Questione di punti di vista

di Faith46
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo ***


Questione di punti di vista

“Ovvero quando sei uno spiantato studente universitario, e l’erba del vicino è sempre più fottutamente verde della tua”

 

 Note: I personaggi di Inuyasha non sono di mia proprietà, ma sono copyright di Rumiko Takahashi e delle istituzioni che pubblicano il manga e l’anime; questa storia non è scritta a scopo lucrativo ma per puro divertimento e piacere personale.

 

Capitolo primo

 

Quante di voi, seriamente, non hanno mai avvertito un senso di frustrazione così forte da mandarvi in bestia? Quando nemmeno le scarpe comprate nel negozio sotto casa, per le quali avete fatto salti mortali, riescono più a colmare quel fastidioso senso di incompletezza che vi divora.

Esattamente, sto proprio parlando di quella sensazione assurda che piomba nella vita di una ventitreenne quando le sue amiche sono già sistemate da anni, magari con uomini orrendi e totalmente privi d’intelligenza, tanto che una nocciolina apparirebbe sicuramente più arguta di loro. Eppure a guardarli insieme, pensi a quanto la tua vita sia maledettamente piatta e insulsa, mentre passi ore e ore davanti ad un computer a chattare con sconosciuti, o perdi intere giornate a guardare sitcom americane che credi ti possano risollevare il morale quando avverti le risate di sfondo che le accompagnano, come se anche tu, interiormente dovessi deridere con tutta l’anima quegli attori che magari nel retroscena sono sposati e schifosamente ricchi. Quindi sei seduta là, su quel divano che oramai ha preso la forma del tuo deretano, a masticare quintali di barrette energetiche, che dopo dieci minuti divengono quasi gomma in bocca a chiederti perché ogni pensiero che formuli equivarrà tra qualche mese ad un chilo in più sulla bilancia.

L’immagine di te è meravigliosa: e prontamente ti sorprendi quasi, nel vedere che il tuo riflesso s’intravede dallo specchio, che nemmeno a farlo a posta, è piazzato proprio alle tue spalle; pronto a suggerirti quanto, se un uomo si trovasse al tuo fianco ora, desidererebbe essere da un’altra parte, piuttosto che accanto ad un’informe massa umana avvolta in una mega coperta di pile, con indosso la classica tuta casalinga, con un grosso paio di occhiali sul naso e i capelli raccolti sulla nuca, e rigorosamente spettinati. Ti deridi, e se potessi, punteresti il dito su quella figura per chiederti chi realmente sia quella povera sciocca riflessa. Il problema è che dopo cinque secondi capisci di essere proprio tu, privata della seduta estetica di due ore e mezzo dinanzi allo specchio, come Dio t’ha fatta, semplicemente in fase ‘’rilassata’’.  Kagome Higurashi, ventitré anni suonati, studentessa di Letteratura alla facoltà di Waseda e assidua frequentatrice del suo lavoretto part-time, che mi consente, fortuitamente, di pagare la tassa universitaria che ogni anno sale alle stelle. Se credete che ventiduemila yen siano niente, non vi accennerò alcun che per quanto riguarda il costo reale della frequenza annuale.

La mia vita pare concentrarsi nel mio piccolo globo d’insoddisfazione, che si ramifica in tre parti fondamentali della giornata: mattina – studio – pomeriggio, – lavoro – sera, di nuovo studio. Rimpiango le superiori, dove almeno, tra esami d’ammissione e test d’ogni sorta e colore, avevo anche del tempo per godere, effettivamente, della mia vita da studentessa.  Vorrei proprio sapere chi dice che all’università tutto diviene più semplice. Quando mai? O almeno, non quando professori che nemmeno conoscono il tuo nome, hanno di te aspettative inimmaginabili, tanto che a loro parere dovrei presto raggiungere la notorietà di Noboru Takeshita o Yasuo Fukuda, di cui i volti impressi nel corridoio centrale della facoltà, mi ricordano giornalmente quanto io, a loro confronto, sia ancora dannatamente microscopica e invisibile.

Ore diciassette e quarantacinque, l’orologio pare avercela con me. Il suo assurdo ticchettio mi ricorda lo scandire lento, lentissimo, dei minuti che quando studi non passano mai. Più cerco di concentrarmi sul testo di seicentoventicinque pagine che dovrò aver imparato come un sutra buddhista entro mercoledì, più la mia mente si ostina a staccarsi dalle sue pagine per volare altrove, magari al karaoke giù in fondo alla strada, dove probabilmente ora le mie amiche staranno bisbocciando con i rispettivi compagni.  Sollevo le mani dietro la nuca, per raccogliere i capelli in una coda e trattenerli per qualche secondo uniti all’interno del pugno, stritolandone la massa scura per evitare di sfogarmi su qualcos’altro.

Sono ufficialmente frustrata. Mi ritroverò a cinquant’anni, in un monolocale di Kyoto a sorseggiare tè verde assieme ai miei venti o trenta gatti, ai quali leggerò qualche Aikido per tirarmi su di morale. Sbarro gli occhi, chiedendomi perché, ogni qualvolta la mia depressione sale alle stelle, io mi ritrovi a immaginarmi in questo modo. Ci potrebbe davvero essere una relazione tra quest’allucinazione e il mio futuro? Preferisco non pensarci.

Mi alzo, passando in rassegna con lo sguardo ogni minuzia che compone l’appartamento dove vivo al momento, con l’unico intento di far apparire più lungo il tragitto dalla stanza alla cucina. Parete, tavolo con sopra poggiata una cornice della festa del diploma, ancora una parete, cassettone stile settecento che mia madre mi ha costretto a comprare da un antiquariato alla modica cifra di sessantamila yen. Vaso di fiori vuoto, perché la pianta contenuta dentro qualche mese fa è defunta per esaurimento e mancanza perenne d’acqua. Non ho tempo di badare a me, figuriamoci alle piante!

