Notti agitate

di Chevalier1
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** RIVELAZIONI ***
Capitolo 2: *** L’ETÀ DELLE SCELTE ***
Capitolo 3: *** STESSA NOTTE ALTRA STANZA ***
Capitolo 4: *** RISVEGLI ***
Capitolo 5: *** CONFERME ***
Capitolo 6: *** CHE DONNA SONO? ***
Capitolo 7: *** PRIMA DEL DUELLO ***
Capitolo 8: *** RIMORSI E RIMPIANTI ***
Capitolo 9: *** ANIMA NUDA ***
Capitolo 10: *** SOTTO ESAME ***
Capitolo 11: *** GERARCHIE ***
Capitolo 12: *** ALIBI (PROPOSTA DI MATRIMONIO) ***
Capitolo 13: *** IL DOVERE DI UNA FIGLIA ***
Capitolo 14: *** MESSAGGI IN CODICE ***
Capitolo 15: *** L'ULTIMA CARTA ***
Capitolo 16: *** NEL TUMULTO ***
Capitolo 17: *** TRADIMENTO ***
Capitolo 18: *** TEMPUS FUGIT ***
Capitolo 19: *** DOMANI NELLA BATTAGLIA PENSA A ME ***
Capitolo 20: *** SULLA SOGLIA ***



Capitolo 1
*** RIVELAZIONI ***


Rannicchiata sotto le coperte Oscar cercava ancora di togliersi dal corpo il gelo rimasto annidato dopo il tuffo involontario nella fontana. Ma non era il freddo residuo, che pure sentiva, a tenerla sveglia bensì l’improvvisa consapevolezza che vagava nella sua testolina confusa: «Una bambina», si ripeteva, e intanto ripercorreva, come si può farlo nei pensieri a cinque anni, gli eventi convulsi di quella giornata.

Subito dopo pranzo Oscar e André, annoiati a morte da una mattinata di esercizi di scrittura con il precettore e di frustranti macchie di inchiostro cui seguivano immancabili rimproveri e qualche bacchettata sulle mani, erano scesi nel parco a giocare con le spade di legno, nel sole pallido e freddo che sopravviveva all’autunno. Infervorati nel duello, immedesimati com’erano nei racconti dei paladini che André di un anno più grande stava imparando a leggere, erano finiti fin sul bordo della fontana e caduti vestiti nell’acqua diaccia.

«Aahhh». L’urlo aveva fatto accorrere lo stalliere che li aveva afferrati entrambi per la collottola, senza tanti riguardi, e portati di corsa nelle cucine, il posto più caldo della casa, più preoccupato di risparmiare loro un grave malanno che di rispettare le convenzioni sociali.

La nonna di André vedendoli arrivare in quel modo, fradici e mezzo assiderati per via dell’acqua gelida e del vento di ottobre che per soprammercato li aveva sferzati durante il tragitto dal parco al focolare domestico, si era messa le mani in viso per un istante, uno solo, prima di sfoderare il senso pratico necessario a evitare il peggio. Intimò ad André con un tono che non ammetteva repliche di togliersi immediatamente gli abiti bagnati e aiutò Oscar a fare altrettanto. E intanto ordinava alla prima aiutante a tiro di rovesciare alla svelta l’acqua che bolliva nel paiolo unita a un secchio d’acqua fredda in una tinozza, in modo che ne uscisse nel più breve tempo possibile un bagno caldo ma non bollente. Nel mentre spediva Colette nelle stanze dei due scavezzacollo a procurare loro un cambio di vestiti e una coperta di lana. Se non fossero stati troppo gelati anche per pensare Oscar e André avrebbero osservato, divertiti, che la nonna quando la necessità incombeva sapeva dare ordini e comandare plotoni di servette con un’efficacia tale da far concorrenza al Generale. Nel giro di brevissimo tempo i due bambini tremanti di freddo si trovarono senza sapere come ammollo insieme nel tepore della tinozza, troppo mortificati per parlare e per provare a giustificarsi. A differenza di quanto si sarebbero aspettati, la nonna non aveva avuto il tempo di rimproverarli, troppo spaventata per le possibili conseguenze di quell’incauto bagno fuori stagione e troppo indaffarata a sventarle. Frastornati dallo spavento a scoppio ritardato per il rischio ancora incombente e per la preoccupazione sul volto di lei che li aveva contagiati, consapevoli di essere stati avventati, non trovarono di meglio che lasciarsi accudire a occhi bassi.

La situazione che si era creata, le cui implicazioni la governante impegnata a tamponare l’emergenza non aveva considerato, mise Oscar per la prima volta in vita sua in condizione di interrogarsi su una differenza che fin lì non aveva avuto modo di notare, né con André né con altri, dato che il padre per farne l’erede del casato l’aveva cresciuta isolata dalle sorelle, già in collegio dalle monache o ancora a balia alla sua nascita, e da altre compagnie infantili: mai fino a quel giorno Oscar aveva avuto qualcuno con cui confrontarsi e né occasione di mettere in dubbio di essere davvero il figlio maschio di cui il padre andava così fiero né di domandarsi se in quel figlio non ci fosse per caso qualcosa di strano.

Fu lì, in quella bagnarola piena di acqua calda, non sufficientemente insaponata da occultare le inequivocabili differenze che la distinguevano da André, che Oscar, nella sua mente acerba e disorientata ma pronta, vide andare a posto alcune tessere fin lì indecifrabili nel mosaico della sua piccola vita. Ripensava a quella parola «bambina», che più di una volta volta aveva sentito, sulla bocca della servitù, mentre chi stava parlando abbassava subito la voce o cambiava discorso non appena s’accorgeva di avere Oscar nei paraggi. Ripensava al mezzo sorriso, subito represso, che vedeva comparire talvolta sul volto degli adulti, quando sentivano suo padre dire orgoglioso: «Mio figlio». E la sua testolina intelligente, per quanto confusa, fece 2+2 a un’età in cui sapeva a mala pena che facesse 4 contando sulle dita. Ma non fece domande, neppure alla nonna di André, l’unica con cui avrebbe avuto la confidenza per chiedere conferma di una cosa così imbarazzante. Preferì rimandare un confronto che le faceva paura e insieme prendersi un po’ di tempo per abituarsi da sola all’idea. Anche perché l’evidente indifferenza di André alla questione le suggerì il pensiero di essere rimasta l’unica all’oscuro di quel segreto che la riguardava. Le regole dell’educazione severa che le avevano impartito l’avevano abituata a non fare domande indiscrete agli adulti e ad accettare che la volontà del padre non si discuteva, ma l’idea che André conoscesse un suo segreto così privato da una parte la indispettiva, dall’altra parte la rassicurava: se sa già di aver giocato con una bambina fino adesso, non smetterà.

L’anziana governante, invece, cui la sensibilità certo non mancava al di là degli apparenti modi sbrigativi, aveva notato il turbamento della sua piccola, e capito al volo di aver commesso una leggerezza, seppure dettata dalla necessità. Sapeva anche che si trattava di un errore tutto sommato veniale: aveva messo nel conto il fatto che quel momento di consapevolezza non sarebbe stato rimandabile all’infinito e che una più lunga attesa avrebbe solo complicato le cose.

«Sono dunque una bambina?». Si chiedeva Oscar nel buio della notte indovinando una risposta che non le piaceva, convinta come l’avevano che essere maschio fosse comunque molto meglio. Una vocina dentro di lei si ribellava: «Ma io non voglio, io sono un maschio». E intanto, però, non riusciva a far tacere quella parte di sé che provava a tradimento a figurarsi che cosa volesse dire esattamente essere una bambina.

Le si materializzarono davanti i ventagli che vedeva in mano alle sue sorelle, i belletti e gli abiti di cui fantasticavano, ingolosite dalla fretta di crescere abbastanza per averli, i ricami che prendevano in mano per passare il pomeriggio nelle rare occasioni in cui alle feste comandate la famiglia si riuniva, mentre lui, cioè lei ­­– improvvisamente un guazzabuglio di pronomi maschili e femminili aveva preso ad azzuffarsi nella sua mente bambina ­– era chiamata a mostrare i progressi con il pianoforte. Pensò a tutte le cose che le avevano insegnato a disprezzare come qualcosa di frivolo, poco interessante e comunque inadatto agli interessi di un ragazzo. Oscar dal canto suo soggiaceva a quel condizionamento, che non sapeva essere tale, di buon grado. Nessuna di quelle frivolezze attirava la sua curiosità. Non solo capiva istintivamente che i suoi riccioli al vento assecondavano i suoi giochi molto meglio dell’impalcatura di forcine che vedeva in testa alle sue sorelle poco più grandi, per non dire della praticità dei suoi pantaloni al confronto con le gonne che impedivano di correre e saltare. Ma l’esclusiva di un rapporto privilegiato, “tra uomini”, con il padre, nel suo ruolo di primogenito maschio, erede del casato, lo faceva sentire importante e orgoglioso. Gli veniva proposta la sua diversità come un onore, che richiedeva coraggio, dedizione e responsabilità per prendere un giorno il posto del padre.

Ovviamente aveva già imparato a proprie spese che quel privilegio comportava anche degli inconvenienti, per esempio subire punizioni molto più rigorose di quanto toccasse alle sue sorelle: a Oscar uno schiaffo poteva arrivare senza tanti complimenti al primo gesto o alla prima parola fuori posto, mentre alle sue sorelle toccavano, in genere, castighi diversi: magari molto noiosi ma meno ruvidi. Solo una volta Oscar aveva visto la maggiore prendere un bel ceffone dal padre nel bel mezzo di una riunione di famiglia. Oscar se ne ricordò in quel momento e sorrise a quel ricordo. La primogenita si era fatta sorprendere a dire qualcosa all’indirizzo di un giovane appena entrato a far parte della servitù, una cosa che Oscar non aveva capito bene ma che doveva essere davvero molto sconveniente se il padre si era alzato come una furia per rifilare alla ragazza uno schiaffo in pieno viso al grido di: «così che non ti passi più per la testa di fare discorsi da sgualdrinella da bassifondi nella casa rispettabile di una nobildonna e di un generale». Oscar non conosceva il significato della parola, di sicuro non un complimento, usata dal Generale, ma la situazione era sufficientemente tesa da suggerirle di rimandare la domanda, tanto più che a quel termine mai udito aveva visto la madre, solitamente molto attenta a non contraddire il Generale, lanciare un’occhiata quasi di rimprovero al marito. La cosa aveva incuriosito Oscar che mentre si preparava per la notte quella sera stessa aveva chiesto a Nanny: «Che cosa vuol dire sgualdrinella?», ricavandone in risposta un’espressione scandalizzata e la minaccia di vedersi lavare la lingua con il sapone di Marsiglia. Avendo più o meno compreso che doveva trattarsi di una parola da non ripetere, Oscar non osò dire che l’aveva imparata dal padre. Le venne da ridere chiedendosi se Nanny sarebbe stata capace di minacciare dello stesso trattamento con il sapone anche il Generale. E poco mancò che il sorriso impertinente sfuggitole a tradimento al solo pensiero, non le attirasse una tirata d’orecchie dalla governante, che in genere riservava ad André i propri rimproveri, a meno che Oscar non stesse proprio esagerando. In quel momento però André non c’era e la governante era piuttosto sicura che l’addestramento paterno non si fosse spinto al punto da mettere in conto che il soldatino di casa si assuefacesse già a cinque anni al linguaggio da caserma.

Simili pensieri e ricordi si affacciavano in disordine alla mente di Oscar mentre, senza riuscire a prendere sonno, cercava di raccapezzarsi nel tentativo di capire quale fosse esattamente la differenza tra maschi e femmine, al netto del particolare che aveva notato nella tinozza e che in quel momento le pareva comunque il minore dei problemi, sicuramente secondario a una domanda che a lei, lì nel buio, sembrava fondamentale: «Chi ha deciso che una bambina non può essere coraggiosa e non può fare l’ufficiale? Solo perché mia sorella, già quasi in età da marito, si è messa piangere come una vite tagliata lì in mezzo a tutti per uno schiaffo dobbiamo essere tutte così?».

Intanto però la confondeva l’ostinazione del Generale a chiamarla ostentatamente figlio, si domandava se avrebbe continuato a farlo se lei avesse scoperto la verità e nutriva l’oscuro timore che l’incantesimo della sua vita si sarebbe rotto, come in certe fiabe, nel momento esatto in cui lei ne avesse scoperto l’arcano e provò quasi un senso di colpa pensando di aver rovinato tutto. Si chiedeva se il fatto stesso di essere femmina sarebbe bastato a mandare all’aria tutto quanto prima o poi. Ovviamente se lo chiedeva come avrebbe potuto farlo una bambina di cinque anni che fino a quel momento si era creduta bambino e che ora temeva sopra ogni cosa il fatto di non essere all’altezza delle attese di suo padre. Disse a sé stessa che non voleva essere una bambina, non nel modo in cui lo erano tutte le altre. Sentendo maturare dentro di sé una risolutezza nuova pensò che maschio o femmina avrebbe dimostrato a suo padre che non le sarebbe mancato niente di ciò che serviva a seguirne le orme. Si disse che si sarebbe allenata di più per diventare forte come il padre desiderava e che gli avrebbe fatto vedere lei quanto sapesse essere coraggiosa una bambina.

Il mattino dopo, come ogni sabato, in assenza del maestro d’armi il padre l’avrebbe messa alla prova per vedere i progressi compiuti. Un confronto che le piaceva ma di cui provava anche soggezione. Quale migliore occasione per mostrargli la determinazione fiera che stava prendendo forma dentro di lei?

Pacificata almeno in parte da quel pensiero, ingenuo ma rassicurante, crollò per sfinimento in un sonno agitato di sogni improbabili, in cui si alternavano sequenze confuse di pizzi e alamari, spade e ventagli, di capelli al vento e diademi.

Il mattino dopo Oscar approfittò della prima luce che filtrava nella sua stanza per sgattaiolare scalza fuori dal letto e aprire come poteva i pesanti tendoni, decisa a fare per la prima volta una cosa che le avevano insegnato a non fare se non fugacemente al fine solo di controllare che la propria tenuta fosse all’altezza dell’ordine impeccabile che il padre pretendeva: guardarsi allo specchio. Oscar indugiò sulla figurina in camicia da notte che la guardava di riflesso e si disse che, sì, in quegli occhi azzurri, in quel nasino delicato, in quei riccioli biondi da putto e soprattutto in quelle lunghe ciglia da cerbiatto si poteva anche vedere l’immagine di una bambina, prima che al termine della toeletta l’abbigliamento rigorosamente maschile le assegnasse le insegne di un altro ruolo, trasformandola nell’erede di casa Jarjayes.

La confusione c’era ancora, ma l’ansia della notte precedente aveva lasciato il posto a sensazioni diverse, non tutte negative: un misto di preoccupazione, curiosità e determinazione. Quello che Oscar quel mattino vide con occhi nuovi nello specchio non le dispiacque, ma non incrinò la volontà di tenersi il ruolo che aveva dalla nascita ancor prima di sapere esattamente come l’avesse avuto.

A colazione Nanny aveva provveduto a informarla che il padre, dato che il clima ancora lo consentiva, l’attendeva nel parco di fronte della sala delle armi al rintocco delle undici. Oscar alla prima oscillazione del pendolo si precipitò fuori dalla sua stanza. Calcolando mentalmente che né Nanny, appena passata con una cesta di biancheria diretta alla lavanderia, e né il padre, pronto fuori ad attenderla, avrebbero potuto sorprenderla in quel gesto in genere foriero di rimproveri, risparmiò tempo scivolando cavalcioni lungo il corrimano, preda di una leggera eccitazione: un misto di timore e di sfida. Mentre saltava giù appena prima di impattare sul fregio a forma di ghianda che chiudeva il mancorrente sentì la risata di André che affacciato alla balaustra del primo piano aveva assistito alla scena. Gli fece un cenno di saluto e d’intesa e poi corse fuori dal portone per non iniziare la giornata prendendosi una ramanzina per il ritardo. Sapeva che come il disordine il ritardo maldisponeva il padre e non era quello di cui aveva bisogno quella mattina.

«Buongiorno, Oscar», la accolse il padre tendendole un piccolo fioretto e tenendone uno di misura normale per sé, armi da allenamento, protette in punta per evitare che potessero ferire durante l'esercizio.

«In guardia, padre!».

Il generale trattenne un sorriso, tra il compiaciuto e il divertito, mostrando di prendere con molta serietà l’assalto che il suo soldatino desideroso di misurare le proprie capacità aveva tentato senza por tempo in mezzo.

Notò, con fierezza, nello sguardo concentrato e nell’energia che ci metteva, una determinazione che gli sembrava nuova e la incoraggiò.

All’ennesimo affondo, Oscar, forse stanca, inciampò cadendo su una pietra aguzza. Il generale si compiacque nel vederla rialzarsi mostrando di ignorare il dolore e il sangue che colava dal ginocchio sbucciato per tornare subito ad affondare. «Bravo Oscar, così si comporta un soldato di valore, ora però andiamo a occuparci di quel ginocchio e poi se vorrai continueremo» e le fece strada verso la sala d’armi.

Quel luogo, carico di insegne e di armi pregiate, che il padre riempiva dei racconti degli onori militari riportati dagli avi alla storia di famiglia, esercitava su Oscar uno straordinario fascino. Il padre una volta dentro la sollevò di peso mettendola a sedere sul semplice tavolo di legno che normalmente serviva ad affilare le spade e a pulire i fucili e si allontanò per recuperare nella stanza adiacente acquavite e garze. Oscar nell’attesa si distrasse dal pensiero del dolore imminente osservando i ritratti dei valorosi antenati che si erano distinti nella carriera militare. Li fece passare dal primo all’ultimo soffermandosi ammirata sulle armature lucide e sugli scudi ornati dei primi e sulle sfarzose uniformi di gala degli ultimi. Indugiò in soggezione davanti al ritratto del padre, giovane e bello, in uniforme da parata, l’ultimo della parete ovest. Sapeva, perché era stato il padre a raccontarglielo, che i tre drappi di velluto rosso sulla parete nord nascondevano gli spazi predisposti ad accogliere i ritratti degli ufficiali che ne avrebbero raccolto l’eredità. Si mise a fantasticare: nello spazio alla destra del ritratto del padre immaginò uno sguardo azzurro, fiero e determinato, protetto da lunghe ciglia; selvaggi capelli biondi lunghi ben oltre le spalle, il corpo alto e slanciato di una donna austera nel fiore degli anni, sicura di sé, a suo agio nel ruolo, in posa con la spada al fianco sinistro e il tricorno nero ornato di pelliccia bianca nella mano destra, avvolta nella sobria eleganza dell’uniforme candida del comandante della Guardia reale rifinita con fregi scintillanti di broccato, spalline con frangia d’argento e fascia di raso blu. Quel che immaginò le parve possibile, persino verosimile e la lusingò.

Sorrise tra sé a quel pensiero e si affidò cacciando indietro la paura alle mani poco smancerose del padre, che nel frattempo era tornato, determinata a resistere al bruciore come il soldato che aveva appena visto nel suo futuro avrebbe saputo fare.

Il generale fece quello che doveva, con la pratica sbrigativa che gli veniva dai campi di battaglia, senza far differenza tra una bimba di cinque anni e un veterano, ma non mancò di notare che il suo piccolo soldato non solo non si era fatto sfuggire neanche una smorfia, ma non aveva neppure distolto lo sguardo, tanto che alla fine ne lodò il coraggio, cosa che non faceva di frequente.

«Te la senti di riprendere l’assalto, Oscar?».

«Sì, padre. In guardia».

Il Generale represse un sorriso soddisfatto per non incrinare l’aura della propria severità.

«Bravo, Oscar. Per oggi abbiamo finito e mi sei piaciuto molto».

Rientrò in casa fiero di suo figlio ma con la sensazione vaga che qualcosa di nuovo battesse in quel piccolo cuore. La chiamava sempre così, figlio, in pubblico e in privato, un po’ per non destare domande in lei, un po’ nell’illusione di far tacere dentro sé e davanti al mondo il timore che quella vita che aveva costruito a sua immagine gli si disintegrasse prima o poi tra le mani. Non smise, per il resto della giornata, di chiedersi che cosa nascondesse la determinazione feroce che aveva visto in quegli occhi infantili e si convinse che più o meno consapevolmente Oscar stesse cercando di dirgli qualcosa.

Quando la governante, dopo cena, entrò nello studio del Generale portando un vassoio che egli aveva chiesto più che altro per avere una scusa per parlarle senza destare sospetti, la fermò.

«Chiudi un attimo la porta, Marie, devo chiederti una cosa».

La governante obbedì guardando il padrone con aria interrogativa e un po’ preoccupata.

«Pensi che Oscar abbia capito?», le chiese dando per scontato di non dover esplicitare oltre.

«Temo di sì, generale... Io...», abbozzò sul punto di giustificarsi per la distrazione del giorno prima.

«Va bene così, Marie. Doveva succedere prima o poi. Ha fatto domande?».

«A me, no. E a voi?». Azzardò a chiedere, senza sapere se fosse autorizzata a farlo.

«Neppure a me, ma ha troppa soggezione per parlare con me di una cosa simile».

«Che cosa devo fare Generale?».

«Niente, Marie. Faremo come abbiamo sempre fatto. Ma se chiederà le dirai la verità. Credo che sia pronta...».

Era tutto, Marie si congedò e se ne andò inquieta. Benché non avesse mai approvato quella forzatura contro natura non poté fare a meno di obbedire ma neanche di notare che quella sera per la prima volta a sua memoria il Generale le aveva parlato di Oscar riferendosi a lei al femminile.

Oscar nel frattempo già sotto le coperte, sfinita dalla precedente notte insonne e dalla faticosa giornata trascorsa, crollò con negli occhi quell’ultimo ritratto che solo lei conosceva e si concesse il riposo del guerriero, dormendo come solo a cinque anni si sa fare.

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Capitolo 2
*** L’ETÀ DELLE SCELTE ***


Versailles, 1770.

 

Un attimo prima di varcare per la prima volta i due battenti del sontuoso portone di legno ancora chiuso che aveva davanti a sé Oscar François de Jarjayes, impeccabile nella sua uniforme bianca di Capitano delle guardie reali, sentì lo stomaco rimbalzare. Ignorò la sensazione, prese un respiro profondo e aprì le porte, sapendo che tutti gli occhi di Versailles da quel momento in poi sarebbero stati puntati su di lei. Fece due passi dentro con andatura marziale e sguardo altero. Ebbe appena il tempo di abituare gli occhi al gioco di luci e ombre che l’alternanza di muri e finestre  trafitte dai raggi del sole disegnava sul tappeto rosso e di notare le guardie reali schierate immobili sull’attenti su entrambi i lati, davanti alle vetrate, per tutta la lunghezza dell’ampio corridoio. Subito si trovò davanti, a un centimetro dal petto all’altezza del cuore, la punta della spada del Tenente Girodelle: «In guardia, Capitano», l’apostrofò aggressivo ma con lo stesso sorriso sarcastico che lei stessa aveva spento battendolo in duello nella radura un paio di giorni prima. «Come saprete sono stato io a dire al sovrano che questo ruolo era adatto a voi, ma adesso dovrete dimostrarlo, madamigella Oscar  – disse calcando la voce sul madamigella con l’intento studiato di sottolinearne la femminilità – qui, davanti a tutti. Non crederete che Versailles si accontenti di quello che avete mostrato di saper fare al riparo da sguardi indiscreti, tra le fronde di un bosco?».

Oscar dissimulò la sorpresa, sapeva nascondere l'emotività, glielo avevano insegnato presto, anche se qualcosa in quel momento dentro di lei – un disagio sconosciuto – la faceva sentire all’angolo, come mai prima. Tenne testa al tenente come aveva fatto due giorni prima riuscendo di nuovo a disarmarlo, ma a quel punto, prima che avesse il tempo di capire che cosa stava accadendo, un soldato lanciò nelle mani di Girodelle quello che nell’immediato le parve un lungo bastone, in realtà una spada affilatissima, molto simile a un’arma bianca vista nelle mani di un guerriero orientale che il padre le aveva mostrato nell’illustrazione del libro di memorie di un mercante di ritorno dal Giappone. Un’arma che si diceva capace di tagliare qualsiasi materiale avesse incontrato. Oscar non fece in tempo a riconoscerla che la sentì fendere l’aria: nel giro di pochi secondi avvertì la sua bella uniforme caderle di dosso tagliuzzata in mille minuscoli pezzi insieme al resto del vestiario. Fece in tempo a stupirsi di non sentire dolore e di non avere neanche un graffio, prima di accorgersi che quell’arma l’aveva denudata completamente, esponendo un corpo che non le sembrava il suo: più morbido, forse anche più bello, insomma più femminile. Pietrificata dalla vergogna fece per dire qualcosa ma la voce non uscì, impotente e privata di tutte le sue sicurezze, sentiva il cuore batterle fin nelle tempie quando un freddo improvviso la investì.  (1)

 

Il rumore secco di un’anta che sbatteva svegliò Oscar di soprassalto, con il cuore ancora in gola, lasciandole la sensazione sgradevole che l’urto fosse arrivato un attimo prima che gli sguardi di quei soldati schierati diventassero mani addosso. Impiegò un attimo a capire dove si trovava, dato che il vento aveva spento i doppieri. Si era addormentata in poltrona, vestita, vicino alla finestra aperta del salottino adiacente alla sua camera, dove André l’aveva lasciata sola a pensare qualche ora prima. Sollevata dal fatto che fosse stato solo un incubo, seppure carico di quelli che riconosceva come i suoi timori reali e più profondi, si dispiacque di aver congedato André – l’unico che in fondo la capiva, l’unico antidoto alla sua solitudine – un po’ bruscamente. Ma aveva bisogno di riflettere da sola, di dipanare nel silenzio la matassa dei pensieri di quella giornata.

 

Ripensò al giorno prima, a quando suo padre le aveva intimato di indossare la divisa di Capitano delle Guardie reali e alla violenta reazione del genitore davanti alle sue titubanze: constatò che era stata una reazione di fronte alla quale il corpo esile di lei nulla avrebbe potuto forse neppure volendo, anche se non era neanche immaginabile pensare di opporre una qualche resistenza al padre. Ripensò al duello con Girodelle sotto gli alberi: in fondo con la spada aveva avuto ragione di lui facilmente. Le sovvennero i due manrovesci da parte del padre nelle scuderie dopo che lei aveva sfidato Girodelle lungo la strada mancando l’appuntamento pubblico alla presenza del re Luigi XV. Il Generale aveva colpito duro e lei era crollata a terra come una donna delle carte che adoperava come bersaglio quando si allenava con le armi da fuoco.

 

Qual è il grado di scontro fisico che sei in grado di sopportare, Oscar? Avrai le physique du rôle e la tenuta psicologica per portare i gradi da ufficiale? Chiese a sé stessa davanti a uno specchio immaginario. Ti basteranno velocità e agilità? E le Guardie reali quando vedranno il loro nuovo Capitano lo denuderanno con lo sguardo come nell’incubo di poco fa?

 

Approfittando dei bagliori del temporale estrasse di tasca l’acciarino e accese il doppiere. Chiuse la finestra perché il vento non spegnesse le candele e poi ne adoperò una per accendere la lampada a olio. Gettò un’altra occhiata, illuminandolo, al dolcissimo ritratto della madre che teneva appeso alla parete e che aveva contemplato poche ore prima alla ricerca delle risposte che cercava dentro di sé.

 

Dove siete, madre? Che cosa pensate voi, in fondo al vostro cuore, di questa mia vita? Alle mie sorelle avete probabilmente indicato una strada, dato i consigli che si devono a future gentildonne, avete dato un esempio. Di fare tutto questo con me si è occupato il padre, è stato lui il mio esempio. Ma io non posso prendere completamente a modello né lui né voi. A chi posso chiedere come si fa a essere da donna all’altezza del soldato che dovrei diventare? Mi sento sola. Sono sola. Anche se André mi legge dentro non può capire le domande che mi agitano, domande cui risponderà solo il mio corpo crescendo come vorrà, senza obbedire ad altri che alla sua natura. Madre, non ce l’ho con voi per il vostro silenzio. So bene che non potete aprirmi il vostro cuore: se consideraste questa mia vita una forzatura e me lo diceste esautorereste il padre e mi lascereste ancora più sola in questo destino. Non siete nella posizione di farlo e forse non lo trovereste giusto. Se pensaste che questa mia vita sia un privilegio per me e me lo diceste, sentireste di avere fatto un torto alle mie sorelle dandomelo, pur essendo io uguale a loro, solo nata dopo. Siete sola come me, in questo dilemma, madre. E forse per questo anche se non dite niente, anche se state a distanza in questi giorni più del solito per non interferire, vi sento vicina. Ditemi, madre, avevate paura anche voi la sera prima del vostro debutto in società? Anche, voi, in un ruolo diverso, a 14 anni avete temuto gli sguardi indagatori? Si provano le stesse paure crescendo da donne alla mia età? Non mi avete mai raccontato niente della notte in cui sono nata, qualcosa mi ha detto Marie ma niente più di quello che non potessi intuire da me: che il padre aveva deciso così. Di più non ho osato chiedere: potrei forse domandarlo al padre? Come posso spiegargli che mi preoccupa diventare l’ombra della futura regina di Francia, una donna, una ragazza della mia età, perché ho paura di specchiarmi in lei e che quel confronto continuo agli occhi degli altri metta in discussione il mio ruolo.

 

Stando attenta a non fare rumore, Oscar prese la lampada a olio e scese le scale fino a piano terra per poi raggiungere dall’interno del palazzo l’ala della sala delle armi.

Amava quel luogo fin da bambina, da quando, poco dopo aver scoperto di non essere il maschio che si era creduta fino a cinque anni, aveva maturato lì dentro – luogo di allenamento invernale e di storie di onori militari – una fantasia capace di fugare le sue paure e i suoi momenti difficili.

Entrò in punta di piedi ignorando i ritratti degli antenati e puntò dritta a quello di suo padre, in uniforme di gala, al tempo del suo primo incarico da Generale. Si fermò davanti al dipinto e lo illuminò: nella tela incrociò lo sguardo del Generale giovane e notò che il tempo rendeva sempre più simile il taglio dei loro occhi azzurri, freddi all’apparenza, ma capaci di una vampa che solo loro conoscevano e che nasceva da un che di impulsivo nel loro carattere così simile. Un dettaglio che tutta l’esperienza del padre non era bastata a dissimulare del tutto in lui nemmeno da uomo maturo.

 

Padre, voi che mi avete insegnato a reprimere la paura e persino a rinnegarla, che mi avete cresciuta spavalda fino a intraprendere azioni temerarie come sfidare a duello Girodelle, per esempio, avete avuto paura anche voi prima di prendere servizio, anche voi vi siete domandato se foste all’altezza del compito? Va tutto bene finché giochi e corri, ma poi quando diventi grande diventa tutto più difficile: ma è poi vero che gli eroi non hanno mai paura o hanno solo imparato a non lasciarsene condizionare? (2) E ditemi, padre, coraggiosi si nasce o si diventa? E adesso, padre? Anche voi state pensando che fin qui è stato solo addestramento ma che da domani ogni duello sarà per la vita e per la morte, per me e per le persone che sarò chiamata difendere? Anche voi avete temuto a vostro tempo questo cruciale passaggio? Anche voi vi state chiedendo se quello che avete fatto di me basterà là fuori? Se io dovessi sbagliare che cosa diventeranno i sorrisetti a mezza bocca che già vediamo quando mi chiamate figlio? È tanto più grande di me, padre, quello che mi attende: il mio primo errore, padre, ricadrà su di voi. È questo che mi spaventa tanto. Vi rinfacceranno l’azzardo, forse godranno del naufragio di chi sfida le Colonne d’Ercole.

 

Oscar si voltò verso la parete nord, alla destra del ritratto del padre. Tre tendoni di velluto rosso coprivano gli spazi riservati ai ritratti della discendenza della loro antica famiglia coperta d’onori militari, nei secoli fedele alla Corona: ritratti di là da venire. Da bambina in quello spazio aveva immaginato la propria effigie, se la era figurata come avrebbe dovuto essere una donna soldato nel migliore dei mondi possibili e per molto tempo quella fantasia aveva placato le sue inquietudini. Nascondersi lì dentro ed evocare quella figura l’aveva tante volte aiutata a ricacciare indietro lacrime di frustrazione, di dolore, di paura. Quella sera invece non vide nulla oltre il drappo rosso: lo sentì greve come il peso che gravava sul suo giovane cuore.

 

Rientrando nella sua camera Oscar sentì gli zoccoli di un cavallo allontanarsi al galoppo e poi notò che filtrava luce dallo studio del padre. Per timore di essere scoperta in giro a quell’ora di notte, si nascose nel corridoio adiacente e da lì si sporse sul cornicione per origliare la conversazione: dentro lo studio il Generale Jarjayes stava intimando ad André di convincerla – anzi di convincerlo dato che parlava sempre con lei e di lei al maschile – a indossare la divisa di Capitano delle guardie reali. Oscar aveva udito bene la voce tonante del padre, senza riuscire a percepire la risposta di André.

Il mattino dopo – all’alba di una notte inquieta – trovò il ragazzo di buon’ora nelle scuderie. Come si attendeva la invitò a cavalcare, sapeva che l’avrebbe portata in riva al laghetto, un luogo da sempre teatro dei loro confronti importanti. Lì avrebbe cominciato col darle ragione e poi l’avrebbe convinta a obbedire al padre. Oscar ci andò di malavoglia. Ma quando si trovò sul posto André invece di parlarle subito la provocò allo scontro, finirono per fare a botte. André sapeva infatti che quello era l’unico modo concesso alla sua amica per sfogare le sue emozioni senza recare disonore alla rigida educazione marziale che le era stata impartita. In quel modo riuscì a dimostrarle almeno che lei era abbastanza forte da tenergli testa.

«Non devi dirmi niente, André?».

«No, Oscar».

«Ho sentito mio padre che ti parlava ieri sera».

«Non è una buona ragione per convincerti a intraprendere un’esistenza che non ti è gradita, per questo avevo deciso di non dirti nulla».

Sapere che c’era almeno una persona che non le avrebbe negato il suo sostegno se non avesse seguito la strada segnata rinfrancò Oscar, le bastò quella frase per andare a riprendere il cavallo e tornare sulla via di casa.

Ma André non aveva finito: «Una cosa però voglio dirtela e poi non ne parleremo più», le gridò mentre lei lo lasciava indietro, «Fermati, Oscar, sei ancora in tempo, diventa una donna!».

Mentre quella frase le rimbombava in testa, galoppando verso palazzo Jarjayes, la mente  di Oscar tornò alla prima festa in famiglia cui le fu concesso di partecipare. Aveva allora otto anni e si trattava del fidanzamento di una delle sue sorelle maggiori allora quattordicenne. Oscar che all’epoca non sapeva che cosa fosse un buon partito né aveva mai sentito parlare di doveri coniugali aveva notato che a quella festa sembravano tutti felici tranne l’interessata. Mentre galoppava Oscar ripensò allo sguardo da animale braccato di quella ragazzina che all’epoca le somigliava molto, si immedesimò in lei, e improvvisamente le nubi che aveva dentro si dipanarono. Le sue domande erano ancora tutte lì, ma almeno una risposta se l’era data.

Lasciò il cavallo nelle scuderie affidandolo ad André e dopo averlo ringraziato senza aggiungere altro Oscar corse in camera sua e si vestì con la massima cura.  Fece passare la fascia rossa di traverso sul petto e la fissò in vita, allacciò la spada al fianco e scese i gradini con incedere solenne a testa alta. Vide in fondo alle scale il Generale e gli lesse una sorpresa fiera nello sguardo.

 

Mentre scendeva con studiata lentezza Oscar ripassava mentalmente il da farsi: si disse che avrebbe passato tutto il tempo che divideva quel giorno dall’arrivo in Francia della principessa Maria Antonietta, promessa sposa del Delfino di Francia, a studiare la planimetria di Versailles,  a memorizzare ogni volto, a battere ogni anfratto della cittadella reale. E quando sentiva la sicurezza vacillare si ripeteva, mentre scendeva le scale, l’insegnamento di suo padre, augurandosi che sarebbe bastato: «Devi essere pronta allo scontro con le armi se necessario, per questo devi saperle usare meglio di tutti, ma non dimenticare mai che il più importante compito di una guardia del corpo viene prima: consiste nel fiutare il pericolo e prevenirlo. Occhi aperti, Oscar: la tua testa conterà più del tuo corpo». Oscar desiderò con tutta sé stessa che fosse vero, mentre andava verso la sua strada segnata.

 

Padre non lo faccio per voi né per chiunque altro.

Ma vi giuro sul mio onore e su questa spada che non avrete mai a vergognarvi di me, dovesse costarmi la vita.

 

Pensò prima di cavalcare incontro alla propria solitudine.

 

  • 1.     La scena dell’abito tagliato è una citazione dall’episodio della II serie dell’anime Lupin III ep. 100, cross over usato nel 1979 dalla casa di produzione per lanciare l’anime Versailles No Bara in programma un mese dopo.
  • 2.     La citazione è un omaggio a Giovanni Falcone, il concetto è suo: « L'importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio, è incoscienza», Marcelle Padovani, documentario La solitudine di Giovanni Falcone, 1988.

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Capitolo 3
*** STESSA NOTTE ALTRA STANZA ***


La stessa notte di dubbi, in un’altra più povera stanza della stessa casa

Do la colpa al temporale, ma non è quello il rumore che non mi fa dormire. È il battito accelerato del mio cuore agitato. Non sono sull’orlo di una scelta radicale come quella che chiedono a te, Oscar, ma ti capisco: sono confuso anch’io. Io non ho margini di scelta, ai servi è dato solo di obbedire. Son già stato miracolato a trovare questa casa, l’educazione che la tua famiglia mi ha dato, e te: se tu non avessi avuto bisogno di un compagno di giochi e di studi, sarei rimasto come tanti orfani bambini a far la fame sfruttati in qualche misera bottega, di certo non avrei imparato a scrivere come sto facendo, provando a mettere ordine nel caos dei pensieri al lume di un mozzicone di candela. E invece sono diventato grande in questa bella casa, affidato ai migliori precettori, con una nonna che mi ama anche se me lo dimostra a mestolate e con te, che di tutte sei la cosa migliore che mi sia capitata.

Ma anch’io mi sento in trappola, anche per me ieri a tarda sera è venuto il momento di una richiesta difficile: tuo padre vuole che ti convinca a indossare quella divisa. Tuo padre è il mio padrone, ho con lui il debito enorme che sai e non sarei nella posizione di dirgli altro che Sissignore. E invece, ieri sera, ho preso coraggio e gli ho detto che devi scegliere tu, anche se mia nonna mi ripete da quando sono qui che devo stare al mio posto che sono solo un umile servitore, anche se poi a pensarci bene, come ci siamo detti tante volte tu e io fin da bambini, in questa casa è lei l’unica che al suo posto non ci sta: se deve dire una cosa in faccia al generale gliela dice senza tanti complimenti con le mani sui fianchi ed è l’unica da cui, in fondo, sembra disposto a incassarle.

Il fatto è che io penso che sia giusto che tu faccia quello che ti sembra meglio per te, senza che né io, né tuo padre, né mia nonna, né chicchessia possiamo interferire. È vero, in questa società i figli, finché restano tali, obbediscono e basta, le figlie di più. Ma tu non sei una figlia come le altre, perché lui ha voluto che non lo fossi.

E io non credo di sentirmela di dirti di obbedire se non vuoi. A te hanno segnato una strada in salita più ripida che a tutti gli altri: la vita dell’uomo che non sei. E io quale sia la scelta giusta davvero non lo so. Mia nonna dice che c’è un conflitto in te, che non sai se essere uomo o donna, ma credo che si sbagli o meglio che voglia dire, senza le parole adatte a esprimerlo, qualcosa di più complesso.

La nonna sa benissimo, come lo so io, che sei perfettamente consapevole di essere una ragazza e che non hai dubbi su questo, il tuo problema è che, com’è normale che sia, ti preoccupa l’entità della sfida che ti è stata messa davanti e che da domani non sarà più un gioco, ma una responsabilità più grande di te. Una parte di me vorrebbe gridarti di mollare tutto e riprenderti la tua vita di ragazza: un po’ perché mi sembra un sacrificio troppo grande quello che ti è stato imposto, prigioniera di un’uniforme, nei ranghi della vita militare, con tutti i suoi rischi, sola nella tana del lupo. Un po’ perché, una parte di me, che dovrei far tacere, mi fa spesso fantasticare di te in abiti femminili. È quella stessa parte di me che egoisticamente mi dice che, al contrario, dovrei incoraggiarti a restare come sei, perché se diventassi una ragazza come le altre improvvisamente ti perderei: è la parte di me che ti ammira per la tua capacità di tenermi testa fisicamente e mentalmente, per la tua abilità con la spada, è la parte di me, sempre più prepotente, che, nonostante tutto questo, ti trova – non senza turbamento – ogni giorno più bella. Forse non potrò mai dirtelo, al di fuori delle fantasie inconfessabili del chiuso di questa stanza, Oscar, ma tu mi piaci e mi piaci così come sei. Ma chi sono io per dirti che devi restare prigioniera di questa divisa, in nome dell’amore che questa società mi impedirebbe comunque di darti e di avere? Posso essere così ripiegato su me stesso da incoraggiarti a seguire la strada segnata solo per tenerti con me in questo limbo? Mentre sto a guardare quando tuo padre ti colpisce con la violenza di ieri, adesso che avrei la forza fisica per mettermi in mezzo?

Non obbedirò a tuo padre, Oscar, no, ho deciso: non ti dirò quello che vuole che io ti dica. Questo no. Ma dovrò fare lo sforzo anche di non influenzarti con quello che vorrei io perché potrebbe fare del male a te. Per il tuo bene, Oscar, io domani dovrò trovare il modo – quale che sia perché non so se ne sarò capace – di lasciarti sola a decidere, perché stavolta il battito del tuo cuore è la sola cosa che devi ascoltare. A costo di farmici chiudere fuori, so che farò la cosa giusta per te solo se avrò la forza di trovare le parole adatte a che sia tu a scegliere e tu soltanto la strada che senti davvero tua. E chissà poi se ci riuscirò, perché a ripensarci anche in tutte le cose che sto dicendo a me stesso nel buio di questa notte c’è un bel po’ di confusione, credo.

Però una cosa mi è chiara Oscar: qualunque cosa farai, non devi farla per tuo padre, non devi farla per me, non devi farla per nessuno se non per te stessa. L’altra cosa che so è che, qualunque scelta farai, il mio cuore verrà con te.

Il silenzio della notte amplificò il rumore della pagina strappata, André guardò il foglio ancora fresco d’inchiostro bruciare insieme al suo compromettente contenuto sulla fiamma dell’ultimo moccolo, lo spense e si decise a dormire qualche ora prima di affrontare la conversazione che si muoveva ancora oscura nella sua mente, augurandosi che le prime luci dell’alba contribuissero a rischiararla.

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Capitolo 4
*** RISVEGLI ***


Non so dove mi trovo, è buio, forse sono bendata, qualcuno strazia con strumenti che non so identificare il mio braccio sinistro, immobilizzato, forse in una morsa. Anche la mano destra è trattenuta, ma in modo meno stretto, più dolcemente. Ogni fibra del mio corpo urla di dolore ma la voce mi muore in gola.

Confusamente mi ricordo della figura imponente di Luigi XV e di me inginocchiata davanti a lui, sto offrendo la mia vita al posto di quella di André, il re, fuori di sé, lo vuole condannare a morte per l’incidente occorso a cavallo alla Delfina, ma André non ha colpa.

Non ricordo che cosa sia accaduto dopo, la mia memoria ha un vuoto. Adesso sto soffrendo come un animale, ma sapere il perché stranamente mi calma, capisco che André è salvo: evidentemente il sovrano mi ha esaudita, stanno uccidendo me. Mentre urlo anche se non mi sento, stravolta dal dolore, riesco a pensare che hanno scelto un modo molto crudele di condannare a morte, non ledono subito organi vitali, fanno soffrire, deliberatamente credo, per un tempo che mi pare parente dell’eternità.

Tutto a un tratto sento come fuori di me la mia voce esplodere in un grido disumano, almeno quanto il dolore che mi devasta. Apro gli occhi. La coscienza è tornata all'improvviso. Sono nella mia stanza e non so se siano passati minuti, ore o giorni.

Vedo il dottor Lassonne chino sopra di me, il fatto che la mia mente sia tornata presente a sé stessa distende il suo volto, sta facendo del suo meglio per ricucire la carne a brandelli del mio braccio sinistro; per liberarlo hanno tagliato la manica; la morsa che sentivo sono le mani di mio padre che fa quello che gli hanno insegnato i campi di battaglia: mi tiene ferma, un gesto pietoso nella sua crudeltà apparente, impedisce al mio corpo di assecondare l’istinto di sottrarsi, perché così almeno non si peggiora la situazione e soprattutto si fa più in fretta, si limita il dolore al necessario. Le sue labbra, decontratte dall’incontro con i miei occhi aperti, mi hanno sussurrato qualcosa che sembra rassicurante ma il mio urlo ha coperto le sue parole, non sono riuscita a sentirle. Una mano calda stringe la mia destra: è Andrè. Mi sorride, cattura il mio sguardo distogliendolo dalla macelleria del mio braccio sinistro. Siamo vivi, siamo a casa, nessuno di noi due morirà. Non oggi. Respiro.

Lassonne mi dà un attimo di tregua. Recupero la padronanza di me, mi ricordo che sono un ufficiale, che devo trovare il modo di non lasciarmi andare. Chiedo ad André un fazzoletto, con la mano libera me lo infilo ripiegato tra i denti, sento la voce salda di mio padre: «Resisti, Oscar, so che fa male, ma cerca di resistere», punto le pupille nelle sue iridi grigie, vedo che un’empatia incoraggiante nasconde la sua preoccupazione. Mi aiuta a darmi un contegno. Faccio cenno al dottore che può continuare, le mani di mio padre tornano a stringere, mi ci affido, resisto come posso. André tiene la mia destra tra le sue mani grandi, il loro calore, vivo, mi trasmette forza e calma. Siamo qui e mi basta, avrò minuti adesso e ore dopo d’inferno, ma passerà. È solo questione di tempo, posso farcela. Il dottore mi dice che non resteranno danni permanenti. Gli occhi di mio padre sorridono di sollievo nei miei. Posso resistere.

