No One Would Listen di Niglia (/viewuser.php?uid=29469)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ***
Capitolo 2: *** 01. Ritorno al passato - Lo Specchio ***
Capitolo 3: *** 02. Un nuovo inizio ***
Capitolo 4: *** 03. No More Memories ***
Capitolo 5: *** 04. L'Opèra Garnier ***
Capitolo 6: *** 05. Dove le decisioni di un Fantasma non si discutono ***
Capitolo 7: *** 06. In dreams he came ***
Capitolo 8: *** 07. Uno sconosciuto ***
Capitolo 9: *** 08. Segreti svelati e segreti mantenuti ***
Capitolo 10: *** 09. Un patto col Diavolo ***
Capitolo 11: *** 10. Minacce e avvertimenti ***
Capitolo 12: *** 11. La lezione di canto ***
Capitolo 13: *** 12. Prima parte - Rivelazioni impreviste ***
Capitolo 14: *** 12. Seconda parte - Dove ciascuno architetta il proprio piano ***
Capitolo 15: *** 13. Rabbia e complicazioni ***
Capitolo 16: *** 14. E' il Fantasma? ***
Capitolo 17: *** 15. Child of the Wilderness ***
Capitolo 18: *** 16. I'm wondering what you're dreaming ***
Capitolo 19: *** 17. Ritorno alla luce ***
Capitolo 20: *** 18. Dove diverse identità vengono rivelate ***
Capitolo 21: *** 19. La leggenda del Fantasma dell'Opera ***
Capitolo 22: *** 20. She's here, inside my mind ***
Capitolo 23: *** 21. And I kissed you... ***
Capitolo 24: *** 22. La nuova Margherita ***
Capitolo 25: *** 23. And in this labyrinth where night is blind... ***
Capitolo 26: *** 24. Wishing you were somehow here again ***
Capitolo 27: *** 25. La mia musa, la mia vita, la mia anima ***
Capitolo 28: *** 26. Al ballo in maschera ***
Capitolo 29: *** 27. Look back on all those times ***
Capitolo 30: *** 28. Dove accadono diverse cose contemporaneamente ***
Capitolo 31: *** 29. Forgive me, I beg you, if you can ***
Capitolo 32: *** 30. Interludio. Fine degli amori del Fantasma ***
Capitolo 33: *** 31. Il luogo a cui si appartiene ***
Capitolo 34: *** 32. Negli abissi della sua follia ***
Capitolo 35: *** 33. No one would listen, no one but her ***
Capitolo 36: *** 34. Oui, c'est toi, je t'aime ***
Capitolo 37: *** 35. Monsieur, I bid you welcome ***
Capitolo 1 *** Prologue ***
© Avvertenze:
Storia scritta senza alcuno scopo di lucro. I personaggi non sono di
mia proprietà, ma appartengono a Gaston Leroux, Andrew Lloyd
Webber e Joel Schumacher. Per i personaggi originali, ogni riferimento
a persone esistenti e/o a fatti realmente accaduti è da
ritenersi puramente casuale.
Prologue
Non
è piacevole né rilassante la
vita di chi indossa perennemente una maschera.
Seneca
Marzo,
1876. Parigi.
L’aria
della città conservava ancora il gelo proprio della notte,
mentre quest’ultima
aveva appena iniziato a svanire per lasciare spazio ad una frizzante
mattina, e
il cielo si stava rischiarando lentamente. Una carrozza nera si
fermò in Place
de l’Opèra, silenziosa come un’ombra. Il
cocchiere arrestò i cavalli davanti
all’imponente scalinata del teatro, attendendo paziente che
l’occupante della
carrozza scendesse a terra.
La
portiera dell’elegante Landau si aprì, e da esso
ne scese un uomo che poteva
avere una trentina d’anni, con i capelli e i baffi folti e
neri e due occhi
altrettanto scuri; malgrado l’abbigliamento tipicamente
parigino, la carnagione
scura e abbronzata tradiva le sue radici persiane. Indossò
un cilindro sul capo
e lo raddrizzò con un gesto deciso, richiudendo la portiera
alle sue spalle e
picchiettando su di essa con il pomo del bastone. Il cocchiere comprese
e
incitò i cavalli, spostandosi per cercare un luogo
più adatto dove sostare e attendere
il ritorno del signore.
Con
un leggero sospiro, quest’ultimo osservò il teatro
che si ergeva maestoso
davanti a lui, senza tradire neppure per un istante
l’emozione che provava di
trovarsi di fronte ad un simile tempio dell’arte. Il suo
sguardo rimase
impassibile, e salì stoicamente la scalinata fino a
raggiungere il portone
d’ingresso, che si aprì quasi subito come se non
stessero aspettando che lui.
E
in effetti era proprio così. Il teatro
dell’Opèra era pronto a rinascere, ed
era proprio quel curioso straniero che portava con sé le
carte e i documenti
che avrebbero reso possibile un simile avvenimento.
Senza
curarsi del suo aspetto esotico, perciò, monsieur Firmin e
monsieur Andrè lo
scortarono nel loro ufficio, senza quasi dargli il tempo di godersi lo
spettacolo dell’Opèra deserta, che gli fecero al
contrario attraversare piuttosto
negligentemente.
«Presumo
dunque che sappiate perché sono qui.»
Esordì lo straniero, togliendo nuovamente
il cappello e tenendoselo sulle ginocchia. Con lo sguardo non cessava
di
studiare i due direttori, mentre la sua voce profonda sembrava volerli
ammaliare con i suoi accenti orientali.
«Sappiamo
che siete qui in vece di monsieur Destler, oui.»
Rispose pacatamente monsieur Andrè, ricambiando gentilmente
lo sguardo dell’uomo
di fronte a lui. «Ci ha già accennato parte delle
sue intenzioni nella sua
ultima lettera.»
«È
stato gentile da parte sua tenerci informati con una fitta
corrispondenza.»
Aggiunse Firmin, versando in alcuni bicchieri del pregiato vino
francese.
«Gradite qualcosa da bere?» Chiese poi,
rivolgendosi al persiano.
Questi
fece leggermente cenno di no con la testa. «No, ma vi
ringrazio. Ad ogni modo, il
mio principale ci tiene a farvi sapere che non vuole porsi nessun
limite alla
somma da versare per sistemare nuovamente il teatro e riportarlo alla
gloria e
allo splendore di un tempo.»
Gli
occhi dei due direttori non poterono fare a meno di brillare di gioia.
Credevano che non avrebbero mai più assistito ad un momento
simile; nel periodo
che aveva seguito il disastro,
quando
avevano dovuto indebitarsi fino all’anima per riaprire e
ristrutturare il
teatro, avevano temuto davvero di dover porre fine alla loro miserabile
vita
per scampare ai creditori. E invece, adesso arrivava un nuovo mecenate
come la
manna dal Cielo...
«Questo
è veramente splendido, monsieur.»
Replicò Andrè, con un debole sorriso.
«Ma
sarebbe stato ancora migliore se monsieur Destler fosse stato qui
insieme a
voi. Non sapete quando pensa di onorarci con la sua presenza?»
Monsieur
Bamdad fece un cenno di diniego col capo, prima di rispondere.
«Nella sua
ultima lettera, che ho ricevuto pochi giorni fa, monsieur Destler mi
informava
di trovarsi ancora a Boston, e di essere in procinto di finire di
sistemare
alcuni suoi affari prima di raggiungerci a Parigi. Credo ad ogni modo
che
dovrebbe essere con noi in primavera, tuttavia non preoccupatevi. Da
questo
momento potete già godere dei suoi finanziamenti.»
L’uomo
comprese qual era il motivo di tanta premura, e riuscì a
togliere i due signori
da ogni imbarazzo. Tuttavia, il suo compito non poteva ancora dirsi
concluso.
«È
pur vero, messieurs, che
c’è una
condizione...»
Immediatamente
monsieur Andrè e monsieur Firmin raddrizzarono la schiena e
concessero la loro
completa attenzione al giovane persiano, aggrottando le sopracciglia e
aspettandosi qualsiasi cosa da parte sua. «Quale
condizione?» Indagò cautamente
monsieur Andrè.
Monsieur
Bamdad non si lasciò intimidire. «Il mio
principale ha chiarito più e più volte
di accettare il ruolo di mecenate del Teatro Garnier solo a patto di
poter
intervenire sulla scelta delle opere messe in scena, e su quella delle
compagnie di ballo e di attori che, peraltro, mantiene sempre
lui.»
I
due direttori non sembravano ancora del tutto convinti.
«Quindi, in pratica? Di
che cosa si tratta?»
Lo
sguardo del persiano divenne ancora più penetrante rispetto
a prima. «Detto in
parole povere, miei cari signori, monsieur Destler desidera ricoprire
il ruolo
di direttore artistico dell’Opèra.»
Monsieur
Andrè e Firmin si scambiarono uno sguardo silenzioso che
tuttavia non lasciò
trasparire nulla in favore della comprensione di monsieur Bamdad, ma
entrambi
stavano pensando la medesima cosa. In fondo la richiesta del nuovo
mecenate non
era poi così terribile, d’altronde poteva anche
entrare nei suoi diritti
chiedere di visionare e tenere sotto controllo le varie opere
rappresentate,
dato che da quel momento in poi il suo nome sarebbe apparso in quasi
tutti i
manifesti degli spettacoli.
Dunque
i due signori annuirono, alzandosi poi in piedi e porgendo la mano al
giovane
segretario. Egli si alzò a sua volta e ricambiò
la loro stretta, con un mezzo
sorriso.
«Bene,
signori. Monsieur Destler sarà lieto di aver concluso
felicemente questo
affare.»
Monsieur
Firmin annuì. «Sono certo che il nostro orgoglio
eguaglierà il suo.»
Il
segretario si accomodò nuovamente, tirando fuori le varie
scartoffie legali. «A
questo punto, signori, non vi resta che apporre qui le vostre firme...
Se
voleste farmi questa cortesia... Di modo che possa inviare subito una
risposta
al mio principale...»
«Sicuramente,
monsieur. Andrè, prendi l’inchiostro.»
Affermò monsieur Firmin, tirando fuori
una piccola custodia in pelle contenente un paio di occhiali dorati.
Le
loro eleganti firme suggellarono definitivamente il contratto, salvando
il
teatro – e loro stessi – dalla rovina.
L’Opèra sarebbe tornata a splendere.
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Capitolo 2 *** 01. Ritorno al passato - Lo Specchio ***
Chapitre 1
Ritorno al
passato: lo Specchio
Ottobre,
ventunesimo secolo. Parigi.
Giulia
Isabelle Nilsson, figlia della soprano più famosa e
richiesta da tutti i teatri
d’Europa negli ultimi quindici anni, scese dalla lucida
Porsche nera del
fratello, sorridendogli mentre correva a rifugiarsi nel suo abbraccio
per
sfuggire al freddo pungente di quel venerdì di
metà autunno. Ancora non aveva
nevicato, ma di sicuro non ci sarebbe stato da attendere molto prima
che le vie
di Parigi si imbiancassero come in un quadro natalizio.
Jean-Louis,
il fratello maggiore di Giulia, strinse la sorella tra le braccia,
attirandola
poi sotto il pesante cappotto per accompagnarla fino al foyer
dell’Opèra
Garnier, dove sarebbero stati finalmente al riparo. Una volta dentro,
infatti,
la ragazza tirò un sospiro di sollievo, sbottonandosi il
cappotto e rimanendo
solo con la camicia e un paio di pantaloni di velluto color prugna, che
stavano
già iniziando ad infastidirla; dentro il teatro, infatti, la
temperatura era
quasi afosa.
Come
sempre, l’immenso salone pullulava di addetti alle pulizie e
di turisti, che
gironzolavano da una parte all’altra delle scalinate in marmo
accompagnati dal
cicaleccio tipico di chi si trovava in quel tempio dell’arte
e ancora non
riusciva a crederci. Il pendolo dell’orologio
all’ingresso batté le 16 in
punto, e i due fratelli si diressero di tacito accordo verso la zona
degli
uffici e dei camerini delle varie comparse, ballerine, cantanti e
così via,
dove avrebbero potuto poggiare la loro roba prima di andare alla
lezione del
coro.
O
meglio, Jean-Louis si limitava ad accompagnare la sorella che, come
solista del
coro dell’Opèra, non poteva mancare a nessuna
lezione, e lui, in quanto figlio
di madame Gauthier, aveva il permesso di assistervi.
Quando
entrarono nella grande sala che avevano adibito ad aula prove, Giulia
ringraziò
mentalmente il cielo di non essere l’unica in ritardo. Le
altre ragazze si
stavano ancora sistemando ai loro posti, mancava quasi la
metà dei ragazzi e
neppure il maestro Vincent, il direttore dell’orchestra, era
ancora arrivato. Al
contrario madame Lambert, l’insegnante di canto, batteva
già i piedi dall’impazienza.
Con
un sorriso Giulia salutò il fratello che andò a
sedersi su una poltroncina
accanto al pianoforte che veniva utilizzato durante le prove, e
raggiunse le
sue compagne che le facevano cenno di raggiungerle. Dopo dieci minuti
furono al
completo, tutti seduti in cerchio in delle vecchie sedie che un mezzo
secolo
prima avevano fatto parte delle della platea, e madame Lambert che
sfogliava
distrattamente uno spartito in attesa che il brusio dei suoi allievi
cessasse.
Alla fine, per attirare la loro attenzione fu costretta a tossire un
paio di
volte, leggermente irritata.
«Bene,
ragazzi. Adesso che ci siamo tutti direi che possiamo
iniziare...» Sospirò,
tornando indietro con le pagine del suo fascicolo. «Volevo
che oggi provaste in
platea, ma monsieur Legrand, il direttore, mi ha chiesto la cortesia di
avere un po’ di pazienza
e di rimandare la
vera e propria prova generale, visto che i branchi di turisti
disturberebbero
la nostra esercitazione.»
Alcune
delle ragazze ridacchiarono sottovoce al tono stanco e spazientito
dell’inflessibile insegnante di canto, ma tacquero
immediatamente per evitare
che la rabbia della donna si abbattesse su di loro. Madame
batté le mani con
due colpi secchi, e tutti i ragazzi e le ragazze si alzarono
simultaneamente
assumendo ciascuno la propria posizione, dividendosi a seconda della
tonalità della
loro voce.
«Bene,
iniziamo con qualche vocalizzo semplice per riscaldarci le corde
vocali...
Maestro Vincent?»
L’anziano
direttore si sedette al piano, voltandosi verso la donna. «Oui, madame?»
«Datemi
un Do, per favore. Quanto a voi, ragazzi,» aggiunse,
rivolgendosi al coro.
«Fatemi sentire una bella scala di vocali. Cercate di non
deludermi anche voi
oggi, per piacere.»
Cercando
di trattenere dei sorrisetti, i soprani diedero inizio alla lezione,
seguendo i
gesti che madame Lambert faceva loro per aiutarli a mantenere il tempo
e il
ritmo. I vocalizzi, come al solito, durarono una mezzoretta piena, in
modo da
alternare i soprani con i tenori, i baritoni con i mezzosoprani e i
contralti,
e così via. Come sempre, alla fine degli esercizi le gote
delle ragazze erano
rosse come ciliegie, ed erano tutti così accaldati che
dovettero iniziare a
sventolarsi con alcuni ventagli per evitare di aprire le finestre.
Avere un
coro con l’influenza a pochi giorni dalla prima non avrebbe
fatto piacere a
nessuno.
«Va
bene, cinque minuti di pausa, bevete un sorso
d’acqua.» Concesse madame Lambert
alla fine, nascondendo il suo compiacimento. «Giulia, puoi
venire un attimo?»
La
ragazza si allontanò dal gruppo delle colleghe e raggiunse
l’insegnante al lato
opposto della sala, quasi certa di quello che la donna le avrebbe
chiesto.
«Hai
preparato quel brano che ti ho chiesto, chèrie?»
Le chiese infatti, sorseggiando un bicchiere di the dal thermos dal
quale non
si separava mai.
Giulia
annuì. «Si, certo. Die
Königin der Nacht,
vero madame?»
Madame
Lambert annuì a sua volta, lieta di sentire che la sua
allieva più brillante
aveva preparato anche quell’ennesimo e difficile brano.
«Si chèrie, ed
ora sono curiosa di sentire
come lo hai preparato... Anche se conoscendo te e conoscendo tua madre,
potrei
mettere la mano sul fuoco sul fatto che sarai impeccabile.»
L’altra
arrossì senza rispondere, riuscendo però a
mascherare l’irritazione. Le dava
fastidio, infatti, che tutti la paragonassero a sua madre, come se per
il
semplice fatto di essere la figlia di una così grande
cantante d’opera, anche
lei non sarebbe potuta essere da meno. Per carità, Giulia
amava il canto e in
particolar modo amava il teatro, ma c’erano delle volte
– e questa era una di
quelle – in cui avrebbe preferito essere la figlia di una
maestra delle
elementari piuttosto che di Eloise
Gauthier. Anche perché, per colpa degli sciocchi
favoritismi che le
riservava madame Lambert, tutte le altre ragazze del coro la
invidiavano, e non
era mai riuscita a farsene amica nemmeno una, per quanto tutte si
prodigassero
a trattarla come tale per non far irritare l’insegnante.
Con
l’ennesimo battito di mani, quest’ultima
attirò l’attenzione del resto del
coro, facendo loro cenno di avvicinarsi al piano, dove Giulia prese
posto di
fronte a maestro Vincent con lo spartito del brano aperto sul ripiano
dello
strumento. Mentre i suoi colleghi prendevano posto, la ragazza
notò alcune
occhiate che le altre soprano si scambiarono e sospirò,
rattristata; erano
tutte invidiose della sua posizione, ma non l’aveva certo
chiesto lei di essere
la solista del coro! Perché non si proponeva una di loro per
il posto? Glielo
avrebbe ceduto molto volentieri.
«Bene
ragazzi, adesso Giulia ci delizierà con un brano tratto dal
Flauto Magico di
Mozart, che di sicuro conoscete tutti. Avete già sentito
parlare della Regina
della Notte, n’est-ce pas?»
Tutti
annuirono e mormorarono consensi, prima di tacere e spostare
l’attenzione sulla
ragazza. «Maestro Vincent...» disse lei,
porgendogli lo spartito. «Qui.
Dall’inizio dell’aria...»
L’uomo
annuì, e dopo aver sistemato i fogli sul leggio di fronte a
sé e aver terminato
di suonare l’introduzione, le fece cenno di iniziare.
«Der
Hölle Rache
kocht in meinem Herzen,
Tod und Verzweiflung flammet um mich her!
Fühlt nicht durch dich Sarastro Todesschmerzen,
So bist du meine Tochter nimmermehr.
Verstossen sei auf ewig,
Verlassen sei auf ewig,
Zertrümmert sei 'n auf ewig
Alle Bande der Natur
Wenn nicht durch dich Sarastro wird erblassen!
Hört,
Rachegötter, hört der Mutter
Schwur! »
I
vocalizzi di quell’aria erano la parte che Giulia amava
più di tutto. Le davano
la possibilità di gridare tutta la sua rabbia e la sua
frustrazione senza che
nessuno si scandalizzasse, e perciò mise in quel canto tutto
il sentimento di
cui era capace. Alla fine, malgrado stessero rodendo
dall’invidia, le sue
compagne di canto non poterono fare a meno di applaudire, per quanto
fosse
evidente la voglia che avevano di strangolarla. Anche i complimenti di
madame
Lambert erano ben accetti, considerando che la donna li distribuiva
sempre con
moderata e avara parsimonia.
Ad ogni
modo, fortunatamente, anche quella lezione terminò, e dopo
aver salutato il
maestro Vincent e i due violinisti che lo accompagnavano durante le
arie, anche
Jean-Louis raggiunse la sorella, uscendo nel corridoio che si stava
riempiendo
lentamente.
«Alla
buon’ora, non ne potevo più!»
Esclamò il ragazzo una volta fuori, afferrando la
sorella per la vita e camminando abbracciato a lei. «Tutte
quelle oche mi
stavano davvero dando fastidio per il modo in cui ti
guardavano...»
Giulia
rise, seppur un po’ sforzatamente. «E come mi
stavano guardando?»
Jean-Louis
strinse gli occhi, arrabbiato. «Come se ti avessero voluto
strangolare! Che
nervi...»
«Non
importa, è così da sempre,
perciò...» Si limitò a rispondere lei,
scrollando le
spalle. Qualcuno però attirò la sua attenzione e
Giulia si aprì in un sincero
sorriso, salutando con la mano a qualche signora che da lontano il
fratello non
riconobbe.
«A
chi
saluti?» Si volle pertanto informare, curioso.
«A
madame Sindial!» Replicò lei, accelerando il passo
verso la signora. «Non te la
ricordi? La mia vecchia insegnante di danza di quando ero bambina! Ora
vado a
salutarla...»
Jean-Louis
la fermò in mezzo al corridoio, attirandola velocemente
verso di sé. «Aspetta
un attimo, Giulia, io credo che andrò a parlare con maman, mi ha detto che è
appena arrivata e vuole che la
raggiunga... Ci vediamo dopo all’ingresso, okay?»
La
sorella annuì, sorridendo. «Okay, saluta la mamma.
Ci vediamo dopo, ciao!» E,
dopo avergli schioccato un bacio sulla guancia, sparì in
mezzo alla folla.
«Madame
Sindial!» esclamò non appena le fu davanti,
volando nel suo materno abbraccio.
«Come state? È un secolo che non vi vedevo...
Siete stata male?»
La
donna sorrise a sua volta, gli occhi azzurri che brillavano di
felicità nel
vedere quella ragazza che aveva praticamente visto crescere e alla
quale era
sinceramente affezionata, e le passò una mano tra i lunghi e
morbidi capelli
castani, accarezzandola dolcemente. «Ah, Isabelle... Sei
sempre più bella, ma
chère.»
Giulia
sorrise, lasciandosi portare dentro lo studio della donna. «E
voi continuerete
a chiamarmi sempre Isabelle, non è
così?»
«Non
ti
piace, forse?» Replicò, fingendosi offesa.
La
ragazza rise, e questa volta di cuore. «Oh no, mi piace!
Però... Lo trovo così
antico...» Aggiunse, con una strana smorfia del naso.
«Ma non avete risposto
alla mia domanda! Siete stata male?»
Madame,
un’assennata signora sulla sessantina d’anni
splendidamente portati, non si era
mai ammalata da quando Giulia la conosceva: aveva sempre avuto una
salute di
ferro. Si sedette, offrendo del the alla sua giovane ospite.
«Tesoro,
lo sai che io non mi ammalo mai così facilmente.»
Ribatté, con un mezzo
sorriso. Poi sospirò. «In realtà era
mia figlia ad essersi ammalata, Josephine...
Ha sempre avuto una salute precaria, ma dopotutto anche mio marito
è così, e
quindi le serviva aiuto per badare ai gemelli. Sono cresciuti
tantissimo a
proposito, sai?»
Giulia
sorrise, nel vedere l’espressione orgogliosa della neo nonna.
«È da molto che
non vedo anche loro, in effetti! Quanti anni hanno, adesso?
Due?»
«Li
compiono fra due mesi, si.» Sorrise madame, annuendo.
Improvvisamente lo
sguardo della donna si fece malizioso e complice, e si chinò
verso di lei,
incuriosita. «E tu, tesoro? Non sei ancora
fidanzata?»
La
ragazza rise, scuotendo la testa. «Direi di no,
madame!»
Madame
Sindial sembrò delusa, mentre tornava al suo posto.
«Però tesoro, hai
vent’anni, dovresti rimediare alla svelta. Io alla tua
età ero fidanzata con
mio marito già da un paio d’anni.»
Per
prendere tempo, Giulia sorseggiò con calma il suo the.
«Veramente ne ho solo
diciannove, madame, e comunque non ho fretta! Quando
avverrà, e soprattutto se,
sarà ben accetto.»
«Va
bene, va bene, però sappi che lo voglio
conoscere.» Concluse, liquidando poi il
discorso con un gesto della mano. «Ah, prima che me ne
dimentichi! Voglio farti
vedere una cosa. Vieni con me.»
Prese
qualcosa da un cassetto della scrivania e poi si diresse verso la
porta,
facendole cenno di seguirla. I corridoi erano nuovamente vuoti, tutti
erano
tornati alle loro rispettive classi per le nuove lezioni, e i passi
delle due
donne rimbombavano sul tappeto che ricopriva il prezioso pavimento di
marmo.
«Cosa
volete farmi vedere, madame?» Chiese la ragazza, incuriosita.
La
donna le fece cenno di avvicinarsi di più a lei, in modo da
poterle parlare
sottovoce come se avesse avuto paura che qualcuno le sentisse.
«Dato che ho
passato quasi due settimane a casa mia, ho avuto modo di risalire in
soffitta per
spolverare, e ho trovato alcuni vecchi bauli che probabilmente erano
lì a fare
muffa dall’inizio del secolo...» Scrollò
le spalle, leggermente disgustata, ma
quasi subito una strana luce tornò ad illuminarle lo
sguardo. «Ovviamente li ho
aperti! E in uno ho trovato una chiave di bronzo sulla quale
c’era scritto O.
G. Opèra Garnier! Te ne
rendi conto?»
Giulia
annuì, affascinata. «E che cosa ci faceva una
chiave del teatro a casa vostra?»
«È
quello che mi sono domandata anch’io! Poi però mi
sono accorta che il baule e
tutti quegli oggetti appartenevano ad una mia antenata, una certa
Marguerite Mercier
che era stata prima ballerina dell’Opèra negli
anni Settanta del secolo scorso.
Quindi può essere che la chiave fosse del suo
camerino...»
«Non
siete ancora andata a vedere?»
«Sinceramente?»
Madame le scoccò uno sguardo penetrante prima di
risponderle. «Mi sentivo a
disagio al solo pensiero di andare a curiosare per il teatro da sola,
quindi ho
preferito aspettare. E meno male che sei arrivata tu, tesoro! Stavo
letteralmente morendo dalla curiosità. E comunque, so qual
è la stanza.»
Giulia
sollevò impercettibilmente le sopracciglia. «Lo
sapete? Ma allora...»
«Non
ne
sono del tutto sicura.» Precisò, svoltando
nell’ennesimo corridoio. «Che io
sappia, però, esiste solo una porta che non è mai
stata aperta, a teatro,
perciò presumo che sia
quella... Ora,
ad ogni modo, vedremo se i miei presentimenti sono esatti.»
Non
appena cessò di dire queste parole, madame Sindial si
fermò in mezzo al
corridoio, fissando una porta che si innalzava di fronte a lei,
intarsiata come
tante altre porte lì a teatro, dall’apparenza del
tutto innocua e anonima,
senza niente che potesse giustificare quello sguardo eccitato che
Giulia aveva
visto negli occhi della sua vecchia insegnante di danza.
«È...
questa?» Domandò infine, spostando lo sguardo
dalla porta alla donna, che
sembrava fremere.
Quest’ultima
stava bisbigliando qualcosa sottovoce. «Finalmente... Dopo
tanto tempo... La Loge Perdue...
Meg, adesso scoprirò
il tuo segreto, vedrai...»
Giulia
si avvicinò cautamente alla donna, toccandole un braccio.
«Madame? Vi sentite
bene?»
Madame
Sindial le rivolse un sorriso a dir poco abbagliante. «Si,
tesoro. Mai stata
meglio!» Poi quasi corse verso la porta, tirando fuori la
chiave e infilandola
senza sforzo nella toppa, dove girò fino a scattare come se
non fosse stata
chiusa che il giorno prima, e non cento anni prima.
«Sei
pronta ad entrare?» Le chiese, allungando una mano nella sua
direzione per
invitarla ad avvicinarsi alla porta ormai aperta. Giulia
annuì, raggiungendola.
L’interno
era però completamente immerso nel buio.
«Grazie
al Cielo fumo...» Replicò la donna, tirando fuori
da una tasca l’accendino e
avvicinandosi ad accendere le candele di un candelabro sistemato su una
mensola
accanto alla porta. Non appena la stanza iniziò a venire
rischiarata dalle
deboli luci delle candele, però, un cellulare prese a
squillare insistentemente,
e dato che Giulia aveva lasciato il suo nella borsa negli spogliatoi,
non potè
essere che quello di madame.
«Oh...
Merde!»
Esclamò, aprendolo e leggendo il
nome della chiamata. Dopodiché si voltò verso la
ragazza, con un’espressione
alquanto scocciata in volto. «È monsieur Legrand!
Vuole sicuramente che vada in
ufficio... Accidenti!»
Giulia
scrollò le spalle, senza sapere cosa dire. «Non
so, madame... Se volete vi
aspetto qui, tanto non ho fretta di fare altro, stasera!»
«Davvero,
tesoro?» Mormorò incerta, giocherellando con la
chiave. Ma non attese risposta.
«Ma si, certo, e poi mi fido di te, quindi... Tieni, ecco la
chiave. Io torno
subito, non ci vorrà molto.»
Dopodiché
quasi scomparve, chiudendo la porta alle sue spalle e lasciando la
ragazza da
sola.
Con un
sospiro, Giulia si avvicinò a posare il candelabro al tavolo
da toilette che
aveva intravisto in un angolo e, dato che la stanza era priva di
finestre, andò
ad accendere tutte le altre candele che vi trovò. La chiave
rimase abbandonata sul
ripiano in marmo di un grande comò.
Quando
finalmente la stanza fu ben illuminata, Giulia si accorse che quella
non era
una stanzetta per i vecchi mobili abbandonati come aveva creduto
all’inizio,
non appena vi aveva messo piede. Al contrario, aveva l’aria
di essere, o
perlomeno di essere stato, un prezioso camerino appartenuto forse ad
una
primadonna, a giudicare dalle dimensioni e dalla qualità dei
mobili. Come se
non bastasse, un’intera parete era ricoperta da un immenso
specchio circondato
da una cornice dorata, leggermente macchiata in alcuni punti come
così pure il
vetro, che era senza dubbio l’oggetto più
misterioso e prezioso di tutta la
stanza. Possibile che i direttori avessero deciso di tenere chiusa
quella
stanza? Anche senza la chiave di madame Sindial, se avessero voluto
avrebbero
potuto togliere la serratura e poi cambiarla, almeno per entrarci a
darvi
un’occhiata. Giulia era sicura che, una volta restaurato e
magari rimodernato
un poco, le primedonne e le prime ballerine
dell’Opèra avrebbero fatto a gara
per aggiudicarselo.
Mentre
studiava lo specchio, l’attenzione di Giulia si
spostò verso un oggetto
riflesso da quest’ultimo, e subito si voltò,
decidendo di osservare
direttamente l’oggetto in questione e non il suo semplice
riflesso. Si trattava
di un abito, uno splendido abito bianco, senza alcun dubbio
d’epoca, che
sembrava essere stato lasciato lì apposta, pronto per essere
indossato alla
successiva rappresentazione, magari di un Otello, a giudicare dal
taglio. La
ragazza si avvicinò ad esso, affascinata, sollevando una
mano per sfiorarne il
tessuto e stupendosi quasi dello strato di polvere che lo ricopriva
come un
velo.
Prima
di rendersi effettivamente conto di quello che stava facendo, tolse
l’abito dal
manichino in legno, scrollando via la polvere e indossandolo al posto
dei suoi
attuali vestiti: sembrava essere stato cucito e ricamato apposta per
lei. Si
portò poi nuovamente di fronte allo specchio, e
l’immagine che questo le
rimandò la fece per un attimo barcollare.
Aveva
l’impressione di essersi già vista con
quell’abito indosso, il che era
pressoché impossibile dato che lei stessa lo aveva appena
visto, e dato che era
sempre stato in quella stanza chiusa a chiave... Ma la sensazione di
dejà vu
che le trasmise il vedersi così le aveva messo i brividi. Si
poggiò contro lo
specchio, posando la fronte sulla gelida superficie di vetro di
quest’ultimo, sperando
che il cambio di temperatura l’aiutasse come minimo a
diminuire i battiti
furiosi del suo cuore, che sembrava volerle uscire dal petto.
All’improvviso
però sentì uno strano scatto, come il rumore di
una qualche molla che sembrava
provenire da dietro lo specchio, e allontanandosi da esso si rese conto
che la
cornice sembrava essersi spostata dalla parete nella quale, credeva,
fosse incassato.
Incuriosita,
si affacciò dietro lo specchio, certa di trovare solo la
fredda parete del
camerino, e stupendosi non poco nel trovarvi invece un passaggio
segreto, che
sembrava aver giaciuto silenzioso lì dietro, inutilizzato da
anni. Facendo leva
con tutte le sue forze contro lo specchio, riuscì a
spingerlo fino ad aprire
ulteriormente l’accesso ad un lungo e interminabile
corridoio, che si ritrovò a
fissare affascinata.
«Mio
Dio...» mormorò. Adesso comprendeva
l’eccitazione di madame Sindial! Eppure si
domandò se la donna fosse a conoscenza di quel corridoio
segreto.
Fece
per entrarci ma, prima di fare un solo passo, un barlume di
lucidità le
consigliò di prendere almeno il candelabro, per non essere
completamente al
buio. Dopotutto, se davvero era quasi un secolo che nessuno lo
utilizzava, chi
poteva sapere che cosa avrebbe potuto trovarci! Non era da scartare
neppure
l’idea di trovarvi dei topi...
Al solo
pensiero rabbrividì, disgustata, e quando si
pentì di aver imboccato quel
corridoio e si voltò, decidendo di tornare indietro,
scoprì di essersi già
persa.
«Non
posso crederci...» Bisbigliò, illuminando a destra
e a sinistra del corridoio,
cercando di decidere quale era la parte migliore verso cui dirigersi.
«Beh, una
vale l’altra... Questo posto avrà pure
un’uscita, da qualche parte. No?»
Aveva
iniziato a parlare ad alta voce per darsi coraggio, ma in
realtà il fatto di
non ricevere risposta e di udire al contrario l’eco della sua
stessa voce
finiva per avvilirla ancora di più. Con un sospiro tremante
continuò ad andare
avanti, con i tacchi delle sue scarpe che rimbombavano sulle pietre del
corridoio e le gocce di umidità che scivolavano per terra
con lo stesso ritmo
di un orologio. L’aria del suo respiro si condensava davanti
alla sua bocca non
appena espirava, e anche se i numerosi pizzi e merletti del vestito
erano
abbastanza pesanti, non poteva fare a meno di impedire i brividi di
freddo che
le saettavano lungo la schiena. Come se non bastasse, il braccio
iniziava a
dolerle per il peso dello scomodo candelabro d’ottone, e ad
un certo punto fu
costretta a posarlo per terra, spegnendo due candele e infilandosele in
tasca e
tenendo la terza in mano per illuminarle il cammino. Dopotutto, nessuno
le
avrebbe rinfacciato il fatto di aver lasciato un candelabro
d’epoca in chissà
quale sperduto corridoio, quando fosse riuscita a trovare
l’uscita.
Sempre
se l’avesse trovata. A
quel punto non
ne era più tanto sicura.
Dopo
aver svoltato l’ennesima galleria, inciampò in uno
strano oggetto, che per poco
non le fece spegnere la candela: illuminò per terra, e vide
che si trattava del
candelabro che aveva abbandonato poco prima. Questo le fece perdere la
testa,
furiosa. Diede un calcio al portacandele e imprecò ad alta
voce, tra le
lacrime.
«Accidenti!»
Gridò, mentre l’oscurità assorbiva la
sua voce. «Possibile che nessuno mi
senta?! Jean-Louis! Madame Sindial! Aiutatemi!»
Si
gettò contro il muro e lo tempestò di pugni come
se qualcuno l’avesse potuta
sentire dall’altra parte, ma nel farlo la candela ancora
accesa le sfuggì di
mano e cadde per terra, spegnendosi e rotolando fino ad una
pozzanghera. Adesso
era letteralmente immersa nel buio, non avrebbe potuto continuare ad
andare
avanti neanche se l’avesse voluto.
Singhiozzando
si lasciò scivolare per terra, raccogliendo attorno a
sé l’ampia gonna del
vestito e si rannicchiò il più possibile verso il
muro, cercando di
riscaldarsi. Aveva le mani gelide e spellate a furia di prendere a
pugni il
muro, e il vestito le si stava lentamente inzuppando a causa
dell’acqua che
scivolava dal soffitto e che si depositava per terra e tra i suoi
capelli. E se
anche si fossero accorti della sua scomparsa, sarebbero passate delle
ore prima
che a qualcuno fosse venuta l’idea di andare a cercarla
dentro uno stupido e
vecchio passaggio segreto.
Lentamente
però, la stanchezza iniziò a prendere il posto
delle lacrime, appesantendole le
palpebre e trascinandola dolcemente in un sonno profondo, privo di
sogni. Non
si era accorta della testa che le pulsava, feroce, sotto
l’influsso della
febbre, e si addormentò così, bagnata e
raffreddata. Chi la ritrovò, non molto
più tardi, temette che fosse morta, ma avvicinando il
proprio orecchio al suo
petto si accorse invece del contrario. Così la
sollevò tra le braccia,
portandola fuori da quell’Inferno.
Le
candele rimasero per terra, accanto ad uno strano candelabro nuovo.
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Capitolo 3 *** 02. Un nuovo inizio ***
Chapitre
2
Un
nuovo inizio
Ottobre, 1877.
Parigi.
Pioveva.
Come sempre, del resto. Malgrado l’estate non fosse terminata
che da poche
settimane, il brutto tempo non si era lasciato attendere troppo. Le
gocce di
pioggia, pesanti e tristi come lacrime sui volti di giovani fanciulle
innamorate o di bimbe prive di una famiglia, scivolavano sulle grigie
mura
degli edifici parigini, del tutto incuranti e indifferenti di
ciò che accadeva
al loro interno. Neppure l’interno dell’edificio in
quel momento più
chiacchierato e celebre di Parigi sembrava destare
l’attenzione dei lumi
accidiosi.
Non
era infatti trascorso molto tempo da quegli ultimi eventi che avevano
sconvolto
il tempio dell’arte e della musica: poco più di
due anni, in realtà, ma già
sembrava che l’aristocrazia avesse dimenticato la strana
vicenda del Fantasma dell’Opera,
ed era ora alla
ricerca di qualche pettegolezzo più recente e
perché no, magari anche qualche
scandalo che riscaldasse i salotti più importanti. Quanto
alla povera gente, la
cosa non la riguardava minimamente: ben altre erano le
priorità, per loro.
Madame
Giry, la rigida insegnante di danza a teatro, percorreva a passo veloce
le
viuzze che separavano la sua casa in Rue Scribe dal luogo nel quale
lavorava
ormai sin da quando ne aveva memoria. Il bordo del suo lungo abito nero
strisciava sul marciapiede zuppo di pioggia, ma la donna non se ne
curava,
preoccupandosi unicamente di coprirsi il capo con il cappuccio cerato
del
mantello. Le strade erano quasi del tutto vuote, ad esclusione di
qualche gatto
o cane randagio. Le luci dei lampioni stavano iniziando ad accendersi
malgrado
la notte non fosse ancora del tutto calata, rendendo
l’atmosfera di quella
giornata autunnale ancora più malinconica del solito.
Fu
con un piccolo sospiro di sollievo che la donna si riparò
sotto il portico
dell’appartamento nel quale abitava con sua figlia,
Marguerite. Frugò
all’interno di una borsetta in pelle, anch’essa
nera, fino a quando non ne tirò
fuori una chiave d’ottone che utilizzò per aprire
la porta e scampare
finalmente al temporale che si era fatto ora ancora più
violento. Le luci
dentro casa erano accese, segno che Agnese, l’anziana
governante italiana che
si occupava della cucina e della casa, era già tornata dal
cimitero, nel quale
andava puntualmente ogni anno, alla stessa data, per prendersi cura
della tomba
del suo marito defunto qualche decennio prima. Anche lei, come madame
Giry, era
rimasta vedova molto presto, e non si era mai risposata, solo che non
aveva mai
potuto contare sull’affetto di figli che non erano mai
arrivati.
Un
giorno – molto tempo prima, monsieur Giry era ancora in vita
– Agnese era
andata all’Opera per offrirsi come sarta nel laboratorio del
teatro, e madame
Giry le aveva proposto invece di lavorare per lei, come governante,
offrendole
una casa che sicuramente era migliore delle stanzette che affidavano ai
lavoratori del teatro, sempre se le mettevano a disposizione, e la
donna aveva
accettato di buon grado, con tutto l’orgoglio che la
caratterizzava. In questo
le due donne erano molto simili, e divennero presto molto amiche,
malgrado la
leggera differenza di età. Ora, lei e Meg erano le uniche
due persone sulle
quali madame Giry poteva contare: senza di loro, la sua vita non
avrebbe più
avuto senso, malgrado il suo lavoro all’Opera, che continuava
ad amare
incondizionatamente.
Madame
portò il mantello zuppo di pioggia nella stanza da bagno,
appendendolo per
farlo gocciolare all’interno di una graziosa vasca in ottone,
dopodiché
raggiunse Agnese in cucina. Meg era rimasta a teatro, a quanto le aveva
detto
lei e alcune sue compagne della classe di ballo dovevano festeggiare il
compleanno
di una di loro. Probabilmente solo l’anno prima non avrebbe
mai permesso a sua
figlia di restare da sola a teatro, per la notte, ma ora che non
c’era più nessun
pericolo, non vedeva perché non avrebbe dovuto lasciarla con
le sue amiche.
«Buonasera,
Agnese.» La salutò con un mezzo sorriso, entrando
in cucina e avvicinandosi al
calore della stufa. «Avete trascorso una bella
giornata?»
«Oh,
buonasera Louise,» sorrise l’altra donna, di
rimando. «Si, è stata una bella
giornata... Per fortuna sono riuscita a rincasare prima che si
scatenasse
questo tremendo diluvio.»
Le
fece cenno di sedersi sulla panca accanto a lei, prima di ricominciare
a
rammendare alcune delle camice di Meg. «Come mai Meg non
è con voi?»
«È
voluta restare a teatro, a quanto pare doveva festeggiare il compleanno
di
un’amica.» Rispose distrattamente, mentre prendeva
a sua volta una camicia da
camera e controllava dove andasse fatto il rammendo. Senza che se ne
rendesse
conto, il suo pensiero corse all’unica persona di cui credeva
non doversi più
preoccupare. Erik... Quante volte aveva rammendato le sue, di camice?
Quando
era poco più che un bambino le portava alcuni dei vestiti
che aveva preso dagli
armadi della sartoria dell’Opera, troppo grandi per il suo
fisico allora ancora
mingherlino, e lei glieli adattava con un piacere misto a divertimento,
nel
fare da madre ad un bimbo così cresciuto. Eppure non le era
mai dispiaciuto,
anche se doveva occuparsi di Meg trovava sempre il tempo per quel
ragazzino che
aveva salvato, e di cui si era sempre sentita responsabile, come una
madre...
Oh, Louise Giry,
come sei sciocca! Che cosa ti porta a fare dei simili discorsi proprio
adesso? Riuscì ad impedirsi di versare quelle
lacrime che non avevano mai solcato il suo viso, e che di certo non
avrebbero
iniziato ora. Ma in realtà era da un po’ che
ripensava a lui, o meglio,
ultimamente stava quasi diventando un pensiero fisso. Non aveva mai
più avuto
sue notizie, dopo la notte dell’incendio: non che se le fosse
aspettate, sia
chiaro, ma in fondo si era quasi augurata che lui andasse a trovarla, o
perlomeno andasse a renderle conto delle sue azioni, del suo
tradimento... Era
stata ciò che più somigliava ad una madre per
lui, eppure non aveva esitato a
voltargli le spalle quando la situazione aveva iniziato a degenerare...
Ancora
adesso, l’ultimo pensiero che serbava dei suoi occhi
disperati e furiosi le
faceva stringere il cuore.
Ed
era per questo che non riusciva a capacitarsi del fatto che egli non
fosse mai
andato anche solo a minacciarla; le capitava, durante certe notti
silenziose,
quando non riusciva a prendere sonno, di sentire dei passi sotto la sua
finestra, un rumore attutito ma deciso, che sembrava fare su e
giù di fronte a
casa sua come se non fosse del tutto convinto della sua presenza
lì, e lei aveva
sempre, sempre sperato che si
trattasse del suo povero, sfortunato Erik, venuto da lei... Ma questo
non era
mai successo.
Era
forse destinata a morire senza sapere che sorte avesse avuto
l’uomo che aveva
allevato alla stregua di un figlio?
Ormai,
stava diventando un ossessione. Un’ossessione che si era
acuita nell’ultimo
periodo, da quando, precisamente, i due direttori del teatro, ancora
monsieur
Firmin e monsieur Andrè, avevano annunciato che un
gentiluomo straniero, forse
americano, aveva deciso di investire sull’Opera, diventandone
il nuovo
mecenate. Del giovane Visconte de Chagny non si era infatti
più saputo nulla,
si era come volatilizzato insieme alla sua sposa senza rendere conto a
nessuno
di dove andava, lasciando il teatro nella più completa
rovina e degradazione.
Messieurs
Firmin e Andrè si erano indebitati fino al collo per cercare
di riportare il
teatro allo splendore di un tempo, e anche se madame Giry non avrebbe
mai
scommesso un solo franco su di loro, doveva ammettere che ci erano
quasi riusciti.
Poi era arrivato questo misterioso mecenate, e l’Opera
Garnier era
definitivamente risorta dalle sue stesse ceneri.
C’era
da dire che nessuno aveva mai visto questo personaggio, che viveva in
una villa
della campagna parigina facendo solo brevi visite alla città
e al suo teatro
agli orari più insoliti, ma che aveva preteso
l’incarico di direttore artistico
di quest’ultimo. L’unica condizione che aveva posto
era stata infatti quella di
potersi occupare delle messe in scena e dei vari cantanti e ballerini,
e dato
che i due direttori avevano già messo gli occhi sul suo
denaro, non avevano
esitato a firmare il contratto che Bamdad, il segretario persiano di
monsieur
Destler – questo infatti era il nome del prezioso mecenate
– aveva presentato
loro.
Perciò,
la sua identità continuava a rimanere celata. Ma
fintantoché con il suo denaro
e con le sue scelte artistiche – peraltro sempre azzeccate
– contribuiva a
mandare avanti il teatro e ad accrescere la sua fama, nessuno gliene
avrebbe
mai fatto una colpa.
«Louise,
oggi siete molto pensierosa.»
La
dolce e leggermente tremula voce di Agnese riscosse madame Giry dai
suoi
pensieri, facendola tornare bruscamente al presente. «Oh si,
perdonatemi,
Agnese. Non volevo essere scortese.» Mormorò,
passandosi una mano sul volto
stanco.
«Non
preoccupatevi, comprendo pienamente le vostre
preoccupazioni.» Sorrise la
donna, prendendole una mano tra le sue.
Madame
si voltò, stupita, leggermente preoccupata che la sua amica
potesse aver
compreso più del necessario. «Ah si? Le
comprendete?»
L’altra
annuì. «Certo. Immagino che vi angusti
l’idea che vostra figlia trascorra la
notte fuori casa, anche se è circondata da amiche... A
quanto ricordo, il
teatro non è mai stato famoso per essere un luogo
sicuro.»
I
battiti di Louise diminuirono notevolmente, mentre la donna annuiva,
piano. Non
era propriamente a quello che stava pensando, anche se in effetti la
cara
governante non aveva tutti i torti. «No, infatti, non lo
è mai stato.» Ammise,
con un sospiro. «Ma ormai le cose sono cambiate, non
c’è più di che
preoccuparsi.»
Agnese
abbandonò il suo lavoro di cucito e si alzò,
decidendo di preparare la cena.
«Forse no,» replicò, portandosi una mano
al petto. «Ma se i gendarmi fossero riusciti
a catturare quell’assassino, due anni fa, immagino che ora
dormirei sonni più
tranquilli. Sapete, dormo sempre con la finestra chiusa da
allora.»
Questa
volta madame ebbe ragione di sgranare gli occhi, sorpresa. «A
chi vi riferite,
Agnese?» Le domandò, fingendo di non aver compreso
il soggetto del discorso.
«Al
demonio che viveva all’Opera! Quel... Quel
Fantasma!» Esclamò, voltandosi con
uno sguardo ancora spaventato in viso. «Dicevano che aveva il
volto del
diavolo... E che aveva ucciso più di diecimila anime! E come
può una povera
vecchia dormire tranquilla, con il terrore che esiste una simile
creatura che
potrebbe uccidermi nel sonno?»
Louise
era veramente sconvolta. Era la prima volta che sentiva Agnese fare dei
simili
discorsi, non era mai capitato che ne parlassero, prima. E di sicuro
non
credeva che la donna la pensasse in quel modo. Diecimila uomini?
Malgrado la
gravità del discorso, madame non riuscì a
trattenere un sorriso: Erik era stato
– o era ancora? – un uomo piuttosto crudele, ma
madame dubitava che avesse le
mani così sporche di sangue. No, non lo riteneva capace di
tanto.
Anche
se...
«E
ora perché ridete?» Sbottò Agnese,
leggermente offesa.
Madame
Giry si contenne subito. «Non rido, Agnese, per
carità. Dubito solo che possa
esistere un uomo tanto efferato così come voi e tanti altri
hanno dipinto...»
La
donna scrollò le spalle. «Ah, pensatela come
volete. Non riuscirete a
convincermi a dormire con la finestra aperta, ad ogni modo.»
Era
incredibile come l’anziana donna riuscisse a concludere in
quel modo ogni
singolo discorso... Celando l’ennesimo sorrisetto, madame si
alzò a sua volta,
con l’intenzione di andare a cambiarsi d’abito.
«State
andando voi alla porta?» Le domandò Agnese,
trafficando con una pentola.
Louise
sollevò un sopracciglio. «Perché
dovrei?»
«Mi
è sembrato di aver udito bussare.»
Replicò spicciativa.
Madame
non aveva sentito niente, ma annuì lo stesso. «In
tal caso vado a vedere chi
può essere a quest’orario così
insolito.»
Una
volta nel corridoio, madame sentì effettivamente bussare
alla porta, un bussare
insistente e continuo, come se il visitatore avesse
un’incredibile fretta di
entrare. Ma chi poteva mai essere? Meg era a teatro, e lei di sicuro
non
attendeva ospiti...
«Sto
arrivando!» Esclamò, per impedire che il
visitatore, chiunque esso fosse, se ne
andasse nella convinzione di aver trovato la casa vuota. Raggiunse la
porta e
armeggiò con il chiavistello, fino a quando non
riuscì a sganciarlo e aprire
così la porta.
Se
fosse stata un’altra persona, avrebbe senza dubbio lanciato
un urlo. Invece, in
una manciata di secondi madame ragionò lucidamente, pensando
che se avesse
urlato avrebbe senza dubbio attirato l’attenzione di Agnese,
che non avrebbe
esitato a correre a chiamare i gendarmi anche senza conoscere tutta la
storia.
Perciò deglutì, rimanendo a fissare a
metà tra lo spavento e il sollievo quella
figura incappucciata che si stagliava contro il cielo nuvoloso di
fronte a lei,
che aveva imparato a riconoscere e anche a temere.
«Cosa
succede, madame? Avete perduto le buone maniere? Non mi fate
entrare?»
Louise
rabbrividì al suono di una voce che non sentiva ormai da
troppo tempo, riuscendo
a cogliere la sottile vena di ironia e sarcasmo che velavano le
sussurrate
parole dell’uomo. Senza rispondergli si fece da parte,
invitandolo
silenziosamente ad entrare.
«Sei...
Sei davvero tu?» Mormorò, senza osare credere a
ciò che i suoi occhi le
facevano vedere. «O sei un... oh... Mon
Dieu...»
Si
portò in tempo le mani davanti alla bocca, per evitare di
dire ciò che sconsideratamente
stava per uscire dalle sue labbra sottili. Un fantasma.
No, anche se si era sempre firmato in quel modo, Erik non
amava definirsi in quel modo. L’umanità era una
delle poche cose che desiderava
e che gli era stata negata...
Ma
perché era lì, in casa sua? Perché
dopo tutto quel tempo, perché così
all’improvviso?
Egli
dovette accorgersi che madame fremeva dalla voglia di rivolgergli tutte
quelle
domande che le turbinavano in testa, perché la mise a tacere
ancora prima che
dicesse una sola parola. «Volete che la vostra governante mi
veda? Andiamo in
camera vostra, madame.»
Oh,
a quanto pareva non aveva perso l’abitudine di dare ordini.
«Agnese,
sto salendo in camera a cambiarmi!» Esclamò verso
la cucina, indicando ad Erik
le scale per salire al piano superiore.
«Chi
era alla porta, Louise?» Domandò la donna,
affacciandosi alla porta.
Madame
scrollò le spalle, riuscendo a mascherare la sua agitazione.
«Nessuno, Agnese.
Un mendicante... L’ho mandato via.»
Annuendo,
l’anziana governante ritornò in cucina, e madame
potè così raggiungere il suo
nuovo ospite nella sua stanza. Era una fortuna che Meg fosse rimasta a
teatro... Madame non riusciva ad immaginare cosa sarebbe successo se
anche la
ragazza fosse stata presente al ritorno di Erik.
E
soprattutto, al fatto che sua madre sembrava non avere nessuna
intenzione di
mandarlo via.
Quando
entrò in camera sua, madame vide che il suo ospite sedeva
sul letto, chino su
una figura distesa di cui lei prima non si era accorta. Accese la
lampada a gas
sulla specchiera a lato del letto e si avvicinò a
quest’ultimo, sporgendosi a
sua volta da dietro la spalla di Erik per cercare di capire chi fosse
la figura
addormentata. Trasalì quando il suo sguardo si
posò sui suoi tratti.
«Christine?!»
esclamò, portandosi una mano alla bocca dallo stupore.
Com’era possibile? Erik
non poteva certo averla rapita di nuovo!
«Non
siate sciocca, madame...» La riprese lui, senza neppure
degnarsi di guardarla.
«Per quanto la somiglianza sia notevole, non si tratta della Viscontessa de Chagny...»
Il
modo in cui sputò quel nome fece rabbrividire la donna, che
nel frattempo aveva
iniziato ad osservare meglio la fanciulla distesa sul suo letto con una
curiosità e un’attenzione particolare. Si, in
effetti Erik aveva ragione, non
poteva essere la sua Christine... Mentre quest’ultima aveva
dei soffici boccoli
d’oro, infatti, la ragazza che si trovavano di fronte aveva
dei morbidi e
lunghi capelli castani, con delle onde che ricordavano le chiome delle
donne
del Botticelli. La carnagione era leggermente abbronzata come quella
delle
contadine, e non era pallida e perlacea come richiedeva invece la moda
dell’aristocrazia, e questo portò madame a
domandarsi quale fosse in realtà
l’identità
di quella fanciulla che Erik le aveva portato in casa.
Improvvisamente,
un pensiero la colpì.
«Erik...»
mormorò. «Non si tratterà della tua
amante, vero?»
Finalmente
l’uomo si voltò di scatto, gli occhi che mandavano
lampi, con una furia in essi
tale da farla indietreggiare. «Non osate, madame.»
Sibilò, trattenendo a stento
una rabbia che, malgrado tutto, la donna non comprendeva. «Se
anche avessi
un’amante, o se ne avessi cento, non verrei sicuramente a
portarla a casa
vostra! E siete pregata di non trattarla nemmeno come tale.»
«Ma
allora chi è questa ragazza? Perché
l’hai portata qui?» Insisté Louise,
decisa
a non lasciarsi ancora intimidire da lui.
La
rabbia di Erik sembrò scemare, mentre si voltava nuovamente
ad osservare la
ragazza. «In realtà non so chi sia...
L’ho trovata all’Opèra, in una delle
gallerie che conducono al mio vecchio dominio. Non so come ci sia
finita, non
l’ho neanche mai vista prima, ma la sua somiglianza con la
persona che entrambi
conosciamo bene mi ha fatto prendere la decisione di portarla via di
là.»
La
donna non riuscì a trattenersi dallo sbuffare, scettica.
«Senza volerne nulla
in cambio? E da quando saresti diventato così
tenero?»
Lo
sguardo che Erik le rivolse era un misto di rabbia e divertimento.
«Da quando
sono diventato il nuovo mecenate dell’Opèra
Garnier, madame.»
Louise
Giry sgranò gli occhi, sconvolta, e non potè
impedirsi di indietreggiare.
Dunque... dunque! Tutti i suoi presentimenti si rivelavano
così essere fondati!
Che sciocca a non averlo compreso da subito, era caduta
nell’ennesimo tranello
del Fantasma dell’Opera come l’ultima delle
più ingenue ballerine, e chissà
quanto doveva aver riso lui nel
vedere che la sua rigida e perspicace amica non aveva collegato i vari
indizi!
«Monsieur
Destler... Saresti tu? Mon Dieu!»
Esclamò la donna, sorpresa.
Erik
non riuscì a trattenere una risatina di scherno alla
reazione di madame Giry.
«Non ditemi che l’idea non vi ha mai sfiorato,
Louise, perché non vi credo.»
Il
semplice fatto che lui l’avesse chiamata per nome la fece ben
sperare sulle sue
intenzioni, e d’istinto cambiò atteggiamento,
cercando di mostrarsi più
disponibile nei confronti di quella fanciulla che non aveva mai visto
prima.
«Va bene, Erik...» Sospirò, incerta se
posargli o meno una mano sulla spalla,
ma decidendo infine di mantenere le distanze, per quanto le costasse.
«Cosa
vuoi che faccia? Di sicuro non sei venuto in casa mia con una
sconosciuta tra
le braccia senza avere una richiesta o un ordine pronto.»
L’uomo
si voltò verso di lei, limitandosi ad osservarla per un
po’ con sguardo
critico. «Vedo che malgrado il tempo che è passato
e quello che è successo, non
vi siete dimenticata di me e delle mie... abitudini.»
Sollevò impercettibilmente le spalle prima di continuare.
«Tuttavia, è pur vero
che non ho nessun piano per questa ragazza... per
ora. Voglio solo che vi prendiate cura di lei fino a quando
non
si riprenderà – ha la febbre, infatti –
e dopo... Beh, allora ci penserò.»
Detto
questo si alzò, rivolgendo nuovamente tutta la sua
attenzione all’anziana
insegnante di ballo. «Vi sto nuovamente mettendo alla prova,
Louise. Lo sapete,
vero?» Sussurrò, truce.
Madame
Giry non potè fare a meno di annuire. «Lo so,
Erik. Ma avresti dovuto
immaginare che non sarei rimasta con le mani in mano mentre tu stavi
quasi
riuscendo a distruggere la vita di una ragazza che ho sempre
considerato come
figlia mia!»
Lo
sguardo dell’uomo si fece se possibile ancora più
terribile. «Non dimentico
però che voi dicevate di trattare anche me alla stregua di
un figlio.» Sibilò
crudele, come se non si rendesse conto del dolore che le causava
sputando
quelle parole. «Se era questo il modo di dimostrarmi il
vostro affetto, madame,
non oso pensare come sarebbe stato il vostro odio... Ma già,
un mostro come me
non può meritarsi altro.»
Il
forte schiaffo che seguì quell’ultima frase fu
sonoro e meritato, al punto che
Erik non osò ribattere ulteriormente. Si limitò a
stirare le labbra in quello
che molto vagamente doveva somigliare ad un sorriso, ma che era in
realtà più
una smorfia di tristezza.
«Spero
che questo vi abbia alleggerito la coscienza, madame.»
Mormorò soltanto,
facendo per andarsene.
La
donna scosse la testa. «Io invece mi auguro che non abbia
alleggerito la tua.»
Monsieur
Destler le diede in silenzio le spalle, arrivando alla porta e
sollevando la
maniglia. «Non basta certo così poco per
alleggerire la mia coscienza, madame.
Sapete meglio di me che nulla potrà mai cancellare il sangue
che ho sulle mani
e il ricordo del dolore che ho causato. Ma
tant’è...»
La
osservò da sopra la spalla, mestamente. «Il
passato non si può cambiare.»
«Ma
il futuro si, Erik...» Replicò lei, piano.
L’uomo
scosse la testa. «Apprezzo il vostro ottimismo, ma non
sprecatelo con me.
Arrivederci, madame. Avremo modo di vederci a teatro, uno di questi
giorni.»
Louise
Giry fece qualche passo verso di lui, tormentandosi le mani strette a
pugno. «Il
Fantasma dell’Opera è tornato?»
Sussurrò.
Erik
trovò la forza di ridere. «No, madame. Il Fantasma
dell’Opera non se ne è mai
andato.»
E,
con questo, sparì da dietro la porta, lasciando la donna
sola con i suoi
turbinosi pensieri.
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Capitolo 4 *** 03. No More Memories ***
Chapitre 3
No more
memories
Giulia
riprese i sensi solo qualche giorno più tardi.
La
febbre l’aveva debilitata non poco, e madame Giry si era
presa cura di lei
notte e giorno, un po’ perché glielo aveva chiesto
Erik, e un po’ perché aveva
la strana sensazione di dover conoscere quella ragazza, per quanto
fosse sicura
come l’Inferno di non averla mai vista prima di allora.
Anche
Meg aveva notato la somiglianza con l’ormai Viscontessa de
Chagny, ma era fuori
questione che si trattasse di lei: per quello che ne sapevano, infatti,
Christine Daaè viveva con l’amato marito nei
possedimenti dei de Chagny a sud
della Francia, e dato che nell’ultima lettera informava loro
dell’arrivo di un
piccolo erede, le due donne decisero di tacito accordo che la fanciulla
salvata
da monsieur Destler –
come lo
chiamavano, benché madame avesse informato la figlia della
reale identità del
patrono dell’Opèra – non aveva nessun
legame con la viscontessa, e che la loro somiglianza
fosse solo una semplice coincidenza.
Appurato
questo, non era rimasto che attendere che la ragazza si svegliasse per
domandarle infine chi fosse in realtà, e come mai si era
trovata a gironzolare
da sola per i sotterranei del teatro. Tuttavia, era evidente che il
tempo delle
risposte non era ancora arrivato.
Era
stata Meg a scoprire che Giulia aveva ripreso conoscenza. La giovane
ballerina
era andata nella stanza della loro ospite per aprire le finestre e fare
entrare
la luce del giorno, così come aveva fatto tutti i giorni da
quando la ragazza
era arrivata, ma quando era entrata nella camera si era accorta che
c’era qualcosa
di diverso. Il letto era vuoto, e per un attimo il cuore di Meg
cessò di
battere, al pensiero di quello che sarebbe potuto accadere se monsieur
Destler
fosse venuto a sapere che la giovane che aveva affidato alle loro cure
era
scomparsa. Ma questo durò solo una manciata di secondi,
perché poi gli occhi di
Meg si abituarono all’oscurità della stanza e si
accorsero di una figura in
piedi, accanto alla finestra, affacciata timidamente da dietro le
tende, come
se non osasse aprirle del tutto. Dopo un po’ le richiuse con
un sospiro e si
voltò verso la piccola Giry, stupendosi della sua presenza.
«Chi...»
mormorò, aggrappandosi allo schienale di una poltrona
lì vicino come se temesse
di perdere l’equilibrio. «Chi siete? Vi
conosco?»
Meg
le sorrise comprensiva, avvicinandosi a lei senza fare nessun movimento
brusco
che potessero spaventarla ulteriormente; non doveva essere facile
abituarsi
all’idea di trovarsi in una casa sconosciuta e circondata da
estranei.
«No,
non ci conosciamo.» Le rispose cautamente, prendendole una
mano e aiutandola a
sedersi sulla poltrona. Dopodiché scostò
lentamente le tende in modo da potersi
vedere reciprocamente. «Io mi chiamo Marguerite Giry, ma ti
prego, chiamami
solo Meg.»
Giulia
annuì, portandosi una mano alle tempie e massaggiandole.
«Meg...» Ripeté, come
per essere certa di memorizzare quel nome. «Dove mi
trovo?»
«Sei
a casa mia, ma chère. A
Parigi. Non
ricordi nulla?» Domandò, avvicinandole un
bicchiere d’acqua che l’altra ragazza
prese senza però vederlo.
«Parigi...»
Sussurrò ancora. Sembrava in trance, lo sguardo era fisso
nel vuoto e Meg ebbe
l’impressione che forse la ragazza avesse un qualche disturbo
mentale non
meglio definito.
«Si,
Parigi.» Le confermò, inginocchiandosi di fronte a
lei. «Dimmi, ma chère...
Come ti chiami? Mi puoi dire
il tuo nome? In questo modo potremmo aiutarti di
più...»
Finalmente
la giovane abbassò lo sguardo su Meg, e per la prima volta
sembrò vederla
davvero. I suoi occhi si sgranarono impercettibilmente e le
sopracciglia si
aggrottarono, come se si stesse sforzando di ricordare qualcosa che
sembrava
sfuggirle.
«Io...»
Mormorò, confusa. «Non mi ricordo... Credo...
Giulia... Non lo so, non ne sono
sicura, ma forse è questo il mio nome... Voi non lo
sapete?»
Meg
scosse piano la testa, comprendendo finalmente la situazione.
«No, non lo so...
Speravo me lo dicessi tu...»
Giulia
scrollò leggermente le spalle, prima di sospirare
mestamente. «Chiamatemi
Giulia, se vi fa piacere... Al momento, questo è
l’unico nome che ricordo.»
La
ragazza annuì, alzandosi in piedi. «Va benissimo
ugualmente, ma chère.
Giulia è perfetto, è un bel
nome.» Le sorrise. «Vado a chiamare mia madre, sai,
è stata lei a trovarti e a
portarti qui per prendersi cura di te... Sono sicura che lei
riuscirà ad
aiutarti. Va bene?»
Giulia
annuì, riconoscente. «Vi ringrazio, Meg.
Davvero.»
«Oh,
non preoccuparti.» Il sorriso le si allargò
leggermente, mentre aggiungeva.
«Ah, ti prego, Giulia, non darmi del
‘voi’. Non sono necessarie tutte queste
formalità.»
Finalmente
un accenno di sorriso sfiorò le labbra della fanciulla.
«Va bene. Allora... Ti
ringrazio.»
«Vado
ad avvisare maman.»
Madame
Giry sospirò di sollievo quando la figlia le
annunciò che la loro giovane
ospite si era ripresa dalla febbre dei giorni scorsi, e prima di
raggiungerla
mandò Meg a cercare un dottore.
«Vai
direttamente da monsieur Mounier, il dottore del teatro.»
Precisò, prima che la
ragazza uscisse. Monsieur Mounier era una persona discreta e riservata,
un
uomo, insomma, di cui ci si poteva fidare: madame era certa che non
avrebbe mai
dovuto temere che il dottore andasse a rivelare ai quattro venti che
lei
ospitava una ragazza di cui non si sapeva niente fuorché un
nome che, per lo
più, poteva essere anche inventato. Dopotutto, monsieur
Mounier era abituato a
tenere sotto silenzio la maggior parte di accadimenti del teatro che
era stato
meglio mettere a tacere, come le giovani ballerine costrette ad
interrompere
una gravidanza non desiderata, o l’uso di oppio e assenzio
fatto dalle stesse
per essere certe di non crollare al ritmo delle lezioni.
Per
quanto madame fosse contraria a certe cose, non poteva impedire che
avvenissero. E grazie al Cielo monsieur Mounier non aveva mai deluso la
fiducia
di nessuno.
Preparandosi
all’incontro con la giovane ospite, Louise Giry diede due
colpi brevi e decisi
alla porta, avvisando la ragazza del suo ingresso. Lei non si era
spostata
dalla poltrona nella quale l’aveva fatta sedere Meg, ma non
appena la donna
entrò nella stanza, Giulia si sentì in dovere di
alzarsi, rispettosamente.
«Oh
no, tesoro, ti prego.» Disse subito madame, raggiungendola e
prendendole una
mano tra le sue. Si accorse che erano gelide, e mentalmente prese nota
di
ricordarsi di far portare un braciere nella stanza, più
tardi. «Rimani seduta.
Sei ancora troppo debole per dare retta a tutte queste sciocche
formalità.»
Giulia
annuì, sedendosi nuovamente. «Voi dovete
essere...» Esordì, indecisa. «Madame
Giry?»
La
donna fece cenno di sì con la testa, avvicinando una sedia
accanto alla ragazza
in modo da poter parlare tranquillamente con lei. Il dottore non
sarebbe
arrivato subito, tanto.
«Si.»
Le sue labbra si stirarono in un debole sorriso. «Il mio nome
è Louise Thèrese
Giry, ma ammetto che madame Giry è molto più
semplice da ricordare.»
La
ragazza sorrise a sua volta, per poi sospirare subito dopo.
«Vorrei potermi
ricordare anche io il mio nome completo... Tutto quello che rammento
invece è il
mio prènom,
Giulia.»
«Non
preoccuparti, cara.» La consolò madame; era
incredibile come la somiglianza con
la sua vecchia allieva fosse notevole, non fosse stato per la chioma
dorata di
quest’ultima e quella castana della giovane smemorata... Lo
sforzo che dovette
fare per far cessare il flusso di ricordi che la colpì fu
immenso.
«Ad
ogni modo, anche se non rammenti il tuo nome per intero, ci
sarà pure qualcosa
che ricordi,» proseguì, studiando la sua
espressione. «Per esempio, cosa stavi
facendo prima di perdere conoscenza...»
Giulia
aggrottò le sopracciglia, sforzandosi di ricordare.
«Non lo so, madame... È
come se avessi un vuoto, più mi sforzo di riportare alla
mente qualcosa e più
mi duole la testa... Non ho neppure idea di chi siano i miei genitori,
non
riesco a ricordarne nemmeno il volto... Come... Come se non ne avessi
mai
avuto...»
La
voce le si spezzò e la ragazza dovette tacere, nascondendosi
il viso tra le
mani. Non vista, Louise scosse sconvolta la testa. Per tutti i numi, la
situazione era più grave di quanto immaginasse! Se la
giovane non mentiva – e a
giudicare dalla sua reazione era del tutto sincera, perché
madame riteneva che
non vi fosse nessun interesse nel mentire su un fatto tanto delicato
– allora sarebbe
stato anche più difficile aiutarla a guarire, dato che in
questo caso si
sarebbe trattata di una grave amnesia... Nell’attesa che
arrivasse il dottore
per una conferma, madame Giry iniziò ad organizzare la
situazione d’ora in
avanti. Al di là del fatto che Erik le avesse ordinato di
prendersi cura di
lei, Louise lo avrebbe fatto comunque: pertanto, a chiunque le avesse
chiesto
chi fosse la fanciulla che ora abitava in casa sua, lei avrebbe
risposto che si
trattava di una sua parente venuta in visita... magari... Magari una
nipote
stessa! Ed era certa del fatto che nessuno avrebbe replicato o cercato
di
importunare la fanciulla. Si, accoglierla sotto la sua ala era
un’ottima idea.
Certo,
era probabile che Giulia già godesse, a questo punto, della
protezione di Erik,
ma fino a quando non ne era del tutto sicura era meglio prendere le
dovute
precauzioni. Meg non avrebbe osato contraddirla, e anzi, avrebbe reso
quella
sceneggiata ancora più credibile. Quanto a Giulia... Madame
era convinta che
lei fosse ancora troppo scossa e confusa per poter anche solo pensare
di
opporsi ad una simile soluzione, temporanea certo, ma che
l’avrebbe senza
dubbio tenuta lontano da compagnie pericolose. Un’orfana,
anche se di maggiore
età, poteva sempre diventare una preda ambita per tutti gli
uomini privi di
scrupoli che abitavano Parigi. E vedere una giovane ragazza come lei
nei bui
sobborghi di Montmartre non era certo ciò che madame si
augurava.
«Maman?»
Meg bussò
alla porta e si
affacciò all’interno della stanza, cercando la
madre con lo sguardo e
sorridendo incoraggiante a Giulia. «È arrivato
monsieur Mounier.»
Louise
si alzò, trattenendo un sospiro. «Bene, Meg. Che
aspetti? Fallo entrare, su.»
La
porta venne spalancata del tutto e Meg si fece da parte per lasciar
passare un
uomo che aveva superato da tanto la sessantina d’anni, con
una folta
capigliatura argentea e un paio di grossi baffi che gli lasciavano a
malapena
scoperto il labbro superiore. Gli occhi castani erano circondati da una
fitta
ragnatela di piccole rughe, così come gli angoli della
bocca, e camminava
leggermente ricurvo a causa di un dolore che riguardava la sua gamba
destra. Il
suo sguardo era chiaro e limpido, senza nessun accenno di malizia o
indiscrezione, e madame non potè che congratularsi
silenziosamente con sé
stessa per aver avuto la prontezza di far chiamare lui piuttosto che
qualcun
altro.
«Dottor
Mounier,» lo accolse la donna, avvicinandosi e stringendogli
la mano. «Vi ringrazio
per essere venuto con un così breve preavviso.»
«Non
preoccupatevi, madame Giry.» Replicò lui, con una
voce profonda rovinata dal
tremolio della sua età avanzata. «È il
mio mestiere, dopotutto. Allora, qual è
il problema?»
«Si
tratta di mia nipote,» rispose subito Louise, senza
tentennare un attimo.
Grazie al Cielo Meg non parlò, e così la donna
potè continuare, parlando a
bassa voce per non sconvolgere ancora di più Giulia.
«Qualche giorno fa è
caduta, ed è rimasta priva di sensi fino a questa mattina...
Ma quando si è
risvegliata non ricordava più chi fosse, né dove
si trovasse.»
«Sembra
un’amnesia... Ma non sono in grado di dire quanto grave, se
non posso
visitarla.»
Madame
annuì. «Oh si, certo... Prego, venite. Fate quello
che dovete.»
Mentre
monsieur Mounier visitava la ragazza, le altre due donne rimasero in un
angolo
della stanza, abbastanza vicine per poter essere di un qualche conforto
a
Giulia, ma mantenendo una sorta di distanza rispettosa dal dottore per
non
disturbarlo nell’esercizio del suo lavoro.
Alla
fine, quando videro l’uomo sollevarsi e rimettere a posto i
suoi strumenti
nella valigetta in pelle, Meg raggiunse Giulia e madame Giry si
avvicinò al
dottore, ansiosa di informarsi sull’effettiva condizione di
salute della
ragazza.
«Dunque,
monsieur?» Domandò, parlando a bassa voce mentre
lo conduceva in un angolo
della stanza.
Egli
sospirò. «Non nego che la situazione sia piuttosto
grave, madame. La ragazza
deve aver subito un forte shock, che le ha provocato quella che noi
chiamiamo amnesia retrograda…
Forse la sua caduta
di qualche giorno fa è stata solo una conseguenza. In poche
parole, si tratta della
perdita di memoria per quanto riguarda gli eventi accaduti prima della
causa,
ma mantiene comunque una completa lucidità per quello che
è avvenuto dopo,
perciò la sua mente inizia ad accumulare ricordi da questo
momento in poi. Vedete,
è come se il suo cervello la stesse proteggendo da dei
ricordi… scomodi.»
«State
dicendo che non recupererà più la memoria per
quanto riguarda ciò che è stata
lei prima?» Chiese madame, sgranando impercettibilmente gli
occhi grigi.
Monsieur
Mounier scosse piano la testa. «Madame, la psiche umana
è un tale mistero, e io
non sono che un semplice dottore… Quello che posso dirvi
è che i suoi ricordi,
le sue esperienze passate, non sono perse definitivamente; esse
continuano ad
esistere nel suo subconscio, ma semplicemente lei non lo sa. Al
momento, il suo
cervello ritiene più saggio oscurarle, ma chissà
se in futuro esse non
torneranno a galla.»
Louise
lanciò uno sguardo alla giovane ospite, incrociandolo per un
attimo con il suo.
Cosa poteva mai esserle successo per giustificare una simile reazione
psicologica? E come avrebbero potuto aiutarla a guarire e a ritrovare
la sua
famiglia, sempre supposto che ne avesse una, se lei non ricordava
neppure quale
fosse il suo nome? Beh, avrebbero dovuto scoprirlo loro. Ed era
necessario
andare subito a parlarne con Erik: egli non aveva detto chiaro e tondo
di voler
essere informato su ogni sviluppo della faccenda, ma madame lo
conosceva troppo
bene per non sapere che si sarebbe infuriato come non mai se lei
l’avesse
tenuto all’oscuro di tutto. E poi, Louise era convinta che
Erik disponesse di
tutti i mezzi necessari per risalire alle origini di questa ragazza:
aveva
girato talmente tanto il mondo che ormai ne conosceva ogni segreto, e
non
sarebbe stato male se avesse utilizzato le sue conoscenze per questa
faccenda.
Dopo
aver accompagnato il dottore alla porta, madame tornò in
camera della ragazza e
richiuse la porta dietro di sé, sentendo gli sguardi di
Giulia e di Meg puntati
addosso.
«Meg,
qualsiasi cosa dirò, sei pregata di non contraddirmi
né interrompermi.» Esordì,
avanzando verso di loro. «Ora, Giulia… Sappiamo
che non ricordi nulla di quello
che è accaduto prima di perdere conoscenza, ma non possiamo
permettere che lo
sappiano anche gli altri. È una cosa che deve rimanere tra
noi, chiaro?»
Tacque
un momento, come per raccogliere le idee, dopodiché prese un
bel respiro e
riprese il suo discorso. «Da questo momento, tu sarai Giulia
Sanders, la figlia
di una mia sorella che vive in America con il marito e che ti ha
mandato qui a
Parigi per farti studiare danza nella scuola
dell’Opèra. Sei figlia unica, parli
molto bene il francese e questo dovrà evitare che la gente
impicciona si
stupisca del fatto che non parli la lingua di tuo padre… Ah,
e dovrai perlomeno
chiamarmi zia, così per spazzare qualsiasi altro tipo di
dubbio al riguardo. Io
e Meg ti istruiremo su ciò che dovrai e non dovrai dire,
faremo in modo che
anche tu possa avere un passato da raccontare qualora ve ne fosse
bisogno.
Domande?»
Giulia
scosse la testa, sorpresa da tutta quell’apprensione.
«No, madame… Ho capito
tutto.»
«Bene,»
annuì allora. «Meg, tu? Tutto apposto?»
La
ragazza annuì a sua volta, seria. «Si, maman.
Tutto chiaro.»
Madame
sospirò, socchiudendo gli occhi e osservando le due ragazze
che pendevano dalle
sue labbra: a volte desiderava non essere la severa e inflessibile
madame Giry,
ma semplicemente Louise, senza nessun greve fardello sulle spalle,
senza più
segreti né misteri… Ma quella ormai era la sua
vita, era stata per anni e anni
il tramite tra il mondo ed Erik e a quanto pare questa sua pena non era
ancora
stata scontata. Chissà se un giorno sarebbe arrivato il
perdono per entrambi.
Chissà se sarebbe riuscita a dimenticare.
«Credo
che tu sia pronta per venire all’Opèra, ma
chère.» Dichiarò madame solo
un paio di giorni dopo, quando, sedute tutte e
tre nel luminoso soggiorno della donna, avevano appena finito di
ricapitolare e
di interrogare Giulia sulle numerose nozioni che aveva dovuto imparare
in tutta
fretta.
Louise
non aveva ancora avuto né il tempo né la voglia
di andare ad avvisare Erik sui recenti
sviluppi della situazione e sulle decisioni che lei aveva preso senza
interpellarlo,
ma l’uomo avrebbe saputo tutto quanto il giorno dopo, quando
la ragazza sarebbe
entrata per la prima volta nel suo teatro.
Sperava solo che non avesse nulla da rimproverarle, ma madame ne
dubitava. Erik
era un genio, ma aveva sempre apprezzato l’astuzia della sua
perspicace amica.
«Ora,
vado ad aiutare Agnese in cucina. Se volete qualcosa,
chiamateci.» Aggiunse
alzandosi, facendo un gesto della mano per accomiatarsi.
Le
due ragazze rimasero da sole, ma Giulia ancora non si sentiva del tutto
sicura
su quello che avrebbe dovuto ricordarsi. Temeva di dimenticare alcune
parti che
potevano essere necessarie per far si che la sua copertura non
crollasse come
un castello di carte.
«Meg,
ti dispiace farmi ancora qualche domanda?» La
supplicò pertanto, tormentandosi
le mani. Stava indossando ancora la sua veste da camera, ma lo scialle
che le
aveva prestato la donna e il fuoco che scoppiettava allegro nel camino
facevano
sì che non sentisse freddo.
La
giovane ballerina sorrise, annuendo. «Va bene. Allora,
iniziamo daccapo… Dove
sei nata?»
«A
Boston, il 24 luglio dell’anno 1858.» Rispose
subito, senza tentennare. Almeno
quello l’aveva imparato subito e senza sforzo.
«Bene.
Ah, scusa, mi sfugge il nome dei tuoi genitori…»
Proseguì Meg, fingendosi
confusa.
Giulia
ridacchiò. «Mia madre, Sophie Lescaut, aveva
conosciuto mio padre, William
Sanders, qui a Parigi, quando lui era stato mandato in Francia per
cercare un
suo fratello che non voleva sapere di tornare a casa… Mia
madre lavorava come
sarta e tutti giorni, per tornare a casa, passava di fronte alla
locanda nella
quale mio padre alloggiava: alla fine si parlarono e si innamorarono e,
dopo il
matrimonio, lei lo seguì nel Nuovo Mondo per vivere insieme
a lui. Io nacqui
l’anno successivo.»
La
ragazza si interruppe per riprendere fiato, poi sorrise.
«Allora, signora
maestra? Ho studiato bene?»
Meg
rise, annuendo. «Direi di sì! Anzi, se non sapessi
la verità crederei subito
alla tua storia… Suona proprio bene, e poi è
così romantica!»
«Ma
Meg… Tua madre ha davvero una sorella? Non vorrei che poi
qualcuno potesse
venire a reclamare il legittimo ruolo di nipote di madame
Giry…» Replicò
Giulia, pensierosa.
Tuttavia
l’altra scosse il capo. «Maman
aveva
una sorella, ma è morta tanto tempo fa. Io stessa credo di
non averla mai
conosciuta… L’unica cosa che so è che
viveva in Svezia, perché non è neppure
sepolta qui, a Parigi.»
«E
non sai se aveva figli?» Domandò ancora Giulia,
incuriosita.
Meg
scosse nuovamente la testa. «Non ne ho la più
pallida idea. Maman non me ne ha
mai parlato… Credo
che il solo ricordo fosse troppo doloroso, per lei. Sai, ha…
Ha perso troppe
persone care in una sola vita.»
La
voce della ragazza si era affievolita, in modo che dalla cucina la
madre non
potesse intuire che era di lei che si stava parlando.
«Eppure
madame da l’impressione di essere una donna molto
forte…» Mormorò Giulia,
osservando mestamente la sua nuova amica.
«Oh,
ma lo è.» Si affrettò a spiegare
quest’ultima, sporgendosi in avanti. «Solo che
non lo da a vedere. Preferisce tenere nascosti i suoi sentimenti, e
ostentare
quell’atteggiamento austero che la rende inavvicinabile. Per
fortuna conosco
questo suo lato, e non vi do più molto peso. Quando ero
piccola, invece… Beh,
avevo l’impressione che maman
preferisse trascorrere tutto il suo tempo a teatro piuttosto che
occuparsi di
me, ma crescendo ho capito che c’era gente che stava peggio
di me e di cui mia
madre di occupava. Credo di essere guarita dal mio egoismo infantile
solo
qualche anno fa.» Aggiunse, con una strana risatina.
Giulia
comprese che Meg non le aveva raccontato tutto quello che avrebbe
voluto, ma
che anzi si sforzava di passare sotto silenzio. Tuttavia provava troppa
gratitudine nei loro confronti per osare impicciarsi in faccende che
non la
riguardavano, e le rispettava troppo per far loro delle domande
impertinenti.
Un giorno, forse, Meg glielo avrebbe raccontato, ma non era ancora il
momento. Inoltre,
non era necessario conoscere il passato di qualcuno per volergli bene o
fidarsi
di lui: era qualcosa che poteva dare adito solo a pregiudizi, e lei non
avrebbe
sopportato di giudicare questa cara ragazza senza conoscerla.
Perciò, solo quando
la loro amicizia si fosse approfondita – perché
Giulia non aveva alcun dubbio
che ciò sarebbe accaduto – non avrebbero
più avuto segreti l’una per l’altra.
Ma
era ancora troppo presto.
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Capitolo 5 *** 04. L'Opèra Garnier ***
Chapitre 4
L’Opèra
Garnier
Il
mattino seguente, le tre donne si svegliarono presto e iniziarono a
prepararsi
per andare in teatro. Madame era riuscita a non mancare alle sue
lezioni in
quei giorni, ma Meg, in via del tutto eccezionale, ovviamente,
sì. Solo, la
cosa più terribile fu, per Giulia, vestirsi.
Non
riusciva a capire se si trattava della sua amnesia, e quindi non
ricordava più
come ci si abigliasse per potersi definire presentabile, o
semplicemente del
fatto che non aveva mai indossato simili indumenti prima di allora.
Quando Meg,
già vestita, e Agnese le avevano fatto vedere un corsetto,
quella mattina,
Giulia aveva creduto che l’amica stesse scherzando. Non
poteva essere
umanamente possibile indossare quell’odioso oggetto, eppure
lo sguardo stupito
che le aveva rivolto Meg le aveva fatto capire che non si trattava nel
modo più
assoluto di uno scherzo, e che non era concepibile che lei si vestisse
senza
prima indossarne uno.
«Coraggio,
tesoro, lascia fare a me,» disse Agnese, infilandole una
lunga sottoveste da
sopra la testa che le arrivava appena al di sotto del ginocchio.
«E ora
voltati, su!»
La
ragazza si voltò di malavoglia, seguendo il consiglio di Meg
e aggrappandosi ad
una colonnina del letto quando Agnese cominciò a legare i
nastri e a tirare. Non
riuscì a trattenere un gemito di dolore quando
l’anziana donna strinse anche
l’ultimo laccio all’altezza del suo bacino,
sentendosi mancare improvvisamente
l’aria. Dopo quella tragica sofferenza, comunque, procedere
con la vestizione
fu molto più semplice. Agnese l’aiutò
ad infilare la sottogonna nera e vaporosa
che serviva a mantenere e sottolineare le forme della sua silouhette,
enfatizzando una serie interrotta di lunghe curve sinuose; sopra di
essa le
agganciò la gonna vera e propria, di un rosso scuro, che
scivolava sulla
sottogonna in pesanti drappeggi e volute. La giacca era poi un tuttuno
con la
gonna, e Giulia riuscì ad agganciarsela da sola con la serie
di bottoni di
onice che ne percorrevano il bordo sul petto. A quel punto Meg le fece
passare
un grosso nastro nero intorno alla vita, legandoglielo poi dietro con
un
pesante fiocco che ricadde sulle volute della gonna.
Alla
fine Giulia si sentiva talmente pesante da dubitare addirittura di
riuscire a
muoversi, ma dopo aver fatto per un po’ su e giù
nella stanza acquistò l’equilibrio
e la sicurezza necessari.
«E
ora le scarpe! Siediti lì, Giulia.» Disse Meg,
indicandole la poltroncina
accanto alla finestra. La ragazza obbedì, osservando
l’amica che le si
avvicinava con un paio di stivaletti in marocchino nero tra le mani.
«Questi
dovrebbero essere più semplici da infilare del
vestito.» Aggiunse la ragazza,
porgendoglieli.
Effettivamente
la giovane Giry non aveva tutti i torti, in fondo si trattava solo di
far
passare i nastri dentro le asole e poi stringerli in un piccolo fiocco.
Si,
indubbiamente le scarpe furono la cosa più semplice che
Giulia si ritrovò ad
indossare: a parte i guanti, ovvio.
A
quel punto erano entrambe pronte e non rimase loro che raggiungere
madame Giry,
che le stava aspettando nel piccolo salotto. La donna non aveva fatto
parola a
nessuno del fatto che il nuovo guardaroba della sua ospite era stato
fornito
interamente da Erik, ma non aveva smesso di rimuginarci un solo
istante.
Sembrava che l’uomo si stesse interessando alla ragazza senza
che Louise ne
comprendesse il motivo, e questo la riempiva di risentimento nei
confronti del
suo vecchio amico; in passato, in linea di massima, era sempre stata a
conoscenza di quello che gli passava per la testa, e sapeva che
l’interesse del
Fantasma nei cofronti della giovane Christine Daaè celava il
sentimento che
provava per lei. Ma ora? Per quale motivo un uomo incapace di mostrare
una
disinteressata generosità nei confronti di chicchessia, si
stava invece
occupando di una completa sconosciuta? Se Meg avesse saputo che i nuovi
abiti
di Giulia erano stati un dono di Erik, sicuramente si sarebbe
infuriata, e non
a torto. Malgrado avesse accolto con sospetto l’arrivo di
quell’intero e
prezioso guardaroba non aveva fatto domande, accettando apparentemente
la scusa
della madre che le aveva detto che quei vestiti erano un regalo di una
sua cara
amica.
Per
il momento, quindi, poteva bastare.
Ma
quando madame Giry vide la ragazza scendere le scale con quel nuovo
abbigliamento non potè impedirsi di provare dei brividi di
sincero spavento. Oh,
la somiglianza con la Viscontessa de Chagny era a dir poco inquietante,
e
Giulia era forse ancora più bella e affascinante della sua
ex allieva, e per un
attimo Louise si domandò se non fosse per quello che Erik
sembrava essere interessato
a lei.
La
cara Agnese le aveva sapientemente arricciato i lunghi capelli castani
che le
ricadevano morbidi sulle spalle, e Meg le aveva intrecciato alcune
ciocche ai
lati delle tempie che poi andavano ad unirsi al resto della sua chioma,
sulla
schiena. Anche il piccolo cappellino rosso doveva essere opera di
Agnese,
perché Erik non aveva certo potuto pensare agli accessori
che riuscivano a
completare un abbigliamento femminile.
«Maman,
noi siamo pronte.» La
informò
Meg, una volta arrivate accanto a lei.
Madame
aggrottò leggermente le sopracciglia, pensierosa, mentre
osservava le due
ragazze. Ma che cosa sto facendo?
Pensò all’improvviso, con un accenno di panico
nello sguardo. Se Erik la vedesse…
Lui è un uomo, non l’ho
mai dimenticato, e se si interessasse a lei? È
così bella, dopotutto…!
Deglutì,
prendendo un profondo respiro. Sono forse
pronta a rivivere i terribili eventi di qualche anno fa?
«Madame?
State bene?» Intervenne Giulia preoccupata, lanciando uno
sguardo all’amica.
La
donna si sforzò di riscuotersi. «Si cara, ho avuto
solo un capogiro…» Sospirò.
«Ma tu devi chiamarmi zia, Giulia, cerca di non
dimenticarlo.»
L’affettuosoi
rimprovero della donna la fece arrossire. «Si,
madame… Zia,» Sorrise.
«Perdonatemi.»
«Non
preoccuparti, ma chère,
vai benissimo.»
Sono io che avrei bisogno di
tranquillizzarmi… «Allora,
andiamo?»
«Louise,
vi aspetto per pranzo?» Domandò Agnese,
affacciandosi dalla porta della cucina.
Madame
scosse la testa. «No, non credo ce la faremo, mangeremo
qualcosa a teatro.
Aspettateci a cena però, mia cara.»
«Come
sempre,» sorrise l’anziana governate.
«Buona giornata, les filles!
Louise…»
E
con questo uscirono, chiudendo la porta alle loro spalle.
L’Opèra
Garnier le attendeva.
Quando
Giulia vide il teatro, ebbe la strana impressione di essere tornata a
casa. Uno
strano calore nostalgico la fece quasi rabbrividire, mentre osservava
l’imponente facciata con la sensazione di conoscerne
già il più piccolo
dettaglio, quando avrebbe potuto giurare di non esserci mai stata
prima. O
forse si trattava di qualcosa che aveva dimenticato in seguito
all’amnesia di
cui parlava monsieur Mounier…
Ad
ogni modo, non ebbe il tempo di cullarsi in quella amara nostalgia,
perché
madame spinse sia lei che l’amica verso l’ingresso
del teatro, come se fossero
in terribile ritardo. Al contrario, invece,
l’Opèra sembrava completamente
deserta, non fosse stato per alcune donne che lavavano il prezioso
pavimento in
marmo senza curarsi di altro che non fosse il loro lavoro.
«Presto,
ragazze, presto, su.» Ordinò a quel punto madame,
incitandole ad accelerare il
passo. Le precedette sull’enorme scalinata senza volgere lo
sguardo da nessuna
parte, come se avesse paura che qualcuno potesse vederle. E in effetti
era proprio
quello il suo timore; conosceva Erik, e anche se adesso era diventato
il
mecenate del teatro, Louise dubitava che avesse messo da parte le sue
abitudini
di spiare i movimenti di coloro che frequentavano il suo regno, e
sinceramente
non voleva che lui e la sua nuova “protetta” si
incontrassero proprio in quel
momento. Sapeva che era impossibile tenerlo lontano da lei se egli
desiderava
vederla, ma perlomeno madame poteva cercare di posticipare quel momento
il più
a lungo possibile.
Solo
una volta arrivati nella sala da ballo, madame Giry potè
sentirsi leggermente
più al sicuro. La maggior parte delle sue ballerine si
stavano già riscaldando,
così Meg corse nello spogliatoio a cambiarsi e Giulia rimase
con lei, osservandosi
incuriosita intorno. La sala era davvero enorme: lungo la parete dove
si
affacciava la porta correva un’asta di legno che serviva alle
ballerine per
fare i loro esercizi alla sbarra, e nella parete perpendicolare ad essa
vi era
un enorme specchio che ricopriva completamente il muro, dando
l’impressione che
la sala si prolungasse per un altro centinaio di metri.
Dall’altra parte,
invece, c’erano gli spogliatoi, mentre sull’ultima
parete, risultante essere
frontale alla porta, vi era un’immensa vetrata che si
affacciava sui boulevards
di Parigi e dalla quale proveniva un raro raggio di sole.
L’insieme
era davvero magico.
Tuttavia,
malgrado fosse incantata da quel luogo, a Giulia non sfuggirono le
occhiate
maligne e curiose delle govani ballerine, che le lanciavano sguardi di
sfuggita
come se fossero infastidite da quella sua invasione di territorio.
Madame se ne
accorse e, per evitare ogni genere di fraintendimento,
attirò l’attenzione
delle sue allieve con un secco battito di mani e portò
Giulia al centro della
sala.
«Ragazze,
vi posso presentare mia nipote?» Esordì,
guardandole severamente. «Il suo nome
è Giulia Sanders, e viene da Boston. Rimarrà mia
ospite per un po’ di tempo, visto
che è venuta a Parigi per studiare danza, ma oggi si
limiterà ad osservare una
nostra lezione. Qualche domanda?»
Le
ragazze fecero dei cenni di diniego con il capo, mentre continuavano ad
osservare infastidite la nuova intrusa; chiaramente non potevano
mostrarsi
malevole nei suoi confronti, visto che la giovane era sotto la
protezione di
madame Giry – nonché sua stretta parente. Era
davvero quello di cui avevano
bisogno: un’altra arrogante Giry tra i piedi. Non bastava
infatti Meg come
prima ballerina, adesso dovevano fare i conti anche con la cugina, che
probabilmente avrebbe avuto l’appoggio di madame per
sollevarsi ad un ruolo
principale, ruolo che loro avrebbero solo sognato, a questo punto.
Pertanto
nessuna si degnò di salutarla, riprendendo il riscaldamento
da dove l’avevano
lasciato.
La
lezione era lunga e Giulia non si sentiva molto benvoluta;
così, approfittando
di un attimo di distrazione di madame Giry, troppo presa nel correggere
i vari
errori di postura delle sue allieve, si avvicinò alla porta,
aprendola piano e
scivolando silenziosamente nel corridoio deserto.
A
quel punto sospirò, sollevata. Dovrò
dire
a madame che non ho nessuna intenzione di danzare con quelle
ragazze… Se fossi
stata da sola mi sarebbero saltate addosso come gatte furiose,
si ritrovò a
pensare tra sé. Incrociò le mani dietro la
schiena, iniziando a passeggiare
lungo il corridoio. I suoi passi erano attutiti dal tappeto rosso che
ricopriva
il pavimento, così si sarebbe potuta aggirare indisturbata
per il teatro senza
disturbare a nessuno.
Quella
parte del teatro era molto sobria. Non vi erano imponenti lampadari
né enormi
specchi, solo delle lampada a gas appese alle pareti ogni cinque metri;
lì
infatti non c’era nessuna finestra, così le luci
artificiali dovevano rimanere
accese tutto il giorno. Si sfilò con cura le forcine che le
tenevano il
cappellino sul capo e lo tenne poi in mano, sentendosi la testa
più leggera;
oh, se solo non avesse indossato quell’odioso
corpetto… Aveva l’impressione di
non riuscire a respirare, Agnese doveva averlo stretto davvero troppo.
Cercando
di non pensarci proseguì con la sua ispezione, chiedendosi
se sarebbe riuscita
a raggiungere la platea anche da sola. Dopotutto, quanto grande poteva
essere
quel teatro?
Tuttavia,
dopo essersi accorta di aver visto lo stesso quadro per ben tre volte,
dovette
rendersi conto di essersi persa. Stava per tornare indietro a cercare
la sala
da ballo quando, dopo aver voltato lo stesso angolo, si
ritrovò davanti ad un
uomo che non aveva mai visto prima. Egli non era eccezionalmente alto,
ma
emanava una strana aura che incuteva ed esigeva rispetto: a giudicare
dalla sua
carnagione scura era uno straniero, forse persiano, e sembrava molto
giovane, sui
trent’anni. Il volto era arricchito da un paio di folti baffi
neri e gli occhi,
profondi e penetranti, erano più scuri del carbone.
Probabilmente se non avesse
avuto un aspetto così curato e quell’abbigliamento
tipicamente parigino, Giulia
avrebbe potuto scambiarlo per un ricco marajà.
«Bonjour,
mademoiselle.» La
salutò lui in
un perfetto francese, con una voce rauca ma carezzevole. «Vi
siete forse
persa?»
«Io…
Si, credo… Credo di essermi persa.» Rispose, non
riuscendo a sostenere a lungo
il suo sguardo, che sembrava volerle leggere dentro. «Volevo
vedere la platea
ma forse è meglio che torni da madame Giry.»
L’uomo
annuì. «Siete una ballerina?»
«Non
ancora, in realtà…» Giulia ne
approfittò per ripetere la lezione che Meg e
madame le avevano interrogato anche quella mattina stessa.
«Sono sua nipote, e
sono venuta da Boston per prendere lezioni con lei, qui a
teatro.»
Dopo
averla studiata ancora un po’, il persiano sembrò
riscuotersi. «Perdonatemi,
sono terribilmente maleducato. Il mio nome è Bamdad, e sono
il segretario
personale di monsieur Destler.»
Le
prese dolcemente la mano, sfiorandola con un bacio gentile.
«Incantato di fare
la vostra conoscenza, mademoiselle…»
«Sanders,
Giulia Sanders,» si affrettò a rispondere lei,
leggermente imbarazzata per quel
gesto improvviso e inaspettato.
«Desiderate
ancora vedere la platea, mademoiselle Sanders?» Le chiese
poi, con un sincero
sorriso.
Lei
annuì, gli occhi che brillavano. «Oh si,
ma… Non vorrei disturbarvi…»
Bamdad
scosse il capo. «Nessun disturbo. Prego,
mademoiselle,» aggiunse, porgendole il
braccio.
Un
paio di occhi dorati seguirono attentamente i movimenti dei due giovani
senza
perderli di vista un attimo, che, presi sottobraccio, si dirigevano
chiacchierando verso la platea.
Erik
non sapeva se avesse fatto bene ad ordinare al suo fido Bamdad di
andare a
controllare la giovane che aveva trovato nelle gallerie sotterranee
dell’Opèra.
Certo, era stato lui a non voler incontrare per primo la ragazza senza
sapere
chi avesse di fronte, ed era per questo motivo che aveva mandato il
persiano in
avanscoperta, ma forse sarebbe stato meglio se ci fosse stato lui con il braccio della fanciulla
stretto sotto il suo, a mostrarle il suo splendido regno.
E
poi, cos’era questa novità della ballerina,
“nipote” di madame Giry, venuta dal
Nuovo Mondo per studiare danza con la zia? Questa era senza alcun
dubbio opera
di Louise, ma perché diavolo la donna si ostinava a fare di
testa sua senza
nemmeno interpellarlo? E poi, perché non lo aveva avvisato
della sua avvenuta
guarigione, come le aveva detto di fare? Quella sera stessa sarebbe
andato a
casa di madame per scambiare qualche parola con lei, era il caso di
chiarire
sin da subito la situazione per evitare che accadessero cose spiacevoli
come
l’ultima volta.
Nel
frattempo, avrebbe osservato meglio la ragazza… La
somiglianza con la sua
vecchia allieva era quasi dolorosa, ma stranamente non così
insostenibile come
Erik si era aspettato. Più che rammentargli il dolore di
quell’insano
sentimento non corrisposto, infatti, era la rappresentazione di un
passato
oscuro che cercava di dimenticare, un tempo in cui era stato solo
un’ombra il
cui destino sembrava quello di vivere come un escluso della
società, mentre
ora… Oh, ora avrebbe avuto il posto e il ruolo che gli
spettava di diritto.
Aveva fatto voto di entrare a testa alta e dal portone principale in
quello che
era stato da sempre il suo teatro, e finalmente così era
stato.
Si,
forse madame Giry aveva ragione, in fondo. Il suo passato era
incancellabile, tuttavia
il suo futuro poteva essere diverso… Il Fantasma
dell’Opera era ancora vivo, ma
d’ora in avanti non sarebbe stato solo uno spirito; sarebbe
stato un uomo, e
come tale avrebbe vissuto alla luce del sole.
Se
solo non fosse stato così solo, oh, le cose sarebbero state
più facili…
Maledicendosi
ferocemente per quei pensieri che così poco gli si
addicevano, abbandonò il suo
nascondiglio, dirigendosi verso il suo nuovo studio. Che andassero
tutti al
Diavolo! Nessuno avrebbe potuto fare qualcosa per impedirgli di
compiere la sua
vendetta.
Neppure
quell’arrogante madame Giry o quella fanciulla che credeva di
aver preso sotto
la sua ala. Sarebbe stata una pedina fondamentale nel suo piano, e la
donna non
avrebbe potuto muovere nemmeno un muscolo per impedirglielo!
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Capitolo 6 *** 05. Dove le decisioni di un Fantasma non si discutono ***
AA - Angolo Autrice:
Grazie
a masked_lady
per aver
aggiunto questa storia alle preferite e grazie a Yunie992 per la
recensione! Sono molto contenta di aver trovato la tua recensione -
stavo iniziando a perdere le speranze! - ma un commento è sempre ben accetto!
Spero che continuerai a seguirmi! (Comunque non hai capito male,
è andata proprio così!)
Un
bacio, e buona lettura!
Chapitre 5
Dove le
decisioni
di un Fantasma non si discutono
Quella
sera, dopo cena, Giulia si ritirò in camera sua senza voler
indugiare un attimo
in più nella sala da pranzo insieme alle altre tre donne. La
severa lavata di
capo che madame Giry le aveva fatto una volta arrivate a casa, infatti,
le
bruciava ancora.
La
donna si era davvero spaventata quando, voltandosi verso di Giulia alla
fine
della lezione di danza, si era accorta che la ragazza non
c’era più. Aveva
temuto il peggio: ogni corridoio poteva essere una trappola, per lei
che non
conosceva il teatro e le sue numerose botole, e se si fosse persa
un’altra
volta nel territorio di Erik… Mon
Dieu,
preferiva non pensare alle conseguenze! Così, senza
attendere che Meg fosse
pronta per andare con lei, uscì nel corridoio prima che
questo si riempisse di
gente, controllando in ogni singolo angolo senza trascurarne nemmeno
uno. Ma
Giulia sembrava non essere da nessuna parte.
Stava
per arrendersi e correre da Erik a domandargli se l’avesse
vista quando, arrivata
in cima all’immenso scalone d’ingresso, finalmente
la vide. La ragazza era
insieme a colui che madame riconobbe essere il segretario persiano di
monsieur
Destler, che in quel momento le aveva passato un braccio intorno alla
vita
aiutandola a salire le scale.
Che cosa ci
fa
monsieur Bamdad con Giulia?
Si chiese, mentre attendeva con una pazienza che non credeva
più di avere che i
due la raggiungessero in cima alla scala. Che
anche questa sia una mossa di Erik?
Quando
poi Giulia sollevò lo sguardo e vide la donna,
quest’ultima incrociò severamente
le braccia, lanciandole uno sguardo che le fece capire quanto fosse
arrabbiata.
Louise
riuscì a trattenere la sua ira ancora a lungo, scambiando
poche parole con il
persiano e addirittura ringraziandolo per essersi preso così
gentilmente cura
di sua nipote mentre lei aveva la sua lezione, ma per tutta la giornata
cercò
di evitare di incrociare il suo sguardo con quello della ragazza per
evitare di
farle una scenata nel teatro stesso. Ma una volta arrivate a casa,
sotto gli
occhi di una stupita Meg, madame Giry esplose.
«Si
può sapere a che cosa stavi pensando quando sei sparita
all’improvviso senza
dire una sola parola?» Esordì, andando su e
giù per il salotto. «Non ti è
venuto in mente che poteva essere pericoloso? Potevi perderti, santo
cielo! Il
teatro è troppo grande perché tu ti ci possa
aggirare da sola come se fossi a
casa tua!»
«Mi
dispiace, madame… Io…» Provò
a difendersi.
Ma
la donna non la fece continuare. «Monsieur Bamdad mi ha detto
che sembravi
sperduta. E se lui non fosse arrivato? Cosa sarebbe accaduto se a
trovarti
fosse stato un uomo privo di scrupoli e di educazione? Hai idea di
quante
ragazzine siano scomparse a Parigi, e quante nello stesso
teatro?»
Madame
si avvicinò a Giulia, afferrandole per le spalle in modo che
ciò che stava per
dirle le rimanesse maggiormente impresso. «È
più pericoloso dell’Inferno,
Giulia, è pericoloso! Non tollererò che simili
cose accadano ancora, sono stata
chiara? Non voglio che giri da sola
per il teatro. Se proprio vuoi vederlo, va bene, ma voglio che tu ci
vada con
Meg o con qualcun altro di altrettanto fidato. Intesi?»
A
Giulia non rimase che annuire, mortificata.
Così
ora era da sola, in camera sua, sdraiata a pancia in su nel letto. Il
suo
vestito giaceva scomposto sulla poltrona, mentre il corpetto che aveva
indossato e che l’aveva torturata per tutto il giorno era
stato buttato con
malagrazia per terra. Indossava solo una leggera sottoveste in cotone,
ma non
aveva voglia di scendere nuovamente in salotto a chiedere a Meg se
aveva una
camicia da notte da prestarle.
E
poi, non riusciva a comprendere l’ira di madame Giry. Neanche
fosse fuggita dal
teatro per andare a gironzolare nei boulevards della città!
Certo, se l’avesse
avvisata forse non si sarebbe preoccupata inutilmente, ma
d’altronde la sua
reazione le sembrava davvero troppo esagerata. Come se Louise volesse
proteggerla da qualcosa, o da qualcuno!
Che
sciocchezze,
pensò tra sé, portandosi le
braccia dietro la testa in una posizione assai poco consona e femminile. Forse è a causa della mia amnesia se
non
ricordo quel “qualcosa” da cui madame sembra
volermi proteggere, riflettè,
arricciandosi un ciuffo dei lunghi capelli. Ma
ad ogni modo potrebbe anche evitare di essere così
misteriosa, visto che tutta
questa situazione non mi aiuta, concluse alla fine.
Con
un sospirò si sollevò a sedere, lanciando uno
sguardo verso la finestra rigidamente
chiusa. Scosse la testa, esasperata, e si alzò per andare ad
aprirla e far
circolare un po’ d’aria fresca anche dentro la
camera. Dopo essersi gettata uno
scialle in lana sulle spalle, si affacciò, sedendosi sul
davanzale e osservando
la via sottostante. Era al terzo piano e
l’oscurità le era alleata, quindi non
temette che qualcuno, dalla strada, potesse vederla in quel poco
castigato
abbigliamento. Comunque lungo la rue
non passavano molti gentiluomi a piedi, quanto piuttosto piccole
carrozze di
gentiluomini e gentildonne che in quel momento si stavano forse
dirigendo a
qualche prestigioso ballo o evento mondano. Alla stessa
Opèra quella notte era
stata messa in scena La Traviata
del
grande Verdi, alla quale Giulia avrebbe volentieri assistito non fosse
altro che
per ammirare lo splendore del teatro, ma madame era talmente arrabbiata
che non
aveva voluto sentire ragioni. Davvero un peccato.
All’improvviso,
mentre osservava distrattamente il via vai di carrozze e cavalli che
trottavano
sul selciato della strada, notò una strana ombra aggirarsi
lontana dalle luci
dei lampioni, come se non volesse farsi vedere da anima viva, che
nell’arco di
un battito di ciglia arrivò di fronte al portone della casa
di madame Giry e
sparì, semplicemente, come se non fosse mai esistita.
Giulia
non potè credere ai suoi occhi: si affacciò di
più sul balcone per osservare meglio
il portone, ma qui non c’era nessuno, e anche se un piccolo
portico gliene
impediva la vista completa, era chiaro che l’uscio fosse
deserto. Possibile che l’abbia solo
immaginata?
Si domandò, stupita. Poi scosse la testa, richiuse con
attenzione la finestra e
tornò a letto, decidendo che doveva essere stata la
stanchezza a farle vedere
cose che non esistevano.
Ma
Giulia non aveva immaginato nulla. L’ombra che le era parso
di vedere – e che,
in verità, aveva visto davvero – non era altri che
Erik, venuto come promesso a
parlare con madame Giry a proposito degli ultimi sviluppi della
situazione.
L’uomo,
malgrado avesse desiderato rimanere in teatro per godersi
l’apertura della
stagione lirica con la splendida Traviata,
aveva contemporaneamente deciso che non poteva ignorare le varie
iniziative
della sua vecchia amica continuando a rimanerne all’oscuro,
cosa che peraltro
detestava. Così, dopo aver affidato al suo discreto
segretario il compito di
fare il padrone di casa in sua vece, si era quasi precipitato a casa di
Louise
in modo da trovarla ancora sveglia.
Quando
era arrivato sotto casa sua, però, aveva notato, sorpreso,
la finestra di quella
che sapeva essere la stanza della ragazza aprirsi, e subito dopo lei
stessa che
vi si sedeva senza nessun apparente timore di perdere
l’equilibrio e cadere. Che cosa ci
fa ancora sveglia a quest’ora?
Fu il suo primo pensiero, infastidito. Ma quando vide le sue labbra,
che lui
sapeva essere rosse e carnose anche se la distanza non gliene avrebbe
consentito la vista, imbronciate in un’espressione di nervoso
e tristezza, non
potè fare a meno di fermarsi ad osservarla, al sicuro sotto
l’ombra di un
portico. Maledizione, la somiglianza con la Daaè era davvero
notevole, pensò
stringendo i denti. Eppure la sua comparsa proprio in quel momento
della sua
vita poteva essere un eccezionale punto a suo vantaggio, poteva
diventare una
pedina nelle sue mani, avrebbe potuto modellarla a suo piacimento come
aveva
già fatto in passato, e forse questa volta la sua opera
sarebbe stata
addirittura migliore, se non del tutto perfetta. Oh si, la sua vendetta
stava
crescendo rigogliosa, e compierla questa volta non avrebbe richiesto
grossi
sacrifici… Non da parte sua, perlomeno.
Ormai
aveva trasformato il suo cuore, un tempo capace di amare
così ardentemente una
fanciulla ancora troppo bambina, in un pezzo di ghiaccio, o meglio, in
una
roccia… Dato che il ghiaccio poteva sempre sciogliersi.
Eppure non potè
esimersi dal domandarsi se, forse, esisteva ancora una qualche speranza
di
redenzione per lui…
No,
erano solo idiozie.
Abbandonò
il riparo sicuro dell’ombra per scivolare lungo la strada e
avvicinarsi al
portone della casa di madame Giry, Rapido
e silenzioso come un fantasma, rise tra sé. Si era
accorto che gli occhi
della ragazza avevano seguito i suoi movimenti, ma sapeva di essere
decisamente
troppo astuto perché lei avesse potuto vederlo chiaramente.
Una volta
sull’uscio non ebbe bisogno di bussare, come invece era stato
costretto a fare
l’ultima volta. Ora, con le mani libere, potè
onorare il vecchio soprannome con
il quale era stato conosciuto, in un’epoca lontana,
nell’esotica Persia.
«Il
Signore delle Botole.»
Sussurrò con
un perfido sorriso, quando la porta si spalancò davanti a
sé; non esisteva
uscio o lucchetto che potesse resistergli, era convinto di poter
entrare anche in
quello stesso Paradiso che gli era precluso, semplicemente con quel
trucchetto.
Poi,
prima che la gente che attraversava la via potesse vederlo,
entrò in casa
richiudendosi la porta alle spalle.
La
casa era immersa nel buio. Solo le luci provenienti dalla strada
attenuavano
l’oscurità, che non sarebbe comunque stata un
problema, per lui. Si diresse a
passo sicuro verso le scale, senza produrre il minimo rumore ma
apprezzando la
presenza del tappeto che ricopriva i gradini. Una volta giunto sul
pianerottolo
non gli fu difficile trovare la stanza di Louise, malgrado
già la conoscesse:
era l’unica, infatti, dalla quale proveniva una piccola luce
da sotto la porta.
Sospirò,
ricordando l’ultima volta che aveva dormito in quella casa.
Era stato prima
della tragedia, quando era stato ferito da quel pavido damerino, quel visconte, nel cimitero dei Pères
Lachaises, ed era stato costretto
a chiedere a madame aiuto per medicare la sua ferita. Generalmente
l’avrebbe
fatto da solo, ma il braccio offeso era quello destro e inoltre era
troppo
disperato per prendersi cura di sé quando tutto
ciò che avrebbe voluto sarebbe
stato lasciarsi morire dissanguato.
Scosse
la testa, provando un inevitabile disgusto verso sé stesso.
La morte non
sarebbe stata ben accetta in quel momento, e d’altronde
realizzò che la perdita
della sua unica allieva non gli era mai stata così
indifferente come ora. Prima
di perdersi in altre riflessioni così deleterie, raggiunse
la stanza di Louise
e, sempre senza bussare – le abitudini erano dure da perdere
– vi entrò.
Come
si era augurato, madame Giry era ancora in piedi.
Si
era voltata verso di lui con tutto il rigido autocontrollo di cui
disponeva,
stringendosi nella sua vestaglia da camera e osservandolo senza tradire
nessuna
emozione. La treccia le ricadeva su una spalla e lei, con disinvoltura,
la
rigettò sulla schiena.
«Mi
domandavo quando saresti venuto, in effetti.»
Esordì, facendogli cenno di
sedersi.
Erik
accennò un inchino col capo, dopodichè
accettò il suo invito, liberandosi del
mantello e prendendo posto sulla poltrona che la donna gli aveva
indicato.
«In
realtà mi aspettavo che veniste voi da me.»
Replicò lui, osservandola. «Mi
sembrava di avervi chiesto di tenermi informato sulle evoluzioni della
faccenda.»
«Tecnicamente
non l’hai fatto.» Lo contraddisse lei, sedendosi a
sua volta.
L’uomo
scosse lentamente la testa, vagamente divertito. «Beh,
credevo fosse scontato.
Ad ogni modo,» proseguì, tornando a guardarla.
«Ora sono qui. Non avete nulla
da dirmi?»
Madame
sospirò leggermente, distogliendo lo sguardo.
«Giulia non sa da dove viene, né
chi è. Monsieur Mounier ha parlato di amnesia retrograda,
perciò la sua mente
ha cancellato tutto ciò che accaduto prima che perdesse
conoscenza. Quindi non
si rammenta nemmeno del fatto che sei stato tu a portarla da me. Ergo,
penso
che potresti anche smettere di perseguitarla e lasciarla completamente
sotto la
mia responsabilità fino a quando non si sarà
ripresa.»
Erik
l’ascoltò attentamente, in silenzio,
dopodichè fece un piccolo sorrisetto. «Curiosa
scelta di termini… Perché pensate che io la stia perseguitando?»
Domandò. «Vedete in tutto questo ciò
che è già
accaduto in passato?»
Louise
strinse gli occhi, innervosita. «È proprio
perché ti conosco, e per evitare ciò
che è stato che ti sto parlando in questi termini. Non
voglio che Giulia faccia
la stessa fine di Christine. Sappi che io non te lo
permetterò.»
L’uomo
non potè trattenersi dall’allargare il suo
sorriso. «E come pensate di
impedirmelo, qualora siano proprio questi i miei piani?» La
provocò, con tono
insinuante.
Le
dita di madame artigliarono ferocemente il bracciolo della poltrona
sulla quale
era seduta. «A costo di lasciare Parigi, Erik, non ti
permetterò di distruggere
un’altra vita innocente!»
Egli
non potè trattenere un ringhio e si alzò di
scatto, furioso. «L’unica vita ad
essere stata distrutta è la mia! Voi non avete idea
– non potete neanche immaginare
– che cosa sia stata
la mia esistenza negli ultimi due anni! Christine non ha mai sofferto
quanto
me, e da quando l’ho lasciata andare sono certo che nella sua
vita non ci sia
più stato alcun dolore!»
Madame
si alzò a sua volta, irata. «Se vuoi proprio
saperlo, Christine ha perso il suo
primo figlio a causa del dolore provato alla notizia della tua finta
morte! Sai
quanto è fragile di salute, e a causa tua
non è stata in grado di portare a termine la
gravidanza! Puoi immaginare
bene, quindi,» proseguì, con la voce che le
tremava. «Quanta rabbia abbia
provato io nel vederti vivo! E insieme quanta gioia abbia
accompagnato
questo risentimento!»
Louise
si risedette, tremando, e asciugandosi stupita le lacrime che le
avevano
solcato il viso. «E adesso torni, e mi dici che il tuo cuore
non ha trovato
pace in tutto questo tempo, e che stai già meditando
vendetta! E per di più su
qualcuno che non ha nessuna colpa… Non conoscerai alcuna
tregua, Erik? Scriverai
mai la parola fine a tutto
questo?»
Erik
non osava guardare le lacrime di colei che era stata la sua unica amica
e
confidente. La notizia della perdita del primo bambino di Christine,
sputata
involontariamente e in modo così brutale, lo aveva lasciato
senza parole e con
un senso di gelo addosso. Ecco un altro assassinio aggiungersi alla
lunga scia
di sangue che si portava dietro ovunque andasse… E per di
più su una creatura
che non aveva mai neppure visto la luce. Ma d’altronde lui
sapeva bene che sui
bambini, per quanto privi di ogni colpa, si ripercuotevano le
maledizioni di
peccati che non appartenevano loro.
«Beh,
non pensavo che la notizia della mia morte potesse importarle
così tanto.»
Mormorò freddamente, ostentando un’indifferenza
che non gli era propria. «Dopotutto,
io non credevo di esserle mai
importato.»
«Non
avrei mai dovuto dirtelo.» Ribattè la donna,
trattenendo a stento un
singhiozzo. «Ora forse gioirai del dolore di quella creatura,
e proprio lei non
lo merita…»
«Se
mi ritenete capace di una cosa simile, madame, si vede davvero che voi
non mi
avete mai compreso, né avete cercato di farlo.»
Sibilò gelido, dandole le
spalle e raggiungendo la finestra. Scostò la tenda per
osservare fuori, desiderando
per un momento di non essere mai tornato a Parigi. Ma quel desiderio
svanì alla
stessa velocità con la quale era apparso.
Non
avrebbe rinunciato ad ottenere la sua rivincita.
«Comunque,
non sono venuto qui per parlare di questo.» Disse alla fine,
dopo essere
riuscito a riprendere il controllo di sé.
«E
di cosa vuoi parlare? Ti ho già detto tutto ciò
che riguarda Giulia…» Commentò
stancamente Louise, senza neppure voltarsi.
«Lo
so. Voglio solo che vi scordiate di farla danzare nel corpo di
ballo.»
Madame
si voltò, sorpresa e infastidita. «Sono io
l’insegnante, Erik. Osi forse contraddire o discutere le mie
scelte artistiche?
Non è certo questo il tuo campo.»
L’uomo
scosse la testa, voltandosi nuovamente per fronteggiarla. «So
perfettamente che
se le avete detto di far parte del balletto del teatro è
perché vi siete
accorta che ne è capace, ma io non voglio. Ho ben altri
progetti in mente.»
«Ah
si?» Louise sollevò scettica un sopracciglio.
«Ma se solo qualche giorno fa
dicesti di non avere nessun piano, per lei! Cosa ti ha fatto cambiare
idea così
in fretta?»
«In
verità, ricordo di avervi detto che per
il momento non avevo nessun piano…»
Ribattè con un mezzo sorriso. «Ebbene,
ora so cosa fare. E non voglio che voi mi intralciate con le vostre
folli
iniziative.»
Madame
Giry sbuffò, trattenendo a stento la rabbia che solo lui era
capace di
provocarle. «È folle cercare di proteggerla e
volerla avere sempre sotto il mio
sguardo?»
Gli
occhi di Erik si ridussero a due pericolose fessure.
«È folle mettervi contro
di me.» Sussurrò.
Louise
non potè evitare di rabbrividire, all’improvviso
impaurita. Effettivamente Erik
aveva ragione, non sarebbe stato molto saggio contrastarlo
così apertamente, ma
non sapere ciò che lui aveva in mente per la ragazza la
innervosiva ancora di
più, facendole temere il peggio. Erik poteva essere capace
di qualsiasi cosa, e
quando era arrabbiato… Madame preferì non
rivangare i ricordi di ciò che era
già successo.
«Come
vuoi tu.» Mormorò alla fine. «Posso
almeno chiederti cosa hai intenzione di
fare?»
«Certo
che potete chiedere.» Rispose, con un breve cenno del capo.
«Ma questo non
implica che io vi risponda, giusto?»
La
donna dovette imporsi un ferreo autocontrollo per impedirsi di alzarsi
e
schiaffeggiare quell’uomo così insolente. Ma come
si permetteva di parlarle in
quel modo? Era così… irrispettoso! Sembrava non
avere nessuna intenzione di
farle dimenticare che lui non si fidava più della sua antica
amica…
«Una
cosa, però, posso dirvela.» Aggiunse, come
ripensandoci. «Domani ci saranno dei
provini, a teatro, per il coro. Una ragazza si è ritirata a
causa di una
gravidanza, e c’è bisogno di qualcuno che la
sostituisca. Tra l’altro, si
tratta della solista.»
Madame
sgranò gli occhi, stupita, alzandosi in piedi. «E
tu vorresti proporre una
completa sconosciuta al ruolo di solista? Sai quante ragazze del coro
aspirano
a quel titolo? Si scatenerebbe un putiferio!»
Erik
fece un cenno paziente con la mano. «Ovviamente, madame, se
la fanciulla non ne
fosse in grado, il ruolo di solista passerebbe a qualche altra migliore
corista. Cosa di cui dubito fortemente, ma ad ogni modo non possiamo
farne a
meno. Tuttavia,» aggiunse, risoluto. «Se lei si
dimostra essere all’altezza del
ruolo, le altre dovranno semplicemente tacere. E su questo non
tollererò
discussioni. Non voglio tornare a tormentare da fantasma
delle ragazzine viziate che non sanno stare al loro posto…
Lo trovo davvero degradante.»
Louise
sospirò, scuotendo piano la testa. Era impossibile discutere
con lui, dato che
passava alle minacce quando non riusciva ad avere ragione a rigor di
logica.
«Va
bene.» Replicò madame, semplicemente.
«Vorrà dire che domani accompagnerò
Giulia alle audizioni, invece che portarla alle prove di
ballo… Ho solo una
cosa da chiederti, Erik.»
«Se
è una cosa a cui mi è possibile rispondere, molto
volentieri. Prego.» Sembrava
divertirsi nel prendersi gioco delle persone, ma d’altra
parte questa era
sempre stata una sua peculiarità.
«Ho
già detto a tutti che Giulia è venuta da Boston
per studiare danza al teatro…
Come posso giustificare il fatto che ora farà
l’audizione per entrare nel coro?»
L’uomo
ci pensò una manciata di secondi, poi scrollò
elegantemente le spalle. «Potete
dire che a Boston faceva parte del coro, e che il voler studiare danza
derivava
da un capriccio della madre… Dite quello che volete, madame,
non ha importanza.
Visto che lei non ricorda nulla e che voi potete costruirle il passato
che più
vi aggrada, ebbene, lasciate andare la vostra fantasia.»
«Beh,
tanto non ha importanza che le ballerine sappiano più del
necessario. Qualsiasi
cosa io dica il giorno dopo sarebbe già di dominio pubblico,
quindi… Cercherò
di limitare le notizie allo stretto indispensabile.»
Borbottò lei,
giocherellando con le frange del suo scialle di lana.
«Perfetto.»
Replicò lui, riprendendo il suo mantello e gettandoselo
sulle spalle. «Ora
tornerò al teatro, forse riuscirò ad arrivare
prima che l’opera finisca.»
«Non
pensavo ti interessasse incontrare l’alta società
parigina…» Riflettè madame ad
alta voce.
Erik
scosse la testa, dirigendosi verso la porta. «In
realtà è proprio per evitarla
che voglio rientrare prima. Ma dopotutto i miei passaggi segreti sono
ancora
intatti, e non mi sarà difficile usarli.»
Louise
aggrottò le sopracciglia. «Davvero? Ero sicura che
dopo l’incendio li avessero
murati quasi tutti!»
«Madame,
avevano murato solo quello del terzo sottopalco, che peraltro non mi
è mai
servito un granchè. E ad ogni modo buttare giù i
muri non si è mai rivelato un
grosso problema, per me.» Replicò con una
invidiabile disinvoltura.
«Non
so se esserne contenta o spaventata…»
Mormorò lei.
Per
la prima volta dopo chissà quanto tempo, madame
sentì Erik ridacchiare, come se
fosse davvero divertito. «Presumibilmente la seconda,
Louise!»
Poi,
come se si fosse accorto di essersi lasciato troppo andare,
tornò subito serio.
«Ora è davvero il caso che vada. Buona notte,
madame Giry. A domani.»
Il
tono di quell’ultima parola era ovvio per chi, come Louise,
sapeva leggere tra
le righe. Vedete di non deludermi e
obbedirmi, era il chiaro senso.
Beh,
lei non l’avrebbe fatto. Decise che, forse, per salvare
quella povera ragazza
l’unico modo era di acconsentire ai desideri di Erik e di
essere il più
possibile condiscendenti con lui. Prima o poi avrebbe abbandonato le
sue voglie
di vendetta, o almeno così sperava…
Purtroppo,
sapeva anche lei quanto Erik fosse capace di covare a lungo
l’odio dentro di
sé. L’aveva provato troppe volte sulla sua pelle,
e forse era arrivato il
momento che tutto ciò finisse. Per sempre.
Chissà
se Giulia sarebbe riuscita a placare la sua ira…
|
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Capitolo 7 *** 06. In dreams he came ***
AA - Angolo Autrice:
Ehilà!
Passo subito a ringraziare la mia cara e fedele recensitrice ^^
Ovviamente ringrazio anche tutti i lettori che rimangono avvolti nel
mistero! Grazie a tutti! :)
Per
Yunie992:
Wao, grazie per i complimenti! Sono arrossita
>///< Rendere Erik è stato un parto, non so
mai come descriverlo 'sto pover'uomo xD Quanto a madame Giry, mi
sembrava un pò OOC, a dir la verità! Comunque
sono contenta che ti piaccia ;)
Bene,
vi lascio al
nuovo capitolo... A presto!
Un
bacio =*
Chapitre 6
In dreams he
came
Candele…
Migliaia,
centinaia di candele, tutte intorno a lei.
Giulia
si guardò intorno, confusa, non capendo il perché
si trovasse in quello strano
luogo a lei del tutto estraneo. Lei sapeva, oh, ne era certa come
l’Inferno, di
non esserci mai stata prima, di non aver mai visto quei tetri
sotterranei,
eppure una parola le venne alla mente, dapprima debole e indefinita,
poi sempre
con maggior certezza… Dimora sul
lago…
Cosa poteva mai significare?
Si
avvicinò lentamente all’organo che occupava tutta
un’intera parete, domandandosi
cosa mai ci potesse fare un oggetto talmente pregiato in quella che
sembrava
un’enorme cella sotterranea. Poteva avvertire il freddo umido
avvinghiarsi alle
braccia lasciate impudicamente nude da un abito che non riconobbe come
il proprio,
e rabbrividì, deglutendo.
Cercò
di distrarsi, facendo scorrere lentamente le dita sui tasti
d’avorio del
prezioso strumento, senza però premerli, come se temesse le
note che ne
sarebbero potute sgorgare. Poi la sua attenzione venne catturata da uno
strano
lucicchio, e la curiosità vinse l’accenno di paura
che aveva iniziato a
sorgerle in petto. Su un tavolo ricoperto di varie scartoffie
c’era una
scatola, forse un portagioie, all’interno della quale erano
conservati infiniti
pendenti di vetro dalla superficie sfaccettata, e inevitabilmente
sorrise,
prendendone uno tra le mani e facendolo brillare alla luce delle
candele. Oh
si, ora ricordava di quando, da bambine, lei e la cara Meg giocavano
nella
platea del teatro, intrecciandosi tra i capelli i cristalli staccatisi
dal
lampadario quando gli operai lo abbassavano per cambiare le candele, e
fingendo
così di essere esotiche principesse in età da
marito…
Ma,
un momento…! Come poteva rammentare simili episodi? Madame
Giry non le aveva
forse detto che ci sarebbe voluto parecchio tempo prima che potesse
recuperare
appieno la memoria? Di certo una guarigione simile non poteva avvenire
dopo
appena qualche giorno che aveva ripreso conoscenza! E lei
d’altronde avrebbe
giurato di non aver mai trascorso l’infanzia a teatro, le era
sembrato tutto
troppo nuovo quando vi aveva messo piede per la prima volta, solo il
giorno
precedente; e men che meno avrebbe detto di aver conosciuto Meg prima
di
allora, anche perché se così fosse stato, la
giovane Giry e sua madre
l’avrebbero di certo riconosciuta… Oh, non era
più sicura di niente, ormai…
Improvvisamente,
come uscite dal nulla, un paio di braccia visibilmente maschili la
afferrarono
dolcemente da dietro e le si chiusero in vita, stringendola come se
temessero
di poterle fare del male, e obbligandola docilmente ad abbandonare quel
suo
puerile passatempo per dedicare più attenzione allo
sconosciuto.
Giulia
rimase rigidamente immobile mentre sentiva le mani dell’uomo
percorrere
pigramente la linea dei suoi fianchi, in varie carezze morbide seppur
lascive, con
un’intrepida sicurezza che le fece capire come egli fosse
consapevole del suo
fascino e non disdegnasse di usarlo per sedurla. La sua pelle scottava
nei
punti che lui aveva solo sfiorato, così impudemente, le
braccia nude, l’incavo
del gomito, e poi le spalle e la dolce incurvatura del
collo… E poi le sue labbra
presero il posto delle mani, leggere come le ali di una farfalla, per
poi
andare a posarsi dolcemente sotto l’orecchio,
baciandola…
Malgrado
avesse sentito un delizioso brivido di piacere scorrerle lungo la
schiena, ella
dovette costringersi ad impedire che quella dolce tortura continuasse,
e si
voltò, con studiata lentezza, per svelare finalmente il
mistero dell’identità
del suo “aguzzino”.
La
prima cosa che notò del suo volto fu una stravagante
maschera bianca che gli
celava la parte destra del viso, che tuttavia non poteva nascondere la
splendida profondità dei suoi bellissimi occhi verdi che
scintillavano
nell’oscurità con una tenera malizia che
riuscì a farla arrossire.
La
ragazza avrebbe tanto desiderato domandargli chi fosse, e
perché mai si stesse
prendendo tutte quelle libertà con lei dato che –
Giulia avrebbe messo la mano
sul fuoco – non l’aveva mai visto prima, ma quando
dischiuse le labbra per dar
voce ai suoi pensieri, quasi stentò a riconoscere la sua
stessa voce, e lo
stesso pensò di quelle parole che non comprese.
«Smettila,
Erik, mio angelo…» Sussurrò,
pazientemente. «Adesso non esagerare.»
L’uomo
mascherato si inchinò, mormorando le proprie scuse da
perfetto gentiluomo, e
allora fu Giulia a sorridere e a rifugiarsi con un certo desiderio tra
le sue
braccia.
Egli
chinò il capo tra i suoi capelli e lei sentì la
sua voce, o almeno credette di
sentirla, morbida come il velluto, bisbigliarle un dolce invito
all’orecchio. «Vieni,
ma chère… Devo
mostrarti una cosa.»
Giulia
non potè fare a meno di seguirlo, fiduciosa e senza riuscire
a staccargli gli
occhi di dosso malgrado fosse estremamente curiosa di sapere chi egli
fosse in
realtà. Non si accorse perciò che lui
l’aveva trascinata di fronte ad uno
specchio, un immenso vetro circondato da una cornice dorata che prima
lei non
aveva notato. Fu solo per compiacerlo che si voltò ad
osservare il prezioso
oggetto, anche se lo fece con una certa riluttanza; si sarebbe voluta
perdere
nelle profondità di quello sguardo per sempre…
Ma
fissando la fredda e liscia superficie dello specchio non
potè fare a meno di
accorgersi che c’era qualcosa, nel suo riflesso, che non
combaciava. I ricci e
soffici boccoli dorati che le ricadevano morbidi e vaporosi sulle
spalle, gli
occhi di un azzurro quasi glaciale spalancati dallo stupore, la
scollata
camicia da notte in pizzo che lasciava ben poco
all’immaginazione…
E
la voce di Erik che le sussurrava, dolcemente…
«Sei
bellissima… Christine…»
«Ah!»
Giulia
si svegliò di soprassalto, ansimante, sollevandosi a sedere
e passandosi una
mano scossa dai tremiti sulla fronte, imperlata da piccole goccioline
di sudore
malgrado la fredda temperatura. Si guardò spaventata
intorno, stupendosi quasi
di trovarsi a casa di madame Giry, nell’ormai sua camera da
letto. Era stato
solo un sogno. Vivido, ma pur sempre frutto della sua
immaginazione…
Si
sforzò di diminuire l’accelerato battito del suo
cuore e respirare piano, e
così facendo i ricordi del sogno le tornarono chiari in
mente, come se li
avesse appena vissuti. Non aveva mai visto prima quell’uomo:
se ne sarebbe
sicuramente rammentata, dato la curiosa eccentricità di
quella maschera bianca.
E che dire dei sotterranei adibiti ad abitazione, con infinite candele
a
rischiarare un’altrimenti cupa atmosfera? E poi, non riusciva
a comprendere chi
fosse la ragazza del sogno… Si, lei aveva visto attraverso i
suoi occhi, ma
Giulia aveva lunghi capelli castani, con qualche striatura bionda,
certo, ma
non al pari dei boccoli dorati della protagonista di
quell’illusione notturna.
Eppure la somiglianza tra loro era quasi spaventosa! Era forse
possibile che
stesse già iniziando a rammentare spezzoni del suo passato?
