluto.
«John.»
Trascinare Sid su per le scale non fu semplice, anzi. Più di una volta mi dovetti fermare per riposare: Sid era notevolmente più alto di me, i suoi piedi e le sue ginocchia strisciavano sulla superficie ruvida e scheggiata del pavimento, ad ogni mio passo.
«John.»
Volevo solo portarlo a letto e chiudere gli occhi, volevo che tutto si concludesse, non avevo più voglia di fare qualcosa di orribile, di leggere titoli su di me in prima pagina.
Chi cazzo se ne frega, nessuno si meritava il mio impegno, non valeva la pena tentare di risvegliare né quella né nessun’altra nazione addormentata.
Che dormissero, che dormissero pure. Anche io avrei voluto poterlo fare.
Dormire.
«John.»
Lo lasciai cadere sul materasso di uno dei due letto, sperando che la smettesse di farfugliare.
Era già abbastanza doloroso trovarmi in sua compagnia, sentire la sua voce era fin troppo per me.
«Stai zitto Sid, per favore taci.»
«John.»
«Basta!»
Con il respiro affannoso, mi lasciai cadere accanto a lui, passandomi freneticamente una mano sugli occhi. Non era da me reagire in quel modo, lo sapevo. Non ero uno che alzava la voce.
In ogni caso Sid Vicious era lì, inerme e quasi in coma, tutt’altro che in possesso delle proprie facoltà mentali.
Vaffanculo cazzo.
«John.»
«Cosa c’è?»
«Ti amo.»
Seguirono attimi di esitante silenzio.
Io non mi ero più mosso di un millimetro, non un muscolo del mio corpo aveva reagito a quella situazione. Me ne stavo lì, in silenzio, con lo sguardo sbarrato a fissare il soffitto.
Sapevo che sarebbe successo, prima o poi la droga gli avrebbe bruciato anche gli ultimi due neuroni.
«John.»
Sid rotolò su di un fianco, così da potersi stringere ad un mio braccio.
«John.»
Continuava a piangere, ma solo i bambini piangono. Io non piangevo mai, non avevo pianto nemmeno quando ero stato accoltellato, l’anno prima.
Sentivo il suo fiato pesante di fumo, alcol e vomito. Non riuscivo a guardarlo, mi sembrava un bambino violato, un candido bimbo di vent’anni raggomitolato su se stesso e ricoperto di ematomi e sangue.
«Sid.»
«John.»
 
Ci trovarono entrambi morti, quando entrarono nella stanza di motel che ci avevano affibbiato. Era come le altre, come tutte le stanza in cui avevo abitato durante la mia vita.
Non provai nulla, quando vennero a prenderci.
Provarono a staccarmi da John, provarono a spezzarmi le dita di una mano, ma non ci riuscirono.
Io non mi muovevo, non pensavo, non parlavo, ma non riuscirono a staccarmi da John.
Quando ci fecero salire sulla limousine, non mi opposi, perché John era accanto a me, immobile.
Era freddo, anche io mi sentivo freddo.
Non vedevo, non vedevo nulla. Mi sentivo vuoto e freddo e cieco.
Malcolm non c’era, ma voleva parlare con me al telefono. Snocciolava domande riguardo ad un film.
A me non importava più nulla, non risposi, non respiravo più nemmeno.
Si trattava solo di cose future.
Non c’era nessun futuro, nessun futuro. Non era divertente.
Ma non mi sentivo più solo.
No fun, my babe, no fun.
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=388612