No One Would Listen

di Niglia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ***
Capitolo 2: *** 01. Ritorno al passato - Lo Specchio ***
Capitolo 3: *** 02. Un nuovo inizio ***
Capitolo 4: *** 03. No More Memories ***
Capitolo 5: *** 04. L'Opèra Garnier ***
Capitolo 6: *** 05. Dove le decisioni di un Fantasma non si discutono ***
Capitolo 7: *** 06. In dreams he came ***
Capitolo 8: *** 07. Uno sconosciuto ***
Capitolo 9: *** 08. Segreti svelati e segreti mantenuti ***
Capitolo 10: *** 09. Un patto col Diavolo ***
Capitolo 11: *** 10. Minacce e avvertimenti ***
Capitolo 12: *** 11. La lezione di canto ***
Capitolo 13: *** 12. Prima parte - Rivelazioni impreviste ***
Capitolo 14: *** 12. Seconda parte - Dove ciascuno architetta il proprio piano ***
Capitolo 15: *** 13. Rabbia e complicazioni ***
Capitolo 16: *** 14. E' il Fantasma? ***
Capitolo 17: *** 15. Child of the Wilderness ***
Capitolo 18: *** 16. I'm wondering what you're dreaming ***
Capitolo 19: *** 17. Ritorno alla luce ***
Capitolo 20: *** 18. Dove diverse identità vengono rivelate ***
Capitolo 21: *** 19. La leggenda del Fantasma dell'Opera ***
Capitolo 22: *** 20. She's here, inside my mind ***
Capitolo 23: *** 21. And I kissed you... ***
Capitolo 24: *** 22. La nuova Margherita ***
Capitolo 25: *** 23. And in this labyrinth where night is blind... ***
Capitolo 26: *** 24. Wishing you were somehow here again ***
Capitolo 27: *** 25. La mia musa, la mia vita, la mia anima ***
Capitolo 28: *** 26. Al ballo in maschera ***
Capitolo 29: *** 27. Look back on all those times ***
Capitolo 30: *** 28. Dove accadono diverse cose contemporaneamente ***
Capitolo 31: *** 29. Forgive me, I beg you, if you can ***
Capitolo 32: *** 30. Interludio. Fine degli amori del Fantasma ***
Capitolo 33: *** 31. Il luogo a cui si appartiene ***
Capitolo 34: *** 32. Negli abissi della sua follia ***
Capitolo 35: *** 33. No one would listen, no one but her ***
Capitolo 36: *** 34. Oui, c'est toi, je t'aime ***
Capitolo 37: *** 35. Monsieur, I bid you welcome ***



Capitolo 1
*** Prologue ***


© Avvertenze:
Storia scritta senza alcuno scopo di lucro. I personaggi non sono di mia proprietà, ma appartengono a Gaston Leroux, Andrew Lloyd Webber e Joel Schumacher. Per i personaggi originali, ogni riferimento a persone esistenti e/o a fatti realmente accaduti è da ritenersi puramente casuale.





copertina


Prologue












Non è piacevole né rilassante la vita di chi indossa perennemente una maschera.
Seneca





Marzo, 1876. Parigi.

L’aria della città conservava ancora il gelo proprio della notte, mentre quest’ultima aveva appena iniziato a svanire per lasciare spazio ad una frizzante mattina, e il cielo si stava rischiarando lentamente. Una carrozza nera si fermò in Place de l’Opèra, silenziosa come un’ombra. Il cocchiere arrestò i cavalli davanti all’imponente scalinata del teatro, attendendo paziente che l’occupante della carrozza scendesse a terra.

La portiera dell’elegante Landau si aprì, e da esso ne scese un uomo che poteva avere una trentina d’anni, con i capelli e i baffi folti e neri e due occhi altrettanto scuri; malgrado l’abbigliamento tipicamente parigino, la carnagione scura e abbronzata tradiva le sue radici persiane. Indossò un cilindro sul capo e lo raddrizzò con un gesto deciso, richiudendo la portiera alle sue spalle e picchiettando su di essa con il pomo del bastone. Il cocchiere comprese e incitò i cavalli, spostandosi per cercare un luogo più adatto dove sostare e attendere il ritorno del signore.

Con un leggero sospiro, quest’ultimo osservò il teatro che si ergeva maestoso davanti a lui, senza tradire neppure per un istante l’emozione che provava di trovarsi di fronte ad un simile tempio dell’arte. Il suo sguardo rimase impassibile, e salì stoicamente la scalinata fino a raggiungere il portone d’ingresso, che si aprì quasi subito come se non stessero aspettando che lui.

E in effetti era proprio così. Il teatro dell’Opèra era pronto a rinascere, ed era proprio quel curioso straniero che portava con sé le carte e i documenti che avrebbero reso possibile un simile avvenimento.

Senza curarsi del suo aspetto esotico, perciò, monsieur Firmin e monsieur Andrè lo scortarono nel loro ufficio, senza quasi dargli il tempo di godersi lo spettacolo dell’Opèra deserta, che gli fecero al contrario attraversare piuttosto negligentemente.

«Presumo dunque che sappiate perché sono qui.» Esordì lo straniero, togliendo nuovamente il cappello e tenendoselo sulle ginocchia. Con lo sguardo non cessava di studiare i due direttori, mentre la sua voce profonda sembrava volerli ammaliare con i suoi accenti orientali.

«Sappiamo che siete qui in vece di monsieur Destler, oui.» Rispose pacatamente monsieur Andrè, ricambiando gentilmente lo sguardo dell’uomo di fronte a lui. «Ci ha già accennato parte delle sue intenzioni nella sua ultima lettera.»

«È stato gentile da parte sua tenerci informati con una fitta corrispondenza.» Aggiunse Firmin, versando in alcuni bicchieri del pregiato vino francese. «Gradite qualcosa da bere?» Chiese poi, rivolgendosi al persiano.

Questi fece leggermente cenno di no con la testa. «No, ma vi ringrazio. Ad ogni modo, il mio principale ci tiene a farvi sapere che non vuole porsi nessun limite alla somma da versare per sistemare nuovamente il teatro e riportarlo alla gloria e allo splendore di un tempo.»

Gli occhi dei due direttori non poterono fare a meno di brillare di gioia. Credevano che non avrebbero mai più assistito ad un momento simile; nel periodo che aveva seguito il disastro, quando avevano dovuto indebitarsi fino all’anima per riaprire e ristrutturare il teatro, avevano temuto davvero di dover porre fine alla loro miserabile vita per scampare ai creditori. E invece, adesso arrivava un nuovo mecenate come la manna dal Cielo...

«Questo è veramente splendido, monsieur.» Replicò Andrè, con un debole sorriso. «Ma sarebbe stato ancora migliore se monsieur Destler fosse stato qui insieme a voi. Non sapete quando pensa di onorarci con la sua presenza?»

Monsieur Bamdad fece un cenno di diniego col capo, prima di rispondere. «Nella sua ultima lettera, che ho ricevuto pochi giorni fa, monsieur Destler mi informava di trovarsi ancora a Boston, e di essere in procinto di finire di sistemare alcuni suoi affari prima di raggiungerci a Parigi. Credo ad ogni modo che dovrebbe essere con noi in primavera, tuttavia non preoccupatevi. Da questo momento potete già godere dei suoi finanziamenti.»

L’uomo comprese qual era il motivo di tanta premura, e riuscì a togliere i due signori da ogni imbarazzo. Tuttavia, il suo compito non poteva ancora dirsi concluso.

«È pur vero, messieurs, che c’è una condizione...»

Immediatamente monsieur Andrè e monsieur Firmin raddrizzarono la schiena e concessero la loro completa attenzione al giovane persiano, aggrottando le sopracciglia e aspettandosi qualsiasi cosa da parte sua. «Quale condizione?» Indagò cautamente monsieur Andrè.

Monsieur Bamdad non si lasciò intimidire. «Il mio principale ha chiarito più e più volte di accettare il ruolo di mecenate del Teatro Garnier solo a patto di poter intervenire sulla scelta delle opere messe in scena, e su quella delle compagnie di ballo e di attori che, peraltro, mantiene sempre lui.»

I due direttori non sembravano ancora del tutto convinti. «Quindi, in pratica? Di che cosa si tratta?»

Lo sguardo del persiano divenne ancora più penetrante rispetto a prima. «Detto in parole povere, miei cari signori, monsieur Destler desidera ricoprire il ruolo di direttore artistico dell’Opèra.»

Monsieur Andrè e Firmin si scambiarono uno sguardo silenzioso che tuttavia non lasciò trasparire nulla in favore della comprensione di monsieur Bamdad, ma entrambi stavano pensando la medesima cosa. In fondo la richiesta del nuovo mecenate non era poi così terribile, d’altronde poteva anche entrare nei suoi diritti chiedere di visionare e tenere sotto controllo le varie opere rappresentate, dato che da quel momento in poi il suo nome sarebbe apparso in quasi tutti i manifesti degli spettacoli.

Dunque i due signori annuirono, alzandosi poi in piedi e porgendo la mano al giovane segretario. Egli si alzò a sua volta e ricambiò la loro stretta, con un mezzo sorriso.

«Bene, signori. Monsieur Destler sarà lieto di aver concluso felicemente questo affare.»

Monsieur Firmin annuì. «Sono certo che il nostro orgoglio eguaglierà il suo.»

Il segretario si accomodò nuovamente, tirando fuori le varie scartoffie legali. «A questo punto, signori, non vi resta che apporre qui le vostre firme... Se voleste farmi questa cortesia... Di modo che possa inviare subito una risposta al mio principale...»

«Sicuramente, monsieur. Andrè, prendi l’inchiostro.» Affermò monsieur Firmin, tirando fuori una piccola custodia in pelle contenente un paio di occhiali dorati.

Le loro eleganti firme suggellarono definitivamente il contratto, salvando il teatro – e loro stessi – dalla rovina. L’Opèra sarebbe tornata a splendere.

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Capitolo 2
*** 01. Ritorno al passato - Lo Specchio ***


Chapitre 1

Ritorno al passato: lo Specchio
















Ottobre, ventunesimo secolo. Parigi.

Giulia Isabelle Nilsson, figlia della soprano più famosa e richiesta da tutti i teatri d’Europa negli ultimi quindici anni, scese dalla lucida Porsche nera del fratello, sorridendogli mentre correva a rifugiarsi nel suo abbraccio per sfuggire al freddo pungente di quel venerdì di metà autunno. Ancora non aveva nevicato, ma di sicuro non ci sarebbe stato da attendere molto prima che le vie di Parigi si imbiancassero come in un quadro natalizio.

Jean-Louis, il fratello maggiore di Giulia, strinse la sorella tra le braccia, attirandola poi sotto il pesante cappotto per accompagnarla fino al foyer dell’Opèra Garnier, dove sarebbero stati finalmente al riparo. Una volta dentro, infatti, la ragazza tirò un sospiro di sollievo, sbottonandosi il cappotto e rimanendo solo con la camicia e un paio di pantaloni di velluto color prugna, che stavano già iniziando ad infastidirla; dentro il teatro, infatti, la temperatura era quasi afosa.

Come sempre, l’immenso salone pullulava di addetti alle pulizie e di turisti, che gironzolavano da una parte all’altra delle scalinate in marmo accompagnati dal cicaleccio tipico di chi si trovava in quel tempio dell’arte e ancora non riusciva a crederci. Il pendolo dell’orologio all’ingresso batté le 16 in punto, e i due fratelli si diressero di tacito accordo verso la zona degli uffici e dei camerini delle varie comparse, ballerine, cantanti e così via, dove avrebbero potuto poggiare la loro roba prima di andare alla lezione del coro.

O meglio, Jean-Louis si limitava ad accompagnare la sorella che, come solista del coro dell’Opèra, non poteva mancare a nessuna lezione, e lui, in quanto figlio di madame Gauthier, aveva il permesso di assistervi.

Quando entrarono nella grande sala che avevano adibito ad aula prove, Giulia ringraziò mentalmente il cielo di non essere l’unica in ritardo. Le altre ragazze si stavano ancora sistemando ai loro posti, mancava quasi la metà dei ragazzi e neppure il maestro Vincent, il direttore dell’orchestra, era ancora arrivato. Al contrario madame Lambert, l’insegnante di canto, batteva già i piedi dall’impazienza.

Con un sorriso Giulia salutò il fratello che andò a sedersi su una poltroncina accanto al pianoforte che veniva utilizzato durante le prove, e raggiunse le sue compagne che le facevano cenno di raggiungerle. Dopo dieci minuti furono al completo, tutti seduti in cerchio in delle vecchie sedie che un mezzo secolo prima avevano fatto parte delle della platea, e madame Lambert che sfogliava distrattamente uno spartito in attesa che il brusio dei suoi allievi cessasse. Alla fine, per attirare la loro attenzione fu costretta a tossire un paio di volte, leggermente irritata.

«Bene, ragazzi. Adesso che ci siamo tutti direi che possiamo iniziare...» Sospirò, tornando indietro con le pagine del suo fascicolo. «Volevo che oggi provaste in platea, ma monsieur Legrand, il direttore, mi ha chiesto la cortesia di avere un po’ di pazienza e di rimandare la vera e propria prova generale, visto che i branchi di turisti disturberebbero la nostra esercitazione.»

Alcune delle ragazze ridacchiarono sottovoce al tono stanco e spazientito dell’inflessibile insegnante di canto, ma tacquero immediatamente per evitare che la rabbia della donna si abbattesse su di loro. Madame batté le mani con due colpi secchi, e tutti i ragazzi e le ragazze si alzarono simultaneamente assumendo ciascuno la propria posizione, dividendosi a seconda della tonalità della loro voce.

«Bene, iniziamo con qualche vocalizzo semplice per riscaldarci le corde vocali... Maestro Vincent?»

L’anziano direttore si sedette al piano, voltandosi verso la donna. «Oui, madame?»

«Datemi un Do, per favore. Quanto a voi, ragazzi,» aggiunse, rivolgendosi al coro. «Fatemi sentire una bella scala di vocali. Cercate di non deludermi anche voi oggi, per piacere.»

Cercando di trattenere dei sorrisetti, i soprani diedero inizio alla lezione, seguendo i gesti che madame Lambert faceva loro per aiutarli a mantenere il tempo e il ritmo. I vocalizzi, come al solito, durarono una mezzoretta piena, in modo da alternare i soprani con i tenori, i baritoni con i mezzosoprani e i contralti, e così via. Come sempre, alla fine degli esercizi le gote delle ragazze erano rosse come ciliegie, ed erano tutti così accaldati che dovettero iniziare a sventolarsi con alcuni ventagli per evitare di aprire le finestre. Avere un coro con l’influenza a pochi giorni dalla prima non avrebbe fatto piacere a nessuno.

«Va bene, cinque minuti di pausa, bevete un sorso d’acqua.» Concesse madame Lambert alla fine, nascondendo il suo compiacimento. «Giulia, puoi venire un attimo?»

La ragazza si allontanò dal gruppo delle colleghe e raggiunse l’insegnante al lato opposto della sala, quasi certa di quello che la donna le avrebbe chiesto.

«Hai preparato quel brano che ti ho chiesto, chèrie?» Le chiese infatti, sorseggiando un bicchiere di the dal thermos dal quale non si separava mai.

Giulia annuì. «Si, certo. Die Königin der Nacht, vero madame?»

Madame Lambert annuì a sua volta, lieta di sentire che la sua allieva più brillante aveva preparato anche quell’ennesimo e difficile brano. «Si chèrie, ed ora sono curiosa di sentire come lo hai preparato... Anche se conoscendo te e conoscendo tua madre, potrei mettere la mano sul fuoco sul fatto che sarai impeccabile.»

L’altra arrossì senza rispondere, riuscendo però a mascherare l’irritazione. Le dava fastidio, infatti, che tutti la paragonassero a sua madre, come se per il semplice fatto di essere la figlia di una così grande cantante d’opera, anche lei non sarebbe potuta essere da meno. Per carità, Giulia amava il canto e in particolar modo amava il teatro, ma c’erano delle volte – e questa era una di quelle – in cui avrebbe preferito essere la figlia di una maestra delle elementari piuttosto che di Eloise Gauthier. Anche perché, per colpa degli sciocchi favoritismi che le riservava madame Lambert, tutte le altre ragazze del coro la invidiavano, e non era mai riuscita a farsene amica nemmeno una, per quanto tutte si prodigassero a trattarla come tale per non far irritare l’insegnante.

Con l’ennesimo battito di mani, quest’ultima attirò l’attenzione del resto del coro, facendo loro cenno di avvicinarsi al piano, dove Giulia prese posto di fronte a maestro Vincent con lo spartito del brano aperto sul ripiano dello strumento. Mentre i suoi colleghi prendevano posto, la ragazza notò alcune occhiate che le altre soprano si scambiarono e sospirò, rattristata; erano tutte invidiose della sua posizione, ma non l’aveva certo chiesto lei di essere la solista del coro! Perché non si proponeva una di loro per il posto? Glielo avrebbe ceduto molto volentieri.

«Bene ragazzi, adesso Giulia ci delizierà con un brano tratto dal Flauto Magico di Mozart, che di sicuro conoscete tutti. Avete già sentito parlare della Regina della Notte, n’est-ce pas

Tutti annuirono e mormorarono consensi, prima di tacere e spostare l’attenzione sulla ragazza. «Maestro Vincent...» disse lei, porgendogli lo spartito. «Qui. Dall’inizio dell’aria...»

L’uomo annuì, e dopo aver sistemato i fogli sul leggio di fronte a sé e aver terminato di suonare l’introduzione, le fece cenno di iniziare.

«Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen,
Tod und Verzweiflung flammet um mich her!
Fühlt nicht durch dich Sarastro Todesschmerzen,
So bist du meine Tochter nimmermehr.
Verstossen sei auf ewig,
Verlassen sei auf ewig,
Zertrümmert sei 'n auf ewig
Alle Bande der Natur
Wenn nicht durch dich Sarastro wird erblassen!
Hört, Rachegötter, hört der Mutter Schwur!
»

I vocalizzi di quell’aria erano la parte che Giulia amava più di tutto. Le davano la possibilità di gridare tutta la sua rabbia e la sua frustrazione senza che nessuno si scandalizzasse, e perciò mise in quel canto tutto il sentimento di cui era capace. Alla fine, malgrado stessero rodendo dall’invidia, le sue compagne di canto non poterono fare a meno di applaudire, per quanto fosse evidente la voglia che avevano di strangolarla. Anche i complimenti di madame Lambert erano ben accetti, considerando che la donna li distribuiva sempre con moderata e avara parsimonia.

Ad ogni modo, fortunatamente, anche quella lezione terminò, e dopo aver salutato il maestro Vincent e i due violinisti che lo accompagnavano durante le arie, anche Jean-Louis raggiunse la sorella, uscendo nel corridoio che si stava riempiendo lentamente.

«Alla buon’ora, non ne potevo più!» Esclamò il ragazzo una volta fuori, afferrando la sorella per la vita e camminando abbracciato a lei. «Tutte quelle oche mi stavano davvero dando fastidio per il modo in cui ti guardavano...»

Giulia rise, seppur un po’ sforzatamente. «E come mi stavano guardando?»

Jean-Louis strinse gli occhi, arrabbiato. «Come se ti avessero voluto strangolare! Che nervi...»

«Non importa, è così da sempre, perciò...» Si limitò a rispondere lei, scrollando le spalle. Qualcuno però attirò la sua attenzione e Giulia si aprì in un sincero sorriso, salutando con la mano a qualche signora che da lontano il fratello non riconobbe.

«A chi saluti?» Si volle pertanto informare, curioso.

«A madame Sindial!» Replicò lei, accelerando il passo verso la signora. «Non te la ricordi? La mia vecchia insegnante di danza di quando ero bambina! Ora vado a salutarla...»

Jean-Louis la fermò in mezzo al corridoio, attirandola velocemente verso di sé. «Aspetta un attimo, Giulia, io credo che andrò a parlare con maman, mi ha detto che è appena arrivata e vuole che la raggiunga... Ci vediamo dopo all’ingresso, okay?»

La sorella annuì, sorridendo. «Okay, saluta la mamma. Ci vediamo dopo, ciao!» E, dopo avergli schioccato un bacio sulla guancia, sparì in mezzo alla folla.

«Madame Sindial!» esclamò non appena le fu davanti, volando nel suo materno abbraccio. «Come state? È un secolo che non vi vedevo... Siete stata male?»

La donna sorrise a sua volta, gli occhi azzurri che brillavano di felicità nel vedere quella ragazza che aveva praticamente visto crescere e alla quale era sinceramente affezionata, e le passò una mano tra i lunghi e morbidi capelli castani, accarezzandola dolcemente. «Ah, Isabelle... Sei sempre più bella, ma chère

Giulia sorrise, lasciandosi portare dentro lo studio della donna. «E voi continuerete a chiamarmi sempre Isabelle, non è così?»

«Non ti piace, forse?» Replicò, fingendosi offesa.

La ragazza rise, e questa volta di cuore. «Oh no, mi piace! Però... Lo trovo così antico...» Aggiunse, con una strana smorfia del naso. «Ma non avete risposto alla mia domanda! Siete stata male?»

Madame, un’assennata signora sulla sessantina d’anni splendidamente portati, non si era mai ammalata da quando Giulia la conosceva: aveva sempre avuto una salute di ferro. Si sedette, offrendo del the alla sua giovane ospite.

«Tesoro, lo sai che io non mi ammalo mai così facilmente.» Ribatté, con un mezzo sorriso. Poi sospirò. «In realtà era mia figlia ad essersi ammalata, Josephine... Ha sempre avuto una salute precaria, ma dopotutto anche mio marito è così, e quindi le serviva aiuto per badare ai gemelli. Sono cresciuti tantissimo a proposito, sai?»

Giulia sorrise, nel vedere l’espressione orgogliosa della neo nonna. «È da molto che non vedo anche loro, in effetti! Quanti anni hanno, adesso? Due?»

«Li compiono fra due mesi, si.» Sorrise madame, annuendo. Improvvisamente lo sguardo della donna si fece malizioso e complice, e si chinò verso di lei, incuriosita. «E tu, tesoro? Non sei ancora fidanzata?»

La ragazza rise, scuotendo la testa. «Direi di no, madame!»

Madame Sindial sembrò delusa, mentre tornava al suo posto. «Però tesoro, hai vent’anni, dovresti rimediare alla svelta. Io alla tua età ero fidanzata con mio marito già da un paio d’anni.»

Per prendere tempo, Giulia sorseggiò con calma il suo the. «Veramente ne ho solo diciannove, madame, e comunque non ho fretta! Quando avverrà, e soprattutto se, sarà ben accetto.»

«Va bene, va bene, però sappi che lo voglio conoscere.» Concluse, liquidando poi il discorso con un gesto della mano. «Ah, prima che me ne dimentichi! Voglio farti vedere una cosa. Vieni con me.»

Prese qualcosa da un cassetto della scrivania e poi si diresse verso la porta, facendole cenno di seguirla. I corridoi erano nuovamente vuoti, tutti erano tornati alle loro rispettive classi per le nuove lezioni, e i passi delle due donne rimbombavano sul tappeto che ricopriva il prezioso pavimento di marmo.

«Cosa volete farmi vedere, madame?» Chiese la ragazza, incuriosita.

La donna le fece cenno di avvicinarsi di più a lei, in modo da poterle parlare sottovoce come se avesse avuto paura che qualcuno le sentisse. «Dato che ho passato quasi due settimane a casa mia, ho avuto modo di risalire in soffitta per spolverare, e ho trovato alcuni vecchi bauli che probabilmente erano lì a fare muffa dall’inizio del secolo...» Scrollò le spalle, leggermente disgustata, ma quasi subito una strana luce tornò ad illuminarle lo sguardo. «Ovviamente li ho aperti! E in uno ho trovato una chiave di bronzo sulla quale c’era scritto O. G. Opèra Garnier! Te ne rendi conto?»

Giulia annuì, affascinata. «E che cosa ci faceva una chiave del teatro a casa vostra?»

«È quello che mi sono domandata anch’io! Poi però mi sono accorta che il baule e tutti quegli oggetti appartenevano ad una mia antenata, una certa Marguerite Mercier che era stata prima ballerina dell’Opèra negli anni Settanta del secolo scorso. Quindi può essere che la chiave fosse del suo camerino...»

«Non siete ancora andata a vedere?»

«Sinceramente?» Madame le scoccò uno sguardo penetrante prima di risponderle. «Mi sentivo a disagio al solo pensiero di andare a curiosare per il teatro da sola, quindi ho preferito aspettare. E meno male che sei arrivata tu, tesoro! Stavo letteralmente morendo dalla curiosità. E comunque, so qual è la stanza.»

Giulia sollevò impercettibilmente le sopracciglia. «Lo sapete? Ma allora...»

«Non ne sono del tutto sicura.» Precisò, svoltando nell’ennesimo corridoio. «Che io sappia, però, esiste solo una porta che non è mai stata aperta, a teatro, perciò presumo che sia quella... Ora, ad ogni modo, vedremo se i miei presentimenti sono esatti.»

Non appena cessò di dire queste parole, madame Sindial si fermò in mezzo al corridoio, fissando una porta che si innalzava di fronte a lei, intarsiata come tante altre porte lì a teatro, dall’apparenza del tutto innocua e anonima, senza niente che potesse giustificare quello sguardo eccitato che Giulia aveva visto negli occhi della sua vecchia insegnante di danza.

«È... questa?» Domandò infine, spostando lo sguardo dalla porta alla donna, che sembrava fremere.

Quest’ultima stava bisbigliando qualcosa sottovoce. «Finalmente... Dopo tanto tempo... La Loge Perdue... Meg, adesso scoprirò il tuo segreto, vedrai...»

Giulia si avvicinò cautamente alla donna, toccandole un braccio. «Madame? Vi sentite bene?»

Madame Sindial le rivolse un sorriso a dir poco abbagliante. «Si, tesoro. Mai stata meglio!» Poi quasi corse verso la porta, tirando fuori la chiave e infilandola senza sforzo nella toppa, dove girò fino a scattare come se non fosse stata chiusa che il giorno prima, e non cento anni prima.

«Sei pronta ad entrare?» Le chiese, allungando una mano nella sua direzione per invitarla ad avvicinarsi alla porta ormai aperta. Giulia annuì, raggiungendola.

L’interno era però completamente immerso nel buio.

«Grazie al Cielo fumo...» Replicò la donna, tirando fuori da una tasca l’accendino e avvicinandosi ad accendere le candele di un candelabro sistemato su una mensola accanto alla porta. Non appena la stanza iniziò a venire rischiarata dalle deboli luci delle candele, però, un cellulare prese a squillare insistentemente, e dato che Giulia aveva lasciato il suo nella borsa negli spogliatoi, non potè essere che quello di madame.

«Oh... Merde!» Esclamò, aprendolo e leggendo il nome della chiamata. Dopodiché si voltò verso la ragazza, con un’espressione alquanto scocciata in volto. «È monsieur Legrand! Vuole sicuramente che vada in ufficio... Accidenti!»

Giulia scrollò le spalle, senza sapere cosa dire. «Non so, madame... Se volete vi aspetto qui, tanto non ho fretta di fare altro, stasera!»

«Davvero, tesoro?» Mormorò incerta, giocherellando con la chiave. Ma non attese risposta. «Ma si, certo, e poi mi fido di te, quindi... Tieni, ecco la chiave. Io torno subito, non ci vorrà molto.»

Dopodiché quasi scomparve, chiudendo la porta alle sue spalle e lasciando la ragazza da sola.

Con un sospiro, Giulia si avvicinò a posare il candelabro al tavolo da toilette che aveva intravisto in un angolo e, dato che la stanza era priva di finestre, andò ad accendere tutte le altre candele che vi trovò. La chiave rimase abbandonata sul ripiano in marmo di un grande comò.

Quando finalmente la stanza fu ben illuminata, Giulia si accorse che quella non era una stanzetta per i vecchi mobili abbandonati come aveva creduto all’inizio, non appena vi aveva messo piede. Al contrario, aveva l’aria di essere, o perlomeno di essere stato, un prezioso camerino appartenuto forse ad una primadonna, a giudicare dalle dimensioni e dalla qualità dei mobili. Come se non bastasse, un’intera parete era ricoperta da un immenso specchio circondato da una cornice dorata, leggermente macchiata in alcuni punti come così pure il vetro, che era senza dubbio l’oggetto più misterioso e prezioso di tutta la stanza. Possibile che i direttori avessero deciso di tenere chiusa quella stanza? Anche senza la chiave di madame Sindial, se avessero voluto avrebbero potuto togliere la serratura e poi cambiarla, almeno per entrarci a darvi un’occhiata. Giulia era sicura che, una volta restaurato e magari rimodernato un poco, le primedonne e le prime ballerine dell’Opèra avrebbero fatto a gara per aggiudicarselo.

Mentre studiava lo specchio, l’attenzione di Giulia si spostò verso un oggetto riflesso da quest’ultimo, e subito si voltò, decidendo di osservare direttamente l’oggetto in questione e non il suo semplice riflesso. Si trattava di un abito, uno splendido abito bianco, senza alcun dubbio d’epoca, che sembrava essere stato lasciato lì apposta, pronto per essere indossato alla successiva rappresentazione, magari di un Otello, a giudicare dal taglio. La ragazza si avvicinò ad esso, affascinata, sollevando una mano per sfiorarne il tessuto e stupendosi quasi dello strato di polvere che lo ricopriva come un velo.

Prima di rendersi effettivamente conto di quello che stava facendo, tolse l’abito dal manichino in legno, scrollando via la polvere e indossandolo al posto dei suoi attuali vestiti: sembrava essere stato cucito e ricamato apposta per lei. Si portò poi nuovamente di fronte allo specchio, e l’immagine che questo le rimandò la fece per un attimo barcollare.

Aveva l’impressione di essersi già vista con quell’abito indosso, il che era pressoché impossibile dato che lei stessa lo aveva appena visto, e dato che era sempre stato in quella stanza chiusa a chiave... Ma la sensazione di dejà vu che le trasmise il vedersi così le aveva messo i brividi. Si poggiò contro lo specchio, posando la fronte sulla gelida superficie di vetro di quest’ultimo, sperando che il cambio di temperatura l’aiutasse come minimo a diminuire i battiti furiosi del suo cuore, che sembrava volerle uscire dal petto.

All’improvviso però sentì uno strano scatto, come il rumore di una qualche molla che sembrava provenire da dietro lo specchio, e allontanandosi da esso si rese conto che la cornice sembrava essersi spostata dalla parete nella quale, credeva, fosse incassato.

Incuriosita, si affacciò dietro lo specchio, certa di trovare solo la fredda parete del camerino, e stupendosi non poco nel trovarvi invece un passaggio segreto, che sembrava aver giaciuto silenzioso lì dietro, inutilizzato da anni. Facendo leva con tutte le sue forze contro lo specchio, riuscì a spingerlo fino ad aprire ulteriormente l’accesso ad un lungo e interminabile corridoio, che si ritrovò a fissare affascinata.

«Mio Dio...» mormorò. Adesso comprendeva l’eccitazione di madame Sindial! Eppure si domandò se la donna fosse a conoscenza di quel corridoio segreto.

Fece per entrarci ma, prima di fare un solo passo, un barlume di lucidità le consigliò di prendere almeno il candelabro, per non essere completamente al buio. Dopotutto, se davvero era quasi un secolo che nessuno lo utilizzava, chi poteva sapere che cosa avrebbe potuto trovarci! Non era da scartare neppure l’idea di trovarvi dei topi...

Al solo pensiero rabbrividì, disgustata, e quando si pentì di aver imboccato quel corridoio e si voltò, decidendo di tornare indietro, scoprì di essersi già persa.

«Non posso crederci...» Bisbigliò, illuminando a destra e a sinistra del corridoio, cercando di decidere quale era la parte migliore verso cui dirigersi. «Beh, una vale l’altra... Questo posto avrà pure un’uscita, da qualche parte. No?»

Aveva iniziato a parlare ad alta voce per darsi coraggio, ma in realtà il fatto di non ricevere risposta e di udire al contrario l’eco della sua stessa voce finiva per avvilirla ancora di più. Con un sospiro tremante continuò ad andare avanti, con i tacchi delle sue scarpe che rimbombavano sulle pietre del corridoio e le gocce di umidità che scivolavano per terra con lo stesso ritmo di un orologio. L’aria del suo respiro si condensava davanti alla sua bocca non appena espirava, e anche se i numerosi pizzi e merletti del vestito erano abbastanza pesanti, non poteva fare a meno di impedire i brividi di freddo che le saettavano lungo la schiena. Come se non bastasse, il braccio iniziava a dolerle per il peso dello scomodo candelabro d’ottone, e ad un certo punto fu costretta a posarlo per terra, spegnendo due candele e infilandosele in tasca e tenendo la terza in mano per illuminarle il cammino. Dopotutto, nessuno le avrebbe rinfacciato il fatto di aver lasciato un candelabro d’epoca in chissà quale sperduto corridoio, quando fosse riuscita a trovare l’uscita.

Sempre se l’avesse trovata. A quel punto non ne era più tanto sicura.

Dopo aver svoltato l’ennesima galleria, inciampò in uno strano oggetto, che per poco non le fece spegnere la candela: illuminò per terra, e vide che si trattava del candelabro che aveva abbandonato poco prima. Questo le fece perdere la testa, furiosa. Diede un calcio al portacandele e imprecò ad alta voce, tra le lacrime.

«Accidenti!» Gridò, mentre l’oscurità assorbiva la sua voce. «Possibile che nessuno mi senta?! Jean-Louis! Madame Sindial! Aiutatemi!»

Si gettò contro il muro e lo tempestò di pugni come se qualcuno l’avesse potuta sentire dall’altra parte, ma nel farlo la candela ancora accesa le sfuggì di mano e cadde per terra, spegnendosi e rotolando fino ad una pozzanghera. Adesso era letteralmente immersa nel buio, non avrebbe potuto continuare ad andare avanti neanche se l’avesse voluto.

Singhiozzando si lasciò scivolare per terra, raccogliendo attorno a sé l’ampia gonna del vestito e si rannicchiò il più possibile verso il muro, cercando di riscaldarsi. Aveva le mani gelide e spellate a furia di prendere a pugni il muro, e il vestito le si stava lentamente inzuppando a causa dell’acqua che scivolava dal soffitto e che si depositava per terra e tra i suoi capelli. E se anche si fossero accorti della sua scomparsa, sarebbero passate delle ore prima che a qualcuno fosse venuta l’idea di andare a cercarla dentro uno stupido e vecchio passaggio segreto.

Lentamente però, la stanchezza iniziò a prendere il posto delle lacrime, appesantendole le palpebre e trascinandola dolcemente in un sonno profondo, privo di sogni. Non si era accorta della testa che le pulsava, feroce, sotto l’influsso della febbre, e si addormentò così, bagnata e raffreddata. Chi la ritrovò, non molto più tardi, temette che fosse morta, ma avvicinando il proprio orecchio al suo petto si accorse invece del contrario. Così la sollevò tra le braccia, portandola fuori da quell’Inferno.

Le candele rimasero per terra, accanto ad uno strano candelabro nuovo.












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Capitolo 3
*** 02. Un nuovo inizio ***


Chapitre 2

Un nuovo inizio

 












Ottobre, 1877. Parigi.

 

Pioveva. Come sempre, del resto. Malgrado l’estate non fosse terminata che da poche settimane, il brutto tempo non si era lasciato attendere troppo. Le gocce di pioggia, pesanti e tristi come lacrime sui volti di giovani fanciulle innamorate o di bimbe prive di una famiglia, scivolavano sulle grigie mura degli edifici parigini, del tutto incuranti e indifferenti di ciò che accadeva al loro interno. Neppure l’interno dell’edificio in quel momento più chiacchierato e celebre di Parigi sembrava destare l’attenzione dei lumi accidiosi.

Non era infatti trascorso molto tempo da quegli ultimi eventi che avevano sconvolto il tempio dell’arte e della musica: poco più di due anni, in realtà, ma già sembrava che l’aristocrazia avesse dimenticato la strana vicenda del Fantasma dell’Opera, ed era ora alla ricerca di qualche pettegolezzo più recente e perché no, magari anche qualche scandalo che riscaldasse i salotti più importanti. Quanto alla povera gente, la cosa non la riguardava minimamente: ben altre erano le priorità, per loro.

Madame Giry, la rigida insegnante di danza a teatro, percorreva a passo veloce le viuzze che separavano la sua casa in Rue Scribe dal luogo nel quale lavorava ormai sin da quando ne aveva memoria. Il bordo del suo lungo abito nero strisciava sul marciapiede zuppo di pioggia, ma la donna non se ne curava, preoccupandosi unicamente di coprirsi il capo con il cappuccio cerato del mantello. Le strade erano quasi del tutto vuote, ad esclusione di qualche gatto o cane randagio. Le luci dei lampioni stavano iniziando ad accendersi malgrado la notte non fosse ancora del tutto calata, rendendo l’atmosfera di quella giornata autunnale ancora più malinconica del solito.

Fu con un piccolo sospiro di sollievo che la donna si riparò sotto il portico dell’appartamento nel quale abitava con sua figlia, Marguerite. Frugò all’interno di una borsetta in pelle, anch’essa nera, fino a quando non ne tirò fuori una chiave d’ottone che utilizzò per aprire la porta e scampare finalmente al temporale che si era fatto ora ancora più violento. Le luci dentro casa erano accese, segno che Agnese, l’anziana governante italiana che si occupava della cucina e della casa, era già tornata dal cimitero, nel quale andava puntualmente ogni anno, alla stessa data, per prendersi cura della tomba del suo marito defunto qualche decennio prima. Anche lei, come madame Giry, era rimasta vedova molto presto, e non si era mai risposata, solo che non aveva mai potuto contare sull’affetto di figli che non erano mai arrivati.

Un giorno – molto tempo prima, monsieur Giry era ancora in vita – Agnese era andata all’Opera per offrirsi come sarta nel laboratorio del teatro, e madame Giry le aveva proposto invece di lavorare per lei, come governante, offrendole una casa che sicuramente era migliore delle stanzette che affidavano ai lavoratori del teatro, sempre se le mettevano a disposizione, e la donna aveva accettato di buon grado, con tutto l’orgoglio che la caratterizzava. In questo le due donne erano molto simili, e divennero presto molto amiche, malgrado la leggera differenza di età. Ora, lei e Meg erano le uniche due persone sulle quali madame Giry poteva contare: senza di loro, la sua vita non avrebbe più avuto senso, malgrado il suo lavoro all’Opera, che continuava ad amare incondizionatamente.

Madame portò il mantello zuppo di pioggia nella stanza da bagno, appendendolo per farlo gocciolare all’interno di una graziosa vasca in ottone, dopodiché raggiunse Agnese in cucina. Meg era rimasta a teatro, a quanto le aveva detto lei e alcune sue compagne della classe di ballo dovevano festeggiare il compleanno di una di loro. Probabilmente solo l’anno prima non avrebbe mai permesso a sua figlia di restare da sola a teatro, per la notte, ma ora che non c’era più nessun pericolo, non vedeva perché non avrebbe dovuto lasciarla con le sue amiche.

«Buonasera, Agnese.» La salutò con un mezzo sorriso, entrando in cucina e avvicinandosi al calore della stufa. «Avete trascorso una bella giornata?»

«Oh, buonasera Louise,» sorrise l’altra donna, di rimando. «Si, è stata una bella giornata... Per fortuna sono riuscita a rincasare prima che si scatenasse questo tremendo diluvio.»

Le fece cenno di sedersi sulla panca accanto a lei, prima di ricominciare a rammendare alcune delle camice di Meg. «Come mai Meg non è con voi?»

«È voluta restare a teatro, a quanto pare doveva festeggiare il compleanno di un’amica.» Rispose distrattamente, mentre prendeva a sua volta una camicia da camera e controllava dove andasse fatto il rammendo. Senza che se ne rendesse conto, il suo pensiero corse all’unica persona di cui credeva non doversi più preoccupare. Erik... Quante volte aveva rammendato le sue, di camice? Quando era poco più che un bambino le portava alcuni dei vestiti che aveva preso dagli armadi della sartoria dell’Opera, troppo grandi per il suo fisico allora ancora mingherlino, e lei glieli adattava con un piacere misto a divertimento, nel fare da madre ad un bimbo così cresciuto. Eppure non le era mai dispiaciuto, anche se doveva occuparsi di Meg trovava sempre il tempo per quel ragazzino che aveva salvato, e di cui si era sempre sentita responsabile, come una madre...

Oh, Louise Giry, come sei sciocca! Che cosa ti porta a fare dei simili discorsi proprio adesso? Riuscì ad impedirsi di versare quelle lacrime che non avevano mai solcato il suo viso, e che di certo non avrebbero iniziato ora. Ma in realtà era da un po’ che ripensava a lui, o meglio, ultimamente stava quasi diventando un pensiero fisso. Non aveva mai più avuto sue notizie, dopo la notte dell’incendio: non che se le fosse aspettate, sia chiaro, ma in fondo si era quasi augurata che lui andasse a trovarla, o perlomeno andasse a renderle conto delle sue azioni, del suo tradimento... Era stata ciò che più somigliava ad una madre per lui, eppure non aveva esitato a voltargli le spalle quando la situazione aveva iniziato a degenerare... Ancora adesso, l’ultimo pensiero che serbava dei suoi occhi disperati e furiosi le faceva stringere il cuore.

Ed era per questo che non riusciva a capacitarsi del fatto che egli non fosse mai andato anche solo a minacciarla; le capitava, durante certe notti silenziose, quando non riusciva a prendere sonno, di sentire dei passi sotto la sua finestra, un rumore attutito ma deciso, che sembrava fare su e giù di fronte a casa sua come se non fosse del tutto convinto della sua presenza lì, e lei aveva sempre, sempre sperato che si trattasse del suo povero, sfortunato Erik, venuto da lei... Ma questo non era mai successo.

Era forse destinata a morire senza sapere che sorte avesse avuto l’uomo che aveva allevato alla stregua di un figlio?

Ormai, stava diventando un ossessione. Un’ossessione che si era acuita nell’ultimo periodo, da quando, precisamente, i due direttori del teatro, ancora monsieur Firmin e monsieur Andrè, avevano annunciato che un gentiluomo straniero, forse americano, aveva deciso di investire sull’Opera, diventandone il nuovo mecenate. Del giovane Visconte de Chagny non si era infatti più saputo nulla, si era come volatilizzato insieme alla sua sposa senza rendere conto a nessuno di dove andava, lasciando il teatro nella più completa rovina e degradazione.

Messieurs Firmin e Andrè si erano indebitati fino al collo per cercare di riportare il teatro allo splendore di un tempo, e anche se madame Giry non avrebbe mai scommesso un solo franco su di loro, doveva ammettere che ci erano quasi riusciti. Poi era arrivato questo misterioso mecenate, e l’Opera Garnier era definitivamente risorta dalle sue stesse ceneri.

C’era da dire che nessuno aveva mai visto questo personaggio, che viveva in una villa della campagna parigina facendo solo brevi visite alla città e al suo teatro agli orari più insoliti, ma che aveva preteso l’incarico di direttore artistico di quest’ultimo. L’unica condizione che aveva posto era stata infatti quella di potersi occupare delle messe in scena e dei vari cantanti e ballerini, e dato che i due direttori avevano già messo gli occhi sul suo denaro, non avevano esitato a firmare il contratto che Bamdad, il segretario persiano di monsieur Destler – questo infatti era il nome del prezioso mecenate – aveva presentato loro.

Perciò, la sua identità continuava a rimanere celata. Ma fintantoché con il suo denaro e con le sue scelte artistiche – peraltro sempre azzeccate – contribuiva a mandare avanti il teatro e ad accrescere la sua fama, nessuno gliene avrebbe mai fatto una colpa.

«Louise, oggi siete molto pensierosa.»

La dolce e leggermente tremula voce di Agnese riscosse madame Giry dai suoi pensieri, facendola tornare bruscamente al presente. «Oh si, perdonatemi, Agnese. Non volevo essere scortese.» Mormorò, passandosi una mano sul volto stanco.

«Non preoccupatevi, comprendo pienamente le vostre preoccupazioni.» Sorrise la donna, prendendole una mano tra le sue.

Madame si voltò, stupita, leggermente preoccupata che la sua amica potesse aver compreso più del necessario. «Ah si? Le comprendete?»

L’altra annuì. «Certo. Immagino che vi angusti l’idea che vostra figlia trascorra la notte fuori casa, anche se è circondata da amiche... A quanto ricordo, il teatro non è mai stato famoso per essere un luogo sicuro.»

I battiti di Louise diminuirono notevolmente, mentre la donna annuiva, piano. Non era propriamente a quello che stava pensando, anche se in effetti la cara governante non aveva tutti i torti. «No, infatti, non lo è mai stato.» Ammise, con un sospiro. «Ma ormai le cose sono cambiate, non c’è più di che preoccuparsi.»

Agnese abbandonò il suo lavoro di cucito e si alzò, decidendo di preparare la cena. «Forse no,» replicò, portandosi una mano al petto. «Ma se i gendarmi fossero riusciti a catturare quell’assassino, due anni fa, immagino che ora dormirei sonni più tranquilli. Sapete, dormo sempre con la finestra chiusa da allora.»

Questa volta madame ebbe ragione di sgranare gli occhi, sorpresa. «A chi vi riferite, Agnese?» Le domandò, fingendo di non aver compreso il soggetto del discorso.

«Al demonio che viveva all’Opera! Quel... Quel Fantasma!» Esclamò, voltandosi con uno sguardo ancora spaventato in viso. «Dicevano che aveva il volto del diavolo... E che aveva ucciso più di diecimila anime! E come può una povera vecchia dormire tranquilla, con il terrore che esiste una simile creatura che potrebbe uccidermi nel sonno?»

Louise era veramente sconvolta. Era la prima volta che sentiva Agnese fare dei simili discorsi, non era mai capitato che ne parlassero, prima. E di sicuro non credeva che la donna la pensasse in quel modo. Diecimila uomini? Malgrado la gravità del discorso, madame non riuscì a trattenere un sorriso: Erik era stato – o era ancora? – un uomo piuttosto crudele, ma madame dubitava che avesse le mani così sporche di sangue. No, non lo riteneva capace di tanto.

Anche se...

«E ora perché ridete?» Sbottò Agnese, leggermente offesa.

Madame Giry si contenne subito. «Non rido, Agnese, per carità. Dubito solo che possa esistere un uomo tanto efferato così come voi e tanti altri hanno dipinto...»

La donna scrollò le spalle. «Ah, pensatela come volete. Non riuscirete a convincermi a dormire con la finestra aperta, ad ogni modo.»

Era incredibile come l’anziana donna riuscisse a concludere in quel modo ogni singolo discorso... Celando l’ennesimo sorrisetto, madame si alzò a sua volta, con l’intenzione di andare a cambiarsi d’abito.

«State andando voi alla porta?» Le domandò Agnese, trafficando con una pentola.

Louise sollevò un sopracciglio. «Perché dovrei?»

«Mi è sembrato di aver udito bussare.» Replicò spicciativa.

Madame non aveva sentito niente, ma annuì lo stesso. «In tal caso vado a vedere chi può essere a quest’orario così insolito.»

Una volta nel corridoio, madame sentì effettivamente bussare alla porta, un bussare insistente e continuo, come se il visitatore avesse un’incredibile fretta di entrare. Ma chi poteva mai essere? Meg era a teatro, e lei di sicuro non attendeva ospiti...

«Sto arrivando!» Esclamò, per impedire che il visitatore, chiunque esso fosse, se ne andasse nella convinzione di aver trovato la casa vuota. Raggiunse la porta e armeggiò con il chiavistello, fino a quando non riuscì a sganciarlo e aprire così la porta.

Se fosse stata un’altra persona, avrebbe senza dubbio lanciato un urlo. Invece, in una manciata di secondi madame ragionò lucidamente, pensando che se avesse urlato avrebbe senza dubbio attirato l’attenzione di Agnese, che non avrebbe esitato a correre a chiamare i gendarmi anche senza conoscere tutta la storia. Perciò deglutì, rimanendo a fissare a metà tra lo spavento e il sollievo quella figura incappucciata che si stagliava contro il cielo nuvoloso di fronte a lei, che aveva imparato a riconoscere e anche a temere.

«Cosa succede, madame? Avete perduto le buone maniere? Non mi fate entrare?»

Louise rabbrividì al suono di una voce che non sentiva ormai da troppo tempo, riuscendo a cogliere la sottile vena di ironia e sarcasmo che velavano le sussurrate parole dell’uomo. Senza rispondergli si fece da parte, invitandolo silenziosamente ad entrare.

«Sei... Sei davvero tu?» Mormorò, senza osare credere a ciò che i suoi occhi le facevano vedere. «O sei un... oh... Mon Dieu...»

Si portò in tempo le mani davanti alla bocca, per evitare di dire ciò che sconsideratamente stava per uscire dalle sue labbra sottili. Un fantasma. No, anche se si era sempre firmato in quel modo, Erik non amava definirsi in quel modo. L’umanità era una delle poche cose che desiderava e che gli era stata negata...

Ma perché era lì, in casa sua? Perché dopo tutto quel tempo, perché così all’improvviso?

Egli dovette accorgersi che madame fremeva dalla voglia di rivolgergli tutte quelle domande che le turbinavano in testa, perché la mise a tacere ancora prima che dicesse una sola parola. «Volete che la vostra governante mi veda? Andiamo in camera vostra, madame.»

Oh, a quanto pareva non aveva perso l’abitudine di dare ordini.

«Agnese, sto salendo in camera a cambiarmi!» Esclamò verso la cucina, indicando ad Erik le scale per salire al piano superiore.

«Chi era alla porta, Louise?» Domandò la donna, affacciandosi alla porta.

Madame scrollò le spalle, riuscendo a mascherare la sua agitazione. «Nessuno, Agnese. Un mendicante... L’ho mandato via.»

Annuendo, l’anziana governante ritornò in cucina, e madame potè così raggiungere il suo nuovo ospite nella sua stanza. Era una fortuna che Meg fosse rimasta a teatro... Madame non riusciva ad immaginare cosa sarebbe successo se anche la ragazza fosse stata presente al ritorno di Erik.

E soprattutto, al fatto che sua madre sembrava non avere nessuna intenzione di mandarlo via.

Quando entrò in camera sua, madame vide che il suo ospite sedeva sul letto, chino su una figura distesa di cui lei prima non si era accorta. Accese la lampada a gas sulla specchiera a lato del letto e si avvicinò a quest’ultimo, sporgendosi a sua volta da dietro la spalla di Erik per cercare di capire chi fosse la figura addormentata. Trasalì quando il suo sguardo si posò sui suoi tratti.

«Christine?!» esclamò, portandosi una mano alla bocca dallo stupore. Com’era possibile? Erik non poteva certo averla rapita di nuovo!

«Non siate sciocca, madame...» La riprese lui, senza neppure degnarsi di guardarla. «Per quanto la somiglianza sia notevole, non si tratta della Viscontessa de Chagny...»

Il modo in cui sputò quel nome fece rabbrividire la donna, che nel frattempo aveva iniziato ad osservare meglio la fanciulla distesa sul suo letto con una curiosità e un’attenzione particolare. Si, in effetti Erik aveva ragione, non poteva essere la sua Christine... Mentre quest’ultima aveva dei soffici boccoli d’oro, infatti, la ragazza che si trovavano di fronte aveva dei morbidi e lunghi capelli castani, con delle onde che ricordavano le chiome delle donne del Botticelli. La carnagione era leggermente abbronzata come quella delle contadine, e non era pallida e perlacea come richiedeva invece la moda dell’aristocrazia, e questo portò madame a domandarsi quale fosse in realtà l’identità di quella fanciulla che Erik le aveva portato in casa.

Improvvisamente, un pensiero la colpì.

«Erik...» mormorò. «Non si tratterà della tua amante, vero?»

Finalmente l’uomo si voltò di scatto, gli occhi che mandavano lampi, con una furia in essi tale da farla indietreggiare. «Non osate, madame.» Sibilò, trattenendo a stento una rabbia che, malgrado tutto, la donna non comprendeva. «Se anche avessi un’amante, o se ne avessi cento, non verrei sicuramente a portarla a casa vostra! E siete pregata di non trattarla nemmeno come tale.»

«Ma allora chi è questa ragazza? Perché l’hai portata qui?» Insisté Louise, decisa a non lasciarsi ancora intimidire da lui.

La rabbia di Erik sembrò scemare, mentre si voltava nuovamente ad osservare la ragazza. «In realtà non so chi sia... L’ho trovata all’Opèra, in una delle gallerie che conducono al mio vecchio dominio. Non so come ci sia finita, non l’ho neanche mai vista prima, ma la sua somiglianza con la persona che entrambi conosciamo bene mi ha fatto prendere la decisione di portarla via di là.»

La donna non riuscì a trattenersi dallo sbuffare, scettica. «Senza volerne nulla in cambio? E da quando saresti diventato così tenero?»

Lo sguardo che Erik le rivolse era un misto di rabbia e divertimento. «Da quando sono diventato il nuovo mecenate dell’Opèra Garnier, madame.»

Louise Giry sgranò gli occhi, sconvolta, e non potè impedirsi di indietreggiare. Dunque... dunque! Tutti i suoi presentimenti si rivelavano così essere fondati! Che sciocca a non averlo compreso da subito, era caduta nell’ennesimo tranello del Fantasma dell’Opera come l’ultima delle più ingenue ballerine, e chissà quanto doveva aver riso lui nel vedere che la sua rigida e perspicace amica non aveva collegato i vari indizi!

«Monsieur Destler... Saresti tu? Mon Dieu!» Esclamò la donna, sorpresa.

Erik non riuscì a trattenere una risatina di scherno alla reazione di madame Giry. «Non ditemi che l’idea non vi ha mai sfiorato, Louise, perché non vi credo.»

Il semplice fatto che lui l’avesse chiamata per nome la fece ben sperare sulle sue intenzioni, e d’istinto cambiò atteggiamento, cercando di mostrarsi più disponibile nei confronti di quella fanciulla che non aveva mai visto prima. «Va bene, Erik...» Sospirò, incerta se posargli o meno una mano sulla spalla, ma decidendo infine di mantenere le distanze, per quanto le costasse. «Cosa vuoi che faccia? Di sicuro non sei venuto in casa mia con una sconosciuta tra le braccia senza avere una richiesta o un ordine pronto.»

L’uomo si voltò verso di lei, limitandosi ad osservarla per un po’ con sguardo critico. «Vedo che malgrado il tempo che è passato e quello che è successo, non vi siete dimenticata di me e delle mie... abitudini.» Sollevò impercettibilmente le spalle prima di continuare. «Tuttavia, è pur vero che non ho nessun piano per questa ragazza... per ora. Voglio solo che vi prendiate cura di lei fino a quando non si riprenderà – ha la febbre, infatti – e dopo... Beh, allora ci penserò.»

Detto questo si alzò, rivolgendo nuovamente tutta la sua attenzione all’anziana insegnante di ballo. «Vi sto nuovamente mettendo alla prova, Louise. Lo sapete, vero?» Sussurrò, truce.

Madame Giry non potè fare a meno di annuire. «Lo so, Erik. Ma avresti dovuto immaginare che non sarei rimasta con le mani in mano mentre tu stavi quasi riuscendo a distruggere la vita di una ragazza che ho sempre considerato come figlia mia!»

Lo sguardo dell’uomo si fece se possibile ancora più terribile. «Non dimentico però che voi dicevate di trattare anche me alla stregua di un figlio.» Sibilò crudele, come se non si rendesse conto del dolore che le causava sputando quelle parole. «Se era questo il modo di dimostrarmi il vostro affetto, madame, non oso pensare come sarebbe stato il vostro odio... Ma già, un mostro come me non può meritarsi altro.»

Il forte schiaffo che seguì quell’ultima frase fu sonoro e meritato, al punto che Erik non osò ribattere ulteriormente. Si limitò a stirare le labbra in quello che molto vagamente doveva somigliare ad un sorriso, ma che era in realtà più una smorfia di tristezza.

«Spero che questo vi abbia alleggerito la coscienza, madame.» Mormorò soltanto, facendo per andarsene.

La donna scosse la testa. «Io invece mi auguro che non abbia alleggerito la tua.»

Monsieur Destler le diede in silenzio le spalle, arrivando alla porta e sollevando la maniglia. «Non basta certo così poco per alleggerire la mia coscienza, madame. Sapete meglio di me che nulla potrà mai cancellare il sangue che ho sulle mani e il ricordo del dolore che ho causato. Ma tant’è...»

La osservò da sopra la spalla, mestamente. «Il passato non si può cambiare.»

«Ma il futuro si, Erik...» Replicò lei, piano.

L’uomo scosse la testa. «Apprezzo il vostro ottimismo, ma non sprecatelo con me. Arrivederci, madame. Avremo modo di vederci a teatro, uno di questi giorni.»

Louise Giry fece qualche passo verso di lui, tormentandosi le mani strette a pugno. «Il Fantasma dell’Opera è tornato?» Sussurrò.

Erik trovò la forza di ridere. «No, madame. Il Fantasma dell’Opera non se ne è mai andato.»

E, con questo, sparì da dietro la porta, lasciando la donna sola con i suoi turbinosi pensieri.









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Capitolo 4
*** 03. No More Memories ***


Chapitre 3

No more memories



















Giulia riprese i sensi solo qualche giorno più tardi.

La febbre l’aveva debilitata non poco, e madame Giry si era presa cura di lei notte e giorno, un po’ perché glielo aveva chiesto Erik, e un po’ perché aveva la strana sensazione di dover conoscere quella ragazza, per quanto fosse sicura come l’Inferno di non averla mai vista prima di allora.

Anche Meg aveva notato la somiglianza con l’ormai Viscontessa de Chagny, ma era fuori questione che si trattasse di lei: per quello che ne sapevano, infatti, Christine Daaè viveva con l’amato marito nei possedimenti dei de Chagny a sud della Francia, e dato che nell’ultima lettera informava loro dell’arrivo di un piccolo erede, le due donne decisero di tacito accordo che la fanciulla salvata da monsieur Destler – come lo chiamavano, benché madame avesse informato la figlia della reale identità del patrono dell’Opèra – non aveva nessun legame con la viscontessa, e che la loro somiglianza fosse solo una semplice coincidenza.

Appurato questo, non era rimasto che attendere che la ragazza si svegliasse per domandarle infine chi fosse in realtà, e come mai si era trovata a gironzolare da sola per i sotterranei del teatro. Tuttavia, era evidente che il tempo delle risposte non era ancora arrivato.

Era stata Meg a scoprire che Giulia aveva ripreso conoscenza. La giovane ballerina era andata nella stanza della loro ospite per aprire le finestre e fare entrare la luce del giorno, così come aveva fatto tutti i giorni da quando la ragazza era arrivata, ma quando era entrata nella camera si era accorta che c’era qualcosa di diverso. Il letto era vuoto, e per un attimo il cuore di Meg cessò di battere, al pensiero di quello che sarebbe potuto accadere se monsieur Destler fosse venuto a sapere che la giovane che aveva affidato alle loro cure era scomparsa. Ma questo durò solo una manciata di secondi, perché poi gli occhi di Meg si abituarono all’oscurità della stanza e si accorsero di una figura in piedi, accanto alla finestra, affacciata timidamente da dietro le tende, come se non osasse aprirle del tutto. Dopo un po’ le richiuse con un sospiro e si voltò verso la piccola Giry, stupendosi della sua presenza.

«Chi...» mormorò, aggrappandosi allo schienale di una poltrona lì vicino come se temesse di perdere l’equilibrio. «Chi siete? Vi conosco?»

Meg le sorrise comprensiva, avvicinandosi a lei senza fare nessun movimento brusco che potessero spaventarla ulteriormente; non doveva essere facile abituarsi all’idea di trovarsi in una casa sconosciuta e circondata da estranei.

«No, non ci conosciamo.» Le rispose cautamente, prendendole una mano e aiutandola a sedersi sulla poltrona. Dopodiché scostò lentamente le tende in modo da potersi vedere reciprocamente. «Io mi chiamo Marguerite Giry, ma ti prego, chiamami solo Meg.»

Giulia annuì, portandosi una mano alle tempie e massaggiandole. «Meg...» Ripeté, come per essere certa di memorizzare quel nome. «Dove mi trovo?»

«Sei a casa mia, ma chère. A Parigi. Non ricordi nulla?» Domandò, avvicinandole un bicchiere d’acqua che l’altra ragazza prese senza però vederlo.

«Parigi...» Sussurrò ancora. Sembrava in trance, lo sguardo era fisso nel vuoto e Meg ebbe l’impressione che forse la ragazza avesse un qualche disturbo mentale non meglio definito.

«Si, Parigi.» Le confermò, inginocchiandosi di fronte a lei. «Dimmi, ma chère... Come ti chiami? Mi puoi dire il tuo nome? In questo modo potremmo aiutarti di più...»

Finalmente la giovane abbassò lo sguardo su Meg, e per la prima volta sembrò vederla davvero. I suoi occhi si sgranarono impercettibilmente e le sopracciglia si aggrottarono, come se si stesse sforzando di ricordare qualcosa che sembrava sfuggirle.

«Io...» Mormorò, confusa. «Non mi ricordo... Credo... Giulia... Non lo so, non ne sono sicura, ma forse è questo il mio nome... Voi non lo sapete?»

Meg scosse piano la testa, comprendendo finalmente la situazione. «No, non lo so... Speravo me lo dicessi tu...»

Giulia scrollò leggermente le spalle, prima di sospirare mestamente. «Chiamatemi Giulia, se vi fa piacere... Al momento, questo è l’unico nome che ricordo.»

La ragazza annuì, alzandosi in piedi. «Va benissimo ugualmente, ma chère. Giulia è perfetto, è un bel nome.» Le sorrise. «Vado a chiamare mia madre, sai, è stata lei a trovarti e a portarti qui per prendersi cura di te... Sono sicura che lei riuscirà ad aiutarti. Va bene?»

Giulia annuì, riconoscente. «Vi ringrazio, Meg. Davvero.»

«Oh, non preoccuparti.» Il sorriso le si allargò leggermente, mentre aggiungeva. «Ah, ti prego, Giulia, non darmi del ‘voi’. Non sono necessarie tutte queste formalità.»

Finalmente un accenno di sorriso sfiorò le labbra della fanciulla. «Va bene. Allora... Ti ringrazio.»

«Vado ad avvisare maman

Madame Giry sospirò di sollievo quando la figlia le annunciò che la loro giovane ospite si era ripresa dalla febbre dei giorni scorsi, e prima di raggiungerla mandò Meg a cercare un dottore.

«Vai direttamente da monsieur Mounier, il dottore del teatro.» Precisò, prima che la ragazza uscisse. Monsieur Mounier era una persona discreta e riservata, un uomo, insomma, di cui ci si poteva fidare: madame era certa che non avrebbe mai dovuto temere che il dottore andasse a rivelare ai quattro venti che lei ospitava una ragazza di cui non si sapeva niente fuorché un nome che, per lo più, poteva essere anche inventato. Dopotutto, monsieur Mounier era abituato a tenere sotto silenzio la maggior parte di accadimenti del teatro che era stato meglio mettere a tacere, come le giovani ballerine costrette ad interrompere una gravidanza non desiderata, o l’uso di oppio e assenzio fatto dalle stesse per essere certe di non crollare al ritmo delle lezioni.

Per quanto madame fosse contraria a certe cose, non poteva impedire che avvenissero. E grazie al Cielo monsieur Mounier non aveva mai deluso la fiducia di nessuno.

Preparandosi all’incontro con la giovane ospite, Louise Giry diede due colpi brevi e decisi alla porta, avvisando la ragazza del suo ingresso. Lei non si era spostata dalla poltrona nella quale l’aveva fatta sedere Meg, ma non appena la donna entrò nella stanza, Giulia si sentì in dovere di alzarsi, rispettosamente.

«Oh no, tesoro, ti prego.» Disse subito madame, raggiungendola e prendendole una mano tra le sue. Si accorse che erano gelide, e mentalmente prese nota di ricordarsi di far portare un braciere nella stanza, più tardi. «Rimani seduta. Sei ancora troppo debole per dare retta a tutte queste sciocche formalità.»

Giulia annuì, sedendosi nuovamente. «Voi dovete essere...» Esordì, indecisa. «Madame Giry?»

La donna fece cenno di sì con la testa, avvicinando una sedia accanto alla ragazza in modo da poter parlare tranquillamente con lei. Il dottore non sarebbe arrivato subito, tanto.

«Si.» Le sue labbra si stirarono in un debole sorriso. «Il mio nome è Louise Thèrese Giry, ma ammetto che madame Giry è molto più semplice da ricordare.»

La ragazza sorrise a sua volta, per poi sospirare subito dopo. «Vorrei potermi ricordare anche io il mio nome completo... Tutto quello che rammento invece è il mio prènom, Giulia.»

«Non preoccuparti, cara.» La consolò madame; era incredibile come la somiglianza con la sua vecchia allieva fosse notevole, non fosse stato per la chioma dorata di quest’ultima e quella castana della giovane smemorata... Lo sforzo che dovette fare per far cessare il flusso di ricordi che la colpì fu immenso.

«Ad ogni modo, anche se non rammenti il tuo nome per intero, ci sarà pure qualcosa che ricordi,» proseguì, studiando la sua espressione. «Per esempio, cosa stavi facendo prima di perdere conoscenza...»

Giulia aggrottò le sopracciglia, sforzandosi di ricordare. «Non lo so, madame... È come se avessi un vuoto, più mi sforzo di riportare alla mente qualcosa e più mi duole la testa... Non ho neppure idea di chi siano i miei genitori, non riesco a ricordarne nemmeno il volto... Come... Come se non ne avessi mai avuto...»

La voce le si spezzò e la ragazza dovette tacere, nascondendosi il viso tra le mani. Non vista, Louise scosse sconvolta la testa. Per tutti i numi, la situazione era più grave di quanto immaginasse! Se la giovane non mentiva – e a giudicare dalla sua reazione era del tutto sincera, perché madame riteneva che non vi fosse nessun interesse nel mentire su un fatto tanto delicato – allora sarebbe stato anche più difficile aiutarla a guarire, dato che in questo caso si sarebbe trattata di una grave amnesia... Nell’attesa che arrivasse il dottore per una conferma, madame Giry iniziò ad organizzare la situazione d’ora in avanti. Al di là del fatto che Erik le avesse ordinato di prendersi cura di lei, Louise lo avrebbe fatto comunque: pertanto, a chiunque le avesse chiesto chi fosse la fanciulla che ora abitava in casa sua, lei avrebbe risposto che si trattava di una sua parente venuta in visita... magari... Magari una nipote stessa! Ed era certa del fatto che nessuno avrebbe replicato o cercato di importunare la fanciulla. Si, accoglierla sotto la sua ala era un’ottima idea.

Certo, era probabile che Giulia già godesse, a questo punto, della protezione di Erik, ma fino a quando non ne era del tutto sicura era meglio prendere le dovute precauzioni. Meg non avrebbe osato contraddirla, e anzi, avrebbe reso quella sceneggiata ancora più credibile. Quanto a Giulia... Madame era convinta che lei fosse ancora troppo scossa e confusa per poter anche solo pensare di opporsi ad una simile soluzione, temporanea certo, ma che l’avrebbe senza dubbio tenuta lontano da compagnie pericolose. Un’orfana, anche se di maggiore età, poteva sempre diventare una preda ambita per tutti gli uomini privi di scrupoli che abitavano Parigi. E vedere una giovane ragazza come lei nei bui sobborghi di Montmartre non era certo ciò che madame si augurava.

«Maman?» Meg bussò alla porta e si affacciò all’interno della stanza, cercando la madre con lo sguardo e sorridendo incoraggiante a Giulia. «È arrivato monsieur Mounier.»

Louise si alzò, trattenendo un sospiro. «Bene, Meg. Che aspetti? Fallo entrare, su.»

La porta venne spalancata del tutto e Meg si fece da parte per lasciar passare un uomo che aveva superato da tanto la sessantina d’anni, con una folta capigliatura argentea e un paio di grossi baffi che gli lasciavano a malapena scoperto il labbro superiore. Gli occhi castani erano circondati da una fitta ragnatela di piccole rughe, così come gli angoli della bocca, e camminava leggermente ricurvo a causa di un dolore che riguardava la sua gamba destra. Il suo sguardo era chiaro e limpido, senza nessun accenno di malizia o indiscrezione, e madame non potè che congratularsi silenziosamente con sé stessa per aver avuto la prontezza di far chiamare lui piuttosto che qualcun altro.

«Dottor Mounier,» lo accolse la donna, avvicinandosi e stringendogli la mano. «Vi ringrazio per essere venuto con un così breve preavviso.»

«Non preoccupatevi, madame Giry.» Replicò lui, con una voce profonda rovinata dal tremolio della sua età avanzata. «È il mio mestiere, dopotutto. Allora, qual è il problema?»

«Si tratta di mia nipote,» rispose subito Louise, senza tentennare un attimo. Grazie al Cielo Meg non parlò, e così la donna potè continuare, parlando a bassa voce per non sconvolgere ancora di più Giulia. «Qualche giorno fa è caduta, ed è rimasta priva di sensi fino a questa mattina... Ma quando si è risvegliata non ricordava più chi fosse, né dove si trovasse.»

«Sembra un’amnesia... Ma non sono in grado di dire quanto grave, se non posso visitarla.»

Madame annuì. «Oh si, certo... Prego, venite. Fate quello che dovete.»

Mentre monsieur Mounier visitava la ragazza, le altre due donne rimasero in un angolo della stanza, abbastanza vicine per poter essere di un qualche conforto a Giulia, ma mantenendo una sorta di distanza rispettosa dal dottore per non disturbarlo nell’esercizio del suo lavoro.

Alla fine, quando videro l’uomo sollevarsi e rimettere a posto i suoi strumenti nella valigetta in pelle, Meg raggiunse Giulia e madame Giry si avvicinò al dottore, ansiosa di informarsi sull’effettiva condizione di salute della ragazza.

«Dunque, monsieur?» Domandò, parlando a bassa voce mentre lo conduceva in un angolo della stanza.

Egli sospirò. «Non nego che la situazione sia piuttosto grave, madame. La ragazza deve aver subito un forte shock, che le ha provocato quella che noi chiamiamo amnesia retrograda… Forse la sua caduta di qualche giorno fa è stata solo una conseguenza. In poche parole, si tratta della perdita di memoria per quanto riguarda gli eventi accaduti prima della causa, ma mantiene comunque una completa lucidità per quello che è avvenuto dopo, perciò la sua mente inizia ad accumulare ricordi da questo momento in poi. Vedete, è come se il suo cervello la stesse proteggendo da dei ricordi… scomodi.»

«State dicendo che non recupererà più la memoria per quanto riguarda ciò che è stata lei prima?» Chiese madame, sgranando impercettibilmente gli occhi grigi.

Monsieur Mounier scosse piano la testa. «Madame, la psiche umana è un tale mistero, e io non sono che un semplice dottore… Quello che posso dirvi è che i suoi ricordi, le sue esperienze passate, non sono perse definitivamente; esse continuano ad esistere nel suo subconscio, ma semplicemente lei non lo sa. Al momento, il suo cervello ritiene più saggio oscurarle, ma chissà se in futuro esse non torneranno a galla.»

Louise lanciò uno sguardo alla giovane ospite, incrociandolo per un attimo con il suo. Cosa poteva mai esserle successo per giustificare una simile reazione psicologica? E come avrebbero potuto aiutarla a guarire e a ritrovare la sua famiglia, sempre supposto che ne avesse una, se lei non ricordava neppure quale fosse il suo nome? Beh, avrebbero dovuto scoprirlo loro. Ed era necessario andare subito a parlarne con Erik: egli non aveva detto chiaro e tondo di voler essere informato su ogni sviluppo della faccenda, ma madame lo conosceva troppo bene per non sapere che si sarebbe infuriato come non mai se lei l’avesse tenuto all’oscuro di tutto. E poi, Louise era convinta che Erik disponesse di tutti i mezzi necessari per risalire alle origini di questa ragazza: aveva girato talmente tanto il mondo che ormai ne conosceva ogni segreto, e non sarebbe stato male se avesse utilizzato le sue conoscenze per questa faccenda.

Dopo aver accompagnato il dottore alla porta, madame tornò in camera della ragazza e richiuse la porta dietro di sé, sentendo gli sguardi di Giulia e di Meg puntati addosso.

«Meg, qualsiasi cosa dirò, sei pregata di non contraddirmi né interrompermi.» Esordì, avanzando verso di loro. «Ora, Giulia… Sappiamo che non ricordi nulla di quello che è accaduto prima di perdere conoscenza, ma non possiamo permettere che lo sappiano anche gli altri. È una cosa che deve rimanere tra noi, chiaro?»

Tacque un momento, come per raccogliere le idee, dopodiché prese un bel respiro e riprese il suo discorso. «Da questo momento, tu sarai Giulia Sanders, la figlia di una mia sorella che vive in America con il marito e che ti ha mandato qui a Parigi per farti studiare danza nella scuola dell’Opèra. Sei figlia unica, parli molto bene il francese e questo dovrà evitare che la gente impicciona si stupisca del fatto che non parli la lingua di tuo padre… Ah, e dovrai perlomeno chiamarmi zia, così per spazzare qualsiasi altro tipo di dubbio al riguardo. Io e Meg ti istruiremo su ciò che dovrai e non dovrai dire, faremo in modo che anche tu possa avere un passato da raccontare qualora ve ne fosse bisogno. Domande?»

Giulia scosse la testa, sorpresa da tutta quell’apprensione. «No, madame… Ho capito tutto.»

«Bene,» annuì allora. «Meg, tu? Tutto apposto?»

La ragazza annuì a sua volta, seria. «Si, maman. Tutto chiaro.»

Madame sospirò, socchiudendo gli occhi e osservando le due ragazze che pendevano dalle sue labbra: a volte desiderava non essere la severa e inflessibile madame Giry, ma semplicemente Louise, senza nessun greve fardello sulle spalle, senza più segreti né misteri… Ma quella ormai era la sua vita, era stata per anni e anni il tramite tra il mondo ed Erik e a quanto pare questa sua pena non era ancora stata scontata. Chissà se un giorno sarebbe arrivato il perdono per entrambi. Chissà se sarebbe riuscita a dimenticare.

«Credo che tu sia pronta per venire all’Opèra, ma chère.» Dichiarò madame solo un paio di giorni dopo, quando, sedute tutte e tre nel luminoso soggiorno della donna, avevano appena finito di ricapitolare e di interrogare Giulia sulle numerose nozioni che aveva dovuto imparare in tutta fretta.

Louise non aveva ancora avuto né il tempo né la voglia di andare ad avvisare Erik sui recenti sviluppi della situazione e sulle decisioni che lei aveva preso senza interpellarlo, ma l’uomo avrebbe saputo tutto quanto il giorno dopo, quando la ragazza sarebbe entrata per la prima volta nel suo teatro. Sperava solo che non avesse nulla da rimproverarle, ma madame ne dubitava. Erik era un genio, ma aveva sempre apprezzato l’astuzia della sua perspicace amica.

«Ora, vado ad aiutare Agnese in cucina. Se volete qualcosa, chiamateci.» Aggiunse alzandosi, facendo un gesto della mano per accomiatarsi.

Le due ragazze rimasero da sole, ma Giulia ancora non si sentiva del tutto sicura su quello che avrebbe dovuto ricordarsi. Temeva di dimenticare alcune parti che potevano essere necessarie per far si che la sua copertura non crollasse come un castello di carte.

«Meg, ti dispiace farmi ancora qualche domanda?» La supplicò pertanto, tormentandosi le mani. Stava indossando ancora la sua veste da camera, ma lo scialle che le aveva prestato la donna e il fuoco che scoppiettava allegro nel camino facevano sì che non sentisse freddo.

La giovane ballerina sorrise, annuendo. «Va bene. Allora, iniziamo daccapo… Dove sei nata?»

«A Boston, il 24 luglio dell’anno 1858.» Rispose subito, senza tentennare. Almeno quello l’aveva imparato subito e senza sforzo.

«Bene. Ah, scusa, mi sfugge il nome dei tuoi genitori…» Proseguì Meg, fingendosi confusa.

Giulia ridacchiò. «Mia madre, Sophie Lescaut, aveva conosciuto mio padre, William Sanders, qui a Parigi, quando lui era stato mandato in Francia per cercare un suo fratello che non voleva sapere di tornare a casa… Mia madre lavorava come sarta e tutti giorni, per tornare a casa, passava di fronte alla locanda nella quale mio padre alloggiava: alla fine si parlarono e si innamorarono e, dopo il matrimonio, lei lo seguì nel Nuovo Mondo per vivere insieme a lui. Io nacqui l’anno successivo.»

La ragazza si interruppe per riprendere fiato, poi sorrise. «Allora, signora maestra? Ho studiato bene?»

Meg rise, annuendo. «Direi di sì! Anzi, se non sapessi la verità crederei subito alla tua storia… Suona proprio bene, e poi è così romantica!»

«Ma Meg… Tua madre ha davvero una sorella? Non vorrei che poi qualcuno potesse venire a reclamare il legittimo ruolo di nipote di madame Giry…» Replicò Giulia, pensierosa.

Tuttavia l’altra scosse il capo. «Maman aveva una sorella, ma è morta tanto tempo fa. Io stessa credo di non averla mai conosciuta… L’unica cosa che so è che viveva in Svezia, perché non è neppure sepolta qui, a Parigi.»

«E non sai se aveva figli?» Domandò ancora Giulia, incuriosita.

Meg scosse nuovamente la testa. «Non ne ho la più pallida idea. Maman non me ne ha mai parlato… Credo che il solo ricordo fosse troppo doloroso, per lei. Sai, ha… Ha perso troppe persone care in una sola vita.»

La voce della ragazza si era affievolita, in modo che dalla cucina la madre non potesse intuire che era di lei che si stava parlando.

«Eppure madame da l’impressione di essere una donna molto forte…» Mormorò Giulia, osservando mestamente la sua nuova amica.

«Oh, ma lo è.» Si affrettò a spiegare quest’ultima, sporgendosi in avanti. «Solo che non lo da a vedere. Preferisce tenere nascosti i suoi sentimenti, e ostentare quell’atteggiamento austero che la rende inavvicinabile. Per fortuna conosco questo suo lato, e non vi do più molto peso. Quando ero piccola, invece… Beh, avevo l’impressione che maman preferisse trascorrere tutto il suo tempo a teatro piuttosto che occuparsi di me, ma crescendo ho capito che c’era gente che stava peggio di me e di cui mia madre di occupava. Credo di essere guarita dal mio egoismo infantile solo qualche anno fa.» Aggiunse, con una strana risatina.

Giulia comprese che Meg non le aveva raccontato tutto quello che avrebbe voluto, ma che anzi si sforzava di passare sotto silenzio. Tuttavia provava troppa gratitudine nei loro confronti per osare impicciarsi in faccende che non la riguardavano, e le rispettava troppo per far loro delle domande impertinenti. Un giorno, forse, Meg glielo avrebbe raccontato, ma non era ancora il momento. Inoltre, non era necessario conoscere il passato di qualcuno per volergli bene o fidarsi di lui: era qualcosa che poteva dare adito solo a pregiudizi, e lei non avrebbe sopportato di giudicare questa cara ragazza senza conoscerla. Perciò, solo quando la loro amicizia si fosse approfondita – perché Giulia non aveva alcun dubbio che ciò sarebbe accaduto – non avrebbero più avuto segreti l’una per l’altra.

Ma era ancora troppo presto.














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Capitolo 5
*** 04. L'Opèra Garnier ***


Chapitre 4

L’Opèra Garnier














Il mattino seguente, le tre donne si svegliarono presto e iniziarono a prepararsi per andare in teatro. Madame era riuscita a non mancare alle sue lezioni in quei giorni, ma Meg, in via del tutto eccezionale, ovviamente, sì. Solo, la cosa più terribile fu, per Giulia, vestirsi.

Non riusciva a capire se si trattava della sua amnesia, e quindi non ricordava più come ci si abigliasse per potersi definire presentabile, o semplicemente del fatto che non aveva mai indossato simili indumenti prima di allora. Quando Meg, già vestita, e Agnese le avevano fatto vedere un corsetto, quella mattina, Giulia aveva creduto che l’amica stesse scherzando. Non poteva essere umanamente possibile indossare quell’odioso oggetto, eppure lo sguardo stupito che le aveva rivolto Meg le aveva fatto capire che non si trattava nel modo più assoluto di uno scherzo, e che non era concepibile che lei si vestisse senza prima indossarne uno.

«Coraggio, tesoro, lascia fare a me,» disse Agnese, infilandole una lunga sottoveste da sopra la testa che le arrivava appena al di sotto del ginocchio. «E ora voltati, su!»

La ragazza si voltò di malavoglia, seguendo il consiglio di Meg e aggrappandosi ad una colonnina del letto quando Agnese cominciò a legare i nastri e a tirare. Non riuscì a trattenere un gemito di dolore quando l’anziana donna strinse anche l’ultimo laccio all’altezza del suo bacino, sentendosi mancare improvvisamente l’aria. Dopo quella tragica sofferenza, comunque, procedere con la vestizione fu molto più semplice. Agnese l’aiutò ad infilare la sottogonna nera e vaporosa che serviva a mantenere e sottolineare le forme della sua silouhette, enfatizzando una serie interrotta di lunghe curve sinuose; sopra di essa le agganciò la gonna vera e propria, di un rosso scuro, che scivolava sulla sottogonna in pesanti drappeggi e volute. La giacca era poi un tuttuno con la gonna, e Giulia riuscì ad agganciarsela da sola con la serie di bottoni di onice che ne percorrevano il bordo sul petto. A quel punto Meg le fece passare un grosso nastro nero intorno alla vita, legandoglielo poi dietro con un pesante fiocco che ricadde sulle volute della gonna.

Alla fine Giulia si sentiva talmente pesante da dubitare addirittura di riuscire a muoversi, ma dopo aver fatto per un po’ su e giù nella stanza acquistò l’equilibrio e la sicurezza necessari.

«E ora le scarpe! Siediti lì, Giulia.» Disse Meg, indicandole la poltroncina accanto alla finestra. La ragazza obbedì, osservando l’amica che le si avvicinava con un paio di stivaletti in marocchino nero tra le mani. «Questi dovrebbero essere più semplici da infilare del vestito.» Aggiunse la ragazza, porgendoglieli.

Effettivamente la giovane Giry non aveva tutti i torti, in fondo si trattava solo di far passare i nastri dentro le asole e poi stringerli in un piccolo fiocco. Si, indubbiamente le scarpe furono la cosa più semplice che Giulia si ritrovò ad indossare: a parte i guanti, ovvio.

A quel punto erano entrambe pronte e non rimase loro che raggiungere madame Giry, che le stava aspettando nel piccolo salotto. La donna non aveva fatto parola a nessuno del fatto che il nuovo guardaroba della sua ospite era stato fornito interamente da Erik, ma non aveva smesso di rimuginarci un solo istante. Sembrava che l’uomo si stesse interessando alla ragazza senza che Louise ne comprendesse il motivo, e questo la riempiva di risentimento nei confronti del suo vecchio amico; in passato, in linea di massima, era sempre stata a conoscenza di quello che gli passava per la testa, e sapeva che l’interesse del Fantasma nei cofronti della giovane Christine Daaè celava il sentimento che provava per lei. Ma ora? Per quale motivo un uomo incapace di mostrare una disinteressata generosità nei confronti di chicchessia, si stava invece occupando di una completa sconosciuta? Se Meg avesse saputo che i nuovi abiti di Giulia erano stati un dono di Erik, sicuramente si sarebbe infuriata, e non a torto. Malgrado avesse accolto con sospetto l’arrivo di quell’intero e prezioso guardaroba non aveva fatto domande, accettando apparentemente la scusa della madre che le aveva detto che quei vestiti erano un regalo di una sua cara amica.

Per il momento, quindi, poteva bastare.

Ma quando madame Giry vide la ragazza scendere le scale con quel nuovo abbigliamento non potè impedirsi di provare dei brividi di sincero spavento. Oh, la somiglianza con la Viscontessa de Chagny era a dir poco inquietante, e Giulia era forse ancora più bella e affascinante della sua ex allieva, e per un attimo Louise si domandò se non fosse per quello che Erik sembrava essere interessato a lei.

La cara Agnese le aveva sapientemente arricciato i lunghi capelli castani che le ricadevano morbidi sulle spalle, e Meg le aveva intrecciato alcune ciocche ai lati delle tempie che poi andavano ad unirsi al resto della sua chioma, sulla schiena. Anche il piccolo cappellino rosso doveva essere opera di Agnese, perché Erik non aveva certo potuto pensare agli accessori che riuscivano a completare un abbigliamento femminile.

«Maman, noi siamo pronte.» La informò Meg, una volta arrivate accanto a lei.

Madame aggrottò leggermente le sopracciglia, pensierosa, mentre osservava le due ragazze. Ma che cosa sto facendo? Pensò all’improvviso, con un accenno di panico nello sguardo. Se Erik la vedesse… Lui è un uomo, non l’ho mai dimenticato, e se si interessasse a lei? È così bella, dopotutto…!

Deglutì, prendendo un profondo respiro. Sono forse pronta a rivivere i terribili eventi di qualche anno fa?

«Madame? State bene?» Intervenne Giulia preoccupata, lanciando uno sguardo all’amica.

La donna si sforzò di riscuotersi. «Si cara, ho avuto solo un capogiro…» Sospirò. «Ma tu devi chiamarmi zia, Giulia, cerca di non dimenticarlo.»

L’affettuosoi rimprovero della donna la fece arrossire. «Si, madame… Zia,» Sorrise. «Perdonatemi.»

«Non preoccuparti, ma chère, vai benissimo.» Sono io che avrei bisogno di tranquillizzarmi… «Allora, andiamo?»

«Louise, vi aspetto per pranzo?» Domandò Agnese, affacciandosi dalla porta della cucina.

Madame scosse la testa. «No, non credo ce la faremo, mangeremo qualcosa a teatro. Aspettateci a cena però, mia cara.»

«Come sempre,» sorrise l’anziana governate. «Buona giornata, les filles! Louise…»

E con questo uscirono, chiudendo la porta alle loro spalle.

L’Opèra Garnier le attendeva.

Quando Giulia vide il teatro, ebbe la strana impressione di essere tornata a casa. Uno strano calore nostalgico la fece quasi rabbrividire, mentre osservava l’imponente facciata con la sensazione di conoscerne già il più piccolo dettaglio, quando avrebbe potuto giurare di non esserci mai stata prima. O forse si trattava di qualcosa che aveva dimenticato in seguito all’amnesia di cui parlava monsieur Mounier…

Ad ogni modo, non ebbe il tempo di cullarsi in quella amara nostalgia, perché madame spinse sia lei che l’amica verso l’ingresso del teatro, come se fossero in terribile ritardo. Al contrario, invece, l’Opèra sembrava completamente deserta, non fosse stato per alcune donne che lavavano il prezioso pavimento in marmo senza curarsi di altro che non fosse il loro lavoro.

«Presto, ragazze, presto, su.» Ordinò a quel punto madame, incitandole ad accelerare il passo. Le precedette sull’enorme scalinata senza volgere lo sguardo da nessuna parte, come se avesse paura che qualcuno potesse vederle. E in effetti era proprio quello il suo timore; conosceva Erik, e anche se adesso era diventato il mecenate del teatro, Louise dubitava che avesse messo da parte le sue abitudini di spiare i movimenti di coloro che frequentavano il suo regno, e sinceramente non voleva che lui e la sua nuova “protetta” si incontrassero proprio in quel momento. Sapeva che era impossibile tenerlo lontano da lei se egli desiderava vederla, ma perlomeno madame poteva cercare di posticipare quel momento il più a lungo possibile.

Solo una volta arrivati nella sala da ballo, madame Giry potè sentirsi leggermente più al sicuro. La maggior parte delle sue ballerine si stavano già riscaldando, così Meg corse nello spogliatoio a cambiarsi e Giulia rimase con lei, osservandosi incuriosita intorno. La sala era davvero enorme: lungo la parete dove si affacciava la porta correva un’asta di legno che serviva alle ballerine per fare i loro esercizi alla sbarra, e nella parete perpendicolare ad essa vi era un enorme specchio che ricopriva completamente il muro, dando l’impressione che la sala si prolungasse per un altro centinaio di metri. Dall’altra parte, invece, c’erano gli spogliatoi, mentre sull’ultima parete, risultante essere frontale alla porta, vi era un’immensa vetrata che si affacciava sui boulevards di Parigi e dalla quale proveniva un raro raggio di sole.

L’insieme era davvero magico.

Tuttavia, malgrado fosse incantata da quel luogo, a Giulia non sfuggirono le occhiate maligne e curiose delle govani ballerine, che le lanciavano sguardi di sfuggita come se fossero infastidite da quella sua invasione di territorio. Madame se ne accorse e, per evitare ogni genere di fraintendimento, attirò l’attenzione delle sue allieve con un secco battito di mani e portò Giulia al centro della sala.

«Ragazze, vi posso presentare mia nipote?» Esordì, guardandole severamente. «Il suo nome è Giulia Sanders, e viene da Boston. Rimarrà mia ospite per un po’ di tempo, visto che è venuta a Parigi per studiare danza, ma oggi si limiterà ad osservare una nostra lezione. Qualche domanda?»

Le ragazze fecero dei cenni di diniego con il capo, mentre continuavano ad osservare infastidite la nuova intrusa; chiaramente non potevano mostrarsi malevole nei suoi confronti, visto che la giovane era sotto la protezione di madame Giry – nonché sua stretta parente. Era davvero quello di cui avevano bisogno: un’altra arrogante Giry tra i piedi. Non bastava infatti Meg come prima ballerina, adesso dovevano fare i conti anche con la cugina, che probabilmente avrebbe avuto l’appoggio di madame per sollevarsi ad un ruolo principale, ruolo che loro avrebbero solo sognato, a questo punto.

Pertanto nessuna si degnò di salutarla, riprendendo il riscaldamento da dove l’avevano lasciato.

La lezione era lunga e Giulia non si sentiva molto benvoluta; così, approfittando di un attimo di distrazione di madame Giry, troppo presa nel correggere i vari errori di postura delle sue allieve, si avvicinò alla porta, aprendola piano e scivolando silenziosamente nel corridoio deserto.

A quel punto sospirò, sollevata. Dovrò dire a madame che non ho nessuna intenzione di danzare con quelle ragazze… Se fossi stata da sola mi sarebbero saltate addosso come gatte furiose, si ritrovò a pensare tra sé. Incrociò le mani dietro la schiena, iniziando a passeggiare lungo il corridoio. I suoi passi erano attutiti dal tappeto rosso che ricopriva il pavimento, così si sarebbe potuta aggirare indisturbata per il teatro senza disturbare a nessuno.

Quella parte del teatro era molto sobria. Non vi erano imponenti lampadari né enormi specchi, solo delle lampada a gas appese alle pareti ogni cinque metri; lì infatti non c’era nessuna finestra, così le luci artificiali dovevano rimanere accese tutto il giorno. Si sfilò con cura le forcine che le tenevano il cappellino sul capo e lo tenne poi in mano, sentendosi la testa più leggera; oh, se solo non avesse indossato quell’odioso corpetto… Aveva l’impressione di non riuscire a respirare, Agnese doveva averlo stretto davvero troppo.

Cercando di non pensarci proseguì con la sua ispezione, chiedendosi se sarebbe riuscita a raggiungere la platea anche da sola. Dopotutto, quanto grande poteva essere quel teatro?

Tuttavia, dopo essersi accorta di aver visto lo stesso quadro per ben tre volte, dovette rendersi conto di essersi persa. Stava per tornare indietro a cercare la sala da ballo quando, dopo aver voltato lo stesso angolo, si ritrovò davanti ad un uomo che non aveva mai visto prima. Egli non era eccezionalmente alto, ma emanava una strana aura che incuteva ed esigeva rispetto: a giudicare dalla sua carnagione scura era uno straniero, forse persiano, e sembrava molto giovane, sui trent’anni. Il volto era arricchito da un paio di folti baffi neri e gli occhi, profondi e penetranti, erano più scuri del carbone. Probabilmente se non avesse avuto un aspetto così curato e quell’abbigliamento tipicamente parigino, Giulia avrebbe potuto scambiarlo per un ricco marajà.

«Bonjour, mademoiselle.» La salutò lui in un perfetto francese, con una voce rauca ma carezzevole. «Vi siete forse persa?»

«Io… Si, credo… Credo di essermi persa.» Rispose, non riuscendo a sostenere a lungo il suo sguardo, che sembrava volerle leggere dentro. «Volevo vedere la platea ma forse è meglio che torni da madame Giry.»

L’uomo annuì. «Siete una ballerina?»

«Non ancora, in realtà…» Giulia ne approfittò per ripetere la lezione che Meg e madame le avevano interrogato anche quella mattina stessa. «Sono sua nipote, e sono venuta da Boston per prendere lezioni con lei, qui a teatro.»

Dopo averla studiata ancora un po’, il persiano sembrò riscuotersi. «Perdonatemi, sono terribilmente maleducato. Il mio nome è Bamdad, e sono il segretario personale di monsieur Destler.»

Le prese dolcemente la mano, sfiorandola con un bacio gentile. «Incantato di fare la vostra conoscenza, mademoiselle…»

«Sanders, Giulia Sanders,» si affrettò a rispondere lei, leggermente imbarazzata per quel gesto improvviso e inaspettato.

«Desiderate ancora vedere la platea, mademoiselle Sanders?» Le chiese poi, con un sincero sorriso.

Lei annuì, gli occhi che brillavano. «Oh si, ma… Non vorrei disturbarvi…»

Bamdad scosse il capo. «Nessun disturbo. Prego, mademoiselle,» aggiunse, porgendole il braccio.

Un paio di occhi dorati seguirono attentamente i movimenti dei due giovani senza perderli di vista un attimo, che, presi sottobraccio, si dirigevano chiacchierando verso la platea.

Erik non sapeva se avesse fatto bene ad ordinare al suo fido Bamdad di andare a controllare la giovane che aveva trovato nelle gallerie sotterranee dell’Opèra. Certo, era stato lui a non voler incontrare per primo la ragazza senza sapere chi avesse di fronte, ed era per questo motivo che aveva mandato il persiano in avanscoperta, ma forse sarebbe stato meglio se ci fosse stato lui con il braccio della fanciulla stretto sotto il suo, a mostrarle il suo splendido regno.

E poi, cos’era questa novità della ballerina, “nipote” di madame Giry, venuta dal Nuovo Mondo per studiare danza con la zia? Questa era senza alcun dubbio opera di Louise, ma perché diavolo la donna si ostinava a fare di testa sua senza nemmeno interpellarlo? E poi, perché non lo aveva avvisato della sua avvenuta guarigione, come le aveva detto di fare? Quella sera stessa sarebbe andato a casa di madame per scambiare qualche parola con lei, era il caso di chiarire sin da subito la situazione per evitare che accadessero cose spiacevoli come l’ultima volta.

Nel frattempo, avrebbe osservato meglio la ragazza… La somiglianza con la sua vecchia allieva era quasi dolorosa, ma stranamente non così insostenibile come Erik si era aspettato. Più che rammentargli il dolore di quell’insano sentimento non corrisposto, infatti, era la rappresentazione di un passato oscuro che cercava di dimenticare, un tempo in cui era stato solo un’ombra il cui destino sembrava quello di vivere come un escluso della società, mentre ora… Oh, ora avrebbe avuto il posto e il ruolo che gli spettava di diritto. Aveva fatto voto di entrare a testa alta e dal portone principale in quello che era stato da sempre il suo teatro, e finalmente così era stato.

Si, forse madame Giry aveva ragione, in fondo. Il suo passato era incancellabile, tuttavia il suo futuro poteva essere diverso… Il Fantasma dell’Opera era ancora vivo, ma d’ora in avanti non sarebbe stato solo uno spirito; sarebbe stato un uomo, e come tale avrebbe vissuto alla luce del sole.

Se solo non fosse stato così solo, oh, le cose sarebbero state più facili…

Maledicendosi ferocemente per quei pensieri che così poco gli si addicevano, abbandonò il suo nascondiglio, dirigendosi verso il suo nuovo studio. Che andassero tutti al Diavolo! Nessuno avrebbe potuto fare qualcosa per impedirgli di compiere la sua vendetta.

Neppure quell’arrogante madame Giry o quella fanciulla che credeva di aver preso sotto la sua ala. Sarebbe stata una pedina fondamentale nel suo piano, e la donna non avrebbe potuto muovere nemmeno un muscolo per impedirglielo!












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Capitolo 6
*** 05. Dove le decisioni di un Fantasma non si discutono ***


AA - Angolo Autrice:

Grazie a masked_lady per aver aggiunto questa storia alle preferite e grazie a Yunie992 per la recensione! Sono molto contenta di aver trovato la tua recensione - stavo iniziando a perdere le speranze! - ma un commento è sempre ben accetto! Spero che continuerai a seguirmi! (Comunque non hai capito male, è andata proprio così!)

Un bacio, e buona lettura!








Chapitre 5

Dove le decisioni di un Fantasma non si discutono


















Quella sera, dopo cena, Giulia si ritirò in camera sua senza voler indugiare un attimo in più nella sala da pranzo insieme alle altre tre donne. La severa lavata di capo che madame Giry le aveva fatto una volta arrivate a casa, infatti, le bruciava ancora.

La donna si era davvero spaventata quando, voltandosi verso di Giulia alla fine della lezione di danza, si era accorta che la ragazza non c’era più. Aveva temuto il peggio: ogni corridoio poteva essere una trappola, per lei che non conosceva il teatro e le sue numerose botole, e se si fosse persa un’altra volta nel territorio di Erik… Mon Dieu, preferiva non pensare alle conseguenze! Così, senza attendere che Meg fosse pronta per andare con lei, uscì nel corridoio prima che questo si riempisse di gente, controllando in ogni singolo angolo senza trascurarne nemmeno uno. Ma Giulia sembrava non essere da nessuna parte.

Stava per arrendersi e correre da Erik a domandargli se l’avesse vista quando, arrivata in cima all’immenso scalone d’ingresso, finalmente la vide. La ragazza era insieme a colui che madame riconobbe essere il segretario persiano di monsieur Destler, che in quel momento le aveva passato un braccio intorno alla vita aiutandola a salire le scale.

Che cosa ci fa monsieur Bamdad con Giulia? Si chiese, mentre attendeva con una pazienza che non credeva più di avere che i due la raggiungessero in cima alla scala. Che anche questa sia una mossa di Erik?

Quando poi Giulia sollevò lo sguardo e vide la donna, quest’ultima incrociò severamente le braccia, lanciandole uno sguardo che le fece capire quanto fosse arrabbiata.

Louise riuscì a trattenere la sua ira ancora a lungo, scambiando poche parole con il persiano e addirittura ringraziandolo per essersi preso così gentilmente cura di sua nipote mentre lei aveva la sua lezione, ma per tutta la giornata cercò di evitare di incrociare il suo sguardo con quello della ragazza per evitare di farle una scenata nel teatro stesso. Ma una volta arrivate a casa, sotto gli occhi di una stupita Meg, madame Giry esplose.

«Si può sapere a che cosa stavi pensando quando sei sparita all’improvviso senza dire una sola parola?» Esordì, andando su e giù per il salotto. «Non ti è venuto in mente che poteva essere pericoloso? Potevi perderti, santo cielo! Il teatro è troppo grande perché tu ti ci possa aggirare da sola come se fossi a casa tua!»

«Mi dispiace, madame… Io…» Provò a difendersi.

Ma la donna non la fece continuare. «Monsieur Bamdad mi ha detto che sembravi sperduta. E se lui non fosse arrivato? Cosa sarebbe accaduto se a trovarti fosse stato un uomo privo di scrupoli e di educazione? Hai idea di quante ragazzine siano scomparse a Parigi, e quante nello stesso teatro?»

Madame si avvicinò a Giulia, afferrandole per le spalle in modo che ciò che stava per dirle le rimanesse maggiormente impresso. «È più pericoloso dell’Inferno, Giulia, è pericoloso! Non tollererò che simili cose accadano ancora, sono stata chiara? Non voglio che giri da sola per il teatro. Se proprio vuoi vederlo, va bene, ma voglio che tu ci vada con Meg o con qualcun altro di altrettanto fidato. Intesi?»

A Giulia non rimase che annuire, mortificata.

Così ora era da sola, in camera sua, sdraiata a pancia in su nel letto. Il suo vestito giaceva scomposto sulla poltrona, mentre il corpetto che aveva indossato e che l’aveva torturata per tutto il giorno era stato buttato con malagrazia per terra. Indossava solo una leggera sottoveste in cotone, ma non aveva voglia di scendere nuovamente in salotto a chiedere a Meg se aveva una camicia da notte da prestarle.

E poi, non riusciva a comprendere l’ira di madame Giry. Neanche fosse fuggita dal teatro per andare a gironzolare nei boulevards della città! Certo, se l’avesse avvisata forse non si sarebbe preoccupata inutilmente, ma d’altronde la sua reazione le sembrava davvero troppo esagerata. Come se Louise volesse proteggerla da qualcosa, o da qualcuno!

Che sciocchezze, pensò tra sé, portandosi le braccia dietro la testa in una posizione assai poco consona e femminile. Forse è a causa della mia amnesia se non ricordo quel “qualcosa” da cui madame sembra volermi proteggere, riflettè, arricciandosi un ciuffo dei lunghi capelli. Ma ad ogni modo potrebbe anche evitare di essere così misteriosa, visto che tutta questa situazione non mi aiuta, concluse alla fine.

Con un sospirò si sollevò a sedere, lanciando uno sguardo verso la finestra rigidamente chiusa. Scosse la testa, esasperata, e si alzò per andare ad aprirla e far circolare un po’ d’aria fresca anche dentro la camera. Dopo essersi gettata uno scialle in lana sulle spalle, si affacciò, sedendosi sul davanzale e osservando la via sottostante. Era al terzo piano e l’oscurità le era alleata, quindi non temette che qualcuno, dalla strada, potesse vederla in quel poco castigato abbigliamento. Comunque lungo la rue non passavano molti gentiluomi a piedi, quanto piuttosto piccole carrozze di gentiluomini e gentildonne che in quel momento si stavano forse dirigendo a qualche prestigioso ballo o evento mondano. Alla stessa Opèra quella notte era stata messa in scena La Traviata del grande Verdi, alla quale Giulia avrebbe volentieri assistito non fosse altro che per ammirare lo splendore del teatro, ma madame era talmente arrabbiata che non aveva voluto sentire ragioni. Davvero un peccato.

All’improvviso, mentre osservava distrattamente il via vai di carrozze e cavalli che trottavano sul selciato della strada, notò una strana ombra aggirarsi lontana dalle luci dei lampioni, come se non volesse farsi vedere da anima viva, che nell’arco di un battito di ciglia arrivò di fronte al portone della casa di madame Giry e sparì, semplicemente, come se non fosse mai esistita.

Giulia non potè credere ai suoi occhi: si affacciò di più sul balcone per osservare meglio il portone, ma qui non c’era nessuno, e anche se un piccolo portico gliene impediva la vista completa, era chiaro che l’uscio fosse deserto. Possibile che l’abbia solo immaginata? Si domandò, stupita. Poi scosse la testa, richiuse con attenzione la finestra e tornò a letto, decidendo che doveva essere stata la stanchezza a farle vedere cose che non esistevano.

Ma Giulia non aveva immaginato nulla. L’ombra che le era parso di vedere – e che, in verità, aveva visto davvero – non era altri che Erik, venuto come promesso a parlare con madame Giry a proposito degli ultimi sviluppi della situazione.

L’uomo, malgrado avesse desiderato rimanere in teatro per godersi l’apertura della stagione lirica con la splendida Traviata, aveva contemporaneamente deciso che non poteva ignorare le varie iniziative della sua vecchia amica continuando a rimanerne all’oscuro, cosa che peraltro detestava. Così, dopo aver affidato al suo discreto segretario il compito di fare il padrone di casa in sua vece, si era quasi precipitato a casa di Louise in modo da trovarla ancora sveglia.

Quando era arrivato sotto casa sua, però, aveva notato, sorpreso, la finestra di quella che sapeva essere la stanza della ragazza aprirsi, e subito dopo lei stessa che vi si sedeva senza nessun apparente timore di perdere l’equilibrio e cadere. Che cosa ci fa ancora sveglia a quest’ora? Fu il suo primo pensiero, infastidito. Ma quando vide le sue labbra, che lui sapeva essere rosse e carnose anche se la distanza non gliene avrebbe consentito la vista, imbronciate in un’espressione di nervoso e tristezza, non potè fare a meno di fermarsi ad osservarla, al sicuro sotto l’ombra di un portico. Maledizione, la somiglianza con la Daaè era davvero notevole, pensò stringendo i denti. Eppure la sua comparsa proprio in quel momento della sua vita poteva essere un eccezionale punto a suo vantaggio, poteva diventare una pedina nelle sue mani, avrebbe potuto modellarla a suo piacimento come aveva già fatto in passato, e forse questa volta la sua opera sarebbe stata addirittura migliore, se non del tutto perfetta. Oh si, la sua vendetta stava crescendo rigogliosa, e compierla questa volta non avrebbe richiesto grossi sacrifici… Non da parte sua, perlomeno.

Ormai aveva trasformato il suo cuore, un tempo capace di amare così ardentemente una fanciulla ancora troppo bambina, in un pezzo di ghiaccio, o meglio, in una roccia… Dato che il ghiaccio poteva sempre sciogliersi. Eppure non potè esimersi dal domandarsi se, forse, esisteva ancora una qualche speranza di redenzione per lui…

No, erano solo idiozie.

Abbandonò il riparo sicuro dell’ombra per scivolare lungo la strada e avvicinarsi al portone della casa di madame Giry, Rapido e silenzioso come un fantasma, rise tra sé. Si era accorto che gli occhi della ragazza avevano seguito i suoi movimenti, ma sapeva di essere decisamente troppo astuto perché lei avesse potuto vederlo chiaramente. Una volta sull’uscio non ebbe bisogno di bussare, come invece era stato costretto a fare l’ultima volta. Ora, con le mani libere, potè onorare il vecchio soprannome con il quale era stato conosciuto, in un’epoca lontana, nell’esotica Persia.

«Il Signore delle Botole.» Sussurrò con un perfido sorriso, quando la porta si spalancò davanti a sé; non esisteva uscio o lucchetto che potesse resistergli, era convinto di poter entrare anche in quello stesso Paradiso che gli era precluso, semplicemente con quel trucchetto.

Poi, prima che la gente che attraversava la via potesse vederlo, entrò in casa richiudendosi la porta alle spalle.

La casa era immersa nel buio. Solo le luci provenienti dalla strada attenuavano l’oscurità, che non sarebbe comunque stata un problema, per lui. Si diresse a passo sicuro verso le scale, senza produrre il minimo rumore ma apprezzando la presenza del tappeto che ricopriva i gradini. Una volta giunto sul pianerottolo non gli fu difficile trovare la stanza di Louise, malgrado già la conoscesse: era l’unica, infatti, dalla quale proveniva una piccola luce da sotto la porta.

Sospirò, ricordando l’ultima volta che aveva dormito in quella casa. Era stato prima della tragedia, quando era stato ferito da quel pavido damerino, quel visconte, nel cimitero dei Pères Lachaises, ed era stato costretto a chiedere a madame aiuto per medicare la sua ferita. Generalmente l’avrebbe fatto da solo, ma il braccio offeso era quello destro e inoltre era troppo disperato per prendersi cura di sé quando tutto ciò che avrebbe voluto sarebbe stato lasciarsi morire dissanguato.

Scosse la testa, provando un inevitabile disgusto verso sé stesso. La morte non sarebbe stata ben accetta in quel momento, e d’altronde realizzò che la perdita della sua unica allieva non gli era mai stata così indifferente come ora. Prima di perdersi in altre riflessioni così deleterie, raggiunse la stanza di Louise e, sempre senza bussare – le abitudini erano dure da perdere – vi entrò.

Come si era augurato, madame Giry era ancora in piedi.

Si era voltata verso di lui con tutto il rigido autocontrollo di cui disponeva, stringendosi nella sua vestaglia da camera e osservandolo senza tradire nessuna emozione. La treccia le ricadeva su una spalla e lei, con disinvoltura, la rigettò sulla schiena.

«Mi domandavo quando saresti venuto, in effetti.» Esordì, facendogli cenno di sedersi.

Erik accennò un inchino col capo, dopodichè accettò il suo invito, liberandosi del mantello e prendendo posto sulla poltrona che la donna gli aveva indicato.

«In realtà mi aspettavo che veniste voi da me.» Replicò lui, osservandola. «Mi sembrava di avervi chiesto di tenermi informato sulle evoluzioni della faccenda.»

«Tecnicamente non l’hai fatto.» Lo contraddisse lei, sedendosi a sua volta.

L’uomo scosse lentamente la testa, vagamente divertito. «Beh, credevo fosse scontato. Ad ogni modo,» proseguì, tornando a guardarla. «Ora sono qui. Non avete nulla da dirmi?»

Madame sospirò leggermente, distogliendo lo sguardo. «Giulia non sa da dove viene, né chi è. Monsieur Mounier ha parlato di amnesia retrograda, perciò la sua mente ha cancellato tutto ciò che accaduto prima che perdesse conoscenza. Quindi non si rammenta nemmeno del fatto che sei stato tu a portarla da me. Ergo, penso che potresti anche smettere di perseguitarla e lasciarla completamente sotto la mia responsabilità fino a quando non si sarà ripresa.»

Erik l’ascoltò attentamente, in silenzio, dopodichè fece un piccolo sorrisetto. «Curiosa scelta di termini… Perché pensate che io la stia perseguitando?» Domandò. «Vedete in tutto questo ciò che è già accaduto in passato?»

Louise strinse gli occhi, innervosita. «È proprio perché ti conosco, e per evitare ciò che è stato che ti sto parlando in questi termini. Non voglio che Giulia faccia la stessa fine di Christine. Sappi che io non te lo permetterò.»

L’uomo non potè trattenersi dall’allargare il suo sorriso. «E come pensate di impedirmelo, qualora siano proprio questi i miei piani?» La provocò, con tono insinuante.

Le dita di madame artigliarono ferocemente il bracciolo della poltrona sulla quale era seduta. «A costo di lasciare Parigi, Erik, non ti permetterò di distruggere un’altra vita innocente!»

Egli non potè trattenere un ringhio e si alzò di scatto, furioso. «L’unica vita ad essere stata distrutta è la mia! Voi non avete idea – non potete neanche immaginare – che cosa sia stata la mia esistenza negli ultimi due anni! Christine non ha mai sofferto quanto me, e da quando l’ho lasciata andare sono certo che nella sua vita non ci sia più stato alcun dolore!»

Madame si alzò a sua volta, irata. «Se vuoi proprio saperlo, Christine ha perso il suo primo figlio a causa del dolore provato alla notizia della tua finta morte! Sai quanto è fragile di salute, e a causa tua non è stata in grado di portare a termine la gravidanza! Puoi immaginare bene, quindi,» proseguì, con la voce che le tremava. «Quanta rabbia abbia provato io nel vederti vivo! E insieme quanta gioia abbia accompagnato questo risentimento!»

Louise si risedette, tremando, e asciugandosi stupita le lacrime che le avevano solcato il viso. «E adesso torni, e mi dici che il tuo cuore non ha trovato pace in tutto questo tempo, e che stai già meditando vendetta! E per di più su qualcuno che non ha nessuna colpa… Non conoscerai alcuna tregua, Erik? Scriverai mai la parola fine a tutto questo?»

Erik non osava guardare le lacrime di colei che era stata la sua unica amica e confidente. La notizia della perdita del primo bambino di Christine, sputata involontariamente e in modo così brutale, lo aveva lasciato senza parole e con un senso di gelo addosso. Ecco un altro assassinio aggiungersi alla lunga scia di sangue che si portava dietro ovunque andasse… E per di più su una creatura che non aveva mai neppure visto la luce. Ma d’altronde lui sapeva bene che sui bambini, per quanto privi di ogni colpa, si ripercuotevano le maledizioni di peccati che non appartenevano loro.

«Beh, non pensavo che la notizia della mia morte potesse importarle così tanto.» Mormorò freddamente, ostentando un’indifferenza che non gli era propria. «Dopotutto, io non credevo di esserle mai importato.»

«Non avrei mai dovuto dirtelo.» Ribattè la donna, trattenendo a stento un singhiozzo. «Ora forse gioirai del dolore di quella creatura, e proprio lei non lo merita…»

«Se mi ritenete capace di una cosa simile, madame, si vede davvero che voi non mi avete mai compreso, né avete cercato di farlo.» Sibilò gelido, dandole le spalle e raggiungendo la finestra. Scostò la tenda per osservare fuori, desiderando per un momento di non essere mai tornato a Parigi. Ma quel desiderio svanì alla stessa velocità con la quale era apparso.

Non avrebbe rinunciato ad ottenere la sua rivincita.

«Comunque, non sono venuto qui per parlare di questo.» Disse alla fine, dopo essere riuscito a riprendere il controllo di sé.

«E di cosa vuoi parlare? Ti ho già detto tutto ciò che riguarda Giulia…» Commentò stancamente Louise, senza neppure voltarsi.

«Lo so. Voglio solo che vi scordiate di farla danzare nel corpo di ballo.»

Madame si voltò, sorpresa e infastidita. «Sono io l’insegnante, Erik. Osi forse contraddire o discutere le mie scelte artistiche? Non è certo questo il tuo campo.»

L’uomo scosse la testa, voltandosi nuovamente per fronteggiarla. «So perfettamente che se le avete detto di far parte del balletto del teatro è perché vi siete accorta che ne è capace, ma io non voglio. Ho ben altri progetti in mente.»

«Ah si?» Louise sollevò scettica un sopracciglio. «Ma se solo qualche giorno fa dicesti di non avere nessun piano, per lei! Cosa ti ha fatto cambiare idea così in fretta?»

«In verità, ricordo di avervi detto che per il momento non avevo nessun piano…» Ribattè con un mezzo sorriso. «Ebbene, ora so cosa fare. E non voglio che voi mi intralciate con le vostre folli iniziative.»

Madame Giry sbuffò, trattenendo a stento la rabbia che solo lui era capace di provocarle. «È folle cercare di proteggerla e volerla avere sempre sotto il mio sguardo?»

Gli occhi di Erik si ridussero a due pericolose fessure. «È folle mettervi contro di me.» Sussurrò.

Louise non potè evitare di rabbrividire, all’improvviso impaurita. Effettivamente Erik aveva ragione, non sarebbe stato molto saggio contrastarlo così apertamente, ma non sapere ciò che lui aveva in mente per la ragazza la innervosiva ancora di più, facendole temere il peggio. Erik poteva essere capace di qualsiasi cosa, e quando era arrabbiato… Madame preferì non rivangare i ricordi di ciò che era già successo.

«Come vuoi tu.» Mormorò alla fine. «Posso almeno chiederti cosa hai intenzione di fare?»

«Certo che potete chiedere.» Rispose, con un breve cenno del capo. «Ma questo non implica che io vi risponda, giusto?»

La donna dovette imporsi un ferreo autocontrollo per impedirsi di alzarsi e schiaffeggiare quell’uomo così insolente. Ma come si permetteva di parlarle in quel modo? Era così… irrispettoso! Sembrava non avere nessuna intenzione di farle dimenticare che lui non si fidava più della sua antica amica…

«Una cosa, però, posso dirvela.» Aggiunse, come ripensandoci. «Domani ci saranno dei provini, a teatro, per il coro. Una ragazza si è ritirata a causa di una gravidanza, e c’è bisogno di qualcuno che la sostituisca. Tra l’altro, si tratta della solista.»

Madame sgranò gli occhi, stupita, alzandosi in piedi. «E tu vorresti proporre una completa sconosciuta al ruolo di solista? Sai quante ragazze del coro aspirano a quel titolo? Si scatenerebbe un putiferio!»

Erik fece un cenno paziente con la mano. «Ovviamente, madame, se la fanciulla non ne fosse in grado, il ruolo di solista passerebbe a qualche altra migliore corista. Cosa di cui dubito fortemente, ma ad ogni modo non possiamo farne a meno. Tuttavia,» aggiunse, risoluto. «Se lei si dimostra essere all’altezza del ruolo, le altre dovranno semplicemente tacere. E su questo non tollererò discussioni. Non voglio tornare a tormentare da fantasma delle ragazzine viziate che non sanno stare al loro posto… Lo trovo davvero degradante.»

Louise sospirò, scuotendo piano la testa. Era impossibile discutere con lui, dato che passava alle minacce quando non riusciva ad avere ragione a rigor di logica.

«Va bene.» Replicò madame, semplicemente. «Vorrà dire che domani accompagnerò Giulia alle audizioni, invece che portarla alle prove di ballo… Ho solo una cosa da chiederti, Erik.»

«Se è una cosa a cui mi è possibile rispondere, molto volentieri. Prego.» Sembrava divertirsi nel prendersi gioco delle persone, ma d’altra parte questa era sempre stata una sua peculiarità.

«Ho già detto a tutti che Giulia è venuta da Boston per studiare danza al teatro… Come posso giustificare il fatto che ora farà l’audizione per entrare nel coro?»

L’uomo ci pensò una manciata di secondi, poi scrollò elegantemente le spalle. «Potete dire che a Boston faceva parte del coro, e che il voler studiare danza derivava da un capriccio della madre… Dite quello che volete, madame, non ha importanza. Visto che lei non ricorda nulla e che voi potete costruirle il passato che più vi aggrada, ebbene, lasciate andare la vostra fantasia.»

«Beh, tanto non ha importanza che le ballerine sappiano più del necessario. Qualsiasi cosa io dica il giorno dopo sarebbe già di dominio pubblico, quindi… Cercherò di limitare le notizie allo stretto indispensabile.» Borbottò lei, giocherellando con le frange del suo scialle di lana.

«Perfetto.» Replicò lui, riprendendo il suo mantello e gettandoselo sulle spalle. «Ora tornerò al teatro, forse riuscirò ad arrivare prima che l’opera finisca.»

«Non pensavo ti interessasse incontrare l’alta società parigina…» Riflettè madame ad alta voce.

Erik scosse la testa, dirigendosi verso la porta. «In realtà è proprio per evitarla che voglio rientrare prima. Ma dopotutto i miei passaggi segreti sono ancora intatti, e non mi sarà difficile usarli.»

Louise aggrottò le sopracciglia. «Davvero? Ero sicura che dopo l’incendio li avessero murati quasi tutti!»

«Madame, avevano murato solo quello del terzo sottopalco, che peraltro non mi è mai servito un granchè. E ad ogni modo buttare giù i muri non si è mai rivelato un grosso problema, per me.» Replicò con una invidiabile disinvoltura.

«Non so se esserne contenta o spaventata…» Mormorò lei.

Per la prima volta dopo chissà quanto tempo, madame sentì Erik ridacchiare, come se fosse davvero divertito. «Presumibilmente la seconda, Louise!»

Poi, come se si fosse accorto di essersi lasciato troppo andare, tornò subito serio. «Ora è davvero il caso che vada. Buona notte, madame Giry. A domani.»

Il tono di quell’ultima parola era ovvio per chi, come Louise, sapeva leggere tra le righe. Vedete di non deludermi e obbedirmi, era il chiaro senso.

Beh, lei non l’avrebbe fatto. Decise che, forse, per salvare quella povera ragazza l’unico modo era di acconsentire ai desideri di Erik e di essere il più possibile condiscendenti con lui. Prima o poi avrebbe abbandonato le sue voglie di vendetta, o almeno così sperava…

Purtroppo, sapeva anche lei quanto Erik fosse capace di covare a lungo l’odio dentro di sé. L’aveva provato troppe volte sulla sua pelle, e forse era arrivato il momento che tutto ciò finisse. Per sempre.

Chissà se Giulia sarebbe riuscita a placare la sua ira…











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Capitolo 7
*** 06. In dreams he came ***


AA - Angolo Autrice:
Ehilà! Passo subito a ringraziare la mia cara e fedele recensitrice ^^ Ovviamente ringrazio anche tutti i lettori che rimangono avvolti nel mistero! Grazie a tutti! :)

Per Yunie992: Wao, grazie per i complimenti! Sono arrossita >///< Rendere Erik è stato un parto, non so mai come descriverlo 'sto pover'uomo xD Quanto a madame Giry, mi sembrava un pò OOC, a dir la verità! Comunque sono contenta che ti piaccia ;)
Bene, vi lascio al nuovo capitolo... A presto!
Un bacio =*










Chapitre 6

In dreams he came



















Candele…

Migliaia, centinaia di candele, tutte intorno a lei.

Giulia si guardò intorno, confusa, non capendo il perché si trovasse in quello strano luogo a lei del tutto estraneo. Lei sapeva, oh, ne era certa come l’Inferno, di non esserci mai stata prima, di non aver mai visto quei tetri sotterranei, eppure una parola le venne alla mente, dapprima debole e indefinita, poi sempre con maggior certezza… Dimora sul lago… Cosa poteva mai significare?

Si avvicinò lentamente all’organo che occupava tutta un’intera parete, domandandosi cosa mai ci potesse fare un oggetto talmente pregiato in quella che sembrava un’enorme cella sotterranea. Poteva avvertire il freddo umido avvinghiarsi alle braccia lasciate impudicamente nude da un abito che non riconobbe come il proprio, e rabbrividì, deglutendo.

Cercò di distrarsi, facendo scorrere lentamente le dita sui tasti d’avorio del prezioso strumento, senza però premerli, come se temesse le note che ne sarebbero potute sgorgare. Poi la sua attenzione venne catturata da uno strano lucicchio, e la curiosità vinse l’accenno di paura che aveva iniziato a sorgerle in petto. Su un tavolo ricoperto di varie scartoffie c’era una scatola, forse un portagioie, all’interno della quale erano conservati infiniti pendenti di vetro dalla superficie sfaccettata, e inevitabilmente sorrise, prendendone uno tra le mani e facendolo brillare alla luce delle candele. Oh si, ora ricordava di quando, da bambine, lei e la cara Meg giocavano nella platea del teatro, intrecciandosi tra i capelli i cristalli staccatisi dal lampadario quando gli operai lo abbassavano per cambiare le candele, e fingendo così di essere esotiche principesse in età da marito…

Ma, un momento…! Come poteva rammentare simili episodi? Madame Giry non le aveva forse detto che ci sarebbe voluto parecchio tempo prima che potesse recuperare appieno la memoria? Di certo una guarigione simile non poteva avvenire dopo appena qualche giorno che aveva ripreso conoscenza! E lei d’altronde avrebbe giurato di non aver mai trascorso l’infanzia a teatro, le era sembrato tutto troppo nuovo quando vi aveva messo piede per la prima volta, solo il giorno precedente; e men che meno avrebbe detto di aver conosciuto Meg prima di allora, anche perché se così fosse stato, la giovane Giry e sua madre l’avrebbero di certo riconosciuta… Oh, non era più sicura di niente, ormai…

Improvvisamente, come uscite dal nulla, un paio di braccia visibilmente maschili la afferrarono dolcemente da dietro e le si chiusero in vita, stringendola come se temessero di poterle fare del male, e obbligandola docilmente ad abbandonare quel suo puerile passatempo per dedicare più attenzione allo sconosciuto.

Giulia rimase rigidamente immobile mentre sentiva le mani dell’uomo percorrere pigramente la linea dei suoi fianchi, in varie carezze morbide seppur lascive, con un’intrepida sicurezza che le fece capire come egli fosse consapevole del suo fascino e non disdegnasse di usarlo per sedurla. La sua pelle scottava nei punti che lui aveva solo sfiorato, così impudemente, le braccia nude, l’incavo del gomito, e poi le spalle e la dolce incurvatura del collo… E poi le sue labbra presero il posto delle mani, leggere come le ali di una farfalla, per poi andare a posarsi dolcemente sotto l’orecchio, baciandola…

Malgrado avesse sentito un delizioso brivido di piacere scorrerle lungo la schiena, ella dovette costringersi ad impedire che quella dolce tortura continuasse, e si voltò, con studiata lentezza, per svelare finalmente il mistero dell’identità del suo “aguzzino”.

La prima cosa che notò del suo volto fu una stravagante maschera bianca che gli celava la parte destra del viso, che tuttavia non poteva nascondere la splendida profondità dei suoi bellissimi occhi verdi che scintillavano nell’oscurità con una tenera malizia che riuscì a farla arrossire.

La ragazza avrebbe tanto desiderato domandargli chi fosse, e perché mai si stesse prendendo tutte quelle libertà con lei dato che – Giulia avrebbe messo la mano sul fuoco – non l’aveva mai visto prima, ma quando dischiuse le labbra per dar voce ai suoi pensieri, quasi stentò a riconoscere la sua stessa voce, e lo stesso pensò di quelle parole che non comprese.

«Smettila, Erik, mio angelo…» Sussurrò, pazientemente. «Adesso non esagerare.»

L’uomo mascherato si inchinò, mormorando le proprie scuse da perfetto gentiluomo, e allora fu Giulia a sorridere e a rifugiarsi con un certo desiderio tra le sue braccia.

Egli chinò il capo tra i suoi capelli e lei sentì la sua voce, o almeno credette di sentirla, morbida come il velluto, bisbigliarle un dolce invito all’orecchio. «Vieni, ma chère… Devo mostrarti una cosa.»

Giulia non potè fare a meno di seguirlo, fiduciosa e senza riuscire a staccargli gli occhi di dosso malgrado fosse estremamente curiosa di sapere chi egli fosse in realtà. Non si accorse perciò che lui l’aveva trascinata di fronte ad uno specchio, un immenso vetro circondato da una cornice dorata che prima lei non aveva notato. Fu solo per compiacerlo che si voltò ad osservare il prezioso oggetto, anche se lo fece con una certa riluttanza; si sarebbe voluta perdere nelle profondità di quello sguardo per sempre…

Ma fissando la fredda e liscia superficie dello specchio non potè fare a meno di accorgersi che c’era qualcosa, nel suo riflesso, che non combaciava. I ricci e soffici boccoli dorati che le ricadevano morbidi e vaporosi sulle spalle, gli occhi di un azzurro quasi glaciale spalancati dallo stupore, la scollata camicia da notte in pizzo che lasciava ben poco all’immaginazione…

E la voce di Erik che le sussurrava, dolcemente…

«Sei bellissima… Christine…»

«Ah!»

Giulia si svegliò di soprassalto, ansimante, sollevandosi a sedere e passandosi una mano scossa dai tremiti sulla fronte, imperlata da piccole goccioline di sudore malgrado la fredda temperatura. Si guardò spaventata intorno, stupendosi quasi di trovarsi a casa di madame Giry, nell’ormai sua camera da letto. Era stato solo un sogno. Vivido, ma pur sempre frutto della sua immaginazione…

Si sforzò di diminuire l’accelerato battito del suo cuore e respirare piano, e così facendo i ricordi del sogno le tornarono chiari in mente, come se li avesse appena vissuti. Non aveva mai visto prima quell’uomo: se ne sarebbe sicuramente rammentata, dato la curiosa eccentricità di quella maschera bianca. E che dire dei sotterranei adibiti ad abitazione, con infinite candele a rischiarare un’altrimenti cupa atmosfera? E poi, non riusciva a comprendere chi fosse la ragazza del sogno… Si, lei aveva visto attraverso i suoi occhi, ma Giulia aveva lunghi capelli castani, con qualche striatura bionda, certo, ma non al pari dei boccoli dorati della protagonista di quell’illusione notturna. Eppure la somiglianza tra loro era quasi spaventosa! Era forse possibile che stesse già iniziando a rammentare spezzoni del suo passato? Perché in effetti aveva la leggera sensazione di aver vissuto simili momenti, anche se non riusciva a ricordarsi dell’uomo. Forse era ancora troppo presto per quello.

