Anche il marmo può essere scolpito

di Bruhduck
(/viewuser.php?uid=1200149)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** L'inverno della nostra vita, la primavera di Panem ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Ho trovato una quantità di contenuti sulla coppia Seianus/Marcus incredibilmente bassa su Internet. Dunque mi sono detta: “Bene, se non riesco a trovare fanfiction su Marcus e Seianus, allora me ne farò una tutta mia, con blackjack e squillo di lusso.”
E perciò, in occasione dell’imminente uscita nelle sale del nuovo film, ecco una fanfiction sulla coppia Seianus/Marcus.
Avvertenze sul contesto prima di leggere: questa storia è un what if che diverge in modo importante dal romanzo.
  1. Marcus è sopravvissuto all’arena. E voi mi direte, con tutte quelle ferite? Ehm, sì, è… è il potere dell’amore.
  2. Seianus e Coriolanus sono rimasti più tempo al Distretto 12 come Pacificatori: un anno intero, non solo pochi mesi come nel libro.
  3. Mi sono immaginata Corio meno stronzo rispetto al canone, quindi Seianus e Marcus sono riusciti a fuggire con i ribelli alla volta del Distretto13.
Basta con i preamboli e buona lettura.


 
1

 
Marcus non aveva ancora ben capito come diavolo fosse arrivato a quel punto, come potesse la sua vita essere crollata tanto velocemente.
Era colpa di quei bastardi di Capitol City, naturalmente, fin lì ci arrivava. La colpa era sempre loro. Ricordava che lo diceva in continuazione, suo padre, che di quella gente non ci si poteva in alcun modo fidare; e lui, il suo buon padre, doveva pur saperlo, dato che in quella corrotta città ci aveva vissuto per un periodo, per motivi di lavoro, e, come ringraziamento per i suoi servizi, durante la guerra si era ritrovato una gamba mozzata e la conseguente impossibilità di lavorare per mantenere la propria famiglia.
Ma proprio non capiva perché il mondo fosse stato così crudele nei suoi confronti da strapparlo dalla sua amata casa, per poi condurlo in quella dannata città, in un’arena mezzo morto, nella camera degli ospiti di una delle famiglie più ricche di Capitol, nel Distretto 12 ed ora in un bosco in compagnia di un gruppo di imbecilli a correre verso chissà quale orribile morte.
Non sapeva, però, se doveva essere grato o meno al mondo di avergli permesso di rimanere in vita ancora un po’. Il fatto che non fosse morto quel giorno di un anno prima nell’arena era stato un vero e proprio miracolo, e non sapeva quale divinità avrebbe dovuto ringraziare per tutto ciò.
Su questo, a dire il vero, un’idea ce l’aveva, ma stentava ad accettarla.
Ebbene, tale divinità era poco più bassa di lui, aveva un bel viso sano e una spruzzatina di lentiggini sulle guance, grandi occhi marroni, come i suoi capelli corti, una faccia da ebete e una fastidiosa tendenza a frignare per qualsiasi cosa; e in quel preciso momento si trovava proprio davanti a lui, mentre gli stringeva il polso nella piccola e curata mano, una mano tipica di chi non ha mai dovuto sgobbare un solo giorno della propria vita. E, come ciliegina sulla torta, era pure uno dei bastardi di Capitol che gli avevano rovinato la vita.
Beh, Marcus aveva sempre dubitato dell’esistenza di queste fantomatiche divinità che popolavano il mondo prima del Disastro, ma, anche se ne fosse esistita una, si aspettava certamente di meglio.
“Tutto bene, Marcus? Ce la fai ancora a camminare?” Chiese il suo presunto dio salvatore, con la sua vocina delicata e colma di preoccupazione che lo mandava in bestia. Marcus si degnò di alzare gli occhi verso il ragazzino davanti a lui, il quale strinse ancora di più le dita sul suo polso, affondandovi le unghie, ma senza causare il ben che minimo dolore o fastidio a Marcus.
I suoi occhi color nocciola lo guardavano con apprensione e con quella nauseante dolcezza che lo caratterizzava fin da bambino. Marcus avrebbe tanto voluto tirargli un pugno, come ogni singolo giorno; tuttavia, come ogni singolo giorno, si astenne: sia perché non ne aveva la forza fisica, sia perché prendere a pugni uno che si preoccupava per lui non era esattamente una cosa carina.
Ad ogni modo, si rifiutò di rispondergli, limitandosi ad un grugnito che doveva simboleggiare un’affermazione. L’altro annuì, deluso ma per nulla stupito del suo mutismo; ormai doveva esserci abituato. Il ragazzo ritornò quindi a guardare davanti a sé, procedendo nella propria folle corsa, nella quale si era trovato trascinato anche Marcus.
Seriamente, che domanda era? Anche se non fosse riuscito a camminare, che si aspettava di fare, quel mollusco? Portarselo sulle spalle? Era fuori discussione: Marcus non era esattamente un peso leggero, non importava che l’altro fosse un Pacificatore ben addestrato. Non ce l’avrebbe fatta comunque. Perché non rifletteva mai prima di dire o fare qualcosa, quell’idiota? Avrebbe potuto avere di sicuro una vita più tranquilla, se solo avesse avuto un minimo di cervello.
E, cosa più importante di tutte, dove diamine stavano correndo?
L’Idiota e i suoi compagni ribelli del Distretto 12 avevano parlato di “scappare a nord”, perché ormai erano “tutti incastrati” e pareva che in questo “nord” ci fossero “delle persone”.
Sì, forse avrebbero incontrato gli scheletri dei vecchi abitanti del Distretto 13, se fossero stati fortunati; oppure, in caso contrario, qualche belva uscita da un laboratorio e pronta a sbranarli.
Già era un miracolo il fatto che fossero riusciti a svignarsela, ma adesso che avrebbero fatto?
Se fossero stati attaccati da un qualche animale selvatico? Se fossero stati uccisi dalle radiazioni del Tredici? Se effettivamente avessero incontrato delle persone, che però si sarebbero rivelate poco amichevoli? Se il biondino che li aveva aiutati a fuggire fosse andato a fare la spia, e i Pacificatori li avrebbero riportati al Dodici, per poi impiccarli?
L’ultima ipotesi era quella che spaventava di più Marcus, ed era anche quella più probabile.
Va bene, il biondo si era sempre dimostrato gentile con lui, era il migliore amico dell’Idiota e li aveva aiutati a fuggire, ma c’era qualcosa in quel ragazzo che proprio non gli piaceva. I suoi occhi di ghiaccio avevano un non so che strano. Di inquietante, in un certo senso.
Una delle rarissime volte in cui Marcus si era sforzato d’intavolare una vera e propria conversazione con l’Idiota, aveva provato ad esporgli la sua diffidenza verso quel “Corio” che l’altro ragazzo tanto adorava; ma stava parlando con l’Idiota, quindi non ne ricavò alcun risultato. E, sia chiaro, non l’aveva fatto perché era in qualche modo preoccupato per lui, semplicemente non voleva rischiare di ritrovarsi appeso ad un albero dopo essere scampato alle torture e all’arena.
Pensando a tutto ciò, Marcus, inconsapevolmente, strinse a sua volta la mano dell’Idiota, il quale subito se ne accorse e, dopo un momento di stupore, gli sorrise dolcemente. Solo a quel punto, Marcus realizzò quel che aveva fatto, e voltò lo sguardo con fare infastidito.
L’Idiota fu abbastanza intelligente da tacere, ma continuò a sfoggiare quello stupido sorriso.
Marcus si trattenne ancora una volta dal tirargli un pugno, provando a lasciargli la mano, ma, con sua grande sorpresa, qualcosa dentro di sé gli impedì di farlo.


Dopo un’altra oretta di corsa, il gruppo si concesse un attimo di pausa. Si fermarono vicino ad un ruscello per rifornirsi di acqua e un paio di ragazzi si misero alla ricerca di qualche pesce. Il loro capo, quello dal nome ridicolo, e sua sorella montarono la guardia, mentre gli altri quattro raccolsero un po’ frutta dagli alberi circostanti.
L’Idiota finalmente gli lasciò la mano e Marcus avvertì subito la mancanza di calore che il suo palmo gli trasmetteva. Il ragazzo doveva essersi accorto del suo attimo di smarrimento e gli sorrise nuovamente, portandogli una mano sul braccio e l’altra sul petto, proprio sul cuore. Lo condusse con gentilezza vicino ad una roccia e gli disse di sedersi. Marcus obbedì perché, anche se non voleva darlo a vedere, quella corsa l’aveva distrutto e non sapeva per quanto tempo avrebbe ancora potuto reggersi in piedi.
L’Idiota tirò fuori dalla sua borsa il materiale medico e cominciò a strofinargli piano il viso con un panno umido, per poi applicargli le solite pomate sulle innumerevoli ferite. Mentre lo faceva, blaterava che “Corio” avrebbe fatto in modo di avvertire le loro famiglie di quanto successo e che presto avrebbero avuto una vita migliore.
Marcus non ascoltava minimamente; entrò invece in una specie di trance, cullato dal tocco caldo e delicato dell’altro, e dalla sua voce che gli parlava in tono amorevole.
Per quanto mal sopportasse l’Idiota, doveva ammettere a denti stretti che quei momenti in cui si prendeva cura di lui non gli dispiacevano. Si sentiva sereno, tranquillo, come se entrasse in un’altra dimensione, nella quale esistevano solo loro due, e niente o nessuno poteva fargli alcun male.
L’altro gli accarezzò lievemente la guancia e Marcus stava cadere in un dolce sonno, quando una voce alquanto fastidiosa lo svegliò dal suo torpore.
“Seianus! Blum si è fatta male!”
Gli occhi di Seianus si allontanarono da lui, per andare a posarsi sulla ragazza ferita. Tale Blum corse verso di loro tenendosi il braccio sanguinante, mentre tentava invano di mostrarsi forte e trattenere le lacrime. Doveva avere un paio d’anni in meno di loro, e portava i capelli corvini legati in una lunga coda di cavallo.
“Che è successo?” Gridò in modo allarmato l’uomo che, a quanto aveva capito Marcus, era suo padre.
“Ha voluto fare il fenomeno arrampicandosi troppo in alto, ma è scivolata lungo il tronco e si è sgrappata completamente il braccio.” Sbuffò infastidito un ragazzo dalla pelle scura e il viso ricoperto di cicatrici, che doveva avere la stessa età del loro leader, Spruce.
Blum era quella a cui Marcus aveva dato un minimo di attenzione in più rispetto agli altri solo perché per la maggiorparte del viaggio non aveva fatto altro che lamentarsi delle gambe che dolevano, del caldo e delle punture di zanzara. Una piagnucolona di prima categoria, esattamente come l’Idiota che ora gli intimava di aspettare solo un secondo, per dedicare la sua completa attenzione alla ragazzina.
Marcus sentì una sensazione di fastidio annidarsi in lui, cosa che crebbe ulteriormente nel vedere il modo tenero con cui l’Idiota tamponava, disinfettava e fasciava la ferita della ragazza, rassicurandola, mentre lei lo fissava come un ebete.
Marcus si rese subito conto di quel sentimento e se ne vergognò profondamente.
No, non doveva cascarci. Non doveva farsi trasportare da sentimenti vecchi che ormai aveva sepolto da tempo. Questo si era detto quando aveva rivisto Seianus dopo dieci anni, allo zoo di Capitol.
Quello era solo un bastardo di Capitol City, uno che aveva contribuito a rendere la sua vita e quella di tanti altri un inferno, uno che aveva voltato le spalle al suo distretto per fare la bella vita nella capitale. Uno che, nonostante tutto quello che era successo tra loro, ancora si ostinava a voler ricucire il loro rapporto.
Ma loro due non avevano proprio alcun rapporto, si trattava solo un’amicizia infantile; forse era sbocciata una piccola cotta, d’accordo, ma gli anni erano passati e qualunque cosa ci fosse stata ormai non aveva più alcun valore, non per lui.
Seianus Plinth era solo un povero sciocco, un illuso, e Marcus non aveva alcuna intenzione di lasciarlo entrare nuovamente nella sua vita.
Quando l’Idiota ebbe terminato con la ragazzina, che cominciò a balbettare una serie infinita di ringraziamenti, manco le avesse salvato la vita, riportò la sua completa attenzione su Marcus, il quale si era imposto di mantenere un’espressione di totale indifferenza.
Poteva sembrare infantile, in effetti, ma era come se dicesse a Seianus: “Lo vedi? Non mi importa affatto che tu ti prenda cura di altre persone. Per me averti vicino o meno non cambia assolutamente nulla.”
L’Idiota aggrottò un momento le sopracciglia e Marcus continuò a sforzarsi di mantenere freddo il suo sguardo, anche se in realtà in quel momento si sentì nudo di fronte all’altro ragazzo, che di sicuro doveva avergli letto in qualche modo nel pensiero. Dannato bastardo… Come faceva a capire cosa provava ogni santa volta?
Essendosi evidentemente accorto dell’ostentazione d’indifferenza di Marcus, l’Idiota sfoggiò un sorrisino da perfetto scemo, poi si chinò nuovamente sulla sua borsa. A quel punto lo guardò dritto negli occhi e gli intimò in un sussurro: “Togliti la maglietta.”
La maschera di pietra di Marcus vacillò per un istante. L’Idiota si rese conto anche di questo e ridacchiò, tirando fuori un altro flacone e agitandolo davanti al viso.
“Devo metterti questo.” Precisò il ragazzo. Marcus fece un profondo respiro, dandosi del cretino per la sua reazione eccessiva, e fece come gli era stato detto.
L’Idiota si arrampicò sulla sua stessa roccia e si mise in ginocchio dietro di lui, cominciando ad applicargli la pomata lungo la ferita che gli aveva lasciato la scure della ragazza del Distretto 7 che aveva cercato di finirlo nell’arena, ma evidentemente aveva esitato all’ultimo momento, perché la sua arma non aveva lasciato alcuna ferita fatale e non aveva fatto altro che prolungare quell’agonia, fino a quando non era stato soccorso da Seianus e il suo amico biondo, che l’avevano trascinato via da quell’inferno e poi, fingendo che fosse un cadavere, l’avevano portato e curato di nascosto presso la casa dei Plinth.
Marcus strinse tra le mani la maglietta grigia e un po’ troppo larga persino per uno come lui, che Seianus gli aveva comprato. Il ragazzo, al Distretto 12, lo aveva riempito di vestiti nuovi, cibo e oggetti per la casa: ogni volta che lo andava a trovare, nei giorni liberi, aveva sempre tra le braccia un dono nuovo, che comprava con il suo magro stipendio da Pacificatore.
Marcus sapeva che avrebbe dovuto ringraziarlo per questo, ma ogni volta che ci provava le parole gli morivano in gola, quindi taceva. Non voleva dare a quell’altro un qualche segnale di apertura, non voleva dargli quella soddisfazione, anzi, voleva fargli capire che non se ne faceva niente della sua pietà; inoltre, non avrebbe saputo pronunciare la parola “grazie” neanche volendo. Non a lui, ne sarebbe morto per la vergogna, lo sapeva.
Eppure l’Idiota continuava imperterrito a portargli roba tutte le settimane.
Il fatto che uno come Seianus Plinth, tutto sorrisi e gentilezze, fosse un Pacificatore, poi, faceva ridere. Infatti, secondo Marcus, aveva fatto bene ad addestrarsi come medico. Lo capiva dal suo tocco delicato, dall’attenzione con cui portava a termine ogni singola operazione, dalla sua gentilezza. Sin da piccolo, si era convinto che Seianus fosse venuto al mondo proprio per prendersi cura degli altri: fare il medico era il lavoro perfetto per lui.
E poi, almeno così avrebbe avuto qualche utilità come Pacificatore; Marcus sapeva che Seianus era sempre stato un ottimo tiratore, dato che suo padre lo costringeva ad allenarsi con lui, quando era bambino. Tuttavia, sparare non era certo nella sua indole: probabilmente, sarebbe stato uno di quelli che, durante una sommossa o addirittura in una guerra, si rifiutano categoricamente di colpire qualcuno.
“Finito, puoi rivestirti.” Disse il ragazzo alle sue spalle. Marcus si rimise la maglia in silenzio.
Spruce riunì tutti e disse che avrebbero continuato a spostarsi verso nord fino al calare della notte, senza mai fermarsi. Dovevano assolutamente aumentare la distanza dal Dodici, erano ormai trascorse diverse ore, c’era il rischio che qualcuno si fosse già accorto della loro assenza.
Marcus non potè far altro che alzarsi sulle gambe ancora doloranti e seguire quelli che ormai erano diventati i suoi compagni di sventura.