Cucina. Dio, sono già arrivata? Getto una sguardata all’orologio e scopro che non sono passati più di cinque o sei minuti dall’ultima volta che l’ho guardato. Mi sento svenire …

Raggiungo il frigorifero trascinandomi come una mummia, che avrebbe sicuramente una cera migliore di questa povera donna. Apro il frigorifero, perché lo stomaco ha già cominciato a reclamare l’assenza di cibo perpetuata per almeno tre o quattro ore. Un algido freddo m’investe il volto, e rimango costernata nel denotare che l’interno dell’elettrodomestico è più vuoto della mia pancia. Sul primo ripiano sosta uno yogurt solitario, che non ricordo nemmeno di aver comperato. Sul secondo, una banana ed un limone mi osservano con tristezza, domandandomi perché ho avuto la malsana idea di sistemarli vicino al decotto palustre – che emana decisamente un odore nauseabondo – che mio nonno mi propina ogni mese contro l’influenza stagionale. Ultimo, ma non in ordine d’importanza, ecco apparire, avvolto nella carta stagnola, un dolce che risale al paleolitico probabilmente; che mi esimio dallo scartare per paura di verificare lo stato avanzato di decomposizione del cioccolato. Bene, dovrò uscire a fare la spesa. Sospiro, chiedendomi, forse per l’ennesima volta, quanto vantaggio ci sia stato nel volermene andare di casa alla “tenera” età di vent’anni. Avrei dovuto seguire l’esempio di Sango, alias la mia migliore amica, che ha preferito fossilizzarsi a casa dei suoi per i prossimi dieci anni.

Abbasso le spalle in un moto d’arrendevolezza. Farò una doccia e poi mi precipiterò al discount sotto casa. Dio! La mia vita somiglia a quella di una pensionata sui settant’anni, la cui massima aspettativa è quella di giocare a canasta con le amiche il sabato sera, o di godersi una telenovela brasiliana alle sette e mezzo di mattina. Chiudo gli occhi, contando sino a venti prima di trattenere un grido di disperazione e dirigermi a passo marziale verso il bagno.

Ah, il profumo di vaniglia. L’ho sempre associato a qualcosa di rilassante in vita mia, ed ha sempre accompagnato i momenti migliori di questa.  Apro le ante della doccia, richiudendomele dietro le spalle per far partire il getto d’acqua bollente che m’investe come un treno in corsa. Il mio primo giorno di scuola elementare, la volta in cui ho conosciuto Sango, il primo ballo in discoteca, il primo stipendio, la visita a casa di mia nonna per il mio diciassettesimo compleanno, la prima gita scolastica … il primo amore. Inarco le sopracciglia, girando la manopola per intensificare il getto d’acqua sulla schiena. Ecco la parola più scomoda del vocabolario dei ricordi, e anch’essa, purtroppo è collegata al piacevole odore della vaniglia. Non doveva ricordarmi i momenti gradevoli della vita?

Se il primo amore non si scorda mai, io ho tutta l’intenzione di farlo. Successe a quindici anni, quando ancora la mia povera testolina bacata era convinta che l’amore, nella vita reale, corrispondesse a quello delle favole. Disgraziata! Lui era carino, non eccezionale ma piacente. Il solo fatto che fosse più intelligente di me e che possedesse un vocabolario più che dignitoso per essere in terza media, lo rendeva ai miei occhi, il ragazzino più interessante del pianeta.  Si chiamava Hiroshi, non troppo basso, altezza giusta; il classico giapponese. Occhi scuri, con un delizioso taglio a mandorla, contornati dalle ciglia scure e spesse.  Un volto ovale, non rude, a tratti gentile con un sorriso amabile, di cui adoravo le fossette che si formavano ai lati delle labbra ogni qualvolta le incurvava. Eravamo una coppia nella media, anonimi ai più e felici nel nostro piccolo. Allora il rapporto che s’instaurava tra un ragazzo ed una ragazza non era come oggi, a quindici anni si è più timidi, e il massimo che ci si può aspettare da un appuntamento è tenersi per mano al cinema, o in un qualsiasi luogo appartato dove non si è visti. Credevo di esserne innamorata. Ecco. Ipotizzare le cose è assolutamente sbagliato, e lo è ancora di più cominciare a farsi film stupidi e poco probabili su di una possibile vita insieme: per sempre.

Mi tradì dopo sei mesi e mezzo con una mezza americana trasferitasi nella nostra stessa scuola proprio quell’anno. Quando dici, che la sfortuna ti vuole proprio male. Di quella relazione cosa ricordo? Un bacio. Forse il più bello che credevo d’aver mai ricevuto, l’unico di quell’epoca che sembra così lontana, ed invece si trova proprio dietro l’angolo, a pochi anni di distanza.  Cos’altro? Pianti, bollette chilometriche e salatissime, conseguenza delle ore su ore spese al telefono con Sango, che prontamente tentava di consolarmi come meglio poteva, e vagonate di fazzoletti di carta sparpagliati in camera. Ecco, cosa ricordo del mio primo amore.

Il secondo non è di certo stato più interessante, nemmeno il terzo e il quarto. Scappatelle, come hanno la moda di chiamarle ora, la più lunga delle quali è durata due mesi e mezzo.  Lui si chiamava Eichi, completamente differente dal mio primo fidanzatino. Era un “cantante” visual key, che si destreggiava più o meno egregiamente in piccoli concerti lungo la costa, e richiamava discreto successo col suo gruppo. Musiche che sono rimaste nel comprensorio di Shibuya, e non sono mai andate più lontano. Lo conobbi ad un concerto, al quale ero stata trascinata contro la mia stessa volontà, dopo il compleanno di un’amica. Aveva appena rotto con la sua ex, e quale modo migliore di sfogarsi se non abbordare la prima tipa che compassionevole, viene a domandarti cosa c’è che non va? A ricordarlo ora, non so proprio quale forza mi abbia permesso di uscire con un tipo del genere: giapponese medio, tinto, con i capelli tendenti all’arancio. Orecchini e piercing in qualsiasi porzione del corpo che potesse essere considerato un lembo di pelle; lenti a contatto bi crome: rispettivamente una azzurra e una verdastra. Cosa mi ha attratto di lui? Probabilmente la dolcezza che credevo, - e ripeto CREDEVO  - gli appartenesse. In quel periodo frequentavo le superiori, e potevo permettermi, nei weekend, di accompagnarlo nei suoi concerti, e all’occorrenza fare qualche viaggetto in treno da Tokyo a Shibuya. Quell’uomo, è stato il primo essere che si è impossessato della mia pura e onesta verginità. Gliela concessi perché ancora una volta, avevo chiuso gli occhi del raziocinio e aperto quelli del cuore, che proiettavano davanti a me, una sua immagine del tutto distorta. La nostra prima volta fu da dimenticare! Anzi, la MIA prima volta. Eravamo in una spiaggia, dopo un concerto. Quale posto più romantico dove immolare la propria genuinità? Fu dolce, anche troppo forse, e sarebbe dovuto essere proprio dinanzi a quell’innaturale grazia, che avrei dovuto accorgermi di quanto stronzo fosse nell’intimo. Mi rubò l’unica cosa per la quale avrei ancora potuto combattere, che avrei dovuto conservare per l’unico, non per uno qualsiasi. Probabilmente credevo che quell’unicità potesse risiedere proprio in lui: come sempre mi sbagliavo.