Perché in effetti
aveva la leggera sensazione di aver vissuto simili momenti, anche se
non
riusciva a ricordarsi dell’uomo. Forse era ancora troppo
presto per quello.
E
poi, egli l’aveva chiamata Christine! Giulia non conosceva
nessuno con quel
nome, e a questo proposito, non conosceva neppure un uomo che si
chiamasse
Erik! Anche se, accidenti, se sussurrava quel nome ad alta voce aveva
l’impressione che nella sua memoria scattasse
qualcosa…
Ah,
solo pazzie. Forse più tardi ne avrebbe parlato con Meg o
con madame Giry, era
probabile che quei due nomi potessero suonare loro familiari anche se
per lei
non avevano ancora alcun significato. E come se non bastasse, non aveva
più
nessuna voglia di dormire. Si alzò, infilando una vestaglia
che le arrivava
fino ai piedi e addirittura le scivolava dietro le spalle come uno
strascico, e
si avvicinò alla finestra, scostando la tenda per vedere se
fosse ancora notte.
Era l’alba, invece; il cielo ancora cupo stava iniziando a
tingersi di rosa e
violetto, e all’orizzonte sembravano non esserci i soliti
nuvoloni carichi di
pioggia. Dopotutto sarebbe stata una bella giornata, sperava solo che
lo fosse
anche per lei.
Non
trascorse molto tempo prima che un leggero bussare alla porta la
distolse dai
suoi ingarbubliati pensieri. Dall’uscio apparve Meg, i
capelli raccolti in una
crocchia nascosta da una cuffietta da notte, con un’aria
ancora parecchio
assonnata sul viso. Socchiuse gli occhi, leggermente infastidita dalla
luce che
entrava dalla finestra, e dopo aver soffocato uno sbadiglio la
salutò.
«Buongiorno,
Giulia… Già sveglia?»
Mormorò, con la voce ancora impastata di sonno.
Giulia
sorrise. «Colpa di un brutto sogno.»
Spiegò. Sperò che la giovane Giry non si
scandalizzasse nel vederla priva di cuffietta da notte e a piedi nudi,
ma aveva
una sorta di certezza per quanto riguardava il fatto di non essersi mai
abbigliata tanto per andare a dormire. Probabilmente anche la notte
prima
sarebbe andata a letto senza indossare la camicia da notte, ma
effettivamente
il freddo era davvero troppo, malgrado la pentola ripiena di braci che
Agnese
le aveva infilato sotto il materasso.
Meg
brontolò qualcosa e fece per entrare nella stanza
dell’amica, ma una voce
severa proveniente dal corridoio glielo impedì.
«Marguerite
Giry! Corri a fare colazione, invece da perdere tempo in chiacchiere!
Non voglio
arrivare in ritardo a teatro a causa della tua pigrizia.»
La
ragazza roteò gli occhi e sospirò, rassegnata.
«Si, maman…»
Poi si rivolse a Giulia. «Vieni?»
«Arrivo
subito.» Rispose l’altra ridacchiando, avvolgendosi
in un pesante scialle di
lana e infilandosi un paio di soffici pantofole.
Vestirsi
fu senza dubbio più semplice rispetto al giorno prima, ma
ancora Giulia non
riuscita a trovare un accordo con il corsetto che era obbligata ad
indossare.
Questa volta fu Meg ad aiutarla a stringerlo, ma visto che
l’abito era composto
da una gonna e da una giacca separate l’una
dall’altra, riuscì a prepararsi
anche da sola. Madame Giry, come sempre, sorvolò sulla reale
provenienza di
quegli abiti.
Fu
solo una volta giunte al teatro che la rigida insegnante di danza le
mise al
corrente del piccolo cambio di programma.
«Prima
di gettarti nella danza, mia cara, vorrei che provassi il
canto.» Esordì in
modo piuttosto diretto, senza quasi osar guardare la figlia negli occhi.
Giulia
aggrottò le sopracciglia, confusa. «Ma come,
madame? Non avevate detto che…?»
«So
perfettamente cos’ho detto!» Ribattè
bruscamente. Subito dopo aver pronunciato
quelle parole desiderò mordersi la lingua, e
sospirò, pentita. «Perdonami,
cara… Il punto è che la danza è molto
più complicata e difficile del canto, che
si può studiare a qualsiasi età. Non nego che tu
potresti essere davvero una
splendida ballerina, credimi se te lo dico… Ma dato che non
conosciamo la tua
famiglia, e non sappiamo se ne sarebbero d’accordo, allora
è meglio non
rischiare… Quello di cui abbiamo bisogno per te è
solo una momentanea
occupazione in teatro mentre aspettiamo che tu guarisca del tutto, e il
canto è
perfetto.»
La
ragazza annuì, in realtà molto più
sollevata; l’idea di dover prendere lezioni
insieme a delle ragazze che sembravano odiarla ancor prima di
conoscerla non
l’aveva allettata particolarmente, il giorno prima. Meg
tuttavia prese la
parola prima che Giulia potesse mormorare il suo assenso.
«È
per questo che siamo venute a teatro con così tanto
anticipo?» Domandò,
scrutando la madre con attenzione. Non era una sprovveduta, sapeva
quando la
donna le stava nascondendo qualcosa proprio perché cercava
in tutti i modi di
non incrociare il suo sguardo. Ma non poteva più trattarla
come una bambina.
«In
realtà siamo quasi in ritardo, mie care.»
Replicò, osservando l’orologio che
batteva le ore dall’alto della scalinata in marmo.
«Le audizioni per il coro
iniziano tra cinque minuti.»
Meg
decise di non insistere, non in quel momento. Ci sarebbe stata
l’occasione di
discutere di quello con la madre, quando fossero rimaste sole. Giulia
non aveva
bisogno di sentire che un pazzo stava cercando di prendere le redini
della sua
vita come aveva già fatto in passato con Christine, e come
aveva intenzione di
fare nuovamente con tutti loro.
«Potremmo
assistere, maman?»
Domandò pertanto, cambiando
discorso.
La
madre ci pensò per una manciata di secondi, ma alla fine
giunse alla
conclusione che, se avesse assistito all’audizione di Giulia,
probabilmente
avrebbe anche potuto vedere Erik, nel suo palco. Oh, se lo augurava
vivamente.
«Va bene. Non penso ci siano problemi.»
Giulia
rispose con un trepido sorriso all’amica, mentre in
realtà si stava già
agitando. Un’audizione… Perché il solo
pensiero la stava mettendo in ansia?
Aveva forse paura? Oh, che sciocchezza… Paura di cosa, poi?
Decisamente era
troppo influenzabile da ciò che sognava.
Fortunatamente,
la platea non era colma di gente come le tre donne si erano aspettate.
Il
brusio era rumoroso ma derivava per lo più da un gruppetto
esiguo di ragazze
sedute in terza fila che chiacchieravano tra loro, probabilmente le
altre
aspiranti al ruolo di solista. Maestro Reyer dava le spalle al pubblico
mentre
controllava gli spariti che gli erano stati portati quella mattina dal
segretario del mecenate dell’Opera, che a quanto pareva
desiderava che le
ragazze esordissero con dei brani per niente semplici.
«Come
se non fosse già abbastanza difficile per delle bambine
esibirsi in questo
tempio della musica…» Brontolò tra
sé, prima di parlare con il primo violino e
mostrargli ciò che doveva suonare.
Il
resto dell’orchestra stava concludendo di accordare i propri
strumenti, mentre
alcune donne di servizio spolveravano i sedili della platea e il
tappeto rosso
che ricopriva il pavimento.
Madame
Giry salutò il direttore e si accomodò in seconda
fila, in modo da avere
un’invidiabile visuale di ciò che accadeva sul
palco e, perché no, anche sopra
di esso. Non erano molto lontani i tempi in cui scivolavano lettere
sigillate
dall’alto che lei doveva occuparsi di consegnare ai direttori
del teatro…
Meg
e Giulia si sedettero accanto a lei, guardandosi intorno. Le lampade a
gas
erano accese e in questo modo poterono dedicarsi allo studio di
quell’insolita
platea. Per la giovane Giry non si trattava di un ambiente estraneo e
alieno, e
perciò lo osservava con una strana ansia mista a nostalgia;
dalla notte del
crollo del lampadario le faceva sempre una strana impressione rimanere
seduta
sotto di esso.
Giulia,
invece, ammirava il tutto con occhi avidi di nutrirsi del
più piccolo
particolare. Certo, ci era già stata il giorno prima con
monsieur Bamdad, ma l’opulenza
della sola platea la colpiva sempre e insieme la affascinava,
portandola a domandarsi
come mai non si sentisse quasi soffocare dalla pesante
maestosità degli arredi
che sembravano oro e sangue mischiati in un unico elemento.
Immaginò come
doveva essere trovarsi lì per assistere ad
un’opera, o anche solo ad un
balletto, e all’improvviso questo desiderio venne
immediatamente sopraffatto
dalla brama di trovarsi sul palcoscenico e cantare direttamente ai
cuori del
pubblico, provocandone lacrime e applausi. Ah, stava correndo
troppo… Neppure
sapeva se avrebbe superato l’audizione, quindi era meglio non
illudersi.
Finalmente
maestro Reyer attirò su di sé
l’attenzione dell’orchestra, che era ormai pronta
a suonare. Si voltò poi verso il pubblico, dirigendo lo
sguardo sulle ragazzine
che non avevano cessato un attimo di spettegolare tra di loro.
«Chi
tra voi mesdemoiselles è
la prima?»
Domandò gentilmente.
Una
ragazza con lunghi capelli corvini si alzò, spavalda,
aggiustandosi l’abito blu
notte e sorridendo con una strana arroganza in direzione
dell’anziano
direttore. «Io, monsieur!»
Egli
le fece cenno di salire sul palco, mentre le porgeva un mazzo di fogli.
«Bene,
bene. Prego allora, mademoiselle, ecco a voi lo
spartito…»
La
ragazza scorse con lo sguardo la prima riga, sgranando
impercettibilmente gli
occhi. La Regina della Notte, di
Amadeus
Mozart… Bene, volevano metterla in difficoltà?
Avrebbero trovato pane per i
loro denti. Per nulla scoraggiata si portò al centro del
palcoscenico,
schiarendosi la voce. Dopodichè fece cenno a maestro Reyer
di iniziare.
Indubbiamente
la voce della giovane era molto bella, benchè forse inadatta
a quel genere di
ruolo. Era chiara ma sembrava che stesse forzandola troppo per
raggiungere note
che le erano altrimenti precluse, anche se era probabile che con uno
studio più
approfondito avrebbe raggiunto buoni livelli.
Quando
terminò di cantare, madame Giry suggerì sottovoce
a Giulia di lasciare che
fossero le altre ad andare prima di lei, in modo che potesse imparare
un po’ la
musica e non cantasse note sconosciute. Oh, la ragazza non pensava che
le
fossero sconsociute, anzi, aveva l’impressione di conoscerle
da sempre! Ma decise
lo stesso di seguire il consiglio della donna.
Le
altre tre aspiranti al ruolo non potevano proprio pensare di poter
competere
con mademoiselle de Vries, questo il nome della giovane dai capelli
corvini, ma
maestro Reyer lasciò che concludessero la loro audizione per
non metterle a
disagio. Non potè trattenere un sospiro di sollievo,
tuttavia, quando l’ultima
di loro cessò di torturargli le orecchie con i suoi tremendi
acuti.
Si
voltò per l’ennesima volta verso la platea e
domandò se vi fossero altre candidate
al ruolo. A quel punto Giulia si alzò, leggermente
imbarazzata, in modo che
l’uomo la vedesse. «Si monsieur… Ci sono
ancora io.» Disse, con un timido
sorriso.
Maestro
Reyer le sorrise incoraggiante e la invitò a raggiungerlo,
in modo che potesse prendere
anche lei gli spartiti della musica di Mozart. La aiutò a
salire sul palco e
tornò al suo posto, di nuovo pronto a suonare. Giulia
annuì e la musica iniziò,
e quando il direttore le diede l’attacco, lei dischiuse le
labbra e cantò,
senza neppure degnare di un’occhiata il libretto.
Madame
Giry sgranò gli occhi e si raddrizzò sulla
poltroncina, e così pure fece Meg. Come
poteva esssere capace di cantare in quel modo, una ragazza che sembrava
non
essere mai neppure entrata in un teatro? Cosa poteva mai celare il suo
passato,
se scoprivano ogni giorno cose nuove su di lei? Louise sperò
con tutta se
stessa che Erik non fosse presente in quel momento, perché
se l’avesse sentita
non ci sarebbe stato nessuno scampo per la giovane. Eppure la donna
sapeva
perfettamente che si trattava di una speranza vana: sarebbe stato come
augurarsi che il sole non sorgesse, una cosa sciocca quanto inutile.
Egli
doveva sicuramente trovarsi nei paraggi, se anche non era nel suo palco
era
molto probabile che stesse osservando l’intera audizione da
uno dei suoi soliti
nascondigli. Madame si domandò perché continuasse
a nascondersi malgrado ora
godesse della protezione del suo nuovo nome e titolo di mecenate, ma la
sua
questione era destinata per il momento a restare senza risposta. Era
altro
quello che importava, ora. Come ad esempio cosa sarebbe capitato a
Giulia ora
che – senza alcun dubbio – sarebbe entrata nel coro
del teatro.
Erik
aveva forse intenzione di farle da maestro?
Oh,
non un’altra volta...
Quando
l’aria cessò, Giulia rivolse istintivamente lo
sguardo verso madame Giry, come
a chiederle un parere su come avesse cantato. Non comprese la sua
espressione
che ondeggiava dalla preoccupazione al terrore, e così
guardò Meg, che al
contrario la guardava sorridente e stava cercando di trattenersi dal
battere le
mani come una bambina.
«Davvero
un’ottima esibizione, mademoiselle Sanders.» Si
complimentò con lei maestro
Reyer, dopo averle domandato il suo nome. Era sinceramente sorpreso di
aver
trovato una così valida sostituta al ruolo di solista, anche
se ne avrebbe
dovuto comunque discutere con monsieur Destler o con il suo segretario,
visto
che anche mademoiselle de Vries avrebbe potuto aspirare a quel lavoro.
«Prego,
accomodatevi con mademoiselle de Vries… Non dovrete
attendere molto prima di
conoscere il nome della nuova solista.»
Giulia
fece un breve ed educato inchino col capo, prima di scendere dal
palcoscenico e
raggiungere Meg e madame Giry che la attendevano, già in
piedi. Accanto a loro,
curiosamente, si trovava monsieur Bamdad, i cui occhi luccicavano di
interesse
mentre la osservava.
«Permettetemi
di congratularmi con voi, mademoiselle Sanders.»
Esordì, con un piccolo
inchino. «Avete numerose doti nascoste, dunque.»
La
ragazza sorrise, benchè avesse notato con la coda
dell’occhio l’espressione
irritata di madame Giry; aveva reagito così anche il giorno
prima alla presenza
del persiano, ma Giulia non ne comprendeva la ragione.
Perché madame sembrava
non sopportare quell’uomo così beneducato?
«Probabilmente
sarebbero rimaste nascoste, se madame… se mia zia non mi
avesse incoraggiato a
partecipare all’audizione di oggi.»
Replicò lei, correggendosi in tempo dopo
essersi ricordata che la storia della nipote americana non era ancora
stata
eliminata. «Comunque anche mademoiselle de Vries è
molto brava, credo meriti il
ruolo di solista più di me…»
Bamdad
lanciò uno sguardo alla giovane cantante che aveva esordito
per prima, e che
ora batteva innervosita il piede per terra senza degnare di uno sguardo
le sue
amiche che al contrario si lagnavano per come avevano cantato. Si
trattenne
dallo scuotere il capo, spazientito, alla vista di quel comportamento
così
infantile.
«A
tal proposito, devo appunto andare a parlarne con maestro
Reyer… Vogliate
perdonarmi, signore, mi ci vorrà poco.»
Annunciò, sfiorandosi il cappello e
raggiungendo il direttore d’orchestra che sembrava aspettarlo
impaziente.
«Bene…
Ce ne andiamo?» Domandò subito madame Giry,
guardandosi intorno con un accenno
di nervosismo.
«Ma
maman! Dobbiamo sentire chi ha avuto
la parte!» Ribattè Meg, sollevando un
sopracciglio. Perchè sua madre si stava
comportando in quel modo così strano? Decisamente non era da
lei.
«Ah,
già…» Sbuffò la donna,
riportando lo sguardo su un punto indefinito del palco.
Prima se ne andava dalla platea meglio sarebbe stato per i suoi
nervi… Incrociò
le braccia per resistere alla voglia di tormentarsi le dita delle mani
com’era
suo solito.
Come
aveva detto monsieur Bamdad, non dovettero attendere molto. Dopo una
manciata
di minuti, durante i quali il persiano e maestro Reyer avevano discusso
a bassa
voce tra di loro, il segretario di monsieur Destler si voltò
verso le tre donne
che attendevano di sapere il risultato, e fece loro cenno di
avvicinarsi.
Chiamò anche mademoiselle de Vries, benchè con
meno entusiasmo.
Una
volta che gli furono accanto, fu il maestro Reyer a prendere la parola.
«Monsieur
Bamdad mi ha informato della decisione presa poco fa dal nostro
direttore artistico,
nonché mecenate del teatro, monsieur Destler.»
Disse, spostando lo sguardo
dalle due ragazze a madame Giry e vicecersa. La donna temette che
l’uomo avesse
compreso la vera identità del loro mecenate,
e pertanto si sforzò maggiormente di non lasciar trapelare
nulla dalla sua
espressione, che rimase severa e inalterata.
«Il
ruolo di solista è stato affidato a mademoiselle Sanders,
che possiede già una
profonda istruzione musicale.» Annunciò, con un
mezzo sorriso. Poi si voltò
verso l’altra ragazza. «Mi dispiace, mademoiselle
de Vries, ma noi abbiamo
bisogno di una sostituta che possa cantare anche stasera stessa, nel
caso, e
non possiamo attendere che prendiate ulteriori lezioni per essere
all’altezza
del ruolo. Ad ogni modo vi faccio i miei complimenti perché
siete stata ugualmente
eccelsa.»
La
ragazza non commentò, limitandosi a stringere furiosa gli
occhi. Lanciò uno
sguardo irato e cattivo a Giulia, che sgranò
impercettibilmente gli occhi dalla
sorpresa per quella reazione esagerata, dopodichè
voltò le spalle a tutti e si
diresse verso l’uscita, senza attendere le amiche che
arrancavano frettolose
dietro di lei.
«Davvero
un comportamento infantile.» Commentò seccamente
madame Giry.
Ma
gli altri non ci fecero caso, occupandosi piuttosto di complimentarsi
con la
giovane Sanders e domandarle quando potesse già iniziare a
cantare. Meg, dal
canto suo, aveva tenuto sotto controllo la madre e si era accorta che,
mentre
gli altri erano distratti, Louise aveva rivolto il suo sguardo verso il
palco
numero 5, come se si aspettasse di vedere apparire qualcuno da un
momento
all’altro. Subito, comprese il reale motivo del nervosismo
della donna, e si
irrigidì.
Non
poteva essere vero.
Oh, Dio,
pregò tra sé silenziosamente. Fa
che non accada di nuovo.
|
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Capitolo 8 *** 07. Uno sconosciuto ***
Eccomi di nuovo qui ad
aggiornare ^^
AA - Angolo Autrice:
Bene,
sperando di non
deludere nessuno, ecco a voi il capitolo 7... Fatemi sapere cosa ne
pensate! Una recensione è sempre
ben accetta =P Inoltre mi aiutano ad andare avanti, dato che mi nutro a
cioccolato e recensioni u.u Beh, buona lettura!
Un
bacio =*
Chapitre 7
Uno
sconosciuto
Per
la prima volta dopo chissà quanto tempo, Erik era rimasto
senza parole.
Richiuse
con cura la piccola finestrella di sbarre d’acciaio che dava
sul retro del
palcoscenico, dal quale si poteva tranquillamente osservare le quinte
senza
venire disturbato, e si avviò più silenzioso di
un’ombra verso il suo ufficio.
Non
sapeva davvero che cosa pensare. Era dai tempi della sua vecchia
allieva che
non assisteva ad una simile audizione, con la differenza
però che questa volta
il merito di una simile bravura non era il suo. Come poteva mai essere
possibile?
Aveva
mandato il suo segretario, Bamdad, a rivelare la sua decisione a
monsieur
Reyer, ancora prima di assistere all’esibizione della
ragazza, dato che aveva
deciso in partenza di affidarle quel ruolo; l’audizione era
solo una sciocca ma
inevitabile formalità. Ma quando l’aveva sentita
cantare, era stato come
ricevere una pugnalata in pieno petto; Christine era stata altrettanto
brava
solo in due occasioni, e cioè la sera del suo debutto e la
notte dell’incendio,
vale a dire al principio e alla fine di quel triste capitolo della loro
vita. E
oh, quanto aveva dovuto lavorare per modellare la sua voce in modo da
far
tremare e commuovere i cuori del pubblico! Non era stato per un
semplice
capriccio infantile che lo aveva soprannominato Angelo
della Musica, persino quando aveva scoperto che lui, di
angelo, non aveva niente. Se non, forse, la voce…
E
poi l’arrivo di quel Visconte, il suo fidanzatino
d’infanzia, aveva rovinato
tutto. Tutto. Ogni cosa che Erik aveva sfiorato e aiutato a crescere e
maturare, quello sciocco damerino l’aveva ridotta in cenere.
Come il suo
teatro. Christine ormai non faceva più parte della sua vita,
questo ormai
l’aveva già appurato e deciso da tempo; ma
rinunciare alla sua vendetta, oh,
sarebbe stato impensabile.
Ed
ecco che era comparsa quella giovane, come un dono insperato mandato da
quello
stesso Dio che l’aveva maledetto sin da quando era ancora nel
grembo materno,
imponendogli quel viso disgustoso che l’avevano fatto odiare
dagli altri e che,
soprattutto, gli avevano fatto odiare se stesso. Si domandò
non senza un certo
sarcasmo se Dio si fosse in qualche modo pentito di essersi accanito
così tanto
su di lui, e se si fosse talmente spaventato del suo animo
più cupo
dell’Inferno stesso da mandargli quella ragazza per aiutarlo
a compiere la sua
vendetta. Forse voleva ammansirlo di modo che, una volta morto, Erik
avrebbe
potuto riposare in pace?
Ah!
Non esisteva pace per Erik, né in questa vità
né tantomeno nell’altra!
E
poi c’era madame Giry… Che cosa stava pensando di
fare quella donna? Non le era
bastato forse l’ammonimento della notte prima? Aveva notato
come si stava
guardando innervosita intorno, come se sentisse il suo sguardo sulla
pelle e
temesse chissà quale catastrofe. Ad ogni modo Erik non le
aveva dedicato più
attenzione del necessario, preoccupandosi piuttosto di osservare la
giovane
mademoiselle Sanders che cantava con tutta l’anima sul
palcoscenico nel quale
egli non saliva dalla notte del Don Juan
Triumphant. Non che gli dispiacesse: aveva sempre preferito
cantare per se
stesso o, al limite, per la giovane Christine, e se non fosse stato per
lei
probabilmente non si sarebbe mai esibito in pubblico, come invece era
stato
costretto a fare. Preferiva di gran lunga assistere alle opere dal suo
palco,
piuttosto che partecipare ad una di esse in prima persona. Anche
perché avrebbe
significato uscire allo scoperto, abbandonare la tiepida sicurezza del
suo
anonimato per rischiare che il pubblico si domandasse con perfida
curiosità
cosa si celasse sotto la sua maschera…
No,
era una cosa che non avrebbe mai permesso. Mai nessuno aveva
più osato cercare
di scoprire il suo segreto, dopo Christine, ed era giusto che
continuasse ad
essere così.
Finalmente
raggiunse il suo studio e, certo che non l’avesse visto
nessuno, vi entrò veloce
sentendosi improvvisamente e pazzamente al sicuro. In realtà
era una semplice
stanza che gli serviva per avere una sorta di base al teatro, dato che
non
avrebbe potuto usufruire della sua amata Dimora sul Lago ancora per
qualche
tempo, e per riunirsi con il suo segretario. Dopottutto anche lui
possedeva,
ora, un’immensa villa nella campagna parigina, ed era con
piacere che vi
ritornava la notte. Amava poter finalmente chiamare casa
un altro luogo che non fosse il teatro, gli dava la sensazione
di essere… libero.
Oh,
l’Opèra sarebbe rimasta eternamente la sua vera
casa, il suo regno, il suo
tempio… Ma aveva sempre assaporato con brama
l’idea di poter vivere come un
normale essere umano, alla luce del sole, senza più
nascondersi nell’ombra. Per
fortuna le sue ricchezze erano talmente tante – aveva
trascorso la maggior
parte della sua vita ad accumularle, senza mai riuscire a spendere un
solo franco
a causa dell’esistenza che conduceva – che gli
avrebbero consentito di avere
una vita normale ed agiata. Poco importava che fosse solo anche in
questo,
ormai la solitudine era divenuta la sua unica e vera compagna, insieme
alla
musica.
E
comunque, non aveva bisogno di nessun tipo di compagnia. La sua villa
era
immensa, si, ma gli offriva numerosi passatempi: il terreno era
così ampio che
avrebbe potuto trascorrervi un’intera giornata a cavallo
senza riuscire a
vederlo tutto, e i suoi servitori non osavano disturbarlo quando egli
si godeva
la dolcezza dei raggi del sole sulla sua pelle, un dono che gli era
sempre
stato negato.
Ma
che cos’erano tutti quei sentimentalismi di buon mattino? Con
uno sbuffo
innervosito si ricompose, andando a sedersi dietro la sua scrivania per
leggere
la posta che Bamdad gli aveva fatto recapitare come da lui richiesto.
Come ogni
mattina, non vi era nessuna nota importante: da quando era riuscito a
far
risorgere dalle sue ceneri l’Opèra Populaire, dai
teatri di mezza Europa gli
arrivavano richieste di tournée talmente allettanti che, se
fossero arrivate
agli occhi di monsieur Andrè e Firmin, sicuramente sarebbero
state accettate
senza pensarci due volte. Ma grazie al Cielo – sempre se
questo potesse davvero
essere ringraziato – Erik aveva vissuto abbastanza tempo in
quell’ambiente da
sapere che non conveniva cedere in fretta a questo genere di richieste.
La
Scala di Milano richiedeva la presenza del balletto di madame Giry per
inaugurare la prossima stagione lirica, e il Her Majesty di Londra
desiderava
che il coro partecipasse alla rappresentazione messa in scena per
l’anniversario dell’ascesa al trono della Regina.
Tutte sciocchezze… Se i
valenti artisti dell’Opèra si sarebbero fatti
desiderare, i teatri del mondo
intero avrebbero ambito alla loro presenza anche per pochi minuti.
E
poi non avrebbe sopportato di mandare lontano da lui l’arma
della sua vendetta.
Posò
le varie lettere sulla scrivania, giungendo le dita davanti al viso e
osservando il fuoco che ardeva nel camino. Se qualcuno fosse entrato in
quel
momento, non avrebbe potuto fare a meno di tremare alla vista della sua
espressione. Le fiamme che si riflettevano nei suoi occhi avrebbero
fatto
tremare il diavolo in persona, così come il sorriso gelido
che gli dipinse le
labbra.
Due
giorni dopo era già domenica.
Madame
Giry non era mai stata una fervente cattolica, o almeno, non lo era
quanto le
rigide regole della buona educazione e dell’apparenza
imponessero. Aveva
cessato di credere in Dio quando Egli le aveva portato via
l’unico amore della
sua vita, lasciandola una povera vedova in un mondo che non era stato
fatto per
le donne sole. Per non parlare poi di quando aveva trovato quel povero
ragazzo
col volto sfigurato che cercava rifugio nelle celle sotterranee del
teatro,
abbigliato come un sultano indiano ma con un’espressione
talmente disperata da
farle credere che il giovane fosse semplicemente stanco di vivere. Se
davvero
fosse esistito quel Dio buono e giusto che i sacerdoti continuavano
imperterriti ad adorare, allora certe cose non sarebbero dovute
accadere.
Ad
ogni modo, andare alla messa della domenica mattina era stata da sempre
una di
quelle tradizioni inculcate dalla sua famiglia rigidamente cattolica
sin
dall’infanzia, ed evitare di onorarle sarebbe stato come
mancare di rispetto
alla memoria dei suoi morti. Dopo essersi svegliate presto come ogni
giorno ed
essersi preparate, le quattro donne, Agnese compresa, furono pronte per
raggiungere la nuova chiesa di Saint Augustin, naturalmente in
carrozza. Se
c’era una cosa di cui Louise era certa, era che Erik non le
avrebbe mai seguite
in un luogo simile. Con la tiepida rassicurazione di questo pensiero,
madame si
avviò alla messa con un po’ più di
tranquillità nello spirito.
Una
volta che la funzione fu terminata, le quattro donne uscirono sul
sagrato della
chiesa, fermandosi ad assaporare un raro raggio di sole che si era
deciso ad
abbandonare il rifugio di una nuvola. Madame era intenta ad osservare
la folla
come se si stesse accertando che le sue allieve – o almeno
buona parte di loro
– fossero andate alla messa; era sempre solita ripetere,
infatti, che le
preghiere, di qualsiasi genere esse fossero, liberavano
l’anima e di
conseguenza anche il corpo, aiutando ad esprimere questa leggiadria
anche nella
danza. Ma Louise dovette rassegnarsi all’idea che quelle idee
erano forse
troppo antiche per le sue ragazze, dato che quasi nessuna di loro era
presente.
«Oh,
maman, guarda chi sta
arrivando!»
La
voce squillante di Meg la dissolse dai suoi pensieri, facendola tornare
al
presente. Aguzzando la vista e schermandosi gli occhi con la mano,
madame notò
un uomo farsi largo tra la folla e venire loro incontro, e man mano che
si
avvicinava si rese conto con un crescendo di irritazione che si
trattava di
monsieur Bamdad. Bene, non era Erik ma il suo tirapiedi… Che
fortuna!
«Monsieur
Bamdad… Che piacere incontrarvi anche qui.» Si
limitò ad esclamare madame Giry
con freddezza, senza porgere la mano all’uomo; quello
straniero non le faceva
una buona impressione, chissà per quale motivo.
Tuttavia
egli non sembrò prenderla a male. Sorrise dolcemente a
Giulia e salutò entrambe
le ragazze con cortesia, non disdegnando di salutare anche
l’anziana Agnese,
che era chiaramente conquistata dal fascino esotico del ragazzo. Ad
ogni modo,
Louise avrebbe semplicemente voluto domandargli se era stato il suo
padrone a
mandarlo a messa per cercarle, ma era ovvio che una cosa del genere non
sarebbe
mai potuta uscire dalle sue labbra. Perciò finse che la sua
presenza le fosse
del tutto indifferente.
«Il
piacere è mio, madame Giry.» Replicò
gentilmente il persiano. «State già
rientrando a casa?»
Louise
si impegnò a non storcere il naso, infastidita: ma che cosa
voleva da loro quel
ragazzo? «Io e Agnese dobbiamo preparare il pranzo, quindi
si, stiamo già
rientrando.»
«Che
peccato, con una così bella giornata…»
Insinuò monsieur Bamdad, rivolgendo uno
sguardo complice alle due ragazze che subito compresero cosa gli
passasse per
la mente.
«Voi
avevate forse altri programmi, monsieur?» Domandò
madame, scrutandolo
attentamente.
Il
giovane scrollò elegantemente le spalle. «Speravo
che mademoiselle Sanders e
mademoiselle Giry potessero accompagnarmi in una visita della
città. Sono
sempre talmente sommerso di lavoro da non essere ancora riuscito a
godermi
questa splendida ville lumière.»
Madame
Giry fece per ribattere in modo tagliente, ma la figlia fu
più lesta di lei. «Oh,
sarebbe un vero piacere, monsieur!» Esclamò Meg,
prendendo sottobraccio
l’amica. «Maman,
che cosa ne dici?»
Louise
fissò tra l’innervosito e il sconvolto la figlia,
come se fosse sorpresa che
accettasse un simile invito quando anche lei era al corrente del ruolo
dell’uomo. Sistemandosi meglio il cappellino nero sul capo,
madame fece un
piccolo cenno con la mano. «D’accordo, andate pure.
Ma vi voglio a casa per
pranzo, siamo intesi? Meg… Mi raccomando.»
La
giovane Giry annuì, intuendo a cosa la madre si stesse
riferendo.
«Allora
andiamo, mesdemoiselles?»
Chiese il
persiano, facendo loro cenno di precederlo. Poi si sfiorò il
cappello,
accennando un inchino verso le altre due donne. «Madame,
è stato un piacere
rivederla. Buona giornata.»
Di
sicuro Meg non avrebbe mai immaginato che un essere come il Fantasma
potesse
mai servirsi dei servigi di un giovane così gentile e
affabile come monsieur
Bamdad. Aveva chiaramente compreso le riserve che sua madre nutriva nei
suoi
confronti, dato che egli si ritrovava a servire monsieur Destler, ma di
certo
sarebbe stato poco saggio far intendere a Giulia che era meglio non
frequentare
simili individui. Dovevano mantendere il segreto, no? E quale modo
migliore per
farlo se non fingersi totalmente estranee alla verità? Meg
temeva per
l’incolumità della sua amica: non ne aveva parlato
chiaramente con maman, ma ormai era
certa che il
Fantasma stesse macchinando qualcosa che la riguardasse, solo che lei
non
poteva permetterlo. Certo, non avrebbe potuto fare molto da sola, ma
perlomeno
né lui né il suo segretario avrebbero potuto
rapirle entrambe in pieno giorno.
Passeggiarono
a lungo per le strade di Parigi, che in quella giornata di
metà ottobre era
avvolta da un caldo raggio di sole, forse l’ultimo della
stagione estiva.
Monsieur Bamdad era attratto dai pittori di strada che invadevano i
marciapiedi
con i loro strumenti, dipingendo selvaggiamente en
plein air con degli invidiabili tocchetti del pennello che
catturavano l’immagine senza nessuno studio approfondito.
Erano dei ribelli
della pittura, per così dire, e i capannelli di persone che
li circondavano
erano più che altro curiosi attirati da quel nuovo e
sconvolgente modo di
intendere l’arte.
Giulia
sarebbe rimasta per delle ore a camminare in quei boulevards senza mai
stancarsi. Inoltre, sentiva di conoscere Parigi, aveva la sensazione di
avervi
vissuto a lungo, solo non in quel modo: era come se si trovasse in un
altro
mondo, lontano anni luce da quello che conosceva. Come poteva spiegarsi
quella
sensazione? Era impossibile farlo, così decise di
semplicemente di smettere di
pensarci e godersi quella bella giornata.
Erano
arrivati nuovamente nei pressi di Place de l’Opèra
e Monsieur Bamdad stava
proponendo loro di andare in qualche piccolo caffè a fare
colazione, quando
accadde qualcosa di inconsueto. Una carrozza nera, con inciso su
entrambi i
lati un blasone dorato di chissà quale nobile famiglia, si
fermò a lato della
piazza, incurante degli sguardi che aveva attirato su di sé:
evidentemente,
nessuno dei presenti riconosceva quello stemma nobiliare.
Il
cocchiere scivolò a terra con un salto agile, andando poi ad
aprire lo
sportello della carrozza e abbassando una scaletta di metallo per
permettere
all’occupante di scendere senza fatica. Un uomo
sbucò dal buio dell’abitacolo,
uscendo alla luce e scendendo a terra con fatica. Era molto anziano o
molto
malato, a giudicare dal suo aspetto, e fu costretto a poggiarsi ad un
bastone
da passeggio come se fosse stato incapace di reggersi in piedi senza di
esso.
Una volta a terra, però, raddrizzò la schiena in
un impeto di orgoglio e
arroganza che mal si adattava con il suo aspetto emaciato, e si mise ad
osservare insistentemente la facciata del teatro come a volerla
sfidare. L’uomo
era abbigliato in modo elegante e ricercato, e malgrado indossasse un
cilindro
che gli riparava il capo dal sole, si potevano intravedere i capelli
ingrigiti
e le basette ancora scure che gli davano un’aria crudele che
forse non
meritava.
Giulia
lo vide annuire tra sé, prima che si chinasse a mormorare
qualcosa al
cocchiere, che a giudicare dalla livrea che indossava doveva essere un
suo
dipendente.
«Chi
è quell’uomo?» Domandò
rivolgendosi a Meg, che come lei non aveva perso uno
solo dei movimenti di quello straniero. Entrambe sapevano che non era
segno di
buona educazione fissare in quel modo uno sconosciuto, ma egli aveva
praticamente gli occhi di tutta la piazza puntati addosso, e le due
ragazze non
ci trovarono perciò nulla di male.
Meg
scrollò le spalle, incuriosita quanto lei.
«È chiaro che sia un nobile, ma non
ti so dire chi sia. Non ho mai visto quello stemma prima
d’ora, e ti posso
assicurare che conosco i blasoni di tutti i nobili che vengono a
teatro, a
furia di vedere le loro carrozze parcheggiate qui fuori.»
Giulia
annuì, con una strana sensazione all’altezza dello
stomaco. Si voltò verso il
loro accompagnatore, ma quando vide l’espressione di monsieur
Bamdad non potè
fare a meno che sussultare, spaventata. Il persiano sembrava conoscere
quel
vecchio, a quanto pareva, o perlomeno non era del tutto sorpreso dal
suo arrivo
quanto lo erano loro due. Aveva ridotto gli occhi a due fessure per
osservarlo
meglio da lontano, e a giudicare dal suo sguardo sembrava averlo
ricosciuto.
«Conoscete
quell’uomo, monsieur Bamdad?» Domandò
pertanto la ragazza, con cautela.
L’uomo
fissò ancora a lungo l’uomo dall’altra
parte della piazza, prima di scuotersi e
rivolgersi nuovamente verso di lei. «Perdonatemi,
mademoiselle. No, non lo
conosco…» Replicò invece, mascherando
la sua espressione di poco prima dandole
quasi l’impressione di essersela immaginata. «Ha
solo un’aria familiare.»
Tuttavia
rimasero ad osservarlo fino a quando il vecchio non risalì
sulla vettura e se
ne andò, sparendo dietro l’angolo, accompagnato
solo dal rumore degli zoccoli
dei cavalli che pestavano il selciato. Quando di lui non rimase che il
ricordo,
monsieur Bamdad si rivolse alle ragazze con un’espressione
addolorata sul viso.
«Vi
devo chiedere perdono, mesdemoiselles,
ma si è fatto molto tardi e monsieur Destler mi attende per
del lavoro da
sbrigare.» Annunciò, gravemente. «Mi
rincresce davvero dover interrompere la
nostra passeggiata.»
Meg
e Giulia sgranarono impercettibilmente gli occhi e si scambiarono uno
strano
sguardo, preoccupate: come mai tutta quella fretta
all’improvviso?
«Vi
accompagnerò subito a casa.» Proseguì,
come se fosse ansioso di rimanere solo.
«Venite, la mia carrozza è nelle scuderie del
teatro.»
Arrivarono
a casa di madame Giry con un inevitabile anticipo, ma malgrado monsieur
Bamdad
avesse premura di andarsene, scese dalla carrozza per aiutarle a
smontare e
accompagnarle fin sotto il portico, senza dimenticare le buone maniere.
Le due
ragazze rimasero sulla porta fino a quando l’elegante landau
del persiano non
girò l’angolo, dopodichè Meg
incrociò le braccia, pensierosa.
«Perché
tutta quella fretta?» Domandò, dando voce ai
pensieri dell’amica.
Giulia
scrollò piano le spalle, non sapendo cosa dire.
«Forse ha riconosciuto
quell’uomo nella carrozza nera.» Rispose,
titubante. «A me non ha fatto una
buona impressione, quel vecchio… Ma forse è solo
una sciocca sensazione.»
Guardò
l’amica, che ricambiò subito il suo sguardo.
«Pensi che sia il caso di dirlo a
tua madre?»
Meg
scosse piano la testa. «Non lo so. Forse no… In
fondo non è successo niente di
male. Anzi, è probabile che maman
sia
felice che la nostra passeggiata con monsieur Bamdad sia finita
così presto.»
Giulia
annuì lentamente, mentre la giovane Giry si voltava verso la
porta e bussava un
paio di colpi dato che non aveva portato le chiavi con sé.
Meg aveva ragione,
non era successo niente di male… Ancora. Quel vecchio
nobiluomo aveva l’aria di
nascondere qualcosa, e a giudicare dal modo in cui aveva studiato la
facciata
dell’Opèra, poteva essere qualcosa che avrebbe
presto riguardato tutti loro.
Sperava
di sbagliarsi, comunque. Ma le nuvole grigie cariche di pioggia che
avevano
iniziato ad affollare il cielo in lontananza non fecero che marcare il
suo tetro
presentimento.
Agnese
venne ad aprire loro la porta giusto in tempo prima che iniziasse a
piovere.
La
giornata di sole era già finita.
|
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Capitolo 9 *** 08. Segreti svelati e segreti mantenuti ***
AA -
Angolo Autrice:
Altro
aggiornamento!
Wao,
che velocità... Mi stupisco di me medesima xD Comunque, per
rispondere alla mia cara lettrice... <3
Yunie992: Beh
beh, il vecchio barbuto rimarrà avvolto nel mistero ancora
per un bel pò u.u E in effetti Raoul è ancora
giovane, poraccio ^^'' Ma ti do ragione quando dici che puzza di
guai... E qui mi fermo! =P Comunque grazie mille per i tuoi commenti,
mi fa sempre piacere trovarne uno nuovo! ^^
Bene,
e con questo passo e chiudo... Godetevi il nuovo capitolo!
Un
bacio =*
Chapitre 8
Segreti
svelati e
segreti mantenuti
Quando
Giulia tornò all’Opèra con le due Giry,
il lunedì successivo, si diresse con
una strana eccitazione alla sua prima lezione di canto del coro del
teatro.
Meg
e sua madre la
accompagnarono in platea,
dove circa quaranta persone sedevano sulle comode poltroncine rosse,
chiacchierando tra loro nell’attesa che arrivasse la tanto
attesa solista.
Prima di andarsene, Meg abbracciò l’amica
augurandole sorridendo buona fortuna,
mentre madame Giry attese che la figlia fosse distante prima di parlare
alla
giovane.
«Mi
raccomando, ma chère,
non
allontanarti da sola per nessun motivo.» Le
sussurrò, leggermente in ansia. «Promettimi
che rimarrai sempre insieme a qualcuno, va bene? Purtroppo il teatro
non è
sicuro quanto vorremmo.»
Giulia
si limitò ad annuire, accennando un sorriso: le dispiaceva
che la donna si
mettesse così tanto in agitazione per niente.
«Certo, madame. Non
preoccupatevi.»
Louise
sospirò e, prima di raggiungere la figlia che
l’attendeva sulla porta, le
sfiorò la fronte con le labbra in un bacio materno.
«Mi raccomando.» Insistè,
con premura.
Quando
se ne furono andate, Giulia andò a cercarsi un posto tra gli
altri coristi, ma
un cenno di monsieur Reyé le fece comprendere che il
direttore la voleva sul
palcoscenico. Si sentì le guance andare in fiamme mentre
saliva gli scalini per
portarsi al centro della scena come il giorno dell’audizione:
solo che questa
volta avrebbe avuto un ampio e più vasto pubblico.
«Mesdames
e messieurs,»
esordì maestro Reye, attirando subito tutta
l’attenzione su di sé. «Prima di
iniziare con la solita lezione, devo
presentarvi la nostra nuova solista: mademoiselle Sanders.»
Il
caloroso applauso di benvenuto che seguì quelle parole non
fece che far
imbarazzare Giulia ancora di più; non amava, sentirsi al
centro dell’attenzione
come in quel momento, e soprattutto tra persone del tutto estranee. Ma
si
sforzò di fare un elegante inchino nella loro direzione e di
sorridere,
timidamente.
«Perfetto.»
Annuì il direttore, rivolgendosi poi verso la platea.
«E adesso, tutti sulla
scena. Vite, vite! Non
c’è tempo da
perdere.»
Durante
le prove per l’opera di quella sera, il Nabucco,
nella quale Giulia avrebbe potuto cantare anche non da solista, tanto
per
iniziare, i timori di madame Giry si rivelarono essere più
fondati di quanto la
donna stessa non credesse. La perspicace insegnante di danza non
sbagliava,
infatti, nel ritenere che Erik spiasse tutto ciò che
avveniva nei suoi domini
come tanto tempo prima, e soprattutto non era del tutto errata la sua
convinzione che volesse tenere sotto controllo la ragazza. Certo, se
avesse
saputo come stavano in realtà le cose, si sarebbe augurata
con tutta sé stessa
che la storia si ripetesse, così com’era avvenuto
con la viscontessa de Chagny;
ma sicuramente avrebbe impedito a Giulia anche solo di entrare in
teatro, se
avesse scoperto che le uniche mire di Erik nei confronti della ragazza
erano un
puro desiderio di vendetta.
Questa
volta, monsieur Destler aveva deciso di osservarla dal palco numero 5,
che da
sempre gli era appartenuto, in compagnia del suo segretario. Il giovane
persiano aveva riferito al principale dell’arrivo in
città di un certo duca
Lescroart, in passato conosciuto come De Blanchard, l’ultimo
discendente di una
delle famiglie nobiliari più antiche di tutta la Francia.
Monsieur Bamdad non
conosceva fino in fondo le ragioni che avevano spinto Erik ad
ordinargli di
tenerlo d’occhio, ma quello che gli era chiaro, ora che
conosceva Destler da
più di tre anni, era che l’uomo lo odiava
profondamente. E avere come nemico un
essere come lui non poteva che rivelarsi fatale…
Con
un sospiro, e rinunciando a comprendere in partenza il suo principale,
Bamdad
volse il suo sguardo al palcoscenico, notando con la coda
dell’occhio che anche
monsieur Destler osservava la stessa persona che guardava lui.
Mademoiselle
Sanders.
La
ragazza sembrava parecchio intimidita mentre maestro Reyè le
faceva cantare
davanti al resto del coro l’aria del grande Verdi, che
comunque ella stava
interpretando con una maestria ed una bravura a dir poco sublimi. Quel
giorno
indossava un semplice ma elegante abito da giorno di un tenue blu
cobalto, che
ben si adattava alla sua carnagione chiara e ai capelli castani
raccolti in una
crocchia ma che lasciavano una ciocca libera di ricaderle in morbide
onde su
una spalla; gli occhi le brillavano e le gote avevano assunto una
deliziosa
tonalità rossa che non faceva che renderla irresistibile
agli occhi di chiunque
posasse il suo sguardo su di lei. Non sapeva perché monsieur
Destler fosse così
interessato a lei: che anche lui non fosse stato capace di resistere al
suo
fascino era quasi impossibile da credere, dato che il suo sguardo
rimaneva
gelido in ogni occasione, capace di mostrare solo rabbia, odio e
dolore, ma mai
qualcosa che ricordasse l’affetto o sfiorasse, addirittura,
l’amore. Il grande
compositore Erik Destler sembrava non essere mai stato capace di
provare simili
sentimenti.
Lui,
invece… Se solo fosse stato sicuro che mademoiselle Sanders
era libera da
qualsiasi genere di impegno sentimentale, malgrado si fosse accorto di
non
essere molto gradevole alla zia, la severa madame Giry, probabilmente
si
sarebbe fatto avanti… Ma come affrontare simili argomenti,
col rischio di
metterla a disagio e farla allontanare inevitabilmente da
sé? Non era molto
abituato a simili usanze occidentali, nel suo paese se un uomo
desiderava una
donna la prendeva e basta o, qualora essa fosse appartenuta ad una
famiglia
ricca ed importante, ne avrebbe discusso il prezzo con il padre. Ma ora
non si
trovava in Persia, e si sarebbe dovuto adattare a simili e strane
usanze…
Dopotutto mademoiselle Sanders ne valeva la pena.
Sovrappensiero,
si mise a sfiorarsi i folti baffi scuri, unico vezzo che si era
concesso in
ricordo della sua terra natale; quasi non si accorse che monsieur
Destler si
era alzato, lasciandolo solo nel suo palco.
In
questo modo trascorse un’altra settimana. La domenica
successiva, dopo la messa
consueta, Meg e Giulia accompagnarono madame Giry a far visita ad una
vecchia
amica della donna, che non usciva più di casa da quando una
malattia le aveva
colpito le gambe impedendole di muoversi da sola. A
settant’anni, madame
Valerius dimostrava molti più anni di quelli che aveva.
Meg
aveva celermente istruito l’amica a proposito della donna;
ella era la madrina
di battesimo di mademoiselle Daaè, aveva sempre vissuto in
Francia ma, quando
il padre della giovane viscontessa era morto di tisi, lasciando orfana
una
bambina di poco più di nove anni, la donna non aveva esitato
ad andare in
Svezia per prendersi cura di lei, istruendola e permettendole di
frequentare una
scuola di danza, dato che la piccola sembrava aver perso ogni interesse
per il
canto con la morte di monsieur Daaè. Cinque anni dopo, le
due donne tornarono a
Parigi, dove la giovane Christine entrò senza problemi
all’Opèra grazie alla
fama del padre e all’influenza della madrina.
«Maman
ha sempre detto che mio padre era
stato un grande amico di monsieur Valerius,» aggiunse Meg,
concludendo il suo
racconto. «E dato che sia lei che la signora Valerius sono
rimaste vedove molto
giovani, maman non ha mai smesso di
andarla a trovare. A quanto ne so questa povera donna non ha nessun
parente che
possa prendersi cura di lei, ora che anche Christine se
n’è andata.»
Giulia
annuì, dando segno di aver capito. «Ma non le
darà fastidio che ci sia anch’io?
Dopotutto non mi conosce nemmeno…»
Meg
scrollò mestamente le spalle, con un sospiro.
«Tanto ormai non riconosce quasi
più neppure maman, e
dire che veniamo
da lei una volta a settimana… Ma è molto anziana,
ed è caduta in depressione
dalla morte della cugina, la madre di Christine. Il periodo in cui si
prese
cura di lei era riuscita a guarire, ma adesso che è sola ha
come perso ogni
ragione di vivere.»
Madame
Giry si voltò verso le due ragazze, lanciando uno sguardo
severo alla figlia.
«Basta parlare in quel modo, Meg!» La
rimpreverò. «Giulia potrebbe farsi
un’idea sbagliata di madame Valerius, e inoltre non
è educato spettegolare su
chi è più grande di te.»
La
giovane Giry annuì, trattenendo l’esasperazione.
«Si, maman…»
«Ad
ogni modo, siamo arrivate.» Aggiunse Louise, fermandosi di
fronte ad un
elegante villetta a due piani la cui facciata era ricoperta da
un’edera
rigogliosa che spuntava dal piccolo giardino d’ingresso. La
donna si diresse a
passo sicuro verso il portone, sbattendo con forza il batacchio e
attendendo
che qualcuno venisse ad accoglierle. Dopo una manciata di minuti la
porta si
aprì, e una giovane infermiera, di qualche anno
più grande di Meg, le fece
accomodare all’interno della casa, riconoscendole.
«Oh,
buongiorno madame Giry.» La salutò, richiudendo
poi la porta alle sue spalle. «Stavamo
giusto parlando di voi con madame Valerius. Venite, vi sta
aspettando.»
Louise
si voltò per far cenno alle due ragazze di precederla,
dopodichè seguirono
l’infermiera su per le scale, verso la camera da letto
padronale di madame
Valerius. Quella mattina, la donna sembrava essere abbastanza lucida da
ricevere le sue ospiti e conversare con loro: quando
l’infermiera, mademoiselle
Clairette, le aveva fatte entrare nella sua stanza da letto, madame
Giry e le due
ragazze videro che madame sferruzzava a maglia comodamente seduta nel
suo
letto, il pallido viso emaciato rischiarato da una debole scintilla di
buonumore. Una lunga treccia bianca, con qualche ciuffo più
scuro a ricordo
della chioma corvina che aveva avuto da giovane, le ricadeva su una
spalla, e
uno scialle in lana le ricopriva le spalle. Tutto sommato non sembrava
particolarmente malata o depressa, ma poteva essere semplicemente un
caso.
Madame
Giry sorrise, togliendosi il cappellino e i guanti e raggiungendo
l’anziana
donna accanto al letto.
«Oh,
cara mamma Valerius!» Esclamò Louise, sedendosi
sulla sedia di fianco al
tavolino da notte e allungando una mano a sfiorare quella della donna.
«Come
state, stamattina?»
L’altra
smise per un attimo il suo sferruzzare, voltandosi verso madame Giry
come se si
fosse accorta solo in quel momento della sua presenza. «Ma chère!»
Esclamò piano, con una dolce voce ovattata. «Era
da un
po’ che non venivate a trovarmi, n’est
pas? Ad ogni modo sto molto bene, vi ringrazio.»
A
quel punto si voltò verso le due ragazze, incuriosita.
«Questa bella fanciulla
dev’essere vostra figlia, non è
così?» Domandò, riferendosi a Meg che
le
sorrise indulgente. «E l’altra… Non la
conosco…»
Appena
finito di pronunciare queste parole, madame Valerius sgranò
gli occhi,
sconvolta, artigliando con le lunghe dita la coperta e respirando
affannosamente. Poi tese le braccia verso Giulia, come impazzita, e le
lacrime
presero a scorrerle lungo le guance.
«Isabelle!»
Gridò, senza alcun ritegno. «Isabelle, mia vita,
mio tesoro! Sei viva!»
Giulia
non si avvicinò, spaventata, e subito raggiunta da Meg che
cercava di coprirla col
proprio corpo alla vista dell’anziana donna. Madame Giry si
alzò, e
contemporaneamente mademoiselle Clairette entrò nella stanza
dirigendosi a
colpo sicuro verso il tavolino da toilette della donna, versando in un
bicchiere uno dei calmanti lasciati dal dottore per le evenienze di
quel
genere. Dovette forzare madame Valerius a berlo, dato che la donna era
troppo
euforica e agitata, e mentre ella era occupata a deglutire la medicina
Clairette sussurrò a madame Giry di uscire per un attimo
dalla stanza, e di
portare con sé le due ragazze.
Louise,
malgrado fosse terribilmente impallidita, afferrò Meg e
Giulia trascinandole
nel corridoio senza farselo ripetere un’altra volta. Che cosa
era successo? Possibile
che quella povera madame Valerius avesse davvero riconosciuto Giulia?
Nessuno
sapeva cosa la ragazza celasse nel suo passato, semplicemente
perché non lo
sapeva nemmeno lei, ma e se avesse trovato davvero qualcuno in grado di
riconoscerla? Certo, restava il fatto che l’anziana
nobildonna l’avesse
chiamata con un altro nome, e che effettivamente non era mai abbastanza
lucida
da poter riconoscere qualcuno – era stato un caso che quel
giorno si fosse
ricordata il nome di madame Giry – ma se invece fosse stato
così?
Giulia
e Meg si erano sedute sulla chaise longue
che si trovava nel corridoio, e osservavano preoccupate la porta chiusa
della
camera della padrona di casa, in attesa che Clairette uscisse a dir
loro
qualsiasi cosa le potesse tranquillizzare. Quando
l’infermiera le raggiunse,
perciò, entrambe si alzarono, facendo cenno di avvicinarsi.
Ma madame Giry
glielo impedì con un gesto della mano, prendendo da parte
mademoiselle
Clairette e chiedendole se poteva parlare in privato con madame
Valerius.
L’infermiera
esitò, osservando lo sguardo deciso della donna.
«Non saprei, madame… La
signora ha bisogno di riposare, era da un po’ di tempo che
non aveva le sue
crisi e ho paura che un'altra emozione potrebbe farle
male…»
«Voglio
molto bene a madame Valerius, mademoiselle, e le assicuro che non farei
mai
niente che potesse farle male.» Replicò Louise,
con un tono che non ammetteva
repliche. «Ma ho veramente bisogno di parlare con lei, anche
solo per qualche
minuto. È davvero importante.»
Alla
fine Clairette fu costretta ad annuire, facendo cenno a madame di
seguirla
nuovamente dentro la camera della donna; Giulia e Meg rimasero fuori,
in
attesa.
La
camera adesso era immersa in penombra; l’infermiera aveva
richiuso le tende per
rendere l’ambiente il più tranquillo possibile, e
anche madame Giry aveva
l’impressione che quell’oscurità la
soffocasse, non commentò né si
lamentò,
limitandosi a raggiungere la sua anziana amica.
«Come
va, mamma Valerius?» Le chiese, dolcemente.
La
donna gemette, afferrando una mano di Louise e stringendola forte tra
le sue. «Louise,
dovete dirmi chi è quella fanciulla…»
Madame
Giry sospirò, decidendo che era meglio essere sincera.
«Non so chi sia, maman.»
Le disse, affettuosamente. «L’ho
trovata priva di sensi, a teatro, con la febbre alta… E
l’ho portata a casa mia
per prendermi cura di lei.» Non era necessario dirle che era
stato Erik a
trovarla.
«Non
vi ha detto il suo nome? Da dove viene?» Insistè
la nobildonna, tra un colpo di
tosse e l’altro.
Louise
scosse la testa, prima di ricordarsi che madame non la poteva vedere.
«No… Ha
perso la memoria, ma ha detto di chiamarsi Giulia. Non ho mai sentito
il nome
Isabelle uscire dalle sue labbra.»
«Allora
dev’essere per la perdita di memoria che non
rammenta.» L’interruppe madame,
prendendo un respiro che sembrava dolerle. «Io sono vecchia,
Louise, ma la mia
vista è ancora perfetta… E anche voi avreste
dovuto comprenderlo, visto che
conoscevate la mia piccola Christine.»
Madame
Giry provò a ribattere. «Certo, e ho notato che la
somiglianza è notevole, ma…»
«Non
si tratta solo di somiglianza, Louise!» La
rimbeccò mamma Valerius, leggermente
irritata. «Oh, è probabile che voi non lo
sappiate, dato che io ho giurato
sulla tomba di mia cugina di non farne mai parola con nessuno,
ma…»
Un
colpo di tosse interruppe il suo racconto, ma la donna si riprese in
fretta. «Isabelle,
la madre di Christine, ebbe due figlie. Due gemelle, a dir la
verità. Nacquero
qui, a Parigi… Ma solo qualche notte dopo, Isabelle, la
più piccola delle due,
sparì… Nessuno seppe mai il motivo, semplicemente
un mattino, nella loro culla,
c’era solo Christine. È per questo che mia cugina
decise di lasciare la Francia
per tornare nella terra natìa del marito, il povero
Gustave… Rimanere nella
stessa città che le aveva portato via uno dei suoi tesori
più grandi era
troppo, per lei.»
Prese
fiato, decisa ad andare fino alla fine. «La mia dolce cugina
non sopravvisse
molto al dolore. Al quarto compleanno della piccola Christine, ella non
resistette e si tolse la vita.» Madame Giry vide le lacrime
che scorrevano sul
volto dell’anziana donna, ma questa sembrava non avere
nessuna intenzione di
smettere di raccontare. «Gustave l’ha cresciuta da
solo, malgrado anche la sua
sofferenza fosse grande… Le storie che raccontava su una
bambina di nome Lotte
erano dedicate alla bambina scomparsa, e quando raccontava a Christine
che le
avrebbe mandato un angelo a proteggerla, una volta in paradiso, si
riferiva
alla sua piccola sorellina scomparsa.»
«Ma
ora so che la piccola Isabelle è sopravvissuta!»
Aggiunse, questa volta
piangendo lacrime di felicità e gioia. «Anche se
voi la chiamate in un altro
modo, Louise, io so che
è lei… Gli
stessi occhi, la stessa bocca, persino lo stesso modo di aggrottare le
sopracciglia
sono le stesse di sua madre… E inoltre lei e Christine sono
due gocce d’acqua.
Come avete fatto a non rendervene conto subito?»
Madame
Giry non disse una parola, osservando un punto indistinto davanti a
sé. Che
sciocca era stata, avrebbe dovuto comprenderlo da subito che
c’era qualche
legame con la sua cara Christine… Ma certo non immaginava
fosse qualcosa di
così profondo! Ma non avrebbe potuto dirlo a
nessuno… Se ne avesse fatto parola
con Giulia, probabilmente per la ragazza sarebbe stato uno shock troppo
forte,
e il dottor Mounier le aveva ribadito più volte che non era
il caso di
sottoporla ad altre emozioni, se avessero voluto che recuperasse la
memoria
senza alcun problema. Ma allora, cosa fare?
«Ma…
Come possiamo essere sicuri che sia lei, davvero? Se dite che era
scomparsa,
che forse è morta, allora…»
Provò a replicare madame, a bassa voce. Temeva che
dal corridoio le due ragazze potessero sentire ogni cosa.
«Louise,
non credevo che foste davvero così
cieca…» Mormorò, con un sospiro.
«Ad ogni
modo, rammento che la piccola Isabelle aveva tre piccoli nei allineati
sul
petto, era l’unico modo che avevamo per distinguerle, prima
che sparisse… Per
avere ogni certezza non avete che da guardarle il petto.»
Madame
Giry avrebbe voluto porgerle altre mille domande, ma in quel momento la
porta
si aprì e mademoiselle Clairette entrò nella
stanza, avvicinandosi con passo
deciso al letto.
«Madame,
ora è meglio che riposiate.» Mormorò,
rivolgendosi all’anziana mamma Valerius.
Poi si voltò verso madame Giry, gentile ma risoluta.
«Mi dispiace, madame, ma
ora dovete andare. La signora deve riposare.»
Louise
annuì lentamente, alzandosi e osservando madame Valerius che
veniva rimboccata
come una bambina dalla giovane infermiera. Sospirò, poi
volse loro le spalle ed
uscì dalla stanza senza osare guardarsi indietro. Quello che
aveva scoperto
l’aveva sconvolta… Non si aspettava una simile
rivelazione. E non voleva
pensare che fosse tutto frutto della fantasia della donna, anche se
ella era
malata Louise dubitava che potesse inventarsi di sana pianta una storia
simile.
E ora avrebbe dovuto tenere il segreto per sé. Rivelarlo a
Giulia era fuori
discussione, per il bene della ragazza…
A
quel punto le venne in mente Erik.
Mon Dieu, se avesse
saputo che Giulia era
la gemella di Christine avrebbe potuto attuare chissà quale
macabro piano di
vendetta… Le vennero i brividi al solo pensarci. No, decise,
non poteva farne
parola con anima viva, almeno per il momento. Quando la ragazza avesse
recuperato la memoria spontaneamente glielo avrebbe detto, ma prima di
allora
avrebbe dovuto fare finta di niente.
Fece
cenno a Meg e a Giulia di seguirla, mentre scendevano le scale per
andarsene da
quella casa. Aveva una strana e oscura sensazione, come se fosse in
attesa di
un disastro… Scosse la testa, prese un profondo respiro e
raddrizzò la schiena.
No. Questa volta avrebbe gestito lei la situazione. Un tempo aveva
lasciato che
Erik facesse tutto ciò che desiderava e aveva permesso che
facesse soffrire
un’anima innocente… Ma questa volta non sarebbe
andata così.
Silenziosamente
pregò che il povero Gustave si prendesse cura di questa
figlia ritrovata.
O gli
angeli
avrebbero pianto un’altra volta.
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Capitolo 10 *** 09. Un patto col Diavolo ***
Chapitre 9
Un patto col
Diavolo
E
alla fine arrivò la sera del Nabucco, dove Giulia avrebbe
cantato per la prima
volta sul palcoscenico del teatro davanti ad un pubblico accuratamente
selezionato dalle rigide regole della nobiltà. In
realtà la ragazza non era
particolarmente agitata: confidava nel fatto di non cantare da solista
– non
credeva di essere già pronta ad un simile battesimo del
fuoco – ma l’emozione
che comunque provava era tangibile. Madame Giry non si era potuta
allontanare
dalle sue ballerine perché voleva accertarsi che
ripassassero i passi invece di
perdersi in chiacchiere, ma al suo posto aveva mandato Meg.
Dietro
le scene l’atmosfera era caotica e il caldo era afoso; le
sarte andavano su e
giù per dare gli ultimi ritocchi ai costumi, le comparse si
riscaldavano la
voce con gli ultimi vocalizzi e le ballerine facevano alcuni esercizi
di
riscaldamento per sciogliere i muscoli. In mezzo a tutto quel caos Meg
riuscì a
trovare Giulia che, appartata in un angolo, canticchiava
l’aria principale
dell’opera, Và Pensiero.
Le
arrivò alle spalle, afferrandole la manica del vestito e
facendola sussultare
spaventata.
«Meg!»
Esclamò, con un sorriso.
L’amica
l’abbracciò, affettuosa. «Sei
agitata?» Chiese, guardandola. «Su, non
preoccuparti! Canterai splendidamente, come sempre.»
Giulia
aggrottò le sopracciglia, preoccupata. «Se
stono…»
«Non
dirlo neanche per scherzo!» La rimproverò per
scherzo la giovane ballerina. «Immagina
di essere da sola, in camera tua, e canta solo per te… Non
lasciarti
impressionare dal pubblico.»
La
ragazza annuì, leggermente più rincuorata.
«Grazie mille, Meg.»
All’improvviso
Meg divenne completamente seria, cancellando l’espressione
spensierata dal suo
volto e abbassando la voce il più possibile, in modo che
solo Giulia potesse
sentire ciò che aveva da dirle.
«Tieni
gli occhi fissi sulla platea mentre canti, chèrie.»
Mormorò, senza scherzare affatto. «Non guardare
nient’altro. Soprattutto, non
voltarti verso il palco numero 5… È molto meglio
per te se fingerai che un simile
luogo non esista nemmeno.»
Giulia
si scostò leggermente dall’amica, aggrottando le
sopracciglia e cercando di
scrutarla curiosa in viso. Perché parlava in quel modo?
«Meg, che cosa stai
dicendo? Perché mai non…»
«Sssht!»
Sibilò la ballerina, portandosi un dito sulla bocca e
attirandola in un angolo
ancora più nascosto e appartato. «Non sto
scherzando, Giulia! Qui persino i
muri hanno le orecchie… E non è bene sfidare la
sorte.»
«Inizio
a spaventarmi, Meg…» Balbettò
l’altra, iniziando a sentirsi a disagio.
La
piccola Giry sospirò, dispiaciuta, ma poi si
limitò a scrollare le spalle. «Mi
spiace, non era mia intenzione spaventarti cinque minuti prima della
rappresentazione… Ma forse è meglio
così.» Concluse, annuendo tra sé.
«Almeno
sarai più prudente…»
«Più
prudente? Meg, cosa…?»
«Meg?
Meg!» Un’altra ballerina corse verso di loro,
facendo gesti con le braccia per
attirare l’attenzione su di sé. «Meg,
dobbiamo entrare in scena! Presto,
vieni!»
«Arrivo,
Ninì!» Rispose la bionda, facendole cenno di
aspettarla. Poi si voltò
nuovamente verso Giulia, abbracciandola forte e dandole tre baci sulle
guance. «Mi
raccomando, ricorda cos’ho detto…»
Insistè, preoccupata.
A
Giulia non rimase che annuire, accennando un sorriso. «Va
bene, tanto sarò così
nervosa da non riuscire a staccare lo sguardo dal maestro
Reyè… Ma Meg,»
aggiunse, prendendole una mano per trattenerla ancora. «Ti
prego, prometti che
mi spiegherai questa situazione!»
Meg
la osservò pensierosa e indecisa, ma alla fine
annuì e le ricambiò la stretta
sulla mano. «Si si, va bene. Dopo l’opera, vai
nella cappella che c’è in
prossimità del terzo sottopalco e aspettami
lì… Quando arrivo ti spiegherò ogni
cosa.»
Era
il momento che anche Giulia sapesse, in fondo, che genere di creatura si nascondesse ancora a teatro
in modo che potesse guardarsene meglio… Si,
annuì Meg tra sé mentre raggiungeva
Ninì, anche
maman sarà dello stesso avviso, dunque non sto facendo nulla
di male.
Mentre
si preparava per fare il suo ingresso sulla scena, seguita dalle sue
altre
colleghe, non resistette e sbirciò da dietro il pesante
sipario di velluto
rosso ricamato in oro con le iniziali dell’Opèra
Populaire, che necessitava di tre macchinisti per aprirlo
dall’alto, tanto
era pesante. Il suo sguardo corse al palco numero 5, malgrado i severi
ammonimenti che aveva appena finito di dire alla sua amica;
ciò che vide la
fece rabbrividire, terrorizzata. Il palco era occupato unicamente da
due
uomini: il primo, colui che si sporgeva per controllare le persone
presenti in
platea, era monsieur Bamdad; l’altro, leggermente celato
dalla tenda e
interamente avvolto nell’ombra, era sicuramente monsieur
Destler.
Ma
Meg conosceva la sua vera identità.
Oh
si, lei sapeva.
E
non avrebbe permesso che quel mostro rovinasse anche la vita della sua
cara Giulia.
Tuttavia,
ad un certo punto monsieur Bamdad si chinò discretamente
verso il suo
principale per bisbigliargli qualcosa all’orecchio,
l’altro fu costretto ad
avvicinarsi al giovane persiano, che evidentemente aveva parlato a voce
troppo
bassa. E fu quando Meg vide la metà del viso, che egli
rivolgeva
involontariamente verso di lei, risplendere perlacea a causa delle luci
provenienti dal lampadario, che non potè trattenere un
gemito, lasciando cadere
il lembo del sipario e indietreggiando.
Davvero,
non osava immaginare cosa sarebbe
potuto accadere se il Fantasma avesse deciso di prendere di mira la
ragazza. E
non potè neppure farlo, d'altronde, perché i
colpi severi della bacchetta che
madame Giry aveva battuto sul pavimento la riportarono subito
all’ordine,
preparandola alla sua entrata in scena.
Non
aveva tempo per pensarci, ora. Ma quando avrebbe rivelato tutto a
Giulia, Meg
era certa che la ragazza sarebbe stata capace di comportarsi di
conseguenza.
Qualunque
fosse la ragione dell’apprensione di Meg, la giovane
ballerina non aveva di che
preoccuparsi. Non appena si trovò al centro del
palcoscenico, infatti, Giulia si
accorse di non vedere oltre monsieur Reyè, e pertanto non
era proprio possibile
volgere lo sguardo da nessuna parte. Le luci delle lampade a gas, forse
troppo
forti, la accecavano, e il fumo che si levava da queste le aveva
arrossato gli
occhi. Malgrado ciò, non appena intravide il direttore
dell’orchestra farle
cenno di iniziare a cantare, dischiuse le labbra e si librò
in volo, sulle
magiche note della musica di Verdi.
Va,
pensiero, sull'ali dorate;
Va, ti posa
sui clivi, sui colli,
Ove olezzano
tepide e molli
L'aure dolci
del suolo natal!
Alla
fine dell’aria, quando il pubblico esplose in un applauso
fragoroso che spinse
i coristi a tornare sulla scena per profondersi in un inchino di
ringraziamento, sentì monsieur Reyè sussurrarle
un «Brava!» orgoglioso e
commosso, e Giulia sorrise di cuore, sollevata per non aver cantato
male come
aveva temuto. Non riuscì a trovare Meg da nessuna parte,
così, dato che per
quella sera il suo ruolo era terminato – adesso spettava ai
cantanti
protagonisti mandare avanti l’opera – decise di
raggiungere la cappella di cui
le aveva parlato l’amica.
Man
mano che si addentrava nei corridoi del teatro, seguendo i vari fondali
abbandonati come Teseo aveva seguito il filo di lana
all’interno del labirinto,
Giulia si allontanava da ogni rumore, e presto la musica che continuava
a essere
suonata sulla scena non divenne che un’eco lontana. Era
convinta di essere già
vicino al terzo sottopalco, dato che aveva già sceso due
piccole scalinate, e
dopo aver girato l’ultimo angolo si trovò in un
corridoio in pietra, senza
nessun tappeto o fondale che indicassero che il luogo era ancora
frequentato.
Al contrario, non vi era neppure una torcia né tantomeno una
lampada a gas, e
l’aria era improvvisamente molto fredda rispetto
all’afa che regnava dietro le
quinte. Tuttavia, una debole luce sembrava provenire dal fondo del
corridoio, e
sollevando le lunghe gonne dell’abito di scena che ancora
indossava, Giulia
percorse gli ultimi metri di corsa.
Si
fermò, con un leggero fiatone, di fronte ad una piccola
porta ad arco, già
spalancata, e interpretò questo come segno
dell’arrivo di Meg; forse l’amica la
stava già aspettando. Il lungo costume le era
d’intralcio, ma non potè fare
nulla per toglierselo, così si limitò a
raccogliere i lembi che strisciavano
per terra e, tenendoli con una mano mentre con l’altra si
poggiava alla parete,
scese una ripida scala a chiocciola che sbucava in una piccola cappella.
Quest’ultima
aveva una pianta circolare. Esattamente di fronte alla scala
c’era una vetrata sulla
quale era raffigurato un angelo con delle immense ali bianche, e da cui
proveniva la luce della luna che sembrava farlo risplendere di luce
eterea.
Accanto ad esso, poggiato al muro, c’era una sorta di altare
in ferro battuto
ricoperto di candele, tutte spente e consumate, al quale erano appesi,
con dei
piccoli ganci, dei ritratti ovali, probabilmente appartenuti a qualcuno
che
andava spesso laggiù a pregarli. Meg, tuttavia, non
c’era.
Scrollando
lievemente le spalle, Giulia si portò al centro della
cappella, immaginando che
l’amica potesse essere stata trattenuta dalla madre anche se
ormai non si
sarebbe più dovuta esibire. Decise che l’avrebbe
aspettata comunque: era troppo
curiosa di sapere quello che Meg aveva da dirle, e quasi si
pentì di non essere
riuscita a guardare, seppur di sfuggita, nel palco numero 5. Ma quei
fumi
l’avevano accecata, ed era già molto se era
riuscita a cantare normalmente.
La
sua attenzione si spostò nuovamente sui ritratti, alcuni
completamente sbiaditi
e anneriti dal tempo e dall’umidità, che persone
sconosciute avevano
dimenticato laggiù. Le spiacque per loro, e si
guardò intorno per trovare
qualcosa con cui avrebbe potuto accendere le poche candele rimaste; per
fortuna, poco lontano dall’altare c’era, per terra,
una scatolina di fiammiferi.
Sperando che fossero ancora abbastanza asciutti, Giulia si
chinò per
raccoglierli, e prendendone uno lo passò sul velcro della
scatola, stimolando
una debole ma sufficiente fiammella. Prima che questa potesse spegnersi
la
accostò ad una delle candele più intatte, e
così via via riuscì ad accenderne
altre due. Gettò il fiammifero ormai inutilizzabile per
terra, in una pozza di
umidità, e si inginocchiò di fronte
all’altare.
Che
strano; c’era uno dei ritratti che sembrava attirarla
inesorabile verso di sé, spingendola
a toglierlo gentilmente dal gancio nel quale era appeso per osservarlo
meglio
alla luce delle candele. Si trattava di una vecchia foto raffigurante
un uomo, molto
giovane, in realtà, che non poteva avere più di
quarant’anni. I capelli erano
scuri e così i suoi occhi, mentre il viso, sbarbato,
sembrava sorriderle
attraverso il ritratto. E poi, il suo sguardo… Sembrava
esserle familiare, come
se appartenesse a qualche avvenimento del suo passato… Forse
avrebbe dovuto
prenderlo, e mostrarlo a madame Giry? Chissà se
l’insegnante di danza poteva
conoscere quell’uomo, e così risalire
all’identità dimenticata della ragazza!
Avrebbe
anche potuto mostrarlo a Meg, dopotutto. Ma mentre si perdeva in queste
riflessioni, uno spiffero di aria gelida attraversò la
cappella, come se
qualcuno avesse spalancato un’altra porta causando quella
forte corrente, e le
candele che aveva così teneramente acceso si spensero in un
battito di ciglia.
Poi,
prima che potesse fare il più minimo movimento, comprese di
non essere più
sola.
«Meg…?»
Mormorò, la voce incrinata da una nota di panico.
«Sei tu…?»
Dall’oscurità
che la circondava non provenne nessun rumore, nessuna risposta,
così Giulia
raccolse il coraggio rimastole e si sollevò in piedi,
scrollandosi il vestito
con dei gesti nervosi.
«Devo
averlo immaginato…» Sussurrò, tra
sé.
Ma
non aveva fatto che qualche passo in direzione della scala, che
improvvisamente
qualcosa o qualcuno la gremì, afferrandola in vita, e
posandole una mano sulla
bocca per impedirle di gridare. Cercò di divincolarsi,
gemendo, ma la stretta
era troppo forte, e sembrava stringerla sempre di
piùà man mano che lei si
muoveva all’interno di quella morsa. Poi una voce, morbida e
vellutata, contro
il suo orecchio, la fece rabbrividire, spingendola ad immobilizzarsi.
«Non
una parola, mademoiselle…» Mormorò la
voce, con una chiara tonalità maschile. «Non
ho nessuna intenzione di farvi del male… Per
ora.»
Giulia
non rispose, troppo terrorizzata anche solo per fare un cenno col capo.
Sentì invece
un alito caldo respirarle sul collo nudo, come se – chiunque
egli fosse –
volesse assorbire il suo profumo standole vicino. Malgrado tutto
cercò di
voltarsi, per vedere in volto colui che la stava importunando in quel
momento,
ma al minimo movimento la stretta si fece più serrata.
«Oh,
no. Non osate voltarvi, mademoiselle.» Sibilò lui,
minaccioso. «Voglio solo che
mi ascoltiate e che facciate dei semplici cenni con la testa quando
richiederò
una vostra risposta. Sono stato abbastanza chiaro?»
Lei
annuì rapidamente, pregando che quel terrore svanisse il
prima possibile.
«Bene.»
Continuò la voce. «Ora… Vi ho sentita
cantare, mademoiselle, e voglio essere
sincero con voi… Se non aveste avuto una voce
così bella e angelica,
probabilmente nulla mi avrebbe più potuto richiamare dalle
fiamme dell’Inferno.»
Giulia
sgranò con orrore gli occhi, iniziando a respirare
più affannosamente, ma non
rispose.
Lui
proseguì. «So che sarà molto difficile,
per voi, farvi avanti in questo mondo
senza nessuna guida, nessun maestro… Sareste condannata a
rimanere una semplice
corista.» La sua voce divenne una dolce carezza, mentre
quelle labbra
sconosciute sfioravano la tenera carne del suo collo procurandole dei
brividi
lungo tutto il corpo, che suo malgrado le fecero socchiudere gli occhi
dal
piacere.
«Ma
io posso aiutarvi…» Sussurrò, spostando
la mano con cui le aveva chiuso le
labbra e facendola scorrere lungo le sue braccia, sfiorandole in
un’ardita
carezza il bacino sensualmente avvolto dall’abito di scena.
«L’unica cosa che
voglio, in cambio del mio aiuto, è la vostra
anima…»
«La
mia anima…?» Mormorò lei per la prima
volta, distratta da quelle carezze.
Egli
sorrise tra sé, senza accennare a voler smettere quella
dolce tortura. «Si… Non
dovrete appartenere che a me soltanto, e soprattutto non dovrete far
parola a
nessuno del nostro… piccolo patto…»
Tuttavia,
in una scintilla di lucidità, Giulia provò a
ribattere. «E… Se non volessi il
vostro aiuto…?»
Si
accorse di aver detto una cosa sbagliata quando sentì la
stretta dello
sconosciuto farsi ancora più forte, mentre sembrava che
volesse farla aderire
completamente a sé. Deglutendo, ascoltò la sua
risposta.
«Non
sarebbe molto saggio da parte vostra rifiutarmi…»
Ribattè, insinuante. «Se
riuscirete a compiacermi, non potete neanche immaginare
le ricchezze e le bellezze che vi aspettano,
ma se provate a tradirmi, o se mi deluderete… Non vorreste
sapere quale
potrebbe essere il vostro destino.»
Giulia
rimase ancora in silenzio, poi prese un bel respiro e parlò
nuovamente,
malgrado lui le avesse detto prima che si sarebbe dovuta limitare a
fare dei
cenni silenziosi col capo. Oh, al diavolo.
«Ma
voi chi siete?»
Esclamò, mentre nella
sua voce si mischiava rabbia e paura.
Lo
sentì chiaramente ridere, e quella risata infernale la
pietrificò. «Oh,
mademoiselle, mi stupisce che me lo chiediate… Io sono il Figlio del Diavolo!»
All’improvviso
la stretta si sciolse, quasi che l’uomo fosse sparito nel
nulla. Tuttavia l’eco
della sua risata rimbombava ancora nella piccola cappella, come se non
se ne
fosse ancora andato del tutto. Infatti, mentre Giulia si guardava
intorno
cercando di capire dove potesse essere andato, scrutando attraverso
l’oscurità,
la sua voce le giunse da un punto imprecisato, dall’alto
forse, o da dietro le
pareti.
«Non
mi avete ancora dato una risposta, mademoiselle!»
Tuonò, terrorizzandola.
Lei
si tappò le orecchie con le mani, cadendo a terra in
ginocchio, tremando dal
freddo e dall’orrore. «Si, si!»
Gridò spaventata, tra le lacrime. «Avrete la
mia anima!»
Come
ebbe pronunciato quelle parole, Giulia sentì nuovamente la
stessa presenza alle
sue spalle, ma non fece nulla per voltarsi o cercare di vederla; rimase
immobile, nascondendo il viso tra le braccia, china per terra, mentre
sentiva
che lui si era abbassato e che le aveva scostato i capelli dal collo.
«Non
potevate fare una scelta più saggia…»
Mormorò dolcemente al suo orecchio,
accrescendo il suo terrore con quell’improvviso cambiamento
di umore. «Non
dovete temermi, mademoiselle. D’ora in avanti, io vi
proteggerò.»
Ella
rimase a singhiozzare in quella posizione, senza osare muovere un
muscolo, fino
a quando non sentì che il demonio non era più al
suo fianco. Solo allora
sollevò il capo, guardandosi intorno, notando che le candele
si erano accese
nuovamente come per magia.
«Domani
sera tornerete in questa cappella, e così farete tutti i
giorni. Renderò la
vostra voce capace di raggiungere le più alte vette del
Cielo, se solo me lo
permetterete…» Un ultimo sussurro, poi
più niente.
Dopo
una manciata di secondi un’altra voce, questa volta
più familiare, provenne
dalle scale.
«Giulia?
Sei qui? Giulia…!»
Quando
Meg arrivò nella cappella, trovò Giulia in
lacrime; ma non ebbe il tempo di
domandarle nulla, perché la ragazza le si gettò
singhiozzando tra le braccia, tremante,
senza tuttavia spiegarle il perché del suo comportamento.
Dopotutto, non le
avrebbe potuto raccontare niente…
Chi
le avrebbe mai creduto, se avesse detto di aver venduto
l’anima al Diavolo?
__________________________________________________________________________________________________________
AA -
Angolo Autrice:
Ehilà! ^^ Passo
direttamente ai ringraziamenti, dato che ho visto che si è
aggiunta una nuova lettrice.. <3
TheMisty910: Grazie mille
per la recensione! Ricambio con molta felitcità - e
commozione - il piacere di conoscerti =* Oh, e grazie mille per i
complimenti, davvero pensi che sia brava?? Wao, sono proprio commossa
=') Spero di riuscire ad appassionarti ancora per molto! :D un bacione,
continua a seguirmi!
Yunie992:
Eh
mia cara, non te l'aspettavi, eh? u.u Sono riuscita a stupire ancora xD
Comunque hai ragione, tutto quello che le capita a questa poraccia... e
non è ancora finita! Comunque tranquilla, somiglia a
Christine SOLO fisicamente u.u grazie al Cielo, non la posso sopportare
neppure io quell'antipatica! >.< Ad ogni modo, grazie
grazie grazie di nuovo per i complimenti, sono felice che questa storia
ti piaccia =) anche tu, mi raccomando, continua a seguirmi!
Bene, e con questo passo e chiudo ^^ I capitoli verranno postati
abbastanza celermente fino al 13, dopodichè penso di
riuscire a postarli una volta a settimana perchè sono ancora
in fase di scrittura, e tutto dipende dal mio tempo... Ma per il
momento non disperate, sarò velocissima!
Un bacione, al prossimo capitolo!
Smack =*
|
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Capitolo 11 *** 10. Minacce e avvertimenti ***
Chapitre 10
Minacce e
avvertimenti
«Ah,
maman? Giulia non si è
ancora
svegliata?»
Madame
Giry terminò di bere la sua tazza di the nero fumante, prima
di posarla sul
piattino e rivolgersi incuriosita alla figlia. «Io sono
appena scesa, credevo
che Giulia fosse già pronta con te.»
«No,
credo che stia ancora dormendo. Non ho sentito la sua porta
aprirsi,»
intervenne allora Agnese, sfornando dei biscotti dal forno ancora caldo.
Meg
scostò la sedia e si alzò, abbandonando la sua
colazione. «Vado a svegliarla,
allora. Oggi ha la lezione di canto, e non vorrei
tardasse…»
Salendo
le scale, la giovane Giry ripensò preoccupata alla sera
prima, quando aveva
trovato Giulia in lacrime nella cappella sotto il terzo sottopalco.
L’amica non
le aveva raccontato nulla, limitandosi a piangere e singhiozzare
disperatamente
mentre ricambiava il suo abbraccio sorpreso, e pregandola di portarla
via da
quel sotterraneo; l’aveva supplicata di non lasciarla mai
più da sola, e
malgrado fremesse dalla voglia di sapere cosa fosse successo, Meg
lasciò cadere
la questione senza farne parola con nessuno. La sua intenzione di
rivelarle
ogni cosa riguardo il Fantasma dell’Opera era svanita del
tutto, dato che la
ragazza sembrava già abbastanza scossa per conto proprio.
Possibile che avesse
avuto un incontro proprio con lui…?
No,
Meg non voleva crederci. E in caso contrario, forse avrebbe dovuto
davvero
parlarne con la madre, dato che forse era la donna l’unica ad
avere una sorta
di ascendente sull’uomo; anche se ormai non ne era
più tanto sicura…
Con
un sospiro, sollevò la mano e diede due colpi leggeri alla
porta della camera
di Giulia, aprendola piano per non farla spaventare; come aveva
sospettato, le
tende erano ancora chiuse e la stanza era immersa nell’ombra.
Si richiuse la
porta alle spalle, raggiungendo la finestra e aprendo le tende per far
entrare
le luce, sentendo poi un borbottio infastidito provenire da sotto le
lenzuola.
«Giulia?»
La chiamò, teneramente. «Sei sveglia?»
«No…»
Replicò quest’ultima, rintanandosi ancora di
più sotto le coperte.
Meg
sorrise, andando a sedersi sul bordo del letto e scoprendo
l’amica. «Coraggio, chèrie,
non vorrai far tardi alla tua
lezione di canto?»
A
quelle parole Giulia sgranò gli occhi, spaventata, e non
potè impedirsi di
rabbrividire dal terrore al ricordo di ciò che era accaduto
la notte prima.
«Meg, non voglio andare a teatro, oggi…»
Mormorò, cercando di convinverla.
Ma
la giovane ballerina sollevò un sopracciglio, stupita.
«Come mai? Credevo ti
piacesse cantare! Stai male, forse? Hai la febbre?»
Si
chinò verso di lei e le posò una mano sulla
fronte, cercando di sentirne la
temperatura; nello stesso momento Giulia decise di aggrapparsi a quella
scusa,
e scosse piano la testa. «No, però mi sento
male… Ho mal di testa, e mal di
pancia… Sai…» Lasciò
allusivamente la frase in sospeso, certo che l’amica
avrebbe capito.
Infatti,
Meg annuì. «Ah, si. Certo.»
Sospirò, scrollando le spalle. «So come ci si
sente, perché in quei periodi io non riesco nemmeno ad
alzarmi dal letto… Va
bene, tesoro, non preoccuparti. Parlo io con maman,
sono certa che capirà.»
«Ti
ringrazio, Meg…» Giulia sorrise debolmente, grata.
In effetti, non era
difficile credere che stesse male, visto il pallore del suo viso; ma
questo non
era certo dovuto ad un malessere fisico, quanto al terrore che non
l’aveva
abbandonata dal giorno prima e che l’aveva riassalita
all’idea di mettere
nuovamente piede in quel teatro. Non sapeva quanto avrebbe potuto
evitarlo,
dato che ormai faceva parte del coro, ma sperava di riuscire a restarne
alla
larga il più possibile.
Giulia
rimase quasi tutta la giornata in camera sua, uscendone solo per fare
compagnia
all’anziana Agnese durante il pranzo; e quando la donna si fu
ritirata per il
suo riposo pomeridiano, Giulia tornò nella sua stanza. Non
si era pentita di
essere rimasta a casa, ma iniziava a chiedersi se aveva fatto bene a
non fare
parola con Meg di quello che era successo… Se
l’amica avesse saputo che genere
di creatura, o spirito, o demonio
si
nascondesse nel teatro, forse sarebbe potuta essere più
prudente… Decise che
gliene avrebbe parlato, non appena fosse rientrata a casa.
Presto
il cielo si tinse di scuro; era pomeriggio inoltrato, e già
Giulia fu costretta
ad accendere alcune candele per rischiarare la stanza, ormai immersa
nel buio.
Meg e madame Giry sarebbero rientrate più tardi, verso
l’ora di cena, ma la
ragazza scivolava silenziosamente su e giù per la camera, in
ansia per la
prolungata assenza delle due donne. Temeva che la presenza che
l’aveva
terrorizzata la sera prima potesse nuocere a qualcuna di loro, e come
se non
bastasse stava iniziando a temere l’oscurità e
tuttto quello che poteva esserci
nascosto. Aveva detto di essere il Figlio
del Diavolo, e poi era svanito nel nulla… Avrebbe
preferito credere di aver
sognato e immaginato tutto, ma i segni rossi sui suoi polsi erano un
chiaro
ricordo della forte stretta di quell’essere su di lei.
Istintivamente
rabbrividì, stringendosi lo scialle sulle spalle e
dirigendosi verso la stufa
che Agnese le aveva premurosamente portato in camera, in modo che lei
non fosse
costretta ad armeggiare da sola con i legni del camino.
Allungò le mani verso
il suo calore e sospirò, non riuscendo a cancellare il peso
che sentiva
premerle sul petto; aveva l’impressione di avere una pesante
spada di Damocle
sulla testa a causa di quel breve ma terribile incontro, e continuava
ad essere
sempre più dell’idea che non era molto conveniente
tornare a teatro in quelle
condizioni. Oh, che cosa aveva mai promesso? La sua anima in cambio del
successo… Che cosa mai le importava di una cosa simile? Era
stata la paura a
spingerla a dire certe cose, e ora temeva che sarebbe stato impossibile
cancellare
quel contratto firmato col suo stesso sangue.
Appena
prima che la cogliessero le lacrime, poi, accadde di nuovo. Le candele
presenti
nella stanza si spensero simultaneamente a causa di un vento gelido
entrato
dalla finestra aperta alle sue spalle, lasciandola in una fitta
oscurità resa
meno dolorosa dal debole bagliore che proveniva dalle grate della stufa
in
ghisa. Si voltò quasi di scatto, osservando impaurita le
tende della finestra
che svolazzavano a causa del vento, e precipitandosi a chiudere le
imposte.
«Mio
Dio…» Mormorò, aggrappandosi alla
pesante stoffa della tenda. «È solo il
vento…»
Ma
purtroppo non era così. Prima che potesse rendersene conto,
avvertì una
presenza dietro di sé, ma non potè voltarsi a
fronteggiarla perché un paio di
braccia che l’avevano già stretta in precedenza si
avvolsero intorno alla sua
vita, facendo aderire la sua schiena scossa dai brividi ad un petto
muscoloso e
chiaramente maschile. E poi, di nuovo, quella voce.
«E
così… Pensavate di sfuggirmi…
Semplicemente non presentandovi a teatro?»
Giulia
non riuscì a rispondere, tanto era paralizzata dalla paura.
Dunque, ecco
risolto il problema… Stare lontana
dall’Opèra non l’avrebbe tenuta
altrettanto
lontana da quel demonio. Strinse gli occhi per impedirsi di piangere, e
cercò
di prendere un profondo respiro per parlare; ma il terrore era troppo,
e appena
fece per dischiudere la bocca le gambe le cedettero, e sarebbe di certo
caduta
se egli non l’avesse tenuta tra le sue braccia.
«Coraggio,
mademoiselle Sanders. Non abbiate paura; vi ho già detto che
non vi avrei fatto
del male…» Aggiunse, con una sottile vena di
ironia nel tono.
Tuttavia
la ragazza non aveva nessuna voglia di scherzare. «Che cosa
volete ancora?»
Mormorò, tremante. «Perché mi
perseguitate?»
La
stretta si fece più profonda di quanto già non
fosse, mentre egli chinava il
capo sul suo collo nudo e le sussurrava sulla pelle. «Avete
già dimenticato la
vostra promessa? La vostra anima mi appartiene, e non potete fare nulla
per
cambiare questa condizione.»
Poi,
prima che lei potesse ribattere in qualche modo, la creatura le mise
uno spesso
nastro nero sugli occhi, bendandola, e legandoglielo dietro la nuca con
un
fiocco. Dopodichè si allontanò di qualche passo
da lei, osservandola attraverso
l’oscurità.
«Voltatevi,»
ordinò, secco.
Silenziosamente,
la osservò mentre Giulia allungava le mani attorno a
sé alla ricerca di un
qualche appoggio, fino a quando la ragazza non si trovò, pur
senza
accorgersene, esattamente di fronte a lui.
«Perché
mi avete bendato?» Domandò con un filo di voce.
«Il
mio aspetto non è di questo mondo e potrebbe
sconvolgervi.» Replicò, osservando
con un leggero divertimento le mani della ragazza che stringevano
tremanti la
lunga veste da camera.
Dunque
sarebbe stato così facile anche stavolta, fingersi una
creatura ultraterrena
per modellare la voce di una giovane in balia del suo volere e dei suoi
desideri? Probabilmente, se la fanciulla non avesse perduto la memoria
e se
fosse cresciuta a Parigi, avrebbe di certo conosciuto la vicenda del
Fantasma
dell’Opera, che si sussurrava in ogni angolo con suggestione
e un briciolo di
terrore; ma era stato così semplice avvicinarla,
così semplice farle credere di
essere un demonio, che quasi ne
provava noia!
Con
passo felino Erik si avvicinò a lei, osservandola
più da vicino, con uno
sguardo che, se lei ne fosse stata cosciente, l’avrebbe fatta
avvampare dal
disagio. Si, più la guardava e più vedeva la
somiglianza fisica con la Daaè; ma
allo stesso tempo aveva la sensazione, o meglio, il presentimento che
la
giovane Sanders – ormai era questo il suo nome –
sarebbe potuta diventare uno
strumento migliore per il suo genio, l’avrebbe modellata
affinchè, attraverso
la sua voce cristallina, il mondo sarebbe venuto a conoscenza della
musica che
solo lui era capace di creare!
Era
stata un’ottima mossa, poi, dirle di essere il Figlio
del Diavolo, e dire che aveva tanto odiato questo
appellativo almeno quanto quello di Fantasma! Ma lui ormai non aveva
più nulla
di un Angelo, anzi, era stato un errore lasciar credere alla giovane
Christine
di essere lo spirito mandato dal padre defunto. In fondo era stato
anche per
quello se ella l’aveva tradito, ribellandosi al suo maestro.
Ma Giulia, oh, ne
era sicuro, lei non avrebbe mai fatto nulla contro il suo volere: era
una
fanciulla sola, e se anche un giorno si fosse presentato qualcuno
dicendo di
essere il suo fidanzato, la sua amnesia glielo avrebbe fatto
allontanare! E
allora si sarebbe accorta che l’unico di cui poteva fidarsi
era proprio quel
diavolo che ora temeva…
«Vi
avevo detto che non avete nessun motivo per temermi.»
Ribadì pertanto, con una
voce bassa e carezzevole. «Tutto quello che volevo era la
vostra obbedienza… Ma
oggi non siete venuta alla nostra prima lezione. Per quale
motivo?»
La
sua risposta gli giunse del tutto inaspettata.
«Come
potrei mai fidarmi di un diavolo?» Rispose coraggiosamente,
raddrizzando la schiena.
«Mi avete strappato una promessa che non era mia intenzione
pronunciare, approfittando
della mia paura… Non so chi siete, né tantomeno
desidero saperlo! Io non ho
fatto nulla di male per attirare l’attenzione del
Demonio.»
Erik
la ascoltò, sgranando impercettibilmente gli occhi al tono
deciso della
ragazza. Ma la sua espressione accigliata venne quasi subito sostituita
da un
malizioso sorriso. Perfetto,
pensò
tra sé. Forse la situazione non
è poi
così noiosa come mi aspettavo…
«Voi
non ricordate nulla del vostro passato, mademoiselle.»
Ribattè, crudele. «Non
avete nessuna idea di quello che avete o non avete fatto.»
Giulia
trattenne il fiato all’improvviso, realizzando con orrore che
aveva ragione. Ma
poi… Come poteva sapere della sua amnesia? Era forse
realmente una creatura
dell’Inferno?
Scosse
piano la testa, giungendo le mani come se avesse voluto pregare.
«Devo aver
compiuto delle azioni veramente orribili, se voi siete
qui…» Balbettò,
trattenendo le lacrime.
Per
un attimo, Erik si pentì di aver detto quelle cose: era lui
il mostro, e lo era
davvero se lasciava che quella povera ragazza pensasse simili cose su
di sé… Ma
questo sentimento passò subito come una pioggia estiva,
lasciando dietro di sé
solo un leggero eco. Aveva bisogno che lei ci credesse, se voleva
essere sicuro
di avere tutta la sua obbedienza.
«Non
pensateci adesso, mademoiselle.» Le sussurrò
pertanto, sfiorandole i capelli
con delicatezza. «Il mio desiderio è solo sentirvi
cantare. Sapete già che
l’unica cosa che vi chiedo in cambio è di
appartenermi, ma immagino che non sia
una richiesta impossibile.»
Dato che
non
appartenete a nessuno.
Quelle parole non uscirono dalle sue labbra, ma Giulia le
sentì gravare su di
sé come se stessero grondando dalle pareti; già,
come avrebbe potuto
ribellarsi, o a chi avrebbe potuto domandare aiuto? Era sola, ed era
vero che
non apparteneva a nessuno… Forse non si sarebbe rivelato
essere uno sbaglio,
affidarsi a lui…
«No,
non lo è.» Sussurrò, chinando il capo
in un gesto di remissione. «Se siete
venuto per punirmi perché non sono venuta alla vostra
lezione, presumo abbiate
il diritto di farlo… Ma non terrorizzatemi ancora con i
vostri sussurri e le
vostre carezze… Non riesco a comprenderle.»
Erik
si allontanò da lei con studiata lentezza, rimanendo
però nelle vicinanze in
modo che la fanciulla continuasse ad avvertire la sua presenza.
«Se fosse stata
questa la mia intenzione, mademoiselle, potete credermi se vi dico che
non
avrei aspettato così tanto.» Sospirò
poi, incrociando le braccia. «Il mio deve
essere considerato un semplice avvertimento…
Perché, qualora doveste
disubbidirmi di nuovo, non esiterei a fare del male a quella ballerina
bionda
cui sembrate molto legata.»
«No,
Meg…!» Esclamò lei, allungando un
braccio davanti a sé come se avesse voluto
afferrarlo.
Egli
sorrise. «Si, credo sia proprio lei…»
Vide
le chiare sopracciglia della ragazza aggrottarsi e le labbra
dischiudersi in
un’espressione di puro terrore, prima che indietreggiasse per
cercare riparo
contro il muro. Si appoggiò ad esso ed abbassò la
testa, lasciando che i
capelli le piovessero davanti al viso come una morbida cascata. Non
c’era nulla
che poteva fare per sfuggirgli, dunque… Probabilmente non
avrebbe esitato a
farlo, se in gioco ci fosse stata solo la sua vita, priva di valore a
questo
punto, ma se si iniziava a coinvolgere anche le uniche persone che
sembravano
tenere a lei e che la avevano accolta in casa propria senza domandare
nulla in
cambio, allora la situazione cambiava radicalmente… Lui
voleva la sua anima?
Bene, se con questo Meg e sua madre fossero state al sicuro, allora
l’avrebbe
fatto senza esitare.
«Domani
ci sarò, monsieur Le Diable.»
Bisbigliò, con un tono velato di dispetto.
Il
sorriso di Erik si allargò impercettibilmente, mentre si
gettava sul capo il
cappuccio del suo lungo mantello nero. «Sarà
sufficiente chiamarmi Maestro,
mademoiselle.» Replicò, con
affettata noncuranza. «Ed ora, vi lascio ai vostri turbinosi
pensieri… Vi
aspetto domani alle sette, alla vecchia cappella.»
Si
diresse verso la finestra ancora aperta dalla quale era entrato, ma
prima di
andarsene si voltò un’ultima volta verso di lei.
«Cercate di essere puntuale.»
Dopodichè
sparì nel buio, lasciandola a tremare da sola in quella
pressante oscurità.
Madame
Giry aveva sentito ogni cosa.
Di
sicuro Erik non si aspettava che la donna tornasse prima dal teatro,
lasciando
a metà i suoi doveri, per accertarsi che la sua giovane
ospite stesse bene, e
di conseguenza si era comportato come se si fosse trovato nei suoi
domini,
andando a minacciare la ragazza con tono dolce e parole taglienti. E la
cosa
più terribile era che lei, Louise, non aveva alzato un dito
per cacciarlo da
casa sua; come avrebbe potuto? Non gli aveva forse promesso che questa
volta
non l’avrebbe tradito? Certo, se davvero i suoi piani di
vendetta consistevano anche
nel terrorizzare la povera Giulia, avrebbe dovuto rivedere le sue
priorità… Che
cosa avrebbe scelto, tra l’assecondare un vecchio figlio e
amico e il
proteggere la seconda figlia di Gustave Daaè?
A
questo punto, rivelare ad Erik l’identità della
fanciulla era fuori
discussione: se avesse saputo di trovarsi di fronte la gemella di colei
per la
quale aveva tanto sofferto in passato, era più che sicura
che la sua vendetta
sarebbe stata cento volte più terribile!
Era
senza parole, e per la prima volta nella sua vita non
aveva idea di come comportarsi.
Attese
sileziosamente che i singhiozzi della giovane cessassero, e non appena
fu certa
che Erik fosse abbastanza lontano da non accorgersi di lei, madame
dischiuse la
porta ed entrò nella stanza, chiamando Giulia ad alta voce
come se non avesse
saputo che fino a poco prima lì si stava consumando un
dramma. Aveva sorvolato
sull’ultima minaccia dell’uomo, quando egli aveva
tirato in ballo la sua unica
figlia, Meg, dato che sapeva che non avrebbe osato alzare un dito su di
lei; ma
il fatto che Giulia si fosse arresa per proteggere l’amica
strinse il cuore di
madame Giry, facendole provare un affetto sempre maggiore per quella
ragazza.
Mentre
l’abbracciava, tuttavia, Louise non potè che
rabbrividire nel rendersi conto di
quanto Erik fosse diventato cinico e crudele. Probabilmente, il vero
Fantasma
dell’Opèra non era stato ancora conosciuto in
tutta la sua oscurità.
E
tremò, al pensiero di dover lasciare quella povera giovane
in sua balia.
Ma
per il momento non aveva altra scelta.
_________________________________________________________________________________________
AA - Angolo Autrice:
Eccomi con
il nuovo
capitolo! ^^ Spero che vi sia piaciuto come i precedenti <3
Devo
fare in fretta quindi non posso rispondere alle recensioni (al
momento ho i minuti contati) ma voglio davvero ringraziare TheMisty910 e Yunie992 per
aver recensito, poi A__A,
Ethis
e masked_lady
per averla aggiunta tra i preferiti e aliena per
averla messa tra le seguite! Grazie mille ragazze, vivo per voi
<3 e se avete 5 minuti recensite, mi raccomando,
perchè mi fa sempre molto piacere sapere
cosa pensano i lettori di quello che scrivo!
E
se ne avete voglia fate un salto a leggiucchiare anche le
altre cose che ho scritto, se vi va ^^
Vi
abbraccio forte e, nel caso non aggiorni più per questa
settimana, vi auguro Buona Pasqua!
Un
bacio =*
|
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Capitolo 12 *** 11. La lezione di canto ***
Chapitre 11
La lezione
di canto
Quello che
sto per
scrivere non uscirà mai dalle mie labbra – non ne
avrò il coraggio.
Ma ho
bisogno di
sfogarmi, e l’unica cosa che posso fare è
scrivere. Sento una strana affinità
con la piuma che graffia il foglio e sulle parole che prendono vita su
questa
pagina bianca, come se non fosse la prima volta che ricorro ad una
sorta di
diario per aprire la mia anima… Anche l’odore
pungente dell’inchiostro fresco
mi è amico. Che siano residui del passato che ho scordato?
Quando ho
chiesto a
Meg se aveva dei fogli e qualcosa per scrivere, mi ha osservato stupita ed incuriosita insieme, ma
grazie al Cielo
non ha posto domande alle quali non avrei saputo cosa rispondere.
Perché hai
bisogno di un diario? Credo che mi avrebbe risposto così se
glielo avessi
detto. Puoi confidarti con me per ogni cosa, chèrie!
Ma il fatto
è che
non posso, Meg, non posso!
Ho paura
che
le
lacrime possano colare sulla pagina e sciogliere
l’inchiostro, perciò mi mordo
il labbro e le ingoio silenziosamente, osservando di tanto in tanto la
candela
che si consuma lentamente. Ho tutto il tempo necessario per scrivere, e
nessuno
verrà a distubarmi – ormai dormono tutti.
Ah, la mia
mano
trema… Ho ancora paura che Lui possa venire da me, come ieri
sera, e scoprire
che affido le memorie della nostra prima lezione a queste pagine, che
forse
farei meglio a bruciare. Ma non mi importa: ho bisogno di scrivere ogni
cosa.
Questa
mattina mi
sono svegliata molto prima del solito – in realtà
non sono riuscita a chiudere
occhio la notte scorsa, così non ho fatto altro che alzarmi
dal letto non
appena la luce del sole è penetrata nella mia stanza. Mi
sono lavata con
l’acqua gelida come se questo avesse potuto rinforzarmi, e
appena ho sentito
Agnese scendere le scale per andare in cucina mi sono precipitata
dietro di lei
per aiutarla con la colazione. Ho visto che sembrava sorpresa della mia
mattiniera presenza in sala da pranzo, ma è una signora
troppo discreta per
porgere delle domande al riguardo.
Ciò
che temevo davvero
era madame Giry, ma quando è entrata in cucina, seguita
dalla figlia, si è
limitata a dedicarmi uno sgaurdo neutro che non ha preceduto nessun
genere di
interrogatorio: mi ha semplicemente augurato il buongiorno, senza
aggiungere
nient’altro. Meglio così.
Ho dovuto
domandare
a Meg di aiutarmi con l’abito, perché le mani mi
tremavano troppo per riuscire
ad agganciare i bottoni del corpetto senza fare un disastro, e credo
che si sia
dovuta mordere la lingua fino a farla sanguinare per evitare di
indagare sulle
mie condizioni. Io per prima mi sarei preoccupata se avessi visto Meg
pallida
in volto e con un tremore delle mani che sembrava non voler cessare, ma
forse
lei l’ha scambiato per una conseguenza della mia amnesia, e
ha fatto finta di
niente con delicatezza.
Fino
all’ultimo –
fino a quando non ebbi varcato la soglia di casa – fui
incerta se andare o meno
a teatro per affrontare il mio Diavolo, ma le minacce che egli aveva
rivolto,
sia pure indirettamente, alle persone che si stanno prendendo cura di
me, mi
fecero decidere subito di obbedirgli. Cos’altro
c’era da fare, dopotutto?
La lezione
con Lui,
ad ogni modo, era di pomeriggio; di mattina mi spettava la consueta
lezione con
il coro e il maestro Reyer, gentile come sempre. Mi fece esercitare con
un’aria
da solista, non ricordo di preciso di quale opera, e mentre cantavo, al
centro
del palcoscenico, ebbi la chiara sensazione di venire osservata, o
meglio,
spiata, da qualcuno che non si trovava di certo nella platea. Fu
alquanto
sgradevole, poiché mi sentii nuda sotto quello sguardo, come
se potessi
sentirlo sulla pelle, e inoltre non potevo nemmeno sfuggirgli.
Ovviamente credo
di sapere a chi appartenesse quello sguardo, perché era lo
stesso che ho
sentito la notte scorsa quando Lui è venuto qui.
Di questo,
comunque, non ne parlai con nessuno, e quando incontrai Meg e madame
Giry, per
pranzo, feci finta di niente. Caso strano, non vidi monsieur Bamdad da
nessuna
parte, e dire che in genere era sempre nei dintorni per controllare, in
vece
del suo principale, che tutto si svolgesse al meglio: era i suoi occhi
e le sue
orecchie, ma evidentemente quest’oggi doveva essere il suo
giorno libero.
Non ricordo
che
genere di scusa inventai per allontanarmi da sola, dato che Meg avrebbe
voluto
accompagnarmi; madame Giry però le diede qualcosa da fare
come se avesse voluto
tenerla occupata, e l’unica cosa che la donna mi disse, prima
di lasciarmi
andare, fu: «Sii prudente, mia cara.»
Perché
ho il
presentimento che sia madame che sua figlia sospettino qualcosa? Non
è forse
assurdo che possano conoscere l’esistenza della creatura alla
quale ho dato la
mia anima in modo così sconsiderato? Ma allora, se davvero
lo sanno, perché non
alzano un dito per aiutarmi?
No,
è del tutto
impensabile che lo sappiano.
Ad ogni
modo,
riuscii a raggiungere la cappella dietro il terzo sottopalco con molta
più
facilità della prima volta; e neanche un momento la
sensazione di essere
fissata dal buio cessò.
Non appena
scesi
l’ultimo gradino, la prima cosa che notai fu che tutte le
candele del piccolo
altare in ferro battuto erano accese, diversamente dall’altra
volta. Come se
qualcuno ci fosse già stato.
E come se
mi
stesse
aspettando.
Mi portai
lentamente e con cautela al centro della stanza, osservandomi intorno e
torturando i guanti che stringevo tra le mani. La mia mente era
affollata da
mille pensieri. Il corsetto è decisamente troppo stretto,
non riuscirò a
cantare bene. Mi manca il respiro, vorrei strapparmi questi sciocchi
vestiti di
dosso. Quaggiù fa davvero troppo freddo, è come
se fossimo nel ventre della
terra. Quaggiù non verrà nessuno a salvarmi.
Quaggiù nessuno mi sentirà
gridare…
Poi, come
in
risposta ai miei pensieri, sentii che era arrivato. O meglio, avvertii
la sua
presenza, come se l’aria nella piccola cappella fosse
improvvisamente diventata
più scura e opprimente, come se qualcuno avesse risucchiato
via tutto
l’ossigeno. Le fiamme delle candele tremolarono ma non si
spensero: dovette
ritenere di avermi già spaventato abbastanza in precedenza
con quel trucco.
E, alla
fine, la
sua voce risuonò dalle pareti.
«Siete
venuta, finalmente.»
Non sapevo
da che
parte voltarmi per rivolgermi a lui, dato che la sua voce sembrava
provenire
dappertutto, e alla fine decisi di fissare lo sguardo sulla vetrata
dell’angelo, come se la vista di un essere così
puro potesse consolarmi della
presenza di una creatura dell’Inferno.
«So
mantenere le mie
promesse, monsieur.» Risposi, con voce piatta. Grazie al
Cielo riuscii a non
farla tremare troppo.
«Ammiro
il vostro
coraggio.» Replicò, abbassando la voce di un tono
o due per renderla più dolce
di quanto mi ricordassi. «Temevo di avervi spaventato troppo
la notte scorsa.»
Ero sicura
che mi
stesse provocando per ottenere da me una risposta sgarbata, ma il
ricordo di
Meg mi fece mordere la lingua per evitare di rispondergli male; non
volevo
dargli nessun tipo di occasione di prendersi gioco di me, né
tantomeno di
minacciarmi.
«Sono
venuta solo
per la lezione di canto, monsieur.» Mi limitai a rispondere.
Passarono
alcuni
secondi di silenzio, dopodichè rispose anche lui.
«In tal caso, sarà bene che
mi chiamiate ‘Maestro’, come si conviene ad
un’allieva.»
Inghiottii
tutto il
mio orgoglio quando risposi, con un filo di voce.
«Si… Maestro.»
La lezione
che
seguì fu indubbiamente qualcosa di… Magnifico e
terribile insieme. Fu lui a
cantare per primo: voleva che memorizzassi tutti i vari passaggi di
tono così
come li eseguiva lui stesso, accompagnato dalla malinconica musica di
un
violino. Dopodichè, quando venne il mio momento di ripetere
la sua esecuzione, fu
nello stesso tempo rigido e gentile. Mi correggeva gli errori e
pretendeva che
non facessi due volte lo stesso – temetti per questo di farlo
infuriare, perché
per me era impossibile memorizzare quelle ardue sinfonie in pochi
minuti,
mentre lui sembrava non coglierne la complessità –
e quando invece perseveravo
nello sbaglio alzava la voce, irato. Compresi subito che non tollerava
ripetere
più volte la medesima correzione, e mi sforzai di evitare il
minimo errore.
Presto fui costretta a togliere la giacchina del vestito e a rimanere
solo con
una camicia leggera, tanto ero accaldata dallo sforzo.
Ma quello
che non
scorderò mai è di certo la sua voce. Oh, egli
può essere il Demonio peggiore,
uscito da chissà quale Averno… Ma la sua voce!
Non può certo appartenere a
questo mondo, è qualcosa di troppo sublime per poter essere
udita da un
semplice mortale, e solo ora mi rendo pienamente conto che a me
è stato
concesso il privilegio di ascoltarla, sia pure come modello e non come
diletto
personale…
Sento che
potrei
dimenticare la sua crudeltà solo per la bellezza della sua
voce… Ma come può un
essere così malvagio possedere una voce così
calda e pura?
Giulia
posò la penna a lato del foglio che aveva appena terminato
di scrivere,
spargendovi sopra un po’ di sabbia per asciugare
l’inchiostro. Dopo averlo
fatto assorbire un po’, lo sollevò per scrollare
la sabbia in eccesso, e
rilesse le due pagine fitte che aveva riempito incessantemente senza
nemmeno
rendersene conto. La candela stava per consumarsi, ma ne restava ancora
abbastanza per decidere se conservare quei fogli in un cassetto o se
bruciarli
nella stufa.
Non
aveva scritto neppure di come era finita la sua prima lezione, con il
Maestro –
ormai si sarebbe dovuta abituare a chiamarlo in quel modo –
che le augurava una
buonanotte e le ricordava di tornare il giorno dopo, alla stessa ora,
con degli
abiti più comodi. Ah, come se gli interessasse qualcosa di
lei che non fosse la
sua anima e la sua voce!
Scostò
piano la sedia e si alzò, prendendo i fogli in una mano e la
candela nell’altra
per cercare un posto sicuro dove nasconderli; non poteva lasciarli in
giro con
il pericolo che Meg o qualcun altro li trovasse e li leggesse. Alla
fine li
mise nel cassetto del comodino, di fianco al letto, e lo richiuse a
chiave.
Sganciò
il laccio della vestaglia, che posò sulla poltroncina
lì accanto, e poi si mise
sotto le coperte, cercando un rifugio che ormai non esisteva
più. Si sporse
verso la candela, soffiando sulla fiamma e facendo cadere
l’oscurità in tutta
la stanza. Aveva davvero bisogno di riposare.
Erik
non era tornato nella sua villa fuori città, quella sera.
Dopotutto, non ci
sarebbe stato neppure Bamdad a tenergli compagnia, e a quel punto tanto
valeva
restare nel suo teatro.
Quando
Giulia era scomparsa nella tromba delle scale della cappella, solo
qualche ora
prima, si era sentito come svuotato di qualcosa, ma non sapeva di
preciso cosa. Forse era dovuto
semplicemente al
fatto che non era più abituato a cantare o suonare
– era da molto tempo che non
prendeva in mano il suo antico violino – né
tantomeno era più abituato a istruire
una giovane allieva. Mademoiselle Sanders aveva
l’età di Christine, ma non era
certo che fosse quello ad avergli lasciato quella sorta di amaro in
bocca.
Improvvisamente
ebbe l’impressione che i suoi progetti di vendetta fossero
del tutto inutili e
trascurabili… Ma fu un pensiero troppo effimero per poterlo
prendere in
considerazione. Aveva già giurato che si sarebbe preso la
sua rivincita, e non
sarebbe stata una fanciulla senza casa né nome a fargli
cambiare idea.
Tuttavia,
mentre si aggirava senza meta nei corridoi segreti del teatro,
provò
un’irresistibile voglia di scendere nuovamente nei
sotterranei, laddove un
tempo vi era stata la sua unica dimora, il suo solo rifugio. Non vi era
più
sceso dalla notte dell’incendio, né aveva provato
il desiderio di farlo. Ma più
ci pensava e più si rammentava dei suoi piccoli averi che
giacevano ancora in
quella grotta, o forse in fondo al lago, dato che una folla immensa di
curiosi
e gendarmi aveva raggiunto la sua casa subito dopo il rapimento di
Christine.
Mentre
percorreva automaticamente le gallerie che conducevano al lago,
completamente
immerse nel buio, i ricordi presero il sopravvento della sua mente
fredda e
lucida, costringendolo ad accelerare il passo per arrivare al
più presto alla
fine di quei passaggi segreti. Ogni angolo sembrava celare una memoria
del suo
passato: quello era l’angolo dove aveva tenuto la bionda
testa di Christine
sulle gambe, in attesa che la giovane si riprendesse dallo svenimento,
là
l’aveva aiutata a salire in groppa al vecchio Caesar, qui
è dove l’aveva
trascinata con forza, la notte del Don Juan, senza curarsi dei suoi
singhiozzi
disperati…
Era
così assorto nei suoi pensieri che quasi inciampò
in un oggetto di cui non
rammentava l’esistenza. Imprecò ad alta voce
mentre si inginocchiava per
afferrare un candelabro che chissà come era finito in
quell’angusto passaggio…
No, un momento. Sapeva perfettamente chi poteva averlo lasciato
lì, per terra.
Ecco,
questo era il punto dove aveva trovato mademoiselle Sanders, svenuta,
ormai tre
settimane prima.
Anche
quella sera aveva provato a scendere nei sotterranei, ma
l’aver trovato quella
ragazza priva di sensi e febbricitante per terra gli avevano fatto
accartocciare
l’idea, spingendolo a portarla in superficie e a consegnarla
alle cure di
madame Giry. Sembrava trascorsi secoli…
E
ora, invece, mademoiselle Sanders era alla sua completa
mercè.
Stranamente
però questo pensiero non lo fece sentire meglio.
Alla
fine raggiunse la sponda del lago sotterraneo. Come aveva immaginato,
non c’era
nessuna barca ad attenderlo lì ormeggiata: probabilmente era
affondata in tutto
quel tempo. Ma egli conosceva altri modi per raggiungere la sua vecchia
dimora
– non lo chiamavano fantasma
per
niente, dopotutto.
Prese
una galleria laterale che costeggiava tutto il lago, stupendosi del
fatto che
quel luogo sembrava essere rimasto congelato all’ultima volta
che lui vi era
stato. Ebbe però modo di notare i segni del passaggio degli
uomini che avevano
provato a dargli la caccia quella terribile notte, come fiaccole e
pistole
scariche abbandonate per terra e lì lasciate ad arruginire.
Avevano forse
sparato contro i topi e le ombre, nella speranza di colpire lui? Quel pensiero lo fece suo malgrado
sorridere: il suo nome era dunque stato capace di terrorizzare ogni
genere di
essere umano. Non si curò di raccogliere nessuna di quelle
armi, ormai
inutilizzabili. E lui non aveva più paura del buio da tanto
tempo.
Una
volta sbucato fuori da quella lunga galleria, poi, potè
dirsi arrivato.
L’arco
del corridoio si affacciava esattamente sopra la Dimora sul Lago,
permettendogli
di abbracciare con lo sguardo il primo luogo che lui, Erik, il Figlio
del
Diavolo, aveva potuto chiamare casa.
La
luce della luna che penetrava da alcune bocche di lupo ben celate da
grate in
ferro si posava su ogni cosa, immobilizzando il tempo. Ma tutto
ciò che egli poteva
vedere ora era degrado e disperazione. Gli enormi specchi da parete
erano stati
frantumati – in parte da lui stesso, i drappi con i quali era
uso ricoprirli
giacevano per terra, bruciati, e dovunque posasse gli occhi regnava il
caos.
Addirittura il suo organo, per il quale aveva sempre nutrito uno
smisurato
orgoglio, era stato distrutto da mani rabbiose e insensibili.
Scese
lentamente le scale di pietra, calpestando i frammenti di vetro, in
volto uno
sguardo di furia cieca. Come avevano osato entrare in casa sua e
distruggerla
in quel modo barbaro? L’unico modo per punire il Fantasma era
dunque accanirsi
con i suoi pochi averi? Oh, se solo avesse potuto
gliel’avrebbe fatta pagare…
Ma ogni
cosa
a
tempo debito, Erik,
si disse tra sè. Presto tutto
sarà
vendicato.
Sfiorò
con tocco gentile i tasti sfondati del suo prezioso organo, per poi
gettare uno
sguardo distratto e indifferente ai vari ritratti di Christine che non
erano
stati risparmiati dal fuoco. Ah, ecco dov’era la gondola,
realizzò, guardando
con uno scatto della mascella la sua imbarcazione –
costrutita con le sue
stesse mani basandosi su un semplice disegno delle barche veneziane
– che era
stata bruciata e affondata senza rimorsi. Tutto era stato distrutto,
ogni
singola cosa.
Diede
le spalle a quello sfacelo, dirigendosi verso quella che era stata la
sua
camera da letto.
La
tenda di broccato che separava la stanza da letto dal resto della sua
dimora
era stata strappata e gettata per terra, così come i cuscini
del suo giaciglio.
Il pavimento era ricoperto da piume e candele spezzate, come se le
persone che
avevano violato la sua casa avessero voluto esorcizzarla per impedirgli
di
tornare. Che poveri stolti. Se solo avessero saputo che non bastava
così poco
per liberarsi di lui…
Almeno
il materasso era ancora intatto. Come sarebbe stato dormire nuovamente
in quel
letto? Gli avrebbe dato la forza di continuare con i suoi piani, di
portare
avanti il suo progetto?
Con
un sospiro stanco si sfilò la maschera dal viso, posandola
sul tavolino da
notte, e si tolse la giacca rimanendo in maniche di camicia. Era troppo
tardi
per tornare alla villa, e non aveva voglia di risalire in superficie
per
dormire nel divanetto del suo ufficio. Quel letto era molto
più comodo… Chissà,
forse avrebbe dovuto mettere a posto la sua antica dimora, in modo da
avere un
luogo nel quale rifugiarsi per riflettere e riposarsi in tutta
tranquillità,
senza che nessuno lo disturbasse. L’indomani mattina, non
appena avesse visto
Bamdad, lo avrebbe messo al corrente della situazione.
Inoltre,
in questo modo era più semplice anche andare alla lezione di
canto di
mademoiselle Sanders.
Con
questi pensieri per la mente chiuse gli occhi, scivolando piano in un
sonno
profondo.
E
senza comprenderne il motivo, si ritrovò a sognare Giulia.
_____________________________________________
AA -Angolo Autrice:
Ciao! Avete passato
un bel fine settimana? Spero di si ^^
Di nuovo mille e uno grazie per i vostri complimenti, mi auguro di
meritarli =P Non mi trattengo a lungo, ringrazio solo per le
recensioni - che mi riempiono ogni volta di gioia *-* - e per aver
aggiunto questa storia alle preferite e alle seguite! Grazie in tutte
le lingue del mondo <3
Allora, che ve ne pare del nuovo capitolo? Spero che abbiate gradito le
pagine di diario iniziali, ci saranno anche altre parti simili, servono
per rendere meno monotona la narrazione e per entrare nella mente del
personaggio... Comunque, qui non succede un granchè ma nei
prossimi cercherò di riscattarmi... Promesso!
Ora vi saluto ^^ Un bacione, al prossimo chapter!
E mi raccomando...
Commentate, commentate,
commentate! *O*
|
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Capitolo 13 *** 12. Prima parte - Rivelazioni impreviste ***
Chapitre 12 –
Prima
parte
Rivelazioni
impreviste
Parigi,
15 Novembre
1877.
Mia cara Christine,
è da tanto tempo
che non ricevo una tua lettera. Come stai? E ovviamente, come stanno
tuo marito
e il vostro futuro bambino? Sono rimasta piacevolmente sorpresa
nell’apprendere, nella tua ultima, che sei in dolce attesa.
Ti auguro tutti i
beni di questo mondo, bambina.
Mi riempie di pena
il dover essere io ad informarti del fatto che la tua cara madrina,
nonché mia
tenera amica, madame Valerius, si è spenta la notte scorsa,
lasciandoci nel
sonno. Il dottor Mounier ha detto che non ha sofferto, grazie al Cielo.
Ti
scrivo anche per avvisarti che il funerale è già
avvenuto, mia cara: ho cercato
di convincere sia padre Joseph che monsieur Mounier a rimandare le
esequie per
permettere a te di parteciparvi – so quanto bene volessi alla
tua madrina – ma
purtroppo entrambi hanno convenuto sul fatto che fosse impossibile. La
mia
lettera non sarebbe giunta in tempo, e se anche un telegramma fosse
stato più
celere, sicuramente il treno da Marsiglia a Parigi ci avrebbe messo
almeno tre
giorni prima di arrivare. Mi dispiace immensamente, mia cara.
Non affrettarti a
partire, Christine: nelle tue condizioni devi stare molto attenta
– se i miei
istinti di donna sono ancora corretti, dovresti ormai essere prossima a
partorire – e non obbligarti a viaggi lunghi, scomodi e
faticosi. Il piccolo
dovrebbe essere con noi per Natale, non è così?
Tu vieni pure quando starai
meglio, la mia casa è sempre stata aperta per te, anche ora
che sei una
Viscontessa.
Ho tante cose da
raccontarti, alcune belle e alcune meno, ma lo farò in
un’altra lettera. Ogni
cosa a suo tempo, e questa volta ti ho già arrecato
abbastanza dispiacere. Ti
rinnovo le mie più sentite condoglianze da parte mia, di Meg
e della cara
Agnese, che continua a chiedermi di te. Chissà se riuscirai
a rivederla? Anche
lei ormai non è più come un tempo…
A presto,
carissima. Attenderò con impazienza la lettera nella quale
mi annuncerete la
nascita di un piccolo de Chagny. Mi farai l’onore di
lasciarmelo chiamare
nipotino?
Affettuosamente
tua,
Louise Thèrese
Giry.
Le
tre donne, ritte in piedi, rimasero in rispettoso silenzio, osservando
rispetto
la nuova lapide marmorea sormontata da una madonna in lacrime, ai cui
piedi si
leggeva il nome della defunta in caratteri eleganti.
Constance
Marie
Valerius
1799
– 1877
Madame
Giry sospirò, trattenendo a stento le lacrime: non si
aspettava che l’anziana
donna se ne andasse così presto, malgrado avesse
già una certa età e la sua
salute fosse minata irreparabilmente. Eppure nei suoi occhi vi era
ancora
quella luce, quando le aveva rivelato l’identità
della giovane che Louise
teneva in casa sua ormai come una figlia…!
Si
chinò per l’ennesima volta per sistemare meglio il
mazzo di crisantemi che
aveva posto nel vaso della tomba, in modo che non coprissero la scritta
finemente intagliata nel duro materiale. La neve li avrebbe ricoperti
molto
presto, nascondendo sia quelli che la lapide, ma per il momento era
meglio
tenerla al meglio. Una mano, posata dolcemente sulla sua spalla, la
distolse
dai suoi pensieri.
«Maman? Coraggio, andiamo.»
Annuì
lentamente, sollevandosi e scrollandosi la polvere e la neve rimastale
attaccata alla gonna. Diede un ultimo sguardo all’ultima
dimora della sua
amica, dopodichè s’incamminò senza
quasi voltarsi indietro per accertarsi che
Meg e Giulia la stessero seguendo. Il teatro l’avrebbe
certamente distratta.
Giulia
aveva istintivamente sospeso le lezioni con il Maestro subito dopo la
morte di
madame Valerius, ormai tre giorni prima; non se l’era sentita
di abbandonare
madame Giry al suo dolore – dopo tutto quello che la donna
aveva fatto per lei
– e pertanto le era rimasta affianco, insieme a Meg, per
tutta la durata della
veglia e del funerale. Ma ora che la povera donna era stata ormai
accompagnata
al suo definitivo luogo di riposo, non vi era più alcun
motivo che potesse
sollevare Giulia dal suo impegno.
Tuttavia,
mentre la carrozza le accompagnava tutte e tre al teatro, non
potè fare altro
che pensare ad una eventuale rabbia di quella creatura. Non lo aveva
avvisato
di ciò che era accaduto – anche se avrebbe dovuto
saperlo, vista la sua natura
– ma d’altronde egli non era andato a casa sua a
domandarle spiegazioni come
aveva fatto la prima volta. Sospirò, volgendo lo sguardo al
di fuori del
finestrino; l’avrebbe scoperto all’ora della sua
lezione, sempre se lui si
fosse presentato.
Ma
prima c’era altro di cui doveva preoccuparsi.
Accadde
alla fine delle prove di canto del coro, mentre chiacchierava con
alcune
soprano con le quali era riuscita a stringere una sorta di amicizia; la
competizione c’era e si faceva sentire, ma ciò non
impediva loro di parlare e
scherzare come persone civili. Ad ogni modo, mentre ascoltava le
rivelazioni di
Charlotte a proposito di un certo giovanotto che sembrava farle la
corte, Giulia
venne chiamata in disparte proprio da monsieur Reyer, che sembrava
leggermente
agitato.
«Mademoiselle
Sanders, sembra esserci una persona che vorrebbe fare la vostra
conoscenza…»
Disse, indicandole con discrezione qualcuno che stava seduto in platea.
Giulia
si voltò, incuriosita, verso la persona che le stava
indicando il direttore
d’orchestra. Si trovò ad osservare un signore
anziano, dal nobile portamento, le
cui mani nodose stringevano il pomo d’argento di un lungo
bastone da passeggio
che sottolineava la sua aristocratica persona. Giulia conosceva quel
bastone –
l’aveva già visto; e, sgranando impercettibilmente
gli occhi dallo stupore,
riconobbe in quel signore lo stesso che aveva visto arrivare, qualche
tempo
prima, in Place de l’Opèra, con una carrozza dal
nobile blasone. Si, egli
doveva essere proprio quello straniero.
«Non
dovrebbe esserci nulla di male, no?» Domandò la
ragazza, parlando con monsieur
Reyer ma osservando lo sconosciuto.
«No,
credo di no…» Replicò lui, con un
leggero sospiro. «Mi sentirei più tranquillo
però se parlaste con lui rimanendo qui in platea, dove
possiamo vedervi. Non
bisogna fidarsi molto degli sconosciuti, mademoiselle.»
Giulia
sorrise indulgente, annuendo. «Certo, monsieur, lo so. Vi
ringrazio per la
preoccupazione.»
Dopodichè
scese dal palcoscenico, sistemandosi le pieghe del vestito e
raggiungendo il
signore che sembrava attenderla, seduto su una poltroncina rossa della
terza
fila. Non appena la vide avvicinarsi si alzò in piedi,
reggendosi al bastone, e
accennando un inchino col capo in segno di saluto. La ragazza sorrise:
non
sembrava essere dotato di cattive intenzioni, dopotutto.
«Buongiorno,
monsieur.» Lo salutò ella per prima, facendo un
elegante inchino. «Mi hanno
detto che volevate conoscermi, o si tratta solo di un
malinteso?»
«Assolutamente
no.» Replicò lui, con un mezzo sorriso.
«Voi dovete essere… Mademoiselle
Christine Daaè, o mi sbaglio?»
Giulia
sollevò stupita le sopracciglia, sentendo il nome della cara
amica di Meg
pronunciato da quel signore che nessuno sembrava aver mai visto; ma per
quale
motivo l’aveva confusa con lei?
«Oh
no, monsieur, mi spiace. Il mio nome è Giulia, Giulia
Sanders. Non ho nessun
legame con madame de Chagny.» Rispose gentilmente, tenendo a
precisare che la
giovane Daaè era ormai una figura di un certo livello
sociale.
«Dovete
perdonarmi, allora, mademoiselle Sanders. Temo che la mia memoria non
sia più
tanto buona come una volta.» Ribattè lui con un
cenno del capo. «Ad ogni modo,
non mi sbaglio sul fatto che era proprio voi che volevo conoscere. Ah,
ma che
maleducato!» Esclamò poi, con un principio di
risata. «Non mi sono ancora
presentato. Io sono il Duca Henri Lescroart de Blanchard, ed
è un piacere fare
la conoscenza di una giovane e così bella cantante, se mi
permettete.»
La
ragazza non riuscì ad impedirsi di arrossire leggermente,
mentre lasciava che
il duca le prendesse educatamente la mano facendo cenno di baciarla.
Adesso che
prestava maggiore attenzione, la voce di quell’uomo aveva un
qualcosa di
familiare, ma chissà cosa… Aveva
l’impressione di averla già sentita, ma
d’altronde poteva ancora trattarsi dei vaghi ricordi del suo
passato di cui
monsieur Mounier, il dottore, aveva parlato, dicendo che sarebbero
diventati
sempre più frequenti. Lei non sapeva davvero che cosa
pensare…
Ad
ogni modo, quell’uomo le faceva una strana impressione, anche
se non ne
conosceva il motivo. E, come se non bastasse, si sentiva nuovamente
osservata e
spiata dall’alto, e anche questa volta sapeva di chi si
trattava; che
situazione fastidiosa.
«Mademoiselle
Sanders! Vi stavo cercando.»
I
due vennero interrotti dalla voce, vagamente irritata, di qualcuno che
Giulia
ormai conosceva bene; si voltò infatti verso monsieur
Bamdad, sorpresa dalla
sua presenza in platea a quell’orario, e fece per presentarlo
al duca, così
come la buona educazione suggeriva. Tuttavia il persiano non fece cenno
di
voler restare a scambiare convenevoli con quell’uomo, al
quale lanciò una lunga
occhiata perplessa e preoccupata.
«Perdonateci,
monsieur, ma devo privarvi della nostra solista.»
Esordì l’uomo, prendendo
Giulia sotto braccio e conducendola via, verso l’uscita della
sala, senza
neppure permetterle di salutare l’anziano nobile. Uscirono
nel grande e
affollato foyer, ma egli non si fermò, accompagnando invece
la ragazza fino al
piccolo cafè del teatro che si trovava dalla parte opposta
del salone.
«Monsieur
Bamdad, va tutto bene?» Domandò lei alla fine,
scrutandolo impensierita.
L’uomo
trattenne un sospiro, scuotendo il capo. «Dovete perdonarmi
per il mio
comportamento di poco fa.» Rispose, parlando a bassa voce;
sembrava quasi che
avesse corso per arrivare fin lì. «Ma voi, che
cosa ci facevate con quell’uomo?
