PASQUA 1790

di Chevalier1
(/viewuser.php?uid=1238112)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** TRIDUO PASQUALE 1790, VISITE INATTESE ***
Capitolo 2: *** SPERANZA DI RESURREZIONE ***



Capitolo 1
*** TRIDUO PASQUALE 1790, VISITE INATTESE ***


3 Aprile 1790, Sabato santo

Il Generale Jarjayes, che ormai abitava da solo, in poche stanze (*) divise tra il suo studio e i suoi appartamenti, nel palazzo spoglio, come scarnificato dall’interno, si era da poco alzato dal suo frugale desco, servito come di consueto dalla piccola Josephine, l’unica rimasta con la madre, e con lo stalliere in servizio a ore, ad attendere alle faccende della casa: era una ragazzina, intelligente e piena di buona volontà, figlia di Jean Baptiste, un servitore da lungo tempo al servizio di palazzo Jarjayes che nella furia antinobiliare seguita al 14 luglio aveva perso la vita nel corso di un agguato teso al Generale.

Non potendo rimediare all’irreparabile il Generale Jarjayes aveva affidato il servizio della casa alla moglie e alla figlia di quell’uomo onesto e sfortunato, in modo da assicurare loro non soltanto un sostentamento ma un luogo in cui vivere e un’educazione per la giovinetta che, quando non serviva a tavola e non stirava panni, per ordine del Generale aveva libero accesso alla biblioteca di palazzo con la sola consegna a non servirsi che degli scaffali più bassi. A differenza della sala d’armi, la biblioteca non era stata svuotata per precauzione, perché poco esposta al saccheggio: troppo pochi erano in grado di valutare il pregio dei libri che vi erano contenuti e che, pertanto, erano assai meno appetiti e appetibili delle armi.

In quel luogo, al riparo dal mondo, il Generale trovava i pochi attimi di serenità che la vita ancora gli riservava, ma gli pesava non avere nessuno con cui condividere tanto sapere, anche per questo, non solo per risarcire un’orfana di padre a causa sua anche se non per sua colpa, occupava le ore lasciate libere dal comando a farle da precettore, sforzandosi di mitigare, non sempre con successo, la severità militare che ora rimpiangeva di aver usato troppo spesso con sua figlia Oscar mentre cresceva.

Josephine imparava con profitto e aveva sete di sapere, né sembrava spaventarsi troppo per le volte in cui al suo insegnante abituato a ben altri contesti scappava la pazienza: in questo, lei bruna con penetranti occhi scuri, gli ricordava il suo scricciolo biondo che non abbassava mai lo sguardo.

Quel pomeriggio - era il sabato di Pasqua- Josephine e sua madre erano andate insieme al mercato, accompagnate in calesse dallo stalliere che aveva finito l’orario di lavoro, non sarebbero rientrate che al tramonto.

Il Generale, affacciato alla finestra del suo studio, cercava di fugare nelle volute del fumo della pipa il peso dei ricordi e la malinconia supplementare dovuta alla festa imminente, cui non restava che il conto delle assenze.

Vide un giovane accostarsi al cancello, un uomo alto e robusto con un volto che pareva scolpito con la scure, un volto che da lontano gli parve d’aver già incontrato da qualche parte. Prudenza avrebbe suggerito di non mostrarsi in casa, di ignorarne la presenza. Non erano tempi facili e i nobili fedeli alla Corona non godevano in quel momento di buona reputazione, la notte di saccheggio costata la vita a Jean-Baptiste, mentre il Generale si trovava in missione, era un ricordo drammatico e recente.

Accostandosi da dietro la tenda alla finestra a lato del portone del palazzo per valutare, non visto, se dare fiducia a quel visitatore inatteso o ignorarne la presenza, il Generale vide che l’uomo restava con le mani ostentatamente in alto e stava dicendo qualcosa. Si risolse ad aprire il portone e ad andargli incontro verso la cancellata, non prima di aver nascosto un’arma tenuta a portata di mano per precauzione.

«Generale, vengo in pace. Procederò con le mani alzate, in modo che possiate sentirvi al sicuro, sono consapevole che in questi tempi bui sia necessario stare accorti», gli gridò per farsi sentire a distanza.

Il Generale man mano che si avvicinava notò che nella destra aveva qualcosa di bianco. Vide che lo sconosciuto, (ma lo era?) lo attendeva da solo, ben attento a tenere le mani sempre in vista. Quando il generale fu nelle vicinanze, l’uomo abbassò la destra giusto il necessario per tendergli, oltre le inferriate del cancello, una bustina che le dita avvertirono leggermente rigonfia.

«Mi chiamo Alain sono un ex soldato della guardia, molti mesi fa vi ho fatto recapitare l’ultima lettera (1) di vostra figlia Oscar François, il contenuto di questa bustina vi dimostrerà che non mento».

Il Generale aprì il piccolo involto senza riuscire a nascondere il tremito delle mani, non che gli importasse più di tanto di celarlo: si trovò tra le dita una sottile catenella d’oro e una minuscola medaglietta, sul recto c’era sbalzata un’immagine sacra, sul verso incisi lo stemma del casato, le iniziali di sua figlia e la data del suo battesimo, 15 gennaio 1756. Istintivamente si infilò le dita nel colletto della camicia tastando una medaglietta identica. Era stato lui a metterla al collo di Oscar con una catenella nuova, appena più robusta di quella che aveva portato da bambina, il giorno in cui lei aveva indossato la divisa per la prima volta e a insegnarle a non separarsene per nessuna ragione: «In battaglia non si può mai sapere».

Il Generale aprì il cancello e fece un cenno al soldato in borghese, per invitarlo a entrare senza curarsi di nascondergli le ciglia inumidite.

L’altro, sempre attento a tenere le mani in vista, gli diede il tempo di ricomporsi prima di dire qualunque cosa, ne aveva bisogno anche lui, non poteva dirgli che aveva amato sua figlia a senso unico nel segreto del suo cuore e che entrare in quella casa in quel momento per lui aveva il valore di un pellegrinaggio.