E poi, egli l’aveva chiamata Christine! Giulia non conosceva nessuno con quel nome, e a questo proposito, non conosceva neppure un uomo che si chiamasse Erik! Anche se, accidenti, se sussurrava quel nome ad alta voce aveva l’impressione che nella sua memoria scattasse qualcosa…

Ah, solo pazzie. Forse più tardi ne avrebbe parlato con Meg o con madame Giry, era probabile che quei due nomi potessero suonare loro familiari anche se per lei non avevano ancora alcun significato. E come se non bastasse, non aveva più nessuna voglia di dormire. Si alzò, infilando una vestaglia che le arrivava fino ai piedi e addirittura le scivolava dietro le spalle come uno strascico, e si avvicinò alla finestra, scostando la tenda per vedere se fosse ancora notte. Era l’alba, invece; il cielo ancora cupo stava iniziando a tingersi di rosa e violetto, e all’orizzonte sembravano non esserci i soliti nuvoloni carichi di pioggia. Dopotutto sarebbe stata una bella giornata, sperava solo che lo fosse anche per lei.

Non trascorse molto tempo prima che un leggero bussare alla porta la distolse dai suoi ingarbubliati pensieri. Dall’uscio apparve Meg, i capelli raccolti in una crocchia nascosta da una cuffietta da notte, con un’aria ancora parecchio assonnata sul viso. Socchiuse gli occhi, leggermente infastidita dalla luce che entrava dalla finestra, e dopo aver soffocato uno sbadiglio la salutò.

«Buongiorno, Giulia… Già sveglia?» Mormorò, con la voce ancora impastata di sonno.

Giulia sorrise. «Colpa di un brutto sogno.» Spiegò. Sperò che la giovane Giry non si scandalizzasse nel vederla priva di cuffietta da notte e a piedi nudi, ma aveva una sorta di certezza per quanto riguardava il fatto di non essersi mai abbigliata tanto per andare a dormire. Probabilmente anche la notte prima sarebbe andata a letto senza indossare la camicia da notte, ma effettivamente il freddo era davvero troppo, malgrado la pentola ripiena di braci che Agnese le aveva infilato sotto il materasso.

Meg brontolò qualcosa e fece per entrare nella stanza dell’amica, ma una voce severa proveniente dal corridoio glielo impedì.

«Marguerite Giry! Corri a fare colazione, invece da perdere tempo in chiacchiere! Non voglio arrivare in ritardo a teatro a causa della tua pigrizia.»

La ragazza roteò gli occhi e sospirò, rassegnata. «Si, maman…» Poi si rivolse a Giulia. «Vieni?»

«Arrivo subito.» Rispose l’altra ridacchiando, avvolgendosi in un pesante scialle di lana e infilandosi un paio di soffici pantofole.

Vestirsi fu senza dubbio più semplice rispetto al giorno prima, ma ancora Giulia non riuscita a trovare un accordo con il corsetto che era obbligata ad indossare. Questa volta fu Meg ad aiutarla a stringerlo, ma visto che l’abito era composto da una gonna e da una giacca separate l’una dall’altra, riuscì a prepararsi anche da sola. Madame Giry, come sempre, sorvolò sulla reale provenienza di quegli abiti.

Fu solo una volta giunte al teatro che la rigida insegnante di danza le mise al corrente del piccolo cambio di programma.

«Prima di gettarti nella danza, mia cara, vorrei che provassi il canto.» Esordì in modo piuttosto diretto, senza quasi osar guardare la figlia negli occhi.

Giulia aggrottò le sopracciglia, confusa. «Ma come, madame? Non avevate detto che…?»

«So perfettamente cos’ho detto!» Ribattè bruscamente. Subito dopo aver pronunciato quelle parole desiderò mordersi la lingua, e sospirò, pentita. «Perdonami, cara… Il punto è che la danza è molto più complicata e difficile del canto, che si può studiare a qualsiasi età. Non nego che tu potresti essere davvero una splendida ballerina, credimi se te lo dico… Ma dato che non conosciamo la tua famiglia, e non sappiamo se ne sarebbero d’accordo, allora è meglio non rischiare… Quello di cui abbiamo bisogno per te è solo una momentanea occupazione in teatro mentre aspettiamo che tu guarisca del tutto, e il canto è perfetto.»

La ragazza annuì, in realtà molto più sollevata; l’idea di dover prendere lezioni insieme a delle ragazze che sembravano odiarla ancor prima di conoscerla non l’aveva allettata particolarmente, il giorno prima. Meg tuttavia prese la parola prima che Giulia potesse mormorare il suo assenso.

«È per questo che siamo venute a teatro con così tanto anticipo?» Domandò, scrutando la madre con attenzione. Non era una sprovveduta, sapeva quando la donna le stava nascondendo qualcosa proprio perché cercava in tutti i modi di non incrociare il suo sguardo. Ma non poteva più trattarla come una bambina.

«In realtà siamo quasi in ritardo, mie care.» Replicò, osservando l’orologio che batteva le ore dall’alto della scalinata in marmo. «Le audizioni per il coro iniziano tra cinque minuti.»

Meg decise di non insistere, non in quel momento. Ci sarebbe stata l’occasione di discutere di quello con la madre, quando fossero rimaste sole. Giulia non aveva bisogno di sentire che un pazzo stava cercando di prendere le redini della sua vita come aveva già fatto in passato con Christine, e come aveva intenzione di fare nuovamente con tutti loro.

«Potremmo assistere, maman?» Domandò pertanto, cambiando discorso.

La madre ci pensò per una manciata di secondi, ma alla fine giunse alla conclusione che, se avesse assistito all’audizione di Giulia, probabilmente avrebbe anche potuto vedere Erik, nel suo palco. Oh, se lo augurava vivamente. «Va bene. Non penso ci siano problemi.»

Giulia rispose con un trepido sorriso all’amica, mentre in realtà si stava già agitando. Un’audizione… Perché il solo pensiero la stava mettendo in ansia? Aveva forse paura? Oh, che sciocchezza… Paura di cosa, poi? Decisamente era troppo influenzabile da ciò che sognava.

Fortunatamente, la platea non era colma di gente come le tre donne si erano aspettate. Il brusio era rumoroso ma derivava per lo più da un gruppetto esiguo di ragazze sedute in terza fila che chiacchieravano tra loro, probabilmente le altre aspiranti al ruolo di solista. Maestro Reyer dava le spalle al pubblico mentre controllava gli spariti che gli erano stati portati quella mattina dal segretario del mecenate dell’Opera, che a quanto pareva desiderava che le ragazze esordissero con dei brani per niente semplici.

«Come se non fosse già abbastanza difficile per delle bambine esibirsi in questo tempio della musica…» Brontolò tra sé, prima di parlare con il primo violino e mostrargli ciò che doveva suonare.

Il resto dell’orchestra stava concludendo di accordare i propri strumenti, mentre alcune donne di servizio spolveravano i sedili della platea e il tappeto rosso che ricopriva il pavimento.

Madame Giry salutò il direttore e si accomodò in seconda fila, in modo da avere un’invidiabile visuale di ciò che accadeva sul palco e, perché no, anche sopra di esso. Non erano molto lontani i tempi in cui scivolavano lettere sigillate dall’alto che lei doveva occuparsi di consegnare ai direttori del teatro…

Meg e Giulia si sedettero accanto a lei, guardandosi intorno. Le lampade a gas erano accese e in questo modo poterono dedicarsi allo studio di quell’insolita platea. Per la giovane Giry non si trattava di un ambiente estraneo e alieno, e perciò lo osservava con una strana ansia mista a nostalgia; dalla notte del crollo del lampadario le faceva sempre una strana impressione rimanere seduta sotto di esso.

Giulia, invece, ammirava il tutto con occhi avidi di nutrirsi del più piccolo particolare. Certo, ci era già stata il giorno prima con monsieur Bamdad, ma l’opulenza della sola platea la colpiva sempre e insieme la affascinava, portandola a domandarsi come mai non si sentisse quasi soffocare dalla pesante maestosità degli arredi che sembravano oro e sangue mischiati in un unico elemento. Immaginò come doveva essere trovarsi lì per assistere ad un’opera, o anche solo ad un balletto, e all’improvviso questo desiderio venne immediatamente sopraffatto dalla brama di trovarsi sul palcoscenico e cantare direttamente ai cuori del pubblico, provocandone lacrime e applausi. Ah, stava correndo troppo… Neppure sapeva se avrebbe superato l’audizione, quindi era meglio non illudersi.

Finalmente maestro Reyer attirò su di sé l’attenzione dell’orchestra, che era ormai pronta a suonare. Si voltò poi verso il pubblico, dirigendo lo sguardo sulle ragazzine che non avevano cessato un attimo di spettegolare tra di loro.

«Chi tra voi mesdemoiselles è la prima?» Domandò gentilmente.

Una ragazza con lunghi capelli corvini si alzò, spavalda, aggiustandosi l’abito blu notte e sorridendo con una strana arroganza in direzione dell’anziano direttore. «Io, monsieur!»

Egli le fece cenno di salire sul palco, mentre le porgeva un mazzo di fogli. «Bene, bene. Prego allora, mademoiselle, ecco a voi lo spartito…»

La ragazza scorse con lo sguardo la prima riga, sgranando impercettibilmente gli occhi. La Regina della Notte, di Amadeus Mozart… Bene, volevano metterla in difficoltà? Avrebbero trovato pane per i loro denti. Per nulla scoraggiata si portò al centro del palcoscenico, schiarendosi la voce. Dopodichè fece cenno a maestro Reyer di iniziare.

Indubbiamente la voce della giovane era molto bella, benchè forse inadatta a quel genere di ruolo. Era chiara ma sembrava che stesse forzandola troppo per raggiungere note che le erano altrimenti precluse, anche se era probabile che con uno studio più approfondito avrebbe raggiunto buoni livelli.

Quando terminò di cantare, madame Giry suggerì sottovoce a Giulia di lasciare che fossero le altre ad andare prima di lei, in modo che potesse imparare un po’ la musica e non cantasse note sconosciute. Oh, la ragazza non pensava che le fossero sconsociute, anzi, aveva l’impressione di conoscerle da sempre! Ma decise lo stesso di seguire il consiglio della donna.

Le altre tre aspiranti al ruolo non potevano proprio pensare di poter competere con mademoiselle de Vries, questo il nome della giovane dai capelli corvini, ma maestro Reyer lasciò che concludessero la loro audizione per non metterle a disagio. Non potè trattenere un sospiro di sollievo, tuttavia, quando l’ultima di loro cessò di torturargli le orecchie con i suoi tremendi acuti.

Si voltò per l’ennesima volta verso la platea e domandò se vi fossero altre candidate al ruolo. A quel punto Giulia si alzò, leggermente imbarazzata, in modo che l’uomo la vedesse. «Si monsieur… Ci sono ancora io.» Disse, con un timido sorriso.

Maestro Reyer le sorrise incoraggiante e la invitò a raggiungerlo, in modo che potesse prendere anche lei gli spartiti della musica di Mozart. La aiutò a salire sul palco e tornò al suo posto, di nuovo pronto a suonare. Giulia annuì e la musica iniziò, e quando il direttore le diede l’attacco, lei dischiuse le labbra e cantò, senza neppure degnare di un’occhiata il libretto.

Madame Giry sgranò gli occhi e si raddrizzò sulla poltroncina, e così pure fece Meg. Come poteva esssere capace di cantare in quel modo, una ragazza che sembrava non essere mai neppure entrata in un teatro? Cosa poteva mai celare il suo passato, se scoprivano ogni giorno cose nuove su di lei? Louise sperò con tutta se stessa che Erik non fosse presente in quel momento, perché se l’avesse sentita non ci sarebbe stato nessuno scampo per la giovane. Eppure la donna sapeva perfettamente che si trattava di una speranza vana: sarebbe stato come augurarsi che il sole non sorgesse, una cosa sciocca quanto inutile. Egli doveva sicuramente trovarsi nei paraggi, se anche non era nel suo palco era molto probabile che stesse osservando l’intera audizione da uno dei suoi soliti nascondigli. Madame si domandò perché continuasse a nascondersi malgrado ora godesse della protezione del suo nuovo nome e titolo di mecenate, ma la sua questione era destinata per il momento a restare senza risposta. Era altro quello che importava, ora. Come ad esempio cosa sarebbe capitato a Giulia ora che – senza alcun dubbio – sarebbe entrata nel coro del teatro.

Erik aveva forse intenzione di farle da maestro?

Oh, non un’altra volta...

Quando l’aria cessò, Giulia rivolse istintivamente lo sguardo verso madame Giry, come a chiederle un parere su come avesse cantato. Non comprese la sua espressione che ondeggiava dalla preoccupazione al terrore, e così guardò Meg, che al contrario la guardava sorridente e stava cercando di trattenersi dal battere le mani come una bambina.

«Davvero un’ottima esibizione, mademoiselle Sanders.» Si complimentò con lei maestro Reyer, dopo averle domandato il suo nome. Era sinceramente sorpreso di aver trovato una così valida sostituta al ruolo di solista, anche se ne avrebbe dovuto comunque discutere con monsieur Destler o con il suo segretario, visto che anche mademoiselle de Vries avrebbe potuto aspirare a quel lavoro. «Prego, accomodatevi con mademoiselle de Vries… Non dovrete attendere molto prima di conoscere il nome della nuova solista.»

Giulia fece un breve ed educato inchino col capo, prima di scendere dal palcoscenico e raggiungere Meg e madame Giry che la attendevano, già in piedi. Accanto a loro, curiosamente, si trovava monsieur Bamdad, i cui occhi luccicavano di interesse mentre la osservava.

«Permettetemi di congratularmi con voi, mademoiselle Sanders.» Esordì, con un piccolo inchino. «Avete numerose doti nascoste, dunque.»

La ragazza sorrise, benchè avesse notato con la coda dell’occhio l’espressione irritata di madame Giry; aveva reagito così anche il giorno prima alla presenza del persiano, ma Giulia non ne comprendeva la ragione. Perché madame sembrava non sopportare quell’uomo così beneducato?

«Probabilmente sarebbero rimaste nascoste, se madame… se mia zia non mi avesse incoraggiato a partecipare all’audizione di oggi.» Replicò lei, correggendosi in tempo dopo essersi ricordata che la storia della nipote americana non era ancora stata eliminata. «Comunque anche mademoiselle de Vries è molto brava, credo meriti il ruolo di solista più di me…»

Bamdad lanciò uno sguardo alla giovane cantante che aveva esordito per prima, e che ora batteva innervosita il piede per terra senza degnare di uno sguardo le sue amiche che al contrario si lagnavano per come avevano cantato. Si trattenne dallo scuotere il capo, spazientito, alla vista di quel comportamento così infantile.

«A tal proposito, devo appunto andare a parlarne con maestro Reyer… Vogliate perdonarmi, signore, mi ci vorrà poco.» Annunciò, sfiorandosi il cappello e raggiungendo il direttore d’orchestra che sembrava aspettarlo impaziente.

«Bene… Ce ne andiamo?» Domandò subito madame Giry, guardandosi intorno con un accenno di nervosismo.

«Ma maman! Dobbiamo sentire chi ha avuto la parte!» Ribattè Meg, sollevando un sopracciglio. Perchè sua madre si stava comportando in quel modo così strano? Decisamente non era da lei.

«Ah, già…» Sbuffò la donna, riportando lo sguardo su un punto indefinito del palco. Prima se ne andava dalla platea meglio sarebbe stato per i suoi nervi… Incrociò le braccia per resistere alla voglia di tormentarsi le dita delle mani com’era suo solito.

Come aveva detto monsieur Bamdad, non dovettero attendere molto. Dopo una manciata di minuti, durante i quali il persiano e maestro Reyer avevano discusso a bassa voce tra di loro, il segretario di monsieur Destler si voltò verso le tre donne che attendevano di sapere il risultato, e fece loro cenno di avvicinarsi. Chiamò anche mademoiselle de Vries, benchè con meno entusiasmo.

Una volta che gli furono accanto, fu il maestro Reyer a prendere la parola.

«Monsieur Bamdad mi ha informato della decisione presa poco fa dal nostro direttore artistico, nonché mecenate del teatro, monsieur Destler.» Disse, spostando lo sguardo dalle due ragazze a madame Giry e vicecersa. La donna temette che l’uomo avesse compreso la vera identità del loro mecenate, e pertanto si sforzò maggiormente di non lasciar trapelare nulla dalla sua espressione, che rimase severa e inalterata.

«Il ruolo di solista è stato affidato a mademoiselle Sanders, che possiede già una profonda istruzione musicale.» Annunciò, con un mezzo sorriso. Poi si voltò verso l’altra ragazza. «Mi dispiace, mademoiselle de Vries, ma noi abbiamo bisogno di una sostituta che possa cantare anche stasera stessa, nel caso, e non possiamo attendere che prendiate ulteriori lezioni per essere all’altezza del ruolo. Ad ogni modo vi faccio i miei complimenti perché siete stata ugualmente eccelsa.»

La ragazza non commentò, limitandosi a stringere furiosa gli occhi. Lanciò uno sguardo irato e cattivo a Giulia, che sgranò impercettibilmente gli occhi dalla sorpresa per quella reazione esagerata, dopodichè voltò le spalle a tutti e si diresse verso l’uscita, senza attendere le amiche che arrancavano frettolose dietro di lei.

«Davvero un comportamento infantile.» Commentò seccamente madame Giry.

Ma gli altri non ci fecero caso, occupandosi piuttosto di complimentarsi con la giovane Sanders e domandarle quando potesse già iniziare a cantare. Meg, dal canto suo, aveva tenuto sotto controllo la madre e si era accorta che, mentre gli altri erano distratti, Louise aveva rivolto il suo sguardo verso il palco numero 5, come se si aspettasse di vedere apparire qualcuno da un momento all’altro. Subito, comprese il reale motivo del nervosismo della donna, e si irrigidì.

Non poteva essere vero.

Oh, Dio, pregò tra sé silenziosamente. Fa che non accada di nuovo.











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Capitolo 8
*** 07. Uno sconosciuto ***


Eccomi di nuovo qui ad aggiornare ^^

AA - Angolo Autrice:

Bene, sperando di non deludere nessuno, ecco a voi il capitolo 7... Fatemi sapere cosa ne pensate! Una recensione è sempre ben accetta =P Inoltre mi aiutano ad andare avanti, dato che mi nutro a cioccolato e recensioni u.u Beh, buona lettura!

Un bacio =*














Chapitre 7

Uno sconosciuto













Per la prima volta dopo chissà quanto tempo, Erik era rimasto senza parole.

Richiuse con cura la piccola finestrella di sbarre d’acciaio che dava sul retro del palcoscenico, dal quale si poteva tranquillamente osservare le quinte senza venire disturbato, e si avviò più silenzioso di un’ombra verso il suo ufficio.

Non sapeva davvero che cosa pensare. Era dai tempi della sua vecchia allieva che non assisteva ad una simile audizione, con la differenza però che questa volta il merito di una simile bravura non era il suo. Come poteva mai essere possibile?

Aveva mandato il suo segretario, Bamdad, a rivelare la sua decisione a monsieur Reyer, ancora prima di assistere all’esibizione della ragazza, dato che aveva deciso in partenza di affidarle quel ruolo; l’audizione era solo una sciocca ma inevitabile formalità. Ma quando l’aveva sentita cantare, era stato come ricevere una pugnalata in pieno petto; Christine era stata altrettanto brava solo in due occasioni, e cioè la sera del suo debutto e la notte dell’incendio, vale a dire al principio e alla fine di quel triste capitolo della loro vita. E oh, quanto aveva dovuto lavorare per modellare la sua voce in modo da far tremare e commuovere i cuori del pubblico! Non era stato per un semplice capriccio infantile che lo aveva soprannominato Angelo della Musica, persino quando aveva scoperto che lui, di angelo, non aveva niente. Se non, forse, la voce…

E poi l’arrivo di quel Visconte, il suo fidanzatino d’infanzia, aveva rovinato tutto. Tutto. Ogni cosa che Erik aveva sfiorato e aiutato a crescere e maturare, quello sciocco damerino l’aveva ridotta in cenere. Come il suo teatro. Christine ormai non faceva più parte della sua vita, questo ormai l’aveva già appurato e deciso da tempo; ma rinunciare alla sua vendetta, oh, sarebbe stato impensabile.

Ed ecco che era comparsa quella giovane, come un dono insperato mandato da quello stesso Dio che l’aveva maledetto sin da quando era ancora nel grembo materno, imponendogli quel viso disgustoso che l’avevano fatto odiare dagli altri e che, soprattutto, gli avevano fatto odiare se stesso. Si domandò non senza un certo sarcasmo se Dio si fosse in qualche modo pentito di essersi accanito così tanto su di lui, e se si fosse talmente spaventato del suo animo più cupo dell’Inferno stesso da mandargli quella ragazza per aiutarlo a compiere la sua vendetta. Forse voleva ammansirlo di modo che, una volta morto, Erik avrebbe potuto riposare in pace?

Ah! Non esisteva pace per Erik, né in questa vità né tantomeno nell’altra!

E poi c’era madame Giry… Che cosa stava pensando di fare quella donna? Non le era bastato forse l’ammonimento della notte prima? Aveva notato come si stava guardando innervosita intorno, come se sentisse il suo sguardo sulla pelle e temesse chissà quale catastrofe. Ad ogni modo Erik non le aveva dedicato più attenzione del necessario, preoccupandosi piuttosto di osservare la giovane mademoiselle Sanders che cantava con tutta l’anima sul palcoscenico nel quale egli non saliva dalla notte del Don Juan Triumphant. Non che gli dispiacesse: aveva sempre preferito cantare per se stesso o, al limite, per la giovane Christine, e se non fosse stato per lei probabilmente non si sarebbe mai esibito in pubblico, come invece era stato costretto a fare. Preferiva di gran lunga assistere alle opere dal suo palco, piuttosto che partecipare ad una di esse in prima persona. Anche perché avrebbe significato uscire allo scoperto, abbandonare la tiepida sicurezza del suo anonimato per rischiare che il pubblico si domandasse con perfida curiosità cosa si celasse sotto la sua maschera…

No, era una cosa che non avrebbe mai permesso. Mai nessuno aveva più osato cercare di scoprire il suo segreto, dopo Christine, ed era giusto che continuasse ad essere così.

Finalmente raggiunse il suo studio e, certo che non l’avesse visto nessuno, vi entrò veloce sentendosi improvvisamente e pazzamente al sicuro. In realtà era una semplice stanza che gli serviva per avere una sorta di base al teatro, dato che non avrebbe potuto usufruire della sua amata Dimora sul Lago ancora per qualche tempo, e per riunirsi con il suo segretario. Dopottutto anche lui possedeva, ora, un’immensa villa nella campagna parigina, ed era con piacere che vi ritornava la notte. Amava poter finalmente chiamare casa un altro luogo che non fosse il teatro, gli dava la sensazione di essere… libero.

Oh, l’Opèra sarebbe rimasta eternamente la sua vera casa, il suo regno, il suo tempio… Ma aveva sempre assaporato con brama l’idea di poter vivere come un normale essere umano, alla luce del sole, senza più nascondersi nell’ombra. Per fortuna le sue ricchezze erano talmente tante – aveva trascorso la maggior parte della sua vita ad accumularle, senza mai riuscire a spendere un solo franco a causa dell’esistenza che conduceva – che gli avrebbero consentito di avere una vita normale ed agiata. Poco importava che fosse solo anche in questo, ormai la solitudine era divenuta la sua unica e vera compagna, insieme alla musica.

E comunque, non aveva bisogno di nessun tipo di compagnia. La sua villa era immensa, si, ma gli offriva numerosi passatempi: il terreno era così ampio che avrebbe potuto trascorrervi un’intera giornata a cavallo senza riuscire a vederlo tutto, e i suoi servitori non osavano disturbarlo quando egli si godeva la dolcezza dei raggi del sole sulla sua pelle, un dono che gli era sempre stato negato.

Ma che cos’erano tutti quei sentimentalismi di buon mattino? Con uno sbuffo innervosito si ricompose, andando a sedersi dietro la sua scrivania per leggere la posta che Bamdad gli aveva fatto recapitare come da lui richiesto. Come ogni mattina, non vi era nessuna nota importante: da quando era riuscito a far risorgere dalle sue ceneri l’Opèra Populaire, dai teatri di mezza Europa gli arrivavano richieste di tournée talmente allettanti che, se fossero arrivate agli occhi di monsieur Andrè e Firmin, sicuramente sarebbero state accettate senza pensarci due volte. Ma grazie al Cielo – sempre se questo potesse davvero essere ringraziato – Erik aveva vissuto abbastanza tempo in quell’ambiente da sapere che non conveniva cedere in fretta a questo genere di richieste. La Scala di Milano richiedeva la presenza del balletto di madame Giry per inaugurare la prossima stagione lirica, e il Her Majesty di Londra desiderava che il coro partecipasse alla rappresentazione messa in scena per l’anniversario dell’ascesa al trono della Regina. Tutte sciocchezze… Se i valenti artisti dell’Opèra si sarebbero fatti desiderare, i teatri del mondo intero avrebbero ambito alla loro presenza anche per pochi minuti.

E poi non avrebbe sopportato di mandare lontano da lui l’arma della sua vendetta.

Posò le varie lettere sulla scrivania, giungendo le dita davanti al viso e osservando il fuoco che ardeva nel camino. Se qualcuno fosse entrato in quel momento, non avrebbe potuto fare a meno di tremare alla vista della sua espressione. Le fiamme che si riflettevano nei suoi occhi avrebbero fatto tremare il diavolo in persona, così come il sorriso gelido che gli dipinse le labbra.

Due giorni dopo era già domenica.

Madame Giry non era mai stata una fervente cattolica, o almeno, non lo era quanto le rigide regole della buona educazione e dell’apparenza imponessero. Aveva cessato di credere in Dio quando Egli le aveva portato via l’unico amore della sua vita, lasciandola una povera vedova in un mondo che non era stato fatto per le donne sole. Per non parlare poi di quando aveva trovato quel povero ragazzo col volto sfigurato che cercava rifugio nelle celle sotterranee del teatro, abbigliato come un sultano indiano ma con un’espressione talmente disperata da farle credere che il giovane fosse semplicemente stanco di vivere. Se davvero fosse esistito quel Dio buono e giusto che i sacerdoti continuavano imperterriti ad adorare, allora certe cose non sarebbero dovute accadere.

Ad ogni modo, andare alla messa della domenica mattina era stata da sempre una di quelle tradizioni inculcate dalla sua famiglia rigidamente cattolica sin dall’infanzia, ed evitare di onorarle sarebbe stato come mancare di rispetto alla memoria dei suoi morti. Dopo essersi svegliate presto come ogni giorno ed essersi preparate, le quattro donne, Agnese compresa, furono pronte per raggiungere la nuova chiesa di Saint Augustin, naturalmente in carrozza. Se c’era una cosa di cui Louise era certa, era che Erik non le avrebbe mai seguite in un luogo simile. Con la tiepida rassicurazione di questo pensiero, madame si avviò alla messa con un po’ più di tranquillità nello spirito.

Una volta che la funzione fu terminata, le quattro donne uscirono sul sagrato della chiesa, fermandosi ad assaporare un raro raggio di sole che si era deciso ad abbandonare il rifugio di una nuvola. Madame era intenta ad osservare la folla come se si stesse accertando che le sue allieve – o almeno buona parte di loro – fossero andate alla messa; era sempre solita ripetere, infatti, che le preghiere, di qualsiasi genere esse fossero, liberavano l’anima e di conseguenza anche il corpo, aiutando ad esprimere questa leggiadria anche nella danza. Ma Louise dovette rassegnarsi all’idea che quelle idee erano forse troppo antiche per le sue ragazze, dato che quasi nessuna di loro era presente.

«Oh, maman, guarda chi sta arrivando!»

La voce squillante di Meg la dissolse dai suoi pensieri, facendola tornare al presente. Aguzzando la vista e schermandosi gli occhi con la mano, madame notò un uomo farsi largo tra la folla e venire loro incontro, e man mano che si avvicinava si rese conto con un crescendo di irritazione che si trattava di monsieur Bamdad. Bene, non era Erik ma il suo tirapiedi… Che fortuna!

«Monsieur Bamdad… Che piacere incontrarvi anche qui.» Si limitò ad esclamare madame Giry con freddezza, senza porgere la mano all’uomo; quello straniero non le faceva una buona impressione, chissà per quale motivo.

Tuttavia egli non sembrò prenderla a male. Sorrise dolcemente a Giulia e salutò entrambe le ragazze con cortesia, non disdegnando di salutare anche l’anziana Agnese, che era chiaramente conquistata dal fascino esotico del ragazzo. Ad ogni modo, Louise avrebbe semplicemente voluto domandargli se era stato il suo padrone a mandarlo a messa per cercarle, ma era ovvio che una cosa del genere non sarebbe mai potuta uscire dalle sue labbra. Perciò finse che la sua presenza le fosse del tutto indifferente.

«Il piacere è mio, madame Giry.» Replicò gentilmente il persiano. «State già rientrando a casa?»

Louise si impegnò a non storcere il naso, infastidita: ma che cosa voleva da loro quel ragazzo? «Io e Agnese dobbiamo preparare il pranzo, quindi si, stiamo già rientrando.»

«Che peccato, con una così bella giornata…» Insinuò monsieur Bamdad, rivolgendo uno sguardo complice alle due ragazze che subito compresero cosa gli passasse per la mente.

«Voi avevate forse altri programmi, monsieur?» Domandò madame, scrutandolo attentamente.

Il giovane scrollò elegantemente le spalle. «Speravo che mademoiselle Sanders e mademoiselle Giry potessero accompagnarmi in una visita della città. Sono sempre talmente sommerso di lavoro da non essere ancora riuscito a godermi questa splendida ville lumière

Madame Giry fece per ribattere in modo tagliente, ma la figlia fu più lesta di lei. «Oh, sarebbe un vero piacere, monsieur!» Esclamò Meg, prendendo sottobraccio l’amica. «Maman, che cosa ne dici?»

Louise fissò tra l’innervosito e il sconvolto la figlia, come se fosse sorpresa che accettasse un simile invito quando anche lei era al corrente del ruolo dell’uomo. Sistemandosi meglio il cappellino nero sul capo, madame fece un piccolo cenno con la mano. «D’accordo, andate pure. Ma vi voglio a casa per pranzo, siamo intesi? Meg… Mi raccomando.»

La giovane Giry annuì, intuendo a cosa la madre si stesse riferendo.

«Allora andiamo, mesdemoiselles?» Chiese il persiano, facendo loro cenno di precederlo. Poi si sfiorò il cappello, accennando un inchino verso le altre due donne. «Madame, è stato un piacere rivederla. Buona giornata.»

Di sicuro Meg non avrebbe mai immaginato che un essere come il Fantasma potesse mai servirsi dei servigi di un giovane così gentile e affabile come monsieur Bamdad. Aveva chiaramente compreso le riserve che sua madre nutriva nei suoi confronti, dato che egli si ritrovava a servire monsieur Destler, ma di certo sarebbe stato poco saggio far intendere a Giulia che era meglio non frequentare simili individui. Dovevano mantendere il segreto, no? E quale modo migliore per farlo se non fingersi totalmente estranee alla verità? Meg temeva per l’incolumità della sua amica: non ne aveva parlato chiaramente con maman, ma ormai era certa che il Fantasma stesse macchinando qualcosa che la riguardasse, solo che lei non poteva permetterlo. Certo, non avrebbe potuto fare molto da sola, ma perlomeno né lui né il suo segretario avrebbero potuto rapirle entrambe in pieno giorno.

Passeggiarono a lungo per le strade di Parigi, che in quella giornata di metà ottobre era avvolta da un caldo raggio di sole, forse l’ultimo della stagione estiva. Monsieur Bamdad era attratto dai pittori di strada che invadevano i marciapiedi con i loro strumenti, dipingendo selvaggiamente en plein air con degli invidiabili tocchetti del pennello che catturavano l’immagine senza nessuno studio approfondito. Erano dei ribelli della pittura, per così dire, e i capannelli di persone che li circondavano erano più che altro curiosi attirati da quel nuovo e sconvolgente modo di intendere l’arte.

Giulia sarebbe rimasta per delle ore a camminare in quei boulevards senza mai stancarsi. Inoltre, sentiva di conoscere Parigi, aveva la sensazione di avervi vissuto a lungo, solo non in quel modo: era come se si trovasse in un altro mondo, lontano anni luce da quello che conosceva. Come poteva spiegarsi quella sensazione? Era impossibile farlo, così decise di semplicemente di smettere di pensarci e godersi quella bella giornata.

Erano arrivati nuovamente nei pressi di Place de l’Opèra e Monsieur Bamdad stava proponendo loro di andare in qualche piccolo caffè a fare colazione, quando accadde qualcosa di inconsueto. Una carrozza nera, con inciso su entrambi i lati un blasone dorato di chissà quale nobile famiglia, si fermò a lato della piazza, incurante degli sguardi che aveva attirato su di sé: evidentemente, nessuno dei presenti riconosceva quello stemma nobiliare.

Il cocchiere scivolò a terra con un salto agile, andando poi ad aprire lo sportello della carrozza e abbassando una scaletta di metallo per permettere all’occupante di scendere senza fatica. Un uomo sbucò dal buio dell’abitacolo, uscendo alla luce e scendendo a terra con fatica. Era molto anziano o molto malato, a giudicare dal suo aspetto, e fu costretto a poggiarsi ad un bastone da passeggio come se fosse stato incapace di reggersi in piedi senza di esso. Una volta a terra, però, raddrizzò la schiena in un impeto di orgoglio e arroganza che mal si adattava con il suo aspetto emaciato, e si mise ad osservare insistentemente la facciata del teatro come a volerla sfidare. L’uomo era abbigliato in modo elegante e ricercato, e malgrado indossasse un cilindro che gli riparava il capo dal sole, si potevano intravedere i capelli ingrigiti e le basette ancora scure che gli davano un’aria crudele che forse non meritava.

Giulia lo vide annuire tra sé, prima che si chinasse a mormorare qualcosa al cocchiere, che a giudicare dalla livrea che indossava doveva essere un suo dipendente.

«Chi è quell’uomo?» Domandò rivolgendosi a Meg, che come lei non aveva perso uno solo dei movimenti di quello straniero. Entrambe sapevano che non era segno di buona educazione fissare in quel modo uno sconosciuto, ma egli aveva praticamente gli occhi di tutta la piazza puntati addosso, e le due ragazze non ci trovarono perciò nulla di male.

Meg scrollò le spalle, incuriosita quanto lei. «È chiaro che sia un nobile, ma non ti so dire chi sia. Non ho mai visto quello stemma prima d’ora, e ti posso assicurare che conosco i blasoni di tutti i nobili che vengono a teatro, a furia di vedere le loro carrozze parcheggiate qui fuori.»

Giulia annuì, con una strana sensazione all’altezza dello stomaco. Si voltò verso il loro accompagnatore, ma quando vide l’espressione di monsieur Bamdad non potè fare a meno che sussultare, spaventata. Il persiano sembrava conoscere quel vecchio, a quanto pareva, o perlomeno non era del tutto sorpreso dal suo arrivo quanto lo erano loro due. Aveva ridotto gli occhi a due fessure per osservarlo meglio da lontano, e a giudicare dal suo sguardo sembrava averlo ricosciuto.

«Conoscete quell’uomo, monsieur Bamdad?» Domandò pertanto la ragazza, con cautela.

L’uomo fissò ancora a lungo l’uomo dall’altra parte della piazza, prima di scuotersi e rivolgersi nuovamente verso di lei. «Perdonatemi, mademoiselle. No, non lo conosco…» Replicò invece, mascherando la sua espressione di poco prima dandole quasi l’impressione di essersela immaginata. «Ha solo un’aria familiare.»

Tuttavia rimasero ad osservarlo fino a quando il vecchio non risalì sulla vettura e se ne andò, sparendo dietro l’angolo, accompagnato solo dal rumore degli zoccoli dei cavalli che pestavano il selciato. Quando di lui non rimase che il ricordo, monsieur Bamdad si rivolse alle ragazze con un’espressione addolorata sul viso.

«Vi devo chiedere perdono, mesdemoiselles, ma si è fatto molto tardi e monsieur Destler mi attende per del lavoro da sbrigare.» Annunciò, gravemente. «Mi rincresce davvero dover interrompere la nostra passeggiata.»

Meg e Giulia sgranarono impercettibilmente gli occhi e si scambiarono uno strano sguardo, preoccupate: come mai tutta quella fretta all’improvviso?

«Vi accompagnerò subito a casa.» Proseguì, come se fosse ansioso di rimanere solo. «Venite, la mia carrozza è nelle scuderie del teatro.»

Arrivarono a casa di madame Giry con un inevitabile anticipo, ma malgrado monsieur Bamdad avesse premura di andarsene, scese dalla carrozza per aiutarle a smontare e accompagnarle fin sotto il portico, senza dimenticare le buone maniere. Le due ragazze rimasero sulla porta fino a quando l’elegante landau del persiano non girò l’angolo, dopodichè Meg incrociò le braccia, pensierosa.

«Perché tutta quella fretta?» Domandò, dando voce ai pensieri dell’amica.

Giulia scrollò piano le spalle, non sapendo cosa dire. «Forse ha riconosciuto quell’uomo nella carrozza nera.» Rispose, titubante. «A me non ha fatto una buona impressione, quel vecchio… Ma forse è solo una sciocca sensazione.»

Guardò l’amica, che ricambiò subito il suo sguardo. «Pensi che sia il caso di dirlo a tua madre?»

Meg scosse piano la testa. «Non lo so. Forse no… In fondo non è successo niente di male. Anzi, è probabile che maman sia felice che la nostra passeggiata con monsieur Bamdad sia finita così presto.»

Giulia annuì lentamente, mentre la giovane Giry si voltava verso la porta e bussava un paio di colpi dato che non aveva portato le chiavi con sé. Meg aveva ragione, non era successo niente di male… Ancora. Quel vecchio nobiluomo aveva l’aria di nascondere qualcosa, e a giudicare dal modo in cui aveva studiato la facciata dell’Opèra, poteva essere qualcosa che avrebbe presto riguardato tutti loro.

Sperava di sbagliarsi, comunque. Ma le nuvole grigie cariche di pioggia che avevano iniziato ad affollare il cielo in lontananza non fecero che marcare il suo tetro presentimento.

Agnese venne ad aprire loro la porta giusto in tempo prima che iniziasse a piovere.

La giornata di sole era già finita.










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Capitolo 9
*** 08. Segreti svelati e segreti mantenuti ***


AA - Angolo Autrice:
Altro aggiornamento!

Wao, che velocità... Mi stupisco di me medesima xD Comunque, per rispondere alla mia cara lettrice... <3
Yunie992: Beh beh, il vecchio barbuto rimarrà avvolto nel mistero ancora per un bel pò u.u E in effetti Raoul è ancora giovane, poraccio ^^'' Ma ti do ragione quando dici che puzza di guai... E qui mi fermo! =P Comunque grazie mille per i tuoi commenti, mi fa sempre piacere trovarne uno nuovo! ^^
Bene, e con questo passo e chiudo... Godetevi il nuovo capitolo!
Un bacio =*














Chapitre 8

Segreti svelati e segreti mantenuti




















Quando Giulia tornò all’Opèra con le due Giry, il lunedì successivo, si diresse con una strana eccitazione alla sua prima lezione di canto del coro del teatro.

Meg e sua madre la accompagnarono in platea, dove circa quaranta persone sedevano sulle comode poltroncine rosse, chiacchierando tra loro nell’attesa che arrivasse la tanto attesa solista. Prima di andarsene, Meg abbracciò l’amica augurandole sorridendo buona fortuna, mentre madame Giry attese che la figlia fosse distante prima di parlare alla giovane.

«Mi raccomando, ma chère, non allontanarti da sola per nessun motivo.» Le sussurrò, leggermente in ansia. «Promettimi che rimarrai sempre insieme a qualcuno, va bene? Purtroppo il teatro non è sicuro quanto vorremmo.»

Giulia si limitò ad annuire, accennando un sorriso: le dispiaceva che la donna si mettesse così tanto in agitazione per niente. «Certo, madame. Non preoccupatevi.»

Louise sospirò e, prima di raggiungere la figlia che l’attendeva sulla porta, le sfiorò la fronte con le labbra in un bacio materno. «Mi raccomando.» Insistè, con premura.

Quando se ne furono andate, Giulia andò a cercarsi un posto tra gli altri coristi, ma un cenno di monsieur Reyé le fece comprendere che il direttore la voleva sul palcoscenico. Si sentì le guance andare in fiamme mentre saliva gli scalini per portarsi al centro della scena come il giorno dell’audizione: solo che questa volta avrebbe avuto un ampio e più vasto pubblico.

«Mesdames e messieurs,» esordì maestro Reye, attirando subito tutta l’attenzione su di sé. «Prima di iniziare con la solita lezione, devo presentarvi la nostra nuova solista: mademoiselle Sanders.»

Il caloroso applauso di benvenuto che seguì quelle parole non fece che far imbarazzare Giulia ancora di più; non amava, sentirsi al centro dell’attenzione come in quel momento, e soprattutto tra persone del tutto estranee. Ma si sforzò di fare un elegante inchino nella loro direzione e di sorridere, timidamente.

«Perfetto.» Annuì il direttore, rivolgendosi poi verso la platea. «E adesso, tutti sulla scena. Vite, vite! Non c’è tempo da perdere.»

Durante le prove per l’opera di quella sera, il Nabucco, nella quale Giulia avrebbe potuto cantare anche non da solista, tanto per iniziare, i timori di madame Giry si rivelarono essere più fondati di quanto la donna stessa non credesse. La perspicace insegnante di danza non sbagliava, infatti, nel ritenere che Erik spiasse tutto ciò che avveniva nei suoi domini come tanto tempo prima, e soprattutto non era del tutto errata la sua convinzione che volesse tenere sotto controllo la ragazza. Certo, se avesse saputo come stavano in realtà le cose, si sarebbe augurata con tutta sé stessa che la storia si ripetesse, così com’era avvenuto con la viscontessa de Chagny; ma sicuramente avrebbe impedito a Giulia anche solo di entrare in teatro, se avesse scoperto che le uniche mire di Erik nei confronti della ragazza erano un puro desiderio di vendetta.

Questa volta, monsieur Destler aveva deciso di osservarla dal palco numero 5, che da sempre gli era appartenuto, in compagnia del suo segretario. Il giovane persiano aveva riferito al principale dell’arrivo in città di un certo duca Lescroart, in passato conosciuto come De Blanchard, l’ultimo discendente di una delle famiglie nobiliari più antiche di tutta la Francia. Monsieur Bamdad non conosceva fino in fondo le ragioni che avevano spinto Erik ad ordinargli di tenerlo d’occhio, ma quello che gli era chiaro, ora che conosceva Destler da più di tre anni, era che l’uomo lo odiava profondamente. E avere come nemico un essere come lui non poteva che rivelarsi fatale…

Con un sospiro, e rinunciando a comprendere in partenza il suo principale, Bamdad volse il suo sguardo al palcoscenico, notando con la coda dell’occhio che anche monsieur Destler osservava la stessa persona che guardava lui. Mademoiselle Sanders.

La ragazza sembrava parecchio intimidita mentre maestro Reyè le faceva cantare davanti al resto del coro l’aria del grande Verdi, che comunque ella stava interpretando con una maestria ed una bravura a dir poco sublimi. Quel giorno indossava un semplice ma elegante abito da giorno di un tenue blu cobalto, che ben si adattava alla sua carnagione chiara e ai capelli castani raccolti in una crocchia ma che lasciavano una ciocca libera di ricaderle in morbide onde su una spalla; gli occhi le brillavano e le gote avevano assunto una deliziosa tonalità rossa che non faceva che renderla irresistibile agli occhi di chiunque posasse il suo sguardo su di lei. Non sapeva perché monsieur Destler fosse così interessato a lei: che anche lui non fosse stato capace di resistere al suo fascino era quasi impossibile da credere, dato che il suo sguardo rimaneva gelido in ogni occasione, capace di mostrare solo rabbia, odio e dolore, ma mai qualcosa che ricordasse l’affetto o sfiorasse, addirittura, l’amore. Il grande compositore Erik Destler sembrava non essere mai stato capace di provare simili sentimenti.

Lui, invece… Se solo fosse stato sicuro che mademoiselle Sanders era libera da qualsiasi genere di impegno sentimentale, malgrado si fosse accorto di non essere molto gradevole alla zia, la severa madame Giry, probabilmente si sarebbe fatto avanti… Ma come affrontare simili argomenti, col rischio di metterla a disagio e farla allontanare inevitabilmente da sé? Non era molto abituato a simili usanze occidentali, nel suo paese se un uomo desiderava una donna la prendeva e basta o, qualora essa fosse appartenuta ad una famiglia ricca ed importante, ne avrebbe discusso il prezzo con il padre. Ma ora non si trovava in Persia, e si sarebbe dovuto adattare a simili e strane usanze… Dopotutto mademoiselle Sanders ne valeva la pena.

Sovrappensiero, si mise a sfiorarsi i folti baffi scuri, unico vezzo che si era concesso in ricordo della sua terra natale; quasi non si accorse che monsieur Destler si era alzato, lasciandolo solo nel suo palco.

In questo modo trascorse un’altra settimana. La domenica successiva, dopo la messa consueta, Meg e Giulia accompagnarono madame Giry a far visita ad una vecchia amica della donna, che non usciva più di casa da quando una malattia le aveva colpito le gambe impedendole di muoversi da sola. A settant’anni, madame Valerius dimostrava molti più anni di quelli che aveva.

Meg aveva celermente istruito l’amica a proposito della donna; ella era la madrina di battesimo di mademoiselle Daaè, aveva sempre vissuto in Francia ma, quando il padre della giovane viscontessa era morto di tisi, lasciando orfana una bambina di poco più di nove anni, la donna non aveva esitato ad andare in Svezia per prendersi cura di lei, istruendola e permettendole di frequentare una scuola di danza, dato che la piccola sembrava aver perso ogni interesse per il canto con la morte di monsieur Daaè. Cinque anni dopo, le due donne tornarono a Parigi, dove la giovane Christine entrò senza problemi all’Opèra grazie alla fama del padre e all’influenza della madrina.

«Maman ha sempre detto che mio padre era stato un grande amico di monsieur Valerius,» aggiunse Meg, concludendo il suo racconto. «E dato che sia lei che la signora Valerius sono rimaste vedove molto giovani, maman non ha mai smesso di andarla a trovare. A quanto ne so questa povera donna non ha nessun parente che possa prendersi cura di lei, ora che anche Christine se n’è andata.»

Giulia annuì, dando segno di aver capito. «Ma non le darà fastidio che ci sia anch’io? Dopotutto non mi conosce nemmeno…»

Meg scrollò mestamente le spalle, con un sospiro. «Tanto ormai non riconosce quasi più neppure maman, e dire che veniamo da lei una volta a settimana… Ma è molto anziana, ed è caduta in depressione dalla morte della cugina, la madre di Christine. Il periodo in cui si prese cura di lei era riuscita a guarire, ma adesso che è sola ha come perso ogni ragione di vivere.»

Madame Giry si voltò verso le due ragazze, lanciando uno sguardo severo alla figlia. «Basta parlare in quel modo, Meg!» La rimpreverò. «Giulia potrebbe farsi un’idea sbagliata di madame Valerius, e inoltre non è educato spettegolare su chi è più grande di te.»

La giovane Giry annuì, trattenendo l’esasperazione. «Si, maman…»

«Ad ogni modo, siamo arrivate.» Aggiunse Louise, fermandosi di fronte ad un elegante villetta a due piani la cui facciata era ricoperta da un’edera rigogliosa che spuntava dal piccolo giardino d’ingresso. La donna si diresse a passo sicuro verso il portone, sbattendo con forza il batacchio e attendendo che qualcuno venisse ad accoglierle. Dopo una manciata di minuti la porta si aprì, e una giovane infermiera, di qualche anno più grande di Meg, le fece accomodare all’interno della casa, riconoscendole.

«Oh, buongiorno madame Giry.» La salutò, richiudendo poi la porta alle sue spalle. «Stavamo giusto parlando di voi con madame Valerius. Venite, vi sta aspettando.»

Louise si voltò per far cenno alle due ragazze di precederla, dopodichè seguirono l’infermiera su per le scale, verso la camera da letto padronale di madame Valerius. Quella mattina, la donna sembrava essere abbastanza lucida da ricevere le sue ospiti e conversare con loro: quando l’infermiera, mademoiselle Clairette, le aveva fatte entrare nella sua stanza da letto, madame Giry e le due ragazze videro che madame sferruzzava a maglia comodamente seduta nel suo letto, il pallido viso emaciato rischiarato da una debole scintilla di buonumore. Una lunga treccia bianca, con qualche ciuffo più scuro a ricordo della chioma corvina che aveva avuto da giovane, le ricadeva su una spalla, e uno scialle in lana le ricopriva le spalle. Tutto sommato non sembrava particolarmente malata o depressa, ma poteva essere semplicemente un caso.

Madame Giry sorrise, togliendosi il cappellino e i guanti e raggiungendo l’anziana donna accanto al letto.

«Oh, cara mamma Valerius!» Esclamò Louise, sedendosi sulla sedia di fianco al tavolino da notte e allungando una mano a sfiorare quella della donna. «Come state, stamattina?»

L’altra smise per un attimo il suo sferruzzare, voltandosi verso madame Giry come se si fosse accorta solo in quel momento della sua presenza. «Ma chère!» Esclamò piano, con una dolce voce ovattata. «Era da un po’ che non venivate a trovarmi, n’est pas? Ad ogni modo sto molto bene, vi ringrazio.»

A quel punto si voltò verso le due ragazze, incuriosita. «Questa bella fanciulla dev’essere vostra figlia, non è così?» Domandò, riferendosi a Meg che le sorrise indulgente. «E l’altra… Non la conosco…»

Appena finito di pronunciare queste parole, madame Valerius sgranò gli occhi, sconvolta, artigliando con le lunghe dita la coperta e respirando affannosamente. Poi tese le braccia verso Giulia, come impazzita, e le lacrime presero a scorrerle lungo le guance.

«Isabelle!» Gridò, senza alcun ritegno. «Isabelle, mia vita, mio tesoro! Sei viva!»

Giulia non si avvicinò, spaventata, e subito raggiunta da Meg che cercava di coprirla col proprio corpo alla vista dell’anziana donna. Madame Giry si alzò, e contemporaneamente mademoiselle Clairette entrò nella stanza dirigendosi a colpo sicuro verso il tavolino da toilette della donna, versando in un bicchiere uno dei calmanti lasciati dal dottore per le evenienze di quel genere. Dovette forzare madame Valerius a berlo, dato che la donna era troppo euforica e agitata, e mentre ella era occupata a deglutire la medicina Clairette sussurrò a madame Giry di uscire per un attimo dalla stanza, e di portare con sé le due ragazze.

Louise, malgrado fosse terribilmente impallidita, afferrò Meg e Giulia trascinandole nel corridoio senza farselo ripetere un’altra volta. Che cosa era successo? Possibile che quella povera madame Valerius avesse davvero riconosciuto Giulia? Nessuno sapeva cosa la ragazza celasse nel suo passato, semplicemente perché non lo sapeva nemmeno lei, ma e se avesse trovato davvero qualcuno in grado di riconoscerla? Certo, restava il fatto che l’anziana nobildonna l’avesse chiamata con un altro nome, e che effettivamente non era mai abbastanza lucida da poter riconoscere qualcuno – era stato un caso che quel giorno si fosse ricordata il nome di madame Giry – ma se invece fosse stato così?

Giulia e Meg si erano sedute sulla chaise longue che si trovava nel corridoio, e osservavano preoccupate la porta chiusa della camera della padrona di casa, in attesa che Clairette uscisse a dir loro qualsiasi cosa le potesse tranquillizzare. Quando l’infermiera le raggiunse, perciò, entrambe si alzarono, facendo cenno di avvicinarsi. Ma madame Giry glielo impedì con un gesto della mano, prendendo da parte mademoiselle Clairette e chiedendole se poteva parlare in privato con madame Valerius.

L’infermiera esitò, osservando lo sguardo deciso della donna. «Non saprei, madame… La signora ha bisogno di riposare, era da un po’ di tempo che non aveva le sue crisi e ho paura che un'altra emozione potrebbe farle male…»

«Voglio molto bene a madame Valerius, mademoiselle, e le assicuro che non farei mai niente che potesse farle male.» Replicò Louise, con un tono che non ammetteva repliche. «Ma ho veramente bisogno di parlare con lei, anche solo per qualche minuto. È davvero importante.»

Alla fine Clairette fu costretta ad annuire, facendo cenno a madame di seguirla nuovamente dentro la camera della donna; Giulia e Meg rimasero fuori, in attesa.

La camera adesso era immersa in penombra; l’infermiera aveva richiuso le tende per rendere l’ambiente il più tranquillo possibile, e anche madame Giry aveva l’impressione che quell’oscurità la soffocasse, non commentò né si lamentò, limitandosi a raggiungere la sua anziana amica.

«Come va, mamma Valerius?» Le chiese, dolcemente.

La donna gemette, afferrando una mano di Louise e stringendola forte tra le sue. «Louise, dovete dirmi chi è quella fanciulla…»

Madame Giry sospirò, decidendo che era meglio essere sincera. «Non so chi sia, maman.» Le disse, affettuosamente. «L’ho trovata priva di sensi, a teatro, con la febbre alta… E l’ho portata a casa mia per prendermi cura di lei.» Non era necessario dirle che era stato Erik a trovarla.

«Non vi ha detto il suo nome? Da dove viene?» Insistè la nobildonna, tra un colpo di tosse e l’altro.

Louise scosse la testa, prima di ricordarsi che madame non la poteva vedere. «No… Ha perso la memoria, ma ha detto di chiamarsi Giulia. Non ho mai sentito il nome Isabelle uscire dalle sue labbra.»

«Allora dev’essere per la perdita di memoria che non rammenta.» L’interruppe madame, prendendo un respiro che sembrava dolerle. «Io sono vecchia, Louise, ma la mia vista è ancora perfetta… E anche voi avreste dovuto comprenderlo, visto che conoscevate la mia piccola Christine.»

Madame Giry provò a ribattere. «Certo, e ho notato che la somiglianza è notevole, ma…»

«Non si tratta solo di somiglianza, Louise!» La rimbeccò mamma Valerius, leggermente irritata. «Oh, è probabile che voi non lo sappiate, dato che io ho giurato sulla tomba di mia cugina di non farne mai parola con nessuno, ma…»

Un colpo di tosse interruppe il suo racconto, ma la donna si riprese in fretta. «Isabelle, la madre di Christine, ebbe due figlie. Due gemelle, a dir la verità. Nacquero qui, a Parigi… Ma solo qualche notte dopo, Isabelle, la più piccola delle due, sparì… Nessuno seppe mai il motivo, semplicemente un mattino, nella loro culla, c’era solo Christine. È per questo che mia cugina decise di lasciare la Francia per tornare nella terra natìa del marito, il povero Gustave… Rimanere nella stessa città che le aveva portato via uno dei suoi tesori più grandi era troppo, per lei.»

Prese fiato, decisa ad andare fino alla fine. «La mia dolce cugina non sopravvisse molto al dolore. Al quarto compleanno della piccola Christine, ella non resistette e si tolse la vita.» Madame Giry vide le lacrime che scorrevano sul volto dell’anziana donna, ma questa sembrava non avere nessuna intenzione di smettere di raccontare. «Gustave l’ha cresciuta da solo, malgrado anche la sua sofferenza fosse grande… Le storie che raccontava su una bambina di nome Lotte erano dedicate alla bambina scomparsa, e quando raccontava a Christine che le avrebbe mandato un angelo a proteggerla, una volta in paradiso, si riferiva alla sua piccola sorellina scomparsa.»

«Ma ora so che la piccola Isabelle è sopravvissuta!» Aggiunse, questa volta piangendo lacrime di felicità e gioia. «Anche se voi la chiamate in un altro modo, Louise, io so che è lei… Gli stessi occhi, la stessa bocca, persino lo stesso modo di aggrottare le sopracciglia sono le stesse di sua madre… E inoltre lei e Christine sono due gocce d’acqua. Come avete fatto a non rendervene conto subito?»

Madame Giry non disse una parola, osservando un punto indistinto davanti a sé. Che sciocca era stata, avrebbe dovuto comprenderlo da subito che c’era qualche legame con la sua cara Christine… Ma certo non immaginava fosse qualcosa di così profondo! Ma non avrebbe potuto dirlo a nessuno… Se ne avesse fatto parola con Giulia, probabilmente per la ragazza sarebbe stato uno shock troppo forte, e il dottor Mounier le aveva ribadito più volte che non era il caso di sottoporla ad altre emozioni, se avessero voluto che recuperasse la memoria senza alcun problema. Ma allora, cosa fare?

«Ma… Come possiamo essere sicuri che sia lei, davvero? Se dite che era scomparsa, che forse è morta, allora…» Provò a replicare madame, a bassa voce. Temeva che dal corridoio le due ragazze potessero sentire ogni cosa.

«Louise, non credevo che foste davvero così cieca…» Mormorò, con un sospiro. «Ad ogni modo, rammento che la piccola Isabelle aveva tre piccoli nei allineati sul petto, era l’unico modo che avevamo per distinguerle, prima che sparisse… Per avere ogni certezza non avete che da guardarle il petto.»

Madame Giry avrebbe voluto porgerle altre mille domande, ma in quel momento la porta si aprì e mademoiselle Clairette entrò nella stanza, avvicinandosi con passo deciso al letto.

«Madame, ora è meglio che riposiate.» Mormorò, rivolgendosi all’anziana mamma Valerius. Poi si voltò verso madame Giry, gentile ma risoluta. «Mi dispiace, madame, ma ora dovete andare. La signora deve riposare.»

Louise annuì lentamente, alzandosi e osservando madame Valerius che veniva rimboccata come una bambina dalla giovane infermiera. Sospirò, poi volse loro le spalle ed uscì dalla stanza senza osare guardarsi indietro. Quello che aveva scoperto l’aveva sconvolta… Non si aspettava una simile rivelazione. E non voleva pensare che fosse tutto frutto della fantasia della donna, anche se ella era malata Louise dubitava che potesse inventarsi di sana pianta una storia simile. E ora avrebbe dovuto tenere il segreto per sé. Rivelarlo a Giulia era fuori discussione, per il bene della ragazza…

A quel punto le venne in mente Erik.

Mon Dieu, se avesse saputo che Giulia era la gemella di Christine avrebbe potuto attuare chissà quale macabro piano di vendetta… Le vennero i brividi al solo pensarci. No, decise, non poteva farne parola con anima viva, almeno per il momento. Quando la ragazza avesse recuperato la memoria spontaneamente glielo avrebbe detto, ma prima di allora avrebbe dovuto fare finta di niente.

Fece cenno a Meg e a Giulia di seguirla, mentre scendevano le scale per andarsene da quella casa. Aveva una strana e oscura sensazione, come se fosse in attesa di un disastro… Scosse la testa, prese un profondo respiro e raddrizzò la schiena. No. Questa volta avrebbe gestito lei la situazione. Un tempo aveva lasciato che Erik facesse tutto ciò che desiderava e aveva permesso che facesse soffrire un’anima innocente… Ma questa volta non sarebbe andata così.

Silenziosamente pregò che il povero Gustave si prendesse cura di questa figlia ritrovata.

O gli angeli avrebbero pianto un’altra volta.











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Capitolo 10
*** 09. Un patto col Diavolo ***


Chapitre 9

Un patto col Diavolo



















E alla fine arrivò la sera del Nabucco, dove Giulia avrebbe cantato per la prima volta sul palcoscenico del teatro davanti ad un pubblico accuratamente selezionato dalle rigide regole della nobiltà. In realtà la ragazza non era particolarmente agitata: confidava nel fatto di non cantare da solista – non credeva di essere già pronta ad un simile battesimo del fuoco – ma l’emozione che comunque provava era tangibile. Madame Giry non si era potuta allontanare dalle sue ballerine perché voleva accertarsi che ripassassero i passi invece di perdersi in chiacchiere, ma al suo posto aveva mandato Meg.

Dietro le scene l’atmosfera era caotica e il caldo era afoso; le sarte andavano su e giù per dare gli ultimi ritocchi ai costumi, le comparse si riscaldavano la voce con gli ultimi vocalizzi e le ballerine facevano alcuni esercizi di riscaldamento per sciogliere i muscoli. In mezzo a tutto quel caos Meg riuscì a trovare Giulia che, appartata in un angolo, canticchiava l’aria principale dell’opera, Và Pensiero.

Le arrivò alle spalle, afferrandole la manica del vestito e facendola sussultare spaventata.

«Meg!» Esclamò, con un sorriso.

L’amica l’abbracciò, affettuosa. «Sei agitata?» Chiese, guardandola. «Su, non preoccuparti! Canterai splendidamente, come sempre.»

Giulia aggrottò le sopracciglia, preoccupata. «Se stono…»

«Non dirlo neanche per scherzo!» La rimproverò per scherzo la giovane ballerina. «Immagina di essere da sola, in camera tua, e canta solo per te… Non lasciarti impressionare dal pubblico.»

La ragazza annuì, leggermente più rincuorata. «Grazie mille, Meg.»

All’improvviso Meg divenne completamente seria, cancellando l’espressione spensierata dal suo volto e abbassando la voce il più possibile, in modo che solo Giulia potesse sentire ciò che aveva da dirle.

«Tieni gli occhi fissi sulla platea mentre canti, chèrie.» Mormorò, senza scherzare affatto. «Non guardare nient’altro. Soprattutto, non voltarti verso il palco numero 5… È molto meglio per te se fingerai che un simile luogo non esista nemmeno.»

Giulia si scostò leggermente dall’amica, aggrottando le sopracciglia e cercando di scrutarla curiosa in viso. Perché parlava in quel modo? «Meg, che cosa stai dicendo? Perché mai non…»

«Sssht!» Sibilò la ballerina, portandosi un dito sulla bocca e attirandola in un angolo ancora più nascosto e appartato. «Non sto scherzando, Giulia! Qui persino i muri hanno le orecchie… E non è bene sfidare la sorte.»

«Inizio a spaventarmi, Meg…» Balbettò l’altra, iniziando a sentirsi a disagio.

La piccola Giry sospirò, dispiaciuta, ma poi si limitò a scrollare le spalle. «Mi spiace, non era mia intenzione spaventarti cinque minuti prima della rappresentazione… Ma forse è meglio così.» Concluse, annuendo tra sé. «Almeno sarai più prudente…»

«Più prudente? Meg, cosa…?»

«Meg? Meg!» Un’altra ballerina corse verso di loro, facendo gesti con le braccia per attirare l’attenzione su di sé. «Meg, dobbiamo entrare in scena! Presto, vieni!»

«Arrivo, Ninì!» Rispose la bionda, facendole cenno di aspettarla. Poi si voltò nuovamente verso Giulia, abbracciandola forte e dandole tre baci sulle guance. «Mi raccomando, ricorda cos’ho detto…» Insistè, preoccupata.

A Giulia non rimase che annuire, accennando un sorriso. «Va bene, tanto sarò così nervosa da non riuscire a staccare lo sguardo dal maestro Reyè… Ma Meg,» aggiunse, prendendole una mano per trattenerla ancora. «Ti prego, prometti che mi spiegherai questa situazione!»

Meg la osservò pensierosa e indecisa, ma alla fine annuì e le ricambiò la stretta sulla mano. «Si si, va bene. Dopo l’opera, vai nella cappella che c’è in prossimità del terzo sottopalco e aspettami lì… Quando arrivo ti spiegherò ogni cosa.»

Era il momento che anche Giulia sapesse, in fondo, che genere di creatura si nascondesse ancora a teatro in modo che potesse guardarsene meglio… Si, annuì Meg tra sé mentre raggiungeva Ninì, anche maman sarà dello stesso avviso, dunque non sto facendo nulla di male.

Mentre si preparava per fare il suo ingresso sulla scena, seguita dalle sue altre colleghe, non resistette e sbirciò da dietro il pesante sipario di velluto rosso ricamato in oro con le iniziali dell’Opèra Populaire, che necessitava di tre macchinisti per aprirlo dall’alto, tanto era pesante. Il suo sguardo corse al palco numero 5, malgrado i severi ammonimenti che aveva appena finito di dire alla sua amica; ciò che vide la fece rabbrividire, terrorizzata. Il palco era occupato unicamente da due uomini: il primo, colui che si sporgeva per controllare le persone presenti in platea, era monsieur Bamdad; l’altro, leggermente celato dalla tenda e interamente avvolto nell’ombra, era sicuramente monsieur Destler.

Ma Meg conosceva la sua vera identità.

Oh si, lei sapeva.

E non avrebbe permesso che quel mostro rovinasse anche la vita della sua cara Giulia.

Tuttavia, ad un certo punto monsieur Bamdad si chinò discretamente verso il suo principale per bisbigliargli qualcosa all’orecchio, l’altro fu costretto ad avvicinarsi al giovane persiano, che evidentemente aveva parlato a voce troppo bassa. E fu quando Meg vide la metà del viso, che egli rivolgeva involontariamente verso di lei, risplendere perlacea a causa delle luci provenienti dal lampadario, che non potè trattenere un gemito, lasciando cadere il lembo del sipario e indietreggiando.

Davvero, non osava immaginare cosa sarebbe potuto accadere se il Fantasma avesse deciso di prendere di mira la ragazza. E non potè neppure farlo, d'altronde, perché i colpi severi della bacchetta che madame Giry aveva battuto sul pavimento la riportarono subito all’ordine, preparandola alla sua entrata in scena.

Non aveva tempo per pensarci, ora. Ma quando avrebbe rivelato tutto a Giulia, Meg era certa che la ragazza sarebbe stata capace di comportarsi di conseguenza.

Qualunque fosse la ragione dell’apprensione di Meg, la giovane ballerina non aveva di che preoccuparsi. Non appena si trovò al centro del palcoscenico, infatti, Giulia si accorse di non vedere oltre monsieur Reyè, e pertanto non era proprio possibile volgere lo sguardo da nessuna parte. Le luci delle lampade a gas, forse troppo forti, la accecavano, e il fumo che si levava da queste le aveva arrossato gli occhi. Malgrado ciò, non appena intravide il direttore dell’orchestra farle cenno di iniziare a cantare, dischiuse le labbra e si librò in volo, sulle magiche note della musica di Verdi.

Va, pensiero, sull'ali dorate;

Va, ti posa sui clivi, sui colli,

Ove olezzano tepide e molli

L'aure dolci del suolo natal!

Alla fine dell’aria, quando il pubblico esplose in un applauso fragoroso che spinse i coristi a tornare sulla scena per profondersi in un inchino di ringraziamento, sentì monsieur Reyè sussurrarle un «Brava!» orgoglioso e commosso, e Giulia sorrise di cuore, sollevata per non aver cantato male come aveva temuto. Non riuscì a trovare Meg da nessuna parte, così, dato che per quella sera il suo ruolo era terminato – adesso spettava ai cantanti protagonisti mandare avanti l’opera – decise di raggiungere la cappella di cui le aveva parlato l’amica.

Man mano che si addentrava nei corridoi del teatro, seguendo i vari fondali abbandonati come Teseo aveva seguito il filo di lana all’interno del labirinto, Giulia si allontanava da ogni rumore, e presto la musica che continuava a essere suonata sulla scena non divenne che un’eco lontana. Era convinta di essere già vicino al terzo sottopalco, dato che aveva già sceso due piccole scalinate, e dopo aver girato l’ultimo angolo si trovò in un corridoio in pietra, senza nessun tappeto o fondale che indicassero che il luogo era ancora frequentato. Al contrario, non vi era neppure una torcia né tantomeno una lampada a gas, e l’aria era improvvisamente molto fredda rispetto all’afa che regnava dietro le quinte. Tuttavia, una debole luce sembrava provenire dal fondo del corridoio, e sollevando le lunghe gonne dell’abito di scena che ancora indossava, Giulia percorse gli ultimi metri di corsa.

Si fermò, con un leggero fiatone, di fronte ad una piccola porta ad arco, già spalancata, e interpretò questo come segno dell’arrivo di Meg; forse l’amica la stava già aspettando. Il lungo costume le era d’intralcio, ma non potè fare nulla per toglierselo, così si limitò a raccogliere i lembi che strisciavano per terra e, tenendoli con una mano mentre con l’altra si poggiava alla parete, scese una ripida scala a chiocciola che sbucava in una piccola cappella.

Quest’ultima aveva una pianta circolare. Esattamente di fronte alla scala c’era una vetrata sulla quale era raffigurato un angelo con delle immense ali bianche, e da cui proveniva la luce della luna che sembrava farlo risplendere di luce eterea. Accanto ad esso, poggiato al muro, c’era una sorta di altare in ferro battuto ricoperto di candele, tutte spente e consumate, al quale erano appesi, con dei piccoli ganci, dei ritratti ovali, probabilmente appartenuti a qualcuno che andava spesso laggiù a pregarli. Meg, tuttavia, non c’era.

Scrollando lievemente le spalle, Giulia si portò al centro della cappella, immaginando che l’amica potesse essere stata trattenuta dalla madre anche se ormai non si sarebbe più dovuta esibire. Decise che l’avrebbe aspettata comunque: era troppo curiosa di sapere quello che Meg aveva da dirle, e quasi si pentì di non essere riuscita a guardare, seppur di sfuggita, nel palco numero 5. Ma quei fumi l’avevano accecata, ed era già molto se era riuscita a cantare normalmente.

La sua attenzione si spostò nuovamente sui ritratti, alcuni completamente sbiaditi e anneriti dal tempo e dall’umidità, che persone sconosciute avevano dimenticato laggiù. Le spiacque per loro, e si guardò intorno per trovare qualcosa con cui avrebbe potuto accendere le poche candele rimaste; per fortuna, poco lontano dall’altare c’era, per terra, una scatolina di fiammiferi. Sperando che fossero ancora abbastanza asciutti, Giulia si chinò per raccoglierli, e prendendone uno lo passò sul velcro della scatola, stimolando una debole ma sufficiente fiammella. Prima che questa potesse spegnersi la accostò ad una delle candele più intatte, e così via via riuscì ad accenderne altre due. Gettò il fiammifero ormai inutilizzabile per terra, in una pozza di umidità, e si inginocchiò di fronte all’altare.

Che strano; c’era uno dei ritratti che sembrava attirarla inesorabile verso di sé, spingendola a toglierlo gentilmente dal gancio nel quale era appeso per osservarlo meglio alla luce delle candele. Si trattava di una vecchia foto raffigurante un uomo, molto giovane, in realtà, che non poteva avere più di quarant’anni. I capelli erano scuri e così i suoi occhi, mentre il viso, sbarbato, sembrava sorriderle attraverso il ritratto. E poi, il suo sguardo… Sembrava esserle familiare, come se appartenesse a qualche avvenimento del suo passato… Forse avrebbe dovuto prenderlo, e mostrarlo a madame Giry? Chissà se l’insegnante di danza poteva conoscere quell’uomo, e così risalire all’identità dimenticata della ragazza!

Avrebbe anche potuto mostrarlo a Meg, dopotutto. Ma mentre si perdeva in queste riflessioni, uno spiffero di aria gelida attraversò la cappella, come se qualcuno avesse spalancato un’altra porta causando quella forte corrente, e le candele che aveva così teneramente acceso si spensero in un battito di ciglia.

Poi, prima che potesse fare il più minimo movimento, comprese di non essere più sola.

«Meg…?» Mormorò, la voce incrinata da una nota di panico. «Sei tu…?»

Dall’oscurità che la circondava non provenne nessun rumore, nessuna risposta, così Giulia raccolse il coraggio rimastole e si sollevò in piedi, scrollandosi il vestito con dei gesti nervosi.

«Devo averlo immaginato…» Sussurrò, tra sé.

Ma non aveva fatto che qualche passo in direzione della scala, che improvvisamente qualcosa o qualcuno la gremì, afferrandola in vita, e posandole una mano sulla bocca per impedirle di gridare. Cercò di divincolarsi, gemendo, ma la stretta era troppo forte, e sembrava stringerla sempre di piùà man mano che lei si muoveva all’interno di quella morsa. Poi una voce, morbida e vellutata, contro il suo orecchio, la fece rabbrividire, spingendola ad immobilizzarsi.

«Non una parola, mademoiselle…» Mormorò la voce, con una chiara tonalità maschile. «Non ho nessuna intenzione di farvi del male… Per ora

Giulia non rispose, troppo terrorizzata anche solo per fare un cenno col capo. Sentì invece un alito caldo respirarle sul collo nudo, come se – chiunque egli fosse – volesse assorbire il suo profumo standole vicino. Malgrado tutto cercò di voltarsi, per vedere in volto colui che la stava importunando in quel momento, ma al minimo movimento la stretta si fece più serrata.

«Oh, no. Non osate voltarvi, mademoiselle.» Sibilò lui, minaccioso. «Voglio solo che mi ascoltiate e che facciate dei semplici cenni con la testa quando richiederò una vostra risposta. Sono stato abbastanza chiaro?»

Lei annuì rapidamente, pregando che quel terrore svanisse il prima possibile.

«Bene.» Continuò la voce. «Ora… Vi ho sentita cantare, mademoiselle, e voglio essere sincero con voi… Se non aveste avuto una voce così bella e angelica, probabilmente nulla mi avrebbe più potuto richiamare dalle fiamme dell’Inferno.»

Giulia sgranò con orrore gli occhi, iniziando a respirare più affannosamente, ma non rispose.

Lui proseguì. «So che sarà molto difficile, per voi, farvi avanti in questo mondo senza nessuna guida, nessun maestro… Sareste condannata a rimanere una semplice corista.» La sua voce divenne una dolce carezza, mentre quelle labbra sconosciute sfioravano la tenera carne del suo collo procurandole dei brividi lungo tutto il corpo, che suo malgrado le fecero socchiudere gli occhi dal piacere.

«Ma io posso aiutarvi…» Sussurrò, spostando la mano con cui le aveva chiuso le labbra e facendola scorrere lungo le sue braccia, sfiorandole in un’ardita carezza il bacino sensualmente avvolto dall’abito di scena. «L’unica cosa che voglio, in cambio del mio aiuto, è la vostra anima…»

«La mia anima…?» Mormorò lei per la prima volta, distratta da quelle carezze.

Egli sorrise tra sé, senza accennare a voler smettere quella dolce tortura. «Si… Non dovrete appartenere che a me soltanto, e soprattutto non dovrete far parola a nessuno del nostro… piccolo patto…»

Tuttavia, in una scintilla di lucidità, Giulia provò a ribattere. «E… Se non volessi il vostro aiuto…?»

Si accorse di aver detto una cosa sbagliata quando sentì la stretta dello sconosciuto farsi ancora più forte, mentre sembrava che volesse farla aderire completamente a sé. Deglutendo, ascoltò la sua risposta.

«Non sarebbe molto saggio da parte vostra rifiutarmi…» Ribattè, insinuante. «Se riuscirete a compiacermi, non potete neanche immaginare le ricchezze e le bellezze che vi aspettano, ma se provate a tradirmi, o se mi deluderete… Non vorreste sapere quale potrebbe essere il vostro destino.»

Giulia rimase ancora in silenzio, poi prese un bel respiro e parlò nuovamente, malgrado lui le avesse detto prima che si sarebbe dovuta limitare a fare dei cenni silenziosi col capo. Oh, al diavolo.

«Ma voi chi siete?» Esclamò, mentre nella sua voce si mischiava rabbia e paura.

Lo sentì chiaramente ridere, e quella risata infernale la pietrificò. «Oh, mademoiselle, mi stupisce che me lo chiediate… Io sono il Figlio del Diavolo

All’improvviso la stretta si sciolse, quasi che l’uomo fosse sparito nel nulla. Tuttavia l’eco della sua risata rimbombava ancora nella piccola cappella, come se non se ne fosse ancora andato del tutto. Infatti, mentre Giulia si guardava intorno cercando di capire dove potesse essere andato, scrutando attraverso l’oscurità, la sua voce le giunse da un punto imprecisato, dall’alto forse, o da dietro le pareti.

«Non mi avete ancora dato una risposta, mademoiselle!» Tuonò, terrorizzandola.

Lei si tappò le orecchie con le mani, cadendo a terra in ginocchio, tremando dal freddo e dall’orrore. «Si, si!» Gridò spaventata, tra le lacrime. «Avrete la mia anima!»

Come ebbe pronunciato quelle parole, Giulia sentì nuovamente la stessa presenza alle sue spalle, ma non fece nulla per voltarsi o cercare di vederla; rimase immobile, nascondendo il viso tra le braccia, china per terra, mentre sentiva che lui si era abbassato e che le aveva scostato i capelli dal collo.

«Non potevate fare una scelta più saggia…» Mormorò dolcemente al suo orecchio, accrescendo il suo terrore con quell’improvviso cambiamento di umore. «Non dovete temermi, mademoiselle. D’ora in avanti, io vi proteggerò.»

Ella rimase a singhiozzare in quella posizione, senza osare muovere un muscolo, fino a quando non sentì che il demonio non era più al suo fianco. Solo allora sollevò il capo, guardandosi intorno, notando che le candele si erano accese nuovamente come per magia.

«Domani sera tornerete in questa cappella, e così farete tutti i giorni. Renderò la vostra voce capace di raggiungere le più alte vette del Cielo, se solo me lo permetterete…» Un ultimo sussurro, poi più niente.

Dopo una manciata di secondi un’altra voce, questa volta più familiare, provenne dalle scale.

«Giulia? Sei qui? Giulia…!»

Quando Meg arrivò nella cappella, trovò Giulia in lacrime; ma non ebbe il tempo di domandarle nulla, perché la ragazza le si gettò singhiozzando tra le braccia, tremante, senza tuttavia spiegarle il perché del suo comportamento. Dopotutto, non le avrebbe potuto raccontare niente…

Chi le avrebbe mai creduto, se avesse detto di aver venduto l’anima al Diavolo?




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AA - Angolo Autrice:

Ehilà! ^^ Passo direttamente ai ringraziamenti, dato che ho visto che si è aggiunta una nuova lettrice.. <3

TheMisty910: Grazie mille per la recensione! Ricambio con molta felitcità - e commozione - il piacere di conoscerti =* Oh, e grazie mille per i complimenti, davvero pensi che sia brava?? Wao, sono proprio commossa =') Spero di riuscire ad appassionarti ancora per molto! :D un bacione, continua a seguirmi!
Yunie992: Eh mia cara, non te l'aspettavi, eh? u.u Sono riuscita a stupire ancora xD Comunque hai ragione, tutto quello che le capita a questa poraccia... e non è ancora finita! Comunque tranquilla, somiglia a Christine SOLO fisicamente u.u grazie al Cielo, non la posso sopportare neppure io quell'antipatica! >.< Ad ogni modo, grazie grazie grazie di nuovo per i complimenti, sono felice che questa storia ti piaccia =) anche tu, mi raccomando, continua a seguirmi!

Bene, e con questo passo e chiudo ^^ I capitoli verranno postati abbastanza celermente fino al 13, dopodichè penso di riuscire a postarli una volta a settimana perchè sono ancora in fase di scrittura, e tutto dipende dal mio tempo... Ma per il momento non disperate, sarò velocissima!
Un bacione, al prossimo capitolo!
Smack =*

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Capitolo 11
*** 10. Minacce e avvertimenti ***


Chapitre 10

Minacce e avvertimenti

















«Ah, maman? Giulia non si è ancora svegliata?»

Madame Giry terminò di bere la sua tazza di the nero fumante, prima di posarla sul piattino e rivolgersi incuriosita alla figlia. «Io sono appena scesa, credevo che Giulia fosse già pronta con te.»

«No, credo che stia ancora dormendo. Non ho sentito la sua porta aprirsi,» intervenne allora Agnese, sfornando dei biscotti dal forno ancora caldo.

Meg scostò la sedia e si alzò, abbandonando la sua colazione. «Vado a svegliarla, allora. Oggi ha la lezione di canto, e non vorrei tardasse…»

Salendo le scale, la giovane Giry ripensò preoccupata alla sera prima, quando aveva trovato Giulia in lacrime nella cappella sotto il terzo sottopalco. L’amica non le aveva raccontato nulla, limitandosi a piangere e singhiozzare disperatamente mentre ricambiava il suo abbraccio sorpreso, e pregandola di portarla via da quel sotterraneo; l’aveva supplicata di non lasciarla mai più da sola, e malgrado fremesse dalla voglia di sapere cosa fosse successo, Meg lasciò cadere la questione senza farne parola con nessuno. La sua intenzione di rivelarle ogni cosa riguardo il Fantasma dell’Opera era svanita del tutto, dato che la ragazza sembrava già abbastanza scossa per conto proprio. Possibile che avesse avuto un incontro proprio con lui…?

No, Meg non voleva crederci. E in caso contrario, forse avrebbe dovuto davvero parlarne con la madre, dato che forse era la donna l’unica ad avere una sorta di ascendente sull’uomo; anche se ormai non ne era più tanto sicura…

Con un sospiro, sollevò la mano e diede due colpi leggeri alla porta della camera di Giulia, aprendola piano per non farla spaventare; come aveva sospettato, le tende erano ancora chiuse e la stanza era immersa nell’ombra. Si richiuse la porta alle spalle, raggiungendo la finestra e aprendo le tende per far entrare le luce, sentendo poi un borbottio infastidito provenire da sotto le lenzuola.

«Giulia?» La chiamò, teneramente. «Sei sveglia?»

«No…» Replicò quest’ultima, rintanandosi ancora di più sotto le coperte.

Meg sorrise, andando a sedersi sul bordo del letto e scoprendo l’amica. «Coraggio, chèrie, non vorrai far tardi alla tua lezione di canto?»

A quelle parole Giulia sgranò gli occhi, spaventata, e non potè impedirsi di rabbrividire dal terrore al ricordo di ciò che era accaduto la notte prima. «Meg, non voglio andare a teatro, oggi…» Mormorò, cercando di convinverla.

Ma la giovane ballerina sollevò un sopracciglio, stupita. «Come mai? Credevo ti piacesse cantare! Stai male, forse? Hai la febbre?»

Si chinò verso di lei e le posò una mano sulla fronte, cercando di sentirne la temperatura; nello stesso momento Giulia decise di aggrapparsi a quella scusa, e scosse piano la testa. «No, però mi sento male… Ho mal di testa, e mal di pancia… Sai…» Lasciò allusivamente la frase in sospeso, certo che l’amica avrebbe capito.

Infatti, Meg annuì. «Ah, si. Certo.» Sospirò, scrollando le spalle. «So come ci si sente, perché in quei periodi io non riesco nemmeno ad alzarmi dal letto… Va bene, tesoro, non preoccuparti. Parlo io con maman, sono certa che capirà.»

«Ti ringrazio, Meg…» Giulia sorrise debolmente, grata. In effetti, non era difficile credere che stesse male, visto il pallore del suo viso; ma questo non era certo dovuto ad un malessere fisico, quanto al terrore che non l’aveva abbandonata dal giorno prima e che l’aveva riassalita all’idea di mettere nuovamente piede in quel teatro. Non sapeva quanto avrebbe potuto evitarlo, dato che ormai faceva parte del coro, ma sperava di riuscire a restarne alla larga il più possibile.

Giulia rimase quasi tutta la giornata in camera sua, uscendone solo per fare compagnia all’anziana Agnese durante il pranzo; e quando la donna si fu ritirata per il suo riposo pomeridiano, Giulia tornò nella sua stanza. Non si era pentita di essere rimasta a casa, ma iniziava a chiedersi se aveva fatto bene a non fare parola con Meg di quello che era successo… Se l’amica avesse saputo che genere di creatura, o spirito, o demonio si nascondesse nel teatro, forse sarebbe potuta essere più prudente… Decise che gliene avrebbe parlato, non appena fosse rientrata a casa.

Presto il cielo si tinse di scuro; era pomeriggio inoltrato, e già Giulia fu costretta ad accendere alcune candele per rischiarare la stanza, ormai immersa nel buio. Meg e madame Giry sarebbero rientrate più tardi, verso l’ora di cena, ma la ragazza scivolava silenziosamente su e giù per la camera, in ansia per la prolungata assenza delle due donne. Temeva che la presenza che l’aveva terrorizzata la sera prima potesse nuocere a qualcuna di loro, e come se non bastasse stava iniziando a temere l’oscurità e tuttto quello che poteva esserci nascosto. Aveva detto di essere il Figlio del Diavolo, e poi era svanito nel nulla… Avrebbe preferito credere di aver sognato e immaginato tutto, ma i segni rossi sui suoi polsi erano un chiaro ricordo della forte stretta di quell’essere su di lei.

Istintivamente rabbrividì, stringendosi lo scialle sulle spalle e dirigendosi verso la stufa che Agnese le aveva premurosamente portato in camera, in modo che lei non fosse costretta ad armeggiare da sola con i legni del camino. Allungò le mani verso il suo calore e sospirò, non riuscendo a cancellare il peso che sentiva premerle sul petto; aveva l’impressione di avere una pesante spada di Damocle sulla testa a causa di quel breve ma terribile incontro, e continuava ad essere sempre più dell’idea che non era molto conveniente tornare a teatro in quelle condizioni. Oh, che cosa aveva mai promesso? La sua anima in cambio del successo… Che cosa mai le importava di una cosa simile? Era stata la paura a spingerla a dire certe cose, e ora temeva che sarebbe stato impossibile cancellare quel contratto firmato col suo stesso sangue.

Appena prima che la cogliessero le lacrime, poi, accadde di nuovo. Le candele presenti nella stanza si spensero simultaneamente a causa di un vento gelido entrato dalla finestra aperta alle sue spalle, lasciandola in una fitta oscurità resa meno dolorosa dal debole bagliore che proveniva dalle grate della stufa in ghisa. Si voltò quasi di scatto, osservando impaurita le tende della finestra che svolazzavano a causa del vento, e precipitandosi a chiudere le imposte.

«Mio Dio…» Mormorò, aggrappandosi alla pesante stoffa della tenda. «È solo il vento…»

Ma purtroppo non era così. Prima che potesse rendersene conto, avvertì una presenza dietro di sé, ma non potè voltarsi a fronteggiarla perché un paio di braccia che l’avevano già stretta in precedenza si avvolsero intorno alla sua vita, facendo aderire la sua schiena scossa dai brividi ad un petto muscoloso e chiaramente maschile. E poi, di nuovo, quella voce.

«E così… Pensavate di sfuggirmi… Semplicemente non presentandovi a teatro?»

Giulia non riuscì a rispondere, tanto era paralizzata dalla paura. Dunque, ecco risolto il problema… Stare lontana dall’Opèra non l’avrebbe tenuta altrettanto lontana da quel demonio. Strinse gli occhi per impedirsi di piangere, e cercò di prendere un profondo respiro per parlare; ma il terrore era troppo, e appena fece per dischiudere la bocca le gambe le cedettero, e sarebbe di certo caduta se egli non l’avesse tenuta tra le sue braccia.

«Coraggio, mademoiselle Sanders. Non abbiate paura; vi ho già detto che non vi avrei fatto del male…» Aggiunse, con una sottile vena di ironia nel tono.

Tuttavia la ragazza non aveva nessuna voglia di scherzare. «Che cosa volete ancora?» Mormorò, tremante. «Perché mi perseguitate?»

La stretta si fece più profonda di quanto già non fosse, mentre egli chinava il capo sul suo collo nudo e le sussurrava sulla pelle. «Avete già dimenticato la vostra promessa? La vostra anima mi appartiene, e non potete fare nulla per cambiare questa condizione.»

Poi, prima che lei potesse ribattere in qualche modo, la creatura le mise uno spesso nastro nero sugli occhi, bendandola, e legandoglielo dietro la nuca con un fiocco. Dopodichè si allontanò di qualche passo da lei, osservandola attraverso l’oscurità.

«Voltatevi,» ordinò, secco.

Silenziosamente, la osservò mentre Giulia allungava le mani attorno a sé alla ricerca di un qualche appoggio, fino a quando la ragazza non si trovò, pur senza accorgersene, esattamente di fronte a lui.

«Perché mi avete bendato?» Domandò con un filo di voce.

«Il mio aspetto non è di questo mondo e potrebbe sconvolgervi.» Replicò, osservando con un leggero divertimento le mani della ragazza che stringevano tremanti la lunga veste da camera.

Dunque sarebbe stato così facile anche stavolta, fingersi una creatura ultraterrena per modellare la voce di una giovane in balia del suo volere e dei suoi desideri? Probabilmente, se la fanciulla non avesse perduto la memoria e se fosse cresciuta a Parigi, avrebbe di certo conosciuto la vicenda del Fantasma dell’Opera, che si sussurrava in ogni angolo con suggestione e un briciolo di terrore; ma era stato così semplice avvicinarla, così semplice farle credere di essere un demonio, che quasi ne provava noia!

Con passo felino Erik si avvicinò a lei, osservandola più da vicino, con uno sguardo che, se lei ne fosse stata cosciente, l’avrebbe fatta avvampare dal disagio. Si, più la guardava e più vedeva la somiglianza fisica con la Daaè; ma allo stesso tempo aveva la sensazione, o meglio, il presentimento che la giovane Sanders – ormai era questo il suo nome – sarebbe potuta diventare uno strumento migliore per il suo genio, l’avrebbe modellata affinchè, attraverso la sua voce cristallina, il mondo sarebbe venuto a conoscenza della musica che solo lui era capace di creare!

Era stata un’ottima mossa, poi, dirle di essere il Figlio del Diavolo, e dire che aveva tanto odiato questo appellativo almeno quanto quello di Fantasma! Ma lui ormai non aveva più nulla di un Angelo, anzi, era stato un errore lasciar credere alla giovane Christine di essere lo spirito mandato dal padre defunto. In fondo era stato anche per quello se ella l’aveva tradito, ribellandosi al suo maestro. Ma Giulia, oh, ne era sicuro, lei non avrebbe mai fatto nulla contro il suo volere: era una fanciulla sola, e se anche un giorno si fosse presentato qualcuno dicendo di essere il suo fidanzato, la sua amnesia glielo avrebbe fatto allontanare! E allora si sarebbe accorta che l’unico di cui poteva fidarsi era proprio quel diavolo che ora temeva…

«Vi avevo detto che non avete nessun motivo per temermi.» Ribadì pertanto, con una voce bassa e carezzevole. «Tutto quello che volevo era la vostra obbedienza… Ma oggi non siete venuta alla nostra prima lezione. Per quale motivo?»

La sua risposta gli giunse del tutto inaspettata.

«Come potrei mai fidarmi di un diavolo?» Rispose coraggiosamente, raddrizzando la schiena. «Mi avete strappato una promessa che non era mia intenzione pronunciare, approfittando della mia paura… Non so chi siete, né tantomeno desidero saperlo! Io non ho fatto nulla di male per attirare l’attenzione del Demonio.»

Erik la ascoltò, sgranando impercettibilmente gli occhi al tono deciso della ragazza. Ma la sua espressione accigliata venne quasi subito sostituita da un malizioso sorriso. Perfetto, pensò tra sé. Forse la situazione non è poi così noiosa come mi aspettavo

«Voi non ricordate nulla del vostro passato, mademoiselle.» Ribattè, crudele. «Non avete nessuna idea di quello che avete o non avete fatto.»

Giulia trattenne il fiato all’improvviso, realizzando con orrore che aveva ragione. Ma poi… Come poteva sapere della sua amnesia? Era forse realmente una creatura dell’Inferno?

Scosse piano la testa, giungendo le mani come se avesse voluto pregare. «Devo aver compiuto delle azioni veramente orribili, se voi siete qui…» Balbettò, trattenendo le lacrime.

Per un attimo, Erik si pentì di aver detto quelle cose: era lui il mostro, e lo era davvero se lasciava che quella povera ragazza pensasse simili cose su di sé… Ma questo sentimento passò subito come una pioggia estiva, lasciando dietro di sé solo un leggero eco. Aveva bisogno che lei ci credesse, se voleva essere sicuro di avere tutta la sua obbedienza.

«Non pensateci adesso, mademoiselle.» Le sussurrò pertanto, sfiorandole i capelli con delicatezza. «Il mio desiderio è solo sentirvi cantare. Sapete già che l’unica cosa che vi chiedo in cambio è di appartenermi, ma immagino che non sia una richiesta impossibile.»

Dato che non appartenete a nessuno. Quelle parole non uscirono dalle sue labbra, ma Giulia le sentì gravare su di sé come se stessero grondando dalle pareti; già, come avrebbe potuto ribellarsi, o a chi avrebbe potuto domandare aiuto? Era sola, ed era vero che non apparteneva a nessuno… Forse non si sarebbe rivelato essere uno sbaglio, affidarsi a lui…

«No, non lo è.» Sussurrò, chinando il capo in un gesto di remissione. «Se siete venuto per punirmi perché non sono venuta alla vostra lezione, presumo abbiate il diritto di farlo… Ma non terrorizzatemi ancora con i vostri sussurri e le vostre carezze… Non riesco a comprenderle.»

Erik si allontanò da lei con studiata lentezza, rimanendo però nelle vicinanze in modo che la fanciulla continuasse ad avvertire la sua presenza. «Se fosse stata questa la mia intenzione, mademoiselle, potete credermi se vi dico che non avrei aspettato così tanto.» Sospirò poi, incrociando le braccia. «Il mio deve essere considerato un semplice avvertimento… Perché, qualora doveste disubbidirmi di nuovo, non esiterei a fare del male a quella ballerina bionda cui sembrate molto legata.»

«No, Meg…!» Esclamò lei, allungando un braccio davanti a sé come se avesse voluto afferrarlo.

Egli sorrise. «Si, credo sia proprio lei…»

Vide le chiare sopracciglia della ragazza aggrottarsi e le labbra dischiudersi in un’espressione di puro terrore, prima che indietreggiasse per cercare riparo contro il muro. Si appoggiò ad esso ed abbassò la testa, lasciando che i capelli le piovessero davanti al viso come una morbida cascata. Non c’era nulla che poteva fare per sfuggirgli, dunque… Probabilmente non avrebbe esitato a farlo, se in gioco ci fosse stata solo la sua vita, priva di valore a questo punto, ma se si iniziava a coinvolgere anche le uniche persone che sembravano tenere a lei e che la avevano accolta in casa propria senza domandare nulla in cambio, allora la situazione cambiava radicalmente… Lui voleva la sua anima? Bene, se con questo Meg e sua madre fossero state al sicuro, allora l’avrebbe fatto senza esitare.

«Domani ci sarò, monsieur Le Diable.» Bisbigliò, con un tono velato di dispetto.

Il sorriso di Erik si allargò impercettibilmente, mentre si gettava sul capo il cappuccio del suo lungo mantello nero. «Sarà sufficiente chiamarmi Maestro, mademoiselle.» Replicò, con affettata noncuranza. «Ed ora, vi lascio ai vostri turbinosi pensieri… Vi aspetto domani alle sette, alla vecchia cappella.»

Si diresse verso la finestra ancora aperta dalla quale era entrato, ma prima di andarsene si voltò un’ultima volta verso di lei. «Cercate di essere puntuale.»

Dopodichè sparì nel buio, lasciandola a tremare da sola in quella pressante oscurità.

Madame Giry aveva sentito ogni cosa.

Di sicuro Erik non si aspettava che la donna tornasse prima dal teatro, lasciando a metà i suoi doveri, per accertarsi che la sua giovane ospite stesse bene, e di conseguenza si era comportato come se si fosse trovato nei suoi domini, andando a minacciare la ragazza con tono dolce e parole taglienti. E la cosa più terribile era che lei, Louise, non aveva alzato un dito per cacciarlo da casa sua; come avrebbe potuto? Non gli aveva forse promesso che questa volta non l’avrebbe tradito? Certo, se davvero i suoi piani di vendetta consistevano anche nel terrorizzare la povera Giulia, avrebbe dovuto rivedere le sue priorità… Che cosa avrebbe scelto, tra l’assecondare un vecchio figlio e amico e il proteggere la seconda figlia di Gustave Daaè?

A questo punto, rivelare ad Erik l’identità della fanciulla era fuori discussione: se avesse saputo di trovarsi di fronte la gemella di colei per la quale aveva tanto sofferto in passato, era più che sicura che la sua vendetta sarebbe stata cento volte più terribile!

Era senza parole, e per la prima volta nella sua vita non aveva idea di come comportarsi.

Attese sileziosamente che i singhiozzi della giovane cessassero, e non appena fu certa che Erik fosse abbastanza lontano da non accorgersi di lei, madame dischiuse la porta ed entrò nella stanza, chiamando Giulia ad alta voce come se non avesse saputo che fino a poco prima lì si stava consumando un dramma. Aveva sorvolato sull’ultima minaccia dell’uomo, quando egli aveva tirato in ballo la sua unica figlia, Meg, dato che sapeva che non avrebbe osato alzare un dito su di lei; ma il fatto che Giulia si fosse arresa per proteggere l’amica strinse il cuore di madame Giry, facendole provare un affetto sempre maggiore per quella ragazza.

Mentre l’abbracciava, tuttavia, Louise non potè che rabbrividire nel rendersi conto di quanto Erik fosse diventato cinico e crudele. Probabilmente, il vero Fantasma dell’Opèra non era stato ancora conosciuto in tutta la sua oscurità.

E tremò, al pensiero di dover lasciare quella povera giovane in sua balia.

Ma per il momento non aveva altra scelta.















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AA - Angolo Autrice:
Eccomi con il nuovo capitolo! ^^ Spero che vi sia piaciuto come i precedenti <3
Devo fare in fretta quindi non posso rispondere alle recensioni (al momento ho i minuti contati) ma voglio davvero ringraziare TheMisty910 e Yunie992 per aver recensito, poi A__A, Ethis e masked_lady per averla aggiunta tra i preferiti e aliena per averla messa tra le seguite! Grazie mille ragazze, vivo per voi <3 e se avete 5 minuti recensite, mi raccomando, perchè mi fa sempre molto piacere sapere cosa pensano i lettori di quello che scrivo!
E se ne avete voglia fate un salto a leggiucchiare anche le altre cose che ho scritto, se vi va ^^
Vi abbraccio forte e, nel caso non aggiorni più per questa settimana, vi auguro Buona Pasqua!
Un bacio =*



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Capitolo 12
*** 11. La lezione di canto ***


Chapitre 11

La lezione di canto
















Quello che sto per scrivere non uscirà mai dalle mie labbra – non ne avrò il coraggio.

Ma ho bisogno di sfogarmi, e l’unica cosa che posso fare è scrivere. Sento una strana affinità con la piuma che graffia il foglio e sulle parole che prendono vita su questa pagina bianca, come se non fosse la prima volta che ricorro ad una sorta di diario per aprire la mia anima… Anche l’odore pungente dell’inchiostro fresco mi è amico. Che siano residui del passato che ho scordato?

Quando ho chiesto a Meg se aveva dei fogli e qualcosa per scrivere, mi ha osservato stupita ed incuriosita insieme, ma grazie al Cielo non ha posto domande alle quali non avrei saputo cosa rispondere. Perché hai bisogno di un diario? Credo che mi avrebbe risposto così se glielo avessi detto. Puoi confidarti con me per ogni cosa, chèrie!

Ma il fatto è che non posso, Meg, non posso!

Ho paura che le lacrime possano colare sulla pagina e sciogliere l’inchiostro, perciò mi mordo il labbro e le ingoio silenziosamente, osservando di tanto in tanto la candela che si consuma lentamente. Ho tutto il tempo necessario per scrivere, e nessuno verrà a distubarmi – ormai dormono tutti.

Ah, la mia mano trema… Ho ancora paura che Lui possa venire da me, come ieri sera, e scoprire che affido le memorie della nostra prima lezione a queste pagine, che forse farei meglio a bruciare. Ma non mi importa: ho bisogno di scrivere ogni cosa.

Questa mattina mi sono svegliata molto prima del solito – in realtà non sono riuscita a chiudere occhio la notte scorsa, così non ho fatto altro che alzarmi dal letto non appena la luce del sole è penetrata nella mia stanza. Mi sono lavata con l’acqua gelida come se questo avesse potuto rinforzarmi, e appena ho sentito Agnese scendere le scale per andare in cucina mi sono precipitata dietro di lei per aiutarla con la colazione. Ho visto che sembrava sorpresa della mia mattiniera presenza in sala da pranzo, ma è una signora troppo discreta per porgere delle domande al riguardo.

Ciò che temevo davvero era madame Giry, ma quando è entrata in cucina, seguita dalla figlia, si è limitata a dedicarmi uno sgaurdo neutro che non ha preceduto nessun genere di interrogatorio: mi ha semplicemente augurato il buongiorno, senza aggiungere nient’altro. Meglio così.

Ho dovuto domandare a Meg di aiutarmi con l’abito, perché le mani mi tremavano troppo per riuscire ad agganciare i bottoni del corpetto senza fare un disastro, e credo che si sia dovuta mordere la lingua fino a farla sanguinare per evitare di indagare sulle mie condizioni. Io per prima mi sarei preoccupata se avessi visto Meg pallida in volto e con un tremore delle mani che sembrava non voler cessare, ma forse lei l’ha scambiato per una conseguenza della mia amnesia, e ha fatto finta di niente con delicatezza.

Fino all’ultimo – fino a quando non ebbi varcato la soglia di casa – fui incerta se andare o meno a teatro per affrontare il mio Diavolo, ma le minacce che egli aveva rivolto, sia pure indirettamente, alle persone che si stanno prendendo cura di me, mi fecero decidere subito di obbedirgli. Cos’altro c’era da fare, dopotutto?

La lezione con Lui, ad ogni modo, era di pomeriggio; di mattina mi spettava la consueta lezione con il coro e il maestro Reyer, gentile come sempre. Mi fece esercitare con un’aria da solista, non ricordo di preciso di quale opera, e mentre cantavo, al centro del palcoscenico, ebbi la chiara sensazione di venire osservata, o meglio, spiata, da qualcuno che non si trovava di certo nella platea. Fu alquanto sgradevole, poiché mi sentii nuda sotto quello sguardo, come se potessi sentirlo sulla pelle, e inoltre non potevo nemmeno sfuggirgli. Ovviamente credo di sapere a chi appartenesse quello sguardo, perché era lo stesso che ho sentito la notte scorsa quando Lui è venuto qui.

Di questo, comunque, non ne parlai con nessuno, e quando incontrai Meg e madame Giry, per pranzo, feci finta di niente. Caso strano, non vidi monsieur Bamdad da nessuna parte, e dire che in genere era sempre nei dintorni per controllare, in vece del suo principale, che tutto si svolgesse al meglio: era i suoi occhi e le sue orecchie, ma evidentemente quest’oggi doveva essere il suo giorno libero.

Non ricordo che genere di scusa inventai per allontanarmi da sola, dato che Meg avrebbe voluto accompagnarmi; madame Giry però le diede qualcosa da fare come se avesse voluto tenerla occupata, e l’unica cosa che la donna mi disse, prima di lasciarmi andare, fu: «Sii prudente, mia cara.»

Perché ho il presentimento che sia madame che sua figlia sospettino qualcosa? Non è forse assurdo che possano conoscere l’esistenza della creatura alla quale ho dato la mia anima in modo così sconsiderato? Ma allora, se davvero lo sanno, perché non alzano un dito per aiutarmi?

No, è del tutto impensabile che lo sappiano.

Ad ogni modo, riuscii a raggiungere la cappella dietro il terzo sottopalco con molta più facilità della prima volta; e neanche un momento la sensazione di essere fissata dal buio cessò.

Non appena scesi l’ultimo gradino, la prima cosa che notai fu che tutte le candele del piccolo altare in ferro battuto erano accese, diversamente dall’altra volta. Come se qualcuno ci fosse già stato.

E come se mi stesse aspettando.

Mi portai lentamente e con cautela al centro della stanza, osservandomi intorno e torturando i guanti che stringevo tra le mani. La mia mente era affollata da mille pensieri. Il corsetto è decisamente troppo stretto, non riuscirò a cantare bene. Mi manca il respiro, vorrei strapparmi questi sciocchi vestiti di dosso. Quaggiù fa davvero troppo freddo, è come se fossimo nel ventre della terra. Quaggiù non verrà nessuno a salvarmi. Quaggiù nessuno mi sentirà gridare…

Poi, come in risposta ai miei pensieri, sentii che era arrivato. O meglio, avvertii la sua presenza, come se l’aria nella piccola cappella fosse improvvisamente diventata più scura e opprimente, come se qualcuno avesse risucchiato via tutto l’ossigeno. Le fiamme delle candele tremolarono ma non si spensero: dovette ritenere di avermi già spaventato abbastanza in precedenza con quel trucco.

E, alla fine, la sua voce risuonò dalle pareti.

«Siete venuta, finalmente.»

Non sapevo da che parte voltarmi per rivolgermi a lui, dato che la sua voce sembrava provenire dappertutto, e alla fine decisi di fissare lo sguardo sulla vetrata dell’angelo, come se la vista di un essere così puro potesse consolarmi della presenza di una creatura dell’Inferno.

«So mantenere le mie promesse, monsieur.» Risposi, con voce piatta. Grazie al Cielo riuscii a non farla tremare troppo.

«Ammiro il vostro coraggio.» Replicò, abbassando la voce di un tono o due per renderla più dolce di quanto mi ricordassi. «Temevo di avervi spaventato troppo la notte scorsa.»

Ero sicura che mi stesse provocando per ottenere da me una risposta sgarbata, ma il ricordo di Meg mi fece mordere la lingua per evitare di rispondergli male; non volevo dargli nessun tipo di occasione di prendersi gioco di me, né tantomeno di minacciarmi.

«Sono venuta solo per la lezione di canto, monsieur.» Mi limitai a rispondere.

Passarono alcuni secondi di silenzio, dopodichè rispose anche lui. «In tal caso, sarà bene che mi chiamiate ‘Maestro’, come si conviene ad un’allieva.»

Inghiottii tutto il mio orgoglio quando risposi, con un filo di voce. «Si… Maestro.»

La lezione che seguì fu indubbiamente qualcosa di… Magnifico e terribile insieme. Fu lui a cantare per primo: voleva che memorizzassi tutti i vari passaggi di tono così come li eseguiva lui stesso, accompagnato dalla malinconica musica di un violino. Dopodichè, quando venne il mio momento di ripetere la sua esecuzione, fu nello stesso tempo rigido e gentile. Mi correggeva gli errori e pretendeva che non facessi due volte lo stesso – temetti per questo di farlo infuriare, perché per me era impossibile memorizzare quelle ardue sinfonie in pochi minuti, mentre lui sembrava non coglierne la complessità – e quando invece perseveravo nello sbaglio alzava la voce, irato. Compresi subito che non tollerava ripetere più volte la medesima correzione, e mi sforzai di evitare il minimo errore. Presto fui costretta a togliere la giacchina del vestito e a rimanere solo con una camicia leggera, tanto ero accaldata dallo sforzo.

Ma quello che non scorderò mai è di certo la sua voce. Oh, egli può essere il Demonio peggiore, uscito da chissà quale Averno… Ma la sua voce! Non può certo appartenere a questo mondo, è qualcosa di troppo sublime per poter essere udita da un semplice mortale, e solo ora mi rendo pienamente conto che a me è stato concesso il privilegio di ascoltarla, sia pure come modello e non come diletto personale…

Sento che potrei dimenticare la sua crudeltà solo per la bellezza della sua voce… Ma come può un essere così malvagio possedere una voce così calda e pura?

Giulia posò la penna a lato del foglio che aveva appena terminato di scrivere, spargendovi sopra un po’ di sabbia per asciugare l’inchiostro. Dopo averlo fatto assorbire un po’, lo sollevò per scrollare la sabbia in eccesso, e rilesse le due pagine fitte che aveva riempito incessantemente senza nemmeno rendersene conto. La candela stava per consumarsi, ma ne restava ancora abbastanza per decidere se conservare quei fogli in un cassetto o se bruciarli nella stufa.

Non aveva scritto neppure di come era finita la sua prima lezione, con il Maestro – ormai si sarebbe dovuta abituare a chiamarlo in quel modo – che le augurava una buonanotte e le ricordava di tornare il giorno dopo, alla stessa ora, con degli abiti più comodi. Ah, come se gli interessasse qualcosa di lei che non fosse la sua anima e la sua voce!

Scostò piano la sedia e si alzò, prendendo i fogli in una mano e la candela nell’altra per cercare un posto sicuro dove nasconderli; non poteva lasciarli in giro con il pericolo che Meg o qualcun altro li trovasse e li leggesse. Alla fine li mise nel cassetto del comodino, di fianco al letto, e lo richiuse a chiave.

Sganciò il laccio della vestaglia, che posò sulla poltroncina lì accanto, e poi si mise sotto le coperte, cercando un rifugio che ormai non esisteva più. Si sporse verso la candela, soffiando sulla fiamma e facendo cadere l’oscurità in tutta la stanza. Aveva davvero bisogno di riposare.

Erik non era tornato nella sua villa fuori città, quella sera. Dopotutto, non ci sarebbe stato neppure Bamdad a tenergli compagnia, e a quel punto tanto valeva restare nel suo teatro.

Quando Giulia era scomparsa nella tromba delle scale della cappella, solo qualche ora prima, si era sentito come svuotato di qualcosa, ma non sapeva di preciso cosa. Forse era dovuto semplicemente al fatto che non era più abituato a cantare o suonare – era da molto tempo che non prendeva in mano il suo antico violino – né tantomeno era più abituato a istruire una giovane allieva. Mademoiselle Sanders aveva l’età di Christine, ma non era certo che fosse quello ad avergli lasciato quella sorta di amaro in bocca.

Improvvisamente ebbe l’impressione che i suoi progetti di vendetta fossero del tutto inutili e trascurabili… Ma fu un pensiero troppo effimero per poterlo prendere in considerazione. Aveva già giurato che si sarebbe preso la sua rivincita, e non sarebbe stata una fanciulla senza casa né nome a fargli cambiare idea.

Tuttavia, mentre si aggirava senza meta nei corridoi segreti del teatro, provò un’irresistibile voglia di scendere nuovamente nei sotterranei, laddove un tempo vi era stata la sua unica dimora, il suo solo rifugio. Non vi era più sceso dalla notte dell’incendio, né aveva provato il desiderio di farlo. Ma più ci pensava e più si rammentava dei suoi piccoli averi che giacevano ancora in quella grotta, o forse in fondo al lago, dato che una folla immensa di curiosi e gendarmi aveva raggiunto la sua casa subito dopo il rapimento di Christine.

Mentre percorreva automaticamente le gallerie che conducevano al lago, completamente immerse nel buio, i ricordi presero il sopravvento della sua mente fredda e lucida, costringendolo ad accelerare il passo per arrivare al più presto alla fine di quei passaggi segreti. Ogni angolo sembrava celare una memoria del suo passato: quello era l’angolo dove aveva tenuto la bionda testa di Christine sulle gambe, in attesa che la giovane si riprendesse dallo svenimento, là l’aveva aiutata a salire in groppa al vecchio Caesar, qui è dove l’aveva trascinata con forza, la notte del Don Juan, senza curarsi dei suoi singhiozzi disperati…

Era così assorto nei suoi pensieri che quasi inciampò in un oggetto di cui non rammentava l’esistenza. Imprecò ad alta voce mentre si inginocchiava per afferrare un candelabro che chissà come era finito in quell’angusto passaggio… No, un momento. Sapeva perfettamente chi poteva averlo lasciato lì, per terra.

Ecco, questo era il punto dove aveva trovato mademoiselle Sanders, svenuta, ormai tre settimane prima.

Anche quella sera aveva provato a scendere nei sotterranei, ma l’aver trovato quella ragazza priva di sensi e febbricitante per terra gli avevano fatto accartocciare l’idea, spingendolo a portarla in superficie e a consegnarla alle cure di madame Giry. Sembrava trascorsi secoli…

E ora, invece, mademoiselle Sanders era alla sua completa mercè.

Stranamente però questo pensiero non lo fece sentire meglio.

Alla fine raggiunse la sponda del lago sotterraneo. Come aveva immaginato, non c’era nessuna barca ad attenderlo lì ormeggiata: probabilmente era affondata in tutto quel tempo. Ma egli conosceva altri modi per raggiungere la sua vecchia dimora – non lo chiamavano fantasma per niente, dopotutto.

Prese una galleria laterale che costeggiava tutto il lago, stupendosi del fatto che quel luogo sembrava essere rimasto congelato all’ultima volta che lui vi era stato. Ebbe però modo di notare i segni del passaggio degli uomini che avevano provato a dargli la caccia quella terribile notte, come fiaccole e pistole scariche abbandonate per terra e lì lasciate ad arruginire. Avevano forse sparato contro i topi e le ombre, nella speranza di colpire lui? Quel pensiero lo fece suo malgrado sorridere: il suo nome era dunque stato capace di terrorizzare ogni genere di essere umano. Non si curò di raccogliere nessuna di quelle armi, ormai inutilizzabili. E lui non aveva più paura del buio da tanto tempo.

Una volta sbucato fuori da quella lunga galleria, poi, potè dirsi arrivato.

L’arco del corridoio si affacciava esattamente sopra la Dimora sul Lago, permettendogli di abbracciare con lo sguardo il primo luogo che lui, Erik, il Figlio del Diavolo, aveva potuto chiamare casa.

La luce della luna che penetrava da alcune bocche di lupo ben celate da grate in ferro si posava su ogni cosa, immobilizzando il tempo. Ma tutto ciò che egli poteva vedere ora era degrado e disperazione. Gli enormi specchi da parete erano stati frantumati – in parte da lui stesso, i drappi con i quali era uso ricoprirli giacevano per terra, bruciati, e dovunque posasse gli occhi regnava il caos. Addirittura il suo organo, per il quale aveva sempre nutrito uno smisurato orgoglio, era stato distrutto da mani rabbiose e insensibili.

Scese lentamente le scale di pietra, calpestando i frammenti di vetro, in volto uno sguardo di furia cieca. Come avevano osato entrare in casa sua e distruggerla in quel modo barbaro? L’unico modo per punire il Fantasma era dunque accanirsi con i suoi pochi averi? Oh, se solo avesse potuto gliel’avrebbe fatta pagare…

Ma ogni cosa a tempo debito, Erik, si disse tra sè. Presto tutto sarà vendicato.

Sfiorò con tocco gentile i tasti sfondati del suo prezioso organo, per poi gettare uno sguardo distratto e indifferente ai vari ritratti di Christine che non erano stati risparmiati dal fuoco. Ah, ecco dov’era la gondola, realizzò, guardando con uno scatto della mascella la sua imbarcazione – costrutita con le sue stesse mani basandosi su un semplice disegno delle barche veneziane – che era stata bruciata e affondata senza rimorsi. Tutto era stato distrutto, ogni singola cosa.

Diede le spalle a quello sfacelo, dirigendosi verso quella che era stata la sua camera da letto.

La tenda di broccato che separava la stanza da letto dal resto della sua dimora era stata strappata e gettata per terra, così come i cuscini del suo giaciglio. Il pavimento era ricoperto da piume e candele spezzate, come se le persone che avevano violato la sua casa avessero voluto esorcizzarla per impedirgli di tornare. Che poveri stolti. Se solo avessero saputo che non bastava così poco per liberarsi di lui…

Almeno il materasso era ancora intatto. Come sarebbe stato dormire nuovamente in quel letto? Gli avrebbe dato la forza di continuare con i suoi piani, di portare avanti il suo progetto?

Con un sospiro stanco si sfilò la maschera dal viso, posandola sul tavolino da notte, e si tolse la giacca rimanendo in maniche di camicia. Era troppo tardi per tornare alla villa, e non aveva voglia di risalire in superficie per dormire nel divanetto del suo ufficio. Quel letto era molto più comodo… Chissà, forse avrebbe dovuto mettere a posto la sua antica dimora, in modo da avere un luogo nel quale rifugiarsi per riflettere e riposarsi in tutta tranquillità, senza che nessuno lo disturbasse. L’indomani mattina, non appena avesse visto Bamdad, lo avrebbe messo al corrente della situazione.

Inoltre, in questo modo era più semplice anche andare alla lezione di canto di mademoiselle Sanders.

Con questi pensieri per la mente chiuse gli occhi, scivolando piano in un sonno profondo.

E senza comprenderne il motivo, si ritrovò a sognare Giulia.




















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AA -Angolo Autrice:
Ciao! Avete passato un bel fine settimana? Spero di si ^^
Di nuovo mille e uno grazie per i vostri complimenti, mi auguro di meritarli =P Non mi trattengo a lungo, ringrazio solo per le recensioni - che mi riempiono ogni volta di gioia *-* - e per aver aggiunto questa storia alle preferite e alle seguite! Grazie in tutte le lingue del mondo <3
Allora, che ve ne pare del nuovo capitolo? Spero che abbiate gradito le pagine di diario iniziali, ci saranno anche altre parti simili, servono per rendere meno monotona la narrazione e per entrare nella mente del personaggio... Comunque, qui non succede un granchè ma nei prossimi cercherò di riscattarmi... Promesso!
Ora vi saluto ^^ Un bacione, al prossimo chapter!
E mi raccomando...
Commentate, commentate, commentate! *O*

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Capitolo 13
*** 12. Prima parte - Rivelazioni impreviste ***


Chapitre 12 – Prima parte

Rivelazioni impreviste

 

 

 

 

 

Parigi, 15 Novembre 1877.

 

 

Mia cara Christine,

è da tanto tempo che non ricevo una tua lettera. Come stai? E ovviamente, come stanno tuo marito e il vostro futuro bambino? Sono rimasta piacevolmente sorpresa nell’apprendere, nella tua ultima, che sei in dolce attesa. Ti auguro tutti i beni di questo mondo, bambina.

Mi riempie di pena il dover essere io ad informarti del fatto che la tua cara madrina, nonché mia tenera amica, madame Valerius, si è spenta la notte scorsa, lasciandoci nel sonno. Il dottor Mounier ha detto che non ha sofferto, grazie al Cielo. Ti scrivo anche per avvisarti che il funerale è già avvenuto, mia cara: ho cercato di convincere sia padre Joseph che monsieur Mounier a rimandare le esequie per permettere a te di parteciparvi – so quanto bene volessi alla tua madrina – ma purtroppo entrambi hanno convenuto sul fatto che fosse impossibile. La mia lettera non sarebbe giunta in tempo, e se anche un telegramma fosse stato più celere, sicuramente il treno da Marsiglia a Parigi ci avrebbe messo almeno tre giorni prima di arrivare. Mi dispiace immensamente, mia cara.

Non affrettarti a partire, Christine: nelle tue condizioni devi stare molto attenta – se i miei istinti di donna sono ancora corretti, dovresti ormai essere prossima a partorire – e non obbligarti a viaggi lunghi, scomodi e faticosi. Il piccolo dovrebbe essere con noi per Natale, non è così? Tu vieni pure quando starai meglio, la mia casa è sempre stata aperta per te, anche ora che sei una Viscontessa.

Ho tante cose da raccontarti, alcune belle e alcune meno, ma lo farò in un’altra lettera. Ogni cosa a suo tempo, e questa volta ti ho già arrecato abbastanza dispiacere. Ti rinnovo le mie più sentite condoglianze da parte mia, di Meg e della cara Agnese, che continua a chiedermi di te. Chissà se riuscirai a rivederla? Anche lei ormai non è più come un tempo…

A presto, carissima. Attenderò con impazienza la lettera nella quale mi annuncerete la nascita di un piccolo de Chagny. Mi farai l’onore di lasciarmelo chiamare nipotino?

Affettuosamente tua,

Louise Thèrese Giry.

 

 

Le tre donne, ritte in piedi, rimasero in rispettoso silenzio, osservando rispetto la nuova lapide marmorea sormontata da una madonna in lacrime, ai cui piedi si leggeva il nome della defunta in caratteri eleganti.

 

Constance Marie Valerius

1799 – 1877

 

Madame Giry sospirò, trattenendo a stento le lacrime: non si aspettava che l’anziana donna se ne andasse così presto, malgrado avesse già una certa età e la sua salute fosse minata irreparabilmente. Eppure nei suoi occhi vi era ancora quella luce, quando le aveva rivelato l’identità della giovane che Louise teneva in casa sua ormai come una figlia…!

Si chinò per l’ennesima volta per sistemare meglio il mazzo di crisantemi che aveva posto nel vaso della tomba, in modo che non coprissero la scritta finemente intagliata nel duro materiale. La neve li avrebbe ricoperti molto presto, nascondendo sia quelli che la lapide, ma per il momento era meglio tenerla al meglio. Una mano, posata dolcemente sulla sua spalla, la distolse dai suoi pensieri.

«Maman? Coraggio, andiamo.»

Annuì lentamente, sollevandosi e scrollandosi la polvere e la neve rimastale attaccata alla gonna. Diede un ultimo sguardo all’ultima dimora della sua amica, dopodichè s’incamminò senza quasi voltarsi indietro per accertarsi che Meg e Giulia la stessero seguendo. Il teatro l’avrebbe certamente distratta.

 

Giulia aveva istintivamente sospeso le lezioni con il Maestro subito dopo la morte di madame Valerius, ormai tre giorni prima; non se l’era sentita di abbandonare madame Giry al suo dolore – dopo tutto quello che la donna aveva fatto per lei – e pertanto le era rimasta affianco, insieme a Meg, per tutta la durata della veglia e del funerale. Ma ora che la povera donna era stata ormai accompagnata al suo definitivo luogo di riposo, non vi era più alcun motivo che potesse sollevare Giulia dal suo impegno.

Tuttavia, mentre la carrozza le accompagnava tutte e tre al teatro, non potè fare altro che pensare ad una eventuale rabbia di quella creatura. Non lo aveva avvisato di ciò che era accaduto – anche se avrebbe dovuto saperlo, vista la sua natura – ma d’altronde egli non era andato a casa sua a domandarle spiegazioni come aveva fatto la prima volta. Sospirò, volgendo lo sguardo al di fuori del finestrino; l’avrebbe scoperto all’ora della sua lezione, sempre se lui si fosse presentato.

Ma prima c’era altro di cui doveva preoccuparsi.

Accadde alla fine delle prove di canto del coro, mentre chiacchierava con alcune soprano con le quali era riuscita a stringere una sorta di amicizia; la competizione c’era e si faceva sentire, ma ciò non impediva loro di parlare e scherzare come persone civili. Ad ogni modo, mentre ascoltava le rivelazioni di Charlotte a proposito di un certo giovanotto che sembrava farle la corte, Giulia venne chiamata in disparte proprio da monsieur Reyer, che sembrava leggermente agitato.

«Mademoiselle Sanders, sembra esserci una persona che vorrebbe fare la vostra conoscenza…» Disse, indicandole con discrezione qualcuno che stava seduto in platea.

Giulia si voltò, incuriosita, verso la persona che le stava indicando il direttore d’orchestra. Si trovò ad osservare un signore anziano, dal nobile portamento, le cui mani nodose stringevano il pomo d’argento di un lungo bastone da passeggio che sottolineava la sua aristocratica persona. Giulia conosceva quel bastone – l’aveva già visto; e, sgranando impercettibilmente gli occhi dallo stupore, riconobbe in quel signore lo stesso che aveva visto arrivare, qualche tempo prima, in Place de l’Opèra, con una carrozza dal nobile blasone. Si, egli doveva essere proprio quello straniero.

«Non dovrebbe esserci nulla di male, no?» Domandò la ragazza, parlando con monsieur Reyer ma osservando lo sconosciuto.

«No, credo di no…» Replicò lui, con un leggero sospiro. «Mi sentirei più tranquillo però se parlaste con lui rimanendo qui in platea, dove possiamo vedervi. Non bisogna fidarsi molto degli sconosciuti, mademoiselle.»

Giulia sorrise indulgente, annuendo. «Certo, monsieur, lo so. Vi ringrazio per la preoccupazione.»

Dopodichè scese dal palcoscenico, sistemandosi le pieghe del vestito e raggiungendo il signore che sembrava attenderla, seduto su una poltroncina rossa della terza fila. Non appena la vide avvicinarsi si alzò in piedi, reggendosi al bastone, e accennando un inchino col capo in segno di saluto. La ragazza sorrise: non sembrava essere dotato di cattive intenzioni, dopotutto.

«Buongiorno, monsieur.» Lo salutò ella per prima, facendo un elegante inchino. «Mi hanno detto che volevate conoscermi, o si tratta solo di un malinteso?»

«Assolutamente no.» Replicò lui, con un mezzo sorriso. «Voi dovete essere… Mademoiselle Christine Daaè, o mi sbaglio?»

Giulia sollevò stupita le sopracciglia, sentendo il nome della cara amica di Meg pronunciato da quel signore che nessuno sembrava aver mai visto; ma per quale motivo l’aveva confusa con lei?

«Oh no, monsieur, mi spiace. Il mio nome è Giulia, Giulia Sanders. Non ho nessun legame con madame de Chagny.» Rispose gentilmente, tenendo a precisare che la giovane Daaè era ormai una figura di un certo livello sociale.

«Dovete perdonarmi, allora, mademoiselle Sanders. Temo che la mia memoria non sia più tanto buona come una volta.» Ribattè lui con un cenno del capo. «Ad ogni modo, non mi sbaglio sul fatto che era proprio voi che volevo conoscere. Ah, ma che maleducato!» Esclamò poi, con un principio di risata. «Non mi sono ancora presentato. Io sono il Duca Henri Lescroart de Blanchard, ed è un piacere fare la conoscenza di una giovane e così bella cantante, se mi permettete.»

La ragazza non riuscì ad impedirsi di arrossire leggermente, mentre lasciava che il duca le prendesse educatamente la mano facendo cenno di baciarla. Adesso che prestava maggiore attenzione, la voce di quell’uomo aveva un qualcosa di familiare, ma chissà cosa… Aveva l’impressione di averla già sentita, ma d’altronde poteva ancora trattarsi dei vaghi ricordi del suo passato di cui monsieur Mounier, il dottore, aveva parlato, dicendo che sarebbero diventati sempre più frequenti. Lei non sapeva davvero che cosa pensare…

Ad ogni modo, quell’uomo le faceva una strana impressione, anche se non ne conosceva il motivo. E, come se non bastasse, si sentiva nuovamente osservata e spiata dall’alto, e anche questa volta sapeva di chi si trattava; che situazione fastidiosa.

«Mademoiselle Sanders! Vi stavo cercando.»

I due vennero interrotti dalla voce, vagamente irritata, di qualcuno che Giulia ormai conosceva bene; si voltò infatti verso monsieur Bamdad, sorpresa dalla sua presenza in platea a quell’orario, e fece per presentarlo al duca, così come la buona educazione suggeriva. Tuttavia il persiano non fece cenno di voler restare a scambiare convenevoli con quell’uomo, al quale lanciò una lunga occhiata perplessa e preoccupata.

«Perdonateci, monsieur, ma devo privarvi della nostra solista.» Esordì l’uomo, prendendo Giulia sotto braccio e conducendola via, verso l’uscita della sala, senza neppure permetterle di salutare l’anziano nobile. Uscirono nel grande e affollato foyer, ma egli non si fermò, accompagnando invece la ragazza fino al piccolo cafè del teatro che si trovava dalla parte opposta del salone.

«Monsieur Bamdad, va tutto bene?» Domandò lei alla fine, scrutandolo impensierita.

L’uomo trattenne un sospiro, scuotendo il capo. «Dovete perdonarmi per il mio comportamento di poco fa.» Rispose, parlando a bassa voce; sembrava quasi che avesse corso per arrivare fin lì. «Ma voi, che cosa ci facevate con quell’uomo? Non dovreste rivolgere la parola in quel modo a dei perfetti sconosciuti.»

Le scostò galantemente la sedia per farla accomodare, dopodichè chiamò un cameriere ordinando del thè per lei e uno scotch liscio per lui. Sembrava davvero innervosito.

«Non vi fa male bere così tanto a quest’ora?» Domandò, sorpresa.

Ma egli scosse la testa. «Ne ho davvero bisogno.» Replicò, piuttosto seccamente. «Comunque, non mi avete risposto! Perché quell’uomo stava parlando con voi?»

