L'Aphrodite - storia di una donna in fuga perpetua

di Selene123
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'Aphrodite c'est moi ***
Capitolo 2: *** La lettre ***
Capitolo 3: *** Le roi s'amuse, moi pas ***
Capitolo 4: *** La présentation officielle ***
Capitolo 5: *** Louis Alexandre ***
Capitolo 6: *** Le mariage ***
Capitolo 7: *** Le voyage ***
Capitolo 8: *** Tolone ***



Capitolo 1
*** L'Aphrodite c'est moi ***


Ho guardato più volte negli occhi la solitudine, illudendomi così di riuscire ad affrontarla ad armi pari. Mi sono fatta più piccola e, all'occorrenza, più grande, ho taciuto nel tentativo di adattarmi. Talvolta, quando il peso da sopportare era eccessivo, mi intrattenevo in lunghe conversazioni con la mia immagine riflessa nello specchio e spazzolavo i capelli con la cura che, solitamente, mi riservava la cameriera prima di andare a dormire. La balia per un certo periodo credeva che fossi pazza: quando mi sorprendeva a discutere con me stessa, mi afferrava per un braccio precipitandosi da mia madre con il terrore negli occhi. "La bambina parla da sola!" esclamava con il tono di chi avesse visto uno spirito, "In una lingua sconosciuta, per giunta!". Io non ero andata fuori di testa né mi cimentavo in idiomi oscuri e la donna che mi aveva partorito poco più di un lustro prima lo sapeva. "Sta esercitando il suo italiano, come il maestro le ha chiesto." concludeva lei la questione ogni volta, spesso senza neanche degnarci di uno sguardo. Aveva sempre tutt'altro da fare: intrattenere ospiti di vario lignaggio, impartire ordini alla servitù, redigere carte e cucire decori floreali su fazzoletti di stoffa. Di tanto in tanto si dilettava anche al clavicembalo, passatempo che a me divertiva perché avevo il permesso di assistere alle sue esibizioni e, una volta iniziato anche io a suonare discretamente, potevo addirittura partecipare. 

Frequentavo poche persone della mia età finché ho vissuto nella casa della mia famiglia, insomma, un sontuoso palazzo nei pressi della Reggia. I miei genitori, i duchi De Cigale, si erano sposati molto giovani: un matrimonio combinato, il loro, tra una bella figlia della nobiltà francese e il rampollo di un ramo di un'importante nobile famiglia genovese stabilistasi in questo Paese per ampliare le relazioni con la corte; funzionale, peraltro, era stato il cambio di cognome da un italianissimo Cigala a un più consono De Cigale. Léopold Philippe Marie e Joséphine Augustine avevano appena ventuno e diciannove anni quando è nato il mio fratello, Marc-Antoine Léopold Auguste. Ne parlavano sempre come di un bambino tranquillo e generoso, attento durante le lezioni e desideroso di apprendere come diventare il futuro duca De Cigale per rendere orgoglioso nostro padre. Io, purtroppo, non ho memoria di lui a quel tempo. L'unica figlia femmina della famiglia, la persona a cui riservare la dote e per cui organizzare fin dai primi vagiti un'esistenza dignitosa in vista dell'obbligata cessione un giorno a un uomo facoltoso, ci aveva impiegato di più per venire al mondo, ossia quando il fratello era già stato mandato in accademia militare. I nostri genitori mi hanno presentata a lui, infatti, come suo regalo di compleanno: il quindicesimo. Mi sarebbe piaciuto trascorrere più giornate insieme a lui, ma ricevevo solo lettere di tanto in tanto che mi davano quantomeno la possibilità di poterlo immaginare. Pensavo a Marc-Antoine come ad un valoroso guerriero, un cavalliere che tirava di scherma in sella al proprio destriero come nelle pagine dei libri che sfogliavo di nascosto nella grande biblioteca di famiglia. Quando mio fratello tornava, però, mi sembrava talmente diverso da come i ritratti esposti nelle sale del palazzo lo raffiguravano e da come me lo ero figurato io che non riuscivo a riconoscerlo. Ogni volta in cui tornava a casa mi sembrava sempre più alto, la sua voce sempre più profonda e spaventosa... Si rivelava del tutto inutile la sua presenza in casa, dal mio punto di vista, non avendo lui alcuna intenzione di passare con una bambina più di tanto tempo. I suoi racconti riguardavano quasi soltanto la vita militare e, sebbene i miei genitori (soprattutto il duca nostro padre) ascoltavano con piacere ciò che avesse da dire, a me pareva che ogni visita si prolungasse troppo a lungo e che quei congedi fossero una gran perdita di tempo. Per Marc-Antoine e per me. Un giorno, poi, quando il suo percorso di studi era già ben avviato al successo e gli si profilava un bel posto per cominciare la sua carriera nell'esercito di Sua Maestà, la casa si era riempita all'improvviso di gioia e trepidazione: nostro padre aveva finalmente trovato la moglie perfetta per il suo unico erede maschio e in men che non si dica mi ero trovata circondata di estranei che mi facevano rimpiangere i soliloqui allo specchio. Grandi feste e grandi celebrazioni, tutte destinate a portare via con sé anche quella propaggine di gente sconosciuta per la quale ero stata obbligata a indossare i corsetti più stretti che avessi mai avuto e ad acconciare i capelli in modo pericolante. 

Ero una bambina sola, quindi, in una grande casa, circondata da adulti che non pensavano a me o, se lo facevano, era per impartirmi una lezione noiosa. Una volta cresciuta, alla "piccola donna" venivano affidati compiti da svolgere in vista di un futuro non meglio precisato in cui qualcuno l'avrebbe sposata. Tutta la mia esistenza era ormai finalizzata a quell'unico obiettivo. Mia madre aveva cominciato a commissionare abiti simili a quello cucito per le nozze di mio fratello, stecche di balena e crinoline terrificanti dentro le quali crescevo di mese in mese e mi sentivo a disagio. Si preoccupava che sapessi conversare bene, comportarmi adeguatamente a tavola e compagnia obbligandomi a seguirla nei suoi incontri mondani del pomeriggio, controllava che avessi una grafia "gradevole, comprensibile ed elegante" e si premurava che le mie velleità intellettuali - una volta scoperto il mio rifugio tra le pagine della biblioteca - non prendessero il sopravvento. "Non pensare e non parlare, cara," ripeteva spesso Madame la duchesse, "agli uomini non serve". Mi sentivo mancare il fiato quando quelle parole venivano pronunciate. Non servivo a nient'altro che ad accompagnare qualcuno, a generare la sua prole e a far finta di occuparmene mentre sorseggiavo del té cinese immersa nel pettegolezzo della corte. Ricordo di aver pianto molto quando ero una ragazzina, una "piccola donna" di cui liberarsi al più presto perché la famiglia rafforzasse il proprio ruolo nella nobiltà e accrescesse il prestigio di un cognome naturalizzato ma non originario dei luoghi. Distrattamente, durante le merende in compagnia di marchese e principesse amiche di mia madre, sentivo discutere circa l'inconcludenza della nuova arrivata, l'austriaca moglie del delfino di Francia, incapace di dare alla nazione e al marito un erede. Mi rincuorava sapere di non essere l'unica incarnazione della delusione nei confini dello Stato. Certo, il mio momentaneo nubilato non avrebbe compromesso né la discendenza della famiglia reale né gli equilibri di mezzo continente europeo, però, anche se solo spiritualmente, trovavo conforto nella sua storia. "E la delfina com'è? L'avete mai incontrata?" mi ero azzardata a chiedere io un mattino interrompendo la chiacchierata fra madri maritate da anni. Gli occhi di mia madre si erano posati sul mio volto con l'accanimento di una belva: non avevo il permesso di immischiarmi in conversazioni che non mi riguardavano, a maggior ragione se per farlo avrei dovuto togliere la parola alle persone più grandi di me. Non le era servito neanche muovere un muscolo del volto, sapevo cosa significasse quello sguardo: "Non parlare, agli uomini non serve". La mia curiosità, pertanto, era caduta nell'aria, o forse si erano limitate a descrivere la principessa sommariamente con una battutina sagace (come facevano un po' tutti, d'altronde).

Che parlassero in quei termini anche i miri genitori di me? Come avrei potuto trovare marito e adempiere ai miei compiti se mi presentavano alla corte in tal modo? E se davvero non avessi trovato nessuno, neanche un vecchio conte con un appezzamento di terreno ridicolo dall'altra parte del Paese che necessitava soltanto di carne fresca a cui imporre il proprio cognome e la propria stirpe prima di lasciare questo mondo? Sarei stata una disgrazia! Anzi, sarei passata alla storia come l'ultima della mia famiglia, colei la quale avrebbe posto fine ad una nobile famiglia di antichissime origini! Dovevo impegnarmi di più, sforzarmi di stare zitta, imparare meglio le buone maniere, la danza, il canto — quello sì che mi piaceva! — la sottile arte della seduzione con il ventaglio, il savoir-faire a corte... Il tempo stava correndo veloce, lo sentivo e all'arrivo della notizia che Marc-Antoine e la sua bella moglie Françoise avrebbero avuto un bambino l'angoscia aveva cominciato a perseguitarmi. Non ero più sola, in effetti. Adesso, mi trovavo in compagnia di tutte le preoccupazioni, le ansie, le paure che una giovane donna dell'aristocrazia senza marito e con il vizio di fare domande possa avere. 

Io sono Aphrodite Marie Augustine Léopoldine, sono nata a Versailles nell'aprile del 1755 e questa è la mia storia. Écrite par moi même, dans mon journal, à partir des mes souvenirs. 

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Capitolo 2
*** La lettre ***


La sera del mio debutto ufficiale a corte avrebbe coinciso — a mia insaputa — con l'incontro con il mio futuro marito. Ancora oggi non so se i due avvenimenti fossero stati decisi da mia madre o se il fato avesse portato quel giovane al mio primo ballo. Ciò che è certo, però, è che le nostre famiglie avessero già cominciato a sondare il terreno da qualche tempo, ma per evitarmi dei gran mal di testa avevo preferito soprassedere ed estraniarmi dalla conversazione ogniqualvolta si presentasse l'argomento. Tanto casuale, comunque, non doveva essere stato. 