Quando fu certo di poter tenere la voce salda – erano ormai dentro casa – riprese a parlare: «Generale, non dovete temere nulla da noi. Nessuno di noi vi farà mai del male, la storia di vostra figlia è difficile da nascondere e tutti sanno che siete il padre di un’eroina della Rivoluzione, fosse anche vostro malgrado, da questa parte della barricata tutti sanno che le cose che sapeva le aveva imparate grazie a voi, è dai vostri che vi dovete guardare casomai».

«Dunque eravate con lei, siete uno dei 50 disertori. Come mai non portate l’uniforme, non siete entrato nella Guardia Nazionale?»

«Sì, ci ero entrato sulle prime come gli altri sopravvissuti e il Colonnello D’Agoult, ma poi mi sono congedato, non avevo più la forza di combattere, ora coltivo un campo. Vedete, Generale, non avrei mai sparato sulla folla in cui c’erano i miei amici, le loro mogli, i loro bambini, ma non mi piace la violenza che sta dilagando da ogni parte. Non era questa la Francia che sognavano André e Oscar, ve lo posso garantire. Nessuno di noi era un fanatico e men che meno lo erano loro due. Ho trascorso con lei la sua ultima notte, vegliando il corpo di André. Quella notte dal fondo della disperazione mi ha parlato anche di voi: “Mio padre, uomo severo e rigoroso con sé stesso prima che con gli altri, mi ha insegnato che i gradi e i titoli significano responsabilità, non ha mai difeso il privilegio dei nobili come fine a sé stesso, non ha mai abusato del proprio titolo e mi ha insegnato a non farlo. Non l’ho mai visto punire la servitù in modo arbitrario, non che non volassero gli schiaffi ma erano un’esclusiva riservata solo a me. A prendere André a mestolate, nel caso, lasciava che fosse sua nonna, la governante di casa della quale mio padre ha molto rispetto. La mia vita non è stata facile, ma non avrei voluto che fosse diversa, se mai ti toccasse consegnare a mio padre la lettera che ti ho dato faglielo sapere anche tu”. Le pesava non avervi salutato, non era voi che voleva tradire, per questo mi ha consegnato quell’ultima missiva (1)».

Alain alzò lo sguardo sull’uomo che aveva di fronte e che nel frattempo gli aveva fatto strada nel suo studio, vide che aveva gli occhi lucidi e che non osava replicare per non tradire il tremito nella voce. Alain, dal canto suo, era intimidito da quel luogo, provava a immaginare la vita dei suoi amici bambini, in quel grande palazzo austero che all’epoca, nell’unica volta in cui vi si era affacciato, ricordava con arredi sontuosi.

«Ora ricordo dove vi ho visto – nella mente del Generale la figura di qull’uomo si sovrappose alla figura di un soldato di cui all’epoca aveva notato soprattutto un certo modo trasandato di portare l’uniforme -. Siete già stato qui una volta, siete venuto ad annunciare l’ordine di sedare la rivolta a Parigi, l’ultima sera. Sapevate già?».

«No, signore. I miei compagni e io abbiamo avuto un colloquio tra noi soltanto quella notte e deciso di unirci ai rappresentanti del popolo perché ne facevamo parte, Oscar e André non erano con noi, l’avremmo comunicato al comandante quando fosse arrivata in caserma, accettandone le conseguenze. Solo all’alba quando lei e André sono arrivati dopo essere scampati a un blocco di non so quale reggimento e dopo aver trascorso la notte insieme vostra figlia ci ha comunicato la sua decisione di lasciare l’uniforme, unirsi ad André e al popolo rinunciando a titolo e grado, da quel momento non si è mai più presentata con il nome del vostro casato, sono convinto che lo abbia fatto non per rinnegarlo, ma per proteggerlo e per proteggere Voi oltreché sé stessa».

«Posso chiedervi una cosa indiscreta?».

«Dipende, Generale, vi risponderò se potrò».

«Pensate che Oscar e André abbiano fatto in tempo ad amarsi in quelle ore burrascose?».

Alain si stupì per la domanda ma capì dal tono che la risposta non avrebbe rinfocolato la rabbia e fu sincero: «Sì, signore, ne sono sicuro: perché quell’ultima mattina il Comandante quando espresse l’intenzione di lasciare l’uniforme e unirsi al popolo lasciandoci liberi di decidere ciascuno per sé si presentò come la compagna di André Grandier ed ero presente quando con André già ferito si sono promessi di sposarsi davanti a Dio se la vita avesse dato loro il tempo. Non so se ho fatto bene a dirvelo - rise Alain - Oscar mi ammazzerebbe se sapesse, riservata com’era».

Il Generale si diede il tempo di riprendersi da un momento di commozione e sorrise tra le lacrime: «Sì credo anch’io che vi farebbe fare una brutta fine, ma penso che, dal momento che ha reso ufficiale la sua relazione al punto da fare una scelta così radicale, fosse abbastanza intelligente da immaginare che la notizia prima o poi sarebbe giunta anche a me: ma se questo può sollevarvi dal peso di aver tradito un segreto, sappiate che da allora vivevo nella speranza che fosse andata come mi dite. Mi porto molti rimorsi, Alain, tra questi l’aver contrastato quella relazione tra due persone che si amavano e amavo. Ma, ditemi, perché avete atteso tanto a farmi avere questo segnale?»

«Perché adesso abito lontano e poi non volevo venire da voi portandovi solo notizie di morti. Permettetemi di mettere mano alla bisaccia per estrarre un’altra cosa che devo darvi».

Il Generale lo guardò con aria interrogativa e fece un cenno d’assenso. Il suo sesto senso di stratega gli disse che poteva essere un’imprudenza lasciargli nascondere le mani, ma si disse che se gli fosse accaduto qualcosa non avrebbe perso granché. Invece si vide recapitare un’altra busta di formato più grande.

«Queste sono notizie di vivi, Generale».

Il volto del Generale si rischiarò, impaziente.

