No Fun di Kiki Daikiri (/viewuser.php?uid=46873)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I - Belsen Was A Gas ***
Capitolo 2: *** Capitolo II - Avete mai la sensazione di essere stati ingannati? ***
Capitolo 3: *** Capitolo III - No fun, my babe, no fun. - Ultimo capitolo. ***
Capitolo 1 *** Capitolo I - Belsen Was A Gas ***
Note: Questa FF è
di soli tre capitoli, ispirata ai fatti accaduti prima, dopo e durante
l'ultimo concerto dei Sex Pistols (Stadio Winterland di San Francisco,
14.01.1978); mi sono permessa di reinterpretare la cosa,
perchè i fatti originali avrebbero visto semplicemente la
partenza di John per l'Inghilterra, il ricovero di Sid e la rottura del
gruppo.
Malcolm
McLaren è il manager dei Sex, nonché
co-proprietario con la Westwood del negozio su King's Road, Tiberi
è realmente esistito e faceva parte dell'entourage dei
Pistols, Sid Vicious fu sottoposto ad agopuntura da lui, mentre John
Lydon (aka Rotten) partiva per l'UK. Nella storia, il punto di vista
è quello alternato di Sid e John.
No fun without you.
Prologo
Ci
trovarono entrambi morti, quando entrarono nella stanza di motel che ci
avevano
affibbiato. Faceva schifo, era lurida, era marcia.
Pessima.
Noi
li guardammo senza in realtà vederli, mentre ci portavano
via di lì per recarci
chissà dove, non ricordo, non ci chiesero spiegazioni,
diedero tutto per
scontato.
Stemmo
vicini per tutto il tragitto in limousine, una limousine che ormai era
giunto
il momento di restituire, semmai non ce l’avessero sottratta
da sotto i sederi
mentre stavamo per strada.
Era
giunta la nostra fine, la fine della nostra pazzesca storia, la fine
dei Sex
Pistols. Sentivo il mio cervello lontano, come se fosse rimasto
incatenato a
quel motel di San Francisco.
Più
consumavamo strada, più i miei pensieri venivano strappati
via, ed io rimanevo
come un vegetale sradicato, fermo, pallido, emaciato.
Sentivo
il calore della sua spalla contro la mia, ma Sid non mi vedeva. Non
vedevamo
più nulla, eravamo vuoti e morti. Non vedevamo
più nessuno, né noi stessi né il
mondo che ci circondava. Non c’era nessun futuro, nessun
futuro. Non era
divertente.
No fun, my babe, no
fun.
Capitolo I
Belsen was a gas.
Non
eravamo in vacanza, si trattava di lavoro lavoro lavoro. Non credevo
sarebbe
diventato un lavoro, quello di suonare nella mia band preferita. Non
doveva
essere un lavoro, non avrebbe dovuto essere un lavoro.
Tutto
il tour era stato un vero disastro, uno schifo indicibile, per cui ci
avevano
privato della maggior parte degli attrezzisti e gente varia.
Ero
una star del rock’n’roll internazionale, eppure mi
spostavo con il basso in
spalla, come avrei fatto quasi due anni prima, camminando per
King’s Road.
Cook
e Jones stavano sempre più in disparte, tra di loro, fatto a
cui ci eravamo
tutti un po’ abituati. Spesso si parlava di separazione, ma
il gruppo aveva
ancora troppe cose in ballo per poterci dividere: dopo la data a San
Francisco,
nel giro di nemmeno un mese, sarebbe iniziata un’altra
turnée in Svezia.
Chi
mi preoccupava davvero, ad essere sincero, era John.
Camminava
sempre più chino, più gobbo, con lo sguardo
rabbuiato e un sacco di lamentele
sempre in bocca. Mi chiedevo davvero cosa stesse succedendo a tutti
noi, cosa
stessimo combinando.
«Signor
McLaren, dopo il disastro a Dallas, credete che il gruppo
riuscirà a conquistare
San Francisco?» la cronista spingeva il microfono verso la
bocca di Malcolm,
quasi fino a farglielo leccare, ma lui si rifiutò di
rispondere ad ogni
domanda, mentre varcavamo le porte del MiYako Hotel.
Gli
americani avevano due opinioni totalmente opposte sui Sex Pistols: o li
amavano, o li odiavano a morte.
Alcuni
di quegli zotici avrebbero voluto vederci morire in un lago di sangue,
avrebbero voluto farci fuori con le loro mani. Più ci
addentravamo nella logica
americana, più questo ci appariva chiaro.
Vedevo
John soffrire dell’intera situazione, dei concerti che erano
stati cancellati,
delle bugie che venivano dette sul nostro conto, anche dai nostri
stessi
impresari.
Era
stressante, se non trovavi qualcosa a cui aggrapparti.
