Quod esse potuisset

di ToscaSam
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Guai a voi anime prave! ***
Capitolo 2: *** Di come si guadagna una madre ***



Capitolo 1
*** Guai a voi anime prave! ***


Guai a voi anime prave!

 
 
Il tumulto cresceva intorno a Notre-Dame. Si distinguevano abbastanza chiaramente grida di vittoria. Ad un tratto, cento fiaccole che facevano scintillare gli elmi dei soldati si sparsero sulla chiesa a tutte le altezze, sulle torri, sulle gallerie, sotto gli archi. Queste fiaccole sembravano cercare qualcosa; e dopo poco quei lontani clamori giunsero distintamente sino ai fuggiaschi:
 «L'egiziana! la strega! a morte l'egiziana!».
 La sventurata lasciò cadere la testa sulle mani, e lo sconosciuto si mise a remare furiosamente verso riva. Intanto il nostro filosofo rifletteva. Stringeva la capra tra le braccia, e si scostava piano piano dalla zingara, che si stringeva sempre di più contro di
lui, come al solo rifugio che le rimanesse.  Certo è che Gringoire si trovava in un atroce dilemma. Pensava che anche la capra,
secondo la vigente legislazione, sarebbe stata impiccata se fosse stata ripresa, che sarebbe stato un gran peccato, povera Djali! che per lui erano troppe due condannate che gli stavano così appiccicate, che insomma il suo compagno non chiedeva di meglio che
prendersi carico dell'egiziana. Era dibattuto violentemente nei suoi pensieri e, come il Giove dell'Iliade, soppesava ora l'egiziana, ora la capra; e le guardava l'una dopo l'altra, con gli occhi umidi di lacrime, dicendo fra i denti:
 «Comunque non posso salvarvi tutte e due».
L’incappucciato remava di gran lena e a un certo punto, la corrente si ritorse contro l’imbarcazione, dando un lieve scossone. Gringoire se ne accorse a fatica e dovette solo risistemare la capra più saldamente sulle ginocchia. Ma l’egiziana al suo fianco aveva fatto un guizzo di terrore e in un attimo si era ritrovata sull’estremità della barchetta, rischiando di cadere nelle nere acque del fiume: era accaduto che il cappuccio dello sconosciuto  gli era scivolato sulle spalle. Benché egli avesse provveduto a risistemarlo immediatamente sul capo, era stato ormai scoperto.
« Che avete, piccina? Venite avanti, che così ci farete ribaltare» disse Gringoire con dolce rimprovero ma l’Esmeralda non lo ascoltava. L’intorpidimento dei sensi che l’aveva avvolta negli ultimi minuti si era dissolto: ora distingueva bene la sagoma del prete, avvolta nel mantello; sentiva l’odore ripugnante della putrida acqua di fiume; sentiva il rumore della folla e il calore della rabbia.
« Assassino! Assassino! Non starò qui un attimo in più. Mi getterò nel fiume!» gridò l’egiziana puntando l’indice della bella mano contro il traghettatore.
« Ma che dite, mia dolce fanciulla? Quello è un maestro, un gran dotto, colui che mi ha insegnato che la parola che voi dite l’abbiamo assimilata dall’infedele arabo ḥaššāšīn e non dal poetico latino occisor. Che fate là? Siete in pericolo, rischiate di cadere, ohibò, ci farete cadere tutti! Pasqua di Dio!» esclamò Gringoire, sfoggiando ancora una volta l’espressione imparata dal re. L’egiziana si era rizzata in piedi sul bordo della barca e nello stesso momento l’incappucciato aveva abbandonato il remo.
Il filosofo, con la capra sempre ben salda sulle ginocchia, ebbe l’impressione di ritrovarsi nel mezzo di un volo pindarico: gli parve che la zingara e il prete costituissero come due discorsi a sé stanti e che per qualche motivo a lui sconosciuto fossero balzati dall’uno all’altro, attraversandolo.
« Per l’ombelico del papa!» esclamò, poiché l’incappucciato - ormai scappucciato - gli era piombato addosso, distendendosi completamente sopra di lui per afferrare il braccio dell’egiziana. La ragazza era stata frenata nel suo balzo disperato, che forse avrebbe compiuto o forse no. Quella piccola titubanza le era costata una mano glaciale e salda attorno al polso.
« Lasciami, assassino!» gridò mentre si dimenava come un uccellino. Il prete la teneva ben stretta e la barca oscillava senza freni nel fiume, inghiottendo acqua scura.
« Tenetela, maestro» volle dire Gringoire per aver l’impressione di essere parte all’azione. Il prete, così scomodamente disteso sul poeta, dovette accorgersi della presenza di quest’ultimo. Dette un forte strattone alla ragazza, che ricadde dentro la barca e con altrettanta rapidità estrasse dal mantello un orribile coltello da pietanza. Lo puntò contro il collo del poeta e gli strinse la giubba rossa e gialla di modo che rimanesse lungo disteso com’era. La capra, sconvolta da tutti quei movimento dell’imbarcazione, era balzata in direzione della sua padrona.
« Santa Vergine! Maestro, che inganno è questo?» incalzò Gringoire sentendo la lama del coltello premere contro la sua gola.