Dopo pochi giorni, ottenuta la festa, mi abbandonò. Non c’era un’altra nella sua vita, si era solamente voluto divertire. Me lo disse proprio in faccia, testuali parole: - “Perdonami Higurashi, ho bisogno di fare nuove esperienze ora. Ci siamo divertiti …” - e sparì. Rimasi costernata, amareggiata, avrei avuto voglia di dargli un bel calcio tra i gioielli. Non lo feci, perché per quanto io soffrissi, il mio cuore era ancora suo. Accettai a testa bassa il crudele destino che mi era stato imposto, non potevo ribellarmi, perché sarei risultata semplicemente infantile.

Ebbene, dopotutto questo è seguito, nella mia vita, un periodo di quiete assoluta, dove non desideravo accanto nessun’altra presenza tranne quella delle mie amiche. Almeno sino a quando non subentrarono loro; quelli che attualmente, rispettivamente da otto mesi e tre anni, sono i rispettivi “consorti” delle mie uniche ragioni di vita. Sono sola. Schifosamente, ironicamente, fottutamente sola. 

L’acqua lentamente scivola via dal corpo, inebriandomi di ricordi e di vaniglia. Esco dalla doccia, avvolgendo un asciugamano attorno al corpo per dirigermi in camera e scegliere alla rinfusa quel che dovrò indossare per il mio entusiasmante tragitto da casa al discount.

Ed eccomi qua, splendidamente avvolta in un’altra tuta, con i capelli raccolti in un semplice chignon, immancabilmente provvista di lenti a contatto, rigorosamente usa e getta senza alcun filo di trucco, così come se mi stessi avviando semplicemente al supermercato, cosa che non sto assolutamente andando a fare eh!  Le porte scorrevoli si aprono, prendo un enorme respiro e mi avvio verso il reparto – cibi in scatola – perché se avessi voglia di cucinare per una persona, sarei impazzita d’un tratto. Mi fermo, osservo placidamente le pile di scatoline e scatolette disposte per etichetta e prezzo sui ripiani; cogliendo col mio infallibile radar una confezione di ramen istantaneo che richiama a gran voce la mia attenzione.

“Oh, oh, oh! Sei mio!” incurvo le labbra come la più spietata dei cecchini, come se fossi pronta a far fuoco sul mio bersaglio, quando dall’altra parte della corsia, appare il nemico. C’è qualcun altro che a quanto pare ha avuto la mia stessa idea, e fissa, guarda caso, lo stesso innocente barattolino istantaneo. Ancora quell’energumeno! Da un anno e mezzo è sempre la stessa storia, qualsiasi cosa io adocchi, viene sempre prontamente riconosciuta dall’altro occhio esperto del mio antagonista. Mh, questa volta non la spunterai. D’un tratto la corsia dei prodotti istantanei diviene la stregua di una città fantasma, dove io e lui ci squadriamo come nella famosa scena di mezzogiorno di fuoco. Parte la musichetta, in modo quasi automatico nel mio cervello, che non ha di meglio da fare se non propormi allettanti background musicali.

“Se pensi che ti lascerò portare a casa il mio trofeo ti sbagli di grosso” sorrido spavalda, piegando il busto in avanti, pronta allo scatto.

“Keh! Se io mi basassi su ciò che tu pensi, sarei proprio sfigato” ribatte, incrociando le braccia al petto ad attendere la mia mossa, sicuro più che mai d’avere la vittoria in pugno. Una scossa di pura rabbia mi attraversa la spina dorsale, così forte che il braccio mi si solleva automatico a mezz’aria col chiaro intento di indirizzare il pugno chiuso su quel sorrisetto saccente.

“Ah, ah, ah. Peccato che tu lo sia già” non ho problemi a fronteggiare un attaccabrighe di tale portata, noi donne abbiamo il dono della pazienza, cosa che tu non possiederai nemmeno tra cent’anni razza di babbione con i capelli scoloriti! Un vago pensiero che mi attraversa celere, prima di scattare in avanti per tentare di accalappiare il prodotto per prima. Peccato che io non abbia fatto i conti con qualcosa di naturalmente evidente anche a occhio nudo …

“Nana” pronuncia vittorioso, limitandosi a compiere qualche passo in avanti e afferrare la scatola con facilità, mentre io, saltellando come una scema; rimango infine sconcertata a fissarlo dalla mia minuta posizione. Tu, razza di gigante col cervello impiantato al posto dei genitali, cos’hai detto? Rossa, percepisco di essere divenuta di un colore totalmente estraneo alla mia naturale tonalità lattiginosa. Per l’ennesima volta sono stata gabbata a causa della mia altezza, e dal fatto che i fottuti proprietari di questo posto si ostinano a sistemare il ramen in scaffali irraggiungibili ad una povera, piccola puffa come me.

“Dammelo! L’ho visto prima io!” continuo a divincolarmi, mentre il palmo della sua mano, posto ‘’gentilmente’’ a far da scudo contro la mia fronte, ad eventuali graffi, mi mantiene a debita distanza da attacchi d’isteria acuti. E’ la mia cena bastardo! Avevo voglia di ramen stasera, e tu hai lasciato sfumare anche l’ultima speranza del mio stomaco.