Non dovreste rivolgere la parola in quel modo a dei perfetti
sconosciuti.»
Le
scostò galantemente la sedia per farla accomodare,
dopodichè chiamò un
cameriere ordinando del thè per lei e uno scotch liscio per
lui. Sembrava
davvero innervosito.
«Non
vi fa male bere così tanto a quest’ora?»
Domandò, sorpresa.
Ma
egli scosse la testa. «Ne ho davvero bisogno.»
Replicò, piuttosto seccamente. «Comunque,
non mi avete risposto! Perché quell’uomo stava
parlando con voi?»
Giulia
scrollò le spalle, posando il cappello che ancora aveva tra
le mani sopra il
tavolino. «Non ne ho idea. Monsieur Reyer mi ha detto che il
duca voleva
conoscermi, così mi sono avvicinata. Però non
sembrava una cattiva persona, è
stato molto gentile.»
Monsieur
Bamdad prese il bicchiere di liquore che il cameriere gli aveva appena
servito
e ne bevve un lungo sorso. «Beh, dopotutto voi non potete
sapere…» Sussurrò
poi, senza guardarla.
«Che cosa non posso sapere?»
Insistè lei,
senza degnare di un’occhiata la tazza di thè
fumante che lo stesso cameriere le
aveva posto davanti.
Il
persiano sembrò riscuotersi dai suoi pensieri.
«Oh, nulla, nulla di
importante.» Sorrise, prendendo un profondo respiro.
«La verità è solo che…
Vedete, sono preoccupato per voi.»
«Preoccupato?
In che senso, scusate?»
Egli
prese un altro sorso di scotch, prima di rispondere. «Forse
‘preoccupato’ non è
la parola giusta… In realtà, mi da leggermente
fastidio quando qualche altro
uomo vi rivolge la parola.»
Giulia
sgranò leggermente gli occhi, sorpresa. Ma di cosa stava
parlando? Era forse…
Oh Dio, sarebbe stato così imbarazzante, ma…
Possibile che monsieur Bamdad
fosse… Ebbene si, geloso…?
«Monsieur,
io… Non… Non credo di
capire…» Balbettò, sentendosi le guance
andare in fiamme.
Le
parole che seguirono, poi, ebbero il duplice effetto di
tranquillizzarla e
metterla ancora più a disagio nel medesimo tempo.
«State tranquilla,
mademoiselle, non ho nessuna intenzione di saltarvi addosso come un
uomo senza
morale né onore.» Mormorò, addolcendo
il tono della voce. «Vi darò tutto il
tempo di cui avete bisogno prima di chiedervi una risposta. Credo che i
miei
sentimenti siano abbastanza chiari, ma non voglio mettervi in imbarazzo
e
costringervi ad ascoltarli. So che adesso avete tanti pensieri, e non
voglio di
certo sommarmi ad essi; inoltre, forse sarebbe stato più
appropriato chiedere
prima a madame Giry, che è la vostra unica tutrice, al
momento!»
Sorrise
vagamente, giocherellando con il suo bicchiere ormai vuoto.
«Ma la colpa è
della mia natura impulsiva, voi sapete che non sono
francese… Ad ogni modo, vi
supplico solo di pensare a me, qualche volta. Potete promettere almeno
questo?»
Giulia
dischiuse le labbra, senza parole ma ben decisa a dire qualcosa che non
lo
offendesse o lo facesse sentire a disagio; e stava per rispondergli,
quando una
voce ancora più familiare e decisamente benvenuta la
interruppe nuovamente.
Quella doveva di certo essere la giornata dei discorsi interrotti.
«Giulia,
sei qui! Ti stavo cercando dappertutto.» Meg si
avvicinò al loro tavolo,
sorridendo a monsieur Bamdad che si era alzato in piedi per salutarla e
che le
aveva scostato la sedia per farla sedere. «Grazie, monsieur,
ero quasi certa
che avrei trovato anche voi qui.»
Entrambe
le ragazze poterono giurare di averlo visto arrossire, ma egli si
mascherò
subito dietro una severa espressione del volto. «Purtroppo
adesso devo andare,
mesdemoiselles, numerosi impegni mi chiamano. Mademoiselle Sanders,
è stato un
piacere parlare con voi. Mademoiselle Giry, lieto di avervi
rivista.»
Poi
prese il cappello e se ne andò, sparendo tra la folla.
Subito Meg non
resistette e si voltò verso l’amica, che ancora
aveva l’ombra del rossore sulle
guance. «Ho forse interrotto qualcosa?»
Indagò quindi, con tono malizioso.
Tuttavia
Giulia scosse la testa, palesemente felice della presenza della giovane
ballerina. «No, Meg, anzi, credo di doverti
ringraziare… Se non fossi arrivata,
chissà cos’altro sarebbe successo.»
«Devi
raccontarmi ogni cosa!» Volle sapere Meg, sorpresa.
L’altra
annuì, dicendo tutto all’amica e arrossendo ad
ogni frase. Era un piacere
confidarsi con lei, sarebbe stato bello poterle dire davvero
ogni cosa… Ma per il momento non poteva; e si odiava per
essere costretta a tenerle qualcosa nascosto, quando moriva dalla
voglia di
parlarle del Maestro… Chissà se Meg avrebbe
potuto aiutarla?
Quando
l’orologio scoccò le cinque in punto, Giulia
salutò Meg e madame Giry – che le
aveva raggiunte per pranzo – e si diresse alla sua lezione di
canto privata.
Avrebbe davvero preferito evitarla, ma se non avesse voluto vedere
arrabbiato
quel demonio dalla voce magnifica non poteva fare altro.
_______________________________________________________________________________________________________________
Ehilà!
Eccomi tornata con il nuovo capitolo ^^
Dunque, passo prima di tutto a rispondere alle care fanciulle che hanno
recensito, vi adoro <3 :
aliena: Innanzitutto
grazie mille per la recensione! Mi dispiace per il continuo riferimento
a Christine ^_^; ma purtroppo è necessario u.u
[Questo interessa tutte,
credo ^^] Dunque, per rispondere alla tua domanda... Il
Fantasma a cui mi ispiro è una sorta di "incrocio" tra
l'originale Erik di Gaston Leroux e il bellissimo (*-*) Erik della
versione webberiana... Fisicamente il "mio" è in tutto e per
tutto quello del musical - o, meglio, della versione cinematografica -
ma per quanto riguarda il carattere ho cercato di renderlo il
più possibile vicino al fantasma originale, altrettanto
crudele e con un passato che è - anch'esso - a
metà strada tra le due versioni... Ad ogni modo queste
peculiarità emergeranno più avanti, non
temere ^^ Spero di essere stata abbastanza chiara! Un bacione =*
Yunie992: Grazie mille
per la recensione! ^^ Per quanto riguarda le altre fan fiction...
Purtroppo sono bloccate =( "Secret Diary" è giunta fino al 9
capitolo, ma non mi sono data la pena di postarlo perchè
tanto l'ho sospesa... Stessa cosa per l'altra :( Inoltre il mio tempo a
disposizione non è così elevato, sto facendo
centomila cose e adesso non riesco a rimettere mano anche a quelle
due... Un giorno magari lo farò, comunque ^^ Dato che mi
affeziono troppo ai miei personaggi per abbandonarli definitivamente!
xD Un bacione, continua a seguirmi =*
TheMisty910: Wao, grazie
mille per i complimenti *-* Non pensavo che l'idea del diario potesse
piacere così tanto! Spero che abbia avuto lo stesso effetto
anche la lettera di madame Giry ^^ Un bacione, al prossimo capitolo!
Smack =*
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Capitolo 14 *** 12. Seconda parte - Dove ciascuno architetta il proprio piano ***
Chapitre
12 –
Seconda parte
Dove
ciascuno
architetta il proprio piano
Giulia
scese velocemente le scale della cappella, conscia di essere in
tremendo
ritardo per la sua lezione. Era ancora abbastanza confusa dal discorso
avuto
quella mattina con monsieur Bamdad, e dalla sua improvvisa quanto
inaspettata
dichiarazione. Non credeva che l’uomo nutrisse quel genere di
sentimenti nei
suoi confronti, ma d’altronde non era molto brava a capire
quello che gli altri
sembravano volere da lei.
Solo
con il suo Maestro ci riusciva, ma dopotutto doveva ringraziare la sua
terribile eloquenza.
Ed
ora, era il momento della verità…
Iniziò a prepararsi per subire l’ira del suo
insegnante, e con un sospiro si portò al centro della
piccola cappella
circolare. Strinse nervosamente le mani, intrecciando le dita e
tormentando la
gonna del suo vestito in attesa che Egli manifestasse la sua presenza.
Non
aveva il coraggio di chiamarlo per prima.
«Credevo
di essere stato abbastanza chiaro a proposito dei ritardi.»
Giulia
raddrizzò la schiena, rabbrividendo; eccolo, era arrivato.
«Maestro…» Iniziò,
con un filo di voce.
«Io
non tollero i ritardi.»
Proseguì,
come se non fosse stato interrotto. «E, come se non bastasse,
voi vi siete
assentata dalle nostre lezioni per ben tre
giorni.»
La
sua voce ormai avvelenata esprimeva tutta la rabbia e il disappunto per
la
scarsa, a suo parere, partecipazione della ragazza alle loro lezioni,
che
sembrava quasi voler trascurare. Oh, sapeva di non essere una compagnia
molto
piacevole, ma aveva lei forse già scordato il loro patto?
«Mi
dispiace, Maestro. Credevo sapeste… Pensavo foste a
conoscenza della morte di
madame Valerius… Io…» Provò
a giustificarsi, sollevando il capo e voltandosi verso
il punto da cui credeva provenire la sua voce.
Ma
egli la interruppe, seccamente. «Non mi riguarda altro che
non siano le nostre
lezioni. Ogni ritardo ed ogni assenza saranno esclusivamente colpa
vostra,
quindi assumetevene la responsabilità.»
La
ragazza trasalì, sorpresa da quella brusca risposta. Ma
decise che replicare
sarebbe stato del tutto inutile: perciò annuì,
lentamente, chinando il capo in
segno di scusa. «Si, lo so. Perdonatemi.»
Il
Maestro non rispose subito; tuttavia, quando lo fece, ebbe il potere di
terrorizzare Giulia ancora più di quanto già non
fosse. «Dovrei punirvi, lo
sapete?»
Probabilmente
fu la voce atona e neutra che egli utilizzò per pronunciare
quella rapida
sentenza, ma il cuore della ragazza mancò di un battito,
all’idea di una sua
eventuale punizione. Davvero, non credeva che il suo maestro fosse
così
crudele… Ma già, dopotutto… Era il
Figlio del Diavolo…
Deglutì,
prendendo un bel respiro. «Io…»
Iniziò, ma la voce le si spezzò. Poi
ritentò.
«Io… Vi supplico solo di non prendervela con Meg o
madame Giry, né con nessun
altro… Se è con me che siete arrabbiato, allora
è con me che dovete
prendervela. Avete ragione quando parlate di
responsabilità.»
Nel
buio del suo nascondiglio, avvolto dalle tenebre, Erik
sussultò. Si sarebbe
aspettato piuttosto che la ragazza singhiozzasse, o lo supplicasse di
non
rivolgere su di lei la sua ira, domandando perdono… Di certo
non credeva che
ella fosse capace di mantenere la voce così calma
– il volto così sereno! –
anche mentre conveniva con lui sul fatto di venire punita!
Per
tutti i demoni dell’Inferno – quella fanciulla era
davvero piena di sorprese…
Non
capiva davvero che cosa gli stava succedendo, così
all’improvviso! E, stando
bene attento a non farsi sentire da lei, emise un breve sospiro
rassegnato.
«Questa
volta non importa.» Mormorò, addolcendo suo
malgrado la voce irosa. Ma ci tenne
a precisare: «Non voglio perdere altro tempo prezioso, oggi.
Tuttavia, sappiate
che non ci sarà una prossima volta.»
Il
volto di Giulia si illuminò, piacevolmente sorpreso, e non
riuscì a trattenere
uno splendido sorriso che ebbe il potere di far ammutolire per alcuni
secondi
l’uomo dietro la maschera. «Vi ringrazio,
Maestro.»
Egli
si costrinse a scuotersi, spingendo in fondo alla sua anima quello
strano
brivido di calore che gli aveva attraversato il petto alla vista
dell’espressione della ragazza. Cosa
diavolo…? Ma non volle approfondire oltre la
questione. La sua allieva
attendeva di iniziare.
Erik
si trovava nel suo studio, dove sarebbe probabilmente rimasto fino a
tarda
notte per poi scendere nei suoi ritrovati domini sulla riva del lago.
Stava
lavorando alacremente ai progetti di ristrutturazione della sua dimora
sotterranea,
decidendo questa volta di far sparire ogni genere di specchio e
compensando con
tende o drappi da appendere ai muri di pietra per renderli meno spogli.
Per non
parlare poi dell’organo, ormai inutilizzabile e da buttar
via, che andava senza
alcun dubbio sostituito… Il suo antico rifugio non poteva
certo rimanere senza
pianoforte.
Era
talmente concentrato nel suo lavoro che non si accorse del bussare
insistente
alla porta dello studio, e tenne china la testa sui fogli di appunti
sparpagliati sopra la sua scrivania come se niente fosse. Alla fine,
però, non
potè più ignorarlo ed, innervosito,
esclamò: «Diavolo, Bamdad, entra pure!»
Mentre
lanciava uno sguardo distratto all’orologio appeso sopra il
camino acceso – la
cui lancetta segnava le nove passate – la porta si
aprì, ed egli volse lo sguardo
ad accogliere il visitatore.
«Oh…
Madame Giry. Non pensavo foste voi.» Disse, senza salutare.
Poi proseguì, con
la voce velata di sarcasmo. «Come mai vi aggirate per il
teatro a quest’ora,
come un fantasma? Non dovreste
essere
già a casa a proteggere i vostri pulcini?»
Gli
occhi della donna si chiusero a due fessure, mentre faceva sbattere con
poca
grazia la porta dietro di sé; la sua rabbia era palpabile,
ed Erik si accomodò
meglio sulla sedia per ascoltare incuriosito ciò che ella
aveva chiaramente da
rimproverargli.
«È
proprio di questo che voglio parlarti, maledizione!»
Sbottò, raggiungendolo a
grandi passi e sbattendo il palmo aperto della mano sulla sua
scrivania. «Credi
che io non abbia capito quello che stai facendo a quella povera
ragazza?»
L’uomo
sollevò un sopracciglio, sostenendo senza battere ciglio lo
sguardo furioso
della donna. «Ritengo che non sia affar vostro quello che io
decido di fare o
non fare, madame.»
Louise
Giry scostò la sedia e si sedette, con la chiara intenzione
di trattenersi a
lungo malgrado l’orario decisamente inconsueto.
«Giulia è sotto la mia
protezione, Erik!» Scandì furiosa,
chinandosi verso di lui. «Credi che non mi sia accorta della
tua visita
notturna nella sua stanza, qualche tempo fa? Pensavi di poter entrare
nella mia
casa senza che io venissi a scoprirlo? Inoltre, questa storia del
Maestro sta
andando avanti fin troppo!»
«Ve
ne ha messo lei a conoscenza?» Domandò invece,
limitandosi a socchiudere gli
occhi con atteggiamento vagamente minaccioso.
«No,
non ne ha fatto parola con nessuno. Ma io so ciò che ho
sentito quella notte, e
so che Giulia sparisce ogni pomeriggio per qualche ora, così
come so dove va e soprattutto chi incontra!» La voce di
madame si
avvelenò come mai Erik l’aveva sentita, e fu per
quello che la lasciò finire di
parlare. «Pensi che questa volta rimarrò a
guardare, eh? Credi di avermi in
pugno solamente perché tu
ti senti
tradito da me? Non so
perché ti ho
assecondato per tutto questo tempo, ma ora è tempo di
finirla!»
Erik
rimase ad osservarla a lungo, lasciando che si calmasse prima di dare
una
risposta. Era la prima volta che vedeva madame così furiosa,
e se da una parte
ne era divertito, dall’altra ne era immensamente infastidito:
come si
permetteva, proprio lei tra tutti, di giudicare? Non aveva forse
mantenuto il
segreto anche con la piccola Christine? E sì che allora
l’inganno era durato a
lungo…
Con
un’incredibile calma, poi, si decise a risponderle.
«Sapete, madame, voi non
avete la minima idea di quali siano i miei progetti per la ragazza.
Dopotutto,
non sembrate neppure interessata a conoscerli. D’altra parte,
non potete
ignorare che le capacità canore di mademoiselle Sanders
siano notevolmente
migliorate nelle ultime settimane, esattamente da quando io
le impartisco le mie lezioni…»
«Non
ho mai messo in dubbio la tua capacità di insegnare,
Erik.» Ribattè Louise,
cercando di rispondergli con lo stesso tono neutro e sarcastico.
«Quello che mi
chiedo è solo cosa tu possa volere da lei, visto che non sei
il tipo da fare
niente per niente.»
«Ripeto,
madame, non vedo come la cosa vi possa riguardare.»
Replicò, con un sibilo. «Se
non sbaglio, sono stato io a
trovare
la ragazza, e se non fosse stato per me probabilmente ci sarebbe morta
in quei
sotterranei. Ve la portai esclusivamente perché ve ne
faceste carico in un
momento in cui io non ne ero in grado; perché sappiatelo,
madame, se fossi
stato in grado di curarla in prima persona non vi avrei mai –
e sottolineo mai –
coinvolto.»
La
donna aggrottò le sopracciglia, arrabbiata.
«Quindi, con questo sciocco
discorso, pensi di dispensarmi dal preoccuparmi per lei? Ah!, che
sciocchezza.»
Erik
si alzò con un movimento infastidito. «Fate come
volete!» Sbottò, versandosi un
bicchiere di liquore che teneva conservato nel mobiletto dietro la
scrivania. «Vi
avverto solo di non immischiarvi più nei miei affari,
perché questa volta,
madame, non ve la farò passare liscia.»
Madame
Giry si alzò a sua volta, stringendo le mani a pugno per
resistere alla
tentazione di lanciargli uno dei suoi preziosi fermacarte.
«Lei non è
Christine, Erik!» Esclamò, con
l’intenzione di farlo rinsavire.
Per
tutta risposta, egli si limitò a voltarsi lentamente verso
di lei, stringendo
gli occhi minaccioso. Tuttavia la sua voce fu pressochè
atona quando le
rispose. «Questo lo so benissimo, madame. Non
c’è alcun bisogno che me lo
rammentiate.»
Poi,
dato che non sembrava intenzionato a dire altro, madame gli diede le
spalle e,
senza più rivolgergli la parola, uscì dallo
studio sbattendo la porta.
Oh, ma non finisce
qui, pensò la
donna, percorrendo a grandi passi i corridoi deserti del teatro. Troverò un modo per mettere la parola
fine a
tutto questo. A costo di impedire a Giulia di venire a teatro, questa
storia
deve finire. Non permetterò che tutto si ripeta ancora una
volta senza alzare
un dito!
Tuttavia,
madame scoprì ben presto che le parole erano molto
più semplici dell’agire, e
dovette quasi arrendersi al chiaro ascendente che Erik aveva su tutti
coloro
che lavoravano al teatro. Non appena il giorno dopo maestro Reyer venne
a
conoscenza delle intenzioni di madame Giry, ossia ritirare Giulia dal
coro
dell’Opèra, non ci pensò due volte a
raggiungere madame durante una delle sue
lezioni per supplicarla di non fare una cosa del genere. Voleva forse
scherzare, impedire a mademoiselle di frequentare il teatro a pochi
giorni
dall’Aida? Che ne sarebbe
stato del
coro senza la loro solista? Voleva di nuovo vedere il teatro in rovina?
Certamente
madame sarebbe convenuta sul fatto che una simile decisione –
come rimandare la
ragazza dai suoi genitori, ridicolo!
– avrebbe fatto scandalo!
Così,
quella parte del piano di madame Giry svanì ancora prima di
essere messa in
atto. Va bene, Giulia avrebbe continuato a frequentare il coro; ma non
sarebbe
più dovuta andare da Erik! E, per far si che ciò
fosse possibile, aveva bisogno
dell’aiuto di Meg.
Louise
confidava nell’amicizia che ormai legava le due ragazze: se
Meg avesse chiesto
a Giulia di accompagnarla a fare alcune commissioni in
città, dopo le loro
prove mattutine, la giovane non si sarebbe di certo potuta rifiutare,
vero?
«Scusami,
Meg, ma stasera non posso.» Aveva invece risposto la ragazza,
con
un’espressione dispiaciuta in volto che però non
le fece cambiare idea. «Anzi,
non vorrei arrivare in ritardo… Ti spiace se ci rivediamo
più tardi, quando tua
madre finisce i suoi corsi? Ora devo scappare!»
Meg
la osservò mentre si insinuava tra la folla che occupava il
corridoio,
rimanendo a guardarla fino a quando non la perse di vista. Preoccupata,
corse
dalla madre per aggiornarla sul risultato del loro piano.
«Sarei
curiosa di sapere in che altro modo l’ha minacciata, per
spingerla ad
obbedirgli in modo così incondizionato.»
Sibilò la donna a bassa voce, dopo che
Meg le ebbe riferito l’accaduto.
La
giovane Giry incrociò le braccia, innervosita.
«Credi che Lui l’abbia
minacciata?»
«So
che è così! Come lo spieghi il suo comportamento,
altrimenti?» Ribattè la
madre, battendo forte il suo bastone sul pavimento. «Credevo
che tutto questo
fosse finito una volta per tutte, e invece…»
«Sai,
maman, forse…
Finchè non le fa del
male, come ha fatto con Christine, non penso ci sia qualcosa di male
nelle
lezioni che le impartisce, non credi?» Tentò Meg,
mordicchiandosi il labbro.
Madame
sospirò, seccata. «Anche con Christine aveva
iniziato in questo modo, Meg.»
Poi, dopo aver riflettuto per una manciata di secondi,
sospirò. «Temo che la
somiglianza tra loro due non l’abbia aiutato a
dimenticare… E se… Oh, mon
Dieu…»
Istintivamente
Meg rabbrividì, spaventata. «Pensi che si possa
vendicare su Giulia di quello
che è accaduto con Christine? Ma è
assurdo!»
«Erik
non è famoso per i suoi comportamenti assennati, bambina
mia…» Mormorò la
donna, abbassando pensosa lo sguardo. Subito le venne in mente
ciò che le aveva
confidato madame Valerius in uno dei suoi ultimi momenti di
lucidità, a
proposito dell’identità della giovane cantante.
Era un bene che Erik non ne
fosse a conoscenza; se l’avesse saputo, chissà
cos’altro sarebbe stato capace
di inventarsi, con il suo animo affamato di vendetta…
«E
allora, cosa facciamo? Lasciamo che Giulia continui ad andare a questi
incontri
segreti?» Sbottò piano la figlia, mettendosi le
mani sui fianchi in un gesto
stizzito.
«Credimi,
Meg, se avessi un’idea migliore non esiterei a fare
qualcosa…» Si limitò a
rispondere madame Giry, scrollando elegantemente le spalle.
Rimasero
un po’ in silenzio, ignorando il vociare che proveniva da
fuori lo sgabuzzino
nel quale Meg aveva trascinato un’alquanto recalcitrante e
infastidita madame.
All’improvviso, la giovane ballerina ebbe una sorta di
illuminazione.
«Maman!» Esclamò,
prendendole le mani tra
le sue per attirare l’attenzione della donna.
«Pensi che il Fantasma lascerebbe
in pace Giulia se pensasse che lei… sia fidanzata?»
Madame
Giry sgranò gli occhi, stupita: cosa sapeva Meg in
più di lei? «Non saprei,
Meg. Se ti ricordi, quando il visconte de Chagny aveva iniziato a
manifestare
il suo interesse nei confronti di Christine, Erik l’aveva
rapita per ben due
settimane, e tu sai poi cosa ne è venuto
dopo…»
Tuttavia
la giovane Giry non sembrava darsi per vinta. «Si, ma accadde
perché il
Fantasma aveva dei sentimenti per Christine… Adesso invece,
vuole Giulia solo
per vendicarsi! Perciò, se lei fosse sotto la protezione di
qualcun altro…
Forse…»
Louise
a quel punto si innervosì, gettandosi la lunga treccia
dietro la schiena e
osservando la figlia con un misto di curiosità e impazienza.
«Marguerite Giry,
sei vivamente pregata di non esprimerti per enigmi e di parlare a tua
madre con
chiarezza!»
La
ragazza ridacchiò tra sé, scuotendo la testa.
«Mi dispiace, maman, ma
scoprirai tutto a tempo
debito. Non posso dirti altro per il momento.»
«Questo
perché sai che a me non piacerà, non è
così?» Asserì madame, inarcando un
sopracciglio con tono sospettoso.
Meg
scrollò le spalle. «Quando lo scoprirai, me lo
farai sapere.»
La
donna allora si limitò ad annuire, mascherando
l’innata preoccupazione con la
quale viveva da quando aveva saputo del ritorno di Erik. Avrebbe mai
cessato di
preoccuparsi per lui, un giorno, o avrebbe dovuto convivere
così per sempre?
«Mi
raccomando, Meg… Non fare niente di sciocco.»
___________________________________________________________________________________________________
AA
- Angolo Autrice:
Ciao! ^^
Chiedo umilmente perdono per il ritardo dell'aggiornamento, ero
indecisa se continuare o no a postare questa storia... In fondo non
è un granchè :( Comunque, finchè ci
sarà anche solo qualcuno a leggerla, allora mi sembra giusto
continuarla =)
Dunque, passo subito ai ringraziamenti! ^^
- TheMisty910:
Grazie per la recensione, sono contenta che ti sia piaciuta
l'idea della lettera di madame Giry ^^ Credo ci saranno altre parti
simili, è un modo per focalizzare l'attenzione su un
particolare personaggio senza perdere l'onniscenza del lettore con la
prima persona! ^^ Okay, deviazione professionale, spero si sia capito
il concetto e spero che leggerai anche questo capitolo con lo stesso
piacere ;) Per quanto riguarda l'anziano Duca... Beh,
bisognerà attendere ancora =p Un bacione, al prossimo
capitolo! =*
- Yunie992:
Grazie anche a te per la recensione! ^^ Ripeto, mi spiace per
le altre fan fiction, ma purtroppo non riesco a riprenderle in mano =(
Spero che questa non faccia la loro stessa fine, ma molto
dipenderà dal successo che riscuoterà No One
Would Listen xD Anche se questo aggiornamento giunge in ritardo, spero
sia gradito e che non vi siate già dimenticate la storia! ;)
Ci sentiamo presto! Un bacio =*
Come sempre, ringrazio chi ha
aggiunto la storia alle preferite, alle ricordate e alle seguite!
Grazie, grazie, grazie, mi fate davvero molto felice *commossa* :')
Ci leggiamo al
prossimo capitolo! Smack a tutte =*
GiulyRedRose
|
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Capitolo 15 *** 13. Rabbia e complicazioni ***
Chapitre
13
Rabbia
e
complicazioni
Meg
decise di mettere in atto il suo piccolo piano già il
mattino successivo.
Ignorando
le proteste della madre che la volevano in sala da ballo, insieme a
tutte le
altre ballerine, la giovane Giry attese fuori dalla platea che
l’amica
terminasse le prove del coro, dopodichè la raggiunse prima
che svanisse tra la
folla e la prese in disparte, attirandola in un angolino appartato.
«Meg!
Cosa ci fai qui? Non hai le prove anche tu?» Le chiese la
ragazza, sorpresa di
trovarla lì.
La
ballerina liquidò la questione con un gesto della mano,
facendole cenno di
avvicinarsi. «Senti Giulia, ti ricordi che dovevo parlarti?
Solo che poi sono
successe tante cose e non ho più avuto occasione di
farlo…»
«Ah,
si… Si, ricordo!» Annuì Giulia,
tutt’a un tratto interessata alle parole
dell’amica.
«Bene!»
Replicò l’altra. «Allora ascoltami,
visto che ora ho le prove e non posso,
incontriamoci dopo pranzo, va bene?, sempre nella cappella del teatro.
Sai
dove…?»
Giulia
annuì nuovamente prima che Meg finisse di parlare.
«Si si, so dov’è. Quindi, a
che ora?»
«Le
tre?»
«Le
tre va benissimo.» Convenne l’amica, pensando che
sarebbe riuscita comunque a
non tardare alla lezione con il suo Maestro dato che questa si svolgeva
solo
un’ora più tardi.
Meg
sorrise, abbracciando affettuosamente la ragazza e lasciandole due
teneri baci
sulle guance. «Bene, ma
chère, allora
a più tardi! Mi raccomando, sii puntuale!»
«Meg
è in ritardo.»
Con
un sospiro rassegnato, Giulia si sedette sul gradino in marmo della
grande
vetrata, giocherellando distrattamente con i lembi del suo vestito. Se
l’amica
fosse arrivata tardi, magari all’ora della sua lezione con il
Maestro… Oh Dio,
cosa sarebbe successo se lei li avesse scoperti?
Scosse
la testa, non volendo neanche pensare ad una simile
eventualità.
All’improvviso,
però, dei rumori di passi dalle scale la riscossero dai suoi
pensieri. Si alzò,
incrociando le braccia, in attesa che l’amica scendesse nella
cappella e decisa
a rimproverarle, seppur scherzosamente, il suo ritardo. Ma dovette
abbandonare
tutti i suoi propositi quando vide chi, effettivamente, era appena
arrivato in
quel piccolo luogo consacrato.
«Monsieur
Bamdad?» Esclamò sorpresa, mentre l’uomo
si toglieva il cappello e accennava un
inchino educato. Anche lui sembrava piuttosto stupito, in
realtà.
«Mademoiselle
Sanders! Non credevo di trovarvi qui.» Rispose, avvicinandosi
di qualche passo
a lei. «È stata mademoiselle Giry a dirmi di
venire, anche se forse sono in
ritardo e lei è già andata
via…?»
Giulia
scosse la testa, cercando di ignorare il leggero senso di disagio che
ora
provava quando si trovava in compagnia del persiano. «In
realtà, anche io stavo
aspettando Meg. Mi ha detto di venire qui ma poi non si è
presentata, quindi…»
Scrollò elegantemente le spalle, prima di aggiungere.
«Forse è meglio che me ne
vada, ora.»
Fece
per raggiungere le scale e andarsene – non voleva rimanere da
sola con il
giovane – ma egli la trattenne per un polso, impedendole di
fare un altro
passo. Ella si voltò, sorpresa.
«Vi
prego, mademoiselle, non andatevene così.» La sua
espressione sembrava in
qualche modo triste, e convinse la ragazza a rimanere per sentire
ciò che
doveva dirle. «Noi avevamo interrotto un discorso qualche
giorno fa, se non
ricordo male.»
Fu
inevitabile che le guance di Giulia si tingessero di rosso, mentre
abbassava lo
sguardo per non rischiare di incrociarlo con quello di monsieur Bamdad.
Non
rispose, così fu lui a riprendere la parola.
«Avete
pensato a me, qualche volta, come vi ho chiesto?»
Sussurrò, in un modo
estremamente dolce che la fece arrossire ancora di più.
«Forse…
Non è il luogo più adatto
per…» Provò a ribattere lei, con poca
convinzione.
Così
egli decise di insistere, attirandola verso di sé.
«Credo invece che non ci sia
luogo più consono.» Replicò lui, con un
mezzo sorriso. «Guardate, abbiamo anche
la protezione di un angelo…»
Aggiunse
poi, indicandole l’angelo dipinto nella vetrata.
E la maledizione di
un demonio!,
avrebbe voluto replicare lei, leggermente in ansia. Mio Dio, se Lui
fosse
arrivato in quel momento…
«Monsieur,
davvero, io… Dovrei andare…» Balbettò,
senza riuscire a trovare una scusa accettabile; possibile che proprio
quel
giorno il persiano non avesse nessun impegno o lavoro da compiere?
«Prometto
che poi vi lascerò andare, mademoiselle.»
Mormorò lui, con un’incrinatura
leggermente roca nella voce che a Giulia non piacque affatto.
«Ma prima
desidero fare una cosa…»
Poi,
prima che la ragazza potesse fare qualcosa per liberarsi dalla sua
presa
gentile ma forte, si ritrovò le braccia del persiano strette
intorno alla vita,
e il suo viso a pochi centimetri dal suo. Aprì la bocca per
intimargli di non
osare, ma al contrario egli ne approfittò e chinò
le sue labbra voraci su
quelle della ragazza, catturandole in un bacio che la fece gemere dal
disgusto.
Cercò
di divincolarsi con furia mentre lui continuava a baciarla, ma solo
dopo aver
puntato le mani sul suo petto e averlo spinto con forza
riuscì a mettere una
distanza accettabile tra loro. Gli rivolse uno sguardo stupito e
arrabbiato, e
senza dire una sola parola gli diede le spalle e corse su per la tromba
delle
scale, dimenticando ogni cosa che non fosse quel bacio il cui ricordo
ancora
bruciava su di lei.
Come ha osato fare
una cosa del genere?
Lasciò
il teatro senza neppure avvisare madame Giry o Meg, scendendo nelle
scuderie a
domandare al cocchiere che di solito accompagnava madame se poteva
riportarla a
casa. L’uomo preparò il calesse senza fare
domande, e Giulia tornò a casa con
l’intenzione di non mettere più piede a teatro. Ne
aveva abbastanza di quel
genere di vita, decise tra sé.
Se
avesse potuto, Erik avrebbe distrutto tutto quello che si trovava sul
suo
cammino.
Aveva
assistito senza poter intervenire al breve dialogo che era appena
avvenuto tra
il suo segretario e la sua allieva, e sinceramente non aveva ancora
capito quale
strana paralisi gli avesse impedito di uscire dal suo nascondiglio e
uccidere
Bamdad!
Si
bloccò in mezzo al corridoio, colpendo con un pugno la
parete. Maledizione,
doveva calmarsi! La rabbia non avrebbe risolto nulla in quel momento, e
sapeva
per esperienza che non era il caso di lasciarsi trasportare
dall’ira. Certo,
uccidere non era necessario. Ma avrebbe dovuto farla pagare a qualcuno,
oh si…
Raggiunse
il suo studio nel più breve tempo possibile, avendo visto
che tanto
mademoiselle Sanders era fuggita dal teatro e che per quel motivo era
saltata
anche la loro ennesima lezione. Andando avanti di questo passo non
sarebbe mai
riuscito a portare avanti il suo piano, dannazione!
Fece
sbattere la porta dietro di sé così forte che si
sarebbe potuta staccare dai
cardini se non fosse stata di legno massiccio, e anche così
aveva rischiato. Posò
il violino sopra la scrivania ed aprì l’anta di
vetro del mobile dietro ad
essa, tirandone fuori un bicchiere di vetro e una bottiglia di liquore.
L’ultimo pensiero prima di ingerire il liquido tutto
d’un fiato fu che ultimamente
stava ricorrendo al vino troppo spesso, ma alla fine non gli importava;
almeno,
una volta stordito dai fumi dell’alcool, non avrebbe
rischiato di fare qualcosa
di cui poi, a mente lucida, si sarebbe sicuramente pentito. Come
l’idea di
uccidere Bamdad.
Provò
un sincero disgusto verso di sé, sbattendo il bicchiere
vuoto sul tavolo ed imprecando
ad alta voce; è vero dunque che le persone non possono
cambiare mai…
Poggiò
i gomiti sul tavolo, portandosi entrambe le mani a stringere le tempie,
come
per eliminare dalla sua mente il ricordo di quel bacio.
Perché diavolo se la
prendeva così, maledizione? Forse perché rivedeva
in Giulia e Bamdad ciò che
era già accaduto, in passato, con Raoul e Christine?
Perché non poteva solo
dimenticare? Chiudere gli occhi e dimenticare per sempre…
Aprì
l’ultimo cassetto della scrivania, afferrando con una sorta
di affetto perverso
la rivoltella che vi giaceva sul fondo e posandola poi sul tavolo, di
fronte a
lui. Prese a sfiorarne lentamente la canna in metallo, ben consapevole
dell’unico proiettile che vi aveva inserito la notte della
tragedia, due anni
prima; si era ripromesso che un giorno l’avrebbe usata su di
sé, sempre se non
l’avessero ucciso prima, ed era un pensiero confortante
sapere che un giorno
sarebbe morto di propria mano. Almeno si sarebbe fidato della persona
che
l’avrebbe privato della vita con una mira perfetta, senza
margine di scampare
alla sua dipartita.
Era
così seducente il pensiero della sua morte…
«Monsieur
Destler! Che cosa state facendo?»
Erik
sollevò lentamente lo sguardo sull’uomo che aveva
appena invaso il suo ufficio,
guardandolo in un modo che aveva fatto tremare colossi ben
più grandi di lui.
Ma guarda, aveva avuto anche il coraggio di andare da lui, l’idiot…
«A
cosa devo la vostra visita, Bamdad?» Domandò, con
un tono falsamente cortese di
cui il segretario si accorse subito.
«Ma…
Signore, mi avete detto voi di venire, quando…»
Provò a rispondere il persiano,
sorpreso.
Ma
Erik lo interruppe. «’Quando’ cosa?
Quando avreste terminato il vostro incontro
galante con mademoiselle Sanders, per caso?»
«Non
capisco cosa vogliate dire, monsieur.» Ribattè
Bamdad, raddrizzando la schiena
e ignorando deliberatamente la rabbia che il suo principale stava
mostrando nei
suoi confronti.
«Non
lo capite.» Ripetè Erik, alzandosi in piedi con
dei gesti forzatamente
controllati. «Credevo di avervi parlato del fatto che
mademoiselle si trova sotto
la mia protezione. Mi sbaglio, forse?»
Il
persiano lo fissò per un lungo momento negli occhi, senza
abbassare lo sguardo.
«Io sapevo che la ragazza era la vostra allieva, non la
vostra fidanzata.»
Replicò, con tono neutro.
Successe
tutto in un attimo, senza che Bamdad riuscisse a comprendere la
dinamica
dell’accaduto: si rese conto soltanto, alla fine, di essere
stato spinto contro
il muro con una forza incredibile, e che ora monsieur Destler lo teneva
per il
bavero attaccato ad esso. Il suo sguardo mandava lampi, tanto era
irato, e la
mano attorno al suo collo si stringeva ad ogni respiro.
«Non
osate, mai più,
rivolgervi a me con
quel tono.» Gli sibilò, trattenendo a stento la
collera. «E non osate neppure
avvicinarvi un’altra volta a mademoiselle Sanders, se non
volete vedermi davvero
arrabbiato.»
Dopodichè
lo lasciò andare, dandogli le spalle e avvicinandosi verso
la finestra per
riprendere il controllo di sé. Sentì il suo
segretario scivolare per terra e tossire
per la mancanza d’aria, eppure malgrado tutto egli ebbe
ancora la voglia di controbattere
a quanto appena detto.
«E…
E se…» Iniziò, con voce rauca.
Tossì nuovamente, poi ricominciò. «Se
sarà lei a
venire da me?»
Erik
strinse le mani a pugno, facendo scattare la mascella in
un’espressione dura.
Non credeva che il giovane persiano potesse essere così
arrogante… A quanto
pareva, si era sbagliato per l’ennesima volta nel giudicare
le persone. «Di
questo me ne occuperò io.» Sussurrò, in
modo da poter essere udito.
«E
adesso andatevene, Bamdad. Avrete del lavoro da sbrigare,
immagino.» Aggiunse,
sempre senza voltarsi. Eppure, anche senza vederlo, sentiva chiaramente
ogni
singolo movimento fatto dall’uomo, così da poterlo
tenere in continuazione sotto
controllo.
«Buona
serata, monsieur.» Biascicò il persiano,
accennando un inchino verso la schiena
del padrone.
Erik
sentì la porta chiudersi, e solo allora si voltò.
La rivoltella era rimasta
sulla scrivania per tutto il tempo, notò inarcando
pigramente un sopracciglio.
Bamdad avrebbe potuto afferrarla in qualsiasi momento mentre lui gli
dava le
spalle, eppure non l’aveva fatto. Chissà, forse
non si era completamente
sbagliato su di lui…
Ma
Giulia… Probabilmente la ragazza meritava davvero una
punizione.
Sette
giorni erano trascorsi da allora, e Giulia non aveva voluto mettere il
naso
fuori casa nemmeno per pochi secondi. Si era praticamente barricata
nella sua
stanza, chiudendo la finestra nel timore che potesse arrivare il suo
maestro da
un momento all’altro e chiedendo a madame Giry di non
obbligarla a tornare
all’Opèra per nessuna ragione. Alla fine Meg aveva
dovuto confessare alla madre
il suo piccolo piano, anche se comunque non ne conosceva
l’esito dato che
Giulia non gliene aveva parlato, e fu non senza una certa inquietudine
che la
donna andava al lavoro ogni mattina. Eppure Erik non le si era mai
avvicinato:
l’unico che l’ebbe raggiunta per domandarle notizie
della nipote fu il maestro Reyer,
che era seriamente preoccupato per
l’assenza della loro solista. Madame Giry inventò
una febbre improvvisa che
aveva costretto la ragazza a stare a letto, e che quando fosse stata
meglio
sarebbe tornata. Con la raccomandazione di farla riguardare monsieur
Reyer era tornato
alle sue lezioni, ma Louise continuava ad essere preoccupata.
Si
aspettava una visita dell’uomo da un momento
all’altro, e aveva tutte le
ragioni per farlo.
Alla
fine, la mattina del settimo giorno che la ragazza mancava da teatro,
Erik fece
richiamare madame Giry nel suo studio dallo stesso monsieur Bamdad, che
portava
una strana fascia intorno al collo.
«Stavo
proprio aspettando te, Erik.» Esordì la donna, non
appena mise piede
nell’ufficio del suo vecchio amico.
Egli
la stava chiaramente aspettando, e le fece cenno di sedersi di fronte a
lui. «Però,
come sempre, non siete mai venuta da me di vostra spontanea
volontà.» Ribattè,
sarcastico.
Ella
non rispose, così lui riprese la parola. «Siete
voi che state tenendo
mademoiselle Sanders prigioniera in casa vostra, o è
semplicemente lei che non
intende tornare?»
Louise
esitò un attimo prima di rispondere, ma poi
sospirò e decise di essere sincera.
Tanto, Erik l’avrebbe scoperto comunque, in un modo o
nell’altro. «È lei che
non vuole.» Mormorò, senza guardare
l’uomo in volto.
Stranamente,
Erik annuì piano, come se ne comprendesse il motivo.
«Lo immaginavo.» Sussurrò
più tra sé che alla donna. «In tal
caso, madame,» riprese poi, ad alta voce. «Dovrete
provvedere a farla rientrare. Non so in che modo, questo decidetelo voi
– ma
voglio che la ragazza torni a teatro. Nel più breve tempo
possibile, se ci
riuscite.»
Madame
non potè fare altro che annuire, rassegnata. Alla fine,
malgrado tutto quello
che gli aveva detto in proposito, si trovava ad essere una semplice
pedina nella
scacchiera di Erik, e non poteva fare nulla per impedire le sue mosse,
se non
seguirle passivamente. Non le restava che pregare, e sperare che prima
o poi
l’uomo si stancasse dei suoi propositi di vendetta e
lasciasse loro libere di
vivere una vita lontana dall’ombra delle sue minacce.
«Meg?
Vieni, avvicinati. Ti devo parlare.»
La
giovane ballerina si avvicinò incuriosita alla madre,
iniziando a slacciarsi i
fiocchetti dell’abito da danza. «È
successo qualcosa?»
«No,
no… O meglio, si…» Louise
sospirò, passandosi una mano sulla fronte. «Ho
sentito che domani è il compleanno di Corinne,
vero?»
Meg
annuì, continuando a spogliarsi. «Si, è
vero. Ci hai sentito parlarne, prima?»
«Si…»
La figlia non riusciva davvero a comprendere il perché della
voce stanca di
madame, ma la lasciò continuare senza interromperla.
«E dovete organizzare
qualcosa, come avete fatto per Ninì?»
«Certo.
Stavamo pensando di rimanere tutte a dormire qui a teatro e di
organizzarle una
piccola festa… Perché me lo chiedi?»
Madame
si spostò alle spalle della figlia, aiutandola ad agganciare
i nastri del
vestito da giorno. «Meg, io… Ascolta, devi
invitare anche Giulia. Devi
convincerla a venire a dormire qui, insieme a voi.»
Meg
si voltò stupita, senza voler credere subito alle sue
orecchie. «Come? Ma maman,
è pericoloso, e se lui lo venisse
a sapere, e se…?»
Louise
le posò un dito sulle labbra, facendola tacere.
«Meg… Tu sai che sarà molto
peggio se continuiamo a ostacolarlo. Non sappiamo cosa
succederà, ma se Lui
verrà a sapere che Giulia è tornata a teatro ne
sarà sicuramente contento. Io
non ho idea di che cosa stia macchinando, ma qualunque cosa sia per
farla ha
bisogno di lei. E se non sarà lei ad andare da lui,
sarà il contrario. Tesoro,
Lui è già venuto a casa nostra per parlare con
lei, di nascosto. E non esiterà
a rifarlo, se necessario.»
La
figlia scosse piano la testa, distogliendo lo sguardo dalla madre.
«Mio Dio,
non lo sapevo… E tu… Tu vorresti lasciare che
porti a termine i suoi maledetti
piani? Così, senza fare niente?»
«Oh,
Meg…» Sospirò la donna, sfiorandole la
guancia in una carezza.
Ma
lei allontanò il viso. «Non posso aiutarti, maman!
Quell’essere mi ha già portato via
un’amica che era come una sorella, per me,
non voglio che accada ancora!»
Madame
Giry attirò la figlia in un abbraccio, accarezzandole
dolcemente i capelli.
«Tesoro, è proprio per impedire che una cosa
simile accada che dobbiamo fare
come ci dice…»
«È
un mostro,» singhiozzò la ragazza dopo una
manciata di secondi. «Lo è sempre
stato e sempre lo sarà! Non puoi immaginare quanto io lo
odi!»
«Eppure
dobbiamo obbedirgli.» Decretò infine madame, con
un tono che, malgrado tutto,
non tollerava repliche. «Meg, voglio tutto l’aiuto
possibile da te. Da sola non
ci riuscirò. Me lo prometti?»
«Dev’essere
ancora furioso per aver visto Giulia e monsieur Bamdad
insieme…» Balbettò la
ballerina, cercando di convincere la madre della sua follia.
Ma
la donna non si lasciò commuovere dagli occhi lucidi della
figlia: era tornata
ad essere la rigida e severa insegnante che tutti conoscevano, e Meg se
ne
accorse. «Me lo prometti?» Insistette.
Alla
ragazza non rimase che annuire. «Si.»
Mormorò. «Te lo prometto.»
_____________________________________________________________________________________________
AA -
Angolo Autrice:
Ed
eccomi qua. Chiedo umilmente perdono per il ritardo nel postare questo
capitolo, sto cercando di portare avanti centomila cose - non vedo
l'ora che finisca questo maledetto esame per potermi dedicare
finalmente a tutte le mie fan fiction! ^^ Certo, tra un bagno al mare e
l'altro u.u Comunque, voglio ringraziare chi ha recensito lo scorso
capitolo (innanzitutto, grazie per le recensioni
lunghissime, le adoro! *-*):
Yunie992: Ti
ringrazio tantissimo per i complimenti, mi fa piacere che ti piaccia il
modo in cui scrivo! Comunque cercherò di impegnarmi
maggiormente nei prossimi, promesso u.u (piccolo spoiler: nel capitolo
15 ci sarà davvero da divertirsi... E chi vuole
intendere... u.u) Per ora sto cercando di non essere troppo frettolosa
nello descrivere gli avvenimenti, voglio che ogni cosa e ogni
personaggio abbia il suo spazio e le sue peculiarità,
è una cosa difficile da fare ma mi piacerebbe che tutti
abbiano un certo spessore! (cosa impossibile, sigh... Ma voglio provarci!) Mi spiace per non
averti esaudito, ad ogni modo tantissimi auguri di buon compleanno
anche se in ritardo! =* A quando la patente, ora? E' la prima cosa che
ho fatto io dopo aver compiuto 18 anni xD Un bacione, a presto! =*
TheMisty910: Ciao! Grazie mille anche a te
per i complimenti, cavoli non pensavo che questa storia potesse "creare
dipendenza" xD Tranquilla, non ho intenzione di abbandonarla
ù.ù Un bacione, a presto! =*
Keyra93: Wao,
che recensione chilometrica! *-* Grazie per aver dedicato tutto questo
tempo a commentare la storia ;) Allora, da dove inizio? Io temo davvero
di aver creato una "Mary Sue", creatura mitologica a dir poco odiosa
che popola svariati mondi paralleli, ma purtroppo mi serviva per far
quadrare alcuni conti (come, per esempio, il fatto che sia la gemella
di Christine) - ad ogni modo, non appena recupererà la
memoria e si ricorderà del suo passato (o 'futuro', a
seconda dei punti di vista @_@) nel XXI secolo, tornerà un
pò più normale u.u Anche perchè con
tutta 'sta pudizia è un pò troppo noiosa
>__< E' vero, Erik non è tanto umano
^_^; Beh, io l'avevo interpretata così: la (dis)avventura
con Christine e Raoul non penso gli abbia giovato molto, anzi, non ha
fatto che sottolineare il distacco enorme che c'è tra
l'apparenza, in questo caso la bellezza e la ricchezza del visconte, e
la profondità di un animo, cioè il suo genio, la
sua passione... Come potrebbe, uno come il Fantasma, essersi redento se
la morale di tutta la sua storia è che vince solo il
più bello fuori e non il più
bello dentro? Ecco, secondo me lui non ha
acquistato nessuna umanità alla fine del primo film -
l'unica cosa che ha fatto è stata arrendersi e lasciare
andare Christine. Comunque io amo sia il libro che il film del 2004,
quindi mischiare i due Erik è davvero una bella sfida *-*
Spero solo di riuscirci e di non lasciare troppi punti in sospeso! [Per
quanto riguarda la Camera dei Supplizi, non ho ancora deciso u.u Dico
solo che io amo quella sala delle torture, e
se nei prossimi capitoli dovesse servirmi, beh, non esiterò
a metterla u.u Anche perchè comunque appare anche nel film!]
C'è
davvero tutta questa tensione nella mia storia? Ho paura di non
riuscire a rendere bene l'atmosfera :( Ah, e il Daroga... Nella prima
versione di questa storia (l'avrò riscritta tipo tre o
quattro volte.. xD) era uno dei personaggi principali, però
ho pensato che bastava già madame Giry a rompere le scatole
al Fantasma, senza che ci si mettesse pure lui -.-' Però non
ho resistito, e il Daroga si è incarnato in Bamdad! (Beh,
più o meno!) Chissà, forse Bamdad è il
figlio del Daroga, può essere, no? Devo ancora decidere u.u
Ah, mi sono resa
conto di essere un pò ripetitiva sul concetto dei "pensieri
effimeri", ma era per sottolineare che Erik, al contrario di quanto
avvenuto con Christine, non si è innamorato subito di
Giulia, lui adesso non vuole accettare un simile sentimento, vuole
essergli superiore e quindi si ripete questi concetti come un mantra...
Mi accorgo che è un pò pesante, però,
hai ragione :( Aaaaah, e il sogno di Giulia! *-* Si beh, ce
ne saranno altri, e tutti avranno un loro significato, alla fine u.u
Oh, comunque so che pianoforte e ogano non
sono la stessa cosa, ci mancherebbe altro, sono i miei strumenti
preferiti! Se in qualche frase questa distinzione risultava un
pò ambigua chiedo scusa, ma era solo per evitare ripetizioni
di parole (purtroppo non ho trovato un sinonimo di "organo" -.-'')
Comunque, prima di pubblicare leggo sempre un paio di volte il
capitolo, ma a quanto pare alcuni errorini sfuggono lo stesso
>__< Sarà la stanchezza
ç__ç E non preoccuparti per la lunghezza della
recensione, mi fa sempre piacere leggere quello che pensate! ^^ Anzi,
scusa tu per la risposta chilometrica xD Un bacio, a presto! =*
Bene, e con questo vi
saluto! Ci sentiamo al prossimo capitolo, spero di riuscire a postarlo
in fretta ^^
Un bacione e grazie
ancora a tutti quelli che leggeranno, commenteranno eccetera! Cosa
farei senza di voi? Smack =*
A presto,
GiulyRedRose
|
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Capitolo 16 *** 14. E' il Fantasma? ***
Chapitre
14
È
il Fantasma?
Perché mi trovo
qui?
Con
un sospiro rassegnato Giulia si strinse lo scialle addosso, guardandosi
nervosamente intorno mentre aspettava che Meg si cambiasse, indossando
qualcosa
di più comodo del suo abitino da danza. Non avrebbe dovuto
cedere alle
preghiere dell’amica, ma era stato più forte di
lei: quando la giovane Giry le
aveva fatto quegli occhi dolci che solo lei, con le sue iridi azzurre,
poteva
fare, Giulia era crollata come una bambina. Come poteva dirle di no?
Così
ora si trovava a teatro, di nuovo,
malgrado fosse riuscita a stare lontana da quell’opulento
edificio per ben otto
giorni. Inoltre si sentiva osservata, ed era una sensazione
estremamente
imbarazzante, nonché spaventosa; temeva che Lui potesse
raggiungerla, forse
anche prendendosela con Meg, e… Oh, mon
Dieu, non osava davvero immaginare che cos’altro
poteva accadere!
Istintivamente
si portò due dita a sfiorarsi le labbra, ricordando con un
esile gemito di
fastidio il bacio che monsieur Bamdad le aveva preso con la forza. Non
pensava
che l’uomo potesse comportarsi in quel modo, a dir la
verità non lo riteneva
capace di un simile gesto, ma era chiaro che si era fatta
un’idea del tutto
sbagliata su di lui. E se adesso si fossero incontrati? Dopotutto, egli
era il
segretario di monsieur Destler, si sarebbe potuto benissimo trovare
lì, al
teatro…
«Oh,
Meg, hai finito?» Domandò a quel punto, cercando
di mascherare l’ansia. Non
voleva rimanere sola un minuto di più.
«Si,
eccomi!» Le rispose l’amica, uscendo dagli
spogliatoi comuni delle ballerine in
un frusciare di gonne e sottovesti. «Tranquilla, chèrie, non mi sono
dimenticata di te.»
Non era questo che
temevo, pensò la
ragazza, accennando un vago sorriso senza lasciar trapelare i suoi veri
pensieri.
«Allora, andiamo?»
«Certo.
Su, vieni.» Disse, prendendola sottobraccio e avviandosi nel
corridoio. «Le
altre sono già nel dormitorio, stanno aspettando solo
noi.»
Giulia
annuì, stringendosi un po’ di più
all’amica; forse, se rimanevano così
abbracciate, non c’era pericolo di fare qualche incontro
indesiderato… «Senti,
Meg… Come mai mi hai invitato?»
L’amica
si voltò verso di lei, leggermente sorpresa. «Beh,
mi è sembrato il minimo
invitarti! Non mi sembrava giusto essere l’unica a
divertirmi, inoltre avevi
bisogno di mettere un po’ il naso fuori casa. Dì
la verità, da quand’è che non
uscivi?»
L’altra
mugugnò dapprima qualcosa di incomprensibile, poi
scrollò le spalle. «Si, hai
ragione. Avevo bisogno di cambiare aria… E poi
l’importante è non restare sola,
giusto? Come dice sempre madame.»
«Già…»
Sospirò Meg, cercando di non pensare alla madre. Quello che
la donna l’aveva
costretta a fare era davvero ingiusto, eppure adesso lei era
lì, e si stava
prestando a quella follia… Non riusciva a capirsi nemmeno
lei stessa! Osservò
con la coda dell’occhio l’amica che si guardava
intorno come si aspettasse di
vedere spuntare un fantasma da un
momento all’altro, e in fondo non le si poteva dar
torto… Anche se, a quanto le
aveva detto sua madre, Giulia non era realmente al corrente della vera
identità
di colui che la stava perseguitando. Eppure, se sembrava esserne
così
spaventata, qualcosa doveva pur essere successa, no?
«Oh…
Siamo già arrivate?»
Meg
annuì, fermandosi di fronte alla porta del dormitorio.
Bussò tre volte,
aspettando che qualcuno venisse ad aprire loro la porta: infatti,
questa era
stata saggiamente chiusa a chiave. La prudenza, dopotutto, non era mai
troppa;
soprattutto quando si trattava di una decina di ragazze sole, in un
teatro, di
notte. Non dovettero attendere molto prima che qualcuno le facesse
entrare:
dopo una manciata di secondi una ballerina si affacciò alla
porta,
illuminandosi di sollievo quando vide le due ragazze fuori, nel
corridoio.
«Oh
Cielo, Meg, sei tu! Ci siamo spaventate!» Disse, spostandosi
per farle entrare.
La
ragazza rise, trascinando Giulia dentro la stanza. «E chi ti
aspettavi, Marie?»
Indispettita,
l’altra richiuse la porta a chiave, incrociando poi le
braccia. «Dopo ti
raccontiamo l’ultima notizia, così magari smetti
di prendermi in giro.»
E,
mentre Marie raggiungeva le altre, Meg si chinò verso di
Giulia come per
confidarle chissà quale grande segreto. «Marie
è una credulona, si spaventa per
ogni cosa!» Sussurrò, in modo da poter essere
sentita solo dall’amica. «Ogni
tanto tende ad esagerare un po’ su tutto, perciò
non prestarle molta
attenzione.»
Giulia
ridacchiò, nascondendosi dietro una mano. «Va
bene, ne terrò conto.»
«E
ora vieni, su, facciamo le presentazioni come si deve.»
Aggiunse Meg, prendendola
per mano e portandola verso le altre ragazze che si erano voltate per
dare loro
il benvenuto.
Evidentemente
avevano tutte già dimenticato il modo in cui
l’avevano accolta la prima volta
che l’avevano vista, con delle occhiate gelide e rabbiose che
esprimevano tutto
il loro odio nei confronti dell’ennesima giovane parente di
madame Giry che
sarebbe senza alcun dubbio finita nelle sue grazie, cancellando in un
battito
di ciglia i loro anni e anni di sforzi e lacrime di sangue, versate per
arrivare dove erano adesso. Ma, dato che ormai quel piccolo problema
non aveva
più ragione di esistere, le ballerine si comportarono tutte
con gentilezza ed
educazione nei suoi confronti, mettendola subito a suo agio: fintanto
che non
si trattava di un’intrusa venuta per rubare loro la scena,
potevano benissimo
essere affettuose, no?
Ad
ogni modo, la serata procedette addirittura meglio di quanto Meg e
Giulia
avessero previsto, seppure per differenti motivi. La prima, infatti,
era
incredibilmente lieta di essere arrivate sane e salve a quel punto,
senza che
nessun fantasma provasse a far del
male alla sua amica, mentre quest’ultima, da parte sua, si
era convinta del
fatto che il suo Maestro non sarebbe di certo potuto andare da lei
quando la
ragazza si trovava in mezzo ad altre persone. Si, decisamente la festa
si stava
svolgendo al meglio.
«Ah,
Marie! Qual era la storia di cui mi dovevi parlare?»
Esclamò ad un certo punto
Meg, facendo tacere il brusio e le chiacchiere generali. Nella stanza
calò un
improvviso silenzio, e la giovane Giry si guardò intorno,
sorpresa di aver
suscitato una simile reazione. «Ho detto qualcosa di
male?»
Fu
Sophie, la più grande del gruppo, a prendere la parola.
«Beh Meg, ultimamente
tu sei un po’ sulle tue, così ti sei persa alcune
cose… Ma non è nulla di cui
preoccuparsi, inoltre non mi sembra il caso di rovinare la festa di
Corinne.»
Dichiarò, certa che in quel modo avrebbe messo a tacere
chiunque su
quell’argomento.
Ma
le altre non erano dello stesso avviso.
«Il
problema è che il teatro non è più un
luogo sicuro!» Sibilò Ninì,
stringendosi
uno scialle di lana sulle spalle. «È come se il
tempo non fosse mai trascorso
da allora…»
Istintivamente
Meg rabbrividì, sgranando gli occhi: possibile che stessero
parlando di ciò che
lei più temeva? Lanciò di sbieco uno sguardo a
Giulia, ma la ragazza non
sembrava eccessivamente preoccupata: si limitava ad ascoltare, in
silenzio,
quello che le ballerine avevano da dire.
«Via,
Ninì, ora non esagerare.» L’interruppe
una ballerina con i lunghi capelli
corvini raccolti in una pesante treccia che le ricadeva sulla schiena.
«Abbiamo
già deciso che non si tratta di quello.»
«Come
puoi esserne sicura?» La rimbeccò Marie,
avvicinandosi per dare manforte
all’amica. «Nessuna di voi l’ha mai
visto, eccetto quella sera! Chi può dire
che non è tornato?»
«O
che non se ne è mai andato…»
Sussurrò Ninì, preoccupata.
A
questo punto Meg si sentì in dovere di intervenire, prima
che la conversazione
andasse troppo oltre. «Mi potete spiegare che cosa
è successo, prima di
giungere a conclusioni affrettate?»
Sophie
prese un profondo respiro, il che spinse tutte le altre a voltarsi
verso di
lei. «La settimana scorsa sono venuti da me i petits
rats, con delle espressioni terrorizzate e un viso
più
bianco del latte.» Iniziò con una cantilena, come
se avesse ripetuto quella
storia tante di quelle volte da averla ormai imparata a memoria.
«Ho chiesto
loro che cosa mai era successo per averle ridotte in quello stato, e la
più
grande ha esclamato “È il
fantasma!”
Subito dopo mi hanno spiegato che, mentre andavano alla loro lezione di
danza,
da sole, avevano avuto la sensazione di essere spiate da degli
“occhi invisibili”,
e che oltretutto una
di loro ha avvertito chiaramente qualcuno che le sfiorava i capelli.
Sono
scappate via, naturalmente, ma questo le ha molto scosse, dato che si
trovavano
in una zona poco frequentata del teatro. Così, adesso sono
convinte che il Fantasma le avesse
volute rapire e
mangiare, e hanno il terrore di muoversi da sole. Questo è
tutto.»
«No
Sophie, aspetta! Questo non è tutto!»
Replicò Marie, portandosi le mani ai
fianchi. «Se devi dire le cose, allora non tralasciare
nulla!»
La
più grande le lanciò uno sguardo indispettito,
aggrottando le sopracciglia, ma
non disse un’altra sola parola. Allora fu la stessa Corinne a
parlare, con una
voce fievole e delicata.
«Spetta
a me raccontare questa parte.» Esordì, piano.
«Quattro giorni fa, mentre mi
preparavo per andare via dalla sala di danza, è successo
qualcosa di… beh,
molto strano. Dopo aver spento tutte le luci ed essere rimasta al buio,
con una
sola candela in mano, ho avuto l’impressione di non essere
più sola nel salone…
Non ho sentito nessun genere di rumore, ma sapete, è stata
una sensazione, una sensazione che
mi ha
provocato un brivido lungo tutta la schiena.» Tacque,
deglutendo, poi riprese. «Allora
mi sono precipitata verso la porta, spaventata, e la candela mi
è caduta dalle
mani immergendomi nell’oscurità; come se non
bastasse, la porta era chiusa a
chiave. Ho gridato, ma… Una… Una mano…
Mi ha tappato la bocca e mi ha
trascinato per terra, e, e…»
Si
interruppe, non riuscendo a trattenere i singhiozzi, e due sue amiche
le si
avvicinarono per asciugarle gli occhi e stringerla in un abbraccio
confortante.
Visto che ormai sembrava che Corinne non avesse più
intenzione di parlare, fu
di nuovo Sophie a concludere il racconto.
«Corinne
ha perso i sensi, e non sa cosa sia accaduto dopo. Fatto sta che,
quando ha
ripreso conoscenza, le luci del salone erano nuovamente tutte accese,
la porta
spalancata e lei era da sola.» Disse, in modo piuttosto
sintetico;
evidentemente non le piaceva molto parlare di quell’accaduto.
Meg
guardò l’amica, preoccupata, non sapendo cosa
dire. O meglio, nella sua mente
si agitavano pensieri di ogni forma e natura, ma sapeva di non poterli
affidare
alla sua voce, se non voleva disobbedire alla madre e a Lui.
Ma… Possibile che
quei due avvenimenti fossero causa sua, di
nuovo, come era già accaduto in passato?
Accidenti, a che scopo terrorizzare
delle bambine indifese ed una ragazza sola? Forse godeva a vedere
l’orrore e la
paura dipinta nei volti degli altri esseri umani, delle sue vittime?
Era
davvero assurdo e inconcepibile! Meg sapeva di dover prendere la parola
per
cercare di togliere alle sue compagne l’idea di un probabile
coinvolgimento
dell’uomo, ma la voce sembrava esserle morta in gola.
Così, potè solamente
restare ad ascoltare, ancora più spaventata, ciò
che venne detto poi.
E
fu Giulia a parlare, per la precisione.
«Perdonatemi,
io credo di non aver capito a chi vi stiate riferendo… Chi
potrebbe celarsi
dietro questi incidenti?» Domandò, del tutto
innocentemente. Sophie la osservò,
indecisa su cosa dire, ma nemmeno lei fu abbastanza lesta da rispondere.
«Solamente
uno, solamente Lui… Il Fantasma
dell’Opera!» Esclamò Marie,
rabbrividendo.
Giulia
inarcò le sopracciglia, non del tutto colpita. Di cosa
stavano mai parlando? «Credete
davvero che… Che possa essere un fantasma?» Era
chiaro che non aveva preso
molto sul serio la rivelazione.
«Ne
siamo quasi certe, a dir la verità.»
Dichiarò Ninì, annuendo convinta.
Giulia
lanciò uno sguardo a Meg, dopodichè si strinse
nelle spalle, vagamente
preoccupata. «Non credo che i fantasmi possano far del
male… Non è dei morti
che bisogna avere paura.» Disse, malgrado le occhiate
scettiche che le
rivolgevano le altre ragazze. «Forse si è trattato
solo di qualcuno che voleva
giocare qualche brutto scherzo, no?»
Meg
ne approfittò immediatamente, aggrappandosi a
quell’eventualità. «Esatto, les filles! Non vi ricordate di Joseph
Buquet, il macchinista? Di certo non era un fantasma, ma si comportava
allo
stesso modo…»
Un
brivido scosse le giovani ballerine, al ricordo di quel vecchio
depravato che
aveva lavorato nel teatro fino a un paio di anni prima, quando era
stato
trovato morto, con una corda al collo, dietro il terzo sottopalco.
Nessuna di
loro aveva pianto la sua dipartita, anche se il ritrovamento del suo
cadavere
aveva terrorizzato gli habituès
dell’Opera, considerando che si mormorava fosse stata opera
del Fantasma. La
sua morte non aveva cancellato le sue sudice azioni dalle menti delle
ballerine.
«Beh…
Buquet ha avuto ciò che meritava.»
Decretò Sophie, consapevole in quel modo di
dare ragione a quello stesso fantasma che tutte temevano.
Tutte
annuirono, bisbigliando, e alla fine Corinne battè le mani,
sforzandosi di
sorridere. «Coraggio, mes amies,
non
siamo forse qui per festeggiare? Lasciamo perdere questi
discorsi!»
L’argomento
venne presto dimenticato, e nell’euforia generale Meg si
avvicinò all’amica
che, seduta in un angolo, sembrava riflettere intensamente su qualcosa.
«Giulia?
Tutto bene?» Domandò, sedendosi accanto a lei.
La
ragazza annuì, accennando un sorriso. «Certo, Meg,
non preoccuparti.» Rispose,
alzandosi. «Quel discorso mi ha un po’
spaventata… Ma alla fine, chiunque abbia
tempo da perdere con questi sciocchi scherzi, di sicuro non
verrà a disturbare
un gruppo di ragazze grandi.»
La
giovane Giry si alzò a sua volta, ringraziando in cuor suo
che Giulia non
avesse collegato la leggenda del Fantasma alla figura del suo tenebroso
maestro. «Esatto, non
abbiamo nulla da
temere.»
Ma questo non è del
tutto vero…
Il
dormitorio era immerso nell’oscurità, malgrado un
tenue raggio di luna
penetrasse da una finestra lasciata negligentemente aperta. Il silenzio
era
rotto soltanto dai respiri delle giovani ballerine addormentate, e dai
deboli
bisbigli che emettevano nel sonno. Giulia dormiva insieme a Meg, con un
braccio
dell’amica posato sul ventre che si sollevava e si abbassava
al ritmo del suo
respiro.
Un’ombra
incombeva su di lei, ma il suo sonno era troppo profondo
perché se ne
accorgesse.
Erik
la stava osservando già da un po’, indeciso fino
all’ultimo sul da farsi. Era
entrato nella stanza senza che nessuna di loro se ne fosse accorta,
aprendo la
porta chiusa a chiave senza nessuna difficoltà. Aveva poi
raggiunto il letto
della sua allieva senza sbagliarsi, guidato dal ricordo del suo respiro
che
aveva imparato a ricoscere durante le sue visite notturne a casa di
madame
Giry, in quella settimana. Si era limitato ad osservarla nel sonno,
malgrado il
suo intento iniziale fosse stato quello di svegliarla per obbligarla ad
andare
a teatro, alle sue lezioni, ma alla fine non aveva fatto nulla di tutto
questo.
Ultimamente i suoi piani stavano andando per conto loro senza che
riuscisse a
tenerne le redini, e sempre per colpa della ragazza. Cosa diavolo
avrebbe
dovuto fare con lei?
Non
riuscì a trattenere un sospiro, ma neanche questo
sembrò turbare il sonno delle
fanciulle. Riportò il suo sguardo sulla giovane, facendolo
scorrere sul suo
corpo addormentato impudicamente lasciato scoperto dal lenzuolo. La
camicia da
notte che indossava mademoiselle Sanders non era per niente castigata,
come
quelle che le aveva visto a casa Giry: doveva essere
l’influenza di quelle
ballerine, che sembravano avere una strana concenzione del pudore.
Un
braccio nudo pendeva mollemente da un lato del letto, troppo piccolo
per le due
ragazze, e la punta delle dita sfiorava il freddo pavimento;
l’altro era
piegato morbidamente accanto alla testa, come se anche nel sonno la
giovane
avesse voluto cercare protezione da qualcosa. I soffici capelli castani
giacevano
scomposti sopra il cuscino, incorniciandole l’ovale del volto
leggermente
corrucciato; ma ciò che catturò maggiormente la
sua attenzione fu la sua bocca,
rossa come il sangue, le cui labbra imbronciate erano un concentrato di
timida
sensualità capaci di lasciarlo lì immobile ad
osservarle per ore.
Ma cosa diavolo…?
Si
riscosse, incapace di riconoscere lo scorrere dei suoi stessi pensieri.
Cosa
gli stava succedendo? Non doveva dimenticare un’altra
volta il reale motivo della sua visita notturna! Il suo
giovane segretario aveva già avuto modo di assaggiare quelle
tenere labbra, e
per aver osato un simile gesto era già stato in parte
punito: e adesso toccava
alla ragazza…
Riuscendo
a non svegliare nessuna delle due, spostò il braccio di Meg
da un lato in modo
che non gli fosse d’intralcio, e si chinò
lentamente su Giulia, portandole un
braccio sotto la schiena e uno sotto le gambe, per poi sollevarla tra
le
braccia. La strinse istintivamente al suo petto, non riuscendo a
comprendere la
strana sensazione di conforto che gli provocò il peso della
ragazza su di sé.
Non potè resistere dall’aspirare il dolce profumo
dei suoi capelli, ma prima
che questo potesse annebbiargli la ragione come le altre volte, si
diresse in
fretta verso la porta, richiudendola dentro di sé e
percorrendo a passi
silenziosi e veloci il lungo corridoio.
L’avrebbe
portata nel suo regno sotterraneo, dove mademoiselle sarebbe stata
costretta a
sopportare la sua presenza per un po’ di tempo, in modo da
recuperare le
numerose lezioni perse. Non poteva permettersi di rimandare il suo
piano ancora
più a lungo. Era tempo di agire.
Ma
prima si sarebbe occupato della sua punizione.
__________________________________________________________________________________________________________________
AA - Angolo Autrice:
E
rieccoci con un nuovo aggiornamento! ^^ Adesso che sono libera da
qualsiasi impegno scolastico credo che riuscirò a portare
avanti con notevole velocità tutte quante le mie storie...
Certo, a questo punto bisogna sperare che l'ispirazione non evapori col
caldo :'D
Dunque, questo è un capitolo piuttosto breve: serve solo a
far tornare Giulia a teatro e a farla (finalmente!)
incontrare con Erik, anche se il vero incontro avverrà nel
prossimo capitolo - a cui, per inciso, sto ancora lavorando:
è più difficile del previsto, dato che non voglio
fare una cosa identica alla vicenda Fantasma-Christine!
>__< Comunque, questo lo vedrete la prossima volta :p Per
adesso godetevi i pettegolezzi delle ballerine xD
Anzi, vi faccio uno spoiler piccolopiccolopiccolo... Il prossimo
capitolo sarà scritto (in gran parte o interamente, non l'ho
ancora deciso) in prima persona, ovviamente parlerà Giulia:
ho bisogno di prendere il suo punto di vista per un avvenimento
così... importante u.u
E ora passo ai ringraziamenti! ^^
Keyra93:
Beh, al di là di tutto il discorso delle Mary Sue, mi auguro
davvero che Giulia sia diversa dalla gemella! Dovrebbe avere una
mentalità un pò più aperta per il
fatto di venire da un'altra epoca, anche se lei di questo non se ne
ricorda (tra parentesi, a questo proposito succederanno dei bei casini
-.-''); in "tante cose", dici? Beh, mi fa piacere! :D Per tornare al
libro, si si, sono d'accordo con te: "Gerrik" è troppo
bello, insomma, con un fantasma così anche la Christine del
libro si sarebbe innamorata di lui, altro che Raoul! A me il finale del
romanzo è piaciuto tantissimo, come hai detto tu era atroce
ma allo stesso tempo giusta, perchè dopo aver rinunciato
alla sua unica ragione di vita un essere come lui non poteva che
morire... Quando ho letto quelle tre parole, "Erik è morto",
mi sono messa a piangere ç__ç
Però devo ammettere che anche Love Never Dies non era
malvagio: anche perchè, per come è finito il film
del 2004, era giusta una fine simile (il bambino e tutto il resto)!
Infatti secondo me bisogna prendere LND come una fine "giusta" per il
musical, ma ovviamente non concepibile per il libro: vista
così la cosa, non è così malvagia ^^ E
poi le canzoni sono splendide! <3
Si, comunque, la Camera dei Supplizi appare nel film - o, almeno, in un
suo vago ricordo: ricordi quando, durante il ballo in maschera, Raoul
scompare in una botola del pavimento per inseguire Erik? Ecco, a quel
punto si trova circondato da specchi che ogni tanto riflettono
l'immagine del fantasma, e ad un certo punto dall'alto pende un cappio!
Almeno, io l'ho interpretata così... :p Era una sottigliezza
che solo chi ha letto il libro poteva cogliere xD
Comunque aspettate prima di appendere i fiocchetti azzurri! xD Non ho
detto che Bamdad E' il figlio del Daroga, ho detto solo che potrebbe esserlo...
Tutto dipende da come mi gira ;) Alla fine questo povero cristo lo
lascerò senza passato e taglio la testa al toro :p Mah, ora
vediamo! C'è già troppa carne al fuoco...
Ah e non preoccuparti delle recensioni troppo lunghe, a me piacciono xD
P.S: Ho detto "primo film" per riferirmi al film del 2004, non stavo
pensando agli altri... Anche perchè gli unici altri film che
ho visto del fantasma sono stati quelli del 1943
e quello del 1998,
di Dario Argento (che NON consiglio a nessuno perchè fa
veramente schifo >__<)
Ci sentiamo al prossimo aggiornamento! Un abbraccio =*
Yunie992:
Purtroppo questo capitolo non è un granchè, ma
posso mettere la mano sul fuoco sul fatto che l'altro varrà
davvero la pena... Eh si, o almeno lo spero ^^'' Ti ringrazio davvero
tanto per i complimenti, mi fa piacere che questa storia ti stia
piacendo così tanto :) Mi devo scusare un'altra volta per il
ritardo (un aggiornamento al mese???) ma ero troppo presa con l'esame,
non ce l'avrei proprio fatta... Grazie al Cielo è tutto
finito! Adesso mi potrò scatenare xD Bamdad è
strano, concordo, non riesco ad inquadrarlo bene neppure io :O boh, ha
un comportamento ambiguo... Quasi quasi lo faccio diventare omosessuale
per levarcelo dalle scatole xD No no scherzo, io non ho niente contro
nessuno, ci mancherebbe altro ù_ù Per quanto
riguarda il legame tra lui e il Daroga, vedere risposta sopra XD
Meg invece mi piace abbastanza come sta uscendo, forse un pò
troppo impicciona ma... a noi piace così xD
"Carino e coccoloso"? XD Oh mamma, ho avuto una visione oscena di Erik
che ondeggiava come i pinguini di Madagascar... Beh, l'abito nero
già ce l'ha XD Comunque, a me piacciono tanto i cattivi e
quindi un fantasma troppo dolce e smielato mi avrebbe dato troppa
nausea... Spero di non esagerare, comunque, dato che il troppo storpia!
Aaaah ecco, e la patente?? xD Dato l'esame?? ^^ Spero di sì
xD
Ripeto anche a te, non preoccuparti delle recensioni lunghe, a me
piacciono! :D Un abbraccio, al prossimo capitolo! =*
TheMisty910:
Grazie mille per i complimenti, wao!, mi fai arrossire! :'D Sono
davvero contenta che ti sia piaciuto lo scorso capitolo, in effetti
finora è quello che piace di più anche a me...
Erik che fa il cattivone con il "Damerino 2 la vendetta" è
adorabile *-* Ovviamente, anche Meg è una in gamba u.u
Dunque, questo capitolo è abbastanza tranquillo... Cosa
succede qui? Okay, a parte the phantom che rapisce (ce l'ha di vizio!)
Giulia e le ballerine con la loro lingua lunga, niente di che... Ma il
prossimo, oh, il prossimo... *-* Cess, spero non sia troppo deludente
-.-''
Ci leggiamo al prossimo capitolo! ^^ Un abbraccio =*
leschatnoir:
Grazie mille per i complimenti e per aver aggiunto la storia alle
preferite! ^^ Un abbraccio, a presto! =*
Charlie Snape:
Chiedo umilmente perdono per l'attesa estenuante @__@ Ho apprezzato
molto la tua impresa, sei stata bravissima! ^^ Sono contenta che ti
piacciano i tête-à-tête
di Erik e madame Giry, sono adorabili quando litigano xD Ci sentiamo al
prossimo capitolo! Un abbraccio =*
Keyra93:
Sono completamente fusa, mi sono accorta adesso che avevi recensito due
volte... Beh, e a due recensioni corrispondono due risposte, mi sembra
giusto xD Anche io ho abbastanza paura della "punizione" che ha in
mente Erik, di sicuro non penso che nessuno se l'immagini... Insomma, a
volte sa essere davvero crudelio-de-mon ù.ù
Madame Giry e Meg... Beh, queste due donne meritano un applauso, sono
più volubili di Brooke Logan! XD Un attimo prima vogliono
prendere in mano la situazione e quello dopo stanno già
sventolando bandiera bianca... boh boh -.-'' Per il Bamdad ho
già risposto, ma hai ragione, è stato da scemi
baciare in quel modo Giulia >___< Che gente!
XD Ci leggiamo al prossimo capitolo! ^^ Un abbraccio (di nuovo) =*
sydney bristow:
Ho avuto un attimo di smarrimento, ma poi credo di aver riconosciuto la
citazione... I Promessi Sposi, nevvero? Un bravo
ù.ù
Innanzitutto: waaaaaaaaah!! *urlo liberatorio* Hai visto Love Never
Dies??? ç__ç E dire che io sono andata a Londra
appena un mese prima della PRIMA rappresentazione... Che sfortuna
pazzesca ç___ç In compenso mi sono già
procurata il cd con le canzoni... Chi ha tempo non aspetti tempo xD
(Apro anch'io la parentesi ^^ Lo so, cavolicchio, una volta che li
senti cantare dimentichi quanto poco sia ortodossa quella storia... Per
carità, a me è piaciuta tantissimo! Ma io dico,
una volta che fai il sequel fallo almeno finire bene, no? E invece...
=( Concordo con la bellissima voce di Christine, e ribadisco che sono
sempre curiosa di sentire canzoni come Beneath a moonless sky o
'Till I heard you sing
cantate dalla voce di Gerry... Cavoli, sarebbe uno spettacolo!) E
un'altra cosa... Wao, tesina sul Fantasma?? *O* Ho avuto anch'io la
stessa idea per la maturità, ma alla fine ho dovuto puntare
sulla "Donna vampiro"... Magari all'università ci
farò un pensierino xD
Ancora grazie mille per i complimenti, sono contenta che ti piaccia la
mia storia ^^ Passando ai capitoli...
1) No dai, povero Bamdad! XD E' la pallina antistress di Erik, se lo
uccido ora con chi se la prenderà il fantasma?? xD Scherzi a
parte, credo che se ci riprova con Giulia sarà Erik stesso a
farlo fuoir ù.ù
2) Concordo, Meg ed Eloise sono un pò troppo impiccione -.-''
3) Purtroppo Christine tornerà... non subito, ma
tornerà - con marito e prole a seguito u.u E allora
vedremo...
4) Il palco numero 5 ultimamente è parecchio affollato! XD
Erik fra un pò farà qualche strage :'D
Mi dispiace di non averti potuto accontentare con il celere
aggiornamento, ma ero troppo occupata con l'esame... Ora comunque
dovrei essere più veloce ^^ Ancora grazie per i complimenti,
e ci sentiamo al prossimo capitolo! Un abbraccio =*
That's all, folk!
GiulyRedRose
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Capitolo 17 *** 15. Child of the Wilderness ***
Chapitre
15
Child
of the Wilderness
Giovedì, 29 Novembre 1877. Sotterranei.
Oh, Signore, che
cosa ho fatto… Perché hai permesso che mi
accadesse una cosa simile? Perché non
mi hai impedito di accogliere nella mia anima quella oscura di un
demonio? Sono
stata davvero così malvagia, in quel passato di cui non ho
memorie, da
meritarmi un simile castigo?
Eccomi nuovamente a
cercare conforto in una penna e un foglio immacolato, sporcato dalle
macchie
d’inchiostro che il mio nervosismo non mi permette di
evitare. La mia mano
trema, arranca sulla pagina vuota, ma io non posso fare altro che
scrivere. Se
mantengo la mente occupata in qualche modo, posso ancora sperare che ci
sia una
fine a tutto questo, una qualche speranza di salvezza: ma non posso
permettermi
di rimanere in un angolo a piangere e aspettare la pazzia. Non posso.
Eppure le lacrime
colano sulle parole già scritte, impedendomi di leggere la
mia stessa
scrittura… Non importa, ho il bisogno quasi fisico di
mettere per iscritto quello
che mi sta succedendo.
Questo è già il mio
secondo giorno nei sotterranei.
È stato Lui a
portarmi qui; ricordo con sicurezza di essermi addormentata nel letto
di fianco
a Meg, circondata dalle altre ballerine e cullata dai loro respiri
profondi, ma
quando mi sono risvegliata non ho più riconosciutoil letto
nel quale mi
trovavo.
Era uno strano
giaciglio come non ne avevo mai visti prima: le sponde erano alte e
nere, e le
lenzuola di seta sulle quali ero sdraiata erano di un forte color
porpora. I
cuscini, anch’essi neri e con dei pizzi del medesimo colore,
lo facevano
somigliare ad un macabro letto funebre, così come il
baldacchino con tende di
pizzo nero ricamato che mi impediva di vedere il resto della stanza.
Rabbrividii, spaventata, e mi guardai intorno, allungando la mano sulla
tenda
cercando un punto dove si sarebbe potuta aprire. Al suo posto, invece,
trovai
una cordicella che pendeva all’altezza del mio viso: la
tirai, piuttosto
titubante, ma non accadde nulla di spaventoso, se non che la tenda del
baldacchino
iniziò a sollevarsi come un sipario.
Finalmente potei
studiare l’ambiente circostante.
Mi trovavo in una
bizzarra camera da letto, circolare, dalle pareti in pietra ricoperta
da
pesanti drappi di un broccato che rammentava il colore del sangue.
Sembrava che
la stanza non possedesse alcuna via d’uscita: ma se vi ero
entrata, allora
doveva pur esserci un modo per uscirne, no? Tremante, scostai le
coperte da una
parte e mi alzai, ringraziando mentalmente il Cielo di indossare ancora
almeno
la camicia da notte. Ciò avrebbe dovuto rincuorarmi sul
fatto di non essere
finita nella tana di un delinquente…
Mi avvicinai alle
pareti e cominciai a tastarle, alla ricerca di una qualche porta; ma
non ve
n’era alcuna. Improvvisamente, però, le mie mani
sfiorarono una tenda che non
poggiava sul muro ma sul vuoto, e emozionata la scostai, vedendo che
copriva un
arco che fungeva da soglia. Feci ricadere la tenda dietro di me e mi
avventurai
nel nuovo ambiente, osservandomi intorno con l’acuta
sensazione di essere
finita dentro un sogno popolato da candele.
Mi trovavo su di
una piccola balconata che sovrastava un lago sotterraneo, plumbeo, con
una
fitta nebbiolina che vi aleggiava sopra; dall’acqua
spuntavano degli alti
candelabri in ferro, creando l’illusione che vi fossero
centinaia di lucciole
galleggianti in mezzo all’oscurità. Il lago era
costeggiato da una riva a
mezzaluna, in pietra, che in un angolo fungeva da piccolo molo: vi era
infatti
attraccata una gondola color pece. Più in là,
circondato da altre migliaia di
candele, si ergeva maestoso un enorme organo a canne, finemente
intagliato e
lavorato con fine maestria.
Per quale motivo
avevo l’impressione di essere già stata in quel
posto?
Sarei potuta
rimanere in eterno ad osservare quel luogo incantato, ma il mio sguardo
era
caduto sull’uomo che, volto di spalle rispetto a me, pestava
con consumata abilità
sui tasti del
magnifico strumento
facendone sortire una musica a dir poco sublime. Una musica che aveva
accompagnato parecchie volte le mie lezioni nella piccola cappella del
terzo
sottopalco…
Un momento,
possibile che egli fosse… Che fosse…?
«Maestro?»
La mia voce, poco
più che un sussurro a stento udibile, aveva interrotto
quella splendida musica,
facendo alzare in piedi l’uomo che la stava suonando. Egli,
tuttavia, non si
voltò.
Seguendo chissà
quale malsano istinto mi avvicinai, tormentando la stoffa della mia
camicia da
notte e cercando di convincermi di non provare paura. Se era davvero il
mio
Maestro, allora, mi sarei potuta fidare… O forse no?
Ad ogni modo lo
raggiunsi e, infine, mi trovai alle sue spalle: egli non dava cenno di
volersi
voltare per mostrarsi a me, e la cosa mi irritò non poco.
Non avevo forse, io,
il diritto di vedere in volto chi era colui che mi aveva insegnato
durante
tutto quel tempo, e che infine mi aveva trascinato nelle viscere della
terra?
Per quale assurdo motivo voleva ancora tenermi all’oscuro
della sua identità, e
del suo aspetto?
«Siete… Siete voi?
Rispondetemi!» Insistei, forse un po’ brusca,
reprimendo l’impulso di
aggrapparmi alla manica della sua camicia e voltarlo con forza.
Notai la sua mano
stringersi a pugno fino a far sbiancare le nocche, ma non compresi il
motivo di
quell’ira: sarei dovuta essere io quella arrabbiata, non lui
di certo!
«Mademoiselle
Sanders… Non avete paura di trovarvi faccia a faccia con
me?»
Già dalla voce
l’ebbi riconosciuto: ma quando si voltò verso di
me, e potei infine vederlo…
Oh, Dieu! In quale genere di incubo mi hai trascinata!
Sgranai gli occhi,
spaventata, e indietreggiai fino ad incontrare l’ostacolo di
un divanetto in
stile Luigi Filippo che mi fece perdere l’equilibrio e cadere
su di esso. La
parte destra del volto dell’uomo che si trovava di fronte a
me – e che mi aveva
sconvolta così tanto – era una ragnatela di piaghe
e cicatrici, che correvano
dalle tempie alla mandibola e che gli deturpavano orribilmente il viso.
L’occhio destro aveva delle profonde occhiaie scure, e in
certi punti la pelle
era tirata tanto da mettere in risalto l’osso stesso, quasi
fosse stato un
orrendo cranio scheletrico.
Come poteva mai
esistere una simile creatura? E perché Dio ne tollerava
l’esistenza?
Nascosi il volto
tra le mani, sforzandomi di trattenere i singhiozzi per non provocare
ulteriormente la sua rabbia: ma controllarsi era impossibile, avvertivo
me
stessa tremare senza che potessi fare nulla per impedirlo. Il Maestro,
allora,
era davvero il Diavolo, e uno dei più tremendi!
«Siete dunque così
terrorizzata?»
A quelle parole
aggrottai le sopracciglia, confusa: perché non percepivo
nessuna collera nella
sua voce, quanto piuttosto un’amara tristezza? Ciò
mi spinse a guardarlo
nuovamente, mio malgrado incuriosita, così abbassai le mani
e sollevai lo
sguardo su di lui, costringendomi ad osservare soltanto i suoi profondi
occhi
verdi e ignorando la deformazione del suo viso.
Non fu poi così
difficile: i suoi occhi erano delle pozze di brace impossibili da
trascurare…
«Vi avevo avvertito
che il mio aspetto non era di questo mondo…»
Proseguì, avvicinandosi
crudelmente a me. Voleva forse farmi morire?
Ignorai
deliberatamente la sua ultima affermazione, voltando il capo e
abbassando lo
sguardo per non essere costretta a incrociarlo con il suo.
«Se avete intenzione
di abusare del mio corpo, vi supplico solo di fare in
fretta.» Sussurrai, a
mezza voce. Non potevo credere di aver avuto il coraggio di dire una
simile
cosa, ma era comprensibile che volessi rendere la sofferenza il
più effimera
possibile.
Inaspettatamente lo
sentii imprecare. «Abusare di voi?» La sua voce era
tanto vicina da
costringermi a voltarmi per vedere dove fosse, e sussultai quando lo
vidi
inginocchiato ai piedi del divano sul quale ero seduta. Aveva portato
una mano
a coprirsi il volto, come se avesse voluto rendermi il suo aspetto
più
gradevole e meno spaventoso. «Sono un mostro, mademoiselle,
è vero… Ma non al
punto di approfittare in questo modo di voi.»
I suoi occhi si
erano stretti in due fessure, mentre mi guardava trapassandomi da parte
a
parte. Si era offeso, possibile? Forse… Forse ero davvero al
sicuro, con lui?
Eppure avevo ancora così tante domande da fargli…
«Se è come dite,
allora perché mi avete portato in questo luogo?»
Domandai, con la voce che
tremava mio malgrado.
Sospirò – lui
sospirò, davvero! Poi rispose. «Una settimana,
mademoiselle. O forse di più?
Avete scordato che avevamo un accordo, noi due, oppure
l’avete deliberatamente
infranto. Per quale ragione non siete più venuta a teatro
per le nostre
lezioni?»
Le sue lezioni? Non
era certo a causa sua se mi ero rinchiusa in casa, non era per mancare
ai
nostri appuntamenti! Era unicamente per non incontrare più
monsieur Bamdad – il
tocco delle sue labbra sulle mie bruciava ancora, ma non certo per il
piacere o
l’emozione…
«Non volevo di
certo mancarvi di rispetto.» Mi giustificai, distogliendo
imbarazzata lo
sguardo da lui. «Sono accadute delle cose che mi
hanno… costretta… a non
presentarmi a teatro, in questi ultimi giorni. Vi chiedo perdono se
questo vi
ha fatto arrabbiare.»
Egli tuttavia non
sembrò curarsi particolarmente delle mie parole: forse le
aveva assimilate, ma
se anche questo era accaduto non lasciò alcun segno su di
lui. Si alzò in
piedi, ergendosi maestoso davanti a me, e guardandomi
dall’alto in basso con i
suoi profondi occhi ardenti. Mi sforzai di non indugiare troppo con lo
sguardo
sulla pelle piagata del suo volto, ma era pressochè
impossibile: ero attirata
da quell’orrore come lo è una falena dalla luce, e
temevo che il destino di
tale fatale attrazione sarebbe stato il medesimo per entrambe.
«Vi siete chiesta
perché vi ho condotto qui.» Disse, cambiando
repentinamente discorso. «Ebbene,
non ho intenzione di perdere altre lezioni con voi. Da questo momento
in poi
vivrete qui, nella mia dimora, fino a quando la vostra voce non
avrà raggiunto
un livello che giudicherò accettabile. Il tempo è
prezioso, mademoiselle, e
sprecarlo non è mai una saggia scelta.»
Rimanere lì?
Rinchiusa con lui, sola, per chissà quanto tempo? Non potevo
accettare, io…!
«Vorrei precisare
che non vi sto permettendo di scegliere. Ho già deciso per
voi, e non tollererò
ulteriori discussioni.» Sibilò, severo.
Non avevo parole
per rispondergli, così mi limitai a chinare il capo e
annuire, rassegnata.
Ormai avevo quasi compreso che vi era qualcosa di più
mostruoso del suo viso, e
che non era quello che dovevo temere: ci sarà stato un
motivo se veniva
chiamato Figlio
del Diavolo, benchè malgrado tutto
avesse
un aspetto abbastanza umano.
Eppure
il suo viso, non riuscivo a togliermelo
dalla testa… Perché, per quale motivo mi sembrava
di averlo già visto? Poteva
essere qualche avvisaglia della mia memoria che cominciava a tornare?
Però
l’impressione che ne avevo non era di un ricordo sfumato,
quanto piuttosto
della traccia di un sogno, come quello che avevo avuto, qualche tempo
fa, su
dei sotterranei simili e candele, centinaia di candele…
«Mademoiselle
Sanders? È il momento della nostra lezione.»
Giulia
sobbalzò sullo sgabello, afferrando frettolosamente quelle
pagine e cercando di
nasconderle sotto il ripiano del tavolino da toilette. La voce del
Maestro
giungeva da fuori la stanza, ed era una fortuna ch’egli si
sforzasse di
comportarsi da gentiluomo evitando di entrare nella sua camera da letto.
«A-arrivo
subito, monsieur…!» Replicò, alzandosi
e infilando i fogli in un piccolo
cassetto. Per sua sfortuna non vi era nessuna chiave, ma doveva
confidare sulla
discrezione dell’uomo. Sistemandosi le pieghe
dell’abito da giorno – un modello
assai prezioso, di un delicato color pesca con dei sottili ricami di un
rosso
cupo che ricordavano fantasie floreali, uno dei tanti che il suo
Maestro aveva
provveduto a procurarle per il suo soggiorno – si diresse
verso la porta,
sollevando la tenda e sbucando nel salone.
Egli
l’attendeva in un angolo adibito a salotto, seduto su una
poltroncina in stile
barocco dall’imbottitura marrone e dalle rifiniture in legno
dorate: tra le sue
mani riposava un violino, mentre sul tavolino di fronte a lui giacevano
alcuni
spartiti scritti a mano. Il volto, spaventoso con la sua
deformità, sembrava
voler saggiare il livello del suo terrore.
Non
appena gli fu accanto, Erik prese la parola. «Spero che non
vi dispiaccia se
oggi vi farò esercitare su della musica composta da
me.» Esordì, con
sconcertante tranquillità. Giulia si sforzò di
abbassare lo sguardo sui fogli
che il Maestro le stava porgendo, in modo da non ritrovarsi a fissare
in modo
inappropriato il suo volto deturpato.
«È…
In inglese.» Notò la giovane, prestando finalmente
attenzione a quegli
spartiti.
L’uomo
annuì, senza prestare troppo interesse a quelle carte.
«Sono stato in molti
luoghi, mademoiselle, e la mia musica si è adattata ai miei
continui cambiamenti.
Spero che per voi non sia un problema, esercitarvi con una lingua che
non vi
appartiene.»
Ma
Giulia scosse la testa, continuando a leggere i fogli. «No,
monsieur, io… Io riesco
a comprenderne le parole…» Si accorse, con
crescente stupore. Ecco, forse era
quello un indizio del ritorno della sua memoria? Ad ogni modo, se anche
lo
fosse stato, il suo Maestro non prestò a quella rivelazione l’attenzione
ch’ella si aspettava – probabilmente per
il semplice motivo che egli non la riteneva così importante
e degna delle sue
attenzioni.
Senza
degnarla di un altro sguardo, infatti, l’uomo riprese ad
accordare il suo
violino. «Avete cinque minuti per leggere la musica e cercare
di impararla.
Dopodichè la canterete con il mio accompagnamento.»
«Come
sempre.» Mormorò, sedendosi lontano da lui il
più possibile e iniziando a
leggere.
Al
di là della musica – già di per
sé bellissima – anche le parole erano splendide,
malgrado fossero di una tristezza quasi inconcepibile: non
potè resistere e
iniziò a sussurrarne la nenia a bassa voce, cercando di
trasmettere nel suo
canto ciò che il suo compositore aveva cercato di
trasmettere nella musica. Era
così presa che non si accorse che il suo Maestro aveva
terminato di sistemare
lo strumento e la osservava di sbieco, con una strana espressione
imperscrutabile e con le mani che percorrevano lente la superficie
levigata del
violino.
La
giovane, stava riflettendo, non sembrava essersi scomposta
più di tanto di
fronte a ciò che le era appena accaduto: era stata rapita da
un uomo – sempre
se tale potesse definirsi – dall’aspetto mostruoso
che l’aveva terrorizzata di
proposito con l’intento di vederla inginocchiata ai suoi
piedi per supplicarlo
di sottrarre il suo volto alla sua vista. Nulla di tutto questo era
accaduto.
Christine – oh sì, se ne rammentava perfettamente
– aveva gridato, atterrita,
ed era indietreggiata per cercare rifugio a quella vista orrenda,
serrando gli
occhi pur di non vedere il suo viso; mademoiselle Sanders, invece, non
aveva
urlato, benchè il suo corpo scosso da singhiozzi silenziosi
aveva dimostrato
che non era rimasta del tutto indifferente nei confronti del suo
aspetto. Ma
cos’altro si aspettava? Era stato lui a decidere di mostrarsi
a lei privo della
solita maschera, eppure qualcosa gli diceva che la più
grande paura della
giovane era quella di essere una preda per gli istinti più
biechi e animaleschi
ch’egli poteva nutrire.
Quale
follia! Egli era sì un uomo, ma non di certo di tale risma!
Quando
poi l’aveva infatti rassicurata, suo malgrado, sulla sorte
che l’attendeva, la
fanciulla si era notevolmente acquietata. Si era coperto il volto per
non
spaventarla ancora e le sue lacrime si erano asciugate, mentre ella
arrossiva
distogliendo lo sguardo per l’imbarazzo – forse
pentita dell’indecente pensiero
che aveva osato formulare.
E
gli aveva chiesto scusa. Sì, ella gli aveva domandato
perdono per la sua
assenza!, come se effettivamente lo rispettasse e lo riconoscesse come
suo maestro,
come una persona… Erik
sapeva perché
mademoiselle aveva cessato di venire a teatro, o perlomeno lo intuiva:
si
trattava dell’increscioso incidente
della cappella, che vedeva lei e Bamdad come protagonisti, non era
forse così?
Oh, certo che lo era, ma la giovane era troppo in imbarazzo per
accennare ad un
simile evento – soprattutto se era convinta che lui non ne
fosse a conoscenza.
Ingenua! Egli era pur sempre il Fantasma
dell’Opera, sapeva tutto, vedeva ogni cosa!
Ad
ogni modo si era affrettato a cambiare discorso non appena aveva
sentito la
voce di lei addolcirsi. Non poteva permettersi di perdere altro tempo
prezioso
e di sconvolgere ulteriormente i suoi piani solo a causa di una parola
gentile
o uno sguardo più tenero rispetto a quelli cui era abituato.
Aveva indossato di
nuovo la maschera di
crudeltà che si
era imposto per metterla al corrente del suo piano, ossia di farle
trascorrere
del tempo nella sua dimora per poterla meglio istruire. Aveva
già mezzo
avvisato madame Giry, ma in ogni caso la donna non si sarebbe mai
potuta
opporre.
Pertanto,
sarebbe stato meglio che la ragazza si rassegnasse.
«Avete
finito?» Domandò brusco, non appena si rese conto
dal movimento delle sue
labbra che ella aveva terminato il suo canto.
Giulia
annuì, sollevando subito gli occhi su di lui e ferendolo con
le promesse di
pace ch’egli vi lesse: il modo in cui lo guardava,
così serena, senza sembrare
spaventata… Possibile che fosse merito della sua musica? Era
dunque così bravo
nel mescere le note, da creare simili scorci di paradiso? Eppure, le
parole di
quel canto erano tutto fuorchè serene, visto che in esse
egli aveva riversato
parte dei dolori e della sofferenza che avevano tempestato la sua
inutile vita
– non rammentava quando l’aveva composta, ma
sicuramente era trascorso
parecchio tempo da allora. Se non ricordava male, quelle note gli erano
balenate in mente durante il viaggio che aveva compiuto da Calais a
Boston,
ormai due anni prima.
«Monsieur,
questa musica è splendida.» Trovò il
coraggio di rivelargli la fanciulla,
arrossendo leggermente. «È un onore che voi la
facciate cantare a me.»
Quelle
parole lo presero alla sprovvista, impedendogli per una manciata di
secondi di
ribattere a tono. Quando però si riprese, stranamente, la
sua voce non fu così
dura e aspra come lo era stata pochi attimi prima. «Tutto
ciò che scrivo è per
voi, mademoiselle, visto che siete la mia sola allieva. Non
v’è motivo di
ringraziarmi né di onorarmi con le vostre abili
parole.»
Piuttosto
perplessa dalla risposta, in realtà alquanto ambigua, Giulia
non seppe come
interpretarla. Era un complimento, un sottile rimprovero o un modo per
dirle
che – forse – teneva a lei? Non doveva essere
normale che un insegnante si
preoccupasse della propria allieva, soprattutto – come aveva
anche lui ammesso
– visto che era la sola? Senza perdere altro tempo a
ribattere, la giovane si
alzò e si schiarì la voce, pronta ad iniziare. Il
maestro iniziò a pizzicare le
corde del suo violino con l’archetto e, dopo una breve
introduzione, le fece
cenno con il semplice sguardo di cantare.
«Child of the wilderness
Born into emptiness
Learn to be lonely
Learn to find your way in darkness…
Who will be there for you
Comfort and care for you
Learn to be lonely
Learn to be your one companion…»
Mentre
cantava, Giulia non distolse nemmeno per un istante lo sguardo da
quello dal
suo maestro, cantando in un modo che gli fece pensare che, forse, la
giovane
aveva intuito di chi stesse parlando quella musica e, in un certo
senso,
l’avesse persino compreso. Era solo una sua illusione, o
erano reali gli occhi
lucidi di lacrime represse della sua allieva? Come poteva ella anche
solo
immaginare tutto ciò che un mostro qual’era lui
aveva dovuto subire durante la
sua triste esistenza?
Avrebbe
voluto smettere di suonare per raggiungerla, e scuoterla nella speranza
che gli
rivelasse il motivo di quelle lacrime, di quella commozione. La sua
musica era
straziante, lo sapeva, ma il trasporto che lesse sul suo viso era un
qualcosa
che non sarebbe riuscito a sopportare. Avrebbe spazzato via tutti i
suoi piani,
per l’ennesima volta!
«Never dreamed out in the world
There are arms to hold you
You’ve always known your heart was on its
own…»
La
tremenda realtà di quelle parole – delle sue
parole – lo colpì come una stilettata in pieno
petto, costringendolo ad
abbassare lo sguardo sul suo strumento e dedicarsi unicamente a
suonarlo. Non
poteva incrociare ancora gli occhi della giovane –
l’avrebbero distratto, peggio!,
gli avrebbero fatto perdere
definitivamente ogni difesa, facendo crollare il muro di freddezza che
con
fatica aveva eretto intorno a sé in tutto quel tempo.
Erik
lo sapeva, era destinato a rimanere solo
– eppure la pericolosa vicinanza di mademoiselle Sanders
stava avendo il
terribile effetto di far sbocciare una speranza, in lui, che non aveva
ragione
d’esistere. Non si era forse rassegnato all’idea
che, in quel mondo, non vi
sarebbe mai stato un posto per lui? E allora perché voleva
infliggersi
ulteriori supplizi, credendo come un bambino nell’esistenza
di una simile
utopia?
Lentamente,
il suo archetto produsse le ultime note di quella melodia, e ancora lui
non
aveva il coraggio – possibile che il Figlio
del Diavolo avesse paura?
– di
alzare lo sguardo su di lei. Sentì un fruscio di vesti e
subito dopo vide la
ragazza chinarsi di fronte a lui, ai suoi piedi, cercando di incrociare
i suoi
profondi occhi di brace. Non poteva scappare, non era da lui
– così rimase e
affrontò il suo sguardo lucido e comprensivo.
«Maestro,
io non ho paura di voi.» Sussurrò, abbozzando un
timido sorriso.
Erik
sgranò impercettibilmente gli occhi, sforzandosi di trovare
la menzogna o la
paura nello sguardo della giovane ma leggendovi solo
un’inconcepibile
sincerità. Le sue labbra gli sorridevano – invitanti?
– e le sue mani non tremavano – audaci?
– mentre i suoi occhi – così
belli –
lo scrutavano in attesa di una risposta. Lo scrutavano,
sì, senza giudicarlo
né condannarlo per il
suo aspetto
demoniaco. La sua era stata una semplice affermazione di
fedeltà nei suoi
confronti – possibile che vi fosse anche affetto?
– tuttavia l’effetto che aveva avuto su di lui
sarebbe stato capace di
riportare in vita un morto.
Ed
era, molto probabilmente, ciò che era accaduto in quel
preciso istante.
Senza
pronunciare una sola parola, Erik fece qualcosa che attendeva da tempo.
Con una
titubanza che non credeva fosse propria, circondò il viso
della fanciulla con
le mani, osservandola mentre socchiudeva gli occhi in trepida attesa
– non disagio.
Avvicinò il proprio volto
al suo e, con lentezza quasi esasperante, osò posare la
fronte su quella,
tiepida, della ragazza, ritrovandosi a contatto con la sua pelle
morbida e
fresca e godendo silenziosamente del profumo ch’essa emanava.
Rimasero
in quella tenera posizione a lungo – nessuno di loro seppe
dire con esattezza quanto. E, prima
che l’uomo si staccasse
a malincuore da lei, un unico sussurro fuoriuscì dalle sue
labbra.
«Grazie.»
___________________________________________________________________________________________________________________________
AA - Angolo Autrice:
Finalmente sono
tornata con un altro aggiornamento! ^^ Accidenti, erano secoli che
lavoravo su questo capitolo... E alla fine non è neppure
uscito come volevo che fosse all'inizio -.- vabbè,
pazienza... A voi è piaciuto? Spero proprio di si ;) [P.S.
Tranquille, Erik non si sta rammollendo u.u]
Dunque! Chiedo scusa se questi eventi abbiano accelerato troppo le
cose, avevo intenzione di lasciarli cuocere ancor più a
fuoco lento ma a quanto pare sia Giulia che Erik sono, in fondo, dei
teneroni ù.ù Mi rendo conto che la prima parte
del capitolo (quella scritta in prima persona) e l'ultima possano
entrare leggermente in conflitto per quel che riguarda il comportamento
della ragazza: ma come, all'inizio è terrorizzata e poi alla
fine dice che non ha paura di lui? Accidenti, che ragazza volubile!
>__< E invece voglio ricordare che nelle pagine di diario
lei sta raccontando solo ciò che è accaduto il
primo giorno nei sotterranei, quando lei lo vede per la prima volta:
alla fine del capitolo, invece, sono già trascorsi due
giorni, che non ho voluto approndire per lasciare a voi la libera
interpretazione ^^ Ora non mi resta che decidere che fare delle
restanti due settimane, se descriverle per bene o se fare un salto
temporale... Voi che suggerite? ;D
Ah, la canzone che canta la giovin fanciulla è Learn to be Lonely
- ossia la canzone scritta espressamente per i titoli di coda del film.
Mi sembrava che ci stesse bene! QUI
potete trovare la canzone, nel caso non ve la ricordaste ^^
E ora, rigraziamenti!
sydney bristow:
Ancora grazie per i complimenti, davvero! ^^ Anch'io spero che Bamdad
non faccia niente, sennò tra me e Erik non so chi lo
ucciderà per primo ù.ù devo trovare un
hobby al Persiano, altrochè... xD Spero di non aver fatto
troppo tardi con questo capitolo, accidenti, sta diventando difficile
scrivere con tutto questo caldo >__< Ci sentiamo alla
prossima! Un bacio =*
ashar:
Grazie mille per i complimenti, sono felice che la storia ti piaccia!
:) un bacio, al prossimo capitolo!
Keyra93: Innanzitutto,
spero di essere riuscita nell'intento e cioè nel NON copiare
l'incontro di Erik e Christine del musical! =O Ci sono riuscita?? Spero
di essere stata abbastanza terrificante (MA ne dubito
>__<) Ad ogni modo, attendo il responso! ;D Comunque per
quanto riguarda il Persiano, sì, hai ragione, potrei anche
lasciarlo senza passato... In effetti non è che sia quel
gran personaggio di gran spessore, è un ALTRO che bisogna
tenere d'occhio ù.ù Ahaha, hai visto che Giulia
non è stata cos' scema da togliergli la maschera?? Ormai
Erik si è portato avanti e ha fatto tutto da
solo! xD Allora ci sentiamo al prossimo capitolo! un bacio =*
P.S. Anch'io sono spaventata all'idea della sua punizione *annuisce*
kenjina: Tesoro,
anche tu qui! =* Tranquilla tranquilla, sei assolta da tutti i tuoi
peccati visto che avevi già recensito nel forum e anche (e
SOPRATTUTTO) perchè mi fai leggere certe storie in
anteprima *-* Erano mesi che ti stavi "crogiolando nell'attesa", spero
di averti rinfrancato un po' lo spirito con questo capitolo - anche se
temo sia abbastanza deludente, viste tutte le aspettative -.-' Ti
ringrazio ancora tantissimo per i complimenti, mi fa piacere che ti
piaccia la storia e - why not? - anche il mio modo di scrivere xD Ti
adoro! <3
Un bacione, al prossimo capitolo (sia mio che tuo! xD) smack! =*
Yunie992: Tranquilla,
non preoccuparti per il ritardo - anch'io mi devo scusare, sto andando
un pò a rilento -.- Sono contenta di averti lasciato con il
fiato sospeso fino alla fine, mi fa piacere che Erik ti stia piacendo!
<3 E sì, hai ragione, lui non può essere
troppo dolce e mieloso: non si chiama mica Raoul de Chagny
ù.ù
Comunque Bamdad potrebbe anche avere un harem al maschile, sai, nel
caso decidesse di cambiare sponda... ù.ù Oddio
che immagine, meno male che sto scherzando xD
Ovviamente è assurdo che lei venga dal futuro, E che sia la
gemella di Christine, ma questa è una storia, partorita
dalla MIA immaginazione non troppo - ehm - normale, ergo... Qui tutto
è possibile! xD e continuerò a mettere le parole
in corsivo, ovviamente, mi piace un sacco *-* xD
E non demordere, vedrai che ce la fai con la patente!! Volere
è potere ù.ù
Un bacione, al prossimo capitolo! =*
Ah e, ovviamente, anche Erik ringrazia u.u
Un abbraccio a tutte, ci leggiamo al prossimo capitolo!
GiulyRedRose
|
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Capitolo 18 *** 16. I'm wondering what you're dreaming ***
Chapitre 16
I’m wondering what
you’re dreaming
Molte
cose accaddero all’Opèra di Parigi, nel periodo in
cui la giovane mademoiselle
Sanders e il suo mentore, il Fantasma – nonché
direttore artistico rispondente
al nome di monsieur Destler – erano stati assenti per il loro
lungo soggiorno
nei sotterranei.
Il
direttore dell’orchestra, monsieur Reyer, era stato costretto
a trovare una
sostituta alla giovane promessa del canto: fu per tale motivo che venne
richiamata, a teatro, una delle giovani che avevano partecipato alle
audizioni diverse
settimane prima – vale a dire, mademoiselle de Vries. La
fanciulla, i cui capelli
corvini facevano risaltare il colorito pallido della sua carnagione,
aveva un
aspetto arrogante – a tratti insolente – che non
piacque granchè agli altri
componenti del coro né, tantomeno, allo stesso Fantasma.
Egli infatti, malgrado
fosse occupato con le sue lezioni sotterranee,
non tralasciava certamente il suo compito di direttore artistico, per
il quale
sgattaiolava in superficie di nascosto alla sua allieva, in modo da
fornire
istruzioni dettagliate al suo segretario, monsieur Bamdad. E per quanto
fosse
stato Erik stesso a suggerire il nome di mademoiselle de Vries come
sostituta –
per quanto poco tollerasse che quella creatura altezzosa calcasse le
stesse
scene della sua mademoiselle Sanders – egli non poteva che
sforzarsi di desistere
dall’idea di terrorizzarla a morte con una delle sue
apparizioni. Intanto,
finchè cantava e rimaneva al suo posto in attesa del ritorno
della solista, non
v’era alcun pericolo.
Per
quello che concerneva madame Giry e sua figlia, la giovane Meg, loro
erano le
sole a sapere con esattezza dove si
trovasse Giulia, e soprattutto con chi:
ma, per sfortuna o per fortuna, non potevano farne parola con alcuno.
D’altronde, i patti erano questi: se le due Giry si fossero
nuovamente
impicciate negli affari del Fantasma, questa volta egli non avrebbe
passato
sotto silenzio il loro affronto, e al contrario si sarebbe vendicato.
La qual
cosa voleva essere evitata, grazie.
Madame
era talmente preoccupata da non riuscire a dormire la notte. Che cosa
sarebbe
accaduto, no meglio, che cosa stava accadendo
nei sotterranei, magari proprio in quel momento? Perché era
stata stolta per
l’ennesima volta e si era fidata di Erik, lasciando Giulia in
sua totale mercè?
L’uomo poteva forse… Oh Cielo, poteva forse
approfittarsi di lei? La donna si
alzava nel cuore della notte e passeggiava su e giù, in
lungo e in largo, per
la sua stanza, pensando, riflettendo e immaginando cose che avrebbero
fatto
arrossire la più audace delle sue ballerine. E ancora Erik
non era a conoscenza
dell’identità della giovane… Certo, in
realtà neppure lei poteva esserne
sicura. Potevano trattarsi delle farneticazioni di un’anziana
donna malata e
moribonda, oppure potevano davvero essere la
verità… Chi poteva mai saperlo?
Louise non aveva ancora avuto modo di controllare il petto della
giovane,
pertanto non sarebbe potuta esserne certa, fintantochè non
avesse visto i segni
che l’avrebbero caratterizzata.
Tuttavia,
neppure monsieur Bamdad aveva trascorso in serenità quei
lunghi quindici
giorni. La fanciulla alla quale aveva porso sinceramente i suoi
sentimenti era
scomparsa, svanita nel nulla, subito dopo che aveva osato quel gesto
avventato
– subito dopo averla baciata. Aveva avuto il fegato di
domandare al suo
principale, monsieur Destler, dove fosse finita la giovane –
alludendo
implicitamente che egli fosse coinvolto nella sua sparizione
– ma l’uomo
mascherato non aveva battuto ciglio, limitandosi a scoccargli una
gelida
occhiata che l’aveva fatto tremare e l’aveva fatto
retrocedere, chinandosi in
segno di rispetto. Gli aveva ringhiato, in modo piuttosto sibillino,
che in
quel momento la giovane si trovava sotto la sua protezione, e che non
avrebbe
dovuto osare avvicinarlesi un’altra volta senza
ch’egli fosse presente. E
mettersi contro un uomo come monsieur Destler era qualcosa che monsieur
Bamdad
non voleva prendere nemmeno lontanamente in considerazione.
Ma
cosa stava effettivamente accadendo nelle catacombe del teatro?
Mademoiselle
Sanders e il Fantasma proseguivano con le loro lezioni senza quasi
curarsi di
ciò che il mondo della superficie poteva pensare o dire su
di loro. Essi
avevano stabilito di tacito accordo una routine che permetteva a Giulia
di
ritagliarsi uno spazio per sé sola, senza che la presenza
del suo Maestro la
turbasse o la mettesse a disagio – era pur sempre un uomo!
– e a Erik di
continuare ad occuparsi dei suoi affari, tramite lettere e note che
faceva
avere sia a monsieur Bamdad che ai messieurs Firmin e Andrè.
Ma giungeva un
momento, nelle loro giornate, nel quale entrambi si dedicavano
esclusivamente
alla musica: l’uomo sedeva al suo organo, ormai del tutto
ristrutturato, oppure
prendeva in mano il suo violino, e Giulia prendeva posto al suo fianco
per
cantare e accettare pazientemente i severi rimproveri e le piccole
correzioni
che il Maestro le faceva di tanto in tanto.
Ciò
che egli desiderava – e pretendeva – era la perfezione,
visto che la sua vita ne era stata priva.
I
quei giorni, mentre l’attenzione del Fantasma su
ciò che avveniva nel suo
teatro era notevolmente diminuita, il famoso tempio dell’arte
veniva tenuto
costantemente sotto controllo dagli uomini fidati di un certo Duca de
Blanchard, senza che nessuno degli habituès
notasse la loro curiosa presenza. Gli uomini, sconosciuti ai
più, si aggiravano
come ombre per l’Opèra, quasi che fossero alla
ricerca di un qualcosa in
particolare. Per di più facevano strane domande su passaggi
segreti o gallerie
sotterranee, alle quali nessuno sapeva cosa rispondere.
Inutile
precisare che il duca, lo stesso che aveva desiderato conoscere
personalmente
mademoiselle Sanders, qualche tempo prima, era fin troppo deluso
dall’infruttuosità delle sue indagini. A quanto
pareva nessuno sapeva niente,
oppure tutti temevano qualcosa. O qualcuno? Solo questo manteneva vivo il
suo interesse e lo costringeva a non interrompere le sue ricerche. Era
tornato
a Parigi per uno scopo soltanto, ed era troppo vecchio per potervi
rinunciare.
Per Dio, ne aveva bisogno, e l’avrebbe trovato. Anche a costo
di rivoltare
l’intero teatro da cima a fondo!
Il
martedì successivo alla “scomparsa”
della giovane solista, l’anziano gentiluomo
andò di persona all’Opèra, decidendo
che probabilmente avrebbe raggiunto
maggiori risultati se avesse agito da solo. Si sistemò
comodamente su una delle
poltrone della platea, mentre sul palcoscenico alcuni cantanti e attori
provavano le scene dell’Annibale
di
Chalumeau. Torturando il pomello d’argendo del suo bastone da
passeggio, il
duca prese a studiare l’ampio ambiente senza curarsi della
rappresentazione: a
quanto sapeva lui, infatti, era quello il luogo nel quale il Fantasma si era manifestato
più volte.
Più precisamente…
Il
suo sguardo vagò fino a raggiungere il balcone del palco
numero 5, alla
sinistra rispetto al proscenio: le tende color porpora erano tirate
cosicchè il
suo interno fosse visibile, e affilando gli occhi si sporse in avanti
per
cercare di vedere meglio ciò che poteva esserci nascosto.
Alla fine, poi, la
sua pazienza venne premiata. Un debole movimento della tenda,
percepibile
solamente da qualcuno che non avesse distolto lo sguardo per neanche un
istante, rese evidente la presenza di qualcuno nel palco maledetto. Il
duca si
mise in piedi con notevole sforzo, appoggiando tutto il suo peso sul
bastone e
avanzando di qualche passo, e infine i suoi occhi grigi si posarono su
di lui.
Lassù,
leggermente nascosto dall’ampia tenda, stava un uomo,
interamente vestito di
nero fatta eccezione per un’insolita maschera bianca di cui
nessuno – ad
eccezione del duca – avrebbe compreso l’esistenza.
L’anziano nobiluomo si portò
una mano al petto e si afferrò con forza la stoffa della
giacca, cercando di
trattenere un gemito di esultanza. Allora non era morto, poteva ancora sperare! Ma era più che certo
che,
quando avesse sentito tutto ciò che aveva da offrirgli, non
si sarebbe potuto
tirare indietro… Avrebbe accettato, e il suo intero
patrimonio sarebbe stato al
sicuro dalle grinfie della Repubblica!
Con
un ghigno distorto sul volto segnato dalle rughe, il duca de Blanchard
voltò le
spalle all’uomo nel palco, certo che quest’ultimo
non si fosse accorto della
sua presenza. Gli era stato riferito – sotto forma di voci di
corridoio, certo
– che il direttore artistico dell’Opèra
Populaire era solito indossare una
maschera, e non aveva impiegato molto tempo prima di tirare le somme.
Ora,
tutto ciò che gli restava da fare era domandargli udienza e
sperare che lo
ricevesse; in caso contrario, sarebbe dovuto arrivare alle maniere
forti, e
aveva già un’idea di come queste si sarebbero
svolte.
***
«No,
no, quello è un Si minore. Dovete suonare invece un La
maggiore. Su,
riprovateci.»
Giulia
spostò le dita su altri tre tasti, cercando di ricordarsi la
sequenza di note
che il suo Maestro le aveva fatto udire e vedere pochi istanti prima.
Il suono
che proruppe dall’organo era un po’ troppo debole e
tremolante, ma se non altro
questa volta sembrava che avesse indovinato le note. Con un sospiro
rassegnato
si portò le mani in grembo, iniziando a torturarle come
faceva ogni volta che
era nervosa.
«Mi
dispiace, Maestro, ma credo di non essere molto portata per suonare il
piano.»
Ammise, delusa.
L’uomo
scosse la testa con un sorriso comprensivo, prendendole la mano e
posandola
nuovamente sui tasti d’avorio. «Non dite
così, mademoiselle. Nessuno nasce
istruito.» Disse, docilmente. «Sono certo che un
po’ d’esercizio riuscirete a
suonare anche il pianoforte.»
La
ragazza piegò la testa e lo guardò di sbieco,
inarcando un sopracciglio. «Apprezzo
la vostra buona volontà e vi sono grata per la vostra
pazienza, ma davvero,
forse è meglio che mi arrenda. Non è stata una
buona idea domandarvi di
insegnarmi a suonare, avete già sin troppe cose da
fare.»
«Al
contrario, è stata una splendida idea.»
Replicò, voltando le pagine dello
spartito per cercare una melodia che non fosse troppo ardua.
«In tal modo
sareste un’artista veramente completa.»
Tuttavia,
lo sguardo perso nel vuoto della giovane interruppe i suoi progetti di
gloria.
«Non mi sembrate molto felice di questo,
mademoiselle.» Affermò piano,
leggermente infastidito.
Lei
esitò un poco prima di rispondere. «Oh si,
Maestro, ma… Sarò completamente felice
solo quando avrò riacquistato la memoria.»
Erik
la fissò, improvvisamente adombrato. «E chi dice
che non abbiate a pentirvene?»
Mormorò.
Giulia
si voltò verso di lui, intristita e preoccupata.
«Non ci sarebbe nulla di cui
pentirmi, monsieur. È il mio passato, è parte di
me… Averlo dimenticato mi ha
straziato il cuore.»
«Non
sapete cosa darei pur di dimenticare il mio.»
Ribattè, in un fioco sussurro.
La
fanciulla non riuscì a trattenersi e posò una
mano sul braccio del suo maestro,
stringendolo dolcemente e cercando di rincuorarlo con un pallido
sorriso.
Poteva solo immaginare come doveva essere stata la sua vita a causa del
suo
aspetto, e di certo non voleva farglielo pesare più di
tanto: l’uomo le aveva
dimostrato una fiducia non indifferente, rimanendo sempre col volto
scoperto in
sua presenza, soprattutto dopo che lei gli aveva fatto capire che con
lei non
aveva nessun bisogno di nascondersi. Lo rispettava troppo e gli doveva
tutta la
sua fortuna in quel luogo insidioso
che era il teatro, e di certo il minimo che poteva fare per sdebitarsi
era
mostrargli un poco di gratitudine.
«Dimenticare
è impossibile, Maestro, ad eccezione del mio
caso.» Disse, accennando un tono
scherzoso che svanì subito dopo. «Tutto
ciò che possiamo fare è cercare di
andare avanti e lasciarcelo alle spalle.»
Già,
avrebbe potuto… Ma ciò avrebbe significato solo
dover rinunciare alla sua
vendetta. No, era un’eventualità da non prendere
nemmeno in considerazione. Il
suo passato era stato terribile, tale da averlo condotto
sull’orlo della morte
e della follia più e più volte… Ma la
sua volontà era più forte di tutto
questo: non avrebbe chiuso gli occhi sul mondo senza che questi si
fosse
finalmente inchinato dinnanzi al suo genio indiscusso e ineguagliabile.
Con
un sospiro, scosse impercettibilmente la testa. «Riprendiamo
la nostra lezione,
avanti.» Il tono stanco con cui aveva pronunciato quelle
parole distolse Giulia
dalla voglia di porgli altre domande e approfondire
quell’argomento che
sembrava farlo soffrire così tanto, sebbene a distanza di
anni.
«Come
desiderate, Maestro.» Acconsentì, posando entrambe
le mani sui tasti e seguendo
le note.
Chissà
se un giorno il suo Maestro avrebbe trovato giusto e rassicurante
confidarsi
con lei?
***
Non sarei dovuto
entrare.
Ma la tentazione
era forte. Sapere che lei è qui, nella stanza accanto alla
mia, nella mia dimora, e non
poterla neanche vedere, sapere di respirare la sua
stessa aria ma non poter sentire il suo profumo...
Non ho potuto
resistere. Ho abbandonato la gelida solitudine del mio letto e mi sono
avvicinato
a passo sicuro alla porta che separa le nostre due camere, un debole e
inutile
ostacolo alla mia troppo grande passione...
Non ho bisogno di
nessuna candela. L’oscurità è stata per
troppo tempo la mia unica compagna.
Lei non sa che la
mia stanza è adiacente alla sua, altrimenti credo che non
dormirebbe sonni
tanto tranquilli. Non è di certo una sciocca, sa cosa
rischia nel rimanere da
sola con un uomo…
Apro la serratura
senza il minimo rumore, e in un attimo sono nell’altra
stanza. Da lei.
Posso già sentire
il suo delicato respiro, e non sono che appena entrato.
Ora, lentamente, mi
avvicino verso il suo vergine giaciglio. Questo pensiero non fa che
eccitarmi
ancora di più. Vergine. E io sono ad un passo da lei, e
potrei prenderla senza
nessuna difficoltà...
Un pensiero che
presto diventerà realtà.
Ormai sono di
fronte al suo letto. Mi appoggio alla colonna del baldacchino, posando
la
fronte su di essa per prendere dei profondi respiri. Sono eccitato come
un
predatore a pochi passi dalla sua preda.
Dunque è così che
deve sentirsi un leone?
Non posso più
resistere.
Prima di poterlo
anche solo immaginare, ecco che mi trovo al lato del letto nel quale
dorme,
tranquilla e ignara della mia oscura presenza. Una mia mano si posa
sulla
trapunta, e in un battito di ciglia la getto ai piedi del letto,
scoprendola.
Lei è completamente nuda. So che è buio, ma i
miei occhi sono abituati
all’oscurità, ed è come se vi fosse la
luce del sole ad illuminare il suo
pallido corpo perfetto.
Purtroppo per lei,
il Fantasma è un essere fatto di carne e sangue. Non
può sfuggirmi...
Mi accorgo di avere
tra le mani una rosa rossa. Non ricordo di averla presa, ma la cosa non
mi
interessa granché. La faccio scorrere lentamente sulla sua
pelle, sfiorandole
il volto, la gola, il petto e il ventre piatto e morbido, tremando di
piacere
quando la sento sospirare nel sonno.
Poi ecco, arrivo
nel centro pulsante della sua femminilità, e lì
la rosa si ferma. Fiore sopra
fiore, la metafora è evidente e, ancora una volta,
eccitante.
È la mia volta di
sospirare, e so che non potrò trattenermi ancora a lungo.
In un attimo sono
su di lei, i nostri due corpi che combaciano perfettamente, pelle
diafana, la
sua, sotto una pelle scura, la mia.
E adesso ne sono
certo. Presto sarà solo mia.
Mia...
Con
un gemito disperato, Erik si raddrizzò a sedere,
strappandosi con un ultimo
ringhio alle ardenti spire del suo sogno. Buon Dio, perché
era di questo che si
era trattato. Solo di un sogno.
O
meglio, un incubo.
Era
stato terribilmente reale, per un secondo era certo del fatto che
avrebbe
saziato su di lei il suo desiderio, aveva avuto l’impressione
di poter sentire
il suo profumo su di sé... E solo perché la sera
prima ella aveva osato
augurargli la buonanotte sfiorandogli la guancia lasciata scoperta
dalla
maschera da cui non si separava mai...
Quel
casto e amichevole bacio doveva averlo turbato più del
lecito.
Gettò
con rabbia le coperte da una parte del letto, alzandosi e raggiungendo
con
passo deciso il tavolino sul quale lo attendeva ancora una bottiglia di
buon
Cognac, del quale si bevve d’un sorso un intero bicchiere.
Non poteva andare
avanti così. Quella situazione rischiava di diventare
insostenibile.
Già
due settimane erano trascorse da quando mademoiselle Sanders era sua
ospite, e
non era passato un solo giorno senza che lui si ritrovasse a
desiderarla e a
sognarla. Era chiaro che, a mente fredda, non le avrebbe fatto del male
né
l’avrebbe mai sfiorata nemmeno con un dito, ma nessuno poteva
sapere che cosa
sarebbe accaduto il giorno dopo. E se avesse esagerato nel bere, e
durante la
notte si fosse introdotto nella sua camera, che confinava con la sua?
Gli era
già difficile resisterle durante il giorno, quando sedevano
l’uno di fianco
all’altro durante le lezioni di canto e musica, di sicuro non
ci sarebbe
riuscito se non avesse avuto il completo controllo dei suoi nervi. E
nemmeno la
chiave con la quale la ragazza chiudeva la porta sarebbe servita: lui
ne
possedeva una copia, e se anche così non fosse stato, beh,
era comunque il
Signore delle Botole. Le serrature non erano mai state un problema, per
lui.
No,
era impossibile rischiare oltre. Non poteva permetterselo. Malgrado
tutto
rispettava troppo mademoiselle Sanders per farle una cosa simile.
Maledizione,
ma in che razza di mostro si era trasformato? In un uomo che desiderava
possedere qualsiasi fanciulla si trovasse davanti?
Ma no, gli suggerì subito una
voce
dentro di sé. Non si trattava di
una
fanciulla qualsiasi... Era lei che voleva. Solo lei.
Ma
non poteva averla! Sapeva che ella gli era preclusa, così
come lo era stata
Christine, e forse anche di più! Non aveva nessun diritto
sulla ragazza, se non
quello di averle salvato la vita, ma che razza di uomo con un
po’ di orgoglio e
senso dell’onore ne avrebbe approfittato così
sfacciatamente?
Ma
guarda, era già da qualche tempo che si ritrovava a fare
discorsi del genere...
Che cosa ne sapeva, lui, dell’onore? Lui, che non aveva mai
stretto un solo
patto in vita sua perché sapeva che non l’avrebbe
mai rispettato? I giuramenti
sono per gli stolti, era solito ripetersi!
Eppure,
eppure c’era un giuramento che avrebbe rispettato fino alla
sua morte, ma
purtroppo il destino aveva deciso che un mostro come lui non avrebbe
mai potuto
godere di una simile felicità. Perciò, neanche
pensarci aveva molto senso.
Posò
nuovamente il bicchiere sul tavolino, rinunciando a berne un altro per
non
sfidare troppo la sorte. Si avvicinò al camino acceso,
sperando che il calore
delle fiamme lo facesse rinsavire. Ma no, era più forte di
lui. La porta che
collegava le loro camere era alla destra del focolare, chiusa eppure
invitante,
ed Erik si ritrovò a fissarla con un misto di rabbia e
desiderio.
Forse... pensò, raddrizzando
leggermente
la testa. Forse dovrei entrare a
controllare che stia bene... che non abbia bisogno di qualcosa...
Una
debole scusa, ma non aveva bisogno di altro. Doveva vederla. E ad ogni
modo non
poteva cedere ai quei bassi istinti, poiché la fiducia della
fanciulla gli era
necessaria per il compimento della sua vendetta. Se avesse perso la
stima o
l’affetto che mademoiselle sembrava nutrire nei suoi
confronti, tutti sarebbe
stato perduto per sempre.
In
due rapide falcate fu di fronte all’uscio, e prima che
potesse cambiare idea la
sua mano abile e rapida aveva fatto scattare la serratura. Nessun
rumore, silenzioso
come un fantasma.
Come
nel suo sogno, non aveva bisogno di nessuna candela. Ma, a differenza
di esso,
non aveva intenzione di trattenersi oltre dopo essersi accertato che la
ragazza
stesse bene. Tutto qui. Non doveva fare altro.
Solo
controllare che stesse bene.
Silenzioso,
scivolò avvolto nell’oscurità fino al
suo letto, chiuso dalle tende del
baldacchino. Lanciò una rapida occhiata al camino e, dopo
essersi accertato che
fosse ancora acceso, sollevò piano le tende di pizzo scuro.
Sulle
prime credette che la sua vista gli stesse giocando brutti scherzi; ma,
dopo
aver sbattuto più volte le palpebre, dovette arrendersi alla
tremenda evidenza.
Il letto era vuoto, peggio, era ancora in ordine come se nessuno vi si
fosse
mai coricato.
Dove
diavolo poteva mai essere la ragazza?
Imprecò
ad alta voce, mentre cercava una candela che illuminasse ulteriormente
la
piccola stanza: forse mademoiselle Sanders si era addormentata su una
poltrona
e lui non se ne era accorto. Ma neppure la luce del cero risolse la
situazione:
la stanza era vuota, e lui non aveva idea di dove fosse finita la sua
ospite.
Ed era ovvio che non poteva tornare a dormire come se niente fosse,
dato che
poteva esserle accaduta qualsiasi cosa: egli infatti era ben
consapevole delle
numerose trappole che aveva sparso in tutti i sotterranei del teatro, e
c’era
il pericolo che la fanciulla fosse finita dentro una di esse.
Cercò
di ricacciare indietro il ricordo di quando l’aveva vista per
la prima volta, e
l’aveva trovata, in preda alla febbre, nella Camera dei
Supplizi: il ricordo lo
tormentava ancora, e si augurò –
perché
lui di certo non poteva pregare – di aver chiuso a chiave
tutte le camere più
pericolose.
Afferrò
un candelabro ed uscì in fretta dalla stanza, senza neanche
curarsi di indossare
un mantello. Non riusciva a comprendere il motivo di
quell’irrazionale paura
che l’aveva attanagliato
all’improvviso.