« Taci, imbecille! Tu non sai niente, non sei niente. Sei meno di uno strumento, sei un impiccio. Ma troverò il modo di usare questa tua inutile presenza. Dico a te, maledetta strega, guarda bene cosa accadrà a questo buffone se tu ti butterai dalla barca. Non mi importa di niente, ormai. Sono dannato, tu mi hai dannato. Ho ucciso mio fratello, ho ucciso la mia anima. Tu salta e io trapasso la gola di questo fannullone».
La Esmeralda si era intanto rialzata e teneva a bada con una mano la dolce capretta, che le leccava il palmo. I suoi occhi neri erano spalancati e terrorizzati. Riuscì a dire flebilmente e inutilmente: « Lascialo».
« Lasciarlo? Perché mai? è questo, adesso, che vuoi? Ho capito, chiunque purché non sia me. Ho influenzato per sempre il tuo giudizio, la tua capacità di avere un’opinione. La tua clemenza non si estenderà mai su di me, sono dannato per sempre ai tuoi occhi. Anche ai miei, anche a quelli di Dio. E dunque ora ti interessa della vita di questo buono a nulla? Preferiresti lui a me, lui che non nutre per te nemmeno un granello del mio sentimento, del mio amore, del mio fuoco, della mia dannazione. Lui che ti avrebbe fatta impiccare senza pensarci due volte, continuando la sua inutile vita in pace e studiando l’architettura delle chiese! E se io allora lo trafiggessi comunque? Che accadrebbe? Se rimanessimo solo io e te su questo traghetto, come due anime dell’Inferno di Dante?».
La Esmeralda non si mosse, sembrava una statua, il ritratto della paura. La barca continuava a vagare senza guida nelle terribili acque della Senna e si impennava con scosse sempre più violente.
« Se posso avanzare un’opinione, maestro, sembra che voi abbiate un problema. Ma chi sono io per giudicare? Ecco dunque, il mio proposito era quello di fuggire con almeno la capra poiché voi sembravate così preoccupato di occuparvi della ragazza. Ma dopo quest’ultima conversazione credo d’aver mutato spirito. Dunque, permettetemi, togliete questa lama dalla mia gola, che io sono un innocuo personaggio secondario del vostro problema, sono il Pilade della vostra Orestea, sono … »
« Fa’ silenzio, mi hai stancato! Parla ancora e ti sgozzo, quanto è vero che io sono perduto. E tu che mi dici, mia dannata, mia adorata, mio fiore velenoso? Vuoi forse la gola di questo pezzente? Preferiresti il suo letto al mio? Dillo e piomberò nelle viscere di Satana. Dì una parola su questo stupido omuncolo o sul tuo maledetto capitano e non so più cosa accadrà».
Ma un’ultima onda, più veemente, fece rovesciare l’imbarcazione e i suoi occupanti. Le acque gelide inghiottirono i tre viaggiatori e la capra, mentre un grido lacerante si univa a quello del gorgo:il coltello si era infilato nella gola di Gringoire e il suo sangue si diluiva nella Senna.
La Esmeralda affiorò, ansante, con i capelli completamente inzuppati, pesanti, avvolti intorno al volto e al collo come una piovra nera. Vide Djali nuotare verso la riva: non erano lontani. Poi affiorò il prete, che annaspò verso di lei con gli occhi ancora più roventi, ancora più indemoniati. E infine la ragazza lanciò uno strillo, poiché qualcosa le aveva sfiorato una gamba da sotto l’acqua scura. Il cielo notturno si stava schiarendo anche se mancava ancora del tempo all’alba. Tuttavia la luce fu abbastanza perché l’egiziana si vedesse accerchiata da un alone rosso intenso, il che le fece capire che colui che l’aveva toccata altri non era che il corpo inerme del povero poeta, che affondava nel cuore del fiume. Con il piccolo piede che si dibatteva sotto di lei, la ragazza cercò ancora l’oggetto inanimato e lo trovò; con un braccio riuscì ad afferrare un lembo della veste dello sfortunato compagno e si diresse a riva, seguendo la scia di Djali, cercando di non farsi acchiappare dall’orribile prete che nuotava verso di lei.
« Signora di Notre-Dame, Signora, se hai pietà di questa figlia d’Egitto, salvaci!» disse la ragazza nel suo cuore, sentendosi le gambe intorpidite per lo sforzo di combattere la corrente e allo stesso tempo di trasportare il corpo di Gringoire. Il prete si dibatteva contro le acque, l’avrebbe presto raggiunta, lei era lenta ed appesantita.
Ed ecco che la fanciulla sentì la terra umida sotto i suoi piedi. Una volta raggiunta la sponda, la Esmeralda trascinò con fatica il corpo di Gringoire e lo distese sulla terra asciutta. Djali, con le deliziose zampette ricoperte di terra scura, belava e saltava attorno alle due persone che tanto amava.
La ragazza ebbe il tempo di voltare il giovane poeta su un lato e scorgere la terribile ferita: il coltello si era perso nel turbine nero del fiume ma aveva lasciato un taglio netto e profondo nel punto di giuntura del collo e della spalla. Il cuore batteva ancora ma la faccia del poeta ispirava solo morte.