«Vi lascio leggere, generale…» e fece per alzarsi.

«No, aspettate, permettetemi di offrirvi qualcosa da bere, e se ne avete concedetemi ancora un poco del vostro tempo per condividere con me alcuni dei vostri ricordi. Vedete, sapere non dà pace al dolore, ma macerarsi nell’incertezza impedisce anche di cercargli un senso».

L’altro annuì: «Con piacere, Generale, per quanto possa far piacere condividere memorie dolorose. Fa bene anche a me, anch’io mi porto dentro domande e rimpianti e più di voi oggi sono un uomo solo».

«Credete che abbia sofferto?». In un soffio il generale diede voce alla domanda che con urgenza gli premeva dentro dal giorno in cui aveva ricevuto il biglietto di Alain e l’ultima lettera, postuma, di Oscar, che gli aveva confermato quello che aveva sempre saputo ma che nessuno aveva osato dirgli ufficialmente e cioè che era davvero Oscar l’ufficiale disertore che, corrispondente alla descrizione di sua figlia, aveva guidato l’assalto alla Bastiglia. Lo chiese senza premurarsi di esplicitare il soggetto della domanda certo di essere compreso.

«Credo di no, Generale, non in quel momento: sono arrivati talmente tanti colpi che penso che non abbia fatto in tempo ad avvertire quanto accadeva. Ma niente avrebbe potuto farla soffrire più di quanto non avesse già fatto la morte di André avvenuta davanti a lei il giorno prima».

«Credete che si sia esposta intenzionalmente?»

«Non sono in grado di dirlo, signore, ma credo che non abbia più importanza».

Alain de Soisson vide le mani del generale tremare stringendo la catenina e senza alzare lo sguardo si alzò fingendo di guardare una carta geografica appesa alla parete per alleggerire dal peso del suo sguardo la pena del suo interlocutore.

«Grazie, soldato, non è facile – capirete - fare i conti con tutto questo anche a distanza di tempo, ma mi consola il fatto che non abbia fatto in tempo a sentire la vita mancare. So che non me ne voleva per la vita che le ho imposto, è stata lei a dirmelo, era una donna fortissima, ma uno dei sensi di colpa che mi porto è averla consegnata a un’esistenza che l’ha esposta a un rischio fisico con cui una ragazza non avrebbe dovuto confrontarsi e alla sofferenza fisica che questo comporta e, per allenarla a questo e al resto, di averla forgiata con un’educazione di una durezza eccessiva».

«Generale, non fatevi questo cruccio, era un ufficiale con tutti i crismi- capace, corretta, coraggiosa – e ne era perfettamente consapevole, penso anche fiera di esserlo. Credo di poterlo dire perché all’inizio sono stato uno di quelli che non le ha fatto sconti e ha contribuito a renderle la vita dura».

Un’ombra scura di preoccupazione attraversò lo sguardo del generale.

«Dura quanto? Se siete un uomo rispondetemi con sincerità, è importante per me saperlo. Vi do la mia parola che non me ne vendicherò».

«Abbiamo messo alla prova in tutti i modi, senza riguardo alcuno, l'ufficiale, Generale, mettendone in discussione l'autorità anche in quanto donna per saggiarne l'autorevolezza, le capacità, la tempra, la prestanza fisica. Ma, se è questo che mi state chiedendo, non abbiamo mai mancato di rispetto alla donna, mai. Ve lo giuro sul mio onore». Disse solenne, poi si lasciò attraversare da un sorriso ironico che il Generale accolse con uno sguardo capace di incenerire.

«Non fraintendetemi, Generale, non volevo scherzare su una cosa così seria, perdonatemi se il mio sorriso vi ha offeso, mi è venuto da ridere pensando che se mai uno avesse osato mancare di rispetto a vostra figlia anche solo col pensiero, con Grandier nelle camerate, non sarebbe arrivato al giorno dopo. Gran bravo ragazzo, molto pacifico, ma guai a toccargliela».

Un sorriso, di sollievo, ma amaro, contagiò il Generale: «Avete ragione, Alain, ne so qualcosa anche io. Ma abbiate la bontà di non chiedermi oltre. Non sono momenti», riprese incupendosi, «che ho voglia di ricordare».

Alain si domandò divertito se quell'acqua cheta del suo amico André avesse osato sfidare apertamente il Generale, ma convenne tra sé che non fosse il caso di domandarlo.

«Sbagliandomi sul suo conto», continuò Alain, «per un mio pregiudizio, l’ho anche sfidata in malo modo a duello con la spada, con una malacreanza di cui mi sono scusato in seguito e di cui ancora mi vergogno. Pensavo che ne avrei avuto ragione facilmente, contando sulla mia superiorità fisica e sul fatto che ero il miglior spadaccino del reggimento, ma era più abile di me. Ha accettato la sfida con un coraggio che ancora le ammiro e mi ha battuto davanti a tutti sul campo. – Dentro di sé il Generale che, immaginandola in duello con quel marcantonio aveva avuto un brivido retroattivo, ebbe un attimo di compiacimento - Avrebbe potuto spedirci tutti davanti alla Corte marziale per insubordinazione e invece ha avuto l’intelligenza e l’abilità strategica di conquistarsi la nostra stima. Posso dirvi con assoluta certezza che non ha mai perso, neppure nei momenti più ingrati, il controllo della situazione né sul campo, né fuori. Eravamo abituati a comandanti autoritari quanto incapaci ed eravamo pieni di pregiudizi, ce li ha smontati uno a uno senza sbagliare un colpo. Io ho visto l’ufficiale, solo su questo posso testimoniare, e vi garantisco che non ho mai avuto così tanto da imparare da un mio superiore. Ma se il cuore del mio amico Grandier, che l’ha conosciuta certo meglio, ha qualche voce in capitolo, direi che avete cresciuto una grande donna non solo un soldato – passatemi l’espressione – con gli attributi».