Giulia scrollò le spalle, posando il cappello che ancora aveva tra le mani sopra il tavolino. «Non ne ho idea. Monsieur Reyer mi ha detto che il duca voleva conoscermi, così mi sono avvicinata. Però non sembrava una cattiva persona, è stato molto gentile.»

Monsieur Bamdad prese il bicchiere di liquore che il cameriere gli aveva appena servito e ne bevve un lungo sorso. «Beh, dopotutto voi non potete sapere…» Sussurrò poi, senza guardarla.

«Che cosa non posso sapere?» Insistè lei, senza degnare di un’occhiata la tazza di thè fumante che lo stesso cameriere le aveva posto davanti.

Il persiano sembrò riscuotersi dai suoi pensieri. «Oh, nulla, nulla di importante.» Sorrise, prendendo un profondo respiro. «La verità è solo che… Vedete, sono preoccupato per voi.»

«Preoccupato? In che senso, scusate?»

Egli prese un altro sorso di scotch, prima di rispondere. «Forse ‘preoccupato’ non è la parola giusta… In realtà, mi da leggermente fastidio quando qualche altro uomo vi rivolge la parola.»

Giulia sgranò leggermente gli occhi, sorpresa. Ma di cosa stava parlando? Era forse… Oh Dio, sarebbe stato così imbarazzante, ma… Possibile che monsieur Bamdad fosse… Ebbene si, geloso…?

«Monsieur, io… Non… Non credo di capire…» Balbettò, sentendosi le guance andare in fiamme.

Le parole che seguirono, poi, ebbero il duplice effetto di tranquillizzarla e metterla ancora più a disagio nel medesimo tempo. «State tranquilla, mademoiselle, non ho nessuna intenzione di saltarvi addosso come un uomo senza morale né onore.» Mormorò, addolcendo il tono della voce. «Vi darò tutto il tempo di cui avete bisogno prima di chiedervi una risposta. Credo che i miei sentimenti siano abbastanza chiari, ma non voglio mettervi in imbarazzo e costringervi ad ascoltarli. So che adesso avete tanti pensieri, e non voglio di certo sommarmi ad essi; inoltre, forse sarebbe stato più appropriato chiedere prima a madame Giry, che è la vostra unica tutrice, al momento!»

Sorrise vagamente, giocherellando con il suo bicchiere ormai vuoto. «Ma la colpa è della mia natura impulsiva, voi sapete che non sono francese… Ad ogni modo, vi supplico solo di pensare a me, qualche volta. Potete promettere almeno questo?»

Giulia dischiuse le labbra, senza parole ma ben decisa a dire qualcosa che non lo offendesse o lo facesse sentire a disagio; e stava per rispondergli, quando una voce ancora più familiare e decisamente benvenuta la interruppe nuovamente. Quella doveva di certo essere la giornata dei discorsi interrotti.

«Giulia, sei qui! Ti stavo cercando dappertutto.» Meg si avvicinò al loro tavolo, sorridendo a monsieur Bamdad che si era alzato in piedi per salutarla e che le aveva scostato la sedia per farla sedere. «Grazie, monsieur, ero quasi certa che avrei trovato anche voi qui.»

Entrambe le ragazze poterono giurare di averlo visto arrossire, ma egli si mascherò subito dietro una severa espressione del volto. «Purtroppo adesso devo andare, mesdemoiselles, numerosi impegni mi chiamano. Mademoiselle Sanders, è stato un piacere parlare con voi. Mademoiselle Giry, lieto di avervi rivista.»

Poi prese il cappello e se ne andò, sparendo tra la folla. Subito Meg non resistette e si voltò verso l’amica, che ancora aveva l’ombra del rossore sulle guance. «Ho forse interrotto qualcosa?» Indagò quindi, con tono malizioso.

Tuttavia Giulia scosse la testa, palesemente felice della presenza della giovane ballerina. «No, Meg, anzi, credo di doverti ringraziare… Se non fossi arrivata, chissà cos’altro sarebbe successo.»

«Devi raccontarmi ogni cosa!» Volle sapere Meg, sorpresa.

L’altra annuì, dicendo tutto all’amica e arrossendo ad ogni frase. Era un piacere confidarsi con lei, sarebbe stato bello poterle dire davvero ogni cosa… Ma per il momento non poteva; e si odiava per essere costretta a tenerle qualcosa nascosto, quando moriva dalla voglia di parlarle del Maestro… Chissà se Meg avrebbe potuto aiutarla?

Quando l’orologio scoccò le cinque in punto, Giulia salutò Meg e madame Giry – che le aveva raggiunte per pranzo – e si diresse alla sua lezione di canto privata. Avrebbe davvero preferito evitarla, ma se non avesse voluto vedere arrabbiato quel demonio dalla voce magnifica non poteva fare altro.

 

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Ehilà! Eccomi tornata con il nuovo capitolo ^^
Dunque, passo prima di tutto a rispondere alle care fanciulle che hanno recensito, vi adoro <3 :

aliena: Innanzitutto grazie mille per la recensione! Mi dispiace per il continuo riferimento a Christine ^_^; ma purtroppo è necessario u.u
[Questo interessa tutte, credo ^^] Dunque, per rispondere alla tua domanda... Il Fantasma a cui mi ispiro è una sorta di "incrocio" tra l'originale Erik di Gaston Leroux e il bellissimo (*-*) Erik della versione webberiana... Fisicamente il "mio" è in tutto e per tutto quello del musical - o, meglio, della versione cinematografica - ma per quanto riguarda il carattere ho cercato di renderlo il più possibile vicino al fantasma originale, altrettanto crudele e con un passato che è - anch'esso - a metà strada tra le due versioni... Ad ogni modo queste peculiarità emergeranno più avanti,  non temere ^^ Spero di essere stata abbastanza chiara! Un bacione =*

Yunie992: Grazie mille per la recensione! ^^ Per quanto riguarda le altre fan fiction... Purtroppo sono bloccate =( "Secret Diary" è giunta fino al 9 capitolo, ma non mi sono data la pena di postarlo perchè tanto l'ho sospesa... Stessa cosa per l'altra :( Inoltre il mio tempo a disposizione non è così elevato, sto facendo centomila cose e adesso non riesco a rimettere mano anche a quelle due... Un giorno magari lo farò, comunque ^^ Dato che mi affeziono troppo ai miei personaggi per abbandonarli definitivamente! xD Un bacione, continua a seguirmi =*

TheMisty910: Wao, grazie mille per i complimenti *-* Non pensavo che l'idea del diario potesse piacere così tanto! Spero che abbia avuto lo stesso effetto anche la lettera di madame Giry ^^ Un bacione, al prossimo capitolo! Smack =*


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Capitolo 14
*** 12. Seconda parte - Dove ciascuno architetta il proprio piano ***


Chapitre 12 – Seconda parte

Dove ciascuno architetta il proprio piano

 

 











 

 

 

Giulia scese velocemente le scale della cappella, conscia di essere in tremendo ritardo per la sua lezione. Era ancora abbastanza confusa dal discorso avuto quella mattina con monsieur Bamdad, e dalla sua improvvisa quanto inaspettata dichiarazione. Non credeva che l’uomo nutrisse quel genere di sentimenti nei suoi confronti, ma d’altronde non era molto brava a capire quello che gli altri sembravano volere da lei.

Solo con il suo Maestro ci riusciva, ma dopotutto doveva ringraziare la sua terribile eloquenza.

Ed ora, era il momento della verità… Iniziò a prepararsi per subire l’ira del suo insegnante, e con un sospiro si portò al centro della piccola cappella circolare. Strinse nervosamente le mani, intrecciando le dita e tormentando la gonna del suo vestito in attesa che Egli manifestasse la sua presenza. Non aveva il coraggio di chiamarlo per prima.

«Credevo di essere stato abbastanza chiaro a proposito dei ritardi.»

Giulia raddrizzò la schiena, rabbrividendo; eccolo, era arrivato. «Maestro…» Iniziò, con un filo di voce.

«Io non tollero i ritardi.» Proseguì, come se non fosse stato interrotto. «E, come se non bastasse, voi vi siete assentata dalle nostre lezioni per ben tre giorni

La sua voce ormai avvelenata esprimeva tutta la rabbia e il disappunto per la scarsa, a suo parere, partecipazione della ragazza alle loro lezioni, che sembrava quasi voler trascurare. Oh, sapeva di non essere una compagnia molto piacevole, ma aveva lei forse già scordato il loro patto?

«Mi dispiace, Maestro. Credevo sapeste… Pensavo foste a conoscenza della morte di madame Valerius… Io…» Provò a giustificarsi, sollevando il capo e voltandosi verso il punto da cui credeva provenire la sua voce.

Ma egli la interruppe, seccamente. «Non mi riguarda altro che non siano le nostre lezioni. Ogni ritardo ed ogni assenza saranno esclusivamente colpa vostra, quindi assumetevene la responsabilità.»

La ragazza trasalì, sorpresa da quella brusca risposta. Ma decise che replicare sarebbe stato del tutto inutile: perciò annuì, lentamente, chinando il capo in segno di scusa. «Si, lo so. Perdonatemi.»

Il Maestro non rispose subito; tuttavia, quando lo fece, ebbe il potere di terrorizzare Giulia ancora più di quanto già non fosse. «Dovrei punirvi, lo sapete?»

Probabilmente fu la voce atona e neutra che egli utilizzò per pronunciare quella rapida sentenza, ma il cuore della ragazza mancò di un battito, all’idea di una sua eventuale punizione. Davvero, non credeva che il suo maestro fosse così crudele… Ma già, dopotutto… Era il Figlio del Diavolo…

Deglutì, prendendo un bel respiro. «Io…» Iniziò, ma la voce le si spezzò. Poi ritentò. «Io… Vi supplico solo di non prendervela con Meg o madame Giry, né con nessun altro… Se è con me che siete arrabbiato, allora è con me che dovete prendervela. Avete ragione quando parlate di responsabilità.»

Nel buio del suo nascondiglio, avvolto dalle tenebre, Erik sussultò. Si sarebbe aspettato piuttosto che la ragazza singhiozzasse, o lo supplicasse di non rivolgere su di lei la sua ira, domandando perdono… Di certo non credeva che ella fosse capace di mantenere la voce così calma – il volto così sereno! – anche mentre conveniva con lui sul fatto di venire punita!

Per tutti i demoni dell’Inferno – quella fanciulla era davvero piena di sorprese…

Non capiva davvero che cosa gli stava succedendo, così all’improvviso! E, stando bene attento a non farsi sentire da lei, emise un breve sospiro rassegnato.

«Questa volta non importa.» Mormorò, addolcendo suo malgrado la voce irosa. Ma ci tenne a precisare: «Non voglio perdere altro tempo prezioso, oggi. Tuttavia, sappiate che non ci sarà una prossima volta.»

Il volto di Giulia si illuminò, piacevolmente sorpreso, e non riuscì a trattenere uno splendido sorriso che ebbe il potere di far ammutolire per alcuni secondi l’uomo dietro la maschera. «Vi ringrazio, Maestro.»

Egli si costrinse a scuotersi, spingendo in fondo alla sua anima quello strano brivido di calore che gli aveva attraversato il petto alla vista dell’espressione della ragazza. Cosa diavolo…? Ma non volle approfondire oltre la questione. La sua allieva attendeva di iniziare.

 

Erik si trovava nel suo studio, dove sarebbe probabilmente rimasto fino a tarda notte per poi scendere nei suoi ritrovati domini sulla riva del lago. Stava lavorando alacremente ai progetti di ristrutturazione della sua dimora sotterranea, decidendo questa volta di far sparire ogni genere di specchio e compensando con tende o drappi da appendere ai muri di pietra per renderli meno spogli. Per non parlare poi dell’organo, ormai inutilizzabile e da buttar via, che andava senza alcun dubbio sostituito… Il suo antico rifugio non poteva certo rimanere senza pianoforte.

Era talmente concentrato nel suo lavoro che non si accorse del bussare insistente alla porta dello studio, e tenne china la testa sui fogli di appunti sparpagliati sopra la sua scrivania come se niente fosse. Alla fine, però, non potè più ignorarlo ed, innervosito, esclamò: «Diavolo, Bamdad, entra pure!»

Mentre lanciava uno sguardo distratto all’orologio appeso sopra il camino acceso – la cui lancetta segnava le nove passate – la porta si aprì, ed egli volse lo sguardo ad accogliere il visitatore.

«Oh… Madame Giry. Non pensavo foste voi.» Disse, senza salutare. Poi proseguì, con la voce velata di sarcasmo. «Come mai vi aggirate per il teatro a quest’ora, come un fantasma? Non dovreste essere già a casa a proteggere i vostri pulcini?»

Gli occhi della donna si chiusero a due fessure, mentre faceva sbattere con poca grazia la porta dietro di sé; la sua rabbia era palpabile, ed Erik si accomodò meglio sulla sedia per ascoltare incuriosito ciò che ella aveva chiaramente da rimproverargli.

«È proprio di questo che voglio parlarti, maledizione!» Sbottò, raggiungendolo a grandi passi e sbattendo il palmo aperto della mano sulla sua scrivania. «Credi che io non abbia capito quello che stai facendo a quella povera ragazza?»

L’uomo sollevò un sopracciglio, sostenendo senza battere ciglio lo sguardo furioso della donna. «Ritengo che non sia affar vostro quello che io decido di fare o non fare, madame.»

Louise Giry scostò la sedia e si sedette, con la chiara intenzione di trattenersi a lungo malgrado l’orario decisamente inconsueto. «Giulia è sotto la mia protezione, Erik!» Scandì furiosa, chinandosi verso di lui. «Credi che non mi sia accorta della tua visita notturna nella sua stanza, qualche tempo fa? Pensavi di poter entrare nella mia casa senza che io venissi a scoprirlo? Inoltre, questa storia del Maestro sta andando avanti fin troppo!»

«Ve ne ha messo lei a conoscenza?» Domandò invece, limitandosi a socchiudere gli occhi con atteggiamento vagamente minaccioso.

«No, non ne ha fatto parola con nessuno. Ma io so ciò che ho sentito quella notte, e so che Giulia sparisce ogni pomeriggio per qualche ora, così come so dove va e soprattutto chi incontra!» La voce di madame si avvelenò come mai Erik l’aveva sentita, e fu per quello che la lasciò finire di parlare. «Pensi che questa volta rimarrò a guardare, eh? Credi di avermi in pugno solamente perché tu ti senti tradito da me? Non so perché ti ho assecondato per tutto questo tempo, ma ora è tempo di finirla!»

Erik rimase ad osservarla a lungo, lasciando che si calmasse prima di dare una risposta. Era la prima volta che vedeva madame così furiosa, e se da una parte ne era divertito, dall’altra ne era immensamente infastidito: come si permetteva, proprio lei tra tutti, di giudicare? Non aveva forse mantenuto il segreto anche con la piccola Christine? E sì che allora l’inganno era durato a lungo…

Con un’incredibile calma, poi, si decise a risponderle. «Sapete, madame, voi non avete la minima idea di quali siano i miei progetti per la ragazza. Dopotutto, non sembrate neppure interessata a conoscerli. D’altra parte, non potete ignorare che le capacità canore di mademoiselle Sanders siano notevolmente migliorate nelle ultime settimane, esattamente da quando io le impartisco le mie lezioni…»

«Non ho mai messo in dubbio la tua capacità di insegnare, Erik.» Ribattè Louise, cercando di rispondergli con lo stesso tono neutro e sarcastico. «Quello che mi chiedo è solo cosa tu possa volere da lei, visto che non sei il tipo da fare niente per niente.»

«Ripeto, madame, non vedo come la cosa vi possa riguardare.» Replicò, con un sibilo. «Se non sbaglio, sono stato io a trovare la ragazza, e se non fosse stato per me probabilmente ci sarebbe morta in quei sotterranei. Ve la portai esclusivamente perché ve ne faceste carico in un momento in cui io non ne ero in grado; perché sappiatelo, madame, se fossi stato in grado di curarla in prima persona non vi avrei mai – e sottolineo mai – coinvolto.»

La donna aggrottò le sopracciglia, arrabbiata. «Quindi, con questo sciocco discorso, pensi di dispensarmi dal preoccuparmi per lei? Ah!, che sciocchezza.»

Erik si alzò con un movimento infastidito. «Fate come volete!» Sbottò, versandosi un bicchiere di liquore che teneva conservato nel mobiletto dietro la scrivania. «Vi avverto solo di non immischiarvi più nei miei affari, perché questa volta, madame, non ve la farò passare liscia.»

Madame Giry si alzò a sua volta, stringendo le mani a pugno per resistere alla tentazione di lanciargli uno dei suoi preziosi fermacarte. «Lei non è Christine, Erik!» Esclamò, con l’intenzione di farlo rinsavire.

Per tutta risposta, egli si limitò a voltarsi lentamente verso di lei, stringendo gli occhi minaccioso. Tuttavia la sua voce fu pressochè atona quando le rispose. «Questo lo so benissimo, madame. Non c’è alcun bisogno che me lo rammentiate.»

Poi, dato che non sembrava intenzionato a dire altro, madame gli diede le spalle e, senza più rivolgergli la parola, uscì dallo studio sbattendo la porta.

Oh, ma non finisce qui, pensò la donna, percorrendo a grandi passi i corridoi deserti del teatro. Troverò un modo per mettere la parola fine a tutto questo. A costo di impedire a Giulia di venire a teatro, questa storia deve finire. Non permetterò che tutto si ripeta ancora una volta senza alzare un dito!

 

Tuttavia, madame scoprì ben presto che le parole erano molto più semplici dell’agire, e dovette quasi arrendersi al chiaro ascendente che Erik aveva su tutti coloro che lavoravano al teatro. Non appena il giorno dopo maestro Reyer venne a conoscenza delle intenzioni di madame Giry, ossia ritirare Giulia dal coro dell’Opèra, non ci pensò due volte a raggiungere madame durante una delle sue lezioni per supplicarla di non fare una cosa del genere. Voleva forse scherzare, impedire a mademoiselle di frequentare il teatro a pochi giorni dall’Aida? Che ne sarebbe stato del coro senza la loro solista? Voleva di nuovo vedere il teatro in rovina?

Certamente madame sarebbe convenuta sul fatto che una simile decisione – come rimandare la ragazza dai suoi genitori, ridicolo! – avrebbe fatto scandalo!

Così, quella parte del piano di madame Giry svanì ancora prima di essere messa in atto. Va bene, Giulia avrebbe continuato a frequentare il coro; ma non sarebbe più dovuta andare da Erik! E, per far si che ciò fosse possibile, aveva bisogno dell’aiuto di Meg.

Louise confidava nell’amicizia che ormai legava le due ragazze: se Meg avesse chiesto a Giulia di accompagnarla a fare alcune commissioni in città, dopo le loro prove mattutine, la giovane non si sarebbe di certo potuta rifiutare, vero?

«Scusami, Meg, ma stasera non posso.» Aveva invece risposto la ragazza, con un’espressione dispiaciuta in volto che però non le fece cambiare idea. «Anzi, non vorrei arrivare in ritardo… Ti spiace se ci rivediamo più tardi, quando tua madre finisce i suoi corsi? Ora devo scappare!»

Meg la osservò mentre si insinuava tra la folla che occupava il corridoio, rimanendo a guardarla fino a quando non la perse di vista. Preoccupata, corse dalla madre per aggiornarla sul risultato del loro piano.

«Sarei curiosa di sapere in che altro modo l’ha minacciata, per spingerla ad obbedirgli in modo così incondizionato.» Sibilò la donna a bassa voce, dopo che Meg le ebbe riferito l’accaduto.

La giovane Giry incrociò le braccia, innervosita. «Credi che Lui l’abbia minacciata?»

«So che è così! Come lo spieghi il suo comportamento, altrimenti?» Ribattè la madre, battendo forte il suo bastone sul pavimento. «Credevo che tutto questo fosse finito una volta per tutte, e invece…»

«Sai, maman, forse… Finchè non le fa del male, come ha fatto con Christine, non penso ci sia qualcosa di male nelle lezioni che le impartisce, non credi?» Tentò Meg, mordicchiandosi il labbro.

Madame sospirò, seccata. «Anche con Christine aveva iniziato in questo modo, Meg.» Poi, dopo aver riflettuto per una manciata di secondi, sospirò. «Temo che la somiglianza tra loro due non l’abbia aiutato a dimenticare… E se… Oh, mon Dieu…»

Istintivamente Meg rabbrividì, spaventata. «Pensi che si possa vendicare su Giulia di quello che è accaduto con Christine? Ma è assurdo!»

«Erik non è famoso per i suoi comportamenti assennati, bambina mia…» Mormorò la donna, abbassando pensosa lo sguardo. Subito le venne in mente ciò che le aveva confidato madame Valerius in uno dei suoi ultimi momenti di lucidità, a proposito dell’identità della giovane cantante. Era un bene che Erik non ne fosse a conoscenza; se l’avesse saputo, chissà cos’altro sarebbe stato capace di inventarsi, con il suo animo affamato di vendetta…

«E allora, cosa facciamo? Lasciamo che Giulia continui ad andare a questi incontri segreti?» Sbottò piano la figlia, mettendosi le mani sui fianchi in un gesto stizzito.

«Credimi, Meg, se avessi un’idea migliore non esiterei a fare qualcosa…» Si limitò a rispondere madame Giry, scrollando elegantemente le spalle.

Rimasero un po’ in silenzio, ignorando il vociare che proveniva da fuori lo sgabuzzino nel quale Meg aveva trascinato un’alquanto recalcitrante e infastidita madame. All’improvviso, la giovane ballerina ebbe una sorta di illuminazione.

«Maman!» Esclamò, prendendole le mani tra le sue per attirare l’attenzione della donna. «Pensi che il Fantasma lascerebbe in pace Giulia se pensasse che lei… sia fidanzata?»

Madame Giry sgranò gli occhi, stupita: cosa sapeva Meg in più di lei? «Non saprei, Meg. Se ti ricordi, quando il visconte de Chagny aveva iniziato a manifestare il suo interesse nei confronti di Christine, Erik l’aveva rapita per ben due settimane, e tu sai poi cosa ne è venuto dopo…»

Tuttavia la giovane Giry non sembrava darsi per vinta. «Si, ma accadde perché il Fantasma aveva dei sentimenti per Christine… Adesso invece, vuole Giulia solo per vendicarsi! Perciò, se lei fosse sotto la protezione di qualcun altro… Forse…»

Louise a quel punto si innervosì, gettandosi la lunga treccia dietro la schiena e osservando la figlia con un misto di curiosità e impazienza. «Marguerite Giry, sei vivamente pregata di non esprimerti per enigmi e di parlare a tua madre con chiarezza!»

La ragazza ridacchiò tra sé, scuotendo la testa. «Mi dispiace, maman, ma scoprirai tutto a tempo debito. Non posso dirti altro per il momento.»

«Questo perché sai che a me non piacerà, non è così?» Asserì madame, inarcando un sopracciglio con tono sospettoso.

Meg scrollò le spalle. «Quando lo scoprirai, me lo farai sapere.»

La donna allora si limitò ad annuire, mascherando l’innata preoccupazione con la quale viveva da quando aveva saputo del ritorno di Erik. Avrebbe mai cessato di preoccuparsi per lui, un giorno, o avrebbe dovuto convivere così per sempre?

«Mi raccomando, Meg… Non fare niente di sciocco.»

 















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AA - Angolo Autrice:
Ciao! ^^ Chiedo umilmente perdono per il ritardo dell'aggiornamento, ero indecisa se continuare o no a postare questa storia... In fondo non è un granchè :( Comunque, finchè ci sarà anche solo qualcuno a leggerla, allora mi sembra giusto continuarla =)
Dunque, passo subito ai ringraziamenti! ^^
  • TheMisty910:  Grazie per la recensione, sono contenta che ti sia piaciuta l'idea della lettera di madame Giry ^^ Credo ci saranno altre parti simili, è un modo per focalizzare l'attenzione su un particolare personaggio senza perdere l'onniscenza del lettore con la prima persona! ^^ Okay, deviazione professionale, spero si sia capito il concetto e spero che leggerai anche questo capitolo con lo stesso piacere ;) Per quanto riguarda l'anziano Duca... Beh, bisognerà attendere ancora =p Un bacione, al prossimo capitolo! =*
  • Yunie992:  Grazie anche a te per la recensione! ^^ Ripeto, mi spiace per le altre fan fiction, ma purtroppo non riesco a riprenderle in mano =( Spero che questa non faccia la loro stessa fine, ma molto dipenderà dal successo che riscuoterà No One Would Listen xD Anche se questo aggiornamento giunge in ritardo, spero sia gradito e che non vi siate già dimenticate la storia! ;) Ci sentiamo presto! Un bacio =*
Come sempre, ringrazio chi ha aggiunto la storia alle preferite, alle ricordate e alle seguite! Grazie, grazie, grazie, mi fate davvero molto felice *commossa* :')
Ci leggiamo al prossimo capitolo! Smack a tutte =*
GiulyRedRose


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Capitolo 15
*** 13. Rabbia e complicazioni ***


Chapitre 13

Rabbia e complicazioni

 












 

 

 

 

Meg decise di mettere in atto il suo piccolo piano già il mattino successivo.

Ignorando le proteste della madre che la volevano in sala da ballo, insieme a tutte le altre ballerine, la giovane Giry attese fuori dalla platea che l’amica terminasse le prove del coro, dopodichè la raggiunse prima che svanisse tra la folla e la prese in disparte, attirandola in un angolino appartato.

«Meg! Cosa ci fai qui? Non hai le prove anche tu?» Le chiese la ragazza, sorpresa di trovarla lì.

La ballerina liquidò la questione con un gesto della mano, facendole cenno di avvicinarsi. «Senti Giulia, ti ricordi che dovevo parlarti? Solo che poi sono successe tante cose e non ho più avuto occasione di farlo…»

«Ah, si… Si, ricordo!» Annuì Giulia, tutt’a un tratto interessata alle parole dell’amica.

«Bene!» Replicò l’altra. «Allora ascoltami, visto che ora ho le prove e non posso, incontriamoci dopo pranzo, va bene?, sempre nella cappella del teatro. Sai dove…?»

Giulia annuì nuovamente prima che Meg finisse di parlare. «Si si, so dov’è. Quindi, a che ora?»

«Le tre?»

«Le tre va benissimo.» Convenne l’amica, pensando che sarebbe riuscita comunque a non tardare alla lezione con il suo Maestro dato che questa si svolgeva solo un’ora più tardi.

Meg sorrise, abbracciando affettuosamente la ragazza e lasciandole due teneri baci sulle guance. «Bene, ma chère, allora a più tardi! Mi raccomando, sii puntuale!»

 

«Meg è in ritardo.»

Con un sospiro rassegnato, Giulia si sedette sul gradino in marmo della grande vetrata, giocherellando distrattamente con i lembi del suo vestito. Se l’amica fosse arrivata tardi, magari all’ora della sua lezione con il Maestro… Oh Dio, cosa sarebbe successo se lei li avesse scoperti?

Scosse la testa, non volendo neanche pensare ad una simile eventualità.

All’improvviso, però, dei rumori di passi dalle scale la riscossero dai suoi pensieri. Si alzò, incrociando le braccia, in attesa che l’amica scendesse nella cappella e decisa a rimproverarle, seppur scherzosamente, il suo ritardo. Ma dovette abbandonare tutti i suoi propositi quando vide chi, effettivamente, era appena arrivato in quel piccolo luogo consacrato.

«Monsieur Bamdad?» Esclamò sorpresa, mentre l’uomo si toglieva il cappello e accennava un inchino educato. Anche lui sembrava piuttosto stupito, in realtà.

«Mademoiselle Sanders! Non credevo di trovarvi qui.» Rispose, avvicinandosi di qualche passo a lei. «È stata mademoiselle Giry a dirmi di venire, anche se forse sono in ritardo e lei è già andata via…?»

Giulia scosse la testa, cercando di ignorare il leggero senso di disagio che ora provava quando si trovava in compagnia del persiano. «In realtà, anche io stavo aspettando Meg. Mi ha detto di venire qui ma poi non si è presentata, quindi…» Scrollò elegantemente le spalle, prima di aggiungere. «Forse è meglio che me ne vada, ora.»

Fece per raggiungere le scale e andarsene – non voleva rimanere da sola con il giovane – ma egli la trattenne per un polso, impedendole di fare un altro passo. Ella si voltò, sorpresa.

«Vi prego, mademoiselle, non andatevene così.» La sua espressione sembrava in qualche modo triste, e convinse la ragazza a rimanere per sentire ciò che doveva dirle. «Noi avevamo interrotto un discorso qualche giorno fa, se non ricordo male.»

Fu inevitabile che le guance di Giulia si tingessero di rosso, mentre abbassava lo sguardo per non rischiare di incrociarlo con quello di monsieur Bamdad. Non rispose, così fu lui a riprendere la parola.

«Avete pensato a me, qualche volta, come vi ho chiesto?» Sussurrò, in un modo estremamente dolce che la fece arrossire ancora di più.

«Forse… Non è il luogo più adatto per…» Provò a ribattere lei, con poca convinzione.

Così egli decise di insistere, attirandola verso di sé. «Credo invece che non ci sia luogo più consono.» Replicò lui, con un mezzo sorriso. «Guardate, abbiamo anche la protezione di un angelo…» Aggiunse poi, indicandole l’angelo dipinto nella vetrata.

E la maledizione di un demonio!, avrebbe voluto replicare lei, leggermente in ansia. Mio Dio, se Lui fosse arrivato in quel momento…

«Monsieur, davvero, io… Dovrei andare…»  Balbettò, senza riuscire a trovare una scusa accettabile; possibile che proprio quel giorno il persiano non avesse nessun impegno o lavoro da compiere?

«Prometto che poi vi lascerò andare, mademoiselle.» Mormorò lui, con un’incrinatura leggermente roca nella voce che a Giulia non piacque affatto. «Ma prima desidero fare una cosa…»

Poi, prima che la ragazza potesse fare qualcosa per liberarsi dalla sua presa gentile ma forte, si ritrovò le braccia del persiano strette intorno alla vita, e il suo viso a pochi centimetri dal suo. Aprì la bocca per intimargli di non osare, ma al contrario egli ne approfittò e chinò le sue labbra voraci su quelle della ragazza, catturandole in un bacio che la fece gemere dal disgusto.

Cercò di divincolarsi con furia mentre lui continuava a baciarla, ma solo dopo aver puntato le mani sul suo petto e averlo spinto con forza riuscì a mettere una distanza accettabile tra loro. Gli rivolse uno sguardo stupito e arrabbiato, e senza dire una sola parola gli diede le spalle e corse su per la tromba delle scale, dimenticando ogni cosa che non fosse quel bacio il cui ricordo ancora bruciava su di lei.

Come ha osato fare una cosa del genere?

Lasciò il teatro senza neppure avvisare madame Giry o Meg, scendendo nelle scuderie a domandare al cocchiere che di solito accompagnava madame se poteva riportarla a casa. L’uomo preparò il calesse senza fare domande, e Giulia tornò a casa con l’intenzione di non mettere più piede a teatro. Ne aveva abbastanza di quel genere di vita, decise tra sé.

 

Se avesse potuto, Erik avrebbe distrutto tutto quello che si trovava sul suo cammino.

Aveva assistito senza poter intervenire al breve dialogo che era appena avvenuto tra il suo segretario e la sua allieva, e sinceramente non aveva ancora capito quale strana paralisi gli avesse impedito di uscire dal suo nascondiglio e uccidere Bamdad!

Si bloccò in mezzo al corridoio, colpendo con un pugno la parete. Maledizione, doveva calmarsi! La rabbia non avrebbe risolto nulla in quel momento, e sapeva per esperienza che non era il caso di lasciarsi trasportare dall’ira. Certo, uccidere non era necessario. Ma avrebbe dovuto farla pagare a qualcuno, oh si…

Raggiunse il suo studio nel più breve tempo possibile, avendo visto che tanto mademoiselle Sanders era fuggita dal teatro e che per quel motivo era saltata anche la loro ennesima lezione. Andando avanti di questo passo non sarebbe mai riuscito a portare avanti il suo piano, dannazione!

Fece sbattere la porta dietro di sé così forte che si sarebbe potuta staccare dai cardini se non fosse stata di legno massiccio, e anche così aveva rischiato. Posò il violino sopra la scrivania ed aprì l’anta di vetro del mobile dietro ad essa, tirandone fuori un bicchiere di vetro e una bottiglia di liquore. L’ultimo pensiero prima di ingerire il liquido tutto d’un fiato fu che ultimamente stava ricorrendo al vino troppo spesso, ma alla fine non gli importava; almeno, una volta stordito dai fumi dell’alcool, non avrebbe rischiato di fare qualcosa di cui poi, a mente lucida, si sarebbe sicuramente pentito. Come l’idea di uccidere Bamdad.

Provò un sincero disgusto verso di sé, sbattendo il bicchiere vuoto sul tavolo ed imprecando ad alta voce; è vero dunque che le persone non possono cambiare mai…

Poggiò i gomiti sul tavolo, portandosi entrambe le mani a stringere le tempie, come per eliminare dalla sua mente il ricordo di quel bacio. Perché diavolo se la prendeva così, maledizione? Forse perché rivedeva in Giulia e Bamdad ciò che era già accaduto, in passato, con Raoul e Christine? Perché non poteva solo dimenticare? Chiudere gli occhi e dimenticare per sempre…

Aprì l’ultimo cassetto della scrivania, afferrando con una sorta di affetto perverso la rivoltella che vi giaceva sul fondo e posandola poi sul tavolo, di fronte a lui. Prese a sfiorarne lentamente la canna in metallo, ben consapevole dell’unico proiettile che vi aveva inserito la notte della tragedia, due anni prima; si era ripromesso che un giorno l’avrebbe usata su di sé, sempre se non l’avessero ucciso prima, ed era un pensiero confortante sapere che un giorno sarebbe morto di propria mano. Almeno si sarebbe fidato della persona che l’avrebbe privato della vita con una mira perfetta, senza margine di scampare alla sua dipartita.

Era così seducente il pensiero della sua morte…

«Monsieur Destler! Che cosa state facendo?»

Erik sollevò lentamente lo sguardo sull’uomo che aveva appena invaso il suo ufficio, guardandolo in un modo che aveva fatto tremare colossi ben più grandi di lui. Ma guarda, aveva avuto anche il coraggio di andare da lui, l’idiot

«A cosa devo la vostra visita, Bamdad?» Domandò, con un tono falsamente cortese di cui il segretario si accorse subito.

«Ma… Signore, mi avete detto voi di venire, quando…» Provò a rispondere il persiano, sorpreso.

Ma Erik lo interruppe. «’Quando’ cosa? Quando avreste terminato il vostro incontro galante con mademoiselle Sanders, per caso?»

«Non capisco cosa vogliate dire, monsieur.» Ribattè Bamdad, raddrizzando la schiena e ignorando deliberatamente la rabbia che il suo principale stava mostrando nei suoi confronti.

«Non lo capite.» Ripetè Erik, alzandosi in piedi con dei gesti forzatamente controllati. «Credevo di avervi parlato del fatto che mademoiselle si trova sotto la mia protezione. Mi sbaglio, forse?»

Il persiano lo fissò per un lungo momento negli occhi, senza abbassare lo sguardo. «Io sapevo che la ragazza era la vostra allieva, non la vostra fidanzata.» Replicò, con tono neutro.

Successe tutto in un attimo, senza che Bamdad riuscisse a comprendere la dinamica dell’accaduto: si rese conto soltanto, alla fine, di essere stato spinto contro il muro con una forza incredibile, e che ora monsieur Destler lo teneva per il bavero attaccato ad esso. Il suo sguardo mandava lampi, tanto era irato, e la mano attorno al suo collo si stringeva ad ogni respiro.

«Non osate, mai più, rivolgervi a me con quel tono.» Gli sibilò, trattenendo a stento la collera. «E non osate neppure avvicinarvi un’altra volta a mademoiselle Sanders, se non volete vedermi davvero arrabbiato.»

Dopodichè lo lasciò andare, dandogli le spalle e avvicinandosi verso la finestra per riprendere il controllo di sé. Sentì il suo segretario scivolare per terra e tossire per la mancanza d’aria, eppure malgrado tutto egli ebbe ancora la voglia di controbattere a quanto appena detto.

«E… E se…» Iniziò, con voce rauca. Tossì nuovamente, poi ricominciò. «Se sarà lei a venire da me?»

Erik strinse le mani a pugno, facendo scattare la mascella in un’espressione dura. Non credeva che il giovane persiano potesse essere così arrogante… A quanto pareva, si era sbagliato per l’ennesima volta nel giudicare le persone. «Di questo me ne occuperò io.» Sussurrò, in modo da poter essere udito.

«E adesso andatevene, Bamdad. Avrete del lavoro da sbrigare, immagino.» Aggiunse, sempre senza voltarsi. Eppure, anche senza vederlo, sentiva chiaramente ogni singolo movimento fatto dall’uomo, così da poterlo tenere in continuazione sotto controllo.

«Buona serata, monsieur.» Biascicò il persiano, accennando un inchino verso la schiena del padrone.

Erik sentì la porta chiudersi, e solo allora si voltò. La rivoltella era rimasta sulla scrivania per tutto il tempo, notò inarcando pigramente un sopracciglio. Bamdad avrebbe potuto afferrarla in qualsiasi momento mentre lui gli dava le spalle, eppure non l’aveva fatto. Chissà, forse non si era completamente sbagliato su di lui…

Ma Giulia… Probabilmente la ragazza meritava davvero una punizione.

 

Sette giorni erano trascorsi da allora, e Giulia non aveva voluto mettere il naso fuori casa nemmeno per pochi secondi. Si era praticamente barricata nella sua stanza, chiudendo la finestra nel timore che potesse arrivare il suo maestro da un momento all’altro e chiedendo a madame Giry di non obbligarla a tornare all’Opèra per nessuna ragione. Alla fine Meg aveva dovuto confessare alla madre il suo piccolo piano, anche se comunque non ne conosceva l’esito dato che Giulia non gliene aveva parlato, e fu non senza una certa inquietudine che la donna andava al lavoro ogni mattina. Eppure Erik non le si era mai avvicinato: l’unico che l’ebbe raggiunta per domandarle notizie della nipote fu il maestro Reyer, che era seriamente preoccupato per l’assenza della loro solista. Madame Giry inventò una febbre improvvisa che aveva costretto la ragazza a stare a letto, e che quando fosse stata meglio sarebbe tornata. Con la raccomandazione di farla riguardare monsieur Reyer era tornato alle sue lezioni, ma Louise continuava ad essere preoccupata.

Si aspettava una visita dell’uomo da un momento all’altro, e aveva tutte le ragioni per farlo.

Alla fine, la mattina del settimo giorno che la ragazza mancava da teatro, Erik fece richiamare madame Giry nel suo studio dallo stesso monsieur Bamdad, che portava una strana fascia intorno al collo.

«Stavo proprio aspettando te, Erik.» Esordì la donna, non appena mise piede nell’ufficio del suo vecchio amico.

Egli la stava chiaramente aspettando, e le fece cenno di sedersi di fronte a lui. «Però, come sempre, non siete mai venuta da me di vostra spontanea volontà.» Ribattè, sarcastico.

Ella non rispose, così lui riprese la parola. «Siete voi che state tenendo mademoiselle Sanders prigioniera in casa vostra, o è semplicemente lei che non intende tornare?»

Louise esitò un attimo prima di rispondere, ma poi sospirò e decise di essere sincera. Tanto, Erik l’avrebbe scoperto comunque, in un modo o nell’altro. «È lei che non vuole.» Mormorò, senza guardare l’uomo in volto.

Stranamente, Erik annuì piano, come se ne comprendesse il motivo. «Lo immaginavo.» Sussurrò più tra sé che alla donna. «In tal caso, madame,» riprese poi, ad alta voce. «Dovrete provvedere a farla rientrare. Non so in che modo, questo decidetelo voi – ma voglio che la ragazza torni a teatro. Nel più breve tempo possibile, se ci riuscite.»

Madame non potè fare altro che annuire, rassegnata. Alla fine, malgrado tutto quello che gli aveva detto in proposito, si trovava ad essere una semplice pedina nella scacchiera di Erik, e non poteva fare nulla per impedire le sue mosse, se non seguirle passivamente. Non le restava che pregare, e sperare che prima o poi l’uomo si stancasse dei suoi propositi di vendetta e lasciasse loro libere di vivere una vita lontana dall’ombra delle sue minacce.

 

«Meg? Vieni, avvicinati. Ti devo parlare.»

La giovane ballerina si avvicinò incuriosita alla madre, iniziando a slacciarsi i fiocchetti dell’abito da danza. «È successo qualcosa?»

«No, no… O meglio, si…» Louise sospirò, passandosi una mano sulla fronte. «Ho sentito che domani è il compleanno di Corinne, vero?»

Meg annuì, continuando a spogliarsi. «Si, è vero. Ci hai sentito parlarne, prima?»

«Si…» La figlia non riusciva davvero a comprendere il perché della voce stanca di madame, ma la lasciò continuare senza interromperla. «E dovete organizzare qualcosa, come avete fatto per Ninì?»

«Certo. Stavamo pensando di rimanere tutte a dormire qui a teatro e di organizzarle una piccola festa… Perché me lo chiedi?»

Madame si spostò alle spalle della figlia, aiutandola ad agganciare i nastri del vestito da giorno. «Meg, io… Ascolta, devi invitare anche Giulia. Devi convincerla a venire a dormire qui, insieme a voi.»

Meg si voltò stupita, senza voler credere subito alle sue orecchie. «Come? Ma maman, è pericoloso, e se lui lo venisse a sapere, e se…?»

Louise le posò un dito sulle labbra, facendola tacere. «Meg… Tu sai che sarà molto peggio se continuiamo a ostacolarlo. Non sappiamo cosa succederà, ma se Lui verrà a sapere che Giulia è tornata a teatro ne sarà sicuramente contento. Io non ho idea di che cosa stia macchinando, ma qualunque cosa sia per farla ha bisogno di lei. E se non sarà lei ad andare da lui, sarà il contrario. Tesoro, Lui è già venuto a casa nostra per parlare con lei, di nascosto. E non esiterà a rifarlo, se necessario.»

La figlia scosse piano la testa, distogliendo lo sguardo dalla madre. «Mio Dio, non lo sapevo… E tu… Tu vorresti lasciare che porti a termine i suoi maledetti piani? Così, senza fare niente?»

«Oh, Meg…» Sospirò la donna, sfiorandole la guancia in una carezza.

Ma lei allontanò il viso. «Non posso aiutarti, maman! Quell’essere mi ha già portato via un’amica che era come una sorella, per me, non voglio che accada ancora!»

Madame Giry attirò la figlia in un abbraccio, accarezzandole dolcemente i capelli. «Tesoro, è proprio per impedire che una cosa simile accada che dobbiamo fare come ci dice…»

«È un mostro,» singhiozzò la ragazza dopo una manciata di secondi. «Lo è sempre stato e sempre lo sarà! Non puoi immaginare quanto io lo odi!»

«Eppure dobbiamo obbedirgli.» Decretò infine madame, con un tono che, malgrado tutto, non tollerava repliche. «Meg, voglio tutto l’aiuto possibile da te. Da sola non ci riuscirò. Me lo prometti?»

«Dev’essere ancora furioso per aver visto Giulia e monsieur Bamdad insieme…» Balbettò la ballerina, cercando di convincere la madre della sua follia.

Ma la donna non si lasciò commuovere dagli occhi lucidi della figlia: era tornata ad essere la rigida e severa insegnante che tutti conoscevano, e Meg se ne accorse. «Me lo prometti?» Insistette.

Alla ragazza non rimase che annuire. «Si.» Mormorò. «Te lo prometto.»

 


















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AA - Angolo Autrice:
Ed eccomi qua. Chiedo umilmente perdono per il ritardo nel postare questo capitolo, sto cercando di portare avanti centomila cose - non vedo l'ora che finisca questo maledetto esame per potermi dedicare finalmente a tutte le mie fan fiction! ^^ Certo, tra un bagno al mare e l'altro u.u Comunque, voglio ringraziare chi ha recensito lo scorso capitolo (innanzitutto, grazie per le recensioni lunghissime, le adoro! *-*):

Yunie992: 
Ti ringrazio tantissimo per i complimenti, mi fa piacere che ti piaccia il modo in cui scrivo! Comunque cercherò di impegnarmi maggiormente nei prossimi, promesso u.u (piccolo spoiler: nel capitolo 15 ci sarà davvero da divertirsi... E chi vuole intendere... u.u) Per ora sto cercando di non essere troppo frettolosa nello descrivere gli avvenimenti, voglio che ogni cosa e ogni personaggio abbia il suo spazio e le sue peculiarità, è una cosa difficile da fare ma mi piacerebbe che tutti abbiano un certo spessore! (cosa impossibile, sigh... Ma voglio provarci!) Mi spiace per non averti esaudito, ad ogni modo tantissimi auguri di buon compleanno anche se in ritardo! =* A quando la patente, ora? E' la prima cosa che ho fatto io dopo aver compiuto 18 anni xD Un bacione, a presto! =*

TheMisty910: 
Ciao! Grazie mille anche a te per i complimenti, cavoli non pensavo che questa storia potesse "creare dipendenza" xD Tranquilla, non ho intenzione di abbandonarla ù.ù Un bacione, a presto! =*

Keyra93:
Wao, che recensione chilometrica! *-* Grazie per aver dedicato tutto questo tempo a commentare la storia ;) Allora, da dove inizio? Io temo davvero di aver creato una "Mary Sue", creatura mitologica a dir poco odiosa che popola svariati mondi paralleli, ma purtroppo mi serviva per far quadrare alcuni conti (come, per esempio, il fatto che sia la gemella di Christine) - ad ogni modo, non appena recupererà la memoria e si ricorderà del suo passato (o 'futuro', a seconda dei punti di vista @_@) nel XXI secolo, tornerà un pò più normale u.u Anche perchè con tutta 'sta pudizia è un pò troppo noiosa >__<  E' vero, Erik non è tanto umano ^_^; Beh, io l'avevo interpretata così: la (dis)avventura con Christine e Raoul non penso gli abbia giovato molto, anzi, non ha fatto che sottolineare il distacco enorme che c'è tra l'apparenza, in questo caso la bellezza e la ricchezza del visconte, e la profondità di un animo, cioè il suo genio, la sua passione... Come potrebbe, uno come il Fantasma, essersi redento se la morale di tutta la sua storia è che vince solo il più bello fuori e non il più bello dentro? Ecco, secondo me lui non ha acquistato nessuna umanità alla fine del primo film - l'unica cosa che ha fatto è stata arrendersi e lasciare andare Christine. Comunque io amo sia il libro che il film del 2004, quindi mischiare i due Erik è davvero una bella sfida *-* Spero solo di riuscirci e di non lasciare troppi punti in sospeso! [Per quanto riguarda la Camera dei Supplizi, non ho ancora deciso u.u Dico solo che io amo quella sala delle torture, e se nei prossimi capitoli dovesse servirmi, beh, non esiterò a metterla u.u Anche perchè comunque appare anche nel film!]
C'è davvero tutta questa tensione nella mia storia? Ho paura di non riuscire a rendere bene l'atmosfera :( Ah, e il Daroga... Nella prima versione di questa storia (l'avrò riscritta tipo tre o quattro volte.. xD) era uno dei personaggi principali, però ho pensato che bastava già madame Giry a rompere le scatole al Fantasma, senza che ci si mettesse pure lui -.-' Però non ho resistito, e il Daroga si è incarnato in Bamdad! (Beh, più o meno!) Chissà, forse Bamdad è il figlio del Daroga, può essere, no? Devo ancora decidere u.u
Ah, mi sono resa conto di essere un pò ripetitiva sul concetto dei "pensieri effimeri", ma era per sottolineare che Erik, al contrario di quanto avvenuto con Christine, non si è innamorato subito di Giulia, lui adesso non vuole accettare un simile sentimento, vuole essergli superiore e quindi si ripete questi concetti come un mantra... Mi accorgo che è un pò pesante, però, hai ragione :(  Aaaaah, e il sogno di Giulia! *-* Si beh, ce ne saranno altri, e tutti avranno un loro significato, alla fine u.u
Oh, comunque so che pianoforte e ogano non sono la stessa cosa, ci mancherebbe altro, sono i miei strumenti preferiti! Se in qualche frase questa distinzione risultava un pò ambigua chiedo scusa, ma era solo per evitare ripetizioni di parole (purtroppo non ho trovato un sinonimo di "organo" -.-'') Comunque, prima di pubblicare leggo sempre un paio di volte il capitolo, ma a quanto pare alcuni errorini sfuggono lo stesso >__< Sarà la stanchezza ç__ç E non preoccuparti per la lunghezza della recensione, mi fa sempre piacere leggere quello che pensate! ^^ Anzi, scusa tu per la risposta chilometrica xD Un bacio, a presto! =*

Bene, e con questo vi saluto! Ci sentiamo al prossimo capitolo, spero di riuscire a postarlo in fretta ^^
Un bacione e grazie ancora a tutti quelli che leggeranno, commenteranno eccetera! Cosa farei senza di voi? Smack =*
A presto,
GiulyRedRose


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Capitolo 16
*** 14. E' il Fantasma? ***


Chapitre 14

È il Fantasma?

                                



















 

Perché mi trovo qui?

Con un sospiro rassegnato Giulia si strinse lo scialle addosso, guardandosi nervosamente intorno mentre aspettava che Meg si cambiasse, indossando qualcosa di più comodo del suo abitino da danza. Non avrebbe dovuto cedere alle preghiere dell’amica, ma era stato più forte di lei: quando la giovane Giry le aveva fatto quegli occhi dolci che solo lei, con le sue iridi azzurre, poteva fare, Giulia era crollata come una bambina. Come poteva dirle di no?

Così ora si trovava a teatro, di nuovo, malgrado fosse riuscita a stare lontana da quell’opulento edificio per ben otto giorni. Inoltre si sentiva osservata, ed era una sensazione estremamente imbarazzante, nonché spaventosa; temeva che Lui potesse raggiungerla, forse anche prendendosela con Meg, e… Oh, mon Dieu, non osava davvero immaginare che cos’altro poteva accadere!

Istintivamente si portò due dita a sfiorarsi le labbra, ricordando con un esile gemito di fastidio il bacio che monsieur Bamdad le aveva preso con la forza. Non pensava che l’uomo potesse comportarsi in quel modo, a dir la verità non lo riteneva capace di un simile gesto, ma era chiaro che si era fatta un’idea del tutto sbagliata su di lui. E se adesso si fossero incontrati? Dopotutto, egli era il segretario di monsieur Destler, si sarebbe potuto benissimo trovare lì, al teatro…

«Oh, Meg, hai finito?» Domandò a quel punto, cercando di mascherare l’ansia. Non voleva rimanere sola un minuto di più.

«Si, eccomi!» Le rispose l’amica, uscendo dagli spogliatoi comuni delle ballerine in un frusciare di gonne e sottovesti. «Tranquilla, chèrie, non mi sono dimenticata di te.»

Non era questo che temevo, pensò la ragazza, accennando un vago sorriso senza lasciar trapelare i suoi veri pensieri. «Allora, andiamo?»

«Certo. Su, vieni.» Disse, prendendola sottobraccio e avviandosi nel corridoio. «Le altre sono già nel dormitorio, stanno aspettando solo noi.»

Giulia annuì, stringendosi un po’ di più all’amica; forse, se rimanevano così abbracciate, non c’era pericolo di fare qualche incontro indesiderato… «Senti, Meg… Come mai mi hai invitato?»

L’amica si voltò verso di lei, leggermente sorpresa. «Beh, mi è sembrato il minimo invitarti! Non mi sembrava giusto essere l’unica a divertirmi, inoltre avevi bisogno di mettere un po’ il naso fuori casa. Dì la verità, da quand’è che non uscivi?»

L’altra mugugnò dapprima qualcosa di incomprensibile, poi scrollò le spalle. «Si, hai ragione. Avevo bisogno di cambiare aria… E poi l’importante è non restare sola, giusto? Come dice sempre madame.»

«Già…» Sospirò Meg, cercando di non pensare alla madre. Quello che la donna l’aveva costretta a fare era davvero ingiusto, eppure adesso lei era lì, e si stava prestando a quella follia… Non riusciva a capirsi nemmeno lei stessa! Osservò con la coda dell’occhio l’amica che si guardava intorno come si aspettasse di vedere spuntare un fantasma da un momento all’altro, e in fondo non le si poteva dar torto… Anche se, a quanto le aveva detto sua madre, Giulia non era realmente al corrente della vera identità di colui che la stava perseguitando. Eppure, se sembrava esserne così spaventata, qualcosa doveva pur essere successa, no?

«Oh… Siamo già arrivate?»

Meg annuì, fermandosi di fronte alla porta del dormitorio. Bussò tre volte, aspettando che qualcuno venisse ad aprire loro la porta: infatti, questa era stata saggiamente chiusa a chiave. La prudenza, dopotutto, non era mai troppa; soprattutto quando si trattava di una decina di ragazze sole, in un teatro, di notte. Non dovettero attendere molto prima che qualcuno le facesse entrare: dopo una manciata di secondi una ballerina si affacciò alla porta, illuminandosi di sollievo quando vide le due ragazze fuori, nel corridoio.

«Oh Cielo, Meg, sei tu! Ci siamo spaventate!» Disse, spostandosi per farle entrare.

La ragazza rise, trascinando Giulia dentro la stanza. «E chi ti aspettavi, Marie?»

Indispettita, l’altra richiuse la porta a chiave, incrociando poi le braccia. «Dopo ti raccontiamo l’ultima notizia, così magari smetti di prendermi in giro.»

E, mentre Marie raggiungeva le altre, Meg si chinò verso di Giulia come per confidarle chissà quale grande segreto. «Marie è una credulona, si spaventa per ogni cosa!» Sussurrò, in modo da poter essere sentita solo dall’amica. «Ogni tanto tende ad esagerare un po’ su tutto, perciò non prestarle molta attenzione.»

Giulia ridacchiò, nascondendosi dietro una mano. «Va bene, ne terrò conto.»

«E ora vieni, su, facciamo le presentazioni come si deve.» Aggiunse Meg, prendendola per mano e portandola verso le altre ragazze che si erano voltate per dare loro il benvenuto.

Evidentemente avevano tutte già dimenticato il modo in cui l’avevano accolta la prima volta che l’avevano vista, con delle occhiate gelide e rabbiose che esprimevano tutto il loro odio nei confronti dell’ennesima giovane parente di madame Giry che sarebbe senza alcun dubbio finita nelle sue grazie, cancellando in un battito di ciglia i loro anni e anni di sforzi e lacrime di sangue, versate per arrivare dove erano adesso. Ma, dato che ormai quel piccolo problema non aveva più ragione di esistere, le ballerine si comportarono tutte con gentilezza ed educazione nei suoi confronti, mettendola subito a suo agio: fintanto che non si trattava di un’intrusa venuta per rubare loro la scena, potevano benissimo essere affettuose, no?

Ad ogni modo, la serata procedette addirittura meglio di quanto Meg e Giulia avessero previsto, seppure per differenti motivi. La prima, infatti, era incredibilmente lieta di essere arrivate sane e salve a quel punto, senza che nessun fantasma provasse a far del male alla sua amica, mentre quest’ultima, da parte sua, si era convinta del fatto che il suo Maestro non sarebbe di certo potuto andare da lei quando la ragazza si trovava in mezzo ad altre persone. Si, decisamente la festa si stava svolgendo al meglio.

«Ah, Marie! Qual era la storia di cui mi dovevi parlare?» Esclamò ad un certo punto Meg, facendo tacere il brusio e le chiacchiere generali. Nella stanza calò un improvviso silenzio, e la giovane Giry si guardò intorno, sorpresa di aver suscitato una simile reazione. «Ho detto qualcosa di male?»

Fu Sophie, la più grande del gruppo, a prendere la parola. «Beh Meg, ultimamente tu sei un po’ sulle tue, così ti sei persa alcune cose… Ma non è nulla di cui preoccuparsi, inoltre non mi sembra il caso di rovinare la festa di Corinne.» Dichiarò, certa che in quel modo avrebbe messo a tacere chiunque su quell’argomento.

Ma le altre non erano dello stesso avviso.

«Il problema è che il teatro non è più un luogo sicuro!» Sibilò Ninì, stringendosi uno scialle di lana sulle spalle. «È come se il tempo non fosse mai trascorso da allora…»

Istintivamente Meg rabbrividì, sgranando gli occhi: possibile che stessero parlando di ciò che lei più temeva? Lanciò di sbieco uno sguardo a Giulia, ma la ragazza non sembrava eccessivamente preoccupata: si limitava ad ascoltare, in silenzio, quello che le ballerine avevano da dire.

«Via, Ninì, ora non esagerare.» L’interruppe una ballerina con i lunghi capelli corvini raccolti in una pesante treccia che le ricadeva sulla schiena. «Abbiamo già deciso che non si tratta di quello

«Come puoi esserne sicura?» La rimbeccò Marie, avvicinandosi per dare manforte all’amica. «Nessuna di voi l’ha mai visto, eccetto quella sera! Chi può dire che non è tornato?»

«O che non se ne è mai andato…» Sussurrò Ninì, preoccupata.

A questo punto Meg si sentì in dovere di intervenire, prima che la conversazione andasse troppo oltre. «Mi potete spiegare che cosa è successo, prima di giungere a conclusioni affrettate?»

Sophie prese un profondo respiro, il che spinse tutte le altre a voltarsi verso di lei. «La settimana scorsa sono venuti da me i petits rats, con delle espressioni terrorizzate e un viso più bianco del latte.» Iniziò con una cantilena, come se avesse ripetuto quella storia tante di quelle volte da averla ormai imparata a memoria. «Ho chiesto loro che cosa mai era successo per averle ridotte in quello stato, e la più grande ha esclamato “È il fantasma!” Subito dopo mi hanno spiegato che, mentre andavano alla loro lezione di danza, da sole, avevano avuto la sensazione di essere spiate da degli “occhi invisibili”, e che oltretutto una di loro ha avvertito chiaramente qualcuno che le sfiorava i capelli. Sono scappate via, naturalmente, ma questo le ha molto scosse, dato che si trovavano in una zona poco frequentata del teatro. Così, adesso sono convinte che il Fantasma le avesse volute rapire e mangiare, e hanno il terrore di muoversi da sole. Questo è tutto.»

«No Sophie, aspetta! Questo non è tutto!» Replicò Marie, portandosi le mani ai fianchi. «Se devi dire le cose, allora non tralasciare nulla!»

La più grande le lanciò uno sguardo indispettito, aggrottando le sopracciglia, ma non disse un’altra sola parola. Allora fu la stessa Corinne a parlare, con una voce fievole e delicata.

«Spetta a me raccontare questa parte.» Esordì, piano. «Quattro giorni fa, mentre mi preparavo per andare via dalla sala di danza, è successo qualcosa di… beh, molto strano. Dopo aver spento tutte le luci ed essere rimasta al buio, con una sola candela in mano, ho avuto l’impressione di non essere più sola nel salone… Non ho sentito nessun genere di rumore, ma sapete, è stata una sensazione, una sensazione che mi ha provocato un brivido lungo tutta la schiena.» Tacque, deglutendo, poi riprese. «Allora mi sono precipitata verso la porta, spaventata, e la candela mi è caduta dalle mani immergendomi nell’oscurità; come se non bastasse, la porta era chiusa a chiave. Ho gridato, ma… Una… Una mano… Mi ha tappato la bocca e mi ha trascinato per terra, e, e…»

Si interruppe, non riuscendo a trattenere i singhiozzi, e due sue amiche le si avvicinarono per asciugarle gli occhi e stringerla in un abbraccio confortante. Visto che ormai sembrava che Corinne non avesse più intenzione di parlare, fu di nuovo Sophie a concludere il racconto.

«Corinne ha perso i sensi, e non sa cosa sia accaduto dopo. Fatto sta che, quando ha ripreso conoscenza, le luci del salone erano nuovamente tutte accese, la porta spalancata e lei era da sola.» Disse, in modo piuttosto sintetico; evidentemente non le piaceva molto parlare di quell’accaduto.

Meg guardò l’amica, preoccupata, non sapendo cosa dire. O meglio, nella sua mente si agitavano pensieri di ogni forma e natura, ma sapeva di non poterli affidare alla sua voce, se non voleva disobbedire alla madre e a Lui. Ma… Possibile che quei due avvenimenti fossero causa sua, di nuovo, come era già accaduto in passato? Accidenti, a che scopo terrorizzare delle bambine indifese ed una ragazza sola? Forse godeva a vedere l’orrore e la paura dipinta nei volti degli altri esseri umani, delle sue vittime? Era davvero assurdo e inconcepibile! Meg sapeva di dover prendere la parola per cercare di togliere alle sue compagne l’idea di un probabile coinvolgimento dell’uomo, ma la voce sembrava esserle morta in gola. Così, potè solamente restare ad ascoltare, ancora più spaventata, ciò che venne detto poi.

E fu Giulia a parlare, per la precisione.

«Perdonatemi, io credo di non aver capito a chi vi stiate riferendo… Chi potrebbe celarsi dietro questi incidenti?» Domandò, del tutto innocentemente. Sophie la osservò, indecisa su cosa dire, ma nemmeno lei fu abbastanza lesta da rispondere.

«Solamente uno, solamente Lui… Il Fantasma dell’Opera!» Esclamò Marie, rabbrividendo.

Giulia inarcò le sopracciglia, non del tutto colpita. Di cosa stavano mai parlando? «Credete davvero che… Che possa essere un fantasma?» Era chiaro che non aveva preso molto sul serio la rivelazione.

«Ne siamo quasi certe, a dir la verità.» Dichiarò Ninì, annuendo convinta.

Giulia lanciò uno sguardo a Meg, dopodichè si strinse nelle spalle, vagamente preoccupata. «Non credo che i fantasmi possano far del male… Non è dei morti che bisogna avere paura.» Disse, malgrado le occhiate scettiche che le rivolgevano le altre ragazze. «Forse si è trattato solo di qualcuno che voleva giocare qualche brutto scherzo, no?»

Meg ne approfittò immediatamente, aggrappandosi a quell’eventualità. «Esatto, les filles! Non vi ricordate di Joseph Buquet, il macchinista? Di certo non era un fantasma, ma si comportava allo stesso modo…»

Un brivido scosse le giovani ballerine, al ricordo di quel vecchio depravato che aveva lavorato nel teatro fino a un paio di anni prima, quando era stato trovato morto, con una corda al collo, dietro il terzo sottopalco. Nessuna di loro aveva pianto la sua dipartita, anche se il ritrovamento del suo cadavere aveva terrorizzato gli habituès dell’Opera, considerando che si mormorava fosse stata opera del Fantasma. La sua morte non aveva cancellato le sue sudice azioni dalle menti delle ballerine.

«Beh… Buquet ha avuto ciò che meritava.» Decretò Sophie, consapevole in quel modo di dare ragione a quello stesso fantasma che tutte temevano.

Tutte annuirono, bisbigliando, e alla fine Corinne battè le mani, sforzandosi di sorridere. «Coraggio, mes amies, non siamo forse qui per festeggiare? Lasciamo perdere questi discorsi!»

L’argomento venne presto dimenticato, e nell’euforia generale Meg si avvicinò all’amica che, seduta in un angolo, sembrava riflettere intensamente su qualcosa.

«Giulia? Tutto bene?» Domandò, sedendosi accanto a lei.

La ragazza annuì, accennando un sorriso. «Certo, Meg, non preoccuparti.» Rispose, alzandosi. «Quel discorso mi ha un po’ spaventata… Ma alla fine, chiunque abbia tempo da perdere con questi sciocchi scherzi, di sicuro non verrà a disturbare un gruppo di ragazze grandi.»

La giovane Giry si alzò a sua volta, ringraziando in cuor suo che Giulia non avesse collegato la leggenda del Fantasma alla figura del suo tenebroso maestro. «Esatto, non abbiamo nulla da temere.»

Ma questo non è del tutto vero…

 

Il dormitorio era immerso nell’oscurità, malgrado un tenue raggio di luna penetrasse da una finestra lasciata negligentemente aperta. Il silenzio era rotto soltanto dai respiri delle giovani ballerine addormentate, e dai deboli bisbigli che emettevano nel sonno. Giulia dormiva insieme a Meg, con un braccio dell’amica posato sul ventre che si sollevava e si abbassava al ritmo del suo respiro.

Un’ombra incombeva su di lei, ma il suo sonno era troppo profondo perché se ne accorgesse.

Erik la stava osservando già da un po’, indeciso fino all’ultimo sul da farsi. Era entrato nella stanza senza che nessuna di loro se ne fosse accorta, aprendo la porta chiusa a chiave senza nessuna difficoltà. Aveva poi raggiunto il letto della sua allieva senza sbagliarsi, guidato dal ricordo del suo respiro che aveva imparato a ricoscere durante le sue visite notturne a casa di madame Giry, in quella settimana. Si era limitato ad osservarla nel sonno, malgrado il suo intento iniziale fosse stato quello di svegliarla per obbligarla ad andare a teatro, alle sue lezioni, ma alla fine non aveva fatto nulla di tutto questo. Ultimamente i suoi piani stavano andando per conto loro senza che riuscisse a tenerne le redini, e sempre per colpa della ragazza. Cosa diavolo avrebbe dovuto fare con lei?

Non riuscì a trattenere un sospiro, ma neanche questo sembrò turbare il sonno delle fanciulle. Riportò il suo sguardo sulla giovane, facendolo scorrere sul suo corpo addormentato impudicamente lasciato scoperto dal lenzuolo. La camicia da notte che indossava mademoiselle Sanders non era per niente castigata, come quelle che le aveva visto a casa Giry: doveva essere l’influenza di quelle ballerine, che sembravano avere una strana concenzione del pudore.

Un braccio nudo pendeva mollemente da un lato del letto, troppo piccolo per le due ragazze, e la punta delle dita sfiorava il freddo pavimento; l’altro era piegato morbidamente accanto alla testa, come se anche nel sonno la giovane avesse voluto cercare protezione da qualcosa. I soffici capelli castani giacevano scomposti sopra il cuscino, incorniciandole l’ovale del volto leggermente corrucciato; ma ciò che catturò maggiormente la sua attenzione fu la sua bocca, rossa come il sangue, le cui labbra imbronciate erano un concentrato di timida sensualità capaci di lasciarlo lì immobile ad osservarle per ore.

Ma cosa diavolo…?

Si riscosse, incapace di riconoscere lo scorrere dei suoi stessi pensieri. Cosa gli stava succedendo? Non doveva dimenticare un’altra volta il reale motivo della sua visita notturna! Il suo giovane segretario aveva già avuto modo di assaggiare quelle tenere labbra, e per aver osato un simile gesto era già stato in parte punito: e adesso toccava alla ragazza…

Riuscendo a non svegliare nessuna delle due, spostò il braccio di Meg da un lato in modo che non gli fosse d’intralcio, e si chinò lentamente su Giulia, portandole un braccio sotto la schiena e uno sotto le gambe, per poi sollevarla tra le braccia. La strinse istintivamente al suo petto, non riuscendo a comprendere la strana sensazione di conforto che gli provocò il peso della ragazza su di sé. Non potè resistere dall’aspirare il dolce profumo dei suoi capelli, ma prima che questo potesse annebbiargli la ragione come le altre volte, si diresse in fretta verso la porta, richiudendola dentro di sé e percorrendo a passi silenziosi e veloci il lungo corridoio.

L’avrebbe portata nel suo regno sotterraneo, dove mademoiselle sarebbe stata costretta a sopportare la sua presenza per un po’ di tempo, in modo da recuperare le numerose lezioni perse. Non poteva permettersi di rimandare il suo piano ancora più a lungo. Era tempo di agire.

Ma prima si sarebbe occupato della sua punizione.

 

 

 

 


















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AA - Angolo Autrice:
E rieccoci con un nuovo aggiornamento! ^^ Adesso che sono libera da qualsiasi impegno scolastico credo che riuscirò a portare avanti con notevole velocità tutte quante le mie storie... Certo, a questo punto bisogna sperare che l'ispirazione non evapori col caldo :'D
Dunque, questo è un capitolo piuttosto breve: serve solo a far tornare Giulia a teatro e a farla (finalmente!) incontrare con Erik, anche se il vero incontro avverrà nel prossimo capitolo - a cui, per inciso, sto ancora lavorando: è più difficile del previsto, dato che non voglio fare una cosa identica alla vicenda Fantasma-Christine! >__< Comunque, questo lo vedrete la prossima volta :p Per adesso godetevi i pettegolezzi delle ballerine xD
Anzi, vi faccio uno spoiler piccolopiccolopiccolo... Il prossimo capitolo sarà scritto (in gran parte o interamente, non l'ho ancora deciso) in prima persona, ovviamente parlerà Giulia: ho bisogno di prendere il suo punto di vista per un avvenimento così... importante u.u
E ora passo ai ringraziamenti! ^^

Keyra93: Beh, al di là di tutto il discorso delle Mary Sue, mi auguro davvero che Giulia sia diversa dalla gemella! Dovrebbe avere una mentalità un pò più aperta per il fatto di venire da un'altra epoca, anche se lei di questo non se ne ricorda (tra parentesi, a questo proposito succederanno dei bei casini -.-''); in "tante cose", dici? Beh, mi fa piacere! :D Per tornare al libro, si si, sono d'accordo con te: "Gerrik" è troppo bello, insomma, con un fantasma così anche la Christine del libro si sarebbe innamorata di lui, altro che Raoul! A me il finale del romanzo è piaciuto tantissimo, come hai detto tu era atroce ma allo stesso tempo giusta, perchè dopo aver rinunciato alla sua unica ragione di vita un essere come lui non poteva che morire... Quando ho letto quelle tre parole, "Erik è morto", mi sono messa  a piangere ç__ç Però devo ammettere che anche Love Never Dies non era malvagio: anche perchè, per come è finito il film del 2004, era giusta una fine simile (il bambino e tutto il resto)! Infatti secondo me bisogna prendere LND come una fine "giusta" per il musical, ma ovviamente non concepibile per il libro: vista così la cosa, non è così malvagia ^^ E poi le canzoni sono splendide! <3
Si, comunque, la Camera dei Supplizi appare nel film - o, almeno, in un suo vago ricordo: ricordi quando, durante il ballo in maschera, Raoul scompare in una botola del pavimento per inseguire Erik? Ecco, a quel punto si trova circondato da specchi che ogni tanto riflettono l'immagine del fantasma, e ad un certo punto dall'alto pende un cappio! Almeno, io l'ho interpretata così... :p Era una sottigliezza che solo chi ha letto il libro poteva cogliere xD
Comunque aspettate prima di appendere i fiocchetti azzurri! xD Non ho detto che Bamdad E' il figlio del Daroga, ho detto solo che potrebbe esserlo... Tutto dipende da come mi gira ;) Alla fine questo povero cristo lo lascerò senza passato e taglio la testa al toro :p Mah, ora vediamo! C'è già troppa carne al fuoco...
Ah e non preoccuparti delle recensioni troppo lunghe, a me piacciono xD
P.S: Ho detto "primo film" per riferirmi al film del 2004, non stavo pensando agli altri... Anche perchè gli unici altri film che ho visto del fantasma sono stati quelli del 1943 e quello del 1998, di Dario Argento (che NON consiglio a nessuno perchè fa veramente schifo >__<)
Ci sentiamo al prossimo aggiornamento! Un abbraccio =*

Yunie992: Purtroppo questo capitolo non è un granchè, ma posso mettere la mano sul fuoco sul fatto che l'altro varrà davvero la pena... Eh si, o almeno lo spero ^^'' Ti ringrazio davvero tanto per i complimenti, mi fa piacere che questa storia ti stia piacendo così tanto :) Mi devo scusare un'altra volta per il ritardo (un aggiornamento al mese???) ma ero troppo presa con l'esame, non ce l'avrei proprio fatta... Grazie al Cielo è tutto finito! Adesso mi potrò scatenare xD Bamdad è strano, concordo, non riesco ad inquadrarlo bene neppure io :O boh, ha un comportamento ambiguo... Quasi quasi lo faccio diventare omosessuale per levarcelo dalle scatole xD No no scherzo, io non ho niente contro nessuno, ci mancherebbe altro ù_ù Per quanto riguarda il legame tra lui e il Daroga, vedere risposta sopra XD
Meg invece mi piace abbastanza come sta uscendo, forse un pò troppo impicciona ma... a noi piace così xD
"Carino e coccoloso"? XD Oh mamma, ho avuto una visione oscena di Erik che ondeggiava come i pinguini di Madagascar... Beh, l'abito nero già ce l'ha XD Comunque, a me piacciono tanto i cattivi e quindi un fantasma troppo dolce e smielato mi avrebbe dato troppa nausea... Spero di non esagerare, comunque, dato che il troppo storpia!
Aaaah ecco, e la patente?? xD Dato l'esame?? ^^ Spero di sì xD
Ripeto anche a te, non preoccuparti delle recensioni lunghe, a me piacciono! :D Un abbraccio, al prossimo capitolo! =*

TheMisty910: Grazie mille per i complimenti, wao!, mi fai arrossire! :'D Sono davvero contenta che ti sia piaciuto lo scorso capitolo, in effetti finora è quello che piace di più anche a me... Erik che fa il cattivone con il "Damerino 2 la vendetta" è adorabile *-* Ovviamente, anche Meg è una in gamba u.u Dunque, questo capitolo è abbastanza tranquillo... Cosa succede qui? Okay, a parte the phantom che rapisce (ce l'ha di vizio!) Giulia e le ballerine con la loro lingua lunga, niente di che... Ma il prossimo, oh, il prossimo... *-* Cess, spero non sia troppo deludente -.-''
Ci leggiamo al prossimo capitolo! ^^ Un abbraccio =*

leschatnoir: Grazie mille per i complimenti e per aver aggiunto la storia alle preferite! ^^ Un abbraccio, a presto! =*

Charlie Snape: Chiedo umilmente perdono per l'attesa estenuante @__@ Ho apprezzato molto la tua impresa, sei stata bravissima! ^^ Sono contenta che ti piacciano i 
tête-à-tête
di Erik e madame Giry, sono adorabili quando litigano xD Ci sentiamo al prossimo capitolo! Un abbraccio =*

Keyra93: Sono completamente fusa, mi sono accorta adesso che avevi recensito due volte... Beh, e a due recensioni corrispondono due risposte, mi sembra giusto xD Anche io ho abbastanza paura della "punizione" che ha in mente Erik, di sicuro non penso che nessuno se l'immagini... Insomma, a volte sa essere davvero crudelio-de-mon ù.ù Madame Giry e Meg... Beh, queste due donne meritano un applauso, sono più volubili di Brooke Logan! XD Un attimo prima vogliono prendere in mano la situazione e quello dopo stanno già sventolando bandiera bianca... boh boh -.-'' Per il Bamdad ho già risposto, ma hai ragione, è stato da scemi baciare in quel modo Giulia >___< Che gente!
XD Ci leggiamo al prossimo capitolo! ^^ Un abbraccio (di nuovo) =*

sydney bristow: Ho avuto un attimo di smarrimento, ma poi credo di aver riconosciuto la citazione... I Promessi Sposi, nevvero? Un bravo ù.ù
Innanzitutto: waaaaaaaaah!! *urlo liberatorio* Hai visto Love Never Dies??? ç__ç E dire che io sono andata a Londra appena un mese prima della PRIMA rappresentazione... Che sfortuna pazzesca ç___ç In compenso mi sono già procurata il cd con le canzoni... Chi ha tempo non aspetti tempo xD (Apro anch'io la parentesi ^^ Lo so, cavolicchio, una volta che li senti cantare dimentichi quanto poco sia ortodossa quella storia... Per carità, a me è piaciuta tantissimo! Ma io dico, una volta che fai il sequel fallo almeno finire bene, no? E invece... =( Concordo con la bellissima voce di Christine, e ribadisco che sono sempre curiosa di sentire canzoni come Beneath a moonless sky o 'Till I heard you sing cantate dalla voce di Gerry... Cavoli, sarebbe uno spettacolo!) E un'altra cosa... Wao, tesina sul Fantasma?? *O* Ho avuto anch'io la stessa idea per la maturità, ma alla fine ho dovuto puntare sulla "Donna vampiro"... Magari all'università ci farò un pensierino xD
Ancora grazie mille per i complimenti, sono contenta che ti piaccia la mia storia ^^ Passando ai capitoli...
1) No dai, povero Bamdad! XD E' la pallina antistress di Erik, se lo uccido ora con chi se la prenderà il fantasma?? xD Scherzi a parte, credo che se ci riprova con Giulia sarà Erik stesso a farlo fuoir ù.ù
2) Concordo, Meg ed Eloise sono un pò troppo impiccione -.-''
3) Purtroppo Christine tornerà... non subito, ma tornerà - con marito e prole a seguito u.u E allora vedremo...
4) Il palco numero 5 ultimamente è parecchio affollato! XD Erik fra un pò farà qualche strage :'D
Mi dispiace di non averti potuto accontentare con il celere aggiornamento, ma ero troppo occupata con l'esame... Ora comunque dovrei essere più veloce ^^ Ancora grazie per i complimenti, e ci sentiamo al prossimo capitolo! Un abbraccio =*

That's all, folk!
GiulyRedRose


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Capitolo 17
*** 15. Child of the Wilderness ***


Chapitre 15

Child of the Wilderness

 

 












 

 

 

 

 

 

 

 

Giovedì, 29 Novembre 1877. Sotterranei.

 

Oh, Signore, che cosa ho fatto… Perché hai permesso che mi accadesse una cosa simile? Perché non mi hai impedito di accogliere nella mia anima quella oscura di un demonio? Sono stata davvero così malvagia, in quel passato di cui non ho memorie, da meritarmi un simile castigo?

Eccomi nuovamente a cercare conforto in una penna e un foglio immacolato, sporcato dalle macchie d’inchiostro che il mio nervosismo non mi permette di evitare. La mia mano trema, arranca sulla pagina vuota, ma io non posso fare altro che scrivere. Se mantengo la mente occupata in qualche modo, posso ancora sperare che ci sia una fine a tutto questo, una qualche speranza di salvezza: ma non posso permettermi di rimanere in un angolo a piangere e aspettare la pazzia. Non posso.

Eppure le lacrime colano sulle parole già scritte, impedendomi di leggere la mia stessa scrittura… Non importa, ho il bisogno quasi fisico di mettere per iscritto quello che mi sta succedendo.

Questo è già il mio secondo giorno nei sotterranei.

È stato Lui a portarmi qui; ricordo con sicurezza di essermi addormentata nel letto di fianco a Meg, circondata dalle altre ballerine e cullata dai loro respiri profondi, ma quando mi sono risvegliata non ho più riconosciutoil letto nel quale mi trovavo.

Era uno strano giaciglio come non ne avevo mai visti prima: le sponde erano alte e nere, e le lenzuola di seta sulle quali ero sdraiata erano di un forte color porpora. I cuscini, anch’essi neri e con dei pizzi del medesimo colore, lo facevano somigliare ad un macabro letto funebre, così come il baldacchino con tende di pizzo nero ricamato che mi impediva di vedere il resto della stanza. Rabbrividii, spaventata, e mi guardai intorno, allungando la mano sulla tenda cercando un punto dove si sarebbe potuta aprire. Al suo posto, invece, trovai una cordicella che pendeva all’altezza del mio viso: la tirai, piuttosto titubante, ma non accadde nulla di spaventoso, se non che la tenda del baldacchino iniziò a sollevarsi come un sipario.

Finalmente potei studiare l’ambiente circostante.

Mi trovavo in una bizzarra camera da letto, circolare, dalle pareti in pietra ricoperta da pesanti drappi di un broccato che rammentava il colore del sangue. Sembrava che la stanza non possedesse alcuna via d’uscita: ma se vi ero entrata, allora doveva pur esserci un modo per uscirne, no? Tremante, scostai le coperte da una parte e mi alzai, ringraziando mentalmente il Cielo di indossare ancora almeno la camicia da notte. Ciò avrebbe dovuto rincuorarmi sul fatto di non essere finita nella tana di un delinquente…

Mi avvicinai alle pareti e cominciai a tastarle, alla ricerca di una qualche porta; ma non ve n’era alcuna. Improvvisamente, però, le mie mani sfiorarono una tenda che non poggiava sul muro ma sul vuoto, e emozionata la scostai, vedendo che copriva un arco che fungeva da soglia. Feci ricadere la tenda dietro di me e mi avventurai nel nuovo ambiente, osservandomi intorno con l’acuta sensazione di essere finita dentro un sogno popolato da candele.

Mi trovavo su di una piccola balconata che sovrastava un lago sotterraneo, plumbeo, con una fitta nebbiolina che vi aleggiava sopra; dall’acqua spuntavano degli alti candelabri in ferro, creando l’illusione che vi fossero centinaia di lucciole galleggianti in mezzo all’oscurità. Il lago era costeggiato da una riva a mezzaluna, in pietra, che in un angolo fungeva da piccolo molo: vi era infatti attraccata una gondola color pece. Più in là, circondato da altre migliaia di candele, si ergeva maestoso un enorme organo a canne, finemente intagliato e lavorato con fine maestria.

Per quale motivo avevo l’impressione di essere già stata in quel posto?

Sarei potuta rimanere in eterno ad osservare quel luogo incantato, ma il mio sguardo era caduto sull’uomo che, volto di spalle rispetto a me, pestava con consumata abilità  sui tasti del magnifico strumento facendone sortire una musica a dir poco sublime. Una musica che aveva accompagnato parecchie volte le mie lezioni nella piccola cappella del terzo sottopalco…

Un momento, possibile che egli fosse… Che fosse…?

«Maestro?»

La mia voce, poco più che un sussurro a stento udibile, aveva interrotto quella splendida musica, facendo alzare in piedi l’uomo che la stava suonando. Egli, tuttavia, non si voltò.

Seguendo chissà quale malsano istinto mi avvicinai, tormentando la stoffa della mia camicia da notte e cercando di convincermi di non provare paura. Se era davvero il mio Maestro, allora, mi sarei potuta fidare… O forse no?

Ad ogni modo lo raggiunsi e, infine, mi trovai alle sue spalle: egli non dava cenno di volersi voltare per mostrarsi a me, e la cosa mi irritò non poco. Non avevo forse, io, il diritto di vedere in volto chi era colui che mi aveva insegnato durante tutto quel tempo, e che infine mi aveva trascinato nelle viscere della terra? Per quale assurdo motivo voleva ancora tenermi all’oscuro della sua identità, e del suo aspetto?

«Siete… Siete voi? Rispondetemi!» Insistei, forse un po’ brusca, reprimendo l’impulso di aggrapparmi alla manica della sua camicia e voltarlo con forza.

Notai la sua mano stringersi a pugno fino a far sbiancare le nocche, ma non compresi il motivo di quell’ira: sarei dovuta essere io quella arrabbiata, non lui di certo!

«Mademoiselle Sanders… Non avete paura di trovarvi faccia a faccia con me?»

Già dalla voce l’ebbi riconosciuto: ma quando si voltò verso di me, e potei infine vederlo… Oh, Dieu! In quale genere di incubo mi hai trascinata!

Sgranai gli occhi, spaventata, e indietreggiai fino ad incontrare l’ostacolo di un divanetto in stile Luigi Filippo che mi fece perdere l’equilibrio e cadere su di esso. La parte destra del volto dell’uomo che si trovava di fronte a me – e che mi aveva sconvolta così tanto – era una ragnatela di piaghe e cicatrici, che correvano dalle tempie alla mandibola e che gli deturpavano orribilmente il viso. L’occhio destro aveva delle profonde occhiaie scure, e in certi punti la pelle era tirata tanto da mettere in risalto l’osso stesso, quasi fosse stato un orrendo cranio scheletrico.

Come poteva mai esistere una simile creatura? E perché Dio ne tollerava l’esistenza?

Nascosi il volto tra le mani, sforzandomi di trattenere i singhiozzi per non provocare ulteriormente la sua rabbia: ma controllarsi era impossibile, avvertivo me stessa tremare senza che potessi fare nulla per impedirlo. Il Maestro, allora, era davvero il Diavolo, e uno dei più tremendi!

«Siete dunque così terrorizzata?»

A quelle parole aggrottai le sopracciglia, confusa: perché non percepivo nessuna collera nella sua voce, quanto piuttosto un’amara tristezza? Ciò mi spinse a guardarlo nuovamente, mio malgrado incuriosita, così abbassai le mani e sollevai lo sguardo su di lui, costringendomi ad osservare soltanto i suoi profondi occhi verdi e ignorando la deformazione del suo viso.

Non fu poi così difficile: i suoi occhi erano delle pozze di brace impossibili da trascurare…

«Vi avevo avvertito che il mio aspetto non era di questo mondo…» Proseguì, avvicinandosi crudelmente a me. Voleva forse farmi morire?

Ignorai deliberatamente la sua ultima affermazione, voltando il capo e abbassando lo sguardo per non essere costretta a incrociarlo con il suo. «Se avete intenzione di abusare del mio corpo, vi supplico solo di fare in fretta.» Sussurrai, a mezza voce. Non potevo credere di aver avuto il coraggio di dire una simile cosa, ma era comprensibile che volessi rendere la sofferenza il più effimera possibile.

Inaspettatamente lo sentii imprecare. «Abusare di voi?» La sua voce era tanto vicina da costringermi a voltarmi per vedere dove fosse, e sussultai quando lo vidi inginocchiato ai piedi del divano sul quale ero seduta. Aveva portato una mano a coprirsi il volto, come se avesse voluto rendermi il suo aspetto più gradevole e meno spaventoso. «Sono un mostro, mademoiselle, è vero… Ma non al punto di approfittare in questo modo di voi.»

I suoi occhi si erano stretti in due fessure, mentre mi guardava trapassandomi da parte a parte. Si era offeso, possibile? Forse… Forse ero davvero al sicuro, con lui? Eppure avevo ancora così tante domande da fargli…

«Se è come dite, allora perché mi avete portato in questo luogo?» Domandai, con la voce che tremava mio malgrado.

Sospirò – lui sospirò, davvero! Poi rispose. «Una settimana, mademoiselle. O forse di più? Avete scordato che avevamo un accordo, noi due, oppure l’avete deliberatamente infranto. Per quale ragione non siete più venuta a teatro per le nostre lezioni?»

Le sue lezioni? Non era certo a causa sua se mi ero rinchiusa in casa, non era per mancare ai nostri appuntamenti! Era unicamente per non incontrare più monsieur Bamdad – il tocco delle sue labbra sulle mie bruciava ancora, ma non certo per il piacere o l’emozione…

«Non volevo di certo mancarvi di rispetto.» Mi giustificai, distogliendo imbarazzata lo sguardo da lui. «Sono accadute delle cose che mi hanno… costretta… a non presentarmi a teatro, in questi ultimi giorni. Vi chiedo perdono se questo vi ha fatto arrabbiare.»

Egli tuttavia non sembrò curarsi particolarmente delle mie parole: forse le aveva assimilate, ma se anche questo era accaduto non lasciò alcun segno su di lui. Si alzò in piedi, ergendosi maestoso davanti a me, e guardandomi dall’alto in basso con i suoi profondi occhi ardenti. Mi sforzai di non indugiare troppo con lo sguardo sulla pelle piagata del suo volto, ma era pressochè impossibile: ero attirata da quell’orrore come lo è una falena dalla luce, e temevo che il destino di tale fatale attrazione sarebbe stato il medesimo per entrambe.

«Vi siete chiesta perché vi ho condotto qui.» Disse, cambiando repentinamente discorso. «Ebbene, non ho intenzione di perdere altre lezioni con voi. Da questo momento in poi vivrete qui, nella mia dimora, fino a quando la vostra voce non avrà raggiunto un livello che giudicherò accettabile. Il tempo è prezioso, mademoiselle, e sprecarlo non è mai una saggia scelta.»

Rimanere lì? Rinchiusa con lui, sola, per chissà quanto tempo? Non potevo accettare, io…!

«Vorrei precisare che non vi sto permettendo di scegliere. Ho già deciso per voi, e non tollererò ulteriori discussioni.» Sibilò, severo.

Non avevo parole per rispondergli, così mi limitai a chinare il capo e annuire, rassegnata. Ormai avevo quasi compreso che vi era qualcosa di più mostruoso del suo viso, e che non era quello che dovevo temere: ci sarà stato un motivo se veniva chiamato Figlio del Diavolo, benchè malgrado tutto avesse un aspetto abbastanza umano.

 Eppure il suo viso, non riuscivo a togliermelo dalla testa… Perché, per quale motivo mi sembrava di averlo già visto? Poteva essere qualche avvisaglia della mia memoria che cominciava a tornare? Però l’impressione che ne avevo non era di un ricordo sfumato, quanto piuttosto della traccia di un sogno, come quello che avevo avuto, qualche tempo fa, su dei sotterranei simili e candele, centinaia di candele…

 

 

«Mademoiselle Sanders? È il momento della nostra lezione.»

Giulia sobbalzò sullo sgabello, afferrando frettolosamente quelle pagine e cercando di nasconderle sotto il ripiano del tavolino da toilette. La voce del Maestro giungeva da fuori la stanza, ed era una fortuna ch’egli si sforzasse di comportarsi da gentiluomo evitando di entrare nella sua camera da letto.

«A-arrivo subito, monsieur…!» Replicò, alzandosi e infilando i fogli in un piccolo cassetto. Per sua sfortuna non vi era nessuna chiave, ma doveva confidare sulla discrezione dell’uomo. Sistemandosi le pieghe dell’abito da giorno – un modello assai prezioso, di un delicato color pesca con dei sottili ricami di un rosso cupo che ricordavano fantasie floreali, uno dei tanti che il suo Maestro aveva provveduto a procurarle per il suo soggiorno – si diresse verso la porta, sollevando la tenda e sbucando nel salone.

Egli l’attendeva in un angolo adibito a salotto, seduto su una poltroncina in stile barocco dall’imbottitura marrone e dalle rifiniture in legno dorate: tra le sue mani riposava un violino, mentre sul tavolino di fronte a lui giacevano alcuni spartiti scritti a mano. Il volto, spaventoso con la sua deformità, sembrava voler saggiare il livello del suo terrore.

Non appena gli fu accanto, Erik prese la parola. «Spero che non vi dispiaccia se oggi vi farò esercitare su della musica composta da me.» Esordì, con sconcertante tranquillità. Giulia si sforzò di abbassare lo sguardo sui fogli che il Maestro le stava porgendo, in modo da non ritrovarsi a fissare in modo inappropriato il suo volto deturpato.

«È… In inglese.» Notò la giovane, prestando finalmente attenzione a quegli spartiti.

L’uomo annuì, senza prestare troppo interesse a quelle carte. «Sono stato in molti luoghi, mademoiselle, e la mia musica si è adattata ai miei continui cambiamenti. Spero che per voi non sia un problema, esercitarvi con una lingua che non vi appartiene.»

Ma Giulia scosse la testa, continuando a leggere i fogli. «No, monsieur, io… Io riesco a comprenderne le parole…» Si accorse, con crescente stupore. Ecco, forse era quello un indizio del ritorno della sua memoria? Ad ogni modo, se anche lo fosse stato, il suo Maestro non prestò a quella rivelazione l’attenzione ch’ella si aspettava – probabilmente per il semplice motivo che egli non la riteneva così importante e degna delle sue attenzioni.

Senza degnarla di un altro sguardo, infatti, l’uomo riprese ad accordare il suo violino. «Avete cinque minuti per leggere la musica e cercare di impararla. Dopodichè la canterete con il mio accompagnamento.»

«Come sempre.» Mormorò, sedendosi lontano da lui il più possibile e iniziando a leggere.

Al di là della musica – già di per sé bellissima – anche le parole erano splendide, malgrado fossero di una tristezza quasi inconcepibile: non potè resistere e iniziò a sussurrarne la nenia a bassa voce, cercando di trasmettere nel suo canto ciò che il suo compositore aveva cercato di trasmettere nella musica. Era così presa che non si accorse che il suo Maestro aveva terminato di sistemare lo strumento e la osservava di sbieco, con una strana espressione imperscrutabile e con le mani che percorrevano lente la superficie levigata del violino.

La giovane, stava riflettendo, non sembrava essersi scomposta più di tanto di fronte a ciò che le era appena accaduto: era stata rapita da un uomo – sempre se tale potesse definirsi – dall’aspetto mostruoso che l’aveva terrorizzata di proposito con l’intento di vederla inginocchiata ai suoi piedi per supplicarlo di sottrarre il suo volto alla sua vista. Nulla di tutto questo era accaduto. Christine – oh sì, se ne rammentava perfettamente – aveva gridato, atterrita, ed era indietreggiata per cercare rifugio a quella vista orrenda, serrando gli occhi pur di non vedere il suo viso; mademoiselle Sanders, invece, non aveva urlato, benchè il suo corpo scosso da singhiozzi silenziosi aveva dimostrato che non era rimasta del tutto indifferente nei confronti del suo aspetto. Ma cos’altro si aspettava? Era stato lui a decidere di mostrarsi a lei privo della solita maschera, eppure qualcosa gli diceva che la più grande paura della giovane era quella di essere una preda per gli istinti più biechi e animaleschi ch’egli poteva nutrire.

Quale follia! Egli era sì un uomo, ma non di certo di tale risma!

Quando poi l’aveva infatti rassicurata, suo malgrado, sulla sorte che l’attendeva, la fanciulla si era notevolmente acquietata. Si era coperto il volto per non spaventarla ancora e le sue lacrime si erano asciugate, mentre ella arrossiva distogliendo lo sguardo per l’imbarazzo – forse pentita dell’indecente pensiero che aveva osato formulare.

E gli aveva chiesto scusa. Sì, ella gli aveva domandato perdono per la sua assenza!, come se effettivamente lo rispettasse e lo riconoscesse come suo maestro, come una persona… Erik sapeva perché mademoiselle aveva cessato di venire a teatro, o perlomeno lo intuiva: si trattava dell’increscioso incidente della cappella, che vedeva lei e Bamdad come protagonisti, non era forse così? Oh, certo che lo era, ma la giovane era troppo in imbarazzo per accennare ad un simile evento – soprattutto se era convinta che lui non ne fosse a conoscenza. Ingenua! Egli era pur sempre il Fantasma dell’Opera, sapeva tutto, vedeva ogni cosa!

Ad ogni modo si era affrettato a cambiare discorso non appena aveva sentito la voce di lei addolcirsi. Non poteva permettersi di perdere altro tempo prezioso e di sconvolgere ulteriormente i suoi piani solo a causa di una parola gentile o uno sguardo più tenero rispetto a quelli cui era abituato. Aveva indossato di nuovo la maschera di crudeltà che si era imposto per metterla al corrente del suo piano, ossia di farle trascorrere del tempo nella sua dimora per poterla meglio istruire. Aveva già mezzo avvisato madame Giry, ma in ogni caso la donna non si sarebbe mai potuta opporre.

Pertanto, sarebbe stato meglio che la ragazza si rassegnasse.

«Avete finito?» Domandò brusco, non appena si rese conto dal movimento delle sue labbra che ella aveva terminato il suo canto.

Giulia annuì, sollevando subito gli occhi su di lui e ferendolo con le promesse di pace ch’egli vi lesse: il modo in cui lo guardava, così serena, senza sembrare spaventata… Possibile che fosse merito della sua musica? Era dunque così bravo nel mescere le note, da creare simili scorci di paradiso? Eppure, le parole di quel canto erano tutto fuorchè serene, visto che in esse egli aveva riversato parte dei dolori e della sofferenza che avevano tempestato la sua inutile vita – non rammentava quando l’aveva composta, ma sicuramente era trascorso parecchio tempo da allora. Se non ricordava male, quelle note gli erano balenate in mente durante il viaggio che aveva compiuto da Calais a Boston, ormai due anni prima.

«Monsieur, questa musica è splendida.» Trovò il coraggio di rivelargli la fanciulla, arrossendo leggermente. «È un onore che voi la facciate cantare a me.»

Quelle parole lo presero alla sprovvista, impedendogli per una manciata di secondi di ribattere a tono. Quando però si riprese, stranamente, la sua voce non fu così dura e aspra come lo era stata pochi attimi prima. «Tutto ciò che scrivo è per voi, mademoiselle, visto che siete la mia sola allieva. Non v’è motivo di ringraziarmi né di onorarmi con le vostre abili parole.»

Piuttosto perplessa dalla risposta, in realtà alquanto ambigua, Giulia non seppe come interpretarla. Era un complimento, un sottile rimprovero o un modo per dirle che – forse – teneva a lei? Non doveva essere normale che un insegnante si preoccupasse della propria allieva, soprattutto – come aveva anche lui ammesso – visto che era la sola? Senza perdere altro tempo a ribattere, la giovane si alzò e si schiarì la voce, pronta ad iniziare. Il maestro iniziò a pizzicare le corde del suo violino con l’archetto e, dopo una breve introduzione, le fece cenno con il semplice sguardo di cantare.

 

«Child of the wilderness

Born into emptiness

Learn to be lonely

Learn to find your way in darkness…

Who will be there for you

Comfort and care for you

Learn to be lonely

Learn to be your one companion…»

 

Mentre cantava, Giulia non distolse nemmeno per un istante lo sguardo da quello dal suo maestro, cantando in un modo che gli fece pensare che, forse, la giovane aveva intuito di chi stesse parlando quella musica e, in un certo senso, l’avesse persino compreso. Era solo una sua illusione, o erano reali gli occhi lucidi di lacrime represse della sua allieva? Come poteva ella anche solo immaginare tutto ciò che un mostro qual’era lui aveva dovuto subire durante la sua triste esistenza?

Avrebbe voluto smettere di suonare per raggiungerla, e scuoterla nella speranza che gli rivelasse il motivo di quelle lacrime, di quella commozione. La sua musica era straziante, lo sapeva, ma il trasporto che lesse sul suo viso era un qualcosa che non sarebbe riuscito a sopportare. Avrebbe spazzato via tutti i suoi piani, per l’ennesima volta!

 

«Never dreamed out in the world

There are arms to hold you

You’ve always known your heart was on its own…»

 

La tremenda realtà di quelle parole – delle sue parole – lo colpì come una stilettata in pieno petto, costringendolo ad abbassare lo sguardo sul suo strumento e dedicarsi unicamente a suonarlo. Non poteva incrociare ancora gli occhi della giovane – l’avrebbero distratto, peggio!, gli avrebbero fatto perdere definitivamente ogni difesa, facendo crollare il muro di freddezza che con fatica aveva eretto intorno a sé in tutto quel tempo.

Erik lo sapeva, era destinato a rimanere solo – eppure la pericolosa vicinanza di mademoiselle Sanders stava avendo il terribile effetto di far sbocciare una speranza, in lui, che non aveva ragione d’esistere. Non si era forse rassegnato all’idea che, in quel mondo, non vi sarebbe mai stato un posto per lui? E allora perché voleva infliggersi ulteriori supplizi, credendo come un bambino nell’esistenza di una simile utopia?

Lentamente, il suo archetto produsse le ultime note di quella melodia, e ancora lui non aveva il coraggio – possibile che il Figlio del Diavolo avesse paura? – di alzare lo sguardo su di lei. Sentì un fruscio di vesti e subito dopo vide la ragazza chinarsi di fronte a lui, ai suoi piedi, cercando di incrociare i suoi profondi occhi di brace. Non poteva scappare, non era da lui – così rimase e affrontò il suo sguardo lucido e comprensivo.

«Maestro, io non ho paura di voi.» Sussurrò, abbozzando un timido sorriso.

Erik sgranò impercettibilmente gli occhi, sforzandosi di trovare la menzogna o la paura nello sguardo della giovane ma leggendovi solo un’inconcepibile sincerità. Le sue labbra gli sorridevano – invitanti? – e le sue mani non tremavano – audaci? – mentre i suoi occhi – così belli – lo scrutavano in attesa di una risposta. Lo scrutavano, sì, senza giudicarlocondannarlo per il suo aspetto demoniaco. La sua era stata una semplice affermazione di fedeltà nei suoi confronti – possibile che vi fosse anche affetto? – tuttavia l’effetto che aveva avuto su di lui sarebbe stato capace di riportare in vita un morto.

Ed era, molto probabilmente, ciò che era accaduto in quel preciso istante.

Senza pronunciare una sola parola, Erik fece qualcosa che attendeva da tempo. Con una titubanza che non credeva fosse propria, circondò il viso della fanciulla con le mani, osservandola mentre socchiudeva gli occhi in trepida attesa – non disagio. Avvicinò il proprio volto al suo e, con lentezza quasi esasperante, osò posare la fronte su quella, tiepida, della ragazza, ritrovandosi a contatto con la sua pelle morbida e fresca e godendo silenziosamente del profumo ch’essa emanava.

Rimasero in quella tenera posizione a lungo – nessuno di loro seppe dire con esattezza quanto. E, prima che l’uomo si staccasse a malincuore da lei, un unico sussurro fuoriuscì dalle sue labbra.

«Grazie

























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AA - Angolo Autrice:
Finalmente sono tornata con un altro aggiornamento! ^^ Accidenti, erano secoli che lavoravo su questo capitolo... E alla fine non è neppure uscito come volevo che fosse all'inizio -.- vabbè, pazienza... A voi è piaciuto? Spero proprio di si ;) [P.S. Tranquille, Erik non si sta rammollendo u.u]
Dunque! Chiedo scusa se questi eventi abbiano accelerato troppo le cose, avevo intenzione di lasciarli cuocere ancor più a fuoco lento ma a quanto pare sia Giulia che Erik sono, in fondo, dei teneroni ù.ù Mi rendo conto che la prima parte del capitolo (quella scritta in prima persona) e l'ultima possano entrare leggermente in conflitto per quel che riguarda il comportamento della ragazza: ma come, all'inizio è terrorizzata e poi alla fine dice che non ha paura di lui? Accidenti, che ragazza volubile! >__< E invece voglio ricordare che nelle pagine di diario lei sta raccontando solo ciò che è accaduto il primo giorno nei sotterranei, quando lei lo vede per la prima volta: alla fine del capitolo, invece, sono già trascorsi due giorni, che non ho voluto approndire per lasciare a voi la libera interpretazione ^^ Ora non mi resta che decidere che fare delle restanti due settimane, se descriverle per bene o se fare un salto temporale... Voi che suggerite? ;D
Ah, la canzone che canta la giovin fanciulla è Learn to be Lonely - ossia la canzone scritta espressamente per i titoli di coda del film. Mi sembrava che ci stesse bene! QUI potete trovare la canzone, nel caso non ve la ricordaste ^^
E ora, rigraziamenti!

sydney bristow: Ancora grazie per i complimenti, davvero! ^^ Anch'io spero che Bamdad non faccia niente, sennò tra me e Erik non so chi lo ucciderà per primo ù.ù devo trovare un hobby al Persiano, altrochè... xD Spero di non aver fatto troppo tardi con questo capitolo, accidenti, sta diventando difficile scrivere con tutto questo caldo >__< Ci sentiamo alla prossima! Un bacio =*

ashar: Grazie mille per i complimenti, sono felice che la storia ti piaccia! :) un bacio, al prossimo capitolo!

Keyra93: Innanzitutto, spero di essere riuscita nell'intento e cioè nel NON copiare l'incontro di Erik e Christine del musical! =O Ci sono riuscita?? Spero di essere stata abbastanza terrificante (MA ne dubito >__<) Ad ogni modo, attendo il responso! ;D Comunque per quanto riguarda il Persiano, sì, hai ragione, potrei anche lasciarlo senza passato... In effetti non è che sia quel gran personaggio di gran spessore, è un ALTRO che bisogna tenere d'occhio ù.ù Ahaha, hai visto che Giulia non è stata cos' scema da togliergli la maschera?? Ormai Erik si è portato avanti e ha fatto tutto da solo! xD Allora ci sentiamo al prossimo capitolo! un bacio =*
P.S. Anch'io sono spaventata all'idea della sua punizione *annuisce*

kenjina: Tesoro, anche tu qui! =* Tranquilla tranquilla, sei assolta da tutti i tuoi peccati visto che avevi già recensito nel forum e anche (e SOPRATTUTTO) perchè mi fai leggere certe storie in anteprima *-* Erano mesi che ti stavi "crogiolando nell'attesa", spero di averti rinfrancato un po' lo spirito con questo capitolo - anche se temo sia abbastanza deludente, viste tutte le aspettative -.-' Ti ringrazio ancora tantissimo per i complimenti, mi fa piacere che ti piaccia la storia e - why not? - anche il mio modo di scrivere xD Ti adoro! <3
Un bacione, al prossimo capitolo (sia mio che tuo! xD) smack! =*

Yunie992: Tranquilla, non preoccuparti per il ritardo - anch'io mi devo scusare, sto andando un pò a rilento -.- Sono contenta di averti lasciato con il fiato sospeso fino alla fine, mi fa piacere che Erik ti stia piacendo! <3 E sì, hai ragione, lui non può essere troppo dolce e mieloso: non si chiama mica Raoul de Chagny ù.ù
Comunque Bamdad potrebbe anche avere un harem al maschile, sai, nel caso decidesse di cambiare sponda... ù.ù Oddio che immagine, meno male che sto scherzando xD
Ovviamente è assurdo che lei venga dal futuro, E che sia la gemella di Christine, ma questa è una storia, partorita dalla MIA immaginazione non troppo - ehm - normale, ergo... Qui tutto è possibile! xD e continuerò a mettere le parole in corsivo, ovviamente, mi piace un sacco *-* xD
E non demordere, vedrai che ce la fai con la patente!! Volere è potere ù.ù
Un bacione, al prossimo capitolo! =*

Ah e, ovviamente, anche Erik ringrazia u.u
Un abbraccio a tutte, ci leggiamo al prossimo capitolo!
GiulyRedRose





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Capitolo 18
*** 16. I'm wondering what you're dreaming ***


Chapitre 16

I’m wondering what you’re dreaming














 

 

 

 

 

 

 

 

Molte cose accaddero all’Opèra di Parigi, nel periodo in cui la giovane mademoiselle Sanders e il suo mentore, il Fantasma – nonché direttore artistico rispondente al nome di monsieur Destler – erano stati assenti per il loro lungo soggiorno nei sotterranei.

Il direttore dell’orchestra, monsieur Reyer, era stato costretto a trovare una sostituta alla giovane promessa del canto: fu per tale motivo che venne richiamata, a teatro, una delle giovani che avevano partecipato alle audizioni diverse settimane prima – vale a dire, mademoiselle de Vries. La fanciulla, i cui capelli corvini facevano risaltare il colorito pallido della sua carnagione, aveva un aspetto arrogante – a tratti insolente – che non piacque granchè agli altri componenti del coro né, tantomeno, allo stesso Fantasma. Egli infatti, malgrado fosse occupato con le sue lezioni sotterranee, non tralasciava certamente il suo compito di direttore artistico, per il quale sgattaiolava in superficie di nascosto alla sua allieva, in modo da fornire istruzioni dettagliate al suo segretario, monsieur Bamdad. E per quanto fosse stato Erik stesso a suggerire il nome di mademoiselle de Vries come sostituta – per quanto poco tollerasse che quella creatura altezzosa calcasse le stesse scene della sua mademoiselle Sanders – egli non poteva che sforzarsi di desistere dall’idea di terrorizzarla a morte con una delle sue apparizioni. Intanto, finchè cantava e rimaneva al suo posto in attesa del ritorno della solista, non v’era alcun pericolo.

Per quello che concerneva madame Giry e sua figlia, la giovane Meg, loro erano le sole a sapere con esattezza dove si trovasse Giulia, e soprattutto con chi: ma, per sfortuna o per fortuna, non potevano farne parola con alcuno. D’altronde, i patti erano questi: se le due Giry si fossero nuovamente impicciate negli affari del Fantasma, questa volta egli non avrebbe passato sotto silenzio il loro affronto, e al contrario si sarebbe vendicato. La qual cosa voleva essere evitata, grazie.

Madame era talmente preoccupata da non riuscire a dormire la notte. Che cosa sarebbe accaduto, no meglio, che cosa stava accadendo nei sotterranei, magari proprio in quel momento? Perché era stata stolta per l’ennesima volta e si era fidata di Erik, lasciando Giulia in sua totale mercè? L’uomo poteva forse… Oh Cielo, poteva forse approfittarsi di lei? La donna si alzava nel cuore della notte e passeggiava su e giù, in lungo e in largo, per la sua stanza, pensando, riflettendo e immaginando cose che avrebbero fatto arrossire la più audace delle sue ballerine. E ancora Erik non era a conoscenza dell’identità della giovane… Certo, in realtà neppure lei poteva esserne sicura. Potevano trattarsi delle farneticazioni di un’anziana donna malata e moribonda, oppure potevano davvero essere la verità… Chi poteva mai saperlo? Louise non aveva ancora avuto modo di controllare il petto della giovane, pertanto non sarebbe potuta esserne certa, fintantochè non avesse visto i segni che l’avrebbero caratterizzata.

Tuttavia, neppure monsieur Bamdad aveva trascorso in serenità quei lunghi quindici giorni. La fanciulla alla quale aveva porso sinceramente i suoi sentimenti era scomparsa, svanita nel nulla, subito dopo che aveva osato quel gesto avventato – subito dopo averla baciata. Aveva avuto il fegato di domandare al suo principale, monsieur Destler, dove fosse finita la giovane – alludendo implicitamente che egli fosse coinvolto nella sua sparizione – ma l’uomo mascherato non aveva battuto ciglio, limitandosi a scoccargli una gelida occhiata che l’aveva fatto tremare e l’aveva fatto retrocedere, chinandosi in segno di rispetto. Gli aveva ringhiato, in modo piuttosto sibillino, che in quel momento la giovane si trovava sotto la sua protezione, e che non avrebbe dovuto osare avvicinarlesi un’altra volta senza ch’egli fosse presente. E mettersi contro un uomo come monsieur Destler era qualcosa che monsieur Bamdad non voleva prendere nemmeno lontanamente in considerazione.

Ma cosa stava effettivamente accadendo nelle catacombe del teatro?

Mademoiselle Sanders e il Fantasma proseguivano con le loro lezioni senza quasi curarsi di ciò che il mondo della superficie poteva pensare o dire su di loro. Essi avevano stabilito di tacito accordo una routine che permetteva a Giulia di ritagliarsi uno spazio per sé sola, senza che la presenza del suo Maestro la turbasse o la mettesse a disagio – era pur sempre un uomo! – e a Erik di continuare ad occuparsi dei suoi affari, tramite lettere e note che faceva avere sia a monsieur Bamdad che ai messieurs Firmin e Andrè. Ma giungeva un momento, nelle loro giornate, nel quale entrambi si dedicavano esclusivamente alla musica: l’uomo sedeva al suo organo, ormai del tutto ristrutturato, oppure prendeva in mano il suo violino, e Giulia prendeva posto al suo fianco per cantare e accettare pazientemente i severi rimproveri e le piccole correzioni che il Maestro le faceva di tanto in tanto.

Ciò che egli desiderava – e pretendeva – era la perfezione, visto che la sua vita ne era stata priva.

 

I quei giorni, mentre l’attenzione del Fantasma su ciò che avveniva nel suo teatro era notevolmente diminuita, il famoso tempio dell’arte veniva tenuto costantemente sotto controllo dagli uomini fidati di un certo Duca de Blanchard, senza che nessuno degli habituès notasse la loro curiosa presenza. Gli uomini, sconosciuti ai più, si aggiravano come ombre per l’Opèra, quasi che fossero alla ricerca di un qualcosa in particolare. Per di più facevano strane domande su passaggi segreti o gallerie sotterranee, alle quali nessuno sapeva cosa rispondere.

Inutile precisare che il duca, lo stesso che aveva desiderato conoscere personalmente mademoiselle Sanders, qualche tempo prima, era fin troppo deluso dall’infruttuosità delle sue indagini. A quanto pareva nessuno sapeva niente, oppure tutti temevano qualcosa. O qualcuno? Solo questo manteneva vivo il suo interesse e lo costringeva a non interrompere le sue ricerche. Era tornato a Parigi per uno scopo soltanto, ed era troppo vecchio per potervi rinunciare. Per Dio, ne aveva bisogno, e l’avrebbe trovato. Anche a costo di rivoltare l’intero teatro da cima a fondo!

Il martedì successivo alla “scomparsa” della giovane solista, l’anziano gentiluomo andò di persona all’Opèra, decidendo che probabilmente avrebbe raggiunto maggiori risultati se avesse agito da solo. Si sistemò comodamente su una delle poltrone della platea, mentre sul palcoscenico alcuni cantanti e attori provavano le scene dell’Annibale di Chalumeau. Torturando il pomello d’argendo del suo bastone da passeggio, il duca prese a studiare l’ampio ambiente senza curarsi della rappresentazione: a quanto sapeva lui, infatti, era quello il luogo nel quale il Fantasma si era manifestato più volte. Più precisamente…

Il suo sguardo vagò fino a raggiungere il balcone del palco numero 5, alla sinistra rispetto al proscenio: le tende color porpora erano tirate cosicchè il suo interno fosse visibile, e affilando gli occhi si sporse in avanti per cercare di vedere meglio ciò che poteva esserci nascosto. Alla fine, poi, la sua pazienza venne premiata. Un debole movimento della tenda, percepibile solamente da qualcuno che non avesse distolto lo sguardo per neanche un istante, rese evidente la presenza di qualcuno nel palco maledetto. Il duca si mise in piedi con notevole sforzo, appoggiando tutto il suo peso sul bastone e avanzando di qualche passo, e infine i suoi occhi grigi si posarono su di lui.

Lassù, leggermente nascosto dall’ampia tenda, stava un uomo, interamente vestito di nero fatta eccezione per un’insolita maschera bianca di cui nessuno – ad eccezione del duca – avrebbe compreso l’esistenza. L’anziano nobiluomo si portò una mano al petto e si afferrò con forza la stoffa della giacca, cercando di trattenere un gemito di esultanza. Allora non era morto, poteva ancora sperare! Ma era più che certo che, quando avesse sentito tutto ciò che aveva da offrirgli, non si sarebbe potuto tirare indietro… Avrebbe accettato, e il suo intero patrimonio sarebbe stato al sicuro dalle grinfie della Repubblica!

Con un ghigno distorto sul volto segnato dalle rughe, il duca de Blanchard voltò le spalle all’uomo nel palco, certo che quest’ultimo non si fosse accorto della sua presenza. Gli era stato riferito – sotto forma di voci di corridoio, certo – che il direttore artistico dell’Opèra Populaire era solito indossare una maschera, e non aveva impiegato molto tempo prima di tirare le somme. Ora, tutto ciò che gli restava da fare era domandargli udienza e sperare che lo ricevesse; in caso contrario, sarebbe dovuto arrivare alle maniere forti, e aveva già un’idea di come queste si sarebbero svolte.

 

 

***

 

 

«No, no, quello è un Si minore. Dovete suonare invece un La maggiore. Su, riprovateci.»

Giulia spostò le dita su altri tre tasti, cercando di ricordarsi la sequenza di note che il suo Maestro le aveva fatto udire e vedere pochi istanti prima. Il suono che proruppe dall’organo era un po’ troppo debole e tremolante, ma se non altro questa volta sembrava che avesse indovinato le note. Con un sospiro rassegnato si portò le mani in grembo, iniziando a torturarle come faceva ogni volta che era nervosa.

«Mi dispiace, Maestro, ma credo di non essere molto portata per suonare il piano.» Ammise, delusa.

L’uomo scosse la testa con un sorriso comprensivo, prendendole la mano e posandola nuovamente sui tasti d’avorio. «Non dite così, mademoiselle. Nessuno nasce istruito.» Disse, docilmente. «Sono certo che un po’ d’esercizio riuscirete a suonare anche il pianoforte.»

La ragazza piegò la testa e lo guardò di sbieco, inarcando un sopracciglio. «Apprezzo la vostra buona volontà e vi sono grata per la vostra pazienza, ma davvero, forse è meglio che mi arrenda. Non è stata una buona idea domandarvi di insegnarmi a suonare, avete già sin troppe cose da fare.»

«Al contrario, è stata una splendida idea.» Replicò, voltando le pagine dello spartito per cercare una melodia che non fosse troppo ardua. «In tal modo sareste un’artista veramente completa.»

Tuttavia, lo sguardo perso nel vuoto della giovane interruppe i suoi progetti di gloria. «Non mi sembrate molto felice di questo, mademoiselle.» Affermò piano, leggermente infastidito.

Lei esitò un poco prima di rispondere. «Oh si, Maestro, ma… Sarò completamente felice solo quando avrò riacquistato la memoria.»

Erik la fissò, improvvisamente adombrato. «E chi dice che non abbiate a pentirvene?» Mormorò.

Giulia si voltò verso di lui, intristita e preoccupata. «Non ci sarebbe nulla di cui pentirmi, monsieur. È il mio passato, è parte di me… Averlo dimenticato mi ha straziato il cuore.»

«Non sapete cosa darei pur di dimenticare il mio.» Ribattè, in un fioco sussurro.

La fanciulla non riuscì a trattenersi e posò una mano sul braccio del suo maestro, stringendolo dolcemente e cercando di rincuorarlo con un pallido sorriso. Poteva solo immaginare come doveva essere stata la sua vita a causa del suo aspetto, e di certo non voleva farglielo pesare più di tanto: l’uomo le aveva dimostrato una fiducia non indifferente, rimanendo sempre col volto scoperto in sua presenza, soprattutto dopo che lei gli aveva fatto capire che con lei non aveva nessun bisogno di nascondersi. Lo rispettava troppo e gli doveva tutta la sua fortuna in quel luogo insidioso che era il teatro, e di certo il minimo che poteva fare per sdebitarsi era mostrargli un poco di gratitudine.

«Dimenticare è impossibile, Maestro, ad eccezione del mio caso.» Disse, accennando un tono scherzoso che svanì subito dopo. «Tutto ciò che possiamo fare è cercare di andare avanti e lasciarcelo alle spalle.»

Già, avrebbe potuto… Ma ciò avrebbe significato solo dover rinunciare alla sua vendetta. No, era un’eventualità da non prendere nemmeno in considerazione. Il suo passato era stato terribile, tale da averlo condotto sull’orlo della morte e della follia più e più volte… Ma la sua volontà era più forte di tutto questo: non avrebbe chiuso gli occhi sul mondo senza che questi si fosse finalmente inchinato dinnanzi al suo genio indiscusso e ineguagliabile.

Con un sospiro, scosse impercettibilmente la testa. «Riprendiamo la nostra lezione, avanti.» Il tono stanco con cui aveva pronunciato quelle parole distolse Giulia dalla voglia di porgli altre domande e approfondire quell’argomento che sembrava farlo soffrire così tanto, sebbene a distanza di anni.

«Come desiderate, Maestro.» Acconsentì, posando entrambe le mani sui tasti e seguendo le note.

Chissà se un giorno il suo Maestro avrebbe trovato giusto e rassicurante confidarsi con lei?

 

 

 

***

 

 

 

Non sarei dovuto entrare.

Ma la tentazione era forte. Sapere che lei è qui, nella stanza accanto alla mia, nella mia dimora, e non poterla neanche vedere, sapere di respirare la sua stessa aria ma non poter sentire il suo profumo...

Non ho potuto resistere. Ho abbandonato la gelida solitudine del mio letto e mi sono avvicinato a passo sicuro alla porta che separa le nostre due camere, un debole e inutile ostacolo alla mia troppo grande passione...

Non ho bisogno di nessuna candela. L’oscurità è stata per troppo tempo la mia unica compagna.

Lei non sa che la mia stanza è adiacente alla sua, altrimenti credo che non dormirebbe sonni tanto tranquilli. Non è di certo una sciocca, sa cosa rischia nel rimanere da sola con un uomo…

Apro la serratura senza il minimo rumore, e in un attimo sono nell’altra stanza. Da lei.

Posso già sentire il suo delicato respiro, e non sono che appena entrato.

Ora, lentamente, mi avvicino verso il suo vergine giaciglio. Questo pensiero non fa che eccitarmi ancora di più. Vergine. E io sono ad un passo da lei, e potrei prenderla senza nessuna difficoltà...

Un pensiero che presto diventerà realtà.

Ormai sono di fronte al suo letto. Mi appoggio alla colonna del baldacchino, posando la fronte su di essa per prendere dei profondi respiri. Sono eccitato come un predatore a pochi passi dalla sua preda.

Dunque è così che deve sentirsi un leone?

Non posso più resistere.

Prima di poterlo anche solo immaginare, ecco che mi trovo al lato del letto nel quale dorme, tranquilla e ignara della mia oscura presenza. Una mia mano si posa sulla trapunta, e in un battito di ciglia la getto ai piedi del letto, scoprendola. Lei è completamente nuda. So che è buio, ma i miei occhi sono abituati all’oscurità, ed è come se vi fosse la luce del sole ad illuminare il suo pallido corpo perfetto.

Purtroppo per lei, il Fantasma è un essere fatto di carne e sangue. Non può sfuggirmi...

Mi accorgo di avere tra le mani una rosa rossa. Non ricordo di averla presa, ma la cosa non mi interessa granché. La faccio scorrere lentamente sulla sua pelle, sfiorandole il volto, la gola, il petto e il ventre piatto e morbido, tremando di piacere quando la sento sospirare nel sonno.

Poi ecco, arrivo nel centro pulsante della sua femminilità, e lì la rosa si ferma. Fiore sopra fiore, la metafora è evidente e, ancora una volta, eccitante.

È la mia volta di sospirare, e so che non potrò trattenermi ancora a lungo.

In un attimo sono su di lei, i nostri due corpi che combaciano perfettamente, pelle diafana, la sua, sotto una pelle scura, la mia.

E adesso ne sono certo. Presto sarà solo mia.

Mia...

 

Con un gemito disperato, Erik si raddrizzò a sedere, strappandosi con un ultimo ringhio alle ardenti spire del suo sogno. Buon Dio, perché era di questo che si era trattato. Solo di un sogno.

O meglio, un incubo.

Era stato terribilmente reale, per un secondo era certo del fatto che avrebbe saziato su di lei il suo desiderio, aveva avuto l’impressione di poter sentire il suo profumo su di sé... E solo perché la sera prima ella aveva osato augurargli la buonanotte sfiorandogli la guancia lasciata scoperta dalla maschera da cui non si separava mai...

Quel casto e amichevole bacio doveva averlo turbato più del lecito.

Gettò con rabbia le coperte da una parte del letto, alzandosi e raggiungendo con passo deciso il tavolino sul quale lo attendeva ancora una bottiglia di buon Cognac, del quale si bevve d’un sorso un intero bicchiere. Non poteva andare avanti così. Quella situazione rischiava di diventare insostenibile.

Già due settimane erano trascorse da quando mademoiselle Sanders era sua ospite, e non era passato un solo giorno senza che lui si ritrovasse a desiderarla e a sognarla. Era chiaro che, a mente fredda, non le avrebbe fatto del male né l’avrebbe mai sfiorata nemmeno con un dito, ma nessuno poteva sapere che cosa sarebbe accaduto il giorno dopo. E se avesse esagerato nel bere, e durante la notte si fosse introdotto nella sua camera, che confinava con la sua? Gli era già difficile resisterle durante il giorno, quando sedevano l’uno di fianco all’altro durante le lezioni di canto e musica, di sicuro non ci sarebbe riuscito se non avesse avuto il completo controllo dei suoi nervi. E nemmeno la chiave con la quale la ragazza chiudeva la porta sarebbe servita: lui ne possedeva una copia, e se anche così non fosse stato, beh, era comunque il Signore delle Botole. Le serrature non erano mai state un problema, per lui.

No, era impossibile rischiare oltre. Non poteva permetterselo. Malgrado tutto rispettava troppo mademoiselle Sanders per farle una cosa simile.

Maledizione, ma in che razza di mostro si era trasformato? In un uomo che desiderava possedere qualsiasi fanciulla si trovasse davanti?

Ma no, gli suggerì subito una voce dentro di sé. Non si trattava di una fanciulla qualsiasi... Era lei che voleva. Solo lei.

Ma non poteva averla! Sapeva che ella gli era preclusa, così come lo era stata Christine, e forse anche di più! Non aveva nessun diritto sulla ragazza, se non quello di averle salvato la vita, ma che razza di uomo con un po’ di orgoglio e senso dell’onore ne avrebbe approfittato così sfacciatamente?

Ma guarda, era già da qualche tempo che si ritrovava a fare discorsi del genere... Che cosa ne sapeva, lui, dell’onore? Lui, che non aveva mai stretto un solo patto in vita sua perché sapeva che non l’avrebbe mai rispettato? I giuramenti sono per gli stolti, era solito ripetersi!

Eppure, eppure c’era un giuramento che avrebbe rispettato fino alla sua morte, ma purtroppo il destino aveva deciso che un mostro come lui non avrebbe mai potuto godere di una simile felicità. Perciò, neanche pensarci aveva molto senso.

Posò nuovamente il bicchiere sul tavolino, rinunciando a berne un altro per non sfidare troppo la sorte. Si avvicinò al camino acceso, sperando che il calore delle fiamme lo facesse rinsavire. Ma no, era più forte di lui. La porta che collegava le loro camere era alla destra del focolare, chiusa eppure invitante, ed Erik si ritrovò a fissarla con un misto di rabbia e desiderio.

Forse... pensò, raddrizzando leggermente la testa. Forse dovrei entrare a controllare che stia bene... che non abbia bisogno di qualcosa...

Una debole scusa, ma non aveva bisogno di altro. Doveva vederla. E ad ogni modo non poteva cedere ai quei bassi istinti, poiché la fiducia della fanciulla gli era necessaria per il compimento della sua vendetta. Se avesse perso la stima o l’affetto che mademoiselle sembrava nutrire nei suoi confronti, tutti sarebbe stato perduto per sempre.

In due rapide falcate fu di fronte all’uscio, e prima che potesse cambiare idea la sua mano abile e rapida aveva fatto scattare la serratura. Nessun rumore, silenzioso come un fantasma.

Come nel suo sogno, non aveva bisogno di nessuna candela. Ma, a differenza di esso, non aveva intenzione di trattenersi oltre dopo essersi accertato che la ragazza stesse bene. Tutto qui. Non doveva fare altro.

Solo controllare che stesse bene.

Silenzioso, scivolò avvolto nell’oscurità fino al suo letto, chiuso dalle tende del baldacchino. Lanciò una rapida occhiata al camino e, dopo essersi accertato che fosse ancora acceso, sollevò piano le tende di pizzo scuro.

Sulle prime credette che la sua vista gli stesse giocando brutti scherzi; ma, dopo aver sbattuto più volte le palpebre, dovette arrendersi alla tremenda evidenza. Il letto era vuoto, peggio, era ancora in ordine come se nessuno vi si fosse mai coricato.

Dove diavolo poteva mai essere la ragazza?

Imprecò ad alta voce, mentre cercava una candela che illuminasse ulteriormente la piccola stanza: forse mademoiselle Sanders si era addormentata su una poltrona e lui non se ne era accorto. Ma neppure la luce del cero risolse la situazione: la stanza era vuota, e lui non aveva idea di dove fosse finita la sua ospite. Ed era ovvio che non poteva tornare a dormire come se niente fosse, dato che poteva esserle accaduta qualsiasi cosa: egli infatti era ben consapevole delle numerose trappole che aveva sparso in tutti i sotterranei del teatro, e c’era il pericolo che la fanciulla fosse finita dentro una di esse.

Cercò di ricacciare indietro il ricordo di quando l’aveva vista per la prima volta, e l’aveva trovata, in preda alla febbre, nella Camera dei Supplizi: il ricordo lo tormentava ancora, e si augurò  – perché lui di certo non poteva pregare – di aver chiuso a chiave tutte le camere più pericolose.

Afferrò un candelabro ed uscì in fretta dalla stanza, senza neanche curarsi di indossare un mantello. Non riusciva a comprendere il motivo di quell’irrazionale paura che l’aveva attanagliato all’improvviso.