Presa dalla disperazione, la fanciulla si tolse dal seno il suo amuleto, la collana di grani di adrézarach con il sacchettino di seta ricamata, guarnito di vetrini verdi. Lo mise al collo del poeta, cantando:
« Allegra è la vita finché dura l'estate
Con il canto degli uccelli.
Ma ora si avvicina il soffio del vento
E un tempo intenso.
Oh, oh! Quanto è lunga questa notte!
E io con tanta sofferenza
Afflitto, piango e digiuno».
La sua voce melodiosa era rotta dalle lacrime e dalla disperazione. Sapeva che il prete era dietro di lei, sapeva che aveva raggiunto la riva e che aspettava solo che lei si voltasse. 
E in quell’istante seppe di non avere via di scampo. Tutto per lei era perduto: aveva ceduto il suo amuleto, aveva perso ogni speranza. Non c’era nessuno che potesse salvarla. Aveva già rinunciato alla vita una volta, quando Quasimodo gliel’aveva restituita di forza. Che importava ormai vivere? Phoebus non l’avrebbe mai raggiunta lì, non poteva salvarla. Forse l’aveva dimenticata, forse quella dama ben vestita non era sua sorella, in fondo. Quasimodo, il suo amico gentile e spaventoso non c’era e lei non avrebbe potuto contare sulla sua protezione. 
La fanciulla, così bagnata delle acque mefitiche, con le lunghe ciocche nere avvinghiate alla veste bianca, praticamente nuda per l’aderenza del tessuto umido alla pelle, si voltò.
La sua faccia disperata incontrò lo sguardo del prete: era in piedi, nero, bagnato, con un’espressione che andava così oltre la pietà e la compassione da diventare orrorifica.
«Io vi amo» disse egli, guardando con quell’occhio terribile ora l’egiziana, ora la sua mano sul corpo del poeta, ora la collanina ch’ella aveva deposto sul suo collo: « Oh! questo è pur vero. Di questo fuoco che mi brucia il cuore non esce dunque niente fuori! Ahimè! ragazza, notte e giorno, sì, notte e giorno: questo non merita alcuna pietà? È un amore della notte e del giorno, vi dico, è una tortura. Oh! soffro troppo,mia povera bambina! È una cosa che merita, vi assicuro. Vedete come vi parlo dolcemente. Vorrei davvero che non provaste più tanto orrore per me. Insomma, un uomo che ama una donna, non è colpa sua! Oh! Dio mio! Come! non mi perdonerete dunque mai? Mi odierete sempre! Quindi è finita! Vedete, è questo che mi rende cattivo e orribile a me stesso! Nemmeno mi degnate di uno sguardo! Forse pensate ad altro mentre sono qui in piedi che vi parlo fremente sulla soglia della nostra stessa eternità! Forse voi siete preoccupata della vita di quel gaglioffo a cui avete donato la vostra collana? Oh, che dolore la gelosia. Mi avete reso geloso di Quasimodo, di quell’abominio di membra che trattavate con tanta gentilezza. Di quel furfante buono a nulla che ora vegliate con la vostra dolce manina su quel petto indegno. E di quell’ufficiale! Sì! Anche se mi gettassi alle vostre ginocchia, sì! anche se baciassi, non dico i vostri piedi, voi non vorreste, ma la terra che è sotto i vostri piedi, sì! anche se mi mettessi a singhiozzare come un bambino, anche se strappassi dal mio petto, non parole, ma il cuore e le viscere, per dirvi che vi amo, tutto sarebbe inutile, tutto! Eppure c'è nel vostro animo solo tenerezza e clemenza, siete raggiante della più bella dolcezza, siete tutta
quanta soave, buona, misericordiosa e incantevole. Ahimè! avete cattiveria solo per me!
Oh! che fatalità!».
Si nascose il viso tra le mani. La fanciulla lo sentì piangere. Era la prima volta. Così ritto e scosso dai singhiozzi, era più miserabile e supplichevole che non in ginocchio. Pianse così per un certo tempo, con il fiume nero che scorreva alle sue spalle, trascinandosi dietro la barca e il coltello, ormai parte della massa informe di onde e cattivo odore.
«Suvvia!», continuò, passate quelle prime lacrime, «non trovo parole. Eppure avevo ben pensato a ciò che vi avrei detto. Ora tremo e rabbrividisco, vengo meno nel momento decisivo, sento qualcosa di supremo che ci avvolge, e balbetto. Oh! cadrò a terra, se non
avrete pietà di me, pietà di voi. Non condannateci entrambi. Se sapeste quanto vi amo! che cuore sia questo mio cuore! Oh! che diserzione di ogni virtù! che disperato abbandono di me stesso! Dottore, mi faccio beffe della scienza; gentiluomo, straccio il mio nome; prete, faccio del messale un guanciale di lussuria, sputo in faccia al mio Dio! tutto questo per te, creatura incantevole! per essere più degno del tuo inferno! e tu non vuoi saperne di questo dannato!».
Pronunciando queste ultime parole, il suo aspetto divenne completamente smarrito.
Tacque un istante, e riprese come parlando a se stesso, e con voce forte:
 «Caino, che hai fatto di tuo fratello?».