La busta con la quale ci era stato recapitato l'invito per la festa da parte di un valletto recava sul sigillo di ceralacca un fleur de lis, segno che quell'importante comunicazione proveniva direttamente da Sua Maestà. Nell'agitazione generale che si era impossessata di casa nostra in meno di un minuto, ricordo distintamente mio padre alzare gli occhi dalle sue carte e chiedere a sua moglie se si trattasse dell'ennesimo tentativo del Re di far sapere che i delfini erano ancora vivi e vegeti come avrebbero potuto constatare tutti la sera del gran ballo, nonostante la momentanea assenza di un figlio. Mia madre, stizzita dal tempo che le stava facendo perdere l'uomo alla scrivania con una domanda talmente sciocca, correva tra stanze e corridoi seguita da un gruppo di cameriere alla ricerca di ciò tra cui potessimo scegliere per presentarci al meglio. Si chiedeva a voce alta il motivo di un invito così importante consegnato all'ultimo minuto — il giorno stesso! — e non trovava pace immaginando le varie ipotesi che potessero dare risposta al suo quesito. Non l'avevo mai vista tanto agitata, credevo che prepararsi per un'occasione mondana fosse il suo forte ma non avevo tenuto in considerazione due variabili finora inedite: la mia presenza ad un evento serale e, soprattutto, la mia presenza ad un evento serale davanti al Re, al suo successore, alla consorte e, in definitiva, alla corte intera. Il rischio che rovinassi tutto, coprissi di ridicolo la nostra famiglia e gettassi nel vento i successi di mio fratello nell'esercito non era nullo, benché io mi preparassi da anni per quell'occasione e per le successive. Nonostante le mie perplessità, avevo evitato di protestare: si trattava comunque di una situazione a me nuova e le mie esperienze in fatto di incontri sociali si erano limitate a merende, incontri mattutini e altri giochi di poco conto. 

Terminato il panico e scemata l'ansia da prestazione, i presenti in casa avevano dato il via ad un lungo processo di preparazione che, dal sovrano nel corso di diverse ore, ci avrebbe resi degni di essere ospitati. L'ingombrante gonna sorretta da un panier interno molto rigido mi sembrava tutto sommato non troppo scomoda rispetto alla parte superiore dell'abito. Mia madre si era premurata con le cameriere che il bustino fosse il più stretto possibile, cosicché se non mi fosse stato permesso di respirare più del necessario per sopravvivere non avrei potuto creare incidenti di alcun tipo. Mentre Rose tirava i laccetti sulla schiena per fermarli poi in un piccolo fiocco, avevo la netta percezione di essere schiacciata fra due pareti e che il fiato si facesse ogni minuto più corto. "Resistete, Mademoiselle, dovete essere perfetta per questa sera..." mi ripeteva la poverina, una ragazza estremamente dolce e delicata il cui compito principale era, da qualche anno, aiutare a vestirmi. Sembrava più emozionata lei di me quella sera, come se il mio debutto corrispondesse ad un suo personale obiettivo raggiunto, un traguardo a cui lavorava da tanto e che infine aveva superato con onore. "Siete molto cara, Rose, ma ci devo arrivare viva!" le avevo risposto, giusto un paio di istanti prima che mia madre, già abbigliata e pettinata alla perfezione, entrasse nella mia camera accompagnata dalle acconciatrici. Di tutto il processo preliminare all'uscita di casa, il momento più gradevole si era rivelato proprio quello dedicato ai capelli. Mi piaceva essere pettinata, sentire il tocco delle dita che scivolavano attraverso le ciocche mi ricordava quel poco di affetto che mia madre mi concedeva quando ero bambina. Ero rimasta seduta davanti allo specchio per un'ora a lasciare che una signora alta dal volto serio e concentrato e le sue due assistenti mi apparecchiassero in testa ciò che veniva comunemente definito le pouf. Una sorta di cuscino castano scuro, un'impalcatura sontuosa adornata da fiocchi e piume che poggiava sul mio capo e attentava al mio equilibrio sbilanciandomi non appena cercassi anche solo di voltarmi per guardare cosa succedesse al mio fianco. Finalmente sistemati gli ultimi dettagli, avevo imboccato la porta per recarmi nel salotto dove i miei genitori attendevano con pazienza il mio arrivo. Era complicato portare in giro tutti quei chili di stoffe e sostegni nascosti senza inciampare o dare l'impressione che facessi fatica, ma dopo i primi difficili passi avevo attinto alle lezioni di buone maniere che avevano riempito i miei giorni fino al mattino precedente ricordandomi i segreti di una camminata sicura e disinvolta. 

Al pianoterra, i duchi De Cigale sedevano su un prezioso e morbido divano bordeaux decorato con arabeschi. Il candelabro di cristallo a goccia pendeva dal soffitto a cassettoni immergendo la grande stanza, ben illuminata, in un'atmosfera soffusa. Le ombre delle candele si muovevano in modo flebile nell'aria, a distanza sufficiente da qualsiasi struttura di legno a cui potessero far prendere fuoco. Le pareti bianche, adornate di cornici e battenti dorati, ospitavano un grande specchio rettangolare sopra la mensola del caminetto, due alte finestre nascoste dalle tende di cotone ricamate e il ritratto di famiglia che un pittore chiamato da mio padre direttamente dall'Italia aveva dipinto alcuni anni prima. Avevo appena varcato la soglia del salotto quando gli occhi di mia madre si erano accesi di una luce incredula, quasi sull'orlo di un leggero pianto di gioia. "Quanta fatica e impegno ci sono voluti per renderti così bella, ma chère!" aveva esclamato lei chiudendo con un gesto rapido il ventaglio per poi alzarsi a braccia aperte e avvicinarsi a me. "Mi auguro di essere accettabile..." avevo risposto io, ma nell'esatto momento in cui stavo per voltarmi per mostrare anche il retro di quell'ingombrante tenuta da sera la duchessa si era affrettata a fermarmi appoggiando le sue lunghe dita pallide sul mio braccio: "No no, tesoro. Non fare così, per favore". Mio padre aveva alzato gli occhi al cielo, sconsolato, come d'abitudine, da che avevano imparato a conoscersi bene (vale a dire almeno un paio d'anni dopo il loro matrimonio). Era sempre divertente vedere quell'uomo così distinto nella quotidianità cambiare quasi del tutto per le occasioni di festa. I suoi naturali capelli mossi brizzolati venivano coperti da una pesante parrucca riccia legata da un fiocco del medesimo colore del completo. Per quello che sarebbe stato, a detta di sua moglie, l'evento della nostra vita finora il duca ne aveva scelto uno verde cucito con stoffe pregiate provenienti da Venezia; perfino la fibbia delle scarpe era tinta smeraldo, così come il cappello e i dettagli dei volant ricamati dalle sapienti mani delle sarte più esperte a nostra conoscenza. Con grande gioia, mio padre si era congratulato con me per il mio aspetto e, stringendo entrambe la mie mani nelle sue, aveva dato il suo benestare all'imminente debutto a corte della sua unica figlia femmina. "Stiamo già perdendo tempo!" si era premurata di ricordarci Madame la duchesse mentre la sua cameriera personale le passava un paio di guanti da sera. "Bien sûrbien sûr..." aveva concluso suo marito, invitando entrambe a dirigerci verso il grande portone aperto sul giardino immerso in un caldo tramonto tardo-primaverile.

Quando ancora vivevo la condizione di indolente ma sofferto (dagli altri) nubilato, la nostra residenza era un palazzo nel quartiere Notre-Dame di Versailles. Per raggiungere la reggia occorrevano all'incirca venti minuti nei giorni in cui gli invitati a corte avevano orari differenti a cui presentarsi, più o meno mezz'ora negli altri casi (come quella sera). Dalla finestra della carrozza osservavo per la prima volta la città fuori dal confine di casa illuminata dalla luce arancione dell'ora di cena. Mi sembrava un luogo diverso da quello che vedevo di solito, percorso da personaggi che mi parevano usciti dalle proprie dimore soltanto per abitarlo esclusivamente al calar del sole. Spesso capitava di incontrare bambini che correvano per le strade mentre donne e uomini di ogni età si dirigevano verso chissà dove e salutavano con reverenza i curati che trovavano sul cammino. A quell'ora, invece, le uniche presenze femminili facilmente riconoscibili aspettavano con pazienza sulla soglia di portoni chiusi durante il giorno e sulle quali mia madre posava sguardi ricchi di sdegno, lamentando l'avvento di una corruzione morale inaccettabile, la cui unica soluzione sarebbe stata trasferire la famiglia De Cigale da un'altra parte. In campagna, magari. "Ce n'est pas possible!" ripeteva lei indignata dietro il ventaglio, mentre mio padre alzava gli occhi al cielo per l'ennesima volta durante la giornata. Io, ingenua, non capivo a cosa si riferisse ma l'entusiasmo del momento era talmente tanto che perfino quella reazione mi sembrava parte piacevole del gioco a cui stavo partecipando. "Avete proprio ragione, madre..." avevo sospirato io, benché Madame non ne fosse rimasta piacevolemente colpita. "Cosa ne saprai mai tu, che esci di sera per la prima volta oggi!" mi aveva rimproverata con il tono di chi non vuole davvero riprendere il proprio interlocutore ma l'intera situazione la sta agitando al punto di avere solo risposte scontrose. "Calmatevi, ma chère, Aphrodite voleva solo partecipare alla conversazione" si era intromesso mio padre il duca e, aggiustando lo jabot della camica, aveva sviato il discorso cambiando argomento per allentare la tensione.