Sento Lassonne dirmi che il peggio è passato. Respiro. Sbircio dalla sua parte, vedo le sue mani tagliare l’ultimo filo di seta di quello che mi pare a tutti gli effetti il campo di una battaglia, combattuta sul mio corpo di soldato. Mi chiede di stringere i denti un’ultima volta, faccio cenno che ho capito: sento qualcosa di alcolico, molto forte, incendiare come fuoco liquido la ferita. Trattengo il respiro, sperando che tenga ferme le lacrime che tentano di venire giù da sole. Mi tolgo il fazzoletto dai denti. Espiro. Svuotata. Le mani di mio padre mollano la presa, sembra esausto quanto me, si spostano sulle mie spalle in un gesto che se non si trattasse di noi definirei affettuoso.

Il battito del mio cuore a poco a poco si regolarizza, sono sfinita, ma viva e intera. André mi passa un fazzoletto fresco sul viso staccandomi dalla fronte i capelli fradici di sudore freddo. Mi sembra di rinascere. Ringrazio il Signore di averlo vivo e di averlo lì. Solo in quel momento mi ricordo che anche il conte di Fersen, dopo di me, ha offerto la sua vita per noi, un attimo di preoccupazione mi attraversa: mi rendo conto che non ho memoria di che cosa sia accaduto dopo. Mi sovviene l’origine della ferita: un ramo frastagliato conficcato nel muscolo del braccio dopo il volo dal cavallo al galoppo nel fare scudo al corpo della principessa. Ricordo il dolore di quando l’ho estratto per poter soccorrere lei, immagino le schegge, le lacerazioni e capisco perché il dottore abbia dovuto lavorarci tanto. Sento dolore ovunque, sono piena di lividi e di escoriazioni eppure realizzo che poteva andarmi molto peggio, ossa rotte non ne ho. Ma non so niente della principessa e del Conte di Fersen.

André legge l’angoscia nel mio sguardo, capisce al volo e mi racconta che la principessa sta bene e che alla fine nessuno è stato punito per l’incidente. A rischiare la pelle in questa faccenda siamo stati solo lui e io. Anche lui è ammaccato forse più di me, ha rischiato tanto restando aggrappato alle redini quando il cavallo della Delfina s’è imbizzarrito, ma non lo dà a vedere, come sempre si preoccupa e si occupa di me. Gli chiedo come sta, come sempre minimizza, facendo sorridere gli occhi verdi, ma so che non mi dice tutta la verità. Vorrei un po’ della sua calma e della sua forza. Mi accontento di sapere che è qui, intero anche lui.

Escono tutti, mi lasciano alle mani amorevoli di Nanny, che con delicatezza rimuove quello che resta della camicia che porto sotto la giubba, mi spoglia e, sforzandosi di non premere sui lividi bluastri che affiorano ovunque, ripulisce il mio corpo dal sangue che nel tempo che la mia memoria ha cancellato dev’essere sgorgato a fiotti. Sarà per questo che mi sento così debole. Nessuna delle due riesce a dire niente, quel contatto delicato comunica più di tutte le parole del mondo il senso della morte scampata, ci basta per capirci. Ha gli occhi lucidi e anch’io.

Il dolore mi pulsa fin dentro le tempie, ma sollevata dalla certezza che nessuna vita manca all’appello, lascio che la spossatezza si impadronisca di me, rassegnata a una lunga notte di veglia. Fa troppo male per dormire.

Adesso che il pericolo immediato sembra alle spalle, adesso che sono rimasta sola, mentre il dolore fisico ottunde la mia mente, una paura lucida mi ghermisce a scoppio ritardato con i suoi artigli gelidi e rapaci: oggi ho rischiato di perdere André. Ripercorro quel che ricordo della giornata e la paura si tramuta in rabbia man mano che i segmenti degli eventi si susseguono. André, se io non fossi arrivata in tempo, sarebbe potuto morire per una colpa non sua. Dentro di me una voce grida rimbalzando al ritmo del dolore che pulsa in ogni centimetro di me: «Non è giusto, non è giusto, non è giusto». Non c’è nessun barlume di giustizia né umana né divina nell’arbitrio che fa sì che un uomo possa morire per la decisione di un sovrano che nulla sa di come sono andate le cose né si preoccupa di saperlo, pronto a condannare alla cieca, tanto ai suoi occhi chi muore è “solo” un servitore. André, il mio amico, mio fratello, il mio specchio, il mio confidente, l’unico che sa tutto di me, sarebbe morto senza colpa e senza che nessuno alzasse un dito per difenderlo. Siamo cresciuti insieme e le regole del mondo hanno deciso che non siamo uguali, che le nostre vite non valgono allo stesso modo, ma non c’è merito nel rango in cui si nasce, solo caso.

L’enormità di questa presa di coscienza mi scuote, nel buio esplodo in un pianto senza difese, violento: la tensione di questa giornata, fin qui trattenuta, erutta tutta in una volta. Il singulto del pianto comunica al mio corpo movimenti convulsi, aumentano il dolore, ma non mi importa, mi ricordano che sono viva, che siamo vivi, forse per miracolo. Sto piangendo di frustrazione e di impotenza: ripenso alla principessa Maria Antonietta che ignora gli inviti di André a stare ferma per non innervosire il cavallo. Ha 18 anni, come me, ma è leggera e spensierata come una bambina, sembra che non si renda minimamente conto del fatto che un giorno, magari vicino, sarà la regina di Francia, non sembra percepire quale responsabilità questo comporti.

Io fin da quando ho memoria mi sento ripetere che un ruolo di comando implica responsabilità: che sei responsabile degli ordini che dai, della vita dei tuoi soldati, degli errori che fanno nell’eseguirli; che più alto è il tuo grado, maggiore è la responsabilità che porti: più grande è il tuo onore più pesante è l’onere che ne deriva. Ma, poi, quando si sale al vertice, un sovrano che fa legge della propria volontà può decidere che un uomo, una brava persona, muoia per un capriccio. Sono un ufficiale, appartengo a una famiglia nei secoli fedele alla Corona, anch’io ho giurato sul mio onore fedeltà al re. Ma non sarei mai capace di uccidere senza motivo solo per eseguire un ordine. Dio, fate che non mi accada mai di ricevere un ordine così...

Sull’orlo di quella preghiera disperata aveva sentito il cuore accelerare ancora, prima che lucidità e forze venissero di nuovo meno e una stanchezza invincibile si impossessasse di lei affondandola in uno stato di semi-incoscienza agitato e sofferente in cui il dolore reale si mescolava a scene confuse di sofferenze e ingiustizie sognate, prima di far da sfondo a un’immagine della sua infanzia finalmente, almeno quella, serena, condivisa con André.

Oscar non poteva saperlo ma lo scenario del suo sogno delirante si era pacificato quando all’alba André era arrivato lì e si era seduto accanto al letto, sussurrandole parole rassicuranti, preoccupato per il pallore spettrale, per la vita di nuovo risucchiata in quello stato di torpore innaturale, anch’egli reduce da una notte disturbata dai lividi e dalle abrasioni che pure il suo corpo contava e turbata dai ricordi del giorno prima e dalla grandezza del gesto di lei che aveva offerto la propria vita per la sua.

Le stava promettendo che se fosse stato necessario avrebbe saputo un giorno fare altrettanto per lei, quando la vide aprire gli occhi e finalmente accennare a una specie di sorriso.

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Capitolo 5
*** CONFERME ***


Pochi giorni dopo...

- «Abbiamo finito, madamigella Oscar. Scusate per l’involontario supplizio, spero di farmelo perdonare dicendovi che sono lieto di comunicarvi che sta andando tutto per il meglio: la vostra ferita e il resto delle ammaccature sono in netto miglioramento. Avete rischiato grosso qualche giorno fa, ma i Jaryajes, come dice vostro padre, hanno la scorza dura e voi non smentite la nobile tradizione di questo casato carico di onori militari».

- «Se non l’avessi, dottore, non potrei sopravvivere a voi! Come torturatore ci sapete indubbiamente fare: lento, metodico, inesorabile», rise Oscar stando al gioco di quella conversazione scherzosa, che l’altro continuò, studiando una risposta a tono:

- «E voi, Capitano, siete un osso duro, non c’è verso di farvi confessare alcunché». Rise di rimando.

Tra Oscar François de Jarjayes e il dottor Lassonne, medico di fiducia della famiglia, c’era un rapporto consolidato di reciproca stima: il dottore ammirava il coraggio schietto di quella giovane donna che aveva visto crescere affrontando gli ostacoli di non poco momento che la vita, o chi per essa, le metteva davanti, andando loro incontro decisa a saltarli senza aggirarli, anche se il dottore, dentro di sé, per lo spirito d’osservazione che la professione gli dava sulla natura umana, coltivava il sospetto che nemmeno lei escludesse di principio le vie di fuga quando c’era di mezzo il cuore, ma non inteso nel senso della pompa anatomica che potesse competere a un medico.

Oscar, dal canto proprio, apprezzava nel dottore la franchezza garbata di chi affrontava il proprio, talvolta ingrato, dovere con concreta sobrietà, senza mai essere rude, ma anche senza nascondere né la sostanza delle cose, per quanto scomode da dire e digerire, né i limiti della propria scienza: uno stile che a lei, aliena da menzogne e infingimenti, dava fiducia perché denotava onestà intellettuale.

- «Visto che sono un osso duro come dite, dottore, mi accordate il permesso di uscire da questo letto di spine?». Azzardò, reggendo il gioco con un sorriso tra il suadente e lo sfrontato.

- «Questi giovani con l’argento vivo addosso, date loro un dito e si prendono un braccio!», finse di perdere la pazienza il dottore. E poi tornando serio: «Con cautela potete alzarvi, se ve la sentite: ma gradualmente e osservando comunque il dovuto riposo. Non v’azzardate a forzare il recupero, madamigella Oscar: se non rispetterete i tempi del vostro corpo questa volta, ve la farà pagare con gli interessi per il resto della vita. Non dimenticatelo. Siete tal quale vostro padre, Capitano! Tanto resistenti se c’è da soffrire, quanto impazienti se c’è da aspettare... Si direbbe che per voi non ci sia tortura peggiore di una convalescenza!».

- «Touché!», rise Oscar. «Avete ragione, dottore, già non ne posso più di stare ferma. Ma rispetterò la consegna, promesso. Vi ringrazio di tutto. Spero di rivedervi presto e di potervi offrire, la prossima volta in piedi, il migliore Armagnac delle cantine di casa Jarjayes».

- «Invito accettato, madamigella Oscar, dovremo brindare alla vostra salute e all’impresa che avete compiuto evitando, a quanto mi hanno riferito, non una sola tragedia. A questo proposito mi torna in mente un giorno lontano, in cui, giovanissima, mi avete dato un’idea di che persona sareste diventata. Penso di meritarmi questo brindisi, se non altro per avervi pronosticato allora che sareste diventata un ottimo ufficiale se soltanto lo aveste voluto. Mi pare che da qualche tempo non sussista più alcun dubbio in merito al fatto che quella prognosi si sia avverata».

- «Credo anch’io, dottore, che ve lo siate guadagnato: non era una prognosi facile, anche perché è un vero miracolo che io non sia morta di imbarazzo quel giorno!». Rispose, temendo di avvampare fuori tempo massimo.

Quando il dottore si congedò Oscar, sollevata dal fatto che le avesse concesso di alzarsi, cosa in cui non confidava, ripensò divertita all’impronta spiritosa che la loro conversazione aveva preso e la mente tornò all’incontro di diversi anni prima cui il dottore aveva alluso e alla notte tormentata che lo aveva preceduto.

Palazzo Jarjayes, ottobre 1767

Egregio Dottor Lassonne, perdonate l’ardire, devo parlarvi da sola.

Oscar François de Jarjayes

Ps. Fino al rintocco delle quattro, ho la consegna di studiare nella mia stanza. Da giovedì a domenica il generale mio padre sarà lontano per servizio.

La ragazzina bionda, alta e magra come un giunco, che abiti di foggia maschile ancora riuscivano benissimo a trasformare in un bambino al di sopra di ogni sospetto, soffiò via il polverino dall’inchiostro fresco e nascose nella tasca del gilet verde acqua il bigliettino che aveva vergato con una grafia più nervosa e meno elegante del consueto: poche righe, ma meditate e limate all’infinito in una di quelle notti tormentate che segnano il passaggio a inquietudini da grandi che il sonno di piombo dei bambini all’improvviso non vince più. Mille ripensamenti, per tre quarti dedicati a domandarsi se fosse quella la via d’uscita dal cul-de-sac in cui la natura l’aveva infilata come solo certi duelli spalle al muro sanno fare; per un quarto rivolti al “come”, alla forma, alla ricerca delle parole giuste, perché anche la giovane Oscar François de Jarjayes, pur cresciuta in una bolla costruita su misura per lei, sapeva che normalmente certe questioni si risolvevano in casa tra donne. Ma era altrettanto consapevole che il suo destino artificiosamente segnato poneva interrogativi che le risposte buone per tutte le altre non avrebbero chetato.

Oscar uscì con studiata noncuranza dalla sua camera. Sapeva che il dottore si trovava a palazzo, chiamato per una lieve indisposizione di sua madre madame Jarjayes, ma a lei, che aveva allora quasi dodici anni, non era mai stato concesso di conferire con il medico in solitudine. C’era sempre per dirla con una sua espressione insofferente «qualcuno di mezzo»: ultimamente la nonna di André, la governante di casa, con la scusa di aiutarla a prepararsi; prima sempre suo padre, il generale, che pretendeva di essere informato di prima mano su tutto ciò che riguardava la salute di “suo figlio”; voleva essere sicuro che crescesse “sano e forte”, all’altezza delle sue aspettative. E se c’era da sopportare un piccolo o grande dolore, voleva verificare di persona che “suo figlio” fosse all’altezza dell’ufficiale che sarebbe diventato, che si portasse con il coraggio e la dignità consoni alla sua strada segnata, reggendo lo sguardo nel suo, senza piagnistei e svenevolezze. E se notava qualche cedimento, peggio che mai una lacrima furtiva, non mancava di farglielo pesare dopo, nella penombra del suo studio, guardando dall’alto in basso con il suo sguardo di ghiaccio carico di delusione la ragazzina che si ostinava a chiamare “figlio”.

In questo modo Oscar, alla presenza del dottore, si sentiva sempre a disagio, sotto esame due volte, e un po’ le dispiaceva perché sapeva che quello stato d’animo non dipendeva dalla bonomia autorevole del medico, che la trattava sempre con cordialità e faceva di tutto per metterla a suo agio, quanto dall’attitudine inquisitoria dell’austero genitore, che, presente o dietro il paravento, si faceva sentire in tutta la propria ingombrante autorità.

Il dottor Lassonne, dal canto suo, si rendeva conto dell’impropria prova di forza più o meno esplicita che, suo malgrado, si consumava sotto il suo sguardo, provava quasi pena per quella bambina, educata in maniera così rigida a sopperire all’erede maschio che il generale non aveva avuto, benché questo accadesse in una società in cui mai un figlio, men che meno una figlia, specie se nobile, aveva margine di scelta per la propria vita; dall’altro lato però ammirava il lampo indomito che passava nello sguardo azzurro e fiero di quella ragazzina coraggiosa che accettava la sfida impostale dal padre e non faceva mai un passo indietro: gli dava l’idea che in fondo quella vita non comune non le dispiacesse. Ma nutriva il timore che si eccedesse in severità, tanto che più di una volta in privato il dottore aveva cercato di far ragionare il generale, di convincerlo almeno, se proprio non poteva fare a meno di allentare uno schiaffo, a non andarci con la mano troppo pesante.

Oscar rimuginava questi pensieri mentre scendeva le scale e, giunta all’ultima rampa, benedisse in cuor suo il mantello del dottore, che aveva notato abbandonato su una poltrona all’ingresso del palazzo, controllò che nessuno della servitù fosse nei paraggi e lasciò scivolare il bigliettino in una tasca, affondandolo bene per assicurarsi che fosse aperto al riparo da occhi indiscreti, non prima di averlo appallottolato con cura, affinché facesse un po’ di volume, augurandosi che bastasse a non farlo passare inosservato al destinatario. Stavolta Oscar François de Jarjayes non poteva permettere ad alcuno, men che meno a suo padre, di violare la riservatezza della sua conversazione con il dottore.

Il giorno prima mentre si misurava con André, come sempre faceva da quando aveva memoria, un colpo, meno forte di migliaia di altri, ricevuto all’altezza del petto le aveva mozzato il respiro sorprendendola con un dolore nuovo, di intensità mai provata in circostanze simili. Solo la sua prontezza, e la determinazione a nasconderlo ad André, per non farlo preoccupare ma anche per non dover spiegare, le aveva permesso di dissimulare lì per lì e continuare la lotta facendo attenzione a incassare altrove in caso di necessità.

.

Era quello l’episodio­ che l’aveva turbata e tenuta sveglia a meditare sull’appuntamento cruciale della sua singolare esistenza, sbucato fuori all’improvviso sotto strati di rimozioni.

Da quando a 5 anni aveva scoperto di essere una bambina, aveva preso a guardare con più attenzione le donne attorno a lei, per chiarirsi che cosa significasse esserlo. Man mano che cresceva, com’era naturale, aumentavano le domande. Le pagine del trattato di anatomia, in cui, arrampicata di nascosto sull’ultimo scaffale – non a caso fuori portata - della ricca biblioteca paterna, aveva cercato risposte in autonomia, le avevano chiarito diverse cose, ma anziché placare le sue ansie le avevano amplificate con troppi particolari freddamente esposti.

Quello che veniva naturale agli altri nella crescita, cioè il confronto con i coetanei e con gli adulti di riferimento se non altro per un processo di emulazione, a lei per una complicata serie di ragioni era stato precluso: il suo unico confronto era André, il suo modello di riferimento il padre, né l’uno né l’altro, per evidenti ragioni, avrebbero potuto fare al caso suo in quelle circostanze. C’era, certo, l’anziana governante, suo punto fermo nelle faccende molto personali, ma tra le tante risposte che avrebbe potuto darle non c’era quella che più a Oscar premeva, ossia prevedere se e quanto quel corpo in muta le avrebbe permesso di conservare la propria singolarità, cioè di restare sé stessa: si chiedeva con ansia se fosse davvero possibile diventare donna rimanendo comunque all’altezza delle aspettative paterne o se invece al cospetto del corpo di una donna il soldato si sarebbe dissolto, rivelandosi definitivamente un inganno, una maschera, un’armatura vuota dentro.

Il generale poteva dare risposte, implicite, soltanto al soldato in erba. Nell’addestramento in effetti puntava molto sull’agilità e sui riflessi. Questo dettaglio, che dettaglio non era, e il fatto che il padre fosse quanto mai intransigente sullo studio degli aspetti strategici che pretendeva a menadito, almeno la rassicuravano su un punto: pur determinato ad andare avanti per la strada intrapresa, il generale si poneva quantomeno in concreto il problema che ostentatamente fingeva di ignorare, ossia che lei non fosse davvero il figlio che si ostinava a declinare al maschile. Oscar tra le righe capiva che senza dirle niente, il genitore cercava rimedi per quanto poteva aggirando gli ostacoli frapposti dalla natura, ma non sarebbe stato neanche pensabile, e non solo per l’imbarazzo, affrontare con lui il discorso su aspetti cui neanche il Padreterno avrebbe potuto rimediare. Marie, la governante, dal canto suo, avrebbe potuto rispondere solo alle domande di una ragazza destinata a diventare moglie e madre e soltanto quello, non certo a “un’ufficiale” di Sua Maestà in pectore, scritto con l’apostrofo. Oscar si rendeva conto che da quelle fonti le sarebbero potute arrivare solo risposte divise in due metà che non avrebbero mai fatto un intero e che non avrebbero potuto dare pace a interrogativi che stavano al punto di intersezione tra quelle due metà, unici perché indissolubilmente legati all’unicità della vita di Oscar François de Jarjayes.

Per anni, pur sapendo in qualche anfratto della coscienza che lo snodo dell’evoluzione del suo corpo la seguiva come un’ombra, Oscar lo aveva rimosso, cosa che a volte anche agli ardimentosi accade di fare con i loro timori reconditi, e almeno per quell’aspetto aveva vissuto giorno per giorno, rimandando la questione al momento in cui si fosse posta senza più opzioni di rinvio. E così avevano fatto anche le persone attorno a lei. Ora Oscar intuiva che quel momento era venuto. Ed ebbe chiaro lì nel buio pesto che lei, cui avevano insegnato l’arte di prevedere le mosse dell’avversario, stavolta non era pronta. Il corpo era un avversario subdolo, insidioso e imbattibile in quanto implacabile: non si sarebbe fermato.

Lo strano dolore provato il giorno prima l’aveva convinta che tutto fosse sul punto di precipitare. Di quella risposta decisiva ora aveva bisogno, prima possibile. E, pur sentendosi morire di disagio al solo pensiero, si era convinta nel corso di quella notte trascorsa a rigirarsi nel letto che l’unica strada fosse chiederla, per disperazione, alla sola persona che, per ruolo, poteva affrontare con sufficiente distacco la spinosa questione della sua contraddizione non risolta, che durante l’infanzia si era limitata alla trascurabile differenza di una declinazione linguistica e ora come un nodo veniva al pettine in tutta la sua prepotenza.

«Dottore – pensò tra sé dopo avere piazzato la sua esca -, trovate il modo di incontrarmi presto, vi prego: aiutatemi a capire, aiutatemi a fare ordine dentro di me, non posso più aspettare».

Mentre lo pensava, le tornò in mente un’antica leggenda orientale che aveva sentito raccontare da un mercante di ritorno da una lontana città lungo la via della seta, uno dei tanti che il generale incontrava per arricchire la sua preziosa collezione di libri d’arte militare dal mondo: parlava di un soldato che aveva cavalcato per giorni teso a sfuggire all’angelo della morte, per poi scoprire di essere solo corso incontro al proprio appuntamento con il destino (1). Si chiese se la promessa di soldato che avevano cresciuto in lei fosse sul punto di fare la stessa fine: sentì che la fuga era finita, quell’appuntamento - qualunque cosa volesse dire - andava affrontato.

Mentre usciva da palazzo Jarjayes il medico, investito da una ventata d’aria gelida, infilò d’istinto le mani nelle tasche del tabarro, e sentì nella sinistra un pezzo di carta appallottolato che non ricordava d’avervi messo.

Appena salito in carrozza estrasse quel foglio accartocciato e lo aprì incuriosito. Sorrise tra sé leggendo il biglietto: «E brava Oscar: diretta, tosta, coraggiosa come vi vuole vostro padre, invece di cercare scorciatoie venite dritta incontro alle poche certezze che la mia modesta scienza, troppe volte costretta a dichiarare la propria impotenza, vi può dare».

Il venerdì successivo Oscar aveva appena terminato di pranzare con la madre, quando giunse un messo: «Il dottore mi manda ad avvisare che tra poco, di passaggio da queste parti, verrà a sincerarsi delle condizioni di madame Jarjayes». Il cuore di Oscar mancò un battito, un po’ per la gratitudine di un riscontro tanto tempestivo e un po’ per l’ansia che le derivava dall’avvicinarsi di una risposta di cui sentiva l’urgenza e insieme il timore.

Simulò calma, confidando nel fatto che madame non la conoscesse abbastanza da leggerle dentro:

«Venite, madre. Vi accompagno io nella vostra stanza, attenderemo insieme il dottore».

«Grazie, Oscar, sei un tesoro».

Stavano chiacchierando di niente di importante, quando il dottore si fece annunciare: «Buongiorno, Madame, perdonate l’intrusione, ero di passaggio da queste parti e ho pensato che fosse più sicuro venire a vedere le vostre condizioni. Oscar, vi prego, accomodatevi fuori, in modo che possa occuparmi di vostra madre. Se vi troverò nella vostra stanza, passerò a salutarvi prima di andare via».

«Mi troverete in camera, devo studiare. Buonasera dottore, buonasera madre».

Oscar, augurandosi che la visita alla madre fosse breve, sentì il cuore dare un altro tuffo. S’intrufolò nella sua stanza, nel corridoio adiacente, e corse a sedersi alla scrivania più per rendere credibile il tacito accordo col dottore che per provare a concentrarsi sul De bello gallico, aperto davanti a lei, benedicendo il fatto che il giorno dopo, trattandosi di un sabato, il precettore non sarebbe venuto a chiedere conto di quello studio senza concentrazione. Più che il latino studiava le parole da dire al dottore, preoccupata di non trovarle per il disagio.

Era persa in quei pensieri quando sentì bussare, benché se lo aspettasse trasalì. Si alzò dalla scrivania e fece strada al dottore indicandogli le poltrone attorno al tavolino rotondo e sedette di fronte a lui.

«Madamigella Oscar, ormai siete grande: devo chiamarvi così. Ditemi tutto e vediamo che cosa posso fare per aiutarvi».

L’appellativo usato dal dottore le fece capire ch’egli aveva immaginato le ragioni dell’urgenza di quella richiesta, quell’accortezza servì a rompere il ghiaccio e aiutò Oscar a sintetizzargli, esitando ma non troppo, quanto accaduto e insieme le domande che si erano fatte avanti mentre cresceva.

Il dottore accolse il racconto senza mai dismettere un atteggiamento rispettoso e rassicurante: spiegò nei dettagli a Oscar ciò che già in cuor suo aveva intuito, che quello con cui si stava confrontando era la natura del suo corpo di donna che prendeva il suo corso e le descrisse con parole sobrie e precise i cambiamenti che avrebbe visto verificarsi nel giro di un paio di anni, di cui la fitta avvertita era solo il primo, ancora invisibile, segno. La stava trattando da adulta e insieme percepiva e accoglieva, ovviamente, le preoccupazioni che intuiva in lei, per forza maggiore in parte diverse da quelle che avrebbero colto una qualsiasi altra ragazza. Non aveva una casistica di precedenti cui far riferimento per sollevarla dalla singolare solitudine in cui si trovava, si affidò alla propria umanità allenata a confrontarsi con la fatica del vivere.

Oscar ascoltava in silenzio, con lo sguardo fermo in quello del dottore, mentre si sforzava di nascondere stringendole l’una nell’altra la tensione che le mani tradivano e che all’occhio esperto del dottore non sfuggì. Stava provando a tener fede a ciò che le insegnavano da sempre: celare dentro di sé ogni emozione che potesse anche soltanto lontanamente tradire un momento di fragilità.

«Madamigella Oscar, sono ammirato della forza con cui avete affrontato per tanto tempo tutte queste domande in solitudine e mi dispiace di non avervi potuto rispondere prima. Vostro padre, come immaginerete, sapeva che questo momento sarebbe arrivato dal giorno in cui ha scelto per voi questa strada in salita e immagino che sarebbe venuto personalmente da me, a chiedermi di parlarvi, se non foste arrivata prima voi. Vi stima molto vostro padre, ma forse sottovaluta la vostra propensione ad affrontare da sola le vostre difficoltà», le disse sorridendo con incoraggiante complicità.

«Che cosa sarà di me, ora dottore?».

«State tranquilla, madamigella Oscar, vostro padre è certo un uomo caparbio e imperioso, di sicuro un visionario, ma non è un ingenuo: se è questo che vi preoccupa, non penso proprio che si rimangerà il suo progetto su di voi soltanto perché la natura sta facendo il suo ampiamente prevedibile corso. La direzione che prenderà la vostra esistenza però, Oscar, non è cosa che possa dirvi io: è questa una faccenda che riguarda voi e vostro padre, è un tema che dovete affrontare con voi stessa e con lui. Quello che vi posso garantire è che ciò che vi sta accadendo è del tutto naturale. Questo non toglie che il modo non ordinario in cui siete cresciuta e la vita che potrebbe attendervi vi rendono una persona speciale e l’esserlo ha un prezzo: sarete chiamata ad affrontare complicazioni ad altri risparmiate.

«L’altra cosa che sento il dovere di dirvi, con la massima onestà, è che se seguirete la strada che vostro padre vi ha con tanta perentorietà indicato, non vi posso promettere che il vostro corpo che cambia non vi complicherà la vita. Anzi vi annuncio che lo farà: vi porrà in condizioni di inferiorità fisica quando si tratterà di confrontarsi solo sul piano della forza; potrà anche mettervi a disagio in alcune circostanze, non avrete modelli cui far riferimento. Vi imporrà di gestire cose pratiche con cui i vostri colleghi uomini non avranno bisogno di confrontarsi. Sono convinto che la governante di casa Jarjayes che sa tutto da quanto siete nata – da donna pragmatica qual è - saprà soccorrervi con validi accorgimenti. A proposito di quanto avete provato ieri, dovrete studiare un modo di proteggervi, per impedire che quello diventi per voi un elemento di vulnerabilità.

«Un’altra cosa che mio malgrado vi debbo dire è che nessuno può prevedere fin da ora come cambierà esattamente – disse sottolineando l’avverbio con la voce - il vostro corpo nei prossimi anni, anche se qualche cosa forse si può intuire: somigliate molto a vostro padre e alla più grande delle vostre sorelle, Oscar, è possibile – ma non è detto - che il vostro corpo resti asciutto come il loro e non prenda forme troppo generose. Vi posso dire, questo sì, che, molto probabilmente, diventerete alta: lo siete già per la vostra età e il fatto che quello che mi avete descritto non sia accaduto prima vi aiuterà a crescere ancora un bel po’. Non credo di sbagliarmi di tanto nel pronosticarvi che raggiungerete in statura il generale vostro padre. Non temete, se vi allenerete come fate, l’essere donna non vi toglierà la resistenza che già avete, né l’abilità né l’agilità che state acquisendo e non vi porterà via il coraggio che fin da bambina, anche davanti a me, avete dimostrato: lo stesso che mi state dimostrando anche ora. La maturità non potrà che accrescerlo, avvantaggiandolo della consapevolezza e della razionalità. Sarete un ufficiale di prim’ordine, Oscar, se lo vorrete. E non sarà il vostro corpo di donna a impedirvelo, anche se di certo non vi faciliterà. Siete intelligente e avete carattere. Vi serviranno entrambi per affrontare un mondo, tutto maschile, che vi guarderà con curiosità e diffidenza e all’occorrenza vi sfiderà. Non dubito che il vostro coraggio e la preparazione che avrete maturato quando sarà l’ora vi soccorreranno egregiamente. Vedete, vostro padre non è persona che cambi idea facilmente, ma conosce le qualità che servono a una carriera militare: non vi esporrebbe se non riconoscesse quelle doti in voi, non solo perché ne verrebbe meno la sua credibilità, ma perché ha stima di voi e vi vuole bene, anche se ha un modo ruvido di dimostrarvelo.

«Ma promettete a me e soprattutto a voi stessa una cosa, Oscar: il giorno in cui doveste sentire il bisogno di imprimere alla vostra vita una direzione diversa, qualora il vostro corpo e il vostro cuore di donna ve lo chiedessero, scegliete voi la vostra strada. Sarete più matura allora e il fatto che vostro padre vi chiami figlio quel giorno vi tornerà utile: dovrà rassegnarsi ad aver cresciuto una figlia come un maschio. E se non vorrà rinnegarsi dovrà accettare che gli rispondiate come se lo foste ed essere fiero di voi».

«Vi ringrazio, dottore, quello che mi avete detto è più di quanto avrei desiderato chiedervi. Vi ringrazio della vostra onestà e della chiarezza: la vostra franchezza mi aiuta molto. Eppure, anche se mi costa una fortuna farlo, devo confessarvi che, ugualmente, davanti a questo mare ignoto io muoio di paura», se da un lato, infatti, le parole del dottore l’avevano rassicurata, dall’altro si rendeva conto che le cose che ammetteva di non poter prevedere la condannavano ad anni di incertezza.

Mentre lo diceva, un sorriso imbarazzato attraversò l’ultima frase, ma gli occhi azzurri di Oscar non si abbassarono, guardarono dritto in quelli scuri e calmi del dottore: «Vedete, Oscar, avete già compiuto un importante passo: state già imparando che riconoscere e ammettere la propria paura non è una debolezza ma il primo gradino per affrontarla e non lasciarsene paralizzare. Comunque vivrete, l’asticella davanti a voi di qui in poi sarà sempre molto alta, sarei disonesto se ve lo nascondessi, ma io sono sicuro che non vi mancano le risorse, che troverete la via per superarla. Vi auguro buona fortuna, madamigella Oscar, e non dimenticate: per qualunque dubbio vi venga la mia porta per voi sarà sempre aperta. Se nei prossimi giorni passate a trovarmi, controlleremo con esattezza il vostro peso e la vostra altezza e potrò dirvi cose un poco, purtroppo non molto, più precise. Non temete – la rassicurò ridendo –, se il generale sarà con voi d’ora in avanti farà senza discutere la santa grazia di rimanere fuori».

E poi tornando serio: «Comunque la pensi vostro padre, desidero, Oscar, che teniate sempre a mente una cosa importante: nel chiuso di una stanza, almeno davanti a me, che per la mia professione sono tenuto alla riservatezza, per quanto mi riguarda vi riterrò sempre libera di esprimere senza timore le vostre emozioni. La mia ammirazione per voi non verrebbe certo meno se mai dovessi veder scorrere una lacrima in un momento di severo dolore o di profondo turbamento. Vi posso testimoniare che succede a generali tutti d’un pezzo, se proprio volete saperlo, senza che il loro valore ne sia scalfito».

Oscar si domandò istintivamente se tra loro ci fosse anche il generale Jarjayes e concluse in cuor suo che per il momento preferiva non saperlo.

Con la massima discrezione il dottore fece in modo che a palazzo Jarjayes chi di dovere sapesse che quella delicata conversazione, di cui tenne per sé tutti i dettagli, era avvenuta: da quel momento Oscar fu per tutti madamigella Oscar, tranne che per suo padre, il generale, che avrebbe continuato a chiamarla figlio fino al giorno ancora lontano in cui, ormai adulta, non si sarebbe più limitata ad obbedirgli, avendo fatto pace con le sue anime di donna e di soldato, senza rinnegare nessuna delle due (2).

Aprile 1774

Ma questo, mentre ripercorreva quei ricordi con gratitudine e tenerezza, Oscar François de Jarjayes ancora non poteva saperlo, perché a quell’epoca la pace tra quelle due anime in pena era parecchio di là da venire.

(1) In Samarcanda. Un sogno color turchese, lo storico Franco Cardini fa risalire la cosiddetta leggenda della “morte inevitabile” al Talmud babilonese. All’immaginario popolare contemporaneo, per passaggi la cui ricostruzione non è ben chiara, è arrivata soprattutto attraverso Sheppayun’opera teatrale di William Somerset Maughan (1933), che la cita ambientandola a Baghdad. Il mondo anglosassone la riconosce nel titolo di un romanzo di John O’Hara Appuntamento a Samarra(1934), gli italiani l’associano alla canzone Samarcandascritta da Roberto Vecchioni nel 1977. Ovviamente non è verificabile, ma neanche impossibile, che una tradizione orale di provenienza orientale possa averla portata alle orecchie di un personaggio francese del XVIII.

  • (2) Qualche dialogo di questa storia era stato in un’altra vissuta appena un paio d’ore nel fandom, subito cancellata per troppe incongruenze. E’ stata riscritta daccapo, salvando giustappunto qualche dialogo, perché il suo nodo centrale è un momento nascosto ma cruciale per l’evoluzione dell’identità del personaggio. Questo lungo flashback è un modo di recuperare l’anello mancante tra il primo e il secondo episodio di questa serie.
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    Capitolo 6
    *** CHE DONNA SONO? ***


    Dopo aver rifiutato l’aiuto di André Oscar aveva finito di raccogliere da sola i frammenti del calice che aveva lasciato cadere nel fuggire dal Conte di Fersen e dalla trappola di un dialogo che non sapeva sostenere, ricordo di una sera che avrebbe voluto dimenticare. Aveva sperato invano che fermarsi un attimo a lavorare con le mani potesse liberarle almeno un po’ la mente ingolfata da pensieri confusi. Prendendo atto che non accadeva si risolse a ritirarsi nella sua stanza. Si svestì e, nel farlo, per la prima volta in vita sua, si domandò che donna fosse quella che la guardava dall’immagine riflessa nello specchio cui aveva gettato uno sguardo. Si rese conto di non essersi mai chiesta se potesse o meno essere considerata una bella donna. La guardò come se fosse la prima volta e non seppe rispondere.

    «Se io avessi saputo che donna siete quando vi ho conosciuta...».

    Fersen voi non potete immaginare quanto mi pesi questa frase. A dispetto delle apparenze fa molto più male di quelle altre che mi ricordano che non sono stata per voi altro che il vostro migliore amico.

    Ma non è come pensate, Fersen, non è la voragine di rimpianti che quel se potrebbe aprire a ferirmi, perché so che quel se è solo un modo di addolcire un’amara verità. Avreste amato lei ugualmente, Conte di Fersen, perché una donna non vale l’altra. E se con il corpo potete amarne una a sera, è noto che voi non siate un modello di fedeltà in quel senso, lo sanno tutti a Corte dai cui muri ogni spiffero passa, con il cuore si ama una persona soltanto, una alla volta almeno. Ed è evidente che nel vostro cuore, per quanti sforzi abbiate fatto per dimenticare il vostro amore impossibile, a costo di mettere in mezzo una guerra e un oceano, c’è posto per lei soltanto. Avete sempre saputo che se foste tornato vivo sareste tornato da lei. Solo un’ingenua, senza esperienza, come me, avrebbe potuto illudersi che poteste dimenticare. Ma non è questo il punto, il fatto è che io sono una donna che non può esistere. Non nei canoni che questa società concepisce.

    «Se io avessi saputo che donna siete...»

    Che ne sapete, Fersen, di che donna sono? Vi ricordate la nostra conversazione a Corte quando mi avete parlato del proposito di obbedire a vostro padre e di sposarvi? Ho reagito male e non è stato solo, come ora sicuramente voi penserete, perché il battito del mio cuore mi suggeriva che avrei voluto esserci io al posto di quella donna. Ho reagito male perché mi faceva rabbia che voi, che come uomo a differenza delle donne un margine di scelta lo avete, foste disposto ad accettare la prima che vi avessero dato senza conoscerla neppure, a subire un’imposizione e a imporla a lei, senza un barlume non dico di sentimento, ché nei matrimoni combinati certo non è nel conto, ma almeno di trasporto, di pura attrazione esteriore. Avreste accettato una qualunque per obbedire alle convenzioni sociali, una sconosciuta che stavate già tradendo prima di incontrarla. Provavo rabbia per lei che avrebbe dovuto subirvi senza margine di scelta alcuna, darvi quanto le avreste chiesto per dovere coniugale per poi lasciarvi libero di spendere i vostri sentimenti altrove. Vi farà ridere, Fersen, da parte di chi vive mascherata da una vita, ma non reggo più questa ipocrisia, per questo mi allontanerò da voi e dalla Regina, prenderò qualsiasi reggimento vogliano darmi pur di andarmene. Non sarà per vendetta che non sarò più lì a salvarvi la prossima volta che rischierete lo scandalo, ma perché lo devo al rispetto di me stessa e non voglio più trovarmi a nessun titolo in mezzo alla vostra relazione, per alcuna ragione, neppure per servizio.

    «Se avessi saputo che donna siete... »

    Lo sapete forse adesso che donna sono, Conte di Fersen, voi che avete avuto bisogno di un abito anche solo per vedermi come una donna e che soltanto grazie a quello per voi sono stata una sconosciuta che eravate pronto a corteggiare, quando neanche io so che donna sono? Lo sto scoprendo adesso, Conte, pagando un prezzo che avevo rimosso o che non avevo messo in conto.

    Sotto l’involucro che avete visto – e che pure esteriormente vi piaceva - , Conte, nascosta dal belletto, dall’acconciatura, dall’abito da sera, c’era la persona, la donna, che quella stessa sera avete chiamato il vostro «migliore amico», come avete fatto anche oggi, del resto. Le qualità che apprezzate nell’amico in una donna non vi interessano, magari vi mettono pure a disagio, e quello che vi attira in una donna invece io, lo so bene, non lo ho.

    Vi potrei dire che vi capisco, sapete? Anche a me hanno insegnato le stesse cose che hanno insegnato a voi: che una donna è frivola, svenevole, da proteggere e che non sono caratteristiche che si addicono a un soldato. Come posso biasimarvi se considerate le donne così e solo così. Anche a me hanno inculcato le stesse cose, mi hanno insegnato a disprezzare la frivolezza, a rifuggire ogni parvenza di fragilità, a stare lontana da tutte le cose che si dice debbano piacere alle donne. Mi hanno fatto credere di essere un maschio, sapete, per qualche tempo? Quando ho preso pian piano coscienza del fatto di essere donna, mi avevano già educata come hanno fatto con voi: a saper fare le stesse cose che sapete fare voi, a non abbassare lo sguardo come non lo abbassate voi. Per tutto questo ignoro ogni forma di civetteria. Si sono preoccupati di addestrare il soldato, dando probabilmente per scontato che sarebbe stato votato alla solitudine come se l’uniforme fosse un abito monacale. In qualche modo lo è. Nessuno aveva messo in conto che il soldato Oscar François de Jarjayes potesse amare o essere amata e neanche io in verità. Le mie energie erano tutte concentrate sul ruolo, il mio timore più grande era che il mio corpo svelasse un’irrimediabile inferiorità fisica, che non fosse all’altezza della battaglia, che compromettesse l’attitudine al comando, physique du rôle lo chiamano di sicuro non per caso: non era nel conto che il cuore potesse dare battiti fuori dagli schemi, non essendo previsto che il soldato Oscar Francois de Jarjayes esibisse un cuore di donna, né, credo, che esibisse un cuore.

    Le sovvenne il ricordo di sé stessa poche sere prima, quando, al ritorno da quel ballo sciagurato, nello specchio al lume di candela aveva visto tremolare un’immagine in cui non si riconosceva: il trucco sfatto dal pianto, l’abito sgualcito, i capelli di solito al vento imprigionati in una complicata impalcatura. Quello che al momento era stato dolore, delusione, rabbia, frustrazione ora era imbarazzo, vergogna. Un brivido l’attraversò al solo pensiero che chiunque là fuori potesse immaginare il Comandante delle guardie reali ridotto in quello stato, umiliata e offesa dal proprio maldestro tentativo di farsi notare da un uomo che non solo notoriamente amava un’altra, ma che con ogni evidenza nemmeno la percepiva come donna. Provò vergogna e rimpianto per quel gesto compiuto senza calcolarne le conseguenze, lei che aveva fatto della strategia la sua forza. Avrebbe dato qualunque cosa per tornare indietro e rimangiarsi quell’idea folle di andare al ballo agghindata in quel modo.

    Se io avessi saputo che donna siete...

    Sono una donna che non può vestire liberamente da donna, perché questa Corte che regge ogni scandalo può accettare Oscar François de Jarjayes fin tanto che vive giorno e notte nel suo ruolo e si comporta come se avesse una divisa trasparente addosso in ogni istante della sua vita. Se l’ufficiale de Jarjayes vuole sopravvivere deve reggere il gioco: e allora va bene, che venga a Corte una sera in alta uniforme per danzare da cavaliere per l’intera festa con la Regina di Francia, per salvare la faccia alla Corona e coprire lo scandalo della vostra relazione. Ma non può, fuori servizio, vestirsi da donna, come sarebbe naturale, e danzare con un cavaliere. È un cambio di pelle, anche se solo di involucro si tratta, per cui nessuno attorno è pronto. Ve l’immaginate i pettegolezzi, Fersen? Non che non ci siano, ora... Chissà quanti ne avete sentiti.

    Un giorno mi avete chiesto se io non mi senta sola. Non mi sento sola, Fersen: sono sola, di una solitudine irrimediabile. Chissà quante volte vi sono arrivate alle orecchie le insinuazioni e la curiosità morbosa che mi circondano, pensate che non veda le parole che muoiono sulle labbra al mio passaggio? Davvero credete che non immagini il tenore delle battute da caserma, divise tra quelli che fantasticano di una femme fatale circondata da soldatini freschi d’accademia e quelli che s’immaginano che io possa essere chissà quale diversivo per dame annoiate. Vi risparmio il dettaglio delle avances più o meno sconce rivolte al “bel soldatino” nelle bettole di Parigi quando tutti hanno alzato un po’ il gomito: ce n’è per ogni gusto, dalle cameriere che si strusciano, proponendosi neanche troppo scopertamente al giovane ufficiale come amiche di una sera; agli osti che, dopo il terzo fiasco, provano ad allungare le mani solo per il gusto di sperimentare un’avventura dall’altra parte della barricata.

    Non scandalizzatevi Fersen, so bene che vi sto descrivendo uno squallore. Ma fa parte della mia vita e posso difendermene in un solo modo, mettendo su una maschera di ferro, e allontanandomi da tutto. Lo devo fare per salvare insieme la dignità della donna e l’integrità del soldato, che non solo devono esserci perché la mia vita non vada a pezzi ma devono anche apparire.

    Da tutta la vita mi tengo lontana non solo da ogni tentazione, ma da ogni cosa che possa prestarsi a pretesto della più piccola maldicenza: malgrado questo scorrono a fiumi però almeno nessuno può dire che io abbia fatto qualcosa per alimentarle. O, meglio, non lo avevo mai fatto fino a quella maledetta sera e mi sento correre un brivido alla sola idea che qualcun altro a parte voi possa avermi riconosciuta.

    Che farai Oscar adesso?Si chiese guardandosi nello specchio in camicia da notte, sotto gli occhi i segni della notte insonne che la luce dell’alba ancora fioca non riusciva a nascondere. Perché nessuna voce corra dovresti chiuderti tutto dentro e continuare come sempre. Ma non è possibile: incontrare ogni giorno il Conte di Fersen sarebbe incontrarsi ogni giorno con il ricordo di quella sera. Sii onesta, Oscar, con te stessa almeno: nemmeno tu che hai vissuto chiudendo ogni sentimento dentro la corazza saresti capace di reggere questo. Sei a pezzi e ci vorrà tempo.

    Decise in quel frangente che, a costo di alimentare voci incontrollate, avrebbe chiesto alla Regina un trasferimento, uno qualunque, pur di non rimanere un giorno in più a confronto con quell’immagine di sé che voleva dimenticare. Si detestò per aver pianto davanti a Fersen, per essere di nuovo fuggita davanti a lui - esattamente come quella sera - il pomeriggio precedente, quando il Conte era venuto a casa e le aveva svelato di averla riconosciuta al ballo.