«È
solo perché ho bisogno di lei.»
Sussurrò tra sé, afferrando il remo della barca
e saltando agilmente su di essa. «È una pedina
fondamentale nel mio piano,
tutto qui.»
Ma
ormai lui stesso stentava a crederci.
_________________________________________________________________________________________________
AA - Angolo Autrice:
Ehilà, giovani
fanciulle! ^^ Come procedono le vostre vacanze? Spero meglio delle mie
- confinata a casa a causa del brutto tempo... ma si può??
-.-''
Ma meno male che EFP
non va in vacanza :D Ed è giustappunto per questo motivo che
mi trovo qui, ad aggiornare prima del previsto - davvero, non credevo
di riuscire a finire questo capitolo in così poco tempo O_o
Certo, si è concluso a metà e il seguito
sarà nell'altro, però... sempre meglio di niente!
Ringrazio
innanzitutto chi ha recensito lo scorso chapitre, vale a dire kenjina (tesoro, anche tu qui! :D), leschatnoir, sydney
bristow,
Yunie92 e TheMisty910. Non ho molto tempo per
rispondervi singolarmente - cosa di cui vi chiedo perdono! - ma
cercherò di fare una risposta collettiva! :D
Innanzitutto grazie
mille per i complimenti, c'è chi dice che mi sono
addirittura superata! *O* Beh dai, un pò di tenerezza ci
voleva proprio, sennò la tensione assassina ci avrebbe
ammazzati tutti ù.ù E poi in fondo Erik
è un tenerone... Perciò, non avremo
più momenti così per un bel pò xD
*risata malefica (si, tipo quando fa cadere il lampadario nella
versione teatrale .__.)
Inoltre, sono molto
contenta che le descrizioni vi piacciano e servano a farvi immedesimare
ancora di più nella storia, le faccio apposta! *-* E
comunque sì, ribadisco, Erik è umano e ha dei
sentimenti, ma per il momento è ancora piuttosto preso da
questa benedetta vendetta -.-'' Che dire, non ha quello che si chiama
"spirito cristiano" xD (Anche perchè quando si è
imbarcato nell'"ammore" non è che gli
sia andata benissimo, poveretto é.è)
E neanche qui
c'è Bamdad, se si esclude un breve cammeo! *O* Coloro che
vogliono linciare il persiano seguano la fila a sinistra, prego
ù.ù
E con questo capitolo
spero che il carattere di Erik e Giulia stia venendo sempre
più fuori, sono anche le piccole cose "tra le righe" che
servono a delineare i personaggi... Spero di non essere troppo
ripetitiva o monotona, comunque, e ovviamente spero di riuscire a tener
fede a questa immagine che ho creato di lui ^^'' Per dirla tutta: non
vorrei forzarla troppo, ecco!
Fatemi sapere che
pensate di questo new chapter e, ovviamente, del sogno di Erik:
è la prima volta che parla in prima persona, avete notato?
Io me ne sono accorta solo ora! xD
Un abbraccio e al
prossimo capitolo, les
filles! (Al mio fianco, Erik si inchina e ringrazia)
Bisous,
GiulyRedRose
|
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Capitolo 19 *** 17. Ritorno alla luce ***
Chapitre 17
Ritorno alla luce
La
Dimora sul lago giaceva in un cupo silenzio, disturbato soltanto dal
leggero
fruscio lontano di qualche corrente d’aria sotterranea. Non
era completamente
immersa nell’oscurità, e questo grazie alla
geniale intuizione di far
convergere, tramite degli specchi disposti in punti strategici, i raggi
della
luna e le luci dei lampioni a gas, che penetravano da delle grate fino
alle
profondità del teatro: qui l’acqua del lago li
rifletteva sulle pareti, creando
dei giochi di luci e ombre che rendevano l’ambiente
più vivibile. Erik era
stato costretto a cambiare tutti gli specchi
perché quelli che aveva predisposto in passato erano stati
distrutti la notte
del disastro e quelle successive.
Ad
ogni modo, ciò non gli impedì di afferrare una
fiaccola dalla parete per
iniziare le ricerche della sua ospite. Avanzando a grandi passi negli
intricati
corridoi, attento a cogliere il più piccolo gemito o rumore,
si accorse che era
da un po’ di tempo che aveva cessato di pensare a lei come ad
una prigioniera. Alla fine non era
riuscito
neppure ad attuare la punizione che aveva preparato per lei. Avrebbe
voluto
tenerla legata ad una scomoda sedia per diversi giorni –
aveva già preparato le
corde – fino a quando lei non l’avesse supplicato
con pianti e lamenti di
liberarla; in realtà questa sarebbe dovuta servire anche nel
caso in cui la
reazione della giovane di fronte al suo aspetto infernale non fosse
stata di
suo gradimento.
Ma
il modo in cui si era comportata quando aveva visto il suo vero volto
era
andato ogni sua previsione: chi si sarebbe mai aspettato, infatti, che
mademoiselle avrebbe cercato di comprenderlo e confortarlo, malgrado
fosse
appena stata rapita da lui? Certo, all’inizio era sembrata
spaventata, ma forse
era solo una reazione umana… In fondo non era preparata a
qualcosa del genere,
lui poteva ben capirlo – ma quando aveva pianto era solo
perché temeva che lui
potesse avanzare diritti sul suo corpo!, non perché era
disgustata dal suo
aspetto!
Fu
questo, probabilmente, a farlo desistere dal punirla. Che bisogno ve
n’era, d’altra
parte? Ella gli si era avvicinata e l’aveva toccato di sua
spontanea volontà,
permettendogli di posare la sua fronte sulla sua: e da quel momento non
aveva
esitato a sfiorarlo in nessuna occasione, forse sperando in quel modo
di
essergli vicina o – possibile? – dimostrargli affetto.
E
malgrado tutto questo, egli aveva abbassato la guardia e
chissà in quale
trappola demoniaca era finita!
Ringhiò,
al colmo della frustrazione, e si contenne a stento dallo strappare i
preziosi
drappi che abbellivano le nude pareti di pietra della sua dimora e che,
al
contempo, la rendevano meno umida. Doveva mantenere la calma e
concentrarsi – e
pregare di aver chiuso a chiave le stanze più pericolose.
Avrebbe dovuto
immaginare che le sarebbe venuta la voglia di studiare meglio quella
strana
abitazione, era pur sempre una donna! Ma per quale motivo farlo di
notte,
maledizione?
Dopo
essersi assicurato che anche la porta della Camera dei Supplizi fosse
prudentemente chiusa a chiave, Erik non potè ancora tirare
un sospiro di sollievo.
Escludendo le varie trappole, ora non restavano che le altre stanze,
più
normali ma non per questo meno pericolose: poteva anche essere accaduto
che
mademoiselle Sanders, entrando in una di essa, non fosse stata
più capace di
uscire o di ritrovare la sua camera da letto. Di certo egli non
scherzava
quando si riferiva a quel luogo come al Labirinto sotterraneo.
Una
dopo l’altra, Erik scopriva che le stanze erano completamente
vuote. Neppure un
cenno del suo passaggio, come se la fanciulla si fosse volatilizzata
nel nulla.
Per un attimo temette quasi di essere ancora immerso nel sogno, ma il
dolore
proveniente dalla mano che aveva sbattuto al muro gli indicava tutto il
contrario. La terribile verità era che non stava sognando, e
che mademoiselle
era sparita.
Che
fosse fuggita dalla dimora sul lago? Che avesse trovato un passaggio
segreto
tramite il quale fosse riuscita a raggiungere la superficie? Ma no, non
aveva
alcun senso – perché scappare, visto che sembrava
non avere alcuna forma di
timore nei suoi confronti? Un’ira cieca stava già
prendendo il posto della
preoccupazione, mentre a grandi passi percorreva l’ultimo
corridoio. E così,
infine, anche lei l’aveva tradito.
Oh, Erik, credevi
che ora sarebbe stato tutto diverso, non è così?
Che stolto!
Strinse
così forte la presa sul candelabro che quasi lo
sentì scricchiolare, mentre la
cera delle candele colava lentamente sulle sue dita. Ma quel dolore era
nulla
in confronto alla delusione che quella ragazzina gli aveva
dato…
Un
momento. Cos’era quella debole luce che proveniva da sotto la
fessura di una
porta? Era convinto di non aver lasciato nessuna candela accesa al di
fuori
della zona che utilizzava di più, per evitare di scatenare
un fuoco
accidentale. Si diresse a passo deciso verso la porta, posando una mano
sulla
maniglia d’ottone e abbassandola, spingendola silenziosamente
verso l’interno:
se ci fosse stato un intruso, l’ennesimo,
avrebbe avuto ciò che gli spettava… Non era
dell’umore adatto per mostrare
misericordia!
La
nuova stanza era il suo vecchio studio, per la precisione. Una camera
nella
quale, durante la lunga esistenza che aveva condotto in quelle
catacombe, aveva
conservato libri, documenti e tesori, dei quali ancora si serviva per
suo uso e
consumo e che in parte erano stati utili per il suo breve soggiorno nel
Nuovo
Mondo. Eppure credeva di averla chiusa a chiave, considerata
l’importanza degli
oggetti ivi conservati. Ma era chiaro che qualcuno era stato ugualmente
capace
di entrarci, e quel qualcuno adesso riposava su una vecchia poltrona,
raggomitolato come un gattino infreddolito.
Mademoiselle
Sanders.
Il
capo abbandonato sullo schienale della poltrona, circondato dai lunghi
capelli
che era solita sciogliere prima di andare a dormire, le gambe distese
sopra il
bracciolo e le braccia in grembo, con le mani che tenevano stretto un
libro
che, evidentemente, aveva trovato nella sua libreria.
Dunque non l’aveva
abbandonato…
Non
si accorse che le sue labbra si erano curvate in un debole sorriso,
mentre le
si avvicinava per avvolgerla in una coperta che giaceva su una sedia
lì
accanto. Avventurarsi in quei maledetti domini solo per cercare una
lettura
notturna, che sciocca – non aveva pensato neanche per un
istante che avrebbe
potuto perdersi?
Si
permise il lusso di rimanere un momento ad osservarla, così,
da vicino. Oh, era
molto più bella del suo sogno – era reale,
e avrebbe potuto toccarla semplicemente allungando la mano. Le sue
labbra,
leggermente dischiuse nel sonno, sembravano invitarlo silenziosamente a
posarsi
su di esse, mentre il petto della giovane si sollevava e si abbassava
sensualmente al ritmo del suo respiro. Ora capiva il motivo degli abiti
castigati che le donne erano costrette ad indossare durante il giorno e
talvolta anche la notte – serviva soltanto a preservare
l’autocontrollo di
uomini come lui. Come poteva resistere altrimenti ad una simile visione?
Fu
più forte di lui: la sua mano scivolò accanto al
suo viso, e le sue dita,
leggere come farfalle, si permisero di sfiorare le sue gote in una
delicata
carezza. La sua pelle era liscia e morbida, e questo gli fece
rammentare di
quando le sue rosse labbra si erano posate con gentilezza sulla carne
martoriata del suo viso, la notte prima, senza che alcun accenno di
ribrezzo
turbasse la serenità del suo dolce sorriso. Nessuno aveva
mai osato tanto;
neppure Christine, che aveva avuto il coraggio di fondere insieme le
loro
bocche nel tentativo di salvare la vita al suo fidanzato –
neppure lei aveva
mai avuto l’ardire di sfiorare la bruttezza del suo volto.
Ella ne era
terrorizzata, per non dire assolutamente disgustata.
Mademoiselle
Sanders poteva anche somigliare, fisicamente, alla Viscontessa de
Chagny – ma
il suo cuore era di sicuro molto più grande e pietoso nei
confronti di un mostro.
Erik
chiuse gli occhi, massaggiandosi le tempie con le mani. Non poteva
continuare
così. Stava diventando impossibile riuscire a controllare
quella situazione,
gli stava letteralmente sfuggendo dalle mani. Di certo al principio non
aveva
immaginato che gli sarebbe potuto accadere di… Oh, ma cosa
andava pensando?
Certe cose andavano contro tutto ciò che si era prefissato e
in cui aveva
creduto negli ultimi due anni. Non poteva permettersi di ignorare la
faccenda,
non poteva perdere quell’occasione.
Vendetta. Ecco tutto ciò di
cui aveva
bisogno per vivere, nient’altro aveva importanza. Pertanto
era necessario
allontanarsi per un po’ dalla sua allieva, sperando che la
lontananza servisse
a raffreddare i suoi bollenti spiriti e a rendere nuovamente lucida la
sua
mente annebbiata.
La
sua espressione era nuovamente impenetrabile mentre, dopo essersi
alzato,
sollevava tra le braccia la ragazza e si dirigeva fuori dal suo studio.
I
quindici giorni erano finiti, grazie a Dio. Presto ogni cosa avrebbe
seguito il
suo corso, e lui ne avrebbe potuto raccogliere i frutti.
Il
libro che Giulia aveva iniziato a leggere giacque sulla poltrona, del
tutto
abbandonato.
***
Quando,
la mattina dopo, Giulia aprì gli occhi, non
riuscì a comprendere come potesse
trovarsi nel morbido e accogliente giaciglio della sua camera da letto.
Non si
era infatti addormentata sopra una poltrona, in una stanza lontana e di
cui non
rammentava nemmeno l’ubicazione? Stropicciandosi gli occhi
ancora assonnati, la
giovane si alzò, raggiungendo a tentoni la poltrona nella
quale giaceva la sua
vestaglia da camera e avvolgendovisi dentro. Ora poteva anche
arrischiarsi a raggiungere
il suo Maestro per il pasto mattutino che, solitamente, consumavano
insieme.
Tuttavia,
quando raggiunse l’ampio salone – certa di trovarvi
l’uomo ad attenderla – rimase
delusa nell’accorgersi di essere sola. Ma là, sul
tavolo della colazione,
peraltro già pronta per lei, non trovò che la
compagnia di una gelida e piccola
nota lasciata dal suo Maestro. Si sedette, prendendola tra le mani e
dispiegando il foglio: l’inchiostro rosso con cui era stata
scritta e la
calligrafia curata ma spigolosa erano un suo marchio esclusivo.
Mademoiselle
Sanders,
vi chiedo perdono
di non essere lì, con voi, ad attendere che vi svegliate.
Alcuni affari mi
reclamano, perciò starò via per qualche ora.
Ciò non mi ha comunque impedito di
occuparmi del vostro sostentamento – spero che la colazione
vi sia gradita come
sempre.
Dopo che avrete
provveduto alla vostra toilette, vi esorto a prepararvi e a sistemare i
vostri
oggetti: sarete lieta di sapere che i quindici giorni sono trascorsi e che il soggiorno nella mia
dimora si è
concluso. Da questo momento in poi riprenderemo le nostre solite
lezioni.
Quando sarò di
ritorno gradirei trovarvi già pronta.
Il vostro umile
servo.
La
nota non era stata firmata. Già, d’altra parte
come avrebbe dovuto concludere
quella piccola missiva? Giulia non conosceva il suo nome, sempre
supposto che
ne avesse uno al di là del titolo con cui ella gli si
rivolgeva – non poteva di
certo segnarsi come Maestro.
Con
un sospiro, la ragazza posò la nota accanto a sé
e si versò il thè che, ancora
caldo, sembrava attendere lei. Stranamente non riusciva ad essere
allegra del
fatto di poter tornare nuovamente in superficie, qualcosa le suggeriva
che non
sarebbe stata una liberazione essere privata della sua presenza. Certo,
all’inizio non aveva desiderato che questo, ma ora? Inoltre i
toni della
lettera erano stranamente freddi
nei
suoi confronti, come se qualcosa si fosse spezzato. Ma per quale
motivo? La
notte prima non erano forse stati bene come le altre sere trascorse
insieme?
Che cosa poteva essere cambiato?
Forse
il suo Maestro non aveva gradito la passeggiata notturna della ragazza
– forse
si era arrabbiato per il suo curiosare non autorizzato: non aveva dubbi
che
fosse stato lui a riportarla nella sua stanza, chi altri se no?, ma
evidentemente doveva aver fatto qualcosa che egli aveva giudicato
inopportuno.
Ma cosa? Più ci pensava e meno riusciva a comprenderlo.
L’unica soluzione
sarebbe stata attendere il suo ritorno e provare a domandarglielo di
persona.
Giulia
si era ormai preparata di tutto punto quando Erik giunse finalmente
alla dimora
sul lago: l’uomo la trovò seduta su un divanetto,
impeccabilmente vestita, che
sfogliava gli spartiti ch’egli le aveva lasciato per potersi
esercitare anche
da sola. Remò velocemente fino a raggiungere il piccolo molo
e lì saltare a
terra, ancorando l’elegante gondola con una fune che fece
passare intorno ad un
anello in ferro. Si accorse che la fanciulla aveva notato la sua
presenza ma
non si scompose, assumendo un’espressione fredda e
impassibile. Doveva mettere
una nuova e prudente distanza tra di loro, e avrebbe dovuto farlo a
partire da
subito.
«Buongiorno,
Maestro.» Lo salutò educatamente la ragazza,
alzandosi mentre lui la raggiungeva.
Egli
si limitò ad un breve cenno col capo, prima di rivolgerle la
parola. «Perfetto,
siete già pronta. In tal caso è meglio sbrigarci
a tornare in teatro, bisogna
approfittarne adesso che non è ancora aperto al
pubblico.»
Ma
Giulia non lo stava ascoltando. La sua attenzione era stata
completamente
catturata da uno strano oggetto che non aveva mai avuto modo di
vedergli
addosso – una mezza maschera bianca, lucida, che gli
ricopriva la parte destra
del volto, quella martoriata. Avrebbe voluto allungare una mano e
sfiorarla,
sorpresa ed incuriosita, ma quella nuova tensione che sembrava
aleggiare tra
loro glielo impedì.
«Perché
indossate questa maschera?» Mormorò, dispiaciuta.
Dunque era finito anche il
tempo della fiducia che sembrava averle accordato? Perché
tutto d’un tratto si
rifiutava di mostrarsi a lei così come realmente era?
Inoltre,
la risposta dell’uomo la ferì come non credeva
sarebbe stato possibile. «La
vostra punizione è terminata, mademoiselle, non ha
più senso tormentarvi con questo
orrore.»
«Oh.»
Era per questo motivo, dunque. Non perché si fidava di lei
al punto di mettere
a nudo la sua anima e i suoi più oscuri segreti, ma
semplicemente perché il suo
aspetto – tanto mostruoso – faceva solo parte del
castigo che aveva
architettato per punirla delle sue mancanze… Non disse
un’altra parola,
limitandosi ad abbassare lo sguardo e prendere gli spartiti che il
Maestro le
aveva lasciato a disposizione. «Sono pronta ad
andare.» Disse soltanto,
cercando di non mostrarsi troppo delusa.
Come
se non bastasse, l’uomo le volse le spalle. «Bene,
seguitemi. E cercate di
starmi al passo, i corridoi che stiamo per attraversare sono pericolosi
e pieni
di trappole.»
«Certo,
monsieur.»
Attraversarono
quasi tutti i sotterranei in completo silenzio. Il ticchettio dei loro
passi
sul pavimento era l’unico rumore che sembrava scacciare i
topi e scoraggiarli
dall’avvicinarsi, unito al suono delle gocce
d’acqua di umidità che scivolavano
sul pavimento di pietra. Già dopo aver svoltato due angoli,
Giulia comprese che,
da sola, si sarebbe inevitabilmente persa – come la leggenda
del giovane Teseo
nel labirinto del Minotauro. Sarebbe stato impossibile per qualsiasi
umano
percorrere quelle gallerie senza l’aiuto di qualcuno che le
conoscesse come le
proprie tasche, come peraltro sembrava fare il Maestro. Tuttavia,
quando
raggiunsero delle scalinate da dover ascendere, Giulia ebbe la strana
impressione di conoscere quel
luogo,
come se ci fosse già stata – in chissà
quale vita. Si guardò intorno,
incuriosita, come se da qualche parte potesse esserci un segno, magari
proprio
quello del suo passaggio, che le avrebbe fatto rammentare ogni cosa. Ma
ciò non
accadde, e lei dovette accontentarsi della breve impressione che quel
luogo le
aveva causato.
Sollevò
lo sguardo sull’uomo che, avanzando davanti a lei, non si era
degnato di
rivolgerle la parola per tutto il tragitto, voltandosi solo quando
alcuni
corridoi erano dissestati per poterle dare una mano. Si
ritrovò così a
studiarlo attentamente, prestandogli, forse per la prima volta,
quell’attenzione che le giovani donne rivolgono ai giovanotti
più avvenenti –
guardandolo non come il suo maestro, ma come un semplice uomo.
Le
sue spalle ampie e la schiena larga le suggerivano un sentimento di
protezione:
si accorse per un momento di desiderare che quelle braccia
l’avvolgessero e
l’attirassero verso il loro rifugio – quale sciocca
fantasia! Per fortuna il
lungo mantello che indossava smorzava quelle brame inopportune,
facendola
arrossire e abbassare lo sguardo per evitare che indugiasse ancora su
di esse.
Eppure continuava a pensare che non le sarebbe per niente dispiaciuto
essere
stretta da lui…
Era
così immersa nei suoi pensieri che quasi non si accorse che
l’uomo si era
fermato – e ci mancò poco che gli rovinasse
addosso. Si fermò a sua volta,
intuendo che la lunga passeggiata doveva essere giunta al suo termine.
Quando
il suo Maestro si voltò nuovamente verso di lei comprese di
non essersi
sbagliata.
«Siamo
arrivati, mademoiselle.» Annunciò, parlando
stranamente a bassa voce. «Io non
posso accompagnarvi oltre, ma questa porta segreta si affaccia di
fronte alle
scalinate del foyer. Non avete che da salirle per poi ritrovarvi
nell’ingresso
del teatro, avete compreso?»
Giulia
annuì, rimanendo ad osservarlo mentre pigiava un meccanismo
nella parete che
fece ruotare magicamente una parte della parete su sé
stessa. Egli si fece poi
da parte, invitandola silenziosamente a passare. «Siete
pregata di non fare
parola con nessuno di ciò che avete visto nei miei
domini.» L’ammonì, con un
tono di voce improvvisamente glaciale.
«Non
credo di aver mai tradito la vostra fiducia, monsieur.»
Replicò lei, piuttosto
offesa e infastidita da quel suo nuovo comportamento.
Egli
non rispose all’allusione, dato che non aveva tempo
né intenzione di litigare
con lei. «Domani sera alle quattro alla cappella,
mademoiselle. Vedete di non
mancare.» Disse invece, senza guardarla.
La
ragazza comprese di essere stata definitivamente congedata e, senza
più
rivolgergli un solo sguardo e senza salutarlo, lo superò ed
uscì dal passaggio.
Il rumore della parete che ruotava sui cardini e si richiudeva dietro
le sue
spalle la fece sobbalzare, e senza più resistere si
voltò verso di essa. Il
muro non sembrava essersi mosso, e dell’uomo non vi era
più alcuna traccia.
Senza
attendere oltre, si diresse velocemente verso le scuderie, decidendo
che
sarebbe stato più prudente uscire da una porta secondaria.
Dopotutto era sparita
per quindici lunghi giorni, e di certo non voleva sorbirsi le mille
domande di
ballerine e coriste incuriosite. Tutto ciò che voleva adesso
era tornare a casa
e riposarsi.
***
Era
ormai pomeriggio inoltrato. Per quel giorno Erik aveva voluto esonerare
la sua
allieva dalla loro abituale lezione, in modo che la giovane potesse
riprendersi
ma, soprattutto, per concedere a lui la possibilità di
sbollire e riprendere il
controllo e la padronanza di sé. Era stato già
abbastanza difficile percorrere
tutti i sotterranei sentendo il suo sguardo insistente sulla schiena, e
sapendo
di non poter fare nulla di azzardato come afferrarla e sentire il suo
profumo
su di sé. Ma che cosa gli stava succedendo? Poteva essere
semplice lussuria
quel sentimento cieco che gli stava facendo perdere la ragione?
Innervosito
si alzò in piedi, dirigendosi verso la finestra e scostando
la tenda per
distrarsi con il paesaggio all’esterno. Oh, aveva iniziato a
piovere: le gocce
d’acqua picchiavano con forza sul vetro della finestra,
impedendogli di avere
una chiara visione di ciò che accadeva in strada. Il cielo
era già
completamente scuro, e qua e là si intravedevano le luci dei
lampioni a gas.
Avrebbe voluto aprire le imposte e affacciarsi per poter sentire
l’acqua
scorrere sul suo viso, ma sapeva che un simile refrigerio gli era
negato: era
pur sempre il direttore artistico dell’Opèra
Garnie, e non poteva concedersi
tali infantilismi.
Improvvisamente,
senza ch’egli attendesse nessuno, qualcuno bussò
con insistenza alla porta del
suo ufficio. Cercando di mascherare il fastidio invitò
l’intruso ad entrare,
inarcando un sopracciglio nel notare che si trattava del suo
segretario,
monsieur Bamdad.
«Monsieur,
perdonate il disturbo ma avete visite.» Annunciò
il giovane persiano, con uno
sguardo in volto che non fece presagire nulla di buono.
«Visite?
Non aspettavo nessuno.» Ribattè, infilando con
disinvoltura una mano nella
tasca dei calzoni.
Monsieur
Bamdad annuì, ma il suo voltò si fece se
possibile ancor più cupo. «Lo so,
monsieur. Ma si tratta di qualcuno che desidera vedervi subito, e mi ha
fatto
capire chiaramente che non se ne andrà senza che prima
l’abbiate ricevuto.»
«Di
chi si tratta?» Insistè Erik, iniziando ad intuire
chi potesse trovarsi
dall’altro lato della porta.
Il
persiano sembrò esitare, ma fu solo un istante.
«È il Duca de Blanchard,
monsieur.»
Erik
strinse gli occhi, neppure tanto sorpreso da quella notizia. In
realtà, si
aspettava una cosa simile già da quando il duca era arrivato
a Parigi, ormai
quasi due mesi prima: in effetti, non credeva che avrebbe aspettato
così tanto
prima di andare da lui.
«Oh,
perfetto, proprio colui che stavo aspettando.»
Mormorò, gli angoli delle labbra
che si stendevano in un pallido sorriso. «Che cosa aspettate,
Bamdad? Coraggio,
fatelo entrare.»
«Come
desiderate.» Uscì dall’ufficio,
richiudendo la porta dietro di sé.
L’uomo
mascherato non si mosse dalla sua posizione, attendendo pazientemente
che il
suo segretario facesse entrare l’ospite tanto desiderato.
Aveva intenzione di
farsi trovare del tutto preparato e a suo agio per
quell’incontro, e grazie
alle sue numerose esperienze sapeva come comportarsi. Quando la porta
si
riaprì, rivelando la figura un tempo imponente di un anziano
nobiluomo, che si
reggeva pesantemente sul bastone da passeggio, Erik non potè
fare a meno di
ghignare.
«Finalmente
ci incontriamo, monsieur Lescroart.»
_____________________________________________________________________________________________________
AA - Angolo Autrice:
Ed eccomi ritornata -
reduce da una meritata vacanza ù.ù Ho scritto
questo capitolo prima di partire ma non volevo pubblicarlo ancora,
perchè era da rivedere... Spero sia di vostro gradimento,
anche se non accade nulla di particolare -.-'' Ma nel prossimo,
finalmente, scopriremo chi è questo benedetto Duca! *O*
Muoio dal caldo,
quindi non mi dilungo in ringraziamenti - sappiate che vi adoro per
tutto quello che mi scrivete, sono davvero felice che vi piaccia la mia
storia e il mio modo di scrivere =) Grazie mille a Kenjina,
sydney Bristow, Yunie992 e Keyra93
-
spero che, malgrado le varie disavventure, abbiate passato delle belle
vacanze! ^^ Non finirò mai di ringraziarvi per il vostro
sostegno!
Un bacione e un
abbraccio, al prossimo capitolo - che arriverà presto in
quanto è quasi del tutto scritto *_*
E, per fare una
piccola citazione,
Je suis, messieurs, votre
humble serviteur.
GiulyRedRose
=*
|
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Capitolo 20 *** 18. Dove diverse identità vengono rivelate ***
Chapitre
18
Dove
diverse
identità vengono rivelate
«Mi
chiedevo quando avreste trovato il coraggio di venire da me.»
Esordì,
facendogli cenno con una mano di entrare nell’ufficio. Il
nobiluomo obbedì,
richiudendo l’uscio e avvicinandosi ad una poltrona senza mai
distogliere lo
sguardo dal volto dell’essere mascherato ritto innanzi a lui.
«Siete
esattamente come mi immaginavo, Erik. Avete gli stessi occhi di vostra
madre.»
Fu la prima cosa che disse, mentre piegava leggermente il capo da un
lato come
se avesse voluto meglio studiare l’aspetto del giovane.
Il
Fantasma non potè fare a meno di trattenere una secca
risata. «Non riesco a
crederci! Questo è tutto ciò che avete da dire?
Mi cercate da quasi dieci anni
e la prima cosa che fate è trovare delle somiglianze tra me
e quella
disgraziata?»
Gli
occhi del duca si strinsero allo stesso modo di quelli di Erik, come se
a
stento stesse trattenendo la furia. «Dunque sapevate che vi
stavo cercando.
Eppure non vi siete mai fatto vivo, per quale motivo?»
Erik
non rispose subito. Si diresse con calma al mobile nel quale conservava
i suoi
liquori, prendendo due bicchieri e una bottiglia piena.
«Gradite un bicchiere
di Armagnac?» Domandò, ostentando gentilezza.
Il
duca non si fece ammaliare. «Non sono venuto fin qui per
bere, dovreste
saperlo.» Sibilò.
«Peccato.
Avremmo potuto celebrare come si deve questo gradito
incontro…» Ironizzò,
riempiendosi il bicchiere fino all’orlo e mettendo nuovamente
il tappo alla
bottiglia. «Alla vostra salute.»
«Non
avete risposto alla mia domanda.» Ribadì
l’altro, gelidamente. Non tollerava
che qualcuno si prendesse gioco di lui così apertamente. Era
un affronto al suo
titolo e alla sua ambita posizione.
«Io
e voi non abbiamo mai avuto nulla da spartire,
monsieur.» Rispose Erik col
medesimo tono. «Quando ho saputo che mi stavate cercando vi
ho lasciato fare,
ma sappiate che avrei benissimo potuto… persuadervi…
a lasciar perdere. Invece ho voluto vedere fin dove vi sareste spinto,
e alla
fine mi devo congratulare con voi – mi avete trovato. Sono
pochi quelli che
possono vantarsi di tanto successo.»
Sorseggiò
un altro po’ della sua acquavite, poi proseguì.
«Ma vi prego, permettetemi una
curiosità.» Disse, giocherellando con lo stelo del
bicchiere. «Tutta questa
strada, tutti questi sforzi… Per che cosa? Per vedere con i
vostri occhi quanto
somiglio a quella povera donna di mia madre?»
«Quando
avrete finito di fare del sarcasmo, allora forse vi darò una
risposta.» Sibilò
a denti stretti, stringendo con forza il pomo del suo bastone.
Il
sorriso beffardo di Erik accentuò la sua irritazione, ma
finse di non vederlo.
«In tal caso, vi domando scusa per le mie scarse buone
maniere. Vi prego,
accomodatevi.» Disse, facendogli cenno di sedersi.
Per
quanto avesse desiderato di rimanere in piedi e cercare di sovrastarlo
con la
sua mole psicologica, il duca fu costretto a cedere per via del suo
fisico
provato. Si sedette, mettendosi comodo per cercare di sembrare
perfettamente a
suo agio quasi quanto lo era il suo ospite.
«Sono
venuto qui per discutere unicamente di affari, e mi auguro di aver
trovato in
voi un valido alleato.» Rispose, cercando di ignorare il modo
che Erik aveva di
osservarlo – sembrava quasi di vedere il proprio riflesso ad
uno specchio, solo
più giovane.
«Affari,
dite?» Ribattè l’uomo, sedendosi a sua
volta. «Avete tutta la mia attenzione.
Per favore, andate avanti.»
A
sentire quel tono pacato e distaccato, l’anziano duca si
spazientì. «Suvvia,
Erik! Non stancatemi con questo vostro atteggiamento! Sapete
perfettamente chi
sono e soprattutto cosa voglio da voi.»
Gli
occhi di brace di Erik si strinsero nuovamente, mentre afferrava con
forza il
bicchiere come se avesse voluto spaccarlo con la mera pressione della
sua mano.
«Ma certo che so chi
siete, monsieur!
Tuttavia voglio che abbiate il coraggio di dirmelo chiaramente in
faccia, da
uomo a uomo.» Poi, come ripensandoci, aggiunse, velenoso:
«Non vi chiederò come
siate venuto a conoscenza del mio nome, anche se ne sono alquanto
curioso dato
che praticamente nessuno lo conosce.»
Allora
fu la volta del duca di sorridere, con sadica voluttà.
«Oh, Erik, ogni padre
conosce il nome del proprio figlio.»
Il
bicchiere vuoto venne sbattuto violentemente sul pesante legno della
scrivania,
facendo tremare le stilografiche e le boccette d’inchiostro
che vi erano
disposte sopra. De Blanchard non sussultò, dimostrando una
padronanza di sé
maggiore rispetto a quella dell’impulsivo direttore, ma al
contrario il suo
sorriso si allargò se possibile ancora di più.
«Bene, sembra che abbiate
finalmente compreso la portata dell’affare che voglio
proporvi.»
Erik
alzò furioso gli occhi su di lui, cercando mentalmente un
buon motivo per non
aggredirlo. «Dunque vi siete svelato, alla fine. Sapevo che i
miei sospetti
erano fondati.» Mormorò, stringendo i pugni.
«Lo
sospettavate? Oh, immaginavo. Il vostro genio dev’essere
più superbo di quello
che dicono.» Disse, con marcata derisione. «E
adesso che tutte le carte sono
state scoperte, sono io a chiedervi di mettervi comodo e di ascoltare
ciò che
ho da dire.» Aggiunse, sentendosi nuovamente padrone della
situazione.
Erik
si sedette a sua volta, giungendo le mani davanti al volto e
guardandolo con
ira. «Vi ascolto.»
«La
faccenda è molto più semplice di quello che
sembra. La duchessa de Blanchard è
morta quattordici anni fa a causa della tubercolosi, lasciandomi senza
neanche
un figlio. Come di certo saprete, se l’ultimo erede di un
casato nobiliare non
ha nessuno cui lasciare il suo nome e le sue ricchezze, esse verranno
assorbite
dalla Repubblica, che le userà per i suoi scopi…
Immaginate, secoli di sangue
blu, di lotte per il potere, di tesori accumulati che si disperdono nel
vento
come se non fossero mai esistite.» La sua voce si
indurì al solo pensiero, e il
suo sguardo si perse verso un punto indefinito. «Io sono
vecchio, la mia vita è
quasi giunta al termine e non ho nessun erede legittimo. Sposarsi
nuovamente è
fuori discussione, non voglio assumermi una simile
responsabilità alla mia età.
Ed è qui, Erik, che entrate in gioco voi.»
Riportò
nuovamente gli occhi sul Fantasma, sperando ch’egli dicesse
qualcosa che gli
facesse intendere che aveva compreso – e soprattutto che
apprezzava – l’idea
che gli stava frullando in testa. Ma monsieur Destler rimase
ostinatamente in
silenzio, sostenendo il suo sguardo senza battere ciglio per invitarlo
in una
muta sfida a concludere il suo discorso.
Con
un breve sospiro, il duca si accinse a continuare. «Voi siete
mio figlio, Erik.
Siete il frutto di una relazione clandestina che io ebbi in
gioventù con una
bellissima contadina di nome Madeleine Cochois, e pertanto il mio
sangue scorre
nelle vostre vene. Ancora non capite? Siete voi il mio erede! Questo
è l’affare
che vi propongo: alla mia morte, voi erediterete tutti i miei
possedimenti e un
titolo che vi spetta di diritto, con l’unica clausola di
poter perpetuare il
nome di questo casato ancora per lungo tempo.»
L’anziano
duca tacque, in attesa che il figlio che aveva appena ritrovato lo
ringraziasse
per l’enorme opportunità che gli stava offrendo
– non si aspettava né
desiderava alcuna manifestazione d’affetto, dato che si
trattava di una mera
contrattazione d’affari e non di una piacevole riunione
familiare.
Ma
dal gelido Fantasma dell’Opera non ebbe nulla di tutto questo.
«Che
cosa vi fa pensare che io voglia accettare tutto questo?»
Sibilò infatti
quest’ultimo, stringendo gli occhi. «La sola
risposta che avrete da me è no,
nel modo più assoluto.»
«Voi
non capite cosa vi sto offrendo!» Esclamò allora
il duca, sconvolto, sbattendo
il bastone sul pavimento.
Erik
non si lasciò turbare dalla sua reazione. «Au
contraire, lo comprendo perfettamente.»
Ribattè, ostentando tranquillità
per celare la rabbia. «Ma ciò non mi obbliga ad
accettare la vostra offerta.
Per un semplice e misero dettaglio, monsieur, al di là del
fatto che non ho
nessun interesse nell’aiutarvi, e cioè che io
verrei meno alla mia parte
dell’accordo: vedete, non credo che sarò in grado
di perpetuare il vostro nome,
e il vostro prezioso casato cesserà comunque di esistere
insieme a me.»
Negli
occhi del nobiluomo passò un guizzo malizioso che a Erik non
piacque per
niente. «Mi state dicendo che quella deliziosa cantante,
mademoiselle Sanders
se non erro, non è la vostra promessa?»
«Come
diavolo…?» Sbottò il Fantasma, prima di
essere nuovamente interrotto.
«Come
faccio a saperlo?» Disse con un ghigno, concludendo per lui
la domanda. «Voi
credevate forse di avermi tenuto sotto controllo per tutto questo
tempo, ma in
realtà anch’io ho fatto lo stesso con voi. Dovevo
pur conoscere il mio erede.»
«Vi
ho già detto che io non sarò il vostro
erede.» Ringhiò Erik, stringendo i pugni
talmente tanto forte che le nocche sbiancarono.
Il
sorriso di monsieur de Lescroart divenne più tangibile.
«Non mi avete risposto,
comunque. Mademoiselle Sanders è o no la vostra
fidanzata?»
«Tutto
ciò non ha nulla a che vedere con voi.»
Replicò, piuttosto irritato. «Ad ogni
modo, mademoiselle non è nulla di tutto questo. Lei
è soltanto la mia allieva,
sono stato io ad istruirla nel canto.»
L’altro
annuì, compiaciuto. «E avete fatto un ottimo
lavoro. La sua voce è celestiale.»
«Se
pensate che questa conversazione possa portarvi da qualche parte,
monsieur,
allora vi state sbagliando.» Ci tenne a precisare,
guardandolo dritto negli
occhi di un azzurro glaciale. «Vi ho già detto
tutto quello che volevate: da me
non otterrete altro.»
Le
dita sottili del duca si strinsero maggiormente attorno al pomo del suo
bastone
da passeggio. «Se posso permettermi, Erik, vi consiglio di
fare in modo che
questa non sia la vostra ultima parola.»
Se
c’era una cosa che il Fantasma dell’Opera non
tollerava, erano le minacce
rivolte alla sua persona o a coloro che gli appartenevano. Pertanto, le
ultime
e taglienti parole del duca non fecero che alimentare ancora di
più la sua
furia e la sua indignazione, e se avesse potuto avrebbe accarezzato
l’idea di
mettere a tacere quel vecchio pazzo con il suo fidato laccio del Punjab.
«A
voi, che avete l’ardire di minacciare me,
voglio consigliare di non sottovalutare troppo la mia intelligenza
– non avete
nessuna idea di quello che sono capace di fare.»
Sibilò, guardandolo sempre
dritto negli occhi come si fa in un duello, quando non si abbassa lo
sguardo
per timore che l’avversario possa colpire a tradimento.
«Potrei lasciarvi in
vita abbastanza a lungo per uscire dal mio
teatro, ma non per cercarvi un altro erede. Perciò, badate
bene al tono che
usate per rivolgervi a me.»
Sulle
labbra dell’anziano duca passò un ghigno sardonico
e derisorio. «In un’altra
situazione vi avrei fatto frustare per il tono irrispettoso che state
usando
nei confronti di vostro padre.»
Tutte
quelle insinuazioni sul loro – a suo avviso –
inesistente legame di sangue non
facevano che innervosirlo sempre di più. «Credo di
avervi già fatto capire che
io non mi considero vostro figlio.»
«Oh,
voi potete pensare ciò che più vi
aggrada», replicò, per nulla impressionato.
«Ma
ciò non cambia la realtà, e il fatto che il mio
sangue, volente o nolente,
scorre anche nelle vostre vene. Dunque, perché non sfruttare
questa situazione
a vantaggio di entrambi?»
«Ciò
che forse voi vi ostinate a non voler capire è che io non ho
alcun bisogno dei
vostri soldi.» Ribattè Erik, compiaciuto per la
prima volta in quella serata. «Possiedo
un patrimonio che mi consentirebbe di vivere negli agi tanto e
più di voi, e
senza nessuno degli obblighi che il vostro rango potrebbe impormi. Per
quale
motivo dovrei abbandonare una simile posizione per accettarne una che
non
sarebbe in alcun modo vantaggiosa, per me?»
«La
fama e la reputazione non sono forse motivi sufficienti?»
Proruppe il duca,
riuscendo a stento a controllare l’ira che sembrava essere
passata da Erik a
lui in un battito di ciglia. «Inoltre, devo ricordarvi che a
Parigi esiste
ancora una taglia sulla vostra testa, Fantasma?»
«Non
osate servirvi di appellativi che non comprendete!»
Ringhiò Erik, sbattendo un
pugno sulla sua scrivania di duro mogano. Sentire quella parola sulle sue labbra era stata la classica goccia
che fa traboccare il vaso.
«Oh,
credevate che non ne fossi a conoscenza? Che illuso.» Lo
derise de Blanchard,
con un luccichio nello sguardo. «Come vi ho già
detto, Erik, conosco ogni cosa
di voi, so cosa avete fatto e dove siete stato negli ultimi nove anni.
Per un
momento ho temuto di dover coinvolgere anche i De Chagny in questa
faccenda, ma
noto con piacere che essi non hanno più nulla a che vedere
con voi. Il vostro
unico interesse sembra essere quello nei confronti di mademoiselle
Sanders, e
credetemi quando vi dico che non mi farò scrupoli ad
utilizzarlo a mio
vantaggio.»
«Vi
ho dedicato anche troppo del mio tempo.» Sibilò
l’altro, stringendo con forza i
pugni. «Non ho più voglia di ascoltare le vostre
vuote provocazioni. Se questo
è tutto ciò che avevate da dirmi, adesso siete
libero di andare. E spero mi
farete il piacere di non apparire più in mia
presenza.»
Il
duca si mise in piedi, reggendosi sul suo bastone ma mantenendo una
compostezza
rigida e regale che compensavano i suoi difetti fisici dovuti
all’età avanzata.
«State commettendo un grosso errore, Erik.» Lo
ammonì, stringendo gli occhi
grigi come la lama di un coltello e altrettanto pericolosi.
«Ricordate, io non
sono uno che si arrende al primo ostacolo: e dovreste saperlo, visto
che io e
voi siamo fatti della stessa tempra.»
«Probabilmente
questa è l’unica cosa che abbiamo in comune,
monsieur.» Ringhiò Erik, alzandosi
a sua volta e compiacendosi, in cuor suo, di sovrastare il vecchio
nobile in
altezza.
«Ricordate
che siete stato avvertito.» Insistè, prima di
indossare il cilindro e
sistemarsi la giacca. «Non disturbatevi ad accompagnarmi; so
perfettamente dove
si trova l’uscita. A presto, mio caro.»
Erik
lo osservò dirigersi alla porta del suo ufficio, aprirla e
richiuderla alle sue
spalle con un tonfo secco. Solo allora le sue spalle si rilassarono e
l’uomo si
abbandonò sulla sua sedia, versandosi un altro bicchiere
della sua acquavite.
«Addio,
De Blanchard.» Sussurrò, prima di berlo tutto
d’un fiato.
***
Quando
Giulia raggiunse l’abitazione di madame Giry era ormai
completamente fradicia a
causa della pioggia che non si era risparmiata neppure per un istante:
piuttosto
scioccamente non aveva neppure pensato a prendere un ombrello,
così il mantello
le gravava addosso zuppo di acqua. Afferrò il batacchio
sulla porta e bussò con
forza, sperando di attirare subito l’attenzione degli
abitanti della casa prima
che l’acqua le penetrasse fin dentro le ossa. Fu Meg stessa
ad aprirle, e la
giovane ballerina sussultò dal sollievo nel vedersi di
fronte l’amica.
«Oh,
mon Dieu! Giulia!»
Esclamò,
portandosi le mani alla bocca. Cercando di trattenere le lacrime la
prese poi
per un polso, attirandola velocemente dentro casa; si
affacciò sulla soglia per
dare un’occhiata alla strada come se avesse voluto accertarsi
che nessuno
l’avesse seguita, e dopo aver appurato che la via era del
tutto vuota richiuse
il portone dietro di sé. Si voltò verso
l’amica, prendendole il mantello
fradicio.
«Non
hai idea di quello che ho passato in queste settimane nel saperti
con… Oh, Dio,
se solo avessi potuto sarei corsa io stessa a portarti via, ma non
potevo,
Giulia, capisci? Non potevo! Mi è stato tassativamente
vietato di fare
qualsiasi cosa, e… In nome del Cielo, sei completamente
bagnata! Vieni, ti do
dei vestiti asciutti.» Non le diede quasi il tempo di
parlare, mentre la
trascinava al piano superiore non prima di aver chiesto alla cara
Agnese di
preparare un thè bollente per lei, che sembrava averne tanto
bisogno.
«Meg,
vuoi dire che tu sapevi dov’ero?»
Domandò alla fine, una volta al sicuro nella
loro stanza.
La
giovane Giry distolse lo sguardo, aprendo l’armadio e
perdendo tempo nella
scelta di un abito da casa adatto all’amica. Ma quando si
voltò nuovamente
verso di lei, l’espressione grave che dipingeva il suo viso,
solitamente
spensierato, fece comprendere a Giulia che presto avrebbe saputo
qualcosa di
più.
«Purtroppo
sì, ma chère,
lo sapevo. Lo sapevamo
tutti, mia madre per prima.» Esordì, parlando a
bassa voce. «Ma siamo state
costrette a non immischiarci in questa faccenda, per quanto mi
uccidesse
saperti nelle sue mani.»
«Dunque,
lo conoscete…» Mormorò
l’altra, tormentandosi le dita. Continuava a capirne
sempre meno, la soluzione di quell’enigma sembrava volerle
sfuggire in eterno.
«E perché, Meg… Perché non
me l’hai mai rivelato?»
Meg
sospirò, disperata. «Te l’ho detto, chèrie,
non potevo!» Si avvicinò a lei ed
iniziò a sbottonarle il corpetto bagnato,
gettandolo su di una poltrona e passando poi a slacciarle la gonna.
«Ce l’ha
impedito. Voleva essere lui a rivelarsi a te per primo, e…
credo che ci avrebbe
fatto del male, se non avessimo obbedito ai suoi ordini.»
Giulia
scosse la testa, incredula, sfilandosi la gonna e l’ampia
sottoveste. «No, non
è possibile… Il mio Maestro non potrebbe farvi
del male…» Balbettò, cercando di
convincersi.
Lo
sguardo della giovane Giry, piuttosto scettico, interruppe le deboli
scuse che
Giulia sembrava voler ad ogni costo trovare per giustificare il
comportamento
dell’uomo – aveva cessato da tempo di pensare a lui
come ad un’entità
incorporea proveniente dagli abissi infernali – che
l’aveva presa sotto le sue
ali. Aiutando l’amica ad asciugarsi con un ampio telo,
quindi, Meg riprese il
suo discorso, decidendo che avrebbe detto a Giulia tutto ciò
ch’ella aveva
bisogno di sapere.
«Ti
ricordi quello che ha raccontato Corinne, la notte che… che
sei scomparsa?»
Esordì, parlando istintivamente a bassa voce;
benchè non si trovassero tra le
mura del teatro, dove potevano essere spiate in qualsiasi luogo, le
abitudini
di discrezione erano dure da abbandonare.
Giulia
scosse la testa, frizionandosi i capelli. Meg proseguì.
«Ha
raccontato di essere stata aggredita dal Fantasma dell’Opera.
Rammenti che ne
abbiamo parlato, vero?» Domandò, e ad un cenno
affermativo dell’amica andò
avanti. «So che forse stenterai a crederci, ma questo fantasma esiste… E non
è altri che il tuo Maestro.»
A
quelle parole, improvvise come un getto d’acqua gelata,
Giulia si voltò di
scatto, fissando la Giry con uno sguardo a metà tra
l’incredulo e il
terrorizzato. «Stai scherzando, Meg?»
Mormorò, cercando nella sua espressione
qualcosa che le desse un altro tipo di risposta. «Le tue
amiche hanno parlato
del Fantasma come di un essere malvagio che si prende gioco di chi
è inferiore
a lui e che tenta di abusare di giovani ragazze sole! Il mio Maestro
non è
nulla di tutto questo!»
«E
tu come fai a saperlo, eh? Te l’ha detto lui?»
Sibilò Meg, afferrando l’amica per le spalle.
«Non puoi essere così ingenua da
credere a tutto ciò che esce dalla sua bocca! Ha incantato
anche te con la sua
musica, non è così? E ora pensi di conoscerlo, lo
difendi addirittura! Ti ha
solo mentito, Giulia, possibile che tu non lo capisca? Non sei curiosa
di
sapere cosa nasconde sotto la sua maschera? Io lo so, e ti assicuro che
non
potresti neanche immaginare l’orrore che vi è al
di sotto!»
Ma
Giulia si liberò da quella stretta, allontanandosi di
qualche passo dalla
ballerina. «Io so perfettamente com’è il
suo volto.» Ammise sottovoce,
tristemente. «E non ti chiederò come tu faccia a
saperlo. Ma visto che ne sei a
conoscenza, allora devo dire di essere molto delusa dal tuo
comportamento: non
credevo che fossi una di quelle altezzose fanciulle che giudicano
qualcuno solo
in base al loro aspetto!»
Ignorando
poi lo sguardo sorpreso di Meg, continuò con il suo sfogo.
«Lui può anche
avermi mentito sul fatto di essere o meno il Fantasma
dell’Opera, sempre che
una cosa simile sia vera, ma di certo è stato sincero fin da
subito sul fatto
di chi fosse, per me, e di come avesse intenzione di aiutarmi. Non come
voi,
Meg!» Aggiunse, trattenendo le lacrime. «Se
c’è qualcuno che mi ha mentito,
porta solo il nome di Giry! Voi avete sempre saputo il nome del guaio
in cui mi
stavo cacciando, ma non avete mai, mai!,
fatto nulla per impedirmelo. E adesso dovrei crederti quando dici che
di lui
non ci si può fidare? Non osare, Meg, non osare mai
più dirmi una cosa simile!»
Meg
era rimasta letteralmente senza parole. Indubbiamente non si aspettava
una
reazione simile da parte dell’amica: che fosse soggiogata da
lui non v’erano
dubbi, certo, ma da qui a proteggerlo anche quando si trovava al sicuro
dalla sua vista, come se fosse
effettivamente
convinta di ciò che stava dicendo… No, non poteva
comprenderla. Il Fantasma
dell’Opera era un assassino, questo era un semplice dato di
fatto: ma Giulia
non conosceva quella vicenda, d’altra parte, e forse, se
l’avesse saputa…
Magari poteva aprirle gli occhi e convincerla a non fidarsi
più di lui. Le
faceva male sapere che l’amica la considerava una traditrice
e una bugiarda, ma
purtroppo le sue parole erano vere. Se le avesse raccontato tutto dal
principio, adesso non sarebbero arrivate a tanto. Perciò,
con uno sguardo
addolorato e un leggero tremito delle mani, Meg andò a
sedersi sul bordo del
letto, invitando Giulia a fare altrettanto.
«Voglio
raccontarti ogni cosa riguardante la vicenda del Fantasma
dell’Opera, ma chère.»
Esordì piano, guardandola
seriamente negli occhi. «Quando sarai a conoscenza di tutto
quanto, allora potrai
giudicare tu stessa. Non voglio che mi consideri ancora una bugiarda,
perciò
non ti nasconderò più nulla. Spero solo che un
giorno tu possa perdonarmi.»
Giulia
annuì lentamente, gettandosi sulle spalle una vestaglia e
aspettando che
l’amica trovasse le parole giuste per iniziare il suo
racconto. In fondo aveva
paura di quello che poteva scoprire, ma ormai si era convinta che nulla
poteva
essere peggio di quello che era già accaduto.
«Bene,»
cominciò, con un sospiro. «Avevo sette anni quando
il Fantasma apparve per la
prima volta nelle nostre vite: era il 1862, e fu mia madre a
trovarlo…»
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AA - Angolo Autrice:
Ehilà!
Come promesso, ecco a voi il capitolo 18 a tempo di record! Sono o non
sono un genio? xD L'importante è crederci
ù.ù
Comunque! Spero che
questo capitolo sia all'altezza delle vostre aspettative, finalmente il
velo di mistero sulla figura del Duca si è sollevato... E la
mia domanda è: ve lo aspettavate?? =O Erik si, contro ogni
previsione :D E adesso spetta a Meg rivelare tutto ciò che
sa su di lui a Giulia, ma questo avverrà nel prossimo
capitolo ù.ù
E ora passo alle
recensioni:
Kenjina: Carissima!
*_* Innanzitutto grazie mille per la recensione =* Comunque sono
d’accordissimo
con te, Erik non può comportarsi in questo modo ambiguo
– è troppo lunatico
‘sto benedetto ragazzo! ù.ù Poi lo
vorrei proprio vedere mentre cerca di
saltarle addosso come un allupato, ahahah x’D Credo che uno
di questi giorni
manderò Erik a farsi un giretto al Moulin Rouge…
Che tu sappia era già aperto
nel 1877? ù.ù Scherzi a parte, sono felice che
l’evoluzione della cosa ti stia
piacendo *_* E spero che quest’ultimo capitolo non ti abbia
fatto schifo! ^_^;
Chissà se il duca è stato all’altezza
delle tue aspettative?? [modalità
Paranoia: ON] Mi dispiace non averti potuto dare un assaggio in
anteprima, non
ci siamo più incontrate su msn ç__ç ma
per i prossimi capitoli recupererò ù.ù
A
proposito, tu a che punto sei??? *__* Fammi sapere *O* Un bacione
chèrie, a
presto! =*
Sydney
bristow: Ehilà cara, grazie mille per la
recensione! =* Eh lo so, Erik sta
perdendo colpi, e mi dispiace per l’entrata in scena di
Bamdad ma purtroppo è
un male necessario ù.ù Corbezzoli, vai a vedere Love Never Dies???
ç___ç che
tristezza, non sopravvivrò all’idea
ç__ç Comunque divertiti, o come dicono gli
inglesi, enjoy your stay :D Un
bacione, al prossimo capitolo! =*
Keyra93:
Ciao cara! Grazie per la recensione *_* Dunque, passiamo a noi: so bene
che la
faccenda degli specchi è un po’ forzata, forse, ma
mi sembra che nel libro citi
una cosa del genere, e siccome non avevo voglia di andare a controllare
se
effettivamente era così l’ho inventata a modo mio
ù.ù Visto che l’elettricità
ancora non era in pieno uso dovevo pensare a qualcosa che si adattasse
al genio
di Erik! Che poi non è neanche tanto impossibile visto che
questo cristiano
[cito le parole del libro] “concepiva
un
palazzo più o meno come un prestigiatore può
immaginare uno scrigno truccato, e
lo shah-in-shah gli commissionò una costruzione di questo
genere, che Erik
portò a compimento e che, a quanto pare, era così
ingegnosa che Sua Maestà
poteva passeggiare ovunque senza essere visto e sparire in modo davvero
inspiegabile.” Ora, uno che inventa una cosa
così non è capace di portarsi
la luce in casa tramite due specchi? xD Comunque non voglio fare
polemica e
apprezzo il tuo tentativo di riportarmi con i piedi per terra, ma tanto
ormai
sono andata x°D Ah, un’altra cosa! In
un’altra recensione mi avevi detto che ti
dava fastidio il fatto che mi rivolgo a Erik come
“Lui”, con la lettera
maiuscola: non volevo certo essere blasfema, per carità!
Semplicemente, se non
erro anche nel libro lo cita in questo modo, per il semplice fatto che
tutti
hanno paura di lui e ne parlano come di un’entità
sovrannaturale. Non
preoccuparti di essere brusca, se c’è qualcosa che
non ti convince tu chiedi e
ti sarà dato! :D Farò sempre il possibile per
soddisfare le vostre curiosità
ù.ù Ancora grazie per le tue recensioni assidue,
continua così! Ci sentiamo al
prossimo capitolo, smack =*
Inoltre
voglio ringraziare tutti coloro che leggono senza recensire,
perchè è anche merito loro se continuo la storia
- comunque non abbiate timore a farmi sapere ciò che ne
pensate, soprattutto le critiche! Io non mordo, anzi, mi farebbe
piacere ^^
E
con questo vi saluto! Ci sentiamo al prossimo capitolo, ma per quello
non vi faccio promesse temporali :(
Un
bacione, a presto!
Rimango, signori, il vostro
umile servo,
GiulyRedRose
|
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Capitolo 21 *** 19. La leggenda del Fantasma dell'Opera ***
Chapitre
19
La
leggenda del
Fantasma dell’Opera
«Avevo sette anni
quando il Fantasma apparve per la prima volta nelle nostre vite: era il
1862, e
fu mia madre a trovarlo…»
«Maman era molto giovane, ma
già
insegnante del corpo di danza dell’Opèra, e quella
sera aveva deciso di portare
le sue allieve a vedere una fiera ambulante di zingari arrivata in
città
durante la settimana.» Proseguì, lo sguardo perso
in ricordi che non le
appartenevano. «Saltimbanchi, prestigiatori,
indovine… Anch’io ero andata, dopo
aver pregato mia madre di portarmi con lei. Ero solo una bambina, ma
ero
affascinata da quel mondo nuovo di colori e odori di granturco e miele
che
aleggiavano nell’aria. E poi c’era… In
una gabbia, lontano da tutti ma
circondato da una folla di persone… Uno strano personaggio,
un ragazzo, forse
sui diciotto anni. Lo chiamavano Le fils
du Diable.»
Il
figlio del Diavolo. A quel nome, Giulia non potè fare a meno
di rabbrividire,
rammentando come il suo Maestro si era presentato a lei,
all’inizio… Eppure non
osò interrompere l’amica, permettendole di andare
avanti con il suo racconto.
«In
realtà egli non faceva nulla, era lo zingaro insieme a lui
che organizzava il
suo ‘spettacolo’. Lo picchiava con una verga e poi
lo frustava, ma dalle sue
labbra non fuoriusciva nemmeno un gemito: doveva aver imparato a non
mostrare
il suo dolore, evidentemente. E poi, quando giaceva a terra sfinito, lo
zingaro
gli si avvicinava e lo privava del sacco che portava in testa a
nascondere il
suo volto, mostrando così agli spettatori l’orrore
che era la sua faccia. Bada
bene, Giulia, io queste cose non le ricordo, me le ha raccontate mia
madre
perché era stata lei a vederle con i suoi occhi…
Quel giorno, tuttavia, il
ragazzo riuscì a vendicarsi: attese che tutta la folla
uscisse dal tendone, poi
afferrò la corda con la quale lo zingaro l’aveva
frustato e, mentre
quest’ultimo contava le monete che gli erano state lasciate,
gli passò la corda
intorno al collo e lo soffocò. Mia madre era nascosta in un
angolo, e vide ogni
cosa.
«Riuscì
ad avvicinarsi a lui e ad afferrarlo per un braccio, trascinandolo via
da lì
mentre qualcuno gridava ‘all’assassino’ e
chiamava i gendarmi, per mettersi
alla ricerca del giovane omicida. Maman
lo condusse all’Opèra, facendolo entrare nel
teatro tramite un passaggio poco
utilizzato che sbucava in Rue Scribe e che finisce proprio nella
piccola
cappella che c’è in direzione del terzo
sottopalco. Lo lasciò solo, dicendogli
che poteva rifugiarsi lì per tutto il tempo che avesse
desiderato, e se ne andò
per tornare a prendere noi ballerine alla fiera. Da quel momento in poi
nacque
la figura del Fantasma dell’Opèra.
«Purtroppo
per tutti noi, parecchi di quei gentiluomini – e anche
gentildonne, a dir la
verità – che si erano presi gioco di lui,
schernendolo e insultandolo, in
quella fiera ambulante, non erano altri che frequentatori abituali
dell’Opèra;
purtroppo per noi, il giovane sfigurato aveva una ferrea memoria che lo
portava
a rammentare chiaramente ogni singolo volto che vedeva, anche solo una
volta;
e, sempre purtroppo per noi, il Fantasma vedeva la vendetta come unico
strumento di giustizia nei confronti di coloro che avevano osato
deriderlo.
«Iniziò
a terrorizzare gli habituès
del
teatro durante le rappresentazioni, andando a sussurrare minacce nei
loro
orecchi, una voce priva di corpo proveniente dall’ombra.
Alcune donne scapparono
dall’Opèra nel bel mezzo dello spettacolo,
gridando spaventate, e costringendo
anche i loro accompagnatori a seguirle. Per qualche tempo il teatro
perse i
suoi soliti frequentatori, che si rifiutavano di entrare in un luogo
infestato
dove le loro spose non potevano godersi in tutta
tranquillità uno spettacolo
per il quale aveva sborsato del denaro. Per un breve periodo, quindi, i
suoi
scherzi si acquietarono, limitandosi a qualche dispetto ai macchinisti
o alle
ballerine più arroganti, ma quando le persone iniziarono ad
abbassare la
guardia tornò per continuare la sua vendetta.
«Le
sue azioni si facevano man mano più gravi e pericolose. Una
volta cosparse di
cera le scalinate del foyer appena prima della fine
dell’ultimo atto, e all’uscita
parecchie persone scivolarono e si fratturarono qualche osso delle
gambe –
qualche povero sfortunato addirittura morì, anche se in
effetti erano persone
di un’età avanzata. Mia madre sapeva perfettamente
chi si celava dietro questi
incidenti, e più volte aveva cercato di scendere nei
sotterranei – ormai regno
del Fantasma – per parlare con lui e cercare di consolarlo.
Non era forse stata
lei stessa a salvargli la vita? Per quale motivo adesso egli sembrava
voler
rovinare la sua? Ma era chiaro che le parole non bastavano. Il Fantasma
dovette
aver preso gusto dell’immenso potere che gli conferiva il
fatto di essere
sconosciuto ai più, senza contare il fatto che in un
ambiente come quello del
teatro le superstizioni sono tante, e una di più non avrebbe
fatto del male a
nessuno. O, almeno, questo fu ciò che dovette pensare lui.
«Credo
che avesse minacciato persino mia madre, costringendola ad essergli
complice
nel suo folle tentativo di impadronirsi del teatro; un tentativo che
divenne
però realtà, dato che nel giro di pochi mesi
l’allora direttore dell’Opèra,
monsieur Lefevre, era finito alla completa mercè del
Fantasma. Non osava
prendere decisioni senza prima essere sicuro che l’essere
fosse d’accordo, e
addirittura quando il Fantasma iniziò a pretendere una cifra
per i suoi
‘servigi’ e per il favore ch’egli gli
faceva di lasciarlo vivere in pace nel
teatro, monsieur Lefevre la pagò senza battere ciglio.
Immagina, 20.000 franchi
al mese, derivati dai guadagni dell’Opèra, che
venivano usati per pagare un
criminale che si prendeva gioco di noi.
«Andò
avanti così per molto tempo, troppo, anche se il Fantasma
alternava periodi di
malumore ad altri in cui ci lasciava liberi di fare ciò che
più ci aggradava
senza interferire. Nei periodi di maggiore calma monsieur Lefevre era
stato
convinto a mandare dei macchinisti in perlustrazione del teatro per
cercare il
covo di questa presenza, ma è inutile dire che, anche
qualora l’avessero
trovata, nessuno è mai tornato indietro per raccontarlo.
«E
poi, cinque anni fa, Christine Daaè arrivò a
teatro. Come forse ti ricorderai,
Christine era la giovane figlioccia di madame Valerius, tornata insieme
alla
madrina in Francia dato che nella sua terra natale, la Svezia, non era
più
rimasto nessuno per lei. Aveva quattordici anni quando entrò
nel collegio
dell’Opèra, e già cantava come un
angelo: maman
conosceva da tempo mamma Valerius, così non aveva esitato a
prendere Christine
sotto la sua ala in attesa che si ambientasse in un nuovo paese e in un
nuovo
ambiente come quello del teatro. Io avevo solo due anni più
di lei, e
diventammo da subito ottime amiche. Si può dire che fossimo
come sorelle…»
La
voce di Meg si spezzò all’improvviso, come se il
repentino ricordo di quegli
avvenimenti fosse risultato troppo emozionante anche per lei stessa.
Abbassò lo
sguardo e prese dei profondi respiri per cercare nuovamente la
padronanza di
sé, e quando fu certa che non sarebbe scoppiata a piangere
dalla nostalgia,
sollevò lo sguardo e piegò le labbra in un debole
sorriso.
«Stai
bene, Meg?» Domandò Giulia, con tatto, sfiorando
la mano dell’amica.
La
giovane Giry annuì, asciugandosi con una manica un angolo
dell’occhio. «Certo,
chèrie, non preoccuparti.
Dunque,
dov’eravamo rimaste? Ah, sì. Christine.»
«Compresi
sin da subito che Christine non sarebbe rimasta a lungo nelle file del
coro: la
sua voce era troppo particolare, troppo dolce, troppo bella
perché potesse restare per sempre tra le coriste. Suo padre
era il grande violinista svedese Gustave Daaè, aveva una
grande fama e un
grande talento, e non c’era dubbio che la figlia ne avesse
ereditato ogni
singola goccia. Cantava con tutta l’anima, come se attraverso
la musica potesse
raggiungere il padre che ormai non era più su questa terra:
non amava
confidarsi molto, ma io sapevo che soffriva – sapevo che ogni
notte inzuppava
il cuscino di lacrime.
«E
poi, gradualmente, a pochi mesi dal suo arrivo, mi accorsi che la voce
di
Christine stava pian piano cambiando. Dapprima era infatti
sì, bella, ma priva
di quella sfumatura artistica, per così dire, che
caratterizzava le voci
istruite delle prime donne: ecco, la sua voce era melodiosa senza
tuttavia
essere del tutto istruita, particolare che poteva benissimo essere
trascurato
per una figurante del coro. Ma più il tempo passava,
più quella voce acquisiva
degli accenti che non avrei mai potuto credere di sentire sulle labbra
di una
ragazzina di poco più di quattordici anni. Christine
migliorava come se stesse
prendendo lezioni private da qualcuno, ma se osavo chiederle di chi si
trattava
lei replicava che non conosceva il suo nome.
«Ne
parlai con maman.
All’inizio mi era
sembrata sorpresa, tuttavia mi disse di non preoccuparmi di cose che
non mi
riguardavano e di lasciare in pace la mia amica, che aveva
già sofferto tanto e
di sicuro non aveva bisogno di qualcuno che la spiasse.
Perciò per un po’
lasciai perdere, anche se da quel momento notai che mia madre si era
fatta
molto più apprensiva nei confronti di Christine e cercava di
non lasciarla sola
neppure un momento. Lei però era tranquilla, non capiva il
motivo di tanta tensione,
oppure se lo capiva cercava di non farci caso: dopotutto la sua voce
stava
migliorando, il suo senso di solitudine si stava alleviando e il teatro
era
diventato anche per lei una seconda casa.
«Non
guardarmi così, Giulia: so cosa stai pensando. Cosa a che
fare la storia di
Christine con quella del Fantasma dell’Opera? Stai
tranquilla, mon amie, ci sto per
arrivare.
«Improvvisamente,
due anni dopo l’arrivo di Christine, un’altra
famiglia della nobiltà parigina
divenne mecenate del teatro dell’Opèra: i Conti de
Chagny. Poiché di tutta la
famiglia gli unici in vita erano due fratelli, di cui uno troppo
impegnato per
potersi fare carico anche del compito di essere presente a quasi tutte
le
rappresentazioni, l’incarico venne assegnato
all’erede cadetto, il Visconte
Raoul de Chagny. Egli dimostrò sin da subito il suo affetto
nei confronti di
Christine, e fu da quel momento che potemmo conoscere davvero la
crudeltà del
Fantasma.
«Quest’essere
aveva ingannato la mia amica, facendole credere di essere lo spirito
che suo
padre le aveva mandato, una volta morto, dall’oltretomba:
Christine amava la
favola dell’Angelo della Musica, e non dubitò
neppure per un istante che
l’identità di colui che le stava insegnando i
più piccoli segreti del canto non
fosse quella dell’angelo di cui le aveva sempre parlato suo
padre. Forse, se
non fosse stata così ingenua, certe cose avremmo potute
risparmiarcele…
«In
quello stesso periodo, la gestione del teatro passò in altre
mani: monsieur
Lefevre decise di ritirarsi da quell’incubo, passando
l’onere a due
imprenditori che si erano arricchiti grazie al commercio di rottami.
Inutile
specificare che monsieur Andrè e monsieur Firmin, tuttora i
direttori, non
credettero ad una parola riguardo al Fantasma dell’Opera:
strapparono le sue missive
e si rifiutarono di pagargli una somma così ingente.
‘Sciocchi superstiziosi’,
ci avevano chiamato: presto ebbero di che pentirsi.
«L’istruzione
lirica di Christine procedette in segreto: la mia amica continuava a
fare parte
del coro, e di conseguenza nessuno fece mai caso
all’evoluzione della sua voce.
Qualche giorno dopo l’arrivo dei nuovi direttori, la prima
donna dell’Opèra, la
Carlotta, ebbe un incidente: durante le prove dell’Annibale di Chalumeau una trave
precipitò sul palcoscenico,
slogandole una caviglia e terrorizzandola a morte. Quello era stato
solo uno
dei tanti ‘scherzi’ del Fantasma a sue spese, ma
Carlotta ne ebbe abbastanza.
Lasciò le prove giurando che non sarebbe più
tornata a cantare in un teatro che
non la voleva, e tutto sommato, dopo lo stupore e la paura iniziale,
tutti noi
non potemmo che emettere un sospiro di sollievo. Era difficile
sopportare
quella donna e le sue manie di protagonismo.
«Putroppo,
però, ciò avrebbe significato annullare lo
spettacolo: un tutto esaurito,
comprendi anche tu che sarebbe stato un disastro! Perciò, maman propose di far cantare una
sostituta: per la precisione,
Christine. I direttori, all’inizio, non ne erano molto
convinti: era abbastanza
difficile trovare una sostituta della Prima Donna in così
poco tempo, se poi si
trattava di una corista, ti lascio immaginare il loro
sconcerto… Tuttavia, dopo
averle sentito cantare l’aria dell’opera,
acconsentirono a darle la parte. E,
dopo il suo debutto, il comportamento del Fantasma peggiorò
notevolmente.»
A
quel punto, Giulia pendeva dalle labbra dell’amica: era
totalmente presa da ciò
che le stava raccontando, soprattutto perché alcuni eventi
da lei narrati
coincidevano in modo spaventoso a ciò che era accaduto a lei
stessa, in quell’ultimo
periodo. Una strana presenza le si era avvicinata minacciandola e
obbligandola
a votarsi a lei in eterno, per poter avere una sorta di protezione in
un mondo
che le sembrava estraneo e, allo stesso tempo, familiare: colpa,
probabilmente,
dell’amnesia che l’aveva colpita. E poi, questa
figura del Fantasma… Possibile
che quest’essere non fosse altri che il suo Maestro?
Dopotutto, molti fatti
tornavano… Il Figlio del Diavolo,
il
suo volto orrendo, la sua musica… Dovette alzarsi ed
allontanarsi un momento da
Meg, per cercare di riprendere il controllo di sé stessa. Se
ciò che la giovane
Giry le aveva raccontato corrispondeva al vero, ciò
significava che per tutto
quel tempo lei era stata in balia del Fantasma dell’Opera,
un… un criminale e
un assassino?
Si
voltò nuovamente verso la ballerina, risoluta.
«Meg, ti prego, continua con la
tua storia…»
Ma
ciò fu impossibile. Prima che la ragazza potesse riprendere
il racconto dal
punto in cui l’aveva interrotto, la porta della stanza si
aprì e una donna si
precipitò al suo interno, come una furia. Era madame Giry,
gli abiti ancora
fradici come se non si fosse ancora cambiata, sul viso
un’espressione sorpresa
e sollevata allo stesso tempo.
«Oh,
Dio sia ringraziato, Giulia!» Soffiò,
raggiungendola e attirandola tra le sue braccia,
incurante di bagnare così anche la giovane. Poi la
allontanò nuovamente da sé,
facendo scorrere lo sgaurdo lungo tutto il suo corpo avvolto dalla
veste da
camera. «Come stai? Ti senti bene? Dio, quanto ho temuto per
te in questi
giorni… Ho avuto davvero paura quando sei sparita, ma adesso
sei qui, ogni cosa
ritornerà al suo posto…»
Però,
dopo tutto ciò che aveva scoperto grazie a Meg, Giulia non
riusciva a prendere
quelle parole per veritiere – dubitando in ogni istante della
scarsa sincerità
della donna. Infatti, con ferma gentilezza si sciolse dalla sua
stretta,
indietreggiando per poi rivolgerle uno sguardo accusatorio.
«Non
mi chiedete dove sono stata, madame Giry?»
Sussurrò, stringendo gli occhi per
evitare alle lacrime di scendere ancora. Si sentiva offesa e delusa, e
questi
non erano sentimenti che poteva ignorare così facilmente.
«Non vi interessa
sapere con chi ho trascorso le
ultime
due settimane?»
Louise
Giry sgranò impercettibilmente gli occhi grigi, lanciando
uno sguardo
interrogatorio alla figlia e ricevendo per tutta risposta una desolata
alzata
di spalle. «Non capisco cosa vuoi dire, ma
chère…» Tentò,
cercando di rimandare ancora l’inevitabile.
«Oh
sì che lo sapete, madame. L’avete sempre
saputo!» Sbottò la ragazza, aggrappandosi allo
scialle di lana e stringendoselo
addosso. «E non mi avete mai detto nulla! Perché,
madame? Cosa vi ho fatto di
male, per meritare le vostre menzogne?»
Madame
scosse il capo, senza ben sapere cosa dire. «Tesoro, devi
capire, non avevo
altra scelta… Lui mi
aveva proibito
di immischiarmi nei suoi affari, e io sapevo che non avrebbe mai alzato
un dito
su di te… Lo conosco da tanto di quel
tempo…» Mormorò, sperando che la
giovane
capisse.
Ma
Giulia voltò il viso da un’altra parte, pur di non
guardare ancora né lei né Meg.
«Vi prego, vorrei stare da sola, adesso.»
Sussurrò, sedendosi sul bordo del
letto. «Sono stanca e vorrei riposare.»
Per
quanto Louise avrebbe voluto ignorare quella richiesta per rimanere a
consolare
la ragazza, comprese altresì che in quel momento non poteva
imporle oltre la
sua presenza. Decise che si sarebbe fatta dire ogni cosa da Meg, dato
che
doveva essere accaduto qualcosa – qualcosa di grave
– prima del suo arrivo. Si diresse
insieme alla figlia verso la porta, in silenzio, e la richiuse dietro
di sé senza
neppure osare salutarla.
Rimasta
finalmente sola, Giulia non vide più alcun motivo per
frenare le lacrime. Si sdraiò
sul letto, sfogandosi e soffocando i singhiozzi contro il cuscino.
Moriva dalla
voglia di sapere com’era finita la storia di Meg, ma allo
stesso tempo il suo
orgoglio le impediva di andare a domandarglielo dopo quello di cui
l’aveva
accusata – per quanto, comunque, sarebbe stato perfettamente
nel suo diritto
farlo.
L’unica
cosa che poteva fare, a quel punto, era domandare direttamente al suo
Maestro e
cercare di avere delle risposte da lui. Se così facendo
avrebbe poi stimolato
la sua rabbia, pazienza: ma aveva bisogno di sapere, non voleva
continuare a vivere
nell’oscurità più di quanto stesse
già facendo.
Quella
notte pregò con forza di riacquistare al più
presto la sua memoria. Ne aveva
fin troppo di segreti e bugie.
***
19 Dicembre 1877.
La
residenza dei De Chagny non era mai stata così allegra e
solare. Tutti i domestici
erano in fermento, e ormai da un mese stavano preparando il palazzo
parigino in
occasione del ritorno dei tanto attesi padroni di casa accompagnati,
questa
volta, da un piccolo erede appena nato. Quando James Coleman, il
contabile
della famiglia nobiliare che risiedeva a palazzo De Chagny per tutta la
stagione, ricevette la lettera che lo informava del rientro a Parigi
dei due
coniugi, aveva stentato a crederci. Dopotutto, dopo il loro matrimonio
il Visconte
lo aveva avvisato del fatto che sarebbe potuto non tornare mai
più nella sua
città d’origine, a causa degli scandali che lo
avevano visto come protagonista
– non ultimo, quello delle sue nozze. Il fatto che avesse
sposato una giovane
cantante, coinvolta oltretutto nella vicenda del Fantasma
dell’Opera, non era
stato visto di buon occhio dagli altri rappresentanti
dell’aristocrazia, tanto
che si era visto esiliato dai più importanti salotti
parigini. Non che di
questo gli importasse particolarmente, ma non tollerava che la sua
sposa
venisse presa ulteriormente di mira da quei nobili arroganti.
E
invece, improvvisamente, erano ritornati. Monsieur Coleman, che era
stato
consigliere anche del Conte Philippe de Chagny prima ch’egli
morisse in
circostanze del tutto misteriose, trovava che la scelta del suo nuovo
principale fosse assolutamente giusta e sensata. Di certo un uomo del
suo rango
non poteva fuggire in eterno, alimentando così le malelingue
sul suo conto,
soprattutto adesso che aveva appena generato un erede. Anzi, il fatto
di essere
diventato padre lo insigniva del titolo di Conte che non gli sarebbe
potuto
appartenere in quanto figlio cadetto, ma dato che era rimasto
l’unico De Chagny
ancora in vita, il titolo gli spettava di diritto. Certamente, adesso
che era
diventato un rispettabile conte, tutti gli altri aristocratici
avrebbero fatto
nuovamente a gara per otterenere la sua presenza nelle loro abitazioni,
sorvolando volentieri sull’origine umile della sua sposa.
Monsieur
Coleman aveva conosciuto Madame de Chagny, al secolo mademoiselle
Daaè, solo il
giorno delle loro nozze, in vece di testimone del Visconte: se doveva
essere
sincero, la giovane non gli era sembrata quella cacciatrice di mariti
facoltosi
che aveva sentito dipingere più volte e con cattiveria.
Avvolta in un modesto
abito color panna, con i lunghi boccoli biondi lasciati liberi sulle
spalle,
aveva più l’aspetto di un timido angelo che non
quello della spregiudicata
cantante d’opera che le nobildonne amavano descrivere. Sul
volto aveva l’espressione
di chi ha sofferto tanto e di chi ha visto orrori che era meglio
tacere, eppure
non aveva cessato di sorridere un solo istante, al colmo della gioia,
mentre
diventava la moglie del Visconte de Chagny. Il contabile rammentava
come i due
sposi fossero partiti subito dopo essersi disfatti degli abiti nuziali,
diretti
per un viaggio di nozze nel nord Europa – in Svezia, da
quanto aveva capito –
che, ufficialmente, non si era ancora concluso. Ma egli conosceva la
verità, e
la verità era che i De Chagny non si erano sentiti pronti a
tornare a Parigi, e
che probabilmente non lo sarebbero mai stati: non appena furono
rientati in
Francia avevano fatto sapere a monsieur Coleman della loro decisione di
trasferirsi per un po’ a Marsiglia, fin quando non fossero
stati pronti a
rientrare nella capitale.
E
adesso, dopo due anni senza avere che sporadiche notizie da parte loro,
finalmente rientravano. E non da soli! In realtà il fedele
segretario non
vedeva l’ora di vedere il piccolo infante che avrebbe portato
avanti il nome
dei De Chagny – era stata una fortuna che il loro primogenito
fosse un maschio,
altrimenti le malelingue avrebbero trovato ancora più da
ridire su
quell’unione.
Terminò
di sistemare tutti i registri delle spese e altri vari documenti che
sicuramente
il Visconte – oh, dimenticava, il Conte
– avrebbe voluto visionare al suo arrivo, ed egli era ben
intenzionato a far sì
che ogni cosa fosse in ordine. Malgrado avesse solo cinquantaquattro
anni e non
avesse mai avuto gravi problemi di salute, monsieur Coleman era
obbligato a
servirsi di un bastone a causa di una brutta caduta da cavallo che gli
aveva
compromesso la gamba sinistra permanentemente, e che lo obbligava
sempre a
muoversi con estrema prudenza. Perciò, prima di uscire dallo
studio, afferrò il
suo bastone, e con un campanello chiamò una domestica.
«Potete
riordinare lo studio, adesso.» Disse, con voce pacata.
Egli
scese invece le scale e si diresse in cucina, il luogo dei domestici,
per
controllare che tutti stessero facendo il loro lavoro in attesa del
rientro dei
padroni di casa. In loro assenza era lui che ne faceva le veci, e
c’era da dire
che non aveva mai abusato della posizione privilegiata di cui godeva.
Lì trovò
il maggiordomo intento a leggere una lista di cose da fare, circondato
dal
cuoco e da un paio di cameriere che attendevano il responso.
«I
signori arriveranno per pranzo, propongo quindi di preparare qualcosa
di
semplice ma di sostanzioso per farli riprendere dal lungo
viaggio.» Stava
dicendo, rivolto al cuoco. «Per quanto riguarda il vino,
andate a controllare
se in cantina abbiamo un Château Cantemerle del 1855. Oh,
monsieur Coleman!
Posso fare qualcosa per voi?»
L’uomo
scosse la testa, sorridendo. «No, Edgar, vi ringrazio. Volevo
solo sapere a che
punto siamo con la preparazione del palazzo.»
Il
maggiordomo – di qualche anno più anziano del
contabile – sventolò il foglio
che aveva in mano, con aria sicura. «La casa è uno
specchio, il pranzo è in via
di sviluppo e penso che anche il vino sia pronto. Ah, Claudine, avete
preparato
le stanze dei padroni?» Domandò, volgendosi verso
una cameriera dai capelli
rossicci.
La
giovane annuì. «Abbiamo preparato la stanza
padronale e quella accanto, oltre
alla Camera Azzurra per il piccolo erede.» Lo
informò tranquillamente.
Monsieur
Edgar si voltò verso monsieur Coleman con un sorriso
compiaciuto. «Avete visto?
Siamo in perfetto orario sulla tabella di marcia.»
«A
proposito di orario,» fece James Coleman, tirando fuori dalla
tasca del suo
panciotto un orologio in argento intarsiato. «Credo che sia
il momento di
mandare la carrozza alla gare. I
signori arrivano col treno delle 12:35.»
Il
maggiordomo inarcò un sopracciglio, posando lo sguardo
sull’orologio appeso
alla parete. «Avete ragione, monsieur. Sophie? Potreste
andare dal cocchiere e
dirgli di scendere in città, alla stazione? Credo che stia
aspettando un nostro
ordine.»
La
cameriera seduta al tavolo si alzò, annuendo, e
uscì dalla porta secondaria
della cucina che fungeva da scorciatoia per le scuderie del palazzo. A
quel
punto, tutti i servitori avevano il loro compito o l’avevano
già portato a
termine, perciò monsieur Coleman si congedò e
andò a rinchiudersi nella
biblioteca, in attesa che i signori De Chagny varcassero la soglia
della loro
abitazione dopo due anni trascorsi altrove.
Il
treno arrivò in perfetto orario, sbuffando e sferragliando
sonoramente mentre
entrava nella stazione. La Gare du Nord era stata recentemente ampliata
rispetto al progetto originale, e adesso ospitava un numero raddoppiato
di
binari per il crescente numero di persone che si spostavano da una
parte
all’altra della Francia e della stessa Europa; pertanto
nessuno avrebbe potuto
stupirsi nel vedere quanta folla insediava la stazione, soprattutto in
quell’orario.
Il
treno nel quale si trovavano i Conti de Chagny si arrestò al
binario sette, fischiando
e spargendo il fumo e l’odore acre del carbone tutto intorno
a sé. Il
capostazione si avvicinò insieme ad altri impiegati, per
poter aprire le porte
del treno dall’esterno e avvisare i signori passeggeri che
sarebbero potuti
scendere. Quindi, da uno dei vagoni riservati alla prima classe,
iniziarono a
scendere i viaggiatori più facoltosi.
Chiunque
avesse posato lo sguardo sul giovane e prestante uomo che si apprestava
a
scendere dalla scaletta, avvolto in degli abiti di sartoria scuri che
ben si
adattavano alla sua nuova posizione sociale, avrebbe esitato a
riconoscere in
lui lo spensierato giovanotto che qualche tempo prima era stato il
rappresentante degli De Chagny in quanto mecenati
dell’Opèra Populaire. Intorno
agli occhi azzurri aveva molte più rughe di quante ne avesse
avute in passato, come
se in realtà avesse avuto più dei suoi
venticinque anni. Dopo essere sceso dal
predellino si sistemò il cilindro sul capo, e si
voltò verso la porta per
porgere la mano ad una fanciulla di poco più di diciannove
anni, che altri non
era che la sua sposa.
Parigi
avrebbe riconosciuto a stento anche la famosa Christine
Daaè, che non aveva
ormai più nulla né della ballerina di fila
né della cantante d’opera che era
stata un tempo, per un periodo inoltre piuttosto breve. Adesso i suoi
preziosi
riccioli dorati erano raccolti in una semplice ma accurata acconciatura
che non
le lasciava libero nemmeno un boccolo, visto che l’aspetto di
una contessa
doveva essere molto più severo e discreto rispetto a quello
di chiunque altro. L’abito,
di un azzurro oltremare, non le lasciava scoperto neppure un centimetro
di
pelle, e persino le mani erano avvolte in graziosi guanti di pizzo
bianco; un
cappellino sul capo e un ombrello tra le mani, entrambi del medesimo
colore del
vestito, erano gli unici altri accessori che si era permessa.
Scese
con grazia a terra, accanto al marito, e dopo aver dato
un’occhiata intorno –
dopo aver respirato a pieni polmoni l’aria di Parigi
– si voltò nuovamente per
aiutare madame Clothilde, con in braccio il piccolo Gustave De Chagny,
a
scendere dalla carrozza. La balia che avevano scelto per il loro
bambino era
una vedova di cinquasette anni, che si abbigliava esclusivamente di
nero e che
portava i suoi grigi e sottili capelli in un severo chignon sul capo.
Poteva
forse sembrare inavvicinabile ad una prima impressione, ma il modo in
cui
aiutava la viscontessa e le insegnava pazientemente ad occuparsi del
suo
bambino l’avevano fatta subito voler bene come se fosse stata
una persona di
famiglia.
Christine
si avvicinò a lei e scostò un lembo della coperta
che avvolgeva il bambino,
sorridendo teneramente nel vederlo profondamente addormentato. Sulla
sua
testolina iniziava a comparire una bionda peluria che, a giudicare
dalle sue
ciglia dorate, gli sarebbe rimasta anche nell’età
adulta; la giovane madre gli
posò un bacio delicato su una manina stretta a pugno,
dopodichè raggiunse il
marito.
«Rimanete
vicino a me, Christine, ho paura di perdervi in mezzo a questa
folla.» Le
disse, indicandole di far avvicinare a loro anche madame Clothilde.
«Vado a
cercare un facchino che ci scarichi i bagagli e li porti alla carrozza,
dovrebbe aspettarci fuori dalla stazione.»
«Vai
allora, noi rimaniamo accanto alla colonna
dell’orologio.» Rispose la giovane,
annuendo. Raoul le sorrise e si allontanò, sparendo tra la
folla e cercando di
attirare l’attenzione di qualche portabagagli con le mani in
mano.
Ella
si voltò verso la balia e le sorrise a sua volta, prima di
chinarsi nuovamente
sul suo bambino. «Benvenuto a Parigi, mon
chère.» Sussurrò.
«Finalmente sei a casa.»
_______________________________________________________________________________________________________________________________________________
AA - Angolo Autrice:
Buongiorno
a tutte quante, ragazze! O buonasera, o buonanotte xD Innanzitutto,
devo scusarmi immensamente: è da secoli che non aggiornavo
la storia, e mi dispiace di avervi tenuto con il fiato sospeso tutto
questo tempo! Comunque, cercherò di sbrigarmi di
più per il prossimo capitolo, promesso ^^
Allora, ditemi:
che ve ne pare? La storia di Meg non è ancora del tutto
completa, perchè madame Giry l'ha interrotta sul
più bello... Riuscirà Giulia ad avere le risposte
che cerca, magari proprio dal nostro caro Fantasma? Chissà!
=O E poi, abbiamo nuovi arrivi! Diamo il benvenuto alla famiglia De
Chagny di ritorno a Parigi (non vi vedo entusiaste, come mai? xD) Su
su, non preoccupatevi, non saranno troppo d'intralcio... O almeno
spero :'D
Purtroppo ora non
ho il tempo di rispondere parola per parola alle vostre recensioni, mi
rifarò col prossimo capitolo! Comunque, saluto e ringrazio
infinitissimamente sydney
bristow, Keyra93, Kenjina e TheMisty910 per aver recensito! Siete
grandissime, grazie mille di avermi seguito fin qui (e oltre, si spera
xD).
Ah! Non so se vi
può interessare (massì, dai xD) ma io e Kenjina abbiamo indetto un
contest, nientepopodimeno che The
Phantom of the Opera - Contest, che troverete a questo
indirizzo. La scadenza è il 1 Dicembre, ma concediamo
proroghe fino al 12... Se volete partecipare (ci terremmo molto! *-*)
non avete che da dircelo lì, rispondendo alla discussione!
Bene, e dopo
questa piccola pubblicità-non-tanto-occulta, direi che vi
posso salutare!
A presto, ragazze,
un bacione! :**
I
remain, gentleman, your humble servant,
GiulyRedRose.
P.S.:
Se volete contattarmi vi lascio il mio contatto di msn, così
mi fate uno squillo quando pensate che sia passato troppo tempo tra un
aggiornamento e l'altro XD Et voilà: giuliettath@live.it
Baci! :*
|
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Capitolo 22 *** 20. She's here, inside my mind ***
Chapitre
20
She’s
here, inside my mind
Inspiegabilmente,
Erik iniziò a sentire la mancanza di mademoiselle Sanders
sin da subito. In
quelle due settimane si era abituato alla sua costante e dolce presenza
nella Dimora
sul Lago, così come aveva iniziato a contare sulla compagnia
che, anche in
silenzio, la giovane riusciva a fargli. I suoi sorrisi timidi, le
occhiate
imbarazzate e le espressioni mortificate quando il suo Maestro si
mostrava
troppo rigido e severo nei suoi confronti: tutto, adesso, gli mancava.
E
dire che non era trascorso molto tempo da quando erano stati insieme:
anzi, era
passato un giorno soltanto, durante il quale aveva avuto di che
preoccuparsi in
seguito alla visita dall’esito poco felice del Duca de
Blanchard. Che fossero
state le parole di minaccia del vecchio nobiluomo a scuotere Erik dalla
studiata freddezza che voleva obbligarsi a dedicare alla sua allieva?
Si era
sforzato di essere distaccato nei suoi confronti, limitando i contatti
il più
possibile, ma era stato inevitabile sentirla più vicina in
quel suo lungo
soggiorno nei sotterranei.
Dopotutto,
era stata l’unica a non fuggire terrorizzata alla sua vista.
Aveva creduto di
poterla spaventare con il suo aspetto demoniaco, e aveva fallito: ella
aveva
dimostrato di fidarsi di lui, e gli aveva più volte ripetuto
di non avere
paura. Come non poteva esserle grato per come si era comportata? E
adesso
iniziava a interrogarsi su quanto sarebbe stato opportuno, a quel
punto,
portare avanti la sua vendetta: ci stava mettendo l’anima nel
prepararla, ogni
singola goccia del suo odio, e proprio
ora doveva domandarsi se ne valeva davvero la pena?
Emise
un basso sibilo nervoso, sbattendo poi sul tavolo una manciata di
vecchi
spartiti che aveva trovato riordinando il suo studio della Dimora sul
Lago.
Alcuni erano stati rovinati dall’umidità, ma Erik
ricordava a memoria ogni nota
che aveva prodotto: non sarebbe stato difficile ricreare le pagine
mancanti
delle sue opere, se ne avesse avuto la voglia. Tuttavia era distratto
– aveva
troppi pensieri per la testa. Inoltre, il fatto che quella poltrona
nella quale
aveva trovato mademoiselle Sanders addormentata, pochi giorni prima,
sembrasse
conservare ancora il profumo della giovane, di certo non lo aiutava a
mantenersi lucido. Lo sguardo gli cadeva inconsciamente su di essa,
come se si
aspettasse di vedervi apparire la ragazza da un momento
all’altro.
Maledizione.
Aveva bisogno di vederla.
Serrò
con forza gli occhi e prese dei profondi respiri, privandosi poi della
maschera
per strofinarsi le tempie che parevano esplodergli: non si era mai
sentito così
stanco, ormai stava giungendo al limite della sua pazienza e delle sue
forze…
Non era in grado di sapere fino a quando avrebbe resistito –
la vendetta stava
consumando ogni singola goccia del suo essere. Grazie al Cielo quel
pomeriggio
ci sarebbe stata la sua abituale lezione con mademoiselle Sanders,
forse la
presenza della ragazza gli avrebbe in qualche modo giovato. Non ne
comprendeva
bene il motivo, ma era certo che sarebbe stato così.
Con
un ennesimo sospiro si voltò nuovamente verso la pila di
appunti, diari e
spartiti che aveva tolto dalla libreria e gettato disordinatamente sul
tavolo,
per verificare che cosa avrebbe potuto portare nella sua nuova
abitazione e di
cosa, eventualmente, si sarebbe potuto liberare.
Era
arrivato il momento di privarsi di tutti gli spiacevoli ricordi legati
al suo
passato.
***
Giulia
attese pazientemente fino alla fine delle prove del coro, prima di
prendere
coraggio e andare a cercare madame Giry. Quella mattina non aveva avuto
la
forza di fare colazione insieme alle sue due padrone di casa,
così aveva atteso
che uscissero per prime, fingendosi addormentata. Agnese non le aveva
domandato
il motivo di quello strano comportamento, né tantomeno della
sua inspiegabile e
lunga assenza: probabilmente anche l’anziana governante era a
conoscenza di
quel segreto, ma Giulia non
osò farne
parola. Così, non vedendo le Giry dalla notte prima, non
aveva neppure chiesto
loro ciò che più di tutto agognava sapere: dove
avrebbe potuto trovare questo terribile Fantasma – stentava
ancora a credere
che fosse anche il suo Maestro, benchè tutto combaciasse con
il racconto di Meg
– che sembrava terrorizzare chiunque incrociasse il suo
cammino?
Perciò,
dopo aver scambiato qualche inevitabile convenevolo con monsieur Reyer,
il
quale si era mostrato sinceramente preoccupato per la sua febbre improvvisa – ancora
Giulia si domandava come avesse fatto a
non ridergli in faccia, all’udire questa sciocca scusa
inventata senza alcun
dubbio da madame Giry – la ragazza si diresse senza pensarci
due volte all’aula
di danza, pronta ad affrontarne la risoluta insegnante. La
trovò in pausa tra
una lezione e l’altra, mentre conversava con il pianista che
suonava durante i
suoi corsi, per abituare le ballerine a danzare seguendo la musica
delle varie
opere. Con un sospiro, Giulia le si avvicinò, attirando la
sua attenzione a
causa del ticchettio delle sue scarpe sul parquet del salone.
«Buongiorno,
zia.» Salutò accennando un sorriso, a beneficio
dell’uomo che le stava
ascoltando. «Vi posso parlare in privato? Vi
ruberò pochi minuti.»
Madame
cercò di non mostrarsi sorpresa e annuì,
scusandosi con monsieur Philippe e
seguendola in un angolo appartato della stanza. «È
successo qualcosa, ma chère?»
Domandò, preoccupata.
Giulia
scosse il capo, tranquillizzandola. «No, madame.
Semplicemente, devo chiedervi
una cosa. E ho bisogno che siate sincera,» aggiunse,
guardandola finalmente in
viso.
Louise
Giry credette di sapere che cosa volesse sapere la ragazza, e con un
sospiro
rassegnato acconsentì silenziosamente, in attesa che facesse
la sua richiesta.
«Per quello che adesso può importare, mia cara, mi
dispiace immensamente di
averti dovuto mentire per tutto questo tempo.»
«Ciò
che conta adesso è solo il presente.»
Ribattè, abbassando la voce nel vedere un
gruppetto di giovani ballerine passare accanto a loro.
«Dovete dirmi, madame…
Dove posso trovare il Fantasma?»
Malgrado
se lo aspettasse, madame non potè fare a meno di sgranare
leggermente gli
occhi: strinse le mani sulla bacchetta dalla quale si separava di rado,
dopodichè si diede veloce uno sguardo intorno. Di sicuro
erano al sicuro da
orecchie indiscrete, almeno all’apparenza. Purtroppo non
poteva mai essere
sicura di quali fossero i muri dotati di orecchie…
«Non
lo troverai cercando uno spirito, cara.» Mormorò,
avvicinandosi di più a lei. «Colui
che devi cercare è monsieur Destler… Il direttore
artistico del teatro.»
Questa
fu la volta di Giulia di sgranare gli occhi, stupita. «State
dicendo che il
Maestro è… È il direttore
dell’Opèra?» Sussurrò a sua
volta, sperando di aver
compreso male. Certo, oramai sapeva che colui che le aveva impartito
lezioni
per tutto quel tempo era un uomo come tanti, fatto di carne e sangue,
aveva
avuto modo di conoscerlo durante il
suo soggiorno nei sotterranei del teatro… Eppure non poteva
credere che fosse
addirittura il direttore artistico! Come potevano esistere simili
fatalità?
Madame
Giry scosse piano la testa, stringendo le labbra. «Domanda a
lui, ma chère. Non
spetta a me rivelare i
suoi segreti.» Replicò a bassa voce.
«Tuttavia ti scongiuro soltanto di fare
attenzione. Non sai tutto ciò di cui è
capace.»
Quell’ultima
affermazione ebbe il potere di farla rabbrividire, mentre la giovane si
ricordava chiaramente di quello che le aveva raccontato Meg la notte
prima.
Stava davvero andando di sua spontanea volontà nel covo di
un assassino?
Ma già c’era stata,
mormorò una vocina dentro di
sé, facendola riflettere per un breve istante. Aveva trascorso quindici giorni alla sua
più completa mercè e non era
accaduto nulla di male… Perché avrebbe dovuto
temere un breve incontro nel suo
stesso studio?
Perciò
annuì, risoluta, rivolgendo alla donna uno sguardo che
voleva essere
rassicurante. «Non preoccupatevi, madame, credo di averne una
vaga idea.» Disse
in risposta, accennando a ciò che aveva già
appreso. «Grazie per essere stata
onesta con me.»
Lasciò
la stanza prima che madame Giry potesse richiamarla indietro e cercasse
di
distoglierla dal suo proposito, poiché ella sapeva che non
poteva fare a meno
di andare a cercarlo comunque. Era troppo grande il bisogno di
conoscere tutta
la verità, e se l’unico modo per esaudire il suo
desiderio era risalire
direttamente alla fonte di tutto, allora l’avrebbe fatto.
Non
fu difficile trovare lo studio del direttore artistico. In effetti
bastò
domandare a una donna delle pulizie, che le indicò i vari
corridoi da prendere
per non perdersi nei meandri del teatro, e che si offrì
addirittura di
accompagnarla fino al quarto piano. Giulia declinò
gentilmente l’invito – non
voleva approfittare troppo della sua gentilezza, si schernì.
Così, dopo aver ringraziato
la signora, seguì le sue indicazioni e raggiunse senza
troppo girovagare lo
studio di monsieur Destler.
Il
corridoio nel quale era situato era completamente deserto. Non era una
delle
zone più frequentate dell’Opèra,
lontana com’era dal foyer e da tutto ciò che
poteva interessare ai vari habituès
e
agli stessi macchinisti o artisti che vi lavoravano. Giulia non seppe
se essere
sollevata da quella mancanza di confusione o se esserne spaventata
– dopotutto,
qualsiasi cosa fosse successa, ella si sarebbe trovata da sola in
compagnia del
fantasma…
Sospirò,
dandosi mentalmente della sciocca. Non poteva avere paura di qualcuno
con cui
aveva conversato e a cui aveva sfiorato gentilmente la mano, insomma,
era
qualcosa che andava contro ogni buon senso o razionalità.
Era andata lì
semplicemente per parlare, non aveva nulla da temere. Doveva
disperatamente
convincersi di questo, mentre attraversava il corridoio per raggiungere
la
porta dello studio che spiccava violentemente nel candore misto ad oro
delle pareti
e del mobilio. Prese un bel respiro, poi, prima di evitare
ripensamenti,
sollevò la mano e bussò due colpi decisi alla
porta.
«Avanti.»
Disse una voce dall’interno, in modo piuttosto burbero.
Giulia
non credeva sarebbe stato così facile: ad ogni modo
abbassò la maniglia e
spalancò la porta, affacciandosi all’interno della
stanza con cautela per poi
entrare definitivamente. Lo studio non era vuoto; al contrario, alla
scrivania
era seduto un uomo, il capo chino su dei documenti che stava
controllando e poi
firmando con una lunga piuma d’oca, l’atteggiamento
malgrado tutto minaccioso.
O forse era soltanto una sua impressione.
La
giovane richiuse la porta dietro di sé con un tonfo,
attirando finalmente
l’attenzione del direttore: malgrado si trovasse a due passi
da lui, ancora
pregava con tutta sé stessa affinchè non fosse la
stessa persona con cui aveva
trascorso le ultime due settimane, e il coraggio di guardarlo in viso
– per
scoprirlo eventualmente con la maschera indosso – ancora le
mancava. Ma quando
sentì la sua voce, istintivamente lo sguardo si
posò su di lui.
«Credevo
di aver detto di non voler essere disturbato,» aveva
sbottato, alzando
distrattamente gli occhi sull’intruso… E tacendo
all’improvviso. Monsieur Destler
si alzò dalla poltrona così repentinamente da
spaventarla e farla
involontariamente indietreggiare, mentre infine Giulia dovette
arrendersi alla
realtà dei fatti – il direttore artistico del
teatro, nonché Fantasma
dell’Opera… Non era altri che
il suo Maestro.
E
adesso la stava fissando con un’espressione impenetrabile,
ch’ella non riusciva
a comprendere.
«Che
cosa ci fate qui?» Sibilò Erik, a bassa voce,
trattenendo a stento l’ira e la
sorpresa. Tutto questo era assurdo, ancora una volta la ragazza lo
sorprendeva
con le sue iniziative e metteva a repentaglio tutti i suoi progetti, i
suoi
piani! Vederla nel suo studio era l’ultima delle cose che si
sarebbe aspettato
– avrebbe dovuto chiudere a chiave, o sparire prima del suo
arrivo, o fingere
di non esserci… E invece l’aveva preso alla
sprovvista, come un bambinetto
colto con le mani nella marmellata. Non sapeva più cosa
pensare, né cosa fare.
Dentro
di sé, sorprendentemente, Giulia riuscì a trovare
la forza di fronteggiarlo e
sostenere il suo sguardo penetrante. «Ho bisogno di avere
delle risposte da
voi, Maestro… Oppure, come dovrei chiamarvi?»
Chiese all’improvviso, stringendo
gli occhi: egli non era di certo il solo ad essere arrabbiato.
«Monsieur
Destler? O forse… fantasma?»
Erik
strinse i pugni talmente forte da farne sbiancare le nocche. Cosa
diavolo
poteva saperne, quella ragazzina, della storia del Fantasma
dell’Opera? A meno
che, certo, che sciocco!, qualcuno
non gliel’avesse narrata… E credeva proprio di
sapere chi fosse quel temerario.
Un’altra trovata delle Giry, senza alcun dubbio.
Tuttavia,
mentire a mademoiselle Sanders ancora, quand’era chiaro che
lei ormai sapeva
più di quello che avrebbe voluto, sarebbe stato deleterio
per il rapporto che si era creato
inevitabilmente tra loro, durante quel soggiorno nei sotterranei. Ella
non
aveva mai avuto paura di lui, né tantomeno orrore:
perché farla spaventare
adesso, perciò? Se la giovane credeva di essere in grado di
conoscere la
verità, allora gliel’avrebbe offerta su un piatto
d’argento. Dopotutto,
cos’altro aveva da perdere?
«Avrei
voluto essere io a dirvelo, mademoiselle, ma di sicuro non
così presto.»
Replicò perciò l’uomo, osservandola
attentamente. Sembrava che il leggero
timore che le aveva visto poco prima si fosse definitivamente
trasformato in
rabbia.
Ma
Giulia aveva ormai acquistato abbastanza sangue freddo da tenergli
testa senza
timore. «Dunque, avevate in programma di mentirmi
ancora?» Sibilò, facendo un
passo in avanti. «Per quanto tempo volevate far durare questa
sceneggiata,
monsieur, prendendovi gioco di me? Mi auguro almeno che vi siate
divertito
nello spaventarmi.»
Erik
riuscì a non far trapelare lo stupore nell’udire
quel tono risoluto nella voce
della ragazza, dopo che l’aveva considerata
un’anima calma e mansueta per tutto
quel tempo. Forse anche lei era capace di tirare fuori gli artigli,
quand’era
necessario. Interessante.
«All’inizio
volevo spaventarvi, mademoiselle, lo ammetto.»
Confessò, con un tono che
tuttavia rendeva impossibile anche solo immaginarsi il suo eventuale
rimorso:
evidentemente non si pentiva di ciò che aveva fatto.
«Ma poi i miei piani sono
cambiati. Credevo che aveste imparato a fidarvi di me, durante il
nostro soggiorno
nei sotterranei – non mi sono forse comportato da gentiluomo,
nei vostri
confronti?»
«Questo
non cambia il fatto che mi avete minacciato sin
dall’inizio!» Ribattè invece Giulia,
lasciandosi dominare dall’ira che aveva finora represso.
«Avete insistito
perché io vi accettassi come insegnante, eppure non ho
ancora compreso il
motivo del vostro accanimento verso di me!»
A dire la verità,
non l’ho ben compreso neanche io…
Pensò l’uomo, aggrottando le sopracciglia. Come
poteva darle una risposta che
non conosceva lui stesso? Il suo sguardo percorse la figura della
giovane che
lo fronteggiava, ostentando una disinvoltura e una sicurezza che forse
non
aveva del tutto, i pugni chiusi e alcuni ciuffi ribelli che le
sfuggivano dalla
semplice treccia con cui aveva ritirato i suoi capelli. La sua
espressione era
decisa, non spaventata – vi era più delusione che
terrore, nei suoi occhi. Più
la osservava e più la trovava differente, nel portamento e
nell’aspetto, della
sua antica allieva.
«Vi
dirò una cosa che di sicuro non sapete,
mademoiselle.» Rispose, decidendo di
ignorare la sua ultima affermazione. «Sono stato io a
trovarvi, febbricitante e
priva di sensi, nei corridoi che conducono ai sotterranei del teatro.
Io vi ho
portato da madame Giry, e sempre io le ho chiesto di prendersi cura di
voi.
Probabilmente sareste morta in quelle gallerie, se io
non vi avessi trovato e portata fuori di lì.»
Ed
ecco ch’egli riusciva a riavere il coltello dalla parte del
manico. Come
sempre, aveva ragione: Giulia non aveva idea di come era finita nella
casa di
madame Giry, inconsciamente aveva sempre creduto che fossero state le
due donne
a trovarla. E invece, ora scopriva di dover essere doppiamente
debitrice a
quell’uomo – come se già non bastasse il
fatto di avergli promesso sé stessa
in cambio della sua protezione
e dei suoi insegnamenti, seppur eccelsi.
«Con
questo vorreste legarmi ancora di più a voi,
forse?» Mormorò, poggiandosi
stancamente alla parete. Non era servito a nulla scoprire
l’umana identità del
suo maestro, se non poteva scampare neppure a quella.
«Voi
mi appartenete già.» Replicò Erik,
freddamente. «Non c’è nulla che possiate
fare per sfuggirmi. Volevo solo essere sicuro che ve ne rendeste
conto.»
In
realtà, le aveva confidato di averle salvato la vita
unicamente perché sperava,
inconsapevolmente, che la giovane potesse vedere qualcosa di buono in lui, benchè certi
suoi
comportamenti dimostrassero il contrario. Ma visto che mademoiselle
Sanders
sembrava essere stata troppo colpita da ciò che altri le avevano raccontato sul suo
passato, probabilmente non
avrebbe mai creduto che anche lui era capace di fare del bene
– forse non in
modo completamente disinteressato, ma dopotutto non era mai stato un
buon
cristiano!
Aggirò
la scrivania, lentamente, in modo che la giovane non si accorgesse del
movimento: era sempre stato molto bravo a muoversi silenzioso come
un’ombra, e
certe abitudini non si perdevano col tempo. Le fu accanto in un attimo,
e
quando Giulia ebbe alzato gli occhi egli l’aveva ormai
già bloccata col suo
corpo contro la parete.
«Non
sono venuta qui per rimangiarmi la parola data, monsieur.»
Mormorò guardandolo
tristemente, senza dar segno di preoccuparsi per
quell’improvvisa vicinanza.
«Volevo solo sapere quanto di vero e quanto di falso ci fosse
in ciò che mi ha
raccontato Meg su di voi. Volevo sapere se posso ancora fidarmi di voi,
come
mio malgrado ho fatto sin da subito.»
«Non
vi ho mai dato modo di credere di non essere al sicuro con
me,» rispose col
medesimo tono, cercando di ignorare egli stesso quanto il suo corpo
fosse
vicino – tanto da poterlo toccare – a quello della
giovane. «Ciò che ho fatto
in passato non può essere cambiato, ma non ha niente a che
vedere con voi. Sono
stato crudele per proteggere la mia stessa vita, mademoiselle, non
perché
amassi farlo. È l’istinto di sopravvivenza di
tutte le bestie,» aggiunse poi,
con un amaro sorriso.
Giulia
combattè ferocemente contro l’impulso di allungare
una mano e sfiorargli la
parte del volto che la maschera non copriva, e chiuse gli occhi per
riacquistare un minimo di conscienza. Se l’uomo le diceva che
poteva
tranquillamente fidarsi di lui, allora gli avrebbe creduto senza
mettere oltre
in discussione la sua parola. Tanto le bastava per poter vivere
tranquilla, per
il momento. «Dunque, voi… Non volete altro, da me,
che la mia voce da istruire?»
Domandò poi, cambiando discorso e tornando a qualcosa che la
premeva più da
vicino. Aveva ancora il capo chino, come se non fosse del tutto sicura
di ciò
che sarebbe accaduto se avesse sollevato lo sguardo su di lui.
Se
una simile domanda gliel’avesse posta prima che iniziasse a
sentire la sua
mancanza dopo un solo giorno senza vederla, probabilmente le avrebbe
risposto
immediatamente e senza battere ciglio. Ma ora… Dirle che
tutto ciò che voleva
era il suo canto, il suo impegno, per poter riuscire dove i suoi piani
con
Christine erano miseramente falliti, sarebbe stata un’enorme
menzogna. No, non
era di un amore platonico che aveva bisogno – non questa
volta.
Sovrappensiero,
osservò le proprie dita raggiungere una ciocca capricciosa
della chioma della
ragazza per poi portargliela dietro l’orecchio, in un gesto
tenero e lento che
le fece inarcare un sopracciglio, confusa. Ormai non rammentava
più la
sensazione dei boccoli dorati di Christine tra le sue mani,
quell’unica volta
che aveva goduto di quel tocco – l’unica volta
ch’ella l’aveva baciato;
tutto ciò che ancora ricordava
della sua musa sembrava essere svanito come un sogno
all’alba: bello, forse, ma
non reale.
Al
contrario di ciò che stava accadendo adesso. Quello non era
un sogno, né
tantomeno un incubo: egli stava davvero accarezzando la pelle
all’attaccatura
dei capelli di mademoiselle Sanders, e lei non si ritraeva, non
tremava, o
perlomeno non dalla paura. Si
limitava ad osservarlo da sotto le lunghe ciglia, incuriosita e
sorpresa, come
se quelle carezze fossero l’unica cosa che non si sarebbe mai
aspettata da lui.
Scappa, le avrebbe voluto dire, vattene finchè sei in tempo!
Ma aveva
cessato di essere razionale nel momento esatto in cui ella era entrata
dalla
porta del suo ufficio.
Obbedendo
ad un impulso che aveva a lungo represso, si chinò sul suo
morbido collo,
annusando il dolce profumo che emanava la sua pelle: non era qualcosa
di
artificiale, proveniente da chissà quali boccette aromatiche
che usavano le
donne dell’alta società ad ogni occasione
– versandosene sulle complesse
acconciature o sui guanti. Era un profumo più penetrante, selvaggio quasi, che conteneva la sua
stessa essenza: era il suo, il suo
corpo, che sapeva di pulito,
di innocenza e allo stesso tempo di sensualità.
Fu
la voce tremante della ragazza a distrarlo per un istante da quelle
scabrose
fantasie.
«Maestro,
vi prego… Che cosa state facendo?»
Mormorò agitata, il petto che le si alzava e
abbassava affannosamente – come se si fosse alla fine resa
conto della
pericolosità della situazione.
Erik
serrò con forza le palpebre, cercando di recuperare un poco
di controllo, ma
inutilmente. Troppo gli era stato negato un simile contatto con una
donna, e
per quanto non se ne fosse mai completamente privato – di
donne che regalavano
una notte di piaceri in cambio di qualche soldo ve n’erano
parecchie, infatti –
non era quello ch’egli agognava. L’uomo bramava
un’unione che fosse condivisa
da entrambi, desiderava una donna che condividesse il suo talamo per amore e non per denaro –
desiderava
qualcuno come mademoiselle Sanders.
No, si corresse mentalmente,
stringendo gli occhi. Lei, era lei
l’unica che desiderava. Ma perché, maledizione?
«Maestro…?»
Insistè la giovane, iniziando a spaventarsi.
Gli
occhi dell’uomo incontrarono i suoi e la inchiodarono, tanto
era profondo e
terribile il suo sguardo, facendola tacere. Egli la guardava come se
avesse
compreso solo in quel momento ciò che davvero Giulia
rappresentava per lui –
non solo un pallido ricordo di Christine, non soltanto un mezzo per
compiere la
sua vendetta, né tantomeno solo un’allieva. Erik
si odiava per ciò che stava
provando, ma ormai era troppo tardi per impedirsi di provare simili
sensazioni:
già una volta ci era passato, e sapeva che resistere era
impossibile. Perché
farlo, dunque?
«Vi
chiedo perdono, Giulia.» Mormorò, chiamandola per
la prima volta con il suo
nome.
Lei
sgranò leggermente gli occhi, intuendo che quel cambiamento
nel suo modo di
rivolgersi a lei non poteva indicare nulla di buono. «Che
cosa volete dire?»
Erik
le si avvicinò se possibile ancora di più,
facendola indietreggiare fino a
quando ella non toccò la parete con la schiena e posando
entrambe le mani ai
lati della sua testa, in modo che non potesse muoversi da quella
posizione. I
suoi occhi sembravano brillare, bramosi. «Perdonatemi,
perché non è la voce
l’unica cosa che voglio da voi…»
Sussurrò, roco.
Giulia
trattenne il respiro, mentre tutti i dubbi e le supposizioni che aveva
avuto
modo di fare in quel periodo iniziavano a prendere forma, acquistare
sostanza,
diventare reali. Il corpo
dell’uomo
premuto contro il suo non rappresentava di certo il rapporto che poteva
esserci
tra loro in quanto allieva e maestro, no – monsieur Destler
sembrava avere le
idee molto chiare in proposito. Eppure… Continuava a non
avere paura. Stava
forse diventando pazza?
Il
volto mascherato di Erik si avvicinò talmente tanto a quello
della ragazza da
poterlo sfiorare solo con un sospiro più profondo, mentre
continuava a godere
del suo profumo e dal calore che il suo corpo emanava. Se avesse
prestato un
po’ più d’attenzione, aveva
l’impressione che sarebbe riuscito a udire il suo
piccolo cuore che le batteva furioso nel petto. Le sue labbra
sfiorarono
l’angolo della bocca di Giulia fino al mento e viceversa,
lasciando dietro di
sé una scia di brividi ch’egli
considerò deliziosa. E ancora lei non gridava,
né cercava in alcun modo di scostarlo da sé
– non ne era del tutto sicuro, ma forse,
se mademoiselle avesse dimostrato
di essere disgustata da quella posizione troppo intima, probabilmente
si
sarebbe arreso alla realtà dei fatti e l’avrebbe
mandata via… Ma quella era una
cosa che non avrebbe mai scoperto.
«Oh,
Giulia…» Sussurrò, ormai sulle sue
labbra. «Siete sempre qui, nella mia
mente…»
La
ragazza socchiuse gli occhi, cercando di tornare a respirare
normalmente, ma
con scarsi risultati. Non sapeva cosa fare, non sapeva cosa pensare, l’unica cosa certa era
che il
corpo non voleva andarsene e lasciare il calore che quel corpo stava
trasmettendo al suo.
Alla
fine, Erik non resistette più. Le rivolse un ultimo sguardo
torbido per
studiare la sua espressione, ma visto ch’ella sembrava tutto
fuorchè
infastidita o nauseata dalla sua vicinanza, calò finalmente
le sue labbra
ardenti su quelle della giovane, strappandole un gemito di sorpresa.
_______________________________________________________________________
AA - Angolo Autrice:
Buon
pomeriggio, giovani fanciulle! Come va?
:) Spero bene ^^
Innanzitutto, grazie mille a kenjina,
sydney bristow
e TheMisty910 per
aver recensito lo scorso capitolo *_* Merci beaucoup!
Chiedo
scusa per l'attesa, questo capitolo è stato abbastanza tosto
da scrivere! Per non parlare di quello successivo, è stato
davvero un parto -_- ma ciò che conta
è che sia finalmente sui vostri schermi xD Attendo con
impazienza i vostri commenti al riguardo, spero di essere riuscita a
rendere le sensazioni di entrambi i personaggi (anche se questo, poi,
lo scoprirete meglio nel prossimo capitolo, che cercherò di
postare in fretta). Al momento i De Chagny si stanno riprendendo dal
viaggio, ma credo che tra non molto appariranno nuovamente anche loro
ù_ù E Bamdad? Nel prossimo vedremo brevemente
anche lui.
Uhm, have I
said too much? =O
(chiedo scusa, l'altro giorno ho rivisto Evita e sto canticchiando le
canzoni come una scema xD Se non l'avete mai visto, guardatelo,
davvero, è splendido! *_* E poi basta dire che è
stato scritto dal nostro caro vecchio Webber ù_ù).
Credo di non avere
altro da dichiarare! Con questo vi lascio, carissime, ci sentiamo al
prossimo capitolo!
Un bacio e un
abbraccio, vostra
GiulyRedRose
_______________________________________________________________________
AP - Angolo Pubblicità:
Quest'angolo
è nuovo
ù_ù Serve per pubblicizzare il Contest che io e
la mia cara kenjina
abbiamo indetto a proposito dell'adorato Fantasma *_*
Alcune di voi sapranno
già di che si tratta, forse, ma per
tagliare la testa al toro ripeto volentieri tutto quanto. ^^
The
Phantom of the Opera Contest [scadenza 01/12/2010 -
proroghe
fino al 08/12/2010]
Accorrete numerose! *_*
|
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Capitolo 23 *** 21. And I kissed you... ***
Chapitre
21
And
I kissed you…
“The
first time ever I kissed your mouth
I
felt
the earth move through my hand
Like
the
trembling heart of a captive bird
That
was
there at my command, my love…”
Le
labbra di Erik erano bollenti e audaci contro le sue – la
accarezzavano e allo
stesso tempo sembravano volerla divorare in un crescendo di sensuale
passione
che di sicuro non si aspettava. Le mani dell’uomo sciolsero
la treccia della
ragazza, liberando la lunga chioma castana da innumerevoli forcine che
caddero
poi sul pavimento, dimenticate. Infilò le mani tra i suoi
capelli, saggiandone
la morbidezza, e gemette quando poi Giulia si arrese al suo assalto e
dischiuse
le labbra, permettendo a quelle del suo maestro di approfondire
ulteriormente
quel contatto. La strinse a sé con forza, premendola contro
il muro e tenendo
il suo volto tra le mani come se avesse avuto paura che la giovane
potesse
scomparire da un momento all’altro.
Da
parte sua, Giulia non riusciva ancora a riconquistare abbastanza
lucidità per
potersi sentire offesa e cercare così di cacciarlo via,
lontano da sé – la sua
mente e il suo corpo, purtroppo, non andavano di pari passo. La sua
bocca
sembrava gemere in risposta ai mormorii confusi dell’uomo,
come in un duetto al
quale partecipavano entrambi e col medesimo trasporto. Sapeva di
doverlo far
smettere: ma per sua sfortuna monsieur Destler sembrava prendere i suoi
mormorii come un invito a continuare, e il modo in cui la teneva
premuta contro
la parete lo dimostrava.
La
sua lingua era timida e inesperta mentre cercava di ricambiare,
incuriosita, le
carezze di quella bollente dell’uomo. Si ritrovò a
chiudere gli occhi,
abbandonandosi contro di lui, naufraga in una marea di emozioni che
davvero non
comprendeva come potessero esserle state causate dal temibile Fantasma dell’Opera.
Cercò di riprendere
fiato ed egli dovette aver colto il suo bisogno, perché
lentamente si ritirò
dal suo assalto, limitandosi a posarle dei piccoli e teneri baci sulle
labbra
arrossate, e poi agli angoli di esse. Il suo respiro era altrettanto
affannoso,
come in seguito ad una lunga corsa, ma probabilmente non si sarebbe mai
fermato
se non fosse stato per lei. Nascose per un attimo il volto
nell’incavo della
spalla della ragazza, come se non volesse privarsi del suo calore e del
suo
profumo in modo troppo traumatico, e poi, lentamente, si
raddrizzò in modo da
restituirle un poco del suo spazio.
«Mio
Dio, Giulia… Perché non siete fuggita?»
Mormorò, posando la fronte su quella
della giovane come aveva già fatto in passato.
Lei
deglutì, sfiorandosi con un dito le labbra vagamente
doloranti. «Io… Vorrei
saperlo,» sussurrò, sconvolta – non
tanto dal bacio in sé, quanto piuttosto
dalle sensazioni che esso le aveva causato. Per un attimo aveva avuto
l’impressione che sarebbe potuta impazzire se quelle labbra
si fossero fermate,
e adesso… Tutto le appariva estremamente confuso. Non era
forse andata da lui
per avere delle risposte, per scoprire la verità? E allora
perché si ritrovava
immersa in dubbi ancora più grandi?
Sollevò
piano lo sguardo su di lui, cercando di mettere a fuoco
l’intera situazione. «Cosa…
Cosa significa questo?» Balbettò; sarebbe
indietreggiata, se non ci fosse stato
il muro ad impedirglielo. «Perché avete fatto una
cosa simile?»
Lo
sguardo di Erik divenne improvvisamente cupo, tanto da farla
spaventare; la sua
voce, poi, fu glaciale quando parlò. «Preferivate
forse le attenzioni di
qualcun altro?» Sibilò, allontanandosi di qualche
passo in modo da poterla
vedere in in viso. «Qualcuno come monsieur Bamdad,
magari?»
Credete che non vi
abbia vista amoreggiare con lui?,
avrebbe voluto aggiungere.
Ma
Giulia sgranò gli occhi, sinceramente stupita.
«Chiedo scusa? Monsieur Bamdad?»
Ripetè, inarcando le sopracciglia. Che cosa mai aveva a che
vedere il persiano
con ciò che era appena accaduto tra… Oh. Forse
iniziava a capire. Certo, come
aveva fatto a non pensarci? In quanto fantasma,
il suo mentore poteva essere in ogni luogo e in ogni momento, dunque
niente di
strano che avesse assistito quando Bamdad l’aveva baciata
contro la sua
volontà… Senza contare il fatto che quella volta
si trovavano nella piccola
cappella del teatro, poche ore prima della loro lezione. Era ovvio che
li
avesse visti… E, forse, era ovvio anche che ne apparisse
tanto furioso al
ricordo.
«Avete
frainteso, temo: non c’è nulla che mi leghi a
monsieur Bamdad…» Spiegò,
sperando che la sua voce suonasse convincente malgrado il leggero
tremore che
sembrava persistere. Ma perché si sentiva in dovere di
giustificarsi con lui?
Solo a causa di quel bacio? Inoltre, a
rigor di logica, anche monsieur Destler l’aveva
baciata contro la sua
volontà – il fatto che poi lei gli si fosse arresa
non rendeva meno ‘grave’ la
situazione. Forse adesso egli era convinto di possedere
chissà quale sorta di
potere o esclusiva su di lei?
«Dunque,
siete libera di legarvi a qualcun altro. Mi sbaglio?»
Aggiunse Erik sottovoce,
cercando di non far trapelare il leggero sollievo che aveva seguito
l’ammissione
della ragazza.
Quelle
parole le giunsero più inaspettate del suo bacio.
«Che cosa state insinuando,
monsieur?» Osò domandare, cercando allo stesso
tempo un modo per lasciare
quella scomoda posizione contro la parete.
Ma
egli la raggiunse, intrappolandola nuovamente contro il muro.
«Vi ho sentito
gemere al mio tocco, Giulia.» Sussurrò, con voce
soffocata. «Non prendetevi
gioco di me nel cercare di negarlo.»
Ella
deglutì, imbarazzata, guardandosi freneticamente intorno per
cercare una rapida
via di fuga a quella indesiderata situazione. Tuttavia lo sguardo
attento
dell’uomo vide dove si stavano posando i suoi occhi, e non
potè fare a meno di
ringhiare come un animale, furioso.
«Non
pensatelo neanche! Non ve ne andrete finchè non
sarò io a dirvelo.» Le
ingiunse, prendendole il mento tra due dita e voltandola con fermezza
verso di
sé. «Non è la prima volta che rimanete
sola con me, Giulia. Perché adesso tutto
questo disagio?» Aggiunse, aggrottando la fronte.
La
ragazza non sapeva davvero che cosa rispondere. O meglio, a lei la
risposta
sembrava quasi scontata… L’ultima volta non era
successa una cosa del genere,
anzi: egli le aveva più volte sottolineato che non aveva
intenzioni simili nei
suoi confronti. E invece, adesso, quell’assalto! Che cosa
avrebbe dovuto
pensare?
Ma
ciò che più la spaventava era la propria reazione
– aveva ricambiato il suo
bacio con un tenero trasporto che, al contrario, con Bamdad non aveva
provato.
Il calore delle labbra del Maestro sulle sue era un qualcosa che non
avrebbe mai
dimenticato, anzi, che avrebbe volentieri ripetuto. Probabilmente, se
non
avesse avuto il naturale bisogno di prendere fiato, non avrebbe mai
osato
staccarsi da quella bocca. Ma non poteva certo dire a lui
queste cose!
«State
arrossendo.»
Giulia
sgranò gli occhi, con la sensazione di essere stata colta in
flagrante.
Maledizione a lei e al suo corpo che non riusciva a rimanere
impassibile… Cercò
di non incrociare lo sguardo dell’uomo, posandolo
insistentemente su un bottone
del suo panciotto color oltremare – buon Dio,
perché non indossava anche la
giacca sopra di esso? – ma purtroppo era attirata dai suoi
occhi penetranti
come una falena lo era dalla luce. Le sembrava di non essere
più capace di
parlare, tant’era secca la sua gola – e tutto
questo era stato causato da un
misero bacio?
«Io…
Vi prego, monsieur, lasciatemi andare.» Riuscì a
mormorare, alla fine. Voleva
restare sola per poter riflettere in pace, ma a quanto sembrava il
Maestro non
glielo voleva permettere.
«Vi
ripugna così tanto la mia presenza?»
Sibilò Erik, lasciandola e mettendo una
breve distanza tra loro. «Non voglio arrivare a minacciarvi,
Giulia, ma
sappiate che non vi permetterò di allontanarvi da me. Avete
sentito qualcosa,
quando vi ho baciato, esattamente come l’ho sentito io! E se
credete che io
possa rinunciare a una cosa simile, allora non mi conoscete
abbastanza.»
«Io
davvero non capisco, che cosa volete da me?» Proruppe la
giovane, senza
riuscire a mascherare l’agitazione. «Cosa volete
che vi dica? Non vi conosco,
non so nulla di voi, salvo le poche cose che mi sono state raccontate
da altri!
Sarebbe stato meglio se foste stato voi a dirmele, ma ciò
non è successo… Come
potrei fidarmi, allora? Se la situazione fosse diversa, allora
potrei… Oh, non
fatemi dire cose di cui potrei pentirmi!»
«Le
vostre parole mi fanno ben sperare.» Sussurrò
Erik, cercando di cambiare tono e
avvicinandosi nuovamente a lei. Sembrava non riuscire più a
starle lontano,
ormai. «Se volete davvero la verità, da me, allora
è quella che avrete. Se
questo servirà a farmi vedere sotto un’altra luce
ai vostri occhi, così sia,
chiedetemi tutto ciò che desiderate. L’unica cosa
che voglio io, Giulia, è che
voi non mi odiate.»
Giulia
scosse il capo con forza, come per dare maggior enfasi alle sue parole.
«Odiarvi,
come potrei odiarvi… Non sono riuscita a farlo
all’inizio, quando ne avrei
avuto tutte le ragioni, e di certo non sarei capace di farlo
adesso…» Ripetè,
non riuscendo neppure a concepire una cosa simile. «Voi siete
un genio, un maestro, la musica vi
scorre nelle vene
al posto del sangue, e per qualche oscuro motivo avete scelto me come
vostra
alunna, soltanto me!» Si
passò una
mano sugli occhi, nervosa, prima di scrollarsi i capelli.
«Non riuscirei ad odiarvi
neppure se da questo dipendesse la mia vita.»
Confessò, abbassando la voce.
«Se
non è odio, quello che provate nei miei confronti, allora di
che cosa si
tratta?» Volle insistere Erik, ad ogni costo. Era ben deciso
a impedirle di
cambiare discorso o eludere le sue domande, e se per farlo avesse
dovuto
rapirla nuovamente e riportarla nei suoi sotterranei, ebbene,
l’avrebbe fatto
senza battere ciglio.
Giulia
non sapeva che cosa rispondere. Il semplice fatto di aver trovato
attraenti le
sue labbra e piacevole il suo bacio non implicava per forza
l’esistenza di un
qualche sentimento: era persuasa – o perlomeno, cercava di
convincersi – che
ciò che il suo corpo e il suo cuore provavano e volevano
fossero due cose ben
distinte. L’affetto poteva provarlo, certo; la tenerezza, la
gratitudine, non
erano messe in discussione. Ma poteva esserci anche
dell’altro? Qualcosa di
più… profondo?
Cercando
di passare inosservata si passò la punta della lingua sulle
labbra tumide, come
a voler assaporare nuovamente il sapore dell’uomo che le era
rimasto sulla
bocca – come se da questo avesse potuto estrapolare la
risposta che il Maestro
desiderava da lei. Purtroppo, però, tutto ciò che
quella piccola carezza ebbe
il potere di fare fu farle venire un esasperante desiderio di risentire
il
bacio dell’uomo su di sé. Inammissibile da parte
sua!
«Non
lo so…» Singhiozzò, presa dal panico.
Stava iniziando ad avere paura. «Come
posso saperlo? Buon Dio, non conosco neppure il vostro nome!»
«Erik,»
le sussurrò all’orecchio, mettendo in quella
parola tutta la dolcezza di cui
era capace. «Il mio nome è Erik.»
Erik.
Improvvisamente, Giulia sgranò
gli occhi nel ricordarsi della prima volta in cui aveva udito quel nome
così
singolare. Era da tanto tempo che non pensava più a quel
sogno, ma quella
semplice parola ne aveva risvegliato il ricordo sepolto nei recessi
della sua
mente. Certo, l’aveva sognato una volta, e nel sonno lei
stessa aveva le
sembianze di una bionda fanciulla chiamata Christine – a
questo punto poteva
chiaramente collegarla all’amica d’infanzia di Meg,
perché no? – che si
dilettava con curiosi ninnoli in quella che era la Dimora
sul Lago. Certo, tutto tornava! Sempre nel sogno, lei gli si
era rivolta chiamandolo angelo, e
lui… Ma sì, sì,
egli era mascherato,
indossava una mezza maschera bianca!
Aveva
sognato il suo maestro e la sua antica allieva senza neppure essere al
corrente
della loro esistenza e di ciò che era accaduto! Come poteva
mai essere
possibile?
Sì
ritrovò ad ansimare, agitata e spaventata, mentre con le
mani si artigliava il
petto come se avesse voluto coprire il rombo dei battiti furiosi del
suo cuore.
Che cosa le stava succedendo? Perché aveva
l’impressione di aver già vissuto
una situazione simile, in passato? Poteva forse esserci qualche
collegamento
tra lei e l’ormai Viscontessa de Chagny? E perché,
maledizione, perché
madame Giry continuava a tacerle
parte della verità, anche adesso che – ne era
sicura – doveva essere riuscita a
capire ogni cosa?
Giulia
alzò gli occhi ormai lucidi sull’uomo, ritrovando
sul suo viso lo stesso che
aveva intravisto, confusamente, nel suo sogno – ma
riconoscendolo. Egli la
stava fissando con un’espressione preoccupata, come se di
certo non si
aspettasse quella sua strana reazione. Ma troppe cose le stavano
accadendo,
troppe, e neanche una sembrava portare ad una chiara e limpida
soluzione.
Se riuscissi a
recuperare la memoria sarebbe tutto più facile…
Pensò, mordendosi il labbro
inferiore.
«Non
volevo sconvolgervi tanto.» Mormorò Erik, senza
più osare toccarla. Gli
sembrava che fosse diventata improvvisamente fragile e delicata.
«Sono
terribilmente dispiaciuto, Giulia… Mi sono comportato come
un mostro.
Perdonatemi.»
«No,
no…» Ribattè lei, allungando le mani e
aggrappandosi alle maniche della sua
camicia. «Io non volevo piangere. Non so cosa mi è
preso… Stanno succedendo
tante di quelle cose intorno a me, Maestro, e io credo di aver
raggiunto il
limite di sopportazione… Non è colpa vostra, ve
lo assicuro, o almeno non tutta.»
