The Light Start to Tremble

di Antys
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1° Capitolo ***
Capitolo 2: *** 2° Capitolo ***
Capitolo 3: *** 3° Capitolo ***
Capitolo 4: *** 4° Capitolo ***
Capitolo 5: *** 5° Capitolo ***
Capitolo 6: *** 6° Capitolo ***
Capitolo 7: *** 7° Capitolo ***
Capitolo 8: *** 8° Capitolo ***
Capitolo 9: *** 9° Capitolo ***
Capitolo 10: *** 10° Capitolo ***
Capitolo 11: *** 11° Capitolo ***
Capitolo 12: *** 12° Capitolo ***
Capitolo 13: *** 13° Capitolo ***



Capitolo 1
*** 1° Capitolo ***


Titolo: The Light Start to Tremble

Personaggi: Derek Hale, Stiles Stilinski, Un po’ tutti

Pairing: DerekxStiles [Sterek]

Rating: Giallo

Genere: Angst, Sentimentale, Soprannaturale

Avviso: AU, Slash, Slow Burn

 

 

 

 

 

 

 

 

1° Capitolo

 

L’aria era fresca e sopportabile, gli riempiva i polmoni come se volesse comunicargli che quello era realmente un nuovo inizio. Che poteva finalmente provare a respirare senza trattenere il fiato, lasciarsi gli incubi alle spalle e ricominciare qualcosa che gli aprisse le porte per il futuro.

Il Michigan State University brillava al sole che si estendeva sui suoi ettari ed ettari di terreno, il verde rigoglioso era visibile ovunque posasse gli occhi, centinaia di alberi all’orizzonte, studenti di tutte le età che lasciavano le loro orme sui sentieri d’asfalto di cui era disseminato l’intero campus; chi correndo impacciato, disorientato e con le valigie al seguito, mentre altri apparivano già di casa, sapendo esattamente come muoversi.

Arrivò all’accettazione con un sorriso enorme sul volto, l’entusiasmo e l’adrenalina che sgorgavano a fiumi, propenso ad assorbire ogni informazione che gli avrebbero fornito; i dépliant in mano insieme alla mappa, un cerchio rosso che gli indicasse l’ubicazione del suo dormitorio e l’edificio del dipartimento da lui scelto diversi anni antecedenti, il College of Social Science, con l’intento di specializzarsi in criminologia.

Rimase incantato dallo stile gotico quando arrivò davanti al Mayo Hall, i compagni di dormitorio che si affollavano per inoltrarsi all’entrata per raggiungere le loro rispettive camere.

Quando entrò dentro la stanza che probabilmente, e speranzosamente, l’avrebbe accolto per i futuri quattro anni, incontrò un letto a castello libero, un divanetto situato al di sotto e un letto singolo classico collocato sulla parete di fronte. Purtroppo appariva già occupato.

Le mani di Stiles tremarono, i polmoni si chiusero e il panico minacciò di sgorgare, senza dargli minimamente il tempo di reagire e trovare una soluzione alternativa. «Scusa… posso prenderlo io?» provò a chiedere al suo coinquilino sconosciuto con la trachea asciutta, l’affanno che tentava di controllare, il terrore che si impadroniva di lui. «Ho difficoltà a prendere sonno, devo sapere di avere i piedi per terra».

Il suo nuovo compagno di stanza fu richiamato all’attenzione, distogliendola dai bagagli che si stava sbrigando a disfare. Lo guardò con i suoi occhi scuri, l’impassibilità nei tratti asiatici, lo sguardo che cadeva sulle dita affusolate del suo interlocutore che ancora erano attraversate da spasmi agitati. «Nessun problema».

Quando il figlio dello sceriffo vide gli oggetti del neo coinquilino spostarsi per dirigersi al divanetto verde bosco, il sospiro di sollievo lo colse nell’immediato e la tranquillità si espanse lentamente per tutto l’organismo. «Grazie» disse sentitamente, la nuova tracolla in tela rossa e dai dettagli bianchi, che il padre gli aveva regalato quando la lettera di accettazione era arrivata, che adagiava sopra il materasso, piantando la valigia nel metro quadro in cui si trovava. «Mi chiamo Stiles» si presentò subito dopo, rendendosi conto di non aver iniziato proprio nel migliore dei modi.

«Jiang» si limitò a mormorare l’altro, concludendo la conversazione e dedicandosi alle faccende domestiche.

Stiles si chiese se la sua assente buona stella gli avesse fatto incontrare un altro silenzioso e burbero ragazzo.

 

Non resistette e si avviò a girare ed ispezionare tutto quello che poteva nel breve tempo che quella giornata gli concedeva. Stette mezzora davanti il grande portone del College of Social Science, chiedendosi se potesse già entrare, anche se le sue leziosi sarebbero iniziate soltanto il giorno dopo, alle dieci del mattino.

Nella sua indecisione, si studiò la mappa in cui erano segnati tutti i padiglioni che contenevano ogni dipartimento e corso di studio che il Michigan State University offriva, ammirando ancora una volta l’enorme varietà che conteneva dentro di sé.

Prese a camminare alla cieca, le pupille che leggevano il nome delle strade, i vari chioschi e negozi di cui era pregno il campus, la mappa che metteva in controluce strizzando gli occhi e tentando di carpire i suoi segreti con più facilità. Un nuovo edificio gli si presentò davanti, gli studenti che entravano ed uscivano, il nome di autori famosi che vibravano l’aria. Dalla vista periferica adocchiò un College of Arts & Letters e lo sovrastò con la stilizzazione che trovò sul dépliant.

Era tra i padiglioni più vicini al suo, senza alcun collegamento a lui se non le virate casuali agli incroci per cui aveva optato. Non gli catturava alcun interesse tuttavia era lì davanti immobile, chiedendosi se all’interno potesse esserci qualcuno che un giorno sarebbe entrato tra le sue conoscenze. Pensiero che formulava su qualsiasi edificio su cui posasse lo sguardo.

Eppure, se esisteva un luogo papabile che lui avrebbe potuto frequentare, rientrando tra le sue preferenze, era proprio uno come quello.

Nell’immobilità delle sue speculazioni senza fondamento si chiese se non fosse giunto il momento di fare una capatina al punto Starbucks che distava diversi metri da lì e rischiarirsi la mente.

 

Non arrivò mai allo Starbucks da lui selezionato, ma la sua attenzione fu catturata dal suo viaggio senza meta e senza consultare la mappa, che lo condusse a una caffetteria dal nome esilarante: Crescent Moon.

Luna crescente, la sua vita non smetteva di essere ironicamente malevola.

Vi entrò comunque, forse perché era più sadico di quel che credesse o forse perché sperava in qualche sorta di esorcizzazione.

Era riservato e curato, il simbolo dello spicchio di luna in un lilla pastello che sferzava in angoli strategici, l’accoglienza calorosa del personale che lo fecero accomodare ad uno dei tavolini colorati, portandogli il suo bicchierone di caffè, addolcito dallo sciroppo ai frutti rossi. Si domandò se fosse molto frequentato dal campus o se fosse un posticcino tranquillo per pochi eletti. Stranamente, lo trovò un luogo confortante in cui tornare.

«Mangiamo qualcosa insieme?» ma la giornata continuava ad avanzare e l’ora della cena, insieme al suo stomaco brontolante, si affacciò e quando tornò in camera per indossare qualcosa di più pesante, si lanciò in una proposta vagamente invitante al suo coinquilino.

Jiang lo guardò notevolmente colpito e sorpreso, il computer portatile ancora accesso, seduto su quel divanetto verde di cui si era appropriato. «Mi dispiace, ho già preso un impegno».

«Oh, okay, mi sembra giusto» Jiang non gli chiese se volesse aggiungersi al suo impegno precedentemente preso, supponendo fosse una cosa veritiera, e Stiles non era mai stato troppo bravo a farsi degli amici. Perlopiù dei nemici.

L’unico amico che avesse avuto fino ai suoi sedici anni era stato Scott e prima di lui era sempre stato solo. Poi qualcosa era cambiato, Scott si era innamorato di una bella brunetta appena trasferita nella loro città natale, Beacon Hills, e le cose si erano fatte più complicate, complesse. Il loro duo si trasformò in un trio e quello a sua volta si allargò, finché tutto non sembrò prendere le sembianze di un branco.

Ma il branco arrancò quando Allison Argent, il grande amore del suo migliore amico, morì e le ferite non si erano ancora rimarginate. Soprattutto quelle di Stiles.

«Possiamo fare domani» gli propose Jiang, forse cogliendo la sua malinconia.

«Va bene» ma Stiles era fuori nella notte da solo, le temperature che si abbassavano notevolmente, totalmente diverse da quelle calorose della sua California.

Ritornò al Crescent Moon. Gli serviva un posto con cui avesse un minimo di familiarità, qualcosa che non lo sballottasse troppo, incidendo sui suoi nervi.

Sperò che quella notte non gli giocasse degli scherzetti.

 

Quando il sole sorse e la sveglia sul cellulare prese a squillare, Stiles sbadigliò, nascondendosi sul cuscino ed assottigliando gli occhi, ancora frastornato e incerto su dove si trovasse. Impiegò qualche minuto a carburare e riconoscere le tre finestre lunghe e strette che permettevano alla luce di entrare nella camera senza alcun problema.

Istintivamente si toccò le gambe, controllò in che posizione fossero le scarpe e buttò un’occhiata al suo nuovo compagno di divisione di spazi, trovandolo tranquillo e non per nulla indispettito da suoi improbabili comportamenti.

Il battito del cuore accelerò e poi rallentò lentamente; non era successo niente, era tutto al suo posto. Lo era anche lui. L’ansia preoccupata allentò la presa e Stiles poteva iniziare ad affrontare la giornata che si prospettava piena di esperienze mai sperimentate.

L’ora successiva, dopo aver fatto colazione alla caffetteria più vicina al suo dormitorio, il figlio dello sceriffo poté finalmente oltrepassare la soglia del suo dipartimento e si immerse totalmente nell’immagazzinare tutto quello che avrebbe appreso nelle lezioni che lo attendevano.

All’uscita, la sua intenzione era quella di raggiungere nuovamente il Crescent Moon, semplicemente perché non era in possesso della pazienza di sperimentare troppo in una volta sola ed aveva continuamente bisogno di avere a che fare con qualcosa che conosceva, anche se frammentariamente. Era consapevole di che cosa lo attendesse nel tragitto che aveva imparato, il ritrovarsi ancora una volta davanti al padiglione di letteratura. Continuava a non capire che cosa lo conducesse da quelle parti, che cosa si aspettasse di vedere. Un volto amico? Una vaga conoscenza? Stiles non conosceva nessuno in quei dintorni, una singola persona in tutto il campus. Tuttavia il suo subconscio stava sviluppando qualcosa.

«Mi incontrerò con alcuni miei vecchi compagni del liceo, vuoi unirti?» Jiang l’aveva sorpreso quando l’aveva invitato nel tardo pomeriggio, ad unirsi per la cena insieme a lui e altri ragazzi che frequentavano lo stesso college. Non sapeva dire perché l’avesse fatto, l’aveva visto girovagare tutto da solo? Non sapeva nemmeno se fosse una proposta sincera, se si aspettasse che rifiutasse, ma quando Stiles accettò, al suo coinquilino andò piuttosto bene.

Erano andati dalla parte opposta al loro dormitorio, lasciandosi il fiume alle spalle e raggiungendo i suddetti vecchi compagni in un punto ristoro che le sue tasche potessero fortunatamente permettersi; il numero presente al campus non era molto vasto.

«Da dove vieni?» Donovan e Theo erano i loro nomi, il primo appariva troppo eccentrico, tutto indirizzato su di sé, mentre il secondo non sapeva ben inquadrarlo; ad una prima analisi sembrava accomodante, forse troppo compiacente con chi interagiva con lui, come se volesse entrare tra le grazie del suo interlocutore.  E Stiles si chiese che tipo di grazie si aspettasse da lui.

«Beacon Hills» fu la sola risposta che diede. Anche se aveva un disperato bisogno di far conoscenza e trovarsi degli amici, non era certo di volere quelli girargli intorno.

«E dove si trova?» Donovan appariva confuso, era una località che gli era totalmente estranea.

«California» non era mai stato di poche parole, ma si ritrovava a contarle con il contagocce, senza avere davvero una motivazione. Ma d’altronde era mai riuscito a socializzare in vita sua partendo dalle basi?

«Sei molto lontano da casa» Theo lo disse con un’inclinazione speziata, che prese coscienza nei brividi che gli attraversarono la colonna vertebrale.

«È questo lo scopo del college, allontanarsi» disse semplicemente Jiang, come se non capisse perché andasse sottolineato.

Ciò che Stiles aveva appreso era che venissero tutti e tre da Alexandria, Virginia, e che ognuno si stava specializzando in settori diversi. Il suo compagno di stanza in economia, Donovan in psicologia – anche se aveva la netta sensazione che fosse la facoltà sbagliata per uno come lui – e scienze politiche per Theo. «I nostri dipartimenti si incrociano» disse quest’ultimo con le iridi dell’azzurro più incredibile che Stiles avesse visto e che vennero stuzzicate dalla notizia dei suoi studi criminologici. «Ho intenzione di proseguire con legge successivamente, ci incontreremo di sicuro».

Stiles ingoiò malamente il nodo di saliva che aveva incastrato in gola. Non era più abituato a quegli approcci, in realtà non credeva che gli fosse davvero mai capitato, si era trovato a ballare senza nemmeno accorgersene, trascinato dagli altri. «Sì, è possibile».

«Hai vinto una borsa di studio? Per cosa?» Donovan non apprezzava di passare in secondo piano, era quasi certo che ci fosse una contesa in corso tra lui e Theo, il che era lusinghiero, ma il figlio dello sceriffo non sapeva gestire bene la cosa.

«Per merito» anche se la sua vita era stata un calvario, soprattutto al giungere dei sedici anni, non si era mai permesso di far abbassare la sua media da continue e costanti A. Era stato difficile, non aveva idea di come avesse fatto a non cedere e lasciarsi inghiottire dall’oscurità che l’aveva continuamente avvolto, ma aveva stretto i denti, ripetuto che quella era l’unica opportunità che aveva per realizzare i suoi sogni, seguire la strada che aveva tracciato e raggiungere il college in cui aveva sempre desiderato studiare. Allontanarsi da Beacon Hills.

«Oltre che carino, sei anche intelligente» ammiccò spudoratamente Theo, il commento che non riuscì proprio a tenere per sé né ne aveva le intenzioni.

Stiles se non avesse smesso di bere il suo bicchiere chi Coca-Cola un minuto prima, si sarebbe sicuramente affogato, non aspettandosi minimamente quella presa di posizione così palese.

Jiang scosse la testa trattenendo un ridacchiare leggero, conoscitore che presto le doti da seduttore del suo vecchio compagno di scuola si palesassero, completamente a carte scoperte. Se Theo era intrigato da qualcuno, difficilmente lo nascondeva e Stiles rientrava interamente tra i suoi interessi.

La matricola di criminologia spostò leggermente lo sguardo verso il suo coinquilino che non appariva per nulla disturbato dal teatrino che i suoi due amici avevano messo in scena e si ritrovò a spostarlo sulle gemme di zaffiro, che colpivano in modo preciso; il ghigno spezzante come tocco finale. Stiles non riusciva proprio ad identificare che tipo di persona fosse, quanto stesse recitando per attirare i suoi favori, ma se le sue percezioni erano infastidite da Donovan, non si poteva dire lo stesso per Theo. Quegli occhi azzurri avevano un insolito ascendente su di lui. Si domandò, per la prima volta, se non avesse una sorta di preferenza per le iridi chiare.

Il corteggiamento da parte dello studente di psicologia e di scienze politiche andò avanti per tutta la serata, facendolo ridere interiormente. Non è che disdegnasse, semplicemente non pensava che avrebbe incontrato qualcuno che gli prestasse interesse così presto, lasciandolo spiazzato. Non era quello che cercava; in realtà non cercava proprio niente e quella situazione, se in qualche modo lo divertiva, in un altro lo teneva bloccato. Non voleva più sentirsi così. Così come non gli piacevano le emozioni negative che l’invadevano ad ogni aneddoto del suo passato che condivideva con quella cerchia pittoresca, accrescendo il malessere che tentava di seppellire dentro di sé. Ti prego, anche per stanotte dammi tregua.

 

Derek non l’aveva sentito arrivare, non aveva percepito la sua scia in quei primi due giorni del nuovo anno universitario autunnale, i primi per le matricole che riempivano gli spazi con la loro effervescenza, l’eccitazione e l’agitazione, l’ansia e la costante paura, appestando tutti gli ambienti e facendo impazzire il suo olfatto.

Ma il suo olfatto in quelle ore notturne del secondo giorno del suo terzo anno di college, captò bene quell’odore frizzante e penetrante che avrebbe saputo distinguere in qualsiasi situazione.

Quando uscì per strada, abbandonando il suo appartamento privato, si inoltrò per le numerose vie del campus, preoccupato di sentire la sua essenza ad un orario così tardo, con le vie deserte e la maggior parte degli studenti a ronfare nei propri letti.

Si ritrovò nei pressi del fiume Red Cedar, a pochi passi da uno dei ponti che lo attraversava e che collegava l’altra parte del campus della Michigan State University, lì dov’era collocato il suo dipartimento, a meno di venti minuti dalla sua abitazione. È lì che sentì il suo odore farsi spaventosamente vicino, la sua presenza farsi più palpabile, come se l’avesse sotto gli occhi e dovesse soltanto strabuzzarli, dargli una forma.

Ma una forma la prese ed era avvolta da un pigiama rosso, i piedi nudi e freddi che camminavano alla cieca, senza minimante avere la percezione di cosa la circondasse, le iridi di miele offuscate e vitree, così vuote che Derek si spaventò. «Stiles» fu tutto quello che articolò, le lettere che scivolavano dalla lingua, il suono che prendeva consistenza.

Lo dividevano poche falciate e non riuscì a non notare quanto fosse cresciuto da quando l’aveva visto l’ultima volta, due anni prima. I capelli si erano allungati, l’altezza contava nuovi centimetri, i lineamenti del viso più marcati, ma aveva ancora tutti i suoi nei al loro posto, la pelle diafana come sempre, impossibilitata ad essere violata perfino dai raggi della calda California, eppure sapeva che era tutto diverso, che qualcosa era mutato oltre l’aspetto esteriore.

Il figlio dello sceriffo non riusciva a vederlo, ad avvertire la sua presenza, anche se era esattamente davanti a lui, a chiamare il suo nome per attirare la sua attenzione. Perseverava a camminare nel buio senza una guida, i piedi scalzi scorticati dal percorso intrapreso. «Stiles» chiamò di nuovo in allarme, le mani che andarono a circondargli il viso gelido, fermando la sua avanzata. Esigette che posasse gli occhi nei suoi, che prendesse consapevolezza di chi avesse davanti, ma lo studente di criminologia non lo fece. «Che cosa succede?».

«Sta tornando» furono le prime parole di quello Stiles in catalessi, il fumo della condensa fredda che usciva dalle labbra rosse. «Sento che sta tornando. Non mi lascerà mai in pace».

«Chi?» Derek contemplò la possibilità che Stiles avrebbe risposto a chiunque l’avrebbe fermato, incontrandolo durante un episodio che decretò fosse probabilmente di sonnambulismo. Ne aveva mai sofferto? Derek riusciva a sentire tutto il suo dolore, l’affanno e la pena che stava provando in quel momento e non sapeva minimamente da cosa fossero scaturiti.

«La volpe oscura» rivelò in modo devastante, come unica verità, quella che non smetteva di bersagliarlo e non gli permetteva mai di respirare davvero.

Le gemme di smeraldo si spalancarono e Derek non credeva di aver capito bene. Di aver capito davvero quello che Stiles intendesse. Un pollice gli accarezzò uno zigomo e lo studente del terzo anno si rese conto di quanto la matricola fosse completamente alla sua mercé e non c’era niente di più sbagliato di quello.

Appoggiò la fronte contro la sua, il calore che sprigionava che invase i tessuti del ragazzo che presto avrebbe compiuto diciannove anni, riscaldandoli e scacciando il gelo di quelle iniziali notti di settembre. Sapeva che non fossero mai stati così vicini, che non aveva mai permesso che accadesse, che sentire il suo fiato sulla propria pelle avvalorasse la prova di quello che stava accadendo, ma Stiles in quel momento aveva bisogno proprio di quello e non poteva negarglielo, essere così negligente. «Andremo in un posto dove non potrà trovarti. Va bene?».

Stiles tacque per qualche attimo di troppo, tanto che Derek credette che si fosse finalmente risvegliato, ma specchiandosi in quelle iridi d’ambrosia spente, seppe che era molto lontano da quella consapevolezza di se stesso. «Sì».

Condurlo al suo appartamento, al 1855 Place, fu estremamente facile, talmente tanto che Derek provava preoccupazione e rabbia al pensiero che Stiles avrebbe potuto incontrare chiunque altro non fosse lui, essere introdotto in posti in cui non sarebbe dovuto mai entrare, al cospetto di persone che avrebbero potuto approfittare di quella momentanea fragilità.

Lo accompagnò fino al letto a due piazze, gli scostò le coperte e lo coprì malamente, impegnato com’era a curare le lacerazioni che la pianta dei piedi riportava, togliendo e ripulendo ogni elemento estraneo che incontrava nel suo percorso, dalla terra, all’erba ed ai piccoli sassolini del terreno e dell’asfalto. Chissà per quanto tempo aveva camminato, chissà quanto lontano si era spinto dal suo dormitorio, uscendone senza nemmeno essere notato, senza notarlo lui stesso. Quanto ancora avrebbe proseguito prima che Derek lo trovasse.

Quando ripulì e rimediò ad ogni escoriazione, assorbendo un dolore che quello Stiles sonnambulo non provava, ma che invece esisteva, Derek lo rimboccò per bene, sistemandolo in modo da non interrompere quella fase REM precaria che poteva causare maggiori danni. «Lei non ti troverà» ripeté con più convinzione, la voce calda che l’accompagnava.

Stiles sospirò di liberazione, abbracciando il cuscino su cui il padrone di casa l’aveva adagiato e Derek seppe che stava finalmente dormendo come sarebbe dovuto accadere fin dall’inizio.

Seduto sul materasso in cui il figlio dello sceriffo stava riposando realmente, Derek si prese il viso tra le mani, chiedendosi cosa si fosse perso in quei due anni, lontano da Beacon Hills e da lui. Da quell’umano pittoresco che aveva continuamente associato ad un’incantevole e astuta volpe dal manto infuocato.

Era tutto grottescamente esilarante.

 

Anche quella mattina Stiles fu svegliato dai raggi del sole che penetravano dalla finestra, il tepore della coperta che l’avvolgeva e la sensazione di avere il cuore più leggero. Ma fu solo un frammento del tempo che la sua mente impiegò per rendersi conto che la parete su cui posava lo sguardo assonnato non era la sua.

Era piuttosto sicuro di non avere una finestra ai piedi del letto, da cui poi partiva l’armadio aperto, pieno di roba non propria. In più era certo che di finestre ce ne fossero tre e soltanto dove vi erano collocate le due scrivanie su cui presto lui e Jiang avrebbero studiato.

Oltre a quella serie di elementi piuttosto indicativi anche per la sua mente annebbiata e ancora addormentata, vi era la concretezza che vi fosse un corpo estremamente caldo dietro di sé, il respiro leggero e riposato che si scontrava con il suo collo, solleticandolo.

Stiles non condivideva il letto con qualcuno da diverso tempo, il fatto che non lo trovasse disturbante lo preoccupava alquanto, perfino il fiato che lo accarezzava era piacevole, eppure ne era terrorizzato allo stesso tempo perché non ne aveva alcuna memoria.

Restò immobile per attimi di troppo, spaventato da quello che avrebbe incontrato una volta che avrebbe preso coscienza di sé, di quello che gli era capitato e con chi fosse avvenuto.

Strizzò gli occhi, la forza di volontà che lo spinse a girarsi una volta per tutte, accartocciando le lenzuola con cui era evidente fosse stato rimboccato con cura ‒ un’attenzione che suscitò il suo stupore.

L’irrefrenabile bisogno di mettersi ad urlare lo colse appena incontrò i tratti facciali del ragazzo che era disteso al suo fianco, su quel materasso a due piazze che sembrava più grande delle dimensioni a lui conosciute. Le labbra erano schiuse e sgomente, ma colui che l’aveva ospitato teneva ancora le palpebre serenamente serrate e non era ancora pronto per venire assordato dall’incredulità dello studente di criminologia. «Derek» soffiò annichilito, le iridi del miele sgranate ed incredule, l’impossibilità di quel nome che veniva pronunciato in quel contesto, in quel luogo, dopo così tanto tempo dall’ultima volta che si era permesso di farlo. Com’è che era solito dire? Era l’ultima persona che si sarebbe aspettato di vedere? Sarebbe stato vero se Derek fosse appartenuto ad una qualche lista ipotetica, ma Stiles non ne aveva nessuna in cui figurava il suo nome. Non era mai esistita.

Le iridi verdi del padrone di casa si mostrarono e Stiles si ritrovò a trattenere il fiato, in apnea. Non erano assonnate come probabilmente apparivano le proprie, erano semplicemente consapevoli di trovarsi al cospetto del figlio dello sceriffo. «Sei davvero tu? Derek Hale?».

«Stiles» fu tutto quello che Derek disse, a rispondere in modo nitido su chi fosse e avesse perfettamente coscienza con chi avesse condiviso le lenzuola.

Era anche la voce che ricordava, benché fosse leggermente rauca. Sicuramente era dovuta alla chiarissima spiegazione che la matricola non si fosse mai risvegliata accanto all’Hale, evento che l’avrebbe condotta direttamente alla morte per le più svariate ragioni. «Ah» Stiles stava per essere sopraffatto da un attacco di panico, diverso da quello che inizialmente lo minacciava, terrorizzato dalla vaga consapevolezza con chi avrebbe potuto intrattenersi nella notte, le figure di Donovan e Theo che non gli toglievano gli occhi di dosso, chiaramente intenzionati a volerselo mangiare in ogni modo inimmaginabile, approfittando della sua momentanea debolezza. «Cos’è successo? Tu cosa ci fai qui? Dove siamo?» scattò a sedere, la spalla che colpì la parete a cui il letto era accostato, le coperte che scivolarono, mettendo in mostra il pigiama che indossava la sera prima. Sono vestito, fu l’unico pensiero rassicurante che lo colse.

«Al 1855 Place» rispose prontamente Derek, aspettandosi una reazione esagerata tipica dello studente del primo anno.

«Al… 1855 Place» i gesti avventati di Stiles si fermarono, disorientati. «Perché conosco questo nome?» domandò più a se stesso che al suo interlocutore, spremendosi le meningi e richiamando a sé ogni ricordo che gli veniva alla mente, stupefatto della risposta che elaborò. «Siamo ancora dentro il campus».

Derek si limitò ad annuire, non scomponendosi in alcuna maniera e non abbandonando la posizione da disteso che ancora teneva.

Apparentemente i tessuti di Stiles si rilassarono, anche se non vi era alcuna ragione per cui dovesse accadere. Si ritrovò a fissare Derek con più consapevolezza, il punto interrogativo che si affacciava sul viso. «Perché sei qui?».

«Per la tua stessa ragione, studio» Derek non si perse in spiegazioni, certamente non si sarebbe prodigato per formulare qualcosa di più sostanzioso.

Stiles non credette minimamente alle sue orecchie, dovevano essere ancora bloccate alla fase onirica. «Studi qui? Proprio qui?» ma quante probabilità potevano esserci?

«Questa è casa mia, Stiles» oh, era tanto tempo che non sentiva il suo nome essere usato come un rimprovero, Derek era un mago in quello. «Solo gli studenti di questa università possono affittarla».

. «Io…» non riusciva ad esserne persuaso, non aveva abbastanza elementi ed era confuso, provato, la presenza di Derek lo destabilizzava come mai aveva creduto potesse accadere. La necessità di raggiungere la finestra, spostare la tenda corta che ammorbidiva l’invadenza dell’Astro d’Apollo e guardare ciò che si affacciava davanti a sé, era vitale, non riuscì a trattenersi.

Le strade, gli edifici bassi, le strade larghe e affollate di studenti, i negozietti appositi, che dovevano rispettare i loro orari mattutini già attivi. Non era un paesaggio che conosceva, non era ancora stato da quella parte del campus e non era certo che l’avrebbe riconosciuto dal punto di osservazione in cui si trovava, sul letto di Derek Hale ancora caldo. «Che cosa studi?».

«Letteratura» nessuna esitazione, ma un dato di fatto.

Stiles sentì perfettamente la contorsione al petto da cui fu investito, la testa che si voltava nuovamente verso Derek, gli occhi giganti che non smettevano di essere increduli, impressionati. No, non poteva essere. Era quella la ragione per cui veniva continuamente attirato dal College of Arts & Letters? L’incoscienza che sapeva figurarsi fin troppo bene quali fossero le sue preferenze, il luogo a cui sarebbe dovuto appartenere se si fosse concesso una scelta. Era il suo viso che sperava di scorgere nella folla? Da quali problemi era affetto il suo subconscio? «Come sono arrivato qui?» doveva spostare i pensieri, cercare di metterli in ordine e svelare il mistero sul perché si trovasse avvolto tra le coperte di Derek Hale. Tutto il resto era secondario. Ma lo era davvero?

Derek esitò, incerto su quanto potesse dire e se il figlio dello sceriffo gli avrebbe creduto. «Ti ho trovato» non riusciva a togliersi dalla testa perché fosse stato necessario un’azione come quella. «Era notte fonda, eri gelato e girovagavi con solo il pigiama addosso» non era per niente l’abbigliamento adatto e lo spessore degli indumenti era quasi nullo; irrisorio sotto coperte adeguate ai primi giorni di settembre, ma deleterio nelle ore buie, con i gradi che si abbassavano notevolmente.

Ti ho trovato. Girovagavi con solo il pigiama addosso, l’istinto di ispezionarsi, toccarsi le gambe e controllarsi i piedi fu qualcosa che non poteva frenare. Era tutto intero, nulla faceva presagire che avesse vagabondato nell’ora delle streghe, eppure il trovarsi nell’appartamento privato di Derek raccontava un’altra storia. «Come mi hai trovato?».

«Ho seguito il tuo odore» nemmeno quello era un aspetto che avrebbe voluto condividere, ma non poteva tenerlo per sé, non aveva alcun senso, Stiles lo avrebbe soltanto sommerso di più domande.

Le iridi d’ambrosia brillarono e si ingrandirono, espandendosi così tanto da essere sopraffatte dal nero delle pupille. «Già, sei un lupo anche tu» i ricordi fiorirono tutti insieme, non che potesse dimenticarlo. Sapeva soltanto che non si sarebbe mai liberato di quella vita. A volte si chiedeva se lo volesse davvero. «Conosci il mio odore?» era la prima domanda che gli era affiorata tra i pensieri, per la meraviglia incredula, ma riconoscere la vera natura di Derek era stato più immediato, più importante, ma si chiese se in effetti lo fosse. Non capiva come potesse Derek aver immagazzinato così bene il suo odore, soprattutto alla luce che si fosse costantemente tenuto alla larga da lui. Da qualsiasi cosa lo riguardasse.

«Sì» era inutile negare l’evidenza né alla creatura della notte piacesse sottolineare l’ovvio, ma capiva perché quello stupisse Stiles, forse più di tutto il resto. «Ho pensato fosse meglio portarti qui».

«Qui» l’essere umano ebbe bisogno di guardarsi attorno, controllare in un’ispezione maggiormente prolungata, posare gli occhi su tutto l’ambiente che portava l’impronta di Derek. Era tutto ordinato e pulito, nessuna confusione in vista, dei teli lunghi a tentare di coprire l’armadio aperto e la scrivania dov’erano sistemati alcuni libri molto spessi. Stiles non riusciva a quantificare cosa significasse davvero qui.

Derek non aggiunse altro e non sapeva proprio spiegarsi cos’è che indispettisse davvero Stiles. La sua natura da lupo mannaro o l’essere stato trovato da lui in un momento di debolezza? Ma il fatto che non gli chiedesse cosa fosse esattamente successo, perché camminasse senza meta per le strade del campus nelle ore più gelide, lo mise in allarme, quasi come se per Stiles fosse qualcosa di quotidiano, ripetuto nel tempo.

«Che ore sono?» la matricola sembrò svegliarsi, prendere coscienza delle lancette dell’orologio che ticchettavano, andando avanti senza di lei.

Il licantropo non fu davvero sorpreso e adocchiò la sveglia digitale che sostava sul comodino. «Le otto e mezza».

«Merda!» imprecò a denti stretti, alzandosi e camminando sul materasso, azione non molto carina considerando che non era il proprio. «Ho lezione tra un’ora» ma quando i piedi toccarono il pavimento freddo, si rese conto di dover affrontare delle complicazioni. L’agitazione si espanse a macchia d’olio.

«Stiles» lo richiamò la creatura della notte, seguendolo a ruota, ponendosi proprio davanti alla sua strada.

«Come esco di qui?» la domanda era sincera, Stiles continuava ad inciampare nel proprio panico, nell’essere bloccato da una situazione da cui non trovava soluzione. Si indicò, il pigiama rosso a scacchi blu, i piedi completamente scalzi e nulla che gli venisse in aiuto.

Tutto quello che Derek sentì fu quanto Stiles fosse rotto dentro. «Non è successo niente. Non ti è successo niente» fu guidato dall’avventatezza di catturargli il viso tra le mani come aveva fatto soltanto alcune ore prima, fargli sentire che il mondo girava ancora per il verso giusto. «Stai bene».

Il figlio della massima autorità della loro città natale trattenne un singhiozzo, ma il lupo lo udì lo stesso. «Vorrei fosse così» non riusciva a registrare nulla di quello che gli stava accadendo in quegli istanti.

Stiles era sempre stato sfuggente, ma mai ad una tale dimensione. «Usa la doccia» accarezzargli le guance con i polpastrelli fu conseguenziale, calmarlo nell’unico modo il cervello gli suggerisse. «Ti darò un cambio. Tutto quello che ti servirà per andare dove devi».

Stiles lo guardò come se fosse un alieno e Derek dovette farsi forza per separarsi da lui, smettere di essere la sua colonna portante. Prese la prima maglietta e paio di pantaloni che gli capitarono sotto tiro e glieli porse in mano. «Vai a sinistra».

Lo studente del primo anno non sapeva che pesci prendere, rimase titubante per una decina di secondi, indeciso su come procedere. Ma c’erano altre scappatoie? Prese i capi che il mannaro gli offrì, avviandosi verso la direzione che gli aveva indicato, oltre la voce, con un gesto della mano, a chiarire che si riferisse alla sua sinistra.

Stiles individuò la porticina che stava a fianco alla porta principale, lasciata socchiusa come a comunicargli che era lì il luogo in cui doveva entrare. Quando l’aprì e attraversò l’uscio, si ritrovò all’interno di un bagno privato. Non era enorme e aveva l’essenziale, ma era confortevole, racchiuso, la possibilità di chiudersi dentro e scappare alle avversità che la vita continuava ad avere in serbo per lui.

Vi era una tenda da doccia chiusa malamente, a mostrare la vasca e anche le tubature che potevano essere usate esclusivamente per la doccia se lo si preferiva. La plastica era stranamente di colori allegri, caldi, opposti alla personalità buia e fredda del lupo che attendeva oltre la parete. La tonalità dominante era un arancione rosso, che sfumava al bianco, per concludere con una punta di nero quasi impercettibile. Ricordava talmente tanto la pelliccia di una volpe rossa da farlo stare male. Lo atterrava ancora di più la certezza che fosse dipesa da una scelta volontaria di Derek.

Stiles avrebbe voluto sigillare la porta, dare un colpo di chiave, ma essa non era presente e non doveva stupirsene. A cosa serviva una chiave in una casa abitata da una sola persona?

Appoggiò i vestiti sul mobile bagno su cui era incastrato il lavello ed in cui erano riposti tutti gli effetti personali della cura giornaliera del mannaro. Aveva le vertigini, non riusciva a realizzare di essere tra le mura private di Derek Hale, all’interno del suo bagno che avrebbe usato, indossando i suoi vestiti. Una sorta di sconforto lo invase, per l’ilarità di quel frammento di vita che gli era toccata. Non sapeva davvero contabilizzarla, catalogarla. Non riusciva a dargli un senso. Che progetto era previsto per lui?

Quando uscì fresco e pulito, vestito di tutto punto con qualche taglia in più rispetto alla propria, il telo doccia bagnato che aveva scovato nel mobiletto perfettamente piegato, insieme ad un asciugamano per tamponarsi i capelli – c’era perfino un phone, Stiles sapeva di starsi allargando troppo –, l’umano raggiunse il padrone di casa nell’ala più avanti, i piedi avvolti perfino dentro dei calzini.

Derek era vispo, indossava soltanto i pantaloni del pigiama e beveva il suo caffè appena preparato davanti alla macchinetta per la tostatura, il sole che irradiava dalla grande finestra che illuminava tutto il piccolo soggiorno con annesso di cucina, un divano a tre posti collocato proprio al di sotto, regalando l’illusione che fosse un ottimo punto in cui studiare. Quello che però Stiles notò, fu che si rese conto di quanto Derek fosse ancora dannatamente attraente. Forse perfino di più rispetto ai due anni precedenti. Si sarebbe superato ancora? Non era un pensiero logico che avrebbe dovuto formulare, considerando la situazione precaria in cui si trovavano, ma la sua testa non gli dava mai particolarmente retta, soprattutto davanti l’ovvio. E Stiles stava per compiere diciannove anni, sì, ma i suoi ormoni non si erano ancora dati una calmata. Probabilmente non sarebbe mai accaduto.

«È per te» si sentì dire probabilmente dopo che l’aveva squadrato un po’ troppo.

Stiles impiegò qualche attimo in più a focalizzare la tazza di caffè che Derek gli stava offrendo. Il fumo usciva invitante, facendogli gola e il calore lo sentiva già scendergli a riscaldarlo, a svegliarlo una volta per tutte. «Non era necessario» disse quando alla fine accettò, ricevendo un alzamento di spalle disinteressato dal suo salvatore. Lo fece scivolare sul tavolo e la matricola lo afferrò, imprimendosi la sensazione del caldo che gli scorreva tra le mani. Afferrò anche come Derek stesse azzerando la possibilità di contatto fisico tra loro, diversamente da com’era accaduto soltanto venti minuti prima ‒ l’aveva registrato con ritardo, come il licantropo l’avesse toccato con totale naturalezza e senza essere attraversato dal minino dubbio per calmare la sua crisi di panico. La temperatura corporea si era insinuata sottopelle, carezzandolo, ed era stata una sensazione così familiare a cui abbandonarsi e lascarsi vezzeggiare da risultargli totalmente anomala per la semplice ragione che Derek Hale non l’avesse mai toccato in vita sua.

«Lasciali lì» proseguì il mutaforma, riferendosi ai teli in panno che aveva utilizzato per asciugarsi, indicandogli una sedia in cui poggiarli.

Stiles individuò anche un’altra cosa, una piccola lavapiatti e di fianco una porta, che supponeva fosse il ripostiglio, ma se era in possesso di una lavastoviglie, dubitava che quell’appartamento non fosse accessoriato anche di una lavatrice e asciugatrice. Aveva voglia di sorpassare Derek, spalancare la porta e scoprire se fosse una lavanderia a tutti gi effetti. Era bello essere ricchi e permettersi certi lussi, ma Derek aveva pagato un prezzo enorme per avere quell’autonomia.

C’era anche da specificare che Derek non avrebbe avuto problemi nemmeno prima, che il denaro scorreva a fiumi nella sua famiglia, fondatrice e protettrice di Beacon Hills, ma tutta quella beltà era finita e divisa tra le mani di sole tre persone. Non c’era nessun altro.

Il lutto persistente del lupo Stiles lo conosceva come nessun altro, era l’unico con cui il mannaro si era permesso di condividerlo. Era qualcosa che aveva privato perfino a Laura. «Grazie» la sua voce che gli comunicava con il dolore nel cuore li ho uccisi io, è colpa mia Stiles non era mai riuscito a sradicarla, in un momento esclusivamente loro, dove non esisteva nessun altro. Stiles non gli aveva creduto, non l’aveva fatto nemmeno quando Derek gli aveva sputato addosso la verità di cui era l’unico conoscente, la colpa di cui si era macchiato. Ma era soltanto quello, l’avventatezza di essersi fidato della persona sbagliata. Stiles non aveva mai saputo se fosse riuscito a farglielo capire, alleviare il suo tormento.

«Prendi anche quelle» Derek ignorò il suo ringraziamento, nulla di nuovo per lo studente di criminologia, ma quando la sua visione periferica fu catturata dal punto che il mutaforma voleva che guardasse, Stiles si irrigidì.

«Derek» la negazione era udibile, il suo dissenso evidente.

«Ti servono, non puoi ferirti di nuovo» difficilmente il mannaro accettava un rifiuto e quell’occasione non rientrava tra le rarità, era fuori discussione.

Una scossa gli attraversò vertebra per vertebra e seppe che la sua abitudine di controllare le condizioni della pianta dei piedi non era tempo perso. «Mi hai curato tu» lo sconcerto gli sfuggì senza rendersene conto. Perché non era arrivato prima alla soluzione? Era impossibile che Derek l’avesse trovato incolume, che i suoi piedi non avessero nemmeno un graffio. Stiles se li era feriti tante e troppe volte, nessun lupo che potesse alleviare le sue sofferenze. Nessuno a cui Stiles volesse rivelarlo.

«Prendile e basta» lo studente di letteratura non si preoccupò di confermare le rivelazioni di Stiles, non gli importava affatto.

Stiles odiava quella situazione, essere così in svantaggio da non potersi opporre, ma che soluzioni gli rimanevano? Le calze offerte dal licantropo non potevano fare miracoli.

Stiles terminò il suo caffè preparato appositamente per lui, come tutto quello che Derek gli aveva fornito, indossando finalmente le scarpe che gli aveva sistemato pronte per l’utilizzo. Non erano perfette, probabilmente di un numero superiore al proprio, ma erano gestibili. «Grazie» lo ripeté, ma per quante altre volte avrebbe dovuto dirglielo? Avrebbe dovuto ringraziarlo da quando aveva aperto gli occhi quella mattina sano e salvo, al sicuro, ma invece l’aveva attaccato e Derek l’aveva ignorato, come lo caratterizzava.

Eppure, consapevole di quello, si defilò senza proferire parola aggiuntiva. Uscì semplicemente dalla porta principale, percorse il condominio e scese le scale in fretta, diretto verso il dormitorio per cambiarsi ancora una volta e prendere i libri che gli occorrevano per la lezione che lo attendeva.

Si ritrovò ad essere curioso di quanto lontano fosse andato, quanto avesse camminato, in che punto Derek l’avesse trovato e fermato la sua avanzata. Perché l’avesse trovato.

Ma un altro interrogativo bersagliava la sua mente acuta, irrefrenabile, a cui aveva tentato di togliere voce: come poteva Derek essere così certo del suo odore? Riuscire a percepirlo ad una notevole distanza, isolarlo da tutti gli altri e condurlo esattamente al punto preciso.

 

 

 

 

 

 

Inspiegabilmente mi ritrovo da queste parti, a scrivere ancora di questi due, convinta di aver già detto quello che c’era da dire, ma non è mai vero. Le idee su di loro non terminano mai, una si concatena all’altra e va avanti all’infinito. Alcune storie riescono a sopravvivere, altre rimangono solo pensieri non espressi.

Questa è una storia che voleva essere racconta e che ha richiesto molto lavoro, quasi due anni, partita da una mia stessa domanda banale e che magari rivelerò alla fine di questo percorso.

Non è stata betata da nessuno eccetto che da me stessa, non il miglior occhio critico per refusi o distrazioni.

Spero possiate apprezzarla.

Buon San Valentino Sterek.

A settimana prossima,

Antys

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Capitolo 2
*** 2° Capitolo ***


2° Capitolo

 

Stiles aveva una vaga idea della disposizione del campus, i vari edifici sparsi per tutta la superficie, quindi sapeva di dover attraversare il fiume e percorrere un lungo tratto di strada, ma sbagliò bivi diverse volte, non aveva il cellulare con sé per controllare la mappa e dovette fermarsi a chiedere indicazioni.

Sulla carta scoprì che la distanza tra l’appartamento di Derek ‒ in cui credette di aver perfino adocchiato nel parcheggio la Camaro nera tanto amata dal mannaro ‒ e il suo dormitorio era di soli quindici minuti a piedi, ma dubitava che nella sua condizione di trance fosse proseguito per la direzione giusta al primo colpo. Non riusciva a credere di aver vagabondato così tanto, di aver perfino attraversato il corso d’acqua. Dov’era diretto prima che Derek lo intercettasse?

Sentiva il vuoto allo stomaco, la conoscenza di sapere che nemmeno in quella nuova vita riusciva a liberarsi dei suoi demoni. Era costantemente in trappola.

Si trovava davanti al padiglione di letteratura, la tracolla più pesante del solito e la volontà di essere lì per una motivazione ben precisa. Osservava piccoli gruppetti uscire ed entrare, parlucchiare tra loro, ridacchiare e correre. Stiles aveva terminato le ore di lezione mattutina e aspettava soltanto che il tempo trascorresse per seguire l’unica che gli era rimasta nel pomeriggio. Ma era anche altro che stava aspettando.

«Stiles» Derek apparve come se fosse una visione, molto più di come si era rivelata al suo risveglio. Aveva percorso le scale del portone principale in discesa, con la posa perfetta e senza sbavature, nessuna fretta. Non si era fermato stupito di trovare il figlio dello sceriffo proprio lì, a pochi passi ad attenderlo; tutto il contrario, sembrava sapere esattamente dove si trovasse e da quanto tempo.

«Sei davvero qui» Stiles non si era permesso di studiare tutte le variazioni fisiche che erano toccate alla figura del mannaro. Erano trascorsi soltanto un paio d’anni, ma apparivano come secoli, Stiles ne aveva passate troppe, si era lacerato e aveva cercato di rincollare i pezzi da solo. Le memorie su Derek si erano quasi cancellate, a volte si chiedeva se fosse esistito davvero, se in qualche modo le loro vite si fossero incrociate, anche soltanto per pochi momenti.

La voce era sempre la stessa, ma gli zigomi erano più taglienti, lo sguardo maggiormente severo, aveva più massa muscolare, dettaglio che Stiles trovava piuttosto ingiusto ed irrealistico. Aveva anche una barba corta e nera, curata e precisa, non vi era un solo pelo fuori posto. Era un elemento del tutto nuovo e si chiese se fosse morbida al tatto o se gli avrebbe graffiato la pelle, arrossandola.

«Non sei ancora persuaso» la pacatezza di Derek era innegabile, ma Stiles riusciva a sentire la leggera nota di burla nella sua direzione, come se ne fosse davvero divertito.

C’era un’altra cosa che non era cambiata, il modo intenso e disarmante con cui Derek lo guardava. In qualsiasi circostanza, ma non c’era più nulla a celarlo, adombrarlo. «Sto cercando di mettere insieme i pezzi. Di non essere impazzito» ma impazzito lo era realmente.

Derek lo osservò a lungo, nel silenzio che solo lui sapeva mantenere, ma non lo stava giudicando, cosa che Stiles apprezzò. «Cos’altro ti serve?».

«Niente» il lupo teneva tra le dita di una mano due tomi piuttosto corposi, uno era di letteratura, ma non capiva a quale periodo facesse riferimento, e l’altro era di filosofia. Dubitava di necessitare di altre prove. «Credevo soltanto di non rivederti mai più».

Il dolore attraversò le iridi di smeraldo e Stiles si rese conto di essere stato più brutale di quanto avesse pianificato nella testa. «È passato tanto tempo, Derek».

«Due anni» specificò il lupo mannaro, era freddo, eppure sentì il sottofondo dell’agonia che era rappresentata per lui, qualcosa che Stiles non sapeva proprio spiegarsi. Insieme, però, suonava come se quel frammento di linea temporale fosse una bazzecola.

«Sono accadute molte cose dopo essertene andato» troppe. Stiles stentava a credere di esserne uscito vivo, con ogni parte del corpo attaccato. Ma forse era un’illusione della sua mente rotta.

«Lo vedo» proferì serio il mutaforma, gli occhi boscosi che percorrevano la figura dell’umano, i suoi vestiti che teneva ancora addosso, memorando della notte agitata trascorsa, delle azioni che obbligatoriamente si erano rese necessarie.

Gli occhi di Stiles corsero alla maglia grigia e con un taschino all’altezza del cuore che indossava, i pantaloni della tuta nera e morbidi che non aveva avuto il tempo di togliersi e cambiarsi, ma qualcosa era riuscito a portarla a termine. Dalla borsa regalata, uscì un sacchetto di carta senza marchio, in cui erano contenute le scarpe sportive che Derek gli aveva intimato di prendere. «Per ora ho soltanto queste da restituirti».

«Non c’era fretta» Derek le accettò con riserva, non le controllò nemmeno.

«Mi porto avanti» gli strizzò un occhio e uno dei suoi ghignetti tipici prese il sopravvento.

La creatura della notte non si fece scappare nulla e seguì ogni sua mossa con parsimonia, era qualcosa che rendeva arida la bocca di Stiles. «Se non eri sicuro, saresti rimasto ad aspettare all’infinito con le scarpe nella borsa?».

«Ah» esclamò come preso in contropiede, le mani che andarono a toccare la lunga tracolla sistemata sulla spalla, le dita che sfiorarono la sacca con insicurezza. «In effetti, non credo di averci riflettuto attentamente».

«Ricordavo fossi intelligente» la stangata arrivò dritta dritta, insieme ad un angolo delle labbra che si alzò, in puro sarcasmo.

Il figlio dello sceriffo si ritrovò spiazzato e punto sul vivo, irrigidendosi e odiando perdere contro di lui. «Sei il solito Sourwolf».

Derek rilasciò uno sbuffo di risa e Stiles aveva completamente rimosso come risuonasse. Non era tornato indietro, era qualcosa di totalmente rinnovato. «Ora devo andare».

Derek, guardando il suo orologio da polso, aveva rotto la magia, anche se Stiles non sapeva indicare esattamente di che magia si trattasse. «Sì, certo. Ciao, Derek».

Derek non proferì parola, si limitò ad un unico cenno del capo e si dileguò davanti alle iridi caramellate confuse.

La matricola rimase bloccata nel punto in cui il mannaro l’aveva lasciata, le falangi che stringevano la cinghia della borsa e la difficoltà a metabolizzare tutto quello che scorreva davanti a lei. Chi tra i due avesse più domande Stiles proprio non lo sapeva individuarlo.

 

Derek lo sentì più chiaramente rispetto alla notte precedente, la sua scia lo svegliò dallo stato di dormiveglia in cui era immerso, ad un passo dallo sprofondare nel regno di Morfeo.

Indossò il primo capo che afferrò, una maglietta a maniche corte che a lui non provocava nessun disagio, ma con le temperature che scendevano radicalmente lontane dal sole, ne avrebbe provocati alla gente comune. Si fiondò sulla strada, il naso come unica guida, che annusava e spingeva, attirando tutta l’aria nei polmoni come se avesse potuto fare la differenza. Ma forse la fece, perché Stiles era ancora sulla sponda opposta, lontano di qualche metro dal ponte che univa i due fianchi.

Indossava lo stesso pigiama della sera precedente, i piedi nuovamente scalzi, gli occhi vitrei e assenti, procedeva senza uno scopo da raggiungere. Derek non era in grado di capire quale fosse il problema. «Stiles».

Ma era inutile chiamarlo, il figlio dello sceriffo era completamente sordo alla sua voce, probabilmente a tutte. «Sta arrivando».

Derek si guardò intorno, una mano sul braccio di Stiles ad arrestare la sua avanzata, a cercare ed individuare se una minaccia si stesse avvicinando, ma non sentiva nulla, c’era soltanto il totale silenzio e la brezza congelata che smuoveva le foglie degli alberi. «Non sta arrivando nessuno».

«Sì» Stiles scosse con forza la testa a negare e Derek credette che si sarebbe finalmente svegliato, ma non c’era verso che ciò accadesse. «Il Nogitsune. È in attesa. Tornerà per riprendermi. Non mi lascerà mai andare».

Derek fu folgorato, le sue sinapsi si attivavano con fatica, a richiamare delle conoscenze mai approfondite. Un nogitsune era uno spirito di una volpe oscura, ma che correlazione aveva con Stiles? Che cosa era successo a Beacon Hills dopo averla abbandonata? «Qui non c’è».

«No, no» Stiles cominciò a dibattersi, ad alzare la voce e dimenarsi, scappare alla presa di Derek e portare le mani alla testa, prendendola a scuotere e conficcando le unghie con forza, come se potesse scavare e strapparsi il cervello, disfarsi del suo problema. «Non si arrende mai. Non si arrenderà mai. Mi intrappolerà e mi userà».

Era una scena agghiacciante, Derek che era fatto di puro sangue caldo lo sentì raffreddarsi tutto insieme, schegge che lo ferivano.

Sentì il liquido plasmatico cominciare a scorrere, l’odore ferroso che gli appestò l’olfatto, coprendo l’odore spumeggiante e frizzante di Stiles; correre a bloccare i suoi gesti avventati e dannosi a se stesso fu l’unica azione che si permise di portare a termine. «Va tutto bene. Non le permetterò di trovarti» si macchiò del fiume vermiglio dell’umano, le dita che teneva maldestramente tra le sue, bloccandole in aria, lontano dalle ferite superficiali che si era infetto. «Resta con me, sarai al sicuro».

Stiles scoppiò a piangere, scosso da singhiozzi silenziosi, ma nemmeno quello lo svegliò e Derek se lo strinse tra le braccia, stretto al petto, protetto dal freddo di cui era ricoperto il suo organismo vestito da un pigiama primaverile. «Non ti farà del male».

Derek era terrorizzato dalle circostanze, da ciò che non conosceva, dalle azioni lesioniste di Stiles che prendevano il controllo quando lui era completamente assente, ma non poteva permettersi di esserlo e condusse nuovamente la matricola all’interno del suo appartamento, all’ultimo piano del 1855 Place, sistemandolo sul divano e cominciando a ripulire tutto il sangue che risiedeva su entrambi e sui piedi tagliati dal percorso; un asciugamano bianco che si impregnò di cremisi, abbandonato sullo schienale di una sedia attorno al tavolo da pranzo. Cicatrizzò le ferite a cui aveva assistito venir create, assorbendo il dolore fisico di Stiles, le vene nere che si tingevano per privarlo di quel fardello, ma non poteva fare niente per il dolore mentale ed era qualcosa che lo faceva sentire completamente superfluo.

Lo portò di peso sul letto, a scalciare malamente le coperte per distenderlo al meglio, accomodandosi di fronte a lui, coprendolo con accuratezza e rimanendo a fissarlo per qualche istante. Nel momento in cui Stiles aveva toccato il materasso era sprofondato in un sonno autentico, che non aveva la pretesa di distruggerlo o di tentare di esorcizzare i suoi demoni a modo proprio.

Il viso era ancora rigato dalle lacrime e Derek le asciugò con le punta dei polpastrelli, respirando pesantemente d’angoscia. Si inoltrò verso di lui, il fiato di anidride carbonica su di sé, le braccia che lo strinsero leggermente a sé, con la speranza che quello potesse evitare futuri attacchi ai danni di se stesso che Stiles poteva compiere in qualsiasi momento e gli schioccò un bacio proprio al centro della fronte, in un gesto di depurazione e conforto, accostando la propria alla sua, le iridi verdi incapaci di separarsi dal viso dell’umano più forte che avesse mai incontrato.

Ma qualcosa stava lacerando Stiles, così tanto da perdere il controllo quando era senza barriere con cui difendersi. «Ti tengo al sicuro».

 

Non voleva aprire le palpebre, affacciarsi al nuovo giorno, si sentiva talmente stanco, come se avesse vissuto cento vite nella notte. Era anche sicuro di avvertire il ricordo di un dolore che in quel momento non riusciva più a captare, i suoi sogni non erano mai stati gentili con lui, somatizzava tutto quello che nella linea vitale si era ritrovato ad affrontare, rielaborando ogni attimo, bersagliando la mente al limite della sopportazione. Svegliarsi si collegava automaticamente alla domanda che continuava a ripetersi, non certo di nulla: era reale?

Il fruscio accanto a sé lo scalfì e gli occhi si specchiarono in quelli di giada, attenti e svegli. «No» proferì con orrore, la concretezza che gli veniva gettata addosso, senza dargli l’illusione di poter fraintendere. «È successo ancora» si nascose la testa tra le braccia che andarono a circondarla. Non ne poteva più, non riusciva a liberarsi.

Derek perdurò nel silenzio, fermo nella sua posa statuaria, la meditazione che si prorogava. «Da quanto va avanti?».

Il capo dell’umano scattò e gli arti superiori si scostarono appena, mostrando le iridi del nettare degli dei. Apparvero interrogativi per un primo momento, ma sapeva che quella domanda era dietro l’angolo, sopita, indecisa se prendere vita. Il giorno prima Derek gli aveva mostrato un rispetto che nessuno gli aveva mai dedicato, come tante cose che provenivano dalla sua direzione, eppure per quanto tempo avrebbe potuto rimanere in silenzio e limitarsi a guardare? «Sei mesi, perlopiù» era consapevole che il mannaro non fosse stupido o sciocco, che avesse capito che Stiles fosse ben consapevole di che cosa fosse accaduto nelle due notti trascorse, quale morbo lo stesse bersagliando. Fingere era solo uno spreco di energie che non si poteva permettere.

«Chi altri lo sa?» non si perse in giri di parole, non lo faceva mai e si ritrovò da Stiles uno sguardo perplesso, di chi non capisse a cosa esattamente si riferisse. «Ti conosco, i tuoi problemi li tieni per te».

Lo conosceva? Stiles era piuttosto dubbioso di essere mai stato sotto il mirino delle attenzioni di Derek. In realtà, il mannaro non ne aveva per nessuno, era troppo chiuso in sé, nel cordoglio che portava avanti da solo. Nemmeno Laura fin troppo spesso riusciva a scalfire la barriera che aveva istaurato. Era amareggiata, cercava di dare il meglio di sé, scuotere il fratello minore dall’oscurità in cui si era rinchiuso; finché erano rimasti a Beacon Hills non aveva mai riscontrato dei risultati vincenti, ma era cambiato qualcosa cambiando aria? «Soltanto mio padre» eppure Derek l’aveva descritto così diligentemente, riassumendo un aspetto caratteriale che difficilmente altri avevano notato, come il suo branco, che aveva dovuto sbatterci contro prima di capire con che cosa avessero a che fare.

La creatura della notte serrò le labbra, come se dovesse trattenere un commento acido e di rimprovero che avrebbe espresso se non si fosse contenuto, Stiles sapeva di meritarselo, ma era una sua scelta e non la voleva contestata. «Devo uscire presto oggi» disse invece, rimandando la conversazione che Stiles sapeva un giorno avrebbero intrapreso, ma non voleva che quell’occasione arrivasse mai. «Prendi quello che ti serve» Derek si alzò immediatamente, il torace scoperto ed i pantaloni sempre presenti.

Stiles lo vide volatilizzarsi, con un cambio in mano, nella direzione della doccia e senza aggiungere altro.

Rimase allibito sul letto, il fiato trattenuto dentro la trachea e la pesantezza della mente che non demordeva. Si nascose con tutta la testa sotto le coperte confortevoli per un tempo riguardevole, ancora impregnate dal calore che lui e Derek avevano creato.

 

«Non posso credere che Derek ci abbia messo un’intera settimana per dirmi che eri qui» Erica gli arrivò alle spalle, seduto ad uno dei tavoli dello Starbucks principale del campus.

Si accomodò davanti a lui, un libro di storia dell’arte a far presenza, i lunghi boccoli dell’oro che oscillavano, insieme al rossetto rosso che immancabilmente chiudeva il cerchio, rappresentandola. «Ci sei anche tu?» forse era stato colpito da un ictus e non si era ancora svegliato.

«Certo» affermò con ovvietà la bionda, sminuendo la situazione. «Non potevo lasciare quel lupo musone da solo».

Già, nemmeno Stiles l’avrebbe fatto se fosse stato in lei. «È bello vederti» improvvisamente era lui a sentirsi meno solo.

«È bello anche per me» Erica ammiccò spudoratamente e il figlio dello sceriffo non ne fu per niente turbato.

Erica non era di Beacon Hills, ma della città vicina. A tredici anni fu morsa da un Alpha di un branco di passaggio che voleva soltanto divertirsi, sminuire la fragilità umana, vedere se sarebbe sopravvissuta al morso, al veleno che le avrebbe iniettato. Si fecero delle grasse risate mentre lei pativa atroci sofferenze per vincere sul morso, controllare la trasformazione e avere la meglio. Quando il morso attecchì, non si presero alcuna briga nei suoi confronti e la abbandonarono a se stessa senza insegnarle nulla, come sopravvivere in quel mondo di pazzi che li prendeva continuamente di mira.

La trovò Talia Hale soltanto giorni più tardi, mentre Erica cercava di portare avanti la sua classica vita, non far preoccupare i genitori, inserendo problemi su problemi.

Talia la condusse all’interno del branco Hale, le insegnò tutto quello che le serviva conoscere e divenne la sua Alpha. Aveva la stessa età di Derek e lo seguiva ciecamente come se fosse lui il suo capo branco. Anche quando tutto era andato in fumo, Erica non aveva abbandonato il lupo divenuto orfano. Stiles ne riceveva una prova perfino in quel momento così distante dal tempo.

«Come procede lì a Beacon Hills?» gli chiese la mannara, l’interesse che si faceva strada.

«Per adesso meglio» non voleva dilungarsi, dirle esattamente cosa fosse accaduto, fin dove si fossero spinti.

Erica lo scrutò svisceratamente, come se sapesse che non fosse affatto vero, che qualcosa Derek doveva averle farfugliato. «È andata così male?».

«Sì» la sopravvivenza era l’unica medaglia che avevano ottenuto e non tutti c’erano riusciti.

«Mi dispiace di non essere stata presente» lei lo disse con sincerità, c’era rammarico e tristezza.

«Ognuno doveva seguire il proprio branco» erano stati loro a suggerirgli di andare, di riscostruirsi una vita lontano dalla cenere che non gli permetteva di respirare, che se la sarebbero cavata alla grande e che non avevano più bisogno dell’ala protettiva in cui li avevano messi.

«Sì, e Derek è il mio» non c’erano mai stati dubbi su quello, tuttavia Stiles si era sempre chiesto la motivazione. Era stata Laura ad ereditare gli occhi rossi del potere, il ruolo da capo branco, ma non li aveva mai usati se non in situazioni strettamente necessarie, come quando doveva insegnare a Scott a controllarsi durante la luna piena o in attacchi d’ira improvvisi.

Erica provava affetto e rispetto per la maggiore degli Hale, eppure non aveva seguito lei.

«Ehy» due nuove figure si presentarono accanto alla mannara, uno era un ragazzo afroamericano molto massiccio e possente e l’altro era un ragazzo dalla carnagione pallida che poteva fare a gara con la sua.

«Ciao» li salutò Erica con affabilità, agitando una mano per rincarare la dose. «Oh, questi sono Boyd e Isaac» li indicò diligentemente, come se non potesse non presentarglieli. «E lui è Stiles».

«Stiles?» ripeté interrogativo quello che la matricola individuò dalle indicazioni gestuali della lupa come Isaac. Non era sorpreso che la gente trovasse strano ed ostico il suo nome, non era lusinghiero, ma non l’avrebbe mai scambiato con quello che era stato depositato all’anagrafe. «Quello Stiles?».

Sulla bocca cremisi della mutaforma si dipinse una curva piena di sottintesi, pericolosa fino al midollo. «Proprio lui».

Stiles era sicuro di essersi perso qualche frammento per strada, soprattutto quando Isaac e Boyd indirizzarono entrambi i loro sguardi sulla propria persona, scrutandolo come se dovessero attingere a tutti i segreti che erano racchiusi in lui. Non riusciva proprio a decifrare che tipo di interesse gli avesse scatenato. «Ti prendiamo il caffè» annunciò Boyd nella sua pacatezza, tagliando corto e trascinandosi l’altro ragazzo appresso. Erica li salutò con un ciao ciao della mano.

«Sai, Derek ha incontrato Malia» la creatura della notte se ne uscì con una bomba pronta ad esplodere senza avvisare. Posò i suoi occhi castani su di lui e vi si inchiodarono.

«Davvero?» non sapeva perché ne fosse così sorpreso, doveva essere un’azione automatica dopo che lui e Scott la trovarono nella foresta trasformata in coyote, forma che mantenne per nove lunghissimi anni. Peter Hale l’aveva cercata per diciassette interminabili anni, ma non era mai riuscito a scovarla da nessuna parte, con i ricordi che gli erano stati strappati da Talia, senza lasciargli un nome o un volto, anche soltanto un palliativo di un odore. Era una ricerca cieca infruttuosa. Ma dopo averla ricondotta a lui e atteso che si ristabilizzasse, Peter le aveva chiesto di seguirlo a New York, dove voleva trasferirsi per ricongiungersi alle vicinanze di Laura.

Malia aveva guardato proprio lui, Stiles, come se si aspettasse che avesse una risposta per lei, che la incitasse o le chiedesse di rimanere, ma il figlio dello sceriffo sapeva cosa fosse meglio per lei e le suggerì di andare. Non era mai tornata sui suoi passi e quello che era iniziato tra loro sotto l’influenza del Nogitsune svanì com’era cominciata. «E com’è andata?» chissà che cosa si provava a scoprire di avere una cugina persa di cui non si conosceva l’esistenza. Dava una sorta di sollievo sapere che il ramo Hale in qualche modo era ancora in piedi, che non erano soltanto in tre in tutto il mondo, ma che qualcuno di nuovo si fosse aggiunto?

«Mh, non troppo bene» rivelò accigliata, anche se in qualche modo sembrava comprendere perché non funzionassero. «È successo soltanto una volta, poco dopo essersi trasferita» erano passati diciotto mesi da quel giorno.

«Perché? Cos’è andato storto? Sono piuttosto simili» silenziosi e bruschi, ma poteva davvero stupirsi? Derek era la persona meno socievole che conoscesse, capace di incenerire con un solo sguardo e Malia era parecchio particolare, molto istintiva e diretta, non aveva freni inibitori.

«Già» Erica fissò un punto imprecisato sulla parete accanto a loro, una mano laccata di rosso sotto il mento a sostenerlo. «Forse è questo il problema, sono troppo simili».

La matricola di criminologia avrebbe voluto indagare, scoprire quale fosse la problematica che li rendeva incompatibili, ma la voce soffusa e piena di conoscenza della lupa mannara, che lasciava sottotesti inespressi, la fece desistere.

«Vuoi sapere la novità, Erica?» domandò retoricamente Isaac, sedendosi accanto a lei, mentre la lupa si scostava per fargli spazio, con l’euforia nella voce. «Hanno appena nominato Derek come capitano».

«Ma è grandioso» esclamò euforica la ragazza, afferrando il bicchierone che l’afroamericano le porse. «Due su due».

«Ci ucciderà» realizzò Boyd rassegnato sedendosi accanto allo studente del primo anno, osservando l’email di conferma sul cellulare, i giocatori presi all’interno della squadra ed i ruoli che gli erano stati assegnati. I provini si erano svolti soltanto quattro giorni prima ed era evidente quando avessero fretta di ricominciare ad allenarli, in tempo per il primo campionato che sarebbe cominciato di lì ad un mese. Derek era piuttosto severo come capitano, come lo era in ogni campo, ma sapeva sempre come portarli alla vittoria.

«Mi aspetto una tripletta il prossimo anno» si sbilanciò Isaac, euforico come se il titolo fosse andato anche a lui ed Erica sorrise in accordo.

«Capitano?» si vide costretto a chiedere Stiles, completamente esclusivo dalla felicità orgogliosa dei tre, credendo ciecamente al ruolo che era toccato a Derek. «Capitano di cosa?».

«Basket» sintetizzò in una sola parola Boyd, l’essenziale che aveva valenza.

Ed in effetti ne aveva, a Stiles non serviva altro. «Certe cose non cambiano mai» disse con un sottofondo di stupore, anche se non avrebbe affatto dovuto provarlo. Stiles l’aveva osservato giocare per due anni, sugli spalti a non perdersi una sola partita, osservandolo vincere senza fatica, l’esclusivo protagonista indiscusso. Era l’unico scenario in cui lo vedeva davvero felice.

«No, certe cose non cambiano mai» asserì la lupa, un sorso che prese dal suo bicchiere fumante, le iridi scure che si posavano pensierose ed assolutistiche su quelle di ambrosia, in una verità incontrovertibile. Ma Stiles avrebbe voluto sapere di quale verità si trattasse.

 

All’età di sedici anni Scott fu morso da un Alpha solitario ed abbandonato che con disperazione cercava l’antico branco Hale, all’oscuro della loro dipartita.

Non l’aveva trovato ed era riuscito a beccare un indifeso Scott mentre era in balia di un attacco d’asma. Laura non avrebbe mai potuto prevederlo né impedirlo.

Laura e Derek erano rinchiusi nel loro dolore, mezzi ciechi e non completamente in totale accordo con la natura che li circondava; erano completamente sopraffatti, anche se la nuova Alpha cercava di tenere intero ciò che era rimasto, occuparsi della grande responsabilità che le era toccata.

Alcuni mesi prima della fine del primo anno da liceale di Derek, quindici anni, la tenuta Hale aveva preso fuoco. Undici persone erano morte.

Laura era tornata da New York, in cui frequentava il secondo anno di college, ed era rimasta per diventare la tutrice del fratello minore, abbandonando gli studi e rimanendo a Beacon Hills, continuando a portare a compimento il compito che generazioni di Hale si erano ritrovati sulle spalle, a sorvegliare la cittadina di cui erano i fondatori e protettori. Laura aveva fatto molti sacrifici e nessuno le aveva dato la colpa quando non era riuscita ad intercettare l’Alpha che aveva trasformato Scott – non l’aveva nemmeno sentito arrivare –; si era impegnata e prodigata per essere la migliore guida per il nuovo lupo mannaro, eppure non gli aveva mai imposto di aggregarsi al suo branco e Scott, inaspettatamente, ne aveva creato uno proprio, in cui Stiles figurava al suo fianco, rivelandosi un maestro perfino migliore di Laura stessa. Lei ne era rimasta stregata.

Chi invece rimaneva sul bordo, nell’ombra, sordo ed infastidito dalla loro presenza, era Derek stesso.

Non li guardava, non voleva mai stare in loro presenza, non voleva che gli parlassero e non era mai nei dintorni quando loro giravano intorno a sua sorella maggiore. Si limitava, a volte, a lanciargli sguardi di sufficienza, ad esprimere quanto fossero ridicoli e se Scott, magnanimo ed ingenuo lasciava correre, Stiles non era dello stesso avviso, rispondendogli con tono mordace e sarcasticamente pungente. Laura rideva saputa e Derek si imbronciava tradito perfino da lei.

Ma Derek era un fantasma, la profonda ferita che si portava dietro il figlio dello sceriffo la vedeva benissimo, come se fosse la propria – e ne possedeva una simile. Il lupo era solo una linea tratteggiata su un margine o quantomeno era quello che voleva essere. Non era mai a loro disposizione, non accorreva mai in aiuto e era sordo ad ogni loro richiesta ed in realtà non avevano alcuna aspettativa in proposito.

«Perché sei qui?» gli aveva chiesto una volta Derek a denti stretti, esasperato di trovarlo dove non doveva essere, una palla da basket tra le mani, appena afferrata dopo il suo ultimo perfetto canestro nella palestra della scuola.

Era il suo ultimo anno, Stiles non l’avrebbe visto probabilmente mai più. «Mi piace guardarti giocare» non credeva fosse un segreto, si era ritrovato a tifare per la squadra di basket fin dal suo primo anno da liceale – molto di più di quanto facesse con la propria di lacrosse – e non aveva desistito nel secondo, anche dopo aver scoperto quanto Derek Hale fosse una persona scomoda. Sapeva riconoscere il talento e adorava ammirarlo. «È il momento in cui sei più felice».

Derek era ammutolito, come se tutta la saliva nella bocca fosse evaporata e fosse troppo secca per poter articolare qualsiasi cosa avesse voluto comunicare. Si ripresentò uno di quei momenti in cui il mannaro lo guardava in quel modo speciale, come se riuscisse a vederlo davvero, mentre persisteva a ribadire il contrario. «E qual è il tuo momento?».

Oh, Stiles si era ritrovato piacevolmente stupito e sbalordito, ricevendo per la prima volta una domanda di interesse dal grande lupo cattivo solitario. «Te l’ho detto, mi piace guardarti giocare, Sourwolf» ammiccò senza pudore, le labbra che si distendevano in una curva sfacciata, le gemme d’ambra che scintillavano fomentate, a manifestare quanto fosse una volpe astuta che adorava dilettarsi. «Mette tutto in prospettiva vedere un lupo acido come te accogliere la vita» anche se era evidente che la disprezzasse e rinnegasse, che si limitasse a far trascorrere il tempo, senza sapere davvero cosa farsene, se avesse dovuto investirlo e trasformarlo in qualcosa.

Derek roteò gli occhi annoiato dalla scaltrezza sporca che Stiles aveva palesato, stuzzicarlo come si permetteva di fare solo per risultargli scomodo. O per riempire un vuoto incolmabile. «Sei fastidioso come pochi».

Stiles gli riservò il suo sorriso compiaciuto, la vittoria che sapeva essere dalla sua parte. «Più tardi saremo tutti a casa vostra».

«Non ci sarò» rabbrividì al solo pensiero di ritrovarsi l’appartamento che condivideva con la sorella invasa da sedicenni senza limiti, infrangendo ogni spazio personale.

«Lo so» la piega sul viso del figlio della massima autorità di Beacon Hills si fece più morbida ed accondiscendente, consapevole che la creatura della notte avrebbe preferito essere ovunque nel mondo che con loro. «Ti aspetteremo lo stesso» Derek non si presentò né quel giorno né in quelli futuri, evidenziando il suo malcontento, eppure Stiles non desistette mai e continuò ad attendere – era, infine, arrivato al Michigan State University il momento in cui Derek l’avrebbe finalmente raggiunto?

Mesi dopo avevano detto a Laura che era giunto il giorno di lasciare Beacon Hills e riprendere la vita che aveva messo in pausa tre anni prima, che erano capaci di cavarsela da soli e che gli aveva insegnato tutto quello che serviva loro. Che era sopraggiunto il loro turno di badare a quella cittadina particolarmente turbolenta attorno al sovrannaturale. Che l’avrebbero contattata se avessero avuto bisogno del suo aiuto, di qualche dritta.

Lei era quasi scoppiata a piangere per il sollievo, l’enorme macigno sul petto che non le dava tregua.

Si era presa del tempo prima di decidere di preparare le valigie, lasciare la città dopo che Derek si sarebbe finalmente diplomato, pronto per affrontare un nuovo capitolo: il college.

Ma le cose si erano messe tremendamente male quando i due Hale avevano lasciato quella località dannata e concordarono che il momento di chiedere aiuto a Laura non arrivasse mai.

 

Stiles non si sorprendeva più di ridestarsi accanto a Derek Hale, nel suo letto e nel calore che irradiava. Era l’ottava mattina, di seguito, non era confortante. Voleva significare che il suo sonnambulismo non si era preso nemmeno un giorno di ferie e quello preoccupava l’umano oltre ogni misura.

Una volta aveva delle tregue, notti in cui suo padre non doveva uscire nel cuore della notte o abbandonare il posto di lavoro per riportarlo in casa, all’interno di quello che si riteneva essere un posto sicuro. Riprendere fiato e illudersi che l’alta marea fosse passata. I cambiamenti che aveva affrontato in quelle prime giornate universitarie erano stati talmente grandi e destabilizzanti da mandarlo completamente fuori fase?

Quando aprì le palpebre, Derek le teneva ancora serrate, come se si stesse godendo gli ultimi istanti di quiete. Si chiese quanti fastidi gli arrecasse, in che stato lo trovasse e quanto tempo gli occorresse per guadagnarsi la sua fiducia, conducendolo nell’appartamento. «Ho saputo che ti hanno nominato capitano» sapeva fosse sveglio, aspettava soltanto un cenno dal suo ospite improvvisato. A volte si domandava se Derek dormisse mai davvero, se riposasse con lui accanto a riempire le sue preoccupazioni, i sensi sempre in allerta per captare tutto quello che li circondava. «Per la seconda volta».

Le perle di giada si mostrarono, la tranquillità che si dissolveva; Stiles si sentì un po’ in colpa. «Sì?».

Non era una vera domanda, Derek gli stava soltanto dando corda, come se non gli importasse affatto la carica che era riuscito a ricoprire, ma Stiles sapeva quanto in realtà ci tenesse, quanto fosse portato per quel ruolo. «Me l’ha detto Erica e… le sue guardie del corpo» non sapeva davvero in che altro modo avrebbe dovuto classificarle.

Il mannaro innalzò un sopracciglio con scetticismo e quella era l’unica risposta che avrebbe avuto da lui. «L’hai incontrata».

«Sì» continuava ad essere incredulo. «È così strano avervi qui».

Il viso perfetto di Derek si increspò e la percezione cambiò. «Sento la paranoia che avanza».

«Sono solo i miei sensi che si attivano» Stiles abbozzò una piega ilare, il ghignetto non davvero sentito che faticava a farsi strada. Lo destabilizzava realizzare quanto il mutaforma fosse attento a lui, come riuscisse ad identificare le sue particolarità e dargli un nome. «Sono successe troppe cose per limitarmi a catalogarle come coincidenze, un mondo troppo piccolo».

«Eppure lo è» sentenziò la creatura leggendaria, imperturbabile.

Il figlio dello sceriffo prese un lungo respiro, raccogliere le immagini che erano rinchiuse in un cassetto speciale, uno che non doveva essere aperto. «Ti ho parlato di questo posto soltanto una volta. Anzi, credo sia stata la nostra prima ed unica vera conversazione».

«Magari è l’unico college che mi abbia accettato» la voce era seria, eppure c’era una nota di diletto nascosta sotto.

Stiles sbuffò una mezza risata derisoria, non credendogli affatto. «Ritenta, sarai più fortunato».

Derek sembrò meditarci su per qualche secondo, ma era tutta una recita. «O mi hai semplicemente ispirato».

La trachea si svuotò e il fiato divenne rarefatto. C’era qualcosa che gli sfuggiva, la riverenza con cui Derek gli sfiorava l’animo. «Non pensavo mi vedessi in questo modo».

«E come pensavi ti vedessi?» il mutaforma appariva evidentemente interessato, in attesa. Stiles non sapeva proprio cosa si aspettasse da lui.

«Non mi vedessi affatto» lo sconforto e la stretta al petto che avvertì erano del tutto inaspettate, non ne capiva minimamente la ragione, erano sfuggite al suo controllo come tutto il resto di se stesso, incapace di comprendersi. Continuava a perdersi, a non avere idea di chi fosse.

Un pollice di Derek si avvicinò al setto nasale, poggiandolo all’altezza degli occhi, a distendere delle pieghe contratte di cui era l’unico spettatore. Lo stupore nella matricola fu grande, così come il beneficio di cui si appropriò. Era mai stato toccato così? Le sue membra si rilassarono quasi immediatamente, radicandosi in sé. Si rendeva conto che in quei giorni di convivenza forzata si stava abituando troppo in fretta alle attenzioni che la creatura leggendaria gli dedicava, si lasciava trasportare e ne traeva ogni vantaggio quasi il corpo ne avesse accettato ogni contorno in una memoria che non gli apparteneva. Non si poneva nemmeno più interrogativi su quanto fosse facile interagire in quel modo tra loro due, perché non venisse colpito da un attacco di panico ogni volta che veniva sfiorato dalla creatura della notte. «È necessario conoscere la risposta?».

«Le risposte sono importanti» essenziali, fin troppo spesso. Si accaniva a discapito di sé per ottenerle, per trovarle e scovarle. «Mi aiutano a scoprire il mondo, a svelarlo» a sapere cosa ci fosse in serbo per lui, da chi dovesse guardarsi e chi trascinare con sé.

«A volte, le risponde non sono la soluzione» il mannaro fu lapidario e c’era tanta sofferenza in sé, l’incapacità di poter tornare indietro.

Stiles si rimpicciolì sotto il suo tocco, alla consapevolezza che si accendeva interamente in lui. A Derek non era servito conoscere perfettamente la risposta del male che gli aveva sottratto la sua famiglia. Una verità che Derek custodiva gelosamente dentro di sé, punendosi all’inverosimile e che, per qualche stranissima ed improbabile ragione, aveva confidato soltanto a Stiles. Erano i soli in tutto il mondo. «Derek».

L’afflizione che fu rinchiusa nel pronunciare il nome del licantropo Derek la accolse e scacciò via accarezzandogli una tempia stremata. «Non ho risposte, ma nessuno sta complottando contro di te».

Stiles aveva talmente tanti dubbi, che avrebbe voluto tormentarlo di domande, esigere delle spiegazioni più approfondite, la sua paranoia aveva delle basi solide dopo tutto quello che era accaduto, ma poi il mannaro gli avrebbe rivolto a sua volta dei quesiti a cui non voleva rispondere. «Parlami degli energumeni che seguono Erica» anche se definire Isaac in tale maniera era alquanto errata, sembrava esile e altissimo, eppure dava la sensazione che potesse divenire aggressivo in qualsiasi momento ‒ aveva afferrato che quest’ultimo studiava veterinaria, mentre il colosso di muscoli medicina osteopatica. «Sono dei lupi anche loro?».

Derek persistette nel silenzio, era breve e calcolato, come se le sue sinapsi fossero allenate a seguire il flusso di pensiero continuo della matricola nel caso fosse stato necessario. «Sì» non sembrava preoccupato che la sua attenzione fosse stata catalizzata da un’altra parte, era come se ci fosse un tacito accordo, di non scoprire il vaso di Pandora. «Storia simile».

«Oh» perché continuava a stupirsene? Di Alpha bravi ne esistevano davvero pochi e lui lo sapeva fin troppo bene, oltre alla storia appresa su Erica e quella vissuta sulla propria pelle attraverso Scott, si erano ritrovati ad affrontare un branco di Alpha che voleva acquisire soltanto potere su potere, facendo del male a tutti gli altri. Vite stroncate, vite distrutte. Era tutto sempre per puro divertimento della fame di chi potesse permettersi di sentirsi superiore a chi si aveva di fronte. «Per questo la seguono? Si sono trovati» anche se non era di lei che avevano parlato per tutto il tempo che aveva trascorso con loro.

«Possibile» il mannaro era distaccato com’era sua caratteristica, non c’era nulla che potesse turbarlo. «Non mi pongo il problema».

No, da Derek non si aspettava niente di diverso. A volte si chiedeva se ci fosse qualcosa che potesse scuoterlo. «Sono stati loro ad informarci della tua nomina» il cellulare in mano, a scorrere tutti i nomi appartenenti alla squadra. A Stiles non era arrivata un’email del genere, dubitava gli sarebbe mai giunta.

«Mh» mormorò Derek come se quello non avesse nessuna importanza e gli scivolasse addosso, era catalizzato sullo studente di criminologia, il polpastrello a sfiorargli quella tempia corrucciata. «Fanno parte della squadra» non lo trovava insolito, come non lo erano i giochetti che Stiles compieva per strappargli la verità.

, aveva senso. «Sono piuttosto orgogliosi di te» l’aveva notato subito, il rispetto, l’entusiasmo, quella certezza cieca in cui confidavano.

«Sì?» era un piccolo interrogativo, un desiderio di conoscenza che non aveva ancora mostrato, le iridi verdi pizzicarono di blu e rosso e Stiles ne rimase vivamente intricato, chiedendosi come potesse esistere un fenomeno come quello.

«Sì» confermò con sincerità il figlio dello sceriffo, l’attendibilità della sua capacità di osservare il prossimo. «Non è Erica che seguono. Seguono te».

Le dita di Derek si fermarono e scivolarono tra le ciocche castane di Stiles, immobili a trattenerle. Gli occhi erano più severi e non più permissivi, gli intimarono di trattenere certe sciocchezze al suo interno. «Non sono un Alpha».

«Eppure Erica ti vede così» a volte si era chiesto se lei riuscisse a sentire qualcosa di particolare nel lupo tormentato, a cogliere qualcosa che agli altri non era permesso ancora vedere.

«Erica è invadente e non oggettiva» Derek in tutti quegli anni non se n’era ancora fatto una ragione. «Soprattutto è inopportuna».

Inopportuna perché in realtà quel ruolo lo ricopriva Laura? «Ti vuole bene» su quello c’era poco da sindacare, Derek non avrebbe mai potuto negarlo o rinnegarlo. Stiles aveva osservato spesso l’affetto che gli riservava, anche se normalmente la cacciata via malamente. Penetrare quel cuore nero di pietra era una faticaccia impari, ma la bionda rimaneva stabile nella sua posizione, a far sentire che non l’avrebbe abbandonato mai.

«Così sembrerebbe» lei c’era stata quando tutto era andato in malora, quando Derek aveva perso ogni cosa, ogni parte di sé. Aveva rispettato il silenzio in cui si era racchiuso, non permettendo mai che rimasse un solo spiraglio che concedesse a qualcuno di insinuarsi. L’aveva seguito perfino lì, nella nuova vita che tecnicamente avrebbe dovuto costruirsi.

Stiles tacque per alcuni momenti, lo sguardo fisso in quello del mannaro a costatare quanto potesse spingersi oltre. «Nemmeno a lei hai detto nulla?» era pericoloso far prendere forma a quel quesito, ma della vita di Derek non sapeva niente da quando aveva lasciato il suolo di Beacon Hills.

Le labbra della creatura della notte si serrarono, in una linea sottile, l’eloquenza nelle gemme di giada che si inasprirono. «No» tuttavia le sue falangi erano ancora tra i capelli dell’umano, come incapaci di separarsene.

Stiles si ritrovò ad annuire nella sua presa, aspettandosi esattamente quella risposta. «Anch’io» non l’aveva mai ritenuta una cosa sana, ma era qualcosa che apparteneva a Derek, al modo in cui si era aperto a lui, ritenendolo l’unico meritevole a cui avrebbe potuto rivelarlo. «Ho mantenuto il segreto».

Il pollice gli accarezzò il padiglione auricolare, con una tale delicatezza che Stiles avrebbe potuto piangere. Delicatezza e Derek erano due concetti che non potevano coesistere nella stessa frase, eppure Stiles ne stava venendo ricoperto, come se fosse il solo catalizzatore su cui potessero concretizzarsi. «Sei sempre stato bravo a custodirli».

Forse lo era anche troppo, non sempre aveva giocato a suo favore, ma il segreto di Derek era qualcosa che non poteva rubargli. «Sono ancora dell’idea che dovresti dirle la verità» non stavano più parlando della bionda pericolosa che seguiva il licantropo con fiducia, ma della Alpha che vegliava su di loro perfino a chilometri di distanza.

La mano di Derek questa volta si arrestò davvero e abbandonò la sua postazione, lasciando la matricola completamente scoperta. «No» ribadì, scandendolo chiaramente, l’incisività che prendeva piede. «Basti tu».

Non sapeva bene come si sentisse al riguardo, oltre all’essere lusingato, l’eletto che Derek aveva designato. Non era un segreto che potesse lacerarlo troppo, era già rotto di suo, pezzo dopo pezzo aveva perso varie parti che lo costituivano, ma era consapevole che invece quell’omissione avesse delle ripercussioni sul ragazzo disteso accanto a lui, che ogni notte usciva dal caldo del suo appartamento per trarlo in salvo dalle temperature rigide. «Va bene» spesso si domandava se un giorno sarebbe arrivato a liberarsi da quell’enorme macigno che lo studente di letteratura teneva per sé sulle spalle rigide da quattro intramontabili anni.

Il silenzio perdurò nell’ambiente circostante e Derek era ritornato nella sua posizione impeccabile, a non invadere minimamente lo spazio personale dell’umano; Stiles si ritrovò a realizzare che avvertisse in modo viscerale la mancanza del calore del lupo invaderlo. Era ad un passo da lui, ma era come se tra loro si intromettessero miglia e miglia di distanza. «Stavo pensando…» Derek aggrottò le sopracciglia, a comunicargli che non si aspettasse niente di particolarmente brillante dalla sua parte. «Non stai barando?» il licantropo inarcò una delle suddette sopracciglia che lo invitava ad esplicitarsi e Stiles sapeva bene che potevano intrattenere un’intera conversazione in quel modo. «A Basket. Sei il capitano per il secondo anno di seguito e hai i migliori risultati degli ultimi trent’anni. Sono sicuro che essere un lupo mannaro non sia leale».

«Stiles, non sto barando» si irritò la creatura leggendaria, un mezzo ringhio che chiuse tra i denti, a trattenersi dal volerselo mangiare in un sol boccone.

«Come no» la bocca scarlatta si curvò sardonicamente, l’ombra della volpe subdola e attenta che si manifestava a sferrare il suo colpo. «Come fai a non farti scoprire durante le analisi a cui siete obbligati a partecipare?» li scambiava con qualcuno? Esisteva un trucco?

«Non cercano variazioni genetiche» rivelò il mannaro, stranamente più propenso a scambiare certe informazioni con lui. In realtà potevano ritrovarsi a parlare di tutto e di niente, senza che gli sbalzi di umore intaccassero in qualche modo la fluidità dei dialoghi continuamente modificati. «Ma anabolizzanti, droghe e steroidi» qualcosa che Derek non avrebbe mai toccato nemmeno per sbaglio e per cui provava disgusto, senza contare che non avrebbero avuto nessun effetto su di sé. «E poi non si attivano, se non sono io a volerlo».

«Uao» esclamò Stiles stupefatto, la meraviglia che si disegnava tutta sui suoi tratti facciali. «Siete delle creature incredibili, tutto in voi è stato progettato per proteggervi» il che non era affatto un male, con tutti le insidie che si ammassavano davanti al portone d’ingresso. Avevano continuamente bisogno di essere tutelate e la natura e l’evoluzione avevano fatto di tutto per tenerle al sicuro.

«Già» proferì Derek con amarezza. Purtroppo c’erano dei difetti che non potevano essere corretti, come il peccato di presunzione e il ritenersi invincibili, inafferrabili, immuni a qualsiasi male. Ma il male esisteva ed era ovunque intorno a loro, ad aspettare che abbassassero la guardia o facessero troppo i gradassi. Derek quell’insidia malvagia la conosceva meglio di se stesso e gli aveva sottratto ogni affetto che avesse conosciuto nella vita.

Stiles scivolò verso il lupo che, al contrario suo, aveva l’abitudine di invadere lo spazio altrui. Derek se lo ritrovò ad un soffio di distanza, il fiato bollente che si mescolava. Le sue iridi cangianti risposero all’invadenza e Stiles rilasciò il suo sorriso ammaliante, scacciando tutta l’oscurità che lo stava prendendo di mira. «E dimmi, quanti di voi invadono i campi di gioco?».

Derek ci impiegò qualche attimo a comprendere a cosa Stiles si stesse riferendo, a quanto facile fosse perdere il filo del discorso per poi recuperarlo. «Molti mutaforma giocano tra i professionisti».

«Questo è davvero scorretto» Stiles si imbronciò come un bambino, le pieghe che si disegnavano tutte sulla bocca carnosa.

«Pensi davvero che tutti i mutaforma siano portati per lo sport?» Derek lo fissò con sfida, l’intenzione che vibrava tra loro.

«No» Stiles non dovette nemmeno pensarci più di tanto. Erano agevolati, ma il talento e le capacità, il duro lavoro, erano tutto un altro discorso. «Tu sei sempre stato bravo e guardarti mi piaceva tantissimo».

«Me lo ricordo» nulla di nuovo sotto il cielo, ma aveva continuamente un certo effetto sentirselo dire.

«E anche come capitano sei strepitoso, il carisma non si apprende, lo si ha» Stiles ammiccò impudico, come se avesse prove di quell’aspetto. In realtà Stiles pensava che quella caratteristica carismatica e di perfetto capo Derek l’avesse sempre avuta, ma che la celasse, tirandola fuori solo quando era costretto. Nel basket non si era mai dovuto limitare, era libero di essere esattamente chi era. «Anche tu ambisci a rafforzare le fila dei professionisti?».

«Per niente» l’aria accigliata che Derek assunse sembrava scaturita da un insulto.

«Oh, questo è inaspettato» un po’ gli dispiaceva, ma evidentemente Derek aveva le sue ragioni. «Certo, qualcuno potrebbe notare che non invecchi mai».

«I lupi mannari non sono millenari, invecchiamo esattamente come te» Derek lo riprese, perché non sopportava proprio le frivolezze che Stiles si lasciava scappare, quando era ben consapevole che l’umano avesse fin troppo informazioni sulla sua specie. «Stesso tempo vitale».

Chissà come mai, ma aveva una certa impronta quella precisazione, il modo in cui Derek l’aveva marcata. «Sì, certo, quelle sono le kitsune».

Gli occhi di Derek si ingrandirono e il respiro divenne improvvisamente pesante, come se qualcosa di troppo fosse stata rivelata inconsapevolmente. «Hai incontrato una kitsune?».

«Due, in realtà. Madre e figlia» meglio non specificare che la madre avesse cercato di ucciderlo in ogni modo possibile e immaginabile, mentre la figlia le aveva tenuto testa e avesse fatto di tutto per preservare la sua vita. Stiles riteneva che il prezzo fosse stato comunque troppo alto, a volte si domandava se fosse stato corretto pagarlo. «Scott e Kira, la ragazza, stanno insieme».

«Un lupo e una volpe» la voce di Derek era immutabile, eppure l’entità con cui lo disse Stiles la sentì perfettamente, quella cadenza incredula e anche derisoria, ma non per i due citati, ma nei propri confronti.

«Sì» Stiles purtroppo non era in grado di decifrare ciò che si stava creando nel mannaro, ma era comunque troppo incentrato su di sé, alle memorie che gli affioravano alla mente e che non gli davano tregua. Persino cambiare stato non era servito a nulla.

«Non era innamoratissimo della cacciatrice?» si vide costretto a chiedere il mutaforma. Gli mancavano dei tasselli, ma non credeva così tanti.

«Ah» in un certo qual modo quel innamoratissimo lo fece sorridere internamente, non era per niente un termine che si sarebbe aspettato di udire dall’insensibile Derek Hale dalle parole forbite e altolocate, ma immaginava che volesse semplicemente sottolineare un concetto che entrambi conoscevano. In più c’era quel dettaglio sulla figura della cacciatrice, quanto a Derek fosse stretta e gli facesse male, considerando che fosse direttamente imparentata con quella famiglia. Era una frase semplice, che non nascondeva niente, ma era contenuta tutta la tragedia che Derek aveva affrontato e che ancora non superava né mai ci sarebbe riuscito. «Allison. È morta» e Stiles aveva la sua personalissima tragedia nel cuore.

Le mani affusolate del figlio dello sceriffo tremarono, non riusciva a contenerle, erano la rappresentazione di quanto sopraffatto fosse, quanto il suo corpo reagisse immediatamente a ciò che lo faceva stare male.

Derek lo guardò fisso al suono della sua voce sprezzata, mentre Stiles abbassava il suo per fuggire da una verità che non avrebbe voluto rivelare, alle intuizioni a cui il mannaro sarebbe potuto arrivare da sé, traendo le sue conclusioni.

Derek quelle mani le fermò con le proprie, prendendole e tenendole, una poggiata sul materasso e l’altra sul ventre dell’umano; gli spasmi non sparirono all’istante, ma rallentarono progressivamente. «Basta» fu tutto quello che disse, la voce imperiale e calda che si insinuava tra le sue membra esauste. Era sbocciata la mattina, ma Stiles aveva già il fiato corto e non si era ancora alzato dal letto.

Non era un basta riferito alla situazione, ai tremori che prendevano il predominio e manifestavano l’animo tormentato della matricola, ma a ciò che Stiles era in grado di affrontare quel giorno, il suo limite. Lo stanziò il lupo mannaro, non chiedendo minimamente spiegazioni, quella parte di storia lunga due anni di cui era completamente all’oscuro. Gli occhi d’ambra si aprirono e si ritrovarono a chiedersi chi fosse realmente Derek Hale, il lupo con la morte nel cuore dai suoi quindici anni. «Der-»

Ma non finì di pronunciare il suo nome, che il licantropo dinegò con il capo, a spegnere qualsiasi parola. «Preparo la colazione».

Si alzò soltanto quando i tremori alle mani terminarono, la calma che lentamente serpeggiava dentro il figlio dello sceriffo a ridargli ossigeno.

Depositò ai piedi del letto il cambio di abiti che l’essere umano avrebbe utilizzato e che Stiles individuò come quelli che gli aveva riconsegnato soltanto due giorni prima davanti al dipartimento di letteratura, sparendo subito dopo in direzione della cucina nella sua grazia lupesca.

Stiles era inebetito e non aveva mai provato quella sensazione di sollievo come in quelle prime luci mattutine. La forma di rispetto e accuratezza che Derek gli riservava, corrispondendo i suoi tempi e annullando l’invasività, era qualcosa che colmava, tassello dopo tassello, il suo petto in tumulto e lacerato.

 

 

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Capitolo 3
*** 3° Capitolo ***


3° Capitolo

 

Stiles sapeva che era una pessima idea nel momento in cui aveva accettato di seguirlo, ma era il suo compleanno, compieva diciannove anni, continuava a svegliarsi nel letto di Derek Hale, segno che non vi era alcun miglioramento in corso, e voleva semplicemente scaricare la frustrazione, festeggiare in qualche modo.

Non era stato anticipato da chissà quale forma di conteggiamento, Stiles sapeva di interessargli dal primo giorno in cui si erano presentati ed avevano evitato di girarci attorno. Forse, se avesse preso tempo, avrebbe scelto la persona che gli interessava di più, ma l’offerta che quel giorno si era presentata era stata quella e si era accontentato.

Le spinte di Donovan e le penetrazioni erano state brutali, senza alcuna grazia o attenzione nel farlo stare meglio; erano istintive, guidate dal desiderio di raggiungere il piacere e trarre godimento da quel corpo su cui aveva messo gli occhi quasi subito. Lo percorreva tutto con le mani e con la lingua, gli addentava ogni parte di pelle a cui riuscisse ad arrivare. Stiles l’aveva odiato. Aveva odiato ogni momento con lui. Non aveva goduto nemmeno un secondo.