Io
qualcosa avevo, avevo l’alcol, e, si, avevo anche Nancy ad
aspettarmi in
Inghilterra.
Improvvisamente,
mi sentii assalire da un’ondata di malinconia e di straziante
malessere fisico,
era parecchio che non stavo così male.
John
se ne accorse, ma non disse nulla, era troppo occupato a litigare con
Malcolm,
il quale ci stava informando con fin troppo garbo che non
c’erano stanze per
me, in quell’albergo. Il direttore non mi voleva: la mia
trista fama mi aveva
preceduto anche lì.
Estremamente
scocciato, John l’aveva ricoperto di insulti, per poi
afferrarmi malamente per
un braccio e trascinarmi fuori, accompagnati da due guardie del corpo.
John
mi odiava per il fatto della droga, io l’avevo ormai capito,
ma eravamo grandi
amici sin dai tempi della scuola, sapevo che non mi avrebbe mai
abbandonato.
«Stammi
lontano, non mi va di parlare con te.» «Lasciami in
pace Sid, non abbiamo nulla
a che spartire» «Malcolm, non intendo viaggiare con
Sid Vicious.» Erano queste
le cose che diceva, sempre più spesso.
Parlava
così, ma era sempre lui a prendersi i miei sputi in faccia,
quando rimaneva
chiuso in una stanza con me per intere giornate, durante le
disintossicazioni e
le conseguenti crisi d’astinenza.
«Senti,
Malcolm non ci vuole qui, e tu devi essere in grado almeno di stare in
piedi domani…»mi
rimproverò, quando fummo su un devastatissimo camioncino in
compagnia delle
guardie del corpo e dei roadies.
Quando
John mi sgridava, il suo sguardo si ammorbidiva sempre. Faceva uno
strano
effetto: più era arrabbiato, più lo sguardo duro
da psicopatico scivolava via
dal suo volto contorto, dalla mascella serrata nelle più
grottesche smorfie,
fino a lasciare lì, di fronte a me, il timidissimo ragazzino
irlandese emaciato
e gobbo che avevo conosciuto nella mia primissima adolescenza.
Non
so come accadesse, forse, semplicemente, John non amava imporsi su di
me,
oppure non si sentiva nella posizione di consigliare chiunque, o,
più
probabilmente, io non stavo deludendo Johnny Rotten, stavo deludendo il
ragazzino conosciuto a Finsbury Park.
Annuii
senza dire una parola, totalmente immerso nella valanga di pensieri
negativi
che il malessere e quel senso di colpa mi stavano insediando nel
cervello da
ormai parecchi giorni.
Con
il basso in spalla e senza guardie del corpo, che avevano deciso di
aver
concluso con l’incarico, ci arrampicammo su una rampa di
scale scivolosa ed
angusta, su, fino al secondo piano del Motel San José, un
posto squallido e
terribile, ma un posto dove ci volevano.
Avevamo
pochi soldi, così si decise per dividere una stanza, anche
se l’idea non faceva
di certo piacere a John.
Quella
stessa mattina, ci avevano portati a fare una breve sosta in uno di
quei locali
per camionisti, lungo la strada. Io e Sid amavamo quei posti, ci
entusiasmavano. Li trovavamo deliziosamente disgustosi ed erano pieni
di
CowBoys terribili, di cui Sid amava copiare l’abbigliamento.
Non appena
cambiavamo città, bang,
Sid si andava
a comprare degli stivali da rodeo o un cappello, così da
poter assomigliare a
quei tizi. Aveva già una giacca di pelle. Era veramente
terribile, terribile.
A
San Francisco, in uno di questi posti, ordinammo della birra a
colazione,
poiché non avevamo dormito e per noi il senso del tempo era
diventato un
contro-senso. Inutile seguire una serie di abitudini, se estrapolate
dal
contesto.
Ordinammo
queste birre, e Sid si mise a berciare con un tipo ubriaco -mi
ricordò molto la
situazione del Bill Grundy Show- e, per irritarlo ancora di
più, prese a
canticchiare Belsen
Was a Gas. Già
per un europeo era a dir poco inaccettabile ed oscena, quella canzone,
ma
cantata ad un americano ubriaco, gli effetti furono quelli che furono.
Potete
immaginare cosa potesse significare fare a botte con un motociclista di
quel
genere, in un locale pieno gremito di suoi simili. In un attimo, ci
furono
tutti addosso. Sid cerco di defilarsi, come faceva sempre, ma, quando
ebbe
capito che ormai eravamo dentro fino al collo, afferrò una
sedia e la fracassò
in testa ad uno di quei bastardi. Io avevo iniziato a fare rissa
già dal primo
minuto, non perché mi piacesse, ma perché odiavo
la situazione in generale e
provavo piacere nel poter sfogare queste acidità. Steve e
Cook si unirono ben
presto alla caciara, nella maniera più violenta possibile,
come loro solito: in
particolare Steve cercava sempre di sottomettere il pubblico durante i
nostri
concerti, sfidandolo a muso duro ed istigando risse epocali,
perciò non gli
sembrava proprio vero di avere l’opportunità,
finalmente, di pestare qualcuno
con diritto.