Il gergo non proprio forbito strappò al Generale, che aveva pratica di caserme, un sorriso di finto rimprovero: in realtà quel giovane, con la faccia da schiaffi e lo sguardo malinconico, gli suscitava per la sua franchezza un’istintiva simpatia, al punto da fargli superare e infine passare in secondo piano la cattiva impressione che sempre gli faceva la trascuratezza nel vestire: dopo una vita di forma e di etichetta e mesi di solitudine, anche il Generale sentiva il bisogno di spazi di autenticità.

«Grazie, Alain, non vi chiedo il vostro cognome perché ignorarlo tutela entrambi nei rischi imprevedibili di questo tempo confuso, aspettatemi un istante…».

Tornò con una bottiglia pregiata che recava in etichetta l’annata: 1755.

Il soldato fece un’espressione che lasciava intendere che aveva letto e compreso.

«So che sapete leggere, Alain, dal giorno di quel biglietto del quale vi ringrazio... (1)».

«Sì, signore, quand’ero bambino abitavamo in campagna e mio padre, anche se eravamo poveri, ha voluto che frequentassimo le scuole rurali rese obbligatorie nel 1698 da Luigi XIV, capisco che vi stupiate: era ed è un obbligo alquanto disatteso per chi deve procurarsi il pane. Era difficile anche per noi, ma mio padre ci teneva. Ho lasciato quando è morto, avevo 12 anni».

«Permettetemi di donarvi questa in cambio di quello che mi avete portato, ne ho messe da parte alcune la notte in cui la mia ultima figlia è nata...». Con un tagliacarte tolto dalla scrivania prese a raschiare via dall’etichetta lo stemma di famiglia.

«No, Generale, che fate?»

«È più prudente che non vi trovino addosso questo stemma, questo graffio vi ricorderà questo giorno e questa casa».

Un po’ frastornato dalla recrudescenza di sentimenti nascosti che il generale non poteva conoscere, Alain accettò il dono e si congedò, lasciando il Generale comprensibilmente ansioso alla sua lettera.

Mani febbrili impugnarono il tagliacarte e lacerarono la busta chiusa da un sigillo sconosciuto.

(continua)
(*)Questa storia presuppone Natale 1789. In una piccola chiesa https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=4042927&i=1

(1)La lettera corrisponde a un’altra storia di questo fandom: Chevalier1, Le parole che non Vi ho detto.https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=4041144&i=1

(1)La lettera corrisponde a un’altra storia di questo fandom: Chevalier1, Le parole che non Vi ho detto.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** SPERANZA DI RESURREZIONE ***


East Sussex, 7 febbraio, 1790

Mio amato Augustin,

finalmente riesco a trovare un canale affidabile per portarVi nostre notizie. Chi giunge dalla Francia di questi tempi non vi fa ritorno e per questa ragione, come immaginerete, non è facile avere a portata mani sicure nelle quali mettere notizie riservate. Nel dolore e nelle lacerazioni che tutti attraversiamo e nella lontananza che ci tiene in pena gli uni per gli altri e ci fa soffrire enormemente sono lieta di dirVi che stiamo bene, che siamo accolti con rispetto e con relativo agio in un solido maniero all'est del Sussex, di cui occupiamo un'ala concessa in locazione dai padroni di casa, che ci trattano con cordialità senza invadenza alcuna. Stiamo bene di salute anche se soffriamo un poco il clima spesso grigio e piovoso che ci ripaga con un'erbetta sempre fresca e con il paesaggio rilassante delle colline circostanti, che grazie alle loro greggi al pascolo ci forniscono di ottimo latte e di dignitoso formaggio. Nulla di paragonabile alla varietà francese, ma dati i tempi ci accontentiamo eccome e non ci manca nulla di importante a livello materiale, tutte le mancanze sono rivolte alle persone che abbiamo amato e perduto e a Voi che sappiamo solo e lontano in una Patria diventata insidiosa e forse ostile. Per tutto il resto non dateVi pena per noi.

Occupo le mie giornate insegnando l'arte del ricamo e le buone maniere alle due figlie maggiori del padrone di casa e a un gruppo di ragazze di buona famiglia e in età da marito della zona, impegnate a preparare il debutto in società. Marie è un poco ringiovanita, sempre presa com'è a rincorrere i due piccoli di casa: un bambino biondo con gli occhi azzurri e una bambina bruna con gli occhi verdi, due diavoletti che credo le ricordino Oscar e André e che mi sembra le impediscano di arrendersi al suo irrimediabile dolore. Il padre li ha affidati a lei sperando che imparino il francese, sono due cervellini perspicaci e imparano presto, ma la cosa che riesce loro meglio è l'invenzione di marachelle sempre nuove che costringono Marie di tanto in tanto a minacciarli con il mestolo. Lo ha a portata di mano perché spesso, benché gli anni e le sofferenze abbiano lasciato il segno, la troviamo a dare direttive in cucina materia in cui gli inglesi hanno molto da imparare.

Il nostro ultimo genero Alexandre ha trovato un lavoro come amministratore, presso le proprietà di un nobile francese immigrato decenni fa con buona fortuna per sposare una nobildonna di Brighton e provvede egregiamente alle nostre necessità. Nostra figlia insegna il pianoforte ai figli del nostro ospite e veglia sull'educazione di François Augustin, che studia con profitto e vorrebbe provare il prossimo anno l'esame di ammissione a uno di questi rinomati e prestigiosi collegi inglesi, e di

Marguerite-Anne, che si sta facendo una ragazza raffinata con grande attitudine per la musica e per il canto.

Le altre figlie con nipoti e mariti ci hanno lasciato da qualche mese, hanno scelto il progresso della grande città e si sono trasferiti a Londra, ma anche loro stanno bene e stanno trovando una stabilità.

Mio caro Augustin vorrei tanto sapere di Voi, so da chi giunge dalla Francia che Parigi vive momenti difficili, so che vivete ormai solo e con poca assistenza a palazzo, quantomeno le ultime notizie Vi danno in buona salute fisica e questo ci conforta, anche se immaginiamo che la solitudine non allevii l'immenso dolore che condividiamo e che anzi finisca per esacerbarlo. È possibile che il lungo viaggio di questa lettera Ve la faccia giungere entro la prossima Pasqua, se così sarà che la colomba della resurrezione Vi porti almeno un poco di pace interiore.