Finita quella breve pausa, la squadra “Andiamo-a-morire-ammazzati” riprese la sua marcia, ovviamente senza sapere di preciso verso quale dannata meta stessero andando.
L’Idiota doveva aver capito che non lo voleva intorno, dopo che Marcus aveva troncato sul nascere ogni suo tentativo di avere una conversazione, quindi si era spostato più avanti a confabulare con Spruce, il padre di Blum e un altro tipo. Lui era rimasto indietro insieme a Blum e al tizio con le cicatrici, che Marcus aveva scoperto chiamarsi Morb. Davvero, che diavolo di nomi avevano al Dodici?
Davanti a loro c’erano Lil e altri tre tizi di cui Marcus ancora non conosceva il nome.
Il ragazzo del Due guardava dritto davanti a sé, per nulla intenzionato ad avere un qualche tipo di scambio con Blum e Morb, ma purtroppo quest’ultimo decise che poteva essere una buona idea rompergli le scatole.
Con quella sua voce cavernosa, il ragazzo gli disse: “Allora, da quanto tempo vi conoscete?”
L’intenzione iniziale di Marcus era quella di ignorare del tutto quell’essere molesto, ma, non avendo compreso la domanda, si ritrovò istintivamente a chiedere: “Cosa?”
“Sì, insomma, tu e il Pacificatore.” Rispose Morb con un sorrisetto che a Marcus non trasmetteva nulla di buono. “Anche lui viene dal Due, no? Mi sembra che siate molto amici.”
Il modo in cui disse “amici” era palesemente ironico, e Marcus sentì la sua maschera d’indifferenza sul punto di crollare un’altra volta. Tuttavia, fu abbastanza freddo da non cogliere la provocazione e si limitò a grugnire infastidito, sperando che fosse sufficiente per convincere quel rompiscatole a desistere.
Sfortunatamente non fu così.
“Dai, so che veniva spesso a trovarti in quell’appartamento in cui eri ospitato.” Morb allargò ancora di più il suo sorriso, mettendo in mostra i denti in gran parte scheggiati. “Seianus ci ha raccontato di te, lo sai? Che vieni dal suo distretto, che eri un tributo e che sei sopravvissuto all’arena. E’ stato davvero coraggioso da parte sua mettersi contro Capitol ed entrare in quella gabbia di belve per salvarti. Un vero cavaliere!”
“Un vero stupido, semmai.” Marcus non seppe trattenersi. Che ne sapeva quel tipo di Seianus? Di Marcus? Di loro due, della loro storia?
“Può darsi, ma un gesto d’amore rimane comunque un gesto d’amore.” Morb scoppiò in una risata gutturale. Pareva divertirsi sul serio a prendersi gioco di lui.
“Chiudi il becco.”
“Seianus è gentile con tutti.” La vocina di Blum si levò timidamente, attirando l’attenzione dei due ragazzi e zittendo la risatina irritante di Morb.
Dato che non ci furono interventi, la ragazzina continuò: “Lo vedevo spesso in giro a curare le persone ferite, o anche solo a dare una mano in piccoli lavori. E’ così gentile con tutti, ti fa sentire al sicuro. Anche a me ha trasmesso la stessa sensazione, prima. Ma il modo in cui guarda te… Credimi, non lo fa con nessuno.”
“Lo so come mi guarda.” Marcus si pentì delle sue parole nel momento stesso in cui le pronunciò, ma non riuscì davvero a tacere. Al diavolo la sua maschera di pietra, era rimasto zitto troppo a lungo su quella questione.
Dopo un attimo di silenzio, decise che il danno ormai era fatto e continuò: “So quello che prova, anche un cieco lo capirebbe. Ma io non ho bisogno di un traditore.”
“Marcus, non aveva altra scelta!” Ribattè stizzita Blum, che a quanto pare si era presa abbastanza confidenza da cominciare a chiamarlo per nome, manco fossero amici.
 “Intanto, però, la bella vita a Capitol se l’è goduta. Mentre noialtri ce ne siamo rimasti a morire di fame, a sgobbare e ad ammazzarci in un’arena.”
Marcus fece un profondo respiro per calmarsi. Non valeva la pena perdere le staffe proprio adesso. “Comunque, questo non vi riguarda. Plinth è un’idiota, che non riflette mai prima di agire, si fa prendere troppo dalle emozioni e così si farà solo ammazzare. Mi sorprende che non sia ancora schiattato, in realtà. E comunque, no, non è del Distretto 2. E’ solo un bastardo di Capitol City.”
Durante tutto il suo discorso, Morb era rimasto in silenzio, a sogghignare. Alla fine, emise un’altra specie di risatina, che pareva più un grugnito, e terminò la conversazione dicendo: “Mh, in effetti no, non direi che appartiene al Distretto 2. Ma non lo direi nemmeno un cittadino di Capitol City.
E poi, scusami ma, è vero che la bella vita se l’è goduta finchè ha potuto. Ma è anche vero che ha rinunciato a quella vita per te.”
Marcus non seppe come rispondere.


Erano le prime ore dell’alba, Marcus poteva sentire il tenue calore dei raggi del sole che filtravano attraverso la fitta vegetazione. A quel punto erano ben distanti dal Distretto 12, anzi, secondo lui avevano addirittura sorpassato il confine, entrando in una di quelle che chiamavano “zone fantasma”, aree tecnicamente sotto il controllo di Panem, ma che non appartenevano a nessun distretto e in cui generalmente non metteva piede nessuno.
Si trattava di quelle strisce di terra che dividevano un distretto dall’altro e in cui erano presenti le rovine delle antiche città americane esistenti prima del Disastro, che il governo di Panem non si era mai degnato di toccare.
Quelle città fantasma rimanevano semplicemente lì, vuote e fredde, come a ricordare a tutti che, prima di Panem, l’umanità aveva un passato, di sicuro ben più felice del presente, ma gli esser umani, stupidi e arroganti, si erano privati di quel prospero passato, privandosi così anche della possibilità di un presente e un futuro felici.
Marcus ebbe la conferma della sua teoria quando, finalmente, la vegetazione cominciò a diradarsi, e il gruppo spuntò in un prato pianeggiante, oltre al quale si poteva scorgere, in lontananza, lo scheletro di una vecchia cittadina abbandonata.
Marcus non sapeva quale fosse, non che gli importasse. Era semplicemente contento di essere relativamente al sicuro. Si bloccò, rilassando finalmente i muscoli. Le gambe gli procuravano un dolore atroce, per non parlare delle vecchie ferite, che dolevano come se fossero appena state inferte.
Gli altri rimasero in silenzio, limitandosi a guardarsi l’un l’altro, soddisfatti. Anche se i Pacificatori del Dodici si fossero accorti della loro assenza, difficilmente si sarebbero spinti così lontano, di sicuro non per correre dietro ad una cricca di minatori disperati. Inoltre, se erano giunti alla “zona fantasma”, voleva dire che erano vicini al Distretto 13. E nessuno si avvicinava al Tredici.
Le autorità del Dodici si sarebbero semplicemente limitate a lasciarli andare, confidando che le radiazioni del vecchio distretto gli avrebbero presto ammazzati, mentre avrebbero insabbiato la vicenda, per evitare folli emulazioni da parte di altri cittadini.
Il problema, però, adesso, era proprio il Distretto 13.
Siamo scappati dall’inferno solo per rientrarci dalla porta su retro, pensò Marcus. A questo punto, l’unica cosa che possiamo fare è andarcene dal Paese e sperare che a nord ci sia ancora qualche essere umano. Ma per farlo…
“Ci siamo lasciati alle spalle il Dodici, ma non Panem.” La voce tagliente di Spruce fece sparire i loro sorrisi dalle labbra, dando voce ai pensieri di tutti. L’uomo indicò verso l’orizzonte, l’oltre il prato, oltre la città fantasma. “So che sembra strano dirlo, ma il pericolo più grande arriva solo ora.”
Marcus completò mentalmente la sua frase. Dobbiamo per forza attraversare il Tredici.
“Ma a questo penseremo più tardi.” Spruce si passò una mano tra i capelli sudati, esausto. Li guardò uno ad uno, osservando la stanchezza negli occhi dei suoi compagni. Quando arrivò a Marcus, aggrottò leggermente la fronte e lo squadrò da cima a fondo. “Dobbiamo riposare, almeno per qualche ora.”
Evidentemente si era reso conto del dolore in tutto il corpo che Marcus provava a celare, perché subito dopo fece un cenno a Seianus, il quale si agganciò al braccio di Marcus e cominciò a borbottare sul fatto che dovesse assolutamente fare una dormita.
Marcus sbuffò, liberandosi dalla sua presa e sdraiandosi per conto suo sui morbidi fili d’erba. Sempre nascosto dietro la sua maschera di pietra, tentò di ignorare sia lo strazio che fu quella semplice operazione per il suo corpo sia lo sguardo ferito dell’Idiota, che lo guardava di sottecchi torturandosi le mani. Probabilmente si stava struggendo perché non era ancora riuscito ad avere una conversazione decente lui.
Ad ogni modo, Marcus non aveva certo tempo da perdere pensando che forse con il suo modo di fare stava leggermente ferendo i sentimenti di Seianus, cosa che gli importava poco, perché il suo unico desiderio in quel momento era chiudere gli occhi e dormire.
Volare via da quel posto, da quei rimbambiti dei suoi compagni di sventura, dal pericolo, dal dolore, da tutto.

E Marcus volò via, lontano da lui, per atterrare nella sua vecchia casa, al Distretto 2.
Non era una bella casa, in realtà: si trattava di una di quelle piccole abitazioni grigie poste in una fila di tante altre case completamente uguali, con i muri e il tetto rovinati dall’intemperie, i vetri ricoperti costantemente dalla polvere proveniente dalle cave circostanti.
Era la tipica casa triste e anonima che si poteva trovare al Distretto 2. Ed era anche la tipica casa di una famiglia di semplici cavatori di marmo, piccola e che dava l’impressione di crollare da un momento all’altro. Eppure Marcus l’amava, perché, nel clima di paura e violenza in cui era stato costretto a crescere, rappresentava per lui l’unico porto sicuro.
Il Distretto 2 sorgeva su quelle che un tempo erano chiamate Montagne Rocciose. Era una zona inospitale e dal clima aspro, che poteva essere abitata solo da gente dal corpo e il cuore di pietra, esattamente come la pietra che scavavano ogni giorno.
Ed erano proprio così gli abitanti del Distretto 2: abituati al combattimento, alla caccia e al duro lavoro sin da piccoli, sembravano non piegarsi mai di fronte a nessuna difficoltà e uscivano da ogni situazione a testa alta, una smorfia di fredda indifferenza sul viso era il loro strumento migliore per fronteggiare le avversità.
Per questo Marcus pensava di essere il prodotto perfetto del suo distretto: forte, duro come il marmo che la sua famiglia scavava da generazioni, immobile di fronte ad ogni tipo di intemperie.
Gliel’avevano insegnato i suoi concittadini, a fianco ai quali si sentiva parte di qualcosa, non più solo di fronte alla tirannia di Capitol City. Gliel’aveva insegnato suo padre, che, nonostante la perdita di un arto, non si era spezzato, ma aveva sempre affrontato la vita di petto. Gliel’aveva insegnato sua madre, che non ci aveva pensato due volte a prendere in mano la situazione famigliare dopo la terribile tragedia accaduta al marito.
E adesso lui, Marcus, aveva il compito di impartire le stesse lezioni a sua sorella minore, Fulvia, la quale mai avrebbe dovuto farsi abbattere dai tentativi di Capitol City di terrorizzarla e spezzare la sua giovane anima. Mai avrebbe dovuto piegarsi al perverso gioco della morte di Capitol, né temerlo.
Adesso Marcus non si trovava più in un luogo dimenticato dal resto del mondo, non c’erano cicatrici a coprire il suo corpo. Era a casa, seduto al tavolo con la sua famiglia.
Sua madre si lamentava del lavoro, di tanto in tanto, ma raccontava anche aneddoti divertenti successi al mercato; suo padre restava per gran parte del tempo in silenzio, ma era comunque ben presente, annuendo ogni tanto e sorridendo lievemente. Qualche volta Fulvia commentava divertita, e parlava di questo o quel ragazzo a scuola, mentre sua madre affermava, con un finto broncio in volto, che aveva una gran voglia di cucinare una bella torta per un matrimonio e che quindi avrebbero dovuto entrambi sposarsi alla svelta.
Ma io qualcuno da sposare già ce l’ho.
Questa frase sfuggì dalle labbra di Marcus senza che lui nemmeno se ne rendesse conto. Sbatté un paio di volte le palpebre, insicuro sul significato delle parole da lui stesso pronunciate. Che diavolo stava dicendo? Aveva avuto solo un paio di esperienze, spinto dai suoi amici tra l’altro, ma non erano finite molto bene. Il suo sguardo era troppo truce e il suo comportamento troppo duro persino per le rudi ragazze del Distretto 2.
Stava per giustificarsi per quell’assurda affermazione, quando si rese conto che nessuno gli aveva dato attenzione. I suoi genitori e Fulvia continuavano a parlare come se niente fosse, ma Marcus non riusciva a distinguere le loro parole, erano come un insieme di versi gutturali che si sovrapponevano l’un l’altro.
Marcus non era più seduto al tavolo della sua amata casa. Era in piedi, insieme a migliaia di altri ragazzi della sua età, moltissimi anche più giovani. Erano tutti in silenzio.
Un nome. In quel silenzio tombale si udì solamente un nome.

Marcus Lane!

Il corpo di Marcus adesso era diventato davvero pietra. Ma come? Perché non riusciva a muoversi?

Marcus!

Quelli del suo Distretto non affrontavano tutto con fredda spavalderia, anche la morte? Era ciò che gli aveva sempre detto. Era ciò che lui aveva sempre detto a sé stesso.

Marcus!

Dov’era la sua maschera ora? Perché l’aveva abbandonata proprio in quel momento? Non avrebbe dovuto proteggerlo fino alla fine?

Marcus!

Ho capito, volete me! E’ il mio sangue che dev’essere versato per mantenere la vostra “pace”? E va bene, vi accontenterò!

Il suo corpo tornò a muoversi. Un passo, due passi, camminava verso il palco, attorno a lui nessuno aveva il coraggio di guardarlo in faccia, si limitavano a contemplarsi le scarpe malconce, lasciandogli libera la strada che l’avrebbe condotto alla morte.
Non poteva sottrarsi al loro gioco, non poteva contrastarlo attivamente. Poteva fare solo una cosa per combattere, per poter lasciare il mondo dicendo: “Non mi sono piegato davanti a nessuno”.

Marcus!

Non gli avrebbe fornito nessuna soddisfazione, nessun sadico spettacolo.
Lui era Marcus Lane, non il loro giocattolino. Avrebbero potuto prendersi il suo corpo, il suo sangue, la sua vita, ma non avrebbero mai potuto prendersi Marcus, il sua anima, la sua personalità, tutto ciò che era stato fino a quel momento.
Quindi che lo affamassero, picchiassero, torturassero o uccidessero, ma lui a Capitol, in quell’arena, non avrebbe mai perso sé stesso.
 
Marcus… Marcus!

Ma perché tra tutti proprio io?