Erik
esitò, non sapendo come comportarsi. Trovava più
semplice porre fine alla vita
di un altro essere umano piuttosto che consolare una giovane fanciulla
tremante
e sull’orlo del pianto. Si limitò ad attirarla
cautamente verso di sé, in modo
da lasciarla libera di ritrarsi qualora non avesse desiderato quel
contatto;
tuttavia ella si lasciò stringere, senza opporsi,
seppellendo il viso sul petto
dell’uomo e respirando pesantemente per ricacciare indietro
le lacrime. Lo
strinse disperata a sua volta, quasi trovasse conforto nel suo
abbraccio.
Probabilmente,
a quel punto, l’unico di cui poteva davvero fidarsi era il
suo Maestro: alla
fine le aveva detto ogni cosa, o quasi, e dal modo in cui la teneva
stretta
sembrava essere davvero tormentato per lei. E poi, doveva pur trovare
qualcuno
di cui fidarsi ciecamente.
L’uomo
le accarezzò dolcemente i capelli, cercando di calmarla, e
quando si accorse
che i singhiozzi erano finalmente cessati la condusse verso una comoda
poltrona, facendola sedere e allontanandosi un attimo per andare a
prendere un
bicchiere di liquore. La ragazza aveva bisogno di riprendersi, il
colore
sembrava essere del tutto defluito dalle sue guance – e
questo, lui, non poteva
sopportarlo.
Ed eccolo, il
terribile Fantasma!,
si ritrovò a pensare mentre le versava
l’acquavite. Si prende cura di una
donna in lacrime come se da questo dipendesse la
sua vita. Che ne è stato dei tuoi progetti di vendetta, del
tuo cuore indurito
e insensibile?
Erik li ha
dimenticati nel momento esatto in cui le loro labbra si sono fuse in
una
soltanto.
Cercò
di ignorare quei maledetti pensieri decidendo di occuparsi unicamente
della
giovane; avrebbe avuto tutto il tempo per pensare, una volta rimasto
solo.
«Ecco,
bevete.» Disse, porgendole il bicchiere colmo a
metà di liquore.
La
ragazza lo osservò confusa, aggrottando le sopracciglia.
«Che cos’è?»
Mormorò,
annusandolo.
«È
cognac, vi farà bene.» Rispose, inginocchiandosi
davanti a lei.
Giulia
decise che non aveva senso fare delle storie per un liquore,
così lo portò alle
labbra e ne bevve un lungo sorso che le bruciò la gola,
facendola lacrimare. «Mon Dieu,
è fortissimo!» Esclamò,
tossendo.
Erik
sorrise lievemente, prendendole il bicchiere dalle mani e porgendole un
fazzoletto. «Avreste dovuto berlo piano, non come se fosse
acqua. In compenso,
sembra che vi siate ripresa…» Aggiunse, alludendo
al rossore che aveva
nuovamente colorato le sue gote.
La
ragazza annuì, sentendosi il viso in fiamme: a questo punto
non avrebbe potuto
dire se si trattava dell’imbarazzo o del liquore che aveva
sorbito con così
tanta leggerezza. Si asciugò le lacrime con il fazzoletto
che le aveva porto il
suo Maestro, e malgrado tutto iniziò a sentirsi un
pò meglio. E adesso egli era
inginocchiato ai suoi piedi, silenzioso, come se fosse stato in attesa
di
qualcosa – ma cosa? Di una parola da parte sua? Di
un’ammissione dei suoi
sentimenti? Oh, ma quali sentimenti?
Non
stava capendo più niente.
Improvvisamente
– grazie al Cielo,
pensò lei –
qualcuno bussò alla porta, con decisa leggerezza. Erik si
alzò infastidito,
deciso a memorizzare il nome dello stolto che aveva osato interromperlo
in un
momento così delicato.
«Avanti,»
esclamò, lasciando trapelare l’irritazione dalla
voce.
La
porta si aprì e sulla soglia apparve monsieur Bamdad, carico
di fogli e
fascicoli vari e, per la prima volta da quando Giulia lo conosceva, in
maniche
di camicia e con i capelli spettinati. Gli occhi del persiano si
posarono sul
suo principale e sulla giovane semi distesa su una poltrona, con i
capelli
sciolti e scarmigliati, le pieghe del vestito scomposte e un colpevole
rossore
dipinto sul volto. Indubbiamente, la situazione poteva essere fraintesa.
«Perdonate
l’intrusione, monsieur, mademoiselle Sanders.»
Disse, sforzandosi di ostentare
un tono leggero e indifferente. «Ho forse interrotto
qualcosa?»
«Che
cosa siete venuto a fare qui, Bamdad?» Sibilò
Erik, stringendo gli occhi.
«Credevo di avervi ripetuto fino alla nausea di non voler
essere disturbato quando
sono nel mio studio.»
Lo
sguardo del giovane segretario percorse un’ultima volta la
figura imbarazzata di
mademoiselle Sanders, prima di dedicarsi unicamente al suo padrone.
«Certo, vi
chiedo perdono. Ma questi sono quegli atti che mi avevate domandato, ho
appena
terminato di studiarli e sono venuto a consegnarveli come da voi
richiesto.»
Replicò, insistendo sul concetto che era stato lo stesso
Erik a ordinargli di
andare.
Erik
riprese rapidamente il controllo di sé e annuì,
seccato. «Sì, perfetto. Grazie
per la vostra solerzia. Potete lasciarli sulla scrivania e tornare al
vostro
lavoro.»
Monsieur
Bamdad obbedì, posando le varie scartoffie sul tavolo di
Erik e accennando un
mezzo inchino alla ragazza, prima di uscire nuovamente dallo studio
chiudendo
delicatamente la porta alle sue spalle – benchè
l’istinto sarebbe stato quello
di sbatterla con forza. In quel momento odiò il suo
principale come non avrebbe
mai ritenuto possibile, e provò pena per quella povera
ragazza costretta a
stare alla sua mercè.
Rimasta
nuovamente sola con lui, Giulia tirò un leggero sospiro di
sollievo. Vedere
monsieur Bamdad lì, dopo
quello che
Erik aveva insinuato a proposito di un legame tra loro… Per
un attimo aveva
temuto che lo aggredisse, ma evidentemente le sue rassicurazioni al
riguardo
avevano fatto desistere il suo Maestro dall’affrontarlo. Si
era sentita inoltre
estremamente in imbarazzo quando il persiano l’aveva guardata
come se la stesse
giudicando: ella sapeva che il suo aspetto avrebbe potuto fargli
equivocare la
situazione, ma dopotutto… Accidenti, non poteva sentirsi in
colpa per tutto ciò
che le accadeva intorno, insomma, non era colpa sua se monsieur Bamdad
si era
interessato a lei. Come non era colpevole dell’interessamento
di Erik,
d’altronde. Ma qui erano un altro paio di maniche.
«Mi
dispiace che vi abbia vista così,» disse
all’improvviso Erik, senza voltarsi.
«Avrei dovuto impedirlo. Le lacrime di una donna sono
talmente preziose e
intime che a nessuno dovrebbe essere concesso il privilegio di
vederle.»
La
ragazza riuscì ad accennare un sorriso, mentre stringeva tra
le mani il
fazzoletto. «Voi ci sopravvalutate, monsieur. Non siamo poi
così preziose.»
Replicò, cercando di alleggerire l’atmosfera ma
con scarsi risultati.
Allora
egli si voltò verso di lei, con una strana espressione sul
viso. «Vi ho detto
il mio nome, ma le vostre labbra non l’hanno mai pronunciato.
Sono stato così
miserabile da non meritarmi neanche questo piccolo piacere?»
Giulia
inarcò le sopracciglia, sorpresa. «Non credevo
potesse essere così importante,
per voi.»
«Lo
è, al contrario.» Replicò
l’uomo, tristemente. «Sono stato chiamato in molti
modi, Giulia. Figlio del Diavolo,
mostro, Fantasma, angelo e
maestro…
Ma mai, mai, qualcuno ha usato il
mio
nome per rivolgersi a me. Come se non meritassi di fare parte
anch’io del resto
dell’umanità.»
Un
rigido silenzio seguì quelle parole, gettate via con
amarezza da un uomo che si
era ormai stancato di affrontare per l’ennesima volta la
stessa situazione, lo
stesso dolore, lo stesso rifiuto.
Abbassò lo sguardo, avvicinandosi alla scrivania e posando i
palmi delle mani
sul ripiano di legno per evitare di fare a pezzi qualsiasi cosa gli si
fosse
trovata davanti – non voleva spaventarla ancora. Aveva
creduto, per un attimo,
che quel bacio avrebbe significato qualcosa per lei – certo,
non si aspettava
che gli dichiarasse amore eterno, ma che almeno gli desse un briciolo
di speranza – ma invece
non era accaduto
nulla di simile. Così, adesso, si ritrovava al punto di
partenza, senza sapere quale
sarebbe stata la sua prossima mossa.
Stava
quasi per intimarle di andarsene via, di sparire dalla sua vista,
quando la
voce della ragazza giunse inaspettata a spezzare quel silenzio. E
arrivò,
sussurrando una melodia che egli credeva di aver dimenticato, e che, a
rigor di
logica, ella non avrebbe dovuto conoscere.
«Pitiful creature of
darkness…
What kind of live have you known?»
Erik
si voltò piano verso di lei, stupito, mentre qualcosa
– all’altezza del petto –
gli si spezzava in modo definitivo. La osservò alzarsi dalla
poltrona e avvicinarglisi
lentamente, i suoi occhi color del miele che non abbandonavano la
profondità
dei suoi, e quando infine fu abbastanza vicina da poter udire il suo
dolce
profumo, ella gli prese una mano tra le sue.
Poi,
con dolcezza, gli sorrise. «Voi non siete più
solo, Erik. Non ora che ci sono
io.» Sussurrò. Non gli fece promesse di nessun
genere, non gli confessò il suo
amore, non lo baciò; si limitò a sorridergli con
una tenerezza tanto sincera da
farlo tremare, mentre il calore delle sue giovani mani si propagava
sulle sue
come se si stesse riscaldando davanti ad un fuoco ardente.
Eppure,
in quell’istante, Erik fu certo di essere l’uomo
più felice sulla faccia della
terra.
Il suo nome sulle
sue labbra, le stesse che aveva baciato.
L’attirò
tra le sue braccia, stringendosela al petto e seppellendo il viso,
ancora
mascherato, nei suoi capelli: non voleva ch’ella lo vedesse
piangere, ma non
era qualcosa che poteva evitare. Sentì le lacrime sgorgargli
dagli occhi senza controllo,
ma non singhiozzò né emise il più
piccolo gemito, deciso a non terrorizzarla
ancora con il suo strano comportamento.
Ciò
nonostante Giulia ricambiò la stretta come se avesse
compreso – e d’altra parte
da lei non si aspettava di meno. Le sue mani lo accarezzarono
teneramente, e
lei si limitò ad abbracciarlo in silenzio, poiché
non era di parole ch’egli
aveva bisogno.
«God give me courage to show you
You are not alone…»
__________________________________________________________________________________________________
AA - Angolo Autrice:
Buon
pomeriggio, ragazze! ^^ Dunque, non ho molto da dire: questo
capitolo è semplicemente il seguito del precedente,
così vedete un pò cos'è successo dopo
il primo passo di Erik. Beh, cosa ne
pensate? Troppo melenso? Troppo scontato? Troppo perfetto? Eeeeh, le
cose non sono mai come sembrano, si può dire che questa sia
la calma prima della tempesta... ù__ù
E adesso rispondo alle
vostre recensioni, questa volta ho il tempo *_*
Sydney bristow: Ciao cara, grazie mille per aver
recensito! ^^ (yeee, uccidiamo i De Chagny! *O*) Sono contenta che
questo capitolo ti sia piaciuto, spero sia così anche per il
nuovo. Un abbraccio, a presto! :*
aliena: Ciao e grazie della recensione! Sono felicissima
che ti sia piaciuto *_* Anch’io adoro Erik per ogni cosa che
fa, l’ho trovato attraente anche mentre uccideva Buquet u.u
Eh già, finalmente qualcuno lo apprezza *_* un bacio cara,
al prossimo capitolo! :*
TheMisty910: Ciao! Wao, sono commossa… Quanti
complimenti! *_* Anch’io non vedevo l’ora che
succedesse qualcosa di simile, avevamo bisogno di un po’ di
pepe xD Eh sì, la nostra Giulia sta iniziando a
tirare fuori gli artigli… Sarà sintomo della sua
memoria che sta tornando? Mah, chissà =O Lo vedremo in
seguito! ^^ Un abbraccio, a presto! :*
P.S: Anche a me piace un sacco usare pezzi di canzoni come titoli dei
capitoli *_*
Keyra93: Ciao cara! Wao, una recensione così
lunga merita una risposta altrettanto sostanziosa *_*
Innanzitutto… SI, ho paura tu sia l’unica che
apprezza il ritorno dei De Chagny. Che ci possiamo fare, non hanno un
bel curriculum xD Quanto alle Giry… Beh, dispiace anche a
me, ma queste sono peggio di Studio Aperto >_< Cavoli!
Altro che ‘mantenere segreti’! Mesdames et
messieurs, vi presento Ballerina
2000, il nuovo magazine
per tenersi aggiornate sulle novità del mondo dello
spettacolo… Poi uno non si dovrebbe arrabbiare? u_u
Ora, scherzi a parte…
Passiamo a qualcosa che ci preme di più
ù_ù
Dunque: sfatiamo questo mito. Erik non va ‘a
puttane’: se ti fa sentire meglio, diciamo che
lui sceglie solo quelle di alto
borgo :D Te lo spiego seriamente (XD). Premesso che il
‘mio’ Erik sia decisamente più cattivo
di quello del musical, più vissuto (come quello del libro,
per intenderci), più umano
(cioè meno spiritualizzato e idealizzato)… Ecco,
il fatto di essere più una creatura fatta di sangue e carne,
più diavolo
e meno angelo,
mi ha fatto decidere di prendere questa drastica decisione. Uno come
lui, così passionale, ardente, per quanto innamorato alla follia,
secondo me non può non conoscere i piaceri della carne,
anche se questi sono mercenari. Voglio dire, stiamo parlando di un uomo
che ha girato il mondo, che è cresciuto in una compagnia di
zingari (dove, probabilmente, i rapporti tra uomini e donne erano
più carnali che platonici) e che ha imparato sin da subito
che non occorreva avere un bel viso per poter provare un briciolo di
piacere. Per questo, secondo me, è impossibile che Erik sia
vergine (detto papale papale): era semplicemente l’unico modo
che aveva imparato per sentirsi meno solo. [Mentre, al contrario, io mi
immagino che il Visconte de Chagny abbia la maturità
sessuale di Topo Gigio…] Ma visto che mi hai fatto
affrontare questo discorso, credo che mi rimboccherò le mani
e scriverò un prequel sull’infanzia di Erik.
Sì, penso che lo farò… Non appena
termino questa storia :D
Per quanto riguarda, invece, i
‘paroloni aulici’… Mi dispiace
sinceramente se certe parole rendono la lettura pesante o strana, ma
non posso farci niente, a piace un sacco usarle!
é.è Soprattutto quelle che hai nominato tu, e
cioè talamo
e scabrose:
cribbio, rendono bene l’idea! Non so, se avessi detto che
“desiderava
qualcuno che condividesse il suo letto per amore”…
uhm, boh, è insipida, non ti sembra? Stessa cosa per
“quelle scabrose
fantasie”. Ti leggo subito gli altri sinonimi
che ho trovato: immorali,
indecenti, spinte, osè, pepate (scherziamo?
-.-‘’), piccanti,
imbarazzanti, spinose, scottanti… Niente, non
mi piacevano! Devi sapere che quando scrivo tendo ad essere
particolarmente pignola (per dirtene una, io scrivo in questo modo
anche su msn e per sms!) e per ogni parola che scrivo – o
quasi – cerco un sinonimo che renda di più il
concetto! Si fa anche per evitare di ripetere cento volte la stessa
parola nel giro di due frasi ^_^;
Fammi sapere se sono riuscita a
spiegarmi xD
Spero comunque che questo capitolo ti
sia piaciuto! La giovine è sopravvissuta, per quanto
riguarda la pericolosità di Erik vedremo :D
[cercherò comunque di sventare il Pericolo Mary Sue, vedrai
che quando Giulia recupererà la memoria le cose cambieranno
ù_ù Non dimentichiamo che, al momento,
è pur sempre una ragazza dell’Ottocento :D]
Un bacione, a presto!
E con questo direi che, anche per oggi, ho finito! ^^
Ripeto, per chi non lo sapesse (sarete
stanche di sentirmelo dire), l'esistenza de The
Phantom of the Opera Contest [scadenza 01/12/2010 - proroghe
fino al 8/12/2010], indetto da me medesima tale e quale e dalla mia
socia kenjina.
Partecipate numerose! *_*
Un bacio e un abbraccio, vostra
GiulyRedRose
|
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Capitolo 24 *** 22. La nuova Margherita ***
Chapitre
22
La
nuova Margherita
«C’è
qualcosa che ti turba, ma chère?»
La
giovane contessa De Chagny si voltò per osservare il marito,
abbandonando
momentaneamente il ricamo al quale si stava dedicando da tutta la
mattina.
Rimase per un attimo a guardarlo sorpresa, prima che un tenero sorriso
abbellisse le sue labbra e le mani mettessero da parte ago e filo.
«No,
Raoul, va tutto bene.» Rispose, con la stessa voce suadente
che solo qualche
anno prima aveva fatto vibrare i cuori di mezza Parigi. «Sono
solo un po’
stanca dal viaggio.»
«Siamo
rientrati ieri,» replicò il conte, raggiungendola
e sedendosi sul divano di
fianco a lei. «Conosco quello sguardo: sei preoccupata per
qualcosa. Di che si
tratta?»
Christine
sospirò, volgendo lo sguardo verso le fiamme che
scoppiettavano allegramente
all’interno del prezioso camino in marmo che riscaldava il
salotto. Era una
delle stanze più piccole dell’intero palazzo, e
aveva deciso di farla propria
dal primo momento in cui vi era entrata: amava l’atmosfera di
intimità che
sembrava aleggiare in quella piccola sala.
«È
strano essere di nuovo a Parigi,» sussurrò,
torturandosi le dita delle mani. «Qui
è dove è iniziato tutto… Non credevo
che vi saremmo tornati così presto. Non so
se devo esserne spaventata.»
Un
muscolo guizzò sulla mascella dell’uomo, come se
ciò che la sua sposa stesse
pensando – e ricordando – non fosse di suo
gradimento: e come avrebbe potuto?
Rammentava fin troppo bene quanto entrambi avessero sofferto a quel
tempo, per
colpa di un mostro. In silenzio le
prese le mani tra le sue, stringendole dolcemente, e se le
portò alle labbra
per posarvi un piccolo bacio devoto.
«Christine,
non vi è alcun motivo per essere spaventata,» le
sussurrò, guardandola nelle
profondità azzurre dei suoi occhi. «Noi siamo
insieme, questo è ciò che conta.
Nessuno cercherà più di portarti via da me, e se
ciò dovesse accadere
combatterò come la prima volta – te lo posso
giurare.»
La
ragazza non rispose, limitandosi ad accennare un sorriso che
svanì quasi
subito. «Lo so, Raoul. So che ormai lui
è morto, e non potrà più farci del
male.» Tacque un istante, pensierosa,
studiando le loro dita teneramente intrecciate. «Vorrei
chiederti una cosa,» aggiunse,
come ripensandoci.
«Qualsiasi
cosa, amore mio.» Rispose immediamente il marito, deciso a
vedere ancora il
sorriso sul volto della giovane sposa.
Christine
cercò il suo sguardo, esitante, come se fino
all’ultimo fosse indecisa se
dirglielo o meno… Ma aveva giurato che non gli avrebbe
più nascosto nulla,
pertanto non aveva senso tacere oltre. «Io…
Desidero rivedere l’Opèra.»
Gli
occhi di Raoul si sgranarono impercettibilmente, mentre si ritraeva
dalla
contessa come scottato. Non poteva credere che, dopo tutto
ciò che era accaduto
in quel teatro, dopo quello che era successo a lei, a loro,
ella avesse ancora voglia di entrare in quel maledetto tempio
della musica! L’uomo si alzò, raggiungendo il
camino e posando le mani
sull’architrave dando così le spalle alla moglie;
la richiesta di Christine gli
risultava inconcepibile da comprendere, anche se in effetti nulla
poteva più
minacciare il loro matrimonio. Il mostro
ormai era morto, finito, e con lui erano svanite le sue
minacce… Eppure Raoul
aveva l’impressione che qualcosa
ancora sarebbe potuta accadere. Sarebbe stato troppo perfetto se il
Fantasma
fosse scomparso per sempre, e i precedenti di quella storia gli
suggerivano che
una cosa simile non sarebbe potuta accadere. Non così
facilmente, ad ogni modo.
Comunque
non gli sembrava il caso di mettere al corrente Christine dei suoi
dubbi,
poiché non c’era nessuna prova certa che
dimostrasse la morte o meno del
Fantasma. Prese dei respiri profondi, cercando di dominare la rabbia
che
ancora, a distanza di tempo, tutto ciò gli causava, e si
passò una mano tra i
capelli prima di voltarsi nuovamente verso di lei. Dopotutto, si disse,
non
aveva nessun diritto di impedirle di fare qualcosa che desiderava.
«Se
è ciò che vuoi, Christine, io non mi
opporrò.» Disse, benchè quelle parole
gli
costassero. «Chiederò a monsieur Coleman di
accompagnarti, io… Io non me la
sento.»
La
giovane contessa si alzò a sua volta, raggiungendo il
marito, e passandogli le
braccia intorno al collo per stringerlo in un tenero abbraccio.
«Ti ringrazio
infinitamente, Raoul,» gli sussurrò sulle labbra.
«So quanto questo significhi
per te.»
Raoul
accennò un sorriso, ricambiando il bacio della moglie.
«Quando vuoi andare?»
Domandò, sperando che rinviasse la visita ormai
all’anno nuovo. Tuttavia la sua
risposta non fu quella che si aspettava.
«Oggi
stesso, in realtà. Prima ci vado, prima tornerò a
sentirmi meglio…» Rispose,
assorta.
Egli
la strinse forte a sé, seppellendo il volto
nell’incavo del suo collo e
aspirando il suo profumo. «Non voglio che tu vada, ma chère, ma so che
è qualcosa a cui tieni molto.» Si
scostò
leggermente da lei il tanto necessario a poterla guardare in viso,
dopodichè
riprese. «Andrò subito a parlare con monsieur
Coleman. Potete scendere in città
subito dopo pranzo, in modo da essere a Parigi per il pomeriggio e qui
per
cena.»
«Sei
proprio sicuro di non voler venire?» Insistè
Christine, aggrottando le
sopracciglia. Era convinta che se Raoul l’avesse accompagnata
– se avesse
affrontato anche lui i demoni di quel passato – avrebbe
ripreso a stare
decisamente meglio.
Ma
l’uomo scosse sicuro la testa, irremovibile dalla sua
decisione. «No,
Christine: sento che impazzirei se entrassi nuovamente in quel
teatro.» Replicò,
portandole dietro l’orecchio una ciocca ribelle.
«Vai, non ti preoccupare. Io e
Gustave ti aspetteremo per cena.»
La
baciò ancora una volta, dopodichè uscì
a grandi falcate dalla stanza alla
ricerca del suo uomo di fiducia, monsieur Coleman. Egli si era
dimostrato sin
da subito molto disponibile nei loro confronti e aveva trattato la
contessa con
una gentile delicatezza che pochi le avevano riservato, da quando era
diventata
una De Chagny; pertanto Raoul sapeva che Coleman sarebbe stato
l’unico a poter
accompagnare con discrezione la nobildonna a Parigi.
Dopotutto
il loro ritorno non era stato ancora reso pubblico.
***
«Ah! Je ris de me voir
Si belle en ce
miroir…
Est-ce toi,
Marguerite, est-ce toi?
Réponds-moi… réponds-moi vite!»
Mademoiselle
Sanders sembrava cantare con una passione nuova, mentre per la prima
volta
provava un’aria che una semplice solista del coro non avrebbe
mai dovuto ambire
a recitare – neanche nell’intimità della
sua camera da letto. Nessuno ne
comprendeva il motivo, eppure quella mattina monsieur Bamdad aveva
consegnato a
monsieur Reyer, il direttore dell’orchestra, gli spartiti del
Faust di Gounod, dandogli
espressamente
delle direttive riguardanti mademoiselle Giulia e il suo probabile
ruolo
nell’opera. Nessuno aveva osato mettere in discussione tali
disposizioni,
eppure, per quanto ella sapesse cantare magnificamente – sembrava quasi un angelo –
tacitamente tutti erano convinti che una
corista non sarebbe mai potuta
diventare una prima donna.
Le
tragedie accadute in passato per una situazione analoga già
dimostravano che un
tale provvedimento avrebbe minato la fama del teatro – e
sicuramente anche la
sua fortuna appena ritrovata.
«Ah, s’il était
ici!
S’il me
voyait
ainsi!
Comme une
demoiselle
Il me trouverait
belle…»
Tutti
lo pensavano, eccetto lui, il suo
Maestro. Al sicuro dietro la pesante tenda color porpora del palco
numero
cinque, Erik osservava l’interpretazione della sua giovane
allieva senza
curarsi dei bisbigli che giungevano da dietro le quinte o dalla stessa
platea,
sicuro – come sempre – che le sue decisioni in
campo artistico e musicale
fossero indiscutibili e destinate a trionfare. Non era la prima volta
che
Giulia cantava quell’aria, egli le aveva infatti fatto
provare numerose volte il
Faust con la certezza che presto la
giovane avrebbe avuto il ruolo che le spettava. Per fortuna la
primadonna
dell’Opèra non era più
quell’inetta di Carlotta Giudicelli – che, a quanto
si
diceva, era tornata a Milano per ritirarsi a vita privata dopo che il
marito,
il tenore Ubaldo Piangi, era scomparso in circostanze misteriose
– e pertanto egli avrebbe potuto decidere in qualsiasi
momento di destituire tale Eva Dolores de Castro, l’attuale
soprano spagnola che
ricopriva quel ruolo, in qualsiasi momento avesse voluto. Era anche uno
dei
privilegi che gli appartenevano in quanto direttore artistico, comunque.
Sospirò,
sfiorandosi le labbra con due dita leggere. Era trascorso un giorno
intero da
quando l’aveva baciata, eppure rammentava perfettamente la
sensazione di quella
bocca che si schiudeva sotto la sua, il tremito delle sue mani, il suo
profumo,
il suo corpo… Oh,
sarebbe finito per
impazzire se non avesse potuto godere ancora di quel contatto
così intimo e
delizioso. E adesso, vederla sulla scena, gli occhi dei ballerini e dei
macchinisti posati su di lei – era riuscita a distoglierli
tutti dai loro
compiti con il semplice suono della sua voce – era, per lui,
un trionfo che non
credeva di poter apprezzare così a fondo.
Forse
era dovuto al fatto che ora la considerava davvero sua,
in tutte le connotazioni che un simile termine poteva
possedere; nessuno avrebbe potuto importunare mademoiselle Sanders
senza poi
incorrere nelle sue ire. Non gli importava che altri la guardassero:
egli
sapeva che la giovane non avrebbe mai accettato le loro attenzioni
– come aveva
dimostrato ciò che era accaduto con monsieur Bamdad
– benchè, certo, ancora non
avesse neppure accettato le sue. Ma d’altronde era
comprensibile: Erik si era
impadronito delle sue labbra senza indagare oltre sui suoi desideri,
anche se
Giulia non aveva urlato né l’aveva cacciato. Come
poteva interpretare dunque la
sua reazione? Poteva esserci speranza per lui, questa volta?
Oppure lei aveva
ricambiato il suo bacio per pietà?
No,
maledizione, questo non l’avrebbe mai accettato! Strinse con
forza i pugni
rischiando di ferirsi le sue stesse mani, non fosse stato per i
preziosi guanti
di pelle nera che non disdegnava mai di indossare. Avrebbe preferito
l’odio e
il disgusto alla pietà e alla compassione, senza alcun
dubbio.
Mentre
era così immerso nelle sue riflessioni, quasi non si accorse
che nella platea
erano appena entrate due persone che, a giudicare
dall’abbigliamento, non
dovevano far parte dei dipendenti del teatro. Si trattava di un uomo
sui
cinquant’anni, al cui braccio era poggiata una giovane donna
vestita
elegantemente e dai modi nobili e distinti, tipici di
un’aristocratica. Erik si
sporse leggermente dal suo palco, vedendo senza essere visto: la donna
era
ancora nell’ombra, il viso rivolto verso il suo
accompagnatore e pertanto con
le spalle verso i palchi, eppure aveva qualcosa di
familiare… I capelli biondi,
raccolti in un’acconciatura severa ma morbida che non
lasciava libero un solo
boccolo, l’abito di foggia preziosa di un leggero turchese
dai ricami color
panna, che esaltavano il suo incarnato chiaro e l’oro della
sua chioma.
Poi,
quando la donna si voltò verso il palcoscenico, avanzando
tra le file di
poltrone e sedendosi poi in una di esse, Erik dovette trattenere un
gemito
insofferente, mentre finalmente la riconosceva.
Eccola
là, Christine Daaè… No, pardon,
la
Viscontessa de Chagny in tutto il suo splendore.
Strinse
gli occhi, sentendosi invaso unicamente dall’ira. Che cosa
diavolo ci faceva
lì, chi mai aveva richiesto la sua presenza? Era forse
l’ultima persona che si
aspettava di vedere nel suo teatro,
sicuro com’era che non avrebbe mai più osato
mettervi piede finchè fosse
vissuta. A quanto sembrava, si era sbagliato. Chissà se
madame Giry era al
corrente del suo ritorno a Parigi? E chissà se
l’avrebbe messo al corrente del
suo rientro, qualora l’avesse saputo.
Studiò
l’espressione sorpresa e vagamente disorientata della
viscontessa, mentre
guardava cantare sulla scena quella che poteva essere benissimo
sé stessa
qualche anno prima. Al di là del colore dei capelli, in
effetti, le due donne
erano pressochè identiche: entrambe avevano addirittura una
sorta di legame con
lui. Con un’unica
differenza: mentre
Christine ormai apparteneva al passato, e non aveva più
nulla da spartire con
il suo maestro, Giulia era invece il suo presente – e,
sperava, anche il suo futuro.
Provò una sorta di perversa
soddisfazione nel vedere lo smarrimento di Christine, la sua nostalgia,
il suo
dolore per ciò che aveva perduto abbandonando lui e
scegliendo il visconte, ma
alla fine decise che non gliene importava più di tanto.
Certo, era qualcosa che
lo compiaceva, ma nulla di più: perciò si
voltò nuovamente verso Giulia, che
aveva quasi terminato di provare l’atto terzo del Faust.
La
contessa Christine Daaè de Chagny era senza parole. Chi era
quella giovane che
cantava con una voce simile e che le somigliava in un modo
così impressionante?
Si era dovuta sedere per evitare alle gambe tremanti di cederle, e
aveva
invitato monsieur Coleman a fare altrettanto. Era forse finita
nell’ennesimo
incubo? Quella ragazza le ricordava ciò che era stata lei un
tempo, seppur per
poco, su quello stesso palco: rammentava perfettamente quel periodo
della sua
vita, prima che accadessero tutti quei disastri che l’avevano
costretta poi ad
abbandonare il teatro per un altro genere di vita. Non che se ne
pentisse, per
carità: amava profondamente Raoul. Ma il richiamo della
musica e delle scene
era qualcosa di tanto radicato in lei che non sarebbe mai riuscita a
liberarsene del tutto.
«Ah! Je ris de me voir
Si belle en ce
miroir…»
L’aria
terminò dopo un leggero acuto, che fecero guadagnare alla
giovane sconosciuta
gli applausi del maestro Reyer e dei vari figuranti che
l’avevano ascoltata da
dietro le quinte. Persino monsieur Coleman non riuscì a
resistere all’impulso e
battè le mani, ma Christine non riusciva a darsi pace: doveva sapere chi era quella giovane
fanciulla, e soprattutto
voleva capire il perché di quella straordinaria somiglianza!
«Monsieur
Coleman, vorrei chiedervi un favore.» Sussurrò al
suo accompagnatore,
chinandosi leggermente verso di lui. Non aveva perso
l’abitudine di mormorare
quando si trovava dentro quel teatro, forse perché temeva
inconsciamente che qualcuno avrebbe
potuto sentirla.
Probabilmente un vero fantasma,
adesso che il suo maestro era morto e avrebbe potuto vendicarsi dal
regno dei defunti…
«Certamente,
madame. Di cosa avete bisogno?» Replicò
gentilmente l’uomo, non notando
l’agitazione della viscontessa – o fingendo di non
coglierla. Il suo compito
non era certo quello di fare domande.
«Vorrei
sapere chi è quella ragazza, come si chiama.»
Disse, indicandogli con lo
sguardo la giovane che adesso stava parlando con monsieur Reyer a
proposito
dell’aria che aveva appena cantato. «E, se
è possibile, vorrei conoscerla. Però
non fate il mio nome, vi prego… Non ancora.»
«Come
desiderate, madame.» Rispose, accennando un inchino col capo
e alzandosi dalla
poltrona. Si avvicinò quindi verso la cavea
dell’orchestra, chiedendo ad un
violinista al momento disoccupato se era possibile interrompere le
prove.
«Ah,
attendete un attimo, monsieur. Bisogna domandare al maestro
Reyer,» replicò
quest’ultimo, indicandogli l’anziando direttore.
«Maestro? Qualcuno vi
desidera.»
Scusandosi
un istante con mademoiselle Sanders, Gabriel Reyer si voltò
verso la platea,
cercando colui che il violinista gli aveva indicato con un cenno del
capo. «Sì?
Desiderate qualcosa?» Chiese, sorpreso: dopotutto, non sapeva
chi fosse
quell’uomo.
«Perdonate
l’interruzione, ma vorrei conoscere
l’identità di questa giovane e bravissima
cantante, s’il vous
plaît. Sono
tornato da poco in città e sono ancora all’oscuro
di simili novità.» Rispose
galantemente, inchinandosi davanti a mademoiselle Sanders.
Giulia
arrossì e fece per rispondere, ma un gesto delicato di
monsieur Reyer glielo
impedì: dopotutto, a suo avviso, non stava bene che una
fanciulla si
presentasse da sola ad un completo sconosciuto.
«Lei
è mademoiselle Giulia Sanders, la nostra nuova promessa del
canto.» Replicò
l’anziano maestro, con un’espressione alquanto
sospettosa. Se non rammentava
male, quello era già il secondo straniero che chiedeva della
ragazza in così
poco tempo. Cosa potevano mai volere da una giovane perbene come lei?
Monsieur
Coleman annuì, accennando un mezzo sorriso. «Lieto
di fare la vostra
conoscenza, mademoiselle; il mio nome è James
Coleman.» Poi proseguì, come se
si fosse ricordato in ritardo di una cosa di estrema importanza.
«Spero che non
mi troverete sfacciato se vi chiedo una piccola cortesia.»
Giulia
scosse la testa, sempre più sorpresa. «Dite pure,
monsieur.»
«La
mia signora desidererebbe incontrarvi in privato, quando avete un
momento
libero,» rivelò, ignorando del tutto le altre
persone che stavano tacitamente
assistendo a quel piccolo scambio di battute. «Per voi
è un problema?»
«No…
Non credo. Quando volete mi trovate qui, monsieur.» Rispose
la ragazza, prima
di scambiare uno sguardo interrogativo con il maestro Reyer.
Quell’uomo aveva avuto
sin dall’inizio un comportamento molto paterno nei suoi
confronti.
«Perfetto,
riferirò. In tal caso adesso vi lascio alle vostre
prove,» disse, inchinandosi
per l’ennesima volta. «Buona giornata,
mademoiselle. Signori…»
Diede
loro le spalle e raggiunse la Viscontessa che, seduta tra le ultime
fila, era
rimasta nascosta durante quella breve discussione per evitare di essere
riconosciuta. Non appena monsieur Coleman le si fu avvicinato
abbastanza da
coprirla con la sua stazza, Christine si alzò, e, dato un
ultimo sguardo alla
giovane sul palcoscenico, si avviò con l’uomo
verso l’uscita. Sarebbe andata a
trovare Meg e madame Giry un altro giorno, si disse, ora era troppo
tubata da
quella strana scoperta.
***
Preoccupata,
Giulia stava torturando un foglio di carta consegnatole quella mattina
da
monsieur Bamdad: l’uomo le si era avvicinato dopo le prove
con maestro Reyer e,
con l’aria di uno che avrebbe desiderato trovarsi in ogni
luogo fuorchè accanto
a lei, le aveva porto quella piccola nota senza dire una sola parola.
Fu solo
dopo averla aperta e aver riconosciuto la calligrafia rigida e ordinata
vergata
con inchiostro rosso, che Giulia comprese di cosa si trattava. Il suo
Maestro
la invitava ad incontrarlo non più nella cappella del
teatro, ma nel palco n. 5:
e, questa volta, si era firmato con il suo nome, Erik.
E
adesso che aveva raggiunto il palco iniziava a sentirsi in ansia. Non
sapeva
cos’altro aspettarsi da lui: dopotutto, quando si erano
lasciati il giorno
prima, non c’era stato nessun chiarimento da parte
sua… Certo, ella gli aveva
promesso che da quel momento non sarebbe mai più stato da
solo, ci sarebbe
stata lei al suo fianco – ma chi poteva dire con certezza che
le sue
affermazioni non fossero state fraintese?
Rilesse
per l’ennesima volta quel biglietto, come se nelle sue parole
avesse potuto
trovare una risposta alle sue sempre maggiori domande. Incredibile che
le mani
che avevano scritto quella nota fossero le stesse che avevano messo
fine alla
vita di chissà quanti uomini, le stesse che
l’avevano stretta in un abbraccio,
che l’avevano accarezzata! Come avrebbe potuto sopportare, o
ignorare, tutto
quel sangue ch’egli sembrava trascinarsi dietro?
Eppure con me non
è
mai stato… cattivo,
riflettè, facendo avanti e indietro all’interno
del palco. Ha mantenuto sempre un
comportamento da gentiluomo, a parte… A parte
quando mi ha baciata.
Sentì
le guance infiammarsi al ricordo di ciò che era successo
– ma soprattutto di
come lei gli si era aggrappata e
aveva
ricambiato il bacio. Aveva cercato di convincersi per tutta la notte
che tale
reazione era stata dovuta unicamente alla pura e semplice
curiosità –
dopotutto, che lei avesse memoria, non era mai stata baciata prima, se
si
escludeva il brusco approccio di monsieur Bamdad.
Con
un sospiro si sedette su di una poltroncina dall’imbottitura
color porpora
presente nel palco, sventolandosi insofferente con il foglietto ormai
spiegazzato. L’attesa non era mai stata più
logorante.
E
poi, come già era accaduto tante volte prima di allora, fu
acutamente
consapevole del suo silenzioso arrivo. Fu come un fruscio, uno
spostamento
d’aria talmente veloce che probabilmente, se non avesse avuto
l’esperienza
dalla sua parte, non se ne sarebbe mai accorta. Invece si
alzò, guardandosi
intorno, aspettando ch’egli rivelasse la sua presenza con
un’agitazione diversa
da quella che aveva sempre provato.
«Vi
ringrazio di aver accettato il mio invito, Giulia.» Le parole
sembrarono
provenire dall’oscurità del palco, profonde ed
attutite come fossero state
avvolte nel velluto, e subito dopo l’uomo si fece avanti,
inchinandosi
galantemente dinnanzi a lei.
Ella
rabbrividì istintivamente, notando il nuovo ed inspiegabile
brivido che le
aveva percorso la superficie della pelle al suono di quella splendida
voce. «Come
mai questo cambiamento, maestro? La
cappella non andava più bene per le nostre
lezioni?» Domandò, sforzandosi di
mantenere un tono fermo e al contempo dolce.
Erik
le si avvicinò ancora di più, arrivando a
sfiorarle la gonna con le lunghe
gambe avvolte sensualmente in aderenti calzoni neri che la ragazza gli
aveva
visto unicamente nella sua dimora sotterranea. Dunque egli non era
andato da
lei nei panni del direttore, ma in veste di fantasma.
Oh,
maledizione, doveva smetterla di pensare simili cose!
«In
realtà oggi non desidero sprecare il tempo che trascorreremo
insieme cantando o
suonando.» Replicò, addolcendo la voce
all’inverosimile; Giulia non comprendeva
come riusciva a trasformare quell’accento, mutandolo da
minaccioso e terribile
a soave e gentile in un battito di ciglia. Era qualcosa che la
spaventava e
allo stesso tempo la attraeva.
Decise
perciò anche lei di abbandonare i toni distaccati. Si
avvicinò all’uomo e gli
passò una mano sotto al braccio, annullando così
ogni distanza, anche fisica,
che v’era tra di loro. «In tal caso che cosa
vorreste fare, Erik?» Chiese, accennando
un tenero sorriso con una facilità che solo qualche istante
prima non avrebbe
creduto possibile. Evidentemente stare in sua compagnia si rivelava
essere
molto più semplice…
«Fidatevi
di me e seguitemi, Giulia – non desidero altro,» le
sussurrò all’orecchio, cercando
di contenere la gioia che quel contatto improvviso e non richiesto
– né
tantomeno ordinato – gli
aveva
procurato.
Ella
l’aveva
toccato di sua spontanea volontà, senza che fosse stato lui
a domandarglielo!
La
ragazza annuì, allargando il sorriso. Non si era accorta di
ciò che stava
accadendo nell’animo del suo Maestro, ma forse era meglio
così. «Sarà un
piacere.»
__________________________________________________________________________________________________________________________
AA - Angolo Autrice:
Buona
sera, giovani fanciulle! Come va? ^^
Spero di non avervi
fatto attendere molto con il capitolo - ad ogni modo questo
è solo un capitolo di passaggio, serve per reinserire i De
Chagny nella storia, gradualmente. Bene, e adesso cosa
succederà? Si accettano scommesse XD
Comunque, voglio
ringraziare sydney
bristow, aliena e
TheMisty910 per aver recensito lo scorso
capitolo - grazie mille <3 Inoltre grazie a chi, anche se
nell'ombra, continua a seguire la mia storia! Siete davvero tante,
ragazze (o ragazzi, perchè np? u.u) non pensavo che questa
storia potesse interessare così tanto! Grazie davvero :)
Sto lavorando al
prossimo capitolo ma tengo a precisare che
ultimamente ho problemi di connessione e di ispirazione - prima del
linciaggio, vi voglio rassicurare: continuerò questa storia,
non preoccupatevi! :D
Un bacio e un
abbraccio, vostra
GiulyRedRose
P.S. Ah! Se vi interessa - non si sa mai - potete trovarmi anche su facebook,
dove pubblicherò news e/o spoiler sulle mie storie. Ho
bisogno giusto di un pò di tempo per ambientarmi nel nuovo
account xD baci a presto! :*
|
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Capitolo 25 *** 23. And in this labyrinth where night is blind... ***
Chapitre
23
And
in this labyrinth where night is blind…
«Certi
modi
forsennati di guardarmi
[…]
mi avevano
fatto misurare
la
selvaggia forza
della sua passione…»
Il
teatro dell’Opèra Populaire era una costruzione di
eccezionale opulenza, simbolo
del Secondo Impero: fatto costruire per ordine di Napoleone III,
vantava nella
sua struttura espressioni e tendenze provenienti da epoche differenti,
quali il
barocco, il neoclassicismo, il rococò. A tal proposito
nell’ambiente della
nobiltà parigina si raccontava un piccolo aneddoto, secondo
il quale monsieur
Garnier, alla legittima domanda dell’imperatrice
Eugénie che desiderava sapere
in che stile dovesse essere costruito il teatro, se in quello greco o
romano, ebbe
risposto: «È nello stile di Napoleone III,
madame!»
Chiunque
entrava nel teatro, dunque, veniva assalito immediatamente
dall’atmosfera
sfarzosa e regale voluta dall’imperatore: le preziose
scalinate in marmi di
diversi colori, anch’esse teatro dei ricevimenti mondani dove
le stoffe e le
crinoline degli abiti delle gentildonne frusciavano con eleganza tra un
gradino
e l’altro, si affacciavano nel foyer diventandone le
protagoniste. Da qui, gli
avventori dell’Opèra potevano raggiungere la
platea oppure scendere ai piani
inferiori nei quali si trovava un grazioso cafè che rimaneva
aperto fino al
termine dell’ultima rappresentazione.
L’Opèra, insomma, era costantemente
gremita di persone - borghesi
o
aristocratiche – giunte per assistere agli spettacoli o
semplicemente per
visitare quello che era il tempio della musica e della danza.
Tuttavia
il Fantasma dell’Opera conosceva perfettamente i luoghi
lontani dagli sguardi
curiosi e indiscreti dei visitatori, così lui e mademoiselle
Sanders non
incontrarono anima viva durante la loro rapida e improvvisa passeggiata
per il
teatro. Attraversarono saloni scarsamente illuminati e corridoi segreti
nei
quali scarseggiavano le lampade a gas, cosicché Giulia
dovette stringere il
braccio del suo Maestro stando bene attenta a non perderlo, in modo da
non
smarrire la strada. Egli sembrava conoscere quelle gallerie nascoste
come
nessun altro, il che dava credito a ciò che le aveva
raccontato Meg in
proposito – e cioè che, in quanto fantasma,
aveva avuto tutto il tempo del mondo per studiare ogni
percorso e ogni
oscuro anfratto.
Ella
gli aveva domandato dove avesse intenzione di portarla, ma Erik non
volle risponderle
se non con un misterioso: «È una sorpresa, ma
chère». Giulia comprese che sarebbe
stato inutile fargli altre domande, e
che avrebbe dovuto avere la pazienza di attendere che
quell’infinito girovagare
terminasse. Le sembrava quasi di essere tornata nei cupi sotterranei,
benché si
rendesse conto che non era nelle catacombe ch’egli la stava
conducendo.
Dopotutto
era stata una decisione dell’ultimo minuto, presa da Erik
dopo aver visto
madame de Chagny entrare nel suo
teatro con un’aria da primadonna: era talmente furioso per la
scoperta del suo
rientro in città che non sarebbe stato capace di tenere una
lezione di canto
alla sua giovane allieva, così aveva deciso di essere lui,
per una volta, a
rimandarla. Ad ogni modo l’esecuzione del Faust
di quella mattina da parte di Giulia gli avevano dimostrato che la
ragazza non
necessitava di ulteriori insegnamenti – anche se, di questo,
non gliene avrebbe
fatto parola: amava sin troppo la sua compagnia per privarsene in quel
modo.
Erik
stava iniziando a odiare i suoi costosi guanti di pelle, dato che gli
impedivano di sentire il calore della mano della ragazza che teneva
stretta
nella sua: non poteva che biasimarsi per la sua scelta di indossare
quell’abbigliamento, ma in veste di Fantasma si sentiva molto
più a suo agio,
come se davvero fosse parte integrante di quel teatro.
Rallentò un momento e si
voltò verso mademoiselle, studiando la sua espressione
attraverso la leggera
penombra che regnava in quella galleria: malgrado fosse sorpresa,
Giulia non aveva
l’aria di essere spaventata come lui stesso aveva temuto
mentre la trascinava
verso i tetti dell’Opèra. Ciò lo
rincuorò immensamente, spingendolo a
sorriderle con tenerezza.
«Siete
stanca, Giulia? Non preoccupatevi, non manca molto», disse,
portandosi la sua
mano alle labbra e deponendovi un bacio leggero.
La
ragazza gli sorrise di rimando, senza fare cenno di allontanarsi dalla
sua
stretta – quasi come se essa le
fosse
gradita. «Non credo di aver mai visitato questa
zona del teatro, perciò non
siate apprensivo e portatemi dove volete»,
replicò, con l’accenno di una risata
nella voce. «Sono molto curiosa, e per niente
stanca.»
Non
gli avrebbe mai detto che in realtà trovava faticoso correre
su e giù per quei
corridoi con il peso non indifferente delle sue gonne e con gli
stivaletti che
le costringevano il piede ad una posizione scomoda a causa del tacco;
né
tantomeno avrebbe confessato di sentirsi mancare l’aria a
causa dello stretto
corsetto che le impediva una normale respirazione, o che si sentiva a
pezzi
perché quasi non aveva chiuso occhio la notte precedente
– proprio a causa di
ciò che era accaduto tra di loro. Il cuore le batteva tanto
forte, al ricordo,
che temeva che potesse giungergliene il suono all’orecchio.
No, preferiva
sorridere e vederlo felice, piuttosto che dargli un dispiacere
costringendolo a
tornare indietro per farla riposare.
Anche se
stare da
sola con lui non la riempiva di serenità.
«Siamo
quasi arrivati», ripeté Erik con
l’ennesimo sorriso, riprendendo a camminare
con un passo più lento. Che si fosse accorto della
stanchezza della ragazza? No, impossibile
– in fondo ella non
aveva detto né fatto nulla che potesse insospettirlo al
riguardo. Decidendo di
fare finta di niente, perciò, lo seguì,
guardandosi intorno come per
memorizzare il luogo qualora avesse dovuto tornarci da sola. Qualsiasi
altra
attività volta a distogliere la sua attenzione dal fatto di
trovarsi insieme al
suo Maestro in un luogo così isolato sarebbe stata gradita.
«Non
credevo che il teatro avesse questa struttura da labirinto»,
esclamò
all’improvviso, osando voltarsi verso di Erik.
L’uomo
accennò un breve sorriso indulgente, accarezzando il dorso
della mano che la
giovane aveva posato sul braccio ch’egli le aveva gentilmente
offerto. «Credetemi,
Giulia, vi perdereste in questi corridoi. Nessuno sa dove portano;
addirittura,
durante la Comune, il teatro venne utilizzato come prigione, proprio
perché,
grazie alla sua struttura, ai detenuti era impossibile trovare una
qualche via
di fuga. Guardate quanto abbiamo camminato: rammentate che non abbiamo
trovato
una sola finestra, e che ormai siamo vicini ai tetti. Scappare
dall’Opèra è
impossibile», concluse, con un tono di voce talmente
definitivo da farla preoccupare.
Sembrava quasi una minaccia.
«Voi
però la conoscete molto bene», mormorò,
senza guardarlo. L’allusione era velata
ma Giulia sapeva ch’egli l’avrebbe colta,
così come confermò la sua risposta.
«Sì,
infatti. Ho avuto molto tempo per memorizzarne ogni singolo anfratto e
corridoio», replicò, lo sguardo fisso dinnanzi a
sé. Lo posò poi sulla ragazza,
che da parte sua non sembrava volerlo incrociare. «La vostra
amica vi avrà di
certo accennato qualcosa, immagino, visto il modo in cui siete irrotta
nel mio
studio ieri pomeriggio.»
L’allusione
a quanto accaduto il giorno precedente la colse alla sprovvista, per
quanto
avesse dovuto aspettarsela: non credeva forse ch’egli avrebbe
dimenticato ogni
cosa, non era così? Le sue dita strinsero impercettibilmente
la manica della
sua giacca, quasi che quel contatto le impedisse di perdere
l’equilibrio; si
umettò le labbra con la punta della lingua, pensando a una
risposta adeguata da
dargli che non gli desse l’impressione di avere a che fare
con una ragazzina
sciocca e ingrata.
Alla
fine, però, optò per la mera verità.
«Meg è stata parecchio esaustiva al
riguardo, infatti», mormorò senza osare sollevare
gli occhi su di lui: dubitava
di poter riuscire a reggerne lo sguardo penetrante. «Ma il
suo è solo un punto
di vista, e io… Io voglio sentire il vostro».
Erik
aggrottò leggermente le sopracciglia, assimilando
ciò che la giovane aveva
appena detto. «E avreste preso questa decisione anche se ieri
non vi avessi
baciata?» Le
domandò a
bruciapelo, riuscendo a suonare gentile malgrado avesse appena ripetuto
ad alta
voce qualcosa che né lui, né lei, avevano ancora
ben assorbito.
Giulia
si morse il labbro inferiore, odiandosi nel sentire le guance andare in
fiamme.
Riuscì tuttavia a sollevare il viso verso di lui e a
guardarlo determinata,
mentre rispondeva non senza l’eco di un tremito nella voce.
«Sì, Erik. Malgrado
tutto credo di essermi sempre fidata di voi, e se mi avete tenuto
nascoste
certe cose presumo fosse per un valido motivo… Meg mi ha
accennato qualcosa, ma
io voglio che siate voi a concludere il racconto. Voglio che
sappiate»,
aggiunse, prendendo un profondo respiro e fermandosi in mezzo al
corridoio. «Che
non ho paura di voi, che vi rispetto e comprendo. Ma voi dovete essere
sincero
e ricambiare la mia fiducia con la vostra».
L’uomo
la osservò attentamente, lottando interiormente contro il
violento desiderio di
stringerla tra le braccia e baciarla ancora e ancora, fino ad
arrossarle quelle
belle labbra morbide, fino a sentire i suoi gemiti e il battito
accelerato del
suo cuore; lei si fidava, si fidava di
lui! Sotto quale incantesimo doveva essere per riuscire a
rimanere così
calma e posata in sua presenza?
Ma
ciò che gli dava da pensare era il fatto che Giulia non
avesse parlato d’amore
neppure per un istante: che si
stesse illudendo, come sempre? O era semplicemente troppo presto per
quello, e
doveva concederle ancora del tempo?
Respirò
lentamente, cercando di liberare la mente da quei cupi pensieri di
lussuria.
Prese poi una sua mano con gentilezza e se
l’avvicinò alle labbra, sfiorandola
con un bacio che la fece sospirare sottovoce, e dedicandole infine uno
di
quegli sguardi fiammeggianti che lei aveva imparato a temere ma che,
adesso, si
scopriva sorprendentemente a desiderare.
Si impose di ignorare il piacevole tremito che le aveva percorso le
gambe fino
al centro del suo ventre e deglutì, socchiudendo gli occhi,
per accantonare in
un angolo i nitidi ricordi del giorno prima. Non si aspettava di poter
bramare
così ardentemente il suo tocco, né tantomeno
avrebbe ritenuto possibile, fino a
quella mattina, che sarebbe bastata una sua occhiata per riportarle in
superficie quelle voglie.
Ciò
nonostante si sforzò di mantenere il contatto con i suoi
occhi, per evitare che
lui fraintendesse il suo distogliere intimidito lo sguardo.
La
sua voce, poi, fu quasi il colpo di grazia.
«Mademoiselle, le vostre
parole mi
riempiono di speranza», sussurrò Erik con voce
leggermente roca, senza lasciare
la presa sulla sua mano. «Tuttavia non è per
parlare di questo che vi ho
chiesto d’incontrarmi: adesso lasciate che vi mostri una
cosa, dopodiché avremo
tutto il tempo per discuterne, se ancora vorrete».
Giulia
annuì lentamente, avendo compreso solo vagamente
ciò che le aveva appena detto;
buon Dio, come poteva lasciarsi distrarre in tal modo soltanto dalla
sua voce?
Sarebbe rimasta ad ascoltarlo per ore, anche se si fosse messo a
parlare di
politica o affari: ciò che contava era unicamente udire il
suono di quel dolce
strumento che era la sua voce.
Ripresero
a camminare e lei non se ne accorse neppure, ancora preda di quello
strano
fermento.
Giunsero
infine al termine di quelle numerose gallerie; si ritrovarono in un
sottotetto
caratterizzato da uno strato non indifferente di polvere sul pavimento
in legno
che costrinse Giulia a sollevare l’ampia gonna del suo
vestito per impedire che
l’orlo si sporcasse, strappando un piccolo sorriso al suo
accompagnatore per
quel gesto istintivo e indice di un’innata vanità
femminile. Le pareti erano
spoglie e negli angoli facevano bella mostra di sé
complicati disegni di
ragnatele, che giacevano là indisturbate chissà
da quanto tempo, ospitando
generazioni e generazioni di insetti. La ragazza storse leggermente il
naso,
guardandosi perplessa intorno.
«Qualcuno
dovrebbe venire a dare una ripulita…»
Mormorò incrociando le braccia. «Dove
siamo?»
«Ancora
un attimo di pazienza», sorrise Erik, dirigendosi verso una
porta in ferro che
la giovane non aveva notato. Lo osservò mentre armeggiava
con il chiavistello
arrugginito, segno che nessuno lo toccava più da parecchio
tempo: sembrava una
stanza abbandonata, e Giulia non credeva che a teatro potessero
essercene in
condizioni di degrado così palese.
Lo
scatto della serratura le fece capire che Erik doveva essere riuscito
ad aprire
la porta – non che avesse qualche dubbio al riguardo,
comunque; lo raggiunse,
credendo che l’uomo le avrebbe finalmente aperto la porta, ma
quando gli fu
accanto egli si volse e la guardò con uno strano sorriso, e
solo allora Giulia
notò la fascia nera che Erik teneva tra le mani.
«Cosa…?»
Iniziò, ma lui non le permise di aggiungere altro.
Si
chinò sul suo orecchio facendola rabbrividire semplicemente
a causa di quella
vicinanza – Dio, poteva sentire il
suo
profumo! – e con un sorriso ch’ella non
ebbe bisogno di vedere, Erik
sussurrò: «Fidatevi di me ancora una
volta».
Giulia
annuì soltanto, e lui si portò alle sue spalle
per poterle legare quel morbido
nastro nero dietro il capo, di modo che non vedesse nulla fin quando
egli non
avesse deciso il contrario. Una volta privata della vista i suoi sensi
furono
come amplificati – la sensazione del suo corpo possente a
contatto con la sua
schiena, il suo viso sepolto tra i suoi capelli, le sue mani
improvvisamente
prive dei guanti che le avevano avvolte fino a pochi istanti prima che
indugiavano in una lieve carezza sul collo lasciato scoperto dal
modesto
vestito – tutto, in quel momento, la faceva rabbrividire e
fremere dal piacere.
Poi non sentì più la presenza dell’uomo
accanto a sé e annaspò, come privata
dell’ossigeno; tese le braccia in avanti, accarezzando solo
l’aria, e si
immobilizzò nel sentire lo stridio dei cardini arrugginiti
che la informarono
che la porta era stata finalmente aperta. Un soffio d’aria
gelida la investì e
questa volta i brividi che percorsero la superficie della sua pelle
furono di
semplice freddo; e ancora l’uomo non tornava al suo fianco.
«Erik?»
Mormorò preoccupata, pronta a strapparsi la fascia qualora
non avesse ricevuto
risposta.
Ma
le mani dell’uomo tornarono a stringere le sue, nuovamente
avvolte nei guanti,
facendola avanzare gentilmente verso il loro proprietario.
«Sono qui, non
preoccupatevi», mormorò, avendo colto la sua
leggera ansia. Le passò un braccio
dietro la schiena, intorno alla vita, accompagnandola così
in modo che non
inciampasse a causa della sua momentanea cecità.
I
suoi occhi bramosi studiarono intensamente la sua figura approfittando
del
fatto che la ragazza non se ne sarebbe potuta accorgere:
l’oro del suo sguardo
sembrò volersi imprimere il suo aspetto a fuoco nella mente,
per non poterlo
più dimenticare. La benda disegnava il contorno del suo
profilo nascondendogli
la dolce bellezza dei suoi occhi, così proseguì
oltre e scivolò sulle guance
rosee, le labbra dischiuse e leggermente imbronciate in un
atteggiamento
attento e prudente – ella si fidava della sua guida, ma
voleva pur sempre avere
un minimo controllo della situazione – i capelli sciolti
sulle spalle, i cui
ciuffi più ribelli erano stati raccolti con delle forcine ai
lati del capo per
non ricaderle in continuazione sulla fronte, la linea morbida del collo
e la
piccola porzione di pelle scoperta della discreta scollatura che
impedivano
alla sua occhiata di farsi più invadente. Non
poté fare a meno di lanciare un
breve sguardo alla linea sensuale dei suoi seni stretti nel corsetto e
alla
propria mano posata sul suo fianco, per poi guardare con un sorriso la
mano che
lei gli stringeva freneticamente per timore ch’egli potesse
lasciarla da un
momento all’altro.
Che
sciocchezza, si ritrovò a pensare, con
un’espressione improvvisamente indurita. Io
non la lascerò mai andare…
Abbandonando
per un momento i suoi pensieri, Erik la condusse finalmente fuori dalla
porta,
all’aria aperta – l’aveva condotta sui
tetti del teatro. Richiuse la porta
dietro di sé per evitare che lo spiffero attirasse
l’attenzione di qualche
macchinista curioso, e dopo averla portata accanto ad una ringhiera in
modo che
potesse reggersi all’occorrenza, le sfilò
finalmente via la benda dagli occhi. Il
gemito sorpreso che le sfuggì dalle labbra gli fece capire
che Giulia dovette
aver apprezzato la sorpresa.
Erik
avrebbe desiderato mostrarle il tramonto da quella prospettiva, ma
erano
arrivati troppo tardi e dovette accontentarsi di un cielo notturno
stellato e
abbellito da una delicata falce di luna; l’orizzonte ancora
tinto di rosa
andava via via scurendosi e le strade sembravano sentieri di un
giardino grazie
alle luci dei lampioni che ne illuminavano il ciottolato.
«È…
così bello», sussurrò, facendo qualche
passo in avanti fino a sporgersi dal
parapetto. L’uomo ebbe uno scatto involontario, preoccupato
che potesse perdere
l’equilibrio, ma vedendo che mademoiselle aveva il controllo
sulla sua
stabilità si tranquillizzò, senza tuttavia
perderla di vista un solo istante.
Dio, era
lei ad
essere così bella.
«Voglio
che comprendiate che il mio non è un mondo di sola
oscurità», mormorò di
rimando, osservando il profilo che la giovane gli mostrava mentre si
perdeva
nella totale ammirazione di uno spettacolo così meraviglioso
– raramente un
tale colpo d’occhio aveva lasciato insoddisfatto qualcuno. Il
viso della
ragazza si volse verso di lui e un tenero sorriso la
illuminò, accelerando i
battiti del suo povero cuore ferito.
«Non
ne ho mai dubitato, Erik», mormorò dolcemente,
avvicinandosi a lui.
Istintivamente prese una mano dell’uomo tra le sue,
sfilandone con calma il
guanto per poi intrecciare insieme le loro dita infine nude –
pelle contro
pelle, fresco tepore contro gelido calore. Giulia fece scorrere le
proprie dita
sul palmo e sul dorso della mano di Erik, riuscendo, senza
accorgersene, ad accelerare
i battiti del suo cuore. «Per varie ragioni non sono mai
fuggita da voi, e una
di queste è proprio la fiducia che nutro nei vostri
confronti».
«E
le altre?» Osò domandare lui, sollevando la mano
libera e portandola ad
immergerla nei lunghi capelli della giovane.
Ella
si morse leggermente il labbro inferiore, senza ben sapere cosa
rispondere.
«Delle altre non sono ben sicura io
stessa…»
Certo,
egli lo sapeva: non doveva né voleva forzarla ad accettarlo
definitivamente
nella sua vita in un ruolo che forse non poteva ambire a ricoprire,
eppure…
Eppure non poteva fare a meno di immaginarsi con lei accanto, per
sempre. Tutte
le memorie che aveva fino a quel momento conservato di Christine
– ricordi che
avevano gettato legna sul fuoco della sua vendetta, che
l’avevano fatto
impazzire e turbato i suoi sonni agitati – sembravano
impallidire ed evaporare
di fronte al sentimento che mademoiselle Sanders sembrava avergli
acceso in
petto.
Il mio
cuore aveva
mai amato? Occhi rinnegatelo, perché non ha mai conosciuto
la bellezza fino ad
ora…
«Voi
sapete cosa provo nei vostri confronti, credo di avervelo fatto
comprendere
chiaramente», mormorò, temendo di esagerare troppo
con le sue dichiarazioni e
pertanto ammettendo solo lo stretto indispensabile. «Ma non
voglio obbligarvi:
desidero che siate libera di scegliere, e di riflettere. Soltanto
quando sarete
sicura di ciò che vuole il vostro cuore mi darete una
risposta».
Giulia
lo osservò a lungo, trovando fastidiosa – oltre
che inutile – la continua
presenza della maschera perlacea che nascondeva il suo viso al suo
sguardo
gentile. Non aveva intenzione di metterlo a disagio, però
aveva l’impressione
che quel gelido oggetto non facesse che allontanarlo ancora di
più da lei,
quasi che acuisse la distanza che al momento c’era tra loro;
certo, in realtà
dopo quel bacio non poteva dire che tutto fosse tornato come prima
– cosa impossibile
– ma continuando ad
indossarla le faceva pensare che non si fidasse di lei abbastanza.
Così, con
gesti lenti e misurati, sollevò una mano a sfiorargli la
guancia e posò l’altra
sulla superficie liscia e fredda della maschera; gli occhi
dell’uomo si
spalancarono leggermente, e preoccupato Erik posò una mano
sopra quella della
giovane.
«Non
fate cose di cui potreste solo pentirvi…»
mormorò, con il tono disperato di chi
prega.
Lei
sorrise teneramente, scuotendo il capo. «Non
c’è nulla di cui pentirmi»,
replicò, cercando di mettere quanta più dolcezza
poteva nella sua voce. «Fidatevi
di me come avete già fatto nei vostri
sotterranei», aggiunse, evitando
abilmente di accennare al fatto che all’epoca Erik le aveva
mostrato il suo
volto unicamente per spaventarla e punirla.
Gli
occhi dell’uomo si incupirono come un cielo in tempesta prima
che le palpebre
si abbassassero su di essi, come se avesse voluto evitare di vedere
l’espressione di disgusto che, a suo avviso, si sarebbe
dipinta sul viso di
mademoiselle. Da parte sua Giulia prese quel gesto come un muto invito
a fare
ciò che più desiderava, così,
lentamente, sfilò la maschera dal volto di Erik,
riuscendo finalmente a ricostruire il quadro completo di ciò
che era il suo
viso. La carne sfigurata era forse più terribile di come la
ricordava, ma la
sua vista non le provocò orrore, quanto piuttosto
un’immensa tenerezza –
dovuta, molto probabilmente, ai nuovi nascenti sentimenti che sentiva
di
provare nei suoi riguardi. Aveva l’impressione che Erik,
senza quelle piaghe,
non sarebbe più potuto essere l’uomo di cui si
sentiva stranamente attratta
– non sarebbe mai riuscita ad
immaginarselo privo di quello che era, a suo avviso, unicamente un
tratto
caratteristico di quell’uomo geniale, ma che egli vedeva
soltanto come la
deformità che avrebbe potuto farla scappare via da lui.
Eppure
gli aveva già detto che non aveva paura…
«Erik»,
sussurrò, dolcemente. «Guardatemi».
L’uomo
si accorse di quell’accorato tono di voce e fu quello a
fargli aprire di scatto
gli occhi, sorpreso, per scoprire le mani della ragazza ancora sul suo
volto e
i suoi occhi incatenati ai propri. Giulia gli era così
vicina che avrebbe potuto
far aderire i loro corpi con un respiro più profondo, ma per
quanto desiderasse
stringerla ancora tra le braccia non osò farlo – la vista di Christine e ciò che aveva
riportato a galla quello che la
viscontessa rappresentava lo avevano momentaneamente indebolito, come
non
accadeva da tempo. Tremò, mentre attendeva le
parole che avrebbero potuto
condannarlo al più cupo degli inferni o al più
celestiale paradiso.
«Probabilmente
non troverò più il coraggio di dire una cosa
simile, perciò ascoltatemi attentamente»,
proseguì con sempre maggior decisione, senza lasciare gli
occhi di Erik per
nemmeno un istante. «Ho riflettuto molto, la notte scorsa non
ho quasi dormito
dopo ciò che è successo nel vostro ufficio,
e… Ho cercato per un po’ di
convincermi che ho ricambiato il bacio per curiosità, ma non
può essere
semplice curiosità il desiderare continuamente il sapore
delle vostre labbra».
Distolse lo sguardo improvvisamente imbarazzata e cercò di
abbassare le mani,
ma quelle di Erik corsero ad impedirglielo, tenendole ben salde contro
il suo
viso.
«Vi
prego, continuate», la supplicò lui sottovoce,
trattenendo a stento
l’incredulità e la sorpresa che tali parole gli
avevano causato, ma senza
celare la gioia che l’aveva pervaso. Per non parlare del
calore dei suoi
morbidi palmi contro le gote, contro la sua terribile deformità,
che gli risultava tanto estranea quanto familiare: oh,
se lei avesse potuto davvero amarlo sarebbe stato sempre
così…
Giulia
si morse leggermente il labbro, imbarazzata, prendendo un profondo
sospiro per
trovare il coraggio di proseguire con il suo discorso. «Io
odio vedere il
vostro sguardo cupo e triste, Erik», mormorò,
sollevando gli occhi su di lui. «E
vorrei essere la ragione del vostro sorriso… Ma per qualche
motivo sento di non
potervi fare promesse che non so di poter mantenere. Il mio passato
è avvolto
nell’oblio, e vorrei tanto sapere chi è la donna
che vorrebbe starvi accanto
prima di giurarvi qualsiasi sentimento…
Però…» Non resistette oltre e
annullò
ogni distanza tra i loro corpi, allacciandogli le braccia dietro la
nuca e
sollevando il volto verso il suo con un tenero sorriso. «Se
voi potete
accettare una figlia di nessuno, allora non ho motivo di starvi
lontano»,
concluse in un sussurro.
Erik
era fuori di sé dalla commozione – le mani della
ragazza tra i suoi capelli e
il suo sguardo, limpido e sereno, per
nulla spaventato, era, probabilmente, più di
quanto potesse sopportare
tutto insieme. Sollevò due dita tremanti verso il suo volto,
ma a metà del
gesto si accorse del secondo guanto che ancora ricopriva le sue falangi
e con
malagrazia lo strappò via, desideroso di poter sentire la
morbidezza della sua
pelle contro la propria. Giulia trattenne un sorriso, socchiudendo gli
occhi e
sospirando di sollievo quando la carezza dell’uomo
iniziò il suo percorso dalla
gota fino a scivolare giù, all’angolo della bocca,
al mento – e poi ancora, al
collo, alla clavicola, fino a quando le dita non furono sostituite
dalla punta
del suo naso, affondata nell’incavo della sua spalla per
meglio assaporare il
suo profumo, la sua essenza.
«Come
puoi dire una cosa del genere», sussurrò con voce
roca, cessando di rivolgersi
a lei con la gelida forma di cortesia. «Come puoi pensare che
io non possa
volerti soltanto perché le tue origini non sono note?
Ciò che sento di provare
per te va ben oltre simili questioni…» Le
passò le braccia intorno alla vita,
attirandola verso di sé ma ritraendosi il tanto necessario
per poterla guardare
nuovamente negli occhi. «Davvero non hai paura di me? Il mio
aspetto non ti
ripugna?»
«Sono
forse scappata quando mi hai mostrato il tuo volto, nei
sotterranei?» Replicò Giulia
con un’altra domanda, inarcando un sopracciglio: senza
pensarci aveva
abbandonato anche lei tutte le formalità, e la cosa le
riuscì più semplice del
previsto. Ad ogni modo, l’insicurezza dell’uomo era
un qualcosa che le faceva
tenerezza e che, allo stesso tempo, la irritava.
Lo
sguardo di Erik si incupì, diventando per un istante lo
sguardo del Figlio del
Diavolo che Giulia aveva imparato a temere. «Non saresti
potuta fuggire in ogni
caso», ribatté lui, seccamente. «Te
l’avrei impedito anche se la mia vista ti
avesse fatto svenire dal terrore».
La
giovane scosse impaziente il capo, circondandogli nuovamente il volto
con le
mani. «No, non l’avresti fatto. E sai
perché? Perché tu non sei un mostro,
Erik, per quanto continui a nasconderti dietro questa
maschera…» Disse, senza
riferirsi all’oggetto perlaceo che giaceva,
pressoché dimenticato, sulla neve
che imbiancava il tetto. «Io so che il tuo animo potrebbe
abbracciare l’intera
umanità…»
Quell’ultima
dichiarazione fu un fievole sussurro sulle labbra dell’uomo
che, chinatosi su
di lei per non perdersi una sola delle sue parole, aveva rafforzato la
sua
stretta per farla aderire completamente al suo corpo – maledetti abiti che gli impedivano di sentire il
suo calore. I suoi
occhi, umidi di lacrime non versate, si socchiusero per impedire a
Giulia di
vederlo in quello stato indifeso e inerme, ed ella
approfittò di quello per
sollevarsi sulla punta dei piedi e posare un bacio gentile sulla parte
piagata
del suo volto, strappandogli un debole gemito che lo spinse ad
affondare ancora
il volto tra i suoi capelli e sul suo collo, per poi crollare in
ginocchio ai
suoi piedi sopraffatto da tutte quelle emozioni.
Giulia
si inginocchiò quindi al suo fianco, avvolgendogli le spalle
con le proprie
braccia e sentendolo finalmente sciogliersi in dignitosi singhiozzi che
si
rivelavano soltanto dal leggero tremito che lo percuoteva silenzioso.
Ripeté il
suo nome all’infinito, come un mantra che sarebbe dovuto
servire a calmarlo e
fargli riprendere il controllo di sé, e forse fu il suo
abbraccio, o le sue
carezze, o la sua voce che lo chiamava con quella tenera dolcezza
ch’egli non
poteva dire di aver conosciuto prima, fatto sta che, improvvisamente
cessato di
piangere, sollevò il viso su di lei, incurante delle lacrime
che continuavano a
scorrergli sulle guance. Ella non aveva mai visto un uomo piangere, e
vedere
lui – lui, il Fantasma
dell’Opera, il
Figlio del Diavolo, ma no, per lei
soltanto Erik – in quelle condizioni le strinse il
cuore in una stretta
dolente.
E
l’avrebbe baciato sicuramente, se egli non fosse stato tanto
più rapido di lei
nell’afferrarla per le braccia con fermezza e passione, per
poi attirarla in un
bacio umido e urgente che non aveva nulla di casto e tutto di impetuoso
– quasi
che finalmente stesse assaporando un desiderio a lungo respinto.
Così,
con le bocche ancora unite e in preda ad una danza più
antica del loro
sentimento, la giovane udì distrattamente la voce di Erik
che sembrava
supplicarla con una disperazione terribile.
«Non
lasciarmi anche tu, Giulia, ti prego… Non
lasciarmi».
____________________________________________________________________________________________________________
AA - Angolo Autrice:
Uhm, in realtà non
credo ci sia molto da dire, se non chè non sono per niente
convinta del risultato di questo capitolo - dato che, in due mesi, si
suppone che una faccia un lavoro degno di tale nome. E invece... -.-
Vabbè gente, accontentiamoci, cercherò di rifarmi
col prossimo! ^^
Vorrei ringraziare chi ha recensito lo scorso capitolo, ossia sydney bristow, alwxisglad e Keyra93 - grazie
mille, mi fa sempre piacere sapere che cosa ne pensate di quello che
partorisce la mia mente malata! :D Spero che vi piaccia anche questo,
anche se ho i miei dubbi. -.- Ah, un ultimo appunto! Non sono
una che riempie le storie di citazioni senza specificare da dove
provengono, perciò sto preparando una scheda che
aggiornerò man mano e che posterò alla fine della
storia, dopo l'Epilogo. Se
e quando ci arriverò, a questo punto xD
E con questo vi lascio, spero di potervi augurare un buon
Natale regalandovi il capitolo 24 ma non voglio fare promesse che non
so di poter mantenere :p Un abbraccio grande grande, e grazie per
avermi seguito fin qui <3 I
remain, gentleman...
Vostra,
GiulyRedRose.
|
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Capitolo 26 *** 24. Wishing you were somehow here again ***
Chapitre
24
Wishing
you were somehow here again
Parigi,
tempi moderni.
Sessantasette
giorni, tre ore e quindici minuti dopo la scomparsa di Giulia.
Quattro
giorni e sarebbe stata la
vigilia di Natale.
La
città era in festa, le
macchine sfrecciavano lungo le vie e le strade illuminate da festoni e
luminarie natalizie che proiettavano le loro delicate luci bianche sui
marciapiedi e sui palazzi del centro, rendendo l’intera
capitale molto simile
ad un immenso albero di Natale. Agli angoli delle strade si potevano
trovare
piccoli chioschi che vendevano caldarroste, o gruppi di coristi che
allietavano
i passanti cantando a cappella o con qualche violino musiche tipiche
come Stille Nacht o Petit
Papa Noël. I parigini si affrettavano da una vetrina
di una
boutique a quella di un negozio di giocattoli per accaparrarsi
l’ultimo regalo,
prendendosi di tanto in tanto una pausa in qualche caffetteria; ma lui,
quell’anno, non faceva parte di quella folla –
aveva ben altro a cui pensare.
Quella
sarebbe stata in assoluto
la prima vigilia che, stando a quanto dicevano le autorità e
la quasi totale
rassegnazione dei suoi genitori, avrebbe dovuto trascorrere senza la
presenza
di sua sorella.
Jean-Louis
non era certo di
poterlo sopportare.
In seguito
all’improvvisa
sparizione di Giulia – Jules,
come la
chiamava lui – sulla sua famiglia sembrava essere scivolata
una cappa scura e
soffocante di disperazione che il ragazzo non aveva mai visto prima.
Per quanto
sia lui che i suoi genitori avessero messo in conto, un giorno, di
doversi
separare dalla ragazza non appena ella avesse scoperto di essere stata
adottata
quando non aveva che pochi mesi, vedersela sparire così da
un giorno all’altro
– senza alcun motivo apparente – era stato uno
shock per tutti; specialmente
per la madre, la famosa Eloise Gauthier, che da quel momento aveva
depennato
tutti i suoi impegni rifiutandosi di apparire in scena fin quando sua
figlia
non le fosse stata restituita, costringendo la direzione del teatro
dell’Opèra
a servirsi a tempo indeterminato della sua sostituta, che ovviamente
non poteva
eguagliare la sua eccelsa bravura. Ma tant’è, da
un’artista del suo calibro si
accettava questo ed altro, ed essendo quella una situazione
già di per sé
delicata nessuno aveva avuto niente da ridire – per il
momento.
La famiglia
Nilsson aveva
giustamente denunciato la scomparsa della ragazza optando per
l’ipotesi del
rapimento, visto che Giulia non era una ragazza che poteva avere dei
motivi per
andarsene di casa senza dire mezza parola a nessuno. La polizia aveva
quindi
interrogato le ultime persone che avevano avuto modo di vederla per
ultimi –
suo fratello, madame Lambert, i membri del coro e alcuni di quelli
dell’orchestra, per poi allargare le ricerche e domandare
anche alle ballerine,
ai macchinisti, all’impresa delle pulizie e così
via; di certo il potere e il
prestigio di cui godeva madame Gauthier le avevano permesso di premere
sulle
forze dell’ordine affinché sentissero le
testimonianze di tutti, o quasi tutti,
coloro che si trovavano all’Opèra quel giorno di
ottobre in cui Giulia era
sparita.
Alla fine,
visto che nessuno
parve aver pensato a domandare ad una vecchia insegnante di danza che
non aveva
niente a che fare con la ragazza – non più, almeno
– fu la stessa donna ad
andare al commissariato, qualche giorno dopo. Madame Sindial
raccontò quindi,
per filo e per segno, gli ultimi minuti che aveva trascorso con la
giovane,
specificando che, ovviamente, non poteva essere certa di essere stata
in
assoluto lei l’ultima persona con la quale mademoiselle
Nilsson aveva parlato
quel giorno; parlò quindi della chiave che aveva trovato
– non specificò dove,
temendo che alla polizia potesse venire in mente di perquisire casa sua
alla ricerca
di altri manufatti appartenenti al teatro Garnier – e di come
le aveva detto di
volerle mostrare una cosa, un segreto.
Raccontò di come raggiunsero la
Loge
Perdue, ossia il camerino misterioso che, a quanto
raccontavano coloro che
lavoravano da anni e anni all’interno del teatro, era
sigillato da tempi
lontani; spiegò in quale zona dell’edificio lo
avrebbero trovato, ma specificò
anche che la chiave non era più in suo possesso – probabilmente Giulia l’aveva portata con
sé, ovunque si trovasse adesso
– e che per entrare avrebbero dovuto scassinare la preziosa
serratura – sarebbe
stato uno sfregio non indifferente. Disse che la ragazza doveva essersi
chiusa
a chiave al suo interno perché la porta era infatti di nuovo
sigillata – o
forse qualcuno, dall’esterno o dall’interno, aveva
provveduto a rinchiuderla là
dentro; forse per portarla via in un
secondo momento, lontano da occhi indiscreti? Oh, no, cosa
stava pensando
il commissario? Credeva che fosse stata lei ad organizzare il suo
rapimento, o la credeva
complice della sua scomparsa silenziosa, forse? Come avrebbe potuto
fare una
cosa del genere a una sua cara amica, un’allieva affettuosa?
Sì, le voleva bene
come una figlia, ma da qui ad aiutarla a fuggire…
Poiché non aveva ormai altro
da dichiarare, madame Sindial lasciò la questura piuttosto
indignata,
promettendo suo malgrado di non lasciare la città qualora si
sarebbe potuto
avere ancora bisogno di lei.
Il
commissario aveva addirittura
fatto mettere sotto controllo la loro linea telefonica, in caso i
fantomatici rapitori
avessero chiamato per richiedere un riscatto; nessuno infatti riusciva
a
pensare ad un altro motivo che giustificasse il sequestro della
ragazza, se non
appunto quello di approfittare del ricco conto in banca di madame
Gauthier e
suo marito – un semplice impresario, nonché
manager della moglie. Inutile
specificare che nessuno aveva telefonato in quei due mesi, neppure per
minacciare o altro; la situazione era così disperata e senza
via d’uscita che
avevano iniziato a temere il peggio.
Ma
l’idea di sua sorella morta
era un’ipotesi così aliena e orribile che
Jean-Louis non voleva prenderla in
considerazione neppure come possibilità più
estrema.
Imprecò
frustrato, sdraiato a
pancia in su sul letto della sorella, nella sua stanza, come se essere
circondato
dai suoi effetti personali potesse in qualche modo suggerirgli
qualcosa, dargli
uno spunto che non avevano avuto i poliziotti, ispirarlo magari sulla
scia da
seguire.
La camera di
Giulia non era
eccentrica o volgare come ci si potrebbe aspettare da una ragazzina
viziata – in senso buono
– e coccolata tra gli agi
fin da quando era piccola; i suoi genitori potevano darle tutto
ciò che
desiderava e anche qualcosa di più, ma lei non aveva mai
esagerato. Tanto per
fare qualche piccolo esempio, aveva preso la patente perché
non si sa mai ma non aveva mai preteso la macchina,
limitandosi ad usare di tanto in tanto la Porsche del fratello; non le
importava vestirsi con abiti firmati e accessori necessariamente di
marca –
benché la madre insistesse per farglieli avere e indossare
durante le serate di
gala alle quali spesso partecipava col resto della sua famiglia.
Per cui la
sua stanza era
semplice ed essenziale, e Jean-Louis non sapeva proprio che pesci
prendere. Il
letto a una piazza e mezza, con il piumone soffice nel quale erano
stampati
fiori rossi e marroncini, occupava una parete insieme al comodino e ad
una
specie di libreria a ponte che lo sovrastava, andando da una parte
all’altra;
di fronte l’armadio, bianco, con uno specchio a grandezza
d’uomo nelle due ante
centrali, e accanto la scrivania, con sopra penne, altri libri sparsi,
il
computer portatile chiuso con un leggero strato di polvere sulla
superficie
nera, spartiti e fotografie. Sull’ultima parete, quella di
fronte alla porta,
c’era soltanto un’immensa vetrata che dava sul
balcone e sul resto della città;
si intravedeva persino la Tour Eiffel, in lontananza, illuminata contro
il
cielo scuro della notte.
Come poteva
trovare qualche
indizio se non c’era niente su cui soffermarsi?
Inizialmente
aveva indugiato a
lungo prima di entrare in quella stanza; l’idea di mettersi a
frugare tra gli
oggetti di sua sorella – lei che era sempre stata molto
riservata e gelosa
delle sue cose – lo metteva a disagio, perché il
fatto che lei non fosse lì ad
impedirglielo rendeva la sua assenza pericolosamente più
definitiva. Alla fine
però si era convinto che lo faceva solo per lei, per
aiutarla ovunque fosse, e
da quel momento non trascorreva giorno senza che Jean-Louis passasse
ore e ore
in quella camera, a riflettere o semplicemente ad annusare il profumo
della
ragazza che ancora permeava in ogni suo oggetto – vedeva lei
in ogni cosa,
sdraiata sul tappeto, sul letto, seduta alla scrivania, affacciata al
balcone,
persino china dentro l’armadio cercando una sciarpa che
credeva di avere ma che
alla fine rammentava di non aver mai acquistato.
I suoi
genitori avevano sempre
pensato – e a ragione, probabilmente – che ci fosse
qualcosa di strano
nell’affetto morboso e quasi ossessivo che Jean-Louis nutriva
nei confronti
della sorella. Sia la madre che il padre desideravano soltanto che loro
si
amassero, si proteggessero e si prendessero cura l’uno
dell’altra come veri
fratelli, benché non avessero reali legami di sangue. Non
potevano di certo
immaginare che il sentimento del figlio andasse ben oltre quei
sentimenti
fraterni – o forse sì, un poco lo avevano intuito,
ma non avevano voluto
ammetterlo e accettarlo.
Jean-Louis
aveva un’idea che gli
ronzava in mente sin da quando era stato grande abbastanza da
distinguere
l’amore fraterno da quello sensuale e romantico che legava i
suoi genitori e i
suoi amici fidanzati; aveva sempre fantasticato su come sarebbe stato
il loro
rapporto una volta che Giulia avesse scoperto che non erano realmente
fratelli
– che non avevano nessun vincolo di parentela.
Si
immaginava mentre la
consolava, perché non doveva essere facile scoprire e
accettare di non fare
davvero parte, biologicamente,
dell’unica famiglia che aveva conosciuto e che aveva sempre
amato; e si
pregustava il momento in cui – magari dopo averle dato
qualche tempo per
digerire la cosa – le confessava di non averla mai realmente
vista come una
sorella, che l’affetto che provava per lei andava ben oltre
quello che avrebbe
provato se fossero stati davvero sangue del proprio sangue, che ogni
volta che
andava a letto con qualcuna erano i suoi capelli che immaginava sparsi
sul
cuscino, le sue guance tinte del rosso dell’eccitazione, le
sue gambe strette
intorno ai fianchi e le sue labbra che mormoravano il suo nome.
E a quel
punto, poi, la sua
fantasia si spingeva oltre, prendendo il volo; fantasticava che anche
lei lo
ricambiasse, che si convincesse che non c’era nulla di
incestuoso in quello che
provavano l’uno per l’altra, giacché in
fondo erano due estranei, due amici
magari, ma non fratelli.
Strinse
contro di sé il cuscino
del letto, premendolo contro la faccia e gemendo, insieme disperato ed
eccitato. Non poteva arrendersi, non
voleva farlo; avrebbe ritrovato Giulia, l’avrebbe
riportata a casa, maledizione,
l’avrebbe abbracciata e
accarezzata e avrebbe sepolto le mani e il viso nel suo collo e nei
suoi
capelli, come aveva sempre agognato di fare. Giulia non sarebbe morta o
scomparsa senza che lui avesse l’opportunità di
dirle quanto l’amava e
dimostrarglielo assaggiando le sue labbra.
And
sometimes at night time
I
dream that you are there
But
wake holding nothing but the empty air…
***
Aveva
finalmente parlato con
madame Sindial.
Quello che
l’anziana donna gli
aveva raccontato – qualcosa come la leggenda su un certo fantasma dell’Opera –
lo aveva lasciato dapprima senza parole, poi
pieno di sdegno – non amava particolarmente che si
prendessero gioco di lui in
quel modo, non era più un bambino – e poi,
semplicemente, sorpreso ma
determinato. Non credeva che madame Sindial potesse essere
così convinta delle
sue parole – una stanza che collegava due epoche,
all’interno del teatro
dell’Opèra, come una specie di inquietante Stargate?
Suvvia! – ma andare a controllare non gli avrebbe di certo
fatto male; tanto,
ormai, non aveva più nulla da perdere. Ciò che
lui credeva, piuttosto, era che
Giulia fosse rimasta intrappolata in qualcuno dei passaggi segreti che
riempivano i sotterranei del teatro, o peggio, che fosse finita nel
lago – annegando? Dio,
no! – e dunque per
questo doveva assolutamente accertarsene.
Ovviamente,
non poteva andare a
fare una cosa del genere durante il giorno; aveva bisogno che
l’edificio fosse
vuoto per potersi aggirare liberamente, anche se forse andare con dei
pompieri
o qualcuno addestrato a salvare le persone sarebbe stato meglio. Ma se
non
l’avesse trovata avrebbe fatto soltanto la figura
dell’idiota, dunque voleva
evitare. E gli serviva anche attendere a dopo le feste, tuttavia,
perché non
poteva sparire anche lui per Natale – questo avrebbe
distrutto il morale già basso
dei suoi genitori.
Per cui, fu
solo la notte del 29
dicembre che poté mettere in atto il suo piccolo piano.
Attese che
tutti, in casa,
stessero dormendo – a partire dai suoi genitori per finire
con il dobermann
sdraiato davanti alle braci del camino – per prepararsi e
uscire di nascosto;
afferrò da sotto il letto un vecchio borsone bluastro nel
quale aveva messo
qualcosa per il pronto intervento – dopotutto non sapeva che
cosa avrebbe
trovato, o se l’avrebbe
trovato – una
torcia, una coperta, batterie e altri oggetti di prima
necessità. In realtà
aveva un po’ paura di andare ad infilarsi nel teatro nel
cuore della notte –
quell’edificio non gli era mai piaciuto granché e
il racconto di madame Sindial
echeggiava ancora nella sua mente – ma per sua sorella, per
Giulia, avrebbe
fatto questo e altro.
Prese le
chiavi della macchina e
uscì, facendo attenzione a non sbattere la porta.
Erano appena
passate le tre del
mattino quando la sua auto entrò nel parcheggio riservato
allo staff
dell’Opèra, silenziosa e con i fari spenti; non
voleva attirare l’attenzione di
nessuno, non sarebbe stato prudente. Scivolò fuori
dall’abitacolo, afferrò il
borsone e fece scattare la serratura; corse poi sotto il portico
debolmente
illuminato e cercò di passare solo nelle zone in ombra per
evitare le
telecamere di videosorveglianza. Dubitava che il famoso nome di sua
madre
avrebbe potuto salvarlo in caso qualcuno l’avesse scoperto;
in fondo quella era
un’effrazione nel vero senso della parola.
Cercando di
non pensarci più di
tanto raggiunse l’entrata secondaria, illuminata solo da due
lampioncini e con
un cartello laccato su cui spiccava la scritta Riservato
al personale. Ignorandola bellamente, Jean-Louis
salì i
cinque gradini e poggiò il borsone per terra, chinandosi per
aprirlo e frugare
al suo interno alla ricerca di qualcosa per scassinare la porta;
ovviamente si
era organizzato, prendendo un set di grimaldelli dagli attrezzi del
fai-da-te
di monsieur Nilsson. Ci impiegò pochi secondi –
trattenne addirittura il
respiro e lo rilasciò solo dopo aver sentito lo scatto della
serratura che
cedeva e faceva aprire la porta davanti al suo viso sollevato e
soddisfatto.
Senza attendere oltre là fuori sgusciò dentro,
richiudendo silenziosamente la
porta alle sue spalle.
Ce
l’aveva fatta; era dentro
l’Opèra Garnier.
Ancora
incredulo prese la torcia
dal borsone e se lo rigettò sulle spalle, iniziando ad
avanzare con fare
guardingo senza però accenderla; voleva essere sicuro di non
incontrare
l’eventuale custode e di non farsi intercettare dalle
telecamere a circuito
chiuso. Quell’entrata secondaria, ad ogni modo, gli
risparmiava di attraversare
l’enorme foyer completamente immerso
nell’oscurità, facendolo passare invece
direttamente ai piani alti dai quali si poteva accedere ai palchi della
galleria;
ignorò le porte chiuse di questi ultimi, camminando a spasso
spedito seguendo
le indicazioni dei cartelli al contrario – vale a dire che,
invece di dirigersi
verso l’uscita come essi suggerivano, andava nella direzione
opposta. Sperava
così di trovare al più presto i corridoi dove si
affacciavano i camerini degli
artisti; impresa ardua, poiché in genere era abituato ad
andarci seguendo
Giulia che sembrava conoscere quei luoghi come se fossero stati parte
della sua
casa d’infanzia e non zone ombrose e pericolose di un vecchio
teatro infestato
dai fantasmi del passato.
A proposito
di fantasmi.
L’assurda
leggenda che gli aveva
narrato madame Sindial esplose immediatamente nella sua testa,
costringendolo
ad accelerare il passo e a guardarsi più freneticamente
intorno. Era stata solo
una sua impressione, o quella pesante tenda di broccato aveva davvero frusciato minacciosa,
immobilizzandosi non appena il suo sguardo vi si era posato sopra? E
quei
ritratti alle pareti, quelle antiche fotografie color seppia o in
bianco e nero
dei tenori e delle prime donne del
secolo precedente, perché sembravano seguirlo con i loro
sguardi immobili da
decenni?
Rabbrividì,
scosse la testa,
imprecò, svoltò a destra e continuò a
percorrere un corridoio sconosciuto.
Non
esisteva nessun fantasma dell’Opera.
Era quel
maledetto teatro che
alimentava una sciocca suggestione insinuatagli perversamente nella
testa da
un’insegnante di danza, che ormai viveva di racconti, storie
e menzogne e
sperava di riuscire a terrorizzare i pochi che l’ascoltavano
mentre le raccontava. Vecchia pazza.
E pazzo lui che le aveva dato il credito sufficiente
a spingerlo a fare irruzione in un edificio pubblico nel cuore della
notte, che
si era fatto ridurre alla stregua di un ladro!
Per quanto
una strana, malefica
vocina continuasse a suggerirgli di raggiungere la platea, Jean-Louis
sapeva
che non ci sarebbe andato per niente al mondo; temeva che quel pesante
lampadario, che di tanto in tanto sembrava ondeggiare pericolosamente,
potesse
crollargli sulla testa da un momento all’altro,
schiacciandolo con il terribile
peso di centinaia di cristalli. Per questo motivo ogni volta che veniva
trascinato all’Opèra dal resto della famiglia per
assistere all’esibizione
della madre o a quella della sorella
preferiva trovare rifugio in uno dei palchi – era una
sensazione infantile, ma
lassù aveva l’impressione di essere dieci volte
più al sicuro di quelli che
occupavano le poltrone in platea. Per cui no,
là non sarebbe andato.
I camerini.
Doveva raggiungere i
camerini.
Fece il giro
completo della
platea passando dall’esterno, scese alcune scale,
risalì di pochi gradini,
percorse ancora un’altra galleria, più breve
stavolta; la torcia puntava sempre
il pavimento ricoperto da un grosso strato di moquette color porpora
che attutiva
i suoi passi e li rendeva cupi e silenziosi, simili a macabri tonfi che
potevano provenire da qualsiasi banale pellicola horror di serie B.
Cercando di
scacciare quegli inconcepibili pensieri, e riuscendoci costringendo la
sua
mente a concentrarsi esclusivamente sullo scopo che si era prefissato,
riuscì
in parte a rilassarsi e dopo un altro breve vagabondare riconobbe
finalmente il
nuovo corridoio che aveva raggiunto. Le targhette dorate sulle porte
indicavano
a chi appartenesse ciascun camerino – vide quello con su
scritto il nome della
madre, momentaneamente affiancato da un foglio di carta bianca con il
nome
della sua sostituta – e questo lo rese immediatamente
più padrone della
situazione e del luogo nel quale si trovava.
Oltre alle
discutibili fantasie
sugli spiriti che infestavano il teatro, madame Sindial gli aveva anche
spiegato per filo e per segno dove si trovava questo strano camerino
che, a suo
dire, collegava le due epoche; era davvero curioso di sapere che genere
di cose
leggesse quella donna per essere così svampita, e
soprattutto avrebbe voluto
chiedere alla sorella, una volta ritrovata, cosa accidenti ci trovasse
di
interessante e piacevole in lei. Se Giulia fosse stata appassionata di
macabro
e horror era certo che sarebbe stato il primo a saperlo.
Senza porre
ulteriore tempo in
mezzo, Jean-Louis proseguì lungo il corridoio, lasciandosi
alle spalle la parte
nuova e frequentata abitualmente dal personale per dirigersi verso
quella più
antica – si sarebbe potuto dire anche abbandonata o
trascurata – dove persino i
globi delle luci appese alle pareti erano ricoperti da uno strato di
polvere
così spesso da rendere la luce cupa e fastidiosa, che creava
strani giochi di
ombre per terra e sui muri. Ignorando tutto questo, il ragazzo si mise
a contare
le porte sulla destra del corridoio – le trovava tutte
uguali, non aveva idea
di come avrebbe fatto a trovare quella che stava cercando senza le
precise
indicazioni di madame – e quando raggiunse la settima si
fermò, posando il
borsone per terra con un sospiro e armandosi nuovamente dei suoi
attrezzi da
scasso. Tenendo la torcia tra le labbra puntata verso la serratura, con
il
medesimo meccanismo utilizzato in precedenza con la porta
d’ingresso fece
scattare la serratura con un sonoro clic,
osservandola mentre si apriva davanti a lui. Non un cigolio,
né lo stridore
fastidioso che si stava aspettando; era stato facile, ora tutto stava
nel
riuscire a trovare Giulia.
Riprese il
borsone da terra, si
levò la torcia di bocca ed entrò, guardandosi
intorno e puntando la luce sui
vari oggetti della nuova stanza. Aveva fatto pochi passi al suo interno
quando
la porta si richiuse alle sue spalle, ma dopo aver sobbalzato un
attimo, preso
alla sprovvista, decise di non curarsene; aveva ancora i suoi attrezzi,
poteva
riaprire la serratura in qualsiasi altro momento.
Un enorme
specchio incorniciato
in una modanatura dorata e intarsiata attirò quasi subito la
sua attenzione,
costringendolo però a puntare altrove la luce bianca della
torcia per non farla
riflettere sulla superficie del vetro e accecarlo. Aveva
l’aria di essere
davvero molto vecchio visto le macchie che ne sporcavano la superficie,
notò
avvicinandosi; tuttavia, dopo aver annullato le distanze tra
sé e lo specchio,
si accorse di qualcos’altro di strano. Dietro la cornice,
leggermente rimossa
dalla parete, si apriva uno spazio vuoto, buio e misterioso, dal quale
proveniva l’aria umida e gelida che poteva trovarsi soltanto
in delle
catacombe. Jean-Louis esultò silenziosamente; che avesse
davvero trovato il posto
in cui era finita – o era tenuta prigioniera –
Giulia? Puntò la torcia verso
l’apertura e si ritrovò ad illuminare una galleria
immensa, lunghissima, con
ganci di ferro alle mura di pietra che gocciolavano umidità,
che sembrava non
avere fine e proseguire in quel modo per chilometri, sopra e sotto il
teatro
dell’Opèra. Fischiò, e il suono
rimbombò sulle pareti per un tempo che gli
parve infinito, per poi notare come l’eco si perdesse in
lontananza, come
risucchiato dal buio.
Avrebbe
messo la mano sul fuoco
sul fatto che Giulia si trovasse là sotto, da qualche parte.
Non sapeva perché,
ma ne era quasi del tutto certo; maledizione, non poteva aspettare i
soccorsi,
doveva andare adesso!
Così,
senza nemmeno tornare
indietro per riprendere la sua borsa, Jean-Louis spinse ancora
più di lato lo
specchio, facendolo scricchiolare su chissà quali cardini
arrugginiti da anni,
e dopo aver creato l’apertura necessaria per passare vi si
infilò in mezzo e
sparì all’interno del passaggio segreto.
______________________________________________________________________________________________________
AA
- Angolo Autrice.
Strano ma vero, sono ancora
viva.
Vi ricordate di me? :° Io temo di non ricordarmi più
di questa storia, per cui
avrò bisogno di un po’ di tempo per ringranare il
ritmo e riambientarmi con i
miei cari personaggi – e cosa c’è di
meglio di un bel capitolo transitorio in
cui si parla di un personaggio praticamente sconosciuto? xD Ma bando
alle
ciance – o ciando alle bande, come
disse
qualcuna! – e passiamo al resto.
Innanzitutto, chiedo immensamente
scusa per il ritardo tremendo: spero solo di non dovervi far aspettare
un altro
anno prima di farvi leggere il prossimo capitolo. Continuo a
ringraziare tutte
le anime pie che continuano a leggere questa storia e a recensirla,
davvero grazie, grazie, grazie!
Poi, un ringraziamento
speciale alla mia alfabetaomegareader preferita kenjina ♥
(che non sa più cosa fare per liberarsi di me xD).
E
ora, dopo i
convenevoli di rito, fuggo prima che inizino a volare pomodori marci e uova. xD
Post
Scriptum. In
effetti, scassinare una serratura è davvero una scemenza,
niente di strano che
i ladri riescano ad entrare dappertutto come niente. Ecco, guardate
pure QUI
(questa non è
istigazione a
delinquere, tanto per essere chiari).
Ci si legge presto, spero!
Un
bacio, Niglia.
|
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Capitolo 27 *** 25. La mia musa, la mia vita, la mia anima ***
Chapitre 25
La mia musa, la mia
vita, la mia anima
Parigi, 23 dicembre
1877.
La
follia ispiratrice aveva annebbiato la mente di Erik sin da quando
aveva
lasciato il tetto del teatro, pochi giorni prima, in un modo che mai
avrebbe
osato immaginare. Un braccio che stringeva la vita della ragazza, resa
incredibilmente sottile dalla tortura di un corpetto che era obbligata
ad
indossare e che lui le avrebbe volentieri strappato via di dosso, e il
capo di
lei posato con naturalezza sulla propria spalla, si era sentito padrone
del
mondo intero; e quella sensazione si era tramutata in voglia di
comporre,
voglia che non aveva lasciato languire in qualche recesso delle sue
intenzioni,
ma che al contrario si era affrettato a soddisfare subito dopo aver
accompagnato personalmente mademoiselle Sanders
nell’abitazione delle Giry.
Da
allora – erano trascorsi quasi tre giorni –
monsieur Destler e la sua protetta
non avevano quasi avuto modo di vedersi, se non di rado e piuttosto
casualmente
nei corridoi del teatro, e in quei brevi momenti si limitavano a
scambiarsi
piccoli sorrisi segreti che implicavano
un’intimità nuova che non erano per
nulla disposti a condividere con alcuno.
Erik
aveva ripreso ad aggirarsi furtivamente nei ponteggi sopraelevati
sospesi sopra
il palcoscenico, da dove meglio poteva governare quello che era stato
il suo
regno per lunghi quindici anni – rammentava il giorno del suo
arrivo all’Opèra
come se fosse avvenuto il giorno prima. All’epoca era solo un
ragazzino, eppure
il suo animo era già stato irrimediabilmente distrutto e
indurito dalle prove
terribili che qualche essere ultraterreno aveva osato porre sul suo
cammino,
già di per sé impervio per via del suo aspetto. A
volte si era sorpreso a
domandarsi se le cose sarebbero potute essere differenti, per lui,
qualora
avesse avuto la fortuna di nascere in una famiglia aristocratica: gli
eredi
maschi erano rari e quasi sempre accolti con gioia, al di là
di piccoli difetti
fisici che si sarebbero potuti nascondere facilmente. Dubitava che
sarebbe
stato venduto lo stesso agli zingari… Ma questo non poteva
saperlo. D’altronde,
era pur vero ch’egli possedeva, in fondo, del prezioso sangue
blasonato nelle
sue vene – sebbene solo in parte; e questo faceva di lui
anche un maledetto
figlio bastardo, come se già ciò che era non
fosse abbastanza, pensò con un
amaro sorriso.
E
questo lo riportava anche a un’idea che, malgrado
ciò che si era ripromesso,
non poteva fare a meno di tormentarlo segretamente: il duca De
Blanchard non si
era più fatto vedere, né sentire, là a
teatro, ed Erik continuava a chiedersi
se il vecchio impostore stesse in realtà tramando qualcosa
per costringerlo ad
accettare il suo assurdo patto. Dove si era mai visto che una creatura
mostruosa quale continuava a ritenersi l’ex Fantasma
dell’Opera frequentasse
con noncuranza i profumati e alteri salotti della nobiltà
come uno qualsiasi di
loro? E – il solo pensiero era ridicolo – cosa
sarebbe accaduto se in uno di
quei circoli avesse malauguratamente incontrato l’erede dei
De Chagny? Si
sarebbero stretti la mano come due persone civili, ignorandosi
amabilmente e
fingendo di non essersi mai incontrati prima d’ora, o lo
sciocco visconte
avrebbe avuto una delle sue solite brillanti idee, denunciandolo alla gendarmerie o sfidandolo a duello?
Per
quanto quest’ultima idea di far scorrere un poco del sangue
di quel damerino
allettasse in modo particolare la sopita brama di vendetta di Erik,
egli stesso
decise che quel gioco non valeva più la candela. Non gli
importava che cosa
facessero i De Chagny, purché, maledizione, lo facessero il
più lontano
possibile da lui: aveva ben altro a cui pensare che gestire la
suscettibilità
di quei due.
In
quel momento, mademoiselle Sanders stava provando l’aria
conclusiva dell’opera
di Gounod: ormai, infatti, che lei dovesse partecipare nelle vesti del
personaggio principale dell’opera era un dato di fatto
indiscutibile. Erik, dal
canto suo, non poté che essere intimamente soddisfatto della
sua decisione, e
si rese conto con un brivido che la voce della ragazza sembrava agire
come un
balsamo sulle sue ferite. Ormai era pressoché certo che i
suoi sentimenti si
fossero definitivamente cristallizzati nella forma di quel primitivo
impulso che
si era ripromesso di scacciare per sempre dal suo cuore ancora
sanguinante; si
era maledetto, aveva riso di se stesso e della sua scarsa mancanza di
autocontrollo, aveva insultato quell’odiosa debolezza che
aveva fatto sì che
rimanesse impigliato per l’ennesima volta in una situazione
che non aveva
cercato, né tantomeno desiderato. La parola che temeva
più dello stesso Inferno
era solo una, e ancora non aveva lasciato le sue labbra –
benché la sua mente
l’avesse febbrilmente ripetuta in un delirio che aveva
rischiato di farlo
impazzire, nelle notti precedenti.
Amava mademoiselle
Sanders. Poteva
mai essere possibile?
Certo
che lo era. Lo era dal momento che l’unico modo per
addormentarsi sereno era
diventato il ricordo dei suoi dolci occhi castani e il pallido sorriso
che si
era formato sulle sue labbra quando gli aveva detto di non avere paura
di lui,
la volta che l’aveva praticamente rapita e rinchiusa nella
sua casa sul lago,
nonché quello, più bruciante e recente, della sua
bocca dischiusa sotto il suo
bacio feroce. Dopo aver bruciato tutto ciò che aveva trovato
nella sua dimora
sotterranea e che poteva essere riconducibile a Christine
Daaè, Erik aveva
iniziato a modellare e riprodurre la sua nuova ossessione in ritratti
abbozzati
della fanciulla, in brevi componimenti che forse avrebbero potuto fare
parte,
un giorno, di una sinfonia che rispecchiasse la sua
personalità, oppure in
piccoli oggetti da lui stesso creati che aveva intenzione di darle in
dono. Ah,
ma come si corteggiava una fanciulla? Non era di certo abituato a
simili
manifestazioni, eppure sapeva che avrebbe dovuto mettere da parte i
suoi
burberi atteggiamenti se voleva davvero conquistarla.
Sarebbe
mai riuscito ad avere il suo amore, la sua passione?
In
fondo, i suoi desideri non erano poi così irragionevoli:
voleva solo poter
passeggiare con lei alla luce del sole, portarla
a spasso la domenica, e aveva creato persino delle maschere
che potevano
rendere la sua faccia uguale a quella di qualsiasi altro essere umano!
Ma tutto
ciò sarebbe rimasto il delirio che era, se mademoiselle
Sanders non l’avesse
mai ricambiato… Benché, sì, il
semplice fatto ch’ella avesse più volte
ricambiato i suoi baci lo facesse ben sperare.
Massaggiandosi
le tempie con aria indolente, Erik abbandonò i ponteggi
senza che nessuno dei
macchinisti si accorgesse della sua presenza. Per quanto lo
desiderasse, non
poteva rimanere tutta la giornata a presenziare – seppur in
incognito – alle
prove del Faust, giacché
aveva parecchio
lavoro da fare in veste del suo nuovo ruolo. Inoltre voleva concludere
ad ogni
costo l’aria che aveva iniziato tempo prima – da
quando Giulia aveva lasciato
la sua dimora sul lago, a onor del vero – perché
ciò che aveva in mente di fare
aveva delle scadenze fin troppo brevi.
Con
un sorriso appena accennato e con la voce della ragazza ancora nelle
orecchie,
lasciò la platea e si diresse a grandi passi verso il suo
regno sotterraneo.
«Oui, c'est toi, je t'aime,
oui, c'est toi, je
t'aime,
Les fers, la mort même
ne me font plus peur!
Tu m'as retrouvé;
tu m'as retrouvé,
Me voilà sauvée, me voilà
sauvée!
C'est toi, je suis sur ton coeur!»
***
Per
quanto madame Giry avesse desiderato trascorrere la vigilia di Natale
insieme
alla viscontessa De Chagny, come sempre avevano fatto prima
ch’ella si sposasse
e fuggisse dalla capitale con la sua nuova famiglia, dovette infine
arrendersi
all’evidenza dei fatti che le impedivano di organizzare un
simile incontro.
Innanzitutto, riteneva fosse ancora presto far incontrare le due
inconsapevoli
sorelle – senza contare che non avrebbe avuto la minima idea
di come spiegare l’assurda
verità che si nascondeva dietro la loro inquietante
somiglianza. Inoltre,
dubitava che Erik potesse prendere bene una simile decisione:
l’uomo poteva
anche dire di aver perduto ogni genere d'interesse romantico nei
confronti
della non più mademoiselle Daaè, ma madame aveva
i suoi dubbi al riguardo, e
così pure Meg, che ormai era stata dichiarata abbastanza
matura e responsabile
da poter essere una sincera confidente per quella stessa madre che in
passato
aveva fatto il possibile per tenerla all’oscuro delle sue
macchinazioni.
Entrambe,
dunque, avevano fatto sì che Giulia fosse tanto impegnata da
dimenticare che la
viscontessa avrebbe voluto conoscerla – monsieur Gabriel, per
quanto amasse la
discrezione, aveva ritenuto opportuno avvisare l’insegnante
di danza a
proposito dei curiosi che sembravano gironzolare intorno alla nipote – posticipando ancora e
ancora
l’inevitabile. Louise avrebbe voluto prima accertarsi che
Giulia ricordasse lo
stretto indispensabile della sua vita passata da sapere di essere stata
adottata – sempre se coloro che l’avevano cresciuta
le avessero parlato di tale
eventualità – prima di sconvolgerla nello svelarle
la sua parentela con la
viscontessa.
Ma
la vera incognita rimaneva la reazione di Erik, qualora avesse scoperto
che il
nuovo oggetto della sua ossessione era così strettamente
legato alla sua
vecchia allieva. Sinceramente, madame Giry preferiva non pensarci: il
feroce istinto
materno che l’aveva spinta a prendersi cura di Giulia e a
cercare di
proteggerla a spada tratta contro monsieur Destler le suggeriva di
rimandare
ancora il momento di rivelare quel segreto.
Tali
erano i frenetici pensieri e ragionamenti che non avevano abbandonato
la sua
mente neppure durante la santa messa natalizia, rendendola distratta e
fin
troppo agitata. Sedeva su di una panca in quarta fila, accanto a sua
figlia,
Giulia e Agnese, e per tutta la durata della funzione non aveva fatto
che
stritolare i lembi dello scialle che le avvolgeva il busto. Non era mai
stata
una fervente cattolica, a essere franchi, per cui le preghiere le
uscivano
dalle labbra in modo automatico, unica memoria di una madre che
l’aveva spedita
all’Accademia di danza del teatro non appena compiuti cinque
anni senza mai più
andare a trovarla. Quello era stato l’unico motivo che
l’aveva spinta ad
abbandonare la carriera all’interno del balletto quando si
era ritrovata
incinta della sua Meg: non voleva riservarle un’infanzia
priva di una madre –
ed era, questo, anche il medesimo motivo per cui aveva dato asilo a
quel povero
assassino sfigurato tanti anni prima. Il suo istinto materno
l’aveva resa cieca
di fronte alla vera natura spietata del ragazzo, e adesso, prima con
Christine
e poi con Giulia, ne stava pagando tutte le conseguenze possibili.
Il
sacerdote sull’altare benedisse i presenti e
augurò con un tiepido sorriso un
lieto Natale a tutti: ma come poteva trovarlo tale, lei, con quella
tempesta
che le si agitava nell’animo?
«Maman, andiamo?» Per grazia
divina la
voce di sua figlia la riscosse da quel torpore; madame si
ritrovò a incrociare
gli sguardi preoccupati e perplessi delle due giovani più
l’anziana governante,
e per non rovinare quella che doveva essere un’atmosfera di
festa si costrinse
a sorridere e guidarle piuttosto frettolosamente verso
l’uscita.
«Sì.
Torniamo a casa prima che si metta a nevicare, o peggio, a
piovere», borbottò,
voltandosi poi sulla soglia del portone per bagnare due dita
nell’acquasantiera
e abbozzare il segno della croce.
«Predica
interessante quella di padre Christopher, non credete anche voi
Louise?» Fu il
primo commento di Agnese una volta raggiunto il sagrato, mentre si
stringeva
addosso lo scialle e il fiato si disperdeva in morbide volute davanti
alla sua
bocca, tanto era gelida la notte. «L’ho trovata
molto toccante e meritevole di
riflessione.»
Madame
Giry, che per l’intera durata della funzione aveva avuto la
testa troppo
impegnata in altre elucubrazioni per poter prestare attenzione anche
alle
parole del sacerdote, ignorò educatamente quel blando
tentativo di intavolare
una conversazione e prese a braccetto la figlia, osservando Giulia che
faceva
altrettanto con l’altra donna. Effettivamente doveva aver
smesso di nevicare da
poco, visto che sul sagrato faceva bella mostra di sé un
sottile strato bianco
che alcuni bambini avevano già eletto a gioco natalizio;
evitando con cura uno
di quei birbanti, madame si diresse quasi a passo di marcia verso il
lato
opposto della strada, troppo stanca e mentalmente confusa per poter
anche solo
pensare di rimanere sulla piazza della chiesa a cincischiare insieme
agli altri
parigini.
Avevano ormai quasi
raggiunto Rue Scribe – che
era davvero poco lontana dalla Madeleine – quando Meg si
fermò improvvisamente
in mezzo alla strada, costringendo la madre a fare altrettanto. Senza
dire una
parola, ma limitandosi a sgranare impercettibilmente gli occhi,
indicò alla
madre la figura di un uomo che sembrava attendere il rientro delle tre
donne al
riparo sotto il portico di casa loro. Non era difficile riconoscerlo,
anche
malgrado il lungo mantello e il cappello che gli celava il volto.
Quello che
non era ben chiaro era il motivo della sua presenza – per
quello che madame
poteva ricordare, Erik non era mai andato in visita ufficiale a casa
Giry,
difatti né Agnese né Meg sapevano in
realtà con quanta frequenza l’uomo
frequentasse quell’abitazione.
Era
impossibile ormai passare dalla porta della cucina, sul retro, un
po’ perché madame
non aveva le chiavi con sé e un po’
perché l’uomo, ormai, le aveva viste. Si
staccò
dalle ombre del portico e scese i gradini con tanta grazia che
sembrò quasi non
toccarli – sicuramente un effetto del mantello che gli
svolazzava intorno. Si avvicinò
a loro e si espresse in un elegante inchino, facendo tuttavia
attenzione a che
la maschera rimanesse ben celata dal buio della strada.
La
sua voce bassa e carezzevole sciolse il silenzio imbarazzato che era
scivolato
su di loro. «Buona serata a voi, signore. Desidererei rapire
mademoiselle Sanders
per un poco, questa notte, se permettete», disse,
l’incarnazione stessa dell’educazione
e del buon gusto. Ciò nonostante era palese il sarcasmo che
si nascondeva
dietro tali parole, giacché il solo pensiero di potergli
rispondere negativamente
era ridicolo.
Fu
Giulia a staccarsi dal gruppo, avvicinandosi all’uomo ed
evitando così un’eventuale
scenata. «Non vi dispiace, vero, madame?» Chiese,
frapponendosi forse
inconsciamente tra le tre donne e il suo maestro quasi a volerle
sfidare di
impedirle di seguirlo. Sia l’espressione di Meg che quella
di Agnese manifestavano
un chiaro disappunto – che nel caso dell’amica
sembrava rasentare lo shock –
ma madame Giry mantenne come sempre un atteggiamento neutro e quasi
inespressivo.
«No,
mia cara, non mi dispiace», capitolò alla fine,
benché si vedesse quanto le
costassero quelle parole. «Ve l’affido, monsieur
Destler», non farmene pentire,
sembrò aggiungere in silenzio.
Come
se avesse colto l’implicito, Erik accennò un
secondo inchino e porse il braccio
alla sua compagna, che per tutta risposta salutò le tre
donne e lo seguì,
stringendosi contro di lui per approfittare del suo calore.
Agnese
e Meg erano sconvolte – entrambe per motivi diversi, ma tutte
nell’identico
modo. «Ma… Louise! La lasciate andare via
così?» Esclamò a mezza voce
l’anziana
donna, con evidente indignazione.
In
silenzio, tuttavia, madame li guardò allontanarsi insieme,
fuggendo le luci
fioche dei lampioni, fin quando non sparirono voltando
l’angolo. «È Natale,
Agnese. Cosa potrà mai accadere di male, questa
notte?» Si limitò a rispondere,
rassegnata.
Poi,
con l’aria di un guerriero che ha appena compreso di non
poter vincere la
battaglia, si voltò verso la figlia e accennò un
sorriso, prendendola
sottobraccio e facendo lo stesso anche con Agnese. «Su,
rientriamo. Inizia a
far freddo, non trovate?»
Come
tutte le volte in cui si ritrovavano a gironzolare in pace
nell’immenso reame
dorato che era l’Opèra Populaire, Erik era
incredibilmente felice. A essere
sincero non credeva che sarebbe stato così facile rapire Giulia, e sotto lo sguardo severo
e impenetrabile di colei
che si era eletta a sua tutrice; aveva immaginato di dover insistere di
più, o
addirittura di dover ricorrere alle minacce. Meglio per tutti che non
fosse
andata così.
Mademoiselle
Sanders, da parte sua, sembrava condividere la sua euforia. Lo aveva
seguito a
teatro senza preoccuparsi di nulla, fidandosi ciecamente; aveva trovato
persino
eccitante l’idea di passare da un’entrata
secondaria, per non dire segreta, che
si affacciava su Rue Auber, invece di entrare dal portone principale
–
avrebbero potuto attirare l’attenzione di qualcuno, malgrado
l’ora tarda e il
giorno particolare. La gendarmerie
di
notte pattugliava le strade, e Place de l’Opèra
era sempre occupata da uno o
più gendarmi – rimasugli della notte
dell’incendio, sicuramente.
Aiutò
la sua allieva a raccogliere le ampie gonne dell'abito per non farla
inciampare
mentre saliva gli stretti gradini che collegavano le scuderie a un
corridoio
segreto al di sotto del quarto sottopalco, e precedendola in quella
buia
galleria le fece strada senza lasciare un solo istante la sua mano
– perdersi
era impossibile, giacché si poteva solo avanzare o tornare
indietro, ma egli
non voleva di certo che la giovane inciampasse
nell’oscurità a causa di quello
scomodo abbigliamento. Non le spiegò il motivo per il quale
l’aveva trascinata
nel teatro a quell’orario così bizzarro, e per di
più in una notte come quella;
in realtà non disse una sola parola, ma era talmente
raggiante che Giulia non
osò spezzare il silenzio e rischiare di rovinare qualsiasi
cosa egli avesse in
serbo per lei.
Il
corridoio segreto sbucò con sua grande sorpresa nella
piccola cappella del
teatro: l’alta vetrata sulla quale era riprodotta
l’immagine di un angelo alato
venne spalancata dalle dita agili di Erik, che uscì per
primo e si volse verso
la ragazza per aiutarla a saltare il mezzo metro di gradino.
Dopodiché richiuse
il passaggio in modo così perfetto ch’ella
dubitò quasi di esserne appena
sbucata fuori.
«Adesso
si spiegano molte cose…» Decretò Giulia
inarcando un sopracciglio e indicando
poi il dipinto. «Mi sono sempre chiesta in che modo riuscissi
a parlarmi
attraverso i muri.»
L’uomo
le sorrise indulgente, avvicinandosi e offrendole il braccio con fare
garbato. «È
uno dei vantaggi dell’essere un fantasma»,
ribatté lui, conducendola verso i
gradini e permettendole di andare per prima. Si trovavano quasi a
metà scala
quando Erik si fermò all’improvviso, facendo quasi
inciampare su uno scalino la
sua compagna e voltandosi in uno svolazzare del suo mantello per
trattenerla
per il gomito e impedirle di perdere l’equilibrio.
«Cosa
c’è che non va, Erik?» Chiese ella
preoccupata, notando che lo sguardo
dell’uomo sembrava insistere nel posarsi dappertutto tranne
che su di lei. E
mademoiselle Sanders, da parte sua, stava iniziando a temere i
repentini
cambiamenti d’umore del suo maestro.
Egli
sembrò soppesare a lungo ciò che stava per dire
– quando mai lo aveva visto
così a disagio? «Non credo di essermi mai scusato
per il modo in cui mi sono
comportato con te, la prima volta che ti sono apparso
in questa cappella», esordì infine, a voce
talmente bassa
che la giovane dovette sporgersi verso di lui per sentirlo meglio.
«Ripensandoci
adesso, sappi che me ne vergogno profondamente.»
Oh, dunque era per
quello. In effetti,
quella volta l’aveva terrorizzata a morte, ma non le
sembrò molto carino
rilasciargli quella considerazione. Ormai sembravano trascorsi secoli
da quella
notte. Poggiò dunque una mano sull’avambraccio
dell’uomo e lo strinse leggermente,
cercando di infondergli attraverso quel tocco perlomeno la sua
comprensione.
«Posso
chiederti perché l’hai fatto?»
Domandò gentilmente, invece di insistere
sull’altro
discorso.
Ella
si accorse dell’improvviso irrigidirsi dei muscoli sotto il
palmo della sua
mano, ma quando parlò la voce di Erik non sembrò
eccessivamente tesa. «Fatto
cosa?»
«Interessarti
a me, scegliermi come tua allieva. Perché io e non
qualcun’altra?»
Era
una questione interessante.
«Vorrei
poterti dare una risposta adeguata», esordì, la
voce che tremava appena e i
suoi occhi che ancora si ostinavano a fuggire i suoi. «Vorrei
poterti dire ciò
che alle donne piace ascoltare, come per esempio che ti vidi nella tua
solitudine e in essa riconobbi la mia… Per mia sfortuna non
si tratta di
questo. Non solo, almeno. Stavo semplicemente cercando qualcuno che non
avesse
legami di sorta che potessero tenerlo lontano da me e dai miei
progetti, e il
tuo arrivo è stato, come dire, tempestivo. Sei capitata nel
posto sbagliato al
momento sbagliato, ma adesso… Adesso è tutto
molto diverso. Ti prego di non
pensare di essere qualcosa come una mera pedina nelle mie mani, non
è più così
da parecchio tempo ormai, anzi forse non lo è mai
stato… Mi hai visto piangere,
Giulia, e credo che questo possa darti una risposta più che
sufficiente sul
valore e sulla veridicità dei miei sentimenti»,
concluse, abbassando sempre di
più il tono di voce fino a diventare niente più
di un mero sussurro.
Un
lungo silenzio accolse quella confessione, un silenzio che
sembrò protrarsi all’infinito
fino a far temere Erik di aver parlato troppo. Ecco perché
preferiva la musica,
una nota diceva più di mille parole, una nota poteva
consolare o gettare negli
abissi della più nera disperazione, e una sinfonia avrebbe
accarezzato il suo
cuore fino a farle capire che lui, sì, l’amava.
Stava già dischiudendo le
labbra per ritrattare quanto aveva appena detto, quando invece fu la
voce
misurata della giovane a colmare lo spazio tra di loro.
«Grazie per essere
stato sincero, Erik.»
Quella
era proprio l’ultima cosa che si aspettava di udire da lei. I
suoi occhi
cercarono finalmente quelli della ragazza, tuffandosi in essi come per
volersi
accertare che le sue non fossero solo parole, ma una risposta sincera,
sentita,
un’accettazione e un perdono che non credeva sarebbe
arrivato. Eppure lei
continuava a sorridergli, e la sua mano gli stringeva ancora il
braccio, ed era
così vicina da poter respirare la sua pelle. Scosse piano la
testa, poi si
chinò a prenderle la mano e la sollevò
all’altezza della propria bocca,
accarezzando ogni nocca con le labbra e andando ad arrendersi sul suo
palmo,
dove respirò a fondo per recuperare un minimo di
lucidità.
La
vendetta che aveva voluto intessere aveva richiesto ogni singola goccia
del suo
sangue, ma adesso si rendeva conto che sarebbe stato pronto a gettarla
come un
panno sporco per potersi gettare ai piedi di Giulia e morire stretto al
suo
grembo.
«Coraggio,
andiamo», disse infine con voce roca, senza abbandonare la
sua mano ma, al
contrario, stringendola e intrecciando le proprie dita a quelle di lei.
La
platea, come anche il resto del teatro, era completamente immersa nel
buio.
Solo la mano guantata di Erik che stringeva con premura la sua,
precedendola in
mezzo alle poltrone imbottite di velluto rosso, le impediva di
inciampare nei
gradini del pavimento o di sbattere sui sedili; i suoi occhi non si
sarebbero
mai abituati all’oscurità quanto quelli
dell’uomo che l’accompagnava.
Aggirarono la buca dell’orchestra e salirono sul
palcoscenico, accompagnati dal
rimbombo ovattato dei loro passi sui pannelli di legno scuro che lo
componevano.
Non potendo contare sulla
vista, Giulia
dovette per forza di cose ricorrere agli altri sensi. L’odore
tipicamente
virile del fantasma –
qualcosa a metà
tra l’acqua di colonia e una nota che non riusciva ad
afferrare più bassa,
scura, esotica – nonché la sensazione del suo
corpo dietro di lei e il leggero
sottofondo del suo respiro, non avevano che l’effetto di
tranquillizzarla. Non
sapeva dire se avesse mai avuto paura del buio, da piccola –
per quanto, se si
sforzava, le sembrasse di ricordare frammenti di vita come se si stesse
impegnando nel rammentare un vecchio sogno – ciò
che sapeva era che ne aveva
avuta, e parecchia anche, durante il lasso di tempo nel quale Erik le
si era
presentato come essere demoniaco, minacciandola e obbligandola a
dovergli obbedienza.
Storse appena il naso a quel ricordo: non aveva senso rivangarlo,
giacché
l’uomo le aveva chiesto scusa pochi minuti prima. E poi ormai
aveva imparato
che c’era molto di più dietro la maschera, e non
intendeva soltanto quella
bianca di cui raramente si separava; no, quello cui si riferiva era un
travestimento molto più radicato in lui, quasi un immenso e
intricato cespuglio
di rovi che racchiudeva il suo animo impedendo a chiunque di insinuarsi
all’interno, e pungendo, invece, chi osava provarci.
Le
sfuggì quasi un sorrisetto: non avrebbe potuto trovare
un’immagine più
azzeccata.
Mentre
era così persa nei suoi pensieri non si era accorta che
l’uomo si era
allontanato, lasciandola da sola in mezzo al palcoscenico. Tuttavia la
ragazza
non aveva paura – continuava a sentire il leggero rumore
delle sue scarpe sul
legno del proscenio, poi il debole frusciare di una corda e, infine, lo
scoppiettio dei fuochi a gas che si accesero in un effetto domino lungo
il
bordo della scena. Si guardò intorno, compiaciuta e
divertita da quell’effetto
tipicamente teatrale, prima che il suo sguardo venisse catturato dal
magnifico
strumento a corda sistemato al centro della ribalta, e dal quale Erik
la stava
osservando con una strana espressione indecifrabile a causa della
maschera che
continuava ostinatamente a portare.
«Voglio
farti sentire una cosa che ho composto», disse piano, quasi
in imbarazzo. «Non
ho avuto il tempo rivederla, quindi può darsi che alcuni
passaggi siano da
correggere… Ma mi piacerebbe comunque sapere cosa ne
pensi.»
Giulia
lo raggiunse al pianoforte, poggiando una mano sul coperchio e
prendendo la
rosa listata di nero che spiccava sul bianco avorio dei tasti.
«Sono sempre
disponibile a fare da cavia per il mio maestro»,
replicò con un sorriso che non
riuscì a trattenere, alleggerendo l’atmosfera.
Grato di questo, Erik le sorrise
di rimando e posò le dita sui tasti, lasciandosi sfuggire
dalle labbra
socchiuse un leggero sospiro; dopodiché fu un
tutt’uno con la sua musica, e non
esisté nient’altro.
La
ragazza non sapeva come descrivere la bellezza di quella composizione.
Era… Era
tutto ciò che poteva essere racchiuso in un’anima.
La sua anima. Le note scivolarono
come una brezza sottile fin
dentro il suo cuore, soffiandovi sopra per risvegliarlo e dipanarsi poi
nel
resto del suo corpo, fino alla punta delle dita che tremarono
dall’emozione. La
musica sembrava liquida, avvolgente, pur nell’apparente
semplicità di una
sinfonia che ritornava sempre sullo stesso movimento, che ondeggiava
avanti e
indietro, come una marea. Sembrava pregarla di liberare le sue
emozioni, che si
tradussero dapprima in un inumidimento dei suoi occhi e in seguito in
piccole
lacrime che dondolarono in bilico sulle sue ciglia chiare. Aveva quasi
l’impressione
che avrebbe potuto volare via se solo avesse osato spiccare un salto;
la sua
mente sembrava ormai naufraga, ebbra come non lo era mai stata, libera. Fremette e sospirò a
mezza voce
per non disturbare lo svolgimento dell’opera; solo quando le
sue gambe
sembrarono tremare tanto fino a rischiare di cedere, si sedette in
silenzio
sullo sgabello accanto all’uomo, chiudendo gli occhi e
lasciandosi trasportare
in un posto lontano, in un posto che forse era dentro di lei, o dentro
di lui.
Quella musica era
amore, e del più puro.
Era impossibile non rimanerne stregati.
Quando,
con un delicato sfumare di note, la melodia si concluse, Giulia si
ritrovò a
rilasciare il fiato come se l’avesse trattenuto fino a
quell’istante.
«Mio
Dio», sussurrò, senza osare aprire gli occhi per
timore di spezzare l’incantesimo.
«È prodigioso», disse semplicemente,
sfiorando i tasti con reverenza. Aveva detto
che ci sarebbero stati passaggi da correggere, ma alle sue orecchie
forse
ancora poco esperte non pareva proprio. Era… Un capolavoro
degno del suo genio.
«Posso
dunque dedurne che ti piace?» Le chiese a mezza voce,
sollevando appena gli
angoli della bocca in un sorrisetto divertito.
«Puoi
dedurlo», concesse lei, ricambiando il sorriso.
«Non ho… Non ho mai udito
niente di più bello. Ma d’altronde l’hai
creato tu, quindi non mi aspettavo
niente di meno», aggiunse, giocherellando con il nastro di
quella rosa alla
quale erano state preventivamente tolte tutte le spine. Un pensiero
premuroso.
Erik
sembrava finalmente sollevato, come se avesse appena superato indenne
una prova
del fuoco. «Mi potrei abituare a tutte queste lusinghe, devo
ammettere che
fanno estremamente piacere», ammise, senza staccare gli occhi
dalle dita della
ragazza che accarezzavano il velluto di quel nastro nero.
«Meriti
di più che semplici lusinghe», ribatté
lei, il tono della voce notevolmente calato.
Senza capire, l’uomo riportò lo sguardo su di lei,
inarcando incuriosito un
sopracciglio. Giulia sorrise, poggiando di nuovo il fiore sui tasti del
pianoforte e sollevando le mani verso il suo volto; stavolta egli non
fece
nulla per cercare di impedirglielo, limitandosi ad irrigidirsi
leggermente e a
osservare con insistenza la sua maschera che veniva poggiata sul
coperchio
dello strumento. Quindi le dita della giovane trovarono il suo mento e
lo
obbligarono gentilmente a voltarsi verso di lei. «Buon
Natale, Erik», disse
piano, con un mezzo sorriso.
Poi,
prima che egli avesse il tempo di comprendere le intenzioni di
mademoiselle
Sanders, si ritrovò per la prima volta catturato in un bacio
voluto da lei, e pensò
di poter morire in pace. La lasciò fare per un
po’, godendosi quella sensazione
scoperta da poco, ma dopo averle concesso la sua piccola vittoria
riprese il
controllo. Le sue mani corsero a sciogliere la sua acconciatura,
sfilandole i
fermagli che caddero per terra senza produrre quasi alcun rumore, e si
beò
della sensazione di quelle onde scure nelle quali poter far vagare le
sue dita.
Approfondì il bacio con un gemito di desiderio, ma ci
impiegò qualche istante
di più per comprendere che esso non proveniva da se stesso,
bensì da lei.
La
baciò fin quando le labbra non iniziarono a dolergli e gli
occhi a bruciargli
dalle lacrime che continuava a ricacciare indietro, e quello fu senza
alcun
dubbio il primo Natale che lo vide felice.
________________________________________________________________________________________________
Note
dell'Autrice:
Primo: di nuovo, non ci sono parole per il mio ritardo. Soprattutto
adesso che spunto fuori con un capitolo natalizio ora che l'epifania
tutte le feste si è già portata via.
Secondo: pubblico, come al solito, senza nemmeno rileggere
perchè tanto so che se mi ci metto sono capace di non
pubblicarlo nemmeno tra cent'anni - ergo tralasciate errori
grammaticali, anacronismi, lettere mancanti e congiuntivi sbagliati
(anche se questi spero siano al loro posto ò_ò)!
Terzo... No, forse non ci sono terzi punti. Se non che questo capitolo
è un po' più lungo dei precedenti e, lo devo
ammettere, ha la funzione di ammorbidire gli istinti omicidi che
sicuramente avrete nei miei confronti!
Ma quanto vi sto facendo penare con questa storia? Che parto! Non ne
potrete sicuramente più. Indi per cui, sempre per farmi
perdonare, giunge una buona notizia: il capitolo 26 è
praticamente finito (mancano alcune revisioni qua e là)
quindi, forse
(e ci tengo a sottolinearlo) non dovreste aspettare più di
una settimana per leggerlo. Forse! E nel prossimo capitolo torneremo a
spiare anche sulla vita degli altri personaggi, che abbiamo perso di
vista da un po'. Perchè, come ha già detto
qualcuno, anche i personaggi secondari meritano i loro cinque minuti di
popolarità, oh. ù_ù
Sto di nuovo straparlando. Ma mi capita
quando sono emozionata! E questo è il primo capitolo che
pubblico nel 2012 - nonchè la prima storia che aggiorno
quest'anno - e spero
anche che non sia l'ultima - per cui sì,
c'è da essere emozionati!