E pensare che quella giornata era iniziata in modo particolare, imprevedibile, avrebbe osato dire. «Hai diciannove anni» l’aveva accolto Derek, le membra che si ridestavano e gli occhi che sfarfallavano ancora mezzi sopiti. Non permetteva mai che la matricola si svegliasse da sola, anche quando era di fretta aspettava che fosse cosciente di cosa la circondasse e del luogo in cui si trovasse. Con chi avesse trascorso la notte. Era una delicatezza che le impedisse di andare in iperventilazione.

Stiles si era ritrovato a guardarlo stupefatto, impreparato da una tale premura da parte sua. «È vero» fu come se lo realizzasse in quel momento, comprendesse che giornata fosse e data figurasse sul calendario, sfuggendogli completamente dalla memoria che doveva ancora carburare. Ma quella di Derek non ne aveva bisogno e si vide costretto a domandarsi quand’è che avesse appreso il giorno della sua nascita.

Si era sentito contemplato, come se fosse un grande evento o fosse inimmaginabile essere arrivato a quel traguardo ed in effetti per Stiles si era rivelato essere così, ma cosa rappresentava per il licantropo?

Il lupo aveva preparato una colazione da re, pancake a volontà impilati uno sull’altro, sciroppo d’acero e uova con bacon, bottiglie di due tipologie di succo di frutta e il caffè bollente già in tavola. Stiles l’aveva tradotto come il suo modo personale di augurargli un buon compleanno.

Ma il calore trattenuto che Derek gli dava senza pretendere nulla da lui, le imboscate effervescenti di Erica che lo trovavano ovunque, erano offuscate dalla voglia di unirsi a qualcuno che lo stava marchiando a fuoco, inabissandosi in lui e tenendolo ben stretto, le bocche che si univano frementi ed affamate e il sesso sporco che andò avanti più di quanto avesse preventivato. Non era quello che cercava, non era ciò a cui ambiva e non era nel modo in cui piaceva a lui, ma se lo prese comunque tutto.

Eppure si ridestò tra le lenzuola del capitano della squadra di basket, lo sguardo smarrito ed esausto. Le iridi boscose le riconobbe perfino nella foschia da cui non riusciva a defilarsi, la testa inspiegabilmente pesante.

Stiles sconsolato si coprì gli occhi con il dorso delle mani, la luce solare che lo inondava, la schiena distesa sul materasso e gli arti che avevano bisogno di allungarsi. «Credevo che almeno stavolta non sarebbe accaduto».

Derek tacque per qualche secondo, il silenzio che si prodigava per il piccolo appartamento che aveva preso in affitto. «Perché? Cosa è cambiato?».

«Evidentemente niente» sorrise con amarezza, la tristezza che si espandeva in tutto l’organismo. Si sentiva incatenato, non riusciva in alcun modo a serpeggiare via. «Ho disperso le mie energie, le ho catalizzate. Di solito funziona» di solito aveva anche esperienze migliori.

«Forse non è così che funziona» decretò Derek diretto, il dubbio che diveniva concreto.

Lo studente del primo anno scostò appena le dita dalle palpebre serrate, le gemme d’ambra che si posavano sul suo interlocutore. Dove l’aveva trovato quella notte? Dopo essere uscito dalla stanza di Donovan, svignandosela alla meno peggio, percorrendo la lunga strada che lo conduceva al proprio dormitorio e fiondandosi tra le docce comuni a togliersi tutte le impronte che aveva lasciato su di sé, si era gettato sul letto, stringendosi alle coperte, la mezzanotte del nuovo giorno scattata e l’addio a quello precedente, al primo dei suoi diciannove anni. «Sembra così» ma non proseguì, non lasciò sfuggire la domanda allora come funziona?, Derek di conseguenza gli avrebbe chiesto da dove fosse partito tutto.

«Ti conviene tornare a dormire» fu tutto quello che invece il lupo disse, disinteressato. «È sabato, te lo puoi permettere».

Stiles socchiuse gli occhi ancora addormentati, la pesantezza della testa non ne voleva sapere di alleggerirsi ed era ancora intorpidito. «Sarebbe bello» ma quanto era giusto? Quanto si poteva appropriare dei beni di Derek? Se fosse stato nel proprio letto, al Mayo Hall, non ci avrebbe pensato due volte, ma era un infiltrato che il mannaro doveva accorrere a soccorrere perché non riusciva a svegliarsi. «E tu?» si voltò appena verso di lui, la mano che scorreva e scopriva una singola iride ambrata, lo sbadiglio a mezza bocca. «Anche tu dovresti seguire il tuo suggerimento. Non fai altro che inseguirmi, sarà estenuante».

«Non lo è» ma le labbra si chiusero per un attimo, come se esitassero, Stiles avrebbe voluto sapere cos’è che non gli dicesse. «Soprattutto se stai bene».

Bene, chissà cosa significasse davvero. «Sei più gentile di quanto ricordassi».

Derek irrigidì i tratti, annoiato dalle sue considerazioni e Stiles si liberò nella sua smorfia diabolica, le labbra arricciate e pericolose. «Dormi e basta, invece di dare aria alla bocca».

L’umano si sciolse un po’, i nervi che si rilassarono ed i muscoli che smettevano di essere in tensione. C’era qualcosa di rassicurante nel notare quanto il suo interlocutore non fosse minimamente cambiato, che ancora il suolo su cui camminava era solido. Era una piccola prova, ma Stiles ormai aveva soltanto quelle e doveva richiamarle con tutte le forze per non perdersi. «La Camaro parcheggiata qui sotto è la tua?» era un tassello che ogni tanto gli pizzicava la corteccia celebrale, ma non l’aveva ancora appianata. Si era ritrovato spesso di prima mattina a cercarla in uno dei posti auto, ancora assonnato e sopraffatto dagli eventi, come se bisognasse di qualcosa di aggiuntivo che gli lasciasse intendere che effettivamente quello con cui aveva a che fare fosse realmente il Derek Hale che conosceva.

«Sì» confermò il capitano senza prestare attenzione alla sua curiosità viscerale.

«Perché è qui? A cosa ti serve?» benché il campus della Michigan State fosse tempestato di parcheggi e strade asfaltate facilmente percorribili, non intravedeva la necessità di possedere un’automobile al suo interno con la facilità con cui ogni luogo nei dintorni fosse facilmente raggiungibile. Diverso era se si preferiva frequentare luoghi esterni, come il centro città, mete in cui arrivare. Derek non gli sembrava uno che andasse molto in giro.

«Mi ha condotto qui, come ogni anno» si limitò a spiegare il mannaro non dilungandosi.

Le pupille del figlio della massima autorità di Beacon Hills si allargarono leggermente alla nozione acquisita. Non era stupefacente che il lupo preferisse guidare la sua preziosa auto invece di chiudersi dentro una scatoletta sospesa nel cielo ‒ che impiegava quasi un decimo del tempo ‒, ma se la memoria non lo ingannava la distanza tra New Work e l’università del Michigan distava su ruote di circa dieci ore, aggiungendo l’ipotetico traffico e gli imprevisti lungo la strada, le pochissime pause che si conduceva perché non ne aveva strettamente bisogno. Era davvero stupito di quella presa di posizione? Lui si sarebbe comportato allo stesso modo con la sua Jeep azzurra se avesse potuto. «La mia bambina invece l’ho lasciata a Scott. Chissà se la troverò ancora intera».

«Quella carcassa non è mai stata intera» lo punzecchiò il padrone di casa senza lasciarsi scappare l’occasione, un mezzo ghignetto sardonico in un angolo della bocca.

«Ehy» si imbronciò con fervore Stiles, afferrando uno dei cuscini più vicini e tirandoglielo addosso. «Sei un villano» ovviamente lo mancò, ma suscitò una parziale risata in quella belva immonda ‒ probabilmente più per la scelta del vocabolo che per l’azione in sé. Era contenuta, ma lasciò intendere che certe cose sfuggissero al controllo del licantropo, per quella ragione si concesse di studiarlo per qualche momento senza apparire fuori posto o insistente per rinnovare le informazioni che aveva su di lui. «Era di mia madre» la voce si affievolì e si rimpicciolì tra le coperte sentendosi esposto.

«Lo immaginavo» rivelò la creatura notturna, il tono cadenzato. Si prolungò verso di lui e le falangi si annodarono nella chioma castana, il polpastrello del primo dito che gli sfiorava le radici a confine con la fronte. «Dormi adesso».

Era un suggerimento che aveva intenzione di cogliere, maggiormente se accompagnato da gestualità che lo scaldavano così tanto e lo avrebbero potuto fare scivolare nella condizione di produrre delle fusa. «Resti con me?».

Nelle iridi verdi si accesero quelle pagliuzze di zaffiro e rubino, ma il figlio dello sceriffo continuava a non riuscire ad identificarle. «Finché ti sopporterò».

Le bocca di Stiles si arcuò in una piega derisoria per entrambi e tornò a stendersi completamente sulla schiena, la tenda che Derek tirò per impedire che l’Astro d’Apollo li disturbasse troppo e la necessità di mettere a riposo quella continua energia statica che gli scorreva dentro. La matricola non si accorse nemmeno che impiegò soltanto qualche secondo per riaddormentarsi, il calore della creatura della notte che gli invadeva i tessuti perfino quando non lo sfiorava nemmeno.

Riaprì gli occhi tempo dopo, non sapendo che ore fossero e osservando il posto accanto al suo vuoto, sentiva anche dei rumori casalinghi, oggetti spostati, sporteli richiudersi insieme ai cassetti, i passi sul pavimento. Adocchiò la sveglia che sostava sul comodino del mannaro, anonima e basica, le lancette arancioni che scandivano la realtà del mezzogiorno passato da almeno trenta minuti. Sospirò, si sentiva intontito, ma si sgranchì le ossa e balzò sul letto, infilandosi dentro il bagno e schizzandosi la faccia d’acqua fresca che potesse ridestarlo completamente. Prendere fiato e ricomporsi gli richiese del tempo.

Con ancora il pigiama, si diresse verso la cucina, i piedi nudi sul freddo pavimento e la seduzione del divano situato davanti la grande finestra luminosa che lo richiamava a sé. Quasi gli si lanciò di sopra. «Buongiorno, Sourwolf».

«Giorno» lo accolse Derek immutabile, non alzando nemmeno lo sguardo su di lui. «Ti ho lasciato un cambio».

«Grazie» si distese sui cuscini, le braccia che si tiravano per scrocchiare le ossa. Lo aveva seguito quando era precipitato nuovamente nel regno di Morfeo o si era alzato quasi subito, lascandolo alla solitudine? A volte faticava enormemente ad inquadrare Derek, come riuscisse ad essere così paziente con lui, a non sembrare mai disturbato da ciò che gli toccava fare e contemporaneamente esasperato dalla sua persona, ma sapeva altresì essere costantemente preoccupato, glielo leggeva ogni volta scritto sul volto statuario.

«Caffè?» domandò la creatura leggendaria, la porta della lavanderia che veniva chiusa dopo aver spento l’asciugatrice.

«Mh, non lo so. Ho fame» il suo stomaco brontolò come se volesse sottolineare la situazione in cui l’essere umano si trovava e Stiles una volta si sarebbe imbarazzato, ma dopo dodici giorni a svegliarsi nella camera privata di Derek Hale aveva ben poco senso. «Forse dovrei sbrigarmi e uscire a cacciarmi del cibo».

Derek il caffè glielo preparò comunque e glielo consegnò in mano, in una tazza rossa aranciata, la ceramica che gli riscaldò immediatamente le dita, costringendo la matricola a sistemarsi meglio sulla seduta, appoggiandosi allo schienale per non versare la bevanda. Stava cominciando a chiedersi se non fosse il colore preferito del lupo, la tonalità perfetta del manto di una volpe infuocata. «Ho il frigo pieno».

Stiles lo guardò criptico, quell’indifferenza del capitano nel modo di porgersi non lo stupiva affatto, era sempre stato freddo e disinteressato, eppure cominciava a notare quanta cura gli dedicasse, quanto i suoi gesti fossero premurosi, ne era fin troppo deliziato. «Non posso continuare a scroccarti tutto».

Il mutaforma lo guardò come se lo stesse giudicando apertamente. «Non mi cambia niente».

Stiles tacque, non aveva la più pallida idea di che cosa significasse quell’uscita. Davvero non gli creava alcun disturbo condividere qualcosa con lui? Il Derek di due anni prima era di un avviso ben diverso, odiava quando invadevano i suoi spazi e andava lì dove era sicuro non lo avrebbero raggiunto, li guardava anche piuttosto male quando se li ritrovava nel bilocale che Laura aveva comprato e storceva il naso come se il loro odore lo trovasse disgustoso o semplicemente invasivo, fastidioso. «Okay» Derek lo confondeva o forse era lui a confondere il licantropo, non sapeva dirlo con certezza. Di una cosa, però, la certezza l’aveva ed era quel liquido della temperatura perfetta che gli scivolava in gola, la caffeina che gli svegliava il cervello in stasi e la nota di caramello salato che accarezzava le papille gustative.

La prima volta era rimasto sorpreso da quel connubio, la nota che Derek avesse aggiunto senza rendersene conto e che avesse continuato a perpetrarlo in seguito poiché il figlio dello sceriffo non l’aveva mai corretto. Aveva capito che era qualcosa che piaceva molto al lupo e in qualche modo abbracciava la sua essenza, la dolcezza dello zucchero che si scioglieva diventando uno sciroppo ambrato e il tocco del sale che rendeva il gusto corposo, era un po’ come lo specchio di quella vita che gli aveva dato tanto e tolto ancora di più. O semplicemente aveva una predilezione per i sapori decisi e particolari. Stiles avrebbe continuato ad usufruirne finché Derek avrebbe perseverato ad aggiungerlo dappertutto.

Depositò la tazza nel lavandino, i piedi sul tappeto che assorbiva l’acqua in accesso ed attutiva i rumori, e si ritrovò davanti al padrone di casa senza un reale motivo, l’osservava armonizzarsi in quell’appartamento che parlava in uno strano modo di lui senza farlo davvero, perché Stiles si trovasse lì proprio non riusciva a capirlo, quella confidenza che con Derek non aveva mai avuto e che il licantropo non aveva mai permesso si realizzasse, eppure erano legati, ma non riusciva ancora ad inquadrare in quale modo. Derek rispose alla sua occhiata con un interrogativo ben stampato nei tratti facciali, ma Stiles non esternò i suoi pensieri, come non esternava molte altre cose.

Si indirizzò nell’angolo dedicato alla notte, il solo muro della cucina a differenziare gli spazi che riusciva a creare la giusta intimità, anche se Stiles dubitava che a Derek servisse essendo un’abitazione abitabile da una sola persona, tuttavia si vedeva costretto a condividerla in qualche modo con il figlio dello sceriffo. Individuò subito i vestiti che gli aveva anticipatamente depositato in un angolo del letto, quello stesso che era stato monopolizzato dalla propria persona, aggrovigliando le lenzuola. Come facesse Derek a sopportarlo era il vero mistero di tutta quella atipica situazione.

Estrasse la maglia del pigiama, trattenendola per la braccia, come se non sapesse esattamente come procedere o se dovesse farlo; quante volte ancora si sarebbe trovato a rivivere quella scena? In quante si sarebbe svegliato tra le coperte di Derek che lo vegliava in allarme?

«Cos’è?» Stiles non lo sentì arrivare dietro di lui, le gemme di giada che riuscivano a scrutare ogni cosa anche a metri di distanza, le dita bronzee che gli sfiorarono un punto sotto la spalla destra e la scapola, a tracciarne i contorni.

L’umano rabbrividì e si scostò come se si fosse scottato, il capo che si voltava verso di lui e lo fissava senza capire nulla, le iridi di miele giganti ed incredule. «Cosa?» ma Derek continuava a non guardare lui, ma il punto che aveva sfiorato per capirne la natura.

Non vedeva niente, non era così contorsionista da riuscirsi, anche se aveva delle abilità motorie che in genere i suoi partner apprezzavano; continuava ad alzarsi in punta di piedi come se quello potesse aiutarlo.

Fu costretto a sistemarsi davanti lo specchio posizionato nella piccola parete costituita dal muro divisorio, la testa girata nell’angolazione migliore che gli permettesse di osservarsi. «Quell’idiota» esclamò con fastidio, gli occhi che si scurirono, costringendosi a voltarsi del tutto e contare i numerosi morsi che costeggiavano buona parte del corpo. Uno faceva bella mostra di sé su una clavicola e un altro alla base del collo, proprio lì dove la maglietta del pigiama riusciva ancora a nasconderlo. «Grandissimo idiota» tutto il suo torace ne era disseminato, come parte della schiena e la curiosità di controllarsi le gambe e ben altre parti lo inondò, ma non gli parve l’opzione migliore spogliarsi per assicurarsene davanti a Derek. Aveva voglia di far male a qualcuno. «Voglio strappargli i denti».

Derek si silenziò completamente, tanto che Stiles si dimenticò del suono della sua voce. «Non apprezzi i morsi?».

«I morsi?» perché gli appariva così anonimo il tono vocale che il mannaro stava utilizzando? «Non ho detto questo. Non voglio i suoi» ah, ma che cosa stava farneticando?

«Generalmente li vuoi?» era impassibile, ma la nota di interesse risuonò abbastanza forte.

«No. Sì. Dipende» Stiles era piuttosto confuso, non sapeva con esattezza nemmeno più di cosa stessero parlando.

«Dipende?» il tono del lupo si fece più calzante e Stiles aveva giramenti di testa.

«Dalla persona» non poteva credere che stessero davvero affrontando quell’argomento, che Derek stesse tenendo in piedi quella conversazione che avrebbe dovuto concludersi con l’arrabbiatura della matricola. «Perché stiamo parlando delle mie fantasie?».

Lo sguardo del mannaro si fece alquanto scettico, come se interloquisse con qualcuno dotato di poco intelletto. «Fanno parte delle tue fantasie?».

Stiles era sicuro di voler sprofondare nel pavimento e arrivare fino al pian terreno, per scendere ancora e giungere alle fauci dell’inferno. «No, io… non lo so. Non mi ha morso molta gente. Ma di certo non volevo che lui mi lasciasse il calco della sua dentatura».

Derek tacque e lo vide quasi chiudersi, essere incredibilmente distante da sé. Che avesse detto qualcosa di sbagliato? «Ti ha fatto male?».

«Sì» lo studente di criminologia si stupì della domanda, la mano sull’orma dei denti che andava a coprire per alleggerire il fastidio che gli procurava. Muoveva la pelle come se sperasse che sparisse. «Aspetta, in che senso?» dalla postura assunta da Derek, le spalle in tensione, lo sguardo assassino, si sentì chiamato ad approfondire la questione.

«Ti ha fatto del male?» scandì il mannaro a semplificarne il significato, le iridi di giada affilate, quasi pronte ad entrare in azione. «Ti ha fatto qualcosa che non volevi?».

Ah, quello metteva tutto in un’altra prospettiva, soprattutto se Derek era in ansia e pronto a passare all’azione, qualsiasi Stiles avesse bisognato. «Sei molto dolce, Der».

La creatura della notte lo fissò come se vedesse un fantasma, qualcosa di non spiegabile e forse Stiles aveva pronunciato qualcosa in cui il mannaro non si identificava, ma non trovava un altro aggettivo con cui potesse descrivere ciò a cui Derek aveva dato vita, tutta la premura e la gentilezza che gli era stata negata la sera prima, ma anche in tantissime altre occasioni. Se Derek all’esterno apparisse come un essere senza cuore capace di ottenere tutto quello che voleva senza alcun riserbo, la realtà era ben diversa. Perché gliel’aveva nascosta talmente bene da credere di trovarsi dinnanzi ad una delle sue allucinazioni? «È solo stato brusco, per niente gentile. Si è rivelato molto egoista ed eccentrico, una pessima scelta da parte mia» capiva perché il lupo avesse percepito il suo dissenso come un torto che gli era stato arrecato, qualcosa che non voleva gli venisse fatto, non si era espresso nel migliore dei modi ed il suo corpo aveva comunicato in propria vece e Derek era troppo abituato a fidarsi delle emozioni che le persone emettevano, che alle mezze verità a cui le parole davano una struttura. «Il sesso è complicato» il dubbio era sempre dietro l’angolo, il velo sottile che poteva essere frainteso.

«Sì, lo è» l’insinuazione autentica era palpabile e Stiles non poteva ignorare il passato di Derek, le mentite spoglie dei rapporti sessuali che aveva intrattenuto. Ma per Derek non era mai stato esclusivamente sesso, successivamente era diventato un incubo da cui non riusciva a svegliarsi.

«Se avessi percepito qualcosa di diverso o anomalo, sarei andato via» chissà se gli credeva, se la sua stoltezza fosse giustificabile.

Derek si limitò ad annuire, senza bisogno di aggiungere altro. «La tua prima esperienza con un ragazzo?» si vide costretto a chiedere il licantropo, i sensi attivi a captare tutte le emozioni che l’umano emetteva e che potevano confermare o disfare quello che era stato effettivamente detto.

«No, affatto» avrebbe riso sguaiatamente di quell’ipotesi per niente fondata, anche il vice sceriffo Parrish l’avrebbe fatto, molto più di lui. «Di certo è tra le prime che rientrano tra le pessime» se la ricordava bene la sua prima esperienza pessima, iniziata in modo insolito e stuzzicante, anche totalmente inattesa, ma il problema si era presentato subito dopo, quando aveva perso completamente se stesso. Cominciava a notare quanti elementi avesse in comune con il lupo solitario.

Il silenzio cadde così com’era stato rotto e l’immobilità si impadronì di loro. Era il caso che Stiles si desse una mossa. «Vuoi che li cancelli?».

Stiles impallidì al suono di quella proposta che al solito appariva contenuta, ma era del tutto dedita a lui. «Lo faresti?».

«Non ho problemi» dichiarò limpido lo studente di letteratura, a lasciarsi scivolare tutto addosso senza esserne toccato.

«Sì» l’umano non si trattenne, l’esigenza di vederli sparire dalla pelle era qualcosa che scalciava, urlava e chiedeva giustizia. «Li odio».

Derek gli prese un braccio trattenendolo tra le dita, le vene si colorarono di nero e l’inchiostro si muoveva nella sua direzione, scorrendo sotto gli occhi attenti di Stiles che non potevano credere che il lupo assorbisse quel dolore minimo soltanto per fargli un favore ‒ e quell’evento lo faceva riflettere sulle abilità pratiche di cui erano dotate quelle creature straordinarie, poter singolarmente guarire parti specifiche di un corpo, quelle che richiedevano il loro intervento senza toccare tutto il resto.

L’epidermide si rigenerò, le tracce delle dentature sparirono e tutto appariva come se non fosse stato toccato da qualcuno, come se la notte precedente non si fosse arrotolato tra le lenzuola con un essere spregevole. Quando i vasi sanguigni tornarono del loro colore naturale, Stiles alzò lo sguardo nel suo ed era della stessa intensità speciale che riservava soltanto a lui. «Grazie, Derek».

Derek non aveva nulla da aggiungere né Stiles si aspettasse qualcosa di diverso, eppure mentre indossava una delle maglie basiche del mannaro, il dubbio si insinuò nella mente rischiarata. «Sai riconoscere qualsiasi ferita, i morsi sono la tua specialità» mimò i canini che uscivano fuori, la forza bruta dei lupi che sapevano sempre come assestarli. Come usarli per trasformare qualcuno. «Perché mi hai chiesto cosa fosse?».

Derek non si pronunciò, rimase statuario com’era sua caratteristica, a decretare quanto potesse spingersi oltre. «Ti fai del male» enunciò in un grande segreto svelato, la serietà che si manifestava a indirizzare quanto lo fosse. «Quando sei sonnambulo».

Stiles non riusciva a credere alle sue orecchie, gli occhi si ingigantirono e divenne anche un po’ sordo. «Che vuol dire che mi faccio del male?».

«Qualcosa di molto simile all’autolesionismo» rivelarlo fu pesante, Derek se l’era tenuto per sé, per una serie sconfinata di motivi, soprattutto con la necessità di comprendere osservando.

«Autolesionismo?» domandò in un coro senza consistenza, guardandosi le mani quasi potessero comunicare con lui e rivelargli la verità. «Faccio una cosa simile?».

«Sì» si limitò a confermare il mutaforma, severo ed autentico.

Stiles portò gli occhi increduli nei suoi, totalmente attoniti ed intontiti. «Ma non lo farei mai» arrecarsi del dolore fisico era un pensiero che non gli apparteneva, infliggersi ferite, infierire su di sé.

«Il tuo cervello ragiona in un modo» enunciò il padrone di casa, le parole ricercate e meticolose, in un pensiero che si era già concretizzato. «Ma il tuo corpo reagisce in un’altra maniera».

«Non ne avevo idea» lo fissò come se non lo riconoscesse, come se non riconoscesse se stesso e tutto quello che lo circondava. Suo padre si era imbattuto in quegli episodi? «Quante volte è successo?».

«Qualche volta» ma erano trascorsi soltanto dodici notti, non aveva idea di quante altre volte si sarebbero potute ripetere.

«Ma non ho mai fe-» ma si mutò e l’incredulità, insieme alla consapevolezza, si palesarono in automatico. «Mi curi tutte le volte?».

«Non posso fare altrimenti» non avrebbe nemmeno dovuto chiederglielo, Derek di certo non l’avrebbe mai lasciato cosparso di sangue e ferite da ogni parte, il perpetuo dolore che Stiles provava ogni singola volta.

L’umano si abbandonò sul bordo del letto, le forze che gli venivano meno e gli occhi che non riusciva a distogliere da quelle mani traditrici che agivano di propria volontà. Era un incubo senza fine, continuava ad arrotolarsi intorno a sé in un ciclo infinito. Quando avrebbe visto la luce del tunnel? La salvezza e la libertà di cui aveva bisogno, invece di imprigionarsi autonomamente. «Non lo sapevo» ma erano fin troppe le cose che non conosceva. «Stavi solo controllando» come aveva reagito Derek quando aveva visto cosa accadeva? Cosa aveva pensato e come aveva agito? Si era spaventato, era rimasto inorridito? In che condizioni si riduceva per portare il mannaro a far sparire ogni forma di autodistruzione che inconsapevolmente si arrecava? Non aveva nemmeno mai trovato tracce di sangue da nessuna parte, si prodigava a pulirlo diligentemente? Gli doveva così tanto e Derek non chiedeva niente in cambio, non lo informava nemmeno di che cosa avvenisse, come se il suo contributo non avesse alcun valore. «Arrecarmi dei danni fisici è qualcosa che disconosco».

Derek si accomodò al suo fianco, il peso che prendeva consistenza facendo abbassare le molle, la distanza di riserbo che in qualche modo continuava a dargli ed i movimenti impercettibili che si aggiravano attorno a lui. «Sono stato testimone di parecchie azioni suicide».

Stiles si voltò di getto verso di lui, fulminandolo sul posto nel momento in cui afferrò la presa in giro, sottoforma di mezzo rimprovero, che Derek gli assestò. Il suo tono era sempre immutabile ed incolore, ma aveva quel retrogusto di leggerezza che stemperava tutta lo scenario che li vedeva protagonisti. «Non è la stessa cosa, i miei amici sono importanti, le persone lo sono. Salvarle è giusto».

«E tu, ti sei salvato?» la ribeccata tagliente fuoriuscì dalla bocca serrata, dall’impeccabilità del lupo che si limitava a mostrare soltanto quanto venisse infastidito, ma lì c’era ben altro racchiuso.

Stiles si sentì punto sul vivo, uno schiaffo d’aria che lo colpì in pieno viso, facendogli arretrare la testa come se la collisione fosse realmente avvenuta. «No».

L’amarezza della verità si propagò a tutto il monolocale e il senso di claustrofobia colpì la matricola come se non se fosse mai andata via, insinuandosi nel cervello e mettendo radici. Forse era qualcosa da cui non sarebbe mai potuta guarire. Forse era stata danneggiata per sempre. «Forse una parte di me sta cercando di liberarsi dall’involucro che la tiene prigioniera» la pelle che si lacera, il liquido vermiglio che scorre, l’accanimento verso il proprio organismo che lo tiene vivo. Ciò che lo teneva intero si stava disgregando.

«O forse sta solo chiedendo aiuto» decretò il mannaro in una verità in cui era evidente credesse.

Glielo aveva chiesto? Quello Stiles incosciente, che vagava nella notte gelida con soltanto un pigiama leggero ed i piedi nudi, aveva mormorato qualcosa che avesse portato la creatura della notte ad agire nella sua direzione? Aveva formulato una richiesta che Stiles teneva radicata dentro di sé da tempo immemore, preferendo soffrire in silenzio?

Ma il suo corpo, il suo subconscio, avevano un’idea diversa e si prodigavano per far emergere quei problemi che Stiles voleva bloccare in ogni modo permissibile. Che stolto continuava a rivelarsi. «Riesci a sentirlo?».

Le iridi di smeraldo si accentuarono in un cerchio cremisi, che dissipò nel blu marino. Stiles ne fu risucchiato. «Sento tutto di te».

 

Stiles risultava piuttosto distratto in aula, scriveva gli appunti senza ascoltare davvero le parole del professore, aggiungendo considerazioni che avrebbe dovuto approfondire in un secondo momento. Si rese conto che avrebbe dovuto fare un salto alla biblioteca per consultare la lunga lista di libri da cui il docente estrapolava le sue informazioni.

Derek si era fatto più distante nelle mattinate in cui si svegliava di fianco a lui, non conversavano più e si defilava in fretta, rimaneva al suo fianco nella quantità temporale necessaria a comprendere che fosse al sicuro. Stiles non riusciva proprio a viscerare la ragione. Che stesse diventando un fardello troppo grande per il lupo? Un fastidio? Di certo aveva sempre saputo di esserlo, eppure il mannaro non glielo aveva mai fatto pesare in alcun modo, non aveva proferito parola in merito, ma Derek non era certo il miglior conversatore del mondo.

Se fosse diventato un peso troppo grande per lui, senza nemmeno conoscere un quarto del bagaglio opprimente che Stiles si portava dietro, avrebbe smesso di condurlo nel suo monolocale dov’era certo potesse tenerlo d’occhio? O si sarebbe visto costretto a continuare quell’azione da cavaliere impavido che doveva comunque intervenire, perché non l’avrebbe fatto nessun altro?

Perché era riuscito a mettere Derek in quella terribile situazione senza via d’uscita?

«Lavati e stirati» disse Stiles con soddisfazione, tirando un sacchetto di carta in cui erano sistemati un paio di magliette e pantaloni, consegnandolo tra le mani salde della creatura della notte.

«Non era necessario» proferì Derek non particolarmente colpito e annoiato, prendendo anche il pacchetto che conteneva per l’ennesima volta le scarpe che diverse ore precedenti gli aveva intimato di prendere.

«Stirarli?» domandò confuso il figlio dello sceriffo, un sopracciglio innalzato e la fronte corrucciata.

«Tutta questa cerimonia» specifico spiccio il capitano della squadra di basket.

Le scale dietro di loro si affollarono e Stiles rimaneva spesso stupito da quante persone ci fossero al padiglione di arte e letteratura; quante ce ne fossero in generale in tutto il campus, quella piccola cittadina dedicata esclusivamente agli studenti. «Non posso certo riconsegnarteli tutti sgualciti, non sarebbe per niente carino» non dopo tutto quello che faceva per lui, rimanendo in silenzio. «Metà del tuo guardaroba lo dai a me».

Derek annuì soltanto, unica risposta a quello sproloquio che l’umano avrebbe potuto risparmiarsi e che non lo toccava minimamente. «Potresti cominciare a lasciare qualcosa di tuo, se lo vedi tanto come un problema».

Stiles impallidì e si fece quasi indietro. Resse il colpo malissimo e avvertì un cappio stringersi attorno al collo. Il mutaforma lo sguardò stranito, gli occhi indagatori che cercavano di guardare attraverso e leggere ciò che teneva radicato in sé. «Non vuoi?».

«Non è quello» sentiva la trachea chiudersi, l’ossigeno che faticava ad entrare e l’affanno che cominciava a farsi sentire. Era tutto così difficile, così complicato. «Sarebbe come se fosse definitivo».

«Non ho detto questo» lo corresse Derek, smorzando le paranoie dello studente di criminologia. «Noi non sappiamo cosa sia».

Stiles distolse lo sguardo, voltando il capo di tre quarti e guardando da un’altra parte, quasi sperasse che il lupo non potesse vederlo e celarsi a lui, anche il suo corpo lo seguì in quell’angolatura, la strada per allontanarsi dal licantropo che si palesava in tutta la sua bellezza. Era così ingiusto, così spregevole nei confronti dell’unica persona che si stava occupando di lui in totale silenzio, senza fargli gravare nulla.

«Stiles» le dita bronzee e calde del lupo mannaro gli sfiorarono quelle pieghe crucciate che si formavano un po’ troppo sulla sua fronte e prese e distenderle nella speranza di farle scomparire. Sembrava proprio che non gli piacessero. «Non è una cattiva idea essere preparati».

L’istinto irrefrenabile di socchiudere gli occhi, seguirlo ed abbandonarsi a quel tocco delicato era impressionantemente difficile da non assecondare. Non avrebbe mai immaginato di essere toccato in quel modo da Derek, di essere toccato in qualsiasi modo. «No» eppure la trovava comunque pessima.

Derek sembrò essere soddisfatto delle linee d’espressione parzialmente scomparse, gli appoggiò il polpastrello del pollice proprio al centro della fronte e tamburellò due volte, in una sorta di purificazione, finché non risalì fino alla radice del cuoio capelluto e dissolversi subito dopo. «Fai quello che è meglio per te».

«Ci penserò» cosa sarebbe accaduto se fosse diventato dipendente dal tocco liberatorio del licantropo?

«Ragazzi!» un uragano biondo si fiondò su di loro e circondò con le braccia Stiles da dietro, stringendo forte.

«Erica» la salutò con sorpresa evidente l’unico umano del trio, guardandola con fatica dalla posizione di svantaggio in cui si trovava. Derek non le prestò particolare attenzione, ma non c’era nulla di nuovo in quello.

«La mia mente ha bisogno di carburante» disse la ragazza con trasporto evidente, la tracolla che anche lei portava che premeva su un fianco di Stiles, a sottolineare che anche la lupa avesse concluso con le lezioni per quel momento. Doveva essere appena uscita dal College of Arts & Letters, lo stesso di Derek. «Mangiamo qualcosa?».

«Okay» fu l’unica parola che il mannaro pronunciò e Stiles ne fu davvero stupito, non perché non fosse consapevole che anche i licantropi avessero la necessità di nutrirsi, ma per l’essere incluso anche lui nell’invito di quel pacchetto. Ne ebbe la certezza quando Erica lo trascinò con sé, a indicargli la direzione da prendere, afferrandolo lievemente da un avambraccio.

Fu catapultato in una tavola calda, molto lontana dai loro dipartimenti, occupando uno dei tavoli più grandi e raggiunti minuti successivi da Isaac e Boyd.

Ognuno di loro aveva davanti un hamburger gigante dall’aria invitante e strapieno di patatine fritte, quelli dei licantropi avevano una cottura al sangue, cosa che non doveva davvero incuriosirlo, ma il proprio aveva una cottura ben avviata – ben cotto, ma non bruciato. C’erano degli aspetti nella sua vita che lo invogliavano a voler vedere meno sangue possibile e soprattutto a sentirlo sul palato, era stato parecchio categorico su quello. Derek l’aveva occhieggiato appena a quella richiesta, le parole che teneva per sé; ancora una volta non aveva commentato la sua insistenza.

«Accidenti» esclamò sconsolato Isaac, la testa cigolante e il cellulare in mano a controllare le notifiche. «Hanno appena anticipato l’allenamento. Tra due ore».

«Niente giorno libero» sottolineo con dissenso Boyd, addentando con decisione una patatina, a decapitarla nettamente.

«C’è il tuo zampino, vero?» accusò Isaac, strizzando gli occhi azzurri e indicando Derek.

«No» negò con semplicità, continuando a mangiare il suo panino con disinvoltura ed eleganza, aspetti piuttosto insoliti da riuscire a tenere mentre si masticava un hamburger gigante.

«Non ti credo» un broncio evidente si formò sui tratti del licantropo riccioluto ed Erica ne sorrise vivamente, come se la questione la divertisse, ammiccando trionfa con le labbra rosse.

«È proprio un capitano terribile» affermò l’afroamericano con dispiacere, ma in realtà Stiles riusciva a sentire l’ammirazione che entrambi provavano per il lupo cattivo, si stavano soltanto divertendo un po’ a sue spese.

«È uno stacanovista» sintetizzò Erica con diletto, la parola che bisognava prendere forma.

«È proprio da Derek» l’umano scoppiò a ridere di cuore, qualcosa di totalmente inaspettato, che colse impreparati i quattro ragazzi presenti al tavolo. «Questo Sourwolf si impegna più di tutti, stremandosi; vuole che gli altri facciano altrettanto».

La lupa mannara ammorbidì la curva affilata delle labbra e anche ai suoi occhi toccò la stessa sorte, accomodata accanto a lui, collocazione che si era presa con la forza. «È vero».

«Mi piacerebbe tanto rivederlo giocare» era passato così tanto tempo, a volte credeva ne fosse trascorso più di quanto effettivamente segnasse un calendario. Si erano frapposti soltanto un paio d’anni, ma gli apparivano come ere intere, che non avevano ancora raggiunto il loro picco. «Chissà che potenza sarai adesso. Posso infiltrarmi tra gli allenamenti?» si rivolse direttamente a Derek, certo che avesse bisogno della sua approvazione, gli occhi imploranti e da cucciolo speranzoso.

«No» la risposta del capitano della squadra di basket fu lapidaria e diretta, ammonendo qualsiasi possibilità. «Sono a porte chiuse».

Stiles si imbronciò tristemente, con il cuore spezzato ed Erica gli spettinò i capelli in una carezza bonaria, di consolazione. «L’università è molto seria e severa, diversa dal liceo» gli fece presente Isaac apparecchiandogli un quadro totalmente diverso da quello che avevano conosciuto in precedenza. «I biglietti per le partite si acquistano e non sono per niente economici» non che fosse un aspetto che lo riguardava direttamente considerando fosse perennemente in campo.

«Già, qualcosa che non posso proprio permettermi» l’unico essere umano della cerchia sospirò affranto, prima che incontrasse Derek non era qualcosa che lo interessasse particolarmente, ma trovarsi lì entrambi, conoscere le sue abilità, sapere che aveva ottenuto per la seconda volta di seguito il titolo di capitano, lo faceva ammattire non poterlo osservare con i propri occhi. «Ehy, posso sempre forzare le serrature, sono bravo» brillò, scuotendosi l’aria malinconica che soltanto un secondo prima lo caratterizzava, riprendendo in mano la situazione ed ammiccando pericoloso, la volpe furba e maliziosa che si palesava senza riserve, senza considerare le conseguenze.

«Stiles» lo riprese Derek tra i denti, ammonendolo immediatamente e tenendolo bloccato sulla seduta in cui era con l’evidenza del suo sguardo severo.

Stiles sbuffò, immune ai suoi rimproveri. «Non se ne accorgerebbe nessuno».

«Io sì» non ammetteva repliche, il grande lupo cattivo era piuttosto chiaro su quel punto.

«Lo guardavi giocare?» domandò invece il taciturno studente di medicina osteopatica, interrompendo quel botta e risposta che dava la sensazione che sarebbe continuata per un bel po’. «Alle partite?».

«Anche, sempre, non ne ho mai persa una» il figlio dello sceriffo non si aspettava quell’inaspettata voglia di conoscenza da parte dell’afroamericano, che sembrava sempre disinteressato a tutto, tranne a quel gruppetto in cui la matricola si era ritrovata per caso. «E assistevo a quanti più allenamenti possibili».

«Perché?» si ritrovò a dover sondare Isaac, era qualcosa che gli appariva fin troppo anomala. «Non facevi parte della squadra, giusto?».

«No, certo che no» Stiles ridacchiò in modo sardonico, trovava quello scenario delirante, al limite dell’assurdo. «Nessuno mi ha mai fatto questa domanda» ma in effetti c’era un motivo.

«Ah» Isaac tacque e le iridi chiare si spostarono con circospezione verso il suo capitano che appariva intoccabile, anche se era fin troppo consapevole di quanto non lo fosse.

«Non devi rispondere a noi» si intromise la mannara, cogliendo la difficoltà che si stava insinuando, una che in qualche modo aveva conosciuto.

«Non è un segreto» Stiles scacciò la proposta come se non fosse nulla, le dita che solleticavano l’aria a cancellare quanto già accaduto. «Immagino fosse per non tornare in una casa vuota».

Un attimo di silenzio eterno si propagò, ma lo studente di criminologia non parve farci caso. «Sì, è una buona motivazione» sopraggiunse Isaac, come se conoscesse a menadito la situazione. In fondo, la conoscevano quasi tutti loro, in modi e gravità diverse.

«È riduttivo, detto così» si fece nuovamente sentire Stiles, la nostalgia che si faceva sentire, tutte le memorie che scorrevano davanti ai suoi occhi. «Derek era sempre lì, con la squadra o da solo, giocava finché poteva permetterselo, finché non era soddisfatto di se stesso. Era uno spettacolo ricco di potenza, bellissimo».

«Tu, invece, eri fastidioso» lo riprese Derek, insensibile alle parole che venivano pronunciate per lui.

«Non è vero, ero sempre diligentemente silenzioso» ribeccò Stiles immediatamente, l’aureola finta sulla testa.

«Silenzioso, tu?» il mannaro strascicò le sillabe, come se fossero veleno, innaturale. «Applaudivi tutto il tempo».

«Ero entusiasta» puntualizzò l’umano stizzito, il naso che si arricciava e la combattività che si accendeva tutta.

«Impara a contenere il tuo entusiasmo» continuò la creatura leggendaria, il nervosismo che sormontava velocemente.

«Sei così falso, Der» lo prese in pugno il futuro detective, la ragione che prendeva il sopravvento. «Se ti disturbavo talmente tanto, perché non mi buttavi fuori? Non l’hai mai fatto».

«A cosa sarebbe servito?» chiese retoricamente Derek, per niente turbato dalle manovre manipolative della volpe acuta seduta di fronte a lui. «Non mi ascolti mai».

«Te ne do atto, Sourwolf» il sorriso da Stregatto si manifestò in tutta la sua imprescindibile vittoria e Derek roteò gli occhi come se non volesse sapere nient’altro, afferrando il suo bicchiere e ingurgitando la bevanda zuccherata.

«Siete così divertenti, mi siete proprio mancati» le labbra piene della lupa mannara si curvarono totalmente deliziate, ghiotta del siparietto a cui aveva assistito. Avrebbe volentieri richiesto un bis.

Stiles ammiccò trionfante, Derek invece la incenerì nell’immediato e lei non si scompose minimamente.

«Io mi preparerei a vederlo sbucare in qualsiasi momento» prese coscienza Boyd, facendo tesoro di ciò che aveva appena appreso. Erica riempì il locale con la sua risata corale, Derek invece gli rifilò un’occhiata eloquente, in cui lo invitava a non incoraggiarlo. «Che c’è? Se è come mi è stato descritto, è inevitabile» Boyd si sentiva piuttosto pulito sotto quell’aspetto, il rimprovero dal suo capitano non l’accettava affatto.

Stiles ammiccò subito in modo spavaldo e malandrino, la piega pericolosa che si disegnava sulle labbra abbondanti. «Parlate di me?».

«Hai continuato a frequentare la palestra, anche dopo che Derek è andato via?» deviò abilmente Isaac, decisamente disinteressato allo scontro a fuoco che si presentava dietro l’angolo.

«Ah» il figlio della massima autorità di Beacon Hills fu preso in contropiede, una bolla d’ossigeno che si incastrò in mezzo alla trachea, indecisa. «Non ho più avuto tempo» non aveva più avuto tempo per niente, anche se le mura domestiche che lo circondavano continuavano ad essere vuote e la solitudine a volte si era insediata ed espansa più di quanto ne avesse avvertito per sedici anni, rivelando i diciassette come i più duri della sua vita; Stiles non aveva potuto affievolire quelle sensazioni in alcun modo. «Comunque, senza Derek c’è poca storia. Di Derek Hale ne esiste uno solo» sorrise in modo triste, appestando l’olfatto di tutti i lupi mannari che lo accerchiavano.

Boyd e Isaac spostarono i loro sguardi in modo piuttosto evidente sul loro capitano, mentre Erica ebbe la lungimiranza di non provarci minimamente, Stiles, invece, non lo comprese affatto e Derek li ignorò vistosamente, ma le spalle si irrigidirono. L’umano non volle chiedere nulla, temeva che entrassero troppo nella sua sfera personale e non voleva condividere gli anni che erano andati avanti senza lo studente di letteratura nei dintorni. Non avrebbe comunque fatto la differenza.

 

Stiles per la prima volta dopo settimane si affacciò al nuovo giorno in una camera ben diversa da quella del lupo mannaro, ma piuttosto simile alla propria, nel dormitorio a cui era stato assegnato. Ne ebbe la certezza quando notò il suo compagno di stanza scendere dal suo letto, il pigiama sgualcito e gli occhi ancora assonnati. Stiles non si era mai sentito più sveglio, più rilassato.

«Sei qui» registrò Jiang enormemente sorpreso, come se apprendesse in quel momento che effettivamente condividesse la camera con qualcuno ed esistesse un coinquilino.

«Sì» ah, non riusciva ancora a crederci, si portò in posizione da seduta, a prendere più coscienza con quello che lo accoglieva, toccando il materasso e le lenzuola in cui si era risvegliato. «Buongiorno» lo era davvero.

La matricola di economia esitò, le iridi scure che lo scrutavano attentamente. «Non voglio essere indiscreto, ma ti frequenti con qualcuno?» ebbe la delicatezza di non ricordargli che si scopasse i suoi amici.

In qualche modo Stiles apprezzò, anche se lo avrebbe corretto, a sottolineare che fosse accaduto soltanto una volta e con uno solo. Ma sarebbe stato ipocrita da parte sua, aveva dell’interesse che lo conduceva a Theo, non poteva giurare che se ne sarebbe tenuto alla larga né Theo sembrava volerlo; l’esatto contrario. «No, nessuno» aveva storie di una notte, l’ultima era stata con Tracy, ragazza con cui condivideva il percorso di studi – quella sì che si era rivelata appagante. Non le definiva affatto relazioni. Non le cercava, non le voleva.

«Non ci sei mai al risveglio. Quando torni, indossi vestiti di un paio di taglie più grandi» l’asiatico non era particolarmente convinto, non erano nemmeno fatti suoi, eppure non poteva esimersi dall’annotarlo.

Era stato beccato con le dita nel barattolo della marmellata. «Ho problemi a dormire, ho bisogno di uscire» era un eufemismo, avrebbe preferito legarsi al letto che affrontare l’ignoto della notte, ma non voleva dilungarsi in spiegazioni né allarmare eccessivamente il suo inquilino che non mostrava particolare simpatia nei suoi confronti; non poteva fargliene torto.

Era evidente che Jiang non fosse persuaso per nulla, la sua risposta colmava una sola lacuna, non certo il fatto concreto che indossasse i panni di un altro ragazzo ad ogni nuovo giorno – quindi, effettivamente, poteva far presagire che avesse una relazione, una con Derek Hale. Irrealisticamente irrealistico.

Il coinquilino si limitò ad annuire, facendo finta che gli bastasse, dirigendosi verso la porta, azione che inevitabilmente l’avrebbe condotto al bagno comune che condividevano con tutti gli studenti del loro piano. «Se posso fare qualcosa, chiedi» si interruppe prima che facesse scattare la serratura, un cambio in mano ed i prodotti bagno già preparati nell’apposito astuccio.

Stiles ne rimane enormemente sbalordito, anche un po’ assordato. «Grazie, amico» anche se gliene era vivamente grato, non avrebbe mai potuto chiedere a nessuno.

 

«Sono stupefatto» lo studente di veterinaria era notevolmente sudato, accaldato e quasi esausto, fattori molto atipici per dei lupi mannari o per la credenza che si aveva su di loro.

Boyd guardò nella direzione che catturava l’interesse del suo compagno di squadra, individuando nell’immediato l’anomalia. Ne sorrise senza vergogna. «Questa voglio proprio godermela».

Derek gli lanciò di proposito il pallone da basket dietro la schiena con l’intenzione di punirlo, ma il colosso nero aveva dei sensi molto sviluppati che gli permisero di afferrarlo e palleggiare in risposta, minimamente provato da quell’azione.

«Chi l’ha fatto entrare?» domandò il coach a tutto l’ambiente che li circondava, osservando i giocatori uno ad uno, incurante della fatica a cui li aveva sottoposti.

«Non è una minaccia» si prodigò il capitano, i capelli scossi e pettinati dalle dita, ad asciugare e mandare via il sudore, in un’azione inutile. Fece un unico cenno di permesso all’allenatore, a rabbonirlo – era bravo –, avvicinandosi alla panchina in cui erano stati accatastati gli asciugamani puliti e piegati egregiamente, strofinandovi il viso ed avvolgendolo intorno al collo, in un rito che gli permettesse di raccogliere i pensieri, non distogliendo gli occhi dalla figura che sogghignava giocosa nella sua direzione, senza minimamente nascondere le sue macchinazioni. «Cosa non hai afferrato di allenamento a porte chiuse?» gli domandò quando percorse i gradini che lo conducevano al settore che quella bestia di satana si era scelto, piazzandosi proprio davanti.

Stiles mostrò i denti per quanto la curva della sua bocca fosse compiaciuta, tutti i tratti che enfatizzavano il diletto di quel mammifero rosso che si prendeva tutto quello che desiderava. «Mi intrigano i posti inaccessibili» era stretto in una delle sue felpe, era blu e bianca, le temperature si stavano abbassando, mancava una sola settimana all’entrata di ottobre, ma per lui più che essere accolto dal tenue ed indefinito autunno, sentiva solo uno stringente inverno. Era tutta un altro concetto rispetto all’eterno calore della California, si chiese se avesse dovuto armarsi di qualcosa di più pesante per affrontare la rigidità della stagione gelida che sulla carta era ancora lontana. «È stato anche fin troppo facile».

«Stiles» lo ribeccò il licantropo, pur sapendo di non ricavarne alcun effetto.

«Sei più bravo dei miei ricordi» rivelò invece la matricola di criminologia, gli occhi ambrati che non si scollavano dall’evidenza delle sue osservazioni. «Un altro livello» odiava non aver potuto assaporare la crescita sportiva che il lupo aveva intrapreso, non aver festeggiato anche privatamente i suoi miglioramenti, i traguardi che aveva raggiunto. In effetti, era qualcosa con cui aveva fatto i conti nel passato, ma apprendere la reale collocazione di Derek, il luogo che un giorno Stiles aveva tutta l’intenzione di raggiungere, lo faceva sentire come se gli fosse stato rubato qualcosa e gli scaturiva una certa rabbia che non sapeva contenere. Ma era sempre arrabbiato, per qualsiasi cosa, non riusciva a catalizzarla.

«Niente lusinghe» ne era piuttosto immune, non si scomponeva mai.

«No, certo» il suo sorriso triste e nostalgico, che stava stranamente diventando il suo marchio di fabbrica, si palesò e non riuscì a cancellarlo.

Le iridi verdi lo perforarono da parte a parte, Stiles sapeva che vi fosse una domanda intrappolata e palese. «Mi sono svegliato nel mio letto» disse infinite, i cuscinetti rossi che si ammorbidivano in qualcosa di più spensierato, tuttavia rimaneva l’amarezza.

«Bravo» si congratulò spicciolo ed intoccabile il capitano della squadra di basket che continuava ad allenarsi alle sue spalle.

«Non credo ci sia del merito in questo» ne avrebbe fatto volentieri a meno. Era sciocco festeggiare una vittoria come quella, eppure si era ritrovato a volerla condividere comunque con Derek nell’unico giorno in cui non si erano ancora incontrati; non ve n’era motivo, nessun indumento da consegnare, niente scarpe da riportare indietro. Non avrebbe mai voluto sottolineare una frase come quella, comprensibile soltanto per le loro due figure. «In realtà, non so cosa sia. Succede e basta» generalmente a casa gli accadeva più di frequente, ma da quando si era risvegliato nel suo terzo giorno da matricola tra le coltri di Derek Hale, non aveva avuto tregua.

«Una vittoria alla volta, Stiles» gli fece ben presente la creatura della notte, la concretezza che per lui prendeva forma.

«Sì» per l’umano era impossibile classificarla come tale, si ritrovava in un circolo vizioso. Lo sarebbe divenuta nel momento in cui si sarebbe sempre ridestato tra le proprie lenzuola, senza conseguenze in mezzo.

 

Stiles non l’avrebbe presa bene, la sua negatività atipica stava cominciando a comprenderla.

Il periodo buono dell’umano era durato appena due giorni, alla terza notte le orecchie si rizzarono e Derek fu costretto nuovamente ad uscire con il cielo oscuro, le stelle quasi inghiottite dall’inquinamento luminoso e la luna che brillava incontrastata, perché nulla poteva adombrala, cancellarla, la fase di gibbosa crescente prossima a passare a quella successiva, il plenilunio che attendeva silenzioso dietro l’angolo. Ma per Derek non era mai silenzioso.

Il lupo percepì la matricola nei dintorni del dormitorio, eppure non riusciva a trovarla; girando e girando su se stesso i sensi erano in ansia perché lo conducevano alla parte più pericolosa del campus, lì dov’era presente la Grand River Avenue, trafficata di giorno, estremamente pericolosa di notte, con l’inesistenza del rispetto per il codice stradale e il limite di velocità.

Raggiunse il bordo della strada appena captò la direzione presa, il vento graffiante che non cessava di rallentare, le auto che si lasciavano spostare dalle folate, l’asfalto scuro che si perdeva nella notte. Non riusciva a vedere Stiles da nessuna parte, avrebbe potuto percorrerla per ore senza riuscire a trovarlo, chiedendosi se non fosse troppo tardi; il richiamo e l’esigenza di trasformarsi erano lampanti, necessari, ma era troppo esposto, non poteva permettersi una tale avventatezza così dal nulla. La precarietà della situazione e la preoccupazione non gli rendevano lucida la mente, tutto il corpo fremeva per trovare l’umano più disastroso in cui si fosse imbattuto.

Lo sentì quando i suoi occhi si illuminarono del colore più improbabile, uno dei segreti che custodiva gelosamente e di cui ne erano in possesso pochi eletti.

Il cuore quasi si fermò quando lo vide sul limite della strada, i piedi completamente scalzi per metà sull’asfalto e l’altra sulla ghiaia che lo facevano sanguinare, il suo stupido pigiama di Star Wars – Il Ritorno dello Jedi che sventolava, quasi volesse essere strappato via. «Stiles» era altro che voleva essere strappato via.

Stiles non lo sentì, non lo sentiva mai e nel silenzio Derek si avvicinò cauto, teso e profondamente turbato. «Sta arrivando» disse al vuoto, all’unico interlocutore che lo ascoltasse, al pericolo che si palesava sottoforma di fanalini accessi.

«Torna indietro» a volte si era chiesto se gli parlasse perché lo interrogava, instaurava una sorta di dialogo con lui, o se le parole che gli uscivano dalla bocca il figlio dello sceriffo le formulasse a prescindere se fosse in compagnia o in solitudine.

Stiles non tornò affatto indietro ed i passi proseguirono in avanti, sulla linea che definiva l’inizio della corsia, la pianta dei piedi completamente a contatto con il materiale liscio di cui era composta la strada. «Lei è dentro di me. Nella mia testa. Mi manipolerà. Farà tutto ciò che vuole».

Derek impallidì quando lo vide avanzare, automobili sporadiche che li ignoravano al loro passaggio, proseguendo la loro corsa ignari della tragedia annunciata a cui il licantropo stava assistendo. «Fermati, Stiles» lo afferrò d’istinto, la mano più vicina che si trasformava in una tenaglia, aggrappandosi al braccio della matricola ed ancorandola a lui, bloccando ogni tentativo di andare oltre. «La volpe non c’è».

«Sì, invece» articolò con forza, le unghie che si conficcavano violentemente nei palmi delle mani, sbiancandoli per l’interruzione del flusso sanguigno. Ma un altro flusso ebbe inizio e dalle ferite cominciò a sgorgare quel liquido vermiglio che il mutaforma vedeva manifestarsi in fin troppe notti. «Lei mi farà uccidere di nuovo».

Derek lo guardò incredulo, le iridi verdi giganti, sordo alle proprie orecchie dall’udito eccellente, le vene che si ghiacciavano. Era la prima volta che veniva in possesso di una tale verità, di ciò che logorava davvero l’umano straordinario che si ridestava ogni mattina accanto a lui, eppure non era abbastanza per legare tutti i pezzi di quel puzzle frammentato.

Ebbe quasi un capogiro e si raggelò quando lo vide nuovamente mettere un piede dopo l’altro per proseguire all’interno della carreggiata, gli anabbaglianti che si posavano sul figlio dello sceriffo ad illuminarlo parzialmente, la stretta da cui si stava liberando per procedere sul suo cammino. Derek fu quasi investito dalla consapevolezza di non aver più un organo pulsante nel petto. Di nuovo.

Lo tirò indietro, andando contro le sue proteste limitate da quel sonno continuo che prendeva possesso del corpo, le azioni che sfuggivano al suo controllo e che non gli permettevano un’autoconservazione. L’automobile li sfiorò con l’aria che spostava, superandoli, i fanalini di dietro di un rosso accesso che li lasciava ai loro drammi. «Non succederà» avrebbe voluto urlagli in faccia, scuoterlo, svegliarlo, gridargli la sciocchezza che la sua mente offuscata stava mettendo in atto, probabilmente senza nemmeno esserne pienamente cosciente, ma non sarebbe valso a niente, Stiles non si lasciava mai svegliare e una sola parola non gli arrivava. «Non permetterò che accada» quello che fece invece fu di circondargli il viso con le dita, il calore corporeo che si prodigava dentro di lui, la delicatezza del tocco che accompagnava i suoi tempi.

«Come?» gli occhi del nettare degli dei erano sempre offuscati in quelle situazioni, ma le risposte erano persistentemente la loro vera ricerca, concretezza e solidità perfino quando era impossibile coglierle o essere fattibili. «Come farai, Derek?».

Il mannaro stava completamente perdendo la bussola, ancora una volta non riusciva a credere al suo stesso apparato uditivo fornito di poteri incredibili. Non l’aveva mai chiamato per nome, non aveva mai pronunciato alcun nome se non quello del Nogitsune, era sicuro che Stiles non avesse alcuna coscienza con chi si imbattesse in ogni episodio di sonnambulismo, che gli sarebbe andato bene chiunque, che una voce valesse l’altra e non sapesse minimamente distinguerle, ma se si fosse sbagliato? Se tutto quel tempo trascorso a rincorrerlo, a fargli sentire la sua voce e presenza, si fossero aggrappati a lui, divenendo un’impronta che potesse distinguere perfino in quegli scenari catastrofici? La sua mente si stava affinando nella precarietà. «Troverò un modo. Fidati di me» i polpastrelli dei pollici si piantarono sulle tempie, in cerchi concentrici che alleviavano il tormento che viveva dentro lo studente del primo anno, la fragilità della connessione che avevano creato, l’inestimabilità che Stiles rappresentava per Derek.

Stiles si era fidato.

 

Stiles non doveva affatto stupirsi di essere avvolto tra le coperte di Derek con quest’ultimo al suo fianco, ciò che lo incupiva era l’aria esausta che il lupo mostrava, gli occhi coperti da un braccio che li celava alla luce, ma non sapeva se ne fuggisse per una qualche ragione o se fosse solo un caso. «Der?» chiamò in una domanda, il fruscio delle lenzuola che attivarono le orecchie del padrone di casa che si fecero attente, segno fosse perfettamente sveglio.

«Ne dobbiamo parlare» disse con un unico tono, la serietà rassegnata che si faceva strada.

Stiles si raggelò, un unico blocco di ghiaccio che giaceva su un letto non suo. Non poteva essere vero. «Cosa? No».

Derek scosse il braccio, rimproverandolo alla vista e Stiles con orrore notò le occhiaie che sporcavano il suo viso perfetto. I lupi potevano avere le occhiaie, quelle ombre violacee che indicavano quanto il sonno fosse stato privato ad una persona? «Sì, invece. Non puoi rimandare ancora».

«Io non sto rimandando niente» l’umano scattò agitato, si liberò dalle coltri che lo proteggevano dalle temperature differenti da quelle della sua città natale. «Non dobbiamo parlare proprio di nulla».

«Da cosa stai fuggendo?» si vide costretto il mannaro a chiedere, coscio di essersi fatto scappare la domanda sbagliata.

«Fuggire, io?» una risata sarcastica e derisoria sporcò la bocca di Stiles, insieme ad una cattiveria che aspettava soltanto di balzare. «Che ipocrita. Chi è che fugge, senza essere capace di dire la verità alla propria sorella? L’unica persona cara che gli è rimasta».

La creatura della notte si paralizzò, presa alla sprovvista e si dannò per quello, perché sapeva che prima o poi la matricola l’avrebbe usato contro di lei. «Non stiamo parlando di me».

«Non parliamo mai di te, è tabù» un’altra risata satirica prese vita, l’esasperazione perfida che non ammetteva una tale posizione da parte sua.

«Stiles» Derek era veramente stanco, la perdita di tempo era qualcosa che detestava e lo sviamento dell’argomento madre non era qualcosa che poteva permettersi, sentiva che in qualche modo il tempo stava scorrendo nella direzione opposta alla loro e bisognava prendere la situazione in mano. «Ogni notte è più difficile della precedente, non hai idea del pericolo in cui ti cacci».

«Non ti ho mai chiesto aiuto, non ti ho chiesto niente» il figlio dello sceriffo si diresse verso il bordo del letto, scivolando e poggiando i piedi nudi sul pavimento; ancora una volta erano puliti. Ancora una volta non vi era alcun graffio su di loro né su alcuna parte di sé. Si sentiva braccato, bloccato, accerchiato da un predatore che non gli dava via di scampo; doveva andarsene, fuggire, lasciarsi dietro la sensazione della mancata capacità di respirare autonomamente. «Ti sei presentato come un cavaliere senza macchia e senza paura e hai fatto tutto da solo».

Derek lo seguì furioso, le gambe avvolte dai pantaloni del pigiama che si alzavano abbandonando il giaciglio, il torace possente ed allenato completamente privo di veli, i lineamenti del viso taglienti e sciupati, l’aria di chi non avesse mai raggiunto il regno del dio greco dei sogni. «Credi che non abbia paura?» chiese retoricamente feroce, il tono vocale che prendeva valore. «Che non sia terrorizzato dal tuo vagabondare senza meta e senza coscienza, dal male che continui ad infliggerti senza che te renda conto?».

Le labbra carnose dello studente di criminologia si serrarono malamente, schiuse a metà ed indietreggiò come se fosse stato schiaffeggiato, colpito da un impatto che gli arrecò dolore. Non voleva sentire, non voleva conoscere la verità. Non voleva più essere salvato e salvare nessuno. «Dimenticati di me, Derek» era l’unica soluzione, l’unica azione da compiere per non farlo affondare con lui più di quanto non si fosse già condannato da sé. L’angoscia che Derek provava era sempre sotto il suo sguardo, lo era perfino in quel momento, le forze in esaurimento che gli chiedevano di trovare una soluzione all’assurdità del male che la sua mente aveva creato. Era stato spregevole da parte sua sindacare su ciò che il lupo provava davvero.

«Dimenticarmi di te?» Derek avrebbe tanto voluto scoppiargli a ridere in faccia malamente e in qualche modo lo fece, ma la drammaticità dei toni accusatori che utilizzavano, rendevano lo scenario più inquietante di quanto si aspettassero. «Non è qualcosa che posso fare».

Le mani di Stiles presero a tremare, nell’avvisaglia del suo malessere, un peso estremo premeva sul torace, pressando sui polmoni che non riuscivano a contrarsi e gonfiarsi, prendere tutto lo spazio di cui necessitavano, l’affanno si fece preminente e stava annaspando.

Derek si attivò in allarme, riconoscendo subito i segnali e captando tutto quello che si stava scatenando dentro Stiles, la dura lotta che si annidava al suo interno. «Hai un attacco di panico».

Non era una domanda né la conferma di ciò che stava accadendo, era semplicemente la descrizione della sua fragilità e Stiles era stufo, sfinito e arrabbiato per essere costantemente sul bordo di un precipizio. «Non toccarmi» esclamò nell’immediato, allontanandosi nel secondo in cui vide il capitano avvicinarsi alla sua sfera privata, protendere le mani, come se in qualche modo potesse assorbire il suo dolore, ma Stiles ne provava eccessivamente per essere risucchiato da vene che si tingevano di nero inchiostro.

Si chiuse in una barriera, ricurvo su se stesso, una mano sul petto che faticava a tenere il ritmo, oppresso dall’incudine che pressava e pressava. «È già successo» Stiles avrebbe voluto gridare tutta la devastazione che avvertiva dentro di sé, che aveva chiuso e sigillato in una parte recondita del suo essere, lontana da qualsiasi fonte di luce, senza alcun amore verso la propria persona, facendola crescere e crescere, diventare qualcosa di così enorme ed abissale da non averne più il controllo. «È facile dimenticarsi di me» ma non era colpa sua, non era colpa di nessuno, ma sapeva troppo bene quanto il mondo lo avesse dimenticato, ben prima che la Caccia Selvaggia lo cancellasse realmente; non era mai veramente riuscito a perdonare qualcuno. «Non hai alcun diritto di chiedermi niente, Derek» di certo non sarebbe accaduto con Derek, consapevole di quanto continuasse ad essere ingiusto, bestiale e crudele nei suoi confronti. «Te ne sei andato».

Tutto il corpo della creatura leggendaria si gessò e le gemme di giada risultarono incredule, incapaci di credere a ciò che l’astiosità nefasta di Stiles avesse dato voce. La volpe subdola che sapeva esattamente dove indirizzare i suoi colpi per arrecare danno. «È questa la carta che ti stai giocando per tenermi fuori?».

«Non ti ho mai invitato» sbottò l’essere umano, la presa che stava tentando di allentare, di rilassare quel cervello avverso che combatteva contro di lui senza davvero identificarne la ragione. Forse era vero ciò che Derek affermava, le azioni da autolesionista che metteva in moto. In qualche modo ogni parte di sé voleva sabotarlo. «Il tempo in cui ti volevo nella mia vita non è questo. Non puoi scegliere tu, hai perso questo diritto».

«Sei sempre il solito spietato, Stiles. A tenere la mossa decisiva per ultima» di cosa doveva stupirsi? Chi impugnava l’arma vincente era l’umano che nascondeva la sua natura malvagia in bella vista. «Sei stato tu a dirmi di andare via. Di ricominciare da un’altra parte, esattamente come avresti voluto fare tu».

«Sì» asserì lo studente di criminologia sputando veleno, gli girava la testa e vedeva tutto sfocato, incapace di afferrare il concetto cardine che gli scappava dalla periferia della mente. «Le nostre strade si sono interrotte. Le avevi interrotte tu fin dall’inizio, camminiamo su binari separati sin da quando ci siamo incontrati la prima volta. È stata una tua scelta, non c’è alcun motivo per cui dobbiamo congiungerli. È la mia battaglia».

Derek era più spento di quanto non fosse mai apparso, snaturato dai colpi bassi di quel mammifero rosso astuto e perfido, estremamente pericoloso, ma i suoi occhi boscosi sapevano ancora lanciare dei fendenti precisi. «La stai perdendo».

Stiles sapeva quanta ragione avesse.

 

 

 

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Capitolo 4
*** 4° Capitolo ***


4° Capitolo

 

Il cellulare squillò e Stiles non avrebbe voluto rispondere per nessuna ragione al mondo, soprattutto quando sullo schermo lampeggiò la scritta papà. In quella giornata non aveva proprio tregua. «Ehy, papà» l’aveva estratto dalla tasca e l’aveva accostato all’orecchio, seduto su una delle panchine che davano su uno dei laghetti del campus, totalmente distante da tutti i luoghi che Stiles frequentava abitualmente, tutti quelli che suo malgrado lo rendevano protagonista con Derek. Il mondo era grande, immenso, perfino quello universitario, ma quello di Stiles si rilevava essere incredibilmente microscopico ed angusto. Fissare la pozza acquatica in qualche modo gli regalava l’illusione che potesse rilassarsi. Ma il suo intero universo era composto di illusioni ed era quello il problema maggiore.

«Stiles» salutò con calore lo sceriffo di Beacon Hills, l’affetto che sfociava anche a chilometri e chilometri di distanza, interi stati che si frapponevano tra loro. «Tutto bene?».

Ah, la domanda fatidica. In un antico passato di cui Stiles cominciava a perdere la memoria, era una sorta di rito, poche volte era realmente necessario conoscere e preoccuparsi della risposta, indagare fino in fondo, ma ormai erano mesi che quella domanda gli veniva posta quasi ogni giorno, anni, da quando uno spirito millenario si era infiltrato dentro la sua psiche, controllando ogni passo, manipolandolo in modo egregio. Suo padre aveva allentato la presa, si era fatto meno invadente, ma da quando si era ritrovato a dover cercare il figlio nell’oscurità della notte tra le strade della loro cittadina, non aveva mai demorso, continuava a ripetergliela. «Sì, me la cavo».

«Sei sicuro?» domandò con un’impronta diverta Noah, i sensi che si facevano più accentuati, accesi. «Puoi sempre tornare».

«No!» Stiles non voleva per niente considerare quella possibilità, aveva fatto di tutto per scartarla. «Va tutto bene» non andava niente per il verso giusto.

La massima autorità della loro città natale tacque per qualche secondo, le interferenze che sfrigolavano dagli altoparlanti. «Sono ancora dell’idea di rimandare di un anno».

«Sono qui, non c’è alcun motivo di tornare indietro» se suo padre avesse saputo la verità, se lo sarebbe venuto a prendere di peso.

«È trascorso soltanto un mese» lo disse come se sulla carta non avesse nessuna valenza, che poteva ancora ritornare sui propri passi.

Stiles non voleva sentire ragioni. «Me la sto davvero cavando qui» se c’era riuscito, era soltanto perché Derek era lì, una sfortuna nella fortuna, ma non era un fattore su cui potesse più fare affidamento. Dubitava fortemente che il mannaro sarebbe corso ancora in suo soccorso né Stiles lo pretendeva in alcun modo, ma era ben consapevole di essere in una pessima situazione. La sua sicurezza di riuscire a frequentare il primo anno di college indenne si era disfatta nel momento in cui aveva compreso che risvegliarsi ogni singola e ripetuta mattina, una di seguito all’altra, sul letto di Derek Hale gli prospettava una situazione tragica. Non c’erano interruzioni, non erano occasioni sporadiche come invece si erano presentate a Beacon Hills. Era tutto più incasinato e complicato, quasi la sua mente stesse cedendo. «Se dovesse cambiare qualcosa, ti informerò» era fuggito da Derek in pigiama, fregandosene altamente di come potesse apparire agli occhi degli altri abitanti del campus, percorrendo in quelle condizioni la distanza non trascurabile che separava le due ubicazioni, l’appartamento del lupo e il dormitorio a cui Stiles era stato assegnato. Le scarpe le aveva indossate di riflesso, probabilmente perché erano l’unico oggetto di cui avesse necessariamente bisogno, sarebbe stato un disastro fargliele riavere indietro, senza che buon sangue scorresse tra loro da quel momento in poi – ma era mai stato differente? Derek non si era lamentato né l’aveva ripreso e Stiles era uscito con i piedi al coperto senza porsi degli interrogativi che avrebbero potuto suggerirgli di togliersele e lanciarle da qualche parte, probabilmente proprio sul mutaforma, perché Stiles era un pessimo soggetto. Il dolore che gli aveva arrecato, Stiles l’aveva indelebile sulle retine.

«Non lo farai» rivelò per lui il padre, mettendo in chiaro la sua conoscenza sulla mente e le azioni del figlio. «Me ne accorgerò io».

Stiles purtroppo era fin troppo conoscitore di quella verità; avrebbe voluto comunicargli che non era solo, che quella sfida impossibile da vincere la stavano affrontando in due, che era costantemente vigilato e protetto, non gli veniva permesso gli accadesse qualcosa di brutto, che Derek Hale, il ragazzo tormentato ed adombrato, con troppe morti nel cuore, non si scostava da lui e riusciva sempre a trovarlo, ma non era qualcosa che poteva comunicargli, in nessuna circostanza senza allarmarlo e ancora di più una volta che aveva tagliato ogni relazione con il lupo. Stiles non si era mai sentito tanto in svantaggio come quel giorno, in una resa dei conti completamente allo sbaraglio.

 

La palestra era deserta, non vi era una sola ombra o un leggero tintinnio di una palla che palleggiava, le luci erano spente e l’unica fonte luminosa era un quarto di luna che era parcheggiata davanti alle grandi vetrate posizionate nella parte più alta delle mura, tutto era avvolto nel silenzio e c’era un’aria solenne che vibrava nello spazio che Stiles stava respirando. Aveva timore di spezzarla.

Derek era al centro del campo, seduto sul parquet da cui era composto, la palla da basket ferma ed immobile tra le mani, sopra le gambe perfettamente incrociate a fissare il vuoto degli spalti ingrigiti e solitari. Era lì da ore ed aveva impostato il cellullare sulla modalità silenziosa, disattivando perfino la vibrazione, qualcosa che aveva smesso di fare dall’età di quindici anni.

Laura era in ansia, tesa come una corda di violino, Stiles l’aveva vista agitata e scossa quando lui e Scott si erano presentati da lei senza un reale perché se non quello di essere invadenti perché era quello il loro modo di fare, incitarla ancora una volta a togliere radici e allontanarsi da un luogo che la stava risucchiando giorno dopo giorno, ma la lupa mannara non era spensierata e pragmatica come in genere appariva e normalmente la mancanza di Derek tra quelle pareti non era il segnale di qualche catastrofe che si stava abbattendo dietro l’angolo, se non quello di mal sopportare la loro presenza, eppure aveva subito captato che quell’occasione era diversa. «Non so dove sia andato, non lo so mai» Laura non era invadente, rispettava gli spazi ed i tempi del fratello minore, era un’Alpha incredibile e Stiles provava una tale stima per lei come non ne aveva mai provato per nessuno, rimaneva in silenzio a guardare il dolore in cui Derek si crogiolava, senza dare accesso a nessuno; se l’avesse forzato avrebbe ricavato solo risultati negativi ed era qualcosa che non poteva permettersi. La chiusura di Derek era travolgente e lesionante, eppure la complicità tra i fratelli Hale era evidente e palpabile, il mutaforma riuscita a respirare, ma non permetteva a nessuno, eccetto lei, di avere un punto di osservazione.

«È oggi?» dopo essersi defilati per non peggiorare l’umore di Laura e permetterle di tranquillizzarsi lontano da sguardi invadenti, lui e Scott si erano diretti alle rispettive dimore, peccato che Stiles avesse un altro piano, un tentativo da compiere, principalmente perché non era affatto discreto.

Derek non si prese la briga di voltarsi o occhieggiarlo in qualche modo, l’umano era sicuro di essere stato udito chilometri più avanti, quando aveva posteggiato la Jeep azzurra al parcheggio più vicino alla palestra. Così come non attendeva nessun commento da lui.

Il figlio dello sceriffo si piantò dov’era, vicino alla prima fila degli spalti da cui generalmente si teneva alla larga, preferendo posti più alti, e si sistemò lì, in attesa probabilmente di essere cacciato malamente.

«Sì» proferì affermativamente la creatura della notte, secca, precisa, una conversazione conclusa.

Stiles si sarebbe detto sorpreso, ma non era vero, il lupo rispondeva sempre ad una domanda diretta se riteneva fosse necessario, semplicemente evitava di trovarsi in quelle situazioni. Evitava proprio di farsi trovare facilmente. «Anche quello di mia madre ricade in questi giorni» soltanto sei giorni li dividevano ed era qualcosa che avrebbe volentieri evitato di avere in comune con il capitano della squadra di basket, ma in quei due anni aveva capito che i punti in grado di renderli affini erano proprio le morti dei loro cari. Da nessuna delle due parti era stata serena. «Lo vivo ogni anno in modo diverso» anniversario, ricorrenza, Stiles non aveva mai apprezzato quei vocaboli, trovandoli distorti e tendenziosi, facilmente fraintendibili affiancati al ricordare un lutto, uno dei momenti più brutti della vita di una persona. Doveva esserci gioia, ma non riusciva mai a provarla, c’erano solo rammarico, tristezza e senso di colpa.

«Perché ogni anno lo è» e Derek ne era distrutto ad ogni secondo, le macerie continuavano a cadergli addosso, non riusciva a scrollarsi la cenere e mettere un piede dopo l’altro risultava di una difficoltà immane.

Stiles lo fissò attento, attraversato dalla strana sensazione che soltanto Derek fosse in grado di riuscire a capirlo, senza realmente spiegarsi la motivazione. «Sì, è vero» ma in realtà lo sapeva troppo bene, conosceva la storia delle mani che si erano sporcate di sangue per risparmiare ulteriori sofferenze al primo amore del lupo. Gli occhi da beta di un dorato brillante erano mutati in un blu metallico, freddo. Derek non li aveva mai mostrati a nessuno, celati al mondo, Stiles non li aveva mai visti e gli unici a conoscerli erano i membri della sua famiglia, il branco che era stato raso al suolo. Erano rimasti solo Laura e Peter e dubitava che Derek provasse particolare affetto per quell’ultimo.

Quindici anni e Derek aveva già conosciuto il dolore della perdita per Paige, la prima ragazza che avesse amato e di cui era stato maldestramente il carnefice, con obbiettivi più longevi che avevano uno scopo completamente opposto. Il fato non era stato dalla sua parte ed aveva infierito meschinamente qualche mese più tardi, come se non l’avesse punito abbastanza, togliendogli quasi ogni affetto familiare. Continuare a reggersi sulle proprie gambe era una tale azione titanica che Stiles ne rimaneva completamente attonito.

«Avevi otto anni» Derek entrò nella sua sfera uditiva, spezzando i pensieri infelici in cui si era rinchiuso.

Le iridi d’ambra si ingigantirono, uscendo quasi dalle orbite e direzionate totalmente verso il capitano. «Come lo sai?».

«L’ho sentito» rispose con semplicità il suo interlocutore, con nessuna valenza particolare.

«L’hai sentito» dove? Stiles non ne parlava affatto, era un argomento che affrontava soltanto con suo padre, nemmeno con Scott lo scalfiva mai né lui chiedeva qualcosa in merito. Super poteri o meno, non riusciva proprio a collocare un momento in cui Derek avesse potuto apprendere una tale informazione e cosa ancora più importante, dubitava che potesse rimanergli impressa disinteressato com’era a chiunque non fosse se stesso e ancora meno ai ragazzini che avevano cominciato ad appestargli l’appartamento che Laura aveva comprato per renderlo la loro nuova casa, un tetto sicuro sopra la testa. «È vero anche questo, otto anni» era quasi la metà degli anni in cui l’intera vita del mannaro cambiò.

Derek non commentò né andò oltre, ma Stiles sentiva l’impulso, il bisogno di avvicinarsi; il lupo mannaro aveva la capacità di sentirlo a qualsiasi distanza, ma per Stiles non era lo stesso e interloquire mentre si estendevano metri tra un interlocutore e l’altro non era un aspetto che otteneva il suo apprezzamento. «Aveva una malattia al sistema nervoso. Demenza frontotemporale» la festa dei neuroni che deteriorano. «È stato orrendo» si era alzato ed avviato senza minimamente rendersene conto e si era avvicinato alla postazione in cui pernottava Derek, senza dare l’impressione che volesse alzarsi e andare via.

Si era seduto imitando la sua posa davanti gli occhi interrogativi e sgomenti di Derek, ma non gli aveva intimato di allontanarsi o filare via; Stiles decretò che dovesse andargli bene, che fosse quantomeno accettabile. «Non era più la stessa».

Derek stringe il pallone tra le dita, la tensione che si stendeva per tutte le falangi per la pressione emessa. «Ti ha fatto del male?».

Il figlio dello sceriffo si stupì di una tale domanda e dell’intensità con cui gli fu posta, lo sguardo verde ferreo su di lui, doveva aver captato qualcosa che gli era sfuggito. «Sì» l’amarezza del suo dolore perenne. «Credeva fossi io a farne a lei» quella credenza, quel senso di colpa, Stiles se li portava ancora addosso.

Il lupo sembrò scorgere qualcosa di nuovo in lui, assimilarlo nel grande calderone in cui gettava ogni aneddoto che apprendeva sulla sua persona, le gemme di giada che si accendevano, quell’impercettibile bagliore anomalo blu e rosso che Stiles non riusciva a non notare – anche gli altri riuscivano a vederlo? Era la sua immaginazione incontrollabile?

Derek non chiese altro, non proseguì in alcun modo quella conversazione che suscitava disagio in Stiles, consapevole che certe ferite non si fossero ancora rimarginate.

«A volte vorrei andare via» elargì il figlio dello sceriffo nel silenzio perpetuo e restauratore che si era creato, un desiderio che difficilmente esternava, ma che era sempre lì, presente nella testa. «Mi sento soffocare, le cose diventano più pressanti. Ricominciare da un’altra parte».

Derek fece ruotale il pallone da ottocento grammi tra i polpastrelli, precisi, chirurgici, emettevano una sorta di risposta. «Avrai già una meta».

Stiles si scoprì sorpreso di quell’affermazione così precisa, cadenzata, senza dubbi. «Dici?».

«Sì» affermò con fermezza, privo di tentennamenti. «Ne sono sicuro».

Si chiese come potesse il mannaro avere una tale sicurezza su di lui, nessun palliativo in mezzo. «Ho un percorso che vorrei seguire, diventare un detective a tutti gli effetti, davvero capace».

«Sei già una spina nel fianco così, Stiles» rivelò con un sarcasmo stranamente sincero, senza nessuna intenzione di redirlo, ma di giocarci su.

«Sei davvero il lupo più acido che conosca» Stiles si imbronciò vistosamente, le guance che si gonfiavano e la posa offesa, assestandogli un’occhiata della stessa intensità.

Derek rise di gusto, una piccola risata circoscritta, ma Stiles non credette di averla mai udita e allo stesso tempo era la più rumorosa che avesse toccato il suo padiglione auricolare. «Ho detto soltanto la verità».

«Sì, beh, potevi tenertela per te» l’oltraggio non riusciva proprio a toglierselo di dosso né aveva realmente intenzione di farlo.

Derek rilasciò un minuscolo sbuffo di risa e Stiles si chiese se fosse capitato in altre circostanze che potesse osservarlo ridere, spezzando l’aria crucciata in cui versava in ogni singolo giorno da quando lo conosceva. «Allora?».

«Ah, sì» ma di cosa stessero discutendo il liceale del secondo anno ne aveva completamente perso il filo. «Michigan State University, voglio partire da lì. Il resto è un’incognita».

«Uno tra i migliori college del paese» concretizzò la creatura della notte, afferrando il nome e la fama che lo precedeva. «È molto lontano da qui».

Lontanissimo. «Sì» forse era quello a stuzzicarlo maggiormente. «E ha uno dei migliori corsi di criminologia» fondamentale.

«Ovviamente» Derek lo bersagliò ancora con quell’ironia speziata, una smorfia arcuata sulle labbra e Stiles gli soffiò contro come un gatto maltrattato, dettaglio che crebbe l’ilarità nel diciottenne. «Ha anche delle temperature molto rigide, Stiles».

Non gli piacque come scandì il suo nome, con la burla calzante e la sicurezza che fosse talmente sbadato da non aver contemplato quel particolare. «Mi equipaggerò in modo adeguato».

«Certamente» disse sprezzante, non credendogli affatto e mostrando la dentatura bianca serrata.

Derek era un bullo, Stiles l’aveva percepito nel passato, ma in quel momento ne era convinto in ogni aspetto.

Si indispettì talmente tanto che si tolse dal campo visivo del capitano della squadra di basket, sistemandogli dietro la sua schiena e perseverando nella sua missione da sostenuto. Il lupo non si scompose né lo cercò, non ne aveva bisogno, e semplicemente si mutò, lasciando che i suoni venissero assorbiti fino a svanire totalmente.

L’umano non provava profonda simpatia per il silenzio, ma quello con Derek era differente da tutti gli altri, era accomodante e prezioso, comunicava più di qualsiasi agglomerato di lettere ed era confortante, necessario. Era un silenzio che Stiles difficilmente avrebbe spezzato, sarebbe anche potuto durare delle ore. «Se ti senti offeso, perché resti ancora qui?» ma era evidente che Derek avesse dei piani diversi.

«Voglio restare con te» il licantropo non credeva realmente che Stiles se la fosse presa seriamente, avevano il loro pittoresco modo di giocare e le loro pochissime interazioni erano scandite in quella modalità. Stiles non si sarebbe mai arrabbiato con lui per così poco, ma voleva sentirlo parlare per un qualche motivo. «Non voglio lasciarti da solo» Stiles sapeva perfettamente cosa significasse e cosa provasse.

«Sono sempre solo» dichiarò la creatura leggendaria, la voce precisa che dubitava avesse bisogno di farglielo presente.

«Soltanto perché tu vuoi che sia così» la sofferenza e la tristezza nel mutaforma l’umano riusciva a percepirla comunque, anche se il suo tono fermo tentava di celarli costantemente.

Il figlio dello sceriffo non voleva infierire in alcun modo, non doveva dirgli lui come vivere la sua vita, abbattere i muri che teneva alzati perfino con Laura ed Erica, le uniche che continuavano a fiancheggiarlo anche se le rifiutava continuamente. Derek rifiutava tutti, senza distinzioni, era arbitrario e non aveva delicatezza per nessuno, a Stiles era servito del tempo per farselo entrare in testa, che non ci fosse alcuna premeditazione nei suoi confronti, ma provocargli dei fastidi non rientrava nel pacchetto. «Una volpe astuta come te saprà cavarsela» e Derek se ne uscì con qualcosa di incredibilmente inaspettato e disconnesso, forse un pensiero tra sé e sé.

«Una volpe?» gli fece eco il sedicenne, incredulo ed attonito, incerto del reale significato che le sue orecchie avevano registrato.

«Una volpe dal manto infuocato» proferì con una cadenza ridondante, quasi in un sogno colmo di afflizione.

La colonna vertebrale dell’essere umano fu attraversata da una scossa non identificabile e si stava perdendo del tutto, avrebbe voluto sporgersi e tornare sotto lo sguardo vigile di Derek, quello così speciale nei suoi confronti, ma il suo orgoglio glielo impedì ed in qualche modo si era creata una finestra comunicativa che proprio non si aspettava. Si chiese anche se stesse realmente parlando con lui, se i protagonisti fossero ancora loro, ed un malessere lo colse quando la parola infuocato attecchì; tutti i suoi pensieri furono deviati e non riuscirono più a tornare indietro, a quello a cui Derek tentava di dare un senso.

«Non è un tabù» proferì il capitano, i sensi che si attivarono intorno al rabbuiarsi delle emozioni del ragazzo.

Stiles scattò risvegliato, caduto nelle tenebre degli eventi che avevano toccato il giocatore; una sola parola era pericolosa nel percorso incrinato, sottile ed incerto in cui provavano a poggiare i loro piedi. «Con te, tutto sembra esserlo».

Ancora una volta Derek non aggiunse nulla, tutto si fermò esattamente lì, qualcosa di concluso senza una continuazione. Erano lì per quello, un posto lontano dal clamore da cui il lupo fuggiva, tormentarsi per le vite che non c’erano più nella ricorrenza a loro dedicata; era la seconda a distanza di pochi mesi e da tre anni Derek si ritrovava a riviverle: una per Paige, una per la sua famiglia. Stiles era solo un intruso che conosceva parte del suo dolore, infiltrato e fuori posto, sapeva che avrebbe dovuto lasciarlo a se stesso, ma era qualcosa che gli risultava ostica. L’avrebbe fatto se gli fosse stato chiesto, ma il mannaro non sembrava attraversato da quell’urgenza, in qualche modo gli andava bene o qualsiasi cosa gli si avvicinasse.

«Non è il luogo in cui sono più felice, al momento» Derek lo disse all’improvviso, cogliendo del tutto impreparato il figlio dello sceriffo.

La voce atona del lupo gli entrò nei timpani e Stiles non sapeva proprio cosa avesse dovuto dire, che risposta si aspettasse da lui. «Quando giochi lo è» se ne aspettasse effettivamente una. Stiles non aveva mai inquadrato il luogo, ma l’attimo. Poteva accadere in qualsiasi posto nel mondo, l’importante era che Derek avesse un pallone da basket con sé.

«Ero qui» rivelò il capitano qualche secondo dopo, non facendo comprendere all’umano se avesse afferrato la differenza di ciò che era in grado di individuare. «Quando è successo».

Stiles non se l’aspettava proprio, si irrigidì senza comprenderne davvero il perché. Aveva letto il rapporto, aveva divorato gli articoli di giornale che descrivevano passo per passo i movimenti della famiglia Hale, dai deceduti ai sopravvissuti che casualmente, e fortunatamente, non si trovavano ancora all’interno della dimora della famiglia più facoltosa della città. Stiles sapeva bene che la creatura della notte era impegnata in uno degli allenamenti settimanali programmati, il suo rientro in casa non era previsto nelle ore in cui il fuoco aveva divorato ogni cosa.

«Li ho uccisi io, è colpa mia» Derek lo disse e basta, sputò fuori la verità che lo annichiliva.

Stiles credette di avere un serio problema di udito, di aver frainteso totalmente le sue parole. «Non è affatto vero» si agitò sul posto, non riusciva proprio a capire cosa intendesse.

«Lo è» il playmaker avrebbe voluto ridere sguaiatamente e crudelmente della sua ignoranza, quella di entrambi; non gli era permesso molto. «Avevo conosciuto una ragazza dopo… Paige» Derek articolò una notizia inedita per Stiles. «Una donna» l’umano non si proclamava il più grande conoscitore di Derek Hale e in quegli anni non l’aveva nemmeno mai incontrato, non frequentavano alcun luogo in comune e Stiles aveva soltanto tredici anni all’epoca, non c’era nulla che potesse accomunarli, ma la gente parlava, il nome degli Hale e di Derek passava di bocca in bocca. Non avevano smesso nemmeno in seguito, quando Stiles aveva fatto il suo ingresso da liceale, ma non aveva mai sentito di una nuova ragazza o donna dopo la morte prematura del primo amore del lupo. Se l’avesse udito da qualche parte, campanelli d’allarme sarebbero risuonati alla parola donna. «Erano trascorsi soltanto un paio di mesi ed ero già infatuato di un’altra» uno sbuffo di risa derisoria gli sporcò la voce, c’era una tale amarezza in Derek che Stiles ne fu colpito come se fosse stato attraversato da una freccia. «Poi innamorato, è stato tutto molto veloce» troppo, avrebbe in seguito compreso Derek. «Credevo di aver trovato la persona giusta» non proseguì, non specificò che tipo di persona fosse, che cosa volesse ricevere da lei, ma Stiles comprese che un seguito ci fosse, che le speranze ed i desideri del mannaro avevano cercato di realizzarsi, soltanto che il figlio dello sceriffo non sapeva quali fossero. «Ma lei aveva altri progetti, altre mire».

Stiles non era sicuro di sentirsi bene, lì seduto a contatto con la schiena di Derek, totalmente impossibilitati dal potersi osservare, il che forse era un bene in quella circostanza. Ingoiò a vuoto, la gola che si faceva secca, arida, aveva la brutta sensazione di capire dov’è che volesse andare a parare. «È stata lei?».

«Sì» la conferma arrivò ad una velocità incalcolabile, ne fu travolto, si chiese se avvenne anche al mutaforma. «Mi ha sedotto, stregato e legato a lei. Quello che per me era stato confuso per amore era solo il frutto del suo piano, istruito e ingannato con il sesso» Derek avrebbe voluto vomitare, dal giorno dell’incendio, dal momento della realizzazione, non aveva provato altro, eppure c’era riuscito soltanto una volta e non era stata sufficiente. «Riusciva a farmi parlare di qualsiasi cosa, di certi aspetti di cui non sarebbe mai dovuta entrare a conoscenza. Le riunioni tra i branchi, le difese della mia casa, piccoli aneddoti non correlati tra loro, vuoti e vuoti a raggirarmi, con l’illusione che non ci fosse niente di oscuro dietro, che la mia sicurezza non sarebbe stata intaccata, perché stavo semplicemente conversando di tutto e di niente con una persona che amavo».

Il silenzio cadde nuovamente, Stiles avvertiva una nuova ferita che non pensava potesse appartenergli. Un nuovo dolore. Ne aveva sempre provato uno di riflesso a Derek, il mannaro non era mai riuscito a nasconderlo né ne aveva l’intenzione e Stiles l’aveva percepito tutto come se lo stesse vivendo sulla propria stessa pelle. Dalla prima volta che l’aveva incontrato dopo il morso di Scott, glielo aveva letto negli occhi e credeva che Derek si tenesse alla larga da lui anche per quell’aspetto, ma era evidente quanto non avesse, invece, capito nulla, che la sofferenza affine era dovuta all’enorme senso di colpa che si portavano entrambi dietro e che inizialmente aveva attribuito soltanto alla dipartita di Paige. Non era mai stato tanto in errore. «Perché avrebbe dovuto?».

Derek sigillò la bocca, si chiuse rigorosamente in se stesso e Stiles lo percepì nell’immediato, le due schiene poggiate l’una sull’altra, i muscoli che si contraevano, il peso che diveniva insopportabile. «Perché è quello che fanno i cacciatori».

Stiles tremò in ogni parte, le vene si raggelarono e si sentiva morire dentro. «Chi è la cacciatrice?».

«Lo sai» fu tutto quello che la creatura leggendaria disse, senza spingersi oltre.

Kate psicopatica Argent, il mondo era un posto davvero orribile. «Chi altri lo sa?» non disse il suo nome, non ne aveva il coraggio, non lo riteneva giusto, Derek non ci aveva nemmeno provato e Stiles non le avrebbe permesso di avere altro potere su di loro.

«Nessuno» dichiarò lapidario il capitano della squadra di basket.

«Derek» il suo nome fu detto in una forma di rimprovero, lo stava giudicando apertamente. Come poteva celare un segreto come quello? Come poteva non dire di essere stato adescato da una persona che aveva una decina di anni più di lui, un’adulta che si era approfittata di un quindicenne con un dolore troppo grande da poter gestire.

Stiles lo trovava rivoltante, disgustoso, avrebbe voluto urlare tutto ciò che Derek celava dentro di sé. Gli aveva tolto ogni cosa, ogni esperienza buona e pulita che nasceva dall’attrazione e dall’unione di due corpi che si esplorano e si desiderano, crescendo insieme, divenendo un tutt’uno. A amare e farsi amare, a sentirsi amato. L’aveva sottratto della possibilità di piangere se stesso, di riuscire a ricomporsi dopo essere stato, suo malgrado e stupidamente, l’esecutore della morte di Paige; ricominciare a capire chi fosse dopo che gli occhi da beta si erano tinti di blu. L’aveva privato del conforto e dell’amore della sua famiglia, genuino ed incondizionato, che avrebbe sempre lottato per lui. Gli aveva negato il cammino che un giorno l’avrebbe liberato dai sensi di colpa che l’avevano cambiato, invece si ritrovava ad esserne sommerso, schiacciato, a non riuscire nemmeno a guardarsi più in faccia, ad affrontare ciò che era; erano triplicati, era condannato. Non sarebbe più stato in grado di fidarsi di nessuno, di guardarsi da chiunque lo circondasse, dal diffidare sopra ogni cosa delle persone che amava. L’aveva condannato a respirare la cenere.

«Stiles, non deve saperlo nessuno» marcò stretto il lupo mannaro, incisivo e spietato, non avrebbe permesso niente di diverso.

«Allora sei tu che devi saperlo» Stiles insistette, perché Derek doveva essere in grado di capire quale differenza ci fosse. «Non sei tu l’artefice della morte della tua famiglia. Lei ti ha usato per arrivare a loro. Ti sei fidato della persona sbagliata».

«Non fa distinzione» la rigirò il capitano, sordo ed insensibile a ciò che l’umano tentava di fare. «È come se la scintilla che ha fatto divampare le fiamme l’avessi accesa io».

Stiles realizzò che cosa vivesse davvero in Derek, era lo stesso sentimento che provava anche lui nei confronti di sua madre e non riusciva a vederci nessuna diversità. Divenne una statua di pietra perché non era in grado di dire qualcosa che lo confortasse, era svuotato. «Devi odiarci molto: me, Scott ed Allison» l’astio che Derek aveva sempre mostrato per Allison, la riluttanza e l’avversione, Stiles l’aveva imputata al suo essere una cacciatrice, appartenente ad una delle famiglie più antiche di cacciatori, ma da quel momento in poi un altro fattore più rumoroso e deleterio ne entrava a far parte ed era la parentela stretta che la legava a Kate. Ritrovarsi riflesso in Scott, in quel circolo vizioso che si ripeteva, lo aveva logorato più di quanto fosse percepibile. Nessuno avrebbe potuto capirlo senza conoscere le sue ragioni e veniva continuamente frainteso. Come dovevano apparirgli tutti loro? Il sentimento romantico che Allison e Scott avevano istaurato e quello di amicizia che stringeva con Stiles. Loro tre avevano fatto di tutto per non essere divisi, trascinandosi dietro molte altre persone, allargando il loro seguito, con Jackson e Lydia, rispettivamente lupo mannaro e banshee; sapeva che quel gruppo ospitato da Laura a condividere tutte le sue conoscenze si sarebbe ampliato. Era tutto l’opposto di ciò che era toccato a Derek.

«Non ti odio, Stiles» dichiarò invece il lupo, scacciando fuori quella possibilità inesistente; era ridicolo in partenza. «Non credo di essere in grado di provare nulla».

Il sedicenne avvertiva i dotti lacrimali pizzicare, era qualcosa di insopportabile, non credeva nemmeno fosse giusto nei confronti di Derek versare quelle lacrime che tratteneva con tutte le sue forze. Chissà se, invece, il mannaro fosse in grado di versarle, se fosse riuscito a scaricarsi in qualche modo prima di diventare apatico. «Devi andare via» sentiva il cuore pieno di tristezza. «Non c’è più niente qui per te, Derek, se non un essere spregevole che vuole continuare a torturarti».