    Vestì in fretta l’uniforme, decisa ad andare a chiarirsi le idee in una lunga cavalcata, in modo da arrivare davanti alla Regina con il volto impassibile e le parole giuste. Si stava voltando per uscire, quando con la punta della spada allacciata al fianco urtò uno specchio a mano che come un contrappasso era rimasto in giro, sfuggendo al suo generalmente impeccabile ordine militare, a ricordarle la smagliatura di quella sera disgraziata. Nel raccoglierlo da terra, dov’era caduto frantumandosi senza uscire dalla cornice, vi incrociò con lo sguardo, senza volere, l’immagine spezzata del Colonnello Oscar François de Jarjayes. Si sorprese a domandarsi se, dopo quello che era accaduto, sarebbe mai riuscita a ricomporla.

    Uscì nella mattina ancora fresca e mentre cavalcava si convinse che c’era un solo modo di saperlo: mettere alla prova quell’Ufficiale daccapo in un ruolo nuovo, fuori dal perimetro di certo pettegolo ma ristretto e in fondo protettivo di Versailles.

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    Capitolo 7
    *** PRIMA DEL DUELLO ***


    Per la prima volta quando avvertì il guanto floscio del duca de Germain nella mano destra, Oscar François de Jarjayes prese coscienza del fatto che l’espressione “raccogliere la sfida” alludeva alla materialità di un gesto: nell’atto stesso di raccogliere il guanto con cui era stata schiaffeggiata di fronte a tutti avvertì che l’averlo fatto segnava un punto di non ritorno.

    A tarda sera nel parco aveva confidato ad André le proprie ansie, ma il proposito di dormire manifestato a voce alta al termine dello scambio di opinioni tardava a lasciarsi mantenere.

    Don. L’una. Don. Don. Le due. Don. Don. Don. Le tre...

    I rintocchi della pendola sono altrettanti spari dentro la testa, alle spalle, a tradimento. Dovrei dormire: sparare un solo colpo con i nervi a fior di pelle dopo una notte insonne è il modo meno sicuro di affrontare un duello, ammesso che ce ne sia uno.

    La verità è che hai paura, Oscar, con te stessa non puoi barare. Sono giorni che fai finta di raccontarti che sarà la stessa identica cosa che centrare al cuore il fante di denari o la dama di picche quando sei calma, quando in gioco non c’è niente e hai tutto il tempo di sparare tra un battito del cuore e l’altro, ma con te stessa non puoi nasconderti: quando la posta in gioco si alza cambia tutto. E stavolta la posta è la tua vita contro la sua.

    Non ho la minima stima di quell’uomo, è spregevole e meschino, ma la freddezza che sotto pressione, quando il pericolo in servizio si avvicina, viene fuori e consente al comandante delle guardie reali di fare il suo lavoro, adesso non ce l’ho. È innaturale questo modo anacronistico di risolvere le controversie, implica che si sia pronti a uccidere a freddo. E io non lo sono.

    Sono stata addestrata per prendere un bersaglio di pochi centimetri a 50 metri di distanza e generalmente lo so fare, mio padre sembra non avere la minima preoccupazione, sembra sicuro che saprò farlo come in allenamento ogni giorno: ma sarà vero o bara anche lui con sé stesso come me?

    Sappiamo tutti e due che un uomo, anche se è vile e crudele e quello lo è, non è una sagoma di cartone. Io so che non è come tutte le altre volte in cui si tratta di impugnare un’arma e battersi. In quei casi è una reazione a un pericolo imminente e immediato, istinto animale di autodifesa, qualcosa che nel corpo tiene i sensi all’erta e nella mente l’attenzione desta. In quelle condizioni non c’è tutto questo tempo di pensare, di avvitarsi, di farsi domande di senso. Stavolta sì, c’è tempo di pensare, troppo.

    Anche se sono stata addestrata per battermi, non mi piace l’idea di farlo così: lo so, il duello d’onore è un retaggio secolare, fin da quando ho imparato a leggere, le mie letture sono impregnate di codice cavalleresco: l’Eneide, i Lais di Maria di Francia, Chretien de Troys, Le Chanson de Roland, so da sempre che davanti a chi ti lancia il guanto della sfida, nel codice di cavalleria sei tenuto a raccoglierlo, perché ne va dell’onore. Molto di più se hai un ruolo, se rappresenti qualcosa che non è solo la tua persona e un onore che non è solo tuo. Non avevo altra scelta davanti a quel guanto che raccoglierlo, perché se fuggissi disonorerei il mio casato, la mia uniforme, la mia funzione, l’intera Guardia reale. Le parole di quell’uomo che ha detto davanti a tutti che è assurdo che una donna sia diventata colonnello delle Guardie reali hanno offeso me come donna e come colonnello e mio padre in una sola frase.

    Eppure non mi appartiene la logica per cui una persona offesa dovrebbe sentirsi risarcita dalla morte dell’offensore, non c’è nessuna riparazione in quell’atto, solo l’inizio di una spirale di vendette potenzialmente senza fine. Padre, mi rinneghereste se conosceste questi pensieri?

    A caldo la parte più impulsiva di me, che come sempre André – sia benedetto – ha frenato, avrebbe vendicato quel bambino, ucciso davanti a tutti contando sull’impunità del rango: una vita tutta da vivere in cambio di due monete che non hanno spostato un bottone nella vita di chi le ha perdute. Sul momento avrei sfidato io il duca a battersi lì, con la spada, sulla pubblica via davanti a quella madre disperata, se non altro per dimostrarle che non tutti i nobili sono come quell’uomo senza coscienza che ora pretende difendere sparando a freddo a me l’onore che non ha mai avuto. Mi hanno insegnato che l’onore è l’insieme di principi morali che spingono a non compiere mai un'azione che faccia perdere la stima che abbiamo di noi stessi o che gli altri ci portano (1). Esattamente quanto il duca de Germain ha rinnegato con quello sparo alle spalle di Pierre. Ma adesso la voce della razionalità dentro di me ripete che uccidere il duca domani non renderebbe la vita a Pierre né Pierre a sua madre, lascerebbe soltanto a me le mani sporche di sangue, senza che l’attualità di un pericolo imponga una difesa. Non voglio che il sangue di quell’uomo senza dignità lordi le mie mani, non merita tanto. Certo, il pericolo nell’immediato ci sarà: mors tua vita mea, ma sarà un pericolo creato ad arte da un rito sociale, in cui proprio non riesco a vedere la sacralità dell’ordalia che in origine rappresentava.

    Sarai capace Oscar di sparare e di colpire per prima senza farti uccidere e insieme senza colpire a morte? Saprai farti trovare, nella pressione del momento, e dopo l’avvitamento di tutti questi pensieri, così lucida e precisa? La verità è che non lo sai, Oscar. Non sai chi sei fino a quel punto prima di essere messa alla prova. La verità è che sarà tutta una questione di secondi e che potresti essere tu a morire inutilmente perché quell’uomo tutti questi scrupoli non se li farà.

    Alle quattro e mezza era già vestita e anche il generale Jarjayes vegliava nel proprio studio con la porta socchiusa pronto ad andarle incontro prima che arrivassero altri. Quando vide il lume avvicinarsi nel corridoio allargò lo spiraglio della porta pronto a intercettarne il passaggio. Anche lei notò la lama di luce fioca farsi largo nel battente socchiuso e un po’ se ne stupì, incerta sul da farsi. Da una parte avrebbe voluto confrontarsi con il padre, dall’altra non osava chiederlo, temendo che la giudicasse non all’altezza della situazione per la tensione che innegabilmente sentiva e che sapeva non sarebbe passata inosservata al Generale. Li legava un filo non del tutto cosciente, ma resistente: forse l’esito della consuetudine che avevano sviluppato mentre egli la cresceva come “suo figlio”; forse qualcosa a monte, un’affinità passata con il legame di sangue, anche se non di rado la somiglianza finiva per produrre scintille tra i loro caratteri simili e nient’affatto remissivi. Tante volte Oscar François de Jarjayes si era sorpresa ad anticipare i pensieri del padre, con la sensazione che egli sapesse fare altrettanto. La ebbe anche in quel momento.

    «Entra, Oscar», sussurrò il generale facendo attenzione a non svegliare il resto della casa. Erano rimasti d’accordo che per non preoccupare nessuno lei e André sarebbero usciti dalla porta posteriore per passare inosservati. Oscar non si aspettava che il padre l’avrebbe attesa sveglio e si domandò se non fosse più preoccupato di quanto non volesse dare a vedere, esattamente come lei.

    Il generale si fermò in piedi davanti alla finestra, dove usava stare con le mani dietro la schiena quando aveva bisogno di pensare, attese che i passi di lei si avvicinassero e prese a parlare senza attendere risposta: «È normale che tu sia teso, Oscar, è una cosa naturale. In certi frangenti, davanti alla prova, la tensione è sana: serve a tenere alta l’attenzione. Non sarebbe un bene se non ne provassi in questo momento. Quell’uomo non vale il fante di picche che adoperi come bersaglio per allenarti, Oscar, ma non è a lui che devi pensare, di qui in poi. Dimenticati di lui, del diverbio che ha innescato questa sfida, dei sentimenti e delle ragioni che ti hanno indotto ad accettarla. Devi essere concentrato su altro ora: non conta il bersaglio, quello verrà dopo; conta quello che potrai osservare prima: studia la luce mentre cammini, individua le insidie del campo di battaglia per prevenirle, il resto verrà da sé con l’automatismo dei gesti: quando sarà il momento individuerai il tuo bersaglio e lo colpirai ma non sarà il cuore del fante di picche, sarà un volgare asso di fiori. So che non vuoi uccidere, Oscar, e non lo farai, ti basterà molto meno per avere ragione di quell’uomo, che ti sottovaluta e per questo, troppo sicuro di sé, perderà. Ma tu ora dimenticalo, pensa solo ai dettagli, perché il diavolo si annida nei particolari».

    I cinque rintocchi delle campane indicarono che era l’ora convenuta per la partenza, il generale pose le mani sulle spalle di sua figlia in un gesto di sobrio incoraggiamento guardandola negli occhi: «Vai, che Dio ti benedica, figliolo».

    ***

    Andò come il generale aveva previsto, solo dopo per vie traverse avrebbe saputo che i suoi consigli avevano colto nel segno molto più di quanto avrebbe potuto immaginare. Oscar François de Jarjayes, pur avendo rischiato per la disonestà altrui molto più del necessario, uscì illesa dal duello, lasciando una modesta ferita alla mano, quella sì omicida, del suo avversario. Il minimo necessario per vincere.

    ***

    Il Generale Jarjeyes non aveva chiuso occhio: per quanto paradossale potesse sembrare durante la notte successiva al duello aveva riposato assai peggio che in quella che lo aveva preceduto. A Corte, dove nessun segreto sopravviveva più di qualche ora, aveva sentito riferire da persone bene informate, che Oscar François de Jarjayes si era salvata per miracolo, schivando con prontezza un riflesso anomalo che avrebbe potuto accecarla al momento di sparare. Non fosse bastata quella consapevolezza maturata, il generale la mattina levandosi di buon’ora anche più del solito – era noto per essere particolarmente mattiniero -, aveva accolto malissimo la notizia della disobbedienza di Oscar, partita con André alla volta della Normandia, a dispetto della consegna della regina che, dopo il duello, le aveva intimato di rimanere in casa per punizione per un mese.

    Il codice militare del Generale non contemplava la disobbedienza neppure in famiglia, men che meno se chi veniva meno al dovere portava i gradi sulla divisa. Aveva dunque un’ottima ragione per essere di pessimo umore. Eppure, quando si fece vedere in giro per la casa era così scuro in volto che anche la servitù ebbe la certezza che qualcosa di più grave dovesse essere capitato per giustificare il fatto che fosse a quell'ora già in uniforme e con quell’ombra cupa e fredda nello sguardo, diversa dall’ira funesta che talvolta lo accendeva e cui tutti erano abituati: in genere una fiammata che si incendiava d’improvviso e presto si spegneva.

    Stavolta era diverso e lo si capiva. Prima di tutti lo capì Marie che lo conosceva come nessuno perché aveva fatto in tempo a vederlo crescere. La governante ebbe conferma che il suo intuito aveva colto nel segno quando sentì il Generale tuonare: «Marie, ho convocato d’urgenza il Capitano Girodelle, quando arriva ditegli che lo aspetto nel mio studio», prima di vederlo voltare le spalle e andarsene, cupo, ma lento e grave, non con la solita furia. Erano quelli i momenti in cui si faceva temere di più: quando l’impulsività che l’autoeducazione non aveva mai del tutto dominato lasciava il posto a una durezza fredda e meditata. Marie mormorò una giaculatoria, con l’istinto di affidare alla Vergine il malcapitato giovane sul quale pendeva, era evidente, una solenne lavata di capo: “Devi averla combinata grossa, ragazzo”, pensò mentre indirizzava quel giovane, sempre impeccabile che nella sua raffinatezza studiata correva il rischio di apparire troppo perfetto per essere autentico, allo studio del padrone di casa.

    «Venite avanti, Capitano Girodelle».

    «Con permesso, Signore».

    «Accomodatevi». Il tono e le parole si accordavano male: il filtro della buona educazione non riusciva a mascherare, e neanche forse lo voleva, il cipiglio imperioso e sbrigativo del comando militare che il Generale aveva assunto, senza però andare di una sola nota sopra il rigo, segno che la postura era studiata. Girodelle che non aveva la minima idea della ragione di quella convocazione di prima mattina capì al volo che si addensavano nubi fosche:

    «Grazie signore».

    « Girodelle, che cosa mi dite del vetro rotto del rosone della chiesa di Farsche?

    «Quale vetro, signore?»

    «A che ora avete fatto il sopralluogo l’altro ieri sul sito convenuto per il duello, Girodelle?»

    «Alle 6.30, signore»

    «E perché non alle 6.00, se l’appuntamento era a quell’ora?»

    «Non lo so, signore».

    «Non lo sapete, perché siete superficiale, Girodelle. E un militare non può permettersi di essere superficiale perché ne va della vita e della morte. Mia figlia Oscar, ieri, ha messo la sua vita nelle vostre mani: toccava a voi come padrino verificare che tutto si svolgesse secondo le regole, e invece ha rischiato di morire per il riflesso del sole su un vetro rotto, senza che voi vi siate accorto di niente. Se voi aveste fatto come avreste dovuto, se non foste l’incompetente che siete, quei dieci passi al posto suo il giorno prima li avreste fatti voi all’ora esatta convenuta il per duello, avreste visto quel riflesso e avreste fatto il vostro dovere».

    «Chi ve lo ha detto, signore?», domandò Girodelle scostandosi con due dita il colletto rigido della giubba da cui si sentiva soffocare nonostante lo studio di primo mattino fosse piuttosto freddo.

    «Vi sembra di essere nella posizione di fare domande, Girodelle? Non mia figlia, se è questo che vi interessa sapere e ringraziate il Padreterno che sia leale come è, Girodelle, e che sia fredda, preparata e addestrata come è, Girodelle, e che abbia la mira e il fegato che ha, Girodelle, perché se non fosse così, lei adesso sarebbe morta e voi sareste in un mare di guai. Perché se per caso non lo avete capito vi sto dicendo che, davanti a voi, con voi come padrino, si è consumato non un duello ma un attentato e che voi non lo avete capito».

    Girodelle notò che per la prima volta sentiva il generale parlare della propria figlia al femminile ed ebbe la netta sensazione che lo stesse facendo di proposito, per sottolineare le qualità militari di lei al confronto con l’inettitudine che stava rimproverando a lui, quasi che volesse rigirare nella piaga il coltellino che da sempre feriva il suo orgoglio di cavaliere al pensiero di avere una donna come superiore, un sentimento che faticava ad ammettere financo con sé stesso e che fino a quel momento era sicuro di avere nascosto egregiamente. Il capitano Girodelle non aveva il minimo dubbio che a passarlo a fil di spada in quel momento non ci fosse il padre o meglio che ci fosse ma stesse accuratamente nascosto sotto la divisa del generale cui tutti, anche i più invidiosi maldicenti a corte, dovevano riconoscere qualità d’abilissimo stratega, prova ne era il fatto che parlava senza alzare la voce, senza il minimo sentore di emotività o concitazione, cosa che rendeva quel gelido rimprovero enormemente più efficace: il capitano Girodelle provava la sgradevolissima sensazione di sentirsi rimpicciolire a ogni frase.

    «Potrei usare la mia influenza per farvi degradare, Capitano. Ma non lo farò, perché sono un militare e un uomo onesto. Lo avrei già fatto se foste nel mio reggimento, perché non posso permettermi sbadati al seguito, ma dato che non siete dei miei non farò nulla. Però vi prometto solennemente che il prossimo campo di addestramento lo farete con me e, com’è vero Dio, giuro che una volta uscito di là avrete imparato a vostre spese che la vita militare non si esaurisce in una somma di belle parate. Non fraintendetemi, Girodelle, non è vendetta che vi sto promettendo, ma di insegnarvi quello che fin qui non avete capito, e cioè che in battaglia occorre potersi fidare ciecamente gli uni degli altri, perché il compagno vicino è la vostra assicurazione sulla vita, e la Guardia reale non può permettersi che in caso di necessità voi non lo siate per chi combatte vicino a voi, o peggio che se un pericolo come quello che non avete notato ieri mettesse a rischio la famiglia reale voi possiate non accorgervi di nulla. Ma è di tutta evidenza, che se ieri le cose sono andate come sono andate, voi al momento non siete all’altezza del vostro ruolo, tanto più ora che siete stato promosso Capitano. È venuto il momento che sappiate una cosa: il Sovrano quattro anni fa non vi ha messo secondo a mia figlia perché glielo avete chiesto voi, ma perché ha dato ascolto ai vostri superiori che, conoscendo entrambi, hanno valutato che non eravate all’altezza di starle davanti. Sappiate anche che tra i Generali che hanno deciso io non c’ero, perché per correttezza nei vostri confronti ho ritenuto di dovermi astenere da quella valutazione, che vedeva implicata la mia famiglia. Detto questo, Girodelle, io non credo che voi siate irrecuperabile, dovete solo imparare a sporcarvi le mani con il fango della concretezza e vi assicuro che con me lo imparerete, perché non vi darò scelta. Potete andare».

    «Sissignore, grazie signore», il Capitano Girodelle si alzò così confuso che fu tentato di uscire dallo studio a rinculo, solo il senso del ridicolo gli diede il coraggio di recuperare una facciata di contegno, voltarsi e andarsene chiudendosi la porta alle spalle.

    Il generale si appoggiò allo schienale e si accese la pipa, sollevato al pensiero che quella penosa reprimenda fosse finita. Poi si appuntò sull’agenda, alla data che precedeva l’inizio del successivo campo di addestramento, di chiedere con una scusa a sua figlia, che di quel damerino infilzato era il superiore gerarchico, che gli venisse distaccato per tutto il tempo fissato per il campo, deciso a mantenere la propria promessa di farne una volta per tutte un soldato come si doveva, se non altro perché quella testa tra le nuvole cessasse di essere un pericolo per il Corpo di cui faceva parte.

    (1)Questa definizione di onore, funzionale alla narrazione, è un tantino anacronistica, perché viene dalla voce honneur del Larousse, storico dizionario dovuto a Pierre Larousse, uno dei simboli della lessicografia francese ma vissuto nel XIX secolo e quindi successivo rispetto alle vicende narrate.

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    Capitolo 8
    *** RIMORSI E RIMPIANTI ***


    «E adesso che cosa vorresti farmi André, che cosa vuoi provare?».

    La sbornia da vino di quart’ordine che ottundeva la mente non riusciva a tener giù quella frase che inesorabile tornava a galla, quella sì lucidissima, in mezzo a una nebbia di pensieri indistinti a ogni singhiozzo: non se ne andava la frase e non se ne andava il rimorso, a dispetto della testa che girava e dello stomaco sottosopra, tutto tornava nella forma di una spina nell’anima: un dolore acuto che il vino non era riuscito a placare e nemmeno a mettere da parte, altro che dimenticare. La certezza di non poter srotolare a ritroso il tempo e tornare indietro da quel gesto di violenza che non si poteva perdonare dava al tutto un senso di irrimediabile inesorabilità: sentiva di avere perso, anzi distrutto, anche il niente che aveva e che pure era stato fin lì tutta la sua vita, e guardava dal ponte lo scorrere nero della Senna sotto la luna appena offuscata dalle nubi, con la sensazione che il gorgo scuro che fissava sotto di sé stesse guardando a propria volta nell’abisso dentro di lui, fu tentato di farsene risucchiare.

    O almeno così temette l’imponente frate cappuccino che in quel momento attraversava il ponte di ritorno al convento dopo aver soccorso una famiglia miserrima che aveva perso in un incidente il padre e unica fonte di sostentamento: nella vita aveva visto abbastanza disperazione da rendersi conto che quel giovane, appoggiato alla balaustra, portava dentro di sé un peso molto più gravoso del pessimo vino che aveva con ogni evidenza sullo stomaco.

    «Figlio mio, dove abiti?».

    «Lontano», biascicò l’altro, pensando al palazzo al quale si sentiva troppo lercio e troppo in colpa per tornare.

    «Lascia perdere, non ci arrivi a casa in queste condizioni», tagliò corto il frate dopo aver escluso con un’occhiata che l’altro fosse in grado di stare in arcioni, prese le redini con la destra – per fortuna il cavallo era docile e ben addestrato, «ha più giudizio del padrone», pensò Frère Jacques – si fece passare il braccio destro del malcapitato sulle spalle, poi reggendolo con il proprio sinistro per la vita si avviò, pregando che l’uomo fosse in grado di camminare per la mezz’ora che separava Pont Neuf dal convento dei Cappuccini. Ringraziò il Padreterno di essere stato fatto più alto e più robusto di quel derelitto che pure di prestanza fisica non difettava e lo convinse a seguirlo. Quello, rassegnato, troppo annebbiato, troppo stanco e troppo infelice per resistere ad alcunché, prese a camminare mettendo con fatica improba un piede davanti all’altro, seguendo la malinconica nenia di una fisarmonica che proveniva da sotto le arcate e a ogni passo si allontanava nel buio.

    Il frate provò a imbastire quanto di più simile a una conversazione, per cercare di capire con chi avesse a che fare, ma l’altro, ubriaco perso e in conflitto con la lingua e con un sacco di altre meno chiare cose dentro di sé, rispondeva perlopiù a monosillabi, confusi anche quelli. Dopo cento domande più o meno a caso, il frate riuscì a intendere che non era un nobile, cosa che aveva desunto anche dalle sue vesti e dalle sue mani, ma che viveva in un palazzo nobiliare: un servitore, uno stalliere, un valletto qualcosa del genere e che doveva aver commesso qualcosa di grave di cui si era pentito e di cui temeva le conseguenze. Man mano che camminava gravato del peso dell’uomo instabile sulle gambe, frère Jacques si convinceva che quello che, sulle prime, quando lo aveva persuaso a ritrarsi dal parapetto da cui si sporgeva pericolosamente sul fiume, gli era parso uno dei tanti ubriachi dal vino triste, tuttalpiù un innamorato respinto, nascondesse una storia più complicata: nel groviglio di frasi strascicate senza costrutto, annegate com’erano nelle lacrime e ancor più nel vino, aveva intuito dapprima l’amore impossibile per una nobildonna, ipotesi poi rapidamente evoluta nel sospetto che l’amore non corrisposto si fosse tradotto in una profferta violenta alla figlia del padrone, cosa che di per sé sarebbe bastata a sconsigliargli di ripresentarsi a casa quantomeno per non incorrere nella vendetta del padre di lei e a suggerirgli di cercare rifugio in convento in attesa che tornasse la lucidità e, pensava tra sé il frate cui prima il mondo e poi il saio avevano dato abbastanza pratica di anime in pena, prima che commettesse qualche altra sciocchezza.

    Quello che venne dopo fu una serie di parole malmasticate e sconclusionate che avevano finito per consigliare al francescano di non indagare oltre, un po’ perché non si sarebbe venuti a capo delle contraddizioni in quelle condizioni, un po’ perché gli stava sorgendo il timore che ci fosse sotto di molto peggio – l’aggressione a una sorella? L’attrazione per un soldato? Si domandava perplesso il frate –: peccati che, nel caso, avrebbero richiesto ben altro discernimento da parte di quel disgraziato e anche da parte del religioso che si fosse disposto ad accogliere una così delicata confessione. Se così profondo doveva essere il baratro, il frate pregò che s’aprisse al riparo di una chiesa, non lì in mezzo alla strada, dove ancora si augurava di aver inteso male, di essersi spinto troppo in là con le deduzioni nel tentativo di colmare i buchi di un racconto con più vuoti che pieni che ad ogni evidenza così com’era non stava in piedi.

    Frère Jacques bussò con decisione al portone neoclassico del convento del nuovo quartiere d’Antin, di inurbazione recente e non ben frequentato di notte, dove i cappuccini nel 1783 erano stati trasferiti da rue des Capucines. Non in vena di discutere, circumnavigò l’insofferenza del padre guardiano - che, ancorché abituato alla carità immune al perbenismo del confratello, non si rassegnava a vederlo tornare oltre l’orario consentito per dare asilo a un’infinita varietà di miserie umane - e guidò lo sconosciuto alle cucine dove lo provvide di un amaro decotto sperando che lo aiutasse ad accelerare lo smaltimento dei fumi dell’alcol, per poi lasciarlo all’austerità di una cella fredda e spoglia:

    «Buonanotte, fratello, pace e bene. Che Dio ti illumini, domani mattina vedremo che fare con te». «Son troppo vigliacco, frate, per rinchiudermi qui dentro», farfugliò l’altro per cui evidentemente il decotto non aveva fatto miracoli.

    «Per intanto stanotte nessuno, a parte i tuoi fantasmi, verrà a cercarti qui, domani a mente lucida valuteremo».

    Lo rassicurò l’uomo cui la veste di sacco esaltava l’imponenza spigolosa e s’incamminò verso la propria cella non troppo lontana, interrogandosi sul mistero del suo ospite inatteso, che a dispetto di ogni autoconvincimento alla cautela continuava a sembrargli un bravo ragazzo. L’esperienza gli diceva che, in genere, quando si trattava di misurare le persone al primo sguardo, i suoi occhi azzurri non si ingannavano, vieppiù le parole confuse intercorse durante la loro malferma camminata lo preoccupavano e lo invitavano a stare in guardia: eppure la curiosità e l’empatia per l’umanità in difficoltà erano in lui più forti di ogni cautela. Che avrai mai fatto, fratello? Quale grumo di sentimenti si agita dentro di te?

    Si coricò affidando a Dio le povere anime incontrate nella giornata, non ultima quella del giovane che aveva soccorso per ultima, e la propria, chiedendo al Padreterno la forza di ascoltare con misericordia una storia che temeva più penosa delle attese.

    Né il vino né il decotto disposero André Grandier a un sonno profondo, il suo incubo troppo reale per essere relegato all’incoscienza, si era riproposto per le poche ore che mancavano al termine della notte replicando all’infinito la frase che avrebbe voluto cancellare insieme al gesto che la aveva provocata. Si sarebbe trovato in guai peggiori se lei avesse chiamato aiuto come lo aveva minacciato e sarebbe stata in pieno diritto di fare e invece gli aveva consegnato soltanto quella domanda disperata che lo aveva relegato all’angolo del disprezzo di sé: «Volevo metterti di fronte senza appello alla ineliminabile differenza tra noi, Oscar, è stato un gesto di disperazione, Oscar, ma non mi giustifica: hai ragione tu, per quanto assurdo sia il tuo proposito di dimostrare a te stessa di poter vivere da uomo, dato che non lo sei, non avevo diritto di farti questo e non avrei potuto immaginare un modo e un momento peggiore per dirti che ti amo», rifletteva nel buio e nel silenzio della sua, improvvisata e momentanea, cella, «e neanche un modo peggiore di perderti: ti avrei perduta se Fersen ti avesse corrisposto, ti avrei perduta se avessi ascoltato tanti anni fa il mio suggerimento di vivere come una donna, ti perderei adesso se tu corrispondessi i miei sentimenti: sarebbe tutto incompatibile con il tuo ruolo e con il tuo rango, tuo padre farebbe il possibile per allontanarti da me e non potrei attendermi nulla di diverso, Oscar. Forse hai ragione anche in questo Oscar: questa società non è pronta a lasciarti essere donna con la tua testa, il sentimento che provi, per il quale mi ha accecato la gelosia, ti ha forse spaventata Oscar, ha messo in discussione il tuo ruolo, mandato in crisi la tua identità, ma se scappare fosse la soluzione Oscar io mi sarei chiuso in questo convento tanto tempo fa. Ma adesso, nemmeno più questo ho titolo per dirti, ho distrutto ogni cosa, su tutto la fiducia che avevi in me. Il limbo in cui ho vissuto fin qui era l’unico modo di non perderti e io ho mandato a pezzi anche quello: adesso siamo soli senza rimedio tutti e due, Oscar, ognuno per sé, ed è solo colpa mia. Che farò adesso?».

    Una campana, uno scalpiccio leggero e un frusciare di vesti ruppe il silenzio ovattato del convento prima dell’alba: André indovinò dai rumori i frati che si affrettavano al mattutino.

    Li seguì a distanza cercando di non aggiungere il minimo rumore e si nascose dietro uno dei larghi pilastri della moderna chiesa del nuovo convento, ma ogni tentativo di cercar pace in quella pace andò frustrato: nessuna grazia sentiva scendere su di sé. Il Gesù troppo lezioso che con la croce nella destra lo guardava distante gli sembrava abitare un empireo del tutto indifferente al guazzabuglio del cuore umano (1).

    Non così l’imponente frate che lo aveva aiutato la notte precedente, di cui ricordava a malapena il nome e che, pur non avendone dato vista, si era accorto di lui lì nascosto in disparte, deciso a raggiungerlo al termine della recita delle Lodi, in parte preoccupato in parte desideroso di andare incontro a quell’anima in pena.

    E così fece al termine della preghiera, attento a restare ultimo, lasciò uscire i confratelli e si accostò non visto all’uomo nella penombra indicandogli una panca defilata: «Pace e bene, fratello, non hai un’aria delle migliori ma almeno sei sobrio».

    «Vi chiedo perdono, padre, per l’incomodo che vi ho dato e per le condizioni indegne in cui mi avete trovato e accolto. Vi devo una spiegazione».

    «Chiamami Frère Jacques, fratello, non è a me che la devi, forse a lui», gli disse indicandogli un povero crocifisso appeso in un angolo che André senza saper dire perché sentiva più affine nella sua umanissima sofferenza, molto meno distante del Cristo azzimato che lo fissava da sopra la navata centrale.

    «Lo devo anche a voi, ma mi dovete promettere la massima discrezione: questa storia complicata non riguarda solo me e non è per la paura delle conseguenze che potrei subirne io se qualcuno sapesse che ve lo chiedo, ma per le conseguenze che pagherebbero persone che già stanno soffrendo a causa mia».

    «Fa' conto che quello che mi dirai resti segreto come sotto il vincolo sacramentale, nulla uscirà da questa chiesa, te ne do la mia parola di uomo e di frate».

    André Grandier prese coraggio e gli raccontò dall’inizio l’improbabile storia della sua vita che aveva preso una svolta imprevista e imprevedibile quando aveva sei anni.

    Una storia certo non facile che pure il frate, al confronto con i timori che aveva nutrito dalle frasi smozzicate della notte precedente, accolse quasi con sollievo.

    André si stupì vedendone gli occhi chiari e il movimento della barba articolarsi in un sorriso quasi paterno non appena ebbe concluso il proprio racconto, benché gli anni che li dividevano potessero al massimo fare del frate un verosimile fratello maggiore, seppure non di poco: «Non fraintendermi, fratello, non sottovaluto né la tua azione né il tuo rimorso, ma ho temuto che avessi combinato di peggio dalle tue parole confuse ieri notte, nondimeno penso che tu abbia ferito profondamente una persona, cui di certo vuoi bene, che ha in sé una grande forza ma anche profonde fragilità. Sei stato con me sincero fino all’osso a costo di scorticarti, è giusto che anche io lo sia con te: conosco la persona di cui stiamo parlando, da prima che maldicenze di dubbio gusto e certo prive di qualsivoglia fondamento facessero sapere al mondo che la Guardia reale stava agli ordini di una donna».

    L’uomo che lo ascoltava nella penombra trasalì, senza avere il tempo di interromperlo: «Una sera di sei o sette anni fa vidi arrivare quello che alla prima impressione giudicai un giovanissimo graduato: con un’asciutta cortesia nei modi e il fare pragmatico di chi sapendo il fatto suo chiedeva soccorso per un soldato ferito che si reggeva a stento alla spezieria del convento. Mentre il soldato che sosteneva il ferito assisteva il frate infermiere, rimasi a parlare con l’ufficiale rimasto fuori ad attendere e non ci misi molto a capire che m’ero ingannato riguardo a quell’aria imberbe: non era indice di giovanissima età, come avevo pensato sulle prime, ma di qualcosa di molto diverso che mi stupì e mi incuriosì anche. Senza dar vista di aver compreso le chiesi qualcosa del suo lavoro, ho capito allora che quella vita dev’esserle costata ma che non le dispiaceva, non sembrava per niente a disagio nel ruolo e si capiva che aveva il rispetto degli uomini che erano con lei e che non era un rispetto di pura facciata: solo chi sa fare il suo lavoro può permettersi di dare ordini in queste condizioni».

    «Vi intendete di vita militare?».

    «No, amico mio, predico solo pace e bene, ma un convento è una struttura gerarchica».

    «L’avete mai più incontrata?».

    «Sì, un’altra volta, ed è la volta in cui abbiamo parlato più apertamente. Diverso tempo dopo quella prima sera è tornata al convento, da sola, e ha chiesto di me: mi ha affidato una madre di famiglia, che aveva perso non lontano da qui un bambino in circostanze violente e tragiche, per le quali la vostra amica si sentiva responsabile, in quanto nobile, benché nessuna possibilità avesse avuto di intervenire a impedire che quel delitto si compisse. Quella volta mi parlò più apertamente, conservava la distanza cui dovevano averla abituata da sempre, ma in quel momento non riusciva a nascondere un certo turbamento: mi disse di come a volte si sentiva fuori posto, non nel suo ruolo ma nel suo rango, mi domandò con una franchezza brutale, ma profondamente onesta: “Perché dite che Dio ha creato gli uomini uguali se poi succede questo, come può permetterlo?”. «Le ricordai che non possiamo imputare a Dio le malefatte degli uomini, ma che come uomini e, anche come donne, possiamo sempre fare qualcosa per rendere il mondo che abitiamo meno ingiusto. Sì, precisai uomini e donne, benché fossi ben conscio che alle donne è concesso un margine di manovra assai inferiore: volevo che sapesse che avevo capito. Ovviamente afferrò al volo: “Come donne molto meno, ma avete ragione, io sono a mio modo una donna fortunata: qualcosa posso fare, ho spazi di libertà, che valgono molto, anche se costano molto: il prezzo per me è non poter essere me stessa quasi davanti a nessuno”. Ecco, vedi André, mentre raccontavi io ripensavo a queste parole. Se quello che mi hai detto è la verità, e non ho motivo di dubitarne, probabilmente con quel gesto fuori controllo le hai tolto la fiducia in una delle poche persone, se non l’unica, davanti alla quale poteva essere libera di esprimersi. Se ora la tua solitudine è grande, la sua è probabilmente ancora maggiore. So che saperlo non ti faciliterà il rapporto con la tua coscienza anzi, ma ti darà la misura del dovere che hai di impegnarti a provare a riparare al tuo torto: ti serviranno pazienza, discrezione, delicatezza e umiltà. Dovrai impegnarti senza essere certo del risultato e hai davanti una salita impervia, perché è possibile anzi probabile che quello strappo non possa essere ricucito. Ieri notte mi hai detto: «Frate, sono troppo vigliacco per rinchiudermi in convento”. Eri sulla strada sbagliata, nel tuo caso serve più coraggio a restare fuori ad affrontare i tuoi errori e a cercare una via per riparare, sapendo che potrai fallire e che il prezzo di quel che hai compiuto potrebbe significare allontanarti per sempre da lei. Il convento sarebbe, per te, solo una disonorevole fuga: perdonami la franchezza, ma non sono queste le vocazioni di cui abbiamo bisogno. Non posso indicarti, quale sia la strada, non conosco abbastanza né te né lei, ma a dispetto di un gesto che ti è sfuggito di mano, capisco che sei un uomo capace della delicatezza necessaria, un uomo di raffinata educazione cui non mancano le sfumature nelle parole, troverai nel tuo bagaglio la giusta distanza, solo non illuderti, metti in conto, ti prego, anche di sprecare la tua fatica. E abbi l’accortezza di non tradirti mai se non vuoi che ti costringano a fare fagotto per sempre».

    Dopodiché il frate offrì all’uomo una frugale colazione a base di pane e latte e si congedò: «Va' in pace e sta' lontano dai ponti».

    André lo ringraziò, avendo ricavato dall’uomo la percezione di una sincera fede e di una grande attitudine all’ascolto, promettendo di tornare a trovarlo, gli lasciò una moneta d’oro per i suoi poveri, e montato a cavallo si incamminò, riflettendo sulle parole intercorse. Gli tornò in mente la descrizione che il frate aveva fatto di Oscar: Che idiota sono, Oscar, come ho fatto a non capire che il tuo “voler vivere come un uomo” era solo l’unico modo che conosci per poter dire il “mai più” che ripete a sé stessa ogni persona ferita dai sentimenti? Come ho potuto non capirlo proprio io che ti conosco come nessuno? Troverò un modo, Oscar, te lo giuro, non permetterò che tutto quello che abbiamo condiviso finisca in questo modo.

    (1) L'espressione è ovviamente manzoniana, piccolo omaggio al Maestro nell'anno del 150° della morte

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    Capitolo 9
    *** ANIMA NUDA ***


    Solo dopo essersi sciacquata ripetutamente il viso prendendo acqua gelata dal catino, a lavare via il sale delle lacrime, Oscar François de Jarjayes ebbe il coraggio di guardarsi allo specchio: l’ufficiale risoluto che era abituata a incontrare, fugacemente, nell’atto di controllare che la tenuta fosse precisa quanto il ruolo richiedeva, non c’era più, al suo posto incontrò l’umiliazione di una donna: gli occhi pesti per il pianto, il viso arrossato, la nudità esposta attraverso la camicia strappata.

    Mentre contemplava quella miseria alla luce fioca di una lampada a olio le cadde l’occhio su una conchiglia che teneva sulla toilette, raccolta sulla spiaggia di Normandia, ricordo dell’ultima estate spensierata che aveva preceduto l’incarico come capitano della Guardia reale, ruolo che aveva precocemente segnato irreversibilmente a 14 anni il suo ingresso nelle responsabilità dell’età adulta. Rigirandosi in mano la conchiglia tortile, rossastra, che gli antichi adattavano a tromba, istintivamente si chiese quanto fosse vissuto fuori di lì il mollusco che vi aveva trovato riparo.

    Era così che si sentiva: nuda, vulnerabile, molle come un mollusco senza guscio: una preda designata, senza scampo. Il contrario di quello che prevedeva la sua strada segnata.

    Solo due volte ho incrinato la corazza, tutte e due le volte l’armatura del soldato è andata a pezzi. Con nessun uomo sono stata me stessa, solo con i due che sarebbero stati sempre e comunque inaccessibili ho abbassato, senza averne coscienza, la barriera che sempre mi protegge.

    Hans Axel Von Fersen, l’amante della regina di Francia, difficile immaginare un obiettivo più inavvicinabile: chi poteva pensare davvero di averlo? Ora lo so, Fersen era una meta così irraggiungibile, talmente fuori portata, da essere al di sopra di ogni sospetto, ero così sicura che il suo amore impossibile ma fin troppo plateale e il mio ruolo al comando della Guardia reale fossero, nel combinato disposto, un’assicurazione talmente solida, che inavvertitamente mi sono accostata a lui senza carapace e il mio cuore di donna, represso e inesperto, mi ha tradita come mai avrei pensato che potesse fare, con un sentimento dirompente che mai avrei pensato di provare.

    Con te, André, invece sono stata sempre e solo Oscar, nel modo più naturale, non ho mai avuto barriere con te, mai ho pensato di poter temere nulla da te, se non il tuo giudizio ponderato: sei stato per me un confronto alla pari, tante volte uno specchio o un contraltare, una solida certezza accanto, mi fidavo e basta, sicura di te come di me. Ora so che era una fiducia mal riposta in entrambi: tradita dai miei sentimenti e tradita da te. La cosa che mi fa più male è l’idea di dover imparare a vedere anche te come una minaccia, come un potenziale pericolo, tu che sei da sempre l’elemento di serenità e di equilibrio in questa vita tutta sul filo del rasoio, un elemento e questa è una mia colpa che ho dato per scontato.

    D’istinto sono la persona più schietta al mondo, mi hanno educata a non conoscere l’arte della civetteria e dell’infingimento, non so recitare, ma mi so nascondere, le uniche due volte in cui non l’ho fatto mi sono esposta e sono stata ferita.

    Ora so con certezza che a Oscar François de Jarjayes non è permesso togliere la maschera dell’ufficiale senza macchia e senza paura. Reprimere i sentimenti è l’unico modo che ho per sopravvivere, per restare quella che sono.

    Pensavi che non sapessi qual è la differenza di forza fisica tra noi, credi davvero che mio padre non mi abbia insegnato a temere per prima cosa la prevaricazione di un maschio? Sa benissimo che non sarei mai stata ad armi pari, in questo. Credi che non mi abbia insegnato a difendermene? Con tutte le volte che hai fatto a botte con me, pensi che non sarei stata capace di assestarti una ginocchiata dove serviva anche con le mani intrappolate? Il fatto è che non ti temevo André, meno che mai in quel senso, mai e poi mai avrei pensato di dovermi difendere da te, meno che mai in quel modo: mi hai trovata con la guardia abbassata, perché eri l’unica persona e l’unico uomo al mondo - a parte mio padre, che però picchia duro quando vuole - che non ho mai pensato di dover temere. Sono rimasta spiazzata, André. Non fraintendermi: non è che ti abbia mai pensato meno uomo degli altri – che brutto modo di dirlo, André, che brutto modo di pensarlo! Da parte mia, poi, cui hanno insegnato a vivere da uomo, ma cui nessuno si sognerebbe di insegnare che sia un modo di essere uomini aggredire in questo modo una donna – il fatto è che ti pensavo diverso nel senso più nobile del termine, sei stato fino a ieri la persona più nobile d’animo che io abbia conosciuto e ti ammiro per questo, riflessivo quando io e mio padre siamo impulsivi, e nella tua riflessività interiormente più forte di noi. Da bambina ammiravo la tua concentrazione e la tua metodicità nell’imparare, quello che io facevo per paura di non essere all’altezza delle richieste di mio padre e per schivare le bacchettate del precettore, cui certo mio padre aveva suggerito di non lesinarle per formare il mio carattere, tu lo facevi per curiosità, per passione, per non perdere una sola goccia dell’opportunità che la vita ti aveva dato.

    Se poche ore fa mi avessi reso lo schiaffo ingiusto che ti ho dato non sarei certo qui a lamentarmi del fatto che le donne «non si picchiano neanche con un fiore» come dice tua nonna – rise di una risata nervosa davanti allo specchio - : quante volte abbiamo fatto a botte da ragazzi, André, perché sapevamo tutti e due che era l’unico sfogo non disonorevole per il capitano che dovevo diventare? Tante volte provocavo io, qualche volta tu. Ti ricordi l’alba del giorno in cui ho preso l’incarico alla Guardia reale? Mi hai portato al laghetto, pensavo che mi avresti detto di dare ascolto a mio padre, come ti aveva chiesto, e invece mi hai provocata, abbiamo fatto a botte allo sfinimento: credo di sapere perché lo hai fatto André, perché sapevi che avevo paura, che avrei voluto piangere davanti a quel bivio e che non potevo farlo. Mi hai offerto l’unica possibilità a me concessa di sfogare il conflitto che avevo dentro. Non ricordo che tu abbia picchiato così seriamente da quando non eravamo più bambini. Credo che tu lo abbia fatto consapevolmente anche per un’altra ragione: per consentirmi di capire quale fosse il grado di scontro fisico che sapevo sopportare, per darmi un termine di paragone che mi aiutasse a scegliere consapevolmente. Eri già più pesante e più alto di me.

    Perché André non mi hai reso lo schiaffo, quello me lo meritavo per come ti avevo offeso, pensando di poterti gettare via dopo averti dato per scontato, perché non me lo hai reso André? Perché mi hai fatto quello che hai fatto, abbandonandomi a questa solitudine senza rimedio, perché? Non dirmi che sei anche tu come gli altri, perché non ti credo.

    Se volevi farmi male ci sei riuscito, André, a chi potrò chiedere un termine di paragone, con chi mi confronterò, adesso che non c’è più persona al mondo di cui mi possa fidare?

    Aveva distolto lo sguardo dallo specchio per non vedere quella camicia strappata, per non incontrare il proprio imbarazzo davanti alla propria nudità malamente esibita e quell’immagine di donna violata che voleva dimenticare, ansiosa di ritrovare la corazza dell’ufficiale tutto d’un pezzo in cui rifugiarsi, chiedendosi se potesse ancora esistere dopo quanto accaduto.

    Cambiò la camicia chiedendosi dove nascondere, anche a sé stessa ma soprattutto agli altri, la pietra dello scandalo. La chiuse in un baule di cui si lasciò scivolare in tasca la chiave e passò nel salottino che antecedeva la sua stanza.

    Come aveva fatto in un giorno difficile di tanti anni prima (1) tornò a interrogare il ritratto di sua madre che le rimandava una donna dolce, più o meno della sua età, diversissima da lei: rimpianse la totale assenza di confidenza con l’unica donna con cui in astratto avrebbe potuto confrontarsi, se non altro perché sapeva com’era cominciata e come s’era condotta la sua vita senza eguali.

    Madre, io non so niente, quasi niente, di questo mio corpo di donna, ho vissuto di solo dovere, fingendo che quel corpo che non esisteva neppure per il registro di battesimo– porto un nome maschile – sotto l’uniforme non ci fosse, finché un’onda anomala non mi ha travolta: è bastato che la mano di Fersen sfiorasse la mia perché un brivido mi percorresse, anche se forse vi fa sorridere una cosa così ingenua in una donna ormai adulta, potrei arrossire anche solo al pensiero di condividere con voi questa sensazione, madre, ma questa sensazione io la capisco.