Troncate sul nascere le mie ambizioni di conversare insieme ai miei accompagnatori, avevo spostato di nuovo l'attenzione sul panorama che ci circondava. Il lungo viale che portava alla reggia era punteggiato di alberi carichi di foglie verdi che il vento faceva oscillare lentamente. Dagli infissi dei palazzi più ricchi si scorgevano le luci delle candele all'interno delle stanze, nonostante fuori fosse ancora abbastanza chiaro da permettere di vedere ancora senza troppi aiuti. Dietro ai cancelli si estendevano giardini e prati curatissimi benché situati in città, sicuramente ancora più sontuosi nel retro delle abitazioni. Chissà chi le abitava, se li avrebbero incontrati al gran ballo o se, al contrario, se ne sarebbero rimasti lì, a trascorrere la serata immaginando da lontano quella che per la nostra famiglia si apprestava ad essere l'evento più importante di sempre (finora)... Mi ero lasciata andare ad un sospiro pensieroso quando, inaspettatamente, la carrozza si era fermata e dall'esterno si poteva udire con chiarezza il cocchiere agitarsi e discutere con qualcuno. Dalla mia postazione riuscivo a scorgere soltanto il lato sinistro del cavallo, da dietro al quale era corso via verso un vicoletto un ragazzino insieme ad una bambina più piccola. Entrambi mi parevano vestiti con abiti sdruciti e umili, reggevano dei tozzi di pane stringendoli il più stretto possibile al petto per non rischiare di perderli per strada. "Che succede?" aveva domandato con impazienza mio padre, per poi scoprire che i due fuggitivi avevano attraversato la strada all'improvviso, forse dopo essere scappati dall'elegante residenza che occupava metà del viale alla nostra destra. Mia madre continuava a ripetere che non potesse essere possibile, che qualcuno doveva assolutamente fare qualcosa perché se due ragazzini erano riusciti ad introdursi in un palazzo tanto importante e protetto saremmo stati in pericolo proprio tutti e lo faceva con un'irritazione sempre maggiore che le ingrossava la vena sul collo. Tra una constatazione di desolazione e l'altra, sventolava il ventaglio a gran velocità e si lamentava, in ordine sparso, del ritardo che quell'imprevisto ci avrebbe procurato, della potenziale figuraccia, della delusione che avremmo provocato in Sua Maestà e nelle Loro Altezze e, ça va sans dire, dell'impossibilità di riprendere terreno essendo una mossa che avrebbe dipeso da me. Stanchi di sopportare per la centrsima volta la mancanza di fiducia nei miei confronti che mia madre non nascondeva più, mio padre e io ci eravamo guardati negli occhi desiderosi di arrivare in fretta a palazzo e avvicinarci un po' al momento in cui tutto sarebbe finito. 

Una decina di minuti dopo, con il centro abitato ormai alle spalle lontano, i cancelli della reggia di Versailles erano apparsi piano piano per diventare sempre più imponenti e maestrosi. Quando la carrozza aveva fatto il suo ingresso nella cour royale, i miei occhi avevano avuto finalmente l'occasione di posarsi sullo spettacolo più bello che mi fosse capitato di vedere. Un gigantesco edificio, perfetto nelle sue proporzioni mastodontiche, si avvicinava di gran lena con le sue infinite finestre luccicanti e la sua simmetria studiata al millimetro. Percepivo con chiarezza il cuore battere all'impazzata, agitavo il ventaglio per trovare un po' di aria da respirare nel momento in cui il fiato era tornato a farsi corto. Osservavo le altre carrozze fermarsi qualche metro più avanti rispetto alla nostra e da esse scendere una quantità indefinibile di gente. Mai in vita mia mi era capitato di assistere ad uno spettacolo del genere e, se quello era solo l'inizio, avevo capito che mi sarei dovuta già preparare per quanto sarebbe forse potuto accadere nelle ore successive. Il nitrito dei cavalli si confondeva con le risate e le voci allegre degli invitati appena giunti a destinazione, alcuni dei quali non mi sembrava che disquisissero tra loro in francese. Tutti apparivano a proprio agio visti dalla mia seduta, amici di vecchia data che si incontravano nuovamente con felicità e impazienza. Che cosa avrei potuto dire loro per fare una bella figura e dare la giusta impressione? Quelle donne erano evidentemente  esperte navigatrici di importanti salotti ed eventi fondamentali nella vita dell'aristocrazia. Perfino le più giovani, come colte da un forte spirito di intraprendenza, lasciavano che i gentluomini si avvicinassero per un elegante baciamano prima di salire la prima  rampa di scale e perdersi nei corridoi. Quel rutilante via vai di persone, cavalli e carrozze mi aveva catturata al punto di non rendermi conto che ci eravamo mossi abbastanza da raggiungere il punto di arrivo e l'elegante lacché ci aveva aperto la porta così da permetterci di scendere. "Bonne chance!" mi aveva augurato mio padre con un'espressione serena benché un po' tesa, mentre mia madre camminava al mio fianco sorridente ben conscia del fatto che sarebbe stata la mia guida per tutta la serata. Quale occasione migliore, pertanto, per tirare a lucido la coda del pavone che abitava dentro di lei?

 

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Capitolo 3
*** Le roi s'amuse, moi pas ***


La Galerie des glaces era il luogo più sorprendente che avessi mai visto in vita mia. Ogni cosa lo era quella sera, ad essere sincera, ma una volta entrati in quel corridoio avevo avuto la netta sensazione che nulla avrebbe potuto superare uno spettacolo del genere. Una lunga galleria illuminata da grossi lampadari di cristallo la cui luce delle candele rifletteva sulle rifiniture dorate delle pareti. Le finestre, così ampie, lasciavano entrare nella stanza il panorama della città che si protraeva oltre il nostro sguardo, raggiungendo gli specchi sul lato opposto. Erano tantissimi gli invitati al ballo in onore dei delfini e, quando credevo che non ne sarebbero potuti arrivare più, mi ero voltata distrattamente e avevo visto i restanti raggiungerci. Raramente nella storia dell'umanità si era riunita una così assortita varietà di colori, stoffe, parrucche e volti nello stesso posto, eppure mi sembrava che ogni singola persona fosse a proprio agio. Dalle loro espressioni serene e divertite, in alcuni casi perfino incuriosite, mi pareva che tutti avessero confidenza con quei luoghi, che sapessero perfettamente come comportarsi gli uni con gli altri e nella Galerie. Il bisbiglio continuo del chiacchiericcio generale aveva lo stesso effetto generato da un costante ronzio di api: subito stordisce, ma presto ci si fa l'abitudine riuscendo perfino a riconoscere il suono della piccola orchestra chiamata ad allietare la nostra serata. Le signore sfoggiavano abiti e pettinature decisamente più ingombranti e scomode di quanto non dovessi sopportare io, gli uomini indossavano con disinvoltura completi raffinati e curati fino al più piccolo dettaglio. La sorpresa di tanto sfarzo vissuto con invidiabile nonchalance mi aveva portato a pensare che la nostra monarchia, assoluta e con Versailles come unico punto di riferimento, ci accogliesse con magnanimità tra le sue braccia come una grande madre che trova lo spazio e il tempo per ciascuno dei suoi innumerevoli figli, anche quelli venuti da lontano.

Benché i miei genitori salutassero chiunque, il loro cruccio principale (come tutti in quella sala) riguardava la presenza al ballo dei festeggiati. Come era presumibile, però, le loro Altezze dovevano ancora arrivare, accompagnati da Sua Maestà, e ci sarebbe voluta almeno un'ora perché ciò effettivamente accadesse. La marchesa D'Archambeau, grande frequentatrice di balli e salotti nonché amica di famiglia, insieme al marchese suo marito, da tempo immemore, agitava con delicata veemenza il ricco ventaglio a poca distanza dal volto assicurandomi che fosse il momento migliore dell'intera festa. "Vedete il fermento, l'agitazione di questa folla, mademoiselle? Stanno tutti scalpitando impazienti di vedere il principe e la principessa, in particolar modo la principessa Antoinette... Forse più del Re, vi dirò!" Madame D'Archambeau mi parlava con tenerezza quella sera, come se il mio debutto ufficiale a Versailles le ricordasse il proprio alla mia età - o magari prima! - e tentasse di evitare che incappassi in errori o ingenuità che avrebbero messo me o il nostro nome in imbarazzo. La duchessa mia madre disquisiva con chiunque le capitasse accanto, riceveva baciamani da gentiluomini e prelati di alto ordine che si affrettavano poi a conversare con mio padre, loro fedele amico a giudicare dalla confidenza immediata con cui si rivolgevano a lui. La marchesa, con mia grande sorpresa, mi teneva in disparte a pochi passi da loro, istruendomi con pacata solerzia sulle identità degli avventori coprendosi le labbra con il ventaglio e scoprendole nel momento esatto in cui questi ci raggiungevano, interrogandola su chi fossi. Mentre io mi domandavo perché non fossero i miei stessi genitori a presentarmi al resto della corte, tutto intorno a noi diventava ogni minuto più scintillante e a suo modo caloroso. Camerieri in livrea ufficiale scivolavano silenziosi tra gli invitati reggendo vassoi di argento brillanti per porgere a chi la volesse una coppa del migliore champagne francese, come trasportati dal vento. 

All'improvviso Madame D'Archambeau mi sfiorò la schiena con una mano, facendomi segno di raggiungere i miei genitori che si stavano incamminando verso il lato nord della Galerie mentre il marchese le offriva il proprio braccio per inserirsi insieme nella lunga fila che guardava nella stessa direzione. Mio padre e mia madre avanzavano composti ai miei lati e gli orchestrali avevano cominciato a suonare una musica decisamente più sontuosa, quasi marziale, che poteva indicare soltanto un evento: l'arrivo del Re. Il brusio che fino a pochi minuti prima aveva riempito le orecchie fino a saturarle era andato scemando fino a tacersi. C'era una sola persona a cui dovevamo prestare attenzione e nessuno avrebbe potuto proferire parola in sua presenza senza esplicito permesso. Due valletti avevano colpito il pavimento con un pesante bastone, chiara indicazione che il sovrano era ad un passo dall'apparire in tutta la sua regale magnificenza. Quando le porte si erano finalmente aperte, un uomo corpulento con i capelli grigi acconciati in morbidi boccoli raccolti in una coda aveva fatto il proprio ingresso nella galleria. Benché a casa nostra il suo nome fosse estremamente popolare, il suo volto mi era quasi sconosciuto. Sapevo che a Parigi ci fossero delle statue che lo raffiguravano, ma mi era concesso recarmi in città in carrozza troppe poche volte perché avessi memorizzato i lineamenti del sovrano. Scrutandolo con difficoltà tra le teste e le alte pettinature degli invitati in fila davanti a noi, riuscivo soltanto a vedere un signore anziano che ci dava il benvenuto e la cui faccia mi ricordava (perlomeno a distanza) quella di uno zio di mio padre che talvolta si metteva in viaggio dall'Italia per venirci a trovare e raccontare di cosa succedesse al ramo d'oltralpe della famiglia. La sua voce era profonda ma gioviale, capace di giungere senza problemi perfino alle orecchie degli invitati in fondo alla salaL'orchestra si era taciuta nel momento esatto in cui il Re aveva cominciato il discorso, lasciando che il silenzio della stanza amplificasse ogni sua parola. All'improvviso, complice l'infinito elenco di complimenti che le Bien-Aimé rivolgeva agli interlocutori muti, avevo percepito con preoccupazione il naturale istinto di sbadigliare. Trattenendomi il più possibile, imitavo le altre signore coprendomi il viso con il solito ventaglio nel tentativo di arginare gli eventuali danni. Con la precisione di un ritrattista, mia madre mi aveva colpito con un gomito senza neanche posare lo sguardo su di me. Mio padre aveva abbassato lievemente il capo, nascondendo un mezzo sorriso sotto i baffi. Tenendo bene l'orecchio alla mia destra, ero riuscita distintamente a udire la duchessa bisbigliare il più breve ma efficace dei rimproveri. 