 Ci fu ancora un silenzio e continuò:
 «Che ne ho fatto, Signore? L'ho raccolto, l'ho allevato, l'ho nutrito, l'ho amato, l'ho idolatrato, e l'ho ucciso! Sì, Signore, ecco che gli hanno appena schiacciato la testa davanti a me, sulla pietra della vostra casa, ed è a causa mia, a causa di questa donna, a causa di
lei...».
Il suo occhio era stravolto. La sua voce andava spegnendosi, ripeté ancora più volte, meccanicamente, a intervalli piuttosto lunghi, come una campana che prolunghi la sua ultima vibrazione:
 «A causa di lei... A causa di lei...».
 Poi la sua lingua non articolò più alcun suono percettibile, anche se le labbra continuavano a muoversi. Ad un tratto si accasciò su se stesso, come qualcosa che crolli, e rimase a terra immobile, con la testa fra le ginocchia. Uno sfioramento della fanciulla che ritraeva il piede da sotto di lui lo fece ritornare in sé. Si passò lentamente la mano sulle guance incavate, e si guardò per qualche istante con stupore le dita che erano bagnate.
 «Che!», mormorò, «ho pianto!».
 E voltandosi bruscamente verso l'egiziana con un'angoscia inesprimibile:  «Ahimè! freddamente mi avete guardato piangere! Bambina! sai che queste lacrime sono lava? È dunque proprio vero? Per l'uomo che si odia, nessuna compassione. Se anche
mi vedessi morire, rideresti. Oh! io non voglio vederti morire! Una parola! una sola parola di perdono! Non dirmi che mi ami, dimmi soltanto che tu lo vuoi, questo basterà, e io ti salverò. Se no... Oh! il tempo passa, te ne supplico per tutto ciò che è sacro. Pensa che tengo in mano i nostri due destini, che sono insensato, questo è terribile, che io posso lasciar cadere tutto, e che sotto di noi c'è un abisso senza fondo, sventurata, nel quale la mia caduta seguirà la tua per l'eternità! Una parola di bontà! di' una parola! solo una parola!». 
Ella era sfiancata, distrutta, inorridita. La sua mano tremò sul petto del poeta e vide il suo sangue che scorreva dalla ferita.
« Vi prego» disse: « non fate morire quest’uomo»
« Che t’importa di lui? Perché parli di lui in un momento come questo?»
« Vi prego»
« Mi supplichi? La tua vocina di supplica mi chiede di salvare una vita così inutile? è tutto quello che hai da dire dopo avermi visto piangere, riversare la mia anima ai tuoi piedi, dopo aver spergiurato Dio ed essermi gettato nelle braccia dell’Inferno?»
« Ve ne prego, non fate morire un uomo» continuò la fanciulla, con la mano vicina al suo amuleto ormai privo di magia: « che volete da me? Vi perdono, vi compiango, vi dimenticherò. Ma vi prego, lasciatemi stare».
Il prete rimase immobile per dei minuti che sembrarono ore. La fanciulla si voltò, con le guance rigate di lacrime, e tornò ad occuparsi del ferito. Strappò dal terreno le foglie larghe di una pianta con cui si mise a tamponare il collo del poeta, mentre la manina e la veste bianca si sporcavano di sangue. La fanciulla si sentiva esanime, le pareva d’esser lei quella che si dissanguava. Non aveva più nessun sentimento nel cuore, era come una brocca svuotata e rotta. L’odioso uomo alle sue spalle poteva fare quel che voleva, lei non avrebbe opposto resistenza. Si sarebbe arresa alle sue mani gelide che l’avrebbero trascinata sulla forca o nell’acqua del fiume o in un angolo di bosco. Finché fosse stata in grado di vedere le proprie mani arrossate del sangue di Pierre Gringoire, si sarebbe sentita aggrappata a un’imitazione di vita. Dov’era il suo Phoebus? Sentì un tonfo sordo del cuore che provava a battere d’ardore. Riportò alla mente quell’istante in cui aveva creduto che tutto sarebbe stato perfetto, nella bettola di Pont-Saint-Michel, quando Phoebus l’aveva stretta fra le braccia e le aveva baciato le spalle nude. Oh, dov’era quella magia, adesso? Perché nemmeno il ricordo riusciva a lenire quell’immenso vuoto del suo cuore, in quell’istante? Credette d’essere morta e di non essersene accorta. Forse era annegata nel fiume poc’anzi e ora la sua anima aspettava quella del poeta sventurato per poter raggiungere insieme il paradiso. Allora, forse, la Signora di Notre-Dame l’aveva ascoltata, aveva accolto la sua preghiera anche se era un’egiziana. Immaginandosi quindi d’essere solo un’anima, ebbe un leggero moto di conforto. Sentì che quel prete non poteva farle nulla.
Come se avesse seguito il filo dei suoi pensieri, l’arcidiacono di Notre-Dame vacillò e cadde ancora in ginocchio. Si sorresse a un arbusto di fiume, che tremò sotto tutto quel peso.