“Hai perso” mi mostra di nuovo quello sfacciato, quanto soddisfatto sorrisetto ebete, ed io non posso far altro che masticare e inghiottire la mia irritazione, da brava perdente quale sono. Gli occhi mi pizzicano di frustrazione, tanto che quando mi da le spalle vorrei saltargli addosso e martoriarlo di botte ed insulti fino a ucciderlo e vederlo riverso nel suo sangue. Troppo violenta dite? Quando si parla di cibo, posso divenire anche peggiore di così! No, questa volta non te ne andrai con il mio ramen, ti seguirò sino all’inferno per riprendermi ciò che mi spetta.

Prendo la rincorsa, chinandomi in avanti come un ariete pronto a sfondare una porta, dirigendo tutta la mia forza verso quel corpo che se ne cammina tranquillo di fronte a me. “Ti ho detto che è mi…oooo” spalanco gli occhi al denotare che sto correndo diritta verso una piramide di lattine di birra, disposte a regola d’arte proprio sulla mia traiettoria. Dov’è andato? Come cavolo si è spostato, ed io, come ho fatto a non accorgermene? “Dilettante” formula, con le spalle poggiate ad uno scaffale, e il barattolino di ramen che gli saltella allegro all’interno della mano.

No, diamine! Il tentativo di frenare trova riscontro solamente quando il mio corpo subisce un feroce schianto contro la palizzata di lattine, che rotolano tutte addosso a me, una dietro l’altra. Oltre al danno la beffa! Io mi ritrovo sommersa di scatolame, e lui che mi deride come se fossi il film più divertente dell’anno. Maledetto! Ho un’ultima risorsa alla quale attingere. Mi chino, appallottolandomi su me stessa come se fossi caduta in un pianto disperato, o come se mi fossi rotta tutte le ossa del corpo.

“… Quanto male faranno due o tre lattine? Sei fatta di carta?” si avvicina di soppiatto, aggirandomi guardingo per costatare se io stia fingendo o meno, e appurato che probabilmente il mio danno sia più grave del previsto, e probabilmente pervaso da sensi di colpa, si china di fianco a me. Oh, oh, oh. Quanto siete idioti voi uomini … bastano due lacrime ed una buona padronanza della recitazione per farvi cadere in panico come baccalà!

“F … fa male, non ho un corpo forte come il tuo, sono una ragazza, è … è normale che faccia male!” sbotto, col volto immerso tra le mani. “Davvero?” formula avvicinandosi, ecco, è il mio momento! La mia mano scatta, afferrando celere il barattolo per strapparglielo dalle mani. “Blahhhh!” gli mostro la lingua, sollevandomi d’impatto per fuggire via e conquistarmi così la libertà verso l’uscita. Ingannato!

Il suo volto si contrae in una smorfia, segno che non gli è piaciuto molto il mio scherzetto, e, infatti, se ne rimane là, immobile, vicino alla montagna di birre collassate ad osservarmi in silenzio. Ben ti sta, ben ti sta! Corro verso la cassa, per pagare il prodotto e tornarmene a casa a gustare il sapore della vittoria. “Bene signorina, fanno dodicimila yen” cosa? Com’è possibile che un oggetto così piccolo abbia un prezzo così assurdo?

“Scusi, ci deve essere un errore, le sembra che io abbia comprato così tanta roba? E’ un prodotto solo” il cassiere alza le spalle, indicando alla sua destra. “Assieme a quello deve ripagare anche tutte le birre che ha rotto signorina, siamo stati informati da quel ragazzo laggiù, non se la prenda con me” abbassa le palpebre, porgendo il palmo aperto in attesa di ricevere soldi.  Ribollisco di rabbia, le mie spalle si stringono così tanto che ho quasi l’impressione che mi si stia per rompere qualche osso. Lo odio! Bastardo! Schifoso stronzo!

Lui mi osserva con un sorrisetto compiaciuto in volto, aggirando la cassa per pormi una mano sul capo e carezzarla come si fa con i cani. “Volevi il tuo ramen?  Tutto tuo. Bye bye” e mi abbandona così, come una  carciofa, mentre le porte scorrevoli si richiudono alle sue spalle. Fisso per qualche secondo la porta, allibita, per poi sollevare lo sguardo al cielo, con le mani che formicolano di collera.

“SERIAMENTE, PERCHE’ VOIALTRI LASSU’ CE L’AVETE CON ME? IO ODIO, DETESTO, ABORRISCO GLI UOMINIIIII!”

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Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***


Questione di punti di vista

“Ovvero quando sei uno spiantato studente universitario, e l’erba del vicino è sempre più fottutamente verde della tua”

 

Note : I personaggi di Inuyasha non sono di mia proprietà, ma sono copyright di Rumiko Takahashi e delle istituzioni che pubblicano il manga e l’anime; questa storia non è scritta a scopo lucrativo ma per puro divertimento e piacere personale.

 

Capitolo secondo

 

 

Niente parcheggio.  Abbasso lentamente le palpebre, respirando profondamente in una sorta di pratica zen che lo psicologo mi ha suggerito dopo venti sedute, nelle quali mi ha spillato non so quanti quattrini, per frenare i miei collassi nervosi giornalieri. Stringo la mano destra sul volante, osservando dallo specchietto retrovisore il condensarsi della caligine esterna sui vetri appannati dell’auto. Ora, qualcuno mi spiega dove - porcaccia di quella miseriaccia, prendesse un colpo a te, tuo fratello, cognato, zia, nonna, figli e chi dannazione fa parte della tua famiglia – dovrei di grazia, parcheggiare il mio veicolo?

Zona Aoyama, situata nella parte nord-occidentale di uno dei ventidue quartieri speciali di Tokyo. Notte. Rientro serale con tanto di graffio sulla fiancata destra dell’auto nuova che mi sono comprato spiccando salti mortali tra lavoro ed università, il parcheggio che solitamente occupo è stato trafugato impunemente da un ignoto figuro che presto troverà tutte e quattro le ruote della macchina sgonfie e senza paraurti, perché mi degnerò di portarlo in casa come trofeo di caccia. Nessuno, e ripeto, nessuno può salvarsi dopo aver varcato pericolosamente il mio territorio. Piego l’avambraccio dietro lo schienale, facendo retromarcia per piazzare la macchina proprio dietro quella del malcapitato, orizzontalmente, in modo che domattina imprechi almeno quanto ho fatto io per uscire da quel maledettissimo posto.