«È solo perché ho bisogno di lei.» Sussurrò tra sé, afferrando il remo della barca e saltando agilmente su di essa. «È una pedina fondamentale nel mio piano, tutto qui.»

Ma ormai lui stesso stentava a crederci.

 

 
























_________________________________________________________________________________________________

AA - Angolo Autrice:
Ehilà, giovani fanciulle! ^^ Come procedono le vostre vacanze? Spero meglio delle mie - confinata a casa a causa del brutto tempo... ma si può?? -.-''
Ma meno male che EFP non va in vacanza :D Ed è giustappunto per questo motivo che mi trovo qui, ad aggiornare prima del previsto - davvero, non credevo di riuscire a finire questo capitolo in così poco tempo O_o Certo, si è concluso a metà e il seguito sarà nell'altro, però... sempre meglio di niente!
Ringrazio innanzitutto chi ha recensito lo scorso chapitre, vale a dire kenjina (tesoro, anche tu qui! :D), leschatnoir, sydney bristow, Yunie92 e TheMisty910. Non ho molto tempo per rispondervi singolarmente - cosa di cui vi chiedo perdono! - ma cercherò di fare una risposta collettiva! :D
Innanzitutto grazie mille per i complimenti, c'è chi dice che mi sono addirittura superata! *O* Beh dai, un pò di tenerezza ci voleva proprio, sennò la tensione assassina ci avrebbe ammazzati tutti ù.ù E poi in fondo Erik è un tenerone... Perciò, non avremo più momenti così per un bel pò xD *risata malefica (si, tipo quando fa cadere il lampadario nella versione teatrale .__.)
Inoltre, sono molto contenta che le descrizioni vi piacciano e servano a farvi immedesimare ancora di più nella storia, le faccio apposta! *-* E comunque sì, ribadisco, Erik è umano e ha dei sentimenti, ma per il momento è ancora piuttosto preso da questa benedetta vendetta -.-'' Che dire, non ha quello che si chiama "spirito cristiano" xD (Anche perchè quando si è imbarcato nell'"ammore" non è che gli sia andata benissimo, poveretto é.è)
E neanche qui c'è Bamdad, se si esclude un breve cammeo! *O* Coloro che vogliono linciare il persiano seguano la fila a sinistra, prego ù.ù
E con questo capitolo spero che il carattere di Erik e Giulia stia venendo sempre più fuori, sono anche le piccole cose "tra le righe" che servono a delineare i personaggi... Spero di non essere troppo ripetitiva o monotona, comunque, e ovviamente spero di riuscire a tener fede a questa immagine che ho creato di lui ^^'' Per dirla tutta: non vorrei forzarla troppo, ecco!
Fatemi sapere che pensate di questo new chapter e, ovviamente, del sogno di Erik: è la prima volta che parla in prima persona, avete notato? Io me ne sono accorta solo ora! xD
Un abbraccio e al prossimo capitolo, les filles! (Al mio fianco, Erik si inchina e ringrazia)
Bisous,
GiulyRedRose

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Capitolo 19
*** 17. Ritorno alla luce ***


Chapitre 17

Ritorno alla luce

 

 



















 

 

 

 

 

La Dimora sul lago giaceva in un cupo silenzio, disturbato soltanto dal leggero fruscio lontano di qualche corrente d’aria sotterranea. Non era completamente immersa nell’oscurità, e questo grazie alla geniale intuizione di far convergere, tramite degli specchi disposti in punti strategici, i raggi della luna e le luci dei lampioni a gas, che penetravano da delle grate fino alle profondità del teatro: qui l’acqua del lago li rifletteva sulle pareti, creando dei giochi di luci e ombre che rendevano l’ambiente più vivibile. Erik era stato costretto a cambiare tutti gli specchi perché quelli che aveva predisposto in passato erano stati distrutti la notte del disastro e quelle successive.

Ad ogni modo, ciò non gli impedì di afferrare una fiaccola dalla parete per iniziare le ricerche della sua ospite. Avanzando a grandi passi negli intricati corridoi, attento a cogliere il più piccolo gemito o rumore, si accorse che era da un po’ di tempo che aveva cessato di pensare a lei come ad una prigioniera. Alla fine non era riuscito neppure ad attuare la punizione che aveva preparato per lei. Avrebbe voluto tenerla legata ad una scomoda sedia per diversi giorni – aveva già preparato le corde – fino a quando lei non l’avesse supplicato con pianti e lamenti di liberarla; in realtà questa sarebbe dovuta servire anche nel caso in cui la reazione della giovane di fronte al suo aspetto infernale non fosse stata di suo gradimento.

Ma il modo in cui si era comportata quando aveva visto il suo vero volto era andato ogni sua previsione: chi si sarebbe mai aspettato, infatti, che mademoiselle avrebbe cercato di comprenderlo e confortarlo, malgrado fosse appena stata rapita da lui? Certo, all’inizio era sembrata spaventata, ma forse era solo una reazione umana… In fondo non era preparata a qualcosa del genere, lui poteva ben capirlo – ma quando aveva pianto era solo perché temeva che lui potesse avanzare diritti sul suo corpo!, non perché era disgustata dal suo aspetto!

Fu questo, probabilmente, a farlo desistere dal punirla. Che bisogno ve n’era, d’altra parte? Ella gli si era avvicinata e l’aveva toccato di sua spontanea volontà, permettendogli di posare la sua fronte sulla sua: e da quel momento non aveva esitato a sfiorarlo in nessuna occasione, forse sperando in quel modo di essergli vicina o – possibile? – dimostrargli affetto.

E malgrado tutto questo, egli aveva abbassato la guardia e chissà in quale trappola demoniaca era finita!

Ringhiò, al colmo della frustrazione, e si contenne a stento dallo strappare i preziosi drappi che abbellivano le nude pareti di pietra della sua dimora e che, al contempo, la rendevano meno umida. Doveva mantenere la calma e concentrarsi – e pregare di aver chiuso a chiave le stanze più pericolose. Avrebbe dovuto immaginare che le sarebbe venuta la voglia di studiare meglio quella strana abitazione, era pur sempre una donna! Ma per quale motivo farlo di notte, maledizione?

Dopo essersi assicurato che anche la porta della Camera dei Supplizi fosse prudentemente chiusa a chiave, Erik non potè ancora tirare un sospiro di sollievo. Escludendo le varie trappole, ora non restavano che le altre stanze, più normali ma non per questo meno pericolose: poteva anche essere accaduto che mademoiselle Sanders, entrando in una di essa, non fosse stata più capace di uscire o di ritrovare la sua camera da letto. Di certo egli non scherzava quando si riferiva a quel luogo come al Labirinto sotterraneo.

 

Una dopo l’altra, Erik scopriva che le stanze erano completamente vuote. Neppure un cenno del suo passaggio, come se la fanciulla si fosse volatilizzata nel nulla. Per un attimo temette quasi di essere ancora immerso nel sogno, ma il dolore proveniente dalla mano che aveva sbattuto al muro gli indicava tutto il contrario. La terribile verità era che non stava sognando, e che mademoiselle era sparita.

Che fosse fuggita dalla dimora sul lago? Che avesse trovato un passaggio segreto tramite il quale fosse riuscita a raggiungere la superficie? Ma no, non aveva alcun senso – perché scappare, visto che sembrava non avere alcuna forma di timore nei suoi confronti? Un’ira cieca stava già prendendo il posto della preoccupazione, mentre a grandi passi percorreva l’ultimo corridoio. E così, infine, anche lei l’aveva tradito.

Oh, Erik, credevi che ora sarebbe stato tutto diverso, non è così? Che stolto!

Strinse così forte la presa sul candelabro che quasi lo sentì scricchiolare, mentre la cera delle candele colava lentamente sulle sue dita. Ma quel dolore era nulla in confronto alla delusione che quella ragazzina gli aveva dato…

Un momento. Cos’era quella debole luce che proveniva da sotto la fessura di una porta? Era convinto di non aver lasciato nessuna candela accesa al di fuori della zona che utilizzava di più, per evitare di scatenare un fuoco accidentale. Si diresse a passo deciso verso la porta, posando una mano sulla maniglia d’ottone e abbassandola, spingendola silenziosamente verso l’interno: se ci fosse stato un intruso, l’ennesimo, avrebbe avuto ciò che gli spettava… Non era dell’umore adatto per mostrare misericordia!

La nuova stanza era il suo vecchio studio, per la precisione. Una camera nella quale, durante la lunga esistenza che aveva condotto in quelle catacombe, aveva conservato libri, documenti e tesori, dei quali ancora si serviva per suo uso e consumo e che in parte erano stati utili per il suo breve soggiorno nel Nuovo Mondo. Eppure credeva di averla chiusa a chiave, considerata l’importanza degli oggetti ivi conservati. Ma era chiaro che qualcuno era stato ugualmente capace di entrarci, e quel qualcuno adesso riposava su una vecchia poltrona, raggomitolato come un gattino infreddolito.

Mademoiselle Sanders.

Il capo abbandonato sullo schienale della poltrona, circondato dai lunghi capelli che era solita sciogliere prima di andare a dormire, le gambe distese sopra il bracciolo e le braccia in grembo, con le mani che tenevano stretto un libro che, evidentemente, aveva trovato nella sua libreria.

Dunque non l’aveva abbandonato…

Non si accorse che le sue labbra si erano curvate in un debole sorriso, mentre le si avvicinava per avvolgerla in una coperta che giaceva su una sedia lì accanto. Avventurarsi in quei maledetti domini solo per cercare una lettura notturna, che sciocca – non aveva pensato neanche per un istante che avrebbe potuto perdersi?

Si permise il lusso di rimanere un momento ad osservarla, così, da vicino. Oh, era molto più bella del suo sogno – era reale, e avrebbe potuto toccarla semplicemente allungando la mano. Le sue labbra, leggermente dischiuse nel sonno, sembravano invitarlo silenziosamente a posarsi su di esse, mentre il petto della giovane si sollevava e si abbassava sensualmente al ritmo del suo respiro. Ora capiva il motivo degli abiti castigati che le donne erano costrette ad indossare durante il giorno e talvolta anche la notte – serviva soltanto a preservare l’autocontrollo di uomini come lui. Come poteva resistere altrimenti ad una simile visione?

Fu più forte di lui: la sua mano scivolò accanto al suo viso, e le sue dita, leggere come farfalle, si permisero di sfiorare le sue gote in una delicata carezza. La sua pelle era liscia e morbida, e questo gli fece rammentare di quando le sue rosse labbra si erano posate con gentilezza sulla carne martoriata del suo viso, la notte prima, senza che alcun accenno di ribrezzo turbasse la serenità del suo dolce sorriso. Nessuno aveva mai osato tanto; neppure Christine, che aveva avuto il coraggio di fondere insieme le loro bocche nel tentativo di salvare la vita al suo fidanzato – neppure lei aveva mai avuto l’ardire di sfiorare la bruttezza del suo volto. Ella ne era terrorizzata, per non dire assolutamente disgustata.

Mademoiselle Sanders poteva anche somigliare, fisicamente, alla Viscontessa de Chagny – ma il suo cuore era di sicuro molto più grande e pietoso nei confronti di un mostro.

Erik chiuse gli occhi, massaggiandosi le tempie con le mani. Non poteva continuare così. Stava diventando impossibile riuscire a controllare quella situazione, gli stava letteralmente sfuggendo dalle mani. Di certo al principio non aveva immaginato che gli sarebbe potuto accadere di… Oh, ma cosa andava pensando? Certe cose andavano contro tutto ciò che si era prefissato e in cui aveva creduto negli ultimi due anni. Non poteva permettersi di ignorare la faccenda, non poteva perdere quell’occasione.

Vendetta. Ecco tutto ciò di cui aveva bisogno per vivere, nient’altro aveva importanza. Pertanto era necessario allontanarsi per un po’ dalla sua allieva, sperando che la lontananza servisse a raffreddare i suoi bollenti spiriti e a rendere nuovamente lucida la sua mente annebbiata.

La sua espressione era nuovamente impenetrabile mentre, dopo essersi alzato, sollevava tra le braccia la ragazza e si dirigeva fuori dal suo studio. I quindici giorni erano finiti, grazie a Dio. Presto ogni cosa avrebbe seguito il suo corso, e lui ne avrebbe potuto raccogliere i frutti.

Il libro che Giulia aveva iniziato a leggere giacque sulla poltrona, del tutto abbandonato.

 

 

***

 

 

Quando, la mattina dopo, Giulia aprì gli occhi, non riuscì a comprendere come potesse trovarsi nel morbido e accogliente giaciglio della sua camera da letto. Non si era infatti addormentata sopra una poltrona, in una stanza lontana e di cui non rammentava nemmeno l’ubicazione? Stropicciandosi gli occhi ancora assonnati, la giovane si alzò, raggiungendo a tentoni la poltrona nella quale giaceva la sua vestaglia da camera e avvolgendovisi dentro. Ora poteva anche arrischiarsi a raggiungere il suo Maestro per il pasto mattutino che, solitamente, consumavano insieme.

Tuttavia, quando raggiunse l’ampio salone – certa di trovarvi l’uomo ad attenderla – rimase delusa nell’accorgersi di essere sola. Ma là, sul tavolo della colazione, peraltro già pronta per lei, non trovò che la compagnia di una gelida e piccola nota lasciata dal suo Maestro. Si sedette, prendendola tra le mani e dispiegando il foglio: l’inchiostro rosso con cui era stata scritta e la calligrafia curata ma spigolosa erano un suo marchio esclusivo.

 

Mademoiselle Sanders,

vi chiedo perdono di non essere lì, con voi, ad attendere che vi svegliate. Alcuni affari mi reclamano, perciò starò via per qualche ora. Ciò non mi ha comunque impedito di occuparmi del vostro sostentamento – spero che la colazione vi sia gradita come sempre.

Dopo che avrete provveduto alla vostra toilette, vi esorto a prepararvi e a sistemare i vostri oggetti: sarete lieta di sapere che i quindici giorni sono trascorsi e  che il soggiorno nella mia dimora si è concluso. Da questo momento in poi riprenderemo le nostre solite lezioni.

Quando sarò di ritorno gradirei trovarvi già pronta.

Il vostro umile servo.

 

La nota non era stata firmata. Già, d’altra parte come avrebbe dovuto concludere quella piccola missiva? Giulia non conosceva il suo nome, sempre supposto che ne avesse uno al di là del titolo con cui ella gli si rivolgeva – non poteva di certo segnarsi come Maestro.

Con un sospiro, la ragazza posò la nota accanto a sé e si versò il thè che, ancora caldo, sembrava attendere lei. Stranamente non riusciva ad essere allegra del fatto di poter tornare nuovamente in superficie, qualcosa le suggeriva che non sarebbe stata una liberazione essere privata della sua presenza. Certo, all’inizio non aveva desiderato che questo, ma ora? Inoltre i toni della lettera erano stranamente freddi nei suoi confronti, come se qualcosa si fosse spezzato. Ma per quale motivo? La notte prima non erano forse stati bene come le altre sere trascorse insieme? Che cosa poteva essere cambiato?

Forse il suo Maestro non aveva gradito la passeggiata notturna della ragazza – forse si era arrabbiato per il suo curiosare non autorizzato: non aveva dubbi che fosse stato lui a riportarla nella sua stanza, chi altri se no?, ma evidentemente doveva aver fatto qualcosa che egli aveva giudicato inopportuno. Ma cosa? Più ci pensava e meno riusciva a comprenderlo. L’unica soluzione sarebbe stata attendere il suo ritorno e provare a domandarglielo di persona.

 

 

Giulia si era ormai preparata di tutto punto quando Erik giunse finalmente alla dimora sul lago: l’uomo la trovò seduta su un divanetto, impeccabilmente vestita, che sfogliava gli spartiti ch’egli le aveva lasciato per potersi esercitare anche da sola. Remò velocemente fino a raggiungere il piccolo molo e lì saltare a terra, ancorando l’elegante gondola con una fune che fece passare intorno ad un anello in ferro. Si accorse che la fanciulla aveva notato la sua presenza ma non si scompose, assumendo un’espressione fredda e impassibile. Doveva mettere una nuova e prudente distanza tra di loro, e avrebbe dovuto farlo a partire da subito.

«Buongiorno, Maestro.» Lo salutò educatamente la ragazza, alzandosi mentre lui la raggiungeva.

Egli si limitò ad un breve cenno col capo, prima di rivolgerle la parola. «Perfetto, siete già pronta. In tal caso è meglio sbrigarci a tornare in teatro, bisogna approfittarne adesso che non è ancora aperto al pubblico.»

Ma Giulia non lo stava ascoltando. La sua attenzione era stata completamente catturata da uno strano oggetto che non aveva mai avuto modo di vedergli addosso – una mezza maschera bianca, lucida, che gli ricopriva la parte destra del volto, quella martoriata. Avrebbe voluto allungare una mano e sfiorarla, sorpresa ed incuriosita, ma quella nuova tensione che sembrava aleggiare tra loro glielo impedì.

«Perché indossate questa maschera?» Mormorò, dispiaciuta. Dunque era finito anche il tempo della fiducia che sembrava averle accordato? Perché tutto d’un tratto si rifiutava di mostrarsi a lei così come realmente era?

Inoltre, la risposta dell’uomo la ferì come non credeva sarebbe stato possibile. «La vostra punizione è terminata, mademoiselle, non ha più senso tormentarvi con questo orrore.»

«Oh.» Era per questo motivo, dunque. Non perché si fidava di lei al punto di mettere a nudo la sua anima e i suoi più oscuri segreti, ma semplicemente perché il suo aspetto – tanto mostruoso – faceva solo parte del castigo che aveva architettato per punirla delle sue mancanze… Non disse un’altra parola, limitandosi ad abbassare lo sguardo e prendere gli spartiti che il Maestro le aveva lasciato a disposizione. «Sono pronta ad andare.» Disse soltanto, cercando di non mostrarsi troppo delusa.

Come se non bastasse, l’uomo le volse le spalle. «Bene, seguitemi. E cercate di starmi al passo, i corridoi che stiamo per attraversare sono pericolosi e pieni di trappole.»

«Certo, monsieur.»

Attraversarono quasi tutti i sotterranei in completo silenzio. Il ticchettio dei loro passi sul pavimento era l’unico rumore che sembrava scacciare i topi e scoraggiarli dall’avvicinarsi, unito al suono delle gocce d’acqua di umidità che scivolavano sul pavimento di pietra. Già dopo aver svoltato due angoli, Giulia comprese che, da sola, si sarebbe inevitabilmente persa – come la leggenda del giovane Teseo nel labirinto del Minotauro. Sarebbe stato impossibile per qualsiasi umano percorrere quelle gallerie senza l’aiuto di qualcuno che le conoscesse come le proprie tasche, come peraltro sembrava fare il Maestro. Tuttavia, quando raggiunsero delle scalinate da dover ascendere, Giulia ebbe la strana impressione di conoscere quel luogo, come se ci fosse già stata – in chissà quale vita. Si guardò intorno, incuriosita, come se da qualche parte potesse esserci un segno, magari proprio quello del suo passaggio, che le avrebbe fatto rammentare ogni cosa. Ma ciò non accadde, e lei dovette accontentarsi della breve impressione che quel luogo le aveva causato.

Sollevò lo sguardo sull’uomo che, avanzando davanti a lei, non si era degnato di rivolgerle la parola per tutto il tragitto, voltandosi solo quando alcuni corridoi erano dissestati per poterle dare una mano. Si ritrovò così a studiarlo attentamente, prestandogli, forse per la prima volta, quell’attenzione che le giovani donne rivolgono ai giovanotti più avvenenti – guardandolo non come il suo maestro, ma come un semplice uomo.

Le sue spalle ampie e la schiena larga le suggerivano un sentimento di protezione: si accorse per un momento di desiderare che quelle braccia l’avvolgessero e l’attirassero verso il loro rifugio – quale sciocca fantasia! Per fortuna il lungo mantello che indossava smorzava quelle brame inopportune, facendola arrossire e abbassare lo sguardo per evitare che indugiasse ancora su di esse. Eppure continuava a pensare che non le sarebbe per niente dispiaciuto essere stretta da lui…

Era così immersa nei suoi pensieri che quasi non si accorse che l’uomo si era fermato – e ci mancò poco che gli rovinasse addosso. Si fermò a sua volta, intuendo che la lunga passeggiata doveva essere giunta al suo termine. Quando il suo Maestro si voltò nuovamente verso di lei comprese di non essersi sbagliata.

«Siamo arrivati, mademoiselle.» Annunciò, parlando stranamente a bassa voce. «Io non posso accompagnarvi oltre, ma questa porta segreta si affaccia di fronte alle scalinate del foyer. Non avete che da salirle per poi ritrovarvi nell’ingresso del teatro, avete compreso?»

Giulia annuì, rimanendo ad osservarlo mentre pigiava un meccanismo nella parete che fece ruotare magicamente una parte della parete su sé stessa. Egli si fece poi da parte, invitandola silenziosamente a passare. «Siete pregata di non fare parola con nessuno di ciò che avete visto nei miei domini.» L’ammonì, con un tono di voce improvvisamente glaciale.

«Non credo di aver mai tradito la vostra fiducia, monsieur.» Replicò lei, piuttosto offesa e infastidita da quel suo nuovo comportamento.

Egli non rispose all’allusione, dato che non aveva tempo né intenzione di litigare con lei. «Domani sera alle quattro alla cappella, mademoiselle. Vedete di non mancare.» Disse invece, senza guardarla.

La ragazza comprese di essere stata definitivamente congedata e, senza più rivolgergli un solo sguardo e senza salutarlo, lo superò ed uscì dal passaggio. Il rumore della parete che ruotava sui cardini e si richiudeva dietro le sue spalle la fece sobbalzare, e senza più resistere si voltò verso di essa. Il muro non sembrava essersi mosso, e dell’uomo non vi era più alcuna traccia.

Senza attendere oltre, si diresse velocemente verso le scuderie, decidendo che sarebbe stato più prudente uscire da una porta secondaria. Dopotutto era sparita per quindici lunghi giorni, e di certo non voleva sorbirsi le mille domande di ballerine e coriste incuriosite. Tutto ciò che voleva adesso era tornare a casa e riposarsi.

 

 

***

 

 

Era ormai pomeriggio inoltrato. Per quel giorno Erik aveva voluto esonerare la sua allieva dalla loro abituale lezione, in modo che la giovane potesse riprendersi ma, soprattutto, per concedere a lui la possibilità di sbollire e riprendere il controllo e la padronanza di sé. Era stato già abbastanza difficile percorrere tutti i sotterranei sentendo il suo sguardo insistente sulla schiena, e sapendo di non poter fare nulla di azzardato come afferrarla e sentire il suo profumo su di sé. Ma che cosa gli stava succedendo? Poteva essere semplice lussuria quel sentimento cieco che gli stava facendo perdere la ragione?

Innervosito si alzò in piedi, dirigendosi verso la finestra e scostando la tenda per distrarsi con il paesaggio all’esterno. Oh, aveva iniziato a piovere: le gocce d’acqua picchiavano con forza sul vetro della finestra, impedendogli di avere una chiara visione di ciò che accadeva in strada. Il cielo era già completamente scuro, e qua e là si intravedevano le luci dei lampioni a gas. Avrebbe voluto aprire le imposte e affacciarsi per poter sentire l’acqua scorrere sul suo viso, ma sapeva che un simile refrigerio gli era negato: era pur sempre il direttore artistico dell’Opèra Garnie, e non poteva concedersi tali infantilismi.

Improvvisamente, senza ch’egli attendesse nessuno, qualcuno bussò con insistenza alla porta del suo ufficio. Cercando di mascherare il fastidio invitò l’intruso ad entrare, inarcando un sopracciglio nel notare che si trattava del suo segretario, monsieur Bamdad.

«Monsieur, perdonate il disturbo ma avete visite.» Annunciò il giovane persiano, con uno sguardo in volto che non fece presagire nulla di buono.

«Visite? Non aspettavo nessuno.» Ribattè, infilando con disinvoltura una mano nella tasca dei calzoni.

Monsieur Bamdad annuì, ma il suo voltò si fece se possibile ancor più cupo. «Lo so, monsieur. Ma si tratta di qualcuno che desidera vedervi subito, e mi ha fatto capire chiaramente che non se ne andrà senza che prima l’abbiate ricevuto.»

«Di chi si tratta?» Insistè Erik, iniziando ad intuire chi potesse trovarsi dall’altro lato della porta.

Il persiano sembrò esitare, ma fu solo un istante. «È il Duca de Blanchard, monsieur.»

Erik strinse gli occhi, neppure tanto sorpreso da quella notizia. In realtà, si aspettava una cosa simile già da quando il duca era arrivato a Parigi, ormai quasi due mesi prima: in effetti, non credeva che avrebbe aspettato così tanto prima di andare da lui.

«Oh, perfetto, proprio colui che stavo aspettando.» Mormorò, gli angoli delle labbra che si stendevano in un pallido sorriso. «Che cosa aspettate, Bamdad? Coraggio, fatelo entrare.»

«Come desiderate.» Uscì dall’ufficio, richiudendo la porta dietro di sé.

L’uomo mascherato non si mosse dalla sua posizione, attendendo pazientemente che il suo segretario facesse entrare l’ospite tanto desiderato. Aveva intenzione di farsi trovare del tutto preparato e a suo agio per quell’incontro, e grazie alle sue numerose esperienze sapeva come comportarsi. Quando la porta si riaprì, rivelando la figura un tempo imponente di un anziano nobiluomo, che si reggeva pesantemente sul bastone da passeggio, Erik non potè fare a meno di ghignare.

«Finalmente ci incontriamo, monsieur Lescroart.»























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AA - Angolo Autrice:
Ed eccomi ritornata - reduce da una meritata vacanza ù.ù Ho scritto questo capitolo prima di partire ma non volevo pubblicarlo ancora, perchè era da rivedere... Spero sia di vostro gradimento, anche se non accade nulla di particolare -.-'' Ma nel prossimo, finalmente, scopriremo chi è questo benedetto Duca! *O*
Muoio dal caldo, quindi non mi dilungo in ringraziamenti - sappiate che vi adoro per tutto quello che mi scrivete, sono davvero felice che vi piaccia la mia storia e il mio modo di scrivere =) Grazie mille a Kenjina, sydney Bristow, Yunie992 e Keyra93 - spero che, malgrado le varie disavventure, abbiate passato delle belle vacanze! ^^ Non finirò mai di ringraziarvi per il vostro sostegno!
Un bacione e un abbraccio, al prossimo capitolo - che arriverà presto in quanto è quasi del tutto scritto *_*
E, per fare una piccola citazione,
Je suis, messieurs, votre humble serviteur.
GiulyRedRose
=*

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Capitolo 20
*** 18. Dove diverse identità vengono rivelate ***


Chapitre 18

Dove diverse identità vengono rivelate

 

 

















 

 

 

 

 

 

 

 

«Mi chiedevo quando avreste trovato il coraggio di venire da me.» Esordì, facendogli cenno con una mano di entrare nell’ufficio. Il nobiluomo obbedì, richiudendo l’uscio e avvicinandosi ad una poltrona senza mai distogliere lo sguardo dal volto dell’essere mascherato ritto innanzi a lui.

«Siete esattamente come mi immaginavo, Erik. Avete gli stessi occhi di vostra madre.» Fu la prima cosa che disse, mentre piegava leggermente il capo da un lato come se avesse voluto meglio studiare l’aspetto del giovane.

Il Fantasma non potè fare a meno di trattenere una secca risata. «Non riesco a crederci! Questo è tutto ciò che avete da dire? Mi cercate da quasi dieci anni e la prima cosa che fate è trovare delle somiglianze tra me e quella disgraziata?»

Gli occhi del duca si strinsero allo stesso modo di quelli di Erik, come se a stento stesse trattenendo la furia. «Dunque sapevate che vi stavo cercando. Eppure non vi siete mai fatto vivo, per quale motivo?»

Erik non rispose subito. Si diresse con calma al mobile nel quale conservava i suoi liquori, prendendo due bicchieri e una bottiglia piena. «Gradite un bicchiere di Armagnac?» Domandò, ostentando gentilezza.

Il duca non si fece ammaliare. «Non sono venuto fin qui per bere, dovreste saperlo.» Sibilò.

«Peccato. Avremmo potuto celebrare come si deve questo gradito incontro…» Ironizzò, riempiendosi il bicchiere fino all’orlo e mettendo nuovamente il tappo alla bottiglia. «Alla vostra salute.»

«Non avete risposto alla mia domanda.» Ribadì l’altro, gelidamente. Non tollerava che qualcuno si prendesse gioco di lui così apertamente. Era un affronto al suo titolo e alla sua ambita posizione.

«Io e voi non abbiamo mai avuto nulla da spartire, monsieur­.» Rispose Erik col medesimo tono. «Quando ho saputo che mi stavate cercando vi ho lasciato fare, ma sappiate che avrei benissimo potuto… persuadervi… a lasciar perdere. Invece ho voluto vedere fin dove vi sareste spinto, e alla fine mi devo congratulare con voi – mi avete trovato. Sono pochi quelli che possono vantarsi di tanto successo.»

Sorseggiò un altro po’ della sua acquavite, poi proseguì. «Ma vi prego, permettetemi una curiosità.» Disse, giocherellando con lo stelo del bicchiere. «Tutta questa strada, tutti questi sforzi… Per che cosa? Per vedere con i vostri occhi quanto somiglio a quella povera donna di mia madre?»

«Quando avrete finito di fare del sarcasmo, allora forse vi darò una risposta.» Sibilò a denti stretti, stringendo con forza il pomo del suo bastone.

Il sorriso beffardo di Erik accentuò la sua irritazione, ma finse di non vederlo. «In tal caso, vi domando scusa per le mie scarse buone maniere. Vi prego, accomodatevi.» Disse, facendogli cenno di sedersi.

Per quanto avesse desiderato di rimanere in piedi e cercare di sovrastarlo con la sua mole psicologica, il duca fu costretto a cedere per via del suo fisico provato. Si sedette, mettendosi comodo per cercare di sembrare perfettamente a suo agio quasi quanto lo era il suo ospite.

«Sono venuto qui per discutere unicamente di affari, e mi auguro di aver trovato in voi un valido alleato.» Rispose, cercando di ignorare il modo che Erik aveva di osservarlo – sembrava quasi di vedere il proprio riflesso ad uno specchio, solo più giovane.

«Affari, dite?» Ribattè l’uomo, sedendosi a sua volta. «Avete tutta la mia attenzione. Per favore, andate avanti.»

A sentire quel tono pacato e distaccato, l’anziano duca si spazientì. «Suvvia, Erik! Non stancatemi con questo vostro atteggiamento! Sapete perfettamente chi sono e soprattutto cosa voglio da voi.»

Gli occhi di brace di Erik si strinsero nuovamente, mentre afferrava con forza il bicchiere come se avesse voluto spaccarlo con la mera pressione della sua mano. «Ma certo che so chi siete, monsieur! Tuttavia voglio che abbiate il coraggio di dirmelo chiaramente in faccia, da uomo a uomo.» Poi, come ripensandoci, aggiunse, velenoso: «Non vi chiederò come siate venuto a conoscenza del mio nome, anche se ne sono alquanto curioso dato che praticamente nessuno lo conosce.»

Allora fu la volta del duca di sorridere, con sadica voluttà. «Oh, Erik, ogni padre conosce il nome del proprio figlio.»

Il bicchiere vuoto venne sbattuto violentemente sul pesante legno della scrivania, facendo tremare le stilografiche e le boccette d’inchiostro che vi erano disposte sopra. De Blanchard non sussultò, dimostrando una padronanza di sé maggiore rispetto a quella dell’impulsivo direttore, ma al contrario il suo sorriso si allargò se possibile ancora di più. «Bene, sembra che abbiate finalmente compreso la portata dell’affare che voglio proporvi.»

Erik alzò furioso gli occhi su di lui, cercando mentalmente un buon motivo per non aggredirlo. «Dunque vi siete svelato, alla fine. Sapevo che i miei sospetti erano fondati.» Mormorò, stringendo i pugni.

«Lo sospettavate? Oh, immaginavo. Il vostro genio dev’essere più superbo di quello che dicono.» Disse, con marcata derisione. «E adesso che tutte le carte sono state scoperte, sono io a chiedervi di mettervi comodo e di ascoltare ciò che ho da dire.» Aggiunse, sentendosi nuovamente padrone della situazione.

Erik si sedette a sua volta, giungendo le mani davanti al volto e guardandolo con ira. «Vi ascolto.»

«La faccenda è molto più semplice di quello che sembra. La duchessa de Blanchard è morta quattordici anni fa a causa della tubercolosi, lasciandomi senza neanche un figlio. Come di certo saprete, se l’ultimo erede di un casato nobiliare non ha nessuno cui lasciare il suo nome e le sue ricchezze, esse verranno assorbite dalla Repubblica, che le userà per i suoi scopi… Immaginate, secoli di sangue blu, di lotte per il potere, di tesori accumulati che si disperdono nel vento come se non fossero mai esistite.» La sua voce si indurì al solo pensiero, e il suo sguardo si perse verso un punto indefinito. «Io sono vecchio, la mia vita è quasi giunta al termine e non ho nessun erede legittimo. Sposarsi nuovamente è fuori discussione, non voglio assumermi una simile responsabilità alla mia età. Ed è qui, Erik, che entrate in gioco voi.»

Riportò nuovamente gli occhi sul Fantasma, sperando ch’egli dicesse qualcosa che gli facesse intendere che aveva compreso – e soprattutto che apprezzava – l’idea che gli stava frullando in testa. Ma monsieur Destler rimase ostinatamente in silenzio, sostenendo il suo sguardo senza battere ciglio per invitarlo in una muta sfida a concludere il suo discorso.

Con un breve sospiro, il duca si accinse a continuare. «Voi siete mio figlio, Erik. Siete il frutto di una relazione clandestina che io ebbi in gioventù con una bellissima contadina di nome Madeleine Cochois, e pertanto il mio sangue scorre nelle vostre vene. Ancora non capite? Siete voi il mio erede! Questo è l’affare che vi propongo: alla mia morte, voi erediterete tutti i miei possedimenti e un titolo che vi spetta di diritto, con l’unica clausola di poter perpetuare il nome di questo casato ancora per lungo tempo.»

L’anziano duca tacque, in attesa che il figlio che aveva appena ritrovato lo ringraziasse per l’enorme opportunità che gli stava offrendo – non si aspettava né desiderava alcuna manifestazione d’affetto, dato che si trattava di una mera contrattazione d’affari e non di una piacevole riunione familiare.

Ma dal gelido Fantasma dell’Opera non ebbe nulla di tutto questo.

«Che cosa vi fa pensare che io voglia accettare tutto questo?» Sibilò infatti quest’ultimo, stringendo gli occhi. «La sola risposta che avrete da me è no, nel modo più assoluto

«Voi non capite cosa vi sto offrendo!» Esclamò allora il duca, sconvolto, sbattendo il bastone sul pavimento.

Erik non si lasciò turbare dalla sua reazione. «Au contraire, lo comprendo perfettamente.» Ribattè, ostentando tranquillità per celare la rabbia. «Ma ciò non mi obbliga ad accettare la vostra offerta. Per un semplice e misero dettaglio, monsieur, al di là del fatto che non ho nessun interesse nell’aiutarvi, e cioè che io verrei meno alla mia parte dell’accordo: vedete, non credo che sarò in grado di perpetuare il vostro nome, e il vostro prezioso casato cesserà comunque di esistere insieme a me.»

Negli occhi del nobiluomo passò un guizzo malizioso che a Erik non piacque per niente. «Mi state dicendo che quella deliziosa cantante, mademoiselle Sanders se non erro, non è la vostra promessa?»

«Come diavolo…?» Sbottò il Fantasma, prima di essere nuovamente interrotto.

«Come faccio a saperlo?» Disse con un ghigno, concludendo per lui la domanda. «Voi credevate forse di avermi tenuto sotto controllo per tutto questo tempo, ma in realtà anch’io ho fatto lo stesso con voi. Dovevo pur conoscere il mio erede.»

«Vi ho già detto che io non sarò il vostro erede.» Ringhiò Erik, stringendo i pugni talmente tanto forte che le nocche sbiancarono.

Il sorriso di monsieur de Lescroart divenne più tangibile. «Non mi avete risposto, comunque. Mademoiselle Sanders è o no la vostra fidanzata?»

«Tutto ciò non ha nulla a che vedere con voi.» Replicò, piuttosto irritato. «Ad ogni modo, mademoiselle non è nulla di tutto questo. Lei è soltanto la mia allieva, sono stato io ad istruirla nel canto.»

L’altro annuì, compiaciuto. «E avete fatto un ottimo lavoro. La sua voce è celestiale.»

«Se pensate che questa conversazione possa portarvi da qualche parte, monsieur, allora vi state sbagliando.» Ci tenne a precisare, guardandolo dritto negli occhi di un azzurro glaciale. «Vi ho già detto tutto quello che volevate: da me non otterrete altro.»

Le dita sottili del duca si strinsero maggiormente attorno al pomo del suo bastone da passeggio. «Se posso permettermi, Erik, vi consiglio di fare in modo che questa non sia la vostra ultima parola.»

Se c’era una cosa che il Fantasma dell’Opera non tollerava, erano le minacce rivolte alla sua persona o a coloro che gli appartenevano. Pertanto, le ultime e taglienti parole del duca non fecero che alimentare ancora di più la sua furia e la sua indignazione, e se avesse potuto avrebbe accarezzato l’idea di mettere a tacere quel vecchio pazzo con il suo fidato laccio del Punjab.

«A voi, che avete l’ardire di minacciare me, voglio consigliare di non sottovalutare troppo la mia intelligenza – non avete nessuna idea di quello che sono capace di fare.» Sibilò, guardandolo sempre dritto negli occhi come si fa in un duello, quando non si abbassa lo sguardo per timore che l’avversario possa colpire a tradimento. «Potrei lasciarvi in vita abbastanza a lungo per uscire dal mio teatro, ma non per cercarvi un altro erede. Perciò, badate bene al tono che usate per rivolgervi a me.»

Sulle labbra dell’anziano duca passò un ghigno sardonico e derisorio. «In un’altra situazione vi avrei fatto frustare per il tono irrispettoso che state usando nei confronti di vostro padre.»

Tutte quelle insinuazioni sul loro – a suo avviso – inesistente legame di sangue non facevano che innervosirlo sempre di più. «Credo di avervi già fatto capire che io non mi considero vostro figlio.»

«Oh, voi potete pensare ciò che più vi aggrada», replicò, per nulla impressionato. «Ma ciò non cambia la realtà, e il fatto che il mio sangue, volente o nolente, scorre anche nelle vostre vene. Dunque, perché non sfruttare questa situazione a vantaggio di entrambi?»

«Ciò che forse voi vi ostinate a non voler capire è che io non ho alcun bisogno dei vostri soldi.» Ribattè Erik, compiaciuto per la prima volta in quella serata. «Possiedo un patrimonio che mi consentirebbe di vivere negli agi tanto e più di voi, e senza nessuno degli obblighi che il vostro rango potrebbe impormi. Per quale motivo dovrei abbandonare una simile posizione per accettarne una che non sarebbe in alcun modo vantaggiosa, per me?»

«La fama e la reputazione non sono forse motivi sufficienti?» Proruppe il duca, riuscendo a stento a controllare l’ira che sembrava essere passata da Erik a lui in un battito di ciglia. «Inoltre, devo ricordarvi che a Parigi esiste ancora una taglia sulla vostra testa, Fantasma

«Non osate servirvi di appellativi che non comprendete!» Ringhiò Erik, sbattendo un pugno sulla sua scrivania di duro mogano. Sentire quella parola sulle sue labbra era stata la classica goccia che fa traboccare il vaso.

«Oh, credevate che non ne fossi a conoscenza? Che illuso.» Lo derise de Blanchard, con un luccichio nello sguardo. «Come vi ho già detto, Erik, conosco ogni cosa di voi, so cosa avete fatto e dove siete stato negli ultimi nove anni. Per un momento ho temuto di dover coinvolgere anche i De Chagny in questa faccenda, ma noto con piacere che essi non hanno più nulla a che vedere con voi. Il vostro unico interesse sembra essere quello nei confronti di mademoiselle Sanders, e credetemi quando vi dico che non mi farò scrupoli ad utilizzarlo a mio vantaggio.»

«Vi ho dedicato anche troppo del mio tempo.» Sibilò l’altro, stringendo con forza i pugni. «Non ho più voglia di ascoltare le vostre vuote provocazioni. Se questo è tutto ciò che avevate da dirmi, adesso siete libero di andare. E spero mi farete il piacere di non apparire più in mia presenza.»

Il duca si mise in piedi, reggendosi sul suo bastone ma mantenendo una compostezza rigida e regale che compensavano i suoi difetti fisici dovuti all’età avanzata. «State commettendo un grosso errore, Erik.» Lo ammonì, stringendo gli occhi grigi come la lama di un coltello e altrettanto pericolosi. «Ricordate, io non sono uno che si arrende al primo ostacolo: e dovreste saperlo, visto che io e voi siamo fatti della stessa tempra.»

«Probabilmente questa è l’unica cosa che abbiamo in comune, monsieur.» Ringhiò Erik, alzandosi a sua volta e compiacendosi, in cuor suo, di sovrastare il vecchio nobile in altezza.

«Ricordate che siete stato avvertito.» Insistè, prima di indossare il cilindro e sistemarsi la giacca. «Non disturbatevi ad accompagnarmi; so perfettamente dove si trova l’uscita. A presto, mio caro.»

Erik lo osservò dirigersi alla porta del suo ufficio, aprirla e richiuderla alle sue spalle con un tonfo secco. Solo allora le sue spalle si rilassarono e l’uomo si abbandonò sulla sua sedia, versandosi un altro bicchiere della sua acquavite.

«Addio, De Blanchard.» Sussurrò, prima di berlo tutto d’un fiato.

 

 

 

 

***

 

 

 

Quando Giulia raggiunse l’abitazione di madame Giry era ormai completamente fradicia a causa della pioggia che non si era risparmiata neppure per un istante: piuttosto scioccamente non aveva neppure pensato a prendere un ombrello, così il mantello le gravava addosso zuppo di acqua. Afferrò il batacchio sulla porta e bussò con forza, sperando di attirare subito l’attenzione degli abitanti della casa prima che l’acqua le penetrasse fin dentro le ossa. Fu Meg stessa ad aprirle, e la giovane ballerina sussultò dal sollievo nel vedersi di fronte l’amica.

«Oh, mon Dieu! Giulia!» Esclamò, portandosi le mani alla bocca. Cercando di trattenere le lacrime la prese poi per un polso, attirandola velocemente dentro casa; si affacciò sulla soglia per dare un’occhiata alla strada come se avesse voluto accertarsi che nessuno l’avesse seguita, e dopo aver appurato che la via era del tutto vuota richiuse il portone dietro di sé. Si voltò verso l’amica, prendendole il mantello fradicio.

«Non hai idea di quello che ho passato in queste settimane nel saperti con… Oh, Dio, se solo avessi potuto sarei corsa io stessa a portarti via, ma non potevo, Giulia, capisci? Non potevo! Mi è stato tassativamente vietato di fare qualsiasi cosa, e… In nome del Cielo, sei completamente bagnata! Vieni, ti do dei vestiti asciutti.» Non le diede quasi il tempo di parlare, mentre la trascinava al piano superiore non prima di aver chiesto alla cara Agnese di preparare un thè bollente per lei, che sembrava averne tanto bisogno.

«Meg, vuoi dire che tu sapevi dov’ero?» Domandò alla fine, una volta al sicuro nella loro stanza.

La giovane Giry distolse lo sguardo, aprendo l’armadio e perdendo tempo nella scelta di un abito da casa adatto all’amica. Ma quando si voltò nuovamente verso di lei, l’espressione grave che dipingeva il suo viso, solitamente spensierato, fece comprendere a Giulia che presto avrebbe saputo qualcosa di più.

«Purtroppo sì, ma chère, lo sapevo. Lo sapevamo tutti, mia madre per prima.» Esordì, parlando a bassa voce. «Ma siamo state costrette a non immischiarci in questa faccenda, per quanto mi uccidesse saperti nelle sue mani.»

«Dunque, lo conoscete…» Mormorò l’altra, tormentandosi le dita. Continuava a capirne sempre meno, la soluzione di quell’enigma sembrava volerle sfuggire in eterno. «E perché, Meg… Perché non me l’hai mai rivelato?»

Meg sospirò, disperata. «Te l’ho detto, chèrie, non potevo!» Si avvicinò a lei ed iniziò a sbottonarle il corpetto bagnato, gettandolo su di una poltrona e passando poi a slacciarle la gonna. «Ce l’ha impedito. Voleva essere lui a rivelarsi a te per primo, e… credo che ci avrebbe fatto del male, se non avessimo obbedito ai suoi ordini.»

Giulia scosse la testa, incredula, sfilandosi la gonna e l’ampia sottoveste. «No, non è possibile… Il mio Maestro non potrebbe farvi del male…» Balbettò, cercando di convincersi.

Lo sguardo della giovane Giry, piuttosto scettico, interruppe le deboli scuse che Giulia sembrava voler ad ogni costo trovare per giustificare il comportamento dell’uomo – aveva cessato da tempo di pensare a lui come ad un’entità incorporea proveniente dagli abissi infernali – che l’aveva presa sotto le sue ali. Aiutando l’amica ad asciugarsi con un ampio telo, quindi, Meg riprese il suo discorso, decidendo che avrebbe detto a Giulia tutto ciò ch’ella aveva bisogno di sapere.

«Ti ricordi quello che ha raccontato Corinne, la notte che… che sei scomparsa?» Esordì, parlando istintivamente a bassa voce; benchè non si trovassero tra le mura del teatro, dove potevano essere spiate in qualsiasi luogo, le abitudini di discrezione erano dure da abbandonare.

Giulia scosse la testa, frizionandosi i capelli. Meg proseguì.

«Ha raccontato di essere stata aggredita dal Fantasma dell’Opera. Rammenti che ne abbiamo parlato, vero?» Domandò, e ad un cenno affermativo dell’amica andò avanti. «So che forse stenterai a crederci, ma questo fantasma esiste… E non è altri che il tuo Maestro.»

A quelle parole, improvvise come un getto d’acqua gelata, Giulia si voltò di scatto, fissando la Giry con uno sguardo a metà tra l’incredulo e il terrorizzato. «Stai scherzando, Meg?» Mormorò, cercando nella sua espressione qualcosa che le desse un altro tipo di risposta. «Le tue amiche hanno parlato del Fantasma come di un essere malvagio che si prende gioco di chi è inferiore a lui e che tenta di abusare di giovani ragazze sole! Il mio Maestro non è nulla di tutto questo!»

«E tu come fai a saperlo, eh? Te l’ha detto lui?» Sibilò Meg, afferrando l’amica per le spalle. «Non puoi essere così ingenua da credere a tutto ciò che esce dalla sua bocca! Ha incantato anche te con la sua musica, non è così? E ora pensi di conoscerlo, lo difendi addirittura! Ti ha solo mentito, Giulia, possibile che tu non lo capisca? Non sei curiosa di sapere cosa nasconde sotto la sua maschera? Io lo so, e ti assicuro che non potresti neanche immaginare l’orrore che vi è al di sotto!»

Ma Giulia si liberò da quella stretta, allontanandosi di qualche passo dalla ballerina. «Io so perfettamente com’è il suo volto.» Ammise sottovoce, tristemente. «E non ti chiederò come tu faccia a saperlo. Ma visto che ne sei a conoscenza, allora devo dire di essere molto delusa dal tuo comportamento: non credevo che fossi una di quelle altezzose fanciulle che giudicano qualcuno solo in base al loro aspetto!»

Ignorando poi lo sguardo sorpreso di Meg, continuò con il suo sfogo. «Lui può anche avermi mentito sul fatto di essere o meno il Fantasma dell’Opera, sempre che una cosa simile sia vera, ma di certo è stato sincero fin da subito sul fatto di chi fosse, per me, e di come avesse intenzione di aiutarmi. Non come voi, Meg!» Aggiunse, trattenendo le lacrime. «Se c’è qualcuno che mi ha mentito, porta solo il nome di Giry! Voi avete sempre saputo il nome del guaio in cui mi stavo cacciando, ma non avete mai, mai!, fatto nulla per impedirmelo. E adesso dovrei crederti quando dici che di lui non ci si può fidare? Non osare, Meg, non osare mai più dirmi una cosa simile!»

Meg era rimasta letteralmente senza parole. Indubbiamente non si aspettava una reazione simile da parte dell’amica: che fosse soggiogata da lui non v’erano dubbi, certo, ma da qui a proteggerlo anche quando si trovava al sicuro dalla sua vista, come se fosse effettivamente convinta di ciò che stava dicendo… No, non poteva comprenderla. Il Fantasma dell’Opera era un assassino, questo era un semplice dato di fatto: ma Giulia non conosceva quella vicenda, d’altra parte, e forse, se l’avesse saputa… Magari poteva aprirle gli occhi e convincerla a non fidarsi più di lui. Le faceva male sapere che l’amica la considerava una traditrice e una bugiarda, ma purtroppo le sue parole erano vere. Se le avesse raccontato tutto dal principio, adesso non sarebbero arrivate a tanto. Perciò, con uno sguardo addolorato e un leggero tremito delle mani, Meg andò a sedersi sul bordo del letto, invitando Giulia a fare altrettanto.

«Voglio raccontarti ogni cosa riguardante la vicenda del Fantasma dell’Opera, ma chère.» Esordì piano, guardandola seriamente negli occhi. «Quando sarai a conoscenza di tutto quanto, allora potrai giudicare tu stessa. Non voglio che mi consideri ancora una bugiarda, perciò non ti nasconderò più nulla. Spero solo che un giorno tu possa perdonarmi.»

Giulia annuì lentamente, gettandosi sulle spalle una vestaglia e aspettando che l’amica trovasse le parole giuste per iniziare il suo racconto. In fondo aveva paura di quello che poteva scoprire, ma ormai si era convinta che nulla poteva essere peggio di quello che era già accaduto.

«Bene,» cominciò, con un sospiro. «Avevo sette anni quando il Fantasma apparve per la prima volta nelle nostre vite: era il 1862, e fu mia madre a trovarlo…»




















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AA - Angolo Autrice:
Ehilà! Come promesso, ecco a voi il capitolo 18 a tempo di record! Sono o non sono un genio? xD L'importante è crederci ù.ù
Comunque! Spero che questo capitolo sia all'altezza delle vostre aspettative, finalmente il velo di mistero sulla figura del Duca si è sollevato... E la mia domanda è: ve lo aspettavate?? =O Erik si, contro ogni previsione :D E adesso spetta a Meg rivelare tutto ciò che sa su di lui a Giulia, ma questo avverrà nel prossimo capitolo ù.ù
E ora passo alle recensioni:

Kenjina: Carissima! *_* Innanzitutto grazie mille per la recensione =* Comunque sono d’accordissimo con te, Erik non può comportarsi in questo modo ambiguo – è troppo lunatico ‘sto benedetto ragazzo! ù.ù Poi lo vorrei proprio vedere mentre cerca di saltarle addosso come un allupato, ahahah x’D Credo che uno di questi giorni manderò Erik a farsi un giretto al Moulin Rouge… Che tu sappia era già aperto nel 1877? ù.ù Scherzi a parte, sono felice che l’evoluzione della cosa ti stia piacendo *_* E spero che quest’ultimo capitolo non ti abbia fatto schifo! ^_^; Chissà se il duca è stato all’altezza delle tue aspettative?? [modalità Paranoia: ON] Mi dispiace non averti potuto dare un assaggio in anteprima, non ci siamo più incontrate su msn ç__ç ma per i prossimi capitoli recupererò ù.ù A proposito, tu a che punto sei??? *__* Fammi sapere *O* Un bacione chèrie, a presto! =*

Sydney bristow: Ehilà cara, grazie mille per la recensione! =* Eh lo so, Erik sta perdendo colpi, e mi dispiace per l’entrata in scena di Bamdad ma purtroppo è un male necessario ù.ù Corbezzoli, vai a vedere Love Never Dies??? ç___ç che tristezza, non sopravvivrò all’idea ç__ç Comunque divertiti, o come dicono gli inglesi, enjoy your stay :D Un bacione, al prossimo capitolo! =*

Keyra93: Ciao cara! Grazie per la recensione *_* Dunque, passiamo a noi: so bene che la faccenda degli specchi è un po’ forzata, forse, ma mi sembra che nel libro citi una cosa del genere, e siccome non avevo voglia di andare a controllare se effettivamente era così l’ho inventata a modo mio ù.ù Visto che l’elettricità ancora non era in pieno uso dovevo pensare a qualcosa che si adattasse al genio di Erik! Che poi non è neanche tanto impossibile visto che questo cristiano [cito le parole del libro] “concepiva un palazzo più o meno come un prestigiatore può immaginare uno scrigno truccato, e lo shah-in-shah gli commissionò una costruzione di questo genere, che Erik portò a compimento e che, a quanto pare, era così ingegnosa che Sua Maestà poteva passeggiare ovunque senza essere visto e sparire in modo davvero inspiegabile.” Ora, uno che inventa una cosa così non è capace di portarsi la luce in casa tramite due specchi? xD Comunque non voglio fare polemica e apprezzo il tuo tentativo di riportarmi con i piedi per terra, ma tanto ormai sono andata x°D Ah, un’altra cosa! In un’altra recensione mi avevi detto che ti dava fastidio il fatto che mi rivolgo a Erik come “Lui”, con la lettera maiuscola: non volevo certo essere blasfema, per carità! Semplicemente, se non erro anche nel libro lo cita in questo modo, per il semplice fatto che tutti hanno paura di lui e ne parlano come di un’entità sovrannaturale. Non preoccuparti di essere brusca, se c’è qualcosa che non ti convince tu chiedi e ti sarà dato! :D Farò sempre il possibile per soddisfare le vostre curiosità ù.ù Ancora grazie per le tue recensioni assidue, continua così! Ci sentiamo al prossimo capitolo, smack =*

Inoltre voglio ringraziare tutti coloro che leggono senza recensire, perchè è anche merito loro se continuo la storia - comunque non abbiate timore a farmi sapere ciò che ne pensate, soprattutto le critiche! Io non mordo, anzi, mi farebbe piacere ^^ 

E con questo vi saluto! Ci sentiamo al prossimo capitolo, ma per quello non vi faccio promesse temporali :( 

Un bacione, a presto!

Rimango, signori, il vostro umile servo,

GiulyRedRose

 

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Capitolo 21
*** 19. La leggenda del Fantasma dell'Opera ***


Chapitre 19

La leggenda del Fantasma dell’Opera

 














 













 

 

«Avevo sette anni quando il Fantasma apparve per la prima volta nelle nostre vite: era il 1862, e fu mia madre a trovarlo…»

 

«Maman era molto giovane, ma già insegnante del corpo di danza dell’Opèra, e quella sera aveva deciso di portare le sue allieve a vedere una fiera ambulante di zingari arrivata in città durante la settimana.» Proseguì, lo sguardo perso in ricordi che non le appartenevano. «Saltimbanchi, prestigiatori, indovine… Anch’io ero andata, dopo aver pregato mia madre di portarmi con lei. Ero solo una bambina, ma ero affascinata da quel mondo nuovo di colori e odori di granturco e miele che aleggiavano nell’aria. E poi c’era… In una gabbia, lontano da tutti ma circondato da una folla di persone… Uno strano personaggio, un ragazzo, forse sui diciotto anni. Lo chiamavano Le fils du Diable

Il figlio del Diavolo. A quel nome, Giulia non potè fare a meno di rabbrividire, rammentando come il suo Maestro si era presentato a lei, all’inizio… Eppure non osò interrompere l’amica, permettendole di andare avanti con il suo racconto.

«In realtà egli non faceva nulla, era lo zingaro insieme a lui che organizzava il suo ‘spettacolo’. Lo picchiava con una verga e poi lo frustava, ma dalle sue labbra non fuoriusciva nemmeno un gemito: doveva aver imparato a non mostrare il suo dolore, evidentemente. E poi, quando giaceva a terra sfinito, lo zingaro gli si avvicinava e lo privava del sacco che portava in testa a nascondere il suo volto, mostrando così agli spettatori l’orrore che era la sua faccia. Bada bene, Giulia, io queste cose non le ricordo, me le ha raccontate mia madre perché era stata lei a vederle con i suoi occhi… Quel giorno, tuttavia, il ragazzo riuscì a vendicarsi: attese che tutta la folla uscisse dal tendone, poi afferrò la corda con la quale lo zingaro l’aveva frustato e, mentre quest’ultimo contava le monete che gli erano state lasciate, gli passò la corda intorno al collo e lo soffocò. Mia madre era nascosta in un angolo, e vide ogni cosa.

«Riuscì ad avvicinarsi a lui e ad afferrarlo per un braccio, trascinandolo via da lì mentre qualcuno gridava ‘all’assassino’ e chiamava i gendarmi, per mettersi alla ricerca del giovane omicida. Maman lo condusse all’Opèra, facendolo entrare nel teatro tramite un passaggio poco utilizzato che sbucava in Rue Scribe e che finisce proprio nella piccola cappella che c’è in direzione del terzo sottopalco. Lo lasciò solo, dicendogli che poteva rifugiarsi lì per tutto il tempo che avesse desiderato, e se ne andò per tornare a prendere noi ballerine alla fiera. Da quel momento in poi nacque la figura del Fantasma dell’Opèra.

«Purtroppo per tutti noi, parecchi di quei gentiluomini – e anche gentildonne, a dir la verità – che si erano presi gioco di lui, schernendolo e insultandolo, in quella fiera ambulante, non erano altri che frequentatori abituali dell’Opèra; purtroppo per noi, il giovane sfigurato aveva una ferrea memoria che lo portava a rammentare chiaramente ogni singolo volto che vedeva, anche solo una volta; e, sempre purtroppo per noi, il Fantasma vedeva la vendetta come unico strumento di giustizia nei confronti di coloro che avevano osato deriderlo.

«Iniziò a terrorizzare gli habituès del teatro durante le rappresentazioni, andando a sussurrare minacce nei loro orecchi, una voce priva di corpo proveniente dall’ombra. Alcune donne scapparono dall’Opèra nel bel mezzo dello spettacolo, gridando spaventate, e costringendo anche i loro accompagnatori a seguirle. Per qualche tempo il teatro perse i suoi soliti frequentatori, che si rifiutavano di entrare in un luogo infestato dove le loro spose non potevano godersi in tutta tranquillità uno spettacolo per il quale aveva sborsato del denaro. Per un breve periodo, quindi, i suoi scherzi si acquietarono, limitandosi a qualche dispetto ai macchinisti o alle ballerine più arroganti, ma quando le persone iniziarono ad abbassare la guardia tornò per continuare la sua vendetta.

«Le sue azioni si facevano man mano più gravi e pericolose. Una volta cosparse di cera le scalinate del foyer appena prima della fine dell’ultimo atto, e all’uscita parecchie persone scivolarono e si fratturarono qualche osso delle gambe – qualche povero sfortunato addirittura morì, anche se in effetti erano persone di un’età avanzata. Mia madre sapeva perfettamente chi si celava dietro questi incidenti, e più volte aveva cercato di scendere nei sotterranei – ormai regno del Fantasma – per parlare con lui e cercare di consolarlo. Non era forse stata lei stessa a salvargli la vita? Per quale motivo adesso egli sembrava voler rovinare la sua? Ma era chiaro che le parole non bastavano. Il Fantasma dovette aver preso gusto dell’immenso potere che gli conferiva il fatto di essere sconosciuto ai più, senza contare il fatto che in un ambiente come quello del teatro le superstizioni sono tante, e una di più non avrebbe fatto del male a nessuno. O, almeno, questo fu ciò che dovette pensare lui.

«Credo che avesse minacciato persino mia madre, costringendola ad essergli complice nel suo folle tentativo di impadronirsi del teatro; un tentativo che divenne però realtà, dato che nel giro di pochi mesi l’allora direttore dell’Opèra, monsieur Lefevre, era finito alla completa mercè del Fantasma. Non osava prendere decisioni senza prima essere sicuro che l’essere fosse d’accordo, e addirittura quando il Fantasma iniziò a pretendere una cifra per i suoi ‘servigi’ e per il favore ch’egli gli faceva di lasciarlo vivere in pace nel teatro, monsieur Lefevre la pagò senza battere ciglio. Immagina, 20.000 franchi al mese, derivati dai guadagni dell’Opèra, che venivano usati per pagare un criminale che si prendeva gioco di noi.

«Andò avanti così per molto tempo, troppo, anche se il Fantasma alternava periodi di malumore ad altri in cui ci lasciava liberi di fare ciò che più ci aggradava senza interferire. Nei periodi di maggiore calma monsieur Lefevre era stato convinto a mandare dei macchinisti in perlustrazione del teatro per cercare il covo di questa presenza, ma è inutile dire che, anche qualora l’avessero trovata, nessuno è mai tornato indietro per raccontarlo.

«E poi, cinque anni fa, Christine Daaè arrivò a teatro. Come forse ti ricorderai, Christine era la giovane figlioccia di madame Valerius, tornata insieme alla madrina in Francia dato che nella sua terra natale, la Svezia, non era più rimasto nessuno per lei. Aveva quattordici anni quando entrò nel collegio dell’Opèra, e già cantava come un angelo: maman conosceva da tempo mamma Valerius, così non aveva esitato a prendere Christine sotto la sua ala in attesa che si ambientasse in un nuovo paese e in un nuovo ambiente come quello del teatro. Io avevo solo due anni più di lei, e diventammo da subito ottime amiche. Si può dire che fossimo come sorelle…»

La voce di Meg si spezzò all’improvviso, come se il repentino ricordo di quegli avvenimenti fosse risultato troppo emozionante anche per lei stessa. Abbassò lo sguardo e prese dei profondi respiri per cercare nuovamente la padronanza di sé, e quando fu certa che non sarebbe scoppiata a piangere dalla nostalgia, sollevò lo sguardo e piegò le labbra in un debole sorriso.

«Stai bene, Meg?» Domandò Giulia, con tatto, sfiorando la mano dell’amica.

La giovane Giry annuì, asciugandosi con una manica un angolo dell’occhio. «Certo, chèrie, non preoccuparti. Dunque, dov’eravamo rimaste? Ah, sì. Christine.»

«Compresi sin da subito che Christine non sarebbe rimasta a lungo nelle file del coro: la sua voce era troppo particolare, troppo dolce, troppo bella perché potesse restare per sempre tra le coriste. Suo padre era il grande violinista svedese Gustave Daaè, aveva una grande fama e un grande talento, e non c’era dubbio che la figlia ne avesse ereditato ogni singola goccia. Cantava con tutta l’anima, come se attraverso la musica potesse raggiungere il padre che ormai non era più su questa terra: non amava confidarsi molto, ma io sapevo che soffriva – sapevo che ogni notte inzuppava il cuscino di lacrime.

«E poi, gradualmente, a pochi mesi dal suo arrivo, mi accorsi che la voce di Christine stava pian piano cambiando. Dapprima era infatti sì, bella, ma priva di quella sfumatura artistica, per così dire, che caratterizzava le voci istruite delle prime donne: ecco, la sua voce era melodiosa senza tuttavia essere del tutto istruita, particolare che poteva benissimo essere trascurato per una figurante del coro. Ma più il tempo passava, più quella voce acquisiva degli accenti che non avrei mai potuto credere di sentire sulle labbra di una ragazzina di poco più di quattordici anni. Christine migliorava come se stesse prendendo lezioni private da qualcuno, ma se osavo chiederle di chi si trattava lei replicava che non conosceva il suo nome.

«Ne parlai con maman. All’inizio mi era sembrata sorpresa, tuttavia mi disse di non preoccuparmi di cose che non mi riguardavano e di lasciare in pace la mia amica, che aveva già sofferto tanto e di sicuro non aveva bisogno di qualcuno che la spiasse. Perciò per un po’ lasciai perdere, anche se da quel momento notai che mia madre si era fatta molto più apprensiva nei confronti di Christine e cercava di non lasciarla sola neppure un momento. Lei però era tranquilla, non capiva il motivo di tanta tensione, oppure se lo capiva cercava di non farci caso: dopotutto la sua voce stava migliorando, il suo senso di solitudine si stava alleviando e il teatro era diventato anche per lei una seconda casa.

«Non guardarmi così, Giulia: so cosa stai pensando. Cosa a che fare la storia di Christine con quella del Fantasma dell’Opera? Stai tranquilla, mon amie, ci sto per arrivare.

«Improvvisamente, due anni dopo l’arrivo di Christine, un’altra famiglia della nobiltà parigina divenne mecenate del teatro dell’Opèra: i Conti de Chagny. Poiché di tutta la famiglia gli unici in vita erano due fratelli, di cui uno troppo impegnato per potersi fare carico anche del compito di essere presente a quasi tutte le rappresentazioni, l’incarico venne assegnato all’erede cadetto, il Visconte Raoul de Chagny. Egli dimostrò sin da subito il suo affetto nei confronti di Christine, e fu da quel momento che potemmo conoscere davvero la crudeltà del Fantasma.

«Quest’essere aveva ingannato la mia amica, facendole credere di essere lo spirito che suo padre le aveva mandato, una volta morto, dall’oltretomba: Christine amava la favola dell’Angelo della Musica, e non dubitò neppure per un istante che l’identità di colui che le stava insegnando i più piccoli segreti del canto non fosse quella dell’angelo di cui le aveva sempre parlato suo padre. Forse, se non fosse stata così ingenua, certe cose avremmo potute risparmiarcele…

«In quello stesso periodo, la gestione del teatro passò in altre mani: monsieur Lefevre decise di ritirarsi da quell’incubo, passando l’onere a due imprenditori che si erano arricchiti grazie al commercio di rottami. Inutile specificare che monsieur Andrè e monsieur Firmin, tuttora i direttori, non credettero ad una parola riguardo al Fantasma dell’Opera: strapparono le sue missive e si rifiutarono di pagargli una somma così ingente. ‘Sciocchi superstiziosi’, ci avevano chiamato: presto ebbero di che pentirsi.

«L’istruzione lirica di Christine procedette in segreto: la mia amica continuava a fare parte del coro, e di conseguenza nessuno fece mai caso all’evoluzione della sua voce. Qualche giorno dopo l’arrivo dei nuovi direttori, la prima donna dell’Opèra, la Carlotta, ebbe un incidente: durante le prove dell’Annibale di Chalumeau una trave precipitò sul palcoscenico, slogandole una caviglia e terrorizzandola a morte. Quello era stato solo uno dei tanti ‘scherzi’ del Fantasma a sue spese, ma Carlotta ne ebbe abbastanza. Lasciò le prove giurando che non sarebbe più tornata a cantare in un teatro che non la voleva, e tutto sommato, dopo lo stupore e la paura iniziale, tutti noi non potemmo che emettere un sospiro di sollievo. Era difficile sopportare quella donna e le sue manie di protagonismo.

«Putroppo, però, ciò avrebbe significato annullare lo spettacolo: un tutto esaurito, comprendi anche tu che sarebbe stato un disastro! Perciò, maman propose di far cantare una sostituta: per la precisione, Christine. I direttori, all’inizio, non ne erano molto convinti: era abbastanza difficile trovare una sostituta della Prima Donna in così poco tempo, se poi si trattava di una corista, ti lascio immaginare il loro sconcerto… Tuttavia, dopo averle sentito cantare l’aria dell’opera, acconsentirono a darle la parte. E, dopo il suo debutto, il comportamento del Fantasma peggiorò notevolmente.»

A quel punto, Giulia pendeva dalle labbra dell’amica: era totalmente presa da ciò che le stava raccontando, soprattutto perché alcuni eventi da lei narrati coincidevano in modo spaventoso a ciò che era accaduto a lei stessa, in quell’ultimo periodo. Una strana presenza le si era avvicinata minacciandola e obbligandola a votarsi a lei in eterno, per poter avere una sorta di protezione in un mondo che le sembrava estraneo e, allo stesso tempo, familiare: colpa, probabilmente, dell’amnesia che l’aveva colpita. E poi, questa figura del Fantasma… Possibile che quest’essere non fosse altri che il suo Maestro? Dopotutto, molti fatti tornavano… Il Figlio del Diavolo, il suo volto orrendo, la sua musica… Dovette alzarsi ed allontanarsi un momento da Meg, per cercare di riprendere il controllo di sé stessa. Se ciò che la giovane Giry le aveva raccontato corrispondeva al vero, ciò significava che per tutto quel tempo lei era stata in balia del Fantasma dell’Opera, un… un criminale e un assassino?

Si voltò nuovamente verso la ballerina, risoluta. «Meg, ti prego, continua con la tua storia…»

Ma ciò fu impossibile. Prima che la ragazza potesse riprendere il racconto dal punto in cui l’aveva interrotto, la porta della stanza si aprì e una donna si precipitò al suo interno, come una furia. Era madame Giry, gli abiti ancora fradici come se non si fosse ancora cambiata, sul viso un’espressione sorpresa e sollevata allo stesso tempo.

«Oh, Dio sia ringraziato, Giulia!» Soffiò, raggiungendola e attirandola tra le sue braccia, incurante di bagnare così anche la giovane. Poi la allontanò nuovamente da sé, facendo scorrere lo sgaurdo lungo tutto il suo corpo avvolto dalla veste da camera. «Come stai? Ti senti bene? Dio, quanto ho temuto per te in questi giorni… Ho avuto davvero paura quando sei sparita, ma adesso sei qui, ogni cosa ritornerà al suo posto…»

Però, dopo tutto ciò che aveva scoperto grazie a Meg, Giulia non riusciva a prendere quelle parole per veritiere – dubitando in ogni istante della scarsa sincerità della donna. Infatti, con ferma gentilezza si sciolse dalla sua stretta, indietreggiando per poi rivolgerle uno sguardo accusatorio.

«Non mi chiedete dove sono stata, madame Giry?» Sussurrò, stringendo gli occhi per evitare alle lacrime di scendere ancora. Si sentiva offesa e delusa, e questi non erano sentimenti che poteva ignorare così facilmente. «Non vi interessa sapere con chi ho trascorso le ultime due settimane?»

Louise Giry sgranò impercettibilmente gli occhi grigi, lanciando uno sguardo interrogatorio alla figlia e ricevendo per tutta risposta una desolata alzata di spalle. «Non capisco cosa vuoi dire, ma chère…» Tentò, cercando di rimandare ancora l’inevitabile.

«Oh sì che lo sapete, madame. L’avete sempre saputo!» Sbottò la ragazza, aggrappandosi allo scialle di lana e stringendoselo addosso. «E non mi avete mai detto nulla! Perché, madame? Cosa vi ho fatto di male, per meritare le vostre menzogne?»

Madame scosse il capo, senza ben sapere cosa dire. «Tesoro, devi capire, non avevo altra scelta… Lui mi aveva proibito di immischiarmi nei suoi affari, e io sapevo che non avrebbe mai alzato un dito su di te… Lo conosco da tanto di quel tempo…» Mormorò, sperando che la giovane capisse.

Ma Giulia voltò il viso da un’altra parte, pur di non guardare ancora né lei né Meg. «Vi prego, vorrei stare da sola, adesso.» Sussurrò, sedendosi sul bordo del letto. «Sono stanca e vorrei riposare.»

Per quanto Louise avrebbe voluto ignorare quella richiesta per rimanere a consolare la ragazza, comprese altresì che in quel momento non poteva imporle oltre la sua presenza. Decise che si sarebbe fatta dire ogni cosa da Meg, dato che doveva essere accaduto qualcosa – qualcosa di grave – prima del suo arrivo. Si diresse insieme alla figlia verso la porta, in silenzio, e la richiuse dietro di sé senza neppure osare salutarla.

Rimasta finalmente sola, Giulia non vide più alcun motivo per frenare le lacrime. Si sdraiò sul letto, sfogandosi e soffocando i singhiozzi contro il cuscino. Moriva dalla voglia di sapere com’era finita la storia di Meg, ma allo stesso tempo il suo orgoglio le impediva di andare a domandarglielo dopo quello di cui l’aveva accusata – per quanto, comunque, sarebbe stato perfettamente nel suo diritto farlo.

L’unica cosa che poteva fare, a quel punto, era domandare direttamente al suo Maestro e cercare di avere delle risposte da lui. Se così facendo avrebbe poi stimolato la sua rabbia, pazienza: ma aveva bisogno di sapere, non voleva continuare a vivere nell’oscurità più di quanto stesse già facendo.

Quella notte pregò con forza di riacquistare al più presto la sua memoria. Ne aveva fin troppo di segreti e bugie.

 

 

 

 

 

***

 

 

19 Dicembre 1877.

 

La residenza dei De Chagny non era mai stata così allegra e solare. Tutti i domestici erano in fermento, e ormai da un mese stavano preparando il palazzo parigino in occasione del ritorno dei tanto attesi padroni di casa accompagnati, questa volta, da un piccolo erede appena nato. Quando James Coleman, il contabile della famiglia nobiliare che risiedeva a palazzo De Chagny per tutta la stagione, ricevette la lettera che lo informava del rientro a Parigi dei due coniugi, aveva stentato a crederci. Dopotutto, dopo il loro matrimonio il Visconte lo aveva avvisato del fatto che sarebbe potuto non tornare mai più nella sua città d’origine, a causa degli scandali che lo avevano visto come protagonista – non ultimo, quello delle sue nozze. Il fatto che avesse sposato una giovane cantante, coinvolta oltretutto nella vicenda del Fantasma dell’Opera, non era stato visto di buon occhio dagli altri rappresentanti dell’aristocrazia, tanto che si era visto esiliato dai più importanti salotti parigini. Non che di questo gli importasse particolarmente, ma non tollerava che la sua sposa venisse presa ulteriormente di mira da quei nobili arroganti.

E invece, improvvisamente, erano ritornati. Monsieur Coleman, che era stato consigliere anche del Conte Philippe de Chagny prima ch’egli morisse in circostanze del tutto misteriose, trovava che la scelta del suo nuovo principale fosse assolutamente giusta e sensata. Di certo un uomo del suo rango non poteva fuggire in eterno, alimentando così le malelingue sul suo conto, soprattutto adesso che aveva appena generato un erede. Anzi, il fatto di essere diventato padre lo insigniva del titolo di Conte che non gli sarebbe potuto appartenere in quanto figlio cadetto, ma dato che era rimasto l’unico De Chagny ancora in vita, il titolo gli spettava di diritto. Certamente, adesso che era diventato un rispettabile conte, tutti gli altri aristocratici avrebbero fatto nuovamente a gara per otterenere la sua presenza nelle loro abitazioni, sorvolando volentieri sull’origine umile della sua sposa.

Monsieur Coleman aveva conosciuto Madame de Chagny, al secolo mademoiselle Daaè, solo il giorno delle loro nozze, in vece di testimone del Visconte: se doveva essere sincero, la giovane non gli era sembrata quella cacciatrice di mariti facoltosi che aveva sentito dipingere più volte e con cattiveria. Avvolta in un modesto abito color panna, con i lunghi boccoli biondi lasciati liberi sulle spalle, aveva più l’aspetto di un timido angelo che non quello della spregiudicata cantante d’opera che le nobildonne amavano descrivere. Sul volto aveva l’espressione di chi ha sofferto tanto e di chi ha visto orrori che era meglio tacere, eppure non aveva cessato di sorridere un solo istante, al colmo della gioia, mentre diventava la moglie del Visconte de Chagny. Il contabile rammentava come i due sposi fossero partiti subito dopo essersi disfatti degli abiti nuziali, diretti per un viaggio di nozze nel nord Europa – in Svezia, da quanto aveva capito – che, ufficialmente, non si era ancora concluso. Ma egli conosceva la verità, e la verità era che i De Chagny non si erano sentiti pronti a tornare a Parigi, e che probabilmente non lo sarebbero mai stati: non appena furono rientati in Francia avevano fatto sapere a monsieur Coleman della loro decisione di trasferirsi per un po’ a Marsiglia, fin quando non fossero stati pronti a rientrare nella capitale.

E adesso, dopo due anni senza avere che sporadiche notizie da parte loro, finalmente rientravano. E non da soli! In realtà il fedele segretario non vedeva l’ora di vedere il piccolo infante che avrebbe portato avanti il nome dei De Chagny – era stata una fortuna che il loro primogenito fosse un maschio, altrimenti le malelingue avrebbero trovato ancora più da ridire su quell’unione.

Terminò di sistemare tutti i registri delle spese e altri vari documenti che sicuramente il Visconte – oh, dimenticava, il Conte – avrebbe voluto visionare al suo arrivo, ed egli era ben intenzionato a far sì che ogni cosa fosse in ordine. Malgrado avesse solo cinquantaquattro anni e non avesse mai avuto gravi problemi di salute, monsieur Coleman era obbligato a servirsi di un bastone a causa di una brutta caduta da cavallo che gli aveva compromesso la gamba sinistra permanentemente, e che lo obbligava sempre a muoversi con estrema prudenza. Perciò, prima di uscire dallo studio, afferrò il suo bastone, e con un campanello chiamò una domestica.

«Potete riordinare lo studio, adesso.» Disse, con voce pacata.

Egli scese invece le scale e si diresse in cucina, il luogo dei domestici, per controllare che tutti stessero facendo il loro lavoro in attesa del rientro dei padroni di casa. In loro assenza era lui che ne faceva le veci, e c’era da dire che non aveva mai abusato della posizione privilegiata di cui godeva. Lì trovò il maggiordomo intento a leggere una lista di cose da fare, circondato dal cuoco e da un paio di cameriere che attendevano il responso.

«I signori arriveranno per pranzo, propongo quindi di preparare qualcosa di semplice ma di sostanzioso per farli riprendere dal lungo viaggio.» Stava dicendo, rivolto al cuoco. «Per quanto riguarda il vino, andate a controllare se in cantina abbiamo un Château Cantemerle del 1855. Oh, monsieur Coleman! Posso fare qualcosa per voi?»

L’uomo scosse la testa, sorridendo. «No, Edgar, vi ringrazio. Volevo solo sapere a che punto siamo con la preparazione del palazzo.»

Il maggiordomo – di qualche anno più anziano del contabile – sventolò il foglio che aveva in mano, con aria sicura. «La casa è uno specchio, il pranzo è in via di sviluppo e penso che anche il vino sia pronto. Ah, Claudine, avete preparato le stanze dei padroni?» Domandò, volgendosi verso una cameriera dai capelli rossicci.

La giovane annuì. «Abbiamo preparato la stanza padronale e quella accanto, oltre alla Camera Azzurra per il piccolo erede.» Lo informò tranquillamente.

Monsieur Edgar si voltò verso monsieur Coleman con un sorriso compiaciuto. «Avete visto? Siamo in perfetto orario sulla tabella di marcia.»

«A proposito di orario,» fece James Coleman, tirando fuori dalla tasca del suo panciotto un orologio in argento intarsiato. «Credo che sia il momento di mandare la carrozza alla gare. I signori arrivano col treno delle 12:35.»

Il maggiordomo inarcò un sopracciglio, posando lo sguardo sull’orologio appeso alla parete. «Avete ragione, monsieur. Sophie? Potreste andare dal cocchiere e dirgli di scendere in città, alla stazione? Credo che stia aspettando un nostro ordine.»

La cameriera seduta al tavolo si alzò, annuendo, e uscì dalla porta secondaria della cucina che fungeva da scorciatoia per le scuderie del palazzo. A quel punto, tutti i servitori avevano il loro compito o l’avevano già portato a termine, perciò monsieur Coleman si congedò e andò a rinchiudersi nella biblioteca, in attesa che i signori De Chagny varcassero la soglia della loro abitazione dopo due anni trascorsi altrove.

 

Il treno arrivò in perfetto orario, sbuffando e sferragliando sonoramente mentre entrava nella stazione. La Gare du Nord era stata recentemente ampliata rispetto al progetto originale, e adesso ospitava un numero raddoppiato di binari per il crescente numero di persone che si spostavano da una parte all’altra della Francia e della stessa Europa; pertanto nessuno avrebbe potuto stupirsi nel vedere quanta folla insediava la stazione, soprattutto in quell’orario.

Il treno nel quale si trovavano i Conti de Chagny si arrestò al binario sette, fischiando e spargendo il fumo e l’odore acre del carbone tutto intorno a sé. Il capostazione si avvicinò insieme ad altri impiegati, per poter aprire le porte del treno dall’esterno e avvisare i signori passeggeri che sarebbero potuti scendere. Quindi, da uno dei vagoni riservati alla prima classe, iniziarono a scendere i viaggiatori più facoltosi.

Chiunque avesse posato lo sguardo sul giovane e prestante uomo che si apprestava a scendere dalla scaletta, avvolto in degli abiti di sartoria scuri che ben si adattavano alla sua nuova posizione sociale, avrebbe esitato a riconoscere in lui lo spensierato giovanotto che qualche tempo prima era stato il rappresentante degli De Chagny in quanto mecenati dell’Opèra Populaire. Intorno agli occhi azzurri aveva molte più rughe di quante ne avesse avute in passato, come se in realtà avesse avuto più dei suoi venticinque anni. Dopo essere sceso dal predellino si sistemò il cilindro sul capo, e si voltò verso la porta per porgere la mano ad una fanciulla di poco più di diciannove anni, che altri non era che la sua sposa.

Parigi avrebbe riconosciuto a stento anche la famosa Christine Daaè, che non aveva ormai più nulla né della ballerina di fila né della cantante d’opera che era stata un tempo, per un periodo inoltre piuttosto breve. Adesso i suoi preziosi riccioli dorati erano raccolti in una semplice ma accurata acconciatura che non le lasciava libero nemmeno un boccolo, visto che l’aspetto di una contessa doveva essere molto più severo e discreto rispetto a quello di chiunque altro. L’abito, di un azzurro oltremare, non le lasciava scoperto neppure un centimetro di pelle, e persino le mani erano avvolte in graziosi guanti di pizzo bianco; un cappellino sul capo e un ombrello tra le mani, entrambi del medesimo colore del vestito, erano gli unici altri accessori che si era permessa.

Scese con grazia a terra, accanto al marito, e dopo aver dato un’occhiata intorno – dopo aver respirato a pieni polmoni l’aria di Parigi – si voltò nuovamente per aiutare madame Clothilde, con in braccio il piccolo Gustave De Chagny, a scendere dalla carrozza. La balia che avevano scelto per il loro bambino era una vedova di cinquasette anni, che si abbigliava esclusivamente di nero e che portava i suoi grigi e sottili capelli in un severo chignon sul capo. Poteva forse sembrare inavvicinabile ad una prima impressione, ma il modo in cui aiutava la viscontessa e le insegnava pazientemente ad occuparsi del suo bambino l’avevano fatta subito voler bene come se fosse stata una persona di famiglia.

Christine si avvicinò a lei e scostò un lembo della coperta che avvolgeva il bambino, sorridendo teneramente nel vederlo profondamente addormentato. Sulla sua testolina iniziava a comparire una bionda peluria che, a giudicare dalle sue ciglia dorate, gli sarebbe rimasta anche nell’età adulta; la giovane madre gli posò un bacio delicato su una manina stretta a pugno, dopodichè raggiunse il marito.

«Rimanete vicino a me, Christine, ho paura di perdervi in mezzo a questa folla.» Le disse, indicandole di far avvicinare a loro anche madame Clothilde. «Vado a cercare un facchino che ci scarichi i bagagli e li porti alla carrozza, dovrebbe aspettarci fuori dalla stazione.»

«Vai allora, noi rimaniamo accanto alla colonna dell’orologio.» Rispose la giovane, annuendo. Raoul le sorrise e si allontanò, sparendo tra la folla e cercando di attirare l’attenzione di qualche portabagagli con le mani in mano.

Ella si voltò verso la balia e le sorrise a sua volta, prima di chinarsi nuovamente sul suo bambino. «Benvenuto a Parigi, mon chère.» Sussurrò. «Finalmente sei a casa.»



















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AA - Angolo Autrice:
Buongiorno a tutte quante, ragazze! O buonasera, o buonanotte xD Innanzitutto, devo scusarmi immensamente: è da secoli che non aggiornavo la storia, e mi dispiace di avervi tenuto con il fiato sospeso tutto questo tempo! Comunque, cercherò di sbrigarmi di più per il prossimo capitolo, promesso ^^
Allora, ditemi: che ve ne pare? La storia di Meg non è ancora del tutto completa, perchè madame Giry l'ha interrotta sul più bello... Riuscirà Giulia ad avere le risposte che cerca, magari proprio dal nostro caro Fantasma? Chissà! =O E poi, abbiamo nuovi arrivi! Diamo il benvenuto alla famiglia De Chagny di ritorno a Parigi (non vi vedo entusiaste, come mai? xD) Su su, non preoccupatevi, non saranno troppo d'intralcio... O almeno spero :'D
Purtroppo ora non ho il tempo di rispondere parola per parola alle vostre recensioni, mi rifarò col prossimo capitolo! Comunque, saluto e ringrazio infinitissimamente sydney bristow, Keyra93, Kenjina e TheMisty910 per aver recensito! Siete grandissime, grazie mille di avermi seguito fin qui (e oltre, si spera xD).
Ah! Non so se vi può interessare (massì, dai xD) ma io e Kenjina abbiamo indetto un contest, nientepopodimeno che The Phantom of the Opera - Contest, che troverete a questo indirizzo. La scadenza è il 1 Dicembre, ma concediamo proroghe fino al 12... Se volete partecipare (ci terremmo molto! *-*) non avete che da dircelo lì, rispondendo alla discussione!
Bene, e dopo questa piccola pubblicità-non-tanto-occulta, direi che vi posso salutare!
A presto, ragazze, un bacione! :**
I remain, gentleman, your humble servant,
GiulyRedRose.


P.S.: Se volete contattarmi vi lascio il mio contatto di msn, così mi fate uno squillo quando pensate che sia passato troppo tempo tra un aggiornamento e l'altro XD Et voilà: giuliettath@live.it
Baci! :*




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Capitolo 22
*** 20. She's here, inside my mind ***


Chapitre 20

She’s here, inside my mind

 














 

 

 

 

 

 

Inspiegabilmente, Erik iniziò a sentire la mancanza di mademoiselle Sanders sin da subito. In quelle due settimane si era abituato alla sua costante e dolce presenza nella Dimora sul Lago, così come aveva iniziato a contare sulla compagnia che, anche in silenzio, la giovane riusciva a fargli. I suoi sorrisi timidi, le occhiate imbarazzate e le espressioni mortificate quando il suo Maestro si mostrava troppo rigido e severo nei suoi confronti: tutto, adesso, gli mancava.

E dire che non era trascorso molto tempo da quando erano stati insieme: anzi, era passato un giorno soltanto, durante il quale aveva avuto di che preoccuparsi in seguito alla visita dall’esito poco felice del Duca de Blanchard. Che fossero state le parole di minaccia del vecchio nobiluomo a scuotere Erik dalla studiata freddezza che voleva obbligarsi a dedicare alla sua allieva? Si era sforzato di essere distaccato nei suoi confronti, limitando i contatti il più possibile, ma era stato inevitabile sentirla più vicina in quel suo lungo soggiorno nei sotterranei.

Dopotutto, era stata l’unica a non fuggire terrorizzata alla sua vista. Aveva creduto di poterla spaventare con il suo aspetto demoniaco, e aveva fallito: ella aveva dimostrato di fidarsi di lui, e gli aveva più volte ripetuto di non avere paura. Come non poteva esserle grato per come si era comportata? E adesso iniziava a interrogarsi su quanto sarebbe stato opportuno, a quel punto, portare avanti la sua vendetta: ci stava mettendo l’anima nel prepararla, ogni singola goccia del suo odio, e proprio ora doveva domandarsi se ne valeva davvero la pena?

Emise un basso sibilo nervoso, sbattendo poi sul tavolo una manciata di vecchi spartiti che aveva trovato riordinando il suo studio della Dimora sul Lago. Alcuni erano stati rovinati dall’umidità, ma Erik ricordava a memoria ogni nota che aveva prodotto: non sarebbe stato difficile ricreare le pagine mancanti delle sue opere, se ne avesse avuto la voglia. Tuttavia era distratto – aveva troppi pensieri per la testa. Inoltre, il fatto che quella poltrona nella quale aveva trovato mademoiselle Sanders addormentata, pochi giorni prima, sembrasse conservare ancora il profumo della giovane, di certo non lo aiutava a mantenersi lucido. Lo sguardo gli cadeva inconsciamente su di essa, come se si aspettasse di vedervi apparire la ragazza da un momento all’altro.

Maledizione. Aveva bisogno di vederla.

Serrò con forza gli occhi e prese dei profondi respiri, privandosi poi della maschera per strofinarsi le tempie che parevano esplodergli: non si era mai sentito così stanco, ormai stava giungendo al limite della sua pazienza e delle sue forze… Non era in grado di sapere fino a quando avrebbe resistito – la vendetta stava consumando ogni singola goccia del suo essere. Grazie al Cielo quel pomeriggio ci sarebbe stata la sua abituale lezione con mademoiselle Sanders, forse la presenza della ragazza gli avrebbe in qualche modo giovato. Non ne comprendeva bene il motivo, ma era certo che sarebbe stato così.

Con un ennesimo sospiro si voltò nuovamente verso la pila di appunti, diari e spartiti che aveva tolto dalla libreria e gettato disordinatamente sul tavolo, per verificare che cosa avrebbe potuto portare nella sua nuova abitazione e di cosa, eventualmente, si sarebbe potuto liberare.

Era arrivato il momento di privarsi di tutti gli spiacevoli ricordi legati al suo passato.

 

 

***

 

 

Giulia attese pazientemente fino alla fine delle prove del coro, prima di prendere coraggio e andare a cercare madame Giry. Quella mattina non aveva avuto la forza di fare colazione insieme alle sue due padrone di casa, così aveva atteso che uscissero per prime, fingendosi addormentata. Agnese non le aveva domandato il motivo di quello strano comportamento, né tantomeno della sua inspiegabile e lunga assenza: probabilmente anche l’anziana governante era a conoscenza di quel segreto, ma Giulia non osò farne parola. Così, non vedendo le Giry dalla notte prima, non aveva neppure chiesto loro ciò che più di tutto agognava sapere: dove avrebbe potuto trovare questo terribile Fantasma – stentava ancora a credere che fosse anche il suo Maestro, benchè tutto combaciasse con il racconto di Meg – che sembrava terrorizzare chiunque incrociasse il suo cammino?

Perciò, dopo aver scambiato qualche inevitabile convenevolo con monsieur Reyer, il quale si era mostrato sinceramente preoccupato per la sua febbre improvvisa – ancora Giulia si domandava come avesse fatto a non ridergli in faccia, all’udire questa sciocca scusa inventata senza alcun dubbio da madame Giry – la ragazza si diresse senza pensarci due volte all’aula di danza, pronta ad affrontarne la risoluta insegnante. La trovò in pausa tra una lezione e l’altra, mentre conversava con il pianista che suonava durante i suoi corsi, per abituare le ballerine a danzare seguendo la musica delle varie opere. Con un sospiro, Giulia le si avvicinò, attirando la sua attenzione a causa del ticchettio delle sue scarpe sul parquet del salone.

«Buongiorno, zia.» Salutò accennando un sorriso, a beneficio dell’uomo che le stava ascoltando. «Vi posso parlare in privato? Vi ruberò pochi minuti.»

Madame cercò di non mostrarsi sorpresa e annuì, scusandosi con monsieur Philippe e seguendola in un angolo appartato della stanza. «È successo qualcosa, ma chère?» Domandò, preoccupata.

Giulia scosse il capo, tranquillizzandola. «No, madame. Semplicemente, devo chiedervi una cosa. E ho bisogno che siate sincera,» aggiunse, guardandola finalmente in viso.

Louise Giry credette di sapere che cosa volesse sapere la ragazza, e con un sospiro rassegnato acconsentì silenziosamente, in attesa che facesse la sua richiesta. «Per quello che adesso può importare, mia cara, mi dispiace immensamente di averti dovuto mentire per tutto questo tempo.»

«Ciò che conta adesso è solo il presente.» Ribattè, abbassando la voce nel vedere un gruppetto di giovani ballerine passare accanto a loro. «Dovete dirmi, madame… Dove posso trovare il Fantasma

Malgrado se lo aspettasse, madame non potè fare a meno di sgranare leggermente gli occhi: strinse le mani sulla bacchetta dalla quale si separava di rado, dopodichè si diede veloce uno sguardo intorno. Di sicuro erano al sicuro da orecchie indiscrete, almeno all’apparenza. Purtroppo non poteva mai essere sicura di quali fossero i muri dotati di orecchie…

«Non lo troverai cercando uno spirito, cara.» Mormorò, avvicinandosi di più a lei. «Colui che devi cercare è monsieur Destler… Il direttore artistico del teatro.»

Questa fu la volta di Giulia di sgranare gli occhi, stupita. «State dicendo che il Maestro è… È il direttore dell’Opèra?» Sussurrò a sua volta, sperando di aver compreso male. Certo, oramai sapeva che colui che le aveva impartito lezioni per tutto quel tempo era un uomo come tanti, fatto di carne e sangue, aveva avuto modo di conoscerlo durante il suo soggiorno nei sotterranei del teatro… Eppure non poteva credere che fosse addirittura il direttore artistico! Come potevano esistere simili fatalità?

Madame Giry scosse piano la testa, stringendo le labbra. «Domanda a lui, ma chère. Non spetta a me rivelare i suoi segreti.» Replicò a bassa voce. «Tuttavia ti scongiuro soltanto di fare attenzione. Non sai tutto ciò di cui è capace.»

Quell’ultima affermazione ebbe il potere di farla rabbrividire, mentre la giovane si ricordava chiaramente di quello che le aveva raccontato Meg la notte prima. Stava davvero andando di sua spontanea volontà nel covo di un assassino?

Ma già c’era stata, mormorò una vocina dentro di sé, facendola riflettere per un breve istante. Aveva trascorso quindici giorni alla sua più completa mercè e non era accaduto nulla di male… Perché avrebbe dovuto temere un breve incontro nel suo stesso studio?

Perciò annuì, risoluta, rivolgendo alla donna uno sguardo che voleva essere rassicurante. «Non preoccupatevi, madame, credo di averne una vaga idea.» Disse in risposta, accennando a ciò che aveva già appreso. «Grazie per essere stata onesta con me.»

Lasciò la stanza prima che madame Giry potesse richiamarla indietro e cercasse di distoglierla dal suo proposito, poiché ella sapeva che non poteva fare a meno di andare a cercarlo comunque. Era troppo grande il bisogno di conoscere tutta la verità, e se l’unico modo per esaudire il suo desiderio era risalire direttamente alla fonte di tutto, allora l’avrebbe fatto.

 

 

Non fu difficile trovare lo studio del direttore artistico. In effetti bastò domandare a una donna delle pulizie, che le indicò i vari corridoi da prendere per non perdersi nei meandri del teatro, e che si offrì addirittura di accompagnarla fino al quarto piano. Giulia declinò gentilmente l’invito – non voleva approfittare troppo della sua gentilezza, si schernì. Così, dopo aver ringraziato la signora, seguì le sue indicazioni e raggiunse senza troppo girovagare lo studio di monsieur Destler.

Il corridoio nel quale era situato era completamente deserto. Non era una delle zone più frequentate dell’Opèra, lontana com’era dal foyer e da tutto ciò che poteva interessare ai vari habituès e agli stessi macchinisti o artisti che vi lavoravano. Giulia non seppe se essere sollevata da quella mancanza di confusione o se esserne spaventata – dopotutto, qualsiasi cosa fosse successa, ella si sarebbe trovata da sola in compagnia del fantasma

Sospirò, dandosi mentalmente della sciocca. Non poteva avere paura di qualcuno con cui aveva conversato e a cui aveva sfiorato gentilmente la mano, insomma, era qualcosa che andava contro ogni buon senso o razionalità. Era andata lì semplicemente per parlare, non aveva nulla da temere. Doveva disperatamente convincersi di questo, mentre attraversava il corridoio per raggiungere la porta dello studio che spiccava violentemente nel candore misto ad oro delle pareti e del mobilio. Prese un bel respiro, poi, prima di evitare ripensamenti, sollevò la mano e bussò due colpi decisi alla porta.

«Avanti.» Disse una voce dall’interno, in modo piuttosto burbero.

Giulia non credeva sarebbe stato così facile: ad ogni modo abbassò la maniglia e spalancò la porta, affacciandosi all’interno della stanza con cautela per poi entrare definitivamente. Lo studio non era vuoto; al contrario, alla scrivania era seduto un uomo, il capo chino su dei documenti che stava controllando e poi firmando con una lunga piuma d’oca, l’atteggiamento malgrado tutto minaccioso. O forse era soltanto una sua impressione.

La giovane richiuse la porta dietro di sé con un tonfo, attirando finalmente l’attenzione del direttore: malgrado si trovasse a due passi da lui, ancora pregava con tutta sé stessa affinchè non fosse la stessa persona con cui aveva trascorso le ultime due settimane, e il coraggio di guardarlo in viso – per scoprirlo eventualmente con la maschera indosso – ancora le mancava. Ma quando sentì la sua voce, istintivamente lo sguardo si posò su di lui.

«Credevo di aver detto di non voler essere disturbato,» aveva sbottato, alzando distrattamente gli occhi sull’intruso… E tacendo all’improvviso. Monsieur Destler si alzò dalla poltrona così repentinamente da spaventarla e farla involontariamente indietreggiare, mentre infine Giulia dovette arrendersi alla realtà dei fatti – il direttore artistico del teatro, nonché Fantasma dell’Opera… Non era altri che il suo Maestro.

E adesso la stava fissando con un’espressione impenetrabile, ch’ella non riusciva a comprendere.

«Che cosa ci fate qui?» Sibilò Erik, a bassa voce, trattenendo a stento l’ira e la sorpresa. Tutto questo era assurdo, ancora una volta la ragazza lo sorprendeva con le sue iniziative e metteva a repentaglio tutti i suoi progetti, i suoi piani! Vederla nel suo studio era l’ultima delle cose che si sarebbe aspettato – avrebbe dovuto chiudere a chiave, o sparire prima del suo arrivo, o fingere di non esserci… E invece l’aveva preso alla sprovvista, come un bambinetto colto con le mani nella marmellata. Non sapeva più cosa pensare, né cosa fare.

Dentro di sé, sorprendentemente, Giulia riuscì a trovare la forza di fronteggiarlo e sostenere il suo sguardo penetrante. «Ho bisogno di avere delle risposte da voi, Maestro… Oppure, come dovrei chiamarvi?» Chiese all’improvviso, stringendo gli occhi: egli non era di certo il solo ad essere arrabbiato. «Monsieur Destler? O forse… fantasma

Erik strinse i pugni talmente forte da farne sbiancare le nocche. Cosa diavolo poteva saperne, quella ragazzina, della storia del Fantasma dell’Opera? A meno che, certo, che sciocco!, qualcuno non gliel’avesse narrata… E credeva proprio di sapere chi fosse quel temerario. Un’altra trovata delle Giry, senza alcun dubbio.

Tuttavia, mentire a mademoiselle Sanders ancora, quand’era chiaro che lei ormai sapeva più di quello che avrebbe voluto, sarebbe stato deleterio per il rapporto che si era creato inevitabilmente tra loro, durante quel soggiorno nei sotterranei. Ella non aveva mai avuto paura di lui, né tantomeno orrore: perché farla spaventare adesso, perciò? Se la giovane credeva di essere in grado di conoscere la verità, allora gliel’avrebbe offerta su un piatto d’argento. Dopotutto, cos’altro aveva da perdere?

«Avrei voluto essere io a dirvelo, mademoiselle, ma di sicuro non così presto.» Replicò perciò l’uomo, osservandola attentamente. Sembrava che il leggero timore che le aveva visto poco prima si fosse definitivamente trasformato in rabbia.

Ma Giulia aveva ormai acquistato abbastanza sangue freddo da tenergli testa senza timore. «Dunque, avevate in programma di mentirmi ancora?» Sibilò, facendo un passo in avanti. «Per quanto tempo volevate far durare questa sceneggiata, monsieur, prendendovi gioco di me? Mi auguro almeno che vi siate divertito nello spaventarmi.»

Erik riuscì a non far trapelare lo stupore nell’udire quel tono risoluto nella voce della ragazza, dopo che l’aveva considerata un’anima calma e mansueta per tutto quel tempo. Forse anche lei era capace di tirare fuori gli artigli, quand’era necessario. Interessante.

«All’inizio volevo spaventarvi, mademoiselle, lo ammetto.» Confessò, con un tono che tuttavia rendeva impossibile anche solo immaginarsi il suo eventuale rimorso: evidentemente non si pentiva di ciò che aveva fatto. «Ma poi i miei piani sono cambiati. Credevo che aveste imparato a fidarvi di me, durante il nostro soggiorno nei sotterranei – non mi sono forse comportato da gentiluomo, nei vostri confronti?»

«Questo non cambia il fatto che mi avete minacciato sin dall’inizio!» Ribattè invece Giulia, lasciandosi dominare dall’ira che aveva finora represso. «Avete insistito perché io vi accettassi come insegnante, eppure non ho ancora compreso il motivo del vostro accanimento verso di me!»

A dire la verità, non l’ho ben compreso neanche io… Pensò l’uomo, aggrottando le sopracciglia. Come poteva darle una risposta che non conosceva lui stesso? Il suo sguardo percorse la figura della giovane che lo fronteggiava, ostentando una disinvoltura e una sicurezza che forse non aveva del tutto, i pugni chiusi e alcuni ciuffi ribelli che le sfuggivano dalla semplice treccia con cui aveva ritirato i suoi capelli. La sua espressione era decisa, non spaventata – vi era più delusione che terrore, nei suoi occhi. Più la osservava e più la trovava differente, nel portamento e nell’aspetto, della sua antica allieva.

«Vi dirò una cosa che di sicuro non sapete, mademoiselle.» Rispose, decidendo di ignorare la sua ultima affermazione. «Sono stato io a trovarvi, febbricitante e priva di sensi, nei corridoi che conducono ai sotterranei del teatro. Io vi ho portato da madame Giry, e sempre io le ho chiesto di prendersi cura di voi. Probabilmente sareste morta in quelle gallerie, se io non vi avessi trovato e portata fuori di lì.»

Ed ecco ch’egli riusciva a riavere il coltello dalla parte del manico. Come sempre, aveva ragione: Giulia non aveva idea di come era finita nella casa di madame Giry, inconsciamente aveva sempre creduto che fossero state le due donne a trovarla. E invece, ora scopriva di dover essere doppiamente debitrice a quell’uomo – come se già non bastasse il fatto di avergli promesso sé stessa in cambio della sua protezione e dei suoi insegnamenti, seppur eccelsi.

«Con questo vorreste legarmi ancora di più a voi, forse?» Mormorò, poggiandosi stancamente alla parete. Non era servito a nulla scoprire l’umana identità del suo maestro, se non poteva scampare neppure a quella.

«Voi mi appartenete già.» Replicò Erik, freddamente. «Non c’è nulla che possiate fare per sfuggirmi. Volevo solo essere sicuro che ve ne rendeste conto.»

In realtà, le aveva confidato di averle salvato la vita unicamente perché sperava, inconsapevolmente, che la giovane potesse vedere qualcosa di buono in lui, benchè certi suoi comportamenti dimostrassero il contrario. Ma visto che mademoiselle Sanders sembrava essere stata troppo colpita da ciò che altri le avevano raccontato sul suo passato, probabilmente non avrebbe mai creduto che anche lui era capace di fare del bene – forse non in modo completamente disinteressato, ma dopotutto non era mai stato un buon cristiano!

Aggirò la scrivania, lentamente, in modo che la giovane non si accorgesse del movimento: era sempre stato molto bravo a muoversi silenzioso come un’ombra, e certe abitudini non si perdevano col tempo. Le fu accanto in un attimo, e quando Giulia ebbe alzato gli occhi egli l’aveva ormai già bloccata col suo corpo contro la parete.

«Non sono venuta qui per rimangiarmi la parola data, monsieur.» Mormorò guardandolo tristemente, senza dar segno di preoccuparsi per quell’improvvisa vicinanza. «Volevo solo sapere quanto di vero e quanto di falso ci fosse in ciò che mi ha raccontato Meg su di voi. Volevo sapere se posso ancora fidarmi di voi, come mio malgrado ho fatto sin da subito.»

«Non vi ho mai dato modo di credere di non essere al sicuro con me,» rispose col medesimo tono, cercando di ignorare egli stesso quanto il suo corpo fosse vicino – tanto da poterlo toccare – a quello della giovane. «Ciò che ho fatto in passato non può essere cambiato, ma non ha niente a che vedere con voi. Sono stato crudele per proteggere la mia stessa vita, mademoiselle, non perché amassi farlo. È l’istinto di sopravvivenza di tutte le bestie,» aggiunse poi, con un amaro sorriso.

Giulia combattè ferocemente contro l’impulso di allungare una mano e sfiorargli la parte del volto che la maschera non copriva, e chiuse gli occhi per riacquistare un minimo di conscienza. Se l’uomo le diceva che poteva tranquillamente fidarsi di lui, allora gli avrebbe creduto senza mettere oltre in discussione la sua parola. Tanto le bastava per poter vivere tranquilla, per il momento. «Dunque, voi… Non volete altro, da me, che la mia voce da istruire?» Domandò poi, cambiando discorso e tornando a qualcosa che la premeva più da vicino. Aveva ancora il capo chino, come se non fosse del tutto sicura di ciò che sarebbe accaduto se avesse sollevato lo sguardo su di lui.

Se una simile domanda gliel’avesse posta prima che iniziasse a sentire la sua mancanza dopo un solo giorno senza vederla, probabilmente le avrebbe risposto immediatamente e senza battere ciglio. Ma ora… Dirle che tutto ciò che voleva era il suo canto, il suo impegno, per poter riuscire dove i suoi piani con Christine erano miseramente falliti, sarebbe stata un’enorme menzogna. No, non era di un amore platonico che aveva bisogno – non questa volta.

Sovrappensiero, osservò le proprie dita raggiungere una ciocca capricciosa della chioma della ragazza per poi portargliela dietro l’orecchio, in un gesto tenero e lento che le fece inarcare un sopracciglio, confusa. Ormai non rammentava più la sensazione dei boccoli dorati di Christine tra le sue mani, quell’unica volta che aveva goduto di quel tocco – l’unica volta ch’ella l’aveva baciato; tutto ciò che ancora ricordava della sua musa sembrava essere svanito come un sogno all’alba: bello, forse, ma non reale.

Al contrario di ciò che stava accadendo adesso. Quello non era un sogno, né tantomeno un incubo: egli stava davvero accarezzando la pelle all’attaccatura dei capelli di mademoiselle Sanders, e lei non si ritraeva, non tremava, o perlomeno non dalla paura. Si limitava ad osservarlo da sotto le lunghe ciglia, incuriosita e sorpresa, come se quelle carezze fossero l’unica cosa che non si sarebbe mai aspettata da lui.

Scappa, le avrebbe voluto dire, vattene finchè sei in tempo! Ma aveva cessato di essere razionale nel momento esatto in cui ella era entrata dalla porta del suo ufficio.

Obbedendo ad un impulso che aveva a lungo represso, si chinò sul suo morbido collo, annusando il dolce profumo che emanava la sua pelle: non era qualcosa di artificiale, proveniente da chissà quali boccette aromatiche che usavano le donne dell’alta società ad ogni occasione – versandosene sulle complesse acconciature o sui guanti. Era un profumo più penetrante, selvaggio quasi, che conteneva la sua stessa essenza: era il suo, il suo corpo, che sapeva di pulito, di innocenza e allo stesso tempo di sensualità.

Fu la voce tremante della ragazza a distrarlo per un istante da quelle scabrose fantasie.

«Maestro, vi prego… Che cosa state facendo?» Mormorò agitata, il petto che le si alzava e abbassava affannosamente – come se si fosse alla fine resa conto della pericolosità della situazione.

Erik serrò con forza le palpebre, cercando di recuperare un poco di controllo, ma inutilmente. Troppo gli era stato negato un simile contatto con una donna, e per quanto non se ne fosse mai completamente privato – di donne che regalavano una notte di piaceri in cambio di qualche soldo ve n’erano parecchie, infatti – non era quello ch’egli agognava. L’uomo bramava un’unione che fosse condivisa da entrambi, desiderava una donna che condividesse il suo talamo per amore e non per denaro – desiderava qualcuno come mademoiselle Sanders.

No, si corresse mentalmente, stringendo gli occhi. Lei, era lei l’unica che desiderava. Ma perché, maledizione?

«Maestro…?» Insistè la giovane, iniziando a spaventarsi.

Gli occhi dell’uomo incontrarono i suoi e la inchiodarono, tanto era profondo e terribile il suo sguardo, facendola tacere. Egli la guardava come se avesse compreso solo in quel momento ciò che davvero Giulia rappresentava per lui – non solo un pallido ricordo di Christine, non soltanto un mezzo per compiere la sua vendetta, né tantomeno solo un’allieva. Erik si odiava per ciò che stava provando, ma ormai era troppo tardi per impedirsi di provare simili sensazioni: già una volta ci era passato, e sapeva che resistere era impossibile. Perché farlo, dunque?

«Vi chiedo perdono, Giulia.» Mormorò, chiamandola per la prima volta con il suo nome.

Lei sgranò leggermente gli occhi, intuendo che quel cambiamento nel suo modo di rivolgersi a lei non poteva indicare nulla di buono. «Che cosa volete dire?»

Erik le si avvicinò se possibile ancora di più, facendola indietreggiare fino a quando ella non toccò la parete con la schiena e posando entrambe le mani ai lati della sua testa, in modo che non potesse muoversi da quella posizione. I suoi occhi sembravano brillare, bramosi. «Perdonatemi, perché non è la voce l’unica cosa che voglio da voi…» Sussurrò, roco.

Giulia trattenne il respiro, mentre tutti i dubbi e le supposizioni che aveva avuto modo di fare in quel periodo iniziavano a prendere forma, acquistare sostanza, diventare reali. Il corpo dell’uomo premuto contro il suo non rappresentava di certo il rapporto che poteva esserci tra loro in quanto allieva e maestro, no – monsieur Destler sembrava avere le idee molto chiare in proposito. Eppure… Continuava a non avere paura. Stava forse diventando pazza?

Il volto mascherato di Erik si avvicinò talmente tanto a quello della ragazza da poterlo sfiorare solo con un sospiro più profondo, mentre continuava a godere del suo profumo e dal calore che il suo corpo emanava. Se avesse prestato un po’ più d’attenzione, aveva l’impressione che sarebbe riuscito a udire il suo piccolo cuore che le batteva furioso nel petto. Le sue labbra sfiorarono l’angolo della bocca di Giulia fino al mento e viceversa, lasciando dietro di sé una scia di brividi ch’egli considerò deliziosa. E ancora lei non gridava, né cercava in alcun modo di scostarlo da sé – non ne era del tutto sicuro, ma forse, se mademoiselle avesse dimostrato di essere disgustata da quella posizione troppo intima, probabilmente si sarebbe arreso alla realtà dei fatti e l’avrebbe mandata via… Ma quella era una cosa che non avrebbe mai scoperto.

«Oh, Giulia…» Sussurrò, ormai sulle sue labbra. «Siete sempre qui, nella mia mente…»

La ragazza socchiuse gli occhi, cercando di tornare a respirare normalmente, ma con scarsi risultati. Non sapeva cosa fare, non sapeva cosa pensare, l’unica cosa certa era che il corpo non voleva andarsene e lasciare il calore che quel corpo stava trasmettendo al suo.

Alla fine, Erik non resistette più. Le rivolse un ultimo sguardo torbido per studiare la sua espressione, ma visto ch’ella sembrava tutto fuorchè infastidita o nauseata dalla sua vicinanza, calò finalmente le sue labbra ardenti su quelle della giovane, strappandole un gemito di sorpresa.

 





























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AA - Angolo Autrice:
Buon pomeriggio, giovani fanciulle! Come va? :) Spero bene ^^
Innanzitutto, grazie mille a kenjina, sydney bristow e TheMisty910 per aver recensito lo scorso capitolo *_* Merci beaucoup!
Chiedo scusa per l'attesa, questo capitolo è stato abbastanza tosto da scrivere! Per non parlare di quello successivo, è stato davvero un parto -_- ma ciò che conta è che sia finalmente sui vostri schermi xD Attendo con impazienza i vostri commenti al riguardo, spero di essere riuscita a rendere le sensazioni di entrambi i personaggi (anche se questo, poi, lo scoprirete meglio nel prossimo capitolo, che cercherò di postare in fretta). Al momento i De Chagny si stanno riprendendo dal viaggio, ma credo che tra non molto appariranno nuovamente anche loro ù_ù E Bamdad? Nel prossimo vedremo brevemente anche lui.
Uhm, have I said too much? =O (chiedo scusa, l'altro giorno ho rivisto Evita e sto canticchiando le canzoni come una scema xD Se non l'avete mai visto, guardatelo, davvero, è splendido! *_* E poi basta dire che è stato scritto dal nostro caro vecchio Webber ù_ù).
Credo di non avere altro da dichiarare! Con questo vi lascio, carissime, ci sentiamo al prossimo capitolo!
Un bacio e un abbraccio, vostra
GiulyRedRose


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AP - Angolo Pubblicità:
Quest'angolo è nuovo ù_ù Serve per pubblicizzare il Contest che io e la mia cara kenjina abbiamo indetto a proposito dell'adorato Fantasma *_*
Alcune di voi sapranno già di che si tratta, forse, ma per tagliare la testa al toro ripeto volentieri tutto quanto. ^^
The Phantom of the Opera Contest [scadenza 01/12/2010 - proroghe fino al 08/12/2010]
Accorrete numerose! *_*

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Capitolo 23
*** 21. And I kissed you... ***


Chapitre 21

And I kissed you…

 

 















 

“The first time ever I kissed your mouth

I felt the earth move through my hand

Like the trembling heart of a captive bird

That was there at my command, my love…” 

 

 

    Le labbra di Erik erano bollenti e audaci contro le sue – la accarezzavano e allo stesso tempo sembravano volerla divorare in un crescendo di sensuale passione che di sicuro non si aspettava. Le mani dell’uomo sciolsero la treccia della ragazza, liberando la lunga chioma castana da innumerevoli forcine che caddero poi sul pavimento, dimenticate. Infilò le mani tra i suoi capelli, saggiandone la morbidezza, e gemette quando poi Giulia si arrese al suo assalto e dischiuse le labbra, permettendo a quelle del suo maestro di approfondire ulteriormente quel contatto. La strinse a sé con forza, premendola contro il muro e tenendo il suo volto tra le mani come se avesse avuto paura che la giovane potesse scomparire da un momento all’altro.

    Da parte sua, Giulia non riusciva ancora a riconquistare abbastanza lucidità per potersi sentire offesa e cercare così di cacciarlo via, lontano da sé – la sua mente e il suo corpo, purtroppo, non andavano di pari passo. La sua bocca sembrava gemere in risposta ai mormorii confusi dell’uomo, come in un duetto al quale partecipavano entrambi e col medesimo trasporto. Sapeva di doverlo far smettere: ma per sua sfortuna monsieur Destler sembrava prendere i suoi mormorii come un invito a continuare, e il modo in cui la teneva premuta contro la parete lo dimostrava.

    La sua lingua era timida e inesperta mentre cercava di ricambiare, incuriosita, le carezze di quella bollente dell’uomo. Si ritrovò a chiudere gli occhi, abbandonandosi contro di lui, naufraga in una marea di emozioni che davvero non comprendeva come potessero esserle state causate dal temibile Fantasma dell’Opera. Cercò di riprendere fiato ed egli dovette aver colto il suo bisogno, perché lentamente si ritirò dal suo assalto, limitandosi a posarle dei piccoli e teneri baci sulle labbra arrossate, e poi agli angoli di esse. Il suo respiro era altrettanto affannoso, come in seguito ad una lunga corsa, ma probabilmente non si sarebbe mai fermato se non fosse stato per lei. Nascose per un attimo il volto nell’incavo della spalla della ragazza, come se non volesse privarsi del suo calore e del suo profumo in modo troppo traumatico, e poi, lentamente, si raddrizzò in modo da restituirle un poco del suo spazio.

    «Mio Dio, Giulia… Perché non siete fuggita?» Mormorò, posando la fronte su quella della giovane come aveva già fatto in passato.

    Lei deglutì, sfiorandosi con un dito le labbra vagamente doloranti. «Io… Vorrei saperlo,» sussurrò, sconvolta – non tanto dal bacio in sé, quanto piuttosto dalle sensazioni che esso le aveva causato. Per un attimo aveva avuto l’impressione che sarebbe potuta impazzire se quelle labbra si fossero fermate, e adesso… Tutto le appariva estremamente confuso. Non era forse andata da lui per avere delle risposte, per scoprire la verità? E allora perché si ritrovava immersa in dubbi ancora più grandi?

    Sollevò piano lo sguardo su di lui, cercando di mettere a fuoco l’intera situazione. «Cosa… Cosa significa questo?» Balbettò; sarebbe indietreggiata, se non ci fosse stato il muro ad impedirglielo. «Perché avete fatto una cosa simile?»

    Lo sguardo di Erik divenne improvvisamente cupo, tanto da farla spaventare; la sua voce, poi, fu glaciale quando parlò. «Preferivate forse le attenzioni di qualcun altro?» Sibilò, allontanandosi di qualche passo in modo da poterla vedere in in viso. «Qualcuno come monsieur Bamdad, magari?»

    Credete che non vi abbia vista amoreggiare con lui?, avrebbe voluto aggiungere.

    Ma Giulia sgranò gli occhi, sinceramente stupita. «Chiedo scusa? Monsieur Bamdad?» Ripetè, inarcando le sopracciglia. Che cosa mai aveva a che vedere il persiano con ciò che era appena accaduto tra… Oh. Forse iniziava a capire. Certo, come aveva fatto a non pensarci? In quanto fantasma, il suo mentore poteva essere in ogni luogo e in ogni momento, dunque niente di strano che avesse assistito quando Bamdad l’aveva baciata contro la sua volontà… Senza contare il fatto che quella volta si trovavano nella piccola cappella del teatro, poche ore prima della loro lezione. Era ovvio che li avesse visti… E, forse, era ovvio anche che ne apparisse tanto furioso al ricordo.

    «Avete frainteso, temo: non c’è nulla che mi leghi a monsieur Bamdad…» Spiegò, sperando che la sua voce suonasse convincente malgrado il leggero tremore che sembrava persistere. Ma perché si sentiva in dovere di giustificarsi con lui? Solo a causa di quel bacio? Inoltre, a rigor di logica, anche monsieur Destler l’aveva baciata contro la sua volontà – il fatto che poi lei gli si fosse arresa non rendeva meno ‘grave’ la situazione. Forse adesso egli era convinto di possedere chissà quale sorta di potere o esclusiva su di lei?

    «Dunque, siete libera di legarvi a qualcun altro. Mi sbaglio?» Aggiunse Erik sottovoce, cercando di non far trapelare il leggero sollievo che aveva seguito l’ammissione della ragazza.

    Quelle parole le giunsero più inaspettate del suo bacio. «Che cosa state insinuando, monsieur?» Osò domandare, cercando allo stesso tempo un modo per lasciare quella scomoda posizione contro la parete.

    Ma egli la raggiunse, intrappolandola nuovamente contro il muro. «Vi ho sentito gemere al mio tocco, Giulia.» Sussurrò, con voce soffocata. «Non prendetevi gioco di me nel cercare di negarlo.»

    Ella deglutì, imbarazzata, guardandosi freneticamente intorno per cercare una rapida via di fuga a quella indesiderata situazione. Tuttavia lo sguardo attento dell’uomo vide dove si stavano posando i suoi occhi, e non potè fare a meno di ringhiare come un animale, furioso.

    «Non pensatelo neanche! Non ve ne andrete finchè non sarò io a dirvelo.» Le ingiunse, prendendole il mento tra due dita e voltandola con fermezza verso di sé. «Non è la prima volta che rimanete sola con me, Giulia. Perché adesso tutto questo disagio?» Aggiunse, aggrottando la fronte.

    La ragazza non sapeva davvero che cosa rispondere. O meglio, a lei la risposta sembrava quasi scontata… L’ultima volta non era successa una cosa del genere, anzi: egli le aveva più volte sottolineato che non aveva intenzioni simili nei suoi confronti. E invece, adesso, quell’assalto! Che cosa avrebbe dovuto pensare?

    Ma ciò che più la spaventava era la propria reazione – aveva ricambiato il suo bacio con un tenero trasporto che, al contrario, con Bamdad non aveva provato. Il calore delle labbra del Maestro sulle sue era un qualcosa che non avrebbe mai dimenticato, anzi, che avrebbe volentieri ripetuto. Probabilmente, se non avesse avuto il naturale bisogno di prendere fiato, non avrebbe mai osato staccarsi da quella bocca. Ma non poteva certo dire a lui queste cose!

    «State arrossendo.»

    Giulia sgranò gli occhi, con la sensazione di essere stata colta in flagrante. Maledizione a lei e al suo corpo che non riusciva a rimanere impassibile… Cercò di non incrociare lo sguardo dell’uomo, posandolo insistentemente su un bottone del suo panciotto color oltremare – buon Dio, perché non indossava anche la giacca sopra di esso? – ma purtroppo era attirata dai suoi occhi penetranti come una falena lo era dalla luce. Le sembrava di non essere più capace di parlare, tant’era secca la sua gola – e tutto questo era stato causato da un misero bacio?

    «Io… Vi prego, monsieur, lasciatemi andare.» Riuscì a mormorare, alla fine. Voleva restare sola per poter riflettere in pace, ma a quanto sembrava il Maestro non glielo voleva permettere.

    «Vi ripugna così tanto la mia presenza?» Sibilò Erik, lasciandola e mettendo una breve distanza tra loro. «Non voglio arrivare a minacciarvi, Giulia, ma sappiate che non vi permetterò di allontanarvi da me. Avete sentito qualcosa, quando vi ho baciato, esattamente come l’ho sentito io! E se credete che io possa rinunciare a una cosa simile, allora non mi conoscete abbastanza.»

    «Io davvero non capisco, che cosa volete da me?» Proruppe la giovane, senza riuscire a mascherare l’agitazione. «Cosa volete che vi dica? Non vi conosco, non so nulla di voi, salvo le poche cose che mi sono state raccontate da altri! Sarebbe stato meglio se foste stato voi a dirmele, ma ciò non è successo… Come potrei fidarmi, allora? Se la situazione fosse diversa, allora potrei… Oh, non fatemi dire cose di cui potrei pentirmi!»

    «Le vostre parole mi fanno ben sperare.» Sussurrò Erik, cercando di cambiare tono e avvicinandosi nuovamente a lei. Sembrava non riuscire più a starle lontano, ormai. «Se volete davvero la verità, da me, allora è quella che avrete. Se questo servirà a farmi vedere sotto un’altra luce ai vostri occhi, così sia, chiedetemi tutto ciò che desiderate. L’unica cosa che voglio io, Giulia, è che voi non mi odiate.»

    Giulia scosse il capo con forza, come per dare maggior enfasi alle sue parole. «Odiarvi, come potrei odiarvi… Non sono riuscita a farlo all’inizio, quando ne avrei avuto tutte le ragioni, e di certo non sarei capace di farlo adesso…» Ripetè, non riuscendo neppure a concepire una cosa simile. «Voi siete un genio, un maestro, la musica vi scorre nelle vene al posto del sangue, e per qualche oscuro motivo avete scelto me come vostra alunna, soltanto me!» Si passò una mano sugli occhi, nervosa, prima di scrollarsi i capelli. «Non riuscirei ad odiarvi neppure se da questo dipendesse la mia vita.» Confessò, abbassando la voce.

    «Se non è odio, quello che provate nei miei confronti, allora di che cosa si tratta?» Volle insistere Erik, ad ogni costo. Era ben deciso a impedirle di cambiare discorso o eludere le sue domande, e se per farlo avesse dovuto rapirla nuovamente e riportarla nei suoi sotterranei, ebbene, l’avrebbe fatto senza battere ciglio.

    Giulia non sapeva che cosa rispondere. Il semplice fatto di aver trovato attraenti le sue labbra e piacevole il suo bacio non implicava per forza l’esistenza di un qualche sentimento: era persuasa – o perlomeno, cercava di convincersi – che ciò che il suo corpo e il suo cuore provavano e volevano fossero due cose ben distinte. L’affetto poteva provarlo, certo; la tenerezza, la gratitudine, non erano messe in discussione. Ma poteva esserci anche dell’altro? Qualcosa di più… profondo?

    Cercando di passare inosservata si passò la punta della lingua sulle labbra tumide, come a voler assaporare nuovamente il sapore dell’uomo che le era rimasto sulla bocca – come se da questo avesse potuto estrapolare la risposta che il Maestro desiderava da lei. Purtroppo, però, tutto ciò che quella piccola carezza ebbe il potere di fare fu farle venire un esasperante desiderio di risentire il bacio dell’uomo su di sé. Inammissibile da parte sua!

    «Non lo so…» Singhiozzò, presa dal panico. Stava iniziando ad avere paura. «Come posso saperlo? Buon Dio, non conosco neppure il vostro nome!»

    «Erik,» le sussurrò all’orecchio, mettendo in quella parola tutta la dolcezza di cui era capace. «Il mio nome è Erik.»

    Erik. Improvvisamente, Giulia sgranò gli occhi nel ricordarsi della prima volta in cui aveva udito quel nome così singolare. Era da tanto tempo che non pensava più a quel sogno, ma quella semplice parola ne aveva risvegliato il ricordo sepolto nei recessi della sua mente. Certo, l’aveva sognato una volta, e nel sonno lei stessa aveva le sembianze di una bionda fanciulla chiamata Christine – a questo punto poteva chiaramente collegarla all’amica d’infanzia di Meg, perché no? – che si dilettava con curiosi ninnoli in quella che era la Dimora sul Lago. Certo, tutto tornava! Sempre nel sogno, lei gli si era rivolta chiamandolo angelo, e lui… Ma sì, , egli era mascherato, indossava una mezza maschera bianca!

    Aveva sognato il suo maestro e la sua antica allieva senza neppure essere al corrente della loro esistenza e di ciò che era accaduto! Come poteva mai essere possibile?

    Sì ritrovò ad ansimare, agitata e spaventata, mentre con le mani si artigliava il petto come se avesse voluto coprire il rombo dei battiti furiosi del suo cuore. Che cosa le stava succedendo? Perché aveva l’impressione di aver già vissuto una situazione simile, in passato? Poteva forse esserci qualche collegamento tra lei e l’ormai Viscontessa de Chagny? E perché, maledizione, perché madame Giry continuava a tacerle parte della verità, anche adesso che – ne era sicura – doveva essere riuscita a capire ogni cosa?

    Giulia alzò gli occhi ormai lucidi sull’uomo, ritrovando sul suo viso lo stesso che aveva intravisto, confusamente, nel suo sogno – ma riconoscendolo. Egli la stava fissando con un’espressione preoccupata, come se di certo non si aspettasse quella sua strana reazione. Ma troppe cose le stavano accadendo, troppe, e neanche una sembrava portare ad una chiara e limpida soluzione.

    Se riuscissi a recuperare la memoria sarebbe tutto più facile… Pensò, mordendosi il labbro inferiore.

    «Non volevo sconvolgervi tanto.» Mormorò Erik, senza più osare toccarla. Gli sembrava che fosse diventata improvvisamente fragile e delicata. «Sono terribilmente dispiaciuto, Giulia… Mi sono comportato come un mostro. Perdonatemi.»

    «No, no…» Ribattè lei, allungando le mani e aggrappandosi alle maniche della sua camicia. «Io non volevo piangere. Non so cosa mi è preso… Stanno succedendo tante di quelle cose intorno a me, Maestro, e io credo di aver raggiunto il limite di sopportazione… Non è colpa vostra, ve lo assicuro, o almeno non tutta.»