«Niente» assimilò il licantropo, facendo eco al figlio dello sceriffo. La stava gustando, le stava dando un senso, trovava amaro anche quella. Era inesatto.

«Hai tutto il mondo dove poter ricominciare, dove poter respirare» la voce di Stiles crebbe, appassionata, credente, era lì la chiave di tutto. «Prendi Laura e va via, lei si allontanerà soltanto se lo farai anche tu» il blocco di Laura consisteva anche in quello, oltre al compito degli Hale di vigilare su Beacon Hills. Ma bastava un branco, arrancato ed anomalo, ma era abbastanza e Stiles voleva soltanto che loro due potessero riprendere la loro vita in mano. «È tempo» qualunque essa fosse.

Non fu aggiunto più nulla, il silenziò regnò sovrano e restarono in quella posizione per le ore successive, schiena contro schiena, senza mai osare sbirciarsi; Stiles non era sicuro di che cosa avrebbe trovato, su cosa Derek stesse riflettendo.

Il cielo si tinse leggermente di rosa, la luna era ancora luminosa nel cielo, il sole era pronto a nasconderla irradiandolo con la sua luce incontrastata. Fu a quel punto che Derek si alzò e Stiles fu costretto di rimando, ma persisterono a non dirsi nulla. La giornata scolastica di Stiles fu un disastro, non avendo mai chiuso occhio e frastornato dalla verità che Derek gli aveva rivelato, consapevole e doveroso di dover preservare il segreto.

Quando Derek alcuni mesi dopo riuscì a diplomarsi con dei voti notevoli, il campionato di basket ovviamente vinto, si volatilizzò insieme a tutti i suoi averi. Soltanto Laura li salutò, una valigia alla mano, mentre tutti i pacchi con i loro oggetti personali erano già stati spediti nella città che avevano scelto, il luogo in cui lei aveva incominciato il suo viaggio in solitaria prima che la tragedia la colpisse. New York era l’unica meta che gli fu comunicata, non credeva ce ne fossero altre.

Avrebbe voluto affermare di non essere stato turbato dal mancato ultimo incontro con lo stoico capitano, di aspettarsi esattamente quello da lui, ma non era vero. Al di fuori della verità che avevano condiviso, Derek era un pezzettino di lui e non l’avrebbe rivisto mai più.

Non avrebbe nemmeno più incontrato quello sguardo speciale ed indefinito che Derek gli riservava e che, inconsciamente, Stiles si era ritrovato a ricercare nel prossimo.

 

Insolitamente Stiles aveva ordinato un cappuccino, una scelta che generalmente non rientrata nel suo menù e di fatti se lo rigirava tra le mani, avendone bevuto solo un sorso. Forse voleva soltanto provare spensieratezza osservando il disegno che i baristi sperimentavano giocando con la schiuma. Era una foglia, bella, ma insipida.

«Luna crescente» proferì a voce moderata Erica, la porta che si chiudeva dietro di lei, il campanello che tintinnava, la scritta Crescent Moon in quel lilla pastello rasserenante che figurava tra le pareti nel locale, oltre all’insegna appesa fuori dall’edificio. «È esilarante, divertente. Non credo di essere mai stata qui prima d’ora. A Derek piacerebbe».

Stiles non afferrò se fosse sarcastica o sincera, era sicuro che il lupo si sarebbe lasciato scappare uno sbuffo esasperato, crudo. «La mia vita è esilarante».

«Vero» la mannara approvò, mentre si accomodava al piccolo tavolino a due posti che l’umano aveva scelto, non prima di aver ordinato un frappuccino al cioccolato ed un paio di ciambelle dalla glassatura azzurra.

Rimasero in rispettivo silenzio, la ragazza ad addentare il suo dolcetto e Stiles a giocare ancora con la sua tazza piena, la schiuma stava svaporando, perdendo la consistenza. «Avete litigato?» si vide costretta a chiedere, l’evidenza fioccava.

«Se è così che vuoi vederla» Stiles non aveva proprio idea di cosa fosse. Presupponeva che per avere un alterco con qualcuno preesistesse una sorta di rapporto, che fosse buono o pessimo, e che in seguito portasse a doversi chiarire e scusarsi, ma lui e Derek erano indefiniti. Non c’era nulla prima e non ci sarebbe stato altrettanto dopo.

«È più scontroso del solito, quindi direi di sì» disse Erica incalzante, lasciava intendere qualcosa che gli appariva estraneo.

«È una cosa possibile?» la matricola soffiò un mezzo sorriso, divertito dall’assurdità di quell’aspetto.

Erica sorseggiò la sua bevanda, il portamento perfetto, l’impossibilità di sporcarsi anche con quella vagonata di panna farcita di fondente. «Lo è, se si tratta di te».

Stiles fu pizzicato dall’incredulità, il capo eretto, le pupille nere si rimpicciolirono e le iridi di miele si fecero più evidenti. Erica l’aveva guardato solo per un attimo con uno scintillio particolare negli occhi e poi era tornata imperturbabile. Non riusciva a cogliere l’allusione che gli aveva gettato in pasto; forse non aveva abbastanza elementi per arrivarci.

«Puoi consegnargliele tu?» lo studente di criminologia lasciò correre, si concentrò sull’afferrare la tracolla ed aprirla, estraendo il solito sacchetto ormai designato a quel compito.

Erica osservò l’involucro di carta contenere oggetti personali del nato lupo, accuratamente riposti e conservati dall’essere umano. «Non vuoi proprio incontrarlo?».

«Meglio di no» non gli passava per l’anticamera del cervello.

Erica indugiò, si trovava in difficoltà e Stiles non se ne capacitava, temeva che l’ira del playmaker si abbattesse su di lei? «Non credo si dispererà se per qualche giorno rimarrà senza un paio di scarpe, nemmeno lo noterebbe».

Stiles aveva le sue riserve su quell’aspetto. «È giusto così» non aveva intenzione di trattenerle oltre, non era corretto, come non lo era pretendere e prendere troppo da Derek. Al lupo non importava, se li lasciava scivolare addosso, ma a Stiles non andava bene.

«Va bene» la lupa mannara rassegnata afferrò il sacchetto di cellulosa da sotto il tavolo e lo affiancò ai piedi della sedia. «Me ne occuperò io».

Con un singolo cenno del capo il figlio dello sceriffo mimò un ringraziamento e tornarono a godersi quello spuntino che spezzava la rigidità delle lezioni giornaliere. Intavolarono conversazioni varie, mentre Erica gli offriva una delle ciambelle colorate, ma non venne più fatto alcun riferimento al capitano della squadra di basket.

 

Erica gli aveva comunicato quanto Stiles fosse irrequieto quella sera, come mai le era capitato di assistere, il che non era un gran metro di giudizio, perché erano passati poco più di due anni da quando lo frequentava assiduamente, non poteva sapere quanto fosse cambiato, aspetto che Derek invece aveva appreso. Era ancora Stiles, ma era più rotto rispetto a come l’avessero lasciato, più appuntito. Erica, tuttavia, aveva insistito, facendo emergere quanto fosse preoccupata.

«C’è la luna piena, stanotte» aveva detto con lungimiranza, come se quello spiegasse ogni cosa.

«Stiles è umano, non ne viene influenzato» ed era un vantaggio, dopotutto. La lupa non avrebbe dovuto farsi allarmare per qualcosa che in realtà non poteva toccarlo. Era ciò che viveva dentro Stiles a dilaniarlo.

Aveva negato fortemente con il capo, i boccoli dorati che oscillavano in ogni parte, le iridi nocciola decise. «Lui non è come gli altri».

Era vero ed era sempre stato quello il problema.

Il buio calò e il satellite brillava nella sua totalità in mezzo all’oscurità, era lì, il plenilunio; Derek lo sentiva in ogni cellula. Sentì anche i nuvoloni assembrarsi, l’acqua cominciare a cadere, il vento irrigidirsi. Era una pessima notte in cui girovagare, in cui perdersi. Ed ovviamente, all’una passata, Derek lo percepì, ma non riusciva ad individuare il luogo.

Si precipitò per le scale, il portone che sbatteva e la pioggia che si faceva sempre più fitta; non riusciva a registrare nitidamente l’odore, le tracce erano state completamente cancellate dall’acqua e Derek si ritrovava in svantaggio come poche volte gli era capitato.

In mezzo alla strada, i sensi attivi e l’essere completamente zuppo, attivare gli occhi da lupo non gli bastava.

La trasformazione totale fu la sua scelta, l’unica che avrebbe potuto intraprendere e mentre i vestiti si laceravano e cadevano a pezzi, le zampe nere toccarono terra e presero il volo, correndo a perdifiato ovunque gli venisse alla mente, seguendo quelle poche tracce che da lupo completo era maggiormente in grado di captare.

La disperazione lo colse dopo che trascorse mezzora a cercarlo, cambiando direzione continuamente, battendo i luoghi più vicini al Mayo Hall e al suo appartamento, percorrendo la Grand River Avenue più prossima al campus senza trovare nulla. Ululò, quasi potesse ricevere aiuto da qualche parte, trasmettere la sua frustrazione e preoccupazione.

Con l’acqua che scorreva e continuava a cadere dal cielo, Derek fu trascinato verso il Red Cedar River, il fiume che divideva l’immenso campus della Michigan State University, i ponti gli unici accessi che permetteva di renderlo un unico ambiente impossibile da separare. In alcuni di quei ponti spesso aveva trovato Stiles, in più occasioni la casualità o il suo subconscio gli avevano fatto percorrere quello che l’avrebbe condotto al 1855 Place, da Derek. Ma quel giorno non sembrava che fosse quella la priorità, il naso nero fiutava e fiutava, ma non otteneva risultati, di ponti ne aveva già supervisionati diversi.

Le sue orecchie si tesero quando sentì dei passi ovattati, piedi che scivolavano sul terreno, sulle radici degli alberi che facevano da ostacolo, il liquido acquatico che rendeva tutto scivoloso. Corse nella direzione del rumore, le zampe che quasi fluttuavano per quanto andasse veloce, incurante di ciò che aveva intorno; non doveva perdere la traccia, non poteva permettersi di rilassarsi.

Il panico e l’orrore lo colse quando individuò Stiles sulla riva del fiume, nella parte più selvaggia, in cui la civiltà aveva fatto del suo meglio per minimizzare il suo zampino. Derek avrebbe quasi voluto che ci fosse una colata di cemento ovunque, avrebbe reso l’impresa più facile.

Stiles non stava rallentando, la violenza della pioggia lo spingeva in basso e lui non sembrava intenzionato a risalire, quindi Derek scivolò, gli artigli sul terreno e sul calcestruzzo, le iridi accese che fendevano l’oscurità.

Abbaiò, ma Stiles non lo avvertì. Ringhiò, ma Stiles persisteva a scendere.

Riuscì a balzare, la tormenta che voleva lasciar vincere la gravità, la violenza e la forza che servirono a Derek per completare l’impresa. Gli addentò la maglia del pigiama completamente inzuppata, i denti che affondavano e tiravano per allontanarlo dal letto del fiume, ma lo studente del primo anno si ribellò e si divincolò, la maglietta allargata, il tessuto che si lacerava e il lupo fu costretto ad allentare la presa, temendo che la matricola potesse farsi ulteriormente del male. Fu a quel punto che il figlio dello sceriffo si gettò nel corso d’acqua o cadde, Derek non riuscì a definirlo, a trovare la verità.

La corrente della tempesta lo trascinava via e il mannaro si tuffò, uggiolando per il dolore e il terrore, spingendosi con violenza verso di lui, per riuscire ad acchiapparlo, impedire che la corrente lo portasse via dove Derek non sarebbe stato in grado di raggiungerlo. In tutto quell’affanno, la luna perseverava ad avere potere su di lui e la creatura della notte annaspava, si dibatteva dentro di sé per riuscire ad avere la meglio e mettere al primo posto lo studente di criminologia. «Dannazione, Stiles» fu la mano umana a riuscire ad afferrarlo, la trasformazione in lupo completo che si annullava, il braccio che si avvolgeva intorno al corpo della matricola, stringendo mentre tentava di nuotare controcorrente e spingersi verso la sponda più vicina.

«Svegliati» Stiles continuava a dibattersi, a far violenza verso se stesso e Derek, li trascinava verso il fondo come se fosse una cosa voluta. «Stiles, svegliati» ma l’umano non si svegliava, nemmeno l’imbatto con l’acqua ghiacciata riusciva a destarlo. Il sonno che lo imbrigliava era talmente potente da non permettere che ne scappasse, Derek ne era inorridito più di quanto non lo fosse stato in passato. Più passava il tempo più credeva di averlo compreso, invece si ritrovava punto ed a capo. Gli ultimi due episodi si stavano rivelando più tortuosi di quanto potesse immaginare e temeva soltanto che la situazione potesse degenerare.

Con una fatica immane ottenne il risultato di sospingerlo verso la riva, metterlo in sicurezza, con il mannaro che lo seguì subito dopo, bisognoso di riprendere le forze e rendersi conto di cosa fosse realmente accaduto, ma il figlio dello sceriffo non aveva l’intenzione di permettergli di recuperare le energie e riprese a muoversi in una direzione qualsiasi, opposta a quella in cui si trovava lui. «Stiles, fermati» Derek era sfinito, ma non gli permise di allontanarsi troppo da sé, intercettandolo e bloccando la sua avanzata, afferrandolo per entrambe le braccia, scuotendolo in un'unica volta. «Basta».

Stiles tremava in ogni parte, la pelle d’oca lo rivestiva in ogni lembo di epidermide, le gocce che scivolavano insieme alla pioggia che invece di rallentare prese a cadere più forte, senza fornirgli una tregua. Non c’era benevolenza per loro quella notte, forse in nessuna. «Lei verrà a prendermi, è vicina, devo andarmene».

«Lei non è qui» dissentì Derek, la voce alta che cercava di fendere il sovrastare dell’acqua. Era ovunque, sotto di loro e sopra, ne erano circondati, bersagliati. «È molto lontana da qui, non potrà mai raggiungerti».

Stiles lo guardò crucciato, indifeso e intrappolato in qualcosa più grande di lui. «Come puoi esserne sicuro?».

«Sono sicuro che non le permetterò più di toccarti» non aveva la stessa sicurezza di riuscire a tenere Stiles lontano dal male che lui stesso si procurava.

L’umano apparve dubbioso, affranto, spezzato. Rimettere tutti quei pezzi al loro posto sarebbe stata un’azione titanica e non c’era alcuna certezza che sarebbe riuscito nell’impresa. «Derek».

Doveva davvero sorprendersi? Era la seconda volta che lo chiamava per nome in quella sorta di malia in cui si era rinchiuso, non riusciva ad identificare che cosa significasse. Una mano risalì dal braccio fino ad una guancia, i capelli scuriti e grondanti d’acqua vennero scostati dalle dita che emettevano calore e si incastrarono esattamente lì, a fermare il tempo. La fronte si appoggiò alla sua e per la prima volta sentì Stiles rilassarsi sotto di lui, socchiudere appena le palpebre come se avesse ottenuto una sorta di liberazione. «Ci riuscirò».

La prima cosa che Derek fece quando rientrarono al monolocale, fu di riempire la vasca con l’acqua calda, successivamente decise di mettersi qualcosa addosso che non fossero residui di abiti strappati.

Condusse Stiles con lentezza, i sussurri di rassicurazione che soffiava nelle orecchie, liberandolo dal pigiama composto più da acqua che da fili di cotone, invitandolo a immergersi con delicatezza.

La pelle era ancora ghiacciata, le labbra si erano tinte di un blu preoccupante e Stiles non accennava a volersi svegliare; stava cercando in tutti i modi di rispettare il suo volere senza violarlo troppo. Riuscì a lavargli e togliergli ogni traccia della notte spaventosa che avevano vissuto, assorbì ogni graffio e tentò di riportarlo ad una temperatura corporea umana.

Quando lo fece uscire, lo avvolse nel telo doccia più grande che avesse e asciugò ogni parte che osò toccare, strizzando ogni stilla dai capelli puliti e nel momento in cui raggiunsero il letto, si rese conto di non avere nulla di caldo e comodo che Stiles avrebbe potuto indossare. Si ritrovò a fissare un indumento nel suo armadio esposto e coperto solo da tende che non pensava avrebbe vai valutato per un utilizzo, ma era l’unico vero pigiama che avesse, completo di ogni pezzo e dalle maniche lunghe.

Con un nodo in gola difficile da ingurgitare, si apprestò a farlo indossare al figlio dello sceriffo, guidandolo tra le coperte e rimboccandolo in ogni centimetro. Come ogni volta che toccava il materasso, le palpebre si serrarono e fu catturato dentro un sonno che aveva davvero la briga di essere restauratore, tuttavia tremava ancora e Derek non sapeva proprio cosa avrebbe dovuto fare per fornirgli ulteriore calore.

Un pollice si depositò al centro della fronte sfiorandola con tenerezza, le dita del resto della mano gli scostavano i ciuffi ribelli ed ancora umidi dal viso, e fu investito dall’irrefrenabilità delle labbra che si schioccarono su quel punto, non riuscendo a mitigarla e ricevendo in cambio un mugolio di apprezzamento da parte di Stiles. «Giochi sporco».

Lo lasciò alla sua inconsapevolezza, la necessità di togliersi dalla pelle e dalla mente la sensazione dell’episodio burrascoso vissuto soltanto meno di un’ora prima, la sporcizia della sensazione che un altro maleficio gli avrebbe sottratto un altro pezzo di sé.

Fu un’acqua purificatrice a calare su di lui, togliere ogni residuo della freddezza della pioggia e del fiume, avrebbe potuto chiudersi lì dentro per ore intere.

Nel momento in cui si circondò di un asciugamano che aveva il compito di asciugarlo, legandolo alla vita, si indirizzò verso il letto, a controllare che il suo ospite fosse dove l’avesse lasciato. Stiles era ancora lì, un fagotto di coperte, ma i brividi di freddo non cessavano e la temperatura saliva troppo lentamente, non era per nulla un indice positivo. Migliorò quando si avvicinò a lui, a testare le sue condizioni, ma non era sufficiente.

Sotto il suo collo assunse la forma di lupo completo, il telo doccia non riusciva più ad avvolgerlo e scivolò per terra, acciambellandosi contro di lui e depositando il muso all’altezza del cuore, infondendogli tutto il calore che la sua pelliccia fosse in grado di donare.

Ci vollero diversi minuti prima che i tremori rallentassero e qualcuno in più per fermarsi completamente. Stiles sospirò di piacere nell’attimo in cui la temperatura si ristabilì e Derek si addormentò così, rilassandosi a contatto con le dita affusolate che l’avevano cercato, intrecciate al manto inchiostrato.

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Capitolo 5
*** 5° Capitolo ***


5° Capitolo

 

Stiles quella mattina non fu ridestato dal sole cocente che filtrava dalla finestra ai suoi piedi, ma dalla pioggia battente, incessante e che oscurava completamente il cielo, le nuvole grigie perseveravano a incutere timore, non garantendo che il tempo climatico migliorasse.

Le dita furono stuzzicate da qualcosa di morbido e peloso ed involontariamente stinse quella consistenza sconosciuta, ma estremamente confortevole e calda che lo avvolgeva completamente. Le palpebre si aprirono con sforzo, uno sguardo appannato al vetro pieno di striature d’acqua, impossibili da focalizzare, stesso destino toccò alla palla di pelliccia che respirava tranquillamente sotto il suo tocco.

La chiazza nera riuscì a metterla a fuoco dopo qualche attimo, tra uno sbadiglio e l’altro, riprendendo confidenza con l’ambiente che lo circondava e che riconobbe al volo. Un lupo nero adulto riposava sul letto, il muso poggiato sul petto e il corpo ricurvo su se stesso, era completamente appiccicato a lui.

Un mormorio di stupore sfuggì dalla sua bocca e la mano risalì verso la testa, affondando nel folto pelo, accarezzandolo dolcemente in mezzo alle orecchie. Non riusciva a scorgere e sentire Derek da nessuna parte, ma non era difficile individuare chi si nascondesse sotto la forma di lupo completo. «Sei davvero meraviglioso» non riuscì a trattenere il sorriso felice ed ammaliato che si dipinse sul volto.

Le orecchie del canide si rizzarono, muovendosi al suono della voce, godendosi passivamente quella premura per qualche attimo prolungato, finché i suoi occhi non si mostrarono, vigili e consapevoli, completamente svegli ed attenti.

Stiles lo scrutò con sgomento, incontrando per la prima volta iridi di fuoco e mare, perfettamente amalgamati tra loro, ma senza incrociarsi mai. Il cerchio esterno era di quel blu metallico che aveva sempre pensato appartenergli e quello interno, che toccava la pupilla scura, era del colore del comando, di un’Alpha. Era qualcosa che non credeva potesse esistere ed a cui mai avrebbe immaginato di essere spettatore; era quella la motivazione per cui si ostinava a non mostrarli? «Derek» non era sicuro di che cosa fosse uscito fuori, un misto tra un’espressione interrogativa ed esclamativa; non era in grado di cogliere cosa predominasse.

Derek si disfò della sua presa e si alzò sulle quattro zampe, rimanendo per qualche attimo a squadrarlo con la sua profondità tipica che gli avrebbe impedito di scambiarlo con chiunque altro, poi scese dal letto e si diresse verso la cucina, i rumori degli artigli e dei cuscinetti che ammortizzavano il passo felpato si tramutarono in passi di piedi umani nudi che aderivano al pavimento.

Avvertì la porta della lavanderia aprirsi e uno sportello scattare, non sapeva identificare se fosse quello della lavatrice o dell’asciugatrice. Lo sentì muoversi, il fruscio dei vestiti a seguirlo, l’anta del frigorifero schiudersi, una bottiglia essere estratta e un bicchiere di vetro essere riempito d’acqua.

Attese, il respiro di Derek che si faceva più pesante, come affaticato. Poco dopo tornò in versione umana con un bicchiere pieno quasi all’orlo, le sue capacità non gli permettevano di far cadere una sola goccia di liquido trasparente e glielo porse quando arrivò da lui, con Stiles che lo accettava leggermente riluttante e più che altro confuso, portandosi in posizione da seduta. Fu soddisfacente essere dissetato da acqua fresca. «Hai davvero ritenuto necessario vestirti di là?».

«Sì» Derek indossava soltanto dei pantaloni comodi, casalinghi, ma il petto era ancora scoperto, come lo erano i suoi piedi. «Non volevo andassi in iperventilazione».

Le gote del figlio dello sceriffo si surriscaldarono e distolse per un attimo gli occhi. «Dovresti vestirti di più, allora» ma Derek aveva già quell’idea evidentemente, difatti era rivolto verso l’armadio coperto impegnato ad afferrare una maglia qualsiasi. Stiles poteva osservare i muscoli delle spalle contrarsi, insieme alla schiena nuda che si allungava, il grande tatuaggio inchiostrato di nero flettersi, indelebile sulla pelle leggermente bronzea. Erano anni che non vedeva quella triscele figurare tra le sue scapole e di occasioni comunque ne erano esistite poche, ma da quando era diventata una matricola universitaria poteva osservarla ogni mattina da quasi un mese.

«Non mi pare ti dispiaccia» affermò disinteressato, scostando la tenda aranciata per trovare quello che stava cercando.

«Dio, Derek!» perché doveva avere a che fare con un tale essere infame? «Odio questa cosa, che puoi sentire le mie emozioni».

Il mannaro indossò una maglietta grigia dalle maniche lunghe, voltandosi verso di lui con un giudizio ben assestato. «Non sento soltanto le tue emozioni, sento tutto».

«Ecco, appunto» sbuffò gonfiando le guance, profondamente offeso dalla precisazione. Era imbarazzante e anche umiliante. Con Scott non c’erano problemi, non giudicava mai le sue azioni o ciò che sentiva, era spensierato e anche molto distratto; con Derek la situazione era ben diversa. «Sei troppo bello, è un’ingiustizia».

Derek arcuò un folto sopracciglio, l’attenzione rivolta totalmente verso i suoi deliri. «Dovrei chiedere scusa?».

«Sì» esclamò di slancio Stiles, non pensando minimamente a quanto apparissero ridicole le sue esternazioni.

Il licantropo schioccò la lingua contro il palato, la mossa esasperata e dilettata dall’essere pittoresco dell’umano.

Si accomodò sulla sedia abbinata alla scrivania, scostandola leggermente e direzionandola verso Stiles, mentre a disaggio lo studente di criminologia finiva di svuotare il bicchiere.

C’era una strana tensione elettrica e Stiles sapeva ci fosse qualcosa in agguato. «Sei un lupo completo».

«Acuta osservazione» lo incalzò il mutaforma, la nota sarcastica evidente.

«Da quanto tempo puoi assumere la forma completa?» Stiles era piuttosto sicuro che prima di intraprendere la vita da universitario Derek non ne fosse in grado, al contrario di Laura che ne era stata in grado nel momento in cui aveva ottenuto il ruolo di Alpha. Ma cosa poteva affermare di sapere su di lui, se nemmeno conosceva il reale colore dei suoi occhi.

«Un anno» fu tutto quello che Derek gli concesse, secco e sbrigativo.

Un anno, Stiles non sapeva come sentirsi a riguardo, non era stato il suo momento più florido quello. O per meglio dire, non era proprio esistito, cancellato dalle memorie del mondo. Mentre lui era stato dimenticato da chiunque, perfino dal suo stesso padre, Derek doveva aver affrontato qualcosa che l’aveva fatto divenire un tutt’uno con il suo lupo. Stiles era retrocesso, Derek evoluto.

«Voglio che passi le notti qui» disse il licantropo, andando dritto al punto e aggirando qualsiasi tentativo l’umano avrebbe tentato per scappare dalla questione principale.

Le pupille della matricola si ingrandirono e gli occhi sgranarono, si sentì spinta all’indietro. «Non se ne parla».

«Se ne parla eccome» dissentì asciutto Derek, le iridi di giada serve e non permissive. «Sta degenerando, sta diventando troppo pericoloso per te. Non voglio più doverti trascinare dall’autostrada mentre un’auto cerca di investirti o ripescarti dal fiume in piena» Derek aveva mille esempi che avrebbe potuto esternare e far presente, descrivendo ogni sensazione che l’avevano attraversato, il tormento che non riusciva a scrollarsi di dosso. «Cosa capiterebbe se non riuscissi a trovarti? Se non dovessi intervenire in tempo e strapparti dalla strada? O non essere abbastanza veloce mentre la corrente ti porta via?».

«Cosa?» Stiles era esterrefatto, incredulo, credeva di avere delle allucinazioni uditive. «Un auto, il fiume?».

Derek lo vide tremare, il bicchiere che teneva ancora in mano che oscillava, il viso che si faceva completamente pallido. Si avvicinò con circospezione, il contenitore di vetro che gli estraeva dalle dita e lo poggiava sul comodino, sistemandosi di fronte a lui sul materasso. «Non ti sei svegliato. Ti sei gettato nel Red Cedar River e hai continuato a farti trascinare dalla corrente, perfino quando ti ho tirato fuori. Questa cosa mi terrorizza, devo sapere di trovati in un luogo dove posso intervenire subito, senza cercarti in ogni centimetro del campus».

Stiles lo guardò affranto, distrutto, non era pensabile che nella sua incoscienza facesse delle cose simili, che desse tutto quel lavoro a Derek per tenerlo vivo e incolume. «Non volevo trascinarti in tutto questo».

«Lo so» proferì Derek con certezza, conscio di ciò che vivesse dentro il figlio dello sceriffo. «È qualcosa che devi accettare, preferisco averti qui, sotto il mio occhio vigile. Questo non vuol dire che voglia controllarti».

«So che non vuoi controllarmi» era incredibile, come le cose si stessero invertendo tra loro, quanta passione e moderazione il capitano gli stesse dedicando. Fu a quel puntò che cadde in picchiata sul letto, coprendosi fino alla testa con le coperte, fuggendo nell’unico modo permessogli. Derek non commentò né si mosse, restò esattamente come l’aveva lasciato. «Devo dirtelo, vero? Cosa è accaduto».

Derek perseverò nel suo silenzio, l’impatto dell’importanza che rivendicava il suo spazio. «Sarebbe d’aiuto».

Lo studente di criminologia sospirò esausto e sconfitto, domandandosi quanto ancora potesse andare avanti senza condividere nulla con lui. La sua attenzione cadde su un piccolo spiraglio lasciato libero dalle lenzuola, la sveglia digitale di Derek che scandiva il tempo. «Abbiamo perso le lezioni» realizzò senza davvero comprendere cosa dovesse provare. Derek era rimasto con lui per tutto il tempo, a discapito di se stesso e si chiese cosa avesse realmente affrontato quella notte, quanto esausto fosse.

«Quelle mattutine, sì» convenne con lui il padrone di casa, consapevole che l’orologio segnasse le undici.

«Ne hai nel pomeriggio?» chiese allora Stiles, sollecitato dalla precisazione del mannaro.

«Una» dichiarò con semplicità, non turbato minimamente di non aver adempiuto al suo compito di studente. «Tu?».

«Due» ah, era una fatica realizzarlo. Era stanchissimo e la giornata non era nemmeno cominciata, anzi era ben avviata senza che lui avesse fatto niente. Ma evidentemente il suo corpo e la sua mente la pensavano in modo diverso, loro avevano affrontato qualcosa di cui non era consapevole.

Derek decise di sistemarsi meglio sul letto, distendendosi parzialmente, senza fare sentire troppo la sua invadenza e Stiles uscì pigramente dal suo rifugio, guardandolo come se si aspettasse qualcosa. «È il primo sorriso che ti ho visto fare» disse invece, lasciando completamente di stucco Stiles e facendo comparire nei suoi tratti facciali un interrogativo ben presente. «Al lupo».

«Oh» l’umano era piuttosto combattuto e disorientato, era un appunto che non si aspettava di udire da Derek. «Conti i miei sorrisi?» quell’ipotesi lo fece sorridere dentro più di quanto potesse sospettare e le labbra si incurvarono all’insù in automatico, senza controllo, incredibilmente deliziate e quel leggero sottotono di ironia graffiante.

«Sì, se il numero da tenere a mente è uno» proferì Derek, implacabile allo stuzzicare del suo ospite.

«Se mi mostrerai nuovamente quel bellissimo lupo, sorriderò di nuovo» lo invitò ed incitò, il ghignetto di sfida che si palesava senza vergogna.

Derek roteò gli occhi verso il cielo, per niente stupito di quanto facilmente la sua anima da canaglia prendesse vigore. «Non mi trasformerò per te».

«Tecnicamente, è quello che hai fatto» l’aveva cercato in quella forma? Com’era riuscito a condurlo nel suo appartamento? Perché aveva avuto la necessità di vegliare su di lui mantenendo la trasformazione, addormentandosi acciambellato al suo fianco?

«Non mi trasformerò per soddisfare i tuoi capricci» parò il tiro il capitano della squadra di basket. Stiles era pericoloso continuamente, non si poteva mai abbassare la guarda, la vittoria era sempre dalla sua parte.

«E così come farai a vedermi sorridere?» ammiccò spudoratamente, lo scintillio nelle gemme ambrate.

«Stiles, sono serio» il tuono risuonò tra le quattro pareti e Stiles si ritrovò a guardarlo bene, realizzò anche che le pagliuzze blu e rosse che vedeva emergere in particolari circostanze nelle iridi verdi erano reali. «Non devi dirmi quello che è successo adesso, puoi anche non farlo mai, ma credo sia importante affrontare la questione».

Il figlio dello sceriffo sospirò di nuovo, più sconfitto e avvilito di quanto non apparisse in precedenza. Nascose parzialmente il viso sul cuscino e guardò dritto Derek che non distoglieva l’attenzione da lui. «Non è questione di non volertelo dire, semplicemente non so nemmeno da dove cominciare» si ammonì e socchiuse per qualche attimo le palpebre; da digerire era qualcosa di insopportabile. «Sono successe troppe cose e sono tutte intricare e collegate. Mi fa scoppiare il cervello» ma in effetti era esploso davvero e la maggior parte dei tasselli li aveva sistemati lui.

Una mano del licantropo si poggiò su uno zigomo dell’umano, il lato lasciato libero dal guanciale piumoso, e le dita serpeggiarono tra i capelli che lui stesso aveva ripulito nella notte precedente e si legarono pigramente alle ciocche scombinate. «Puoi partire da dove preferisci e andare con calma, ho tutto il tempo del mondo».

Accidenti, continuava a ritrovarsi a domandarsi se Derek l’avesse mai toccato in quel modo ed ogni volta gli appariva più significativa di quella precedente, eppure perseverava a non ricordarsi alcuna occasione in cui un’evenienza simile potesse essere capitata, tutto il suo calore gli scorreva nell’epidermide e andava fino in fondo, strato dopo strato. Era stordente. «Sai qualcosa sui Nogitsune?».

Derek non aveva una linea guida su come sarebbe iniziato quel discorso, ma non si aspettava che partisse proprio da quell’antefatto. «Sono degli spiriti millenari, di volpi oscure».

«Sì, vero» il respiro della matricola si appesantì e il tocco di Derek si fece più cadenzato, più confortevole; Stiles avrebbe voluto serrare le palpebre e godersi la sensazione invece di andare avanti. «Sono stato posseduto da uno Nogitsune, per diverso tempo. Anche troppo».

Il licantropo serrò le labbra, la notizia strisciò avvezza e si intrappolò dentro di lui; qualcosa l’aveva decriptata nei deliri dell’umano, ma non andavano mai a fondo e non aveva capito quanto tortuosa fosse stata. «Quando?».

«Al terzo anno, quando abbiamo trovato Malia» se lo ricordava bene il momento in cui nei boschi lui e Scott erano andati in giro per cercare quel coyote che ritenevano fosse una ragazza, intrappolata nel corpo animale da nove anni, dopo l’incidente stradale e la dipartita della sua famiglia adottiva. Stiles aveva bisogno di mettere le cose a posto, scacciare gli incubi ed i tormenti che gli annidavano la testa, chiudere quella porta oscura nel suo cuore che aveva dovuto aprire per sconfiggere il Darach.

Quando una porta non è una porta?, era il quesito, Stiles aveva risposto quando è socchiusa. Ma lo era rimasta per tutto il tempo, perché la volpe si era già insidiata ed aveva soltanto nascosto le sue tracce, mascherandole. «Mi ha manipolato, messo in testa pensieri terrificanti, i miei incubi ricorrenti. Ha usato il mio corpo e le mie azioni a suo vantaggio, mi ha intrappolato dentro me stesso, da cui non riuscivo ad uscire. Mi ha ingannato, riempito la testa di illusioni e ha usato tutto quello che le serviva contro di me» si fermò, perché l’affanno stava accelerando e gli opprimeva il petto.

Raccontarlo gli faceva rivedere ogni secondo dell’agonia che aveva vissuto, quanto fosse incapace di respirare. «Mi ha fatto credere che fossi affetto dalla stessa malattia di mia madre» la voce si spezzò e faticò a riprendere il ritmo. Era stato tra i colpi più bassi che potesse assestargli.

Le dita del lupo si insinuarono ancora in profondità e la sua testa si sistemò sullo stesso cuscino occupato dal figlio dello sceriffo. Erano occhi negli occhi e non c’era nulla a mitigarli, a permettergli di celarsi almeno un po’. «L’ho odiato. Ho odiato come conoscesse perfettamente la mia mente e riuscisse a usarla contro di me. Ho pensato che lei avesse ragione, che l’avesse sempre avuta».

Stiles non si spiegò, non rivelò la figura misteriosa che si nascondeva dietro lei, ma in passato l’umano gli aveva fatto intendere a chi si riferisse, chi era la persona che gli aveva arrecato più danno. «So quanto male ti abbia fatto» Derek aveva vissuto un’esperienza piuttosto simile, seppur con modalità differenti.

«Non sai quello che ho fatto» articolò lo studente di criminologia, le iridi d’ambrosia che si scurirono. «Ho ucciso Allison» rivelò spietatamente, come se non dovesse in alcun modo provare comprensione e compassione per lui. Nessuna possibilità di redenzione. «Ho ucciso tantissime persone. Così tante, Derek, non riesco nemmeno a contarle».

Derek si irrigidì al nome della cacciatrice. Era già stato informato della sua dipartita prematura, ma Stiles non aveva mai fatto cenno a cosa le fosse successo, benché Derek avesse afferrato qualcosa dalla sua afflizione, dal patimento che provava alla sua memoria. «Ho ucciso anch’io».

«Non è paragonabile» tremò sotto i suoi polpastrelli, la vista che si riempiva di liquido trasparente. «Tu l’hai fatto per amore, io per nutrice una volpe sadica con il dolore».

«Amore?» ripeté Derek accigliato, la fruizione del calore che si affievoliva leggermente per via delle dita che si erano lievemente scostate dal viso del suo interlocutore. «Non lo chiamerei così».

Il viso di Stiles si increspò e gli occhi si sgranarono leggermente, colpito da una fitta nociva al petto. «E come lo chiameresti?».

«Arroganza» disse lapidario il mutaforma, in una sintesi perfetta.

Era stato ingenuo nel farsi sedurre dai sussurri di Peter e sì, arrogante nel credere che una vita da essere soprannaturale fosse la chiave di volta per chiunque, ciò a cui tutti ambissero e senza nessuna controindicazione. La sua presunzione aveva richiesto un prezzo molto difficile da pagare. Lo stava ancora scontando.

Una lacrima scappò dalle ciglia dell’umano e Derek la asciugò con il pollice cancellandone le tracce, evento che avvenne anche dall’altro lato, ma fu assorbita dal cuscino. «Ehy» soffiò morbidamente il lupo mannaro, il viso che si avvicinava al suo, le fronti che combaciavano lentamente. «Non sei stato tu, non hai nessuna colpa».

Avrebbe voluto dirgli quelle esatte parole, ma la questione Paige era troppo complicata e insidiosa. Ciò che Derek pensava di se stesso lo pensava anche Stiles, era estremamente difficoltoso celarlo. «Vorrei fosse così» proferì Stiles agitato, destabilizzato, non riusciva a togliersi la sensazione dalle viscere. «L’ho avuta per mesi nella mia testa, a sussurrarmi, a pianificare le sue mosse e io non l’ho capito subito. Quando ho cominciato a dubitare di me stesso, di tutto quello che mi stava capitando, ho cercato di avvisare tutti, ma nessuno voleva credermi» uno scoppio di risa amara gli scappò, la follia dell’assurdità e altre lacrime non riuscì a serrarle. «Tutto quel dolore. È di questo che si nutrono i Nogitsune: caos, confusione e dolore farcito con ancora più dolore. Tutte quelle vite spezzate dalla mia incapacità di resistergli».

«È questo che credi? Di essere stato incapace?» Derek lo guardò dritto nelle pupille, il verde riflesso nell’ambrosia.

«Gli serviva il mio consenso» annunciò la matricola, il tormento che si faceva sempre più premente. «E io glielo concesso».

Derek non si tirò indietro, non apparve nemmeno stupito di quella possibilità, rimase esattamente piantato dov’era, a completo contatto con lui. «Hai detto che ha usato molti escamotage contro di te, per controllarti; che cosa ha usato quella volta?».

Stiles non riusciva a capire come Derek potesse essere tanto fiducioso su quell’aspetto, quanto fosse proiettato oltre le sue parole. «Malia».

Parve evidente come il mannaro assorbì il colpo, una conoscenza parziale che si ramificava. «Non sei stato incapace, sei stato messo di fronte a una scelta impossibile e hai agito al meglio delle tue possibilità» era chiaro che Stiles avrebbe voluto salvare tutti, nessuno escluso, chi conosceva come le sue tasche e sconosciuti che non aveva mai incontrato in vita sua. Scegliere tra una sola persona e tutti gli altri era qualcosa di impensabile, gli faceva credere di aver preso la decisione sbagliata. Faceva anche quello parte del gioco della volpe?

Stiles fu scosso dai singhiozzi che tentava di soffocare e tutto il suo corpo vibrava contro quello della creatura della notte che lo teneva saldo alla realtà. «Vorrei riuscire a vederla come te».

Derek gli schioccò un bacio su una tempia, mentre Stiles si aggrappava tremante a lui. «Un giorno lo farai».

Mantenne le labbra su quel punto finché l’umano non cominciò a calmarsi, i tremori a placarsi e l’agitazione a togliere gli artigli su di lui. Ancora una volta Stiles non registrò la naturalezza e libertà delle gestualità con cui il lupo completo lo ricopriva, un bacio che in un’altra epoca non sarebbe mai esistito. Lo Stiles del passato si sarebbe liquefatto a quel contatto, ma quello attuale era troppo annichilito da tutto il resto per analizzare la situazione e decodificarla.

«Non è cambiato niente dopo che si è separata da me» forse era stato perfino peggiore, perché non poteva più provare a contrastarla.

Derek lo guardò con un interrogativo ben presente, la barba curata e morbida che sfregava contro di lui per il movimento, ma la bocca si separò e Stiles non avrebbe mai creduto di non volere che accadesse, che l’istintività di Derek restasse concentrata su di sé. «Trovarono il modo, Scott e tutti gli altri, credevamo fosse una cosa che rientrata nei nostri desideri, invece era proprio quello che il Nogitsune voleva. Ogni mossa, ogni scelta e ogni pensiero, l’aveva già previsto ed eravamo tutti sue pedine» Stiles lo ricordava come se non fosse trascorso un solo giorno. «Eravamo ancora collegati, ma mentre io mi indebolivo, la volpe si rafforzava e diventava sempre più padrona del corpo che si era costruita. Dovevano trovare il modo di imprigionarla per fermare tutto il male che stava portando. Non puoi uccidere un Nogitsune, puoi solo intrappolarlo».

«È questo che ti spaventa? Che può essere liberato in qualsiasi momento?» domandò di seguito il nato lupo, le parole vuote di uno Stiles inconsapevole che prendevano una forma.

Stiles lo guardò con occhi giganti, la testa che scattava all’insù e si disfò dal legame che il licantropo aveva istaurato. «Credi che possa? L’abbiamo nascosto» anche se la prima volta non aveva funzionato molto bene.

«Non conta quello che credo io, ma quello in cui credi tu» lo Stiles vagante nella notte ne era fin troppo sicuro, voleva scappare a tutti i costi e non riusciva ad inquadrare il modo migliore per riuscire nell’impresa. A volte credeva che si fosse fissato sull’azione peggiore da compiere, il punto di non ritorno, ma in realtà non gli aveva mai dato l’impressione che fosse davvero quella la meta, ma solo il non aver controllo di nulla. «È questo che ripeti tutte le volte in cui ti trovo: la volpe sta tornando a prenderti».

«Ah» l’umano sentiva che il materasso lo stava risucchiando al suo interno. «Quindi sapevi della volpe?».

«Erano solo parole sparse che dovevo collocare nel giusto ordine e con un senso logico» non era stato facile e sentire tutta la storia da Stiles gli faceva capire quanto poco avesse realmente compreso. «Il tuo tormento, dovevi esternarlo».

Stiles si alzò dal letto irrequieto, i piedi nudi sul pavimento, l’indecisione di dove andare, la sua mente macinava e macinava pensieri.

«Sei arrabbiato?» domandò allora il padrone di casa, portandosi in posizione da seduta corretta, osservando l’umano girare su se stesso.

«No» Stiles lo guardò senza capire, non riuscendo a cogliere la sua preoccupazione moderata. «Dovresti esserlo tu, perché non vi abbiamo chiamato» tanto aveva detto e fatto, ma alla fine uno Stiles, lui, aveva comunque avuto il bisogno di confidarsi con Derek.

«Era questo il patto» disse allora la creatura della notte, riportando indietro parole che erano state pronunciate per rassicurarli ed invitarli a mettere radici da un’altra parte.

«Lo so bene» Stiles ne era fin troppo consapevole, come lo era stato il suo branco. «Era la nostra battaglia, voi avevate già affrontato le vostre. Abbiamo chiesto a Peter e Malia di non dirvi nulla».

Il mannaro si accigliò, aveva una mezza ramanzina da fare a qualcuno e se l’appuntò mentalmente. «Vuoi fare sempre tutto da solo. Hai la pretesa di voler aiutare chiunque, ma non può accadere lo stesso con te».

Stiles non ribatté, non avrebbe avuto alcun senso negare l’evidenza. Se ci fosse riuscito, non avrebbe mai coinvolto nessuno nei suoi problemi. Era quello che aveva tentato di fare anche intestardendosi di frequentare l’università nelle condizioni in cui si trovava. Senza Derek, dove si sarebbe ritrovato?  E perché il lupo nero sembrava conoscerlo così bene, aver compreso tutte le sue particolarità abilmente nascoste? Aveva accusato Derek di non avergli permesso di far parte della sua vita, ma se invece fosse accaduto senza che lui ne avesse preso coscienza?

Inavvertitamente e probabilmente richiamato dal colore, la visione periferica fa cattura dalle proprie braccia e individuò quella sfumatura particolare, rossa e arancione che si fondevano insieme. Fu chiamato in allarme, le sue memorie non corrispondevano, era quasi certo di aver indossato il suo pigiama preferito di Ritorno al Futuro. Si diresse verso lo specchio, l’attenzione trattenuta di Derek su di sé, lo vide anche sbiancare quando riuscì a riflettersi sulla superficie. Stiles si ritrovò a trattenere il respiro.

Indossava un completo di un pigiama autunnale, maniche e pantaloni lunghi, a occhio decretava fosse di due taglie più grandi, come tutto quello che Derek gli prestava. Le maniche erano di quell’arancione rossiccio che Stiles incontrava in diversi oggetti personali di Derek, che inizialmente aveva identificato come casuale; anche i pantaloni erano di quel colore, ma più chiaro e vi erano delle piccole stampe ripetute, simili all’enorme che si trovava sulla maglietta, al suo centro: una volpe rossa disegnata con tratti morbidi, allegra e vigorosa, giocava con dei palloncini dello stesso colore del pigiama. Sui pantaloni invece i disegni si alternavano, a volte la volpe era arrotolata su di sé e dormiva, altre volte era nel bel mezzo di un salto, pensierosa in quella successiva, entusiasta subito dopo, emozionata e pronta a prendere tutto dalla vita nella stampa accanto. C’era tanta cura in ogni tratto, i colori vividi alternati a quelli pastello, Stiles non riusciva a mettere in fila un pensiero. «È molto carino» era la cosa più carina che avesse visto negli ultimi tempi, c’era un mondo che si stava divertendo a sue spese.

«È un vecchio pigiama» fu tutto quello che Derek riuscì ad articolare, la semplicità della sua giustificazione.

Un sopracciglio del figlio dello sceriffo si arcuò immediatamente ed ispezionò meglio la fattura, gli occhi e il tatto che studiavano le cuciture. «Non sembra essere stato usato» era immacolato, appena uscito dal negozio o dalla scatola che lo conteneva.

«È così» confermò la creatura leggendaria.

Stiles vedeva nei lineamenti perfetti e controllati quanto Derek non fosse realmente sereno di affrontare la questione. «Perché tenerlo, allora? Ti piacciono talmente tanto le volpi?» ma sapeva essere crudelmente spietato senza alcuna ragione.

«Tu non hai qualcosa che ti porti sempre dietro e che credi un giorno ti tornerà utile?» Derek aveva estratto le unghie, dalla perfidia senza scopo di Stiles non si faceva domare.

«Sì, certo» soltanto che Derek proprio non sapeva cosa fosse un pigiama, la sua moda notte si limitava a dei pantaloni, a volte pensava dovesse ringraziarlo per quell’accortezza. «Quindi la volpe rientra nei tuoi gusti? Un lupo come te?» a Stiles si arricciavano le dita dei piedi, era qualcosa di adorabile, fin troppo tenero per legarsi al lupo cattivo per eccellenza a cui corrispondeva Derek Hale. Faticava a trattenere il sorriso che voleva prendere predominio.

Derek lo guardò piuttosto giudicante, come se non fosse sicuro di parlare con la persona giusta. «La ragazza di Scott è una kitsune».

Derek apprendeva in fretta le nozioni di cui era stato all’oscuro. «Scott non fa testo» rise un po’, perché gli risultava incredibilmente assurdo avere una conversazione del genere con il capitano della squadra di basket.

«Puoi cambiarti» lo invitò il mutaforma, indicandogli l’armadio aperto coperto dalle tende colorate, lì dove c’era una piccola pila dedicata ai vestiti che in genere gli passava. Ne aveva creata una di proposito, l’andava aggiornando ogni volta che glieli riconsegnava perfettamente puliti e pronti per essere riutilizzati, anche se Stiles sperava sempre che sarebbe stato Derek a indossarli, avrebbe significato che il suo problema di sonnambulismo fosse passato. «Ѐ il più caldo che ho».

«No, va bene. Ti ho detto che è carino, non sono così suscettibile» capiva perché il mannaro volesse correre ai ripari. Indossare un indumento che raffigurava una bellissima volpe giocherellona proprio da qualcuno che aveva patito per delle sofferenze profonde scaturite da una sua simile, poteva far esplodere il cervello; messo sempre che Stiles ne possedesse ancora uno. Ma poi fu attraversato da un pensiero, dalla motivazione che aveva portato Derek a doversi preoccupare di quell’aspetto, di cercare qualcosa che lo tenesse al caldo. Era caduto dentro un fiume, sotto la pioggia e Derek era stato costretto a seguirlo, a tirarlo fuori dalla sua trappola di correnti pericolose. Stiles era pulito, perfettamente in ordine, non aveva un minimo livido, del fango tra i capelli. Il suo cuore ebbe dei sussulti pericolosi.

«Non è successo niente» Derek captò subito l’agitazione nel figlio dello sceriffo, i battiti accelerati, il fiato che diveniva pesante. Si alzò dal letto per renderlo più evidente, perché il suo affanno era diventato il proprio. «Non ti ho toccato».

Ah, Stiles pensava di avere un mancamento per il solo fatto che Derek avesse concretizzato a parole il suo disagio. «Non lo penso» perché avrebbe dovuto? In quella loro convivenza erano entrambi tesi come corde di violino, che venivano scosse per ogni paranoia. Stiles capiva la propria reticenza, l’essere completamente alla mercé del lupo mannaro e inconsapevole di tutto quello che poteva accadergli o fargli, ma di certo non metteva a fuoco la possibilità e ragione per cui Derek potesse in qualche modo approfittarsi di lui. «È solo imbarazzante. Hai dovuto occuparti anche di questo» spogliarlo, lavarlo e rivestirlo. Automaticamente quello includeva la gestualità di essere stato toccato senza alcun velo a frapporsi tra loro, totalmente nudo sotto i suoi occhi verdi scrutatori, ma con l’unica finalità di riscaldarlo e togliergli lo sporco della sua avventura acquatica notturna. «E so, so che non mi romperesti. Fai di tutto per tenermi intero».

«Per me non è un peso, né occuparmi di te né tenerti intero» Derek lo disse con convinzione certa, una sorta di vocazione che a Stiles provocò leggera paura, ma non riusciva ad identificare di che fattezza. «Farti del male, non è qualcosa che farei coscienziosamente».

«Questo lo so» il Derek che aveva davanti non aveva mai mostrato quella direzione, molto diverso da quello diciottenne con cui si era imbattuto dopo che Scott era stato morso e Laura li aveva accolti a braccia aperte. Non che intendesse che a quel tempo il lupo volesse arrecargli danno, ma non si prodigava di certo verso la sua figura. Forse, intrinsecamente, il rifiuto di Derek nei suoi confronti l’aveva vissuto in quel modo, come un male subito. Era qualcosa di totalmente irrazionale.

Stiles sentì il bisogno di allontanarsi, di mettere della distanza per riprendere fiato, per tutta quella parte di sé che aveva condiviso con il mannaro.

Si diresse in cucina, aprendo il frigorifero e cercando qualcosa che gli desse le energie che in quel momento il suo corpo esigeva. C’erano tre cartoni di succhi di frutta da un litro e mezzo ciascuno: ace, pera e ananas. Stiles era piuttosto sicuro di aver terminato il suo preferito due giorni prima.

I primi giorni in cui si era ridestato catapultato nel monolocale del mutaforma, vi era soltanto la confezione ace e non era nemmeno certo che Derek lo bevesse spassionatamente. «È troppo aspro» si era lamentata la matricola, non perché volesse gettare delle regole in una casa che non era la sua, ma semplicemente perché aveva l'abitudine di esternare i pensieri ad alta voce.

Derek l’aveva fissato giudicante mentre gli preparava il caffè con una macchinetta a cui Stiles non avrebbe mai osato avvicinarsi, sia perché sembrava eccessivamente complicata sia perché urlava costosa da ogni angolatura riflettente. «E cosa preferiresti?».

«Qualcosa di dolce» aveva dichiarato ovvio, accomodandosi su una sedia del tavolo mentre aspettava la sua tazza.

Derek gliela consegnò, l’odore di caffeina e caramello salato che gli solleticavano le narici. «Ad esempio?».

«Pera» non gli stava dettando un menù, non gli voleva stilare una lista della spesa, aveva risposto perché era quello che ci si aspettava quando una domanda veniva posta; era del tutto disinteressato.

Derek non lo era, il giorno dopo all’interno del frigorifero vi era quel fantomatico succo di frutta alla pera e quattro mattine successive quello all’ananas, che non era un concentrato di zucchero come il primo, ma era una perfetta via di mezzo tra la dolcezza e l’asprezza. Stiles si era un po’ innamorato di quel gusto e Derek faceva in modo che non mancassero mai nella loro colazione insieme. Acquistava anche le migliori marche, quelle dal prezzo più alto. Stiles non si meritava una premura come quella, non se la meritava soprattutto dopo la discussione del giorno prima, in cui esternava chiaramente di non volere il suo aiuto e che i loro rapporti potessero concludersi in quel preciso momento, ma Derek aveva comunque rifornito il frigo di ciò che l’umano preferiva.

Lo studente di criminologia afferrò il contenitore ancora sigillato in cui era specificato pera e si avvicinò allo stipetto in cui erano riposti i bicchieri in vetro, prendendone uno e riempiendolo di succo di frutta quasi fino all’orlo, per poi adagiare il cartone sul tavolo e sedersi sul divano.

La vetrata dietro di lui era costellata di gocce d’acqua, la pioggia non cessava e all’interno del soggiorno non entrava la solita luce che la caratterizzava sempre. Era quasi sicuro che Derek avesse ispezionato ogni appartamento libero del palazzo prima di decidere di affittare quello, l’ultimo piano laterale, in cui erano presenti molte più finestre rispetto agli appartamenti interni o a quelli dei piani inferiori. Derek voleva luminosità, così com’era nel bilocale che Laura aveva comprato a Beacon Hill e com’era nella vecchia villa Hale. Stiles era un po’ invaghito da quella personalità controversa di un autentico lupo solitario e cupo.

Derek lo raggiunse soltanto qualche minuto dopo, la macchina del caffè azionata a tostare il caffè e il toppig al caramello salato estratto dallo sportello del frigorifero. Non parlarono, il silenzio perdurò e Stiles poteva sentire soltanto i movimenti del padrone di casa, mentre si gustava la sua bevanda zuccherata. «Come ha fatto il Nogitsune ad arrivare a te?» domandò il mutaforma subito dopo aver versato la bevanda alla caffeina nella sua tazza, spostando una sedia e prendendone possesso. Sul tavolo vi erano fette biscottate e marmellata d’arancia, biscotti al cioccolato e un pacco di fette di pane in bauletto che sarebbero state più appetitose se tostate, ma era evidente che Derek non avesse intenzione di accendere un solo fornello come non lo era Stiles stesso.

«Si è liberato» semplificò il figlio dello sceriffo. Si aspettava che delle domande sarebbero saltate fuori, ma ad alcune non voleva affatto rispondere.

«Da dove si è liberato?» non era la risposta che si aspettava, non era per niente una risposta.

«Dal sua prigione» proferì Stiles nuovamente con ovvietà, accompagnando la risposta con un movimento degli occhi che la sostenesse.

«Stiles» ruggì a denti stretti. Sapeva che stava tergiversando, nel suo modo subdolo di giocare. Che mistero c’era nella scelta di una volpe malvagia di possedere la mente di un’altra volpe lungimirante ed astuta, condita di scaltrezza e doppie manipolazioni? Stiles era la persona perfetta, non era nemmeno un quesito che qualcuno avrebbe dovuto porsi, eppure i suoi amici non avevano compreso che si celasse proprio dietro la figura di Stiles. Possibile che fosse l’unico, tra tutti loro, a vederlo sotto quelle sembianze?

«Dal Nemeton» fu costretto ad esternare, l’umore che cambiava e si incupiva. Dovette prendere due sorsi del suo succo per andare avanti. «Il Nemeton si è risvegliato e di conseguenza, anche la volpe. Era prigioniera lì».

«Il Nemeton si è risvegliato?» chiese Derek incredulo alle proprie orecchie, lo guardò come se non riuscisse a recepire il messaggio. «Com’è accaduto?».

«Non l’hai percepito?» fu il turno di Stiles di apparire sorpreso, era qualcosa che non aveva messo in conto.

«No, non faccio più parte di un branco a Beacon Hills» spiegò semplicemente il capitano della squadra di basket, incerto che fosse stato necessario. Stiles era il più sveglio di tutti loro, aveva capito come funzionava quel mondo molto prima degli esseri soprannaturali da cui si era circondato.

«Lo so, però…» si fece pensieroso, non riusciva a capire un meccanismo che gli era parso chiaro inizialmente, sostenuto delle molteplici prove che si era ritrovato dinnanzi. Più che prove, cataclismi. «Da quando si è risvegliato, molte e troppe creature ne sono stati attratti. Dobbiamo vigilarlo sempre e impedire che si approprino del suo potere. Pensavo fossi riuscito a sentirlo anche tu».

«Non mi interessa il suo potere» dichiarò spicciolo il licantropo, leggermente indispettito che fosse categorizzato insieme alle altre creature che nel tempo Stiles si era ritrovato a combattere.

Stiles sentì di essere entrato in possesso di un nuovo tassello per quel regno sovrannaturale in possesso di regole tutte sue e anche del fatto che Derek fosse ormai completamente estraneo alla loro città natale. Magari l’albero sacro non voleva prendere altro dal lupo completo.

«Com’è accaduto, il risveglio?» riformulò il padrone di casa, il caffè che si stava lentamente raffreddando, il cielo che perseverava a rimanere grigio.

«Lo abbiamo risvegliato noi: io, Scott ed Allison. Abbiamo dovuto, per impedire che lo facesse il Darach» non avrebbe voluto rivelare quelle informazioni così, avrebbe dovuto partire dal principio ed essere più chiaro. «Il Darach era la mia professoressa di letteratura, per essere precisi e prendeva potere dal Nemeton molto prima del suo totale risveglio, non potevamo permettere che ne avesse il completo controllo. Ne abbiamo deviato le intenzioni».

«Molto prima del totale risveglio? Il Nemeton era morto» non c’erano dubbi su quello, il suo tronco veniva utilizzato dai druidi per costruire oggetti speciali e intrisi di potere rimanente. Se quella lavorazione fosse avvenuta nel pieno della sua linfa vitale, sarebbe stato un sacrilegio.

Stiles tacque, si portò il bicchiere alle labbra come se potesse impedirgli di aprirle e dargli suono, una scusa che non poteva essere rettificata. Aveva fatto un’azzardata scelta di parole e il suo malcontento si impresse nelle pareti che li circondavano.

Derek lo fissò a lungo, gli occhi che cercavano delle risposte che non arrivavano. Avrebbe voluto sommergerlo di domande, scoprire tutto quello che era accaduto in quegli anni, ma Stiles si stava chiudendo a riccio. «Non vuoi dirmelo?».

Le sue iridi ambrate brillavano, il sussulto di una maschera che cadeva a terra. «No».

Derek non recepì bene il colpo, non capiva perché ci fosse qualcosa che non potesse confidargli dopo ciò che aveva compiuto sotto il volere del Nogitsune, poteva esserci qualcosa di più grave? Non riusciva ad identificare quale potesse essere. «Hai detto che gli episodi di sonnambulismo sono iniziati, ormai, sette mesi fa. Ma dai giorni della volpe è trascorso molto più di un anno».

«È vero» si limitò a confermare l’umano, ma non andò oltre.

«Che altro è accaduto?» era evidente, Stiles aveva esternato fossero successe fin troppe cose, tutte legate tra di loro, ma Derek ancora non riusciva ad individuare quale fosse l’anello congiuntivo. Tutto quell’insieme non aveva fatto del bene alla sua psiche.

Stiles lo fissò penetrante e Derek individuò un’oscurità tutta nuova in lui, qualcosa che sapeva fosse in grado di tirare fuori se l’occasione lo richiedeva, ma non era mai stata così sporca e letale. «Sono stato dimenticato».

 

Stiles era andato via prima di un’ora consona per il pranzo, indossando nuovamente i vestiti e le scarpe di Derek che soltanto il pomeriggio prima aveva consegnato ad Erica come intermediaria; era evidente che le avesse riportate al legittimo proprietario e il loro tempismo era piuttosto d’impatto per una situazione di cui Stiles non riusciva a distarsi.

Aveva mangiato da solo, in uno dei locali affiliati ai buoni pasto che rientravano nella borsa di studio, di corsa si era diretto verso la prima lezione pomeridiana ed a tentoni e con troppi pensieri nella testa l’aveva seguita. Non ne aveva ricavato il miglior risultato, ma nelle condizioni in cui era, non poteva trarre qualcosa di diverso.

«Come te la passi, amico?» la suoneria del suo telefono era stata l’unica compagnia di quella giornata così devastante, la voce familiare e allegra che risuonava a chilometri e chilometri di distanza.

«Ehy, Scott» salutò distrattamente, sfinito. I suoi sforzi da studente quel giorno erano stati minimi, ma il figlio dello sceriffo non riusciva ad alleggerirsi la mente. Non era pentito di aver rivelato buona parte dei crucci che l’avevano visto protagonista lontano dagli occhi di Derek, ma lo aveva privato di energie che già gli mancavano per via della nottataccia che entrambi avevano affrontato. Forse era anche esausto dalle parti che ancora voleva tenere per sé; gli creava delle tensioni interne doverle tacere, non rivelare troppo.

«Come procede da quelle parti?» chiese entusiasta il messicano, la spensieratezza tipica che lo caratterizzava.

«Non demordo» cercò di mitigare Stiles, la smorfia che sapeva essere percepibile da un capo telefonico all’altro.

Seguì uno scambio acceso tra i due, in cui si aggiornavano reciprocamente, raccontandosi quanto le cose andassero bene. Scott esternava la verità, Stiles mentiva spudoratamente; era un bene che i suoi super sensi non fossero troppo affinati tra un’interferenza e l’altra. «Non crederai mai chi ho incontrato da queste parti» disse allora, bisognoso di condividere qualcosa che non fosse un segreto. «Erica».

«Erica?» ripeté in una eco l’Alpha, le meningi che si spremevano per cogliere a tutto tondo la figura a cui il suo migliore amico si riferiva. «Erica Reyes?».

«Proprio lei» confermò con entusiasmo Stiles, felice che non l’avesse completamente rimossa dalle sue memorie. «Frequenta il corso d’arte ed è nel dormitorio femminile».

«Che coincidenza» esclamò vitale Scott, agitandosi sul posto come se potesse essere visto dagli entrambi frequentatori della Michigan State University. «È bello trovare una faccia amica. Lydia si lamenta sempre che all’IMT non conosce nessuno».

Già, coincidenza, Stiles non riusciva a togliersi l’anomalia con cui risuonava quella parola. «Lydia impiegherà cinque minuti a diventare la reginetta di quel posto».

«Assolutamente vero» concordò senza fronzoli il Vero Alpha. «Tu, invece, hai fatto nuove amicizie?».

Che terreno insidioso quello. «Sì, Erica si è quasi creata un branco tutto suo, mi ha presentato le sue persone preferite, Boyd ed Isaac. Isaac ti piacerebbe» non sapeva dire il contrario. «Passo il mio tempo libero con loro, in genere».

«Altre creature soprannaturali, Stiles?» chiese retoricamente il messicano, piuttosto rassegnato a quella sua inconsueta caratteristica.

«Sono loro a trovare me. Devo avere un sensore che si attiva, altrimenti non si spiega» era stato divertente all’inizio, poi dannoso e nocivo. Era ancora innamorato di quel mondo, lo sarebbe stato sempre, ma a volte voleva soltanto respirare normalità, esseri umani banali come tutti gli altri. «Sono dei bravi lupi».

«Se a te sta bene, non ci sono problemi» semplificò il messicano; lui di certo non ne aveva, ma la sensazione che Stiles volesse allontanarsene l’aveva ben percepita quando la lettera di accettazione della Michigan State University era arrivata, insieme all’aver ottenuto una borsa di studio completa che gli garantiva una copertura totale e un alloggio incluso. L’aveva quasi sentito liberarsi i polmoni per prendere una nuova boccata d’ossigeno.

A volte si chiedeva se non fosse quello che avesse sofferto di più tra tutti loro. Stiles teneva le sue difficoltà per sé, l’aveva sempre fatto. Super sensi o meno, non era in grado di leggergli nella mente, ma soltanto fiutare le sue emozioni e alcune sapeva mitigarle piuttosto bene.

«C’è anche un’altra persona» faticò a prendere fiato Stiles, in un primo momento aveva pensato che quell’informazione se la sarebbe tenuta per sé, senza davvero sapere perché nasconderla. Probabilmente perché avrebbe svelato più di se stesso e della sua situazione che qualsiasi altro aspetto. «Derek».

La linea parve essere caduta per quanto il silenzio si prorogò. «Derek chi?».

Stiles avrebbe voluto tirargli il telefono in faccia, magari storcendogli ancora di più la mascella. «Quanti Derek abbiamo in comune?».

«Derek Hale» articolò in un’unica parola, segno che era ben consapevole di chi stessero parlando.

«Sì, Derek Hale» confermò lo studente di criminologia, non c’era nient’altro da aggiungere.

«Anche lui studia lì?» si vide costretto a chiedere Scott, in una conferma.

«Sì, letteratura» l’edificio incredibilmente vicino al suo, i due minuti che aveva cronometrato personalmente.

«Questo spiega la presenza di Erica» si illuminò Scott, come se dei pezzi di un puzzle appena assemblato finalmente combaciassero.

Ma non spiegava quella di Derek. «Sì, lo segue sempre dappertutto».

«Frequenti anche lui?» domandò Scott d’istinto; era un’azione consequenziale farlo, se la lupa mannara aveva una sorta di branco privato, era logico pensare che anche Derek ne facesse parte, anche se non era scontato. Con Derek Hale nulla lo era.

«Diciamo di sì» si trovava in svantaggio, Derek era la persona che frequentava più di tutte, volente o meno. Stranamente era anche quella con cui si trovava meglio e apprezzava maggiormente. «È sempre lo stesso, non farti grandissime aspettative» ma era una menzogna anche quella.

«Ah, questa vorrei proprio vederla» la risata di Scott lo contagiò e anche se si sentiva sporco per le verità che non gli rivelava, il motivo per cui Derek e Stiles si fossero incontrati e passassero fin troppo tempo insieme, si sentì comunque più in pace con se stesso.

 

Derek percepì il suo odore molto prima che raggiungesse la porta e iniziasse a bussare, quando sentì l’impatto delle nocche sulla lastra di legno solida si chiese perché non l’avesse aperta prima.

«Sembra non mi aspettassi» disse Stiles, lo sguardo deciso, le intenzioni evidenti, un piccolo borsone alla mano e un fagotto dentro una busta di stoffa.

Derek lo fece entrare senza troppe cerimonie e Stiles andò avanti conoscendo bene l’ambiente. «Mi sembravi restio» ma se l’umano portava con sé quell’agglomerato di stoffa che aveva le fattezze del suo prezioso cuscino senza la quale non riusciva a dormire e che conservava pienamente il suo odore, era un indizio promettente che puntava in tutt’altra direzione.

«Lo sono ancora» quando il figlio dello sceriffo aveva concluso la loro discussione con sono stato dimenticato, non aveva accettato che Derek ponesse altre domande e lui non ne aveva fatte; si erano limitati a spizzicare quella colazione tardiva e Stiles si era preparato per tornare al dormitorio e risolvere tutte le questioni in sospeso. Non si era deciso a preparare quella borsa dalle dimensioni ridotte finché non era arrivata l’ora di cena, ancora una volta consumata in solitaria. Aveva anche sperato che non arrivasse Jiang, non avrebbe saputo come giustificare la sua assenza annunciata e non voleva dover dare spiegazioni a nessuno. «Odio dipendere dagli altri, ma in questo momento non sono in grado di occuparmi di me e tu sei l’unico che può e vuole proteggermi da me stesso».

Stiles aveva poggiato il borsone sulla scrivania del padrone di casa, sistemato il cuscino sul materasso e si era buttato di peso sul letto, al tracollo delle sue forze. Riuscire ad arrivare lì gliene aveva richieste ben troppe e non era ancora riuscito a recuperare quelle che aveva perso. Dalla finestra, la visione a testa in giù, la luna si mostrava fiera in uno scenario notturno, le nuvole grigie erano ancora lì e la pioggia aveva concesso una tregua per un paio d’ore. Minacciava di ripresentarsi presto. «Ho le scarpe» gli fece notare, muovendo i piedi con le scarpe indosso per aria. Era una sorta di vittoria, in qualche modo.

«Lo vedo» proferì Derek, andandogli incontro. «Non devi pensare di essere un peso per me».

«Difficile farlo» borbottò la matricola, il sospiro che gli sporcava la voce. Si portò in posizione da seduto, il cruccio che distorceva i suoi lineamenti facciali. «Non mi devi niente».

«È solo uno scambio di favori che cerchi?» chiese di rimando il capitano della squadra di basket, le braccia conserte e la stazza imponente.

«No» la mortificazione affiorò, gli occhi bassi e la consapevolezza di far emergere la parte peggiore di sé. Era sempre stato bravo in quello. «È solo che… mi sento in difetto».

Derek lo guardò per qualche secondo in silenzioso scrutamento e la mascella serrata si ammorbidì. «Non è una situazione ottimale, ma io preferisco averti qui. Non ti sei imposto, non ti sei autoinvitato, non hai invaso i miei spazi».

«Lo farò» Stiles sorrise machiavellico, ma era timido e contenuto, come se non volesse sbilanciarsi troppo.

«Ne prenderò atto» Derek stette al gioco e gli dedicò un angolo della bocca a sostegno del loro prendersi in giro.

Stiles si sentì alleggerito e il peso che sentiva sul petto evaporò leggermente. «Vado a cambiarmi» comunicò allora, alzandosi velocemente dal materasso e prendendo la borsa al volo. Si rintanò dentro il bagno ed indossò direttamente il pigiama di Star Wars, senza lavarsi o gingillarsi, se ne era già occupato nel suo campus usando gli spazi comuni e non voleva prendere da Derek più di quanto non gli offrisse già.

Uscì dandosi il cambio con il lupo che non espresse alcun commento e Stiles avrebbe tanto voluto gettarsi già tra le coperte e farsi catturare dalle braccia di Morfeo, era esausto e voleva soltanto ricaricarsi, ma aveva ancora la decenza di aspettare che fosse il padrone di casa ad aprire le danze.

Si rintanò in cucina a bere un bicchiere d’acqua e ad osservare la vetrata essere toccata nuovamente di gocce d’acqua. Era ben consapevole di quanta familiarità avesse preso nell’appartamento di Derek, soltanto ventinove giorni, quanto ancora si sarebbe allargata?

Derek uscì una ventina di minuti dopo, la doccia fatta, il corpo umido, i pantaloni soliti protagonisti sul mannaro, non c’era altro e Stiles si distese sul letto dopo di lui, arrotolandosi tra le lenzuola; poteva chiudere gli occhi e farsi trascinare. «Mio padre non voleva frequentassi il college quest’anno» rilevò invece, spinto dal dover dare dei chiarimenti al ragazzo che si prodigava tanto per lui. «Voleva che rimandassi di un anno, il tempo di riuscire a capire come gestire le cose e trovare una soluzione, ma avrei perso la borsa di studio e non volevo accadesse. Non volevo nemmeno rimandare, avevo davvero il bisogno di cambiare aria» ricordava come si fosse opposto, quanto avesse cercato in tutti i modi di far valere le sue ragioni. «Abbiamo fatto un patto, se le cose si fossero fatte più complicate sarei tornato e avrei rimandato all’anno successivo».

«Si aspettava davvero lo rispettassi?» era evidente che Stiles non avesse chiamato lo sceriffo e spiegato cosa stesse succedendo, quanto le cose fosse peggiorate.

«No, è un bravo papà, fa finta di credere alle mie bugie» era ingiusto nei suoi confronti, come lo era con tutta la sua cerchia. «Ma sono sicuro, che se recepisse qualcosa di allarmante, mi verrebbe a prendere di peso».

«Quindi, adesso, lo sceriffo conosce il nostro mondo?» nel silenzio riflessivo, il mannaro chiese conferme. L’aveva già dato per scontato, il modo in cui Stiles parlava del suo coinvolgimento con i suoi problemi legati alle disavventure soprannaturali erano chiari.

«Sì» si voltò lievemente verso il licantropo, lo sguardo già rivolto verso di lui. «Il Darach aveva rapito mio padre, Melissa e Chris Argent, voleva sacrificarli, procedere con il rituale che aveva iniziato con i sacrifici precedenti, per questo io, Allison e Scott abbiamo preso il loro posto» si era spaventato come mai prima di allora e aveva cercato di fare tutto quello che era in suo potere. «Siamo morti per tre giorni e si è creata questa fessura nei nostri cuori, un legame con l’oscurità» seppe che Derek gestì malamente il colpo alla parola morti, ma non era qualcosa che poteva celargli, un sacrificio aveva un unico significato. «Abbiamo cercato di sanarla successivamente, Scott ed Allison ci sono riusciti; credevo di essermela cavata anch’io, era quello che la mia testa mi aveva fatto credere, ma il Nogitsune l’ha usata a suo vantaggio. Ѐ entrato» Stiles provava profonda rabbia per un’ingenuità che non gli apparteneva, ma non avrebbe mai potuto credere che uno spirito malvagio millenario fosse stato affascinato da lui. «È un bene che mio padre fosse stato informato, non avrebbe capito, non sarebbe riuscito ad aiutarmi. La volpe ha ingannato e usato anche lui» le urla nel cuore della notte, le sue sparizioni, i sintomi della Demenza Frontotemporale che si palesavano ogni giorno di più, simulati magnificamente studiate e la tac del suo cervello che risultava pulita. Gli episodi di sonnambulismo che si erano palesati un anno dopo così simili a quelli indotti dalla volpe.

«Sei morto» proferì al vuoto il mannaro, le dita di una mano che prendevano confidenza con il viso di Stiles, testandolo e acquisendo le nozioni fondamentali che gli confermassero fosse esattamente lì, sotto i suoi polpastrelli. «E sarai legato al Nemeton per sempre».

«Sì» Stiles sapeva bene quanto fosse sbagliato, quanto facilmente si stesse lasciando assuefare dal tocco di Derek. C’era una parte egoistica di lui che non voleva rimparare a vivere senza.

Il lupo completo non proseguì oltre, eppure sapeva quanto fosse assetato di conoscenza. Probabilmente doveva incanalare ed elaborare tutto quello che Stiles gli aveva confidato quel giorno; non poteva che comprenderlo. «È stato mio padre a indicarci il percorso per trovare Malia» lo illuminò come se fosse un fatto fondamentale e per Stiles lo era stato. Era cosciente di quanto Derek gli stesse prestando attenzione, ma non sapeva quanta ne avesse nei riguardi di lei. «Dopo aver scoperto del soprannaturale, ha voluto rianalizzare tutti i suoi vecchi casi irrisolti e il suo è quello che gli è rimasto più impresso. Noi non l’avremmo mai cercata».

«Nessuno la stava cercando» forse soltanto Peter, con delle rimanenze di sensazioni che gli comunicavano che esistesse una figlia da qualche parte. Sua madre, Talia Hale, gli aveva estratto ogni ricordo su tutta la faccenda, compresa la Lupa del Deserto. Trovarla era impensabile.

«Erica mi ha detto che l’hai incontrata» provò a testare il terreno il figlio dello sceriffo. Chissà cosa si provava ad entrare a conoscenza di un membro della propria famiglia che era andata dispersa ancor prima di sapere che esistesse.

«Sì» si limitò a confermare lo studente di letteratura, inflessibile come gli conferiva.

«Non ti è piaciuta?» domandò Stiles con tutto il tatto di cui era pregno, ma in realtà gli riuscì molto male, lui e Derek erano pessimi in quello.

Derek lo guardò stralunato, come se l’avesse detta grossa. «Perché lo pensi?».

«L’hai incontrata soltanto una volta» forse il lupo nero avrebbe dato una strigliata ad Erica dopo quella rivelazione.

«Non c’è stata altra occasione» si limitò a giustificarsi, senza scendere in particolari.

L’umano non se li aspettava, ma gli risuonava comunque anomalo. Era vero che Derek vivesse per la maggior parte dell’anno negli appartamenti privati del Michigan State, ma dubitava che non tornasse mai a New York nei mesi di pausa, tra una festività e l’altra. Laura, Peter e Malia erano tutti lì.

Stiles preferì non indagare ulteriormente, non ne avrebbe ricavato nulla di utile. «Non ho mai visto occhi come i tuoi» era riuscito a trattenere quel commento per tutto il giorno, ma nel silenzio vuoto che li circondava non era riuscito a trattenersi. Anche se, il silenzio serviva proprio per permettergli finalmente di addormentarsi, ma era evidente che la sua mente non fosse pronta a smettere di elaborare. «Credevo fossero blu».

«Lo sono» lo corresse la creatura della notte. Stiles li aveva visti brillare quelle iridi di giada, stuzzicate da un’osservazione che attendevano venisse esternata. Derek aveva quasi trattenuto uno sbuffo rassegnato. «Lo erano».

«Da quanto tempo li hai così?» non era sicuro di potergli porgere la domanda, nella retrovia della sua perspicacia era quasi certo di conoscere la risposta.

«Dall’incendio» dichiarò di conseguenza Derek, facendola risuonare come unico responso esistente.

Li teneva nascosti per quella ragione? «Sei un Alpha?».

«No» negò vigorosamente il mutaforma, la mano che si separava totalmente da Stiles, lasciandolo scoperto ‒ si stava abituando malamente. «Non sono niente».

Il mannaro era pacato e mansueto, era quasi sicuro che non gli avrebbe negato niente se avesse fatto la domanda giusta, ma alla formulazione Alpha si era alterato. «Sei tu a non voler essere niente?».

«È soltanto un potere annacquato» uno squarcio di risa derisoria ed amara gli uscì dalla bocca ed a Stiles spezzò il cuore, perché si rendeva conto di quanto la sua vita si ostinasse a bersagliarlo e punirlo.

Le falangi lunghe e affusolate della matricola si prodigarono e sfiorarono le ciglia nere inferiori, poggiando parte delle dita sull’epidermide al di sotto; con la visione periferica colse il fiato trattenuto da parte di Derek. «Forse devi scegliere chi vuoi essere, il ruolo più adatto a te».

Il modo con cui Derek lo guardò gli prosciugò tutta la salivazione che aveva in bocca, le pagliuzze zaffiro e rubino si accesero, ma non si mostrarono totalmente, lo smeraldo le teneva ancora in riga. Quante volte aveva avuto la risposta davanti a sé, ma non era riuscito a coglierla. «Laura è l’Alpha».

Quella fu la sola risposta del licantropo e Stiles si chiedeva se non si stesse aggrappando alla concretezza del ruolo che spettava alla sorella maggiore. «Puoi esserlo anche tu, se è quello che vuoi» il modo in cui Erica, Boyd ed Isaac lo seguivano era indicativo su che aura sprigionasse, che ne fosse cosciente o meno. «Non credo affatto che ti ripudierebbe o lo riterrebbe una mancanza di rispetto. È la persona più saggia e grandiosa che conosca» e lo amava con tutta se stessa.

«Sì, lo è» Derek concordò con lui senza rimostranze e Stiles la decretò come una vittoria.

Abbozzò un minuscolo sorriso e scivolò verso di lui, i polpastrelli ancora sul lato destro del viso del capitano, sulle occhiaie fortunatamente inesistenti rispetto alla mattina precedente. «I tuoi occhi, li trovo molto belli».

Derek emise un soffio sarcastico, facendo risuonare le sue parole come se non avessero grande rilevanza. «Trovi tutto bello, Stiles» era la parola che continuava a usare per descrivere certi aspetti di sé.

Stiles non si scoraggiò e non se la prese nemmeno troppo, era consapevole di essere ripetitivo su determinate questioni, ma non riusciva a trovare dei sinonimi che rendessero allo stesso modo. «Tutto di te, Derek, lo è».

Il trascorrere del tempo fu come se si fosse arrestato e Stiles crebbe di essere all’interno di una bolla che poteva esplodere da un momento all’altro, la facilità con cui Derek gli toglieva il respiro era inspiegabile, così com’era indescrivibile la profondità con cui lo guardava sempre.

Le iridi di giada furono risucchiate dal colore dell’oceano e del fuoco e Stiles non riuscì a trattenere quel sorriso di contentezza che si estese su ogni tratto del suo viso.

«Due» soffiò Derek alla vista, apprendendo immediatamente il numero che aumentava con una lentezza snervante.

Stiles si sciolse abbagliato dalla continua attenzione ed accuratezza che il lupo completo gli dedicava anche in quei frangenti così atipici e le labbra si curvarono di nuovo liete, felici, come non lo erano state da un infinito trascorrere temporale. Tre.

 

 

 

 

 

 

Buona parte delle verità di Stiles sono state rilevate e tutto ciò ci farà addentrare in una convivenza definitiva forzata tra loro due per necessità.

Gli eventi che noi tutti conosciamo canonici nella serie lo sono anche in questa storia, tranne i fatti della quarta stagione che è praticamente inesistente (e il film che non ho alcuna intenzione di vedere mai nella mia vita), quindi diciamo che gli eventi dalla quinta stagione in poi vengono anticipati.

Lo svolgimento di tali eventi si svolgono senza una presenza incisiva di Derek e di suoi affini, più i vari personaggi che incontreremo capitolo dopo capitolo, sostituiti ipoteticamente da qualcun altro che ha ricoperto i loro ruoli. Mi limiterò a citarli o sintetizzarli in breve giusto per creare una cornice quanto più chiara possibile, senza dover spenderci eccessivo tempo nel raccontare qualcosa che effettivamente conosciamo.

Alla prossima settimana,

Antys

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Capitolo 6
*** 6° Capitolo ***


6° Capitolo

 

Stiles mugugnò, lo sbadiglio a bocca aperta che rilasciò e che con un secondo di ritardo coprì con una mano, gli occhi che prendevano coscienza con l’ambiente ormai fin troppo noto e le iridi boscose riposate che seguivano i suoi movimenti. Forse era la prima volta che le trovava in quelle condizioni, non affaticate dal ritrovarlo in giro per il campus di notte e riuscire ad escogitare un modo per ripotarlo indietro. Era evidente che passare la notte insieme, senza troppe complicanze, fosse un bene per entrambi. «Ehy, buongiorno».

Derek fissò lui e poi la finestra che mostrava barlumi di raggi solari, l’impressione che le nuvole si fossero dileguate. Borbottò qualcosa, un mormorio in risposta e l’umano se lo fece bastare.

«È stato meno traumatico di quanto credessi» osservò meglio intorno a sé, non c’era nulla di diverso, non era cambiato niente, eppure sapeva che una variazione ci fosse stata. «È bello svegliarsi in un letto in cui ci si è effettivamente addormentati precedentemente» sorrise leggermente, niente camminante notturne, niente sorprese.

Il lupo mannaro lo scrutò, i lineamenti che sondavano. «È una tua paura?».

«Svegliarsi accanto ad una persona mezza nuda senza sapere cos’hai effettivamente fatto o cosa ti sia stato fatto? Sì» lo indicò con un braccio, a sottolineare la condizione vestiaria con cui il mannaro lo accoglieva quotidianamente.

Derek roteò gli occhi per nulla toccato, trovando quella frecciatina infondata ed esagerata. «Ti è mai capitato?».

«Eccetto te?» domandò retoricamente, gli occhi ambrati che scorrevano sulla sua figura parzialmente coperta dalle lenzuola. «Fortunatamente no» era anche fortunato sotto un altro punto di vista, il lupo completo si era sempre dimostrato delicato sotto quel punto di vista, evitava che andasse in panico, aspettando che le sue membra fossero completamente reattive e pronte a cogliere cosa fosse variato, in che situazione scomoda si trovasse. «E comunque non è mia abitudine rimanere in letti di estranei».

«Lo dici come se frequentassi soltanto persone occasionali» rifletté a voce alta il padrone di casa, la fronte crucciata incapace di identificarlo, di cacciare via l’idea che aveva di lui.

Stiles non capiva affatto quale potesse essere. «Principalmente è così. Di seria ho avuto… una relazione e mezza?».

«È una domanda?» chiese di rimando il capitano della squadra di basket, le sopracciglia aggrottate.

«Non so quantificarle» rivelò Stiles senza giri di parole, non appariva nemmeno mortificato della situazione. «Qual è la tua abitudine, invece?» cambiò completamente argomentazione, ribaltandola come se in realtà esistesse una congiunzione tra l’una e l’altra.

Derek rimase in silenzio nella caratteristica che lo contraddistingueva, ma Stiles avvertiva una nota sinistra, lo fece sentire a disagio. «Non ho abitudini».

«Nel senso che non hai regole?» domandò allora, il mistero che si accentuava. «Dipende dalla persona?» chissà qual era il genere di persona che attirava Derek, oltre a psicopatiche assassine manipolatrici.

«Non ho abitudini» ripeté il licantropo e Stiles non aveva la minima idea di che cosa significasse.

Il figlio dello sceriffo avrebbe voluto indagare ancora, sfibrare il mistero e cogliere quali fossero le sue reali intenzioni, il modo di fare, ma dall’ammonizione che ricevette dal padrone di casa coglieva che era il caso evitare di farsi buttare fuori a calci; non erano nemmeno affari suoi, soltanto una parte di sé disturbata. «Non volevo dirti quelle cose l’altro giorno, non le penso davvero» sapeva di essere in torto, era consapevole di essere stato ingiusto e di non aspettarsi la mano che Derek continuava ad offrirgli; credeva realmente di essere nei pasticci senza il suo intervenire, ma il mannaro non si tirava indietro nemmeno davanti ai suoi tiri mancini.

«Le pensi eccome» lo smentì il licantropo, le sopracciglia eloquenti, a sottintendere quanto avesse ragione.

«Sì, beh, non volevo essere così maligno» a volte si chiedeva se non fossero residui della volpe oscura, ma era solo una scusa, un pretesto, lo era sempre stato; non avere peli sulla lingua e un filtro a miticare i suoi pensieri erano la sua forza e tallone d’Achille.

«Non importa» lo liquidò la creatura della notte, inflessibile al battaglione a cui Stiles a volte dava voce. «Conosco la tua lingua biforcuta».

«Non ti conviene essere così accomodante, Sourwolf» lo mise sull’attenti la matricola, le labbra che si disegnavano in un ghigno in procinto di addentrarsi in malefatte. «Potrei approfittarne».

Derek ancora una volta non si lasciò turbare, semplicemente tirò il lenzuolo sopra la testa di Stiles a seppellirlo e quest’ultimo rilasciò una risata in una perfetta combinazione tra l’offesa e il divertito.

Il figlio dello sceriffo si liberò dopo una leggera lotta non molto impegnativa dalla parte del mannaro, era evidente fosse una bazzecola per lui e Stiles ne stava traendo ogni vantaggio nel suo essere in una posizione di svantaggio.

Quando il lenzuolo di cotone cadde e lo studente di criminologia lo acchiappò tra le mani, spingendolo verso il basso per liberarsi la vista, si soffermò meditativo sul padrone di casa per qualche attimo, mentre Derek tratteneva un interrogativo nello sguardo di giada. «Come mi sono comportato stanotte? Ho fatto nulla?».

«È un bene che io possieda una vera serratura alla porta» affermò senza tergiversare, dando subito una risposta che era evidente impensieriva il suo ospite. Si trovavano in quella situazione proprio per le problematiche di Stiles, il resto era contorno che gli permetteva di non soffocare. «E che tu non sappia dove tenga le chiavi».

L’umano si chiuse in un silenzio profondo, rinchiuso in dei pensieri che gli affollavano la mente già bistrattata. «Sono davvero impegnativo».

Era scoraggiato e triste, anche demoralizzato, Derek riusciva a capire il suo stato d’animo. «È un enorme passo avanti, Stiles. Sono riuscito ad afferrarti subito».

Stiles avrebbe preferito non fosse necessario, ma Derek era inquietantemente ottimista sotto quel punto di vista e si domandava da quando era lui il catastrofista e il mannaro l’ottimista.

«Ho una cosa per te» disse invece Derek, lasciando di stucco lo studente del primo anno e allontanandolo dalle sue macchinazioni cupe.

Il figlio dello sceriffo lo vide ruotare verso il comodino e aprire il primo cassetto, armeggiare un paio di secondi e voltarsi verso di lui, porgendogli una busta bianca. «Per me?» ripeté in una domanda che risuonava come una eco, l’incredulità dubbia che pizzicava le iridi ambrate e modificava i tratti facciali.

Stiles la afferrò con indecisione, confuso, guardando più Derek che l’oggetto che gli veniva passato tra le mani. Rigirò l’incarto varie volte, in cerca di qualche scritta che gli dessero un suggerimento, ma esso non c’era e attraverso la carta spessa e bianca non intravedeva nulla, nemmeno nella controluce dei pochi raggi solari che penetravano dalla finestra. La busta era aperta, ma era nuova ed immacolata.

Con tentennamento si approcciò a inserire le dita e estrarre ciò che vi era conservato, sollecitato sia dalla propria curiosità sia dall’aspettativa di Derek. Le falangi estrassero un rettandolo di carta, il simbolo della Michigan State University sulla carta stampata: l’elmo degli spartani. «Derek» un sorriso incredibile gli colorò il viso, uno pieno e spontaneo, esteso da guancia e guancia. Fu annessa anche una risatina incredula e felice. Tra le dita affusolate stringeva un biglietto per la partita di basket che si sarebbe tenuta tre giorni dopo.

«Quattro» proferì soltanto Derek, un nuovo numero che veniva sommato.

Stiles girò la testa verso di lui, il cuscino che si plasmava sotto il suo peso, le iridi che brillavano e quel sorriso che perdurò, affascinato e sorpreso. «Der, li conti davvero i miei sorrisi?».

«Fanno parte di te. Sei pieno di sfaccettature e anche questa lo è» rivelò il lupo nero con autenticità, valido osservatore; non ci vedeva nulla di strano.

«Credo siano molti di più» suppose certo lo studente di criminologia, eppure la curva lieta sulle labbra non vacillò, rimase stabile, intramontabile.

«Non quelli autentici» lo corresse la creatura della notte, una mano che si posava a contatto con la mandibola, il pollice che accarezzava uno dei nei più evidenti sul viso dell’umano, quello più vicino alla bocca. «Mostri ghigni e smorfie malandrine, sono sempre deturpati da qualcosa, ma questi sono realmente felici. Sono puri» sfiorò con il polpastrello un angolo delle labbra, a sottolineare precisamente a quali si riferisse. «Li reprimi e nascosti, ma adesso non puoi trattenerli».

Stiles era incantato, infatuato e il suo sorriso non smorzava, rimaneva vivace sotto il tocco di Derek. «Sei troppo attento, Sourwolf» non riusciva a quantificare il modo e il tempo in cui tutta quella storia fosse diventata importante per il mannaro.

«È soltanto una partita di riscaldamento, puoi contenerti» proferì Derek, a sforzare quanto detto.

«Non importa cosa sia, sono troppo eccitato» Cristo, erano anni che non vedeva Derek nel suo elemento principale, non poteva credere che sarebbe riuscito ad assistere ad una partita vera ed a non doversi accontentare di sgattaiolare durante gli allenamenti della squadra.

«Sì, lo sento» gli fece ben notare, lievemente annoiato dall’esagerazione.

Stiles lo spintonò e sbuffò sonoramente, ma era invaso dalla contentezza, non riusciva e voleva dissiparla e Derek contò cinque, sei, sette sapendosi rendere costantemente molesto anche nelle buone azioni della sua inattesa gentilezza. Stiles abbracciò il biglietto come se fosse il suo tesoro più prezioso e Derek rilasciò una mezza risata, divertita dal suo essere ridicolo senza troppo sforzo. «Anch’io voglio vederti felice, Derek» lo aveva voluto dal primo momento in cui accidentalmente l’aveva incontrato ed era un desiderio che non aveva mai mollato la presa. Non credeva che quello stesso pensiero fosse condiviso proprio con il fantomatico lupo cattivo.

«Devi applicarti di più» si burlò il capitano con nessuna reticenza, il pollice che premeva ancora sul neo vicino alla bocca, in una carezza solenne, eppure percepì dell’esitazione nelle sue parole.

Stiles afferrò il proprio prezioso cuscino che si portava ovunque andasse e lo sbatté contro il viso di Derek, scaturendo della disapprovazione da parte sua, anche se era perfettamente in grado di prevenire e parare il colpo.

Nel risentimento reciproco fittizio, Stiles non ebbe scampo e il suono delle sue risate riecheggiarono su tutte le pareti, su ogni oggetto del mutaforma, assalto dopo assalto, rendendosi conto di non provare un tale divertimento genuino da quando la volpe gliel’aveva sottratto. Sperava che anche Derek stesse provando qualcosa di similare, anche soltanto piccoli spazzi.

 

«L’abbiamo sentito ululare la scorsa notte» gli comunicò Erica, seduta a mangiare un’insalata con lattuga, uova e carne appena scottata, qualcosa che Stiles non avrebbe mai guardato in un menù.

Isaac annuì, un panino ripieno di polpette giganti molte rossastre. «È stato abbastanza preoccupante».

Si erano ritrovati in una delle tavole calde che rientrava nei locali che i suoi buoni pasto ricoprivano; Stiles li stava provando tutti, in cerca di locali che potesse frequentare quotidianamente e fornire una buona cucina, simili a quelli che Derek era in grado di scovare e che Stiles si era appuntato, ma doveva spesso pagarli di tasca propria e il portafoglio non apprezzava. In quell’occasione di ricerca, Erica si era unita a lui, insieme ad Isaac e Boyd. Derek in quel momento era bloccato a lezione, in uno dei suoi corsi extra fuori orario.

«Abbiamo cercato di raggiungervi» continuò Boyd, provando l’ennesimo hamburger, doppio in quel pranzo. Stiles era invidioso del loro stomaco di ferro, dubitava potessero avere delle intossicazioni o ripercussioni di qualsiasi sorta. «Ma non vi abbiamo trovato, eravate già andati via».

«Avevamo intasato il telefono di Derek di chiamate e messaggi, soltanto più tardi ci ha rincuorato» Erica era pensierosa, affranta, preoccupata, emise anche un sospiro stanco, Stiles non si era reso conto di quanto la sua situazione si estendesse a terze persone.

«Stiamo bene» li tranquillizzò, anche se non sapeva su quale aspetto dovesse farlo. «Lo avete già visto in forma da lupo completo?» era davvero preoccupante che Derek avesse sentito il bisogno di ululare e scaricare la sua frustrazione?

«Una volta» lo informò Isaac, i ricordi che tornavano alla memoria. «Non si mostra granché. Come con l’ululare, è accaduto soltanto un’altra volta».

Derek era sempre il solito sostenuto e riservato. Non che pretendesse che andasse in giro per il campus ogni due secondi nella sua forma completa, ma doveva essere difficile dover reprimere quella parte di sé così invadente ed era evidente quanto fosse stato necessario per lui doverla assumere per cercarlo nella notte di pioggia. «Mi ha detto che l’ha ottenuta da un anno, ma non in che modo».

«Tipico» sbuffò evidentemente la mutaforma, una nuova forchettata che imboccava e prendeva a masticare con classe. «Ma nemmeno noi sappiamo precisamente come sia accaduto, non sono neanche sicura se sia riuscito a capirlo lui. Una sera l’abbiamo sentito chiamarci con un ululato nuovo e l’abbiamo trovato in quella forma. Un completo lupo nero».

«Era abbastanza sconvolto quando è riuscito a tornare in forma umana» rivelò Boyd, il pensiero che si incupiva a tornare indietro con le memorie. Era fantascienza scuotere Derek, ma addirittura incontrarlo sconvolto era fuori da ogni immaginario. «È riuscito a padroneggiarla quasi subito».

«Stava soffrendo, però» lo delucidò lo studente di veterinaria. Derek era entrato in possesso di un grande potere, ma era stato scaturito da un impatto negativo che lo stava ferendo, lacerando. Aveva visto bene il suo smarrimento nelle iridi boscose. «Era molto triste. Aveva già cominciato a percepire qualcosa qualche ora prima».

Il ricciolino intercettò subito le iridi scure del suo branco, il modo in cui lo stavano rimproverando silenziosamente, ma rumorosamente, parlando troppo. Cercò di ricomporsi.

Derek aveva molti motivi per essere in una costante nube di tristezza, ma ciò non l’aveva mai mutato, eppure doveva essere qualcosa di enorme per aver innescato l’evoluzione che l’aveva toccato. Forse era un altro indizio verso una strada che avrebbe dovuto intraprendere e la sua natura soprannaturale gli stava fornendo ogni strumento per essere più forte, per incitarlo in quella direzione. «E i suoi occhi? Avete visto anche quelli. Lo seguite come se fosse un Alpha?».

«Derek non la vede in quel modo» proferì Erica, ma era indignata ed anche annoiata dalla sua ottusità.

«Non ho chiesto come la pensi lui, ma cosa pensate voi» aggiustò il tiro, focalizzandolo sul punto fondamentale, qualcosa che aveva cominciato a capire perfino prima che Derek gli mostrasse le sue bellissime iridi uniche e tormentate.

Esitarono tutti e tre per qualche secondo, forse restii ad esprimersi in completa fiducia o forse bisognosi di dover raccogliere le idee ed esternarle con le parole giuste. «Noi sentiamo il suo potenziale» elargì l’afroamericano, la certezza nella sua voce. «Anche nella pratica, riesce a farsi valere. A noi basta, a lui no».

«Sì, è un bravo Alpha anche con me» Stiles non poteva affatto negarlo, l’aveva sentito serpeggiare dentro di sé e ne era rimasto incantato.

Erica lo fissò attenta, i suoi occhi nocciola luccicarono e si impressero il momento, a non lasciarselo sfuggire, poi i suoi lineamenti si ammorbidirono. «Vorrei che se ne rendesse conto anche lui».