Incurvo le labbra in un sorrisetto, illuminato dal maniacale desiderio di distruggere quella dannata Suzuki. Poco male, ne pagherà le conseguenze quando vedrà cosa gli combino ora. Apro lo sportello elegantemente, scivolando via dalla vettura, richiudendone successivamente la portiera col telecomando. Muovo uno, due, tre passi verso l’altra macchina, sorridendole omicida come solo il più efferato degli assassini potrebbe fare. Con un movimento fluido premo il bottone che con uno scatto estrae la parte metallica della chiave, poggiandola su quella bella verniciatura cremisi. “Ops, che sbadato” cammino parallelo alla fiancata destra della macchina, lasciandovi impresso sopra un bel solco profondo, tanto per chiarificare di chi sia il suolo su cui poggiano le ruote galeotte dell’altra macchina. Mi piego, flettendo il collo per cercare i regolatori d’aria degli pneumatici, strappandoli uno per uno come tanti petali di margherita, mentre le ruote sbuffano aria da tutte le parti. “Oh mio dio, giuro che non l’ho fatto mica apposta!” e mentre le quattro basi dove poggia la Suzuki si sgonfiano penosamente, il mio sorriso, trionfante, si allarga ulteriormente. Ora posso perdonare colui che ha osato rubarmi il posto.

Alzo le spalle, abbandonando la mia vettura dov’era parcheggiata poc’anzi, per chiamare l’ascensore : direzione, casa. Lungo il corridoio il silenzio tetro, che si fenderebbe come burro da quant’è palpabile, viene bruscamente interrotto da una musichetta da anime shojo, che, con mia somma preoccupazione, proviene proprio dal mio appartamento. Cosa diamine sta succedendo in quella casa? E’ stato forse indetto un cosplay del quale sono totalmente ignorante? Sgrano gli occhi procedendo a passo spedito verso la porta, sudando, e pregando che sia solamente il background di un qualche strambo programma serale alla televisione.

Inserisco la chiave nella toppa, spingendo con tutta la forza che ho in corpo la porta verso l’interno, sbattendola nel vero senso del termine. In una fuga improvvisata attraverso mezzo androne in meno di dieci secondi, sbucando trafelato nel salotto per scoprire con mia ampia costernazione che…

“Paripampum, paripampum!” immaginate la mia faccia che si scioglie come cera. Anzi, sarò ancora più preciso : avete presente l’urlo di Munch? Quel quadro che raffigura un uomo contorto tra spasimi ed urla agghiaccianti? Ecco, immagino d’avere la stessa, identica espressione in questo momento. Miroku, il coinquilino col quale condivido casa mia, se ne sta piazzato dinanzi al televisore, sopra un tappetino da yoga a disegnare circonferenze in aria col braccio e pose inimmaginabili, che fanno tanto praticante di ginnastica ritmica ad un allenamento.

“Cos…cos…” non riesco nemmeno a parlare, tanto è lo shock che mi ha completamente rubato la facoltà di pensare, decidere, e di compiere qualsiasi altro movimento umanamente possibile. E’ una scena a moviola, nella quale il mio co-affittuario si volge verso di me spaesato e terrorizzato, mentre io rimango esattamente nella posa precedente, con le braccia leggermente allargate sui fianchi e le gambe divaricate.

“Non…non…” parliamo a scatti, l’uno dinanzi all’altro, mentre Miroku si spiccia a spegnere il televisore e nascondere tutti gli strani oggetti che lo circondano come se mi stesse nascondendo qualcosa. Cosa che sta effettivamente facendo!

“Che caz…” le mie pupille s’allargano sempre di più, tanto da volermi uscire dalle orbite. Ora, cosa potrebbe immaginare una persona sana di mente che rientra a casa dopo una lezione stancante, dopo aver perso la cena in uno scontro idiota al supermercato, e che non ha nemmeno trovato parcheggio per la macchina? Prima ipotesi : Miroku si è drogato e sta  tentando di somigliare ad una di quelle eroine shojo con lo scettro in mano, o roba simile. Seconda supposizione: il mio migliore amico è in realtà un trans e sta facendo pratiche sadomaso davanti ad un film porno, in ecchi-cosplay. Entrambe le opzioni sono raggelanti.

“N…n…n…” ok, come potremo mai comprenderci così ridotti? Io sono turbato, e se mi caricassero in ambulanza per portarmi all’ospedale nemmeno me ne accorgerei; lui è in stato ancora più confusionale. Pietrificati e costernati l’uno dinanzi all’altro, è come se avessi beccato mia moglie a letto con l’idraulico! Non che mi verrebbe mai in mente di considerare un uomo la mia metà, ma è come se io e Miroku fossimo sposati in un certo senso. Metaforicamente, non letteralmente!

“Spiegami, perché sto immaginando cose che la tua mente non può nemmeno immaginare” comincio un discorso decente, nel mentre l’altro comincia a scuotere le mani davanti al viso come se volesse cancellare ciò al quale i miei poveri occhi hanno tristemente assistito.

“Non è come sembra! Frena pensieri macabri dove io sono il protagonista gay che frusta un altro uomo vestito da fata turchina!” mi ha letto nel pensiero! Talvolta rimango perplesso dal fatto che Miroku sappia prevedere ogni mia mossa. Le cose sono due, o sono un uomo scontato, o qualche nostra sinapsi è connessa esternamente in qualche fantasioso ed inconcepibile modo.

“Veramente ti ho immaginato con tutt’altro abbigliamento, ma lasciamo cadere il discorso prima che divenga equivoco, e prima che mi vengano incubi che potrebbero ledermi il cervello in modo irreparabile. Cosa stavi facendo davanti al televisore, mentre cantavi quell’assurda canzoncina e per di più, cosa cazzo stavi mimando? Miroku…” mi avvicino, posando entrambi i palmi sulle sue spalle, per chinare in seguito il capo tristemente “Se hai bisogno di soldi, la prostituzione non è la scelta migliore …” quando risollevo lo sguardo, mi immergo nel suo totalmente sgomento.