    Ora invece è accaduta una cosa che non riesco a decifrare: aggredita in quel modo, così senza difese, sono rimasta pietrificata, la mia mente ha provato sgomento, per la fiducia tradita al di là di ogni immaginazione, e anche paura nell’incapacità di organizzare una reazione nella sorpresa, ma il mio corpo non ha provato il disgusto che mi sarei aspettata e che credo avrei dovuto avvertire in una circostanza simile. Perché, madre? Non lo capisco e ne provo turbamento. Che mi succede, madre? È possibile che il corpo e la mente si dissocino? Non ho provato piacere in quel bacio rubato, quello no, è stato un gesto violento, una prevaricazione, ma non mi sento sporca come forse dovrei, mi sento tradita, questo sì, colpita nel lato più vulnerabile di me, alle spalle dalla persona di cui mi fidavo di più, da quella da cui mai avrei potuto attendermelo.

    Provo un dolore lacerante perché sento che quella fiducia è perduta per sempre e che non ci sarà più porto sicuro per me: il soldato per sopravvivere è condannato alla sua perenne algida armatura, non potrà più incrinare per nessuna ragione la corazza, non potrà mai più togliere la maschera, mai più abbassare la guardia, per non trasformarsi in preda. Quel gesto sconsiderato ha cancellato per me ogni spazio di libertà ed è questo a farmi male. Che ne sarà di me come persona se non potrò più permettermi un istante di autenticità neppure tra queste mura, madre, se non in solitudine? Ma perché il mio corpo non ha provato repulsione, perché? È normale, madre? Aiutatemi, madre, sono così disorientata, non so uscire da sola da questo labirinto.

    Oscar François de Jarjayes che, nel precipitare degli eventi, si sentiva esposta e a rischio di bruciarsi come una falena alla luce di una candela, votata com’era alla forza della ragione, non era abbastanza esperta di attrazione e sentimento per domandarsi se il suo corpo non le stesse mandando messaggi che la sua mente e il suo cuore, occupati dal pensiero di Fersen e dal vuoto della sua mancanza, non erano pronti ad accogliere. Non era nelle condizioni di lucidità, di disposizione d’animo e di esperienza, per guardare dentro sé stessa abbastanza a fondo da porsi la domanda che le sovrastrutture della sua educazione avevano reso inconcepibile: se in assenza di quel terremoto emotivo e di tutti gli ostacoli sociali del caso, avrebbe mai potuto ricambiare il sentimento che André le aveva così brutalmente rivelato. Tanto più che, incapace di capire se fosse possibile che una persona altrimenti mite, anche se non remissiva, facesse per amore un gesto come quello, si domandava chi fosse davvero il ragazzo che le era cresciuto accanto.

    In quella confusione che alla tempesta emotiva del primo innamoramento non ricambiato ne aveva fatta seguire una seconda ancor più difficile da gestire, Oscar François de Jarjayes non trovava altra risoluzione che alzare la propria personale barricata e determinarsi a fare in modo che la falena si consegnasse definitivamente al buio, anche se razionalmente ormai capiva che dentro di lei, come in qualunque essere umano, era nascosta una forza dirompente che a tradimento poteva emergere minando anche la fortezza della ragione meglio innalzata. Se fino ad allora si era illusa che una mente educata all’autodisciplina come la sua sarebbe stata in grado di dominare ogni cosa, ora sapeva che esistevano frangenti nei quali non era più certa di potersene fidare. Lei che aveva imparato a contrastare con l’agilità la forza di avversari più potenti di lei, davanti a quella forza irrazionale propria e altrui, che aveva sperimentato tutta in una volta, si scopriva paralizzata dalla paura, cosa che non faceva che aggravare ulteriormente il suo stato di smarrimento, trattandosi di un sentimento che le avevano insegnato a reprimere e, non potendo, a nascondere.

    In un attimo di resipiscenza Oscar si vide come da fuori, adulta, parlare con l’effigie di una donna viva con cui non avrebbe mai potuto sostenere quella conversazione nella vita reale. Ebbe pena, quasi disgusto, di quella sé stessa così smarrita. Si lasciò andare a un pianto disperato inginocchiata per terra al lume della lampada a olio che iniziava a languire, per la vergogna di vedersi così. Persa.

    Restò lì, sul pavimento, a dare fondo alla propria disperazione per un tempo imprecisato di cui aveva perso la nozione, quando la prima luce naturale filtrò dai tendoni. Oscar François de Jarjayes si riscosse e si rialzò con decisione, con due passi marziali, si avviò ad aprire gli scuri, poi ignorando i brividi aggravati dall’essere rimasta a lungo sul pavimento a camino spento, affondò di nuovo le mani nell’acqua gelida del catino e si lavò il viso quasi con rabbia, insistendo finché fu certa di averne cancellata la congestione.

    Vestì l’uniforme con studiata lentezza, per dare il tempo al suo sguardo di assorbire ogni traccia del pianto recente, attenta a non intercettare lo specchio se non alla fine, quando fu ragionevolmente certa di vedervi riflesso un ufficiale diritto, impeccabile nella sua giubba rossa con le mercerie dorate, in apparenza freddo e padrone di sé. Solo a quel punto lo guardò negli occhi e non poté fare a meno di domandargli se quello che vedeva non fosse altro che una conchiglia vuota.

    Non attese la risposta, si voltò di scatto decisa ad andare incontro a una nuova giornata illudendosi di aver chiuso quanto accaduto dietro la porta scattata alle sue spalle. Durò lo spazio di un istante, il tempo di intercettare stando in cima alle scale la voce di Marie, la nonna di André, da un tempo infinito governante della casa, che canticchiava al piano di sotto: durò fatica a ricacciare indietro le lacrime che affiorarono al pensiero di non potersi rifugiare, questa volta, neppure nell’ultimo affetto ancora presente all’appello: certo non avrebbe potuto dirle che cosa fosse accaduto la sera prima e per mano di chi.

    Ingoiando un sospiro, uscì più in fretta che poté, incontro a una mattina ventosa e a una destinazione di servizio ancora ignota, che si augurò lontana.

    (1) La scena si trova al capitolo L'età delle scelte di questa serie

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    Capitolo 10
    *** SOTTO ESAME ***


    Nel varcare l’elegante facciata dell’imponente, moderno, edificio dell’école militaire progettato da Ange-Jacques Gabriel,Oscar Francois de Jarjayes provò un vago quanto anacronistico senso di soggezione. Salì l’elegante scalone d’onore protetto da un mancorrente in ferro battuto con la sensazione di essere di nuovo sotto esame, anche se non c’erano, non più da tempo, prove formali ad attenderla. Eppure sentiva di esserlo, eccome, in quel momento della vita, forse come mai prima. Mancavano solo due giorni all’esordio nel suo nuovo incarico e il viaggio in Normandia, che pure aveva chiarito cose importanti dentro di lei, non aveva stemperato il timore che accettare quel reggimento periferico e preceduto da una fama non proprio specchiata fosse stato un azzardo. Sapeva benissimo di essere alla vigilia di un salto verso l'ignoto e lo affrontava con inquietudine, cosa che non poteva ammettere con altri che con sé stessa.

    Si fece annunciare e sedette nell’attesa su una scomoda poltroncina rivestita di un broccato di raso oro e blu, davanti a lei due bianchi battenti chiusi di legno laccato decorato in oro, lo stesso luogo in cui aveva atteso anni prima l’esame più impegnativo della sua carriera militare: quello che avrebbe sancito la sua idoneità a ricoprire l’incarico di Comandante delle guardie reali, il ruolo che era stato di suo padre. L’aveva vissuto con ansia, con il bisogno di dimostrare a sé stessa di essere all’altezza della situazione al di là del blasone, dello stemma di famiglia e del suo titolo d’antica nobiltà di spada. Voleva con tutta sé stessa meritare, per sé sola, quella spada al fianco e quel grado. Al ricordo di quel momento, sentì lo stomaco sussultare come allora. Simulò calma con sé stessa, accavallò con finta noncuranza le lunghe gambe fasciate nei calzoni chiari, fissando la punta degli stivali lucidi. Ritrovarsi lì, benché al posto della giubba militare in attesa del nuovo incarico vestisse una corta marsina di velluto carta da zucchero, le diede l’effetto di un dejà vu anzi di un dejà veçu.

    Il cuore le diede un tuffo come se si trovasse ancora al centro di quell’incubo ricorrente che la riportava di tanto in tanto alle tre prove di quell’esame: un’ora di tempo per predisporre un’intera missione di scorta alla famiglia reale in un Paese straniero, da esporre poi in ogni minimo dettaglio davanti a una commissione pronta alla parte dell’avvocato del diavolo. Poi una seconda prova con le armi da fuoco: 100 bersagli fissi e mobili senza preavviso e, infine, un duello con la spada. Ogni volta sognava che un dettaglio andasse storto e che mancasse nelle prove sempre qualcosa che le impediva di giungere al termine e di prendersi il suo titolo e la menzione d’onore che in realtà aveva avuto. Sempre minuscoli, eppure decisivi, impedimenti: un bottone mancante nella divisa, un baffo di fango sugli stivali che non andava via, la spada che non usciva dal fodero, la biblioteca in cui cercare le mappe della destinazione della missione che all’improvviso diventava un labirinto da cui non sapeva uscire. Si svegliava ogni volta fradicia e angosciata, persa tra quei volumi dalla costa rossa tutti uguali, per scoprire con sollievo nel buio che quell’esame era stato passato con successo tanti anni prima.

    Mentre aspettava, invece, quel giorno Oscar si chiedeva se quel sogno non fosse più realistico di quanto le fosse mai parso fin lì, se il suo vero momento della verità non fosse sul punto di arrivare proprio di lì a due giorni, senza rete, in un posto dove il suo blasone poteva essere un orpello malsopportato, anziché la corazza di sicurezza che era stato fin lì. Si chiese se sarebbe stata all’altezza di quella Compagnia di guardia metropolitana cui nessuno ambiva.

    Un rumore dall’interno la distolse dai suoi pensieri, trasalì quando l’attendente del Generale Jean Claude de Chateaubriand uscì a dirle che il generale l’attendeva.

    Era questi un uomo di pochi anni maggiore di lei, che conservava un’aria da ragazzo: mai, a dispetto del fatto che discendeva da un’antica famiglia bretone, noblesse d’épée che si era fatta onore per secoli, si era rassegnato a portare la parrucca che sostituiva con una zazzera bionda incolta che legava con finta noncuranza con un nastro cui sfuggivano più riccioli di quelli che tratteneva. Era l’unico dettaglio poco meno che impeccabile nella sua uniforme bianca altrimenti perfetta sulla figura longilinea. Oscar, rivedendolo dopo molto tempo, notò che non era cambiato granché e che per quanto si somigliavano nei colori e nelle strutture fisiche avrebbero potuto essere fratelli. Si erano conosciuti molti anni prima, quando Oscar era diventata capitano delle guardie reali e da quel giovane nobile aveva ricevuto complimenti sinceri, privi di quella posa galante che il più delle volte serviva a nascondere un misto di invidia e di senso di superiorità da parte dei colleghi maschi. Lui no, la sapeva donna da sempre e la trattava alla pari. E proprio quell’esame sostenuto in quella scuola, voluta da Luigi XV per l’addestramento per giovani gentiluomini con poche sostanze ma che all’occorrenza ospitava anche prove di idoneità per tutti gli altri, aveva finito per sancire definitivamente la loro reciproca stima.

    Noto per essere uno dei migliori schermidori dell’intera cavalleria leggera francese se non il migliore, al momento di passare al grado di Colonnello e di dimostrare di essere all’altezza di assumere il Comando della Guardia delle Loro Maestà, Oscar François de Jarjayes se l’era trovato come avversario-esaminatore alla prova con la spada. Aveva capito da tempo del resto che il padre, che la voleva all’altezza della situazione per la sua sicurezza, faceva da sempre in modo che si trovasse valutata soltanto dalle commissioni più severe, il contrario di quello che in genere accadeva ai figli dei generali che brigavano da ogni parte per spianare la strada ai loro rampolli. Ricordava di aver faticato a tener testa a quell’avversario alto eppure agilissimo, ma di averlo alla fine addirittura sconfitto, pur trovandosi ormai spalle al muro, con il guizzo di una parata seguita da una risposta velocissima che era giunta a tagliare la stoffa dell’uniforme di lui all’altezza del costato, lasciandogli – per fortuna ­– nulla più che un graffio sulla pelle.

    Un po’ a disagio per quella pur minima ferita che non avrebbe voluto provocare, Oscar François de Jarjayes ricordava con orgoglio la stretta di mano finale: «Colonnello de Jarjayes, debbo ringraziare credo il fatto che, nonostante siate stata più veloce e abile di me, abbiate un controllo delle vostre azioni tale da portare il colpo senza affondarlo, diversamente avrei rischiato qualcosa. Per quanto mi riguarda questo controllo dice della vostra abilità ancor più del colpo andato a segno: la Guardia reale non potrebbe chiedere Comandante migliore, buon lavoro!».

    «Colonnello de Jarjayes, buonasera, è un vero piacere rivedervi, a che debbo l’onore di questa vostra visita?»

    Il sorriso franco e la vigorosa stretta di mano dicevano che non si trattava di convenevoli di circostanza e allentarono la tensione.

    «Lo è anche per me Generale, avete fatto tanta meritata strada in questi anni e so che vi siete fatto onore in America. Io, come forse saprete, tra due giorni assumerò l’incarico di comandante della Compagnia B della guardia metropolitana di Parigi. So che anni fa siete stato in quel ruolo e mi sono permessa di venirvi a chiedere qualche consiglio, per farmi trovare pronta a un contesto riguardo al quale non conosco che dicerie di terza mano: come sapete a Versailles tutti sanno tutto di tutti ma nulla di serio riguardo a quello che succede fuori. Per la verità, poco di serio anche dentro».

    De Chateaubriand non si chiese da che cosa stesse fuggendo la donna che aveva davanti e che stimava moltissimo professionalmente, quello che aveva detto di Versailles gli bastava per capire che quel mondo non le apparteneva come non era mai appartenuto a lui ed era sufficientemente esperto di padri autoritari per sapere che cosa significasse uscire dalla loro ombra.

    «Sarei disonesto se non vi dicessi che vi siete scelta, o almeno trovata, una strada impervia, Oscar François, ma lo sapete benissimo da voi e non credo che siate sprovveduta. Non è un reggimento facile. Ma anche se certo non sono dei raffinati e spesso vestono la divisa con una trasandatezza inimmaginabile per chi ha assistito vent’anni quotidianamente all’impeccabile liturgia del cambio della Guardia reale, il problema non è che siano uomini del popolo ma il fatto che siano malamente addestrati e ancor peggio pagati. E certo non aiuta il fatto che siano da sempre in balia di comandanti nella migliore delle ipotesi inesperti – era il mio caso – e nella peggiore impreparati e inadeguati, messi lì solo per il requisito dei quarti di nobiltà. È questa purtroppo la situazione che si è verificata più spesso e di certo non avrà migliorato la loro condizione negli ultimi 15 anni. Essere considerati periferia dell’impero, lasciati in un luogo malsano e maltenuto, malnutriti, cui poco si chiede e poco si dà, non favorisce né l’abnegazione né la disciplina. Immagino che vi troverete a fronteggiare come minimo la diffidenza: siete nobile e...»

    «...Donna...». Concluse Oscar decisa a togliere entrambi dall’imbarazzo, mentre dentro di sé lo ringraziava per la discrezione di non averle chiesto il perché di quel cambiamento imprevisto e imprevedibile.

    «Purtroppo sì, anche questo vi faranno scontare... ma siete l’uomo migliore su piazza, e vi assicuro che dico sul serio, lungi da me giocare con le parole. Io penso che se chi governa questo Paese avesse messo più spesso le sue persone migliori nei posti più difficili e complessi, forse non saremmo al punto in cui siamo. Se ci si fosse preoccupati di risolvere qualche problema invece di lasciarli covare sotto la cenere forse non sarebbe oggi tutto così difficile».

    «Già, ma non sembra che le vostre riflessioni abbiano molto seguito tra i nobili».

    «Purtroppo no. E infatti sono molto preoccupato, ho una giovane moglie sposata per amore, a costo di rinunciare a una cospicua parte di patrimonio, e un bimbo piccolo che mi piacerebbe crescesse in un mondo più armonico di quello che i nostri padri gli stanno lasciando. Non sono un giacobino, non fraintendetemi Oscar – se mi permettete di chiamarvi così senza titoli né gradi - , ma mi rendo conto che se non si favorirà un po’ più di equilibrio la tensione sociale esploderà: preferirei che il mio bambino crescesse in una stagione di riforme che di guerra civile. Tornando a voi, Oscar, avrete momenti forse difficili, ma io sono convinto che ce la farete: non c’è niente di speciale che dovete fare, siete molto più esperta di me allora. Siate l’ufficiale che avete dimostrato di essere fin qui: leale, autorevole, capace e coraggioso. Magari ci metterete un po’ ma i risultati verranno. Questa non è Versailles, Oscar, ma le voci girano. E tutti sanno di che pasta siete fatta: benché l’invidia non sia il più nobile dei sentimenti, gli aristocratici ne trasudano e quindi ne troverete più d’uno a gioire delle vostre possibili difficoltà. Ma non lasciatevi condizionare, siete sopravvissuta quasi vent’anni a Versailles, non credo che vi manchi l’allenamento in fatto di rospi da ingoiare, tra le cose che si dicono di voi non c’è l’inclinazione ad arrendersi alle prime difficoltà».

    «E che altro si dice di me?».

    «Niente di che, hanno poca fantasia: una donna con le palle, presumo che lo giudichino un invidioso complimento... Una vergine di ghiaccio, ma solo perché non date confidenza a nessuno e fate bene, servirebbe soltanto ad alimentare maldicenze peggiori. La verità è che i vostri pari grado e superiori vi temono: la vostra impeccabilità e la vostra professionalità sono per troppi un metro di paragone che mette a nudo le loro mancanze. Siete una spina nel loro sedere, scusate l’espressione da caserma, Oscar, perché siete più brava di loro, non lo sopportano dagli uomini, figuriamoci da una donna che non possono immaginare di sottomettere... Tutte sciocchezze, Oscar, non lo ammetterebbero neanche sotto tortura ma tutti sanno che ci sono in giro ben pochi ufficiali alla vostra altezza», rise di gusto.

    «Pensate che siano voci giunte anche ai miei futuri soldati?».

    «Non credo proprio, Oscar, non hanno niente a che spartire con gli ufficiali, credo che non ce ne sia mai stato uno che abbia condiviso una birra con loro per non contaminarsi. Nemmeno io, sbagliando, all’epoca lo avrei fatto: ero più giovane delle mie reclute e ho ascoltato chi a torto mi ha consigliato di tenere le distanze perché non mi considerassero un amico e non mi prendessero sottogamba. Ho capito con l’esperienza che se sei serio e capace non hai bisogno di fare l’altezzoso per dare ordini, ma devi essere credibile, quello che in genere non sono i comandanti che arrivano in quei reggimenti cui mandano solo scarti presuntuosi. Se mi fossi mescolato di più a loro, avrei scoraggiato qualcuno a passare la misura e avrei avuto qualche grattacapo disciplinare in meno e avrei capito meglio le loro vere difficoltà, di cui il servizio non è la parte preponderante. Voi siete un militare esperto, Oscar, sapete come fare. L’unica cosa che vi consiglio è di tenere gli occhi aperti, perché là dentro c’è qualche avanzo di galera, ma avete tanto di quel mestiere che li misurerete in due giorni».

    «Sapete qualcosa del vice, qualcosa che possiate dirmi senza metterlo in difficoltà? Diversamente tacete pure, mi arrangerò da me, non voglio mettervi nella posizione del delatore e non mi piace l’idea che uno faccia il delatore con me, anche se mi dovesse tornare utile».

    «Questa preoccupazione vi fa onore, Colonnello, non è da tutti, anzi quasi da nessuno, ma non è necessaria, D’Agoult è una persona apparentemente spigolosa, molto formale e piuttosto sulle sue, ma capace e molto leale, tra l’altro gran lavoratore, sono sicuro che avrete in lui un alleato attento e discreto. In questo siete capitata bene, se è ancora lì è solo perché fa comodo uno come lui nel disarmo generale e perché, non ho mai capito per quali ragioni, non si decide a chiedere un posto migliore che meriterebbe eccome».

    «È una notizia che mi rinfranca, ma io temo che mi stiate sopravvalutando, io non sono così sicura che sarò in grado di governare la situazione, se dovessi trovarmi in difficoltà: in fondo fin qui è stato tutto semplice almeno a livello disciplinare, era più difficile gestire le intemperanze della regina che quelle dei soldati.

    «Lo chiamate, poco, Oscar? Sapete solo voi quanta diplomazia e quanto carattere richieda dire dei no alla Regina di Francia che tutti accontentano. Quanto alla sopravvalutazione, Oscar, permettemi di avere la presunzione di saper valutare un ufficiale, non ho dubbi riguardo a voi, solo una cosa non vi perdono».

    «Quella ferita?»

    «Scherzate? Era solo un graffio e mi faceste bene, stavo diventando supponente. Vi dirò di più, credo che quella lezione presa da voi in America mi abbia salvato la vita: in un corpo a corpo mi sono trovato in una situazione simile e se non l’avessi già vissuta con voi, illuso di aver già vinto, avrei subito quel contrattacco. Quello che non vi perdono è di non avere fatto abbastanza male a quel losco figuro di de Germaine avendone avuta l’opportunità».

    «Anche questo sapete?»

    «Oscar, suvvia, ne parlò tutta la nobiltà, dicevano tutti che fosse stato un azzardo da parte vostra scegliere l’arma a voi meno favorevole. Anch’io sapevo che quel verme spara bene e che con la spada lo avreste infilzato come uno pollo allo spiedo in un solo colpo, ma io vi ho vista sparare 100 colpi su 100 sotto pressione. Speravo solo che lo feriste un po’ di più».

    «A caldo l’avrei ucciso volentieri dopo quello che gli ho visto fare, per fortuna la mia impulsività è stata frenata – mentre lo diceva Chateaubriand ebbe l’impressione di aver visto il suo sguardo tremare - . Ma, a freddo, non so e non voglio uccidere, neanche il peggiore degli uomini».

    «Anche questo vi fa onore, Oscar, stavo scherzando riguardo al verme. Verme lo considero davvero e se qualcuno lo levasse di mezzo brinderei, ma sono felice per voi che il suo sangue non sia sulle vostre mani, anche se vi confesso di aver goduto quando mi hanno detto che lo avete lasciato per tre mesi con una mano fuori uso. Quanto al resto non ho dubbi sul fatto che sappiate il fatto vostro».

    «Che volete che vi dica, Generale, posso solo andare avanti, perderei la faccia a tornare indietro e dunque da dopodomani sarò il Comandante della Guardia metropolitana e dovrò cavarmela. Non posso sbagliare una mossa, questo lo so».

    «Rispondetemi solo se volete e potete: come l’ha presa vostro padre?»

    «Male, ovviamente. Ma come ogni padre deve rassegnarsi al pensiero che i figli crescono. Però è ovvio che se fallissi, il fallimento come sempre nella mia vita ricadrebbe anche su di lui. Forse è la cosa che più mi pesa».

    «Vi capisco, Oscar, almeno credo. In questo avete avuto la vita più difficile di tutti noi, ma io conosco vostro padre, l’ho visto in azione tante volte, è un uomo serio davvero, se si fosse accorto di vostri limiti vi avrebbe fermata, non si sarebbe mai abbassato come fanno altri a mendicare raccomandazioni per la progenie! Capisco che per voi questo significhi una pressione enorme, ma il vostro onore in questo modo non è stato in questione per un solo istante».

    «Vi sembrerà strano, ma io di questo lo ringrazio». E intanto pensava che rimpiangeva il fatto di non potersi confrontare con lui riguardo ai dubbi sul nuovo incarico, sapeva che suo padre avrebbe saputo suggerirle la strada da seguire, ma avrebbe dovuto almeno dirgli la ragione di quel cambiamento e non poteva. Il peso della solitudine gravava su di lei come un macigno.

    «Siete seria come lui, Oscar, e questo fa onore a lui e a voi. Posso offrirvi qualcosa da bere prima di salutarvi?»

    «No, grazie. Meglio di no. Nell’ultimo periodo mi sono concessa più di uno strappo ed è ora che torni nei ranghi. Vi ringrazio, Generale».

    «Dovere, Colonnello. Tornate a trovarmi e ditemi come va». Una stretta di mano, più calda della precedente, segnò il congedo. Oscar uscì frastornata, senza capire se le attestazioni di stima rendessero la sua salita più accessibile o ancora più impervia.

    Mentre cavalcava verso casa Oscar si chiese come sarebbe stata la sua nuova vita. E non trovò risposta. Si chiese dove fosse andato a finire André, una frazione di secondo prima di ricordarsi che non aveva più motivo di farlo. Una sensazione di freddo, immotivata dalla temperatura esterna di quel tiepido aprile, calò dentro di lei e non se ne andò per il resto della sera consegnandola all’ennesima notte per troppi motivi senza pace.

    Il Generale de Chateaubriand si portò da quell’incontro da un lato il rimpianto che la nobiltà non avesse più persone aperte e rette come Oscar François de Jarjayes su cui contare e maledisse il pregiudizio di una società che in quanto donna le impediva di essere lì a insegnare ai giovani le tante cose che sapeva, dall’altro non riusciva a levarsi dalla mente l’ombra che velava lo sguardo determinato di quella donna da ammirare, si chiese quale dolore nascondesse il suo riserbo.

    *È stata una scelta non inserire “notti normanne”, altri stanno coprendo con un’autorevole “Normandia” quel difficile momento mancante, non pareva il caso di sovrapporsi, semmai di scegliere un percorso complementare

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    Capitolo 11
    *** GERARCHIE ***


    Oscar François de Jarjayes gettò un’occhiata al cartoncino chiaro con lo stemma dell’esercito che aveva lasciato come promemoria sulla ribalta dell’anticamera da cui si accedeva alla sua stanza: conteneva l’invito formale a presentarsi quella stessa sera in uniforme di gala al quartier generale per la cerimonia di conferimento dei nuovi incarichi, si chiuse la porta alle spalle e scese a colazione prendendo un respiro profondo.

    L’incontro con il padre, che fin lì aveva più o meno eluso, non poteva più essere rinviato dato che alla cerimonia, che coinvolgeva i più alti gradi di ogni Corpo d’armata, era invitato per ovvie ragioni anche il Generale Jarjayes. Oscar sapeva che scendendo così presto lo avrebbe trovato solo, intento a sorbire il suo caffè, prese coraggio e si preparò ad affrontarlo.

    Sulle scale incontrò la governante già indaffarata a far capolino dietro a un enorme cesto di biancheria: «Buongiorno, Marie, tieniti pronta con ago e filo oggi, mi raccomando: tra poco arriveranno le uniformi e se ci fosse qualche imperfezione avrò bisogno del tuo aiuto entro sera. Sarà che la Guardia è la periferia dell’impero, ma la sartoria militare se l’è presa comoda!».

    «State tranquilla, madamigella Oscar, non avete cambiato misure in questo mese, le hanno fatte sul modello della precedente non ci saranno problemi».

    «Grazie, Nanny, che vita difficile avrei se non ci fossi tu a rassicurarmi!». La canzonò con affetto.

    Quando entrò in sala da pranzo trovò il padre seduto alla tavola apparecchiata con una immacolata tovaglia di lino di fiandra, davanti a un forte caffè nero amaro e a una parca fetta di pane imburrato. A differenza di tanti nobili, che amavano circondarsi del superfluo e di ogni sfarzo, - osservò Oscar dentro di sé - suo padre, nei secoli fedele a una delle famiglie reali più scialacquatrici d’Europa, aveva fatto di una sobria, austera, eleganza una regola di vita.

    «Buongiorno, padre, posso?», domandò Oscar accennando al posto di fronte a quello di lui.

    «Buongiorno, Oscar, accomodati».

    Sedette come sulle spine e si dispose ad attendere che le venisse servito il caffè, sperando che giungesse prima degli strali del padre, che invece parlò subito, ma con tono calmo e distaccato, quasi che quel mese lontani gli avesse dato il tempo di far pace con l’idea che “suo figlio” avesse deviato dalla strada segnata.

    «Oscar, avrai riflettuto durante la tua lunga assenza, non credi che sia venuto il momento di dare a tuo padre una spiegazione per queste tue dimissioni repentine dalla Guardia reale per andarti a infilare in una caserma di scarso prestigio, diroccata, piena di falle e di problemi?». Lo chiese con freddezza e distacco ma senza astio.

    E con calma la figlia gli rispose: «Padre, ci sono momenti, nella vita di una persona adulta, in cui occorre prendere decisioni autonome le cui ragioni strettamente personali non è opportuno condividere con chicchessia, neppure con un padre, nei dettagli: accontentatevi di sapere che nessuna onta, né per causa mia né per causa d’altri, ha macchiato la mia divisa e il nostro casato. Ve lo giuro sul mio onore».

    Oscar vide un lampo di stupore negli occhi del Generale, che non era abituato a sentirsi contraddire, subito mutato nella tentazione di replicare con la consueta veemenza autoritaria. Ma fu una tentazione immediatamente repressa. Augustin François de Jarjayes non riusciva a formulare alcuna ipotesi plausibile riguardo a quella richiesta di trasferimento all’apparenza inspiegabile, ma di fronte alla calma inflessibile e determinata di “suo figlio” scelse di non insistere, si disse che forse era meglio non sapere.

    «Va bene, Oscar, ti assumerai la responsabilità delle tue scelte, ma sappi che dovrai cavartela da solo. La realtà nella quale ti sei andato a infilare esula dalla mia competenza e dalla mia influenza. Con questo non voglio dire che tu abbia mai chiesto la mia influenza o il mio aiuto in questi anni e questo ti fa onore, come ti posso garantire che non ho mai fatto nulla per spianarti la strada. Se però adesso tu hai deciso che te la vuoi complicare da solo un altro po’, sei padrone di farlo. Ormai del resto i giochi sono fatti. Con permesso, Oscar. Sono d’urgenza atteso a Versailles. La carrozza che ci porterà alla cerimonia di stasera sarà pronta alle 7 davanti al portone principale, ci troveremo lì. È tutto. Buona giornata, Oscar».

    Quella freddezza apparente sconcertò Oscar che si era preparata ad affrontare la solita virulenza e finì per acuire il sentimento di solitudine che provava: «Se dovessi fallire non ci sarebbe nessuno a raccogliere i pezzi», pensò mentre rimasta sola finiva un triste caffellatte ormai tiepido, «sarà una sequela di: “Te l’avevamo detto”. E anche la stima di cui parlava Chateubriand si scioglierà come neve al sole».

    Quando risalì in stanza trovò ad attenderla due uniformi perfettamente stirate sui manichini. L’ordinaria: giubba blu con spalline bianche, revers dorati, calzoni blu e stivali bianchi. E, accanto, l’alta uniforme: tutta blu con revers di broccato oro e argento, spalline d’argento, fascia di raso grigio perla, stivali lucidi blu come il tricorno, il tutto rifinito di un ampio mantello di velluto color della notte con spalline dorate, assicurato sul davanti da una catenella d’argento. Lo accarezzò domandandosi se sarebbe stata all’altezza di portarlo con onore.

    Provò la prima, perfetta: il blu scuro la faceva sembrare ancora più slanciata. Decise di tenerla addosso e di abbreviare l’agonia dell’attesa che la separava dalla sua nuova vita che un po’ desiderava e un po’ temeva, andando a presentarsi con un giorno d’anticipo quando non era ancora attesa al suo nuovo reggimento, intanto che aveva ancora bene a mente il discorso che la notte trascorsa le aveva tolto ore di sonno.

    ***

    Al ritorno si diede la sufficienza per quell’esordio in cui era riuscita a parlare con calma, anche se con una nota forse troppo altera, a non tradire emozioni e a non dare a vedere la desolazione provata davanti alla decadenza dell’ambiente e alla soldataglia male in arnese. Solo quando aveva visto André tra i soldati non era riuscita a dissimulare del tutto il suo stupore, ma era ragionevolmente sicura che quella piccola crepa potesse passare inosservata a degli sconosciuti.

    Trovarlo lì, arruolato come soldato semplice, l’aveva dapprima stupita, poi indispettita, infine turbata. Non era in grado di districare il groviglio di sensazioni contrastanti che l’aver scoperto quella presenza le suscitava: non sapeva se sentirsene rassicurata o prevaricata, certa che il solo fatto di averlo lì mandasse all’aria il proposito di fare da sola che da un lato anelava dall’altro la preoccupava. Per quanto strano le potesse sembrare, invece, temeva meno il ripetersi del fattaccio di quella notte sciagurata. Il viaggio in Normandia l’aveva forse irrazionalmente convinta che André avrebbe tenuto fede alla promessa solenne che non l’avrebbe più toccata. A nessuno di questi sentimenti aggrovigliati sapeva dare una spiegazione razionale: stavano lì come un grumo irrequieto che andava su e giù dalle parti della bocca dello stomaco.

    Entrò di corsa a palazzo e chiese a Marie con urgenza un bagno caldo. Si lasciò andare qualche minuto nel tepore dell’acqua cercando di rilassarsi e le parve di esserci riuscita, di aver recuperato almeno la parte preponderante della propria presenza di spirito.

    Si asciugò e vestì l’alta uniforme. Solo quando fu sul punto di allacciarsi sulle spalle il mantello di velluto diede un’occhiata fugace all’insieme nello specchio e vide un militare elegante e ragionevolmente sicuro di sé. Era lì lì per sentirsi finalmente a suo agio, di nuovo nei suoi panni, quando notò che, ovviamente, non c’era la spilla che indicava il grado e che avrebbe ricevuto alla cerimonia della sera. Il cuore mancò un battito e poi accelerò. Lo stomaco diede un sussulto. Quel particolare mancante l’aveva riprecipitata in uno dei momenti peggiori mai vissuti: l’omologa cerimonia seguita alla nomina a Comandante delle guardie reali.

    Non era un mistero che, nei corpi militari, consuetudini di dubbio gusto facessero sì che si sottolineassero gradi e incarichi con riti tribali di iniziazione e di passaggio che un malinteso spirito di Corpo voleva servissero a saggiare la tempra dei nuovi graduati e ad accoglierli nel consesso degli iniziati.

    Come con tutte le cose che la singolarità del loro rapporto gli suggeriva di non dire in modo diretto, come avrebbe fatto con un figlio, il generale Jarjayes aveva fatto in modo che Oscar crescesse informata per vie traverse di alcuni incerti del mestiere considerati alla stregua di regole non scritte nella vita militare: del rito della spilla (1), per esempio, aveva appreso, ancora molto giovane assistendo in apparenza casualmente al racconto che si erano scambiati il padre e un suo vecchio commilitone. Rammentavano l’usanza, da parte di alcuni superiori, di appuntare sul petto il distintivo ai nuovi graduati, avendo cura di affondare lo spuntone della spilla oltre lo spessore dei vestiti, arrivando con studiata brutalità a pelle e muscoli, per mettere alla prova la resistenza dei nuovi comandanti, in una situazione talmente ufficiale da indurli a rischiare in caso di minimo cedimento di finire svergognati a vita.

    Oscar sapeva che suo padre non approvava quel genere di riti di iniziazione, era un uomo integerrimo, convinto che il coraggio di un ufficiale si misurasse in altri meno futili contesti e che lo spirito di Corpo si alimentasse con l’addestramento rigoroso, con la preparazione, con la fiducia reciproca che ne derivava, non con atti gratuiti di prevaricazione da adolescenti. Se proprio non poteva evitare, assisteva da lontano con riluttanza, coltivando in coscienza la convinzione che praticare vessazioni gratuite nei confronti di un sottoposto finisse per mettere in luce, più che il coraggio di chi subiva, la viltà di chi imponeva così il proprio potere. Sapeva per esperienza che, in battaglia, quando c’erano da mostrare fegato autentico e lealtà specchiata, non erano quelli i primi su cui fare affidamento. «Se uno è vigliacco nel chiuso di una stanza», pensava quando vedeva qualche suo pari esagerare, «a maggior ragione lo sarà sul campo, dove tutti i filtri della buona creanza cadono e si viene fuori come si è davvero». Non aveva mai rifiutato di subire quei riti per non essere percepito come un corpo estraneo, o peggio un pusillanime, ma non aveva mai se non all’inizio partecipato al gioco di praticarli e salendo in grado sempre più li aveva scoraggiati nelle compagnie che comandava, con l’intento di cementare lo spirito di corpo con altri più affidabili mezzi, esempio compreso.

    Altri generali, invece, si dimostravano non solo tolleranti ma anche compiacenti quando non proprio aperti sostenitori.

    Quando fu nominata Comandante delle guardie reali Oscar François de Jarjayes arrivò alla cerimonia consapevole dell’esistenza di quel rito. Aveva messo in conto di dovervi sottostare e, data la sua singolarità, di trovarsi più esposta rispetto ai colleghi: per via della fisicità che avrebbe reso la prova oggettivamente un poco più dura e ancor più per il fatto che non sarebbe passata inosservata. Sapeva di essere costantemente in discussione e di dover dimostrare sempre di essere all'altezza più degli altri e la circostanza si prestava ad alzare la posta. Chi non gradiva la sua presenza avrebbe potuto approfittarne. Si chiese se avrebbero infierito. Ma pensava solo al dolore fisico, senza dargli troppo peso. Si disse che in un modo o nell'altro avrebbe resistito. Il padre l'aveva allenata a sopportare. Sforzandosi di non lasciarsi condizionare dai racconti esagerati ad arte con cui i commilitoni anziani si divertivano a spaventare i neofiti con particolari truculenti e inventati si era disposta emotivamente ad affrontare quella piccola un po’ crudele violazione. Dopotutto sarebbe durata poco ed era il prezzo da pagare per essere come gli altri, uno di loro. Anche se non poteva negare di sentirsi un po' sola nella propria innegabile diversità e un po' in imbarazzo immaginandosi oggetto di una curiosità un tantino morbosa, per com'era stata educata, considerava un punto d'onore essere trattata come gli altri. Un trattamento di favore l'avrebbe offesa, anche se, come suo padre, riteneva che la sostanza di un soldato andasse messa alla prova in altri frangenti e non le piaceva il clima di prevaricazione che certe pratiche alimentavano.

    Lì davanti allo specchio, invece, dovette reprimere un conato di vomito al ricordo del Generale Bouillé in persona che, con in mano quel distintivo, aveva infierito eccome in un modo che lei, forse ingenuamente, non aveva affatto messo in conto: fingendo di non riuscire a infilzare la stoffa era rimasto per un tempo che le era parso infinito a indugiare in un tocco lascivo e degradante, avendo cura di nascondere agli astanti – pezzi grossi di tutti i reggimenti - frapponendosi tra lei e la platea, quell’indugio sconcio teso ferire l’anima, prima di affondare come previsto la spilla in modo da offendere il corpo. I colleghi graduati accanto a lei non potevano vedere, perché obbligati a restare tutti schierati, uno di fianco all’altro, immobili sull’attenti: uno squallido abuso di potere perpetrato davanti a tutti ma di fatto senza testimoni.

    Se il ricordo del dolore acuto provocato dalla stilettata - accolta quasi con sollievo purché cessasse il resto -, era finito presto archiviato in un cantuccio della coscienza, alla stregua di uno sgradevole ma passeggero accidente del mestiere; la memoria di quella mano e del suo laido tocco insistito, invece, era rimasta vivida a vita e tornava, con eguale disgusto, ogni volta che si ritrovava davanti il suo superiore gerarchico, autore di quella prevaricazione pubblica, subdola e umiliante.

    Aveva ringraziato Iddio che in quella sera lontana il generale Jarjayes fosse in missione con un reggimento e non presente a quella squallida scena: anche se era certa di non aver dato segni esteriori di cedimento né al dolore né al resto, si sentiva morire di imbarazzo e di disgusto al solo pensiero che la parte più volgare di quell’abuso, a lei sola riservata in quanto donna, sarebbe potuta avvenire davanti a suo padre, costretto ad assistervi da spettatore impotente, perché, nei codici di quella società chiusa, qualsivoglia intervento avrebbe disintegrato l’onore militare di lei. Pregò il Padreterno che quell’oscenità non fosse sul punto di ripetersi. Mentre la ripugnanza le chiudeva lo stomaco.

    Una volta allacciato il mantello gettò un’altra occhiata al soldato nello specchio, notò che quel ricordo gli aveva dato uno sguardo affilato come una lama: sembrava determinazione e invece era inquietudine.

    Il Generale Jarjayes attendeva Oscar fasciato nella propria uniforme di gala bianca con fregi dorati in fondo alle scale. La figlia mentre scendeva notò che il padre si portava con una prestanza invidiabile che gli anni non scalfivano e ringraziò che non avesse bisogno di certi metodi per indurre i suoi soldati alla soggezione.

    Dal canto proprio il Generale guardò quell’ufficiale bellissimo venirgli incontro e non poté che ammirarla anche se avrebbe preferito che fosse rimasta nel posto più tranquillo che aveva lasciato.

    Salirono in carrozza e parlarono del più e del meno, lasciando da parte le questioni contingenti e profonde che nell’ultimo periodo avevano reso tesi i loro rapporti, ma la consapevolezza di quel rituale, che come un convitato di pietra li accompagnava, lasciava una sensazione di inquietudine sotto la pelle di entrambi.

    Il Generale, ignaro del precedente già vissuto, da una parte, benché presupponesse che lei sapesse, si sentiva in dovere di accennare al rischio per non farla arrivare nel malaugurato caso - Dio non volesse! – a fronteggiare in pubblico un dolore inatteso, anche se si ripeteva: con una donna non oseranno. Oltre, il suo rigore personale gli impediva anche di contemplare. Dall’altra parte provava disagio anche solo a evocare davanti a una figlia quella pratica, immaginando che potesse metterla in imbarazzo il fatto che fosse lui a parlarne.

    Ma, dato che l’aveva sempre chiamata figlio, s’impose per coerenza – e perché non di tutti i suoi pari grado si fidava - di far vincere il senso del dovere: «Speriamo che a nessuno venga in mente di rovinare la serata riesumando riti barbari», sospirò il Generale con finta noncuranza, per vedere l’effetto che faceva. «Speriamo», rispose lei con altrettanta simulata nonchalance, «ma con le spille in mano a certa gente non si può mai sapere».

    Dato che parlavano guardandosi negli occhi, con le tendine aperte alla luce di una enorme luna piena, Oscar lesse nello sguardo del padre una domanda muta carica di preoccupazione: fino a che punto sua figlia sapeva?

    Gli rispose a sua volta senza parlare, annuendo grave e abbassando lo sguardo. Il Generale comprese che sapeva per esperienza e l’ombra calata sugli occhi azzurri di lei gli diede la certezza che la violenza non si era risolta tutta nel dolore breve e intenso che anch’egli conosceva per averlo più volte subito. Conosceva anche sua figlia: sapeva che, a maggior ragione davanti a lui che ne aveva forgiato il temperamento, se si fosse trattato solo di una momentanea sofferenza fisica, anche ammettendo che la diversa fisicità l’avesse un poco esacerbata, avrebbe minimizzato spavalda. Quella risposta seria, muta ma eloquente, parlava di altro.

    Gli occhi grigi del Generale divennero una fessura d’odio: «Chi?», domandò in un soffio carico di una rabbia sorda.

    «È meglio che non lo sappiate, padre, è acqua passata».

    «Quante volte?».

    «Solo quella».

    Il Generale passò da uno sguardo capace di uccidere a freddo a un tremito di comprensione per l’umiliazione patita, ed ebbe uno dei rari gesti empatici della propria vita: d’istinto posò una mano sull’avambraccio di Oscar, come scusandosi, sentendosi indirettamente responsabile di tutto. A dispetto del guanto di lui e degli strati di stoffa di lei, il calore umano di quel gesto passò.

    Entrambi nel silenzio carico che era calato scesero a patti con il cielo pregando che l’acqua passata non ritornasse sotto i ponti quella sera.

    ***

    Terminati i convenevoli e i discorsi di rito, debordanti di una retorica troppo pomposa per essere sentita, nel salone austero ma bene illuminato e solennemente arredato la cerimonia ebbe inizio. Quando fu il momento di consegnare i distintivi ai graduati, rigidi sull’attenti davanti al tendone di velluto rosso, Oscar vide Bouillé avvicinarsi al tavolino su cui erano posate le spille appena lucidate e sentì lo stomaco contrarsi, per poi distendersi quando lo vide cedere l’onore al giovane Generale de Chateaubriand, fresco di medaglia al valore militare. A quel punto gettò a suo padre uno sguardo rassicurante, sperando che giungesse a destinazione.

    Jean-Claude de Chateaubriand, che era uomo moderno oltreché leale e intelligente, eseguì il suo compito con la massima correttezza, avendo cura di non toccare altro che stoffa, restituendo alla cerimonia l’autentica, sobria, rispettosa, solennità per cui era nata. Dalla tensione che aveva avvertito in tutti sotto le proprie mani, battiti improvvisamente accelerati che non poteva attribuire alla solennità dell’occasione, Chateaubriand aveva maturato la certezza che tutti avessero provato in passato sulla pelle quella sgradevole prevaricazione e che il loro corpo ne serbasse un’istintiva memoria, Oscar François de Jarjayes compresa. Ne provò vergogna come militare e come uomo e prese con sé stesso l’impegno a usare l’avanzamento in carriera per promuovere una diversa cultura. Pregando che non fosse troppo tardi, che fuori di lì un’altra Francia non fosse sul punto di travolgere la nobiltà con tutte le sue tradizioni, senza fare distinzione tra chi lo meritava e chi no.

    I sostenitori del sistema, invece, – in maggioranza, tra i presenti – al ricevimento che era seguito, rievocando memorie di gioventù, tra lazzi sguaiati, non mancarono di criticare tra di loro, alzando a bella posta la voce perché tutta la sala sentisse, «il rammollimento delle nuove generazioni», di tacciare di viltà chi non aveva il coraggio di «perpetuare le tradizioni» e di pavidità i nuovi incaricati che non le pretendevano come «un onore dovuto». Tra i bersagli indiretti di quella chiacchiera non c’era solo Chateaubriand, che non si era prestato, ma anche il generale Jarjayes che da anni notoriamente stroncava certe pratiche nei reggimenti affidati al suo diretto comando, spedendo a pulire pitali per settimane chiunque pescasse a rendersene responsabile.