La mia attenzione si era ridestata nel momento in cui Sua Maestà aveva infine annunciato l'imminente dei delfini. Più di tutto, mi incuriosiva conoscere - o quantomeno incontrare - la principessa, che non avevo mai visto prima di quella sera perché al matrimonio reale erano andata l'intera famiglia tranne me, colpevole di aver contratto una febbre molto alta. "È una giornata di grande festa, Aphrodite. Non rovinarla con una prematura dipartita." si era premurata di avvisarmi mia madre poco prima che le carrozze l'accompagnassero insieme al marito, al figlio e alla nuora verso la reggia lasciandomi alle preziose cure delle cameriere e della balia. Delle tante qualità che possedeva la mia nobile genitrice, era innegabile che il tatto e l'affetto non fossero in cima alla lista. Circa un anno più tardi, ci trovavamo a pochi metri dai non più novelli sposi, costanti protagonisti delle discussioni di chiunque frequentasse salotti e alta società in generale a causa della loro pessima iniziativa in camera da letto. Mi faceva sorgere non poche perplessità quel continuo immischiarsi negli affari privati di una coppia, ma ogni volta in cui tentavo di esprimerle ricordavo la risposta piccata di una contessa amica di famiglia: "Si tratta del futuro erede al trono, ma chère, è interesse di tutto il Paese conoscere cosa succede sotto quelle coperte!". Una fortuita coincidenza, però, aveva portato le due signore pochi passi dietro di me a dare una risposta a voce bassa a quelle parole che mi ronzavano in testa. "Anche questa notte non succederà niente..." "Come sempre, d'altronde", chiosando con una leggera risata sarcastica.

 

 

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Capitolo 4
*** La présentation officielle ***


Come da istruzioni rigidamente impartite per la quasi totalità della mia vita, quella sera mi ero lasciata condurre (o, meglio, trascinare) in tutto ciò che accadeva. Saluti, conversazioni, brevi interazioni coreutiche proposte da gentiluomini di ogni età conoscenti (se non proprio amici) dei miei genitori, ai quali non volevo disubbidire in presenza di Sua Maestà. Mi sentivo come trasportata dalla corrente e, ripensandoci oggi dopo molti anni, la sensazione non mi dispiaceva affatto. Era bello poter evitare anche solo il pensiero più fugace, le preoccupazioni erano sparite e anche l'inquietudine che, devo ammettere, l'occasione e i suoi preparativi avevano generato nella mia giovane persona sembravano un recente ricordo di cui sorridere. Per l'intera serata una sensazione di appagamento mi aveva investita facendomi comprendere perché mia madre ci tenesse così tanto ad occasioni del genere. Una serena euforia alla quale non ero abituata e che mi pareva essere condivisa da ogni singola persona presente nella Galerie, tolta la necessaria formalità che regolava rigidamente le interazioni fra gli invitati e ancora di più tra essi e i padroni di casa. Proprio l'iniziale (e mio primo) incontro con quest'ultimi aveva dato il via alle danze della gioia effimera che avrebbe segnato per sempre la mia esistenza.

La lunga fila di nobili, dignitari ed ecclesiastici accorsi in gran numero alla chiamata di Sua Maestà aveva proceduto salutando il Re e i delfini con un rapido scambio di poche frasi di cortesia. Più si avvicinava il nostro turno, più sentivo mia mia madre borbottare a voce bassa le ultime veloci raccomandazioni senza mai perdere il sorriso di circostanza. "Aspetta di ricevere la parola. Non intervenire. Non metterci in imbarazzo. Inchinati a dovere." Da parte mia riceveva soltanto dei brevi cenni con il capo, pettinato e infiocchettato al meglio per essere impossibile muoverlo più di così. Il duca mio padre seguiva lo scorrere delle persone senza aprire bocca con il capello in mano. Per la prima volta quella sera lo stavo vedendo serio, concentrato, del tutto estraneo alla proverbiale nonchalance che mi auguravo potesse recuperare il prima possibile. Intorno a noi chiunque il mio sguardo riuscisse a raggiungere si comportava nello stesso modo. Dopo il silenzio imposto dal breve discorso di benvenuto tenuto dal Bien-aimé, un leggero brusio era ripreso nella stanza. Commenti, aspettative, auguri di essere abbastanza eleganti, perfetti per l'evento del secolo (a fine serata ne avrei contati altri sette ascoltando le conversazioni altrui e ricordo di essermi dispiaciuta per averli persi, ma in fin dei conti ero pur sempre contenta di essere abbastanza giovane da potere prendere parte ai futuri dieci almeno). Le persone si muovevano con lentezza, ma di passo in passo quei tre volti si avvicinavano un po' di più manifestandosi in tutta la loro regalità. Ad essere sincera, quando finalmente la distanza si era ridotta quasi al minimo, avevo avuto l'impressione che nessuno di loro si adattasse al ruolo che ricopriva. Il sovrano condivideva davvero una certa somiglianza con uno zio italiano di mio padre, forse erano gli occhi grandi e il naso imponente a ricordarmelo. Dispensava sorrisi bonari a chiunque si inchinasse al suo cospetto e gli si rivolgesse con deferenza, di tanto in tanto lasciando che una donna con i capelli biondi e un sontuoso abito ceruleo - entrata nella Galerie alcuni secondi dopo il Re - si avvicinasse fino a toccargli un braccio. Mi chiedevo chi fosse e come fosse possibile che qualcuno avesse tanta confidenza con l'uomo più potente di Francia, ma una signora poco dietro di noi aveva prontamente sciolto i miei dubbi farfugliando una sottile invettiva alla "cortigiana per cui avevano inventato tale termine". Pur ignorandone ancora l'identità, mi erano bastate quelle poche parole che si trattava della favorita di Sua Maestà e che, in virtù del proprio ruolo, avrebbe potuto permettersi un atteggiamento simile. Era una signora molto elegante, dallo sguardo sveglio e altezzoso che di tanto in tanto rivolgeva alla coppia reale con un certo disgusto. Il delfino, Louis Auguste, ringraziava gli ospiti che gli si fermavano davanti con la gentile cortesia di chi preferirebbe essere altrove. Nonostante fosse soltanto un anno più vecchio di me, il suo viso tondo dava l'impressione che ogni singolo minuti gli fosse pesato e ancora gli pesasse il doppio rispetto agli altri. Era impacciato, ma sapeva di dover mostrarsi al meglio e lo sforzo che gli costava farlo dava comunque i suoi frutti. Alla sua sinistra, invece, una ragazza magra, con gli occhi grandi e azzurri e i capelli biondo cenere sollevava leggermente il braccio per ricevere degli educati baciamano dagli uomini che le si rivolgevano per un saluto. "Vi ringraziamo molto, la vostra presenza è un dono prezioso" mi era parso che avesse detto alla coppia di diplomatici spagnoli davanti di noi con un sorriso che le illuminava il volto. All'improvviso mi ero sentita seriamente inadeguata. Per quanto mi sforzassi e mi avessero sistemata a dovere, non mi sembrava di avere nulla di ciò che invece in lei pareva essere naturale e spontaneo. Era aggraziata, gentile, perfettamente a proprio agio in quella situazione al punto tale da non notare neanche le insistenti occhiate che provenivano dalla favorita del Re. Arrossii, vergognandomi perfino di essere nata nel modo in cui ero nata, mentre i due ambasciatori dall'accento iberico si defilavano per lasciare a noi tre l'onore di essere ricevuti dallo Stato in persona. 

"Buonasera, duchi De Cigale, è un vero piacere vedervi qui stasera." aveva esordito Sua Maestà, spigliato e cordiale, mentre ci inchinavamo davanti a lui (con una certa difficoltà da parte mia a causa dell'abito troppo stretto e del pouf troppo ingombrante sul mio capo). "Questa bella fanciulla dev'essere vostra figlia, immagino." Mio padre aveva annuito mentre mia madre si era prodigata a spiegargli quanto fosse importante per me il gran ballo, essendo coinciso con il mio debutto a corte. "Come vi chiamate?" Il sovrano mi guardava negli occhi con l'espressione benevola di un anziano che aveva già visto la stessa scena ripetersi altre infinite volte, mentre io tentavo di calmare l'agitazione che mi scuoteva perfino il sangue nelle vene. "Mademoiselle Aphrodite  Marie Augustine Léopoldine, Vostra Maestà..." Malauguratamente avevo avuto la brillante idea di rivolgere il mio sguardo prima alla favorita, che mi squadrava da capo a piedi con espressione sarcastica e giudicante, e subito dopo alla principessa, radiosa nel suo sorriso distratto forse da qualcuno alle nostre spalle. In quel preciso istante la mia mente si era spenta come la luce di una candela al soffio del vento: non ricordavo cos'altro dovessi dire o fare e, per un lungo insostenibile istante, la mia bocca aveva smesso di pronunciare verbo. Senza dare troppo nell'occhio, Madame mia madre mi aveva colpito il braccio con un gomito per risvegliarmi dall'improvviso torpore. "È un onore potervi conoscere." avevo concluso e una goccia di sudore freddo era scesa veloce lungo il collo procurandomi un leggero ma fastidioso solletico. Quando il sovrano ci aveva congedati dandoci il permesso di conversare con la coppia reale, mi era parso di sentir crescere l'ansia dentro di me. Cosa avrebbe pensato di me la delfina? Le sarei piaciuta? Avremmo avuto modo di scambiare anche solo un paio di parole o i miei genitori ce lo avrebbero impedito? Sarebbe stato il nostro unico incontro oppure avremmo potuto ripeterlo in futuro? Che cosa avrei potuto dirle, poi, io che avevo passato i miei giorni da sola oppure con persone molto più grandi di me, mentre lei aveva già viaggiato, avuto esperienze anche soltanto in virtù del fatto di essere figlia dell'Imperatrice d'Austria? Chissà se aveva un accento particolare, da lontano non ero riuscita a sentire bene la sua voce... Tutti questi pensieri mi ronzavano in testa veloci, si scontravano uno sull'altro rendendo pesanti i pochi metri che ci distanziavano. "Buonasera, duchi, grazie per essere qui..." aveva detto Louis Auguste con fare un po' sbrigativo ma cordiale, seguito dalla moglie che seguiva con lo sguardo il baciamano offertole da mio padre. "Abbiamo sentito che è il primo ballo di vostra figlia, è un vero piacere che abbiate scelto un'occasione come questa per presentarla alla corte." Marie Antoinette, a dispetto delle voci che mi era capitato di sentire nel tragitto tra la carrozza e la Galerie, era un'abile e precisa conversatrice nella nostra lingua, oltre che di atteggiamento estremamente delicato e nobile. Credevo che l'avessero dipinta davanti ai nostri occhi, o che si fosse palesata dal cielo per graziarci della sua magnifica presenza. Nonostante quelle qualità innate e naturali per la figlia di un'Imperatrice e la futura Regina di Francia, però, la sua voce tradiva la spensieratezza tipica della sua (o, meglio, della nostra) giovane età, un'entusiasmo pacato ma vivo che si irradiava su tutta la sua persona. "I nostri più sentiti ringraziamenti sono riservati a voi, Madame, per averci onorato di un invito tanto gradito come il vostro!" si era prodigata ad affermare la duchesse, sottolineando quel madame in un tono che solo io potevo conoscere: Son Altesse Royale, addirittura più giovane di me di alcuni mesi, era già sposata a differenza mia. "Ci auguriamo che il ballo sia di vostro gradimento, au revoir!" ci aveva congedati lei, ricevendo da mio padre un deferito ringraziamento mentre ci allontanavamo per ritornare in mezzo alla Galerie.