“Marcus!”
Marcus sollevò le palpebre di scatto. Le sue iridi scure si spostarono freneticamente da un lato all’altro del suo campo visivo, in cerca di una qualche minaccia. Si rilassò solo quando vide al suo fianco il viso di Seianus, contratto in un’espressione estremamente preoccupata.
“Ti stavi agitando molto, quindi, ho pensato di svegliarti…” Borbottò l’Idiota, chinandosi su di lui. Marcus sbatté per un paio di secondi gli occhi, per poi sbuffare sonoramente e sollevarsi a sedere, in modo da allontanare un minimo l’altro ragazzo, che si stava sporgendo in modo fin troppo invadente.
“Ti senti b-”
“Torna a dormire.” Rispose secco Marcus, senza guardarlo negli occhi. Fissava un punto vuoto di fronte a sé, oltre le sagome dei compagni addormentati intorno a loro. Più avanti vide Morb, seduto a fare la guardia, mentre scrutava l’orizzonte con aria annoiata. Al suo fianco c’era Blum; anche lei avrebbe dovuto montare la guardia, ma pareva essersi addormentata.
Marcus si riteneva fortunato che fosse così buio da far fatica a vedere oltre il proprio naso, perché era fermamente convinto che la sua espressione tradisse il suo sgomento.
Si era mostrato debole di fronte a Seianus Plinth, la persona che più di tutte non poteva vedere oltre la sua maschera di pietra. Marcus si diede mentalmente del cretino più volte, mentre tentava in tutti i modi di ignorare le domande sempre più insistenti dell’Idiota.
“Ma sei davvero sicuro che non vuoi nemmeno un po’ d’acqua? Posso-”
“Puoi fare cosa?” Marcus davvero non lo sopportava più. Il suo tono premuroso e amorevole gli faceva davvero venire la nausea. “L’unica cosa che puoi fare è tacere e lasciarmi in pace.”
“Ma-”
“Ma niente!” Ruggì Marcus. Sussultò, rendendosi conto di aver alzato un po’ troppo la voce, e lanciò un rapido sguardo ai compagni stesi sul terreno. Fortunatamente, nessuno diede segno di essersi svegliato. Tirò un sospiro di sollievo: dovevano rimanere fuori da quella storia, a tutti i costi.
Tornò ad utilizzare un tono di voce freddo e distaccato: “Sai cos’ho sognato? La mietitura, ecco cosa. Ciò che mi ha rovinato la vita, tutto per il divertimento di voi pazzi malati di Capitol City.”
“Io non sono di Capitol!” Protestò l’Idiota, come se Marcus avesse ferito il suo orgoglio.
“Ah, no?” Marcus avrebbe solo voluto ignorarlo come aveva sempre fatto, ma sentiva che prima o poi il momento di affrontare quella questione doveva arrivare. Ed era arrivato. Doveva mettere le cose in chiaro con Plinth subito. Ora o mai più.
“Però non ti lamentavi, eh? Ti piacevano il tuo lussuoso appartamento, mentre noi al Due vivevamo in quelle catapecchie grigie e tristi. E scommetto che il cibo a tavola non ti mancava mai, anzi, non badavi agli sprechi, perché tanto di cibo ne avevi fino a scoppiare. Al Due ci accontentiamo della colazione e della cena. E poi i gioielli, gli abiti firmati... Frequentavi la scuola migliore del Paese, no? Mentre noi appena finite le medie veniamo spediti nelle miniere o nell’esercito.”
Marcus terminò il suo sfogo, col respiro pesante. Rimase sorpreso di sé stesso, dal momento che probabilmente quello era il discorso più lungo che avesse mai fatto in tutta quanta la sua vita. E aveva dovuto sprecare tutto quel fiato per l’Idiota.
Evidentemente anche quest’ultimo era rimasto scioccato dalla sua loquacità. Era rimasto zitto e immobile per tutto il tempo, e adesso non fiatava.
L’ho zittito… Incredibile, non l’avrei mai detto.
Marcus non poteva vederlo, ma lo sentì muoversi nel buio, mentre si allontanava da lui. Bene, finalmente l’ha capita.
Il ragazzo si sdraiò nuovamente, cercando di ignorare una strana sensazione di fastidio che cominciava ad annidarsi nel suo cuore. Ma che problema c’era? Finalmente l’Idiota si era deciso a lasciarlo in pace, era ciò che desiderava da un anno, o no?
Dovette ricredersi quando, un paio di minuti dopo, la luce di una lanterna si accese a fianco a lui e vide Plinth sedersi accanto al suo giaciglio, con una scatola tra le mani e un sorriso triste sul volto.
Ma porca…!
“Che vuoi ancora?” Marcus era davvero incredulo. Sapeva che quell’Idiota fosse più testardo di un mulo, ma questo era veramente troppo! Quale parte della frase “Devi lasciarmi stare” non capiva?
“Volevo solo mostrarti una cosa. Poi prometto che ti lascerò dormire.” Rispose l’altro ragazzo, allargando il suo sorriso. Ma negli occhi leggeva la sua esitazione e anche un certo timore. Non timore di Marcus, naturalmente, quell’Idiota sapeva bene che lui non gli avrebbe fatto del male, si trattava di una paura diversa, più profonda.
La paura di essere rifiutato.
Quel pensiero colpì Marcus all’improvviso. Il ragazzo non sapeva di preciso da dove fosse uscito, ma poi pensò di averlo capito perché conosceva bene quel sentimento. L’aveva provato anche lui, tanto tempo fa.
Una parte di Marcus avrebbe solo voluto ignorarlo e dargli la schiena, ma l’altra parte era sinceramente curiosa. Vinse quest’ultima e il ragazzo si alzò a sedere, incrociando le braccia in attesa che il compagno si decidesse a parlare.
L’Idiota parve sorpreso di quell’improvvisa apertura nei suoi confronti, perciò decise di farsi audace e strisciò più vicino a Marcus, che non si mosse.
Aprì la scatola e vi estrasse una vecchia foto, che porse a Marcus. Quest’ultimo l’afferrò, osservandola con un certo stupore. Era la loro classe delle elementari, al Distretto 2.
Marcus riconobbe sé stesso e, davanti a lui, Seianus. Era passato così tanto tempo, erano successe così tante cose, eppure loro due non erano cambiati di una virgola. Seianus era il solito ragazzino frignone e sentimentale, sempre gentile con tutti; Marcus era burbero e chiuso, ma sempre pronto a dare una mano a chi se lo meritava.
L’aveva tenuta per così tanto tempo…? Ma allora, forse, Plinth non dava solo aria alla bocca quando parlava di quanto gli mancava il Due. Forse, i suoi sentimenti erano sinceri.
Marcus scacciò quel pensiero. Anche se fosse, ormai l’Idiota era col nemico: i ricordi d’infanzia, i sentimenti, erano potenti, sì, ma non potevano niente contro la bella vita offerta da Capitol City.
“Bene, ti manca il Due, questo l’ho capito.” Commentò freddamente Marcus, porgendogli nuovamente la foto. “Ora posso tornare a dormire?”
Seianus affondò di nuovo la mano nella scatola e tirò fuori un altro oggetto.
Marcus alzò gli occhi al cielo. Stava per dirgli di darsi una mossa con quella sceneggiata, ma, non appena posò lo sguardo su ciò che l’altro teneva in mano, si congelò sul posto.
Un cuore di marmo. Non era tagliato perfettamente, in effetti era abbastanza deformato in certi punti, ma si trattava comunque di un buon lavoro, dato che era stato realizzato da un bambino di soli otto anni.
 
“Marcus, che stai facendo?” La voce di sua madre proveniva da un giorno lontano della sua infanzia. La donna si avvicinò curiosa al figlio, osservando il suo lavoro.
“E’ un cuore.” Rispose semplicemente il piccolo Marcus.
“Oh, questo lo vedo, ma per chi?” Sua madre ridacchiò, attirando l’attenzione del marito, che sedeva sulla poltrona leggendo un giornale. “Dai, chi è la fortunata?”
Marcus guardò di sottecchi la madre, leggermente imbarazzato. “Non è una bambina.”
A Panem, le relazioni tra persone dello stesso sesso erano la norma, perciò, generalmente, la gente le accettava. Tuttavia, questo era possibile solo entro certo limiti: infatti, non era possibile sposarsi con qualcuno del proprio sesso, dal momento che, per il governo, la preoccupazione principale era che i cittadini sfornassero abbastanza figli per il lavoro. Quindi, le relazioni omosessuali andavano bene, ma, raggiunta una certa età, era preferibile organizzare un matrimonio serio e fare figli.
La donna, in un primo momento, guardò perplessa il figlio, sbattendo le palpebre, ma tornò quasi subito a sorridere: “Mh. Capisco. Allora? Non mi hai ancora risposto.”
“Seianus.” Borbottò Marcus, quasi sottovoce.
“Seianus?”
“Sì, Seianus Plinth. Da grandi ci sposeremo.” Affermò convinto il bambino, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
“Ma non puoi sposartelo.” La voce profonda di suo padre aveva risuonato per tutta la stanza. Il suo tono di voce era calmo, come sempre, ma aveva la capacità di portare il silenzio in qualunque situazione.
Marcus non capiva. “Perché?”
“Beh, siete maschi. E poi, un Plinth non potrebbe mai stare con uno come noi. Siamo su livelli completamente diversi.” Il tono era lo stesso usato poco prima da Marcus, come se stesse dicendo un’ovvietà.
“Perché?” Il piccolo non voleva risultare fastidioso, ma ancora non comprendeva dove fosse il problema.
“Beh, perché… Insomma, Marcus, i Plinth sono ricchi e potenti, e per di più sono i lecchini di Capitol City.” Il padre di Marcus sputò fuori quest’ultima frase con un certo disprezzo, ma si rese subito conto di aver esagerato, perciò si ricompose alla svelta. “Quel che voglio dire, è che non c’entrano niente con una semplice famiglia di cavatori come noi.”
Ne aveva sentito parlare, di quanto fossero potenti i Plinth. Vivevano in una bella villa, così diversa dalle casette in cui Marcus e altre famiglie come la sua erano stipati. Inoltre, Seianus, a scuola, era sempre ben vestito, pulito e pettinato. Marcus e la maggiorparte degli altri bambini, invece, portavano sempre gli stessi abiti, anche se erano lerci, e le loro mani e i loro piedi parevano costantemente ricoperti di sporcizia, proveniente da chissà dove.
Per tutti questi motivi, Marcus si era a lungo chiesto se il legame tra lui e Seianus potesse effettivamente funzionare: sembravano così diversi!
Ma poi si era reso conto che a Seianus non importava nulla dei vestiti o della pelle sporca, della casetta grigia in cui viveva, o del fatto che nella sua famiglia fossero tutti dei banali cavatori di marmo.
E, allo stesso modo, a Marcus non importava che il suo amico vivesse in una villa, che fosse sempre ben curato, che la sua famiglia gestisse praticamente il mercato delle armi dell’intero Paese.
Si volevano bene, era questa la cosa importante.
“E allora? Io e Seianus andiamo d’accordo. E anche se alla fine non ci possiamo sposare, staremo sempre insieme. Ce lo siamo promessi.”
Suo padre lanciò un’occhiata a sua madre, e i due rimasero per qualche secondo a fissarsi l’un l’altra. Durante quel breve periodo di tempo, Marcus pensò che quei due stessero avendo un sorta di conversazione telepatica che lui non poteva comprendere.
Il bambino stava per ribadire la sua convinzione, quando venne bloccato da un evento più unico che raro: suo padre stava ridendo. Non era una risata sguaiata, si trattava di una risatina roca e gutturale, che lasciò il ragazzino esterrefatto.
“Allora impegnati bene con quel cuore.” Disse l’uomo, senza abbandonare il suo sorriso. “Di sicuro gli piacerà.”
Dopo qualche altro momento di smarrimento, Marcus riprese il suo lavoro con più fervore di prima.
 
“Ricordi?” Domandò Seianus, senza abbandonare il suo sorriso malinconico.
“Ricordo.” Rispose semplicemente Marcus.
“Quando me lo regalasti, io mi misi a piangere per l’emozione. E tu avevi paura che stessi piangendo perché non mi piaceva, allora ti ho abbracciato dicendo che lo adoravo e che l’avrei sempre tenuto con me.”
“Credevo che l’avessi dimenticato.”
“Anch’io credevo che tu l’avessi dimenticato.”
“No, io… Io ci ho ripensato qualche volta.”
Seianus lo guardò di sottecchi, stringendo ancora di più il cuore. “Quindi… Mi ha pensato in questi anni?”
“Sì.” La confessione era scivolata fuori dalle labbra di Marcus senza che lui potesse fermarle. Era così ovvio, no? Che lui avesse pensato a Seianus, almeno qualche volta.
Ma no, non doveva ammetterlo… Stava di nuovo perdendo il controllo.
“Ma non provo più niente, vedi di ficcartelo in testa.” Disse subito dopo. “E’ stata una storiella infantile. Diciamoci la verità: non avrebbe potuto funzionare già allora, eravamo troppo diversi. E potrebbe funzionare ancor meno adesso. Noi due non c’entriamo proprio nulla l’uno con l’altro.”
E’ la verità. Mio padre aveva ragione.
Ma Seianus non voleva demordere. “Me l’hai detto tu, una volta: la cosa importante è che ci volessimo bene, non importava quanto fossimo diversi. Adesso questa cosa non vale più?”
“Te lo ripeto di nuovo: io non provo più nulla.”
Assolutamente niente.
“E io ti ripeto che davvero mi manca il Due, che davvero odio Capitol City, e che davvero amo te.” Seianus aveva quasi urlato l’ultima frase, in un gesto di disperazione, una frase che rimbombò nella testa di Marcus per diversi secondi.
Non devi crollare. Non puoi farlo.
“Adesso smettila-”
“No!” Ora Seianus aveva le lacrime agli occhi. “Non sai quante volte ho pensato di andarmene di casa e venire a trovarti. Avrei rinunciato al lussuoso appartamento, al cibo a tavola ogni giorno, agli abiti firmati, alla scuola migliore del Paese, a tutto pur di poterti rivedere almeno una volta. Pur di poter tornare alla mia vera casa. Lo so che è egoista da dire, ma il giorno della mietitura, quando mi è stato detto che avrei fatto da mentore al tributo maschio del Distretto 2, ho sentito chiamare il tuo nome e ti ho visto salire sul palco, io… Io ho pianto per te, perché una così brava persona come te non si meritava una cosa simile, nessuno se lo merita. Però, allo stesso tempo, ho pensato che questa poteva essere la conferma che siamo fatti l’uno per l’altro. Che è stato il destino a riportarti da me.”
Marcus non disse nulla. Non poteva dire nulla, perché quando aveva scoperto che Seianus Plinth sarebbe stato il suo mentore ai Giochi, anche lui aveva pensato per un momento la stessa cosa.
Seianus, rivedrò Seianus! Ma subito dopo era tornato alla realtà e aveva capito che comunque la cosa non sarebbe durata a lungo, e che il Seianus che conosceva ormai era perduto, e al suo posto c’era solo un traditore, un cagnolino di Capitol City, un nemico di cui non poteva fidarsi. Nulla di più, nulla di meno.
Così Marcus si era convinto che stare lontani l’uno dell’altro fosse meglio per entrambi. Almeno così nessuno avrebbe sofferto.
Seianus posò una mano sulla sua e disse con voce tremante: “Anche se davvero non provi più niente… Io lo accetto. Davvero. Però… Non potremmo almeno provare a parlare? Mi fa troppo male il modo in cui mi guardi sempre.”
Marcus fu preso dall’improvviso desiderio di stringergli quella mano calda, ma lo represse. Si era detto che non poteva, non poteva cedere. Si tolse dalla presa di Seianus.
“Non rendere le cose ancora più difficili di quanto già non lo siano, Plinth. I miei sentimenti per te un tempo erano sinceri, adesso… Adesso non sono più sicuro di niente. Quindi ora lasciami in pace, e vattene a dormire.”
Seianus gli lanciò un ultimo sguardo ferito, ma alla fine annuì; posò il cuore nella scatola, spese la lanterna e si allontanò. Marcus tornò a sdraiarsi, ma per il resto della notte non riuscì a chiudere occhio. Le parole che gli aveva rivolto Seianus continuavano a ripetersi nella sua testa, tormentandolo.
“E io ti ripeto che davvero mi manca il Due, che davvero odio Capitol City, e che davvero amo te.”
Anch’io ti amo, pensò, per poi vergognarsene e arrossire quasi subito.
Perché non posso semplicemente lasciarti andare? Perché dev’essere tutto quanto così difficile?