« Voi mi perdonate … Avete avuto una buona parola per me … Cos’è questo barlume nell’oscurità? Io mi sento appagato, mi aggrappo al lume della vostra commiserazione. A cosa mi sono ridotto, mi vedete? A morire e rinascere per bocca vostra. Che voi siate dannata e benedetta, oh, io tremo, io non capisco più. Lasciate che curi quel povero diavolo. Lasciate ch’io lo veda. Oh, no, ecco, voi non volete. Voi lo proteggete. Appena ho mosso un passo verso di lui ecco che avete fatto scudo con la vostra schiena. E che schiena mi tocca vedere: sembra una Vergine coperta da un velo nero, ma ecco che ne scorgo la gamba nuda e il braccio e la spalla. Dio, sono disperato. Non gli farò del male, se mi lasciate fare. Io lo curerò, ve lo prometto. Ma voi andatevene, andate via. Non so cosa potrebbe accadere se rimaneste ancora qui».
E così dicendo si avvicinò alla zingara e al poeta, che perdeva ancora sangue e si era fatto pallido sotto le luci dell’alba. Lei si alzò, sentendosi un fantasma, sentendosi fuori dal mondo sensibile, fuori dalla percezione. La vita forse richiamava il suo amico poeta ma lei era destinata a un altro luogo. Le sue mani e la veste bianca erano sporche di sangue. La capretta la seguì. Come un’apparizione, come un miraggio, il prete seppe che lei prima c’era e che adesso non c’era più.

 

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Capitolo 2
*** Di come si guadagna una madre ***


Di come si guadagna una madre


 
Pierre Gringoire si svegliò di soprassalto. Si sentiva sudato, dolorante e spaventato. Una bizzarra mescolanza di sensazioni, pensò, che in un primo momento facevano fatica a giustificarsi nella sua testa. Non volendo dare di matto, immaginandosi che presto o tardi tutto gli sarebbe parso più chiaro, il poeta aprì gli occhi: vide sopra la sua testa un soffitto di pietra che non conosceva. Essendo un filosofo scolastico, raramente gli capitava di fare appello alla concretezza, eppure in quell’occasione non trovò altro rimedio che la logica: egli aveva abbandonato i suoi giacigli di fortuna mesi addietro e ormai si era abituato al tetto che gli avevano messo sopra la testa gli zingari suoi amici. Eppure non si trattava del soffitto della sua dimora. Seguendo una sua naturale propensione al fantasticare, si rammentò della prima volta che aveva visto il tetto di quella che da qualche mese a quella parte chiamava casa. Era stata una notte in cui aveva temuto più volte di trovarsi col cappio al collo, le assi inchiodate e la terra sopra la testa. La sua vita era rimasta intatta grazie alla ragazza che lo aveva sposato, con quella deliziosa cerimonia della brocca rotta.
Fu a quel punto che il poeta si rinvenne: la ragazza, la barca sul fiume, Claude Frollo che era impazzito e gli aveva puntato il coltello alla gola. Nell’intorpidimento di chi è stato addormentato per molto tempo, riuscì a trovare una mano e a guidarla verso il punto più dolorante del suo corpo. Le dita si posarono sull’incavo del collo e tastando vi trovarono degli orribili filamenti che avevano tutta l’aria di non appartenere alla sua forma umana originaria. Qualcuno doveva avergli ricucito la ferita come se fosse un sacco di rape strappato. Il pensiero di una mano munita di ago e filo che agiva sul suo collo lo fece sudare. “Ecco spiegata anche la paura” si disse. 
Sentendosi comunque piuttosto vivo e deciso a scoprire dove si trovasse, il filosofo eclettico si alzò dal suo giaciglio, che scoprì essere una gran tavola di legno.
Attorno a lui vide uno spettacolo che il lettore certo riconoscerà: alambicchi, scheletri di animali appesi al soffitto, una sfera che rotolava sull'impiantito, ippocefali alla rinfusa con boccali nei quali tremolavano foglie d'oro, compassi, teste di morto poste su delle veline screziate di figure e di caratteri, grossi manoscritti uno sull'altro spalancati, senza riguardo per i fragili angoli della pergamena. Era una stanza davvero piccola, oscura e illuminata a fatica. “Scenario bizzarro” si disse il poeta: “non mi aspettavo di certo queste teste stecchite. Speriamo che chi le ha messe qui non volesse aggiungerci anche la mia”.
Gringoire fu in piedi e si diresse con curiosità verso l’unica finestrella della stanza. Dopo aver dato una sbirciata fuori, esclamò: « Ah, dunque mi trovo dentro Notre-Dame. Questa finestra sembra dare sui tetti della cattedrale».