Una volta lontani a sufficienza dalla famiglia reale per non essere sentiti, mi ero lasciata andare ad un profondo sospiro liberatorio: forse ora poteva iniziare il divertimento anche per me, l'ostacolo maggiore era stato superato e qualsiasi cosa avessi combinato non sarebbe stata più grave di importunare o imbarazzare il Re e i delfini. Mio padre mi guardava soddisfatto mentre ci riunivamo alla marchesa D'Archambeau e suo marito. Era sicuro che tutto sarebbe andato come pianificato e che non avrei messo in ridicolo nessuno, men che meno me stessa. Quanto a mia madre, le sue altissime aspettative in fatto di etichetta, protocollo e società erano naturalmente impossibili da raggiungere, ma almeno avevo avuto l'accortezza di limitare a uno i momenti di imbarazzo. "Adesso torna a trattenere il respiro che quel corsetto sta scoppiando e non voglio altre brutte figure" aveva sentenziato Madame e, sventolandosi il ventaglio davanti al volto, aveva salutato con eccessiva cordialità il variegato gruppo con cui i marchesi stavano chiacchierando. 

Fuori dalla finestra Parigi si stagliava buia sullo sfondo, presumibilmente già addormentata. Non erano mondi che si sarebbero incontrati con facilità, il mio e quello di una grande città lontana e ignota che, forse, si chiedeva anch'essa che cosa stesse succedendo qui da noi. L'atmosfera nella Galerie des glaces si era rasserenata quasi immediatamente dopo l'accoglienza dell'ultimo invitato, quando l'orchestra aveva ripreso a suonare e i camerieri erano di nuovo in giro tra gli ospiti con i loro vassoi d'argento e coppe di champagne. Il vociare allegro si confondeva con la musica, ci si divertiva dalle note che chiamavano alla danza e dalle chiacchiere inebrianti di persone venute da ogni parte del Paese e d'Europa per vedere i delfini, futuri sovrani di Francia, e augurarsi che quella notte, finalmente, il loro matrimonio potesse trovare una soluzione ai propri problemi.

 

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Capitolo 5
*** Louis Alexandre ***


Come colta da un'illuminazione, o colpita da un fulmine apparso dal soffitto della Galerie, mia madre si era improvvisamente estraniata dalla conversazione con un espressione raggiante. Seguendo il suo sguardo oltre i gentiluomini davanti a noi, avevo potuto intercettare il motivo di tanta felicità prima di sentirglielo annunciare in tutta la sua rinnovata euforia. La duchesse aveva posato i suoi grandi occhi su una coppia di alto rango, a giudicare dalle riverenze con cui veniva salutata dagli invitati che incontrava sulla propria via. La donna doveva essere all'incirca sua coetanea e indossava un vistoso abito rosa ornato da fine pizzo bianco e gioielli capaci di far invidia perfino alla favorita del Re. Mi sembrava che conoscesse a menadito quella stanza e quelle persone, data la serafica agilità con cui camminava tra gli ospiti come fosse su una nuvola regalando grandi sorrisi. Un'imponente pettinatura di color castano scuro sovrastava la sua figura tutto sommato minuta ma regale, mentre sventolava pacatamente il ventaglio. Accanto a lei, un giovane uomo piuttosto alto, magro, dall'andatura sicura l'accompagnava sorreggendole un braccio. Si scambiavano due parole ogni tanto, quando non venivano interrotti da qualcuno a cui offrire i migliori omaggi. Man mano che i due (a me) sconosciuti si avvicinavano, percepivo distintamente l'entusiasmo di mia madre aumentare così come quello delle sue amiche, che mi sembrava avessero cominciato a squittire a voce bassa incapaci di trattenere l'emozione. I loro mariti parevano disinteressati da quanto stesse accadendo, ad eccezione di mio padre che, nel suo bell'abito verde, mi guardava con un'espressione sostenuta ma allegra.

"Bonsoir les amis!" aveva esclamato la donna nel momento in cui il gruppo si era aperto per permettere ai due nuovi arrivati di unirsi a noi. Intorno a me tutti avevano ricambiato con grande cortesia il saluto accompagnandolo da un breve inchino, subito imitato anche da me con un colpevole ritardo di pochi istanti che mi avrebbe causato una bella ramanzina una volta tornati a casa. "È un vero piacere incontrarvi tutti questa sera! Louis Alexandre ed io ci domandavamo se questa graziosa fanciulla fosse la protagonista di tante nostre conversazioni, ma chère..." A quelle parole sul volto del suo accompagnatore era sorto un mezzo sorriso imbarazzato: era evidente che lui non si stesse chiedendo nulla, men che meno chi fossi io (dubito, in realtà, mi avesse addirittura vista in mezzo alla folla), ma le istruzioni su come comportarsi in società gli erano fin troppo chiare e fingere compiacenza con la madre era una delle regole più importante. La mia, invece, non doveva immedesimarsi in alcuna parte studiata a tavolino. La duchesse era per natura una degli scacchisti, per così dire, più abili di Francia: se fosse dipeso da lei, il Delfino avrebbe avuto una moglie capace di dargli un erede subito e senza doverla andare a prendere in Austria! Tesseva trame con chiunque, si informava sui migliori partiti d'Europa e sceglieva con cura le amicizie da mantenere e quelle da accantonare. Tutto era funzionale al raggiungimento di un solo obiettivo: stabilire dei solidi legami migliorando il rango della nostra famiglia. Suo marito mio padre, poi, caldeggiava questa attività perché gli interessavano più gli affari economici che non quelli sentimentali (se così si possono chiamare...) e, in ogni caso, gli era sempre sembrata un'ottima idea avere amici e parenti di un certo lignaggio.

"Madame la duchesse, " aveva risposto mia madre, "lei è la nostra secondogenita, Aphrodite. Ve ne ho parlato tanto, finalmente potete vederla con i vostri occhi." Non appena il mio nome aveva raggiunto le orecchie dei presenti, i loro volti si erano illuminati. L'impressione era che il borbottio generale del ballo, mescolato all'orchestra che suonava imperterrita per allietarci, si fosse affievolito nella nostra cerchia. Perfino quello del giovane, nella sua ritrosia, mi sembrava diverso da prima. Come d'abitudine, perciò, l'unica che non sapeva cosa stesse succedendo ero io, imbarazzata mentre ricevevo l'ennesimo baciamano della serata. "Onorato di conoscervi, mademoiselle. Sono Louis Alexandre LeFebvre Di Borbone, duca di Condé..." La cortesia ma soprattutto l'ufficialità con cui si stava presentando, unita all'espressione solenne di mio padre al mio fianco, rispondeva ai miei silenziosi dubbi in modo piuttosto esplicito. Lo avevo ringraziato con un altro inchino subito prima di accettare il suo invito a ballare, sicura di avere gli occhi di tutti puntati addosso che generavano in me la stessa ansia che dovevano provare i principi reali ogni qualvolta incontrassero una coppia sposata con figli. Durante la danza, infatti, mi era capitato di scorgere quel gruppo di aristocratici curiosi ed emozionati intenti a farfugliare chissà cosa alle nostre spalle. Il pettegolezzo era l'attività preferita di tutti gli avventori di Versailles, in special modo durante feste di quel tipo, e una debuttante impegnata nel primo ballo con il proprio futuro marito era di certo un ottimo argomento di conversazione. 

"Voi siete un principe del sangue, se non sbaglio..." avevo domandato io, senza aspettare che fosse lui a spezzare quell'imbarazzante silenzio. Il giovane aveva annuito serio, probabilmente così concentrato nel contare i passi da non riuscire a dividere la propria attenzione con me. Nella vita doveva occuparsi di tutt'altro, era evidente che gli eventi mondani non fossero il suo pane; anzi, ad essere sinceri, riusciva a sembrare perfino più a disagio di me. "Lo diventerete anche voi, appena mi avrete sposato." Le sue parole mi avevano presa alla sopravvista, perquanto avessi immaginato che quella messinscena tra sua madre e i miei genitori non potessere essere stata organizzata soltanto per amore di presenza e fedeltà al Re. Nel bel mezzo di un minuetto, volteggiando per mano di uno spilungone taciturno che ripeteva i passi di danza per non sbagliarsi e pestarmi la gonna senza l'accortezza di non farsi notare, venivo a conoscenza della compiutezza del mio destino. O forse sarebbe più corretto parlare del nostro destino, avendo dovuto anche lui accettare suo malgrado di entrare nella mia vita (oltre che, avrei scoperto in seguito, un'ingente dote che non sospettavo potessimo permetterci). In quanto tempo avrei detto dire addio a casa mia, alle mie abitudini per diventare la duchessa di Condé? Mi sentivo tradita: nessuno mi aveva anche solo accennato la questione, forse per evitare di sopportare le mie rimostranze e sicuramente perché in quel modo le trattative sarebbero state più rapide. Da bambina, nei mille pomeriggi passati da sola davanti allo specchio, sognavo come sarebbe stato il momento in cui il mio principe azzurro sarebbe arrivato a salvarmi da quella solitudine infinita. Ogni fantasia che la mia mente riusciva a riportare alla luce, però, non era così: ci saremmo sposati per amore, come alla fine dei libri di fiabe che mi leggeva la mia cameriera. Nella realtà, invece, ero stata scambiata, barattata in cambio del nome e del prestigio. Un ramo cadetto dei Borbone valeva più della mia felicità. All'improvviso mi sembrava che il comportamento di mia madre fin dalla mia più tenera età avesse trovato giustificazione. Era il suo momento di gloria, lo aspettava dal giorno in cui mi aveva messa al mondo e finalmente era arrivato. Sua figlia, Aphrodite Marie Augustine Léopoldine, stava per diventare la moglie del giovane principe del sangue, il duca di Condé Louis Alexandre LeFebvre Borbone. Se avesse potuto avrebbe urlato di gioia, ne sono fermamente convinta. 