«CowBoy
del cazzo!» sentii strillare Sid, spaccando
l’ennesima sedia in testa a
qualcuno, il quale cadde riverso sul pavimento, trascinandosi dietro la
mia
disgrazia. Mentre mi impegnavo per scansare l’ennesimo
cazzotto, vidi Sid
rotolare sul proprio avversario.
Era
incredibile, pensai, come quel ragazzo alto ed allampanato, vagamente
sottopeso, riuscisse a tenere testa senza troppa difficoltà
ad un uomo che sarà
pesato su per giù due volte lui. Cosa poteva dargli tutta
quell’energia? Io
avevo la rabbia, Steve aveva un’infanzia di violenze da
espiare, Paul era
semplicemente un bonaccione, ma Sid? Cosa spingeva Sid, un ragazzo
intelligente, buono e ingenuo ad essere così violento?
Poi
un fulmine mi attraversò il cervello, proprio
nell’istante in cui un orrido
individuo gli fracassava sulla faccia un boccale vuoto di birra, in
un’esplosione di sangue. La droga, era la droga a dargli
quell’energia
innaturale. Sentii la nausea strizzarmi le viscere, mentre la rissa
scemava ed
io barcollavo verso un Sid Vicious delirante e straziato, che menava
ancora
fendenti come se non si fosse affatto accorto di avere la faccia
irrorata della
sua stessa linfa vitale.
Ero
abbastanza abituato, oramai, ad asciugare il sangue che gli colava
giù, lungo
il mento. Capitava spesso e non mi preoccupava affatto: per quanto mi
divertissi assieme a lui, io desideravo davvero che Sid morisse.
Lo
pensavo così spesso, con tanta rabbia, che mi auto convinsi
che fosse così, che
io odiassi davvero Sid.
È
triste, davvero triste non riuscire ad essere sinceri con se stessi,
quando con
gli altri sono in assoluto la persona più onesta che esista
su questo lerciume
di pianeta.
«Cazzo,
fottuto, bastardo.» biascicò Sid, scostando la mia
mano con delicatezza e
passando rudemente la sua sul labbro ferito.
«Cazzo.» sputò a terra un grume di
sangue arancionastro.
«Andiamo,
prima che si risvegli.» osservai, notando che
l’uomo a terra si stava muovendo,
soccorso malamente da uno degli uomini ancora interessati, mentre il
resto
della banda si era già ricomposta, per ricominciare a bere.
Il
gioco è bello finché dura poco.
John
era fantastico, sapeva trasformarsi da ragazzino dall’aspetto
bislacco ma quasi
innocuo in un’arma letale. Davvero, mi faceva impressione.
Ero io quello che si
cacciava sempre nei guai, ero io che cercavo sempre qualcuno con cui
fare a
botte, anche se poi tendevo a tirarmi indietro. Avevo una gran paura
del
dolore, prima di conoscere Nancy, ero un codardo. Fu dopo, dopo la
droga e dopo
Nancy che compresi quanto poco valesse la mia salute. Vivere o morire,
per
cosa? Nulla, niente, nessuna importanza. L’importante era
fare ciò che mi
andava di fare e farlo a modo mio.
John
no, lui non amava cercare lo scontro fisico, lui era una mitraglia
verbale, lui
sapeva sfidare, affrontare e sotterrare una persona con le sole parole
ed un
decimo della fatica che facevo io per prendere a schiaffi una di quelle
facce
barbute. Eppure era lì, a pochi metri da me, pronto a
vincere una rissa al mio
fianco. Nonostante mi odiasse, nonostante non riuscisse più
nemmeno a guardarmi
in faccia senza provare disgusto –sentimento estremamente
visibile sul suo
volto così espressivo-, nonostante non provasse
più nessun sentimento nei miei
confronti. Un uomo mi si avvicinò, credo fosse il barista,
ma non ci feci caso,
mi disse che voleva che ce ne andassimo. Era stranamente calmo e
gentile. Presi
una sedie e gliela ruppi in testa, beandomi del rumore sordo che fece
il suo
corpo afflosciandosi a terra. Ma non mi sentivo meglio, mi sentivo solo
molto
più furioso.
«CowBoy
del cazzo!» cominciai a strillare, atterrandone un altro e
poi un altro, finché
uno non mi tirò giù con sé.