Dopo tutto quello che abbiamo vissuto, dopo questa dolorosa separazione permettetemi di dirVi, addirittura di scriverVi, una cosa che forse a una nobildonna non più giovane non si conviene: sono stata una di quelle donne fortunate che hanno amato il marito scelto per loro, tra le poche chieste in sposa da un uomo che le ha volute per amore. Per questo tra le cose che mi pesano ora è non poter invecchiare accanto a Voi. Abbiate cura di Voi, Augustin, per quanto potete senza tradire il Vostro ruolo, prego che il Signore ci faccia la grazia di ricongiungerci in questa vita. Il ricordo di quanto vissuto insieme porta certo rimpianto ma anche una grande consolazione, finché siamo vivi possiamo ancora sperare.

Vi amo

Vostra Marguerite

Superato il groppo in gola sorto sulle prime a tradimento al tono inconsueto delle frasi conclusive, la carezza di quelle parole inattese regalò al Generale dopo mesi e mesi una notte di sonno ristoratore.

Il mattino di Pasqua, di buon’ora come di consueto, si alzò per una volta rigenerato, si vestì scegliendo una tenuta sobria ma sufficientemente formale da non mancare di rispetto alla solennità festiva, si assicurò nella tasca interna della redingote scura una piccola borsa di cuoio e la medaglietta che aveva ricevuto il giorno prima, nascose per precauzione un pugnale nella cintura e si avviò verso le scuderie.

Dopo un’ora di cavalcata tranquilla per non sgualcire l’abito più del dovuto giunse in vista di una piccola chiesa in mezzo alla campagna. Il suono delle campane, tornato a festa dopo il silenzio che la tradizione francese voleva in segno di lutto dalla sera del giovedì santo, annunciava la celebrazione imminente.

Entrò nella navata trafitta dai raggi del sole che, filtrando dalle vetrate colorate, disegnavano arabeschi pastello sul pavimento. Scelse lo stesso angolo defilato da cui aveva assistito alla Messa di Natale (1) e, inginocchiato nell’attesa della processione del celebrante verso l’altare, pregò che a presiedere la funzione fosse la stessa persona della notte tra il 24 e il 25 dicembre.

- «Dominus vobiscum».

- «Et cum spiritu tuo» . (2)

Riconosciuta la voce, mentre rispondeva alla formula di rito, il Generale ringraziò di essere stato esaudito: si sentiva in debito con quell’uomo misericordioso che aveva accolto la sua disperazione, e financo il suo rifiuto, senza giudicarli.

La sua spina era sempre lì, ma il suo animo era stato, almeno un poco, alleggerito dalla visita del giorno prima.

Gloria in excelsis Deo. Et in terra pax hominibus bonae voluntatis .

Il Generale si chiese se potesse considerarsi ammesso al novero degli uomini di buona volontà sui quali si invocava la pace di cui sentiva impellente bisogno.

Quando salì sul pulpito il sacerdote, che non aveva perso l’abitudine a scrutare per sicurezza i volti degli astanti - maturata in tempi prerivoluzionari in cui la chiesa era luogo di ritrovo per persone di tutti i ceti interessate al nuovo corso -, riconobbe immediatamente lo sguardo di quell’uomo che gli era rimasto impresso. Ringraziò mentalmente il Padreterno di avergli fatto la grazia di rivederlo e pregò che non fuggisse subito al termine della funzione.

- «Ite, missa est»

- «Deo gratia»

Quando si voltò per scendere dall’altare il reverendo non lo vide più e se ne rammaricò, ma un istante dopo lo notò in attesa dietro una colonna e lo raggiunse.

- «Confessatemi, padre».

Ringraziando Iddio per il dono di quel ritorno, il sacerdote gli indicò la direzione del confessionale.

- «In nomine Patris et Filii e Spiritus Sancti. Vi ascolto, fratello»

- «Chiedo perdono a Dio e a Voi, ho peccato di superbia contro Dio, mancando di rispetto al vostro ministero e a voi tre mesi fa. Anche quello era un modo di nominare Dio invano, ma invece di dannarmi Egli mi ha fatto la grazia di farmi ritrovare un poco di pace interiore pur nel dolore che non mi abbandona mai. Ieri ho finalmente saputo che quel che resta della mia famiglia è sano e salvo in un luogo sicuro, saperlo non mi renderà la figlia che ho perduto ma che, ora lo so, se n’è andata senza essere in collera con me: una grazia che non ho meritato, ma che ugualmente mi avvolge anche se non farò mai pace con quello che è accaduto e con il fatto di esserne la causa indiretta. Ma non temete, padre, questa volta non vi rifiuterò, né Voi né la grazia di Dio, sono venuto per provare a riparare il mio ennesimo torto».

- «Ego te absolvo peccatis tui, in nomine Patris et Filii e Spiritus Sancti. Amen»

- «Amen». - «Nemmeno questa volta vi chiederò di pregare per penitenza, pregate perché il vostro cuore afflitto trovi attimi di pace»

Il sacerdote uscì dal confessionale e avvolse in un abbraccio fraterno l’uomo di fronte a lui che nel frattempo si era alzato e che accolse quel gesto cui non era avvezzo con stupore ma non con fastidio.

«Venite» e gli fece cenno di seguirlo in Sacrestia, dove si liberò della stola penitenziale e dei paramenti sacri che ancora vestiva dalla Messa.

    - «Vi attende qualcuno?» - «No, Reverendo, la mia poca servitù ha una giornata di riposo» - «Allora, ve ne prego, datemi il tempo di riporre gli arredi sacri che sono ancora sull’altare e poi fatemi l’onore di condividere la mia povera tavola»

Il Generale non nascose la meraviglia:

    - «Siete certo di quello che dite, siete sicuro di volere la pecora smarrita alla vostro desco?».