 

Stiles era arrivato al campo di basket fin troppo anticipatamente, gli spalti erano quasi vuoti e la squadra era nella fase di riscaldamento. Aveva sorriso eccessivamente quando il codice a barre del suo biglietto era stato scannerizzato dall’addetto all’entrata, emanando un rumore positivo che accertava la validità ed autenticità di quel rettangolo di cellulosa che Derek gli aveva regalato come se fosse un’inerzia, ma che per Stiles rappresentava molto di più. L’aveva custodito gelosamente nella propria camera nel dormitorio, all’interno di uno dei suoi libri di criminologia preferiti, lontano da occhi indiscreti. Ma finalmente quel giorno era arrivato e l’umano scalpitava, vedendo a poco a poco gli elementi del pubblico raggiungerlo, occupare posto dopo posto.

«Sei fortunato» dichiarò Erica quando si accomodò al suo fianco, il numero sul biglietto non era il suo corrispettivo, ma a lei non sembrava importare, appariva sicura di non arrecare disturbo al legittimo proprietario. «Derek non mi ha mai ceduto uno dei suoi biglietti».

Il figlio dello sceriffo la guardò sbalordito ed anche un po’ incredulo. «E quale utilizzi?» anche se Erica amava il suo strano branco, dubitava che potesse spendere del denaro per seguire le partite di basket.

«Boyd ed Isaac fanno a turno, a seconda della loro disponibilità. Sono soltanto due biglietti gratuiti a giocatore e riescono sempre ad invitare qualcuno oltre a me» lo informò distrattamente, ammiccando giocosamente.

Non erano i posti migliori e non erano nemmeno i peggiori, era un settore stabilito verso la metà, a permettere ad amici, famiglia ed interessi amorosi della squadra di assistere. «Anche Derek invita qualcuno?».

«No, mai fatto» negò vistosamente la lupa mannara, il capo che si scuoteva ad accompagnare la sua risposta. «A volte non li ritira nemmeno».

Però in quell’occasione l’aveva fatto. «Nemmeno Laura?».

«Per quanto le piacerebbe assistere, i suoi impegni non coincidono mai e non può permettersi di passare da queste parti così di frequente» Erica rilasciò un mezzo sospiro, era evidente che la situazione non le piacesse particolarmente. «Hanno una specie di patto, se la squadra riesce ad arrivare in finale, Laura si organizza di conseguenza per essere ovunque verrà disputata; finora c’è sempre riuscita e acquista il biglietto con il posto migliore. È piuttosto decisa su questo».

Stiles ridacchiò leggermente, era un aspetto molto da Laura, sostenere e farsi sentire da suo fratello più che poteva. «Quindi nemmeno Laura ne ha mai beneficiato».

«No, sei il primo» Erica fu distratta dalla presentazione ed entrata in scena dei giocatori, il palazzetto che cominciava ad animarsi, i vocii per le intonazioni delle due diverse squadre che stavano scendendo in campo. «È proprio da Derek aspettare così tanto».

Stiles la fissò indecifrabile, la domanda conseguenziale che rimbombava aspettare cosa? Ma non riuscì ad esternare l’interrogativo ed i cori iniziarono, un spartani spartani che riecheggiava ovunque e Derek che si piazzava nel suo ruolo da playmaker, i gesti simbolici da capitano che indirizzava ai suoi compagni.

Il figlio della massima autorità di Beacon Hills sorrise apertamente quando l’osservò occupare il suo posto sul parquet e gli occhi di Derek individuarlo, accigliato come sua posa tipica. Stiles lo salutò con un cenno della mano, la curva entusiasta sulla bocca che si estendeva, la bolla che creò in cui gli unici abitanti erano soltanto loro due, impossibilitati ad essere distratti dalla moltitudine di persone che copriva il silenzio. Il lupo scosse impercettibilmente il capo rassegnato dalla personalità di Stiles e abbozzò qualcosa che assomigliava spaventosamente ad un sorriso misto a un grugnito, mentre la matricola saltellava sul posto elettrizzata.

Stiles invocò il suo nome per tutta la durata della partita, urlando, incitandolo e acclamandolo, applaudendo entusiasta ad ogni punto segnato e ottenendo nelle occasioni che riusciva a ritagliarsi, tra una pausa o una sospensione, gli occhi di giada su di lui, testimonianza di quanto il mannaro sapesse individuarlo ovunque si trovasse.

La partita si concluse a favore degli spartani ‒ ovviamente ‒, gli spalti si svuotarono lentamente e le squadre non erano più in campo, Stiles rimase al suo posto insieme ad Erica e aspettarono non sapeva bene cosa, finché ad un certo punto lei non gli fece un gesto che lo invitasse a seguirla, percorrendo i gradini e raggiungendo il campo, da cui uscirono Boyd, Isaac e Derek, con un borsone ciascuno in mano, già perfettamente lavati e cambiati. Più veloci della luce. «Sei stato grandioso, Sourwolf» esultò Stiles, la frenesia dell’eccitazione che non dava segnali di volersi placare, la dentatura completa che si mostrava splendente.

«Piano con le preferenze» lo additò Isaac, fintamente risentito dall’accoglienza che l’umano riservava al playmaker.

«Siete stati bravi tutti» continuò il figlio dello sceriffo, minimizzando l’accusa del mannaro e congratulandosi con loro, rivolgendosi pienamente anche all’afroamericano, riservandogli un arricciamento delle labbra complice. «Ma Derek è un vero fuoriclasse».

Isaac incassò il colpo ed annuì con il capo, impossibilitato ad obbiettare. «Non è il nostro capitano per niente».

«Quello è perché ha l’attitudine da leader, come un Alpha eccezionale» Stiles stava cominciando a pensarlo fin troppo spesso, si rendeva conto di quanto fosse predisposto per quel ruolo, nel modo in cui si comportava con il suo branco ufficioso e per quanto fosse costantemente al suo fianco.

«È un bene che non si sia già montato la testa» ammiccò spudoratamente la licantropa, il rossetto rosso che spiccava. «Con tutti i vostri complimenti».

«Faremo tardi» informò Derek, ignorandoli completamente e sordo alle felicitazioni dell’umano.

Stiles riportò l’attenzione su di lui, inclinando il viso e squadrandolo per bene, a tentare di decifrare il suo linguaggio criptico.

«È la prima partita della squadra, in genere andiamo a festeggiare» completò per lui Boyd, abituato al vocabolario limitato del capitano, illustrando le loro abitudini ad uno Stiles completamente estraneo ai loro riti. «È tradizione».

«Oh, Sourwolf, sai anche festeggiare? Divertirti?» il suo ghigno pericoloso mutò i lineamenti candidi e sporcò le labbra carnose, il diletto che emanava da ogni poro.

Lo studente di letteratura roteò gli occhi annoiato, pronto a ricevere l’ennesima stangata da parte della matricola. «Va a mangiare, sono sicuro che nel correre qui tu non l’abbia fatto».

Il figlio dello sceriffo lo fissò a lungo, sbalordito e incuriosito da una tale attenzione, gli ingranaggi nel suo cervello che si mettevano in moto a tentare di far scattare qualcosa.

«Sì! Te l’ho tengo d’occhio io, Derek» si unì Erica intrigata e contagiosamente divertita, aggrappandosi ad un braccio di Stiles e tenendolo ben stretto, a sottolineare le sue intenzioni. «Potremmo andare nel tuo locale preferito, Stiles, non ho cenato nemmeno io».

«Locale preferito?» indagò il lupo completo, un sopracciglio che si inarcava lievemente.

«O sì» esclamò l’unica ragazza del gruppo, il giubilo che cresceva ancora, strattonando l’umano. «Il Crescent Moon».

«Ma davvero?» lo sollecitò Derek, le iridi di smeraldo puntate su quelle di caramello, l’interesse che si accendeva.

«Ho talento in queste cose» ma Stiles non specificò esattamente in cosa consistesse.

«Sì, abbastanza» Derek invece sembrava comprenderlo molto bene. «Ci vediamo più tardi».

«A più tardi» lo salutò Stiles, un sorriso di incoraggiamento e lo sguardo che lo seguì finché non lo vide congedarsi. Dovette ammettere a se stesso che Erica fu quasi costretta a trascinarlo di peso dal metro quadrato su cui si era inchiodato.

Derek un paio di ore dopo gli inviò in messaggio, in cui gli comunicava che si stava dirigendo verso l’appartamento. «Hanno finito» disse alla lupa mannara che sorseggiava una cioccolata calda alla menta.

Erica osservò l’orario sul display del cellulare, la tazza che si svuotava di metà. «Ha fatto presto».

A Stiles risuonò sinistra quell’osservazione. «Di solito torna più tardi?».

«Derek non ha uno schema» la lupa agitò una mano in senso di diniego, a tranquillizzarlo, le unghie laccate di rosso rubino. «Non è un tipo loquace, lo sai anche tu e ha un livello di sopportazione minimo, agisce soltanto come si sente sul momento».

Stiles sapeva quanto la ragazza avesse ragione, lei lo conosceva meglio di tutti, ma non riusciva a togliersi quella pulce nell’orecchio che si era insidiata malignamente.

«Non angustiarti, Stiles» lo rassicurò, percependo immediatamente il flusso delle sue emozioni. «Non dipende da te».

«Non puoi negare che ne sia influenzato» era un fattore su cui non si poteva proprio sindacare, Stiles sapeva quanto Derek fosse attento ai suoi bisogni, quanto procedesse con adagio. «È sempre così vigile».

«Non limitare le sue azioni» lo riprese Erica, sbrigliando la matassa d’ansia e oscura in cui si stava intrappolando. «Derek fa soltanto quello che è meglio per lui».

Quando Stiles si presentò davanti la porta del mannaro essa era già aperta, con il padrone di casa che attendeva dietro, a facilitargli il passaggio nella sua solita mise e l’umano varcò l’uscio insieme al borsone con il cambio abiti che preparava ogni giorno. Si gettò sul letto quasi subito, il tempo di spogliarsi e indossare il pigiama; scivolò tra le coperte come se non aspettasse altro.

«Ti sei divertito?» Derek lo seguì successivamente, perdendo tempo a trafficare e sistemare qualcosa che non rientrava nel campo visivo del figlio dello sceriffo.

Stiles lo occhieggiò appena nel momento in cui il licantropo lo raggiunse, scuotendo le lenzuola e sistemandole meglio su di loro. «Sì, tanto. Sei stato fantastico» soffocò uno sbadiglio sul cuscino, il viso seminascosto sotto la coperta. «Mi era davvero mancato vederti giocare».

«Sì, l’ho capito dal tuo tifo sfrenato» alcune dita del mannaro si incastrarono tra i capelli castani, ad accarezzarli e sistemarli con gentilezza.

Stiles si accoccolò meglio sotto il tocco restauratore del lupo e ammiccò irriverente. «Vuoi ancora sostenere fosse soltanto un riscaldamento?».

«Lo era, sei tu che esageri sempre» il pollice scivolò e carezzò con leggerezza confortante una tempia.

Stiles si sarebbe potuto addormentare con una facilità estrema. «Nemmeno tu ti sei risparmiato».

«Non fa parte di me» il suo tono era serio e avvallava la tesi che si impegnasse in ogni cosa, a prescindere da quanto fosse rilevante. «La prossima volta, chissà come reagirai ad una partita vera».

«La prossima volta?» gli fece eco, gli occhi che si ingigantivano per lo stupore, il capo che si alzava di scatto per guardarlo meglio ed accettarsi di aver udito perfettamente. «Ci sarà una prossima volta?».

«Certo, perché non dovrebbe?» Derek lo guardò criptico, indagatore, le iridi verdi che tentavano di decodificarlo. «Puoi assistere a tutte le partite che vuoi».

«Tutte?» Stiles lo guardò con occhi giganti, non riusciva a crederci.

«Tutte» confermò il licantropo senza alcuno sforzo, veritiero. «Tutte quelle che si terranno qui. A meno che non vuoi seguirmi anche in trasferta».

In trasferta, non l’aveva realizzato, messo in conto che Derek non avrebbe giocato ogni partita dei vari campionati alla Michigan State University, ma che molte si sarebbero tenute sparse per tutti gli Stati Uniti. «Lo farei, se potessi permettermelo» Derek stava scherzando, non lo intendeva davvero, ma Stiles lo avrebbe fatto, soprattutto se significava non essere sotto lo sguardo vigile del mutaforma nelle notti tormentate. Poi l’umano lo fissò a lungo, indeciso e frastornato, il tarlo che non smetteva di lasciare i suoi pensieri. «Sei sicuro di non voler dare quei biglietti a qualcun altro?» Erica gli aveva confidato di essere stato il primo a cui Derek aveva concesso quell’onore, che nemmeno Laura, la sua preziosa sorella, ne aveva mai usufruito e Derek voleva darli a lui, proprio a lui.

«Piuttosto sicuro» non c’erano tentennamenti da parte del lupo mannaro, era serio ed irremovibile. «Non c’è nessun altro a cui li consegnerei».

La matricola era lusingava, impressionata ed una parte di lei stava saltellando per la contentezza. «In questo modo non ti libererai mai di me, Der».

Le dita della creatura della notte si inoltrarono e si poggiarono sull’attaccatura dei capelli, lì al centro della fronte e Stiles si sentì liberato ed in pace. «Non ho mai detto di volerlo».

Le labbra dell’umano formarono una curva piena e raggiante, mitigata da una leggera timidezza e nascose diagonalmente il viso sul cuscino, pronto a godersi la sua notte di sonno lautamente guadagnata.

«Stai cercando un Alpha?» tuttavia Derek non appariva di quell’avviso, la sua attenzione era già rivolta altrove.

Le pupille nere si dilatarono e il miele delle iridi mitigò, Stiles si trovava in difficoltà. «Perché lo chiedi?».

«Ho avuto quest’impressione» Derek non riusciva a dimenticare il modo in cui la matricola parlasse ed elogiasse un suo essere un Alpha mancato.

«Ne ho già uno» credeva che il suo odore parlasse per lui, che l’impronta fosse rimasta, anche se tra di loro si istaurassero stati su stati.

«Sì, Scott» non era un segreto, non ne era rimasto nemmeno stupito quando Malia lo confidò a Laura; un Vero Alpha. Il messicano in qualche modo aveva sempre incarnato quel ruolo, anche quando era un Beta inesperto, ma senza Stiles al suo fianco a spiegargli e sperimentare con lui tutto quello che gli serviva per controllare se stesso, dubitava che avrebbe ottenuto grandissimi risultati; anche se Laura era l’insegnante migliore del mondo ed aveva fatto del suo meglio per venirgli incontro.

Tuttavia esisteva un grande problema alla base, Stiles non si sentiva più in sintonia con il suo vecchio branco. Aveva cominciato a vacillare dopo il Nogitsune, la conseguenziale morte di Allison; le cose si erano aggravate con l’arrivo dei Dottori del Terrore e delle loro chimere. Stiles stava cercando di metterlo al passo con tutto, di raccontargli piccoli bocconi di lui, tutto quello che gli era accaduto dopo la sua partenza.

C’erano ancora degli aspetti che non gli rilevava, il modo in cui il Nemeton si fosse attivato prima dell’arrivo del Darach, che cosa fosse accaduto dopo i Dottori del Terrore, che cosa avesse scatenato i suoi episodi pericolosi di sonnambulismo, ma delle chimere gli aveva raccontato eccome, di come fosse stato bersagliato in particolare da una di loro, di come l’avesse inseguito in una strada senza uscita con l’unico scopo di fargli del male, limitarsi apparentemente in teoria a mangiargli le gambe per punire lo sceriffo Stilinski, ma Stiles era spaventato, terrorizzato dall’accanimento che gli veniva gettato addosso, della caccia spietata di cui era vittima, della concreta possibilità che la sua carnefice non si limitasse a privarlo degli arti inferiori e gli strappasse lembo dopo lembo di pelle, muscolo dopo muscolo, rinchiuso nella biblioteca scolastica da cui non individuava il modo di scappare.

Si era difeso, aveva cercato di restare intero e di rallentare la sua pedatrice, ma inevitabilmente nella disperazione l’aveva uccisa per proteggere se stesso. I sensi di colpa non gli avevano dato tregua, perché Stiles aveva l’anima più candida che avesse mai conosciuto, anche se era stata macchiata e bersagliata con ogni tragedia possibile.

Quando Scott l’aveva scoperto, non glielo aveva perdonato e l’aveva accusato. Stiles aveva sentito quanto il legame fraterno e unico che li legava si stesse lacerando.

Anche nel momento della riappacificazione avvenuta diverso tempo dopo, Stiles non aveva percepito che si fosse ricomposto ed era lì, a tenere duro, ma il divario era divenuto troppo estremo e poi era nato una sorta di risentimento che Stiles non avrebbe voluto provare, ma che era lì e si ramificava; Derek non aveva ancora scoperto a cosa fosse dovuto.

Stiles si nascose tra le coperte, ma le dita di Derek erano ancora su di lui e non avevano smesso di risollevarlo. «Non so rispondere, non so cosa stia cercando, a parte me stesso».

Derek si inoltrò verso di lui, la testa che si depositava sul cuscino prezioso del figlio dello sceriffo; erano incredibilmente vicini, il respiro accarezzava la bocca e il calore corporeo fluiva da uno all’altro. «Ehy, non ti sta inseguendo nessuno».

La matricola abbozzò un sorriso triste e socchiuse appena le palpebre, a godersi la vicinanza e le premure che Derek aveva per lei. «Tuttavia hai avuto l’impressione che ne stia cercando uno».

«Cosa ci sarebbe di male?» chiese il licantropo interessato alla visione che Stiles aveva del loro mondo. «Nessun branco resta immutabile per sempre. L’evoluzione, il cambiamento, fanno parte dell’essere vivente e tu hai diritto di trovare un altro posto più congenito a te, se è quello che vuoi. Hai anche il diritto di tornare indietro».

Stiles era visibilmente commosso e si strinse istintivamente a lui, le due fronti che entravano in collisione e si poggiavano l’una sull’altra, le falangi del mutaforma che accentuavano la presa su di lui. «Saresti un grandioso Alpha, se solo te ne rendessi conto».

«Stiles» lo ammonì Derek, non volendo tornare sulla discussione.

Stiles sorrise pigro contro di lui, il naso che sfiorava il suo. «Ti avrei proposto la mia candidatura».

Derek depositò un bacio asciutto sulla fronte, sul punto in cui partiva il setto nasale. «Dovresti proporla a qualcuno di meritevole».

Stiles mugugnò di apprezzamento, abbandonato completamente contro Derek, la barba morbida e curata che accompagnava la carezza. «Tu lo sei, Der».

Derek tornò al suo posto, fronte contro fronte, le iridi di smeraldo che si imprimevano ogni lineamento del ragazzo che era pronto ad addormentarsi a contato con lui. «Non vincerai questa volta».

La bocca di Stiles si curvò ancora una volta verso l’alto, le dita del lupo che si attorcigliavano morbidamente tra le ciocche castane, le braccia del dio greco dei sogni che lo accoglieva calorosamente. «Guardami mentre riuscirò a vincere».

 

Stiles era andato incontro a Derek subito dopo che quest’ultimo aveva terminato l’ultima lezione del giorno, aspettava davanti al College of Arts & Letters e non aveva individuato nessuna faccia amica finché il licantropo non si era palesato. «Hai preso tutto?» gli aveva chiesto il moro, l’evidenza di Stiles che possedeva soltanto la sua fidata tracolla e nient’altro.

«No, devo passare dal dormitorio» non aveva avuto il tempo materiale di preparare il borsone che utilizzava per spostarsi nel monolocale del mutaforma.

«Fai strada» l’aveva incentivato lo studente di letteratura, un unico segno del capo che indicava la direzione corretta.

Stiles aveva abbozzato un sorriso e l’aveva trascinato con sé.

«Mi hai mai trovato da queste parti?» l’edificio caratteristico del Mayo Hall si parava ad ogni passo davanti a loro, procedendo con adagio, nessuno dei due sembrava avere fretta.

«Poche volte» lo soddisfò Derek, l’andatura al suo fianco che non cedeva di un centimetro. «Ti piace camminare».

Il che corrispondeva proprio al problema principale, se Stiles fosse stato moderato e con un’area da ricoprire limitata, Derek non avrebbe dovuto pescarlo da un fiume o da dovunque lo avesse scovato in passato.

La matricola si fermò davanti l’ingresso principale, alcune figure che vi uscirono e che squadrarono sia lui che Derek, soffermandosi particolarmente sul lupo; Stiles non ne era stupito perciò procedette verso il secondo piano, varcando la porta e trovando la stanza occupata da Jiang intento a rilassarsi con la televisione accesa e un taccuino su cui stava scarabocchiando senza troppa attenzione. «Ehy, Jiang» lo salutò nell’immediato, dirigendosi verso la sua parte di armadio.

«Stiles» si limitò il compagno di stanza, adocchiandolo appena.

Lo studente di criminologia afferrò la borsa e cominciò a riempirla con i suoi oggetti personali, trafficando con la biancheria, a trovare qualcosa che lo ispirasse da indossare il giorno dopo. Percepì gli occhi orientali prementi del suo coinquilino su di lui, ma cercò di non farsi distrarre; non era ancora mai capitato che Jiang lo beccasse in flagrante a preparare i bagagli che testimoniavano nuovamente la sua assenza per la notte nel dormitorio né gli aveva mai dato l’opportunità di chiedergli dov’è che andasse. Era sicuro che ormai avesse le sue teorie, gli aveva già chiesto in passato se si frequentasse con qualcuno ed era un’idea che certamente non l’aveva abbandonato, dopo l’evidenza di essersi quasi completamente trasferito per la notte altrove; sarebbe stato difficile fargli credere che ciò che Stiles compieva era qualcosa di completamente innocente.

«Quello è Derek Hale? Il capitano della squadra di basket?» lo studente di economia lo individuò con molto ritardo, mettendolo a fuoco con difficoltà e registrando i lineamenti da comparare a quelli di sua conoscenza, perché gli apparivano decisamente familiari.

Stiles fu risvegliato e bloccando le sue movenze, girò il busto verso il licantropo, fermo sulla soglia della porta, rispettando uno spazio non suo, gli occhi seri ed inflessibili. «Sourwolf, dovresti presentarti».

Ma Derek non lo fece e Stiles rilasciò una mezza risata divertita, prendendo una felpa verde e bianca e sistemandola dentro il borsone, cercando un paio di jeans che non trovava e che la sua mente gli ricordò fossero rimasti nell’appartamento di Derek, in cerca di un giro in lavatrice. Avrebbe dovuto farne una molto presto. «Scusalo, Jiang. È stato cresciuto dai lupi».

Il mannaro lo fissò in tralice, il rimprovero ringhiante silenzioso. «Smuoviti, sei troppo lento».

Stiles rilasciò un risolino allietato, per niente colpito dalla rudezza del capitano e con un unico gesto chiuse la cerniera della borsa, issandola su una spalla. «E tu sei il solito impaziente e fastidioso».

«Disse il logorroico iperattivo per eccellenza» affermò con scherno la creatura della notte, apprestandosi a scostarsi per far passare Stiles e chiudere la porta dietro di sé.

Jiang non riuscì a decifrare lo scambio che avvenne e continuò lontano dalla sua portata d’orecchio, non capendo affatto a cosa avesse assistito. Riuscì soltanto a metabolizzare che Derek Hale, capitano della squadra di basket per il secondo anno consecutivo e studente del terzo anno, si accompagnasse da una semplice matricola, seppur tormentata e complicata.

 

Derek non aveva guardato l’orologio né gli prestava mai particolare attenzione, gli allenamenti si erano protratti ben oltre l’orario abituale e la sera era arrivata in fretta, ma quando risalì le scale con il borsone pieno della biancheria da pulire e che attendevano fremente un viaggio in lavatrice, trovò Stiles seduto accanto alla sua porta, la schiena poggiata sul muro e la borsa da viaggio sulle gambe, a permettergli di poggiare i gomiti per sorreggergli la testa. «Stiles».

Stiles lo individuò subito e lo salutò con una mano, una curva lieta lievemente mortificata sulle labbra. «Scusa, devo aver confuso gli orari».

Il lupo completo inserì la chiave apposita nella serratura e la fece scattare due volte. «Da quanto stai aspettando?».

«Un’ora, circa» fu vago, alzandosi immediatamente in piedi e grattandosi disordinatamente la testa.

«Potevi chiamarmi o mandarmi un messaggio» Derek spintonò la porta e l’essere umano lo seguì a ruota, procedendo diretto e sicuro verso l’ala dedicata alla camera da letto, poggiando il bagaglio su un angolo della scrivania e adocchiando distrattamente il letto sistemato con cura, in cui era custodito il suo prezioso cuscino, cuscino che Stiles aveva lasciato lì fin dal primo giorno in cui aveva accettato l’invito di Derek di trascorrere le notti con lui; non aveva alcun senso portarlo avanti ed indietro.

«Non era urgente, potevo aspettare» rettificò il figlio dello sceriffo, dirigendosi verso il frigorifero e prendendo una delle bottiglie di vetro in cui era contenuta acqua fresca, riempiendo immediatamente uno dei bicchieri che aveva lavato quella stessa mattina. Derek era un vero amante dell’ambiente, puliva e riciclava ogni cosa, la plastica era un elemento che difficilmente si trovava in giro per il monolocale, a meno che non vi era costrizione per mancanza di alternativa, aspetto che lo indispettiva parecchio.

Derek lo fissò corrucciato, il mazzo di chiavi poggiato momentaneamente al centro del tavolo. «Non devi aspettare davanti la porta, ma trovare un’alternativa».

«Pensavo saresti tornato presto, ogni volta prolungavo di cinque minuti. Non mi è pesato e alla fine sei arrivato» Stiles si fece scivolare la faccenda addosso e si accomodò sul divano, sbirciando prima attraverso la grande finestra e osservando gli altri studenti che rincasavano o si apprestavano ad uscire per andare da qualche parte.

Derek sospirò, le difese di Stiles erano sempre inespugnabili. «Hai mangiato?».

«No» era inutile mentire al lupo nero, non ci avrebbe guadagnato nulla e Derek avrebbe comunque agitò di volontà propria.

Come volevasi dimostrare, il padrone di casa si sistemò e subito dopo recuperò qualcosa dal frigo, prendendo una padella per arrostire, versando una minuscola goccia di olio ‒ vero olio d’oliva ‒ da cospargere con maestria per tutta la superficie ‒ aboliva il burro ovunque potesse ‒ e lasciare leggermente sfrigolare, prima di poggiare con delicatezza due tagli pregiati di carne rossa: una era una bistecca alta e con il grasso evidente, l’altra era più piccola e bassa, dalla consistenza tenera e Stiles sapeva che era per lui, acquistata appositamente soltanto il giorno prima. «Niente cottura al sangue».

«Lo so» gli fece ben presente Derek, stando ben attendo a maneggiare tutto correttamente.

Il mannaro gli dava le spalle, occupato a far sciogliere il grasso sulla superficie antiaderente. «Non riesco a sopportarlo, il sangue» la matricola non aveva mai espresso chiaramente quale tipo di disturbo gli scaturiva, perché fosse così fiscale a tal punto da farsi chiudere lo stomaco. «Mi sembra di averne già fatto una scorpacciata senza fine, lo sento sotto lingua» era metallico e dal retrogusto ferroso, quasi arrugginito, sgorgava a cascate e non riusciva ad associare tutte le facce alle persone a cui aveva sottratto la vita.

«Forse dovresti diventare vegetariano» Derek era piuttosto attento a quello, se casualmente si occupava della sua cena o uscivano insieme, sceglieva spesso un alimento o un posto in cui il menù presentava una predominanza di scelta vegana o vegetariana. Stiles aveva bisogno di ampia opportunità e non si risparmiava mai, anche se puntava sempre sul piatto più economico. Le sue specifiche venivano scandite per bene e in genere rispettate alla lettera, se vedeva qualcosa che non andava lo faceva riportare indietro. Odiava gli sprechi o l’essere difficile, ma Stiles non riusciva a soprassedere su certe cose.

«Sarebbe un’ottima idea, ma amo troppo la carne» c’era un’infinità di cibarie sotto quella forma, che non mostravano il sangue nemmeno per sbaglio e Stiles ne adorava il sapore, non era per niente pronto a toglierli drasticamente dalla sua dieta.

«Sei più un tipo da carne bianca» difficile non notarlo, a volte il mutaforma si era chiesto se anche quella preferenza non fosse guidata dalla necessità del suo portafoglio limitato.

«Anche quella contiene sangue» Stiles rabbrividì, non c’era una risoluzione per il suo problema che lo attanagliava.

«Sì, ma è severamente consigliata una cottura prolungata» possibilità quasi nulla di ritrovarsi dei liquidi di rubino sul piatto.

Stiles sbuffò, la vittoria dalla parte del licantropo era evidente e l’osservò rigirare le due pietanze sulla padella adatta, quella del lupo era quasi pronta, mentre quella destinata alla matricola necessitava di una cura maggiore. «Hai una risposta per tutto».

Derek rallentò i suoi movimenti e lo sbirciò con moderazione, trattenendo un sospiro che era visibile. «Studi criminologia, Stiles. Incontri il sangue giornalmente e se proseguirai per questa strada, sarà il tuo futuro».

«Questo non ha nessuna attinenza» lo smentì pronto il figlio dello sceriffo, i lineamenti che si contraevano e le iridi caramellate che si scurivano. «Non devo metterlo in bocca, non devo ingoiarlo».

Derek non proseguì, abbassò la fiamma e si limitò a prendere due piatti dal mobile apposito in cui li conservavano e proseguì come se non fosse accaduto nulla.

La matricola impiegò qualche secondo per calmarsi e altri per ragionare sul da farsi, con lentezza si sistemò vicino a lui, prendendo l’occorrente per apparecchiare la tavola e alleviare quella sensazione sbagliata che gli suggeriva quanto si approfittasse di Derek, anche nelle piccole cose. «Non sei stato tu a fargli del male» lo intercettò Derek, interrompendo il suo via vai da un punto all’altro. «Non sei stato tu a trarre nutrimento da loro».

Stiles si paralizzò lì davanti al cassetto delle posate, non erano molte ed avevano i manici di vari colori: gialli, blu e verdi, per una persona sola erano anche troppe, ma per due erano abbastanza, tuttavia per un numero superiore cominciavano ad arrancare. Stiles non aveva mai capito se in quel monolocale Derek avesse mai invitato qualcuno oltre a lui. «Sono state le mie mani, sono state le mie scelte».

Proprio le mani erano focali e quelle del lupo completo andarono a circondare il viso di Stiles, a tenerlo fermo e stretto. «Ne hai in qualche modo beneficiato?» gli domandò con conoscenza, le iridi di smerando che lo guardavano con attenzione richiesta, affondando completamente nelle sue. «Ci sono stati dei vantaggi per te?».

I grandi occhi di miele lo guardarono scioccati, in completa apnea. Stiles non riusciva a far passare l’ossigeno attraverso i polmoni e faticava a stare dietro all’urgenza del licantropo. «No, solo dolore».

I pollici di Derek asciugarono quelle lacrime che Stiles non si rendeva nemmeno conto di star versando, si bagnarono e proseguivano in quella minuziosa accuratezza nei suoi riguardi. «Allora non puoi aver preso nulla da loro» ma la volpe oscura sì, lei aveva preso ogni cosa.

«Ma io lo sento» un singhiozzo gli scappò dalla bocca che si andava ad inumidire e che diveniva più rossa sotto la sua pelle diafana che si schiariva ancora di più. «Tutte quelle vite spezzate».

«Lo so che lo senti» la necessità di dargli conforto e trasmettergli calore portò Derek a far congiungere le due fronti, a respirare lo stesso ossigeno dalle rispettive labbra. «Ma non le hai nemmeno sfiorate, non sei artefice delle azioni della volpe».

«È così che agisce una volpe, non si sporca le mani» il Nogitsune era stato chiaro e meticoloso, nulla dei suoi calcoli era stato sbagliato, era stato tutto perfetto.

«Nemmeno le tue lo sono» ribadì il lupo, scandendo sillaba per sillaba, significato dopo significato.

«Lo sono, c’è troppo sangue. Anche quello della chimera» ma si interruppe, non riuscì ad andare avanti ed ispirò con violenza dal naso.

«Quello era necessario» gli fece ben presente la creatura della notte, le dita che affondavano tra i capelli castani.

«No» uggiolò con voce piccola, distrutta ed affranta, non riusciva ad avere controllo su di sé. «Potevo trovare un altro modo».

«Non c’era un altro modo» che cosa avrebbe mai potuto fare? Era stato un incidente e Stiles aveva tentato soltanto di rimanere vivo. «Non devi credere a ciò che ti ha detto Scott, lui non si è mai trovato in queste situazioni. Qualcun altro ha sempre dovuto fare il lavoro sporco al posto suo».

Stiles non riusciva a distogliere gli occhi da lui, era totalmente calamitato e colpito dal mannaro, frastagliato dalla voragine che lo divorava da dentro ed abbandonarsi a lui e farsi risucchiare era l’atto più facile da cui farsi trasportare. Si ritrovò ad accerchiarlo con un solo braccio, premuto sulla schiena.

Era accennato e non aveva il completo coraggio di andare oltre, non sapeva se avesse quel lasciapassare e Derek rispose in un solo modo, una mano che scivolava altrove svanendo, mentre il pollice dell’altra perseverava a cancellare le scie acquatiche da un lato del volto e le labbra che aderirono contro una delle tempie liberate, a schioccare un bacio pulito e riparatore, confortante in ogni aspetto. «Ti serve soltanto del tempo» proferì il lupo mannaro contro la sua epidermide, la barba morbida che la solleticava. «Non posso prometterti che questa sensazione svanirà, ma starai meglio».

Il corpo di Stiles tremò e la presa su Derek si accentuò, sedotto e conquistato dal calore corporeo con cui lo investiva, dalle vibrazioni positive che gli trasmetteva e che gli accerchiavano il cuore. «Voglio stare meglio, Derek».

Derek rispose con uno nuovo schiocco della bocca sul viso e Stiles commosso lo abbracciò davvero, completamente.

 

 

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Capitolo 7
*** 7° Capitolo ***


7° Capitolo

 

Stiles cominciò a trafficare molto presto, il suo corpo gli suggeriva di aver riposato abbastanza e l’impegno a mettersi davanti ai fornelli urlava molto forte. Si muoveva dentro quella cucina come se fosse la propria e il troppo tempo che passava con Derek dentro quelle mura e le abitudini che si era preso, conoscendo l’esatto posizionamento di ogni oggetto e come funzionassero pentole e padelle, erano piuttosto evidenti. Non sapeva bene come dovesse classificarlo, ma in realtà non era per nulla preoccupato.

Derek lo raggiunse più tardi, l’evidenza di quelle poche volte in cui l’umano riusciva a svegliarsi prima del padrone di casa e non per via della conseguenza del suo sonnambulismo in cui il mannaro doveva corrergli dietro.

Il lupo lo guardò per qualche attimo, la familiarità nei movimenti, che oltre a indicare quanto Stiles sapesse usare bene i suoi fornelli, c’era anche l’esperienza che si portava dietro da una vita in cui aveva dovuto imparare ad occuparsi di se stesso e del proprio padre troppo anticipatamente. «Non dovevi cucinare».

Stiles lo ignorò, perseverando nel suo buono proposito e nel soddisfare lo stomaco di entrambi. «Non puoi sempre occupartene tu».

«È casa mia» gli fece ben presente, come se fosse stato in grado di dimenticarlo.

«Questo non vuol dire che devo stare costantemente a guardarti, anch’io voglio fare la mia parte» ci passava fin troppo tempo lì dentro, non voleva essere un ospite scroccone e basta, era una cosa che detestava.

Derek rimase immobile per una manciata di secondi e Stiles sentiva i suoi occhi su di sé, evidentemente propenso ad aggiungere qualcosa e a comunicarle, ma non fiatò e tornò indietro a prendere il borsone degli allenamenti, per poi giungere nuovamente in cucina e dirigersi verso la lavanderia. Stiles lo sentì trafficare con gli indumenti, l’oblò che veniva aperto e la biancheria interessata inserita all’interno dell’elettrodomestico. «Devi aggiungere niente?» gli domandò la creatura della notte, il flacone del detersivo già pronto per essere afferrato ed utilizzato.

«Sì, aspetta» abbassò la fiamma al minimo e si inoltrò nella zona notte, acchiappando una manciata di abiti che aveva utilizzato nei giorni precedenti e che corrispondessero alla lavata scura che Derek aveva selezionato ‒ generalmente in quella colorata c’erano quasi sempre esclusivamente capi di Stiles ‒; li dimenticava spesso nel monolocale e ad entrambi veniva automatico usare la stessa lavatrice.

Glieli passò con cura e si direzionò subito al lavello, sciacquandosi le mani, controllando la cottura delle sue uova strapazzate e spegnendo il fornello. Si precipitò a servire tutto su due piatti, il bacon croccante che ancora sfrigolava in mancanza di una fiamma attiva e disponendo tutto sulla tavola che aveva precedentemente apparecchiato; successivamente tornò nell’ala lavanderia, nell’attimo in cui Derek aveva già azionato la lavatrice e si era spostato per lavarsi le mani, preparare ed avviare la macchinetta del caffè, per poi sedersi davanti alla colazione ancora fumante.

«Amo il tuo ammorbidente» dichiarò Stiles innamorato nel momento in cui alzò il coperchio dell’asciugatrice e ne estrasse una delle felpe variopinte che si strofinò sul viso per assaporarne la sensazione e che aveva inserito la sera precedente, insieme ad altri componenti del loro armadio. «Rende tutto così morbido».

«Questo spiega perché ne usi quintali» lo sbeffeggiò Derek senza una vera intenzione, la forchetta che affondava nelle uova.

«Non è vero» si imbronciò il figlio dello sceriffo, massaggiando la felpa e sistemandola sopra una delle spalliere libere, lontana da qualsiasi pietanza ci fosse disposta sul tavolo. «Derek, sei davvero noioso».

Derek sorrise sotto i baffi, continuando a svuotare il piatto e Stiles lo imitò senza tentennamenti. «Probabilmente farò tardi anche oggi» lo informò il licantropo, sorseggiando la sua bevanda di caffeina e caramello salato.

«Va bene» afferrò l’umano, la striscetta di bacon che quasi si scioglieva in bocca. Amava anche la qualità superiore che Derek riusciva a trovare in ogni venditore della zona. «Mi organizzerò di conseguenza» il capitano della squadra si basket era stato piuttosto chiaro nei due giorni precedenti su ciò che si aspettava da lui.

Stiles proseguì bevendo il suo caffè, ma si alzò per aprire l’anta del frigo e afferrare il cartone che conteneva il succo d’ananas, prendendo un nuovo bicchiere dalla credenza e ritornando comodo al suo posto. Si ritrovò a fissare le pareti che lo circondavano assorto. «Hai sempre vissuto in questo appartamento?».

Derek svuotò quasi del tutto il suo piatto e lo guardò per qualche momento a decriptare cosa avesse sollecitato quella curiosità. «Sì, ho firmato un contratto di quattro anni».

La matricola lo fissò sbalordito, gli occhi grandi. «Piuttosto sicuro di te» non che augurasse un fallimento al licantropo, ma poteva anche cambiare idea, sull’università, sui corsi da seguire e su come avrebbe voluto vivere.

«Non volevo che qualcun altro gli mettesse gli occhi addosso» Derek sapeva quello che voleva e si muoveva sempre per riuscire ad ottenerla. «Quindi l’ho bloccato».

«Perché è il più luminoso?» doveva davvero sorprendersi che il lupo si impegnasse così tanto?

«Sì» confermò Derek senza reticenze, accompagnato dall’ultimo boccone della sua colazione.

Le labbra di Stiles si arricciarono verso l’alto e non poteva negare quanto fosse folgorato ed intenerito da quella particolarità che lo rendeva così Derek come pochi potevano conoscerlo.

«Ma immagino che il prossimo anno dovrò rinnovarlo» aggiunse successivamente il licantropo sovrappensiero, come se quella nota messa momentaneamente di lato fosse tornata a brillare e pretendere la sua attenzione.

«Rinnovarlo? Il contratto?» Stiles era un po’ confuso, possibile che avesse sbagliato i calcoli così platealmente? «Perché?».

«Voglio prendere un master» elargì il lupo mannaro, svelando un mistero che a lui appariva piuttosto scontato. «Quindi dovrò prorogarlo di altri due anni».

«Un master» gli fece eco Stiles, un sorriso intrigato ed incantato che si disegnava su ogni tratto. Aveva cominciato a sorridere e ridere di più da quando c’era Derek nella sua vita, in quella sorta di gioco in cui si appuntava ogni occasione in cui accadeva; era elettrizzante e lo faceva sentire importante, apprezzato ed era troppo in sintonia con il mannaro di quanto non lo fosse mai stato con qualcun altro. «Hai già idea di quale?».

«Qualcuna» fu vago, la testa che oscillava impercettibilmente. «Sicuramente qualcosa che si occupa di traduzioni».

«Perché sei bilingue?» sia Derek che Laura avevano una conoscenza e padronanza dello spagnolo come se parlassero soltanto quello tutto il giorno e Stiles poteva ascoltarli ininterrottamente passare da una lingua all’altra come se niente fosse.

«Quello aiuta, sì» era un’eredità che nessuno avrebbe mai potuto togliergli. «Ci sono molti testi che andrebbero tradotti e vorrei farlo con la mia voce».

Stiles si sciolse completamente, infatuato totalmente delle continue scoperte di cui entrava in possesso della personalità inimmaginabile di Derek. «Già, il lupo taciturno che conosce e ama il reale potenziale delle parole».

 

Stiles si sorprese molto quando si ritrovò Derek davanti l’uscita del College of Social Science. Era la prima volta che accadeva, generalmente era lui a raggiungere o passare dal suo dipartimento. «Ehy, Der» lo salutò, fiondandosi verso di lui senza essere troppo frettoloso o preoccupato per quella visita inaspettata.

«Stiles» lo accolse impassibile il lupo completo, la figura statuaria.

Ci fu un mormorio distinto dietro di lui, Stiles avrebbe voluto voltarsi ed individuare chi fosse l’artefice, a parte tutti quelli che lo avevano anticipato e seguito in quella uscita dall’edificio per il corso concluso. Riusciva a percepire con la coda dell’occhio gruppetti parlottare tra loro e guardarli spudoratamente, qualcuno anche indicarli senza nascondersi troppo; Stiles non individuava particolarmente la ragione, capiva che non tutti fossero abituati ad avere a che fare con una celebrità come Derek Hale, ma era poco lusinghiero essere etichettato come qualcuno che non si sarebbe mai potuto avvicinare a lui. «Hai delle scarpe da rendermi?».

Stiles ammiccò spudoratamente e Derek si limitò a roteare parzialmente gli occhi, ignorandolo. «È tuo».

Il figlio dello sceriffo dovette impiegare diversi secondi per processare la scena che gli si parava dinnanzi, Derek che lasciava dondolare delle dita un mazzo di chiavi, composto da soli due elementi più il cerchietto metallico a spirale che li teneva insieme, impedendo che si perdessero. Gli occhi di Stiles si ingigantirono, l’ambrato che brillava e le pupille ridotte ad un punto di spillo per via dell’Astro di Apollo che splendeva incontrastato nel cielo. «Sono le chiavi di casa tua?».

«Sì, le ho appena fatte fare» confermò senza tentennamenti, afferrando la chiave più piccola. «Questa è per aprire il portone principale e questa la porta» indicò la più lunga, i denti complessi di ferro che si mostravano.

La matricola non sapeva bene dove guardare. «Perché?».

«Stiles, devi essere autonomo» dichiarò spicciolo Derek, spiccicando poche parole perché le riteneva superflue. «Non devi aspettarmi o avere il timore di disturbarmi, puoi passare quando lo ritieni più opportuno».

Stiles era incredulo, era una premura enorme e la manifestazione di quanto Derek si fidasse di lui. «Sei sicuro? Io non ho problemi a rispettare i tuoi orari».

«Nemmeno io ho problemi con questo» avvicinò il mazzo maggiormente all’umano, chiaro segno che dovesse accettarlo.

Lo studente di criminologia lo guardò ancora per qualche momento, sentiva ridondare dentro di sé l’importanza di quel gesto, del simbolo che Derek gli stava donando. «Sai che è illegale fare le copie delle chiavi di una proprietà privata?».

La bocca dell’umano era distesa in un ghigno saputo e Derek lo fissò oblungo, giudicandolo. «Parli proprio tu di illegalità di copie di chiavi? Avevi tutte quelle della città».

«Non esattamente tutte» mitigò il figlio dello sceriffo, la malizia su ogni tratto facciale. Poi si concentrò nuovamente sul giocatore, l’intensità del momento era palpabile e Stiles doveva soltanto accettarlo. «Derek, grazie» afferrò le chiavi con mani tremanti, a formare una coppa che le contenesse e che impedisse che potessero dispendersi. «Non potrai più disfarti di me, Sourwolf».

Derek scosse le spalle, come se la questione non lo toccasse minimamente. «Sono già pentito».

Stiles gli regalò uno dei suoi sorrisi più belli, felice e malandrino, l’orma dell’astuzia della volpe rossa. «Pranziamo insieme?».

«Sì» rispose affermativo la creatura della notte, privo di alcun tentennamento.

Stiles strinse il nuovo mazzo di chiavi tra le falangi, assaporandone la consistenza e il calore che sprigionavano, cominciando a dirigersi verso la strada interna che conduceva nella parte del campus più trafficata, lì dove si affollavano i locali e trascinandosi dietro il mutaforma. «Offro io».

Derek non lo corresse né gli intimò di lasciar perdere, era un gesto che difficilmente Stiles compieva e si poteva permettere; aveva un valore molto più radicato. «Portami nel tuo locale preferito».

Il figlio dello sceriffo voltò il capo nella sua direzione, il passo che rallentava ma non si fermava, cercando di comprendere se avesse udito correttamente. «È una caffetteria, non proprio il luogo ideale».

«Non importa» lo tranquillizzò Derek, per nulla turbato dalla specifica. «Andiamo lì».

La curva allietata sulle labbra di Stiles si ripresentò, speciale come poche altre, e non tergiversò più per condurlo esattamente nel luogo che aveva scelto.

 

Stiles rincasò molto tardi rispetto alle sue abitudini e alla storia del proprio mazzo di chiavi non si era abituato, ma Derek non gli aveva ancora aperto la porta e non aveva mai suonato al campanello in cui figurava la scritta Hale; quindi decretò che il capitano della squadra di basket non fosse ancora tornato e inserì la chiave nella serratura, facendola scattare una sola volta, segno che in realtà il padrone di casa fosse al suo interno. «Scusa, Derek, il gruppo di studio mi ha preso più tempo del previsto» cosa che cominciava ad accadere più spesso, indipendentemente dall’orario che sceglievano.

Quando Stiles entrò, non vide nessuno al suo interno e dove l’occhio riusciva a percepire vi erano solo punti luce, strategici, che si intravedevano per tutto il monolocale; la matricola non riusciva proprio a capire. «Derek».

Proseguì di un passo indeciso se andare avanti o tornare indietro, lasciare quella sorta di privacy al mannaro o se dovesse cominciare a preoccuparsi, ma ad un certo punto sentì dei passi ammortizzati, la durezza delle unghie che sbatteva contro le piastrelle del pavimento ed un’accoglienza che proprio non si aspettava. «Chi abbiamo qui».

Derek era nella sua forma completa, percorreva il corridoio andandogli incontro, un manto di inchiostro che proseguiva nella penombra dell’appartamento e le iridi blu e rosse che lo guardavano in attesa, spiccando nella parziale oscurità. «Ciao» gli disse Stiles innamorato, un sorriso dipinto sul viso con lo stesso sentimento.

Chiuse la porta a doppia mandata e posò il mazzo di chiavi in uno dei ripiani interni della scaffalatura all’ingresso, nel punto in cui Derek aveva sistemato le sue cose ogni singolo giorno, in una piccola ciotola di metallo aranciata e si diresse verso la zona notte abbandonando la borsa e la tracolla sulla scrivania, mentre il lupo seguiva i suoi passi in religioso silenzio.

Lanciandogli un’occhiata interrogativa Stiles si avvicinò alla finestra e scrutò il cielo in cerca di una conferma: la luna era soltanto a metà, il plenilunio era troppo lontano per avere un effetto su Derek. Si ritrovò ad accarezzargli la testa con leggerezza di istinto, senza nemmeno pensarci e ponderare se al lupo fosse stato indigesto, invogliato a mordergli la mano per l’affronto, nota che Derek avrebbe sicuramente apprezzato in molti contesti, ma il quadrupede non si lamentò né si scostò e Stiles proseguì verso la cucina, a prendere il suo consueto bicchiere di acqua fresca ed osservare in che condizioni fosse. «Hai mangiato?» era immacolata, non vi era nulla fuori posto, se non il bicchiere che sicuramente il padrone di casa aveva usato riposto vicino al lavandino. A Stiles venne il dubbio su cosa Derek potesse aver fatto o non fatto. «Ti serve qualcosa?» ma Derek lo guardò soltanto con quei bellissimi occhi del mare e del fuoco e si defilò, sparendo completamente dalla visuale del figlio dello sceriffo.

Stiles rimase per qualche attimo immobile e poi lavò il bicchiere di vetro di Derek, mentre il proprio lo abbandonava in un angolo, un coperchio sopra per evitare che la polvere gli cadesse e potesse usarlo in qualsiasi altro momento per il corso della notata.

Tornò nella frazione da camera da letto e trovò il lupo disteso sul pavimento, vicinissimo al letto, il muso tra le zampe, gli occhi che seguivano pigramente i suoi movimenti. «È così che ci sentiamo questa sera?» domandò retoricamente con tono dolce, gli angoli della bocca arricciati per la tenerezza incontrastata che gli suscitava, qualcosa di anomalo da provare per uno dei predatori alla vetta della catena alimentare, ma Stiles non ne poteva affatto farne a meno.

Derek lo ignorò, socchiudendo gli occhi ed estraniandosi completamente e Stiles non ne risentì, afferrò soltanto la sua tracolla da studio ed estrasse un paio di libri, insieme al raccoglitore in cui erano contenuti tutti i suoi appunti ed osservazioni, il lungo lavoro che aveva apportato nelle ore precedenti con il suo gruppo di studio. Si sistemò sul parquet freddo, accanto al lupo, le spalle poggiate contro il letto a reggergli la schiena e Derek spostò leggermente la testa verso la sua direzione, guardandolo con dubbio. «Ho ancora qualcosa da studiare» si giustificò Stiles strizzandogli un occhio di complicità, una penna alla mano e un astuccio in cui conteneva tutti i suoi evidenziatori colorati.

Il lupo lo fissò, il tempo non sembrava avanzare e Stiles gli dedicò un sorriso completamente infatuato di lui, la mano occupata a tenere uno dei libri aperto che affondava nel folto manto inchiostrato, facendo attenzione ed accarezzandolo con cura. «Cosa c’è?» ma Derek non fiatò, né un latrato né un sibilo, ritornò con il muso tra le zampe e non si mosse più.

Stiles non smise di accarezzarlo, le falangi completamente risucchiate della pelliccia nera, scivolavano e risalivano, nella morbidezza e nella confortanza che quei gesti e silenzio pacifico riuscivano a creare. Perseverò per quasi un’ora, senza mai rallentare o avvertire la stanchezza, continuando a scribacchiare e voltare pagine, evidenziando qua e là frasi o parole che necessitavano della sua attenzione, con Derek che respirava sotto le sue dita sereno, il pelo che si alzava ed abbassava e Stiles sapeva che stava bene.

Nella beatitudine il lupo si alzò sulle quattro zampe e gli si sedette davanti a scrutarlo con i suoi occhi unici. «Vuoi dirmi qualcosa?» gli chiese l’umano, la testa rivola lievemente nella sua direzione, mentre un occhio continuava a leggere il libro e la mano destra impegnata a trascrivere.

Il predatore si avvicinò e cominciò a muovere il naso ovunque, prima lentamente e poi sempre più velocemente, a seguire qualcosa che riusciva a sentire soltanto lui sui vestiti e sulla pelle del figlio dello sceriffo. «Derek, vacci piano» ma il lupo non lo fece e Stiles si sentiva travolto dalla sua insistenza, il muso premuto contro la clavicola, ad un passo dal collo. «Ho un odore che non ti piace?» si vide costretto a chiedere, prendendogli la testa tra le mani per allontanarlo e non lasciarsi sovrastare dall’animale evidentemente disturbato da qualcosa che non riusciva più a sopportare.

Derek soffiò in risposta, un rumore minimo e secco, le iridi di rubino e zaffiro che non demordevano. «Okay, d’accordo» proferì la matricola, le dita che gli massaggiavano la congiunzione delle orecchie per tranquillizzarlo. «Vado a farmi una doccia» aveva l’odore di troppe persone su di sé? Qualcuno tra questi lo disturbava più degli altri? Aveva resistito più che poteva a non comunicargli il suo fastidio?

Stiles si alzò spettinandogli la pelliccia, posò i libri e il raccoglitore sulla scrivania, insieme alla cancelleria e trafficò con l’armadio del padrone di casa, nell’ala in cui erano state riposte alcune delle proprie cose e si diresse verso il bagno, chiudendosi la porta dietro di lui.

Si prese il suo tempo e con i denti dal retrogusto di menta, ritornò sui suoi passi, trovando il lupo disteso sul letto, sistemato nella sua direzione ad attenderlo. «Sei troppo sensibile, Sourwolf» gli disse privo di accusa, tamponandosi i capelli umidi con un asciugamano, avvicinandosi a lui con adagio, ma Derek lo scrutò giudicandolo, distorcendo l’espressione e Stiles non faticò a riconoscerla. «Mi sembra il vestiario giusto» indicò il suo pigiama colorato, la stampa della volpe giocherellona che faceva da protagonista, l’evidenza di aver rubato dal vestiario del capitano della squadra di basket. «Tu lupo e io volpe».

Derek non sembrava minimamente entusiasta della scelta e Stiles ridacchiò leggero, sistemando l’asciugamano sullo schienale della sedia per permettergli di asciugarsi e si diresse completamente verso il quadrupede, prendendogli il muso tra le mani e adagiandogli un bacio tra le orecchie. «Ehy, va bene. A me piace» lo spelacchiò per bene, ridendo sommessamente e si dedicò a spegnere quelle poche luci lasciate accese, sistemandosi nel suo lato del letto, dove il muro limitava le sue movenze incontrollate della notte. Si distese sotto le coperte, abbracciando il cuscino e osservando Derek decidere cosa fare. Lo vide sistemarsi vicino a lui, ispezionarlo con l’olfatto e incastrare il naso umido sotto il suo collo. «Sei più contento adesso?» rise divertito, accarezzandogli la testa e non smettendo di far sparire la curva lieta sulle labbra. «È complicato vivere con un lupo mannaro. Scott non è così fiscale» nemmeno il segugio infernale con cui aveva passato l’estate dei suoi diciassette a rotolarsi su ogni superficie a cui avevano accesso.

Il lupo sbuffò offeso contro di lui, come se gli avesse fatto il peggiore degli insulti e Stiles non riusciva a smettere di essere incantato dal modo in cui Derek risultasse essere se stesso perfino in quella forma. «Lui non è attento come te» gli confidò senza riserve, le dita che giocherellavano con un orecchio peloso. «Tu sei connesso con tutto quello che ti circonda, Scott invece è molto distratto».

Derek non commento in alcun modo, si limitò a guardarlo, per poi accucciarsi meglio contro di lui e assaporare le attenzioni delicate che Stiles aveva nei suoi riguardi, socchiudendo le palpebre come se per quella giornata il sipario fosse calato.

L’umano lo seguì solo per qualche secondo, senza smettere di accarezzarlo, sorpreso come non mai che Derek non foste infastidito dal suo continuo toccarlo. Stiles non aveva avuto problemi in quelle nove settimane a riceverlo dal licantropo, ma non era sicuro potesse essere una cosa ricambiata; a parte rare eccezioni, non si era mai sbilanciato, ma averlo nella sua forma completa lo portava ad agire in modo diverso ed era qualcosa di irrinunciabile e avrebbe voluto capire cosa ne pensasse Derek.

Gli grattò un orecchio e ne assaggiò la consistenza con i polpastrelli, il pezzo di lembo più delicato, la pelliccia più morbida, finché il lupo aprì gli occhi a mostrare quel connubio di blu e rosso, l’attenzione tutta rivolta verso Stiles. «Una volta mi hai definito una volpe astuta dal manto infuocato» pronunciò lo studente di criminologia, le parole che metteva con calma una dietro l’altra, come se avessero un certo peso per lui. «È stato prima di tutto, prima dell’oscurità. Ci ho pensato qualche volta, cercando di capire cosa volessi dire» rallentò, le dita invece si intrecciavano alla pelliccia inchiostrata. «Quando il Nogitsune è arrivato ho pensato ecco, Derek aveva ragione. Una perfetta previsione del futuro, ma tu non l’avevi inteso come un fattore negativo e non sono riuscito a capire cosa intendessi. Forse per te aveva un significato, ma io…» tentennò, la difficoltà di trovare le parole giuste. «Non sono stato in grado di attribuirglielo».

Il lupo si protese e senza che Stiles se l’aspettasse, gli leccò il viso, scatenandogli di riflesso una risata sorpresa. «Questo per cos’è?» gli domandò di conseguenza, un pio sorriso sulle labbra di felicità e una mano che lo tratteneva sul muso. «Mi stai confortando o vuoi che smetta di parlare?».

Derek in risposta oltrepassò le barriere e affondò completamente la testa nel collo dell’umano, il naso bagnato completamente a contatto con la pelle. Stiles ridacchiò ancora, totalmente assuefatto e lo abbracciò di slancio, godendosi tutta la morbidezza e il calore che era in grado di generare. «Ho pensato anche ad una cosa stupida» proferì quasi sottovoce, allontanandosi quel tanto che bastava per poter incontrare i suoi occhi bicolore. «Infuocato, era stata una strana scelta di parole, infelice, ma allo stesso tempo precisa. Ho pensato e se lo stessi bruciando? Ma non aveva alcun senso, che potere avevo io su di te?» nascose parzialmente il viso sul cuscino, ma Derek lo sospinse e lo liberò, costringendolo ad affrontarlo. «Anche adesso? Derek, ti sto bruciando?» l’aveva imprigionato con quella storia di doverlo tenere sempre sotto controllo nella notte, quelle paranoie si erano ramificate ed ampliate e quel senso Stiles l’aveva trovato.

Derek si alzò sulle zampe anteriori e scosse le coperte contro le proteste della matricola, scoprendolo e costringendolo a stendersi di schiena, adagiando un arto sopra la stampa della volpe pastello. «Che vuoi dire?» Stiles era confuso, la comunicazione con Derek non era stata mai tra le migliori, ma in versione lupo completo era ancora più difficile da decifrare.

Il lupo si acciambellò all’altezza della volpe felice con i suoi palloncini volanti e poggiò la testa proprio su di essa, tranquillo e pacifico, l’inconfutabilità nelle iridi di rubino e zaffiro. Stiles invece ebbe bisogno di più tempo per comprendere le sue certezze. «Comincio a credere che le volpi ti piacciano davvero tanto» gli disse lo studente del primo anno con tono soave, il sorriso di complicità che gli nacque nell’immediato.

La creatura della notte lo ignorò, ma non si scosse dalla sua posizione, intenzionata a soggiornarvi e il figlio dello sceriffo la accarezzò innamorato perso, godendosi la sensazione della pelliccia confortante sotto i polpastrelli. «Dovrai dirmelo, Der. Se ti sto bruciando. Se ti sto ferendo».

Non fu aggiunto nient’altro e si addormentarono così, con il lupo sul suo stomaco e Stiles per metà sprovvisto di coperte, ma Derek era bollente e compensava la mancanza, non sentiva il bisogno di scacciarlo via per arrotolarsi tra le lenzuola.

La mattina successiva si risvegliò abbracciato al lupo, il viso immerso nell’inchiostro di pelo, la posizione totalmente alterata rispetto a come si erano presentati al regno di Morfeo. Si chiese se si fossero semplicemente mossi nella notte o se Derek fosse stato costretto a riportarlo su quel materasso.

 

Dopo l’ennesimo gruppo di studio, finalmente ebbe l’occasione di rimanere da solo con Theo, momento che aspettava fremente da quando l’aveva incontrato quel secondo giorno da matricola grazie a Jiang. Era consapevole di quanto anche Theo stesse attendendo che si concretizzasse, ma era un evento che stranamente non raccoglieva favori dalla casualità.

Jiang non avrebbe approvato, dopo l’episodio spiacevole con Donovan che l’aveva portato ad evitarlo evidentemente e il continuo flirtare con Theo, più la presenza di Derek Hale che considerava sospetta, il suo coinquilino vedeva sempre meno di buon occhio quel suo girare attorno ai suoi amici.

Stiles non poteva evitare di essere attratto dal ragazzo dalle iridi azzurre, che lo incuriosiva e lo metteva sulle spine come poche volte gli era capitato, molto diverso dal pericolo che aveva avvertito con Donovan. E Theo non smetteva di mangiarselo con gli occhi.

Finirono nella camera dello studente di scienze politiche, che aveva la fortuna di possedere una singola, e cominciarono a sperimentare e fare conoscenza con il corpo dell’altro. Theo era possessivo ed esperto, ma non lo fece mai sentire a disagio e godette piacevolmente, tutto il contrario di come si era sentito con l’altro.

Era consapevole che gli stesse cospargendo il corpo di succhiotti e morsi, ma Stiles non se ne preoccupò affatto, considerando che stava agendo nella medesima maniera.

Andarono avanti per un po’, tra gemiti e orgasmi di vario genere, le bocche che non riuscivano a staccarsi l’una dall’altra, tuttavia ad un certo punto crollarono appagati e Stiles si vide costretto a controllare l’orario sul cellulare. «Devo andare» gli disse, le tenaglie della notte che si ergevano con la loro forza premendo, ricordandogli che non poteva permettersi atteggiamenti stupidi.

Nell’affanno che tentava di riprendere fiato, Theo lo guardò nella penombra, affascinato dal corpo di cui non era ancora sazio. «Puoi rimanere qui, non crei disturbo a nessuno» gli fece ben presente, una panoramica evidente sulla stanza privata. «E ho ancora voglia di te».

Stiles non se lo fece ripetere, le sue energie erano impossibili da scaricare e possedeva ancora gli ormoni di un adolescente che aveva appena compreso la sessualità. Ricominciarono a rotolarsi tra le coperte numerose volte, una più soddisfacente dell’altra, i preservativi usati che si accumulavano, ed ogni volta che pensava che fosse arrivata l’ultima loro ricominciavano e la spossatezza e la sonnolenza lo esigevano.

«Devo davvero andare» proferì Stiles con la voce roca, il fiatone che lentamente rallentava e gli dava tregua, ma la luna alta nel cielo non era dello stesso avviso.

«Mi sembra che ti piaccia» obbiettò confuso il suo amante, scostandogli i capelli dagli occhi, arruffati in ogni direzione per via dell’inteso movimento che avevano affrontato. «Possiamo continuare per tutta la notte e ricominciare domattina».

Il figlio dello sceriffo si tirò indietro, cominciando a cercare per tutta la camera i propri vestiti ed indossandoli il più velocemente possibile. «Per qualcuno potrebbe essere una prospettiva interessante» per Stiles non lo era per niente. Piacevole o meno, aveva dei limiti che non voleva oltrepassare con nessuno. «La notte non è mia amica» e una parte di lui agiva in tal senso, come se dovesse scoraggiarlo. «È stato divertente, grazie» niente alla prossima, niente ci vediamo, Stiles si limitò a regalargli un ultimo bacio coinvolto sulla bocca arrossata e gonfia, defilandosi subito dopo nel momento in cui chiuse la porta dietro di sé e non permettendo a Theo di catturarlo per una nuova sessione o estendere l’invito al futuro.

Vagabondò in giro per un po’, senza contabilizzarlo e soltanto successivamente si diresse verso il proprio dormitorio, usufruendo della doccia comune e togliendo ogni residuo e fluido che lui e Theo avevano creato. Tergiversò ancora quando ebbe concluso, indossando abiti comodi e gettandosi sul letto con tutto il peso; Jiang non era ancora tornato, sperava che avesse avuto una serata positiva come la sua, magari non sarebbe rincasato affatto. Stiles non sapeva nemmeno se fosse una cosa abituale o tipica di lui, le volte in cui si era risvegliato nel proprio letto si contavano appena sulle dita di una mano e nelle ultime settimane non vi aveva messo piede, se non per studiare o prendere l’occorrente che gli serviva per trascorrere la notte da Derek; era un pessimo coinquilino.

Tra le mani teneva il telefono, lo schermo acceso ad indicare l’ora tarda, la sveglia già inserita; era consapevole di quanto stesse tergiversando. Fece partire la chiamata, la scritta Sourwolf che lampeggiava e il vivavoce inserito mentre lo ascoltava squillare. «Oggi non verrò» gli disse quando lo sentì rispondere, anticipando qualsiasi sua domanda e udendo appena il suo respiro che echeggiava dall’altoparlante.

Derek rimase per qualche secondo in silenzio, probabilmente non aspettandosi quell’uscita. «Perché?».

«Potrò anche scegliere cosa fare» non voleva risuonare irritato, ma è quello che avvenne.

«Ci stai ripensando?» gli domandò il licantropo, il tono che ponderava la possibilità.

Derek gli risultava anormalmente calmo. «No, è qualcosa che sto accettando».

Il mannaro respirò più intensamente tra le interferenze, scuotendole. «Allora, quel è il problema?».

«Non è un vero problema» Stiles era in difficoltà, si passò una mano sul viso a scacciare la tensione, mentre l’altra teneva lo smartphone fermo. «Sono andato a letto con qualcuno».

«A cosa mi serve questa informazione?» la voce del capitano della squadra di basket era immutabile, ma una nota perplessa si prodigò.

Era già imbarazzante doverlo ammettere, ma che dovesse anche spiegarsi era umiliante. «Sentirai il suo odore».

«Fatti una doccia» la semplificò ovvio Derek, risuonando risentito da quella perdita di tempo.

«L’ho già fatta!» Stiles avrebbe seriamente voluto sbattergli qualcosa in testa di massiccio, in grado di fracassargliela. «Ma tu lo sentiresti ugualmente, non è vero? Non basta».

«Non fare il bambino» lo apostrofò la creatura della notte, imponendosi. «Raggiungimi».

«Non sono un bambino e nemmeno il ragazzino che hai lasciato» desiderava ardentemente chiudergli in faccia il telefono e fregarsene totalmente della sua sensibilità olfattiva.

«Stai dimostrando l’esatto contrario» lo ribeccò il lupo completo, sbeffeggiandosi con pacatezza di lui.

«Derek» brontolò e protestò Stiles, odiando essere trattato in quel modo.

«Smuoviti» Stiles udì come l’ordine suonasse come uno imposto da un Alpha. «Non è un aspetto di cui devi preoccuparti».

L’umano con orrore assistette alla chiamata che veniva interrotta, lo schermo luminoso che si spegneva in automatico. Era tentato di richiamarlo per urlargliene di ogni, ma era sicuro che il mutaforma non avrebbe risposto.

Sbuffando e sospirando si prodigò a prendere quel poco che conteneva la borsa precedentemente preparata e il suo armadio ormai offriva, rendendosi conto di quanto i suoi averi si fossero magicamente trasferiti da Derek. Era un aspetto inevitabile in quel continuo andare e tornare da una sponda all’altra, ma non poteva negare di risultarne sorpreso.

Inizialmente aveva preso l’abitudine di riportarsi tutto indietro, ma poi si era ritagliato un angolo dell’armadio del lupo, approcciandosi ad occupandolo soltanto con i pigiami e successivamente aveva cominciato a riempire la cesta con i panni sporchi, a mischiare tutto insieme nella stessa lavatrice ed a lasciare ogni cosa esattamente dov’era per comodità. I loro limiti si stavano assottigliando completamente.

Raggiunse il 1855 Place procedendo con adagio, non aveva alcuna fretta di affrontare Derek, il campus era stranamente frequentato per l’ora che indicava l’orologio e il palazzo sembrava buio. Tutti in festa?

Non attese che il mannaro gli aprisse attraverso il citofono il portone principale che veniva dimenticato fin troppo spesso aperto e di cui Derek si lamentava in continuazione, utilizzò direttamente la sua chiave e si arrampicò per affrontare la scalinata. Derek lo stava già attendendo con la porta aperta, giudicando severamente le sue azioni, anche se Stiles non sapeva individuare esattamente quali; più che incitarlo ad entrare, lo esortava a filare via e dubitava che quello fosse il suo intento, al contrario se lo ritrovava ad accoglierlo perché voleva evitare un dietrofront.

«Sono qui» disse a sottolineare l’ovvietà, il mazzo di chiavi ancora stretto tra le dita, la tracolla con i libri su una spalla e l’altra che conteneva la borsa ormai semivuota. Nella sua camera al Mayo Hall erano rimasti soltanto gli abiti leggeri, che dubitava avrebbe toccato per mesi.

Derek lo fece entrare senza tergiversare e Stiles abbandonò come di consueto tutto il suo bagaglio sulla scrivania, in cui erano visibili dei libri aperti su cui era evidente il licantropo stesse studiando. «Devo farmi un’altra doccia?» domandò con il sospiro trattenuto in gola, l’agitazione che cresceva.

Derek lo guardò senza capire, arcuando le sopracciglia. «Mi spieghi questa paranoia».

Non era una richiesta né un tentativo, il capitano era visibilmente incuriosito e anche turbato dalla sua presa di pozione. «Lo so che riesci a sentirlo. Tutto quello che ho addosso, a prescindere da quanto mi lavi. Soprattutto quando si tratta di sesso».

«Non vedo il problema» lo liquidò il padrone di casa, per niente turbato da quell’osservazione.

Stiles capì subito che non stava affatto negando, il che gli scatenava dei malesseri vari. «Non lo trovo giusto».

Derek aggrottò la fronte, le iridi verdi che lo scandivano strato dopo strato. «Continuo a non seguirti».

Stiles sospirò ancora una volta, era frustrato. Lui e Derek in forma di lupo completo potevano conversare quasi senza fraintendimenti, ma a voce non riuscivano seriamente a capirsi? «Dormo accanto a te, non puoi evitare di percepire gli odori».

«Nessuno ti sta chiedendo di trattenerti o limitarti, Stiles» argomentò Derek, avvicinandosi passivamente nella sua direzione. «Puoi fare quello che vuoi, puoi andare a letto con tutte le persone che desideri. Non ci sono dei divieti».

Le iridi ambrate erano giganti e turbate, non riuscivano ad accettare l’indifferenza di Derek, ben sapendo che Stiles non avesse dimostrato alcun rispetto per lui in quel frangente. «Come facciamo con il tuo olfatto? Non voglio darti fastidi» più di quanto gliene desse già.

«Vuoi sapere se lo sento?» gli chiese con profondità pericolosa, ricevendo un cenno vigile di assenso dall’umano. «Cosa sento?» le dita affondarono tra le ciocche sbarazzine castane, entrando nel suo spazio personale e sfiorandole con la punta del naso, ispirando rumorosamente e scatenando dei brividi visibili nella matricola. «I tuoi capelli trattengono ogni scia, ogni odore prodotto. Ti basterà lavare sempre anche quelli».

Stiles si scosse da lui e ne trattenne qualche filo tra le falangi, individuandoli come traditori. «Davvero? Basterà?».

«Sì» confermò la creatura della notte, disegnandogli i contorni del padiglione auricolare con riverenza. «Basterà. Finché non subentreranno i sentimenti».

Le pupille nere si rimpicciolirono, come se una luce le avesse stuzzicate e vi era soltanto quell’oceano del nettare degli dei. «Sentimenti?» a Stiles sembrava di ritrovarsi faccia a faccia con un alieno.

«Sentimenti d’amore» chiarì il lupo mannaro, il polpastrello più grande che premeva lievemente sull’orecchio.

«Ah» Stiles non apprezzò la parola e si allontanò dal padrone di casa, prendendo velocemente il pigiama utilizzato la scorsa notte. «L’amore non fa per me, puoi stare tranquillo» detto ciò si precipitò verso il bagno.

«Cosa stai combinando?» Derek lo intercettò prima che si chiudesse oltre l’uscio, l’affermazione certa di Stiles gli risuonava ancora nei timpani.

«Mi lavo i capelli» dichiarò con ovvietà il figlio dello sceriffo, posando il pigiama sul mobile del lavello e scostando la tenda doccia. «Utilizzerò il tuo shampoo, ho finito il mio e non avevo in programma di comprarlo oggi».

«Non è necessario» lo placò Derek, intenzionato a mitigare le azioni avventate del suo ospite.

«Lo è, lascia fare» gli sbatté la porta in faccia, chiudendo con due giri non necessari di serratura ‒ la cui chiave era magicamente comparsa, probabilmente perché il lupo voleva istillargli una parvenza di privacy in una casa in cui era impossibile averla ‒; non era una barriera inviolabile per Derek, ma dubitava che l’avrebbe buttata giù soltanto per una presa di posizione sul farsi uno shampoo di troppo o meno.

Stiles uscì diverso tempo dopo, i capelli ancora umidi anche se si era avvalso del fon che tendeva più che altro a prendere polvere. Sistemò i vestiti sullo schienale della sedia, rimandando di piegarli al giorno seguente e incontrando Derek seduto sul letto, la schiena poggiata al muro e un libro di letteratura tra le meni; non era propriamente concentrato sulla lettura, ma era evidente che la sua attenzione fosse rivolta alla matricola, un sopracciglio folto e scuro innalzato in una forma di giudizio. «Sono bello pulito» disse Stiles con voce allegra, mostrando la sua perfetta dentatura e non lasciandosi influenzare dalla negatività del licantropo.

«Ti avevo detto che non era necessario» lo riprese Derek, un mezzo rimprovero che non sapeva bene dove scemare.

Stiles non smorzò il suo sorriso, risalì sul letto e si avvicinò a lui gattonando, portandosi in direzione del suo olfatto. «Odorami».

«Stiles» ruggì a denti stretti il padrone di casa, l’intolleranza che cresceva.

«Avanti» lo esortò il figlio dello sceriffo, cadendogli quasi in braccio. «Sono come piaccio a te».

Era evidente che Derek avrebbe preferirlo sbranarlo che dargliela vinta, ma con l’insistenza di Stiles c’era poco da avere la supremazia e sbuffando sonoramente per far sentire il suo dissenso il lupo si avvicinò leggermente, le dita che si inoltravano parzialmente nella chioma castana e il naso che affondava completamente tra le ciocche, ispirando a pieni polmoni tutta l’essenza dell’umano e facendo vibrare quest’ultimo. «Sì. Sei tu. Hai il tuo odore».

«Con un po’ di te» Stiles era trionfante, luminoso, la sua presenza era impossibile da ignorare.

«Sì» si allontanò e separò da lui con una lentezza mai sperimentata, ma Stiles non sembrò notarlo.  

«Ora sei più felice» Stiles mostrava quel sorriso intramontabile, i cui degni erano davvero molto pochi e nelle ultime tre settimane non lo tratteneva più.

«Sei davvero avventato» proferì Derek con un groppo in gola, gli occhi seri che non riuscivano a distogliersi da lui.

«Pensavo facesse parte del mio fascino» ammiccò spudoratamente il figlio dello sceriffo, inclinando leggermente il viso per avere un accesso diverso a quello del mannaro e cogliere la nota stonata che in un primo momento non aveva categorizzato. «Lo dici per qualcosa in particolare? Mi stai rimproverando?».

Derek negò con un singolo movimento del capo, le dita che ancora trattenevano le punte dei capelli della matricola. «No, era solo un pensiero a voce alta».

«Un pensiero a voce alta» gli fece eco lo studente di criminologia, ancora troppo vicino al corpo del licantropo. «Qualcosa che non fai mai».

«Me ne ricorderò per il futuro» lo schernì Derek, i denti serrati in mostra.

«Dovresti farlo più spesso, invece» ribatté Stiles, gli occhi spensierati. «Mi piace parlare con te, è stimolante».

Derek lo guardò in un primo attimo senza parola, la profondità senza fine che seguì subito dopo. «Stimolante».

«Sì» convenne l’essere umano, il sorriso malizioso a far da padrone.

Non smetteva mai di essere la volpe che credeva fosse. «Questi li vuoi cancellati?» dirottò completamente l’argomentazione Derek, sfiorando con il pollice che ancora lo vezzeggiava uno dei succhiotti che spiccavano notevolmente sulla pelle diafana, accompagnati dallo stampo preciso di una dentatura.

L’organismo dell’umano fu attraversato da una scossa, il punto toccato da Derek prendeva quasi consistenza e gli occhi si direzionarono su quel punto, a identificare cosa avesse catturato l’interesse dell’altro. «Mh…» Theo era stato molto più cauto rispetto a Donovan, ma era sicuro che ci fosse ogni traccia del suo passaggio su tutto il corpo, anche nei posti più nascosti, in cui gli aveva permesso arrivare e dove l’aveva ricambiato allo stesso modo. Non gli dispiaceva averli, gli avevano dato sollievo in ogni modo possibile, ma era anche vero che non voleva marchi prolungati su di sé, che lo legassero a qualcuno in modo evidente. «Sì, cancellali».

Derek non perse tempo, non tardò nemmeno, con le vene che si tinsero di nero ed assorbirono ogni ematoma dell’umano e Stiles lo premiò con un nuovo sorriso luminoso, uno tutto per lui. «Ti fa male?» gli chiese di seguito, la curiosità affamata.

«No» rispose con tranquillità il mannaro, la pelle fresca di doccia sotto le sue dita. «È qualcosa di troppo effimero».

«Meglio così» proferì Stiles con il cuore più leggero. «Mi sento meno in colpa. Lo fai ogni volta».

«È successo soltanto un paio volte» lo corresse Derek, facendogli notare quanto fosse esagerato.

«Beh, sì, ma non saranno le uniche» lo liquidò Stiles con leggerezza, come se non fosse nulla di che. «A questo proposito, dovremmo avere delle regole».

«Regole?» Derek lo fissò come se fosse un alieno.

«Su questa casa» fu più esaustivo il figlio dello sceriffo, alzando un braccio in alto e mimando un arco che racchiudesse lo spazio che li raggruppava. «Cosa bisogna fare quando si tocca la sfera sessuale».

Derek arcuò un sopracciglio, ancora convito di avere a che fare con un extraterrestre. «Mi pare ne avessimo già istaurata una» era appena passato un minuto. «E non devi portare nessuno qui».

«Quella è compresa nel pacchetto, non porterei mai qualcuno qui, non saprei come far sparire le tracce» Stiles rise e Derek gli schioccò due dita sulla fronte, a punirlo e beccarlo. «Ma devi darmi altre regole, indicazioni su cosa fare quando sarai tu nella situazione in cui vorrai intrattenerti con qualcuno e ti servirà che io non sia qui a guastare la festa».

«Qui non entra nessuno» disse tassativo il lupo mannaro, divenendo serio e lapidario.

Stiles assistette immobile a tutto l’assetto di Derek che cambiò, divenendo statuario e implacabile; gli sembrava quasi di parlare con il vecchio Derek scontroso, non che quell’aspetto fosse sparito, ma con lui era più morbido, più propenso verso la sua direzione. «Okay. Allora sei tu che vai da loro» capiva quanto Derek fosse territoriale e odiasse avere troppi odori in giro, magari affrontare situazioni spiacevoli in una posizione che in realtà avrebbe dovuto essere comoda; se Stiles avesse avuto una casa propria o una camera singola l’avrebbe ben utilizzata per quegli scopi. «Non dovresti sentirti in dovere di tornare per forza a farmi da balia o comunque possiamo trovare un compromesso».

«Non vado da nessuna parte» fu chiaro il lupo, si stava anche irritando vistosamente e si adombrò tutto insieme.

«Io… sono confuso» le iridi caramellate furono stuzzicate, le pupille si allargavano nella semioscurità strategica. «Che significa?».

«Quello che hai capito» tagliò corto Derek irritato, l’insistenza premente di Stiles non era ancora qualcosa a cui riusciva ad essere indifferente.

«Perché?» Stiles non riusciva proprio a capire, Derek gli era sempre sembrato interessato alla sfera sessuale, irradiava sesso da ogni poro. «Sono piuttosto sicuro ci sia una fila chilometrica di ragazze che smaniano per te» le aveva viste sospirare dietro a Derek, sperare di essere notate anche solo per un secondo, ma Derek guardava solo davanti a sé, non si lasciava incantare o catturare da figure meno o più formose che ammiccavano indecentemente, promettendogli piaceri incalcolabili. Stiles pensava fosse una facciata, ma a quel punto non ne era più molto certo. «E altri generi di file».

«E con questo?» domandò retoricamente il mutaforma, i tratti facciali che divenivano taglienti. «Non è un’autorizzazione. E io non sono costretto a fare niente anche se c’è disponibilità».

«Non intendevo…» ma invece forse lo intendeva eccome. Era presuntuoso ed infantile dedurre cosa Derek volesse avere oltre a quello che aveva già, quali fossero i suoi interessi, chi attirava la sua attenzione, quali fossero i suoi gusti. Gli aveva detto non ho abitudini e Stiles aveva creduto che variassero di volta in volta, di letto in letto, invece era in tremendo errore. «Sei bloccato?» Derek il sesso l’aveva scoperto soltanto a quindici anni, precocemente probabilmente e devastante; non credeva fosse mai stato sano, bello come avrebbe dovuto essere. Era stato adescato e raggirato, era stato usato come arma contro di lui e Stiles poteva essere molto in sintonia con quell’aspetto, ma non aveva idea di come fosse stato dopo, se si fosse riscoperto, se fosse riuscito a debellare l’impurità da cui era stato avvelenato. «Per via di Kate».

«Stiles, non sono bloccato» strascicò le parole Derek, gli occhi verdi delle saette.

«Scusa» chinò il capo, la necessità di allontanarsi da lui, di mettere quanta più distanza dalla sua saccenteria.

Ma Derek non aveva quell’intenzione, al contrario lo attirò a sé, le dita di nuovo affondate nella chioma sbarazzina che si stava asciugando lentamente, il corpo di Stiles quasi sopra il suo, le ginocchia poggiate sulle gambe del licantropo, la fronte a lambire la tempia di Derek più vicina a lui. «Non sono bloccato, è una mia scelta».

Stiles annuì contro di lui, la testa che si poggiava su quella di Derek; si sentiva in pace, anche se non avrebbe dovuto esserlo.

Il trascorrere del tempo si dilatò, erano inflessibili su un punto fisso e non andavano oltre, a Stiles andava bene, si rilassava anche se in realtà non si sentiva ancora stanco, bisognoso di ricaricare le energie, perfino dopo la lunga giornata che l’aveva visto protagonista, con le ore passate sul letto di Theo.

«Cos’è questa storia, invece, di non essere fatto per l’amore?» Derek lo chiese fin troppo in ritardo, avrebbe esteso quella domanda nel momento in cui Stiles aveva tirato fuori l’argomento, ma si era defilato con strategia.

«Ah, speravo ignorassi il mio commento» l’umano soffiò contro di lui, arreso e latente, scostandosi dal capitano e scivolando più lontano, a separarli completamente e indicare che non volesse sbilanciarsi oltre. «È solo un dato di fatto».

Derek lo fissò con la fronte aggrottata mentre la matricola si sistemava a qualche centimetro da lui, al centro del materasso e con le gambe incrociate. «Avevi una certa ossessione per la banshee. Un amore dall’età infantile».

Una risata soffocata prese vita dal figlio dello sceriffo, vuota. «Forse era solo quello, un’ossessione» Derek lo guardò in modo strano e Stiles non poteva che dargli ragione. «Mi sono innamorato di lei all’età di otto anni, uno dei periodi più bui per me» non doveva ricordargli che cosa fosse successo, quanto sua madre si fosse persa nella sua mente e non potesse più tornare indietro. Poi era andata via completamente ed aveva lasciato i due Stilinski da soli a leccarsi le ferite e tentare di essere l’uno il sostegno dell’altro. «L’ho idealizzata troppo».

«È solo questo il problema?» la creatura della notte non riusciva a seguire i suoi ragionamenti, il perché fosse così tassativo su quell’aspetto che un tempo inseguiva con occhi sognanti e speranzosi.

«Siamo stati insieme, per un po’» rivelò lo studente di criminologia, andando al nocciolo della questione. «Non ha funzionato. Lei ci credeva, io no» ammise come se quelle poche parole dovessero svelare l’arcano. «Sono successe molte cose, io sono cambiato e l’ha fatto anche lei. Lydia è arrivata ad un punto di autoconsapevolezza, io invece non riuscivo a tenermi intero e non avevo alcun interesse per lei».

Derek era attento, le orecchie tese, gli occhi di giada che non volevano scostarsi dall’umano. «Per via del Nogitsune?».

Era una domanda retorica, ma era corretta. «Per la volpe, per I Dottori del Terrore e per…» si fermò, non aveva avuto voglia di rivelarlo in passato e non ne aveva nemmeno in quel momento, ma Derek aveva solo pezzi di puzzle sparsi e doveva metterli al loro posto con molta fatica e soltanto perché glielo permetteva. «Per La Caccia Selvaggia».

«La Caccia Selvaggia?» Derek impallidì, lì nel chiarore accennato della camera, con i suoi punti strategici per non dare fastidio agli occhi.

«I Cavalieri Fantasma mi hanno preso» lo dichiarò in modo che non ci fossero fraintendimenti, anche se non sapeva se Derek sapesse cosa significasse, se avesse quella conoscenza. «Sono stato dimenticato da tutti. Anche da mio padre».

Derek sentì il dolore calare su mio padre, era qualcosa su cui non poteva sorvolare. «Ti hanno preso» mettere in fila quelle parole gli arrecava una tortura fisica, il suo lupo stava ululando a squarciagola dentro di lui, esattamente com’era accaduto un anno prima quando l’aveva sentito per la prima volta.

«Sì» annuì Stiles, abbracciando le gambe contro di lui, strette strette al suo petto. «Non so, non ha alcun senso ed è ingiusto da parte mia, ma sono ancora arrabbiato con tutti loro per aver permesso che si dimenticassero di me con una tale facilità. Scott, Lydia e mio padre. Tutti gli altri» non lo faceva stare bene con se stesso, tutta la rabbia accumulata in quegli anni, con tutte le sue disavventure e la vita che l’avevano bersagliato, non riusciva più a catalizzarla, prendeva la supremazia su di lui. «Non era colpa loro, non era colpa di nessuno, non si può battere un potere come quello se nemmeno sai che esiste. Ma esiste e ha spazzato via tutto e sono stato sostituito e nessuno sapeva che ero mai esistito» il nulla nel nulla, eppure Stiles sapeva ancora chi fosse. «Mio padre ha addirittura ricreato mia madre con il suo dolore, ha fatto tornare in vita qualcosa con il suo aspetto, tutto pur di non percepire che non ci fossi più e ha combattuto per lei e non per me» non era qualcosa che lucidamente riusciva a capire, Stiles aveva sofferto per quella sovrapposizione e ancora di più quando l’aveva affrontata e lei aveva dato voce a tutto quello che sua madre, annegata nella malattia, pensava di lui. «Non riusciva a credere a nessuno, non voleva perderla per un figlio che nemmeno sapeva di avere e Lydia ha insistito e insistito, ma ci è voluto troppo tempo. Lei riusciva a percepire che qualcosa non andasse, che le voci si stessero spegnendo in modo anomalo e cercava ogni indizio ovunque potesse, ma non c’era niente, solo le sue sensazioni» il suo nome che figurava nella sua mente e che lei tracciava ovunque potesse per renderlo reale. «E Scott la seguiva, non dubitava mai di lei, al contrario di come avesse fatto con me» il risentimento passato sfociò, era qualcosa di cui dubitava si sarebbe mai liberato, Derek riusciva a vederlo. «Mi ha tirato lei fuori da quella dimensione fantasma e Lydia era arrivata a questa grande rivelazione in cui capiva finalmente di amarmi e io l’ho solo presa. Non ho fatto domande, non mi sono interrogato su niente, ho solamente colto l’occasione pensando finalmente. Mi sono semplicemente fatto trascinare, come faccio sempre in queste situazioni».

«Non riesco…» Derek non riusciva in fin troppe cose e l’avere lì Stiles gli faceva rendere conto di quanto fosse vero, di quante cose si fosse perso e aveva faticato a ritrovare. Di quanto Stiles avesse pagato il prezzo più alto di tutti. «Sei stato deluso da chi amavi, posso capire che questo abbia dell’influenza su di te» Derek lo sapeva bene, il tradimento l’aveva sperimentato sulla sua pelle, anche se erano state di due entità completamente differenti.

«No, non è questo» dissentì Stiles, il capo che si muoveva ripetutamente scompigliando i capelli. «È successo anche in passato. Sono sempre stato convinto di non essere visto da nessuno, soprattutto da chi attirava il mio interesse, poi è accaduto che persone ne hanno dimostrato verso di me, persone che non avevo mai visto o con cui avevo parlato mezza volta. Non mi sono domandato se mi piacessero, ero elettrizzato e eccitato e chiunque andava bene. Mi sono lasciato trasportare, accoglievo tutto. È successo anche con…» ma non finì, la voce sfumò.

«Malia» gli diede un nome Derek.

Gli occhi già grandi di Stiles si fecero giganti e tutto in lui spiccava la sorpresa. «Lo sai?».

«Aveva il tuo odore» semplificò il lupo mannaro, facendolo risuonare ovvio.

«Aveva ancora il mio odore?» chiese con sgomento, le iridi ambrate luminose nell’oscurità. «Ma quando l’hai incontrata?».

«Lei provava dei sentimenti per te, tu no» chiarì Derek ripetendosi, per lui era inevitabile. «Te l’ho detto, l’amore non si cancella».

«Io le voglio bene» si parò il figlio dello sceriffo, non apprezzando il modo in cui Derek sminuiva quello che Stiles aveva provato per sua cugina.

«Non lo metto in dubbio» scacciò via il licantropo, imperturbabile. Se non fosse stato vero, Stiles non avrebbe mai barattato la sua libertà con la prigionia del Nogitsune. «Ma ci sono modi diversi di voler bene ad una persona».

«Sì» Stiles rallentò, non era sicuro di quanto in là si potesse spingere né che volesse condividere quella parte di sé. «Avevo questa stupida idea di dover perdere la verginità a tutti i costi» Derek si irrigidì, ogni suo tratto era di pietra e Stiles lo allegò a quello che gli era accaduto con Kate Argent. «Lei era carina, sapeva quello che voleva e io avevo la testa completamente in confusione, c’era questa presenza dentro di me, la volpe che sussurrava e io volevo liberarmene, essere normale almeno per qualche momento. Ma il Nogitsune ha usato quella prima volta contro di me, come se lo avesse programmato in anticipo e non c’era più modo di tornare indietro» la vita di Malia era appesa ad un filo, dopo che aveva giaciuto e goduto con lei. «Dopo la cattura della volpe abbiamo provato a costruire qualcosa, ma sapevo che non era quello il suo posto, che Peter voleva portarla altrove, da Laura, da te e l’ho lasciata andare» non era pentito, era la scelta più giusta da fare e quella più corretta nei suoi confronti. «Ma poi le cose si sono fatte confuse, non voglio dire che fossi bloccato, ma non avevo un bel ricordo del sesso, di quello che era venuto dopo ed improvvisamente avevo troppi occhi su di me e io ero curioso, volevo ricominciare, debellare un’esperienza bella che la volpe mi aveva sottratto. Ho accettato tutte le avance che mi sono ritrovato davanti, senza che riuscissi ad inquadrarne una sola. Ho realizzato che agli occhi degli altri ero sbocciato all’età di diciassette anni».

«Non sei sbocciato a diciassette anni» gli fece il verso Derek, disgustato dal pensiero errato.

«E tu che ne sai? Nemmeno c’eri» era la risposta che Stiles si era dato, il motivo per cui improvvisamente era piacente alle persone che lo corteggiavano senza che lui capisse che cosa si fosse perso in mezzo. Era rimasto indietro, anche se era andato avanti.

«Non è successo a diciassette anni» rincarò la dose il licantropo, assottigliando le labbra.

Stiles lo guardò in modo anomalo, non comprendeva la battaglia di Derek. «Non credo abbia importanza, comunque» non voleva soffermarsi su quello, non avrebbe nemmeno dovuto esternarlo ad alta voce. «Quello che voglio dire è che ero inconsapevole, lo sono ancora adesso. Non capisco quando piaccio a qualcuno, non percepisco il momento del cambiamento, ma se mi viene detto in faccia lo accetto e basta, perché penso quando mi ricapiterà?» sospirò esausto, era una rivelazione che aveva tenuto per sé. «Non è un bel pensiero, non è corretto nei confronti di nessuno, ma a loro non importa ed a me nemmeno, quindi mi faccio catturare da questo vortice in cui prendo tutto, ma non do nulla di reale» con i rapporti casuali era facile, con quelli più concreti molto più difficoltoso. «Con Lydia è accaduto lo stesso, lei ha capito di amarmi quando io non ero nemmeno lì. Ha raggiunto la sua illuminazione, ha camminato da sola e me l’ha sbattuta in faccia ed io credevo di volerlo, che fosse finalmente arrivato il mio momento, che il mio sogno fanciullesco si fosse finalmente realizzato, ma non era così. Non provavo niente per lei, non provavo niente di niente» si mosse sul letto, un braccio che cercava alla cieca dietro di lui, afferrando il suo cuscino speciale e portandolo davanti a lui, affondandovi il viso e sprofondando. Realizzarlo non era stato per niente facile. «Tutto di me si era rotto, non riuscivo a tenere i miei pezzi uniti, non ero in grado di occuparmi di me stesso e ed ero inadatto ad avere una relazione sentimentale con un’altra persona, chiunque fosse. Non potevo concentrarmi su di me se buona parte delle mie energie dovevo darle a lei» ci aveva provato, ma aveva fallito su tutta la linea. «Poi si sono presentati gli episodi di sonnambulismo e ho capito che non potevo farcela, che prima degli altri dovevo ritrovare me stesso. Lydia non è riuscita a capirlo, insisteva e basta».

«Hai un limite anche tu, non è una colpa se l’hai raggiunto» era impensabile che accadesse ad un tipo in costante movimento e pieno di energie qual era Stiles, un ciclone inarrestabile, ma ne aveva subite troppe ed incassate ancora di più, il cilindro si era inclinato e la vitalità cadeva a gocce piccole e lente, cadendo nel vuoto. «E la banshee lo capirà a tempo debito, magari quando ti deciderai a chiedere aiuto, invece di isolarti».

«No, si illuderebbe» processò il figlio dello sceriffo, negando ogni tentativo e poggiando parte del capo sul guanciale piumato, liberando il campo visivo. «Non ho niente da offrile».

Derek non lo riconosceva affatto. «I tuoi sentimenti per lei».

«Hai problemi di udito, Sourwolf?» lo prese giocosamente in giro l’umano, le labbra che si distendevano sopraffine, deliziate. «L’amore che avevo per lei non esiste più, siamo persone diverse e non sono più il bambino ad un passo dal perdere la madre che stravedeva per lei. Non è più il nostro tempo, forse non c’è mai stato».

Il mannaro tacque prolungatamente, il silenzio appestava la camera e Stiles era indifeso davanti a lui nel suo pigiama, tra le proprie coperte, tuttavia era ancora combattivo. «Potrebbe esserci nel futuro».

«Forse» ponderò Stiles, il sorrisetto saputello che macchiava le labbra indomite, le gambe che si seppellivano sotto le lenzuola e la schiena che ricadeva sul materasso, portandosi dietro il cuscino ed impossessandosene di uno di Derek. «Ma adesso non voglio una relazione con nessuno, ho bisogno di concentrarmi soltanto su me stesso».

La creatura della notte lo seguì con adagio, era evidente che Stiles non riusciva più a resistere al richiamo di Morfeo e Derek decretava che la giornata si fosse estesa fin troppo. «Hai fatto la scelta più giusta per te».

Le labbra di Stiles si allargarono ampiamente, le iridi di miele tutte per il suo interlocutore. «Grazie per aver capito» proferì con riconoscenza, l’attesa che si allungava. «Non avevo calcolato che in questo percorso accidentato avrei incontrato te».

«Soltanto perché non vuoi dire al mondo cosa ti accade» proferì Derek come voce della verità.

«Può essere» gli diede minima corda la matricola, coprendosi con ritardo un mezzo sbadiglio. «Ma nessuno è come te».

Non venne aggiunto altro e Derek si distese completamente, accanto a lui e su un fianco, nella sua direzione come accadeva praticamente quotidianamente. «Io non ti ho dimenticato» soffiò nel buio dopo aver spento l’abatjour sul comodino, il fiato che muoveva le ciocche indomite dell’umano.

Stiles aveva gli occhi semichiusi, era più che altro diretto verso il regno del dio greco dei sogni che in quello terrestre. «Non puoi saperlo, non te ne saresti nemmeno accorto. Un momento c’ero e quello dopo non più. E viceversa, come un qualsiasi pensiero».

Il mannaro era ad alcuni centimetri dal cuscino su cui la matricola si era accomodata, riusciva a vedere ogni sfumatura in lei. «È impossibile per me dimenticarti».

La sonnolenza aveva ancora una presa ponderante su Stiles, uscire dalla foschia era un’azione inesistente, ma riuscì a vedere Derek in modo diverso, a scrutarlo e carpire cosa volesse dire, che cosa volesse comunicargli. Si avvicinò nel buio, strusciò la punta del naso contro il suo, percorrendogli tutto il setto nasale. «Sarebbe bello se fosse stato vero» ma era impraticabile, nessuno poteva aggirare il sistema della Caccia Selvaggia, per quanto si cercasse di evitarlo con tutte le proprie forze e ne fosse a conoscenza, Derek non aveva alcun motivo per impegnarsi talmente tanto nei suoi confronti e non avrebbe mai preteso nulla di simile da lui. «Non provo nessuna forma di rabbia nei tuoi confronti, Derek. Sei l’unico esente».

Il lupo interiore di Derek stava ululando straziato, incompreso, esattamente come nell’anno precedente.