Mentre
provavo a difendermi, tirandomi contemporaneamente su, qualcuno mi
colpì in
faccia con qualcosa. I ricordi di ciò che accadde dopo sono
confusi, ma so che
non mi fermai. Non sentivo dolore, non avevo paura, non provavo nulla
se non il
cieco desiderio di uccidere. Uccidere me stesso.
Pochi
secondi dopo mi trovavo appeso ad un braccio di Cook, mentre John mi
passava
una mano sulle labbra e sul mento. La sua mano.
Improvvisamente
mi sembrò di fuoco, cinque lunghe e strette lingue di fuoco
che lambivano la
mia carne scoperta e vulnerabile, le spostai, poi il dolore giunse
tutto d’un
colpo.
Attraverso
le pupille sporche di sangue, potevo vedere il volto di John a pochi
millimetri
dal mio, il suo volto indifferente, gelido e tagliente come i versi
delle
canzoni che scriveva. Sembrava cattivo, sembrava distaccato allo stesso
tempo.
Come se non gli importasse nulla, mi fece cenno di muovermi e disse
qualcosa
che io non capii.
Imprecando
e sputando, uscimmo dal locale.
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Capitolo 2 *** Capitolo II - Avete mai la sensazione di essere stati ingannati? ***
Capitolo II
Avete mai la
sensazione di essere
stati ingannati?.
Il
concerto doveva svolgersi al Winterland di San Francisco, uno stadio
enorme e
dall’acustica pessima. Le premesse per il concerto erano
già di per sé
terribili, figurarsi con Steve e Paul che estraniavano me e Sid sempre
più, Sid
che a momenti faceva fatica a reggersi in piedi ed io, bhé,
io semplicemente
non volevo essere lì.
Credo
che
il pubblico se ne accorse, già dalla prima canzone. Iniziai
come al solito, in
una sequela di sguardi e movimenti robotici, ma, piano piano, io per
primo
sentivo l’energia svanire, lasciando il posto ad un
indicibile malinconia. Non
era raro che successe, era raro che accadesse mentre stavo sul palco,
durante
una mia performance. Quello si.
Mi
sforzai
di ingoiare il grumo di bile che mi si stava formando in cima alla
gola,
concentrandomi sui difetti degli altri, la cosa che più in
assoluto mi
divertiva, durante i live. C’era una coppia di ragazzine
vestite con un
sacchetto dell’immondizia ed i capelli colorati di verde,
erano in prima fila.
Li
avevo
avuti verdi anche io, i capelli, ai tempi della scuola statale.
Fu
allora
che conobbi Sid, fu allora che cominciammo a frequentare Sex, a
King’s Road.
Ripensandoci, sembrava essere passata una vita intera, quando si
trattava
appena di due anni prima. È incredibile quante cose possono
accadere in due
anni, quanto le persone possono cambiare, quanto ogni situazione possa
degenerare.
Posai
distrattamente lo sguardo su Sid, per appena qualche secondo, il tempo
che mi
bastò per sentirmi sopraffare di nuovo da quel senso di
nausea, di
ineluttabilità e di sconfitta.
Stava
suonando da quasi mezz’ora, e ancora non si era accorto del
fatto che Steve gli
avesse staccato il basso dalla corrente, subito prima di iniziare. Non
era in
grado, non potevamo lasciarlo suonare.
Non
sapevo
perché, ma ero convinto che, che io l’avessi
voluto o no, Sid mi avrebbe
lasciato, in un futuro non troppo lontano.
Mi
aggrappai convulsamente all’asta del microfono, come il Gobbo
di Notre-Dame.
Amavo quel personaggio: era grottescamente simile a me.
Ormai riuscivo a stento a portare a termine
le canzoni, la mia voce si faceva calante, volevo vomitare sul
pubblico,
provavo a stare male, a causarmi il vomito, ma non riuscivo.
Solitamente,
era tramite la musica che sfogavo la mia angoscia, non il contrario.
Invece,
quella sera, tutto mi piombò addosso come un macigno, sulla
schiena, proprio
lì, in mezzo alle scapole.
Sopraffatto,
mi inginocchiai sul legno ruvido dello stage, senza tuttavia smettere
di cantare.
Non potevo: sapevo che gli altri componenti della band non si sarebbero
fermati
se io l’avessi fatto, avrei reso ancora più
insopportabile un qualcosa che già
lo era fin troppo.
Fu
durante
l’ultima canzone, fu durante l’esibizione finale,
che compresi tutto. Vidi
chiaramente cosa stava accadendo, che genere di persone stavano sotto
di me ed
attorno a me, le vidi così bene che l’intera
situazione sbiadì, perdendo
importanza.
«No fun, my babe, no fun!»
Non
era
più divertente, non era affatto divertente. Non sapeva
più di nulla, era tutto
così annacquato e sciatto.
«No fun to
be
alone…»
Essere
solo, ancora ed ancora. Sembrava che io fossi destinato a questo, a
restare
solo.