    «Et murmurabant pharisaei et scribae dicentes: “Hic peccatores recipit et manducat cum illis ”. Et ait ad illos parabolam istam dicens: “Quis ex vobis homo, qui habet centum oves et si perdiderit unam ex illis, nonne dimittit nonaginta novem in deserto et vadit ad illam, quae perierat, donec inveniat illam?». (2)

    - «Mi avete convinto, vi ringrazio della grazia che fate voi a me. Ma prima vorrei domandarvi una cortesia: vorrei che benediceste questo piccolo oggetto che ho riavuto ieri e che per me ha un significato enorme. È l’ultimo ricordo di mia figlia».

Estrasse dalla tasca interna della redingote la medaglietta ricevuta il giorno prima e la tese maneggiandola come una reliquia al suo interlocutore. Il sacerdote se la rigirò in mano a meglio vederla al sole che filtrava caldo da una vetrata: l’effigie portava sul recto una Madonna con bambino, sul verso le iniziali, lo stemma di famiglia e una data di 35 anni prima, la osservò con attenzione, come a volerla leggere, prima di pronunciare la formula di benedizione e tracciarvi sopra un segno di croce.

Guidò il generale davanti a una nicchia in cui c’era l’affresco di una Madonna col Bambino e poi proseguì recitando la preghiera dei defunti:

- «Requiem aeternam dona eis. Domine, et lux perpetua luceat eis. Te decet hymnus, Deus, in Sion, et tibi reddetur votum in Jerusalem Exaudi orationem meam; ad te omnis caro veniet. Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis».

La voce del generale si unì a quella del sacerdote, ringraziandolo mentalmente di aver compreso senza parole quanto avesse bisogno di quel piccolo rito e di una speranza di resurrezione per trovare un attimo di pace in terra.

Il sacerdote accese un cero lì davanti e concesse a quell’anima inquieta un minuto di meditazione silenziosa e poi lo invitò:

- «Seguitemi pure, se volete, Generale, o se, invece, avete bisogno di un attimo di aria aperta in solitudine prendetevi il tempo che vi serve».

Il Generale optò per il giro attorno alla chiesa. Non s’avvide che anche il sacerdote era uscito e aveva spiccato una rosa bianca, per porla in chiesa accanto al cero acceso.

Quando si sentì pronto, il Generale bussò alla porta della piccola canonica inglobata nello steccato che circondava la chiesa, domandandosi se fosse davvero il caso di accettare quell’invito.

L’interno svelava un luogo spoglio e modesto, ma pulito e ordinato. Davanti a quella tavola semplice e senza pretese, il cuore del Generale si distese.

«Panem nostrum cotidianum da nobis hodie», sussurrò il sacerdote ringraziando Iddio e lasciando intendere che negli ultimi mesi il pane quotidiano non tutti i giorni era stato scontato.

- «Dalla sera di Natale ho pensato spesso a voi, sapete? Mi sono sentito disarmato quella notte davanti al vostro dolore senza speranza e ho temuto di non rivedervi».

- «Anch’io vi ho pensato, spesso. La vostra accoglienza che ha rispettato l’abisso del mio dolore senza bisogno di provare a colmarlo con parole di circostanza in qualche modo mi ha fatto sentire compreso da chi avrebbe potuto e forse dovuto cacciarmi a calci dopo quell’atto di arroganza».

- «Vi sbagliate, Generale, et adducite vitulum saginatum, occidite et manducemus et epulemur, quia hic filius meus mortuus erat et revixit, perierat et inventus est. Quanto a vitello grasso siamo un po’ scarsi di questi tempi, il banchetto non è stato all’altezza di quello evangelico ma abbiamo fatto del nostro meglio ed è stato un piacere oltreché un onore condividere la tavola con voi. Assisto a tanti pentimenti di facciata, sapete? Persone che vengono semplicemente per abitudine, per adempiere a un rito che vivono come fosse vuoto...». (3)

Serviti dall’anziana madre del sacerdote che al Generale ricordava Marie condivisero conversando amabilmente la convivialità di un pranzo rustico ma preparato con cura.

- «Vi ringrazio di cuore, reverendo: il vostro cibo, semplice e gustoso, il vostro vino schietto, e ancor più il piacere della vostra colta compagnia hanno dato sollievo al corpo e all’anima, era davvero molto tempo che non avevo occasione di concedermi qualche ora serena a discorrere di musica e di letteratura: per chi dopo aver avuto attorno a sé una famiglia numerosa, vive solo in spazi troppo grandi, le feste comandate sono un momento che aggrava il dolore, dando rilievo ad assenze e sensi di colpa destinati a durare per sempre. E invece voi mi avete donato momenti di autentica serenità e intanto ieri accanto alla medaglia che avete benedetto e che in qualche modo rinnova la mia pena ho ricevuto una lettera che ha allargato il mio cuore: è ugualmente doloroso stare lontani da chi si ama, ma essere liberati dall’incertezza sul loro destino e saperli sani e salvi è davvero una piccola resurrezione. A maggior ragione se la notizia viene con parole, inattese, cariche di un sentimento che a volte mi chiedo se io abbia meritato. Non sono una persona facile, non lo sono stato come marito né come padre, non è stato semplice convivere con la mia attitudine all’intransigenza che ora, giusto contrappasso, grava su di me».

«Siete un essere umano, Generale, imperfetto come tutti, non per questo, anzi, meno figlio di Dio».

- «Touché, mi toccherà di nuovo confessarvi superbia», rise il Generale.

Sul punto di congedarsi il Generale estrasse la piccola borsa che aveva nascosto nella tasca interna: conteneva un gruzzolo non modestissimo di monete d’oro: «Datemi l’opportunità di contribuire a scardinare la spirale di vendette potenzialmente senza fine che si annuncia: servitevene per dare un futuro ai bimbi orfani di entrambi i fronti. Son tutti vittime innocenti della violenza di chi li ha preceduti, fate quanto in vostro potere perché le colpe dei padri non ricadano su di loro, educateli, se potete, a non vivere nell’odio e nel terrore. Il futuro e la speranza sono nelle loro mani, ditelo loro da parte di un vecchio Generale che ha vissuto più in guerra che in pace e che ora non chiede altro che una tregua».