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Capitolo 8
*** 8° Capitolo ***


8° Capitolo

 

Derek rientrò a metà pomeriggio, i libri sotto braccio e le chiavi in mano, era riuscito a sentire le movenze di Stiles sin dalle scale, il modo in cui si muoveva familiare dentro la casa, i passi certi e frettolosi, com’erano sempre le sue abitudini, impossibilitato a stare fermo sul posto per più di un minuto e di sentire l’esigenza di correre e correre, dando l’impressione che fosse inseguito costantemente da qualcosa. A volte Derek aveva una vaga idea da cosa si sentisse braccato, altre volte era soltanto il combattere contro il silenzio che avvertiva intorno. «Cosa hai combinato?» chiese quando si chiuse la porta dietro di sé, il mazzo di chiavi al solito posto, i tomi poggiati sulla scrivania lungo il percorso, entrando dentro l’ala dedicata alla cucina e trovandola eccessivamente affollata, con sacchetti brandizzati del supermercato che si collocava proprio sotto i loro piedi, accanto allo Starbucks della zona, occupando ogni superficie visiva il lupo riuscisse ad individuare.

«Ho fatto la spesa» Stiles fermò il suo sistemare la dispensa al suono della domanda, individuando il capitano della squadra di basket oltre lo sportello aperto.

«Lo vedo» affermò ovvio il padrone di casa, sbirciando in uno dei sacchetti più vicini ed estraendo un cartone che conteneva del succo all’ace; a Stiles proprio non andava giù, ma Derek lo beveva piacevolmente, quindi era plateale che fosse stato comprato per lui. «Non era necessario».

«Certo che lo è» dissentì Stiles, chiudendo lo sportello che gli impediva di vedere il mannaro completamente, prima di inserire l’ultimo articolo presente della busta della spesa. «Non puoi sempre essere tu ad occupartene per entrambi».

«Sei mio ospite, non è un problema per me» Derek aprì l’anta del frigorifero e inserì al suo interno il contenitore con il succo acquistato dall’umano.

«Dio, Derek. Quale ospite» si impennò, alterandosi leggermente per quel paraocchi che era evidente Derek indossasse. «Praticamente ci vivo qui. E fai la spesa per entrambi continuamente».

«Ripeto: per me non è un problema» si approcciò a richiudere il frigo, pescando alla cieca da uno dei sacchetti ancora pieni.

Stiles si agitò, muovendo il capo da una direzione all’altra per dissentire fortemente. «Non voglio essere uno scroccone».

Il lupo mannaro si fermò, un pacco di pasta secca tra le dita e nell’altra mano una confezione di hamburger vegani, probabilmente di legumi; lo fissava contrariato. «Ti ho mai dato l’impressione che pensassi questo?».

«Lo penso io» afflosciò le spalle, come se il peso della verità l’avesse rilasciato. «Continuo a sentirmi in difetto».

Derek adagiò gli acquisti sulla tavola, un passo più vicino a Stiles e le falangi che formicolavano per il desiderio di toccarlo. «Ma non lo sei».

«Anche quando andiamo insieme a pranzare o cenare, è così» il figlio dello sceriffo si scostò dalla temperatura corporea del lupo che lo lambiva appena, erano ad un metro di distanza, ma non sembrava esistere veramente. «Tu con il tuo branco, andiamo sempre in posti che siano alla portata delle mie tasche o che accettino i miei buoni pasto. Difficilmente andiamo altrove».

«Un posto vale l’altro» semplificò la creatura della notte, sordo all’accusa con cui Stiles lo stava additando.

«No, no» negò ancora la matricola con più vemenza, l’elettricità che gli scorreva in tutto l’organismo. «Potresti andare ovunque, invece ti fai incastrare dalle mie esigenze».

«Stiles» lo riprese il mutaforma, c’era della lieve insofferenza. «Sono tutti locali per studenti, siamo in un campus, non c’è alcuna differenza».

«Non è vero. Esistono locali per studenti ricchi» e indicò Derek, in una panoramica evidente. «E locali per studenti che faticano ad arrivare a fine mese» e direzionò la stessa mano utilizzata per il lupo mannaro nella propria direzione.

Derek si avvicinò con il suo passo felpato inudibile, i movimenti invisibili, e prese il suo viso tra le dita, lo sguardo che lo costringeva ad affrontarlo. «Non mi dispiacciono i posti in cui ci ritroviamo, quello che conta è la qualità della cucina e ne abbiano trovati di meritevoli, ne troveremo ancora. Non mi serve del cibo sofisticato e strapagato».

Stiles sbuffò contro di lui piccato e anche lievemente arreso, il ghignetto da volpe che si palesava con moderazione. «Già, quello te lo cucini da solo».

«Saresti sorpreso» proferì Derek senza andare avanti, la frase in sospeso e Stiles voleva sapere di cosa sarebbe stato sorpreso: di quanto spendesse in realtà o di quanto fosse capace di trovare dei prezzi ragionevoli?

«Devi permettermi di contribuire, Derek» rincarò la dose con più controllo, guardandolo dritto negli occhi, incapace di fuggire da lui per via della presa che li legava né ne aveva davvero un’intenzione impellente. «Non posso competere con il tuo portafoglio, ma posso fare la mia parte».

«Va bene» acconsentì il lupo nero senza soffermarsi troppo a pensare, a trovare il modo di aggirare il patto tra loro e Stiles sentiva di aver vinto quantomeno mezza battaglia. «Ma non svaligiare il supermercato» concluse con il tocco finale, gli angoli della bocca arricciati sardonicamente.

Stiles lo colpì ad un fianco con risentimento, senza una vera forza nel gesto, azione del tutto insensata ed inutile, e Derek rilasciò una bolla di risa sopra di lui, per poi ricevere un bacio in mezzo agli occhi. «Non esagerare» disse il capitano in conclusione, a conoscenza della sua predisposizione a strafare e Stiles dovette dargliene adito, annuendo nella sua direzione ipnotizzato dal loro modo di muoversi attorno all’altro.

 

«Dovresti cominciare ad indossare qualcosa di più pesante di una felpa» lo riprese Derek quando se lo ritrovò davanti al College of Arts & Letters con indosso la stessa tipologia di indumento, soltanto che in quell’occasione era rossa, come gran parte del suo guardaroba. «Tipo il giubbotto che ti ostini a lasciare appeso».

«Non so proprio di cosa tu stia parlando» Stiles era duro d’orecchi soltanto quando faceva comodo a lui, quella era proprio una di quelle occorrenze.

«Non siamo più in California, siamo molto più in alto» gli fece ben presente, toccando lo spessore appena sufficiente della felpa che l’umano si ostinava ad indossare senza nient’altro di aggiuntivo. «Le temperature si stanno abbassando e tu sei cangevole».

«Non voglio sentire un discorso del genere da un tizio che indossa soltanto una giacca di pelle nei mesi più freddi» Stiles dinegò con la testa, sbattendo quasi i piedi a simulare un bambino e Derek roteò gli occhi annoiato perché la matricola non stava dimostrando di essere qualcosa di diverso.

«Non devo davvero ricordarti che non ne ho bisogno» calcò la creatura leggendaria, le scintille blu e rosse che solleticavano le iridi di giada.

Una volta Derek il particolare dei suoi occhi che lo distingueva da tutti gli altri mutaforma non l’avrebbe mostrato così platealmente, seppur con quella cura di non essere visto da esterni ed essere scoperto; Stiles andava in fibrillazione per nulla. «Così fortunato».

La voce acuta che allungava le lettere con esasperazione non era gradita alle orecchie del lupo nero e gli rifilò un’occhiata dura. «Stiles, domani lo indosserai, non voglio sentirti starnutire tutta la notte».

«Sei noioso» strascicò le lettere con intenzione, rafforzando l’astiosità di Derek e esibendosi nel suo miglior broncio. A suo discapito era successo solo una volta, due giorni prima, aveva tremato per tutto il tempo e Derek aveva percepito la sua temperatura alzarsi eccessivamente rispetto ai suoi standard. Non gli serviva un termometro per avere la certezza di avere la febbre, seppur leggera. Ciò che non riusciva a svelare ufficialmente, era il mistero di essersi ridestato il giorno dopo senza alcun malanno, a parte strascichi di raffreddore; non era difficile capire chi avesse fatto sparire la sua influenza, ma Derek non si era palesato e Stiles non aveva indagato. «Non sono passato per sentire le tue ramanzine» soprattutto quando aveva ragione e allo studente del primo anno proprio non andava giù.

Derek lo fissò tagliente e Stiles gli regalò il suo sorriso migliore da rubacuori ‒ sempre se ne possedesse uno. «Ho trovato una ragazza bravissima nel campus che crea oggetti molto belli con disegni carini» cominciò la sua arringa l’umano, trafficando con la sua tracolla e cercando nei suoi averi. «L’ho contata e chiesto se poteva realizzarmi qualcosa seguendo le mie richieste» il metallo delle chiavi dell’appartamento di Derek sbattevano tra di loro, creando un suono e Stiles riuscì ad intercettarle ed estrarle, mostrandole vittorioso. «Et voilà! È stata fantastica, meglio del previsto».

Stiles trionfante esibiva il suo mazzo di chiavi personale, agitando un portachiavi in acrilico che Derek non aveva mai visto. Dentro uno strato di quello che il lupo identificava come resina resistente, vi era raffigurato un lupetto nero, i tratti morbidi e arrotondati, stilizzato con cura e carineria, mettendo in risalto un occhio blu a contrasto con il secondo che si esibiva in uno rosso rubino. «Potevi investire meglio i tuoi soldi».

«Mai fatto in modo migliore, l’arte si paga» alla freddezza di Derek il ragazzo era quasi immune, non si lasciava abbattere. Le sue labbra erano distese in un sorriso di contentezza, infatuato del suo piccolo nuovo amico che gli avrebbe fatto compagnia da quel giorno in poi. «Così saprò sempre che solo le tue chiavi» l’agitò con orgoglio, a decantare la sua meraviglia.

Derek avrebbe dissentito sul definire quella roba arte, inasprendo i lineamenti facciali, ma doveva seriamente meravigliarsi dell’inclinazione di Stiles di innamorarsi delle piccole cose? «Perché blu e rosso?».

L’attenzione di Stiles fu catapultata tutta sul vero lupo e prese tra le mani il portachiavi prezioso. «Non sarai per sempre entrambi, in questo stallo. Troverai il vero te. Quindi ho optato per una distinzione netta».

Il mannaro si soffermò su di lui per un tempo che andava dilatandosi, gli studenti che li aggiravano come se non esistessero. «La prossima partita sarà in trasferta».

«Ah» Stiles impiegò diversi momenti per afferrare cosa Derek gli avesse comunicato, decifrare il messaggio nascosto che non era nemmeno tale. «Doveva succedere, prima o poi» anche se mentalmente era consapevole ed era la prassi per un giocatore di qualsiasi sport, una parte di sé aveva completamente accantonato la possibilità, come se non dovesse mai arrivare quel momento. «Starai via molto?» la partita si sarebbe svolta soltanto sei giorni dopo e secondo il calendario sarebbe ricaduta proprio per la festività di Halloween.

«Una notte» rispose Derek pronto, le iridi verdi che scandagliavano l’animosità dell’umano che andava scemando. «Se non sorgeranno problemi».

«Problemi?» domandò in una eco, il viso che si alzava nella sua direzione, nella speranza di essere illuminato, più reattivo. «Che tipo di problemi?».

«Partite spostate o rinviate, prenotazioni disdette, incomprensioni con gli organizzatori. Accade di tutto» elencò sapientemente, in una sintesi perfetta.

Certo, Derek ne aveva viste tante in quei due anni, anche ai tempi di Beacon Hills accadeva, ma rimaneva circoscritto alla loro città e dintorni, non andava mai troppo lontano, ma il college era diverso, i campionati universitari erano una cosa seria in quell’ambito, non erano ammessi scherzi. «Giusto».

C’era dell’amaro nella vocalità del figlio dello sceriffo, qualcosa che alle orecchie di Derek stonava. «Ti disturba?».

Stiles sbatté le palpebre più volte, non aspettandosi una domanda tanto diretta e non era nemmeno certo di averla incanalata dentro di sé, a dargli una definizione. «Mi sto solo rendendo conto di quanto io stia diventando egoista» lo guardò, ma poi distolse lo sguardo e le sue labbra si curvarono con un accenno di tristezza, sardoniche verso se stesse. «Vorrei che restassi con me».

«Non ti lascerò ai tuoi demoni» disse il capitano seriamente, segno che ci avesse già riflettuto sopra e che non si lasciasse cogliere impreparato. «Escogiteremo un modo per affrontare quella notte» Derek aveva lasciato trascorrere un solo secondo, il tempo necessario che le parole che Stiles aveva pronunciato attecchissero; le labbra avevano tremato impercettibilmente, il piccolo foro tra loro di chi era stato colpito in pieno, ma le teneva

talmente serrate che non era visibile ad un occhio non attento.

Stiles non riusciva a staccare gli occhi dai suoi, da quanto gli era dedito perfino in quella situazione in cui non avrebbe mai dovuto essere una sua preoccupazione. «Sono certo che ci proverai, ci proveremo, ma questo non fa altro che sottolineare quanto io stia diventando sbagliato».

«Non è sbagliato chiedere aiuto, sapere che ne hai bisogno» Derek non avrebbe mai cambiato idea su quell’argomento. «So che sei spaventato, ansioso ed è giusto. Devi preoccuparti se qualcosa svia dai tuoi binari, dalla quotidianità che stai costruendo, hai bisogno di certezze e stiamo cercando di crearle».

Stiles avrebbe proprio voluto urlargli quanto Derek incarnasse la figura di Alpha, quella che scartava con tutto se stesso; un potere annacquato definiva quelle iridi che cercavano di comunicare con lui e rivelargli quanto potenziale avesse. «Mi metterai un cane da guardia davanti la porta?» chissà quale porta, poi.

Derek assistette alle labbra da volpe scaltra che si palesavano, quella giocherellona. «Qualcosa del genere, definirò i dettagli».

Stiles ridacchiò alleggerito, divertito e guardò il suo lupetto d’acrilico, accarezzandolo automaticamente; non gli aveva ancora tolto la pellicola protettiva e non aveva nemmeno intenzione di farlo, avrebbe aspettato che cadesse da sola. Quando alzò il capo per riprendere la conversazione con il licantropo, l’attenzione di Derek era tutta da un’altra parte, in un punto che non lo comprendeva minimamente oltre le sue spalle ed i sui tratti erano in tensione, severi. Stiles si ritrovò stupito da un tale cambiamento dei lineamenti facciali e si vide costretto a seguire lo sguardo del mannaro, focalizzando due figure maschili che conosceva piuttosto bene, intente a raggiungere un luogo a lui estraneo mentre si spalleggiavano, ma era una scena al rallentatore, tutti e quattro erano diventati consapevoli gli uni degli altri. «Oh» proferì il figlio dello sceriffo colto alla sprovvista. Era inevitabile che prima o poi avrebbe incontrato casualmente per le vie del campus Donovan e Theo, soltanto che sperava non accadesse mai nelle vicinanze di Derek. «Devo andare in biblioteca a ritirare dei libri che avevo segnato, mi accompagni e poi pranziamo insieme?» la matricola li ignorò completamente, l’insistenza stupita degli occhi dei suoi amanti occasionali ‒ probabilmente data dall’incomprensibilità di trovarlo in compagnia e familiarità del popolare Derek Hale e questo lo portava a credere che Jiang non avesse fatto parola con loro dell’esistenza del capitano della squadra di basket nella sua vita ‒ se la fece scivolare addosso e ritornò a guardare soltanto Derek.

Il mannaro non sembrava ritornare sul pianeta Terra. Non li fissava con ostilità, ma c’era qualcosa che Stiles non riusciva proprio a definire. «Hai già un’idea?».

Lo studente di criminologia si rilassò alla costatazione che il mutaforma gli prestasse ancora il suo udito. «Forse ho trovato un posto carino nei dintorni».

La creatura leggendaria depositò le iridi di giada in quelle di ambra e l’ambiente circostante non esisteva più. «Ti seguo».

Stiles si sciolse in un sorriso di cuore, depositando con cura il mazzo di chiavi con il lupacchiotto nero all’interno della tasca interna della tracolla e saltellando sgraziatamente sul posto accanto, ad avviare la sua camminata andando avanti e trascinarsi il licantropo con lui.

Derek non si fece attendere.

 

«È stato imbarazzante» dichiarò Stiles con le mani a coprirgli il viso, la brutta sensazione che ancora non si scrollava di dosso anche se erano passate delle ore e si era separato dal capitano della squadra di basket da altrettanto tempo.

«Stai esagerando, come al solito» lo rassicurò con nessuna vera intenzione Erica, la bocca deliziata dalle sfortune dell’umano.

«Per niente!» erano seduti sul prato vicino al laghetto, lontani da qualsiasi edificio o negozio o locale che i loro conoscenti frequentassero e, anche se il campus risultava enorme ma non infinito, quello era uno dei posti preferiti dagli studenti quando volevano rilassarsi. «Derek conosce i loro odori, li ha sentiti su di me» ah, avrebbe voluto urlare, avrebbe voluto urlare dal primo momento in cui aveva costatato che Derek li aveva fiutati, individuati e successivamente associato i loro visi. Si agitò, le braccia che si muovevano per aria in tutte le direzioni, a enfatizzare le sue parole. «E adesso conosce anche le loro facce».

«E quindi? A lui non interessa» Erica era talmente in giubilo, che si chiese come avesse fatto a sopravvivere alla noia in quei due anni senza la vita catastrofica di Stiles a vivacizzarla.

«Ti ricordi che dormo accanto a lui tutte le notti, vero?» la matricola si sentiva incompresa, non riusciva a capire perché non venisse colto il suo dramma.

«Non credo che Derek disapprovi il tuo stile di vita» era del tutto lecito che ne avesse uno. «Ma tu comunque vai in paranoia».

«È diverso quando l’individuo non ha un corpo, ma solo un odore» Stiles stava cercando di farle comprendere il punto, quanto si fosse sentito a disagio in quella situazione e che fosse proseguita anche successivamente, benché per Derek non sembrava essere accaduta. «È meno reale».

«L’odore è molto reale» ribatté la studentessa d’arte attenta, correggendolo. «Per noi lo è più di tutti voi».

Ecco che Stiles si sentiva nuovamente in difetto, avendo calcolato erroneamente la portata delle loro capacità. «Quindi non c’è speranza».

«Qual è esattamente il problema?» per quanto Stiles lo divertisse, insieme al rapporto che aveva con Derek, le sue difficoltà colpivano tutto il branco che si impegnava a seguire il capitano.

«Mi sembra scorretto nei suoi confronti» anche se Derek gli aveva detto di non preoccuparsene, per il figlio dello sceriffo era inammissibile. «Sto lì accanto a lui ed entrambi sappiamo che soltanto un momento prima ero con un’altra persona, una persona che lascia le sue tracce su di me e per quanto io mi possa impegnare a cancellarle, non ci riesco davvero e lui le ha sotto il naso. Spesso anche sotto gli occhi».

Erica era affascinata da tanta passione, ma non la reputava sana. «Derek ti ha detto qualcosa in proposito? Te l’ha vietato?».

«No, figurati» non che avrebbe mai potuto farlo, non glielo avrebbe nemmeno permesso, avrebbe preferito vagabondare in eterno per le strade del campus completamente estraniato da se stesso. «Derek non mi vieta proprio niente. Certe regole le ho pretese io, lui non avrebbe mai detto nulla» ciò che lo disturbava era più facile che glielo comunicasse sottoforma di lupo completo.

«Se Derek avesse dei problemi per qualcosa che fai, te lo direbbe» era risaputo che lo studente di letteratura non si esprimesse particolarmente, ma il suo malcontento lo dimostrava apertamente. «È un tipo insofferente, non se lo terrebbe per sé».

«Derek tiene molte cose per sé» si lasciò scappare distrattamente la matricola ed Erica la scrutò con perizia, gli occhi leggermente assottigliati a scavare, a capire se si riferissero a qualcosa che era loro comune.

«Vorresti ti limitasse?» chiese chiaramente la lupa mannara, a tentare di decifrare che cosa si nascondesse nelle congetture del diciannovenne.

«No» ma forse a volte avrebbe voluto, così avrebbe capito fin dove si sarebbe potuto spingere, quale linea non avrebbe dovuto sorpassare per rendere sopportabile quella convivenza forzata.

Erica sorrise intenerita all’affanno di Stiles, alle sue difficoltà che quasi si imponeva, costruendole da solo, le labbra rosse in evidenza. «Se vuoi frequentare qualcuno, sei liberissimo di farlo. Anche se a Derek dovesse dare fastidio trovarsi l’odore di un’altra persona nell’appartamento, non può importi dei veti e non devi preoccuparti di indispettirlo. È territoriale, lo siamo tutti, ma non ti dovrà mai limitare».

Stiles sospirò, anche se comprendeva l’intento di Erica, comunque non distendeva il malcontento che aveva dentro, quella sensazione continua di fargli un torto continuo. «Davvero Derek non va a letto con nessuno?» non voleva realmente chiederlo; in realtà sì, aveva quel bisogno di appianare la propria curiosità da quando la questione era saltata fuori.

La mutaforma aggrottò la fronte, leggermente accigliata, sorpresa. «Ti ha detto questo?».

«Non esattamente con queste parole, ma è stato piuttosto esplicito» ci aveva girato intorno, ma il significato era chiaro.

«Sì, è vero» ammise la studentessa di belle arti, la postura che cambiava per mettersi più comoda. «Sono sicura tu gli abbia chiesto anche questo».

Stiles continuava a stupirsene, benché fosse naturale che ognuno avesse il proprio modo di agire su quella sfera privata. «Credevo fosse bloccato, quindi sì» non avrebbe comunque potuto dargli torto in quel caso.

«Bloccato» ripeté la bionda con interesse, assaporando la parola come se dandole un suono, potesse acquisire il mistero che aveva portato Stiles a sopporlo e quest’ultimo reagì sgranando gli occhi, la pelle che impallidiva, perché per l’ennesima volta era stato incauto e aveva lasciato fuoriuscire qualcosa che nessun altro conosceva. Kate era un segreto suo e di Derek, all’infuori di loro non poteva essere compresa le motivazioni per cui Stiles l’avesse dato per scontato, errando. «Non è bloccato, di certo non lo era fino al suo ultimo anno da liceale».

Ah, quindi le sue teorie si sbriciolavano come castelli di sabbia. Da una parte era sollevato, ma dall’altra era ancora più confuso di prima.

Erica rilasciò una risatina e il figlio dello sceriffo la guardò disorientato, le iridi d’ambrosia brillanti e stuzzicate; era completamente un pesce fuor d’acqua. «Derek è cambiato tanto dopo Paige, ma dopo l’incendio è come se fosse morto anche lui. Quantomeno la sua parte spensierata, quella in cui si fidava del prossimo e accoglieva ciò che di nuovo il mondo aveva per lui» articolò con l’amaro in bocca. Erica aveva partecipato al suo spegnimento, alla sua personalità che si oscurava, divenendo l’opposto di ciò che era all’inizio. «Io e Laura non sapevamo proprio gestirlo, è stato difficile, sfiancante. Non riuscivamo a capire come potessimo aiutarlo» Stiles avrebbe voluto dirle che non avrebbero mai potuto accorrere in suo soccorso perché Derek celava un segreto troppo grande dentro di sé, che lo inibiva e lo avvelenava. Lo stava ancora divorando vivo. «Ma poi è cambiato ancora. Non qualcosa di eclatante o rumoroso, non qualcosa di peggiore, ma aveva subito un’altra variazione e all’improvviso io e Laura l’abbiamo visto ricominciare a respirare. Ci ha dato speranza».

Stiles si sentiva risucchiato, ma Erica non aveva ancora terminato. «Derek sta continuando a cambiare, proprio sotto ai nostri occhi e sta ridefinendo se stesso» la lupa ci credeva ciecamente, era così evidente, che non avrebbe mai potuto scambiarlo per nient’altro. «Credi che Derek si muovi soltanto nella tua direzione, che tutto quello che fa è per te, per venirti sempre incontro ed è così, è vero, ma non è esclusivamente questo. Gli fa bene averti intorno, il modo in cui agisce è anche per se stesso».

Il figlio dello sceriffo era piuttosto frastornato, eppure coglieva esattamente l’essenza delle parole della sua interlocutrice. «Pensi che cambierà ancora?» non aveva mai ipotizzato che avesse delle influenze positive sul lupo nero, Stiles si ritrovava in quella fase in cui credeva di essere solo un impiccio per chiunque. Una fase che in realtà esisteva da quando era nato e che si era accentuata dopo la dipartita di sua madre; continuava a ramificarsi. Si domandò se sarebbe mai stato in grado di rompere quelle catene.

«Io ne sono sicura» affermò certa la creatura della notte, la speranza era ben evidente negli occhi castani e niente poteva privargliene. «Sappiamo entrambi cosa potrebbe diventare».

, Stiles avrebbe tanto voluto assistere a quell’evento, essere nel posto giusto al momento appropriato, essere testimone dell’istante in cui le iridi eterocromi di Derek si sarebbero riempite di esclusivo rosso cremisi. Sarebbero ancora stati insieme fino a quel giorno?

 

«Dovremmo rivederci» si approcciò Theo con il sorriso provocatorio sulle labbra, l’aria a chi non poteva essere detto di no.

Lo studente di scienze politiche l’aveva intercettato subito dopo la sua ultima lezione pomeridiana, accorrendo nella sua direzione dall’edificio opposto della sua facoltà, segno che l’avesse raggiunto di proposito e non casualmente. «Lo facciamo già, abbiamo un gruppo di studio in comune» in cui si era illecitamente aggiunto.

«Soltanto noi due» specificò il ragazzo dagli occhi azzurri, la bocca curvata di malizia.

Stiles roteò gli occhi, disturbato da quella presa di posizione. «Non sono interessato» pensava di essere stato chiaro quando era sgattaiolato via dalla sua camera e non si era prorogato nell’estendere l’invito nel futuro.

«Perché? Ci siamo divertiti» Theo non aveva alcuna intenzione di demordere, la sua aura affascinante la stava emanando tutta. «È stato piacevole» era stato tante cose, non voleva proprio farne a meno.

«Lo è stato» confermò il figlio dello sceriffo, i ricordi delle sensazioni che aveva provato quella notte. Si era intrattenuto con lui anche fin troppo per i suoi standard. «Ma non ho intenzione di ripetere l’esperienza».

Theo lo guardò confuso, le iridi di zaffiro si spostarono dietro di lui, oltre la sua schiena, dove vi era un gruppo di quattro persone che palesemente stavano aspettando qualcuno e quel qualcuno era Stiles.

Buona parte dei titolari della squadra di basket, compreso il capitano, insieme ad una ragazza bionda, erano poco distanti dal punto in cui si trovavano e parlottavano tra loro, credendo di apparire discreti, disinteressati, ma Theo li aveva intercettati ben prima che riuscisse a raggiungere Stiles, anticipandoli. Derek Hale non parlava, non sembrava nemmeno ascoltare o guardarsi intorno, ma Theo sapeva che non era affatto vero. «Cosa te lo vieta?».

«Me stesso» rivelò lo studente di criminologia, l’attenzione che catturava di nuovo su di sé. «È una mia regola, non andare con la stessa persona per più di una volta».

Theo lo osservò a lungo, gli occhi che non riusciva a distogliere da lui, il segreto che tentava di far emergere. «Cos’è esattamente che non vuoi?».

«La ripetizione» semplificò il suo interlocutore, le iridi d’ambrosia che lo seguivano passo passo. «Creano un precedente, affidabilità, quotidianità».

«Non ti sto chiedendo di impegnarti con me» Theo diede voce a cosa realmente Stiles rifugiasse, a quanto chiaro gli si presentasse in quel momento. «Nessuna relazione, ma soltanto passare alcune ore piacevoli».

«È un tipo di relazione anche quella» dissentì il figlio della massima autorità di Beacon Hills, la chiarezza della sua argomentazione che si palesava a concretizzare le sue convinzioni.

Il bruno invece di esserne risentita, mutò i suoi tratti facciali in compiaciuti, ammirati e impressionati positivamente. «È difficile spuntarla con te» e mentre nel viso di Stiles capeggiava un punto interrogativo, Theo azzerò la distanza tra loro e fece congiungere le loro bocche, impossessandosi cautamente delle sue labbra, con l’intenzione di farlo durare il più a lungo possibile. Stiles a quel bacio rispose senza indugio. «Tu mi piaci».

Oh, Stiles sapeva bene quanto gli piacesse. «Questo è un problema» che avvallava la sua tesi.

Lo studente di scienze politiche non si abbatté, al contrario era solo più intricato e si prodigò per baciarlo ancora, a rimarcare la sua presenza su quelle labbra rosse e gonfie per quello che si erano già scambiati. «Ciao, Theo» ma Stiles si allontanò, la bocca impudica che aveva la meglio, ammiccando spudoratamente e una mano che sventolava un saluto definitivo; non appariva turbato in alcuna maniera. A Theo non rimase che guardarlo raggiungere il suo evidente gruppo.

«Ehy, ragazzi» Stiles corse da loro come se non fosse accaduto nulla un momento prima, senza che le sue labbra pulsanti potessero dare un indizio a delle creature attente e meticolose come loro. «Ho una notizia».

«Stiles» lo salutò Erica con calore, irradiandolo da ogni poro, anche se non poteva non notare un’occhiata assestata e di rimprovero che aveva precedentemente rifilato a Derek. «Sei sceso a patti con il bel ragazzo laggiù?» chiese cogliendo la palla al balzo, indicando con fluidità e poca trasparenza l’individuò da cui si era defilato con maestria.

«Cosa? No. Ignoratelo» l’umano lo adocchiò appena, consapevole di avere ancora le sue iridi blu su di sé. Non era un suo problema. «Al Crescent Moon cercano personale in vista di Halloween e mi hanno preso».

Stiles era entusiasta, il suo coinvolgimento trasbordava. «Prevedo un avvelenamento futuro» Derek sprezzante diede voce ai suoi pensieri, senza scomporsi.

«Ehy» la matricola gli assestò un pugno su un braccio, consapevole che non lo avrebbe scalfito affatto, ma doveva comunque enfatizzare il suo risentimento. «Derek, sei il peggiore dei peggiori».

Il lupo nero non si fece scalfire e Stiles sbuffò annoiato. «Siamo felici per te» disse invece Boyd, in contrapposizione al loro capitano.

«Grazie» sorrise a trentadue denti lo studente di criminologia, accogliendolo di buon grado. «Siete tutti i benvenuti, tranne il Sourwolf».

«Ad essere sue cavie» tradusse Derek per loro, riguadagnando una nuova gomitata dall’essere umano. «Sei sicuro di farcela con i tempi?» tutto l’assetto intorno a loro cambiò e l’attenzione del nato lupo era tutta su Stiles, con la preoccupazione ben evidente, ma soltanto per le quattro persone che gli stavano intorno. «Sei pieno di corsi, più quelli extra».

«Sì, abbiamo concordato gli orari» nel campus era fatto tutto per coincidere con la vita frenetica degli studenti, non era insolito che i locali presenti si avvalessero di manodopera studentesca. «Voglio farlo».

Derek lo fissò a lungo, capiva perché fosse indirizzato verso quella direzione, il desiderio di Stiles di essere più autonomo, di avere delle entrate finanziare in più, di non doversi trovare a contare i centesimi per arrivare a fine mese e gravare ancora di più sulle tasche di suo padre. Anche se Stiles era riuscito ad ottenere clamorosamente una borsa di studio completa, non poteva compensare tutto. «Se ci tieni così tanto. Ma non devi sfinirti».

Stiles sorrise pienamente per il suo appoggio e si godette tutto il momento in cui il lupo completo gli scompigliò i capelli, a dimostrarli il suo supporto. Il loro pizzicarsi spariva immediatamente.

«Questa, invece, da dove salta fuori?» Erica prese una punta dell’indumento che aveva richiamato il suo interesse, trattenendolo tra le dita e tirandolo leggermente per enfatizzare sul capo.

Stiles la guardò in un primo momento interdetto, non capendo assolutissimamente a cosa si riferisse ed era maligno da parte sua ma Isaac quasi si illuminò, come se non fosse più l’unico del gruppo. «Chiedi a mamma chioccia» il dito indice si allungò nella direzione di Derek e quest’ultimo ignorò completamente le sue lamentele non tanto silenziose.

Stiles si era dovuto arrendere, quella mattina aveva tirato fuori il suo giubbotto blu scuro molto poco usato e lo aveva indossato con molto scontento. Derek lo aveva guardato per tutto il tempo impassibile e poi si era avvicinato ad uno dei suoi ripiani, afferrando qualcosa da un mucchio che generalmente non guardava nemmeno e raggiungendo l’umano quando trovò quello che stava cercando. Gli avvolse attorno al collo una sciarpa senza che Stiles se ne rendesse minimamente conto e la sistemò per bene, sotto lo sconcerto del figlio dello sceriffo. «Non l’ho mai vista» fu tutto ciò che riuscì a tirare fuori, osservando con sgomento e riluttanza quella consistenza morbida e calda, di quel rosso aranciato che continuava a spuntare in ogni dove. «Dove la tenevi nascosta?».

«Non mi risulta tu abbia sbirciato in tutto il mio guardaroba» lo deviò il licantropo, la curva sarcastica sulle labbra.

Stiles sbuffò risentito, come se fosse stato beccato con le mani nel sacco. «Perché dovresti avere una sciarpa?» cosa se ne faceva un lupo di un accessorio inutile come quello?

«Perché tu, invece, non ne hai?» lo ribeccò la creatura della notte, gli occhi verdi che lo assestavano al suo posto.

«Vivo in California, non mi serve» si lamentò la matricola, la stoffa che prendeva tra le falangi con la voglia di togliersela di dosso.

«Non vivi più in California, Stiles» Derek fu diretto, lapidario, non c’erano vie di margine.

Stiles dovette incassare il colpo. Non era un rimprovero il suo, semplicemente in nato lupo cercava di rendergli chiaro quanto fosse distante da casa e le cose fossero diverse, le abitudini, i comportamenti, il modo di sopravvivere a delle temperature rigide che Stiles non aveva mai sperimentato. «Sì» soffiò, lo sguardo che incontrava dei nuovi nuvoloni che minacciavano pioggia.

Derek gliel’aveva nuovamente riavvolta, più sistemata e propensa a proteggerlo meglio. Stiles non era nemmeno sicuro se i colori che indossava cozzassero tra loro. «Tienila».

Le iridi ambrate si incollarono a quelle di giada e non gli permise di scappare da lui. «L’hai comprata per me, non è vero?».

«Sono quasi sicuro sia il suo colore preferito» disse Stiles al resto del branco, ammiccando villano verso il lupo completo. Derek non aveva risposto nell’appartamento, si era semplicemente diretto verso la porta ed aveva aspettato che l’umano lo seguisse.

Quando avevano raggiunto il portone e sceso i gradini, Stiles fu subito colpito dal freddo pungente, che gli schiaffeggiava il viso, quindi inevitabilmente affondò fino al naso in quella sciarpa calda e provvidenziale, prendendo un respiro di sollievo, mentre le gote di conseguenza si arrossavano per la temperatura glaciale. Derek aveva mostrato una piega sulla bocca vittoriosa e Stiles molto maturamente aveva risposto con una linguaccia.

Erica aveva ridacchiato, mentre Isaac e Boyd annuivano invisibili, come se non volessero essere beccati dal grande lupo cattivo. «È probabile di sì» aveva detto lei, ignorati totalmente dallo studente di letteratura che appariva duro d’orecchi, ma che aveva comunque roteato gli occhi piccato dall’insistenza della matricola. «Il tuo qual è?».

«Il rosso» dovette elaborarlo per qualche secondo prima di dare una risposta, non se l’era mai chiesto realmente, era soltanto accaduto che quel pigmento scegliesse lui.

La mannara ammiccò sapientemente deliziata e addolcita. «Non saresti il nostro perfetto Cappuccetto Rosso».

«Già, nemmeno lei stava attenta ai pericoli» proferì sarcasticamente il capitano della squadra di basket, la frecciatina ben assestata.

«Penso proprio che aggiungerò dello strozzalupo al tuo caffè» lo ribeccò lo studente del primo anno, la spavalderia che lo caratterizzava.

Derek lo fulminò, a sottolineare quanto stesse giocando con il fuoco, mentre Stiles sorrideva impavido con il ghignetto da volpe scaltra che aveva battuto il lupo corrucciato. Tutti e cinque, comunque, si rincontrarono alcune ore successive per cenare in reciproca compagnia.

 

Era rimasto pietrificato per qualche secondo quando aveva raggiunto il Crescent Moon in quel primo pomeriggio, trovandosi faccia a faccia con Tracy, Tracy Stewart, nuova barista come lui, assunta in occasione della festività del trentuno ottobre.

Doveva esserci una congiunzione astrale da qualche parte di cui era all’oscuro, perché non era credibile che nella stessa settimana stesse incontrando tutti i suoi ex partner sessuali.

Contro ogni sua previsione, si erano trovati bene a lavorare insieme, nessuna frecciatina, nessun argomento controproducente, erano lì per imparare e la ragazza era stata assunta due giorni prima di lui, quindi risultava più pratica nel servire i clienti. Nelle retrovie c’era qualcuno che vigilava costantemente su di loro, a spiegargli le basi che gli mancavano, insieme alla proprietaria, la signora Freeman. Ogni tanto dalla cucina facevano una capatina il marito e il nipote, addetti alla pasticceria. Stiles quelle ore le aveva trovate divertenti.

«Ehy, Der» il lupo mannaro aveva varcato la soglia, fatto suonare la campanella che avvertiva l’entrata di un nuovo cliente. Si era fermato ad osservare la caffetteria solitamente dai colori pastello essere invece piena di decorazioni per Halloween e che, amaramente, erano anche in tema con il nome scelto per il locare; anche se c’erano ragnatele e streghette appese con un po’ ovunque, c’era un’abbondanza di lupi mannari, insieme alla stilizzazione di lupi completi in ombra. Stiles l’aveva adorato, Derek ne era nauseato. «Pensavo ti saresti tenuto alla larga» stava ammiccando spietatamente, ma era sorpreso e contento.

«Sono ancora di quell’idea» snocciolò il capitano, interrotto da un secondo campanello che annunciava Erica subito dietro di sé, accolta dall’entusiasmo dell’umano. «Il ragazzo che evita come la peste la mia macchinetta del caffè».

«Ma questa è assicurata, mi sento meno in colpa. Alla tua non oso nemmeno avvicinarmi» disse terrorizzato, come se fosse il peggiore dei suoi incubi.

Derek lo fissò in modo criptico, a giudicare tutte le sue scelte. «È questa la tua ritrosia? È assicurata anche la mia».

«Ah» non che cambiasse davvero i fatti, si sarebbe sentito responsabile comunque.

«Desidero tanto un muffin» richiese Erica spigliata, scavalcando il turno di Derek e sistemandosi al suo fianco sul bancone. «Al cioccolato».

Stiles sorrise, avendo imparato preventivamente i suoi gusti e precipitandosi a prendere il dolcetto nell’apposita teca, afferrando un piattino e sistemato un tovagliolino brandizzato sul fondo in cui adagiò il muffin. «Servita».

Erica uggiolò contenta e Stiles le regalò un altro sorriso, prima di girarsi e trafficare con la macchina del caffè, tra tubicini e tasti, prendendo una tazza di una dimensione e forma che mise in allarme il licantropo. «Stiles, che stai combinando?».

«L’hai detto tu: siete le mie cavie» gli ritorse contro il figlio dello sceriffo, le curva beffarda sulla sua bocca, mentre trafficava con la schiuma.

«Non posso nemmeno scegliermi la bevanda?» domandò retoricamente lo studente di letteratura, aggrottando la fronte e indurendo lo sguardo.

«No» rispose prontamente la matricola, poggiando la tazza fumante sul bancone di fronte al cliente scontento, prendendo il bricco il cui era contenuto il latte. «Se non posso esercitarmi con voi, non posso farlo con nessuno».

Derek rimase in silenzio a seguire ogni movimento dell’umano con gli occhi, le movenze ancora acerbe che cercavano di dare il risultato migliore. Era immerso ed impegnato Stiles, la lingua che si leccava le labbra per la concentrazione. «Ecco a te».

«Un cuore?» non è che suonasse propriamente inorridito, ma non era lusinghiero. Vi era un cuore creato dalla schiuma e dal latte aggiunto su un cappuccino che non avrebbe mai ordinato in vita sua. Non era perfetto, ma aveva il suo fascino.

«È il più facile» si giustificò Stiles, poggiando il contenitore ormai vuoto di liquido bianco dal suo lato del bancone, aspettando speranzoso che il mannaro bevesse ciò che gli aveva preparato. «Un giorno riuscirò a creare una foglia».

Derek non fece domande, ma Stiles si prodigò a poggiare davanti a lui un piattino con l’apposito tovagliolino, adagiando un cookie alle nocciole. «Offre la casa» e si esibì in uno dei suoi sorrisi più belli.

«Non penso ti possa permettere certe libertà» graffiò la creatura della notte, tuttavia non era per niente stupito di come Stiles fosse Stiles in ogni ambiente.

«E dai, Sourwolf, fammi felice» la matricola assunse la posa da cucciolo supplicante, ma gli angoli della bocca erano curvati all’insù e stava soltanto aspettando.

«È lo scopo della sua vita» dichiarò la studentessa d’arte, mentre mordeva con eleganza il suo prezioso dolcetto al cioccolato.

Derek la trucidò con lo sguardo, ma né lei né Stiles si scomposero, al contrario quest’ultimo continuava ad essere in fremente attesa e il mutaforma si ritrovò a sospirare dentro di sé, approcciandosi a sorseggiare il cappuccino. «Passabile».

Stiles sorrise come se fosse il sole e gli avesse fatto un complimento enorme e Derek affondò nuovamente nella tazza.

«Lo voglio anch’io un cappuccino con il cuore» pretese la lupa mannara con entusiasmo, battendo le dita sul banco a dettare il ritmo. Stiles glielo preparò in poco tempo. «È buonissimo, Stiles» Stiles regalò anche a lei un cookie classico come premio. Poi fu richiamato a servire altri clienti.

«Lo farà fallire questo posto se continua a regalare biscotti» proferì il capitano della squadra di basket quando il figlio dello sceriffo si allontanò, osservandolo essere educato e servizievole con chiunque richiedesse i suoi servigi.

«Andiamo, Stiles è attento a queste cose» lo rabbonì Erica, godendosi il suo cookie faticosamente ottenuto. «Voleva essere gentile con le sue persone preferite».

Derek meditò non convinto, ma la mannara era allietata e quindi c’era poco da ribattere.

Un quarto d’ora dopo il lupo completo si presentò alla cassa, richiamando l’attenzione di Stiles. Non attese nemmeno che gli presentasse il conto irrisorio. «Derek» c’era un rimprovero ben udibile nel nome a cui diede voce, fissandolo dritto nelle iridi boscose. «È troppo».

«Esiste la mancia» gli ricordò il licantropo, come se ne avesse seriamente bisogno.

«È troppo anche per essere una mancia» Stiles teneva le banconote in mano, era indeciso su cosa dovesse provare prima. «La mancia è generalmente del venti percento e non ti ho nemmeno servito al tavolo».

«Sto pagando un servizio» disse Derek con precisione, eloquente. «Questo è il valore che gli do».

Stiles rimase fermo a fissarlo, il tempo che trascorreva, non gli interessava affatto se la fila degli ordini si allungava. «Non posso accettarli» tra le dita scartò la maggior parte del denaro che Derek gli aveva passato, trattenendo soltanto il prezzo del cappuccino che gli aveva preparato, non permettendogli altra scelta. Depositò i dollari sull’incavò apposito, spingendoli verso il mannaro.

Derek li riprese con sé e li osservò per qualche momento. «Va bene» ma non li posò nel portafoglio in cui erano contenute tutte le sue carte di credito, si diresse semplicemente nella direzione opposta, raggiungendo l’altra barista. «Ciao».

«Ciao» Tracy fu presa alla sprovvista, ritrovandosi qualcuno che non si aspettava affatto di incontrare ed interagire con lei. Incespicò perfino nell’unica parola che era riuscita ad emettere.

«Questi sono per te, per il tuo impegno» proferì Derek con disinvoltura, il suo fascino seduttivo che prendeva il sopravvento.

«Ah, grazie» era una specie di punto interrogativo, Tracy si trovava in seria difficoltà e accettò il denaro che Derek Hale, il famoso capitano della squadra di basket, le stava offrendo.

Stiles li guardò per tutto il tempo congelato, gli occhi sgranati e sgomenti. «Cosa sta facendo?» domandò all’unica persona che era rimasta nelle sue vicinanze.

«La persona civile» disse Erica con divertimento, la bocca scarlatta che si godeva la scena.

«Quello non è essere civile» la contradisse il figlio dello sceriffo, fissando ostentatamente Derek che consegnava la mancia eccessiva tra le mani della sua collega. «Accidenti, si è appena presa una cotta per lui» Stiles lo vide accadere davanti ai suoi occhi, il momento esatto in cui Tracy impallidiva davanti a Derek e ne veniva conquistava subito dopo, a quel gesto di carineria che non si era aspettata di assistere né tantomeno di esserne la protagonista.

La mutaforma rise senza controllo, godendosi tutti gli aspetti di quegli eventi inaspettati. «Cosa ti avevo detto su Derek?» riprese il controllo, dirigendo tutta la sua saggezza verso la sua persona. «Avresti dovuto accettarli. Non voleva farti la carità o offenderti, lui agisce così e basta».

«Non sono offeso» il modo in cui agisce è anche per se stesso. «Continua a non sembrarmi corretto».

«Stiles» l’umano fu richiamato da Tracy che si era precipitata a raggiungerlo nel momento in cui Derek si era congedato, lasciando il Crescent Moon dietro di sé e interrompendo qualsiasi cosa Erica avesse voluto aggiungere. «Il tuo ragazzo mi ha appena sommerso di una generosa mancia. Non l’ho servito nemmeno io!» era attonita e l’esclamazione non era riuscita a trattenerla, forse aveva seguito il Bianconiglio senza rendersene conto.

«Non è il mio ragazzo» articolò piccato Stiles. Era una vera eresia. Cominciava a stancarsi della gente che credeva che tra lui e Derek ci fosse qualcosa che andasse oltre un sano rapporto platonico. Un rapporto che andasse oltre gli occhi di chi li guardava.

«Ah, davvero?» Tracy lo scrutò inebetita, le palpebre che si abbassavano e aprivano più volte, incapace di credergli. Osservò le banconote che teneva ancora in mano e la figura che si era defilata con passo felpato, a non essere rintracciato o ricordato, ma era impossibile dimenticarlo. «Interessante».

«Interessante?» c’erano degli interrogativi che volteggiavano intorno a lui, poteva quasi vederli, come percepiva del pericolo dietro l’angolo.

Tracy si sistemò nella tasca dei jeans la mancia che il playmaker gli aveva lasciato, quasi ignorandolo. «Forse, invece, lui vorrebbe esserlo».

La barista sganciò una bomba che mai Stiles si sarebbe aspettato di udire. «Cosa?».

La studentessa di criminologia sparì dalla sua vista, le labbra furbette ed Erica ridacchiò illuminata, protendendosi verso l’umano sgomento ed atterrito e scioccandogli un bacio rumoroso sulla guancia più vicina. «Buon lavoro, Cappuccetto».

Stiles rimase frastornato per un lasso di tempo considerevole, interrogandosi sull’autenticità dei fatti accadutasi, in dubbio se avesse assistito all’ennesima illusione manifestata dalla propria mente.

 

Stiles era rientrato nell’appartamento di Derek con il tintinnio delle chiavi che spezzavano il silenzio, lo spazio davanti a sé completamente lasciato al buio, la necessità di dover chiudere a doppia mandata la porta, perché non sarebbe rincasato nessun altro ed era inutile lasciarla in un limbo. Quando accese la luce, l’interruttore più vicino all’entrata, lo accolse il vuoto e procedendo avanti la sensazione si ramificava.

Non c’era il mazzo di chiavi di Derek nell’apposita ciotola, oggetto in cui depositò il suo, nel bagno mancavano alcuni dei prodotti di igiene personale del lupo, più altri di uso giornaliero, il letto era immacolato e le lenzuola erano state sistemate quella stessa mattina, ma vi era un solco sul materasso, punto in cui probabilmente Derek aveva poggiato o il borsone sportivo o il piccolo trolley che usava in quelle occasioni. Le tende che coprivano e isolavano l’ala da notte con il guardaroba non erano state tirate bene, alcune parti risultavano scoperte, segno che il mannaro si fosse mosso in fretta e non avesse potuto dargli l’attenzione maniacale che in genere lo caratterizzava.

Quando giunse in cucina Stiles sospirò, vi era un solo bicchiere nel lavello, tutto il resto sembrava essere stato sistemato negli appositi scompartimenti o dentro la lavapiatti che da quanto aveva compreso, utilizzava molto di più da quando la sua presenza era entrata nel quotidiano di Derek.

Stiles si cambiò, indossando qualcosa di più confortevole, cercando di scrollarsi di dosso la stanchezza della giornata, preparandosi di malavoglia un panino e accendendo la televisione a schermo piatto che ogni stanza e appartamento del campus aveva in dotazione. Smanettò con le varie applicazioni esterne, i servizi streaming che Derek aveva messo a disposizione e di cui entrambi beneficiavano. Era una buona soluzione non dover digitare la password ogni singola volta e ancora di più che non necessitasse del licantropo per quel tipo di attività. Sarebbe stato un punto di non ritorno se Derek gliele avesse comunicate per semplificargli il suo soggiorno lì e Stiles era stato piuttosto severo sul non volerle scoprire da sé, com’era al contrario sua abitudine.

Dopo aver scelto un film a caso senza prestargli particolare attenzione, ma più propenso a volersi addormentare, terminò di riempire la lavastoviglie e l’avviò, per poi dirigersi verso il bagno dove si spogliò della stanchezza e malinconia, con l’acqua che scorreva a cancellare ogni evento di quel giorno non diverso da tanti altri, ma che era più pieno per via del suo part time alle prime armi. Si avvolse dentro il pigiama e si rotolò tra le lenzuola, posizionandosi esattamente al centro del materasso, a godersi la sensazione di averlo tutto per se stesso.

«Ciao, Derek» il capitano lo chiamò diversi minuti dopo, lo schermo luminoso che inquadrava Sourwolf, l’icona dell’app che faceva capolinea, ad indicare una videochiamata imminente. «Vi siete sistemati?» domandò mentre sbirciava attraverso la telecamera, in cerca di indizi che gli suggerissero dove fosse.

«Adesso sì» Derek gli inquadrò velocemente i piedi del letto e la scrivania posizionata ad un metro di distanza, lo schermo spento piantato sul muro che si reggeva attraverso un supporto che Stiles non riusciva a vedere, per poi ritornare su di sé. Indossava come tradizione soltanto i pantaloni del pigiama, il petto rigorosamente scoperto ed era ancora umido, per via della doccia in cui sicuramente si era rinchiuso prima di chiamarlo. Era illegalmente attraente perfino attraverso una fotocamera frontale, che di norma non era gentile con nessuno; lo trovava infinitamente ingiusto. «Com’è andata la tua giornata?».

«Mi sono stancato» gli comunicò, uno sbadiglio che tardò a coprire completamente, la luce soffusa sul comodino che lo illuminava. «Che è esattamente quello che mi serviva».

«Non devi essere preoccupato» proferì Derek a rasserenarlo, anche se l’umano tentava di non far notare quanto fosse turbato. «Ho dato le chiavi ad Erica».

«Credo tu abbia fatto una pessima valutazione» le labbra di Stiles si distesero in un sorriso ampio, era intrigato. «Non te le ridarà mai».

«Cambierò la serratura» la risolse con semplicità Derek, mentre si aggiustava uno dei tanti cuscini bianchi dietro la testa. «L’ho già cambiata il primo giorno che sono arrivato qui. Bisogna sempre cambiare la serratura di un locale, che sia in affitto o acquistato, non sai chi potrebbe possederne le chiavi e ritrovarti in casa».

«Perché, puoi farlo?» le iridi mielate si ingrandirono, disturbate da una nozione che contrastava quelle di cui era precedentemente in possesso. Era una lezione interessante su cui non aveva mai riflettuto, probabilmente perché era lui quello che generalmente aveva copie di chiavi che non avrebbe dovuto avere.

«Se pago di tasca mia, posso fare tutto» rispose schiettamente il lupo nero, a sottolineare che non esisteva qualcosa di impossibile.

Beh, aveva un certo senso, in qualche modo. La legge dei privilegiati contro tutti gli altri. «C’è scritto questo sul contratto?» lo punzecchiò il figlio dello sceriffo.

«Pressappoco» snocciolò il suo interlocutore, non lasciandosi sopraffare dalla volpe subdola che lo teneva incollato al cellulare e Stiles ridacchiò di cuore, il viso che scacciava quell’aria oscura che capeggiava su di sé.

«E cosa si fa con la vecchia serratura?» era considerato vandalismo la sua sparizione?

«Si conserva e poi, prima di lasciare l’abitazione, si rimette al suo posto» era facile, era un’accortezza fondamentale.

«Dovrei ricordamelo per il futuro» il figlio della massima autorità di Beacon Hills dubitava che quelle regole valessero anche all’interno di un dormitorio, il che rendeva tutto molto precario e poco sicuro. Doveva aggiungere anche quell’ulteriore senso di protezione e sicurezza nell’essere, nolente, costretto a passare le notti nell’appartamento a prova di irruzione del capitano.

«Stiles» lo articolò il mannaro nel captare la direzione più nebulosa e afflitta in cui i suoi pensieri stavano scivolando. «Funzionerà. Basta che lasci sempre la chiamata aperta».

La matricola si morse il labbro inferiore, la punta di un canino che fuoriusciva agitato. «E se cadesse la linea? Si scollegasse tutto?».

«Ti richiamerò» disse Derek pronto, la soluzione ad un problema già concordato. «E continuerò a chiamarti finché non risponderai. E se non dovessi mai risponde, butterò giù dal letto Erica».

«Mh» Stiles non era particolarmente entusiasta di quell’idea, il coinvolgere altre persone nel suo problema, nella soluzione che Derek si era rivelato per lui. Ma se il nato lupo non era nemmeno nello stesso stato e li separava perfino un’ora di fuso orario, non c’erano granché alternative e ne erano consapevoli entrambi. Tuttavia, era qualcosa che non riusciva a digerire.

«Andrà bene» lo rincuorò il giocatore di basket, la voce che si faceva più calda. «Sei migliorato molto».

Stiles avrebbe voluto ribattere con un pensiero che lo angustiava, ma se lo tenne per sé e lo cacciò nelle retrovie della mente. «Halloween è la tua festa preferita?» Stiles era un vero mago dal passare da una conversazione all’altra e proprio per questa sua caratteristica aveva dirottato su altro quasi immediatamente, immergendosi su qualsiasi tema la sua mente fosse attraversata e Derek gli andava silenziosamente dietro ad esortarlo, rispondendo e condividendo spazzi di vita, il minutaggio della videochiamata andava ad assommarsi.

«Perché lo chiedi?» fu costretto il playmaker a rigirare la domanda, a tentare di seguire le sue macchinazioni.

«Ho questo ricordo di te, in cui ti aggiravi per la città disinteressato e non particolarmente coinvolto, ma ogni volta che incontravi dei bambini con i loro costumini e il secchiello per i dolci in cerca di altri, attirando la tua attenzione, tu li spaventavi in qualche modo e gli scatenavi degli urletti tanto carini» snocciolò il figlio dello sceriffo, l’aria sognante ed intenerita. «Scappavano ogni volta, ma erano felici quando si rendevano conto di essere sopravvissuti alle tenaglie del misterioso essere che avevano incontrato, pieni di adrenalina ed elettrizzati per l’avventura appena vissuta. Gli davi ciò che desideravano e tu sorridevi sempre» caratteristica che con il tempo era svanita fino a estinguersi, soltanto nelle notti di Halloween Derek si lasciava andare. Era anche vero che Stiles avesse notato come riuscisse a strappargli uno di quei sorrisi di tanto in tanto. Erano perfino aumentati nei due mesi che avevano trascorso in reciproca compagnia.

«Quando sarebbe successo?» domandò il licantropo qualche attimo più tardi, ad assimilare la descrizione appena udita e attribuirgli un contesto. Era in bilico.

«Sempre» proferì Stiles in una mezza domanda e affermazione, non sapendo bene dove collocarla.

«Definisci sempre» esigette più precisamente la creatura della notte.

«Ah» esclamò l’umano colpito, a mettere insieme i tasselli. «Non sono entrato a conoscenza della tua persona a quindici anni. Non passavi inosservato».

«Ma davvero» lo stuzzicò Derek, le iridi di giada accese di interesse.

Stiles sbuffò piccato, il telefono che veniva spostato di mano in mano per non gravare eccessivamente su una specifica. «Io osservo» era l’unica spiegazione da dare.

«Lo so che osservi» concordò il nato lupo con tono profondo, fin troppo conoscitore di quell’aspetto. «Altrimenti non saresti così bravo a smascherare le persone».

Stiles si mutò e rimase ad osservarlo attraverso lo schermo per qualche momento, non sapeva decifrare bene cosa Derek gli stesse comunicando. Anche il mannaro era un abile osservatore, era una caratteristica da non prendere sottogamba. «Allora, è la tua festa preferita?».

«Immagino lo sia, se hai necessità di dargli una collocazione» la semplificò il mutaforma, dando a Stiles ciò che agognava. «Posso essere chi sono davvero senza nascondermi».

Era vero. Si rese conto che i piccoli di Beacon Hills rientravano tra i pochi eletti a conoscere il reale colore degli occhi di Derek, in qualche modo gli scaldava il petto. Era un segreto che non avevano condiviso con nessuno. «Il lupo più bello del pianeta» dichiarò con certezza, credendovi ciecamente. Derek lo fissò annoiato, ma Stiles non si lasciò scoraggiare. «Sarebbe divertente se riuscissi a tornare in tempo, domani. Potremmo andare in giro con te sottoforma di lupo e io con un bel mantello rosso».

Stiles era in visibilio e Derek alquanto contrariato. «Vuoi solo sfoggiarmi».

«Certo che sì» esclamò Stiles con enfasi, illuminandosi tutto. «Chi non vorrebbe sfoggiare quel lupo bellissimo».

Derek soffocò un ringhio oltraggiato, giudicandolo apertamente. «Non farò mai una cosa simile».

Le guance della matricola si gonfiarono e gli occhi di inumidirono. «Sei un distruttore di sogni».

«Hai altre fantasie da condividere?» ammiccò senza pietà il capitano della squadra di basket, immune al broncio dell’umano.

«Non condividerò più nulla con te, Sourwolf» si indispettì Stiles, l’offesa dipinta su ogni tratto del suo viso e le labbra di Derek si arricciarono accennate di riflesso.

«Mio padre aveva ricominciato a guardarsi in giro» ovviamente Stiles non era un tipo che riusciva a vincere una sfida al gioco del silenzio e non impiegò molto a riprendere la parola, a dare voce a tutto quello che aveva dentro la testa. «Si è anche tolto la fede. In un primo momento avevo faticato a capire cosa fosse cambiato in lui, che fosse finalmente arrivato alla conclusione che poteva andare avanti e ricominciare. Il giorno prima indossava l’anello e il giorno dopo non c’era più» non gli aveva mai chiesto se fosse stata una cosa graduale o se semplicemente suo padre avesse fatto quella scelta ponderandola.  

«Ti ha infastidito?» domandò Derek a seguire la linea dei pensieri che si andava a formare.

«No. Insomma…» Stiles si trovava in difficoltà, non sapeva argomentare esattamente ciò che aveva dentro. «Che senso avrebbe avuto opporsi? Lei non era più con noi già da prima che ci lasciasse definitivamente. È trascorso tantissimo tempo ed è giusto che vada oltre».

«Non importa quanto tempo si frapponga, tu sei ancora ferito» la verità Derek la disse come se sgorgasse un fiume impossibile da trattenere, a dispetto di quante dighe naturali o artificiali si potessero creare.

«Non sono ferito da lui» proferì Stiles con un sussurro, rotolandosi sul letto e cambiando posizione, il capo che affondava meglio sul guanciale.

«Lo so» certi traumi non potevano essere superati, il mannaro ne era un esperto ed entrambi portavano le loro cicatrici.

Stiles sospirò, il telefono che cercava di incastrare su uno degli altri cuscini per far riposare le mani e usare come leggio. Una leggera pausa scese a farli respirare, a far attecchire quei pensieri che non ne volevano sapere di andare via. «Credo abbia smesso» rivelò a continuare tutti quegli aneddoti di cui Derek era stato privato. «Dopo quella brutta fotocopia di mia madre, ha subito una specie di battuta d’arresto. Non lo so, forse anche lui è bloccato».

«Anche lui?» gli fece verso il licantropo, la nota severa e di rimprovero che riecheggiò.

«Fa conto che non abbia detto niente» accidenti, perché a volte si dimenticava di dover dosare bene le parole con Derek? Gli veniva estremamente naturale parlare con lui, anche eccessivamente troppo.

«Quel pigiama, è quello che penso io?» il playmaker non continuò a bersagliarlo, gli concesse una tregua e si concentrò su altro, su qualcosa che aveva catturato la sua attenzione quasi subito, ma che aveva tardato ad annotare.

La matricola direzionò leggermente la testa verso il basso a rinfrescarsi la memoria. «Sì» spostò meglio il ricevitore, la telecamera interna che inquadrava meglio il misfatto. «Mi ha completamente rapito».

Infelice scelta di parole, avrebbe esternato Stiles in sua vece. La piccola volpe estasiata dai suoi palloncini che la tenevano sospesa nel vuoto troneggiava indisturbata nell’inquadratura maldestra, con protagonismo. «Sei senza speranza» c’era un angolo sporco nella sua bocca, arricciato verso l’alto.

Stiles sorrise apertamente al divertimento nascosto del suo interlocutore, l’obiettivo che tornava a renderlo dominante. «È come se fossi qui. Una parte di te, perlomeno».

Derek serrò la bocca, come se dovesse assimilare ciò che Stiles aveva proferito, collocarlo da qualche parte, trovare le parole con cui rispondere. «È così importante?» io lo sono?

«Sì» affermò con certezza il figlio dello sceriffo, un arto superiore che andava ad abbracciare il cuscino prediletto, portandolo a girarsi di conseguenza a pancia in giù. «È il modo in cui mi sento più protetto. Sto reagendo, credo».

Derek non dissentì, non cercò neanche di disilluderlo o fargli cambiare idea; se sulla psiche di Stiles aveva quell’effetto, il lupo non gli avrebbe remato contro.

«Sai» continuò Stiles di punto in bianco, perché rimanere con la bocca tappata per più di un minuto gli era diagnosticamente impossibile. «Papà ha frequentato per un po’ la madre di Lydia. Romanticamente» perché specificarlo era essenziale.

«Ah» Derek non riusciva a collocale la notizia. «Questa non me l’aspettavo».

«Nemmeno noi» non li avevano minimamente informati, non sapevano neanche avessero interagito in qualche occasione che non fosse risalente al secondo anno, quando Lydia si era rivelata essere una banshee. «Forse era un segnale sulla nostra incompatibilità futura».

«Credi a queste cose?» Derek ne era alquanto sorpreso e non l’apprezzava particolarmente.

«Ho visto tante cose, assistito ad altre ancora e ne sono stato il fulcro, non ci sarebbe nemmeno nulla di strano» non era una nota positiva, non pensava ce ne fossero.

«Sei più cinico di quanto ricordarsi» rivelò a voce alta la creatura leggendaria, il viso che si incupiva. «Una volta eri più positivo, anche davanti alle avversità peggiori».

«La positività fatica ad emergere, probabilmente si è armata di bagagli ed è fuggita nella notte» quell’idea così strampalata e tipica di Stiles scatenò in entrambi dell’ilarità, in fondo il suo sarcasmo non ne aveva risentito. «Chissà se mio padre ha mai realizzato ci potessero essere delle conseguenze».

«Non stavate insieme» ragionò il capitano della squadra di basket ad alta voce, ad esternare le sue macchinazioni. Trovava anche difficile riuscire a collocare tutto nel corretto ordine cronologico.

«No» confermò lo studente di criminologia, le ipotesi che si affaccendavano davanti agli occhi. «Ma lui ha sempre saputo quanto fossi innamorato di Lydia. Da quanto lo fossi. Perché fare una scelta del genere? Mi aveva dato per spacciato?».

Stiles era agitato, anche leggermente adirato perché non comprendeva cosa avesse spinto suo padre verso quella direzione. «Lo eri».

«Ehy!» esclamò offeso il figlio dello sceriffo, l’oltraggio evidente sui suoi tratti facciali. «Ho dimostrato il contrario».

«Non sapevo fosse una sfida che dovevi vincere» lo ribeccò con sarcasmo la creatura della notte.

«Ora mi stai attaccando» si imbronciò l’umano, le guance gonfie per l’offesa.

«Probabilmente gli piaceva o pensava gli piacesse, un’opportunità» deviò abilmente Derek, a tentare di far ampliare la visione del suo interlocutore, disteso su quel letto gigante da solo. Un letto che non era nemmeno il proprio. «D’altronde avevano molte cose in comune, non credo che la lista da cui scegliere sia molto lunga».

«Due figli pazzi?» lanciò la domanda retorica Stiles, la realtà che li schiaffeggiava.

«Non sei pazzo» negò immediatamente Derek, il tono grave, la fronte contratta. Non gli piaceva dove stesse puntando la conversazione, il modo in cui Stiles la stesse manipolando. «Non lo è nemmeno lei».

«Buffo, non è quello che la gente pensa» proferì Stiles con amarezza, le memorie che tornavano completamente indietro, come se le stesse vivendo in quel momento. «È così che siamo stati trattati all’Eichen House».

Stiles si era ricoverato volontariamente dentro l’ospedale psichiatrico, ai tempi in cui non era sicuro di sé e la volpe gli sussurrava nelle orecchie, avendo il controllo sul suo cervello e sul corpo. Stava cercando di capire chi fosse, stava tentando di trovare una soluzione da solo e svelare il mistero che si celava dentro quella mente che giocava con lui. Lydia invece era stata rinchiusa per volere di sua madre, ai tempi dei Dottori del Terrore, erano quasi arrivati ad un passo dal lobotomizzarla. Era stato un incubo ad occhi aperti per entrambi, con conseguenze che si portavano ancora dietro. «Quel posto è marcio, non dovresti considerarlo. Mai».

Stiles affondò il viso sul cuscino, scappando agli occhi attenti di Derek che combattevano le sue battaglie anche a chilometri di distanza. Era faticoso, non lo voleva così lontano. «Le ho detto di amarla» soffiò come se non credesse nemmeno lui che fosse stato possibile, la bocca ovattata dal cotone, le iridi d’ambra che tornavano a scorgere il lupo. «Quando ho capito che i Cacciatori Fantasma stavano venendo a prendermi, che il processo era già iniziato. Non mi rimaneva più tempo, non sarebbe rimasto niente di me. Ho pensato, creduto, che almeno quello sarebbe potuto sopravvivere. Non è andata così».

Derek trattenne il respiro nei polmoni e nello schermo si mostrò una notifica di un messaggio, ma la ignorò, come aveva ignorato quelle precedenti e sicuramente successive. «Era vero?».

«Forse. Non lo so. È complicato» Stiles sospirò di frustrazione, i piedi che si agitavano sul materasso. Si alzavano e si abbassavano, in un ritmo tutto loro. «Lo era stato, credevo lo fosse anche in quel momento. Avevo bisogno che qualcosa attecchisse, che non potesse essere cancellato. Un solo messaggio, uno qualsiasi. Non so nemmeno se fosse rivolto a lei o se fosse rivolto a tutti. Lei era l’unica che riuscisse ancora a ricordarsi di me e non vedesse uno sconosciuto che farneticava» fece scemare la voce, quasi ad aver messo un punto fermo. «Quindi è colpa mia?».

«Cosa è colpa tua?» Derek non riusciva più a seguirlo, per quanto avesse compreso i suoi tormenti.

«Lydia ha ricambiato quell’amore che ho costruito e serbato per circa dieci anni. L’ha fatto quando io non ero nemmeno in questa dimensione» articolarlo era faticoso, argomentarlo e smontarlo gli richiedeva energie. «Mi sono innervosito perché lei lo aveva dato per scontato. Aveva dato me per scontato, quando non erano nemmeno riusciti a mantenere il mio ricordo. Ha supposto fossi ancora il bambino di otto anni che stravedeva per lei, il ragazzino e adolescente che sbandierava il suo amore per lei. Niente cambiamenti, niente ripensamenti, per lei ero rimasto invariato. Quello che provavo per lei era rimasto invariato. Ma non lo era; era, è, cambiato tutto. Se mi soffermo a pensarci, provo una rabbia incontrollabile. Non voglio essere un porto sicuro per chi ha dei ripensamenti o è improvvisamente consapevole di chissà quale verità» si stava quasi sgolando, ma Stiles aveva bisogno di esternare tutto il malessere che aveva all’interno e che lo bersagliava. Respirare autonomamente non gli risultava sempre gratificante, a volte aveva bisogno di ripeterselo nella mente. «Ma se lei mi avesse dato per scontato perché le avevo confessato quelle parole? È qualcosa che ho scatenato io».

«Stiles, non è colpa tua se il tuo sogno si è infranto» Derek lo annunciò quasi a rompere la barriera dietro cui Stiles si era nascosto. La voce era avvolgente e la matricola poteva quasi illudersi di averlo lì accanto a lei, tattile, pelle contro pelle, organismi che percepivano la temperatura corporea dell’altro. «A volte i tempi non coincidono, non si incastrano. Per quanto si voglia far funzionare le cose, non è possibile. Questo è stato il tuo caso».

Stiles dovette aspirarle quelle parole e successivamente espirarle, farle diventare ossigeno per il lasso temporale di cui aveva bisogno per depurarsi. «Qual è il tuo caso, invece?».

Derek inclinò il viso per scrutarlo meglio, imperturbato dalla sua invadenza. «Ora stai tergiversando».

Il figlio dello sceriffo mugugnò contrariato, animato dal non voler essere smascherato. «Non è vero».

«È tardi» fece scoccare l’ora il mutaforma, l’orologio che parlava chiaro, insieme al minutaggio che lo smartphone surriscaldato segnalava per quella videochiamata interminabile. «Devi dormire».

«Non voglio farlo» si lagnò il diciannovenne, sentiva una presa che si serrava intorno alla gola.

«Lo so» convenne Derek, conoscitore del suo terrore. «Ma devi provarci».

«Rimarrai davvero tutta la notte con me?» chiese in un ulteriore sicurezza. Anche se Derek aveva comunicato il suo piano prima di procedere con il preparare i bagagli, Stiles non era comunque tranquillo. Non vedeva come potesse andare tutto liscio.

«Sì» confermò il licantropo irremovibile, lo smartphone che cambiava inquadratura. «Metti in carica il telefono dove possa vederti».

«Ti ho già detto che è una cosa inquietante da dire?» domandò retoricamente l’umano, mentre simulava un brivido fasullo.

«Ogni volta» ma a Derek poco interessava come potesse risuonare.

«Devi dormire anche tu» gli fece ben presente lo studente di criminologia, anche se si era già mosso per prendere il cavetto e collegarlo nell’apposita entrata. «Devi vincere la partita di domani».

«Dormirò» lo rassicurò il mannaro con leggerezza, piuttosto certo di aver ripetuto anche quello in varie occasioni. «Principalmente devo avere gli strumenti per poterti sentire».

E poi controllare se qualcosa non gli quadrava. «Questo non presagisce un sogno restauratore».

«Ho sempre i sensi attivi, Stiles» non era nulla di nuovo per lui.

«Sì» che vita era quella di Derek Hale? Braccato continuamente da minacce e dai fantasmi del passato. «Vincila davvero questa partita, Der. Non farti suggestionare da me».

«Non ho intenzione di perdere» dichiarò il giocatore testardo, irremovibile. Non era una preoccupazione che doveva angustiare Stiles, Derek dava tutto se stesso in ogni singola giocata. «Buonanotte, Stiles».

«Notte, Sourwolf» Stiles gli riservò un sorriso intenerito pieno d’affetto e poi cercò di farsi catturare dalle grinfie di Morfeo.

 

Stiles si svegliò di soprassalto, era agitato ed affaticato, si sentiva esausto anche se tecnicamente aveva dormito per tutto il tempo. Si tastò come per accettarsi che fosse tutto intero e l’urgenza lo portò a cercare il telefono sull’unico comodino della zona notte. L’abatjour era spento, lo smartphone non era più in carica e lo schermo era disattivato, nessuna videochiamata in atto.

Si apprestò a prenderlo in mano, costatando che fosse acceso, ma l’app per le videochiamate si era chiusa e segnava tre chiamate senza risposta da parte di Derek. Non c’erano messaggi aggiuntivi o altri segni particolari, sembrava tutto stranamente tranquillo e gli venne il sospetto che il lupo fosse con lui da qualche parte, ma il letto era vuoto, nessun segno di un’altra presenza, però ne avvertiva l’intrusione.

Ebbe bisogno di andare in bagno per darsi una rinfrescata, risvegliare completamente le sinapsi che faticavano a carburare, riprendere coscienza con il mondo, liberare gli occhi che sentiva appiccicosi e secchi. Almeno lì si lasciò confortare da movimenti automatici e quotidiani senza osservarsi troppo intorno.

Socchiuse piano la porta quando terminò, lasciando un piccolo spiraglio consapevole che ci sarebbe tornato più tardi per completare le sue abitudini mattutine, percorrendo con adagio il corridoio, ma si pietrificò quando si avvicinò alla cucina. Il tavolo imbastito per la colazione, il divanetto sotto la finestra era sgualcito e manteneva appena la forma di una figura che vi aveva soggiornato sopra, insieme ad una coperta di plaid con piccole stelle e fasi lunari su sfondo blu che era sicuro Derek non avesse ancora tirato fuori dal suo armadio. C’era anche un bicchiere vicino al piano cottura, con una bottiglia a temperatura ambiente fuori posto. Stiles non sapeva come avrebbe dovuto reagire.

«Avevi ragione» il figlio dello sceriffo sentì una voce femminile familiare oltre la porta d’ingresso, era ovattata e con la vocalità bassa, presumibilmente con l’intenzione di non disturbare. «Si fa del male» disse quando la serratura scattò e la porta si aprì, mostrando la figura di Erica non esattamente al cento per certo del suo splendore impeccabile, una busta di Starbucks tra le dita che non reggevano le chiavi e l’altra mano che teneva il telefono incollato all’orecchio. «Mi ha spaventata. Non l’avevo mai visto in queste condizioni».

Stiles la adocchiò subito fermo nel lungo corridoio che collegava tutte le varie aree del monolocale, era immobile e cencio, non riusciva a credere a cosa vedesse e la lupa si arrestò nell’immediato. «Devo salutarti» annunciò al suo interlocutore telefonico, mentre premeva sull’icona con la cornetta rossa. «Ciao, Stiles».

Lo studente del primo anno la vide chiudere la porta e dirigersi verso di lui, direzionarsi verso la tavola ed estrarre dalla busta di carta della caffetteria diversi muffin e dolciumi. Si muoveva come se non fosse accaduto nulla, come se la sua presenza fosse sempre nei paraggi, ma non era vero, Derek non permetteva l’accesso a nessuno. «Hai dormito qui?» si vide costretto a chiedere, un dito che indicava il divanetto scomposto, l’allusione alla chiamata che aveva udito. Era inevitabile comprendere cosa fosse accaduto, a cosa la lupa mannara avesse assistito, come Derek avesse dovuto contattarla, svegliandola, per urlarle di andarlo a prendere ovunque si fosse cacciato e ripotarlo nell’appartamento.

«Sì. Ho preferito così» indorare la pillola non aveva alcun senso con Stiles, le avrebbe comunque strappato la verità ed era bravo nel farlo, come odiava chi la celava.

Il figlio dello sceriffo guardò lei e poi se stesso, gli arti superiori in cerca di tracce, notando invece per la prima volta l’assenza delle volpacchiotte allegre nei pantaloni del pigiama troppo lunghi. Erano stati cambiati nella sua ignoranza probabilmente perché troppo infangati a causa della sua camminata senza meta. Aveva detto che si era fatto del male, ma nemmeno quella volta trovava dei segni su di sé, da nessuna parte; che Derek le avesse spiegato cosa fare? Come agire?

«Hai bisogno di mangiare» proferì la bionda, aprendo lo sportello del frigo e incontrando tre varietà diverse di succo di frutta. Rimase indecisa per qualche attimo e alla fine li estrasse tutti. «Riprendere le energie».

Riprendere le energie era l’ultima cosa di cui necessitava. «Potresti darmi un minuto?» domandò al vuoto, Stiles non era minimamente lì con la mente.

«Sì, certo» ma lo studente di criminologia non aveva atteso un suo responso, si era volatilizzato lentamente sotto il suo sguardo, il passo incerto.

Stiles si sedette sul letto come se fosse un automa e cercò alla ceca lo smartphone, digitando varie applicazioni ed aprendo la chat che condivideva con Derek. Il nome Sourwolf faceva capolinea in alto, l’icona con la sua immagine accanto: era la triscele tatuata sulla sua schiena. Si era sempre chiesto chi gliel’avesse fotografata.

Non risultava online, non c’era l’orario dell’ultimo accesso perché era la prima cosa che aveva disattivato quando aveva cominciato a usare quel tipo di tecnologia; per Stiles era il tratto indistinguibile della sua personalità riservata. Con le mani tremanti ed impacciate digitò sulla tastiera touch, cancellando varie volte perché continuava a sbagliare la composizione corretta delle parole. Sto bene, gli inviò. Era di una banalità sconcertante, non era accettabile che avesse impiegato tutto quel tempo e commesso quella serie interminabile di errori per una cosa simile.

Lo smartphone gli vibrò in mano esattamente trenta secondi dopo, lo schermo che si illuminava a segnare un nuovo messaggio in entrata.

Stiles era agitato, il cuore batteva all’impazzata e con le dita scoordinate sbloccò lo schermo e cliccò sull’avviso, trasportandolo direttamente nella chat privata. Respira era tutto ciò che Derek gli aveva inoltrato e Stiles si rese conto di quanto avesse trattenuto il respiro, i polmoni che si agitavano e comprimevano per la mancanza di ossigeno.

Tirò tutto fuori, si lasciò andare e l’anidride carbonica si riversò nell’aria, mentre ciò che gli serviva per vitalizzare gli organi rientrava in circolo. Si sentiva meglio, più leggero. «Vorrei fossi qui» sussurrò al telefono mentre chinava il capo su di esso e vi poggiava la fronte. Era il suo unico contatto con il licantropo. Era incredibile quanto fosse capace di capire di cosa necessitasse anche a miglia e miglia di distanza; avvertiva la necessità di piangere.

«Ehy, Stiles» si approcciò Erica, sbirciando attraverso il muro divisorio, a costatare se fosse il caso di invadere completamente il suo spazio. Lo trovò quasi rannicchiato sul materasso, provato. «Vuoi che ti lasci da solo?».

L’umano si ridestò e le iridi caramellate la cercarono cautamente, a disagio dalle emozioni che comunicavano per lui. «Ti dispiace?» Stiles aveva davvero bisogno di rimanere in solitudine.

«No, certo che no» sparì dalla sua vista e sentì la copia delle chiavi frizionare con il tavolo, poi tintinnare nella presa della ragazza. «Riposati un po’, okay?» si raccomandò con affetto, avvicinandosi per schioccargli un bacio su uno zigomo e scompigliargli subito dopo i capelli sudati. «Andrà bene».

Quando Erica lo salutò e lasciò dietro di sé la porta principale chiusa, Stiles decretò che non sarebbe affatto andata bene se continuava ad essere incapace di occuparsi di se stesso senza ricorrere ad un aiuto esterno. In quell’occasione ne erano stati necessari ben due.

Con il cuore pesante e il morale a pezzi, afferrò con una mano il cuscino personale di Derek e lo strinse forte forte a sé, distendendosi completamente sul lato del letto del mannaro e affondando la testa tra le morbide piume contenute nella federa in cui primeggiava l’odore indiscusso del suo proprietario, terra e selvatico, sicurezza e familiarità.

Con un singhiozzo soffocato, si lasciò sovrastare dalle avversità e crollò in una fase onirica priva di sogni.

 

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Capitolo 9
*** 9° Capitolo ***


9° Capitolo

 

Derek percepiva la presenza di Stiles nell’appartamento dalle scale, ma non riusciva bene ad identificare in che condizioni si trovasse né aveva elementi che gli dessero qualche indizio.

Fece scattare la serratura con moderazione, un tocco delicato che non producesse troppo rumore, e si avviò verso l’ala che fungeva da zona notte trovandovi l’umano disteso malamente ai piedi del letto, la testa direzionata verso la finestra, uno dei suoi enormi libri su argomentazioni spietate che gli era scivolato dalle mani, piegandosi su stesso in bilico sul bordo.

Derek soffocò un sospiro di sollievo e adagiò i suoi bagagli per terra, avviandosi per sistemare il volume mal capitato, tentando di riordinare gli orecchioni che si erano formati e soffermandosi per qualche momento sulla beltà che difficilmente incontrava sui tratti di Stiles quando si addormentava.

Poggiò il libro sulla scrivania e estrasse dall’armadio la coperta con le lune e le stelle che era evidente Stiles avesse riposto accuratamente dopo l’utilizzo della notte precedente. La dispiegò del tutto e vi ricoprì il figlio dello sceriffo con parsimonia, senza che quel gesto potesse disturbare la sua quiete faticosamente ottenuta.

Gli fu difficile non notare come Stiles ronfasse serenamente sul proprio cuscino personale, mentre sembrava snobbare quello che si portava sempre dietro, di paese in paese, andando contro se stesso. Le punta delle dita non riuscirono a frenarsi e gli sfiorarono come un petalo di rosa la fronte scoperta. Stiles emise un singolo mormorio di apprezzamento.

Derek si vide costretto a tirarsi indietro, riprendere in mano il borsone e avviarsi verso la lavanderia, svuotare il contenuto e tentare di avviare una nuova lavata, ma era evidente che il suo ospite avesse mandato avanti le faccende casalinghe; ciò che aveva lasciato il giorno precedente in attesa del loro turno, era stato già lavato e spostato nell’asciugatrice che doveva aver terminato mentre Stiles era stato rapito da Morfeo.

Il mannaro decise di inserire tutto nel cestello d’acciaio senza metterlo in funzione, rimandandolo al giorno seguente come promemoria, ma si dedicò a sistemare e ripiegare gli indumenti che profumavano di pulito.

La lavapiatti era stata svuotata e sul lavandino non vi era nulla, se non una tazza e un cucchiaio a creargli degli interrogativi pochi piacevoli.

Il tempo scorreva, la sera si stava avvicinando ed era piuttosto sicuro che Stiles dovesse correre al Crescent Moon prima delle dieci, per iniziare il turno serale dedicato tutto a Halloween. Non sapeva esattamente come se la fosse cavata nel poco tempo che era stato lontano, ma non credeva che facesse una buona impressione arrivare in ritardo dopo pochissimi giorni l’essere stato assunto.

Derek vacillò per qualche attimo mentre osservava la bella volpe riprendersi quel sonno meritato che continuava ad essergli rubato, tergiversando perché gli appariva come un peccato mortale strapparla da qualcosa di cui necessitava. Con fermezza pronunciò il suo nome, caldo e morbido, ma Stiles proseguì nella sua attività restauratrice, costringendo il mutaforma ad avvicinarsi e quasi sovrastarlo, a chiamarlo con più insistenza.

Stiles mugugnò in dissenso, la testa che oscillava sul guanciale di Derek di cui si era appropriato illecitamente, le palpebre che sfarfallavano di scontentezza e il velo negli occhi che scivolava con fatica. «Derek» borbottò, le iridi che brillarono quando si resero conto di chi avessero realmente davanti, gli occhi che si ingrandivano per una maggior consapevolezza. «Sei qui» il lupo provò a sottolineare l’ovvietà, ma Stiles allungò le braccia e lo intrappolò, tirandoselo addosso e incastrando la testa tra l’incavo del collo e la spalla, non avendo alcuna intenzione di allontanarsi da lì.

Il capitano avvertì tutto il sollievo dell’umano, il suo dolore e stanchezza, quanto a pezzi si sentisse e necessitasse della sua presenza, quanta solitudine e smarrimento avesse sperimentato. Il cuore di Stiles era ferito e Derek poteva quasi sentire le vene gonfiarsi e pulsare, chiamarlo in aiuto e rendergli conto quanto fosse fondamentale per lui.

La creatura della notte non riuscì a reagire in alcuna maniera.

 

Il figlio dello sceriffo in una patina apatica serviva i clienti, la maggior parte di loro indossavano travestimenti, vestiti di Halloween di ogni tipologia, trucchi studiati e su cui avevano perso del tempo, ma c’era anche chi si era limitato all’essenziale ‒ così com’era accaduto a lui, Tracy in agguato all’inizio turno che, contro il suo volere, gli aveva disegnato con un eyeliner nero in penna una ragnatela con annessi piccoli ragni sulla guancia destra, poco sotto l’occhio ‒, eppure tutti erano su di giri, la musica risuonava quasi in ogni punto del campus, da dormitorio a dormitorio, e la festa non sembrava voler volgere al termine.

Stiles un po’ li invidiava, darsi alla pazza gioia e dimenticare almeno per qualche ora i problemi sarebbe stato miracoloso per la sua psiche compromessa, ma preferiva investire quel tempo per sopperire al suo portafoglio tristemente alleggerito, benché lo sarebbe stato di più se un certo licantropo non fosse piombato nella sua vita.

Mostrava il suo sorriso migliore, si impegnava a rendere il servizio impeccabile e li invitava a tornare. In quella notte di follia, molti studenti erano passati più volte e ordinato di tutto, soprattutto le bevande a tema create appositamente per l’occasione ‒ se doveva essere onesto, avevano solo cambiato i nomi, aggiunto qualche spezia e colorante alimentare.

Servì un mietitore molto carino, un caffè-latte alla zucca e un biscotto al burro a forma di fantasmino, e la coda sembrò sfoltirsi. «Come posso servirla?» ma il suo sorriso affascinante si sgretolò davanti alla figura che si parò davanti al bancone decorato per la festività. «Derek» l’aveva abbracciato così strettamente appena il sollievo di vederlo tornare nel monolocale l’aveva colto, ma poi si era rabbuiato tutto insieme odiando rendersi conto in che stato si trovasse. Aveva controllato l’orario sul cellulare, che teneva sotto il cuscino del mannaro, e si era preparato alla velocità della luce per raggiungere la caffetteria. «Cosa posso servirti?».

Derek lo scrutò impassibile, i tratti affilati e l’umano sapeva bene come riuscisse a percepire perfettamente il vortice che lo teneva in ostaggio. «Non mi imporrai nulla?».

«Ah» le palpebre sbatterono più volte preso in contropiede e gli occhi si spostarono da una parte all’altra come se cercasse dei suggerimenti. «Potresti cogliere l’occasione» lo ricompensò ghignando affabile e, in tutta risposta, il lupo inarcò le folte sopracciglia giudicandolo apertamente.

Stiles ridacchiò, probabilmente l’ultima volta in cui era accaduto era durante la videochiamata con il suo interlocutore la notte precedente, e si fiondò ad armeggiare con gli ingredienti che più lo ispiravano. «Ecco a te, Sourwolf» disse quando gli presentò un caffè nero lungo con caramello salato e zucca, perché aveva deciso di aggiungerla ovunque.

Derek storse il naso, disturbato dal continuo guanto di sfida che lo studente di criminologia gli lanciava, eppure bevve il primo prolungato sorso davanti a lui. «Non sei migliorato per nulla».

Stiles rise lievemente e gli allungò un biscotto a forma di pipistrello che giurò Derek avesse fulminato a vista. Lo divertì ancora di più. «Erica lo mangerebbe».

«Non sono Erica» lo ragguagliò il capitano della squadra di basket, le iridi che lampeggiarono di rubino e zaffiro. Stiles le avrebbe ammirate tutto il giorno.

Senza alcun amor proprio e tentando la sorte, Stiles spezzò un’ala e la masticò davanti a lui con tutta la disinvoltura del mondo. «È buono, non sai cosa ti perdi».

«Tratti così tutti i tuoi clienti?» lo fulminò il grande lupo cattivo, rassegnato nell’addentare il biscotto impostogli.

Il figlio dello sceriffo ammiccò spudoratamente e distese le spalle. «Solo i miei prediletti».

Derek cadde nel silenzio con il caffè bollente in mano, le pupille che non si lasciavano scappare nulla. «Non è così grave quello che è accaduto. Sappiamo che ci vorrà del tempo».

Gli occhi dell’umano si sgranarono e la schiena si irrigidì, mentre il suo corpo si sbilanciava all’indietro, in un passo che lo allontanasse dalla fonte che lo tormentava. «Non voglio parlarne adesso».

«Sei scappato via, prima» gli fece ben presente l’altro, l’evidenza palpabile.

«Dovevo correre qui, stava iniziando il mio turno» si giustificò lo studente del primo anno.

«Ti ho svegliato io, Stiles» lo smontò prontamente la creatura della notte.

«Avevo impostato la sveglia» sentiva anche lui il suono delle unghie che stridevano sullo specchio.

In un contesto diverso sarebbe calato il silenzio, ma si trovavano dentro una caffetteria, il rumore di tazze e piattini risuonavano in tutto l’ambiente, insieme ai vocii dei clienti ai tavolini o quei pochi che venivano serviti dagli altri due baristi, in una sorta di tregua dopo ore di non-stop. «Ti ho detto che stai migliorando, non puoi aspettarti che tutto si risolvi con uno schiocco di dita» Derek non credeva di averlo illuso in qualche modo.

«Non sono così sciocco da pensarlo» Stiles si sentiva esausto. Avvertiva un peso insormontabile sulle spalle ed era riuscito a distendersi lievemente grazie ai battibecchi senza alcuna cattiveria che scambiava con il licantropo.

«Ci riproveremo, non ti lascerò da solo» questo doveva essere chiaro, limpido, per Stiles. Non dovevano esserci dubbi.

«E se questo fosse un nuovo problema?» articolò con fatica la matricola, gli occhi bassi e le meningi che la tormentavano. «Se stessi bene o quantomeno fosse sopportabile soltanto perché tu sei accanto a me? Ci hai pensato? Hai pensato a questo? Se non potessi più separarmi da te?».

«Non è così» Stiles stava colpendo duro e Derek percepiva tutto il colpo, ma non riusciva ad inquadrare a chi fosse rivolto. «Riuscirai nuovamente a camminare con le tue gambe, ma non è questo il momento».

L’umano sospirò sconfitto e anche adirato con se stesso. «Non so nemmeno se ho più delle gambe» il che da parte sua era una scelta infelice di parole dopo gli incidenti con il Nogitsune e una chimera.

Il mannaro tenne il silenzio, le iridi verdi che gli leggevano dentro. Non avrebbe dovuto ammetterlo, ma Stiles sapeva bene che effetto avessero su di lui.

Derek armeggiò con la sua giacca di pelle, estraendo una busta sottile e rettangolare, poggiandola sul bancone e Stiles lo fissò senza capire, trattamento che riservò anche all’oggetto che catturava. Gli porse una domanda muta e il lupo si limitò ad incitarlo nello spacchettare il suo regalo, le dita di Stiles che si rigiravano la busta tra le dita, l’aspetto e forma familiari. Non era sigillata e l’aprì con facilità, estraendo con delicatezza il biglietto per la partita di basket che si sarebbe tenuta nelle due settimane successive.

Il figlio dello sceriffo si sciolse e un sorriso felice sorse sul viso esausto dalle brutte disavventure. «Uno» sentì pronunciare dal suo interlocutore, i sensi attenti e meticolosi.

Lo studente di criminologia alzò le iridi su di lui, la necessità di scrutarlo e decriptarlo. «Li stai ancora contando?».

«Finché non torneranno ad essere la norma» semplificò la creatura della notte.

Stiles nascoste la curva della bocca lusingata dietro il biglietto, non aveva serialmente voglia di dargliela vinta, ma tutta la devozione di Derek lo stordiva. «Sai, non erano la norma nemmeno prima» era allegro e vibrante, giocoso come pochi, ma era sempre circondato dal sarcasmo. Il suo tocco era ovunque, anche nei sorrisi.

«Ma erano nettamente di più» ribadì il mutaforma, non lasciandosi abbattere da Stiles.

«Molte cose lo erano, come altre lo sono adesso» si rabbuiò leggermente, ma il profumo della carta aveva un effetto anestetico su di lui. «Quindi, come funziona? Azzererai il tuo conto dei miei sorrisi ogni volta che avrò una brutta giornata?».

«Qualcosa del genere» proferì Derek senza remore, non lasciandosi sopraffare dello tsunami diabolico che aveva dinnanzi.

La matricola ammiccò deliberatamente, ma il locale si stava riempiendo nuovamente e non poteva contare ancora su Tracy che gli copriva le spalle. «Ti accomodi?» qualche tavolino era ancora libero, Derek avrebbe potuto occuparne uno senza problemi.

Derek notò il panico e anche il rimpianto che sporcarono le sue gemme ambrate, la fila che cominciava a formarsi dietro di lui. «No, raggiungerò gli altri».

Il barista suppose che con altri intendesse il branco non tanto silenzioso che lo seguiva senza che Derek avesse approvato il suo stesso ruolo nel gruppo. «Buon divertimento» se mai il lupo ne fosse capace.

Il licantropo adagiò la carta di credito sul POS e il pagamento partì in automatico, ma in aggiunta estrasse una manciata di banconote di grosso taglio dal portafoglio e le indirizzò verso lo studente del primo anno.

«Derek» lo rimproverò a denti stretti Stiles, lo sguardo tagliente che gli rivolse contro.

«Se non li accetterai tu, sono sicuro che i tuoi colleghi non faranno le stesse storie» si destreggiò Derek con abilità, per nulla risentito dal comportamento che Stiles gli riservava.

Le pupille dell’umano si direzionavano verso gli altri baristi che si affaccendavano per velocizzare il lavoro, servendo i clienti al meglio delle loro possibilità. Successivamente si posarono sul mannaro, riflessive e restie dall’accettare una mancia esagerata. «Sei insopportabile» afferrò la manciata di banconote, inserendole all’interno della busta che custodiva il biglietto per la futura partita di basket e conservò tutto nella tasca del grembiule, indossando un broncio irrisolvibile di cui Derek rise con portamento, prima di sparire dalla sua vista, svanendo nell’oscurità prodotta dalla notte delle streghe con il suo caffè nero.

 

Il figlio dello sceriffo era stremato, la notte non terminava mai, come quel turno e il via vai degli studenti travestiti a far festa, i numerosi caffè, dolciumi e bevande varie che aveva servito.

Sbadigliò a bocca aperta mentre una mano tentava di coprirne almeno una parte, gli occhi stanchi anche se si era addormentato nel mezzo dello studio prima di raggiungere il locale. Era sicuro di non aver alcuna coperta con sé, di averla sistemata accuratamente nella parte d’armadio riservata a Derek molte ore dopo l’allontanamento di Erica, quindi era giusto presumere che fosse stato il bel lupo tenebroso a provvedere. Chissà da quanto era rincasato, quanto era rimasto ad ascoltarlo dormire e decretare quando fosse il momento più adeguato di svegliarlo. «Buonanotte» sentì nella sua direzione da Tracy che si era attardata quanto lui, mentre la signora Freeman iniziava a chiudere il locale.

«Buonanotte» ricambiò con ritardo, la sciarpa rossa che avvolgeva maggiormente intorno alla gola, stringendosi nel giubbotto caldo da cui ricadeva sulla schiena il cappuccio di una delle sue felpe rubino.

Proseguendo nelle temperature rigide, il cielo completamente scuro, le ombre che si stanziavano per i raggi lunari, si soffiò sulle mani congelate, sfregandole tra loro, maledicendosi di non essere provvisto anche di guanti. Si svegliò totalmente quando notò una luce scarlatta nell’oscurità ai piedi di un albero puntare nella propria direzione, attendendo silenziosa. «Derek» soffiò estasiato e sgomento, il fumo che gli usciva dalla bocca e le iridi ambrate che brillavano di meraviglia.

Inizialmente si era spaventato, non riuscendo a capire cosa fosse quella sagoma minacciosa che lo puntava; di esperienze negative ne aveva avute fin troppe e temere il peggio faceva parte della sua natura, ma si era rilassato quando zampe nere erano avanzate sotto la luce di un lampione, permettendo di distinguerlo più facilmente.

Affrettò il passo, quasi correndo per raggiungerlo, ammirarlo in tutto il suo splendore e nel suo elemento naturale, portarsi ad un’altezza più congeniale per entrambi. «Ciao» pronunciò morbido e totalmente innamorato. Non riusciva ad essere diversamente, a trattenere tutto l’amore che traboccava quando si trovava faccia a faccia con quell’animale incredibile.

Anche se non era la prima volta che se lo trovava dinnanzi, in quelle singolari e rarissime occasioni era come se lo fossero, soltanto che era decisamente più coinvolto, perché capiva quanta fiducia Derek gli desse mostrandosi nella sua forma completa e così celata, insieme a quegli inimitabili occhi vermigli e zaffiro.

Dubbi su chi fosse non ne aveva avuto alcuno.

Protese una mano verso di lui e ne sfiorò la pelliccia, folta e meravigliosamente morbida, immergendola completamente e venendo accolto senza riserve dal lupo. Stiles lo accerchiò anche con l’altro arto e lo abbracciò fortemente, travolgente, la testa premuta sotto un orecchio sempre alzato, a vigilare perfino quando era rilassato. «Qualcuno ha appena realizzato un desiderio» disse con calore, godendosi un evento così atipico e raro da poter essere una delle sue allucinazioni.

Erano all’aria aperta, dove chiunque avrebbe potuto vederli, spaventarsi ed urlare nel ritrovarsi a fronteggiare un autentico lupo in libertà, ma quella era una notte magica, probabilmente l’unica in tutto l’anno in cui Derek potesse mostrarsi per quello che era realmente, senza suscitare orrore, ma meraviglia e ricreazione.

Derek sbuffò contro di lui, il muso che si muoveva appena, il dissenso che palesava uditivo e l’umano lo abbracciò soltanto più forte, il divertimento che lo attraversava da ogni parte e che gli faceva nascere dei risolini piacevoli.

Gli adagiò un bacio sul collo e si sistemò davanti a lui, tirandosi sopra la testa il cappuccio scarlatto che fuoriusciva dal giubbotto blu ed indicandosi interamente. «Sono abbastanza rosso per te, lupo cattivo?».