Mentre ancora danzavamo (rigorosamente soltanto sfiorandoci le mani) e le sue labbra continuavano a muoversi in modo quasi impercettibile, tentavo di distrarmi osservando chi ci circondava al centro della Galerie des glaces. I volti degli altri invitati mi erano pressoché estranei, ci passavamo accanto nello scambio di coppie quasi senza guardarci negli occhi, avvolti da un'ebbrezza generale alla quale non riuscivo più a partecipare. Quando mi riunivo al mio futuro marito, notavo un'ombra di scoramento nel suo sguardo. Era a conoscenza del doppiogioco che mi era stato fatto dai miei stessi genitori e se ne dispiaceva, o almeno così mi sembrava. Il suo senso di inadeguatezza in contesti simili gli impediva di migliorare la situazione e dirmi una parola di conforto, così preferiva restare in silenzio e, semmai, sorridermi di tanto in tanto. La mia espressione contrariata doveva generare disagio in lui e, in realtà, me ne rammaricavo, ma era l'unico modo per mostrare da lontano ai miei traditori che la verità era venuta a galla e che non la gradivo affatto. 

Quando finalmente il minuetto era terminato, nel riaccompagnarmi dai duchi De Cigale il mio futuro marito aveva deviato per un istante verso la coppia reale, che si intratteneva con un paio di gentiluomini accanto alla finestra. Il delfino, avevo scoperto dai loro saluti, era un suo cugino e, da come si parlavano, mi erano sembrati piuttosto in confidenza. Louis Alexandre non aveva fatto cenno alla natura del nostro avvicinamento: anzi, in realtà, era come se non fossi neanche lì con lui; mi offriva il braccio, ma poteva anche star reggendo un ombrello o un cestino di vimini. Io li ascoltavo, ma le loro parole svanivano nella mia memoria non appena avessero preso la porta d'ingresso. Tutto stava diventando uno spettacolo distante  da me, il brusio continuo degli ospiti che chiacchieravano era un rumore di fondo ovattato. Un tocco delicato mi aveva d'improvviso riportata alla realtà. La principessa, incuriosita dalla stoffa del mio abito, si era avvicinata a me prendendo un volant della mia manica tra le dita. "Mia madre, l'Imperatrice, aveva fatto confezionare degli abiti da cerimonia per noi figlie con questo tessuto, anni fa..." mi stava confessando la delfina dopo aver notato la mia disattenzione, con un sorriso cordiale a illuminarle il viso. Incantata dalla sua regalità nei modi e nei gesti, l'avevo ringraziata con un piccolo gesto del capo. Marie Antoinette aveva forse capito cosa si stava agitando dentro di me, oppure lo avevo dato a vedere? In tal caso non me lo sarei mai perdonata, avrei fatto una figura tremenda e mia madre ne sarebbe stata estremamente delusa. Avrei voluto chiederle se anche lei si era sentita una merce di scambio quando aveva scoperto di essere stata ceduta alla Francia in nome di un bene superiore, ma mi limitai a ricambiare il sorriso e sospirare. Senza che me ne accorgessi, però, mi ero ritrovata all'improvviso faccia a faccia con lei che, nascondendo le labbra col ventaglio e avvicinandosi al mio orrecchio, aveva rotto gli indugi e tentato di portare avanti la conversazione. "È la sorte di ognuna di noi divenire la moglie di un uomo che non conosciamo, ma posso assicurarvi che il duca nostro cugino sa il fatto suo ed è molto spiritoso..." mi aveva confessato la principessa per poi richiamare l'attenzione del marito, congedarsi e sparire nella folla. Sarà stato anche stato un destino comune il matrimonio combinato, ma avrei voluto anche soltanto un'occasione per potermi opporre davvero!

***

Durante il breve viaggio di ritorno dalla reggia al nostro palazzo l'indignazione che bruciava dentro mi aveva trasformata in una statua vivente. Immobile e muta, sedevo dentro la carrozza osservano il paesaggio illuminato delle finestre allontanarsi sempre di più. I duchi De Cigale commentavano con gioia l'esito di quel mio debutto in società con la noncuranza tipica di chi sta parlando di qualcuno facendo finta che non sia presente davanti a loro. Sentivo il pianto salirmi in gola, avrei voluto urlare e protestare per dimostrare che esistevo, avevo una volontà e pretendevo di essere ascoltata. Ciò nonostante io tacevo, di tanto in tamto spostavo lo sguaro su di loro e poi tornavo fuori. E se fossi fuggita? Se me ne fossi andata lontano? Impossibile, da sola non ero capace neanche di ordinare al cocchiere di portarmi a Parigi. "Vedrai mia cara," aveva esclamato mio padre in tono allegro, "vedrai come la tua vita cambierà in meglio!" 

 

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Capitolo 6
*** Le mariage ***


Le settimane successive al primo incontro si erano susseguite in un vortice frenetico di preparativi per il grande evento, destinato ad essere celebrato in giugno. Mentre un'infinita e variegata quantità di gente entrava e usciva dal nostro palazzo dal mattino alla sera per congratularsi, io venivo quotidianamente spostata da una parte all'altra senza concedermi una tregua. Dovevo imparare tutto ciò che riguardava la mia futura nuova famiglia e più lezioni di storia e geografia mi venivano impartite, meno riuscivo a provare anche solo un briciolo di entusiasmo per il grande evento che avrebbe sconvolto la mia vita e quella del mia dinastia. I duchi miei genitori non avevano altro argomento di conversazione con nessuno, soprattutto tra di loro. Il nome del mio promesso sposo riecheggiava nelle stanze senza soluzione di continuità. Mi ispirava quasi tenerezza quell'accanimento nei suoi confronti: quello zio italiano tanto somigliante a Sua Maestà, ricordo, amava raccontarci che parlare tanto spesso di qualcuno in sua assenza gli avrebbe fatto fischiare le orecchie; ammettendo che questa faccenda sia vera, al poverino avrebbero dovuto diagnosticare nel giro di pochi giorni prima una sordità fulminante e, successivamente, una qualche forma di follia. L'immagine dello spilungone che contava i passi ballando di tanto in tanto si trasformava in quella di uno in preda al delirio, perseguitato dal suono acuto e fastidioso generato dai continui richiami provenienti dalla nostra abitazione. Mi dispiaceva addirittura pensarlo così, ma era un tono di colore che conferiva alle lezioni di storia un je-ne-sais-quoi  più divertente. 

La consapevolezza di essere trattata alla stregua di un oggetto di scambio che fino a poco prima avevo creduto essere solo una mia sensazione, però, si stava concretizzando ogni giorno di più, così come il terrore di entrare in un nuovo capitolo della mia breve esistenza per rimanere sempre nella medesima condizione: sola. Il mio futuro marito, infatti, non aveva mai messo piede in casa nostra né aveva richiesto la mia presenza negli appartamenti della sua famiglia a Versailles e, ad eccezione delle visite di sua madre e di alcune lettere di circostanza che mi faceva recapitare, non avevo la minima idea di come stesse. Una facciata, al massimo una e mezza quando era in vena di condividere due considerazioni in più, era tutto ciò che mi arrivava da lui. Mi ripeteva quanto fosse emozionato di sposarmi, ma, mentre leggevo quelle parole redatte in una elegantissima calligrafia, l'immagine del suo volto serio mi distraeva dal resto. Sapevo che non credeva ad una sola promessa che faceva, probabilmente più per convincere se stesso dell'assoluta necessità della nostra unione che non me. Come poteva essere sincero, quando a stento sapeva chi fossi? Una preziosa informazione, però, ero riuscita ad avere da quel carteggio: Louis Alexandre era comandante della Marina Reale. Per fortuna, mi rincuoravo la sera preparandomi ad andare a letto, il mio promesso sposo aveva una posizione sociale talmente in vista che, se gli fosse accaduto qualcosa, lo avremmo saputo prima di chiunque altro. Ciò nonostante, il sogno di bambina di avere un principe azzurro per essere amata e salvata dalle infinite giornate trascorse in solitudine stava sbiadendo inesorabilmente. Allo stesso modo, anche il mio mondo e le persone che lo abitavano si stavano allontanando, sia spiritualmente che fisicamente. La sera del matrimonio, infatti, saremmo saliti su una carrozza (seguita da altre quattro colme di bauli, perlopiù miei) diretti a Tolone, dove stanziava la Flotta di Levante. Non potevo fuggire né chiedere di annullare le nozze, o avrei disonorato la mia famiglia causando eterna vergogna all'intero albero genealogico. In cuor mio, però, mi sembrava di essere stata spinta con forza in un incubo da cui era impossibile svegliarsi. 