“PROSTITUIRSI? Di cosa diavolo stai parlando?” mi guarda omicida, strappandosi le “ali” da dietro la schiena, per cadere in ginocchio sul pavimento, in una scena decisamente troppo drammatica e retrò per i miei gusti. “Sono stato costretto …”

“E’ stata la yakuza?”

“No…”

“Uno strozzino al quale devi soldi?”

“No…”

“E allora chi?”

“…ngo…”

“Eh?”

“S…go…” sussurra, in un filo di voce impercettibile, che colgo solamente grazie al fatto che il mio udito sia allenato nel dover raccogliere questo genere di informazioni. Allibito. Scioccato. Quale insulsa tortura alla quale sottoporre un uomo? Deve aver fatto sicuramente qualcosa di orribile per meritarsi una punizione così atroce e sadica. “Miroku, cos’hai fatto? Sei andato a letto con un’altra donna?” Alzo una mano di fronte alla bocca, indietreggiando di qualche passo mentre un’ombra scura cala all’interno della stanza. Una donna può davvero costringere un uomo a tanto, per vendetta?

“Non esattamente …” formula, mentre i suoi occhi vuoti si immobilizzano sul pavimento. Peggio di questo? Cosa può aver irritato così tanto la donna del mio coinquilino, per arrivare a fargli questo? “Orsù, dovrai pur aver combinato qualcosa di grave!” lo incito, fermando i miei passi per inarcare livido le sopracciglia, ora se non la smette con tutta questa drammatica messa in scena lo costringo io a vestirsi da ballerina in mezzo ad una strada, vediamo poi come reagisce.

Si alza, raggiungendomi di nuovo per portare entrambe le mani accanto al mio orecchio, e sussurrarmi il tutto all’interno di questo, come se ci potesse sentire qualcun altro.

La reazione che segue passa dallo shock, poi ad un espressione del tutto indecifrabile, ed infine ad una sonora, quanto sbellicante risata che mi piega in due sul pavimento. “Oh mio dio, oddio, oddio, oddio ahahahahahah, non ci credo! Non è possibile! Ahahahah, ti sei lasciato infinocchiare come un’idiota per soddisfare una fantasia sessuale della tua donna ahahahah, tanto da vestirti in un modo così redicolo e improvvisare un karaoke in casa mia e far passare questo locale per una sottospecie di host club per gay ahahahaha…” la mia espressione cambia in un nano secondo, divenendo scura come la pece “Fuori da questa casa…” principio, con evidente impazienza sul volto. Le mie labbra si contraggono pericolosamente, mostrando i canini puntuti ai bordi di queste, in un macabro quanto inquietante sorriso.

“Inuyasha, calmati e ragiona, dove dovrei andare?” ribatte, indietreggiando di un passo.

“Non mi interessa… rinchiuditi in una casa di cura, vai sotto un ponte, suicidati, fa quello che ti pare. Ma non osare mostrare quella tua faccia davanti a me per almeno tre giorni. Sono stato chiaro?” espongo inoppugnabile, puntando il dito con una calma glaciale verso la porta.

“Vestito così?”

“Con le tue idee maniacali stai rischiando di mandare a puttane la mia reputazione e ti preoccupi di come uscire vestito? Se non sposti le tue chiappe fuori da questo appartamento entro dieci secondi, giuro che ti  prendo a calci sino all’uscita e ti mando in giro NUDO COME UN VERME”

Nemmeno flash avrebbe afferrato il mio comando con tanta obbedienza. Fugge, smaterializzandosi dalla sua posizione in pochi istanti per raggiungere l’entrata e scomparirvi dietro.

La tranquillità torna ad imporsi nella stanza seduta stante. Voglio concedermi qualche secondo per rimettere in ordine le idee e porre un freno al nervosismo evidente che si è impossessato come un demonio del mio corpo, facendolo fremere come una maracas.

“Mi chiedo cos’ho fatto di male per meritarmi tutto questo, che qualcuno me lo spieghi!” percorro l’ampio soggiorno, gettandomi a peso morto sul divano, per tornare a fantasticare sul motivo effettivo della mia scelta. Tra tanti amici che potevo selezionare, proprio lui dovevo prediligere come coinquilino?

Massaggio le tempie coi polpastrelli, chiudendo gli occhi per spegnere il cervello e non pensare più a nulla. In tutto questo io devo ancora cenare, studiare per il prossimo esame ed uscire per il solito ritrovo del venerdì sera. Tiro un ampio sospiro, ascoltando il rintoccare dell’orologio che scandisce il mio tempo troppo lentamente per non irritarmi, il rumore del gocciolare di quel dannato rubinetto in bagno è molesto, il ronzio di una mosca che è riuscita a penetrare quella vecchia finestra del soggiorno un movimento infernale per il mio udito, ed i vicini che suonano chiassosi, e la televisione del condominio di fianco, per non aggiungere le grida della coppia di sessantenni che abita sul nostro stesso pianerottolo. Sto per impazzire! “SILENZIO” grido, sollevandomi a sedere sul sofà ed incrociare successivamente le gambe l’una con l’altra. Tutto questo è un supplizio.

Come faccio a cogliere ogni singolo rumore che mi circonda? Semplice, non sono un essere umano. No, non sono né alieno, né tanto meno una creatura delle fiabe (o quasi), sono l’esperimento genetico di una persona che non ha tutte le rotelle a posto. Prima ero un ragazzo normalissimo, con i miei alti e bassi, e con una media sufficiente a scuola, una famiglia a-normale, ed una casa altrettanto stramba. Eravamo tutti perfettamente nella norma, a parte la leggera follia che albergava nei miei genitori, sino al giorno del mio dodicesimo compleanno nel quale, vuoi per caso o per qualsiasi altro dannato scherzo del destino, sarei dovuto morire in un incidente stradale. Oh sì, a ripensarci avrei preferito esser morto.