    Erik esitò, non sapendo come comportarsi. Trovava più semplice porre fine alla vita di un altro essere umano piuttosto che consolare una giovane fanciulla tremante e sull’orlo del pianto. Si limitò ad attirarla cautamente verso di sé, in modo da lasciarla libera di ritrarsi qualora non avesse desiderato quel contatto; tuttavia ella si lasciò stringere, senza opporsi, seppellendo il viso sul petto dell’uomo e respirando pesantemente per ricacciare indietro le lacrime. Lo strinse disperata a sua volta, quasi trovasse conforto nel suo abbraccio.

    Probabilmente, a quel punto, l’unico di cui poteva davvero fidarsi era il suo Maestro: alla fine le aveva detto ogni cosa, o quasi, e dal modo in cui la teneva stretta sembrava essere davvero tormentato per lei. E poi, doveva pur trovare qualcuno di cui fidarsi ciecamente.

    L’uomo le accarezzò dolcemente i capelli, cercando di calmarla, e quando si accorse che i singhiozzi erano finalmente cessati la condusse verso una comoda poltrona, facendola sedere e allontanandosi un attimo per andare a prendere un bicchiere di liquore. La ragazza aveva bisogno di riprendersi, il colore sembrava essere del tutto defluito dalle sue guance – e questo, lui, non poteva sopportarlo.

    Ed eccolo, il terribile Fantasma!, si ritrovò a pensare mentre le versava l’acquavite. Si prende cura di una donna in lacrime come se da questo dipendesse la sua vita. Che ne è stato dei tuoi progetti di vendetta, del tuo cuore indurito e insensibile?

    Erik li ha dimenticati nel momento esatto in cui le loro labbra si sono fuse in una soltanto.

    Cercò di ignorare quei maledetti pensieri decidendo di occuparsi unicamente della giovane; avrebbe avuto tutto il tempo per pensare, una volta rimasto solo.

    «Ecco, bevete.» Disse, porgendole il bicchiere colmo a metà di liquore.

    La ragazza lo osservò confusa, aggrottando le sopracciglia. «Che cos’è?» Mormorò, annusandolo.

    «È cognac, vi farà bene.» Rispose, inginocchiandosi davanti a lei.

    Giulia decise che non aveva senso fare delle storie per un liquore, così lo portò alle labbra e ne bevve un lungo sorso che le bruciò la gola, facendola lacrimare. «Mon Dieu, è fortissimo!» Esclamò, tossendo.

    Erik sorrise lievemente, prendendole il bicchiere dalle mani e porgendole un fazzoletto. «Avreste dovuto berlo piano, non come se fosse acqua. In compenso, sembra che vi siate ripresa…» Aggiunse, alludendo al rossore che aveva nuovamente colorato le sue gote.

    La ragazza annuì, sentendosi il viso in fiamme: a questo punto non avrebbe potuto dire se si trattava dell’imbarazzo o del liquore che aveva sorbito con così tanta leggerezza. Si asciugò le lacrime con il fazzoletto che le aveva porto il suo Maestro, e malgrado tutto iniziò a sentirsi un pò meglio. E adesso egli era inginocchiato ai suoi piedi, silenzioso, come se fosse stato in attesa di qualcosa – ma cosa? Di una parola da parte sua? Di un’ammissione dei suoi sentimenti? Oh, ma quali sentimenti?

    Non stava capendo più niente.

    Improvvisamente – grazie al Cielo, pensò lei – qualcuno bussò alla porta, con decisa leggerezza. Erik si alzò infastidito, deciso a memorizzare il nome dello stolto che aveva osato interromperlo in un momento così delicato.

    «Avanti,» esclamò, lasciando trapelare l’irritazione dalla voce.

    La porta si aprì e sulla soglia apparve monsieur Bamdad, carico di fogli e fascicoli vari e, per la prima volta da quando Giulia lo conosceva, in maniche di camicia e con i capelli spettinati. Gli occhi del persiano si posarono sul suo principale e sulla giovane semi distesa su una poltrona, con i capelli sciolti e scarmigliati, le pieghe del vestito scomposte e un colpevole rossore dipinto sul volto. Indubbiamente, la situazione poteva essere fraintesa.

    «Perdonate l’intrusione, monsieur, mademoiselle Sanders.» Disse, sforzandosi di ostentare un tono leggero e indifferente. «Ho forse interrotto qualcosa?»

    «Che cosa siete venuto a fare qui, Bamdad?» Sibilò Erik, stringendo gli occhi. «Credevo di avervi ripetuto fino alla nausea di non voler essere disturbato quando sono nel mio studio.»

    Lo sguardo del giovane segretario percorse un’ultima volta la figura imbarazzata di mademoiselle Sanders, prima di dedicarsi unicamente al suo padrone. «Certo, vi chiedo perdono. Ma questi sono quegli atti che mi avevate domandato, ho appena terminato di studiarli e sono venuto a consegnarveli come da voi richiesto.» Replicò, insistendo sul concetto che era stato lo stesso Erik a ordinargli di andare.

    Erik riprese rapidamente il controllo di sé e annuì, seccato. «Sì, perfetto. Grazie per la vostra solerzia. Potete lasciarli sulla scrivania e tornare al vostro lavoro.»   

    Monsieur Bamdad obbedì, posando le varie scartoffie sul tavolo di Erik e accennando un mezzo inchino alla ragazza, prima di uscire nuovamente dallo studio chiudendo delicatamente la porta alle sue spalle – benchè l’istinto sarebbe stato quello di sbatterla con forza. In quel momento odiò il suo principale come non avrebbe mai ritenuto possibile, e provò pena per quella povera ragazza costretta a stare alla sua mercè.

    Rimasta nuovamente sola con lui, Giulia tirò un leggero sospiro di sollievo. Vedere monsieur Bamdad , dopo quello che Erik aveva insinuato a proposito di un legame tra loro… Per un attimo aveva temuto che lo aggredisse, ma evidentemente le sue rassicurazioni al riguardo avevano fatto desistere il suo Maestro dall’affrontarlo. Si era sentita inoltre estremamente in imbarazzo quando il persiano l’aveva guardata come se la stesse giudicando: ella sapeva che il suo aspetto avrebbe potuto fargli equivocare la situazione, ma dopotutto… Accidenti, non poteva sentirsi in colpa per tutto ciò che le accadeva intorno, insomma, non era colpa sua se monsieur Bamdad si era interessato a lei. Come non era colpevole dell’interessamento di Erik, d’altronde. Ma qui erano un altro paio di maniche.

    «Mi dispiace che vi abbia vista così,» disse all’improvviso Erik, senza voltarsi. «Avrei dovuto impedirlo. Le lacrime di una donna sono talmente preziose e intime che a nessuno dovrebbe essere concesso il privilegio di vederle.»

    La ragazza riuscì ad accennare un sorriso, mentre stringeva tra le mani il fazzoletto. «Voi ci sopravvalutate, monsieur. Non siamo poi così preziose.» Replicò, cercando di alleggerire l’atmosfera ma con scarsi risultati.

    Allora egli si voltò verso di lei, con una strana espressione sul viso. «Vi ho detto il mio nome, ma le vostre labbra non l’hanno mai pronunciato. Sono stato così miserabile da non meritarmi neanche questo piccolo piacere?»

    Giulia inarcò le sopracciglia, sorpresa. «Non credevo potesse essere così importante, per voi.»

    «Lo è, al contrario.» Replicò l’uomo, tristemente. «Sono stato chiamato in molti modi, Giulia. Figlio del Diavolo, mostro, Fantasma, angelo e maestro… Ma mai, mai, qualcuno ha usato il mio nome per rivolgersi a me. Come se non meritassi di fare parte anch’io del resto dell’umanità.»

    Un rigido silenzio seguì quelle parole, gettate via con amarezza da un uomo che si era ormai stancato di affrontare per l’ennesima volta la stessa situazione, lo stesso dolore, lo stesso rifiuto. Abbassò lo sguardo, avvicinandosi alla scrivania e posando i palmi delle mani sul ripiano di legno per evitare di fare a pezzi qualsiasi cosa gli si fosse trovata davanti – non voleva spaventarla ancora. Aveva creduto, per un attimo, che quel bacio avrebbe significato qualcosa per lei – certo, non si aspettava che gli dichiarasse amore eterno, ma che almeno gli desse un briciolo di speranza – ma invece non era accaduto nulla di simile. Così, adesso, si ritrovava al punto di partenza, senza sapere quale sarebbe stata la sua prossima mossa.

    Stava quasi per intimarle di andarsene via, di sparire dalla sua vista, quando la voce della ragazza giunse inaspettata a spezzare quel silenzio. E arrivò, sussurrando una melodia che egli credeva di aver dimenticato, e che, a rigor di logica, ella non avrebbe dovuto conoscere.

 

    «Pitiful creature of darkness…

What kind of live have you known?»

 

    Erik si voltò piano verso di lei, stupito, mentre qualcosa – all’altezza del petto – gli si spezzava in modo definitivo. La osservò alzarsi dalla poltrona e avvicinarglisi lentamente, i suoi occhi color del miele che non abbandonavano la profondità dei suoi, e quando infine fu abbastanza vicina da poter udire il suo dolce profumo, ella gli prese una mano tra le sue.

    Poi, con dolcezza, gli sorrise. «Voi non siete più solo, Erik. Non ora che ci sono io.» Sussurrò. Non gli fece promesse di nessun genere, non gli confessò il suo amore, non lo baciò; si limitò a sorridergli con una tenerezza tanto sincera da farlo tremare, mentre il calore delle sue giovani mani si propagava sulle sue come se si stesse riscaldando davanti ad un fuoco ardente.

    Eppure, in quell’istante, Erik fu certo di essere l’uomo più felice sulla faccia della terra.

    Il suo nome sulle sue labbra, le stesse che aveva baciato.

    L’attirò tra le sue braccia, stringendosela al petto e seppellendo il viso, ancora mascherato, nei suoi capelli: non voleva ch’ella lo vedesse piangere, ma non era qualcosa che poteva evitare. Sentì le lacrime sgorgargli dagli occhi senza controllo, ma non singhiozzò né emise il più piccolo gemito, deciso a non terrorizzarla ancora con il suo strano comportamento.

    Ciò nonostante Giulia ricambiò la stretta come se avesse compreso – e d’altra parte da lei non si aspettava di meno. Le sue mani lo accarezzarono teneramente, e lei si limitò ad abbracciarlo in silenzio, poiché non era di parole ch’egli aveva bisogno.

 

    «God give me courage to show you

You are not alone…»






















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AA - Angolo Autrice:
Buon pomeriggio, ragazze! ^^ Dunque, non ho molto da dire: questo capitolo è semplicemente il seguito del precedente, così vedete un pò cos'è successo dopo il primo passo di Erik. Beh, cosa ne pensate? Troppo melenso? Troppo scontato? Troppo perfetto? Eeeeh, le cose non sono mai come sembrano, si può dire che questa sia la calma prima della tempesta... ù__ù
E adesso rispondo alle vostre recensioni, questa volta ho il tempo *_*

    Sydney bristow: Ciao cara, grazie mille per aver recensito! ^^ (yeee, uccidiamo i De Chagny! *O*) Sono contenta che questo capitolo ti sia piaciuto, spero sia così anche per il nuovo. Un abbraccio, a presto! :*

    aliena: Ciao e grazie della recensione! Sono felicissima che ti sia piaciuto *_* Anch’io adoro Erik per ogni cosa che fa, l’ho trovato attraente anche mentre uccideva Buquet u.u Eh già, finalmente qualcuno lo apprezza *_* un bacio cara, al prossimo capitolo! :*

    TheMisty910: Ciao! Wao, sono commossa… Quanti complimenti! *_* Anch’io non vedevo l’ora che succedesse qualcosa di simile, avevamo bisogno di un po’ di pepe xD  Eh sì, la nostra Giulia sta iniziando a tirare fuori gli artigli… Sarà sintomo della sua memoria che sta tornando? Mah, chissà =O Lo vedremo in seguito! ^^ Un abbraccio, a presto! :*
P.S: Anche a me piace un sacco usare pezzi di canzoni come titoli dei capitoli *_*

    Keyra93: Ciao cara! Wao, una recensione così lunga merita una risposta altrettanto sostanziosa *_* Innanzitutto… SI, ho paura tu sia l’unica che apprezza il ritorno dei De Chagny. Che ci possiamo fare, non hanno un bel curriculum xD Quanto alle Giry… Beh, dispiace anche a me, ma queste sono peggio di Studio Aperto >_< Cavoli! Altro che ‘mantenere segreti’! Mesdames et messieurs, vi presento Ballerina 2000, il nuovo magazine per tenersi aggiornate sulle novità del mondo dello spettacolo… Poi uno non si dovrebbe arrabbiare? u_u
    Ora, scherzi a parte… Passiamo a qualcosa che ci preme di più ù_ù
    Dunque: sfatiamo questo mito. Erik non va ‘a puttane’: se ti fa sentire meglio, diciamo che lui sceglie solo quelle di alto borgo :D Te lo spiego seriamente (XD). Premesso che il ‘mio’ Erik sia decisamente più cattivo di quello del musical, più vissuto (come quello del libro, per intenderci), più umano (cioè meno spiritualizzato e idealizzato)… Ecco, il fatto di essere più una creatura fatta di sangue e carne, più diavolo e meno angelo, mi ha fatto decidere di prendere questa drastica decisione. Uno come lui, così passionale, ardente, per quanto innamorato alla follia, secondo me non può non conoscere i piaceri della carne, anche se questi sono mercenari. Voglio dire, stiamo parlando di un uomo che ha girato il mondo, che è cresciuto in una compagnia di zingari (dove, probabilmente, i rapporti tra uomini e donne erano più carnali che platonici) e che ha imparato sin da subito che non occorreva avere un bel viso per poter provare un briciolo di piacere. Per questo, secondo me, è impossibile che Erik sia vergine (detto papale papale): era semplicemente l’unico modo che aveva imparato per sentirsi meno solo. [Mentre, al contrario, io mi immagino che il Visconte de Chagny abbia la maturità sessuale di Topo Gigio…] Ma visto che mi hai fatto affrontare questo discorso, credo che mi rimboccherò le mani e scriverò un prequel sull’infanzia di Erik. Sì, penso che lo farò… Non appena termino questa storia :D
    Per quanto riguarda, invece, i ‘paroloni aulici’… Mi dispiace sinceramente se certe parole rendono la lettura pesante o strana, ma non posso farci niente, a piace un sacco usarle! é.è Soprattutto quelle che hai nominato tu, e cioè talamo e scabrose: cribbio, rendono bene l’idea! Non so, se avessi detto che “desiderava qualcuno che condividesse il suo letto per amore”… uhm, boh, è insipida, non ti sembra? Stessa cosa per “quelle scabrose fantasie”. Ti leggo subito gli altri sinonimi che ho trovato: immorali, indecenti, spinte, osè, pepate (scherziamo? -.-‘’), piccanti, imbarazzanti, spinose, scottanti… Niente, non mi piacevano! Devi sapere che quando scrivo tendo ad essere particolarmente pignola (per dirtene una, io scrivo in questo modo anche su msn e per sms!) e per ogni parola che scrivo – o quasi – cerco un sinonimo che renda di più il concetto! Si fa anche per evitare di ripetere cento volte la stessa parola nel giro di due frasi ^_^;
    Fammi sapere se sono riuscita a spiegarmi xD
    Spero comunque che questo capitolo ti sia piaciuto! La giovine è sopravvissuta, per quanto riguarda la pericolosità di Erik vedremo :D [cercherò comunque di sventare il Pericolo Mary Sue, vedrai che quando Giulia recupererà la memoria le cose cambieranno ù_ù Non dimentichiamo che, al momento, è pur sempre una ragazza dell’Ottocento :D]
    Un bacione, a presto!

E con questo direi che, anche per oggi, ho finito! ^^
    Ripeto, per chi non lo sapesse (sarete stanche di sentirmelo dire), l'esistenza de The Phantom of the Opera Contest [scadenza 01/12/2010 - proroghe fino al 8/12/2010], indetto da me medesima tale e quale e dalla mia socia kenjina. Partecipate numerose! *_*

Un bacio e un abbraccio, vostra
GiulyRedRose


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Capitolo 24
*** 22. La nuova Margherita ***


Chapitre 22

La nuova Margherita

 

 













 

 

 

 

 

 

    «C’è qualcosa che ti turba, ma chère

    La giovane contessa De Chagny si voltò per osservare il marito, abbandonando momentaneamente il ricamo al quale si stava dedicando da tutta la mattina. Rimase per un attimo a guardarlo sorpresa, prima che un tenero sorriso abbellisse le sue labbra e le mani mettessero da parte ago e filo.

    «No, Raoul, va tutto bene.» Rispose, con la stessa voce suadente che solo qualche anno prima aveva fatto vibrare i cuori di mezza Parigi. «Sono solo un po’ stanca dal viaggio.»

    «Siamo rientrati ieri,» replicò il conte, raggiungendola e sedendosi sul divano di fianco a lei. «Conosco quello sguardo: sei preoccupata per qualcosa. Di che si tratta?»

    Christine sospirò, volgendo lo sguardo verso le fiamme che scoppiettavano allegramente all’interno del prezioso camino in marmo che riscaldava il salotto. Era una delle stanze più piccole dell’intero palazzo, e aveva deciso di farla propria dal primo momento in cui vi era entrata: amava l’atmosfera di intimità che sembrava aleggiare in quella piccola sala.

    «È strano essere di nuovo a Parigi,» sussurrò, torturandosi le dita delle mani. «Qui è dove è iniziato tutto… Non credevo che vi saremmo tornati così presto. Non so se devo esserne spaventata.»

    Un muscolo guizzò sulla mascella dell’uomo, come se ciò che la sua sposa stesse pensando – e ricordando – non fosse di suo gradimento: e come avrebbe potuto? Rammentava fin troppo bene quanto entrambi avessero sofferto a quel tempo, per colpa di un mostro. In silenzio le prese le mani tra le sue, stringendole dolcemente, e se le portò alle labbra per posarvi un piccolo bacio devoto.

    «Christine, non vi è alcun motivo per essere spaventata,» le sussurrò, guardandola nelle profondità azzurre dei suoi occhi. «Noi siamo insieme, questo è ciò che conta. Nessuno cercherà più di portarti via da me, e se ciò dovesse accadere combatterò come la prima volta – te lo posso giurare.»

    La ragazza non rispose, limitandosi ad accennare un sorriso che svanì quasi subito. «Lo so, Raoul. So che ormai lui è morto, e non potrà più farci del male.» Tacque un istante, pensierosa, studiando le loro dita teneramente intrecciate. «Vorrei chiederti una cosa,» aggiunse, come ripensandoci.

    «Qualsiasi cosa, amore mio.» Rispose immediamente il marito, deciso a vedere ancora il sorriso sul volto della giovane sposa.

    Christine cercò il suo sguardo, esitante, come se fino all’ultimo fosse indecisa se dirglielo o meno… Ma aveva giurato che non gli avrebbe più nascosto nulla, pertanto non aveva senso tacere oltre. «Io… Desidero rivedere l’Opèra.»

    Gli occhi di Raoul si sgranarono impercettibilmente, mentre si ritraeva dalla contessa come scottato. Non poteva credere che, dopo tutto ciò che era accaduto in quel teatro, dopo quello che era successo a lei, a loro, ella avesse ancora voglia di entrare in quel maledetto tempio della musica! L’uomo si alzò, raggiungendo il camino e posando le mani sull’architrave dando così le spalle alla moglie; la richiesta di Christine gli risultava inconcepibile da comprendere, anche se in effetti nulla poteva più minacciare il loro matrimonio. Il mostro ormai era morto, finito, e con lui erano svanite le sue minacce… Eppure Raoul aveva l’impressione che qualcosa ancora sarebbe potuta accadere. Sarebbe stato troppo perfetto se il Fantasma fosse scomparso per sempre, e i precedenti di quella storia gli suggerivano che una cosa simile non sarebbe potuta accadere. Non così facilmente, ad ogni modo.

    Comunque non gli sembrava il caso di mettere al corrente Christine dei suoi dubbi, poiché non c’era nessuna prova certa che dimostrasse la morte o meno del Fantasma. Prese dei respiri profondi, cercando di dominare la rabbia che ancora, a distanza di tempo, tutto ciò gli causava, e si passò una mano tra i capelli prima di voltarsi nuovamente verso di lei. Dopotutto, si disse, non aveva nessun diritto di impedirle di fare qualcosa che desiderava.

    «Se è ciò che vuoi, Christine, io non mi opporrò.» Disse, benchè quelle parole gli costassero. «Chiederò a monsieur Coleman di accompagnarti, io… Io non me la sento.»

    La giovane contessa si alzò a sua volta, raggiungendo il marito, e passandogli le braccia intorno al collo per stringerlo in un tenero abbraccio. «Ti ringrazio infinitamente, Raoul,» gli sussurrò sulle labbra. «So quanto questo significhi per te.»

    Raoul accennò un sorriso, ricambiando il bacio della moglie. «Quando vuoi andare?» Domandò, sperando che rinviasse la visita ormai all’anno nuovo. Tuttavia la sua risposta non fu quella che si aspettava.

    «Oggi stesso, in realtà. Prima ci vado, prima tornerò a sentirmi meglio…» Rispose, assorta.

    Egli la strinse forte a sé, seppellendo il volto nell’incavo del suo collo e aspirando il suo profumo. «Non voglio che tu vada, ma chère, ma so che è qualcosa a cui tieni molto.» Si scostò leggermente da lei il tanto necessario a poterla guardare in viso, dopodichè riprese. «Andrò subito a parlare con monsieur Coleman. Potete scendere in città subito dopo pranzo, in modo da essere a Parigi per il pomeriggio e qui per cena.»

    «Sei proprio sicuro di non voler venire?» Insistè Christine, aggrottando le sopracciglia. Era convinta che se Raoul l’avesse accompagnata – se avesse affrontato anche lui i demoni di quel passato – avrebbe ripreso a stare decisamente meglio.

    Ma l’uomo scosse sicuro la testa, irremovibile dalla sua decisione. «No, Christine: sento che impazzirei se entrassi nuovamente in quel teatro.» Replicò, portandole dietro l’orecchio una ciocca ribelle. «Vai, non ti preoccupare. Io e Gustave ti aspetteremo per cena.»

    La baciò ancora una volta, dopodichè uscì a grandi falcate dalla stanza alla ricerca del suo uomo di fiducia, monsieur Coleman. Egli si era dimostrato sin da subito molto disponibile nei loro confronti e aveva trattato la contessa con una gentile delicatezza che pochi le avevano riservato, da quando era diventata una De Chagny; pertanto Raoul sapeva che Coleman sarebbe stato l’unico a poter accompagnare con discrezione la nobildonna a Parigi.

    Dopotutto il loro ritorno non era stato ancora reso pubblico.

 

 

***

 

 

    «Ah! Je ris de me voir

    Si belle en ce miroir…

    Est-ce toi, Marguerite, est-ce toi?

    Réponds-moi… réponds-moi vite!»

 

    Mademoiselle Sanders sembrava cantare con una passione nuova, mentre per la prima volta provava un’aria che una semplice solista del coro non avrebbe mai dovuto ambire a recitare – neanche nell’intimità della sua camera da letto. Nessuno ne comprendeva il motivo, eppure quella mattina monsieur Bamdad aveva consegnato a monsieur Reyer, il direttore dell’orchestra, gli spartiti del Faust di Gounod, dandogli espressamente delle direttive riguardanti mademoiselle Giulia e il suo probabile ruolo nell’opera. Nessuno aveva osato mettere in discussione tali disposizioni, eppure, per quanto ella sapesse cantare magnificamente – sembrava quasi un angelo – tacitamente tutti erano convinti che una corista non sarebbe mai potuta diventare una prima donna.

    Le tragedie accadute in passato per una situazione analoga già dimostravano che un tale provvedimento avrebbe minato la fama del teatro – e sicuramente anche la sua fortuna appena ritrovata.

 

    «Ah, s’il était ici!

    S’il me voyait ainsi!

    Comme une demoiselle

    Il me trouverait belle…»

 

    Tutti lo pensavano, eccetto lui, il suo Maestro. Al sicuro dietro la pesante tenda color porpora del palco numero cinque, Erik osservava l’interpretazione della sua giovane allieva senza curarsi dei bisbigli che giungevano da dietro le quinte o dalla stessa platea, sicuro – come sempre – che le sue decisioni in campo artistico e musicale fossero indiscutibili e destinate a trionfare. Non era la prima volta che Giulia cantava quell’aria, egli le aveva infatti fatto provare numerose volte il Faust con la certezza che presto la giovane avrebbe avuto il ruolo che le spettava. Per fortuna la primadonna dell’Opèra non era più quell’inetta di Carlotta Giudicelli – che, a quanto si diceva, era tornata a Milano per ritirarsi a vita privata dopo che il marito, il tenore Ubaldo Piangi, era scomparso in circostanze misteriose – e pertanto egli avrebbe potuto decidere in qualsiasi momento di destituire tale Eva Dolores de Castro, l’attuale soprano spagnola che ricopriva quel ruolo, in qualsiasi momento avesse voluto. Era anche uno dei privilegi che gli appartenevano in quanto direttore artistico, comunque.

    Sospirò, sfiorandosi le labbra con due dita leggere. Era trascorso un giorno intero da quando l’aveva baciata, eppure rammentava perfettamente la sensazione di quella bocca che si schiudeva sotto la sua, il tremito delle sue mani, il suo profumo, il suo corpo… Oh, sarebbe finito per impazzire se non avesse potuto godere ancora di quel contatto così intimo e delizioso. E adesso, vederla sulla scena, gli occhi dei ballerini e dei macchinisti posati su di lei – era riuscita a distoglierli tutti dai loro compiti con il semplice suono della sua voce – era, per lui, un trionfo che non credeva di poter apprezzare così a fondo.

    Forse era dovuto al fatto che ora la considerava davvero sua, in tutte le connotazioni che un simile termine poteva possedere; nessuno avrebbe potuto importunare mademoiselle Sanders senza poi incorrere nelle sue ire. Non gli importava che altri la guardassero: egli sapeva che la giovane non avrebbe mai accettato le loro attenzioni – come aveva dimostrato ciò che era accaduto con monsieur Bamdad – benchè, certo, ancora non avesse neppure accettato le sue. Ma d’altronde era comprensibile: Erik si era impadronito delle sue labbra senza indagare oltre sui suoi desideri, anche se Giulia non aveva urlato né l’aveva cacciato. Come poteva interpretare dunque la sua reazione? Poteva esserci speranza per lui, questa volta?

    Oppure lei aveva ricambiato il suo bacio per pietà?

    No, maledizione, questo non l’avrebbe mai accettato! Strinse con forza i pugni rischiando di ferirsi le sue stesse mani, non fosse stato per i preziosi guanti di pelle nera che non disdegnava mai di indossare. Avrebbe preferito l’odio e il disgusto alla pietà e alla compassione, senza alcun dubbio.

    Mentre era così immerso nelle sue riflessioni, quasi non si accorse che nella platea erano appena entrate due persone che, a giudicare dall’abbigliamento, non dovevano far parte dei dipendenti del teatro. Si trattava di un uomo sui cinquant’anni, al cui braccio era poggiata una giovane donna vestita elegantemente e dai modi nobili e distinti, tipici di un’aristocratica. Erik si sporse leggermente dal suo palco, vedendo senza essere visto: la donna era ancora nell’ombra, il viso rivolto verso il suo accompagnatore e pertanto con le spalle verso i palchi, eppure aveva qualcosa di familiare… I capelli biondi, raccolti in un’acconciatura severa ma morbida che non lasciava libero un solo boccolo, l’abito di foggia preziosa di un leggero turchese dai ricami color panna, che esaltavano il suo incarnato chiaro e l’oro della sua chioma.

    Poi, quando la donna si voltò verso il palcoscenico, avanzando tra le file di poltrone e sedendosi poi in una di esse, Erik dovette trattenere un gemito insofferente, mentre finalmente la riconosceva.

    Eccola là, Christine Daaè… No, pardon, la Viscontessa de Chagny in tutto il suo splendore.

    Strinse gli occhi, sentendosi invaso unicamente dall’ira. Che cosa diavolo ci faceva lì, chi mai aveva richiesto la sua presenza? Era forse l’ultima persona che si aspettava di vedere nel suo teatro, sicuro com’era che non avrebbe mai più osato mettervi piede finchè fosse vissuta. A quanto sembrava, si era sbagliato. Chissà se madame Giry era al corrente del suo ritorno a Parigi? E chissà se l’avrebbe messo al corrente del suo rientro, qualora l’avesse saputo.

    Studiò l’espressione sorpresa e vagamente disorientata della viscontessa, mentre guardava cantare sulla scena quella che poteva essere benissimo sé stessa qualche anno prima. Al di là del colore dei capelli, in effetti, le due donne erano pressochè identiche: entrambe avevano addirittura una sorta di legame con lui. Con un’unica differenza: mentre Christine ormai apparteneva al passato, e non aveva più nulla da spartire con il suo maestro, Giulia era invece il suo presente – e, sperava, anche il suo futuro. Provò una sorta di perversa soddisfazione nel vedere lo smarrimento di Christine, la sua nostalgia, il suo dolore per ciò che aveva perduto abbandonando lui e scegliendo il visconte, ma alla fine decise che non gliene importava più di tanto. Certo, era qualcosa che lo compiaceva, ma nulla di più: perciò si voltò nuovamente verso Giulia, che aveva quasi terminato di provare l’atto terzo del Faust.

 

 

    La contessa Christine Daaè de Chagny era senza parole. Chi era quella giovane che cantava con una voce simile e che le somigliava in un modo così impressionante? Si era dovuta sedere per evitare alle gambe tremanti di cederle, e aveva invitato monsieur Coleman a fare altrettanto. Era forse finita nell’ennesimo incubo? Quella ragazza le ricordava ciò che era stata lei un tempo, seppur per poco, su quello stesso palco: rammentava perfettamente quel periodo della sua vita, prima che accadessero tutti quei disastri che l’avevano costretta poi ad abbandonare il teatro per un altro genere di vita. Non che se ne pentisse, per carità: amava profondamente Raoul. Ma il richiamo della musica e delle scene era qualcosa di tanto radicato in lei che non sarebbe mai riuscita a liberarsene del tutto.

 

    «Ah! Je ris de me voir

    Si belle en ce miroir…»

 

    L’aria terminò dopo un leggero acuto, che fecero guadagnare alla giovane sconosciuta gli applausi del maestro Reyer e dei vari figuranti che l’avevano ascoltata da dietro le quinte. Persino monsieur Coleman non riuscì a resistere all’impulso e battè le mani, ma Christine non riusciva a darsi pace: doveva sapere chi era quella giovane fanciulla, e soprattutto voleva capire il perché di quella straordinaria somiglianza!

    «Monsieur Coleman, vorrei chiedervi un favore.» Sussurrò al suo accompagnatore, chinandosi leggermente verso di lui. Non aveva perso l’abitudine di mormorare quando si trovava dentro quel teatro, forse perché temeva inconsciamente che qualcuno avrebbe potuto sentirla. Probabilmente un vero fantasma, adesso che il suo maestro era morto e avrebbe potuto vendicarsi dal regno dei defunti…

    «Certamente, madame. Di cosa avete bisogno?» Replicò gentilmente l’uomo, non notando l’agitazione della viscontessa – o fingendo di non coglierla. Il suo compito non era certo quello di fare domande.

    «Vorrei sapere chi è quella ragazza, come si chiama.» Disse, indicandogli con lo sguardo la giovane che adesso stava parlando con monsieur Reyer a proposito dell’aria che aveva appena cantato. «E, se è possibile, vorrei conoscerla. Però non fate il mio nome, vi prego… Non ancora.»

    «Come desiderate, madame.» Rispose, accennando un inchino col capo e alzandosi dalla poltrona. Si avvicinò quindi verso la cavea dell’orchestra, chiedendo ad un violinista al momento disoccupato se era possibile interrompere le prove.

    «Ah, attendete un attimo, monsieur. Bisogna domandare al maestro Reyer,» replicò quest’ultimo, indicandogli l’anziando direttore. «Maestro? Qualcuno vi desidera.»

    Scusandosi un istante con mademoiselle Sanders, Gabriel Reyer si voltò verso la platea, cercando colui che il violinista gli aveva indicato con un cenno del capo. «Sì? Desiderate qualcosa?» Chiese, sorpreso: dopotutto, non sapeva chi fosse quell’uomo.

    «Perdonate l’interruzione, ma vorrei conoscere l’identità di questa giovane e bravissima cantante, s’il vous plaît. Sono tornato da poco in città e sono ancora all’oscuro di simili novità.» Rispose galantemente, inchinandosi davanti a mademoiselle Sanders.

    Giulia arrossì e fece per rispondere, ma un gesto delicato di monsieur Reyer glielo impedì: dopotutto, a suo avviso, non stava bene che una fanciulla si presentasse da sola ad un completo sconosciuto.

    «Lei è mademoiselle Giulia Sanders, la nostra nuova promessa del canto.» Replicò l’anziano maestro, con un’espressione alquanto sospettosa. Se non rammentava male, quello era già il secondo straniero che chiedeva della ragazza in così poco tempo. Cosa potevano mai volere da una giovane perbene come lei?

    Monsieur Coleman annuì, accennando un mezzo sorriso. «Lieto di fare la vostra conoscenza, mademoiselle; il mio nome è James Coleman.» Poi proseguì, come se si fosse ricordato in ritardo di una cosa di estrema importanza. «Spero che non mi troverete sfacciato se vi chiedo una piccola cortesia.»

    Giulia scosse la testa, sempre più sorpresa. «Dite pure, monsieur.»

    «La mia signora desidererebbe incontrarvi in privato, quando avete un momento libero,» rivelò, ignorando del tutto le altre persone che stavano tacitamente assistendo a quel piccolo scambio di battute. «Per voi è un problema?»

    «No… Non credo. Quando volete mi trovate qui, monsieur.» Rispose la ragazza, prima di scambiare uno sguardo interrogativo con il maestro Reyer. Quell’uomo aveva avuto sin dall’inizio un comportamento molto paterno nei suoi confronti.

    «Perfetto, riferirò. In tal caso adesso vi lascio alle vostre prove,» disse, inchinandosi per l’ennesima volta. «Buona giornata, mademoiselle. Signori…»

    Diede loro le spalle e raggiunse la Viscontessa che, seduta tra le ultime fila, era rimasta nascosta durante quella breve discussione per evitare di essere riconosciuta. Non appena monsieur Coleman le si fu avvicinato abbastanza da coprirla con la sua stazza, Christine si alzò, e, dato un ultimo sguardo alla giovane sul palcoscenico, si avviò con l’uomo verso l’uscita. Sarebbe andata a trovare Meg e madame Giry un altro giorno, si disse, ora era troppo tubata da quella strana scoperta.

 

 

***

 

 

    Preoccupata, Giulia stava torturando un foglio di carta consegnatole quella mattina da monsieur Bamdad: l’uomo le si era avvicinato dopo le prove con maestro Reyer e, con l’aria di uno che avrebbe desiderato trovarsi in ogni luogo fuorchè accanto a lei, le aveva porto quella piccola nota senza dire una sola parola. Fu solo dopo averla aperta e aver riconosciuto la calligrafia rigida e ordinata vergata con inchiostro rosso, che Giulia comprese di cosa si trattava. Il suo Maestro la invitava ad incontrarlo non più nella cappella del teatro, ma nel palco n. 5: e, questa volta, si era firmato con il suo nome, Erik.

    E adesso che aveva raggiunto il palco iniziava a sentirsi in ansia. Non sapeva cos’altro aspettarsi da lui: dopotutto, quando si erano lasciati il giorno prima, non c’era stato nessun chiarimento da parte sua… Certo, ella gli aveva promesso che da quel momento non sarebbe mai più stato da solo, ci sarebbe stata lei al suo fianco – ma chi poteva dire con certezza che le sue affermazioni non fossero state fraintese?

    Rilesse per l’ennesima volta quel biglietto, come se nelle sue parole avesse potuto trovare una risposta alle sue sempre maggiori domande. Incredibile che le mani che avevano scritto quella nota fossero le stesse che avevano messo fine alla vita di chissà quanti uomini, le stesse che l’avevano stretta in un abbraccio, che l’avevano accarezzata! Come avrebbe potuto sopportare, o ignorare, tutto quel sangue ch’egli sembrava trascinarsi dietro?

    Eppure con me non è mai stato… cattivo, riflettè, facendo avanti e indietro all’interno del palco. Ha mantenuto sempre un comportamento da gentiluomo, a parte… A parte quando mi ha baciata.

    Sentì le guance infiammarsi al ricordo di ciò che era successo – ma soprattutto di come lei gli si era aggrappata e aveva ricambiato il bacio. Aveva cercato di convincersi per tutta la notte che tale reazione era stata dovuta unicamente alla pura e semplice curiosità – dopotutto, che lei avesse memoria, non era mai stata baciata prima, se si escludeva il brusco approccio di monsieur Bamdad.

    Con un sospiro si sedette su di una poltroncina dall’imbottitura color porpora presente nel palco, sventolandosi insofferente con il foglietto ormai spiegazzato. L’attesa non era mai stata più logorante.

    E poi, come già era accaduto tante volte prima di allora, fu acutamente consapevole del suo silenzioso arrivo. Fu come un fruscio, uno spostamento d’aria talmente veloce che probabilmente, se non avesse avuto l’esperienza dalla sua parte, non se ne sarebbe mai accorta. Invece si alzò, guardandosi intorno, aspettando ch’egli rivelasse la sua presenza con un’agitazione diversa da quella che aveva sempre provato.

    «Vi ringrazio di aver accettato il mio invito, Giulia.» Le parole sembrarono provenire dall’oscurità del palco, profonde ed attutite come fossero state avvolte nel velluto, e subito dopo l’uomo si fece avanti, inchinandosi galantemente dinnanzi a lei.

    Ella rabbrividì istintivamente, notando il nuovo ed inspiegabile brivido che le aveva percorso la superficie della pelle al suono di quella splendida voce. «Come mai questo cambiamento, maestro? La cappella non andava più bene per le nostre lezioni?» Domandò, sforzandosi di mantenere un tono fermo e al contempo dolce.

    Erik le si avvicinò ancora di più, arrivando a sfiorarle la gonna con le lunghe gambe avvolte sensualmente in aderenti calzoni neri che la ragazza gli aveva visto unicamente nella sua dimora sotterranea. Dunque egli non era andato da lei nei panni del direttore, ma in veste di fantasma.

    Oh, maledizione, doveva smetterla di pensare simili cose!

    «In realtà oggi non desidero sprecare il tempo che trascorreremo insieme cantando o suonando.» Replicò, addolcendo la voce all’inverosimile; Giulia non comprendeva come riusciva a trasformare quell’accento, mutandolo da minaccioso e terribile a soave e gentile in un battito di ciglia. Era qualcosa che la spaventava e allo stesso tempo la attraeva.

    Decise perciò anche lei di abbandonare i toni distaccati. Si avvicinò all’uomo e gli passò una mano sotto al braccio, annullando così ogni distanza, anche fisica, che v’era tra di loro. «In tal caso che cosa vorreste fare, Erik?» Chiese, accennando un tenero sorriso con una facilità che solo qualche istante prima non avrebbe creduto possibile. Evidentemente stare in sua compagnia si rivelava essere molto più semplice…

    «Fidatevi di me e seguitemi, Giulia – non desidero altro,» le sussurrò all’orecchio, cercando di contenere la gioia che quel contatto improvviso e non richiesto – né tantomeno ordinato – gli aveva procurato.

    Ella l’aveva toccato di sua spontanea volontà, senza che fosse stato lui a domandarglielo!

    La ragazza annuì, allargando il sorriso. Non si era accorta di ciò che stava accadendo nell’animo del suo Maestro, ma forse era meglio così. «Sarà un piacere.»

 



























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AA - Angolo Autrice:
Buona sera, giovani fanciulle! Come va? ^^
Spero di non avervi fatto attendere molto con il capitolo - ad ogni modo questo è solo un capitolo di passaggio, serve per reinserire i De Chagny nella storia, gradualmente. Bene, e adesso cosa succederà? Si accettano scommesse XD
Comunque, voglio ringraziare sydney bristow, aliena e TheMisty910 per aver recensito lo scorso capitolo - grazie mille <3 Inoltre grazie a chi, anche se nell'ombra, continua a seguire la mia storia! Siete davvero tante, ragazze (o ragazzi, perchè np? u.u) non pensavo che questa storia potesse interessare così tanto! Grazie davvero :)
Sto lavorando al prossimo capitolo ma tengo a precisare che ultimamente ho problemi di connessione e di ispirazione - prima del linciaggio, vi voglio rassicurare: continuerò questa storia, non preoccupatevi! :D
Un bacio e un abbraccio, vostra
GiulyRedRose

P.S. Ah! Se vi interessa - non si sa mai - potete trovarmi anche su facebook, dove pubblicherò news e/o spoiler sulle mie storie. Ho bisogno giusto di un pò di tempo per ambientarmi nel nuovo account xD baci a presto! :*

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Capitolo 25
*** 23. And in this labyrinth where night is blind... ***


Chapitre 23

And in this labyrinth where night is blind…








 

 

 

«Certi modi forsennati di guardarmi

[…] mi avevano fatto misurare

la selvaggia forza della sua passione…»

 

 

 











 

 

 

    Il teatro dell’Opèra Populaire era una costruzione di eccezionale opulenza, simbolo del Secondo Impero: fatto costruire per ordine di Napoleone III, vantava nella sua struttura espressioni e tendenze provenienti da epoche differenti, quali il barocco, il neoclassicismo, il rococò. A tal proposito nell’ambiente della nobiltà parigina si raccontava un piccolo aneddoto, secondo il quale monsieur Garnier, alla legittima domanda dell’imperatrice Eugénie che desiderava sapere in che stile dovesse essere costruito il teatro, se in quello greco o romano, ebbe risposto: «È nello stile di Napoleone III, madame!»

    Chiunque entrava nel teatro, dunque, veniva assalito immediatamente dall’atmosfera sfarzosa e regale voluta dall’imperatore: le preziose scalinate in marmi di diversi colori, anch’esse teatro dei ricevimenti mondani dove le stoffe e le crinoline degli abiti delle gentildonne frusciavano con eleganza tra un gradino e l’altro, si affacciavano nel foyer diventandone le protagoniste. Da qui, gli avventori dell’Opèra potevano raggiungere la platea oppure scendere ai piani inferiori nei quali si trovava un grazioso cafè che rimaneva aperto fino al termine dell’ultima rappresentazione. L’Opèra, insomma, era costantemente gremita di persone -  borghesi o aristocratiche – giunte per assistere agli spettacoli o semplicemente per visitare quello che era il tempio della musica e della danza.

    Tuttavia il Fantasma dell’Opera conosceva perfettamente i luoghi lontani dagli sguardi curiosi e indiscreti dei visitatori, così lui e mademoiselle Sanders non incontrarono anima viva durante la loro rapida e improvvisa passeggiata per il teatro. Attraversarono saloni scarsamente illuminati e corridoi segreti nei quali scarseggiavano le lampade a gas, cosicché Giulia dovette stringere il braccio del suo Maestro stando bene attenta a non perderlo, in modo da non smarrire la strada. Egli sembrava conoscere quelle gallerie nascoste come nessun altro, il che dava credito a ciò che le aveva raccontato Meg in proposito – e cioè che, in quanto fantasma, aveva avuto tutto il tempo del mondo per studiare ogni percorso e ogni oscuro anfratto.

    Ella gli aveva domandato dove avesse intenzione di portarla, ma Erik non volle risponderle se non con un misterioso: «È una sorpresa, ma chère». Giulia comprese che sarebbe stato inutile fargli altre domande, e che avrebbe dovuto avere la pazienza di attendere che quell’infinito girovagare terminasse. Le sembrava quasi di essere tornata nei cupi sotterranei, benché si rendesse conto che non era nelle catacombe ch’egli la stava conducendo.

    Dopotutto era stata una decisione dell’ultimo minuto, presa da Erik dopo aver visto madame de Chagny entrare nel suo teatro con un’aria da primadonna: era talmente furioso per la scoperta del suo rientro in città che non sarebbe stato capace di tenere una lezione di canto alla sua giovane allieva, così aveva deciso di essere lui, per una volta, a rimandarla. Ad ogni modo l’esecuzione del Faust di quella mattina da parte di Giulia gli avevano dimostrato che la ragazza non necessitava di ulteriori insegnamenti – anche se, di questo, non gliene avrebbe fatto parola: amava sin troppo la sua compagnia per privarsene in quel modo.

    Erik stava iniziando a odiare i suoi costosi guanti di pelle, dato che gli impedivano di sentire il calore della mano della ragazza che teneva stretta nella sua: non poteva che biasimarsi per la sua scelta di indossare quell’abbigliamento, ma in veste di Fantasma si sentiva molto più a suo agio, come se davvero fosse parte integrante di quel teatro. Rallentò un momento e si voltò verso mademoiselle, studiando la sua espressione attraverso la leggera penombra che regnava in quella galleria: malgrado fosse sorpresa, Giulia non aveva l’aria di essere spaventata come lui stesso aveva temuto mentre la trascinava verso i tetti dell’Opèra. Ciò lo rincuorò immensamente, spingendolo a sorriderle con tenerezza.

    «Siete stanca, Giulia? Non preoccupatevi, non manca molto», disse, portandosi la sua mano alle labbra e deponendovi un bacio leggero.

    La ragazza gli sorrise di rimando, senza fare cenno di allontanarsi dalla sua stretta – quasi come se essa le fosse gradita. «Non credo di aver mai visitato questa zona del teatro, perciò non siate apprensivo e portatemi dove volete», replicò, con l’accenno di una risata nella voce. «Sono molto curiosa, e per niente stanca.»

    Non gli avrebbe mai detto che in realtà trovava faticoso correre su e giù per quei corridoi con il peso non indifferente delle sue gonne e con gli stivaletti che le costringevano il piede ad una posizione scomoda a causa del tacco; né tantomeno avrebbe confessato di sentirsi mancare l’aria a causa dello stretto corsetto che le impediva una normale respirazione, o che si sentiva a pezzi perché quasi non aveva chiuso occhio la notte precedente – proprio a causa di ciò che era accaduto tra di loro. Il cuore le batteva tanto forte, al ricordo, che temeva che potesse giungergliene il suono all’orecchio. No, preferiva sorridere e vederlo felice, piuttosto che dargli un dispiacere costringendolo a tornare indietro per farla riposare.

      Anche se stare da sola con lui non la riempiva di serenità.

    «Siamo quasi arrivati», ripeté Erik con l’ennesimo sorriso, riprendendo a camminare con un passo più lento. Che si fosse accorto della stanchezza della ragazza? No, impossibile – in fondo ella non aveva detto né fatto nulla che potesse insospettirlo al riguardo. Decidendo di fare finta di niente, perciò, lo seguì, guardandosi intorno come per memorizzare il luogo qualora avesse dovuto tornarci da sola. Qualsiasi altra attività volta a distogliere la sua attenzione dal fatto di trovarsi insieme al suo Maestro in un luogo così isolato sarebbe stata gradita.

    «Non credevo che il teatro avesse questa struttura da labirinto», esclamò all’improvviso, osando voltarsi verso di Erik.

    L’uomo accennò un breve sorriso indulgente, accarezzando il dorso della mano che la giovane aveva posato sul braccio ch’egli le aveva gentilmente offerto. «Credetemi, Giulia, vi perdereste in questi corridoi. Nessuno sa dove portano; addirittura, durante la Comune, il teatro venne utilizzato come prigione, proprio perché, grazie alla sua struttura, ai detenuti era impossibile trovare una qualche via di fuga. Guardate quanto abbiamo camminato: rammentate che non abbiamo trovato una sola finestra, e che ormai siamo vicini ai tetti. Scappare dall’Opèra è impossibile», concluse, con un tono di voce talmente definitivo da farla preoccupare. Sembrava quasi una minaccia.

    «Voi però la conoscete molto bene», mormorò, senza guardarlo. L’allusione era velata ma Giulia sapeva ch’egli l’avrebbe colta, così come confermò la sua risposta.

    «Sì, infatti. Ho avuto molto tempo per memorizzarne ogni singolo anfratto e corridoio», replicò, lo sguardo fisso dinnanzi a sé. Lo posò poi sulla ragazza, che da parte sua non sembrava volerlo incrociare. «La vostra amica vi avrà di certo accennato qualcosa, immagino, visto il modo in cui siete irrotta nel mio studio ieri pomeriggio.»

    L’allusione a quanto accaduto il giorno precedente la colse alla sprovvista, per quanto avesse dovuto aspettarsela: non credeva forse ch’egli avrebbe dimenticato ogni cosa, non era così? Le sue dita strinsero impercettibilmente la manica della sua giacca, quasi che quel contatto le impedisse di perdere l’equilibrio; si umettò le labbra con la punta della lingua, pensando a una risposta adeguata da dargli che non gli desse l’impressione di avere a che fare con una ragazzina sciocca e ingrata.

    Alla fine, però, optò per la mera verità. «Meg è stata parecchio esaustiva al riguardo, infatti», mormorò senza osare sollevare gli occhi su di lui: dubitava di poter riuscire a reggerne lo sguardo penetrante. «Ma il suo è solo un punto di vista, e io… Io voglio sentire il vostro».

    Erik aggrottò leggermente le sopracciglia, assimilando ciò che la giovane aveva appena detto. «E avreste preso questa decisione anche se ieri non vi avessi baciata?» Le domandò a bruciapelo, riuscendo a suonare gentile malgrado avesse appena ripetuto ad alta voce qualcosa che né lui, né lei, avevano ancora ben assorbito.

    Giulia si morse il labbro inferiore, odiandosi nel sentire le guance andare in fiamme. Riuscì tuttavia a sollevare il viso verso di lui e a guardarlo determinata, mentre rispondeva non senza l’eco di un tremito nella voce. «Sì, Erik. Malgrado tutto credo di essermi sempre fidata di voi, e se mi avete tenuto nascoste certe cose presumo fosse per un valido motivo… Meg mi ha accennato qualcosa, ma io voglio che siate voi a concludere il racconto. Voglio che sappiate», aggiunse, prendendo un profondo respiro e fermandosi in mezzo al corridoio. «Che non ho paura di voi, che vi rispetto e comprendo. Ma voi dovete essere sincero e ricambiare la mia fiducia con la vostra».

    L’uomo la osservò attentamente, lottando interiormente contro il violento desiderio di stringerla tra le braccia e baciarla ancora e ancora, fino ad arrossarle quelle belle labbra morbide, fino a sentire i suoi gemiti e il battito accelerato del suo cuore; lei si fidava, si fidava di lui! Sotto quale incantesimo doveva essere per riuscire a rimanere così calma e posata in sua presenza?

    Ma ciò che gli dava da pensare era il fatto che Giulia non avesse parlato d’amore neppure per un istante: che si stesse illudendo, come sempre? O era semplicemente troppo presto per quello, e doveva concederle ancora del tempo?

    Respirò lentamente, cercando di liberare la mente da quei cupi pensieri di lussuria. Prese poi una sua mano con gentilezza e se l’avvicinò alle labbra, sfiorandola con un bacio che la fece sospirare sottovoce, e dedicandole infine uno di quegli sguardi fiammeggianti che lei aveva imparato a temere ma che, adesso, si scopriva sorprendentemente a desiderare. Si impose di ignorare il piacevole tremito che le aveva percorso le gambe fino al centro del suo ventre e deglutì, socchiudendo gli occhi, per accantonare in un angolo i nitidi ricordi del giorno prima. Non si aspettava di poter bramare così ardentemente il suo tocco, né tantomeno avrebbe ritenuto possibile, fino a quella mattina, che sarebbe bastata una sua occhiata per riportarle in superficie quelle voglie.

    Ciò nonostante si sforzò di mantenere il contatto con i suoi occhi, per evitare che lui fraintendesse il suo distogliere intimidito lo sguardo.

    La sua voce, poi, fu quasi il colpo di grazia.

    «Mademoiselle, le vostre parole mi riempiono di speranza», sussurrò Erik con voce leggermente roca, senza lasciare la presa sulla sua mano. «Tuttavia non è per parlare di questo che vi ho chiesto d’incontrarmi: adesso lasciate che vi mostri una cosa, dopodiché avremo tutto il tempo per discuterne, se ancora vorrete».

    Giulia annuì lentamente, avendo compreso solo vagamente ciò che le aveva appena detto; buon Dio, come poteva lasciarsi distrarre in tal modo soltanto dalla sua voce? Sarebbe rimasta ad ascoltarlo per ore, anche se si fosse messo a parlare di politica o affari: ciò che contava era unicamente udire il suono di quel dolce strumento che era la sua voce.

    Ripresero a camminare e lei non se ne accorse neppure, ancora preda di quello strano fermento.

 

    Giunsero infine al termine di quelle numerose gallerie; si ritrovarono in un sottotetto caratterizzato da uno strato non indifferente di polvere sul pavimento in legno che costrinse Giulia a sollevare l’ampia gonna del suo vestito per impedire che l’orlo si sporcasse, strappando un piccolo sorriso al suo accompagnatore per quel gesto istintivo e indice di un’innata vanità femminile. Le pareti erano spoglie e negli angoli facevano bella mostra di sé complicati disegni di ragnatele, che giacevano là indisturbate chissà da quanto tempo, ospitando generazioni e generazioni di insetti. La ragazza storse leggermente il naso, guardandosi perplessa intorno.

      «Qualcuno dovrebbe venire a dare una ripulita…» Mormorò incrociando le braccia. «Dove siamo?»

    «Ancora un attimo di pazienza», sorrise Erik, dirigendosi verso una porta in ferro che la giovane non aveva notato. Lo osservò mentre armeggiava con il chiavistello arrugginito, segno che nessuno lo toccava più da parecchio tempo: sembrava una stanza abbandonata, e Giulia non credeva che a teatro potessero essercene in condizioni di degrado così palese.

    Lo scatto della serratura le fece capire che Erik doveva essere riuscito ad aprire la porta – non che avesse qualche dubbio al riguardo, comunque; lo raggiunse, credendo che l’uomo le avrebbe finalmente aperto la porta, ma quando gli fu accanto egli si volse e la guardò con uno strano sorriso, e solo allora Giulia notò la fascia nera che Erik teneva tra le mani.

        «Cosa…?» Iniziò, ma lui non le permise di aggiungere altro.

       Si chinò sul suo orecchio facendola rabbrividire semplicemente a causa di quella vicinanza – Dio, poteva sentire il suo profumo! – e con un sorriso ch’ella non ebbe bisogno di vedere, Erik sussurrò: «Fidatevi di me ancora una volta».

     Giulia annuì soltanto, e lui si portò alle sue spalle per poterle legare quel morbido nastro nero dietro il capo, di modo che non vedesse nulla fin quando egli non avesse deciso il contrario. Una volta privata della vista i suoi sensi furono come amplificati – la sensazione del suo corpo possente a contatto con la sua schiena, il suo viso sepolto tra i suoi capelli, le sue mani improvvisamente prive dei guanti che le avevano avvolte fino a pochi istanti prima che indugiavano in una lieve carezza sul collo lasciato scoperto dal modesto vestito – tutto, in quel momento, la faceva rabbrividire e fremere dal piacere. Poi non sentì più la presenza dell’uomo accanto a sé e annaspò, come privata dell’ossigeno; tese le braccia in avanti, accarezzando solo l’aria, e si immobilizzò nel sentire lo stridio dei cardini arrugginiti che la informarono che la porta era stata finalmente aperta. Un soffio d’aria gelida la investì e questa volta i brividi che percorsero la superficie della sua pelle furono di semplice freddo; e ancora l’uomo non tornava al suo fianco.

      «Erik?» Mormorò preoccupata, pronta a strapparsi la fascia qualora non avesse ricevuto risposta.

     Ma le mani dell’uomo tornarono a stringere le sue, nuovamente avvolte nei guanti, facendola avanzare gentilmente verso il loro proprietario. «Sono qui, non preoccupatevi», mormorò, avendo colto la sua leggera ansia. Le passò un braccio dietro la schiena, intorno alla vita, accompagnandola così in modo che non inciampasse a causa della sua momentanea cecità.

    I suoi occhi bramosi studiarono intensamente la sua figura approfittando del fatto che la ragazza non se ne sarebbe potuta accorgere: l’oro del suo sguardo sembrò volersi imprimere il suo aspetto a fuoco nella mente, per non poterlo più dimenticare. La benda disegnava il contorno del suo profilo nascondendogli la dolce bellezza dei suoi occhi, così proseguì oltre e scivolò sulle guance rosee, le labbra dischiuse e leggermente imbronciate in un atteggiamento attento e prudente – ella si fidava della sua guida, ma voleva pur sempre avere un minimo controllo della situazione – i capelli sciolti sulle spalle, i cui ciuffi più ribelli erano stati raccolti con delle forcine ai lati del capo per non ricaderle in continuazione sulla fronte, la linea morbida del collo e la piccola porzione di pelle scoperta della discreta scollatura che impedivano alla sua occhiata di farsi più invadente. Non poté fare a meno di lanciare un breve sguardo alla linea sensuale dei suoi seni stretti nel corsetto e alla propria mano posata sul suo fianco, per poi guardare con un sorriso la mano che lei gli stringeva freneticamente per timore ch’egli potesse lasciarla da un momento all’altro.

     Che sciocchezza, si ritrovò a pensare, con un’espressione improvvisamente indurita. Io non la lascerò mai andare…

    Abbandonando per un momento i suoi pensieri, Erik la condusse finalmente fuori dalla porta, all’aria aperta – l’aveva condotta sui tetti del teatro. Richiuse la porta dietro di sé per evitare che lo spiffero attirasse l’attenzione di qualche macchinista curioso, e dopo averla portata accanto ad una ringhiera in modo che potesse reggersi all’occorrenza, le sfilò finalmente via la benda dagli occhi. Il gemito sorpreso che le sfuggì dalle labbra gli fece capire che Giulia dovette aver apprezzato la sorpresa.

    Erik avrebbe desiderato mostrarle il tramonto da quella prospettiva, ma erano arrivati troppo tardi e dovette accontentarsi di un cielo notturno stellato e abbellito da una delicata falce di luna; l’orizzonte ancora tinto di rosa andava via via scurendosi e le strade sembravano sentieri di un giardino grazie alle luci dei lampioni che ne illuminavano il ciottolato.

    «È… così bello», sussurrò, facendo qualche passo in avanti fino a sporgersi dal parapetto. L’uomo ebbe uno scatto involontario, preoccupato che potesse perdere l’equilibrio, ma vedendo che mademoiselle aveva il controllo sulla sua stabilità si tranquillizzò, senza tuttavia perderla di vista un solo istante.

      Dio, era lei ad essere così bella.

     «Voglio che comprendiate che il mio non è un mondo di sola oscurità», mormorò di rimando, osservando il profilo che la giovane gli mostrava mentre si perdeva nella totale ammirazione di uno spettacolo così meraviglioso – raramente un tale colpo d’occhio aveva lasciato insoddisfatto qualcuno. Il viso della ragazza si volse verso di lui e un tenero sorriso la illuminò, accelerando i battiti del suo povero cuore ferito.

    «Non ne ho mai dubitato, Erik», mormorò dolcemente, avvicinandosi a lui. Istintivamente prese una mano dell’uomo tra le sue, sfilandone con calma il guanto per poi intrecciare insieme le loro dita infine nude – pelle contro pelle, fresco tepore contro gelido calore. Giulia fece scorrere le proprie dita sul palmo e sul dorso della mano di Erik, riuscendo, senza accorgersene, ad accelerare i battiti del suo cuore. «Per varie ragioni non sono mai fuggita da voi, e una di queste è proprio la fiducia che nutro nei vostri confronti».

     «E le altre?» Osò domandare lui, sollevando la mano libera e portandola ad immergerla nei lunghi capelli della giovane.

     Ella si morse leggermente il labbro inferiore, senza ben sapere cosa rispondere. «Delle altre non sono ben sicura io stessa…»

    Certo, egli lo sapeva: non doveva né voleva forzarla ad accettarlo definitivamente nella sua vita in un ruolo che forse non poteva ambire a ricoprire, eppure… Eppure non poteva fare a meno di immaginarsi con lei accanto, per sempre. Tutte le memorie che aveva fino a quel momento conservato di Christine – ricordi che avevano gettato legna sul fuoco della sua vendetta, che l’avevano fatto impazzire e turbato i suoi sonni agitati – sembravano impallidire ed evaporare di fronte al sentimento che mademoiselle Sanders sembrava avergli acceso in petto.

      Il mio cuore aveva mai amato? Occhi rinnegatelo, perché non ha mai conosciuto la bellezza  fino ad ora…

    «Voi sapete cosa provo nei vostri confronti, credo di avervelo fatto comprendere chiaramente», mormorò, temendo di esagerare troppo con le sue dichiarazioni e pertanto ammettendo solo lo stretto indispensabile. «Ma non voglio obbligarvi: desidero che siate libera di scegliere, e di riflettere. Soltanto quando sarete sicura di ciò che vuole il vostro cuore mi darete una risposta».

    Giulia lo osservò a lungo, trovando fastidiosa – oltre che inutile – la continua presenza della maschera perlacea che nascondeva il suo viso al suo sguardo gentile. Non aveva intenzione di metterlo a disagio, però aveva l’impressione che quel gelido oggetto non facesse che allontanarlo ancora di più da lei, quasi che acuisse la distanza che al momento c’era tra loro; certo, in realtà dopo quel bacio non poteva dire che tutto fosse tornato come prima – cosa impossibile – ma continuando ad indossarla le faceva pensare che non si fidasse di lei abbastanza. Così, con gesti lenti e misurati, sollevò una mano a sfiorargli la guancia e posò l’altra sulla superficie liscia e fredda della maschera; gli occhi dell’uomo si spalancarono leggermente, e preoccupato Erik posò una mano sopra quella della giovane.

    «Non fate cose di cui potreste solo pentirvi…» mormorò, con il tono disperato di chi prega.

    Lei sorrise teneramente, scuotendo il capo. «Non c’è nulla di cui pentirmi», replicò, cercando di mettere quanta più dolcezza poteva nella sua voce. «Fidatevi di me come avete già fatto nei vostri sotterranei», aggiunse, evitando abilmente di accennare al fatto che all’epoca Erik le aveva mostrato il suo volto unicamente per spaventarla e punirla.

    Gli occhi dell’uomo si incupirono come un cielo in tempesta prima che le palpebre si abbassassero su di essi, come se avesse voluto evitare di vedere l’espressione di disgusto che, a suo avviso, si sarebbe dipinta sul viso di mademoiselle. Da parte sua Giulia prese quel gesto come un muto invito a fare ciò che più desiderava, così, lentamente, sfilò la maschera dal volto di Erik, riuscendo finalmente a ricostruire il quadro completo di ciò che era il suo viso. La carne sfigurata era forse più terribile di come la ricordava, ma la sua vista non le provocò orrore, quanto piuttosto un’immensa tenerezza – dovuta, molto probabilmente, ai nuovi nascenti sentimenti che sentiva di provare nei suoi riguardi. Aveva l’impressione che Erik, senza quelle piaghe, non sarebbe più potuto essere l’uomo di cui si sentiva stranamente attratta – non sarebbe mai riuscita ad immaginarselo privo di quello che era, a suo avviso, unicamente un tratto caratteristico di quell’uomo geniale, ma che egli vedeva soltanto come la deformità che avrebbe potuto farla scappare via da lui.

    Eppure gli aveva già detto che non aveva paura…

    «Erik», sussurrò, dolcemente. «Guardatemi».

    L’uomo si accorse di quell’accorato tono di voce e fu quello a fargli aprire di scatto gli occhi, sorpreso, per scoprire le mani della ragazza ancora sul suo volto e i suoi occhi incatenati ai propri. Giulia gli era così vicina che avrebbe potuto far aderire i loro corpi con un respiro più profondo, ma per quanto desiderasse stringerla ancora tra le braccia non osò farlo – la vista di Christine e ciò che aveva riportato a galla quello che la viscontessa rappresentava lo avevano momentaneamente indebolito, come non accadeva da tempo. Tremò, mentre attendeva le parole che avrebbero potuto condannarlo al più cupo degli inferni o al più celestiale paradiso.

    «Probabilmente non troverò più il coraggio di dire una cosa simile, perciò ascoltatemi attentamente», proseguì con sempre maggior decisione, senza lasciare gli occhi di Erik per nemmeno un istante. «Ho riflettuto molto, la notte scorsa non ho quasi dormito dopo ciò che è successo nel vostro ufficio, e… Ho cercato per un po’ di convincermi che ho ricambiato il bacio per curiosità, ma non può essere semplice curiosità il desiderare continuamente il sapore delle vostre labbra». Distolse lo sguardo improvvisamente imbarazzata e cercò di abbassare le mani, ma quelle di Erik corsero ad impedirglielo, tenendole ben salde contro il suo viso.

    «Vi prego, continuate», la supplicò lui sottovoce, trattenendo a stento l’incredulità e la sorpresa che tali parole gli avevano causato, ma senza celare la gioia che l’aveva pervaso. Per non parlare del calore dei suoi morbidi palmi contro le gote, contro la sua terribile deformità, che gli risultava tanto estranea quanto familiare: oh, se lei avesse potuto davvero amarlo sarebbe stato sempre così…

    Giulia si morse leggermente il labbro, imbarazzata, prendendo un profondo sospiro per trovare il coraggio di proseguire con il suo discorso. «Io odio vedere il vostro sguardo cupo e triste, Erik», mormorò, sollevando gli occhi su di lui. «E vorrei essere la ragione del vostro sorriso… Ma per qualche motivo sento di non potervi fare promesse che non so di poter mantenere. Il mio passato è avvolto nell’oblio, e vorrei tanto sapere chi è la donna che vorrebbe starvi accanto prima di giurarvi qualsiasi sentimento… Però…» Non resistette oltre e annullò ogni distanza tra i loro corpi, allacciandogli le braccia dietro la nuca e sollevando il volto verso il suo con un tenero sorriso. «Se voi potete accettare una figlia di nessuno, allora non ho motivo di starvi lontano», concluse in un sussurro.

    Erik era fuori di sé dalla commozione – le mani della ragazza tra i suoi capelli e il suo sguardo, limpido e sereno, per nulla spaventato, era, probabilmente, più di quanto potesse sopportare tutto insieme. Sollevò due dita tremanti verso il suo volto, ma a metà del gesto si accorse del secondo guanto che ancora ricopriva le sue falangi e con malagrazia lo strappò via, desideroso di poter sentire la morbidezza della sua pelle contro la propria. Giulia trattenne un sorriso, socchiudendo gli occhi e sospirando di sollievo quando la carezza dell’uomo iniziò il suo percorso dalla gota fino a scivolare giù, all’angolo della bocca, al mento – e poi ancora, al collo, alla clavicola, fino a quando le dita non furono sostituite dalla punta del suo naso, affondata nell’incavo della sua spalla per meglio assaporare il suo profumo, la sua essenza.

    «Come puoi dire una cosa del genere», sussurrò con voce roca, cessando di rivolgersi a lei con la gelida forma di cortesia. «Come puoi pensare che io non possa volerti soltanto perché le tue origini non sono note? Ciò che sento di provare per te va ben oltre simili questioni…» Le passò le braccia intorno alla vita, attirandola verso di sé ma ritraendosi il tanto necessario per poterla guardare nuovamente negli occhi. «Davvero non hai paura di me? Il mio aspetto non ti ripugna?»

    «Sono forse scappata quando mi hai mostrato il tuo volto, nei sotterranei?» Replicò Giulia con un’altra domanda, inarcando un sopracciglio: senza pensarci aveva abbandonato anche lei tutte le formalità, e la cosa le riuscì più semplice del previsto. Ad ogni modo, l’insicurezza dell’uomo era un qualcosa che le faceva tenerezza e che, allo stesso tempo, la irritava.

    Lo sguardo di Erik si incupì, diventando per un istante lo sguardo del Figlio del Diavolo che Giulia aveva imparato a temere. «Non saresti potuta fuggire in ogni caso», ribatté lui, seccamente. «Te l’avrei impedito anche se la mia vista ti avesse fatto svenire dal terrore».

    La giovane scosse impaziente il capo, circondandogli nuovamente il volto con le mani. «No, non l’avresti fatto. E sai perché? Perché tu non sei un mostro, Erik, per quanto continui a nasconderti dietro questa maschera…» Disse, senza riferirsi all’oggetto perlaceo che giaceva, pressoché dimenticato, sulla neve che imbiancava il tetto. «Io so che il tuo animo potrebbe abbracciare l’intera umanità…»

    Quell’ultima dichiarazione fu un fievole sussurro sulle labbra dell’uomo che, chinatosi su di lei per non perdersi una sola delle sue parole, aveva rafforzato la sua stretta per farla aderire completamente al suo corpo – maledetti abiti che gli impedivano di sentire il suo calore. I suoi occhi, umidi di lacrime non versate, si socchiusero per impedire a Giulia di vederlo in quello stato indifeso e inerme, ed ella approfittò di quello per sollevarsi sulla punta dei piedi e posare un bacio gentile sulla parte piagata del suo volto, strappandogli un debole gemito che lo spinse ad affondare ancora il volto tra i suoi capelli e sul suo collo, per poi crollare in ginocchio ai suoi piedi sopraffatto da tutte quelle emozioni.

    Giulia si inginocchiò quindi al suo fianco, avvolgendogli le spalle con le proprie braccia e sentendolo finalmente sciogliersi in dignitosi singhiozzi che si rivelavano soltanto dal leggero tremito che lo percuoteva silenzioso. Ripeté il suo nome all’infinito, come un mantra che sarebbe dovuto servire a calmarlo e fargli riprendere il controllo di sé, e forse fu il suo abbraccio, o le sue carezze, o la sua voce che lo chiamava con quella tenera dolcezza ch’egli non poteva dire di aver conosciuto prima, fatto sta che, improvvisamente cessato di piangere, sollevò il viso su di lei, incurante delle lacrime che continuavano a scorrergli sulle guance. Ella non aveva mai visto un uomo piangere, e vedere lui – lui, il Fantasma dell’Opera, il Figlio del Diavolo, ma no, per lei soltanto Erik – in quelle condizioni le strinse il cuore in una stretta dolente.

    E l’avrebbe baciato sicuramente, se egli non fosse stato tanto più rapido di lei nell’afferrarla per le braccia con fermezza e passione, per poi attirarla in un bacio umido e urgente che non aveva nulla di casto e tutto di impetuoso – quasi che finalmente stesse assaporando un desiderio a lungo respinto.

    Così, con le bocche ancora unite e in preda ad una danza più antica del loro sentimento, la giovane udì distrattamente la voce di Erik che sembrava supplicarla con una disperazione terribile.

    «Non lasciarmi anche tu, Giulia, ti prego… Non lasciarmi».





















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AA - Angolo Autrice:

Uhm, in realtà non credo ci sia molto da dire, se non chè non sono per niente convinta del risultato di questo capitolo - dato che, in due mesi, si suppone che una faccia un lavoro degno di tale nome. E invece... -.- Vabbè gente, accontentiamoci, cercherò di rifarmi col prossimo! ^^
Vorrei ringraziare chi ha recensito lo scorso capitolo, ossia sydney bristow, alwxisglad e Keyra93 - grazie mille, mi fa sempre piacere sapere che cosa ne pensate di quello che partorisce la mia mente malata! :D Spero che vi piaccia anche questo, anche se ho i miei dubbi. -.-  Ah, un ultimo appunto! Non sono una che riempie le storie di citazioni senza specificare da dove provengono, perciò sto preparando una scheda che aggiornerò man mano e che posterò alla fine della storia, dopo l'Epilogo. Se e quando ci arriverò, a questo punto xD
E con questo vi lascio,  spero di potervi augurare un buon Natale regalandovi il capitolo 24 ma non voglio fare promesse che non so di poter mantenere :p Un abbraccio grande grande, e grazie per avermi seguito fin qui <3 I remain, gentleman...
Vostra,
GiulyRedRose.

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Capitolo 26
*** 24. Wishing you were somehow here again ***


Chapitre 24

Wishing you were somehow here again






















Parigi, tempi moderni.

Sessantasette giorni, tre ore e quindici minuti dopo la scomparsa di Giulia.

Quattro giorni e sarebbe stata la vigilia di Natale.

La città era in festa, le macchine sfrecciavano lungo le vie e le strade illuminate da festoni e luminarie natalizie che proiettavano le loro delicate luci bianche sui marciapiedi e sui palazzi del centro, rendendo l’intera capitale molto simile ad un immenso albero di Natale. Agli angoli delle strade si potevano trovare piccoli chioschi che vendevano caldarroste, o gruppi di coristi che allietavano i passanti cantando a cappella o con qualche violino musiche tipiche come Stille Nacht o Petit Papa Noël. I parigini si affrettavano da una vetrina di una boutique a quella di un negozio di giocattoli per accaparrarsi l’ultimo regalo, prendendosi di tanto in tanto una pausa in qualche caffetteria; ma lui, quell’anno, non faceva parte di quella folla – aveva ben altro a cui pensare.

Quella sarebbe stata in assoluto la prima vigilia che, stando a quanto dicevano le autorità e la quasi totale rassegnazione dei suoi genitori, avrebbe dovuto trascorrere senza la presenza di sua sorella.

Jean-Louis non era certo di poterlo sopportare.

In seguito all’improvvisa sparizione di Giulia – Jules, come la chiamava lui – sulla sua famiglia sembrava essere scivolata una cappa scura e soffocante di disperazione che il ragazzo non aveva mai visto prima. Per quanto sia lui che i suoi genitori avessero messo in conto, un giorno, di doversi separare dalla ragazza non appena ella avesse scoperto di essere stata adottata quando non aveva che pochi mesi, vedersela sparire così da un giorno all’altro – senza alcun motivo apparente – era stato uno shock per tutti; specialmente per la madre, la famosa Eloise Gauthier, che da quel momento aveva depennato tutti i suoi impegni rifiutandosi di apparire in scena fin quando sua figlia non le fosse stata restituita, costringendo la direzione del teatro dell’Opèra a servirsi a tempo indeterminato della sua sostituta, che ovviamente non poteva eguagliare la sua eccelsa bravura. Ma tant’è, da un’artista del suo calibro si accettava questo ed altro, ed essendo quella una situazione già di per sé delicata nessuno aveva avuto niente da ridire – per il momento.

La famiglia Nilsson aveva giustamente denunciato la scomparsa della ragazza optando per l’ipotesi del rapimento, visto che Giulia non era una ragazza che poteva avere dei motivi per andarsene di casa senza dire mezza parola a nessuno. La polizia aveva quindi interrogato le ultime persone che avevano avuto modo di vederla per ultimi – suo fratello, madame Lambert, i membri del coro e alcuni di quelli dell’orchestra, per poi allargare le ricerche e domandare anche alle ballerine, ai macchinisti, all’impresa delle pulizie e così via; di certo il potere e il prestigio di cui godeva madame Gauthier le avevano permesso di premere sulle forze dell’ordine affinché sentissero le testimonianze di tutti, o quasi tutti, coloro che si trovavano all’Opèra quel giorno di ottobre in cui Giulia era sparita.

Alla fine, visto che nessuno parve aver pensato a domandare ad una vecchia insegnante di danza che non aveva niente a che fare con la ragazza – non più, almeno – fu la stessa donna ad andare al commissariato, qualche giorno dopo. Madame Sindial raccontò quindi, per filo e per segno, gli ultimi minuti che aveva trascorso con la giovane, specificando che, ovviamente, non poteva essere certa di essere stata in assoluto lei l’ultima persona con la quale mademoiselle Nilsson aveva parlato quel giorno; parlò quindi della chiave che aveva trovato – non specificò dove, temendo che alla polizia potesse venire in mente di perquisire casa sua alla ricerca di altri manufatti appartenenti al teatro Garnier – e di come le aveva detto di volerle mostrare una cosa, un segreto. Raccontò di come raggiunsero la Loge Perdue, ossia il camerino misterioso che, a quanto raccontavano coloro che lavoravano da anni e anni all’interno del teatro, era sigillato da tempi lontani; spiegò in quale zona dell’edificio lo avrebbero trovato, ma specificò anche che la chiave non era più in suo possesso – probabilmente Giulia l’aveva portata con sé, ovunque si trovasse adesso – e che per entrare avrebbero dovuto scassinare la preziosa serratura – sarebbe stato uno sfregio non indifferente. Disse che la ragazza doveva essersi chiusa a chiave al suo interno perché la porta era infatti di nuovo sigillata – o forse qualcuno, dall’esterno o dall’interno, aveva provveduto a rinchiuderla là dentro; forse per portarla via in un secondo momento, lontano da occhi indiscreti? Oh, no, cosa stava pensando il commissario? Credeva che fosse stata lei ad organizzare il suo rapimento, o la credeva complice della sua scomparsa silenziosa, forse? Come avrebbe potuto fare una cosa del genere a una sua cara amica, un’allieva affettuosa? Sì, le voleva bene come una figlia, ma da qui ad aiutarla a fuggire… Poiché non aveva ormai altro da dichiarare, madame Sindial lasciò la questura piuttosto indignata, promettendo suo malgrado di non lasciare la città qualora si sarebbe potuto avere ancora bisogno di lei.

Il commissario aveva addirittura fatto mettere sotto controllo la loro linea telefonica, in caso i fantomatici rapitori avessero chiamato per richiedere un riscatto; nessuno infatti riusciva a pensare ad un altro motivo che giustificasse il sequestro della ragazza, se non appunto quello di approfittare del ricco conto in banca di madame Gauthier e suo marito – un semplice impresario, nonché manager della moglie. Inutile specificare che nessuno aveva telefonato in quei due mesi, neppure per minacciare o altro; la situazione era così disperata e senza via d’uscita che avevano iniziato a temere il peggio.

Ma l’idea di sua sorella morta era un’ipotesi così aliena e orribile che Jean-Louis non voleva prenderla in considerazione neppure come possibilità più estrema.

Imprecò frustrato, sdraiato a pancia in su sul letto della sorella, nella sua stanza, come se essere circondato dai suoi effetti personali potesse in qualche modo suggerirgli qualcosa, dargli uno spunto che non avevano avuto i poliziotti, ispirarlo magari sulla scia da seguire.

La camera di Giulia non era eccentrica o volgare come ci si potrebbe aspettare da una ragazzina viziata – in senso buono – e coccolata tra gli agi fin da quando era piccola; i suoi genitori potevano darle tutto ciò che desiderava e anche qualcosa di più, ma lei non aveva mai esagerato. Tanto per fare qualche piccolo esempio, aveva preso la patente perché non si sa mai ma non aveva mai preteso la macchina, limitandosi ad usare di tanto in tanto la Porsche del fratello; non le importava vestirsi con abiti firmati e accessori necessariamente di marca – benché la madre insistesse per farglieli avere e indossare durante le serate di gala alle quali spesso partecipava col resto della sua famiglia.

Per cui la sua stanza era semplice ed essenziale, e Jean-Louis non sapeva proprio che pesci prendere. Il letto a una piazza e mezza, con il piumone soffice nel quale erano stampati fiori rossi e marroncini, occupava una parete insieme al comodino e ad una specie di libreria a ponte che lo sovrastava, andando da una parte all’altra; di fronte l’armadio, bianco, con uno specchio a grandezza d’uomo nelle due ante centrali, e accanto la scrivania, con sopra penne, altri libri sparsi, il computer portatile chiuso con un leggero strato di polvere sulla superficie nera, spartiti e fotografie. Sull’ultima parete, quella di fronte alla porta, c’era soltanto un’immensa vetrata che dava sul balcone e sul resto della città; si intravedeva persino la Tour Eiffel, in lontananza, illuminata contro il cielo scuro della notte.

Come poteva trovare qualche indizio se non c’era niente su cui soffermarsi?

Inizialmente aveva indugiato a lungo prima di entrare in quella stanza; l’idea di mettersi a frugare tra gli oggetti di sua sorella – lei che era sempre stata molto riservata e gelosa delle sue cose – lo metteva a disagio, perché il fatto che lei non fosse lì ad impedirglielo rendeva la sua assenza pericolosamente più definitiva. Alla fine però si era convinto che lo faceva solo per lei, per aiutarla ovunque fosse, e da quel momento non trascorreva giorno senza che Jean-Louis passasse ore e ore in quella camera, a riflettere o semplicemente ad annusare il profumo della ragazza che ancora permeava in ogni suo oggetto – vedeva lei in ogni cosa, sdraiata sul tappeto, sul letto, seduta alla scrivania, affacciata al balcone, persino china dentro l’armadio cercando una sciarpa che credeva di avere ma che alla fine rammentava di non aver mai acquistato.

I suoi genitori avevano sempre pensato – e a ragione, probabilmente – che ci fosse qualcosa di strano nell’affetto morboso e quasi ossessivo che Jean-Louis nutriva nei confronti della sorella. Sia la madre che il padre desideravano soltanto che loro si amassero, si proteggessero e si prendessero cura l’uno dell’altra come veri fratelli, benché non avessero reali legami di sangue. Non potevano di certo immaginare che il sentimento del figlio andasse ben oltre quei sentimenti fraterni – o forse sì, un poco lo avevano intuito, ma non avevano voluto ammetterlo e accettarlo.

Jean-Louis aveva un’idea che gli ronzava in mente sin da quando era stato grande abbastanza da distinguere l’amore fraterno da quello sensuale e romantico che legava i suoi genitori e i suoi amici fidanzati; aveva sempre fantasticato su come sarebbe stato il loro rapporto una volta che Giulia avesse scoperto che non erano realmente fratelli – che non avevano nessun vincolo di parentela.

Si immaginava mentre la consolava, perché non doveva essere facile scoprire e accettare di non fare davvero parte, biologicamente, dell’unica famiglia che aveva conosciuto e che aveva sempre amato; e si pregustava il momento in cui – magari dopo averle dato qualche tempo per digerire la cosa – le confessava di non averla mai realmente vista come una sorella, che l’affetto che provava per lei andava ben oltre quello che avrebbe provato se fossero stati davvero sangue del proprio sangue, che ogni volta che andava a letto con qualcuna erano i suoi capelli che immaginava sparsi sul cuscino, le sue guance tinte del rosso dell’eccitazione, le sue gambe strette intorno ai fianchi e le sue labbra che mormoravano il suo nome.

E a quel punto, poi, la sua fantasia si spingeva oltre, prendendo il volo; fantasticava che anche lei lo ricambiasse, che si convincesse che non c’era nulla di incestuoso in quello che provavano l’uno per l’altra, giacché in fondo erano due estranei, due amici magari, ma non fratelli.

Strinse contro di sé il cuscino del letto, premendolo contro la faccia e gemendo, insieme disperato ed eccitato. Non poteva arrendersi, non voleva farlo; avrebbe ritrovato Giulia, l’avrebbe riportata a casa, maledizione, l’avrebbe abbracciata e accarezzata e avrebbe sepolto le mani e il viso nel suo collo e nei suoi capelli, come aveva sempre agognato di fare. Giulia non sarebbe morta o scomparsa senza che lui avesse l’opportunità di dirle quanto l’amava e dimostrarglielo assaggiando le sue labbra.

And sometimes at night time
I dream that you are there
But wake holding nothing but the empty air…

***

Aveva finalmente parlato con madame Sindial.

Quello che l’anziana donna gli aveva raccontato – qualcosa come la leggenda su un certo fantasma dell’Opera – lo aveva lasciato dapprima senza parole, poi pieno di sdegno – non amava particolarmente che si prendessero gioco di lui in quel modo, non era più un bambino – e poi, semplicemente, sorpreso ma determinato. Non credeva che madame Sindial potesse essere così convinta delle sue parole – una stanza che collegava due epoche, all’interno del teatro dell’Opèra, come una specie di inquietante Stargate? Suvvia! – ma andare a controllare non gli avrebbe di certo fatto male; tanto, ormai, non aveva più nulla da perdere. Ciò che lui credeva, piuttosto, era che Giulia fosse rimasta intrappolata in qualcuno dei passaggi segreti che riempivano i sotterranei del teatro, o peggio, che fosse finita nel lago – annegando? Dio, no! – e dunque per questo doveva assolutamente accertarsene.

Ovviamente, non poteva andare a fare una cosa del genere durante il giorno; aveva bisogno che l’edificio fosse vuoto per potersi aggirare liberamente, anche se forse andare con dei pompieri o qualcuno addestrato a salvare le persone sarebbe stato meglio. Ma se non l’avesse trovata avrebbe fatto soltanto la figura dell’idiota, dunque voleva evitare. E gli serviva anche attendere a dopo le feste, tuttavia, perché non poteva sparire anche lui per Natale – questo avrebbe distrutto il morale già basso dei suoi genitori.

Per cui, fu solo la notte del 29 dicembre che poté mettere in atto il suo piccolo piano.

Attese che tutti, in casa, stessero dormendo – a partire dai suoi genitori per finire con il dobermann sdraiato davanti alle braci del camino – per prepararsi e uscire di nascosto; afferrò da sotto il letto un vecchio borsone bluastro nel quale aveva messo qualcosa per il pronto intervento – dopotutto non sapeva che cosa avrebbe trovato, o se l’avrebbe trovato – una torcia, una coperta, batterie e altri oggetti di prima necessità. In realtà aveva un po’ paura di andare ad infilarsi nel teatro nel cuore della notte – quell’edificio non gli era mai piaciuto granché e il racconto di madame Sindial echeggiava ancora nella sua mente – ma per sua sorella, per Giulia, avrebbe fatto questo e altro.

Prese le chiavi della macchina e uscì, facendo attenzione a non sbattere la porta.

Erano appena passate le tre del mattino quando la sua auto entrò nel parcheggio riservato allo staff dell’Opèra, silenziosa e con i fari spenti; non voleva attirare l’attenzione di nessuno, non sarebbe stato prudente. Scivolò fuori dall’abitacolo, afferrò il borsone e fece scattare la serratura; corse poi sotto il portico debolmente illuminato e cercò di passare solo nelle zone in ombra per evitare le telecamere di videosorveglianza. Dubitava che il famoso nome di sua madre avrebbe potuto salvarlo in caso qualcuno l’avesse scoperto; in fondo quella era un’effrazione nel vero senso della parola.

Cercando di non pensarci più di tanto raggiunse l’entrata secondaria, illuminata solo da due lampioncini e con un cartello laccato su cui spiccava la scritta Riservato al personale. Ignorandola bellamente, Jean-Louis salì i cinque gradini e poggiò il borsone per terra, chinandosi per aprirlo e frugare al suo interno alla ricerca di qualcosa per scassinare la porta; ovviamente si era organizzato, prendendo un set di grimaldelli dagli attrezzi del fai-da-te di monsieur Nilsson. Ci impiegò pochi secondi – trattenne addirittura il respiro e lo rilasciò solo dopo aver sentito lo scatto della serratura che cedeva e faceva aprire la porta davanti al suo viso sollevato e soddisfatto. Senza attendere oltre là fuori sgusciò dentro, richiudendo silenziosamente la porta alle sue spalle.

Ce l’aveva fatta; era dentro l’Opèra Garnier.

Ancora incredulo prese la torcia dal borsone e se lo rigettò sulle spalle, iniziando ad avanzare con fare guardingo senza però accenderla; voleva essere sicuro di non incontrare l’eventuale custode e di non farsi intercettare dalle telecamere a circuito chiuso. Quell’entrata secondaria, ad ogni modo, gli risparmiava di attraversare l’enorme foyer completamente immerso nell’oscurità, facendolo passare invece direttamente ai piani alti dai quali si poteva accedere ai palchi della galleria; ignorò le porte chiuse di questi ultimi, camminando a spasso spedito seguendo le indicazioni dei cartelli al contrario – vale a dire che, invece di dirigersi verso l’uscita come essi suggerivano, andava nella direzione opposta. Sperava così di trovare al più presto i corridoi dove si affacciavano i camerini degli artisti; impresa ardua, poiché in genere era abituato ad andarci seguendo Giulia che sembrava conoscere quei luoghi come se fossero stati parte della sua casa d’infanzia e non zone ombrose e pericolose di un vecchio teatro infestato dai fantasmi del passato.

A proposito di fantasmi.

L’assurda leggenda che gli aveva narrato madame Sindial esplose immediatamente nella sua testa, costringendolo ad accelerare il passo e a guardarsi più freneticamente intorno. Era stata solo una sua impressione, o quella pesante tenda di broccato aveva davvero frusciato minacciosa, immobilizzandosi non appena il suo sguardo vi si era posato sopra? E quei ritratti alle pareti, quelle antiche fotografie color seppia o in bianco e nero dei tenori e delle prime donne del secolo precedente, perché sembravano seguirlo con i loro sguardi immobili da decenni?

Rabbrividì, scosse la testa, imprecò, svoltò a destra e continuò a percorrere un corridoio sconosciuto.

Non esisteva nessun fantasma dell’Opera.

Era quel maledetto teatro che alimentava una sciocca suggestione insinuatagli perversamente nella testa da un’insegnante di danza, che ormai viveva di racconti, storie e menzogne e sperava di riuscire a terrorizzare i pochi che l’ascoltavano mentre le raccontava. Vecchia pazza. E pazzo lui che le aveva dato il credito sufficiente a spingerlo a fare irruzione in un edificio pubblico nel cuore della notte, che si era fatto ridurre alla stregua di un ladro!

Per quanto una strana, malefica vocina continuasse a suggerirgli di raggiungere la platea, Jean-Louis sapeva che non ci sarebbe andato per niente al mondo; temeva che quel pesante lampadario, che di tanto in tanto sembrava ondeggiare pericolosamente, potesse crollargli sulla testa da un momento all’altro, schiacciandolo con il terribile peso di centinaia di cristalli. Per questo motivo ogni volta che veniva trascinato all’Opèra dal resto della famiglia per assistere all’esibizione della madre o a quella della sorella preferiva trovare rifugio in uno dei palchi – era una sensazione infantile, ma lassù aveva l’impressione di essere dieci volte più al sicuro di quelli che occupavano le poltrone in platea. Per cui no, là non sarebbe andato.

I camerini. Doveva raggiungere i camerini.

Fece il giro completo della platea passando dall’esterno, scese alcune scale, risalì di pochi gradini, percorse ancora un’altra galleria, più breve stavolta; la torcia puntava sempre il pavimento ricoperto da un grosso strato di moquette color porpora che attutiva i suoi passi e li rendeva cupi e silenziosi, simili a macabri tonfi che potevano provenire da qualsiasi banale pellicola horror di serie B. Cercando di scacciare quegli inconcepibili pensieri, e riuscendoci costringendo la sua mente a concentrarsi esclusivamente sullo scopo che si era prefissato, riuscì in parte a rilassarsi e dopo un altro breve vagabondare riconobbe finalmente il nuovo corridoio che aveva raggiunto. Le targhette dorate sulle porte indicavano a chi appartenesse ciascun camerino – vide quello con su scritto il nome della madre, momentaneamente affiancato da un foglio di carta bianca con il nome della sua sostituta – e questo lo rese immediatamente più padrone della situazione e del luogo nel quale si trovava.

Oltre alle discutibili fantasie sugli spiriti che infestavano il teatro, madame Sindial gli aveva anche spiegato per filo e per segno dove si trovava questo strano camerino che, a suo dire, collegava le due epoche; era davvero curioso di sapere che genere di cose leggesse quella donna per essere così svampita, e soprattutto avrebbe voluto chiedere alla sorella, una volta ritrovata, cosa accidenti ci trovasse di interessante e piacevole in lei. Se Giulia fosse stata appassionata di macabro e horror era certo che sarebbe stato il primo a saperlo.

Senza porre ulteriore tempo in mezzo, Jean-Louis proseguì lungo il corridoio, lasciandosi alle spalle la parte nuova e frequentata abitualmente dal personale per dirigersi verso quella più antica – si sarebbe potuto dire anche abbandonata o trascurata – dove persino i globi delle luci appese alle pareti erano ricoperti da uno strato di polvere così spesso da rendere la luce cupa e fastidiosa, che creava strani giochi di ombre per terra e sui muri. Ignorando tutto questo, il ragazzo si mise a contare le porte sulla destra del corridoio – le trovava tutte uguali, non aveva idea di come avrebbe fatto a trovare quella che stava cercando senza le precise indicazioni di madame – e quando raggiunse la settima si fermò, posando il borsone per terra con un sospiro e armandosi nuovamente dei suoi attrezzi da scasso. Tenendo la torcia tra le labbra puntata verso la serratura, con il medesimo meccanismo utilizzato in precedenza con la porta d’ingresso fece scattare la serratura con un sonoro clic, osservandola mentre si apriva davanti a lui. Non un cigolio, né lo stridore fastidioso che si stava aspettando; era stato facile, ora tutto stava nel riuscire a trovare Giulia.

Riprese il borsone da terra, si levò la torcia di bocca ed entrò, guardandosi intorno e puntando la luce sui vari oggetti della nuova stanza. Aveva fatto pochi passi al suo interno quando la porta si richiuse alle sue spalle, ma dopo aver sobbalzato un attimo, preso alla sprovvista, decise di non curarsene; aveva ancora i suoi attrezzi, poteva riaprire la serratura in qualsiasi altro momento.

Un enorme specchio incorniciato in una modanatura dorata e intarsiata attirò quasi subito la sua attenzione, costringendolo però a puntare altrove la luce bianca della torcia per non farla riflettere sulla superficie del vetro e accecarlo. Aveva l’aria di essere davvero molto vecchio visto le macchie che ne sporcavano la superficie, notò avvicinandosi; tuttavia, dopo aver annullato le distanze tra sé e lo specchio, si accorse di qualcos’altro di strano. Dietro la cornice, leggermente rimossa dalla parete, si apriva uno spazio vuoto, buio e misterioso, dal quale proveniva l’aria umida e gelida che poteva trovarsi soltanto in delle catacombe. Jean-Louis esultò silenziosamente; che avesse davvero trovato il posto in cui era finita – o era tenuta prigioniera – Giulia? Puntò la torcia verso l’apertura e si ritrovò ad illuminare una galleria immensa, lunghissima, con ganci di ferro alle mura di pietra che gocciolavano umidità, che sembrava non avere fine e proseguire in quel modo per chilometri, sopra e sotto il teatro dell’Opèra. Fischiò, e il suono rimbombò sulle pareti per un tempo che gli parve infinito, per poi notare come l’eco si perdesse in lontananza, come risucchiato dal buio.

Avrebbe messo la mano sul fuoco sul fatto che Giulia si trovasse là sotto, da qualche parte. Non sapeva perché, ma ne era quasi del tutto certo; maledizione, non poteva aspettare i soccorsi, doveva andare adesso!

Così, senza nemmeno tornare indietro per riprendere la sua borsa, Jean-Louis spinse ancora più di lato lo specchio, facendolo scricchiolare su chissà quali cardini arrugginiti da anni, e dopo aver creato l’apertura necessaria per passare vi si infilò in mezzo e sparì all’interno del passaggio segreto.



























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AA - Angolo Autrice.


    Strano ma vero, sono ancora viva. Vi ricordate di me? :° Io temo di non ricordarmi più di questa storia, per cui avrò bisogno di un po’ di tempo per ringranare il ritmo e riambientarmi con i miei cari personaggi – e cosa c’è di meglio di un bel capitolo transitorio in cui si parla di un personaggio praticamente sconosciuto? xD Ma bando alle ciance – o ciando alle bande, come disse qualcuna! – e passiamo al resto.
    Innanzitutto, chiedo immensamente scusa per il ritardo tremendo: spero solo di non dovervi far aspettare un altro anno prima di farvi leggere il prossimo capitolo. Continuo a ringraziare tutte le anime pie che continuano a leggere questa storia e a recensirla, davvero grazie, grazie, grazie! Poi, un ringraziamento speciale alla mia alfabetaomegareader preferita kenjina ♥ (che non sa più cosa fare per liberarsi di me xD).
    E ora, dopo i convenevoli di rito, fuggo prima che inizino a volare pomodori marci e uova. xD

    Post Scriptum. In effetti, scassinare una serratura è davvero una scemenza, niente di strano che i ladri riescano ad entrare dappertutto come niente. Ecco, guardate pure QUI (questa non è istigazione a delinquere, tanto per essere chiari).
    Ci si legge presto, spero!
Un bacio, Niglia.

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Capitolo 27
*** 25. La mia musa, la mia vita, la mia anima ***


Chapitre 25

La mia musa, la mia vita, la mia anima

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Parigi, 23 dicembre 1877.

 

La follia ispiratrice aveva annebbiato la mente di Erik sin da quando aveva lasciato il tetto del teatro, pochi giorni prima, in un modo che mai avrebbe osato immaginare. Un braccio che stringeva la vita della ragazza, resa incredibilmente sottile dalla tortura di un corpetto che era obbligata ad indossare e che lui le avrebbe volentieri strappato via di dosso, e il capo di lei posato con naturalezza sulla propria spalla, si era sentito padrone del mondo intero; e quella sensazione si era tramutata in voglia di comporre, voglia che non aveva lasciato languire in qualche recesso delle sue intenzioni, ma che al contrario si era affrettato a soddisfare subito dopo aver accompagnato personalmente mademoiselle Sanders nell’abitazione delle Giry.

Da allora – erano trascorsi quasi tre giorni – monsieur Destler e la sua protetta non avevano quasi avuto modo di vedersi, se non di rado e piuttosto casualmente nei corridoi del teatro, e in quei brevi momenti si limitavano a scambiarsi piccoli sorrisi segreti che implicavano un’intimità nuova che non erano per nulla disposti a condividere con alcuno.

Erik aveva ripreso ad aggirarsi furtivamente nei ponteggi sopraelevati sospesi sopra il palcoscenico, da dove meglio poteva governare quello che era stato il suo regno per lunghi quindici anni – rammentava il giorno del suo arrivo all’Opèra come se fosse avvenuto il giorno prima. All’epoca era solo un ragazzino, eppure il suo animo era già stato irrimediabilmente distrutto e indurito dalle prove terribili che qualche essere ultraterreno aveva osato porre sul suo cammino, già di per sé impervio per via del suo aspetto. A volte si era sorpreso a domandarsi se le cose sarebbero potute essere differenti, per lui, qualora avesse avuto la fortuna di nascere in una famiglia aristocratica: gli eredi maschi erano rari e quasi sempre accolti con gioia, al di là di piccoli difetti fisici che si sarebbero potuti nascondere facilmente. Dubitava che sarebbe stato venduto lo stesso agli zingari… Ma questo non poteva saperlo. D’altronde, era pur vero ch’egli possedeva, in fondo, del prezioso sangue blasonato nelle sue vene – sebbene solo in parte; e questo faceva di lui anche un maledetto figlio bastardo, come se già ciò che era non fosse abbastanza, pensò con un amaro sorriso.

E questo lo riportava anche a un’idea che, malgrado ciò che si era ripromesso, non poteva fare a meno di tormentarlo segretamente: il duca De Blanchard non si era più fatto vedere, né sentire, là a teatro, ed Erik continuava a chiedersi se il vecchio impostore stesse in realtà tramando qualcosa per costringerlo ad accettare il suo assurdo patto. Dove si era mai visto che una creatura mostruosa quale continuava a ritenersi l’ex Fantasma dell’Opera frequentasse con noncuranza i profumati e alteri salotti della nobiltà come uno qualsiasi di loro? E – il solo pensiero era ridicolo – cosa sarebbe accaduto se in uno di quei circoli avesse malauguratamente incontrato l’erede dei De Chagny? Si sarebbero stretti la mano come due persone civili, ignorandosi amabilmente e fingendo di non essersi mai incontrati prima d’ora, o lo sciocco visconte avrebbe avuto una delle sue solite brillanti idee, denunciandolo alla gendarmerie o sfidandolo a duello?

Per quanto quest’ultima idea di far scorrere un poco del sangue di quel damerino allettasse in modo particolare la sopita brama di vendetta di Erik, egli stesso decise che quel gioco non valeva più la candela. Non gli importava che cosa facessero i De Chagny, purché, maledizione, lo facessero il più lontano possibile da lui: aveva ben altro a cui pensare che gestire la suscettibilità di quei due.

In quel momento, mademoiselle Sanders stava provando l’aria conclusiva dell’opera di Gounod: ormai, infatti, che lei dovesse partecipare nelle vesti del personaggio principale dell’opera era un dato di fatto indiscutibile. Erik, dal canto suo, non poté che essere intimamente soddisfatto della sua decisione, e si rese conto con un brivido che la voce della ragazza sembrava agire come un balsamo sulle sue ferite. Ormai era pressoché certo che i suoi sentimenti si fossero definitivamente cristallizzati nella forma di quel primitivo impulso che si era ripromesso di scacciare per sempre dal suo cuore ancora sanguinante; si era maledetto, aveva riso di se stesso e della sua scarsa mancanza di autocontrollo, aveva insultato quell’odiosa debolezza che aveva fatto sì che rimanesse impigliato per l’ennesima volta in una situazione che non aveva cercato, né tantomeno desiderato. La parola che temeva più dello stesso Inferno era solo una, e ancora non aveva lasciato le sue labbra – benché la sua mente l’avesse febbrilmente ripetuta in un delirio che aveva rischiato di farlo impazzire, nelle notti precedenti.

Amava mademoiselle Sanders. Poteva mai essere possibile?

Certo che lo era. Lo era dal momento che l’unico modo per addormentarsi sereno era diventato il ricordo dei suoi dolci occhi castani e il pallido sorriso che si era formato sulle sue labbra quando gli aveva detto di non avere paura di lui, la volta che l’aveva praticamente rapita e rinchiusa nella sua casa sul lago, nonché quello, più bruciante e recente, della sua bocca dischiusa sotto il suo bacio feroce. Dopo aver bruciato tutto ciò che aveva trovato nella sua dimora sotterranea e che poteva essere riconducibile a Christine Daaè, Erik aveva iniziato a modellare e riprodurre la sua nuova ossessione in ritratti abbozzati della fanciulla, in brevi componimenti che forse avrebbero potuto fare parte, un giorno, di una sinfonia che rispecchiasse la sua personalità, oppure in piccoli oggetti da lui stesso creati che aveva intenzione di darle in dono. Ah, ma come si corteggiava una fanciulla? Non era di certo abituato a simili manifestazioni, eppure sapeva che avrebbe dovuto mettere da parte i suoi burberi atteggiamenti se voleva davvero conquistarla.

Sarebbe mai riuscito ad avere il suo amore, la sua passione?

In fondo, i suoi desideri non erano poi così irragionevoli: voleva solo poter passeggiare con lei alla luce del sole, portarla a spasso la domenica, e aveva creato persino delle maschere che potevano rendere la sua faccia uguale a quella di qualsiasi altro essere umano! Ma tutto ciò sarebbe rimasto il delirio che era, se mademoiselle Sanders non l’avesse mai ricambiato… Benché, sì, il semplice fatto ch’ella avesse più volte ricambiato i suoi baci lo facesse ben sperare.

Massaggiandosi le tempie con aria indolente, Erik abbandonò i ponteggi senza che nessuno dei macchinisti si accorgesse della sua presenza. Per quanto lo desiderasse, non poteva rimanere tutta la giornata a presenziare – seppur in incognito – alle prove del Faust, giacché aveva parecchio lavoro da fare in veste del suo nuovo ruolo. Inoltre voleva concludere ad ogni costo l’aria che aveva iniziato tempo prima – da quando Giulia aveva lasciato la sua dimora sul lago, a onor del vero – perché ciò che aveva in mente di fare aveva delle scadenze fin troppo brevi.

Con un sorriso appena accennato e con la voce della ragazza ancora nelle orecchie, lasciò la platea e si diresse a grandi passi verso il suo regno sotterraneo.

«Oui, c'est toi, je t'aime,

    oui, c'est toi, je t'aime,
    Les fers, la mort même
    ne me font plus peur!
    Tu m'as retrouvé; tu m'as retrouvé,         
    Me voilà sauvée, me voilà sauvée!
    C'est toi, je suis sur ton coeur!»

 

 

 

 

***

 

 

 

Per quanto madame Giry avesse desiderato trascorrere la vigilia di Natale insieme alla viscontessa De Chagny, come sempre avevano fatto prima ch’ella si sposasse e fuggisse dalla capitale con la sua nuova famiglia, dovette infine arrendersi all’evidenza dei fatti che le impedivano di organizzare un simile incontro. Innanzitutto, riteneva fosse ancora presto far incontrare le due inconsapevoli sorelle – senza contare che non avrebbe avuto la minima idea di come spiegare l’assurda verità che si nascondeva dietro la loro inquietante somiglianza. Inoltre, dubitava che Erik potesse prendere bene una simile decisione: l’uomo poteva anche dire di aver perduto ogni genere d'interesse romantico nei confronti della non più mademoiselle Daaè, ma madame aveva i suoi dubbi al riguardo, e così pure Meg, che ormai era stata dichiarata abbastanza matura e responsabile da poter essere una sincera confidente per quella stessa madre che in passato aveva fatto il possibile per tenerla all’oscuro delle sue macchinazioni.

Entrambe, dunque, avevano fatto sì che Giulia fosse tanto impegnata da dimenticare che la viscontessa avrebbe voluto conoscerla – monsieur Gabriel, per quanto amasse la discrezione, aveva ritenuto opportuno avvisare l’insegnante di danza a proposito dei curiosi che sembravano gironzolare intorno alla nipote – posticipando ancora e ancora l’inevitabile. Louise avrebbe voluto prima accertarsi che Giulia ricordasse lo stretto indispensabile della sua vita passata da sapere di essere stata adottata – sempre se coloro che l’avevano cresciuta le avessero parlato di tale eventualità – prima di sconvolgerla nello svelarle la sua parentela con la viscontessa.

Ma la vera incognita rimaneva la reazione di Erik, qualora avesse scoperto che il nuovo oggetto della sua ossessione era così strettamente legato alla sua vecchia allieva. Sinceramente, madame Giry preferiva non pensarci: il feroce istinto materno che l’aveva spinta a prendersi cura di Giulia e a cercare di proteggerla a spada tratta contro monsieur Destler le suggeriva di rimandare ancora il momento di rivelare quel segreto.

Tali erano i frenetici pensieri e ragionamenti che non avevano abbandonato la sua mente neppure durante la santa messa natalizia, rendendola distratta e fin troppo agitata. Sedeva su di una panca in quarta fila, accanto a sua figlia, Giulia e Agnese, e per tutta la durata della funzione non aveva fatto che stritolare i lembi dello scialle che le avvolgeva il busto. Non era mai stata una fervente cattolica, a essere franchi, per cui le preghiere le uscivano dalle labbra in modo automatico, unica memoria di una madre che l’aveva spedita all’Accademia di danza del teatro non appena compiuti cinque anni senza mai più andare a trovarla. Quello era stato l’unico motivo che l’aveva spinta ad abbandonare la carriera all’interno del balletto quando si era ritrovata incinta della sua Meg: non voleva riservarle un’infanzia priva di una madre – ed era, questo, anche il medesimo motivo per cui aveva dato asilo a quel povero assassino sfigurato tanti anni prima. Il suo istinto materno l’aveva resa cieca di fronte alla vera natura spietata del ragazzo, e adesso, prima con Christine e poi con Giulia, ne stava pagando tutte le conseguenze possibili.

Il sacerdote sull’altare benedisse i presenti e augurò con un tiepido sorriso un lieto Natale a tutti: ma come poteva trovarlo tale, lei, con quella tempesta che le si agitava nell’animo?

«Maman, andiamo?» Per grazia divina la voce di sua figlia la riscosse da quel torpore; madame si ritrovò a incrociare gli sguardi preoccupati e perplessi delle due giovani più l’anziana governante, e per non rovinare quella che doveva essere un’atmosfera di festa si costrinse a sorridere e guidarle piuttosto frettolosamente verso l’uscita.

«Sì. Torniamo a casa prima che si metta a nevicare, o peggio, a piovere», borbottò, voltandosi poi sulla soglia del portone per bagnare due dita nell’acquasantiera e abbozzare il segno della croce.

«Predica interessante quella di padre Christopher, non credete anche voi Louise?» Fu il primo commento di Agnese una volta raggiunto il sagrato, mentre si stringeva addosso lo scialle e il fiato si disperdeva in morbide volute davanti alla sua bocca, tanto era gelida la notte. «L’ho trovata molto toccante e meritevole di riflessione.»

Madame Giry, che per l’intera durata della funzione aveva avuto la testa troppo impegnata in altre elucubrazioni per poter prestare attenzione anche alle parole del sacerdote, ignorò educatamente quel blando tentativo di intavolare una conversazione e prese a braccetto la figlia, osservando Giulia che faceva altrettanto con l’altra donna. Effettivamente doveva aver smesso di nevicare da poco, visto che sul sagrato faceva bella mostra di sé un sottile strato bianco che alcuni bambini avevano già eletto a gioco natalizio; evitando con cura uno di quei birbanti, madame si diresse quasi a passo di marcia verso il lato opposto della strada, troppo stanca e mentalmente confusa per poter anche solo pensare di rimanere sulla piazza della chiesa a cincischiare insieme agli altri parigini.

 Avevano ormai quasi raggiunto Rue Scribe – che era davvero poco lontana dalla Madeleine – quando Meg si fermò improvvisamente in mezzo alla strada, costringendo la madre a fare altrettanto. Senza dire una parola, ma limitandosi a sgranare impercettibilmente gli occhi, indicò alla madre la figura di un uomo che sembrava attendere il rientro delle tre donne al riparo sotto il portico di casa loro. Non era difficile riconoscerlo, anche malgrado il lungo mantello e il cappello che gli celava il volto. Quello che non era ben chiaro era il motivo della sua presenza – per quello che madame poteva ricordare, Erik non era mai andato in visita ufficiale a casa Giry, difatti né Agnese né Meg sapevano in realtà con quanta frequenza l’uomo frequentasse quell’abitazione.

Era impossibile ormai passare dalla porta della cucina, sul retro, un po’ perché madame non aveva le chiavi con sé e un po’ perché l’uomo, ormai, le aveva viste. Si staccò dalle ombre del portico e scese i gradini con tanta grazia che sembrò quasi non toccarli – sicuramente un effetto del mantello che gli svolazzava intorno. Si avvicinò a loro e si espresse in un elegante inchino, facendo tuttavia attenzione a che la maschera rimanesse ben celata dal buio della strada.

La sua voce bassa e carezzevole sciolse il silenzio imbarazzato che era scivolato su di loro. «Buona serata a voi, signore. Desidererei rapire mademoiselle Sanders per un poco, questa notte, se permettete», disse, l’incarnazione stessa dell’educazione e del buon gusto. Ciò nonostante era palese il sarcasmo che si nascondeva dietro tali parole, giacché il solo pensiero di potergli rispondere negativamente era ridicolo.

Fu Giulia a staccarsi dal gruppo, avvicinandosi all’uomo ed evitando così un’eventuale scenata. «Non vi dispiace, vero, madame?» Chiese, frapponendosi forse inconsciamente tra le tre donne e il suo maestro quasi a volerle sfidare di impedirle di seguirlo. Sia l’espressione di Meg che quella di Agnese manifestavano un chiaro disappunto – che nel caso dell’amica sembrava rasentare lo shock – ma madame Giry mantenne come sempre un atteggiamento neutro e quasi inespressivo.

«No, mia cara, non mi dispiace», capitolò alla fine, benché si vedesse quanto le costassero quelle parole. «Ve l’affido, monsieur Destler», non farmene pentire, sembrò aggiungere in silenzio.

Come se avesse colto l’implicito, Erik accennò un secondo inchino e porse il braccio alla sua compagna, che per tutta risposta salutò le tre donne e lo seguì, stringendosi contro di lui per approfittare del suo calore.

Agnese e Meg erano sconvolte – entrambe per motivi diversi, ma tutte nell’identico modo. «Ma… Louise! La lasciate andare via così?» Esclamò a mezza voce l’anziana donna, con evidente indignazione.

In silenzio, tuttavia, madame li guardò allontanarsi insieme, fuggendo le luci fioche dei lampioni, fin quando non sparirono voltando l’angolo. «È Natale, Agnese. Cosa potrà mai accadere di male, questa notte?» Si limitò a rispondere, rassegnata.

Poi, con l’aria di un guerriero che ha appena compreso di non poter vincere la battaglia, si voltò verso la figlia e accennò un sorriso, prendendola sottobraccio e facendo lo stesso anche con Agnese. «Su, rientriamo. Inizia a far freddo, non trovate?»

 

 

Come tutte le volte in cui si ritrovavano a gironzolare in pace nell’immenso reame dorato che era l’Opèra Populaire, Erik era incredibilmente felice. A essere sincero non credeva che sarebbe stato così facile rapire Giulia, e sotto lo sguardo severo e impenetrabile di colei che si era eletta a sua tutrice; aveva immaginato di dover insistere di più, o addirittura di dover ricorrere alle minacce. Meglio per tutti che non fosse andata così.

Mademoiselle Sanders, da parte sua, sembrava condividere la sua euforia. Lo aveva seguito a teatro senza preoccuparsi di nulla, fidandosi ciecamente; aveva trovato persino eccitante l’idea di passare da un’entrata secondaria, per non dire segreta, che si affacciava su Rue Auber, invece di entrare dal portone principale – avrebbero potuto attirare l’attenzione di qualcuno, malgrado l’ora tarda e il giorno particolare. La gendarmerie di notte pattugliava le strade, e Place de l’Opèra era sempre occupata da uno o più gendarmi – rimasugli della notte dell’incendio, sicuramente.

Aiutò la sua allieva a raccogliere le ampie gonne dell'abito per non farla inciampare mentre saliva gli stretti gradini che collegavano le scuderie a un corridoio segreto al di sotto del quarto sottopalco, e precedendola in quella buia galleria le fece strada senza lasciare un solo istante la sua mano – perdersi era impossibile, giacché si poteva solo avanzare o tornare indietro, ma egli non voleva di certo che la giovane inciampasse nell’oscurità a causa di quello scomodo abbigliamento. Non le spiegò il motivo per il quale l’aveva trascinata nel teatro a quell’orario così bizzarro, e per di più in una notte come quella; in realtà non disse una sola parola, ma era talmente raggiante che Giulia non osò spezzare il silenzio e rischiare di rovinare qualsiasi cosa egli avesse in serbo per lei.

Il corridoio segreto sbucò con sua grande sorpresa nella piccola cappella del teatro: l’alta vetrata sulla quale era riprodotta l’immagine di un angelo alato venne spalancata dalle dita agili di Erik, che uscì per primo e si volse verso la ragazza per aiutarla a saltare il mezzo metro di gradino. Dopodiché richiuse il passaggio in modo così perfetto ch’ella dubitò quasi di esserne appena sbucata fuori.

«Adesso si spiegano molte cose…» Decretò Giulia inarcando un sopracciglio e indicando poi il dipinto. «Mi sono sempre chiesta in che modo riuscissi a parlarmi attraverso i muri.»

L’uomo le sorrise indulgente, avvicinandosi e offrendole il braccio con fare garbato. «È uno dei vantaggi dell’essere un fantasma», ribatté lui, conducendola verso i gradini e permettendole di andare per prima. Si trovavano quasi a metà scala quando Erik si fermò all’improvviso, facendo quasi inciampare su uno scalino la sua compagna e voltandosi in uno svolazzare del suo mantello per trattenerla per il gomito e impedirle di perdere l’equilibrio.

«Cosa c’è che non va, Erik?» Chiese ella preoccupata, notando che lo sguardo dell’uomo sembrava insistere nel posarsi dappertutto tranne che su di lei. E mademoiselle Sanders, da parte sua, stava iniziando a temere i repentini cambiamenti d’umore del suo maestro.

Egli sembrò soppesare a lungo ciò che stava per dire – quando mai lo aveva visto così a disagio? «Non credo di essermi mai scusato per il modo in cui mi sono comportato con te, la prima volta che ti sono apparso in questa cappella», esordì infine, a voce talmente bassa che la giovane dovette sporgersi verso di lui per sentirlo meglio. «Ripensandoci adesso, sappi che me ne vergogno profondamente.»

Oh, dunque era per quello. In effetti, quella volta l’aveva terrorizzata a morte, ma non le sembrò molto carino rilasciargli quella considerazione. Ormai sembravano trascorsi secoli da quella notte. Poggiò dunque una mano sull’avambraccio dell’uomo e lo strinse leggermente, cercando di infondergli attraverso quel tocco perlomeno la sua comprensione.

«Posso chiederti perché l’hai fatto?» Domandò gentilmente, invece di insistere sull’altro discorso.

Ella si accorse dell’improvviso irrigidirsi dei muscoli sotto il palmo della sua mano, ma quando parlò la voce di Erik non sembrò eccessivamente tesa. «Fatto cosa?»

«Interessarti a me, scegliermi come tua allieva. Perché io e non qualcun’altra?»

Era una questione interessante.

«Vorrei poterti dare una risposta adeguata», esordì, la voce che tremava appena e i suoi occhi che ancora si ostinavano a fuggire i suoi. «Vorrei poterti dire ciò che alle donne piace ascoltare, come per esempio che ti vidi nella tua solitudine e in essa riconobbi la mia… Per mia sfortuna non si tratta di questo. Non solo, almeno. Stavo semplicemente cercando qualcuno che non avesse legami di sorta che potessero tenerlo lontano da me e dai miei progetti, e il tuo arrivo è stato, come dire, tempestivo. Sei capitata nel posto sbagliato al momento sbagliato, ma adesso… Adesso è tutto molto diverso. Ti prego di non pensare di essere qualcosa come una mera pedina nelle mie mani, non è più così da parecchio tempo ormai, anzi forse non lo è mai stato… Mi hai visto piangere, Giulia, e credo che questo possa darti una risposta più che sufficiente sul valore e sulla veridicità dei miei sentimenti», concluse, abbassando sempre di più il tono di voce fino a diventare niente più di un mero sussurro.

Un lungo silenzio accolse quella confessione, un silenzio che sembrò protrarsi all’infinito fino a far temere Erik di aver parlato troppo. Ecco perché preferiva la musica, una nota diceva più di mille parole, una nota poteva consolare o gettare negli abissi della più nera disperazione, e una sinfonia avrebbe accarezzato il suo cuore fino a farle capire che lui, sì, l’amava. Stava già dischiudendo le labbra per ritrattare quanto aveva appena detto, quando invece fu la voce misurata della giovane a colmare lo spazio tra di loro. «Grazie per essere stato sincero, Erik.»

Quella era proprio l’ultima cosa che si aspettava di udire da lei. I suoi occhi cercarono finalmente quelli della ragazza, tuffandosi in essi come per volersi accertare che le sue non fossero solo parole, ma una risposta sincera, sentita, un’accettazione e un perdono che non credeva sarebbe arrivato. Eppure lei continuava a sorridergli, e la sua mano gli stringeva ancora il braccio, ed era così vicina da poter respirare la sua pelle. Scosse piano la testa, poi si chinò a prenderle la mano e la sollevò all’altezza della propria bocca, accarezzando ogni nocca con le labbra e andando ad arrendersi sul suo palmo, dove respirò a fondo per recuperare un minimo di lucidità.

La vendetta che aveva voluto intessere aveva richiesto ogni singola goccia del suo sangue, ma adesso si rendeva conto che sarebbe stato pronto a gettarla come un panno sporco per potersi gettare ai piedi di Giulia e morire stretto al suo grembo.

«Coraggio, andiamo», disse infine con voce roca, senza abbandonare la sua mano ma, al contrario, stringendola e intrecciando le proprie dita a quelle di lei.

 

 

La platea, come anche il resto del teatro, era completamente immersa nel buio. Solo la mano guantata di Erik che stringeva con premura la sua, precedendola in mezzo alle poltrone imbottite di velluto rosso, le impediva di inciampare nei gradini del pavimento o di sbattere sui sedili; i suoi occhi non si sarebbero mai abituati all’oscurità quanto quelli dell’uomo che l’accompagnava. Aggirarono la buca dell’orchestra e salirono sul palcoscenico, accompagnati dal rimbombo ovattato dei loro passi sui pannelli di legno scuro che lo componevano.

 Non potendo contare sulla vista, Giulia dovette per forza di cose ricorrere agli altri sensi. L’odore tipicamente virile del fantasma – qualcosa a metà tra l’acqua di colonia e una nota che non riusciva ad afferrare più bassa, scura, esotica – nonché la sensazione del suo corpo dietro di lei e il leggero sottofondo del suo respiro, non avevano che l’effetto di tranquillizzarla. Non sapeva dire se avesse mai avuto paura del buio, da piccola – per quanto, se si sforzava, le sembrasse di ricordare frammenti di vita come se si stesse impegnando nel rammentare un vecchio sogno – ciò che sapeva era che ne aveva avuta, e parecchia anche, durante il lasso di tempo nel quale Erik le si era presentato come essere demoniaco, minacciandola e obbligandola a dovergli obbedienza. Storse appena il naso a quel ricordo: non aveva senso rivangarlo, giacché l’uomo le aveva chiesto scusa pochi minuti prima. E poi ormai aveva imparato che c’era molto di più dietro la maschera, e non intendeva soltanto quella bianca di cui raramente si separava; no, quello cui si riferiva era un travestimento molto più radicato in lui, quasi un immenso e intricato cespuglio di rovi che racchiudeva il suo animo impedendo a chiunque di insinuarsi all’interno, e pungendo, invece, chi osava provarci.

Le sfuggì quasi un sorrisetto: non avrebbe potuto trovare un’immagine più azzeccata.

Mentre era così persa nei suoi pensieri non si era accorta che l’uomo si era allontanato, lasciandola da sola in mezzo al palcoscenico. Tuttavia la ragazza non aveva paura – continuava a sentire il leggero rumore delle sue scarpe sul legno del proscenio, poi il debole frusciare di una corda e, infine, lo scoppiettio dei fuochi a gas che si accesero in un effetto domino lungo il bordo della scena. Si guardò intorno, compiaciuta e divertita da quell’effetto tipicamente teatrale, prima che il suo sguardo venisse catturato dal magnifico strumento a corda sistemato al centro della ribalta, e dal quale Erik la stava osservando con una strana espressione indecifrabile a causa della maschera che continuava ostinatamente a portare.

«Voglio farti sentire una cosa che ho composto», disse piano, quasi in imbarazzo. «Non ho avuto il tempo rivederla, quindi può darsi che alcuni passaggi siano da correggere… Ma mi piacerebbe comunque sapere cosa ne pensi.»

Giulia lo raggiunse al pianoforte, poggiando una mano sul coperchio e prendendo la rosa listata di nero che spiccava sul bianco avorio dei tasti. «Sono sempre disponibile a fare da cavia per il mio maestro», replicò con un sorriso che non riuscì a trattenere, alleggerendo l’atmosfera. Grato di questo, Erik le sorrise di rimando e posò le dita sui tasti, lasciandosi sfuggire dalle labbra socchiuse un leggero sospiro; dopodiché fu un tutt’uno con la sua musica, e non esisté nient’altro.

La ragazza non sapeva come descrivere la bellezza di quella composizione. Era… Era tutto ciò che poteva essere racchiuso in un’anima. La sua anima. Le note scivolarono come una brezza sottile fin dentro il suo cuore, soffiandovi sopra per risvegliarlo e dipanarsi poi nel resto del suo corpo, fino alla punta delle dita che tremarono dall’emozione. La musica sembrava liquida, avvolgente, pur nell’apparente semplicità di una sinfonia che ritornava sempre sullo stesso movimento, che ondeggiava avanti e indietro, come una marea. Sembrava pregarla di liberare le sue emozioni, che si tradussero dapprima in un inumidimento dei suoi occhi e in seguito in piccole lacrime che dondolarono in bilico sulle sue ciglia chiare. Aveva quasi l’impressione che avrebbe potuto volare via se solo avesse osato spiccare un salto; la sua mente sembrava ormai naufraga, ebbra come non lo era mai stata, libera. Fremette e sospirò a mezza voce per non disturbare lo svolgimento dell’opera; solo quando le sue gambe sembrarono tremare tanto fino a rischiare di cedere, si sedette in silenzio sullo sgabello accanto all’uomo, chiudendo gli occhi e lasciandosi trasportare in un posto lontano, in un posto che forse era dentro di lei, o dentro di lui.

Quella musica era amore, e del più puro. Era impossibile non rimanerne stregati.

Quando, con un delicato sfumare di note, la melodia si concluse, Giulia si ritrovò a rilasciare il fiato come se l’avesse trattenuto fino a quell’istante.

«Mio Dio», sussurrò, senza osare aprire gli occhi per timore di spezzare l’incantesimo. «È prodigioso», disse semplicemente, sfiorando i tasti con reverenza. Aveva detto che ci sarebbero stati passaggi da correggere, ma alle sue orecchie forse ancora poco esperte non pareva proprio. Era… Un capolavoro degno del suo genio.

«Posso dunque dedurne che ti piace?» Le chiese a mezza voce, sollevando appena gli angoli della bocca in un sorrisetto divertito.

«Puoi dedurlo», concesse lei, ricambiando il sorriso. «Non ho… Non ho mai udito niente di più bello. Ma d’altronde l’hai creato tu, quindi non mi aspettavo niente di meno», aggiunse, giocherellando con il nastro di quella rosa alla quale erano state preventivamente tolte tutte le spine. Un pensiero premuroso.

Erik sembrava finalmente sollevato, come se avesse appena superato indenne una prova del fuoco. «Mi potrei abituare a tutte queste lusinghe, devo ammettere che fanno estremamente piacere», ammise, senza staccare gli occhi dalle dita della ragazza che accarezzavano il velluto di quel nastro nero.

«Meriti di più che semplici lusinghe», ribatté lei, il tono della voce notevolmente calato. Senza capire, l’uomo riportò lo sguardo su di lei, inarcando incuriosito un sopracciglio. Giulia sorrise, poggiando di nuovo il fiore sui tasti del pianoforte e sollevando le mani verso il suo volto; stavolta egli non fece nulla per cercare di impedirglielo, limitandosi ad irrigidirsi leggermente e a osservare con insistenza la sua maschera che veniva poggiata sul coperchio dello strumento. Quindi le dita della giovane trovarono il suo mento e lo obbligarono gentilmente a voltarsi verso di lei. «Buon Natale, Erik», disse piano, con un mezzo sorriso.

Poi, prima che egli avesse il tempo di comprendere le intenzioni di mademoiselle Sanders, si ritrovò per la prima volta catturato in un bacio voluto da lei, e pensò di poter morire in pace. La lasciò fare per un po’, godendosi quella sensazione scoperta da poco, ma dopo averle concesso la sua piccola vittoria riprese il controllo. Le sue mani corsero a sciogliere la sua acconciatura, sfilandole i fermagli che caddero per terra senza produrre quasi alcun rumore, e si beò della sensazione di quelle onde scure nelle quali poter far vagare le sue dita. Approfondì il bacio con un gemito di desiderio, ma ci impiegò qualche istante di più per comprendere che esso non proveniva da se stesso, bensì da lei.

La baciò fin quando le labbra non iniziarono a dolergli e gli occhi a bruciargli dalle lacrime che continuava a ricacciare indietro, e quello fu senza alcun dubbio il primo Natale che lo vide felice.

