Era palese come il mutaforma lo stesso giudicando severamente, digrignando appena i denti ed un singolo ringhio a rimproverarlo per i suoi modi bambineschi e dall’umorismo spicciolo. Stiles, in tutta risposta, ridacchiò con autentico diletto e tenne il muso della bestia più bella che avesse incontrato tra le dita, regalandogli un nuovo schiocco sul muso e poggiando la fronte contro la sua. «Grazie, Der» scandagliò con profondo affetto, godendosi e prolungando quel momento soltanto loro. Un dono estremamente prezioso.

Derek non si agitò né fiatò, si limitò a premere ulteriormente contro la matricola desiderosa di lui.

«Andiamo?» chiese in un invito ultimo, dopo che il tempo si era prolungato enormemente. «Dolcetto o scherzetto?».

Il mannaro cancellò il ghigno sopraffino della volpe furba leccandogli con dispetto una parte del viso e scappandogli dalle grinfie, per poi addentandogli il cappuccio e tirandolo all’indietro, con l’intenzione di toglierglielo. «Ehy, ehy» esclamò indignato Stiles mentre cercava di ripulirsi dalla saliva e riprendere il controllo di sé. «Ho capito, ho capito» ma quando si sistemò alla bene e meglio, con il pezzo di stoffa rossa in eccesso che tratteneva ancora tra le dita tentando di dargli una forma dignitosa sulla schiena, provò ad individuarlo invano perché il capitano era già lontano.

Lo studente del primo anno si alzò in piedi e si voltò nella direzione presa dal lupo completo, trovandolo a pochi passi da lui in attesa, i raggi di madreperla illuminavano cautamente la pelliccia nera e gli donavano un’aria eterna, quasi eterea, insieme al connubio di mare e fuoco che sprigionavano le sue iridi indecise.

Stiles si limitò ad ammirarlo per qualche momento privo di qualsiasi imbarazzo, chiedendosi quanto Derek avrebbe preferito vivere nella natura selvaggia o se quegli sprazzi gli bastassero per sentirla parte di sé, eppure il licantropo non stava prestando attenzione a ciò che lo circondava, ma a ciò che aveva appena lasciato. Quando il figlio dello sceriffo lo raggiunse non riuscì a trattenersi dall’accarezzargli la testa e bearsi della sua temperatura corporea. «Fai strada» e Derek lo fece.

«Stiles» non passò molto tempo però quando vennero raggiunti da qualcuno di esterno, interrompendoli e la matricola si chiese come fosse possibile che il mannaro non avesse deciso di cambiare strada.

«Theo» negli ultimi giorni era stato benedetto dalla fortuna non trovandoselo dietro in ogni momento, ma a quanto pareva si era esaurita.

Lo studente di scienze politiche sorrise affascinante, non mal celando minimamente il suo entusiasmo di ritrovarselo proprio davanti. Era vestito completamente di nero, abiti attillati che non lasciassero nulla all’immaginazione, enfatizzando la sua muscolatura pronunciata ‒ ma nulla a che spartire con Derek ‒, il viso era truccato da un eccessivo uso di cerone, profonde occhiaie nere e qualcosa che simulava le crepe sulla pelle, come se stesse svanendo o spellando, a completare vi era un rossetto rosso acceso sulle labbra ancora perfetto ‒ che non si fosse adescato ancora con qualcuno? O l’avesse semplicemente riapplicato? ‒; sinceramente Stiles non riusciva a capire cosa il suo costume dovesse rappresentare, una specie di morto vivente vampirizzato? «È un lupo quello?».

Stiles si era parzialmente dimenticato della forma assunta dal giocatore in quel frangente, soprattutto era stupito che fosse rimasto nelle vicinanze davanti a un estraneo. «Oh, lui» si voltò a guardarlo, le falangi che affondavano nel pelo inchiostrato trattenendolo tra esse, assaporandone la consistenza. «È un cane lupo» era normale che Theo chiedesse delucidazioni su un animale che appariva pericoloso andare a spasso all’interno di un campus universitario come se niente fosse, anzi era insolito che non si allontanasse alla sua vista. Sperava anche che Derek non si indignasse per averlo retrocesso ad un comunissimo cane.

Theo lo fissò con i suoi intensi occhi azzurri che spiccavano ancora di più in mezzo a quel bianco cadavere, spostandoli successivamente sul suo imprevedibile compagno notturno. «A me sembra un lupo».

Stiles roteò gli occhi, infastidito da tanta insistenza. «Hai mai visto un lupo vero in vita tua?».

«No» rispose sinceramente, non perdendosi minimamente come Stiles fosse del tutto a suo agio con l’animale notturno. «Tu sì?» ora, se era possibile, era ancora più interessato.

«Sì» confessò direttamente, un’ombra che gli attraversava le iridi mielate. «Anche troppi» si piegò sulle ginocchia richiamando l’attenzione del licantropo, mentre Stiles lo accarezzava in mezzo alle orecchie e appoggiava la testa contro un lato del muso.

«E da dove saltate fuori?» la voce di un grosso animale dalla pelliccia scura che si aggirava per le vie del campus universitario, saltando di festa in festa, si sarebbe già prorogata, ma l’udito allenato di Theo non era stato scosso nemmeno da un sussurro.

Stiles si paralizzò impercettibilmente e le iridi ambrate guardavano con diffidenza il suo interlocutore. Le labbra carnose sigillate, i pensieri visibili che gli attraversavano gli occhi e l’indecisione di metterlo realmente a contatto di un’altra parte della sua vita. «Ho concluso adesso il mio turno in caffetteria».

«Caffetteria?» domandò in una eco, non riuscendo a catalogare quell’informazione nel suo archivio personale che portava l’orma di Stiles. «Lavori in una caffetteria?».

«Sì» quanto si sarebbe pentito di essere stato così sincero? Ma quanto avrebbe potuto tergiversare prima che sarebbe entrato in possesso di quella nozione autonomamente?

«Quale?» quella notizia era oro colato, Theo stava febbricitando.

L’espressione facciale del figlio dello sceriffo si fece acerba. «Scoprilo da solo».

La bocca dello studente di scienze politiche si arricciò eccitato dalla sfida che gli era stata lanciata ed era sempre più entusiasta di quanto Stiles risultasse perfetto per lui. «Quindi, Cappuccetto Rosso ha incontrato nel suo percorso il lupo cattivo?» domandò con divertimento intrigato, indicando singolarmente ciò che sembravano rappresentare in quella notte di costumi e recite, spezzando quel quadretto privato in cui lo studente di criminologia si stava rifugiando, escludendolo.

Quanto fondo di verità c’era in quella descrizione approssimativa. «Ah, sì. Qualcosa del genere» si era permesso si esprimere una fantasia infantile, un divertimento a cui era sicuro Derek non avrebbe partecipato, ma avrebbe trovato addirittura ridicolo, ritenendosi offeso personalmente, eppure il licantropo era proprio lì, a permettergli di sognare ancora.

«Ed è tuo?» Theo era ancora più affascinato, ma non sapeva ancora inquadrare in che modo.

«No» il figlio dello sceriffo ridacchiò per l’assurdità proferita, baciando il profilo del naso peloso della creatura più stupefacente su cui avesse posato lo sguardo e rimettendosi in piedi. «Questa meraviglia è soltanto in prestito».

Lo studente di scienze politiche arcuò un sopracciglio, non seguendolo minimamente. «Da chi?».

«Questa non è soltanto la notte di Halloween, ma anche quella di Samhain» si alzò il colletto del giubbotto, sistemandosi meglio la sciarpa aranciata che Derek gli aveva avvolto al collo una settimana prima. «Il velo tra il nostro mondo e quello degli spiri si assottiglia, l’uno può interagire con l’altro. Puoi davvero essere sicuro da dove provenga questa magnifica creatura? Domani non avrai nemmeno la certezza di averla vista».

Le labbra di Theo si arcuarono all’insù e guardò il suo interlocutore con visione rinnovata. «Hai uno strano modo di aggirare una domanda, ma sono queste le cose che mi piacciono di te».

Stiles indietreggiò con la testa come colpito, non aspettandosi minimamente quel commento così diretto. «Non ricominciare» ma doveva davvero stupirsi?

«Perché sei così schivo? Noi due stiamo bene insieme» lo incuriosiva seriamente. La notte che avevano trascorso sotto le coperte era stata splendida, una delle migliori, si erano spinti molto in là e avevano sperimentato appagandosi. Ma non era solo il sesso ad essere grandioso, ma tutta l’alchimia che c’era tra loro e il normale tempo che trascorrevano in reciproca compagnia, perfino dal momento in cui Stiles aveva cominciato a tirarsi indietro. Lo divertiva, quel rapporto era degno di dedicargli tutte le sue energie.

«Non ho mai detto il contrario» non aveva senso negare una cosa che non era vera.

«E allora cosa ti frena?» La matricola di scienze politiche era sorpresa dalla sua presa di posizione, era convinta che avrebbe ribattuto l’opposto. «È per Hale?» lo disse mentre una mano del ragazzo era tornata a solleticare la pelliccia nera dell’animale più mansueto che avesse incontrato.

«Derek?» gli occhi del figlio della massima autorità di Beacon Hills sgranarono e le dita si fermarono, impossibilitato a credere a ciò che aveva udito. «Cosa c’entra Derek?».

Lo chiamava perfino per nome. «Siete sempre insieme».

«E quindi?» c’era un’allusione che al giovane Stilinski proprio non piaceva.

«Mi ha sorpreso» soprattutto l’aveva infastidito.

«Perché uno come me è impensabile che passi il suo tempo con uno come lui» era una domanda retorica velenosa, Stiles si stava alterando, i suoi tratti si erano fatti affilati e le iridi d’ambrosia si erano scurite.

«Più che altro, il contrario» Theo non aveva timore di esporre come la pensava né di infastidire la matricola di criminologia. «Sembrate molti intimi».

«Non sono affari tuoi con chi io sia o non sia in intimità» di certo odiava essere osservato e studiato da lontano, soprattutto se non apprezzava le mire che gli erano rivolte.

Theo si era reso conto di aver fatto un passo falso, ma tirarsi indietro non lo rispecchiava. «Da quanto tempo lo conosci?».

Stiles aggrottò le sopracciglia, le palpebre che si assottigliavano. «Non mi hai per caso sentito?» non credeva che il suo interlocutore avesse una tale voglia suicida. «O vuoi soltanto constatare chi ha, cosa, la precedenza su di me?».

«Sono soltanto incuriosito» si giustificò senza soffermarsi troppo a pensare. «Hale è solitario e chiuso a qualsiasi stimolo, tu invece sei un concentrato di vitalità».

«Tu non sai niente di me e ancora meno di Derek» lo schiaffeggiò d’impatto con la voce e l’attimo successivo Theo vide come il muso del lupo ‒ cane lupo ‒ premette su una coscia di Stiles, richiamando la sua attenzione e catturandola completamente. Il ragazzo, a quel punto, mimò uno scusa nella sua direzione ‒ ma per cosa doveva scusarsi? ‒ e prese a giocherellare con un suo orecchio soffice, grattando leggermente, e Theo non poteva ignorare quanto amore il figlio della massima autorità per Beacon Hills provasse per quel misterioso canide.

«Hai ragione» era innegabile quanto Stiles proteggesse se stesso e con maggiore foga il capitano della squadra di basket. «Voglio, appunto, conoscere quante più cose possibili su di te».

«Vuoi sapere da quanto tempo lo conosco? Cosa vuoi, una data?» Stiles lo adocchiò, accusatorio ed infastidito, ma lo stava anche studiando accuratamente. «Lo conosco da quasi tutta la mia vita. Ecco la tua risposta» lo stava punendo.

Fu il turno di Theo di strabuzzare gli occhi e non riuscire ad inquadrarlo. «Com’è possibile?» più andava avanti e meno capiva, i conti non tornavano. Per lui era stato un colpo quando li aveva visti la prima volta interagire insieme in completa sintonia davanti al dipartimento di letteratura; quel giorno era in compagnia di Donovan e si erano sentiti in qualche modo in svantaggio, perché quello era il carismatico capitano della squadra di Basket, Derek Hale. Quello scenario l’aveva visto ripetersi più volte e Stiles e Derek Hale sembravano seriamente inseparabili, una sintonia che lo studente di criminologia non aveva mai avuto con nessuno dei due.

«Stessa piccola cittadina, medesimo liceo» stesso distretto di polizia in cui gli fu comunicato di essere divenuto orfano dallo sceriffo in persona, Noah Stilinski. «Ma non credo che Derek avesse coscienza di me prima del liceo, nota che non si applica ad un ragazzino influenzabile come il sottoscritto».

Theo si accorse come il lupo fosse attento al suono della voce di Stiles, reagendo a seconda del tono e vocalità usata, di quanto fosse agitato e tranquillo, tuttavia si dimostrò nettamente ancorato e coinvolto quando le ultime frasi vennero pronunciate, senza che Stiles smettesse di dedicargli le piccole attenzioni dei suoi polpastrelli. «Non sei per nulla influenzabile» lo corresse la matricola di scienze politiche, fermandosi a pensarci per un lungo momento.

«Perché?» lo studente di criminologia si rivelò stupito e preso alla sprovvista. «Altrimenti sarei già caduto ai tuoi piedi?».

«Probabilmente sì» il sorriso affascinante e leggermente timido, che faceva parte della sua tecnica di annichilire Stiles, si palesò senza alcuna vergogna.

Stiles produsse un colpo di risa sincero e rilassato, strappato senza alcun controllo, nato del tutto spontaneamente e Theo approfittò di quel momento di benevolenza nei propri confronti insinuandosi nel suo spazio personale, sfiorandogli la bocca con la propria e intensificando il bacio a mano a mano che si rendeva conto che il ragazzo non si stesse tirando indietro. «Ti piacciono proprio i baci».

Il figlio dello sceriffo soffiò contro di lui come un gatto pronto ad attaccare. «Non tirare troppo la corda».

Lo studente di scienze politiche gli prese il viso tra le mani e si concentrò ad assaporare le labbra, approfondendo la morsa e prolungandola un po’ di più, percependo la matricola sciogliersi sotto il suo tocco. «Lo sai che il mio dormitorio è esattamente nella tua direzione opposta, vero?» Dio, non avrebbe mai smesso di baciarlo.

«Non ti seguirò» quante altre volte avrebbe dovuto ripeterlo? E quanto era credibile mentre la bocca pulsava sotto la sua, probabilmente sporca del rossetto rosso che l’altro indossava.

Theo respirò tra le se labbra e schioccò un ultimo impercettibile bacio. «Non puoi impedirmi di provarci. Non mi arrenderò con te».

«Sto per aizzarti contro il cane» lo mise in guardia l’altro, scostandosi ed allontanandosi, lasciando ben intendere che il loro siparietto fosse concluso.

Già, il cane. Era stupito che non gli avesse strappato a morsi il collo nel momento in cui si era avvicinato pericolosamente al figlio dello sceriffo. «Buon Samhain» Theo si congedò sotto lo sguardo profondo del ragazzo a cui aspirava.

«Ah» sospirò e si lasciò andare Stiles quando l’imprevisto svoltò l’angolo, piegandosi su se stesso e coprendosi il volto con le mani. Era esausto e sollevato tutto insieme, le sue reazioni erano costantemente contrastanti.

Il lupo lo raggiunse dopo poco, dandogli alcuni secondi per sbollire, e lambì il dorso di una mano con il naso nero bagnato, aspettando che gli desse accesso. Stiles le scostò entrambe appena e la pelliccia morbidissima scivolò tra le dita, prendendo più coraggio e permettendo il contatto visivo. «Mi dispiace che tu abbia dovuto assistere a questo» si sentiva sporco e in colpa, era stato patetico. «Questo sono io che mi lascio trascinare».

Derek gli leccò parti delle falangi e Stiles si liberò in un sorriso addolcito. Gli scompigliò il pelo tra le orecchie affettuosamente e riconoscente. «La prossima volta aggira i miei ex partner, anche se fai finta di non sapere chi siano».

Le iridi scintillanti e miscelate brillarono a fargli il verso e Stiles era troppo innamorato di quello splendido lupo per rimproverarlo senza una vera ragione. Stuzzicarsi a vicenda era il loro modo di fare. «Credi che troveremo qualcuno che ci venda un po’ di pizza a quest’ora?».

 

Stiles sbadigliò a bocca aperta senza emettere un suono, una tendina rossa ed arancione più spessa della precedente era stata sistemata sopra la finestra che si affacciava ai piedi del letto e limitava che la severità della palla di fuoco alta nell’azzurro sconfinato gli bruciasse le retine appena affacciante al nuovo giorno; li riparava anche da spifferi indesiderati dal momento che le temperature si facevano più rigide. Non era sicuro che Derek avesse bisogno di quell’accortezza, ma l’aveva tirata fuori da un angolo del suo armadio come se l’avesse sempre avuta e Stiles non aveva voluto sottoporlo ad un interrogatorio.

Avvertiva un profondo calore provenire dalla schiena, così come intorno al busto e la matricola non doveva interrogarsi prolungatamente a cosa fosse dovuto. Nelle pochissime occasioni in cui si svegliava prima di Derek, aveva notato come le sue braccia lo avvolgessero, portandolo a domandarsi se quella stretta tra loro perdurasse per tutta la notte.

Si strinse nelle coperte per prolungare il momento, il respiro profondo della creatura della notte che gli sfiorava la cute e la sensazione di benessere che gli scorreva in ogni dove.

Con la mente ripercorreva la notte precedente, di come avesse respirato a pieni polmoni tra dormitori e padiglioni con a fianco un autentico lupo nella festività di Halloween; era una cosa di cui entrambi avevano bisogno. E Derek era stato così bravo da condurlo nell’unico locale che sfornasse ancora della pizza nella zona, ma a quel punto, quando risalirono le scale verso l’ultimo piano del 1855 Place, il padrone di casa riassunse le sembianze umane mentre la matricola si impadroniva del divano e si fondava sulla scatola da cui usciva del profumo coinvolgente. Derek l’aveva guardato con disapprovazione, le sopracciglia contratte, ma si unì a lui, con il sottofondo leggero della televisione accesa.

«Buongiorno, Sourwolf» sentì dei leggeri movimenti dietro di sé che lo portarono a voltarsi lievemente, incontrando le palpebre violentemente serrate del mannaro, con la missione di voler ritardare il risveglio totale, nascondendo buona parte del viso sul cuscino. Stiles ridacchiò illuminato, era estremamente raro vederlo in atteggiamenti così umani da non credere che potesse essere realmente lui.

Si voltò completamente nella sua direzione, le lenzuola che frusciavano, una delle braccia di Derek che seguiva e combaciava i suoi movimenti per facilitargli lo spostamento. Se lo godette per un solo attimo, prima di scivolare con il viso verso il suo, a pochi centimetri l’uno dall’altro. La mancanza di spazio personale, l’intimità che simboleggiava, erano qualcosa che non avrebbe mai condiviso con nessuno, che aveva spesso rifiutato, ma che con Derek risultavano estremamente naturali.

«Stai bene?» chiese il lupo mannaro qualche attimo dopo, la voce arrocchita e ancora distante, mentre le dita del braccio che lo ancorava a sé risalirono tra i capelli castani, scostandoli e incastrandosi tra essi.

Ingoiare il vuoto, la saliva, e togliere quel groppo in gola non risultava sempre facile, soprattutto se si specchiava nelle iridi verdi del suo interlocutore, l’estrema delicatezza che gli riservava quando lo toccava. «Bene, sì» il suo sguardo vagò alla cieca, a perlustrare intorno a sé in cerca di qualcosa. «Ho fatto qualcosa?» non lo chiedeva mai, ma il disagevole risveglio della mattina precedente l’aveva scosso eccessivamente e l’aveva segnato per tutta la giornata, facendo crescere evidentemente la preoccupazione in Derek sia quando era a miglia di distanza sia mentre era a pochi centimetri da lui.

«No, eri troppo esausto» rispose prontamente il licantropo, comprendendo al volo la direzione dei pensieri dell’umano, il polpastrello del pollice che gli massaggiava una tempia, scivolando aderendo perfettamente alla pelle.

«Ogni tanto funziona» avrebbe giurato che in passato quel metodo avesse un riscontro migliore, ma la sua vita al Michigan State University aveva piani diversi.

«Sembrerebbe» la voce fluì e riempì la camera. «Ma non devi stremarti di proposito».

Le iridi mielate si rialzarono incontrandosi con quelle di giada, il leggero rimprovero di preoccupazione che cominciava a impadronirsi spesso di Derek nei suoi confronti. «Fa parte di me» era nella sua iperattività, ma a volte sapeva di insistere eccessivamente. «Magari questo dimostra che fai realmente parte del meccanismo».

«Stiles, non stai sviluppando una dipendenza verso di me» il mannaro era intenzionato a farglielo comprendere in ogni modo possibile. Le paure di Stiles le comprendeva, come la dimostrazione di non essere indipendente come credeva, ma non doveva aggrapparsi a quella disperazione. «Abbiamo fatto una prova, ne faremo delle altre».

«Giusto, altre» non poteva illudersi che quella partenza per Derek fosse un caso anomalo, si sarebbero ripetute nelle settimane e nei mesi, finché avrebbe continuato a guidare quella squadra così speciale e dannatamente eccelsa.

Il respiro bollente del licantropo lo accarezzò e Stiles socchiuse le palpebre per abbandonarsi un po’ a quelle attenzioni che il mutaforma riservava soltanto a lui. Avvertì il capo del lupo accostarsi al proprio, le labbra che schioccarono uno bacio tra gli occhi, esattamente all’attaccatura del naso; Stiles non credeva che qualcosa di apparentemente effimero e semplice come quello potesse avere un potere così grande dentro di sé, avvertire l’interezza dell’affetto insospettabile che Derek provava verso di lui. Era stupido desiderarne degli altri? «Mi abbracci sempre?».

Le dita del capitano si fermarono e rimasero incastrate tra le ciocche castane, si scostò da Stiles come se cercasse qualcosa che gli suggerisse cosa gli avesse fatto partorire quell’idea. «Abbracciarti?».

«Durante la notte» era stato troppo precipitoso? Aveva sbagliato?

«Ah» la consapevolezza lo attraversò tutta insieme. «Ho maggior controllo, sono più reattivo, intervengo subito se dovesse succederti qualcosa».

Tutto quel lavoro per la sua stupidissima testa rotta. «Quindi, mi tieni fermo?» ancorato.

 «Sì» le falangi bronzee solleticarono l’aria e rimasero in sospeso. «Ti dà fastidio?».

«Affatto» il che voleva dire molte cose su di lui. «Dovrebbe darne a te» tutto artigli e ringhi.

«Non mi dai fastidio, Stiles» la voce era così radicata che scosse l’interno dell’umano, vuoto nei polmoni. A sottolineare le parole di Derek la mano tornò a completo contatto con la matricola, che si permise di far nascere un piccolo sorriso incoraggiato sul viso.

«È stato un buon Halloween?» si permise di chiedere qualche momento dopo, memore di quanto fosse la festività preferita del mannaro. Chissà se aveva avuto l’opportunità di incontrare qualche bambino a cui giocare qualche scherzetto che li avrebbe resi soltanto più felici.

«Interessante» non si sbilanciò il padrone di casa, come Stiles si aspettava. Coglieva la leggera nota di burla indirizzava nella sua direzione, tutto il siparietto con Theo che avrebbe tanto voluto risparmiarsi, ma evidentemente Derek era di un’idea differente e avrebbe desiderato essere capace di decifrarlo meglio. Si chiedeva anche se quello fosse il primo Halloween che trascorreva nella sua forma da lupo completo. Anche se Derek gli avesse rivelato di aver affrontato la trasformazione nell’anno precedente, non era in possesso di una data.

Il figlio dello sceriffo sbuffò oltraggiato, prima di sistemarsi meglio sotto le coperte. «Altre festività in programma? Domani è il Día de los muertos».

Derek lo guardò senza capire, smarrito e dubbioso. «Quindi?».

«Non dovresti costruire un altare per l’ofrenda?» si stava perdendo qualcosa? Non era così che funzionava?

«No» lo sguardo di Derek si fece più distante e la carezza sul viso di Stiles si stava eclissando. «Non avevamo questa tradizione. Non avevamo nessuna tradizione» le loro radici erano impiantate a Beacon Hills, non c’era un prima o un dopo. «Non umane, perlomeno».

«Oh» Stiles aveva l’impressione che in realtà Derek non avesse nulla che lo legasse al ricordo della famiglia che non aveva più, oltre al senso di colpa impossibile da estirpare. «Cose lupesche. Se c’è da ululare alla luna, posso farlo».

«Ne sono certo» Derek soffocò una mezza risata e un sorriso pieno si aprì sul volto di Stiles. «E per un’ofrenda servono delle foto» continuò con estrema fatica, l’amaro che gli seccava la gola.

La sua stupidità Stiles la stava dimostrando da tutta la mattina, non voleva causare tutto quel dolore in Derek. Anche se non ne parlava mai e sembrava stare meglio rispetto ai due anni antecedenti dal loro ultimo incontro, Derek quel lutto non l’avrebbe mai superato. «Scusami, non volevo… non ci ho rifletto abbastanza. Ho dato per scontato che Laura avesse qualcosa» l’incendio in villa Hale si era portato via delle vite, ma anche tutto quello a cui erano legati. Stiles, a differenza di Derek, aveva ancora diversi oggetti personali appartenuti a sua madre, così come i luoghi della casa in cui era più spesso trovarla.

Il mannaro tacque per qualche secondo, i pensieri che si annidavano nella mente e gli occhi che potevano quasi toccare l’afflizione dell’umano. «Lei ne conserva qualcuna, sì. Credo anche Peter, ma non ho mai chiesto una copia. Comunque, non siamo mai stati predisposti per la fotografia».

Perché avrebbero dovuto? I lupi ricordano in modo diverso ed erano anche fisicamente progettati per alterare qualsiasi mezzo a pellicola potesse immortalarli, dovevano seriamente impegnarsi per non permettere che accadesse. E percepiva fortemente quanto Derek non si sentisse degno di poter avere qualcosa di concreto tra le mani a fargli da memore. «Forse ho qualcosa io per te».

Detto ciò, Derek lo vide liberarsi dalle lenzuola, salire sul materasso e camminarci sopra, per poi saltare sul pavimento sgraziatamente stretto ancora nel pigiama con la volpe che giocava con i suoi palloncini, dirigendosi verso la scrivania dov’erano impilati alcuni dei suoi libri universitari.

Ne sfogliò un paio prima di emettere un’esclamazione trionfante, risalendo a cavalcioni sul letto in un tornado qual era con il suo bottino in mano. Poi rallentò e fissò il quadrato sottile e dalla dimensione di una decina di centimetri per lato che aveva in mano, per poi spostare le iridi del nettare degli dei su di lui, soppesando il da farsi. «Non so se vuoi averla».

Derek lo fissò corrucciato, costringendolo a rispondere ai suoi movimenti, non capendo minimamente che cosa gli passasse per la testa. Tutto il suo entusiasmo iniziale stava evaporando. «Cos’è?».

Stiles tratteneva il foglietto plastificato tra due dita, impedendogli di scorgerlo e riuscire a individuare cosa fosse. Teneva gli occhi fissi su di lui e ogni tanto li portava sull’oggetto in questione. Il lupo sentiva gli ingranaggi scattare nel cranio della matricola. «Okay».

Con tutta la delicatezza del mondo, come se gli stesse permettendo di toccare una reliquia inestimabile, Stiles gli consegnò l’oggetto delle sue premure, invitalo a cambiare tutta la sua postura.

Derek non afferrò subito le sue ansie, tardò anche ad esaminare esattamente ciò che teneva in mano, ma con lentezza rispettò il suo volere e con la stessa delicatezza che Stiles gli aveva istillato, studiò il quadrato incontrando una distesa bianca, finché non comprese che dovesse essere ruotato.

Il capitano della squadra di basket trattenne il respiro, si condensò dentro di lui e gli bruciava i polmoni. «Perché hai una mia fotografia?» in compagnia di sua madre. Non l’aveva nemmeno mai vista. 

«Sono un tipo pieno di sorprese» sogghignò con strategia a stemperare l’aria tesa che quel momento aveva creato.

«Eccessivamente» la creatura della notte lo perforava con le gemme verdi, a voler estrapolare la verità.

Stiles tossicchiò, messo evidentemente alle strette. «Non ti arrabbiare» disse anticipatamente, ben consapevole di quanto Derek fosse suscettibile, soprattutto su cerci aspetti. Ricevette un eloquente movimento di sopracciglia da parte sua. «Quando Scott è stato morso ho fatto innumerevoli ricerche, cercavo di trovare una soluzione al suo problema» sperava che Derek digerisse la definizione problema alla condizione lupesca. «Ho trovato questo dottore, il dottor Conrad Fenris, e ho condotto Scott da lui. Mentre affrontavamo la questione molto alla larga e lui ci illustrava la sua ricerca su come poter guarire le persone attraverso certe cellule ‒ derisa da tutto l’ordinamento medico ‒, sei saltato fuori tu» Derek lo fissò sempre comprendere una sola parola di quello che stava blaterando e Stiles avrebbe voluto che fosse più facile, che quella rivelazione non arrivasse mai. «Ci ha raccontato di questo incontro incredibile con questa donna e il suo bambino, di come li avesse visti coinvolti in qualcosa di inspiegabile uscendone incolumi. Credo abbiano parlato un po’, lei lo ha in qualche modo rassicurato, invitandolo a proseguire con i suoi studi e successivamente il dottor Fenris ha scattato questa fotografia, immagino come prova per se stesso».

«Io e Laura non ti bastavamo? Hai dovuto cercare un esterno?» replicò il mannaro con irritazione e delusione evidente.

«Lo sai quanto adoro Laura ‒ tu un po’ meno ‒, ma voi non avevate tutte le risposte e io volevo trovare ciò che Scott cercava: un modo per ritornare umano» guardandosi indietro, sentiva in qualche modo di averli traditi. Laura si era dimostrata la migliore guida che potessero avere in quel momento, perfino con lo scarso contributo di Derek, non avrebbero mai potuto avere di meglio in tutta quella devastazione, eppure Stiles aveva dimostrato quanto non fosse sufficiente.

«Ritornare umano…» il mannaro schioccò la lingua contro il palato con sdegno, Stiles sapeva di non doverla prendere sul personale, che Derek non stava contestando la precarietà della condizione umana come invece in passato aveva supposto. «È un processo irreversibile» se fosse esistita una maniera per invertire la trasformazione, Derek l’avrebbe sicuramente usata su Paige, invece di essere costretto a sporcarsi del suo sangue per risparmiarle una sofferenza inimmaginabile.

«Questo lo so adesso» essere ripreso come se avesse peccato di superbia e dimostrasse quanto in realtà fosse sciocco non gli piacque per nulla. «Scusami tanto se ho coltivato un po’ di speranza. Volevo soltanto aiutare il mio migliore amico».

Le labbra di Derek si serrarono in una linea sottile e gli occhi gli ricaddero sulla foto che Stiles aveva conservato per tutto quel tempo, ritraeva semplicemente due figure: sua madre e una versione di se stesso all’età di nove o dieci anni in piedi, fissando un obbiettivo ‒ perché l’avrebbero fatto? «Di solito sei più attento, riflessivo. Non ti fidi di una persona qualunque».

«Credi che mi sia fidato? Ho soltanto sondato il terreno» esporsi non era una sua caratteristica, prima doveva raccogliere ogni genere di prova. «Non posso permettermi di fidarmi di qualcuno. Non posso nemmeno più permettermi di fidarmi di me stesso».

Lo sguardo verde si riposò sull’umano ed egli si fece più piccolo, indifeso. Dovette prendere un profondo respiro, ingoiare il rospo. «Perché salta fuori adesso?».

Stiles si sorprese per il cambio di rotta, capì a cosa si riferisse quando Derek agitò l’immagine. «L’ho ritrovata qualche settimana fa tra le mie vecchie cose e l’ho spostata, non sapendo cosa avrei dovuto farci» indicò il libro di chimica che non aveva proprio il suo benestare.

«Il solito disordinato» particolarità che non stupiva affatto il licantropo. Era evidente che Stiles avrebbe voluto ribattere, ma si astenne. «Così, hai deciso di rubarla».

«Ah» ecco, quella precisazione proprio non se l’aspettava. «Ho pensato che fosse la cosa migliore, hai sempre ripetuto che il vostro segreto dovesse essere custodito, nascosto, ed ero sicuro che avresti preferito che la facessi sparire».

«Con un gioco di prestigio» mimò un movimento fluido, dita e mani scattanti. «Pittoresco per uno che professa di essere sul lato corretto della giustizia. Sei proprio una volpe».

Oh, c’era una nota inaspettatamente dolce sull’ultimo commento, un singolo colpo di risa che investì totalmente Stiles. Derek aveva una tale concezione positiva il suo paragonarlo alle caratteristiche tipiche di una volpe? Abili ladre, menti piene di furberia e inganni, argute e pronte a rigirare tutto a proprio favore. «Agire fuori dagli schemi è quasi fondamentale nella risoluzione di casi» era anche la prima volta, dopo due anni, che Derek gli desse nuovamente quell’appellativo, volpe.

«Dubito che tuo padre abbia mai rubato qualcosa in vita sua» a differenza di Stiles, a cui risultava estremamente semplice.

Le guance della matricola si gonfiarono e soffiò offesa. «Non ho mai rubato oggetti di valore, nemmeno un dollaro».

«Stai camminando su uno strato sottile, Stiles» il divertimento ed il bacchettarlo in Derek era evidente e Stiles era alquanto spiazzato, ma anche profondamente risentito. «Hai preso la decisione giusta, comunque».

«Sì?» Stiles si illuminò tutto, l’approvazione del ragazzo che in qualche modo riconosceva come Alpha era fondamentale.

«Sì» confermò la creatura leggendaria, dando un’ultima occhiata alla fotografia, quasi immagazzinandola dentro la sua memoria celebrale e poggiandola con cura sul comodino.

A Stiles non sfuggì. «Mi dispiace di non avere altro da darti».

Derek si alzò dal letto, rigettando le coperte indietro e poggiando i piedi nudi sul pavimento; come di consueto indossava soltanto i pantaloni del pigiama. Sembrò ripensare a qualcosa da quella rinnovata prospettiva e riprese l’immagine per inserirla all’interno del libro da lettura personale di turno quella settimana, sistemato rigorosamente sul mobile. «È più di quanto avessi prima» Stiles fu stordito da quella confessione così sincera e quasi avvertì i timpani esplodere.

Derek si voltò nella sua direzione e l’osservò sul bordo del materasso, piegato sulle ginocchia e con il pigiama troppo grande per lui, apparendo perfino smarrito, ma con tutta l’intenzione di non farsi surclassare. «Non hai idea di quanto mi dai».

Gli occhi ambrati sgranarono ed era sicuro di essere realmente divenuto sordo. «Sei sicuro di questa affermazione?».

«Sì» confermò con certezza univoca il capitano, prendendogli il viso tra le mani e costringendo Stiles a sostenersi sulle cosce per raggiungere la sua altezza. «Tornerai ad avere fiducia in te stesso».

Le iridi d’ambrosia si inumidirono e avrebbe voluto scacciarle indietro. Fino a cinque minuti prima c’era un profondo astio tra di loro per via delle vedute differenti, ma in quel momento Derek era proiettato unicamente verso di lui, a sanare il suo cuore e spirito a pezzi. «Sì?».

«Sì» asserì senza giri di parole, incatenandolo al suo sguardo, alla sua concretezza. «Fino ad allora, continua a riporre la tua fiducia in me».

«In questo momento, Derek, sei l’unica persona di cui mi fidi» e non c’era mai stata una verità più vera di quella.

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Capitolo 10
*** 10° Capitolo ***


10° Capitolo

 

«Pensavo avresti continuato a evitarmi» Stiles avrebbe mentito se non fosse stata quella la sua idea. Per due giorni le aveva girato alla larga e affrontarla non era tra le prime cose della sua lista.

«Mi dispiace» era mortificato, ma era stato più forte di lui.

Lui e Erica sedevano uno di fronte all’altra in una tavola calda, una che non frequentavano quotidianamente. Confrontarsi con lei al Crescent Moon non lo rassicurava, troppi sguardi indiscreti da quando ci lavorava a pieno ritmo, quindi aveva deciso di optare per qualcosa di diverso.

Erica gli dedicò un’occhiata attenta per qualche secondo, il capo dell’umano leggermente inclinato a celare il suo viso, le spalle rigide e l’odore dell’umiliazione che le appestava l’olfatto. Inserì il suo cucchiaio nella zuppa di cipolle che aveva ordinato, per poi portarlo alla bocca senza nemmeno soffiarci sopra. «Dispiace a me. Avrei dovuto essere più attenta, scegliere parole migliori».

«Hai solo descritto come ti sei sentita» Stiles non aveva idea di cosa accadesse realmente quando il sonnambulismo aveva il sopravvento su di lui. Suo padre non si era mai espresso e Derek era l’unico che gli avesse dato un quadro generale, ma cosa si provava veramente a vederlo vagare nel cuore della notte incurante di se stesso, perfino provocandosi volontariamente delle ferite?

«So che questa situazione ti fa stare male, sei abituato a nascondere i tuoi problemi, ad affrontarli da solo, ma è qualcosa di troppo grande, Stiles» sospirò con dispiacere, il cruccio del figlio dello sceriffo lo avvertiva ovunque. «Mi hai davvero spaventata. Derek aveva tentato di prepararmi, ma non credevo fosse così grave».

Quindi era grave, non poteva credere di non averne alcuna consapevolezza. L’unico dato che aveva era la radicata preoccupazione che sia suo padre sia Derek emanavano. «Non volevo mi vedessi così».

Già, Stiles era inaspettatamente orgoglioso e riservato. Era capace di scovare ogni segreto nella persona che aveva di fronte, invadente, ma non permetteva lo stesso. «Forse siamo noi che abbiamo fatto troppo affidamento su di te, sei sempre stato la nostra roccia» non credeva che nei due anni trascorsi separati i fatti fossero cambiati. Stiles non l’aveva aggiornata molto su quegli aspetti e Derek non era stato da meno, ma quando era stato necessario che lei, che tutto il branco che seguiva il lupo dagli occhi rubino e zaffiro, sapessero qualcosa di più per affrontare ciò che rendeva la vita di Stiles più affaticata, intricata, avevano aggiornato blandamente le informazioni. «Ma, adesso, sei tu ad aver bisogno di una roccia e quella roccia è Derek».

La matricola si trovò ad annuire automaticamente senza volerlo davvero e si tuffò sulla zuppa di funghi, calda e avvolgente, cosparsa di piccoli quadratini di pane tostato che davano gioia al palato e all’organismo che necessitava di qualcosa che lo riscaldasse tempestivamente. «Non avrei mai pensato che Derek potesse essere così…» gli mancavano le parole per descriverlo nel modo più corretto, che gli rendesse giustizia. «Una guida sicura. Sempre presente, sempre pronto ad intervenire. Non ha tutte le risposte, ma si impegna a trovarle. A trovare il modo giusto di agire e non ti lascia da solo. Prima non ne voleva sapere niente di me, non mi voleva nemmeno nello stesso edificio» ed invece in quello sprazzo della loro vita, condividevano perfino il letto. «Anche se vorrei cavarmela da solo, non lo rifiuterei. Cristo, a volte sento che lo seguirei in ogni angolo del globo».

La mannara era elettrizzata e entusiasta delle parole del piccolo umano, della speranza che sorgeva in lei. «Prima non voleva saperne di nessuno, non era un fatto personale» era una realtà incontrovertibile. Derek aveva avuto necessariamente bisogno di compiere un percorso e quello non si era ancora concluso. «So come ti senti sul seguirlo, è una cosa che proviamo tutti noi».

E come poteva essere diversamente? Erica l’aveva riconosciuto per prima e ciò si era scatenato anche in Boyd ed Isaac. Stiles se ne sarebbe mai accorto prima? Con gli strati di muro che Derek innalzava continuamente davanti a lui, impedendogli perfino di sfiorarlo. «Credo che, se Derek dovesse mantenere la sua indecisione o scegliere una strada diversa, a noi non apparirebbe in modo differente».

Erica gli prese la mano libera adagiata sulla tovaglietta a scacchiera, intrappolandola tre le proprie. «Non posso sostituire Derek, ma ti prometto che farò del mio meglio quando avrai bisogno di me».

Stiles la fissò paralizzato e stupefatto, la coscienza che scivolava dentro di lui a ricordargli che, effettivamente, il licantropo non sarebbe sempre stato al suo fianco nei momenti di fragilità, la ribalta l’avrebbe richiamato. «Grazie» ma era una magra consolazione.

 

Lately, we've been goin' through

Good times, bad times, guess we're human

Ancor prima che Derek aprisse la porta, una voce canticchiava nel silenzio dell’appartamento, nessun suono ad accompagnarla, ma seguiva un ritmo preciso, come se conoscesse perfettamente la melodia.

Take me, save me, I don't want this burnin' out

Derek si fermò con un affanno inspiegabile e dovette prendere il coraggio a due mani prima che trovasse il modo di far scattare la serratura, far entrare insieme a lui la spesa per cui aveva sforato la sua tabella di marcia.

Stiles era seduto scompostamente sul divano, gli auricolari alle orecchie, attaccate al portatile sistemato sulle ginocchia che bisognava di una fonte costante di energia, mentre digitava qualcosa ‒ sicuramente una delle sue ricerche universitarie ‒ completamente inconsapevole di cose accadesse nel monolocale, senza neppure accorgersi dell’arrivo del padrone di casa.

Are we in Heaven?

Don't-don't it feel so good right now?

Il mannaro poggiò i due enormi sacchetti riutilizzabili sulla tavola, richiamando l’attenzione del figlio dello sceriffo per via dei movimenti che percepiva con la coda dell’occhio, incollato com’era allo schermo.

Le iridi ambrate si poggiarono sulla spesa e Stiles stoppò la musica, togliendosi le cuffiette e spostando il computer, prima di saltare dal cuscino e cominciare a frugare tra le buste. «Ottimo tempismo, Der, abbiamo la dispensa vuota».

Era allegro e di buon umore, aspetto piuttosto ottimo dopo giornate non propriamente a suo favore, continuava a canticchiare senza pronunciare le parole, ma riproducendo la melodia, le labbra curvate verso l’alto.

«Don't-don't it feel so good?» mentre pasticciava con i viveri, li sistemava nei loro appositi angoli di collocazione, esattamente come Derek li voleva, un ultimo verso gli scappò, per poi continuare a mormorarne il ritmo. Il mannaro non aveva alcuna idea che Stiles fosse quel tipo di persona, che perfino risultasse straordinariamente intonato, l’esatto opposto di come generalmente appariva: un vero disastro di scoordinamento.

Quando si aggiunse anche lui a sistemare la spesa fatta, il mannaro lo sentì ridacchiare pieno di dolcezza e contentezza, saltellando sul posto e tirando fuori l’ultimo oggetto pagato. «È riservata a qualcosa di speciale?».

La matricola espose una piccola cornice fotografica in legno di qualità grezza, quelle facilmente trovabili in un supermercato. Era rossa e sotto il vetro vi era un foglio bianco e un’unica scritta di un grigio delicato, a simulare cosa vi si potesse inserire all’interno: conserva qui i tuoi pensieri. «Non saprei, l’ho presa senza rifletterci troppo».

«Ah, un acquisto compulsivo. Per niente da te, Sourwolf» l’umano era genuinamente divertito, ma anche intenerito, brillava come non accadeva da settimane, forse perfino da quella prima sera di settembre in cui lo rincontrò dopo anni. Accarezzò il legno colorato con i pollici e intuì tutto il potenziale che Stiles gli stava riversando. «Ottima scelta» disse in conclusione, mentre la sistemava sul tavolo, spalancando il suo supporto per reggerla e spiccare incontrastata in tutte le sue possibilità future.

«Don't-don't it feel so good right now?» cantò pimpante mentre si occupava di rifornire il frigorifero.

Derek non riuscì a proferire una sola parola.

Ma quella notte la lietezza di Stiles non si propagò.

L’umano fu svegliato da movimenti agitati accanto a lui, il respiro pesante, insieme a dei mormorii sofferenti.

Si vide costretto a toccarsi, a comprendere cosa fosse reale, se potesse essere qualcosa scaturito da lui o dall’esterno. Sbirciò dalla finestra coperta dalla tenda leggera che gli permetteva di intravedere in che condizioni fosse il cielo, scuro come se fosse ancora notte fonda.

Si alzò a sedere per potersi muovere e capire cosa stesse accadendo, non vi era nulla che rallentava i suoi movimenti e si voltò a cercare il licantropo. Aveva i lineamenti contratti, gli occhi serrati ed era sudato su tutto il viso. «Derek» lo chiamò con incertezza, un mezzo punto interrogativo e un vuoto che si prodigava per tutto lo stomaco.

Lo toccò su un pettorale scoperto, la pelle nuda che bruciava sotto le dita, e il lupo mannaro si ridestò di soprassalto, in modalità difensiva.

Le iridi verdi vacue si aprirono, i tratti facciali esausti e sporcati dagli aloni di sudore, l’allerta evidentemente, mentre cercava il pericolo e tentava di scacciare ciò che tormentava i suoi sogni.

«Derek» riprovò ancora il figlio dello sceriffo, il nome pregno di preoccupazione e la necessità di fargli capire che non ci fossero esterni attorno a loro.

«Stiles?» domandò Derek al suono della sua voce, cominciando a guardarsi intorno e apprestandosi a dargli la sua totale attenzione, scrutandolo totalmente.

Le iridi d’ambrosia non erano assenti o spente, ma erano reattive e interagivano completamente con ciò che le circondava, Stiles seguiva i suoi movimenti e l’espressione facciale era leggermente alterata, l’apprensione evidente che sfociava in ogni poro. «Stai bene?».

La voce della creatura della notte era impastata di un sonno interrotto a metà, aveva le occhiaie scure e le pieghe degli occhi segnate, era anche più pallida di quanto l’avesse mai vista perfino nei suoi momenti peggiori, al limite del pericolo. «Sì» Stiles non era nemmeno sicuro di aver mai visto Derek sudare, anche mentre giocava per ore appariva come se non potesse accadere. «Tu, invece?».

Derek lo fissò quasi come se avesse utilizzato una lingua straniera e cambiò l’angolazione della testa, a sondare un aspetto differente delle mura che li conteneva. Con il torace che si abbassava e alzava dolorosamente, una nuova consapevolezza serpeggiò nel suo sguardo di giada.

Il licantropo scostò le coperte lievemente umide e scomposto si spostò verso il bordo del letto, senza però oltrepassarlo, mentre si passava le mani tra i capelli fradici, scompigliandoli in ogni direzione, a scacciare qualsiasi cosa lo tormentasse. Prese uno, due e tre respiri profondi prima che l’indecisione lo abbandonasse e si decidesse ad abbandonare le coltri.

Stiles non sapeva esattamente cosa avrebbe dovuto fare, mentre i movimenti del mutaforma erano insolitamente rallentati.

Il capitano sparì dalla zona notte per dirigersi verso la cucina, impalandosi per un tempo interminabile davanti il lavello e scrutandolo come se non sapesse a cosa servisse. Aprì il rubinetto con dubbio e formò una conca con le mani, permettendo che l’acqua gelata la riempisse, affondandovi il viso e cospargendola in ogni centimetro, strisciando e tamponando con le dita. Ispirò ed espirò un paio di volte, prima di ripetere l’operazione.

Con un unico gesto abbassò la leva del rubinetto e il flusso d’acqua si arrestò, ma non quella che gocciolava dal suo volto. Successivamente riempì un bicchiere dello stesso liquido con una delle bottiglie che teneva rigorosamente in frigo, prendendone inizialmente un sorso e scolandoselo tutto in un battito di ciglia.

Lo posò accanto al lavabo e si prese tutto il suo tempo, nella solitudine della notte, senza alcuna luce accesa. Dalla finestra principale entrava quella prodotta dai lampioni, ma per le strade del campus non vi era anima viva.

Quando decise di tornare a letto, Stiles lo aspettava in religioso silenzio e rispettando i suoi spazi, facendosi violenza per non corrergli incontro o nell’essersi privato di seguirlo. Si era avvicinato sul bordo del materasso e si era alzato sulle ginocchia quando lo vide ritornare, strizzando gli occhi per riuscire a distinguere la sua sagoma fra le ombre.

Era impaziente ed evidentemente agitato, anche se tentava con tutto se stesso di non inondarlo con le sue emozioni violente, protendendosi verso la sua presenza ad ogni centimetro in cui avanzava, con l’illusione che potesse congiungersi a lui prima del tempo. Derek gli si immobilizzò davanti e poté osservarlo dentro il suo pigiama azzurro e blu. «Stai davvero bene?» gli domandò con serietà quando gli prese il viso tra le mani, ispezionando personalmente ogni centimetro del suo viso, ogni muscolo del suo corpo e qualsiasi forma di agitazione fosse concentrata nel suo organismo.

«Sì» rispose Stiles con sorpresa, il dubbio che dilagava nelle iridi di miele brillante, tentando di interpretare le reali condizioni di Derek con gli strumenti di cui era provvisto.

Il capo della creatura leggendaria si chinò quanto bastasse, permettendo che le due fronti si congiungessero, le punta dei nasi che si sfioravano, le palpebre di Derek che si chiudevano. Stiles lo sentì respirare veramente soltanto in quel momento, scrollarsi di dosso le orrende sensazioni che l’avevano tormentato.

Fu un momento prolungato nel tempo, esteso, in cui esistevano esclusivamente loro due e nient’altro.

Finché non arrivò l’attimo il cui fu spezzato. Con un segno, invitò l’umano a scivolare dalla sua parte di letto, mentre lui si accomodava nella propria, ma non tornarono alle rispettive posizioni. Stiles lo osservò dargli le spalle, la schiena completamente scoperta in cui era evidente nella parte superiore la triscele tatuata di nero.

Non si riappropriò delle lenzuola, come invece lo studente di criminologia era costretto e rimase semplicemente lì, a metri e forse chilometri lontano dalla matricola, tagliandola completamente fuori.

Stiles non sapeva cosa avrebbe dovuto fare, se dovesse semplicemente tornare ad addormentarsi e vedere come si sarebbe presentato il mattino successivo, ma il bisogno di aggrapparsi a quel lupo meraviglioso era troppo forte, eppure comprendeva che non era quello che Derek voleva.

Allungò un braccio e con i polpastrelli lambì uno dei riccioli della triscele. Derek non si scosse né reagì in alcun modo e lo registrò come un lasciapassare nel modo in cui si era chiuso in se stesso.

Non era sufficiente, ma era tutto quello che in quell’occasione gli venisse concesso. Si addormentò così, con la temperatura corporea del licantropo che si irradiava nelle sue dita distese.

 

«Ciao» un giorno successe qualcosa che attirò l’interesse di Stiles mentre si apprestava a prendere una comanda da una nuova cliente in cui era sicuro di non essersi mai imbattuto prima di allora.

Non si controllò quando l’adocchiò, salutandola con interesse nel momento in cui la inquadrò per bene. Alta, bionda, molto chiara e dagli occhi verdi ‒ molto diversi da quelli di Lydia o Derek.

«Ciao» ricambiò affabile la ragazza, affrontando direttamente lo sguardo attento del figlio dello sceriffo e sorridendogli con complicità.

«Come posso servirti?» le implicazioni erano incontrovertibili e la studentessa rise per il suo essere impacciatamente carino.

«Sono Heather» si presentò quando la matricola di criminologia le consegnò un latte schiumato alla cannella.

«Stiles» rispose con qualche attimo di ritardo, non aspettandosi delle presentazioni così tempestivamente.

«Insolito» disse fra sé e sé la bionda, tentando di far armonizzare l’insieme delle lettere appena udite. «Carino».

Si volatilizzò raggiungendo un tavolino occupato da quelle che Stiles supponesse essere sue amiche o compagne di corso. L’umano non sapeva bene a cosa fosse attribuito il suo commento.

«Hai appena fatto conquiste?» si intromise immediatamente Tracy, raggiungendolo alla cassa e cogliendo le occhiate che la cliente gli stava lanciando senza preoccuparsi di nasconderlo.

Stiles quasi saltò in aria, la sua collega sapeva essere tremenda. «Mi sembra troppo presto trarre delle conclusioni».

«Mh, non sono di questa idea» prese una delle tazze sporche incustodite, separandola dal piattino e dalla cannuccia in carta, sistemando tutto nel lavandino dietro il bancone e buttando il resto nel cestino. «Ti sta puntando da un po’. Ha perfino cambiato fila per farsi servire da te».

«Ah» non si era minimamente accorto di niente. Direzionare lo sguardo verso la citata fu automatico e trovò Heather a sorridergli caldamente. «Sei troppo pettegola, Tracy».

«Ehy, questo è un lavoro da sogno per imparare ad osservare gli altri» la barista non lo negò minimamente, muovendo le braccia da una parte all’altra per sottolinearne il concetto. «E, non te ne renderai conto, ma hai una vita interessante».

«Come, prego?» si indignò il figlio della massima autorità di Beacon Hills, arricciando il naso per l’offesa.

Tracy ridacchiò visibilmente divertita e in quell’attimo la campanella che segnava l’arrivo di un nuovo cliente risuonò.

«Der» lo accolse immediatamente Stiles, illuminandosi e aspettandolo al varco.

«Eccone un altro» commentò Tracy alla sua presenza, curvando le labbra in modo spudorato.

«Eccone un altro, cosa?» esigette il ragazzo nella frazione di secondo in cui udì la sua replica, peccato si fosse teletrasportata all’istante alla punta opposta del bancone.

«Non servirmi una delle tue solite brodaglie» lo preparò mentalmente il licantropo quando si avvicinò al servizio, rendendogli piuttosto chiaro cosa ne pensasse dei suoi giochetti.

«Mi ferisci, Sourwolf» drammatizzò l’umano a quella frecciatina, portandosi entrambe le mani all’altezza del cuore, a indicare il dolore che gli aveva procurato.

Derek rispose gettando gli occhi al cielo per la sua misera teatralità e Stiles rise alleggerito mentre prendeva una tazza di vetro pulita, riscaldando il latte e il caffè insieme, giocando successivamente con la schiuma, imbronciandosi quando con i suoi movimenti studiati non ottenne il disegno che avrebbe voluto realizzare. Arreso cercò di correggere il tiro e ottenere un qualcosa di vagamente decente.

«Ancora cuori?» domandò retoricamente il mannaro, posando gli occhi su quello che aveva provato ad essere una sorta di foglia, ma che dovette battere in ritirata.

«Creo degli ottimi cuori» ribatté ad un’accusa che non c’era, a Derek in realtà non interessava affatto come gestiva la schiuma di un cappuccino che non avrebbe mai ordinato se Stiles non facesse di testa sua. Voleva fare il salto, ma non ci riusciva.

Derek lo ignorò e si apprestò ad odorare la bevanda che gli era stata appena consegnata, fumante e bollente. L’olfatto gli indicò gli ingredienti e il lupo dovette testare con la propria bocca se avesse avuto ragione. «Niente aggiunte?».

Una smorfia birichina si dipinse sul viso della matricola e Derek temette il peggio. «Ho una cosa per te».

Stiles venne risucchiato dalla porta che conduceva alla cucina e ne uscì con una piccola teglia coperta da carta stagnola. «Ho chiesto se potessero prepararli ed eccoli qui» afferrò un piattino da dolce e con le pinze prese uno dei brownie al cioccolato pretagliati, servendoli con un’aspettativa evidente. «Ho atteso che passassi prima di esporli».

La teglia effettivamente era ancora intonsa, eccetto per il pezzo che Stiles aveva appena estratto. Era stato conservato con cura ed era lampante, così come l’attesa di quello Stregatto diabolico. «Hai questo gran desiderio di avvelenarmi?».

Un broncio incancellabile affacciò sul viso falsamente intristito dello studente di criminologia, scatenando l’ilarità nel mutaforma. «Puoi sempre cambiare caffetteria se trovi il servizio così sgradevole».

Derek rise sotto i baffi e si accomodò in uno dei pochi sgabelli presenti al bancone, sistemandosi lì dove Stiles aveva allestito per lui.

Prese un nuovo sorso di cappuccino stranamente dal sapore classico e con incertezza spezzò un angolo del brownie, masticandolo lentamente e lasciando che si sciogliesse a contatto con la lingua. Un’esplosione di cioccolato fondente e nocciole tritate lo inondò, collimando con la perfezione del caramello salato che veniva rilasciato all’ultimo.

«Allora, com’è?» volle sapere incuriosita la matricola, i gomiti poggiati sul banco a sorreggersi la testa non perdendosi una singola micro espressione del lupo cattivo, il sorriso da volpe furba stampato in faccia.

Derek si specchiò nelle iridi di ambrosia, così simile al suo ingrediente preferito. «È buono». 

Il sorriso di Stiles si estese e tamburellò le dita in segno di felicità, come se avesse tirato le somme. «Magari li aggiungeremo al menù» con la teglia in mano e le pinze, si apprestò a sistemare i rimanenti brownie nella vetrina di esposizione. Prese un cartellino bianco e con un pennarello verde scuro scribacchiò brownie al caramello salato, sistemandolo davanti al vassoio designato.

«Magari, però, quello lo faremo stampare» si intromise Tracy con nonchalance, rubandogli il colore dalle mani e aggiungendo delle righe sottostanti, come se avessero bisogno di miglior spinta.

Stiles soffiò profondamente offeso e la collega se lo godette tutto, così com’era sicura facesse il capitano della squadra di basket. «In realtà, sono giorni che Stiles implora i pasticceri di prepararli».

Stiles le assestò un’occhiata fulminante, al contrario di Derek che si concentrò interamente sul ragazzo con numerosi nei sul viso. «Perché?» in verità, Tracy si stava abituando ad essere ignorata dal giocatore numero uno della squadra di basket, soprattutto se nei dintorni vi era il figlio dello sceriffo.

«Così, per provare qualcosa di nuovo» si strinse tra le spalle a simboleggiare che non fosse niente di che. Aveva avuto delle brutte sensazioni dalla notte in cui aveva dovuto svegliare forzatamente Derek per l’incubo che lo stava bersagliando. Non ne avevano mai parlato, come se non fosse accaduto, dimenticato, cancellato, ma Stiles non riusciva a depennare una cosa simile. Una pulce si era attaccata al suo orecchio e grattando, gli suggeriva che quello poteva non essere un episodio isolato. Ma come avrebbe fatto a scoprire la verità se non era in grado di svegliarsi? Voleva fare di più per Derek, ma non aveva alcun potere. «Tu adori il caramello salato e qui non abbiamo quasi niente in menù. Dovremmo avere più cura dei nostri fedeli clienti, dargli qualcosa per continuare a sceglierci».

«Non hai bisogno di darmi qualcosa di nuovo, Stiles» lo sguardo di Derek si fece più radicato e assoluto. «Sceglierei sempre te».

O-oh, Tracy individuò quello che era a tutti gli effetti uno dei loro momenti. Le dispiaceva doversi allontanare per fornirgli una parvenza di privacy e limitarsi ad osservarli da lontano ogni singola volta, soprattutto perché la sua postazione in cassa la richiamava.

Non seppe mai come proseguì tra loro o scoprire quali sottotesti ci fossero, non ebbe molte più occasioni di unirsi alla loro conversazione. Notò, però, come il capitano si trattenne per una mezzoretta all’interno del locale, ordinando più avanti un secondo brownie per la gioia di Stiles che non mitigò in alcun modo.

Stiles sorrideva o rideva sempre quando Derek Hale era in zona, tra un battibecco e l’altro, pizzicandosi a vicenda. Non aveva mai assistito ad un’armonia così disarmonica e che raccogliesse un risultato tanto positivo.

Quando il loro cliente favorito lasciò il Crescent Moon, come di consueto, Stiles si lamentò della mancia esagerata che gli accreditava ad ogni scontrino emesso.

Davanti a quello scenario, Tracy si chiedeva se la ragazza bionda e dagli occhi chiari, che era rimasta seduta al tavolino insieme alle sue amiche per lo stesso identico arco temporale del giocatore di basket, si fosse resa conto di quanto Stiles fosse difficilmente acchiappabile, soprattutto se si avevano delle intenzioni più serie.

 

«Stai seguendo le mie indicazioni, vero?» domandò con tono minaccioso, un occhio strizzato e l’altro completamente aperto, capace di vedere anche dove non poteva.

«Sento il tuo fiato sul collo anche a miglia di distanza» proferì lo sceriffo con fatica, esasperato dall’insistenza di suo figlio.

«Non ti ha mai fermato dalle tue trasgressioni, nemmeno quando eravamo nella stessa casa» gli disse con evidenza, a ricordargli che Stiles non dimenticava mai, per niente impressionato dalla recita del padre o il suo falso malessere dato da una dieta salutista. 

«Sto facendo il bravo» la chiuse Noah, non volendo continuare quella conversazione di soli vegetali per sempre.

«Indagherò attraverso le mie spie, non permetterò tu abbia un altro infarto» non si lasciò circuire lo studente di criminologia, guardingo e con un piano B sempre a portata di mano.

Chissà chi erano le sue spie. «Perché, invece, non vieni a controllare di persona, se è tanto importante?».

Le labbra di Stiles si fermarono a metà, non riuscendo nemmeno a chiudersi e lo sguardo si fece un po’ perso, era evidente perfino dalla webcam bistrattata del portatile in pessime condizioni di suo figlio, la poca stabilità di un materasso occupato. «Stiles, non ti devi preoccupare del denaro».

«Non sono preoccupato» era una bugia, era sempre una bugia.

«I conti sono in ordine» riprovò la massima autorità di Beacon Hills. Stiles era troppo sensibile su particolari argomentazioni, ma su alcune molte di più. «Le parcelle mediche sono state pagate, tutto bene».

«Le tue o le mie?» marcò stretta la matricola, l’amarezza che gli scendeva in gola.

Lo sceriffo sospirò internamente, le meningi che si facevano pesanti. Stiles aveva il vizio di addossarsi sensi di colpa che non gli competevano, era successo anche con l’avvento del Nogitsune, tutti gli accertamenti preventivi che avevano dovuto eseguire per capire quale malessere lo affliggesse, se la malattia letale della madre lo avesse infine raggiunto. A quello si era aggiunto il suo soggiorno all’Eichen House. Tutte quelle spese erano state delle mazzate per l’esile conto in banca dello sceriffo, Stiles non riusciva a perdonarsi. «Posso pagare un biglietto aereo per mio figlio» aver ottenuto una borsa di studio completa era più di quanto lo sceriffo avrebbe mai potuto offrirgli.

«Sarebbero due» lo corresse Stiles per precisione, senza aggiungere anche il costo della navetta che avrebbe dovuto trasportarlo dalla città vicina fino alla Natale. «E posso pagarmi il viaggio da solo, ma per il Ringraziamento non riuscirò a liberarmi» non ne aveva mai avuta l’intenzione.

«Come puoi pagartelo da solo?» chiese perplesso Noah, privo di tasselli che lo aiutassero a completare il quadro.

«Ho trovato un part-time in una caffetteria qui al campus, da circa tre settimane» le iridi ambrate si spostarono dallo schermo e seguirono qualcosa fuori campo, impossibile per l’uomo riuscire ad individuare qualsiasi cosa avesse catturato la sua attenzione. «E c’è questo cliente scontroso e musone che mi riempie di mance esagerate» lo vide sorridere machiavellico all’oggetto fuori dalla telecamera, ricevendo un grugnito fuoricampo in risposta.

Lo sceriffo si sentiva alquanto smarrito, non seguiva il filo logico dei pensieri di suo figlio. «È un nuovo metodo di corteggiamento?» era contento però che Stiles riuscisse a riempirsi le giornate, stare fermo non era da lui e, a differenza di Beacon Hills, non poteva infiltrarsi nel distretto di polizia e prendere in prestito i fascicoli dei casi irrisolti per riempire la mente e affinare le sue tecniche. Era più sano che passasse più tempo tra la gente viva che tra i morti.

Stiles sbatté le palpebre varie volte, guardando con dubbio il padre e permettendo che l’idea attecchisse e familiarizzasse nel cervello. «Der, per caso, mi stai corteggiando?» chiese alla persona che era evidente potesse vedere soltanto lui; era incuriosito da quella nuova prospettiva, ma era anche evidente che si stesse burlando del suo interlocutore.

«Per niente» rispose secco lo sconosciuto ‒ forse troppo velocemente ‒, non facendosi manipolare dalla volpe astuta che intratteneva una videochiamata con il genitore.

Stiles ridacchiò con divertimento e i suoi occhi allietati rimasero sul misterioso individuo per qualche secondo. «Mi dispiace, papà, niente corteggiamento in corso».

Forse la massima autorità di Beacon Hills era ubriaca senza essersene accorta. «Chi è, il tuo compagno di stanza?» non gli sembrava la sua voce, allo stesso tempo però gli appariva familiare dal poco che aveva udito. Di certo, non l’avrebbe mai chiamato Der.

«No, è Derek» Stiles rise ancora di più dell’assurdità della cosa, scartandola con una risposta che dovesse sottolineare l’ovvio.

Da quanto tempo non sentiva ridere di gusto suo figlio? «Derek chi?».

«Non credo ne abbiamo molti in comune» si imbronciò la matricola, come se fosse stata offesa personalmente. «Derek, vieni a salutare lo sceriffo. Potrebbe perseguirti».

«Non sono più sotto la sua giurisdizione» lo contradisse lo sconosciuto annoiato, dando evidenza di quanto fosse abituato a gestire le sue stravaganze.

«È lo sceriffo, non lo provocare, potrebbe trovare degli scheletri indesiderati» lo raggirò Stiles prontamente, con l’asso nella manica.

«Stiles, sei tu ad avere la mania di cercare scheletri, anche dove non ci sono» proferì disinteressato l’altro, rassegnato ad essere ragionevole con un tale manipolatore.

«Li trovo sempre, però» soffiò offeso lo studente del primo anno, a dimostrazione di quanta ragione avesse dalla sua parte.

«Lo so» c’era solo consapevolezza dalla sua parte, come se conoscesse a menadito quella sua predisposizione.

Stiles rimase in attesa a guardarlo, dando l’impressione che si aspettasse qualcosa da lui, ma non accadde niente. «Stai di nuovo per uscire?» domandò poco dopo, quando si accorse che Derek non si stava trattenendo.

«Sì, sono passato solo per prendere il borsone» disse distrattamente il fantomatico Der, trafficando con cerniere e fruscii vari.

«Giusto, gli allenamenti» lo sguardo della matricola tornò verso lo schermo, ignorando il padre in collegamento e guardando verso la sinistra specchiata, in basso, lì dove lo sceriffo supponeva ci fosse l’orologio digitale. «Dovrebbe esserci qualcosa che ti serve nell’asciugatrice».

«Okay» fu tutto quello che proferì, i passi leggeri che si allontanavano.

Lo sceriffo non sentì movimenti per una ventina di secondi, finché il rumore della cerniera non si ripresentò.

«Ceniamo insieme?» domandò Stiles quando il suo ospite ‒ inquilino? ‒ sembrò essere pronto per lasciare il nido.

«Sì, dovrei farcela» altri fruscii di stoffa, le scarpe che battevano sul pavimento. «Che cosa vuoi?».

«Cinese?» propose retoricamente, gli occhi che si illuminavano di aspettativa. «No, no, thailandese» scosse la testa come se ci avesse ripensato, ma non fosse propriamente certo, contraendo parte dei tratti visivi.

Una risata corta e vigorosa si espanse da dietro la telecamera e quello lo sceriffo proprio non se l’aspettava. «Credo di conoscere un locale che le abbia entrambe».

«Risolvi sempre i dilemmi culinari» Stiles sorrise a mezza bocca, con una leggera nota di presa in giro affettuosa, ma gli era evidentemente grato. 

«Sono qui da più tempo di te, Stiles» disse l’ospite per niente impressionato dal suo modo di fare, ma era evidente che anche lui avesse le sue tecniche per interagire con la matricola.

«Ma se nemmeno sapevi dell’esistenza del Crescent Moon» lo additò con la vittoria nelle sue mani, il ghigno malefico da volpe infuocata.

«Sei tu che vieni attratto da queste cose» lo scandì chiaramente, a dovergli entrare in testa una volta per tutte per quanto fosse rassegnato a quell’idea.

«Disse il lupo mannaro» la maleficenza della sua furbizia di palesò senza pudore, le punte della bocca in uno sogghigno pericoloso.

Alla velocità della luce gli arrivò addosso un cuscino quadrato arancione che Stiles intercettò al limite e la sua ilarità vibrò tra le mura del luogo in cui lo studente di criminologia si trovava, ma anche quelle dello sceriffo subirono lo stesso effetto ‒ stupefacente. Non sentiva e vedeva suo figlio così felice da anni.

La sua risata piena di vita riuscì a soffocarla con fatica e di slancio abbracciò il cuscino che gli era stato lanciato per dispetto, punendo il suo sarcasmo pungente. «E dai, Sourwolf, non mettermi il broncio» detto ciò, imitò la citata smorfia, che su di lui aveva nelle connotazioni più dolci, da cucciolo a cui tutto sarebbe stato concesso.

Alla massima autorità di Beacon Hills stava andando in tilt il cervello. Un campanello di allarme aveva cominciato a risuonare alle parole lupo mannaro, affiancate a Derek, ma la comprensione totale era arrivata al Sourwolf. Suo figlio aveva attribuito quel soprannome soltanto ad una persona.

«Sei la solita volpe scaltra» dichiarò il lupo mannaro con coscienza, a sottolineare una realtà che non potrà mai essere alterata.

Stiles sorrise con la sua furbizia senza veli, ma c’era un affetto senza uguali che non si impegnava affatto a celare. «Mi passi a prendere o ci incontriamo da qualche parte?».

«Non so dirtelo in questo momento» rumore di passi, l’indecisione e la fretta erano presenti. Qualcosa di pesante fu alzato da terra e issato a fare da contrappeso. «Ti invierò un messaggio».

«Ciao, ciao, Sourwolf» la matricola di criminologia sventolò una mano ad accompagnare il suo saluto, il mento sprofondato sul cuscino usato come arma del delitto.

Ci fu un ciao di ricambio lontano e il tonfo di una porta pesante che si chiudeva.

«Devi dirmi qualcosa, Stiles?» domandò mezzo minuto dopo lo sceriffo, le sopracciglia contratte e il tono indagatore.

Un paio di battiti di ciglia a riprendere il cambio scena e Stiles era di nuovo in direzione dello schermo del computer. «Dirti cosa?»

«O, giusto due cosine» non doveva più sorprendersi, ma era di Stiles che si parlava. «Derek Hale?».

«Mh, sì» era tranquillo e per niente in difetto.

«Com’è avvenuto questo incontro?» c’erano troppe cose che a Noah sfuggivano e che la sua progenie si era premurata di non informarlo. «Dov’è esattamente che sei?» non solo la camera in cui si trovava non gli era per nulla familiare rispetto a quella del dormitorio, ma c’era passato sopra, perché Stiles l’aveva sempre videochiamato in miliardi di luoghi diversi, ma in quel momento gli stonava la presenza di Derek Hale negli stessi spazi comuni. Derek Hale che aveva lasciato Beacon Hills due anni prima insieme alla sorella maggiore per non fare più ritorno. Al tempo non sapeva che tutta la famiglia Hale fosse composta da licantropi, che i due superstiti si erano impegnati ad istruire Scott e compagnia; Stiles gli aveva propinato un riassunto abbastanza accurato perfino con tutti i suoi pindarici giri di parole.

«Studia qui, al Michigan State University» spiegò brevemente, senza dilungarsi eccessivamente. Non c’era granché da raccontare, non fatti da condividere con l’uomo a cui voleva nascondere i suoi problemi irrisolti. «E sono nel suo appartamento».

«Studia al tuo stesso college» ripeté risuonandogli sinistro, inverosimile. «E ti lascia nel suo appartamento da solo?».

«Ogni tanto, se non so dove studiare» non era nemmeno una vera bugia, Stiles aveva le sue strategie, cambiava continuamente ambiente di studio, a seconda degli stimoli e concentrazione che gli servivano.

Okay, Noah Stilinski non credeva ad una sola sua parola. «State insieme?».

«Cosa? No» si sarebbe soffocato con la sua stessa saliva per la visione fantascientifica che suo padre aveva appena dipinto. «Perché dovremmo?».

L’espressione dello sceriffo si fece piuttosto eloquente. «Ho un paio di idee».

Stiles tossicchiò, sordo alle implicazioni sconvenienti espresse dal padre. «Non stiamo insieme».

Era abbastanza categorico e sicuro, non aveva dubbi al riguardo né ne appariva dispiaciuto. In realtà, sembrava non averci mai riflettuto su ‒ o ragionato. Eppure allo sceriffo i conti non tornavano, soprattutto per tutta quella felicità e divertimento vivo che Derek Hale era riuscito a scatenare con il nulla dopo anni di simil apatia. «Torna per Natale».

Stiles si rifletté sullo schermo adagiato sul letto di Derek, ma anche sull’espressione seria del genitore. «Sì, Natale» ma la matricola non voleva che quel giorno arrivasse.

 

«Ciao, Stiles» le sue orecchie vibrarono subito, non ebbe nemmeno il tempo di presentarsi al nuovo cliente e offrirgli il suo servizio.

«Mi hai trovato» disse quando degli occhi azzurri che cominciava a conoscere troppo bene si palesarono davanti a lui.

La bocca di Theo si curvò con malizia affascinante, l’attenzione tutta catapultata sulla matricola di criminologia. «Crescent Moon, ti rispecchia molto».

Lo sguardo della matricola di criminologia si fece interrogativo, non capendo minimamente a cosa alludesse. «Dov’è il tuo lupo?» domandò senza tergiversare il neo arrivato, il blu che scintillava di interesse giocoso.

Sperava se lo fosse dimenticato. «Il cane lupo» lo corresse con prontezza, scandendo le parole che dovevano entrargli in testa.

Theo sorrise come se non potesse giostrarlo. «Allora, dov’è? Lo rincontrerò?».

Per la tua salvezza, meglio di no. «È tornato dietro il velo».

«Ah» accentuò la piega allietata sulla bocca, l’eccitazione evidente che si accentuava, scatenava. «Sei davvero interessante, Stiles».

Il figlio dello sceriffo roteò gli occhi da una parte all’altra scocciato, aspettando che quell’incontro terminasse in fretta. «Mi troverò alle calcagna anche Donovan?».

Theo sbatté le ciglia annoiato, cambiando totalmente la sua espressione, quasi ad avergli fatto volontariamente un torto. «Non condivido le mie informazioni».

«Ahi» esclamò Stiles con allegria pericolosa. «Non molto sportivo nei confronti del tuo amico».

«Perché?» se lo fece scivolare di dosso, come se non lo riguardasse affatto. «Lui non ha suscitato il tuo interesse, non c’è una competizione in corso».

«Sono piuttosto sicuro che non la veda così» non che gliene fregasse qualcosa, ma lo sguardo di Donovan lo percepiva ancora su di sé quando lo incontrava per caso al College of Social Science o in compagnia fugace di Theo.

«Non è un mio problema se non ha colto i tuoi segnali» si giustificò lo studente di scienze politiche, evidentemente non interessato a quello che una volta si era presentato come un rivale.

«E tu, invece, li hai colti?» si fece tagliente e incisivo il futuro criminologo, gli occhi assottigliati a giudicarlo.

Theo sorrise ben conoscitore di se stesso. «Ho un’idea abbastanza chiara» il dito indice andò a sfiorare alcune tra quelle poggiate da Stiles sul bancone in attesa.

Stiles né guardò né si scostò, lasciò la mano esattamente dov’era a permettere di essere corteggiato. «Secondo me hai preso un abbaglio».

Il ragazzo tenace non demorse e le sue labbra continuarono a restare curve all’insù, ma con quell’accenno di timidezza studiata per un imbarazzo che invece non provava. «Forse hai ragione tu».

Su Stiles aveva costantemente un certo effetto ciò che il viso di Theo esprimeva e non poteva negare che fosse stato attratto da lui fin dalla prima volta che aveva posato gli occhi sulla sua figura. Non smetteva di bruciare. «Dovresti ordinare qualcosa, sai».

«Giusto» le iridi di zaffiro si innalzarono per leggere gli enormi cartelloni posti dietro le spalle dei baristi e sopra la porta che conduceva alla cucina, vi erano scritte ogni specialità, ogni bevanda o piatto ordinabile, tutti gli ingredienti che potevano essere aggiunti. «Un caffè stretto, leggermente macchiato, tre di zucchero».

Stiles era un po’ sorpreso dall’eccessiva quantità di dolcificante, ma non era un suo problema preoccuparsi del colesterolo degli altri, eccetto quello di suo padre. Si limitò ad eseguirlo seguendo tutte le indicazioni, allungandogli il bicchiere in cartone della dimensione più piccola che la caffetteria disponeva. La mano di Theo si avvicinò nuovamente e sfiorò intenzionalmente quella del barista, attardandosi più del necessario. «Quando finisci il turno?».

Stiles non doveva seriamente sorprendersi dell’insistenza del ragazzo, ma in qualche modo avvenne comunque, particolarità che invece di infastidirlo gli faceva soltanto guadagnare punti. Agitò un dito indice in diniego, smontandolo sul posto per la sua avventatezza. «Ti consiglio di ritentare. Sarai più fortunato».

Smorzare il sorriso di Theo, invece, era impraticabile. «Sì, mi piaci proprio» pagò il conto con lo smartphone, un’aggiunta del venti percento per la mancia automaticamente accreditata al servizio alla cassa di Stiles ‒ imparagonabile a quella che regolarmente Derek gli versava, ma era lui ad essere esageratamente esagerato ‒ e si liquidò con un mezzo inchino ed il caffè fumante in una presa salda.

«Quello è nuovo?» si insediò Tracy esattamente un secondo dopo la sua uscita, come se non avesse aspettato altro.

«Non proprio» ormai essere colti impreparati da lei era una faccenda quasi archiviata.

«Che effetto fai esattamente alle persone?» era impressionata, la capacità di incantare di Stiles era fuori da ogni concezione logica. O semplicemente chi attirava era estremamente temerario.

«Ne so quanto te» il figlio dello sceriffo non le stava prestando particolare attenzione, stava ancora fissando il punto in cui Theo fino alla fine aveva flirtato con lui. «Potresti dirmelo tu» si ridestò quando si rese conto di poter prendere la palla al balzo.

Tracy ne fu colpita, non si aspettava che Stiles facesse un riferimento così chiaro ai loro passati trascorsi. Stiles era piuttosto serio con il suo modo di approcciarsi ai partner occasionali, non voleva repliche, a prescindere da come si fossero svolte le cose tra loro. «Non cominciare a montarti la testa» lo sbeffeggiò con amicizia. «Non sono ammaliata da te, ma dal tuo ragazzo».

Ovviamente, come dimenticarlo. «Non è il mio ragazzo» si ritrovò nuovamente a correggere Stiles, stanco di quella immotivata ripetitività.

«E lui lo sa?» lo stuzzicò con audacia e spudorata la compagna di corso, ridendo sguaiatamente.

«Sei tremenda» ma davanti a quell’ennesimo equivoco, si domandò se lui e Derek dessero quell’erronea impressione a chiunque posasse gli occhi su di loro.

 

Quanto il suo turno si concluse e si velocizzò per cambiarsi, una volta sulla soglia dell’uscita sul retro si accorse della pioggia fitta che impattava sull’asfalto. Imprecò dentro di sé per aver dimenticato l’ombrello e sul non aver mai riabbottonato il cappuccio removibile del giubbotto.

Affondò il viso nella sciarpa calda di Derek e alzò la giacca imbottita sopra il limite della testa, nella speranza di non bagnarsi eccessivamente, di riuscire a percorrere i venti minuti di cui necessitava per raggiungere l’appartamento del mannaro e cambiarsi senza incontrare troppi ostacoli.

«Sei prevedibile» asserì la voce maschile che conosceva meglio di se stesso, critica, ma anche sarcasticamente divertita.

Le pupille scure si dilatarono nell’iride d’ambrosia, alzando la testa per inquadrare meglio il suo interlocutore e notare che non gli cadesse più alcuna goccia addosso. Derek lo fissava al riparo nel suo classicissimo e inequivocabile ombrello nero, condiviso con la matricola leggermente inumidita rispetto al cataclisma che aveva preventivato una volta abbandonato la protezione del Crescent Moon. «Sei passato di proposito?».

«Sono passato dal monolocale e ho notato questo» nella mano libera teneva un piccolo ombrello da borsa ancora chiuso e asciutto. «Sapevo ti sarebbe servito, sento quando il tempo sta per cambiare».

«Non dovrò più seguire il meteo, allora» doveva averlo abbandonato sulla scrivania del licantropo quando aveva preparato la tracolla la sera prima per la nuova giornata universitaria. Non aveva ancora preso l’abitudine di doverselo portare ovunque, benché di pioggia e tempeste ne avesse affrontate parecchie in quei tre mesi, molto lontani dai temporali sopportabili della California di cui Stiles si era sempre curato poco.

«Non sai nemmeno cosa sia il meteo, Stiles» lo ribeccò la creatura della notte, sorda alle sue arrampicate sugli specchi. Fece scattare l’apertura dell’ombrello con un unico gesto, sprigionando una colata di colori dell’arcobaleno e offrendolo al figlio dello sceriffo.

«Grazie» disse Stiles con un po’ di titubanza nel vedere tutte quelle sfumature accese accostate vicino al capitano della squadra di basket. Accettò l’oggetto e si spostò sotto di esso, riuscì anche a ricomporsi un po’, ma non aveva molta intenzione di togliere il muso dalla sciarpa, anche se avrebbe dovuto farla asciugare una volta tornanti al caldo. «Non era necessario, ma grazie».

Le dita libere del lupo si mossero fulminee ed erano già intrecciate ai capelli dello studente di criminologia, rigirandoli e ispezionandoli. «Sei già eccessivamente bagnato, credo proprio fosse necessario».

Stiles sbuffò con offesa e contrariato, gli dava enormemente fastidio che Derek lo considerasse cangevole, come se si ammalasse ad ogni alito di vento; non era colpa sua se il suo corpo fosse impostato per sopravvivere ad un clima opposto. «Mio padre ti adorerebbe» era il cane da guarda perfetto per lui, l’essere che interveniva ogni volta che una situazione si presentava sgradevole o la anticipava. Non era certo fosse il miglior complimento per un lupo mannaro scontroso quanto Derek.

Contro ogni sua aspettativa, lo sguardo del mannaro si fece più intenso ed era quasi impossibilitato a distoglierlo. «Con te, ogni aiuto è necessario».

Stiles lo fulminò e si imbronciò da diciannovenne maturo quale fosse, sorpassandolo e spezzando ogni contatto tra loro, proseguendo per la sua direzione senza voltarsi indietro. Al suo dispetto, sentì soltanto Derek ridacchiare sommessamente. Non era mai prolungata e sonora, era sempre una risata trattenuta, limitata, quasi avesse un timer che gli indicasse la durata e la bloccasse superato il valore scelto, ma era più di quanto Stiles avesse sentito nei due anni di liceo che avevano condiviso.

Qualche secondo dopo, il licantropo era già di fianco a lui sotto la pioggia scoscesa. «Dove andiamo?».

«Gli altri hanno proposto pollo e tutta quella roba lì» non avevano un KFC nel campus, ma non mancavano i punti di ristoro che proponevano le loro alternative impanate e croccanti.

«O sì!» Stiles si illuminò come se fosse un giorno di festa, facendo ruotare l’ombrello per la sua felicità, creando vortici di luce colorata nell’oscurità data dalla mancanza della luna, ricoperta dai nuvoloni minacciosi. «Raggiungiamoli, ti prego. Adoro le cosce di pollo. Il petto di pollo. Le crocchette di pollo».

«Strano approccio per il ragazzo dei vegetali» lo schernì ironico il playmaker, digitando la risposta sul telefono da inviare a quel branco mal assortito.

«Quelli sono soprattutto per mio padre» quando non interferivano le sue paturnie.

Proseguì un silenzio che poteva risultare anomalo, ad aver toccare un nervo scoperto. «Quando hai iniziato?».

Il figlio dello sceriffo sbatté le ciglia varie volte, gocce d’acqua vi erano ancora incastrate e anche se cambiò la pendenza dell’ombrello, non riusciva a vedere Derek perfettamente. Era concentrato nel continuare ad andare avanti. «Ad occuparmi della dieta di mio padre?» domandò a completare il pensiero del lupo, chiedendosi se fosse quello giusto. Ricevette un mormorio di assenzo da parte del mutaforma. «Un anno dopo la morte di mia madre ebbe un infarto» non era un argomento che affrontava spesso, lo ritirava fuori soltanto quando rimproverava il genitore. «È stato devastante, ho temuto di perdere anche lui, di rimanere da solo una volta per tutte» in realtà, le occasioni in cui sarebbe potuto accadere avrebbero dovuto essere molte di più, ma Beacon Hills era apparentemente stata tranquilla finché gli Hale ero in vita, soltanto che nessuno di loro era a conoscenza della loro impronta. «La sua vita non è mai stata troppo equilibrata, ma i pezzi hanno cominciato a disfarsi dopo l’aggravarsi della malattia di mia madre. Il lavoro, la malattia, la sua morte, i miei attacchi di panico continui… il suo cuore non ha retto» prese un profondo respiro, i ricordi amari che tornavano in superficie. «Appena l’hanno ritenuto fuori pericolo, ho cominciato a lavorare ad una tabella alimentare, a programmare i suoi pasti ed a bandirne altri».

I passi si fecero più lenti, l’acqua ghiacciata scorreva per i canali e non era il caso che l’umano scivolasse tra i torrenti. «Avevi soltanto nove anni».

«Sì» confermò, non seriamente stupito che Derek sapesse fare i conti, ma che si ricordasse ogni avvenimento nel corretto ordine cronologico. «Ma che importanza ha? Io voglio mio padre vivo. Lotterò sempre per lui».

Come poteva essere diversamente? «Provi un grande amore per Scott e il tuo branco, ma la persona che ami di più è tuo padre».

Stiles si bloccò di botto, la pioggia che si faceva più violenta che picchiava sulla stoffa, le gocce che lo separavano dalla creatura leggendaria. «L’ho quasi perso di nuovo un anno fa, Derek. Un altro attacco cardiaco, un altro letto d’ospedale e una sala d’attesa in cui aspettare. Un nuovo infarto perché l’Alpha delle Chimere mi voleva con sé e doveva colpirmi nel modo più violento. Non mi interessa se mio padre si è dimenticato di me per mesi, se non sapeva nemmeno che esistessi, ma forse sarebbe stato più al sicuro. Lo sarebbe stato ancora prima, quando l’anno precedente il Darach l’ha rapito per sacrificarlo al Nemeton» Stiles le aveva contate tutte quelle brutali e pessime esperienze, quando le sue azioni avevano avuto più ripercussioni del solito.

«Quale pensi sarebbe il suo pensiero?» lo interrogò Derek con più durezza, statuario davanti a lui, l’ombrello sollevato nella parte frontale a mostrare ogni sua espressione facciale. «Baratterebbe la sua vita con un’altra? Rinuncerebbe a te? Credo proprio tu abbia avuto la risposta a queste domande».

Stiles si trovò con un groppo in gola, un magone che proprio non riusciva a mandare giù. Sì che aveva avuto quella risposta: il dolore della perdita del proprio figlio era stato così enorme e dilaniante, da riuscire a creare un essere che potesse attenuarlo ‒ poco importava se fosse una copia distorta di sua madre. «Mi spezza il cuore mentirgli sulle mie reali condizioni. Mentirgli ogni singolo giorno, ma non posso dirgli la verità. Non voglio che lo veda con i suoi occhi. Non voglio tornare per Natale».

Derek, nella sua pacatezza, espirò profondamente. «Lo so».

Non c’era nessuna forma di rimprovero da parte sua né lo stava giudicando negativamente o in qualsiasi altro modo, avrebbe semplicemente rispettato le sue decisioni.

L’umano non aveva mai avuto un alleato migliore del lupo mannaro dalle iridi rubino e zaffiro.

«Si mangia!» esclamò con entusiasmo ghiotto Erica, le portate che venivano servite su cestini di carta e le bevande zuccherate su ogni postazione. Non c’era mai alcol sul loro tavolo anche se la maggior parte di loro aveva ventun anni, non avendo alcun effetto sui mannari ne facevano a meno e Stiles lo evitava come la peste, dopo aver avuto troppe brutte esperienze con sbronze, veleni paralizzanti da kanima e droghe da banshee. Voleva il completo controllo su di sé e certamente non avrebbe mai aiutato nella condizione in cui si trovava.

Erano seduti tutti e cinque vicino alla grande finestra, sulle grandi panche rivestite in tessuto omologate per tre, Boyd e Isaac ne avevano occupata una per intera, mentre la mannara aveva cambiato posto appena Derek e Stiles li avevano raggiunti; la pioggia era ben visibile per la sua violenza, illuminata dai lampioni sparsi sulle strade, gli ombrelli erano tutti stati abbandonati all’ingresso, negli appositi contenitori che erano stracolmi e l’umano si chiedeva se sarebbero riusciti a trovarli nuovamente.

Stiles accolse trepidante la sua porzione di cosce di pollo fritte, la pastella croccante che emetteva un rumore divino nel momento in cui veniva addentata o spezzata, aveva letteralmente l’acquolina in bocca e tra tutti loro c’era da domandarsi chi fosse davvero l’animale. «Mi è passata la fame» disse invece con infelicità, l’amarezza che gli avvelenava il palato e il disagio che lo investiva a fiumi.

Derek aveva a malapena addentato la sua pietanza, al contrario degli altri che masticavano voraci, arricchito tutto da chiacchere, e la sua attenzione fu subito catapultata sulla matricola, una coscia di pollo era stata spaccata a metà, per via della maniacalità sviluppata di controllarne il contenuto, con l’evidenza di un’errata cottura. La carne bianca, soprattutto quella attaccata all’osso, era completamente cruda ed in alcuni punti perdeva anche liquido scarlatto e violaceo che non otteneva la simpatia di Stiles. In realtà quella di nessuno. «Lo facciamo sostituire».

Il figlio dello sceriffo scosse la testa come unica risposta negativa, chiudendosi a riccio, il viso sbiancato. «Detesto sprecare il cibo».

«Questo è un errore grave, nessuno potrebbe mangiarlo» a meno che non si aspirasse ad una morte certa.

«Tu potresti» cosa potrebbe mai fare della carne bianca cruda ad un lupo mannaro, era predisposto per staccarla viva a morsi e ingoiarla. «In realtà, tutti voi».

Isaac, Boyd ed Erica si sentirono chiamati in causa, già concentrati sull’unico umano della tavola, a cui era stato destinato un infausto scherzetto.

«Nessuno di noi lo farà» dichiarò chiaro Derek, un ordine per tutti, a sottolineare che se c’era un problema, andava affrontato. «Scusi» richiamò l’attenzione di una delle cameriere, alzando il dito quando rientrò nel suo raggio d’azione. «Lo porti via».

Stiles si sentiva tramutato in una statua, non riusciva a muoversi e ad affrontare la situazione, non era nemmeno lui il protagonista di quella spiacevole situazione. Il suo problema con il cibo era più accentuato di quanto sembrasse all’esterno, gli dispiaceva che dovessero raccoglierne i cocci, che Derek dovesse sempre muoversi in sua vece perché in lui si creava un rifiuto totale che lo annichiliva totalmente.

La cameriera si avvicinò e osservò il cestino in cartone colorato, soprattutto notò Derek e si fece subito più interessata, pronta a scattare e servire. Tanta ilarità sul servire, Stiles sbuffò internamente, roteando gli occhi contrariato e per niente sorpreso di avere a che fare con un altro essere vivente che sbavava sul capitano della squadra di basket. «Lo sostituisco subito».

«No» dissentì immediatamente il playmaker, gli occhi verdi che si concentravano interamente sulla disapprovazione dello studente di criminologia, sull’arrivo di un messaggio differente. «Non ci serve altro».

La donna esitò, stupita dalla risposta e tergiversò per qualche secondo, prima di congedarsi. «Scusate per il disagio».

Ci fu qualche attimo di silenzio sul tavolo, Stiles voleva soltanto andarsene via e chiudere la serata, ma non era corretto nei loro confronti.

«Puoi scegliere altro» si intromise Erica. Non le era capitato spesso di vivere quelle spiacevoli situazioni con Stiles, solitamente lo sbaglio sulla cottura lo innervosiva e lo rendeva più spietato, ma la sostituzione era garantita.

Stiles si chiuse ancora di più in se stesso, il torto che sapeva appartenergli. «Non insistere» disse invece Derek, invitandola espressamente a non pressarlo eccessivamente, a lasciargli lo spazio di cui bisognava.

Erica diresse la sua attenzione verso il ragazzo che seguiva da anni, l’indecisione di aggiungere qualcosa e proporre un’alternativa, ma era consapevole che Derek avesse vissuto episodi analoghi più di lei.

Il branco tornò a cibarsi con più attenzione, rallentando i tempi, ma le voci ripreso il loro corso. L’umano si afflosciò sul divanetto, abbandonandosi contro lo schienale e rilasciando un respiro liberatorio, ad allentare il macigno che gli gravava sul petto, districando i nodi nello stomaco.

Sentiva l’occhio vigile di Derek su di sé, leggermente voltato verso di lui, e Stiles si incatenò a quell’attenzione non invadente, ma che voleva soltanto accertarsi che si fosse tranquillizzato. La matricola accennò una curva di gratitudine sulle labbra e il lupo completo gli accarezzò con il dorso piegato di un dito il centro della fronte, ad accentuare il suo stato d’animo più sereno.

Per i successivi cinque giorni si avvalsero esclusivamente di cucina vegana.

 

Le ciglia addormentate sfarfallarono, il disorientamento lo colse ed ebbe bisogno di qualche attimo per comprendere dove si trovasse, cosa stesse accadendo.

Dalla penombra, infranta dai raggi lunari, vi era la figura del licantropo seduto sul bordo del letto, i piedi nudi sul pavimento, le lenzuola scomposte, il letto sfatto, la schiena nuda da cui svezzava il grande tatuaggio nero; era piegata in avanti, i muscoli contratti, la stanchezza evidente e un misto di emozioni che Stiles non poteva percepire, ma notava come Derek si stesse tenendo la testa tra le mani, impossibilitato a scacciare quello che lo angustiava. «Derek?».

Il lupo non apparve sorpreso di udire la sua voce, segno che lo avesse già sentito muoversi o prendere coscienza del mondo della veglia. «Torna a dormire» lo invitò, a permettergli di lasciarsi scivolare la situazione.

Era stato un po’ brusco, ma doveva aspettarselo, era Derek, la gentilezza non era la sua caratteristica principale, soprattutto nelle situazioni in cui si vedeva in svantaggio, eppure difficilmente si rivolgeva a lui con quell’atteggiamento da quando erano lontani da Beacon Hills.

Era indeciso, non sapeva cosa fare, se potesse osare, ma non voleva che il lupo completo si allontanasse nuovamente come la prima volta in cui l’aveva beccato. Si alzò sulle ginocchia e scivolò sul materasso, avvicinandosi nella sua incapacità di fare silenzio al mannaro. «È colpa mia? Ho fatto qualcosa?» era difficile trovare il coraggio di chiederglielo, trovare le parole giuste che indicassero tutte le pene e le affiliazioni di cui Derek si stava caricando per colpa del cervello rotto che Stiles possedeva.

«No, non hai fatto niente» rispose immediatamente, quasi si aspettasse che l’umano gli ponesse la domanda da un momento all’altro, il che indicava quanto il capitano fosse pronto verso la sua direzione, anche quando in crisi era lui stesso.

Era rincuorato da una parte, sapere che non gli occupasse tutto il tempo con le sue problematiche distruttive, ma capiva anche se non era in grado di risolvere il problema senza indagare.

Si accucciò dietro la grande schiena del mutaforma, la testa che gli poggiava contro poco sotto la spalla. Derek non si scosse né lo scacciò, era anche troppo immobile per i suoi gusti. «Posso fare qualcosa?».

«No» proferì monosillabico, lapidario.

Era desolante e faceva male non potere aiutare qualcuno che si spendeva tanto per lui, per la sua sicurezza e salute. Derek non era tipo da chiedere aiuto, esattamente come lo era Stiles, ma perfino dopo tutto quello che avevano condiviso il lupo era tanto ostile nei suoi confronti?

La matricola respirò sulla sua pelle, il fiato che si infrangeva, il naso che lo accarezzava labilmente. Gli schioccò un bacio di riflesso, un autonomismo elementare a sottolineare quanto fosse l’unica cosa da compiere.

Derek vibrò per un solo secondo a quel bacio sulla schiena e poi tutto entrò nell’immobilismo.

Il respiro della creatura della notte era pesante, stava cercando di riprenderne il controllo, così come delle sue emozioni devastanti, il corpo era più caldo del solito ed era evidente che avesse sudato di nuovo, ma Stiles non si ritrasse, rimase dov’era a completo contatto, a vivere l’intero dolore di Derek.

Si chiese se fosse concentrato su Paige o sulla sua famiglia, o perfino su quello che Katie gli aveva fatto; Derek aveva sofferto così tanto che si domandava se riuscisse a vivere un dolore per volta o fosse tutto così tanto incatenato da non essergli permesso, testimone di ogni suo piccolo errore portato dalla sua ingenuità, da schiacciarlo e condannarlo, senza dargli tregua.

Trascorse talmente tanto tempo da chiedersi se le ore si fossero dilatate. «Der, torna a dormire con me» era privo di energie, ma avrebbe consumato perfino quelle che non aveva se a Derek fossero servite.

«Ti ho detto di andare» fu l’unica cosa che il capitano della squadra di basket disse, asciutto e irritato.

«Non farò niente senza di te» erano due testardi, averla vinta era una battaglia persa in partenza.

Derek sospirò con stanchezza, si passò le mani sul viso a scacciare tutto quello che vi era impresso, prendendo nuovamente un respiro profondo, facendo muovere l’umano con lui. Si scostò e voltò nella direzione del figlio dello sceriffo, gli occhi negli occhi a scrutarsi reciprocamente in quel buio ingrigito. Stiles non riusciva a scorgerlo come avrebbe voluto, ma la vista di Derek era impeccabile, che fosse giorno o notte, lui vedeva tutto. «Che volpe diabolica».

Stiles si stava a poco a poco abituando all’appellativo con cui Derek lo descriveva di occasione in occasione, quasi fosse studiato o non fosse più necessario trattenersi. «Puoi sempre imbrogliarmi».