Mentre sbirciava così, si perse nei suoi pensieri e attraversò la sua vicenda concentrandosi sugli ultimi ricordi che possedeva: chissà che fine aveva fatto la sua capretta, quell’adorabile Djali che gli era corsa incontro e gli si era seduta in grembo durante il terribile attraversamento della Senna. Chissà se la sua padroncina era riuscita a sfuggire alla giustizia e chissà se le forze armate del re erano ancora alla sua ricerca oppure se la piccola penzolava tristemente dal cappio della forca. rabbrividì al pensiero che entrambe, la fanciulla e la capra, fossero state catturate e giustiziate. In quel momento il filosofo si sentì qualcosa sul petto e dei fastidiosi grani sfregarsi al collo così dolorosamente ricucito. Guardò di cosa potesse trattarsi e ne rimase meravigliato: era l’amuleto che quella vespa di sua moglie gli aveva sempre proibito di toccare, quello che secondo lei era impregnato di chissà quale magia pagana. Gringoire fu molto sorpreso che l’oggetto si trovasse al suo collo, non riusciva a immaginare uno scenario in cui la giovane glielo avesse donato spontaneamente. Questo gli fece temere che alla fine la giustizia l’avesse raggiunta e che fosse stata uccisa e spogliata dei suoi beni. “Ma perché qualcuno avrebbe dovuto mettere al mio collo questo amuleto, in ogni caso?” pensava ragionevolmente. “Forse è perché si è saputo che sono suo marito e, trovandomi in un così misero stato, gli ufficiali non hanno saputo come farmi avere la mia parte di eredità se non quella di cacciarmela addosso. In effetti suona meno assurdo di quanto avrei pensato inizialmente”. Gringoire era comunque scettico della sua ipotesi appena formulata ma la curiosità vinse sul resto: era ormai padrone dell’amuleto e senza più titubanza aprì il sacchetto con i vetrini verdi, estraendone il contenuto. Quello che vide lo deluse un po’. Si trattava di una scarpetta da infante, di stoffa rosa ricamata. Uno di quei vestimenti che potrebbero stare bene al piccolo piede di un Gesù bambino, nei gruppi scultorei di un presepe in una chiesa di campagna. Insieme alla scarpina c’era una pergamena, che recitava: “Quando l'uguale ritroverai Tua madre riabbraccerai”. Dopo qualche minuto di contemplazione, Gringoire si batté un colpo sulla fronte:
« Mi venga un colpo se questa scarpa non l’ho già vista all’insaccata della Tour-Roland!». 
Gringoire, con la testa avvolta da un turbinio di pensieri, si voltò e per poco non morì di spavento: alla sua destra c’era una grande poltrona con sopra il suo occupante, immobile. Era di spalle, indossava una lunga veste nera, la nuca era calva e i pochi capelli rimasti rilucevano di grigio alla debole luce emanata dalla finestra.
« Maestro?» chiese il poeta, portandosi una mano al cuore. L’uomo non si muoveva, pareva un vecchio addormentato davanti a un camino. Gringoire osò toccare la spalla di quell’uomo ed esso si voltò con un abbandono sgraziato: si trattava di Claude Frollo ed era morto.
« Per la barba di Belzebù!» fece Gringoire saltando indietro come un grillo. 
Il morto aveva un aspetto terribile: pallido, le guance infossate, le occhiaie e le labbra secche. Eppure gli occhi erano chiusi, come qualcuno che ha avuto una giornata stancante e alla fine cede e si abbandona al sonno. Era l’involucro sofferente di un’anima perduta, che alla fine, aveva deciso di ristorarsi.
“Povero diavolo” pensò il Gringoire soffermandosi ad analizzare il corpo dell’arcidiacono. Non c’erano tracce di accoltellamenti né di pozioni sataniche. Era morto spontaneamente, si sarebbe detto diverse ore addietro. Gringoire non riuscì a provare odio verso quell’uomo che aveva scoperto essere pazzo. Gli aveva comunque insegnato il latino e l’aveva indottrinato alla filosofia quando era solo un ragazzo di strada, che non avrebbe saputo distinguere l’alfabeto greco da uno scarabocchio infantile.
Quella vista spiacevole divenne presto insopportabile agli occhi del poeta, che decise di uscire dall’unica porta presente nella stanza. Discese la scala a chiocciola che trovò oltre il passaggio ed infine fu completamente certo di trovarsi nella cattedrale di Notre-Dame. Si ritrovò all’interno della chiesa sbucando da non si sa dove e se anche avesse voluto ripercorrere i propri passi, Gringoire non li avrebbe ritrovati. 
La chiesa era gremita di soldati e di monatti di una qualche confraternita. A terra, disposti in file ordinate, giacevano innumerevoli corpi avvolti in stracci sporchi. 
Gringoire si avvicinò ad un ufficiale, che aveva la divisa degli arcieri di Sua Maestà.
« Messere, che è avvenuto qui?».
L’uomo si voltò e rispose abbaiando:
« Corpo di Dio, ieri sera c’è stata una sommossa. Quei bricconi della Corte dei Miracoli, il diavolo li porti, hanno assediato la cattedrale. Pare fossero seimila uomini, ma la cattedrale ne ha fatti secchi diverse centinaia. Stiamo provvedendo a sgomberare il tutto. Li getteremo nella Senna»
« Oh! è vero, sono io che ho suggerito l’assalto a Notre-Dame» disse fra sé Gringoire, picchiandosi una mano sulla fronte.
« Che dite, signore?»
« Niente, messere. Ma in che senso la cattedrale ne ha fatti fuori alcuni?»
« Quel demonio guercio del campanaro. Pare che abbia difeso l’accesso alla chiesa e che ne abbia stecchiti diversi. Dovranno arrestarlo, povero diavolo»
« Ma lo impiccheranno?»