Mi distendo nuovamente, ispirando. Debole, probabilmente ero troppo debole per poter sopravvivere dopo uno schianto simile, e sarei andato sicuramente all’altro mondo per i medici. Se non fosse intervenuta una persona che tutt’ora mi esimio dal voler nominare, solo per il ribrezzo che provo nel ricordare il suo nome. Esperimento genetico, clonazione, fusione di dna; non so nemmeno io come chiamare la mia rinascita nel mondo dei vivi. Sarei dovuto tornare esattamente come prima, se non fosse per un piccolo errore di calcolo, nel quale la composizione chimica dei miei geni, fu, ma guarda un po’, rimescolata come un cocktail a quella di uno shiba. Sì, proprio un cane! Quindi ora godo di alcuni dei tratti somatici della simpatica bestiola, come le orecchie, gli artigli, ed i sensi più sviluppati di un comune essere umano : olfatto, vista, udito, destrezza, velocità. Dovrebbe essere un bene, potrei considerarmi un essere speciale in fondo. Inizialmente avevo preso questo cambiamento come qualcosa di assolutamente fantastico, ero forte, inattaccabile, avrei potuto usare tutto questo contro chi non mi andava a genio.

Peccato che tutta questa superbia mi diede alla testa, scambiando il dono della vita per un’arma di difesa contro gli altri. Ferivo e attaccavo senza remore, come un cane, proprio come un animale. Più usavo le mie abilità speciali, più la mia rabbia cresceva e diveniva difficile controllarla. Sedato. Venni addormentato come una belva, per poi cominciare le numerose sedute psicologiche che durano oramai da anni. Ecco cosa mi ha portato ad odiare la mia attuale situazione. Non sono più come gli altri, e per quanto per qualcun altro possa essere invidiabile il mio mondo, per me non rimarrà altro che una seccatura dalla quale non potrò mai scappare.

 Devo controllare la rabbia per non fare del male, sono prigioniero nel mio stesso corpo. Non credo più di essere speciale, so solo di essere pericoloso.

Non posso comunque permettermi tutta questa indolenza, se sono ancora vivo, devo sfruttare questa seconda opportunità sino all’ultimo, vivendo ogni istante di quest’esistenza attimo per attimo. Lo faccio per me stesso e per nessun altro, perché voglio riuscire a chiamare esistenza, qualcosa di artificiale che mi permette ancora di respirare.

Un rapido colpo di reni, e mi sollevo nuovamente, circondato dai frammenti di quello che ora è il mio mondo. Una casa, con un coinquilino sottomesso e sfruttato dalla ragazza. Il mio corso di economia e commercio del quale capisco si e no un bilancio su dieci, con lo studio matto e disperatissimo di dieci minuti al giorno, che mi consente di mantenere una media altalenante impronunciabile, ma che comunque mi permette di proseguire gli studi nell’agio sfrenato della nullafacenza. Si fa per dire. L’ultimo rientro a casa non è stato dei migliori ad esempio, tralasciando che una parete di camera mia è stata completamente abbattuta per allargare quella adiacente di mio fratello, dico, nemmeno fossi morto davvero. Dicevo, torno a casa un weekend su mille, e vengo accolto da mia madre che mi sbraita di dover trovare un lavoro perché per mantenere me tra poco dovrà donarsi alla prostituzione (che esagerazione!), mio padre che se ne frega totalmente, annuendo di tanto in tanto solamente per dar ragione a quella squilibrata della mia genitrice, pronunciando sempre e puntualmente le stesse parole “Da retta a tua madre” seh, se avessi ascoltato tutto ciò che secondo lei avrei dovuto fare, a quest’ora sarei sicuramente a lavorare in un circo come ritrovamento antropomorfo del secolo.

Mio fratello, oh, lui è l’ultimo dei miei pensieri. Secondo me non sa nemmeno di avere un fratello. La scena più bella è stata quando ho inavvertitamente domandato che fine avesse fatto camera mia.

Il teatrino di Inuyasha

Inuyasha entra saltellando in casa, tutto contento, sperando di ritrovare la sua bella cameretta come l’aveva lasciata. Il fastidioso rumore di un martello pneumatico però, gli lascia intendere che c’è qualcosa di strano, quindi, zampettando allegramente raggiunge l’ adorabile fratello, buttandogli giù letteralmente la porta della stanza con l’angelica e beata espressione di Satana mentre pungola le anime dannate dell’inferno :

“Sesshomaru!” domanda dolcemente, gridandogli nei timpani nemmeno avesse ingoiato un megafono.

“Fottiti” risponde l’altro, con l’algida delicatezza di un iceberg.

“Cosa cazzo hai fatto alla mia stanza?” ribatte ancora il fratello minore, con garbo, sbattendo un pugno contro il muro per creparlo in mille frammenti.

“Fottiti” asserisce con gradevolezza l’altro, puntandogli addosso uno sguardo talmente eloquente che potrebbe frantumargli le ossa solamente con quello.

“Dovrei dormire in una cuccia?” erompe sarcastico, l’adorabile fratellino, mentre lingue di fuoco invisibili cominciano a saettare all’interno del locale che pare improvvisamente la sala delle caldaie del Titanic prima dell’affondo.

“Fottiti” rincara la dose Sesshomaru, con l’intento di portare avanti la sua tesi inattaccabile sino all’ultimo, che uomo tenace, dovrebbe dichiararsi dittatore!

“Ripeti perché non ho capito l’ultima parola…”

“Fottiti”

“Ah, ora è tutto chiaro, scusa il disturbo. Vaffanculo!” Così termina il colloquio tra due consanguinei che si rispettano e si ammirano a vicenda, col conseguente sbattere della porta da parte di Inuyasha, e dell’ignorare completamente la situazione da parte dell’inaffondabile Sesshomaru.

Il teatrino di Inuyasha, end.

Questa è la storia della fine della mia camera da letto e dell’inizio dell’impero di mio fratello maggiore su casa Taisho. Ordunque, appellandomi a tutta la pazienza disponibile ed ancora usufruibile in corpo, ho abbandonato l’idea di rimettere piede in quella dimora, auto esiliandomi da essa per il resto dei miei giorni. Diverrò indipendente, e da domani, penserò a cercarmi un lavoro che possa placare l’ira di mia madre, che non dovrà divenire una puttana a causa mia, e per godere di quest’esistenza corrotta che mi grava sulle spalle.