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Note dell'Autrice:
    Primo: di nuovo, non ci sono parole per il mio ritardo. Soprattutto adesso che spunto fuori con un capitolo natalizio ora che l'epifania tutte le feste si è già portata via.
    Secondo: pubblico, come al solito, senza nemmeno rileggere perchè tanto so che se mi ci metto sono capace di non pubblicarlo nemmeno tra cent'anni - ergo tralasciate errori grammaticali, anacronismi, lettere mancanti e congiuntivi sbagliati (anche se questi spero siano al loro posto ò_ò)!
    Terzo... No, forse non ci sono terzi punti. Se non che questo capitolo è un po' più lungo dei precedenti e, lo devo ammettere, ha la funzione di ammorbidire gli istinti omicidi che sicuramente avrete nei miei confronti!
    Ma quanto vi sto facendo penare con questa storia? Che parto! Non ne potrete sicuramente più. Indi per cui, sempre per farmi perdonare, giunge una buona notizia: il capitolo 26 è praticamente finito (mancano alcune revisioni qua e là) quindi, forse (e ci tengo a sottolinearlo) non dovreste aspettare più di una settimana per leggerlo. Forse! E nel prossimo capitolo torneremo a spiare anche sulla vita degli altri personaggi, che abbiamo perso di vista da un po'. Perchè, come ha già detto qualcuno, anche i personaggi secondari meritano i loro cinque minuti di popolarità, oh. ù_ù
    Sto di nuovo straparlando. Ma mi capita quando sono emozionata! E questo è il primo capitolo che pubblico nel 2012 - nonchè la prima storia che aggiorno quest'anno - e spero anche che non sia l'ultima - per cui sì, c'è da essere emozionati!
    Ah, per chi se lo stesse chiedendo, la musica che il nostro caro Erik suona alla fanciulla è questa: The Portrait, di James Horner. Ieri ho rivisto Titanic per la centoduesima volta e, beh, non ho proprio resistito... Inoltre [ta dan! giochino della settimana] mi piacerebbe sapere se anche a voi quella musica provoca quelle sensazioni, quelle che molto banalmente ho descritto nel capitolo di cui sopra - non sono per niente soddisfatta di come l'ho resa, infatti, ma vabbè, si fa quel che si può. Per cui, dai, ditemi che emozioni vi suscita, sono curiosa *_*
    Ah, last but not least, le recensioni! Mie care, non avete idea di quanto mi faccia piacere, ogni volta che apro Efp, vedere che c'è qualcuno a cui quello che scrivo piace almeno la metà di quanto piace a me scriverlo. Vorrei poter recensire singolarmente a ciascuna di voi, ma ho sempre così poco tempo... :( Cercherò di rimboccarmi le maniche per la prossima volta, prometto, anche perchè ci sono certe recensioni che mi hanno fatto venire i brividi! Moira Riordan, con la tua stavo proprio per scoppiare in lacrime, dico davvero: non ci sono parole... dici che ti ha emozionato la mia storia, beh, a me ha emozionato la tua lettera! :)
    E poi, come sempre, vorrei abbracciare e dare un bacio a tutte quante: grazie Ellyra, grazie Enril91, grazie Puliksweet, grazie barcelona, grazie Keyra93, grazie TheMisty910, grazie Kenjina! E grazie ovviamente anche a tutti gli altri, che passano, leggono e mi spingono ad andare avanti :)
    Un'ultima cosa, prima di andare via: per il caro Erik, mi sono ispirata sia a quello del libro che a quello del film (quello del 2004, naturalmente). Non so se il miscuglio è riuscito bene, per come avevo intenzione di renderlo io all'inizio non credo di esserci riuscita, ma spero comunque che il risultato finale sia gradito!
    Beh, mi sembra che anche per stavolta mi sono espressa a sufficienza. Come ultimo regalo vi do un ultimissimo spoiler... La nostra Giulia sta per recuperare la memoria, muahahahaha! E poi saranno uccelli senza zucchero per tutti. Cough cough.
    Ok, vado prima di combinare altri danni. Un bacio grande grande a voi che, malgrado i lunghi tempi di attesa, continuate a seguirmi! <3
    Ci sentiamo il più presto possibile su questi schermi, e se volete contattarmi potete trovarmi su facebook, su twitter, su msn, whatever!
   
    I remain, gentleman... Conoscete il resto ;)
    Niglia.



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Capitolo 28
*** 26. Al ballo in maschera ***


Chapitre 26

Al ballo in maschera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

The prologue to a bright new year!

 

Non si era badato a spese per i festeggiamenti di quel milleottocento-settantasettesimo capodanno. Lo dimostravano i fragorosi fuochi d’artificio che illuminavano il manto cupo di un cielo senza stelle chiazzandolo di scintille bianche, rosse, gialle e azzurrognole, quasi a voler coinvolgere l’intera città nella celebrazione del nuovo anno. Gli echi della musica che proveniva dall’interno dell’Opèra – giacché l’immenso foyer era stato adibito a salone da ballo per l’occasione – riecheggiavano fino alla piazza, facendo accorrere persino vecchi mendicanti infreddoliti ad assistere al frenetico andirivieni di nobili e borghesi, in una sfarzosa sfilata di costumi, maschere, gioielli e parrucche incipriate.

L’intero teatro era stato allestito in modo che ogni corridoio, ogni stanza, ogni nicchia potesse offrire agli influenti ospiti ogni genere di divertimento. Persino la platea era stata trasformata: le belle poltrone di velluto rosso erano state ritirate per far spazio ad una più piccola sala da ballo provvista di buffet, mentre sul palcoscenico alcuni giocolieri e acrobati di strada fatti arrivare dalla vicina Reims intrattenevano il pubblico danzante.

Monsieur Firmin e monsieur Andrè osservavano con orgoglio malcelato il risultato di quelli che, molto poco modestamente, consideravano i loro sforzi. Sapevano bene, in realtà, che nulla di tutto ciò si sarebbe mai potuto realizzare non fosse stato per monsieur Destler e i suoi squisiti finanziamenti, ma questa era una verità sulla quale amavano sorvolare. Dopo le tragedie e le perdite economiche che avevano subito in seguito a quella maledetta storia del fantasma, quel rinascere dalle proprie ceneri aveva dato loro l’impressione che il teatro non sarebbe mai potuto andare davvero in fallimento – era uno di quegli investimenti che raramente andava in rovina, a meno che, certo, non ci fossero degli attori e della musica scadente. Altra cosa quella che, sempre grazie a monsieur Destler, era stata abilmente evitata.

«Credi che dovremmo aumentare lo stipendio del nostro direttore artistico, Gilles?» Domandò al collega, con un sorrisetto ironico e vagamente brillo.

«Forse, Richard, dimentichi che è lui a pagare noi », ribatté l’altro, accennando un inchino in direzione di un’altera dama con addosso una ragguardevole quantità di piume e eau de toilette che gli era appena passata accanto. «Ma quella non era la contessa d’Artois? Che onore averla qui», aggiunse poi, abbassando il tono di voce e chinandosi verso monsieur Firmin.

«Un onore? Il conte è moribondo da mesi e tutto ciò che fa la consorte è accogliere nel suo salotto uomini a braccia e gambe aperte», ribatté acidamente Richard, finendo in un sol sorso il suo champagne. «Francamente, Gilles, potrei trovare da discutere sul ritenere o meno un onore la presenza di una simile sgualdrina dal sangue blu.»

Con un sospiro rassegnato, l’amico lo condusse verso il tavolo del buffet. «Su, vieni a mangiare qualcosa. Credo tu abbia già bevuto troppo», lo redarguì pazientemente, passandogli un vassoio con delle tartine. Monsieur Firmin sembrava essere quello ad aver subito più traumi in seguito all’incendio che aveva quasi raso al suolo il teatro, pochi anni prima: aveva stretto una solida amicizia con l’alcool, e anche adesso che gli affari andavano splendidamente e non vi era più nulla di cui preoccuparsi faceva ancora fatica a perdere del tutto il vizio. Inoltre, era diventato terribilmente insofferente a quel mondo sfarzoso appartenente alle classi più privilegiate – mondo che, invece, aveva sempre guardato con desiderio e invidia nel periodo in cui si occupavano del commercio di rottami.

Ah, pardon, residui metallici.

 

Masquerade,
Paper faces on parade...
Masquerade,
Hide your face, so the world will never find you!

 

Per tutto il giorno Giulia aveva avuto uno strano presentimento. Era da quando aveva aperto gli occhi, quella mattina – forse a seguito di uno strano sogno, chi poteva dirlo? – che sentiva uno strano qualcosa opprimerle il petto, rendendole difficoltoso il respiro e difficile concentrarsi per assistere agli preparativi del ballo. E no, non si trattava del corsetto, quella era una mancanza di fiato alla quale si stava gradualmente abituando; e non poteva essere neppure un primo accenno di raffreddore, visto che non aveva brividi, né febbre, né tosse. Ad essere sincera, se qualcuno le avesse domandato spiegazioni l’unica cosa che sarebbe stata in grado di rispondere era che aveva l’impressione che qualcosa di importante stava per succedere. Ridicolo, davvero molto ridicolo.

Per questo, non ne aveva fatto parola con Meg, o madame Giry, o Agnese – tantomeno con Erik!

Eppure anche adesso, mentre attendeva pazientemente che il suo accompagnatore per la serata finisse di allacciarle la fila di bottoni di perla dell’abito in maschera – difatti aveva gentilmente insistito per aiutarla a vestirsi, visto che era stato egli stesso a far commissionare quell’abito appositamente per lei – non poteva fare a meno di sentirsi leggermente in ansia. Che fastidiosa sensazione! Era come se si aspettasse un terribile disastro da un momento all’altro, e quella sensazione non le faceva godere il momento.

Tralasciando questi angoscianti pensieri, doveva ammettere che Erik si era rivelato eccezionalmente bravo persino nell’acconciarle i capelli. Glieli aveva raccolti sulla sommità della nuca con un prezioso fermaglio di brillanti, lasciandole poi ricadere sul collo nudo morbidi boccoli sapientemente arricciati con dei ferri bollenti. Arrossì quando l’uomo non resistette alla tentazione e posò le sue labbra invitanti alla base della sua nuca, ma non si scostò dalla sua carezza.

Soltanto quando la piacevole tortura di vestizione fu conclusa Erik le permise di ammirarsi davanti allo specchio. L’abito, in raso di seta color avorio ricoperto da un fine merletto meccanico nero, le calzava perfettamente addosso, avvolgendola come un guanto: qua e là, nella gonna, erano sparse piume nere talmente lucide che riflettevano la luce. Il vestito le lasciava le spalle nude, e la scollatura si abbassava sul davanti mettendo in risalto la morbida curva del suo seno. Gli avambracci erano avvolti fino all’incavo del gomito in dei guanti di sottile pizzo nero che fungevano quasi da seconda pelle, mentre gli unici monili che si era permessa erano un bracciale di perle barocche bianche e rosa che le cingeva il polso sinistro e degli orecchini dello stesso materiale che completavano la parure. Alle sue spalle Erik la osservava come se fosse stata l’unica fonte di luce presente nella stanza.

Essere desiderata le piaceva, realizzò con sorpresa; eppure non le aveva fatto lo stesso effetto essere guardata in quel modo anche da monsieur Bamdad. Benché tra i due uomini non potesse esserci alcun metro di paragone, certo, come comprese da sé.

Invece di indugiare oltre in quelle riflessioni, la giovane fece avanti e indietro nel camerino per abituarsi alle pesanti stoffe dell’abito, così diverso da quelli che era abituata a indossare di solito; se ne teneva sollevato un lembo troppo grande le si scoprivano le caviglie – cosa che Erik le aveva sconsigliato vivamente di mostrare – ma se ne prendeva troppo poco rischiava di inciampare rovinosamente sul pavimento. Forse madame Giry non aveva ritenuto opportuno darle lezioni di portamento, ma con delle gonne così voluminose era impossibile mantenere un equilibrio decente – e fare brutte figure davanti a Erik non le sembrava proprio qualcosa da prendere in considerazione.

Prima di quella sera, Erik le aveva narrato la storia di un balletto russo piuttosto recente, la cui trama era giunta sulla scrivania del direttore artistico dell’Opèra Garnier con la tacita speranza ch’egli prendesse in considerazione l’idea di trasportarla nella capitale francese. L’uomo, benché trovasse banali certi passaggi e insulse alcune coreografie – di cui, peraltro, si intendeva ben poco – stava in realtà valutando l’idea di entrare in contatto con il suo quasi coetaneo compositore, tale monsieur… Ah, adesso gli sfuggiva il nome. Comunque, la storia era interessante e commovente, e per tornare alla masquerade, gli aveva suggerito l’idea dei personaggi da cui travestirsi: sarebbero stati indubbiamente i soli a interpretare due caratteri di una ancora sconosciuta opera moscovita.

Quanto a lui, nel suo abito, era una visione da mozzare il fiato. Il costume era nero dalla testa ai piedi, ma lungo le braccia e dietro, sulla schiena, vi erano ricami argentati che rammentavano magiche ali piumate e che giustificavano la presenza di un mantello interamente fatto di morbide piume tinte di nero, argento e rosso cupo. Dal fianco gli pendeva una lunga spada sottile, dal fodero nero e dall’impugnatura argentata a forma di teschio ghignante; la maschera, che gli ricopriva interamente il volto fatta eccezione per la bocca, era invece interamente bianca, dipinta di nero intorno ai buchi degli occhi e modellata sugli zigomi di modo che rammentasse il volto di un uccello. Giulia l’aveva trovata spaventosa non appena l’aveva vista la prima volta, ma nel complesso il travestimento era talmente perfetto che non aveva avuto il coraggio di farglielo notare.

«Non mi noterà nessuno se mi presento al ballo accanto a te. Forse dovremo andarci separatamente», scherzò la ragazza, sistemandogli un già perfetto cravattino di seta nera solo per avere la scusa di toccarlo.

Le labbra di Erik si arricciarono in un lieve sorriso nello sforzo di non ridere. «Meglio così, non voglio che altri ammirino la mia accompagnatrice», ribatté tra il serio e il faceto, prendendole le mani e baciandone il dorso ricoperto dai guanti.

Giulia lo fissò sorpresa, prima di liberare una mezza risata. «Un gentiluomo non dovrebbe dire una cosa del genere alla propria compagna», lo ammonì scherzosamente.

«Devi perdonarmi, fino a questa mattina ero solo un fantasma», fu la noncurante risposta dell’uomo. Prima che la giovane potesse ribattere qualsiasi cosa, si chinò su di lei per catturarle le labbra in un bacio e trasformare il suo rimprovero in un gemito. Indugiò a lungo nel bacio ma si impose di cessarlo non appena si accorse che stava diventando troppo profondo; se fosse dipeso da lui l’avrebbe rinchiusa in quel camerino per rimanere da soli tutta la notte, ma dopo tutti quei preparativi non voleva privarla della sua prima esperienza ad un ballo in maschera.

Le sorrise maliziosamente quando si accorse che nemmeno lei sembrava tanto entusiasta di quel bacio lasciato a metà. «Adesso possiamo andare, mia bella Odile», le sussurrò, accennando un inchino.

Il suo sorriso sarebbe stato irresistibile, se solo la maschera non lo avesse reso così spaventoso. Giulia fece passare la mano guantata sopra il braccio dell’uomo, e fu al fianco di lord Rothbart che fece il suo ingresso alla festa.

 

 

Masquerade,
Every face a different shade...
Masquerade,
Look around, there’s another mask behind you!

 

Un domino nero e un domino bianco sostavano contro la grossa colonna dello scalone centrale, al riparo dai volteggi degli altri invitati che danzavano e ridevano in una follia baccanale al ritmo del bel Danubio blu. Le piume delle parrucche si agitavano nelle piroette, l’oro e i diamanti dei gioielli riflettevano la luce calda e avvolgente delle candele e un forte miscuglio di profumi di ogni genere permeava dovunque e appestava l’aria, costringendo il domino bianco a tirar fuori dal corpetto un piccolo sacchettino di salvia profumata ed a portarselo alle narici.

«Continuerò a chiederti per quale motivo siamo venuti qui, stanotte, fino a quando non riceverò una risposta che riterrò esaudiente», sibilò il domino nero guardandosi con fare irrequieto intorno, gelando con lo sguardo qualsiasi maschera si avvicinasse troppo a sé e alla sua compagna.

L’altro domino, che non era altri che madame Christine de Chagny, gli batté un colpo affettuoso sul dorso della mano, per poi sorridere amichevolmente a un cameriere in livrea dorata che le aveva appena servito un bicchiere di champagne. «Ti prego, Raoul, non litighiamo. Avevi intenzione di non mettere più piede in questo teatro, forse?»

«Era precisamente ciò che avevo intenzione di fare, sì», ribatté in tono un po’ piccato, prendendole il bicchiere dalle mani e svuotandolo in un sol sorso. «Inoltre, mia cara, non credevo che amassi così tanto le convenzioni da doverti sentire obbligata a partecipare a una serata del genere», aggiunse poi, inarcando un sopracciglio dal di sotto della maschera che la sua consorte non poté vedere.

Quest’ultima accennò un leggero sorriso, scuotendo appena la testa e accentuando la stretta sul braccio del visconte. «Non voglio mettere ulteriormente a repentaglio la tua reputazione, Raoul, come già ho fatto in passato quando ci siamo sposati. Sai meglio di me quanto sia importante mantenere certi contatti, sia per i tuoi affari che per il nostro quieto vivere, per non parlare poi del futuro di Gustave», gli rammentò a mezza voce, non amando particolarmente rovinare l’ultima notte dell’anno con simili discorsi. Tuttavia, lo sguardo che l’uomo posò su di lei la riempì di una nuova tenerezza: egli poteva anche non parlare, ma nei suoi occhi Christine sapeva leggere la riconoscenza e tanti altri sentimenti, quando era il caso.

«È che questo luogo conserva orribili ricordi», mormorò alla fine, con un sospiro rassegnato. «Avrei voluto che l’incendio di due anni fa lo distruggesse, fino alle fondamenta.»

Per quanto amasse suo marito, Christine stavolta non poteva concordare con lui. Sollevando gli occhi sulle volte del foyer, sui lampadari, sulle statue dorate, non riusciva a fare a meno di pensare che, in effetti, quel teatro era stato la sua casa per lunghi e spensierati anni, e a tutt’oggi, anche malgrado le varie vicende e tragedie a cui aveva fatto da sfondo, continuava a provare una dolorosa fitta di nostalgia nel rammentare quei tempi lontani. Sì, nostalgia e anche rimpianto, se rifletteva sul modo in cui si era comportata nei confronti di…

«Non hai sentito una parola di quello che ho detto, vero?»

Christine tornò bruscamente alla realtà, sollevando gli occhi sul suo accompagnatore e avendo la decenza di arrossire con aria colpevole. «Oh, perdonami Raoul. Puoi ripetere, per piacere?» Gli chiese, accennando un sorriso imbarazzato. Sciocca di una Daaè, si rimproverò nello stesso tempo, mentalmente; così facendo stai solamente avvalorando le sue tesi e complicando le cose!

Da parte sua, il visconte ebbe la delicatezza di sorvolare sulla distrazione più che giustificata della moglie. Scosse appena il capo e ricambiò il sorriso, soffrendo in cuor suo nel vedere che neanche gli anni e l’amore di un figlio erano riusciti a spodestare dal suo cuore i rimasugli della sua vita antecedente il matrimonio. «Non importa, Christine», replicò gentile, sviando l’argomento. «Vieni, su, andiamo a ballare», propose poi, prendendole la mano e attirandola al centro del salone in mezzo ad uno svolazzare di gonne, piume, maschere e belletti. Guidò la sua mano sulla propria spalla e strinse l’altra nella sua, osservando con malcelato sollievo il sorriso che distese l’espressione tristemente assorta che aveva visto sul volto di Christine.

 

 

 

Flash of mauve, Splash of puce ...
Fool and king, Ghoul and goose ...
Green and black, Queen and priest...
Trace of rouge, Face of beast...

 

Monsieur Bamdad aveva colto l’occasione della mascherata per potersi avvolgere nuovamente nelle preziose sete del suo tipico abbigliamento persiano. Il tarbush di seta color rosa scuro posato sulle ventitré sui capelli scuri, la giacca di porpora ricamata in oro e nero lungo le cuciture e gli orli delle maniche, i lunghi sarouel di broccato color del mogano e le pantofole arricciate sulla punta lo rendevano ancora più esotico e voluttuoso di quanto non apparisse, normalmente, quando seguiva i dettami dello stile occidentale. Com’era ovvio, non aveva potuto fare a meno di indossare una maschera dorata: ma quella era, nel suo intero travestimento, l’unica traccia della moda parigina.

Si insinuava con grazia fluida attraverso la folla, sentendosi finalmente a proprio agio nell’indossare quei comodi abiti tradizionali. Sorrideva volentieri e scambiava due parole con chiunque cercava di attirare la sua attenzione, facendo ben attenzione tuttavia a non perdersi in frivolezze e prendendo mentalmente appunti di tutto ciò che poteva riferire al suo padrone: eventuali critiche all’organizzazione delle rappresentazioni o pareri sul coro e sull’orchestra, complimenti sui costumi di scena o addirittura consigli su come gestire l’intrattenimento degli habitués nella consueta pausa tra un atto e l’altro delle opere.

Monsieur Destler l’aveva avvertito che forse avrebbe partecipato alla serata, ma di non farne parola con alcuno perché non aveva nessuna intenzione di palesarsi a mezza Parigi. Non c’era da meravigliarsi troppo di questa sua decisione, giacché nei due anni che avevano vissuto nella capitale non una volta egli aveva osato passeggiare per il Bois come facevano tutti i borghesi influenti della ville. Il persiano non gliene faceva un torto, dopotutto, visto che sapeva perfettamente come potesse sembrare curiosa la vista di un gentiluomo che usciva coprendosi un intero lato del viso; la prima volta che l’aveva incontrato lui stesso era rimasto piuttosto perplesso al riguardo, anche se si era ben guardato dal domandargliene ragione.

«Se volete essere alle mie dipendenze dimenticate questa maschera, e io dimenticherò volentieri la pesante taglia di ventimila qiran che pende sulla vostra testa, nella patria dello Shah-in-shah», aveva esordito semplicemente, parlando con voce pacata e fredda come se stesse discutendo del colore dei fiori.

In effetti, si era più volte domandato se il padrone fosse a conoscenza del motivo per cui il suo capo valesse così tanto per il sultano, ma vivendo fianco a fianco a lui per mesi e mesi era giunto alla conclusione che la cosa non aveva dopotutto un valore determinante; i suoi servigi erano fruttuosi e ben apprezzati da monsieur Destler, che lo ripagava con un compenso del tutto onorevole e che allo stesso tempo contribuivano a far sì che il persiano mantenesse i suoi segreti. Non aveva mai sguainato la spada per lui, ma sapeva di essere più che disposto a farlo; la fedeltà che gli doveva era cieca, pressoché assoluta – la qual cosa era uno dei motivi principali per cui aveva accettato silenziosamente di farsi da parte con mademoiselle Sanders. Al riguardo aveva già sfidato il suo signore fin troppo apertamente, e riteneva di aver fatto tutto ciò che poteva – vale a dire non molto, ma solo perché mademoiselle non era parsa interessata a ciò ch’egli poteva offrirle. In caso contrario avrebbe anche accettato di incorrere nelle ire di monsieur Destler, ma visto che la situazione presentava altri esiti aveva desistito: d’altra parte era fermamente convinto di non essere lui, tra i due, quello ad avere più bisogno del conforto che mademoiselle Sanders poteva dare.

Con queste riflessioni rassicuranti, monsieur Bamdad continuò il suo giro tra gli invitati, avvicinandosi a discorrere con messieurs Firmin e André di alcune piccole faccende burocratiche. Meglio approfittare della loro momentanea sobrietà.

 

 

 

Faces...
Take your turn, take a ride
on the merry-go-round
In an inhuman race!

 

L’orologio digitale che portava al polso stava funzionando male già da qualche ora. Gli ingranaggi – o i circuiti elettronici, in qualunque modo si volessero chiamare – sembravano in procinto di fulminarsi come la batteria della torcia e quella del cellulare, segnalando la loro morte con strani sibili e con un rapido indebolimento delle funzioni. Prima che la pila lo abbandonasse del tutto lasciandolo completamente al buio, Jean-Louis fece appena in tempo a vedere un vecchio candelabro in ottone gettato con malagrazia in una pozza di umidità, ancora provvisto di due candele bagnate ma abbastanza lunghe.

Infilando la torcia ormai inutilizzabile nello zaino si inginocchiò sul pavimento in pietra, ignorando il viscidume sotto il palmo nudo delle proprie mani e avanzando tastoni fin quando le sue dita non toccarono il metallo freddo del candeliere; chiunque l’avesse dimenticato in quei sotterranei meritava tutta la sua riconoscenza.

Per fortuna non era stato tanto idiota da portarsi esclusivamente oggetti a batterie. In una tasca laterale del borsone ripescò una piccola scatola di fiammiferi sgraffignata in cucina, e prendendone uno dalla confezione si servì di quella debole luce per afferrare le candele e portarsele in grembo, al riparo da tutta quell’acqua che poteva soltanto rovinarle ulteriormente. Dovette imprecare parecchie volte e accendere almeno una mezza dozzina di cerini prima di riuscire ad far ardere la prima candela.

Con il borsone nuovamente in spalla si rimise in piedi, camminando piano per evitare che qualche spiffero spegnesse accidentalmente la sua unica fonte di luce. Ora, aveva appurato che quei maledetti sotterranei possedevano una particolare struttura labirintica dalla quale sembrava impossibile venir fuori, soprattutto al buio e senza sapere dove fosse l’uscita – visto che l’entrata doveva essere per forza quella sorta di passaggio segreto trovato nel camerino, dietro lo specchio. Poggiò dunque la mano libera, quella destra, sul muro destro della galleria, e iniziò ad avanzare senza mai staccarla dalla pietra; la topologia lo aveva sempre affascinato, e conosceva a memoria gli algoritmi che, almeno secondo la teoria, permettevano di uscire da un labirinto senza possibilità di sbagliare. Purtroppo non aveva nulla per marcare le strade già percorse, ma contava comunque di arrivare alla meta – qualunque essa fosse.

Finalmente, si ritrovò a salire. Le scale potevano significare solo una cosa: si stava allontanando dai sotterranei, e avvicinandosi dunque alla tanto sospirata uscita. Con gli ultimi rimasugli di energia accelerò il passo, superando i gradini a due a due sempre continuando a tenere ben salda la mano sulla parete. Il peso del borsone sulla spalla sinistra stava sfregando dolorosamente sulla carne al di sotto della felpa, aggiungendo anche quel supplizio all’intera maledetta situazione. Imprecando a mezza voce, Jean-Louis raggiunse finalmente un pianerottolo e lì si lasciò cadere a terra, ansimante. La candela si consumò del tutto con un sibilo secco, lasciandolo immerso nell’oscurità, ma il ragazzo non si perse d’animo – ormai aveva la sensazione di essere prossimo alla meta. Aveva i fiammiferi a portata di mano, nella tasca posteriore dei jeans, e questa volta ci impiegò la metà del tempo per accendere la seconda candela. Avvolto di nuovo dalla fievole luce del lume, che andava via via facendosi più nitida, si guardò intorno senza neppure pensare di alzarsi dal pavimento: i muscoli delle sue gambe erano così indolenziti che non l’avrebbero retto se si fosse messo in piedi.

Quando mise a fuoco il luogo in cui si trovava, un’altra sonora imprecazione sgorgò dalle sue labbra.

«Un vicolo cieco», sibilò affannato, deglutendo a stento. Erano ore ormai che non beveva un sorso d’acqua – l’aveva terminata da tanto, visto che si era portato appresso solo una bottiglia da due litri senza prevedere che si sarebbe perso nelle viscere di quel dannato teatro – e la sete lo stava facendo impazzire. Sperò con tutto sé stesso che Giulia non fosse più in quelle tetre catacombe, perché se così fosse stato a quel punto sarebbe dovuta essere morta di stenti nonché di freddo.

Cercando comunque di attingere agli ultimi brandelli di lucidità, Jean-Louis si mise in ginocchio e poi, faticosamente, in piedi. Sollevò la candela in alto davanti a sé, illuminando la parete, alla ricerca di qualsiasi cosa che potesse restituirgli un briciolo di speranza. Con la mano libera sfiorò il muro mattone per mattone, pietra per pietra, alternando pugni a piccoli colpetti per cercare di capire se al di là di quella barriera ci fosse il vuoto o meno. Stava quasi per lasciar perdere e tornare indietro – idea folle, sì, ma non sapeva cos’altro fare – quando le sue dita indolenzite sfiorarono quelli che, a un primo tocco, sembravano cardini.

  Una soffocata esclamazione di trionfo accompagnò quella scoperta. Un passaggio segreto, aveva trovato un altro maledetto passaggio segreto! Ovunque esso conducesse, non poteva di certo essere peggiore del luogo dal quale era venuto. Partendo dai cardini, si mise dunque a percorrere febbrilmente con le dita il contorno della porta, sentendo il solco che la separava dalla parete ma che sarebbe stato impossibile notare ad una prima occhiata. Arrivò dunque a calcolare che il passaggio doveva essere largo approssimatamente un metro, e come altezza non raggiungeva il metro e sessanta: per quanto fosse comunque fatto di pietre e mattoni, Jean-Louis sperò che i cardini ne rendessero più facile l’apertura.

A quel punto iniziò a premere su ciascun mattone, partendo dall’angolo in alto a destra e perlustrando tutta la superficie di quella porta facendo bene attenzione a non tralasciare nulla.

Poi, uno scatto.

Jean-Louis imprecò, sussultando per quel rumore improvviso e indietreggiando di un passo. Ma prima che potesse riprendersi dallo stupore sulla parete apparve uno spiraglio sottile, una scia di luce così flebile che soltanto in mezzo ad una completa oscurità avrebbe potuto notarla. Vi mise la mano sopra, incredulo, e uno spiffero d’aria gli accarezzò il palmo.

Ce l’aveva fatta.

Infervorato da quella piccola vittoria, si mise a spingere con le sue ultime forze contro quella fessura, notando che la parete si apriva agilmente verso l’interno e senza neppure scricchiolare sui cardini. Ciò significava che doveva essere un passaggio utilizzato molto spesso, ma chi diavolo ci poteva passare, considerando poi il labirinto dal quale era faticosamente venuto fuori?

Tutto questo, comunque, non gli importava. Dopo aver spalancato il passaggio quel tanto sufficiente per poterci passare, sgusciò all’esterno e strinse gli occhi per riabituarsi alla violenta luce delle lampade. Dietro di lui, un tonfo lo avvisò che, priva del suo sostegno, la porta segreta si era richiusa ingoiando anche il suo borsone. La sua mente ad ogni modo era già altrove.

Per quale diavolo di motivo al teatro c’era una festa in maschera? Per quello che ne sapeva lui, l’Opèra Garnier aveva smesso di organizzare eventi simili dopo la fine della guerra, inoltre nessuno lo aveva avvisato che ci sarebbe stato un qualche tipo di festeggiamento durante le indagini della polizia su sua sorella. Tutti quegli invitati non avrebbero potuto inquinare le prove, forse?

Quando vide una coppia di maschere giungere danzando verso l’angolo nel quale era nascosto, decise che sarebbe stato meglio non farsi vedere. Avrebbe dovuto spiegare la sua presenza ad un party al quale non era stato invitato, e, per quanto fosse comunque il figlio maggiore di Eloise Gauthier, non era di certo abbastanza in ghingheri per parteciparvi.

Tutto quel lusso all’improvviso, e lui doveva avere l’aspetto e l’odore di un barbone.

Senza riuscire a smettere di imprecare cercò di fare mente locale e individuare dove fosse la biglietteria, perché lì avrebbe di certo trovato qualche cappotto o qualche cosa da indossare per passare inosservato. Stranamente, però, il bancone della reception non c’era: al suo posto vi erano degli antichi divanetti in stile Luigi Filippo, e dove era convinto che avrebbe trovato almeno le toilette vide invece una porta con la scritta dorata Garde-robe.

Pensando che probabilmente dovevano aver modificato qualche cosa in vista di quel ballo improvviso, Jean-Louis riuscì a sgusciare all’interno della cabina armadio, rinunciando a cercare l’interruttore della corrente per paura che qualcuno potesse accorgersi della sua presenza. Si fece quindi bastare l’illuminazione soffusa di una lampada da tavolo, per poi andare a tentoni nella lunga fila di indumenti appesi. Non trovò granché, ma dovette accontentarsi: si gettò addosso un mantello nero rubato dal guardaroba e, agganciandosi frettolosamente i nastri di una maschera del medesimo colore trovata nella tasca di un cappotto, abbandonò la stanza per infilarsi con noncuranza in mezzo alla folla danzante.

Qualsiasi cosa fosse quell’incubo carnevalesco, lui doveva ancora trovare sua sorella e riportarla a casa.

 

Masquerade,
Run and hide -
but a face will still pursue you!

 

 

 

 


















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Angolo Autrice.
 

Il balletto de Il lago dei cigni, di Pëtr Il'ič Čajkovskij, venne presentato per la prima volta al Teatro Bolshoi di Mosca il 20 febbraio 1877. Come è noto, la prima rappresentazione non ebbe un esito molto felice: in effetti, fu piuttosto deludente – le scene erano allestite in modo scadente, ai ballerini venne permesso di improvvisare i passi e persino l’orchestra non diede il meglio di sé. Solo dopo la morte del compositore, nel 1895, la direzione del balletto passò a mani più esperte, e finalmente il 15 gennaio 1895 l’opera ebbe il successo che meritava.
Cosa c’entra questo con la nostra storia? Mah, forse nulla alla fin fine, ma ci tenevo a fare delle piccole precisazioni. Ad essere sincera non so quando il balletto venne rappresentato per la prima volta a Parigi, ma visto che divenne davvero famoso solo nel 1895 non credo che nell’Europa occidentale fosse molto conosciuto. Ho supposto, in questo capitolo, che Erik, in quando direttore artistico e appassionato del settore, ne fosse a conoscenza un po’ perché gli è stata fatta richiesta di portarlo nel suo teatro e un po’ perché dubito che uno come lui non si mantenga al corrente di tutto ciò che accade nelle scene del resto del mondo.
Quindi, se la cosa appare un po’ anacronistica e/o forzata, mi scuso e spero che i lettori me la facciano passare. :D Anche perché mi sembrava interessante paragonare Erik al malvagio Rothbart, così come contrapporre “Odile” (Giulia) a “Odette” barra “domino bianco” (Christine).

Comunque. Come al solito in ritardo, non mi trattengo molto se non per chiedervi scusa visto che questo è l'ennesimo capitolo di transizione - ultimamente sembra che non riesco a sfornarne altri. D: Ma adesso basta, d'ora in avanti solo azione, promesso ù_ù
Passo subito ai ringraziamenti per le gentilissime e splendide fanciulle che hanno recensito lo scorso capitolo, e do il benvenuto anche a coloro che giungono or ora ad avventurarsi in questa lettura odisseica (esiste questo termine? °_°) - non finirò mai di stupirmi per tutti i gentili commenti che mi spingono ad andare avanti! Ma ovviamente mi piacciono anche le critiche e i consigli, perchè mi spingono a migliorarmi e questa è una cosa che avrà mai fine perché non si finisce mai d'imparare.
Per tornare alla musica composta da Erik nello scorso capitolo, e che io ho fatto coincidere con The Portrait, in effetti devo darvi ragione: non ci stava granchè bene D: Forse sarebbe stata più adatta qualcosa del genere --> The Aerie Ma d'altra parte io non sono il Fantasma dell'Opera né tantomeno un genio della musica quindi non ne ho idea. xD
Okay, missà che non altro da dire, se non: abbiate una pazienza infinita perché il prossimo capitolo lo vedo in alto mare! A meno che non mi colpisca il fulmine dell'ispirazione, cosa che vedo difficile visto tutta la roba che ho da studiare, gli esami da dare e le lezioni da seguire. :/ Ma voi non demordete! Considerate che sono riuscita ad arrivare al 26 capitolo quando credevo che non sarei mai andata oltre il terzo. xD
Di nuovo grazie mille a tutte, venite a trovarmi su Faccialibro quando volete!
Un bacio e un abbraccio, con affetto vostra
Niglia.

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Capitolo 29
*** 27. Look back on all those times ***


Chapitre 27

Look back on all those times
















    Rammentava di essere già stata in passato ad un ballo molto simile.
    Era come il ricordo di un sogno.
    Aveva sperato che la serata fosse perfetta, come lo erano stati gli ultimi tre mesi senza alcuna ombra minacciosa che gravava alle sue spalle: era al braccio di uno dei partiti più appetibili di Parigi, invidiata da qualsiasi esponente della razza femminile, ammirata da ogni uomo o ragazzo, applaudita dal suo pubblico – non c’era nient’altro che avrebbe potuto desiderare.
    Lei, una semplice ballerina di fila, era diventata promessa sposa di un visconte. Un visconte!
    Certo, il fidanzamento doveva rimanere un segreto: non erano ancora abbastanza al sicuro da poter vivere il loro tenero amore alla luce del sole.
    Aveva creduto che sarebbe bastato non indossare l’anello al dito per essere tranquilla… Come era stata ingenua!
    Proprio quando la masquerade aveva raggiunto il suo culmine, mentre stava per concedere un bacio al suo fidanzato per suggellare il loro tacito accordo, la musica era cessata bruscamente.
    Qualcosa – forse una folata di vento? – aveva spento tutte le candele, non potendo nulla contro le sporadiche lampade a gas che davano l’impressione di essere simili a fuochi fatui sparsi nel buio.
    Tutti coloro che erano stati impegnati nel ballo si immobilizzarono, sorpresi, preoccupati, spaventati, si guardavano l’un l’altro nella vana attesa che i direttori del teatro riaccendessero le luci e spiegassero lo scherzo agli invitati sollevati.
    L’oscurità, la paura dell’ignoto, metteva a disagio.
    Ma nulla di tutto questo accadde. Là, in cima alla scalinata principale del foyer, come sbucata dal nulla, si stagliava l’imponente figura di un uomo mascherato, ammantato di rosso dalla testa ai piedi, il volto coperto da una scarna maschera bianca che pareva il teschio di un morto.
    I suoi occhi – sembravano fiamme ardenti – percorsero intimidatori la folla che si era assiepata alla base delle scale per osservare l’apparizione, il terrore sconfitto da una infida curiosità.
    Lei sapeva chi stava cercando.
    Spaventata, cercò di indietreggiare; ma in quel momento venne catturata dal suo sguardo, e a quel punto non poté più muoversi.     Le parve di udire distrattamente al suo fianco Raoul bisbigliarle di non fare nulla, ma poi il visconte se ne andò chissà dove e lei rimase da sola a fronteggiare il suo incubo.
    Essa scese le scale senza staccare un solo istante gli occhi dai suoi, come se temesse che, distogliendoli, potesse farla scappare, ma niente sarebbe riuscita a smuoverla da lì.
    Qualcuno, lungo la sua discesa, allungò una mano per toccare il mantello rosso che si allargava alle sue spalle come una macchia di sangue, e questo l’uomo non lo tollerò: le sue dita guantate di nero strinsero il polso impudente dello sventurato, costringendolo a piegarsi in ginocchio e a gemere nell’implorare pietà, e nel lasciarlo andare lei lo sentì mormorare: «Non toccatemi! Sono la Morte Rossa.»
    E poi le fu di fronte. Avanzare verso di lui fu così naturale che dimenticò tutto il resto, dimenticò i suoi timori, i suoi dubbi, i suoi tradimenti – probabilmente si sarebbe gettata giù dal tetto del teatro se solo lui glielo avesse chiesto, tanto era incondizionato e assoluto il potere ch’egli aveva su di lei.
    Ma poi l’incanto si spezzò: gli occhi di brace vennero distratti da un movimento alle sue spalle ch’ella non poté vedere, ma che tramutò in una smorfia di furia cieca l’espressione dell’uomo. Allungò una mano verso il suo collo nudo, e lei riuscì solo a rabbrividire al contatto del cuoio dei suoi guanti prima che la catenina alla quale aveva appeso l’anello di fidanzamento a mo’ di ciondolo le venisse strappata via.
    Con un ringhio, l’uomo glielo mostrò come la prova di un orrendo delitto.
    «Le tue catene sono ancora mie», sibilò, furioso. «Tu appartieni a me!»
    Insieme al dolore, la paura le crollò addosso con tutto il suo peso. Trattenne il fiato, indietreggiò nella vana ricerca di un aiuto, ma lui aveva concluso la sua visita ed era sparito in una nube di fumo e fiamme come inghiottito dalle viscere della terra.
    Le occorsero parecchi minuti per riprendere a respirare normalmente.



Era una fortuna che il braccio di Erik fosse così solido sotto la sua stretta, come uno scoglio durante un naufragio. Fu costretta ad aggrapparvisi per evitare di inciampare nell’orlo dell’ingombrante vestito, ma le tempie continuarono a pulsarle dolorosamente anche dopo che ebbe riacquistato l’equilibrio.

«Tutto bene?» La voce preoccupata del suo cavaliere la riscosse da quella strana trance, rendendola acutamente consapevole di tutto ciò che li circondava. Giulia cercò di annuire, raddrizzò la schiena, ma il movimento le causò un’altra ondata di nausea e un capogiro che la fece gemere, dolorante.

Senza neppure fingere di credere alla sua risposta, Erik le passò un braccio intorno alla vita per reggerla meglio qualora avesse avuto un altro mancamento. «Vieni, sediamoci un momento», propose gentilmente, ma con fermezza. L’accompagnò presso una nicchia appartata dietro lo scalone, facendola accomodare su di una poltrona libera e sistemandole premuroso un cuscino dietro la schiena. Vista la mancanza di altri posti a sedere, egli fu costretto ad inginocchiarsi sul pavimento dinnanzi a lei. «Va un po’ meglio?»

La giovane chiuse gli occhi, piegando il capo all’indietro sullo schienale della poltrona e prendendo dei profondi respiri. Almeno adesso non aveva più il timore che le gambe tremanti la abbandonassero una seconda volta. «Non so cosa sia successo», confessò a mezza voce, sfilandosi la maschera per riuscire a respirare meglio. «Non appena ci siamo affacciati nel salone ho avuto l’impressione di aver già vissuto una scena simile… Poi mi si è annebbiata la vista e ho perso l’equilibrio.» Man mano che parlava ritrovava il suo consueto tono di voce, e si sentiva sempre più in imbarazzo.

Palesemente sollevato, l’uomo le prese una mano e gliela strinse dolcemente, immaginando il suo disagio. «Sono cose che capitano», la confortò, addolcendo il tono. «Soprattutto vista tutta la tensione che devi aver accumulato in quest’ultimo periodo.»

Giulia annuì lentamente, sentendosi il viso gelido come per l’assenza di sangue – era forse vicina ad avere un collasso? Forse la strana sensazione che aveva avuto tutto il giorno era dovuta all’ansia, una sorta di campanello d’allarme che l’avvisava dell’imminente crollo fisico ed emotivo. Tuttavia ciò non spiegava la strana allucinazione – una sorta di déjà-vu? – che aveva avuto prima del capogiro. Era come rivivere un’intera scena del proprio passato, con la sola differenza che, malgrado la perdita di memoria, era pressoché sicura di non averla mai vissuta. Anche perché si supponeva, o almeno così aveva detto il dottore, che tutti i suoi ricordi le sarebbero tornati gradualmente, magari nel sentire un odore, un sapore, e non di certo dopo aver visto un intero squarcio della sua vita antecedente all’amnesia – cosa che comunque non era accaduta, dato che continuava ad avere l’inquietante sensazione di aver appena rivissuto la vita di un’altra persona.

Continuando a riflettere in quel modo il mal di testa non le sarebbe mai passato.

La mano di Erik, improvvisamente priva di guanto, si posò dolcemente sulla guancia pallida e fredda della giovane; ella sorrise, grata per la sua vicinanza, e con un sospiro si abbandonò contro quella muta carezza. Tutt’a un tratto non era più tanto propensa ad immergersi nella caotica folla danzante che gremiva l’intero teatro. Come se le avesse letto nella mente, l’uomo diede voce ai suoi pensieri.

«Preferisci andare via? Possiamo tornare alla Dimora sul Lago e riposarci un po’», propose, osservando le dita sottili di Giulia che si intrecciavano istintivamente alle proprie. Mademoiselle Sanders apprezzava davvero tanto il modo che aveva Erik di parlare, quel proporle qualcosa ch’ella desiderava come se fosse stata una decisione di entrambi e non solo sua, così da non farla sentire in colpa per la sua improvvisa mancanza di voglia di partecipare al ballo. Tuttavia, malgrado l’idea di ritornare in dei luoghi appartati e tranquilli come lo erano i sotterranei del fantasma fosse piuttosto allettante, si rese conto che non poteva essere così manchevole di garbo nei suoi confronti da privarlo di uno dei pochi divertimenti che un uomo come lui poteva avere. Dubitava che Erik fosse particolarmente avvezzo a quegli eventi mondani, e impedirgli di parteciparvi l’unica sera in cui avrebbe potuto svagarsi ed essere trattato come pari da quegli stessi individui che lo avevano sempre denigrato ed insultato, ecco, le sembrava ingiusto.

Per cui scosse il capo, riuscendo a sorridere malgrado l’aria seguitasse a mancarle a causa del corsetto troppo stretto. «No, Erik, non ti preoccupare. È già passato», lo rassicurò, continuando malgrado ciò ad aggrapparsi alla sua mano. «Ho solo bisogno di bere un po’ d’acqua… o qualcosa di più forte… E poi sarò tua per tutti i balli che desideri.»

«Bada, mi ricorderò di questa promessa», l’avvisò lui, con un finto tono minaccioso. Ella rise e l’uomo si sentì subito sollevato: non poteva dire di non essersi spaventato quando l’aveva vista impallidire come se fosse stata in procinto di perdere i sensi.

Giulia si raddrizzò, le labbra ancora arcuate in un sorriso, e prese a risistemarsi la maschera. Erik la osservava assorto: era trascorso appena più di un mese da quando si era mostrato a lei – come uomo, non come fils du Diable – e in quei trenta giorni egli aveva sfiorato la felicità tante di quelle volte da averne ormai perso il conto. Diavolo, come poteva essere possibile? Neanche molto tempo prima si era rassegnato all’esistenza vuota e solitaria che era tipica di ogni fantasma, mentre adesso, invece, se allungava una mano era sicuro di sfiorare quella della giovane. La conosceva da poco, è vero, eppure gli sembrava trascorsa una vita intera dalla prima volta che l’aveva vista, priva di sensi e febbricitante nei cunicoli che portavano al suo dominio: non osava perdersi nei ricordi che riguardavano la sua esistenza antecedente all’arrivo di mademoiselle Sanders – tutto era troppo oscuro, allora, angosciante, disperato, vizioso che non valeva la pena indugiarvi oltre. E pensare che all’inizio non l’aveva praticamente degnata di attenzione… Forse, se non fosse stato per la straordinaria somiglianza con la viscontessa De Chagny, l’avrebbe lasciata morire sul gelido pavimento del Cunicolo dei Comunardi.

No, non l’avrebbe fatto. Poteva essere anche un mostro, sì, ma ve ne erano di diversi tipi.

Qualsiasi cosa si celasse nell’ignoto passato della ragazza, ad ogni modo, a lui non importava – così come a lei non importava quello che si celava nel suo: ciò di cui era certo, sicuro come l’Inferno, era che non le avrebbe mai permesso di lasciarlo. Lei, solo lei, era soltanto sua, maledizione – nessun Dio poteva essere tanto crudele da privarlo anche di quell’unico raggio di sole!

Un tempo aveva ucciso, sì, aveva torturato; le sue mani grondavano sangue e la sua spada, così come il suo cappio del Punjab, ispiravano un sacro timore. Non si vantava di ciò che aveva fatto, eppure non riusciva nemmeno a pentirsene, giacché tutti i peccati che gravavano sulla sua coscienza erano dovuti ad un semplice, e forse discutibile, istinto di sopravvivenza – tipico di tutte le bestie. Lei, questo, sembrava averlo compreso, e non avevano mai approfondito oltre la questione; tuttavia essa attendeva lì, in un angolo, sempre pronta a saltare fuori al momento meno opportuno… come una spada di Damocle appesa ad un filo sopra la loro testa.

Ogni cosa a suo tempo.

«Un soldo per i tuoi pensieri», lo richiamò proprio il soggetto di essi, abbozzando un sorriso.

L’uomo lo ricambiò volentieri, alzandosi e scrollandosi istintivamente i pantaloni. «I miei pensieri non lo valgono, quel soldo», replicò, porgendole una mano e aiutandola ad alzarsi benché l’espressione contrariata di Giulia indicasse chiaramente che non ne aveva bisogno. Quel lieve mancamento ingiustificato l’aveva messa di cattivo umore, malgrado stesse cercando di nasconderlo.

La giovane aveva ormai capito che se Erik si rifiutava di rispondere direttamente a una sua domanda, sviandola argutamente o rispondendo con dell’ironia, allora non aveva nessuna intenzione di farlo. Per cui lasciò perdere e abbandonò il confortante rifugio della poltrona. «Ho assoluto bisogno di bere qualcosa», desiderò ad alta voce, guardandosi intorno alla ricerca di qualche cameriere in livrea.

«Se mi aspetti qui, vado a cercare qualcosa e torno in un attimo», si offrì lui con compassata galanteria, accennando un mezzo inchino.

«Niente acqua, però, Erik», gli fece presente Giulia con un sorriso.

La leggera risata dell’uomo riuscì a scacciare il suo malumore. «Come la mia signora desidera.»

Erik era appena sparito in mezzo alla folla, quando la giovane si sentì tirare per un lembo del vestito. Il suo cuore parve fermarsi ed ella si voltò di scatto, ritrovandosi ad osservare un costume con così tanti fiori, nastri, merletti, perle e piume da acuire la sua incomprensibile agitazione; ma quando infine vide chi si nascondeva dietro quello stravagante travestimento non poté fare a meno di darsi silenziosamente della sciocca.

«Meg!» La riconobbe, mentre l’amica sorrideva lieta del riconoscimento. Sperando che Meg non notasse il movimento, si portò una mano al petto come a fermare i battiti inferociti del suo cuore.

«Mio Dio, chèrie, sei splendida!» Fu la risposta della giovane ballerina.

Giulia si sfogò con una mezza risata liberatoria e scosse la testa, prendendo una mano dell’amica e facendole fare una breve giravolta su se stessa. «Posso dire lo stesso di te», replicò sorridente, ricambiando il complimento. «Anche se non riesco a capire da chi ti sei travestita!»

«Oh, sono Titania, la Regina delle Fate», spiegò, sollevando il mento con affettato fare aristocratico.

Esibendosi in un inchino esageratamente profondo, mademoiselle Sanders stette al gioco. «In tal caso vi porgo i miei più sentiti omaggi, Vostra Maestà», dichiarò, sforzandosi di rimanere seria.

Tuttavia la successiva risata della Giry vanificò i suoi tentativi. Prendendola sottobraccio, condusse Giulia verso la lunga tavola imbandita sulla quale faceva bella mostra di sé un invitante buffet, che per fortuna non era ancora stato preso d’assalto grazie alla musica che spingeva i presenti a danzare ignorando i desideri del proprio palato. Assaggiando dei piccoli crostini alla frutta, le due ragazze spiarono con sincera curiosità la folla di nobili che le circondava.

«Allora, c’è anche madame Giry o sei venuta da sola?» Domandò Giulia, non resistendo a un secondo dolcetto. Notò che l’amica arrossiva al di sotto della maschera in pizzo che le ricopriva la parte superiore del volto, ma per discrezione non infierì e lasciò che fosse lei a raccontarle tutto.

«Suppongo che maman ci sia, sai, deve controllare la situazione e tutto il resto», esordì, con un gesto della mano che indicava quanto fosse tipico quel comportamento da parte dell’insegnante di danza. «Ma ammetto di essere venuta accompagnata da qualcuno», aggiunse, volutamente misteriosa.

«Meg, e non mi racconti nulla? Potrei offendermi!» Ribatté l’amica con un sorriso, incrociando le braccia sul petto e attendendo il resto della storia.

Giulia non aveva mai visto Marguerite Giry arrossire così tanto.

«Non c’è nulla da raccontare», si schernì, palesemente imbarazzata. «Rammenti Emilien Mercier? Il ragazzo che sostituisce il primo violino dell’orchestra quando questi è indisposto?»

Stringendo gli occhi per individuare con gli occhi della mente il giovane in questione, e dopo averlo finalmente inquadrato, Giulia annuì. «Se ho ben capito, è quel ragazzo tanto carino con i capelli rossi che ti spia da dietro le quinte durante le prove dei balletti», la provocò con un sorrisetto malizioso, abbassando opportunamente il tono di voce.

«Ma cosa dici!» Protestò Meg, ringraziando la maschera che copriva almeno in parte il suo imbarazzo.

Sforzandosi di non ridere, Giulia la invitò a continuare. «Sicuramente mi sto confondendo. Dai, vai avanti», insisté, offrendole un altro pasticcino per farsi perdonare.

Per quanto poco convinta, l’altra annuì. «Sì, dunque», riprese, accettando il dolce. «Ebbene, mi si è avvicinato proprio l’altro ieri, durante la pausa tra un atto e l’altro del balletto, con… Oh, non ridere… Con una maschera in una mano e un fiore nell’altra, e me le ha porse entrambe chiedendomi se poteva essere così sfacciato da sperare che io non avessi ancora un cavaliere per la masquerade dell’ultimo dell’anno.»

Parlando, Meg si era fatta sempre più vicina all’amica, fino a ritrovarsi a bisbigliarle l’innocente racconto ad un orecchio, o quasi. «È davvero molto gentile, pensa che è venuto fino a casa con una carrozza… Presa dalle stalle del teatro, mi ha detto, monsieur Girodelle, lo stalliere, gli ha permesso di prenderne una… E persino maman ha evitato di storcere il naso», concluse con una mezza risatina, portandosi dietro l’orecchio un boccolo sfuggito all’acconciatura.

«Ma chère, sono felicissima per te», sorrise Giulia, sinceramente lieta per l’amica. «Prima o poi dovrai presentarmelo, però, voglio proprio vedere da vicino il giovanotto che ti fa arrossire in questo modo!»

«Non hai bisogno di chiederlo», la tranquillizzò la Giry con una pacca sul dorso della mano. In un battito di ciglia, però, l’espressione spensierata e scherzosa che aleggiava nei suoi occhi grigi venne rapidamente sostituita da un’ombra scura e grave, tanto che l’amica si ritrovò a guardarsi intorno per paura che stesse accadendo qualcosa di male. Tuttavia i vari nobili continuavano a bere, mangiare, danzare e ridere indisturbati, e perplessa tornò ad osservare Meg. «Cosa c’è?» Le chiese.

«Tu invece da chi sei stata accompagnata?» Mormorò la ballerina, senza abbandonare un solo istante i suoi occhi. Il suo tono e il suo intero atteggiamento suggerivano ch’ella sapeva già perfettamente chi fosse il suo cavaliere per la serata, ma sembrava che chiunque glielo avesse riferito non fosse una fonte sufficientemente certa, così doveva essere giunta alla conclusione che era sempre meglio domandare alla diretta interessata.

Con un sospiro, Giulia ricambiò altrettanto seriamente il suo sguardo. «Esattamente da chi pensi, Meg», fu la sua unica, laconica risposta.

Sforzandosi di non lasciar trapelare nessuna emozione dalle espressioni del volto, la ballerina strinse appena più forte la mano dell’amica. «Non mi hai mai raccontato cos’è accaduto la notte di Natale.» Fu solo un bisbiglio, ma l’altra lo udì alla perfezione – forse perché Meg continuava a starle vicina come se fosse stata il suo mantello.

Si allontanò dunque di qualche passo in modo da poter guardare l’amica in viso, cercando di intuire che cosa potesse passarle per la mente anche attraverso il travestimento che le impediva di decifrare per intero le sue espressioni. «Questo perché non è accaduto nulla, Meg», puntualizzò Giulia, inarcando un sopracciglio. Temeva di chiedere cosa volesse insinuare, perché era pressoché certa che non le sarebbe piaciuta la risposta.

Comprendendo di essere andata oltre, Meg si affrettò a rettificare. «Non volevo sottintendere nulla, per l’amor del Cielo!» Fece, arrossendo lievemente. «Solo… Il saperti da sola con lui non mi ha fatto dormire sonni tranquilli, lo ammetto», insisté, mordicchiandosi il labbro inferiore.

«Meg, tu sai che ti voglio un bene infinito e che apprezzo la tua preoccupazione e tutto il resto», esordì Giulia, ricambiando gentilmente la stretta della mano. Il suo sguardo, tuttavia, si fece risoluto. «Ma la nostra amicizia potrebbe rovinarsi se tu e madame continuerete ad avere tutti questi pregiudizi. Ti prego, Meg, non mettermi in condizione di dover scegliere tra voi e lui», concluse, con un accento disperato.

Per quanto fosse poco convinta, la giovane Giry si sforzò di sorridere. «Non lo farei mai, chèrie. Non mi intrometterei mai nelle tue scelte se non pensassi di farlo per il tuo bene, ma comprendo anche che sei abbastanza adulta e responsabile da poter gestire cose simili da sola, per cui… Ti chiedo solo di perdonarmi se il mio comportamento in qualche modo ti ha offeso.»

Giulia non resistette più e abbracciò forte l’amica, sentendosi tremendamente in colpa. «Sono io che dovrei chiederti scusa», ribatté, sussurrandole di nuovo all’orecchio. «È da prima di Natale che ho escluso tutti da ciò che mi accadeva, compresa tu che qui sei la mia unica amica. Avrei voluto confidarmi e raccontarti ogni cosa, credimi, ma ciò di cui tu e madame Giry eravate a conoscenza per tutto il tempo mi ha trattenuto dal farlo perché mi sono sentita in un certo senso tradita…» Con un sospiro si allontanò di poco, giusto il tanto necessario da poter ricambiare il suo sguardo. «Niente più segreti tra noi, Meg, ti prego. Non sono una bambina che deve essere protetta dall’uomo nero.»

L’ultima frase era stata pronunciata con un tono volutamente scherzoso, così da alleggerire l’atmosfera e liberare il petto di entrambe da un pesante fardello di rammarichi e dispiaceri.

Asciugandosi discretamente una lacrima, Meg sorrise tremula. «Direi proprio di no, cara la mia Giulia», ammise, annuendo. «Propongo di lasciare tutte queste brutte storie all’anno vecchio che si conclude stanotte, e iniziare quello nuovo con propositi assai più generosi e amichevoli; concordi con me?»

Mademoiselle Sanders non poteva trovarsi più d’accordo. «Assolutamente!»

Un ultimo e sentito abbracciò sancì i loro progetti per il milleottocento-settantotto, cosa che avvenne sulle ultime note di chiusura di un’allegra quadriglia. Solitamente, ad ogni ballo di gruppo si alternava un valzer, dunque dame e cavalieri si disposero sulla pista in modo da lasciare ampio spazio alle coppie che dovevano esibirsi.

«Oh, è il momento del cotillon… Devo andare a cercare Emilien, è a lui che ho promesso questo ballo!» Esclamò la piccola Giry, guardandosi intorno con un accenno di nervosismo; in effetti trovare il suo compagno in quell’accozzaglia di maschere, piume e sete preziose poteva non essere molto semplice.

«Allora cosa aspetti? Corri prima che l’orchestra riprenda a suonare», la esortò l’amica, sorridendole complice e comprensiva. Dopo averle schioccato un bacio affettuoso sulla guancia, Meg scomparve tra la folla e Giulia rimase nuovamente da sola.

E adesso, dove era finito Erik? Doveva semplicemente cercare da bere, e invece era via già da un bel po’ di tempo – doveva forse preoccuparsi? Approfittò del fatto che tutti i presenti erano impegnati nelle danze per allontanarsi dal foyer e salire la scalinata principale: contava, dall’alto, di poter individuare il suo compagno anche in mezzo alla folla, anche perché dubitava ch’egli si fosse gettato nelle danze. Maledicendo ad ogni gradino la lunga gonna del vestito che le finiva in mezzo ai piedi, Giulia riuscì finalmente ad arrivare in cima senza cadere o inciampare. Visto che il fiato iniziava a mancarle – Dio, Erik aveva stretto davvero troppo i lacci del suo corsetto – e che non poteva allentarli, optò se non altro per liberarsi della maschera che non la stava facendo respirare e le accaldava il viso. Una volta liberatasene sentì l’aria fresca sul volto e sospirò, sollevata: non voleva rischiare che le venisse un altro mancamento, adesso che non c’era neppure il suo Maestro a sorreggerla.

Là, dall’alto della balconata, si poteva godere di una visuale completa di ciò che accadeva nel salone sottostante: Giulia vide Meg danzare con un bel moschettiere, che doveva essere senza ombra di dubbio il giovane Mercier di cui le aveva parlato. Con un sorriso soddisfatto e compiaciuto per l’amica, lo sguardo della ragazza vagò oltre, ammirando gli ornamenti e i festoni che abbellivano il teatro rendendolo molto meno spaventoso di quanto apparisse in genere, durante le sue escursioni notturne sotto la guida di Erik.

Ah, eccolo finalmente!

Con un sorriso sollevato vide sbucare l’uomo da una porta secondaria, e dirigersi con passo autoritario e deciso – come se fosse il proprietario del teatro, cosa che non si discostava poi tanto dalla realtà – verso il punto in cui l’aveva lasciata, minuti prima, e dove lei aveva incontrato Meg. In mano aveva due bicchieri, segno che non si era dimenticato di portarle da bere come aveva promesso, ma quando non la trovò si irrigidì e si guardò intorno, preoccupato. Un giovane in preziosi abiti orientali gli si avvicinò immediatamente e gli mormorò poche parole all’orecchio, e quando questi si discostò dal suo signore Erik alzò lo sguardo sulle balconate fino a posarlo su di lei. I muscoli delle sue spalle si rilassarono palesemente una volta che l’ebbe individuata.

Giulia lo salutò agitando una mano e sorridendogli, ma vedendo che l’uomo si stava dirigendo a sua volta verso lo scalone decise di aspettarlo lassù invece di raggiungerlo dabbasso – anche perché non voleva perdersi una seconda volta in mezzo alla calca.

Era così concentrata a seguire i movimenti del suo compagno che non si accorse della figura ammantata che la stava spiando silenziosa da dietro una colonna.

Jean-Louis non riusciva a credere ai suoi occhi.

Cristo santo, quella ragazza era proprio lei, era Giulia, sua sorella! Malgrado il costume in maschera che stava indossando e un’acconciatura antica che, personalmente, non le aveva mai visto portare neppure durante i gran galà ai quali partecipava la famiglia Gauthier al completo, non aveva alcun dubbio che si trattasse di lei. L’avrebbe riconosciuta tra mille, anche al buio e con gli occhi bendati!

Certo, avrebbe avuto parecchie domande da farle, dopo averla riabbracciata. Tanto per cominciare, che cosa le faceva pensare di essere autorizzata a partecipare in gran segreto ad una festa in maschera quando a casa, a pochi metri da lì, sua madre e suo padre – e anche lui, maledizione – la stavano piangendo come se fosse morta? Inoltre, se aveva voluto scappare di casa come ormai pareva fosse di moda tra gli adolescenti di una certa estrazione sociale, perché era rimasta a Parigi – perché proprio all’Opèra! – dove chiunque poteva riconoscerla e riportarla dai suoi genitori?

Diverse emozioni si susseguirono sul volto e nell’animo del ragazzo – sollievo, per averla trovata viva; rabbia, per averla vista divertirsi come se non le riguardasse il dolore che aveva causato a tutti loro; gioia, perché non poteva impedirsi di provarla ogniqualvolta i suoi occhi si posavano su di lei; e delusione, perché era sempre stato convinto di essere il suo migliore amico e confidente e invece era stato tenuto all’oscuro di tutta quella faccenda come un estraneo qualsiasi.

Strinse gli occhi, perplesso e sospettoso, nel vederla agitare una mano e salutare qualcuno nella folla: ah, dunque non era neanche da sola! Certo, era possibile che si fosse sbagliato e che quella ragazza fosse solo una che somigliava alla sorella – forse desiderava così tanto ritrovarla che la vedeva da qualsiasi parte, chi poteva dirlo? Però, poteva sempre fare una prova.

«Giulia!» La chiamò, in tono abbastanza alto da sovrastare la musica. Vide la ragazza sussultare e voltarsi di scatto, confusa, e impallidire poi quando i suoi occhi castani si accorsero di lui.

Che strano: non sembrava aver dato segno di averlo riconosciuto.

Strappandosi la maschera dal volto, perché credeva che fosse quello il motivo della perplessità della ragazza, Jean-Louis abbandonò il riparo della colonna e colmò i pochi metri che lo distanziavano da sua sorella. Una volta raggiuntala, poi, la afferrò per le spalle scrutandola severo negli occhi.

«Cosa c’è, non mi riconosci più?» Mormorò con voce roca, lasciando libera la rabbia e tutta l’angoscia che aveva provato in quei due mesi di separazione. Poi la strinse in un ferreo abbraccio, senza prestare molta attenzione all’espressione turbata e sgomenta della giovane.

Lei si lasciò stringere, inerte come una bambola.

    Una bambina strappò con furia eccitata la carta di uno dei suoi numerosi regali di Natale. In mezzo alla confusione, dal pacchetto sbucò fuori una deliziosa bambola di porcellana, seduta su un’altalena in ferro dipinto di verde, con i capelli biondi, gli occhi azzurri, una boccuccia rosea e un vestitino di velluto blu.
    Contrariamente alle aspettative del padre, la bambina imbronciò le labbra, scontenta.
    «Cosa c’è, amore?» Le chiese la madre, incerta se ridere o preoccuparsi per quella reazione.
    Incrociando le braccia e abbassando lo sguardo, sempre più triste, la bambina rispose decisa e con un tono arrabbiato: «Non mi piacciono le bambole di porcellana.»
    Il fratellino, più grande di lei di qualche anno, scoppiò a ridere – ma un’occhiata severa del padre fu sufficiente a farlo tacere.

    Cercò di venir fuori con forza da quei ricordi, annaspando come in mancanza d’aria.
    «Che cosa… Chi siete?» Balbettò, sbattendo con forza le palpebre e cercando di respingerlo.
    Rammentava quella bambola di porcellana!
    Trattenne il respiro, e l’istinto la fece aggrappare nuovamente agli indumenti del ragazzo.

    Un altro Natale.

    La bambina ora era una ragazzina ossuta, i capelli castani raccolti in una treccia, i vestiti rubati per dispetto dall’armadio del fratello. Con quegli abiti più grandi di lei sembrava ancora più piccola e magra.
    «Mamma, che palle! Giulia ha preso ancora i miei vestiti!» Sbottò il ragazzo, entrando in salotto e lanciando uno sguardo irritato alla sorella. Per tutta risposta, lei gli fece la linguaccia.
    Una donna dal portamento elegante e dagli abiti altrettanto accurati si affacciò dalla porta della cucina, con un sospiro rassegnato. «Giulia, tesoro, vai a cambiarti. Fra un po’ arrivano i nonni e non voglio che ti vedano vestita come un maschiaccio», decretò, con voce pacata ma inflessibile.
    Sbuffando, la ragazzina si alzò dal divano e lanciò un cuscino sibilandogli uno degli insulti che aveva imparato solo recentemente, a scuola. L’espressione scioccata del ragazzo fu impagabile.

    «Giulia, sono tuo fratello», rispose lui, allontanandosi da lei il tanto sufficiente da poterla guardare in viso: la rabbia iniziale era stata sostituita da un esitante scetticismo. «Sono Jean-Louis!»
    Indossava una semplice maschera nera con dei sottili ricami rossi.

    La sua sciarpa, la sua sciarpa preferita, quella rossa, era finita in mare.
    Il vento gelido di Perros-Guirec non aveva avuto scrupoli a rubarla ad una ragazzina di appena tredici anni, facendola volteggiare sopra il bagnasciuga prima di spingerla oltre, verso le onde.
    Ormai rassegnata, diede le spalle al mare e si incamminò verso suo padre che l’attendeva sul pontile, più avanti, ed era così triste che quasi non si accorse di quanto stava accadendo sulla strada che costeggiava la spiaggia. Si voltò solo quando vide un giovanotto vestito elegantemente che gettava gli scarponcini, la giacca e i guanti sulla sabbia e si gettava in acqua senza pensarci due volte.
    La ragazzina trattenne il fiato, sorpresa e preoccupata e insieme a lei suo padre che nel frattempo l’aveva raggiunta.
    Osservarono entrambi il giovane nuotare con furia fino a raggiungere la sciarpa, afferrarla con un grido di giubilo, fare dietro-front e ritornare a riva.

    Padre e figlia si avvicinarono a lui, e una volta fuori dall’acqua l’uomo coprì il giovanotto con la sua grossa giacca. Egli porse la sciarpa bagnata alla ragazzina, che la accettò con un sorrisetto tremante e un luccichio negli occhi azzurri. «Come ti chiami?» Gli chiese, grata.
    Ansimante, infreddolito e completamente fradicio, il ragazzino aprì la bocca in un sorriso così ampio che fu impossibile non notare la mancanza di un molare. «Sono Raoul!»

Una marea di ricordi la travolse: fu come passare attraverso un’intera vita – no, forse due – in pochi secondi. Il momento prima la sua memoria era una cavità vuota e depredata da chissà quale trauma, e quello successivo tutte le sue memorie, tutte le sue emozioni, i suoi sogni, i suoi incubi, la riempirono con la forza dirompente di un uragano.

L’aria le mancò dai polmoni come se fosse stata improvvisamente spinta sott’acqua; resistere oltre a quell’esplosione di immagini e echi del suo passato fu impossibile, il pavimento crollò sotto i suoi piedi e svenne.






























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Angolo Autrice.


Io odio far svenire le mie protagoniste. Davvero. Non so, la trovo una cosa così melensa, da cliché, da romanzo harmony (e non sto criticando gli harmony perché personalmente ne ho una notevole collezione) - no, peggio, da fanciullina priva di spina dorsale! Però, insomma, delle volte non se ne riesce a fare a meno. Anche perché, e mi sono documentata, all’epoca era all’ordine del giorno che le donne di tutte le età perdessero i sensi – certo, con quegli odiosi corsetti era già un evento che non diventassero blu a causa della mancanza di aria! Per questo avevano sempre dei sali a portata di mano, nella borsetta. E poi, c’era chi sveniva e chi si ammalava di tubercolosi e moriva (vedere La signora delle Camelie), e dato che io all’incolumità della mia Giulietta ci tengo, dovremo accontentarci di vederla svenire ancora per un po’… O perlomeno fin quando non smette di vestirsi in quel modo.
Comunque, riflessioni inutili a parte, finalmente in questo capitolo succede qualcosa – non vedevo l’ora! Adesso che siamo giunti alla svolta, dopo tanto penare, posso tirare un sospiro un sollievo: chi avrebbe mai immaginato che ci saremmo arrivati, a questo punto? Io no di certo. xD E l’ho anche pubblicato dopo meno di una settimana dall’altro capitolo! Ecco, a tal proposito, non fateci l’abitudine. ù_ù
Anyway. Come al solito ringrazio tutti coloro che leggono, silenziosi ma sempre presenti, coloro che recensiscono e, di nuovo, chi continua ad aggiungere questa storia alle preferite, alle seguite o alle ricordate! Grazie, grazie, grazie mille a tutte voi. :)
Ho notato che il brevissimo scorcio del passato di Bamdad vi ha incuriosito: non credevo che questo personaggio riscontrasse tanto interesse! Ma vi ringrazio a nome suo xD Per quanto riguarda il Lago dei Cigli, era da novembre (da quando l’ho visto a teatro) che morivo dalla voglia di infilarlo in questa storia, in un modo o nell’altro – e sono molto felice che l’idea vi sia piaciuta!
Orbene, credo di non aver nient’altro da dirvi per il momento; per qualsiasi dubbio e/o curiosità non esitate, fatemelo sapere u.u Non riesco mai a rispondere singolarmente a ciascuna delle vostre bellissime recensioni, ma prometto di farlo, prima o poi – intanto devo dire a Ellyra che l’idea che questa storia senza arte né parte si trovi stampata nella tua libreria mi ha fatto davvero commuovere! :’)
Un bacione grande a tutti, a presto – spero! Con tantissimo affetto, la vostra
Niglia
.

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Capitolo 30
*** 28. Dove accadono diverse cose contemporaneamente ***


Chapitre 28

Dove accadono diverse cose contemporaneamente

 

 










 

 

 

 

 

La viscontessa De Chagny non era più abituata a strapazzarsi in quel modo, danzando da una parte all’altra come quando era più giovane e spensierata. Forse erano gli ultimi residui delle fatiche del parto, ma qualunque cosa fosse decise, per non rischiare di sentirsi male, di declinare l’invito del giovane consorte e rimanere in disparte durante il cotillon. Grazie alla maschera nessuno la riconobbe, così poté gironzolare in tutta tranquillità presa sottobraccio dal marito.

Guardandosi curiosamente intorno, si domandò quale, tra quelle maschere, celasse il volto della nuova diva che tanto le somigliava. A Raoul non ne aveva parlato, per un oscuro motivo che non comprendeva neppure lei stessa: eppure cosa c’era da nascondere in una fanciulla che sembrava la sua esatta copia – quasi una gemella, avrebbe detto – che cantava e faceva ciò a cui ella aveva rinunciato per il bene del suo amore e del suo matrimonio? Probabilmente, continuò a riflettere tra sé, temeva che Raoul fraintendesse le sue considerazioni al riguardo, finendo per credere che la madre del suo piccolo erede stesse iniziando a pentirsi di aver sacrificato quello che in passato era stata la sua unica ragione di vita – la musica.

Certi argomenti, benché non fossero proprio proibiti, andavano comunque affrontati con una certa prudente delicatezza.

A interrompere i suoi pensieri giunse una maschera distratta che le passò frettolosamente accanto, urtandola involontariamente e proseguendo per la sua strada senza neppure voltarsi a domandare scusa. La non più mademoiselle Daaè si aggrappò al marito e storse il naso al di sotto della maschera, infastidita e sorpresa da quel comportamento da maleducato; e a quanto pareva se ne era accorto anche Raoul.

«Che razza di insolente», proruppe difatti quest’ultimo, a mezza voce di modo che potesse sentirlo solamente sua moglie. «Si sarebbe almeno dovuto fermare per scusarsi! Se dovesse tornare…»

«Non credo che l’abbia fatto apposta, tesoro. Rilassati e goditi la festa», lo interruppe pazientemente Christine, arricciando le labbra per non sorridere ma senza resistere alla tentazione di seguire con lo sguardo quello sconosciuto. Non era difficile trovarlo in mezzo alla folla, era un uomo robusto, piuttosto alto, e con un travestimento del tutto particolare, che non passava inosservato; come se ciò non fosse bastato, si muoveva come se il mondo intero fosse il suo regno – o perlomeno come se lo fosse il teatro.

Quello strano pensiero la fece rabbrividire senza alcun apparente motivo.

E malgrado ciò continuò ad osservarlo, arrivando persino a sollevarsi sulle punte dei piedi, attirando la curiosità di suo marito che non fece nulla per ricordarle che facendo così andava contro ogni regola della buona educazione: d’altra parte, chi mai avrebbe fatto caso a loro in quell’orgia dionisiaca?

«C’è un motivo per cui stai facendo questo, piccola Lotte?» Sorrise inevitabilmente divertito, nonché sollevato nel vederla così a suo agio. Certo, il fatto che lo fosse più in quel maledetto teatro che in casa loro non gli faceva molto piacere, ma era comunque un passo avanti; inoltre, la felicità della viscontessa era anche la sua, e poco importava a cosa fosse dovuta.

«Un momento solo, Raoul», fece, guardando l’uomo salire i gradini della scalinata a due a due come se stesse fuggendo da un incendio o come se dovesse salvare qualcuno che vi era finito all’interno. L’immenso e prezioso mantello piumato che gli ricadeva, dalle spalle, giù fino ad aprirsi sul pavimento come la coda di un pavone gli rendeva impossibile passare inosservato, dunque Christine continuò imperterrita a seguire lo svolgersi della vicenda che sembrava coinvolgerlo. Vagamente si accorse che anche Raoul aveva iniziato a prestare attenzione a ciò che stava accadendo sulla balconata, a pochi metri di altezza rispetto a loro.

L’uomo che le era finito addosso stava sibilando contro un altro giovane privo di maschera che i coniugi De Chagny non avevano mai visto prima, e che gli arrivava appena più su della spalla; non era difficile intuire che il primo fosse eccezionalmente furioso contro l’altro per chissà quale astruso motivo, e – per l’amor di Dio, aveva stretto la mano intorno all’elsa di una spada? – per evitare di attirare tutti gli sguardi del salone su di loro lo trascinò verso una nicchia appartata, sollevando poi tra le braccia quella che appariva chiaramente come una fanciulla priva di sensi. Discussero ancora a lungo, come se stessero decidendo chi dei due dovesse prendersi cura della donna, ma infine ebbe la meglio l’uomo mascherato; avvolgendo la giovane con un lembo del proprio mantello, forse per proteggerla da occhiate curiose, si diresse verso qualche corridoio che dal foyer era impossibile vedere, con l’altro ragazzo appresso, nella sua scia.

«Credi che dovremo avvisare qualcuno?» La voce bassa e circospetta di Raoul la distolse da quanto appena accaduto, facendola voltare verso il visconte con un’espressione sinceramente preoccupata. Ella sapeva bene quanto potesse essere infido e pericoloso quell’ambiente, fatto di artisti folli, macchinisti bramosi e inopportuni, protettori che non disdegnavano i favori delle giovani ballerine o delle coriste… Il disgusto e il ribrezzo che quei ricordi tuttora le procuravano fece sì che decidesse in un battito di ciglia.

«Credo di aver visto madame Giry, da qualche parte. Vieni, aiutami a cercarla», lo istruì rapidamente, prendendolo per mano e guidandolo serpeggiando in mezzo a quella marea umana. Per quanto il giovane aristocratico non fosse particolarmente lieto di intromettersi nell’ennesimo complotto avente luogo al teatro, non poteva fare altro che assecondare la sua sposa, e cullarsi nella consapevolezza che, per la prima volta, egli non ne era coinvolto in prima persona.

Tuttavia, non andarono molto lontano; un estraneo, che pareva essere appena uscito da un libro di fiabe orientali, si parò all’improvviso davanti ai visconti come se fosse saltato fuori dal pavimento, bloccando loro la strada. Prima che Raoul si indignasse e gli intimasse con poco garbo di levarsi di mezzo, lo sconosciuto parlò.

«I signori hanno bisogno di qualcosa?» Domandò, con una voce calda e sinuosa abbellita da un leggero accento straniero; persiano, forse?

«Non qualcosa, in realtà; qualcuno», rispose Christine senza riuscire a sorridere come avrebbe desiderato l’etichetta; al diavolo le buone maniere, per una volta! «Madame Giry, la conoscete?»

Il persiano riuscì a mostrarsi sorpreso inarcando semplicemente un sopracciglio nero come l’ebano. «Madame Giry, dite? L’insegnante di danza?» Chiese. Una semplice precauzione per non sbagliarsi, giacché in realtà conosceva solo una donna che rispondesse a quel nome.

Quando i due domini annuirono in risposta, monsieur Bamdad aggrottò appena la fronte. «Credo di averla appena vista salire al primo piano, sempre che non l’abbia confusa con qualche altra maschera», ammise, lanciandosi un’occhiata intorno prima di riportare i suoi occhi neri e la sua attenzione sulla fanciulla vestita di bianco. «Per quale motivo la state cercando? È successo qualcosa?»

«Questo non lo sappiamo con certezza, ma mentre siamo qui a conversare amabilmente con voi di sicuro potrebbe già essere capitato qualcosa di orrendo», intervenne Raoul, trattenendo a stento l’irritazione e l’impazienza.

«Allora mi spiegherete strada facendo; prego, monsieur, madame, seguitemi.» Si scostò appena di lato facendo loro cenno con la mano di andare verso la direzione da lui indicata.

 

 

Trovarono madame Giry mentre quest’ultima chiacchierava amabilmente con una maschera di cui non seppero riconoscere il proprietario. La severa insegnante di danza indossava anch’essa un abito di foggia straniera, ma molto differente da quello del persiano: solo qualcuno che avesse letto parecchio e che si intendesse di arte e culture orientali avrebbe saputo riconoscere che la Giry aveva scelto di abbigliarsi con un kimono giapponese – per quanto, ad una più approfondita osservazione, fosse facile notare che l’abito era stato riadattato secondo alcuni dettami della moda occidentale.

Visto che i visconti De Chagny non avevano ancora avuto modo di fare visita a madame Giry da quando erano rientrati nella capitale, Christine ritenne che dovesse essere il persiano a chiedere l’attenzione della donna per primo; cosa che, infatti, fece.

Mentre la loro guida si faceva avanti per attirare l’attenzione di madame Giry, e bisbigliarle poi qualcosa all’orecchio senza badare alla scortesia del gesto, Raoul non poté fare a meno di guardarsi nervosamente intorno, l’espressione di disagio abilmente nascosta dalla maschera nera che gli copriva la metà superiore del viso. Troppi brutti ricordi si celavano dietro le colonne in marmo del foyer, nelle ombre dello scalone, negli anfratti che rimanevano lontani dalle luci delle candele o delle lampade a gas; temeva che le pareti avessero occhi e orecchie come l’ultima volta in cui aveva messo piede in quel tempio della musica e dell’arte, quasi che la morte del suo vecchio nemico non avesse portato all’Inferno insieme a sé anche i residui del suo dominio e i fantasmi della sua vendetta. Si stringeva alla sua sposa inconsapevole, il povero visconte, rimpiangendo di non essere giunto armato e protetto da quegli spiriti dall’illusione del gelido metallo di una pistola. Era difficile lasciarsi alle spalle quanto accaduto in quel maledetto luogo infestato – la tragedia del lampadario, l’incendio, il rapimento di Christine, la morte di Joseph Buquet, del tenore Ubaldo Piangi e quella, assai più personale e spiacevole, di suo fratello Philippe – e con tutta sincerità non riusciva a capire come facesse invece Christine, la quale era stata coinvolta in tutta quella vicenda in modo assai più intimo di quanto era stato lui, giacché l’inganno nei suoi confronti risaliva a molto tempo prima che i due promessi sposi si incontrassero, ecco, come facesse ad essere così tranquilla.

Ma turbarla con i suoi pensieri, ch’ella comunque conosceva sin troppo bene, non avrebbe giovato a nessuno dei due. Per cui finse di essere assolutamente tranquillo quando la loro vecchia amica, se così si poteva chiamare la donna che per lungo tempo aveva protetto il maledetto fantasma, si volse verso di loro e sgranò impercettibilmente gli occhi nel riconoscere nel domino bianco la sua piccola Christine. Quest’ultima si era liberata della maschera per permettere un riconoscimento più rapido, e con le lacrime agli occhi si gettò tra le braccia di madame Giry, stringendola e lasciandosi stringere a sua volta.

Raoul lasciò loro un po’ di tempo per salutarsi e piangere tra loro, ma quando ritenne che i convenevoli fossero conclusi si fece avanti e tossì discretamente per attirare l’attenzione. «Madame Giry… Sono lieto di rivedervi in circostanze più serene dell’ultima volta», esordì, accennando un mezzo inchino col capo.

«Lo sono anche io, monsieur», rispose la donna, e fu sincera; quando la guardò negli occhi, il visconte vide in essi un mare di cose non dette, rimpianti, scuse, spiegazioni e tanto altro che in quel momento gli furono sufficienti per perdonarla della parte che la donna aveva avuto pochi anni prima.

Stringendo affettuosamente il braccio della viscontessa, madame Giry riprese la parola abbassando tuttavia il tono di voce. Ecco che le antiche abitudini si dimostravano difficili da dimenticare. «Monsieur Bamdad mi ha riferito quello che avete visto. Potreste descrivermi i protagonisti di questa vicenda?»

Fu Christine a parlare, dato che le donne avevano un talento particolare nel rammentare dettagli fisici e somatici con maggior precisione rispetto agli uomini. Descrisse perciò l’abito del signore che l’aveva involontariamente urtata, ma non seppe esprimere alcun giudizio riguardo la fanciulla priva di sensi, così come non aveva idea di chi fosse l’altro giovane che indossava un semplice mantello nero e una mascherina del medesimo colore come tanti altri che si trovavano al teatro; il costume del primo uomo era senza dubbio il più originale, dunque confidava che a madame bastasse la sua descrizione.

Nell’udire il racconto della viscontessa, il persiano si limitò a inarcare un sopracciglio e a sorridere leggermente, fissando dapprima madame Giry e poi i due nobili. «State dunque parlando del mio principale e della sua fidanzata, miei cari signori», disse gentilmente, mentre al suo fianco madame riuscì a mantenere un’espressione serena. «Non c’è nulla di cui preoccuparsi, purtroppo mademoiselle Sanders è soggetta a frequenti abbassamenti di pressione che la inducono a brevi svenimenti.»

Nessuno si accorse dell’abile bugia; e il discorso sarebbe caduto lì se madame De Chagny non si fosse appena ricordata di avere già udito quel nome. «Mademoiselle Sanders? Non è la nuova cantante?» Chiese, rivolgendosi a madame Giry.

Quest’ultima parve impallidire leggermente, ma dato che madame non era mai stata molto scura di carnagione il suo improvviso deflusso di sangue dal volto passò inosservato. «Oh sì, in realtà sì. Hai già… Ti è già capitato di incontrarla? O ne hai solo sentito parlare?»

«In verità l’ho vista e udita esibirsi qualche giorno fa, quando sono venuta in visita al teatro», spiegò la viscontessa, non potendo celare un leggero imbarazzo. Non voleva comunque esprimersi oltre davanti a suo marito, perché di quell’argomento avrebbe voluto parlarne in privato prima con madame Giry adesso che se ne era presentata l’occasione. Come confessare di aver rivisto sé stessa qualche anno prima, in quella giovane promessa del canto, correndo il rischio che Raoul la fraintendesse? «Mi farebbe piacere conoscerla un giorno, compatibilmente ai suoi impegni. Spero che si riprenda dal suo… calo di pressione», aggiunse con aria preoccupata, voltandosi questa volta verso il persiano.

Quell’accenno al motivo per cui erano tutti riuniti li fece tornare con i piedi per terra. «Se non ti dispiace, ma chère, credo che andrò a controllare come sta. È mia… nipote, sai… Si suppone che la tenga sotto controllo anche se è ormai fidanzata», sorrise madame Giry, stringendo un’ultima volta la viscontessa in un tenero abbraccio. «Vieni a trovarmi qualche volta, Christine. Venite entrambi, mi fareste un enorme piacere», li invitò, sincera ma desiderosa di accomiatarsi al più presto. La felicità di aver rivisto la giovane che aveva praticamente cresciuto come se fosse stata figlia sua stava venendo repentinamente sostituita dall’ansia di sapere cosa diavolo fosse successo a mademoiselle Sanders. Contrariamente a quanto aveva affermato monsieur Bamdad per non allarmare i visconti, infatti, Giulia non era per niente avvezza agli svenimenti – inoltre, le implicazioni di quanto sarebbe potuto accadere potevano essere disastrose… Cosa sarebbe potuto succedere se la viscontessa De Chagny avesse espresso il desiderio di andare a controllare lo stato di salute della giovane cantante?... Preferiva non pensarci, almeno fin quando vi fosse la possibilità di posticipare il più possibile un ormai inevitabile incontro. La codardia non era di certo uno dei difetti di madame Giry – la donna preferiva parlare di saggia prudenza: prima o poi avrebbe presentato le due sorelle l’una all’altra, avrebbe spiegato loro ogni cosa, certo… Ma fino a quel momento, fin quando non fosse stata certa che Erik non avrebbe torto un solo capello né ai visconti né alla sua nuova protetta, tale colloquio avrebbe aspettato.

Come aveva previsto, infatti, Christine si mostrò ansiosa di seguire madame ovunque ella fosse in procinto di andare. Per sua fortuna, invece, sia il visconte che il persiano sembravano essere del parere che la presenza di una viscontessa – la cui reputazione era già di per sé precaria – nel camerino di una nascente prima donna non sarebbe stata di certo vista di buon occhio, considerando che madame De Chagny non pareva avere nessun motivo apparente per esserci; non si poteva neppure contare più di tanto sull’anonimato fornito dalle maschere, perché in un luogo pettegolo e malizioso come quello del teatro chiunque avrebbe saputo nel giro di pochi giorni qualsiasi cosa fosse accaduta durante la masquerade.

Tali discorsi riuscirono a persuadere la viscontessa che, per quanto a malincuore, acconsentì a lasciare che madame Giry e monsieur Bamdad si occupassero dei loro affari. Tuttavia, anche dopo che si furono lasciati, non poté fare a meno di ritornare con il pensiero all’uomo che l’aveva urtata nel salone e del quale aveva veduto solamente la schiena: continuava ad avere l’impressione che egli avesse qualcosa di familiare, anche se non sapesse dire precisamente cosa… Come sempre, fu Raoul a riscuoterla dai suoi pensieri. Circondandole la vita con un braccio e stringendola teneramente a sé, le porse la maschera che aveva tolto per parlare con madame Giry.

«Non sono cose che ci riguardano, quelle», disse gentilmente, riuscendo persino a sorriderle appena; era la prima volta che lo faceva, da quando avevano varcato insieme la soglia dell’Opèra. «Torniamo a ballare, piccola Lotte?»

Mentre i visconti De Chagny tornavano nel salone principale per riprendere parte alle danze, una fanciulla abbigliata con uno strano costume azzurro che rammentava i pepli delle divinità greche fuoriuscì da dietro una colonna di marmo, osservando madame Giry e monsieur Bamdad che scomparivano verso la zona del teatro riservata ai camerini degli artisti. Aveva udito ogni cosa, e finalmente capiva per quale motivo una smorfiosetta fintamente ingenua qual era mademoiselle Sanders avesse ottenuto il ruolo di solista senza neppure sforzare un muscolo: a quanto pareva non solo era la nipote dell’insegnante di danza, ma doveva esser passata anche per il talamo del direttore artistico del teatro – il principale di monsieur Bamdad, come egli stesso aveva più volte dichiarato. Che razza di piccola sgualdrina – avrebbe saputo fare buon uso di quella succosa informazione.

Presto la nuova prima donna dell’Opèra Populaire di Parigi sarebbe stata lei, mademoiselle Sophie de Vries [*] – e nessuno si sarebbe più ricordato di un’insulsa amante del direttore.







 

 

***

 





 

Il cuore le batteva furiosamente nel petto, come se stesse cercando una via di fuga dalla sua stessa gabbia toracica: poteva sentirne i rimbombi nelle orecchie, mentre si sforzava di prendere dei respiri profondi come le suggeriva una voce familiare da qualche parte alla sua destra.

Gemendo, si sforzò di sollevare le palpebre che sembravano pesare tonnellate.

«Grazie a Dio, si sta svegliando», annunciò una donna, il tono palesemente sollevato.

Il nero puntellato da tanti minuscoli puntini bianchi che aveva veduto appena prima di perdere conoscenza e che, adesso, ritornava nel momento del risveglio, diventava più chiaro ad ogni secondo che passava, permettendole così di mettere a fuoco quello che la circondava e di riprendere possesso di ogni sua facoltà. Mosse una mano, fletté le dita, sollevò con cautela un braccio e si strofinò piano gli occhi; a quel punto cercò di tirarsi su a sedere, ma qualcosa glielo impedì, sotto forma di una mano posata sulla sua spalla che la tenne ben ferma, mezzo distesa su una morbida chaise-longue.

«Non avere fretta, Giulia. Erik, avvicinami quel bicchiere», ordinò sempre la stessa voce, mischiando tenerezza e risolutezza insieme. Conosceva quella voce, ormai era qualcosa di caro, familiare: madame Giry? Quel nome le infuse una maggiore sicurezza, sicché quando aprì definitivamente gli occhi e li posò sulla donna al suo fianco gran parte delle nebbie che le turbinavano in testa scomparvero. Lasciò che madame l’aiutasse a bere un sorso, poi un altro, di acqua zuccherata, cosa che le diede immediatamente una sensazione di benessere; dopo averla dissetata, quindi, l’insegnante di danza le passò un panno umido e fresco sulla fronte e sulle guance, dandole sollievo e incoraggiandola infine a prendere dei profondi respiri: così facendo si accorse che qualcuno doveva averle allentato i lacci del corsetto, dato che respirare le riusciva semplice come quando si preparava per la notte.

«Sto meglio, ora; grazie, madame Giry», mormorò a mezza voce, tossendo appena per sgranchirla. Aveva bisogno di rimettere in ordine i pensieri. «Che cosa è successo?»

«Speravo che questo potessi dircelo tu», replicò gentilmente la donna, senza tuttavia sorridere come il suo tono lasciava intendere. «Ci hai fatto spaventare, sai.»

Quelle parole le fecero aggrottare le sopracciglia, perplessa. «Voi e chi altri?» Domandò, massaggiandosi lentamente le tempie. Malgrado sembrasse essersi ripresa, la testa continuava a girarle vorticosamente.

«Me, per esempio.» A parlare fu un ragazzo che si trovava da qualche parte alla sua destra, e che per guardarlo fu costretta a voltarsi quasi completamente prima che lui compresse la sua difficoltà e si fece avanti, portandosi sotto la luce. Non appena Giulia vide i lineamenti sottili e delicati del suo volto, i suoi capelli scuri, gli occhi chiari, l’accenno di barba sulle guance pallide e l’espressione torva e preoccupata insieme, la sensazione di mancanza d’aria tornò come poco prima, nel salone, quando le aveva fatto perdere i sensi: solo che, stavolta, venne accompagnata da una chiara e lucida consapevolezza.

«Oh mio Dio, Jean», gemette incredula, mentre finalmente si rendeva conto di quello che le era successo; non aveva idea di come suo fratello l’avesse trovata, né come avesse fatto a finire lì – tutto ciò che contava era che adesso erano di nuovo insieme, e che lei non era più sola. Le sue braccia si tesero istintivamente verso il giovane, in un muto invito. «Jean!»

Jean-Louis non si fece sfuggire l’opportunità e le si avvicinò rapidamente, attirandola in un abbraccio e stringendola forte contro di sé; sentì i suoi singhiozzi soffocati sul suo petto e si sedette sull’ottomana, in modo da cullarla più agevolmente mentre le mormorava parole di conforto all’orecchio. La donna gli aveva raccontato a grandi linee cosa le fosse successo – l’amnesia che le aveva fatto scordare qualsiasi cosa, il che spiegava la sua reazione di poco prima, nel foyer – per cui tutta la rabbia che aveva provato nei suoi confronti era sparita per lasciare spazio ad una semplice e sana consolazione di rivederla viva.

Madame Giry si alzò per dare un minimo di intimità ai due giovani, indietreggiando verso la parete per raggiungere l’altro occupante del camerino. Difatti là, nascosto nell’ombra e immobile come una statua, v’era Erik, che non aveva mosso un muscolo né pronunciato mezza parola da quando la ragazza si era ripresa. Dio solo sapeva che cosa gli stesse passando per la testa, dato che quello che si era proclamato come il fratello maggiore della loro mademoiselle Sanders poteva avere solo il ruolo di un ostacolo.

«Suppongo che Giulia abbia recuperato la memoria», mormorò la donna, stringendo le mani all’altezza del ventre e osservando Erik con la coda dell’occhio. Le luci soffuse che aveva acceso frettolosamente nel camerino creavano dei macabri giochi di ombre sulla sua maschera, acuendo la sensazione di pericolo che sembrava emanare. Egli non disse una sola parola: si limitava a fissare colui che stringeva con troppa libertà la sua mademoiselle Sanders, dando così l’impressione di volerlo strangolare da un momento all’altro. Madame non aveva ancora avuto modo di domandargli che cosa si fossero detti mentre raggiungevano la stanza – né cosa fosse accaduto di preciso quando la ragazza era svenuta e perché il suo supposto fratello si trovasse nelle vicinanze – sicché fremeva dalla voglia di saziare la sua curiosità. Ma evidentemente avrebbe dovuto pazientare ancora.

«Così parrebbe», fu tutto ciò che disse l’uomo in un sibilo, le braccia incrociate sul petto come a volersi contenere dal fare pazzie. Non disse più nulla, attendendo che Giulia si ricordasse anche di lui dandogli così il permesso di avvicinarsi e spodestare il ragazzo da quello che considerava essere il suo posto.

Per quello non dovette attendere molto: quando il suo pianto si fu acquietato, infatti, ella si scostò con gentile fermezza dalla stretta del fratello, si asciugò le lacrime, gli sorrise appena e infine si guardò intorno, improvvisamente disorientata. Tutt’a un tratto sembrava non credere ai propri occhi, quasi che l’ambiente non le fosse più familiare, anzi, come se si immaginasse addirittura di dover essere da tutt’altra parte. Un comportamento piuttosto inconsueto, a dir la verità. Quando poi i suoi occhi confusi si posarono sulla persona di Erik – che nel frattempo aveva fatto qualche passo in avanti per poter essere individuato subito – Giulia si irrigidì, le dita si aggrapparono alla manica del giovane e distolse immediatamente lo sguardo. Egli poté vedere chiaramente le sue labbra sillabare, con fare a dir poco sconvolto, le parole: Oh, mio Dio.

Prima che Erik potesse dire qualsiasi cosa, prima che potesse domandarle ragione di quella reazione, il ragazzo le accarezzò il viso pallido con una mano, un’espressione preoccupata in volto mentre le chiedeva con fin troppa apprensione che cosa le fosse successo, se andava tutto bene, se aveva bisogno di qualcosa.

Maledizione! Avrebbe dovuto trovarsi lui al suo posto, non quell’indisponente moccioso che pareva essere stato la causa del suo malessere!

Fu madame Giry ad intervenire, come sempre, senza tuttavia dare segno di aver notato il nervosismo di Erik. «Vuoi che faccia venire monsieur Mounier, Giulia? Non abita troppo lontano dal teatro, posso mandare qualcuno a chiamarlo», disse, turbata. Ma neanche questo servì a farla allontanare dalle grinfie del fratello, che anzi accentuò la stretta e continuò a guardarla come… diamine, non voleva crederci… come la guardava lui stesso! Non poteva essere davvero suo fratello, allora! O, se lo era… Che razza di perversioni nascondeva sotto quel bell’aspetto?

«Posso parlare con te in privato, Giulia?» Domandò piano l’uomo mascherato, attirando l’attenzione di tutti su di sé e facendoli suo malgrado rabbrividire. Non ci fece troppo caso, era abituato a provocare simili reazioni – ciò che davvero lo faceva soffrire era che anche la ragazza adesso sembrava temerlo.

E non osava neppure guardarlo negli occhi, dannazione!

«Veramente… io…» Esordì piano, a voce talmente bassa che Jean-Louis dovette chinarsi su di lei e sia Erik che madame Giry furono costretti ad avanzare d’un passo. «Vorrei rimanere per un po’ da sola con mio fratello, se… se è possibile.»

Se ciò lo ferì, Erik fu abbastanza abile da non darlo a vedere. Si limitò a fare un gesto secco di assenso col capo, per poi dirigersi verso la porta seguito poco dopo da madame Giry; l’uscio del camerino si richiuse con un tonfo attutito dietro di loro, lasciando soli i due fratelli. Fortunatamente, il corridoio era deserto: tutti gli esseri viventi che potevano trovarsi in quel momento a teatro erano raccolti nei saloni e nel foyer adibiti a sale da ballo, oppure nei piani inferiori, regno dei macchinisti, degli operai, dei sarti, dei truccatori, i quali si godevano a loro volta la serata dell’ultimo dell’anno festeggiando dietro le quinte. Madame Giry si accomodò trattenendo il nervosismo su una delle sedie imbottite che si trovavano lungo la parete, torturando i nastri della propria maschera e osservando Erik che faceva lentamente avanti e indietro davanti a lei, il suo travestimento terribile e spaventoso nella penombra del corridoio.

All’improvviso, madame si sentì in dovere di esprimere ad alta voce l’inevitabile conclusione di quel fatale incontro. «Probabilmente Giulia vorrà tornare a casa sua, con suo fratello», mormorò, senza staccare gli occhi da Erik temendo un eventuale scatto rabbioso. Difatti, lo vide bloccarsi in mezzo all’androne a quelle parole, irrigidirsi, stringere i pugni e voltarsi con aria feroce verso di lei.

Quando egli parlò, tuttavia, la sua voce riuscì ad essere sorprendentemente calma. «Sono felice che abbia riacquistato la sua memoria e che abbia ritrovato la sua famiglia», esordì piano. «Ma questo non la porterà via da me. Non lo farebbe mai. Lei… lei ha bisogno di me.»

Gli occhi di Louise furono talmente colmi di pena e dispiacere per lui che gli venne voglia di fare a pezzi qualcosa: preferiva di gran lunga ispirare terrore che compassione, nessuno doveva compatirlo, maledizione, nessuno! Con quale diritto si permetteva di commiserarlo in quel modo? Come se ciò non fosse bastato, le sue parole seguenti gli fecero lo stesso effetto che avrebbe avuto la lama di un pugnale infilata fino all’elsa nel proprio stomaco.

«Sei sicuro di non essere tu ad avere bisogno di lei?» La cautela che sembrava aver utilizzato la donna non diminuì la portata di quanto aveva appena detto. «Erik, ti prego, ti supplico; non cercare di trattenerla con la forza, impara dai tuoi errori e cerca di non ripeterli.»

«Chi vi ha nominato voce della mia coscienza, madame?» Sibilò l’uomo, incapace di trattenere oltre la sua rabbia. Sembrò aver deciso che sfogarsi con la Giry era assai meglio che non sfogarsi affatto. «Perché date per scontato che la tratterrei con la forza? Chi vi dice che non rimarrebbe di sua spontanea volontà? Chi vi dice che non mi voglia, dannazione a voi?»

«Non sto dicendo questo, né l’ho mai detto», si affrettò a chiarire lei, sollevando le mani come se ciò potesse bastare ad ammansire l’ira del Fantasma. «Vorrei solo che tu comprendessi che Giulia ha tutto il diritto di fare le sue scelte. Ha il diritto di tornare a casa dalla sua famiglia, di trascorrere del tempo con suo fratello, senza che questo stia per forza ad indicare un disinteresse nei tuoi confronti. Senza che questo la condanni ai tuoi occhi!»

Continuavano a parlare piano per timore di essere uditi al di là del muro, dai giovani che si stavano finalmente riprendendo il tempo che avevano perduto. Benché fosse forte la tentazione di tacere per udire cosa si stessero dicendo nell’intimità del camerino, era altresì impellente il bisogno di discutere tra loro su quanto accaduto.

Erik scrollò le spalle, preda della rabbia, dello sconforto e dell’angoscia. «So che la perderei per sempre, se ora se ne dovesse andare», fu la sua secca constatazione.

«E quindi la vorresti obbligare a rimanere con te, se ciò accadesse?» Sbottò madame Giry, stringendo le mani fino a graffiarsi con le sue stesse unghie. «Mio Dio, la tua paura della solitudine è sempre stata più forte del tuo buonsenso; sei un uomo adulto che si comporta come un bambino! Perché non ti fidi di lei? Perché non riesci a confidare nel fatto che possa tornare da te, dopo aver seguito suo fratello? Non tutte le donne sono come Christine, Erik», concluse, senza riuscire a mascherare l’irritazione.

Quel nome, gettato con così scarsa attenzione in pasto a colui che un tempo avrebbe dato la vita per esso, non provocò nessuna reazione da parte sua se non un vago fastidio. Egli sapeva perfettamente che nulla legava le due donne se non un’inquietante somiglianza fisica, eppure era proprio quello il punto, era donne, erano vittime entrambe della propria condizione, della propria mentalità! Erik non era solito avere pensieri maschilisti, madame Giry per prima gli aveva dimostrato che una donna non era solo un grazioso accessorio che adornava la dimora di un uomo, però… Però non poteva fare a meno di credere che anche Giulia, avendone la possibilità – nel suo caso rappresentata da suo fratello – avrebbe potuto abbandonarlo per preferire una vita tranquilla, serena e che non la legasse eternamente a un uomo dal passato oscuro e dal futuro incerto.

Ignorando dunque quell’accenno alla sua antica fonte di gioia e disperazione, Erik si volse ad osservare madame Giry. «Forse Giulia è diversa da Christine, ma io sono sempre lo stesso fantasma di quattro anni fa», affermò piano, con voce pacata, terribile, e un’espressione spietata in volto. «E se, Dio non voglia, qualcosa dovesse andare storto… Allora sì, sarebbe una tragedia per parecchi membri della razza umana.»

Il tono con cui lo disse ebbe il potere di far rabbrividire l’anziana insegnante di danza fin dentro alle ossa, accrescendo il pallore sulle sue gote scarsamente truccate. «Erik… Permettimi di domandarti una cosa», bisbigliò, sperando, con quanto stava per dire, di non ravvivare la sua collera. A un breve cenno affermativo dell’uomo, Louise sospirò, poi chiese: «Lei… Giulia… Ha mai detto di ricambiare i tuoi sentimenti?»

Egli si irrigidì, continuando a darle le spalle, ma non rispose; il suo silenzio fu sin troppo eloquente.

Madame serrò gli occhi, gemendo silenziosamente. Come temevo, pensò.

Tuttavia non ebbero l’opportunità di proseguire la loro discussione; la porta del camerino si aprì, e sulla soglia apparve il volto stranamente pallido del ragazzo – Jean-Louis, se madame non rammentava male – che fissò entrambi come se li vedesse per la prima volta – o meglio, come esseri spaventosi venuti fuori dai suoi incubi più orrendi. Cosa diavolo era successo là dentro in tutto quel frattempo?

La sua voce, bassa e cauta, ruppe il silenzio. «Giulia vorrebbe parlare con tutti quanti, adesso», riferì, senza staccare gli occhi sospettosi da loro.

Madame Giry si alzò e, dopo aver scambiato uno sguardo veloce ad Erik, si diresse verso il camerino. L’uomo alle sue spalle, minaccioso nel suo strano travestimento del quale non si era ancora liberato, evitò accuratamente di fissare Jean-Louis, e una volta che entrambi ebbero attraversato la soglia al ragazzo non rimase che raggiungerli.


























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[*] Per chi non lo ricordasse, mademoiselle Sophie de Vries appare per la prima volta nel Capitolo 6, e viene poi nominata di nuovo nel Capitolo 16 come sostituta di Giulia; lo dico perché ho deciso solo recentemente di darle un ruolo specifico, cosa che all'epoca di quei capitoli non era prevista.

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Angolo Autrice:
Ringrazio la mia adorata kenjina, alfabetaomegareader di fiducia, senza la quale non sarei riuscita a finire di scrivere questo capitolo neppure entro quest'estate; ringrazio inoltre Ellyra e Puliksweet per aver recensito lo scorso capitolo, nonché tutti i lettori silenziosi che continuano a seguire questa mia odisseica avventura - grazie mille a tutti, senza di voi avrei smesso di scrivere tanto tempo fa! ;)
Detto questo, vi lascio con la promessa di ritornare al più presto con il prossimo capitolo - anche se devo avvertirvi che sento che ci vorrà del tempo, non è un capitolo facile da scrivere. Scopriremo comunque che cosa Giulia avrà deciso di fare e soprattutto come reagirà nel rendersi conto di essere finita in un'altra epoca: si accettano suggerimenti e ipotesi!
Baci e abbracci a tutti, affettuosamente vostra
Niglia.

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Capitolo 31
*** 29. Forgive me, I beg you, if you can ***


Chapitre 29 - Forgive me [...] EFP

Chapitre 29

Forgive me, I beg you, if you can

 

 

 

 











 

 

 

 

 

Quando Erik e madame Giry avevano lasciato soli i due fratelli, uscendo discretamente nel corridoio e richiudendo la porta alle loro spalle, Giulia si era finalmente sentita in grado di poter riprendere a respirare normalmente.

Era piuttosto sconvolta dagli ultimi avvenimenti – l’improvviso ritorno della sua memoria, con tutto ciò che ne conseguiva, l’aveva lasciata confusa e disorientata, incapace quasi di avere una reazione normale. Solo la presenza di suo fratello le aveva impedito di avere un attacco di panico, e le mani familiari che stringevano le sue avevano avuto il potere di tenerla ancorata a quell’assurda realtà: se dunque non stava sognando, allora si trovava davvero in un’epoca differente da quella nella quale era nata e cresciuta? Come diavolo era possibile? Certe cose non potevano accadere sul serio, sarebbe stato più opportuno che rimanessero nell’ambito della fantasia di qualche scrittore troppo visionario! Eppure, come ormai rammentava quello che era stata la sua vita prima dell’amnesia, così ricordava chiaramente anche tutto ciò che era accaduto da quel momento in poi, a partire dal risveglio a casa di madame Giry per concludere con la festa in maschera, prima che incontrasse Jean-Louis.

Ma il fatto che ricordasse ogni cosa non rendeva la situazione più facile da accettare. Senza contare che, ora come ora, non poteva neppure prendersi del tempo per riflettervi, visto che suo fratello scalpitava per saperne di più – e anche il suo desiderio di ricevere spiegazioni era più che lecito. Dio santo, da quanto tempo mancava da casa? Il suo malessere, fisico e mentale, era tale che avrebbe sicuramente rigettato l’anima se solo avesse avuto lo stomaco pieno – grazie a Dio non aveva mangiato niente dal pomeriggio.

Quando la porta si richiuse dietro Erik e madame Giry, Giulia si voltò verso suo fratello e lo guardò provando subito un immediato conforto. In quel momento tutto ciò che desiderava era stringersi a lui, e così fece, ma mentre le braccia di Jean-Louis le circondavano le spalle tremanti, la lucidità del ragazzo ebbe la meglio – c’era ben altro da fare che limitarsi a consolare la sorella.

«Allora, Jules, non c’è niente che devi dirmi?» Esordì, sciogliendosi gentilmente da quella stretta e scostandosi il tanto necessario per poterla guardare negli occhi. Per quanto gli dispiacesse vederla così pallida e scombussolata, aveva bisogno di capire che cosa stesse succedendo per poi potersi comportare di conseguenza.

A Giulia scappò un gemito a metà tra il singulto e la risata isterica. «Da dove vorresti che cominciassi?» Fece, prendendo nuovamente il bicchiere colmo d’acqua zuccherata e sorbendone un sorso. «Non lo so neppure io che cosa sia successo.»

Jean-Louis decise di andarle incontro. «Quella signora stava dicendo qualcosa a proposito di un’amnesia. Hai perso la memoria? Cos’è questa storia?»

«Ti ripeto che non lo so», insisté lei, aggrottando la fronte. «I miei primi ricordi in questo posto riguardano il mio risveglio a casa di madame Giry, e nient’altro. Credo, però, di essermi ammalata quando ero in quelle gallerie dietro lo specchio, e sono svenuta, e forse è stato quello a farmi perdere la memoria…»

«Aspetta un momento», la interruppe lui, perplesso. «Stai parlando dello specchio che c’è in quel camerino abbandonato?»

Giulia annuì, lo sguardo assorto nel fissare un punto indefinito del pavimento. «Madame Sindial mi aveva lasciato da sola nel camerino perché doveva spostarsi un attimo, e a quel punto mi sono messa a gironzolare… E ho scoperto che lo specchio nasconde un passaggio segreto, una galleria. Sono entrata… Non so perché l’ho fatto, ero curiosa, mi conosci… Solo che poi corridoi e cunicoli e gallerie buie e strette si intersecavano le une con le altre, all’infinito, e mi sono persa. Era un labirinto! Allora ho chiamato aiuto, ho gridato, ma dovevo essere troppo lontana dai piani abitati del teatro, e nessuno mi ha sentito. Sono entrata nel panico e ho smesso di camminare, sedendomi per terra: speravo che qualcuno mi trovasse, ma poi mi sono addormentata… E mi sono risvegliata a casa di madame Giry.»

Il ragazzo non trovava così assurdo quel racconto, dato che era grosso modo ciò che era capitato anche a lui – con la differenza che sua sorella aveva avuto la fortuna sfacciata di imbattersi in una o più persone che conoscevano abbastanza bene quei sotterranei da trovarne facilmente l’uscita. «Questo significa che qualcuno ti ha tirata fuori da lì», intervenne. «Non sai chi è stato?»

Certo che lo sapeva, glielo aveva confessato egli stesso forse l’unica volta in cui avevano davvero discusso . «È stato Erik», mormorò, sentendo il proprio cuore accelerare i battiti al solo pensiero dell’uomo.

Erik. Tutti i ricordi che aveva riguardo gli ultimi due mesi vertevano intorno a lui. E per quanto si sforzasse non poteva di certo dire che fossero ricordi negativi, anzi! Purtroppo, alla luce delle ultime novità della serata, lo strano rapporto che la legava all’uomo poteva essere una grossa complicazione; sapeva che Erik era molto legato a lei, che la desiderava, che, Dio santo, probabilmente persino l’amava!, ma questo come poteva influire sulla terribile realtà che avevano appena riscoperto? Giulia non apparteneva a quel mondo, a quell’epoca – e doveva ancora capire come accidenti le fosse capitata una cosa simile – chissà che cosa sarebbe potuto accadere se fosse rimasta! E poi, come poteva anche solo prendere in considerazione un’idea del genere? Come poteva fare questo a suo fratello, a sua madre, a suo padre?

«Erik è l’uomo che era qui?» Volle sapere Jean-Louis, aggrottando le sopracciglia. «Non mi piace molto, quel tipo. Ha qualcosa… Qualcosa di inquietante. E non si è mai tolto quella maschera… Cristo, sembra pericoloso.»

Se non fosse stata ancora sotto shock, probabilmente Giulia sarebbe scoppiata a ridere: oh, se solo avesse saputo quanto poteva essere pericoloso! Se solo fosse stato a conoscenza della metà delle cose che i più superstiziosi andavano raccontando su di lui – no, meglio, sulla leggenda del Fantasma dell’Opera – cose che purtroppo non si discostavano poi tanto dalla realtà!

Ad ogni modo lei si limitò ad annuire, raddrizzandosi del tutto e mettendosi a sedere: non sopportava di rimanere ancora sdraiata come se fosse malata. Dovette però tener fermo il corpetto del vestito per evitare che scivolasse, denudandola, giacché i lacci che le avevano allentato adesso non fungevano più al loro scopo. Evitò di chiedere a Jean-Louis di risistemarglieli, perché dubitava che il ragazzo ne sapesse qualcosa di moda femminile ottocentesca.

«Stai attento a come parli di lui, Jean. È pur sempre un mio amico», gli intimò Giulia piuttosto seccamente, poggiando la schiena contro la spalliera della chaise-longue e impedendo così al vestito di abbandonarla. Un amico… Non era esattamente una definizione appropriata, ma non c’era bisogno che Jean-Louis venisse a conoscenza di ogni cosa e subito: c’era altro di cui discutere, argomenti che premevano maggiormente e influivano sulla loro situazione attuale.

Poiché la ragazza sembrava infastidita da come il fratello aveva parlato di quello strano individuo, egli decise di cambiare argomento. «Non credo di averlo mai visto prima, qui al teatro», fece, pensieroso. «Sembra una persona importante, ma me ne ricorderei se l’avessi già visto… Comunque, questo non mi ha ancora chiarito per quale diavolo di motivo non ti abbiano riportato a casa quando abbiamo denunciato la tua scomparsa. Insomma, sei stata a Parigi per tutto questo tempo, no? Anche se non ricordavi chi eri, quella madame Giry ti avrebbe dovuto riconoscere dalle tue foto apparse sui giornali o alla televisione. Cos’è, volevano dei soldi?»

A quel punto, Giulia fissò il fratello con uno stupore misto ad angoscia. «Che cosa stai dicendo?» Sbottò piano, timorosa quasi di alzare la voce. «Allora non hai capito proprio niente?»

Jean-Louis sembrò irritato da quel tono. «Che cosa non avrei capito?»

La ragazza imprecò, come solo una giovane del ventunesimo secolo avrebbe potuto fare. «Accidenti, Jean, non siamo più nella nostra Parigi», mentre parlava, sia la sua voce che la sua espressione sembrarono palesemente disperate. Sembrava che non trovasse parole per dirle chissà quale tremenda verità… Ma cosa poteva mai esserci di tanto orribile? «Questa è… ah… noi…» Un’altra imprecazione, poi Giulia distolse lo sguardo dal fratello incapace di reggerlo mentre scagliava le ultime parole. «Siamo nel diciannovesimo secolo. Per la precisione, nel milleottocentosettantotto.»

Lui la fissò come se fosse appena impazzita. «Devi aver sbattuto la testa piuttosto forte quando sei svenuta, prima», fu tutto ciò che riuscì a dire il ragazzo, inarcando un sopracciglio. Non aveva neppure finto di prenderla sul serio, e sinceramente ne aveva abbastanza – la situazione era già degenerata fin troppo.

Tuttavia, la sua uscita gli fece guadagnare un doloroso pugno sul braccio. «Diamine, credi che ti stia prendendo in giro? Non ti sei accorto di niente quando sei sbucato in mezzo alla festa, eh?» Sibilò lei senza riuscire a trattenere del tutto la rabbia. «Non sono una bugiarda, accidenti, lo sai che non ti prenderei mai in giro così, specialmente in un momento come questo!»

«Oh, Giulia, smettila per favore», proruppe Jean-Louis, alzandosi con una smorfia scocciata e facendo qualche passo nel piccolo camerino. In tre falcate l’ebbe attraversato tutto e dovette voltarsi nuovamente verso di lei. «Preferisco che tu mi dica che sei voluta scappare di casa e che non hai intenzione di tornare indietro, piuttosto che rimanere qui ad ascoltare le tue stupidaggini e a farmi trattare da stupido. Dopo tutto quello che ho passato per venirti a cercare, poi!»

«Sei tu che ti stai comportando da stupido!» Ribatté lei, facendo attenzione a non alzare troppo il tono di voce; non voleva che Erik o madame Giry li udissero litigare dal corridoio. «Guardati intorno! Vedi qualcosa che ti ricordi il ventunesimo secolo? Vedi interruttori per la corrente elettrica? Vedi dei cellulari? No! Guarda, Jean, quella è una lampada a petrolio, petrolio! E guarda su quel tavolino – non ci sono penne a sfera, ma calamai e piume d’oca! Non ti sto prendendo in giro, per la miseria!»

Lo vide passarsi stancamente una mano tra i capelli arruffati, guardarsi intorno, sbuffare e ripercorrere nuovamente con gli occhi la superficie della stanza. Aveva l’aria distrutta, e sinceramente l’unica cosa che Giulia voleva fare era sconvolgerlo ulteriormente dopo tutto quello che sembrava aver passato, ma era preferibile che guardasse in faccia la realtà e la affrontasse subito; dopotutto lei aveva vissuto in quel luogo, in quel tempo, per oltre due mesi, e non era impazzita solo perché l’amnesia l’aveva momentaneamente protetta da una verità scomoda. Suo fratello, invece, doveva metabolizzare tutto l’insieme in poche manciate di minuti, perché non bisognava dimenticare che oltre la porta vi erano altre due persone alle quali dover dare delle spiegazioni.

Alla fine Jean-Louis sospirò e si sedette sulla sedia occupata fino a poco prima da madame Giry. Si prese la testa tra le mani, chiuse gli occhi, e quando li riaprì fece un ultimo tentativo. «Mi stai davvero giurando che non si tratta di uno scherzo?»

Giulia scosse la testa, dispiaciuta di non potergli dire diversamente. «Mi piacerebbe che lo fosse.»

Forse fu il modo in cui lo disse, il tono amaro e rassegnato, oppure la luce nel suo sguardo, l’atteggiamento serio, la linea sottile nella quale erano strette le sue labbra, la leggera ruga di preoccupazione in mezzo agli occhi. Non le aveva mai visto un’espressione simile, e fu quello a decidere per lui: Giulia non aveva nessun motivo di mentirgli o di prenderlo in giro, inoltre Jean-Louis era abbastanza lucido e maturo da rendersi conto di non poter fingere che tutto ciò che lo circondava fosse semplicemente il frutto della fantasia della sorella o qualche strana allucinazione di cui era vittima. Quello che davvero lo inquietava, era il fatto che madame Sindial, l’amica di sua sorella – nonché l’ex prima ballerina che attualmente insegnava danza all’Opèra – gli aveva accennato qualcosa a proposito di un passaggio che collegava due epoche diverse all’interno dello stesso teatro; non aveva idea di come facesse l’anziana donna a essere a conoscenza di quella che, a quanto pareva, era la verità, ma ciò di cui era certo era che non avrebbe mai più dubitato di simili racconti. Chissà, forse era vera anche quella storia del fantasma

Quel pensiero, stranamente, lo fece rabbrividire.

«Forse è meglio se facciamo rientrare madame Giry ed Erik», dichiarò Giulia a mezza voce, iniziando a giocherellare con i guanti che aveva appena finito di sfilarsi. «Bisogna dirlo anche a loro, e forse madame potrebbe sapere qualcosa, dovremmo provare.»

Jean-Louis la fissò, scettico. «Io non parlerei di viaggi nel tempo e cose simili con una persona del diciannovesimo secolo. Non c’è la tendenza ad accusare di stregoneria chiunque per qualsiasi cosa, in questo secolo?» Borbottò preoccupato, alzandosi per l’ennesima volta e dirigendosi di malavoglia alla porta.

«Non siamo mica nel Medioevo, Jean», ribatté lei, roteando gli occhi. «Qui le persone temono molto di più i fantasmi delle streghe», aggiunse, con un pallido tentativo di scherzare.

Purtroppo, però, l’argomento spiriti e affini non doveva essere particolarmente gradito a suo fratello, che le dedicò uno sguardo allarmato e nervoso insieme ad un viso improvvisamente cereo; diamine, Giulia aveva pensato che Jean l’avrebbe presa meglio di così – non poteva di certo sapere che anche il ragazzo era venuto più o meno a conoscenza della cupa vicenda del Fantasma dell’Opera.

 

 

 

***

 

 

«Giulia vorrebbe parlare con tutti quanti, adesso.»

Pareva che i due non stessero aspettando altro. Rientrarono nuovamente nel camerino, ma benché Giulia avesse fatto cenno ad entrambi di sedersi, solo madame Giry accolse quel suggerimento; Erik rimase in piedi, al centro della stanza, laddove la sua presenza cupa e spaventosa incrementava il disagio di Jean-Louis e l’imbarazzo della sorella.

Con un profondo respiro e una lieve incertezza, la giovane prese la parola. «Premetto che sarà molto difficile credere a quanto sto per dire, ma vi prego di fidarvi e di lasciarmi finire senza giudicarmi pazza», esordì, spostando lo sguardo da Erik a madame Giry e viceversa. Jean-Louis le posò una mano sulla spalla, stringendola appena come a volerle infondere forza e coraggio, ma tutto ciò che ottenne fu una severa occhiataccia da parte dell’uomo mascherato.

«Puoi parlare liberamente di tutto ciò che desideri, mia cara», replicò Louise Giry, chinandosi per prenderle una mano tra le sue in un gesto di conforto. «Nulla di quello che dirai lascerà questa stanza.»

Giulia annuì e accennò un breve sorriso, che svanì altrettanto rapidamente. «Ho motivo di credere che qui a teatro vi sia una stanza dalle doti… particolari», incominciò, sentendo sfumare ogni risolutezza man mano che continuava a parlare. Esisteva un modo giusto per affrontare tali argomenti? «Una cara amica amava intrattenere me e sua figlia raccontandoci strane leggende riguardante l’Opèra, e una di queste parlava di un camerino abbandonato, che lei chiamava la loge perdue, che a quanto pare aveva la strana caratteristica di essere un passaggio temporale per un’altra epoca. Sembra che il progettista del teatro, monsieur Garnier, per creare un monumento che soddisfacesse le aspettative dei sovrani, avesse stretto un patto con un qualche essere diabolico che aveva impiantato poi la sua essenza mefistofelica nelle fondazioni stesse dell’edificio, rendendolo così ancora più maledetto di quanto non sia diventato col tempo.»

La giovane si interruppe per riprendere fiato, sentendosi le guance in fiamme dall’imbarazzo di stare narrando una storia che aveva a dir poco dell’incredibile. E gli sguardi di madame Giry ed Erik, perplesso il primo e imperscrutabile il secondo, di certo non l’aiutavano nel dissipare le sue insicurezze.

«Quello che sto cercando di dirvi…» Riprese, distogliendo gli occhi da loro e posandoli su suo fratello che, per tutta risposta, accennò un breve sorriso di incoraggiamento. «È che io non appartengo al vostro tempo. Non sono nata in quest’epoca, ma nel ventunesimo secolo. Centododici anni a partire da adesso... Sono arrivata qui grazie a quel passaggio, e credo che sia stato lo sbalzo temporale, diciamo così, a causarmi l’amnesia.»

Il silenzio che seguì quella tremolante confessione fu greve e opprimente. Jean-Louis continuò a tenerle una mano sulla spalla e ad accarezzarla piano per infonderle inutilmente sicurezza, ma lei era molto più preoccupata per le reazioni, o l’assenza di esse, rispettivamente di Erik e madame Giry. Perché l’uomo continuava a fissarla senza dir niente, senza neppure far intendere se la riteneva folle o altro? Alla luce degli ultimi avvenimenti, ella non sapeva bene cosa desiderare: voleva che il fantasma, dopo quanto aveva appena udito, la lasciasse andare senza alcuna remora, oppure che insistesse per saperne di più, che manifestasse, perlomeno, un interesse più profondo?

L’intervento di madame Giry la costrinse tuttavia a spostare il fulcro dei suoi pensieri su di lei.

«Giulia, ma chère, ti rendi conto di quello che stai dicendo?» Fece l’insegnante di danza, con una strana prudenza nel tono di voce che lasciava presagire il sospetto e la preoccupazione che sicuramente colmavano il suo animo. «Credi che una cosa del genere possa anche solo lontanamente essere possibile?» Insisté, aggrottando la fronte con inquietudine. Louise era sinceramente affezionata alla giovane, questo non si metteva in dubbio, eppure non poteva fare a meno di pensare che forse l’amnesia le aveva procurato delle conseguenze assai più gravi di quelle che aveva prospettato il dottore. Insomma, non voleva nemmeno pensarlo, ma… Era diventata pazza?

Giulia sospirò – aveva messo in conto di non essere creduta ciecamente, anzi, si sarebbe stupita del contrario – e si preparò a rispondere con più precisione possibili a tutti i quesiti, più che legittimi, della donna che l’aveva accolta in casa propria come una figlia senza mai fare domande. Tuttavia Erik non glielo permise; l’uomo era già alquanto seccato e infastidito per il fatto di non essere stato messo al corrente in prima persona di quegli sviluppi, e qualsiasi altra cosa la giovane dovesse aggiungere egli era dell’idea che dovesse farlo solo ed esclusivamente con lui. Gli altri erano dei semplici effetti collaterali che, per il momento, potevano essere trascurati e messi da parte, ma lui – lui, Cristo santo, non faceva parte di quelli.

«Madame Giry, portate il ragazzo fuori e lasciateci soli», ordinò pertanto, con un tono gelido che non lasciava chiaramente spazio ad alcuna opposizione. La sua voce fece sobbalzare gli altri tre occupanti del camerino, che finalmente gli dedicarono l’attenzione che meritava.

La donna chiamata in causa parve piuttosto seccata. «Anche io ho il diritto di conoscere questa storia, Erik, non puoi mandarmi via», sbottò, lanciandogli un’occhiata truce.

«Sono sicuro che il giovane qui presente sarà in grado di spiegarvi la situazione tanto quanto Giulia», ribatté il fantasma, per nulla disposto a cedere. Osava davvero mettere in discussione un suo ordine, e nel suo teatro per giunta? A quel punto la ragazza si sentì in dovere di intervenire, impedendo che l’atmosfera si facesse ancora più tesa.

«Infatti. Jean, per favore, accompagna madame fuori e raccontale tutto ciò che vuole sapere», esordì, alzandosi e spezzando ogni legame fisico con il fratello; così facendo era riuscita inconsapevolmente a placare parte del nervosismo di Erik, che continuava a non essere del tutto contento della presenza di Jean-Louis di fianco alla sorella.

Al pari di madame Giry, neppure Jean-Louis sembrò molto contento di quella decisione. «Sei sicura di voler rimanere da sola con lui?» Mormorò a mezza voce, chinandosi sull’orecchio della ragazza senza sapere che l’udito di Erik era sviluppato come quello di un predatore.

«Mademoiselle non ha nulla da temere da me», sibilò, stringendo così forte i pugni al punto che il cuoio dei suoi guanti scricchiolò, minaccioso. «Quanto a voi, forse dovreste badare maggiormente a ciò che vi esce di bocca.»