Ah, per chi se lo stesse chiedendo, la
musica che il nostro caro Erik suona alla fanciulla è
questa: The
Portrait, di James Horner. Ieri ho rivisto Titanic per la
centoduesima volta e, beh, non ho proprio resistito... Inoltre [ta dan!
giochino della settimana] mi piacerebbe sapere se anche a voi quella
musica provoca quelle sensazioni, quelle che molto banalmente ho
descritto nel capitolo di cui sopra - non sono per niente soddisfatta
di come l'ho resa, infatti, ma vabbè, si fa quel che si
può. Per cui, dai, ditemi che emozioni vi suscita, sono
curiosa *_*
Ah, last
but not least, le recensioni! Mie care, non avete idea di
quanto mi faccia piacere, ogni volta che apro Efp, vedere che
c'è qualcuno a cui quello che scrivo piace almeno la
metà di quanto piace a me scriverlo. Vorrei poter recensire
singolarmente a ciascuna di voi, ma ho sempre così poco
tempo... :( Cercherò di rimboccarmi le maniche per la
prossima volta, prometto, anche perchè ci sono certe
recensioni che mi hanno fatto venire i brividi! Moira Riordan, con
la tua stavo proprio per scoppiare in lacrime, dico davvero: non ci
sono parole... dici che ti ha emozionato la mia storia, beh, a me ha
emozionato la tua lettera! :)
E poi, come sempre, vorrei abbracciare e
dare un bacio a tutte quante: grazie Ellyra, grazie Enril91, grazie Puliksweet, grazie barcelona, grazie Keyra93, grazie TheMisty910, grazie Kenjina! E grazie
ovviamente anche a tutti gli altri, che passano, leggono e mi spingono
ad andare avanti :)
Un'ultima cosa, prima di andare via: per
il caro Erik, mi sono ispirata sia a quello del libro che a quello del
film (quello del 2004, naturalmente). Non so se il miscuglio
è riuscito bene, per come avevo intenzione di renderlo io
all'inizio non credo di esserci riuscita, ma spero comunque che il
risultato finale sia gradito!
Beh, mi sembra che anche per stavolta mi
sono espressa a sufficienza. Come ultimo regalo vi do un ultimissimo
spoiler... La nostra
Giulia sta per recuperare la memoria, muahahahaha! E poi
saranno uccelli senza zucchero per tutti. Cough cough.
Ok, vado prima di combinare altri danni.
Un bacio grande grande a voi che, malgrado i lunghi tempi di attesa,
continuate a seguirmi! <3
Ci sentiamo il più presto
possibile su questi schermi, e se volete contattarmi potete trovarmi su
facebook, su twitter, su msn, whatever!
I
remain, gentleman... Conoscete il resto ;)
Niglia.
|
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Capitolo 28 *** 26. Al ballo in maschera ***
Chapitre
26
Al
ballo in maschera
The
prologue to a bright new year!
Non
si era badato a spese per i festeggiamenti di quel
milleottocento-settantasettesimo
capodanno. Lo dimostravano i fragorosi fuochi d’artificio che
illuminavano il
manto cupo di un cielo senza stelle chiazzandolo di scintille bianche,
rosse,
gialle e azzurrognole, quasi a voler coinvolgere l’intera
città nella
celebrazione del nuovo anno. Gli echi della musica che proveniva
dall’interno
dell’Opèra – giacché
l’immenso foyer era stato adibito a salone da ballo per
l’occasione – riecheggiavano fino alla piazza,
facendo accorrere persino vecchi
mendicanti infreddoliti ad assistere al frenetico andirivieni di nobili
e
borghesi, in una sfarzosa sfilata di costumi, maschere, gioielli e
parrucche
incipriate.
L’intero
teatro era stato allestito in modo che ogni corridoio, ogni stanza,
ogni
nicchia potesse offrire agli influenti ospiti ogni genere di
divertimento. Persino
la platea era stata trasformata: le belle poltrone di velluto rosso
erano state
ritirate per far spazio ad una più piccola sala da ballo
provvista di buffet,
mentre sul palcoscenico alcuni giocolieri e acrobati di strada fatti
arrivare
dalla vicina Reims intrattenevano il pubblico danzante.
Monsieur
Firmin e monsieur Andrè osservavano con orgoglio malcelato
il risultato di
quelli che, molto poco modestamente, consideravano i loro
sforzi. Sapevano bene, in realtà, che nulla di
tutto ciò si
sarebbe mai potuto realizzare non fosse stato per monsieur Destler e i
suoi
squisiti finanziamenti, ma questa era una verità sulla quale
amavano sorvolare.
Dopo le tragedie e le perdite economiche che avevano subito in seguito
a quella
maledetta storia del fantasma, quel
rinascere dalle proprie ceneri aveva dato loro l’impressione
che il teatro non
sarebbe mai potuto andare davvero in fallimento – era uno di
quegli
investimenti che raramente andava in rovina, a meno che, certo, non ci
fossero
degli attori e della musica scadente. Altra cosa quella che, sempre
grazie a
monsieur Destler, era stata abilmente evitata.
«Credi
che dovremmo aumentare lo stipendio del nostro direttore artistico,
Gilles?»
Domandò al collega, con un sorrisetto ironico e vagamente
brillo.
«Forse,
Richard, dimentichi che è lui a pagare noi »,
ribatté l’altro, accennando un
inchino in direzione di un’altera dama con addosso una
ragguardevole quantità
di piume e eau de toilette che gli
era appena passata accanto. «Ma quella non era la contessa
d’Artois? Che onore
averla qui», aggiunse poi, abbassando il tono di voce e
chinandosi verso
monsieur Firmin.
«Un
onore? Il conte è moribondo da mesi e tutto ciò
che fa la consorte è accogliere
nel suo salotto uomini a braccia e gambe aperte»,
ribatté acidamente Richard,
finendo in un sol sorso il suo champagne. «Francamente,
Gilles, potrei trovare
da discutere sul ritenere o meno un onore la presenza di una simile
sgualdrina
dal sangue blu.»
Con
un sospiro rassegnato, l’amico lo condusse verso il tavolo
del buffet. «Su,
vieni a mangiare qualcosa. Credo tu abbia già bevuto
troppo», lo redarguì
pazientemente, passandogli un vassoio con delle tartine. Monsieur
Firmin
sembrava essere quello ad aver subito più traumi in seguito
all’incendio che
aveva quasi raso al suolo il teatro, pochi anni prima: aveva stretto
una solida
amicizia con l’alcool, e anche adesso che gli affari andavano
splendidamente e
non vi era più nulla di cui preoccuparsi faceva ancora
fatica a perdere del
tutto il vizio. Inoltre, era diventato terribilmente insofferente a
quel mondo
sfarzoso appartenente alle classi più privilegiate
– mondo che, invece, aveva
sempre guardato con desiderio e invidia nel periodo in cui si
occupavano del
commercio di rottami.
Ah,
pardon, residui metallici.
Masquerade,
Paper faces on parade...
Masquerade,
Hide your face, so the world will never find
you!
Per
tutto il giorno Giulia aveva avuto uno strano presentimento. Era da
quando
aveva aperto gli occhi, quella mattina – forse a seguito di
uno strano sogno,
chi poteva dirlo? – che sentiva uno strano qualcosa
opprimerle il petto, rendendole difficoltoso il respiro e difficile
concentrarsi per assistere agli preparativi del ballo. E no,
non si trattava del corsetto, quella era una mancanza di fiato
alla quale si stava gradualmente abituando; e non poteva essere neppure
un
primo accenno di raffreddore, visto che non aveva brividi,
né febbre, né tosse.
Ad essere sincera, se qualcuno le avesse domandato spiegazioni
l’unica cosa che
sarebbe stata in grado di rispondere era che aveva
l’impressione che qualcosa
di importante stava per succedere. Ridicolo, davvero molto ridicolo.
Per
questo, non ne aveva fatto parola con Meg, o madame Giry, o Agnese
– tantomeno
con Erik!
Eppure
anche adesso, mentre attendeva pazientemente che il suo accompagnatore
per la
serata finisse di allacciarle la fila di bottoni di perla
dell’abito in
maschera – difatti aveva gentilmente insistito per aiutarla a
vestirsi, visto
che era stato egli stesso a far commissionare quell’abito
appositamente per lei
– non poteva fare a meno di sentirsi leggermente in ansia.
Che fastidiosa
sensazione! Era come se si aspettasse un terribile disastro da un
momento
all’altro, e quella sensazione non le faceva godere il
momento.
Tralasciando
questi angoscianti pensieri, doveva ammettere che Erik si era rivelato
eccezionalmente bravo persino nell’acconciarle i capelli.
Glieli aveva raccolti
sulla sommità della nuca con un prezioso fermaglio di
brillanti, lasciandole
poi ricadere sul collo nudo morbidi boccoli sapientemente arricciati
con dei
ferri bollenti. Arrossì quando l’uomo non
resistette alla tentazione e posò le
sue labbra invitanti alla base della sua nuca, ma non si
scostò dalla sua
carezza.
Soltanto
quando la piacevole tortura di vestizione fu conclusa Erik le permise
di
ammirarsi davanti allo specchio. L’abito, in raso di seta
color avorio
ricoperto da un fine merletto meccanico nero, le calzava perfettamente
addosso,
avvolgendola come un guanto: qua e là, nella gonna, erano
sparse piume nere
talmente lucide che riflettevano la luce. Il vestito le lasciava le
spalle nude,
e la scollatura si abbassava sul davanti mettendo in risalto la morbida
curva
del suo seno. Gli avambracci erano avvolti fino all’incavo
del gomito in dei
guanti di sottile pizzo nero che fungevano quasi da seconda pelle,
mentre gli
unici monili che si era permessa erano un bracciale di perle barocche
bianche e
rosa che le cingeva il polso sinistro e degli orecchini dello stesso
materiale
che completavano la parure. Alle sue spalle Erik la osservava come se
fosse
stata l’unica fonte di luce presente nella stanza.
Essere desiderata
le piaceva,
realizzò con sorpresa; eppure non le aveva fatto lo stesso
effetto essere
guardata in quel modo anche da monsieur Bamdad. Benché tra i
due uomini non
potesse esserci alcun metro di paragone, certo, come comprese da
sé.
Invece
di indugiare oltre in quelle riflessioni, la giovane fece avanti e
indietro nel
camerino per abituarsi alle pesanti stoffe dell’abito,
così diverso da quelli
che era abituata a indossare di solito; se ne teneva sollevato un lembo
troppo
grande le si scoprivano le caviglie – cosa che Erik le aveva
sconsigliato
vivamente di mostrare – ma se ne prendeva troppo poco
rischiava di inciampare
rovinosamente sul pavimento. Forse madame Giry non aveva ritenuto
opportuno
darle lezioni di portamento, ma con delle gonne così
voluminose era impossibile
mantenere un equilibrio decente – e fare brutte figure
davanti a Erik non le
sembrava proprio qualcosa da prendere in considerazione.
Prima
di quella sera, Erik le aveva narrato la storia di un balletto russo
piuttosto
recente, la cui trama era giunta sulla scrivania del direttore
artistico
dell’Opèra Garnier con la tacita speranza
ch’egli prendesse in considerazione
l’idea di trasportarla nella capitale francese.
L’uomo, benché trovasse banali
certi passaggi e insulse alcune coreografie – di cui,
peraltro, si intendeva
ben poco – stava in realtà valutando
l’idea di entrare in contatto con il suo
quasi coetaneo compositore, tale monsieur… Ah, adesso gli
sfuggiva il nome.
Comunque, la storia era interessante e commovente, e per tornare alla
masquerade, gli aveva suggerito l’idea dei personaggi da cui
travestirsi:
sarebbero stati indubbiamente i soli a interpretare due caratteri di
una ancora
sconosciuta opera moscovita.
Quanto
a lui, nel suo abito, era una visione da mozzare il fiato. Il costume
era nero
dalla testa ai piedi, ma lungo le braccia e dietro, sulla schiena, vi
erano
ricami argentati che rammentavano magiche ali piumate e che
giustificavano la
presenza di un mantello interamente fatto di morbide piume tinte di
nero,
argento e rosso cupo. Dal fianco gli pendeva una lunga spada sottile,
dal
fodero nero e dall’impugnatura argentata a forma di teschio
ghignante; la
maschera, che gli ricopriva interamente il volto fatta eccezione per la
bocca, era
invece interamente bianca, dipinta di nero intorno ai buchi degli occhi
e
modellata sugli zigomi di modo che rammentasse il volto di un uccello.
Giulia
l’aveva trovata spaventosa non appena l’aveva vista
la prima volta, ma nel
complesso il travestimento era talmente perfetto che non aveva avuto il
coraggio di farglielo notare.
«Non
mi noterà nessuno se mi presento al ballo accanto a te.
Forse dovremo andarci
separatamente», scherzò la ragazza, sistemandogli
un già perfetto cravattino di
seta nera solo per avere la scusa di toccarlo.
Le
labbra di Erik si arricciarono in un lieve sorriso nello sforzo di non
ridere. «Meglio
così, non voglio che altri ammirino la mia
accompagnatrice», ribatté tra il
serio e il faceto, prendendole le mani e baciandone il dorso ricoperto
dai
guanti.
Giulia
lo fissò sorpresa, prima di liberare una mezza risata.
«Un gentiluomo non dovrebbe
dire una cosa del genere alla propria compagna», lo
ammonì scherzosamente.
«Devi
perdonarmi, fino a questa mattina ero solo un fantasma»,
fu la noncurante risposta dell’uomo. Prima che la
giovane potesse ribattere qualsiasi cosa, si chinò su di lei
per catturarle le
labbra in un bacio e trasformare il suo rimprovero in un gemito.
Indugiò a
lungo nel bacio ma si impose di cessarlo non appena si accorse che
stava
diventando troppo profondo; se fosse dipeso da lui l’avrebbe
rinchiusa in quel
camerino per rimanere da soli tutta la notte, ma dopo tutti quei
preparativi
non voleva privarla della sua prima esperienza ad un ballo in maschera.
Le
sorrise maliziosamente quando si accorse che nemmeno lei sembrava tanto
entusiasta di quel bacio lasciato a metà. «Adesso
possiamo andare, mia bella
Odile», le sussurrò, accennando un inchino.
Il
suo sorriso sarebbe stato irresistibile, se solo la maschera non lo
avesse reso
così spaventoso. Giulia fece passare la mano guantata sopra
il braccio
dell’uomo, e fu al fianco di lord Rothbart che fece il suo
ingresso alla festa.
Masquerade,
Every face a different shade...
Masquerade,
Look around, there’s another mask
behind you!
Un
domino nero e un domino bianco sostavano contro la grossa colonna dello
scalone
centrale, al riparo dai volteggi degli altri invitati che danzavano e
ridevano
in una follia baccanale al ritmo del bel
Danubio blu. Le piume delle parrucche si agitavano nelle
piroette, l’oro e
i diamanti dei gioielli riflettevano la luce calda e avvolgente delle
candele e
un forte miscuglio di profumi di ogni genere permeava dovunque e
appestava l’aria,
costringendo il domino bianco a tirar fuori dal corpetto un piccolo
sacchettino
di salvia profumata ed a portarselo alle narici.
«Continuerò
a chiederti per quale motivo siamo venuti qui, stanotte, fino a quando
non
riceverò una risposta che riterrò
esaudiente», sibilò il domino nero
guardandosi con fare irrequieto intorno, gelando con lo sguardo
qualsiasi
maschera si avvicinasse troppo a sé e alla sua compagna.
L’altro
domino, che non era altri che madame Christine de Chagny, gli
batté un colpo
affettuoso sul dorso della mano, per poi sorridere amichevolmente a un
cameriere in livrea dorata che le aveva appena servito un bicchiere di
champagne. «Ti prego, Raoul, non litighiamo. Avevi intenzione
di non mettere
più piede in questo teatro, forse?»
«Era
precisamente ciò che avevo intenzione di fare,
sì», ribatté in tono un po’
piccato, prendendole il bicchiere dalle mani e svuotandolo in un sol
sorso. «Inoltre,
mia cara, non credevo che amassi così tanto le convenzioni
da doverti sentire
obbligata a partecipare a una serata del genere», aggiunse
poi, inarcando un
sopracciglio dal di sotto della maschera che la sua consorte non
poté vedere.
Quest’ultima
accennò un leggero sorriso, scuotendo appena la testa e
accentuando la stretta
sul braccio del visconte. «Non voglio mettere ulteriormente a
repentaglio la
tua reputazione, Raoul, come già ho fatto in passato quando
ci siamo sposati.
Sai meglio di me quanto sia importante mantenere certi contatti, sia
per i tuoi
affari che per il nostro quieto vivere, per non parlare poi del futuro
di Gustave»,
gli rammentò a mezza voce, non amando particolarmente
rovinare l’ultima notte
dell’anno con simili discorsi. Tuttavia, lo sguardo che
l’uomo posò su di lei la
riempì di una nuova tenerezza: egli poteva anche non
parlare, ma nei suoi occhi
Christine sapeva leggere la riconoscenza e tanti altri sentimenti,
quando era
il caso.
«È
che questo luogo conserva orribili ricordi»,
mormorò alla fine, con un sospiro
rassegnato. «Avrei voluto che l’incendio di due
anni fa lo distruggesse, fino
alle fondamenta.»
Per
quanto amasse suo marito, Christine stavolta non poteva concordare con
lui. Sollevando
gli occhi sulle volte del foyer, sui lampadari, sulle statue dorate,
non
riusciva a fare a meno di pensare che, in effetti, quel teatro era
stato la sua
casa per lunghi e spensierati anni, e a tutt’oggi, anche
malgrado le varie
vicende e tragedie a cui aveva fatto da sfondo, continuava a provare
una
dolorosa fitta di nostalgia nel rammentare quei tempi lontani.
Sì, nostalgia e
anche rimpianto, se rifletteva sul modo in cui si era comportata nei
confronti
di…
«Non
hai sentito una parola di quello che ho detto, vero?»
Christine
tornò bruscamente alla realtà, sollevando gli
occhi sul suo accompagnatore e
avendo la decenza di arrossire con aria colpevole. «Oh,
perdonami Raoul. Puoi
ripetere, per piacere?» Gli chiese, accennando un sorriso
imbarazzato. Sciocca di una Daaè,
si rimproverò nello
stesso tempo, mentalmente; così
facendo
stai solamente avvalorando le sue tesi e complicando le cose!
Da
parte sua, il visconte ebbe la delicatezza di sorvolare sulla
distrazione più
che giustificata della moglie. Scosse appena il capo e
ricambiò il sorriso,
soffrendo in cuor suo nel vedere che neanche gli anni e
l’amore di un figlio
erano riusciti a spodestare dal suo cuore i rimasugli della sua vita
antecedente il matrimonio. «Non importa,
Christine», replicò gentile, sviando
l’argomento. «Vieni, su, andiamo a
ballare», propose poi, prendendole la mano e
attirandola al centro del salone in mezzo ad uno svolazzare di gonne,
piume,
maschere e belletti. Guidò la sua mano sulla propria spalla
e strinse l’altra
nella sua, osservando con malcelato sollievo il sorriso che distese
l’espressione
tristemente assorta che aveva visto sul volto di Christine.
Flash of mauve, Splash of puce ...
Fool and king, Ghoul and goose ...
Green and black, Queen and priest...
Trace of rouge, Face of beast...
Monsieur
Bamdad aveva colto l’occasione della mascherata per potersi
avvolgere nuovamente
nelle preziose sete del suo tipico abbigliamento persiano. Il tarbush
di seta
color rosa scuro posato sulle ventitré sui capelli scuri, la
giacca di porpora
ricamata in oro e nero lungo le cuciture e gli orli delle maniche, i
lunghi
sarouel di broccato color del mogano e le pantofole arricciate sulla
punta lo
rendevano ancora più esotico e voluttuoso di quanto non
apparisse, normalmente,
quando seguiva i dettami dello stile occidentale. Com’era
ovvio, non aveva
potuto fare a meno di indossare una maschera dorata: ma quella era, nel
suo
intero travestimento, l’unica traccia della moda parigina.
Si
insinuava con grazia fluida attraverso la folla, sentendosi finalmente
a
proprio agio nell’indossare quei comodi abiti tradizionali.
Sorrideva
volentieri e scambiava due parole con chiunque cercava di attirare la
sua
attenzione, facendo ben attenzione tuttavia a non perdersi in
frivolezze e
prendendo mentalmente appunti di tutto ciò che poteva
riferire al suo padrone:
eventuali critiche all’organizzazione delle rappresentazioni
o pareri sul coro
e sull’orchestra, complimenti sui costumi di scena o
addirittura consigli su
come gestire l’intrattenimento degli habitués
nella consueta pausa tra un atto e l’altro delle opere.
Monsieur
Destler l’aveva avvertito che forse avrebbe partecipato alla
serata, ma di non
farne parola con alcuno perché non aveva nessuna intenzione
di palesarsi a
mezza Parigi. Non c’era da meravigliarsi troppo di questa sua
decisione,
giacché nei due anni che avevano vissuto nella capitale non
una volta egli
aveva osato passeggiare per il Bois come facevano tutti i borghesi
influenti
della ville. Il persiano non gliene
faceva un torto, dopotutto, visto che sapeva perfettamente come potesse
sembrare curiosa la vista di un gentiluomo che usciva coprendosi un
intero lato
del viso; la prima volta che l’aveva incontrato lui stesso
era rimasto
piuttosto perplesso al riguardo, anche se si era ben guardato dal
domandargliene ragione.
«Se
volete essere alle mie dipendenze dimenticate questa maschera, e io
dimenticherò volentieri la pesante taglia di ventimila qiran
che pende sulla
vostra testa, nella patria dello Shah-in-shah», aveva
esordito semplicemente,
parlando con voce pacata e fredda come se stesse discutendo del colore
dei
fiori.
In
effetti, si era più volte domandato se il padrone fosse a
conoscenza del motivo
per cui il suo capo valesse così tanto per il sultano, ma
vivendo fianco a
fianco a lui per mesi e mesi era giunto alla conclusione che la cosa
non aveva dopotutto
un valore determinante; i suoi servigi erano fruttuosi e ben apprezzati
da
monsieur Destler, che lo ripagava con un compenso del tutto onorevole e
che
allo stesso tempo contribuivano a far sì che il persiano
mantenesse i suoi
segreti. Non aveva mai sguainato la spada per lui, ma sapeva di essere
più che
disposto a farlo; la fedeltà che gli doveva era cieca,
pressoché assoluta – la
qual cosa era uno dei motivi principali per cui aveva accettato
silenziosamente
di farsi da parte con mademoiselle Sanders. Al riguardo aveva
già sfidato il
suo signore fin troppo apertamente, e riteneva di aver fatto tutto
ciò che
poteva – vale a dire non molto, ma solo perché
mademoiselle non era parsa
interessata a ciò ch’egli poteva offrirle. In caso
contrario avrebbe anche
accettato di incorrere nelle ire di monsieur Destler, ma visto che la
situazione presentava altri esiti aveva desistito: d’altra
parte era fermamente
convinto di non essere lui, tra i due, quello ad avere più
bisogno del conforto
che mademoiselle Sanders poteva dare.
Con
queste riflessioni rassicuranti, monsieur Bamdad continuò il
suo giro tra gli
invitati, avvicinandosi a discorrere con messieurs Firmin e
André di alcune
piccole faccende burocratiche. Meglio approfittare della loro
momentanea
sobrietà.
Faces...
Take your turn,
take a ride
on the merry-go-round
In an inhuman race!
L’orologio
digitale che portava al polso stava funzionando male già da
qualche ora. Gli
ingranaggi – o i circuiti elettronici, in qualunque modo si
volessero chiamare
– sembravano in procinto di fulminarsi come la batteria della
torcia e quella
del cellulare, segnalando la loro morte con strani sibili e con un
rapido
indebolimento delle funzioni. Prima che la pila lo abbandonasse del
tutto
lasciandolo completamente al buio, Jean-Louis fece appena in tempo a
vedere un
vecchio candelabro in ottone gettato con malagrazia in una pozza di
umidità,
ancora provvisto di due candele bagnate ma abbastanza lunghe.
Infilando
la torcia ormai inutilizzabile nello zaino si inginocchiò
sul pavimento in
pietra, ignorando il viscidume sotto il palmo nudo delle proprie mani e
avanzando tastoni fin quando le sue dita non toccarono il metallo
freddo del
candeliere; chiunque l’avesse dimenticato in quei sotterranei
meritava tutta la
sua riconoscenza.
Per
fortuna non era stato tanto idiota da portarsi esclusivamente oggetti a
batterie. In una tasca laterale del borsone ripescò una
piccola scatola di
fiammiferi sgraffignata in cucina, e prendendone uno dalla confezione
si servì
di quella debole luce per afferrare le candele e portarsele in grembo,
al
riparo da tutta quell’acqua che poteva soltanto rovinarle
ulteriormente.
Dovette imprecare parecchie volte e accendere almeno una mezza dozzina
di
cerini prima di riuscire ad far ardere la prima candela.
Con
il borsone nuovamente in spalla si rimise in piedi, camminando piano
per
evitare che qualche spiffero spegnesse accidentalmente la sua unica
fonte di
luce. Ora, aveva appurato che quei maledetti sotterranei possedevano
una
particolare struttura labirintica dalla quale sembrava impossibile
venir fuori,
soprattutto al buio e senza sapere dove fosse l’uscita
– visto che l’entrata
doveva essere per forza quella sorta di passaggio segreto trovato nel
camerino,
dietro lo specchio. Poggiò dunque la mano libera, quella
destra, sul muro
destro della galleria, e iniziò ad avanzare senza mai
staccarla dalla pietra;
la topologia lo aveva sempre affascinato, e conosceva a memoria gli
algoritmi
che, almeno secondo la teoria, permettevano di uscire da un labirinto
senza
possibilità di sbagliare. Purtroppo non aveva nulla per
marcare le strade già
percorse, ma contava comunque di arrivare alla meta –
qualunque essa fosse.
Finalmente,
si ritrovò a salire. Le scale potevano significare solo una
cosa: si stava
allontanando dai sotterranei, e avvicinandosi dunque alla tanto
sospirata
uscita. Con gli ultimi rimasugli di energia accelerò il
passo, superando i
gradini a due a due sempre continuando a tenere ben salda la mano sulla
parete.
Il peso del borsone sulla spalla sinistra stava sfregando dolorosamente
sulla
carne al di sotto della felpa, aggiungendo anche quel supplizio
all’intera
maledetta situazione. Imprecando a mezza voce, Jean-Louis raggiunse
finalmente
un pianerottolo e lì si lasciò cadere a terra,
ansimante. La candela si consumò
del tutto con un sibilo secco, lasciandolo immerso
nell’oscurità, ma il ragazzo
non si perse d’animo – ormai aveva la sensazione di
essere prossimo alla meta. Aveva
i fiammiferi a portata di mano, nella tasca posteriore dei jeans, e
questa
volta ci impiegò la metà del tempo per accendere
la seconda candela. Avvolto di
nuovo dalla fievole luce del lume, che andava via via facendosi
più nitida, si
guardò intorno senza neppure pensare di alzarsi dal
pavimento: i muscoli delle
sue gambe erano così indolenziti che non
l’avrebbero retto se si fosse messo in
piedi.
Quando
mise a fuoco il luogo in cui si trovava, un’altra sonora
imprecazione sgorgò
dalle sue labbra.
«Un
vicolo cieco», sibilò affannato, deglutendo a
stento. Erano ore ormai che non
beveva un sorso d’acqua – l’aveva
terminata da tanto, visto che si era portato
appresso solo una bottiglia da due litri senza prevedere che si sarebbe
perso
nelle viscere di quel dannato teatro – e la sete lo stava
facendo impazzire.
Sperò con tutto sé stesso che Giulia non fosse
più in quelle tetre catacombe,
perché se così fosse stato a quel punto sarebbe
dovuta essere morta di stenti
nonché di freddo.
Cercando
comunque di attingere agli ultimi brandelli di lucidità,
Jean-Louis si mise in
ginocchio e poi, faticosamente, in piedi. Sollevò la candela
in alto davanti a
sé, illuminando la parete, alla ricerca di qualsiasi cosa
che potesse
restituirgli un briciolo di speranza. Con la mano libera
sfiorò il muro mattone
per mattone, pietra per pietra, alternando pugni a piccoli colpetti per
cercare
di capire se al di là di quella barriera ci fosse il vuoto o
meno. Stava quasi
per lasciar perdere e tornare indietro – idea folle,
sì, ma non sapeva
cos’altro fare – quando le sue dita indolenzite
sfiorarono quelli che, a un
primo tocco, sembravano cardini.
Una
soffocata esclamazione di trionfo accompagnò quella
scoperta. Un passaggio
segreto, aveva trovato un altro maledetto passaggio segreto! Ovunque
esso
conducesse, non poteva di certo essere peggiore del luogo dal quale era
venuto.
Partendo dai cardini, si mise dunque a percorrere febbrilmente con le
dita il
contorno della porta, sentendo il solco che la separava dalla parete ma
che
sarebbe stato impossibile notare ad una prima occhiata.
Arrivò dunque a
calcolare che il passaggio doveva essere largo approssimatamente un
metro, e
come altezza non raggiungeva il metro e sessanta: per quanto fosse
comunque
fatto di pietre e mattoni, Jean-Louis sperò che i cardini ne
rendessero più
facile l’apertura.
A
quel punto iniziò a premere su ciascun mattone, partendo
dall’angolo in alto a
destra e perlustrando tutta la superficie di quella porta facendo bene
attenzione a non tralasciare nulla.
Poi,
uno scatto.
Jean-Louis
imprecò, sussultando per quel rumore improvviso e
indietreggiando di un passo. Ma
prima che potesse riprendersi dallo stupore sulla parete apparve uno
spiraglio
sottile, una scia di luce così flebile che soltanto in mezzo
ad una completa oscurità
avrebbe potuto notarla. Vi mise la mano sopra, incredulo, e uno
spiffero d’aria
gli accarezzò il palmo.
Ce l’aveva fatta.
Infervorato
da quella piccola vittoria, si mise a spingere con le sue ultime forze
contro
quella fessura, notando che la parete si apriva agilmente verso
l’interno e
senza neppure scricchiolare sui cardini. Ciò significava che
doveva essere un
passaggio utilizzato molto spesso, ma chi diavolo ci poteva passare,
considerando poi il labirinto dal quale era faticosamente venuto fuori?
Tutto
questo, comunque, non gli importava. Dopo aver spalancato il passaggio
quel
tanto sufficiente per poterci passare, sgusciò
all’esterno e strinse gli occhi
per riabituarsi alla violenta luce delle lampade. Dietro di lui, un
tonfo lo
avvisò che, priva del suo sostegno, la porta segreta si era
richiusa ingoiando
anche il suo borsone. La sua mente ad ogni modo era già
altrove.
Per
quale diavolo di motivo al teatro c’era una festa in
maschera? Per quello che
ne sapeva lui, l’Opèra Garnier aveva smesso di
organizzare eventi simili dopo
la fine della guerra, inoltre nessuno lo aveva avvisato che ci sarebbe
stato un
qualche tipo di festeggiamento durante le indagini della polizia su sua
sorella. Tutti quegli invitati non avrebbero potuto inquinare le prove,
forse?
Quando
vide una coppia di maschere giungere danzando verso l’angolo
nel quale era
nascosto, decise che sarebbe stato meglio non farsi vedere. Avrebbe
dovuto
spiegare la sua presenza ad un party al quale non era stato invitato,
e, per
quanto fosse comunque il figlio maggiore di Eloise Gauthier, non era di
certo
abbastanza in ghingheri per parteciparvi.
Tutto quel lusso
all’improvviso, e lui doveva avere l’aspetto e
l’odore di un barbone.
Senza
riuscire a smettere di imprecare cercò di fare mente locale
e individuare dove
fosse la biglietteria, perché lì avrebbe di certo
trovato qualche cappotto o
qualche cosa da indossare per passare inosservato. Stranamente,
però, il bancone
della reception non c’era: al suo posto vi erano degli
antichi divanetti in
stile Luigi Filippo, e dove era convinto che avrebbe trovato almeno le
toilette
vide invece una porta con la scritta dorata Garde-robe.
Pensando
che probabilmente dovevano aver modificato qualche cosa in vista di
quel ballo
improvviso, Jean-Louis riuscì a sgusciare
all’interno della cabina armadio,
rinunciando a cercare l’interruttore della corrente per paura
che qualcuno
potesse accorgersi della sua presenza. Si fece quindi bastare
l’illuminazione
soffusa di una lampada da tavolo, per poi andare a tentoni nella lunga
fila di
indumenti appesi. Non trovò granché, ma dovette
accontentarsi: si gettò addosso
un mantello nero rubato dal guardaroba e, agganciandosi frettolosamente
i
nastri di una maschera del medesimo colore trovata nella tasca di un
cappotto, abbandonò
la stanza per infilarsi con noncuranza in mezzo alla folla danzante.
Qualsiasi
cosa fosse quell’incubo carnevalesco, lui doveva ancora
trovare sua sorella e riportarla
a casa.
Masquerade,
Run and hide -
but a face will still pursue you!
___________________________________________________________________________________________________________________
Angolo
Autrice.
Il
balletto de Il lago dei cigni, di Pëtr Il'ič
Čajkovskij, venne presentato
per la prima volta al Teatro Bolshoi di Mosca il 20 febbraio 1877. Come
è noto,
la prima rappresentazione non ebbe un esito molto felice: in effetti,
fu
piuttosto deludente – le scene erano allestite in modo
scadente, ai ballerini
venne permesso di improvvisare i passi e persino l’orchestra
non diede il
meglio di sé. Solo dopo la morte del compositore, nel 1895,
la direzione del
balletto passò a mani più esperte, e finalmente
il 15 gennaio 1895 l’opera ebbe
il successo che meritava.
Cosa
c’entra questo con la nostra storia? Mah, forse nulla alla
fin fine, ma ci
tenevo a fare delle piccole precisazioni. Ad essere sincera non so
quando il
balletto venne rappresentato per la prima volta a Parigi, ma visto che
divenne
davvero famoso solo nel 1895 non credo che nell’Europa
occidentale fosse molto
conosciuto. Ho supposto, in questo capitolo, che Erik, in quando
direttore
artistico e appassionato del settore, ne fosse a conoscenza un
po’ perché gli è
stata fatta richiesta di portarlo nel suo teatro e un po’
perché dubito che uno
come lui non si mantenga al corrente di tutto ciò che accade
nelle scene del
resto del mondo.
Quindi,
se la cosa appare un po’ anacronistica e/o forzata, mi scuso
e spero che i
lettori me la facciano passare. :D Anche perché mi sembrava
interessante paragonare
Erik al malvagio Rothbart, così come contrapporre
“Odile” (Giulia) a “Odette”
barra “domino bianco” (Christine).
Comunque. Come al solito in ritardo, non mi trattengo molto se non per
chiedervi scusa visto che questo è l'ennesimo capitolo di
transizione - ultimamente sembra che non riesco a sfornarne altri. D:
Ma adesso basta, d'ora in avanti solo azione, promesso
ù_ù
Passo subito ai ringraziamenti per le gentilissime e splendide
fanciulle che hanno recensito lo scorso capitolo, e do il benvenuto
anche a coloro che giungono or ora ad avventurarsi in questa lettura
odisseica (esiste questo termine? °_°) - non
finirò mai di stupirmi per tutti i gentili commenti che mi
spingono ad andare avanti! Ma ovviamente mi piacciono anche le critiche
e i consigli, perchè mi spingono a migliorarmi e questa
è una cosa che avrà mai fine perché
non si finisce mai d'imparare.
Per tornare alla musica composta da Erik nello scorso capitolo, e che
io ho fatto coincidere con The
Portrait, in effetti devo darvi ragione: non ci stava
granchè bene D: Forse sarebbe stata più adatta
qualcosa del genere --> The Aerie Ma
d'altra parte io non sono il Fantasma dell'Opera né
tantomeno un genio della musica quindi non ne ho idea. xD
Okay, missà che non altro da dire, se non: abbiate una
pazienza infinita perché il prossimo capitolo lo vedo in
alto mare! A meno che non mi colpisca il fulmine dell'ispirazione, cosa
che vedo difficile visto tutta la roba che ho da studiare, gli esami da
dare e le lezioni da seguire. :/ Ma voi non demordete! Considerate che
sono riuscita ad arrivare al 26 capitolo quando credevo che non sarei
mai andata oltre il terzo. xD
Di nuovo grazie mille a tutte, venite a trovarmi su Faccialibro quando
volete!
Un bacio e un abbraccio, con affetto vostra
Niglia.
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Capitolo 29 *** 27. Look back on all those times ***
Chapitre
27
Look
back on all those times
Rammentava di
essere già stata in passato ad un ballo molto simile.
Era come il ricordo
di un sogno.
Aveva sperato che
la serata fosse perfetta, come lo erano stati gli ultimi tre mesi senza
alcuna
ombra minacciosa che gravava alle sue spalle: era al braccio di uno dei
partiti
più appetibili di Parigi, invidiata da qualsiasi esponente
della razza
femminile, ammirata da ogni uomo o ragazzo, applaudita dal suo pubblico
– non
c’era nient’altro che avrebbe potuto desiderare.
Lei, una semplice
ballerina di fila, era diventata promessa sposa di un visconte. Un
visconte!
Certo, il
fidanzamento doveva rimanere un segreto: non erano ancora abbastanza al
sicuro
da poter vivere il loro tenero amore alla luce del sole.
Aveva creduto che
sarebbe bastato non indossare l’anello al dito per essere
tranquilla… Come era
stata ingenua!
Proprio quando la
masquerade aveva raggiunto il suo culmine, mentre stava per concedere
un bacio al
suo fidanzato per suggellare il loro tacito accordo, la musica era
cessata
bruscamente.
Qualcosa –
forse
una folata di vento? – aveva spento tutte le candele, non
potendo nulla contro
le sporadiche lampade a gas che davano l’impressione di
essere simili a fuochi
fatui sparsi nel buio.
Tutti coloro che
erano stati impegnati nel ballo si immobilizzarono, sorpresi,
preoccupati,
spaventati, si guardavano l’un l’altro nella vana
attesa che i direttori del
teatro riaccendessero le luci e spiegassero lo scherzo agli invitati
sollevati.
L’oscurità, la paura
dell’ignoto, metteva a disagio.
Ma nulla di tutto
questo accadde. Là, in cima alla scalinata principale del
foyer, come sbucata
dal nulla, si stagliava l’imponente figura di un uomo
mascherato, ammantato di
rosso dalla testa ai piedi, il volto coperto da una scarna maschera
bianca che
pareva il teschio di un morto.
I suoi occhi
–
sembravano fiamme ardenti – percorsero intimidatori la folla
che si era
assiepata alla base delle scale per osservare l’apparizione,
il terrore
sconfitto da una infida curiosità.
Lei sapeva chi
stava cercando.
Spaventata,
cercò
di indietreggiare; ma in quel momento venne catturata dal suo sguardo,
e a quel
punto non poté più muoversi.
Le parve di udire
distrattamente al suo fianco
Raoul bisbigliarle di non fare nulla, ma poi il visconte se ne
andò chissà dove
e lei rimase da sola a fronteggiare il suo incubo.
Essa scese le scale
senza staccare un solo istante gli occhi dai suoi, come se temesse che,
distogliendoli, potesse farla scappare, ma niente sarebbe riuscita a
smuoverla
da lì.
Qualcuno, lungo la
sua discesa, allungò una mano per toccare il mantello rosso
che si allargava
alle sue spalle come una macchia di sangue, e questo l’uomo
non lo tollerò: le
sue dita guantate di nero strinsero il polso impudente dello
sventurato, costringendolo
a piegarsi in ginocchio e a gemere nell’implorare
pietà, e nel lasciarlo andare
lei lo sentì mormorare: «Non toccatemi! Sono la
Morte Rossa.»
E poi le fu di
fronte. Avanzare verso di lui fu così naturale che
dimenticò tutto il resto,
dimenticò i suoi timori, i suoi dubbi, i suoi tradimenti
– probabilmente si
sarebbe gettata giù dal tetto del teatro se solo lui glielo
avesse chiesto,
tanto era incondizionato e assoluto il potere ch’egli aveva
su di lei.
Ma poi
l’incanto si
spezzò: gli occhi di brace vennero distratti da un movimento
alle sue spalle
ch’ella non poté vedere, ma che tramutò
in una smorfia di furia cieca
l’espressione dell’uomo. Allungò una
mano verso il suo collo nudo, e lei riuscì
solo a rabbrividire al contatto del cuoio dei suoi guanti prima che la
catenina
alla quale aveva appeso l’anello di fidanzamento a
mo’ di ciondolo le venisse
strappata via.
Con un ringhio,
l’uomo glielo mostrò come la prova di un orrendo
delitto.
«Le tue
catene sono
ancora mie», sibilò, furioso. «Tu
appartieni a me!»
Insieme al dolore,
la paura le crollò addosso con tutto il suo peso. Trattenne
il fiato,
indietreggiò nella vana ricerca di un aiuto, ma lui aveva
concluso la sua
visita ed era sparito in una nube di fumo e fiamme come inghiottito
dalle viscere
della terra.
Le occorsero
parecchi minuti per riprendere a respirare normalmente.
Era
una fortuna che il braccio di Erik fosse così solido sotto
la sua stretta, come
uno scoglio durante un naufragio. Fu costretta ad aggrapparvisi per
evitare di
inciampare nell’orlo dell’ingombrante vestito, ma
le tempie continuarono a
pulsarle dolorosamente anche dopo che ebbe riacquistato
l’equilibrio.
«Tutto
bene?» La voce preoccupata del suo cavaliere la riscosse da
quella strana
trance, rendendola acutamente consapevole di tutto ciò che
li circondava.
Giulia cercò di annuire, raddrizzò la schiena, ma
il movimento le causò
un’altra ondata di nausea e un capogiro che la fece gemere,
dolorante.
Senza
neppure fingere di credere alla sua risposta, Erik le passò
un braccio intorno
alla vita per reggerla meglio qualora avesse avuto un altro mancamento.
«Vieni,
sediamoci un momento», propose gentilmente, ma con fermezza.
L’accompagnò
presso una nicchia appartata dietro lo scalone, facendola accomodare su
di una
poltrona libera e sistemandole premuroso un cuscino dietro la schiena.
Vista la
mancanza di altri posti a sedere, egli fu costretto ad inginocchiarsi
sul
pavimento dinnanzi a lei. «Va un po’
meglio?»
La
giovane chiuse gli occhi, piegando il capo all’indietro sullo
schienale della
poltrona e prendendo dei profondi respiri. Almeno adesso non aveva
più il
timore che le gambe tremanti la abbandonassero una seconda volta.
«Non so cosa
sia successo», confessò a mezza voce, sfilandosi
la maschera per riuscire a
respirare meglio. «Non appena ci siamo affacciati nel salone
ho avuto
l’impressione di aver già vissuto una scena
simile… Poi mi si è annebbiata la
vista e ho perso l’equilibrio.» Man mano che
parlava ritrovava il suo consueto
tono di voce, e si sentiva sempre più in imbarazzo.
Palesemente
sollevato, l’uomo le prese una mano e gliela strinse
dolcemente, immaginando il
suo disagio. «Sono cose che capitano», la
confortò, addolcendo il tono. «Soprattutto
vista tutta la tensione che devi aver accumulato in
quest’ultimo periodo.»
Giulia
annuì lentamente, sentendosi il viso gelido come per
l’assenza di sangue – era
forse vicina ad avere un collasso? Forse la strana sensazione che aveva
avuto
tutto il giorno era dovuta all’ansia, una sorta di campanello
d’allarme che
l’avvisava dell’imminente crollo fisico ed emotivo.
Tuttavia ciò non spiegava
la strana allucinazione – una sorta di déjà-vu?
– che aveva avuto prima del capogiro. Era come rivivere
un’intera scena del
proprio passato, con la sola differenza che, malgrado la perdita di
memoria,
era pressoché sicura di non averla mai vissuta. Anche
perché si supponeva, o
almeno così aveva detto il dottore, che tutti i suoi ricordi
le sarebbero
tornati gradualmente, magari nel sentire un odore, un sapore, e non di
certo dopo
aver visto un intero squarcio della sua vita antecedente
all’amnesia – cosa che
comunque non era accaduta, dato che continuava ad avere
l’inquietante
sensazione di aver appena rivissuto la vita di un’altra
persona.
Continuando
a riflettere in quel modo il mal di testa non le sarebbe mai passato.
La
mano di Erik, improvvisamente priva di guanto, si posò
dolcemente sulla guancia
pallida e fredda della giovane; ella sorrise, grata per la sua
vicinanza, e con
un sospiro si abbandonò contro quella muta carezza.
Tutt’a un tratto non era più
tanto propensa ad immergersi nella caotica folla danzante che gremiva
l’intero
teatro. Come se le avesse letto nella mente, l’uomo diede
voce ai suoi
pensieri.
«Preferisci
andare via? Possiamo tornare alla Dimora sul Lago e riposarci un
po’», propose,
osservando le dita sottili di Giulia che si intrecciavano
istintivamente alle
proprie. Mademoiselle Sanders apprezzava davvero tanto il modo che
aveva Erik
di parlare, quel proporle qualcosa ch’ella desiderava come se
fosse stata una
decisione di entrambi e non solo sua, così da non farla
sentire in colpa per la
sua improvvisa mancanza di voglia di partecipare al ballo. Tuttavia,
malgrado
l’idea di ritornare in dei luoghi appartati e tranquilli come
lo erano i
sotterranei del fantasma fosse
piuttosto allettante, si rese conto che non poteva essere
così manchevole di
garbo nei suoi confronti da privarlo di uno dei pochi divertimenti che
un uomo
come lui poteva avere. Dubitava che Erik fosse particolarmente avvezzo
a quegli
eventi mondani, e impedirgli di parteciparvi l’unica sera in
cui avrebbe potuto
svagarsi ed essere trattato come pari da quegli stessi individui che lo
avevano
sempre denigrato ed insultato, ecco, le sembrava ingiusto.
Per
cui scosse il capo, riuscendo a sorridere malgrado l’aria
seguitasse a mancarle
a causa del corsetto troppo stretto. «No, Erik, non ti
preoccupare. È già
passato», lo rassicurò, continuando malgrado
ciò ad aggrapparsi alla sua mano. «Ho
solo bisogno di bere un po’ d’acqua… o
qualcosa di più forte… E poi sarò tua
per tutti i balli che desideri.»
«Bada,
mi ricorderò di questa promessa»,
l’avvisò lui, con un finto tono minaccioso.
Ella rise e l’uomo si sentì subito sollevato: non
poteva dire di non essersi
spaventato quando l’aveva vista impallidire come se fosse
stata in procinto di
perdere i sensi.
Giulia
si raddrizzò, le labbra ancora arcuate in un sorriso, e
prese a risistemarsi la
maschera. Erik la osservava assorto: era trascorso appena
più di un mese da
quando si era mostrato a lei – come uomo, non come fils du Diable – e in quei
trenta giorni egli aveva sfiorato la
felicità tante di quelle volte da averne ormai perso il
conto. Diavolo, come
poteva essere possibile? Neanche molto tempo prima si era rassegnato
all’esistenza vuota e solitaria che era tipica di ogni
fantasma, mentre adesso,
invece, se allungava una mano era sicuro di sfiorare quella della
giovane. La
conosceva da poco, è vero, eppure gli sembrava trascorsa una
vita intera dalla
prima volta che l’aveva vista, priva di sensi e febbricitante
nei cunicoli che
portavano al suo dominio: non osava perdersi nei ricordi che
riguardavano la
sua esistenza antecedente all’arrivo di mademoiselle Sanders
– tutto era troppo
oscuro, allora, angosciante, disperato, vizioso che non valeva la pena
indugiarvi oltre. E pensare che all’inizio non
l’aveva praticamente degnata di
attenzione… Forse, se non fosse stato per la straordinaria
somiglianza con la
viscontessa De Chagny, l’avrebbe lasciata morire sul gelido
pavimento del
Cunicolo dei Comunardi.
No, non l’avrebbe
fatto. Poteva essere
anche un mostro, sì, ma ve ne erano di diversi tipi.
Qualsiasi
cosa si celasse nell’ignoto passato della ragazza, ad ogni
modo, a lui non
importava – così come a lei non importava quello
che si celava nel suo: ciò di
cui era certo, sicuro come l’Inferno, era che non le avrebbe
mai permesso di
lasciarlo. Lei, solo lei, era
soltanto sua, maledizione – nessun Dio poteva essere tanto
crudele da privarlo
anche di quell’unico raggio di sole!
Un
tempo aveva ucciso, sì, aveva torturato; le sue mani
grondavano sangue e la sua
spada, così come il suo cappio del Punjab, ispiravano un
sacro timore. Non si
vantava di ciò che aveva fatto, eppure non riusciva nemmeno
a pentirsene,
giacché tutti i peccati che gravavano sulla sua coscienza
erano dovuti ad un semplice,
e forse discutibile, istinto di sopravvivenza – tipico di tutte le bestie. Lei, questo,
sembrava averlo compreso, e
non avevano mai approfondito oltre la questione; tuttavia essa
attendeva lì, in
un angolo, sempre pronta a saltare fuori al momento meno
opportuno… come una
spada di Damocle appesa ad un filo sopra la loro testa.
Ogni cosa a suo
tempo.
«Un
soldo per i tuoi pensieri», lo richiamò proprio il
soggetto di essi, abbozzando
un sorriso.
L’uomo
lo ricambiò volentieri, alzandosi e scrollandosi
istintivamente i pantaloni. «I
miei pensieri non lo valgono, quel soldo»,
replicò, porgendole una mano e
aiutandola ad alzarsi benché l’espressione
contrariata di Giulia indicasse chiaramente
che non ne aveva bisogno. Quel lieve mancamento ingiustificato
l’aveva messa di
cattivo umore, malgrado stesse cercando di nasconderlo.
La
giovane aveva ormai capito che se Erik si rifiutava di rispondere
direttamente
a una sua domanda, sviandola argutamente o rispondendo con
dell’ironia, allora
non aveva nessuna intenzione di farlo. Per cui lasciò
perdere e abbandonò il
confortante rifugio della poltrona. «Ho assoluto bisogno di
bere qualcosa»,
desiderò ad alta voce, guardandosi intorno alla ricerca di
qualche cameriere in
livrea.
«Se
mi aspetti qui, vado a cercare qualcosa e torno in un
attimo», si offrì lui con
compassata galanteria, accennando un mezzo inchino.
«Niente
acqua, però, Erik», gli fece presente Giulia con
un sorriso.
La
leggera risata dell’uomo riuscì a scacciare il suo
malumore. «Come la mia
signora desidera.»
Erik
era appena sparito in mezzo alla folla, quando la giovane si
sentì tirare per
un lembo del vestito. Il suo cuore parve fermarsi ed ella si
voltò di scatto, ritrovandosi
ad osservare un costume con così tanti fiori, nastri,
merletti, perle e piume da
acuire la sua incomprensibile agitazione; ma quando infine vide chi si
nascondeva dietro quello stravagante travestimento non poté
fare a meno di
darsi silenziosamente della sciocca.
«Meg!»
La riconobbe, mentre l’amica sorrideva lieta del
riconoscimento. Sperando che Meg
non notasse il movimento, si portò una mano al petto come a
fermare i battiti
inferociti del suo cuore.
«Mio
Dio, chèrie, sei
splendida!» Fu la risposta
della giovane ballerina.
Giulia
si sfogò con una mezza risata liberatoria e scosse la testa,
prendendo una mano
dell’amica e facendole fare una breve giravolta su se stessa.
«Posso dire lo
stesso di te», replicò sorridente, ricambiando il
complimento. «Anche se non
riesco a capire da chi ti sei travestita!»
«Oh,
sono Titania, la Regina delle Fate», spiegò,
sollevando il mento con affettato
fare aristocratico.
Esibendosi
in un inchino esageratamente profondo, mademoiselle Sanders stette al
gioco. «In
tal caso vi porgo i miei più sentiti omaggi, Vostra
Maestà», dichiarò,
sforzandosi di rimanere seria.
Tuttavia
la successiva risata della Giry vanificò i suoi tentativi.
Prendendola
sottobraccio, condusse Giulia verso la lunga tavola imbandita sulla
quale faceva
bella mostra di sé un invitante buffet, che per fortuna non
era ancora stato
preso d’assalto grazie alla musica che spingeva i presenti a
danzare ignorando
i desideri del proprio palato. Assaggiando dei piccoli crostini alla
frutta, le
due ragazze spiarono con sincera curiosità la folla di
nobili che le
circondava.
«Allora,
c’è anche madame Giry o sei venuta da
sola?» Domandò Giulia, non resistendo a
un secondo dolcetto. Notò che l’amica arrossiva al
di sotto della maschera in
pizzo che le ricopriva la parte superiore del volto, ma per discrezione
non
infierì e lasciò che fosse lei a raccontarle
tutto.
«Suppongo
che maman ci sia, sai, deve
controllare la situazione e tutto il resto»,
esordì, con un gesto della mano
che indicava quanto fosse tipico quel comportamento da parte
dell’insegnante di
danza. «Ma ammetto di essere venuta accompagnata da qualcuno», aggiunse,
volutamente misteriosa.
«Meg,
e non mi racconti nulla? Potrei offendermi!»
Ribatté l’amica con un sorriso,
incrociando le braccia sul petto e attendendo il resto della storia.
Giulia
non aveva mai visto Marguerite Giry arrossire così tanto.
«Non
c’è nulla da raccontare», si
schernì, palesemente imbarazzata. «Rammenti
Emilien
Mercier? Il ragazzo che sostituisce il primo violino
dell’orchestra quando
questi è indisposto?»
Stringendo
gli occhi per individuare con gli occhi della mente il giovane in
questione, e
dopo averlo finalmente inquadrato, Giulia annuì.
«Se ho ben capito, è quel
ragazzo tanto carino con i capelli rossi che ti spia da dietro le
quinte
durante le prove dei balletti», la provocò con un
sorrisetto malizioso,
abbassando opportunamente il tono di voce.
«Ma
cosa dici!» Protestò Meg, ringraziando la maschera
che copriva almeno in parte
il suo imbarazzo.
Sforzandosi
di non ridere, Giulia la invitò a continuare.
«Sicuramente mi sto confondendo.
Dai, vai avanti», insisté, offrendole un altro
pasticcino per farsi perdonare.
Per
quanto poco convinta, l’altra annuì.
«Sì, dunque», riprese, accettando il
dolce. «Ebbene, mi si è avvicinato proprio
l’altro ieri, durante la pausa tra
un atto e l’altro del balletto, con… Oh, non
ridere… Con una maschera in una
mano e un fiore nell’altra, e me le ha porse entrambe
chiedendomi se poteva
essere così sfacciato da sperare che io non avessi ancora un
cavaliere per la
masquerade dell’ultimo dell’anno.»
Parlando,
Meg si era fatta sempre più vicina all’amica, fino
a ritrovarsi a bisbigliarle
l’innocente racconto ad un orecchio, o quasi.
«È davvero molto gentile, pensa
che è venuto fino a casa con una carrozza… Presa
dalle stalle del teatro, mi ha
detto, monsieur Girodelle, lo stalliere, gli ha permesso di prenderne
una… E
persino maman ha evitato di
storcere
il naso», concluse con una mezza risatina, portandosi dietro
l’orecchio un
boccolo sfuggito all’acconciatura.
«Ma chère, sono felicissima per
te»,
sorrise Giulia, sinceramente lieta per l’amica.
«Prima o poi dovrai
presentarmelo, però, voglio proprio vedere da vicino il
giovanotto che ti fa
arrossire in questo modo!»
«Non
hai bisogno di chiederlo», la tranquillizzò la
Giry con una pacca sul dorso
della mano. In un battito di ciglia, però,
l’espressione spensierata e
scherzosa che aleggiava nei suoi occhi grigi venne rapidamente
sostituita da
un’ombra scura e grave, tanto che l’amica si
ritrovò a guardarsi intorno per
paura che stesse accadendo qualcosa di male. Tuttavia i vari nobili
continuavano a bere, mangiare, danzare e ridere indisturbati, e
perplessa tornò
ad osservare Meg. «Cosa c’è?»
Le chiese.
«Tu
invece da chi sei stata accompagnata?» Mormorò la
ballerina, senza abbandonare
un solo istante i suoi occhi. Il suo tono e il suo intero atteggiamento
suggerivano ch’ella sapeva già perfettamente chi
fosse il suo cavaliere per la
serata, ma sembrava che chiunque glielo avesse riferito non fosse una
fonte
sufficientemente certa, così doveva essere giunta alla
conclusione che era
sempre meglio domandare alla diretta interessata.
Con
un sospiro, Giulia ricambiò altrettanto seriamente il suo
sguardo. «Esattamente
da chi pensi, Meg», fu la sua unica, laconica risposta.
Sforzandosi
di non lasciar trapelare nessuna emozione dalle espressioni del volto,
la
ballerina strinse appena più forte la mano
dell’amica. «Non mi hai mai
raccontato cos’è accaduto la notte di
Natale.» Fu solo un bisbiglio, ma l’altra
lo udì alla perfezione – forse perché
Meg continuava a starle vicina come se
fosse stata il suo mantello.
Si
allontanò dunque di qualche passo in modo da poter guardare
l’amica in viso,
cercando di intuire che cosa potesse passarle per la mente anche
attraverso il
travestimento che le impediva di decifrare per intero le sue
espressioni. «Questo
perché non è accaduto nulla,
Meg»,
puntualizzò Giulia, inarcando un sopracciglio. Temeva di
chiedere cosa volesse
insinuare, perché era pressoché certa che non le
sarebbe piaciuta la risposta.
Comprendendo
di essere andata oltre, Meg si affrettò a rettificare.
«Non volevo
sottintendere nulla, per l’amor del Cielo!» Fece,
arrossendo lievemente. «Solo…
Il saperti da sola con lui non mi ha fatto dormire sonni tranquilli, lo
ammetto»,
insisté, mordicchiandosi il labbro inferiore.
«Meg,
tu sai che ti voglio un bene infinito e che apprezzo la tua
preoccupazione e
tutto il resto», esordì Giulia, ricambiando
gentilmente la stretta della mano.
Il suo sguardo, tuttavia, si fece risoluto. «Ma la nostra
amicizia potrebbe
rovinarsi se tu e madame continuerete ad avere tutti questi pregiudizi.
Ti
prego, Meg, non mettermi in condizione di dover scegliere tra voi e
lui»,
concluse, con un accento disperato.
Per
quanto fosse poco convinta, la giovane Giry si sforzò di
sorridere. «Non lo
farei mai, chèrie. Non
mi
intrometterei mai nelle tue scelte se non pensassi di farlo per il tuo
bene, ma
comprendo anche che sei abbastanza adulta e responsabile da poter
gestire cose
simili da sola, per cui… Ti chiedo solo di perdonarmi se il
mio comportamento
in qualche modo ti ha offeso.»
Giulia
non resistette più e abbracciò forte
l’amica, sentendosi tremendamente in
colpa. «Sono io che dovrei chiederti scusa»,
ribatté, sussurrandole di nuovo
all’orecchio. «È da prima di Natale che
ho escluso tutti da ciò che mi
accadeva, compresa tu che qui sei la mia unica amica. Avrei voluto
confidarmi e
raccontarti ogni cosa, credimi, ma ciò di cui tu e madame
Giry eravate a
conoscenza per tutto il tempo mi ha trattenuto dal farlo
perché mi sono sentita
in un certo senso tradita…» Con un sospiro si
allontanò di poco, giusto il
tanto necessario da poter ricambiare il suo sguardo. «Niente
più segreti tra
noi, Meg, ti prego. Non sono una bambina che deve essere protetta
dall’uomo
nero.»
L’ultima
frase era stata pronunciata con un tono volutamente scherzoso,
così da
alleggerire l’atmosfera e liberare il petto di entrambe da un
pesante fardello
di rammarichi e dispiaceri.
Asciugandosi
discretamente una lacrima, Meg sorrise tremula. «Direi
proprio di no, cara la
mia Giulia», ammise, annuendo. «Propongo di
lasciare tutte queste brutte storie
all’anno vecchio che si conclude stanotte, e iniziare quello
nuovo con
propositi assai più generosi e amichevoli; concordi con
me?»
Mademoiselle
Sanders non poteva trovarsi più d’accordo.
«Assolutamente!»
Un
ultimo e sentito abbracciò sancì i loro progetti
per il milleottocento-settantotto,
cosa che avvenne sulle ultime note di chiusura di un’allegra
quadriglia. Solitamente,
ad ogni ballo di gruppo si alternava un valzer, dunque dame e cavalieri
si
disposero sulla pista in modo da lasciare ampio spazio alle coppie che
dovevano
esibirsi.
«Oh,
è il momento del cotillon… Devo andare a cercare
Emilien, è a lui che ho
promesso questo ballo!» Esclamò la piccola Giry,
guardandosi intorno con un
accenno di nervosismo; in effetti trovare il suo compagno in
quell’accozzaglia
di maschere, piume e sete preziose poteva non essere molto semplice.
«Allora
cosa aspetti? Corri prima che l’orchestra riprenda a
suonare», la esortò l’amica,
sorridendole complice e comprensiva. Dopo averle schioccato un bacio
affettuoso
sulla guancia, Meg scomparve tra la folla e Giulia rimase nuovamente da
sola.
E
adesso, dove era finito Erik? Doveva semplicemente cercare da bere, e
invece
era via già da un bel po’ di tempo –
doveva forse preoccuparsi? Approfittò del
fatto che tutti i presenti erano impegnati nelle danze per allontanarsi
dal
foyer e salire la scalinata principale: contava, dall’alto,
di poter
individuare il suo compagno anche in mezzo alla folla, anche
perché dubitava ch’egli
si fosse gettato nelle danze. Maledicendo ad ogni gradino la lunga
gonna del
vestito che le finiva in mezzo ai piedi, Giulia riuscì
finalmente ad arrivare
in cima senza cadere o inciampare. Visto che il fiato iniziava a
mancarle – Dio, Erik aveva stretto
davvero troppo i
lacci del suo corsetto – e che non poteva
allentarli, optò se non altro per
liberarsi della maschera che non la stava facendo respirare e le
accaldava il
viso. Una volta liberatasene sentì l’aria fresca
sul volto e sospirò,
sollevata: non voleva rischiare che le venisse un altro mancamento,
adesso che
non c’era neppure il suo Maestro a sorreggerla.
Là,
dall’alto della balconata, si poteva godere di una visuale
completa di ciò che
accadeva nel salone sottostante: Giulia vide Meg danzare con un bel
moschettiere,
che doveva essere senza ombra di dubbio il giovane Mercier di cui le
aveva
parlato. Con un sorriso soddisfatto e compiaciuto per
l’amica, lo sguardo della
ragazza vagò oltre, ammirando gli ornamenti e i festoni che
abbellivano il
teatro rendendolo molto meno spaventoso di quanto apparisse in genere,
durante
le sue escursioni notturne sotto la guida di Erik.
Ah,
eccolo finalmente!
Con
un sorriso sollevato vide sbucare l’uomo da una porta
secondaria, e dirigersi
con passo autoritario e deciso – come se fosse il
proprietario del teatro, cosa
che non si discostava poi tanto dalla realtà –
verso il punto in cui l’aveva
lasciata, minuti prima, e dove lei aveva incontrato Meg. In mano aveva
due
bicchieri, segno che non si era dimenticato di portarle da bere come
aveva
promesso, ma quando non la trovò si irrigidì e si
guardò intorno, preoccupato. Un
giovane in preziosi abiti orientali gli si avvicinò
immediatamente e gli mormorò
poche parole all’orecchio, e quando questi si
discostò dal suo signore Erik
alzò lo sguardo sulle balconate fino a posarlo su di lei. I
muscoli delle sue
spalle si rilassarono palesemente una volta che l’ebbe
individuata.
Giulia
lo salutò agitando una mano e sorridendogli, ma vedendo che
l’uomo si stava
dirigendo a sua volta verso lo scalone decise di aspettarlo
lassù invece di
raggiungerlo dabbasso – anche perché non voleva
perdersi una seconda volta in
mezzo alla calca.
Era
così concentrata a seguire i movimenti del suo compagno che
non si accorse
della figura ammantata che la stava spiando silenziosa da dietro una
colonna.
Jean-Louis
non riusciva a credere ai suoi occhi.
Cristo
santo, quella ragazza era proprio lei, era Giulia, sua sorella!
Malgrado il
costume in maschera che stava indossando e un’acconciatura
antica che,
personalmente, non le aveva mai visto portare neppure durante i gran
galà ai
quali partecipava la famiglia Gauthier al completo, non aveva alcun
dubbio che
si trattasse di lei. L’avrebbe riconosciuta tra mille, anche
al buio e con gli
occhi bendati!
Certo,
avrebbe avuto parecchie domande da farle, dopo averla riabbracciata.
Tanto per
cominciare, che cosa le faceva pensare di essere autorizzata a
partecipare in
gran segreto ad una festa in maschera quando a casa, a pochi metri da
lì, sua
madre e suo padre – e anche lui, maledizione – la
stavano piangendo come se
fosse morta? Inoltre, se aveva voluto scappare di casa come ormai
pareva fosse
di moda tra gli adolescenti di una certa estrazione sociale,
perché era rimasta
a Parigi – perché
proprio all’Opèra! –
dove chiunque poteva riconoscerla e riportarla dai suoi genitori?
Diverse
emozioni si susseguirono sul volto e nell’animo del ragazzo
– sollievo, per
averla trovata viva; rabbia, per averla vista divertirsi come se non le
riguardasse il dolore che aveva causato a tutti loro; gioia,
perché non poteva
impedirsi di provarla ogniqualvolta i suoi occhi si posavano su di lei;
e
delusione, perché era sempre stato convinto di essere il suo
migliore amico e
confidente e invece era stato tenuto all’oscuro di tutta
quella faccenda come
un estraneo qualsiasi.
Strinse
gli occhi, perplesso e sospettoso, nel vederla agitare una mano e
salutare
qualcuno nella folla: ah, dunque non era
neanche da sola! Certo, era possibile che si fosse sbagliato
e che quella
ragazza fosse solo una che somigliava alla sorella – forse
desiderava così
tanto ritrovarla che la vedeva da qualsiasi parte, chi poteva dirlo?
Però,
poteva sempre fare una prova.
«Giulia!»
La chiamò, in tono abbastanza alto da sovrastare la musica.
Vide la ragazza
sussultare e voltarsi di scatto, confusa, e impallidire poi quando i
suoi occhi
castani si accorsero di lui.
Che strano: non
sembrava aver dato segno di averlo riconosciuto.
Strappandosi
la maschera dal volto, perché credeva che fosse quello il
motivo della
perplessità della ragazza, Jean-Louis abbandonò
il riparo della colonna e colmò
i pochi metri che lo distanziavano da sua sorella. Una volta
raggiuntala, poi,
la afferrò per le spalle scrutandola severo negli occhi.
«Cosa
c’è, non mi riconosci più?»
Mormorò con voce roca, lasciando libera la rabbia e
tutta l’angoscia che aveva provato in quei due mesi di
separazione. Poi la
strinse in un ferreo abbraccio, senza prestare molta attenzione
all’espressione
turbata e sgomenta della giovane.
Lei
si lasciò stringere, inerte come una bambola.
Una bambina
strappò
con furia eccitata la carta di uno dei suoi numerosi regali di Natale.
In mezzo
alla confusione, dal pacchetto sbucò fuori una deliziosa
bambola di porcellana,
seduta su un’altalena in ferro dipinto di verde, con i
capelli biondi, gli
occhi azzurri, una boccuccia rosea e un vestitino di velluto blu.
Contrariamente alle
aspettative del padre, la bambina imbronciò le labbra,
scontenta.
«Cosa
c’è,
amore?»
Le chiese la madre, incerta se ridere o preoccuparsi per quella
reazione.
Incrociando le
braccia e abbassando lo sguardo, sempre più triste, la
bambina rispose decisa e
con un tono arrabbiato: «Non mi piacciono le bambole di
porcellana.»
Il fratellino,
più
grande di lei di qualche anno, scoppiò a ridere –
ma un’occhiata severa del
padre fu sufficiente a farlo tacere.
Cercò
di venir fuori con forza da quei ricordi, annaspando come in mancanza
d’aria.
«Che
cosa… Chi siete?» Balbettò, sbattendo
con forza le palpebre e cercando di respingerlo.
Rammentava quella
bambola di porcellana!
Trattenne
il respiro, e l’istinto la fece aggrappare nuovamente agli
indumenti del ragazzo.
Un altro Natale.
La bambina ora era
una ragazzina ossuta, i capelli castani raccolti in una treccia, i
vestiti
rubati per dispetto dall’armadio del fratello. Con quegli
abiti più grandi di
lei sembrava ancora più piccola e magra.
«Mamma,
che palle!
Giulia ha preso ancora i miei vestiti!» Sbottò il
ragazzo, entrando in salotto
e lanciando uno sguardo irritato alla sorella. Per tutta risposta, lei
gli fece
la linguaccia.
Una donna dal
portamento elegante e dagli abiti altrettanto accurati si
affacciò dalla porta
della cucina, con un sospiro rassegnato. «Giulia, tesoro, vai
a cambiarti. Fra
un po’ arrivano i nonni e non voglio che ti vedano vestita
come un maschiaccio»,
decretò, con voce pacata ma inflessibile.
Sbuffando, la
ragazzina si alzò dal divano e lanciò un cuscino
sibilandogli uno degli insulti
che aveva imparato solo recentemente, a scuola. L’espressione
scioccata del
ragazzo fu impagabile.
«Giulia,
sono tuo fratello», rispose lui, allontanandosi da lei il
tanto sufficiente da
poterla guardare in viso: la rabbia iniziale era stata sostituita da un
esitante scetticismo. «Sono Jean-Louis!»
Indossava
una semplice maschera nera con dei sottili ricami rossi.
La sua sciarpa, la
sua sciarpa preferita, quella rossa, era finita in mare.
Il vento gelido di
Perros-Guirec non aveva avuto scrupoli a rubarla ad una ragazzina di
appena
tredici anni, facendola volteggiare sopra il bagnasciuga prima di
spingerla
oltre, verso le onde.
Ormai rassegnata,
diede le spalle al mare e si incamminò verso suo padre che
l’attendeva sul
pontile, più avanti, ed era così triste che quasi
non si accorse di quanto
stava accadendo sulla strada che costeggiava la spiaggia. Si
voltò solo quando
vide un giovanotto vestito elegantemente che gettava gli scarponcini,
la giacca
e i guanti sulla sabbia e si gettava in acqua senza pensarci due volte.
La ragazzina
trattenne il fiato, sorpresa e preoccupata e insieme a lei suo padre
che nel
frattempo l’aveva raggiunta.
Osservarono entrambi il giovane
nuotare con furia
fino a raggiungere la sciarpa, afferrarla con un grido di giubilo, fare
dietro-front e ritornare a riva.
Padre e figlia si
avvicinarono a lui, e una volta fuori dall’acqua
l’uomo coprì il giovanotto con
la sua grossa giacca. Egli porse la sciarpa bagnata alla ragazzina, che
la
accettò con un sorrisetto tremante e un luccichio negli
occhi azzurri. «Come ti
chiami?» Gli chiese, grata.
Ansimante,
infreddolito e completamente fradicio, il ragazzino aprì la
bocca in un sorriso
così ampio che fu impossibile non notare la mancanza di un
molare. «Sono Raoul!»
Una
marea di ricordi la travolse: fu come passare attraverso
un’intera vita – no,
forse due – in pochi secondi. Il
momento prima la sua memoria era una cavità vuota e
depredata da chissà quale
trauma, e quello successivo tutte le sue memorie, tutte le sue
emozioni, i suoi
sogni, i suoi incubi, la riempirono con la forza dirompente di un
uragano.
L’aria
le mancò dai polmoni come se fosse stata improvvisamente
spinta sott’acqua;
resistere oltre a quell’esplosione di immagini e echi del suo
passato fu
impossibile, il pavimento crollò sotto i suoi piedi e svenne.
__________________________________________________________________________________________________________________________________________________
Angolo
Autrice.
Io
odio far svenire le mie protagoniste. Davvero. Non so, la trovo una
cosa così
melensa, da cliché, da romanzo harmony (e non sto criticando
gli harmony perché
personalmente ne ho una notevole collezione) - no, peggio, da
fanciullina priva
di spina dorsale! Però, insomma, delle volte non se ne
riesce a fare a meno.
Anche perché, e mi sono documentata, all’epoca era
all’ordine del giorno che le
donne di tutte le età perdessero i sensi – certo,
con quegli odiosi corsetti
era già un evento che non diventassero blu a causa della
mancanza di aria! Per
questo avevano sempre dei sali a portata di mano, nella borsetta. E
poi, c’era
chi sveniva e chi si ammalava di tubercolosi e moriva (vedere La signora delle Camelie), e dato che io
all’incolumità della mia Giulietta ci tengo,
dovremo accontentarci di vederla
svenire ancora per un po’… O perlomeno fin quando
non smette di vestirsi in
quel modo.
Comunque,
riflessioni inutili a parte, finalmente in questo capitolo succede
qualcosa – non
vedevo l’ora! Adesso che siamo giunti alla svolta, dopo tanto
penare, posso
tirare un sospiro un sollievo: chi avrebbe mai immaginato che ci
saremmo arrivati,
a questo punto? Io no di certo. xD E l’ho anche pubblicato
dopo meno di una
settimana dall’altro capitolo! Ecco, a tal proposito, non
fateci l’abitudine. ù_ù
Anyway. Come al solito ringrazio
tutti
coloro che leggono, silenziosi ma sempre presenti, coloro che
recensiscono e,
di nuovo, chi continua ad aggiungere questa storia alle preferite, alle
seguite
o alle ricordate! Grazie, grazie,
grazie mille a tutte voi. :)
Ho
notato che il brevissimo scorcio del passato di Bamdad vi ha
incuriosito: non
credevo che questo personaggio riscontrasse tanto interesse! Ma vi
ringrazio a
nome suo xD Per quanto riguarda il Lago dei Cigli, era da novembre (da
quando l’ho
visto a teatro) che morivo dalla voglia di infilarlo in questa storia,
in un
modo o nell’altro – e sono molto felice che
l’idea vi sia piaciuta!
Orbene,
credo di non aver nient’altro da dirvi per il momento; per
qualsiasi dubbio e/o
curiosità non esitate, fatemelo sapere u.u Non riesco mai a
rispondere
singolarmente a ciascuna delle vostre bellissime recensioni, ma
prometto di
farlo, prima o poi – intanto devo dire a Ellyra
che l’idea che questa storia senza arte né parte
si trovi stampata nella tua
libreria mi ha fatto davvero commuovere! :’)
Un
bacione grande a tutti, a presto – spero! Con tantissimo
affetto, la vostra
Niglia.
|
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Capitolo 30 *** 28. Dove accadono diverse cose contemporaneamente ***
Chapitre
28
Dove
accadono
diverse cose contemporaneamente
La
viscontessa De Chagny non era più abituata a strapazzarsi in
quel modo,
danzando da una parte all’altra come quando era
più giovane e spensierata.
Forse erano gli ultimi residui delle fatiche del parto, ma qualunque
cosa fosse
decise, per non rischiare di sentirsi male, di declinare
l’invito del giovane
consorte e rimanere in disparte durante il cotillon. Grazie alla
maschera
nessuno la riconobbe, così poté gironzolare in
tutta tranquillità presa
sottobraccio dal marito.
Guardandosi
curiosamente intorno, si domandò quale, tra quelle maschere,
celasse il volto
della nuova diva che tanto le somigliava. A Raoul non ne aveva parlato,
per un
oscuro motivo che non comprendeva neppure lei stessa: eppure cosa
c’era da
nascondere in una fanciulla che sembrava la sua esatta copia
– quasi una
gemella, avrebbe detto – che cantava e faceva ciò
a cui ella aveva rinunciato
per il bene del suo amore e del suo matrimonio? Probabilmente,
continuò a
riflettere tra sé, temeva che Raoul fraintendesse le sue
considerazioni al
riguardo, finendo per credere che la madre del suo piccolo erede stesse
iniziando a pentirsi di aver sacrificato quello che in passato era
stata la sua
unica ragione di vita – la musica.
Certi
argomenti, benché non fossero proprio proibiti, andavano
comunque affrontati
con una certa prudente delicatezza.
A
interrompere i suoi pensieri giunse una maschera distratta che le
passò
frettolosamente accanto, urtandola involontariamente e proseguendo per
la sua
strada senza neppure voltarsi a domandare scusa. La non più
mademoiselle Daaè
si aggrappò al marito e storse il naso al di sotto della
maschera, infastidita
e sorpresa da quel comportamento da maleducato; e a quanto pareva se ne
era
accorto anche Raoul.
«Che
razza di insolente», proruppe difatti quest’ultimo,
a mezza voce di modo che
potesse sentirlo solamente sua moglie. «Si sarebbe almeno
dovuto fermare per
scusarsi! Se dovesse tornare…»
«Non
credo che l’abbia fatto apposta, tesoro. Rilassati e goditi
la festa», lo
interruppe pazientemente Christine, arricciando le labbra per non
sorridere ma
senza resistere alla tentazione di seguire con lo sguardo quello
sconosciuto.
Non era difficile trovarlo in mezzo alla folla, era un uomo robusto,
piuttosto
alto, e con un travestimento del tutto particolare, che non passava
inosservato; come se ciò non fosse bastato, si muoveva come
se il mondo intero
fosse il suo regno – o perlomeno
come se
lo fosse il teatro.
Quello
strano pensiero la fece rabbrividire senza alcun apparente motivo.
E
malgrado ciò continuò ad osservarlo, arrivando
persino a sollevarsi sulle punte
dei piedi, attirando la curiosità di suo marito che non fece
nulla per
ricordarle che facendo così andava contro ogni regola della
buona educazione:
d’altra parte, chi mai avrebbe fatto caso a loro in
quell’orgia dionisiaca?
«C’è
un motivo per cui stai facendo questo, piccola
Lotte?» Sorrise inevitabilmente divertito,
nonché sollevato nel vederla
così a suo agio. Certo, il fatto che lo fosse più
in quel maledetto teatro che
in casa loro non gli faceva molto piacere, ma era comunque un passo
avanti;
inoltre, la felicità della viscontessa era anche la sua, e
poco importava a
cosa fosse dovuta.
«Un
momento solo, Raoul», fece, guardando l’uomo salire
i gradini della scalinata a
due a due come se stesse fuggendo da un incendio o come se dovesse
salvare
qualcuno che vi era finito all’interno. L’immenso e
prezioso mantello piumato
che gli ricadeva, dalle spalle, giù fino ad aprirsi sul
pavimento come la coda
di un pavone gli rendeva impossibile passare inosservato, dunque
Christine
continuò imperterrita a seguire lo svolgersi della vicenda
che sembrava
coinvolgerlo. Vagamente si accorse che anche Raoul aveva iniziato a
prestare
attenzione a ciò che stava accadendo sulla balconata, a
pochi metri di altezza
rispetto a loro.
L’uomo
che le era finito addosso stava sibilando contro un altro giovane privo
di
maschera che i coniugi De Chagny non avevano mai visto prima, e che gli
arrivava appena più su della spalla; non era difficile
intuire che il primo
fosse eccezionalmente furioso contro l’altro per
chissà quale astruso motivo, e
– per l’amor di Dio,
aveva stretto la
mano intorno all’elsa di una spada? – per
evitare di attirare tutti gli
sguardi del salone su di loro lo trascinò verso una nicchia
appartata,
sollevando poi tra le braccia quella che appariva chiaramente come una
fanciulla priva di sensi. Discussero ancora a lungo, come se stessero
decidendo
chi dei due dovesse prendersi cura della donna, ma infine ebbe la
meglio l’uomo
mascherato; avvolgendo la giovane con un lembo del proprio mantello,
forse per
proteggerla da occhiate curiose, si diresse verso qualche corridoio che
dal
foyer era impossibile vedere, con l’altro ragazzo appresso,
nella sua scia.
«Credi
che dovremo avvisare qualcuno?» La voce bassa e circospetta
di Raoul la
distolse da quanto appena accaduto, facendola voltare verso il visconte
con
un’espressione sinceramente preoccupata. Ella sapeva bene
quanto potesse essere
infido e pericoloso quell’ambiente, fatto di artisti folli,
macchinisti bramosi
e inopportuni, protettori che non
disdegnavano i favori delle giovani ballerine o delle
coriste… Il disgusto e il
ribrezzo che quei ricordi tuttora le procuravano fece sì che
decidesse in un
battito di ciglia.
«Credo
di aver visto madame Giry, da qualche parte. Vieni, aiutami a
cercarla», lo
istruì rapidamente, prendendolo per mano e guidandolo
serpeggiando in mezzo a
quella marea umana. Per quanto il giovane aristocratico non fosse
particolarmente lieto di intromettersi nell’ennesimo
complotto avente luogo al
teatro, non poteva fare altro che assecondare la sua sposa, e cullarsi
nella
consapevolezza che, per la prima volta, egli non ne era coinvolto in
prima
persona.
Tuttavia,
non andarono molto lontano; un estraneo, che pareva essere appena
uscito da un
libro di fiabe orientali, si parò all’improvviso
davanti ai visconti come se
fosse saltato fuori dal pavimento, bloccando loro la strada. Prima che
Raoul si
indignasse e gli intimasse con poco garbo di levarsi di mezzo, lo
sconosciuto
parlò.
«I
signori hanno bisogno di qualcosa?» Domandò, con
una voce calda e sinuosa
abbellita da un leggero accento straniero; persiano, forse?
«Non
qualcosa, in realtà; qualcuno», rispose Christine
senza riuscire a sorridere
come avrebbe desiderato l’etichetta; al diavolo le buone
maniere, per una
volta! «Madame Giry, la conoscete?»
Il
persiano riuscì a mostrarsi sorpreso inarcando semplicemente
un sopracciglio
nero come l’ebano. «Madame Giry, dite?
L’insegnante di danza?» Chiese. Una
semplice precauzione per non sbagliarsi, giacché in
realtà conosceva solo una
donna che rispondesse a quel nome.
Quando
i due domini annuirono in risposta, monsieur Bamdad aggrottò
appena la fronte. «Credo
di averla appena vista salire al primo piano, sempre che non
l’abbia confusa
con qualche altra maschera», ammise, lanciandosi
un’occhiata intorno prima di
riportare i suoi occhi neri e la sua attenzione sulla fanciulla vestita
di
bianco. «Per quale motivo la state cercando? È
successo qualcosa?»
«Questo
non lo sappiamo con certezza, ma mentre siamo qui a conversare
amabilmente con
voi di sicuro potrebbe già essere capitato qualcosa di
orrendo», intervenne
Raoul, trattenendo a stento l’irritazione e
l’impazienza.
«Allora
mi spiegherete strada facendo; prego, monsieur,
madame, seguitemi.» Si
scostò appena
di lato facendo loro cenno con la mano di andare verso la direzione da
lui
indicata.
Trovarono
madame Giry mentre quest’ultima chiacchierava amabilmente con
una maschera di
cui non seppero riconoscere il proprietario. La severa insegnante di
danza
indossava anch’essa un abito di foggia straniera, ma molto
differente da quello
del persiano: solo qualcuno che avesse letto parecchio e che si
intendesse di
arte e culture orientali avrebbe saputo riconoscere che la Giry aveva
scelto di
abbigliarsi con un kimono giapponese – per quanto, ad una
più approfondita
osservazione, fosse facile notare che l’abito era stato
riadattato secondo
alcuni dettami della moda occidentale.
Visto
che i visconti De Chagny non avevano ancora avuto modo di fare visita a
madame
Giry da quando erano rientrati nella capitale, Christine ritenne che
dovesse
essere il persiano a chiedere l’attenzione della donna per
primo; cosa che,
infatti, fece.
Mentre
la loro guida si faceva avanti per attirare l’attenzione di
madame Giry, e
bisbigliarle poi qualcosa all’orecchio senza badare alla
scortesia del gesto,
Raoul non poté fare a meno di guardarsi nervosamente
intorno, l’espressione di
disagio abilmente nascosta dalla maschera nera che gli copriva la
metà
superiore del viso. Troppi brutti ricordi si celavano dietro le colonne
in
marmo del foyer, nelle ombre dello scalone, negli anfratti che
rimanevano
lontani dalle luci delle candele o delle lampade a gas; temeva che le
pareti
avessero occhi e orecchie come l’ultima volta in cui aveva
messo piede in quel
tempio della musica e dell’arte, quasi che la morte del suo
vecchio nemico non
avesse portato all’Inferno insieme a sé anche i
residui del suo dominio e i fantasmi
della sua vendetta. Si stringeva alla sua sposa inconsapevole, il
povero
visconte, rimpiangendo di non essere giunto armato e protetto da quegli
spiriti
dall’illusione del gelido metallo di una pistola. Era
difficile lasciarsi alle
spalle quanto accaduto in quel maledetto luogo infestato – la
tragedia del
lampadario, l’incendio, il rapimento di Christine, la morte
di Joseph Buquet,
del tenore Ubaldo Piangi e quella, assai più personale e
spiacevole, di suo
fratello Philippe – e con tutta sincerità non
riusciva a capire come facesse
invece Christine, la quale era stata coinvolta in tutta quella vicenda
in modo
assai più intimo di quanto era stato lui, giacché
l’inganno nei suoi confronti
risaliva a molto tempo prima che i due promessi sposi si incontrassero,
ecco,
come facesse ad essere così tranquilla.
Ma
turbarla con i suoi pensieri, ch’ella comunque conosceva sin
troppo bene, non
avrebbe giovato a nessuno dei due. Per cui finse di essere
assolutamente
tranquillo quando la loro vecchia amica, se così si poteva
chiamare la donna
che per lungo tempo aveva protetto il maledetto fantasma, si volse
verso di
loro e sgranò impercettibilmente gli occhi nel riconoscere
nel domino bianco la
sua piccola Christine. Quest’ultima si era liberata della
maschera per permettere
un riconoscimento più rapido, e con le lacrime agli occhi si
gettò tra le
braccia di madame Giry, stringendola e lasciandosi stringere a sua
volta.
Raoul
lasciò loro un po’ di tempo per salutarsi e
piangere tra loro, ma quando
ritenne che i convenevoli fossero conclusi si fece avanti e
tossì discretamente
per attirare l’attenzione. «Madame Giry…
Sono lieto di rivedervi in circostanze
più serene dell’ultima volta»,
esordì, accennando un mezzo inchino col capo.
«Lo
sono anche io, monsieur», rispose la donna, e fu sincera;
quando la guardò
negli occhi, il visconte vide in essi un mare di cose non dette,
rimpianti,
scuse, spiegazioni e tanto altro che in quel momento gli furono
sufficienti per
perdonarla della parte che la donna aveva avuto pochi anni prima.
Stringendo
affettuosamente il braccio della viscontessa, madame Giry riprese la
parola
abbassando tuttavia il tono di voce. Ecco che le antiche abitudini si
dimostravano difficili da dimenticare. «Monsieur Bamdad mi ha
riferito quello
che avete visto. Potreste descrivermi i protagonisti di questa
vicenda?»
Fu
Christine a parlare, dato che le donne avevano un talento particolare
nel
rammentare dettagli fisici e somatici con maggior precisione rispetto
agli
uomini. Descrisse perciò l’abito del signore che
l’aveva involontariamente
urtata, ma non seppe esprimere alcun giudizio riguardo la fanciulla
priva di
sensi, così come non aveva idea di chi fosse
l’altro giovane che indossava un
semplice mantello nero e una mascherina del medesimo colore come tanti
altri
che si trovavano al teatro; il costume del primo uomo era senza dubbio
il più
originale, dunque confidava che a madame bastasse la sua descrizione.
Nell’udire
il racconto della viscontessa, il persiano si limitò a
inarcare un sopracciglio
e a sorridere leggermente, fissando dapprima madame Giry e poi i due
nobili. «State
dunque parlando del mio principale e della sua fidanzata, miei cari
signori»,
disse gentilmente, mentre al suo fianco madame riuscì a
mantenere
un’espressione serena. «Non
c’è nulla di cui preoccuparsi, purtroppo
mademoiselle Sanders è soggetta a frequenti abbassamenti di
pressione che la
inducono a brevi svenimenti.»
Nessuno
si accorse dell’abile bugia; e il discorso sarebbe caduto
lì se madame De
Chagny non si fosse appena ricordata di avere già udito quel
nome. «Mademoiselle
Sanders? Non è la nuova cantante?» Chiese,
rivolgendosi a madame Giry.
Quest’ultima
parve impallidire leggermente, ma dato che madame non era mai stata
molto scura
di carnagione il suo improvviso deflusso di sangue dal volto
passò inosservato.
«Oh sì, in realtà sì. Hai
già… Ti è già capitato di
incontrarla? O ne hai solo
sentito parlare?»
«In
verità l’ho vista e udita esibirsi qualche giorno
fa, quando sono venuta in
visita al teatro», spiegò la viscontessa, non
potendo celare un leggero
imbarazzo. Non voleva comunque esprimersi oltre davanti a suo marito,
perché di
quell’argomento avrebbe voluto parlarne in privato prima con
madame Giry adesso
che se ne era presentata l’occasione. Come confessare di aver
rivisto sé stessa
qualche anno prima, in quella giovane promessa del canto, correndo il
rischio
che Raoul la fraintendesse? «Mi farebbe piacere conoscerla un
giorno,
compatibilmente ai suoi impegni. Spero che si riprenda dal
suo… calo di
pressione», aggiunse con aria preoccupata, voltandosi questa
volta verso il
persiano.
Quell’accenno
al motivo per cui erano tutti riuniti li fece tornare con i piedi per
terra. «Se
non ti dispiace, ma chère,
credo che
andrò a controllare come sta. È mia…
nipote, sai… Si suppone che la tenga sotto
controllo anche se è ormai fidanzata», sorrise
madame Giry, stringendo
un’ultima volta la viscontessa in un tenero abbraccio.
«Vieni a trovarmi
qualche volta, Christine. Venite entrambi, mi fareste un enorme
piacere», li
invitò, sincera ma desiderosa di accomiatarsi al
più presto. La felicità di
aver rivisto la giovane che aveva praticamente cresciuto come se fosse
stata
figlia sua stava venendo repentinamente sostituita dall’ansia
di sapere cosa
diavolo fosse successo a mademoiselle Sanders. Contrariamente a quanto
aveva
affermato monsieur Bamdad per non allarmare i visconti, infatti, Giulia
non era
per niente avvezza agli svenimenti – inoltre, le implicazioni
di quanto sarebbe
potuto accadere potevano essere disastrose… Cosa sarebbe
potuto succedere se la
viscontessa De Chagny avesse espresso il desiderio di andare a
controllare lo
stato di salute della giovane cantante?... Preferiva non pensarci,
almeno fin
quando vi fosse la possibilità di posticipare il
più possibile un ormai
inevitabile incontro. La codardia non era di certo uno dei difetti di
madame
Giry – la donna preferiva parlare di saggia prudenza: prima o
poi avrebbe
presentato le due sorelle l’una all’altra, avrebbe
spiegato loro ogni cosa,
certo… Ma fino a quel momento, fin quando non fosse stata
certa che Erik non
avrebbe torto un solo capello né ai visconti né
alla sua nuova protetta, tale
colloquio avrebbe aspettato.
Come
aveva previsto, infatti, Christine si mostrò ansiosa di
seguire madame ovunque
ella fosse in procinto di andare. Per sua fortuna, invece, sia il
visconte che
il persiano sembravano essere del parere che la presenza di una
viscontessa –
la cui reputazione era già di per sé precaria
– nel camerino di una nascente
prima donna non sarebbe stata di certo vista di buon occhio,
considerando che
madame De Chagny non pareva avere nessun motivo apparente per esserci;
non si
poteva neppure contare più di tanto sull’anonimato
fornito dalle maschere,
perché in un luogo pettegolo e malizioso come quello del
teatro chiunque
avrebbe saputo nel giro di pochi giorni qualsiasi cosa fosse accaduta
durante
la masquerade.
Tali
discorsi riuscirono a persuadere la viscontessa che, per quanto a
malincuore,
acconsentì a lasciare che madame Giry e monsieur Bamdad si
occupassero dei loro
affari. Tuttavia, anche dopo che si furono lasciati, non
poté fare a meno di
ritornare con il pensiero all’uomo che l’aveva
urtata nel salone e del quale
aveva veduto solamente la schiena: continuava ad avere
l’impressione che egli avesse
qualcosa di familiare, anche se non sapesse dire precisamente cosa… Come sempre, fu Raoul a
riscuoterla dai suoi pensieri. Circondandole la vita con un braccio e
stringendola teneramente a sé, le porse la maschera che
aveva tolto per parlare
con madame Giry.
«Non
sono cose che ci riguardano, quelle», disse gentilmente,
riuscendo persino a
sorriderle appena; era la prima volta che lo faceva, da quando avevano
varcato
insieme la soglia dell’Opèra. «Torniamo
a ballare, piccola Lotte?»
Mentre
i visconti De Chagny tornavano nel salone principale per riprendere
parte alle
danze, una fanciulla abbigliata con uno strano costume azzurro che
rammentava i
pepli delle divinità greche fuoriuscì da dietro
una colonna di marmo,
osservando madame Giry e monsieur Bamdad che scomparivano verso la zona
del
teatro riservata ai camerini degli artisti. Aveva udito ogni cosa, e
finalmente
capiva per quale motivo una smorfiosetta fintamente ingenua qual era
mademoiselle Sanders avesse ottenuto il ruolo di solista senza neppure
sforzare
un muscolo: a quanto pareva non solo era la nipote
dell’insegnante di danza, ma
doveva esser passata anche per il talamo del direttore artistico del
teatro – il principale di monsieur
Bamdad, come
egli stesso aveva più volte dichiarato. Che razza di piccola
sgualdrina –
avrebbe saputo fare buon uso di quella succosa informazione.
Presto
la nuova prima donna dell’Opèra Populaire di
Parigi sarebbe stata lei,
mademoiselle Sophie de Vries [*] – e nessuno si sarebbe
più ricordato di un’insulsa
amante del direttore.
***
Il
cuore le batteva furiosamente nel petto, come se stesse cercando una
via di
fuga dalla sua stessa gabbia toracica: poteva sentirne i rimbombi nelle
orecchie, mentre si sforzava di prendere dei respiri profondi come le
suggeriva
una voce familiare da qualche parte alla sua destra.
Gemendo,
si sforzò di sollevare le palpebre che sembravano pesare
tonnellate.
«Grazie
a Dio, si sta svegliando», annunciò una donna, il
tono palesemente sollevato.
Il
nero puntellato da tanti minuscoli puntini bianchi che aveva veduto
appena
prima di perdere conoscenza e che, adesso, ritornava nel momento del
risveglio,
diventava più chiaro ad ogni secondo che passava,
permettendole così di mettere
a fuoco quello che la circondava e di riprendere possesso di ogni sua
facoltà.
Mosse una mano, fletté le dita, sollevò con
cautela un braccio e si strofinò
piano gli occhi; a quel punto cercò di tirarsi su a sedere,
ma qualcosa glielo
impedì, sotto forma di una mano posata sulla sua spalla che
la tenne ben ferma,
mezzo distesa su una morbida chaise-longue.
«Non
avere fretta, Giulia. Erik, avvicinami quel bicchiere»,
ordinò sempre la stessa
voce, mischiando tenerezza e risolutezza insieme. Conosceva quella
voce, ormai era
qualcosa di caro, familiare: madame Giry? Quel nome le infuse una
maggiore
sicurezza, sicché quando aprì definitivamente gli
occhi e li posò sulla donna
al suo fianco gran parte delle nebbie che le turbinavano in testa
scomparvero.
Lasciò che madame l’aiutasse a bere un sorso, poi
un altro, di acqua
zuccherata, cosa che le diede immediatamente una sensazione di
benessere; dopo
averla dissetata, quindi, l’insegnante di danza le
passò un panno umido e
fresco sulla fronte e sulle guance, dandole sollievo e incoraggiandola
infine a
prendere dei profondi respiri: così facendo si accorse che
qualcuno doveva
averle allentato i lacci del corsetto, dato che respirare le riusciva
semplice
come quando si preparava per la notte.
«Sto
meglio, ora; grazie, madame Giry», mormorò a mezza
voce, tossendo appena per
sgranchirla. Aveva bisogno di rimettere in ordine i pensieri.
«Che cosa è successo?»
«Speravo
che questo potessi dircelo tu», replicò
gentilmente la donna, senza tuttavia
sorridere come il suo tono lasciava intendere. «Ci hai fatto
spaventare, sai.»
Quelle
parole le fecero aggrottare le sopracciglia, perplessa. «Voi
e chi altri?»
Domandò, massaggiandosi lentamente le tempie. Malgrado
sembrasse essersi
ripresa, la testa continuava a girarle vorticosamente.
«Me,
per esempio.» A parlare fu un ragazzo che si trovava da
qualche parte alla sua
destra, e che per guardarlo fu costretta a voltarsi quasi completamente
prima
che lui compresse la sua difficoltà e si fece avanti,
portandosi sotto la luce.
Non appena Giulia vide i lineamenti sottili e delicati del suo volto, i
suoi
capelli scuri, gli occhi chiari, l’accenno di barba sulle
guance pallide e
l’espressione torva e preoccupata insieme, la sensazione di
mancanza d’aria
tornò come poco prima, nel salone, quando le aveva fatto
perdere i sensi: solo
che, stavolta, venne accompagnata da una chiara e lucida consapevolezza.
«Oh
mio Dio, Jean», gemette incredula, mentre finalmente si
rendeva conto di quello
che le era successo; non aveva idea di come suo fratello
l’avesse trovata, né
come avesse fatto a finire lì – tutto
ciò che contava era che adesso erano di
nuovo insieme, e che lei non era più sola. Le sue braccia si
tesero
istintivamente verso il giovane, in un muto invito.
«Jean!»
Jean-Louis
non si fece sfuggire l’opportunità e le si
avvicinò rapidamente, attirandola in
un abbraccio e stringendola forte contro di sé;
sentì i suoi singhiozzi
soffocati sul suo petto e si sedette sull’ottomana, in modo
da cullarla più
agevolmente mentre le mormorava parole di conforto
all’orecchio. La donna gli
aveva raccontato a grandi linee cosa le fosse successo –
l’amnesia che le aveva
fatto scordare qualsiasi cosa, il che spiegava la sua reazione di poco
prima,
nel foyer – per cui tutta la rabbia che aveva provato nei
suoi confronti era
sparita per lasciare spazio ad una semplice e sana consolazione di
rivederla
viva.
Madame
Giry si alzò per dare un minimo di intimità ai
due giovani, indietreggiando
verso la parete per raggiungere l’altro occupante del
camerino. Difatti là,
nascosto nell’ombra e immobile come una statua,
v’era Erik, che non aveva mosso
un muscolo né pronunciato mezza parola da quando la ragazza
si era ripresa. Dio
solo sapeva che cosa gli stesse passando per la testa, dato che quello
che si
era proclamato come il fratello maggiore della loro mademoiselle
Sanders poteva
avere solo il ruolo di un ostacolo.
«Suppongo
che Giulia abbia recuperato la memoria», mormorò
la donna, stringendo le mani
all’altezza del ventre e osservando Erik con la coda
dell’occhio. Le luci
soffuse che aveva acceso frettolosamente nel camerino creavano dei
macabri
giochi di ombre sulla sua maschera, acuendo la sensazione di pericolo
che
sembrava emanare. Egli non disse una sola parola: si limitava a fissare
colui
che stringeva con troppa libertà la sua mademoiselle
Sanders, dando così l’impressione
di volerlo strangolare da un momento all’altro. Madame non
aveva ancora avuto
modo di domandargli che cosa si fossero detti mentre raggiungevano la
stanza –
né cosa fosse accaduto di preciso quando la ragazza era
svenuta e perché il suo
supposto fratello si trovasse nelle vicinanze –
sicché fremeva dalla voglia di
saziare la sua curiosità. Ma evidentemente avrebbe dovuto
pazientare ancora.
«Così
parrebbe», fu tutto ciò che disse l’uomo
in un sibilo, le braccia incrociate
sul petto come a volersi contenere dal fare pazzie. Non disse
più nulla,
attendendo che Giulia si ricordasse anche di lui dandogli
così il permesso di
avvicinarsi e spodestare il ragazzo da quello che considerava essere il
suo posto.
Per
quello non dovette attendere molto: quando il suo pianto si fu
acquietato,
infatti, ella si scostò con gentile fermezza dalla stretta
del fratello, si
asciugò le lacrime, gli sorrise appena e infine si
guardò intorno,
improvvisamente disorientata. Tutt’a un tratto sembrava non
credere ai propri
occhi, quasi che l’ambiente non le fosse più
familiare, anzi, come se si
immaginasse addirittura di dover essere da tutt’altra parte.
Un comportamento
piuttosto inconsueto, a dir la verità. Quando poi i suoi
occhi confusi si
posarono sulla persona di Erik – che nel frattempo aveva
fatto qualche passo in
avanti per poter essere individuato subito – Giulia si
irrigidì, le dita si
aggrapparono alla manica del giovane e distolse immediatamente lo
sguardo. Egli
poté vedere chiaramente le sue labbra sillabare, con fare a
dir poco sconvolto,
le parole: Oh, mio Dio.
Prima
che Erik potesse dire qualsiasi cosa, prima che potesse domandarle
ragione di
quella reazione, il ragazzo le accarezzò il viso pallido con
una mano,
un’espressione preoccupata in volto mentre le chiedeva con
fin troppa
apprensione che cosa le fosse successo, se andava tutto bene, se aveva
bisogno
di qualcosa.
Maledizione!
Avrebbe dovuto trovarsi lui al suo
posto, non quell’indisponente moccioso che pareva essere
stato la causa del suo
malessere!
Fu
madame Giry ad intervenire, come sempre, senza tuttavia dare segno di
aver
notato il nervosismo di Erik. «Vuoi che faccia venire
monsieur Mounier, Giulia?
Non abita troppo lontano dal teatro, posso mandare qualcuno a
chiamarlo»,
disse, turbata. Ma neanche questo servì a farla allontanare
dalle grinfie del
fratello, che anzi accentuò la stretta e continuò
a guardarla come… diamine, non
voleva crederci… come la
guardava lui stesso! Non poteva essere davvero suo fratello, allora! O,
se lo
era… Che razza di perversioni nascondeva sotto quel
bell’aspetto?
«Posso
parlare con te in privato, Giulia?» Domandò piano
l’uomo mascherato, attirando
l’attenzione di tutti su di sé e facendoli suo
malgrado rabbrividire. Non ci
fece troppo caso, era abituato a provocare simili reazioni –
ciò che davvero lo
faceva soffrire era che anche la ragazza adesso sembrava temerlo.
E
non osava neppure guardarlo negli occhi, dannazione!
«Veramente…
io…» Esordì piano, a voce talmente
bassa che Jean-Louis dovette chinarsi su di
lei e sia Erik che madame Giry furono costretti ad avanzare
d’un passo. «Vorrei
rimanere per un po’ da sola con mio fratello, se…
se è possibile.»
Se
ciò lo ferì, Erik fu abbastanza abile da non
darlo a vedere. Si limitò a fare
un gesto secco di assenso col capo, per poi dirigersi verso la porta
seguito
poco dopo da madame Giry; l’uscio del camerino si richiuse
con un tonfo
attutito dietro di loro, lasciando soli i due fratelli. Fortunatamente,
il
corridoio era deserto: tutti gli esseri viventi che potevano trovarsi
in quel
momento a teatro erano raccolti nei saloni e nel foyer adibiti a sale
da ballo,
oppure nei piani inferiori, regno dei macchinisti, degli operai, dei
sarti, dei
truccatori, i quali si godevano a loro volta la serata
dell’ultimo dell’anno
festeggiando dietro le quinte. Madame Giry si accomodò
trattenendo il
nervosismo su una delle sedie imbottite che si trovavano lungo la
parete,
torturando i nastri della propria maschera e osservando Erik che faceva
lentamente
avanti e indietro davanti a lei, il suo travestimento terribile e
spaventoso nella
penombra del corridoio.
All’improvviso,
madame si sentì in dovere di esprimere ad alta voce
l’inevitabile conclusione
di quel fatale incontro. «Probabilmente Giulia
vorrà tornare a casa sua, con
suo fratello», mormorò, senza staccare gli occhi
da Erik temendo un eventuale
scatto rabbioso. Difatti, lo vide bloccarsi in mezzo
all’androne a quelle
parole, irrigidirsi, stringere i pugni e voltarsi con aria feroce verso
di lei.
Quando
egli parlò, tuttavia, la sua voce riuscì ad
essere sorprendentemente calma. «Sono
felice che abbia riacquistato la sua memoria e che abbia ritrovato la
sua
famiglia», esordì piano. «Ma questo non
la porterà via da me. Non lo farebbe
mai. Lei… lei ha bisogno
di me.»
Gli
occhi di Louise furono talmente colmi di pena e dispiacere per lui che
gli
venne voglia di fare a pezzi qualcosa: preferiva di gran lunga ispirare
terrore
che compassione, nessuno doveva compatirlo, maledizione, nessuno! Con
quale
diritto si permetteva di commiserarlo in quel modo? Come se
ciò non fosse
bastato, le sue parole seguenti gli fecero lo stesso effetto che
avrebbe avuto
la lama di un pugnale infilata fino all’elsa nel proprio
stomaco.
«Sei
sicuro di non essere tu ad avere bisogno di lei?» La cautela
che sembrava aver
utilizzato la donna non diminuì la portata di quanto aveva
appena detto. «Erik,
ti prego, ti supplico; non cercare di trattenerla con la forza, impara
dai tuoi
errori e cerca di non ripeterli.»
«Chi
vi ha nominato voce della mia coscienza, madame?»
Sibilò l’uomo, incapace di
trattenere oltre la sua rabbia. Sembrò aver deciso che
sfogarsi con la Giry era
assai meglio che non sfogarsi affatto. «Perché
date per scontato che la
tratterrei con la forza? Chi vi dice che non rimarrebbe di sua
spontanea
volontà? Chi vi dice che non mi voglia, dannazione a
voi?»
«Non
sto dicendo questo, né l’ho mai detto»,
si affrettò a chiarire lei, sollevando
le mani come se ciò potesse bastare ad ammansire
l’ira del Fantasma. «Vorrei
solo che tu comprendessi che Giulia ha tutto il diritto di fare le sue
scelte.
Ha il diritto di tornare a casa dalla sua famiglia, di trascorrere del
tempo
con suo fratello, senza che questo stia per forza ad indicare un
disinteresse
nei tuoi confronti. Senza che questo la condanni ai tuoi
occhi!»
Continuavano
a parlare piano per timore di essere uditi al di là del
muro, dai giovani che
si stavano finalmente riprendendo il tempo che avevano perduto.
Benché fosse
forte la tentazione di tacere per udire cosa si stessero dicendo
nell’intimità
del camerino, era altresì impellente il bisogno di discutere
tra loro su quanto
accaduto.
Erik
scrollò le spalle, preda della rabbia, dello sconforto e
dell’angoscia. «So che
la perderei per sempre, se ora se ne dovesse andare», fu la
sua secca
constatazione.
«E
quindi la vorresti obbligare a rimanere con te, se ciò
accadesse?» Sbottò
madame Giry, stringendo le mani fino a graffiarsi con le sue stesse
unghie. «Mio
Dio, la tua paura della solitudine è sempre stata
più forte del tuo buonsenso;
sei un uomo adulto che si comporta come un bambino! Perché
non ti fidi di lei?
Perché non riesci a confidare nel fatto che possa tornare da
te, dopo aver
seguito suo fratello? Non tutte le donne sono come Christine,
Erik», concluse,
senza riuscire a mascherare l’irritazione.
Quel
nome, gettato con così scarsa attenzione in pasto a colui
che un tempo avrebbe
dato la vita per esso, non provocò nessuna reazione da parte
sua se non un vago
fastidio. Egli sapeva perfettamente che nulla legava le due donne se
non un’inquietante
somiglianza fisica, eppure era proprio quello il punto, era donne,
erano vittime
entrambe della propria condizione, della propria mentalità!
Erik non era solito
avere pensieri maschilisti, madame Giry per prima gli aveva dimostrato
che una
donna non era solo un grazioso accessorio che adornava la dimora di un
uomo,
però… Però non poteva fare a meno di
credere che anche Giulia, avendone la
possibilità – nel suo caso rappresentata da suo
fratello – avrebbe potuto
abbandonarlo per preferire una vita tranquilla, serena e che non la
legasse
eternamente a un uomo dal passato oscuro e dal futuro incerto.
Ignorando
dunque quell’accenno alla sua antica fonte di gioia e
disperazione, Erik si volse
ad osservare madame Giry. «Forse Giulia è diversa
da Christine, ma io sono
sempre lo stesso fantasma di quattro anni fa»,
affermò piano, con voce pacata,
terribile, e un’espressione spietata in volto. «E
se, Dio non voglia, qualcosa
dovesse andare storto… Allora sì, sarebbe una
tragedia per parecchi membri
della razza umana.»
Il
tono con cui lo disse ebbe il potere di far rabbrividire
l’anziana insegnante
di danza fin dentro alle ossa, accrescendo il pallore sulle sue gote
scarsamente truccate. «Erik… Permettimi di
domandarti una cosa», bisbigliò,
sperando, con quanto stava per dire, di non ravvivare la sua collera. A
un
breve cenno affermativo dell’uomo, Louise sospirò,
poi chiese: «Lei… Giulia… Ha
mai detto di ricambiare i tuoi sentimenti?»
Egli
si irrigidì, continuando a darle le spalle, ma non rispose;
il suo silenzio fu
sin troppo eloquente.
Madame
serrò gli occhi, gemendo silenziosamente. Come
temevo, pensò.
Tuttavia
non ebbero l’opportunità di proseguire la loro
discussione; la porta del
camerino si aprì, e sulla soglia apparve il volto
stranamente pallido del
ragazzo – Jean-Louis, se madame non rammentava male
– che fissò entrambi come
se li vedesse per la prima volta – o meglio, come esseri
spaventosi venuti
fuori dai suoi incubi più orrendi. Cosa diavolo era successo
là dentro in tutto
quel frattempo?
La
sua voce, bassa e cauta, ruppe il silenzio. «Giulia vorrebbe
parlare con tutti
quanti, adesso», riferì, senza staccare gli occhi
sospettosi da loro.
Madame
Giry si alzò e, dopo aver scambiato uno sguardo veloce ad
Erik, si diresse
verso il camerino. L’uomo alle sue spalle, minaccioso nel suo
strano
travestimento del quale non si era ancora liberato, evitò
accuratamente di
fissare Jean-Louis, e una volta che entrambi ebbero attraversato la
soglia al
ragazzo non rimase che raggiungerli.
_________________________________________________________________________________________________________
[*] Per chi
non lo ricordasse, mademoiselle
Sophie de Vries
appare per la prima volta nel Capitolo
6, e viene
poi nominata di nuovo nel Capitolo
16 come sostituta di Giulia; lo dico perché ho
deciso solo recentemente di darle un ruolo specifico, cosa che
all'epoca di quei capitoli non era prevista.
_________________________________________________________________________________________________________
Angolo
Autrice:
Ringrazio
la mia adorata kenjina, alfabetaomegareader di
fiducia, senza la quale non sarei riuscita a finire di scrivere questo
capitolo neppure entro quest'estate; ringrazio inoltre Ellyra e Puliksweet per aver recensito lo scorso
capitolo, nonché tutti i lettori silenziosi che continuano a
seguire questa mia odisseica avventura - grazie mille a tutti, senza di
voi avrei smesso di scrivere tanto tempo fa! ;)
Detto questo, vi
lascio con la promessa di ritornare al più presto con il
prossimo capitolo - anche se devo avvertirvi che sento che ci
vorrà del tempo, non è un capitolo facile da
scrivere. Scopriremo comunque che cosa Giulia avrà deciso di
fare e soprattutto come reagirà nel rendersi conto di essere
finita in un'altra epoca: si accettano suggerimenti e ipotesi!
Baci e abbracci a tutti, affettuosamente vostra
Niglia.
|
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Capitolo 31 *** 29. Forgive me, I beg you, if you can ***
Chapitre 29 - Forgive me [...] EFP
Chapitre
29
Forgive
me, I beg you, if you can
Quando
Erik e madame Giry avevano lasciato soli i due fratelli, uscendo
discretamente
nel corridoio e richiudendo la porta alle loro spalle, Giulia si era
finalmente
sentita in grado di poter riprendere a respirare normalmente.
Era
piuttosto sconvolta dagli ultimi avvenimenti –
l’improvviso ritorno della sua
memoria, con tutto ciò che ne conseguiva, l’aveva
lasciata confusa e
disorientata, incapace quasi di avere una reazione normale. Solo la
presenza di
suo fratello le aveva impedito di avere un attacco di panico, e le mani
familiari che stringevano le sue avevano avuto il potere di tenerla
ancorata a
quell’assurda realtà: se dunque non stava
sognando, allora si trovava davvero
in un’epoca differente da quella nella quale era nata e
cresciuta? Come diavolo
era possibile? Certe cose non potevano accadere sul serio, sarebbe
stato più
opportuno che rimanessero nell’ambito della fantasia di
qualche scrittore
troppo visionario! Eppure, come ormai rammentava quello che era stata
la sua
vita prima dell’amnesia, così ricordava
chiaramente anche tutto ciò che era
accaduto da quel momento in poi, a partire dal risveglio a casa di
madame Giry
per concludere con la festa in maschera, prima che incontrasse
Jean-Louis.
Ma
il fatto che ricordasse ogni cosa non rendeva la situazione
più facile da
accettare. Senza contare che, ora come ora, non poteva neppure
prendersi del
tempo per riflettervi, visto che suo fratello scalpitava per saperne di
più – e
anche il suo desiderio di ricevere spiegazioni era più che
lecito. Dio santo,
da quanto tempo mancava da casa? Il suo malessere, fisico e mentale,
era tale
che avrebbe sicuramente rigettato l’anima se solo avesse
avuto lo stomaco pieno
– grazie a Dio non aveva mangiato niente dal pomeriggio.
Quando
la porta si richiuse dietro Erik e madame Giry, Giulia si
voltò verso suo
fratello e lo guardò provando subito un immediato conforto.
In quel momento
tutto ciò che desiderava era stringersi a lui, e
così fece, ma mentre le
braccia di Jean-Louis le circondavano le spalle tremanti, la
lucidità del
ragazzo ebbe la meglio – c’era ben altro da fare
che limitarsi a consolare la
sorella.
«Allora,
Jules, non c’è
niente che devi dirmi?»
Esordì, sciogliendosi gentilmente da quella stretta e
scostandosi il tanto
necessario per poterla guardare negli occhi. Per quanto gli dispiacesse
vederla
così pallida e scombussolata, aveva bisogno di capire che
cosa stesse
succedendo per poi potersi comportare di conseguenza.
A
Giulia scappò un gemito a metà tra il singulto e
la risata isterica. «Da dove
vorresti che cominciassi?» Fece, prendendo nuovamente il
bicchiere colmo
d’acqua zuccherata e sorbendone un sorso. «Non lo
so neppure io che cosa sia
successo.»
Jean-Louis
decise di andarle incontro. «Quella signora stava dicendo
qualcosa a proposito
di un’amnesia. Hai perso la memoria?
Cos’è questa storia?»
«Ti
ripeto che non lo so», insisté lei, aggrottando la
fronte. «I miei primi
ricordi in questo posto riguardano il mio risveglio a casa di madame
Giry, e
nient’altro. Credo, però, di essermi ammalata
quando ero in quelle gallerie
dietro lo specchio, e sono svenuta, e forse è stato quello a
farmi perdere la
memoria…»
«Aspetta
un momento», la interruppe lui, perplesso. «Stai
parlando dello specchio che c’è
in quel camerino abbandonato?»
Giulia
annuì, lo sguardo assorto nel fissare un punto indefinito
del pavimento. «Madame
Sindial mi aveva lasciato da sola nel camerino perché doveva
spostarsi un
attimo, e a quel punto mi sono messa a gironzolare… E ho
scoperto che lo
specchio nasconde un passaggio segreto, una galleria. Sono
entrata… Non so
perché l’ho fatto, ero curiosa, mi
conosci… Solo che poi corridoi e cunicoli e
gallerie buie e strette si intersecavano le une con le altre,
all’infinito, e
mi sono persa. Era un labirinto! Allora ho chiamato aiuto, ho gridato,
ma
dovevo essere troppo lontana dai piani abitati del teatro, e nessuno mi
ha
sentito. Sono entrata nel panico e ho smesso di camminare, sedendomi
per terra:
speravo che qualcuno mi trovasse, ma poi mi sono
addormentata… E mi sono
risvegliata a casa di madame Giry.»
Il
ragazzo non trovava così assurdo quel racconto, dato che era
grosso modo ciò
che era capitato anche a lui – con la differenza che sua
sorella aveva avuto la
fortuna sfacciata di imbattersi in una o più persone che
conoscevano abbastanza
bene quei sotterranei da trovarne facilmente l’uscita.
«Questo significa che
qualcuno ti ha tirata fuori da lì», intervenne.
«Non sai chi è stato?»
Certo
che lo sapeva, glielo aveva confessato egli stesso forse
l’unica volta in cui
avevano davvero discusso . «È stato
Erik», mormorò, sentendo il proprio cuore
accelerare i battiti al solo pensiero dell’uomo.
Erik. Tutti i ricordi che aveva
riguardo gli ultimi due mesi vertevano intorno a lui. E per quanto si
sforzasse
non poteva di certo dire che fossero ricordi negativi, anzi! Purtroppo,
alla
luce delle ultime novità della serata, lo strano rapporto
che la legava all’uomo
poteva essere una grossa complicazione; sapeva che Erik era molto
legato a lei,
che la desiderava, che, Dio santo,
probabilmente persino l’amava!, ma questo come poteva
influire sulla terribile
realtà che avevano appena riscoperto? Giulia non apparteneva
a quel mondo, a
quell’epoca – e doveva ancora capire come accidenti
le fosse capitata una cosa
simile – chissà che cosa sarebbe potuto accadere
se fosse rimasta! E poi, come
poteva anche solo prendere in considerazione un’idea del
genere? Come poteva
fare questo a suo fratello, a sua madre, a suo padre?
«Erik
è l’uomo che era qui?» Volle sapere
Jean-Louis, aggrottando le sopracciglia. «Non
mi piace molto, quel tipo. Ha qualcosa… Qualcosa di
inquietante. E non si è mai
tolto quella maschera… Cristo, sembra pericoloso.»
Se
non fosse stata ancora sotto shock, probabilmente Giulia sarebbe
scoppiata a
ridere: oh, se solo avesse saputo quanto
poteva essere pericoloso! Se solo fosse stato a conoscenza della
metà delle
cose che i più superstiziosi andavano raccontando su di lui
– no, meglio, sulla
leggenda del Fantasma dell’Opera – cose che
purtroppo non si discostavano poi
tanto dalla realtà!
Ad
ogni modo lei si limitò ad annuire, raddrizzandosi del tutto
e mettendosi a
sedere: non sopportava di rimanere ancora sdraiata come se fosse
malata.
Dovette però tener fermo il corpetto del vestito per evitare
che scivolasse,
denudandola, giacché i lacci che le avevano allentato adesso
non fungevano più
al loro scopo. Evitò di chiedere a Jean-Louis di
risistemarglieli, perché
dubitava che il ragazzo ne sapesse qualcosa di moda femminile
ottocentesca.
«Stai
attento a come parli di lui, Jean. È pur sempre un mio
amico», gli intimò
Giulia piuttosto seccamente, poggiando la schiena contro la spalliera
della
chaise-longue e impedendo così al vestito di abbandonarla. Un amico… Non era esattamente
una definizione appropriata, ma non
c’era bisogno che Jean-Louis venisse a conoscenza di ogni
cosa e subito: c’era
altro di cui discutere, argomenti che premevano maggiormente e
influivano sulla
loro situazione attuale.
Poiché
la ragazza sembrava infastidita da come il fratello aveva parlato di
quello
strano individuo, egli decise di cambiare argomento. «Non
credo di averlo mai
visto prima, qui al teatro», fece, pensieroso.
«Sembra una persona importante,
ma me ne ricorderei se l’avessi già
visto… Comunque, questo non mi ha ancora
chiarito per quale diavolo di motivo non ti abbiano riportato a casa
quando abbiamo
denunciato la tua scomparsa. Insomma, sei stata a Parigi per tutto
questo
tempo, no? Anche se non ricordavi chi eri, quella madame Giry ti
avrebbe dovuto
riconoscere dalle tue foto apparse sui giornali o alla televisione.
Cos’è,
volevano dei soldi?»
A
quel punto, Giulia fissò il fratello con uno stupore misto
ad angoscia. «Che
cosa stai dicendo?» Sbottò piano, timorosa quasi
di alzare la voce. «Allora non
hai capito proprio niente?»
Jean-Louis
sembrò irritato da quel tono. «Che cosa non avrei
capito?»
La
ragazza imprecò, come solo una giovane del ventunesimo
secolo avrebbe potuto
fare. «Accidenti, Jean, non siamo più nella nostra
Parigi», mentre parlava, sia
la sua voce che la sua espressione sembrarono palesemente disperate.
Sembrava
che non trovasse parole per dirle chissà quale tremenda
verità… Ma cosa poteva
mai esserci di tanto orribile? «Questa
è… ah…
noi…» Un’altra imprecazione, poi Giulia
distolse lo sguardo dal fratello
incapace di reggerlo mentre scagliava le ultime parole.
«Siamo nel
diciannovesimo secolo. Per la precisione, nel
milleottocentosettantotto.»
Lui
la fissò come se fosse appena impazzita. «Devi
aver sbattuto la testa piuttosto
forte quando sei svenuta, prima», fu tutto ciò che
riuscì a dire il ragazzo,
inarcando un sopracciglio. Non aveva neppure finto di prenderla sul
serio, e
sinceramente ne aveva abbastanza – la situazione era
già degenerata fin troppo.
Tuttavia,
la sua uscita gli fece guadagnare un doloroso pugno sul braccio.
«Diamine,
credi che ti stia prendendo in giro? Non ti sei accorto di niente
quando sei
sbucato in mezzo alla festa, eh?» Sibilò lei senza
riuscire a trattenere del
tutto la rabbia. «Non sono una bugiarda, accidenti, lo sai
che non ti prenderei
mai in giro così, specialmente in un momento come
questo!»
«Oh,
Giulia, smettila per favore», proruppe Jean-Louis, alzandosi
con una smorfia
scocciata e facendo qualche passo nel piccolo camerino. In tre falcate
l’ebbe
attraversato tutto e dovette voltarsi nuovamente verso di lei.
«Preferisco che
tu mi dica che sei voluta scappare di casa e che non hai intenzione di
tornare
indietro, piuttosto che rimanere qui ad ascoltare le tue stupidaggini e
a farmi
trattare da stupido. Dopo tutto quello che ho passato per venirti a
cercare,
poi!»
«Sei
tu che ti stai comportando da stupido!» Ribatté
lei, facendo attenzione a non
alzare troppo il tono di voce; non voleva che Erik o madame Giry li
udissero
litigare dal corridoio. «Guardati intorno! Vedi qualcosa che
ti ricordi il ventunesimo
secolo? Vedi interruttori per la corrente elettrica? Vedi dei
cellulari? No!
Guarda, Jean, quella è una lampada a petrolio, petrolio! E guarda su quel tavolino
– non ci sono penne a sfera, ma
calamai e piume d’oca! Non ti sto prendendo in giro, per la
miseria!»
Lo
vide passarsi stancamente una mano tra i capelli arruffati, guardarsi
intorno,
sbuffare e ripercorrere nuovamente con gli occhi la superficie della
stanza.
Aveva l’aria distrutta, e sinceramente l’unica cosa
che Giulia voleva fare era
sconvolgerlo ulteriormente dopo tutto quello che sembrava aver passato,
ma era
preferibile che guardasse in faccia la realtà e la
affrontasse subito;
dopotutto lei aveva vissuto in quel luogo, in quel tempo,
per oltre due mesi, e non era impazzita solo perché
l’amnesia l’aveva momentaneamente protetta da una
verità scomoda. Suo fratello,
invece, doveva metabolizzare tutto l’insieme in poche
manciate di minuti,
perché non bisognava dimenticare che oltre la porta vi erano
altre due persone
alle quali dover dare delle spiegazioni.
Alla
fine Jean-Louis sospirò e si sedette sulla sedia occupata
fino a poco prima da
madame Giry. Si prese la testa tra le mani, chiuse gli occhi, e quando
li
riaprì fece un ultimo tentativo. «Mi stai davvero
giurando che non si tratta di
uno scherzo?»
Giulia
scosse la testa, dispiaciuta di non potergli dire diversamente.
«Mi piacerebbe
che lo fosse.»
Forse
fu il modo in cui lo disse, il tono amaro e rassegnato, oppure la luce
nel suo
sguardo, l’atteggiamento serio, la linea sottile nella quale
erano strette le
sue labbra, la leggera ruga di preoccupazione in mezzo agli occhi. Non
le aveva
mai visto un’espressione simile, e fu quello a decidere per
lui: Giulia non
aveva nessun motivo di mentirgli o di prenderlo in giro, inoltre
Jean-Louis era
abbastanza lucido e maturo da rendersi conto di non poter fingere che
tutto ciò
che lo circondava fosse semplicemente il frutto della fantasia della
sorella o
qualche strana allucinazione di cui era vittima. Quello che davvero lo
inquietava, era il fatto che madame Sindial, l’amica di sua
sorella – nonché
l’ex prima ballerina che attualmente insegnava danza
all’Opèra – gli aveva
accennato qualcosa a proposito di un passaggio che collegava due epoche
diverse
all’interno dello stesso teatro; non aveva idea di come
facesse l’anziana donna
a essere a conoscenza di quella che, a quanto pareva, era la
verità, ma ciò di
cui era certo era che non avrebbe mai più dubitato di simili
racconti. Chissà,
forse era vera anche quella storia del fantasma…
Quel
pensiero, stranamente, lo fece rabbrividire.
«Forse
è meglio se facciamo rientrare madame Giry ed
Erik», dichiarò Giulia a mezza
voce, iniziando a giocherellare con i guanti che aveva appena finito di
sfilarsi. «Bisogna dirlo anche a loro, e forse madame
potrebbe sapere qualcosa,
dovremmo provare.»
Jean-Louis
la fissò, scettico. «Io non parlerei di viaggi nel
tempo e cose simili con una
persona del diciannovesimo secolo. Non c’è la
tendenza ad accusare di
stregoneria chiunque per qualsiasi cosa, in questo secolo?»
Borbottò
preoccupato, alzandosi per l’ennesima volta e dirigendosi di
malavoglia alla
porta.
«Non
siamo mica nel Medioevo, Jean», ribatté lei,
roteando gli occhi. «Qui le
persone temono molto di più i fantasmi delle
streghe», aggiunse, con un pallido
tentativo di scherzare.
Purtroppo,
però, l’argomento spiriti e affini non doveva
essere particolarmente gradito a
suo fratello, che le dedicò uno sguardo allarmato e nervoso
insieme ad un viso
improvvisamente cereo; diamine, Giulia aveva pensato che Jean
l’avrebbe presa
meglio di così – non poteva di certo sapere che
anche il ragazzo era venuto più
o meno a conoscenza della cupa vicenda del Fantasma
dell’Opera.
***
«Giulia vorrebbe parlare con tutti quanti,
adesso.»
Pareva
che i due non stessero aspettando altro. Rientrarono nuovamente nel
camerino,
ma benché Giulia avesse fatto cenno ad entrambi di sedersi,
solo madame Giry
accolse quel suggerimento; Erik rimase in piedi, al centro della
stanza,
laddove la sua presenza cupa e spaventosa incrementava il disagio di
Jean-Louis
e l’imbarazzo della sorella.
Con
un profondo respiro e una lieve incertezza, la giovane prese la parola.
«Premetto
che sarà molto difficile credere a quanto sto per dire, ma
vi prego di fidarvi
e di lasciarmi finire senza giudicarmi pazza»,
esordì, spostando lo sguardo da
Erik a madame Giry e viceversa. Jean-Louis le posò una mano
sulla spalla,
stringendola appena come a volerle infondere forza e coraggio, ma tutto
ciò che
ottenne fu una severa occhiataccia da parte dell’uomo
mascherato.
«Puoi
parlare liberamente di tutto ciò che desideri, mia
cara», replicò Louise Giry,
chinandosi per prenderle una mano tra le sue in un gesto di conforto.
«Nulla di
quello che dirai lascerà questa stanza.»
Giulia
annuì e accennò un breve sorriso, che
svanì altrettanto rapidamente. «Ho motivo
di credere che qui a teatro vi sia una stanza dalle doti… particolari»,
incominciò, sentendo sfumare ogni risolutezza man
mano che continuava a parlare. Esisteva un modo giusto per affrontare
tali
argomenti? «Una cara amica amava intrattenere me e sua figlia
raccontandoci
strane leggende riguardante l’Opèra, e una di
queste parlava di un camerino
abbandonato, che lei chiamava la loge
perdue, che a quanto pare aveva la strana caratteristica di
essere un
passaggio temporale per un’altra epoca. Sembra che il
progettista del teatro,
monsieur Garnier, per creare un monumento che soddisfacesse le
aspettative dei
sovrani, avesse stretto un patto con un qualche essere diabolico che
aveva
impiantato poi la sua essenza mefistofelica nelle fondazioni stesse
dell’edificio, rendendolo così ancora
più maledetto di quanto non sia diventato
col tempo.»
La
giovane si interruppe per riprendere fiato, sentendosi le guance in
fiamme
dall’imbarazzo di stare narrando una storia che aveva a dir
poco
dell’incredibile. E gli sguardi di madame Giry ed Erik,
perplesso il primo e imperscrutabile
il secondo, di certo non l’aiutavano nel dissipare le sue
insicurezze.
«Quello
che sto cercando di dirvi…» Riprese, distogliendo
gli occhi da loro e posandoli
su suo fratello che, per tutta risposta, accennò un breve
sorriso di
incoraggiamento. «È che io non appartengo al
vostro tempo. Non sono nata in
quest’epoca, ma nel ventunesimo secolo. Centododici anni a
partire da adesso...
Sono arrivata qui grazie a quel passaggio, e credo che sia stato lo
sbalzo
temporale, diciamo così, a causarmi
l’amnesia.»
Il
silenzio che seguì quella tremolante confessione fu greve e
opprimente.
Jean-Louis continuò a tenerle una mano sulla spalla e ad
accarezzarla piano per
infonderle inutilmente sicurezza, ma lei era molto più
preoccupata per le
reazioni, o l’assenza di esse, rispettivamente di Erik e
madame Giry. Perché
l’uomo continuava a fissarla senza dir niente, senza neppure
far intendere se
la riteneva folle o altro? Alla luce degli ultimi avvenimenti, ella non
sapeva
bene cosa desiderare: voleva che il fantasma,
dopo quanto aveva appena udito, la lasciasse andare senza alcuna
remora, oppure
che insistesse per saperne di più, che manifestasse,
perlomeno, un interesse
più profondo?
L’intervento
di madame Giry la costrinse tuttavia a spostare il fulcro dei suoi
pensieri su
di lei.
«Giulia,
ma chère, ti rendi conto
di quello
che stai dicendo?» Fece l’insegnante di danza, con
una strana prudenza nel tono
di voce che lasciava presagire il sospetto e la preoccupazione che
sicuramente
colmavano il suo animo. «Credi che una cosa del genere possa
anche solo
lontanamente essere possibile?» Insisté,
aggrottando la fronte con
inquietudine. Louise era sinceramente affezionata alla giovane, questo
non si
metteva in dubbio, eppure non poteva fare a meno di pensare che forse
l’amnesia
le aveva procurato delle conseguenze assai più gravi di
quelle che aveva
prospettato il dottore. Insomma, non voleva nemmeno pensarlo,
ma… Era diventata
pazza?
Giulia
sospirò – aveva messo in conto di non essere
creduta ciecamente, anzi, si
sarebbe stupita del contrario – e si preparò a
rispondere con più precisione
possibili a tutti i quesiti, più che legittimi, della donna
che l’aveva accolta
in casa propria come una figlia senza mai fare domande. Tuttavia Erik
non glielo
permise; l’uomo era già alquanto seccato e
infastidito per il fatto di non
essere stato messo al corrente in prima persona di quegli sviluppi, e
qualsiasi
altra cosa la giovane dovesse aggiungere egli era dell’idea
che dovesse farlo
solo ed esclusivamente con lui. Gli altri erano dei semplici effetti
collaterali che, per il momento, potevano essere trascurati e messi da
parte,
ma lui – lui, Cristo
santo, non
faceva parte di quelli.
«Madame
Giry, portate il ragazzo fuori e lasciateci soli»,
ordinò pertanto, con un tono
gelido che non lasciava chiaramente spazio ad alcuna opposizione. La
sua voce
fece sobbalzare gli altri tre occupanti del camerino, che finalmente
gli
dedicarono l’attenzione che meritava.
La
donna chiamata in causa parve piuttosto seccata. «Anche io ho
il diritto di conoscere
questa storia, Erik, non puoi mandarmi via»,
sbottò, lanciandogli un’occhiata
truce.
«Sono
sicuro che il giovane qui presente sarà in grado di
spiegarvi la situazione tanto
quanto Giulia», ribatté il fantasma, per nulla
disposto a cedere. Osava davvero
mettere in discussione un suo ordine, e nel suo
teatro per giunta? A quel punto la ragazza si sentì in
dovere di intervenire,
impedendo che l’atmosfera si facesse ancora più
tesa.
«Infatti.
Jean, per favore, accompagna madame fuori e raccontale tutto
ciò che vuole
sapere», esordì, alzandosi e spezzando ogni legame
fisico con il fratello; così
facendo era riuscita inconsapevolmente a placare parte del nervosismo
di Erik,
che continuava a non essere del tutto contento della presenza di
Jean-Louis di
fianco alla sorella.
Al
pari di madame Giry, neppure Jean-Louis sembrò molto
contento di quella
decisione. «Sei sicura di voler rimanere da sola con lui?» Mormorò a
mezza voce, chinandosi sull’orecchio della ragazza
senza sapere che l’udito di Erik era sviluppato come quello
di un predatore.
«Mademoiselle
non ha nulla da temere da me», sibilò, stringendo
così forte i pugni al punto
che il cuoio dei suoi guanti scricchiolò, minaccioso.
«Quanto a voi, forse
dovreste badare maggiormente a ciò che vi esce di
bocca.»
Jean-Louis
strinse gli occhi, ma per rispetto della sorella e per amore del quieto
vivere preferì
non ribattere. «Se hai bisogno, chiama», le disse,
chinandosi su di lei fino a
posarle un bacio sulla guancia in un punto pericolosamente vicino alla
bocca.