«Imbrogliarti» gli fece eco come se ci stesse meditando su, a comprendere il reale significato. «La vittoria è sempre tua».

Stiles accennò un sorriso malandrino e prese Derek per mano, conducendolo con la giusta tempistica verso il suo lato del letto e costringendo entrambi a distendersi, coprendosi con le coperte fino al collo. «Hai propriamente ragione, Sourwolf».

Derek sbuffò sul suo viso con disapprovazione e ribellione e Stiles rispose inoltrandosi maggiormente verso di lui, un solo respiro a dividerli, ognuno al limite della punta dei rispettivi cuscini, riflesso l’uno nell’altro. «Io ci sono» disse la matricola con sincerità e serietà, totalmente prodigata verso il licantropo, intrecciando le dita della stessa mano che aveva usato per guidarlo.

«Lo so» soffiò la creatura leggendaria, le iridi che brillarono di pagliuzze blu e rosso. «Ci sei sempre».

Stiles non aveva alcuna idea a cosa Derek si riferisse, ma era felice che potesse in qualche modo bastargli, che al momento fosse tutto quello che gli era concesso fare nei suoi confronti.

Socchiuse le palpebre con delicatezza, sfiorando il naso del lupo, alleggerito rispetto alla situazione precedente. Derek, a rispondergli, intensificò meglio la trama delle loro dita e Stiles avvertì che si fece ancora più vicino.

Non aveva né guarito né risolto le pene che affliggevano il mutaforma, ma non gli avrebbe permesso di affrontare quella battaglia da solo, sarebbe intervenuto in ogni occasione offertagli per ricordargli che erano diventati due.

 

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Capitolo 11
*** 11° Capitolo ***


11° Capitolo

 

Heather quel pomeriggio lo osservava con dubbio, quasi incerta di cosa pensasse realmente e con l’evidenza che volesse chiedere qualcosa, oltre alla comanda che Stiles eseguì alla perfezione. Era il settimo giorno dalla prima volta che l’aveva servita e avevano flirtato in ogni occasione presentata. «Il ragazzo che viene sempre qui… state insieme?».

Alla fine il quesito fu posto e Stiles avrebbe avuto il malsano istinto di chiedere a quale ragazzo si riferisse, benché fosse ormai chiaro. «Affatto. Non c’è niente tra noi».

La bionda sospirò rassicurata, l’indecisione che evaporava. In fondo il figlio dello sceriffo poteva capire che un numero discreto di persone avessero bisogno di sapere di non intromettersi in relazioni avviate, a prescindere da che scopo si volesse raggiungere. «Sono libero stasera, se ti interessa» la informò con perizia, la proposta sottintesa di un proseguimento piuttosto interessante, dedito alla scoperta reciproca e al piacere.

Heather lo guardò intensamente per qualche attimo, a decriptare correttamente il suo messaggio e rispondendo con un sorriso affilato.

Quella sera Stiles fu costretto a inviare un messaggio a Derek, per informarlo di un ritardo prolungato e di posticipare la loro videochiamata notturna.

«Ho un ricordo chiaro in testa» disse Stiles con indosso il pigiama con le volpi del mannaro, rotolandosi sul materasso e stringendo sotto al mento il proprio cuscino. «Di te».

Il capitano stava sistemando il suo borsone sportivo per la giornata successiva, la partita prevista ad un orario proibitivo, per permettere alla squadra ospite di ritornare in giornata al Michigan State University. «Cominciano ad essere un po’ troppi».

Il licantropo come di consueto era a torso nudo, muovendosi per la camera singola di cui generalmente pagava la differenza di tasca propria, non volendo condividerla con nessuno. A volte si chiedeva se avesse cominciato a pretenderla da quando era entrato nella sua vita, dovendogli dedicare anche quelle ore notturne distanti e senza provocare fastidi allo sfortunato con cui avrebbe potuto coabitare. «Ti ripeto quella cosa in cui non sono entrato a conoscenza di te a quindici anni?».

Derek brontolò come se non avesse nessuna importanza. «Sentiamo» si sistemò sul materasso, poggiando la schiena alla testata imbottita del letto, che Stiles non trovava particolarmente igienica, ma ad un lupo mannaro come lui cosa poteva importare, anche se era estremamente facoltoso.

Lo studente del primo anno vedeva il pettorale scolpito del mutaforma anche a stati di distanza, attraverso una microtelecamera presente nei loro smartphone; i muscoli che si flettevano ad ogni suo movimento. Era sconveniente quanto Stiles riuscisse ad essere costantemente in uno stato di bollore quando si trattava di Derek persino attraverso una qualità dubbia, anche dopo aver appena scaricato le sue voglie sulla partner designata in quell’occasione. «L’incontro nel bosco, subito dopo che Scott è stato morso e noi cercavano delle risposte per capirci qualcosa».

«Io ricordo tu avessi capito perfettamente cosa fosse successo» lo interruppe il licantropo incisivo, raccontando una storia diversa. «Era Scott a non aver compreso nulla, a non crederci nemmeno».

«Credo che la sua incredulità fosse una reazione più normale della mia» con una mente diversa dalla sua, Stiles poteva comprendere le perplessità del suo migliore amico.

«Certo, ma era lui ad aver ottenuto il morso, tu non eri nemmeno lì» sottolineando l’assurdità di come gli eventi si fossero sviluppati, di come qualcuno di completamente esterno e non coinvolto avesse più risposte del diretto interessato. «Per te l’impossibile è possibile».

«Non sarebbe stato male se per una volta mi fossi sbagliato» si sarebbero risparmiati molte difficoltà e tragedie.

Derek si ammutolì, il silenzio era tutto ciò che era rimasto udibile. «Continua con il tuo ricordo, Stiles».

«Beh, ecco…» ora era in difficoltà, percepiva della contrarietà da parte della creatura della notte e sotto sotto si sentiva alquanto sciocco a tirare fuori quella storia. «Il primo ad essersi accorto di noi, a trovarci, sei stato tu. Subito dopo hai condotto Laura da noi» molto strano per qualcuno che non ne voleva proprio sapere di loro, che per tutta la durata di quell’anno si fosse tenuto ai margini, senza voler interagire se non costretto. «È curioso».

Derek lo guardò in modo anomalo, quasi avesse sopravvalutato la sua intelligenza. «Non ho trovato voi. Ho trovato te» specificò a scandirlo, le parole che si stampavano nel cervello di Stiles. «Ti ho già detto di conoscere il tuo odore».

«Sì» che diavolo significava? «Lo conoscevi già allora?» il lupo ispessì le sopracciglia a giudicarlo malamente. «Mi correggo: sapevi già distinguerlo? Credevo avessi seguito l’odore di un lupo nuovo che non conoscevi e invadeva la tua proprietà privata».

«Eri un po’ difficile da ignorare quando ti ostinavi a seguire i nostri allenamenti, a fare tutto quel baccano con i tuoi schiamazzi festosi» Stiles arrossì, perché sapeva essere vero. Non si era mai controllato quando Derek era in campo a mostrare le sue tecniche perfette, anche semplicemente durante un allenamento di riscaldamento. Era sempre meglio che tornare in una casa deserta e nessuno l’aveva mai esortato ad andarsene ‒ abituarvi al pubblico può solo farvi bene, li spronava il coach. «E sì, sentivo il suo odore, ma era troppo flebile. Il tuo, invece, era estremamente distinguibile».

Felice di essere servito alla causa. «Grazie, avremmo continuato a brancolare nel buio».

«Non credo» dissentì il playmaker, con una visione totalmente diversa. «Saresti riuscito a ottenere le tue risposte da solo e hai un modo tutto tuo di trovare dei metodi funzionanti. Ve la stareste cavati».

Come poteva non essersi mai accorto che Derek provasse una tale stima nei suoi confronti? «Non sono comunque curioso di scoprirlo».

«Strano, per una volpe in cerca di pericoli come te» Derek rilasciò una piccola risata indistinguibile e Stiles avrebbe voluto trovare altri modi per scatenargliela più di frequente.

«Don't-don't it feel so good right now?» intonò lo studente di criminologia a voce soffusa qualche tempo dopo, il viso quasi del tutto premuto sul cuscino e gli occhi leggermente socchiusi. Si muoveva a tempo con lentezza, balbettando il don’t e soffermandosi scandendo sul right now, come Derek immagina richiedesse la canzone.

«La canti spesso» osservò il mannaro mentre andava avanti con qualche altro verso, la stanchezza evidente che incombeva su Stiles.

«Davvero? Non ci ho fatto caso» sbadigliò a bocca aperta sulla stoffa, il viso che si spalmava meglio a cercare morbidezza. «Quando una canzone ti entra in testa è difficile scacciarla via» abbozzò un’occhiata verso lo schermo del telefono, il filo del caricabatteria già collegato. «L’hai mai ascoltata?».

«Soltanto cantata da te» confessò la creatura della notte. Ne disconosceva perfino il titolo.

Stiles ridacchiò tra un misto di imbarazzo e allegria. «Non la migliore esperienza».

«Non mi lamento» di voci gracchianti ne era stato pieno nella vita, il suo udito spesso si spingeva troppo in là. «Hai un bel timbro».

La matricola rise nuovamente e fu avvolta dal calore, anche senza che Derek fosse lì in carne ossa ad emanarlo. «Stai flirtando con me?».

Derek lo guardò senza un’inclinazione particolare, la perenne espressione controllata che non lasciava trasparire nulla. «Ti do questa impressione?».

«Qualche volta» ammise senza esitazione, il riverbero lontano di una risata lieta e addolcita.

«Addirittura qualche volta» il mutaforma scacciò quell’assurdità con un unico gesto del capo, eppure era sempre statuario e impeccabile, come se qualsiasi cosa Stiles gli dicesse non potesse piegarlo e allo stesso tempo non si risparmiava di giocare con la piccola volpe al di là dello schermo.

«Sì» se Derek fosse stato lì, l’avrebbe toccato, sarebbero stati talmente vicini da rendere difficoltoso trovare la fine di uno e l’inizio dell’altro. Fronte contro fronte, i respiri che si miscelavano in uno solo e forse il lupo completo gli avrebbe schioccato un bacio in un angolo del suo viso ‒ benché accadesse principalmente quando voleva consolarlo, confortarlo o fargli sentire che era con lui.

Arrancava davanti alla sua assenza, gli mancava come non credeva immaginabile, senza una valida ragione.

«Com’è andata la tua serata?» gli chiese invece Derek, andando avanti come se non avessero parlato di niente.

Stiles mugugnò contrariato, affondando il viso sul cuscino per nascondersi alla sua vista con scarsi risultati. Non gli dispiaceva che Derek fosse diventato nei suoi confronti umanamente accettabile, le domande di rito di una conversazione quotidiana, ma era consapevole che il playmaker sapesse esattamente come avesse trascorso quella sera. «Bene» non aveva nulla di cui lamentarsi, ma non voleva nemmeno sbilanciarsi, raccontare il modo in cui si fosse intrattenuto con la sua partner d’occasione.

«Da ripetersi?» provò il mannaro, seguendo l’onda di piacevolezza che era evidente Stiles avesse incontrato.

«Conosci la risposta» perché chiederglielo quando era stato piuttosto chiaro. Sembrava che a nessuno volesse entrare in testa. «Anche se fosse stata la mia migliore esperienza, non permetterei che succedesse».

«Con qualcuno vorresti» Derek lo disse senza girarsi attorno, gli occhi fermi e troppo pieni di lui, conoscitore dei suoi segreti inespressi.

Ah, perché doveva essere così cosciente di cosa vivesse in Stiles? Lo mandava ai matti. «Forse» non bastava che Theo avesse colto la sua incertezza, per Derek, al contrario, non esisteva. «Comunque sia, non era un lui» non vi era motivo per cui dovesse essere così specifico, ma voleva evitare che ci fossero dubbi sulla sua irremovibilità di riconcedersi alla stessa persona.

Il licantropo non si pronunciò e il figlio dello sceriffo non sapeva se fosse il caso di interrompere lì la conversazione. «Chi proteggi in questo modo? Loro o te stesso?» era evidente che, invece, Derek avesse molto da dire; molto insolito rispetto al vecchio Derek. Ma tutto lo era in confronto, probabilmente perché non gli aveva mai permesso di avvicinarsi, interagire e conoscerlo.

«Potrei rigirarti la domanda» l’umano non ritirava mai gli artigli, se doveva colpire, colpiva, a prescindere quanto affetto e gratitudine provasse per quel bellissimo lupo scorbutico.

La creatura della notte lo fulminò con quelle incredibili iridi verdi, riuscivano a spiccare in tutto il loro splendore anche attraverso una microscopica telecamera in un ambiente in penombra; la matricola non riusciva proprio a digerire l’ingiustizia. 

«È vero, non voglio che le persone si avvicinino troppo. Non voglio che nascano situazioni complicate perché vengo frainteso o non diano peso alle mie parole, archiviandole come sciocchezze dette tanto per essere dette e mettere le mani avanti» in parte lo erano, lui era chiaro fin dal principio perché odiava le scenate, ma con qualcuno non sembrava bastare mai. «Non ho detto nemmeno che rinnego l’amore o che non possa succedere di innamorarmi in qualsiasi momento, semplicemente non voglio creare di mia iniziativa un terreno in cui possa germogliare finché non sarò in grado di badare anche un minimo a me stesso».

«Questo è qualcosa che dovrebbe decidere la seconda persona coinvolta» disse inaspettatamente il lupo mannaro, la voce profonda e penetrante che gli affondava nei timpani.

«Che cosa?» gli occhi ambrati erano attivi e circospetti, spalancati per lo stimolo della sorpresa scioccante. «Di prendermi così come sono adesso?».

«Anche» acconsentì all’ipotetica possibilità il capitano della squadra di basket, il cellulare che cambiava inquadratura per la nuova posizione in cui si era sistemato, distendendo i muscoli addormentati. «Adesso o dopo».

Stiles era un po’ confuso, credeva di aver perso il nocciolo della questione o che l’avessero persa entrambi. «Non mi chiuderò a riccio se avverrà un colpo di fulmine, se è questo che ti preoccupa».

«Forse no, ma comunque non ti sentiresti adeguato, giusto» la verità che Derek rivelò a parole lasciò svuotato lo studente di criminologia di ogni particella d’ossigeno.

«Avrei torto in quel caso?» Derek non poteva proprio rimproverarlo per quello. «Quante persone potrebbero accettare la mia storia? Imbarcarsi con le mie attuali difficoltà?» Stiles in realtà non si era mai soffermato su quell’aspetto, era troppo concentrato su se stesso per desiderare di far affondare qualcun altro con sé, rimuginarsi su e fantasticarci. Aveva cercato di avere una relazione quando era completamente a pezzi e non aveva minimamente funzionato, ma nella via appena accennata per la guarigione come sarebbe andata? «C’è un solo nome nella mia lista» cazzo, non avrebbe mai dovuto farselo sfuggire.

C’era un silenzio millenario intorno a loro, l’aria era immobile in modo anomalo perfino all’interno di un appartamento. Era impressionante quanto fosse bravo a scavarsi la fossa da solo anche quando la persona interessata non era nemmeno nella stessa stanza. In quel caso specifico, nemmeno nel medesimo stato.

«Chi sta flirtando, adesso?» lo stuzzicò bonariamente la creatura leggendaria, spezzando la tensione che si stava radicando dentro l’essere umano.

Stiles soffiò come un gatto offeso, indispettito e colto alla sprovvista. «Non voglio parlarti più» si girò dall’altro lato per sfuggire al suo sguardo vigilante, accompagnato dall’ennesimo sbadiglio che gli scappò a sottolineare quanto non riuscisse più a stare sveglio ed a connettere il cervello con pensieri fluidi e comprendibili.

Derek rilasciò una risata più morbida e prolungata rispetto a quelle passate, trattenendola di meno. «Stiles, non sto dicendo che stai agendo nel modo sbagliato. È giusto che ti muovi nel modo in cui ritieni più opportuno e anche di essere attualmente disinteressato a qualsiasi tipo di relazione che vada oltre il colloquiale, ma non c’è bisogno che tu sia così severo. Se vuoi rivedere qualcuno, fallo».

Con il volto nuovamente diretto verso la fotocamera, il naso di Stiles si arricciò a dissentire la sua visione, per niente persuaso a voler agire diversamente e scatenando un’altra singola e secca risata nel mutaforma. «Buonanotte, Sourwolf» voleva soltanto rivedere Derek, in tutta la sua presenza materialistica, non attraverso un freddo schermo senza che potesse avvertire il radiare della sua temperatura corporea incredibilmente alta o il suo odore selvatico e completamente connesso alla natura che avevano il dono di farlo sentire totalmente al sicuro.

Sfiorò appena, distante da sé, il cuscino di Derek con le punta delle dita, sprigionando la sua fragranza e Stiles sospirò di contentezza, ispirandola tutta, anche se era un rachitico contentino. «Buonanotte, Stiles» proferì il lupo nero con tutto il calore che poteva trasmettergli da quella distanza insormontabile.

 

Lo sfregare della padella lo svegliò, lo sfrigolare dolce e delicato, appena accennato, insieme al profumo delizioso che gli riempiva le narici ad annunciargli un lieto ben svegliato e un pronostico migliore per iniziare la giornata universitaria.

Dalla finestra proveniva luce aranciata per via della tenda che Derek aveva scelto, propagando quel calore in tutto l’ambiente circostante, impedendo ai raggi solari di invaderlo completamente e attutendo il suo potere, ma quel giorno Stiles notò che era del tutto inutile quella premura, come nei giorni passati, il mal tempo regnava sovrano, le nuvole difficilmente si dissolvevano e si chiedeva se stava finalmente arrivando il tempo della prima nevicata.

Mettendosi in posizione da seduto, la schiena contro i cuscini, gli occhi ancora appannati e sporchi di sonno, non poté non notare quanto effettivamente fosse calda la casa del mannaro, tutti quei rossi e aranci, singoli o miscelati insieme, irradiavano appartenenza ovunque posasse lo sguardo, un abbraccio continuo, totalmente opposto alla freddezza della sua camera nel bilocale a Beacon Hills e nemmeno Laura a quel tempo si era dedicata molto a renderlo accogliente più del necessario.

Era qualcosa di stupefacente, Stiles l’aveva notato con tempi di ritardo, così sopraffatto dalla realtà di quanto avesse bisogno che qualcuno si occupasse di lui quando era un continuo pericolo per se stesso. Non gli aveva dato alcun merito, ma Stiles non si era mai sentito fuori posto o al gelo, quel monolocale lo chiamava, lo voleva al suo interno, esattamente come Derek esponeva silenziosamente di volerlo con sé. Era tutto così diverso.

«Sta diventando difficile» dichiarò l’umano quando lo raggiunse, i calzini antiscivolo ai piedi e con le braccia che avvolgevano il torace nudo del licantropo, aderendo alla schiena, la pelle contro la sua guancia premuta. Voleva goderselo il più a lungo possibile, prorogare quel legame indissolubilmente. Se Stiles aveva sviluppato una sorta di dipendenza, quella era senz’altro la necessità di godere del calore di Derek.

«Cosa?» Derek si destreggiava con i fornelli, una piccola pila di pancake fumanti che si andavano ad impilare ad ogni gioco di padella, la tavola era già apparecchiata e lo sciroppo d’acero in bella vista.

«Te l’ho detto, sto diventando egoista» appoggiò le labbra sull’epidermide, ad un soffio dalla spirale superiore della triscele tatuata, accarezzandola con il fiato bollente. «Tutte queste notti senza di te» il mutaforma era rientrato quando Stiles stava già dormendo e non si era accorto del suo ritorno, non si era minimamente svegliato. Cosa sarebbe accaduto quando Derek si sarebbe trattenuto più giorni lontano dal campus? Fu irrefrenabile il gesto di scoccargli un bacio sulla pelle inchiostrata di nero.

Derek non tremò in quell’occasione, ma rimase immobile come una statua, togliendo il nuovo dischetto di farina dal fuoco e aggiungendo del nuovo impasto sulla fiamma. «Cosa vuoi che faccia? Che inizi a perdere?» si girò nel suo abbraccio e lo fronteggiò apertamente.

Stiles lo adocchiò in un primo momento, prima di muovere una mano verso una confezione di cioccolato vicino al piano cottura, cospargendo l’impasto del pancake con alcune gocce sul lato ancora crudo, venendo assemblate con cura. «No, ovvio che no. Non ti chiederei mai una cosa simile, non la chiederei mai a nessuno» non era così egoista. Non era giusto nei confronti di Derek né per i suoi compagni di squadra. Anche se ci avesse pensato, anche se fosse stato tentato, Derek era troppo onesto. «Mi sto soltanto lamentando. Posso lamentarmi e basta?».

«E per questo che mi hai abbracciato tutta la notte?» domandò con leggero scherno il capitano, un angolo della bocca arricciato verso l’alto. «Ti stavi lamentando?».

Il capo dello studente di criminologia fece uno scatto improvviso e le iridi d’ambrosia si espansero. Che cosa stava farneticando? «Non so cosa faccio la notte» il nocciolo della questione non era proprio quello? Se si trovavano in quella situazione era proprio perché Stiles non aveva la minima idea di come si comportasse mentre era in visita nel regno di Morfeo.

«A-ah, certo» gli diede il contentino il padrone di casa, sbrigandosi a voltare la frittella e lasciare che si cuocesse dall’altro lato per qualche attimo, prima di provvedere a crearne una nuova. «Puoi lamentarti, Stiles» proferì francamente, dandogli tutta la sua totale attenzione, prendendogli il viso in una mano. «Ma le ultime volte sono andate meglio».

Non si era più ritrovato Erica sul divano e questo era quanto dire, ma soltanto perché un paio di volte si erano rivelate fortuite, non voleva dire che i suoi problemi stessero scemando. «Questo lo dici tu, io non ne ho idea».

Lo sospirò esausto sulle labbra del lupo completo e quest’ultimo gli lambì il setto nasale con la punta del suo. «È così».

Stiles lo assaporò pienamente, le palpebre socchiuse appena. «Davvero ti ho abbracciato?» era una cosa così insolita, insospettata. Normalmente era Derek a farlo, per quanto di normale non ci fosse proprio nulla, ma ormai era quella la loro quotidianità.

«Sì» confermò con tranquillità lo studente del terzo anno, osservando il cruccio perplesso della volpe destabilizzata.

Stiles, pensieroso, terminò di cucinare il pancake, sporgendosi dietro il licantropo e guardandolo successivamente mentre gli porgeva un piatto in cui era stata sistemata la sua porzione. «Forse non voglio condividerti con nessuno» sopraggiunse meditativo, dirigendosi verso la tavola e sedendosi sulla sedia che gli permetteva di guardare all’esterno. «O forse mi manchi più di quanto immagino».

Derek dietro di lui era in assoluto silenzio ed immobile, quasi Stiles fosse da solo per l’intero monolocale, esattamente come quando il mannaro era in viaggio con la squadra di basket; non era un bel pensiero, ne risentiva parecchio quando accadeva e lo costrinse a girarsi verso di lui, ma Derek si era sistemato nel posto davanti al suo, ottenendo una visuale in controluce che non gli permetteva di delineare correttamente i lineamenti del suo volto. «Sono una tua certezza, è normale».

Non era sicuro che fosse semplicemente quello. «­Attualmente, sei l’unica. O quantomeno, sei ciò che gli si avvicina di più».

Derek lo fissò con un punto interrogativo, ma non si prodigò a formulare una domanda in proposito. «Anch’io sento la tua mancanza».

Improvvisamente il figlio dello sceriffo credé di essere diventato improvvisamente sordo. «Cavolo, vorrei tanto incontrare il Derek di due anni fa e sbatterglielo in faccia».

Derek quasi non si strozzò con il suo caffè bollente. «Ti avrei già divorato vivo».

Stiles sbuffò profondamente offeso e si riempì con un’enorme forchettata della sua pila di pancake. «Già, a volte sei pronto a farlo anche adesso».

«Allora non dovresti provocarmi» gli fece ben notare, sottolineando l’ovvietà.

«Sourwolf, non sarebbe divertente» Stiles ammiccò impudente del pericolo e Derek era rassegnato, scuotendo il capo e limitandosi a concludere la colazione; con l’umano nessuno poteva mai avere l’ultima parola.

 

«Merda» esclamò lo studente di criminologia in un angolo lontano dal bancone, agitando lo smartphone azzurro che aveva visto giorni migliori e pasticciando con la tastiera touch senza ottenere risultati, ma aggravando la situazione.

«Che succede?» gli chiese Tracy mentre sistemava alcune tazze appena uscite dalla lavapiatti, ancora calde. Quella imprecazione attirò anche l’attenzione del loro cliente più fedele.

Stiles provò a chiudere tutto, ripristinare le applicazioni aperte insieme al motore di ricerca, ma proprio non ne volevano sapere, gli stavano rendendo la vita impossibile. «Non riesco a prenotarmi» sospirò sconfitto, gettando il telefono sulla lastra di legno e necessario di prendere una boccata d’aria per calmarsi. Dopo un respiro o due, gli occhi gli caddero sugli strumenti su cui quel giorno il suo cliente preferito stava utilizzato per studiare, seduto come da prassi su uno degli sgabelli del bancone, nella parte più estrema in cui difficilmente avrebbero potuto disturbarlo, a meno che non si presentasse negli orari di punta; in quei casi si appropriava di un tavolino. «Der, mi presti il tuo iPad?» gli domandò con occhi supplicanti, il labbro inferiore che tremava e la disperazione mista a speranza che prevaricavano. «Devo riuscire a iscrivermi ad un nuovo corso e prenotarmi per una consulenza con un professore».

«Un altro corso?» gli fece eco la creatura della notte, aggrottando le sopracciglia, ma per nulla sorpresa. «Ti ricordi di essere soltanto una matricola da appena tre mesi?» anche se aveva delle riserve, gli passò comunque ciò che aveva richiesto.

Stiles gli regalò il suo sorriso più luminoso e stracolmo di gratitudine, afferrando con cautela la tavoletta elettronica e mettendo in sospensione l’app di lettura che Derek stava utilizzando per mettersi in pari con i suoi studi, aprendo invece il motore di ricerca in cui era salvato il sito internet dell’università. «Inizia ad aprile, tranquillizzati, Sourwolf. Ma è troppo richiesto, non voglio perdere l’occasione» inserì i suoi dati d’accesso e smanettò con le varie icone, cercando quello di cui aveva bisogno. La familiarità che aveva con quell’oggetto era evidente, lo si capiva anche da quante cose di suo interesse fossero salvate al suo interno. Spesso aveva dovuto prenderlo in prestito dal mannaro, decidendo successivamente di concordare un codice comune ad entrambi per sbloccare lo schermo. Inizialmente era stato un po’ mortificante per Stiles, ma come al solito Derek non gli faceva mai pesare niente. Aveva molto senso dopo che gli dormiva con il viso affondato nel petto ogni notte? «Sì» cantò quando la sua impresa sembrò essere portata a termine, controllando tra le e-mail, l’indirizzo incolonnato sotto quello di Derek, le password non salvate per avere ancora una parvenza di privacy per tutti e due. «Grazie, mio grandioso Alpha» proferì con entusiasmo una volta controllata la posta elettronica ed aver visualizzato la certezza ultima, chiudendo tutto e restituendo l’iPad al legittimo proprietario.

Derek roteò gli occhi immune a tutta quella teatralità. «Puoi contenere la sua esagerazione» eppure dalla matricola ottenne il sorriso più caloroso, accompagnato da un cupcake all’Oreo che gli allungò come premio ulteriore, come se al lupo fosse realmente necessario.

«Alpha? Cos’è, un gioco tra voi?» si vide costretta a chiedere Tracy non capendo quasi mai la metà delle loro conversazioni.

Stiles ammiccò spudoratamente e Derek avrebbe preferito uscire da lì prima di sentire un’altra sua scemenza. «Vuol dire che lo seguirei in capo al mondo».

«Non sei bene accetto» rigettò chiaramente il capitano della squadra di basket, controllando l’orario sullo schermo della tavoletta elettronica e spegnendolo successivamente. «Incartalo, invece di perdere tempo» gli indicò con un gesto il dolce che si aveva messo sul piatto, insieme a quello terminato almeno mezzora prima.

Non è vero, mimò con le labbra il figlio dello sceriffo senza emettere suono nella direzione della barista, scatenandole una piccola risata. Si affrettò a prendere una piccola busta per il dolcetto, mentre Derek allungava il telefono per pagare; Stiles non avrebbe dovuto più guardare a quanto corrispondesse l’importo per la sua mancia, ma ogni volta si sorprendeva. Gli aggiunse anche un paio di biscotti glassati mentre era distratto, con l’intento di scalarli dalla sua paga. «Ecco a te, Sourwolf».

Derek afferrò il pacchetto, lo smartphone in tasca e l’iPad a fare quasi da vassoio, finché non fosse arrivato al 1855 Place per prendere il borsone degli allenamenti e raggiungerli. «Ci vediamo a cena?».

Stiles dovette scuotere la testa in diniego, indicando con una mano la ragazza accanto a sé. «Oggi gruppo di studio».

Tracy allungò appena un braccio per identificarsi, con l’espressione colpevole come se l’autrice del misfatto fosse proprio lei e fu attraversata dagli occhi di smeraldo del capitano, quasi prendesse coscienza della sua presenza soltanto in quel momento. Non molto lusinghiero, ma il suo batticuore non voleva sentire ragione.

«Okay» fu tutto quello che il licantropo proferì, inflessibile come sempre, eppure la barista riuscì ad avvertire una nota impercettibile di scontentezza.

Stiles lo salutò con il suo ghigno imperiale, i gomiti sul bancone e cinque dita che sventolavano un ciao ciao mentre la creatura leggendaria si defilava.

«Come fai a resistergli?» domandò stupefatta ed incredula Tracy, lasciandosi scappare un pensiero che aveva sempre avuto in testa da quando li aveva visti interagire la prima volta meno di un mese prima.

Il figlio della massima autorità di Beacon Hills la fissò in un primo momento senza minimamente comprenderla. «Sei convinta non lo trovi attraente?».

In quell’istante la studentessa di criminologia era ancora più stupita, forse si era evidentemente persa qualcosa o aveva frainteso. «Non è così?».

Stiles ridacchiò di cuore, soprattutto per la sua ingenuità. «No. Decisamente non è così da quando avevo quindici anni, forse anche qualcosa in meno» soprattutto se lo si vedeva ogni giorno mezzo nudo.

«Quindici- cosa…» Tracy strabuzzò gli occhi, una nuova cliente entrò per ordinare una fetta di Red Velvet e una spremuta d’arancia. Si concentrò a servirla per non perdere il filo del discorso. «Com’è possibile? Pensavo vi foste conosciuti qui» ma in effetti quello avrebbe spiegato le loro conversazioni, la loro intesa.

La cliente si allontanò soddisfatta, occupando uno dei pochi tavolini liberi e Stiles si dedicò a sparecchiare e pulire la postazione in cui aveva soggiornato il lupo nero per un’intera ora. «Provenivamo dalla stessa piccola città, abbiamo frequentato lo stesso liceo».

Tracy stentava a credere alle sue stesse orecchie, ma perché era così sorpresa? Non aveva mai davvero indagato, nessuno aveva mai nominato la città dell’amato capitano della squadra di basket e non si era curata di scoprire cosa accomunasse davvero quei due. «Vi conoscete da così tanto tempo?».

«Quello è un parolone» ridimensionò il figlio dello sceriffo. «Entrambi eravamo a conoscenza dell’esistenza dell’altro, più o meno».

Non era sicura di seguire il filo del discorso. «Quindi, non stavate insieme nemmeno allora?».

Stiles strabuzzò gli occhi e le pupille furono pizzicate. La fissò come se avesse a che fare con una persona squilibrata. «Figurarsi» gli veniva da ridere al solo pensiero, soprattutto se in mente aveva il Derek di due o tre anni prima. «Perché avremmo dovuto?».

Tracy aveva giusto un paio di argomentazioni in proposito, ma Stiles era troppo sordo per sentirle o semplicemente ignaro. «È tutto qui? Prima vi ignoravate e adesso avete un rapporto platonico?» relazione, avrebbe corretto.

Il ragazzo soppesò il significato di quell’espressione, la corretta collocazione che dipingeva un quadro chiaro. «Se è così che vuoi definirlo».

E in quale altro modo avrebbe dovuto definirlo? «Perché, allora, adesso state sempre insieme?».

Le labbra di Stiles si socchiusero, esitarono e le iridi girarono intorno come a cercare qualcosa, la matassa dei suoi pensieri; Tracy credé di essere stata troppo invasiva. «Le nostre vite si sono intrecciate» non proseguì e non aggiunse nient’altro, rimase soltanto il fiato sospeso, quasi a dover essere completato, ma lei non aveva gli elementi con cui farlo. Lei vedeva soltanto il modo assoluto in cui Stiles e Derek Hale orbitassero l’uno sull’altro, come la Terra e la luna. Ma chi era la luna? Se il fatto che Stiles etichettasse scherzosamente Derek come un lupo acido avesse una qualche valenza, era indubbio che la matricola fosse la luna per il capitano. «Non sapevo nemmeno che Derek fosse qui».

Quella nuova informazione la sorprese, ma aveva senso dopotutto, giusto? Se appena erano consapevoli l’uno dell’altro, perché avrebbero dovuto conoscere i loro spostamenti? «Dove credevi che dovesse essere?».

Uno dei clienti ai tavolini tornò per una nuova dose di caffeina, ordinando anche dei cookies alle nocciole per la sua compagna di studi che si teneva le mani tra i capelli per la disperazione e Stiles lo servì impeccabilmente. «Non ne ho idea, ero contento avesse trovato il modo di andar via» era onesto soltanto in parte.

«Come mai?» la studentessa di criminologia fu stuzzicata da quella nozione disinteressata, le orecchie si fecero più attente. «Situazione difficile in casa?».

Derek una casa non l’aveva più. «Non lo sai» lo sguardo era sorpreso e quello in risposta interrogativo, completamente ignaro. Stiles non l’aveva mai preso in considerazione vista l’enorme ammirazione che la maggior parte del campus provava per il nato lupo, ma stava diventato sempre più evidente che nessuno in quell’ambiente fosse a conoscenza del suo passato. «Forse non è più tra le principali» ragionò tra sé e sé. I risultati sportivi avevano surclassato tutto il resto e l’interesse era soltanto superficiale? Stiles era vistosamente sollevato.

Cos’è che non sapeva? Cosa non era più tra le principali? Le notizie? I risultati su internet? Era già pronta ad estendere una nuova domanda, ma il campanello che annunciava l’arrivo di un nuovo cliente tintinnò e richiese la loro totale attenzione. Qualche secondo dopo, risuonò nuovamente. «Beh, è innegabile che qualcuno non vuole affatto un rapporto platonico» lo derise prontamente mentre Stiles soffocava un’imprecazione alla vista di Heather e Theo una di seguito all’altro, completamente all’oscuro del ruolo che avevano nella vita dello studente di criminologia.

Quando Tracy terminò il turno e ritornò nella sua camera nel dormitorio, fu difficile togliersi le parole di Stiles dalla testa, quel mistero fitto sulla vita del capitano.

Con il telefono digitò le parole Derek Hale, imbattendosi in un eccessivo numero di risultati. Dovette aggiungere ulteriori parole chiave, cambiare più volte abbinamenti e decidere alla fine di includere anche piccola cittadina o piccola città, finché una pagina di cronaca nera spuntò come primo risultato, seguito da altre testate più piccole, ribadendo fosse tuttora un caso irrisolto.

Le venne il magone e le si chiusero le vie aeree quando lesse di un incendio doloso spaventoso che inghiottì undici vite, tra cui alcuni bambini. A sopravvivergli soltanto due membri della famiglia, ufficialmente orfani: Laura e Derek Hale, di venti e quindici anni.

A sovrintendere le indagini vi era lo sceriffo Noah Stilinski.

Ah, era davvero una piccola città. Minuscola.

 

Stiles era stravaccato malamente sul divano con un libro di difficile interpretazione in mano, la stella principale del loro sistema solare era tramontata da ore e le tenebre erano calate inesorabili, insieme al freddo che si intensificava di giorno in giorno, Derek invece era immerso in una ricerca fondamentale che gli richiedeva una quantità di tempo significativa, seduto davanti al tavolo, le dita che scivolavano sulla tastiera del Mac e nell’intero monolocale quel ticchettio era l’unico suono che albergava tra loro.

«Credi che dovrei avvisarlo, mio padre?» domandò la matricola con la mente altrove, evidentemente impossibilitata a concentrarsi sul testo che scorreva da alcuni minuti senza risultato. «Per Natale».

Derek si interruppe, sbirciandolo da sopra il portabile aperto. «Manca ancora un mese».

Tantissimo tempo, eppure centellinato. L’umano sospirò con frustrazione e sensi di colpa.

«Se lo informarsi, cosa credi succederebbe?» gli domandò il licantropo con visione lunga, costringendolo a valutare i vari scenari.

«Verrebbe a prendermi di peso, esattamente come avrebbe voluto fare fin dal primo giorno universitario» sarebbe andata esclusivamente in quel modo se Derek non fosse stato una sorta di peloso e bellissimo angelo custode. Avrebbe anche significato che non si sarebbero mai rincontrati.

Derek non aggiunse nulla e Stiles sospirò amareggiato, socchiudendo il libro. «Sto valutando, vigliaccamente, di aggiornarlo all’ultimo minuto, quando non esisteranno alternative per risolvere la soluzione».

Il mannaro digitò qualcosa sui tasti del portatile, il mouse touch che scorreva tra i documenti di suo interesse. «Se ritieni sia la soluzione migliore».

Lo stava giudicando? Non ne era sicuro, di certo non gli avrebbe fatto cambiare idea. «A quel punto avrà chiara la situazione» ispirò grossolanamente, il peso sul petto che non andava ad attenuarsi. «Tu, invece, che progetti hai?».

«Non ci ho ancora pensato» disse distaccatamente, annotandosi qualcosa su un tomo enorme poggiato alla sua destra.

Le iridi d’ambrosia si posarono sentitamente sul suo interlocutore e il licantropo non aveva molte scuse per ignorarle. «Stai considerando di rimanere con me? Perché rimarrei da solo».

Era un’accusa con della rabbia che faticava a trattenere. «Non ho ancora deciso niente».

Stiles si sciolse dalla sua posizione semisdraiata e si portò in quella da seduta. «Derek, da quanto tempo non vedi Laura?».

«Da quanto tempo non vedi tuo padre?» gli rigirò con prontezza, il tono eloquente così com’erano gli occhi verde brillante.

«Touché» il figlio dello sceriffo si strinse nelle spalle, rimpicciolendosi sotto lo sguardo del lupo. «Ma non devi rimanere soltanto a causa mia».

«Cambieresti i tuoi piani in base ai miei?» gli chiede direttamente, le folte sopracciglia decise.

«No» non avrebbe avuto alcun senso.

«Allora non devi temere le mie decisioni» proferì con forza il capitano della squadra di basket, portando a conclusione la discussione.

Stiles abbattuto si abbandonò pesantemente sullo schienale del divano, prima di alzarsi e raggiungere il mutaforma, prendendo una sedia e sistemandosi proprio davanti a lui, le gambe che toccavano la sua coscia. «Sei sicuro che ti vada bene restare con me?».

Stiles non mollava proprio mai, era una lezione che Derek doveva continuamente imparare. «Quante volte devo ripeterti che non ho preso una decisione in merito?».

«Ma l’hai presa, lo sappiamo entrambi» tergiversare non serviva alla causa. «Quindi, Der, sei certo che rimanere con me sia quello che vuoi?».

«Tu non sai cosa voglio» era una voce lapidaria, ma morbida, un connubio difficile da spiegare, ma entrò dentro ogni vertebra dell’umano.

«Già, è vero» poggiò la testa sconfitto contro la spalla della creatura della notte e le mani all’altezza dello stomaco presero a tremare, ad enfatizzare le sue insicurezze e colpe, i tormenti che non gli davano tregua.

Le dita di Derek con delicatezza lo spostarono nell’incavo della spalla e Stiles sprofondò completamente nel collo, accarezzandolo con il fiato caldo e successivamente con le labbra. «Non mi pento mai del tempo che trascorro con te, Stiles».

Lo studente di criminologia sorrise contro di lui con pienezza, il cuore che accelerava a quella devozione piena di affetto di cui Stiles era l’unico a beneficiare. «Nemmeno io» la bocca scioccò un bacio inavvertibile sull’epidermide, quasi fantasma, qualcosa che poteva non essere mai esistito e le falangi del mannaro si intrecciarono alle ciocche castane in risposta.

Prendendo un respiro pieno, Stiles notò che le mani si erano fermate e che la voragine aveva smesso di risucchiarlo almeno per quell’occasione. Doveva arrendersi all’innegabilità che Derek avesse il dono di calmarlo.

Gli dedicò un sorriso tutto per lui quando si separò dalla nicchia confortevole, incontrando la profondità sviscerante del suo sguardo, talmente stracolmo di qualcosa che Stiles non era ancora in grado di interpretare. Quello non smetteva di avere un effetto corroborante su di sé, soprattutto perché sembravano estendersi per una quantità temporale infinita.

Ma poi i suoi occhi furono catturati da qualcosa di bianco e arrotondato che scendeva giù dalla finestra, seguito da altri batuffoli simili. Si voltò immediatamente e si alzò dalla sedia per aguzzare la vista, avvicinandosi con cautela alla piccola vetrata e sporgendosi da sopra il divano a tre posti. «Sta nevicando» annunciò con tono l’inaspettato, la gioia che sormontava tutta insieme. «Der, è neve».

Così come lo esclamò, al pari di un bambino che vedeva realizzarsi il suo più grande desiderio, Derek lo vide filare via con uno scatto mai visto ed invidiabile, del tutto opposto alla sua incapacità di coordinazione, indossando saltellando sul posto le scarpe e fiondandosi oltre la porta, precipitandosi per le scale a due a due. «Stiles, rallenta» ma con chi parlava? Era un’impresa persa in partenza.

Lo trovò al centro del piazzale, al limite del bordo del marciapiede, le braccia aperte a raccogliere i fiocchi candidi che gli ricadevano addosso e gli rimanevano impigliati. Attorno a loro la gente reagiva in modi differenzi, chi proseguiva ignorando il cambiamento con l’ombrello aperto, chi si rifugiava sotto le tettoie in attesa che la nevicata rallentasse o si arrestasse, qualcuno si fermava ad ammirarla, ma nessuno era così pieno di meraviglia e contentezza come Stiles. E nessuno indossava soltanto una felpa che si andava bagnando ad ogni secondo che trascorreva. «Indossa questi, subito».

Stiles rise con il cuore pieno di gioia, il fiato che diventava visibile per via delle temperature che scendevano oltre lo zero grado, permettendo al mannaro di avvicinarsi per sopperire alle sue sregolatezze. «Sei un’incosciente» lo riproverò Derek, la voce inflessibile, eppure era ben consapevole quanto l’umano fosse completamente sordo a quelle ribeccate.

Gli avvolse intorno al collo la sciarpa rossa, costringendolo ad indossare il giubbotto, chiudendo la cerniera e bloccandola sotto alla fascia di lana colorata. Si adoperò ad annodare la sciarpa rigidamente e a scacciare i confetti bianchi dal volto arrossato di Stiles per via del freddo. Perché si ritrovava ad avere a che fare con un bambino? «Indossa anche questo» gli ordinò senza voler sentire ragioni, alzandogli sulla testa il cappuccio contornato da un bordo di pelliccia finta bianco, nero e grigio. Le gote rosse emergevano vistosamente in mezzo a quel contorno di blu e l’estensione della candidezza del manto innevato, in pendant perfetto con il colore della sciarpa di cui Derek gli aveva fatto dono.

«Dove l’hai trovato? Pensavo di averlo perso» domandò la matricola con stupore evidente, toccando alcune punte del pellicciotto che la incorniciava, così come le giunture dei bottoni che permetteva ai due pezzi di separarsi o unirsi all’occorrenza. «Non credevo nemmeno di averlo portato in casa tua».

«Sono soltanto più bravo di te a trovare le cose» la fece semplice il lupo completo, sistemando meglio il cappuccio sulla testa dell’umano che si arricchiva di acqua cristallizzata.

«Certo» sogghignò con la nozione fondamentale dalla sua parte. «Hai questo» con il polpastrello dell’indice gli premette la punta del naso con il tocco di una piuma.

«Sei la volpe più impulsiva e irresponsabile che abbia mai conosciuto» rivelò Derek qualche secondo dopo, faticando ad accettare che potesse esistere un tale connubio in una mente sempre attiva e guardinga come quella di Stiles.

Il figlio dello sceriffo gli scrostò la neve da uno dei sopraccigli neri, le dita che lo accarezzavano con cura senza essere clementi. «Ne hai conosciute molte?» lo provocò con accuratezza, le iridi d’ambrosia in quelle di smeraldo.

Derek resse lo sguardo, ma non rispose né Stiles si aspettava qualcosa di diverso. «Posso permettermelo se ho l’Alpha migliore del mondo ad occuparsi di me, delle mie mancanze».

«Non sono un Alpha, Stiles» scandì meticolosamente, tentando di farglielo entrare in quella testa diabolica.

«Ah, sei in errore» lo rabbonì il diciannovenne, una falange che si agitava davanti i suoi occhi a negare le sue convinzioni sbagliate. «Devi soltanto arrivarci anche tu, Sourwolf».

«Vuoi saperne più di me su come mi senta?» gli domandò sprezzante e con una nota di critica, le sopracciglia inspessite e giudicanti.

«Ovviamente no» le gote erano più rosse, la pelle diafana sembrava ghiaccio e il fiato si condensava in una nuvola fumosa che toccava il lupo e fili di pelliccia sintetica morbida si muovevano ad ogni parola. «Ma non puoi credere davvero che l’eredità secolare degli Hale, la tua eredità, possa aver commesso un errore simile. Ha scelto Laura e ha scelto te» le dita gelate carezzarono le ciglia del mannaro, le punta lambivano l’epidermide sottile della palpebra superiore. «I tuoi bellissimi occhi sono soltanto un riflesso della tua totalità».

«Questo è un modo molto elaborato di forzare una persona a far quello che tu vorresti» osservò il capitano, ignorando volutamente l’attitudine dell’umano di elogiare il prossimo.

«Ti senti forzato nel dovermi costantemente inseguire? Come in questo caso» elaborò Stiles in un moto di interesse, la gestualità che indicava se stesso e quel giubbotto indossato in una rincorsa, la risposta già contenuta nella domanda. Era minuziosa e studiata, assestata perfettamente.

Il mannaro lo scrutò vigile, in sospensione. «No».

«Vedi?» le labbra dello studente di criminologia si distesero in un sorriso composto di soli denti, la vittoria in tasca. «Non puoi farne a meno».

Derek sospirò internamente esaurito, la testa che scattava verso l’alto alla ricerca di un nuovo respiro da prendere; vincere contro la curva machiavellica della bocca di Stiles era un’impresa titanica che portava alla disfatta. «Vedo soltanto una volpe molto scaltra» ispirando profondamente, la neve gli cadeva addosso, ma con dolcezza si scioglieva appena entrava a contatto con lui, ad evidenziare la differenza netta della sua temperatura corporea rispetto a tutti quelli che li circondavano.

Di sottecchi osservò la matricola mentre tra le falangi sottili e lunghe, che l’avevano toccato pocanzi, si lasciava scivolare i batuffoli di acqua solidificata; li sfiorava con i dorsi e giocava con loro, permettendo a qualcuno di depositarsi sul palmo aperto, studiandoli con vivo interesse. «Non ho mai visto la neve» proferì Stiles, come se in qualche modo sapesse di dover dare delle spiegazioni per il suo entusiasmo fanciullesco. «Non quella reale» sbirciò nella direzione di Derek attendendo qualche domanda, ma lui parlava con l’espressione facciale e con il silenzio, aspettando che fosse lo studente di criminologia a riempirlo. «Non so perché, il Nogitsune me la mostrò. Ma non aveva alcun senso, non ha mai nevicato a Beacon Hills» poi tacque e il dubbio che lo tormentava si palesò completamente. «È reale?».

«Supponi non lo sia?» chiese il lupo completo con moderazione, gli occhi vigili. «Perché?».

Stiles lo guardò smarrito e un fiocco si sciolse sul monte di Venere. «Non l’ho mai vista, non saprei riconoscere le differenze. Non sono capace neanche con ciò che conosco» ammetterlo gli risuonava come una continua sconfitta. «A volte, non so nemmeno se tu sia reale, se è tutto soltanto nella mia testa».

Derek era frastornato dalla rivelazione di Stiles, dal panico che udiva nel sottofondo della sua voce. «Io? Per quale ragione dovrei esserlo?».

Stiles esitò, un nodo di saliva venne ingoiato, gli occhi saettarono da una parte quasi a trovare coraggio o a sottrarsi completamente dal confessare la sua verità. «Perché sei la cosa migliore che mi sia capitata negli ultimi anni».

Derek trattenne il fiato, la sincerità di Stiles lo spiazzò. C’era anche un sorriso triste a sporcargli la bocca e non era difficile comprendere per quale ragione. «Credevo ti fidassi di me».

«È così» le dita si tormentarono tra loro, il disagio e l’affanno sormontarono. «Sono terrorizzato da quanto mi fidi di te, Derek. Ma se poi scoprissi che non c’è nulla di vero? Che la mia testa sta nuovamente giocando con me? Per me è così difficile capire cosa sia reale e cosa non lo sia».

«Non sono nella tua testa» le mani di Derek gli circondarono il viso ghiacciato e Stiles venne avvolto immediatamente dal suo calore, da come fluisse in lui completamente, risollevandogli ogni osso. «Puoi sentirmi. Puoi toccarmi. Puoi parlarmi. Sono reale».

Stiles tremò vistosamente sotto il suo tocco, le iridi di miele si inumidirono e le labbra tormentate dai denti che schiacciavano e si conficcavano nelle pellicine. «Stiles, riesci a sentirmi?» gli domandò il lupo, il pollice che asciugava le lacrime dalle ciglia chiare e la fronte poggiata contro la sua, completamente a contatto.

Era circondato, accerchiato da tutto quel calore corporeo che si insinuava sotto la pelle, divenendo anche il suo. Da tutta l’essenza di Derek, onesta e dedita a quella povera piccola volpe infreddolita ed impaurita quale era. Perché, perché riusciva a vederlo soltanto Derek? «Sì» proferì senza voce, le corde vocali che graffiavano, i suoni gracchianti che riproduceva.

Il lupo lo avvicinò maggiormente a sé e se il suo intento era quello di inglobarlo, Stiles non si sarebbe opposto. «Se hai bisogno di altre prove, di altri fatti, li testeremo tutti, finché non sarai sicuro».

Stiles voleva piangere, versare tutte le sue lacrime che si sarebbero condensate in stille salate, sfogare tutto il malessere che si sovrapponeva strato dopo strato dentro di sé, soffocandolo e che soltanto la cura e l’attenzione di Derek riuscivano a scavare, creando un passaggio che gli permettesse di respirare giorno dopo giorno. «Sì».

Il capitano si allontanò appena, la distanza necessaria che gli permettesse di poterlo guardare meglio nelle gemme caramellate appannate che non lo focalizzavano perfettamente. Gli depositò un bacio caldo su un occhio che si socchiuse al contatto ed un altro al centro della fronte. L’ultimo fu schioccato sulla punta del naso rosso che scatenò ilarità in Stiles, provocandogli una risatina divertita, sollevata e alleggerita.

Ricambiò strusciando il naso contro il suo, sorridendogli con affettuoso diletto. «Der, dovresti farmi un favore» gli disse con sottofondo diabolico, le iridi del nettare degli dei che splendevano mentre si cancellava la patina di acqua salata, separandosi dalle sue mani. «Indossa un cappotto. Congelo soltanto guardandoti».

Tutta la serietà di frazioni di secondi antecedenti era evaporata e Derek roteò gli occhi esasperato da quanto riuscisse a metterlo sotto scacco continuamente, anche nei suoi momenti di difficoltà. «Stai congelando perché hai tutti i vestiti bagnati, sconsiderato come sei».

Il figlio dello sceriffo scosse il capo con dissenso, a sottolineare che in torto fosse proprio lui. «Sono sicuro sia anche colpa tua» ammiccò spudoratamente, tornando la splendente e pericolosa volpe dal manto infuocato. «So che ami questa giacca di pelle, sei incredibilmente sexy, ma forse dovresti essere più discreto. Qualcuno potrebbe farsi sorgere qualche domanda vedendoti con solo questa addosso per tutto l’inverno».

«Vivo qui da due anni, Stiles. Se avessi destato dei sospetti, sarebbe piuttosto inutile» e se ne sarebbe accorto. Non che a Derek importasse molto del parere delle persone.

Sul viso della matricola si dipinse quella curva affascinante che aveva un certo effetto su chi lo guardava. «Avanti, fallo per me. Integriamoci nel mondo reale».

«Cosa non faccio per te» era una domanda retorica sospirata e anche esausta da quell’uragano infiammato che lo trascinava a fondo con sé. «Vuoi restare ancora qui?» gli chiese dopo averlo osservato per un po’ interagire ancora con la neve che non smetteva di cadere dal cielo notturno. Stiles rispose con un chiaro punto interrogativo sorpreso. «Per conoscerla».

Gli occhi ambrati brillarono e la riconoscenza si espanse in ogni cellula. «Sì, grazie».

Derek si limitò ad annuire. «Resta qui» gli disse distrattamente, prima di sparire ed entrare in uno dei negozi sulla strada.

Stiles sbatté le palpebre varie volte, batuffoli impigliati davanti alla sua visuale. Con cautela piroettò su se stesso, allargando le braccia e circondandosi, come se stesse abbracciando la neve stessa. Rise con spensieratezza, anche se non avvertiva più alcuna falange, completamente anestetizzate dal gelo.

«Tieni» gli offrì la creatura della notte quindici minuti dopo, richiamando la sua attenzione e costringendolo a voltarsi.

Derek aveva un bicchiere di carta extralarge per ogni mano, il logo verde di Starbucks che spiccava sul rivestimento bianco che non permetteva di scorgere il contenuto. Non riuscì ad entrarne a conoscenza nemmeno quando gliene depositò uno tra le dita, riscaldandole immediatamente, per via del tappo. «Sei andato dalla concorrenza» lo ribeccò sarcasticamente, ma gli era segretamente grato. «Potrei esserne infelicemente triste. E anche indignato».

«Vacci piano, scotta» lo ignorò il mannaro per niente scalfito, senza dimenticarsi di riprenderlo ed avvisarlo con il tono borioso che lo contraddistingueva.

Stiles innalzò le sopracciglia con sfida, la curva arricciata sulle labbra della volpe giocherellona. Tuttavia ci andò cauto, prese un piccolo sorso dalla cannuccia in cartone e fu investito da un calore piacevole che gli scivolò in gola e in ogni muscolo bisognoso, riscaldando ossa dopo ossa. Sulla lingua vi era impresso il sapore zuccheroso della cioccolata al latte abbinata al caramello dolce. Scostando con un accenno il coperchio, vi vide dei piccoli marshmallow gialli e azzurri che galleggiavano colorati, infondendogli il buonumore.

Se non ci avesse già pensato il cioccolato, quella delicata premura da parte del lupo più scorbutico mai esistito avrebbe sciolto completamente la lastra di ghiaccio che avvolgeva il suo cuore ed i polmoni. Che fosse una cosa voluta o meno, Stiles dubitava che su quel pianeta ci fosse qualcuno che lo viziasse più di Derek Hale. Che ci mettesse un tale impegno che non desse mai l’impressione che fosse qualcosa di studiato a tavolino o estremamente complicato, ma la semplicità più pura.

«Meglio?» domandò la creatura leggendaria al secondo sorso di entrambi, più lungo e goduto, una estemporanea del paradiso in quella nevicata da cui tutti rifuggivano, ma di cui loro si beavano.

«Grazie» si chiese se la cioccolata calda del suo restio meraviglioso Alpha fosse fondente, miscelato all’adorato caramello salato. «È perfetto» tu sei perfetto.

«Don't-don't it feel so good right now?» cantò Stiles a mezza voce, un sorriso morbido tra le labbra mentre assaporava il calore della bevanda, guardando da sotto le ciglia il lupo nero che, circospetto, non gli toglieva gli occhi perforanti di dosso.

Un fiocco di neve birichino e silente si insinuò sotto il tappo sollevato, depositandosi in mezzo ai piccoli cilindri di zucchero azzurri e gialli, dissolvendosi senza essere notato.

 

 

 

 

 

 

Feels so good di Bryn Christopher e Shane Codd è la canzone spesso cantata da Stiles e che probabilmente incontreremo diverse volte tra questi capitoli.

https://open.spotify.com/intl-it/track/4z4AEQps7o1UamAbIxmVqw?si=301a45b939b6480f

La mia riproduzione casuale di Spotify senza vincoli l’ha trovata per me mentre scrivevo i primi capitoli e da lì si è addentrata nella storia, divenendone parte. Cercavo una canzone che potesse incanalare ciò che ricercavo e alla fine è stata lei a trovare me.

Siamo soltanto a metà storia, questi due complicati ragazzi hanno ancora tanto da raccontarci.

A mercoledì,

Antys

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Capitolo 12
*** 12° Capitolo ***


12° Capitolo

 

La casa era silenziosa, non proveniva alcun suono da nessuna parte, nessuna presenza sinistra incombeva su di lui, non vi era alcuna ragione perché dovesse sentirsi a disagio o sormontato dalla preoccupazione, eppure Stiles si svegliò nel cuore della notte, il letto sfatto e il lato accanto al suo vuoto.

Una mano andò a toccare quella parte del materasso, trovandolo tiepido, segno che Derek si fosse alzato da un po’ silenziosamente, senza provocargli fastidi.

Con gli occhi estremamente addormentati e con una patina a ricoprirli, non intravide alcuna forma di luce, né nell’ala dedicata alla notte né giungere dal corridoio che collegava tutto. Non udiva nemmeno movimenti sospetti provenire dal bagno.

Scostando le lenzuola, indossò i calzini antiscivolo con dei lupetti neri su sfondo rosso, e ciabattò verso la cucina, individuando Derek seduto al buio sul divano a tre posti, l’unica sorgente luminosa era data dai lampioni sulla strada e dalla luna che soggiornava dietro la sua schiena. Non si stava intrattenendo in alcun modo, era soltanto crucciato su se stesso con lo sguardo vuoto. «Non volevo svegliarti».

L’umano si stropicciò gli occhi incrostati, soffocando uno sbadiglio. «Io ti sveglio sempre» disse senza alcuna preoccupazione, scrollando le spalle e superando la tavola da pranzo, scostando la coperta con le lune e le stelle abbandonata sul cuscino vuoto, sempre a sua disposizione, avvolgendosi dentro e ricadendo sul sofà, lasciando che una parte ricoprisse le gambe del mannaro benché era evidente che l’avesse ignorata per tutto il tempo.

«Quasi sempre» lo corresse il padrone di casa, spostando i piedi per fargli posto.

«Dimentichi quel primo e divertentissimo mese in cui dovevi uscire ogni notte per andare a riprendermi» riassunse con talento innato, abbandonando la testa contro la sua spalla nuda e portandosi il plaid fino al mento, non lasciando che un solo strato di pelle fosse scoperto.

«Torna a letto» lo invitò il capitano della squadra di basket.

«Non finché non lo farai anche tu» sbadigliò a bocca aperta, nascondendosi dentro la coperta, a smentire malignamente le sue buone intenzioni. «Resto con te».

«Oppure ti addormenterai su di me» lo prese sonoramente in giro, coprendogli meglio le caviglie scoperte.

«Non mi dispiace l’idea» l’umano si strofinò con intenzione contro l’incavo della spalla che Derek abbassò volutamente per offrirgli una posizione più comoda, affondando il naso contro la piega del collo.

Derek sbuffò una risata con il capo voltato dal lato opposto, ma poi tutto tacque. Per alcuni minuti esisterono soltanto i loro respiri.

Stiles si mosse sulla spalla del licantropo e quest’ultimo avvertì la pesantezza che si stagnava. «Sento il tuo sguardo su di me».

«Perché non me l’hai detto?» gli domandò a bruciapelo il figlio dello sceriffo.

Il corpo del mannaro si rizzò e la testa si voltò verso la matricola, lo sguardo eloquente e consapevole. «Di non essere l’unico tra i due perseguitato dagli incubi?».

«Sono stato io?» volle sapere con turbamento, le iridi accese che sondavano. «Da quando ti ho dato quella fotografia… sembra che ti tormentino» se lo era chiesto fin dal primo episodio in cui aveva beccato l’altro. La foto era stata protetta dentro la cornice comprata di impulso da Derek, ma non era mai stata davvero esposta in un punto visibile del monolocale.

«No» rise asetticamente, pugnalando il cuore di Stiles. «Vorrei aver perso il conto, ma non posso».

Quando erano iniziati? Dalla morte di Paige o della sua famiglia? Perché doveva apparire così solo, racchiuso in se stesso, senza dare un piccolo varco di accesso a qualcuno? «Avresti comunque potuto dirmelo. Temi che non riesca a reggerlo? A comprenderti».

Derek scosse il capo un’unica volta con un cenno preciso in diniego. «Sei la persona più forte che conosca».

La sorpresa non riuscì a celarla, ma non ne aveva nemmeno l’intenzione. «E allora perché?».

Il lupo serrò la bocca, un accenno di bianco degli incisivi superiori. La parte del profilo accarezzato dalla luce della luna sembrava blu. «Ci sei anche tu».

Oh, quello gli tolse tutto l’ossigeno.

Era qualcosa di imprevedibile, inimmaginabile, ma quello avrebbe spiegato la disperazione di Derek in quei frangenti, quando l’unica sua reale preoccupazione era accettarsi che Stiles stesse bene.

Avrebbe voluto chiedergli il perché, ma avrebbe avuto senso? Dopo tutto quello che gli aveva raccontato, dopo tutte le notti che Derek l’aveva trovato a ferirsi e con le mani sporche di sangue, le urla nelle orecchie, i suoi vaneggiamenti e la paura di non trovarlo in tempo, non poteva aspettarsi che quel tormento non influisse sulla psiche del lupo mannaro. Che non si aggiungesse al bagaglio dei suoi incubi pregressi.

Le dita calde di Derek gli scostarono i capelli impigliati tra le sopracciglia, accarezzandole con leggerezza che lo fece vibrare per l’inaspettato, portandolo di riflesso a scostarsi da lui. «Non chiuderti a riccio né colpevolizzarti» i polpastrelli esitarono e poi si allontanarono restii. «È più complicato di quello che pensi».

Complicato come? Non tutti i tormenti potevano essere spiegati, giusto? «Non posso esserti di aiuto?» perché le cose tra loro dovevano essere sempre unilaterali?

«No» sospirò controvoglia, gettando indietro la testa contro lo schienale del divano. «Devo solo accettarlo».

C’erano tante cose da accettare, eventi che avevano segnano la vita di Derek come a pochi altri era accaduto. Accettare la morte? Accettare il suo ruolo? Accettare che non si poteva tornare indietro e agire in modo diverso?

«Hai detto di non poterti permettere di fidarti di te stesso» pronunciò Derek riflessivo, gli occhi che fissavano il tetto spruzzato da alcuni triangoli di luce. «Nemmeno io posso farlo».

Stiles saltò sull’attenti, la colonna vertebrale che frizzava. «Non dirlo. Non è vero» cosa angustiava Derek l’umano l’aveva sempre saputo. All’inizio aveva piccoli tasselli, una parte di verità, la concretezza che si portasse nel cuore la morte del suo primo amore provocata da una valutazione erronea, da una forma di egoismo adolescenziale che si era sviluppata nel modo peggiore e con conseguenze drastiche. A quello era susseguito la cosa peggiore che potesse accadere ad una persona, l’essere uno dei tre sopravvissuti della sua famiglia aveva un certo peso, soprattutto se si aveva ancora un lutto recente da dover superare. Stiles aveva pianto silenziosamente e segretamente per lui, andare avanti senza cicatrici era impossibile, il radicale cambiamento di Derek era consequenziale, giustificato. Ma a quel calderone di devastazione se ne era aggiunto dell’altro nell’esatto momento in cui il lupo gli aveva fornito la piena verità, i fatti concreti, cosa fosse stato mosso per tirare le fila. Come si sopravviveva ad un senso di colpa come quello?

«Tutte le mie decisioni hanno portato alla morte delle persone che amavo» lo disse chiaramente, univocamente, senza che potesse essere contraddetto. Nero su bianco.

«Questo è sbagliato, profondamente sbagliato» ribatté il figlio dello sceriffo con la voce che si alzava, muovendosi sconclusionatamente sul posto. «Hai riposto la tua fiducia totale nelle persone che non volevano il tuo bene, ma avevi quindici anni, non avresti mai potuto capirlo senza gli strumenti giusti» Peter gli aveva suggerito l’idea sbagliata perché era una serpe in un branco di giusti, voleva provocare scompiglio, allontanare Derek da una futura postazione privilegiata di comando, sconvolgerlo abbastanza da retrocederlo in se stesso. Eppure Peter la sua risposta la ebbe su chi fosse meritevole del potere da Alpha, dividendosi addirittura in due, ma non sfiorandolo nemmeno. Stiles avrebbe voluto urlarlo a squarciagola a Derek per farglielo capire. «E quello che Kate ti ha fatto è…» non riusciva a trovare parole delicate che descrivessero esattamente cos’è che fosse realmente accaduto. «Stupro».

La pesantezza della parola appestò l’intero monolocale e a Derek ci volle qualche secondo per comprenderla pienamente. «Che cosa?» lo guardò come se fosse un alieno, l’espressione contratta e diretta verso di lui. «Ero consenziente».

«No, non lo eri. Avevi quindici anni, cazzo! Come potevi essere consenziente con un’adulta?» come faceva a non vedere la realtà? «Lei si è approfittata di te, del tuo dolore e della tua inesperienza. Ti ha istruito a tenerla come un segreto, ti ha plasmato a suo piacimento. Ti ha manipolato, raggirato e sedotto» Stiles si stava agitando, ma non poteva più tenere quella concretezza per sé. «Un’adulta consapevole di se stessa e del suo ruolo dominante, dell’ascendente che aveva su di te, con un piano ben preciso con fini letali, si è avvicinata ad un adolescente in difficoltà che aveva perso se stesso, che probabilmente voleva riscattarsi e che è stato circuito dall’idea che una donna fosse interessata a lui più che a chiunque altro. Che avesse scelto proprio lui. Lei si è approfittata della sua posizione, ti ha sporcato, ti ha usato, ha tratto tutto a vantaggio di se stessa e ne ha riso. Si è sentita potente mentre ti distruggeva pezzo dopo pezzo, brandello dopo brandello» prese un respiro prima che Derek potesse interromperlo e ribattere, negare. «Si ha questa idea sbagliata che un ragazzino debba sentirsi onorato di rientrare nell’interesse di una donna, di essere un oggetto nelle sue mani. Appare irresistibile, ma è sbagliato. È orribile. È la cosa più terribile che potesse farti» aveva le lacrime agli occhi per la rabbia cieca. «Un adulto, uomo o donna, non dovrebbe mai interessarsi ad un ragazzino in piena età adolescenziale. Non è formato mentalmente, non ha i mezzi per contrastarli, per capire cos’è che sta succedendo. Secondo la legge è stupro» la nausea lo colse e avrebbe voluto vomitare invece di tentare di far capire a Derek quello che gli era sfuggito per tutti quegli anni. «Lo è anche per me».

Derek era surgelato sul posto, non riusciva a scostare gli occhi da Stiles, non si muoveva nemmeno la polvere. «Non…» non era quello che era accaduto? Era esattamente quello che era accaduto.

La vedeva lì la piccolissima scintilla di consapevolezza che affiorava, affacciarsi, prendere finalmente corpo e tentare di venire a patti con ciò che era stato tirato fuori. Essere messo in relazione con tutto il resto, avere finalmente un quadro completo. Erano state davvero sue le decisioni?

Stiles non avrebbe voluto mettere altra carne sul fuoco, aggiungere nuova dannazione, dargli le carte per affrontare un trauma che era rimasto inconscio, assommandosi a tutti gli altri, ma Stiles non poteva più lasciare che un dettaglio così vitale venisse schiacciato e non analizzato, soffocato, come se non avesse avuto il suo ruolo. L’aveva avuto.  Era stato scatenante. Ripugnante.

Lo studente di criminologia si sedette sulle ginocchia, fronteggiandolo mentre la coperta dal cielo stellato si spostava lasciandolo scoperto e il mannaro era consapevole che quel pigiama sottile con la volpe insieme ai suoi palloncini colorati non lo riscaldasse abbastanza. «Non ti sei permesso di analizzarlo. Preservando il tuo segreto, non confidandoti con qualcuno, non hai potuto confrontarti e decriptare la situazione. Una parte di te è ancora imprigionata ai tuoi quindici anni, non riesci ancora a vederlo, a rendertene conto» ci sarebbe mai riuscito? Le mani si strinsero intorno alle spalle nude, la pelle trattenuta tra le dita che sbiancavano per l’intensità delle emozioni provate, da quanto volesse scuotere il licantropo e svegliarlo. «Ti è stata fatta una violenza. Ripetuta. Non potevi scappare alla sua perfidia, alla sua depravazione. Alla sua follia. Non è colpa tua. Non sarà mai colpa tua» la voce gracchiò in mezzo a un singhiozzo furioso e distrutto per un dolore non proprio.

«Ehy» soffiò la creatura della notte, i polpastrelli che sfiorarono la palpebra inferiore e accarezzavano la pelle sottile delle occhiaie inesistenti, ma presto si sarebbero arrossate. «Stiles».

«Sei ancora annichilito da lei e dal senso di colpa. Sei bloccato. Arreso» tutto quel dolore il figlio dello sceriffo riusciva a vederlo nelle sue iridi verdi, intervallati da pagliuzze blu e rosse, ogni volta che il nome di quella bestia di satana saltava fuori o qualsiasi cosa legato alla sua famiglia. «Dovresti essere arrabbiato, in collera. Febbricitante. Prendere a pugni questo fottuto pianeta».

«A cosa servirebbe?» domandò retoricamente e moderatamente, picchiettando leggero su uno dei nei sotto le ciglia. «Non mi riporterebbe nessuno indietro. Non riporterebbe me indietro».

«No» convenne la matricola, allentando la presa. «Ma forse ti renderebbe più libero. Più consapevole di te stesso».

«Sono arrabbiato, Stiles. Lo sono da tantissimo tempo» sentiva anche quella di Stiles, sfociava da ogni poro quella notte da quando la confessione definitiva fu fatta. Era viva, vibrava, poteva toccarla. «Ma a lungo andare, stanca. Aggiungerne altra… sono esausto».

Stiles esitò, le labbra che si sovrapponevano, l’indecisione quasi visibile, insieme agli ingranaggi che si muovevano nel suo cranio. «Non riesco a lasciarla scivolare» confessò con onestà, il dotto lacrimale che bruciava. «Quello che ti ha fatto va oltre la crudeltà. Ti ha annientato ovunque potesse mettere le mani. Tutto quello che ha toccato l’ha distrutto» l’aveva fatto anche con Allison, ma era riuscita a serbarsi e sfuggire alle sue trame. A Derek non era stato concesso quel lusso, non aveva nessuno dalla sua parte che potesse smascherarla o vigilare, il lavoro di plagio era stato estremamente macchinoso.

La mano scivolò oltre il viso dello studente del primo anno e si intersecarono tra le ciocche castane sbarazzine. «Non ti chiedo di farlo» gli massaggiò una tempia con il pollice in movimenti circolari. «Sto cercando di mettere un piede dopo l’altro, lentamente. Accettarlo».

Accettarlo, era l’unica risposta. Ma ci sarebbe riuscito finché non avrebbe confessato quella verità a qualcuno di diverso da Stiles? «Lo vedo».

Derek lo avvicinò maggiormente a sé, le ginocchia piegate erano quasi sulle gambe del lupo, Stiles era male equilibrato, esposto e tutto ciò che gli impediva di cadere sull’altro erano quelle prese leggere e gentili che mantenevano quel minimo di spazio a tenerli separati. Le fronti si lambivano a malapena, aria tra loro. «Stai combattendo le mie battaglie» dichiarò con certezza, una verità ineluttabile. «Anche quelle che disconoscevo. Sono proprio uno sciocco. Un ingenuo» non era cambiato niente dai suoi quindici anni. Era esattamente come proferiva Stiles, ancora imprigionato. «Grazie».

«Certo che le combatto, le combatterò tutte» ci poteva scommettere tutto il suo patrimonio milionario. «Non ho intenzione di lasciarti da solo. Non devi mai più stare da solo» si sporse eccessivamente per l’agitazione della sua gestualità, l’attitudine a strafare, ma Derek era solido come una roccia, lo reggeva senza fatica, corrispondendo ogni suo movimento brusco. «L’avrei fatto anche prima, se tu non fossi così testardo».

«Lo so» giocò con il lombo del suo orecchio, percorrendo tutto il padiglione auricolare con il polpastrello del primo dito. «È una delle ragioni per cui ti ho tenuto lontano».

«Ah» bofonchiò stupito, le iridi d’ambrosia che si facevano più grandi. «E quali sono le altre?» e perché?

Sulle labbra di Derek si dipinse un minuscolo sorriso nostalgico e un po’ sofferto. «Sei fastidioso. Petulante. E rumoroso».

«Ehy!» esclamò indignato il figlio dello sceriffo, arricciando il naso e colpendolo ad una spalla esposta senza ottenere alcun risultato.

Derek rise vivo sul suo viso e gli scioccò un bacio sull’epidermide arricciata del setto nasale.

Cazzo, quanto era sleale. «Sei terribile» ma la matricola non si risparmiò di poggiare il capo sul suo.

«Sì, ma non ti dispiace» Stiles soffiò aggressivo dentro un suo orecchio, ma Derek ne sorrise soltanto.

Non smise di accarezzargli la cute e gli altri punti in cui poteva arrivare senza sforzo, conducendolo verso le braccia di Morfeo. Quando il respiro si appesantì, lo riportò in una posizione più consona senza scuoterlo e strapparlo dal dormiveglia così piacevole per entrambi.

Si addormentarono su quel divano a tre posti, troppo piccolo per contenerli per quello scopo; la testa di Stiles abbandonata contro l’incavo del collo del lupo che sopportava il peso, poco vicina alla sua poggiata sullo schienale, mentre tratteneva tra gli arti superiori il braccio muscoloso e il plaid lunare li avvolgeva totalmente.

Nessuno si lamentò quando si svegliarono con le ossa scricchiolanti.

 

Sono esausto. Stiles non riusciva a togliersele dalla testa, gli spezzava ancora di più il cuore.

A un certo punto la capacità di sopportazione, di reazione, subiva una partita di arresto. Basta, non posso reggere altro ed era quello che a Derek era accaduto. Si era chiuso, aveva tagliato ogni cosa. Se sarebbero arrivati altri tiri mancini, difficoltà o dolore, Derek era saturo, non l’avrebbe affrontata. Avrebbe permesso che scivolasse via, che fosse soltanto accettato, come un tappetino che assorbiva l’acqua in eccesso e lo conglomerava in sé. Era un dato di fatto, fine della questione.

Non riusciva a fare nulla per Derek, mentre lui invece gli dava tutto; era esasperante ed ingiusto.

«Cosa c’è?» gli domandò il lupo muovendosi nell’ala dedicata alla notte, frugando nell’armadio esposto e scostando la tenda rigida.

«Niente» rispose senza prestargli completamente ascolto, utilizzando una risposta generale.

«Sei più vigile e pensieroso del solito» gli fece notare, le sopracciglia aggrottate, con le braccia ferme a mezz’aria.

«Mh» era seduto a cavalcioni sulla sedia della scrivania, lo schienale davanti a sé su cui aveva appoggiato malamente le mani mentre osservava pigramente il licantropo vestirsi e armeggiare con ciò che gli sarebbe servito per quella mattinata universitaria. «Mi sto ancora svegliando».

Non seppe se Derek fiutò la bugia, generalmente le ignorava se non avevano una rilevanza fondamentale. «Smuoviti, faremo tardi».

Il solito galantuomo. «Non capita mai che coincidano i nostri orari».

«Fortunatamente» sottolineò rincuorato il mannaro, dandogli le spalle. «Sono pentito di averti aspettato».

«Ehy!» protestò con ardore il figlio dello sceriffo, l’indignazione che sfociava. «Cazzo» esclamò con sorpresa quando mise finalmente a fuoco Derek.

«Cosa?» si accigliò il mutaforma reagendo circospetto alla cambiamento d’umore, squadrandolo non appena si voltò una volta per tutte verso di lui.

Stiles lo fissava inebetito e stupefatto, le labbra schiuse ed era evidente che non riuscisse a stare nella medesima posizione per troppo tempo, perché era in piedi e sulla seduta vi era solo un ginocchio piegato su cui gravava parte del suo intero peso. «C’è qualcosa che non ti stia bene? Questo è profondamente ingiusto».

Derek posò visibilmente annoiato gli occhi sull’umano poi su se stesso, sul cappotto lungo e grigio chiaro che lo avvolgeva, slanciandolo, uscito fuori da un angolo dimenticato dell’armadio, soltanto perché Stiles aveva delle regole assurde su realtà da rispettare. E principalmente perché gli piaceva giocare con Derek. «Non è un problema mio se sono il tuo tipo ideale».

Stiles sbatté ripetutamente le palpebre, non certo di aver afferrato correttamente. «Io non ho un tipo» smentì con vigore, applicando una pressione eccessiva sulla parte superiore dello schienale. «Non credo di avere un tipo» fu attraversò da un dubbio mai sondato, rimaneggiando su se stesso. «Ho un tipo?».

Derek avrebbe voluto scoppiargli a ridere in faccia per la scena surreale e ridicola che aveva messo in piedi. «Lo chiedi a me?».

«Hai tirato tu fuori l’argomento» lo accusò con prontezza, come se quel dilemma esistenziale fosse causato dalle sue malefatte.

«E tu stavi sbavando» lo punzecchiò il capitano della squadra di basket con malizia subdola.

Stiles istintivamente si portò le dita alla bocca, trovandola perfettamente asciutta, forse bisognosa di un po’ di idratazione. «Che stronzo» si infervori quando realizzò cosa fosse successo, quanto Derek se la stesse ridendo senza contenersi.

La matricola si concentrò testardamente a sistemare la sedia all’interno del tavolo di studio, mentre il capitano si abbottonava il cappotto elegante con l’ombra di un sorriso sul volto. «Forse l’ho un tipo» esternò qualche attimo più tardi, quando ebbe sbollito abbastanza quella leggera umiliazione senza cattiveria. Loro giocavano, giocavano sempre.

«Ah, sì?» era un interesse moderato, per Derek la questione era chiusa, una parentesi divertente dei loro scambi ambigui.

Stiles prese la sciarpa rossa aranciata, uscita fresca fresca dall’asciugatrice dopo averla azionata la sera precedente. Odorava di pulito con una leggera nota di frutti di bosco ed era incredibilmente morbida. «Gli occhi chiari».

Derek lo guardò per un momento lungo un’eternità, le iridi di quel verde incredibile proiettate su di lui, e si limitò ad annuire, per quale ragione Stiles non seppe stabilirlo, ma il mannaro era già diretto altrove, verso il corridoio che li avrebbe condotti fuori.

«Ti dà fastidio?» chiese il figlio dello sceriffo con un odioso nodo all’altezza dello stomaco.

«Che cosa?» Derek non lo seguiva affatto.

Stiles, al centro dell’appartamento, si sentiva esposto, giocava nervosamente con la sciarpa che ritardava ad indossare. «Che ti trovi attraente» non era un argomento che avessero mai affrontato di petto, erano solo briciole che si erano lasciati lungo la strada. Insinuazioni.

«Quale sarebbe la novità?» domandò retoricamente il lupo, per niente turbato da quell’affermazione.

«Oh» si sentiva smascherato, anche se non avrebbe dovuto. «Sì, giusto» aveva quindici anni quando aveva cominciato a girargli intorno, una vita prima che entrasse a conoscenza dell’esistenza dei lupi mannari, del soprannaturale. E Derek l’aveva fiutato ben prima che Stiles avesse le informazioni che ne fosse capace, probabilmente perfino quando non era nemmeno in grado di capire cos’è che provasse.

«Ti vergogni delle tue emozioni?» si vide interessato il playmaker, curioso di come funzionasse una mente caotica e senza filtri come la sua. Stiles non nascondeva mai cosa gli piacesse.

«No» rispose la matricola di getto, senza dimostrare di averci riflettuto sopra. «Forse un po’. Insomma…» indicò con un dito il letto egregiamente rifatto. «Dormo con te ogni notte» e sei sempre mezzo nudo, ma quello era meglio censurarlo, anche se era piuttosto sicuro che fosse chiaramente sottointeso.

«Infatti» decretò il mutaforma concludendo quella fase di imbarazzo da parte dello studente del primo anno. «Dormi».

Non poteva essere più esaustivo di così su come stessero le cose tra loro. «Ho mai fatto qualcosa?» lasciò la frase vaga, non aveva voglia di essere più esplicito né di usare parole improprie da quando aveva avuto quella conversazione cruda con Derek su che cosa Kate gli avesse effettivamente fatto. Oltre, certo, ad averlo reso orfano.

«Ad esempio? Saltarmi addosso?» era consapevole che Stiles fosse terrorizzato dall’idea di non avere il controllo su di sé, che il suo corpo agisse di propria iniziativa quando era nel regno onirico e che non ne conoscesse gli effetti nemmeno quando si svegliava. Ma aveva paura anche di quello? Di un suo improbabile momento imbarazzante? «No» di essere troppo invasivo ed invadente? «È qualcosa che vorresti fare?».

Se a quel no secco Stiles aveva tirato un sospiro interno di sollievo, il momento successivo era in apnea, gli occhi giganti e sgomenti. «Saltarti addosso?».

«Qualsiasi cosa connessa» si dilungò il lupo completo, senza vederne la necessità. «Vorresti che accadesse qualcosa tra noi?».

«In questo momento vorrei saltarti addosso per strozzarti» si irrigidì l’umano, sotto processo. Una domanda così diretta da parte sua non se la sarebbe mai aspettata. «Non scarto nemmeno la possibilità di aggiungere un po’ di strozzalupo alla tua miscela di caffè».

Derek rise divertito e Stiles avvertì subito l’aria che si alleggeriva. Era una continua partita a scacchi tra loro. «Non ne dubiterei» si avvicinò prendendogli la sciarpa colorata dalle mani, avvolgendola intorno al suo collo ed annodandola.

Forse era troppo passivo quando permetteva a Derek di avvinarsi così tanto a lui, di bearsi il più possibile del suo contatto e attenzioni. «Un tempo l’avrei voluto» confessò infine, specchiandosi nelle sue iridi di giada, affrontandolo direttamente. Certo che l’avrebbe voluto, era nel pieno dell’adolescenza e con gli ormoni impazziti ‒ e ancora molto attivi ‒ e Derek era un sogno. Lo era anche in quel preciso istante. «Ma adesso… non sarebbe la cosa giusta da fare» c’erano un’infinità di motivazioni per cui sarebbe stata una pessima idea abbandonarsi alla passione, lasciarsi trascinare, godersi appieno il momento, coronare una fantasia durata anni. Ma sarebbe stato solo un momento, cosa ne avrebbero ricavato? Stavano bene così com’erano e Stiles doveva ammettere di essere abbastanza egoista da sapere di non potersi permettere di mettere a repentaglio il suo rapporto con Derek in quella fase travagliata ed insicura della sua vita.

«No, non lo sarebbe» concordò Derek senza battere ciglio.

Era rincuorante apprendere che il capitano la vedesse allo stesso modo e anche deludente, ma in fondo era una tortura soltanto per Stiles. «Soltanto perché la mente ne è convinta, non vuol dire che il corpo agisca allo stesso modo» e nel suo caso era letteralmente letterale. «Non so cosa accada mentre sono sonnambulo, se dovesse succedere qualcosa, se l’altro Stiles-»

«L’altro Stiles?» lo interruppe ridendo il lupo nero, scuotendo la testa, prendendogli il viso tra le mani e richiamando la sua attenzione. «Non hai episodi dissociativi della personalità, sei sempre tu».

«Sempre io?» domandò come se gli fosse artificioso credergli. In passato aveva sofferto di episodi simili, una personalità che prendeva il sopravvento e agiva alle sue spalle, credeva anche di essere affetto dalla stessa malattia della madre, ma era evidente che la possessione di una volpe oscura non fosse paragonabile.

«Sì» lo assicurò lo studente di letteratura, come se non esistesse un’altra realtà. «Se, in quei casi, dovessi fare qualcosa, ti fermerò» gli venne in contro, a testimoniare che era sempre dalla sua parte e che per lui non fosse un reale problema.

Era rassicurante che potesse fidarsi di Derek fino a quel punto, che per una qualsiasi ragione non se ne sarebbe approfittato. «Molto gentile da parte tua, Sourwolf» lo prese leggermente in giro, con quel sarcasmo tipico che non poteva essere spento.

Derek rilasciò una risata netta, le dita che premevano maggiormente sul viso mentre si avvicinava, scostando le fronti e sfregando i nasi tra loro.

Quei momenti erano così preziosi e si presentavano sempre più spesso, senza una reale motivazione. Stiles non se ne sarebbe lamentato nemmeno sul letto di morte. «Questa cosa che fai, non aiuta per niente».

«Non devo aiutarti» gli percosse il setto nasale con la punta del suo, lentamente, come se si stesse godendo la situazione, fino a depositargli un bacio di velluto in mezzo alle sopracciglia.

«Questa cosa ti diverte, non è così?» mandarlo in confusione, farlo fremere e desiderare di più, mandargli il cervello in stasi. Ma non gli avrebbe mai chiesto di smetterla.

«È una possibilità» rispose Derek malandrino e criptico, un ghigno di puro divertimento sul volto. «Tu non mi annoi mai».

Stiles fu attraversato da una scarica elettrica e non riusciva a quantificare che cosa dovesse indicare, perché quella frase di puro diletto gli sembrasse avere una conformazione più grande.

Guardò Derek con un’espressione interrogativa e curiosa, ma il mannaro gli aveva già allungato il giubbotto imbottito e lo attendeva davanti la porta aperta.

Sconclusionatamente e distrattamente, mentre afferrava la tracolla e il portachiavi del lupo nero dagli occhi eterocromi, notò quanto Derek apparisse luminoso con quel cappotto dai toni chiari, in contrasto con la luce che assorbiva nella maggior parte del tempo.

 

Tracy attaccò il suo turno mezzora prima della fine di quello del figlio dello sceriffo, arrivando trafelata e un po’ spennacchiata, l’ombrello mezzo rotto che tentava di chiudere bagnandosi tutta e tentando di gettarlo nella piccola sala sul retro in cui si cambiavano e conservavano i loro averi.

«Brutta giornata?» chiese Stiles in un saluto, mentre lei si allacciava il grembiule verde pastello, trafficando con il barattolo dei cookies per prenderne uno al triplo cioccolato.

«Non me ne parlare» disse mentre strappava un morso al biscotto, masticando nervosamente.

«Afferrato» si salvò dall’impiccio il ragazzo, alzando le mani in segno di resa. Non voleva essere investito dal suo nervosismo senza una buona motivazione.

Il campanello tintinnò e Stiles si ritrovò davanti la biondina dagli occhi verdi che non aveva molte intenzioni di demordere. Tracy ridacchiò delle sue disgrazie migliorandole l’umore, cosa che trovò molto ingiusta. «Come posso servirti?».

Heather sbatté le ciglia un’unica volta, non molto a suo agio davanti alla professionalità che Stiles indossava sempre quando era a lavoro. «Una cioccolata alla nocciola. Con panna» tentennò all’aggiunta, fissando circospetta intorno a sé con un groppo in gola. «E un appuntamento».

Stiles rabbrividì e imprecò mentre preparava la cioccolata, osservando attentamente che non si creassero dei grumi, la sua collega non trattenne la risata goliardica che mascherò senza alcun risultato, nascondendosi dietro ad un altro morso del suo dolcetto. «Heather, mi pare ne avessimo parlato. Sono stato chiaro» quante volte doveva ripetersi in vita sua?

La bionda guardò con dubbio il bicchiere di medie dimensioni, la panna che il figlio dello sceriffo stava montando davanti a lei, inserendo la cannuccia di carta che si chiudeva con una piccola conca che simulava un cucchiaino. «Credevo fossimo stati bene».

Il solito ritornello. «Lo siamo stati» ma non era un lasciapassare per un seguito, per allentare o abbattere le sue regole. Perché sembrava essere diventato così difficile ottenere una botta e via senza ripercussioni? Senza legami. Senza che il partner esigesse una replica o un continuo di qualsiasi tipo?

«Allora perché non puoi concedermi un appuntamento?» era una richiesta semplice, per lei era una cosa naturale, consequenziale.

«Non sono interessato» disse francamente lo studente di criminologia, allungandole la cioccolata nella sua direzione.

«Perché?» gli erano ostiche quelle parole, anche se Stiles le aveva già ripetute, a lei non bastavano come spiegazione. «E per via del capitano?».

Le iridi ambrate seguirono il punto indicato dalla ragazza, la fine nel bancone, vicino alla cassa a cui generalmente Stiles era assegnato. Quel giorno il mannaro non si era presentato, cosa insolita, ma non così tanto da farlo allarmare. «No» era stanco di continuare a rispondere a quelle domande, di dover negare che esistesse una qualche relazione romantica tra lui e Derek. Se fosse mai esistita una realtà simile, anche soltanto una possibilità, Stiles dubitava che avrebbe mai guardato qualcun altro. «Tu vuoi una relazione o comunque vuoi provare a costruire delle basi. Io non sono interessato a questo».

«Solo sesso?» volle sapere con precisione la ragazza, le dita che si stringevano attorno alla tazza in cartone.

«Solo sesso» confermò irremovibile.

Quelle iridi verdi lo fissarono meditative, erano più chiare, diverse da quella di Lydia e ancora di più da quelle variopinte di Derek. Pagò il suo ordine con un paio di banconote da un dollaro e qualche spicciolo, senza aggiungere alcuna mancia, gesto che normalmente nessun studente si apprestava a fare, a meno che non si era Derek Hale con la missione di irritarlo, né Stiles si aspettava quello da lei in quella situazione.

«Quello è lo sguardo di chi non si arrende» notò Tracy quando la bionda si volatilizzò oltre la porta con l’ombrello che svolazzava, appoggiandosi con le braccia al bancone godendosi tutta la scena e senza più un cookie da mangiare. «Chissà cosa direbbe il tuo ragazzo per la strage di cuori di cui sei artefice».

«Non è il mio ragazzo» la ignorò volutamente, sistemando la nuova sfornata di cupcake all’interno della vetrina d’esposizione.

Tracy rimase in silenzio per un minuto intero, gli occhi castani che gravavano sul barista e che sentiva perfettamente su di sé. «Il caso è ancora aperto?».

Stiles si irrigidì con la pinza per i dolci in mano, la schiena leggermente curva ed esitante. «Quale caso?».

«Hale» formulò tutto d’un fiato, prima che potesse pentirsi di aver avviato la conversazione.

Ancora una volta una parte del corpo indicò la postazione che generalmente Derek occupava, come se fosse il suo marchio di fabbrica o semplicemente sottolineava quanto fosse abituale. «L’hai scoperto».

«Ho dovuto scavare un po’» aveva trovato anche altro, si era sentita in torto ad entrare a conoscenza di un dolore simile come quello che non le apparteneva nemmeno minimamente. «Il nostro capitano ha guadagnato trofei e prestigio. Tutto il resto sembra dimenticato».

«Sì, gli altri hanno dimenticato» confermò con ammarezza, gli occhi rivolti al passato. «Ma lui no».

In negozio si presentò un gruppo coeso di studenti rumorosi, con un elenco infinito di preparazioni e richieste assurde. Alcuni si allontanarono per recuperare dei tavolini e Tracy uscì dalla sua postazione per unire i tavoli e radunare quante più sedie possibili. Stiles voleva soltanto che terminasse il suo turno il più in fretta possibile.

«Quindi, è ancora aperto?» riprovò la barista quando ebbe servito la sua parte di ordinazioni e fissato l’orologio alla parete centrale. Il cambio per Stiles sarebbe arrivato a breve, anche se il suo sostituto non si vedeva ancora all’orizzonte.

«Ufficialmente sì» si arrese Stiles, fornendole la risposta che era così desiderosa di apprendere. «Sono passati sei anni, ormai è più che altro irrisolto, un caso freddo e nessuno sta facendo pressioni sul fare andare avanti le indagini» ognuno aveva le sue ragioni, Derek aveva i suoi segreti e traumi da proteggere, Laura credeva che dietro ci fossero i cacciatori ‒ e non era nemmeno lontana dalla realtà ‒ e che sarebbero rimasti impuniti come in ogni indagine simile. Al mondo reale non poteva essere spiegato un crimine come il loro e Laura non voleva attirare eccessivamente l’attenzione, affrontare anche quella battaglia. Le era già impossibile tenere i pezzi uniti senza aggiungere altro sale sulle ferite.

Una volta Chris Argent aveva detto che loro non c’entravano niente con quella storia e con amarezza Stiles era l’unico dell’intero gruppo a conoscere la verità; non l’aveva smentito. Lui, effettivamente, non era coinvolto in niente. Sua sorella sì. 

Sei anni, Tracy aveva soltanto tredici anni a quel tempo. Non poteva provare a immedesimarsi, a concepire che cosa si provasse davanti ad una simile tragedia. «Non può essere riportato all’attenzione?».

Il ragazzo poggiò le pinze e chiuse gli sportelli dell’espositore, raddrizzando la schiena e troneggiando su di lei. «E come vorresti farlo?».

Tracy si sentì in difficoltà davanti ad una freddezza che Stiles non le aveva mai mostrato. «Riesaminando il fascicolo, trovando nuovi elementi, qualcosa che è sfuggito».

Era un amore indotto e plagiato l’elemento sfuggito. «Mio padre lavora a quel caso» disse a denti stretti, le iridi di miele si fecero più oscure. «Se ci fossero dei nuovi elementi, li avrebbe trovati».

Forse era stata troppo indelicata. «Sì, ho letto di tuo padre» si morse le labbra, dondolando sui piedi. «Non sapevo fossi figlio di uno sceriffo».

«Derek direbbe che sono un figlio d’arte» si ammorbidì a quell’eco del passato, perché al mutaforma piacevano quelle definizioni.

Quanto conflitto ci poteva essere tra quei due davanti ad una coincidenza così atipica? «Hai mai letto il fascicolo?».

«Se l’ho letto?» suo padre per mesi l’aveva poggiato sul comodino, consultato nelle ore notturne sul tavolo da pranzo. Non aveva mai smesso di battere ogni pista che gli venisse alla mente, purtroppo per il vecchio Stilinski c’era ben poco che potesse scoprire se Derek persisteva a tenere la verità per sé. Una copia del fascicolo era ancora in casa, in una cartella insieme a tutti gli altri casi irrisolti; suo padre di tanto in tanto lo riprendeva ancora in mano. «Certo che l’ho letto» a tredici anni, sotto il letto che era appartenuto ad entrambi i suoi genitori.

Tracy tergiversò, spostò l’intero peso sui talloni e estrasse dalla tasca del grembiule un blocco di fogli spillati e piegati in quattro. Li spiegazzò e li girò verso di lui.

Stiles fu attraversato da una scossa spiacevole quando un’ipotesi lo colse, ma si accentuò quando individuò le parole Hale e numero deceduti: undici. «Dove l’hai preso? Fallo sparire subito» con il terrore si voltò circospetto ad ispezionare tutto il circondato, il viso di ogni cliente e le persone che restavano fuori dal perimetro. Si concentrava per assicurarsi di non intravedere il lupo completo avvinarsi nella direzione del Crescent Moon. Era irrazionale, ma temeva che Derek fosse perfino in grado di fiutarli quei fogli.

La barista lo fissò sorpresa e ansiosa, non capendo la sua ritrosia e affanno. «Siamo studenti di criminologia, possiamo richiedere questi dati» gli riportò alla memoria i suoi diritti, non dovendosi scusare con nessuno.

«Questo non vuol dire che devi farlo» merda, perché non era rimasto zitto e continuato a fare idealizzare Derek come se fosse il perfetto adone che appariva a tutti.

«Ma tu non vuoi risolverlo?» si intestardì la sua compagna di corso, quasi in una mezza supplica. «Per Derek?».

«È proprio per Derek che non voglio risolverlo» ma perché non riusciva a capire? «Cazzo, non me lo perdonerebbe mai».

Gli occhi di Tracy erano smarriti e confusi, i fogli che stringeva gelosamente tra le mani. «Perché? Non sarebbe la cosa più giusta da fare?».

«Soltanto perché è giusta, non vuol dire che è la cosa migliore da fare» in che modo l’avrebbe guardato Derek se avesse cominciato a scavare per trovare qualcosa che conducesse al colpevole. Alla colpevole. «Prima vengono le persone».

«Anche queste erano persone» un polpastrello della ragazza si pressò sull’undici, numero deceduti. Tra di loro emergevano i bambini. Umani, avrebbe aggiunto Stiles. «Non potresti chiedere, sondare il terreno, con la sorella? O con lo zio?».

Ah, si era informata proprio bene. «Peter eviterei di includerlo» benché avesse sofferto, aveva comunque lenito Derek con la storia di Paige e chissà cosa si sarebbe inventato in seguito se le cose fossero andate diversamente. L’arrivo di Malia nella sua vita era riuscito a cambiarlo un po’. «E Laura… lei vuole principalmente il bene di suo fratello e non ho nessuna intenzione di convincerla del contrario» perché ci sarebbe riuscito. Derek avrebbe detto che era molesto fino all’esasperazione. «La mia lealtà va a Derek».

La studentessa di criminologia sfogliò alcuni fogli, Stiles immaginava ci fossero anche le fotocopie delle foto della scena del crimine, i cadaveri irriconoscibili. L’autentificazione era stata quasi inutile, ma il DNA anche se alterato non mentiva. «Credo non si possa guarire da un dolore simile» disse la ragazza con un mezzo sussurro. «Ha sofferto tanto, anche prima di tutto questo» guardandolo non lo avrebbe mai detto. Sì, era chiuso, taciturno, infastidito da tutto il genere umano, ma quando c’era Stiles in giro brillava di luce propria. Forse cominciava finalmente a capire tutta quella moderazione che aveva nei confronti del figlio dello sceriffo. «Ma non so se sia corretto mettere un freno».