    Fu allora che il Generale Jarjayes – che aveva accumulato più di un sasso negli stivali - rivolgendosi a Chateaubriand, si prese a freddo la sua piccola vendetta fingendo di proseguire un discorso già iniziato avendo solo cura di alzare un po’ il tono per farsi sentire più lontano: «Vedete, Chateaubriand, il fatto è che io credo che il coraggio di un generale si misuri dove si rischia qualcosa di più di una goccia di sangue sotto un’uniforme di gala, ma è solo in parte questo il punto. Il problema non è il rituale in sé, ma la gerarchia con la quale lo si applica: io sarei favorevole a che venisse ribaltata. Se proprio si deve, che sia l’ultimo tenente a saggiare così la tempra del suo generale, ovviamente con l’ordine perentorio di non fare sconti: s’avrebbe il vantaggio di stanare, in un colpo solo, generali vigliacchi e sottoposti leccaculi, perdonate il gergo da caserma, ma dato che siamo tra soldati e tutti di lungo corso nessuno si scandalizzerà».

    L’osservazione divertì poco i veri destinatari, che si sentirono in causa, e molto Chateaubriand, che non solo condivideva, ma era stato testimone di quando, diversi anni prima, quel rovesciamento per sé il Generale Jarjayes lo aveva chiesto davvero: Chateaubriand era in quel momento il Capitano cui era toccato “l’ingrato compito”.

    «Signori ufficiali», aveva spiegato de Jarjayes che in quell’occasione assumeva il comando al posto di un generale ferito in battaglia, davanti a tutti sotto la tenda di un accampamento al confine con l’Austria dove erano stati mandati a sedare dei disordini: «Mi rendo che è una cosa irrituale, ma vi sarei grato se accettaste una piccola modifica formale. Chiedo che a “officiare questo rito” non sia come d’uso il più alto in grado ma il più basso. Capitano Chateaubriand, comprendo che questa richiesta vi possa mettere a disagio, ma non è per vessarvi che ve lo chiedo, anzi: pretendo che non mi facciate sconti, perché domani quando prenderete ordini da me io non ve ne farò. La gerarchia che ci separa farà sì che su un campo di battaglia, quando io darò ordini e voi ne riceverete, la vostra vita sarà nelle mie mani, più di quanto la mia nelle vostre, ma solo perché a un maggiore onore corrispondono maggiori responsabilità. Quel giorno voi dovrete fidarvi delle mie capacità e io della vostra lealtà. Perché questo avvenga voi tutti dovete avere la certezza che io saprei dare, se necessario, una goccia di sangue in più rispetto a quella che chiederò ai miei uomini. Capitano Chateaubriand, è questo che io vi chiedo di aiutarmi a dimostrare qui, adesso, anche se solo con un rito simbolico, conscio che sarà soltanto da domani che sarò misurato dove conta davvero: fate quello che dovete e fatelo senza timidezza, per il mio onore e per la fiducia reciproca di questo reggimento. È un ordine! Eseguitelo dimostrandomi il vostro coraggio e la vostra lealtà».

    Chateaubriand fece quello che doveva come doveva e il generale, grato di aver dovuto fare un piccolo sforzo per restare impassibile, ebbe la prova della lealtà del capitano e la fiducia dei suoi uomini.

    L’aneddoto era presto corso sulle bocche di tutto l’esercito, ma fu gran cura degli alti papaveri, che quella sera stavano parlando a vanvera davanti a un bicchiere di coraggio e di viltà, insabbiarlo presto. Perché non reggevano il confronto e perché non gradivano l’idea che l’esempio facesse proseliti.

    Il resto della notte era proseguito disteso, al “rompete le righe” la formalità si era sciolta, lasciando ciascuno libero di scegliersi i propri commensali per il prosieguo della festa, che, nata sotto sinistri auspici, si era rivelata lunga ma gradevole. Le preoccupazioni condivise e stemperate avevano riavvicinato Oscar e il padre: giunti a casa si salutarono in fondo alle scale che già albeggiava, sperando di recuperare un paio d’ore di sonno.

    Mentre saliva le scale Oscar, senza saper bene per quale percorso della mente, tornò a pensare ad André: le tornò in mente la notte che un mese prima li aveva precipitati nel baratro in cui si trovavano e si sorprese a constatare, che, per quanto non voluto e in quanto tale non giusto, quello che si era trovata a provare quella sera nella propria camera da parte di André non era paragonabile, in fatto di repulsione e disgusto, con quanto sperimentato nella cerimonia degenerata di tanti anni prima.

    Capì in quel momento che dentro di sé sarebbe stata capace col tempo di perdonare, forse, il gesto fuori misura di André e che, invece, non avrebbe mai potuto perdonare Bouillé. Se era vero che di due aggressioni a lei come donna si era trattato, le sentì soggettivamente, distintamente e profondamente diverse.

    Non sapeva ancora come definire quella differenza né se sarebbe mai stata in grado di farlo, ma il fatto stesso che ci fosse e che fosse molto chiara dentro di lei, per qualche ragione a lei ignota la rassicurò e la consegnò a un sonno breve ma finalmente ristoratore.

    Il generale invece non trovò pace: quello scambio di sguardi in carrozza gli aveva lasciato una spina nel cuore che non se ne sarebbe andata presto.

    (1) La pratica riprende nella sostanza, con licenze narrative per adattarlo al contesto, un rito di iniziazione, a lungo in uso nell’Aeronautica militare statunitense, diventato di dominio pubblico a seguito di una denuncia sulla stampa internazionale e di lì bandito, almeno ufficialmente.

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    Capitolo 12
    *** ALIBI (PROPOSTA DI MATRIMONIO) ***


    Era già buio quando un messo dal bavero rialzato portò d’urgenza un dispaccio indirizzato al Generale Jarjayes, l’intestazione del foglio rimandava inequivocabilmente al Comando dei soldati della Guardia metropolitana, chiedeva di raggiungerne con la massima celerità la caserma. In calce una sigla scarabocchiata in cui il Generale non riconosceva la firma generalmente chiara di sua figlia, che comandava quella guarnigione. Pensò che fosse colpa della concitazione e temette che fosse in pericolo. Ringraziando il cielo di essere ancora in uniforme e con gli stivali calzati, si allacciò la spada d’ordinanza al fianco e volò al galoppo dov’era richiesto.

    Ai cancelli la guardia scattò sull’attenti esibendo il saluto militare; un soldato, gentile, gli andò incontro prendendogli il cavallo e annunciandogli con calma e cortesia che il comandante lo attendeva nel suo ufficio, il Generale rinfrancato ma ugualmente trafelato si precipitò all’interno della caserma, dove immediatamente nella penombra si sentì prendere alle spalle e tappare la bocca: una trappola.

    Lo sequestrarono in un bugigattolo, puntandogli un’arma in mezzo alle scapole: lo spinsero contro la parete di legno, in modo che attraverso una feritoia all’altezza degli occhi vedesse con chiarezza l’interno dell’armeria. Vide quattro soldati circondare sua figlia, Oscar François de Jarjayes, il loro comandante, ne vide uno bloccare con la chiave il paletto del chiavistello e infilarsela in una tasca, vide altri due immobilizzarla da dietro, mentre un altro prendendola sotto il mento, le sollevava il volto, quello con la chiave in tasca sogghignava assistendo alla scena.

    «Vuoi comandare Colonnello, provaci adesso se sei capace?».

    «Vuoi batterti? Ma no, quattro contro una non ci sarebbe molto onore e poi sarebbe un vero peccato sfregiare o rovinare a pugni questo bel visino, ci sono altri modi più divertenti di passare la notte con te. Non ci sono tante donne con cui spassarsela tra queste mura. Se non ti piace la parte della dama, se preferisci giocare al soldatino, faremo come piace a te, Colonnello, non hai che da scegliere».

    Il generale Jarjayes vide sua figlia restare impassibile davanti alla minaccia esplicita di una violenza disgustosa che solo a una donna si sarebbe potuta riservare, non fosse stato per quella goccia di sudore che aveva visto colare lungo la tempia, si sarebbe detto che non provasse paura, di sicuro quantomeno sapeva nasconderla. Se ne avesse avuto il tempo il Generale avrebbe provato un istante di ammirazione per quella fermezza, ma era troppo impegnato a dibattersi e a gridare a quei quattro masnadieri che togliessero le mani di dosso a sua figlia.

    Non fece in tempo ad accorgersi che la voce non gli usciva e si svegliò di soprassalto, in preda al terrore, la camicia da notte madida di sudore.

    Da quando sapeva che Oscar François aveva lasciato la guardia reale ed era stata destinata a quel reggimento rude e periferico, schivato da tutti per la sua complessità, un incubo ricorrente, con poche varianti e sempre la stessa sostanza, tornava a visitarlo. Ogni volta che capitava il sogno svaniva lasciandogli il retropensiero amaro , misto a senso di colpa, che quell’orrore, realistico com’era, sarebbe potuto facilmente trasformarsi in realtà in un giorno qualunque.

    Il Generale non sapeva ancora delle difficoltà che sua figlia stava incontrando nell’ottenere la fiducia di quel reggimento ostile alla nobiltà cui non pareva vero di usare il pretesto del suo essere donna per ignorarne gli ordini e schierarsi contro la corona, mentre a Parigi i focolai rivoluzionari si accendevano un po’ ovunque, ma al di fuori del perimetro della Corte di Versailles sentiva di averla persa di vista e aveva visto troppa guerra nella vita per non rendersi conto dei pericoli reali che così in minoranza sua figlia correva.

    Si maledisse per l’azzardo compiuto una trentina abbondante d’anni prima crescendola come un ragazzo e si domandò per l’ennesima volta se esistesse da qualche parte una via non disonorevole, per sfilarla senza umiliarla dal destino in cui l’aveva con tanta ostinazione infilata. La risposta gli sfuggiva.

    Era un tardo pomeriggio di fine aprile, quando una via di fuga, del tutto inattesa, gli si presentò a casa.

    Il generale si trovava a palazzo Jarjayes per adempiere ad alcuni affari amministrativi, quando la governante bussò alla porta per annunciare che in anticamera era giunto il Colonnello Girodelle. Il Colonnello delle guardie reali succeduto a sua figlia al comando gli aveva chiesto un appuntamento «privato», confermato il giorno precedente. Il Generale ne era stupito e curioso, non lo vedeva da quando anni prima lo aveva aspramente rimproverato dopo il duello tra Oscar e il Duca di Germaine, per poi prenderselo nel successivo campo di addestramento deciso a rimediare alle carenze che quel giorno si erano manifestate (1).

    Girodelle aveva accettato senza batter ciglio un addestramento di inusitata durezza per un ufficiale già in carriera, si era preso le umiliazioni del caso sul campo e fuori accettando anche infime mansioni, si era sfinito di fatica, di fango e di sudore e si era almeno riguadagnato la fiducia del suo addestratore, avendogli dimostrato d’aver fatto tesoro della seconda possibilità che gli era stata data. Anche se dentro di sé sapeva che non sarebbe mai stato capace di acquisire l’intelligenza strategica e il coraggio limpido del Generale, al cospetto del quale mai si sarebbe sentito davvero all’altezza.

    L’altro dal canto suo gli aveva riconosciuto l’impegno e il recupero, ma continuava a trovare in quell’ufficiale un che di frivolo che non lo rassicurava completamente. La leziosità, che era riuscito così bene a togliere a sua figlia, facendone un militare lineare nel pensiero e nell’azione, restava attaccata al quel damerino come una pelle. C’era in lui un’idea di nobiltà esteriore che al Generale, che aveva fatto della sobrietà, del rigore e dell’austerità ragione di vita, non finiva di piacere.

    Quando si trattò di bussare alla porta di quello studio, nel quale aveva già trascorso uno dei quarti d’ora peggiori della sua vita, il Colonnello Girodelle si sentì gelare da un brivido di sudore freddo, ma aveva forti motivazioni e bussò, cercando di indossare un sorriso che gli uscì vagamente intimidito e, temeva, non troppo intelligente.

    Il colonnello, conte di Girodelle, si era presentato al generale Jarjayes indossando un elegante abito civile grigio perla con il panciotto damascato in oro e rifinito in blu cobalto, colori intonati ai risvolti della redingote, chiusi alle maniche da preziosi gemelli da polso recanti lo stemma araldico del casato, uno scudo dorato con una croce rossa, sormontato da un grifone, in ossequio all’ultima moda maschile di Versailles, dove quel nuovo tipo di bottone ornamentale era stato battezzato e consacrato: una frivolezza che il Generale con la coda dell’occhio notò e che gli fece intendere che l’occasione dell’incontro doveva essere giudicata importante. Il Generale lo accolse in un sobrio completo da giorno scuro, secondo il suo costume sempre impeccabile ma mai troppo vistoso.

    «Qual buon vento, Conte Girodelle, accomodatevi, a che cosa debbo l’onore della vostra visita?».

    «Ecco, vedete, Generale...», esordì l’altro stentando a cominciare, per poi procedere fin troppo spedito «è guidato da un sentimento molto profondo che vengo a voi e mi accingo a domandarvi il permesso di frequentare vostra figlia e a chiedervi la sua mano».

    Il Generale Jarjayes cadde dalle nuvole: «Conte, sarebbe un onore imparentare il mio casato con il vostro, ma temo che sia troppo tardi: le mie figlie sono ormai tutte maritate». Disse il Generale tenendo gli occhi bassi per gestire quella situazione che si era fatta imbarazzante.

    «Parlo della vostra ultimogenita, Generale, Oscar François, per la quale nutro sentimenti non passeggeri».

    A quel punto il Generale Jarjayes alzò lo sguardo verso il proprio interlocutore: gli occhi grigi per un attimo sgranati, in un’espressione che Girodelle riconobbe identica a quella che aveva visto tante volte sul viso di Oscar.

    Il Generale Jarjayes credette in quell’istante di essersi dato una spiegazione alle precipitose dimissioni di Oscar dal comando della Guardia reale: una relazione clandestina con il suo secondo o anche solo l’esplicito corteggiamento di lui sarebbero stati una ragione più che valida per andarsene prima possibile, accettando la prima alternativa disponibile, senza dare spiegazioni neppure alla regina.

    «Conte Girodelle, se questa è la causa delle dimissioni di mia figlia, che vi confesso mi hanno un poco angustiato in queste settimane, devo convenire che ha avuto ancora una volta ragione lei: la situazione di un fidanzamento, per non dire una relazione non ufficiale, in servizio con un sottoposto, sarebbe a dir poco sconveniente. Ma dato che ormai, a dimissioni accordate, non avete più gradi in diretto rapporto gerarchico il problema è probabilmente risolto, se c’è per così dire un discorso avviato tra voi, Colonnello, sbrigatevela da soli, da parte mia nullaosta: Voi siete un uomo rispettabile, appartenete a un nobile casato degno di stima, sarebbe un onore imparentare la mia famiglia con la Vostra, se mia figlia è d’accordo, niente in contrario, anzi, comprendo che sia venuto il momento di lasciare l’uniforme e formare una famiglia».

    «Ecco, vedete, Generale, Oscar non sa che sono qui, non avrei osato corteggiare il mio ex Comandante senza prima parlare con voi...».

    «Capisco, vi ringrazio dell’accortezza, ma avete almeno parlato con lei? Le avete manifestato i vostri sentimenti?».

    «No, Signore».

    «Avete almeno fatto qualcosa per farglielo capire? Non è esattamente una ragazzina».

    «No, Signore, non credo che abbia capito».

    «Conte Girodelle, so bene che voi vi state comportando secondo la consuetudine e ve ne ringrazio, ma, vedete, converrete con me che la situazione non è usuale: sono il padre di una nobildonna nubile, e convengo con voi di una donna molto bella, è vero, ma è una donna che io stesso ho cresciuto con una personalità non comune e per un ruolo senza precedenti: stiamo parlando del vostro ex comandante. Benché le regole sociali me ne diano tutto il diritto io non mi sento nella posizione di prendere un impegno al matrimonio per una figlia come Oscar senza il suo consenso. E qualora, come spero, ci fosse, Conte Girodelle, mi corre l’obbligo di chiedervi, come padre una rassicurazione: vorrei essere certo che l’uomo che la sposerà, la accetterà nella sua singolarità e non proverà prevaricarla per trasformarla nella comune dama che non è, un ruolo per cui non è stata educata: certo non vi farà sfigurare in un salotto parlando di musica o di letteratura o esibendosi al pianoforte, sa fare benissimo tutte queste cose, ma insomma la conoscete e non mi aspetterei che rinnegasse tutto quello che è stata fino adesso... Insomma Girodelle, ve lo chiedo come uomo e come padre, rispettatela per quello che è.. e che ben conoscete».

    Girodelle lasciò cadere quel discorso che sembrava premere al generale, forse perché quell’impegno così sui due piedi non si sentiva di prenderlo, e ne avviò un altro: «Ho sentito, Generale, che Oscar sta avendo difficoltà a tenere nei ranghi il nuovo reggimento, pare che siano un po’ riottosi nei confronti del loro nuovo per così dire particolare comandante».

    «Colonnello, se vi manca del lavoro, dato che vedo che vi avanza il tempo di pensare anche ai problemi disciplinari di reggimenti non vostri e di dare ascolto alle lingue biforcute di quel covo di serpi che è Versailles, fatemelo sapere e non avrò difficoltà a occuparvi le ore: con i problemi che si affacciano, campi d’addestramento per reclute non ne mancano di certo, un abile schermidore come voi ci farà comodo». Tagliò corto il Generale che però intanto si preoccupava di quanto aveva sentito.

    «Generale, se avete bisogno a vostra disposizione, intanto riflettete su quanto vi ho chiesto e valutate se parlarne a vostra figlia».

    «Non è impossibile che la incrociate sulla via del ritorno».

    «Con permesso Generale, vi ringrazio di cuore della vostra attenzione e ospitalità».

    «Non vi propongo un brindisi, Conte, non vorrei vendermi prematuramente la pelle dell’orso. Buona fortuna, spero vivamente di rivedervi presto con buone nuove».

    Girodelle si portò la destra rigida alla falda di un berretto militare immaginario e si congedò.

    Il Generale rimase solo a pensare, un poco frastornato da quella richiesta inattesa che da un lato gli giungeva quanto mai a proposito spianandogli una strada che aveva visto impervia, dall’altro lo spiazzava. Pensò con sollievo che sua figlia non era ancora rientrata e decise di non parlarle quella stessa sera, ma di darsi una notte per cercare le parole giuste, consapevole che non sarebbero state facili. Egli stesso provava un vivo rimpianto al pensiero di incoraggiare quell’ufficiale così ben riuscito a un prematuro congedo. Il pettegolezzo che Girodelle gli aveva riferito, e che come tutte le maldicenze nella sua proverbiale riservatezza lo aveva maldisposto, gli dava però da pensare, perché si rendeva conto che probabilmente quelle difficoltà disciplinari sarebbero state l’oggetto di conversazione dell’appuntamento, insolitamente mattutino, che il generale Bouillé gli aveva chiesto per l’indomani, annunciando che si trattava di «una faccenda delicata», senza esplicitare oltre.

    Il Generale Jarjayes, che non era un ingenuo, mettendo in relazione la maldicenza riferita e l’appuntamento “delicato” aveva intuito che sua figlia si trovava in una strettoia complicata: da una parte c’erano i suoi soldati, tutti popolani, che la prendevano a pretesto per tenere la Corona sotto pressione, dall’altra parte chi avrebbe dovuto tutelare l’onore di lei e del suo ruolo e sostenerla preferiva sacrificare un comandante già di per sé scomodo che rischiare, in un momento politico ogni giorno più teso, di inimicarsi un reggimento a rischio di schierarsi con il fronte rivoluzionario. Capiva che Bouillé avrebbe colto volentieri l’occasione di liberarsi di sua figlia Oscar François, diventata una complicazione ulteriore in un momento già difficile di per sé. E poi, pensò il Generale Jarjayes, - mentre si metteva comodo, deciso a simulare un’emicrania e a non scendere in sala da pranzo per non incontrare neppure per sbaglio la figlia – «pesa quella vecchia storia che Bouillé non ha mai digerito: il fatto che Oscar sia riuscita dove il suo primogenito ha fallito, il fatto che lei abbia condotto senza sbavature fino adesso la vita che il solo figlio maschio di Bouillé non è riuscito a sostenere per evidenti insufficienze fisiche e di carattere».

    Dato il peso del casato il rampollo del militare più alto in grado del Regno se l’era cavata finendo a passar carte in un posto prestigioso, noiosissimo ma di potere: un ufficio di stucchi e ori in cui in un’uniforme sfarzosa passava il tempo a firmare decisioni prese da altri più competenti di lui. Per un padre che aveva fatto della carriera un vanto, ogni firma equivaleva a uno smacco. Disgraziatamente quell’ufficio era il luogo da cui passavano gli ordini per tutto il complesso apparato militare del Regno: il primo generale che avesse bisogno di qualcosa per mandare avanti la baracca, fosse solo una penna d’oca, di lì doveva passare. E il giovane Bouillé proprio nelle cose di nessun valore aveva trovato la maniera di ritagliarsi, nel complicare a dismisura l’iter burocratico di ogni cosa, un enorme potere personale: calava dall’alto come un favore la trattazione di ogni minima pratica, tenendola a lungo nei cassetti e facendola pesare enormemente. Il risultato era un sistema che per quella via cumulava inefficienza e corruzione, perché chi non poteva permettersi di rimanere paralizzato nell’attesa, prima o poi trovava il modo di oliare l’ingranaggio inceppato andando per vie traverse non proprio limpide. Tra quelli che prendevano questo genere di scorciatoie non c’era il generale Jarjayes, che era uomo di una linearità feroce e che mai avrebbe dato a quel viscido lombrico – così lo definiva tra sé – la minima arma di ricatto. Costasse un travaso di bile ogni volta si scontrava con lui un giorno sì e l’altro pure e il risultato era che i due cordialmente si detestavano.

    (Nel frattempo) ***

    «Una donna che non ha mai saputo esprimere e riconoscere i sentimenti e un colonnello che non sa più comandare, insieme dentro la stessa persona. Difficile immaginarsi un fallimento più grande», rimuginava Oscar mentre cavalcava al passo sulla via di casa, con il morale all’altezza delle staffe, la testa incassata nelle spalle, al termine di una delle sue giornate più critiche: messa di fronte senza pietà all’insubordinazione dei suoi che già avevano in ubbia la nobiltà e cui non era parso vero di usare il pretesto di non voler prendere ordini da una donna per trasgredire anche alla più banale delle consegne, umiliata, sentiva di dover mettere in discussione tutto di sé.

    Quando al rientro s’imbatté nel conte Girodelle che, dopo averla attesa a lungo l’aveva semplicemente salutata congedandosi, con un fare misterioso, Oscar, benché stanchissima e con tutt’altro per la mente, non poté trattenersi dal domandare alla governante se conoscesse le ragioni di quella strana visita. La donna, che voleva sinceramente bene alla figlia del Generale e che non vedeva l’ora che lasciasse quella vita faticosa e pericolosa, le annunciò, non stando più nella pelle, che Girodelle aveva parlato al Generale Jarjayes chiedendo la mano di lei e che il Generale sarebbe stato favorevole all’unione. Oscar trasalì, pensò che non ci fosse limite al fondo che credeva di aver già toccato, si sentì sprofondare in un gorgo di frustrazione e di esasperazione.

    Appena salita in camera, davanti allo specchio, mentre con un gesto rabbioso si liberava della giubba e degli stivali, la colse una risata nervosa quant’altre mai: «Dovrei sposare Girodelle, un uomo cui ho dato degli ordini fino a qualche giorno fa. E mio padre è d’accordo». Un cuor di leone, aggiunse tra sé, che mi aspetta per un’ora e poi se la batte senza dirmi niente.

    Le parve che il suo mondo non potesse andare più sottosopra di così.

    Sedette al pianoforte e suonò con rabbia, avendo cura di scegliere la più cupa delle composizioni che aveva in repertorio.

    La deviazione improvvisa che il padre stava provando a imporre alla sua strada segnata la portò a interrogarsi su di sé vista da fuori, dalla società nella quale si trovava, sulla singolarità del proprio destino che la costringeva a tutelare insieme l’onore della donna e l’onore del soldato, dannandola a una solitudine senza via d’uscita.

    Mentre suonava a memoria si ritrovò nel salone con la famiglia riunita, in un pomeriggio di tanti anni prima, avrà avuto dieci anni più o meno e aveva appena finito di suonare, come il padre spesso la invitava a fare durante le feste comandate, accompagnando alla spinetta il canto delle sorelle: si festeggiava quel giorno il fidanzamento di una cugina. Quel suo ruolo diverso da quello delle sorelle sottolineava la sua singolarità e mentre si avventavano sulle paste dopo l’esibizione, la sorella appena maggiore di lei, forse timorosa di andare incontro a un fidanzamento temuto nel giro di pochi anni, forse gelosa del fatto che l’ultimogenita cresciuta da maschio godesse dell’evidente favore del padre, le sibilò acida a un orecchio: «Non illuderti, non sei diversa da noi, vedrai che il padre presto s’arrenderà all’evidenza, la finirà con questa farsa e darà in sposa anche te». Oscar aveva colto quella frase come un oscuro presagio, il presagio del proprio fallimento.

    Pensò che si stava avverando quella sera e che stava avvenendo esattamente come quella piccola cassandra astiosa aveva previsto. Chiuse con un colpo secco il coperchio sulla tastiera.

    Si affacciò al corridoio e simulando calma comunicò a una cameriera di passaggio che non avrebbe cenato e che si sarebbe accontenta del tè e della frutta che già aveva in camera. Poi vestita si gettò sul letto supina a pensare: Padre, mi dispiace, ci ho messo l’anima, ma evidentemente non sono stata all’altezza delle vostre aspettative, se siete arrivato al punto di smontare tutto quello che avete costruito e di ritornare esattamente al punto di partenza: mi state dando un alibi per lasciare e insieme senza parole mi state dicendo che la mia vita non ha avuto senso. Padre, non so se lo capite, ma credo di sì, vi sto parlando del codice d’onore militare nel quale entrambi abbiamo vissuto: vi state arrendendo perché avete smesso di credere in me come ufficiale e mi state chiedendo di disertare.

    Non accetterò il vostro alibi padre, non ne voglio uno. Affronterò questa cosa, come quel codice prevede, costi quel che costi. E se non sarò all’altezza ne trarrò io le conseguenze, fossero anche estreme.

    Risolto il dilemma con sé stessa si diede la notte per trovare le parole da dire al padre, consapevole che non sarebbero state facili. Mentre si accingeva a spegnere il candelabro si imbatté nello specchio in una donna diafana, sfiduciata e dimessa, che le parve l’ombra di tutto quello che era stata, si domandò chi fosse davvero e non seppe rispondere. Gettandole uno sguardo di fuoco nello specchio la sfidò a dimostrarlo.

    (1) L’antefatto cui si allude si trova al capitolo Duelli di questa stessa serie.

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    Capitolo 13
    *** IL DOVERE DI UNA FIGLIA ***


    La concitazione del primo soccorso era scemata, su palazzo Jarjayes era calato un silenzio rispettoso, la stanza spente le lampade a olio era stata lasciata alla luce fioca del doppiere, il dottor Lassonne aveva terminato il suo ingrato lavoro che il generale Jarjayes, ferito da un colpo d’arma da fuoco, aveva scelto di affrontare da solo, per non mostrare a nessuno la propria umana fragilità. Sfinito e sofferente alla fine si era arreso alla spossatezza e al dolore. Senza più voce né fiato, aveva solo ammiccato per mostrare di aver compreso quando il dottore lo aveva rassicurato sul decorso della ferita che sarebbe stato faticoso, certo, ma non tale da causare pericolo di vita né danni permanenti, restava soltanto - benché non fosse poco - da scongiurare un'infezione sempre potenzialmente in agguato.

    Quando il dottore lasciò le stanze al piano terra in cui era stato sistemato provvisoriamente il generale, restando a disposizione, trovò ad attenderlo l'anziana governante che pregava e piangeva sul canapé del corridoio sgranando un rosario e una Oscar François de Jarjayes ancora scossa e reduce da un evidente pianto liberatorio dopo che, giunta a casa con una galoppata a rotta di collo, aveva appreso che il padre era fuori pericolo.

    «Rasserenatevi, è molto provato ma non in gravi condizioni, deve solo riposare e pazientare, è sofferente ma lucido».

    Marie, rinfrancata tirò su col naso e recuperò la propria allenata efficienza: prese dal tavolino il catino di acqua fresca che aveva preparato prevedendo di dover detergere il sudore dal volto del ferito e s'infilò tra i battenti lasciati semiaperti dal medico di fiducia della famiglia. Non era la prima volta che le capitava di assisterlo ferito, sapeva che cosa doveva fare. E voleva essere la prima a farlo, sapendo che per l'antica consuetudine che li legava, pur nell’assoluto rispetto di ruoli e ranghi, la proverbiale riservatezza del generale, che non permetteva a nessuno di vedere il proprio disarmo fisico, in presenza di Marie, benché solo in casi di impossibilità a fare altrimenti, si allentava per lo stretto necessario.

    Oscar accompagnò il dottore nella stanza degli ospiti, per dargli modo di rinfrescarsi e per evitargli di rifare di notte la strada in caso di emergenza, in un momento in cui anche il solo girare in carrozza al buio poteva essere pericoloso.

    «Come sta davvero mio padre, dottore?»

    «Non male, nel senso che la sua vita non è in pericolo e non c’è motivo di temere conseguenze permanenti, ma non bene, nel senso che il momento è duro, il dolore è severo, non è stata una passeggiata».

    «Lo immagino».

    «Chi meglio di voi? Tra un paio d’ore passerò a vedere come sta e poi se vorrete potrete dare il cambio alla governante: proprio perché capite senza bisogno di parole, la vostra presenza gli sarà di conforto. Ha rifiutato il laudano, ne teme lo sperdimento che porta alla mente, non ama perdere il controllo, preferisce soffrire. Come voi, del resto».

    «Capisco. Dov’è mia madre?»

    «L’ho pregata di andare a riposare e di tornare domattina, quando spero andrà meglio: preferisco che ci siate voi questa notte con lui, Madamigella Oscar, la vostra consapevolezza mi fa stare più tranquillo».

    «Rimarrò io, dottore, se dovessi vedere qualcosa di preoccupante vi farò chiamare, andate a riposare, vi ho fatto preparare la camera degli ospiti e mandato un messo ad avvisare vostra moglie, con l’aria che tira non è prudente rientrare in carrozza a quest’ora».

    «Vi ringrazio di cuore, Madamigella Oscar».

    «Se quando vi sarete rinfrescato, siete disponibile a condividere uno spuntino frugale vi attendo tra mezz’ora in sala da pranzo. Vado a cambiarmi anch’io e a chiedere di prepararvi qualcosa».

    «Madamigella Oscar, se non ci foste bisognerebbe inventarvi».

    «Converrete che nell’inventarmi, mio padre ha messo del suo e neanche poco», rise Oscar, cui la situazione seria ma non preoccupante aveva permesso di mettere la conversazione con il dottore sul taglio ironico che, nella stima reciproca, adottavano da tempo quando c’erano momenti da sdrammatizzare.

    Marie cercò di entrare nella stanza senza fare rumore, ma l'uomo, così diverso dal consueto, i capelli corti, ormai parzialmente incanutiti, arruffati, senza la parrucca che sempre impeccabilmente li ricopriva secondo il costume dei nobili della sua generazione, il volto segnato dalla sofferenza, percepì il cigolio della porta e si volse a vedere chi entrava. Vedendo Marie lo sguardo si distese rassicurato - lei era ammessa - ma quando tentò di parlare gli uscì poco più che un soffio.

    «Non vi affaticate, generale. Il dottore ha detto che andrà tutto bene, ma ora dovete riposare».

    La governante si avvicinò al letto e gli passò in volto una pezzuola fresca, di fronte alla quale il generale provò una gratitudine che non ebbe la forza di mostrare. Si abbandonò al gesto di cura che non poteva da solo lenire il dolore ma dava ugualmente una forma di conforto a chi sempre si sentiva in dovere di tenere altissima la barriera del ritegno.

    Almeno in quelle mani, materne di fatto, poteva concedersi di essere semplicemente umano.

    L'anziana donna non ebbe bisogno di domandargli come stesse, si limitò a comunicare con mani rispettose la propria empatia, ottenendo uno sguardo grato e, per quanto possibile, rassicurante.

    «Generale, è proprio destino stare sempre in pena per voi, prima sette anni di guerra ora questa delinquenza che ci viene in casa, ormai sparano anche dentro le carrozze. Che tempi terribili!».

    L'altro rispose con un sospiro rassegnato.

    La governante terminò il lavoro e si sedette a vegliare accanto al letto, sperando che l'uomo si assopisse per soffrire meno.

    E invece lo vide volgersi verso di lei e domandare con un filo di voce: M...a...r...i...e..., O...s...c...a...r... p...e...n...s...i... c...h...e... s...i...a... tt...r...o...p.. p....o... t...a...r...d...i...?

    La governante afferrò al volo il significato di quella faticosa domanda, tirata fuori con l’ultimo soffio di fiato. Il generale alludeva al proprio repentino desiderio di indurre la figlia più giovane, che aveva cresciuto con un’educazione maschile per destinarla alla carriera militare, a cambiare vita e accettare una proposta di matrimonio.

    A dispetto di quanto sarebbe potuto apparire a uno spettatore capitato all'improvviso ad assistere a quella scena, non era stato un momento di scarsa lucidità a indurre il generale a porla proprio alla governante di casa. Lo aveva fatto anzi con dolorosa consapevolezza, un po' perché l'anziana donna era una delle persone che meglio conoscevano che cosa frullasse nell'animo dell'ultimogenita del capofamiglia, un po' perché Marie non aveva mai fatto mistero di non condividere l'azzardata scelta di imporre alla figlia un nome maschile e di farne l'erede "maschio" del casato a dispetto della natura che aveva deciso altrimenti.

    Le ragioni per cui il Generale accettava di essere contraddetto da una governante, cosa che molti interpretavano come una forma di compatimento, un lasciar dire che nascondeva nella condiscendenza scarsa considerazione, erano invece profondamente ancorate a un passato significativo.

    ***

    Quando Marie era entrata quattordicenne a servizio in quella casa, il Generale Jarjayes era un marmocchio di appena due anni e mezzo, da poco rientrato dopo essere stato affidato a una balia: la madre era morta dandolo alla luce, il padre era un militare distante, fisicamente e spiritualmente, spesso in missione ed era, a casa, severissimo e autoritario, intollerante ai giochi di un bambino piccolo che avrebbe voluto già a quell’età irreggimentato in una disciplina militaresca. Vedendolo crescere Marie si era affezionata a quel bimbo solitario, con due sorelle troppo più grandi, affidate al convitto in cui venivano per tradizione educate le ragazze di buona famiglia e date presto in spose lontano. Lo vedeva crescere senza affetti e senza tenerezza. Al padrone non dispiaceva che la nuova arrivata si occupasse di lui, evitandogli di intralciare il lavoro della servitù altrimenti impegnata, a patto che non eccedesse in moine, anzi l’aveva più volte esortata a reprimere tempestivamente, se del caso anche a schiaffi, ogni più piccola intemperanza, in attesa che precettori e accademia facessero il resto per raddrizzare quello che la tradizione pedagogica del tempo concepiva come un legno storto. Marie non fece mai uso di quella licenza, anche perché sapeva da quanto appreso aiutando con i fratelli più piccoli che il più delle volte i capricci si sopivano meglio ignorandoli e, nel caso, spiegando di aver compreso i sentimenti esposti con il pianto senza per questo cedervi. Solo una volta Marie fece partire quello schiaffo tante volte minacciato. Augustin François, Generale Jarjayes in erba, aveva allora otto anni, e fu la volta in cui affondava le radici quella licenza di opinione che il generale, ormai in carriera da un bel pezzo, tuttora accordava a Marie, a molti decenni di distanza dal loro primo incontro.

    Spesso lontano per servizio, il padrone di palazzo Jarjayes non si interessava granché al figlio bambino: affidando la sua educazione ai migliori precettori che sceglieva tra i più severi, e provvedendolo delle sue necessità materiali, riteneva di aver assolto al proprio compito di padre, cui aggiungeva il carico da novanta della potestà punitiva, che esercitava con dovizia al proprio ritorno in occasione di ogni minima intemperanza. Su una cosa era stato chiaro: al bambino che pure prendeva da tempo lezioni di scherma era vietato l’accesso alla sala delle armi in sua assenza e in assenza del maestro d’armi e vietatissimo toccare il fucile che il conte de Jarjayes teneva carico pronto alla bisogna.

    Marie aveva minacciato quello schiaffo già il giorno prima, quando aveva visto il contino varcare la soglia della sala d’armi con ostentata nonchalance. Lei che lo controllava da dietro lo aveva bloccato sulla soglia: «Dove andate, signor contino, vi rammento che vostro padre vi ha proibito con la massima severità di frequentare questo luogo se non siete accompagnato dal maestro d’armi, e si dà il caso che non sia affatto ora di lezione e che il maestro non si trovi neppure a palazzo».

    «Ma io...».

    «Ma voi, se vi ritroverò qui un’altra volta, prenderete lo schiaffo che vostro padre mi ha autorizzato a utilizzare quando disobbedite», rispose la giovane Marie con un tono che non ammetteva repliche. Il bambino, imbronciato, tornò nella sua stanza, ma aveva negli occhi un’aria di sfida che convinse la ragazza cui era affidato a non perderlo di vista per qualche giorno.

    Il giorno dopo deliberatamente per spirito di rivalsa ritentò la sua trasgressione e giunse ad allungare la mano sul proibitissimo fucile. Marie che lo stava seguendo a distanza, lo gelò alle spalle proprio mentre era sul punto di sfiorare il calcio dell’arma. Il ragazzino restò come pietrificato con la mano a mezz’aria poi la abbassò lungo i fianchi, lei ormai certa di aver scongiurato il pericolo lo raggiunse senza concitazione e si fermò alle sue spalle a poca distanza da lui, non appena il giovanissimo Augustin si volse gli giunse uno schiaffo in pieno viso senza che avesse il tempo d’aprir bocca per giustificarsi.

    «Mi sembrava di essere stata chiara, ieri, signor contino, dal momento che non avete ascoltato non mi è rimasta altra scelta», spiegò lei ferma, senza gridare.

    Il bambino le piantò in viso due occhi offesi e sfrontati: «Tu non sai chi sono io, un giorno sarò generale e intanto appena tornerà mio padre gli racconterò tutto e ti farò licenziare».

    «Temo che vi sbagliate di grosso, signor contino, io sono convinta che non vi converrà affatto raccontare l’accaduto a vostro padre, perché non appena saprà che vi siete avvicinato a quell’arma e che avete tenuto in così poco conto la sua proibizione, vi farà assaggiare il suo scudiscio che non sarà più gradevole di questo schiaffo».

    Il ragazzino, all’angolo e offeso a morte, la guardava livido ma non trovò di meglio da replicare che dire: «Mio padre crederà a me, tu sei solo una serva».

    «Avete ragione, signor contino, sono solo una serva, ma sono quella cui vostro padre ha ordinato di tenervi a bada con ogni mezzo. Come vedete di questi mezzi non ho mai abusato, vi ho fatto ricorso la sola volta in cui mi avete costretto voi. Avete ragione, un giorno sarete generale, ma con questo fare trasgressivo e questi modi autoritari non andrete lontano. Lasciatevelo dire da chi obbedisce da tutta la vita: se comanderete contando solo sul titolo e sulla paura passerete la vita a guardarvi le spalle dai vostri. Perché solo chi vi obbedirà per stima su un campo di battaglia rischierà la sua vita per salvare la vostra, chi vi obbedirà soltanto per fame o per paura, se ci saranno in gioco la sua vita e la vostra vi tradirà, ricordatevi di questo quando sarete generale, perché con questi modi non vi conquisterete la stima di nessuno».

    La giovane donna aveva detto tutto questo con calma e il futuro generale era rimasto senza parole come spalle al muro, la sfrontatezza smontata, sostituita da un sentimento di indefinito turbamento: quel discorso lucido e convincente, pronunciato con autorevolezza, al momento gli bruciò dentro più di quanto lo schiaffo bruciasse fuori, ma nel tempo gettò un seme che diede frutti perché gli tornò in mente tante volte man mano che saliva di grado e assumeva ruoli sempre più prestigiosi e rischiosi e dovette ammettere dentro di sé che quelle parole semplici e chiare, ma di grande saggezza, gli avevano indicato la strada da seguire nel ruolo più di tante retoriche lezioni d’Accademia.

    Crescendo il futuro Generale si era affezionato non poco a quella donna – senza mai venir meno alla pretesa del rispetto dei reciproci ruoli - e quando, perso il padre a 18 anni, aveva ereditato il patrimonio e la carica paterna, l’aveva voluta come governante del palazzo. E, poco dopo, quando si trattò di una cosa da donne come la scelta dell’anello per Mademoiselle Marguerite, una giovane nobile di cui si era innamorato e avrebbe presto sposato scegliendo in piena autonomia per amore non avendo più patriarchi cui rendere conto, aveva fatto chiamare Marie perché lo aiutasse a riconoscere il modello più raffinato. Marie che non aveva mai posseduto altro gioiello che il sottilissimo cerchietto della fede nuziale si stupì che chiedesse proprio a lei, ma non lo diede a vedere: nella sua semplicità capiva che era un atto di stima.

    ***

    Per tutto questo, noto a entrambi, Marie non si stupì quando sentì il generale rivolgerle quella domanda inattesa e con sincerità, facendo un po’ di violenza alla propria idea di mondo che avrebbe voluto vedere andare a posto, gli rispose: «Generale, sapete bene quanto poco io abbia condiviso la vostra scelta di crescere Oscar così, quanto io ritenga contro natura vederla vivere in questo modo e quanto desideri vederla finalmente all’altare con l’abito bianco, ma in tutta onestà non vi so dire se, dopo tutto questo tempo e dopo tutta questa educazione marziale, sia davvero possibile tornare indietro. Oscar è una donna adulta da tempo, ma diversa da tutte le altre e non potete stupirvene: siete stato voi a insegnarle a disprezzare tutto quello che alle altre donne insegnavano fin dalla culla a desiderare. Non credo che ci sarà modo di plasmarla daccapo: otterrete ciò che desiderate soltanto se anche lei aderirà al vostro progetto. Diversamente temo che dovrete rassegnarvi a rispettare ciò che avete fatto di lei».

    Il generale chiuse gli occhi come assorto. Era un modo di dire che era la risposta che si attendeva e insieme temeva.

    In quel momento qualcuno bussò alla porta, Marie si alzò per vedere chi si avvicinava.

    Era il dottore, gli cedette il passo per un breve consulto. Li lasciò soli e solo quando ebbero finito rientrò nella stanza, annunciando che sarebbe presto arrivata Oscar a darle il cambio.

    «M..a..ri..e, m..e..tt.i...m..i l..a ...pa..r.r.u.c..c.a...».

    «Non credo che sia necessario, Generale, ma farò come volete, non parlate, non vi affaticate».

    Con una smorfia di dolore l’uomo, cui la sofferenza non aveva ridotto l’ostinazione, si sforzò di alzare la testa il minimo indispensabile per sistemare la parrucca e si abbandonò sul cuscino come reduce da uno sforzo sovrumano. Un istante dopo provò a stirare le labbra in un sorriso malriuscito incrociando gli occhi di sua figlia, che sedendo accanto al letto prese tra le sue la mano destra abbandonata sul lenzuolo, in un gesto inusitatamente affettuoso tra loro.

    «Padre..., non vi chiedo come state perché ho abbastanza esperienza di vita militare per saperlo».

    «N..o..n... do..vre...sti..., n...o..n... è il...ge...ne...re... di... espe...rien...za... che... do...vrebbe... ave...re... una... bel...la... don...na...».

    «Non angustiatevi per questo padre, e non vi affaticate, vi ho già detto come la penso l’altro giorno nel vostro studio. Mi spiace di non essere arrivata al vostro capezzale in tempo per assistervi nel momento più difficile, come avete sempre fatto voi con me».

    «Me...glio...cco...sì, O...scar..., nnon... so...no...for...te... co...me... te... po...trei... non es...se...re... sta...to all’alte...z...za del... tu..o... sgu...a...rdo...».

    «Vi prego, padre, non parlate più, sforzarvi vi farà solo soffrire inutilmente. E poi che dite mai, padre?, il dottor Lassonne mi ha insegnato in tempi non sospetti che non è da questi particolari che si giudica il coraggio di un soldato e neppure quello di un generale. Poi, so anch’io che nei ruoli di comando abbiamo il dovere di dare l’esempio, padre, che noi non ci possiamo abbandonare. Ma qui siete a casa vostra e non c’è più niente che dobbiate dimostrare. Fate come potete, padre. Sapere di poterlo fare non porta necessariamente a lasciarsi andare, a volte aiuta a resistere».

    - Ho preteso da te più di quello che so dare. Ti ho raccontato un sacco di fandonie, Oscar. I generali hanno paura come tutti gli esseri umani e piangono di dolore come tutti gli esseri umani. Al massimo, imparano a dominare quei due impostori e a non farsene dominare, se sono all’altezza. E tu hai dimostrato di esserlo. Ma non avresti dovuto essere messa alla prova così in questo, non dovresti sapere come mi sento in questo momento, nel modo in cui lo sai.

    - Padre, se è questo il problema, non credo che mia madre abbia sofferto di meno mettendo al mondo sei figlie, credetemi.

    - Non ne dubito Oscar ma un conto è soffrire per dare vita altro è patire per imparare a dare e ricevere morte, non doveva essere questo il tuo destino se un mio capriccio assurdo non avesse deviato la tua strada. Ho preteso da te più di quanto avrei chiesto a un figlio, sapendo che il mondo avrebbe messo in discussione me e te ogni giorno, ho preteso da te una perfezione disumana. E ammiro il fatto che tu sia stata all'altezza di quella pretesa Oscar. Ma è stata una pretesa ingiusta.