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


2

 
Il mattino dopo, fra lui e Seianus pareva tornato tutto normale. Seianus gli mise la solita pomata sulle vecchie ferite e gli parlò con gentilezza, mentre Marcus gli rispondeva con grugniti e monosillabi. Ma quei gesti così abituali erano impregnati di un imbarazzo che Marcus percepiva bene e che lo metteva a disagio. L’altro ragazzo pareva aver seriamente perso le speranze di instaurare un’altra conversazione con lui, perciò, dopo le solite cure mediche, non gli aveva più rivolto la parola, preferendo rimanere in testa al gruppo a confabulare con Spruce e Lil.
A Marcus andava bene: mettersi a parlare con Seianus come se nulla fosse successo avrebbe reso il tutto ancora più imbarazzante, e non sapeva se sarebbe riuscito a mantenere il controllo sulle sue emozioni.
D’altra parte, non era affatto piacevole marciare al fianco di Morb, che aveva addosso un’espressione piuttosto sgradevole. Non faceva che guardarlo di sottecchi con un sorriso malizioso, per poi far vagare lo sguardo tra lui e Seianus, ridacchiando come un’idiota. Evidentemente aveva origliato ciò che si erano detti quella notte. Perlomeno aveva avuto la decenza di non fare commenti.
Passarono i seguenti tre giorni a camminare tra prati, città abbandonate e foreste, sostando solo per mangiare e dormire. Avevano ormai penetrato il territorio del Distretto 13 e sapevano che presto, oltre al problema delle scarse provviste, sarebbe arrivato anche quello delle radiazioni, una volta giunti nei pressi della centrali nucleari, colpite durante la guerra.
Nonostante tutto ciò, Marcus continuava a pensare all’altra sera. Si sentiva uno sciocco ragazzino alle prese con la prima cotta. Il discorso di Seianus non faceva che ronzargli in testa.
“Avrei rinunciato al lussuoso appartamento, al cibo a tavola ogni giorno, ai gioielli, agli abiti firmati, alla scuola migliore del Paese, a tutto pur di poterti rivedere almeno una volta.”
Così aveva detto. Ed era quello che aveva davvero fatto.
Ciò gli faceva pensare anche a quella dannata frase che gli aveva detto Morb. “Ha rinunciato a quella bella vita per te.”
Marcus l’aveva sempre saputo, ma non aveva mai osato far emergere dalla sua mente quel pensiero. Per lui Seianus doveva essere il traditore che si era schierato con Capitol City. Eppure aveva messo in pericolo la sua vita e quella della sua famiglia, aveva messo a repentaglio sé stesso e il suo futuro, aveva rinunciato ad un’istruzione di prima categoria, al prestigio, al denaro, al cibo in abbondanza, ai bei vestiti, alla fama, al successo. A tutto solo per salvargli la vita.
Avrebbe potuto restare in silenzio, lasciarlo morire lì, in quell’arena, sotto il sole cocente di luglio, e continuare a godersi la sua vita da ricco cittadino di Capitol. Ma non l’aveva fatto. Non l’aveva fatto perché quel dannato idiota non poteva proprio restare lontano dai guai, non poteva stare fermo, non poteva stare zitto. Non poteva lasciare che qualcuno soffrisse.
Per la prima volta dopo un anno, Marcus riuscì ad essere sincero con sé stesso e desiderò ardentemente correre verso Seianus e abbracciarlo, stringerlo forte, dirgli che era la persona migliore che avesse mai incontrato e che lui, Marcus, era stato un cretino a pensare il contrario.
Al diavolo i ribelli del Dodici e la sua dannatissima reputazione. Avrebbe tanto voluto essere felice e sereno per una volta nella fottuta esistenza, smetterla di fare la parte di quello forte.
Marcus non si sentiva affatto forte, forse non lo era mai stato. Perché sapeva che una persona forte non fugge dalle proprie paure e dai propri sentimenti, non si costruisce una barriera di pietra attorno per difendersi da essi.
Marcus accelerò leggermente il passo. La schiena di Seianus era così vicina, avrebbe dovuto fare altri due o tre passi e allungare il braccio per raggiungerla.
Avanti, fallo… Fallo! Lui ti capirà, magari ti perdonerà per aver fatto così schifo per un anno intero…
Ma non lo fece. E la schiena di Seianus si allontanò ancora di più.
“Che hai, ancora mal di gambe?” Disse rudemente Morb.
Marcus scosse la testa.
“Allora aumenta il passo, non possiamo permetterci di rallentare.”
Marcus e Seianus non si parlarono per tutto il resto della giornata, fino a sera tarda, quando il gruppo si accampò in una radura e Spruce decretò che a fare la guardia sarebbero stati proprio loro due.
Marcus cercò lo sguardo dell’altro ragazzo, ma Seianus evitò il suo. Per la prima volta, i ruoli si erano invertiti.
A Marcus fece male e comprese davvero quanto aveva ferito Seianus, con i suoi silenzi e i suoi sguardi mancati.
Gli altri si addormentarono alla svelta, mentre i due ragazzi si sedevano un po’ in disparte, senza dire una parola.
Marcus avrebbe voluto dire qualcosa, iniziare lui una conversazione, una volta tanto, ma non riuscì a dire nulla. Codardo, disse una vocina fastidiosa nella sua testa.
Dopo circa un’ora, fu Seianus a rompere il ghiaccio, come sempre.
“Mi dispiace per l’altra notte, va bene?” Disse nervosamente. “Non volevo metterti in crisi… Ecco, volevo solo che sapessi quanto tengo al nostro Distretto e, beh, a te. E che io non sono tuo nemico. Ecco tutto…”
Marcus avrebbe voluto dirgli che non doveva scusarsi, che quello a scusarsi avrebbe dovuto essere lui, perché non era mai stato in grado di comprendere il suo dolore, continuando invece a convincersi ottusamente che Seianus fosse diventato solo uno stupido ragazzino viziato di Capitol, quando tutto ciò che faceva in realtà rivelava proprio il contrario.
Ma ancora una volta non disse niente, limitandosi a fare un verso che avrebbe dovuto significare un assenso. Seianus tacque.
Dopo un altro po’ di imbarazzante silenzio, Marcus lanciò uno sguardo al compagno e si accorse che stava tremando. L’intero corpo era scosso dai tremiti e il ragazzo si passava in continuazione le mani sulle braccia, nel tentativo di scaldarsi.
Era la fine di giugno, eppure quella notte era particolarmente fredda.
Marcus però non aveva bisogno di scaldarsi, lui era abituato a soffrire il freddo, ma forse Seianus, a Capitol, si era dimenticato cosa volesse dire sopportare un clima ostile. O più probabilmente non l’aveva mai provato, dato che al Distretto 2 conduceva una vita tutt’altro che miserevole.
Marcus si guardò attorno e vide la propria coperta stesa in modo scomposto sull’erba. La fissò a lungo, immobile, decidendo sul da farsi.
Pensò alla prima volta in cui si erano parlati: ai tempi avevano entrambi sei anni, erano così innocenti, inconsapevoli delle rispettive differenze e degli orrori del mondo.
Marcus aveva esitato un po’ prima di avvicinarsi a quel ragazzino con le lacrime agli occhi, che si stringeva forte il ditino sanguinante. Tentando di risultare il più disinvolto possibile, picchiettò l’altro bambino sulla spalla.
“Ti sei fatto male?” Aveva chiesto Marcus.
L’altro annuì con i lacrimoni che gli scorrevano sulle guance arrosate. Era così tenero.
Scacciando alla svelta quel pensiero, Marcus prese una manciata di neve fresca da terra, per poi stringere tra le mani quelle più piccole dell’altro bambino, che arrossì maggiormente. La neve riuscì a lenire il dolore e Seianus lo ringraziò con dolcezza.
Marcus borbottò un secco “prego”, per poi allontanarsi. Per lui era stato un gesto naturale, aiutare qualcuno, ma il piccolo Seianus, che non aveva amici a causa delle posizioni politiche del padre, era rimasto evidentemente affascinato da tanta premura, cominciando così a seguirlo ovunque andasse.
Inizialmente, Marcus trovò fastidioso quell’atteggiamento, ma con il passare del tempo si affezionò a quel bambino.
Un piccolo gesto di aiuto aveva dato inizio alla loro relazione, magari un altro avrebbe potuto ripararla…
Ci rimuginò ancora per un paio di minuti e, alla fine, si disse che non poteva fuggire per sempre. Che lo volesse o meno, lui e Seianus ormai erano dalla stessa parte, perciò, anche se quasi di sicuro sarebbero morti entro poco, si convinse che avrebbe dovuto essere un minimo carino con lui, per ricambiarlo di tutte le sue cure e andarsene all’altro mondo senza rimpianti.
Sì, avrebbe dimostrato a Seianus e a sé stesso che non era uno stupido troll senza sentimenti.
Strinse fra le dita la coperta di cotone e, dopo aver trascorso un altro paio minuti a prepararsi psicologicamente, si voltò verso il compagno.
“Seianus.” Disse sottovoce. L’interessato girò di scatto il capo verso di lui, lo sguardo incredulo. Marcus si rese conto che era prima volta che lo chiamava per nome da… Beh, da quando erano bambini.
“S-sì?” Mormorò Seianus. Prese a tremare ancora di più, tuttavia Marcus non credeva che fosse a causa del freddo.
Il ragazzo si schiarì la gola, preferendo distogliere lo sguardo da quegli occhioni color nocciola che lo fissavano con tanto stupore. “Hai freddo?”
“Oh…” Fece Seianus. Gli occhi si spalancarono ancora di più e Marcus lo vide arrossire violentemente con la coda dell’occhio. Non si stava facendo strane idee, vero?
“Beh, sì, un po’ sì…”
Marcus avrebbe voluto mollare quella coperta e stringere quel corpo solido tra la braccia, per scaldarlo lui stesso. Proprio come quando erano piccoli, proprio come quando, al riparo da occhi indiscreti, si mettevano nel loro nascondiglio segreto, il magazzino delle scope della scuola, e rimanevano abbracciati a lungo, senza dire una parola, scaldandosi e confortandosi a vicenda, lontano dai rispettivi problemi famigliari, dalla guerra, da tutto quel mondo schifoso in cui si erano ritrovati a vivere.
Avrebbe voluto farlo, Marcus. Ma non è facile liberarsi della maschera di pietra che si indossa da tutta la vita.
“Tieni.”
E Seianus si ritrovò una coperta letteralmente scagliata in faccia. Marcus osservò per qualche secondo l’altro ragazzo, che non mosse un muscolo.
Infine, Seianus si tolse lentamente la coperta dal viso, rivelando un’espressione a dir poco furiosa, uno sguardo che Marcus gli aveva visto in volto solo quando s’infervorava per il trattamento dato alla gente dei Distretti.
“Marcus, tu... Tu…”
Marcus deglutì, strisciando all’indietro di qualche centimetro. Il dolce viso di Seianus era deformato dalla rabbia. Che aveva fatto di male?
“Tu sei davvero un deficiente!” Sbottò il ragazzo, facendo sussultare Marcus. “Ma perché non riesci a capire? Non ce la fai proprio ad essere sincero con te stesso e gli altri, una volta tanto? Prova ad affrontare i tuoi veri sentimenti, invece di nasconderti sempre dietro quella maschera da troll col cuore di marmo!”
E detto questo, Seianus gli rilanciò indietro la coperta. Poi, marciando a grandi falcate, raggiunse una roccia poco lontano e vi si sedette, con le braccia incrociate e imbronciato, come una divinità offesa.
Marcus rimase immobile, con la coperta tra le mani e un forte dolore al petto.
Sentì una risatina mal trattenuta provenire dal giaciglio di Morb.
“Pessima mossa.” Disse quest’ultimo con tono divertito.


Nei tre giorni seguenti Seianus non gli parlò nemmeno mentre gli metteva la solita pomata sul corpo.
Era strano: fino a pochi giorni prima Marcus si era rifiutato di intavolare una qualsiasi conversazione civile con Seianus, mentre quest’ultimo faceva di tutto per attirare la sua attenzione. Adesso, invece, Marcus non distoglieva mai lo sguardo da Seianus, pregandolo silenziosamente di parlargli, ma l’altro lo ignorava deliberatamente.
Marcus si sentiva un idiota. Ormai aveva accettato che lui e Seianus non fossero nemici, e aveva che accettato che i suoi sentimenti per il rampollo dei Plinth fossero ancora vivi, eppure non riusciva ancora a lasciarsi andare, a liberarsi di quella corazza di pietra dietro cui si nascondeva da sempre.
Si chiese come avesse potuto l’altro ragazzo innamorarsi di uno come lui. Seianus era gentile e premuroso, aveva un sorriso da regalare a tutti, era simpatico e affettuoso. Certo, era un piagnucolone e un piantagrane, ma non aveva alcuna paura di mostrare i suoi sentimenti e le sue opinioni al mondo, non gli importava di cosa avrebbero pensato di lui gli altri.
Marcus lo biasimava per questo: certe volte non si può semplicemente lamentarsi e fare casino di fronte alle cose che non ci piacciono, ma è necessario adattarsi e cercare di sopravvivere ugualmente.
Ma c’era un lato di lui che, invece, ammirava Seianus per questo lato del suo carattere, e avrebbe voluto essere come lui. Avrebbe voluto, ma era tutt’altro.
Non c’era da meravigliarsi che a Seianus piacesse tanto quel suo amico di Capitol, quel “Corio” di cui tanto parlava, mentre gli si illuminavano gli occhi.
A Marcus quel ragazzo non era mai piaciuto. In primo luogo, perché era di Capitol. E secondariamente, perché lo vedeva come una serpe opportunista, che si nascondeva dietro falsi sorrisi e gentilezze. Lo sapeva perché l’aveva osservato a lungo, durante il suo soggiorno al Distretto 12. Marcus aveva notato che Snow cambiava sempre espressione quando nessuno lo guardava, o meglio, quando credeva che nessuno lo guardasse.
Mentre si rivolgeva a qualcuno, sorrideva in modo affabile, dolce, ma non appena l’interlocutore distoglieva lo sguardo, il viso di Snow mutava immediatamente in una maschera d’indifferenza, gli occhi cristallini diventavano due abissi vuoti, senz’anima. Come se recitasse una parte di fronte agli altri e, non appena il pubblico se ne andava e lui rimaneva solo, tornava ad essere sé stesso, un uomo di ghiaccio.
Coriolanus Snow non comprendeva realmente cose come l’amore o l’affetto, ma era un maestro nel simularle, tanto che nemmeno Seianus riusciva a vedere dietro le quinte di quella recita. A volte, in realtà, se ne lamentava, al Distretto 12, in quelli che dovevano essere dialoghi, ma alla fine erano monologhi, poiché Marcus di rado gli rispondeva: Seianus diceva che Snow era simpatico, ma proprio non riusciva a comprendere come ragionasse a volte; in più avevano forti divergenze di opinione su Capitol e sul modo in cui i distretti avrebbero dovuto essere trattati. Eppure, continuava a stargli appiccicato e a difenderlo.
Marcus Lane, d’altra parte, conosceva bene sentimenti come l’amore, ma non sapeva esternarli, e Seianus se ne accorgeva, riuscendo a penetrare la sua preziosa corazza di pietra.
Seianus non comprendeva Snow e lo odiava per questo, eppure lo amava perché gli dava quello voleva: un amico premuroso.
Seianus comprendeva Marcus e lo amava con tutto sé stesso, eppure lo odiava perché non gli dava quello voleva: una persona che fosse in grado di esternare i propri sentimenti e dimostrare a sua volta il proprio amore.
Marcus pensò che Seianus fosse stato davvero sfortunato in amore, si meritava decisamente di meglio.
Il gruppo si accampò per mangiare e lui, come sempre, si sedette un po’ più lontano rispetto agli altri. Mentre addentava la carne di un coniglio che erano riusciti a catturare, osservava di sottecchi Seianus e improvvisamente gli venne in mente una conversazione avvenuta appena qualche mese prima con Snow.
 