Anche prima di tutto questo. «Ti riferisci a Paige?» era andata così a fondo?

«La ragazza, sì» era rimasta sconvolta dall’apprendere di quell’incidente. Una quindicenne morta attaccata da un animale feroce non identificato. In un trafiletto era stato inserito il nome di Derek Hale, associato come interesse amoroso, ma senza scendere in dettagli, qualora ce ne fossero stati.

Stiles aveva letto anche quel fascicolo, ma oltre ad essere stato archiviato come fatale incidente, non era stato segnalato nient’altro. Peccato che ci fosse molto di più dietro, era solo la punta dell’iceberg. Nessuno avrebbe mai potuto capire quanti sensi di colpa Derek portasse sotto quella maschera ostile, il significato dei suoi occhi da lupo. «Lui… l’amava molto».

Come tutti i quindicenni avventati, ma si limitò a pensarlo. «Sei sicuro di non volergli ridare un’occhiata?».

Tracy gli allungò le pagine sgualcite, un ultimo tentativo. «Non mi serve, l’ho memorizzato».

Gli occhi castani si sorpresero e spostò l’attenzione al blocchetto di carta, prima di ripiegarlo e inserirlo nuovamente nella tasca del grembiule. «Tu sai da dove ricominciare a cercare, vero?».

Quelle parole lo accompagnarono finché finalmente non varcò la soglia del monolocale. Sì, aveva nuovi elementi per poter riportare il caso all’attenzione, ma quello presumeva che Derek testimoniasse, rivelasse tutti i suoi segreti, le sue angosce. Non era qualcosa che poteva chiedergli, non era qualcosa che Derek era pronto a fare. E prima di tutta quella difficoltosa procedura, mettersi completamente a nudo davanti a degli estranei che l’avrebbero giudicato, additato, accompagnato dall’umiliazione di dover ammettere e ancora di più accettare di essere stato vittima di uno stupro continuo ed infimo, avrebbe dovuto rivelarlo a ciò che era rimasto della sua famiglia. A Laura, in primis.  

Sono esausto.

Sospirò combattuto e con le ossa contratte quando riuscì ad aprire la porta dell’appartamento, il sole era tramontato da un’ora e le luci erano evidentemente accese, ma non proveniva alcun rumore dall’interno e non intravedeva alcuna ombra muoversi.

Poggiò il mazzo di chiavi sopra quello di Derek, si tolse le scarpe ed entrò dentro il bagno, scostando la tenda doccia e aprendo con attenzione l’ombrello completamente grondante d’acqua, lasciandolo sgocciolare nella vasca. «Derek» chiamò sciacquandosi le mani, procedendo lungo il corridoio nello sfilarsi il giubbotto e snodare la sciarpa, fermandosi di colpo davanti l’ala notturna. «Ah, sei tu» disse con voce addolcita, gli occhi pieni di tenerezza.

Davanti al comodino sul pavimento vi era la creatura che riempiva di gioia Stiles più di qualsiasi altra esistente, era accucciata e raggomitolata su se stessa, riposava con occhi chiusi, ma le orecchie nere erano tese e seguivano i suoi movimenti. 

Il figlio dello sceriffo sistemò gli indumenti sulla sedia e si avvicinò cautamente al lupo, inginocchiandosi e accarezzandogli piacevolmente la testa, gesti che l’animale si godette senza riserve, non muovendosi però dalla sua posizione comoda. Stiles ridacchiò con sonorità e le iridi blu e rosse si palesarono, le orecchie che reagivano al suono della sua voce. «Ehy, ciao» disse con tutto l’amore che aveva nel cuore, il sorriso sciolto che gli si dipingeva sul volto.

Il lupo scivolò sotto le dita dell’umano, ricercandole, prolungando quella piacevolezza apparentemente proibita e Stiles gli diede tutto, affondarono nel pelo, alzandolo e abbassandolo, assaporandone la morbidezza e calore, la lucentezza, accerchiandolo infine con le braccia e stringendolo fortemente a sé, assaporando quel momento pienamente. «Sono così innamorato di te» proferì ammaliato, divertito e commosso da come il lupo completo seguisse i movimenti delle sue mani, si affidasse alle sue cure, fosse così incline a farsi coccolare da lui. Era decisamente più propenso nei suoi confronti con quell’aspetto, più accomodante. Poteva seriamente prendere in considerazione di occuparsi del caso dell’incendio? Essere sedotto dall’idea? Derek, seriamente, non l’avrebbe mai perdonato. «Dovresti assumere sempre questa forma».

Le iridi bicolore lo giudicarono apertamente e Stiles rise di nuovo senza vergogna, chinandosi su di lui per depositagli un bacio sulla pelliccia ed intensificando l’abbraccio, accostando la testa alla sua senza che Derek mostrasse segni di insofferenza. «Sì, questa è decisamente la mia forma preferita».

Un paio d’ore dopo la serratura scattò, il tintinnio delle chiavi risuonò nell’appartamento e dei passi si mossero. Non era mai capitato che, con entrambi all’interno, quella porta venisse aperta, ma il quadrupede non si mosse, continuò a rimanere rilassato nella sua posizione e Stiles non si preoccupò.

«Che bel quadretto» disse Erica meravigliata e allietata quando li scorse, lo studente del primo anno che studiava seduto sulle piastrelle, la schiena contro il materasso, mentre accarezzava distrattamente il lupo nero che poggiava la testa sulle sue gambe incrociate, privo di alcun pensiero. «Quindi, si fa vedere da te» era un’osservazione evidente, l’aveva davanti gli occhi, come Derek fosse un tutt’uno con l’essere umano.

«Hai appena usato le chiavi? Derek te le requisirà» scherzò alla sua vista, ma era comunque sorpreso. «Perché, è davvero così insolito?».

«Sì» asserì con evidenza la bionda, osservando ammirata la naturalezza con cui quei due interagivano. «Sei fortunato».

Stiles giocò con il pelo delle orecchie, lì dov’era più morbido, percorrendone l’intero perimetro. «Sì, a volte sento di esserlo» doveva davvero stupirsi che Derek non volesse apparire più del necessario in forma animale davanti a qualcuno? Non mostrava a priori i suoi occhi unici, l’intero assetto poteva apparire come eresia, eppure era sicuro che il licantropo avesse sentito la lupa sulle scale, destreggiarsi con la serrata e non si era né innervosito né era corso ai ripari. Semplicemente era rimasto lì con lui, assuefatto alla reciproca compagnia che si davano.

«Non sapevo nemmeno assumesse questa forma» rivelò con sincerità la mannara, ma cosa doveva aspettarsi di diverso? Derek non si apriva né raccontava troppo di sé, di certo non li avrebbe informati che in privato si trasformasse in un lupo completo.

«Sì, l’assume quando ne sente la necessità» che non erano neanche così rare quelle occasioni. Tra le mura private Derek era libero di essere chi era davvero e se in un momento imprecisato della giornata esternava il bisogno di diventare un lupo a tutti gli effetti, si materializzava subito. Per quella ragione avevano sviluppato l’abitudine di lasciare le scarpe sporche dal mondo esterno all’ingresso, era una questione di rispetto. Stiles si sentiva un privilegiato ad aver ottenuto una tale fiducia da lui. «Ti serve qualcosa?» domandò quando si rese conto dell’esitazione della ragazza, dell’incapacità di rimanere immobile sul posto, non sapendo come affrontare la questione e cambiare completamente l’argomento della loro conversazione confortevole.

«Devo parlare con Derek» comunicò con delicatezza, muovendo nervosamente il suo mazzo di chiavi personale, in cui erano presenti sia le chiavi del monolocale del mutaforma sia quelle del dormitorio di Erica.

«Oh» si assentò e si chiese di cosa dovessero parlare, ma Stiles non era uno sciocco, Derek sarebbe partito soltanto il giorno dopo e sarebbe mancato per due notti e tre giorni, il tempo più lungo che avessero passato separati da quando erano al college.

Il lupo gli si mosse contro e Stiles posò gli occhi su di lui, trovandolo vigile e attento, osservarlo di sottecchi.

Lo studente di criminologia sospirò, concedendosi di massaggiargli un orecchio e facendosi forza si alzò in piedi, cominciando ad agguantare la sciarpa aranciata e il giubbotto. «Okay, tolgo il disturbo» non poteva rimanere lì quando avrebbero parlato di come affrontare quel lungo periodo in cui il capitano della squadra di basket non sarebbe stato nei dintorni.

Indossò le scarpe ed estrasse le chiavi dalla piccola ciotola in cui le conservavano al rientro. Sentì le unghie delle zampe echeggiare nel monolocale, segno che non stesse usando un passo felpato, e Stiles sospirò di nuovo, voltandosi verso il grande lupo che l’aveva seguito e che lo scrutava con attenzione profonda. «Sto bene, Der. Tornerò più tardi» si congedò con un rapido movimento delle dita a simulare un saluto veloce, ma la matricola non stava bene per niente.

Stiles camminava senza una meta, tutto intorno a lui era bagnato dalla pioggia che si era fermata clemente e si maledisse un po’ per non aver pensato di prendere l’ombrello che asciugava dentro la vasca-doccia; non voleva nemmeno tornare indietro per riprenderlo.

Chissà se Derek avrebbe riassunto la forma umana davanti ad Erica, completamente nudo e splendido come solo lui poteva essere o se avesse avuto la stessa accortezza che usava con Stiles, chiudendosi in bagno. Era curioso, sì. Era nella sua natura, soprattutto scoprire come il capitano si muovesse con gli altri, magari scoprire anche le differenze che saltavano davanti agli occhi delle persone che li guardavano.

Si strinse nel giubbotto e osservò la luna quasi piena, ad un giorno di distanza dal plenilunio, che brillava nel cielo notturno; si destreggiava tra le nuvole, tentando di non farsi coprire.

La nottata che li avrebbe attesi l’indomani sarebbe stata problematica sia per lui che per Derek, benché il licantropo non avesse mai manifestato della difficoltà evidenti, quello, però, non escludeva che fosse in difficoltà.

Respirò a pieni polmoni sotto il satellite della Terra, immobile, lasciandosi illuminare dei raggi argentei e poi rilasciò l’anidride carbonica, il fumo vivido che usciva dalla bocca.

Non era arrabbiato con Derek o con Erica, era soltanto abbattuto di quanto dovessero faticare dietro di lui, per corrispondere alle sue esigenze, alle sue problematiche, di quanto dovessero preoccuparsi per i possibili effetti dati dalla prolungata lontananza dallo studente di letteratura.

Doveva essere contento per Derek, rallegrarsi, perché il suo talento e capacità ottenevano visibilità, erano riconosciuti. Quei viaggi sarebbero perdurati finché il campionato e le varie attività legate non sarebbero terminati o finché la sua squadra non avesse perso e, di certo, Stiles non desiderava che Derek perdesse.

Il campo di gioco era ancora il luogo in cui Derek era più felice. Era stato durante un allenamento di quattro anni prima l’istante in cui l’aveva notato e aveva continuato a scorgerlo, fino a divenire certezza, partita dopo partita e Stiles si era sentito fremere da ogni parte, perché quel ragazzo tenebroso, cupo e bersagliato dal fato avverso era ancora capace di permettersi di essere felice, benvoluto dalla vita.

Soltanto, il figlio dello sceriffo, odiava quanto si sentisse indebolito e precario lontano dalla creatura della notte.

«Stiles» una voce maschile lo chiamò e un’ombra si proiettò su di lui. «Stai andando alla caffetteria?».

«No, il mio turno è finito ore fa» Stiles non aveva bisogno di individuarlo, lo aveva riconosciuto subito. In quella semioscurità le iridi azzurre spiccavano senza fatica. «Avevo bisogno di camminare» aveva percorso tutta quella strada fino ad arrivare nelle vicinanze del dormitorio dello studente di scienze politiche? Se fosse inconsciamente o volutamente, non era sicuro della risposta.

«Non proprio il momento giusto» rifletté Theo, un ombrello chiuso in mano, ma da cui sgocciolava una quantità notevole d’acqua, segno che forse lo studente di criminologia era stato graziato in quella pausa dalle precipitazioni. «È successo qualcosa?» domandò con dubbio, osservando uno Stiles che gli appariva anonimo, distante e con qualche peso eccessivo sulle spalle.

«No, niente di importante» non doveva esserlo, eppure sull’animo della matricola di criminologia pesava enormemente. Si voltò completamente verso il suo interlocutore, apprendendo della sua reale presenza in tutto e per tutto. «Sai come smettere di essere egoista?».

Una scintilla attraversò gli occhi di zaffiro e si fecero più intensi. «No».

Stiles ridacchiò vuoto, tirandosi sulla testa il cappuccio del giubbotto che Derek aveva riattaccato e che non era stato più staccato. Lentamente aveva ricominciato a piovigginare. «Immaginavo».

Theo aprì l’ombrello con l’unico tasto presente che lo fece scattare immediatamente, nel momento in cui la pioggia si velocizzò e divenne più presente. Al rumore dell’apertura metallica si sporse per baciargli la bocca, la pelliccia sintetica che gli solleticava il viso e lo sgomento nel figlio della massima autorità di Beacon Hills. «Hai chiesto alla persona sbagliata».

Si separarono e il calore era ancora sulle labbra interdette di Stiles, come il fiato che le lambiva volutamente.

Sbatté le palpebre, la vista che si faceva più chiara e limpida, l’ombrello sopra le loro teste, il fumo che usciva dalla bocca di entrambi e si miscelava insieme.

Stiles gli agguantò il viso fulmineamente e ferocemente fece scontrare le loro bocche, che presero a baciarsi voracemente e languidamente, attirandolo completamente verso di sé, senza permettergli di sviarsi da lui.

«Andiamo da me?» gli propose Theo sulle labbra, baciandole ad ogni parola, le iridi brillanti e vogliose, eccitate.

Che cosa avrebbe risposto se fosse stato qualcun altro? Se lì presente ci fosse stata qualcuna come Heather? Se vuoi rivedere qualcuno, fallo erano state le parole di Derek. «Sì» chi voleva prendere in giro, Stiles avrebbe voluto rispondergli positivamente ad ogni nuova offerta.

In quel momento Stiles voleva essere posseduto, riempito. Un corpo possente e duro contro il proprio. Era quello che più preferiva: essere dominato. Prendersi tutto il piacere.

Quando tornò oltre la mezzanotte nel monolocale, senza neppure aver cenato, Derek non proferì parola, non gli domandò se volesse che gli cancellasse i succhiotti e morsi che aveva su tutto il corpo, sui lembi di pelle visibili oltre il pigiama, né Stiles ebbe il coraggio di chiedergli di farlo.

Si addormentarono dandosi entrambi la schiena.

 

«Avevi ragione» gli disse il lupo mannaro in videochiamata disteso sul letto matrimoniale, il torace nudo che si alzava e abbassava.

«Su cosa?» gli chiese distrattamente la matricola, coricata sullo stomaco, indossando il pigiama della volpe di cui si avvaleva tutte le volte in cui Derek non era al campus e che gli lasciava intravedere una delle clavicole per via della sua taglia esagerata, su cui spiccava un livido roseo e fresco, accompagnato a pochi altri più distanti, insieme ad uno collocato su un lato del collo. Sembrava fosse stato ripassato più volte per non perdere colore. Stiles cercava di non farli notare troppo, ma era una battaglia impari.

Era tornato da Theo la notte precedente e anche quella stessa notte, prendendosi tutto quello che poteva prendersi e dando quanto fosse disposto a dare. Erano state ore piacevoli che avrebbe sicuramente voluto ripetere, ma anche se Derek non era nei dintorni, aveva cercato di lavarsi meglio che poteva, per evitare di portare odori pochi spiacevoli nell’appartamento che il lupo avrebbe avvertito subito.

«Prima del liceo, non avevo coscienza di te» rivelò la creatura leggendaria, come se Stiles avesse dovuto stare attento a non perdere il filo del discorso.

Ah, Stiles dovette tornare indietro di più di un mese con i pensieri, alla notte di Halloween. La notte in cui, sottoforma di lupo completo, Derek aveva incontrato Theo faccia a faccia ‒ muso a faccia? Muso a muso? «Beh, perché avresti dovuto?» era una coincidenza che prendesse quell’argomento dopo che Stiles aveva infine ceduto alle adulazioni dello studente di scienze politiche, più volte?

«Tu mi avevi già notato» dissentì il padrone di casa, come se dovesse essere in qualche modo un’offesa per la persona di Stiles.

«Non credo di poterci paragonare» nessuno di loro stava facendo riferimento a ciò che aveva comportato l’incendio, la notizia ribalzata su tutti i giornali e telegiornali locali, i sussurri di bocca in bocca che si erano sparsi per tutta la cittadina. «Tu appartieni alla famiglia più facoltosa di Beacon Hills. I tuoi antenati ne sono stati i fondatori, accidenti. Fidati, fa un certo effetto. E poi sono la persona più curiosa del mondo, noto tutti».

«Sei anche la più malfidente» aspetto che a Derek non sarebbe guastato un po’ avere a quel tempo. Almeno una briciola.

«Fa parte del pacchetto paranoici» lo ragguagliò con divertimento bonario, strizzandogli un occhio giocoso.

Derek emise una piccola risata e per Stiles era sempre una vittoria. «Il bambino che rubava i fascicoli di casi di omicidio del padre».

«Beh, forse quello ha influenzato» se si conosce il peggio del cuore delle persone, non ci si aspetterebbe niente di diverso.

«Solo di omicidio?» volle sapere attento il licantropo, gli occhi interessati.

«Mi ci vedi a dare la caccia a un ladro d’auto?» arricciò il naso disgustato, distorcendo la bocca.

«Se fosse la tua, sì» lo corresse al volo il playmaker.

«La mia bambina sa difendersi da sola» affermò fieramente, battendosi un colpo sul petto.

«Certo» confermò con convinzione Derek. «È una trappola mortale, non ne uscirebbero vivi».

«Morditi la lingua, essere indegno» lo additò con asprezza il figlio dello sceriffo, assottigliando pericolosamente gli occhi.

Derek produsse un colpo di risa e scosse il capo rassegnatamente divertito. «E i casi di frode? Un abile falsario come te».

«Quelli sono divertenti» ammise Stiles, annuendo con enfasi. «Adoro risolvere i puzzle» trovare lo schema, smascherarlo, trovare l’errore. «Qualche volta, sono tutti casi collegati. Bisogna trovare ciò che li lega» se avesse potuto, come avrebbe fatto a trovare il collegamento tra Kate e l’incendio degli Hale? Come avrebbe anche potuto collegarla a Derek? Era stata troppo brava a non lasciare tracce, a tenere Derek tutto per sé. A non far trapelare avversioni particolari verso gli Hale, come tutta la sua famiglia di psicopatici. A volte si chiedeva come Chris Argent fosse riuscito ad essere l’unica persona onesta e leale in quella gabbia di matti.

«Già, è vero» concordò assente il capitano della squadra di basket.

L’umano lo scrutò attraverso il piccolo schermo dello smartphone, non gli rendeva minimamente giustizia, ma non ridimensionava minimamente il suo essere glorioso. Era distante e chiuso nei suoi pensieri, completamente lontano dal suo interlocutore, come se non avesse più coscienza che fosse lì con lui, a collegarli una microtelecamera puntata addosso.

Erano accompagnati dal silenzio e Stiles era indeciso su che cosa avrebbe dovuto fare per romperlo. Se avesse dovuto osare.

Avrebbe dovuto chiederglielo? Prendere l’argomento sull’incendio degli Hale? Cosa gli avrebbe risposto? Sbadigliò incontrollatamente, le lacrime della sonnolenza che fuoriuscivano senza controllo, premendo il viso istintivamente contro il cuscino di Derek che abbracciava con tutte le forze.

«Stiles, va a dormire» lo incitò il mutaforma, ritornato nel mondo presente, di nuovo cosciente della matricola esausta dall’altro lato dello schermo. «È tardi».

Due ore di fuso orario li dividevano e quella sera Derek aveva giocato. La squadra si era prorogata in un lungo festeggiamento per la vittoria, schiamazzi e brindisi, urla, musica e confusione. C’erano questioni da cui un capitano non poteva sottrarsi e quell’occasione vi rientrava.

Stiles era tornato verso la mezzanotte, orario che rispettava sempre quando si intratteneva in incontri infuocati, e l’aveva aspettato per i successivi centoventi minuti, quando il mannaro era riuscito a togliere le tende ed eclissarsi ‒ e si presumeva che ne fosse trascorsa un’altra di ora con la loro conversazione, Stiles non guardava mai l’orologio. Era sicuro che il restante dei giocatori non aveva alcuna voglia di spegnersi troppo presto. «Voglio parlare con te» si imbronciò, le palpebre che rimanevano aperte con fatica e la vista appannata che gli impediva di scorgere perfettamente i lineamenti del suo viso.

«Tornerò tra dodici ore, potrai parlarmi quanto vorrai» che non implicava affatto che il playmaker fosse disposto ad ascoltare il suo sproloquio. Stiles era un flusso di coscienza interminabile.

Il figlio dello sceriffo era evidente non fosse persuaso, con il viso sprofondato sul proprio guanciale per via delle forze che lo abbandonavano e l’ennesimo sbadiglio che gli sfuggì senza nemmeno averne coscienza. Gli occhi rimanevano comunque perforanti.

«Stiles» lo chiamò con morbidezza, comprensivo e lungimirante. «Non accadrà nulla stanotte».

Le palpebre si chiusero una volta, dando via libera alle lacrime del sonno di scivolare via. Sospirò affranto, stremato, le braccia che avvolgevano con più forza il cuscino di Derek, mentre cercava di accomodarsi maggiormente nel proprio e rallentare il battito affrettato del cuore. «Lo spero».

 

Theo camminava per le vie notturne del campus senza una meta, uno scopo preciso. Si stringeva nel cappotto nero e si lasciava guidare dalla luce dello spicchio di luna che rimbalzava sulla neve fresca, caduta per tutto il giorno.

Non era così presuntuoso da credere che Stiles sarebbe tornato da lui per una quarta sera consecutiva, le nocche che bussavano alla sua porta. Aveva sentito la necessità di alzarsi e allontanarsi dal dormitorio, proseguire per una strada diversa, permettere a qualcos’altro, o qualcun altro, di distrarlo. Non mentiva se confessava di conservare la speranza di imbattersi casualmente nella persona più brillante e scostante che avesse incontrato in quel college, esattamente com’era accaduto tre giorni prima sotto la pioggia. Quante probabilità esistevano che accadesse e che lo studente di criminologia cedesse nuovamente?

«Stiles» mormorò con un punto interrogativo incerto, tentando di mettere a fuoco la figura che passeggiava con passo tentennante e spaesato davanti a lui.

«Lei lo sapeva» replicò sconclusionatamente il figlio dello sceriffo, le gote arrossate, l’illuminazione dei lampioni distanziati che lo sfioravano appena, un’agitazione anomale ben evidente.

Theo sbatté le palpebre varie volte, non capendo minimamente con cosa avesse a che fare e se fosse reale. Stiles indossava soltanto un pigiama primaverile, forse leggermente felpato; vi era un volpacchiotto con dei palloncini in una zampa anteriore che volava sospeso su un cielo abbellito di nuvolette dai colori pastello, varie stampe simili erano raffigurate anche sui pantaloni ed i piedi erano completamente scalzi, sprofondati nel gelido manto innevato. «C’è qualcosa che non va?» era surreale e atipico, anche allarmante, Stiles non sembrava sapere chi fosse, non avere alcuna coscienza di chi incontrasse e dove si trovasse, aveva gli occhi vacui e distanti. Nemmeno il freddo pungente appariva scalfirlo, benché fosse evidente che il suo corpo ne fosse bersagliato.

«Non avvicinarti» ringhiò una voce a lui totalmente sconosciuta, minacciosa e severa. «Non toccarlo».

Erano ordini, non vi era alcun dubbio. «Tu puoi, invece?» lo sfidò aggressivamente, la beffa serpeggiante e assottigliando gli occhi.

Derek Hale lo fulminò a vista e se uno sguardo avesse avuto il potere di ucciderlo, sarebbe stato propriamente quello. «Non puoi gestirlo».

Theo si chiese se si riferisse a quel bizzarro momento o se vi fosse un aspetto più grande. «Dimostramelo».

Le iridi verdi non si sprecarono a perdere troppo tempo su di lui e Theo, invitato malamente a rimanere immobile, vide il capitano della squadra di basket precipitarsi con moderazione verso Stiles, entrare nella sua sfera personale, poggiargli una mano su una spalla e l’altra sul viso. «Cazzo, sei ghiacciato» osservò con preoccupazione al momento dell’impatto, cercando indizi tutto intorno. «Da quanto tempo sei qui fuori?».

A quella domanda si voltò verso il ragazzo spettatore, prendendolo in contropiede per quel gesto puramente istintivo, e quest’ultimo scosse il capo non sapendogli dare una risposta.

Lo studente di scienze politiche notò come Derek non apparisse sorpreso di trovare Stiles in quelle condizioni, senza nient’altro a vestirlo se non un pigiama sottile, com’era evidente che il capitano indossasse soltanto una maglia con il logo della squadra del Michigan State University. Che si fosse messo ad inseguirlo e cercarlo nell’istante in cui aveva compreso che Stiles non era dove doveva essere?

«Derek, lei lo sapeva» Theo si sorprese quando sentì il nome del mutaforma essere pronunciato, testimonianza che il figlio della massima autorità di Beacon Hills fosse consapevole con chi interagisse, a differenza di come aveva e continuava a dimostrare nei suoi confronti. «Sapeva di cosa sarei stato capace».

«Non è vero» dissentì fortemente il playmaker, sfregandogli entrambe le mani sulle spalle in un tentativo di riscaldarlo, di salvarlo dall’ipotermia. Stiles appariva cristallizzato per quanto il corpo si mostrasse pallido ai raggi di madreperla, facilmente frangibile.

«Lei l’aveva avvisato» Stiles si agitò implorante, a pregare di essere capito, compreso. Di abbracciare la sua battaglia personale. «Continuava a ripeterglielo. Del male che avrei fatto. Che le avrei fatto» le dita si chiusero con violenza a pugno, le unghie che si conficcavano con violenza nei palmi.

«Non è così» ribatté controcorrente Derek con decisione, la presa che si faceva più decisa sulle ossa infreddolite del futuro criminologo. Per via della grandezza eccessiva della maglia del pigiama, evidentemente di un paio di taglie più grandi, era chiaramente visibile uno dei succhiotti di cui Theo andava fiero, proprio sull’incavo del collo su cui predominava; era passato un giorno intero, ma era ancora principalmente tendente al rosso. «Non era più lei. Questo lo sai» il tono era ragionevole, pragmatico, eppure era pieno di delicatezza. «Le cose che disse, le sue accuse, erano soltanto frutto della sua malattia. Ti aveva già lasciato».

«Ma lei l’aveva predetto» dissentì testardamente Stiles, oscillando pericolosamente per via della precarietà della situazione, le lacrime che cominciavano a irrigargli il viso arrossato. «Del demone. Del male. Della volpe. L’avrei uccisa. Avrei ucciso. L’ho uccisa» nel panico generale, Stiles recise violentemente la carne interna delle mani, si divincolò dalla presa del mannaro e le maniche troppo larghe volteggiarono nell’aria, lasciando scoperti i polsi su cui si avventò con maggiore brutalità, cominciando a graffiare e infierire, le unghie che tentavano di rompere i vasi sanguigni visibili, facendo sgorgare liquido vermiglio.

«Basta» ordinò con un urlo secco Derek, afferrandogli le mani e separandole tra loro, impedendogli di avere accesso a qualsiasi parte del suo corpo su cui volesse infierire. «Odio quando ti fai del male».

Stiles lo guardò senza che riuscisse a decifrarlo, a svelare l’arcano dietro cui Derek si fosse mobilitato per fermarlo. «Sarebbe più facile».

«Più facile per chi?» lo chiese il lupo con dolore, i tratti del viso distorti dal terrore e da una preoccupazione senza eguali. Le dita scesero verso i polsi, sigillandosi sulle ferite aperte come a tamponarle, gocce cremisi caddero sulla neve, macchiandola inesorabilmente. «Mi dispiace di aver fatto tardi» disse affranto, distrutto, il senso di colpa che spintonava per primeggiare.

Theo era pietrificato sul posto, inorridito e spiazzato da quello a cui stava assistendo e che gli si mostrava senza il minimo senso. Che cosa incontravano i suoi occhi? Quanto poteva essere utile la sua presenza lì?

«Anche lui ha detto che era colpa mia» si fece nuovamente sentire lo studente di criminologia, bisognoso di presentare una maggiore quantità di prove che gli dessero ragione.

La matricola di scienze politiche vide come Derek ebbe bisogno di qualche attimo di tempo per processare quella nuova conversazione e decodificarla. C’era un numero sproporzionato di pronomi indecifrabili, bisbigliati, a cui Theo non aveva accesso, ma invece il capitano sapeva distinguerli tutti. «Non era reale, era un’allucinazione» spiegò con quanta più veridicità ci fosse in lui, con la speranza che gli credesse. «Lui non penserebbe mai una cosa simile. Sei tutto ciò che di più importante ha».

«Aveva cominciato a bere, tanto» rivelò Stiles con le lacrime agli occhi, arreso ed apparendo più piccolo di quanto in realtà non fosse. «Io lo vedevo, ma non sapevo cosa dovevo fare» tirò le braccia verso di sé, ma il capitano le teneva saldamente dalle ferite macchiate di sangue. «Sono arrivati gli infarti, l’ospedale. Le parcelle. Le loro. Le mie. Non c’è fine».

«Eri soltanto un bambino. Senza più una madre» pronunciò la verità il lupo mannaro, scandendo lettera per lettera. Una verità che dopo tutti quegli anni Stiles non era ancora riuscito ad accettare. «Hai tenuto insieme quello che potevi».

«E tu, Derek?» lo sguardo vuoto di Stiles si fece attento, riflessivo, diretto interamente verso il suo interlocutore. «Tu sei rimasto senza nessuno».

«Ho Laura» lo sentì dire Theo, senza che ci fossero dubbi su quello, era una realtà inconfutabile. Le dita sfiorarono la vena che pulsava, direttamente collegata al cuore del figlio dello sceriffo. «Ho te». 

«Derek» proferì completamente spezzato la matricola di criminologia, proseguendo nel tracciato da cui non voleva separarsi, senza farsi distrarre. «Appartengo a lei. Non sono più la tua volpe infuocata. Sono una volpe malvagia, crudele e meschina, ormai. Proprio come lei».

Derek impallidì a quelle parole, gli occhi sgranarono attoniti. «Sarai sempre la mia volpe infuocata» proferì con la profondità della sua premura, investendo chiunque fosse nei paraggi.

Una mano risalì verso il viso di Stiles, sporcandolo inevitabilmente di tracce scarlatte, che risaltavano attraverso la luce perlata della luna rinata. «Sei la volpe più intelligente e astuta che abbia mai conosciuto. A volte manipolatrice, ma per uno scopo più grande, per proteggere le persone che ami di più, benché tu non venga ripagata allo stesso modo» il pollice gli accarezzò uno zigomo con affetto sofferto, una scintilla di tenerezza nelle dure iridi di giada. «Sei la volpe più fedele e leale che esita, la più giusta. La volpe dal manto infuocato più splendente che ci sia».

Stiles singhiozzò affranto, alcune lacrime vennero cancellate dal polpastrello bollente del licantropo, unica fonte di calore in quello scorcio della sua vita tormentata. «Ma tornerà a prendermi. Le appartengo» la vera disperazione affiorò, così come un’interminabile stanchezza. «Tornerà a controllarmi».

«Appartieni soltanto a te stesso» dissentì prontamente il lupo, negando ogni possibile scenario opposto. «Ti ho fatto una promessa, Stiles» gli riportò alla mente con intensità, senza che potesse anche soltanto farsi solleticare dalla possibilità che si tirasse indietro. «Non le permetterò di trovarti» gli prese interamente il viso tra le mani, scatenando un piccolo sospiro di sollievo nel figlio dello sceriffo e Theo notò come non vi fosse più del sangue a scorrere dalle vene torturate dei polsi o dai palmi. «Puoi fidarti, ancora una volta, di me?».

Le iridi dello splendido nettare degli dei erano vuote, non scalfivano minimamente la loro reale bellezza, eppure erano comunque dedite a Derek. Vive. «Der, sei l’unica persona di cui mi fida» proferì con candore irriproducibile, sconfinato.

Derek gli respirò sul volto, gli occhi verdi che lo abbracciavano interamente, accostandogli la fronte contro la sua ed ispirando a pieni polmoni la fragranza energica, indomabile. Il tempo si dilatò. «Vale anche per me».

Le labbra del figlio dello sceriffo si curvarono verso l’alto e quello era il primo sorriso in quella lunga, disastrosa e spaventosa notte.

Derek lo scorse di sottecchi, i tratti facciali si erano mossi sotto le sue dita. Gli schioccò un bacio morbido e caldo proprio sul punto su cui si era appoggiato, al centro. «Ti riporto a casa».

Stiles annuì contro di lui e le falangi del lupo completo si scollarono dal viso, intrecciandosi pigramente ai capelli scompigliati e gelati. Tutto in Stiles lo era.

Gli occhi di smeraldo severi si spostarono sullo spettatore discreto che aveva assistito impotente e scombussolato senza emettere fiato. Erano affilati e giudicanti, comunicavano un messaggio che Theo aveva già decifrato mesi prima.

«Good times, bad times, guess we're human» provò a cantare la voce arrochita di Stiles a causa della temperatura bassa, che andava oltre gli zero gradi, incurante delle sue condizioni allarmanti. «Take me, save me, I don't want this burnin' out» intonò la volpe infuocata, le corde vocali che si riscaldavano, conferendogli una melodia piacevole.

Theo assistette spiacevolmente alle dita del figlio dello sceriffo che si intrecciavano a quelle del lupo mannaro, distante poco dietro di lui, quasi a fargli da scorta, mentre lo conduceva sospingendolo nella direzione opposta al Mayo Hall. Fu allora che Derek ricambiò la stretta in automatico, in una prassi casuale. «Don't-don't it feel so good right now?» vocalizzò lo studente di criminologia, i piedi nudi che lasciavano orme sulla neve soffice, tracce precise del suo intero percorso, la direzione in cui stava procedendo con enorme difficoltà per giungere alla salvezza.

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Capitolo 13
*** 13° Capitolo ***


13° Capitolo

 

Stiles era certo che quella notte fosse andato a dormire con un pigiama diverso, con quello di Derek con i volpacchiotti che amavano tanto, ma quella mattina indosso ne aveva uno dei propri. Ritraeva la DeLorean pronta per un altro viaggio, in procinto di andare nel futuro. O nel passato.

Non era indice che qualcosa di positivo fosse accaduto quella notte.

Si rigirò nel letto, trovandolo vuoto, le lenzuola completamente fredde; lenzuola di flanella di cui Derek non se ne faceva nulla, insieme ad altre tipologie, ma che era corso ai ripari per il benessere di Stiles. L’occhio gli cadde sulla sveglia digitale ed imprecò, conscio di aver saltato il suo turno alla caffetteria. Come avrebbe fatto a giustificarsi? Perché aveva dormito così tanto? Chi aveva badato a lui? Ad una prima analisi offuscata dagli occhi ancora insonnoliti, non era certo che Derek fosse ritornato.

Poggiò i piedi sul pavimento e notò che erano già avvolti da un paio pulito dei suoi calzini antiscivolo, un’accortezza insolita.

Scivolò dal materasso e si spinse in piedi, procedendo a tentoni verso il bagno, bisognoso di prendere maggiore coscienza di sé. Quando si fu alleggerito e rinfrescato, si scrutò attentamente allo specchio, era completamente disordinato e provato. Vi era una stanchezza che Stiles sinceramente non riusciva a percepire.

Si scrutò le mani, scoprì i polsi e trovò tutto immacolato. La vista scivolò sul colletto della maglietta, non notando alcun livido rossastro o violaceo. Scostò la stoffa e non vi trovò assolutamente nulla. Pelle candida e inviolata.

Si agitò e alzò la maglia, non scorgendo alcun succhiotto che nelle sere precedenti il suo corpo era stato disseminato. O aveva dormito più di qualche ora di troppo o qualcuno aveva usato i suoi poteri lupeschi.

Si affacciò oltre la porta del bagno e ciabattò verso la zona cottura, la lavatrice accesa che persisteva a svolgere il suo compito. «Sei tornato» realizzò il figlio dello sceriffo quando incontrò la figura di Derek seduto a capotavola, il Mac accesso e le dita che digitavano spontaneamente.

Le iridi di giada si poggiarono distrattamente su di lui, come a non voler rendere quel rinnovato incontro speciale.

Stiles si morse le labbra a disagio, stranamente fuori posto. Il ticchettio sulla tastiera riprese e l’umano inghiottì un nodo di saliva a vuoto. Oltrepassò il tavolo e si diresse verso la grande finestra, salendo con le ginocchia sul divano. C’era neve dappertutto, scie di orme in ogni direzione, le strada asfaltata liberata dallo spazzaneve. Anche le auto ne erano ricoperte, chissà se Derek fosse già passato dal parcheggio incustodito per toglierla dal tettuccio della preziosa Camaro. «Devo chiamare la caffetteria».

«Me ne sono occupato io» disse il mutaforma come se non gli avesse richiesto alcuna fatica. Prendere il telefono, cercare il numero sul sito ufficiale e far partire la chiamata, spiegare perché il loro barista logorroico ed iperattivo fosse indisposto. Tutta quella premura soltanto per lui.

Derek si alzò subito dopo e si diresse a sbirciare dentro il frigorifero rifornito. «Vuoi mangiare?» gli chiese con evidenza.

Stiles si voltò appena verso di lui, indeciso sulla prassi. Era quasi ora di pranzo, aveva senso. Anche se era sicuro che la sua priorità dovesse essere un’altra. Si limitò ad annuire.

Il capitano estrasse una padella dal reparto stoviglie, insieme ad una pentola. La riempi d’acqua e accese il fuoco, riponendole sopra il corretto coperchio, accanto spinaci freschi direttamente dal reparto verdura. Sulla fiamma vi depositò anche la padella vuota e lo vide trafficare alla ricerca di fette spesse di pancarré. Le avrebbe tostate in mancanza di un tostapane apposito.

Stiles tornò a guardare oltre la finestra, al freddo pungente che vi era oltre quel monolocale che Derek teneva ad una temperatura adeguata a entrambi, ma soprattutto per la matricola. Aveva camminato ignaro in mezzo a quel gelo?

Si asciugò una lacrima di frustrazione e si alzò in piedi, sorpassando il mobilio e avvolgendo le braccia intorno al mannaro, incastrando il viso nel suo collo. Era al sicuro, era a casa.

«Ehy» soffiò Derek contro di lui, sfiorandogli la nuca con le punta delle dita. «Va tutto bene».

Adesso, adesso andava bene. Stiles non ne volle sapere di separarsi dal giocatore, intensificando l’abbraccio e prolungando quella pace momentanea. «Cos’è successo?».

Una mano si intrufolò tra i capelli castani scompigliati, massaggiandogli attentamente un punto delicato della testa. «Hai avuto una notte difficile, complicata».

Così complicata che aveva perfino dovuto cambiarlo. Il freddo aveva sicuramente contribuito a quella decisione, ma il fatto che tutti i segni che Theo aveva cosparso sul suo corpo fossero spariti, era una prova che Derek si era visto costretto a curarlo totalmente.

Stiles uscì allo scoperto, abbandonando il suo rifugio caldo, adocchiandolo misuratamente. «Non accadeva da un po’» non in modo così catastrofico, per quanto lui ne sapesse.

«Lo so» convalidò il lupo completo, spegnendo per precauzione il fornello con la padella. Era riuscito a tostare soltanto due fette di pane. «Mi dispiace di aver ritardato».

«Non è colpa tua» le iridi d’ambrosia brillavano nelle sue, stuzzicate da quelle scuse non necessarie.

«Mi dispiace comunque» insistette il licantropo, non convinto pienamente di meritarsi la fiducia che Stiles, qualsiasi Stiles, gli desse.

«Mi avevi avvisato in passato» senza nessun controllo da parte di Derek, per il viaggio di rientro ne erano capitate una di seguito all’altra. Nomi che mancavano nelle prenotazioni o errati, un ritardo clamoroso all’aeroporto, voli cancellati e il traffico nella via che li avrebbe ricondotti al campus. Derek aveva cercato di passare ogni singolo minuto possibile al telefono con lui. «Sei qui, adesso».

«Oltre le dodici ore promesse» rincarò la dose, un pollice che benevolmente gli accarezzava ripetutamente un sopracciglio. «Avrei dovuto escogitare qualcosa. Tenere Erica all’erta».

«Mi hai trovato» si diede una spinta con la punta dei piedi e accostò la fronte contro quella di Derek, senza alcuna intenzione di sciogliere il legame di arti che li teneva uniti. «È ciò che conta».

Il capitano della squadra di basket lo trattenne in quella posizione, una mano ancorata al viso della matricola. Reciprocamente si avvalsero del calore dell’altro e Derek strusciò delicatamente il naso contro il suo, sopra il sorriso rilassato di Stiles. Gli schioccò le labbra in mezzo agli occhi che si serrarono al contatto. «Raeken era lì».

Stiles fu attraversato da una scossa spiacevole che lo allarmò. Si sentì anche in dovere di sciogliere ogni presa dal lupo. «Theo?» chiese retoricamente, ma con l’esigenza di averne la certezza.

«Sì» confermò il licantropo, intrattenendosi con le punta dei suoi capelli. «È giusto che tu lo sappia».

L’umano lo guardò smarrito ed in svantaggio, sentiva che la situazione gli era sfuggita di mano. «Quanto ha visto?».

«Ogni cosa» fu sincero, accarezzandogli il padiglione auricolare con lentezza. «È arrivato per primo».

Dubitava ci fosse del merito o che lo stesse oggettivamente cercando per una qualche forma di preoccupazione. Era stata una casualità e aveva assistito a qualcosa di raccapricciante. «Non sarà una conversazione piacevole».

«Dubito smetterà di avere interesse per te» se l’aveva inquadrato abbastanza bene, l’avrebbe soltanto sollecitato.

Derek doveva aver interpretato malamente il suo disagio. «Cavolo, credevo di aver trovato la scusa perfetta».

La creatura della notte rise divertita, ritornando a sperimentare con i fornelli, aprendo un pacco nuovo di hamburger di lenticchie ed un pacco di verdure non bene identificate ‒ e l’umano non era sicuro di volerle identificare ‒ e Stiles era più entusiasta di ottenere quel risultato che qualsiasi altro.

 

Il figlio dello sceriffo confuse la consultazione di uno dei suoi libri di testo e gli cadde quello giusto nel momento in cui Jiang varcò la soglia della porta, le sopracciglia innalzate e l’espressione giudicante che tipicamente gli rivolgeva davanti all’ennesima rappresentazione della sua maldestra.

Stiles aveva appena concluso una videochiamata con il padre, piuttosto difficile, impegnato a non fargli capire quanto sfiancanti fossero stati gli ultimi giorni. Salutò il compagno con un gesto della mano e tornò a immergersi nello studio come da abitudine, le varie occasioni in cui si intratteneva nella sua stanza nel dormitorio, soprattutto per non monopolizzare eccessivamente il monolocale del lupo mannaro.

Ma quel giorno lo sguardo di Jiang persisteva a stargli addosso, la porta che tardava ad essere richiusa e il portatile che veniva accesso nella sua postazione di studio. «Theo mi ha raccontato cosa è successo».

«Oh» non sapeva dire se si aspettasse quella mossa o se sarebbe rimasto un aneddoto tra loro tre.

Il compagno di stanza si sedette davanti la scrivania e digitò la password che Stiles faceva finta di non conoscere. «È una cosa seria?».

Chissà cosa esattamente gli avesse raccontato o se avesse solo accennato che se ne andasse in giro nel cuore della notte, con soltanto il pigiama addosso e lesionandosi. «Soffro di sonnambulismo» rivelò per la prima volta a qualcuno che non facesse parte di quella nicchia privata e piccolissima che si era creata intorno a lui.

Jiang annuì quasi ad aspettarselo e aprì uno dei suoi documenti di word su cui stava trascrivendo qualche articolo interessante. «Capisco perché fossi schivo nel parlarne» chi l’avrebbe fatto con un estraneo? Come biglietto da visita. «Non so se posso esserti da aiuto, ma non voglio esimermi se hai bisogno».

Gli occhi dello studente di criminologia si ingrandirono e il fiato fu trattenuto. «Grazie».

Lo studente di economia scosse le spalle come se quello non avesse nessun significato particolare, ma per Stiles lo aveva. «Credevo che lo avresti informato sulle mie notti fuori porta» se così avesse dovuto chiamarle.

Jiang roteò sulla sedia meditativo, scrutandolo attentamente. «Non sono affari miei come siete organizzati tu e il tuo ragazzo».

«Non è il mio ragazzo» cominciava a credere che dovesse andare in giro con magliette e capellini che ribadissero quanto Derek Hale non fosse il suo ragazzo.

«Qualsiasi cosa siate o definiate» la semplificò l’asiatico, disinteressato. «Theo è una persona che si ossessiona per chi ha interesse. Prima o poi capirà che tu non sei interessato a lui quanto lui lo è di te».

Cos’è esattamente che le persone pensassero di lui e Derek vedendoli? Che fossero una coppia aperta? Se c’era una definizione che si opponesse completamente al playmaker, era l’apertura. L’altra era la possessività tipica di un lupo autentico come lui da cui non si lasciava dominare. «È tuo amico».

«E tu sei il mio compagno di stanza. Che trova sollievo soltanto con lo studente più popolare del Michigan State University» fu piuttosto perentorio e annoiato di dover spiegare le sue ragioni che gli impedissero di schierarsi da una parte o dall’altra. «So scegliermi le mie battaglie, questa non mi appartiene».

La conversazione apparve chiusa e ognuno tornò alle proprie occupazioni, come se non avessero affrontato argomenti spinosi.

Stiles si sentiva stranamente e piacevolmente rincuorato.

 

Quel giorno gli era toccato il turno serale, con l’aggiunta di un’ora extra per quello saltato, le altre le avrebbe recuperate durante il finesettimana. La neve non accennava a diminuire e Stiles doveva stare doppiamente attento a non scivolare, si era avvolto la sciarpa di Derek in ogni lembo di pelle copribile e spesso teneva il cappuccio alzato per il terribile freddo che non gli dava tregua.

Infilò le mani in cerca di ulteriore calore nelle tasche, intenzionato a non uscirle più, ma vi trovò un ingombro, qualcosa di caldo e morbido che diede sollievo alle dita irrigidite. Estrasse l’oggetto estraneo da una tasca e vi trovò un guanto nero con le punta rosse.

Con stupore ripeté lo stesso gesto con l’altra, per trovarvi un guanto identico. Non li aveva mai visti in vita sua ed era assolutamente certo che fosse stato lui ad inserirli, era l’ennesima premura silenziosa di Derek. Semplicemente perché Stiles era del tutto incapace di badare seriamente a se stesso e aveva sottovalutato l’inverno lontano dalla California.

Si ritrovò ad indossarli nell’immediato e avvertì un conforto insperato, le dita che prendevano nuovamente a muoversi senza il dolore arrecato dal freddo. Sorrise senza controllarsi per quella piccola goduria.

Sul marciapiede, a pochi metri dall’ingresso al Crescent Moon Theo lo stava aspettando, era infagottato come lui, ma possedeva più grazia.

Si piantarono uno davanti all’altro e Stiles aveva il viso sprofondato nella sciarpa fino al naso, desideroso soltanto di chiudersi dentro le mura domestiche al calduccio. «Pensavo di non rivederti».

«Perché mai?» chiese curioso e sorpreso lo studente di scienze politiche.

Il figlio dello sceriffo lo guardò per qualche secondo, incerto. «Derek mi ha detto che eri lì quella notte».

«Ah, te l’ha detto» lo sguardo era sbalordito, così come la voce.

«Certo che l’ha fatto» esclamò Stiles con ardore, indispettendosi.

«Non me l’aspettavo» disse l’altro con sincerità, senza nascondersi. «È iperprotettivo con te».

A Stiles veniva da ridere schernente; certo che Derek era iperprotettivo, non poteva essere da meno. Era nella sua natura di Alpha. Era nella natura di Derek. «Non è iperprotettivo soltanto con me, ma con tutte le persone a cui tiene» lo squadrò, le palpebre che si assottigliavano. «Pensi di averlo inquadrato, senza minimamente conoscerlo».

«Non agisci anche tu così?» lo beffò con un sorriso sardonico ma affascinante sulle labbra.

«La differenza sta nel fatto che io abbia ragione» lo graffiò il figlio dello sceriffo, affondando ancora di più nella sciarpa per trovare maggiore riparo dalla brezza tagliente che infieriva sul viso. Era profumata, fresca di bucato e aveva l’odore dell’ammorbidente di Derek. Non era niente di esoso e invasivo, ma aveva una lieve nota boscosa che lo rendeva riconoscibile.

«Difficilmente sbaglio» asserì con convinzione il bruno.

Stiles lo fulminò malamente con gli occhi, pugnali d’ambrosia, e Theo sorrise con divertimento, misto ad infatuazione. Lo prese per un polso coperto dal guanto e si avvicinò per assaporare le labbra rosse che spiccavano in mezzo al pallore del suo viso.

Stiles non fece quasi resistenza e ricambiò senza alcuna motivazione sul trattenersi. Theo, sorridendo nel bacio, lo rinnovò. E rinnovò ancora.

La matricola di criminologia non si pronunciò sulla proposta implicita, gli permise di lasciarsi guidare.

«Quindi, è per questo che non vuoi mai rimanere la notte» proferì Theo sulla sua pelle, le coperte che li avvolgevano alla meno peggio nella camera singola, le labbra che gli vezzeggiavano il collo dove soltanto qualche giorno prima c’era un suo succhiotto; non ve n’era più traccia.

«Non rimarrei comunque» si accertò di precisare, non volendo creare nessun tipo di equivoco. «Ma forse non mi comporterei come Cenerentola».

Lo studente di scienze politiche rise e gli baciò ancora quel punto tenero sul collo, per risalire verso la mandibola.

Stiles lo osservò di sottecchi, disteso sul letto, completamente nudo e dopo un intenso amplesso prolungato; stava ancora ansimando. «Non sembri disturbato o, non so, disgustato».

«Da cosa?» si incuriosì, non seguendo la motivazione della sua visione. «Soffri di sonnambulismo, questo è chiaro. Come è chiaro ti siano successe cose infelici. Reagisci di conseguenza».

Era chiaro? Era così semplice? «Sono un pericolo per me stesso».

«Sì» confermò Theo, non potendo sostenere il contrario. «In modo estremo».

Il figlio dello sceriffo non si controllò e le iridi di miele gli caddero su uno dei polsi, sulle mani che non presentavano nemmeno un graffio, una cicatrice lontana. «Può essere spaventoso».

Theo si limitò a fissarlo dall’alto della sua posizione, seguendo la direzione del suo sguardo. «Sono guarite bene» probabilmente troppo bene.

«Ah» quindi si era ferito davvero. «Derek ha imparato a guarirle in modo impeccabile» non era nemmeno una bugia.

«Il grande Hale» c’era dell’ironia sardonica che a Stiles non piacque particolarmente. «Stai da lui?».

Ecco, quello era un territorio insidioso e non doveva nemmeno riguardarlo. «Le notti, sì. Ho dovuto» non voleva giustificarsi, ma non voleva nemmeno che interpretasse malamente la sua scelta di affidarsi ad un ragazzo. «Per un mese è uscito ogni notte per venire a cercarmi. L’ho visto giorno dopo giorno distruggersi per starmi dietro. Era evidente non ci fossero molte altre alternative».

Lo studente di scienze politiche tacque per qualche secondo, ponderando. «L’hai fatto per te o per lui?».

«Per entrambi» era una domanda strana o forse nemmeno più di tanto. La disperazione di Derek l’aveva ancora stampata sulle retine, un torto inconsapevole con cui continuava a bersagliarlo. Perseguire quella distruzione gli lacerava il cuore, in più Stiles non aveva alcun desiderio di accanirsi così tanto contro se stesso. Derek aveva fiutato il pericolo e Stiles si era fidato. «Sarei dovuto tornare a casa, altrimenti».

«E non vuoi» ma forse sarebbe stato meglio?

«No» nella maniera più assoluta.

Le dita di Theo affondarono tra i capelli castani sconvolti, stranamente concentrate. «Lo riconosci. Hale».

Stiles sbatté le palpebre varie volte, incerto di aver compreso perfettamente cosa gli comunicasse l’altro. «In che senso?».

«Sai chi è, gli parli. Avete delle intere conversazioni compiute» comunicò come se ci fosse qualcosa che andasse sottolineato. «Lo chiami per nome, lo identifichi» poteva quasi giurare che lo vedesse per quello che era davvero, anche se gli occhi erano vacui. «Non posso dire lo stesso di chi ti circonda».

Ah, quello era un particolare di cui era completamente all’oscuro. Di che cosa parlavano? «È rilevante?».

«È interessante» convenne sovrappensiero, i polpastrelli che gli accarezzavano l’attaccatura del cuoio capelluto. «Come reagisci tu, come lo fa lui. Il modo in cui riesce a capire esattamente cosa intendi anche se farfugli. È sinonimo di complicità, di conoscenza totale, perfino in quei momenti, in cui non sei completamente te stesso».

«Dove vuoi andare a parare?» si sentiva irritato ed a disagio per quell’interrogatorio strategico.

«Ti chiama volpe infuocata» disse come se tutto prendesse una connotazione del tutto differente, illuminata. «Andavi in giro con un pigiama in cui sfoggiavi una volpe».

Sfoggiare? Era ancora più stizzito di prima. «È solo un gioco».

«Non è nemmeno tuo» taglia troppo grande, lo lasciava completamente scoperto intorno al collo, le maniche gli ricoprivano quasi del tutto le mani ed i pantaloni strisciavano completamente a terra, rischiando di farlo inciampare. Non era nemmeno sicuro che non fosse accaduto prima che lui e il capitano lo trovassero.

«No» gli occhi di ambrosia si fecero più taglienti ed era evidente quanto poco apprezzasse il filo di pensieri che stava attraversando il suo interlocutore.

«Perché hai scelto lui come tuo custode?» l’interesse si fece più pressante, inevitabile.

«Chi avrei dovuto scegliere? Te?» il sarcasmo pungete di Stiles arrivò spietato.

Theo ricevette il colpo ed incassò malamente, colpito sul vivo. «Rispondi».

«Di lui posso fidarmi, sempre» quasi lo gridò, a volerglielo piantare con violenza nel cervello. «Non mi farebbe mai del male. Non se ne approfitterebbe in nessuna circostanza».

«Di te?» rise ilare Theo, finalmente con la verità espressa. «Mentre tutti gli altri lo farebbero, giusto? Io lo farei».

«Non ti conosco» scandì a chiare lettere il figlio dello sceriffo, accaldato per quella conversazione inutile. «In quei momenti sono completamente vulnerabile. Non posso proteggermi».

«Ti protegge, si prende cura di te, è cristallino» eccessivamente, lo faceva innervosire per quanta disparità ci fosse. «Ma sei davvero sicuro che non si approfitterebbe della situazione?».

Stiles scattò all’indietro come se fosse stato colpito da un proiettile. «Le tue insinuazioni non mi piacciono per niente».

«Possono non piacerti, ma hai il dubbio» pian piano era diventato lampante.

Stiles scosse la testa, a smentirlo. «Non per come lo intendi tu».

Quindi, anche se metteva la testa sotto la sabbia, ne era in qualche modo consapevole. «Perché allora lo stai ignorando?».

«Perché non ne sono sicuro» c’era troppa confusione della sua testa, a volte Stiles aveva la sensazione che fosse pronta ad esplodere. Gli pizzicavano anche gli occhi. «Perché non posso permettermi di perderlo. Non ora».

Theo comprese per la prima volta quel dialogo di cui era parzialmente conscio. «Il trovare un modo per smettere di essere egoisti, è per lui?».

Stiles si sentì smascherato come mai gli era capitato. «È irrazionale» e davvero insensibile. «Sento il bisogno di essere al primo posto».

«Sei al primo posto» se lo non l’aveva ancora capito, doveva essere più cieco di quanto avesse preventivato.

«Forse» era così difficile dover mettere in fila tutte quelle parole che teneva dentro di sé e tentava di non far sgorgare per non lasciarsi travolgere, inondare. «Quando va via, anche soltanto per un giorno, mi uccide. Ma è importante che lui lo faccia, che segua ciò che lo fa stare bene. Ciò che lo rende ancora felice. Non posso, non voglio, impormi perché mi sento spaesato senza di lui. Perché è chiaro che quando lui non c’è, sono più vulnerabile».

«E prima di Hale?» c’era stato un prima? Theo non aveva nessuna informazione, non sapeva quando né come o perché fosse cominciata quella problematica fisica e psicologica.

«Mio padre» aveva dovuto nuovamente istallare le telecamere in camera sua, le stesse che aveva utilizzato quando il Nogitsune era dentro di lui, controllare la videosorveglianza dal cellulare, attivare un allarme silenzioso che lo avvisasse anche durante un turno notturno o si trovava in mezzo a una indagine. «Ma non mi ha mai parlato di autolesionismo o incidenti vari. Questo presuppone ci sia stato un peggioramento».

Se non l’avesse visto con i suoi stessi occhi, Theo avrebbe potuto accusare il capitano della squadra di basket di aver inventato una scusa di sana pianta per legarlo a sé, ma era troppo devoto a Stiles per servirsi di un giochetto simile.

Era evidente che Stiles fosse schiacciato dalle sue emozioni, da quelle che percepiva dal licantropo e dall’incertezza. Non era in grado di scindere i vari aspetti, da cosa non lasciarsi sopraffare, ma sapeva che la sua incolumità era la cosa più importante. Probabilmente non soltanto per il figlio dello sceriffo.

Lo studente di scienze politiche gli prese il viso tra le mani, le labbra ancora pulsanti per via dei baci e del piacere reciproco che si erano dati. Lo baciò sotto lo sconcerto di Stiles, l’incredulità. Le labbra schiuse ed invitanti. «Continua a preferire me, finché non sarai sicuro» era categorico che, invece, lui si stesse approfittando della situazione.

Nelle successive ore, Theo banchettò con la volpe infuocata.

 

Derek si svegliò di soprassalto, con il presentimento che qualcosa era in agguato, qualcosa che gli ostruiva tutte le vie respiratorie. Aprì gli occhi come strappato dal sogno tormentato, la sensazione di doversi guardare intorno, allungare una mano per testare cosa ci fosse o no accanto a lui.

La sensazione negativa era mordace e posare le iridi su Stiles essenziale, bisognoso, ma l’umano stava ronfando profondamente aggrappato al cuscino, la testa nella sua direzione e completamente avvolto dalle coperte fino alla punta del naso. Derek non riuscì a trattenere il sospiro di sollievo, un peso al petto che si alleggeriva, benché non ne volesse sapere di sloggiare.

Dovette distendersi sulla schiena, prendere un respiro potente che gli riempisse interamente i polmoni affaticati e coprirsi le palpebre per quanto risultasse insolitamente stremato. Riprendere coscienza di se stesso, di dove fosse ed a che punto della sua vita si trovasse.

Gli servì più tempo di quanto preventivato, all’ennesimo respiro di assestamento, il lupo controllò nuovamente la posizione della matricola, incontrando le perle di ambrosia reattive e in attesa.

Vi era un buio non indifferente, le stelle capeggiarono qui e lì, la luna illuminava il corridoio dalla finestra in cucina, ma l’abilità notturna del mannaro gli permetteva di vedere ogni particolarità in Stiles, come se fosse pieno giorno.

«Un altro brutto sogno?» domandò il figlio dello sceriffo con voce cavernosa, le corde vocali ancora addormentate.

Derek si sorprese, ma doveva ancora imparare che non avrebbe dovuto. Si limitò ad annuire.

«Sono aumentati, da quando ho affrontato la questione Kate?» domandò Stiles con un tarlo in testa, le spalle che si stringevano sotto le lenzuola per un’improvvisa brezza fredda.

«No, non sono aumentati» sarebbe stato troppo logorante.

Stiles si morse le labbra e stuzzicò una pellicina che si era spaccata. «Sono più intensi?».

«Alcuni lo sono» esisteva qualcuno che lo sapesse leggere meglio di quella volpe dal manto infuocato?

Lo studente di criminologia abbassò lo sguardo, le palpebre che calarono a coprire ciò che Derek poteva intravedere. Meditava in silenzio, a mettere sottoprocesso tutte le sue decisioni, le sue azioni ed avventatezze. «Non volevo darti più tormenti» rivelò con pentimento, riportando l’attenzione sulla creatura leggendaria. «Eppure era necessario che tu capissi la tua vera situazione».

«La mia vera situazione» ripeté in una eco distante, la mente altrove. Era un avvenimento, una scelta di parole, che avrebbe dovuto infuriarlo.

«So di aver sbagliato» Stiles percepì del panico, le sue pupille di pece saettavano da una parte all’altra.

«Non hai sbagliato» non era lui ad aver commesso dei terribili errori. «Sto cercando di mettermi in pari» alcune dita calarono nuovamente sugli occhi, a toccare e spingere le palpebre. Le sfregò a sciogliere e alleggerire quei muscoli che si irrigidivano giorno dopo giorno. «Di avere un quadro generale».

Stiles rimase in silenzio a scrutarlo nel buio che gli permetteva soltanto di intravedere alcuni lineamenti della sua fisionomia, eppure tutta la sua stanchezza e rassegnazione riusciva comunque ad osservarli chiaramente. «Non devi necessariamente farlo».

Derek lo scrutò di sottecchi, la mano che si posava al centro del torace. «Sì, devo farlo. È necessario».

Necessario a cosa? A chiarirsi con se stesso? Stiles non sapeva precisamente cosa significasse, che impatto avrebbe avuto su di lui.

Il lupo mannaro si girò appena verso il figlio dello sceriffo, le coperte che si scossero appena. «Torna a dormire, ne hai bisogno».

Molto fastidioso sentirselo dire, implicava quel piccolo problema che Stiles aveva quasi tutte le notti, l’essere stremato appena sveglio senza una vera spiegazione, se soltanto non conoscesse la ragione. Il sonno non gli bastava mai, anche se compensava con il suo essere iperattivo. «Non dire cose spiacevoli».

Derek accennò un sorriso all’arricciarsi indignato del naso del suo interlocutore. «Una volta non ti saresti svegliato».

«È una cosa che ti innervosisce?» scorretto da parte sua usare quell’argomentazione, ma sapeva quanto fosse riservato e schivo, soprattutto davanti al suo modo di indagare, di comprendere con una semplice occhiata.

«Forse un po’» non era né turbato né attaccato dalla perfidia della matricola. Era divertito. «Fai sempre domande. A qualsiasi ora».

Stiles lo guardò in un primo momento con sconcerto, gli ingranaggi che si muovevano ed erano visibili, e poi lo sdegno ed i tratti del viso stizziti si palesarono. In agguato una pernacchia, ma si limitò a soffiargli addosso con compostezza, ma gravante. «Mi pareva di aver capito ti piacesse la mia voce».

Derek incassò il colpo e si limitò a far persistere il silenzio. Era diabolico in qualsiasi circostanza.

«Dovresti dormire anche tu» disse l’umano con conoscenza. Non era l’unico a sentire la mancanza di privazione del sonno o di sonno agitato. Derek badava a lui da oltre tre mesi, senza permettersi di poter allentare la presa o distrarsi. L’unica volta in cui era accaduta una cosa simile, non se l’era ancora perdonata. Quando a gennaio sarebbe tornato a viaggiare per giocare, si sarebbe impegnato il triplo per trovare nuovi modi per averlo sempre sotto la sua vigilanza costante.

«Ci proverò» proferì senza convinzione, forse un contentino. Era risaputo che il primo a crollare fosse proprio Stiles.

Le iridi caramellate si fecero più reattive, attente, ponderate verso di lui. Le lunghe dita affusolate gli circondarono il viso incorniciato dalla barba curata, i polpastrelli che premevano con delicatezza. «Ti tengo».

Erano l’eco delle sue parole dedite soltanto a Stiles, venivano plasmate e usate in suo aiuto. «Rassicurante».

Le labbra della matricola si arricciarono all’insù a quel sarcasmo e la testa si avvicinò maggiormente verso quella del mutaforma, i nasi che si sfioravano appena, ognuno fermo sul proprio cuscino, occhi negli occhi, respiro nel respiro.

C’era di nuovo armonia.

Le posizioni rimasero le medesime. Stiles non tolse mai le mani da lui né Derek le scacciò.

Si addormentarono ad un soffio l’uno dall’altro.

 

Il naso del lupo pizzicava fin dal portone, sulle scale aumentava ad ogni rampa e una volta arrivato davanti la porta dell’appartamento era innegabile.

Si tolse le scarpe, gettò le chiavi tra quelle di Stiles e lo sentì canticchiare a bocca chiusa. Si muoveva veloce, lo sportello del forno scattò, segno che fosse stato appena chiuso e il profumo di dolci si espandeva in tutte le mura. Sistemò il cappotto nella piccola nicchia nel corridoio, appendendolo con cura sull’apposita gruccia in legno, accanto alla porta del bagno in cui successivamente si lavò le mani come sua abitudine; odiava portare la sporcizia in casa.

«Derek» lo accolse con entusiasmo il figlio dello sceriffo, il sorriso a trentadue denti stampato sulla faccia, le scintille eccitate che volteggiavano tutte intorno a lui. Non diceva mai bentornato, ma suonava allo stesso modo. Se non addirittura meglio.

«Stai cucinando» disse invece il mannaro ovvio, qualche ciotola sparsa sporca, l’impasto diviso in piccole palline da circa cinquanta grammi, il forno accesso e una teglia già sfornata che si stava raffreddando mentre l’altra cucinava. «Dei cookies».

«Assolutamente sì» Stiles si era piegato davanti allo sportello trasparente dell’elettrodomestico, osservando l’impasto che lentamente si scioglieva e perdeva la sua forma tondeggiante. 

«Lavori in una caffetteria» non aveva alcun senso.

«Quindi?» domandò retoricamente, fiero delle sue prodezze culinarie. «Oggi sono libero dal lavoro. Non ho lezioni. Posso fare quello che voglio».

«Ripeto: lavori in una caffetteria. Potevi prenderli lì» a volte portava in casa le rimanenze che rischiavano di essere gettate, perché odiava lo spreco, era qualcosa che proprio non riusciva a digerire. Erano pieni di dolci in ogni angolo.

«Perché farmi tutta quella strada quando posso prepararli io?» chiese con un sopracciglio alzato, non appoggiando minimamente la logica del mutaforma. «C’è un comodissimo supermercato qui sotto, non so se hai presente».

«C’è anche uno Starbucks» da cui di tanto in tanto attingevano quando volevano una colazione più zuccherosa e meno impegnativa.

«Un cookie costa tre dollari, ne voglio più di uno» era oltraggiato dall’esorbitanza del prezzo, voleva soddisfare le sue voglie come riteneva più opportuno.

«Devo aumentare la mancia?» chiese il capitano con scetticismo, squadrandolo approfonditamente.

La testa dell’umano scattò immediatamente verso di lui, fulminandolo a vista. «Non scherzarci su».

Derek rise senza ritegno, scostando una sedia e poggiando il portatile e iPad sull’unica striscia libera del tavolo. «Sei consapevole di venderli quasi allo stesso prezzo?» li pagava Derek di tasca propria spesso, conosceva fin troppo bene il listino prezzi del Crescent Moon.

«Non è affar mio come gli altri spendono il loro denaro» il figlio dello sceriffo si strofinò le mani tra loro mentre si alzava in piedi, togliendo i rimasugli di burro e farina. «Ho una cosa per te» disse poi illuminandosi, come se l’avesse appena ricordata.

Si avvicinò alla teglia e ne estrasse un biscotto, spezzandolo in due. L’aroma intorno a loro aumentò, la croccantezza insieme alla morbidezza del cuore del dolce riecheggiò, rivelandosi ancora più invitante di come apparisse in superficie. «Ho pasticciato un po’, non sono sicuro del risultato» rivelò con leggerezza più a se stesso che al suo interlocutore, allungandolo nella sua direzione. «Ho fatto una sfornata di prova. Sono al caramello salato».

Derek lo guardò senza fiatare, fermo al numero sempre eccessivo di parole che la matricola usava e dei molteplici concetti che metteva dietro l’altro. Tergiversò un momento prima di afferrare la sua metà. L’annusò con titubanza, senza comprenderne il gesto.

«Prometto non sia avvelenato» scherzò l’umano con il suo sarcasmo tipico, il ghigno supremo sulle labbra. «Spero».

Il licantropo indurì i tratti facciali, ma Stiles si limitò a ridacchiare.

Lo addentò davanti agli occhi vigili ed elettrizzati del coinquilino, un retrogusto tipico della sua ansia.

«Allora?» chiese lo studente del primo anno con fermento mentre lo guardava masticare in religioso silenzio.

«È stranamente buono» fu accomodante il padrone di casa, il caramello che gli si scioglieva in bocca, ingannandolo con la dolcezza iniziale che gli dava il benvenuto, per poi arrivare la sapidità del sale che cambiava totalmente il gusto e mandava in confusione le papille gustative. Qualcosa in cui Stiles riusciva perfettamente, disorganizzare completamente il perfetto equilibrio dei cinque sensi affinati.

Stiles gioii e quasi saltellò compiaciuto sul posto, andando a dare un’occhiata ai biscotti ancora in forno, mangiando finalmente la sua creazione contemporaneamente.

Derek scosse il capo rassegnato, allontanandosi verso la zona notte, in cui si cambiò e sfogliò qualche pagina della materia che l’avrebbe atteso concluse le vacanze natalizie. Il letto era come l’aveva lasciato quella mattina, ma era evidente che Stiles si fosse addormentato inavvertitamente, stropicciando la coperta. La matricola era una carica a molla appena alzata, ma il sonnambulismo, gli incubi, la destabilizzavano più di quanto desse a vedere.

Quando tornò in cucina, la seconda sfornata era in procinto di raffreddarsi e compattarsi, la terza già in forno e Stiles stava già preparando la quarta. Su ogni teglia ve ne erano otto. «Non avrai esagerato?».

«È Natale» si giustificò l’umano, scrollando le spalle e lasciando scivolare tutto addosso.

«Mancano ancora cinque giorni» quello gli faceva ricordare che dovevano sbrigarsi a riempire la dispensa con del cibo vero, prima che i supermercati venissero saccheggiati. «E siamo soltanto in due» il campus si era già svuotato. Quasi tutta la squadra di basket era tornata a casa per le festività, così come Erica, Boyd e Isaac. Stessa sorte era toccata a Jiang e Tracy, offrendo a Stiles l’opportunità di ricoprire i turni che non affrontavano generalmente insieme, puntando a extra su extra, incapace di stare fermo troppo a lungo.

Stiles si fermò dal suo armeggiare con i residui dell’impasto nei vari utensili, con la missione di riempire anticipatamente la lavapiatti da avviare quella sera. «Rimani davvero?» risuonò incredulo, ancora con un dubbio che non si dissolveva.

Derek lo fissò incerto. «Certo che rimango».

Le iridi del nettare degli dei si posarono distrattamente sulle teglie che andavano ad accumularsi. Gocce di cioccolato a tempesta. «Forse dovrò farne altri al caramello salato».

Il lupo completo aveva la sensazione di aver perso il filo del discorso ‒ che fosse il suo modo di premiarlo? Di ringraziarlo? Prese uno dei cookies classici, un boccone che si godette in pace con i sensi precedentemente scombussolati. Le papille gustative cantarono. «Vanno benissimo questi» Stiles gli rivolse uno sguardo interrogativo e Derek sospirò dentro di sé. «Me ne pentirò per tutta la vita» ammise senza che l’umano fosse ancora in grado di seguirlo. «Sono più buoni del Crescent Moon».

«Stai di nuovo flirtando con me, Der?» lo provocò affabile la matricola, il sogghigno da volpe astuta che si palesava come in agguato.

«Sto mangiando» dissentì disturbato dalle sue illazioni.

«Una cosa non esclude l’altra» subentrò con la sua furbizia, rigirando la questione a suo vantaggio, come ci riusciva sempre.

«Ignorerò la tua allusione per niente sottile» Derek gli assestò un’occhiataccia eloquente e Stiles ridacchiò, segno che si stesse divertendo un mondo.

Lo studente del primo anno gli rubò un pezzo di cookie direttamente dalle mani, gesto che ripeteva spesso nella loro quotidianità, perfino alla caffetteria. «Buon Natale, Sourwolf».

 

«Quindi, rimarrai per Natale» sintetizzò brevemente Theo, le lenzuola sgualcite a coprire appena il corpo nudo sdraiato. «E lui resterà con te».

Stiles, seduto sul bordo del materasso, era concentrato nell’indossare i calzini, avendone in mano uno e individuato l’altro sotto i pantaloni della matricola di scienze politiche sparsi per tutto il pavimento. Non aveva ancora scorto le mutande da nessuna parte, al contrario dei preservativi usati disseminati ovunque; non era per niente divertente. «Non glielo chiesto, ma è evidente che non può lasciarmi da solo» quindi era stata una richiesta implicita?

«Non l’ha una famiglia da cui tornare?» chiese con noia, indispettito dalla figura da cavaliere senza macchia e senza paura del capitano.

Tasto dolente. «Ha una sorella» a cui nascondeva i suoi segreti. «Uno zio particolarmente fastidioso e una cugina che non conosce».

Non rispondeva propriamente alla domanda, ma comprendeva meglio la frase che lo Stiles sonnambulo aveva pronunciato: tu sei rimasto senza nessuno. «Nessun altro?».

«No» Stiles ebbe la decenza di afferrare la felpa che risedeva sotto il letto e indossarla, allungandosi per recuperare il secondo calzino. «Non c’è più nessun altro da tanto tempo».

Theo rimaneva in silenzio a osservarlo rivestirsi, la schiena arrossata piena dei suoi segni venne coperta. «È lui a rimane per te o tu per lui?».

Stiles si voltò sorpreso, le iridi d’ambra brillarono nella penombra. «Se avesse bisogno di me, lo farei».

«Ci scommetto» sbuffò contrito lo studente di scienze politiche.

«Non parleresti così, se conoscessi il suo dolore» Stiles si indispettì, crucciando i lineamenti facciali.

«Tutti abbiamo perso qualcuno, ognuno ha il suo dolore» disse Theo con un’evidenza esperienza personale, lo sguardo lontano a richiamare dei ricordi. «Esattamente com’è accaduto a te».

Stiles non aveva fatto parola delle sue perdite né sentiva la necessità di metterlo al corrente, ma doveva rassegnarsi che la notte in cui l’aveva trovato con il pigiama di Derek addosso, i piedi scalzi nella neve, avesse detto qualcosa che glielo lasciasse supporre. «Anche tu?».

«Mia sorella maggiore» rivelò senza tergiversare, non aspettandosi una domanda diretta da una persona che teneva i suoi segreti per sé. «Un difetto congenito al cuore».

«Mi dispiace» proferì sinceramente addolorato. La morte di persone care era qualcosa che lo riguardava direttamente, conosceva perfettamente quel pugno nello stomaco perenne.

«So che ti dispiace» disse con sicurezza il bruno. «Sei quel tipo di persona».

Il figlio dello sceriffo arcuò le sopracciglia. «Che tipo di persona?».

Le dita di Theo si allungarono, sfiorando e allacciandosi a quelle dell’amante. «Qualcuno che si danna per non essere riuscito ad aiutare il prossimo, a prescindere da chi sia, a discapito di quanto l’impresa sia impossibile».

«Oh» soffiò la matricola di criminologia senza parole. Era quello che vedevano le persone in lui? Per te l’impossibile è possibile, aveva detto Derek durante una delle loro videochiamate.

Theo sorrise appena, tirandoselo su di sé dal legame che avevano creato, baciandolo accuratamente. «Ti porti addosso il suo dolore e il tuo».

«Io c’ero quando ha perso tutto» era il fardello dell’essere il figlio dello sceriffo e della sua brutta abitudine ad immischiarsi in ogni caso, prestare orecchio ai sussurri. Aveva anche assistito al funerale, contro il volere del padre sbattendo i piedi, come buona parte della cittadina. Vi erano tre piccole bare bianche che spiccavano tra le altre, l’agonia e il senso di colpa di Derek erano ancora lì, a distanza di anni. «Mentre lui non aveva nessuna percezione della mia esistenza».

«E lui, c’era per te?» domandò Theo bevendosi ogni parola del suo ospite.

Non avrebbe mai potuto, Stiles non l’avrebbe nemmeno mai voluto. «C’è adesso».

Theo gli sfiorò una tempia con le dita, percorrendo parte della fronte, soffermandosi sul punto in cui la bocca del capitano della squadra di basket si era poggiata, regalando ristoro allo studente di criminologia con quell’unico gesto. «Sei diventato il suo mondo» ho te, erano state le parole di Derek Hale; inconfutabili.

Stiles scattò all’indietro agitatamente, sfuggendo dalla sua presa. «No» gli occhi sgranati, il fiato corto, il viso che impallidiva di secondo in secondo. «Non è-» aveva le vertigini, la mente confusa esitante. «Hai frainteso».

Theo si alzò a sedere, il lenzuolo cadde lasciandolo completamente con la pelle esposta, intrappolandogli la testa tra le mani e sporgendosi per allacciarsi alle labbra del ragazzo su cui ricadeva il suo desiderio. Come ogni singola volta, non vi fu alcuna resistenza da parte sua; rispondeva con attimi di ritardo. «Ti stai ancora imponendo di non accertartene».

Stiles soffiò contro di lui con sfida, indurendo i lineamenti facciali. «Non stai andando troppo contro te stesso?».

«No» risponde candidamente la matricola di scienze politiche, baciandolo ancora una volta. «Finché resterai confuso, sarai mio».

«Sei troppo sicuro di te» obiettò il figlio della massima autorità di Beacon Hills, agganciando le falangi ai suoi avambracci e facendo pressione per separarlo da sé.

Theo ammiccò impudico e con le labbra scese al collo candido dell’ospite, cospargendo piccoli schiocchi calcolati che lo fecero tremare. «Resta ancora un po’».

«Lo sai che non posso» tuttavia inclinò il capo per dargli più accesso, sospirando di piacere.

«Posso vigilare io su di te» un braccio scivolo sotto la felpa di Stiles, solleticandogli la schiena ed esponendola con lentezza studiata.

Stiles ridacchiò con scherno. «Non credo proprio».

La mano aperta si depositò con fermezza alla base della schiena, sfiorando con alcune punte delle dita le natiche ancora nude. «Ti fidi davvero soltanto di Hale».

«Sì» non voleva farne un mistero.

La testa di Theo sparì oltre il bordo della felpa, le labbra pizzicavano l’epidermide dello stomaco, la lingua giocò con l’ombelico ed i gemiti di Stiles si sparsero per la camera singola. «Mi stavo rivestendo» protestò il figlio dello sceriffo senza troppa convinzione mentre l’indumento saliva sempre di più. 

«Puoi tenere i calzini» soffiò Theo lussurioso catturandogli un capezzolo nella bocca, scatenando un ridacchiare sospirato nell’amante, procedendo a estrargli la felpa dalla testa e lasciandolo nuovamente nudo davanti ai suoi occhi, alla mercé del suo corpo. «Domani partirò, vorrei ricevere il mio regalo di Natale anticipatamente».

«Ah, vuoi scartarmi» proferì con il fuoco Stiles, ammiccando languido e sistemandosi a cavalcioni sul ragazzo.

Erano di nuovo pelle contro pelle, nessuna barriera tra di loro, ogni parte dei reciproci corpi raccontava in cosa si fossero intrattenuti quella notte e continuavano ad aspirare. «Concedimi ancora un’ora».

Stiles non si lasciò pregare eccessivamente, si immerse completamente in Theo.

 

Il telefono di Derek vibrò sul comodino, assordandolo e svegliandolo. Non inseriva mai la suoneria di notte, la vibrazione era già insopportabile per i suoi timpani e fin troppo esaustiva.

Artigliò lo smartphone controvoglia alla cieca, allungando un braccio dietro di sé senza che potesse perdere la posizione comoda in cui si trovava, con l’intenzione di farlo placare il prima possibile, accettando l’arrivo della videochiamata senza nemmeno vedere chi fosse il suo disturbatore, la luminosità dello schermo al minimo.

«Auguri, fratellino» gli diede il ben svegliato la ragazza dall’altro lato, pimpante e con un sorriso ben stampato in viso.

«Abbassa la voce» ringhiò a denti stretti il lupo mannaro, abbassando di conseguenza il volume non potendosi fidare della sua interlocutrice. «La gente dorme».

«Oh» i suoi occhi verdi, visibilmente simili a quelli del familiare, si appallottolarono per l’errore commesso, cercando di sbirciare senza alcun risultato oltre ciò che il display le mostrava. «Stiles dorme ancora?».

Derek si stropicciò gli occhi risvegliati nel modo peggiore, inclinando lievemente il capo verso l’oggetto del loro comune interesse per accettarsene, spostando di conseguenza e distrattamente il dispositivo elettronico che lo fece rientrare nell’obbiettivo. «Ne ha bisogno».

Stiles ronfava spensierato contro il petto nudo del mannaro, quasi completamente seppellito dalle coperte e in Derek, incurante di chiunque potesse scorgerlo. «Privilegiata la piccola volpe».

Derek le assestò uno sguardo eloquente e severo e Laura si limitò a battere le mani come se la cosa non la riguardasse minimamente. Allontanò la telecamera dall’umano, ma la lupa riuscì a catturare le dita libere del fratello che si intrecciavano ad alcune ciocche castane. «Ti blocco».

Era una minaccia che chiunque si sarebbe aspettato da un tipo solitario e riservato come Derek, annoiato dal clamore delle persone, ma, in effetti, Laura rientrava nei privilegi di cui beneficiava anche il figlio dello sceriffo. Non riuscì a trattenersi dal ridere e questo indurì ancora di più i tratti del capitano della squadra di basket. «Il sole splende».

«Sta nevicando» la corresse Derek, rimettendola al suo posto.

«Anch’io voglio un Natale sotto una nevicata» si imbronciò profondamente offesa con il meteo.

«La giornata è appena iniziata» non voleva essere scocciato con quelle fesserie, anche se era sicuro che anche Stiles avrebbe amato l’idea.

«Stiles ti ha ammorbidito, eh» commentò allieta Laura, deridendolo vigliaccamente. Indorare la pillola non era qualcosa che li riguardava e meno che meno Derek, riservarle una parvenza di speranza del tutto disinteressata e nemmeno sincera era comunque un atteggiamento atipico da parte del lupo musone.

«Potrei cliccare accidentalmente su quell’invitate icona rossa» le rispose con prontezza, fulminandola a vista.

Il sarcasmo non era estraneo a Derek, ma era sicura che la presenza di Stiles nella sua vita lo avesse reso più propenso ad usarlo, a divenire uno strumento quotidiano per tenergli testa. Se mai fosse possibile tenere testa al diabolico Stiles Stilinski.

Laura punzecchiò il fratello ancora per qualche minuto, finché non sentirono dei mormorii infastiditi provenire dalla matricola, segno che l’avessero inevitabilmente svegliata, benché avessero usato il tono di voce più basso che gli era concesso.

«Der» soffiò la voce impastata di Stiles, ancora ben lontano dal restarsi totalmente, tentando di prendere coscienza con quello che lo circondava. La telecamera lo riprendeva appena, un piccolo triangolo accennato del suo viso che spuntava da sotto il collo del mannaro. Stiles lo cercò con movimenti pigri che Derek corrispose andandogli incontro, i nasi si sfiorarono e accarezzarono con dolcezza, salutandosi calorosamente, un piccolo sorriso sbocciava sulle labbra del figlio dello sceriffo. «Buongiorno».

«’giorno a te» rispose il lupo completo, il tono vocale lontano dall’ostilità che aveva dedicato alla sorella maggiore. «Puoi tornare a dormire, c’è ancora tempo».

Stiles mugugnò indecifrabilmente, stropicciandosi gli occhi e sbadigliando a bocca aperta. «Sono sveglio».

«Ho qualche riserva» proferì scettico il capitano, osservandolo mentre trascinava il cuscino alla sua altezza per essere pari, mantenendo gli occhi socchiusi.

«Sto carburando» si giustificò Stiles con la risposta pronta, scacciando malamente con una mano le sue insinuazioni errate.

«Sì, certo» c’era divertimento nella voce bassa e attenta di Derek, un ricciolo sulle labbra che lo confermava.

Poi rimasero per qualche attimo in quella posizione in silenzio, le punta dei nasi a sfiorarsi, gli occhi chiusi di Stiles, mentre quelli di Derek lo vezzeggiavano come se non ci fossero testimoni.

Quello sguardo così dedito e profondo Laura non l’aveva incontrato spesso, era talmente raro da apparire come un miraggio. Dopo Beacon Hills difficilmente vi si era imbattuta, ma quando vi abitavano era decisamente più facile inquadrarlo, soltanto che accadeva quando un certo umano logorroico ed iperattivo volgeva le sue attenzioni da un’altra parte.

«Ciao, Stiles» intervenne Laura, con tutta l’intenzione di farsi sentire e prendersi un pezzo del tempo di Stiles.

«Chi è?» farfugliò confusa la matricola, le palpebre sfarfallarono e richiese che la sua materia celebrale si mettesse subito in moto, senza godersi quel piacevole e lento risveglio confortevole. Da Derek ricevette un’occhiata assassina che non si sarebbe dimenticata molto presto. «Laura!» esclamò quando il suono di quella voce familiare rientrò nella decifrazione del suo elenco dei ricordi, individuando il cellulare del licantropo che emetteva pochissima luce. «Buon Natale».

«Buon Natale anche a te» forse si sentiva un po’ in colpa ad aver spezzato la magia tra suo fratello e la piccola volpe, ma non erano molte le occasioni che le venivano offerti di poter scambiare qualche parola con quest’ultima dopo due anni di silenzio e il ricongiungimento avvenuto al college tra quei due. «Tutto mi sarei aspettata, ma non di vederti su un letto con mio fratello. Nudi».

«Derek è nudo. È sempre nudo» si premurò di precisare lo studente del primo anno, strofinandosi nuovamente un occhio. «Io sono nel mio bel pigiama. Ho anche i calzini» fece scorrere le braccia interamente fuori dalla coperta, mostrando le maniche lunghe e mosse anche i piedi sotto le lenzuola, come se Laura potesse costatare di persona. Lei sentì soltanto il fruscio delle coperte.

«Non sono nudo» disapprovò il playmaker per quella comune passione che avevano di metterlo in ridicolo.

Stiles rise nel suo orecchio e Laura ebbe l’impressione che Derek l’avesse già perdonato, limitandosi a giocherellare con i suoi capelli spettinati.

«Stai bene, Stiles?» chiese con interesse la mannara, vedendolo fresco e rilassato, per niente provato, al contrario dei racconti che Derek centellinava, descrivendole una situazione diversa. «Hai dormito bene?».

«Sì» rispose con convinzione il diretto interessato, ma il padrone di casa emesse un borbottio opposto, facendogli incrinare le certezze. «No?».

«È stata una notte difficile» confessò Derek, per nulla intenzionato ad aggiornarlo. Se avesse dovuto farlo, non avrebbe mai smesso. «Intensa».

«Sono uscito?» domandò Stiles con turbamento, gettando un’occhiata oltre il materasso, il breve percorso che lo divideva dal corridoio ricavato e che lo conduceva tranquillamente alla porta d’ingresso.

«No» lo tranquillizzò il lupo nero, percorrendogli con il pollice tutto il contorno dell’orecchio. «È stato soltanto più complicato rimetterti a letto. A volte succede».

Sapeva che Derek non lo aggiornava quotidianamente sui suoi progressi o regressi, ma voleva indicare che lo Stiles sonnambulo riusciva a trovare il modo di alzarsi e magari vagabondare un po’ per l’appartamento. Forse sfuggiva per qualche minuto all’attenzione maniacale del mutaforma o in qualche modo gli dava il suo spazio perfino in quei momenti, finché non si tranquillizzava e passava la crisi.

Stiles si rabbuiò, non sapendo che parole trovare e Derek gli schioccò un bacio conciliante sulla fronte. «Tutto bene».

Il battito accelerato dell’umano fu captato subito dall’udito sopraffino di Laura, così com’era sicura ne fosse in grado suo fratello; reagiva nell’immediato a quelle attenzioni delicate ed esclusive che Derek gli rivolgeva, quell’intimità che, prima di quel giorno festivo, Laura non credeva nemmeno esistesse tra loro. Erano più sciolti, più consapevoli l’uno dell’altro, il cuore di Stiles non mentiva, eppure non si sbilanciavano. «Vuoi una buona notizia, Stiles?» lo tentò la donna, con il solo scopo di allietarlo un po’. «Sta nevicando».

Stiles sbatté le palpebre varie volte, le parole che entravano nel suo timpano e le sinapsi impegnate a trasmettere il giusto messaggio da decifrare. «Sta nevicando? A Natale?» abbandonò subito le coltri calde e si fiondò alla finestra, le ginocchia sul materasso, la tenda arancione e rossa che veniva scostata, presentando un panorama completamente avvolto dal candore di batuffoli che cadevano dal cielo senza rallentare.

«Non dovevi dirglielo» la rimproverò il lupo completo, sbuffando sonoramente. «Adesso uscirà in pigiama per vederla».

Dovevano essere interessanti le loro giornate.

La risata di Stiles riecheggiò per tutto il monolocale, a Laura sembrava di essere lì con loro, le gemme ambrate brillavano sognanti. «La mia prima nevicata natalizia».

Ci fu del tentennamento nelle iridi di giada di Derek, completamente rivolte verso Stiles. Laura si sentiva un po’ ignorata, ma in quel frangente non le dispiaceva particolarmente. «Puoi uscire, se avrai il buon senso di vestirti».

Stiles ridacchiò nuovamente, rivolgendogli un sorriso tutto per lui. «Sì?».

«Sì» confermò il mutaforma senza ritrattare. «C’è ancora tempo» non si sarebbe perso nulla anche se avesse fatto le cose per bene.

«Dobbiamo andare entrambi» precisò il figlio dello sceriffo, intransigente.

«Perché nessuno deve rimanere da solo a Natale?» a Derek non importava granché, nemmeno della neve che sceglieva di mostrarsi indipendentemente del tipo di giornata che andavano ad affrontare, che fosse speciale o meno. Ma forse gli importava che fosse proprio Stiles a non trascorrere l’ennesimo Natale in solitudine, con lo sceriffo spesso via; le festività erano sempre un periodo tremendo per le forze dell’ordine.

«Anche» rimase vaga la matricola, una piccola curva furba sul volto.

Derek fu attraversato da un sospetto, i sensi attenti a captare l’anomalia.

«Portatemi con voi» protestò Laura, tentando di farsi sentire e non escludere. «Voglio vederla anch’io» il suo intervento cambiò tutto l’assetto dello scambio di battute.

«Ciao, Laura» la congedò senza alcuna pietà il fratello, interrompendo la conversazione.

Derek si limitò a poggiare il telefono con lo schermo spento sul comodino e Stiles lo guardò intensamente per qualche attimo di troppo, a cui il lupo rispose con un’espressione interrogativa. «Sei rimasto davvero. Con me».

«Ne dubitavi?» Derek credeva di essere stato abbastanza chiaro fin dall’inizio sui suoi progetti natalizi.

«Sei sicuro che non avresti preferito far visita a Laura?» era la sua famiglia, ciò che gli era rimasto. Era giusto.

«Le farò visita presto, un giorno vale l’altro» scosse le spalle il mannaro a scacciare che ci fosse un problema. «E non ho voglia di sopportare Peter».

Stiles non trattenne la risata allietata e si diresse di nuovo verso i cuscini, seppellendosi sotto le coperte.

«Hai cambiato idea?» domandò circospetto il capitano, arcuando confuso un sopracciglio.

«Voglio godermi ancora un po’ il calduccio» spiegò semplicemente l’umano, affondando la testa sul cuscino e ridacchiando di piacere ritrovato. «Il dolce far niente».

«Tu non sai stare senza far niente» lo descrisse egregiamente il licantropo, tentando di fiutare la menzogna.

La bocca del figlio dello sceriffo si curvò timida, concentrata a godersi le coperte ed a trarre tutto il conforto creato dal calore del lupo. «In questo preciso momento sì».

«Mi stai usando» rivelò il suo piano maldestro, corrugando le sopracciglia giudicandolo apertamente.

Stiles rise senza vergogna. «Sei caldissimo».

«Sei tu ad essere un ghiacciolo» lo acquietò Derek, roteando gli occhi esasperato. «Non mantieni la temperatura corporea».

«Tu invece la mantieni fin troppo» ribatté prontamente Stiles, affondando senza alcuna cura per se stesso sotto il mento, a completo contatto con la gola. Aveva voglia di baciarla. «Puoi cedermene un pochino».

Il mannaro sbuffò per la stanchezza già avvertita in quei pochi minuti da quando si era ridestato. Stiles aveva il talento di sfinire chiunque, anche creature soprannaturali.

Vennero avvolti da un silenzio rigenerante, Stiles respirava rilassato sulla pelle sottile del playmaker, sollecitato dalle dita di quest’ultimo che si intrattenevano distrattamente con le punte dei suoi capelli. «Laura ha un ragazzo» disse all’improvviso Derek, rompendo il momento di quiete.

Uscire dal suo antro accogliente e adocchiarlo fu necessario. «Ah, davvero?» era stupefacente per una serie di ragioni, soprattutto non credeva che sarebbe mai successo nelle condizioni in cui li aveva lasciati. «E lui com’è?».

«Mh» la creatura della notte storse la bocca, non pronunciandosi direttamente.

Stiles si fece più attento a quel suono criptico, un po’ disturbato, studiando i suoi tratti facciali. Rilasciò una piccola risata. «Ha risvegliato il fratello iperprotettivo».

«Non so cosa tu stia insinuando» si dissociò il lupo mannaro, diventando volutamente sordo.

«Sì» la voce ridacchiante dell’umano rimbombò in ogni parte. «E anche condito di un po’ di gelosia».

Derek si indurì, imbronciandosi ad occhi esperti, tagliandolo fuori e Stiles non resistette dal continuare a ridere di divertimento puro, strusciando il viso con un lato del suo. «Non può essere così male, se Laura l’ha scelto».

«Non è troppo pessimo» concesse Derek con un grugnito, storcendo la bocca.

La risata fu sollecitata a proseguire, ancora più ricca per la giocondità familiare di cui erano protagonisti. «Sto realizzando che sei la persona che mi fa ridere di più» dichiarò l’umano inaspettatamente, il sorriso ancora stampato sulle labbra e la voce che tratteneva barlumi di allegria, la coscienza che prendeva piede.

Derek l’occhieggiò appena, prendendosi il tempo di imprimerselo nelle cornee. «Ah, sì?».

«Sì» confermò senza tentennamenti e contrattazioni, depositandogli un bacio asciutto su una spalla. «La persona più insospettabile, anche la più scorbutica».

Alcune dita si annodarono tra le ciocche castane, lo iridi di giada dirette verso quelle d’ambra. «Ridi di me o con me?».

«Con te» era innegabile, sapeva che anche Derek si divertiva; punzecchiarsi faceva parte della loro sintonia e non c’era mai risentimento. «Prima di rincontrarti, non accadeva più molto spesso» ed era anche evidente che Derek stesso ridesse apertamente molto più frequentemente rispetto al passato. «Conti ancora i miei sorrisi, Der?».

«Adesso è difficile stargli dietro» fu sincero il playmaker, lambendogli tutto un sopracciglio. «Ma so quando smetti di farli» e ricominciava a contarli ogni singola volta.

Il suo cuore era sempre impazzito quando si trattava di Derek, ma negli ultimi tempi non riusciva a gestire le continue capriole in cui si esibiva. Era costantemente senza fiato. «È positivo».

«Sì, lo è» concordò la creatura leggendaria. Alla fine, era sempre stato quello il suo vero scopo.

Stiles si umettò le labbra e poi le richiuse, prorogando quell’istante infinito. «Buon compleanno, Derek».

Le falangi si bloccarono sulla cute dell’umano, sfiorandogliela appena. Lo sguardo si fece più acceso. «Lo sai».

«Lo so da anni» confessò il figlio dello sceriffo, senza doversi scusare. Se Derek conosceva la sua data di nascita, Stiles era autorizzato a entrare in possesso di quell’informazione. «È difficile dimenticare una data come la tua».

Come tutte le date che lo riguardavano. «L’avresti ricordata comunque, non dimentichi mai nulla».

«Generalmente no» concordò Stiles senza prolungarsi. «Adesso hai ventuno anni».

Era il verso a ciò che gli aveva detto quando Stiles ne aveva, invece, compiuti diciannove. Quasi quattro mesi prima, proprio su quel letto. «È vero» non cambiava molto quanti anni avesse, ma la consapevolezza del tempo in sé che trascorreva aveva più rilevanza per lui.

Comprendeva anche maggiormente perché Stiles avesse insistito per il suo rientro a New York almeno per quella giornata festosa, ma a Derek non veniva in mente un modo migliore di trascorrerla se non in reciproca compagnia. «Non c’è una torta da qualche parte, vero?».

L’affronto e il raccapriccio nei tratti facciali del capitano della squadra di basket riaccesero l’ilarità nella matricola. «Non l’avresti fiutata con questo?» chiese con un ghigno, toccandogli appositamente la punta del naso. «Abbiamo tanti cookies, però. Non ho riempito la dispensa per niente».

Il lupo gli tracciò i lineamenti del volto immagazzinandoli nella memoria, accarezzandogli successivamente una tempia e concedendosi di tornare a dilettarsi con i suoi ciuffi ribelli. «Nascondere le prove in bella vista. Sei la solita volpe astuta».

«Sotto il naso» lo corresse provocatoriamente Stiles, il sogghigno sopraffino che lo contraddistingueva tra la folla.

Derek lo azzannò il naso di quella creatura diabolica, per sottolineare un concetto e la piccola volpe infuocata ridacchiò di delizia. «Abbiamo ancora tempo per assistere alla nevicava?».

«Sì» proferì con sicurezza la creatura della notte, schioccandogli un impercettibile bacio proprio sul punto addentato scherzosamente, a mitigare il reato commesso, ricevendo in dono uno dei sorrisi più calorosi e pieni dalla matricola. «C’è ancora tempo».

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