Inconsciamente,
sapevo che quella sarebbe stata la mia ultima volta.
Dentro
di
me, mentre le pronunciavo, sapevo che quelle sarebbero state le mie
ultime
famose parole da Sex Pistol.
Fu
quando
mi resi conto di aver perso interi minuti in silenzio, mentre la musica
ancora
si agitava attorno a me nei colpi di grancassa di Paul, nel suono
schizofrenico
di Steve, nelle dita di Sid che si muovevano disordinatamente sulle
corde di
quel basso spento, fu allora che mi lasciai sfuggire ciò che
stavo pensando:
«Avete mai la sensazione di essere stati ingannati?»
Se ne
stava lì, sul palco, accovacciato a terra e con lo sguardo
severo perso nel
pubblico, come se non lo vedesse affatto.
Quello
scricciolo cadaverico ed allucinante, tutto avvolto nei suoi pantaloni
stretti,
nella camicia bianca troppo larga e in quel gilet di pelle consunto,
rattoppato
e tenuto assieme dalle spille.
Io
stavo
malissimo solo a guardarlo, mentre, ridendo sguaiatamente, ghignava il
suo No Fun , che, quella sera,
appariva così
dannatamente reale da essere chiaramente un dialogo tra John e se
stesso, più
che il verso di una canzone.
Non
era
divertente, non più. In un mix di sensazioni tra
l’adrenalina del concerto, il
bisogno di una dose e la pena sconfinata che provavo per John, finii
con il
deprimermi. Finii con il fare a botte con un tipo del pubblico, un
americanaccio grande e grosso con una folta barba da boscaiolo e una
camicia di
flanella.
Gli
scaraventai il basso in testa, mentre gli strillavo “Fuck
off!”, e la cosa non
mi svagò affatto.
Lo
odiavo,
odiavo lui, odiavo il paese, odiavo lo stadio, odiavo la nostra musica,
odiavo
suonare il basso, odiavo Malcolm, odiavo Cook, Jones e me stesso.
L’unica
persona per la quale ancora riuscivo a mostrare dei sentimenti
positivi, quella
sera, era John.
Mi
resi
conto di amarlo, amavo John, più di quanto non avessi mai
amato nessun altro.
Anche più di Nancy, pensai, e mi sentii terrorizzato al
punto da arretrare sul
palco, barcollante, desideroso di poter fuggire e basta.
Usavo
sempre la parola amore in maniera del tutto onesta e liberatoria, forse
anche
troppo, per questo quel mio particolare pensiero mi devastò,
lasciandomi
inebetito e sconcertato.
Io
amavo
John? O amavo Johnny? O nessuno dei due o entrambi?
«Avete
mai
la sensazione di essere stati ingannati?»
Disorientato
ed in crisi d’astinenza, al termine del concerto fuggii via.
Correndo
a
perdifiato fuori dal locale, rischiando più volte di
inciampare, mi imbattei in
un ragazzino che doveva avere più o meno la mia
età, oppure un vecchio, non
ricordo. Tremava e si grattava la nuca con insistenza. Io conoscevo
quel
prurito, conoscevo quello sguardo, conoscevo il tono disperato
d’urgenza nella
sua voce.
«Ehi,
amico. Hai uno spicciolo?»
Dovetti
fargli ripetere due volte ciò che aveva detto, prima di
riuscire a capire
qualcosa dei suoi farfugliamenti.
«Si,
si…
ecco.» infilai una mano tremante in tasca, estraendone le
poche monetine che
avevo e mettendogliele sul palmo bianco . Quando ritrasse la mano,
notai che ne
aveva il dorso coperto di buchi.
«Grazie
amico.» biascicò, rivolgendomi un intenso paio di
occhi azzurri. Ricordo solo
che erano molto belli, che stonavano con i capelli sporchi e tutto il
resto.
«Portami
con te, ci deve essere un posto…» sapevo che non
potevo tornare al San José,
non dove Lydon dormiva. Dovevo stare lontano da John, dovevo trovare un
posto
dove poter sistemare in pace quelle faccende private.
Il
ragazzo, o l’uomo, che avevo appena aiutato, si
sdebitò assecondandomi e
portandomi in una casa occupata all’angolo tra Haight e
Ashbury, un covo di
tossici, un posto magnifico in cui riflettere.
Scelsi
un
materasso pidocchioso in un angolo, un materasso azzurro, e mi gettai
lì.
Avevo
tutta una notte davanti, un sacco di tempo per pensare.
A
concerto
finito, sapevo che avevamo fatto schifo. Davvero, nessuno poteva
saperlo meglio
di me. Ero assai autocritico per quanto riguardava questo genere di
cose.