Marcus era ospitato in un appartamentino piuttosto piccolo e malridotto, che Seianus era riuscito ad ottenere per lui grazie a Lucy Gray, che aveva diversi contatti in quella parte della città. Marcus non parlava mai con i vicini, che erano per lo più poco di buono, o almeno così li aveva giudicati. Preferiva di gran lunga starsene in casa a riposare, anche perché le gravi ferite riportate nel corso dei Giochi non gli permettevano di fare chissà cosa. Le uniche persone con cui aveva qualche interazione erano una vecchia signora rompiscatole che ogni tanto veniva a bussare alla sua porta per chiedergli come stava (mandata da Seianus, Marcus ne era convinto, per controllare che non gli venisse la bella idea di fuggire, come se potesse farlo, poi), i Covey (di sicuro sempre mandati da Seianus) ed infine Seianus stesso con quel suo collega di nome Snow.
Proprio quel giorno, i due Pacificatori avevano pensato bene di fare un salto da lui. Marcus li aveva accolti con la solita freddezza, facendo di tutto per far capir loro che avrebbero dovuto togliersi dai piedi alla svelta. Ma Seianus evidentemente non aveva intenzione di andarsene finchè non avesse ricevuto una risposta che non fosse un grugnito infastidito o qualche vago borbottio.
Insieme a Snow, lo aveva costretto a uscire nel cortile del complesso, poiché secondo lui aveva bisogno di prendere un po’ di sole e una boccata d’aria, dato che era sempre chiuso in casa.
“Tranquillo, non ti riconoscerà nessuno! Tanto qui nessuno li visti i Giochi!”
Dopo una decina di minuti, tuttavia, Seianus si era reso conto di non poter portare avanti una conversazione come si deve con lui, perciò aveva preferito intrattenersi con alcuni bambini che giocavano lì in cortile e che l’avevano preso subito in simpatia.
“Io non ho nulla contro di te, Marcus, ma ritengo che Seianus meriti di meglio.” Questa doccia fredda arrivò all’improvviso mentre Marcus era appoggiato alla balaustra del porticato a osservare Seianus ridere e giocare con i bimbi.
Era stato Snow a parlare, Snow che già da un po’ lo osservava di sottecchi con un’espressione che a Marcus non piaceva per niente. I suoi occhi e le sue sottili labbra leggermente piegate all’insù esprimevano malizia e un malsano divertimento nel prendersi gioco di lui.
Marcus non rispose, né lo guardò, quindi Snow continuò dicendo: “Si è messo parecchio nei guai per te. Anche io mi sono messo nei guai per te.”
Marcus continuò a ignorarlo, ostinandosi a tenere gli occhi fissi sull’altro Pacificatore, che quel giorno era vestito da normale civile. Portava una semplice camicia bianca che gli fasciava perfettamente il busto e un paio di pantaloni beige. Era strano vedere un Plinth vestito in modo così semplice e umile, ma la semplicità si addiceva a Seianus.
La voce suadente di Snow gli arrivò nuovamente alle orecchie: “Esattamente, cosa provi per lui? Sembra che lo odi, eppure non gli togli mai gli occhi di dosso. Povero Seianus, non trovi? Si impegna così tanto per te, ma tu lo tratti sempre in questo modo. Decisamente, si merita di meglio.”
“E con chi starebbe meglio, con una serpe come te?” Sbottò Marcus. Avrebbe voluto dare le spalle a quell’essere insopportabile e rientrare al sicuro in casa, ma qualcosa gli diceva che non poteva permettersi di abbandonare la conversazione. Ne valeva del suo orgoglio: non poteva certo fuggire di fronte alle accuse di un tizio simile.
“Oh, no, di sicuro no. Ma sai, è comunque il mio nome quello che chiama di notte.”
Marcus contrasse le dita contro la balaustra, facendosi male alle unghie, ma non vi badò. Guardò Seianus, in cortile, dall’aria dolce e allegra come sempre, e lo immaginò contorcersi e ansimare tra le spire di quel serpente che adesso era di fianco a lui, senza rendersi conto del veleno che esso gli iniettava tramite i suoi morsi mascherati da baci. Si voltò verso Snow e fu preso dal forte desiderio di cancellargli quel suo stupido sorrisetto dalla faccia con un pugno ben piazzato.
Ma non lo fece, e Snow allargò ancora di più il suo ghigno. “Ma guarda un po’. Allora non avevo tutti i torti. E’ vero che ti piace.”
Marcus gli lanciò un’altra occhiata velenosa, ma il veleno del serpente era più potente del suo, e Snow non demorse.
“Seianus è qui perché ha deciso di aiutarti. Non si è trovato una corda al collo solo perché paparino ha sganciato un bel po’ di bigliettoni, ma se si scoprisse che il giovane Plinth nasconde un… sovversivo, non penso proprio che i soldi di papà lo salveranno.”
Marcus aggrottò la fronte, cercando di capire dove volesse andare a parare con quel discorso. “Lo stai dicendo perché sei preoccupato per lui o per te stesso?”
Un luccichio brillò negli occhi di ghiaccio di Snow, e per la prima volte Marcus vide la sua maschera di affabilità incrinarsi, per la lasciar spazio ad una rabbia controllata. “Io avevo un futuro davanti a me prima che il tuo amato Seianus decidesse di fare il ribelle e salvarti. E adesso mi trovo in questo posto di merda per colpa sua. E tua.”
“Non ho chiesto io di essere salvato. E nemmeno di partecipare al vostro Gioco da malati.”
“Adesso non darmi la colpa per i Giochi.”
“E tu non darmi la colpa per esserti fatto un amico così stupido.”
Snow ebbe la decenza di distogliere lo sguardo, preferendo riportarlo su Seianus, che sorrideva spensierato, ignaro di quella conversazione tra le persone che più amava. Marcus fece lo stesso.
“Non avrei dovuto farmi coinvolgere nelle stupidaggini di Seianus…” Borbottò Snow con profondo rammarico.
“Però ti piace fartelo, eh? Nonostante la tua… ragazza.” Sbottò Marcus, che ancora non riusciva a togliersi dalla mente l’immagine di Seianus e quella serpe insieme.
“Non è affatto male.” Ridacchiò Snow. Marcus gli lanciò un’occhiata e notò che guardava Seianus in un modo che gli fece venire voglia di strozzarlo. “Potrebbe piacere anche a te, ma stai perdendo la tua occasione. Di certo a lui non dispiacerebbe buttartisi addosso, non credi?”
“Ha deciso di stare con te, no?” Rispose Marcus con estrema fatica nel formulare quelle parole. “Tra ricchi bastardi ci si intende meglio, immagino.”
“Ma dai, mi stai dicendo che non lo vorresti?”
“Smettila di parlare di lui come se fosse un giocattolo.” Formulò quella risposta senza neanche pensarci. Benché non volesse avere nulla a che fare con Seianus, provava un enorme fastidio nel sentire Snow parlare di lui come se fosse una proprietà, un qualcuno di cui approfittare quando aveva voglia, da usare quando nei paraggi non c’era la sua ragazza.
In tutta risposta, Snow rise. “Oh, ma certo, questo è vero amore, eh? Perchè non la smetti di fare la parte del ragazzo oscuro col cuore di pietra e non ve ne andate da qualche parte a vivere felici e contenti?” Detto ciò, gli diede quella che pareva essere un’amichevole pacca sulla spalla. Peccato che colpì proprio il punto in cui si trovava la ferita causata dalla scure, a cui Seianus poco prima aveva ricambiato le fasce. Marcus fu attraversato da una fortissima fitta di dolore, ma tentò di nasconderlo a Snow.
“Andarcene?” Disse invece. “Intendi dove non potremo più interferire col tuo futuro perfetto, signorino Snow?”
“Sì. Sempre che non vi impicchino prima.” Snow si allontanò per raggiungere Seianus e i bambini. Sul suo volto era tornata la maschera gentile e affabile. Marcus digrignò i denti, pensando che probabilmente il bastardo si augurava che una cosa del genere accadesse.
Era chiaro che Snow non lo voleva lì e che cominciava a mal sopportare le tendenze sovversive di Seianus. La cosa migliore da fare sarebbe stata andarsene. Ma dove? Non esisteva un posto sicuro per lui in tutta Panem. E di certo non voleva portarsi dietro Seianus.
Dove diavolo poteva andare da solo, con tutte quelle ferite? E cosa sarebbe stato capace di fare il biondino se Seianus avesse insistito con le proprie convinzioni?
Scacciando quest’ultimo pensiero, Marcus decise che rimanere al Dodici era la cosa migliore da fare. Unicamente per il proprio interesse, si disse.
Un paio di mesi dopo, ci pensarono i ribelli a trascinarli via da quel posto, e Snow trovò la scusa perfetta per liberarsi di entrambi senza doversi sporcare le mani.
 
Però, su una cosa quella serpe aveva ragione, pensò Marcus, finendo di mangiare. Seianus rideva per qualcosa che Morb aveva detto, e in quel momento a Marcus parve bellissimo. Ti meriti qualcuno migliore di me.
Quella notte Spruce e un altro tizio, che in quei giorni Marcus aveva appreso chiamarsi Joyce, avrebbero dovuto montare la guardia, tuttavia, dopo essere stati trascinati in disparte da Morb e Blum e aver discusso animatamente per un bel po’, annunciarono che loro due avrebbero dovuto rivedere alcuni passaggi del piano per la loro traversata del Distretto 13, quindi avrebbero fatto la guardia Seianus e Marcus.
Seccato per questa decisione improvvisa, Marcus si chiese cosa diavolo avessero da “rivedere” quei due, dato che erano giorni che non facevano che ripetere in continuazione il piano. Poi, notò Blum ridacchiare nella sue direzione, mentre Morb gli fece l’occhiolino, e tutto gli fu chiaro.
Maledisse mentalmente quei due idioti che proprio non sapevano farsi gli affari loro. Ma d’altronde ormai non poteva farci niente, perciò decise di scontare quella pena, rannicchiandosi contro il tronco fresco di una quercia, a debita distanza da un Seianus alquanto imbronciato.
Ben presto gli altri andarono a dormire e il silenzio calò sulla foresta nella quale si erano accampati. Gli unici suoni udibili erano il basso respiro dei compagni addormentati, qualche fruscio qua e là, il verso di un animale che si aggirava nei dintorni.
Marcus, rimasto solo con i propri pensieri, non potè far altro che lanciare un’occhiata, di tanto in tanto, a Seianus, il quale era seduto a tre o quattro metri di distanza, anch’egli appoggiato ad un tronco, la schiena dritta, le gambe divaricate e distese davanti a sé. Stringeva in una mano un fucile, ma non vi prestava alcuna attenzione, avendo forse ormai capito che, arrivati a quel punto, non c’era più niente o nessuno che potesse minacciarli. Sembrava concentrato, piuttosto, sul rametto che teneva nell’altra mano e sul disegno che con esso stava tracciando, sul terreno morbido tra le sue gambe.
Teneva ostinatamente lo sguardo basso, fisso su quello scarabocchio, nonostante Marcus avesse preso a fissarlo con una tale intensità che qualunque altro essere umano si sarebbe immediatamente girato, sentendosi minacciato. Eppure Marcus era sicuro che l’altro percepisse perfettamente il suo sguardo, ma che volesse a tutti i costi tentare di ignorarlo.
Trascorsero così all’incirca un’ora. Marcus che fissava senza pronunciar parola Seianus, mentre quest’ultimo lo ignorava tranquillamente.
Si aspettava delle scuse, lo sapeva.
Marcus ripensò a suo padre e alla sua gamba mancante, al suo odio per Capitol e per i Plinth, eppure aveva riso con serenità quando aveva saputo dell’infatuazione che Marcus provava per il rampollo di quella famiglia tanto disprezzata. Probabilmente adesso era accasciato sulla poltrona di casa, maledicendo più e più volte la dannata città che ora gli aveva portato via anche suo figlio.
Pensò a sua madre, che non aveva fatto una piega di fronte alla stessa notizia, e, anzi, aveva sempre supportato con allegria quella loro relazione infantile. Forse adesso quella madre stava piangendo disperata per l’assenza di Marcus
Pensò a sua sorella, che ancora doveva crescere, che da sempre chiedeva curiosa di quel fantomatico Seianus Plinth, nonostante lei se lo ricordasse a malapena. Fulvia aveva appena quattordici anni. Chissà se in futuro avrebbe pensato ancora a lui, se i suoi ricordi di Marcus, con l’avanzare dell’età, si sarebbero fatti sempre più sfocati, confusi, fino a sembrare più simili ad un sogno, chissà come avrebbe parlato di lui a suo marito, ai suoi figli.
Il fratello, il figlio sfortunato scelto dal destino per essere schiavizzato e torturato agli Hunger Games per il piacere di quei maiali di Capitol, salvatosi per miracolo e costretto a fuggire e nascondersi per il resto della propria vita, come una preda che trascorre la propria misera esistenza a fuggire dal predatore, che prega ogni momento di non essere presa, che ogni notte ringrazia per aver ricevuto un altro giorno di vita.
Beh, Marcus pensava che questi genitori, questa sorella piangenti, vorrebbero che lui fosse felice, lontano dalle grinfie di Capitol. Ed era ciò che voleva anche lui.
Marcus si alzò in piedi.
Se proprio doveva vivere la vita del fuggitivo e morire, lontano dalla civiltà, lontano da tutto, il corpo abbandonato sul terreno, divorato dagli animali e dalle radiazioni, allora voleva perlomeno essere felice, vivere senza preoccupazione alcuna. Almeno per una volta, una sola volta nella sua vita.
Marciò con passo sicuro verso Seianus, che di certo aveva udito i suoi passi, ma ancora non alzava gli occhi. Marcus sorrise tra sé. Certo, Seianus non poteva concedergli ciò che voleva tanto facilmente, d’altronde ancora non se lo meritava, per come si era comportato.
Marcus si sedette pesantemente al suo fianco, abbastanza distante da non mancargli di rispetto violando il suo spazio personale in un momento in cui sapeva che Seianus non lo avrebbe voluto lì, ma anche abbastanza vicino da poter percepire il calore del suo corpo.
Voleva essere felice in quelli che pensava sarebbero stati i suoi ultimi giorni di vita, e per esserlo avrebbe dovuto fare ciò che non aveva mai avuto il coraggio di fare: abbattere quel dannato muro di pietra una volta per tutte, e lasciarsi andare ai propri sentimenti.
Marcus inspirò profondamente, prendendosi il suo tempo per prepararsi, poi, anche se con una certa esitazione nella voce, parlò.
“Io… Sono uno stupido.”
Seianus non lo degnò di uno sguardo, continuò a scarabocchiare sul terreno col suo rametto, ma Marcus sapeva che era tutt’orecchi e che il suo silenzio era un invito a continuare.
Perciò prese ancora fiato e proseguì: “Tu sei sempre stato gentile con me, anche se non avevi motivo di esserlo. Quando a Capitol mi portavi quel cibo e cercavi di parlarmi… Io sono stato davvero uno stronzo a continuare a ignorarti. Eppure dopo, quando c’è stata l’esplosione, ho approfittato di te e delle tue indicazioni per fuggire tramite le fogne. Poi mi hai salvato la vita, mi hai nascosto per quasi un anno, ti sei sempre preoccupato per me, che stessi bene. Tu, fin dall’inizio, mi hai sempre aiutato e io ti ho ricambiato tenendoti il muso. E, beh, questo non è giusto. Quindi… Sì, scusami. Scusami davvero tanto.”
Marcus aveva detto tutto questo tenendo gli occhi fissi a terra, troppo impaurito nel vedere la reazione dell’altro alle sue parole. Si costrinse tuttavia a spostare lo sguardo verso Seianus e, con sua somma sorpresa, si rese conto che quest’ultimo lo stava guardando!
I suoi occhi color nocciola erano immobili su di lui, la bocca socchiusa. Marcus aspettò che dicesse qualcosa, ma lui non parlò. Evidentemente si aspettava dell’altro.
Sì, lo so che cosa vuoi. Certo che sei crudele a volte, sai bene che non avrò il coraggio di dirlo.

Ma devo farlo.