    - Padre, non potrei mai dirvi a voce questi pensieri ma, se davvero leggo nei vostri come mi pare, mi piacerebbe potervi dire che ancora non ho rinunciato ad amare e dare vita, ma dato che mi avete voluta crescere al di là di questo tempo storico, con una vita che questo tempo non prevedeva, sappiate che non accetterò di farlo con uomo deciso dalle convenzioni sociali: se sarà, sarà con qualcuno che mi ama ricambiato, ci sceglieremo alla pari padre e non saranno gli intrecci dei casati a decidere. Andrò a quel ballo per non mancare di rispetto formale a chi lo ha organizzato, padre, ma sapete meglio di me che lo sta facendo per togliersi un problema non per farmi un favore. Ci andrò a modo mio padre, perché muoio di disagio all’idea di essere la dama messa in palio al torneo dei cavalieri: padre, ditemi che mi capite, vi prego, mettetevi nei miei panni di ufficiale, perché questo sono per merito vostro, e immaginate come vi sentireste voi, generale, in abiti eleganti davanti a uno stuolo di dame venute per scegliervi. Oddio, potrebbe lusingarvi, siete un uomo potrebbe intrigarvi la situazione. Alla fine scegliereste comunque voi. Avreste il coltello dalla parte del manico. Permettetemi, padre, di dirvi che da donna è diverso, sarei un premio o una preda eternamente dal lato opposto del pugnale. Questo, padre, nonostante i vostri sforzi non avete potuto cambiarlo. Vi chiedo anticipatamente scusa se stavolta mi prenderò la libertà di fare a modo mio che la società non mi concede. So che forse vi ferirò ma è la vita, ne sopravvivrete. So che mi comprenderete in fondo anche se non lo ammetterete mai.

    - Figlia mia, mi rendo conto che chiedendoti di offrirti a quel ballo sto rinengando tutto quello che ti ho trasmesso e insegnato, ma sono un vecchio padre che ama sua figlia sopra ogni cosa e ora teme per lei tempi bui che non sa decifrare. Un modo più onorevole di questo di sfilarti a una vita che si complica sempre di più e che io ti ho imposto contro natura non riesco a trovarlo, perdonami Oscar. So che ti sto facendo del male, ma non potrei sopportare che ti accadesse qualcosa di grave solo perché io ho preteso che diventassi quello che non sei: sei un ufficiale ammirevole, Oscar, e questo lo sa anche quel pallone gonfiato di Bouillé - almeno nei pensieri di un dialogo immaginato il generale si concesse di lasciarsi andare a un giudizio inconfessabile e sincero - anche se faticherebbe ad ammetterlo persino sotto tortura, invidioso com'è. Ma per fortuna la mia pretesa non ha potuto fare di te l'uomo che non sei. Spero che tu possa trovare un amore vero Oscar come quello che la fortuna ha dato in sorte a me. Ma, ti prego, ragiona di una via di uscita prima che accada l’irreparabile.

    - Padre ho capito le vostre preoccupazioni, non sono ingenua: so di correre da donna rischi riservati solo a me. Ma, perdonatemi se vi dico una cosa brutale: non mi libereste affatto dal pericolo e dalla violenza che paventate li istituzionalizzereste soltanto, dandomi con tutti i crismi dell'ufficialità e la benedizione di santa romana Chiesa a un uomo che non desidero e non amo. So che vi scandalizzerà quel che vi dico, ma dal punto di vista di una donna un matrimonio combinato altro non è che questo. Capisco che non lo abbiate mai pensato in questi termini e che abbiate sempre agito da padre e da uomo secondo la direzione in cui va il mondo, ma non mi biasimerete certo se la vita da caserma mi ha insegnato la franchezza. La via di fuga che mi offrite – e sono sicura che mi capite – per me oggi equivale a disertare e nel mio codice d’onore non è qualcosa che io possa concepire per paura: solo un caso gravissimo di coscienza potrebbe spingermi a farlo. Capisco quello che provate, padre. Ho paura anch’io, sono un essere umano, ma sono un ufficiale e siete stato voi a insegnarmi che scappare per paura è da vigliacchi. Il fatto che io sia una donna e che voi siate giunto solo ora ad accettarmi come tale non abbassa di un millimetro l’asticella del mio onore di soldato. Se accettassi la vostra via di fuga adesso, non riuscirei più a specchiarmi, padre, e neppure a guardarvi. E voi sapete il perché.

    Verso l’alba il generale – che tra le altre cose, in un sonno disturbato dal dolore fisico reale, aveva sognato di trovarsi sconfitto in duello, trafitto al petto da sua figlia – si era destato dal suo stato semicosciente, agitato e sofferente. Oscar che si era assopita sulla sedia accanto al letto, con la testa piegata in avanti appoggiata all’avambraccio adagiato sulla coperta, sentì la mano del padre, sotto la propria, muoversi accompagnata da un lamento doloroso e si rialzò. I loro sguardi, così simili, pesti, si incrociarono, entrambi avevano la sensazione confusa di essersi avventurati in un lungo dialogo mai esistito di una confidenza sconosciuta, preclusa in quella forma alla realtà delle loro esistenze. Si sentirono molto vicini, di una vicinanza che solo chi conosce lo stesso dolore può condividere senza parole.

    «Come vi sentite padre?».

    «V-u-o-i... l-a v-e-r-i-tà?» rispose il generale inframmezzando un sospiro sofferto tra le due parole pronunciate a fatica.

    «Avete ragione, è una domanda inutilmente stupida: fa un male atroce e lo so benissimo. Volete un po’ d’acqua? Avete le labbra arse».

    Il generale, grato, annuì.

    Il tentativo, vano, di alzare la testa il necessario per bere almeno dal cucchiaio strappò al generale una smorfia e un lamento.

    «Aspettate, facciamo in un altro modo».

    Oscar prese un fazzoletto pulito e lo imbevve d’acqua avvicinandolo alle labbra del padre che la guardò rassicurato con gratitudine, benedicendo in cuor suo il pragmatismo da soldato di lei che non si scomponeva davanti alla sua sofferenza ma agiva con asciuttezza e calma nel modo appropriato.

    «Lo so che è durissima adesso e lo sapete anche voi meglio di me, ma sapete anche che se tutto andrà come deve si va in discesa e ogni giorno andrà meglio, anche se un po’ di purgatorio, e dal basso della montagna, vi toccherà per qualche giorno, del resto non siete senza peccato, no?».

    Il generale provò senza troppo successo a sorridere alla battuta, comunque a suo agio nell’atmosfera sdrammatizzante che si era creata.

    Nel dormiveglia agitato la parrucca era caduta da un lato ma nessuno dei due vi aveva fatto caso.

    «Vado a dire al dottore che siete sveglio, come mi aveva chiesto, e vi lascio alle sue mani, mentre vado a darmi un aspetto presentabile e a guadagnare una doppia razione di caffè. Tenete duro, padre».

    Mentre scendeva verso la sala da pranzo Oscar François de Jarjayes incontrò il dottore che la rassicurò: «Il decorso è nella norma, non sono ore facili perché sta soffrendo e ne serviranno altre, ma se la ferita sarà tenuta pulita a dovere e si terrà a bada il rischio di infezione, vostro padre tornerà come nuovo. Avrà bisogno solo di un po’ di pazienza, che non è la prima delle sue virtù, ma se ne farà una ragione».

    Nella sala da pranzo, Oscar trovò madame Jarjayes con gli occhi velati davanti a un thè che beveva svogliatamente.

    «Buongiorno, madre».

    «Buongiorno, Oscar. Come sta tuo padre?».

    Oscar riferì le parole del dottore rassicurandola e insieme preparandola alla sofferenza che avrebbe incontrato.

    «Andrò da lui, quando anche tu avrai finito di mangiare, è così raro incontrarti».

    «Andrete a Corte in questi giorni?».

    «No, Oscar, Sua maestà mi ha dispensata quando ha saputo della ferita di tuo padre».

    «Anch’io oggi ho preso un giorno di licenza, per stargli vicino. Posso sperare mentre il padre riposa di avere un colloquio riservato con voi?».

    La contessa, donna timida e schiva, non ebbe la prontezza di nascondere il proprio stupore: era una richiesta strana da parte di quella figlia con cui aveva condiviso così poco, che da quando non frequentava più Versailles per ragioni di servizio incrociava pochissimo e che da sempre era stata cresciuta nell’orbita del padre: «Non spaventatevi, madre, è che vorrei confrontarmi con voi, riguardo a una cosa personale».

    «Va bene, Oscar, mi troverai nei miei appartamenti dopo pranzo quando tuo padre certamente riposerà, bussa quando vuoi».

    «Vi ringrazio, madre».

    ***

    Quando alcune ore dopo si trattò di bussare alla porta delle stanze materne, Oscar si rese conto che l’idea di incontrare quella donna elegante e dolce che non avrebbe messo in soggezione nessuno le dava più ansia di quando si era trovata, situazione non rara, a bussare allo studio del Generale pressoché certa di rimediare uno schiaffo o una sfuriata. Per tutta la vita il padre, nel bene e nel male, era stato il suo punto di riferimento, la guida, a volte eccessivamente severa, che l’aveva plasmata a sua immagine e somiglianza e chiamata figlio fino a pochi giorni prima. Aveva smesso al ritorno della cerimonia di conferimento dei nuovi incarichi poche settimane prima. E poi come un fulmine a ciel sereno le aveva suggerito di accettare la proposta di matrimonio del conte Girodelle.

    Benché sapessero entrambi che questo suo vezzo di chiamarla figlio era una finzione cui nessuno dei due credeva, paradossalmente ora nel restituirle la sua identità di donna la metteva a disagio, anche perché le stava chiedendo in cambio la sua vita di soldato che lei non voleva né sapeva dare. Ma tutta la sicurezza, che durante la notte l’aveva fatta sentire salda nell’intenzione di rifiutare pubblicamente il ballo indetto per trovarle un marito, si era un po’ sfaldata al mattino davanti a quell’uomo ferito e sofferente: sentiva che il no deciso che avrebbe voluto opporgli con tutte le sue forze era a corto di argomenti, perché lei per prima non era più così sicura di sé come ufficiale. Le difficoltà che incontrava stavano incrinando le sue certezze portandola a dubitare che il soldato tutto d’un pezzo che aveva fin lì creduto di essere non fosse poi così solido fuori da Versailles e dall’ombrello paterno.

    Le pareva di non avere più un posto nel mondo. In quei panni di figlia, sebbene in abiti maschili, davanti a suo padre non sapeva come stare. Avrebbe voluto quello che aveva sempre avuto da lui: i suoi consigli da generale, un confronto professionale, un incoraggiamento a resistere. Davanti a quel voltafaccia a 180° era disorientata. Per la prima volta sentì il bisogno di una donna con cui confrontarsi – ora che temeva di non essere, in quanto donna, più all’altezza del confronto con il padre e con il modello che rappresentava - per darsi un termine di paragone e rispondere alla domanda che da qualche tempo l’agitava dentro e cioè che donna e che figlia fosse Oscar François de Jarjayes, ma non sapeva da che parte cominciare. Di quel confronto, apparentemente innocuo, aveva paura.

    Dentro la stanza, nell’attesa, anche Madame Marguerite si sentiva a disagio, almeno altrettanto: a lei quella figlia così austera e riservata metteva soggezione e un po’ temeva che dentro di sé l’accusasse di averla abbandonata a un destino non suo, benché sembrasse non dispiacerle la vita che conduceva. Non le aveva mai chiesto un colloquio prima, non avevano mai parlato davvero e si chiedeva che cosa mai potesse attendersi da lei, donna fragile, quella figlia che sembrava così sicura di sé, chiusa nell’uniforme come in un carapace e, comunque, abituata a risolversi da sé le sue difficoltà se ne incontrava.

    Sentì bussare e posò, con un sussulto, il ricamo sul tavolino.

    «Avanti»

    «È permesso, madre?»

    «Vieni, accomodati», la donna accennò alla poltrona di fronte al suo canapé, non che volesse interporre distanze ma non era abituata ad avere quella figlia distante seduta accanto, non voleva metterla a disagio, nella scarsa confidenza tra loro si sentiva in dovere di rispettare la riservatezza severa della sua unicità.

    «Non so da dove cominciare, madre, perdonatemi: come forse saprete il padre sarebbe favorevole a che io lasciassi tutto per accettare la proposta di matrimonio del Conte Girodelle, voi che ne pensate madre?».

    La donna trasalì, mai si sarebbe aspettata che quella figlia venisse a chiederle il suo parere, men che meno una domanda così a bruciapelo, e prese un attimo di tempo, guardandosi attorno smarrita.

    «Perdonatemi, madre, forse vi ho messa a disagio, sono stata troppo diretta. Non sono brava con i convenevoli».

    «Non preoccuparti, Oscar, è che io temo che questa domanda tu possa rivolgerla solo a te stessa e cercare dentro di te la risposta. Vedi, se tu fossi come le tue sorelle anche a questa età ti direi: “Obbedisci, figlia, è il tuo dovere”. Ma tu non sei come loro, Oscar, né come me. Io sono solo una donna che non ha mai preso una decisione in vita sua. Quando tuo padre ha chiesto la mia mano avevo 15 anni, lui 18. Per la società ero quel che si dice “una ragazza da marito”, se un buon partito avesse chiesto la mia mano andare in sposa all’uomo che avessero scelto per me era la normalità. Un bellissimo ufficiale giovane e forte, dall’aria severa, ma galante e innamorato, che aveva addosso gli occhi di tutte le ragazze, era molto più di quanto potessi sperare, avendo visto com’era andata alle ragazze poco più grandi di me che conoscevo. Bastò davvero qualche mazzo di rose e qualche fazzoletto ricamato per conquistarmi, non sapevo niente della vita e mi lasciai prendere per mano dal mio principe azzurro. Ci vuole poco a far batter il cuore di una ragazzina. Tuo padre non aveva più parenti in Francia e questo rese le cose più facili, le sue sorelle spose all’estero non interferirono nella nostra vita. In casa non trovai una suocera ma l’abile efficiente e rispettoso governo di Marie. Tuo padre aveva le sue durezze e le sue ombre, ma non con me. Non ha mai alzato le mani su di me e a dire il vero neppure la voce. Non osavo contraddirlo, ero rispettosa e remissiva, mi avevano insegnato che a uno sposo ci si sottomette. Ma la mia è stata una sottomissione dolce, mi amava e io ricambiavo. Con voi come padre era molto severo, ma anche il suo e il mio erano stati così, dunque non mi stupiva. Ma ogni volta che ti vedo io ripenso a quella notte, Oscar, quando, sfinita, gli dissi: “riproveremo” e lui prese quella decisione temeraria. Un altro mi avrebbe ripudiata o sacrificata con un altro tentativo, ma lui mi amava e ha scelto me, sacrificando te. E io, che ho vissuto tutta la mia vita un passo indietro a lui, non ho avuto la forza di impedirglielo. Se tu non me lo avessi perdonato, Oscar, lo capirei».

    Oscar era a disagio, avrebbe voluto asciugare le lacrime silenziose che vide scendere sul viso di sua madre, ma non osava.

    Si limitò a prenderle le mani come avrebbe fatto un cavaliere.

    «Madre, non piangete, va bene così, a me va bene così. E poi siete sicura che abbia sacrificato me più di quanto non abbia sacrificato le mie sorelle? Voi siete stata fortunata, vi siete innamorata del vostro bel corteggiatore che vi amava, ma se fosse stato uno qualunque, a voi indifferente o sgradito, sarebbe stato un sacrificio inferiore al mio restargli accanto?».

    «Non lo so, Oscar, ti giuro che non lo so, nessuno mi ha insegnato a pensarla in questi termini. Ho accettato il mondo come andava. Però io credo che tu in questo momento ti sia data la risposta che cercavi: sei nella posizione di non dover dire di sì a ogni costo, quello che tuo padre ha fatto di te ti dà un margine di scelta. Se ami l’uomo che ti chiede in sposa ascolta il tuo cuore e vai, se non lo ami ascolta mente e cuore e segui quello che ti suggeriranno. Il coraggio che hai avuto nell’accettare la strada che tuo padre ti ha indicato tanti anni fa ti mette in una posizione diversa da quella di tutte le altre donne: ti consente di non seguire le convenzioni sociali. Nemmeno tuo padre può pretendere che a questa età e dopo questa vita tu diventi all’improvviso il tipo di donna che non ha voluto che fossi: ha allevato un comandante, ed è troppo intelligente per non sapere che è illusorio dopo tutti questi anni sottometterlo come una ragazzina. Vedi, Oscar, quando penso a te io rivedo il giovane e impavido capitano che non ha avuto paura di mettersi in mezzo tra la principessa e la favorita del re per evitare che io ne uscissi stritolata: non ho dimenticato, Oscar».

    Mentre lo diceva accarezzò con l’indice il palmo della mano destra di sua figlia indurito dalla spada, come se volesse leggerlo: «Questo non significa che non ti auguri di trovare chi ti faccia battere il cuore, purché ne valga la pena Oscar, purché sia vero amore. Se non lo è – dato che sei stata addestrata a farlo – almeno tu che puoi combatti per la tua libertà. Tuo padre prima si infurierà, forse, ma poi lo capirà: è lui che ha fatto di te quello che sei e, se un po’ lo conosco, giurerei che è fiero del risultato, anche se non te lo verrà mai a dire».

    Oscar si chiese se sarebbe stata all’altezza di renderlo ancora fiero, non ne era più così sicura. Ma si sentì sollevata al pensiero che proprio quella donna dolce e remissiva che nella vita aveva obbedito soltanto, la stesse in fin dei conti incoraggiando a una scelta autonoma a costo di disobbedire. Dovette ammettere che non se lo sarebbe mai aspettato e le bastò per rinfrancare il proposito di mandare all’aria la farsa di quel ballo che dicevano in suo onore e che con il suo concetto dell’onore non aveva nulla a che vedere.

    «Grazie, madre».

    Madame Marguerite non sapeva niente dell’onore di un soldato, ma si rendeva conto che quella figlia plasmata a immagine e somiglianza del padre non sarebbe mai più potuta diventare una donna come tutte le altre e non le augurò di fingere diventarlo, le augurò invece la forza di andare serenamente incontro ai rischi che la scelta di essere sé stessa avrebbe comportato. Non sapeva niente della vita e delle sue difficoltà al di fuori dei salotti di Corte, ma, a differenza di sua figlia, sapeva riconoscere l’amore: la sera in cui il generale era stato ferito aveva visto André tendere un fazzoletto a Oscar travolta da un pianto liberatorio e lo sguardo che si erano scambiati. Le era bastato per capire, prima del tempo e dell’interessata, che cosa si stesse agitando nell’anima di quella figlia, ormai donna, che sapeva tutto della guerra e niente dell’amore.

    Lasciò che Oscar si chiudesse la porta alle spalle prima di accompagnarla con un pensiero che il suo ruolo di nobildonna, moglie e madre le impediva di esplicitare a voce. Vivi, figlia, ascolta il tuo cuore per una volta e fa’ in modo che il sacrificio di questa tua vita consacrata al senso del dovere non sia stato vano. Avrai la mia benedizione, qualunque cosa accada.

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    Capitolo 14
    *** MESSAGGI IN CODICE ***


    «Colonnello D’Agoult, io stasera devo uscire un po’ in anticipo, tornerò domattina presto, per stasera trovate, per favore, qualcosa da fare al soldato Grandier. Ha finito la sua consegna, è uscito stamattina dall’infermeria ma porta i postumi di due costole rotte e non è in condizioni di fare guardie o ronde e neppure di seguire De Soisson in libera uscita per le bettole di Parigi o a farsi onore in qualche postribolo. Ma non mi piace l’idea che trascorra la serata libera in balia di quelli che lo hanno pestato a sangue una settimana fa e che adesso sono consegnati in camerata. Inventatevi qualcosa. Tenetelo impegnato fino a tardi e poi dategli le chiavi del mio alloggio con la scusa di non farlo rientrare alle baracche oltre l’orario consentito – tanto io stasera dormo a casa -, poi domattina sbattetelo fuori prima che gli altri si sveglino in modo che nessuno trovi altre scuse per tendergli agguati».

    «Agli ordini, Comandante».

    D’Agoult, che era un uomo discreto e abile a nascondere i propri pensieri sotto un’espressione neutra e sempre uguale, non era però nato il giorno prima ed era un acuto osservatore. Il tono, appena più altero del normale, a dispetto di una incessante autoeducazione all’impassibilità, tradiva un certo nervosismo nel comandante, che aveva tutta l’aria di provare tutt’altro che sollievo alla prospettiva di aver terminato in anticipo una faticosa giornata di lavoro, quasi che la serata che l’attendeva nascondesse un dovere da adempiere con il trasporto con cui si ingoia una medicina amara.

    Le cose stavano esattamente in quei termini – Oscar François de Jarjayes avrebbe volentieri barattato il ballo in suo onore con il più ingrato dei compiti e neanche la prospettiva di andare a mandarlo a monte come aveva deciso di fare alleggeriva il suo animo - , ma D’Agoult, che nulla sapeva delle vicende del suo comandante, non poteva immaginarlo. Quello che invece D’Agoult aveva chiaro, a dispetto del fatto che il comandante de Jarjayes facesse di tutto per nasconderlo, era che il pestaggio avvenuto pochi giorni prima nell’armeria le aveva lasciato un certo turbamento. Non che avesse fatto fatica a riportare l’ordine anzi, aveva dimostrato a tutti di saper punire con rigore. Ma lo sguardo di lei, in relazione a quella vicenda, non riusciva a mantenere il grado zero e l’impassibilità consueta, come se vi fosse collegato un aspetto emotivo che non riusciva a dominare completamente. Per quanto faccia il possibile per nasconderlo – pensava D’Agoult - , è preoccupata per Grandier e a tradirla è la scontrosità immeritata con cui lo tratta.

    D’Agoult si dispiaceva di quella ruvidezza, aveva una predilezione per quel soldato dalle maniere raffinate, ma non affettate, e la sera in cui lei dopo averlo soccorso dopo il pestaggio aveva dato ordine di mettere in consegna di rigore l’intera caserma, D’Agoult per la prima volta da quando lavoravano insieme aveva osato eccepire, osservando che il povero Grandier le aveva soltanto prese e che gli pareva eccessivo punire anche lui. Lei gli aveva risposto, severa, che doveva incassare il primo colpo e cedere per farla finire lì, non reagire per rischiare di farsi ammazzare di botte, in uno scontro cinque contro uno. Ma mentre lo diceva aveva uno sguardo diverso dal solito, non freddo anzi quasi febbrile. Lì per lì D’Agoult non aveva capito, l’ordine di quella sera, di dare a Grandier qualcosa da fare in sua assenza per sottrarlo agli altri, gli aveva invece svelato l’arcano: l’aveva punito per proteggerlo, dagli altri che già lo consideravano un corpo estraneo.

    Stava pensando a queste cose quando il soldato Grandier bussò al suo ufficio.

    «Mi avete fatto chiamare, colonnello D’Agoult?».

    «Sì, Grandier, dato che sai tenere la penna in mano e che a quel che ho potuto vedere hai dignitosi studi mi sono chiesto se per caso tu sappia il latino».

    «Sì, signore».

    «Bene, caschi a fagiuolo allora. È arrivato stasera dallo Stato pontificio il programma della visita di non so quale cardinale da Roma, dal momento che si tratta di organizzarne in poco tempo la sicurezza e il transito per Parigi, una questione di ordine pubblico piuttosto delicata di questi tempi, occorre tradurre il documento con la massima urgenza. Posso contare su di te? Pensi di riuscire a stare seduto qualche ora, nonostante le costole rotte?».

    «Sissignore».

    «Bene, ha detto il Comandante che puoi usare la sua scrivania, dato che qui dentro, in questo covo di analfabeti, gli scrittoi scarseggiano: è uscito pochi minuti fa e non rientra. Ha lasciato sul tavolo la chiave del primo cassetto, dove troverai carta, penne e quanto possa servirti per tradurre. Si tratta di un testo piuttosto lungo, ti richiederà un tempo che va oltre il suono del silenzio, il comandante ti autorizza a fermarti nel suo alloggio».

    Se da un lato André, che viveva quella serata sulle spine, aveva benedetto quel compito inatteso che lo teneva lontano dalle camerate con la testa impegnata, dall’altro provava inquietudine all’idea di passare la notte, che lei avrebbe trascorso a quel ballo che tanto lo agitava, nella stanza di lei, cosa che lo avvicinava ulteriormente a colei che per come si stavano mettendo le cose avrebbe dovuto dimenticare. Si ricordò di Tantalo, il vecchio dell’Odissea condannato nell’ade a patire sete e fame eterna, sfiorando una fonte d’acqua e un albero da frutto senza mai poterli raggiungere. Pensò che quel mito, simbolo del desiderio inaccessibile, somigliava alla sua vita. Si chiese se anche lui fosse stato punito per aver osato rubare il nettare agli Dei innamorandosi di una donna che per rango mai avrebbe potuto avere.

    Entrò nella stanza, si chiuse la porta alle spalle e respirò l’aria di quell’appartamento spartano con soffitti altissimi e arredi di legno grezzo che avevano visto tempi migliori, in cui tutto, a cominciare dal profumo dell’acqua di colonia maschile ma non troppo amara che adoperava e dall’ordine militare che vi regnava, parlava della donna che André amava e che quella sera il padre stava provando a dare in sposa a un altro uomo.

    Da un lato benedisse il fatto che lei avesse usato i gradi per impedirgli di assistere a quella serata che lo avrebbe ferito a dispetto dell’impegno preso con il generale Jarjayes di accompagnarla, dall’altro lato gli sembrava una vera tortura non sapere nulla di quello che sarebbe accaduto. Solo, non gli tornavano i conti. Poche ore prima lo aveva congedato dicendogli che sarebbe andata da sola, ora lui aveva scoperto dalle parole di D’Agoult che era uscita solo pochi minuti prima, appena un’ora prima dell’inizio del ballo ignorando il tempo che le sarebbe servito per passare da casa cambiarsi d’abito e agghindarsi da contessa. Si chiese che cosa le frullasse in testa: arrivare in ritardo? Non andarci affatto? Non sapeva che cosa pensare, al netto del pensiero fisso che lo accompagnava da quando sua nonna si era sentita in dovere di rivelargli che il Generale Jarjayes stava caldeggiando l’unione tra l’ultimogenita, nonché comandante dei soldati della guardia, e il colonnello Girodelle: «Chiunque, Oscar, ma non quel damerino leccato! Non potrei sopportare di vederti accanto a nessuno, ma meno di tutti a quella specie di bambola imbellettata che ha come unica preoccupazione quella di non guastarsi le chiome fluenti!».

    Un grumo di rabbia, dispiacere, dolore, delusione si era piazzato sulla bocca dello stomaco di André Grandier e non accennava a muoversi di lì. Avrebbe mandato volentieri all’inferno il cardinale e si sarebbe gettato sulla branda a sfogare nel pianto il suo dolore, ma aveva ricevuto un ordine e D’Agoult sarebbe potuto entrare in qualsiasi momento.

    Perciò provò a recuperare un barlume di presenza a sé stesso e sedette alla scrivania. Prese la chiave, aprì il cassetto e ne estrasse le penne, i fogli, il polverino. Stava per richiudere quando si accorse che sotto i fogli c’era una bustina chiusa con lo stemma di casa Jarjayes impresso sulla ceralacca rossa, sulla busta vergata dalla mano elegante che ben conosceva la sigla Dofdjaag tutto attaccato senza punti, il codice che stava per “Da Oscar François de Jarjayes ad André Grandier”, che usavano, in quell’ordine o viceversa, da bambini per scambiarsi i messaggi che volevano tenere riservati tra loro.

    Solo André Grandier avrebbe potuto decifrare quella sigla inintelligibile a chiunque altro avesse aperto il cassetto. Sicuro di esserne il solo possibile destinatario con il cuore in gola staccò con cautela senza romperlo il sigillo con il tagliacarte il tanto che bastava per aprire il biglietto:

    «André, io sono convinta che non mi sposerò tanto presto! Oscar».

    Il cuore mancò un battito. Dovette respirare a fondo per fermare il tremito delle mani, gli ci volle qualche minuto per pensare seriamente di mettersi a scrivere la traduzione richiesta senza destare sospetti con scempi di macchie di inchiostro da principiante.

    Non sapeva che significato dare a quella frase, nel senso che capiva che qualsiasi cosa fosse accaduta a quel ballo non sarebbe stata senza conseguenze foriere di qualche ragionevole preoccupazione, ma André Grandier in quel momento si accontentò di scendere a patti con il Padreterno affinché si avverasse la promessa contenuta in quella sola riga che gli aveva allargato il cuore anche se la mente continuava a ripetergli di non illudersi.

    Rinfrancato, di buona lena si mise a lavorare, terminò studiando di arrivare più tardi del silenzio e si consegnò a una notte insonne, in quella stanza pervasa di lei, gettandosi vestito sulla branda.

    Solo molto tardi lo vinse un breve sonno agitato in cui sognò cose confuse: le mani di Girodelle sul corpo di lei, quelle di lei sul proprio, tremanti come la sera del pestaggio quando in infermeria gli aveva aperto la giubba per prestargli il primo soccorso.

    Albeggiava quando ebbe la sensazione che un bacio morbido e caldo si posasse sulle sue labbra. Non aprì gli occhi. Se era un sogno, non voleva che finisse.

    Lo svegliò un attimo dopo il suono secco e vicino di una porta che sbatteva.

    La stanza era vuota.

    Attese qualche secondo, verificò che il corridoio fosse libero e sgattaiolò fuori, prima che uno squillo di tromba svegliasse le baracche. Lasciò la traduzione e le chiavi del cassetto sul tavolo dell’anticamera di D’Agoult la cui porta trovò accostata come convenuto e si avviò verso la giornata come se quella notte non fosse esistita. Aveva appena svoltato l’angolo del quadriportico, quando sentì inconfondibile il passo marziale eppure leggero del comandante che teneva i fili del suo cuore imboccare il corridoio che si era appena lasciato alle spalle. Trasalì, chiedendosi che facesse già lì a quell’ora, dopo quella che nei piani del Generale Jarjayes, e del Generale Bouillé che aveva dato il ballo, sarebbe dovuta essere una lunga notte di festa. Si tastò il bigliettino nella tasca interna della giubba, colse il sigillo di ceralacca e gli sorrise, rassegnato a tenersi la curiosità.

    Nota dell'autrice: chi desiderasse sapere che cosa sia accaduto a Oscar attorno a quel ballo imposto, troverà la mia versione dei fatti nel trittico La svolta. https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=4042181&i=1 Le mie storie fin qui sono scritte in modo da risultare reciprocamente coerenti.

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    Capitolo 15
    *** L'ULTIMA CARTA ***


    «Siete uguale a vostro padre».

    Sì, generale Bouillé, -pensò Oscar François de Jarjayes, mordendosi la lingua davanti al suo superiore gerarchico, l’uomo più alto in grado dell’esercito del regno-, meglio come noi onesti fino all’osso, assumendosi fino alle estreme conseguenze la responsabilità di ogni scelta, che doppi come voi, che usate il vostro potere per prendervi libertà indegne di un soldato e se permettete anche di uno che appena aspiri a chiamarsi uomo (1). E come vostro figlio che ricopre un ruolo che non merita e approfitta del proprio potere per intralciare il lavoro altrui.

    Oscar François de Jarjayes tornò in caserma con un macigno sulle spalle e sul cuore: la vicenda di Lassalle e del suo fucile aveva minato d’un colpo tutta la delicata costruzione della conquista della fiducia da parte dei soldati che aveva montato a pezzo a pezzo e con improba fatica in quei mesi. Quando finalmente cominciava a sentirsi di nuovo a suo agio nel ruolo, mentre i soldati, dopo averla messa alla prova senza pietà in tutti i modi leciti e non, cominciavano ad apprezzarne la professionalità superiore a quella degli altri nobili che si erano succeduti al comando della Guardia francese, capiva che il fucile perduto o venduto avrebbe travolto lei e tutto il suo lavoro con la potenza di una frana.

    Già era di tutta evidenza che il generale Bouillé sarebbe stato felice di levarsela di mezzo e, a dispetto delle parole di circostanza, il tono le aveva rivelato chiaramente che non aveva affatto gradito la sortita di lei che si era presentata al ballo organizzato in suo onore in uniforme e meno aveva digerito il fatto che il generale Jarjayes avesse accettato quella presa di posizione della figlia, pubblica e sfrontata, senza una piega. Fossi io il padre di questa presuntuosa saprei come spedirla a far la calza, pensava Bouillé.

    Oscar, dal canto proprio, sapeva bene che il soldato Lassalle era uno sprovveduto, ma non un criminale e lo rivelava non solo il fatto che si era fatto pescare in fallo prima da lei e poi dai superiori, ma soprattutto la circostanza che non aveva avuto neppure la malizia di abradere il numero di matricola dell’arma in modo che non si potesse risalire al titolare cui era assegnata: si sarebbe compreso certo che era un’arma in dotazione all’esercito, ma senza matricola sarebbe stato impossibile identificare il soldato cui era stata affidata. E nemmeno aveva avuto l’astuzia di denunciarne il furto, a fronte del quale si sarebbe al massimo preso una sanzione disciplinare per mancata custodia. Ma restava il fatto che quell’arma era finita in mani nelle quali non doveva finire e Oscar François de Jarjayes si rendeva perfettamente conto che le circostanze politiche rendevano la questione particolarmente delicata, in un momento in cui una sollevazione popolare sarebbe potuta esplodere da un momento all’altro il tema della custodia delle armi e del pericolo di armare il nemico era parecchio sentito e con ottime ragioni. Se in tempi pacifici si sarebbe potuto sperare che fossero meno occhiuti, stavolta sarebbe stato difficile far passare un fucile “smarrito” in cavalleria, tanto più in un reggimento che reclutava popolani. Era palpabile il timore che la Guardia passasse dall’altra parte della barricata e il fatto che Bouillè non avesse mosso un dito per difendere Oscar François de Jarjayes quando i suoi soldati avevano rifiutato gli ordini di una donna era la prova di quanto quella preoccupazione fosse avvertita: Oscar sapeva che Bouillé mal sopportava la sua presenza nelle forze armate, ma sapeva che in altre circostanze avrebbe fatto buon viso a cattivo gioco e difeso il comandante contestato, se non altro per salvare la faccia all’esercito.

    Quella volta invece l’aveva lasciata con il cerino ad arrangiarsi da sola, anzi si era pure messo da sensale a organizzarle il ballo per trovarle marito.

    Oscar si sentiva spalle al muro, sul punto di precipitare in un gorgo: era consapevole di avere argomenti deboli davanti alla mancanza oggettivamente grave del suo soldato.

    Quello che non si sarebbe aspettata era di arrivare in caserma e scoprire che Lassalle era già stato arrestato. Glielo aveva rivelato Alain come una furia, l’aveva schiaffeggiata, presa per il bavero e trascinata sotto la pioggia sulla piazza d’armi senza riguardo alcuno. E lei, attonita senza avere avuto il tempo di organizzare una difesa, si era trovata sotto il diluvio a far fatica ad avere ragione di lui con la spada. Era più alto di lei di un pezzo, cosa che gli dava il vantaggio di un allungo maggiore in affondo, senza che gli difettassero la velocità e l’agilità, e Oscar sapeva di giocarsi tutto in quel duello o almeno la parte di dignità che le imponeva di dimostrare di aver da insegnare a tutti lì dentro, ma capiva che vincere non le sarebbe bastato a togliersi di dosso il sospetto che avesse consegnato lei Lassalle, dato che erano tutti presenti quando lo aveva rimproverato scoprendolo senza l’arma d’ordinanza. Ma decise che quello sarebbe stato il problema successivo e mise anima e corpo in quel duello.

    Alain De Soisson le fece credere di averla sconfitta, disarmandola prima di ammettere di essere stato ferito, mentre i compagni lo incitavano a concludere il lavoro. Fu quella sera che Oscar François de Jarjayes ebbe la prova che De Soisson era un uomo e un soldato rude ma leale e che non l’aveva personalmente con lei: non poté fare a meno di notare che alla vittoria sul campo aveva preferito quella morale, fermandosi a descriverle davanti a tutti la tragica condizione economica in cui versavano i soldati della Guardia, certo di essere ascoltato anche se erano sotto un diluvio e sfiniti, perché avevano dovuto dare entrambi fondo alle loro risorse per confrontarsi a un livello di rara eccellenza.

    «Dimmi ancora una cosa De Soisson» – gli chiese brusca mentre rientravano, con un tono che pretendeva una risposta: «le altre volte che vi siete venduti mezzo equipaggiamento nessuno si è mai accorto di niente?»

    «I più furbi denunciavano il furto o toglievano gli elementi che ne rendessero identificabile il proprietario»

    «D’accordo, ma se ti vendi una divisa è difficile che passi inosservata, è fatta su misura e ne serve subito un’altra».

    «Nei casi disperati abbiamo qualche amico tra i doganieri di Le Havre...»

    «Prego?»

    «Bouillè figlio nelle cui mani passano tutte le forniture dell’esercito non disprezza il tabacco esotico… »

    «E se è buono chiude un occhio sulla provenienza di contrabbando…»

    «Siete perspicace, Comandante. Non è che piace anche a voi?»

    «Mai fumato in vita mia, non dire sciocchezze De Soisson, è che l’uomo è piuttosto chiacchierato, non ci sono molti ufficiali disposti a mettere la mano sul fuoco su di lui, si rischia la fine di Muzio Scevola».

    «Di chi comandante?»

    «Lascia perdere Alain, era per dire che non è il caso di mettercela. Adesso però va’ a farti medicare quella ferita, prima che ti capiti qualcosa di serio e ti tocchi spiegare agli alti ranghi che hai sfidato a duello il tuo comandante. Direi che abbiamo abbastanza grane nonostante le castagne dal fuoco che abbiamo levato alla corona salvando il principe Aldelos dall’attentato per andarcene a cercare altre gratuitamente».

    «Non c’è più nessuno in infermeria, comandante».

    «Le chiavi sono nel mio ufficio quando non ci sono né l’ufficiale medico né d'Agoult, occupati tu Grandier di quella ferita, perché se lo faccio io potrei correre il rischio di cogliere l’occasione di far pagare a questo impunito la sua malacreanza», disse rivolta ad André, mentre Alain si mordeva la lingua per non esplicitare il pensiero malizioso che gli era passato all’idea di togliersi la giubba davanti a lei. Era sì sovente un uomo sopra le righe, ma sapeva quando era il momento di fermarsi e aveva almeno due buone ragioni per trattenersi in quel frangente. La prima era che si rendeva conto di quanto sarebbe stata inopportuna, in quel momento ancora carico di tensione, ogni allusione, anche se in cuor suo doveva ammettere -benché gli costasse una fortuna - che quella donna non lo lasciava del tutto indifferente, eppure mai avrebbe pensato di essere attratto da una donna tanto fredda e complicata, nobile per giunta. La seconda era che quella era la donna dei sogni del suo amico Grandier che aveva letteralmente perso la testa per lei, e tanto bastava ad Alain, incline a più facili conquiste, per considerarla inavvicinabile anche col pensiero, benché facesse di tutto per distogliere André da quell’amore senza speranza, perché era perfettamente convinto che il suo amico stesse sprecando la propria giovinezza appresso a quella guerriera bella e senza amore, che a lui ricordava un’antica leggenda a proposito di una montagna sul versante opposto delle Alpi che gli avevano raccontato da bambino. Finirà anche lei trasformata in granito per averti spezzato il cuore André, ma non merita tanto credimi.

    Anche se la sera in cui i compagni avevano pestato a sangue Grandier accusandolo di portare la coda ai nobili per colpire lei, Alain nello sguardo del suo comandante aveva notato una tristezza così profonda da non poter essere scambiata per freddezza e si chiese che cosa nascondesse davvero quella donna a suo modo straordinaria.

    «Ahia ‘azz, André, vacci piano con quelle manacce, fa male!»

    «Dai, non fare il bambino Alain, non dirmi che con tutti gli anni di marciapiede che hai alle spalle non sai che cosa aspettarti! - Ridacchiò André - Non fare la lagna, è poco più che un graffio!»

    «Come sarebbe a dire marciapiede, mi stai dando della sgualdrina per caso? Ahh! Ti facevo più delicato, mi sa che il comandante sopravvaluta le tue qualità come infermiere. E poi scusa che ne sa lei se ci sai fare o no? Mica c’è passata quella, ferita sotto le tue sgrinfie!»

    André non riuscì a trattenere una risata, benché della confidenza con lei non parlasse volentieri: «Questo lo dici tu, ma è più tosta di te, mai sentita lamentarsi una volta. Alain andiamo non fare quella faccia! Siamo cresciuti insieme da quando lei aveva 5 anni e io 6, ci siamo scapicollati in mille modi e ce le siamo date di santa ragione un sacco di volte da ragazzi e quando non c’era nessuno ad aiutarci, una volta cresciuti abbastanza, ci siamo arrangiati da soli, anche perché non era sempre saggio scatenare le ire di mia nonna o di suo padre, per pagare con gli interessi le nostre sventatezze. Ovviamente ti tieni per te questa indiscrezione, De Soisson, sia lei sia io abbiamo abbastanza problemi con gli altri. Quanto al resto, se un po’ la conosco non penso proprio che lei c’entri qualcosa con la storia di Lassalle, se avesse voluto fargli passare dei guai se lo sarebbe mangiato vivo subito, quando ha scoperto che non aveva il fucile. È come suo padre in questo, se devono fare il contropelo a qualcuno vanno dritti al dunque, ma non lanciano il sasso e ritirano la mano, difetta loro la pazienza, ma non la trasparenza».

    Alain non sapeva che cosa pensare da un lato temeva che fosse come dicevano i suoi compagni: che dei nobili non ci si potesse in nessun modo fidare, dall’altro qualcosa di istintivo lo portava a credere alla lealtà di quella donna, che per quanto gli costasse doveva riconoscere capace. Nella vita aveva incontrato pochi avversari in grado di tenergli testa con la spada, ma quella sera aveva dovuto ammettere di aver trovato un osso più duro di lui. Gli rendeva tanti centimetri ma aveva una tecnica superiore. E Alain sapeva che con quella non si nasceva non c’erano quarti di nobiltà che tenessero: certo aveva avuto la migliore scuola possibile, su cui lui non aveva potuto contare, ma per arrivare a quel livello se l’era certo dovuto sudare un giorno dopo l’altro. E il padre era noto per essere uno dei più severi addestratori di tutto l’esercito, Alain si chiese se avesse usato quella proverbiale severità anche con lei e se fossero anche l’esito di quello la durezza e l’austerità che trasparivano nei modi di lei. La confidenza del riservatissimo Grandier lo aveva spiazzato, ma gli aveva destato anche una legittima curiosità nei confronti di quella donna misteriosa. Si disse che forse con tutta la sua nobiltà non aveva avuto una vita facile nemmeno lei.

    Oscar, intanto, era corsa nei suoi alloggi. Fradicia com’era si era gettata sulle spalle un mantello ed era partita al galoppo verso la casa del Colonnello d’Agoult: aveva bisogno di un puntello, senza lasciare nulla al caso, per organizzare una difesa plausibile a Lassalle ed era decisa a usare la notte per scrivere i rapporti che ancora mancavano e a trasmetterli prima dell’alba.

    Erano quasi le undici quando da una finestra sotto la pioggia torrenziale il Colonnello d’Agoult vide Oscar François de Jarjayes presentarsi al cancello, fece segno al maggiordomo di aprirle, chiese alla cameriera un asciugamano e corse ad accoglierla preoccupato, conscio che qualcosa di molto grave dovesse essere accaduto per vederla arrivare di persona così d’urgenza, a quell’ora, in quello stato.

    «Perdonatemi, Colonnello se arrivo a quest’ora neppure annunciata», si scusò ancora ansante.

    Le tese l’asciugamano, le fece segno di entrare: «Per l’amor del Cielo, Comandante, asciugatevi un po’ o vi prenderete un accidente e intanto ditemi che succede».

    «Hanno arrestato Lassalle, per il fucile, lo hanno prelevato stasera mentre il Generale Bouillé mi restituiva l’arma, sanno che è nostra per via del numero di matricola e mi incaricava di individuare a chi appartenesse. I soldati sono convinti che sia stata io a consegnarlo anzi a “venderlo”, vi risparmio i dettagli dell’accoglienza quando sono arrivata in caserma».

    Dio Santo! Pensò D’Agoult, cercando di mantenere la calma per non aggravare la tensione di lei.

    «Tensione e stanchezza sul vostro viso parlano per voi, Comandante. Adesso però fatemi la cortesia di accettare che vi presti un paio di pantaloni e una camicia perché tutta la sera così non potete rimanere, cambiatevi mentre vi faccio preparare un tè caldo, e poi parliamo con calma. Non sarà un quarto d’ora a cambiare le cose. Ci servirà lucidità, Comandante».

    «Vi ringrazio di cuore Colonnello, siete una gran persona, oltreché un eccellente ufficiale, non avrei potuto chiedere collaboratore migliore».

    Nel mentre il Colonnello andò a rassicurare le figlie che si erano svegliate allarmate, spiegando con calma che si trattava di un problema di lavoro serio ma risolvibile, o almeno, ma non lo disse, così sperava perché si rendeva conto che quella donna, capace e coraggiosa, in quel frangente si stava giocando la sua ultima carta e che non aveva pescato bene dal mazzo.

    «Ditemi tutto, Comandante», la esortò tendendole una tazza di tè e nell'accomodarsi prendendone una per sé. Nel frattempo aveva chiesto al maggiordomo di portare qualche biscotto perché gli era sorto il sospetto che in tutto quel trambusto la donna che aveva di fronte e che vedeva diventare ogni giorno più sottile il tempo di mangiare non lo avesse trovato.

    «Ricordate l’altra mattina quando ho scoperto Lassalle senza fucile? Vi ho chiesto, forse colpevolmente distratta, di trovare una giustificazione per l’addetto alle armi, stupidamente non ho dato a quel dettaglio il peso che ora potrebbe assumere, me ne scuso con voi: ricordate per caso che cosa gli avete detto?

    «Sì, gli ho detto che il soldato non si era accorto del momento esatto nella concitazione, ma che lo aveva perduto durante una colluttazione in un servizio di ronda, non ho specificato quando».