Jean-Louis strinse gli occhi, ma per rispetto della sorella e per amore del quieto vivere preferì non ribattere. «Se hai bisogno, chiama», le disse, chinandosi su di lei fino a posarle un bacio sulla guancia in un punto pericolosamente vicino alla bocca. Il gesto la sorprese, ma in quel momento non volle approfondire la questione. Una cosa per volta, si ripeté silenziosamente, agitata.

Madame Giry uscì per la seconda volta dalla stanza, ma non ci voleva certo un genio per capire quanto poco le fosse piaciuto essere congedata in quel modo; senza contare che ciò che aveva appena scoperto, se aveva anche solo un fondo di verità, allora faceva crollare tutte le sue convinzioni come il vento fa con un castello di carte… Se davvero Giulia proveniva da un altro luogo, allora com’era mai possibile che potesse esserci un qualche legame con la famiglia Daaè? Forse era solo il vaneggiamento di un’anziana povera donna che voleva trovare ad ogni costo la sua nipote perduta appena prima di morire?

All’incirca allo stesso modo si sentiva Jean-Louis, che da parte sua non riusciva a stare tranquillo all’idea di lasciar sola sua sorella in compagnia di quell’uomo. Purtroppo, in quel luogo e in quel tempo che non gli appartenevano, lui non godeva di nessun particolare privilegio, e doveva pertanto rassegnarsi a lasciare le decisioni a chi di dovere. Almeno fino a quando non avesse riportato Giulia a casa.

 

 

 

Il tonfo dell’uscio che si richiudeva si portò via gli ultimi residui di coraggio della ragazza. Si lasciò ricadere sull’ottomana con un sospiro e strinse le dita sulla stoffa arricciata del suo abito, indifferente al fatto che quest’ultimo si fosse ormai completamente aperto sulla schiena. Finalmente lei e Erik erano faccia a faccia, ma egli continuava a tacere e lei, da parte sua, non aveva idea di cosa dire per iniziare la conversazione. Alla fine, con un ultimo sforzo di volontà, sollevò gli occhi su di lui e parlò.

«Tu non mi credi», esordì, con voce piatta e tono rassegnato.

Erik prese una sedia e l’avvicinò al divanetto che stava occupando lei, sedendole di fronte e così vicino che le sue gambe toccavano la gonna del suo vestito. A quell’improvvisa vicinanza lei s’irrigidì e si ritrasse appena, giacché non aveva idea di cosa aleggiasse nella mente dell’uomo.

«Mi hai mai mentito, Giulia?» Le chiese invece con un’espressione tremendamente seria, sorprendendola con quel cambio d’argomento. «C’è stato un solo momento, da quando ci conosciamo, in cui tu non mi hai raccontato la verità?»

Con le sopracciglia aggrottate dalla perplessità, Giulia scosse appena il capo. «No, mai», rispose, sincera.

«Allora non ho nessun motivo di credere che lo stia facendo proprio adesso», ribatté lui, chinandosi leggermente verso la ragazza. «Inoltre non sono sicuro che sia possibile inventare una storia del genere e riuscire a raccontarla senza battere ciglio, se non fosse vera. Per cui, volendo aggiungere l’ovvio, sì, ti credo.»

Ella non sapeva bene come prendere quella dichiarazione totale e spassionata di fiducia. «Mi… mi fa piacere», mormorò, con cautela. «Allora, comprenderai benissimo anche il mio desiderio di tornare a casa.»

«È questa casa tua», la contraddisse subito Erik, la voce nuovamente gelida e spaventosa.

Adesso Giulia comprendeva il motivo per cui l’uomo si era avvicinato a lei così tanto – voleva impedirle di alzarsi e sfuggire al suo sguardo che l’incatenava a lui senza scampo!

Fu per questo che chiuse gli occhi, prima di posarli su qualche punto meno temibile. Quando riprese a parlare, si sforzò di rendere il proprio tono di voce pacato e condiscendente, in modo che non fosse possibile contestare quanto stava per dire. «No, non lo è», ribatté piano, sperando di riuscire a farlo ragionare; doveva cercare di raggirarlo in qualche modo, perché se avesse commesso l’errore di prenderlo di petto non sarebbe più riuscita a tirarsi fuori dalla quasi certa discussione che ne sarebbe seguita. «La mia presenza qui è un terribile errore, Erik. Cose simili non dovrebbero capitare, e io non avrei dovuto interferire con gli eventi di questo tempo come invece ho fatto finora, seppur inconsapevolmente. Protrarre oltre la mia permanenza può solo peggiorare le cose!»

«Io invece non trovo niente di catastrofico nella tua vita qui», smentì l’uomo, stringendo gli occhi al di sotto della terribile maschera che ancora indossava. «Al contrario, se avessi una qualche fede potrei dire che il tuo arrivo è stato provvidenziale. Senza di te, che cosa sarei diventato? Hai una vaga idea di ciò che significhi tu per me? Mi hai salvato in tutti i modi in cui potevo essere salvato…»

«Per favore, non parlare così», lo interruppe angosciata, distogliendo lo sguardo da lui.

Ma Erik, sicuro di essere vicino a farla cedere, allungò le mani per prendere le sue in una morsa gentile ma risoluta, come se toccandola potesse trattenerla in eterno al suo fianco. «Sì invece, ti parlerò proprio in questo modo», insisté, con quella sua splendida roca dolcezza. «Ormai dovresti aver capito che il mio amore per te va oltre il mio stesso bisogno di respirare. Sì, io ti amo, ti amo, lo dico e lo ripeto perché mai, mai avrei immaginato che sarebbe giunto un giorno in cui avrei potuto ripetere queste parole… E anche tu, non negarlo!, anche tu provi lo stesso per me. Lo so, lo capisco da come mi guardi, da come mi tocchi… Da come non mi rifiuti pur sapendo l’orrore che cela questa maschera! Sposami», aggiunse con un improvviso salto pindarico, come illuminato da un’idea meravigliosa. «Oh, sposami, Giulia! Così apparterrai finalmente a questo mondo e non proverai più il bisogno o la necessità di andartene…»

«Oh mio Dio», esclamò lei interrompendolo, stupita e inequivocabilmente furiosa. Si alzò dal divano con tanta sollecitudine da inciampare nei suoi stessi piedi, ma malgrado ciò riuscì ad allontanarsi frettolosamente e a raggiungere il lato opposto della stanza. «Non riesco a credere che saresti capace di ricorrere ad un espediente così subdolo pur di trattenermi qui e impedirmi di tornare a casa dalla mia famiglia!»

«Un espediente?» Ripeté Erik, alzandosi a sua volta e cambiando repentinamente tono di voce. «Un espediente! Credi che ti voglia al mio fianco solo per una contorta mania di possesso? Era solo questione di tempo prima che te lo chiedessi… D’altra parte, non è questo quello che fanno tutti gli esseri umani? Non si sposano, forse, quando sono innamorati?»

«Beh, perdonami se il matrimonio non rientra nei miei progetti per l’immediato futuro», scattò lei, afferrando il bordo di marmo del mobiletto da toilette e evitando di posare lo sguardo sullo specchio sovrastante, che le avrebbe rivolto soltanto l’immagine di Erik che troneggiava alle sue spalle. «E poi, non è una decisione che posso prendere così, su due piedi, quando qui fuori ho un fratello che ha fatto di tutto per venirmi a cercare, e che di certo non si merita di essere rimandato indietro solo così come è venuto! Ho già abbastanza problemi da dover affrontare tutti insieme, senza dover aggiungere anche questo.»

«Quest’altro problema di cui parli sarei io?» Ringhiò l’uomo, raggiungendola in poche falcate e afferrandole un polso per costringerla a voltarsi e fronteggiarlo. «Ah, quindi evidentemente è questa la verità. Tu non mi ami! Se mi amassi, mi vorresti sposare; se mi amassi, non proveresti questo ardente desiderio di andartene e lasciarmi; se mi amassi, questa discussione non starebbe nemmeno avendo luogo!» Continuò, alzando progressivamente il tono di voce.

Dibattendosi per cercare, inutilmente, di sciogliersi dalla sua stretta, Giulia gemette spazientita. «Ti ascolti mai quando parli, Erik?» Sibilò eguagliando la sua furia, mentre cercava di trattenere le lacrime di dolore – aveva il polso immobilizzato nella morsa della sua mano. «Sembri un bambino viziato che batte i piedi per terra per avere il suo giocattolo preferito. Allora, lascia che ti dica io una cosa! Se tu mi amassi davvero, così come professi con tanta passione, mi lasceresti andare!»

Dopo che ebbe pronunciato quelle parole, Erik la lasciò andare tanto bruscamente da farle perdere l’equilibrio, come se il tocco della sua pelle lo avesse ustionato. Anche malgrado la maschera che gli copriva interamente il volto, l’espressione inorridita e colpevole che inondò i suoi occhi mentre indietreggiava da lei la lasciò ancora più sorpresa e perplesse di quell’ultima discussione. Cosa mai aveva detto per poterlo turbare così tanto?

Infine, giunse anche la risposta a quel quesito. «Ho già fatto una volta quell’errore», disse in un flebile mormorio, a voce talmente bassa che Giulia fece fatica a comprenderlo. «Ma perché devo essere sempre io a fare i sacrifici più terribili? E non è forse una delle prove più stupide, quella di rinunciare per sempre  all’oggetto della propria adorazione, del proprio desiderio, per far sì ch’esso comprenda la sincerità di tale sentimento? Il mio amore per te diventerebbe reale solo se rinunciassi ad averti? Maledizione!»

L’imprecazione sgorgò dalle sue labbra con una furia tale da farla rabbrividire. Le mani guantate dell’uomo si strinsero sulle sue spalle nude, afferrandole con forza senza badare al dolore che così le infliggeva. «Stavolta non andrà così, non lo permetterò», insisté, la voce ridotta a un roco ruggito. «Puoi scrivere una lettera per i tuoi genitori senza bisogno di andare da loro, sarà tuo fratello a consegnarla. Vedi? Potrebbe essere un buon compromesso...»

«Ma io non voglio fare compromessi, io voglio tornare a casa, voglio abbracciare i miei genitori, voglio vederli!» Proruppe ancora una volta la ragazza, ormai del tutto esasperata. «Non capisci che non li vedo da più di due mesi? Che sento la loro mancanza?»

Ecco, la realtà era proprio quella, lui non capiva. Non comprendeva quel bisogno primordiale di stare con la propria famiglia, per il semplice motivo che lui, sin da quando poteva ricordare, ne aveva dovuto fare a meno. E a quel punto, crescere in completa solitudine, senza conoscere le proprie origini, senza avere radici, come se fosse stato una creatura delle fiabe portata in questo mondo dal demonio, lo aveva reso cinico e insensibile davanti a coloro che invece professavano con tanta veemenza un falso affetto per la famiglia. In alcuni momenti aveva dubitato persino del sentimento che madame Giry nutriva per sua figlia! E come gli si poteva dar torto, d’altra parte? Come si poteva far cambiare idea a un uomo il cui unico ricordo della propria madre era quello di una donna disperata che gli gettava, tra le lacrime, la sua prima maschera?

No, Erik non capiva, e non provava neppure il desiderio di farlo. Non si sarebbe fatto commuovere da un’emozione che non conosceva, soprattutto se quell’arrendersi gli avrebbe fatto perdere Giulia.

«Queste sono solo patetiche scuse che stai avvallando per cercare di farmi cedere», sibilò alla fine, liberandola nuovamente dalla sua presa. «Ebbene, io non cederò! Non anche stavolta, non… non così. Non mi arrenderò all’idea di non poterti avere, per cui sappi che, se mi vedrò costretto, arriverò a usare la forza pur di impedirti di lasciarmi! Diamine, ti legherò se necessario!»

«E mi terresti per sempre prigioniera? Davvero un bel modo di comportarsi da uomo civile e assennato, il tuo», ribatté a tono la ragazza, con un lieve tremito nella voce. Per quanto si sforzasse di mantenere i nervi saldi, infatti, era ben consapevole di trovarsi davanti un uomo che tendeva a mettere in pratica le sue minacce; e questo, alla fine dei conti, smorzava il suo entusiasmo. Aveva sperato di poter giungere a una soluzione pacata e serena, aveva creduto di poterlo far ragionare, ma Erik aveva sconvolto le sue aspettative e l’aveva disarmata, con quel suo atteggiamento brusco e prepotente che solo di rado lei aveva visto.

«Sai bene che non saresti prigioniera», la contraddisse con un improvviso fare tranquillo. Giulia non si sarebbe mai abituata a quei repentini cambi di tono e d’umore.

«Però non me ne potrei andare», replicò ancora, l’astio malcelato nella sua voce.

«Ah, sai essere così testarda!» Proruppe Erik, spazientito. «Con me non ti annoieresti di certo, e questo lo sai perfettamente perché abbiamo trascorso molto tempo insieme… Dì, hai mai provato il desiderio di andar via, quando ti ho portato per la prima volta nella Dimora sul lago?»

«Stiamo parlando di due cose completamente diverse, e tu lo sai.» Senza più sapere quali carte giocare, Giulia si portò una mano a massaggiarsi con stanchezza le tempie gelide. Si sentiva infinitamente stanca, non aveva più voglia di discutere – ma certo quel dibattito non poteva rimanere incompiuto.

«Il principio è esattamente lo stesso», precisò lui. Poi le si avvicinò di nuovo e le prese una mano tra le sue, trattenendola con una stretta stavolta gentile. «Giulia, solo io posso renderti felice. Io ti renderò felice, lo sai, non puoi negarlo. Non hai bisogno di tuo fratello, o dei tuoi genitori… Loro fanno parte del passato, ma io sono il tuo presente e il tuo futuro. E quando avrai accettato di sposarmi, e di appartenere per sempre a me, com’è giusto che sia… Allora sì che il nostro amore sarà al suo culmine! Sarò io la tua famiglia. E se la tua è solo paura di dover vivere il resto della tua vita nei sotterranei di un teatro, come un ciarlatano, nel doppiofondo di una scatola… Ebbene, non preoccuparti! Ho acquistato una casa, una bellissima casa con un giardino, e porte, e finestre, come qualsiasi essere umano, dove potremo andare a vivere tranquilli. Sono certo che ti piacerà! E non ti dovrai neppure vergognare di aver sposato un uomo con metà faccia, perché tanto nessuno verrà a disturbarci.» Accennò un mezzo sorriso mentre si portava la sua mano alle labbra e la sfiorava con un bacio dolce e reverente, prima di riprendere la parola abbassando la voce e assumendo il tono che adotterebbe un amante sensuale in camera da letto. «Stai arrossendo, ma petite? Posso capirlo. Posso capire che tu sia intimidita dal mio impeto, d’altra parte io non sono tanto bravo con le parole quanto lo sono con la musica, e ti chiedo scusa… Ma, oh, se mi aprirai il tuo cuore… Farò di te una regina!»

Tutto il discorso del fantasma non ebbe altro effetto se non quello di accrescere l’inquietudine e la paura di Giulia che, messa così alle strette, non aveva idea di cosa dire per placare l’improvvisa follia dell’uomo. A voler dire la verità, si era aspettata più una lite attinente alla sua impossibilità di rimanere oltre in quel luogo, piuttosto che dover ascoltare una proposta di matrimonio e una simile promessa di adorazione eterna; come gli aveva già detto, l’idea di sposarsi era ben lontana dalla sua mente: era troppo giovane anche solo per pensare ad una simile eventualità. E di certo non avrebbe potuto dire adesso il fatidico , non quando si stava preparando a lasciarlo… Giacché era ancora quella la sua intenzione, dalla quale non si era allontanata fin dal principio. Anzi! Tutta la discussione era riuscita a convincerla maggiormente del fatto che entrambi, a quel punto, necessitassero del tempo per disintossicarsi l’uno della presenza dell’altro – specialmente Erik, a quanto pareva, dato che sembrava in assoluto il più stremato. Giulia voleva capire se ciò che provava per l’uomo – un sentimento che ancora esitava a chiamare con un nome preciso – era qualcosa di reale e sincero oppure se, semplicemente, era dovuto al tempo che aveva trascorso là e a tutti gli eventi di cui era stata vittima. Forse gli si era legata così tanto perché credeva di aver bisogno di qualcuno che la proteggesse in quel luogo infido che era il teatro?

Quale che fosse la ragione, oggettivamente sentiva la necessità di rifletterci con calma, alla luce del sole, e soprattutto lontana il più possibile dall’oggetto della sua lotta interiore.

Per questo, con tutto il tatto possibile e la delicatezza di cui disponeva, ricambiò appena la stretta e si liberò di un piccolo sospiro. «Erik, stai farneticando», mormorò con cautela, ancora piuttosto indecisa, in realtà, se spaventarsi o infuriarsi per quei vaneggiamenti.

Egli tuttavia non apprezzò quel commento e la sua stretta divenne micidiale, tanto da farla gemere. «Non sto farneticando! Non sono un folle, dannazione, non è folle ciò che desidero! Non è folle volere una moglie buona e rispettabile e portarla a spasso la domenica, come tutti! Perché dovrebbe essermi negato questo tesoro? Cosa diavolo ho fatto per meritare un simile castigo? E perché chiunque si arroga il diritto di punirmi per dei peccati che non sono i miei? Tu mi sposerai, maledizione, e sarai mia, in un modo o nell’altro!» Concluse con un ruggito, piegandosi su di lei e forzandole le labbra con le proprie.

Quell’assalto improvviso le strappò uno strillo sorpreso e spaventato, che venne immediatamente messo a tacere dal bacio imperioso e aggressivo dell’uomo. Non fu piacevole, fu doloroso; le fece male il modo in cui le sue mani si strinsero sulle sue spalle, lasciandole dei lividi violacei che la ragazza avrebbe scoperto solo il mattino seguente, le fece male la sua bocca che violava la propria senza dolcezza, le fece male il modo in cui l’uomo le aveva imposto qualcosa che lei, in altre circostanze, avrebbe accettato volentieri con un sorriso e una carezza.

La rabbia le fornì la forza sufficiente a scrollarselo di dosso, ansimante, ma lui la superava notevolmente in vigore e fu per questo che continuò a stringerla, deciso ad ogni costo a non lasciarla andare. Lei lo fissò accecata dall’umiliazione, e il suono secco dello schiaffo che seguì, e che fu per certi versi inevitabile, parve rimbombare come un tuono nell’improvviso silenzio che aveva avvolto la stanza.

Giulia abbassò lentamente la mano che ora già tremava, pentita, senza riuscire a staccare gli occhi da quelli dell’uomo che la fissavano con uno sgomento tale da farla indietreggiare.

«Non osare mai più trattarmi come se fossi un oggetto che ti appartiene», scandì gelidamente a mezza voce, osservandolo mentre raddrizzava il viso e ricambiava lo sguardo con occhi fiammeggianti di furore e collera. «Non ti chiederò scusa per averti colpito… Te lo sei meritato. Ma sappi che se anche hai avuto una minuscola possibilità di potermi convincere a rimanere, beh, l’hai appena persa.»

Prima di poter cambiare idea, Giulia indietreggiò lentamente senza dare le spalle all’uomo, e solo all’ultimo momento, dopo aver raggiunto la porta del camerino, si voltò rapidamente e la spalancò con violenza, mandandola a sbattere contro il muro con un colpo secco mentre la richiudeva dietro di sé e sortiva nel corridoio. Madame Giry e Jean-Louis, che attendevano gli esiti di quel faccia-a-faccia con un’ansia che eguagliava solo la trepidante attesa di un marito durante il parto della moglie, sobbalzarono sorpresi e preoccupati nel vedere l’espressione di rabbia e sdegno che tingeva il viso della ragazza. Fu il fratello di quest’ultima a scattare in piedi per primo e a raggiungerla in due falcate, già sul piede di guerra nell’eventualità che l’uomo con il quale era rimasta da sola per una lunghissima mezz’ora non l’avesse trattata come meritava.

Giulia aprì la bocca anticipando Jean-Louis di pochi secondi. «Andiamo via, per favore, riportami a casa», lo supplicò, con la voce che tremava suo malgrado. Poi, vedendo che il ragazzo la stava osservando con aria inebetita e sorpresa, fu costretta a strattonargli la manica per riscuoterlo e farlo muovere. «Subito, Jean!» Insisté.

Madame Giry, che nel frattempo si era alzata a sua volta, li raggiunse e bloccò Giulia posandole una mano sul braccio. «Cos’è successo con Erik, mia cara? Nulla che non si possa chiarire, spero…» Disse, cercando indirettamente di saperne di più. Odiava crogiolarsi in quel modo nell’attesa e nell’ignoranza – era troppo abituata ad avere ogni cosa sotto controllo per poter abbandonare adesso quella posizione privilegiata di onniscienza.

«Entrambi abbiamo bisogno di placare gli animi, madame, ed è una cosa che io non posso fare se continuo a restare qui», ammise, sentendosi incredibilmente miserabile e in colpa per la decisione che aveva preso. «Vi prego di perdonarmi, ma non posso rimanere un minuto di più», aggiunse con un singhiozzo, senza osare abbandonare la confortante sicurezza dell’abbraccio di suo fratello.

Louise continuava a non capire, o forse stava semplicemente fingendo di non averlo già fatto. Era molto affezionata a quella giovane, e c’erano tante cose che voleva dirle – non ultima la verità riguardo la sua nascita, e il suo rapporto con la viscontessa De Chagny – ma sapeva benissimo che, giunti a quel punto, era inevitabile e forse necessario ch’ella seguisse il suo fratello adottivo e se ne andasse per un po’. Per questo lasciò che le sue labbra prendessero una piega dolce e materna ma anche un poco amara, mentre stringeva la giovane tra le braccia e le posava un bacio gentile sulla fronte gelida.

«Abbi cura di te e non dimenticarti di noi, ma chère», le sussurrò all’orecchio, dolcemente. «Quando, ma soprattutto se vorrai tornare, la mia porta sarà sempre aperta.»

Gli occhi delle due donne si inumidirono inevitabilmente, dato che entrambe sapevano che quello era un addio definitivo. «Quando vedete Meg…» Iniziò Giulia, prima che la voce le si incrinasse.

Madame annuì appena, e il suo sorriso si appannò leggermente. «Le spiegherò io ogni cosa. Vai, adesso… Prima che qualcuno riesca a trattenerti ancora.»

La ragazza lanciò un’occhiata preoccupata alla porta del camerino che tuttavia rimase ostinatamente chiusa, dopodiché annuì a sua volta e strinse in un rapido e ultimo abbraccio la severa insegnante di danza. Senza più aggiungere una sola parola, afferrò la mano del fratello e si lasciò condurre da lui lungo il corridoio, nel quale sparirono come fantasmi senza lasciare che l’eco dei loro passi che si perdevano nel buio.

 

 

 

***

 

 

 

Erik uscì come una furia dal camerino di madame Giry, non degnando la donna di uno sguardo e ignorando del tutto i vani tentativi di quest’ultima di richiamarlo alla ragione. I suoi occhi avevano assunto un’espressione che poche volte madame gli aveva visto, ma ognuna di quelle aveva significato la morte per qualcuno.

Fu con quello sguardo, con quelle fiamme brucianti che ardevano al di sotto della maschera, che prese la direzione opposta a quella in cui era appena sparita per l’ultima volta la sua ossessione. Si diresse più veloce del vento e più silenzioso di un’ombra verso il salone nel quale imperversavano i festeggiamenti, non più uomo né demone né fantasma, soltanto un insieme di ira cieca, furore e desiderio di sfogare entrambi nella vendetta che bramava da tempo.

Sparì all’interno di una doppia parete, strisciò sul legno a tratti marcio del passaggio segreto, incurante di rovinare lo strascico del proprio mantello o di terrorizzare i ratti che abitavano quegli anfratti. Salì piccole e contorte scale a chiocciola, attraversò botole fino a spuntare, infine, in una delle balconate che si trovavano presso il soffitto istoriato e affrescato del foyer. Lassù, troppo in alto per poter essere visto dalla folla danzante e all’oscuro di ciò che si agitava in lui, Erik si mise a recidere con precisione chirurgica le corde che sostenevano i cinque lampadari che dondolavano nel vuoto.

Nessuno si accorse di ciò che stava per accadere; la musica che continuava a riempire il salone coprì il tintinnio dei cristalli che pendevano dai candelabri, e solo quando il primo di essi, il più piccolo, precipitò con uno schianto sulle scalinate di marmo, tutto tacque nell’immota calma prima della tempesta. Centinaia di occhi si sollevarono verso l’alto in muto stupore, per poi tramutarsi in strilli e grida alla vista degli altri quattro che venivano giù uno dopo l’altro, ineluttabilmente.

Non tutti riuscirono a scampare alla caduta dei lampadari, e in un battito di ciglia la serata che doveva essere spensierata e festosa si tramutò in tragedia. Il terribile peso dei lucernai tolse la vita a cinque anime, che fu possibile riconoscere solo grazie alla lista degli invitati, dato che i loro visi erano stati sfigurati. Dopo essersi ripresi dallo shock iniziale, alcuni tra i più temerari iniziarono ad avvicinarsi alle preziose carcasse dei lampadari per accertarsi che le povere vittime avessero cessato di soffrire.

Stranamente, la vista dei cristalli e dei vetri e dei ceri sparsi per terra non placò l’uomo quanto invece avrebbe desiderato. Al contrario, ciò lo riportò ad un passato di cui non si sarebbe mai del tutto liberato, e nel suo animo si fece largo, attraverso quella ferita appena inferta e ancora grondante sangue, una disperazione e una desolante tristezza tale che si stupì nel non sentirsi scoppiare il cuore. E, come a volergli infliggere un maggior dolore e azzerare così le sue ultime e folli speranze, qualcuno, nel sollevare lo sguardo, notò la sua figura scura e ammantata da capo a piedi che serpeggiava nell’ombra delle balconate, e un urlo, più forte degli altri, mise a tacere di colpo il cicaleccio.

«È tornato! Il fantasma dell’Opera!»

Nel sentirsi denominare in quel modo da un uomo senza identità, Erik si pietrificò di colpo. Dunque era questo che l’umanità voleva? Non desideravano il genio, ma il mostro? Ebbene, visto che Dio, o il Fato, gli avevano voltato le spalle per l’ennesima volta, scaraventandolo nel più miserabile degli abissi dopo avergli fatto assaggiare le gioie del Cielo, allora sarebbe tornato ad essere ciò che meglio gli riusciva, sarebbe tornato ad essere il Figlio del Diavolo!

La sua risata gracchiante e possente, in quel momento, prese corpo e forma e si sparse lungo i passaggi segreti e le pareti dell’intero teatro, in ogni angolo, in ogni alcova, dietro ogni statua e dentro ogni stanza, rimbombò nelle mansarde e nelle soffitte, strisciò addirittura sui tetti quasi a voler rianimare la statua di Apollo, raggiunse ed esplose in ogni recesso più lontano e nascosto di quell’opulente edificio, prima di tramutarsi in un urlo lungo e prolungato di rabbia e sconforto.

Ogni anima presente in quel luogo maledetto fuggì da esso come avesse il diavolo alle calcagna, quella notte, e in Place d’Opèra si riversarono come formiche terrorizzate decine e decine di maschere strillanti, risvegliando con il loro baccano l’intero arrondissement e facendo accorrere guardie da ogni angolo.

E il Fantasma dell’Opera si ritrovò nuovamente da solo nel suo regno vuoto e inanimato.

























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Angolo Autrice.
Mmh, non so che dire. Questo capitolo (parecchio più lungo dei precedenti!) ha voluto ogni goccia del mio sangue per giungere al termine, e per di più l'ha fatto senza considerare minimamente quelli che erano i miei progetti iniziali... Va bè. La mia beta-reader di fiducia mi ha detto che potevo pubblicare tranquillamente ed io, giustamente, obbedisco u.u
Non voglio fare spoiler e rovinarvi il gusto di leggere i prossimi capitoli (che non so quando giungeranno, alcuni sono già scritti e altri no, ma voglio avere il tempo di rivederli e correggerli e decidermi se lasciarli così o eliminarli di sana pianta), dunque queste note finiranno qui; onde evitare il linciaggio da parte vostra, volo via!
Un bacio grande grande a tutte voi che siete giunte fin qui armate di una grande dose di coraggio e di una ancora più grande di pazienza - non finirò mai di dirvi quanto siete fantastiche ed eccezionali, sia nelle recensioni che nei modi silenziosi di seguirmi! Grazie, grazie e ancora grazie :*
Vi do appuntamento nel prossimo capitolo, ci leggiamo presto - spero! Vostra,
Niglia.

PS. Tornate indietro di qualche capitolo e date un'occhiata al Prologo: vi piace l'immagine di "copertina"? *_* Recentemente sto scoprendo Photoshop (grazie a mia sorella) e mi sto dando alla pazza gioia... xD e con questo chiudo davvero :)
Baci!

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Capitolo 32
*** 30. Interludio. Fine degli amori del Fantasma ***


Chapitre 30

Interludio: Fine degli amori del Fantasma

 

 

 

















Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.

Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

 

Il passante che in quella grigia mattina del gennaio 1878 avesse attraversato come faceva di solito Rue de Rivoli, dal lato in ombra che percorreva le grigie mura del teatro dell’Opèra, avrebbe potuto udire, nel caso la strada fosse stata libera da carrozze o da un chiacchiericcio vario, una straordinaria e possente musica che pareva provenire dalle viscere stesse dell’edificio, una composizione che Parigi aveva pregato di non udire più e anzi di riuscire a dimenticare; la si sarebbe potuta definire il pianto disperato di un’anima distrutta, il suo urlo di rabbia, la sua supplica, il suo requiem. Tale musica avrebbe fatto rabbrividire il povero passante, che avrebbe accelerato il passo facendo gli scongiuri e lasciandosi alle spalle una grata abilmente nascosta nel buio, alla quale nessuno avrebbe mai pensato di dare importanza.

Dalla notte dell’ormai famoso incendio, il teatro aveva iniziato ad incutere un tetro timore ai parigini, che per quanto possibile cercavano di evitarlo o, al contrario, di esorcizzare la paura frequentandolo con boriosa arroganza durante i pubblici eventi e gli spettacoli settimanali. Tuttavia, le grida e i pianti che, a quanto dicevano gli stessi membri del personale che vi abitavano, si udivano durante la notte in qualsiasi zona del teatro ci si trovasse, come se non uno ma mille fantasmi lo infestassero, rendevano faticoso frequentare quel tempio della musica a cuor leggero. E sudavano come peccatori in chiesa i poveri macchinisti, colpevoli di aver importunato le giovani ballerine, memori degli eventi passati e timorosi della vendetta dello spirito del teatro stesso: chi li assicurava, infatti, che il Fantasma fosse morto quella triste notte di quattro anni prima? E se l’uomo che si era spacciato per tale era davvero spirato, allora non dovevano forse temerne a maggior ragione il ritorno sotto forma di spirito?

Fu dunque una strana atmosfera quella che si respirò al palazzo dell’Opèra nei giorni successivi al disastro della festa in maschera di capodanno. L’edificio era stato chiuso al pubblico per permettere i lavori di restauro dei lampadari che erano crollati quell’infausto trentun dicembre, ma il continuo via vai di operai, macchinisti e di tutto lo staff artistico del teatro non era cessato: quell’incidente, sempre se di tale si poteva parlare, non poteva pregiudicare un’intera stagione operistica. La sensazione che tutti provavano, comunque, era quella di essere ritornati all’oscuro periodo in cui sul teatro gravava la presenza del fantasma – le ballerine si lamentavano della sparizione dei loro effetti personali, alcuni specchi venivano ritrovati completamente in frantumi e subito dovevano accorrere le signore addette alla pulizia per far sparire i vari frammenti ed evitare così che qualcuno vi mettesse sopra un piede, e persino monsieur Firmin e monsieur André non poterono fare a meno di ignorare l’ansia che tale situazione provocava loro. La caduta di tutti i cinque lucernai del salone d’ingresso poteva essere anche stata una terribile fatalità, ma i pochi che avevano ricordo degli eventi risalenti al milleottocentosettantaquattro sapevano ben riconoscere il caratteristico stile del fantasma dell’Opera. E i due poveri direttori, non certo celebri per il loro coraggio, tremavano all’idea che quell’uomo – di cui avevano anche visto il cadavere due notti dopo la rappresentazione del Don Juan, che diavolo! – potesse essere risorto dalle proprie ceneri per perseguitare coloro che avevano avuto l’ardire di ostacolarlo e infine ucciderlo!

Senza contare che l’improvvisa nonché ennesima sparizione di mademoiselle Sanders, della quale non si avevano più avuto notizie dall’ultima volta che era stata vista al teatro, sempre quella tragica sera, di certo non contribuiva a diminuire l’angoscia che quel luogo ispirava ad ogni anima. Madame Giry, interpellata al riguardo in quanto unica parente della giovane, non era stata molto chiara: aveva detto qualcosa a proposito del fatto che probabilmente mademoiselle Sanders non sarebbe più tornata a Parigi in quanto la sua famiglia aveva bisogno di lei – l’aveva giustificata spiegando che era stata una decisione improvvisa alla quale proprio non poteva opporsi né tantomeno che poteva rimandare – e per quanto fosse grande il disappunto dei due direttori, che adesso dovevano cambiare i loro programmi e sperare che la sostituta fosse pronta a prendere il suo posto il prima possibile, essi accettarono la nuova situazione senza quasi battere ciglio, finendo addirittura con il chiedere a madame Giry di mandare alla ragazza i loro migliori auguri e la speranza che, qualsiasi cosa fosse successa, si potesse risolvere in bene.

Louise Giry dubitava seriamente che le cose potessero finire bene, ma questo pensiero preferì tenerlo per sé.

Così come il persiano, monsieur Bamdad, non fece parola con chicchessia del tremendo sconforto nel quale era caduto il suo principale, che i più conoscevano come monsieur Destler ma che altri, i pochi ben informati di vecchie vicende, preferivano denominare angelo o fantasma.

Anche lui era sparito dalla circolazione; non che prima di allora si fosse mai fatto vedere, a teatro – la sua presenza era tangibile e lampante in ogni decisione artistica ed affaristica che veniva presa, ma nessuno, se fosse stata posta la domanda di descrivere l’aspetto del maggior mecenate dell’Opèra, avrebbe saputo dare una risposta. I dipendenti tendevano ad immaginarlo come un vecchio ed eccentrico signore venuto dal Nuovo Mondo con idee fresche e geniali riguardo la gestione del teatro, e poiché Bamdad non aveva mai fatto o detto alcunché che potesse smentire tali voci, questo era tutto ciò che si sapeva, o che si credeva di sapere, su monsieur Destler.

Anche lui non era niente più che un fantasma.

 

 

 

***

 

 

 

Le note del Don Juan Trionfante volteggiavano come foglie secche trasportate dal vento sopra il manto scuro e plumbeo del lago sotterraneo, strazianti e rabbiose nel nascere dalle canne vibranti di un organo suonato con furiosa maestria. Il compositore dell’opera si accaniva sui tasti d’avorio con un orrendo impeto che aveva il marchio della follia; le sue dita non davano tregua allo strumento, così come lui si rifiutava di dare pace a se stesso. Non mangiava, non dormiva – di tanto in tanto si interrompeva per prendere fiato o per aggiungere qualche modifica alle spartiture, ma ciò era tutto – sembrava aver perso ogni desiderio di volersi prendere cura del suo corpo e del suo animo. Il suo unico nutrimento era quella composizione.

Quanto tempo era trascorso dall’ultima volta in cui il suo smarrimento nella musica era stato tale da fargli dimenticare di essere, in fondo, soltanto un misero essere umano, con bisogni e necessità?

Ma nulla di tutto questo gli importava. Sentiva che sarebbe impazzito una volta per tutte se le sue dita avessero abbandonato quei tasti – se la sua musica avesse cessato di saturare l’aria, inondando la dimora sotterranea – e pareva ormai avere deciso che niente dovesse più essere in grado di allontanarlo da quella che era sempre stata la sua vita, la sua vera amica, confidente, amante. Aveva trascurato la sua musica, le aveva voltato le spalle – e per cosa? Ecco che cosa ne era conseguito, un ennesimo tradimento, un’ennesima bugia, un’ennesima delusione!

La consapevolezza di essere stato abbandonato una seconda volta lo stava annientando sia fisicamente che psicologicamente; un uomo non poteva sopravvivere ad un simile dolore, non era giusto, non era sano, eppure come mai non era ancora morto? Come mai continuava a bruciare e bruciare, come il suo Don Juan, ma senza andare in pezzi, senza mai raggiungere il limite? C’era forse qualcuno, un qualche Dio sadico e onnipotente, che preferiva vederlo rotolare nella disperazione in modo da fargli fare ammenda dei suoi peccati – tutto, pur di non accoglierlo oltre i cancelli di un tanto agognato paradiso?

Un suono sordo e stonato rimbombò nella dimora sul lago nel momento in cui il folle compositore cessò di dare voce alla sua opera; egli piantò i gomiti sui tasti per poi prendersi la testa tra le mani con un gemito dall’accento disperato. Gemito che si trasformò in singhiozzo, poi in pianto, poi nel lamento angosciato di un uomo distrutto.

Tutto il peso della solitudine di cui aveva pensato, per un brevissimo momento, di essersi liberato per sempre, era piombato con forza sulle sue spalle, piegandolo come una canna al vento. Ed era un peso che non riusciva più a sopportare come prima, ora che aveva scoperto che cosa si provava a condividere qualcosa con qualcuno – niente sarebbe più stato lo stesso, e questo era un pensiero che avrebbe finito per annientarlo.

Il fantasma fissò con occhi vuoti e arrossati i fogli sparsi davanti a sé, quell’ammucchiarsi e rincorrersi quasi disordinato di note vergate di rosso, e si chiese per un attimo che senso avesse anche quello, che senso avesse comporre, suonare, respirare, se non c’era nessuno che ascoltasse e giudicasse la sua musica, se non c’era la sua mano posata distrattamente sulla propria spalla mentre l’altra indicava un punto preciso sul pentagramma, e la sua voce chiedergli se non fosse stato meglio aggiungere un Do minore al posto di un Re, e il suo sguardo attento che seguiva invece le sue, di dita, che scorrevano sui tasti dell’organo mentre le spiegava che un Do avrebbe rallentato l’andamento della composizione…

Che senso aveva comporre una musica per lei se lei non l’avrebbe più potuta ascoltare?

Tutto ciò che ormai gli era rimasto erano attimi, momenti, effimeri istanti che erano stati ma che non sarebbero tornati, lasciandolo lì, da solo, a marcire per sempre e a ricordarli.

 

 

 

***

 

 

Bamdad, il persiano, era sinceramente preoccupato per il suo principale. Non era mai capitato, da quando lavorava per lui – e ormai poteva vantarsi di essere al suo servizio da quattro anni abbondanti – che monsieur Destler sparisse per giorni, settimane addirittura, senza neppure lasciargli una nota nel quale lo informava dei suoi progetti. In genere, se ciò accadeva – ed era comunque qualcosa di molto raro – Bamdad aveva il compito di occuparsi degli affari di Erik, di smistare la sua posta, parlava con chi richiedeva i suoi servigi eccetera, ma stavolta non gli era stato detto nulla al riguardo e l’assenza ingiustificata del suo padrone aveva già iniziato a farsi sentire. Poteva forse essere collegata all’improvvisa partenza di mademoiselle Sanders? Sì, non poteva essere altrimenti. L’eventualità che fossero fuggiti insieme, come due giovani innamorati, non era neppure da prendersi in considerazione, perché monsieur Destler non era uomo da abbandonare il suo lavoro, al quale probabilmente teneva più che a qualsiasi altra cosa, per la prima fanciulla che sbatteva le ciglia nella sua direzione.

Ma era pur vero che il carattere altalenante del direttore artistico dell’Opèra non permetteva di fare ipotesi sicure e razionali, giacché egli poteva attraversare l’intero spettro delle emozioni umane nell’attimo di un battito d’ali di farfalla. Dunque, sommando questi due fatti – e cioè il suo umore lunatico e la sua cieca dedizione all’arte e la passione in tutte le sue forme – le uniche conclusioni raggiungibili erano due: o monsieur Destler si era già tolto la vita, magari la notte stessa di Capodanno, a seguito della sciagura dei lampadari – giacché il persiano aveva le sue buone ragioni per credere ch’egli c’entrasse qualcosa in quanto era successo – oppure era nascosto in qualche anfratto buio e malagevole, a piangere sulla sorte che gli era stata riservata e attendendo in silenzio o tra grida di disperazione che una morte benigna giungesse a liberarlo.

Tale pensiero Bamdad non poteva proprio tollerarlo, sicché si decise per fare qualcosa, e fare qualcosa, in quel momento, consisteva nell’andare a cercare il proprio padrone ovunque egli fosse.

 Era la prima volta che si introduceva effettivamente nella dimora sul Lago. Da quando era stato firmato il contratto che rendeva monsieur Destler socio della direzione del teatro e si era quindi trasferito, piuttosto curiosamente, ad abitare nel palazzo dell’Opèra, il persiano aveva preso a tenere maggiormente sotto controllo l’uomo per il quale lavorava, e di cui conservava ogni genere di segreto ch’egli voleva confidargli. Sfortunatamente, l’ubicazione del luogo nel quale Erik spariva per pomeriggi o giornate intere a comporre e lavorare non rientrava tra questi. Fu per questo motivo che monsieur Bamdad aveva iniziato assai poco professionalmente a spiare il suo padrone; aveva preso a seguirlo quando si avventurava in corridoi e cunicoli perlopiù sconosciuti alla maggior parte delle persone che lavoravano nell’edificio, quando saliva su verso i tetti o quando scendeva tra i sottopalchi, nel regno delle botole e delle trappole… Lo seguiva instancabilmente fin quando l’uomo non spariva, in modo assai misterioso, come un’ombra che non fosse mai esistita. Avrebbe quasi detto che le pareti lo inghiottissero al loro interno!

Ma il persiano proveniva, di per sé, da una terra nella quale simili trucchi e “magie” erano all’ordine del giorno; non impiegò dunque molto per capire che il suo padrone non era uno spirito che attraversava i muri, ma che semplicemente sfruttava dei passaggi segreti di cui nessuno neppure sospettava l’esistenza.

Un giorno, ne erano trascorsi forse due o tre dall’incidente nella cappella – quando aveva osato alzare le mani sulla protetta di monsieur Destler – la curiosità ebbe il sopravvento sui suoi doveri e lo indusse a non limitare il suo spionaggio al livelli superiori del teatro, ma a proseguire oltre e seguirlo, in segreto, attraverso i suoi cunicoli nascosti, al di sotto delle botole, giù, sempre più giù, verso le viscere dell’edificio. Fu così che scoprì il passaggio segreto che si trovava sotto il terzo sottopalco, tra il fondale e il sostegno della quinta del Roi de Lahore, e che riuscì ad attraversare senza particolari difficoltà perché si trattava semplicemente di spalancare una delle botole e saltare nell’oscurità di chissà quale tana: il coraggio e la curiosità gli fornirono la spinta necessaria a infilarsi senza pensarci due volte in quel buco. Era giunto dunque a spiarlo addirittura quando, credendosi solo, Erik raggiungeva la sponda del lago sotterraneo e saliva sulla barca, remando con velocità e destrezza fino a scomparire nella densa oscurità che ammantava ogni cosa e lo proteggeva da sguardi indiscreti.

Ma mai, prima di allora, aveva osato andare oltre quel punto. Non avrebbe rischiato di farsi scoprire e di umiliarsi, così, ammettendo la propria indiscrezione, perciò da quel momento aveva cessato di spiare il suo padrone. Tuttavia, a quel punto, monsieur Bamdad si era in un certo qual modo sentito in dovere di scendere nuovamente nei domini sotterranei di Erik, giacché la salute del proprio signore era assai più importante della sua riservatezza. Inoltre, egli era pagato per conoscere tutti i segreti di Erik, persino quelli che lui non voleva rivelare.

Erano quindi trascorse tre settimane dalla notte di capodanno, quando il persiano decise di introdursi definitivamente nelle catacombe del teatro. Passando dal terzo sottopalco, monsieur Bamdad raggiunse senza sbagliare strada fino alla riva del lago sotterraneo, sperando di trovarvi la barca che aveva visto utilizzare più volte da Erik per raggiungere la sponda opposta. Sfortunatamente, l’imbarcazione non si trovava ancorata nel piccolo molo; e se da una parte tale scoperta lo deludeva, dall’altra lo rassicurava sul fatto che il suo signore doveva trovarsi per forza là sotto, a meno che non fosse passato da altri corridoi a lui sconosciuti.

Illuminandosi intorno con la lampada che si era premurato di portare con sé, Bamdad ispezionò l’intera sponda del lago, scoprendo che nel lato sinistro, laddove la roccia era stata ammorbidita dallo sciabordio dell’acqua, gli architetti che avevano progettato l’intero edificio avevano fatto costruire anche degli archi e delle colonne non eccessivamente basse che impedivano al teatro di crollare e venire inghiottito dal lago; e tali elementi architettonici avevano a loro volta creato un ulteriore labirinto di corridoi e gallerie che percorrevano tutta l’area dello specchio d’acqua giungendo, o almeno questo era ciò che il persiano si augurava, fino alla dimora sul Lago di Erik. Facendo attenzione a dove metteva i piedi, il persiano si avventurò dunque lungo quel percorso alternativo.

Dovette ammettere che giunse alla fine della galleria senza incontrare troppe difficoltà: tuttavia, una volta che ebbe abbandonato l’oscurità del cunicolo, fu costretto a sbattere più volte le palpebre per credere a quello che i suoi occhi stavano vedendo.

Davanti a lui, al di là di ogni sua aspettativa, si trovava una vera e propria abitazione, con dipinti, candele, lampade, tavoli e scrivanie, persino vasi di fiori secchi – rose, per lo più – poltrone e divanetti in stile Luigi Filippo. Costruito in una caverna sulla riva del lago, dove peraltro si trovava anche la gondola che non aveva trovato dall’altra parte, il rifugio di Erik stonava terribilmente con l’ambiente nel quale era stato costruito, giacché era oltremodo strano che degli arredamenti così tipicamente parigini si trovassero nelle catacombe di un teatro.

Bamdad fece qualche passo avanti sollevando la lampada davanti a sé, dato che la maggior parte dei candelabri presenti nella strana dimora reggeva moccoli di candele consumate, lasciando che l’oscurità prendesse inesorabile il sopravvento. Il silenzio era mortale: l’unico rumore era quello, leggero, dell’acqua, le cui correnti sotterranee provocavano dei lievissimi innalzamenti o abbassamenti del suo livello normale, e quello, appena più udibile, delle gocce di umidità che cadevano dal soffitto e colavano per terra o sulla superficie del lago.

Una leggera inquietudine iniziò a farsi largo nell’animo del persiano che, avanzando con cautela e aggirando gli ultimi metri della riva per non bagnarsi, riuscì ad arrivare davanti ai gradini che conducevano al livello sopraelevato dell’abitazione; sollevando ancora la lampada, Bamdad si accorse finalmente dell’immenso organo che troneggiava su un’intera parete della grotta, con le canne di piombo e stagno che riflettevano la flebile luce delle poche candele rimaste e quella, più netta, della sua lanterna. Facendo scorrere lo sguardo sorpreso e ammirato verso il basso, il suo respiro si mozzò all’improvviso quando notò la figura china sui tasti, immobile, dalla quale non proveniva alcun rumore.

Gli sfuggì un’imprecazione nella sua lingua madre, prima che abbandonasse ogni cautela per affrettarsi e raggiungere l’uomo curvo sull’organo. Non vi erano dubbi che si trattasse di lui, infatti – Bamdad conosceva il suo principale. Posò la lampada sulla superficie un tempo lucida dello strumento e ora coperta di polvere, per poi dedicarsi all’uomo che, adesso poteva udirlo, respirava piano e con fatica. Temendo di essere arrivato troppo tardi, il persiano gli mise una mano sulla spalla e lo scrollò gentilmente, chiamandolo.

«Monsieur… Monsieur! Svegliatevi, sono io, sono Bamdad», mormorò a mezza voce, indeciso se alzare ulteriormente il tono o risvegliarlo con calma. «Monsieur?»

L’uomo sospirò come un morto che viene riportato bruscamente in vita, e con un grugnito soffocato rincuorò il persiano sulla sua sorte. «Monsieur, permettetemi di aiutarvi», insisté, passandogli un braccio sulla schiena e sollevandone uno dei suoi per posarlo sulla propria spalla. Avrebbe dovuto issarlo contando solo sulla propria forza, giacché monsieur Destler sembrava essere troppo indebolito da giorni di apatia e incuria per poter camminare sulle proprie gambe. Mentre lo sollevava, il capo di Erik ciondolò pesantemente e intaccò l’equilibrio del giovane, che traballò per un attimo prima di riacquistare la stabilità.

«Coraggio, monsieur, svegliatevi. Non ce la faccio da solo», mormorò, con la voce tesa dallo sforzo.

Erik dischiuse appena le palpebre e strinse gli occhi, cercando di mettere a fuoco l’ambiente circostante e di capire per quale astruso motivo qualcuno lo stesse spostando dal suo strumento. Tuttavia la testa gli pulsava orribilmente, troppo per permettergli di riflettere con la lucidità che avrebbe desiderato; così, dopo aver faticosamente compreso di essere aggrappato al proprio assistente e aver rinunciato a capire come diavolo avesse fatto a trovarsi lì, annuì e si lasciò trasportare, cercando di agevolargli i movimenti.

«Camera… in camera…» Bisbigliò roco, prima che la tosse gli fece tremare il petto. Da quanto tempo non beveva qualcosa? «Portatemi in camera», riuscì ad aggiungere a fatica.

Bamdad lo condusse dunque verso l’unica porta che riusciva a vedere attraverso la penombra, e che per esclusione suppose essere quella della stanza da letto. Il corpo di Erik contro il suo era terribilmente caldo attraverso la leggera stoffa della camicia, lisa e lurida, che indossava l’uomo, e il suo respiro affannoso non lasciava presagire nulla di buono. Affannandosi alla ricerca della maniglia con la mano libera, il persiano riuscì finalmente a spalancare la porta e l’ennesima vorace buia si aprì ai suoi occhi; attese per un istante di abituarsi al buio e, quando iniziò a riconoscere i contorni degli oggetti, con stoica determinazione trascinò Erik fino al letto e là scostò le coperte e lo fece sedere sul bordo. Gli slacciò la camicia, ormai da buttare, che gettò quindi per terra, ma gli lasciò i calzoni dato che non sapeva quanto oltre potesse spingersi. A quel punto lo fece distendere sul morbido materasso, lo avvolse tra le coltri e si chinò sul comodino alla ricerca di una candela o, ancor meglio, di una lampada. La trovò: ruotò lo stoppino fin quando una lieve fiammella tremolante non apparve al di sotto del vetro, rischiarando la stanza e gettando ombre e luci sul volto esausto e distrutto dell’uomo abbandonato sul suo giaciglio.

Gli occhi di Erik si serrarono istintivamente non appena sentì la luce posarsi su di sé, e non poté trattenere un gemito sofferente al pensiero che il suo viso, nudo e disadorno, privo della solita maschera che era solito proteggerlo, fosse alla mercé dello sguardo del persiano. Ma dal giovane straniero non provenne un solo lamento, né di orrore né tantomeno di derisione, quando vide il motivo per cui egli nascondeva sempre e in ogni momento le sue fattezze; con la professionalità e la discrezione che lo caratterizzavano, Bamdad distolse lo sguardo solo per rispettare il dolore e la pena che quell’uomo doveva provare, nel sentirsi e vedersi così indebolito.

«C’è qualcosa che posso fare per voi, monsieur? Procurarvi delle medicine, dei medicamenti? Oppure preferite bere o mangiare qualcosa?» Domandò con tono neutro, senza tuttavia riuscire a celare la gentilezza che quella voce calma e pacata esprimeva.

Le ciglia di Erik fremettero, come se stessero disperatamente trattenendo le lacrime, e volse dunque il viso da un’altra parte per non mostrarsi in quello stato. «Dell’acqua andrà bene», rispose soltanto; non era abituato a tutta quella sollecitudine, e di certo non se l’aspettava quando invece aveva creduto che solo la morte sarebbe giunta a fargli visita. Evidentemente, neppure il Demonio in persona lo voleva accogliere tra le sue braccia.

«Sì, monsieur. Torno subito», lo rassicurò, lieto finalmente di poter tornare ad obbedire al suo signore.

Rimasto nuovamente solo, Erik sospirò e cadde nell’incoscienza.

 



 

Aprì nuovamente gli occhi, o perlomeno li socchiuse, quando si sentì chiamare e scuotere ancora da una voce familiare, una voce in un certo senso amica, che pareva non avere nessuna intenzione di lasciarlo morire. Oh, avrebbe implorato pietà se solo ne avesse avuto la forza!

«Ecco l’acqua, monsieur», sussurrò quella voce, e quasi subito dopo qualcosa di freddo, come il vetro di un bicchiere, si posò sulla sua bocca, e un liquido a sua volta fresco, dolce – acqua e zucchero? – gli scivolò in gola facendolo gemere leggermente dall’estasi. Deglutì, poi socchiuse ancora le labbra per richiederne un altro sorso, che per fortuna giunse immediatamente.

Dopo tre sorsi ne ebbe abbastanza e lasciò ricadere la testa sul cuscino, già stanco di quel piccolo sforzo. Pareva che la testa volesse esplodergli da un momento all’altro. Come in risposta alle sue mute preghiere, un panno bagnato e fresco si posò sulle sue tempie, delizioso conforto, rinfrescandolo e portando un po’ di sollievo alle sue membra. Se solo chiudeva gli occhi, poteva osare immaginare che quelle cure gentili provenissero da un’altra ben nota persona, che fosse stata lei a rimboccargli le coperte, a portargli l’acqua, che con mani premurose lo avesse spogliato e coccolato, che fosse insomma tornata da lui consapevole del proprio errore e desiderosa di non lasciarlo più…

Ma poi sollevava appena le palpebre con la speranza che quel suo sogno si fosse tramutato in realtà, e invece non era suo il profumo che sentiva, non erano suoi quei bisbigli incoraggianti, non erano sue quelle cure. Lei se n’era andata; prima accettava questa tremenda realtà e prima, forse, se ne sarebbe fatto una ragione… O almeno ci avrebbe tentato.

Le sue labbra aride si mossero a stento per formulare qualche parola e un flebile mormorio provenne da esse, ma era talmente sommesso che monsieur Bamdad dovette chinarsi su di lui e avvicinare l’orecchio alla bocca del suo padrone, per scoprire cosa egli stesse cercando di dire.

«Volevo solo che lei mi amasse», stava sussurrando, con la voce arrochita da giorni di incuranza per la propria salute. «Era una cosa tanto assurda, Bamdad? Avevo bisogno… soltanto che lei mi amasse… per diventare il più tenero e mansueto tra gli uomini...»

Il persiano non sapeva come dovesse prendere le parole che Erik bisbigliava in preda alla follia derivante dalla febbre. Non pareva essere in sé, il suo respiro era ansimante e faticoso, la sua pelle arroventata, le palpebre si serravano con forza in continuazione sugli occhi stanchi e ossessionati da chissà quale visione cui soltanto lui poteva accedere.

«Non pensateci adesso, monsieur, cercate di riposare», ribatté gentilmente il fidato segretario, mentre inumidiva la fronte di Erik con un panno bagnato di acqua fredda. «Volete qualcosa di forte? Del vino, forse, o del cognac?»

L’uomo emise un gemito di dissenso e scosse appena il capo, ma Bamdad non era del tutto convinto che avesse compreso quanto gli aveva appena detto, come peraltro confermarono le sue parole successive.

«Solo una sua carezza… e sarei stato un cagnolino pronto a morire per lei…» Stava dicendo a fatica, con il tremito di chi trattiene con forza il pianto. «E invece se n’è andata… Se n’è andata… ed ora è persa, persa per sempre…»

Era chiaro, ormai, ch’egli stesse farneticando, e il persiano provò una pena sincera per il tormento di quell’uomo. Purtroppo, lui non avrebbe potuto fare nulla per rincuorarlo – era impossibile guarire un cuore, un animo ferito – per cui si sarebbe limitato a prendersi cura del suo fisico spossato, e il resto sarebbe venuto in seguito. Erik continuò a passare dal torpore alla veglia in continuazione, alternando stati di follia ad altri di una più salda lucidità, durante i quali il persiano ne approfittava per spronarlo anche solo a dargli ordini, che tuttavia perdevano valore in quanto colui che li aveva emessi scivolava di nuovo nel sonno agitato dovuto alla febbre.

Alla fine Bamdad decise che, malgrado il chiaro disorientamento e la confusione del suo padrone, era necessario che lo scuotesse e schiarisse la sua mente almeno nei momenti di coscienza, parlando di qualunque cosa che potesse attirare la sua attenzione e dunque riscuoterlo. Iniziò quindi a parlare della gestione del teatro, con voce morbida e suadente e con una cadenza musicale tipica del suo accento esotico, che gli faceva arrotare le erre come se avesse qualcosa posata sulla lingua. I suoi sforzi, tuttavia, non parvero riscuotere alcun successo, o perlomeno fu così fin quando il persiano non tirò fuori la questione della notte della festa in maschera – l’ultima notte, in verità, che aveva visto monsieur Destler in salute – e degli incidenti che l’avevano resa tristemente celebre.

«Perdonatemi se oso chiedere una cosa simile, monsieur, ma…» Esordì con cautela, abbassando appena il tono e cessando di tamponare la fronte dell’uomo. «I lampadari del foyer… I lampadari, monsieur!... Avete avuto qualcosa a che fare con ciò che è accaduto?»

Le palpebre di Erik si sollevarono leggermente e diedero modo a Bamdad di fissare un paio di occhi ardenti e spiritati, lucidi e stanchi, terribilmente stanchi, ma finalmente coscienti.

«I lampadari? Ah!, i lampadari…» Ripeté con un sogghigno, ma erano lacrime quelle che solcavano lente le sue guance scurite da una barba vecchia di giorni. «Erano davvero logori, quei lampadari… Davvero logori! Sono venuti giù all’improvviso, così, non si poteva far niente! Ci devono essere molti più fantasmi di quanto si creda, in questo teatro…»

L’uomo sollevò stancamente un braccio e se lo posò sugli occhi, allontanando la mano gentile del suo segretario e mettendo fine ad ogni tentativo di instaurare un’ulteriore conversazione. «E adesso tacete o andatevene, Bamdad, oppure denunciatemi e fatemi arrestare, sì, traditemi! Vi sciolgo da ogni impegno!, uno in più, uno in meno, non fa differenza… Ma vi prego, lasciatemi da solo.» Ordinò Erik, sforzandosi di imprimere in quelle parole tutto il disprezzo e l’autorità di cui poteva disporre un povero mortale confinato a letto e impossibilitato anche solo di mettersi a sedere.

«Nessuno vi tradirà, monsieur, e ad ogni modo io non sarò tra costoro», ribatté invece il giovane persiano, sollevato in verità nell’udire quel seppur breve discorso – era il più lungo che avesse sentito da lui da quando lo aveva trovato. «Vi riprenderete, guarirete… E posso giurare che avrete la vostra vendetta.»

Uno gemito che somigliava più ad un singhiozzo che a uno sbuffo sarcastico provenne dalla bocca socchiusa di Erik. «Vendetta… che cosa volete che me ne faccia della vendetta? E su chi dovrei vendicarmi? Qualsiasi cosa faccia, qualsiasi cosa dica… Non me la riporterà indietro…»

Bamdad non sapeva più cosa dire per risollevare lo spirito del suo principale: era molto difficile cercare di consolare chi non voleva essere consolato. Optò quindi per il silenzio, e riprese a cercare di far diminuire la temperatura del suo corpo senza più dire nessuna parola.

Non dovette attendere molto prima che l’uomo scivolasse misericordiosamente nel sonno.

 

 

*

 

 

Occorsero cinque lunghi giorni per far sì che Erik si rimettesse completamente e tornasse l’uomo che il suo fidato segretario aveva imparato a conoscere e rispettare. Le cure del giovane persiano e le medicine che si era procurato avevano risanato il corpo di monsieur Destler, ma non il suo animo: per quello, purtroppo, non c’era nulla che lui potesse fare.

Quando Erik aprì gli occhi, all’alba del sesto giorno, congedò Bamdad lasciandolo libero di trascorrere la giornata come meglio credeva; il ragazzo meritava un po’ di respiro, anche se non voleva ammetterlo, e dopo aver insistito e aver sottolineato che non ammetteva repliche al riguardo, il persiano lo lasciò finalmente solo. Soltanto a quel punto egli sfogò tutto ciò che aveva accumulato in quel mese di follia e malessere.

Non era stata sua intenzione, all’inizio; ma quando aveva visto la maschera che aveva indossato la notte di capodanno, quell’orrido oggetto con le orbite vuote e le guance incavate, che le fiamme delle candele accarezzavano creando macabri giochi di luce sulla sua superficie e dando vita a un’espressione beffarda che pareva volersi prendere a sua volta gioco di lui, ebbene, quando la vide sentì qualcosa scattare dentro di sé, qualcosa di arcaico e distruttivo. Preso da un attacco di furia l’afferrò e la gettò per terra, mandando la fine porcellana in mille pezzi. Stessa sorte ebbero i due candelabri che l’avevano illuminata, e a loro seguì un piccolo specchio da toilette posto lì accanto, e così pure numerosi spartiti, boccette vuote di inchiostro, un mezzo busto di ceramica e un vaso contenente un mazzetto di rose secche, i cui petali ancora odorosi si sparpagliarono sul pavimento della grotta. Senza più riuscire a fermarsi strappò i tendaggi che coprivano gli specchi e distrusse questi ultimi uno ad uno, squarciò tele dipinte e cuscini, rivoltò le poltrone, buttò libri per terra – non ebbe pietà neppure di un carillon a forma di scimmia che suonava i cembali.

In piedi al centro di tutto quel caos, il Fantasma si guardò intorno con un leggero accenno di rammarico, ma non ancora soddisfatto. Calpestando con sonori scricchiolii i cocci di ceramica e i frammenti di vetro che ricoprivano il suolo, si diresse quindi a passi lenti e risoluti verso quella che era stata la camera da letto di mademoiselle Sanders durante il suo soggiorno in quei sotterranei. La sua mano scostò con un lieve tremito la tenda che separava quella stanza dal resto della dimora, e i suoi occhi, abituati a scrutare l’oscurità, si posarono sul letto a forma di cigno nero che lui stesso aveva progettato e costruito e in cui lei aveva dormito, sul mobile da toilette in cui lei si acconciava i capelli, sull’armadio che conteneva i suoi vestiti, sul comodino dove poggiava i suoi libri. Ogni cosa, in quella stanza, odorava di lei – ed era giunto il momento di eliminare ogni traccia del suo passaggio.

Con la stessa gelida cura che aveva impiegato per far precipitare i lucernai, la sera del ballo in maschera, si avvicinò al letto e con un sibilo iniziò a squarciarne i cuscini e le coperte, a gettare per terra le boccette e i profumi ordinatamente allineati sul tavolino da toilette, a spazzare via dall’armadio gli abiti che le aveva regalato e che poche volte aveva avuto modo di vederle indosso, distruggendoli con feroce piacere e lasciando cadere tutto intorno a sé i residui delle stoffe preziose. Non voleva più avere nulla a che fare con lei, né con ciò che le era appartenuto! Quando ebbe finito con quella camera non rimase più nulla di integro, eppure il suo profumo permase, facendolo ringhiare di frustrazione. Batté un pugno contro la parete di roccia sperando che quel dolore lo distogliesse dalle altre pene, ma invano; purtroppo sapeva che tutta quella devastazione non sarebbe bastata a togliersi di mente la ragazza.

Qualcosa di umido gli bagnò le guance, ed Erik chiuse gli occhi, sopraffatto dalla sofferenza.

«Perché non riesco a odiarti?» Sussurrò, talmente piano che egli stesso si chiese se avesse pronunciato quelle parole ad alta voce o se le avesse solo pensate. Con un’ultima occhiata vacua alla stanza, volse le spalle a quello scempio e se ne andò, abbandonando i sotterranei.

 

 

 

Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

[Catullo, Carme 85]

 

 














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Angolo Autrice:
Altro capitolo! Possibile che quando ho da studiare mi viene tutta l'ispirazione di questo mondo? Ebbene sì, purtroppo o per fortuna è possibile :D Comunque, questo è un semplicissimo capitolo di transizione, non succede granché - abbiamo solo un breve tête-à-tête tra Erik e il suo fidato segretario, il famoso Bamdad che mi duole aver relegato ad un ruolo molto più che secondario quando invece volevo dargli un po' più di spessore... Spero di essermi fatta perdonare in questo capitolo dai pochi fan che questo pover'uomo è riuscito comunque a racimolare :D
Spero anche di non avervi intristito troppo con questo capitolo, ma per poter apprezzare il piacere serve il dolore, quindi... ù_ù
Come al solito, ringrazio tutti coloro che leggono e che continuano a seguire questa storia, anche malgrado i ritardi vari ;) Un bacio e un abbraccio a tutti, ci leggiamo al prossimo aggiornamento! Come sempre, vostra
Niglia.

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Capitolo 33
*** 31. Il luogo a cui si appartiene ***


Chapitre 31

Il luogo a cui si appartiene

 








 

 

 

 

 

 

Gennaio, ventunesimo secolo. Parigi.

 

Il rientro non fu come Jean-Louis l’aveva immaginato. Aveva creduto che Giulia, dopo il comprensibile disorientamento iniziale, sarebbe stata felice di essere ritornata a casa sua, dalla sua famiglia, circondata solo da persone che le volevano bene come sangue del proprio sangue e che avevano rivoltato la città e lo stato, persino, da cima a fondo pur di ritrovarla; invece, già dalla prima notte era diventata scontrosa, taciturna e irritabile, aveva pianto silenziosamente nel togliersi lo scomodo costume in maschera che indossava e si era chiusa in camera sua con la scusa di essere troppo stanca per poter affrontare qualsiasi argomento. Non aveva toccato cibo, sentendosi all’improvviso estranea a quella vecchia vita; aveva voluto solo acqua, un’aspirina, ed era scivolata in un pietoso sonno indotto dai farmaci pur di non pensare a quello che aveva fatto. A chi aveva tradito.

Andò avanti così per tutta la prima settimana, con la madre che la obbligava a mandare giù qualcosa per non lasciarsi deperire, il padre che faceva avanti e indietro davanti alla porta della sua stanza senza sapere come comportarsi e il fratello che borbottava, malediceva e inveiva contro quell’uomo maledetto e quella follia del teatro che collegava la sua epoca con la loro.

Considerato il silenzio nel quale si era chiusa Giulia non appena ebbero rimesso piede a casa, a Jean non era rimasto molto altro da fare se non trovare il coraggio di prendere i propri genitori da una parte e spiegare ad entrambi la scioccante verità che c’era dietro la sparizione della loro figlia adottiva. La sua scomparsa dal mese di ottobre era già di per sé traumatizzante senza che ci si aggiungesse anche un improbabile viaggio del tempo, e Jean non poteva di certo biasimare i coniugi Nilsson se stentavano a credere alla sua storia; tuttavia, l’abito che la ragazza aveva portato con sé – e che sicuramente non poteva aver trovato in un semplice mercatino d’antiquariato, vista la squisita fattura, i ricami sottili e la stoffa pregiata – aveva fornito una valida prova a sostegno di quanto raccontato dal ragazzo. E ad ogni modo la veridicità o meno di quella vicenda passava in secondo piano alla luce del fatto che Giulia era finalmente tornata a casa, più o meno sana e salva, benché decisamente più introversa e malinconica rispetto a com’era prima di sparire. La madre aveva provato a convincerla a fare qualcosa per scrollarsi di dosso quell’apatia, come anche prendere un libro in mano e riprendere a studiare, ma l’università era, al momento, l’ultimo dei suoi pensieri. Sembrava essere sotto shock, e nulla di quanto le veniva detto pareva poterla scuotere.

Il suo malumore e la tristezza che emanava stavano rapidamente portando Jean-Louis a domandarsi se avesse fatto bene, in fondo, a riportarla indietro. Certo, gli era sembrata molto sicura di sé quando l’aveva pregato di ricondurla a casa, e lui non si era fatto di sicuro pregare giacché attendeva da mesi quel momento, eppure era più che convinto che Giulia si fosse pentita della sua decisione subito dopo aver messo piede nel camerino maledetto. Ma che fosse dannato se le avesse permesso di tornare indietro da quell’uomo, quando era palese che era da lui che aveva voluto scappare!

 

 

 

***

 

 

 

Un mese dopo.

 

Se anche i familiari di Giulia avevano sperato che, con il passare del tempo, l’umore della ragazza avrebbe finito con il risollevarsi, magari anche all’improvviso, dopo quattro settimane di silenzi, pianti soffocati nel cuscino e assenza del desiderio di fare qualsiasi cosa – anche solo uscire di casa – avevano dovuto tristemente ricredersi. Invece di migliorare, la situazione pareva essersi fatta ancora più grave, tanto che monsieur Nilsson iniziò ad avanzare l’ipotesi di far vedere la giovane da un qualche specialista. Nessuno di loro avrebbe mai voluto mandare Giulia da uno psicologo, ma d’altra parte il suo attuale stato d’animo poteva essere una conseguenza della sua “scomparsa” – riguardo la quale continuavano a sapere ben poche cose, dato che lei non si era mai confidata – qualcosa, insomma, che solo un dottore avrebbe potuto risolvere. Che cosa ne potevano sapere loro, d’altra parte, di shock emotivi?

Tuttavia, madame Nilsson non era dello stesso parere del marito. Per niente al mondo avrebbe mandato la figlia da uno strizzacervelli, come lei stessa lo definiva, perché temeva che in tal caso la giovane sarebbe potuta entrare nel girone malato e senza via di scampo degli antidepressivi e di chissà quale altra diavoleria, quando invece tutto ciò di cui aveva bisogno Giulia era una violenta scrollata e tutto l’affetto che potevano darle. Per questo l’idea del dottore non venne più approfondita, benché Jean-Louis, insieme al padre, ne stesse già apprezzando i possibili effetti benefici. Era decisamente il momento di correre ai ripari, e la donna aveva una mezza trovata di come fare per scuotere la figlia.

Era il pomeriggio del quattro febbraio, fuori un leggero nevischio stava imbiancando i lati delle strade sporcandosi di grigio e nero non appena toccava terra, perdendo il suo candore e trasformandosi in pozze d’acqua gelida. Iniziava già a far buio, e dentro casa Eloise Gauthier aveva già acceso la luce artificiale, di un tenue colore giallo, che dava l’illusione di riscaldare le stanze. Uscì dalla cucina e raggiunse il salotto, dal quale proveniva solo il brusio in sottofondo della radio accesa, e senza dire una sola parola si sedette sul divano posto di fronte alla poltrona nella quale sua figlia era rannicchiata, lo sguardo perso a fissare le fiamme che ardevano nel caminetto, senza tuttavia vederle davvero; il suo corpo era lì, ma la sua mente, i suoi pensieri, dov’erano rimasti? E con chi, soprattutto? Trattenendo un sospiro di triste rassegnazione, la donna riuscì ad attirare la sua attenzione porgendole una tazza di tè fumante, che la giovane prese con un’espressione vagamente interrogativa.

«Tè con miele e limone, come piace a te», le spiegò con dolcezza, benché il pungente e inequivocabile aroma della bevanda che aleggiava tutto intorno rendesse superfluo il chiarimento.

«Grazie, mamma», mormorò Giulia, abbassando gli occhi sulla tazza e ruotando il cucchiaino per sciogliere lo strato di miele che si era annidato sul fondo.

La donna la osservò in silenzio attendendo a sua volta che il proprio tè si raffreddasse, e solo dopo averne sorbito un sorso osò spezzare il silenzio. «Hai voglia di parlare con me, amore?» Chiese, accennando un breve sorriso.

Giulia si lasciò sfuggire un lieve sospiro, che tuttavia venne colto perfettamente dalla madre. «Non c’è niente di cui parlare. Sono solo… ancora un po’ disorientata. Mi passerà, mamma, stai tranquilla», replicò la giovane senza alzare lo sguardo, continuando a girare il cucchiaino con un sottile rumore di ceramica raschiata che stava diventando pericolosamente irritante. Eloise si astenne dal commentare che quel suo atteggiamento disorientato stava andando ormai avanti da più di un mese, e che dubitava che le sarebbe mai passato del tutto.

«Se tu non hai voglia di parlare, tesoro, allora lo farò io», esordì dopo un po’, stringendo la tazza con entrambe le mani per godere del calore che sprigionava. «Hai voglia di ascoltare una storia?»

Aggrottando leggermente la fronte con aria confusa – credeva di aver abbondantemente superato la fase delle favole della buonanotte, in fondo – Giulia sollevò lo sguardo dal suo tè per posarlo sulla donna che le sedeva di fronte; l’espressione dolce ma risoluta che le vide in viso accese suo malgrado il suo interesse, e con un breve cenno di assenso del capo le fece capire che era pronta ad ascoltare. Eloise Gauthier prese un profondo respiro, bevve un ennesimo sorso di tè bollente e, socchiudendo gli occhi come se si stesse perdendo in ricordi lontani, gentilmente iniziò a raccontare.

«Quella notte avevo recitato nella Madame Butterfly, uno dei miei ruoli preferiti. Dopo lo spettacolo, mentre stavo uscendo dal teatro per tornare a casa con tuo padre e Jean-Louis, mi accorsi di aver dimenticato la borsa, con documenti e altre cose importanti, nel mio camerino; perciò dissi loro di aspettarmi in macchina e tornai dentro l’edificio per riprenderla. Potrà sembrarti strano, ma quella fu la prima volta che vidi l’Opèra vuota, pressoché buia, senza una sola anima che si affaccendasse avanti e indietro come durante il resto del giorno. C’ero solo io e la guardia di sicurezza che mi aveva fatto rientrare gentilmente dall’ingresso secondario, ma che non aveva potuto accompagnarmi oltre perché non poteva lasciare la porta senza controllo. Devo ammettere che, nell’attraversare così il teatro, ebbi quasi paura, anche se io non sono mai stata una persona troppo superstiziosa.

«Comunque, raggiunsi il corridoio dei camerini. Le luci delle applique erano spente, ma la guardia mi aveva lasciato una pila elettrica e con questa riuscii ad arrivare nella mia cabina. Entrai, recuperai la borsa senza problemi e riuscii… ma, non appena ebbi rimesso piede fuori, nel corridoio, udii uno strano rumore. Sembravano dei gemiti lievi, attutiti come se provenissero dall’interno delle pareti, e solo dopo aver prestato una maggior attenzione mi resi conto che si trattava del pianto soffocato di un bambino. Piuttosto perplessa, ancor prima di essere spaventata, mi incamminai verso la direzione dalla quale sembrava provenire il pianto, e così facendo raggiunsi il fondo dell’andito, dove ci sono due o tre camerini vecchi e in disuso, nei quali non entra praticamente nessuno. Adesso che ci ero così vicina, era impossibile dubitare che quei singhiozzi non provenissero da lì: premetti l’orecchio contro la porta e il pianto si fece più forte, facendomi sussultare. Cosa diavolo ci faceva un bambino lì, e a quell’ora? Era il figlio di qualche spettatore rimasto intrappolato nel camerino? O, peggio ancora… Era stato abbandonato?

«Capisci che non potevo andarmene senza approfondire quella faccenda, e confido che anche tu avresti fatto lo stesso. Cercando di non farmi prendere dal panico, abbassai e sollevai la maniglia forzandola ad aprirsi, dato che non avevo tempo per cercare una chiave o per richiamare la guardia; per fortuna, la serratura era vecchia e arrugginita, e con un colpo ben assestato riuscii a rompere il passante e a spalancare la porta. Mi affacciai sull’uscio e puntai la luce della torcia verso l’interno del camerino, rimanendo per un istante abbagliata dato che la luce aveva incontrato la superficie di un enorme specchio e mi si era ritorta contro. Spostai il raggio della pila e illuminai gradualmente tutta la stanza: persi una manciata di secondi a studiare l’ambiente, dato che mi pareva di aver fatto un salto nel passato. Il mobilio era ricoperto di polvere, le cornici dei quadri che un tempo dovevano essere state dorate apparivano scure, annerite, e persino la tappezzeria era sbiadita e, in alcuni punti, addirittura era staccata dal muro e pendeva verso il pavimento, insieme ai sottili fili di qualche ragnatela. Era completamente diverso dal resto dei camerini degli artisti, dava l’impressione di essere rimasto sigillato da più di un secolo.

«Ad ogni modo, non c’era tempo per ammirare la camera. Il pianto del neonato adesso era più forte e nitido, i suoi singhiozzi straziavano il cuore, così mi affrettai ad entrare nella stanza e a capire dove potesse trovarsi… Non ci volle molto prima che capissi che si trovava sulla chaise-longue, nascosto dallo schienale che risultava rivolto verso la porta. Raggiunsi l’ottomana e l’aggirai, e quando puntai la luce su quel fagotto il suo piagnucolio cessò per un attimo, probabilmente infastidito da tutto quel chiarore. Era una cosa così piccola e tenera… Dalla coperta che lo avvolgeva sbucavano soltanto le manine paffute strette a pugno e il viso rosso dal pianto, con gli occhi stretti e la boccuccia imbronciata e i capelli tanto biondi e chiari da essere praticamente invisibili. Non resistetti e lo presi in braccio, e non appena iniziai a dondolarlo la sua espressione si rasserenò e si portò il pollice tra le labbra, addormentandosi quasi immediatamente.

«Non sapevo che cosa fare. Se la guardia giurata che c’era all’ingresso l’avesse visto, avrebbe potuto impedirmi di portarlo a casa, chiamare la polizia, denunciare il ritrovamento, e Dio solo sa cos’altro… Per cui decisi di nasconderlo sotto il cappotto, pregando che non si risvegliasse e riprendesse a piangere in un momento inopportuno. Diedi un veloce sguardo in giro per assicurarmi che non ci fosse qualcos’altro, accanto al bambino, che potesse servirmi, ma il camerino era muto e vuoto come una tomba, e altrettanto inquietante. Per cui mi affrettai ad uscire da lì, richiusi la porta alla bell’è meglio – potrei giurare di aver sentito scattare nuovamente la serratura che credevo di avere rotto, come se si fosse appena richiusa a chiave da sola – e uscii il più velocemente possibile, con quel fagotto nascosto sotto l’impermeabile.

«Grazie al cielo e grazie al buio, la guardia non si accorse di niente. Mi augurò la buonanotte e io sgattaiolai nella macchina di tuo padre con il cuore che batteva all’impazzata ma con un’euforia addosso che non ti immagini. Solo quando fummo lontani, nel traffico del centro, aprii il cappotto e mostrai il mio dolce bottino. Capii che era una bambina solo più tardi, una volta arrivati a casa, quando ti spogliai per farti un bel bagno caldo e assicurarmi che non prendessi qualche gelone. Sì, tesoro, eri tu quella bambina», concluse con un mezzo sorriso, per quanto nel suo sguardo aleggiasse un velo di ansia e preoccupazione nell’attendere un qualunque tipo di reazione della ragazza.

Da parte sua, Giulia era piuttosto a corto di fiato e di parole. Sapeva di essere stata adottata, quello non era certo un segreto – sua madre glielo aveva detto non appena era stata abbastanza grande da comprendere che questo non la rendeva inferiore a Jean-Louis agli occhi dei suoi genitori, e che il loro bene era illimitato allo stesso modo per entrambi i ragazzi – ma ciò che non sapeva erano le circostanze di tale adozione; quelle erano sempre state un mistero, per quanto Giulia non avesse mai avvertito la necessità di approfondire le ricerche nel timore di dare un dispiacere alla madre e al padre. Sì, ogni tanto le capitava di fantasticare su chi potessero essere davvero i suoi genitori – da chi potesse aver preso quel taglio degli occhi, o quella bocca, o quel naso, che erano così palesemente estranei ai lineamenti Gauthier o Nilsson – ma erano solo sciocche fantasie di adolescente, paragonabili quasi a delle storie della buonanotte; di certo, non immaginava che le sue origini sarebbero state addirittura così ignote. Essere addirittura trovata all’interno del teatro? Oscillava tra l’essere scioccata o intrigata dall’idea – quale genitore avrebbe fatto una cosa simile?

Dopo averle lasciato del tempo per assimilare quel vagone di informazioni inaspettate, Eloise riprese a parlare con più tenerezza di quanto avesse usato finora. «Io non so chi o che cosa ti abbia lasciato in quel camerino, tesoro, e a questo punto non so neppure quando», si permise un leggero sorriso nel vedere gli occhi della figlia adottiva allargarsi impercettibilmente nell’intuire le possibili implicazioni di quella precisazione. «Tu mi conosci, e sai che non credo in cose come il destino, o il fato, o il volere di una qualche divinità onnipotente… Però credo che, se in qualche modo sei finita in un’altra epoca, e se la vita che hai trascorso là ti calza più a pennello di questa, ecco, ci dev’essere un motivo.»

Allungò una mano a prendere quella, tremante, di Giulia, e il suo sorriso si trasformò in un’ombra triste e rassegnata, che tuttavia conservava la dolcezza materna che la giovane era sempre stata abituata a vedere. «Ascoltami bene, perché non sai quanto sia doloroso, per me, dirti queste cose. Io non ho avuto la fortuna di sentirti crescere dentro di me e di regalarti al mondo, purtroppo, ma qualcun altro l’ha fatto e ti ha regalato a me, e io spero di averti dato tutto ciò che una madre può dare alla propria figlia; tuttavia in questi ultimi vent’anni ho convissuto con la consapevolezza che un giorno saresti andata via a cercare le tue vere radici, o comunque a iniziare una vita tutta tua fuori dal nido materno. E se tu la tua vita la vuoi costruire in quel luogo, amore mio, io non farò nulla per impedirtelo. So che dentro di te hai già preso questa decisione, e che stavi solo aspettando che qualcuno ti desse il suo consenso, ma questa è una cosa che devi stabilire tu, solo tu, senza il timore di poter far soffrire qualcuno. Sarai sempre la mia bambina, Giulia, e mi mancherai da morire, ma ad essere sincera mi farebbe più male vederti appassire qui, triste, piuttosto che sapere che sei felice da un’altra parte.»

Giulia non era riuscita a trattenere le lacrime, così le aveva lasciate scivolare via, sollevando di tanto in tanto una mano libera per asciugare le scie umide che rimanevano sul suo viso. «Mamma, io… Ho bisogno di te. Come farò senza i tuoi consigli, senza i tuoi abbracci, senza te che mi consoli…?» Mormorò con la voce tremante, tirando su col naso e sentendosi improvvisamente piccola, stupida e impotente.

Madame Gauthier allungò le braccia verso di lei e la attirò in un abbraccio forte e soffocante, al quale tuttavia la ragazza si aggrappò con tutte le sue forze prima di lasciarsi andare a un lungo pianto liberatorio, un pianto che aveva covato dentro di lei da quando era tornata a casa ma che aveva sempre cercato di tenere sepolto nelle profondità del suo petto per evitare di farsi vedere in quelle ben misere condizioni. Ma quella era sua madre, se non capiva lei le ragioni di quelle lacrime allora chi, per l’amor del Cielo, lo avrebbe mai potuto fare?

«I figli sopravvivono senza i loro genitori, tesoro mio, fa parte della vita», fece a mezza voce la donna, accarezzando i capelli della ragazza. «All’inizio è doloroso, lo so, fa terribilmente male, non posso negarlo e ti mentirei se dicessi il contrario. Ma sei grande, sei forte, e sei una giovane donna, ci farai presto il callo e ti rimboccherai le maniche per scrivere il primo capitolo della tua nuova vita. E poi non sarai da sola, Giulia, mi sbaglio? Hai lasciato qualcuno, dall’altra parte, e raggiungere quel qualcuno è senza dubbio una cosa migliore da fare che restare qui insieme ai tuoi genitori vecchi e brontoloni», aggiunse con un sorriso che la figlia non poté vedere, cercando di rendere più spensierato il tono di quella gravosa conversazione. Eloise accarezzò ancora a lungo i capelli della figlia, facendo scorrere le dita tra le sue onde castane attraversate da naturali ciocche bionde, mormorando a bocca chiusa una vecchia ninna nanna. La ragazza si lasciò cullare, socchiudendo gli occhi e posando l’orecchio sul petto della madre laddove meglio udiva i battiti del suo cuore; quanto le era mancato quel contatto, anche malgrado la perdita della memoria! Sì, aveva fatto bene a tornare, anche se l’aveva fatto solo per dir loro addio…

Come se in quel silenzio avesse appena finito di maturare un’ennesima idea, madame Gauthier inspirò con fare preoccupato e smise di coccolare Giulia, posandole le mani sulle spalle e scostandosi appena per guardarla in viso. «A meno che…» Esordì, titubante.

La ragazza tirò su col naso e si asciugò l’ultima lacrima, inarcando un sopracciglio con aria perplessa e curiosa insieme. «A meno che cosa, mamma?»

Eloise imitò il gesto della figlia e aggrottò a sua volta la fronte.  «A meno che, non ci siano problemi con questo misterioso qualcuno di cui tu non mi hai ancora sufficientemente parlato e che Jean non vuole nemmeno sentir nominare», continuò abbassando di un tono la voce, assumendo un’aria apprensiva e severa che lasciava trasparire chiaramente quali fossero le sue silenziose considerazioni al riguardo.

Il termine problema è un modo riduttivo di chiamare l’intera faccenda, si ritrovò a pensare la ragazza, distogliendo lo sguardo dalla madre e fissando un angolo indefinito del tappeto persiano che ricopriva la superficie di parquet dinnanzi al camino. Quel qualcuno che non riusciva a togliersi di mente aveva cercato di trattenerla con la forza e con l’inganno, l’aveva minacciata la prima volta che le era apparso davanti e aveva cercato di terrorizzarla rapendola e portandola di nascosto nella sua dimora sotterranea; aveva confermato tutto ciò che le aveva raccontato Meg – tutta la terribile storia del fantasma dell’Opèra – e di conseguenza poteva aggiungere anche l’omicidio a quella lunga lista di complicazioni. Di certo, col senno di una donna emancipata del ventunesimo secolo, non poteva semplicemente metterci una pietra sopra e dimenticare il torbido passato che Erik si portava appresso al pari della sua maschera.

Tuttavia, se avesse anche solo accennato in minima parte a ciò che sapeva, sua madre, anche malgrado il recente discorso, le avrebbe impedito con tutti i mezzi di tornare indietro. Sarebbe stato preoccupante il contrario. «Non ci sono… problemi», riuscì a dire alla fine, giocherellando con l’orlo del proprio maglione. «Come possono esserci problemi se io e lui non stiamo neppure insieme?» Santo cielo, quanto stonavano quelle parole. Curioso come non si trovasse più completamente a suo agio con certi modi di dire… O forse era solo il concetto scialbo dello “stare insieme” che mal si adattava a Erik: lui rievocava di più il pensiero di una passione così ardente, così bruciante, così totale da far mozzare il fiato e venire la pelle d’oca…

«Ma forse è proprio questo il problema», ribatté logicamente Eloise, inconsapevole di ciò che stava passando per la mente della figlia. «Ciò che ti è accaduto ha dell’incredibile, tesoro, e se è stato difficile da credere per noi, che comunque siamo nati e cresciuti in un tempo dove le scoperte scientifiche ci stanno quasi impedendo di provare sorpresa davanti a qualsiasi cosa, ebbene, immagina come dev’essersi sentito un uomo di quell’epoca, con una determinata mentalità, e in più, a quanto mi è parso di capire, follemente innamorato, quando tu sei sparita senza quasi una spiegazione…»

«Stai dicendo che ho sbagliato ad andarmene da lì?» Domandò Giulia perplessa. «Mamma, anche se fossi appartenuta al suo tempo, o lui al mio, una volta riacquistata la memoria avrei cercato comunque di tornare da voi, che sicuramente eravate molto più in pena per me dato che non avevate mie notizie da mesi. Lui si è comportato male, e ha sbagliato di gran lunga se pensava di potermi trattenere con la forza o con i ricatti, o peggio, facendomi sentire in colpa… Ti rendi conto, mamma, che mi ha chiesto di sposarlo? Che l’ha fatto solo per impedirmi di lasciarlo?»

Eloise aveva scoperto più cose in quegli ultimi due minuti che in tutto il mese in cui sua figlia era stata a casa; i suoi occhi grigi, circondati da folte ciglia nere, si allargarono impercettibilmente e per un istante l’indignazione le impedì di continuare a difendere il comportamento dello sconosciuto che le avrebbe portato via la sua unica figlia. «Sposarlo? Dio mio, ma sei così giovane!» Fu il suo primo, istintivo pensiero. «E lui, quanti anni ha?»

Arrossendo, Giulia si limitò a scrollare le spalle. «Non gliel’ho mai chiesto, ad essere sincera», rispose, ma si tenne per sé le sue ipotesi – Erik doveva avere almeno dieci anni più di lei, infatti, ma era meglio che questo, sua madre, non lo sapesse.

Improvvisamente, scoprire qualcosa di più su quest’uomo misterioso pareva essere diventato di fondamentale importanza per madame Gauthier. «Non gliel’hai chiesto! Beh, dovrai rimediare. E dimmi un po’, lavora? Voglio dire, ti potrà dare una vita decorosa?»

«Mamma!» Sbottò la ragazza, sorpresa dalla piega che aveva preso il discorso e piuttosto incredula al riguardo. «Mamma, non era questo il punto, mi sembra! Che discorsi fai?»

La donna sollevò le mani in segno di resa ma senza tuttavia abbandonare la sua posizione. «Scusa se tua madre vuole sapere di più sull’uomo di cui sei innamorata», ribatté con un mezzo sorriso, sforzandosi di non calcare troppo la mano.

Il rossore sulle guance della ragazza si accentuò notevolmente. «Innamorata è una parola grossa. Come fai a dirlo se io per prima non so cosa provo per lui?» Mormorò, cambiando tono di voce e distogliendo lo sguardo dalla madre.

«Tesoro mio», fece Eloise, allungando una mano per portarle una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «È da quando sei tornata che ti sei comportata come se ti avessero strappato un pezzo di cuore. Credi che non me ne sia accorta? Non hai appetito, non hai sonno, ti addormenti solo dopo aver pianto a lungo e non ti ho neppure più sentita cantare… Hai una minima idea di quanto mi faccia male vederti in queste condizioni?»

Giulia si strofinò gli occhi, sentendosi davvero stanca, sfinita, consapevole che prima o poi tutta quella tensione fisica e mentale avrebbe finito per farla crollare. Per non parlare di quel bruciante senso di colpa, poi, che lentamente la stava uccidendo. «Che cosa mi stai suggerendo di fare, mamma?» Mormorò, tornando a fissare il fuoco.

«Ti sto suggerendo di tornare da lui», rispose dolcemente la donna, nascondendo dietro il suo tenero sorriso materno il dolore che quelle parole le avevano procurato. «Vai, digli quello che provi, stringilo, bacialo, fa’ quello che più ti sembra giusto, ma soprattutto cerca di non avere rimorsi. Forse andrà bene, forse no, chi può dirlo? Nel secondo caso, però, sappi che potrai sempre tornare indietro e trovare la tua vecchia mamma pronta a consolarti; ma io ti auguro con tutto il cuore che la situazione si volga a tuo favore, e se non dovessi tornare saprò che sei felice, da qualche parte, e che non ho motivo di temere per te.» Mentre pronunciava queste parole, una lacrima scivolò dai suoi occhi lucidi, accarezzandole le guance rosee per poi sbiadire poco al di sotto dello zigomo.

«Mamma…» Balbettò Giulia, incapace di trattenere oltre il pianto. Si chinò verso sua madre e si gettò, quasi con violenza, tra le sue braccia, stringendola forte come se fosse stata una zattera in un naufragio, e bagnando il suo maglione profumato di una qualche fragranza costosa tipica di lei di lacrime grate e al contempo disperate. «Ti voglio bene, maman

Il sospiro di Eloise le mozzò per un attimo il respiro, mentre ricambiava l’abbraccio della figlia e chinava il capo, in un gesto tipicamente protettivo e, in un certo modo, possessivo. «Ti voglio bene anche io, bambina mia.»

Quella notte, a cena, mangiarono per la prima volta dopo mesi tutti insieme come la famiglia che erano stati un tempo, spensierati, allegri e rilassati. Giulia rise fino alle lacrime nell’ascoltare vecchi aneddoti dell’infanzia sua e del fratello raccontati in sincrono dai genitori, e persino il padre, in genere parecchio introverso e un poco burbero, si lasciò andare come aveva fatto poche altre volte. Per un paio d’ore, Eloise si cullò nell’illusione che tutto sarebbe potuto tornare come prima, ma in realtà aveva già fatto i conti con la consapevolezza che quello sarebbe stato l’ultimo pasto consumato con l’intera famiglia presente.

E, benché ciò le spezzasse il cuore, sapeva bene che non poteva andare che così.

 

 

 

***

 

 

Jean-Louis era stato colui che l’aveva riportata tra le braccia dei genitori, e Jean-Louis doveva essere lo stesso che l’avrebbe riaccompagnata indietro, al luogo – e al tempo – a cui l’aveva sottratta. Il ragazzo, inutile chiarirlo, non era per niente contento di quella decisione: si era cullato nell’inutile convinzione che, ora che la sorellastra era ritornata, nulla avrebbe più potuta allontanarla da lui, e così le aveva dato tutto il tempo che le era necessario per riprendersi, rimanendole accanto con silenziose premure, addormentandosi nel suo letto per farla sentire meno sola, coccolandola e vezzeggiandola senza mai neppure accennare a ciò che realmente provava nei suoi confronti, sicuro che in futuro le occasioni non sarebbero mancate… E invece, adesso, scopriva che apparentemente non c’era più alcun futuro per loro due. Giulia aveva preso la stupida decisione di ritornare dal suo spaventoso spasimante del passato – di cui, adesso che ci pensava, non aveva neppure mai visto il volto – senza minimamente pensare alle conseguenze che ciò poteva causare. Che diamine, stava abbandonando la sua famiglia per uno sconosciuto che non aveva esitato a minacciarla pur di trattenerla al suo fianco! E adesso lei gli stava correndo tra le braccia di sua spontanea volontà? Era una cosa talmente assurda che Jean non era certo di poterla sopportare.

Fu per questo che non disse una sola parola, lungo il tragitto in macchina che portava da casa loro al teatro. Rimase chiuso in un ostinato silenzio, e da parte sua anche Giulia sembrava immersa in chissà quali pensieri, sicché nessuno dei due cercò di intavolare una conversazione – e ciò fece arrabbiare il ragazzo ancora di più: maledizione, probabilmente non si sarebbero mai più visti e lei non aveva niente da dirgli? Era suo fratello, per la miseria!

Stavolta, per entrare a teatro, si mescolarono tra la folla di turisti che premeva per accedere al teatro, sperando che nessuno li riconoscesse e li fermasse per tempestarli di domande: non sarebbe stato affatto facile spiegare la presenza di Giulia e il motivo per cui si trovava all’Opéra, dopo tutto quello che le era successo. Una volta giunti nella platea riuscirono a sgattaiolare via dal gruppo di visitatori, raggiungendo senza fatica il corridoio nel quale si affacciavano le porte dei vari palchi per poi dirigersi, da lì, verso le quinte e la zona riservata agli artisti e agli operai. Sempre senza lasciare la mano della sorella, fece strada e corse, quasi, attraverso corridoi e gallerie prive di finestre ma con una grande abbondanza di lampade e luci soffuse, che Giulia osservò con un certo stupore dato che quei passaggi li ricordava illuminati da lampade a gas e poche candele.

Fortunatamente non incontrarono nessuno lungo il loro tragitto, probabilmente perché gli artisti erano tutti intenti a provare nelle varie sale adibite a prove; non dovettero quindi spiegare ad anima viva il perché si stessero dirigendo verso l’ala disabitata della galleria, laddove si trovavano gli sgabuzzini e le stanze in disuso nelle quali venivano ammassati oggetti rotti o privi di utilità. Ma non era un ripostiglio quello che i due giovani stavano cercando, e tale segreto era parte della ragione per la quale non desideravano che altri ne venissero a conoscenza.

Quando raggiunsero la fine del corridoio, sulla cui parete si stagliava la vecchia porta bianca della loge perdue, come a suo tempo l’aveva chiamata madame Sindial, i due giovani arrestarono la loro corsa e si fermarono, silenziosi ma con una strana sensazione di aspettativa che premeva sul petto. Si scambiarono un rapido sguardo, poi Jean-Louis fece un cenno alla ragazza per invitarla a farsi avanti per prima; lei prese un profondo respiro, e con fare risoluto coprì gli ultimi passi che la separavano dall’uscio… Ma, prima di abbassare la maniglia d’ottone, Giulia si voltò verso il fratello e lo fissò a lungo. «Jean… Mi dispiace tanto», mormorò sincera, notando la sua espressione gelida.

Il ragazzo scosse la testa. «Vai, Jules, prima che cambi idea e ti porti via di peso», ribatté lui, smorzando un po’ il tono brusco della risposta con l’utilizzo di quel nomignolo affettuoso.

Ma lei non gli obbedì; fece ricadere il braccio lungo il fianco, lasciando la maniglia, e si diresse verso Jean per stringerlo in un abbraccio che gli avrebbe voluto dare già da tempo, ma che per un motivo o per l’altro aveva sempre dovuto trattenere. «Potrebbe anche andar male», sussurrò contro il suo petto, senza osare sollevare gli occhi e guardarlo. «Dammi una settimana, poi… per favore, torna a vedere com’è la situazione. Così, eventualmente, potrò rientrare con te, oppure tu ti accerterai semplicemente che sto bene e potrai tranquillizzare la mamma. Me lo prometti, Jean? Tornerai tra una settimana?»

Come poteva dirle di no?

Con un sospiro rassegnato e, suo malgrado, anche sollevato, il ragazzo annuì, sebbene lei non potesse vederlo. «Sì, chèrie, ci rivediamo tra sette giorni», acconsentì, accarezzandole i capelli. «E sarà meglio che quel tuo amico non ti abbia fatto del male, o potrei fargli passare l’arroganza che ha tutta d’un colpo.»

Giulia rinunciò all’insistere che non si esprimesse così quando parlava di Erik, e si limitò a scostarsi da lui, sorridendo appena, comprensiva. «Stai tranquillo, Jean, mi so difendere», ribatté, un po’ meno angosciata di qualche secondo prima.

«Ah, un’altra cosa, Jules», aggiunse il ragazzo, improvvisamente serio e preoccupato. «Quando arrivi nei sotterranei… Sappi che è un maledetto labirinto. Per non perderti devi tenere la mano destra premuta contro il muro e non staccarla mai, e se finisci in un vicolo cieco, torna indietro, ma sempre senza staccare la mano dalla parete… Hai capito?»

La sorella annuì. «Sì, sì, ho capito. In ogni caso non preoccuparti, male che vada Erik mi troverà svenuta da qualche parte», scherzò debolmente, stringendogli una mano come se dovesse essere lei a fare coraggio a lui, e non viceversa.

«Stai attenta, Giulia», ripeté a mezza voce, chiamandola per nome e attribuendo così maggior gravità al tono. «Fosse per me non ti lascerei andare, ma tu come al solito hai bisogno di sbatterci la testa… Però, mi raccomando, non fare niente che ti possa mettere in pericolo.»

«Non sto andando in guerra, Jean», replicò lei con un sorriso incerto, scrollando appena le spalle. L’occhiata del fratello fu piuttosto eloquente, ma si astenne dal ribattere e così pure fece lei. Si alzò sulla punta dei piedi e gli schioccò un bacio sulla guancia, indietreggiando prima che lui potesse fare qualcosa – abbracciarla, stringerla, o semplicemente ricambiare il bacio – che le facesse cambiare idea su quanto stava per fare. E cambiare idea in quel momento sarebbe stato davvero un gesto da codarda.

«Una settimana, okay?» Ripeté, avvicinandosi alla porta.

Jean-Louis annuì con rassegnata lentezza. «Una settimana, sì», mormorò. La osservò abbassare senza fatica la maniglia, fare un passo verso l’interno del camerino e voltarsi un’ultima volta per salutarlo, accennando un gesto con la mano e un piccolo sorriso. Poi la porta si richiuse alle sue spalle, e quel camerino maledetto inghiottì sua sorella per l’ennesima volta.

















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    Angolo Autrice.
Ritardo, tremendo ritardo - vi chiedo scusa! Questo capitolo è stato davvero ostico da scrivere, non sapevo come risolvere la faccenda e sono consapevole del fatto che non sia uscito granché bene... Anche se devo ammettere che mi è piaciuto aprire questa parentesi sulla famiglia "moderna" della cara protagonista; mi chiedo se nella realtà le avrebbero permesso davvero di tornare indietro... Mah! Personalmente credo che mio padre mi avrebbe chiusa dentro casa e buttato la chiave nella Senna, tanto per restare in tema :D Comunque, conto di rifarmi con i prossimi capitoli! Se la cosa vi può consolare, vi avviso che i capitoli 32 e 33 sono già stati scritti, e che ho già intavolato le idee fino al 37esimo (sì, ho paura che siamo ancora un po' lontanucci dalla fine vera e propria), anche se potrebbero esserci ritardi e contrattempi dato che molto probabilmente cambierò idea e li riscriverò - vediamo un po' che cosa mi suggerisce la mia musa ispiratrice!
Come al solito, continuo a ringraziare tutti voi che continuate a seguire questa storia anche dopo tanto tempo, ringrazio Ellyra per aver recensito lo scorso capitolo e tutti gli altri che la aggiungono alle Preferite, o alle Seguite, o alle Ricordate: grazie, grazie e ancora grazie!
Detto questo vi lascio, con la promessa - e stavolta credo di poterla mantenere - di risentirci prestissimo con il prossimo capitolo :)
Baci e abbracci, sempre vostra affezionatissima
Niglia.

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Capitolo 34
*** 32. Negli abissi della sua follia ***


Chapitre 32

Negli abissi della sua follia

 





 

 

 

 

 

 

 

 

 

Parigi, 5 febbraio 1878.

 

Giulia non aveva mai percorso da sola la strada che conduceva ai sotterranei. Non aveva alcuna idea di come fare per raggiungerli, l’unico indizio utile che possedeva era stato l’ultimo consiglio di Jean-Louis: «Tieni la mano ben salda sulla parete e non staccarla per nessuna ragione, o ti perderai.»

Inoltre non poteva contare sulla fortuita presenza di Erik come invece aveva assicurato a suo fratello, che in passato pareva accorrere in suo soccorso ogni qualvolta si trovava in difficoltà; senza considerare che, dopo ormai più di un mese di lontananza da quell’epoca, non aveva neppure la certezza di trovarlo ancora lì, come se la stesse aspettando. Che motivo avrebbe avuto per farlo, comunque? Lei non gli aveva mai fatto nessuna promessa, non gli aveva detto che sarebbe tornata, non gli aveva detto che lo amava, non gli aveva, insomma, dato nessuna speranza alla quale aggrapparsi mentre era via. Al contrario, il modo brusco e rabbioso in cui si erano lasciati la tormentava ancora, acuendo terribilmente il suo senso di colpa…

E allora che cosa si aspettava?

Proprio nulla.

Tuttavia, non avrebbe rinunciato ancora prima di tentarci.

Man mano che avanzava nelle gelide gallerie, avvolta da un’oscurità senza fine e da un terribile silenzio che aggravava la sua inquietudine, iniziava a riconoscere la conformazione delle pareti, l’ubicazione delle torce appese in supporti di ferro, le gradinate in pietra che conducevano inesorabilmente sempre più giù, nelle viscere del teatro. Messa in agitazione da quei luoghi, che le parevano fin troppo morti e abbandonati per poter ospitare nel loro macabro abbraccio un proprietario vivo, Giulia accelerò notevolmente il passo, cullata dal rumore dei tacchi dei propri stivali che sbattevano sul pavimento e dal suo stesso respiro ansimante. L’aria si condensava davanti alle sue labbra socchiuse creando una nebbiolina che accentuava l’atmosfera tetra dei corridoi, ma che non per questo la fece desistere.

Senza mai staccare la mano dal muro, la ragazza giunse ad una scalinata che sembrava attorcigliarsi su se stessa come una spirale e penetrare così a fondo negli abissi scuri della terra che, affacciandosi alla balaustra, era impossibile vederne la fine. Tuttavia, se la memoria non la ingannava, proprio laggiù si trovava il lago sotterraneo, con il piccolo molo al quale Erik attraccava la sua barca… Il che significava che mancava davvero poco alla sua meta. Ciò nonostante, non appena ebbe posato il piede sul primo gradino, non poté fare a meno di rammentare ciò che l’uomo le aveva spiegato la prima e unica volta che avevano percorso quella strada per uscire dalle catacombe.

 «Presta attenzione a dove metti i piedi», l’aveva ammonita, lo sguardo terribilmente serio. «I sotterranei del teatro pullulano di trappole di ogni genere, e questa scala ne contiene solo una delle tante. Bada a non passarci mai da sola, se proprio devi scendere quaggiù è preferibile che tu prenda il percorso più lungo ma meno pericoloso.»

Ebbene, ormai era tardi per pensarci: non poteva di certo tornare indietro e fare un’altra strada, col rischio di perdersi definitivamente in quel maledetto labirinto. Preferiva rischiare e passare da lì, piuttosto che perdere altro tempo prezioso; non sapeva quanto credito dovesse dare al terribile presentimento che l’aveva colta non appena aveva varcato la soglia dello specchio, al soffocante sentore di tragedia, ma visto tutto ciò che le era capitato era meglio non prendere nulla con troppa leggerezza.

Aggrappandosi quindi con una presa salda al parapetto in marmo della scala, decise di ispezionare ogni gradino, uno per volta, man mano che discendeva. Così, tenendosi ben salda, allungava un piede in avanti, lo premeva sul gradino seguente, attendeva un momento… e, se la trappola non scattava, proseguiva e ripeteva l’operazione. Era arrivata al trentaquattresimo gradino quando accadde qualcosa. La monotonia di tutto quel lavoro l’aveva distratta, così quando il suo piede sfiorò l’ennesimo scalino non udì immediatamente lo scatto metallico che esso aveva prodotto; sotto di lei la pietra svanì come per magia e si aprì una voragine che si affacciava su un vuoto terribile, strappandole un grido di terrore. Ormai era troppo protesa in avanti per poter riuscire a tornare indietro, così l’unica alternativa fu quella di darsi una spinta e saltare dall’altra parte della trappola. Udì la botola richiudersi con un tonfo alle sue spalle ma già aveva cessato di prestarle attenzione, giacché i suoi riflessi non erano così allenati da permetterle di atterrare con un saldo equilibrio su un gradino stabile. Fu per questo che mise un piede in fallo e inciampò malamente, cadendo sulla fredda pietra della scalinata, sbattendo ogni singolo centimetro quadrato del suo corpo e iniziando a rotolare con sempre maggior velocità verso il basso. Grazie a Dio, non erano rimasti molti gradini da fare e tutto finì in meno di un minuto, benché alla ragazza il tempo sembrò molto più lungo; miracolosamente, era riuscita a proteggere volto e capo con le braccia – temeva che nella caduta si sarebbe potuta provocare una bella commozione cerebrale, e arrivare da Erik, dopo un mese, in condizioni pietose e con un’ennesima amnesia non sarebbe di certo andato a suo favore. Comunque, a parte la sensazione di essersi appena ricoperta di innumerevoli lividi, decretò di essere abbastanza intera da poter proseguire indisturbata.

Con un gemito dolorante si mise in piedi a fatica, zoppicando appena e trovandosi obbligata a fermarsi un momento per abituarsi alle tremende fitte che sentiva pulsare su tutta la superficie del proprio corpo; se non altro, il dolore la rassicurava sul fatto di essere ancora viva, anche malgrado quella caduta. Prendendo un profondo respiro raddrizzò la schiena, pronta a continuare.

Per sua fortuna non dovette camminare molto. La sponda del lago sotterraneo, che più volte aveva udito Erik definire, con una sorta di macabro affetto, il suo Averno, pareva attenderla con le sue acque placide e nere come pece, sulle quali si riflettevano di tanto in tanto le luci delle fiaccole che, per grazia divina, ancora ardevano in quella zona delle catacombe. Come aveva silenziosamente sperato, la barca dell’uomo era là, attraccata ad un piccolo molo tramite una corda e un anello di ferro.

Ora, Giulia non aveva mai avuto modo di manovrare una barca, in vita sua, tantomeno una gondola; fortunatamente poteva vantarsi di avere una memoria piuttosto fotografica, e dato che aveva osservato più volte Erik mentre remava e conduceva l’imbarcazione con una facilità che suscitava invidia, si convinse di poterci riuscire a sua volta. D’altronde non aveva fatto tutta quella strada per poi gettare la spugna sul più bello. Pertanto salì con cautela sulla gondola e si rimise in piedi non senza fatica, conscia di essere l’unica a mantenerla in equilibrio; sciolse la corda che teneva la barca ancorata al molo e la ritirò sul fondo dello scafo per timore che potesse agganciarsi a qualcosa, poi afferrò il lungo remo e lo poggiò ad una sorta di scalmo libero, la forcola, che fungeva praticamente da leva per permettere una conduzione più agevole. Prendendo un profondo respiro e facendo pressione sulla forcola, la ragazza ruotò il remo e la gondola si spostò, iniziando ad avanzare sulle acque scure.

Non fu un tragitto tranquillo; il lago era immerso nel buio, salvo qualche saltuaria fiaccola che sbucava da dietro le colonne che parevano sorgere dalla superficie per innalzarsi in volte di pietra sopra la sua testa. Lo scrosciare dell’acqua che accarezzava i bordi della barca ad ogni remata era l’unico suono che udiva, se si escludeva il continuo gocciolio di umidità che scivolava dalle arcate. Continuò a guardarsi intorno, intimorita e cauta – aveva il timore di rovesciare la gondola se avesse fatto un gesto più brusco del solito – con il cuore che le batteva ferocemente in petto e quella sensazione di angoscia che non pareva volerla abbandonare. Chissà che genere di trappole celava quel bacino sotterraneo… Conoscendo Erik, sicuramente qualcosa di spaventoso e terribile.

Quando giunse finalmente sulle rive della Dimora sul Lago, si accorse che avrebbe comunque dovuto fare l’unica cosa che avrebbe evitato volentieri. La grata che proteggeva i domini del fantasma da chiunque fosse giunto là senza il suo espresso invito era, come avrebbe dovuto immaginare, abbassata; borbottando a mezza voce un’imprecazione, Giulia spinse con un ultimo sforzo la gondola verso l’inferriata, fino a quando non la udì sbattere con essa facendola traballare pericolosamente. La ragazza non vide altre alternative: liberandosi dei propri stivali, e abbandonandoli sull’imbarcazione – li avrebbe comunque potuti recuperare in seguito – si tuffò in acqua completamente vestita prima di poter cambiare idea. Il contatto con la superficie gelida del lago, che parve richiudersi sopra la sua testa come a volerla risucchiare nelle sue profondità, le tolse il fiato per un momento: non si aspettava tutto quel gelo. I jeans e il maglione che indossava si inzupparono in un batter d’occhio, appiccicandosi a lei e gravandole addosso con un peso che non riteneva possibile. Scalciò e agitò con furia braccia e gambe per risalire verso l’alto, la gola che già bruciava per la mancanza di ossigeno, e quasi non le parve vero quando l’aria entrò in contatto con la pelle bagnata del suo viso. Solo allora osò aprire gli occhi, ansante e disorientata: la grata era ancora lì, alla sua destra, così vi si avvicinò nuotando e aggrappandosi al freddo metallo nella frenetica ricerca di un modo per attraversarla e andare dall’altra parte.

Si dovette immergere tre volte, gli occhi spalancati per non lasciarsi sfuggire nessun dettaglio, prima di scoprire che la griglia si sollevava dal fondale del lago di un metro abbondante. Ricaricata da un nuovo slancio di ottimismo, tornò a galla per prendere fiato e si rituffò per la quarta volta, nuotando con tutte le sue forze per raggiungere l’alveo del lago e di conseguenza anche la sua unica via di accesso alla proprietà del suo Maestro. Cercò di evitare gli spuntoni appuntiti nei quali terminava l’inferriata, ma mentre attraversava il passaggio il suo maglione si agganciò ad uno di essi. Sentendosi trattenere bruscamente alle spalle, Giulia rilasciò involontariamente un po’ della sua riserva di ossigeno, per poi pentirsene subito dopo: strattonò la lana rimasta aggrappata al ferro mentre i capelli le ondeggiavano davanti al volto oscurandole la vista, e presa dal panico puntò i piedi sulla grata e spinse con tutte le sue forze. Così riuscì a liberarsi, stracciandosi l’indumento ma libera finalmente di nuotare verso la superficie.

Non credeva di aver mai apprezzato una boccata d’aria come in quel momento.

Rimase per una manciata di secondi a galleggiare, ammollo nell’acqua ghiacciata, fin quando i suoi polmoni non si furono riabituati alla familiare sensazione di inspirare ed espirare, e solo allora si decise a nuotare verso la riva. Man mano che vi si avvicinava l’acqua si abbassava e lei poté finalmente toccare il fondo, percorrendo gli ultimi metri strisciando e camminando: si sentiva terribilmente stanca, sporca e dolorante. Si issò a fatica sui gradini che costituivano il pontile personale di Erik, e là rimase accasciata fin quando il freddo prepotente non giunse a ghiacciarle persino le ossa e i tremiti la costrinsero ad andare in cerca di qualcosa con cui riscaldarsi.

Sì alzò, tossendo gli ultimi residui di acqua che aveva ingerito, e mentre si strizzava i lunghi capelli fradici gettò uno sguardo distratto a ciò che la circondava. Subito, però, la sua attenzione venne catturata da un caos che non si aspettava, e la ricerca di indumenti caldi e asciutti passò in secondo piano.

Non aveva mai visto la dimora sul Lago in quelle condizioni: sembrava che vi fosse passato un uragano o, peggio, una folla inferocita. I drappi di velluto che abbellivano le pareti erano strappati, alcuni giacevano per terra lasciando nuda la parete di pietra, altri non erano che brandelli color porpora sparsi tutto intorno. Il pavimento era un ricettacolo di frammenti di vetro – tutti gli specchi erano stati distrutti – stralci di spartiti, boccette ormai vuote che un tempo avevano contenuto inchiostro e quest’ultimo che, ormai secco, si era raggrumato come chiazze di sangue un po’ dappertutto. Petali secchi di rose rosse, ormai quasi nere, giacevano sparse su tutto quel macello, insieme a candele spezzate, una poltrona rovesciata – quella dove lei si sedeva per ascoltarlo mentre suonava – e persino un mezzobusto di ceramica del quale il pezzo più grande rimasto era mezzo lato del viso – macabra coincidenza.

L’unico oggetto scampato alla follia di quella distruzione era l’organo, che governava maestoso su tutta la Dimora sul Lago, unico superstite della furia del Fantasma.

Facendo attenzione a non calpestare vetri né altro, visto che era ancora scalza, sorpassò il disastro del salone e andò ad ispezionare le due camere da letto, senza ormai sapere cosa aspettarsi; e  se Erik, preso da quella furia – giacché non aveva pressoché dubbi su chi fosse l’autore di quella strage – avesse deciso di…

No! Mio Dio, no, non voleva nemmeno pensarci. Gocce d’acqua le rotolarono lungo le guance, e nel passarsi il dorso della mano per asciugarle non seppe decidere se provenissero dai suoi capelli o dai suoi occhi. Il terribile pensiero che Erik potesse essere morto era così osceno da bloccarle il respiro, e doveva decidere se i tremiti che la scuotevano fossero causati dal freddo o dalla paura di quello che poteva scoprire.

Deglutendo, scostò una delle poche tende rimaste integre e si affacciò su quella che era stata la sua camera da letto, stringendo gli occhi per penetrare attraverso l’oscurità. Se il caos del salone l’aveva spaventata, quello che trovò nella stanza la lasciò senza fiato: sembrava che Erik si fosse accanito con particolare furore sugli oggetti personali che Giulia aveva lasciato laggiù, assicurandosi che nulla rimanesse integro dopo il suo passaggio. Le ante dell’armadio erano spalancate e i vestiti che vi erano stati appesi erano ora un ammasso scomposto di stoffe strappate, brandelli di pizzi e merletti gettati con rabbia per terra; sul tavolino da toilette non era rimasto più nulla, le spazzole, le boccette di profumo e tutto il maquillage che poteva esserci sopra era stato spazzato via, e ora giaceva sul pavimento, saturando l’aria del puzzo creatosi dal miscuglio dei vari oli e liquidi. I cuscini del letto erano stati squarciati, e vi erano piume in ogni dove: non era rimasto più nulla di intatto.

Indietreggiando fino ad uscire dalla stanza, fu con un enorme sforzo che si proibì di piangere. Che cosa aveva fatto? Aveva abbandonato Erik, era ritornata alla sua vecchia vita senza quasi voltarsi indietro, era naturale che lui fosse infuriato… Se fosse stato ancora vivo e in salute come lei si augurava con tutto il cuore, avrebbe voluto ancora avere qualcosa a che fare con lei?

Era così disperata e disorientata da quella scoperta che non ispezionò più il pavimento mentre si dirigeva verso la stanza di Erik, così calpestò sbadatamente un frammento di vetro, la cui punta acuminata le penetrò a fondo nella pianta del piede strappandole un grido misto di dolore e spavento. Stavolta fu impossibile frenare le lacrime, che iniziarono a scorrerle sulle guance come se avesse appena distrutto la diga che le conteneva, e tra singhiozzi e singulti raggiunse zoppicando l’ultima stanza che voleva ispezionare. Questa, contrariamente alla sua, possedeva una normalissima porta, che grazie al Cielo non era stata chiusa a chiave. Aggrappandosi alla maniglia, la abbassò e spalancò l’uscio, affacciandosi su una cupa oscurità.

Non era mai entrata in quella camera, dunque non sapeva bene come muoversi. Attese un momento che gli occhi si abituassero al buio, ferma sulla soglia, e quando riuscì a distinguere perlomeno le sagome degli oggetti raggiunse l’immenso letto a baldacchino che governava l’ambiente. Finalmente poté sedersi, e non appena lo fece il dolore al piede tornò in furiose ondate che le provocarono persino una leggera nausea. Si guardò intorno, angosciata, e quando notò una lampada a petrolio sul comodino di fianco al letto non riuscì a trattenere il sollievo; andò a tentoni fino a trovare la piccola manovella, la ruotò e attese che una debole fiammella apparisse al di sotto del vetro, continuando a ruotarla fin quando non ebbe regolato l’intensità della luce. Quando infine l’oscurità divenne meno opprimente, Giulia passò ad esaminarsi la ferita.

La pianta del piede era completamente insanguinata: il frammento di vetro che le era rimasto nella carne impediva al sangue di fuoriuscire abbondantemente, ma non poteva di certo tenerlo ancora per molto se voleva evitare che la ferita si cicatrizzasse intorno ad esso o, ancora peggio, che le venisse una qualche infezione. Scioccamente, ciò che la preoccupava di più era il pericolo di macchiare le coperte del letto di Erik: aveva già rovinato abbastanza la sua vita, non era il caso di danneggiare anche la sua dimora… Quindi si sfilò il maglione, rabbrividendo nel rimanere unicamente in biancheria intima, e approfittando dello strappo che già deturpava l’indumento riuscì a stracciarlo in un altro paio di strisce. Staccare il pezzo di vetro fu più difficile e doloroso di quanto si fosse immaginata: tamponò immediatamente la ferita dalla quale aveva subito iniziato a sgorgare copiosamente il sangue, e non appena fu riuscita ad arrestarne un poco il flusso cercò di avvolgere il pezzo pulito di stoffa intorno al piede. Ciò le diede l’illusione di essere riuscita a medicarsi, per quanto in modo piuttosto rozzo, ma ciò nonostante non riuscì a bloccare il dolore e gli spasimi che la ferita le procurava: avrebbe dovuto immaginarlo.

Adesso che aveva sistemato la ferita, decise di liberarsi dei jeans fradici che ancora indossava. Li sbottonò e abbassò la cerniera, per poi farseli scivolare lungo le gambe e facendo attenzione nel toglierseli senza toccare il piede. Si servì della grossa coperta che giaceva sul letto per avvolgersela sulle spalle a mo’ di mantello e trovare riparo dal freddo pungente; i vestiti che le erano appartenuti adesso erano inutilizzabili, frugare nell’armadio di Erik era impensabile, e dunque non le restava che accontentarsi di quella semplice trapunta.

A cosa era servito tornare indietro nel tempo, rischiare la vita in quei sotterranei disseminati di trappole se poi la persona per la quale aveva fatto tutto quello non sembrava avere nessuna intenzione di accoglierla a braccia aperte? Per quanto si fosse ripromessa di non cedere alle lacrime, piangere le venne spontaneo: il dolore fisico causato dal taglio al piede si mischiava fatalmente al tormento e alla sofferenza che provava all’altezza del petto, laddove si era aperta una voragine terribile che la stava divorando dall’interno. Forse, solo forse, non era stata una buona idea tornare; magari il suo vero posto era nel presente, insieme a Jean-Louis, a suo padre, a sua madre, checché ne dicesse quest’ultima… Sì, non erano i suoi genitori biologici, non l’avevano concepita né partorita, ma l’avevano cresciuta, le avevano voluto bene, avevano pianto e riso e discusso insieme per vent’anni – questo non aveva forse più valore di un sentimento appena nato nei confronti di qualcuno che, a giudicare dalle condizioni in cui versava la sua abitazione e ciò che in essa le apparteneva, doveva provare soltanto una rabbia e un odio infinito per lei?

Raggomitolandosi al centro del letto e avvolta come una bambina impaurita e freddolosa in quelle coperte, Giulia si ritrovò all’improvviso circondata dall’odore di Erik: fu in quel momento che si rese conto che, effettivamente, era davvero ritornata. Egli era praticamente a un soffio da lei, adesso non c’erano più i giorni, i mesi, gli anni – un intero secolo – a separarli, ma solo qualche centinaia di metri e un lago, sempre sperando che lui fosse ancora là, a Parigi. Le sfuggì l’ennesimo singhiozzo e nascose il volto tra le braccia, disperata: Dio, non poteva finire così.

 

 

*

 

 

Erik fissò a lungo il punto nel quale avrebbe dovuto trovarsi la sua gondola, mentre una rabbia cieca iniziava a serpeggiare infida nel suo animo. L’assenza di quest’ultima, difatti, poteva significare soltanto una cosa: intrusi nei suoi domini. Chi diavolo era stato così idiota e privo di senno da avventurarsi nei sotterranei del teatro? I membri della razza umana che abitavano in superficie non avevano già depredato abbastanza il suo regno, in passato? Che senso aveva continuare a rimescolare quelle ceneri ormai fredde?

Ringhiando come una belva che ha appena visto un altro maschio invadere il proprio territorio, l’uomo che un tempo era stato Figlio del Diavolo, Angelo della Musica, Don Giovanni e Signore delle Botole, e che adesso aveva deciso di tornare ad essere semplicemente e con un affetto quasi perverso il Fantasma dell’Opera, si diresse a grandi falcate verso una galleria laterale che costeggiava il lago sotterraneo, e che grazie a Dio non era conosciuta da nessun’altra anima viva. Si domandò per quale motivo la sua sirena non avesse suonato, avvisandolo del visitatore indesiderato, e si ripromise pertanto di mettere in conto di ricontrollare le sue trappole e i suoi discutibili sistemi d’allarme, dato che dopo anni di disuso vi era la possibilità che si fossero arrugginiti o semplicemente rotti. Probabilmente, comunque, l’intruso era già morto; e se qualora così non fosse stato, Erik confidava che la sua grata di ferro lo tenesse a debita distanza dalla sua antica abitazione.

Il corridoio ch’egli stava percorrendo terminava con una porta, e tale porta era dotata di un marchingegno che fungeva da lucchetto – risalente alle Ore Rosa di Mazenderan – talmente complesso da poter essere aperto solamente da colui che l’aveva inventato – Erik stesso, per l’appunto. Dopo essersi lasciato alle spalle anche quel piccolo ostacolo, l’uomo poté finalmente mettere piede nell’immenso salone che si affacciava sull’acqua plumbea e nera della gora.

Ritornare laggiù tutte le notti e trovare la Dimora sul Lago in quelle condizioni non faceva che accrescere la sua pena. Era trascorsa appena una settimana da quando aveva messo a soqquadro ogni cosa, come se a stento ne tollerasse la vista, e ancora non aveva trovato dentro di sé la forza necessaria per raccogliere tutti i cocci, sia metaforicamente che letteralmente: farlo avrebbe significato arrendersi del tutto all’evidenza che lei non sarebbe mai tornata.

Era vero, dunque, che i mostri come lui non potevano godere di nessuna redenzione.

Accantonando quelle elucubrazioni che non lo avrebbero condotto da nessuna parte, se non, molto probabilmente, all’ennesima notte insonne fatta di assenzio e musica, egli volse lo sguardo alla grata che era, effettivamente, ancora abbassata: al di là di essa galleggiava la sua imbarcazione, ma non vi era alcuna traccia dell’intruso – né vivo, né morto. Inarcando con aria disinteressata un severo sopracciglio, Erik si liberò del proprio mantello, posandolo su una ringhiera e salendo i pochi gradini che lo separavano dal suo organo. I suoi stivali scricchiolarono nel calpestare con noncuranza schegge di vetro, ceramica e chissà cos’altro, ma non aveva fatto che pochi passi quando si accorse che qualcosa non andava. Nulla sembrava fuori posto, non più di quanto lo fosse quella mattina, ma la sensazione che qualcuno fosse passato di lì durante la sua assenza era troppo forte per poterla ignorare. Abbassando lo sguardo sul pavimento, alla ricerca di qualche traccia del passaggio dell’eventuale intruso vivo, dovette dare ragione al suo infallibile istinto.

Là, davanti alla tenda della camera di lei, c’erano innegabilmente delle macchie di sangue – sangue non suo.

Il suo volto assunse un’espressione terrificante: dunque era vero, qualcuno era stato lì, qualcuno aveva osato curiosare nel suo dominio, nel suo regno, nella sua casa! E quel qualcuno, sì, doveva trovarsi ancora nei dintorni, giacché se era facile entrare non lo era altrettanto uscire… Era una fortuna che il suo organo suonasse ancora alla perfezione, avrebbe potuto dedicare un’onorevole messa da Requiem allo sventurato che, se non aveva già incontrato la morte, lo stava comunque per fare. Afferrando un innocuo pezzo di canapa, Erik impiegò poco più del tempo di un respiro per costruirsi la sua arma prediletta: adesso le sue mani reggevano un laccio da forca, il suo laccio del Punjab, che presto avrebbe accarezzato come fa un amante il collo del maledetto intruso!

Le tracce di sangue, ormai secche, formavano un percorso disordinato che si concludeva senza ombra di dubbio davanti alla porta della propria stanza; dunque, a meno che in quel punto l’individuo non fosse scomparso come un fantasma, tutto ciò che poteva supporre era che si trovasse all’interno. Questo era persino peggio di quanto si fosse aspettato, e aggravava notevolmente la colpa dell’intruso: mai nessuno aveva avuto accesso al suo ultimo santuario, e adesso chiunque avesse osato tanto ne stava per pagare tutte le conseguenze.

Senza curarsi del fatto che così facendo non avrebbe goduto di nessun effetto sorpresa, Erik afferrò con affettata indifferenza la maniglia della porta, abbassandola per poi spingere l’uscio verso l’interno e avanzare dentro la stanza, occupando la soglia interamente con la sua mole di modo da bloccare ogni via di fuga. La richiuse dunque alle sue spalle – non aveva ancora sollevato lo sguardo – e, quando il tonfo del legno contro la pietra spezzò il silenzio, si ritrovò ad irrigidirsi nell’udire un improvviso singulto.