Il gesto la sorprese, ma in quel momento non volle approfondire la
questione. Una cosa per volta, si
ripeté
silenziosamente, agitata.
Madame
Giry uscì per la seconda volta dalla stanza, ma non ci
voleva certo un genio
per capire quanto poco le fosse piaciuto essere congedata in quel modo;
senza
contare che ciò che aveva appena scoperto, se aveva anche
solo un fondo di
verità, allora faceva crollare tutte le sue convinzioni come
il vento fa con un
castello di carte… Se davvero Giulia proveniva da un altro
luogo, allora
com’era mai possibile che potesse esserci un qualche legame
con la famiglia
Daaè? Forse era solo il vaneggiamento di
un’anziana povera donna che voleva
trovare ad ogni costo la sua nipote perduta appena prima di morire?
All’incirca
allo stesso modo si sentiva Jean-Louis, che da parte sua non riusciva a
stare
tranquillo all’idea di lasciar sola sua sorella in compagnia
di quell’uomo.
Purtroppo, in quel luogo e in quel tempo che non gli appartenevano, lui
non
godeva di nessun particolare privilegio, e doveva pertanto rassegnarsi
a
lasciare le decisioni a chi di dovere. Almeno fino a quando non avesse
riportato Giulia a casa.
Il
tonfo dell’uscio che si richiudeva si portò via
gli ultimi residui di coraggio
della ragazza. Si lasciò ricadere sull’ottomana
con un sospiro e strinse le
dita sulla stoffa arricciata del suo abito, indifferente al fatto che
quest’ultimo
si fosse ormai completamente aperto sulla schiena. Finalmente lei e
Erik erano
faccia a faccia, ma egli continuava a tacere e lei, da parte sua, non
aveva
idea di cosa dire per iniziare la conversazione. Alla fine, con un
ultimo
sforzo di volontà, sollevò gli occhi su di lui e
parlò.
«Tu
non mi credi», esordì, con voce piatta e tono
rassegnato.
Erik
prese una sedia e l’avvicinò al divanetto che
stava occupando lei, sedendole di
fronte e così vicino che le sue gambe toccavano la gonna del
suo vestito. A
quell’improvvisa vicinanza lei
s’irrigidì e si ritrasse appena,
giacché non
aveva idea di cosa aleggiasse nella mente dell’uomo.
«Mi
hai mai mentito, Giulia?» Le chiese invece con
un’espressione tremendamente
seria, sorprendendola con quel cambio d’argomento.
«C’è stato un solo momento,
da quando ci conosciamo, in cui tu non mi hai raccontato la
verità?»
Con
le sopracciglia aggrottate dalla perplessità, Giulia scosse
appena il capo. «No,
mai», rispose, sincera.
«Allora
non ho nessun motivo di credere che lo stia facendo proprio
adesso», ribatté
lui, chinandosi leggermente verso la ragazza. «Inoltre non
sono sicuro che sia
possibile inventare una storia del genere e riuscire a raccontarla
senza
battere ciglio, se non fosse vera. Per cui, volendo aggiungere
l’ovvio, sì, ti
credo.»
Ella
non sapeva bene come prendere quella dichiarazione totale e spassionata
di
fiducia. «Mi… mi fa piacere»,
mormorò, con cautela. «Allora, comprenderai
benissimo anche il mio desiderio di tornare a casa.»
«È
questa casa tua», la contraddisse subito Erik, la voce
nuovamente gelida e
spaventosa.
Adesso
Giulia comprendeva il motivo per cui l’uomo si era avvicinato
a lei così tanto
– voleva impedirle di alzarsi e sfuggire al suo sguardo che
l’incatenava a lui
senza scampo!
Fu
per questo che chiuse gli occhi, prima di posarli su qualche punto meno
temibile. Quando riprese a parlare, si sforzò di rendere il
proprio tono di
voce pacato e condiscendente, in modo che non fosse possibile
contestare quanto
stava per dire. «No, non lo è»,
ribatté piano, sperando di riuscire a farlo
ragionare; doveva cercare di raggirarlo in qualche modo,
perché se avesse
commesso l’errore di prenderlo di petto non sarebbe
più riuscita a tirarsi
fuori dalla quasi certa discussione che ne sarebbe seguita.
«La mia presenza
qui è un terribile errore, Erik. Cose simili non dovrebbero
capitare, e io non
avrei dovuto interferire con gli eventi di questo tempo come invece ho
fatto
finora, seppur inconsapevolmente. Protrarre oltre la mia permanenza
può solo
peggiorare le cose!»
«Io
invece non trovo niente di catastrofico nella tua vita qui»,
smentì l’uomo,
stringendo gli occhi al di sotto della terribile maschera che ancora
indossava.
«Al contrario, se avessi una qualche fede potrei dire che il
tuo arrivo è stato
provvidenziale. Senza di te, che cosa sarei diventato? Hai una vaga
idea di ciò
che significhi tu per me? Mi hai salvato in tutti i modi in cui potevo
essere
salvato…»
«Per
favore, non parlare così», lo interruppe
angosciata, distogliendo lo sguardo da
lui.
Ma
Erik, sicuro di essere vicino a farla cedere, allungò le
mani per prendere le
sue in una morsa gentile ma risoluta, come se toccandola potesse
trattenerla in
eterno al suo fianco. «Sì invece, ti
parlerò proprio in questo modo»,
insisté,
con quella sua splendida roca dolcezza. «Ormai dovresti aver
capito che il mio
amore per te va oltre il mio stesso bisogno di respirare.
Sì, io ti amo, ti
amo, lo dico e lo ripeto perché mai, mai avrei immaginato
che sarebbe giunto un
giorno in cui avrei potuto ripetere queste parole… E anche
tu, non negarlo!,
anche tu provi lo stesso per me. Lo so, lo capisco da come mi guardi,
da come
mi tocchi… Da come non mi rifiuti pur sapendo
l’orrore che cela questa
maschera! Sposami», aggiunse con un improvviso salto
pindarico, come illuminato
da un’idea meravigliosa. «Oh, sposami, Giulia!
Così apparterrai finalmente a
questo mondo e non proverai più il bisogno o la
necessità di andartene…»
«Oh
mio Dio», esclamò lei interrompendolo, stupita e
inequivocabilmente furiosa. Si
alzò dal divano con tanta sollecitudine da inciampare nei
suoi stessi piedi, ma
malgrado ciò riuscì ad allontanarsi
frettolosamente e a raggiungere il lato
opposto della stanza. «Non riesco a credere che saresti
capace di ricorrere ad
un espediente così subdolo pur di trattenermi qui e
impedirmi di tornare a casa
dalla mia famiglia!»
«Un
espediente?» Ripeté Erik, alzandosi a sua volta e
cambiando repentinamente tono
di voce. «Un espediente! Credi che ti voglia al mio fianco
solo per una
contorta mania di possesso? Era solo questione di tempo prima che te lo
chiedessi… D’altra parte, non è questo
quello che fanno tutti gli esseri umani?
Non si sposano, forse, quando sono innamorati?»
«Beh,
perdonami se il matrimonio non rientra nei miei progetti per
l’immediato futuro»,
scattò lei, afferrando il bordo di marmo del mobiletto da
toilette e evitando
di posare lo sguardo sullo specchio sovrastante, che le avrebbe rivolto
soltanto l’immagine di Erik che troneggiava alle sue spalle.
«E poi, non è una
decisione che posso prendere così, su due piedi, quando qui
fuori ho un
fratello che ha fatto di tutto per venirmi a cercare, e che di certo
non si
merita di essere rimandato indietro solo così come
è venuto! Ho già abbastanza
problemi da dover affrontare tutti insieme, senza dover aggiungere
anche
questo.»
«Quest’altro
problema di cui parli sarei io?» Ringhiò
l’uomo, raggiungendola in poche
falcate e afferrandole un polso per costringerla a voltarsi e
fronteggiarlo. «Ah,
quindi evidentemente è questa la verità. Tu non
mi ami! Se mi amassi, mi
vorresti sposare; se mi amassi, non proveresti questo ardente desiderio
di
andartene e lasciarmi; se mi amassi, questa discussione non starebbe
nemmeno avendo
luogo!» Continuò, alzando progressivamente il tono
di voce.
Dibattendosi
per cercare, inutilmente, di sciogliersi dalla sua stretta, Giulia
gemette spazientita.
«Ti ascolti mai quando parli, Erik?»
Sibilò eguagliando la sua furia, mentre
cercava di trattenere le lacrime di dolore – aveva il polso
immobilizzato nella
morsa della sua mano. «Sembri un bambino viziato che batte i
piedi per terra
per avere il suo giocattolo preferito. Allora, lascia che ti dica io
una cosa!
Se tu mi amassi davvero,
così come
professi con tanta passione, mi lasceresti andare!»
Dopo
che ebbe pronunciato quelle parole, Erik la lasciò andare
tanto bruscamente da
farle perdere l’equilibrio, come se il tocco della sua pelle
lo avesse
ustionato. Anche malgrado la maschera che gli copriva interamente il
volto,
l’espressione inorridita e colpevole che inondò i
suoi occhi mentre
indietreggiava da lei la lasciò ancora più
sorpresa e perplesse di quell’ultima
discussione. Cosa mai aveva detto per poterlo turbare così
tanto?
Infine,
giunse anche la risposta a quel quesito. «Ho già
fatto una volta quell’errore»,
disse in un flebile mormorio, a voce talmente bassa che Giulia fece
fatica a
comprenderlo. «Ma perché devo essere sempre io a
fare i sacrifici più terribili?
E non è forse una delle prove più stupide, quella
di rinunciare per sempre all’oggetto
della propria adorazione, del
proprio desiderio, per far sì ch’esso comprenda la
sincerità di tale
sentimento? Il mio amore per te diventerebbe reale solo se rinunciassi
ad
averti? Maledizione!»
L’imprecazione
sgorgò dalle sue labbra con una furia tale da farla
rabbrividire. Le mani
guantate dell’uomo si strinsero sulle sue spalle nude,
afferrandole con forza
senza badare al dolore che così le infliggeva.
«Stavolta non andrà così, non lo
permetterò», insisté, la voce ridotta a
un roco ruggito. «Puoi scrivere una
lettera per i tuoi genitori senza bisogno di andare da loro,
sarà tuo fratello
a consegnarla. Vedi? Potrebbe essere un buon compromesso...»
«Ma
io non voglio fare compromessi, io voglio tornare a casa, voglio
abbracciare i
miei genitori, voglio vederli!» Proruppe ancora una volta la
ragazza, ormai del
tutto esasperata. «Non capisci che non li vedo da
più di due mesi? Che sento la
loro mancanza?»
Ecco,
la realtà era proprio quella, lui
non
capiva. Non comprendeva quel bisogno primordiale di stare con
la propria
famiglia, per il semplice motivo che lui, sin da quando poteva
ricordare, ne
aveva dovuto fare a meno. E a quel punto, crescere in completa
solitudine,
senza conoscere le proprie origini, senza avere radici, come se fosse
stato una
creatura delle fiabe portata in questo mondo dal demonio, lo aveva reso
cinico
e insensibile davanti a coloro che invece professavano con tanta
veemenza un
falso affetto per la famiglia. In alcuni momenti aveva dubitato persino
del
sentimento che madame Giry nutriva per sua figlia! E come gli si poteva
dar
torto, d’altra parte? Come si poteva far cambiare idea a un
uomo il cui unico
ricordo della propria madre era quello di una donna disperata che gli
gettava,
tra le lacrime, la sua prima maschera?
No,
Erik non capiva, e non provava neppure il desiderio di farlo. Non si
sarebbe
fatto commuovere da un’emozione che non conosceva,
soprattutto se
quell’arrendersi gli avrebbe fatto perdere Giulia.
«Queste
sono solo patetiche scuse che stai avvallando per cercare di farmi
cedere»,
sibilò alla fine, liberandola nuovamente dalla sua presa.
«Ebbene, io non
cederò! Non anche stavolta, non… non
così. Non mi arrenderò all’idea di non
poterti avere, per cui sappi che, se mi vedrò costretto,
arriverò a usare la
forza pur di impedirti di lasciarmi! Diamine, ti legherò se
necessario!»
«E
mi terresti per sempre prigioniera? Davvero un bel modo di comportarsi
da uomo
civile e assennato, il tuo», ribatté a tono la
ragazza, con un lieve tremito
nella voce. Per quanto si sforzasse di mantenere i nervi saldi,
infatti, era ben
consapevole di trovarsi davanti un uomo che tendeva a mettere in
pratica le sue
minacce; e questo, alla fine dei conti, smorzava il suo entusiasmo.
Aveva
sperato di poter giungere a una soluzione pacata e serena, aveva
creduto di poterlo
far ragionare, ma Erik aveva sconvolto le sue aspettative e
l’aveva disarmata,
con quel suo atteggiamento brusco e prepotente che solo di rado lei
aveva
visto.
«Sai
bene che non saresti prigioniera», la contraddisse con un
improvviso fare
tranquillo. Giulia non si sarebbe mai abituata a quei repentini cambi
di tono e
d’umore.
«Però
non me ne potrei andare», replicò ancora,
l’astio malcelato nella sua voce.
«Ah,
sai essere così testarda!» Proruppe Erik,
spazientito. «Con me non ti
annoieresti di certo, e questo lo sai perfettamente perché
abbiamo trascorso
molto tempo insieme… Dì, hai mai provato il
desiderio di andar via, quando ti ho
portato per la prima volta nella Dimora sul lago?»
«Stiamo
parlando di due cose completamente diverse, e tu lo sai.»
Senza più sapere
quali carte giocare, Giulia si portò una mano a massaggiarsi
con stanchezza le
tempie gelide. Si sentiva infinitamente stanca, non aveva
più voglia di
discutere – ma certo quel dibattito non poteva rimanere
incompiuto.
«Il
principio è esattamente lo stesso»,
precisò lui. Poi le si avvicinò di nuovo e
le prese una mano tra le sue, trattenendola con una stretta stavolta
gentile. «Giulia,
solo io posso renderti felice. Io ti
renderò felice, lo sai, non puoi negarlo. Non hai
bisogno di tuo fratello,
o dei tuoi genitori… Loro fanno parte del passato, ma io sono il tuo presente e il tuo futuro.
E quando avrai accettato
di sposarmi, e di appartenere per sempre a me,
com’è giusto che sia… Allora
sì
che il nostro amore sarà al suo culmine! Sarò io la tua famiglia. E se la tua
è solo paura di dover vivere il
resto della tua vita nei sotterranei di un teatro, come un ciarlatano,
nel
doppiofondo di una scatola… Ebbene, non preoccuparti! Ho
acquistato una casa,
una bellissima casa con un giardino, e porte, e finestre, come
qualsiasi essere
umano, dove potremo andare a vivere tranquilli. Sono certo che ti
piacerà! E
non ti dovrai neppure vergognare di aver sposato un uomo con
metà faccia, perché
tanto nessuno verrà a disturbarci.»
Accennò un mezzo sorriso mentre si portava
la sua mano alle labbra e la sfiorava con un bacio dolce e reverente,
prima di
riprendere la parola abbassando la voce e assumendo il tono che
adotterebbe un
amante sensuale in camera da letto. «Stai arrossendo, ma petite? Posso capirlo. Posso capire
che tu sia intimidita dal
mio impeto, d’altra parte io non sono tanto bravo con le
parole quanto lo sono
con la musica, e ti chiedo scusa… Ma, oh, se mi aprirai il
tuo cuore… Farò di
te una regina!»
Tutto
il discorso del fantasma non ebbe altro effetto se non quello di
accrescere
l’inquietudine e la paura di Giulia che, messa
così alle strette, non aveva
idea di cosa dire per placare l’improvvisa follia
dell’uomo. A voler dire la
verità, si era aspettata più una lite attinente
alla sua impossibilità di
rimanere oltre in quel luogo, piuttosto che dover ascoltare una
proposta di
matrimonio e una simile promessa di adorazione eterna; come gli aveva
già
detto, l’idea di sposarsi era ben lontana dalla sua mente:
era troppo giovane
anche solo per pensare ad una simile eventualità. E di certo
non avrebbe potuto
dire adesso il fatidico sì,
non
quando si stava preparando a lasciarlo… Giacché
era ancora quella la sua
intenzione, dalla quale non si era allontanata fin dal principio. Anzi!
Tutta
la discussione era riuscita a convincerla maggiormente del fatto che
entrambi,
a quel punto, necessitassero del tempo per disintossicarsi
l’uno della presenza
dell’altro – specialmente Erik, a quanto pareva,
dato che sembrava in assoluto
il più stremato. Giulia voleva capire se ciò che
provava per l’uomo – un
sentimento che ancora esitava a chiamare con un nome preciso
– era qualcosa di
reale e sincero oppure se, semplicemente, era dovuto al tempo che aveva
trascorso là e a tutti gli eventi di cui era stata vittima.
Forse gli si era
legata così tanto perché credeva di aver bisogno
di qualcuno che la proteggesse
in quel luogo infido che era il teatro?
Quale
che fosse la ragione, oggettivamente sentiva la necessità di
rifletterci con
calma, alla luce del sole, e soprattutto lontana il più
possibile dall’oggetto
della sua lotta interiore.
Per
questo, con tutto il tatto possibile e la delicatezza di cui disponeva,
ricambiò appena la stretta e si liberò di un
piccolo sospiro. «Erik, stai
farneticando», mormorò con cautela, ancora
piuttosto indecisa, in realtà, se
spaventarsi o infuriarsi per quei vaneggiamenti.
Egli
tuttavia non apprezzò quel commento e la sua stretta divenne
micidiale, tanto
da farla gemere. «Non sto farneticando! Non sono un folle,
dannazione, non è
folle ciò che desidero! Non è folle volere una
moglie buona e rispettabile e
portarla a spasso la domenica, come tutti! Perché dovrebbe
essermi negato
questo tesoro? Cosa diavolo ho fatto per meritare un simile castigo? E
perché
chiunque si arroga il diritto di punirmi per dei peccati che non sono i
miei? Tu
mi sposerai, maledizione, e sarai mia, in un modo o
nell’altro!» Concluse con
un ruggito, piegandosi su di lei e forzandole le labbra con le proprie.
Quell’assalto
improvviso le strappò uno strillo sorpreso e spaventato, che
venne
immediatamente messo a tacere dal bacio imperioso e aggressivo
dell’uomo. Non
fu piacevole, fu doloroso; le fece male il modo in cui le sue mani si
strinsero
sulle sue spalle, lasciandole dei lividi violacei che la ragazza
avrebbe
scoperto solo il mattino seguente, le fece male la sua bocca che
violava la
propria senza dolcezza, le fece male il modo in cui l’uomo le
aveva imposto
qualcosa che lei, in altre circostanze, avrebbe accettato volentieri
con un
sorriso e una carezza.
La
rabbia le fornì la forza sufficiente a scrollarselo di
dosso, ansimante, ma lui
la superava notevolmente in vigore e fu per questo che
continuò a stringerla,
deciso ad ogni costo a non lasciarla andare. Lei lo fissò
accecata
dall’umiliazione, e il suono secco dello schiaffo che
seguì, e che fu per certi
versi inevitabile, parve rimbombare come un tuono
nell’improvviso silenzio che
aveva avvolto la stanza.
Giulia
abbassò lentamente la mano che ora già tremava,
pentita, senza riuscire a
staccare gli occhi da quelli dell’uomo che la fissavano con
uno sgomento tale
da farla indietreggiare.
«Non
osare mai più trattarmi
come se fossi
un oggetto che ti appartiene», scandì gelidamente
a mezza voce, osservandolo
mentre raddrizzava il viso e ricambiava lo sguardo con occhi
fiammeggianti di furore
e collera. «Non ti chiederò scusa per averti
colpito… Te lo sei meritato. Ma
sappi che se anche hai avuto una minuscola possibilità di
potermi convincere a
rimanere, beh, l’hai appena persa.»
Prima
di poter cambiare idea, Giulia indietreggiò lentamente senza
dare le spalle
all’uomo, e solo all’ultimo momento, dopo aver
raggiunto la porta del camerino,
si voltò rapidamente e la spalancò con violenza,
mandandola a sbattere contro
il muro con un colpo secco mentre la richiudeva dietro di sé
e sortiva nel
corridoio. Madame Giry e Jean-Louis, che attendevano gli esiti di quel
faccia-a-faccia con un’ansia che eguagliava solo la
trepidante attesa di un
marito durante il parto della moglie, sobbalzarono sorpresi e
preoccupati nel
vedere l’espressione di rabbia e sdegno che tingeva il viso
della ragazza. Fu
il fratello di quest’ultima a scattare in piedi per primo e a
raggiungerla in
due falcate, già sul piede di guerra
nell’eventualità che l’uomo con il quale
era rimasta da sola per una lunghissima mezz’ora non
l’avesse trattata come
meritava.
Giulia
aprì la bocca anticipando Jean-Louis di pochi secondi.
«Andiamo via, per favore,
riportami a casa», lo supplicò, con la voce che
tremava suo malgrado. Poi,
vedendo che il ragazzo la stava osservando con aria inebetita e
sorpresa, fu
costretta a strattonargli la manica per riscuoterlo e farlo muovere.
«Subito,
Jean!» Insisté.
Madame
Giry, che nel frattempo si era alzata a sua volta, li raggiunse e
bloccò Giulia
posandole una mano sul braccio. «Cos’è
successo con Erik, mia cara? Nulla che
non si possa chiarire, spero…» Disse, cercando
indirettamente di saperne di
più. Odiava crogiolarsi in quel modo nell’attesa e
nell’ignoranza – era troppo
abituata ad avere ogni cosa sotto controllo per poter abbandonare
adesso quella
posizione privilegiata di onniscienza.
«Entrambi
abbiamo bisogno di placare gli animi, madame, ed è una cosa
che io non posso
fare se continuo a restare qui», ammise, sentendosi
incredibilmente miserabile
e in colpa per la decisione che aveva preso. «Vi prego di
perdonarmi, ma non
posso rimanere un minuto di più», aggiunse con un
singhiozzo, senza osare abbandonare
la confortante sicurezza dell’abbraccio di suo fratello.
Louise
continuava a non capire, o forse stava semplicemente fingendo di non
averlo già
fatto. Era molto affezionata a quella giovane, e c’erano
tante cose che voleva
dirle – non ultima la verità riguardo la sua
nascita, e il suo rapporto con la
viscontessa De Chagny – ma sapeva benissimo che, giunti a
quel punto, era
inevitabile e forse necessario ch’ella seguisse il suo
fratello adottivo e se
ne andasse per un po’. Per questo lasciò che le
sue labbra prendessero una
piega dolce e materna ma anche un poco amara, mentre stringeva la
giovane tra
le braccia e le posava un bacio gentile sulla fronte gelida.
«Abbi
cura di te e non dimenticarti di noi, ma
chère», le sussurrò
all’orecchio, dolcemente. «Quando, ma soprattutto se vorrai tornare, la mia porta
sarà
sempre aperta.»
Gli
occhi delle due donne si inumidirono inevitabilmente, dato che entrambe
sapevano che quello era un addio definitivo. «Quando vedete
Meg…» Iniziò
Giulia, prima che la voce le si incrinasse.
Madame
annuì appena, e il suo sorriso si appannò
leggermente. «Le spiegherò io ogni
cosa. Vai, adesso… Prima che qualcuno
riesca a trattenerti ancora.»
La
ragazza lanciò un’occhiata preoccupata alla porta
del camerino che tuttavia
rimase ostinatamente chiusa, dopodiché annuì a
sua volta e strinse in un rapido
e ultimo abbraccio la severa insegnante di danza. Senza più
aggiungere una sola
parola, afferrò la mano del fratello e si lasciò
condurre da lui lungo il
corridoio, nel quale sparirono come fantasmi senza lasciare che
l’eco dei loro
passi che si perdevano nel buio.
***
Erik uscì come una
furia dal camerino di madame Giry, non degnando la donna di uno sguardo
e
ignorando del tutto i vani tentativi di quest’ultima di
richiamarlo alla
ragione. I suoi occhi avevano assunto un’espressione che
poche volte madame gli
aveva visto, ma ognuna di quelle aveva significato la morte per
qualcuno.
Fu con quello
sguardo, con quelle fiamme brucianti che ardevano al di sotto della
maschera,
che prese la direzione opposta a quella in cui era appena sparita per
l’ultima
volta la sua ossessione. Si diresse più veloce del vento e
più silenzioso di
un’ombra verso il salone nel quale imperversavano i
festeggiamenti, non più
uomo né demone né fantasma, soltanto un insieme
di ira cieca, furore e
desiderio di sfogare entrambi nella vendetta che bramava da tempo.
Sparì all’interno
di una doppia parete, strisciò sul legno a tratti marcio del
passaggio segreto,
incurante di rovinare lo strascico del proprio mantello o di
terrorizzare i
ratti che abitavano quegli anfratti. Salì piccole e contorte
scale a
chiocciola, attraversò botole fino a spuntare, infine, in
una delle balconate
che si trovavano presso il soffitto istoriato e affrescato del foyer.
Lassù,
troppo in alto per poter essere visto dalla folla danzante e
all’oscuro di ciò
che si agitava in lui, Erik si mise a recidere con precisione
chirurgica le
corde che sostenevano i cinque lampadari che dondolavano nel vuoto.
Nessuno si accorse
di ciò che stava per accadere; la musica che continuava a
riempire il salone
coprì il tintinnio dei cristalli che pendevano dai
candelabri, e solo quando il
primo di essi, il più piccolo, precipitò con uno
schianto sulle scalinate di
marmo, tutto tacque nell’immota calma prima della tempesta.
Centinaia di occhi si
sollevarono verso l’alto in muto stupore, per poi tramutarsi
in strilli e grida
alla vista degli altri quattro che venivano giù uno dopo
l’altro,
ineluttabilmente.
Non tutti
riuscirono a scampare alla caduta dei lampadari, e in un battito di
ciglia la
serata che doveva essere spensierata e festosa si tramutò in
tragedia. Il
terribile peso dei lucernai tolse la vita a cinque anime, che fu
possibile
riconoscere solo grazie alla lista degli invitati, dato che i loro visi
erano
stati sfigurati. Dopo essersi ripresi dallo shock iniziale, alcuni tra
i più
temerari iniziarono ad avvicinarsi alle preziose carcasse dei lampadari
per
accertarsi che le povere vittime avessero cessato di soffrire.
Stranamente, la
vista dei cristalli e dei vetri e dei ceri sparsi per terra non
placò l’uomo quanto
invece avrebbe desiderato. Al contrario, ciò lo
riportò ad un passato di cui
non si sarebbe mai del tutto liberato, e nel suo animo si fece largo,
attraverso quella ferita appena inferta e ancora grondante sangue, una
disperazione e una desolante tristezza tale che si stupì nel
non sentirsi
scoppiare il cuore. E, come a volergli infliggere un maggior dolore e
azzerare
così le sue ultime e folli speranze, qualcuno, nel sollevare
lo sguardo, notò
la sua figura scura e ammantata da capo a piedi che serpeggiava
nell’ombra
delle balconate, e un urlo, più forte degli altri, mise a
tacere di colpo il
cicaleccio.
«È tornato! Il
fantasma dell’Opera!»
Nel sentirsi
denominare in quel modo da un uomo senza identità, Erik si
pietrificò di colpo.
Dunque era questo che l’umanità voleva? Non
desideravano il genio, ma il
mostro? Ebbene, visto che Dio, o il Fato, gli avevano voltato le spalle
per
l’ennesima volta, scaraventandolo nel più
miserabile degli abissi dopo avergli
fatto assaggiare le gioie del Cielo, allora sarebbe tornato ad essere
ciò che
meglio gli riusciva, sarebbe tornato ad essere il Figlio del Diavolo!
La sua risata
gracchiante e possente, in quel momento, prese corpo e forma e si
sparse lungo
i passaggi segreti e le pareti dell’intero teatro, in ogni
angolo, in ogni
alcova, dietro ogni statua e dentro ogni stanza, rimbombò
nelle mansarde e
nelle soffitte, strisciò addirittura sui tetti quasi a voler
rianimare la
statua di Apollo, raggiunse ed esplose in ogni recesso più
lontano e nascosto di
quell’opulente edificio, prima di tramutarsi in un urlo lungo
e prolungato di
rabbia e sconforto.
Ogni anima presente
in quel luogo maledetto fuggì da esso come avesse il diavolo
alle calcagna,
quella notte, e in Place d’Opèra si riversarono
come formiche terrorizzate
decine e decine di maschere strillanti, risvegliando con il loro
baccano
l’intero arrondissement e facendo accorrere guardie da ogni
angolo.
E il Fantasma
dell’Opera si ritrovò nuovamente da solo nel suo
regno vuoto e inanimato.
________________________________________________________________________________________________________
Angolo
Autrice.
Mmh, non
so che dire. Questo capitolo (parecchio più lungo dei
precedenti!) ha voluto ogni goccia del mio sangue per giungere al
termine, e per di più l'ha fatto senza considerare
minimamente quelli che erano i miei progetti iniziali... Va
bè. La mia beta-reader di fiducia mi ha detto che potevo
pubblicare tranquillamente ed io, giustamente, obbedisco u.u
Non voglio fare
spoiler e rovinarvi il gusto di leggere i prossimi capitoli (che non so
quando giungeranno, alcuni sono già scritti e altri no, ma
voglio avere il tempo di rivederli e correggerli e decidermi se
lasciarli così o eliminarli di sana pianta), dunque queste
note finiranno qui; onde evitare il linciaggio da parte vostra, volo
via!
Un bacio grande grande a tutte voi che siete giunte fin qui armate di
una grande dose di coraggio e di una ancora più grande di
pazienza - non finirò mai di dirvi quanto siete fantastiche
ed eccezionali, sia nelle recensioni che nei modi silenziosi di
seguirmi! Grazie, grazie e ancora grazie :*
Vi do appuntamento nel prossimo capitolo, ci leggiamo presto - spero!
Vostra,
Niglia.
PS. Tornate
indietro di qualche capitolo e date un'occhiata al Prologo: vi piace
l'immagine di "copertina"? *_* Recentemente sto scoprendo Photoshop
(grazie a mia sorella) e mi sto dando alla pazza gioia... xD e con
questo chiudo davvero :)
Baci!
|
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Capitolo 32 *** 30. Interludio. Fine degli amori del Fantasma ***
Chapitre
30
Interludio:
Fine degli amori del Fantasma
Odi et amo.
Quare id faciam,
fortasse requiris.
Nescio, sed
fieri sentio et
excrucior.
Il
passante che in quella grigia mattina del gennaio 1878 avesse
attraversato come
faceva di solito Rue de Rivoli, dal lato in ombra che percorreva le
grigie mura
del teatro dell’Opèra, avrebbe potuto udire, nel
caso la strada fosse stata
libera da carrozze o da un chiacchiericcio vario, una straordinaria e
possente
musica che pareva provenire dalle viscere stesse
dell’edificio, una
composizione che Parigi aveva pregato di non udire più e
anzi di riuscire a
dimenticare; la si sarebbe potuta definire il pianto disperato di
un’anima
distrutta, il suo urlo di rabbia, la sua supplica, il suo requiem. Tale
musica
avrebbe fatto rabbrividire il povero passante, che avrebbe accelerato
il passo facendo
gli scongiuri e lasciandosi alle spalle una grata abilmente nascosta
nel buio,
alla quale nessuno avrebbe mai pensato di dare importanza.
Dalla
notte dell’ormai famoso incendio, il teatro aveva iniziato ad
incutere un tetro
timore ai parigini, che per quanto possibile cercavano di evitarlo o,
al
contrario, di esorcizzare la paura frequentandolo con boriosa arroganza
durante
i pubblici eventi e gli spettacoli settimanali. Tuttavia, le grida e i
pianti
che, a quanto dicevano gli stessi membri del personale che vi
abitavano, si
udivano durante la notte in qualsiasi zona del teatro ci si trovasse,
come se
non uno ma mille fantasmi lo infestassero, rendevano faticoso
frequentare quel
tempio della musica a cuor leggero. E sudavano come peccatori in chiesa
i
poveri macchinisti, colpevoli di aver importunato le giovani ballerine,
memori
degli eventi passati e timorosi della vendetta dello spirito del teatro
stesso:
chi li assicurava, infatti, che il Fantasma fosse morto quella triste
notte di
quattro anni prima? E se l’uomo che si era spacciato per tale
era davvero
spirato, allora non dovevano forse temerne a maggior ragione il ritorno
sotto
forma di spirito?
Fu
dunque una strana atmosfera quella che si respirò al palazzo
dell’Opèra nei
giorni successivi al disastro della festa in maschera di capodanno.
L’edificio
era stato chiuso al pubblico per permettere i lavori di restauro dei
lampadari
che erano crollati quell’infausto trentun dicembre, ma il
continuo via vai di
operai, macchinisti e di tutto lo staff artistico del teatro non era
cessato:
quell’incidente, sempre se di tale si poteva parlare, non
poteva pregiudicare
un’intera stagione operistica. La sensazione che tutti
provavano, comunque, era
quella di essere ritornati all’oscuro periodo in cui sul
teatro gravava la
presenza del fantasma –
le ballerine
si lamentavano della sparizione dei loro effetti personali, alcuni
specchi
venivano ritrovati completamente in frantumi e subito dovevano
accorrere le
signore addette alla pulizia per far sparire i vari frammenti ed
evitare così
che qualcuno vi mettesse sopra un piede, e persino monsieur Firmin e
monsieur
André non poterono fare a meno di ignorare l’ansia
che tale situazione
provocava loro. La caduta di tutti i cinque lucernai del salone
d’ingresso
poteva essere anche stata una terribile fatalità, ma i pochi
che avevano
ricordo degli eventi risalenti al milleottocentosettantaquattro
sapevano ben
riconoscere il caratteristico stile del fantasma
dell’Opera. E i due poveri direttori, non certo
celebri per il loro
coraggio, tremavano all’idea che quell’uomo
– di cui avevano anche visto il
cadavere due notti dopo la rappresentazione del Don Juan, che diavolo!
–
potesse essere risorto dalle proprie ceneri per perseguitare coloro che
avevano
avuto l’ardire di ostacolarlo e infine ucciderlo!
Senza
contare che l’improvvisa nonché ennesima
sparizione di mademoiselle Sanders,
della quale non si avevano più avuto notizie
dall’ultima volta che era stata
vista al teatro, sempre quella tragica sera, di certo non contribuiva a
diminuire l’angoscia che quel luogo ispirava ad ogni anima.
Madame Giry,
interpellata al riguardo in quanto unica parente della giovane, non era
stata
molto chiara: aveva detto qualcosa a proposito del fatto che
probabilmente
mademoiselle Sanders non sarebbe più tornata a Parigi in
quanto la sua famiglia
aveva bisogno di lei – l’aveva giustificata
spiegando che era stata una
decisione improvvisa alla quale proprio non poteva opporsi
né tantomeno che
poteva rimandare – e per quanto fosse grande il disappunto
dei due direttori,
che adesso dovevano cambiare i loro programmi e sperare che la
sostituta fosse
pronta a prendere il suo posto il prima possibile, essi accettarono la
nuova
situazione senza quasi battere ciglio, finendo addirittura con il
chiedere a
madame Giry di mandare alla ragazza i loro migliori auguri e la
speranza che,
qualsiasi cosa fosse successa, si potesse risolvere in bene.
Louise
Giry dubitava seriamente che le cose potessero finire bene, ma questo
pensiero
preferì tenerlo per sé.
Così
come il persiano, monsieur Bamdad, non fece parola con chicchessia del
tremendo
sconforto nel quale era caduto il suo principale, che i più
conoscevano come
monsieur Destler ma che altri, i pochi ben informati di vecchie
vicende,
preferivano denominare angelo o fantasma.
Anche
lui era sparito dalla circolazione; non che prima di allora si fosse
mai fatto
vedere, a teatro – la sua presenza era tangibile e lampante
in ogni decisione
artistica ed affaristica che veniva presa, ma nessuno, se fosse stata
posta la
domanda di descrivere l’aspetto del maggior mecenate
dell’Opèra, avrebbe saputo
dare una risposta. I dipendenti tendevano ad immaginarlo come un
vecchio ed
eccentrico signore venuto dal Nuovo Mondo con idee fresche e geniali
riguardo
la gestione del teatro, e poiché Bamdad non aveva mai fatto
o detto alcunché
che potesse smentire tali voci, questo era tutto ciò che si
sapeva, o che si
credeva di sapere, su monsieur Destler.
Anche
lui non era niente più che un fantasma.
***
Le
note del Don Juan Trionfante
volteggiavano come foglie secche trasportate dal vento sopra il manto
scuro e
plumbeo del lago sotterraneo, strazianti e rabbiose nel nascere dalle
canne vibranti
di un organo suonato con furiosa maestria. Il compositore
dell’opera si
accaniva sui tasti d’avorio con un orrendo impeto che aveva
il marchio della
follia; le sue dita non davano tregua allo strumento, così
come lui si
rifiutava di dare pace a se stesso. Non mangiava, non dormiva
– di tanto in
tanto si interrompeva per prendere fiato o per aggiungere qualche
modifica alle
spartiture, ma ciò era tutto – sembrava aver perso
ogni desiderio di volersi
prendere cura del suo corpo e del suo animo. Il suo unico nutrimento
era quella
composizione.
Quanto
tempo era trascorso dall’ultima volta in cui il suo
smarrimento nella musica era
stato tale da fargli dimenticare di essere, in fondo, soltanto un
misero essere
umano, con bisogni e necessità?
Ma
nulla di tutto questo gli importava. Sentiva che sarebbe impazzito una
volta
per tutte se le sue dita avessero abbandonato quei tasti – se
la sua musica
avesse cessato di saturare l’aria, inondando la dimora
sotterranea – e pareva
ormai avere deciso che niente dovesse più essere in grado di
allontanarlo da
quella che era sempre stata la sua vita, la sua vera amica, confidente,
amante.
Aveva trascurato la sua musica, le aveva voltato le spalle –
e per cosa? Ecco
che cosa ne era conseguito, un ennesimo tradimento,
un’ennesima bugia,
un’ennesima delusione!
La
consapevolezza di essere stato abbandonato una seconda volta lo stava
annientando sia fisicamente che psicologicamente; un uomo non poteva
sopravvivere ad un simile dolore, non era giusto, non era sano, eppure
come mai
non era ancora morto? Come mai continuava a bruciare e bruciare, come
il suo Don Juan, ma senza andare in
pezzi,
senza mai raggiungere il limite? C’era forse qualcuno, un
qualche Dio sadico e
onnipotente, che preferiva vederlo rotolare nella disperazione in modo
da
fargli fare ammenda dei suoi peccati – tutto, pur di non
accoglierlo oltre i
cancelli di un tanto agognato paradiso?
Un
suono sordo e stonato rimbombò nella dimora sul lago nel
momento in cui il
folle compositore cessò di dare voce alla sua opera; egli
piantò i gomiti sui
tasti per poi prendersi la testa tra le mani con un gemito
dall’accento disperato.
Gemito che si trasformò in singhiozzo, poi in pianto, poi
nel lamento
angosciato di un uomo distrutto.
Tutto
il peso della solitudine di cui aveva pensato, per un brevissimo
momento, di
essersi liberato per sempre, era piombato con forza sulle sue spalle,
piegandolo come una canna al vento. Ed era un peso che non riusciva
più a
sopportare come prima, ora che aveva scoperto che cosa si provava a
condividere
qualcosa con qualcuno – niente sarebbe più stato
lo stesso, e questo era un
pensiero che avrebbe finito per annientarlo.
Il
fantasma fissò con occhi vuoti e arrossati i fogli sparsi
davanti a sé, quell’ammucchiarsi
e rincorrersi quasi disordinato di note vergate di rosso, e si chiese
per un
attimo che senso avesse anche quello, che senso avesse comporre,
suonare, respirare, se non
c’era nessuno che
ascoltasse e giudicasse la sua musica, se non c’era la sua mano posata distrattamente sulla
propria spalla mentre l’altra
indicava un punto preciso sul pentagramma, e la
sua voce chiedergli se non fosse stato meglio aggiungere un
Do
minore al posto di un Re, e il suo sguardo attento che seguiva invece
le sue,
di dita, che scorrevano sui tasti dell’organo mentre le
spiegava che un Do
avrebbe rallentato l’andamento della composizione…
Che
senso aveva comporre una musica per lei se lei non l’avrebbe
più potuta
ascoltare?
Tutto
ciò che ormai gli era rimasto erano attimi, momenti,
effimeri istanti che erano
stati ma che non sarebbero tornati, lasciandolo lì, da solo,
a marcire per
sempre e a ricordarli.
***
Bamdad,
il persiano, era sinceramente preoccupato per il suo principale. Non
era mai
capitato, da quando lavorava per lui – e ormai poteva
vantarsi di essere al suo
servizio da quattro anni abbondanti – che monsieur Destler
sparisse per giorni,
settimane addirittura, senza neppure lasciargli una nota nel quale lo
informava
dei suoi progetti. In genere, se ciò accadeva – ed
era comunque qualcosa di molto
raro – Bamdad aveva il compito di occuparsi degli affari di
Erik, di smistare
la sua posta, parlava con chi richiedeva i suoi servigi eccetera, ma
stavolta
non gli era stato detto nulla al riguardo e l’assenza
ingiustificata del suo
padrone aveva già iniziato a farsi sentire. Poteva forse
essere collegata
all’improvvisa partenza di mademoiselle Sanders?
Sì, non poteva essere
altrimenti. L’eventualità che fossero fuggiti
insieme, come due giovani innamorati,
non era neppure da prendersi in considerazione, perché
monsieur Destler non era
uomo da abbandonare il suo lavoro, al quale probabilmente teneva
più che a
qualsiasi altra cosa, per la prima fanciulla che sbatteva le ciglia
nella sua
direzione.
Ma
era pur vero che il carattere altalenante del direttore artistico
dell’Opèra
non permetteva di fare ipotesi sicure e razionali, giacché
egli poteva
attraversare l’intero spettro delle emozioni umane
nell’attimo di un battito
d’ali di farfalla. Dunque, sommando questi due fatti
– e cioè il suo umore
lunatico e la sua cieca dedizione all’arte e la passione in
tutte le sue forme
– le uniche conclusioni raggiungibili erano due: o monsieur
Destler si era già
tolto la vita, magari la notte stessa di Capodanno, a seguito della
sciagura
dei lampadari – giacché il persiano aveva le sue
buone ragioni per credere
ch’egli c’entrasse qualcosa in quanto era successo
– oppure era nascosto in
qualche anfratto buio e malagevole, a piangere sulla sorte che gli era
stata
riservata e attendendo in silenzio o tra grida di disperazione che una
morte
benigna giungesse a liberarlo.
Tale
pensiero Bamdad non poteva proprio tollerarlo, sicché si
decise per fare
qualcosa, e fare qualcosa, in quel momento, consisteva
nell’andare a cercare il
proprio padrone ovunque egli fosse.
Era la prima volta che si
introduceva
effettivamente nella dimora sul Lago. Da quando era stato firmato il
contratto
che rendeva monsieur Destler socio della direzione del teatro e si era
quindi
trasferito, piuttosto curiosamente, ad abitare nel palazzo
dell’Opèra, il persiano
aveva preso a tenere maggiormente sotto controllo l’uomo per
il quale lavorava,
e di cui conservava ogni genere di segreto ch’egli voleva
confidargli.
Sfortunatamente, l’ubicazione del luogo nel quale Erik
spariva per pomeriggi o
giornate intere a comporre e lavorare non rientrava tra questi. Fu per
questo
motivo che monsieur Bamdad aveva iniziato assai poco professionalmente
a spiare
il suo padrone; aveva preso a seguirlo quando si avventurava in
corridoi e
cunicoli perlopiù sconosciuti alla maggior parte delle
persone che lavoravano
nell’edificio, quando saliva su verso i tetti o quando
scendeva tra i
sottopalchi, nel regno delle botole e delle trappole… Lo
seguiva
instancabilmente fin quando l’uomo non spariva, in modo assai
misterioso, come
un’ombra che non fosse mai esistita. Avrebbe quasi detto che
le pareti lo
inghiottissero al loro interno!
Ma
il persiano proveniva, di per sé, da una terra nella quale
simili trucchi e
“magie” erano all’ordine del giorno; non
impiegò dunque molto per capire che il
suo padrone non era uno spirito che attraversava i muri, ma che
semplicemente
sfruttava dei passaggi segreti di cui nessuno neppure sospettava
l’esistenza.
Un
giorno, ne erano trascorsi forse due o tre dall’incidente
nella cappella – quando aveva osato alzare le mani sulla
protetta di monsieur Destler – la curiosità ebbe
il sopravvento sui suoi doveri
e lo indusse a non limitare il suo spionaggio al livelli superiori del
teatro,
ma a proseguire oltre e seguirlo, in segreto, attraverso i suoi
cunicoli nascosti,
al di sotto delle botole, giù, sempre più
giù, verso le viscere dell’edificio.
Fu così che scoprì il passaggio segreto che si
trovava sotto il terzo
sottopalco, tra il fondale e il sostegno della quinta del Roi de Lahore, e che riuscì ad
attraversare senza particolari
difficoltà perché si trattava semplicemente di
spalancare una delle botole e
saltare nell’oscurità di chissà quale
tana: il coraggio e la curiosità gli
fornirono la spinta necessaria a infilarsi senza pensarci due volte in
quel
buco. Era giunto dunque a spiarlo addirittura quando, credendosi solo,
Erik
raggiungeva la sponda del lago sotterraneo e saliva sulla barca,
remando con
velocità e destrezza fino a scomparire nella densa
oscurità che ammantava ogni
cosa e lo proteggeva da sguardi indiscreti.
Ma
mai, prima di allora, aveva osato andare oltre quel punto. Non avrebbe
rischiato di farsi scoprire e di umiliarsi, così, ammettendo
la propria
indiscrezione, perciò da quel momento aveva cessato di
spiare il suo padrone.
Tuttavia, a quel punto, monsieur Bamdad si era in un certo qual modo
sentito in
dovere di scendere nuovamente nei domini sotterranei di Erik,
giacché la salute
del proprio signore era assai più importante della sua
riservatezza. Inoltre,
egli era pagato per conoscere tutti i segreti di Erik, persino quelli
che lui
non voleva rivelare.
Erano
quindi trascorse tre settimane dalla notte di capodanno, quando il
persiano
decise di introdursi definitivamente nelle catacombe del teatro.
Passando dal
terzo sottopalco, monsieur Bamdad raggiunse senza sbagliare strada fino
alla
riva del lago sotterraneo, sperando di trovarvi la barca che aveva
visto
utilizzare più volte da Erik per raggiungere la sponda
opposta.
Sfortunatamente, l’imbarcazione non si trovava ancorata nel
piccolo molo; e se
da una parte tale scoperta lo deludeva, dall’altra lo
rassicurava sul fatto che
il suo signore doveva trovarsi per forza là sotto, a meno
che non fosse passato
da altri corridoi a lui sconosciuti.
Illuminandosi
intorno con la lampada che si era premurato di portare con
sé, Bamdad ispezionò
l’intera sponda del lago, scoprendo che nel lato sinistro,
laddove la roccia
era stata ammorbidita dallo sciabordio dell’acqua, gli
architetti che avevano
progettato l’intero edificio avevano fatto costruire anche
degli archi e delle
colonne non eccessivamente basse che impedivano al teatro di crollare e
venire
inghiottito dal lago; e tali elementi architettonici avevano a loro
volta
creato un ulteriore labirinto di corridoi e gallerie che percorrevano
tutta
l’area dello specchio d’acqua giungendo, o almeno
questo era ciò che il
persiano si augurava, fino alla dimora sul Lago di Erik. Facendo
attenzione a
dove metteva i piedi, il persiano si avventurò dunque lungo
quel percorso
alternativo.
Dovette
ammettere che giunse alla fine della galleria senza incontrare troppe
difficoltà: tuttavia, una
volta che ebbe abbandonato l’oscurità del
cunicolo, fu costretto a sbattere più
volte le palpebre per credere a quello che i suoi occhi stavano vedendo.
Davanti
a lui, al di là di ogni sua aspettativa, si trovava una vera
e propria
abitazione, con dipinti, candele, lampade, tavoli e scrivanie, persino
vasi di
fiori secchi – rose, per lo più –
poltrone e divanetti in stile Luigi Filippo.
Costruito in una caverna sulla riva del lago, dove peraltro si trovava
anche la
gondola che non aveva trovato dall’altra parte, il rifugio di
Erik stonava
terribilmente con l’ambiente nel quale era stato costruito,
giacché era
oltremodo strano che degli arredamenti così tipicamente
parigini si trovassero
nelle catacombe di un teatro.
Bamdad
fece qualche passo avanti sollevando la lampada davanti a
sé, dato che la
maggior parte dei candelabri presenti nella strana dimora reggeva
moccoli di
candele consumate, lasciando che l’oscurità
prendesse inesorabile il
sopravvento. Il silenzio era mortale: l’unico rumore era
quello, leggero,
dell’acqua, le cui correnti sotterranee provocavano dei
lievissimi innalzamenti
o abbassamenti del suo livello normale, e quello, appena più
udibile, delle
gocce di umidità che cadevano dal soffitto e colavano per
terra o sulla
superficie del lago.
Una
leggera inquietudine iniziò a farsi largo
nell’animo del persiano che,
avanzando con cautela e aggirando gli ultimi metri della riva per non
bagnarsi,
riuscì ad arrivare davanti ai gradini che conducevano al
livello sopraelevato
dell’abitazione; sollevando ancora la lampada, Bamdad si
accorse finalmente dell’immenso
organo che troneggiava su un’intera parete della grotta, con
le canne di piombo
e stagno che riflettevano la flebile luce delle poche candele rimaste e
quella,
più netta, della sua lanterna. Facendo scorrere lo sguardo
sorpreso e ammirato
verso il basso, il suo respiro si mozzò
all’improvviso quando notò la figura
china sui tasti, immobile, dalla quale non proveniva alcun rumore.
Gli
sfuggì un’imprecazione nella sua lingua madre,
prima che abbandonasse ogni
cautela per affrettarsi e raggiungere l’uomo curvo
sull’organo. Non vi erano
dubbi che si trattasse di lui, infatti – Bamdad conosceva il
suo principale.
Posò la lampada sulla superficie un tempo lucida dello
strumento e ora coperta
di polvere, per poi dedicarsi all’uomo che, adesso poteva
udirlo, respirava
piano e con fatica. Temendo di essere arrivato troppo tardi, il
persiano gli
mise una mano sulla spalla e lo scrollò gentilmente,
chiamandolo.
«Monsieur…
Monsieur! Svegliatevi, sono io, sono Bamdad»,
mormorò a mezza voce, indeciso se
alzare ulteriormente il tono o risvegliarlo con calma.
«Monsieur?»
L’uomo
sospirò come un morto che viene riportato bruscamente in
vita, e con un
grugnito soffocato rincuorò il persiano sulla sua sorte.
«Monsieur,
permettetemi di aiutarvi», insisté, passandogli un
braccio sulla schiena e
sollevandone uno dei suoi per posarlo sulla propria spalla. Avrebbe
dovuto
issarlo contando solo sulla propria forza, giacché monsieur
Destler sembrava
essere troppo indebolito da giorni di apatia e incuria per poter
camminare
sulle proprie gambe. Mentre lo sollevava, il capo di Erik
ciondolò pesantemente
e intaccò l’equilibrio del giovane, che
traballò per un attimo prima di
riacquistare la stabilità.
«Coraggio,
monsieur, svegliatevi. Non ce la faccio da solo»,
mormorò, con la voce tesa
dallo sforzo.
Erik
dischiuse appena le palpebre e strinse gli occhi, cercando di mettere a
fuoco
l’ambiente circostante e di capire per quale astruso motivo
qualcuno lo stesse
spostando dal suo strumento. Tuttavia la testa gli pulsava
orribilmente, troppo
per permettergli di riflettere con la lucidità che avrebbe
desiderato; così,
dopo aver faticosamente compreso di essere aggrappato al proprio
assistente e
aver rinunciato a capire come diavolo avesse fatto a trovarsi
lì, annuì e si
lasciò trasportare, cercando di agevolargli i movimenti.
«Camera…
in camera…» Bisbigliò roco, prima che
la tosse gli fece tremare il petto. Da
quanto tempo non beveva qualcosa? «Portatemi in
camera», riuscì ad aggiungere a
fatica.
Bamdad
lo condusse dunque verso l’unica porta che riusciva a vedere
attraverso la
penombra, e che per esclusione suppose essere quella della stanza da
letto. Il
corpo di Erik contro il suo era terribilmente caldo attraverso la
leggera
stoffa della camicia, lisa e lurida, che indossava l’uomo, e
il suo respiro
affannoso non lasciava presagire nulla di buono. Affannandosi alla
ricerca
della maniglia con la mano libera, il persiano riuscì
finalmente a spalancare
la porta e l’ennesima vorace buia si aprì ai suoi
occhi; attese per un istante
di abituarsi al buio e, quando iniziò a riconoscere i
contorni degli oggetti,
con stoica determinazione trascinò Erik fino al letto e
là scostò le coperte e
lo fece sedere sul bordo. Gli slacciò la camicia, ormai da
buttare, che gettò
quindi per terra, ma gli lasciò i calzoni dato che non
sapeva quanto oltre
potesse spingersi. A quel punto lo fece distendere sul morbido
materasso, lo
avvolse tra le coltri e si chinò sul comodino alla ricerca
di una candela o, ancor
meglio, di una lampada. La trovò: ruotò lo
stoppino fin quando una lieve
fiammella tremolante non apparve al di sotto del vetro, rischiarando la
stanza
e gettando ombre e luci sul volto esausto e distrutto
dell’uomo abbandonato sul
suo giaciglio.
Gli
occhi di Erik si serrarono istintivamente non appena sentì
la luce posarsi su
di sé, e non poté trattenere un gemito sofferente
al pensiero che il suo viso,
nudo e disadorno, privo della solita maschera che era solito
proteggerlo, fosse
alla mercé dello sguardo del persiano. Ma dal giovane
straniero non provenne un
solo lamento, né di orrore né tantomeno di
derisione, quando vide il motivo per
cui egli nascondeva sempre e in ogni momento le sue fattezze; con la
professionalità e la discrezione che lo caratterizzavano,
Bamdad distolse lo
sguardo solo per rispettare il dolore e la pena che
quell’uomo doveva provare,
nel sentirsi e vedersi così indebolito.
«C’è
qualcosa che posso fare per voi, monsieur? Procurarvi delle medicine,
dei
medicamenti? Oppure preferite bere o mangiare qualcosa?»
Domandò con tono
neutro, senza tuttavia riuscire a celare la gentilezza che quella voce
calma e
pacata esprimeva.
Le
ciglia di Erik fremettero, come se stessero disperatamente trattenendo
le
lacrime, e volse dunque il viso da un’altra parte per non
mostrarsi in quello
stato. «Dell’acqua andrà
bene», rispose soltanto; non era abituato a tutta
quella sollecitudine, e di certo non se l’aspettava quando
invece aveva creduto
che solo la morte sarebbe giunta a fargli visita. Evidentemente,
neppure il
Demonio in persona lo voleva accogliere tra le sue braccia.
«Sì,
monsieur. Torno subito», lo rassicurò, lieto
finalmente di poter tornare ad
obbedire al suo signore.
Rimasto
nuovamente solo, Erik sospirò e cadde
nell’incoscienza.
Aprì
nuovamente gli occhi, o perlomeno li socchiuse, quando si
sentì chiamare e
scuotere ancora da una voce familiare, una voce in un certo senso amica, che pareva non avere nessuna
intenzione di lasciarlo morire. Oh, avrebbe implorato pietà
se solo ne avesse
avuto la forza!
«Ecco
l’acqua, monsieur», sussurrò quella
voce, e quasi subito dopo qualcosa di
freddo, come il vetro di un bicchiere, si posò sulla sua
bocca, e un liquido a
sua volta fresco, dolce – acqua e
zucchero? – gli scivolò in gola
facendolo gemere leggermente dall’estasi.
Deglutì, poi socchiuse ancora le labbra per richiederne un
altro sorso, che per
fortuna giunse immediatamente.
Dopo
tre sorsi ne ebbe abbastanza e lasciò ricadere la testa sul
cuscino, già stanco
di quel piccolo sforzo. Pareva che la testa volesse esplodergli da un
momento
all’altro. Come in risposta alle sue mute preghiere, un panno
bagnato e fresco
si posò sulle sue tempie, delizioso conforto, rinfrescandolo
e portando un po’
di sollievo alle sue membra. Se solo chiudeva gli occhi, poteva osare
immaginare che quelle cure gentili provenissero da un’altra
ben nota persona,
che fosse stata lei a rimboccargli le coperte, a portargli
l’acqua, che con
mani premurose lo avesse spogliato e coccolato, che fosse insomma
tornata da
lui consapevole del proprio errore e desiderosa di non lasciarlo
più…
Ma
poi sollevava appena le palpebre con la speranza che quel suo sogno si
fosse
tramutato in realtà, e invece non era suo il profumo che
sentiva, non erano
suoi quei bisbigli incoraggianti, non erano sue quelle cure. Lei se
n’era andata;
prima accettava questa tremenda realtà e prima, forse, se ne
sarebbe fatto una
ragione… O almeno ci avrebbe tentato.
Le
sue labbra aride si mossero a stento per formulare qualche parola e un
flebile
mormorio provenne da esse, ma era talmente sommesso che monsieur Bamdad
dovette
chinarsi su di lui e avvicinare l’orecchio alla bocca del suo
padrone, per
scoprire cosa egli stesse cercando di dire.
«Volevo
solo che lei mi amasse», stava sussurrando, con la voce
arrochita da giorni di
incuranza per la propria salute. «Era una cosa tanto assurda,
Bamdad? Avevo
bisogno… soltanto che lei mi amasse… per
diventare il più tenero e mansueto tra
gli uomini...»
Il
persiano non sapeva come dovesse prendere le parole che Erik
bisbigliava in
preda alla follia derivante dalla febbre. Non pareva essere in
sé, il suo
respiro era ansimante e faticoso, la sua pelle arroventata, le palpebre
si
serravano con forza in continuazione sugli occhi stanchi e ossessionati
da
chissà quale visione cui soltanto lui poteva accedere.
«Non
pensateci adesso, monsieur, cercate di riposare»,
ribatté gentilmente il fidato
segretario, mentre inumidiva la fronte di Erik con un panno bagnato di
acqua
fredda. «Volete qualcosa di forte? Del vino, forse, o del
cognac?»
L’uomo
emise un gemito di dissenso e scosse appena il capo, ma Bamdad non era
del
tutto convinto che avesse compreso quanto gli aveva appena detto, come
peraltro
confermarono le sue parole successive.
«Solo
una sua carezza… e sarei stato un cagnolino pronto a morire
per lei…» Stava
dicendo a fatica, con il tremito di chi trattiene con forza il pianto.
«E
invece se n’è andata… Se
n’è andata… ed ora è persa,
persa per sempre…»
Era
chiaro, ormai, ch’egli stesse farneticando, e il persiano
provò una pena
sincera per il tormento di quell’uomo. Purtroppo, lui non
avrebbe potuto fare
nulla per rincuorarlo – era impossibile guarire un cuore, un
animo ferito – per
cui si sarebbe limitato a prendersi cura del suo fisico spossato, e il
resto
sarebbe venuto in seguito. Erik continuò a passare dal
torpore alla veglia in
continuazione, alternando stati di follia ad altri di una
più salda lucidità,
durante i quali il persiano ne approfittava per spronarlo anche solo a
dargli
ordini, che tuttavia perdevano valore in quanto colui che li aveva
emessi
scivolava di nuovo nel sonno agitato dovuto alla febbre.
Alla
fine Bamdad decise che, malgrado il chiaro disorientamento e la
confusione del
suo padrone, era necessario che lo scuotesse e schiarisse la sua mente
almeno
nei momenti di coscienza, parlando di qualunque cosa che potesse
attirare la
sua attenzione e dunque riscuoterlo. Iniziò quindi a parlare
della gestione del
teatro, con voce morbida e suadente e con una cadenza musicale tipica
del suo
accento esotico, che gli faceva arrotare le erre come se avesse
qualcosa posata
sulla lingua. I suoi sforzi, tuttavia, non parvero riscuotere alcun
successo, o
perlomeno fu così fin quando il persiano non tirò
fuori la questione della
notte della festa in maschera – l’ultima notte, in
verità, che aveva visto
monsieur Destler in salute – e degli incidenti che
l’avevano resa tristemente
celebre.
«Perdonatemi
se oso chiedere una cosa simile, monsieur, ma…»
Esordì con cautela, abbassando
appena il tono e cessando di tamponare la fronte dell’uomo.
«I lampadari del
foyer… I lampadari, monsieur!... Avete avuto qualcosa a che
fare con ciò che è
accaduto?»
Le
palpebre di Erik si sollevarono leggermente e diedero modo a Bamdad di
fissare
un paio di occhi ardenti e spiritati, lucidi e stanchi, terribilmente
stanchi,
ma finalmente coscienti.
«I
lampadari? Ah!, i lampadari…» Ripeté
con un sogghigno, ma erano lacrime quelle
che solcavano lente le sue guance scurite da una barba vecchia di
giorni. «Erano
davvero logori, quei lampadari… Davvero logori! Sono venuti
giù all’improvviso,
così, non si poteva far niente! Ci devono essere molti
più fantasmi di quanto
si creda, in questo teatro…»
L’uomo
sollevò stancamente un braccio e se lo posò sugli
occhi, allontanando la mano
gentile del suo segretario e mettendo fine ad ogni tentativo di
instaurare
un’ulteriore conversazione. «E adesso tacete o
andatevene, Bamdad, oppure
denunciatemi e fatemi arrestare, sì, traditemi! Vi sciolgo
da ogni impegno!, uno
in più, uno in meno, non fa differenza… Ma vi
prego, lasciatemi da solo.»
Ordinò Erik, sforzandosi di imprimere in quelle parole tutto
il disprezzo e
l’autorità di cui poteva disporre un povero
mortale confinato a letto e
impossibilitato anche solo di mettersi a sedere.
«Nessuno
vi tradirà, monsieur, e ad ogni modo io non sarò
tra costoro», ribatté invece
il giovane persiano, sollevato in verità
nell’udire quel seppur breve discorso –
era il più lungo che avesse sentito da lui da quando lo
aveva trovato. «Vi
riprenderete, guarirete… E posso giurare che avrete la
vostra vendetta.»
Uno
gemito che somigliava più ad un singhiozzo che a uno sbuffo
sarcastico provenne
dalla bocca socchiusa di Erik. «Vendetta… che cosa
volete che me ne faccia
della vendetta? E su chi dovrei vendicarmi? Qualsiasi cosa faccia,
qualsiasi
cosa dica… Non me la riporterà
indietro…»
Bamdad
non sapeva più cosa dire per risollevare lo spirito del suo
principale: era
molto difficile cercare di consolare chi non voleva essere consolato.
Optò
quindi per il silenzio, e riprese a cercare di far diminuire la
temperatura del
suo corpo senza più dire nessuna parola.
Non
dovette attendere molto prima che l’uomo scivolasse
misericordiosamente nel
sonno.
*
Occorsero
cinque lunghi giorni per far sì che Erik si rimettesse
completamente e tornasse
l’uomo che il suo fidato segretario aveva imparato a
conoscere e rispettare. Le
cure del giovane persiano e le medicine che si era procurato avevano
risanato
il corpo di monsieur Destler, ma non il suo animo: per quello,
purtroppo, non
c’era nulla che lui potesse fare.
Quando
Erik aprì gli occhi, all’alba del sesto giorno,
congedò Bamdad lasciandolo
libero di trascorrere la giornata come meglio credeva; il ragazzo
meritava un
po’ di respiro, anche se non voleva ammetterlo, e dopo aver
insistito e aver
sottolineato che non ammetteva repliche al riguardo, il persiano lo
lasciò
finalmente solo. Soltanto a quel punto egli sfogò tutto
ciò che aveva accumulato
in quel mese di follia e malessere.
Non
era stata sua intenzione, all’inizio; ma quando aveva visto
la maschera che
aveva indossato la notte di capodanno, quell’orrido oggetto
con le orbite vuote
e le guance incavate, che le fiamme delle candele accarezzavano creando
macabri
giochi di luce sulla sua superficie e dando vita a
un’espressione beffarda che
pareva volersi prendere a sua volta gioco di lui, ebbene, quando la
vide sentì
qualcosa scattare dentro di sé, qualcosa di arcaico e
distruttivo. Preso da un
attacco di furia l’afferrò e la gettò
per terra, mandando la fine porcellana in
mille pezzi. Stessa sorte ebbero i due candelabri che
l’avevano illuminata, e a
loro seguì un piccolo specchio da toilette posto
lì accanto, e così pure
numerosi spartiti, boccette vuote di inchiostro, un mezzo busto di
ceramica e
un vaso contenente un mazzetto di rose secche, i cui petali ancora
odorosi si
sparpagliarono sul pavimento della grotta. Senza più
riuscire a fermarsi
strappò i tendaggi che coprivano gli specchi e distrusse
questi ultimi uno ad
uno, squarciò tele dipinte e cuscini, rivoltò le
poltrone, buttò libri per
terra – non ebbe pietà neppure di un carillon a
forma di scimmia che suonava i
cembali.
In
piedi al centro di tutto quel caos, il Fantasma si guardò
intorno con un
leggero accenno di rammarico, ma non ancora soddisfatto. Calpestando
con sonori
scricchiolii i cocci di ceramica e i frammenti di vetro che ricoprivano
il
suolo, si diresse quindi a passi lenti e risoluti verso quella che era
stata la
camera da letto di mademoiselle Sanders durante il suo soggiorno in
quei
sotterranei. La sua mano scostò con un lieve tremito la
tenda che separava
quella stanza dal resto della dimora, e i suoi occhi, abituati a
scrutare
l’oscurità, si posarono sul letto a forma di cigno
nero che lui stesso aveva
progettato e costruito e in cui lei
aveva dormito, sul mobile da toilette in cui lei si acconciava i
capelli,
sull’armadio che conteneva i suoi vestiti, sul comodino dove
poggiava i suoi
libri. Ogni cosa, in quella stanza, odorava di lei – ed era
giunto il momento
di eliminare ogni traccia del suo passaggio.
Con
la stessa gelida cura che aveva impiegato per far precipitare i
lucernai, la
sera del ballo in maschera, si avvicinò al letto e con un
sibilo iniziò a
squarciarne i cuscini e le coperte, a gettare per terra le boccette e i
profumi
ordinatamente allineati sul tavolino da toilette, a spazzare via
dall’armadio
gli abiti che le aveva regalato e che poche volte aveva avuto modo di
vederle
indosso, distruggendoli con feroce piacere e lasciando cadere tutto
intorno a
sé i residui delle stoffe preziose. Non voleva
più avere nulla a che fare con
lei, né con ciò che le era appartenuto! Quando
ebbe finito con quella camera
non rimase più nulla di integro, eppure il suo profumo
permase, facendolo
ringhiare di frustrazione. Batté un pugno contro la parete
di roccia sperando
che quel dolore lo distogliesse dalle altre pene, ma invano; purtroppo
sapeva
che tutta quella devastazione non sarebbe bastata a togliersi di mente
la
ragazza.
Qualcosa
di umido gli bagnò le guance, ed Erik chiuse gli occhi,
sopraffatto dalla
sofferenza.
«Perché
non riesco a odiarti?» Sussurrò, talmente piano
che egli stesso si chiese se
avesse pronunciato quelle parole ad alta voce o se le avesse solo
pensate. Con
un’ultima occhiata vacua alla stanza, volse le spalle a
quello scempio e se ne
andò, abbandonando i sotterranei.
Nescio, sed
fieri sentio et
excrucior.
[Catullo, Carme 85]
__________________________________________________________________________________________________________________
Angolo
Autrice:
Altro
capitolo! Possibile che quando ho da studiare mi viene tutta
l'ispirazione di questo mondo? Ebbene sì, purtroppo o per
fortuna è possibile :D Comunque, questo è un
semplicissimo capitolo di transizione, non succede granché -
abbiamo solo un breve tête-à-tête tra
Erik e il suo fidato segretario, il famoso Bamdad che mi duole aver
relegato ad un ruolo molto più che secondario quando invece
volevo dargli un po' più di spessore... Spero di essermi
fatta perdonare in questo capitolo dai pochi fan che questo pover'uomo
è riuscito comunque a racimolare :D
Spero anche di non avervi intristito troppo con questo capitolo, ma per
poter apprezzare il piacere serve il dolore, quindi...
ù_ù
Come al solito, ringrazio tutti coloro che leggono e che continuano a
seguire questa storia, anche malgrado i ritardi vari ;) Un bacio e un
abbraccio a tutti, ci leggiamo al prossimo aggiornamento! Come sempre,
vostra
Niglia.
|
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Capitolo 33 *** 31. Il luogo a cui si appartiene ***
Chapitre
31
Il
luogo a cui si
appartiene
Gennaio,
ventunesimo secolo. Parigi.
Il
rientro non fu come Jean-Louis l’aveva immaginato. Aveva
creduto che Giulia,
dopo il comprensibile disorientamento iniziale, sarebbe stata felice di
essere
ritornata a casa sua, dalla sua famiglia, circondata solo da persone
che le
volevano bene come sangue del proprio sangue e che avevano rivoltato la
città e
lo stato, persino, da cima a fondo pur di ritrovarla; invece,
già dalla prima
notte era diventata scontrosa, taciturna e irritabile, aveva pianto
silenziosamente nel togliersi lo scomodo costume in maschera che
indossava e si
era chiusa in camera sua con la scusa di essere troppo stanca per poter
affrontare qualsiasi argomento. Non aveva toccato cibo, sentendosi
all’improvviso estranea a quella vecchia vita; aveva voluto
solo acqua,
un’aspirina, ed era scivolata in un pietoso sonno indotto dai
farmaci pur di
non pensare a quello che aveva fatto. A chi
aveva tradito.
Andò
avanti così per tutta la prima settimana, con la madre che
la obbligava a
mandare giù qualcosa per non lasciarsi deperire, il padre
che faceva avanti e
indietro davanti alla porta della sua stanza senza sapere come
comportarsi e il
fratello che borbottava, malediceva e inveiva contro
quell’uomo maledetto e
quella follia del teatro che collegava la sua epoca con la loro.
Considerato
il silenzio nel quale si era chiusa Giulia non appena ebbero rimesso
piede a
casa, a Jean non era rimasto molto altro da fare se non trovare il
coraggio di
prendere i propri genitori da una parte e spiegare ad entrambi la
scioccante
verità che c’era dietro la sparizione della loro
figlia adottiva. La sua
scomparsa dal mese di ottobre era già di per sé
traumatizzante senza che ci si
aggiungesse anche un improbabile viaggio del tempo, e Jean non poteva
di certo
biasimare i coniugi Nilsson se stentavano a credere alla sua storia;
tuttavia,
l’abito che la ragazza aveva portato con sé
– e che sicuramente non poteva aver
trovato in un semplice mercatino d’antiquariato, vista la
squisita fattura, i
ricami sottili e la stoffa pregiata – aveva fornito una
valida prova a sostegno
di quanto raccontato dal ragazzo. E ad ogni modo la
veridicità o meno di quella
vicenda passava in secondo piano alla luce del fatto che Giulia era
finalmente
tornata a casa, più o meno sana e salva, benché
decisamente più introversa e
malinconica rispetto a com’era prima di sparire. La madre
aveva provato a
convincerla a fare qualcosa per scrollarsi di dosso
quell’apatia, come anche
prendere un libro in mano e riprendere a studiare, ma
l’università era, al
momento, l’ultimo dei suoi pensieri. Sembrava essere sotto
shock, e nulla di
quanto le veniva detto pareva poterla scuotere.
Il
suo malumore e la tristezza che emanava stavano rapidamente portando
Jean-Louis
a domandarsi se avesse fatto bene, in fondo, a riportarla indietro.
Certo, gli
era sembrata molto sicura di sé quando l’aveva
pregato di ricondurla a casa, e
lui non si era fatto di sicuro pregare giacché attendeva da
mesi quel momento,
eppure era più che convinto che Giulia si fosse pentita
della sua decisione
subito dopo aver messo piede nel camerino maledetto. Ma che fosse
dannato se le
avesse permesso di tornare indietro da quell’uomo, quando era
palese che era da
lui che aveva voluto scappare!
***
Un mese dopo.
Se
anche i familiari di Giulia avevano sperato che, con il passare del
tempo,
l’umore della ragazza avrebbe finito con il risollevarsi,
magari anche
all’improvviso, dopo quattro settimane di silenzi, pianti
soffocati nel cuscino
e assenza del desiderio di fare qualsiasi cosa – anche solo
uscire di casa –
avevano dovuto tristemente ricredersi. Invece di migliorare, la
situazione
pareva essersi fatta ancora più grave, tanto che monsieur
Nilsson iniziò ad
avanzare l’ipotesi di far vedere la giovane da un qualche
specialista. Nessuno
di loro avrebbe mai voluto mandare Giulia da uno psicologo, ma
d’altra parte il
suo attuale stato d’animo poteva essere una conseguenza della
sua “scomparsa” –
riguardo la quale continuavano a sapere ben poche cose, dato che lei
non si era
mai confidata – qualcosa, insomma, che solo un dottore
avrebbe potuto
risolvere. Che cosa ne potevano sapere loro, d’altra parte,
di shock emotivi?
Tuttavia,
madame Nilsson non era dello stesso parere del marito. Per niente al
mondo
avrebbe mandato la figlia da uno strizzacervelli, come lei stessa lo
definiva,
perché temeva che in tal caso la giovane sarebbe potuta
entrare nel girone
malato e senza via di scampo degli antidepressivi e di
chissà quale altra
diavoleria, quando invece tutto ciò di cui aveva bisogno
Giulia era una
violenta scrollata e tutto l’affetto che potevano darle. Per
questo l’idea del
dottore non venne più approfondita, benché
Jean-Louis, insieme al padre, ne
stesse già apprezzando i possibili effetti benefici. Era
decisamente il momento
di correre ai ripari, e la donna aveva una mezza trovata di come fare
per
scuotere la figlia.
Era
il pomeriggio del quattro febbraio, fuori un leggero nevischio stava
imbiancando i lati delle strade sporcandosi di grigio e nero non appena
toccava
terra, perdendo il suo candore e trasformandosi in pozze
d’acqua gelida.
Iniziava già a far buio, e dentro casa Eloise Gauthier aveva
già acceso la luce
artificiale, di un tenue colore giallo, che dava l’illusione
di riscaldare le
stanze. Uscì dalla cucina e raggiunse il salotto, dal quale
proveniva solo il
brusio in sottofondo della radio accesa, e senza dire una sola parola
si
sedette sul divano posto di fronte alla poltrona nella quale sua figlia
era
rannicchiata, lo sguardo perso a fissare le fiamme che ardevano nel
caminetto,
senza tuttavia vederle davvero; il suo corpo era lì, ma la
sua mente, i suoi
pensieri, dov’erano rimasti? E con
chi,
soprattutto? Trattenendo un sospiro di triste rassegnazione, la donna
riuscì ad
attirare la sua attenzione porgendole una tazza di tè
fumante, che la giovane
prese con un’espressione vagamente interrogativa.
«Tè
con miele e limone, come piace a te», le spiegò
con dolcezza, benché il
pungente e inequivocabile aroma della bevanda che aleggiava tutto
intorno
rendesse superfluo il chiarimento.
«Grazie,
mamma», mormorò Giulia, abbassando gli occhi sulla
tazza e ruotando il
cucchiaino per sciogliere lo strato di miele che si era annidato sul
fondo.
La
donna la osservò in silenzio attendendo a sua volta che il
proprio tè si
raffreddasse, e solo dopo averne sorbito un sorso osò
spezzare il silenzio. «Hai
voglia di parlare con me, amore?» Chiese, accennando un breve
sorriso.
Giulia
si lasciò sfuggire un lieve sospiro, che tuttavia venne
colto perfettamente
dalla madre. «Non c’è niente di cui
parlare. Sono solo… ancora un po’
disorientata. Mi passerà, mamma, stai tranquilla»,
replicò la giovane senza
alzare lo sguardo, continuando a girare il cucchiaino con un sottile
rumore di
ceramica raschiata che stava diventando pericolosamente irritante.
Eloise si
astenne dal commentare che quel suo atteggiamento disorientato
stava andando ormai avanti da più di un mese, e che
dubitava che le sarebbe mai passato del tutto.
«Se
tu non hai voglia di parlare, tesoro, allora lo farò
io», esordì dopo un po’,
stringendo la tazza con entrambe le mani per godere del calore che
sprigionava.
«Hai voglia di ascoltare una storia?»
Aggrottando
leggermente la fronte con aria confusa – credeva
di aver abbondantemente superato la fase delle favole della buonanotte,
in
fondo – Giulia sollevò lo sguardo dal
suo tè per posarlo sulla donna che le
sedeva di fronte; l’espressione dolce ma risoluta che le vide
in viso accese
suo malgrado il suo interesse, e con un breve cenno di assenso del capo
le fece
capire che era pronta ad ascoltare. Eloise Gauthier prese un profondo
respiro,
bevve un ennesimo sorso di tè bollente e, socchiudendo gli
occhi come se si
stesse perdendo in ricordi lontani, gentilmente iniziò a
raccontare.
«Quella
notte avevo recitato nella Madame
Butterfly, uno dei miei ruoli preferiti. Dopo lo spettacolo,
mentre stavo
uscendo dal teatro per tornare a casa con tuo padre e Jean-Louis, mi
accorsi di
aver dimenticato la borsa, con documenti e altre cose importanti, nel
mio
camerino; perciò dissi loro di aspettarmi in macchina e
tornai dentro
l’edificio per riprenderla. Potrà sembrarti
strano, ma quella fu la prima volta
che vidi l’Opèra vuota, pressoché buia,
senza una sola anima che si
affaccendasse avanti e indietro come durante il resto del giorno.
C’ero solo io
e la guardia di sicurezza che mi aveva fatto rientrare gentilmente
dall’ingresso
secondario, ma che non aveva potuto accompagnarmi oltre
perché non poteva
lasciare la porta senza controllo. Devo ammettere che,
nell’attraversare così
il teatro, ebbi quasi paura, anche se io non sono mai stata una persona
troppo
superstiziosa.
«Comunque,
raggiunsi il corridoio dei camerini. Le luci delle applique
erano spente, ma la guardia mi aveva lasciato una pila
elettrica e con questa riuscii ad arrivare nella mia cabina. Entrai,
recuperai
la borsa senza problemi e riuscii… ma, non appena ebbi
rimesso piede fuori, nel
corridoio, udii uno strano rumore. Sembravano dei gemiti lievi,
attutiti come
se provenissero dall’interno delle pareti, e solo dopo aver
prestato una
maggior attenzione mi resi conto che si trattava del pianto soffocato
di un
bambino. Piuttosto perplessa, ancor prima di essere spaventata, mi
incamminai
verso la direzione dalla quale sembrava provenire il pianto, e
così facendo
raggiunsi il fondo dell’andito, dove ci sono due o tre
camerini vecchi e in
disuso, nei quali non entra praticamente nessuno. Adesso che ci ero
così vicina,
era impossibile dubitare che quei singhiozzi non provenissero da
lì: premetti
l’orecchio contro la porta e il pianto si fece più
forte, facendomi sussultare.
Cosa diavolo ci faceva un bambino lì, e a
quell’ora? Era il figlio di qualche
spettatore rimasto intrappolato nel camerino? O, peggio
ancora… Era stato
abbandonato?
«Capisci
che non potevo andarmene senza approfondire quella faccenda, e confido
che
anche tu avresti fatto lo stesso. Cercando di non farmi prendere dal
panico,
abbassai e sollevai la maniglia forzandola ad aprirsi, dato che non
avevo tempo
per cercare una chiave o per richiamare la guardia; per fortuna, la
serratura
era vecchia e arrugginita, e con un colpo ben assestato riuscii a
rompere il
passante e a spalancare la porta. Mi affacciai sull’uscio e
puntai la luce
della torcia verso l’interno del camerino, rimanendo per un
istante abbagliata
dato che la luce aveva incontrato la superficie di un enorme specchio e
mi si
era ritorta contro. Spostai il raggio della pila e illuminai
gradualmente tutta
la stanza: persi una manciata di secondi a studiare
l’ambiente, dato che mi
pareva di aver fatto un salto nel passato. Il mobilio era ricoperto di
polvere,
le cornici dei quadri che un tempo dovevano essere state dorate
apparivano
scure, annerite, e persino la tappezzeria era sbiadita e, in alcuni
punti,
addirittura era staccata dal muro e pendeva verso il pavimento, insieme
ai
sottili fili di qualche ragnatela. Era completamente diverso dal resto
dei
camerini degli artisti, dava l’impressione di essere rimasto
sigillato da più
di un secolo.
«Ad
ogni modo, non c’era tempo per ammirare la camera. Il pianto
del neonato adesso
era più forte e nitido, i suoi singhiozzi straziavano il
cuore, così mi
affrettai ad entrare nella stanza e a capire dove potesse
trovarsi… Non ci
volle molto prima che capissi che si trovava sulla chaise-longue,
nascosto
dallo schienale che risultava rivolto verso la porta. Raggiunsi
l’ottomana e
l’aggirai, e quando puntai la luce su quel fagotto il suo
piagnucolio cessò per
un attimo, probabilmente infastidito da tutto quel chiarore. Era una
cosa così
piccola e tenera… Dalla coperta che lo avvolgeva sbucavano
soltanto le manine
paffute strette a pugno e il viso rosso dal pianto, con gli occhi
stretti e la
boccuccia imbronciata e i capelli tanto biondi e chiari da essere
praticamente
invisibili. Non resistetti e lo presi in braccio, e non appena iniziai
a
dondolarlo la sua espressione si rasserenò e si
portò il pollice tra le labbra,
addormentandosi quasi immediatamente.
«Non
sapevo che cosa fare. Se la guardia giurata che c’era
all’ingresso l’avesse
visto, avrebbe potuto impedirmi di portarlo a casa, chiamare la
polizia,
denunciare il ritrovamento, e Dio solo sa
cos’altro… Per cui decisi di
nasconderlo sotto il cappotto, pregando che non si risvegliasse e
riprendesse a
piangere in un momento inopportuno. Diedi un veloce sguardo in giro per
assicurarmi che non ci fosse qualcos’altro, accanto al
bambino, che potesse
servirmi, ma il camerino era muto e vuoto come una tomba, e altrettanto
inquietante. Per cui mi affrettai ad uscire da lì, richiusi
la porta alla
bell’è meglio – potrei giurare di aver
sentito scattare nuovamente la serratura
che credevo di avere rotto, come se si fosse appena richiusa a chiave
da sola –
e uscii il più velocemente possibile, con quel fagotto
nascosto sotto
l’impermeabile.
«Grazie
al cielo e grazie al buio, la guardia non si accorse di niente. Mi
augurò la
buonanotte e io sgattaiolai nella macchina di tuo padre con il cuore
che
batteva all’impazzata ma con un’euforia addosso che
non ti immagini. Solo
quando fummo lontani, nel traffico del centro, aprii il cappotto e
mostrai il
mio dolce bottino. Capii che era una bambina solo più tardi,
una volta arrivati
a casa, quando ti spogliai per farti un bel bagno caldo e assicurarmi
che non
prendessi qualche gelone. Sì, tesoro, eri tu quella
bambina», concluse con un
mezzo sorriso, per quanto nel suo sguardo aleggiasse un velo di ansia e
preoccupazione nell’attendere un qualunque tipo di reazione
della ragazza.
Da
parte sua, Giulia era piuttosto a corto di fiato e di parole. Sapeva di
essere
stata adottata, quello non era certo un segreto – sua madre
glielo aveva detto
non appena era stata abbastanza grande da comprendere che questo non la
rendeva
inferiore a Jean-Louis agli occhi dei suoi genitori, e che il loro bene
era
illimitato allo stesso modo per entrambi i ragazzi – ma
ciò che non sapeva
erano le circostanze di tale adozione; quelle erano sempre state un
mistero,
per quanto Giulia non avesse mai avvertito la necessità di
approfondire le
ricerche nel timore di dare un dispiacere alla madre e al padre.
Sì, ogni tanto
le capitava di fantasticare su chi potessero essere davvero i suoi
genitori –
da chi potesse aver preso quel taglio degli occhi, o quella bocca, o
quel naso,
che erano così palesemente estranei ai lineamenti Gauthier o
Nilsson – ma erano
solo sciocche fantasie di adolescente, paragonabili quasi a delle
storie della
buonanotte; di certo, non immaginava che le sue origini sarebbero state
addirittura così ignote. Essere addirittura trovata
all’interno del teatro?
Oscillava tra l’essere scioccata o intrigata
dall’idea – quale genitore avrebbe
fatto una cosa simile?
Dopo
averle lasciato del tempo per assimilare quel vagone di informazioni
inaspettate, Eloise riprese a parlare con più tenerezza di
quanto avesse usato
finora. «Io non so chi o che cosa ti abbia lasciato in quel
camerino, tesoro, e
a questo punto non so neppure quando»,
si permise un leggero sorriso nel vedere gli occhi della figlia
adottiva allargarsi
impercettibilmente nell’intuire le possibili implicazioni di
quella
precisazione. «Tu mi conosci, e sai che non credo in cose
come il destino, o il
fato, o il volere di una qualche divinità
onnipotente… Però credo che, se in
qualche modo sei finita in un’altra epoca, e se la vita che
hai trascorso là ti
calza più a pennello di questa, ecco, ci
dev’essere un motivo.»
Allungò
una mano a prendere quella, tremante, di Giulia, e il suo sorriso si
trasformò
in un’ombra triste e rassegnata, che tuttavia conservava la
dolcezza materna
che la giovane era sempre stata abituata a vedere. «Ascoltami
bene, perché non
sai quanto sia doloroso, per me, dirti queste cose. Io non ho avuto la
fortuna
di sentirti crescere dentro di me e di regalarti al mondo, purtroppo,
ma
qualcun altro l’ha fatto e ti ha regalato a me, e io spero di
averti dato tutto
ciò che una madre può dare alla propria figlia;
tuttavia in questi ultimi
vent’anni ho convissuto con la consapevolezza che un giorno
saresti andata via
a cercare le tue vere radici, o comunque a iniziare una vita tutta tua
fuori
dal nido materno. E se tu la tua vita la vuoi costruire in quel luogo,
amore
mio, io non farò nulla per impedirtelo. So che dentro di te
hai già preso
questa decisione, e che stavi solo aspettando che qualcuno ti desse il
suo
consenso, ma questa è una cosa che devi stabilire tu, solo
tu, senza il timore
di poter far soffrire qualcuno. Sarai sempre la mia bambina, Giulia, e
mi
mancherai da morire, ma ad essere sincera mi farebbe più
male vederti appassire
qui, triste, piuttosto che sapere che sei felice da un’altra
parte.»
Giulia
non era riuscita a trattenere le lacrime, così le aveva
lasciate scivolare via,
sollevando di tanto in tanto una mano libera per asciugare le scie
umide che
rimanevano sul suo viso. «Mamma, io… Ho bisogno
di te. Come farò senza i tuoi consigli, senza i tuoi
abbracci, senza te che mi
consoli…?» Mormorò con la voce
tremante, tirando su col naso e sentendosi
improvvisamente piccola, stupida e impotente.
Madame
Gauthier allungò le braccia verso di lei e la
attirò in un abbraccio forte e
soffocante, al quale tuttavia la ragazza si aggrappò con
tutte le sue forze
prima di lasciarsi andare a un lungo pianto liberatorio, un pianto che
aveva
covato dentro di lei da quando era tornata a casa ma che aveva sempre
cercato
di tenere sepolto nelle profondità del suo petto per evitare
di farsi vedere in
quelle ben misere condizioni. Ma quella era sua madre, se non capiva
lei le
ragioni di quelle lacrime allora chi, per l’amor del Cielo,
lo avrebbe mai
potuto fare?
«I
figli sopravvivono senza i loro genitori, tesoro mio, fa parte della
vita»,
fece a mezza voce la donna, accarezzando i capelli della ragazza.
«All’inizio è
doloroso, lo so, fa terribilmente male, non posso negarlo e ti mentirei
se
dicessi il contrario. Ma sei grande, sei forte, e sei una giovane
donna, ci
farai presto il callo e ti rimboccherai le maniche per scrivere il
primo
capitolo della tua nuova vita. E
poi
non sarai da sola, Giulia, mi sbaglio? Hai lasciato qualcuno,
dall’altra parte, e raggiungere quel qualcuno è
senza
dubbio una cosa migliore da fare che restare qui insieme ai tuoi
genitori
vecchi e brontoloni», aggiunse con un sorriso che la figlia
non poté vedere,
cercando di rendere più spensierato il tono di quella
gravosa conversazione.
Eloise accarezzò ancora a lungo i capelli della figlia,
facendo scorrere le
dita tra le sue onde castane attraversate da naturali ciocche bionde,
mormorando
a bocca chiusa una vecchia ninna nanna. La ragazza si lasciò
cullare,
socchiudendo gli occhi e posando l’orecchio sul petto della
madre laddove
meglio udiva i battiti del suo cuore; quanto le era mancato quel
contatto,
anche malgrado la perdita della memoria! Sì, aveva fatto
bene a tornare, anche
se l’aveva fatto solo per dir loro addio…
Come
se in quel silenzio avesse appena finito di maturare
un’ennesima idea, madame
Gauthier inspirò con fare preoccupato e smise di coccolare
Giulia, posandole le
mani sulle spalle e scostandosi appena per guardarla in viso.
«A meno che…»
Esordì, titubante.
La
ragazza tirò su col naso e si asciugò
l’ultima lacrima, inarcando un
sopracciglio con aria perplessa e curiosa insieme. «A meno
che cosa, mamma?»
Eloise
imitò il gesto della figlia e aggrottò a sua
volta la fronte. «A
meno che, non ci siano problemi con questo
misterioso qualcuno di cui tu non
mi
hai ancora sufficientemente parlato e che Jean non vuole nemmeno sentir
nominare», continuò abbassando di un tono la voce,
assumendo un’aria apprensiva
e severa che lasciava trasparire chiaramente quali fossero le sue
silenziose
considerazioni al riguardo.
Il termine problema
è un modo riduttivo di chiamare l’intera faccenda,
si ritrovò a
pensare la ragazza, distogliendo lo sguardo dalla madre e fissando un
angolo
indefinito del tappeto persiano che ricopriva la superficie di parquet
dinnanzi
al camino. Quel qualcuno che non riusciva a togliersi di mente aveva
cercato di
trattenerla con la forza e con l’inganno, l’aveva
minacciata la prima volta che
le era apparso davanti e aveva cercato di terrorizzarla rapendola e
portandola
di nascosto nella sua dimora sotterranea; aveva confermato tutto
ciò che le
aveva raccontato Meg – tutta la terribile storia del fantasma
dell’Opèra – e di
conseguenza poteva aggiungere anche l’omicidio a quella lunga
lista di
complicazioni. Di certo, col senno di una donna emancipata del
ventunesimo
secolo, non poteva semplicemente metterci una pietra sopra e
dimenticare il
torbido passato che Erik si portava appresso al pari della sua maschera.
Tuttavia,
se avesse anche solo accennato in minima parte a ciò che
sapeva, sua madre,
anche malgrado il recente discorso, le avrebbe impedito con tutti i
mezzi di
tornare indietro. Sarebbe stato preoccupante il contrario.
«Non ci sono… problemi»,
riuscì a dire alla fine,
giocherellando con l’orlo del proprio maglione.
«Come possono esserci problemi
se io e lui non stiamo neppure insieme?» Santo
cielo, quanto stonavano quelle parole. Curioso come non si trovasse
più
completamente a suo agio con certi modi di dire… O forse era
solo il concetto
scialbo dello “stare insieme” che mal si adattava a
Erik: lui rievocava di più
il pensiero di una passione così ardente, così
bruciante, così totale da far mozzare
il fiato e venire la pelle d’oca…
«Ma
forse è proprio questo il problema»,
ribatté logicamente Eloise, inconsapevole
di ciò che stava passando per la mente della figlia.
«Ciò che ti è accaduto ha
dell’incredibile, tesoro, e se è stato difficile
da credere per noi, che
comunque siamo nati e cresciuti in un tempo dove le scoperte
scientifiche ci
stanno quasi impedendo di provare sorpresa davanti a qualsiasi cosa,
ebbene,
immagina come dev’essersi sentito un uomo di
quell’epoca, con una determinata
mentalità, e in più, a quanto mi è
parso di capire, follemente innamorato,
quando tu sei sparita senza quasi una spiegazione…»
«Stai
dicendo che ho sbagliato ad andarmene da lì?»
Domandò Giulia perplessa. «Mamma,
anche se fossi appartenuta al suo tempo, o lui al mio, una volta
riacquistata
la memoria avrei cercato comunque di tornare da voi, che sicuramente
eravate
molto più in pena per me dato che non avevate mie notizie da
mesi. Lui si è
comportato male, e ha sbagliato di gran lunga se pensava di potermi
trattenere
con la forza o con i ricatti, o peggio, facendomi sentire in
colpa… Ti rendi
conto, mamma, che mi ha chiesto di sposarlo? Che l’ha fatto
solo per impedirmi
di lasciarlo?»
Eloise
aveva scoperto più cose in quegli ultimi due minuti che in
tutto il mese in cui
sua figlia era stata a casa; i suoi occhi grigi, circondati da folte
ciglia
nere, si allargarono impercettibilmente e per un istante
l’indignazione le
impedì di continuare a difendere il comportamento dello
sconosciuto che le
avrebbe portato via la sua unica figlia. «Sposarlo? Dio mio,
ma sei così
giovane!» Fu il suo primo, istintivo pensiero. «E
lui, quanti anni ha?»
Arrossendo,
Giulia si limitò a scrollare le spalle. «Non
gliel’ho mai chiesto, ad essere
sincera», rispose, ma si tenne per sé le sue
ipotesi – Erik doveva avere almeno
dieci anni più di lei, infatti, ma era meglio
che questo, sua madre, non lo sapesse.
Improvvisamente,
scoprire qualcosa di più su quest’uomo misterioso
pareva essere diventato di
fondamentale importanza per madame Gauthier. «Non
gliel’hai chiesto! Beh,
dovrai rimediare. E dimmi un po’, lavora? Voglio dire, ti
potrà dare una vita
decorosa?»
«Mamma!»
Sbottò la ragazza, sorpresa dalla piega che aveva preso il
discorso e piuttosto
incredula al riguardo. «Mamma, non era questo il punto, mi
sembra! Che discorsi
fai?»
La
donna sollevò le mani in segno di resa ma senza tuttavia
abbandonare la sua
posizione. «Scusa se tua madre vuole sapere di più
sull’uomo di cui sei
innamorata», ribatté con un mezzo sorriso,
sforzandosi di non calcare troppo la
mano.
Il
rossore sulle guance della ragazza si accentuò notevolmente.
«Innamorata è
una parola grossa. Come fai
a dirlo se io per prima non so cosa provo per lui?»
Mormorò, cambiando tono di
voce e distogliendo lo sguardo dalla madre.
«Tesoro
mio», fece Eloise, allungando una mano per portarle una
ciocca di capelli
dietro l’orecchio. «È da quando sei
tornata che ti sei comportata come se ti
avessero strappato un pezzo di cuore. Credi che non me ne sia accorta?
Non hai
appetito, non hai sonno, ti addormenti solo dopo aver pianto a lungo e
non ti
ho neppure più sentita cantare… Hai una minima
idea di quanto mi faccia male
vederti in queste condizioni?»
Giulia
si strofinò gli occhi, sentendosi davvero stanca, sfinita,
consapevole che
prima o poi tutta quella tensione fisica e mentale avrebbe finito per
farla
crollare. Per non parlare di quel bruciante senso di colpa, poi, che
lentamente
la stava uccidendo. «Che cosa mi stai suggerendo di fare,
mamma?» Mormorò,
tornando a fissare il fuoco.
«Ti
sto suggerendo di tornare da lui», rispose dolcemente la
donna, nascondendo
dietro il suo tenero sorriso materno il dolore che quelle parole le
avevano
procurato. «Vai, digli quello che provi, stringilo, bacialo,
fa’ quello che più
ti sembra giusto, ma soprattutto cerca di non avere rimorsi. Forse
andrà bene,
forse no, chi può dirlo? Nel secondo caso, però,
sappi che potrai sempre
tornare indietro e trovare la tua vecchia mamma pronta a consolarti; ma
io ti
auguro con tutto il cuore che la situazione si volga a tuo favore, e se
non
dovessi tornare saprò che sei felice, da qualche parte, e
che non ho motivo di
temere per te.» Mentre pronunciava queste parole, una lacrima
scivolò dai suoi
occhi lucidi, accarezzandole le guance rosee per poi sbiadire poco al
di sotto
dello zigomo.
«Mamma…»
Balbettò Giulia, incapace di trattenere oltre il pianto. Si
chinò verso sua
madre e si gettò, quasi con violenza, tra le sue braccia,
stringendola forte
come se fosse stata una zattera in un naufragio, e bagnando il suo
maglione
profumato di una qualche fragranza costosa tipica di lei di lacrime
grate e al
contempo disperate. «Ti voglio bene, maman.»
Il
sospiro di Eloise le mozzò per un attimo il respiro, mentre
ricambiava l’abbraccio
della figlia e chinava il capo, in un gesto tipicamente protettivo e,
in un
certo modo, possessivo. «Ti voglio bene anche io, bambina
mia.»
Quella
notte, a cena, mangiarono per la prima volta dopo mesi tutti insieme
come la
famiglia che erano stati un tempo, spensierati, allegri e rilassati.
Giulia rise
fino alle lacrime nell’ascoltare vecchi aneddoti
dell’infanzia sua e del
fratello raccontati in sincrono dai genitori, e persino il padre, in
genere parecchio
introverso e un poco burbero, si lasciò andare come aveva
fatto poche altre
volte. Per un paio d’ore, Eloise si cullò
nell’illusione che tutto sarebbe
potuto tornare come prima, ma in realtà aveva già
fatto i conti con la
consapevolezza che quello sarebbe stato l’ultimo pasto
consumato con l’intera
famiglia presente.
E,
benché ciò le spezzasse il cuore, sapeva bene che
non poteva andare che così.
***
Jean-Louis
era stato colui che l’aveva riportata tra le braccia dei
genitori, e Jean-Louis
doveva essere lo stesso che l’avrebbe riaccompagnata
indietro, al luogo – e al
tempo – a cui l’aveva sottratta. Il ragazzo,
inutile chiarirlo, non era per
niente contento di quella decisione: si era cullato
nell’inutile convinzione
che, ora che la sorellastra era ritornata, nulla avrebbe più
potuta
allontanarla da lui, e così le aveva dato tutto il tempo che
le era necessario
per riprendersi, rimanendole accanto con silenziose premure,
addormentandosi
nel suo letto per farla sentire meno sola, coccolandola e
vezzeggiandola senza
mai neppure accennare a ciò che realmente provava nei suoi
confronti, sicuro
che in futuro le occasioni non sarebbero mancate… E invece,
adesso, scopriva
che apparentemente non c’era più alcun futuro per
loro due. Giulia aveva preso
la stupida decisione di ritornare dal suo spaventoso spasimante del
passato –
di cui, adesso che ci pensava, non aveva neppure mai visto il volto
– senza minimamente
pensare alle conseguenze che ciò poteva causare. Che
diamine, stava
abbandonando la sua famiglia per uno sconosciuto che non aveva esitato
a
minacciarla pur di trattenerla al suo fianco! E adesso lei gli stava
correndo
tra le braccia di sua spontanea volontà? Era una cosa
talmente assurda che Jean
non era certo di poterla sopportare.
Fu
per questo che non disse una sola parola, lungo il tragitto in macchina
che
portava da casa loro al teatro. Rimase chiuso in un ostinato silenzio,
e da
parte sua anche Giulia sembrava immersa in chissà quali
pensieri, sicché
nessuno dei due cercò di intavolare una conversazione
– e ciò fece arrabbiare
il ragazzo ancora di più: maledizione, probabilmente non si
sarebbero mai più
visti e lei non aveva niente da dirgli? Era suo fratello, per la
miseria!
Stavolta,
per entrare a teatro, si mescolarono tra la folla di turisti che
premeva per
accedere al teatro, sperando che nessuno li riconoscesse e li fermasse
per
tempestarli di domande: non sarebbe stato affatto facile spiegare la
presenza
di Giulia e il motivo per cui si trovava
all’Opéra, dopo tutto quello che le
era successo. Una volta giunti nella platea riuscirono a sgattaiolare
via dal
gruppo di visitatori, raggiungendo senza fatica il corridoio nel quale
si
affacciavano le porte dei vari palchi per poi dirigersi, da
lì, verso le quinte
e la zona riservata agli artisti e agli operai. Sempre senza lasciare
la mano
della sorella, fece strada e corse, quasi, attraverso corridoi e
gallerie prive
di finestre ma con una grande abbondanza di lampade e luci soffuse, che
Giulia
osservò con un certo stupore dato che quei passaggi li
ricordava illuminati da lampade
a gas e poche candele.
Fortunatamente
non incontrarono nessuno lungo il loro tragitto, probabilmente
perché gli
artisti erano tutti intenti a provare nelle varie sale adibite a prove;
non
dovettero quindi spiegare ad anima viva il perché si
stessero dirigendo verso l’ala
disabitata della galleria, laddove si trovavano gli sgabuzzini e le
stanze in
disuso nelle quali venivano ammassati oggetti rotti o privi di
utilità. Ma non
era un ripostiglio quello che i due giovani stavano cercando, e tale
segreto
era parte della ragione per la quale non desideravano che altri ne
venissero a
conoscenza.
Quando
raggiunsero la fine del corridoio, sulla cui parete si stagliava la
vecchia porta
bianca della loge perdue, come a
suo
tempo l’aveva chiamata madame Sindial, i due giovani
arrestarono la loro corsa
e si fermarono, silenziosi ma con una strana sensazione di aspettativa
che
premeva sul petto. Si scambiarono un rapido sguardo, poi Jean-Louis
fece un
cenno alla ragazza per invitarla a farsi avanti per prima; lei prese un
profondo
respiro, e con fare risoluto coprì gli ultimi passi che la
separavano dall’uscio…
Ma, prima di abbassare la maniglia d’ottone, Giulia si
voltò verso il fratello
e lo fissò a lungo. «Jean… Mi dispiace
tanto», mormorò sincera, notando la sua
espressione gelida.
Il
ragazzo scosse la testa. «Vai, Jules, prima che cambi idea e
ti porti via di
peso», ribatté lui, smorzando un po’ il
tono brusco della risposta con l’utilizzo
di quel nomignolo affettuoso.
Ma
lei non gli obbedì; fece ricadere il braccio lungo il
fianco, lasciando la
maniglia, e si diresse verso Jean per stringerlo in un abbraccio che
gli
avrebbe voluto dare già da tempo, ma che per un motivo o per
l’altro aveva
sempre dovuto trattenere. «Potrebbe anche andar
male», sussurrò contro il suo
petto, senza osare sollevare gli occhi e guardarlo. «Dammi
una settimana, poi…
per favore, torna a vedere com’è la situazione.
Così, eventualmente, potrò
rientrare con te, oppure tu ti accerterai semplicemente che sto bene e
potrai
tranquillizzare la mamma. Me lo prometti, Jean? Tornerai tra una
settimana?»
Come
poteva dirle di no?
Con
un sospiro rassegnato e, suo malgrado, anche sollevato, il ragazzo
annuì, sebbene
lei non potesse vederlo. «Sì, chèrie,
ci rivediamo tra sette giorni», acconsentì,
accarezzandole i capelli. «E sarà
meglio che quel tuo amico non ti abbia fatto del male, o potrei fargli
passare
l’arroganza che ha tutta d’un colpo.»
Giulia
rinunciò all’insistere che non si esprimesse
così quando parlava di Erik, e si
limitò a scostarsi da lui, sorridendo appena, comprensiva.
«Stai tranquillo,
Jean, mi so difendere», ribatté, un po’
meno angosciata di qualche secondo
prima.
«Ah,
un’altra cosa, Jules», aggiunse il ragazzo,
improvvisamente serio e preoccupato.
«Quando arrivi nei sotterranei… Sappi che
è un maledetto labirinto. Per non
perderti devi tenere la mano destra premuta contro il muro e non
staccarla mai,
e se finisci in un vicolo cieco, torna indietro, ma sempre senza
staccare la
mano dalla parete… Hai capito?»
La
sorella annuì. «Sì, sì, ho
capito. In ogni caso non preoccuparti, male che vada
Erik mi troverà svenuta da qualche parte»,
scherzò debolmente, stringendogli
una mano come se dovesse essere lei a fare coraggio a lui, e non
viceversa.
«Stai
attenta, Giulia», ripeté a mezza voce, chiamandola
per nome e attribuendo così
maggior gravità al tono. «Fosse per me non ti
lascerei andare, ma tu come al
solito hai bisogno di sbatterci la testa… Però,
mi raccomando, non fare niente
che ti possa mettere in pericolo.»
«Non
sto andando in guerra, Jean», replicò lei con un
sorriso incerto, scrollando
appena le spalle. L’occhiata del fratello fu piuttosto
eloquente, ma si astenne
dal ribattere e così pure fece lei. Si alzò sulla
punta dei piedi e gli
schioccò un bacio sulla guancia, indietreggiando prima che
lui potesse fare
qualcosa – abbracciarla, stringerla, o semplicemente
ricambiare il bacio – che le
facesse cambiare idea su quanto stava per fare. E cambiare idea in quel
momento
sarebbe stato davvero un gesto da codarda.
«Una
settimana, okay?» Ripeté, avvicinandosi alla porta.
Jean-Louis
annuì con rassegnata lentezza. «Una settimana,
sì», mormorò. La osservò
abbassare senza fatica la maniglia, fare un passo verso
l’interno del camerino e
voltarsi un’ultima volta per salutarlo, accennando un gesto
con la mano e un piccolo
sorriso. Poi la porta si richiuse alle sue spalle, e quel camerino
maledetto
inghiottì sua sorella per l’ennesima volta.
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Angolo Autrice.
Ritardo, tremendo
ritardo - vi chiedo scusa! Questo capitolo è stato davvero
ostico da scrivere, non sapevo come risolvere la faccenda e sono
consapevole del fatto che non sia uscito granché bene...
Anche se devo ammettere che mi è piaciuto aprire questa
parentesi sulla famiglia "moderna" della cara protagonista; mi chiedo
se nella realtà le avrebbero permesso davvero di tornare
indietro... Mah! Personalmente credo che mio padre mi avrebbe chiusa
dentro casa e buttato la chiave nella Senna, tanto per restare in tema
:D Comunque, conto di rifarmi con i prossimi capitoli! Se la cosa vi
può consolare, vi avviso che i capitoli 32 e 33 sono
già stati scritti, e che ho già intavolato le
idee fino al 37esimo
(sì, ho paura che siamo ancora un po' lontanucci dalla fine
vera e propria), anche se potrebbero esserci ritardi e contrattempi
dato che molto probabilmente cambierò idea e li
riscriverò - vediamo un po' che cosa mi suggerisce la mia
musa ispiratrice!
Come al solito, continuo a ringraziare tutti voi che continuate a
seguire questa storia anche dopo tanto tempo, ringrazio Ellyra per aver
recensito lo scorso capitolo e tutti gli altri che la aggiungono alle
Preferite, o alle Seguite, o alle Ricordate: grazie, grazie e ancora grazie!
Detto questo vi lascio, con la promessa - e stavolta credo di poterla
mantenere - di risentirci prestissimo con il prossimo capitolo :)
Baci e abbracci, sempre vostra affezionatissima
Niglia.
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Capitolo 34 *** 32. Negli abissi della sua follia ***
Chapitre
32
Negli
abissi della
sua follia
Parigi, 5 febbraio
1878.
Giulia
non aveva mai percorso da sola la strada che conduceva ai sotterranei.
Non
aveva alcuna idea di come fare per raggiungerli, l’unico
indizio utile che
possedeva era stato l’ultimo consiglio di Jean-Louis:
«Tieni la mano ben salda
sulla parete e non staccarla per nessuna ragione, o ti
perderai.»
Inoltre
non poteva contare sulla fortuita presenza di Erik come invece aveva
assicurato
a suo fratello, che in passato pareva accorrere in suo soccorso ogni
qualvolta
si trovava in difficoltà; senza considerare che, dopo ormai
più di un mese di
lontananza da quell’epoca, non aveva neppure la certezza di
trovarlo ancora lì,
come se la stesse aspettando. Che motivo avrebbe avuto per farlo,
comunque? Lei
non gli aveva mai fatto nessuna promessa, non gli aveva detto che
sarebbe
tornata, non gli aveva detto che lo amava, non gli aveva, insomma, dato
nessuna
speranza alla quale aggrapparsi mentre era via. Al contrario, il modo
brusco e rabbioso
in cui si erano lasciati la tormentava ancora, acuendo terribilmente il
suo
senso di colpa…
E
allora che cosa si aspettava?
Proprio nulla.
Tuttavia,
non avrebbe rinunciato ancora prima di tentarci.
Man
mano che avanzava nelle gelide gallerie, avvolta da
un’oscurità senza fine e da
un terribile silenzio che aggravava la sua inquietudine, iniziava a
riconoscere
la conformazione delle pareti, l’ubicazione delle torce
appese in supporti di
ferro, le gradinate in pietra che conducevano inesorabilmente sempre
più giù,
nelle viscere del teatro. Messa in agitazione da quei luoghi, che le
parevano
fin troppo morti e abbandonati per poter ospitare nel loro macabro
abbraccio un
proprietario vivo, Giulia
accelerò
notevolmente il passo, cullata dal rumore dei tacchi dei propri stivali
che
sbattevano sul pavimento e dal suo stesso respiro ansimante.
L’aria si
condensava davanti alle sue labbra socchiuse creando una nebbiolina che
accentuava l’atmosfera tetra dei corridoi, ma che non per
questo la fece
desistere.
Senza
mai staccare la mano dal muro, la ragazza giunse ad una scalinata che
sembrava
attorcigliarsi su se stessa come una spirale e penetrare
così a fondo negli
abissi scuri della terra che, affacciandosi alla balaustra, era
impossibile
vederne la fine. Tuttavia, se la memoria non la ingannava, proprio
laggiù si
trovava il lago sotterraneo, con il piccolo molo al quale Erik
attraccava la
sua barca… Il che significava che mancava davvero poco alla
sua meta. Ciò
nonostante, non appena ebbe posato il piede sul primo gradino, non
poté fare a
meno di rammentare ciò che l’uomo le aveva
spiegato la prima e unica volta che
avevano percorso quella strada per uscire dalle catacombe.
«Presta attenzione
a dove metti i piedi»,
l’aveva ammonita, lo sguardo terribilmente serio.
«I sotterranei del teatro
pullulano di trappole di ogni genere, e questa scala ne contiene solo
una delle
tante. Bada a non passarci mai da sola, se proprio devi scendere
quaggiù è
preferibile che tu prenda il percorso più lungo ma meno
pericoloso.»
Ebbene,
ormai era tardi per pensarci: non poteva di certo tornare indietro e
fare
un’altra strada, col rischio di perdersi definitivamente in
quel maledetto
labirinto. Preferiva rischiare e passare da lì, piuttosto
che perdere altro
tempo prezioso; non sapeva quanto credito dovesse dare al terribile
presentimento che l’aveva colta non appena aveva varcato la
soglia dello
specchio, al soffocante sentore di tragedia, ma visto tutto
ciò che le era
capitato era meglio non prendere nulla con troppa leggerezza.
Aggrappandosi
quindi con una presa salda al parapetto in marmo della scala, decise di
ispezionare ogni gradino, uno per volta, man mano che discendeva.
Così,
tenendosi ben salda, allungava un piede in avanti, lo premeva sul
gradino
seguente, attendeva un momento… e, se la trappola non
scattava, proseguiva e
ripeteva l’operazione. Era arrivata al trentaquattresimo
gradino quando accadde
qualcosa. La monotonia di tutto quel lavoro l’aveva
distratta, così quando il
suo piede sfiorò l’ennesimo scalino non
udì immediatamente lo scatto metallico
che esso aveva prodotto; sotto di lei la pietra svanì come
per magia e si aprì
una voragine che si affacciava su un vuoto terribile, strappandole un
grido di
terrore. Ormai era troppo protesa in avanti per poter riuscire a
tornare
indietro, così l’unica alternativa fu quella di
darsi una spinta e saltare
dall’altra parte della trappola. Udì la botola
richiudersi con un tonfo alle
sue spalle ma già aveva cessato di prestarle attenzione,
giacché i suoi
riflessi non erano così allenati da permetterle di atterrare
con un saldo
equilibrio su un gradino stabile. Fu per questo che mise un piede in
fallo e
inciampò malamente, cadendo sulla fredda pietra della
scalinata, sbattendo ogni
singolo centimetro quadrato del suo corpo e iniziando a rotolare con
sempre
maggior velocità verso il basso. Grazie a Dio, non erano
rimasti molti gradini
da fare e tutto finì in meno di un minuto, benché
alla ragazza il tempo sembrò
molto più lungo; miracolosamente, era riuscita a proteggere
volto e capo con le
braccia – temeva che nella caduta si sarebbe potuta provocare
una bella
commozione cerebrale, e arrivare da Erik, dopo un mese, in condizioni
pietose e
con un’ennesima amnesia non sarebbe di certo andato a suo
favore. Comunque, a
parte la sensazione di essersi appena ricoperta di innumerevoli lividi,
decretò
di essere abbastanza intera da poter proseguire indisturbata.
Con
un gemito dolorante si mise in piedi a fatica, zoppicando appena e
trovandosi
obbligata a fermarsi un momento per abituarsi alle tremende fitte che
sentiva
pulsare su tutta la superficie del proprio corpo; se non altro, il
dolore la
rassicurava sul fatto di essere ancora viva, anche malgrado quella
caduta.
Prendendo un profondo respiro raddrizzò la schiena, pronta a
continuare.
Per
sua fortuna non dovette camminare molto. La sponda del lago
sotterraneo, che
più volte aveva udito Erik definire, con una sorta di
macabro affetto, il suo Averno,
pareva attenderla con le
sue acque placide e nere come pece, sulle quali si riflettevano di
tanto in
tanto le luci delle fiaccole che, per grazia divina, ancora ardevano in
quella
zona delle catacombe. Come aveva silenziosamente sperato, la barca
dell’uomo
era là, attraccata ad un piccolo molo tramite una corda e un
anello di ferro.
Ora,
Giulia non aveva mai avuto modo di manovrare una barca, in vita sua,
tantomeno
una gondola; fortunatamente poteva vantarsi di avere una memoria
piuttosto
fotografica, e dato che aveva osservato più volte Erik
mentre remava e
conduceva l’imbarcazione con una facilità che
suscitava invidia, si convinse di
poterci riuscire a sua volta. D’altronde non aveva fatto
tutta quella strada
per poi gettare la spugna sul più bello. Pertanto
salì con cautela sulla
gondola e si rimise in piedi non senza fatica, conscia di essere
l’unica a
mantenerla in equilibrio; sciolse la corda che teneva la barca ancorata
al molo
e la ritirò sul fondo dello scafo per timore che potesse
agganciarsi a
qualcosa, poi afferrò il lungo remo e lo poggiò
ad una sorta di scalmo libero,
la forcola, che fungeva praticamente da leva per permettere una
conduzione più
agevole. Prendendo un profondo respiro e facendo pressione sulla
forcola, la
ragazza ruotò il remo e la gondola si spostò,
iniziando ad avanzare sulle acque
scure.
Non
fu un tragitto tranquillo; il lago era immerso nel buio, salvo qualche
saltuaria fiaccola che sbucava da dietro le colonne che parevano
sorgere dalla
superficie per innalzarsi in volte di pietra sopra la sua testa. Lo
scrosciare
dell’acqua che accarezzava i bordi della barca ad ogni remata
era l’unico suono
che udiva, se si escludeva il continuo gocciolio di umidità
che scivolava dalle
arcate. Continuò a guardarsi intorno, intimorita e cauta
– aveva il timore di
rovesciare la gondola se avesse fatto un gesto più brusco
del solito – con il
cuore che le batteva ferocemente in petto e quella sensazione di
angoscia che
non pareva volerla abbandonare. Chissà che genere di
trappole celava quel
bacino sotterraneo… Conoscendo Erik, sicuramente qualcosa di
spaventoso e
terribile.
Quando
giunse finalmente sulle rive della Dimora sul Lago, si accorse che
avrebbe comunque
dovuto fare l’unica cosa che avrebbe evitato volentieri. La
grata che
proteggeva i domini del fantasma da
chiunque fosse giunto là senza il suo espresso invito era,
come avrebbe dovuto
immaginare, abbassata; borbottando a mezza voce
un’imprecazione, Giulia spinse
con un ultimo sforzo la gondola verso l’inferriata, fino a
quando non la udì
sbattere con essa facendola traballare pericolosamente. La ragazza non
vide
altre alternative: liberandosi dei propri stivali, e abbandonandoli
sull’imbarcazione – li avrebbe comunque potuti
recuperare in seguito – si tuffò
in acqua completamente vestita prima di poter cambiare idea. Il
contatto con la
superficie gelida del lago, che parve richiudersi sopra la sua testa
come a
volerla risucchiare nelle sue profondità, le tolse il fiato
per un momento: non
si aspettava tutto quel gelo. I jeans e il maglione che indossava si
inzupparono in un batter d’occhio, appiccicandosi a lei e
gravandole addosso
con un peso che non riteneva possibile. Scalciò e
agitò con furia braccia e
gambe per risalire verso l’alto, la gola che già
bruciava per la mancanza di
ossigeno, e quasi non le parve vero quando l’aria
entrò in contatto con la
pelle bagnata del suo viso. Solo allora osò aprire gli
occhi, ansante e
disorientata: la grata era ancora lì, alla sua destra,
così vi si avvicinò
nuotando e aggrappandosi al freddo metallo nella frenetica ricerca di
un modo
per attraversarla e andare dall’altra parte.
Si
dovette immergere tre volte, gli occhi spalancati per non lasciarsi
sfuggire
nessun dettaglio, prima di scoprire che la griglia si sollevava dal
fondale del
lago di un metro abbondante. Ricaricata da un nuovo slancio di
ottimismo, tornò
a galla per prendere fiato e si rituffò per la quarta volta,
nuotando con tutte
le sue forze per raggiungere l’alveo del lago e di
conseguenza anche la sua
unica via di accesso alla proprietà del suo Maestro.
Cercò di evitare gli
spuntoni appuntiti nei quali terminava l’inferriata, ma
mentre attraversava il
passaggio il suo maglione si agganciò ad uno di essi.
Sentendosi trattenere
bruscamente alle spalle, Giulia rilasciò involontariamente
un po’ della sua
riserva di ossigeno, per poi pentirsene subito dopo:
strattonò la lana rimasta
aggrappata al ferro mentre i capelli le ondeggiavano davanti al volto
oscurandole la vista, e presa dal panico puntò i piedi sulla
grata e spinse con
tutte le sue forze. Così riuscì a liberarsi,
stracciandosi l’indumento ma
libera finalmente di nuotare verso la superficie.
Non
credeva di aver mai apprezzato una boccata d’aria come in
quel momento.
Rimase
per una manciata di secondi a galleggiare, ammollo nell’acqua
ghiacciata, fin
quando i suoi polmoni non si furono riabituati alla familiare
sensazione di
inspirare ed espirare, e solo allora si decise a nuotare verso la riva.
Man
mano che vi si avvicinava l’acqua si abbassava e lei
poté finalmente toccare il
fondo, percorrendo gli ultimi metri strisciando e camminando: si
sentiva
terribilmente stanca, sporca e dolorante. Si issò a fatica
sui gradini che
costituivano il pontile personale di Erik, e là rimase
accasciata fin quando il
freddo prepotente non giunse a ghiacciarle persino le ossa e i tremiti
la
costrinsero ad andare in cerca di qualcosa con cui riscaldarsi.
Sì
alzò, tossendo gli ultimi residui di acqua che aveva
ingerito, e mentre si
strizzava i lunghi capelli fradici gettò uno sguardo
distratto a ciò che la
circondava. Subito, però, la sua attenzione venne catturata
da un caos che non
si aspettava, e la ricerca di indumenti caldi e asciutti
passò in secondo
piano.
Non
aveva mai visto la dimora sul Lago in quelle condizioni: sembrava che
vi fosse
passato un uragano o, peggio, una folla inferocita. I drappi di velluto
che
abbellivano le pareti erano strappati, alcuni giacevano per terra
lasciando
nuda la parete di pietra, altri non erano che brandelli color porpora
sparsi
tutto intorno. Il pavimento era un ricettacolo di frammenti di vetro
– tutti gli specchi erano stati
distrutti
– stralci di spartiti, boccette ormai vuote che un tempo
avevano contenuto
inchiostro e quest’ultimo che, ormai secco, si era raggrumato
come chiazze di
sangue un po’ dappertutto. Petali secchi di rose rosse, ormai
quasi nere,
giacevano sparse su tutto quel macello, insieme a candele spezzate, una
poltrona rovesciata – quella dove
lei si
sedeva per ascoltarlo mentre suonava – e persino un
mezzobusto di ceramica
del quale il pezzo più grande rimasto era mezzo lato del
viso – macabra coincidenza.
L’unico
oggetto scampato alla follia di quella distruzione era
l’organo, che governava
maestoso su tutta la Dimora sul Lago, unico superstite della furia del
Fantasma.
Facendo
attenzione a non calpestare vetri né altro, visto che era
ancora scalza,
sorpassò il disastro del salone e andò ad
ispezionare le due camere da letto,
senza ormai sapere cosa aspettarsi; e
se
Erik, preso da quella furia – giacché non aveva
pressoché dubbi su chi fosse
l’autore di quella strage – avesse deciso
di…
No! Mio Dio, no,
non voleva nemmeno pensarci. Gocce d’acqua le rotolarono
lungo
le guance, e nel passarsi il dorso della mano per asciugarle non seppe
decidere
se provenissero dai suoi capelli o dai suoi occhi. Il terribile
pensiero che
Erik potesse essere morto era così osceno da bloccarle il
respiro, e doveva
decidere se i tremiti che la scuotevano fossero causati dal freddo o
dalla paura
di quello che poteva scoprire.
Deglutendo,
scostò una delle poche tende rimaste integre e si
affacciò su quella che era
stata la sua camera da letto, stringendo gli occhi per penetrare
attraverso
l’oscurità. Se il caos del salone
l’aveva spaventata, quello che trovò nella
stanza la lasciò senza fiato: sembrava che Erik si fosse
accanito con
particolare furore sugli oggetti personali che Giulia aveva lasciato
laggiù,
assicurandosi che nulla rimanesse integro dopo il suo passaggio. Le
ante
dell’armadio erano spalancate e i vestiti che vi erano stati
appesi erano ora
un ammasso scomposto di stoffe strappate, brandelli di pizzi e merletti
gettati
con rabbia per terra; sul tavolino da toilette non era rimasto
più nulla, le
spazzole, le boccette di profumo e tutto il maquillage
che poteva esserci sopra era stato spazzato via, e ora giaceva sul
pavimento,
saturando l’aria del puzzo creatosi dal miscuglio dei vari
oli e liquidi. I
cuscini del letto erano stati squarciati, e vi erano piume in ogni
dove: non
era rimasto più nulla di intatto.
Indietreggiando
fino ad uscire dalla stanza, fu con un enorme sforzo che si
proibì di piangere.
Che cosa aveva fatto? Aveva abbandonato Erik, era ritornata alla sua
vecchia
vita senza quasi voltarsi indietro, era naturale che lui fosse
infuriato… Se
fosse stato ancora vivo e in salute come lei si augurava con tutto il
cuore,
avrebbe voluto ancora avere qualcosa a che fare con lei?
Era
così disperata e disorientata da quella scoperta che non
ispezionò più il
pavimento mentre si dirigeva verso la stanza di Erik, così
calpestò sbadatamente
un frammento di vetro, la cui punta acuminata le penetrò a
fondo nella pianta
del piede strappandole un grido misto di dolore e spavento. Stavolta fu
impossibile frenare le lacrime, che iniziarono a scorrerle sulle guance
come se
avesse appena distrutto la diga che le conteneva, e tra singhiozzi e
singulti
raggiunse zoppicando l’ultima stanza che voleva ispezionare.
Questa,
contrariamente alla sua, possedeva una normalissima porta, che grazie
al Cielo
non era stata chiusa a chiave. Aggrappandosi alla maniglia, la
abbassò e
spalancò l’uscio, affacciandosi su una cupa
oscurità.
Non
era mai entrata in quella camera, dunque non sapeva bene come muoversi.
Attese
un momento che gli occhi si abituassero al buio, ferma sulla soglia, e
quando
riuscì a distinguere perlomeno le sagome degli oggetti
raggiunse l’immenso
letto a baldacchino che governava l’ambiente. Finalmente
poté sedersi, e non
appena lo fece il dolore al piede tornò in furiose ondate
che le provocarono
persino una leggera nausea. Si guardò intorno, angosciata, e
quando notò una
lampada a petrolio sul comodino di fianco al letto non
riuscì a trattenere il
sollievo; andò a tentoni fino a trovare la piccola
manovella, la ruotò e attese
che una debole fiammella apparisse al di sotto del vetro, continuando a
ruotarla fin quando non ebbe regolato l’intensità
della luce. Quando infine
l’oscurità divenne meno opprimente, Giulia
passò ad esaminarsi la ferita.
La
pianta del piede era completamente insanguinata: il frammento di vetro
che le
era rimasto nella carne impediva al sangue di fuoriuscire
abbondantemente, ma
non poteva di certo tenerlo ancora per molto se voleva evitare che la
ferita si
cicatrizzasse intorno ad esso o, ancora peggio, che le venisse una
qualche infezione.
Scioccamente, ciò che la preoccupava di più era
il pericolo di macchiare le
coperte del letto di Erik: aveva già rovinato abbastanza la
sua vita, non era
il caso di danneggiare anche la sua dimora… Quindi si
sfilò il maglione,
rabbrividendo nel rimanere unicamente in biancheria intima, e
approfittando
dello strappo che già deturpava l’indumento
riuscì a stracciarlo in un altro
paio di strisce. Staccare il pezzo di vetro fu più difficile
e doloroso di
quanto si fosse immaginata: tamponò immediatamente la ferita
dalla quale aveva
subito iniziato a sgorgare copiosamente il sangue, e non appena fu
riuscita ad
arrestarne un poco il flusso cercò di avvolgere il pezzo
pulito di stoffa
intorno al piede. Ciò le diede l’illusione di
essere riuscita a medicarsi, per
quanto in modo piuttosto rozzo, ma ciò nonostante non
riuscì a bloccare il
dolore e gli spasimi che la ferita le procurava: avrebbe dovuto
immaginarlo.
Adesso
che aveva sistemato la ferita, decise di liberarsi dei jeans fradici
che ancora
indossava. Li sbottonò e abbassò la cerniera, per
poi farseli scivolare lungo
le gambe e facendo attenzione nel toglierseli senza toccare il piede.
Si servì
della grossa coperta che giaceva sul letto per avvolgersela sulle
spalle a mo’
di mantello e trovare riparo dal freddo pungente; i vestiti che le
erano
appartenuti adesso erano inutilizzabili, frugare nell’armadio
di Erik era
impensabile, e dunque non le restava che accontentarsi di quella
semplice
trapunta.
A
cosa era servito tornare indietro nel tempo, rischiare la vita in quei
sotterranei disseminati di trappole se poi la persona per la quale
aveva fatto
tutto quello non sembrava avere nessuna intenzione di accoglierla a
braccia
aperte? Per quanto si fosse ripromessa di non cedere alle lacrime,
piangere le
venne spontaneo: il dolore fisico causato dal taglio al piede si
mischiava
fatalmente al tormento e alla sofferenza che provava
all’altezza del petto,
laddove si era aperta una voragine terribile che la stava divorando
dall’interno. Forse, solo forse, non era stata una buona idea
tornare; magari
il suo vero posto era nel presente,
insieme a Jean-Louis, a suo padre, a sua madre, checché ne
dicesse quest’ultima…
Sì, non erano i suoi genitori biologici, non
l’avevano concepita né partorita,
ma l’avevano cresciuta, le avevano voluto bene, avevano
pianto e riso e
discusso insieme per vent’anni – questo non aveva
forse più valore di un
sentimento appena nato nei confronti di qualcuno che, a giudicare dalle
condizioni in cui versava la sua abitazione e ciò che in
essa le apparteneva,
doveva provare soltanto una rabbia e un odio infinito per lei?
Raggomitolandosi
al centro del letto e avvolta come una bambina impaurita e freddolosa
in quelle
coperte, Giulia si ritrovò all’improvviso
circondata dall’odore di Erik: fu in
quel momento che si rese conto che, effettivamente, era davvero
ritornata. Egli era praticamente a un soffio da lei, adesso
non c’erano più i giorni, i mesi, gli anni
– un intero secolo
– a separarli, ma solo qualche centinaia di metri
e un lago, sempre sperando che lui fosse ancora là, a
Parigi. Le sfuggì l’ennesimo
singhiozzo e nascose il volto tra le braccia, disperata: Dio,
non poteva finire così.
*
Erik
fissò a lungo il punto nel quale avrebbe dovuto trovarsi la
sua gondola, mentre
una rabbia cieca iniziava a serpeggiare infida nel suo animo.
L’assenza di
quest’ultima, difatti, poteva significare soltanto una cosa: intrusi nei suoi domini. Chi diavolo era
stato così idiota e privo di senno da avventurarsi nei
sotterranei del teatro?
I membri della razza umana che abitavano in superficie non avevano
già
depredato abbastanza il suo regno, in passato? Che senso aveva
continuare a
rimescolare quelle ceneri ormai fredde?
Ringhiando
come una belva che ha appena visto un altro maschio invadere il proprio
territorio, l’uomo che un tempo era stato Figlio del Diavolo,
Angelo della
Musica, Don Giovanni e Signore delle Botole, e che adesso aveva deciso
di tornare
ad essere semplicemente e con un affetto quasi perverso il Fantasma
dell’Opera,
si diresse a grandi falcate verso una galleria laterale che costeggiava
il lago
sotterraneo, e che grazie a Dio non era conosciuta da
nessun’altra anima viva.
Si domandò per quale motivo la sua sirena
non avesse suonato, avvisandolo del visitatore indesiderato, e si
ripromise
pertanto di mettere in conto di ricontrollare le sue trappole e i suoi
discutibili sistemi d’allarme, dato che dopo anni di disuso
vi era la
possibilità che si fossero arrugginiti o semplicemente
rotti. Probabilmente,
comunque, l’intruso era già morto; e se qualora
così non fosse stato, Erik
confidava che la sua grata di ferro lo tenesse a debita distanza dalla
sua
antica abitazione.
Il
corridoio ch’egli stava percorrendo terminava con una porta,
e tale porta era
dotata di un marchingegno che fungeva da lucchetto –
risalente alle Ore Rosa di
Mazenderan – talmente complesso da poter essere aperto
solamente da colui che
l’aveva inventato – Erik stesso, per
l’appunto. Dopo essersi lasciato alle
spalle anche quel piccolo ostacolo, l’uomo poté
finalmente mettere piede
nell’immenso salone che si affacciava sull’acqua
plumbea e nera della gora.
Ritornare
laggiù tutte le notti e trovare la Dimora sul Lago in quelle
condizioni non
faceva che accrescere la sua pena. Era trascorsa appena una settimana
da quando
aveva messo a soqquadro ogni cosa, come se a stento ne tollerasse la
vista, e
ancora non aveva trovato dentro di sé la forza necessaria
per raccogliere tutti
i cocci, sia metaforicamente che letteralmente: farlo avrebbe
significato
arrendersi del tutto all’evidenza che lei
non sarebbe mai tornata.
Era
vero, dunque, che i mostri come lui non potevano godere di nessuna
redenzione.
Accantonando
quelle elucubrazioni che non lo avrebbero condotto da nessuna parte, se
non,
molto probabilmente, all’ennesima notte insonne fatta di
assenzio e musica,
egli volse lo sguardo alla grata che era, effettivamente, ancora
abbassata: al
di là di essa galleggiava la sua imbarcazione, ma non vi era
alcuna traccia
dell’intruso – né vivo, né
morto. Inarcando con aria disinteressata un severo
sopracciglio, Erik si liberò del proprio mantello, posandolo
su una ringhiera e
salendo i pochi gradini che lo separavano dal suo organo. I suoi
stivali
scricchiolarono nel calpestare con noncuranza schegge di vetro,
ceramica e
chissà cos’altro, ma non aveva fatto che pochi
passi quando si accorse che
qualcosa non andava. Nulla sembrava fuori posto, non più di
quanto lo fosse
quella mattina, ma la sensazione che qualcuno
fosse passato di lì durante la sua assenza era troppo forte
per poterla
ignorare. Abbassando lo sguardo sul pavimento, alla ricerca di qualche
traccia
del passaggio dell’eventuale intruso vivo,
dovette dare ragione al suo infallibile istinto.
Là,
davanti alla tenda della camera di lei,
c’erano innegabilmente delle macchie di sangue –
sangue non suo.
Il
suo volto assunse un’espressione terrificante: dunque era
vero, qualcuno era
stato lì, qualcuno aveva osato curiosare nel suo dominio,
nel suo regno, nella
sua casa! E quel qualcuno,
sì, doveva
trovarsi ancora nei dintorni, giacché se era facile entrare
non lo era altrettanto
uscire… Era una fortuna
che il suo
organo suonasse ancora alla perfezione, avrebbe potuto dedicare
un’onorevole
messa da Requiem allo sventurato che, se non aveva già
incontrato la morte, lo
stava comunque per fare. Afferrando un innocuo pezzo di canapa, Erik
impiegò
poco più del tempo di un respiro per costruirsi la sua arma
prediletta: adesso
le sue mani reggevano un laccio da forca, il suo laccio del Punjab, che
presto
avrebbe accarezzato come fa un amante il collo del maledetto intruso!
Le
tracce di sangue, ormai secche, formavano un percorso disordinato che
si
concludeva senza ombra di dubbio davanti alla porta della propria stanza; dunque, a meno che in
quel punto l’individuo non
fosse scomparso come un fantasma, tutto ciò che poteva
supporre era che si
trovasse all’interno. Questo era persino peggio di quanto si
fosse aspettato, e
aggravava notevolmente la colpa dell’intruso: mai nessuno
aveva avuto accesso
al suo ultimo santuario, e adesso chiunque avesse osato tanto ne stava
per
pagare tutte le conseguenze.
Senza
curarsi del fatto che così facendo non avrebbe goduto di
nessun effetto
sorpresa, Erik afferrò con affettata indifferenza la
maniglia della porta,
abbassandola per poi spingere l’uscio verso
l’interno e avanzare dentro la stanza,
occupando la soglia interamente con la sua mole di modo da bloccare
ogni via di
fuga. La richiuse dunque alle sue spalle – non aveva ancora
sollevato lo
sguardo – e, quando il tonfo del legno contro la pietra
spezzò il silenzio, si
ritrovò ad irrigidirsi nell’udire un improvviso
singulto.
