Nueve cartas de amor y una cancìon desperada.

di Sundy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Kaname & Villetta - Pianure di Sale ***
Capitolo 2: *** Shogo & Shirley - Neutral Milk and Carrot ***
Capitolo 3: *** Kyoshiro & Nagisa - Di un amore in un paese di guerra ***



Capitolo 1
*** Kaname & Villetta - Pianure di Sale ***


Claimed @ DieciSuDieci

1 - Kaname & Villetta


«È uno strano dolore morire di nostalgia
per qualcosa che non vivrai mai.»
(Alessandro Baricco – Seta)



Con gli occhi scuri cerchiati dall'attesa lentissima, esasperante, della loro punizione esemplare, l'uomo si rigira tra le mani la carta oleosa sottratta senza troppa fatica al vassoio del cibo, e la arrotola dentro la manica della tuta da carcerato. Abbandona la testa contro la parete e lentamente socchiude le palpebre, mentre i rumori, nella penombra, si fanno ancora più smorzati.

Dopo quarantadue giorni di prigionia senza la minima speranza di ricevere una grazia, la disperazione delle prime ore ha assunto una consistenza rarefatta, i pensieri si schiacciano l'uno su l'altro, perdono di spessore e diventano sempre più semplici ed essenziali. Sente la mente vuota, ridotta a una ricetrasmittente pronta a captare ogni minimo movimento all'interno della mastodontica prigione in cui, come larve di formiche, vegetano in attesa di un volo che consisterà, e lo sanno tutti talmente bene che non hanno bisogno di ripeterselo, in un solo passo in avanti verso il plotone d'esecuzione.
Kaname ha perso il sonno quasi subito, in un ultimo tentativo di arginare, vigilando sulla disperazione dei propri compagni, la sua personale angoscia. Ha imparato a non addormentarsi che per pochi minuti di seguito nei primi cinque giorni, quando il colonnello aveva ancora la febbre alta, e Chiba, con la ferocia ostinata del suo istinto di lupa che non vuole abbandonare il cucciolo malato, si rifiutava di staccarsi da lui per seguire le guardie nel settore femminile; quando Tamaki, che sembrava aver dimenticato l'assenza del libero arbitrio negli uomini che vigilavano su di loro e diventava sempre più nervoso di fronte alla loro indifferenza, aveva cominciato a sbraitare sempre più forte, sputandogli in faccia tutta la sua paura di morire senza riuscire a provocare in loro alcuna reazione; gli stessi giorni in cui i singhiozzi strozzati della ragazzina britanna, che gli pareva di ricordare fosse stata un Knight of Round, incrinavano senza interruzione la densità opprimente dell'aria.

Con il protrarsi dell'attesa, tutto si è fatto più ottuso, silenzioso e immobile; il suo sonno non è più tornato regolare, ma dalle pieghe della sua mente in cui lo aveva ricacciato per non impazzire di nostalgia, è riaffiorato il sogno, l'ultimo sogno che si è permesso di avere e che adesso gli sembra perdere consistenza con la stessa velocità con cui si degradano i suoi pensieri, nell'aria solida, irrespirabile della prigione.

"Amore mio, stanotte vi ho sognati."

E' così che ha pensato di cominciare a scriverle, sui pezzetti di carta che lo scarso zelo di quei soldati apparentemente privi di anima gli permette di conservare nelle maniche della tuta, una lettera che non arriverà mai a destinazione, lo sa, ma che vale l'illusione del contatto. Vorrebbe trovare le parole per raccontarle, finché gliene resta il tempo, di quanto è grande il suo amore per lei, della commozione che sentiva stringendole la vita, delle speranze e delle aspettative che aveva per il loro futuro, ma quando si ritrova solo davanti al rotolino di cellulosa tanto gelosamente custodito, tutto quello che riesce a scrivere è l'unica verità sopravvissuta alla totale, annichilente sconfitta – che gli è rimasto solo un sogno.