Mi alzo, stiracchiandomi, cogliendo l’insolito aroma di una pietanza che mi manda in visibilio. R-a-m-e-n. Se c’è qualcosa al quale non posso resistere, nemmeno se mi legassero mani e piedi ad un blocco di cemento, è proprio quel piatto. Toglietemi tutto, ma non il mio ramen istantaneo.

Ora che ci penso…

“Ladra” sbuffo in un cipiglio contratto, incrociando le braccia al petto mentre lo stomaco gorgoglia. Possibile che ogni volta che decido di andare al supermercato, puntualmente debba incontrare quella megera che tenta di soffiarmi la cena? Non solo, ha anche cercato di attentare alla mia vita con una testata alla schiena, peccato per lei che io sia un mezzo cane e possa spostarmi molto più velocemente di una stupida umana qualsiasi. Inoltre, giocare sporco e far finta di piangere per impietosirmi, ma dico, ho scritto idiota in faccia? Pessima recitazione, davvero pessima, avrei sicuramente fatto di meglio io stesso.

Resta il fatto che io ho sempre fame, e che il frigorifero, se ci si affida alle esperte mani di Miroku, diverrà prima una comoda dimora per i ragni che un contenitore per il cibo. Inarco le sopracciglia abbattuto, non posso studiare a stomaco vuoto, morirò prima (scena drammatica con tanto di palmo sollevato presso la fronte). Annuso l’aria circostante, ritrovando l’odore di poc’anzi che mi solletica le narici invitante. No, non posso. Purtroppo il corpo si muove da solo, e per quanto io non voglia alzare il deretano dalla sua posizione, le gambe hanno preso vita propria per spostarsi sul pianerottolo e raggiungere l’entrata dell’appartamento al piano inferiore (ammazza che olfatto!).

Sospingo leggermente la porta, che a quanto pare è aperta. Ramen …

Lo stomaco protesta, ed io mi ribello a lui per impedirgli di condurmi in casa di estranei. Una persona normale chiederebbe permesso, ma io, non sono né una persona, né tanto meno normale. In questi casi divengo un povero randagio affamato che scodinzola allegramente dopo aver sentito un odore piacevole (solo in questi casi divengo un vero animale).

Non ci metto molto a scovare la cucina, dove ribollente e fumante, scorgo il ben di dio che pare invitarmi a divorarlo in un sol boccone. “Ciao tesoro mio” asserisco, in direzione del ramen, se potessi lo abbraccerei, ma eviterò una scena tanto patetica dettata dai morsi della fame.

Squadro l’abitazione, dove non pare arrivino uomini con fucili né donne armate di scopa. Bene!

Non credo sia giusto far fuori la cena di qualcun altro in questo modo, ma a pensarci bene anche io sono stato privato della mia, quindi, il ragionamento fila.

Sposto la mano verso il contenitore dei miei sogni, quando vengo interrotto da una sensazione abbastanza sgradevole, che sale sulla spina dorsale, diramandosi in tutto il corpo.

“…Un ladro!”

“Ahhhh!” alzo le mani sopra il capo “Dove?” rispondo di rimando, sì, a volte sono proprio idiota; e mi rendo conto solamente dopo che la parola ‘ladro’ era associata a me.

“Ahhhh!” grida, mi volgo per tappare la bocca della donnina, quando rimango ancora più costernato di scoprire che quella davanti a me è…

“AHHHH!”

“AHHHH!” gridiamo all’unisono, puntando l’indice l’uno contro l’altra.

“La maniaca di ramen del supermercato!”

“Lo stronzo delle lattine di birra!” ah, e allora ho doppiamente motivo per rubarle la cena dannazione, si da il caso che quel rame mi appartenga di diritto! Mi sposto indietro, abbassandomi sulla confezione per afferrarla.

“Brutto disgraziato! Ora anche a casa vieni a perseguirtarmi? Per colpa tua ho perso metà del mio stipendio, brutto idiota! Lascia subito quel ramen o ti uccido!” sì,sì,sì chiacchiera quanto vuoi eh.

Nel frattempo, rovescio il contenuto del barattolo direttamente in bocca, pappandomi ciò che c’era al suo interno in un lampo.

Lei rimane di sasso, per poi cominciare a colorarsi di un vivo rosso scarlatto pronta ad uccidermi, probabilmente.

“Ho fatto ciò che era giusto” socchiudo le palpebre, compiaciuto d’aver fatto giustizia!

“Ora te lo do io qualcosa di giusto, brutto stronzo idiota, deficiente, depravato, maniaco!” uh-oh, la via migliore da intraprendere è quella della fuga, non vorrei ricevere un commiato a suon di padellate in testa.

“Ah, mi dispiace, ma non sei il mio tipo. Il ramen era squisito, grazie per la cena nana” sorrido sornione prima di scappare a gambe levate verso la porta, mentre vengo inseguito da utensili di ogni forma e colore, che mi accompagnano gentilmente all’uscita.

“IDIOTA! IDIOTA! IDIOTA!” credo si sia di nuovo arrabbiata, mamma mia le donne non sanno stare agli scherzi, le ho fatto un piacere in fondo, le ho assicurato un chilo in meno sulla bilancia, dovrebbe ringraziarmi.

Defilatomi, sento la porta sbattersi sonoramente alle mie spalle, mentre col fiatone m’appoggio al muro della tromba delle scale che conduce al piano superiore. Che furia omicida, se mi avesse preso con una di quelle pentole, sarei morto sul colpo. Assassina, è già la seconda volta che attenta alla mia vita oggi! Bene, il problema della cena è risolto, ora posso dedicarmi ai miei dodici minuti di studio per poi uscire a far baldoria. Grazie nanetta del discount, per una volta, dopo anni di battaglia, hai saputo perdere con onore!

Sollevo la mano al petto, in segno d’eterna gratitudine, per poi risalire i gradini e tornarmene verso il mio appartamento.

Due a zero, non male come punteggio. Questa è la riconferma che il cane non è sempre il migliore amico dell’uomo.

 “Keh!”.

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