Dell'intera giornata del 7 giugno 1771 l'esasperante lunghezza di ogni singola ora è il demone che mi perseguita quando ripenso al matrimonio. La felicità sui volti delle rispettive famiglie appariva (e, di sicuro, era) più sincera rispetto alla nostra. Seduti uno accanto all'altra nella Cappella di Versailles, con gli occhi di tutti i presenti che ci scrutavano con eccessiva attenzione, avevo per la prima volta provato un senso di compassione per Louis Alexandre - mio marito! - che sentivo ora non più tanto un nemico dalla cui morsa non sarei più potuta salvarmi, bensì una persona che condivideva il mio stesso destino. Gli si leggeva in volto un'espressione di disappunto nascosto dietro un velo di emozione che mi portava a pensare di starmi guardando allo specchio. Tutto sommato, d'altronde, si trattava di un giorno importante per entrambi e se avessimo detto che l'evento ci era indifferente avremmo mentito. Durante la cerimonia, recitata interamente in latino, di tanto in tanto provavo a cercare il suo sguardo: teneva perlopiù gli occhi abbassati, come se stesse osservando qualcosa sul pavimento davanti all'altare, poi li rialzava perdendosi nel vuoto e si lasciava scappare un leggero sospiro. Le sue labbra, come la sera del ballo, si muovevano in modo impercettibile; questa volta, però, ero certa non stessero contando e nemmeno (come inizialmente pensavo) recitando le preghiere. "Mi rivolgevo a Dio, in effetti," mi avrebbe confessato Louis Alexandre la sera stessa durante il viaggio, "chiedevo di non accanirsi troppo su di noi". 

Se fino al mese precedente pensavo che alla Reggia fossero maestri nell'organizzazione di balle e feste di corte e, soprattutto, nella sopravvivenza a quel costante spiegamento di forze ben vestite e pettinate, il ricevimento reale in onore delle nostre nozze mi aveva dato la certezza matematica che sopra quei pavimenti di marmo lucidissimo avessero un solo obiettivo nella vita: trovare motivi per fare festa. Ripensandoci adesso, non posso che capirli. Una serie infinita di giornate, settimane, mesi e anni trascorsi a pregare il cielo che il sovrano rimanesse sul trono il più a lungo possibile, mantenendo gli stessi privilegi di sempre e, se possibile, aumentarli. Mi sarei probabilmente comportata anche io così, se avessi frequentato Versailles da più tempo... Nell'imbarazzante caos di invitati che porgevano i loro migliori auguri, musicisti impegnati nella migliore delle esecuzioni e danze studiate al dettaglio per comunicare senza la necessità di troppe parole, di tanto in tanto udivo la voce del mio sposo e mi ricordavo di non essere da sola. Eravamo in due a disagio in quella situazione: non era granché, è vero, ma ci tenevamo compagnia. Con il lento passare delle ore, peraltro, la sua presenza taciturna oltre a darmi conforto cominciava a farmi cambiare idea su di lui. Benché rimanessi ferma nella mia convinzione che fossimo stati scelti come pedine di un gioco da muovere per vincere una partita senza alcun riguardo nei nostri confronti, alla fine della giornata Louis Alexandre non mi ispirava più lo stesso senso di compassione. Guardarlo sforzarsi ad essere il più conviviale possibile ma soprattutto a suo agio al mio fianco, infatti, accresceva in me una grande tenerezza. Era evidente che la vita in mare, circondato dagli uomini della Marina Reale, lo aveva reso poco adatto alla mondanità della terraferma. Ciò nonostante, mi pareva che il tentativo di risultare meno respingente rispetto al nostro primo (e, fino a quella mattina, unico) incontro stesse dando i primi timidi frutti. 

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Capitolo 7
*** Le voyage ***


"Quando arriveremo a Tolone ci saranno altre celebrazioni ad aspettarci..." aveva esordito mio marito dopo quarantacinque minuti di silenzio da quando la carrozza e tutto il seguito erano partiti da Versailles, scuotendo la testa e alzando gli occhi al cielo infastidito per poi guardare fuori dal finestrino. Forse cercava di evitarmi, o forse era soltanto irritato all'idea che avremmo dovuto ripetere la medesima pantomima di finta felicità che stavamo lasciando dietro di noi. Avevo alzato le spalle per mostrarmi quanto più d'accordo possibile, o, meglio, quanto più rassegnata ad accettare la nostra sorte comune. Louis Alexandre tamburellava con le dita sulla seduta rivestita di velluto rosso, sbuffando di tanto in tanto. Lo capivo, condividevo il suo fastidio e avrei voluto dirglielo, ma il nervosismo che il suo atteggiamento non si preoccupava di nascondere inibiva ogni qualsivoglia mio tentativo di conforto. Mi spaventava da sempre l'idea di rimanere sola con gli sconosciuti per via della mia proverbiale mancanza di capacità di imbastire una conversazione che mia madre non aveva mai perso l'occasione di rinfacciarmi. Anche poco prima di partire, infatti, durante il cambio dell'abito la duchesse si era raccomandata di aprire bocca solo quando interpellata, per carità, che mi sarebbe bastato un secondo per rovinare tutto. Sospirai e, nel fare ciò, scostai l'ingombrante gonna che vedevo invadere lo spazio vitale del mio compagno di viaggio (metaforico e letterale). Un timido tentativo di chiedergli scusa mi era scivolato fuori dalle labbra, senza però ricevere troppa considerazione. Detestavo dover dare ragione a mia madre, ma quella sera avrei dato qualsiasi cosa pur di essere colta da un'illuminazione e imparare all'improvviso la nobile arte della convivialità. 

Il nuovo muro di silenzio che era spontaneamente sorto tra noi due mi sembrava perfino più inoppugnabile di prima. Mentre il sole tramontava colorando l'intero paesaggio di una luce calda, alcune persone facevano capolino e da lontano si sbracciavano per salutare il corteo che attraversava la campagna francese. Mi ero sorpresa a sorridere davanti a quello spettacolo inusuale: per la prima volta dall'annuncio del fidanzamento ufficiale provavo una sensazione piacevole, come se gli omaggi di figure non troppo indefinite che si stagliavano come ombre scure su un cielo arancione fossero diretti proprio a me. Con molta probabilità non sapevano neanche chi ci fosse sulle carrozze, sempre che ci fossero davvero passeggeri, ma la sola vista dello stemma reale forse bastava per dare loro l'impressione che da Versailles qualcuno avesse finalmente deciso di uscire e onorarli di una breve e fugace visita. Mi ero addirittura sporta un po' verso la piccola finestra rettangolare per osservarli meglio: d'altronde, ad esclusione del nido aristocratico che mi aveva cresciuta, non avevo mai incontrato il resto del mondo. Sapevo che esistevano altre realtà, ne avevo sentito parlare perlopiù in modo poco lusinghiero, ma il limite massimo oltre cui potevo aspirare ad inoltrarmi coincideva con la reggia. 

"Cosa vi meraviglia?" mi aveva chiesto Louis Alexandre dopo aver notato lo stupore sul mio volto, aggiungendo un ma chère in tono accondiscendente che, in futuro, sarebbe tornato diverse volte nel suo vocabolario e che gli sarebbe anche costato piuttosto caro. "Non avevo mai visto tutto questo..." I miei sedici anni dovevano sembrare all'improvviso essersi tramutati in sei a giudicare dallo sguardo perplesso che aveva assunto in seguito alla mia risposta. A costo di sembrare infantile, avevo deciso di godermi da sola quel poco che il tragitto ci stava offrendo se lui non avesse avuto intenzione di tenermi compagnia. "Com'è possibile che non siate mai uscita di casa?" aveva sbottato mio marito con fare interrogatorio, rendendomelo all'improvviso un po' più simpatico. "Certo che sono uscita di casa," gli avevo risposto io con un sorriso trattenuto, "ma potrete anche immaginare da voi che difficilmente si ha l'occasione di frequentare il popolo". Louis Alexandre si era stretto nelle spalle per poi incrociare le braccia e tornare seduto composto davanti a me. "A me capita" aveva ribattuto con un'espressione di protesta un po' infantile. Non un gran modo, quello, per cominciare a conoscere il mio consorte per l'eternità, però battibeccare pareva essere una soluzione efficace ad evitare ore di mutismo reciproco. 

"Voi vivete su una nave, monsieur..."

"E cosa volete insinuare con ciò?" Dovevo aver inavvertitamente toccato un nervo scoperto. Per quanto le voci che circolavano sui marinai fossero riuscite a raggiungere perfino le mie orecchie distanti e distratte, non mi sarei mai permessa di pensare che anche lui conducesse una vita dissoluta. "Dunque? Lanciate il sasso e nascondete la mano?"

"Intendo dire che su una nave è più facile incontrare persone di rango inferiore al nostro rispetto ai palazzi di Versailles, non trovate?" Mi stavo scoprendo a mio agio in sua compagnia, benché quella conversazione non fosse il massimo del divertimento. 

"Ve lo concedo." aveva ceduto il mio interlocutore con noncuranza. "Voi comunque non siete propriamente del mio rango..." Voltatosi di nuovo verso il paesaggio che correva veloce intorno a noi, mi guardava di sottecchi con un mezzo sorriso sotto i baffi. Se c'è una cosa che la nobiltà mi aveva insegnato fin dalla più tenera età, è la facilità con cui i suoi membri si divertono a provocarsi l'uno con l'altro puntando sempre sulle differenze di sfumature di blu del loro sangue.

"Ora lo sono, però." avevo con prontezza ribattuto io, "Forse non vi ricordate, ma sono diventata vostra moglie proprio questa mattina." Per fortuna o purtroppo, l'insolenza di mia madre e l'abilità di mio padre nel chiudere le frequenti rimostranze della moglie mi stavano venendo in aiuto e sarebbero rimaste con me per aiutarmi a uscire da situazioni scomode come quella. Ancora una volta Louis Alexandre aveva alzato gli occhi al cielo. Come colto da un pensiero fulmineo, poi, si era aperto i bottoni della giacca blu ornata di arabeschi dorati per cercare qualcosa. Dopo alcuni istanti, aveva tirato fuori da una tasca interna una busta di carta pregiata firmata con il suo nome e una piccola scatolina rivestita di velluto azzurro. "Non sono molto bravo con le parole, come avrete potuto immaginare..." si era scusato in anticipo lui mentre estraevo il biglietto concordando nella mia mente con le sue parole. Non un grande oratore, in effetti, men che meno poeta, però quando faceva lo sforzo di provarci se la cavava abbastanza bene e ispirava molta tenerezza. 

Ma chère épouse ,

potrà capitare di non vederci per molti giorni a causa dei miei numerosi impegni con la Flotta di Levante. Vi lascio questo mio ritratto per ricordarvi sempre del mio volto.

Con devozione,

Alexandre

"Alexandre?" avevo letto io a voce alta in tono perplesso, "Vi firmate così? Solo Alexandre?

"Dovreste esservi accorta anche voi che quasi tutti gli eredi della mia - pardonnez-moi, della nostra famiglia portano lo stesso nome: Louis. Dio non me ne voglia, per carità, ma l'idea di essere ipoteticamente confuso con il Delfino..."