    «Siete un genio, Colonnello e io fortunata. Farò stanotte il rapporto su una colluttazione che effettivamente, nel sedare dei disordini, c’è stata durante una ronda la sera prima di ricevere l’ordine di scortare Aldelos e dirò che in quel caos si è smarrito o stato rubato il fucile di Lassalle. So per certo perché me lo ha detto Bouillè che l’arma è stata trovata durante la missione di scorta ad Aldelos, e ricordo che quando siamo partiti per la ronda lo aveva quindi i tempi sono compatibili, se poi se lo sono rivenduto al mercato nero il giorno dopo noi abbiamo dato la nostra spiegazione. Vi ringrazio, Colonnello, è mezzanotte, non intendo disturbarvi oltre. Anzi perdonatemi per questo fuori programma, vedrò di fare in modo che vi arrotondino un po’ gli straordinari. Ora corro in ufficio devo scrivere il rapporto della missione di Aldelos, sottolineerò il ruolo di Lassalle nello spegnimento dell’incendio, nel caso sostenetemi».

    «Avete la mia parola, Comandante».

    «E poi scriverò il rapporto arretrato».

    «Bene, Comandante, siete sicura che non vi serva aiuto?».

    «No, Colonnello, avete già fatto più del necessario».

    L’uomo le tese l’uniforme fradicia in un sacco: «Al primo passaggio a casa, farò lavare i vestiti e ve li renderò, intanto vi ringrazio molto di questa gentilezza. Per fortuna ha smesso di piovere».

    «Cercate di non sfinirvi, Comandante, o ne andrà della vostra salute».

    «Grazie Colonnello, obbedisco», sorrise rendendogli il saluto militare.

    Un po’ più calma, ma non troppo, Oscar François de Jarjayes tornò ai suoi alloggi in caserma, si cambiò d’abito mettendosi più comoda e sedette alla scrivania a scrivere con la massima attenzione e non senza una certa tensione, i rapporti sulla missione Aldelos e un paio di cose arretrate, benedicendo il tè di D’Agoult che la stava aiutando a rimanere lucida e vigile. Era appena suonata la sveglia alle baracche quando chiamò un messo per inviare i rapporti al Generale Bouillé. Gli affidò anche una richiesta formale da portare alla Gendarmeria in cui chiedeva di essere sentita a proposito dell’accusa che pendeva sul suo soldato Gérard Lassalle.

    La convocazione dalla Gendarmeria le giunse per il pomeriggio, approfittò della tarda mattinata per tornare da Bouillé a perorare la causa di Lassalle benché l’incontro con quell’uomo dalla sera di quella cerimonia lontana le riuscisse sempre fastidioso.

    «Ho avuto i vostri rapporti, Colonnello de Jarjayes, comprendo che vi stia a cuore la sorte del vostro soldato, ma ognuno si assume le responsabilità delle proprie mancanze: se il vostro problema è la fiducia dei vostri soldati vi comprendo, ma converrete che è fino a un certo punto un problema mio, Colonnello».

    «Su questo – se mi permettete – vi sbagliate, Generale: quando siete venuto ad affidare a me e ai miei uomini l’incarico di scortare il principe Aldelos, che non sarebbe spettato a noi essendo di competenza della Guardia reale, vi ha fatto comodo e non poco che il Colonnello de Jarjayes avesse la stima dei suoi uomini a un’altezza sufficiente da poter affidare al suo reggimento un incarico che sarebbe toccato ad altri, contando sul fatto che nessuno sarebbe venuto meno al suo dovere. Permettetemi di farvi osservare che non avete fatto molto per aiutarmi a ottenere questa stima: invece di darmi un sostegno davanti all’insubordinazione di chi rifiutava di prendere ordini da una donna, che pure aveva tutti i titoli per darne, vi siete dato da fare per organizzare un ballo per trovarmi marito. Che sia l’ultima volta Generale che vi immischiate nelle mie faccende personali più di quanto non facciate con quelle di ogni altro sottoposto. Il niente che avete fatto non vi ha però impedito di adoperare a vostro comodo questa stima una volta ottenuta fino al punto da chiedere a me e ai miei soldati, Lassale compreso, di rischiare la vita in una missione assai pericolosa di questi tempi che non spettava a noi. L’abbiamo rischiata, Generale, io più di altri. Due dei miei uomini, di guardia all’albergo, la vita l’hanno lasciata in quella missione. Lassalle ha certo mancato nel non denunciare subito lo smarrimento di quel fucile e vedrete dai rapporti che si era preso una punizione per questo da me, ma ha fatto il suo in quella missione. Visto che avete usato quella stima ora fatemi la cortesia di mettermi in condizioni di non perderla: perché mi conoscete forse poco Generale, ma abbastanza da sapere che non sono il genere di comandante che vende i suoi uomini. Io non vi chiedo che Lassalle non venga punito per la sua incuria, punitelo se dovete, voi e il tribunale, ma non fatelo in modo sproporzionato per colpire me».

    «Che state insinuando, Colonnello?

    «Cose che sapete anche voi, Generale: chi vuole vendere un’arma ne abrade la matricola, non mi pare che sia questo il caso».

    «Se è per questo quegli avanzi di galera dei vostri soldati si sono venduti di tutto, Colonnello, negli anni».

    «E com’è che non si sono mai viste punizioni esemplari fin qui e che solo oggi se ne chiedono? Noi abbiamo chiuso un occhio Generale sul fatto che non toccasse a noi scortare Aldelos, vedete voi di non diventare fiscale proprio adesso con il pesce più piccolo che vi capita».

    «Colonnello, come vi permettete: a casa Bouillé il rigore non è una cosa elastica».

    «Generale, ve lo dico nel chiuso di questa stanza in cui vale la vostra parola contro la mia, si dà il caso che abbiate scelto per questa affermazione l’interlocutrice sbagliata: sappiamo, infatti, tutti e due che al proposito la mano sul fuoco non la potete mettere né su vostro figlio – e su questo mio padre, il Generale Jarjayes, che vi si scontra ogni giorno, potrebbe testimoniare – né su voi stesso e su questo posso testimoniare io, che non ho dimenticato né mai dimenticherò che il più sgradevole abuso di potere che mi sia capitato di subire è venuto da voi. E ringraziate Iddio che io sia una persona più leale di quanto meritereste. Sappiate che è solo per questo che il Generale Jarjayes non ha mai saputo fino in fondo che militare e che uomo siete. Non sarò io a diglielo, non lo ho fatto neppure a domanda precisa. Quello che ci siamo detti non uscirà da questa stanza, ma sappiate che mi dovete un favore».

    Aveva parlato con una freddezza e una calma che aveva stupito lei per prima, gli rivolse il saluto militare e si chiuse la porta alle spalle lasciando per una volta l’arroganza che quell’uomo esibiva volentieri senza parole.

    Alle due del pomeriggio con qualche minuto di anticipo rispetto al convenuto Oscar François de Jarjayes salì le scale bigie della Gendarmeria, non senza avvertire una certa soggezione: sentiva su di sé tutta la portata intimidatoria di quel luogo e della funzione che rivestiva e che tutto concorreva a rendere evidente: soffitti altissimi, un’austerità studiata, pareti grigie. Non che fosse molto diverso dalla caserma che abitualmente frequentava, ma era diversa la posizione che vi ricopriva. Sedette sulla panca davanti alla porta chiusa in cima alle scale con lo stomaco contratto e il battito lievemente accelerato. Si chiese se le sarebbe accaduto anche se fosse stata sicurissima di sé e dei fatti che andava a riferire, il fatto era che così sicura non si sentiva e ne aveva motivo. Non che pensasse di dover mentire, ma sapeva di non avere tutta una limpida verità da rivelare, sapeva di averne solo mezza a fronte del legittimo sospetto che doveva fronteggiare, e temeva di non essere abbastanza brava da non cadere in contraddizione davanti al fuoco di fila di domande, prevenute, che le sarebbe arrivato. Sapeva anche che il suo grado in quella società diseguale l’avrebbe protetta più di quanto aveva fatto con Lassalle il suo, ma egualmente sentiva tutta la tensione del caso.

    «Venite avanti, sedete lì», la invitò, indicandole una sedia male in arnese dal lato opposto della scrivania, il gendarme rigido nella sua divisa e gelido in una posa che non prevedeva convenevoli, seduto su uno scranno, di fronte a una parete spoglia da cui pendeva una semplicissima eppure visibilissima croce, «e riferite le vostre generalità, nome, data di nascita, grado e ruolo».

    «Oscar François de Jarjayes, nata il 25-12-1755, Colonnello, Comandante della Compagnia B della Guardia Francese».

    «Ho letto il vostro rapporto, Colonnello: riferite che il fucile è stato smarrito nel corso di una colluttazione nel sedare dei disordini nel Faubourg di Saint-Germain. Com’è possibile che dei soldati armati non riescano a farsi valere con le armi e invece ne perdano in quel contesto?».

    «Avevano l’ordine di non sparare per nessuna ragione».

    «Un ordine singolare, Colonnello, non trovate?».

    «No, signore: c’erano donne e bambini, ovviamente disarmati, nella folla che si era raccolta».

    «E non sarebbe bastato per disperderli tenerli sotto tiro senza sparare?».

    «Certo, basterebbe sempre, ma nella tensione è sempre possibile che parta un colpo e se accade è il modo sicuro di perdere il controllo della situazione: quando c’è disordine l’incidente è ciò che si attende per accendere gli animi, in quei casi è un attimo utilizzare donne e bambini come scudi umani e incendiare la situazione con il pretesto di soldati che aprono il fuoco contro civili disarmati».

    «Non è che invece temete che i vostri soldati possano non obbedirvi se ordinate di sparare in una situazione simile?».

    «Non mi sono mai posta questo problema, signore, non è mia abitudine ordinare che si impieghino armi e armi da fuoco in particolare in presenza di civili disarmati. Non lo facevo neppure da Comandante della Guardia reale, è una questione d’onore mio personale, signore. Quel manipolo di agitati è stato disperso magari impiegando un po’ più tempo ma senza che nessuno, né tra noi né tra loro, abbia rimediato un graffio e senza che si sia verificato alcun rischio che la situazione degenerasse. Se ci abbiamo rimesso un fucile, mi pare una perdita accettabile».

    «E come spiegate il fatto che il vostro rapporto sia arrivato solo oggi, in ritardo, mentre di solito siete molto puntuale, Colonnello?».

    «È vero, signore, faccio del mio meglio per essere puntuale ma questa volta ho dovuto rimandare per organizzare la scorta al principe Aldelos, compito che mi è stato assegnato il mattino dopo gli eventi di cui abbiamo parlato».

    «Non mi direte che fosse cosa nuova per voi, siete stata per vent’anni Comandante delle guardie reali».

    «Per me no, signore, niente di nuovo se non il fatto che Parigi e la Francia diventano sempre più pericolose, a maggior ragione per la famiglia di un principe straniero: converrete che la situazione presenta complessità di giorno in giorno crescenti, impensabili fino a poco tempo fa. E poi quello che non era nuovo per me lo era per i miei uomini, signore, una missione di quel tipo non è scontata per soldati abituati a guardie, ronde e ordine pubblico, dovreste saperlo dato che la Gendarmeria svolge compiti simili».

    «E, dopo, con tutta la vostra esperienza, avete avuto bisogno di anteporre il rapporto sulla scorta Aldelos a quello su una banale colluttazione?».

    «La scorta della famiglia Aldelos ha avuto complicazioni non comuni: c’è stato un grave attentato, sventato all’ultimo da me personalmente e da un piccolo gruppo di miei uomini proprio quando era sul punto di compiersi, se abbiamo potuto farlo è perché altri hanno rischiato le loro vite, tra questi il soldato che è ora sotto la vostra custodia, per spegnere un incendio appiccato all’albergo in cui alloggiava il principe. Non c’è stato né il tempo né il modo di appuntarsi date e passaggi giorno per giorno, l’ultima sera tre di noi sono scampati per poco a un’esplosione, è stata solo la nostra prontezza a evitare guai peggiori. Ho scritto per primo questo rapporto, a memoria fresca, perché molto più complesso e significativo dell’altro».

    Voglio sperare che abbiate punito il vostro soldato per il fucile perduto: lo avete fatto, Colonnello?

    «Sul tavolo del Colonnello d’Agoult c’è una consegna a pulire le baracche per due settimane e nessuna libera uscita per altre due, signore, è datata al giorno dell’inizio della missione Aldelos, ma sì dà il caso che Gérard Lassalle non abbia fatto in tempo a scontare la sua sanzione, signore. Siete arrivati prima voi».

    «Potete andare».

    «Grazie, signore».

    Oscar François da Jarjayes uscì da quell’interrogatorio teso ma non scorretto con il sudore che colava nel colletto rigido dell’uniforme. Sperò che il suo piccolo sacrificio non fosse stato vano.

    Poche ore dopo giunse alla Gendarmeria la relazione del Generale Bouillé che riferiva dell’onore di cui si erano coperti i soldati della Guardia, compreso Gérard Lassalle, nella missione Aldelos e dell’encomio al loro Comandante, non conteneva alcun cenno a incongruenze nel rapporto del Colonnello de Jarjayes che riferiva a proposito dell’arma perduta.

    Era ormai sera Oscar François de Jarjayes si era chiusa nel suo ufficio, esausta, quando sentì bussare e al suo “avanti” vide palesarsi Alain De Soisson: lo accolse con una freddezza che non ebbe bisogno di studiare.

    «Comandante, vi devo delle scuse, Lassalle è tornato, e so che è merito vostro».

    «Scuse accettate, soldato de Soisson», rispose lei mantenendo con il voi il rapporto gerarchico e la distanza, «ma come immaginerete questo non vi toglierà una proporzionata sanzione disciplinare. Anche se vi siete comportato lealmente, cosa che vi fa onore come soldato e come uomo, ammettendo di essere stato ferito, prima di avermi disarmata, converrete con me che se un comandante ha il dovere di dimostrare sul campo di essere all’altezza del ruolo che ricopre – e mi riconoscerete che dal primo giorno non mi sono tirata indietro alla prospettiva di misurarmi anche nel contesto non convenzionale di un duello sulla piazza d’armi con qualsivoglia di voi -, un comandante che abbia il rispetto di sé e che lo pretenda dai propri soldati non può accettare di essere preso impunemente a schiaffi o per il bavero neppure nel chiuso di una stanza. Ad aggravare la vostra posizione c’è il fatto che avete compiuto simili atti in presenza di un vostro commilitone.

    Perciò, - osservò con un sorriso beffardo che ricalcava quello di lui quando l’aveva provocata dicendo «adesso possiamo vendere di tutto, tanto se ci prendono intervenite voi», - farete la grazia di obbedire senza fiatare quando vi giungerà la consegna di pulire pitali per tre settimane».

    De Soisson, che era trasandato e insolente quanto leale e intelligente, capì perfettamente che il suo comandante aveva ragione e scattò serissimo sull’attenti. E per quanto lo disgustasse il compito la stimò una volta di più per la serietà che ancora una volta gli dimostrava non lasciando correre quella oggettiva mancanza di rispetto.

    Dieci minuti dopo Oscar François de Jarjayes sentì bussare un’altra volta. Sfinita, rispose un «Avanti» riluttante.

    «Ah siete voi, Colonnello D’Agoult, accomodatevi. Posso offrirvi un tè? Purtroppo non ho di meglio in ufficio. Tutto è bene quel che finisce bene», osservò con l’aria di chi ne aveva abbastanza della giornata.

    «Meglio di no, Comandante, abbiamo già perso tutti abbastanza sonno. Volete spiegarmi che novità è mai questa?». Le domandò, quasi severo, rendendole un ordine di servizio che gli aveva girato. «Come vi viene in mente di chiedere che vi venga servito lo stesso rancio dei soldati? Già siete magra che vi si vede attraverso in trasparenza. Non avete idea di che sbobba sia».

    «È proprio questo il punto, Colonnello: per quanto Bouillé mi sopporti a stento, dovendo nutrire i suoi ufficiali a sufficienza, sarà costretto a servire qualcosa di meglio anche ai soldati: il primo passo per pararsi dal rischio che si vendano l’intero equipaggiamento per fame».

    D’Agoult sorrise scuotendo la testa con l’aria di chi pensava di essere di fronte a un caso incorreggibile: «Agli ordini, Comandante, vi auguro che non sia un sacrificio vano».

    Si portò la destra tesa al berretto e si congedò sperando di lasciarla a un sonno ristoratore ché di sicuro ne aveva bisogno.

    (1) Il riferimento come altri nel dialogo tra i due è al precedente del racconto di questa serie intitolato Gerarchie

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    Capitolo 16
    *** NEL TUMULTO ***


    «Il mio André è in pericolo». Quella frase che le era uscita dal profondo proprio mentre temeva di perderlo aveva stupito Oscar per prima, si rese conto di aver avuto bisogno di un evento estremo per far implodere come un involucro d’argilla già incrinato tutte le sovrastrutture che le avevano impedito fin lì di prendere coscienza dell’importanza di André nella sua vita, o forse soltanto di ammetterla con sé stessa per timore che mai avrebbe potuto ammetterla davanti agli altri, prigioniera com’era dell’ordine sociale che le aveva fin lì prima impedito di concepire un’unione tra loro: era cresciuta in quell’ordine, immersa dentro di esso come se fosse stato l’unico possibile. Non che non fosse consapevole dell’esistenza di un solido legame, anni prima aveva offerto la sua vita al posto di quella di André, accusato di una colpa non commessa. Semplicemente aveva condiviso tutto con lui, evitando accuratamente di interrogarsi sulla natura di quel legame, forse per timore inconscio di dargli un nome definitivo. La retorica del soldato senza macchia e senza cedimenti aveva fatto il resto: le avevano insegnato da sempre a reprimere e a nascondere i sentimenti, di qualunque genere, dal timore alla fragilità, dalla tenerezza al dolore, persino l’allegria infantile l’avevano addestrata a non mostrare, come fossero già nell’infanzia tutti segni di debolezza, minacciosi per il soldato tutto d’un pezzo che sarebbe dovuta diventare e come tali da rinchiudere a doppia mandata in uno scrigno d’austerità.

    Quella notte nel tumulto, sentendo approssimarsi una fine violenta per sé, per lui o per entrambi, tutta quell’armatura inscalfibile all’apparenza e in fondo fragile era caduta lasciando esposto e nudo il suo solo nocciolo di verità, prezioso e duro come il diamante e come il diamante trasparente. Quel sentimento, che aveva represso, sotto lo strato della coscienza, per paura di farsi male ma anche di far male, di illudere, di promettere qualcosa che le sarebbe stato impedito di dare, se n’era uscito, a tradimento: Oscar aveva rivelato a sé stessa, davanti alla prospettiva della morte imminente in cui tutti i filtri erano caduti, ad alta voce che non poteva vivere senza André e paradosso aveva voluto che lo facesse in faccia all’uomo di cui era stata perdutamente quanto inutilmente innamorata e che le stava salvando, per un caso fortuito e neanche il primo, la vita: se le fosse servita una prova di chi contasse davvero per lei, ora l’aveva, di una chiarezza inconfutabile.

    Stordita dal dolore fisico, per l’infinità di ammaccature che aveva addosso, e frastornata dalle proprie stesse parole, pensava a queste cose nella carrozza che Fersen aveva fatto venire e che stava riportando a casa lei e André: lei rannicchiata in un angolo, per lasciare più posto possibile a lui che giaceva, per quanto consentisse l’abitacolo, semicosciente per il dolore e le ferite, con la testa adagiata sul suo grembo. Pregò che il dottore che nella confusione aveva sentito mandare a chiamare si trovasse già a palazzo Jarjayes al loro arrivo, pregò che la sofferenza che sentiva palpitare nel corpo dell’uomo non nascondesse ferite irrimediabili. Lacrime silenziose la tradirono al solo pensiero. Il viaggio le parve lunghissimo. Solo la necessità di tamponare con l’altra la mano sinistra che sanguinava copiosamente le impedì di assecondare l’istinto di trascorrerlo accarezzandogli i capelli.

    Quando la carrozza giunse a palazzo tutto era pronto ad accoglierli. Mentre André veniva trasportato con cautela da Fersen, dallo stalliere e dal Generale Jarjayes, il dottor Lassonne diede un’occhiata veloce a Oscar che era entrata in casa con l’aiuto di Marie e di una cameriera sulle sue gambe, malferme ma in grado di sostenerla.

    «Sembra che non ci sia niente di rotto, Madamigella Oscar, restate qui distesa, non vi muovete perché quell’ematoma che avete in testa va tenuto sotto osservazione. Marie, medicatele le escoriazioni che sono tante e tamponate con forza l’esterno della mano sinistra che sta sanguinando, ci vorranno un paio di punti. Vado a vedere come sta André che sembra messo peggio e poi provvediamo».

    Marie annuì, ricacciando indietro le lacrime, al vedere i suoi “bambini” ridotti in quel modo.

    Aveva spogliato Oscar con cautela e stava provvedendo a ripulire il suo corpo pieno di polvere, lividi e sbucciature quando vide una smorfia sul viso della giovane donna: «Fa molto male, bambina?».

    «Povero, André», mormorò lei dando l’impressione di non aver udito la domanda, tutta presa com’era dalle urla di dolore che giungevano dalla stanza accanto.

    Marie, che stava cercando di concentrarsi su quello che faceva e che a propria volta soffriva per il nipote, si rese conto che il sentimento che aveva temuto, sospettato, per quanto possibile preventivamente contrastato, consapevole che non sarebbe stato accettabile in quell’ordine sociale che le avevano insegnato a rispettare e di conseguenza nel suo ordine morale, era ormai una certezza inoppugnabile: anche la sua bambina, che indubbiamente stava soffrendo nelle sue mani, amava il giovane che si dibatteva nella stanza accanto al punto da ignorare il proprio dolore per farsi carico di quello di lui.

    L’anziana donna che avrebbe dato la vita per quei due ragazzi, per un attimo prima che la ragione riprendesse il sopravvento, sentì l’anima allargarsi al pensiero che il cuore in inverno che pulsava sotto le sue mani non fosse condannato all’ibernazione eterna come sembrava: le era sempre parso uno spreco enorme il destino forzato di quella donna bellissima e molto più sensibile dell’apparenza prigioniera di un’uniforme ad altri destinata. Ma subito dopo ne provò una stretta al cuore per la sofferenza cui quell’amore proibito sarebbe andato incontro travolgendo entrambi. Sapeva che il mondo in cui vivevano non era pronto ad accoglierlo. Lei stessa non era pronta ad accettarlo: anche a lei da sempre avevano insegnato che ognuno doveva stare al proprio posto perché la società marciasse ordinata e infatti non si sentiva più a casa in quel disordine in cui si poteva tornare conciati come i suoi due ragazzi quella sera senza avere fatto nulla di male e in cui vedeva sovvertire il sistema che se non l’aveva avvantaggiata l’aveva rassicurata. Provava pena per suo nipote, di cui da tempo intuiva l’amore impossibile per quella che per lui avrebbe dovuto essere null’altro che la figlia del padrone, era giunta a sperare che fosse a senso unico, perché se così fosse stato prima o poi se ne sarebbe dovuto rassegnare e invece in quel momento ebbe la prova che Oscar lo corrispondeva.

    Aveva vissuto abbastanza da conoscere la potenza di quel sentimento, ne ebbe paura. Non riusciva a vederne che conseguenze catastrofiche: che l’avessero represso o assecondato i suoi “bambini” si sarebbero fatti del male senza via d’uscita. Immaginò suo nipote cacciato di casa ed esiliato per aver insidiato la figlia del padrone ed ebbe un brivido. Era lo scenario più prevedibile. Altro non osò o forse non volle immaginare: era convinta che André da solo, educato a decenni di servitù, per quanto non remissivo come sembrava, si sarebbe potuto dominare. Oscar no. Lei era abituata a decidere e comandare e se per anni era prevalsa l’obbedienza, la sera del ballo aveva segnato una svolta. Marie sospirò gravata dal peso dei suoi pensieri, grata di non aver bisogno di giustificare il sospiro, ché di ragioni per cui preoccuparsi in quel momento ce n’erano a secchi.

    Oscar e Marie erano perse ognuna nei propri pensieri, tutti concentrati nella preoccupazione per André del quale ancora non sapevano nulla di preciso, quando entrò il dottor Lassonne in maniche di camicia rimboccate fin sotto il gomito: «Come sta André, dottore?», chiese Oscar in preda a un’ansia che non seppe né si sforzò di nascondere.

    «Non posso dirvi bene: gli ho appena ridotto una lussazione e avrete sentito le urla. Ha costole rotte, lividi, ferite, ammaccature un po’ ovunque. Ma nel complesso se è andata come mi ha raccontato il conte che vi ha recuperati non se la passa male. Se la vedrà con il dolore per un po’ di giorni, ma si rimetterà completamente. Marie, se lo desiderate potete andare da lui», Oscar sospirò, sollevata.

    «Posso lasciarti sola col dottore, Oscar?».

    «Corri da lui, poi torna a dirmi come lo trovi, salutamelo, digli di tenere duro».

    «E ora occupiamoci di voi, Madamigella, perché nemmeno voi siete un gran bello spettacolo: fate vedere quella mano. Vi devo chiedere un attimo di pazienza, sentirete un po’ di dolore, ma non ci vorrà molto».

    «Vi ho eletto mio torturatore personale, lo sapete».

    Il dottore provò sollievo non tanto perché la sua paziente trovasse la forza di scherzare in quel momento, quanto per il fatto che la prontezza di spirito gli dava la prova della piena lucidità e dell’efficienza dei riflessi, ridimensionando la preoccupazione per il colpo alla testa.

    Oscar chiuse gli occhi e lasciò fare, tirandosi tra i denti un lembo del lenzuolo.

    «Fatto».

    «Vi ringrazio di essere stato così veloce, dottore».

    «Era una piccola cosa. Mi preoccupa di più l’ematoma che avete sulla tempia, ricordate come ve lo siete procurato?».

    «Non saprei, so che ho preso tanti colpi, sono caduta, rimasta schiacciata, difficile distinguere con esattezza».

    «Capisco, vi fa male la testa?».

    «Non tanto, brucia la sbucciatura ho di certo strusciato sul selciato, sento l’ammaccatura superficiale, ma non un dolore profondo».

    «Bene, vedete nitido?».

    «Sì, direi di sì».

    «Anche questo è bene. Avete nausea?».

    «No, al netto del sapore del sangue che proprio gradevole non è».

    «A proposito, i denti sono interi?».

    «Fortunatamente, sì».

    «Senso di mancamento?».

    «Ora no, ma uno devo averlo avuto quando sono stata soccorsa. Mi sono ritrovata seduta per terra in un vicolo lurido ma non ricordo come ci sono arrivata. Posso vedere André?».

    «Ora non se ne parla proprio, Madamigella Oscar, questa botta in testa va presa sul serio, è fuori questione che vi possiate muovere da questo letto prima che si possa escludere che ci siano danni che non si vedono all’esterno. Comunque a quel che vedo poteva andare peggio anche a voi.

    Ora vi lascio riposare, ma per qualunque malessere sentiate che vada oltre il disagio per lividi e ferite superficiali fatemi chiamare con urgenza, è importante».

    «Grazie di tutto dottore, farò come dite»

    Dalla porta socchiusa entrò Marie di ritorno come aveva promesso: «André è tutto ammaccato, un po’ scosso ma tutto sommato intero. Vi è andata bene, bambina. La mano fa male?».

    «Poco, è bastato un punto. Mi dispiace, Marie, che sia accaduto tutto questo, è stato un mio errore, ho calcolato male il rischio e non mi perdono di aver rischiato di non portarti André a casa».

    Marie che era vicino al letto asciugò con il pollice la lacrima che aveva visto spuntare: «Non angustiarti, bambina mia, hai rischiato anche tu. Ringrazia il Signore che tutto sia andato bene. Non si può sempre controllare tutto».

    Ma la breccia nell’argine ormai c’era, bastò il tocco di una carezza per far erompere un pianto dirotto che diede sfogo a tutta la tensione accumulata. Marie, che la conosceva da quando era nata, capiva che non avrebbe potuto permettersi di lasciarsi andare con nessun altro e si limitò a tenere il contatto senza dir niente e a lasciarla sfogare finché non la vide calmarsi. A quel punto le porse un catino d’acqua fresca: «Adesso però sciacquati il viso, prima che arrivi tuo padre e ti veda in questo stato».

    «Grazie, Nanny, sei un angelo caduto dal cielo».

    «Fidati, solo una vecchietta che è stata al mondo più di te. Cerca di riposare, tesoro».

    Non passarono che pochi minuti e Oscar sentì bussare.

    «Avanti».

    «Buonasera Oscar, come stai?»

    «Buonasera, padre, come una che ha preso uno squasso di legnate, ma sembra che non abbiano fatto troppi danni. Sto male, ma per altre ragioni: non riesco a perdonarmi il fatto che per un mio errore strategico, abbiamo rischiato entrambi di finire malissimo, anche André che non è neppure nobile».

    «Ti hanno mai detto che l’esperienza serve a non ripetere errori vecchi per farne di nuovi? Tutti commettiamo errori, cerchiamo di trarne insegnamento ma è inutile restarne prigionieri se non hanno avuto conseguenze irreparabili».

    «Da quando siete così indulgente con i miei errori, padre?».

    «Da quando i tuoi pari grado mi fanno notare che ho formato una insopportabile perfezionista – non oso immaginare che ne dicano i tuoi sottoposti - e soprattutto da quando un mio pari grado mi ricorda a ripetizione che ho educato, cito alla lettera, absit iniuria verbis, una implacabile romipicoglioni… Eufemismi da caserma... porta pazienza. È tutta invidia, Oscar» - rise il Generale-, fiero di sua figlia e sollevato di averla lì, dolorante ma intera, e di poterla finalmente trattare alla pari.

    «Non fatemi ridere, padre, mi fa male tutto. Comunque, se è lo stesso vostro pari grado che poi la chiama quando serve qualcuno cui dar l’ordine di rischiare la pelle in missioni destinate ad altri, c’è quasi da andare fieri di un così raffinato e sobrio giudizio».

    «Io lo sono. Hai fatto un eccellente lavoro nello sventato attentato al principe. A Corte da giorni non si parla d’altro. E sono fiero che tu sia riuscita a portare l’intera compagnia a fidarsi di te. Non avevo dubbi sulle tue capacità, ma il contesto di quella caserma è particolarmente difficile».

    «È stata una prova oggettivamente molto dura conquistare la loro stima, ma era un punto d’onore riuscirci e a questo punto credo di averne il controllo: alla fine le cose che mi avete insegnato hanno funzionato bene anche lì. Sono anche stata fortunata a trovarci un vice come il Colonnello D’Agoult persona davvero molto leale e affidabile oltreché sommamente efficiente, in un contesto in cui la situazione è molto più complessa che nella Guardia reale».

    «L’ho avuto come allievo da giovane, più di una volta ho cercato di prendermelo in qualche posto più prestigioso, ma Bouillé si ostina a lasciarlo lì perché gli è servito a parar le spalle, per non dire altro, a tanti incapaci e lui del resto, non capisco perché, non ha mai fatto nulla per andarsene di lì».

    «Ragioni personali, se ho ben capito, ma Dio me lo conservi».

    «Di qui in avanti, mi raccomando, Oscar, sii molto prudente, la situazione è molto tesa e tutto potrebbe precipitare. Ma ora basta parlare e soprattutto parlare di lavoro, devi riposare».

    «Va bene padre, farò del mio meglio ma non sarà facile dormire così ammaccata».

    «No, presumo di no, purtroppo».

    «Come avete trovato André, padre?». Domandò, fingendo noncuranza mentre per la prima volta in vita sua provava il timore di arrossire o di tradirsi in qualche modo.

    «Lo abbiamo portato dentro molto sofferente, prima di venire qui sono passato da lui e mi è parso un poco rinfrancato, dopo l’intervento del dottore, anche se provato. Certo con tutte le botte che ha preso avrà addosso mille dolori. Ma a dispetto dell’apparenza così a modo è un uomo tosto, tornerà più forte di prima».

    «Lo spero padre».

    La lampada olio che si spegneva la consegnò al buio ma non al sonno.

    Sarei all’altezza, André, della donna che desideri? Fa ridere lo so, ho passato la vita a temere di non essere abbastanza uomo, di non essere credibile nei panni del figlio che hanno voluto fare di me. E adesso, che ho provato di valere l’ufficiale che volevo essere, non per mio padre né per nessun altro, ma per essere certa di non aver vissuto una vita non mia, per dimostrare a me stessa di saper davvero rivestire il ruolo che da un certo punto in poi ho anche scelto, la mia natura prepotente si impone e mi ricorda che sono anche altro e io, ora, ho paura di non esserlo abbastanza: ho paura di non essere abbastanza donna. Di non trovare la sintesi tra le mie contraddizioni. Non ridere, André.

    E chissà che non sia un caso che tutto questo accada quando all’improvviso tutta la tensione che è servita a irrigidire la corazza del soldato s’è allentata. Avevi ragione tu, André: stavo sbagliando tutto, pensando che i miei problemi si sarebbero risolti, semplicemente rinnegando la mia natura per timore di farci i conti. Avevi ragione tu: stavo scappando, da vigliacca, per paura di un sentimento che non sapevo gestire né affrontare. Anche adesso ho paura, André: là fuori, ora che i tuoi commilitoni mi accettano come comandante senza più preoccuparsi che io sia donna perché ho dimostrato loro che possono fidarsi, sono sicura di me, nei miei panni di ufficiale. Sono sicura come non lo sono mai stata. Adesso che non c’è più l’ombra lunga di mio padre a coprirmi e sento finalmente di meritare i gradi del Colonnello Oscar François de Jarjayes e di poter camminare da sola, a testa alta in questa uniforme, fiera di farlo. Ma ho fatto solo metà della strada.

    Dentro di me, c’è ancora quella donna spaventata da un sentimento di cui non conosce segreti e strategie: non è un problema di imbarazzo, anche se ne provo perché sono troppo grande per questa inesperienza da ragazzina. Immagino che il corpo finirà, casomai accadesse, per assecondare il suo istinto animale: in un modo o nell’altro farà quello che la natura ha scritto. Ho paura, invece, di sbagliare tutto il resto, di non saper prevedere le ricadute dei miei gesti, dei miei pensieri, delle mie parole. Paura di far male perché maldestra. Le volte in cui ho provato ad assecondare i miei sentimenti ho sbagliato tutto: mi sono umiliata, mascherata, per conquistare un uomo che neanche mi vedeva. Piena di rabbia verso me stessa ho maltrattato te ferendo i tuoi sentimenti senza riconoscerli, portandoti a compiere atti nei quali non ti ho riconosciuto e nei quali neppure tu, ne sono certa, ti riconosci. Abbiamo sbagliato tutti e due quella sera, in due modi diversi. Avere ciascuno una parte di responsabilità non assolve né giustifica nessuno dei due, ma adesso so che sono pronta a perdonarti. Ma tu, André, potrai ancora perdonare la donna egoista che ha camminato per decenni un passo avanti a te, senza capire niente del segreto del tuo cuore? Che ti lasciava ad aspettarla senza neanche nasconderti la sua infatuazione per un altro, dando per scontato che saresti stato comunque lì, un passo indietro, senza tenere conto di te? Come ho potuto farti questo?

    Io ti amo André, stasera in quel vicolo lercio sul punto di perderti, ho avuto chiara una cosa sola: ho bisogno di te perché ti amo. Non il contrario. Ma tu puoi ancora amare chi ti ha trattato così? Quelle lacrime nell’armeria dicono che saresti disposto a cominciare insieme su una nuova strada, anche se sarà impervia o dicono solo del rimpianto per quello che sarebbe potuto essere e non è stato? Quando troverò il coraggio di sondare questa possibilità mi respingerai come forse meriterei, ricordandomi che è troppo tardi? E come farò, io che non conosco il linguaggio dell’amore, a sondare quel terreno ignoto? Con quali parole, con quali gesti, con quale coraggio?

    In qualche modo percepì che sarebbe servito più coraggio ad affrontare l’amore di un uomo solo e con esso tutti i propri i fantasmi che per conquistarsi la stima di un intero reggimento, in guerra da sola contro tutti. Si chiese se, una volta autorizzata ad alzarsi, avrebbe avuto il coraggio di entrare nella stanza di lui e di sostenerne sguardo. Al pensiero, si sentì attraversare da un brivido che non seppe decifrare e che non le parve di solo timore.

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    Capitolo 17
    *** TRADIMENTO ***


    Oscar era riuscita a stento a mormorare un «grazie» rivolta ad André con un filo di voce, frastornata. Dentro di lei si agitava una tempesta che non aveva avuto il tempo di provare a razionalizzare: nel giro di pochi minuti aveva rischiato di morire per mano di suo padre, visto André intervenire, dichiararle il proprio amore davanti al Generale, mentre lo teneva sotto tiro per impedirgli di farle del male e infine aveva visto il padre minacciare entrambi deciso a ucciderli tutti e due e a togliersi la vita. Li aveva salvati un messo della regina, venuto ad annunciare la decisione di non punire l’alto tradimento che il Colonnello Oscar François de Jarjayes aveva commesso rifiutando di dare ai propri soldati l’ordine di sgomberare la sala dell’Assemblea e impedendo alla Guardia reale di eseguirlo. L’enormità di quanto accaduto stava scatenando in lei un temporale interiore superiore a quello che stava squassando il parco.

    Appena il tempo di provare sollievo nel sapersi tutti salvi che Marie, l’anziana governante che aveva assistito agli eventi della serata dal corridoio, in preda a un terrore retroattivo, presa coscienza dello scampato pericolo, ebbe un mancamento. Solo la prontezza di André che la sollevò di peso nell’istante in cui perdeva conoscenza, le evitò di battere la testa in una caduta a peso morto.

    Mentre André portava la nonna priva di sensi nella sua stanza, Oscar, preoccupatissima, si gettò sulle spalle un mantello e volò al galoppo a chiamare il dottore sotto la pioggia battente.

    Il generale, rimasto solo, approfittò del fatto che nessuno badasse a lui nel trambusto e si infilò nel proprio studio, chiudendo la porta a chiave dall’interno. Si accese la pipa senza averne il desiderio, solo per calmarsi, fermare il tremito delle mani e provare a riordinare i pensieri confusi. Cessato il momento di ebbrezza che gli aveva dato il sollievo di essere stato fermato mentre stava per compiere i propri insani propositi, cui era giunto sconvolto dal drammatico confronto che solo contro tutti aveva avuto davanti al sovrano e ai suoi pari grado, decisi a chiedere di punire in modo esemplare Oscar François de Jarjayes per il tradimento commesso, stava prendendo a poco a poco coscienza di quanto stava per commettere come generale, come uomo e come padre, capiva di aver bisogno di recuperare una lucidità che tardava ad arrivare per ritornare padrone del proprio agire, per scegliere la strada giusta lungo una via che non aveva previsto.

    Gli tornarono le immagini dell’ora appena trascorsa, gli risonarono in mente le parole di sua figlia e l'immagine salda di lei: «la soluzione sarebbe puntarsi una pistola alla tempia, ma non posso farlo, 12 dei miei uomini sono stati imprigionati e rischiano la pena capitale per aver obbedito ai miei ordini di non sparare. Se la mia morte servisse a salvare i miei uomini, vi giuro, padre, che morirei volentieri».

    Quelle parole, quella saldezza gli dicevano con inequivocabile chiarezza che sua figlia partecipava del codice d’onore che aveva regolato le loro vite di alti ufficiali da generazioni fedeli alla Corona. Non poté far a meno di ammirare in lei il Colonnello disposto a dar la vita senza un tremito per i suoi soldati. Si chiese se al posto suo sarebbe stato altrettanto fermo e non attese la risposta.

    Oscar, non posso seguirti, in questo tuo percorso, ma quello che ho visto questa sera mi conferma che non hai tradito per viltà, ma per un problema di coscienza. Non stai rinnegando quel codice d’onore, ma lo stai mettendo al servizio di un ordine morale diverso dal mio, ma comunque di un ordine morale. Se hai tradito per non venir meno ai tuoi principi, la grazia di questa sera ti salverà per poco, perché quando un ordine di servizio che li contrasta ti giungerà tradirai di nuovo per non scendere a compromessi con te stessa. Io come padre e come generale non posso che prendere atto del fatto che la mia vita è finita, che il mio mondo, i miei valori, stanno crollando sotto il maglio di un mondo nuovo di cui non mi sento parte. Posso solo provare a garantirvi nel silenzio una sicurezza prevenendo la punizione che il tuo prossimo tradimento determinerà, e liberarvi di me, salvando così a un tempo la mia Atlantide e il vostro futuro.

    A quel punto, convinto di aver trovato dentro di sé la chiarezza che cercava, si alzò di scatto , recuperò un incartamento che mise al sicuro dall’acqua nella tasca interna della marsina e uscì a cavallo incurante del diluvio, coprendosi con un anonimo tabarro scuro. Galoppò verso la casa di un notaio che gli doveva un grande favore da quando, anni prima, il Generale lo aveva avvisato dei propri sospetti evitandogli di compromettere la firma mettendola al servizio degli affari loschi di un ufficiale che maneggiava denari dell’esercito con anomala disinvoltura.

    «Chi è là, a quest’ora?».

    «Perdonatemi, notaio, sono il Generale François Augustin de Jarjayes, abbiate pazienza vi ricompenserò per l’incomodo, ma ho bisogno del vostro aiuto riservato e urgente».

    «Entrate generale, scusatemi, ma avevo stentato a riconoscervi al buio e così coperto...».

    «Vi comprendo, la prudenza è d’obbligo di questi tempi».

    Era quasi mezzanotte quando il notaio, resosi presentabile come aveva potuto, guidò alla luce fioca di una candela il suo intempestivo cliente per una stretta scala verso la mansarda che gli serviva da studio, un sottotetto in un vicolo nei pressi di place Vendome. Il battere della pioggia sui lucernari amplificava il rumore, dando al temporale una dimensione da fine del mondo.

    «Accomodatevi, Generale, dev’essere una cosa molto importante per portarvi qui di notte con questo tempo da lupi».

    «Lo è, ma desidero che non mi facciate domande non strettamente legate alle operazioni che vi sto per chiedere e che restino riservate tra noi, nemmeno i vostri familiari devono sapere chi ha bussato stanotte alla vostra porta, trovate una scusa», e così dicendo gli lasciò scivolare in mano una piccola borsa di monete d’oro.

    «Non occorre che compriate il mio silenzio, generale, sono in debito con voi da tempo. Non ho dimenticato la vostra lealtà».

    «Bene, conto sulla vostra, se è così consideratelo l’anticipo sulla parcella e la mancia per l’incomodo di questa prestazione fuori orario».

    Il notaio affilò la penna d’oca, prese alcuni fogli e sedette alla scrivania illuminata dalla lampada a olio di fronte al suo interlocutore. Solo in quel momento ne notò il volto pallido, tesissimo, come precocemente invecchiato.

    «Ditemi, Generale, che cosa posso fare per voi?».

    «Fate in modo che la proprietà di palazzo Jarjayes e della villa di Normandia compresa la tenuta diventino da ora di proprietà del signor André Grandier e che dalla tenuta si ricavi una rendita che assicuri una serena vecchiaia a Marie Grandier fino all’ultimo dei suoi giorni e che il più tardi possibile le garantisca una degna sepoltura. Trovate voi le parole per scriverlo in modo che tutto questo si verifichi qualunque cosa accada a suo nipote André, in modo che le garanzie per lei siano salve indipendentemente dalla volontà, dalla vita e dalle decisioni di suo nipote».

    «Generale, permettetemi di farvi notare che in questo modo state privando ora voi stesso e per il futuro vostro figlio, sì insomma Oscar François di una cospicua parte di patrimonio, ne siete consapevole?».

    «Sì, signore. Lo faccio per assicurare quel pezzo di patrimonio dal rischio che i rivolgimenti in corso possano portare alla confisca dei patrimoni nobiliari, Grandier non è nobile, nelle sue mani saranno almeno al sicuro i tetti che abbiamo sulla testa. Se vengo da voi e non dal notaio di famiglia che serve altri nobili è perché desidero che questi atti rimangano riservati». Il generale tacque il fatto che la sua preoccupazione riguardo alla confisca era accelerata dalla certezza di un imminente nuovo tradimento della figlia e della punizione che ne sarebbe derivata, tacque il fatto che il legame tra Oscar e André possedeva una forza che garantiva anche lei meglio della legge salica. Non fece nulla per far capire a quell’uomo che quel nuovo ordine non prevedeva la presenza del Generale Jarjayes.

    «Come desiderate, Generale».

    Il notaio, non senza qualche perplessità per l’irritualità di quanto gli veniva richiesto, si chinò sul foglio a redigere gli atti.

    La pioggia che era progressivamente scemata aveva fatto calare la stanza nel silenzio. Il Generale, senza riuscire a cancellare la tensione dal volto, trascorse il tempo a osservare in silenzio quella stanza cupa, lo scaffale carico di codici e faldoni scuri, gli inchiostri sul tavolo, le penne in ordine, le pareti in mattoni a vista smangiati dal tempo, le scure travi mangiate dai tarli sotto la cuspide del tetto.

    Quando ebbe terminato di scrivere gli atti in duplice copia, il notaio porse le carte coperte da una scrittura inclinata a destra e molto minuta al Generale perché potesse rileggerle. Il Generale inforcò gli occhiali - da qualche tempo la vista d’aquila che da lontano ancora egregiamente sorreggeva la sua eccellente mira da vicino davanti a grafie troppo piccole richiedeva un ausilio – lesse concentrato da cima a fondo le due copie di atti, intinse la penna nell’inchiostro e controfirmò con uno svolazzo sempre elegante ma più nervoso del consueto.

    Ringraziò l’uomo e si congedò recuperando il tabarro e il cappellaccio ancora bagnati con cui era arrivato, ringraziando il cielo per la luna sporca di stracci di nubi che gli avrebbe illuminato la via del ritorno, sempre lastricata di cupi pensieri, ma resa meno impervia dalla certezza di aver messo nero su bianco con chiarezza i propri propositi.

    Prima di deviare definitivamente verso palazzo Jarjayes si fermò sulla soglia di una chiesetta fuori dall’abitato cittadino, provò a spingere il portoncino e si rasserenò nel trovarlo aperto: lo accolse un’unica navata, vuota, illuminata soltanto dalla luce delle candele. Raro in quei tempi, forse perché in quella pietra antica non c’era nulla da saccheggiare. Percorse il centro della navata e andò a inginocchiarsi nella prima panca davanti al Tabernacolo, raccogliendosi un attimo davanti al Santissimo in pensieri di cui solo a Dio era dato di conoscere il contenuto.