Improvvisamente,
mi ritrovai scaraventato in una situazione, una situazione che, per la
prima
volta, stavo totalmente subendo. Avevano già architettato
tutto, avevano
preparato tutto in modo che io non potessi oppormi, e, se mi fossi
opposto,
Malcolm avrebbe avuto un ottimo motivo per licenziarmi, finalmente.
Non
gliene
diedi l’occasione, me ne andai.
Malcolm
aveva organizzato con Paul e Steve un viaggio in Brasile, per andare a
trovare
Ronnie Biggs, un ex rapinatore di treni, un uomo orribile, sperando di
shockare
ancora una volta il mondo. Una cosa grottesca e ridicola, mi disgustava
la sola
idea di farci pubblicità sulle spalle di un uomo che aveva
ridotto un
ferroviere innocente ad un vegetale senza capacità motorie.
Diedi
loro
un’ultima scelta: o me, o Malcolm e il suo Biggs. Scelsero
Malcolm e Biggs. Sid
non c’era, non avevo idea di dove fosse finito, non sapevo se
l’avrei più
rivisto.
Rimasto
solo e in uno stato di catalessi, sorpresi me stesso per primo,
prendendo le redini
della cosa e gestendo in modo responsabile il mio immediato futuro:
scelsi di
tornare al San José, dove mi assicurai di avere la camera
per una notte ancora,
dopodiché cominciai con un giro di telefonate, sperando di
riuscire ad ottenere
dalla Warner Brothers i biglietti aerei o per lo meno i soldi necessari
a
rimpatriare, senza risultati.
Fu
allora
che il telefono della mia camera squillò, e un uomo della
reception mi passò un
certo Tiberi, dell’entourage dei Pistols.
«Signor
Rotten.»
«Lydon.»
mi affrettai a correggerlo.
«Certo,
come vuole.» colsi una certa vena di sarcasmo, nel suo tono,
e l’unico sarcasmo
che mi diverte è il mio.
«Fanculo,
tu e McLaren.»
Stavo
per
riagganciare, quando quell’uomo sconosciuto
pronunciò le parole che mi
cambiarono la vita. Sollevarono la sua testa e la sgozzarono.
«Abbiamo
appena individuato Sid… sta morendo.»
Con un
groppo in gola, soppesai quelle parole così familiari, ma
così aliene da
sentirsi dire.
Morendo?
Ma solo poche ore prima era accanto a me, suonando, era lì.
«Dove
si
trova?»
Fui
all’angolo tra Haight e Ashbury in meno di un quarto
d’ora, non so nemmeno come
fu possibile.
La
casa
era un tipico palazzotto occupato, simile a quelli che costellavano
Londra a
decine, centinaia.
Quando
ne
varcai l’ingresso, la prima impressione fu che vi aleggiava
un odore sgradevole
di morte e vomito, un mix cattivo ed acido. Passai accanto ad alcuni
barboni e
a dei ragazzini vestiti come me, troppo storditi dai loro acidi per
rendersi
conto di chi io fossi. E a quel punto mi venne da chiedermi: chi ero io?
Tiberi
se
ne andò subito, lasciandomi solo ad affrontare la figura di
un Sid agonizzante
stesa su un materassino lurido e pieno di parassiti, in una stanza del
primo
piano.
Aveva
ancora la siringa infilata nel braccio: dovetti sconfiggere la paralisi
ed
estrarla io, mentre scuotevo il volto di Sid.
«Svegliati
brutto bastardo, figlio di puttana, inutile figlio di un
hippie.»
Più
lo
insultavo, più mi pareva di stare meglio. Racimolai
così la forza necessaria a
prenderlo e trascinarlo fuori da lì. Volevo chiamare un
taxi, ma lui si
svegliò. Aveva udito i miei improperi, la mia lingua lunga
era andata a
ripescarlo all’inferno, dove sicuramente era già
indirizzato.
«John…»
lo
sentii bisbigliare.
In
quel
momento riuscii a pensare soltanto “Non mi lasciare, avanti,
non adesso che ti
odio. Facciamo almeno pace, prima.” Ma mi trattenni,
perché ero certo che, se
avessi aperto bocca, l’avrei fatto solo per sputargli addosso.
Avevo
ancora la macchia del suo sangue, schizzato fuori con la siringa, sul
mio
volto. Non potevo pensare di volergli bene, no. Non riuscivo ad
accettarlo
perché mi faceva ribrezzo ciò che era diventato
il mio amico.
È
incredibile quante cose possono accadere in due anni, quanto le persone
possono
cambiare, quanto ogni situazione possa degenerare. Incredibile quanto
lui fosse
diverso, quando mi ero innamorato della sua genuinità. Avete
mai la sensazione
di essere stati ingannati?
|
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Capitolo 3 *** Capitolo III - No fun, my babe, no fun. - Ultimo capitolo. ***
Ok, ed ecco che giungiamo
alla fine di questa breve avventura xD Anche se non ho ricevuto
commenti e probabilmente questa FlashFic ha fatto schifo, io sono
cocciuta e rompiballe, perciò pubblico anche il terzo ed
ultimo capitolo. Goodbye! ^^
Capitolo III
No fun. My
babe, no fun.