« Spero di sì, quel demonio non dovrebbe vivere in terre cristiane»
« Mi domandavo, brav’uomo, alla fine siete riusciti ad acciuffare la strega? E la capra?»
« Diavolo, no. Quella serpe deve aver usato una qualche stregoneria per volatilizzarsi. Era nascosta nella chiesa ma di lei non si è trovato nemmeno l’ombra. Le mie truppe e quelle del re l’hanno cercata dovunque nella cité, voglio dire, non avrebbe potuto attraversare il fiume a nuoto»
« Tutto vero. E della capra che mi sapete dire?»
« Ma di che diavolerie parli?»
« Oh, niente, niente, meglio così. Grazie messere».
Gringoire si allontanò, raggiungendo l’uscita. Si soffermò ad osservare il portale della cattedrale.
Rapito dalla magnificenza delle sculture che adornavano la facciata, Gringoire si sentì leggero e si dimenticò le terribili sensazioni con cui si era risvegliato. Il Portale del Giudizio Universale, con l’intrico di bassorilievi, gli pareva come un libro aperto sulla storia dell'umanità. Il suo animo di poeta e filosofo si commosse dinnanzi alle figure che trasudavano vita e drammaticità. Gli angeli, con ali possenti e sguardi penetranti, sembravano sospesi tra il cielo e la terra, pronti a pronunciare sentenze divine. Gringoire provò a dare un nome alle emozioni che vedeva scolpite sui loro volti di pietra: compassione, giustizia, timore. E poi la Madonna, figura di grazia e misericordia, che stringeva fra le braccia il suo amato Figlio. Quella scarpina rosa che ben sapeva sarebbe stata perfetta attorno a tali piccole dita.
L'osservatore si lasciò avvolgere dalla complessità delle scene rappresentate nei bassorilievi. Le anime dei giusti in ascesa verso il cielo, mentre demoni dall'aspetto spaventoso cercavano di trascinare i peccatori nell'abisso infernale. 
I grani di adrézarach sfregarono ancora contro la ferita del poeta, che si rammentò dell’amuleto e della scarpa.
« Giusto, bisogna che chieda a suor Gudule come c’è finita la sua scarpetta al mio collo».
Così dicendo si incamminò in direzione della cella in cui la reclusa faceva penitenza eterna. La cattedrale era ormai alle sue spalle, così come il defunto arcidiacono, gli arcieri e i corpi dei suoi amici malviventi.
La finestra con le sbarre spesse dietro cui la donna si disperava era ora dinnanzi agli occhi di Gringoire:
« Signora, sono il poeta e filosofo Pierre Gringoire, vengo or ora dalla cattedrale, dove ieri s’è consumato un gran massacro».
Una voce di caverna, roca e infernale rispose al poeta dall’ombra: « E l’hanno presa? Hanno preso quell’egiziana? La forca era per lei ma non ho udito le sue grida!»
« Ahimé, non l’hanno presa»
« Ahhh, che vuoi tu allora, che vieni qui a portarmi queste notizie? Che vuoi tu, vedermi dibattere, strapparmi i capelli e affondarmi le unghie nella carne?»
« In fede mia, signora, quello l’abbiamo già visto numerose volte»
« E allora vattene, lasciami sola col mio dolore, vedi bene che il buon Dio non mi dà pace. Credevo di poter assistere alla morte dell’egiziana e invece lei è sempre libera, respira la mia stessa aria, che la mia bambina non respira più, perché le zingare me l’hanno mangiata. Oh, povera creatura, chissà che banchetto, povera anima del paradiso» e qui Gringoire intravide le braccia scarne dibattersi sul petto magro della reclusa, ancora seminascosta dall’ombra.
« Si, me ne dolgo, buona donna, me ne dolgo. Ma ecco, nelle vostre lamentele non vi ho forse udito più volte rammentare la scarpina che voi cuciste per vostra figlia? Non declamate di solito la bellezza di quel roseo piedino che la calzava? Ecco, mi domandavo, non è forse vostra questa scarpa?» disse il filosofo estraendo la minuscola calzatura dal sacchetto color smeraldo e mostrandola a suor Gudule.
Nell’istante in cui la mano con la scarpa rosa toccò la luce, il braccio scarno che prima si era dibattuto nell’ombra comparve con la rapidità di un lampo e si strinse come una tenaglia per lepri attorno al braccio di Gringoire.
« La mia bambina! Dove hai trovato quella scarpa?! Parla! Parla o ti strapperò questo braccio a morsi!»
« Per i baffi del papa! Mi fulmini il buon Dio se questa scarpa non l’ho trovata attorno al mio collo stamane» gridò il poeta cercando di strapparsi via quella mano di ferro.
« Attorno al tuo collo? E che vuol dire attorno al tuo collo?»
« La scarpa stava dentro questo astuccio egiziano, che mia moglie, ehm, voglio dire, quella ragazza egiziana che voi odiate tanto, ha sempre portato al collo. Per qualche ragione a me sconosciuta ora l’amuleto si trova in mio possesso e dentro vi ho trovato la scarpa» ammise il poeta sempre combattendo con le dita affilate della reclusa.
« L’egiziana? Quell’egiziana? Questa scarpa è sempre stata al suo collo?»