Ogni volta che chiude gli occhi, si ritrova nella stessa distesa immensa di terra e sale. Villetta cammina su una lingua di sabbia che si stende a perdita d'occhio sulla sponda del mare, la stoffa leggera dell'abito chiaro le lambisce le caviglie brune, la pelle color caramello è impolverata di sabbia, non può vedere il suo viso ma riconosce con un fremito di nostalgia opprimente la curva dolce del suo collo e i suoi capelli di seta che riempiono l'aria mentre con un movimento morbido lei si china per raccogliere qualcosa. Da sotto la coperta morbida della sabbia, Villetta tira fuori una moneta, una vecchia moneta da cinque yen corrosa dal tempo e dalla storia, una moneta che lui conosce benissimo. Se la rigira tra le mani e Kaname trattiene il respiro, perché sarebbe disposto a pagare qualunque prezzo per poter vedere ancora una volta il suo viso, almeno in quel sogno, ma ormai sa che non è verso di lui che Villetta si volta, e il cuore di lui, fedele alla parte che in quel sogno sempre uguale gli spetta, si divincola in una morsa dolorosa… con le sue lunghe dita scure la donna pulisce la moneta dalla sabbia che vi si è attaccata e poi la porge delicatamente alla mano infantile che si tende verso di lei. Kaname fa appena in tempo a sentirlo ridere e il sogno svanisce.


Tamaki si sforza di non farsi sentire mentre piange in un angolo, Chiba stringe la mano del colonnello, appoggiandosi alla sua spalla, e i suoi occhi sembrano meno affilati, nella penombra.
Lentamente, il Segretario estrae il suo prezioso rotolino di carta dalla manica di tela ruvida e con più stanchezza che angoscia aggiunge un’altra riga alla sua ultima lettera.


"Amore mio… vi ho sognati ancora."


Nota: .. ma nonostante lo scorcio 'angst abbestia', sappiamo tutti come si è risolta la faccenda! ^______^ La moneta che Villetta raccoglie dalla spiaggia è la stessa su cui è incentrata Obelòs.
Dedicata a Kitty, perché il sogno di Villetta e della moneta era suo. E lo è ancora…

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Capitolo 2
*** Shogo & Shirley - Neutral Milk and Carrot ***


2 - Shogo & Shirley

Avvertimenti: What if..?


“E’ ... strano.” – pensa Shogo, avvolto nel giubbotto un po' sdrucido con cui cerca di ripararsi dai primi freddi, le lenti degli occhiali che rifrangono doppiamente il luccicare umido della strada, attraverso la grande vetrina. Non riesce a definire meglio la sensazione che gli lascia sulla lingua la semplicità disarmante del gelato al fiordilatte, dopo tanto tempo. E’ la terza volta in questa settimana, e almeno la decima nell’ultimo mese, che si ferma nella luce morbida ma un po’ troppo intensa per i suoi gusti di quella gelateria, ma la sensazione di estraneità non è ancora passata.

Da piccolo, Shogo Asahina andava matto per il gelato. Un ricciolo di vaniglia morbida e fredda era di norma più che sufficiente a placare i malumori di quel bambino frignone e disappetente, ed il gelato era rimasto uno dei pochi piatti che smuovevano l’entusiasmo del ragazzetto un po’ scontroso che lui era diventato, fino al giorno in cui la guerra aveva travolto la sua quotidianità fin nei suoi dettagli più banali, e il sapore dolce della crema di latte e ghiaccio, rigorosamente di produzione britanna, si era fatto per lui irreversibilmente cattivo. Chiba non perdeva occasione per fargli notare quanto potesse essere un atteggiamento da integralisti fanatici – qualcosa che il Colonnello sicuramente non approvava - intestardirsi su una sciocchezza del genere, ma durante i lunghi anni della resistenza, Shogo aveva osservato un’astinenza rigorosa da quel suo unico peccato di gola, e riscoprirlo adesso gli lascia addosso una sensazione ambigua di rifiuto e fascinazione insieme.

Si guarda intorno, cercando elementi all’interno del negozio che servano a giustificare la sua istintiva diffidenza, ma solo i lampadari e il banco frigo sono rimasti gli stessi degli anni dell’occupazione; il proprietario ora è un ometto rotondo del Kyushu che ha imparato a fare il gelato dai suoi vecchi padroni e che ha rilevato l’attività dopo la liberazione. Ha provveduto a sostituire i leziosi quadretti con puttini in amore e le sedie di ferro battuto smaltate di bianco con pannelli di sobria tela naturale decorati con rami di ciliegio in fiore e sgabelli alti di legno chiaro, conferendo così al locale un gusto abbastanza giapponese da far sentire Shogo autorizzato a lasciare il suo radicalismo fuori dalla porta e a varcare la soglia dell’ingresso. Anche i nomi dei gusti sui cartellini sono scritti in eleganti kanji dorati e sulle palettine di legno è impresso a fuoco un lapidario – prodotto in Giappone.