Mi
risvegliai con un centinaio di aghi infilzati in tutto il corpo:
credetti che
fosse una specie di sogno, invece era reale.
«Stai
tranquillo, è agopuntura.»
La
voce di
una donna in camice lilla mi tranquillizzò, pregandomi di
restare immobile
ancora per qualche minuto soltanto. Avevo sentito parlare di
agopuntura, ma mi
sembrava una gran stronzata prima di allora, invece, in quel momento,
mi
sentivo incredibilmente meglio.
«Era
ad un
passo dall’overdose, lo sa? Un suo amico l’ha
lasciata qui… è stato fortunato:
in ospedale, quelli come lei, li lasciano morire nella sala
d’aspetto.»
Mentre
mi
toglieva l’infinità di piccoli aghetti dalla
pelle, sentivo tutto formicolare,
e mi chiedevo cosa intendesse per “quelli come me”.
«Il
mio
amico, se ne è andato, vero?»
Non
ottenni risposta.
«Fanculo.»
soffiai, sentendo una strana angoscia rabbiosa invadermi cervello e
gola. Era
parecchio tempo che non piangevo, ma non ero il genere di persona che
si
vergogna di farlo. «Fanculo, cazzo. La mia band si
è sciolta, sai? Ed ho perso
l’unica persona al mondo a cui frega qualcosa se schiatto su
un pavimento
pulcioso oppure no. Cazzo…»
L’infermiera
mi passò un panno sulla fronte sudata, per poi farmi cenno
di alzarmi a sedere.
«Ecco
qua.
Mi stia a sentire, è inutile piangere: non so cosa la spinga
a fare quello che
fa, ma ci rifletta bene. Potrebbe essere proprio quella la causa dei
suoi mali.
Ed ora la prego, veda di non doversi fare ricoverare per
overdose.»
La
donna
aveva un tono severo, ma allo stesso tempo estremamente dolce, quasi
mellifluo,
il tipico tono da commessa di una pasticceria quando sorprende un
ragazzino a
rubare.
Annuii
concitatamente, tenendo lo sguardo basso.
Sul
lettino stavo così bene che avrei voluto stare a morire
lì, forse sarebbe stata
anche la cosa più giusta da fare, invece sollevai lo
sguardo: davanti a me
c’era un grosso specchio.
Ed
eccomi
lì, appena diciannovenne, seduto su un lettino bianco con
indosso solo dei
pantaloni neri sdruciti e il petto nudo straziato dai graffi.
Mi
fecero
impressione le braccia livide piene di ematomi e vene in vista. Erano
piste
rosse, serpenti che si arrampicavano lungo il mio avambraccio
cadaverico e
scarno. Ormai erano rimasti solo i muscoli.
Il mio
bel
volto, o quello che avevo sempre considerato un bel volto, era ridotto
ad un
teschio orribile e malamente avvolto nel suo involucro di pelle
grigiastra.
Mi
passai
entrambe le mani tra i capelli, solo quelli erano sempre gli stessi, ed
all’improvviso provai l’impulso di tagliarli via
tutti, con una forbice, con
qualcosa di grosso ed impreciso.
Volevo
essere nauseante.
Volevo
davvero che la gente mi trovasse antipatico, che mi detestasse.
Come
John
mi detestava. Ero riuscito a fare allontanare una persona
così irriverente ed
eccentrica, mentre piacevo sempre di più alle masse a cui io
stesso
appartenevo. «Oddio, cazzo…»
Mentre
ringhiavo al me stesso riflesso nello specchio, notai una figura
riflessa come
me, un omino in lontananza, poggiato alla parete opposta della stanza.
Mi
voltai
di scatto, sentendo gli occhi asciugarsi di colpo e la gola stringersi.
John
era
lì, non se n’era mai andato.
«Sei
proprio un cazzone, Sid.»
Lui
non si
mosse, mentre io, barcollando in maniera incerta sulle gambe, mi
accingevo a
raggiungerlo. Non sapevo cos’avessi intenzione di fare.
Abbracciarlo? Non
l’avevo mai fatto. Scusarmi? Di cosa. Piangere? Mi aveva
già visto piangere
molte volte, forse lo stavo facendo in quel momento e non me ne rendevo
nemmeno
conto.
Decisi
di
non fare niente.
Arrivai
accanto a lui, sulla porta, e stetti in silenzio.
Lui mi
dedico una tipica espressione alla Johnny Rotten, ma non disse nulla.
Quando
mi
sentii vagamente i grado di muovere qualche passo, sorretto da John, ci
avviammo verso l’uscita.