« Se si presume che dentro il sacchetto vi fosse sempre stata la scarpa e che lei non l’avesse mai mostrata a nessuno, sì, direi che l’aveva sempre con sé. E guardate, c’è quella pergamena che dice tua madre ritroverai se l’uguale con te avrai o una cosa così, non riesco a vederla da qui, se continuate a graffiarmi il braccio».
Le unghie di suor Gudule raggiunsero la scarpina con la pergamena e in quel momento tutto il viso, segnato dal dolore, di quella donna folle apparve alla luce. I suoi occhi brillavano di lacrime. Teneva nelle mani due scarpine identiche, rosa, ricamate, che avrebbero potuto contenere i piedi di una minuscola bambina.
« Quell’egiziana … lei avrebbe avuto la stessa età della mia Agnès. Oh la mia povera figlia! Era lei, dunque? Il buon Dio me l'aveva ridata, l’ho sempre avuta al mio fianco per tutti questi anni! E non lo sapevo! Signore Gesù, ed è bellissima! Dunque le egiziane non l'avevano mangiata! Chi lo aveva detto? Figlioletta mia! Figlioletta mia! Quelle brave egiziane! Io le amo le egiziane! Dunque è per questo che il cuore mi sussultava ogni volta che mi passava dinnanzi. Ed io che prendevo ciò per odio! Oh spero che mi perdoni. Agnès mia, perdonami!».
Gringoire, molto confuso, provò a riprendere la sua scarpa ma la reclusa non lo fece avvicinare.
« Che ne hai fatto tu della mia bambina? Ho visto che facevi dei numeri con lei, che ti impilavi le sedie in bocca, che facevi il giocoliere con i gatti sulla testa. Ed eri con lei! Potrei giurarlo. Dov’è lei ora?»
« Sulla mia anima, ero con lei perché sono suo marito e lei è mia moglie. Ci ha sposato il re di Thunes per mezzo di una brocca rotta».
Quelle parole sortirono uno strano effetto nella reclusa della Tour-Roland. Con un movimento velocissimo quanto delicato le due identiche scarpette erano ora in un angolo della cella mentre le braccia ossute della donna si dimenavano fuori dalle sbarre e cercavano di abbracciare il poeta. La donna piangeva:
« Oh, sei dunque anche tu mio figlio. E sembri in buona salute! Ti sei preso cura di lei, le hai voluto bene. Abbracciami figlio mio, abbracciami. Conducimi da lei, te ne prego. Aiutami a uscire da qui, ricongiungiamoci, siamo una famiglia. Ho ereditato qualcosa a Reims, avremo un campo, una casa. Presto, fammi uscire figlio mio. Stamani non avevo che odio e disperazione dentro di me e ora ho due figli. Dio, mi scoppia il cuore di gioia».
Il poeta decise che non aveva nulla da perdere da quella situazione e la peggiore delle prospettive sembrava quella di guadagnare una madre. Visto che la sua l’aveva perduta così tanti anni addietro e che non si ricordava nemmeno cosa volesse dire l’abbraccio di una madre, visto che la promessa di un campo e una casa a Reims pareva estendersi anche a lui, decise di accettare quella strana, imprevista novità.
« Bene, madre. Ehm, dunque, come faccio a farvi uscire di qui? La vostra piccola è fuggita, l’avevano condannata alla forca ma parrebbe averla scampata. Non dovrebbe essere troppo distante, non so quanto i suoi piedini d’egiziana possano correre in una notte».
La reclusa si alzò, si scostò i lunghi capelli grigi dalla fronte, e senza dire una parola si mise a scuotere con le due mani le sbarre della cella più furiosamente di una leonessa. Le sbarre resistettero. Allora andò a cercare in un angolo della cella un grossa pietra che le serviva da guanciale, e la scagliò contro le sbarre con tanta violenza che una di esse si spezzò mandando mille scintille. Un secondo colpo sfondò completamente la vecchia croce di ferro che sbarrava la finestra. Allora con le mani finì di rompere e scostare i tronconi arrugginiti delle sbarre. Ci sono dei momenti in cui le mani di una donna hanno una forza sovrumana. 
« Misericordia» esclamò il poeta a quella vista.
« Aiutami ad allargare il varco» lo supplicò la donna.
Gringoire si mise all’opera e afferrò un’altra grossa pietra con cui prese a colpire la parete della cella. Dopo faticosi tentativi, un mattone si mosse e il poeta riuscì a rimuoverlo. La finestrella era ora abbastanza grande perché un corpo scarno come quello della reclusa potesse passarvi.
« Venite, madre, afferrate il mio braccio e cercate di scivolare oltre il buco» disse il Gringoire. L’insaccata recuperò le due scarpine ricamate e poi raggiunse il foro nella parete. Il filosofo si sentì afferrare con una forza diversa da quella con cui suor Gudule l’aveva quasi affettato, poco tempo prima. La donna era così magra che farla scivolare oltre la fessura fu come vedere un filo di lana raggiungere l’altro lato della cruna di un ago.
Era libera. Si reggeva sulle proprie gambe e abbracciava Pierre Gringoire chiamandolo figlio.
 

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