Si
voltò di scatto verso la direzione dalla quale era giunto il
gemito, e in un
battito di ciglia si accorse di diversi fatti curiosi
contemporaneamente. La
lampada a petrolio sul suo comodino era accesa, e rischiarava
debolmente tutto
l’ambiente altrimenti immerso nella più nera
oscurità; per terra, oltre alle
gocce di sangue, vi erano alcuni indumenti laceri e bagnati e infine, a
completare il quadro inaspettato che gli si era parato dinnanzi,
c’era la
figura rannicchiata al centro del suo letto che tremava e respirava con
affanno.
Il
cappio gli scivolò di mano quando l’intruso
– intrusa, in realtà
– sollevò il viso dal rifugio delle sue braccia
e fissò le iridi arrossate dal pianto nei suoi da quelle
labbra livide, facendolo
rabbrividire. «Erik?» Mormorò la
giovane, prima di asciugarsi gli occhi con il
dorso della mano. Il movimento fece scivolare di lato la coperta che
l’avvolgeva, denudando spalla e braccio, ma egli non
poté indagare oltre su ciò
che vi era o meno al di sotto del mantello, giacché ella era
scivolata a terra
con il chiaro intento di raggiungerlo.
«Erik»,
ripeté ancora, con una voce più chiara e meno
tremula. «Erik, mio Dio… Sei ancora
qui!»
Troppo
intontito per dire o fare alcunché, egli si accorse che la
ragazza – buon Dio, era proprio lei?
– si era
gettata contro di lui solo quando la sentì tremare e
singhiozzare contro il
proprio petto, le mani artigliate alla sua giacca, le sue gambe per la
prima
volta a contatto con le sue, come se fosse… no, un momento,
lo era davvero… nuda,
contro di lui!
Il
primo istinto fu quello di ricambiare la stretta: così
facendo, si rese conto
come in un sogno che le sue mani avevano trovato una posizione perfetta
nella
morbida curva dei suoi fianchi nudi, gelidi
e ricoperti di piccoli brividi. Questo gli restituì un
briciolo di lucidità.
Allontanarla da sé fu come strapparsi un arto, ma la
presenza del sangue e
l’assenza dei suoi indumenti continuavano a suggerirgli che
qualcosa non andava,
benché tutto sembrasse vorticare talmente in fretta intorno
a lui da fargli
perdere l’esatta concezione della realtà. Cos’era
successo? Come, perché? Con le mani le
circondò il volto bagnato di
lacrime, ma con lo sguardo percorse ogni centimetro del suo corpo,
riuscendo a fatica
a celare un improvviso e sgradito desiderio dietro una maschera,
l’ennesima, di
sincera preoccupazione. Infine, vide la nota stonata: il suo piede era
avvolto
in un lembo di stoffa a mo’ di medicazione, ma si stava
rapidamente tingendo di
rosso, ad indicare che l’attraversare in tutta fretta la
stanza senza badare
alla sua ferita doveva averla riaperta.
Anche
lei aveva abbassato lo sguardo sul proprio piede, senza minimamente
curarsi di
presentarsi agli occhi dell’uomo con indosso dei miseri
brandelli di stoffa che
le coprivano e scoprivano insieme dei punti che nessuna donna avrebbe
mai
dovuto mostrare ad altri che non fosse il proprio sposo.
L’ironia che tale
pensiero pudico provenisse proprio da lui gli concesse di recuperare
ciò che la
comparsa improvvisa della giovane aveva annichilito: il suo
autocontrollo e la
sua solita freddezza. Fu per questo che ignorò le parole
successive della
ragazza – era chiaro che non sapeva cosa stesse dicendo.
«Io
non… Sto bene, davvero, non è successo
nulla», balbettò, tradendosi da sé
nell’afferrare con forza la manica della giacca
dell’uomo mentre barcollava dal
dolore. «Scusami, dev’esserci sangue
dappertutto…»
La
mise a tacere prendendola tra le braccia, e trasportandola
così nuovamente
verso il talamo. «Non preoccuparti di questo»,
furono le prime parole
pronunciate da Erik, un sussurro nella penombra. La fece sedere sul
letto e
l’avvolse di nuovo nella coperta, non potendo resistere oltre
alla vista della
sua nudità; era ancora piuttosto scioccato dalla sua
improvvisa comparsa, ma
nascose tale sensazione con abilità. «Se mi
aspetti qui, vado a prendere
l’occorrente per medicarti meglio», aggiunse,
raddrizzandosi. Dalla sua voce
incolore era impossibile intuire che cosa gli stesse passando per la
mente – se
era furioso con lei per essere ritornata, se era contento o, peggio, se
era
indifferente…
Prima
che uscisse dalla stanza Giulia gli afferrò una mano,
trattenendolo; egli non
si voltò, ma rimase in attesa. «Non vado da
nessuna parte, Erik», mormorò lei,
sperando che il sottinteso fosse chiaro.
Senza
dire una sola parola, l’uomo si sciolse gentilmente dalla sua
stretta e sparì
dietro la porta.
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Capitolo 35 *** 33. No one would listen, no one but her ***
Chapitre
33
No
one would listen, no one but her
Then,
at last, a voice in the gloom
Seemed to cry: “I hear you!
I hear your fears
Your torment and your tears…”
Erik
ritornò prima che Giulia potesse iniziare a pensare che se
ne fosse andato, troppo
furioso per sopportare ancora la sua presenza. Si era liberato della
giacca e
del giustacuore, probabilmente perché tali indumenti gli
erano d’impiccio
durante un’operazione medica, ed era rimasto solo con la
camicia. Aveva portato
un catino pieno d’acqua e una borsa che somigliava parecchio
a quella che più
volte lei aveva visto indosso a monsieur Mounier, il dottore che si
occupava
della salute delle ballerine, delle coriste e di chiunque,
all’interno del
perimetro dell’Opèra, potesse avere bisogno di
lui. Continuò a non rivolgerle
la parola mentre le si inginocchiava davanti, le maniche della camicia
ben
arrotolate fin sopra i gomiti, e le prendeva il piede fasciato per
levarle con
attenzione il pezzo di stoffa ormai irrimediabilmente macchiato di
sangue.
Giulia dovette mordersi l’interno della guancia per non
gemere, quando la
stoffa venne via strappando anche i delicati lembi della ferita che si
era
incollata alla lana del suo vecchio maglione.
Le
mani di Erik erano leggere e delicate mentre ripulivano il piede da
ogni
eventuale sporcizia, tingendo l’acqua del catino di rosa man
mano che il sangue
secco veniva via. Quando infine poté vedere il taglio
ripulito, le sue labbra
si strinsero in una sottile linea di preoccupazione. «Ci
sarà bisogno di qualche
punto», la informò a mezza voce, senza tuttavia
nessuna particolare emozione. «Come
hai fatto a tagliarti così?»
«Un
pezzo di vetro», rispose lei, scrollando appena le spalle.
«Ero scalza, e non
l’ho visto.»
«E
per quale motivo eri scalza?» Continuò, sollevando
finalmente lo sguardo verso
di lei con un fare leggermente aggressivo; il suo tono sembrava voler
aggiungere, tra le righe: e perché
adesso
sei nuda?
«Ho
lasciato gli stivali sulla gondola. La grata era abbassata, quindi mi
sono
tuffata nel lago per vedere se sul fondale c’era lo spazio
sufficiente per
passare dall’altra parte», spiegò piano,
studiando le espressioni del suo viso.
Non era facile, visto che indossava quella maledetta maschera e che la
luce
della lampada non era poi molto intensa.
L’uomo
non rispose. Si alzò, invece, per recuperare dalla consunta
valigetta di pelle
marrone alcuni strumenti che dispose ordinatamente sul tavolino accanto
al
letto, e che Giulia si sforzò di non fissare troppo a lungo.
Le era già
capitato che le mettessero dei punti, in passato – aveva solo
nove anni, ed era
caduta dalla bicicletta frenando bruscamente e rotolando in mezzo a una
durissima ghiaia – ma sul gomito, per cui non osava
immaginare quanto potesse
far male nella pianta del piede; inoltre, non aveva idea di come
funzionassero
simili operazioni in quell’epoca, dunque preferiva mostrare
una sana ignoranza
e volgere lo sguardo altrove per saperne il meno possibile. Con la coda
dell’occhio, tuttavia, lo vide mentre mischiava in un mezzo
bicchiere d’acqua
una sostanza più densa, ambrata, di origine misteriosa
– sicché quando poi
glielo porse inarcò un sopracciglio con aria perplessa.
«È
laudano. Servirà a ridurre il dolore», le
spiegò lapidario.
Benché
il primo istinto fosse quello di chiedergli esattamente di quanto dolore si trattasse, Giulia
riuscì a contenersi e finse
disinvoltura. «Il laudano non è un
veleno?»
«È
anche un oppiaceo», specificò Erik con altrettanta
noncuranza, senza riuscire
minimamente a rassicurarla. «Ma se viene diluito con acqua
è un semplice
anestetico, quindi non preoccuparti. Diventa tossico solo se assunto in
grandi
quantità e per lunghi lassi di tempo.»
Così
andava già meglio. In realtà, avrebbe anche
potuto cercare di resistere al
dolore, visto che neppure quando aveva nove anni il dottore le aveva
fornito
qualche tipo di analgesico – rammentava tuttora suo padre che
la teneva ferma
mentre il medico le ricuciva il gomito – ma allo stesso tempo
temeva che, se
non avesse bevuto qualsiasi cosa ci fosse stata nel bicchiere, Erik
avrebbe
potuto prenderla come una mancanza di fiducia nei suoi confronti, e
poiché al
momento la situazione sembrava già abbastanza tesa Giulia
non ritenne opportuno
rischiare. Per cui senza più discutere gli prese il
bicchiere dalle mani e se
lo portò alle labbra, trangugiando un lungo sorso prima di
poter cambiare idea.
La sostanza le lasciò uno strano sapore in bocca, o forse
era solo la
sensazione di sentirsi lingua e palato improvvisamente secchi e amari,
ma non
si lamentò.
«Quando
vuoi», disse, stringendosi meglio nella coperta. Rimase ad
osservarlo in
attesa, tutto sommato con aria fiduciosa, pertanto a Erik non rimase
che
inginocchiarsi nuovamente di fronte a lei e mettersi al lavoro. Le sue
mani
furono gentili e riverenti, tanto che non un suono scappò
dalle labbra tese
della ragazza; le sfuggì solo un gemito e un lieve sussulto
quando l’ago
penetrò la prima volta nella sua carne, ma poi strinse gli
occhi e si morse
l’interno delle guance nello sforzo di mantenere la calma.
Il
tutto si svolse e concluse in maniera piuttosto rapida e accurata,
benché a lei
fosse parsa un’eternità: il dolore era
sopportabile, ma non sapeva decidere se
imputare questo alla bravura dell’uomo o
all’efficacia del laudano. Infine,
dopo che Erik ebbe provveduto ad avvolgerle il piede dolorante in fasce
pulite
e decisamente più adatte, ella si rifugiò sotto
le coltri del letto e lo
osservò con gli occhi socchiusi, mentre ripuliva i vari
strumenti e le proprie
mani tinte di sangue. Una volta concluse quelle ultime operazioni,
prese una
sedia e vi si abbandonò sopra, come se l’intera
manovra avesse esaurito ogni
residuo della sua energia.
«Grazie»,
gli mormorò la ragazza, spezzando il silenzio non senza
esitazione.
Le
palpebre dell’uomo continuarono a rimanere abbassate.
«Dovere», rispose con
aria stanca.
Giulia
decise di non poter più sopportare quella lontananza fisica
insieme a quella
psichica – non nello stesso momento, e soprattutto non in
quello in
particolare. «Vieni più vicino», lo
invitò quindi, allungando un braccio nudo
da sotto il confortante calore delle coperte e tendendolo verso di lui.
Senza
lasciar trasparire nulla dal suo volto impassibile, Erik si
limitò a obbedirle,
avvicinando la sedia fino al bordo del letto e prendendo istintivamente
la sua
mano con la propria. Subito la ragazza ne approfittò per
intrecciare insieme le
loro dita, e un pallido sorriso sbocciò sulle sue labbra.
«Non
voglio che tu sia arrabbiato con me, Erik»,
continuò a mezza voce, guardandolo
da sotto le lunghe ciglia chiare. «Erik? Ti prego.
Dì qualcosa», insisté.
L’uomo
non sciolse la stretta, ma si rifiutò comunque di guardarla.
«Cosa ti posso
dire?» Esordì, la voce avvolta da un gelo che lei
non aveva mai sentito. «Forse
tu hai dimenticato il modo in cui ci siamo lasciati, ma io no. Non ho
scordato
la nostra discussione, né tantomeno la mia domanda, e la tua
risposta… E poi te
ne sei andata, mi hai lasciato da solo quando avevi più
volte promesso che non l’avresti
mai fatto. Sei tornata alla tua vecchia vita senza pensarci due volte,
per più
di un mese ti sei dimenticata di me… e questo, questo, mi ha ferito, non tanto il
rifiuto alla mia proposta, dato
che, col senno di poi, ho potuto ammettere a me stesso di aver
esagerato»,
concluse. Stavolta, la sua mano lasciò quella della ragazza
come se non
riuscisse più a sopportarne il tocco. «Quel
ragazzo… tuo fratello… Un volto
perfetto, non trovi?» Riprese, con sempre maggior astio e
amarezza. «Giovane,
liscio, morbido nelle sue fattezze delicate, prive di qualsiasi
imperfezione…
tutto quello che da me non avrai mai! Ti è mancata la
bellezza, non è così? Hai
preferito tornare indietro a quando il tuo mondo era fatto di avvenenza
e
armonia, quando nulla lo turbava, e lo comprendo, sai? Davvero, lo
comprendo. Nessun
essere umano sano di mente si rinchiuderebbe di sua spontanea
volontà in una
tomba infernale con un cadavere che lo ama, quando potrebbe senza
sforzo
appartenere al Paradiso, circondato dagli angeli. È
così facile lasciarmi, vero?
Non puoi immaginarti cosa siano stati questi giorni, queste settimane,
qui, da
solo, con il tuo unico ricordo a torturarmi la notte… Ma
d’altra parte, che
cosa potrebbe mai farsene di un mostro, una come te? So bene che non
c’è spazio
nella tua vita per un errore, per
un
disegno rovinato, per una nota stonata… Non
c’è spazio per me!»
Quell’ultima
frase suonò più come un ringhio, e alzandosi in
piedi di scatto Erik spinse
all’indietro la sedia facendola raschiare fastidiosamente
contro la pietra del
pavimento. Si nascose il volto tra le mani e indietreggiò
fino a non essere più
nel cono di luce prodotto dalla lampada, ma se anche si era nascosto
alla sua
vista non aveva fatto lo stesso con il suo udito: difatti, Giulia
udì con
chiarezza il terribile tonfo che poteva venire associato solamente al
colpo che
l’uomo ebbe dato al muro.
Sobbalzò
e subito si tirò su a sedere, accennando a scendere dal
letto per raggiungerlo.
«Non
alzarti!» Le intimò invece lui, un ruggito
proveniente dal buio. «Non alzarti.
La ferita si riaprirà», aggiunse poi, con meno
livore. Con un’improvvisa
sensazione di inadeguatezza e disagio, la ragazza non poté
fare a meno di
dubitare che fosse quello il motivo per cui non voleva che lei si
alzasse – era
più propensa a credere che in quel momento non la volesse
vicina.
«Erik,
ti prego, ti supplico, non fare
così»,
mormorò, cercando di non cedere alle lacrime. Lei in prima
persona non amava
piangere davanti a chicchessia, e in quel momento era convinta che
neppure
l’uomo lo avrebbe sopportato. «Quello che dici non
ha senso, se tu avessi
ragione allora perché sarei tornata? Perché sono
di nuovo qui invece che
dall’altra parte? Mio Dio, ho rischiato di finire in una
delle tue maledette
trappole, ho rotolato giù dalle scale come un sacco di
patate e ho fatto a
nuoto gli ultimi metri che mi separavano dalla tua casa, con la
speranza che
fossi ancora qui per chiederti scusa!»
Andando
avanti con la sua arringa, Giulia si accorse tuttavia di non essere in
alcun
modo vincolata a trovare per forza delle giustificazioni per il suo
comportamento: non aveva fatto nulla di male, che diavolo! La sua colpa
era
stato il desiderio di rivedere la sua famiglia? Non avrebbe sopportato
di
scusarsi per questo, non era così che si era immaginata
quell’inevitabile
confronto! Le lacrime di dolore e dispiacere che le stavano spuntando
agli
angoli degli occhi si tramutarono in gelide lacrime di rabbia, e
avrebbe
volentieri imprecato come una ragazza del ventunesimo secolo se non
avesse
comunque avuto paura del giudizio dell’uomo al riguardo, per
cui si trattenne a
fatica.
«Maledizione»,
continuò quindi, un tono completamente diverso da poco
prima; fu l’unica cosa
che ritenne di poter dire senza sembrare eccessivamente volgare.
«Non puoi avercela
con me per aver voluto salutare la mia famiglia un’ultima
volta! Non puoi
arrabbiarti come se ti avessi appena tradito, come se fossi
l’ennesima
delusione! E non puoi biasimarmi per aver rifiutato la tua proposta di
matrimonio, accidenti, non era quello il momento giusto! Non ti
permetterò di
insultarmi ancora con le tue stupide congetture. Forse potevi essere
furioso
prima, lo ammetto, però non adesso che sono tornata, non ne
hai più nessun
motivo! Sei un maledetto testardo, e mi stai facendo sprecare fiato
inutilmente;
dimmi, dovrò rassegnarmi all’idea di non riuscire
a farti ragionare? Ti sei
convinto che io non ti voglia nella mia vita, ma come fai ad insistere
ancora
quando io sono qui, davanti a te? Rispondimi, Erik! Dimmi se il mio
ritorno è
stato inutile, dimmi se sono arrivata troppo tardi, dimmi qualsiasi
cosa!»
La
cosa che più odiava di quella discussione era che lui
l’avesse privata del
privilegio di potergli dire tutto ciò pensava guardandolo
negli occhi, dato che
rifugiandosi nell’oscurità le aveva dato
l’impressione di parlare con il vuoto.
Tuttavia, l’ansimare sommesso di Erik che proveniva da
qualche parte davanti a
lei le assicurava che lui aveva sentito ogni parola, e che lei non
aveva
discusso da sola.
«Sì,
qualcosa te la dirò», mormorò lui
infine, dopo un lungo istante di silenzio. La
sua voce era ancora astiosa, terribile nella sua ira malcelata.
«Ti dirò che
non ci sei stata quando avevo più bisogno di te. Ti
dirò che ero così furioso,
quando te ne sei andata, che ho perso il controllo e ho fatto cose di
cui mi
pento… Ti dirò che adesso sono io che potrei non
volerti», concluse con un
sibilo, senza uscire dall’ombra. «Che
cos’è quello sguardo sorpreso, Giulia? Credevi
di poter fare i tuoi comodi e poi di tornare qui quando più
ti aggradava, e
ritrovare ogni cosa come l’avevi lasciata, ritrovare me
disposto ad accoglierti
a braccia aperte, pronto a dimenticare quelle settimane infernali che
ho
trascorso da solo? Nessuno si può permettere di prendersi
gioco di Erik, mia
cara, neppure tu! Ti ho dato il mio cuore, Giulia, e tutto quello che
sei stata
capace di fare è stato prenderlo e tagliarlo serenamente in
quattro piccoli
pezzi, senza mostrare un briciolo di misericordia, un briciolo di
pietà! Te ne
sei andata, maledizione, l’hai capito? Riesci a comprendere
quello che hai
fatto, il dolore che mi hai inferto? No,
non ci riesci! Sei solo capace di aggredirmi, e di insultarmi, e di
accusarmi –
e per cosa, poi! Dimmi per che cosa! E non fare quella
faccia… No – non vuoi? Ebbene,
te lo dico io! Solo perché ho
osato
chiederti di amarmi a tua volta!»
Stavolta
la sua acredine lo spinse ad avanzare verso il letto e a offrirsi alla
luce
della lampada, così che Giulia poté vedere il suo
terribile volto sfigurato da
una collera così profonda, così radicata, da
fargli brillare gli occhi e
accelerare il respiro. La ragazza non l’aveva mai visto
così arrabbiato e, per
la prima volta da quando le si era mostrato per ciò che era
davvero, ella ne
ebbe paura. Tale sentimento fu
talmente improvviso che non fu in grado di celarlo, e l’uomo
dovette pertanto
leggerglielo in faccia, giacché il suo ringhio feroce
rendeva palese ciò che ne
pensava al riguardo. Incuterle terrore era di sicuro l’ultima
cosa che voleva
fare, malgrado tutto, così le diede velocemente le spalle e
quasi scappò via
dalla camera da letto, sbattendosi con furia la porta alle sue spalle e
facendola tremare pericolosamente.
Non
poteva reggere oltre il suo sguardo improvvisamente spaventato. Come
aveva
fatto a farsi sfuggire di mano la situazione, lasciando che si
capovolgesse in
maniera così plateale? Non era lui quello che più
di tutti doveva avere ogni
diritto di essere furioso, disilluso? A
giudicare da quanto detto da lei, no, non l’aveva.
Prese
a camminare avanti e indietro lungo la sponda del lago,
l’unico punto in tutta
la sua dimora a non avere il pavimento ingombro di pattume vario, e
desiderò
aver lasciato ancora qualche oggetto da distruggere giacché
l’istinto di
frantumare qualcosa e spargerne i resti dappertutto era davvero molto
forte –
Dio solo sapeva quanto gli prudessero le mani, ma sarebbe morto cento
volte
prima di alzare un solo dito contro di lei! E non perché
giudicasse le sue spiegazioni
e le sue parole folli o irragionevoli, ma perché, dannazione, erano corrette, e tale
rivelazione lo rendeva soltanto
un uomo stolto e testardo, incapace di trattenere la propria ira!
Nulla
stonava in ciò che lei aveva detto, tutto era perfettamente
logico, lineare, e
rendeva palese la stoltezza e la follia con cui invece lui, al
contrario,
l’aveva accusata di tradimento e abbandono, facendo ricadere
su di lei le colpe
non ancora espiate di vecchi spettri del suo passato! Tutte le donne
che aveva
avuto modo di incontrare e che avevano avuto un ruolo fondamentale
nella sua
vita lo avevano ingannato e odiato – per prima la sua stessa
madre, che aveva
avuto il coraggio disumano di rinnegare il frutto del suo ventre e
fargli dono
tra le lacrime e il disgusto della sua prima maschera, per poi
continuare con
Christine, che aveva cresciuto e la cui voce e talento aveva plasmato
fino a
farla brillare come un astro del cielo, e madame Giry, sì,
che in un primo
momento lo aveva aiutato, nascosto, confortato persino!, e poi non
aveva
esitato a rivelare l’ubicazione della sua dimora a
quell’inetto damerino che si
era precipitato come un cavalier servente a salvare la sua piccola
Lotte. Tutti
loro, come sfuocate ombre che si avvicendavano sul palcoscenico della
sua esistenza
attendendo il loro turno per sputargli addosso e pugnalarlo alle
spalle, tutti,
nessuno escluso, lo avevano reso ciò che era, un mostro, una
creatura, troppo orrenda per essere
definita umana ma non abbastanza terrificante da meritare un posto
d’onore nel
Tartaro dal quale molti lo avevano accusato di provenire. Gli avevano
impedito
di mostrarsi alla luce del sole, lo avevano reso incapace di nutrire
fiducia in
chiunque – e come avrebbe potuto fidarsi, rifletté
amaramente, quando la prova
del tradimento della razza umana giaceva sempre davanti a lui, su di lui, sotto forma di una maschera
che si era creato lui stesso?
E
adesso, a causa di tutta questa miseria, a causa di un passato che non
lo
avrebbe mai lasciato libero, rischiava di distruggere anche
quell’ultimo porto
in cui aveva osato rifugiarsi. Non aveva più alcuna forza di
avventurarsi nell’oceano
di disperazione, solitudine e sangue che era stata la sua vita fino a
quel
momento, ma d’altra parte in quali condizioni si era
trascinato al rifugio
offerto da Giulia? Non era che un relitto, una misera carcassa composta
per la
maggior parte da risentimento, rancore, acredine e quanto di
più
raccapricciante potesse celarsi nell’animo umano. Glielo
aveva appena
dimostrato, per Dio! L’aveva colpevolizzata di tutti gli
errori che in realtà
non aveva commesso lei, ma la sua antica allieva, Christine
Daaè. Non era Giulia che lo aveva lasciato dopo la
promessa di rimanere, non era Giulia che lo aveva dimenticato, troppo
presa da
un tenero amore infantile, non era Giulia che aveva preferito la
giovinezza e
la bellezza di un visconte a quell’involucro deforme che era,
non era Giulia
che aveva gridato orripilata alla vista del suo volto, non era lei, era
Christine, Christine, sempre e solo Christine!
Sentendosi
soffocare sotto il peso di quelle emozioni, Erik si strappò
la maschera con un
ringhio, gettandola da qualche parte lontano da sé.
Barcollando, si avvicinò
alla parete in cerca di un sostegno e si lasciò scivolare
per terra, sollevando
infine una mano a nascondersi il viso all’improvviso umido di
lacrime che non
si era accorto di star versando. Singulti silenziosi gli scuotevano le
spalle,
e non poté fare nulla per impedirsi di piangere.
Giulia
aveva ragione su ogni cosa. Che razza di mostro era, davvero? Lei, che
aveva
messo a repentaglio la sua incolumità percorrendo quei
sotterranei che sapeva
essere infestati di trappole, botole e quanto di più
pericoloso la mente del
Fantasma potesse escogitare; che aveva remato con la sua barca e,
instancabile,
non aveva esitato a gettarsi nell’acqua gelida del lago pur
di trovare un modo
per accedere alla sua dimora; che si era ferita e aveva anche rischiato
un’infezione, dato che tutto il sudiciume che c’era
per terra non doveva essere
molto consigliabile da calpestare a piedi nudi, e ciò
nonostante tutto questo
era passato in secondo piano quando l’aveva visto –
gli era venuta incontro,
solo ora se ne accorgeva pienamente, zoppicando appena, priva di
vestiti, con
il viso pallido e segnato dalle lacrime e un sollievo e una
felicità raggiante
talmente sincera che si maledisse per quanto era stato stupido e cieco
da non
averla notata subito. Come aveva potuto dubitare delle intenzioni della
ragazza
visto il modo in cui gli si era presentata all’improvviso,
come un sogno
divenuto realtà, malgrado il tempo trascorso? Eppure, e
ciò non fece che farlo
sentire ancora più miserabile e indegno, non aveva esitato a
trattarla con
tutto l’astio di cui era capace. Non poteva darle torto se
adesso preferiva
andare da madame Giry, su, nel mondo di sopra, laddove la tenebra del
Fantasma
non avrebbe potuto raggiungerla; evidentemente tutto ciò che
lui poteva offrirle
era un animo marcio e distorto, di cui lei non si sarebbe fatta niente.
Continuò
a piangere, incapace di fermarsi, come se ormai fosse impossibile
arginare la
diga che aveva inevitabilmente rotto. Basta
maschere, almeno in casa sua, basta.
Non
aveva idea di quanto tempo fosse rimasto immobile, in balia di lacrime
amare
che non volevano saperne di lasciarlo in pace e che aggiungevano la
vergogna
alla già lunga lista di peccati e difetti di cui si era
macchiato; ora che il
pianto si era placato, che il suo respiro e i battiti del suo povero
cuore
stremato erano tornati ad un ritmo, se non proprio tranquillo, almeno
meno
agitato, poté cullarsi in quel gelido silenzio che avvolgeva
l’intera Dimora
sul Lago, rotto soltanto dal fruscio dell’acqua che si
infrangeva sulla sponda
o contro il legno della sua gondola che ancora dondolava
dall’altro lato
dell’inferriata.
Chissà
se Giulia si era addormentata; il laudano doveva aver già
fatto effetto. Si
alzò suo malgrado a fatica, poggiandosi al muro per
permettere alle proprie
gambe di riacquistare una normale circolazione sanguigna ostacolata
dalla sua
forzata immobilità, e quando si ritenne in grado di poter
camminare senza
barcollare come un ubriaco percorse gli scalini che lo avrebbero
condotto alle
stanze da letto. Cercò di evitare, per quanto possibile, di
camminare
nuovamente su tutti quei cocci, e prese mentalmente nota di sistemare
quello
sfacelo, più tardi; forse, se avesse visto la sua casa di
nuovo riassettata,
Giulia avrebbe ripreso in considerazione la sua idea di andarsene da
lì…
Imprecò
a mezza voce contro se stesso; non sarebbe di certo bastato un
po’ d’ordine per
chiarire i grossi fraintendimenti che c’erano stati tra loro.
Sospirò;
poi, con immensa cautela, abbassò la maniglia della propria
camera e si
affacciò al suo interno, cercando di non fare rumore per non
disturbare il
sonno della ragazza… Ma lei non stava dormendo. Al
contrario, Giulia era
completamente sveglia, seduta sul letto con le gambe oltre il bordo e
già mezzo
rivestita: aveva indossato un paio di vecchi pantaloni che lui non
utilizzava
più – erano diventati troppo piccoli – e
si stava allacciando i bottoni di una
camicia che era palesemente troppo larga e lunga per essere portata da
una
donna. Notò con la coda dell’occhio che la sua
cassettiera era stata aperta, ma
non lo disturbò tanto che lei avesse frugato tra la sua roba
come se fosse in
suo diritto farlo – anzi, l’idea gli risultava
stranamente piacevole – quanto
piuttosto il fatto che sembrasse in procinto di andar via.
«Vai
da qualche parte?» Le chiese tornando alla precedente
freddezza, facendola
sobbalzare e voltare rapidamente verso la porta sulla cui soglia egli
era
rimasto fermo. Evidentemente non si era accorta della sua presenza.
«Sto
soltanto togliendo il disturbo», replicò la
ragazza, riabbassando nuovamente
gli occhi e lottando con un minuscolo bottone che pareva non avere
nessuna
intenzione di infilarsi nella sua asola; anche lo sguardo di Erik venne
attirato da quel dettaglio, prima che la sua coscienza gli fece notare
le
morbide curve che vi erano appena al di sotto di quella vecchia camicia.
«E
come pensi di andar via? La grata è ancora abbassata. Ci
tieni davvero tanto ad
immergerti di nuovo nel lago? Con quella ferita, poi?»
Ribatté lui, entrando
definitivamente nella stanza e chiudendo la porta alle sue spalle. La
chiave
ruotò nella serratura in perfetto silenzio, ed Erik la fece
sparire in una
tasca dei propri calzoni prima che Giulia potesse accorgersene.
Malgrado tutti
i suoi buoni propositi, i suoi ragionamenti, le sue riflessioni, non
poteva
semplicemente lasciare che se ne andasse senza provare a fermarla o a
farsi
perdonare – era quasi sicuro che non l’avrebbe
più vista, se avesse lasciato
che le cose prendessero quella piega.
«Suppongo
che non mi accompagnerai, quindi», fece lei, con un sibilo
irato. Gli lanciò
un’occhiataccia, ma subito preferì lasciar
perdere; era inutile discutere con
chi non voleva sentir ragioni. «Non importa, rammento la
strada.» Ciò detto,
abbandonò il letto e si sforzò di mettersi in
piedi, aggrappandosi dapprima
alla colonnina del baldacchino e accennando qualche passo che la fece
lacrimare
dal dolore: la ferita era ancora fresca, e anche se poggiava solo la
punta o il
tallone per terra le fitte erano atroci. Si sforzò comunque
di non lasciar
trapelare quella sofferenza dalle sue espressioni, e raddrizzando la
schiena
fissò Erik dritta negli occhi. Seppure l’assenza
della maschera l’aveva
sorpresa, così come il suo pallore e le ombre lasciate dal
pianto, finse di non
accorgersene per non cedere alla tentazione di intenerirsi.
«Spostati,
Erik. Per favore», chiese, con un tono che sapeva
più di ordine che non di
gentile richiesta.
Tuttavia,
l’uomo scosse la testa e non si mosse di un solo millimetro.
«Non sei in
condizione di andare da nessuna parte, Giulia», disse piano,
assottigliando gli
occhi. «Ritorna a letto prima che la ferita si
riapra.»
«Non
fingere che te ne importi qualcosa!» Sbottò lei,
incespicando leggermente ma
riuscendo subito a recuperare l’equilibrio. «A
quanto pare non sono più bene
accetta in casa tua, come dimostra il modo in cui hai ridotto la mia
stanza.
Non che mi dispiaccia più di tanto, in effetti, dato che
così ho la scusa per
non indossare più quegli scomodi abiti», non
riuscì a fare a meno di
aggiungere, sarcastica. «Ma non ho intenzione di rimanere un
minuto di più
insieme a qualcuno che si fida così poco di me da accusarmi
per il minimo passo
falso, e che pretende di trattarmi come una bambina da comandare a
bacchetta!»
Tacque
un momento per prendere fiato, ma Erik la vide chiaramente volgere il
viso di
lato per asciugarsi un occhio umido. Stava piangendo anche lei? Non
ebbe tempo
di approfondire, perché subito Giulia riprese la parola.
«Jean-Louis aveva
ragione, non sarei dovuta tornare», aggiunse amaramente, a
bassa voce. «Ma
ormai ci sono, e non sprecherò gli ultimi momenti in
quest’epoca rinchiusa
inutilmente in un sotterraneo! Quindi, se tu non mi vuoi accompagnare
da madame
Giry, almeno fatti da parte e lascia che ci vada da sola.»
Senza
distogliere un solo istante gli occhi da lei, Erik scosse piano la
testa. «No»,
mormorò, la voce improvvisamente roca. «Non
voglio… Non te ne andrai», continuò
più risoluto, pronto a trattenerla con la forza se
l’avesse ritenuto necessario.
La
ragazza lo fissò con uno sguardo truce, benché le
lacrime le stessero ormai
rotolando lungo le guance prive di freni. «Maledizione,
Erik!» Esplose con un
singhiozzo, picchiando il duro legno della colonnina.
«Perché fai così? Prima
sembrava che non mi volessi più, che non sopportassi neppure
il mio tocco! Mi
ha fatto male, ma ho deciso che mi sarei rassegnata all’idea;
cos’è che ti ha
fatto cambiare opinione nell’arco di
mezz’ora?»
Privo
della sua maschera, Erik non era più il Fantasma
dell’Opera, né nessun altro
dei numerosi titoli che si era guadagnato nel corso della sua
esistenza; privo
della sua maschera, era solamente lui, solamente un uomo, misero,
triste,
distrutto, ma pur sempre un essere umano, se così si poteva
definire. Ma né un
nome, né tantomeno un banale travestimento potevano privarlo
del suo talento,
del suo genio, della sua musica
–
quella sarebbe stata con lui per sempre, non l’avrebbe mai
tradito, né
abbandonato, né lasciato solo… Per questo motivo,
improvvisamente, lasciando
perplessa la sua ospite, si mise a cantare. La voce gli uscì
dalle labbra
dischiuse con fare esitante, quasi temesse di non esserne
più in grado; ma
cantare era, per lui, naturale, come per gli altri membri
dell’umanità lo era
respirare, sicché la sua incertezza durò lo
spazio di un battito di ciglia, e
prima che se ne accorgesse davvero la sua voce aveva preso corpo,
spessore, ed
ora eccola là a spiccare il volo costretta nel piccolo
spazio di una camera da
letto sotterranea – per sempre strappata alla gloria di un
palcoscenico e di un
pubblico acclamante.
Ah sì che feci! ne sento orrore.
Gelosa smania, deluso amore
Mi strazia l'alma, più non
ragiono.
Da lei perdono - più non
avrò.
Volea fuggirla non ho potuto!
Dall'ira spinto son qui venuto!
Or che lo sdegno ho disfogato,
Me sciagurato! - rimorso n'ho…
Non
occorreva di certo un genio per comprendere che quello era il modo di
Erik di
chiedere perdono; e per quanto ella desiderasse con tutta se stessa,
davvero,
di potersi lasciar andare nell’abbraccio dell’uomo,
c’era sempre la convinzione
che non potessero bastare poche strofe cantate abilmente per farla
capitolare,
non poteva essere giusto se fosse stato così facile! Si
ritrovò a sedere di
nuovo sul letto, incapace di reggersi oltre sulle gambe –
mantenersi in
equilibrio su un piede solo, per quanto aggrappata a qualcosa, poteva
rivelarsi
difficile e faticoso – e con una mano si asciugò
le lacrime dal viso, scuotendo
piano la testa.
«Metti
costantemente in dubbio ciò che provo, mi metti alla prova
per un nonnulla, e
poi credi che ti basti chiedere perdono per sistemare ogni
cosa…» Mormorò senza
guardarlo, le mani strette in grembo le cui dita si torturavano a
vicenda. «Posso
passarci sopra ora, in fondo sono tornata per stare con te, ma poi so
che
domani sarà di nuovo come prima, accadrà qualcosa
che ti farà infuriare e io ne
pagherò le conseguenze. Cosa devo fare con te, Erik? Cosa
devo fare…» La sua
voce si spense in un singhiozzo. La stanchezza iniziava ad appesantirle
le
spalle, quel maledetto laudano le era entrato in circolo e aveva acuito
ancora
di più la sua confusione. Tutto ciò che ora
desiderava era chiudere gli occhi e
dormire, ma sapeva anche di non poter lasciare la discussione a
metà.
Senza
sollevare lo sguardo, udì i passi di Erik colmare lo spazio
tra la porta e il
letto e avvicinarsi a lei, lenti, incerti, ma tuttavia determinati.
L’uomo le
si inginocchiò davanti come aveva fatto poco prima per
medicarla, mentre adesso
il suo aspetto somigliava di più a quello di un pellegrino
che si genufletteva
di fronte al santo al quale si era votato. Le prese le mani tra le sue,
le
strinse, se le portò al volto e le premette contro le
proprie labbra, carne
contro carne; senza quel maledetto arnese a coprirgli metà
faccia, infatti,
poteva finalmente sentire calore sotto il suo tocco al posto del gelido
materiale che componeva la sua maschera. Una vera sfortuna che adesso
Giulia
non avesse nessuna voglia di indugiare in carezze.
«So
di non avere alcuna scusante», ammise piano, con prudenza;
nei suoi occhi, il suo
solito fuoco ora appannato dal pianto continuava ad ardere
instancabile,
divorando le iridi castane della giovane. «Quando Christine
mi abbandonò,
preferendo il visconte a me, giurai che mai, mai sarei caduto di nuovo
in una
simile trappola finché avessi avuto fiato in corpo. Che
senso aveva consumarmi
per un sentimento che non sarebbe mai stato ricambiato a causa di
ciò che sono?
Per un breve periodo credetti che ci sarei riuscito: avevo vissuto
talmente a
lungo in solitudine, che in fondo non poteva essere così
terribile concludere
in quel modo il tempo che mi sarebbe rimasto. Poi sei arrivata
tu…»
Le
lacrime inumidirono l’effimero sorriso che raggiunse le
labbra di Erik, e che
sparì senza giungere agli occhi. Ritornato serio,
accentuò leggermente la
stretta sulle mani della ragazza. «Non sai quanto ho lottato
contro me stesso
per cercare di seppellire i sentimenti che hai riportato a galla con
l’andare
avanti della nostra conoscenza. Mi sono maledetto, mi sono insultato,
mi sono
preso gioco della mia debolezza, e quando infine ho accettato di
volerti più
della stessa aria non mi restava che cercare di comprendere se questa
era
l’ennesima punizione infertami da Dio oppure un modo per
farsi perdonare.
Quando hai scoperto chi ero e l’hai semplicemente accettato,
così, senza urlare
né accusarmi o cercare di fuggire da me, ho creduto che tu
fossi l’assoluzione
da tutti i miei peccati… Ma poi, quando te ne sei andata,
quando sei sparita
per più di un mese, mi sono odiato per essere caduto
nuovamente vittima dello
stesso inganno – come avevo potuto credere che potesse
esserci il perdono per
uno come me? La tua assenza mi ha reso folle, e anche il tuo ritorno
improvviso, ma solo perché questo non coincideva con tutto
ciò di cui mi ero
convinto. Riesci a comprendere la mia reazione, adesso? Puoi
perdonarla?»
La
luce della lampada creava macabri giochi di ombre sul suo volto
sfigurato, ma
ella ormai si era abituata al suo aspetto e non era di quello che aveva
paura o
disgusto: quello che temeva era il suo animo vendicativo, la sua mente
fredda e
calcolatrice, il suo istinto di distruzione e catastrofe, la sua
tendenza al
dramma e la sua scarsa fiducia nei confronti del genere umano. Ma
ciò che la
intimoriva ancor più di tutto questo era l’uso
ch’egli faceva della sua voce,
della sua splendida voce suadente e profonda, capace di minacciare e
terrorizzare prima e commuovere e adorare poi. Sì, quella
voce era la sua
rovina, così come le sue lacrime, che ad ogni minuto che
passava la legavano
sempre di più a lui e al suo destino, senza lasciarle
possibilità alcuna di
scampo!
Giulia
chiuse gli occhi e inspirò piano, sforzando di calmare i
nervi e di placare la
propria rabbia. Per l’ennesima volta, Erik le aveva messo ai
piedi il suo
immenso e sconfinato amore, e la stava implorando con tutta
l’umiltà di cui era
capace di comprenderlo e accettarlo… No,
di amarlo a sua volta, come le aveva ringhiato poco prima.
Senza
dire una sola parola, mentre le lacrime andavano via via asciugandosi
sulle sue
gote pallide, Giulia circondò il viso di Erik con entrambe
le mani,
accarezzando gentilmente la sua pelle gelida con i polpastrelli delle
dita. Si
chinò su di lui, posando la propria fronte sulla sua e
rimanendo in quella
posizione per lunghi e interminabili secondi; poi, per evitare che il
suo
comportamento venisse nuovamente frainteso, si allontanò
dall’uomo il tanto
sufficiente da poter posare le labbra su ogni centimetro del suo volto,
sulle
palpebre socchiuse e tremanti, sulla guancia morbida e su quella
piagata, sulla
punta del naso, agli angoli della bocca. Spostò le mani e le
intrecciò dietro
la sua nuca, affondandole tra i suoi capelli corvini, e così
facendo lo
avvicinò più vicino a sé e finalmente
fece incontrare le loro bocche.
Erik
tremò, sorpreso, incapace per un attimo di reagire. Ma poi
le sue labbra risposero
allo stimolo, il suo respiro si fece affannato, dalla sua gola provenne
un
gemito che non era di dolore e le sue mani si sollevarono fino a
circondare la
vita della giovane e aggrapparsi alla sua camicia, percependo il
piacevole
calore che emanava il suo corpo solido e vivo contro il proprio. Si
rese conto
solo in quel momento di quanto gli fosse mancato l’ardore
bruciante di quei
baci, la sensazione di bere il suo respiro, l’inalare il
profumo della sua
pelle e toccare quel corpo, sensuale tentatore, con carezze brevi e
ancora
istintivamente esitanti, velate dal timore di potersi risvegliare
bruscamente
come ormai accadeva da un mese a quella parte, quando gli capitava di
sognare
di stringerla a sé e non farla più andare via.
Mormorò
il suo nome o forse credette soltanto di farlo, giacché le
loro labbra erano
premute con troppa forza le une contro le altre per permettere al suono
di
venire udito. Baciò, leccò e
mordicchiò quella carne tenera e morbida beandosi
dei gemiti e degli ansiti che le strappava, e continuò
così, mai sazio, fin
quando non fu lei ad allontanarlo, posando le mani sulle sue spalle e
la fronte
contro la sua.
«Io
ti amo, Erik», mormorò piano. «Solo che
non ero pronta a dirtelo un mese fa.»
Vide
il volto dell’uomo impallidire, gli occhi dorati sgranarsi
appena dallo
smarrimento, e calde e pesanti lacrime cadere da essi e colare fino al
mento,
silenziose: non riuscì a parlare, sopraffatto
com’era da quella rivelazione;
egli poi seppellì il proprio viso nel suo grembo e pianse,
dapprima con una
sorta di pacatezza, poi le sue spalle vennero scosse dai singulti e
allora
prese a singhiozzare di cuore, come un bambino, mentre lei gli
accarezzava i
capelli e sussurrava parole di conforto, proprio come aveva fatto nei
suoi
sogni. Sfogò così tutto l’odio e il
rancore e la tristezza che aveva accumulato
in quel terribile mese di solitudine, dimenticò il macigno
che gli aveva
oppresso il petto e si concesse finalmente l’ardire di
sperare che adesso lei
non lo avrebbe mai più lasciato. Era tornata per lui, aveva
pianto per lui, lo
aveva baciato, gli aveva detto persino che lo amava – come
poteva resistere il
suo povero cuore senza scoppiare, traboccante di gioia?
Le
prese nuovamente le mani tra le sue, le sollevò davanti al
proprio viso e ne
baciò le nocche, i palmi, ogni singolo dito, mischiando
lacrime e carezze, il
tutto sotto lo sguardo commosso ed emozionato della ragazza, che non
trovava
più le parole per esprimere quanto provava in quel momento.
«Io…
ah… mi manca il
fiato…» Bisbigliò
Erik, balbettando quasi e accennando un sorriso di scuse. «Mi
dispiace, vorrei
dirti che… non so… Oh, Dio,
come si
può provare tanta felicità e rimanere in
vita?»
Per
tutta risposta Giulia ricambiò il sorriso e si
inchinò per abbracciarlo
nuovamente, seppellendo il viso sulla sua spalla e inspirando il suo
profumo,
sperando così di far cessare le lacrime di entrambi. Chiuse
gli occhi e mormorò
il suo nome, assaporandolo sulla punta della lingua, continuando a
stringerlo
per timore che svanisse e tutto quello si rivelasse soltanto
l’ennesimo sogno. Le
parve che lui le stesse dicendo qualcosa mentre le affondava le dita
tra i
capelli, ma non riuscì a decifrare le parole –
tutta la stanchezza che aveva
accumulato le piombò addosso con forza, i suoi nervi
cedettero e crollò, addormentandosi
o perdendo conoscenza contro il petto dell’uomo che,
finalmente, aveva ammesso
di amare.
__________________________________________________________________________________________________
Angolo Autrice.
Capitolo
difficile - ma che dico difficile? Difficilissimo!
- da scrivere e da concludere, ci ho proprio sudato sette camicie...
Spero di averne tirato fuori qualcosa di decente, se non altro, anche
se il finale lo trovo un po' troppo insipido! D: Odio i finali, i miei
perlomeno >_<
Coomunque. Le cose sembrano essersi risolte per il meglio, o perlomeno
così è per il momento... Ma, visto che siamo
ancora un po' lontanucci dalla fine, chi lo sa che cosa potrebbe
accadere ancora - o meglio, io lo so, ma non ve lo dico U_U
sennò che gusto c'è?
Ringrazio Ellyra
per la splendida recensione - scusa se non ti ho risposto, mi sono
completamente dimenticata ^^; - e tutti quelli che hanno letto lo
scorso capitolo e che continuano a seguirmi silenziosi! Davvero mille
grazie, ricordatevi sempre che se riuscirò a mettere la
parola "Fine" a questa storia sarà solo ed esclusivamente
merito di voi lettori! :)
Non ho altro da dichiarare, se non che il prossimo capitolo
è in fase di lavorazione ma che non prometto tempi brevi,
stavolta - perdonatemi, vedrò cosa riesco a fare! Voi
attendete fiduciosi come sempre, l'attesa sarà premiata :D E
adesso vi lascio, una buona serata a tutti, ci sentiamo presto!
Con tanto, tantissimo affetto, sempre io, la vostra
Niglia.
|
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Capitolo 36 *** 34. Oui, c'est toi, je t'aime ***
Chapitre
34
Oui,
c’est toi, je t’aime
Oui,
c'est moi, je t'aime,
Oui, c'est moi, je t'aime,
Malgré l'effort
même du démon moqueur,
Je t'ai retrouvée;
je t'ai retrouvée,
Te voilà sauvée; te
voilà sauvée,
C'est moi! Viens, viens, sur mon coeur!*
Era
da tempo che non le capitava di sognare. Ultimamente il suo era stato
un sonno
agitato, nervoso, che la faceva risvegliare tremante e con le guance
bagnate
nel cuore della notte senza che riuscisse a ricordare quale strano
incubo
l’avesse fatta reagire in quel modo. Aveva attribuito quella
mancanza di
serenità al modo in cui aveva lasciato Erik – e,
riflettendoci tra sé e sé,
riconosceva di aver sbagliato ad andarsene in quel modo,
benché a lui avesse
detto il contrario, e anche se le cose tra loro sembravano essere state
chiarite non riusciva a fare a meno di sentirsi ancora in colpa
– e dunque ci
aveva fatto l’abitudine, limitandosi a cercare una serena
incoscienza tramite
le pastiglie di sonnifero che le aveva prescritto il dottore. Quella
notte,
tuttavia, mentre dormiva nel letto di Erik, avvolta dal suo buon odore
rassicurante, per la prima volta dopo settimane riuscì a
riposare, e la sua
mente quieta produsse un ben strano sogno.
Non riconosceva il
luogo nel quale si trovava: a prima vista, poteva sembrare una banale
soffitta.
La sua se stessa
onirica si stava dirigendo con passi silenziosi e decisi verso un
piccolo
scrigno posato su una vecchia cassapanca polverosa, facendo ben
attenzione a
che le travi del pavimento non scricchiolassero al suo passaggio.
Si
inginocchiò di
fronte alla madia e vi posò sopra la candela che aveva
portato con sé, e che a
malapena schiariva la densa oscurità del sottotetto.
Diede una rapida
occhiata alle sue spalle, quasi temesse che qualcuno l’avesse
seguita; appurato
invece di essere sola, tirò fuori dalla tasca della lunga
vestaglia da notte
una piccola chiave d’ottone che venne poi infilata nella
serratura dello
scrigno. Esso si aprì con un lieve scatto, facendola
sussultare.
Aveva nascosto
lassù quel cofanetto quattro anni prima: che cosa si
aspettava di trovarci, al
suo interno?
Eppure, ecco che i
suoi piccoli tesori apparvero alla luce della candela, come se fossero
stati
messi là dentro non più tardi del giorno prima. A
prima vista non sembravano
che semplici cianfrusaglie prive di significato, ma lei conosceva la
storia di
ciascuna di esse.
Erano i ricordi
della sua vita al teatro. Ricordi che, per amore di suo marito, aveva
dovuto
fingere di aver cancellato il giorno del suo matrimonio. E invece
rieccoli lì,
pronti a perdonarla, a diventare di nuovo parte di lei!
Con dita gentili e
tremanti, ella tirò fuori dalla scatola i guanti bianchi con
ricami dorati che
aveva indossato durante un ballo in maschera, e che erano stati un
regalo di
madame Giry, la donna che l’aveva praticamente cresciuta; se
li portò al naso e
annusò il tessuto, ritrovando ancora un’ombra del
profumo che vi aveva
spruzzato prima di metterli.
Fu, poi, il turno
di una vecchia coroncina di fiorellini di stoffa dalla quale pendeva un
morbido
tulle irrimediabilmente rovinato dalle tarme e appena ingiallito ai
bordi. Era
un velo da sposa, che tuttavia non era mai stato indossato –
non per un
matrimonio, comunque.
Con una fitta
dolente al cuore la donna se lo strinse al petto, mentre gli occhi le
pungevano
nello sforzo di non piangere.
In fondo al baule,
quasi nascosta, giaceva quella che un tempo era stata una bellissima
rosa
rossa, e che adesso non era che un vecchio fiore grigio e rinsecchito.
*
Quando
Giulia aprì gli occhi, il mattino dopo, si
ritrovò nel letto a baldacchino di
Erik, da sola; eppure egli non doveva essersi alzato da molto,
giacché le
lenzuola dalla sua parte del talamo erano ancora tiepide. Il sogno era
ormai un
confuso miscuglio di immagini incomprensibili, che tuttavia la
lasciò con una
strana sensazione di malinconia e amaro in bocca che non seppe
spiegarsi. Rimase
a crogiolarsi con indolenza sotto le coperte per qualche minuto,
godendo del
calore e del profumo dell’uomo – misto stranamente
a qualcosa di più floreale
che non riusciva bene ad individuare – che
l’avvolgeva piacevolmente: era
davvero tornata, ancora stentava a
credere di esserci riuscita e, soprattutto, che ogni cosa si fosse
risolta per
il meglio.
Fu
una fitta al piede, ancora indolenzito, a rammentarle lucidamente la
situazione. Non poteva rimanere ancora a letto a poltrire, aveva un
urgente
bisogno di lavarsi e togliersi tutta la sporcizia di dosso; adesso che
gli
ultimi residui di sonno erano svaniti, iniziava a vergognarsi di aver
dormito
per tutta la notte nelle lenzuola pulite e accanto a Erik, quando
probabilmente
aveva ancora addosso l’odore dell’acqua del lago
mista alla polvere che aveva
raccolto un po’ dappertutto. Doveva essere più
sconvolta e stanca di quanto
avesse creduto, se si era addormentata in quelle condizioni.
Si
tirò su a sedere, stropicciandosi le palpebre e mettendo a
fuoco l’ambiente
circostante. Erik doveva aver spento la lampada per permetterle di
dormire a
lungo senza che la luce la disturbasse, e ciò le
strappò un piccolo sorriso:
come aveva fatto a non accorgersi prima di quanto l’uomo
fosse sempre stato così
premuroso nei suoi confronti? Sporgendosi oltre il bordo del letto per
accendere di nuovo il lume e dissipare il buio, poté notare
sul comodino una
splendida rosa rossa listata di nero che spiegava l’odore che
aveva sentito
svegliandosi, posata scrupolosamente sopra una breve nota del cui
autore Giulia
non nutriva dubbi.
Ieri notte sono
stato un pessimo padrone di casa, dunque cercherò di
rimediare.
Ho preparato la
stanza da bagno in modo che tu possa trovarci tutto ciò di
cui hai bisogno,
puoi usare la mia perché preferisco non pensare in che
condizioni può essere la
tua; ho anche recuperato i tuoi stivali dalla barca, sono accanto alla
poltrona
– dove troverai anche gli unici abiti che purtroppo sono in
grado di darti,
visto che gli altri sono andati… distrutti. Ho visto che gli
indumenti maschili
ti calzano a pennello, spero non ti dispiaccia se per oggi ti fornisco
questi –
provvederò il prima possibile a cercarne di più
adatti.
Esco per delle
commissioni, ma tornerò presto.
Tuo,
Erik.
Il
tratto quasi tremulo, palesemente diverso dal modo in cui era stato
scritto il
resto della lettera, di quell’ultima parola, quel piccolo
aggettivo, quel
semplice tuo, fece sorridere di
tenerezza la giovane. Eppure uno strano pensiero le
attraversò la mente,
indesiderato e fastidioso: sarebbe forse giunto qualcosa, adesso, a
turbare
quella fragile armonia? Sforzandoci di non pensarci, la ragazza
scivolò giù dal
letto, mantenendosi in precario equilibrio su di una gamba sola e
poggiando
solo la punta del piede ferito sul pavimento, per evitare di strappare
i punti.
Barcollando raggiunse il piccolo bagno attiguo, che Erik aveva peraltro
già
preparato – un braciere posto al centro della stanza aveva
reso l’ambiente
caldo e ospitale, facendo inoltre sì che l’acqua
all’interno della vasca in
rame non si raffreddasse – e, chiudendosi dentro, procedette
a restituirsi un
aspetto più decente.
Quando
Erik tornò nella dimora sotterranea, qualche ora
più tardi, trovò Giulia
intenta a raccogliere i vari cocci di vetro e ceramica che giacevano
sparpagliati un po’ dappertutto sul pavimento, e a metterli
su un piccolo telo
steso per terra accanto a lei. Tale visione ebbe il duplice effetto di
imbarazzarlo e irritarlo, giacché si vergognava di averla
dovuta accogliere con
la ‘casa’ in quelle condizioni e soprattutto non
tollerava di vederla ripulire
come una qualsiasi domestica il disastro che aveva fatto lui; inoltre
non
avrebbe dovuto lasciare il letto, dannazione, con
quell’orribile ferita ancora
fresca!
Tuttavia,
quando ella lo udì scendere dalla gondola e avvicinarglisi a
grandi passi,
sollevò lo sguardo dal suo lavoro e gli sorrise, in un modo
così spontaneo e
affettuoso da lasciarlo per un attimo disorientato, privandolo persino
della
parola. Sgridarla per la sua incoscienza era, adesso, decisamente
impensabile.
Lasciò subito ciò che stava facendo e si
alzò in piedi con relativa facilità,
aggrappandosi al bracciolo di una poltroncina e passandosi una mano sui
pantaloni impolverati. «Ho pensato che sarebbe stato meglio
far sparire i
frammenti di vetro, sai, per evitare altri incidenti come quello di
ieri sera»,
disse, accennando con la mano al pavimento.
Erik
le passò un braccio intorno alla vita per sostenerla,
lasciandosi andare ad un
sospiro imbarazzato mentre le sfiorava la fronte con le labbra in un
fugace
saluto. Sembrava non essere ancora del tutto a suo agio con
quell’improvvisa
svolta degli eventi. «Suppongo non fosse così che
ti aspettavi il tuo ritorno…
Mi dispiace che tu abbia dovuto assistere alla mia follia»,
mormorò senza
guardarla.
«È
tutto passato, Erik, non parliamone più», propose
la ragazza, voltandosi
completamente verso di lui e circondandogli i fianchi con le braccia in
un
gesto estremamente semplice ed istintivo che l’uomo non si
aspettava. «Posso
chiederti dove sei stato o sarei troppo invadente?»
«Assolutamente
no, puoi chiedermi tutto quello che desideri sapere. Sono andato a
parlare con
Bamdad per informarlo che è tempo che io riprende ad
occuparmi della direzione
del teatro, dato che ho trascurato i miei doveri troppo a
lungo», le spiegò
semplicemente, sistemandole una ciocca di capelli dietro
l’orecchio. Non aveva
dato alcuna spiegazione al suo segretario, invece, sui motivi che lo
avevano
spinto a riprendere il controllo dell’Opèra,
perché – sembrava tremendamente
sciocco, sì – per il momento non voleva che nessun
altro sapesse del ritorno di
mademoiselle Sanders; era un qualcosa che voleva tenere per
sé ancora per un
po’, come se raccontarlo a qualcuno avrebbe rovinato la
serenità dei momenti
che potevano finalmente trascorrere insieme. Inutile dire che era
meglio
tenerne all’oscuro anche madame Giry, se si voleva evitare
che la donna si
precipitasse nei sotterranei solo per vedere con i suoi occhi la sua
pupilla.
Lei
si era distratta per un attimo, inseguendo chissà quale
pensiero, e fu Erik a
riscuoterla da esso sfiorando gentilmente la punta del suo naso.
«Che cosa c’è?»
Chiese, cercando di celare la preoccupazione; al suo fianco aveva
l’impressione
di camminare sulle uova, come se un singolo, minuscolo passo falso
potesse
distruggere quello che faticosamente sembrava essersi ricreato tra loro.
«Hai
detto che posso chiederti qualsiasi cosa?» Domandò
la giovane in attesa di
conferma, inarcando un sopracciglio.
Lui
aggrottò a sua volta la fronte, accennando un sorriso.
«Sì, certo. Qualsiasi cosa.»
Giulia
sospirò, e sollevò le mani a giocherellare con i
bottoni della sua giacca. «Allora,
Erik, ti prego… Non indossare questa maschera quando sei con
me», disse piano,
temendo la reazione dell’uomo a quelle sue parole.
Tuttavia
Erik non si arrabbiò a quella richiesta; al contrario, essa
sembrò averlo colto
di sorpresa, e il suo sguardo, quando si riposò sulla
ragazza, sembrò quello di
un bambino smarrito. Dopotutto, era la prima volta che qualcuno lo
pregava di
scoprirsi il volto senza l’intenzione di prendersi gioco di
lui. Scacciando via
quegli odiosi spettri della sua infanzia che non avrebbero smesso un
solo
giorno di perseguitarlo, Erik sospirò.
«È l’abitudine», rispose,
assumendo il
suo stesso tono di voce. Poi dalle sue labbra fuoriuscì una
debole confessione
che mai essere umano ebbe l’occasione di sentire,
né prima né tantomeno in
seguito. «Mi fa sentire… al
sicuro.»
Ella
lo comprese, e non volle forzare la mano – ogni
cosa a tempo debito; però volle lo stesso che lui
sapesse che cosa ne
pensava. «Mi da l’impressione che tu voglia mettere
una sorta di distanza tra
me e te», mormorò, lasciando che un dito vagasse
sul profilo del suo volto
scoperto. «Sembra una barriera… Ma non importa,
davvero. La toglierai quando ti
sentirai pronto. So aspettare», concluse con un sorriso.
Erik
le lasciò un breve bacio sulle nocche della mano, un bacio
che significava
gratitudine; poi sospirò e cambiò discorso,
portando entrambi su un terreno
meno delicato. «È strano… vederti di
nuovo qui», mormorò, scrutandola da sotto
le ciglia scure.
«Sì,
è strano anche per me», replicò lei,
stringendogli una mano come a volerlo tuttavia
rassicurare sulla sua reale presenza. «Ma credo che sia
questo il posto dove
devo stare, alla fine.»
Gli
occhi di Erik si riempirono di una rara emozione. «Qui, con
me?» Domandò piano,
quasi come se temesse malgrado tutto una risposta negativa –
sembrava non
volersi cullare nella speranza fino all’ultimo.
Giulia
scrollò le spalle, leggermente imbarazzata. «Se mi
vuoi ancora…» Rispose, con
un mezzo sorriso.
Egli
sorrise a sua volta, sfiorandole il mento con due dita e avvicinandosi
a lei
fino ad arrivare a baciarla stavolta con estrema gentilezza, memore di
quell’altro bacio che aveva rovinato ogni cosa, tra loro.
«Ti vorrò sempre»,
ribatté in un sussurro, lambendo le sue labbra con le
proprie.
Quel
giorno, Erik le impedì di toccare oltre un solo spillo,
comportandosi come il
più perfetto dei padroni di casa. Si trasferirono in una
stanza miracolosamente
intatta che fungeva da sala da pranzo, e lì l’uomo
servì verdure cotte insieme
a paté di selvaggina per antipasto, filetto di tacchino e
salsa di funghi
insieme a un contorno di uova sode tagliate a fette come prima portata,
accompagnate
da dell’ottimo vino rosso di cui Giulia aveva già
scordato il nome, e per
finire come dessert un dolce alle mandorle che Erik aveva
orgogliosamente
chiamato Galette des Rois. Non era
la
prima volta che pranzavano insieme, ma stavolta l’atmosfera
era diversa:
difatti, alla luce delle ultime rivelazioni, quel piccolo spaccato di
vita
quotidiana sembrava una piacevole finestra sul futuro qualora la loro
relazione
venisse infine portata alla luce del sole… Poi parlarono,
parlarono tanto e
risero persino, soprattutto quando Erik le chiese di descrivergli il
mondo dal
quale proveniva e lei inciampò nelle parole per la fretta e
l’entusiasmo di
illuminarlo su concetti che un uomo dell’Ottocento non
avrebbe mai potuto
immaginare, neppure nei suoi sogni più sfrenati. Erik beveva
ogni sua parola, e
si sarebbe anche dimenticato di mangiare se lei, di tanto in tanto, non
l’avesse
spronato ad assaggiare questo o quello, con lo stesso tono e lo stesso
sguardo
che avrebbe avuto una sposa amorevole.
Quando
terminarono di pranzare si trasferirono in un’altra stanza,
una sorta di sala
della musica. Qui, al posto dell’immenso organo che
troneggiava nel salone
principale, si trovava un antico clavicembalo – che sarebbe
stato un pezzo da
museo anche per quell’epoca – e che Erik
dimostrò di saper maneggiare in modo
altrettanto eccellente degli altri numerosi strumenti che
già padroneggiava. Giulia
riconobbe l’aria che egli stava suonando – si
trattava del quarto atto del Faust
di Gounod – e senza quasi pensarci
dischiuse le labbra e iniziò a cantare, raggiungendo Erik
alle spalle e
poggiandovisi serenamente.
Ah! C'est la voix
du bien aimé!
À son appel mon
coeur c'est ranimé!
Erik
non si lasciò sfuggire l’occasione, e
poiché conosceva a memoria il libretto di
quella che era una delle sue opere predilette, si unì
all’esibizione della
giovane con un rinnovato entusiasmo e una passione per
quell’attività che non
gli capitava di provare da quando, in effetti, lei era scomparsa.
Quando l’aria
fu conclusa, entrambi respiravano a fatica come dopo una lunga corsa.
Eppure entrambi
sorridevano, e quando Erik si voltò verso di lei,
prendendole le mani per
attirarla giù, verso di sé, baciarla fu normale
come se non avesse fatto altro
in tutta la sua vita. Baciò le sue labbra, si perse nella
sua bocca, infilò le
mani tra i suoi capelli, la tirò dolcemente fin quando
Giulia non fu costretta,
per non perdere l’equilibrio, a sedersi sulle sue ginocchia e
ad allacciare le
braccia dietro il collo dell’uomo, ricambiando le sue
attenzioni.
Prima
che la situazione si evolvesse e proseguisse oltre, tuttavia, Erik
interruppe
il bacio. Le accarezzò le labbra con
un’espressione così carica di amore e
desiderio insieme da farla rabbrividire d’aspettativa, mentre
allo stesso tempo
cercava di placare il cuore che sembrava volerle uscire dal petto.
Senza distogliere
gli occhi dai suoi, Erik sollevò una mano e raggiunse la
maschera… e, senza
indugiare oltre, se la levò dal viso.
«Mi
sento al sicuro anche senza, adesso», disse piano, sottovoce.
Giulia comprese
perfettamente il significato di quelle parole, e non ne
trovò altre per
replicare ad una simile dimostrazione di fiducia e amore da parte sua;
si
limitò a sorridere, e si accorse di piangere solo quando le
dita dell’uomo le
asciugarono le lacrime dalle guance, con la stessa devozione del
pellegrino che
sfiora la statua del proprio santo. Fu lei allora a baciarlo, come la
notte
precedente, su ogni lembo della carne piagata del suo volto; ma mentre
la notte
prima l’assenza di maschera era dovuta alla follia e alla
disperazione e a
chissà cos’altro era passato nel suo animo,
stavolta il suo essere scoperto
davanti a lei era una scelta del
tutto deliberata.
Giulia
lo desiderava così tanto che un’ulteriore attesa
l’avrebbe uccisa. Dopo l’ennesimo
bacio si chinò dunque e gli sussurrò qualcosa
all’orecchio, e tali parole,
qualsiasi esse fossero, strapparono all’uomo uno strano verso
che era metà
singhiozzo e gemito. La fissò incredulo, senza fiato, ma
ciò che vide nella sua
espressione dovette rassicurarlo, perché sorrise a sua
volta, seppur con un
certo nervosismo. Si alzò dallo sgabello e le porse la mano
con un gesto
galante, senza riuscire a distogliere lo sguardo da lei neppure per
aprire la
porta e fare strada verso la camera da letto: le loro dita erano
intrecciate e
camminavano così vicini che i loro respiri erano diventati
uno solo.
La
stanza era in perfetto ordine, come Giulia l’aveva lasciata
quella mattina. All’improvviso
Erik si era bloccato sulla soglia, così fu lei a trascinarlo
gentilmente e con
un’espressione carica di promesse all’interno della
camera, verso l’enorme
talamo, dove infine fece sedere entrambi. «Dio,
Giulia… Ti amo», le sussurrò lui
quasi con disperazione, circondandole il viso con le mani prima di
baciarla per
l’ennesima volta. «Ti amo quasi troppo per una sola
vita», aggiunse, chino su
di lei, sulla sua bocca.
Lei
sorrise, gli occhi ancora leggermente umidi e le guance improvvisamente
arrossate. «Mi dispiace non aver capito prima che anche io ti
amo così tanto»,
replicò a sua volta, le labbra così vicine a
quelle di lui che quasi intuire le
sue parole era difficile.
Erik
non rispose: non era più il tempo delle parole, avevano
già detto tutto quello
che poteva essere espresso in un linguaggio umano. Egli si sporse
quindi verso
la lampada sul comodino poco distante, facendo per spegnerla, ma una
mano di Giulia
andò a posarsi sul suo polso interrompendo il gesto a
metà. Sorpreso, si voltò
a guardarla, e la vide scuotere appena il capo in segno di diniego.
«No»,
disse lei piano, senza lasciare i suoi occhi per sottolineare la
serietà di
quel commento. «Voglio vederti.»
Erik
distolse lo sguardo, nuovamente a disagio. «Non la ritengo
una buona idea»,
decretò con un tono forse troppo gelido, irrigidendosi e
tornando per un attimo
ad essere la terribile creatura che aveva terrorizzato mezza Parigi
negli
ultimi quindici anni.
«Erik»,
lo chiamò lei, inginocchiandosi sul letto e raggiungendo
l’uomo che aveva preso
a darle tanto ostinatamente le spalle; aderì contro la sua
schiena e lo
abbracciò, posando la guancia contro la sua nuca per far
breccia nel muro
ch’egli aveva eretto all’improvviso, tagliandola
fuori. «Erik. Hai detto di sentirti
al sicuro, con me. E io sono qui, sono tra le tue braccia…
Come puoi avere
ancora paura che io possa provare altro che non sia amore e desiderio?
Ti
supplico, lascia che ti veda. Fidati di
me.»
Egli
sollevò una mano e strinse quella che Giulia gli aveva
posato sullo sterno, in
direzione del cuore; per quanto volesse abbandonarsi con tutto
sé stesso a
quelle sensazioni, era perfettamente a conoscenza delle misere
condizioni del
suo corpo, e del fatto che non era un qualcosa da esibire con fierezza.
Anche
volendo fidarsi di lei – e, anche se credeva di esserci
riuscito, Dio solo
sapeva quanto desiderasse lasciarsi andare completamente –
lei era comunque una
bella giovane donna, non abituata agli orrori con cui lui aveva invece
fatto i
conti durante la sua intera esistenza, e non avrebbe potuto tollerare
di vedere
uno sguardo di ribrezzo o di pietà nei suoi occhi quando
questi si fossero
posati sulla propria persona. Come poteva chiederglielo, dunque?
Perché non
poteva semplicemente chiudere gli occhi e lasciarsi avvolgere dalla
pietosa
oscurità, ed essere lei
a fidarsi di
lui? La vista era un’infingarda traditrice, e non aveva
portato che disgrazie e
miserie nella sua vita; l’essenziale è invisibile
agli occhi… Eppure Giulia
voleva vedere. Dolce, curiosa
Pandora!
«Tutta
la tua buona volontà è apprezzabile, mio tesoro,
ma non ti impedirà di provare
disgusto per questo corpo. Il viso non è la parte
peggiore», replicò in un
lieve sussurro, socchiudendo gli occhi e inspirando discretamente il
suo
profumo.
Le
labbra della giovane si strinsero, indispettite. Come poteva essere
così
cocciuto e persistere nelle sue sciocche convinzioni, quando lei
credeva di avergli
dimostrato più volte quanto lo volesse? Ella sapeva che, se
non l’avesse
spuntata quella volta, poi non ci sarebbe più riuscita: se
avesse fatto come le
chiedeva Erik, se avesse semplicemente chiuso gli occhi e si fosse
abbandonata
all’oscurità, allora lui avrebbe ritenuto corrette
le sue supposizioni, avrebbe
pensato che effettivamente Giulia non si fidava abbastanza di
sé stessa da
poter sollevare lo sguardo sul suo corpo martoriato senza fremere di
orrore, e
ciò avrebbe inevitabilmente guastato l’armonia tra
loro. Era chiaro che lei,
questo, non poteva permetterlo.
Perciò,
senza rispondergli, portò le proprie mani sui bottoni della
camicia dell’uomo e
iniziò a sfilarli lentamente, uno per uno, denudandogli
torso e addome e
posandovi i palmi tiepidi in carezze delicate e prudenti. Lo
sentì inspirare ed
espirare piano, come se temesse di sentirla strillare da un momento
all’altro,
per nulla abituato com’era ad indugiare in simili tenerezze.
«Solo
col cuore, Erik», sussurrò al suo orecchio,
facendo scivolare la camicia dalle
sue spalle forti e muscolose lungo le braccia, lasciando brividi di
trepida
attesa dietro di sé, fino a sfilarla dalle mani e gettarla
poi da qualche parte
sul materasso. Le sue dita sottili si aggrapparono alle spalle
dell’uomo e
quasi nello stesso istante la sua bocca trovò un punto
deliziosamente sensibile
alla base della nuca, e poi un altro dietro l’orecchio, sulla
linea della
mascella e sul profilo del collo, lasciando tanti piccoli baci delicati
sulla
scia del suo passaggio. Le sue mani abbandonarono l’appiglio
e si mossero,
sfiorando e accarezzando ogni curva di quel corpo snello e imponente
ch’egli si
vergognava tanto a mostrarle; toccò ormai senza timore o
fastidio le
innumerevoli cicatrici che attraversavano di sbieco la sua schiena, tracce di dolorose sferzate, sinistre
piaghe che a suo tempo sembravano non essere state curate a dovere,
carezzò
sfregi lisci e bianchi di chissà quale natura lungo le
braccia, posò le labbra
su quello che sembrava essere un vecchio marchio impresso a fuoco in
corrispondenza della scapola sinistra. Quello era il corpo
dell’uomo che amava,
era il corpo di un essere umano che aveva sofferto pene indicibili nel
corso
della sua esistenza, e tutto a causa di un aspetto di cui non aveva
colpa; come
poteva, allora, pensare che lei potesse provarne ribrezzo?
Man
mano che le sue carezze proseguivano, imperterrite, le spalle di Erik
si
rilassavano, il suo respiro si faceva più sereno; egli
socchiuse gli occhi,
incredulo, assaporando la sensazione di avere un cuore nel petto pronto
a scoppiare
dall’immensa gioia. Per lui non fu difficile, a quel punto,
voltarsi verso la
giovane e ricambiare ogni singola lusinga, adorandola e venerandola
come una
dea con le mani, le dita, le labbra, gli occhi. Era la prima volta che
Erik
giaceva con una donna senza ch’ella si aspettasse di essere
ripagata in qualche
modo, e la sensazione era splendida, indescrivibile: in quel momento
non
esisteva un altro luogo, sulla faccia della terra, dove egli si sarebbe
trovato
più a suo agio che tra le braccia di Giulia.
E
allora, quando lo realizzò, tutto il desiderio di recuperare
il tempo perduto,
di recuperare quelle cinque settimane, quei trentasette giorni, quelle
interminabili ore, esplose con la stessa forza di una straripante ouverture. Nella calda e confortante
luce soffusa i loro corpi si incontrarono, si sfiorarono, si conobbero,
si
aggrapparono l’uno all’altro come naufraghi alla
deriva, sospirarono e
ansimarono, spazzarono via a vicenda le proprie paure, mormorarono con
voce
spezzata promesse, giuramenti, tenerezze che non avrebbero
probabilmente mai
visto la luce del sole ma che sarebbero rimaste ben impresse,
indelebili, nelle
loro memorie.
**
Sdraiata
di fianco a lui nel caldo talamo, Giulia osservava l’uomo che
riposava,
probabilmente come poche altre volte nella sua vita, con aria serena.
Dopo un
breve vagare, il suo sguardo andò d’istinto a
posarsi su quel volto devastato,
e con una violenta stretta al petto si rese conto di quanto le fosse
mancato
durante il mese trascorso lontana da lui. La lontananza aveva quasi
fatto
sbiadire i ricordi del suo viso, e negli ultimi giorni aveva faticato
persino a
ricordare la forma dei suoi occhi; gli aveva davvero prestato
così poca
attenzione, in passato, da non riuscire a ricomporre le fattezze
dell’uomo che
amava a distanza di qualche tempo?
Con
delicatezza, per timore di svegliarlo, allungò una mano
verso di lui ad accarezzare
la carne piagata, seguendone il contorno con estrema concentrazione e
tenerezza:
sfiorò le gote con i polpastrelli seguendone diligentemente
il profilo,
accarezzando gli zigomi, la linea dura e severa della mascella, il
mento, il
naso, le labbra che si socchiusero al passaggio delle sue dita. Da
ciò si
accorse di averlo svegliato, e con un leggero imbarazzo Giulia
abbassò la mano,
rimanendo tuttavia accoccolata contro il suo corpo.
Erik
tuttavia le prese la mano e vi depose sopra un bacio, gli occhi ancora
socchiusi e un’aria teneramente imbronciata che mai gli aveva
visto. «Tutto
bene, mon cœur?»
Chiese, non potendo
fare a meno di detestarsi per quell’istintivo e odioso
disagio che aveva
provato nello svegliarsi e sentirsi così osservato. Sapeva
che era sciocco, per
non dire tremendamente puerile sentirsi in imbarazzo con lei
dopo quello che avevano condiviso, eppure… Dannazione a lui,
non poteva farne a meno.
Forse
Giulia intuì ciò che gli era passato per la
mente, perché si affrettò a
fornirgli una spiegazione. «Volevo guardarti»,
rispose in un sussurro,
soppesando le parole per timore di un qualche fraintendimento.
«Mi piace
guardarti. Voglio imparare a riconoscerti a occhi chiusi, solo
toccandoti…
voglio imprimerti tutto nella mia mente, per non dimenticarti
mai.»
L’uomo
serrò con forza gli occhi, senza però fare nulla
per allontanarsi da lei; uno
sbuffo incredulo e doloroso gli scappò dalle labbra
socchiuse. «Come se potesse
mai essere possibile, dimenticare questo orrore»,
ribatté con un tono amaro,
gelido, sollevando una mano a stringere il polso sottile della ragazza,
per poi
scivolare più su e posare il proprio palmo sul dorso della
sua.
Lei
non se la prese per quel tono astioso: erano già stati fatti
tanti passi avanti
in un solo giorno, e sapeva di non poter pretendere più di
tanto visto tutto
quello che Erik aveva passato. Prima o poi avrebbe capito che non era
per
vincere il disgusto o abituarsi alla sua deformità che lei
l’avrebbe voluto
guardare in continuazione – se non avesse avuto paura di
provocare un malinteso
avrebbe potuto spiegargli che se ne voleva semplicemente appropriare,
che
voleva farlo suo, che voleva essere l’unica a conoscere a
memoria ogni tratto
del suo viso, ogni sfumatura dei suoi occhi, ogni centimetro di carne
sofferente. Così lasciò perdere e risolse il
problema spianando con un bacio le
rughe di sconforto e preoccupazione che erano spuntate sulla sua
fronte. Erik la
amò silenziosamente per quella sua pazienza, e glielo
dimostrò in modi che non
comprendevano parole.
***
Accadde
al termine dei sette giorni.
Erik
era sdraiato di sbieco sul grande letto matrimoniale, il capo poggiato
con naturalezza
sul ventre della ragazza che lo cullava accarezzandogli i capelli; le
lenzuola
erano completamente sfatte e profumavano di loro, e tutto era
così pacifico che
l’uomo temeva di essere immerso in un semplice sogno. Ma poi,
se piegava appena
il capo di lato, vedeva la morbida curva dei seni di Giulia coperti dal
lenzuolo, le sue spalle e il collo nudo, arrossato in alcuni punti
laddove la
sua passione l’aveva portato a lasciarle dei deliziosi
piccoli marchi, le
labbra ammorbidite da un sorriso sereno, le guance arrossate e i
capelli sparsi
sul cuscino. Quella meraviglia non era un sogno, dato che Erik non era
capace
di sognare cose così belle.
Probabilmente
sarebbe rimasto così tutto il giorno, come avevano peraltro
quasi fatto nella
trascorsa settimana: senza avere alcun contatto con il mondo esterno,
lasciavano
il letto quasi solo per mangiare e lavarsi – avevano scoperto
che la vasca in
rame riusciva a contenerli senza sforzo entrambi – e per quel
po’ di tempo
dunque vissero all’interno di una piacevole bolla di sapone,
dove tutto, o
quasi tutto, era esattamente come lo desideravano.
E
tuttavia all’improvviso, a spezzare il loro idillio, giunse
il suono fastidioso
ed elettrico di un allarme lontano. Giulia sobbalzò, presa
alla sprovvista, e
si volse a guardare Erik che, riconosciuto quel segnale, era scivolato
giù dal
letto con un’espressione imperscrutabile in volto.
«Non
è niente, mon cœur»,
mentì. «Rimani
pure a letto. Vado a vedere cosa succede e sarò di ritorno
il prima possibile.»
Si rivestì di tutto punto in fretta e furia, sotto lo
sguardo attento della
ragazza che, a quelle parole, iniziò a preoccuparsi e ad
intuire per sommi capi
ciò che poteva essere accaduto. Se non rammentava male, una
volta Erik le aveva
detto che nessuno si sarebbe mai potuto introdurre in quelle catacombe
– e di
conseguenza nei suoi domini – senza ch’egli ne
venisse a conoscenza
immediatamente: e poteva forse, quel rumore, avvisare il padrone di
casa che un
qualche intruso aveva varcato i confini del regno del fantasma?
Prima
che uscisse dalla stanza, la voce della ragazza lo richiamò
indietro. «Stai
attento», fu l’unica cosa che riuscì a
dire mentre egli si voltava e l’ombra
truce abbandonava per un attimo i suoi occhi. «Sembra che i
sotterranei siano
pieni di trappole», aggiunse, con un sorriso appena
accennato. Egli tornò sui
suoi passi e la raggiunse, solo per baciarla velocemente sulle labbra e
per
sussurrarle ancora una volta di non preoccuparsi. «Torno
presto», ripeté
baciandola ancora, senza tuttavia avere il coraggio di guardarla negli
occhi.
Con
una rivoltella in una mano e un cappio nell’altra –
entrambi sapientemente
celati allo sguardo preoccupato della giovane – Erik si
diresse fuori dalla
stanza, andando incontro all’intruso.
Giulia
non sapeva bene perché, ma qualcosa le diceva che la loro
tranquillità era
finita.
_________________________________________________________________________________________________________________
*Oui, c'est
toi, je t'aime,
Charles Gounod, Faust, Atto 4° - Una delle
arie più belle, a mio avviso, e non solo perchè
colonna sonora di questo gioiellino di miniserie.
_________________________________________________________________________________________________________________
Angolo Autrice.
Sto
perdendo colpi. Missà che devo provare le gocciole...
Questo capitolo non mi convince nel modo più assoluto -
anzi, non mi piace proprio per niente. Non lo dico per falsa modestia,
dato che se un capitolo mi soddisfa sono la prima a dirlo con orgoglio,
ma questo... Ah, è stato uno scoglio difficilissimo da
superare; ero tentata fino all'ultimo di far finta di niente ed
eliminarlo, ma così sarebbero andate perdute cose che
malgrado tutto non reputo essere così male, così
ho detto massì, che diavolo, è l'ultimo dell'anno
e chi scrive a Capodanno scrive tutto l'anno, e così eccoci
qui. :D
Non aggiornavo da tempi immemori, mi sembrava troppo brutto lasciar
concludere il 2012 senza un altro cenno di vita da parte mia, quindi
spero che appreziate lo sforzo! Mi dispiace di essere tornata con un
capitolo nel quale non succede praticamente niente e, anzi, forse
è anche troppo frettoloso, ma volevo passare oltre e vedrete
che dal prossimo (in parte già scritto! a dir la
verità, quasi la maggior parte dei capitoli da qui alla fine
sono già scritti, epilogo compreso, dunque, a meno che non
sopraggiungano ostacoli, forse il 2013 potrebbe essere l'anno decisivo
per la conclusione di questa storia... dopotutto siamo sopravvissuti al
21 dicembre, tutto può succedere!) le acque torneranno a
momentarsi, alcuni personaggi che abbiamo perso per strada in questi
ultimi capitoli faranno nuovamente la loro comparsa e vedremo in che
modo cercheranno di mettere i bastoni tra le ruote ai nostri
protagonisti :) Basta pacchia e sdolcinatezze, in questo capitolo ho
dato il meglio
peggio di me e non capiterà più, promesso xD
Qualcuno mi presti un po' di sadismo e cinismo, ne ho bisogno D:
Scherzi a parte, spero che questo aggiornamento sia un qualcosa di
piacevole da leggere durante le vacanze di Natale, magari davanti al
camino con il pc sulle ginocchia, una tazza di cioccolata calda in mano
e la copertina sulle spalle - praticamente mi sono autodescritta - e
che vi trovi allegre, felici e magari anche un po' brille per lo
spumante che scorrerà a fiumi domani notte! ;D
Anche per quest'anno ho fatto del mio meglio, sono una pessima
scrittrice, lo so, ma nei propositi per l'anno nuovo rientra la
puntualità, promesso :)
Un bacione grande grande e un abbraccio a tutti, di nuovo buone vacanze
e buon anno!
La vostra babbA natale,
Niglia.
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Capitolo 37 *** 35. Monsieur, I bid you welcome ***
Chapitre
35
Monsieur,
I bid you welcome
Did
you think that I would harm her?
Entrare
di nascosto nel palazzo Garnier si era rivelato decisamente
più facile
dell’ultima volta, rifletté Jean-Louis dopo
essersi lasciato alle spalle il
passaggio segreto celato dallo specchio. Forse era merito del
passe-partout che
gli aveva procurato sua madre, o forse più semplicemente era
lui che sapeva
cosa avrebbe trovato dall’altra
parte
e non era più spaventato dai fruscii delle tende e dagli
spifferi che
soffiavano nei corridoi, e dai quali si era lasciato suggestionare in
passato.
Era
trascorsa esattamente una settimana da quando Giulia era ritornata in
quell’altra epoca, e come da promessa Jean-Louis si trovava
per l’ennesima
volta nelle gallerie labirintiche del teatro, stavolta armato tuttavia
di una
piantina dell’edificio che gli permetteva così di
girare laggiù senza il timore
di perdersi. In realtà temeva che la ragazza potesse non
trovarsi nei
sotterranei; ad essere sincero, anzi, lo sperava, dato che
l’idea di saperla
insieme a quell’uomo spaventoso che era stato la causa
principale di tutti i
loro problemi o, perlomeno, della maggior parte di essi, non era
esattamente
confortante – ma in quel caso non avrebbe saputo neppure dove
andare a
cercarla.
Man
mano che avanzava procedendo sempre più in
profondità, iniziò a riconoscere gli
angoli, le ampie arcate, le crepe dei muri, i ganci di ferro privi di
torce di
cui gli aveva parlato la sorella, e fu così che comprese di
essere vicino ai
livelli più bassi del teatro, presso il lago sotterraneo,
laddove si trovava,
secondo le storie e le leggende, il dominio incontrastato del Fantasma. Non sapeva esattamente se
essere confortato o spaventato da tale scoperta – dato che,
se pure Giulia lo
avesse accolto a braccia aperte, stessa cosa non si poteva dire del suo
ammiratore – ma malgrado
ciò Jean-Louis
proseguì, senza neppure pensare di tornare indietro, e al
contrario accelerando
il passo per scacciare dalle ossa il gelo che permeava le gallerie.
Preso
com’era dalla foga di raggiungere la sua destinazione, aveva
cessato di controllare
le mappe e di osservare con attenzione dove metteva i piedi; fu
così che, dopo
aver frettolosamente svoltato un angolo, inciampò in un
rilievo del pavimento
che attivò senza che lui se ne rendesse conto un qualche
congegno situato pochi
metri più avanti. Se ne accorse soltanto quando vi si
trovò sopra, e a quel
punto era troppo tardi. Una botola si aprì con uno scatto,
facendo scomparire
all’improvviso il terreno sotto ai suoi piedi, e Jean-Louis
vi precipitò con un
urlo strozzato, finendo in trappola come un topo di fogna.
In
quel momento, un allarme acuto e sgradevole come unghie sul vetro
iniziò a
suonare in lontananza.
*
Erik
non si trovava precisamente nella predisposizione d’animo
adatta ad occuparsi
dell’intruso. In passato non si era fatto mai troppi scrupoli
nel proteggere il
suo segreto e la sua casa dai curiosi che dalla superficie si
arrogavano il
diritto di andare a ficcanasare in territori al di là della
loro portata,
finendo poi con l’affogare misteriosamente nel lago
sotterraneo e guadagnandosi
come unico lamento funebre il Requiem che il loro stesso assassino si
degnava
di eseguire; aveva sempre messo la propria sopravvivenza davanti alle
vite di
quegli inetti, ma dall’ultima volta in cui si era macchiato
di quei crimini
erano trascorsi più di quattro anni, e la sua ultima vittima
non era stato
altri che l’allora conte Philippe de Chagny, come aveva senza
troppa tristezza scoperto
in seguito. Stranamente, tuttavia, la consapevolezza di aver ucciso il
fratello
dell’uomo che lo aveva privato della donna che amava non era
servito un granché
come balsamo per curare le sue ferite. Al contrario… non
aveva fatto che farlo
sentire ancora più miserabile.
Per
cui, come già detto, Erik non era per niente eccitato
all’idea di doversi
macchiare le mani ancora una volta. Credeva che dopo tutto quello che
era
accaduto recentemente – i tragici eventi del ballo in
maschera di capodanno
ancora lo tormentavano ogniqualvolta chiudeva gli occhi, e il rimorso
lo faceva
dormire a malapena – gli abitanti del mondo di sopra avessero
finalmente
imparato a occuparsi dei propri affari e a non curiosare in zone che
erano loro
interdette, ma a quanto pareva la fiducia che aveva
nell’istinto di
sopravvivenza dei suoi simili era ancora una volta stata riposta nel
momento sbagliato!
Una
volta che l’allarme ebbe cessato di suonare, grazie a una
sorta di interruttore
che il suo inventore si era premurato di premere, Erik poté
udire l’eco
soffocato di urla provenienti da qualche parte nei dintorni,
probabilmente
dietro, o sotto, qualche muro. Stringendo le dita intorno al manico
della
pistola e al laccio del Punjab, si diresse a passo sicuro verso il
punto dal
quale proveniva la voce, deciso a mettere a tacere una volta per tutte
lo
stolto che aveva avuto il fegato di mettere naso nel suo regno. In
realtà non
aveva davvero intenzione di ucciderlo – con quale coraggio
sarebbe tornato da
Giulia, poi, e avrebbe osato guardarla negli occhi? – ma
almeno di spaventarlo
in modo che la prossima volta ci avrebbe pensato più
attentamente prima di
infilarsi nei suoi domini, e stordirlo, quello sì, in attesa
di riportarlo poi
in superficie e abbandonarlo privo di sensi da qualche parte in Rue
Scribe,
dove confidava che qualche passante caritatevole se prendesse carico e
lo
rimettesse in sesto. Aveva già funzionato altre volte, in
passato, e non vedeva
perché non avrebbe dovuto funzionare anche ora; a Giulia
poteva sempre dire di
essersi sbagliato, o che si era trattato di topi disattenti che avevano
fatto
scattare l’allarme dopo essere finiti in qualche vecchia
trappola. E poi
sarebbero potuti tornare serenamente al loro piccolo paradiso privato.
Fu
con questo confortante pensiero che si diresse a passo sicuro verso la
trappola
che era certo di trovare piena.
Jean-Louis
iniziava a non avere più sensibilità alle corde
vocali. Aveva gridato così
forte e così a lungo che ormai la voce gli si era ridotta a
un sibilo rauco e
doloroso, e come se ciò non fosse abbastanza stava per
morire di sete. Stavolta
non aveva portato con sé un borsone con acqua o attrezzi
vari come l’ultima
volta, e stava iniziando a credere che sarebbe potuto morirci in quei
dannati
sotterranei, prima che qualcuno si accorgesse di lui e venisse a
salvarlo.
Arrampicarsi
e cercare di uscire per conto suo, d’altra parte, si era
rivelato
impraticabile. Quella specie di pozzo era molto profondo, le pareti
erano prive
di appigli e iniziavano a restringersi sulla sommità, verso
l’alto, come una
cupola, e come se non bastasse erano viscide e ricoperte di muffa, cosa
che
rendeva impossibile qualsiasi tentativo di fuga. A rendere
più macabra e
sconfortante la sua permanenza laggiù, poi, contribuiva la
presenza di vecchie
ossa di dubbia natura – Jean sperava davvero che non si
trattasse di ossa
umane, benché ne dubitasse, ma grazie
all’oscurità poteva contare sul beneficio
del dubbio – sparse sul freddo pavimento della celletta,
nonché lo squittio
lontano di ratti ignari.
Perlomeno non
soffriva di claustrofobia.
Per
evitare di lasciarsi prendere dallo sconforto, e per avere
l’illusione di fare qualcosa,
il ragazzo ricominciò a
urlare, chiamando aiuto; il tetro rimbombo della sua voce sulle pareti
della
cella sarebbe bastato a far impazzire gente ben più furba di
lui, ma Jean cercò
di non lasciarsi prendere dal panico. Se
Giulia era riuscita a sopravvivere in quel tempo e in quel luogo,
ragionò
febbrilmente, non vedeva perché
non
avrebbe dovuto riuscirci lui.
Grazie
a Dio, non dovette attendere molto tempo prima di udire un rumore di
passi
cadenzati spezzare il silenzio dei corridoi, facendosi sempre
più vicino a dove
si trovava.
«Ecco
che cosa succede a chi disturba la quiete di Erik», fece una
voce terribile, un
sussurro sibilante, proveniente da sopra la sua testa – da
fuori la botola, sì,
un’ombra di salvezza!, «a chi cerca di scoprire il
suo segreto! Cerco forse,
io, di entrare in casa d’altri? Cerco di intrufolarmi in
territori che non mi
appartengono? No! E dovrei anche sentirmi in colpa per lo sventurato
che invece
ha voluto turbare la pace della mia casa?»
Jean-Louis
non poteva vederlo – non c’era molta luce nella
galleria, e di sicuro là sotto
non gliene arrivava neppure uno spiraglio – ma Erik era, in
quel momento,
accovacciato presso l’apertura della botola, e cercava di
scrutare il buio per
capire chi diavolo potesse essere il topo in trappola.
Senza
far caso all’inquietante borbottio dell’uomo
là fuori, il giovane si tirò su a
fatica, mettendosi in piedi, come se in tal modo potesse avvicinarsi di
più
all’uscita. «Per favore, fatemi uscire!»
Esclamò appena più confortato,
sforzandosi di utilizzare tutti i residui della sua voce.
«Signore! C’è
qualcuno, lassù? Fatemi uscire, aiutatemi!»
Ora,
essendo Erik un genio dalle infinite sfaccettature, un profondo
conoscitore
della musica e di tutte le arti in generale, non c’era molto
che egli non
sapesse fare; un’altra delle sue interessanti caratteristiche
consisteva
nell’incredibile capacità di riconoscere tra mille
una voce anche se l’aveva
udita solo una volta e tanto tempo prima. Dunque, la voce del giovane
finito
nella trappola aveva un che di familiare, anche se in un primo momento
non
avrebbe saputo dire cosa; sapeva
che,
se aveva quella sensazione, il motivo era assai semplice –
conosceva il
proprietario di tale voce, ma la domanda più rilevante che
si sarebbe dovuto
porre era se egli conosceva Erik.
Maledizione. Per evitare ulteriori
grattacapi e futuri pericoli sarebbe bastato puntare la pistola verso
l’oscurità della cella e porre fine alle
sofferenze di chiunque fosse finito
laggiù, e invece… E invece, per amore e per
rispetto della donna che lo
aspettava nella Dimora sul lago, che aveva ciecamente riposto la sua
fiducia in
lui, il fantasma dell’Opera prese un’altra
decisione.
Una
corda grossa e piuttosto resistente venne calata all’interno
della botola, e
allungando le mani alla cieca Jean-Louis riuscì ad
afferrarla; toccò un cappio,
abbastanza largo da far sì che lo potesse infilare e
stringere sotto le
braccia, a mo’ di imbracatura. Doveva solo sperare che la
corda fosse tanto
robusta quanto sembrava, e che il suo sconosciuto soccorritore avesse
la forza
necessaria per issarlo su.
«Date
uno strattone alla corda quando siete pronto a risalire», lo
istruì la voce,
che aveva la strana facoltà di essere chiara e scandita come
se lo sconosciuto
si trovasse accanto a lui, dietro di lui,
invece che sopra e lontano. Che razza di
trucco era mai, quello, si ritrovò a pensare Jean
perplesso, stringendo le
mani sulla corda e dando un brusco strappo come gli era stato detto di
fare.
Diversi
metri più in alto, Erik sentì lo strattone e con
un profondo respiro iniziò a
tirare, stringendo i denti e puntando bene i piedi sul pavimento onde
evitare
di scivolare e mandare al diavolo il salvataggio. I suoi sforzi
sarebbero stati
vani se chiunque si trovasse nella trappola fosse caduto a
metà salita – poteva
non essere morto la prima volta, ma una seconda non sarebbe stato
così fortunato.
Quando
le mani dell’intruso apparvero sul bordo della botola, Erik
legò con un ultimo
sforzo la corda intorno ad un gancio di ferro che sporgeva dalla
parete; poi si
avvicinò al ragazzo, chinandosi e afferrandolo per entrambe
le braccia per aiutarlo
a issarsi oltre il pavimento.
Gli
occorse qualche minuto per comprendere che in effetti il volto del
piccolo
ficcanaso aveva dei tratti familiari, e quando infine lo riconobbe
– come
avrebbe potuto dimenticare il viso di colui che solo pochi mesi prima
gli aveva
portato via Giulia – lasciò la presa come se si
fosse scottato e indietreggiò
di un passo.
«Voi!»
Esclamò Erik a mezza voce, prima che la sorpresa cedesse il
posto
all’irritazione. Per un istante passò nella sua
mente l’infida immagine di sé
stesso che spingeva il giovane di nuovo giù nella botola.
«Che cosa fate ancora
qui? Vostra sorella ha deciso di tornare di sua spontanea
volontà, sarà meglio
che vi mettiate l’animo in pace e torniate da dove siete
venuto!»
Riprendendo
fiato a fatica, Jean-Louis riuscì a sollevare lo sguardo sul
suo salvatore, che
a quel punto aveva cessato di essergli sconosciuto, e a lanciargli
un’occhiata
rabbiosa. «È stata Giulia a farmi promettere di
venire dopo una settimana»,
ribatté con un filo di voce, ancora tremante.
«Evidentemente non era molto
sicura della sua decisione, non credete?»
Se
Erik non avesse trascorso gli ultimi sette giorni insieme a lei,
imparando a
conoscerla in modi che nessun altro uomo avrebbe mai sperimentato,
amandola e
facendosi amare, probabilmente avrebbe anche potuto cedere al dubbio
che in
un’altra occasione lo avrebbe avvelenato dopo le parole di
quel ragazzo. Ma,
vista la realtà dei fatti, qualunque cosa avesse detto lei a
suo fratello prima
di separarsi da lui ormai non aveva più alcuna importanza.
Era palese che
avesse scelto Erik: in confronto a questo, tutto il resto perdeva
importanza.
«Se
preferite che sia lei a dirvi di andarvene, ragazzo, così
sia», sibilò per
tutta risposta, infilando la rivoltella in una tasca interna della
propria
giacca; la corda venne invece avvolta intorno all’avanbraccio
e resa innocua,
privata così del cappio che la rendeva un’arma
mortale. «Seguitemi adesso, se
non vi dispiace. Gradirei che lasciaste il prima possibile i miei
domini.»
I suoi domini? Per quanto stanco e
provato
dalla recente esperienza, Jean-Louis non poté fare a meno di
indagare, curioso,
sul genere di vita che conduceva l’uomo per il quale sua
sorella aveva
testardamente deciso di abbandonare la sua famiglia. «State
dicendo che abitate
sottoterra? In queste gallerie?»
«Sto
dicendo che non vi ho dato il permesso di angustiarmi con le vostre
domande. E
adesso tacete, per l’amor di Dio, o vi assicuro che
troverò un modo per farvi chiudere
la bocca!»
Detto
questo, il tragitto proseguì in un incredibilmente teso
silenzio.
**
La
dimora sul Lago aveva la straordinaria capacità di lasciare
a bocca aperta
chiunque vi posasse gli occhi per la prima volta. Erano rimasti
sbalorditi
coloro che avevano raggiunto quelle sponde la tragica notte
dell’incendio per
inseguire il fantasma, era rimasta sbalordita Christine Daaé
ed era rimasto
sbalordito il suo fidanzato, e stessa cosa si poteva dire delle altre
poche
anime che avevano avuto il privilegio di osservare da vicino, come
madame Giry,
sua figlia, Bamdad e ovviamente Giulia.
C’era un che di
soddisfacente nel vedere quegli sguardi nei volti dei suoi
più o meno
desiderati ospiti,
riconobbe Erik, notando il modo in cui quel ragazzino faceva vagare i
suoi
occhi curiosi e disorientati avanti e indietro nella sua dimora. Era un
tacito
riconoscimento del suo genio, della sua arte, dei prodigi di cui la sua
mente
era capace, e come tutti gli artisti Erik non era immune al fascino
delle lodi,
fossero esse espresse ad alta voce o sottintese.
«Rimanete
qui», gli intimò con tono severo, scoccandogli
un’occhiata ammonitrice. «E non
toccate niente.» Non gli diede neppure il tempo di replicare,
dirigendosi
invece verso la propria camera da letto, dove trovò Giulia
intenta a
rivestirsi.
Non
appena vide Erik sulla soglia, la ragazza sobbalzò presa
alla sprovvista, per
poi sospirare di sollievo. «Dio, mi hai spaventata.
È tutto a posto?» Chiese
legandosi in vita il cinto della vestaglia e avvicinandosi a lui.
«Sei stato
via per un bel po’ di tempo…»
«Sì,
mon cœur, non ti
preoccupare. Va
tutto bene», la tranquillizzò subito,
circondandole il viso tra le mani e
chinandosi per baciarla. Indugiò un momento in quella
posizione, respirando il
suo profumo, ma poi prese un profondo respiro e si ritrasse,
controvoglia. «No,
in realtà non va tutto bene», aggiunse sottovoce,
sfiorandole delicatamente le
labbra con i polpastrelli. «Abbiamo ospiti.»
Nell’udire
una simile affermazione, Giulia aggrottò la fronte,
perplessa. «Ospiti? Chi
diavolo potrebbe scendere in questi… Oh.»
All’improvviso si interruppe, sgranando appena gli occhi con
l’aria di chi
aveva già compreso senza aver bisogno di sentire altre
spiegazioni. «Lui è qui?
Mio fratello?»
Temendo
che i suoi timori potessero rivelarsi fondati, Erik si
staccò da lei e
indietreggiò, forzando le proprie braccia lungo i fianchi
per impedirsi di
toccarla. «Quindi è vero, sapevi che sarebbe
tornato. Lo stavi aspettando»,
disse piano. «È venuto per portarti via? Di
nuovo?»
«Cosa?
Erik, no… No, non è così»,
si affrettò a correggerlo lei, avvicinandosi
nuovamente. «Non è così. Sono stata io
a chiederglielo… Prima di tornare da te
gli ho fatto promettere di venire dopo sette giorni, per controllare la
situazione.
Dopo tutto quel tempo non sapevo se tu mi stessi ancora aspettando, non
sapevo
se mi volevi ancora, e avevo paura, in quel caso… Non lo so,
avevo paura di
rimanere qui da sola. Jean mi avrebbe riportato indietro, ma solo se le
cose
fossero andate diversamente. Erik, puoi stare tranquillo, te lo
assicuro –
nessuno mi porterà via, e io di certo non ti
lascerò un’altra volta.»
L’espressione
dell’uomo si distese leggermente, ma c’era in lui
una rigidità che faticava a
scomparire. Giulia sollevò le mani e gli circondò
il volto con esse,
sorridendogli gentilmente nel cercare di rassicurarlo. «Come
puoi avere ancora
dei dubbi, dopo quello che abbiamo condiviso?»
Mormorò, sfiorando con le dita
l’accenno di barba che gli scuriva la guancia scoperta.
Erik
sospirò, chiudendo gli occhi e voltando appena il capo per
poggiare le labbra
sul palmo della mano della ragazza. «Vai da tuo fratello,
adesso. Io e te
parleremo con calma più tardi», concesse a mezza
voce, cercando di non far
trapelare il timore di perderla dai suoi gesti.
Quando
Jean vide che sua sorella era tutta intera e in perfetta salute
– chissà perché
ne dubitava, poi? Giulia era sempre stata in grado di prendersi cura di
se’
stessa – non poté fare a meno di sospirare di
sollievo, sorridendole e
andandole incontro per stringerla in un lungo abbraccio sotto lo
sguardo torvo
di Erik. A parte gli abiti diversi e l’espressione radiosa
– non si ricordava
quando era stata, l’ultima volta che l’aveva vista
così – la ragazza era
esattamente come la ricordava: quella settimana era stata angosciante
per lui,
nonché per i suoi genitori, dato che ancora dovevano venire
a patti con l’idea
di averla lasciata libera di andare – inoltre, il fatto di
essere all’oscuro di
quello che le sarebbe potuto succedere dall’altra
parte non era qualcosa che li facesse dormire bene la notte.
«Sapere
che tutto questo si trova sotto il teatro che frequento sin da bambino
ha un
che di inquietante», fu uno dei primi commenti di Jean-Louis
una volta che
prese posto su una poltrona, mettendosi comodo.
«Non
più inquietante di tutta la faccenda del viaggio nel
tempo», ribatté Giulia con
un sorrisetto.
Jean-Louis
si chiese come diavolo facesse a scherzare su un argomento del genere,
ma tale
pensiero se lo tenne per sé. «Già, hai
ragione», mormorò. Poi spostarono la
chiacchierata su un territorio più allegro.
Tuttavia,
con gli occhi di Erik puntati addosso dallo stipite della stanza
–
evidentemente, benché avesse concesso loro il beneficio di
un momento d’intimità,
preferiva pur sempre tenerli d’occhio, più per
paura che il giovane ospite
tentasse di dissuaderla dal
rimanere lì che per vera e propria gelosia –
Giulia iniziava a sentirsi un po’ a
disagio. Per carità, riavere il fratello accanto e farsi
raccontare notizie da
casa era bello, però… Adesso, a distanza di una
settimana, non aveva nulla da
dirgli che non fosse la semplice decisione di restare. E affrontare
quell’argomento
con Erik che la guardava la metteva, scioccamente, in imbarazzo.
Ad
un tratto le venne un’idea. «Perché non
ti fermi qui per qualche giorno?»
Sia
lui che Erik risposero ad una voce. «Che
cosa?»
Senza
nemmeno voltarsi verso Erik, Giulia riprese a parlare con il fratello,
sorridendo. «Voglio farti ripartire con l’animo in
pace, Jean, e l’unico modo
per farlo è che tu veda come io vivo qui, come mi trovo
bene, come appartengo a questo
luogo. Avrai già
capito che non ho intenzione di tornare indietro, e… beh,
non voglio rendere
del tutto inutile il tuo viaggio, chiamiamolo così. Una
volta rientrato potrai dire
alla mamma e al papà che non hanno nulla di cui
preoccuparsi, che sto bene e
che sono al sicuro, che voglio loro un bene dell’anima e che
non dimenticherò
mai tutto quello che hanno fatto per me… ma che ormai non
posso più vivere con
loro. Con voi. È qui che ho tutta la mia vita, adesso
– è qui che ho il amore»,
aggiunse, abbassando la voce e arrossendo leggermente.
A
quel punto, Jean-Louis non sapeva che cosa rispondere – i
suoi tentativi di
convincere la sorella a rinunciare a quella follia erano stati
distrutti ancora
prima di vedere la luce – e probabilmente anche Erik era
rimasto colpito dal
suo breve discorso.
«Io…
beh… Non so che dire…»
Borbottò il ragazzo, stringendosi nelle spalle.
«Sono
felice che tu abbia trovato il tuo posto, Jules, certo,
però… Non puoi
pretendere davvero che la cosa mi vada bene. Insomma, sei mia sorella!
L’idea
di perderti per sempre non mi piace.»
A
quello Giulia non poteva proprio ribattere. Le sarebbe piaciuto
potergli dire
che no, non l’avrebbe mai persa, che lei sarebbe stata sua
sorella, che gli
sarebbe stato accanto… ma così non era. Una volta
presa la decisione di
rimanere insieme ad Erik non sarebbe più potuta tornare
indietro, né avrebbe voluto:
la sua famiglia le sarebbe mancata sempre e comunque, questo non si
metteva in
discussione, però non avrebbe mai potuto avere entrambe le
cose. Purtroppo, nel
suo caso, scegliere uno significava sacrificare l’altro, e
Giulia aveva già
commesso una volta l’errore di abbandonare Erik: non
l’avrebbe rifatto,
soprattutto visto il dolore che ne era venuto dopo.
Erik,
benché si stesse sforzando di rimanere in disparte e di non
interferire con i
loro discorsi, non poté non notare che Giulia adesso si
trovasse decisamente in
difficoltà. Così, prima di cambiare idea, diede
voce alla sua proposta.
«Se
il tuo ospite si deve trattenere è meglio chiedere a madame
Giry», suggerì,
lasciando il suo posto accanto alla porta e avanzando verso i due
fratelli. Rimase
in piedi accanto alla ragazza, una mano posata sullo schienale della
sua
poltrona, gli occhi dolcemente posati su di lei. «Volevi
andare da lei in ogni
caso, mi sbaglio? Per salutarla e dirle che sei tornata. Ebbene,
potresti anche
approfittarne per vedere se è disposta ad offrire a tuo
fratello un luogo dove
stare prima che torni a casa sua.»
Giulia
sollevò lo sguardo su di lui, per poi annuire con aria
pensierosa. «Non è
un’idea malvagia», decretò alla fine,
voltandosi nuovamente verso Jean-Louis. «Bisognerebbe
procurarti anche dei vestiti adatti, dato che non puoi andare in giro
conciato
così – con jeans e tutto il resto. Ma madame
è stata molto generosa con me, si
è comportata come una madre… penso di poterle
chiedere questo ennesimo favore.
Ti ricordi di lei, vero? L’hai conosciuta la sera della festa
in maschera.»
Il
fratello annuì, ma non sembrava molto convinto.
«Sì, credo di sì… Ma
perché
dovrebbe ospitarmi in casa sua? Non mi conosce nemmeno.»
«Si
tratterebbe solo di pochi giorni, benché la sua
curiosità potrebbe spingerla ad
ospitarti molto più a lungo. In caso non voglia, comunque,
sono sicura che
anche Erik sarebbe un perfetto padrone di casa», sorrise lei,
sfiorando con la
propria la mano che l’uomo aveva ora posato sulla sua spalla.
A
quelle parole, per quanto scherzose, Erik emise quello che poteva
sembrare uno
sbuffo sarcastico; Jean, da parte sua, si ritrovò ad
impallidire leggermente. Evidentemente
il sentimento di antipatia tra i due uomini doveva essere reciproco.
***
Qualche
ora dopo, due ombre scure uscirono dal teatro di nascosto, passando per
le
scuderie, prima che l’alba spazzasse via le tenebre e
rendesse impossibile
sgattaiolare via dall’edificio senza esser visti. Aveva
appena smesso di
piovere e nell’aria aleggiava ancora il gelo lasciato dalle
gocce d’acqua, che
creava una leggera nebbia che si librava sul selciato sporco agli
angoli delle
strade di neve infangata; le luci a gas dei lampioni illuminavano
ancora gli
ultimi momenti di oscurità, mentre il cielo andava via via
rischiarandosi in
lontananza, sopra i tetti dei palazzi.
Giulia
e suo fratello, stretti l’uno all’altro in cerca di
calore, affrettarono il
passo e il ticchettio delle loro scarpe sul marciapiede era per adesso
l’unico
rumore che rimbombava per le vie. Percorsero un breve tratto di Rue
Auber e poi
svoltarono a sinistra verso Rue Scribe, giacché madame Giry
abitava alla fine
dell’isolato, laddove la strada si immetteva in Boulevard des
Capucines.
Entrambi avevano percorso un’infinità di volte
quel tratto, ma era la prima
volta che Jean-Louis vi passava in quell’epoca, e
benché fosse consapevole di
conoscere la strada non poté fare a meno di guardarsi
intorno sorpreso ed
estasiato, malgrado la luce scarsa non rendesse completamente giustizia
alla
bellezza dei palazzi signorili e della pacata quiete causata
dall’assenza del
traffico dell’età moderna dalla quale proveniva.
All’improvviso,
dall’ombra di un vicolo scarsamente illuminato, venne fuori
uno sconosciuto
avvolto dalla testa ai piedi da un mantello che ne rendeva impossibile
il
riconoscimento, e che sbarrò loro il passo. Perplessi, il
primo istinto dei due
fratelli fu quello di fermarsi; poi Giulia fece per spostarsi di lato e
aggirarlo, ma l’uomo imitò il suo movimento e si
frappose nuovamente tra lei e
la strada libera, aprendo il mantello il tanto sufficiente a mostrarle
la
pistola che egli teneva puntata nella loro direzione. Jean-Louis non
trattenne
un’imprecazione, afferrando il braccio della sorella per
attirarla verso di sé
mentre lanciava un’occhiata alle proprie spalle per
controllare la situazione:
dietro di lui erano apparsi altri due uomini, a loro volta armati, che
non
sembravano per nulla avere buone intenzioni.
«Signori,
siete sfortunati: non abbiamo denaro», li avvertì
piano Jean, come se parlare a
voce bassa fosse servito a distoglierli dalla tentazione di utilizzare
le loro
armi.
L’uomo
di fronte a loro scrollò brevemente le spalle.
«Benissimo, non è il denaro che
vogliamo. Siamo qui per la signorina», replicò con
noncuranza, la voce
leggermente attutita dal bavero della giacca, indicando Giulia con un
gesto
della mano che reggeva la rivoltella. «Venite con noi,
mademoiselle, e nessuno
si farà del male.»
«Jean»,
sussurrò Giulia accanto a lui, con un’evidente
nota di panico nella voce. Le
sue mani si aggrapparono al mantello del fratello – prestito
di Erik – come se
fosse bastato quello per impedire ai tre di aggredire entrambi; si
guardò
intorno per individuare eventuali vie di fuga, e in effetti dietro di
loro il
vicolo era libero. Indietreggiò di qualche passo, attirando
anche il fratello verso
di se’, ma la voce gelida di uno degli uomini incappucciati
la pietrificò.
«Non
provateci nemmeno, mademoiselle. Non vorrete che il vostro compagno si
faccia
del male?» Disse con un tono discorsivo, aggiustando la mira
della rivoltella
in direzione di Jean-Louis.
«Chi
siete, voi?» Sibilò quest’ultimo,
cercando di mantenere una posizione tale da
continuare a frapporsi tra l’uomo armato e sua sorella.
«Dovete aver sbagliato
persona, signori, perché noi siamo arrivati in
città solo ieri e non abbiamo
ancora avuto il tempo di farci dei nemici.»
«E
per quale motivo, allora, quest’aria furtiva?
Perché gironzolare a quest’ora,
con le strade ancora deserte?» Replicò beffardo;
pareva si stesse divertendo.
Una
voce cupa, proveniente da uno degli uomini alle loro spalle, li
interruppe. «Basta
perdere tempo, Gilles. Prendiamo la ragazza e andiamocene.»
Giulia gli
riconobbe un accento del sud, forse di Marsiglia, ma dubitava che la
cosa
potesse esserle di una qualche utilità.
L’altro
fece un brusco cenno affermativo col capo. «Sì.
Alain, tieni fermo il nostro
eroe.»
Jean
parve confuso. Si guardò intorno, ma non ebbe il tempo di
prendere la mano
della sorella che uno degli uomini lo afferrò brutalmente,
bloccandogli con
forza le braccia dietro la schiena e tenendolo fermo con sorprendente
facilità.
«Lasciami, brutto figlio di-» Ringhiò
furioso, ma un colpo ben assestato allo
stomaco da parte del terzo uomo lo mise a tacere, impedendogli di
terminare la
frase. Jean gemette, piegandosi in due, ma prima che potesse
riprendersi un
altro colpo e poi altri ancora seguirono il primo, con terribile
dedizione, facendolo
crollare a carponi sull’umido selciato.
Giulia
gridò, adesso veramente terrorizzata. «No,
smettetela! Che bisogno c’è di
picchiarlo!» Cercò di correre per assistere il
fratello, ma venne a sua volta
trattenuta da uno degli uomini – quello che avevano chiamato
Gilles. Ormai
inferocita, iniziò senza pensare a dare gomitate e a
dimenarsi come un’ossessa,
spaventata all’idea di quello che i tre sconosciuti potevano
volere da lei, e
al contempo preoccupata per Jean-Louis che non pareva neppure
respirare, là
disteso sulla strada bagnata.
«Lasciami,
lasciami!»
Ringhiò furiosa,
voltandosi il tanto sufficiente per graffiare l’uomo sul
viso, da parte a
parte. Quest’ultimo imprecò e istintivamente la
lasciò andare, ma Giulia non
riuscì a fare che pochi passi prima di venire riacciuffata
da quello che aveva
picchiato Jean-Louis.
«Adesso
farete la brava, piccola strega, se non volete che diamo il colpo di
grazia al
vostro amico», le sibilò all’orecchio il
Marsigliese, stringendole il braccio
con tanta forza da farla lacrimare.
Si
ritrovò a piangere sommessamente, odiandosi per non essere
capace di fare
qualcosa, di reagire, bloccata com’era dalla paura. Venne
trascinata lontano
dal fratello, che continuava a non muoversi, fino alla fine del vicolo,
dove c’era
una carrozza completamente nera, priva di insegne, ad attenderli. La
obbligarono
a salire senza troppe cerimonie, e quando lei provò a
sgusciare dall’altra
parte, aprendo il secondo sportello, Gilles
l’afferrò con furia e la tenne
ferma fin quando il Marsigliese non le ebbe legato le mani con della
corda dura
e resistente. Poi le misero una benda sugli occhi, e a quel punto,
tremante,
Giulia si arrese.
In
strada, l’uomo chiamato Alain tirò fuori da una
tasca della propria giacca una
lettera sigillata con della ceralacca rossastra, chinandosi su
Jean-Louis per infilargliela
sotto il mantello, al riparo dalla pioggerellina leggera che aveva
iniziato a
scendere. Dopodiché seguì gli altri due compari e
sparì all’interno dell’elegante
coupé, bussando poi sul tettuccio per invitare il cocchiere
ad muoversi.
In
quel momento le campane della Madeleine rintoccarono le otto del
mattino.
****
Quando
la benda le venne finalmente tolta dagli occhi, Giulia
sbatté più volte le
palpebre e si guardò intorno, agitata, cercando di capire
dove si trovasse e
soprattutto in che razza di situazione fosse finita. Il viaggio in
carrozza era
stato orrendo, benché una volta che aveva smesso di agitarsi
nessuno l’aveva
più toccata, e poi una volta scesi da lì era
stata trascinata e sballottolata
alla cieca dentro chissà quale casa, su per delle scale, e
poi fatta sedere su
una normale sedia. Dopodiché era seguito un lunghissimo
silenzio, fin quando
qualche anima pia – una donna, chissà chi
– non le aveva sciolto le mani per
legarla in un altro modo su di una sedia, immobilizzandola. Di certo
una cosa
del genere non le sarebbe capitata così facilmente nel
ventunesimo secolo – ma
dopotutto mai dire mai; inoltre, qualcosa le diceva che la sua
relazione con
Erik giocasse un ruolo importante in quella sorta di sequestro di
persona.
Dopo
un tempo che le parve infinito, sentì qualcuno maneggiare il
nodo della sua
benda, sciogliendolo e permettendole di vedere di nuovo.
Sbatté le palpebre,
per un momento acciecata dalla luce improvvisa, poi ne
approfittò per studiare
l’ambiente circostante e provare a farsi un quadro della
situazione. La stanza
nella quale si trovava era arredata con gusto ed eleganza, un mobilio
molto
diverso da quello che si era immaginata, dato che aveva creduto di
essere stata
trascinata in qualche cella o Dio solo sapeva dove. E invece ecco una
finestra,
oltre il cui vetro si vedeva Parigi – bene, allora era ancora
in città – una scrivania,
dei quadri, tappeti persiani e numerose preziose
suppellettili… Restava solo da
scoprire chi diavolo ci fosse dietro il suo rapimento, e soprattutto
quale diavolo
di motivo potesse avere.
Finalmente,
colui che le aveva restituito il dono della vista cessò di
rimanere alle sue
spalle e si portò davanti a lei, giacché nel modo
in cui era stata legata alla
poltroncina non le era possibile muoversi né voltarsi.
Eppure, quando riconobbe
l’identità dell’uomo che
l’aveva fatta rapire, non riuscì a comprendere che
cosa potessero avere lei, o Erik, in comune con un vecchio duca che di
tanto in
tanto frequentava il teatro dell’Opèra.
«Mi ricordo di voi», mormorò perplessa,
aggrottando la fronte. «Siete… Il duca De
Blanchard, vero? Avete voluto
conoscermi, qualche mese fa.»
In
un’altra occasione avrebbe fatto dell’ironia
– davvero, non credevo di essere
già così famosa da costringervi a
prendere simili provvedimenti per avere un colloquio privato con me
– ma
qualcosa le diceva che era meglio procedere con cautela. Perlomeno fino
a
quando non si fosse fatta un’idea più precisa di
ciò che il nobile potesse
volere da lei.
«Sono
lieto che vi ricordiate di me, mademoiselle. Ciò significa
che possiamo saltare
comodamente i convenevoli, e passare al motivo della vostra presenza
qui.
Suppongo che Erik non vi abbia mai parlato di me…»
Sentire
il nome di Erik pronunciato con così tanta nonchalance dalle
labbra di quello
che a tutti gli effetti lei continuava a giudicare un estraneo la fece
sussultare e rabbrividire nello stesso tempo. Ecco,
pensò spaventata. Lo
sapevo che lui c’entrava qualcosa. Di sicuro il fantasma
dell’Opera si sarà
fatto un discreto numero di nemici nel corso della sua
“carriera”…
«Non
capisco di cosa stiate parlando», ribatté,
cercando di celare la rabbia e di sembrare
perplessa. «Non conosco nessuno che si chiami in quel
modo… Erik, avete detto? Dev’esserci
un malinteso.»
Negli
occhi dell’anziano duca passò un lampo feroce che
non le piacque per niente. «Via,
mademoiselle Sanders, non insultate la mia intelligenza», la
riprese con falsa
gentilezza, versandosi un bicchiere di vino. «Gradite
qualcosa da bere? No? Non
è gentile rifiutare del vino così pregiato, ma se
insistete…»
Giulia
iniziava ad essere davvero preoccupata. Che cosa avrebbe dovuto fare?
Fingere fino
alla nausea di non conoscere Erik, o arrendersi all’evidenza
che quell’uomo,
per chissà quale motivo, era a conoscenza del loro legame, e
assecondarlo
dunque in quella follia?
Forse
sarebbe stata la cosa più saggia; magari, se
l’avesse fatto parlare, se l’avesse
distratto con le chiacchiere, avrebbe potuto farsi dire per quale
motivo si
trovava lì, in casa sua, e soprattutto che cosa volesse da
Erik; inoltre,
nutriva pur sempre la flebile speranza che suo fratello, pregando che
stesse
bene, si fosse ripreso e fosse andato ad avvisarlo, e che dunque
l’uomo si
stesse organizzando per andare a salvarla. Odiava l’idea di
essere una specie
di damigella in difficoltà e di essere in procinto di
rivelare il segreto più
grande dell’uomo che amava – ovverosia quello
riguardante la sua esistenza – ma
era stata minacciata con una pistola, che cosa avrebbe potuto fare?
«Sto
ancora aspettando una risposta, mademoiselle.»
La
ragazza si riscosse dai suoi pensieri, e sospirò piano.
«Per quale motivo
avrebbe dovuto parlarmi di voi?» Capitolò alla
fine a mezza voce, come se
sussurrando rendesse meno terribile la sua resa.
Sul
volto del duca apparve un sorriso trionfante, che venne subito
sostituito da un’affettata
espressione di stupore e sconforto. «Ma, mademoiselle, per un
motivo assai
semplice… Si da il caso che io sia suo padre.» Poi
sorrise un’altra volta, ma
non vi era nulla di gioioso in quel sorriso. «Vedo che non ne
eravate davvero a
conoscenza. Erik dev’essere un maestro nel mantenere i
segreti, non è vero?
Chissà tutto quello che vi nasconde… Come potete
fidarvi di lui?»
Giulia
ignorò quelle parole, che non ebbero alcun effetto su di
lei: conosceva
abbastanza i segreti di Erik per sapere che se l’uomo le
aveva taciuto qualcosa
era soltanto perché non era ancora del tutto pronto per
parlargliene, e non
certo per tenerla all’oscuro. «Non comprendo il
vostro gioco, monsieur, né
comprendo ancora perché mi avete rapita», disse
quindi, riportando l’attenzione
sul soggetto principale del discorso.
«Oh,
via, mademoiselle, non siate così drammatica! Io non
parlerei di rapimento,
direi piuttosto che siete stata… persuasa
ad accettare il mio invito. Non era mia intenzione spaventarvi,
credetemi, ma
converrete con me sul fatto che Erik non vi avrebbe mai permesso di
venire qui
se ve lo avessi domandato in una maniera più
civile.»
«Non
so che idea vi siate fatto di me o di Erik, monsieur, ma sono
perfettamente in
grado di prendere le mie decisioni anche senza la sua
intercessione», sibilò la
giovane, infastidita. «E vi assicuro che non avrei accettato
il vostro invito
in ogni caso, dato che non è mia abitudine frequentare le
case di estranei.»
«E
questo, mia cara, temo ci riporti
all’inevitabilità delle mie misure drastiche,
non credete?» Replicò il duca con
l’ennesimo sorriso, per nulla colpito dal
tono gelido della ragazza. «Ad ogni modo, non ho intenzione
di farvi del male:
consideratevi mia ospite. Ho bisogno della vostra presenza solo per
convincere
mio figlio a prestarmi ascolto una volta per tutte, e mi dispiace che a
causa
della sua testardaggine voi siate stata trascinata in una situazione
così
delicata.»
«Sono
una merce di scambio, è questo che volete dire?»
«Se
vi piace vederla sotto questi termini, fate pure»,
sospirò de Blanchard,
chinando appena il capo in un gesto d’assenso. «Ma
ripeto, vi pregherei di
considerarvi mia ospite, perlomeno fintantoché non farete
nulla di sciocco come
cercare di scappare o aggredire nuovamente i signori che lavorano per
me.»
«Mi
hanno messo le mani addosso», ringhiò, indignata.
«E
vi assicuro che sono già stati ripresi per questo; ma adesso
vi prego, comportatevi
bene», la riprese con benevola condiscendenza. Poi
suonò un campanello, e pochi
attimi dopo un domestico in elegante livrea si affacciò
sulla porta dello
studio.
«Procurate
degli abiti più adeguati per mademoiselle
Sanders», ordinò il duca, istruendo
con affettata nonchalance il suo maggiordomo o chiunque fosse il nuovo
arrivato. «Potrebbe doversi trattenere a lungo, e noi
vogliamo che la nostra
ospite si senta il più possibile a suo agio.»
*****
Jean-Louis
si diresse trafelato verso gli uffici del direttore artistico,
ignorando le
lamentele delle donne che spazzavano e lucidavano il pavimento e
scansando i
membri della sorveglianza, che nell’ultimo periodo
– ossia dopo l’ennesimo coup
de théâtre della notte di Capodanno
– frequentavano l’Opèra a tempo pieno e
in ogni circostanza. Si sentiva
indolenzito in punti che non credeva neppure potessero dolergli, eppure
era
tornato indietro il prima possibile, correndo quando ci riusciva, una
volta che
aveva ripreso conoscenza in quel lurido vicolo.
Quando
varcò la soglia dello studio di monsieur Destler, al quale
arrivò solo grazie
alla caritatevole indicazione di una delle ragazze che si occupavano di
lavare
i costumi di scena, egli sollevò di scatto gli occhi da
alcuni documenti che
giacevano sulla sua scrivania e aggrottò le sopracciglia
– o, perlomeno, quella
non celata dalla maschera – nel trovarsi davanti il giovane
che si supponeva
essere in compagnia della sorella a diversi isolati di distanza. Gli
occorsero
a malapena pochi secondi per rendersi conto che qualcosa non andava,
visti gli
indumenti sgualciti e scomposti e l’aspetto pallido e
angosciato del ragazzo.
«Voi?
Cosa diavolo è successo? Dov’è
Giulia?» Scattò immediatamente, alzandosi in
piedi e aggirando il tavolo in modo da non mettere nessun ostacolo tra
lui e
l’altro.
«Questo
speravo poteste dirmelo voi», ribatté Jean ancora
ansimante, porgendogli la
lettera che aveva trovato accanto a sé quando aveva ripreso
conoscenza e che
portava, sul retro, il nome dell’uomo che gli stava di fronte.
Erik
quasi gli strappò dalle mani la missiva, notando che il
sigillo di ceralacca
era già stato spezzato – evidentemente il ragazzo
non aveva trattenuto la
curiosità ed era già a conoscenza di
ciò che vi era scritto – e ne dispiegò
dunque la carta; i suoi occhi si posarono su un’elegante e
sconosciuta
calligrafia espressa in inchiostro nero, e senza attendere oltre
iniziò a
scorrere le parole una dopo l’altra, divorandole velocemente
e sentendo l’ira
crescere dentro di sé man mano che andava avanti.
Mio caro Erik,
non dovete temere
per mademoiselle Sanders: ella è sotto la mia ala.
Poiché non avete seguito le
mie istruzioni, discusse precedentemente riguardo al vostro obbligo
morale e al
rispetto che mi dovete in quanto mio figlio primogenito, ho ritenuto
opportuno
intervenire per altre vie, lo ammetto, più discutibili. Se
la vostra decisione
è sempre la medesima, ossia se continuerete a voler
rifiutare di accettare il
nome e le ricchezze che vi spettano, insieme alle
responsabilità che ne
deriveranno, allora vi consiglio di dimenticarvi della vostra amante,
giacché
non la rivedrete finché avrò vita.
Tuttavia voglio
essere generoso con voi, che siete sangue del mio sangue, e vi
darò ancora
un’ultima possibilità. Venite nella mia casa, che
poi è anche la vostra, e
accettate di discutere con me da gentiluomo civile e bendisposto come
sospetto
che siate: sono sicuro che riusciremo a raggiungere un accordo.
I miei omaggi,
Henri
J. Lescroart,
Duca
de Blanchard, ecc.
Erik
strinse la lettera nel pugno fin quasi a stracciarla, soffiando come un
animale
feroce e riportando la sua attenzione su Jean-Louis. «Avete
lasciato che
prendessero vostra sorella?» Ringhiò, avanzando di
un passo. «Che razza di uomo
siete?»
Punto
sul vivo, Jean si sentì in dovere di difendersi.
«Ci hanno aggredito in un
vicolo, erano in tre contro uno! Che cosa avrei dovuto fare? Non sono
abituato
a situazioni del genere come potete esserlo voi!»
Ribatté, arrabbiandosi a sua
volta: la rabbia era un sentimento che gli piaceva decisamente di
più del senso
di vergogna che lo aveva accompagnato da quando si era risvegliato in
quella
viuzza sporca e buia. E in ogni caso, che senso aveva prendersela con
lui?
Sapeva di avere la sua parte di colpa, ma litigare tra loro non avrebbe
giovato
in quel frangente.
«Andate
da madame Giry, lei baderà a voi, e attendete mie
notizie», ordinò freddamente,
infilandosi la giacca. Senza degnare il giovane di uno sguardo,
raggiunse il
proprio tavolo da lavoro e aprì il primo cassetto, dalla
quale tirò fuori la
rivoltella che vi teneva per ogni evenienza – un tempo aveva
creduto che
sarebbe stato il bacio di quell’arma l’ultima
carezza che avrebbe avuto la sua
tempia prima di abbandonare il mondo dei vivi, ma adesso era il caso
che le
trovasse uno scopo più utile. «Bamdad, il mio
segretario, verrà con me in modo
da potervi avvisare in caso di un cambiamento della
situazione.»
Jean
era palesemente contrariato all’idea di venir tagliato fuori
in quel modo. «E
io dovrei rimanere zitto e fermo senza fare nulla per salvare mia
sorella?»
Erik
lo fissò come se solo il legame fraterno che lo legava a
Giulia lo trattenesse
dallo strangolarlo lì e subito. Avete
avuto
la vostra occasione e non ne avete fatto buon uso, razza di idiota!,
avrebbe voluto dirgli, e magari anche scrollarlo con forza; ma si
trattenne. «Come
avete detto voi stesso, non sapreste come comportarvi in queste
circostanze»,
replicò con un sibilo, sforzandosi di essere ragionevole.
«Per cui vi
suggerisco di dare retta a chi ne sa più di voi e di fare
ciò che vi ho detto!»
Attraversò
a grandi passi il suo studio e afferrò il mantello
dall’appendiabiti,
gettandoselo sulle spalle e sparendo nel corridoio senza neanche
attendere il
ragazzo. Se era la guerra che il duca voleva, ebbene, la guerra avrebbe
avuto…
Ma avrebbe maledetto il giorno in cui aveva osato sfidare il Fantasma
dell’Opera.
___________________________________________________________________________________________
Angolo Autrice.
Habemus
Capitulum!
Dite la verità, ormai avevate perso le speranze, nevvero? Ma
cosa vi dico sempre io? Mai perdere le speranze! :D Ribadisco, nel caso
non l'abbia ancora detto, che questa storia ha un inizio e, per tutti i
Don Juan, avrà una fine ù_ù Dunque,
non importa quanto tempo ci metterò (beh, in
realtà importa: ma non pensiamoci ora), prima o poi la
concluderò! Non abbiate timore :)
Scherzi a
parte, uao, che capitolo pieno! Mai scritto uno più lungo,
dico davvero D: Ma mi sembra il minimo visto tutto il tempo che
è trascorso dall'ultimo aggiornamento... vi direi anche di
godervelo perché chissà quando
arriverà il prossimo, ma... non so, mi sento ispirata,
quindi forse aggiornerò in tempi decenti. Si accettano
volontari che incrocino le dita :D //ps: perdonate eventuali errori di
distrazione. L'ho riletto una decina di volte ma mi sfuggirà
sempre qualcosa, inoltre non vedevo l'ora di aggiornare, quindi...
forgive me :) //
Finalmente
un po' d'azione, eh? Basta con le cose smielate e i pucci-pucci,
promesso ù_ù E chissà cosa
succederà adesso... muahahaha!
Passiamo a
cose serie.
Innanzitutto
grazie mille a coloro che hanno recensito lo scorso capitolo, vale a
dire Sylphs,
Homicidal Maniac
(benvenuta in questa odissea, cara <3), loveis4ever, StarFighter e Helmwige,
nonché tutte coloro che continuano a leggere
silenziosamente! Siete tutte adorabili *---*
E adesso vi
lascio, corro a preparare la cena :D Baci e abbracci, e grazie di nuovo
per essere arrivate sin qui! ♥
Sempre io,
la vostra
Niglia.
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