Uscimmo
dal centro di medicina alternativa dove l’avevo portato,
sotto consiglio di
Tiberi. Era così distrutto che mi sorprese
l’energia con cui riuscì ad
affrontare i minuti successivi all’agopuntura.
Riuscì a trascinarsi fino
all’angolo, a circa cinquanta metri dall’ingresso
del centro, con me come unico
sostegno.
Con
molta
fatica, riuscii a fermare un taxi e farci portare fino al San
José: non fu
semplice, perché nessun autista voleva accogliere Sid nella
propria vettura.
Era conciato troppo male, sembrava già morto.
Stava
veramente male e non faceva che blaterare frasi sconnesse sulla morte.
Voglio
morire voglio morire voglio morire.
E io
non
gli rispondevo, non gli dicevo No, Non Devi Morire. Perché
avrei dovuto farlo?
Mi interessava davvero di Sid Vicious? Per me avrebbe potuto morire.
«John.»
Chiusi
la
portiera con calcio, lanciando sul sedile anteriore gli ultimi dollari
che mi
erano rimasti in assoluto.
«John.»
Trascinare
Sid su per le scale non fu semplice, anzi. Più di una volta
mi dovetti fermare
per riposare: Sid era notevolmente più alto di me, i suoi
piedi e le sue
ginocchia strisciavano sulla superficie ruvida e scheggiata del
pavimento, ad
ogni mio passo.
«John.»
Volevo
solo portarlo a letto e chiudere gli occhi, volevo che tutto si
concludesse,
non avevo più voglia di fare qualcosa di orribile, di
leggere titoli su di me
in prima pagina.
Chi
cazzo
se ne frega, nessuno si meritava il mio impegno, non valeva la pena
tentare di
risvegliare né quella né nessun’altra
nazione addormentata.
Che
dormissero, che dormissero pure. Anche io avrei voluto poterlo fare.
Dormire.
«John.»
Lo
lasciai
cadere sul materasso di uno dei due letto, sperando che la smettesse di
farfugliare.
Era
già
abbastanza doloroso trovarmi in sua compagnia, sentire la sua voce era
fin
troppo per me.
«Stai
zitto Sid, per favore taci.»
«John.»
«Basta!»
Con il
respiro affannoso, mi lasciai cadere accanto a lui, passandomi
freneticamente
una mano sugli occhi. Non era da me reagire in quel modo, lo sapevo.
Non ero
uno che alzava la voce.
In
ogni
caso Sid Vicious era lì, inerme e quasi in coma,
tutt’altro che in possesso
delle proprie facoltà mentali.
Vaffanculo
cazzo.
«John.»
«Cosa
c’è?»
«Ti
amo.»
Seguirono
attimi di esitante silenzio.
Io non
mi
ero più mosso di un millimetro, non un muscolo del mio corpo
aveva reagito a
quella situazione. Me ne stavo lì, in silenzio, con lo
sguardo sbarrato a
fissare il soffitto.
Sapevo
che
sarebbe successo, prima o poi la droga gli avrebbe bruciato anche gli
ultimi
due neuroni.
«John.»
Sid
rotolò
su di un fianco, così da potersi stringere ad un mio braccio.
«John.»
Continuava
a piangere, ma solo i bambini piangono. Io non piangevo mai, non avevo
pianto
nemmeno quando ero stato accoltellato, l’anno prima.
Sentivo
il
suo fiato pesante di fumo, alcol e vomito. Non riuscivo a guardarlo, mi
sembrava un bambino violato, un candido bimbo di vent’anni
raggomitolato su se
stesso e ricoperto di ematomi e sangue.
«Sid.»
«John.»
Ci
trovarono entrambi morti, quando entrarono nella stanza di motel che ci
avevano
affibbiato. Era come le altre, come tutte le stanza in cui avevo
abitato
durante la mia vita.
Non
provai
nulla, quando vennero a prenderci.
Provarono
a staccarmi da John, provarono a spezzarmi le dita di una mano, ma non
ci
riuscirono.
Io non
mi
muovevo, non pensavo, non parlavo, ma non riuscirono a staccarmi da
John.
Quando
ci
fecero salire sulla limousine, non mi opposi, perché John
era accanto a me,
immobile.
Era
freddo, anche io mi sentivo freddo.
Non
vedevo, non vedevo nulla. Mi sentivo vuoto e freddo e cieco.
Malcolm
non c’era, ma voleva parlare con me al telefono. Snocciolava
domande riguardo
ad un film.
A me
non
importava più nulla, non risposi, non respiravo
più nemmeno.
Si
trattava solo di cose future.
Non
c’era
nessun futuro, nessun futuro. Non era divertente.
Ma non
mi
sentivo più solo.
No fun, my
babe, no fun.
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