    - «Non so come ringraziarvi Generale» disse il sacerdote indicando con gli occhi la borsa che l’altro gli aveva messo in mano, «ma dunque sapevate della scuola?» - «Quale scuola, Reverendo?» - «Venite con me».

Sollevando la talare sul davanti per non inciampare il sacerdote s’inerpicò su una stretta scala a chiocciola seguito dal suo ospite. Chinandosi per non battere la testa sugli spioventi uno dopo l’altro s’addentrarono nel sottotetto: disposto per lungo sotto l’altissima cuspide del tetto e parallelo ad essa, al centro della soffitta, campeggiava un tavolaccio di legno macchiato d’inchiostro con attorno sgabelli e sedie zoppi. Nelle parti laterali della stanza, dove lo spiovente lasciava il posto a basse pareti verticali, scaffali ricavati da resti di mensole che avevano visto tempi migliori ospitavano libri consumati dal tempo, per lo più adatti a lettori di primo pelo. Ma anche qualche accostamento più adulto e non scontato: su due coste vicine il Generale aveva letto Pensées di Blaise Pascal e Émile ou De l'éducation di Jean Jacques Rousseau. Sulla parete opposta alla porta una lavagna cancellata a metà recava vestigia di moltiplicazioni inesatte e tracce di coniugazioni periclitanti. Al centro del tavolo faceva mostra di sé, posato su un leggio tarlato, un grande abbecedario consunto dalle troppe consultazioni.

Chiudendosi la porta alle spalle il Generale notò che sulla faccia interna del battente era appesa con quattro chiodi una mappa della Francia tratta da una fonte obsoleta, disegnata approssimativamente da cartografi alle prime armi di buona volontà e manualità da rivedere, con ogni probabilità bambini. La guardò e le sorrise.

    - «La maggior parte del mio ministero, quando non ci sono messe battesimi e funerali, consiste nell’insegnare le tabelline a contadinelli duri di testa e a orfanelli di tutte le bandiere. Ma la mia biblioteca non è tutta qui, se non vi pesa salire ancora vi mostrerò qualcosa che ho messo al sicuro in cima al campanile». - «Volentieri, Reverendo. Ancora ho la forza di sostenere le scale».

S’inoltrarono in una chiocciola stretta e carica di polvere e di piume lasciate da qualche colombo.

    - «Scusate, Generale, forse non è il percorso adatto al vostro abito». - «Non datevi pensiero, questa Pasqua in vostra compagnia è la mia prima occasione “mondana”, se non vi offende che la chiami così, da quasi un anno. Passo in uniforme tutto il mio tempo pubblico e in abiti domestici il resto. Quello che non farà questa scala lo faranno le tarme. E poi il vostro sguardo di poco fa mi ha lasciato intendere che la meta vale il viaggio».

Giunti nel vano all’ultimo piano prima della cella campanaria, il Generale si trovò all’interno di una non grande ma ordinata e pulitissima biblioteca: testi di liturgia, filosofia, classici greci e latini e ovviamente libri sacri. Il sacerdote si avviò a uno scaffale che conteneva libri di catechesi ormai ritenuti datati. Il Generale si stupì che intendesse mostrargli proprio quelli ma l’arcano fu presto svelato. Dietro i libri nascosta da una porticina di legno chiusa a chiave c’era una nicchia a scomparsa, il sacerdote la aprì e ne estrasse una scatola di marocchino adatta più o meno a contenere un evangeliario. La posò con cautela sul ripiano e ne estrasse un codice più piccolo, poco più di 20 centimetri per 30, ne aprì con il massimo riguardo le pagine di vellum, la più fine delle pergamene, e mostrò l’interno: una spettacolare Bibbia riccamente miniata e vergata in una grafia che anche a un uomo colto come il Generale parve astrusa: «Che lingua è?».

    - «Siriaco. Potrebbe risalire al VI-VII secolo e provenire dalla Mesopotamia». - «Conservatela con cura, Reverendo, ha un valore economico e a maggior ragione culturale enorme». - «Perdonatemi questa piccola vanità Generale», confidò il prete, mentre, completata la guardinga discesa dai ripidi gradini, risbucavano all’aperto, «me ne preme, come immaginerete, più il valore storico e culturale, ve l’ho mostrata perché siete l’unica persona che conosco che possa comprendere l’emozione che mi dà. Mi piacerebbe che i ragazzi cui insegno semplicemente a leggere e a scrivere, per essere un poco più consapevoli della propria umanità, potessero un giorno arrivare a comprendere il valore di un libro, non solo per rivenderselo». - «Grazie, Reverendo, che Dio vi conservi, questo Paese ha un disperato bisogno di persone come come voi. È tempo che mi congedi, concedetemi la vostra benedizione»

    «Benedicat vos omnipotens Deus, Pater, et Filius, et Spiritus Sanctus.

    Gloria in excelsis et Et in terra pax hominibus bonae voluntatis, abbiate cura di voi, Che Dio vi accompagni. E non dimenticate di tornare a trovarmi».

    - «Ve lo prometto, tornerò: dopo il vostro invito ho un debito con voi». E un’amicizia da coltivare, pensò tra sé il generale, forse la prima vera da quando le responsabilità si erano fatte soverchianti.

    Il sacerdote guardò l’uomo allontanarsi per la stessa strada della volta precedente e fu tentato di chiedersi se la luce che lo illuminava fosse soltanto il sole. Ma represse subito quel pensiero troppo carico di devozione popolare per la sua fede temperata dai lumi: Signore, perdonatemi, forse ho bevuto un bicchiere più del consueto.