“Seianus.” Marcus lo guardò dritto negli occhi e, accumulando tutto il coraggio di cui disponeva, pronunciò quelle difficilissime parole: “Seianus, io… Io ti amo. E… Sì, insomma… Vorrei continuare a stare insieme a te. Per quello che ci resta da vivere.”
Nonostante il fortissimo imbarazzo, fu come essersi tolti un peso dal cuore, come essersi liberati da delle catene. Finalmente l’aveva detto.
L’altro ragazzo non riuscì a reprimere un sorriso dopo quella frase, tuttavia non spiccicò parola. Marcus era confuso: che altro doveva dire ancora?
“Beh, quindi…?” Disse incerto.
Seianus lo guardò dolcemente, inclinando la testa di lato. “Non c’è altro?”
“Ehm, no. Credo di no.”
Il rampollo dei Plinth alzò gli occhi al cielo in un gesto seccato, anche se continuava a sorridere divertito. “Cielo, Marcus, alla fine il primo passo devo sempre farlo io.”
“Cos-” Marcus non riuscì a terminare la parola, poiché venne aggredito da un paio di labbra morbide, che si scontrarono con foga sulle sue. Seianus gli aveva afferrato i lati del viso, e ora, con le dita affondate nei suoi capelli color pece, lo stava baciando. Un bacio bisognoso, passionale, che era stato trattenuto per molto, molto tempo.
Marcus riuscì a malapena a reagire, posando con incertezza le mani sui fianchi dell’altro ragazzo. Quando Seianus ebbe finalmente compassione di lui, e si allontanò per lasciarlo respirare, e gli rivolse uno sguardo intriso di affetto. Le sue guance erano rosse come un paio di pomodori, e aveva il respiro affannato. Le sue mani accarezzarono il viso di Marcus, scendendo fino al collo, e infine alle spalle, su cui attuarono una salda presa.
Marcus strinse le mani sul bacino dell’altro ragazzo, avvicinandolo lentamente a sé, e pensò che non gli importava più nulla delle radiazioni o delle strane creature in cui avrebbero potuto incappare. Poteva anche morire felice adesso.
Fu proprio Marcus a riunire nuovamente le loro labbra, in un bacio molto più calmo, questa volta, in modo che potessero assaggiare per bene uno il sapore dell’altro, ponderare la morbidezza delle loro labbra e il calore della loro bocca.
Quando, infine, si staccarono di nuovo, semplicemente, si guardarono e sorrisero.
Non servivano parole tra loro. Negli occhi dell’uno, l’altro poteva vedere tutte i pensieri e le emozioni che provava, e fu come guardarsi allo specchio. In quel momento, in quello sguardo, due ragazzi separati per oltre un decennio, finalmente riuniti, si promisero una cosa: di non lasciarsi mai più andare.

“Non ci credo… E’ successo davvero?” Purtroppo, il bisbiglio eccitato di una ragazza, rovinò l’atmosfera.
“Ma che diavolo…? Oh, non ci credo.” Borbottò Marcus, voltandosi verso gli idioti che, dai propri giacigli, li stavano fissando curiosi.
“Beh, era pure ora. Non ne potevo più di tutta quella tensione sessuale che si tagliava col coltello.” Commentò Lil, seduta a braccia conserte. Oltre il buio, Marcus notò che i suoi occhi erano incredibilmente tristi mentre guardava lo spettacolo davanti a sé: evidentemente pensava al suo ragazzo che era stato da poco giustiziato dalle autorità di Panem.
“Sì, ragazzi, tutto molto bello, ma datevi una calmata, d’accordo? Domattina si parte presto…” Disse Spruce, con le guance un po’ arrossate. Si accomodò nel suo giaciglio, imitato da un esausto Joyce. Tanto ormai non dovevano più fingere di dover rivedere il piano, potevano addormentarsi tranquillamente.
“E non fate cose strane, noi vorremmo dormire.” Fu il commento di Morb, al quale Marcus lanciò la peggiore occhiataccia del suo repertorio, ottenendo però solo una risatina da imbecille.
“Non hanno proprio di meglio da fare, eh? E comunque non erano quei due che dovevano montar la guardia? Perché dobbiamo continuare noi?”
“Perché? Ti dà fastidio?” Rispose Seianus, allacciandosi come un koala al suo braccio. Strofinò il lato del viso contro la spalla di Marcus, per poi accasciarsi completamente contro di lui. Marcus fece lo stesso, adagiando timidamente il capo sulla cima dei capelli morbidi dell’altro ragazzo.
“Allora… Perché non mi parli un po’ di te?” Disse Seianus, come se fosse la prima volta che si incontravano. E, in effetti, in un certo senso era così.
Quella notte parlarono molto, e, anche se con tutte quelle parole non avrebbero mai potuto recuperare dieci anni di separazione e un anno di silenzi, a loro non importava. L’unica cosa che contava, in quel momento, era stare vicini, ascoltare la reciproca voce, percepire il reciproco calore. Non c’era gioia più immensa.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


3

“Non ci posso credere!” L’esclamazione di Morb fece voltare tutti di scatto. Il ragazzo indicava un punto proprio davanti a loro, che però era cieco, in quanto una piccola collinetta copriva la visuale degli altri che erano rimasti indietro. Il ragazzo era infatti stato mandato avanti durante la marcia e aveva raggiunto quel punto prima dei compagni.
Spruce, Lil e Seianus si fecero immediatamente avanti, i fucili stretti tra le braccia, e raggiunsero Morb, mentre il resto della compagnia li seguì con più cautela.
Marcus non riusciva a capire cosa stesse succedendo. I quattro ragazzi si erano bloccati in cima alla piccola altura e guardavano con espressione stupita qualcosa davanti a loro. Poi Spruce fece segno alla sorella e a Seianus di puntare le armi, mentre lui, con voce tonante, si rivolse a qualcuno.
“Chi siete? Chi vi manda?” Chiese.
Qualcuno rispose, ma Marcus non riuscì ad afferrare le parole.
“Distretto 13?! Impossibile, qui non ci vive più nessuno!” Disse Spruce sconcertato.
Marcus finalmente raggiunse il fianco di Seianus e posò una mano sulla sua spalla, tentando di riprendersi dalla fatica della salita. Le ferite dolevano ancora.
Seianus gli lanciò un’occhiata incoraggiante, per poi spostare quasi subito la sua attenzione sugli obiettivi che stava puntando: un gruppo di uomini avvolti in una strana tuta di colore bianco, disarmati, a quanto poteva vedere, che stavano venendo con cautela verso di loro.
“Siete ribelli?” Chiese una delle figure in bianco. Aveva un voce femminile.
“Perché dovremmo rispondervi?” Chiese di rimando Spruce.
“Perché tutti i nemici di Panem sono nostri amici.” Rispose la donna.
“Lasciate ci vi soccorriamo.” Questa volta era stato un uomo a parlare. “Più ci avviciniamo al centro, più le radiazioni si fanno forti. Già stando qui correte un grandissimo pericolo. Per favore, non potete permettervi di rimanere ancora a lungo esposti alle radiazioni.”
I membri del gruppo si guardarono a vicenda, indecisi sul da farsi.
“Non so voi, ma io non ho alcuna intenzione di morire per le radiazioni. Non ho fatto tutta sta strada per crepare tra dolori atroci e sbrattando sangue.” Disse Morb.
Alcuni gli diedero ragione, altri ancora non riuscivano a fidarsi quei loschi individui, e pensavano che potessero trattarsi di scienziati di Capitol venuti al Tredici per condurre degli esperimenti.
La discussione sembrò durare un’eternità, e infine si giunse alla votazione: vinsero coloro che erano a favore di farsi aiutare dagli uomini in bianco, e tra questi c’erano anche Marcus e Seianus. D’altronde, come disse anche l’ex Pacificatore, era meglio morire in un colpo solo con una pallottola in testa o una corda al collo, piuttosto che patire le immense e lente sofferenze di una morte dovuta alle radiazioni, cosa che, se fossero rimasti scoperti in quel luogo ancora a lungo, sarebbe di certo arrivata, quindi era meglio prendersi un rischio e fidarsi.
Spruce chiese però di poter tenere i fucili, per sicurezza, e gli uomini in bianco, pur manifestando un certo disagio, accettarono senza opporre troppa resistenza. Ciò rappresentò un buon segno, e il gruppo di fuggitivi li seguì con maggiore fiducia.
“Spero che non abbiate bevuto acqua. Tutta quella che c’è qua fuori è contaminata.” Stava spiegando una delle figure, mentre li conducevano.
“Fuori?” Chiese Lil. “Intendi forse che…?”
“Il Distretto 13 ha trovato un modo per sopravvivere.”
 
Questo…
“Questo è davvero assurdo.” Seianus, la bocca e gli occhi spalancati per lo stupore, completò il pensiero di Marcus.
Che cosa significava tutto quello?
Era come una specie di labirinto: un labirinto gigantesco, un reticolo sotterraneo pieno di intricati corridoi, centinaia di porte di ogni dimensione, uscite, entrate e scorciatoie talmente numerose e complesse che avevano dell’incredibile, pareva di essere in un bizzarro sogno.
La struttura di quel luogo era talmente confusa che Marcus pensò che, in assenza della guida degli uomini in bianco, di sicuro si sarebbe smarrito una volta attraversata l’entrata.
Eppure, i suoi abitanti, non sembravano affatto disorientati e confusi: si muovevano con sicurezza, in sincronia, sempre in piccoli gruppi; erano in un certo senso coordinati, notò Marcus; i loro movimenti, i loro spostamenti da un corridoio all’altro, da una stanza all’altra, erano così ordinati da ricordare quelli delle formiche. E, alla fine, quel luogo altro non era che una sorta di grande formicaio, popolato da tante piccoli formichine, ognuna diretta per la propria strana, a svolgere il proprio compito.
Quelle persone erano vestite tutte allo stesso modo, indossavano una triste tuta scura, e i loro visi erano pallidi come quelli dei cadaveri. Pesanti occhiaie albergavano sui volti magri e scavati di ognuno di loro, gli occhi erano seri e avevano in sé un non so che di triste, malinconico.
In effetti, si disse Marcus, osservando sfilare accanto a sé un gruppo di bambini, tristi e scialbi tanto quanto gli adulti, neanch’io sarei l’uomo più felice del mondo se vivessi qui dentro da undici anni.
 
Gli abitanti del Tredici li fissavano con un certo timore misto a curiosità, ma molti furono comunque disponibili ad accoglierli e a fornir loro tutto quello che serviva.
Il gruppo ebbe finalmente la possibilità di lavarsi come si deve; li vennero offerti cibo e acqua, ed infine anche una scatolina di strane compresse per ciascuno di loro, che li fu consegnata da una dottoressa.
“Pillole di iodio. Per le radiazioni.” Annunciò loro il medico, una donna dallo sguardo severo; portava un lungo camice bianco e i capelli, raccolti in una coda di cavallo, erano ormai quasi del tutto ingrigiti, nonostante, a giudicare dal viso ancora giovanile della donna, ella non poteva avere più di trentacinque anni all’incirca.
Dopo essersi riposati un po’, uno degli uomini che li avevano accompagnati tornò da loro, questa volta senza maschera, rivelando una foltissima chioma di riccioli bruni, e disse loro che un certo “presidente Coin” voleva vederli.
“Presidente? E’ il vostro capo?” Chiese Spruce, mentre scendevano le scale diretti in una sezione piuttosto profonda del distretto.
“Sì, esatto. Fu scelto tra gli ultimi ufficiali rimasti del Tredici per guidare i pochi di noi che erano sopravvissuti. Ha fatto davvero un gran lavoro, è grazie ai suoi sforzi se il nostro distretto si sta riprendendo così in fretta.” Lo elogiò l’uomo riccio con un sorriso orgoglioso sulle labbra.
“Eccoci arrivati.” Annunciò poi. Bussò per tre volte, e una voce autoritaria, dall’altra parte, gridò “Avanti!”

Il presidente Coin era un uomo sulla quarantina, alto e dal fisico robusto, le spalle solide, la mascella dura. I capelli brizzolati erano tirati all’indietro dal un gel, lasciando scoperta una fronte ampia e particolarmente rugosa; i suoi occhi scuri scrutarono i nuovi arrivati dalla cima della testa alla punta dei piedi, esaminandoli in ogni loro aspetto. Le mani erano giunte dietro la schiena dritta, postura che lo rendeva ancora più imperioso e, in un certo senso, intimidatorio. Indossava un completo scuro, particolarmente elegante, a differenza delle tute scadenti indossate dagli altri abitanti.
A guardarlo bene, a Marcus ricordava Strabo Plinth: stesso sguardo severo, stesso atteggiamento da signore del mondo.
Inconsapevolmente, lanciò un’occhiata verso Seianus, che era sempre rimasto al suo fianco durante tutto il percorso, pur senza dire una parola, e si rese conto che anche lui doveva aver pensato la stessa identica cosa. Lo capì dal disagio e dolore che vedeva nei suoi occhi.
Per un momento pensò di allungare la mano verso la sua, trasmettergli un po’ di conforto, ma poi si trattenne, sia perché c’era troppa gente in quella stanza e ciò gli sembrava inopportuno, sia perché la voce potente di Coin tornò a levarsi, facendolo sussultare.
“Alma, fuori un attimo. Devo parlare con i nostri nuovi ospiti.” Disse rivolto ad una bambina che, fino ad allora, Marcus non aveva notato. Era seduta su una poltrona di pelle e sfogliava un libro illustrato; indossava un abitino grigio, i suoi occhi chiari e penetranti, esattamente come quelli dell’uomo, scandagliavano l’ambiente e le persone attorno a lei.
La ragazzina, che doveva avere sei o sette anni, si limitò ad annuire, senza dire una parola, e uscì in silenzio dalla stanza, seguita dall’uomo che li aveva accompagnati, il quale si chiuse la porta alle spalle, lasciandoli soli in compagnia del presidente.
“Mia figlia.” Disse bruscamente Coin a mo’ di spiegazione. Si sedette pesantemente su una delle poltrone disposte in quell’ufficio circolare, invitando con un gesto secco della mano il gruppo di fuggitivi a fare lo stesso. Marcus e Seianus si sedettero l’uno accanto all’altro su un piccolo divano, le cosce che si sfioravano.
“Allora, ditemi tutto.”
Fu Spruce a parlare. Raccontò della fine della guerra, degli Hunger Games, dei tributi, dell’attentato alle miniere; e poi dell’albero degli impiccati, della volontà di creare una nuova ribellione armata, della liberazione di Lil e della successiva fuga; il viaggio a Nord, la speranza di trovare un altro mondo al di fuori di Panem, di trovare qualcuno che potesse aiutarli a risollevarsi contro Capitol.
Durante tutto il discorso del loro leader, sia gli altri che Coin rimasero in totale silenzio, la voce di Spruce era l’unico suono presente in quella stanza.