Le uniche cose britanne rimaste nel negozio sono i lampadari, il banco frigo, e la commessa, che sorride maldestra e alza gli occhi verdi al soffitto cercando di ricordare le parole necessarie a spiegare la differenza tra gianduia e cioccolato, e confondendo la mandorla con la noce sotto lo sguardo paziente e benevolo di due anziane signore con nipotini al seguito.

Le lampade troppo potenti gli fanno venire mal di testa, il bancone ha quella irritante bombatura mangiaspazio che poteva venire in mente solo a un britanno, ma tutte le volte che Shogo mette piede in quel locale non riesce a non indugiare con lo sguardo sulle guance rosee della commessa e sull’arancio inconcepibile dei suoi capelli che spuntano dalla cuffietta, chiedendosi che cosa la porti a lavorare part-time in quella gelateria del quartiere giapponese, come se fosse una cosa da niente.

La ragazza britanna è certamente arrivata in Giappone al seguito degli invasori che ne hanno calpestato la dignità, è arrivata camminando attraverso i sentieri spianati di ciò che Shogo ha odiato e combattuto con tutte le sue forze – profitto, interesse, dominazione, agio borghese, salotti per bene – la sua pelle di rosa è fiorita nel giardino di un mondo che Shogo ha sempre disprezzato, eppure, o forse proprio per questo non può fare a meno di sentirsi curioso.

Non ha idea di cosa stia cercando, la ragazza della gelateria, ma la leggerezza con cui lei si muove in quel quartiere così straniero, gli occhi aperti, avidi di cogliere, di capire, immune agli sguardi che l’arancio acceso dei suoi capelli le attira addosso, tutto in lei rompe gli schemi della diffidenza reciproca di cui sa di essere stato ben più che prigioniero. Non gli piace il sapore del suo accento quando si sforza di pronunciare correttamente – domo arigatou gozaimasu - ma la dolcezza con cui le si illuminano gli occhi e le si piegano le labbra è sufficiente a smorzare il gusto aspro delle sue consonanti troppo marcate. E’ strano sulla sua lingua il nome del gelato al fiordilatte, e Shogo non riesce a definire meglio la sensazione che lascia nelle sue orecchie la leggera deformazione che quelle parole familiari subiscono attraverso la voce morbida di lei, come non riesce a smettere di fissare quei capelli incredibili e il movimento ansioso dei suoi occhi quando insegue la parola esatta, continuando a confondere la mandorla con la noce, alla ricerca, forse, di qualcosa di più profondo. E Shogo si accorge, raschiando con la paletta il fondo della coppetta, che nonostante tutto il rancore e la diffidenza passata, sarebbe felice di insegnarle la differenza tra la noce e la mandorla, e forse anche qualcosa sul resto.

Sfila rapidamente dal taschino del giubbotto una matita e scrive, su uno dei tovagliolini rigorosamente prodotti in Giappone, i caratteri di ‘mandorla’ e ‘noce’ con la pronuncia esatta e l’equivalente anglosassone, e prosegue, in inglese, sotto “ti aspetto alle sette e mezza all’angolo della strada, se vuoi continuare con gli altri gusti.” Sorridendo a stento - non è mai stato un tipo troppo espansivo - le porge il tovagliolino insieme alle monete esatte per la sua coppetta baby al fiordilatte, e solo voltandosi verso l’uscita si rende conto che quel messaggio stringato, ai limiti della maleducazione - un messaggio degno del bigliettino che uno scolaretto di prima media può lanciare alla sua compagna di classe quando la maestra è voltata verso la lavagna - scritto in inglese su un tovagliolino di cellulosa, sono le prime parole che mette nero su bianco per una donna in tutta la sua vita. Fa appena in tempo a vedere gli occhi verdi foglia della ragazza spalancarsi per la sorpresa, e il suo sorriso inseguirlo oltre la vetrina, prima che un attacco di catastrofico imbarazzo lo metta definitivamente in fuga. Ma non andrà lontano; l’angolo della strada è solo a pochi metri di distanza.