"Sareste sposato con Marie Antoinette." lo avevo interrotto io con fare provocatorio. Chi non avrebbe voluto avere una ragazza tanto gentile e bella come lei? Se fossi stata un uomo, avevo riflettuto la notte insonne dopo il mio primo ballo e l'incontro con la coppia reale, sarei stata gelosa del suo impacciato marito. 

"È austriaca." Il tono sprezzante con cui aveva apostrofato sua (nostra, forse?) cugina acquisita mi aveva lasciata sorpresa. Non mi era apparso tanto ostile nei suoi confronti la famosa sera del ballo e anche poche ore prima, durante i festeggiamenti per le nostre nozze, si era dimostrato cordiale verso di lei che, con grande gentilezza, era stata tra i primi a porci le sue più sentite congratulazioni. 

"Io comunque vi chiamerò con il vostro nome per intero." mi ero impuntata io nel tentativo di ritornare ad un argomento meno spinoso. Il disappunto che regnava sul mio viso aveva lasciato spazio ad una titubante sorpresa quando finalmente avevo aperto la scatola e osservato il suo contenuto. Un piccolo dipinto a olio di forma ovale raffigurava il ritratto a mezzobusto di mio marito, abbigliato nella sua migliore uniforme della Marina Reale. Lì per lì non mi pareva del tutto somigliante all'originale, ma immaginavo che lavorare su una superficie così piccola non dovesse essere stato semplice. Tutto sommato, comunque, era un pensiero a suo modo amorevole che mi sentivo di poter apprezzare con sincerità. Ringraziandolo di cuore, avevo richiuso la scatola per tenerla in mano senza riporla nel bauletto appoggiato accanto a me sulla seduta. 

Quando la sera era ormai già calata da diverso tempo e nel cielo si vedevano solo le stelle, il nostro viaggio procedeva a passo sostenuto nel cuore delle campagne francesi. Nulla intorno a noi era più riconoscibile e il panorama sarebbe rimasto così, avvolto nell'oscurità, ancora per diverse ore. La conversazione tra mio marito e me era continuata non senza momenti di noia e di silenzi, ma con pazienza stavamo entrambi imparando ad abbassare la guardia e conoscerci un pochino di più. Avevamo davanti a noi quattro giorni pressoché ininterrotti di viaggio fino a Tolone e la carrozza si rivelava ogni momento più scomoda, al punto da far rimpiangere a Louis Alexandre le notti trascorse in mare.

"Pardonnez-moi, il letto della vostra nave avete detto? Non quello di casa vostra?" Le sue parole avevano improvvisamente instillato in me il seme di un dubbio che, se confermato, mi avrebbe spinta di nuovo in quell'atavico terrore che mi accompagnava fin da bambina. 

"Ve l'ho detto, sono spesso in viaggio e poi..." 

Il mio cuore stava accelerando sempre di più, mi sembrava che fosse arrivato a battere perfino nelle tempie. Stava per firmare la mia condanna, ne ero sicura. Tutta quella cordialità, perfino simpatia che mi stava dimostrando si sarebbe presto tramutata in un premio di consolazione consegnatomi in anticipo. 

"... Anche quando ritorno a Tolone è difficile che io passi le notti nel nostro palazzo."

Un'invisibile scure si era scagliata su di me. Il principe sconosciuto a cui ero stata destinata mi stava portando lontana quattro giorni di cammino in carrozza da casa per consegnarmi alla consueta, rituale condizione di solitudine da cui sognavo (e avrei tentato innumerevoli volte) di fuggire. Avrebbe potuto anche tradirmi quella sera stessa, riflettevo silenziosa mentre trattenevo l'istinto di piangere a dirotto e gridare, e tutte le successive fino all'infinito, se mi avesse quantomeno concesso di non dover tornare a parlare da sola allo specchio. 

 

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Capitolo 8
*** Tolone ***


Le celebrazioni della città per il nostro arrivo mi avevano lasciato l'amaro in bocca. Quanta felicità avrei dovuto e potuto provare attraversando le vie con la carrozza aperta alla vista di tutti, sfilando davanti al porto per poi assistere alla rivista navale in nostro onore, se solo il mio adorato marito avesse avuto la buona creanza di aspettare con le grandi rivelazioni... 

Non avevo mai avuto l'occasione di vedere un'imbarcazione all'infuori delle illustrazioni dei libri e dei dipinti. Davanti a noi solcavano le placide acque del Mediterraneo quelle che la poca esperienza dei miei sedici anni suggeriva essere dei veri e propri giganti di legno, ornati di grandi vele e funi che scorrevano in ogni direzione tra le mani degli uomini che le stringevano. Ero affascinata dall'armonia con cui qualcosa di così imponente riuscisse a muoversi senza alcuna difficoltà. Per un momento ero riuscita ad allontanare dalla mia mente l'eco delle parole che il mio sposo aveva pronunciato durante il viaggio, rapita dallo spettacolo di che quella rivista ci stava offrendo. In uno slancio di confidenza, probabilmente per cercare di riparare all'errore che, volevo sperare, si fosse accorto di aver commesso, Louis Alexandre si era spinto oltre il confine invisibile che ancora ci separava e, indicando una grande nave al largo molto distante da noi, abbassatosi leggermente verso di me aveva esclamato: "È l'ammiraglia Royal Louis, quarta della sua famiglia. Dal 1668 la tradizione vuole che la più grande della flotta porti il nome del re". Il tono appassionato con cui descriveva perfino i dettagli più piccoli di tutto ciò che avveniva davanti a noi mi commuoveva. Aveva un amore smisurato per il mare, lo si capiva facilmente dalla cura con cui spiegava la storia delle imbarcazioni che ci onoravano con il loro saluto, le manovre necessarie per farlo e i segreti che i loro marinai mettevano in pratica per raggiungere il risultato sperato. Di tanto in tanto spostavo lo sguardo dalla rivista al suo volto e il suoi occhi erano illuminati. Mi stava facendo strada nel suo mondo, un passo alla volta, e con un discreto impegno che non potevo ignorare. La delusione nei suoi confronti stava lentamente lasciando il posto a un rinnovato senso di tenerezza: esisteva qualcosa che lo facesse sentire a proprio agio, ma non ero io. Non ancora, perlomeno. Con il senno di poi, dopo molti anni accanto a lui, erano reazioni perfettamente normali le nostre: eravamo due sconosciuti per ragioni diverse inetti alla vita sociale, pretendevamo l'uno dall'altro comprensione incondizionata senza considerare che prima di tutto fosse necessario concederci del tempo per scoprire cosa si nascondesse dentro di noi. 

Tolone, comunque, appariva ai miei occhi come un mondo nuovo. Era una città dai colori più chiari e luminosa, le persone più sorridenti e rilassate. Probabilmente era solo un'impressione, ma quella gente, anche la meno interessata alla nostra presenza, conduceva le proprie giornate con una leggerezza d'animo che solo chi vedeva il mare ogni qualvolta aprisse le finestre aveva. O, almeno, così credevo. Per quanto conoscessi più salotti che strade di Parigi, potevo senza paura di smentita affermare che quaggiù il clima fosse decisamente più piacevole. Nell'aria volava un leggero profumo di salsedine, gli alberi ai bordi delle strade mi sembravano più rigogliosi. Risalendo sulla carrozza diretta verso la mia futura casa cercavo di catturare ogni scorcio, ogni portone in legno rovinato dal sole e dalle intemperie, ogni pietra d'inciampo, ogni volto che ci circondava per non dimenticarli mai più. 

Il palazzo che avrebbe da quel giorno ospitato la nostra vita insieme era un grande edificio poco fuori dalla città. Il cancello di metallo lucido decorato con gigli d'oro sovrastava una piccola collina circondata da piante e prati verdi, i più verdi che mi fosse capitato di vedere. Sembravano distese infinite di smeraldi, quasi brillavano sotto il sole della Provenza. Poco distante, un piccolo ruscello scorreva placido all'interno dei confini dei terreni reali. Al nostro ingresso, nel tardo pomeriggio, la servitù al completo ci attendeva indossando la livrea delle grandi occasioni, il sorriso più cortese e le intenzioni migliori. Erano tanti, più di quanti avessi potuto immaginare, ma ognuno di loro era necessario per il sostentamento della nuova coppia e di quel maestoso palazzo di costruzione seicentesca così riccamente decorato da sembrare finto. Assomigliava a Versailles, ma le minori dimensioni la rendevano meno fredda e austera. Forse tutto sommato, pensavo guardandomi intorno, tanto male non sarei stata... 

Mentre il carico di bagagli veniva portato all'interno attraverso le porte di servizio per non dare nell'occhio, nel salotto accanto all'ingresso ci aspettavano le più importanti personalità della città e gli alti ufficiali della Marina. Erano perlopiù uomini di mezza età, alcuni di essi accompagnati dalle rispettive mogli, tutti in grande spolvero per venire a congratularsi con i novelli sposi. Le infinite presentazioni, i convenevoli mi ricordavano la rigida etichetta di corte e, in parte, quel palazzo altro non era che una sua piccola succursale. Le sole differenze risiedevano nel fatto che tra quelle mura un sovrano non c'era e che i principi eravamo noi. Due semisconosciuti, inadatti alla vita in società, uniti in matrimonio per volontà altrui e ora comodamente seduti su un divano – occupato per metà dal mio abito – a fingere affiatamento e convivialità davanti a persone che, al contrario dei miei desideri, mi auguravo continuassero a ignorare la mia presenza nonostante i costanti tentativi di Louis Alexandre di includermi. Cosa avrei potuto mai dire io, nata alle porte di Parigi e cresciuta tra salotti eleganti e chiacchiere tra signore eccessivamente incipriate, a esimi esponenti della Marina Reale? I miei contributi si limitavano a qualche sorriso, un paio di scambi con le signore presenti alle quali offrivo pasticcini che neanche io sapevo esserci e molti cenni del capo. 

Iniziava dunque così, in modo decisamente imbarazzato e impacciato, la mia lunga carriera di principessa di Condé, fuggitiva di sangue blu e annoiata di alto rango. Il sontuoso palazzo di Tolone accoglieva la mia nuova identità e si apprestava a diventare teatro di drammi, commedie e vicissitudini varie di una vita alla perenne ricerca di qualcosa da fare, vedere, ascoltare e qualcuno con cui condividere quelle esperienze se avesse voluto. 

 

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