L’ufficio era oscuro e claustrofobico, esattamente come il resto di quel distretto, ma la presenza di Coin costituiva un ulteriore elemento soffocante. I suoi occhi attenti, vigili, si spostavano da un membro all’altro del gruppo, sembrava sempre pronto a cogliere nuovi dettagli dei suoi ospiti; non sorrideva, non ci teneva ad essere amichevole, il suo sguardo era di una durezza glaciale, e a Marcus ricordò un blocco di marmo.
Mentre osservava Coin sollevarsi in piedi, in tutta la sua altezza, gli passò per la mente il pensiero che, molto probabilmente, per la maggiorparte del tempo, lui doveva avere lo stesso identico sguardo. Promise subito a sé stesso che ci avrebbe lavorato, perché nel vedersi specchiato in quel modo, si rese conto del tipo di disagio che poteva provocare.
Coin si avvicinò alla sua scrivania, appoggiando entrambi i palmi su di essa e dando loro la schiena. Marcus lo sentì sospirare, un sospiro strano, un misto di frustrazione, rabbia e tristezza.
“Hunger Games, eh? Bambini gettati in un’arena? Lo spettacolo è trasmesso in tv? Sapevo che quelli di Capitol sono bestie, ma questo supera ogni mia aspettativa.”
Coin si voltò verso di loro, i suoi occhi più duri e freddi che mai.
“Siete venuti qui per chiedere aiuto, avete detto?”
“Sì, proprio così.” Ringhiò Spruce. “I distretti sono ridotti in miseria, ancor peggio che prima della guerra. Ma anche Capitol è ancora debole, se ci uniamo contro di loro, possiamo-”
“Mi dispiace, ma ciò è fuori discussione.”
La sentenza gelò tutti; neanche Spruce, totalmente spiazzato da quella risposta, riuscì a proferire parola.
L’unica voce a levarsi, dopo qualche secondo di esitazione, fu, ancora una volta, quella di Seianus.
“Che cosa vorrebbe dire, scusi?”
“Seianus.” Sibilò Marcus, ma quello o non lo sentì o non gli diede minimamente retta (era più probabile quest’ultima opzione), e decise addirittura di alzarsi in piedi.
“Sto dicendo che non possiamo attaccare Capitol. Sarebbe un suicidio.” Fu la ferma risposta di Coin, il quale però parve leggermente stupito di fronte all’audacia del ragazzo.
 “No, forse non ci siamo capiti. Quelle persone hanno bisogno di aiuto adesso! E’ una follia, là fuori. Come possiamo non far nulla di fronte a dei bambini costretti ad ammazzarsi a vicenda in un’arena? Il tutto trasmesso in tv, e visto da altri bambini. Hanno trasformato la morte di ragazzini innocenti in uno spettacolo: è questa la loro punizione! Tra poco sarà il quattro di luglio, altri ventiquattro ragazzi saranno estratti. E noi dovremmo starcene rintanati qui?”
“Seianus ha ragione.” Decise di dargli man forte Marcus. Guardò dritto negli occhi Coin, le fiamme che ardevano nelle iridi color pece al ricordo degli orrori subiti: “Sono uno dei tributi sorteggiati per gli Hunger Games. Sono qui adesso per miracolo: mi hanno trascinato via dalla mia casa e dalla mia famiglia, mi hanno buttato su un treno per il bestiame. Mi hanno chiuso in una gabbia di uno zoo, per essere osservato dai visitatori, come un animale. Quando sono fuggito, mi hanno catturato, torturato e appeso nel bel mezzo dell’arena. Questo è quello che fanno a Capitol.”
Anche gli altri cominciarono a lamentarsi, parlando confusamente delle condizioni penose in cui versavano i distretti, protestando contro lo schifo che erano gli Hunger Games.
“Siete voi che non capite.” Li zittì all’improvviso Coin, che era rimasto tutto il tempo apparentemente impassibile nell’ascoltare i loro racconti. Marcus, però, riuscì a vedere qualcosa nei suoi occhi gelidi, una flebile luce, un desiderio di ribellione più forte che mai, ma che si sforzava di tenere soppresso.
“Anche noi detestiamo Capitol, ma al momento non c’è nulla che noi possiamo fare per aiutare i distretti.” Continuò il presidente. “Avete visto come ci siamo ridotti, no? Poche centinaia di persone rinchiuse in un sotterraneo, mentre là fuori tutto è raso al suolo. Uscire allo scoperto adesso equivarrebbe ad un suicidio. E se Capitol distruggesse definitivamente il Distretto 13 allora… Beh, in quel caso ci sarebbe zero speranza di mettere in atto una nuova rivoluzione. I patti fatti con Capitol prevedono che noi ce ne staremo buoni. Ma, vedete, adesso non è il momento per spezzare quei patti. Siamo troppo deboli, non abbiamo alcuna speranza di vincere.”
Coin si sedette con calma sulla poltrona dietro la sua scrivania. Congiunse le mani davanti a sé, guardandoli con profonda serietà, uno per uno.
“No, non siamo pronti. La rivoluzione ritornerà, eccome se tornerà. Ma non ora, dobbiamo attendere il momento giusto.”
“Capiamo le vostre motivazioni. Ma quanti dovranno ancora morire, prima che arrivi il momento giusto?” Era stato Morb a parlare questa volta, in uno slancio di serietà e compostezza che Marcus stentava ad attribuirgli.
“Non lo so, tutti noi speriamo il prima possibile. Ma, credetemi, quando quel giorno arriverà, allora avremo la certezza che tutte quelle persone non sono morte invano.”
Il silenzio cadde nella stanza, nessuno seppe replicare. In fondo, nonostante tutta la frustrazione, nessuno poteva ribattere alle parole di Coin. Ora come ora non avevano alcuna possibilità di vittoria contro Capitol, dovevano farsene una ragione.
 
La vita al Distretto 13 era, per usare un eufemismo, davvero noiosa. La routine era programmata nei minimi dettagli: ogni giorno era un continuo ripetersi delle stesse identiche azioni di quello precedente, senza mai poter sforare con gli orari.
I ribelli del Dodici avevano presto trovato un’occupazione in diversi campi: Spruce, Morb e altri avevano cominciato a prestare servizio come minatori, il lavoro che facevano da una vita. Lil era decisa ad entrare nell’ancora esigua forza armata del Tredici e aveva recentemente iniziato un durissimo addestramento, che, stando a quanto diceva Seianus, era ancora più sfiancante di quello di un Pacificatore; nonostante ciò, Lil pareva ogni giorno sempre più decisa a non mollare.
Quanto alla giovane Blum e suo padre, avevano trovato posto nelle cucine, dato che, al Dodici, in passato gestivano con il resto della famiglia una piccola locanda, la quale aveva però chiuso i battenti un paio di anni prima.
Marcus aveva invece intenzione di offrire la propria prestanza fisica in favore degli scavi alla ricerca di minerali e altre risorse importanti. Tuttavia, un’occhiataccia da parte di Seianus lo costrinse a mettere in discussione questo proposito.
“Sono guarito, Seianus. Guarda, non mi fa più male, riesco a muovermi perfet-” Un gemito di dolore interruppe il suo discorso, e si guadagnò una bella espressione scettica da parte dell’altro ragazzo, con tanto di sopracciglio destro alzato.
“Tu non tu muovi per almeno qualche altro mese, d’accordo? E non discutere ancora.”
“Ma-”
Marcus.” Quando Seianus s’imputava su qualcosa, era impossibile fargli cambiare idea, quindi Marcus decise di desistere, arrendendosi all’idea di dover essere inutile ancora per un po’.
“Va bene, va bene.” Borbottò angosciato. Seianus gli sorrise, portando una mano sulla sua guancia. Marcus controllò che non ci fosse nessuno nei dintorni prima di appoggiarsi al calore del palmo dell’altro ragazzo. Strofinò la guancia contro di esso, mentre l’ex Pacificatore ridacchiava e Marcus pensò che, in quel momento, doveva sembrare una specie di gatto in cerca di coccole. Una parte della sua mente gli diceva che ciò era davvero imbarazzante, ma il ragazzo la ignorò: aveva deciso che andava bene lasciarsi andare così, di tanto in tanto.
“Comunque, tu cosa farai?” Chiese dopo un lungo silenzio.
“Che domande? Il medico.”
“Non toccherai mai più un’arma, quindi?”
“Mai più. Ho chiuso con quella roba.” Lo sguardo di Seianus puntava verso il basso, gli occhi parevano distanti, persi in chissà quali tristi ricordi. Il suo sorriso, però, erano sereno, pacifico, il sorriso di chi ha concluso una lungo cammino ed è finalmente arrivato alla tanto agognata destinazione.
Marcus provò l’impellente desiderio di baciarlo, e fu ciò che fece. Le sue labbra si adagiarono delicatamente su quelle di Seianus in quello che era il loro terzo bacio, e lì vi rimasero per pochi secondi, prima di separarsi nuovamente. I due si guardarono per qualche istante, prima che Seianus gettasse le braccia attorno al collo dell’altro.
Marcus, seppur un po’ confuso dalla situazione, anche perché doveva ancora abituarsi a certi scambi d’affetto con il ragazzo, ricambiò goffamente l’abbraccio, dandogli qualche leggera pacca sulla schiena.
“Grazie di esserci.” Mormorò Seianus, la voce soffocata nella maglietta dell’altro.
Marcus si limitò a stringere di più il suo abbraccio.
 
Il lavoro di medico di Seianus procedeva alla grande: era diventato assistente di una dottoressa estremamente abile e preparata, popolare all’interno del distretto per aver salvato le vite di centinaia di feriti di guerra; molte persone del Tredici che adesso si trovavano lì, doveva la vita proprio a lei.
Il lavoro per il ragazzo era duro, ma gratificante, e Marcus fu felice nel vedere il suo… -Amico? Fidanzato?- Qualunque cosa fosse essere finalmente libero di fare ciò che più desiderava, lontano dagli obblighi e dalle costrizioni che l’avevano accompagnato per tutta la vita.
Dato che Marcus era ancora sotto regime di riposo totale (sempre imposto severamente dal dottor Plinth, s’intende) non aveva molto da fare se non fissare la gente che andava e veniva, e girarsi i pollici, quindi approfittò del tempo libero per fare piccoli gesti per Seianus: lavargli i vestiti, portargli del cibo quando era bloccato a lavoro, fargli compagnia durante le pause o dopo il lavoro. Insomma, ricambiarlo, almeno in minima parte, per tutto ciò che aveva fatto per lui nel corso dell’anno precedente.
In quelle settimane, che poi divennero mesi, il loro rapporto divenne sempre più profondo: l’uno era per l’altro la spalla su cui piangere nei momenti di debolezza, la stampella a cui appoggiarsi nei momenti di difficoltà, in particolare in mancanza delle loro famiglie e amici, di cui soffrivano sempre di più la mancanza. Seianus aveva addirittura preso a provare nostalgia per il padre.
Nonostante ciò, sapevano che stare lontani dai propri cari, spezzare per sempre i legami con il passato, era la cosa migliore da fare per il bene di tutti. Ora c’erano solo loro due, e dovevano accettarlo.
Per diverso tempo, il rapporto tra i due fu più simile ad un’amicizia, seppur i baci non mancassero, e anzi, si sprecavano, in particolare nei giorni in cui Seianus era particolarmente vivace.
Tuttavia, arrivò il giorno in cui l’ormai ex rampollo dei Plinth gli servì un bacio ben più profondo del solito e, dopo avergli dato un attimo di tregua, avvicinò le labbra al suo orecchio.
Il suo fiato caldo e la proposta che gli fece, furono un mix letale che lo portarono sull’orlo di una morte precoce per infarto: “Ti va di passare in camera mia, stasera?”
La bocca di Marcus si aprì e richiuse più volte, ma senza emettere alcun suono.
Okay, questo… Se l’aspettava, a dire il vero, ma… No, decisamente non era affatto pronto a sentirlo con le sue orecchie.
Quando Seianus gli lanciò uno sguardo interrogativo, Marcus capì che doveva far uscire immediatamente il suo cervello dal momentaneo stand by in cui era caduto. Il risultato non fu dei migliori, dato che invece di dire “Certo che mi va” come stava pensando, si limitò ad annuire lentamente.
Seianus sorrise, le guance leggermente imporporate; prese le mani dell’ex tributo tra le sue, e le portò alle labbra, baciandole dolcemente.
“Va bene, allora ti aspetto per le 22, quando avrò finito il lavoro.”
“Non finisci alle 20?” Fu in grado di dire Marcus, anche se ancora confuso dalla situazione.
“Vorrei prepararmi da solo, per questa volta.” Rispose lui, un po’ imbarazzato.
Oh. Certo.
“Ah sì, ovviamente. Allora a stasera.”
Mentre Seianus si allontanava, Marcus Lane ebbe una strana sensazione, che non percepiva da tempo immemore: dopo quella sera, il rapporto tra lui e Seianus Plinth sarebbe cambiato radicalmente, si sarebbe consolidato una volta per tutte. Sarebbero diventati qualcosa di definitivo, non più una via di mezzo un po’ confusa tra l’essere amici e una coppia di fidanzati.
E Marcus si ritrovò a sorridere da solo, in piedi in mezzo a quello stretto corridoio deserto. Si era lasciato alle spalle ogni cosa, ma finalmente aveva ritrovato una certezza nella sua vita, e questo gli bastava per essere felice.
 
Il silenzio regnava quella notte, nel Distretto 13. Le stanze assegnate a ciascuna famiglia erano insonorizzate, per garantire la privacy degli abitanti e non disturbare gli altri.
Per questa ragione, quella notte, nessuno potè sentire né essere testimone dell’amore che si stava consumando tra due ragazzi che, dopo un’attesa che era parsa loro infinita, potevano finalmente unirsi come una cosa sola, lasciandosi alle spalle il proprio tetro passato, le loro differenze, i conflitti, i silenzi durati anni. Non c’era spazio per cose come l’odio, la guerra o la tristezza, quella notte, nella loro stanza.
Seianus gemette dolcemente mentre Marcus si faceva strada nella sua carne morbida. I loro sospiri affannati riempirono il silenzio della stanza, e per un po’ fu l’unico suono che si udì, mentre il medico si abituava al membro di Marcus dentro di lui.
Quest’ultimo, d’altra parte, faticava persino a respirare date le sensazioni che stava provando. L’interno bollente di Seianus lo avvolgeva completamente, tenendolo stretto a sé; era come affondare in una vasca di acqua calda, i muscoli tesi si rilassarono, la mente si svuotò completamente, lasciando spazio solo alla bellissima immagine di Seianus disteso sotto di lui, il petto muscoloso che si alzava e si abbassava al ritmo del suo respiro, le guance arrossate, gli occhi lucidi di desiderio, i capelli che gli incorniciavano il viso.
“Vai, Marcus.” Lo supplicò a mezza voce, stringendolo in un abbraccio. “Sono pronto…”
Marcus non se lo fece ripetere due volte, e cominciò a spingere. All’inizio fu lento, per paura di fargli male, ma, con Seianus che gli mormorava sensualmente all’orecchio di andare più forte e con l’eccitazione che cresceva sempre di più dentro di lui, si lasciò andare.
Non seppe dire per quanto tempo andarono avanti, era troppo preso ad ammirare Seianus, stringerlo a sé, baciare e mordicchiare ogni singolo centimetro di pelle che riusciva a raggiungere, per poi concludere con una spinta più forte delle altre, accasciandosi poi sul corpo sotto di lui.
“Ti amo, Marcus.” Mormorò il medico, avvolgendolo in un abbraccio e carezzandogli dolcemente i capelli corvini.
Marcus piantò l’ennesimo bacio in un punto tra il collo e la spalla, mormorando a fior di pelle: “Anch’io.”