Nota : so che non si fa così, ma non ho avuto per niente, ma proprio per niente voglia di controllare, se ‘mandorla’ e ‘noce’ esistono in giapponese, come si scrivono, come si leggono…. Quindi se qualche nippon-nerd si accorge che è una cosa senza senso quella che ho scritto, ed è così gentile da correggermi, o fornirmi un’alternativa di gusti di gelato, gliene sarò infinitamente riconoscente.XD
Domo arigatou gozaimasu : forma molto educata di ringraziare, equivale a 'grazie mille'

Dedicata a Aryehn/Gaia Loire, che scrive - credo - la miglior Shirley del mondo. Io quando si tratta di lei mi limito a giocare con le bambole XD

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Capitolo 3
*** Kyoshiro & Nagisa - Di un amore in un paese di guerra ***


3 - Kyoshiro & Nagisa

E'rigido e cerimonioso il gesto con cui il padre si siede davanti al tavolino del salotto, dove la figlioletta lo aspetta ansiosa.
Nagisa sa di essere una donna possessiva, lo è sempre stata, una donna che da’ peso ai gesti, minimi o grandi che siano, ma non c’è nessun risentimento nel modo in cui sminuzza il cavolo cinese e, discretamente, allunga lo sguardo sul marito, intento a quel rituale in cui la sua presenza non è mai stata inclusa. La ragazzina sgrana gli occhi, poi, riacquistando quella compostezza che si sente tenuta ad esibire di fronte al padre in un momento così importante, prende in mano il minuto quaderno dalla copertina di un colore indefinibile, logorata dal passaggio attraverso un tempo troppo denso, il tempo della guerra, che si dilata fino a sembrare eterno nel ricordo

Incastrato nella trama di quelle memorie c’è un amore che non si racconta.
Nagisa e il suo generale – colonnello – sono abituati a parlare poco di sé, perché Kyoshiro in primo luogo è un uomo che parla poco. Tutte le parole coltivate nei suoi lunghi, ombrosi silenzi, sono da sempre riservate al piccolo taccuino da cui il generale non si è mai separato fino a quel momento.

Con gli occhi socchiusi, la giacca di lui appoggiata sulle spalle, lo vedeva annotare a tarda notte, la cronaca di quella giornata di guerra, ed è sinceramente persuasa che Kyoshiro non abbia mai scritto una sola riga su di lei che non riguardasse la conduzione della battaglia, ma sa che in mezzo a quelle pagine aride di marce forzate e polvere da sparo c’è tutto il loro amore. Un amore tenace, duro come l'acciaio, che ha attraversato la storia del loro mondo accumulando cicatrici, ferite, umiliazioni e lacrime, resistendo a tutto, più forte della morte, di mille sconfitte, di ogni risentimento.
C'è il modo in cui le aveva sentito sussurrate il suo nome tra le coperte troppo morbide di un'albergo di Dubahi - una parentesi di normalità tra una battaglia e l’atra che gli aveva dato la dolorosa percezione di quanto fosse impossibile ormai per loro fare davvero finta di niente, o tornare indietro. C’è lo schianto assordante con cui il suo cuore è andato in frantumi quando Kyoshiro, accecato dalla rabbia e dalla sconfitta, si è trovato a dover sceglier tra lei e la guerra, la sua prima sposa, e ha scelto la guerra - ma anche allora lei lo ha perdonato.
C’è tutta la loro storia, con le sue glorie e le sue più basse miserie, e la storia di tutti coloro che hanno combattuto al loro fianco fino all’ultima battaglia, che Nagisa gli ha visto annotare con fatica e dolore nei suoi primi giorni di uomo tornato libero, ancora convalescente, limitandosi ad accarezzagli le mani quando interrompeva l’opera dello scrivere, quelle stesse mani che per sessantuno interminabili giorni di prigionia aveva stretto, febbricitanti, tra le sue.

E’ tutto lì nelle pagine del libretto che Kyoshiro, corrucciato come sempre, tende alla figlioletta, e Nagisa lo sa anche se lui non glielo ha mai fatto leggere, e lei non glielo ha mai chiesto. Tutte le lettere che non si sono mai scambiati, ora le ha Nishi in mano, e sarà lei a custodirne il ricordo mentre i suoi genitori continueranno ad amarsi senza parole.
Nishi, sua figlia, che con la quiete dei suoi lunghi occhi scuri riceve il quaderno del padre e promette solennemente – un po’ rigida e cerimoniosa anche lei, nella tenerezza dei suoi dodici anni, di farne tesoro.

Nagisa continua a tagliare il cavolo cinese, con un sorriso che nessuno dei suoi disciplinatissimi sottoposti ha mai visto sul viso del Tenente Colonnello Chiba, e quando Kyoshiro le arriva vicino, lo bacia sulle labbra come nessuna donna giapponese fa comunemente, e gli chiede semplicemente di scolare la soba.


Note: Il quaderno del colonnello è il medesimo di cui si tratta in Nessuna esitazione (si, ho capito, dovrei piantarla di giocare di rimpallo) - e, più in generale, la prova tangibile che Aureliano Buendìa non lascerà mai, mai in pace il mio subconscio.

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