Si voltò di scatto verso la direzione dalla quale era giunto il gemito, e in un battito di ciglia si accorse di diversi fatti curiosi contemporaneamente. La lampada a petrolio sul suo comodino era accesa, e rischiarava debolmente tutto l’ambiente altrimenti immerso nella più nera oscurità; per terra, oltre alle gocce di sangue, vi erano alcuni indumenti laceri e bagnati e infine, a completare il quadro inaspettato che gli si era parato dinnanzi, c’era la figura rannicchiata al centro del suo letto che tremava e respirava con affanno.

Il cappio gli scivolò di mano quando l’intruso – intrusa, in realtà – sollevò il viso dal rifugio delle sue braccia e fissò le iridi arrossate dal pianto nei suoi da quelle labbra livide, facendolo rabbrividire. «Erik?» Mormorò la giovane, prima di asciugarsi gli occhi con il dorso della mano. Il movimento fece scivolare di lato la coperta che l’avvolgeva, denudando spalla e braccio, ma egli non poté indagare oltre su ciò che vi era o meno al di sotto del mantello, giacché ella era scivolata a terra con il chiaro intento di raggiungerlo.

«Erik», ripeté ancora, con una voce più chiara e meno tremula. «Erik, mio Dio… Sei ancora qui!»

Troppo intontito per dire o fare alcunché, egli si accorse che la ragazza – buon Dio, era proprio lei? – si era gettata contro di lui solo quando la sentì tremare e singhiozzare contro il proprio petto, le mani artigliate alla sua giacca, le sue gambe per la prima volta a contatto con le sue, come se fosse… no, un momento, lo era davvero… nuda, contro di lui!

Il primo istinto fu quello di ricambiare la stretta: così facendo, si rese conto come in un sogno che le sue mani avevano trovato una posizione perfetta nella morbida curva dei suoi fianchi nudi, gelidi e ricoperti di piccoli brividi. Questo gli restituì un briciolo di lucidità. Allontanarla da sé fu come strapparsi un arto, ma la presenza del sangue e l’assenza dei suoi indumenti continuavano a suggerirgli che qualcosa non andava, benché tutto sembrasse vorticare talmente in fretta intorno a lui da fargli perdere l’esatta concezione della realtà. Cos’era successo? Come, perché? Con le mani le circondò il volto bagnato di lacrime, ma con lo sguardo percorse ogni centimetro del suo corpo, riuscendo a fatica a celare un improvviso e sgradito desiderio dietro una maschera, l’ennesima, di sincera preoccupazione. Infine, vide la nota stonata: il suo piede era avvolto in un lembo di stoffa a mo’ di medicazione, ma si stava rapidamente tingendo di rosso, ad indicare che l’attraversare in tutta fretta la stanza senza badare alla sua ferita doveva averla riaperta.

Anche lei aveva abbassato lo sguardo sul proprio piede, senza minimamente curarsi di presentarsi agli occhi dell’uomo con indosso dei miseri brandelli di stoffa che le coprivano e scoprivano insieme dei punti che nessuna donna avrebbe mai dovuto mostrare ad altri che non fosse il proprio sposo. L’ironia che tale pensiero pudico provenisse proprio da lui gli concesse di recuperare ciò che la comparsa improvvisa della giovane aveva annichilito: il suo autocontrollo e la sua solita freddezza. Fu per questo che ignorò le parole successive della ragazza – era chiaro che non sapeva cosa stesse dicendo.

«Io non… Sto bene, davvero, non è successo nulla», balbettò, tradendosi da sé nell’afferrare con forza la manica della giacca dell’uomo mentre barcollava dal dolore. «Scusami, dev’esserci sangue dappertutto…»

La mise a tacere prendendola tra le braccia, e trasportandola così nuovamente verso il talamo. «Non preoccuparti di questo», furono le prime parole pronunciate da Erik, un sussurro nella penombra. La fece sedere sul letto e l’avvolse di nuovo nella coperta, non potendo resistere oltre alla vista della sua nudità; era ancora piuttosto scioccato dalla sua improvvisa comparsa, ma nascose tale sensazione con abilità. «Se mi aspetti qui, vado a prendere l’occorrente per medicarti meglio», aggiunse, raddrizzandosi. Dalla sua voce incolore era impossibile intuire che cosa gli stesse passando per la mente – se era furioso con lei per essere ritornata, se era contento o, peggio, se era indifferente…

Prima che uscisse dalla stanza Giulia gli afferrò una mano, trattenendolo; egli non si voltò, ma rimase in attesa. «Non vado da nessuna parte, Erik», mormorò lei, sperando che il sottinteso fosse chiaro.

Senza dire una sola parola, l’uomo si sciolse gentilmente dalla sua stretta e sparì dietro la porta.








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Capitolo 35
*** 33. No one would listen, no one but her ***


Chapitre 33

No one would listen, no one but her

 









 

 

 

 

 

 

 

 

Then, at last, a voice in the gloom
Seemed to cry: “I hear you!
I hear your fears
Your torment and your tears…”

 

Erik ritornò prima che Giulia potesse iniziare a pensare che se ne fosse andato, troppo furioso per sopportare ancora la sua presenza. Si era liberato della giacca e del giustacuore, probabilmente perché tali indumenti gli erano d’impiccio durante un’operazione medica, ed era rimasto solo con la camicia. Aveva portato un catino pieno d’acqua e una borsa che somigliava parecchio a quella che più volte lei aveva visto indosso a monsieur Mounier, il dottore che si occupava della salute delle ballerine, delle coriste e di chiunque, all’interno del perimetro dell’Opèra, potesse avere bisogno di lui. Continuò a non rivolgerle la parola mentre le si inginocchiava davanti, le maniche della camicia ben arrotolate fin sopra i gomiti, e le prendeva il piede fasciato per levarle con attenzione il pezzo di stoffa ormai irrimediabilmente macchiato di sangue. Giulia dovette mordersi l’interno della guancia per non gemere, quando la stoffa venne via strappando anche i delicati lembi della ferita che si era incollata alla lana del suo vecchio maglione.

Le mani di Erik erano leggere e delicate mentre ripulivano il piede da ogni eventuale sporcizia, tingendo l’acqua del catino di rosa man mano che il sangue secco veniva via. Quando infine poté vedere il taglio ripulito, le sue labbra si strinsero in una sottile linea di preoccupazione. «Ci sarà bisogno di qualche punto», la informò a mezza voce, senza tuttavia nessuna particolare emozione. «Come hai fatto a tagliarti così?»

«Un pezzo di vetro», rispose lei, scrollando appena le spalle. «Ero scalza, e non l’ho visto.»

«E per quale motivo eri scalza?» Continuò, sollevando finalmente lo sguardo verso di lei con un fare leggermente aggressivo; il suo tono sembrava voler aggiungere, tra le righe: e perché adesso sei nuda?

«Ho lasciato gli stivali sulla gondola. La grata era abbassata, quindi mi sono tuffata nel lago per vedere se sul fondale c’era lo spazio sufficiente per passare dall’altra parte», spiegò piano, studiando le espressioni del suo viso. Non era facile, visto che indossava quella maledetta maschera e che la luce della lampada non era poi molto intensa.

L’uomo non rispose. Si alzò, invece, per recuperare dalla consunta valigetta di pelle marrone alcuni strumenti che dispose ordinatamente sul tavolino accanto al letto, e che Giulia si sforzò di non fissare troppo a lungo. Le era già capitato che le mettessero dei punti, in passato – aveva solo nove anni, ed era caduta dalla bicicletta frenando bruscamente e rotolando in mezzo a una durissima ghiaia – ma sul gomito, per cui non osava immaginare quanto potesse far male nella pianta del piede; inoltre, non aveva idea di come funzionassero simili operazioni in quell’epoca, dunque preferiva mostrare una sana ignoranza e volgere lo sguardo altrove per saperne il meno possibile. Con la coda dell’occhio, tuttavia, lo vide mentre mischiava in un mezzo bicchiere d’acqua una sostanza più densa, ambrata, di origine misteriosa – sicché quando poi glielo porse inarcò un sopracciglio con aria perplessa.

«È laudano. Servirà a ridurre il dolore», le spiegò lapidario.

Benché il primo istinto fosse quello di chiedergli esattamente di quanto dolore si trattasse, Giulia riuscì a contenersi e finse disinvoltura. «Il laudano non è un veleno?»

«È anche un oppiaceo», specificò Erik con altrettanta noncuranza, senza riuscire minimamente a rassicurarla. «Ma se viene diluito con acqua è un semplice anestetico, quindi non preoccuparti. Diventa tossico solo se assunto in grandi quantità e per lunghi lassi di tempo.»

Così andava già meglio. In realtà, avrebbe anche potuto cercare di resistere al dolore, visto che neppure quando aveva nove anni il dottore le aveva fornito qualche tipo di analgesico – rammentava tuttora suo padre che la teneva ferma mentre il medico le ricuciva il gomito – ma allo stesso tempo temeva che, se non avesse bevuto qualsiasi cosa ci fosse stata nel bicchiere, Erik avrebbe potuto prenderla come una mancanza di fiducia nei suoi confronti, e poiché al momento la situazione sembrava già abbastanza tesa Giulia non ritenne opportuno rischiare. Per cui senza più discutere gli prese il bicchiere dalle mani e se lo portò alle labbra, trangugiando un lungo sorso prima di poter cambiare idea. La sostanza le lasciò uno strano sapore in bocca, o forse era solo la sensazione di sentirsi lingua e palato improvvisamente secchi e amari, ma non si lamentò.

«Quando vuoi», disse, stringendosi meglio nella coperta. Rimase ad osservarlo in attesa, tutto sommato con aria fiduciosa, pertanto a Erik non rimase che inginocchiarsi nuovamente di fronte a lei e mettersi al lavoro. Le sue mani furono gentili e riverenti, tanto che non un suono scappò dalle labbra tese della ragazza; le sfuggì solo un gemito e un lieve sussulto quando l’ago penetrò la prima volta nella sua carne, ma poi strinse gli occhi e si morse l’interno delle guance nello sforzo di mantenere la calma.

Il tutto si svolse e concluse in maniera piuttosto rapida e accurata, benché a lei fosse parsa un’eternità: il dolore era sopportabile, ma non sapeva decidere se imputare questo alla bravura dell’uomo o all’efficacia del laudano. Infine, dopo che Erik ebbe provveduto ad avvolgerle il piede dolorante in fasce pulite e decisamente più adatte, ella si rifugiò sotto le coltri del letto e lo osservò con gli occhi socchiusi, mentre ripuliva i vari strumenti e le proprie mani tinte di sangue. Una volta concluse quelle ultime operazioni, prese una sedia e vi si abbandonò sopra, come se l’intera manovra avesse esaurito ogni residuo della sua energia.

«Grazie», gli mormorò la ragazza, spezzando il silenzio non senza esitazione.

Le palpebre dell’uomo continuarono a rimanere abbassate. «Dovere», rispose con aria stanca.

Giulia decise di non poter più sopportare quella lontananza fisica insieme a quella psichica – non nello stesso momento, e soprattutto non in quello in particolare. «Vieni più vicino», lo invitò quindi, allungando un braccio nudo da sotto il confortante calore delle coperte e tendendolo verso di lui. Senza lasciar trasparire nulla dal suo volto impassibile, Erik si limitò a obbedirle, avvicinando la sedia fino al bordo del letto e prendendo istintivamente la sua mano con la propria. Subito la ragazza ne approfittò per intrecciare insieme le loro dita, e un pallido sorriso sbocciò sulle sue labbra.

«Non voglio che tu sia arrabbiato con me, Erik», continuò a mezza voce, guardandolo da sotto le lunghe ciglia chiare. «Erik? Ti prego. Dì qualcosa», insisté.

L’uomo non sciolse la stretta, ma si rifiutò comunque di guardarla. «Cosa ti posso dire?» Esordì, la voce avvolta da un gelo che lei non aveva mai sentito. «Forse tu hai dimenticato il modo in cui ci siamo lasciati, ma io no. Non ho scordato la nostra discussione, né tantomeno la mia domanda, e la tua risposta… E poi te ne sei andata, mi hai lasciato da solo quando avevi più volte promesso che non l’avresti mai fatto. Sei tornata alla tua vecchia vita senza pensarci due volte, per più di un mese ti sei dimenticata di me… e questo, questo, mi ha ferito, non tanto il rifiuto alla mia proposta, dato che, col senno di poi, ho potuto ammettere a me stesso di aver esagerato», concluse. Stavolta, la sua mano lasciò quella della ragazza come se non riuscisse più a sopportarne il tocco. «Quel ragazzo… tuo fratello… Un volto perfetto, non trovi?» Riprese, con sempre maggior astio e amarezza. «Giovane, liscio, morbido nelle sue fattezze delicate, prive di qualsiasi imperfezione… tutto quello che da me non avrai mai! Ti è mancata la bellezza, non è così? Hai preferito tornare indietro a quando il tuo mondo era fatto di avvenenza e armonia, quando nulla lo turbava, e lo comprendo, sai? Davvero, lo comprendo. Nessun essere umano sano di mente si rinchiuderebbe di sua spontanea volontà in una tomba infernale con un cadavere che lo ama, quando potrebbe senza sforzo appartenere al Paradiso, circondato dagli angeli. È così facile lasciarmi, vero? Non puoi immaginarti cosa siano stati questi giorni, queste settimane, qui, da solo, con il tuo unico ricordo a torturarmi la notte… Ma d’altra parte, che cosa potrebbe mai farsene di un mostro, una come te? So bene che non c’è spazio nella tua vita per un errore, per un disegno rovinato, per una nota stonata… Non c’è spazio per me

Quell’ultima frase suonò più come un ringhio, e alzandosi in piedi di scatto Erik spinse all’indietro la sedia facendola raschiare fastidiosamente contro la pietra del pavimento. Si nascose il volto tra le mani e indietreggiò fino a non essere più nel cono di luce prodotto dalla lampada, ma se anche si era nascosto alla sua vista non aveva fatto lo stesso con il suo udito: difatti, Giulia udì con chiarezza il terribile tonfo che poteva venire associato solamente al colpo che l’uomo ebbe dato al muro.

Sobbalzò e subito si tirò su a sedere, accennando a scendere dal letto per raggiungerlo.

«Non alzarti!» Le intimò invece lui, un ruggito proveniente dal buio. «Non alzarti. La ferita si riaprirà», aggiunse poi, con meno livore. Con un’improvvisa sensazione di inadeguatezza e disagio, la ragazza non poté fare a meno di dubitare che fosse quello il motivo per cui non voleva che lei si alzasse – era più propensa a credere che in quel momento non la volesse vicina.

«Erik, ti prego, ti supplico, non fare così», mormorò, cercando di non cedere alle lacrime. Lei in prima persona non amava piangere davanti a chicchessia, e in quel momento era convinta che neppure l’uomo lo avrebbe sopportato. «Quello che dici non ha senso, se tu avessi ragione allora perché sarei tornata? Perché sono di nuovo qui invece che dall’altra parte? Mio Dio, ho rischiato di finire in una delle tue maledette trappole, ho rotolato giù dalle scale come un sacco di patate e ho fatto a nuoto gli ultimi metri che mi separavano dalla tua casa, con la speranza che fossi ancora qui per chiederti scusa

Andando avanti con la sua arringa, Giulia si accorse tuttavia di non essere in alcun modo vincolata a trovare per forza delle giustificazioni per il suo comportamento: non aveva fatto nulla di male, che diavolo! La sua colpa era stato il desiderio di rivedere la sua famiglia? Non avrebbe sopportato di scusarsi per questo, non era così che si era immaginata quell’inevitabile confronto! Le lacrime di dolore e dispiacere che le stavano spuntando agli angoli degli occhi si tramutarono in gelide lacrime di rabbia, e avrebbe volentieri imprecato come una ragazza del ventunesimo secolo se non avesse comunque avuto paura del giudizio dell’uomo al riguardo, per cui si trattenne a fatica.

«Maledizione», continuò quindi, un tono completamente diverso da poco prima; fu l’unica cosa che ritenne di poter dire senza sembrare eccessivamente volgare. «Non puoi avercela con me per aver voluto salutare la mia famiglia un’ultima volta! Non puoi arrabbiarti come se ti avessi appena tradito, come se fossi l’ennesima delusione! E non puoi biasimarmi per aver rifiutato la tua proposta di matrimonio, accidenti, non era quello il momento giusto! Non ti permetterò di insultarmi ancora con le tue stupide congetture. Forse potevi essere furioso prima, lo ammetto, però non adesso che sono tornata, non ne hai più nessun motivo! Sei un maledetto testardo, e mi stai facendo sprecare fiato inutilmente; dimmi, dovrò rassegnarmi all’idea di non riuscire a farti ragionare? Ti sei convinto che io non ti voglia nella mia vita, ma come fai ad insistere ancora quando io sono qui, davanti a te? Rispondimi, Erik! Dimmi se il mio ritorno è stato inutile, dimmi se sono arrivata troppo tardi, dimmi qualsiasi cosa!»

La cosa che più odiava di quella discussione era che lui l’avesse privata del privilegio di potergli dire tutto ciò pensava guardandolo negli occhi, dato che rifugiandosi nell’oscurità le aveva dato l’impressione di parlare con il vuoto. Tuttavia, l’ansimare sommesso di Erik che proveniva da qualche parte davanti a lei le assicurava che lui aveva sentito ogni parola, e che lei non aveva discusso da sola.

«Sì, qualcosa te la dirò», mormorò lui infine, dopo un lungo istante di silenzio. La sua voce era ancora astiosa, terribile nella sua ira malcelata. «Ti dirò che non ci sei stata quando avevo più bisogno di te. Ti dirò che ero così furioso, quando te ne sei andata, che ho perso il controllo e ho fatto cose di cui mi pento… Ti dirò che adesso sono io che potrei non volerti», concluse con un sibilo, senza uscire dall’ombra. «Che cos’è quello sguardo sorpreso, Giulia? Credevi di poter fare i tuoi comodi e poi di tornare qui quando più ti aggradava, e ritrovare ogni cosa come l’avevi lasciata, ritrovare me disposto ad accoglierti a braccia aperte, pronto a dimenticare quelle settimane infernali che ho trascorso da solo? Nessuno si può permettere di prendersi gioco di Erik, mia cara, neppure tu! Ti ho dato il mio cuore, Giulia, e tutto quello che sei stata capace di fare è stato prenderlo e tagliarlo serenamente in quattro piccoli pezzi, senza mostrare un briciolo di misericordia, un briciolo di pietà! Te ne sei andata, maledizione, l’hai capito? Riesci a comprendere quello che hai fatto, il dolore che mi hai inferto? No, non ci riesci! Sei solo capace di aggredirmi, e di insultarmi, e di accusarmi – e per cosa, poi! Dimmi per che cosa! E non fare quella faccia… No – non vuoi? Ebbene, te lo dico io! Solo perché ho osato chiederti di amarmi a tua volta!»

Stavolta la sua acredine lo spinse ad avanzare verso il letto e a offrirsi alla luce della lampada, così che Giulia poté vedere il suo terribile volto sfigurato da una collera così profonda, così radicata, da fargli brillare gli occhi e accelerare il respiro. La ragazza non l’aveva mai visto così arrabbiato e, per la prima volta da quando le si era mostrato per ciò che era davvero, ella ne ebbe paura. Tale sentimento fu talmente improvviso che non fu in grado di celarlo, e l’uomo dovette pertanto leggerglielo in faccia, giacché il suo ringhio feroce rendeva palese ciò che ne pensava al riguardo. Incuterle terrore era di sicuro l’ultima cosa che voleva fare, malgrado tutto, così le diede velocemente le spalle e quasi scappò via dalla camera da letto, sbattendosi con furia la porta alle sue spalle e facendola tremare pericolosamente.

Non poteva reggere oltre il suo sguardo improvvisamente spaventato. Come aveva fatto a farsi sfuggire di mano la situazione, lasciando che si capovolgesse in maniera così plateale? Non era lui quello che più di tutti doveva avere ogni diritto di essere furioso, disilluso? A giudicare da quanto detto da lei, no, non l’aveva.

Prese a camminare avanti e indietro lungo la sponda del lago, l’unico punto in tutta la sua dimora a non avere il pavimento ingombro di pattume vario, e desiderò aver lasciato ancora qualche oggetto da distruggere giacché l’istinto di frantumare qualcosa e spargerne i resti dappertutto era davvero molto forte – Dio solo sapeva quanto gli prudessero le mani, ma sarebbe morto cento volte prima di alzare un solo dito contro di lei! E non perché giudicasse le sue spiegazioni e le sue parole folli o irragionevoli, ma perché, dannazione, erano corrette, e tale rivelazione lo rendeva soltanto un uomo stolto e testardo, incapace di trattenere la propria ira!

Nulla stonava in ciò che lei aveva detto, tutto era perfettamente logico, lineare, e rendeva palese la stoltezza e la follia con cui invece lui, al contrario, l’aveva accusata di tradimento e abbandono, facendo ricadere su di lei le colpe non ancora espiate di vecchi spettri del suo passato! Tutte le donne che aveva avuto modo di incontrare e che avevano avuto un ruolo fondamentale nella sua vita lo avevano ingannato e odiato – per prima la sua stessa madre, che aveva avuto il coraggio disumano di rinnegare il frutto del suo ventre e fargli dono tra le lacrime e il disgusto della sua prima maschera, per poi continuare con Christine, che aveva cresciuto e la cui voce e talento aveva plasmato fino a farla brillare come un astro del cielo, e madame Giry, sì, che in un primo momento lo aveva aiutato, nascosto, confortato persino!, e poi non aveva esitato a rivelare l’ubicazione della sua dimora a quell’inetto damerino che si era precipitato come un cavalier servente a salvare la sua piccola Lotte. Tutti loro, come sfuocate ombre che si avvicendavano sul palcoscenico della sua esistenza attendendo il loro turno per sputargli addosso e pugnalarlo alle spalle, tutti, nessuno escluso, lo avevano reso ciò che era, un mostro, una creatura, troppo orrenda per essere definita umana ma non abbastanza terrificante da meritare un posto d’onore nel Tartaro dal quale molti lo avevano accusato di provenire. Gli avevano impedito di mostrarsi alla luce del sole, lo avevano reso incapace di nutrire fiducia in chiunque – e come avrebbe potuto fidarsi, rifletté amaramente, quando la prova del tradimento della razza umana giaceva sempre davanti a lui, su di lui, sotto forma di una maschera che si era creato lui stesso?

E adesso, a causa di tutta questa miseria, a causa di un passato che non lo avrebbe mai lasciato libero, rischiava di distruggere anche quell’ultimo porto in cui aveva osato rifugiarsi. Non aveva più alcuna forza di avventurarsi nell’oceano di disperazione, solitudine e sangue che era stata la sua vita fino a quel momento, ma d’altra parte in quali condizioni si era trascinato al rifugio offerto da Giulia? Non era che un relitto, una misera carcassa composta per la maggior parte da risentimento, rancore, acredine e quanto di più raccapricciante potesse celarsi nell’animo umano. Glielo aveva appena dimostrato, per Dio! L’aveva colpevolizzata di tutti gli errori che in realtà non aveva commesso lei, ma la sua antica allieva, Christine Daaè. Non era Giulia che lo aveva lasciato dopo la promessa di rimanere, non era Giulia che lo aveva dimenticato, troppo presa da un tenero amore infantile, non era Giulia che aveva preferito la giovinezza e la bellezza di un visconte a quell’involucro deforme che era, non era Giulia che aveva gridato orripilata alla vista del suo volto, non era lei, era Christine, Christine, sempre e solo Christine!

Sentendosi soffocare sotto il peso di quelle emozioni, Erik si strappò la maschera con un ringhio, gettandola da qualche parte lontano da sé. Barcollando, si avvicinò alla parete in cerca di un sostegno e si lasciò scivolare per terra, sollevando infine una mano a nascondersi il viso all’improvviso umido di lacrime che non si era accorto di star versando. Singulti silenziosi gli scuotevano le spalle, e non poté fare nulla per impedirsi di piangere.

Giulia aveva ragione su ogni cosa. Che razza di mostro era, davvero? Lei, che aveva messo a repentaglio la sua incolumità percorrendo quei sotterranei che sapeva essere infestati di trappole, botole e quanto di più pericoloso la mente del Fantasma potesse escogitare; che aveva remato con la sua barca e, instancabile, non aveva esitato a gettarsi nell’acqua gelida del lago pur di trovare un modo per accedere alla sua dimora; che si era ferita e aveva anche rischiato un’infezione, dato che tutto il sudiciume che c’era per terra non doveva essere molto consigliabile da calpestare a piedi nudi, e ciò nonostante tutto questo era passato in secondo piano quando l’aveva visto – gli era venuta incontro, solo ora se ne accorgeva pienamente, zoppicando appena, priva di vestiti, con il viso pallido e segnato dalle lacrime e un sollievo e una felicità raggiante talmente sincera che si maledisse per quanto era stato stupido e cieco da non averla notata subito. Come aveva potuto dubitare delle intenzioni della ragazza visto il modo in cui gli si era presentata all’improvviso, come un sogno divenuto realtà, malgrado il tempo trascorso? Eppure, e ciò non fece che farlo sentire ancora più miserabile e indegno, non aveva esitato a trattarla con tutto l’astio di cui era capace. Non poteva darle torto se adesso preferiva andare da madame Giry, su, nel mondo di sopra, laddove la tenebra del Fantasma non avrebbe potuto raggiungerla; evidentemente tutto ciò che lui poteva offrirle era un animo marcio e distorto, di cui lei non si sarebbe fatta niente.

Continuò a piangere, incapace di fermarsi, come se ormai fosse impossibile arginare la diga che aveva inevitabilmente rotto. Basta maschere, almeno in casa sua, basta.

Non aveva idea di quanto tempo fosse rimasto immobile, in balia di lacrime amare che non volevano saperne di lasciarlo in pace e che aggiungevano la vergogna alla già lunga lista di peccati e difetti di cui si era macchiato; ora che il pianto si era placato, che il suo respiro e i battiti del suo povero cuore stremato erano tornati ad un ritmo, se non proprio tranquillo, almeno meno agitato, poté cullarsi in quel gelido silenzio che avvolgeva l’intera Dimora sul Lago, rotto soltanto dal fruscio dell’acqua che si infrangeva sulla sponda o contro il legno della sua gondola che ancora dondolava dall’altro lato dell’inferriata.

Chissà se Giulia si era addormentata; il laudano doveva aver già fatto effetto. Si alzò suo malgrado a fatica, poggiandosi al muro per permettere alle proprie gambe di riacquistare una normale circolazione sanguigna ostacolata dalla sua forzata immobilità, e quando si ritenne in grado di poter camminare senza barcollare come un ubriaco percorse gli scalini che lo avrebbero condotto alle stanze da letto. Cercò di evitare, per quanto possibile, di camminare nuovamente su tutti quei cocci, e prese mentalmente nota di sistemare quello sfacelo, più tardi; forse, se avesse visto la sua casa di nuovo riassettata, Giulia avrebbe ripreso in considerazione la sua idea di andarsene da lì…

Imprecò a mezza voce contro se stesso; non sarebbe di certo bastato un po’ d’ordine per chiarire i grossi fraintendimenti che c’erano stati tra loro.

Sospirò; poi, con immensa cautela, abbassò la maniglia della propria camera e si affacciò al suo interno, cercando di non fare rumore per non disturbare il sonno della ragazza… Ma lei non stava dormendo. Al contrario, Giulia era completamente sveglia, seduta sul letto con le gambe oltre il bordo e già mezzo rivestita: aveva indossato un paio di vecchi pantaloni che lui non utilizzava più – erano diventati troppo piccoli – e si stava allacciando i bottoni di una camicia che era palesemente troppo larga e lunga per essere portata da una donna. Notò con la coda dell’occhio che la sua cassettiera era stata aperta, ma non lo disturbò tanto che lei avesse frugato tra la sua roba come se fosse in suo diritto farlo – anzi, l’idea gli risultava stranamente piacevole – quanto piuttosto il fatto che sembrasse in procinto di andar via.

«Vai da qualche parte?» Le chiese tornando alla precedente freddezza, facendola sobbalzare e voltare rapidamente verso la porta sulla cui soglia egli era rimasto fermo. Evidentemente non si era accorta della sua presenza.

«Sto soltanto togliendo il disturbo», replicò la ragazza, riabbassando nuovamente gli occhi e lottando con un minuscolo bottone che pareva non avere nessuna intenzione di infilarsi nella sua asola; anche lo sguardo di Erik venne attirato da quel dettaglio, prima che la sua coscienza gli fece notare le morbide curve che vi erano appena al di sotto di quella vecchia camicia.

«E come pensi di andar via? La grata è ancora abbassata. Ci tieni davvero tanto ad immergerti di nuovo nel lago? Con quella ferita, poi?» Ribatté lui, entrando definitivamente nella stanza e chiudendo la porta alle sue spalle. La chiave ruotò nella serratura in perfetto silenzio, ed Erik la fece sparire in una tasca dei propri calzoni prima che Giulia potesse accorgersene. Malgrado tutti i suoi buoni propositi, i suoi ragionamenti, le sue riflessioni, non poteva semplicemente lasciare che se ne andasse senza provare a fermarla o a farsi perdonare – era quasi sicuro che non l’avrebbe più vista, se avesse lasciato che le cose prendessero quella piega.

«Suppongo che non mi accompagnerai, quindi», fece lei, con un sibilo irato. Gli lanciò un’occhiataccia, ma subito preferì lasciar perdere; era inutile discutere con chi non voleva sentir ragioni. «Non importa, rammento la strada.» Ciò detto, abbandonò il letto e si sforzò di mettersi in piedi, aggrappandosi dapprima alla colonnina del baldacchino e accennando qualche passo che la fece lacrimare dal dolore: la ferita era ancora fresca, e anche se poggiava solo la punta o il tallone per terra le fitte erano atroci. Si sforzò comunque di non lasciar trapelare quella sofferenza dalle sue espressioni, e raddrizzando la schiena fissò Erik dritta negli occhi. Seppure l’assenza della maschera l’aveva sorpresa, così come il suo pallore e le ombre lasciate dal pianto, finse di non accorgersene per non cedere alla tentazione di intenerirsi.

«Spostati, Erik. Per favore», chiese, con un tono che sapeva più di ordine che non di gentile richiesta.

Tuttavia, l’uomo scosse la testa e non si mosse di un solo millimetro. «Non sei in condizione di andare da nessuna parte, Giulia», disse piano, assottigliando gli occhi. «Ritorna a letto prima che la ferita si riapra.»

«Non fingere che te ne importi qualcosa!» Sbottò lei, incespicando leggermente ma riuscendo subito a recuperare l’equilibrio. «A quanto pare non sono più bene accetta in casa tua, come dimostra il modo in cui hai ridotto la mia stanza. Non che mi dispiaccia più di tanto, in effetti, dato che così ho la scusa per non indossare più quegli scomodi abiti», non riuscì a fare a meno di aggiungere, sarcastica. «Ma non ho intenzione di rimanere un minuto di più insieme a qualcuno che si fida così poco di me da accusarmi per il minimo passo falso, e che pretende di trattarmi come una bambina da comandare a bacchetta!»

Tacque un momento per prendere fiato, ma Erik la vide chiaramente volgere il viso di lato per asciugarsi un occhio umido. Stava piangendo anche lei? Non ebbe tempo di approfondire, perché subito Giulia riprese la parola. «Jean-Louis aveva ragione, non sarei dovuta tornare», aggiunse amaramente, a bassa voce. «Ma ormai ci sono, e non sprecherò gli ultimi momenti in quest’epoca rinchiusa inutilmente in un sotterraneo! Quindi, se tu non mi vuoi accompagnare da madame Giry, almeno fatti da parte e lascia che ci vada da sola.»

Senza distogliere un solo istante gli occhi da lei, Erik scosse piano la testa. «No», mormorò, la voce improvvisamente roca. «Non voglio… Non te ne andrai», continuò più risoluto, pronto a trattenerla con la forza se l’avesse ritenuto necessario.

La ragazza lo fissò con uno sguardo truce, benché le lacrime le stessero ormai rotolando lungo le guance prive di freni. «Maledizione, Erik!» Esplose con un singhiozzo, picchiando il duro legno della colonnina. «Perché fai così? Prima sembrava che non mi volessi più, che non sopportassi neppure il mio tocco! Mi ha fatto male, ma ho deciso che mi sarei rassegnata all’idea; cos’è che ti ha fatto cambiare opinione nell’arco di mezz’ora?»

Privo della sua maschera, Erik non era più il Fantasma dell’Opera, né nessun altro dei numerosi titoli che si era guadagnato nel corso della sua esistenza; privo della sua maschera, era solamente lui, solamente un uomo, misero, triste, distrutto, ma pur sempre un essere umano, se così si poteva definire. Ma né un nome, né tantomeno un banale travestimento potevano privarlo del suo talento, del suo genio, della sua musica – quella sarebbe stata con lui per sempre, non l’avrebbe mai tradito, né abbandonato, né lasciato solo… Per questo motivo, improvvisamente, lasciando perplessa la sua ospite, si mise a cantare. La voce gli uscì dalle labbra dischiuse con fare esitante, quasi temesse di non esserne più in grado; ma cantare era, per lui, naturale, come per gli altri membri dell’umanità lo era respirare, sicché la sua incertezza durò lo spazio di un battito di ciglia, e prima che se ne accorgesse davvero la sua voce aveva preso corpo, spessore, ed ora eccola là a spiccare il volo costretta nel piccolo spazio di una camera da letto sotterranea – per sempre strappata alla gloria di un palcoscenico e di un pubblico acclamante.

 

    Ah sì che feci! ne sento orrore.
    Gelosa smania, deluso amore
    Mi strazia l'alma, più non ragiono.
    Da lei perdono - più non avrò.
    Volea fuggirla non ho potuto!
    Dall'ira spinto son qui venuto!
    Or che lo sdegno ho disfogato,
    Me sciagurato! - rimorso n'ho…

 Non occorreva di certo un genio per comprendere che quello era il modo di Erik di chiedere perdono; e per quanto ella desiderasse con tutta se stessa, davvero, di potersi lasciar andare nell’abbraccio dell’uomo, c’era sempre la convinzione che non potessero bastare poche strofe cantate abilmente per farla capitolare, non poteva essere giusto se fosse stato così facile! Si ritrovò a sedere di nuovo sul letto, incapace di reggersi oltre sulle gambe – mantenersi in equilibrio su un piede solo, per quanto aggrappata a qualcosa, poteva rivelarsi difficile e faticoso – e con una mano si asciugò le lacrime dal viso, scuotendo piano la testa.

«Metti costantemente in dubbio ciò che provo, mi metti alla prova per un nonnulla, e poi credi che ti basti chiedere perdono per sistemare ogni cosa…» Mormorò senza guardarlo, le mani strette in grembo le cui dita si torturavano a vicenda. «Posso passarci sopra ora, in fondo sono tornata per stare con te, ma poi so che domani sarà di nuovo come prima, accadrà qualcosa che ti farà infuriare e io ne pagherò le conseguenze. Cosa devo fare con te, Erik? Cosa devo fare…» La sua voce si spense in un singhiozzo. La stanchezza iniziava ad appesantirle le spalle, quel maledetto laudano le era entrato in circolo e aveva acuito ancora di più la sua confusione. Tutto ciò che ora desiderava era chiudere gli occhi e dormire, ma sapeva anche di non poter lasciare la discussione a metà.

Senza sollevare lo sguardo, udì i passi di Erik colmare lo spazio tra la porta e il letto e avvicinarsi a lei, lenti, incerti, ma tuttavia determinati. L’uomo le si inginocchiò davanti come aveva fatto poco prima per medicarla, mentre adesso il suo aspetto somigliava di più a quello di un pellegrino che si genufletteva di fronte al santo al quale si era votato. Le prese le mani tra le sue, le strinse, se le portò al volto e le premette contro le proprie labbra, carne contro carne; senza quel maledetto arnese a coprirgli metà faccia, infatti, poteva finalmente sentire calore sotto il suo tocco al posto del gelido materiale che componeva la sua maschera. Una vera sfortuna che adesso Giulia non avesse nessuna voglia di indugiare in carezze.

«So di non avere alcuna scusante», ammise piano, con prudenza; nei suoi occhi, il suo solito fuoco ora appannato dal pianto continuava ad ardere instancabile, divorando le iridi castane della giovane. «Quando Christine mi abbandonò, preferendo il visconte a me, giurai che mai, mai sarei caduto di nuovo in una simile trappola finché avessi avuto fiato in corpo. Che senso aveva consumarmi per un sentimento che non sarebbe mai stato ricambiato a causa di ciò che sono? Per un breve periodo credetti che ci sarei riuscito: avevo vissuto talmente a lungo in solitudine, che in fondo non poteva essere così terribile concludere in quel modo il tempo che mi sarebbe rimasto. Poi sei arrivata tu…»

Le lacrime inumidirono l’effimero sorriso che raggiunse le labbra di Erik, e che sparì senza giungere agli occhi. Ritornato serio, accentuò leggermente la stretta sulle mani della ragazza. «Non sai quanto ho lottato contro me stesso per cercare di seppellire i sentimenti che hai riportato a galla con l’andare avanti della nostra conoscenza. Mi sono maledetto, mi sono insultato, mi sono preso gioco della mia debolezza, e quando infine ho accettato di volerti più della stessa aria non mi restava che cercare di comprendere se questa era l’ennesima punizione infertami da Dio oppure un modo per farsi perdonare. Quando hai scoperto chi ero e l’hai semplicemente accettato, così, senza urlare né accusarmi o cercare di fuggire da me, ho creduto che tu fossi l’assoluzione da tutti i miei peccati… Ma poi, quando te ne sei andata, quando sei sparita per più di un mese, mi sono odiato per essere caduto nuovamente vittima dello stesso inganno – come avevo potuto credere che potesse esserci il perdono per uno come me? La tua assenza mi ha reso folle, e anche il tuo ritorno improvviso, ma solo perché questo non coincideva con tutto ciò di cui mi ero convinto. Riesci a comprendere la mia reazione, adesso? Puoi perdonarla?»

La luce della lampada creava macabri giochi di ombre sul suo volto sfigurato, ma ella ormai si era abituata al suo aspetto e non era di quello che aveva paura o disgusto: quello che temeva era il suo animo vendicativo, la sua mente fredda e calcolatrice, il suo istinto di distruzione e catastrofe, la sua tendenza al dramma e la sua scarsa fiducia nei confronti del genere umano. Ma ciò che la intimoriva ancor più di tutto questo era l’uso ch’egli faceva della sua voce, della sua splendida voce suadente e profonda, capace di minacciare e terrorizzare prima e commuovere e adorare poi. Sì, quella voce era la sua rovina, così come le sue lacrime, che ad ogni minuto che passava la legavano sempre di più a lui e al suo destino, senza lasciarle possibilità alcuna di scampo!

Giulia chiuse gli occhi e inspirò piano, sforzando di calmare i nervi e di placare la propria rabbia. Per l’ennesima volta, Erik le aveva messo ai piedi il suo immenso e sconfinato amore, e la stava implorando con tutta l’umiltà di cui era capace di comprenderlo e accettarlo… No, di amarlo a sua volta, come le aveva ringhiato poco prima.

Senza dire una sola parola, mentre le lacrime andavano via via asciugandosi sulle sue gote pallide, Giulia circondò il viso di Erik con entrambe le mani, accarezzando gentilmente la sua pelle gelida con i polpastrelli delle dita. Si chinò su di lui, posando la propria fronte sulla sua e rimanendo in quella posizione per lunghi e interminabili secondi; poi, per evitare che il suo comportamento venisse nuovamente frainteso, si allontanò dall’uomo il tanto sufficiente da poter posare le labbra su ogni centimetro del suo volto, sulle palpebre socchiuse e tremanti, sulla guancia morbida e su quella piagata, sulla punta del naso, agli angoli della bocca. Spostò le mani e le intrecciò dietro la sua nuca, affondandole tra i suoi capelli corvini, e così facendo lo avvicinò più vicino a sé e finalmente fece incontrare le loro bocche.

Erik tremò, sorpreso, incapace per un attimo di reagire. Ma poi le sue labbra risposero allo stimolo, il suo respiro si fece affannato, dalla sua gola provenne un gemito che non era di dolore e le sue mani si sollevarono fino a circondare la vita della giovane e aggrapparsi alla sua camicia, percependo il piacevole calore che emanava il suo corpo solido e vivo contro il proprio. Si rese conto solo in quel momento di quanto gli fosse mancato l’ardore bruciante di quei baci, la sensazione di bere il suo respiro, l’inalare il profumo della sua pelle e toccare quel corpo, sensuale tentatore, con carezze brevi e ancora istintivamente esitanti, velate dal timore di potersi risvegliare bruscamente come ormai accadeva da un mese a quella parte, quando gli capitava di sognare di stringerla a sé e non farla più andare via.

Mormorò il suo nome o forse credette soltanto di farlo, giacché le loro labbra erano premute con troppa forza le une contro le altre per permettere al suono di venire udito. Baciò, leccò e mordicchiò quella carne tenera e morbida beandosi dei gemiti e degli ansiti che le strappava, e continuò così, mai sazio, fin quando non fu lei ad allontanarlo, posando le mani sulle sue spalle e la fronte contro la sua.

«Io ti amo, Erik», mormorò piano. «Solo che non ero pronta a dirtelo un mese fa.»

Vide il volto dell’uomo impallidire, gli occhi dorati sgranarsi appena dallo smarrimento, e calde e pesanti lacrime cadere da essi e colare fino al mento, silenziose: non riuscì a parlare, sopraffatto com’era da quella rivelazione; egli poi seppellì il proprio viso nel suo grembo e pianse, dapprima con una sorta di pacatezza, poi le sue spalle vennero scosse dai singulti e allora prese a singhiozzare di cuore, come un bambino, mentre lei gli accarezzava i capelli e sussurrava parole di conforto, proprio come aveva fatto nei suoi sogni. Sfogò così tutto l’odio e il rancore e la tristezza che aveva accumulato in quel terribile mese di solitudine, dimenticò il macigno che gli aveva oppresso il petto e si concesse finalmente l’ardire di sperare che adesso lei non lo avrebbe mai più lasciato. Era tornata per lui, aveva pianto per lui, lo aveva baciato, gli aveva detto persino che lo amava – come poteva resistere il suo povero cuore senza scoppiare, traboccante di gioia?

Le prese nuovamente le mani tra le sue, le sollevò davanti al proprio viso e ne baciò le nocche, i palmi, ogni singolo dito, mischiando lacrime e carezze, il tutto sotto lo sguardo commosso ed emozionato della ragazza, che non trovava più le parole per esprimere quanto provava in quel momento.

«Io… ah… mi manca il fiato…» Bisbigliò Erik, balbettando quasi e accennando un sorriso di scuse. «Mi dispiace, vorrei dirti che… non so… Oh, Dio, come si può provare tanta felicità e rimanere in vita?»

Per tutta risposta Giulia ricambiò il sorriso e si inchinò per abbracciarlo nuovamente, seppellendo il viso sulla sua spalla e inspirando il suo profumo, sperando così di far cessare le lacrime di entrambi. Chiuse gli occhi e mormorò il suo nome, assaporandolo sulla punta della lingua, continuando a stringerlo per timore che svanisse e tutto quello si rivelasse soltanto l’ennesimo sogno. Le parve che lui le stesse dicendo qualcosa mentre le affondava le dita tra i capelli, ma non riuscì a decifrare le parole – tutta la stanchezza che aveva accumulato le piombò addosso con forza, i suoi nervi cedettero e crollò, addormentandosi o perdendo conoscenza contro il petto dell’uomo che, finalmente, aveva ammesso di amare.
















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Angolo Autrice.
Capitolo difficile - ma che dico difficile? Difficilissimo! - da scrivere e da concludere, ci ho proprio sudato sette camicie... Spero di averne tirato fuori qualcosa di decente, se non altro, anche se il finale lo trovo un po' troppo insipido! D: Odio i finali, i miei perlomeno >_<
Coomunque. Le cose sembrano essersi risolte per il meglio, o perlomeno così è per il momento... Ma, visto che siamo ancora un po' lontanucci dalla fine, chi lo sa che cosa potrebbe accadere ancora - o meglio, io lo so, ma non ve lo dico U_U sennò che gusto c'è?
Ringrazio Ellyra per la splendida recensione - scusa se non ti ho risposto, mi sono completamente dimenticata ^^; - e tutti quelli che hanno letto lo scorso capitolo e che continuano a seguirmi silenziosi! Davvero mille grazie, ricordatevi sempre che se riuscirò a mettere la parola "Fine" a questa storia sarà solo ed esclusivamente merito di voi lettori! :)
Non ho altro da dichiarare, se non che il prossimo capitolo è in fase di lavorazione ma che non prometto tempi brevi, stavolta - perdonatemi, vedrò cosa riesco a fare! Voi attendete fiduciosi come sempre, l'attesa sarà premiata :D E adesso vi lascio, una buona serata a tutti, ci sentiamo presto!
Con tanto, tantissimo affetto, sempre io, la vostra
Niglia.

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Capitolo 36
*** 34. Oui, c'est toi, je t'aime ***


Chapitre 34

Oui, c’est toi, je t’aime

 

 

 

 

 

 

 

Oui, c'est moi, je t'aime,
Oui, c'est moi, je t'aime,
Malgré l'effort même du démon moqueur,
Je t'ai retrouvée; je t'ai retrouvée,
Te voilà sauvée; te voilà sauvée,
C'est moi! Viens, viens, sur mon coeur!
*

 

    Era da tempo che non le capitava di sognare. Ultimamente il suo era stato un sonno agitato, nervoso, che la faceva risvegliare tremante e con le guance bagnate nel cuore della notte senza che riuscisse a ricordare quale strano incubo l’avesse fatta reagire in quel modo. Aveva attribuito quella mancanza di serenità al modo in cui aveva lasciato Erik – e, riflettendoci tra sé e sé, riconosceva di aver sbagliato ad andarsene in quel modo, benché a lui avesse detto il contrario, e anche se le cose tra loro sembravano essere state chiarite non riusciva a fare a meno di sentirsi ancora in colpa – e dunque ci aveva fatto l’abitudine, limitandosi a cercare una serena incoscienza tramite le pastiglie di sonnifero che le aveva prescritto il dottore. Quella notte, tuttavia, mentre dormiva nel letto di Erik, avvolta dal suo buon odore rassicurante, per la prima volta dopo settimane riuscì a riposare, e la sua mente quieta produsse un ben strano sogno.

 

    Non riconosceva il luogo nel quale si trovava: a prima vista, poteva sembrare una banale soffitta.

    La sua se stessa onirica si stava dirigendo con passi silenziosi e decisi verso un piccolo scrigno posato su una vecchia cassapanca polverosa, facendo ben attenzione a che le travi del pavimento non scricchiolassero al suo passaggio.

    Si inginocchiò di fronte alla madia e vi posò sopra la candela che aveva portato con sé, e che a malapena schiariva la densa oscurità del sottotetto.

    Diede una rapida occhiata alle sue spalle, quasi temesse che qualcuno l’avesse seguita; appurato invece di essere sola, tirò fuori dalla tasca della lunga vestaglia da notte una piccola chiave d’ottone che venne poi infilata nella serratura dello scrigno. Esso si aprì con un lieve scatto, facendola sussultare.

    Aveva nascosto lassù quel cofanetto quattro anni prima: che cosa si aspettava di trovarci, al suo interno?

    Eppure, ecco che i suoi piccoli tesori apparvero alla luce della candela, come se fossero stati messi là dentro non più tardi del giorno prima. A prima vista non sembravano che semplici cianfrusaglie prive di significato, ma lei conosceva la storia di ciascuna di esse.

    Erano i ricordi della sua vita al teatro. Ricordi che, per amore di suo marito, aveva dovuto fingere di aver cancellato il giorno del suo matrimonio. E invece rieccoli lì, pronti a perdonarla, a diventare di nuovo parte di lei!

    Con dita gentili e tremanti, ella tirò fuori dalla scatola i guanti bianchi con ricami dorati che aveva indossato durante un ballo in maschera, e che erano stati un regalo di madame Giry, la donna che l’aveva praticamente cresciuta; se li portò al naso e annusò il tessuto, ritrovando ancora un’ombra del profumo che vi aveva spruzzato prima di metterli.

    Fu, poi, il turno di una vecchia coroncina di fiorellini di stoffa dalla quale pendeva un morbido tulle irrimediabilmente rovinato dalle tarme e appena ingiallito ai bordi. Era un velo da sposa, che tuttavia non era mai stato indossato – non per un matrimonio, comunque.

    Con una fitta dolente al cuore la donna se lo strinse al petto, mentre gli occhi le pungevano nello sforzo di non piangere.

    In fondo al baule, quasi nascosta, giaceva quella che un tempo era stata una bellissima rosa rossa, e che adesso non era che un vecchio fiore grigio e rinsecchito.

 

 

*

 

 

    Quando Giulia aprì gli occhi, il mattino dopo, si ritrovò nel letto a baldacchino di Erik, da sola; eppure egli non doveva essersi alzato da molto, giacché le lenzuola dalla sua parte del talamo erano ancora tiepide. Il sogno era ormai un confuso miscuglio di immagini incomprensibili, che tuttavia la lasciò con una strana sensazione di malinconia e amaro in bocca che non seppe spiegarsi. Rimase a crogiolarsi con indolenza sotto le coperte per qualche minuto, godendo del calore e del profumo dell’uomo – misto stranamente a qualcosa di più floreale che non riusciva bene ad individuare – che l’avvolgeva piacevolmente: era davvero tornata, ancora stentava a credere di esserci riuscita e, soprattutto, che ogni cosa si fosse risolta per il meglio.

    Fu una fitta al piede, ancora indolenzito, a rammentarle lucidamente la situazione. Non poteva rimanere ancora a letto a poltrire, aveva un urgente bisogno di lavarsi e togliersi tutta la sporcizia di dosso; adesso che gli ultimi residui di sonno erano svaniti, iniziava a vergognarsi di aver dormito per tutta la notte nelle lenzuola pulite e accanto a Erik, quando probabilmente aveva ancora addosso l’odore dell’acqua del lago mista alla polvere che aveva raccolto un po’ dappertutto. Doveva essere più sconvolta e stanca di quanto avesse creduto, se si era addormentata in quelle condizioni.

    Si tirò su a sedere, stropicciandosi le palpebre e mettendo a fuoco l’ambiente circostante. Erik doveva aver spento la lampada per permetterle di dormire a lungo senza che la luce la disturbasse, e ciò le strappò un piccolo sorriso: come aveva fatto a non accorgersi prima di quanto l’uomo fosse sempre stato così premuroso nei suoi confronti? Sporgendosi oltre il bordo del letto per accendere di nuovo il lume e dissipare il buio, poté notare sul comodino una splendida rosa rossa listata di nero che spiegava l’odore che aveva sentito svegliandosi, posata scrupolosamente sopra una breve nota del cui autore Giulia non nutriva dubbi.



    Ieri notte sono stato un pessimo padrone di casa, dunque cercherò di rimediare.
    Ho preparato la stanza da bagno in modo che tu possa trovarci tutto ciò di cui hai bisogno, puoi usare la mia perché preferisco non pensare in che condizioni può essere la tua; ho anche recuperato i tuoi stivali dalla barca, sono accanto alla poltrona – dove troverai anche gli unici abiti che purtroppo sono in grado di darti, visto che gli altri sono andati… distrutti. Ho visto che gli indumenti maschili ti calzano a pennello, spero non ti dispiaccia se per oggi ti fornisco questi – provvederò il prima possibile a cercarne di più adatti.
    Esco per delle commissioni, ma tornerò presto.

Tuo,
Erik.

    Il tratto quasi tremulo, palesemente diverso dal modo in cui era stato scritto il resto della lettera, di quell’ultima parola, quel piccolo aggettivo, quel semplice tuo, fece sorridere di tenerezza la giovane. Eppure uno strano pensiero le attraversò la mente, indesiderato e fastidioso: sarebbe forse giunto qualcosa, adesso, a turbare quella fragile armonia? Sforzandoci di non pensarci, la ragazza scivolò giù dal letto, mantenendosi in precario equilibrio su di una gamba sola e poggiando solo la punta del piede ferito sul pavimento, per evitare di strappare i punti. Barcollando raggiunse il piccolo bagno attiguo, che Erik aveva peraltro già preparato – un braciere posto al centro della stanza aveva reso l’ambiente caldo e ospitale, facendo inoltre sì che l’acqua all’interno della vasca in rame non si raffreddasse – e, chiudendosi dentro, procedette a restituirsi un aspetto più decente.

 

    Quando Erik tornò nella dimora sotterranea, qualche ora più tardi, trovò Giulia intenta a raccogliere i vari cocci di vetro e ceramica che giacevano sparpagliati un po’ dappertutto sul pavimento, e a metterli su un piccolo telo steso per terra accanto a lei. Tale visione ebbe il duplice effetto di imbarazzarlo e irritarlo, giacché si vergognava di averla dovuta accogliere con la ‘casa’ in quelle condizioni e soprattutto non tollerava di vederla ripulire come una qualsiasi domestica il disastro che aveva fatto lui; inoltre non avrebbe dovuto lasciare il letto, dannazione, con quell’orribile ferita ancora fresca!

    Tuttavia, quando ella lo udì scendere dalla gondola e avvicinarglisi a grandi passi, sollevò lo sguardo dal suo lavoro e gli sorrise, in un modo così spontaneo e affettuoso da lasciarlo per un attimo disorientato, privandolo persino della parola. Sgridarla per la sua incoscienza era, adesso, decisamente impensabile. Lasciò subito ciò che stava facendo e si alzò in piedi con relativa facilità, aggrappandosi al bracciolo di una poltroncina e passandosi una mano sui pantaloni impolverati. «Ho pensato che sarebbe stato meglio far sparire i frammenti di vetro, sai, per evitare altri incidenti come quello di ieri sera», disse, accennando con la mano al pavimento.

    Erik le passò un braccio intorno alla vita per sostenerla, lasciandosi andare ad un sospiro imbarazzato mentre le sfiorava la fronte con le labbra in un fugace saluto. Sembrava non essere ancora del tutto a suo agio con quell’improvvisa svolta degli eventi. «Suppongo non fosse così che ti aspettavi il tuo ritorno… Mi dispiace che tu abbia dovuto assistere alla mia follia», mormorò senza guardarla.

    «È tutto passato, Erik, non parliamone più», propose la ragazza, voltandosi completamente verso di lui e circondandogli i fianchi con le braccia in un gesto estremamente semplice ed istintivo che l’uomo non si aspettava. «Posso chiederti dove sei stato o sarei troppo invadente?»

    «Assolutamente no, puoi chiedermi tutto quello che desideri sapere. Sono andato a parlare con Bamdad per informarlo che è tempo che io riprende ad occuparmi della direzione del teatro, dato che ho trascurato i miei doveri troppo a lungo», le spiegò semplicemente, sistemandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Non aveva dato alcuna spiegazione al suo segretario, invece, sui motivi che lo avevano spinto a riprendere il controllo dell’Opèra, perché – sembrava tremendamente sciocco, sì – per il momento non voleva che nessun altro sapesse del ritorno di mademoiselle Sanders; era un qualcosa che voleva tenere per sé ancora per un po’, come se raccontarlo a qualcuno avrebbe rovinato la serenità dei momenti che potevano finalmente trascorrere insieme. Inutile dire che era meglio tenerne all’oscuro anche madame Giry, se si voleva evitare che la donna si precipitasse nei sotterranei solo per vedere con i suoi occhi la sua pupilla.

    Lei si era distratta per un attimo, inseguendo chissà quale pensiero, e fu Erik a riscuoterla da esso sfiorando gentilmente la punta del suo naso. «Che cosa c’è?» Chiese, cercando di celare la preoccupazione; al suo fianco aveva l’impressione di camminare sulle uova, come se un singolo, minuscolo passo falso potesse distruggere quello che faticosamente sembrava essersi ricreato tra loro.

    «Hai detto che posso chiederti qualsiasi cosa?» Domandò la giovane in attesa di conferma, inarcando un sopracciglio.

    Lui aggrottò a sua volta la fronte, accennando un sorriso. «Sì, certo. Qualsiasi cosa.»

   Giulia sospirò, e sollevò le mani a giocherellare con i bottoni della sua giacca. «Allora, Erik, ti prego… Non indossare questa maschera quando sei con me», disse piano, temendo la reazione dell’uomo a quelle sue parole.

    Tuttavia Erik non si arrabbiò a quella richiesta; al contrario, essa sembrò averlo colto di sorpresa, e il suo sguardo, quando si riposò sulla ragazza, sembrò quello di un bambino smarrito. Dopotutto, era la prima volta che qualcuno lo pregava di scoprirsi il volto senza l’intenzione di prendersi gioco di lui. Scacciando via quegli odiosi spettri della sua infanzia che non avrebbero smesso un solo giorno di perseguitarlo, Erik sospirò. «È l’abitudine», rispose, assumendo il suo stesso tono di voce. Poi dalle sue labbra fuoriuscì una debole confessione che mai essere umano ebbe l’occasione di sentire, né prima né tantomeno in seguito. «Mi fa sentire… al sicuro

    Ella lo comprese, e non volle forzare la mano – ogni cosa a tempo debito; però volle lo stesso che lui sapesse che cosa ne pensava. «Mi da l’impressione che tu voglia mettere una sorta di distanza tra me e te», mormorò, lasciando che un dito vagasse sul profilo del suo volto scoperto. «Sembra una barriera… Ma non importa, davvero. La toglierai quando ti sentirai pronto. So aspettare», concluse con un sorriso.

    Erik le lasciò un breve bacio sulle nocche della mano, un bacio che significava gratitudine; poi sospirò e cambiò discorso, portando entrambi su un terreno meno delicato. «È strano… vederti di nuovo qui», mormorò, scrutandola da sotto le ciglia scure.

    «Sì, è strano anche per me», replicò lei, stringendogli una mano come a volerlo tuttavia rassicurare sulla sua reale presenza. «Ma credo che sia questo il posto dove devo stare, alla fine.»

    Gli occhi di Erik si riempirono di una rara emozione. «Qui, con me?» Domandò piano, quasi come se temesse malgrado tutto una risposta negativa – sembrava non volersi cullare nella speranza fino all’ultimo.

    Giulia scrollò le spalle, leggermente imbarazzata. «Se mi vuoi ancora…» Rispose, con un mezzo sorriso.

   Egli sorrise a sua volta, sfiorandole il mento con due dita e avvicinandosi a lei fino ad arrivare a baciarla stavolta con estrema gentilezza, memore di quell’altro bacio che aveva rovinato ogni cosa, tra loro. «Ti vorrò sempre», ribatté in un sussurro, lambendo le sue labbra con le proprie.

    Quel giorno, Erik le impedì di toccare oltre un solo spillo, comportandosi come il più perfetto dei padroni di casa. Si trasferirono in una stanza miracolosamente intatta che fungeva da sala da pranzo, e lì l’uomo servì verdure cotte insieme a paté di selvaggina per antipasto, filetto di tacchino e salsa di funghi insieme a un contorno di uova sode tagliate a fette come prima portata, accompagnate da dell’ottimo vino rosso di cui Giulia aveva già scordato il nome, e per finire come dessert un dolce alle mandorle che Erik aveva orgogliosamente chiamato Galette des Rois. Non era la prima volta che pranzavano insieme, ma stavolta l’atmosfera era diversa: difatti, alla luce delle ultime rivelazioni, quel piccolo spaccato di vita quotidiana sembrava una piacevole finestra sul futuro qualora la loro relazione venisse infine portata alla luce del sole… Poi parlarono, parlarono tanto e risero persino, soprattutto quando Erik le chiese di descrivergli il mondo dal quale proveniva e lei inciampò nelle parole per la fretta e l’entusiasmo di illuminarlo su concetti che un uomo dell’Ottocento non avrebbe mai potuto immaginare, neppure nei suoi sogni più sfrenati. Erik beveva ogni sua parola, e si sarebbe anche dimenticato di mangiare se lei, di tanto in tanto, non l’avesse spronato ad assaggiare questo o quello, con lo stesso tono e lo stesso sguardo che avrebbe avuto una sposa amorevole.

    Quando terminarono di pranzare si trasferirono in un’altra stanza, una sorta di sala della musica. Qui, al posto dell’immenso organo che troneggiava nel salone principale, si trovava un antico clavicembalo – che sarebbe stato un pezzo da museo anche per quell’epoca – e che Erik dimostrò di saper maneggiare in modo altrettanto eccellente degli altri numerosi strumenti che già padroneggiava. Giulia riconobbe l’aria che egli stava suonando – si trattava del quarto atto del Faust di Gounod – e senza quasi pensarci dischiuse le labbra e iniziò a cantare, raggiungendo Erik alle spalle e poggiandovisi serenamente.

     Ah! C'est la voix du bien aimé!
    À son appel mon coeur c'est ranimé!

     Erik non si lasciò sfuggire l’occasione, e poiché conosceva a memoria il libretto di quella che era una delle sue opere predilette, si unì all’esibizione della giovane con un rinnovato entusiasmo e una passione per quell’attività che non gli capitava di provare da quando, in effetti, lei era scomparsa. Quando l’aria fu conclusa, entrambi respiravano a fatica come dopo una lunga corsa. Eppure entrambi sorridevano, e quando Erik si voltò verso di lei, prendendole le mani per attirarla giù, verso di sé, baciarla fu normale come se non avesse fatto altro in tutta la sua vita. Baciò le sue labbra, si perse nella sua bocca, infilò le mani tra i suoi capelli, la tirò dolcemente fin quando Giulia non fu costretta, per non perdere l’equilibrio, a sedersi sulle sue ginocchia e ad allacciare le braccia dietro il collo dell’uomo, ricambiando le sue attenzioni.

    Prima che la situazione si evolvesse e proseguisse oltre, tuttavia, Erik interruppe il bacio. Le accarezzò le labbra con un’espressione così carica di amore e desiderio insieme da farla rabbrividire d’aspettativa, mentre allo stesso tempo cercava di placare il cuore che sembrava volerle uscire dal petto. Senza distogliere gli occhi dai suoi, Erik sollevò una mano e raggiunse la maschera… e, senza indugiare oltre, se la levò dal viso.

    «Mi sento al sicuro anche senza, adesso», disse piano, sottovoce. Giulia comprese perfettamente il significato di quelle parole, e non ne trovò altre per replicare ad una simile dimostrazione di fiducia e amore da parte sua; si limitò a sorridere, e si accorse di piangere solo quando le dita dell’uomo le asciugarono le lacrime dalle guance, con la stessa devozione del pellegrino che sfiora la statua del proprio santo. Fu lei allora a baciarlo, come la notte precedente, su ogni lembo della carne piagata del suo volto; ma mentre la notte prima l’assenza di maschera era dovuta alla follia e alla disperazione e a chissà cos’altro era passato nel suo animo, stavolta il suo essere scoperto davanti a lei era una scelta del tutto deliberata.

    Giulia lo desiderava così tanto che un’ulteriore attesa l’avrebbe uccisa. Dopo l’ennesimo bacio si chinò dunque e gli sussurrò qualcosa all’orecchio, e tali parole, qualsiasi esse fossero, strapparono all’uomo uno strano verso che era metà singhiozzo e gemito. La fissò incredulo, senza fiato, ma ciò che vide nella sua espressione dovette rassicurarlo, perché sorrise a sua volta, seppur con un certo nervosismo. Si alzò dallo sgabello e le porse la mano con un gesto galante, senza riuscire a distogliere lo sguardo da lei neppure per aprire la porta e fare strada verso la camera da letto: le loro dita erano intrecciate e camminavano così vicini che i loro respiri erano diventati uno solo.

    La stanza era in perfetto ordine, come Giulia l’aveva lasciata quella mattina. All’improvviso Erik si era bloccato sulla soglia, così fu lei a trascinarlo gentilmente e con un’espressione carica di promesse all’interno della camera, verso l’enorme talamo, dove infine fece sedere entrambi. «Dio, Giulia… Ti amo», le sussurrò lui quasi con disperazione, circondandole il viso con le mani prima di baciarla per l’ennesima volta. «Ti amo quasi troppo per una sola vita», aggiunse, chino su di lei, sulla sua bocca.

   Lei sorrise, gli occhi ancora leggermente umidi e le guance improvvisamente arrossate. «Mi dispiace non aver capito prima che anche io ti amo così tanto», replicò a sua volta, le labbra così vicine a quelle di lui che quasi intuire le sue parole era difficile.

   Erik non rispose: non era più il tempo delle parole, avevano già detto tutto quello che poteva essere espresso in un linguaggio umano. Egli si sporse quindi verso la lampada sul comodino poco distante, facendo per spegnerla, ma una mano di Giulia andò a posarsi sul suo polso interrompendo il gesto a metà. Sorpreso, si voltò a guardarla, e la vide scuotere appena il capo in segno di diniego.

    «No», disse lei piano, senza lasciare i suoi occhi per sottolineare la serietà di quel commento. «Voglio vederti.»

  Erik distolse lo sguardo, nuovamente a disagio. «Non la ritengo una buona idea», decretò con un tono forse troppo gelido, irrigidendosi e tornando per un attimo ad essere la terribile creatura che aveva terrorizzato mezza Parigi negli ultimi quindici anni.

    «Erik», lo chiamò lei, inginocchiandosi sul letto e raggiungendo l’uomo che aveva preso a darle tanto ostinatamente le spalle; aderì contro la sua schiena e lo abbracciò, posando la guancia contro la sua nuca per far breccia nel muro ch’egli aveva eretto all’improvviso, tagliandola fuori. «Erik. Hai detto di sentirti al sicuro, con me. E io sono qui, sono tra le tue braccia… Come puoi avere ancora paura che io possa provare altro che non sia amore e desiderio? Ti supplico, lascia che ti veda. Fidati di me

   Egli sollevò una mano e strinse quella che Giulia gli aveva posato sullo sterno, in direzione del cuore; per quanto volesse abbandonarsi con tutto sé stesso a quelle sensazioni, era perfettamente a conoscenza delle misere condizioni del suo corpo, e del fatto che non era un qualcosa da esibire con fierezza. Anche volendo fidarsi di lei – e, anche se credeva di esserci riuscito, Dio solo sapeva quanto desiderasse lasciarsi andare completamente – lei era comunque una bella giovane donna, non abituata agli orrori con cui lui aveva invece fatto i conti durante la sua intera esistenza, e non avrebbe potuto tollerare di vedere uno sguardo di ribrezzo o di pietà nei suoi occhi quando questi si fossero posati sulla propria persona. Come poteva chiederglielo, dunque? Perché non poteva semplicemente chiudere gli occhi e lasciarsi avvolgere dalla pietosa oscurità, ed essere lei a fidarsi di lui? La vista era un’infingarda traditrice, e non aveva portato che disgrazie e miserie nella sua vita; l’essenziale è invisibile agli occhi… Eppure Giulia voleva vedere. Dolce, curiosa Pandora!

    «Tutta la tua buona volontà è apprezzabile, mio tesoro, ma non ti impedirà di provare disgusto per questo corpo. Il viso non è la parte peggiore», replicò in un lieve sussurro, socchiudendo gli occhi e inspirando discretamente il suo profumo.

    Le labbra della giovane si strinsero, indispettite. Come poteva essere così cocciuto e persistere nelle sue sciocche convinzioni, quando lei credeva di avergli dimostrato più volte quanto lo volesse? Ella sapeva che, se non l’avesse spuntata quella volta, poi non ci sarebbe più riuscita: se avesse fatto come le chiedeva Erik, se avesse semplicemente chiuso gli occhi e si fosse abbandonata all’oscurità, allora lui avrebbe ritenuto corrette le sue supposizioni, avrebbe pensato che effettivamente Giulia non si fidava abbastanza di sé stessa da poter sollevare lo sguardo sul suo corpo martoriato senza fremere di orrore, e ciò avrebbe inevitabilmente guastato l’armonia tra loro. Era chiaro che lei, questo, non poteva permetterlo.

    Perciò, senza rispondergli, portò le proprie mani sui bottoni della camicia dell’uomo e iniziò a sfilarli lentamente, uno per uno, denudandogli torso e addome e posandovi i palmi tiepidi in carezze delicate e prudenti. Lo sentì inspirare ed espirare piano, come se temesse di sentirla strillare da un momento all’altro, per nulla abituato com’era ad indugiare in simili tenerezze.

    «Solo col cuore, Erik», sussurrò al suo orecchio, facendo scivolare la camicia dalle sue spalle forti e muscolose lungo le braccia, lasciando brividi di trepida attesa dietro di sé, fino a sfilarla dalle mani e gettarla poi da qualche parte sul materasso. Le sue dita sottili si aggrapparono alle spalle dell’uomo e quasi nello stesso istante la sua bocca trovò un punto deliziosamente sensibile alla base della nuca, e poi un altro dietro l’orecchio, sulla linea della mascella e sul profilo del collo, lasciando tanti piccoli baci delicati sulla scia del suo passaggio. Le sue mani abbandonarono l’appiglio e si mossero, sfiorando e accarezzando ogni curva di quel corpo snello e imponente ch’egli si vergognava tanto a mostrarle; toccò ormai senza timore o fastidio le innumerevoli cicatrici che attraversavano di sbieco la sua schiena, tracce di dolorose sferzate, sinistre piaghe che a suo tempo sembravano non essere state curate a dovere, carezzò sfregi lisci e bianchi di chissà quale natura lungo le braccia, posò le labbra su quello che sembrava essere un vecchio marchio impresso a fuoco in corrispondenza della scapola sinistra. Quello era il corpo dell’uomo che amava, era il corpo di un essere umano che aveva sofferto pene indicibili nel corso della sua esistenza, e tutto a causa di un aspetto di cui non aveva colpa; come poteva, allora, pensare che lei potesse provarne ribrezzo?

   Man mano che le sue carezze proseguivano, imperterrite, le spalle di Erik si rilassavano, il suo respiro si faceva più sereno; egli socchiuse gli occhi, incredulo, assaporando la sensazione di avere un cuore nel petto pronto a scoppiare dall’immensa gioia. Per lui non fu difficile, a quel punto, voltarsi verso la giovane e ricambiare ogni singola lusinga, adorandola e venerandola come una dea con le mani, le dita, le labbra, gli occhi. Era la prima volta che Erik giaceva con una donna senza ch’ella si aspettasse di essere ripagata in qualche modo, e la sensazione era splendida, indescrivibile: in quel momento non esisteva un altro luogo, sulla faccia della terra, dove egli si sarebbe trovato più a suo agio che tra le braccia di Giulia.

    E allora, quando lo realizzò, tutto il desiderio di recuperare il tempo perduto, di recuperare quelle cinque settimane, quei trentasette giorni, quelle interminabili ore, esplose con la stessa forza di una straripante ouverture. Nella calda e confortante luce soffusa i loro corpi si incontrarono, si sfiorarono, si conobbero, si aggrapparono l’uno all’altro come naufraghi alla deriva, sospirarono e ansimarono, spazzarono via a vicenda le proprie paure, mormorarono con voce spezzata promesse, giuramenti, tenerezze che non avrebbero probabilmente mai visto la luce del sole ma che sarebbero rimaste ben impresse, indelebili, nelle loro memorie.

 

**

 

    Sdraiata di fianco a lui nel caldo talamo, Giulia osservava l’uomo che riposava, probabilmente come poche altre volte nella sua vita, con aria serena. Dopo un breve vagare, il suo sguardo andò d’istinto a posarsi su quel volto devastato, e con una violenta stretta al petto si rese conto di quanto le fosse mancato durante il mese trascorso lontana da lui. La lontananza aveva quasi fatto sbiadire i ricordi del suo viso, e negli ultimi giorni aveva faticato persino a ricordare la forma dei suoi occhi; gli aveva davvero prestato così poca attenzione, in passato, da non riuscire a ricomporre le fattezze dell’uomo che amava a distanza di qualche tempo?

    Con delicatezza, per timore di svegliarlo, allungò una mano verso di lui ad accarezzare la carne piagata, seguendone il contorno con estrema concentrazione e tenerezza: sfiorò le gote con i polpastrelli seguendone diligentemente il profilo, accarezzando gli zigomi, la linea dura e severa della mascella, il mento, il naso, le labbra che si socchiusero al passaggio delle sue dita. Da ciò si accorse di averlo svegliato, e con un leggero imbarazzo Giulia abbassò la mano, rimanendo tuttavia accoccolata contro il suo corpo.

    Erik tuttavia le prese la mano e vi depose sopra un bacio, gli occhi ancora socchiusi e un’aria teneramente imbronciata che mai gli aveva visto. «Tutto bene, mon cœur?» Chiese, non potendo fare a meno di detestarsi per quell’istintivo e odioso disagio che aveva provato nello svegliarsi e sentirsi così osservato. Sapeva che era sciocco, per non dire tremendamente puerile sentirsi in imbarazzo con lei dopo quello che avevano condiviso, eppure… Dannazione a lui, non poteva farne a meno.

    Forse Giulia intuì ciò che gli era passato per la mente, perché si affrettò a fornirgli una spiegazione. «Volevo guardarti», rispose in un sussurro, soppesando le parole per timore di un qualche fraintendimento. «Mi piace guardarti. Voglio imparare a riconoscerti a occhi chiusi, solo toccandoti… voglio imprimerti tutto nella mia mente, per non dimenticarti mai.»

   L’uomo serrò con forza gli occhi, senza però fare nulla per allontanarsi da lei; uno sbuffo incredulo e doloroso gli scappò dalle labbra socchiuse. «Come se potesse mai essere possibile, dimenticare questo orrore», ribatté con un tono amaro, gelido, sollevando una mano a stringere il polso sottile della ragazza, per poi scivolare più su e posare il proprio palmo sul dorso della sua.

    Lei non se la prese per quel tono astioso: erano già stati fatti tanti passi avanti in un solo giorno, e sapeva di non poter pretendere più di tanto visto tutto quello che Erik aveva passato. Prima o poi avrebbe capito che non era per vincere il disgusto o abituarsi alla sua deformità che lei l’avrebbe voluto guardare in continuazione – se non avesse avuto paura di provocare un malinteso avrebbe potuto spiegargli che se ne voleva semplicemente appropriare, che voleva farlo suo, che voleva essere l’unica a conoscere a memoria ogni tratto del suo viso, ogni sfumatura dei suoi occhi, ogni centimetro di carne sofferente. Così lasciò perdere e risolse il problema spianando con un bacio le rughe di sconforto e preoccupazione che erano spuntate sulla sua fronte. Erik la amò silenziosamente per quella sua pazienza, e glielo dimostrò in modi che non comprendevano parole.

 

 

 

***

 

 

 

    Accadde al termine dei sette giorni.

   Erik era sdraiato di sbieco sul grande letto matrimoniale, il capo poggiato con naturalezza sul ventre della ragazza che lo cullava accarezzandogli i capelli; le lenzuola erano completamente sfatte e profumavano di loro, e tutto era così pacifico che l’uomo temeva di essere immerso in un semplice sogno. Ma poi, se piegava appena il capo di lato, vedeva la morbida curva dei seni di Giulia coperti dal lenzuolo, le sue spalle e il collo nudo, arrossato in alcuni punti laddove la sua passione l’aveva portato a lasciarle dei deliziosi piccoli marchi, le labbra ammorbidite da un sorriso sereno, le guance arrossate e i capelli sparsi sul cuscino. Quella meraviglia non era un sogno, dato che Erik non era capace di sognare cose così belle.

    Probabilmente sarebbe rimasto così tutto il giorno, come avevano peraltro quasi fatto nella trascorsa settimana: senza avere alcun contatto con il mondo esterno, lasciavano il letto quasi solo per mangiare e lavarsi – avevano scoperto che la vasca in rame riusciva a contenerli senza sforzo entrambi – e per quel po’ di tempo dunque vissero all’interno di una piacevole bolla di sapone, dove tutto, o quasi tutto, era esattamente come lo desideravano.

    E tuttavia all’improvviso, a spezzare il loro idillio, giunse il suono fastidioso ed elettrico di un allarme lontano. Giulia sobbalzò, presa alla sprovvista, e si volse a guardare Erik che, riconosciuto quel segnale, era scivolato giù dal letto con un’espressione imperscrutabile in volto.

    «Non è niente, mon cœur», mentì. «Rimani pure a letto. Vado a vedere cosa succede e sarò di ritorno il prima possibile.» Si rivestì di tutto punto in fretta e furia, sotto lo sguardo attento della ragazza che, a quelle parole, iniziò a preoccuparsi e ad intuire per sommi capi ciò che poteva essere accaduto. Se non rammentava male, una volta Erik le aveva detto che nessuno si sarebbe mai potuto introdurre in quelle catacombe – e di conseguenza nei suoi domini – senza ch’egli ne venisse a conoscenza immediatamente: e poteva forse, quel rumore, avvisare il padrone di casa che un qualche intruso aveva varcato i confini del regno del fantasma?

    Prima che uscisse dalla stanza, la voce della ragazza lo richiamò indietro. «Stai attento», fu l’unica cosa che riuscì a dire mentre egli si voltava e l’ombra truce abbandonava per un attimo i suoi occhi. «Sembra che i sotterranei siano pieni di trappole», aggiunse, con un sorriso appena accennato. Egli tornò sui suoi passi e la raggiunse, solo per baciarla velocemente sulle labbra e per sussurrarle ancora una volta di non preoccuparsi. «Torno presto», ripeté baciandola ancora, senza tuttavia avere il coraggio di guardarla negli occhi.

    Con una rivoltella in una mano e un cappio nell’altra – entrambi sapientemente celati allo sguardo preoccupato della giovane – Erik si diresse fuori dalla stanza, andando incontro all’intruso.

    Giulia non sapeva bene perché, ma qualcosa le diceva che la loro tranquillità era finita.

















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*Oui, c'est toi, je t'aime, Charles Gounod, Faust, Atto 4° - Una delle arie più belle, a mio avviso, e non solo perchè colonna sonora di questo gioiellino di miniserie.
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Angolo Autrice.
Sto perdendo colpi. Missà che devo provare le gocciole...
Questo capitolo non mi convince nel modo più assoluto - anzi, non mi piace proprio per niente. Non lo dico per falsa modestia, dato che se un capitolo mi soddisfa sono la prima a dirlo con orgoglio, ma questo... Ah, è stato uno scoglio difficilissimo da superare; ero tentata fino all'ultimo di far finta di niente ed eliminarlo, ma così sarebbero andate perdute cose che malgrado tutto non reputo essere così male, così ho detto massì, che diavolo, è l'ultimo dell'anno e chi scrive a Capodanno scrive tutto l'anno, e così eccoci qui. :D
Non aggiornavo da tempi immemori, mi sembrava troppo brutto lasciar concludere il 2012 senza un altro cenno di vita da parte mia, quindi spero che appreziate lo sforzo! Mi dispiace di essere tornata con un capitolo nel quale non succede praticamente niente e, anzi, forse è anche troppo frettoloso, ma volevo passare oltre e vedrete che dal prossimo (in parte già scritto! a dir la verità, quasi la maggior parte dei capitoli da qui alla fine sono già scritti, epilogo compreso, dunque, a meno che non sopraggiungano ostacoli, forse il 2013 potrebbe essere l'anno decisivo per la conclusione di questa storia... dopotutto siamo sopravvissuti al 21 dicembre, tutto può succedere!) le acque torneranno a momentarsi, alcuni personaggi che abbiamo perso per strada in questi ultimi capitoli faranno nuovamente la loro comparsa e vedremo in che modo cercheranno di mettere i bastoni tra le ruote ai nostri protagonisti :) Basta pacchia e sdolcinatezze, in questo capitolo ho dato il meglio peggio di me e non capiterà più, promesso xD
Qualcuno mi presti un po' di sadismo e cinismo, ne ho bisogno D:
Scherzi a parte, spero che questo aggiornamento sia un qualcosa di piacevole da leggere durante le vacanze di Natale, magari davanti al camino con il pc sulle ginocchia, una tazza di cioccolata calda in mano e la copertina sulle spalle - praticamente mi sono autodescritta - e che vi trovi allegre, felici e magari anche un po' brille per lo spumante che scorrerà a fiumi domani notte! ;D
Anche per quest'anno ho fatto del mio meglio, sono una pessima scrittrice, lo so, ma nei propositi per l'anno nuovo rientra la puntualità, promesso :)
Un bacione grande grande e un abbraccio a tutti, di nuovo buone vacanze e buon anno!
La vostra babbA natale,
Niglia.

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Capitolo 37
*** 35. Monsieur, I bid you welcome ***


Chapitre 35

Monsieur, I bid you welcome

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Did you think that I would harm her?

 

Entrare di nascosto nel palazzo Garnier si era rivelato decisamente più facile dell’ultima volta, rifletté Jean-Louis dopo essersi lasciato alle spalle il passaggio segreto celato dallo specchio. Forse era merito del passe-partout che gli aveva procurato sua madre, o forse più semplicemente era lui che sapeva cosa avrebbe trovato dall’altra parte e non era più spaventato dai fruscii delle tende e dagli spifferi che soffiavano nei corridoi, e dai quali si era lasciato suggestionare in passato.

Era trascorsa esattamente una settimana da quando Giulia era ritornata in quell’altra epoca, e come da promessa Jean-Louis si trovava per l’ennesima volta nelle gallerie labirintiche del teatro, stavolta armato tuttavia di una piantina dell’edificio che gli permetteva così di girare laggiù senza il timore di perdersi. In realtà temeva che la ragazza potesse non trovarsi nei sotterranei; ad essere sincero, anzi, lo sperava, dato che l’idea di saperla insieme a quell’uomo spaventoso che era stato la causa principale di tutti i loro problemi o, perlomeno, della maggior parte di essi, non era esattamente confortante – ma in quel caso non avrebbe saputo neppure dove andare a cercarla.

Man mano che avanzava procedendo sempre più in profondità, iniziò a riconoscere gli angoli, le ampie arcate, le crepe dei muri, i ganci di ferro privi di torce di cui gli aveva parlato la sorella, e fu così che comprese di essere vicino ai livelli più bassi del teatro, presso il lago sotterraneo, laddove si trovava, secondo le storie e le leggende, il dominio incontrastato del Fantasma. Non sapeva esattamente se essere confortato o spaventato da tale scoperta – dato che, se pure Giulia lo avesse accolto a braccia aperte, stessa cosa non si poteva dire del suo ammiratore – ma malgrado ciò Jean-Louis proseguì, senza neppure pensare di tornare indietro, e al contrario accelerando il passo per scacciare dalle ossa il gelo che permeava le gallerie.

Preso com’era dalla foga di raggiungere la sua destinazione, aveva cessato di controllare le mappe e di osservare con attenzione dove metteva i piedi; fu così che, dopo aver frettolosamente svoltato un angolo, inciampò in un rilievo del pavimento che attivò senza che lui se ne rendesse conto un qualche congegno situato pochi metri più avanti. Se ne accorse soltanto quando vi si trovò sopra, e a quel punto era troppo tardi. Una botola si aprì con uno scatto, facendo scomparire all’improvviso il terreno sotto ai suoi piedi, e Jean-Louis vi precipitò con un urlo strozzato, finendo in trappola come un topo di fogna.

In quel momento, un allarme acuto e sgradevole come unghie sul vetro iniziò a suonare in lontananza.

 

 

*

 

 

Erik non si trovava precisamente nella predisposizione d’animo adatta ad occuparsi dell’intruso. In passato non si era fatto mai troppi scrupoli nel proteggere il suo segreto e la sua casa dai curiosi che dalla superficie si arrogavano il diritto di andare a ficcanasare in territori al di là della loro portata, finendo poi con l’affogare misteriosamente nel lago sotterraneo e guadagnandosi come unico lamento funebre il Requiem che il loro stesso assassino si degnava di eseguire; aveva sempre messo la propria sopravvivenza davanti alle vite di quegli inetti, ma dall’ultima volta in cui si era macchiato di quei crimini erano trascorsi più di quattro anni, e la sua ultima vittima non era stato altri che l’allora conte Philippe de Chagny, come aveva senza troppa tristezza scoperto in seguito. Stranamente, tuttavia, la consapevolezza di aver ucciso il fratello dell’uomo che lo aveva privato della donna che amava non era servito un granché come balsamo per curare le sue ferite. Al contrario… non aveva fatto che farlo sentire ancora più miserabile.

Per cui, come già detto, Erik non era per niente eccitato all’idea di doversi macchiare le mani ancora una volta. Credeva che dopo tutto quello che era accaduto recentemente – i tragici eventi del ballo in maschera di capodanno ancora lo tormentavano ogniqualvolta chiudeva gli occhi, e il rimorso lo faceva dormire a malapena – gli abitanti del mondo di sopra avessero finalmente imparato a occuparsi dei propri affari e a non curiosare in zone che erano loro interdette, ma a quanto pareva la fiducia che aveva nell’istinto di sopravvivenza dei suoi simili era ancora una volta stata riposta nel momento sbagliato!

Una volta che l’allarme ebbe cessato di suonare, grazie a una sorta di interruttore che il suo inventore si era premurato di premere, Erik poté udire l’eco soffocato di urla provenienti da qualche parte nei dintorni, probabilmente dietro, o sotto, qualche muro. Stringendo le dita intorno al manico della pistola e al laccio del Punjab, si diresse a passo sicuro verso il punto dal quale proveniva la voce, deciso a mettere a tacere una volta per tutte lo stolto che aveva avuto il fegato di mettere naso nel suo regno. In realtà non aveva davvero intenzione di ucciderlo – con quale coraggio sarebbe tornato da Giulia, poi, e avrebbe osato guardarla negli occhi? – ma almeno di spaventarlo in modo che la prossima volta ci avrebbe pensato più attentamente prima di infilarsi nei suoi domini, e stordirlo, quello sì, in attesa di riportarlo poi in superficie e abbandonarlo privo di sensi da qualche parte in Rue Scribe, dove confidava che qualche passante caritatevole se prendesse carico e lo rimettesse in sesto. Aveva già funzionato altre volte, in passato, e non vedeva perché non avrebbe dovuto funzionare anche ora; a Giulia poteva sempre dire di essersi sbagliato, o che si era trattato di topi disattenti che avevano fatto scattare l’allarme dopo essere finiti in qualche vecchia trappola. E poi sarebbero potuti tornare serenamente al loro piccolo paradiso privato.

Fu con questo confortante pensiero che si diresse a passo sicuro verso la trappola che era certo di trovare piena.

 

Jean-Louis iniziava a non avere più sensibilità alle corde vocali. Aveva gridato così forte e così a lungo che ormai la voce gli si era ridotta a un sibilo rauco e doloroso, e come se ciò non fosse abbastanza stava per morire di sete. Stavolta non aveva portato con sé un borsone con acqua o attrezzi vari come l’ultima volta, e stava iniziando a credere che sarebbe potuto morirci in quei dannati sotterranei, prima che qualcuno si accorgesse di lui e venisse a salvarlo.

Arrampicarsi e cercare di uscire per conto suo, d’altra parte, si era rivelato impraticabile. Quella specie di pozzo era molto profondo, le pareti erano prive di appigli e iniziavano a restringersi sulla sommità, verso l’alto, come una cupola, e come se non bastasse erano viscide e ricoperte di muffa, cosa che rendeva impossibile qualsiasi tentativo di fuga. A rendere più macabra e sconfortante la sua permanenza laggiù, poi, contribuiva la presenza di vecchie ossa di dubbia natura – Jean sperava davvero che non si trattasse di ossa umane, benché ne dubitasse, ma grazie all’oscurità poteva contare sul beneficio del dubbio – sparse sul freddo pavimento della celletta, nonché lo squittio lontano di ratti ignari.

Perlomeno non soffriva di claustrofobia.

Per evitare di lasciarsi prendere dallo sconforto, e per avere l’illusione di fare qualcosa, il ragazzo ricominciò a urlare, chiamando aiuto; il tetro rimbombo della sua voce sulle pareti della cella sarebbe bastato a far impazzire gente ben più furba di lui, ma Jean cercò di non lasciarsi prendere dal panico. Se Giulia era riuscita a sopravvivere in quel tempo e in quel luogo, ragionò febbrilmente, non vedeva perché non avrebbe dovuto riuscirci lui.

Grazie a Dio, non dovette attendere molto tempo prima di udire un rumore di passi cadenzati spezzare il silenzio dei corridoi, facendosi sempre più vicino a dove si trovava.

«Ecco che cosa succede a chi disturba la quiete di Erik», fece una voce terribile, un sussurro sibilante, proveniente da sopra la sua testa – da fuori la botola, sì, un’ombra di salvezza!, «a chi cerca di scoprire il suo segreto! Cerco forse, io, di entrare in casa d’altri? Cerco di intrufolarmi in territori che non mi appartengono? No! E dovrei anche sentirmi in colpa per lo sventurato che invece ha voluto turbare la pace della mia casa?»

Jean-Louis non poteva vederlo – non c’era molta luce nella galleria, e di sicuro là sotto non gliene arrivava neppure uno spiraglio – ma Erik era, in quel momento, accovacciato presso l’apertura della botola, e cercava di scrutare il buio per capire chi diavolo potesse essere il topo in trappola.

Senza far caso all’inquietante borbottio dell’uomo là fuori, il giovane si tirò su a fatica, mettendosi in piedi, come se in tal modo potesse avvicinarsi di più all’uscita. «Per favore, fatemi uscire!» Esclamò appena più confortato, sforzandosi di utilizzare tutti i residui della sua voce. «Signore! C’è qualcuno, lassù? Fatemi uscire, aiutatemi!»

Ora, essendo Erik un genio dalle infinite sfaccettature, un profondo conoscitore della musica e di tutte le arti in generale, non c’era molto che egli non sapesse fare; un’altra delle sue interessanti caratteristiche consisteva nell’incredibile capacità di riconoscere tra mille una voce anche se l’aveva udita solo una volta e tanto tempo prima. Dunque, la voce del giovane finito nella trappola aveva un che di familiare, anche se in un primo momento non avrebbe saputo dire cosa; sapeva che, se aveva quella sensazione, il motivo era assai semplice – conosceva il proprietario di tale voce, ma la domanda più rilevante che si sarebbe dovuto porre era se egli conosceva Erik.

Maledizione. Per evitare ulteriori grattacapi e futuri pericoli sarebbe bastato puntare la pistola verso l’oscurità della cella e porre fine alle sofferenze di chiunque fosse finito laggiù, e invece… E invece, per amore e per rispetto della donna che lo aspettava nella Dimora sul lago, che aveva ciecamente riposto la sua fiducia in lui, il fantasma dell’Opera prese un’altra decisione.

Una corda grossa e piuttosto resistente venne calata all’interno della botola, e allungando le mani alla cieca Jean-Louis riuscì ad afferrarla; toccò un cappio, abbastanza largo da far sì che lo potesse infilare e stringere sotto le braccia, a mo’ di imbracatura. Doveva solo sperare che la corda fosse tanto robusta quanto sembrava, e che il suo sconosciuto soccorritore avesse la forza necessaria per issarlo su.

«Date uno strattone alla corda quando siete pronto a risalire», lo istruì la voce, che aveva la strana facoltà di essere chiara e scandita come se lo sconosciuto si trovasse accanto a lui, dietro di lui, invece che sopra e lontano. Che razza di trucco era mai, quello, si ritrovò a pensare Jean perplesso, stringendo le mani sulla corda e dando un brusco strappo come gli era stato detto di fare.

Diversi metri più in alto, Erik sentì lo strattone e con un profondo respiro iniziò a tirare, stringendo i denti e puntando bene i piedi sul pavimento onde evitare di scivolare e mandare al diavolo il salvataggio. I suoi sforzi sarebbero stati vani se chiunque si trovasse nella trappola fosse caduto a metà salita – poteva non essere morto la prima volta, ma una seconda non sarebbe stato così fortunato.

Quando le mani dell’intruso apparvero sul bordo della botola, Erik legò con un ultimo sforzo la corda intorno ad un gancio di ferro che sporgeva dalla parete; poi si avvicinò al ragazzo, chinandosi e afferrandolo per entrambe le braccia per aiutarlo a issarsi oltre il pavimento.

Gli occorse qualche minuto per comprendere che in effetti il volto del piccolo ficcanaso aveva dei tratti familiari, e quando infine lo riconobbe – come avrebbe potuto dimenticare il viso di colui che solo pochi mesi prima gli aveva portato via Giulia – lasciò la presa come se si fosse scottato e indietreggiò di un passo.

«Voi!» Esclamò Erik a mezza voce, prima che la sorpresa cedesse il posto all’irritazione. Per un istante passò nella sua mente l’infida immagine di sé stesso che spingeva il giovane di nuovo giù nella botola. «Che cosa fate ancora qui? Vostra sorella ha deciso di tornare di sua spontanea volontà, sarà meglio che vi mettiate l’animo in pace e torniate da dove siete venuto!»

Riprendendo fiato a fatica, Jean-Louis riuscì a sollevare lo sguardo sul suo salvatore, che a quel punto aveva cessato di essergli sconosciuto, e a lanciargli un’occhiata rabbiosa. «È stata Giulia a farmi promettere di venire dopo una settimana», ribatté con un filo di voce, ancora tremante. «Evidentemente non era molto sicura della sua decisione, non credete?»

Se Erik non avesse trascorso gli ultimi sette giorni insieme a lei, imparando a conoscerla in modi che nessun altro uomo avrebbe mai sperimentato, amandola e facendosi amare, probabilmente avrebbe anche potuto cedere al dubbio che in un’altra occasione lo avrebbe avvelenato dopo le parole di quel ragazzo. Ma, vista la realtà dei fatti, qualunque cosa avesse detto lei a suo fratello prima di separarsi da lui ormai non aveva più alcuna importanza. Era palese che avesse scelto Erik: in confronto a questo, tutto il resto perdeva importanza.

«Se preferite che sia lei a dirvi di andarvene, ragazzo, così sia», sibilò per tutta risposta, infilando la rivoltella in una tasca interna della propria giacca; la corda venne invece avvolta intorno all’avanbraccio e resa innocua, privata così del cappio che la rendeva un’arma mortale. «Seguitemi adesso, se non vi dispiace. Gradirei che lasciaste il prima possibile i miei domini.»

I suoi domini? Per quanto stanco e provato dalla recente esperienza, Jean-Louis non poté fare a meno di indagare, curioso, sul genere di vita che conduceva l’uomo per il quale sua sorella aveva testardamente deciso di abbandonare la sua famiglia. «State dicendo che abitate sottoterra? In queste gallerie?»

«Sto dicendo che non vi ho dato il permesso di angustiarmi con le vostre domande. E adesso tacete, per l’amor di Dio, o vi assicuro che troverò un modo per farvi chiudere la bocca!»

Detto questo, il tragitto proseguì in un incredibilmente teso silenzio.

 

 

**

 

 

La dimora sul Lago aveva la straordinaria capacità di lasciare a bocca aperta chiunque vi posasse gli occhi per la prima volta. Erano rimasti sbalorditi coloro che avevano raggiunto quelle sponde la tragica notte dell’incendio per inseguire il fantasma, era rimasta sbalordita Christine Daaé ed era rimasto sbalordito il suo fidanzato, e stessa cosa si poteva dire delle altre poche anime che avevano avuto il privilegio di osservare da vicino, come madame Giry, sua figlia, Bamdad e ovviamente Giulia.

C’era un che di soddisfacente nel vedere quegli sguardi nei volti dei suoi più o meno desiderati ospiti, riconobbe Erik, notando il modo in cui quel ragazzino faceva vagare i suoi occhi curiosi e disorientati avanti e indietro nella sua dimora. Era un tacito riconoscimento del suo genio, della sua arte, dei prodigi di cui la sua mente era capace, e come tutti gli artisti Erik non era immune al fascino delle lodi, fossero esse espresse ad alta voce o sottintese.

«Rimanete qui», gli intimò con tono severo, scoccandogli un’occhiata ammonitrice. «E non toccate niente.» Non gli diede neppure il tempo di replicare, dirigendosi invece verso la propria camera da letto, dove trovò Giulia intenta a rivestirsi.

Non appena vide Erik sulla soglia, la ragazza sobbalzò presa alla sprovvista, per poi sospirare di sollievo. «Dio, mi hai spaventata. È tutto a posto?» Chiese legandosi in vita il cinto della vestaglia e avvicinandosi a lui. «Sei stato via per un bel po’ di tempo…»

«Sì, mon cœur, non ti preoccupare. Va tutto bene», la tranquillizzò subito, circondandole il viso tra le mani e chinandosi per baciarla. Indugiò un momento in quella posizione, respirando il suo profumo, ma poi prese un profondo respiro e si ritrasse, controvoglia. «No, in realtà non va tutto bene», aggiunse sottovoce, sfiorandole delicatamente le labbra con i polpastrelli. «Abbiamo ospiti.»

Nell’udire una simile affermazione, Giulia aggrottò la fronte, perplessa. «Ospiti? Chi diavolo potrebbe scendere in questi… Oh.» All’improvviso si interruppe, sgranando appena gli occhi con l’aria di chi aveva già compreso senza aver bisogno di sentire altre spiegazioni. «Lui è qui? Mio fratello?»

Temendo che i suoi timori potessero rivelarsi fondati, Erik si staccò da lei e indietreggiò, forzando le proprie braccia lungo i fianchi per impedirsi di toccarla. «Quindi è vero, sapevi che sarebbe tornato. Lo stavi aspettando», disse piano. «È venuto per portarti via? Di nuovo?»

«Cosa? Erik, no… No, non è così», si affrettò a correggerlo lei, avvicinandosi nuovamente. «Non è così. Sono stata io a chiederglielo… Prima di tornare da te gli ho fatto promettere di venire dopo sette giorni, per controllare la situazione. Dopo tutto quel tempo non sapevo se tu mi stessi ancora aspettando, non sapevo se mi volevi ancora, e avevo paura, in quel caso… Non lo so, avevo paura di rimanere qui da sola. Jean mi avrebbe riportato indietro, ma solo se le cose fossero andate diversamente. Erik, puoi stare tranquillo, te lo assicuro – nessuno mi porterà via, e io di certo non ti lascerò un’altra volta.»

L’espressione dell’uomo si distese leggermente, ma c’era in lui una rigidità che faticava a scomparire. Giulia sollevò le mani e gli circondò il volto con esse, sorridendogli gentilmente nel cercare di rassicurarlo. «Come puoi avere ancora dei dubbi, dopo quello che abbiamo condiviso?» Mormorò, sfiorando con le dita l’accenno di barba che gli scuriva la guancia scoperta.

Erik sospirò, chiudendo gli occhi e voltando appena il capo per poggiare le labbra sul palmo della mano della ragazza. «Vai da tuo fratello, adesso. Io e te parleremo con calma più tardi», concesse a mezza voce, cercando di non far trapelare il timore di perderla dai suoi gesti.

 

Quando Jean vide che sua sorella era tutta intera e in perfetta salute – chissà perché ne dubitava, poi? Giulia era sempre stata in grado di prendersi cura di se’ stessa – non poté fare a meno di sospirare di sollievo, sorridendole e andandole incontro per stringerla in un lungo abbraccio sotto lo sguardo torvo di Erik. A parte gli abiti diversi e l’espressione radiosa – non si ricordava quando era stata, l’ultima volta che l’aveva vista così – la ragazza era esattamente come la ricordava: quella settimana era stata angosciante per lui, nonché per i suoi genitori, dato che ancora dovevano venire a patti con l’idea di averla lasciata libera di andare – inoltre, il fatto di essere all’oscuro di quello che le sarebbe potuto succedere dall’altra parte non era qualcosa che li facesse dormire bene la notte.

«Sapere che tutto questo si trova sotto il teatro che frequento sin da bambino ha un che di inquietante», fu uno dei primi commenti di Jean-Louis una volta che prese posto su una poltrona, mettendosi comodo.

«Non più inquietante di tutta la faccenda del viaggio nel tempo», ribatté Giulia con un sorrisetto.

Jean-Louis si chiese come diavolo facesse a scherzare su un argomento del genere, ma tale pensiero se lo tenne per sé. «Già, hai ragione», mormorò. Poi spostarono la chiacchierata su un territorio più allegro.

Tuttavia, con gli occhi di Erik puntati addosso dallo stipite della stanza – evidentemente, benché avesse concesso loro il beneficio di un momento d’intimità, preferiva pur sempre tenerli d’occhio, più per paura che il giovane ospite tentasse di dissuaderla dal rimanere lì che per vera e propria gelosia – Giulia iniziava a sentirsi un po’ a disagio. Per carità, riavere il fratello accanto e farsi raccontare notizie da casa era bello, però… Adesso, a distanza di una settimana, non aveva nulla da dirgli che non fosse la semplice decisione di restare. E affrontare quell’argomento con Erik che la guardava la metteva, scioccamente, in imbarazzo.

Ad un tratto le venne un’idea. «Perché non ti fermi qui per qualche giorno?»

Sia lui che Erik risposero ad una voce. «Che cosa

Senza nemmeno voltarsi verso Erik, Giulia riprese a parlare con il fratello, sorridendo. «Voglio farti ripartire con l’animo in pace, Jean, e l’unico modo per farlo è che tu veda come io vivo qui, come mi trovo bene, come appartengo a questo luogo. Avrai già capito che non ho intenzione di tornare indietro, e… beh, non voglio rendere del tutto inutile il tuo viaggio, chiamiamolo così. Una volta rientrato potrai dire alla mamma e al papà che non hanno nulla di cui preoccuparsi, che sto bene e che sono al sicuro, che voglio loro un bene dell’anima e che non dimenticherò mai tutto quello che hanno fatto per me… ma che ormai non posso più vivere con loro. Con voi. È qui che ho tutta la mia vita, adesso – è qui che ho il amore», aggiunse, abbassando la voce e arrossendo leggermente.

A quel punto, Jean-Louis non sapeva che cosa rispondere – i suoi tentativi di convincere la sorella a rinunciare a quella follia erano stati distrutti ancora prima di vedere la luce – e probabilmente anche Erik era rimasto colpito dal suo breve discorso.

«Io… beh… Non so che dire…» Borbottò il ragazzo, stringendosi nelle spalle. «Sono felice che tu abbia trovato il tuo posto, Jules, certo, però… Non puoi pretendere davvero che la cosa mi vada bene. Insomma, sei mia sorella! L’idea di perderti per sempre non mi piace.»

A quello Giulia non poteva proprio ribattere. Le sarebbe piaciuto potergli dire che no, non l’avrebbe mai persa, che lei sarebbe stata sua sorella, che gli sarebbe stato accanto… ma così non era. Una volta presa la decisione di rimanere insieme ad Erik non sarebbe più potuta tornare indietro, né avrebbe voluto: la sua famiglia le sarebbe mancata sempre e comunque, questo non si metteva in discussione, però non avrebbe mai potuto avere entrambe le cose. Purtroppo, nel suo caso, scegliere uno significava sacrificare l’altro, e Giulia aveva già commesso una volta l’errore di abbandonare Erik: non l’avrebbe rifatto, soprattutto visto il dolore che ne era venuto dopo.

Erik, benché si stesse sforzando di rimanere in disparte e di non interferire con i loro discorsi, non poté non notare che Giulia adesso si trovasse decisamente in difficoltà. Così, prima di cambiare idea, diede voce alla sua proposta.

«Se il tuo ospite si deve trattenere è meglio chiedere a madame Giry», suggerì, lasciando il suo posto accanto alla porta e avanzando verso i due fratelli. Rimase in piedi accanto alla ragazza, una mano posata sullo schienale della sua poltrona, gli occhi dolcemente posati su di lei. «Volevi andare da lei in ogni caso, mi sbaglio? Per salutarla e dirle che sei tornata. Ebbene, potresti anche approfittarne per vedere se è disposta ad offrire a tuo fratello un luogo dove stare prima che torni a casa sua.»

Giulia sollevò lo sguardo su di lui, per poi annuire con aria pensierosa. «Non è un’idea malvagia», decretò alla fine, voltandosi nuovamente verso Jean-Louis. «Bisognerebbe procurarti anche dei vestiti adatti, dato che non puoi andare in giro conciato così – con jeans e tutto il resto. Ma madame è stata molto generosa con me, si è comportata come una madre… penso di poterle chiedere questo ennesimo favore. Ti ricordi di lei, vero? L’hai conosciuta la sera della festa in maschera.»

Il fratello annuì, ma non sembrava molto convinto. «Sì, credo di sì… Ma perché dovrebbe ospitarmi in casa sua? Non mi conosce nemmeno.»

«Si tratterebbe solo di pochi giorni, benché la sua curiosità potrebbe spingerla ad ospitarti molto più a lungo. In caso non voglia, comunque, sono sicura che anche Erik sarebbe un perfetto padrone di casa», sorrise lei, sfiorando con la propria la mano che l’uomo aveva ora posato sulla sua spalla.

A quelle parole, per quanto scherzose, Erik emise quello che poteva sembrare uno sbuffo sarcastico; Jean, da parte sua, si ritrovò ad impallidire leggermente. Evidentemente il sentimento di antipatia tra i due uomini doveva essere reciproco.

 

 

***

 

 

Qualche ora dopo, due ombre scure uscirono dal teatro di nascosto, passando per le scuderie, prima che l’alba spazzasse via le tenebre e rendesse impossibile sgattaiolare via dall’edificio senza esser visti. Aveva appena smesso di piovere e nell’aria aleggiava ancora il gelo lasciato dalle gocce d’acqua, che creava una leggera nebbia che si librava sul selciato sporco agli angoli delle strade di neve infangata; le luci a gas dei lampioni illuminavano ancora gli ultimi momenti di oscurità, mentre il cielo andava via via rischiarandosi in lontananza, sopra i tetti dei palazzi.

Giulia e suo fratello, stretti l’uno all’altro in cerca di calore, affrettarono il passo e il ticchettio delle loro scarpe sul marciapiede era per adesso l’unico rumore che rimbombava per le vie. Percorsero un breve tratto di Rue Auber e poi svoltarono a sinistra verso Rue Scribe, giacché madame Giry abitava alla fine dell’isolato, laddove la strada si immetteva in Boulevard des Capucines. Entrambi avevano percorso un’infinità di volte quel tratto, ma era la prima volta che Jean-Louis vi passava in quell’epoca, e benché fosse consapevole di conoscere la strada non poté fare a meno di guardarsi intorno sorpreso ed estasiato, malgrado la luce scarsa non rendesse completamente giustizia alla bellezza dei palazzi signorili e della pacata quiete causata dall’assenza del traffico dell’età moderna dalla quale proveniva.

All’improvviso, dall’ombra di un vicolo scarsamente illuminato, venne fuori uno sconosciuto avvolto dalla testa ai piedi da un mantello che ne rendeva impossibile il riconoscimento, e che sbarrò loro il passo. Perplessi, il primo istinto dei due fratelli fu quello di fermarsi; poi Giulia fece per spostarsi di lato e aggirarlo, ma l’uomo imitò il suo movimento e si frappose nuovamente tra lei e la strada libera, aprendo il mantello il tanto sufficiente a mostrarle la pistola che egli teneva puntata nella loro direzione. Jean-Louis non trattenne un’imprecazione, afferrando il braccio della sorella per attirarla verso di sé mentre lanciava un’occhiata alle proprie spalle per controllare la situazione: dietro di lui erano apparsi altri due uomini, a loro volta armati, che non sembravano per nulla avere buone intenzioni.

«Signori, siete sfortunati: non abbiamo denaro», li avvertì piano Jean, come se parlare a voce bassa fosse servito a distoglierli dalla tentazione di utilizzare le loro armi.

L’uomo di fronte a loro scrollò brevemente le spalle. «Benissimo, non è il denaro che vogliamo. Siamo qui per la signorina», replicò con noncuranza, la voce leggermente attutita dal bavero della giacca, indicando Giulia con un gesto della mano che reggeva la rivoltella. «Venite con noi, mademoiselle, e nessuno si farà del male.»

«Jean», sussurrò Giulia accanto a lui, con un’evidente nota di panico nella voce. Le sue mani si aggrapparono al mantello del fratello – prestito di Erik – come se fosse bastato quello per impedire ai tre di aggredire entrambi; si guardò intorno per individuare eventuali vie di fuga, e in effetti dietro di loro il vicolo era libero. Indietreggiò di qualche passo, attirando anche il fratello verso di se’, ma la voce gelida di uno degli uomini incappucciati la pietrificò.

«Non provateci nemmeno, mademoiselle. Non vorrete che il vostro compagno si faccia del male?» Disse con un tono discorsivo, aggiustando la mira della rivoltella in direzione di Jean-Louis.

«Chi siete, voi?» Sibilò quest’ultimo, cercando di mantenere una posizione tale da continuare a frapporsi tra l’uomo armato e sua sorella. «Dovete aver sbagliato persona, signori, perché noi siamo arrivati in città solo ieri e non abbiamo ancora avuto il tempo di farci dei nemici.»

«E per quale motivo, allora, quest’aria furtiva? Perché gironzolare a quest’ora, con le strade ancora deserte?» Replicò beffardo; pareva si stesse divertendo.

Una voce cupa, proveniente da uno degli uomini alle loro spalle, li interruppe. «Basta perdere tempo, Gilles. Prendiamo la ragazza e andiamocene.» Giulia gli riconobbe un accento del sud, forse di Marsiglia, ma dubitava che la cosa potesse esserle di una qualche utilità.

L’altro fece un brusco cenno affermativo col capo. «Sì. Alain, tieni fermo il nostro eroe.»

Jean parve confuso. Si guardò intorno, ma non ebbe il tempo di prendere la mano della sorella che uno degli uomini lo afferrò brutalmente, bloccandogli con forza le braccia dietro la schiena e tenendolo fermo con sorprendente facilità. «Lasciami, brutto figlio di-» Ringhiò furioso, ma un colpo ben assestato allo stomaco da parte del terzo uomo lo mise a tacere, impedendogli di terminare la frase. Jean gemette, piegandosi in due, ma prima che potesse riprendersi un altro colpo e poi altri ancora seguirono il primo, con terribile dedizione, facendolo crollare a carponi sull’umido selciato.

Giulia gridò, adesso veramente terrorizzata. «No, smettetela! Che bisogno c’è di picchiarlo!» Cercò di correre per assistere il fratello, ma venne a sua volta trattenuta da uno degli uomini – quello che avevano chiamato Gilles. Ormai inferocita, iniziò senza pensare a dare gomitate e a dimenarsi come un’ossessa, spaventata all’idea di quello che i tre sconosciuti potevano volere da lei, e al contempo preoccupata per Jean-Louis che non pareva neppure respirare, là disteso sulla strada bagnata.

«Lasciami, lasciami!» Ringhiò furiosa, voltandosi il tanto sufficiente per graffiare l’uomo sul viso, da parte a parte. Quest’ultimo imprecò e istintivamente la lasciò andare, ma Giulia non riuscì a fare che pochi passi prima di venire riacciuffata da quello che aveva picchiato Jean-Louis.

«Adesso farete la brava, piccola strega, se non volete che diamo il colpo di grazia al vostro amico», le sibilò all’orecchio il Marsigliese, stringendole il braccio con tanta forza da farla lacrimare.

Si ritrovò a piangere sommessamente, odiandosi per non essere capace di fare qualcosa, di reagire, bloccata com’era dalla paura. Venne trascinata lontano dal fratello, che continuava a non muoversi, fino alla fine del vicolo, dove c’era una carrozza completamente nera, priva di insegne, ad attenderli. La obbligarono a salire senza troppe cerimonie, e quando lei provò a sgusciare dall’altra parte, aprendo il secondo sportello, Gilles l’afferrò con furia e la tenne ferma fin quando il Marsigliese non le ebbe legato le mani con della corda dura e resistente. Poi le misero una benda sugli occhi, e a quel punto, tremante, Giulia si arrese.

In strada, l’uomo chiamato Alain tirò fuori da una tasca della propria giacca una lettera sigillata con della ceralacca rossastra, chinandosi su Jean-Louis per infilargliela sotto il mantello, al riparo dalla pioggerellina leggera che aveva iniziato a scendere. Dopodiché seguì gli altri due compari e sparì all’interno dell’elegante coupé, bussando poi sul tettuccio per invitare il cocchiere ad muoversi.

In quel momento le campane della Madeleine rintoccarono le otto del mattino.

 

 

 

****

 

 

Quando la benda le venne finalmente tolta dagli occhi, Giulia sbatté più volte le palpebre e si guardò intorno, agitata, cercando di capire dove si trovasse e soprattutto in che razza di situazione fosse finita. Il viaggio in carrozza era stato orrendo, benché una volta che aveva smesso di agitarsi nessuno l’aveva più toccata, e poi una volta scesi da lì era stata trascinata e sballottolata alla cieca dentro chissà quale casa, su per delle scale, e poi fatta sedere su una normale sedia. Dopodiché era seguito un lunghissimo silenzio, fin quando qualche anima pia – una donna, chissà chi – non le aveva sciolto le mani per legarla in un altro modo su di una sedia, immobilizzandola. Di certo una cosa del genere non le sarebbe capitata così facilmente nel ventunesimo secolo – ma dopotutto mai dire mai; inoltre, qualcosa le diceva che la sua relazione con Erik giocasse un ruolo importante in quella sorta di sequestro di persona.

Dopo un tempo che le parve infinito, sentì qualcuno maneggiare il nodo della sua benda, sciogliendolo e permettendole di vedere di nuovo. Sbatté le palpebre, per un momento acciecata dalla luce improvvisa, poi ne approfittò per studiare l’ambiente circostante e provare a farsi un quadro della situazione. La stanza nella quale si trovava era arredata con gusto ed eleganza, un mobilio molto diverso da quello che si era immaginata, dato che aveva creduto di essere stata trascinata in qualche cella o Dio solo sapeva dove. E invece ecco una finestra, oltre il cui vetro si vedeva Parigi – bene, allora era ancora in città – una scrivania, dei quadri, tappeti persiani e numerose preziose suppellettili… Restava solo da scoprire chi diavolo ci fosse dietro il suo rapimento, e soprattutto quale diavolo di motivo potesse avere.

Finalmente, colui che le aveva restituito il dono della vista cessò di rimanere alle sue spalle e si portò davanti a lei, giacché nel modo in cui era stata legata alla poltroncina non le era possibile muoversi né voltarsi. Eppure, quando riconobbe l’identità dell’uomo che l’aveva fatta rapire, non riuscì a comprendere che cosa potessero avere lei, o Erik, in comune con un vecchio duca che di tanto in tanto frequentava il teatro dell’Opèra. «Mi ricordo di voi», mormorò perplessa, aggrottando la fronte. «Siete… Il duca De Blanchard, vero? Avete voluto conoscermi, qualche mese fa.»

In un’altra occasione avrebbe fatto dell’ironia – davvero, non credevo di essere già così famosa da costringervi a prendere simili provvedimenti per avere un colloquio privato con me – ma qualcosa le diceva che era meglio procedere con cautela. Perlomeno fino a quando non si fosse fatta un’idea più precisa di ciò che il nobile potesse volere da lei.

«Sono lieto che vi ricordiate di me, mademoiselle. Ciò significa che possiamo saltare comodamente i convenevoli, e passare al motivo della vostra presenza qui. Suppongo che Erik non vi abbia mai parlato di me…»

Sentire il nome di Erik pronunciato con così tanta nonchalance dalle labbra di quello che a tutti gli effetti lei continuava a giudicare un estraneo la fece sussultare e rabbrividire nello stesso tempo. Ecco, pensò spaventata. Lo sapevo che lui c’entrava qualcosa. Di sicuro il fantasma dell’Opera si sarà fatto un discreto numero di nemici nel corso della sua “carriera”…

«Non capisco di cosa stiate parlando», ribatté, cercando di celare la rabbia e di sembrare perplessa. «Non conosco nessuno che si chiami in quel modo… Erik, avete detto? Dev’esserci un malinteso.»

Negli occhi dell’anziano duca passò un lampo feroce che non le piacque per niente. «Via, mademoiselle Sanders, non insultate la mia intelligenza», la riprese con falsa gentilezza, versandosi un bicchiere di vino. «Gradite qualcosa da bere? No? Non è gentile rifiutare del vino così pregiato, ma se insistete…»

Giulia iniziava ad essere davvero preoccupata. Che cosa avrebbe dovuto fare? Fingere fino alla nausea di non conoscere Erik, o arrendersi all’evidenza che quell’uomo, per chissà quale motivo, era a conoscenza del loro legame, e assecondarlo dunque in quella follia?

Forse sarebbe stata la cosa più saggia; magari, se l’avesse fatto parlare, se l’avesse distratto con le chiacchiere, avrebbe potuto farsi dire per quale motivo si trovava lì, in casa sua, e soprattutto che cosa volesse da Erik; inoltre, nutriva pur sempre la flebile speranza che suo fratello, pregando che stesse bene, si fosse ripreso e fosse andato ad avvisarlo, e che dunque l’uomo si stesse organizzando per andare a salvarla. Odiava l’idea di essere una specie di damigella in difficoltà e di essere in procinto di rivelare il segreto più grande dell’uomo che amava – ovverosia quello riguardante la sua esistenza – ma era stata minacciata con una pistola, che cosa avrebbe potuto fare?

«Sto ancora aspettando una risposta, mademoiselle.»

La ragazza si riscosse dai suoi pensieri, e sospirò piano. «Per quale motivo avrebbe dovuto parlarmi di voi?» Capitolò alla fine a mezza voce, come se sussurrando rendesse meno terribile la sua resa.

Sul volto del duca apparve un sorriso trionfante, che venne subito sostituito da un’affettata espressione di stupore e sconforto. «Ma, mademoiselle, per un motivo assai semplice… Si da il caso che io sia suo padre.» Poi sorrise un’altra volta, ma non vi era nulla di gioioso in quel sorriso. «Vedo che non ne eravate davvero a conoscenza. Erik dev’essere un maestro nel mantenere i segreti, non è vero? Chissà tutto quello che vi nasconde… Come potete fidarvi di lui?»

Giulia ignorò quelle parole, che non ebbero alcun effetto su di lei: conosceva abbastanza i segreti di Erik per sapere che se l’uomo le aveva taciuto qualcosa era soltanto perché non era ancora del tutto pronto per parlargliene, e non certo per tenerla all’oscuro. «Non comprendo il vostro gioco, monsieur, né comprendo ancora perché mi avete rapita», disse quindi, riportando l’attenzione sul soggetto principale del discorso.

«Oh, via, mademoiselle, non siate così drammatica! Io non parlerei di rapimento, direi piuttosto che siete stata… persuasa ad accettare il mio invito. Non era mia intenzione spaventarvi, credetemi, ma converrete con me sul fatto che Erik non vi avrebbe mai permesso di venire qui se ve lo avessi domandato in una maniera più civile.»

«Non so che idea vi siate fatto di me o di Erik, monsieur, ma sono perfettamente in grado di prendere le mie decisioni anche senza la sua intercessione», sibilò la giovane, infastidita. «E vi assicuro che non avrei accettato il vostro invito in ogni caso, dato che non è mia abitudine frequentare le case di estranei.»

«E questo, mia cara, temo ci riporti all’inevitabilità delle mie misure drastiche, non credete?» Replicò il duca con l’ennesimo sorriso, per nulla colpito dal tono gelido della ragazza. «Ad ogni modo, non ho intenzione di farvi del male: consideratevi mia ospite. Ho bisogno della vostra presenza solo per convincere mio figlio a prestarmi ascolto una volta per tutte, e mi dispiace che a causa della sua testardaggine voi siate stata trascinata in una situazione così delicata.»

«Sono una merce di scambio, è questo che volete dire?»

«Se vi piace vederla sotto questi termini, fate pure», sospirò de Blanchard, chinando appena il capo in un gesto d’assenso. «Ma ripeto, vi pregherei di considerarvi mia ospite, perlomeno fintantoché non farete nulla di sciocco come cercare di scappare o aggredire nuovamente i signori che lavorano per me.»

«Mi hanno messo le mani addosso», ringhiò, indignata.

«E vi assicuro che sono già stati ripresi per questo; ma adesso vi prego, comportatevi bene», la riprese con benevola condiscendenza. Poi suonò un campanello, e pochi attimi dopo un domestico in elegante livrea si affacciò sulla porta dello studio.

«Procurate degli abiti più adeguati per mademoiselle Sanders», ordinò il duca, istruendo con affettata nonchalance il suo maggiordomo o chiunque fosse il nuovo arrivato. «Potrebbe doversi trattenere a lungo, e noi vogliamo che la nostra ospite si senta il più possibile a suo agio.»

 

 

*****

 

 

Jean-Louis si diresse trafelato verso gli uffici del direttore artistico, ignorando le lamentele delle donne che spazzavano e lucidavano il pavimento e scansando i membri della sorveglianza, che nell’ultimo periodo – ossia dopo l’ennesimo coup de théâtre della notte di Capodanno – frequentavano l’Opèra a tempo pieno e in ogni circostanza. Si sentiva indolenzito in punti che non credeva neppure potessero dolergli, eppure era tornato indietro il prima possibile, correndo quando ci riusciva, una volta che aveva ripreso conoscenza in quel lurido vicolo.

Quando varcò la soglia dello studio di monsieur Destler, al quale arrivò solo grazie alla caritatevole indicazione di una delle ragazze che si occupavano di lavare i costumi di scena, egli sollevò di scatto gli occhi da alcuni documenti che giacevano sulla sua scrivania e aggrottò le sopracciglia – o, perlomeno, quella non celata dalla maschera – nel trovarsi davanti il giovane che si supponeva essere in compagnia della sorella a diversi isolati di distanza. Gli occorsero a malapena pochi secondi per rendersi conto che qualcosa non andava, visti gli indumenti sgualciti e scomposti e l’aspetto pallido e angosciato del ragazzo.

«Voi? Cosa diavolo è successo? Dov’è Giulia?» Scattò immediatamente, alzandosi in piedi e aggirando il tavolo in modo da non mettere nessun ostacolo tra lui e l’altro.

«Questo speravo poteste dirmelo voi», ribatté Jean ancora ansimante, porgendogli la lettera che aveva trovato accanto a sé quando aveva ripreso conoscenza e che portava, sul retro, il nome dell’uomo che gli stava di fronte.

Erik quasi gli strappò dalle mani la missiva, notando che il sigillo di ceralacca era già stato spezzato – evidentemente il ragazzo non aveva trattenuto la curiosità ed era già a conoscenza di ciò che vi era scritto – e ne dispiegò dunque la carta; i suoi occhi si posarono su un’elegante e sconosciuta calligrafia espressa in inchiostro nero, e senza attendere oltre iniziò a scorrere le parole una dopo l’altra, divorandole velocemente e sentendo l’ira crescere dentro di sé man mano che andava avanti.

 

Mio caro Erik,

non dovete temere per mademoiselle Sanders: ella è sotto la mia ala. Poiché non avete seguito le mie istruzioni, discusse precedentemente riguardo al vostro obbligo morale e al rispetto che mi dovete in quanto mio figlio primogenito, ho ritenuto opportuno intervenire per altre vie, lo ammetto, più discutibili. Se la vostra decisione è sempre la medesima, ossia se continuerete a voler rifiutare di accettare il nome e le ricchezze che vi spettano, insieme alle responsabilità che ne deriveranno, allora vi consiglio di dimenticarvi della vostra amante, giacché non la rivedrete finché avrò vita.

Tuttavia voglio essere generoso con voi, che siete sangue del mio sangue, e vi darò ancora un’ultima possibilità. Venite nella mia casa, che poi è anche la vostra, e accettate di discutere con me da gentiluomo civile e bendisposto come sospetto che siate: sono sicuro che riusciremo a raggiungere un accordo.

I miei omaggi,

Henri J. Lescroart,

Duca de Blanchard, ecc.

 

 

Erik strinse la lettera nel pugno fin quasi a stracciarla, soffiando come un animale feroce e riportando la sua attenzione su Jean-Louis. «Avete lasciato che prendessero vostra sorella?» Ringhiò, avanzando di un passo. «Che razza di uomo siete?»

Punto sul vivo, Jean si sentì in dovere di difendersi. «Ci hanno aggredito in un vicolo, erano in tre contro uno! Che cosa avrei dovuto fare? Non sono abituato a situazioni del genere come potete esserlo voi!» Ribatté, arrabbiandosi a sua volta: la rabbia era un sentimento che gli piaceva decisamente di più del senso di vergogna che lo aveva accompagnato da quando si era risvegliato in quella viuzza sporca e buia. E in ogni caso, che senso aveva prendersela con lui? Sapeva di avere la sua parte di colpa, ma litigare tra loro non avrebbe giovato in quel frangente.

«Andate da madame Giry, lei baderà a voi, e attendete mie notizie», ordinò freddamente, infilandosi la giacca. Senza degnare il giovane di uno sguardo, raggiunse il proprio tavolo da lavoro e aprì il primo cassetto, dalla quale tirò fuori la rivoltella che vi teneva per ogni evenienza – un tempo aveva creduto che sarebbe stato il bacio di quell’arma l’ultima carezza che avrebbe avuto la sua tempia prima di abbandonare il mondo dei vivi, ma adesso era il caso che le trovasse uno scopo più utile. «Bamdad, il mio segretario, verrà con me in modo da potervi avvisare in caso di un cambiamento della situazione.»

Jean era palesemente contrariato all’idea di venir tagliato fuori in quel modo. «E io dovrei rimanere zitto e fermo senza fare nulla per salvare mia sorella?»

Erik lo fissò come se solo il legame fraterno che lo legava a Giulia lo trattenesse dallo strangolarlo lì e subito. Avete avuto la vostra occasione e non ne avete fatto buon uso, razza di idiota!, avrebbe voluto dirgli, e magari anche scrollarlo con forza; ma si trattenne. «Come avete detto voi stesso, non sapreste come comportarvi in queste circostanze», replicò con un sibilo, sforzandosi di essere ragionevole. «Per cui vi suggerisco di dare retta a chi ne sa più di voi e di fare ciò che vi ho detto!»

Attraversò a grandi passi il suo studio e afferrò il mantello dall’appendiabiti, gettandoselo sulle spalle e sparendo nel corridoio senza neanche attendere il ragazzo. Se era la guerra che il duca voleva, ebbene, la guerra avrebbe avuto… Ma avrebbe maledetto il giorno in cui aveva osato sfidare il Fantasma dell’Opera.


























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Angolo Autrice.

Habemus Capitulum! Dite la verità, ormai avevate perso le speranze, nevvero? Ma cosa vi dico sempre io? Mai perdere le speranze! :D Ribadisco, nel caso non l'abbia ancora detto, che questa storia ha un inizio e, per tutti i Don Juan, avrà una fine ù_ù Dunque, non importa quanto tempo ci metterò (beh, in realtà importa: ma non pensiamoci ora), prima o poi la concluderò! Non abbiate timore :)
Scherzi a parte, uao, che capitolo pieno! Mai scritto uno più lungo, dico davvero D: Ma mi sembra il minimo visto tutto il tempo che è trascorso dall'ultimo aggiornamento... vi direi anche di godervelo perché chissà quando arriverà il prossimo, ma... non so, mi sento ispirata, quindi forse aggiornerò in tempi decenti. Si accettano volontari che incrocino le dita :D //ps: perdonate eventuali errori di distrazione. L'ho riletto una decina di volte ma mi sfuggirà sempre qualcosa, inoltre non vedevo l'ora di aggiornare, quindi... forgive me :) //
Finalmente un po' d'azione, eh? Basta con le cose smielate e i pucci-pucci, promesso ù_ù E chissà cosa succederà adesso... muahahaha!
Passiamo a cose serie.
Innanzitutto grazie mille a coloro che hanno recensito lo scorso capitolo, vale a dire Sylphs, Homicidal Maniac (benvenuta in questa odissea, cara <3), loveis4ever, StarFighter e Helmwige, nonché tutte coloro che continuano a leggere silenziosamente! Siete tutte adorabili *---*
E adesso vi lascio, corro a preparare la cena :D Baci e abbracci, e grazie di nuovo per essere arrivate sin qui! ♥
Sempre io, la vostra
Niglia.

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