Quando si furono risistemati, si strinsero avvolti tra le coperte; Seianus avvolgeva ancora le braccia attorno al corpo di Marcus, il quale stava serenamente appoggiato al petto dell’altro.
Dopo che i loro respiri si furono finalmente regolarizzati, Seianus chiese timidamente: “Perché non ti trasferisci qui da me?”
A Marcus saltò un battito. Certo che lo voleva, ma era un passo importante, da non prendere alla leggera. La convivenza avrebbe davvero funzionato? Era davvero la persona giusta per Seianus?
“Tu… Sei davvero sicuro?”
Sentì Seianus ridacchiare. “Certo, altrimenti non te l’avrei chiesto.”
“Sì, mi piacerebbe. Quindi… Sì, insomma, quindi adesso questa cosa tra noi è ufficiale?”
Alzò lo sguardo per incontrare gli occhi castani di Seianus, che brillavano nel buio per l’emozione. Il medico annuì: “Sì, direi di sì.”
“E Snow?” La domanda gli uscì dalle labbra prima che potesse rifletterci. Vide Seianus sobbalzare a quella domanda, e se ne pentì.
“Scusa, non volevo…”
“No, non fa niente.” Il ragazzo accennò un sorriso malinconico. “Tanto ormai non ci rivedremo mai più.”
Ancora qualche attimo di silenzio, e Marcus si azzardò a fare un’altra domanda: “Quello… Snow, ti piaceva davvero?"
Seianus ci mise un attimo per rispondere, come se stesse pensando bene alle parole da scegliere; i suoi occhi erano fissi sul muro davanti a loro, lontani, persi in un luogo diverso da quel piccolo e buio alloggio.
“A Capitol non sono mai stato accettato, mi vedevano solo come il ragazzo dei distretti. Alle elementari mi trattavano male apertamente, crescendo hanno capito che mio padre era più ricco delle loro famiglie messe assieme e non sarebbe stato furbo maltrattare un Plinth. Però non ero comunque un loro pari, e facevano di tutto per farmelo capire.”
Questo scorcio della sua vita rattristò profondamente Marcus. Seianus aveva gli aveva già brevemente parlato della sua infanzia e adolescenza nella capitale e, anche stavolta, il medico aveva raccontato ciò in modo sintetico, frettoloso, ma Marcus comprese che, dietro quelle poche parole, dietro quei maltrattamenti a cui aveva accennato, c’erano anni e anni di dolore e solitudine.
Marcus avrebbe voluto chiedere di raccontargli tutto, ma capiva che non era il momento adatto per farlo. Seianus avrebbe potuto parlargliene quando e se si sarebbe sentito pronto, un giorno.
“Erano poche le persone che non facevano così, e tra queste c’era Corio.” Riprese Seianus. “Siamo diventati amici solo all’Accademia, in realtà, ma è sempre stato gentile con me, sin da quando eravamo piccoli. L’ho sempre ammirato, sai? Apparteneva ad una delle più antiche e nobili famiglie di Capitol, ma non era come gli altri, non era snob, non era inutilmente crudele con i servitori o con i più poveri. Quello che è successo tra noi al Distretto 12… Sapevo che era sbagliato, che lui amava Lucy Gray, ma una volta siamo rimasti soli, nella nostra camerata, lui si è avvicinato un po’ troppo e… Beh, non mi sono trattenuto, mi piaceva da troppo tempo. Lui ci stava e…”
Seianus si bloccò all’improvviso, forse avvertendo il leggero disagio di Marcus.
“Scusa, mi sa che ho parlato troppo.”
L’altro scosse la testa. “No, non sono geloso. Hai tutto il diritto di amare qualcun altro, in particolare dopo che mi sono comportato in quel modo. E’ solo che… Insomma, te l’ho già detto cosa ne penso di Snow.”
Seianus scosse la testa. “Non ti preoccupare. Corio è una persona gentile, lo ha sempre dimostrato, no?”
No, Seianus.
Ad ogni modo, Marcus non disse niente. Coriolanus Snow non faceva più parte delle loro vite, avevano preso strade differenti, ormai.
“Quindi, è certo che verrai?” Il medico cambiò discorso, tornando a guardarlo dritto negli occhi, con entusiasmo palpabile.
“Sì, devo solo fare richiesta di trasferimento e poi-”
Il fiato gli si mozzò perché Seianus l’aveva stretto troppo forte, prendendo a posargli una serie di rapidi baci sulle labbra.
Marcus ricambiò, sorridendo.
Non poteva dire che quella era la vita che sognava di fare. Chiuso in quel bunker sotterraneo, costretto ad una routine monotona, e lontano dalla sua famiglia, dalla sua casa. Ma almeno la presenza di Seianus avrebbe addolcito quell’esistenza.
Questa non è la vita in cui speravo, ma so per certo che sarò felice grazie a te, pensò mentre si accoccolava accanto al compagno, le palpebre che si facevano sempre più pesanti, il silenzio che tornava a regnare nella stanza.
 





 
Note -in particolare per chi ha visto solo il film (LEGGETE STO LIBRO CHE E’ BELLO, vedo troppa gente che ha visto solo il film a sto giro)-
Finalmente qualche sera fa sono riuscita a vedere il film di Tbosas, e devo dire che non sono affatto rimasta delusa. Sono riusciti a ricreare perfettamente l’atmosfera e lo spirito del libro, rimanendo tra l’altro molto fedeli a esso.
NON mi è piaciuto il fatto che abbiano praticamente sorvolato tutta la storia tra Seianus e Marcus. Mi dispiace, ma da persona che scrivere una fanfiction su sta coppia lo devo dire ahah
Ci sono letteralmente due scene con loro due insieme, mentre nel libro la disperazione di Seianus nel non poter aiutare Marcus era molto più evidente, e inoltre racconta alcuni aneddoti sulla loro infanzia (ad esempio, l’episodio della neve.)
NON mi piace il fatto che alla fine, quando Coriolanus fruga tra le cose di Seianus, dopo la sua morte, abbiano sostituito la foto della classe alle scuole elementari di Seianus (in cui compariva anche Marcus) con una foto di lui insieme a Corio. NO NO NO.
Nella scatola Coriolanus trovava solo foto di famiglia e la foto della vecchia classe di Seianus; viene proprio sottolineato che non c’è nessuna immagine né di Coriolanus né dei compagni di scuola a Capitol: ciò faceva comprendere il profondo legame di Seianus con il suo distretto d’origine e il distacco da Capitol, sentimenti che emergono prepotentemente nel corso di tutto il libro, ma che nel film, almeno secondo me, si sono a malapena sentiti. E non c’è neanche il cuore di marmo…
Nel libro, inoltre, Seianus tenta di trascinare via dall’arena il corpo di Marcus insieme a Coriolanus, non lo abbandona lì come nel film…
Vabbè dai. COMUNQUE ci tengo a precisare una cosa che non avevo specificato: il cognome Lane per Marcus me lo sono inventato io, perché la Collins non si è nemmeno degnata di dare un cognome a sto povero Cristo ☹

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** L'inverno della nostra vita, la primavera di Panem ***


L’inverno della nostra vita, la primavera di Panem

Altri colpi di tosse scossero il suo corpo, facendolo sussultare violentemente. Si portò una mano alla bocca, spruzzi di saliva gli sfuggirono dalle labbra. Non appena si fu ripreso, afferrò un fazzoletto di seta posato sul comodino, alla sua sinistra, e vi spuntò un grumo di catarro.
Maledisse ad alta voce quella dannata malattia che lo stava lentamente consumando. Ci mancava solo l’ennesima, maledetta epidemia, come se tutto il resto non fosse già abbastanza.
Beh, ad ogni modo, se ad ucciderlo non fosse stato quel virus sconosciuto che si era diffuso da poche settimane in tutto il Tredici, ci avrebbe pensato l’età a portarlo nell’oltretomba. Era anche per questo che stava morendo: il distretto, con i suoi mezzi e personale limitati, non poteva occuparsi degli anziani, preferendo curare solo i più giovani. Era crudele, ma necessario, vista la situazione precaria in cui versavano, e Marcus era d’accordo con questa decisione della Coin. Non gli importava più nulla di morire adesso che aveva raggiunto la veneranda età di ottantadue anni.
Altri colpi di tosse, altre imprecazioni, e poi una voce. Una voce vecchia e arrochita, esattamente come la sua, ma decisamente più gioviale.
“Che cosa sono queste brutte parole Marcus? Prendertela con il virus non cambia molto, sai?” Esordì il dottor Plinth, chiudendosi la porta della stanza alle spalle.
Indossava il solito camice bianco, le maniche tirate su. Il suo volto era rugoso, i capelli ormai del tutto grigi, ma i suoi occhi castani non erano cambiati, brillavano esattamente come quando aveva diciotto anni.
Teneva tra le mani un piccolo vassoio con un bicchiere d’acqua, pane, formaggio e una mela.
“Non ho fame.” Disse Marcus, prima ancora che l’altro gli porgesse il pasto.
Seianus fece quel suo solito broncio infantile, ma il compagno lo ignorò: dopo più di sessant’anni insieme, aveva imparato a non farsi manipolare.
Dopo qualche altra insistenza, Seianus ci rinunciò e posò il vassoio sul comodino, sbuffando sonoramente. Si diresse verso l’armadio, dove ripose il proprio camice, appendendolo con grande cura alla gruccia. Doveva aver finito il suo turno.
“Dovresti mangiare.” Lo rimproverò chiudendo le ante. “Ti vedo ogni giorno sempre più pallido.”
“Tanto in uno di questi giorni passerò all’altro mondo, lo sai bene.” Fu la secca risposta di Marcus. “Il cibo lascialo a chi ne ha più bisogno di me.”
Seianus si sedette sul bordo del letto, e rispose a voce un po’ troppo alta, forse per coprirne il leggero tremolio: “Non dovresti voler morire proprio adesso che è successa una cosa fantastica!”
“Che cosa?”
“Non lo sai?”
“Sapere cosa?” Ribattè Marcus, un po’ seccato.
Seianus sorrise, e lo guardò negli occhi, volendo godersi la sua reazione. “Quest’anno gli Hunger Games hanno avuto due vincitori. Del Distretto 12.”
“Stai scherzando?!” Ed ecco che arrivarono altri colpi di tosse, dato che si era raddrizzato di colpo a quella rivelazione. Due vincitori? Ma era davvero possibile?
“E’ vero! Pare che i due ragazzi fossero innamorati. Alla fine dei Giochi, erano rimasti solo loro due e volevano suicidarsi con delle bacche. Però, piuttosto che non avere nessun vincitore, gli strateghi li hanno fermati in tempo. E indovina? Dopo questo fatto, c’è aria di rivolta nei distretti.”
“Allora vuol dire che…”
“Il Tredici sta cominciando a muoversi. Alma Coin ha intenzione di portare qui la ragazza del Dodici appena se ne presenterà l’occasione. Dice di volerne fare il simbolo della rivolta.” Nonostante l’evidente entusiasmo di Seianus a questo epocale cambiamento, l’ultima frase fu detta con una certa stizza.
Durante gli anni, l’idealismo del medico non era andato perduto, ma si era piuttosto attenuato; e capiva benissimo che le intenzioni della loro presidente, Alma Coin, erano tutt’altro che pure, nonostante lei fosse, in teoria, dalla parte dei “buoni”. D’altronde, lui la conosceva bene: era stata sua paziente sin da bambina, e Seianus l’aveva vista crescere diventando fredda e razionale esattamente come il padre. Non certo la rivoluzionaria dagli ideali onesti e irremovibili che i cuori come quello di Seianus si aspettavano.
“Dopodiché comincerà l’offensiva.” Concluse Seianus.
Marcus annuì, felice dentro di sé: quindi l’ora della rivolta era finalmente giunta? Tutti i ribelli, tutti i tributi caduti avrebbero infine ottenuto la pace tanto agognata?
Avrebbe potuto tornare al Due e… E cosa? Tanto la sua famiglia doveva essere morta da un pezzo, così come i suoi amici. Il Due era cambiato dai tempi in cui ci viveva lui: le persone, l’ambiente… Tutto. Probabilmente era rimasta sua sorella, Fulvia. Chissà, forse aveva avuto dei figli.
Gli sarebbe piaciuto conoscerli. Ma poi? Di cosa avrebbero parlato? Lui non li conosceva, loro non conoscevano lui. E se questi ipotetici nipoti fossero stati sorteggiati per gli Hunger Games, percorrendo il destino dello zio? E se fossero morti?
Marcus sorrise amaramente. Comunque fosse, era inutile farsi tanti problemi. Tanto al Due non ci sarebbe mai tornato, lo sapeva. La morte era vicina, la sentiva strisciare verso di sé, accarezzare il suo corpo, cominciare lentamente a trascinarlo nell’Aldilà.
Lo sapeva perché conosceva quella sensazione, non l’aveva mai dimenticata. Anche dopo sessantaquattro anni era impossibile non ricordare i colpi di bastone che si abbattevano sulla schiena, sul viso, sulle braccia. I polsi legati da una ruvida corda, il corpo sanguinante appeso ad una trave. Il colpo di una scure sulla schiena. La sensazione della morte che si faceva sempre più vicina, che gli solleticava la nuca con il suo gelido respiro.
Solo che questa volta Seianus non poteva più salvarlo.
 
“Comunque pare che il Presidente Snow sia furioso, e che abbia deciso di tenere costantemente sotto controllo quei due ragazzi, in particolare la ragazza.” La voce del compagno interruppe i suoi pensieri.
Marcus ebbe, come al solito, un senso di straniamento quando sentì uscire “Presidente Snow” dalle labbra dell’uomo. Non sapeva dire esattamente quando da “Corio” si era passati a “Presidente Snow”, sapeva solo che ciò che accaduto ormai tanto tempo fa, e avrebbe dovuto farci l’abitudine.
Ma non era così: il ricordo della voce di Seianus che chiamava il nome “Corio” con affetto non era mai stata cancellata e, seppur Marcus avesse pensato tante volte di chiedere all’altro cosa pensasse del suo vecchio amico adesso, non l’aveva mai fatto. Sarebbe stato crudele.
Afferrò il bicchiere dal vassoio vicino a sé, concedendosi almeno un po’ d’acqua. Mentre beveva gli venne da sorridere, pensando ad una cosa. “Strano che sia ancora il Distretto 12 a scombussolargli i piani, non credi?”
A Seianus scappò una risatina. “Già.”
Per un po’ nessuno parlò, il silenzio era interrotto solo dai colpi di tosse di Marcus, che si facevano sempre più frequenti. Seianus non commentava, forse sforzandosi di ignorarli, ma il moro vedeva che l’altro lo guardava di sottecchi ogni qualvolta che veniva scosso da quegli attacchi irrefrenabili.
Fu quando notò una piccola lacrima scorrere lungo la guancia dell’altro uomo, che Marcus decise di dire ciò che fino ad allora non aveva avuto il coraggio di confidargli.
“Seianus.”
“Mh?” L’altro si asciugò velocemente la lacrima, prima di voltarsi, nella speranza che il compagno non l’avesse notato. Marcus gli concesse questa illusione, e non commentò.
“Io vorrei tanto rivedere il Distretto 2, la nostra casa. Ma non posso.”
“Non dire così… Certo che-”
“Non è vero.” Lo interruppe Marcus. “Guarda come sono ridotto, lo sai anche tu che durerò al massimo pochi giorni. Adesso ascolta, sopravvivi, ti prego. Sopravvivi, voglio che tu veda la nuova Panem, la Panem che abbiamo sempre sognato. Io so che i ribelli ce la faranno questa volta, lo sento. E quando potrai raggiungere il Distretto 2… Pensa a me. Pensami e io sarò lì con te, a casa. Questa è l’ultima cosa che ti chiedo.”
Seianus lo fissò per qualche istante, gli occhi lucidi sbarrati, le mani stretti lungo i fianchi. Poi, avanzò lentamente verso di lui, e lo avvolse con le sue braccia, le stesse braccia che l’avevano confortato un numero infinito di volte, nel corso di tutti quegli anni, ma che, da quando la malattia l’aveva colpito, non si erano più posate su di lui.
“Potrei contagiarti.” Fu la debole protesta di Marcus.
“Non ti preoccupare. Ormai credo di essere immune a certe cose.” Lo sentì sorridere contro la propria spalla, e ricambiò il suo abbraccio.
 
Marcus Lane si spense qualche giorno dopo, nel letto che aveva occupato per oltre sessant’anni; accanto a lui la persona che più amava gli stringeva la mano, cercando di infondergli sicurezza in quell’ultimo viaggio.
“M-Marcus…” Singhiozzò Seianus, portandosi le loro mani intrecciate alle labbra e posandovi un bacio delicato.
Marcus avrebbe voluto dirgli di non piangere, che sarebbe andato tutto bene, ma non ne ebbe la forza.
Mentre percepiva le sue ultime energie abbandonarlo per sempre, portò lo sguardo su Seianus, sull’uomo che aveva amato per tutta la sua vita. Guardò il suo volto vecchio, stanco, come il suo, eppure, ai suoi occhi, ancora bellissimo.
Grazie, avrebbe voluto dirgli. Grazie per tutto. Grazie per essere stato al mio fianco, grazie per non avermi mai abbandonato, grazie per avermi salvato la vita, grazie per tutte le volte che mi hai curato. Grazie per le tue parole di conforto nei momenti difficili, grazie per i baci, grazie per gli abbracci, grazie per le chiacchierate a tarda notte, grazie per avermi sempre ascoltato. Grazie per altre mille cose che adesso non mi vengono in mente, perché hai fatto così tanto per me che nemmeno sono in grado di elencare tutto.
Grazie, grazie, grazie.
Alla fine non seppe se riuscì effettivamente a dire quel “grazie” ad alta voce, perché ormai le palpebre si stavano facendo pesanti e uno strano torpore stava avvolgendo il suo corpo.
Quando il dolce viso di Seianus, rigato dalle lacrime, si oscurò del tutto, seppe che era finita.
Era strano: da giovane pensava che quando avrebbe dovuto lasciare questo mondo, lo avrebbe fatto pieno di tristezza, risentimento e rancore, per tutte le cose che non era riuscito a fare, per tutto quello che aveva dovuto passare, per l’amarezza verso un mondo ingiusto.
Eppure, quando si congedò per sempre da questa vita, lo fece con il sorriso. Il sorriso di chi sa che, nonostante il gelo e la crudezza di un inverno appena trascorso, una nuova primavera sta per aver inizio.




Note:
Grazie se avete letto fin qui! Se volete lasciarmi una recensione, ne sarei molto lieta ^^

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4068376