    Lunedì dell’Angelo 1790

    Il Generale Jarjayes si alzò presto come al solito, ma abbreviò la cavalcata consueta, consumò la colazione e appena la luce fu sufficiente si infilò in biblioteca chiedendo di non essere disturbato. Aprì la tenda della grande vetrata, dispose sul tavolo gli strumenti da lavoro e cominciò a squadrare un grande foglio. All’ora di pranzo la mappa della Francia era completa e precisa anche se mancavano ancora i colori.

    Si prese il tempo di un pasto leggero, tornò in biblioteca e si diede da fare con pennelli e colori: diede l’azzurro ai mari e ai fiumi, il verde chiaro alle pianure, il verde scuro alle colline, il beige alle coste, il bruno alle montagne. Riguardò la mappa: non trovò niente di particolare da obiettare, era sufficientemente precisa e chiara, per quanto non eccessivamente dettagliata. Eppure il risultato non lo convinceva.

    Si accese la pipa e sedette a meditare in poltrona accanto alla finestra in cerca della ragione della propria insoddisfazione, nella sua mente persa dietro alle volute del fumo, prese forma quello che ancora mancava: un paio di velieri solcarono l’Atlantico, un castello si materializzò lungo la Loira, le guglie di Notre-Dame svettarono all’altezza di Parigi e un ciuffo di lavanda spuntò in Provenza, due o tre picchi con una spruzzata di neve fecero la loro comparsa sulle Alpi. Aspirò l’ultima boccata prima che il fornello della pipa si spegnesse e si rimise al lavoro, completando la mappa con piccoli disegni dal tratto preciso ma studiatamente infantile, poi man mano che l’acquerello andava asciugandosi aggiunse i nomi di mari, fiumi, montagne e città, sforzandosi di adottare una grafia chiara e leggibile, adatta anche a lettori inesperti.

    Verso sera, prima che la luce calasse definitivamente, fece chiamare Étienne, il figlio dello stalliere, che aveva accompagnato il padre nel giorno festivo per tenergli compagnia mentre strigliava e nutriva i cavalli.

    Il bambino percorse trepidante, come sulle uova, la penombra azzurrina del lungo corridoio fino alla porta di legno verniciata in grigio chiaro, aveva sette anni, due grandi occhi azzurri lievemente tondeggianti, nasino all’insù punteggiato di lentiggini e zazzera bruna, ispida e scarmigliata. Bussò alla porta tutto tremante e intanto faceva un rapido esame di coscienza, convinto che il burbero padrone di casa, agitato dal padre alla stregua di un babau come minaccia preventiva per ogni possibile monelleria, lo avesse chiamato per un solenne rimprovero. Ma non riusciva a trovarne la cagione, cosa che ingigantiva l’incertezza e dunque il timore.

    - «Vieni avanti, Étienne», tuonò la voce profonda ma non adirata del generale.

    Il bambino, aperto il battente, esitò sulla soglia.

    - «Coraggio, avvicinati. Non ti mangio mica, devo farti vedere una cosa».

    Il bambino si avvicinò e quando fu davanti al cavalletto, su cui stava ad asciugare la mappa colorata sgranò, arrotondandoli un altro poco, gli occhi color fiordaliso:

      - «Oh, bello!». - «Sai cos’è?». - «La Francia, signore». - «Pensi che vada bene per dei bambini come te?» - «Oh sì signore, è bellissima, la mia scuola ha una mappa della Francia ma è in bianco e nero e tutta rovinata». - «Avvicinati, Étienne, che cosa c’è scritto qui?». - «O-c-e-à-n-o a-a-t-l-a-n-t-ì-co». - «Bravo Étienne si dice Ocèano Atlàntico. E sai che cosa c’è dall’altra parte? - «L’America, signore», - «Continua così Étienne studia sodo e se lo farai tra qualche mese, quando avrai imparato speditamente a leggere i nomi sulla cartina, e appreso le coordinate geografiche ne avrai una anche tu».

    Il bambino che si era aspettato tutt’altro restò lì intimidito come uno stoccafisso:

      - «G...grazie, signore». - «Ora fila in cucina, vai da Josephine e dille che ti sei guadagnato una fetta di dolce, sai la strada?». - «Nno... signore...». - «Vieni », si fece precedere dandogli una spintarella sulle spalle e lo accompagnò alle scale indicandogli la via. - «Grazie, signore».

    Étienne si precipitò giù dalla rampa, saltelloni, improvvisamente leggero, portandosi via il ricordo di un uomo molto diverso da come glielo avevano raccontato.

    Il generale scese nelle scuderie, deciso a sgranchirsi con una cavalcata prima di cena.

      - «Buonasera, Armand». - «Oh, buonasera, Generale, scusatemi, controluce non vi avevo visto, il cavallo è già sellato». - «Grazie, Armand, volevo dirti... ho conosciuto Etienne... ha una bella testolina vivace» - «Non vi avrà importunato, quel saltafossi, spero?» - «Certo che no, sono stato io a farlo chiamare, avevo bisogno di un bambino per una piccola verifica. Volevo dirti... incoraggialo a studiare, è sveglio, capace e curioso. Farà strada...», montò a cavallo e si avviò, quando fu in aperta campagna spronò il cavallo al galoppo verso il tramonto, cavalcando con una leggerezza che aveva creduto perduta per sempre.

    All’improvviso, il congedo che, per limiti di età e forse ancor più per gli incerti della storia, si avvicinava e che fin lì, in quella voragine di solitudine, aveva temuto più della morte, gli faceva un po’ meno paura.

    (1)Il racconto della Messa di Natale è il contenuto di un altro racconto di questo fandom, Chevalier1, Natale 1789 https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=4042927&i=1

    (2)Le parti liturgiche latine sono tratte dal Messale Romano, rito Tridentino, in uso nella Chiesa cattolica dal Concilio di Trento 1570 e al 1969, quando è stata introdotta la riforma elaborata durante il Concilio Vaticano II.

    (3) Vangelo di Luca, 15,2-4 «I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: 4 «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?».

    (4) Luca, 15,23-24 «Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4051245