    A palazzo Jarjayes, dove Oscar era tornata, scortando la carrozza del dottor Lassone, Nanny si stava riprendendo. Il dottore aveva ordinato alla cameriera di preparare con urgenza un infuso calmante a base di passiflora e biancospino, rassicurando i due giovani sul fatto che l’anziana donna era certo molto scossa, ma non in pericolo di vita.

    Mentre André teneva la mano della nonna cercando di rassicurarla per quanto possibile, Oscar sulla soglia domandò alla cameriera: «Dov’è mio padre? Qualcuno lo ha visto?».

    «È uscito a cavallo pochi minuti dopo l’arrivo del messo della regina, non è ancora rientrato».

    «Con questa pioggia?».

    Fu a quel punto che Oscar ebbe un presentimento. Entrò in punta di piedi nella stanza di Nanny, le domandò con garbo come stesse, le accarezzò la fronte e poi con dolcezza le chiese: «Marie, perdonami, sai dove sono le chiavi della scrivania di mio padre?».

    La donna la guardò stupita: «Non sono autorizzata a dirlo a nessuno, Oscar...».

    Rispose con un filo di voce.

    «Lo so, Nanny, ma è molto importante, temo che mio padre possa essere in pericolo».

    La donna sgranò gli occhi.

    «Non temere, Nanny, dimmi dove sono e risolverò tutto».

    La donna rassegnata assecondò la richiesta. Alla sua bambina non sapeva dire di no, non dopo quello che aveva visto quella sera: «Nello scaffale di destra, dietro la Bibbia c’è una nicchia...».

    «Grazie, Nanny», sorrise Oscar depositandole un bacio in fronte, cercando di nasconderle l’ansia e la concitazione che l’agitavano.

    Sapeva che il padre teneva nel cassetto una pistola, non carica. Sospirò di sollievo quando vide che la porta dello studio non era chiusa a chiave e che non c’era luce dentro. Al lume della bugia che le aveva illuminato l’entrata, trovò la chiave secondo le indicazioni di Marie, aprì il primo cassetto e trovò l’arma, una maneggevole pistola da collezione, un esemplare unico con un particolare sistema di caricamento, non familiare a chi fosse stato addestrato a maneggiare soltanto armi comuni. Le sue preoccupazioni si materializzarono nel trovarvi il colpo in canna. Oscar che sapeva come fare, perché il generale da quando lei era molto giovane amava condividere con “suo figlio” i pregi della sua collezione di armi e di libri d’armi dal mondo, scaricò l’arma e per massima precauzione si mise in tasca il tagliacarte. Con un sospiro di sollievo e insieme di sgomento per aver intuito le intenzioni del padre.

    Si nascose nel buio del corridoio adiacente allo studio, lo stesso da cui molti anni prima aveva avuto accesso al cornicione per spiare un dialogo che la riguardava, avvenuto nello studio tra André e il padre. Voleva essere sicura che rientrasse disarmato.

    Non molti minuti dopo lo vide passare, in maniche di camicia, già libero degli abiti bagnati, vestito in un modo che rendeva impossibile nascondere altre armi da fuoco o da taglio, aveva il volto pallidissimo, delle carte in mano e un’aria comunque calma.

    Il generale s’infilò nello studio e si chiuse alle spalle la porta dando un giro alla chiave che teneva nella toppa dall’interno. Sedette alla scrivania e si dispose a scrivere lettere ai familiari per spiegare il gesto che stava per compiere. Ne completò quattro, trattenendo lacrime a fatica e le sigillò con la ceralacca e lo stemma di famiglia apponendo su ciascuna il nome del destinatario, Madame Jarjayes, Marie, André e Oscar François. Poi aggiunse un bigliettino, anch’esso sigillato, a nome di Marie con questa sola scritta: “Se mai dovesse accadermi qualcosa, notaio N. N." e per esteso il nome dell’uomo e l’indirizzo. Al momento di prendere le chiavi del cassetto lo ripose nella nicchia nascosta dai libri. Represse il pensiero con cui si chiese se non fosse sacrilego averle nascoste proprio dietro la Bibbia e adoperarle così. Si disse che Dio Onnipotente sapeva già tutto e si dispose a dar seguito a quanto aveva deciso. Prese l’arma dal cassetto, sedette alla scrivania, la puntò alla tempia e fece fuoco con una calma che non sapeva d’avere.

    Impiegò un attimo a comprendere che il colpo non era partito, solo in quel momento le sue mani tremarono alla ricerca del motivo di quella cilecca. Sgranò gli occhi in un gesto suo consueto inconsapevole in lui eppure notissimo a chi lo conosceva quando comprese che l’arma era scarica: «Oscar...» mormorò a fior di labbra

    Io ho cercato di ucciderti e tu salvi la mia vita

    Un istante dopo quell’attimo di consapevolezza si accasciò sulla scrivania cedendo a un pianto dirotto.

    Minuti interminabili, prima di rialzarsi a cercare nel buio del vano della finestra un po’ di chiarezza nei pensieri confusi come mai prima. Specchiandosi nel vetro incrociò il proprio volto che aveva recuperato un poco di calma dopo il tumulto. Si diede un lungo sguardo carico di disprezzo: sei un vigliacco, Generale, stavi fuggendo lasciando ad altri il carico di questi tempi lacerati.

    Prenditi le tue responsabilità, fai il tuo dovere, difendi con lealtà il tuo mondo, combatti con il coraggio che tua figlia ti sta insegnando perché vincano le tue idee. Cerca almeno di essere all’altezza della sua forza d’animo e del suo sguardo adesso che lei sa.

    Si voltò e bruciò le lettere sulla fiamma della candela, avendo cura di spolverare via la cenere e il polverino per non lasciarne traccia, ma non le carte del notaio che nascose nel forziere che teneva chiuso nel doppio fondo dell’armadio e lasciò il bigliettino per Marie nella nicchia.

    Sempre nascosta nel buio Oscar vide il Generale uscire con una bugia in mano e chiedere al cameriere di preparargli la stanza per la notte, nell’altra mano teneva il Nuovo Testamento.

    Oscar lo lasciò uscire ed entrò di soppiatto a controllare lo studio, si assicurò che non ci fossero scritti né in vista né nascosti e ritrovò l’arma scarica riposta nel cassetto. Dal rumore ne aveva avvertito il colpo inesploso a tempo debito e aveva intuito da altri suoni all’interno amplificati dal silenzio notturno di quell’ala lo sconvolgimento del padre. Capì che quel proposito non era più nell’aria, non subito almeno.

    Volò al piano di sotto a rassicurare Nanny e a sincerarsi delle condizioni di lei che era per Oscar da sempre l’affetto più caldo e rassicurante.

    Trovò il dottore e André che stavano uscendo sul corridoio dalla stanza della Governante:

    «Come sta?».

    «È tutto a posto, Madamigella Oscar, André mi ha detto che ha preso un grande spavento, ma era solo agitazione, il cuore ha ripreso a battere in modo regolare deve solo alimentarsi in modo leggero e osservare qualche giorno di riposo, possibilmente al riparo da forti emozioni».

    «Posso, entrare a salutarla? Vorrei rassicurarla e dirle che mio padre sta bene e che il pericolo che avevo, troppo ansiosamente, temuto era un falso allarme ed è scongiurato».

    «Andate, ma solo per un momento».

    «Buonasera Nanny, il dottore dice che sei una roccia e che il tuo cuore è forte, che devi solo riposare. Le chiavi sono di nuovo al loro posto, mio padre non corre alcun pericolo, mi sono solo preoccupata troppo, è tornato ed è andato a dormire. Ora cerca di farlo anche tu». Le diede un bacio prima di lasciarla.

    «E tu, bambina, come stai?»

    «È stata una serata difficile, ma sto bene. Tutti stiamo bene, vedrai che nulla di simile si ripeterà. Non ci pensare più Nanny, è tutto passato. Sai che mio padre come si accende si spegne, l’ho visto perfettamente calmo. Ora cerca di dormire, devi riprendere le forze. Ho bisogno di te».

    Salutò il dottore e appena si fu allontanato si ritrovò per la prima volta in quella drammatica notte sola con André. Si guardarono, scossi tutti e due, non era il momento di parlare di loro lì in mezzo al corridoio. Lei ancora con i capelli bagnati per la corsa sotto la pioggia.

    «Dov’è tuo padre?»

    «In casa».

    André ebbe uno sguardo atterrito: «La pistola!». Anche lui sapeva dell’arma e dell’abitudine del Generale a tenerla nel cassetto.

    «L’ho scaricata».

    André si concesse un sospiro di sollievo.

    «Tu sei pazzo. Ha cercato di ucciderti! Tu che non hai giurato fedeltà alla corona, tu che non sei un ufficiale, André, come puoi preoccuparti di lui ora? Io ho accettato il patto d’onore degli ufficiali, io ho tradito il mio giuramento, per ragioni di coscienza, ma ho tradito. Io non condivido più le idee di mio padre, ma comprendo l’ordine secondo il quale ragiona. In quel codice vivo anch’io. Ma tu...».

    «Oscar, se lui non fosse quello che è, tu non saresti quello che sei, ma nemmeno io sarei quello che sono: sarei a far la fame in una bottegaccia di quart’ordine, non avrei imparato a scrivere, non avrei conosciuto te. Mi ha dato opportunità che mai avrei avuto e mi ha sempre rispettato più di quanto abbia rispettato te. Oscar, anche per me è stato il padre che non ho avuto. Non avrai pensato che sarei stato capace di sparare spero?».

    «No, ma lui forse sì».

    Lo sguardo di lei tremava di rabbia, di angoscia, di commozione.

    «Ha cercato di uccidersi. Sei sicura che non proverà a rifarlo?»

    «Sì».

    «Come fai a dirlo?»

    «Sa che in casa nessuno a parte me saprebbe scaricare un’arma sofisticata come quella, sa che sono stata io a salvargli la vita... Il suo orgoglio gli impedirà di riprovarci. Sa che lo avrei considerato un disertore per viltà. Se crede in quello che mi ha insegnato può non condividere ma capisce che si possa disertare per una lacerazione di coscienza, ma non per scappare. Non perderà la faccia davanti a sua figlia disertando dalla vita per non affrontarla. Se un po’ lo conosco già gli pesa non poco la consapevolezza che io sappia che ci ha pensato».

    La tensione si allentò all’improvviso, Oscar esplose in un pianto dirotto, André scoppiò a propria volta cingendola in un abbraccio senza parole. Non servivano. Li attendeva un abisso di pensieri che quel che restava della notte non sarebbe bastato a mettere in ordine. D’istinto André avrebbe voluto posarle un bacio sulle labbra, ma si trattenne: non voleva rubarglielo in un momento in cui avrebbe potuto ricambiarlo per debolezza. Dopo quello che era accaduto tra loro in un’altra notte sciagurata, sapeva che avrebbe dovuto essere lei a decidere se, come e quando, in piena libertà, presente a sé stessa. Voleva essere scelto non subìto, perché, in seguito a quella nuova notte di tormenti che si era messa tra loro, l’atto di scegliersi reciprocamente avrebbe implicato una via dolorosa, bellicosa, che avrebbe richiesto la coscienza e la volontà di entrambi, la forza e il coraggio di rinnegare, con un sistema di valori, i presupposti di una vita intera: una determinazione che la condiscendenza di un attimo di fragilità non avrebbe potuto garantire.

    Sapevano entrambi che non sarebbe stato facile per nessuno in quella casa tornare a guardarsi alla luce del giorno dopo i trascorsi di quella notte, maturata la consapevolezza che quando una simile faglia si apre indietro non si torna.

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    Capitolo 18
    *** TEMPUS FUGIT ***


    Da tutta la vita mi aspetto che il mio corpo mi tradisca. So - da quando so che cosa significa essere donna - che perderei ogni scontro diretto che si mettesse solo sul piano della forza. Per anni, durante la crescita, ho convissuto con il recondito timore che la maturazione di forme femminili togliesse credibilità al mio ruolo di ufficiale fino a coprirlo di ridicolo. Dal primo giorno ho messo in conto la morte in battaglia.

    Con il rischio di una ferita da arma da taglio o da fuoco, per quanto possibile, ho fatto pace. Son consapevole da sempre che è un incerto del mestiere: quando succede, perché ogni tanto succede, sai che se non è immediatamente mortale, ti apre le porte di un inferno in terra, lungo o breve, da attraversare: ferri che intrudono, tagliano, cuciono carne viva. Dolore senza altro ausilio che quello dello stordimento di un sorso di acquavite se il corpo non è troppo debilitato e di qualcosa da mordere. Lì per lì è una devastazione. Ma se il danno non è permanente, se non subentra un’infezione, se ne esce dopo un tempo incerto ma finito. Come tutti gli esseri umani vorrei che mi fosse risparmiato il dolore, ma quando capita mi armo di pazienza e resisto come posso, perché so che è questione di tempo, che finirà.

    Mio padre ha formato con rigore senza cedimenti anche quell’aspetto del mio carattere. Mi ha allenata a resistere. Per quanto possibile, a questo sono preparata. La menomazione, lo ammetto, è un rischio che conosco ma lo rimuovo, come un fantasma, perché mi fa paura: però so che c’è, ho rischiato due volte di perdere un braccio per un colpo d’arma da taglio. Sono i momenti più duri: più del dolore mi logora l’incertezza, mi divora l’ansia di non tornare quella di prima. Mi pesano le convalescenze, un limite per il quale il dottor Lassone mi prende sempre in giro, dice che sono come mio padre: che per noi non c’è tortura peggiore che darsi il tempo di una lenta guarigione.

    Stavolta è diverso. Il destino ha colpito alle spalle, inatteso, a tradimento. Stavolta, dottore, ve lo giuro, pagherei per poter contare su una lunghissima convalescenza e invece sarà solo una lenta e triste agonia. L’avrai, Colonnello, il coraggio di affrontarla con dignità? Mai avrei pensato che il mio corpo mi tradisse in questo modo. Non era nel conto. Non ora. A questo graffio che mi raspa dentro a ogni respiro, a questo fendente che mi accoltella al petto a ogni colpo di tosse non ero preparata. Non ero preparata a questa debolezza da vecchi che mi consuma a 33 anni. Non sono pronta allo stillicidio che a ogni respiro affannoso mi ricorda che la clessidra della mia vita è stata voltata e che la sabbia sta precipitando velocissima, inesorabile, rammentandomi a ogni respiro che il mio tempo è corto e corre via.

    ***

    Il dottor Joseph Marie François de Lassone non era abituato a portarsi a casa i problemi di lavoro, teneva per sé i molti fallimenti della sua debole scienza troppe volte impotente davanti alla malattia. Chiuderli fuori dalla soglia di casa era il suo modo di sopravvivere al carico di dolore quotidiano. Non che non lo tenessero sveglio la notte le preoccupazioni quando un paziente lo teneva in ansia perché non tutto andava nel senso previsto, soltanto quando accadeva faceva sempre in modo che non gravassero sul resto della casa.

    Ma quella visita fuori programma a tarda sera, forse perché arrivata imprevista dopo cena, nelle ore che normalmente riservava a quella che chiamava tra sé la decompressione, tra chiacchiere in famiglia e buone letture, proprio non riusciva a chiuderla fuori dalla porta.

    Non riusciva a togliersi l’immagine delle mani ferme di quella ancor giovane donna bellissima che si rinfilavano i guanti bianchi con apparente distacco, come se non le avesse appena contato davanti i giorni che già sapeva contati. Si rimproverava di non essere stato capace dello stesso distacco. Si rendeva conto di non essere stato convincente e forse neanche abbastanza accogliente, capiva che Oscar François de Jarjayes non avrebbe sfogato la sua disperazione e la sua umanissima paura con nessuno, neanche con lui e se ne dispiacque. Temette di averla consegnata alla solitudine. La conosceva da quando era nata ed era sicuro di avere di fronte una delle persone più coraggiose che avesse mai conosciuto. L’aveva vista crescere così. E l’aveva ammirata, per come aveva seguito la via irta di ostacoli che il padre le aveva imposto dandole un nome maschile e scegliendosela come erede nella carriera militare. Gli piacevano la sua arguta intelligenza e il rapporto di reciproca stima che avevano instaurato con gli anni, complici i tanti accidenti del mestiere che la portavano a consultarlo spesso. Sapere di non potere più fare niente per lei gli dava una pena infinita, perché le voleva bene come a una figlia: gli sembrava un’ingiustizia tremenda il fatto che la vita le avesse riservato, dopo una strada impervia, un destino così ingrato. Avrebbe voluto darle una speranza che non possedeva. Per un attimo se la prese con quel Dio cui non credeva.

    «Non dormite, Joseph?»

    «No...».

    «Posso fare qualcosa per voi?»

    «Purtroppo no».

    «Posso chiedervi che cosa vi angustia?».

    «Vorrei non dirvelo, angustierebbe inutilmente anche voi».

    «Riguarda la visita ritardataria di questa sera?».

    «Purtroppo sì, uno dei compiti ingrati che si vorrebbe non avere mai».

    «Posso alleggerire la vostra pena?».

    «Purtroppo no: una diagnosi infausta a una persona che stimo molto, cui sono affezionato».

    «Le avete detto la verità?»

    «Sì».

    «Non avreste potuto stare nel vago?»

    «No, perché aveva già capito: è troppo intelligente per credere alle bugie con le gambe corte, e poi perché non me l’avrebbe perdonato: la franchezza è parte integrante della fiducia che mi accorda da decenni. Infine, perché spero che non mi ascolti, che viva fino in fondo tutto quello che le resta. Spero, suggerendole il contrario, di averle dato la spinta a farlo».

    «Impossibile: agli ordini dei medici ci si attiene, specie quando si teme di morire».

    «Non la conoscete».

    «È una donna?».

    «Sì, ma diversa dalle altre».

    «Le siete legato?».

    Lassone rise nel buio prendendo la mano di sua moglie.

    «Non nel modo in cui potrebbe pensare una moglie gelosa. L’ho vista nascere, l’ho vista crescere, mi sarebbe piaciuto che fosse così la figlia che non abbiamo avuto, penso a suo padre in qualche modo un amico, un padre difficile, ma che l’ama di un amore che non sa dimostrare e che gli lascerà un carico pensantissimo di sensi di colpa, per cui, dopo, non si darà pace».

    Si avvicinò alla moglie e la strinse nel buio, anche se era una tarda e calda primavera sentiva freddo.

    Quando l’alba fu sufficientemente chiara si alzò e sedette allo scrittoio:

    «Gent. Madamigella Oscar, vorrei che non dimenticaste mai una cosa: potreste avere bisogno di qualcuno che vi ascolti nel tempo che verrà, desidero che sappiate che la mia porta per voi sarà aperta senza orari alla condivisione di qualsiasi pensiero. Non esitate, ve ne prego».

    Con stima

    Dr. Joseph Lassone

    Lo chiuse con il sigillo di ceralacca e appena l’orario lo consentì lo affidò riservato e personale per il Colonnello Oscar François de Jarjayes a un messo diretto alla caserma della Guardia francese, dove nessuno avrebbe potuto intercettarlo.

    ***

    «Se non farete questo voi non vivrete più di sei mesi».

    Nel buio di un’altra stanza sotto il baldacchino Oscar François de Jarjayes sentiva rimbalzare dentro la testa, con la freddezza del suono metallico di una chiave buttata in una grata, le parole che avevano scritto nella pietra il suo destino. Lo aveva intuito da tempo, ma un conto è sapere, altro sentirselo dire: contare i giorni.

    Sapete meglio di me, dottore, che quel se è soltanto un modo di non dirmi brutalmente in faccia quello che sappiamo tutti e due: è già troppo tardi e anche se non lo fosse i rimedi che abbiamo a disposizione nulla possono contro il tarlo che si sta mangiando i miei polmoni. Per questo so che mi perdonerete se non vi obbedirò, ma coglierò invece per contrasto il consiglio che indirettamente la vostra franchezza mi ha dato: vivere ogni giorno come se non ci fosse un domani, assaporando a fondo tutte le emozioni che questa divisa ha coperto fin qui, senza lasciare niente di importante in sospeso. È il contrario di quello che mi avete chiesto, dottore, lo so, ma obbedirvi significherebbe congelare la vita e il cuore per spostare di qualche giorno la notte più in là, chiudersi in una campana di vetro ad attendere la morte. A quale prezzo? Incominciare a morire ora? È questo che vorreste per voi a 33 anni, dottore? Se un po’ vi conosco, se anche sapeste di avere un solo giorno davanti lo spendereste a salvare l’ultima vita se la vostra scienza ve ne desse la facoltà, a soccorrere l’ultimo ferito, ad amare fino all’ultima goccia le persone che amate, a dare una speranza di mondo migliore a chi resterà dopo di voi.

    Sono stata lontana dalle emozioni per troppo tempo, dottore, le ho represse, sotto la corazza algida che ben conoscete, così ben salda che faccio fatica a rimuoverla anche ora, nel momento più difficile della mia vita: mi stavate dicendo che sto per morire di tisi e son venute le lacrime a voi, non a me. Eppure vi assicuro che non sono mai stata attaccata alla vita come in questo momento in cui l’amore mi sta travolgendo: non proverò a fermarlo stavolta, vivrò scegliendo per me, seguendo la strada che mi avete indicato in quel primo colloquio che non ho mai dimenticato (1). Vi ringrazio dottore, con le vostre parole franche mi avete dato la forza di rompere la corazza, di superare le mie paure ancestrali, di prendermi a qualunque costo la libertà di essere la persona che voglio davvero essere, anche se non piacerà a mio padre, ai miei superiori, al re di Francia.

    La tosse non dava tregua, troppo difficile gestirla da distesa, sforzandosi di restare supina per il timore di macchiare di sangue il cuscino e tradire quello che voleva restasse un segreto. Si alzò a sedere, con la sensazione di respirare un po’ meglio, scelse di vestirsi anche se fuori era ancora buio. In piedi le pareva anche di pensare con maggiore chiarezza.

    Me la sono presa con te André perché mi nascondi il tuo problema all’occhio destro, ma è una cosa stupida. So perché taci, per la stessa ragione per cui lo faccio io: non voglio vedere la mia fine nell’ansia del tuo sguardo ogni volta che lo incrocio. Finché non sai di me, finché non sai che io so, possiamo tenere a bada ciascuno la propria paura per proteggere l’altro dalla sua e di riflesso restare saldi l’uno nell’altro. Sarà un equilibrio precario, ma finché riusciremo a mantenerlo vivremo pienamente. Quando l’irrimediabile verrà lo affronteremo.

    Adesso non ho più paura di amarti, adesso o mai più e dunque adesso. Se non ora, quando? Solo una cosa mi turba: la ragione mi dice che la cosa giusta da fare sarebbe allontanarti da me e congedarti d’imperio, per provare a risparmiarti il dolore del dopo, per proteggerti dai rischi che corri a causa della vista annebbiata e nell’amarmi senza sapere che il nostro “per sempre” ha i giorni contati, ma so che è l’ultima cosa che vorresti: non mi perdoneresti se lo facessi. Ti ho già ferito allontanandoti una volta, non lo farò più.

    Proverò a convincerti a congedarti per non rischiare, ma ti lascerò scegliere. Conosci i pericoli che corri, se non te ne vai è perché vuoi rimanere. Ed è l’ennesima prova che mi ami ancora. Anch’io ti amo, André. Adesso lo dico a testa alta, non ho più paura di niente, André, se non della notte che sta per venire. Spero solo che mi dia il tempo e la forza di darti il meglio di me nel poco che resta. Vorrei tanto non aver perso e non averti fatto perdere così tanto tempo. Non posso rimediare, non posso tornare indietro, ma posso, voglio, darti tutto di me.

    Sono pronta a tagliarmi i ponti alle spalle. Guarderò solo avanti, per te, con te, finché Dio vorrà.

    (1) Il passo si riferisce al capitolo 5 di questa raccolta.

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    Capitolo 19
    *** DOMANI NELLA BATTAGLIA PENSA A ME ***


    Oscar si svegliò avvolta dalle braccia di André che dormiva sul prato.Pensò alla metafora delle schermaglie d’amore che tante volte aveva incontrato nella letteratura: da esperta di schermaglie in senso proprio, inesperta d’amore, si disse che il combattimento cui era stata addestrata nulla aveva a che fare con quanto aveva vissuto quella notte. Condizionata com’era dalla memoria di quel precedente drammatico e violento, se l’era aspettata più aspra, più rude e invece si era rivelata pervasa di appassionata delicatezza. Si chiese se André avesse avuto bisogno di trattenere il proprio istinto, di negarsi qualcosa per insegnare con dolcezza al corpo di lei, irrigidito da decenni di postura militare e senso del dovere, ad assecondare la vibrazione di corde sconosciute di cui ignorava l’esistenza. Un corpo che conosceva schiaffi, lividi, ferite, dolore, fatica. Un corpo allenato a resistere, a non lasciarsi andare, all’impassibilità, un corpo che fino a quella notte aveva ignorato la tenerezza. Se non ci fosse stata Nanny le sarebbe mancato persino il senso di un abbraccio.

    Il corpo del Colonnello Oscar François de Jarjayes aveva memoria, esperienza, immaginario di armature, di corazze, di colletti rigidi, l’esatto opposto di quel che le sarebbe servito per abbandonarsi a onde sconosciute. Era un corpo allenato a schivare, a difendersi per non soffrire, a resistere in silenzio, un corpo abituato all’urto e disabituato al tatto, governato da una mente addestrata all’autocontrollo, all’autodifesa, al riserbo, alla resistenza: una memoria di cui restava traccia in tante cicatrici sulla pelle e nell’anima.

    Nonostante tutte le sue armature Oscar François de Jarjayes, nel chiuso della propria stanza, non aveva potuto impedirsi di chiedersi talvolta, da innamorata prima di Fersen e poi di André, come sarebbe stato assecondare il desiderio istintivo di essere toccata dalle mani di un uomo, pelle contro pelle, ma scoprendosi quella fantasia aveva provato imbarazzo, incapace di superare anche solo col pensiero il baluardo delle proprie barriere. Si era immaginata impacciata, a disagio, incapace di rispondere all’istinto altrui.

    E invece tutto era accaduto, sull’argine della Senna, in una notte di lucciole e luna, in mezzo alle fucilate alla lettera eppure con una naturalezza che mai avrebbe immaginato, di cui si era lei stessa stupita, vedendo quelle barriere cadere a una a una obbedendo alle regole misteriose di un istinto che non sapeva di avere: non che le fosse venuto semplice all’inizio sgelare quel corpo ghiacciato da decenni di autocontrollo, abbandonarsi alle sensazioni nuove che le mandava, eppure lo aveva fatto. Si era svegliata nelle braccia di André, appoggiata al suo petto scolpito e nudo senza il minimo disagio al ricordo di quanto avvenuto, anzi con la certezza appagante di essersi trovata al posto giusto con l’uomo giusto, di più con l’unica persona al mondo in grado di smontare il suo carapace di autoprotezione e razionalità: intanto perché sapeva che quel baluardo c’era e poi perché sapeva come si era formato.

    Nelle mani esperte di André, forti e gentili, si era sentita protetta, amata, sicura - nonostante il naturale timore di rompere una barriera più psicologica che fisica, irrigidita dall’essere rimasta eretta troppo a lungo, e di spiegare le vele verso lidi sconosciuti da sempre rinnegati - perché in quell’unione non c’era stata ombra di forzatura: André l’aveva presa per mano e guidata a poco a poco per mari ignoti, inebrianti; l’aveva condotta, con amore non solo con passione, a scoprire il lato nascosto dei loro corpi, fino a farli diventare uno come le loro anime erano già da tanto, forse da sempre, da prima di prenderne coscienza.

    Aprendo gli occhi Oscar François si disse che avrebbe voluto fermare il tempo e rimanere per l’eternità lì cullata al ritmo del respiro addormentato del suo uomo bellissimo, non dover più affrontare la battaglia e la malattia, fermarsi in quel punto esatto della linea del tempo ad assaporare la sensazione, fin lì mai considerata, di una vita che si potesse anche godere. Ma poi incrociò il risveglio nell’iride smeraldo di lui e si sentì pronta ad affrontare tutto, forte come mai prima dentro di sé, con una voglia di vita dirompente nonostante la consapevolezza di camminare sull’orlo del baratro, perché non più sola. In quell’istante comprese anche che il coraggio luminoso che sentiva dentro di sé prevedeva, nell’essere due, un lato in ombra: la preoccupazione per lui.

    Fu lui a scacciarla con un abbraccio giocoso e un bacio che furono l’inizio di un’altra ora d’amore senza più le ansie della prima volta: un amore pieno di passione cui abbandonarsi, un amore scacciapensieri. Anche se i pensieri sarebbero tornati, con le prime luci dell’alba. Sapevano entrambi che quello che stava iniziando, sotto il macigno di quell’ordine ingrato: «soffocare la rivolta con ogni mezzo», non era il giorno adatto per vivere un amore, ma almeno erano insieme e tanto bastava.

    Si immersero fino al ginocchio tra i ciottoli del fiume per lavarsi schizzandosi come da bambini, si lasciarono asciugare al vento e rivestirono le proprie uniformi e con esse i propri doveri.

    Per la prima volta in vita sua Oscar sentì di indossare le insegne del suo ruolo consapevole di sé in un modo nuovo. Se prima di quel momento l’uniforme la faceva sentire sicura perché nascondeva il suo corpo di donna, quella mattina se la sentì aderire addosso, per la prima volta, come una seconda pelle, come l’involucro naturale del corpo che conteneva. In quella sensazione ebbe la certezza che, nel diventare una cosa sola con André, aveva finalmente riunito anche la propria anima divisa, sanato il conflitto interiore che si portava dentro dalla nascita. Non aveva più motivo di chiedersi chi fosse Oscar François de Jarjayes, ora lo sapeva: la donna e il soldato avevano smesso di esprimere una contraddizione. Non aveva più bisogno di un titolo e di un grado dietro i quali ripararsi.

    Cavalcarono appaiati verso la caserma senza parlare, Oscar aveva già deciso che quello che aveva da dire lo avrebbe detto davanti a tutti. Dopo una vita passata a nascondersi, quella era l’alba di un giorno di chiarezza e libertà e della determinazione a conquistarsele. Gli andò incontro decisa ad affrontarlo, consapevole del rischio, certa di ciò che voleva, avendo scelto da che parte stare.

    Padre perdonatemi, non lo faccio contro di voi ma per noi

    ***

    Quella muta richiesta di perdono, con parole più formali, era giunta al destinatario tramite uno scarno biglietto la sera prima. «Padre, vi ringrazio per tutto quello che avete fatto per me, perdonatemi se vi ho dato dei dispiaceri».

    Le asciutte righe d’addio di sua figlia avevano lasciato al Generale Jarjayes un senso di ineluttabile finitezza ancora più grande di quanto non avesse fatto l’ordine di servizio che gli aveva dato la certezza che la situazione del Paese fosse sul punto di precipitare nella guerriglia per le strade. Davanti al suo mondo che crollava, prima che si separassero, aveva sentito l’esigenza di attestare ad André tutta la propria stima, pur non arrivando a concepire per via dell’ostacolo del rango una relazione tra lui e Oscar: un modo di scusarsi per la notte drammatica di qualche tempo prima, in cui aveva minacciato entrambi con le armi. Provava rimpianto per non aver avuto la forza di salutare la figlia: troppo difficile affrontare un addio a voce con lei. Sentiva che non sarebbe bastato l’animo a nessuno dei due. Stava pensando a quello davanti al ritratto di lei quando quelle righe erano giunte a destinazione. Lì per lì aveva reagito con una fiammata al confine tra la rabbia e la disperazione: «Non ti perdonerò mai, Oscar, mai!», un attimo dopo si era pentito di quell’anatema al quale nemmeno lui credeva, dettato solo dal dolore per la lacerazione che quelle poche righe significavano.

    Si sarebbe voluto rimangiare quella frase dal sen fuggita a voce alta, non appena lo sgomento sul volto di Marie, l’anziana governante per cui provava un affetto filiale, gliene aveva restituito l’enormità. Con uno sguardo addolcito si rivolse allora alla governante, mettendole le mani sulle spalle: «Sono grandi, ormai. Che Dio li protegga, Marie, da questi tempi bui. Prega anche tu, a te Iddio darà ascolto più che a me».

    Di lì il Generale, turbato, prese la porta e a grandi passi, quasi con urgenza, andò a raccogliersi nella cappella di famiglia in fondo al parco. Chiese perdono a Dio e a sua figlia di quelle parole definitive. Capiva che contraddicevano quello che dentro di sé le aveva augurato un istante prima di leggere il messaggio: di vivere secondo il suo cuore. Mentre egli non riusciva a placare la lacerazione che sentiva nel proprio: non poteva rinnegare sé stesso, le proprie convinzioni, i valori del mondo in cui era vissuto e di cui si sentiva ancora parte; e contemporaneamente non voleva che accadesse qualcosa di male ai due giovani che aveva cresciuto. Chiese a Dio, se del caso in cambio della propria vita, che gli venisse risparmiato lo strazio di trovarseli di fronte in battaglia, ora che quelle poche righe secche gli avevano confermato quello che già sapeva: Oscar e André si sarebbero amati, e questo in fondo dentro di sé lo aveva già accettato; Oscar si sarebbe schierata con il proprio uomo dalla parte del popolo contro i privilegi dell’aristocrazia, sul fronte opposto a quello del padre nella divisione che stava spaccando la Francia, e questo gli era duro da digerire perché voleva dire che sua figlia avrebbe tradito il suo casato e ne avrebbe rinnegato il nome. Una ferita aperta per il Generale che aveva fatto della fedeltà alla Corona una ragione di vita. Sentendo di trovarsi dalla parte perdente della storia, recitò il confiteor e tornò sui propri passi verso il palazzo.

    Rientrando in casa, invece di ritirarsi nei propri appartamenti il generale spiccò una rosa rossa dal roseto e andò a bussare alle stanze della moglie. Madame Marguerite che stava ricamando in poltrona alla luce della lampada a olio, trasalì quando sentì bussare con decisione a quell’ora poco consueta. Si alzò con un filo di preoccupazione, immaginando che potesse trattarsi di una cameriera con un messaggio urgente da Versailles. Non fece in tempo a comprendere di essersi sbagliata che si sentì cingere per la vita e si vide porgere la rosa con un gesto galante memore del tempo andato, mentre la voce del marito, baritonale e intonata, vestiva i panni del recente Don Giovanni di Mozart solo per lei: “Deh vieni alla finestra, o mio tesoro...”.

    Madame arrossì come una ragazzina a quel corteggiamento che le ricordò la gioventù.

    Il generale quella notte fece l’amore con la donna della sua vita con l’ardore e l’emozione della prima volta. Sostenuto dalla forza della disperazione nella consapevolezza che avrebbe potuto essere l’ultima, ma fece di tutto perché lei non arrivasse a capirlo. Voleva lasciarle un ricordo spensierato. Se tutto fosse finito l’indomani, le sarebbe rimasta quella notte. Dormirono abbracciati come non facevano da anni.

    Il Generale la lasciò all’alba, attento a non svegliarla. Come faceva in gioventù prima di ogni missione.

    Tornò nei propri appartamenti e vestì l’uniforme pronto ad andare incontro al dovere, qualunque cosa gli riservasse.

    Passando a cavallo davanti alla cappella bianca in fondo al parco gettò una muta preghiera alla croce di ferro che la sovrastava, nera: «Signore, se dovete prendere qualcuno di noi nella battaglia che ci attende, prendete me. Per il resto, sia fatta la Vostra volontà».

    *Non me ne voglia Javier Marìas, uno dei più efficaci narratori dell’animo umano.

    (Per il titolo preso in prestito)

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    Capitolo 20
    *** SULLA SOGLIA ***


    Il rumore delle esplosioni è come attutito, ovattato. Con un filo di voce Oscar dà l’ultimo ordine ad Alain: «Continuate a combattere, non smettete di sparare».

    Il rumore si allontana a poco a poco, Oscar cammina in un prato verso una piccola semplice chiesa intonacata a calce, sulla soglia sono sparsi petali bianchi. Appena varcati gli spessi muri e il portoncino di legno, nella penombra dell’ingresso illuminata dalla luce pastello che filtra dalle vetrate, le viene incontro André, come se avesse previsto che non ci sarebbe stato un padre ad accompagnarla all’altare scolpito a bassorilievo nella pietra grezza.

    È elegantissimo con semplicità, nella sua uniforme blu scuro. La sua calma proverbiale non riesce a nascondere l’emozione che gli brilla negli occhi smeraldo, che dopo tanto tempo sembrano sorridere entrambi sotto il ciuffo ribelle: tutto è pronto per una semplice cerimonia nuziale.

    Le porge il braccio e lei vi si appoggia, come fosse la cosa più naturale del mondo, come se non avesse fatto altro fino a quel giorno. L’invade una gioia serena, pura, come se tutte le tessere del complicato mosaico della sua vita andassero a posto in quell’istante.

    Solo in quel momento si accorge che al posto dell’abito bianco che dovrebbe avere, e che dentro di sé avrebbe desiderato, semplice, per quell’occasione, indossa l’uniforme di gala, candida, impeccabile, delle guardie reali. Nota con tenerezza che André sembra non aver fatto minimamente caso a quel particolare, la lusinga il “sei bellissima” che gli ha letto sulle labbra quando le ha teso la mano all’ingresso della chiesa. Oscar si chiede come reagirà l’imponente religioso che rivolto verso l’altare sta finendo di sistemare gli arredi sacri quando si volterà e vedrà davanti sé un ufficiale e un soldato semplice.

    L’assale un attimo di terrore per l’impedimento che ne potrebbe sorgere a rompere la perfezione di quello che sta avvenendo. Si calma solo quando riconosce gli occhi trasparenti e sorridenti di frère Jacques (1), che voltandosi squadra divertito con l’aria di chi pensa “Signore, guardate che mi tocca fare” quella inconsueta coppia di sposi, che la vita ha messo sulla sua strada separati molto tempo prima (1). Con due balzi l’altissimo frate scende dall’altare e sussurra qualcosa di rassicurante al cappellano e all’anziana donna che assistono attoniti all’ingresso in chiesa di quelli che ai loro occhi sono inequivocabilmente due soldati, ricevendone in cambio un paio di sguardi perplessi che subito virano sulla bella donna fasciata nell’uniforme bianca.

    Alla destra dell’inginocchiatoio che attende gli sposi, Bernard Chatelet e, accanto a lui, la figura imponente di Alain. Oscar François de Jarjayes, l’occhio condizionato dalla deformazione professionale, osserva dentro di sé compiaciuta che il soldato de Soisson ha la giubba dell’uniforme correttamente abbottonata e il cappello ben calcato in testa, sarebbe pronta a scommettere di non averlo mai visto così ordinato.

    Dal lato opposto riconosce Rosalie, elegante e commossa alle lacrime nel suo semplice abito azzurro e accanto a lei, in marsina bordeaux, rifinita in un broccato dai fregi dorati, il dottor Lassone. La presenza del medico in quel ruolo le evoca un discorso lontano: «Promettete a me e soprattutto a voi stessa una cosa, Oscar: il giorno in cui doveste sentire il bisogno di imprimere alla vostra vita una direzione diversa, qualora il vostro corpo e il vostro cuore di donna ve lo chiedessero, scegliete voi la vostra strada». Dentro di sé Oscar si ripete che nessuno meritava più di lui di essere lì a garantire l’autenticità di quel sacramento e della sua volontà.

    Con la coda dell’occhio in un angolo della chiesa vede Marie, senza il solito grembiule, sostituito da un elegante e sobrio abito blu con il colletto bianco inamidato rifinito dallo stesso pizzo che orna la cuffia candida. Sta cercando di calmare tre paggetti dall’aria delusa: un biondino diafano, ricciuto, dall’aria principesca, in bianco e oro e due monelli con i capelli tagliati a scodella, un po’ impacciati nei loro completi di raso blu e argento. Li riconosce: il principe Louis, l’ultimogenito dei Sugane che anni prima aveva tenuto tra le braccia in una notte di febbre, e il piccolo Pierre. Il cuore si allarga al vederli tutti insieme così diversi eppure così uguali nell’età dell’innocenza. Oscar capisce che ad agitarli è l’assenza del velo della sposa di cui avrebbero dovuto reggere le falde. Le viene da ridere. Vorrebbe raggiungerli, inginocchiarsi alla loro altezza, spiegare loro che andrà benissimo che portino tutti insieme gli anelli. Non può farlo, ma capisce dal sorriso che ha spazzato la nube passata nei loro sguardi che Marie ha già trovato la soluzione che li rimette tranquilli.

    La solennità antica del latino lascia per un attimo il posto al francese, come vuole il rito per assicurarsi che tutti agiscano con coscienza e comprendano il valore del consenso dato:

    «Vuoi prendere Oscar qui presente come tua legittima sposa secondo il rito di Santa Madre Chiesa?»

    «Sì, lo voglio»

    «Vuoi prendere André qui presente come tuo legittimo sposo secondo il rito di Santa Madre Chiesa?»

    «Sì, lo voglio»

    «Ego conjungo vos in matrimonium. In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti. Amen.

    Benedic, Domine, anulum hunc, quem nos in tuo nomine benedicimus: ut, quæ eum gestaverit, fidelitatem integram suo sponso tenens, in pace et voluntate tua permaneat, atque in mutua caritate semper vivat. Per Christum Dominum nostrum».

    Secondo il rito cristallizzato fin dal concilio di Trento, André, con la destra che ne tradisce tremando l’emozione, prende il proprio anello e se lo infila all’anulare sinistro, prima di infilare l’altro, benedetto, all’anulare sinistro della sua sposa.

    Lo sguardo azzurro sorridente di Frère Jacques sembra ancora più limpido: anche la sua preoccupazione per quelle due anime tormentate è finalmente stemperata.

    Camminando verso l’uscita Oscar incrocia lo sguardo commosso di sua madre, la grazia in persona nel suo abito verde acqua, e il suo amico Chateaubriand (2), accanto a Madame quasi a sorreggerla Oscar riconosce il soldato Gérard Lassalle, poco più in là, leggermente voltata, una giovanissima nobildonna, Oscar non è certa di riconoscerla, ma le ricorda la Contessina Charlotte. Nota che non sono molti i nobili in quella chiesa, ma sa che è già moltissimo poter contare sulla presenza di quei pochi, in quei tempi tormentati: una non scontata benedizione.

    Attraversata la breve navata unica, un po’ frastornati dall’emozione, i due sposi non fanno in tempo a varcare la soglia della chiesa abbacinati dal sole di luglio, che un picchetto d’onore si solleva in un ponte si sciabole. È un tantino sgangherato: le uniformi non sono impeccabili come vorrebbe l’occasione, portano i segni di una battaglia recente.

    Le ultime lame, una delle quali tenuta da Alain, che li provoca beffardo con il suo mezzo sorriso sfrontato, anziché in alto si incrociano in basso a ostacolare il passo: i due sposi si guardano, capiscono che non li lasceranno uscire se non dopo un bacio travolgente, che si scambiano, senza farsi pregare e senza troppo badare all’etichetta, tra i lazzi dei loro commilitoni.

    Si staccano un attimo, mentre muovono incontro a loro le persone che hanno più care. Marie, con gli occhi lucidi, prende le mani di Oscar e bonariamente la rimprovera per l’abito, indubbiamente elegantissimo, ma non consono all’occasione, non secondo i gusti di una nonna d’altri tempi. Oscar vorrebbe dirle che anche lei aveva immaginato e desiderato qualcosa di diverso, che non ricorda come sia arrivata lì così. Ma non vuole allarmarla e allora scherza e minimizza come di consueto, spiegandole che si sente più a suo agio in quel modo o qualcosa del genere.

    Madame Jarjayes stringe le braccia di André, nessuno sente che cosa si dicano, ma si sorridono sereni: hanno entrambi l’aria di chi ha sempre saputo che sarebbe finita così.

    Mentre André parla con Madame, Marie torna a sorvegliare i tre paggetti che si sono messi a giocare sul prato, Oscar resta un istante sola in un cono d’ombra. È quello il momento in cui un uomo, non più giovane eppure diritto come una spada, avvolto in un anonimo mantello grigio con il bavero rialzato a celarne il volto e un tricorno calato fin quasi sul viso, le si avvicina e le lascia tra le mani senza una parola una splendida rosa bianca ancora in boccio. Prima che si volti per sparire in silenzio com’era venuto, Oscar François fa in tempo a incrociarne gli occhi grigi e ad avere la certezza di specchiarvisi. La commozione che aveva trattenuto fino a quel momento si scioglie in una lacrima.

    ***

    Oscar e André sono rimasti soli, riconoscono un luogo familiare: i dintorni di Arras, teatro dei loro giochi di bambini, delle loro cavalcate da ragazzi. Camminano insieme mano nella mano verso la collina. La felicità completa non ha bisogno di parole. Si sta bene, sono scomparsi il caldo di luglio, l’odore del sudore, del sangue e della polvere da sparo, il rombo dei cannoni: il ricordo di quello che è stato svapora in quell’incedere calmo incontro all’ignoto.

    Sempre camminando si afferrano in un bacio, il suggello dell’amore maturo, il solo anello mancante di una vita per intero condivisa, finalmente alla luce del sole che li attende all’orizzonte nel rosso di uno splendido tramonto.

    Per l’urgenza della passione, già una volta assaporata sull’argine del fiume in cui tutto scorre, ci sarà tempo. Prima che l’eternità si porti via quel che resta del giorno e che tutto il dolore del mondo in essa trovi finalmente pace.

    Saber, nada sabemos,

    de arcano mar vinimos,

    a ignota mar iremos…

    (Antonio Machado)

    https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=4053905&i=1

    e “Gerarchie” https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=4054415&i=1

    *Nota dell’autrice: l’avventura delle Notti agitate finisce qui, ringrazio le persone che hanno seguito questo racconto, anche con grande fedeltà. Nata come una raccolta di one-shot (le notti sono per definizione staccate) è diventata quasi una serie lungo la cronologia dell’anime. Spero di aver trovato un modo per finirla all’altezza della situazione e di non aver troppo deluso chi si aspettava qualcosa di diverso.

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