Questione di punti di vista
“Ovvero quando sei uno spiantato
studente universitario, e l’erba del vicino è sempre più fottutamente verde
della tua”
Note: I personaggi di
Inuyasha non sono di mia proprietà, ma sono copyright di Rumiko Takahashi e delle istituzioni che pubblicano il manga e l’anime;
questa storia non è scritta a scopo lucrativo ma per puro divertimento e
piacere personale.
Capitolo
primo
Quante
di voi, seriamente, non hanno mai avvertito un senso di frustrazione così forte
da mandarvi in bestia? Quando nemmeno le scarpe comprate nel negozio
sotto casa, per le quali avete fatto salti mortali, riescono più a colmare quel
fastidioso senso di incompletezza che vi divora.
Esattamente,
sto proprio parlando di quella sensazione assurda che piomba nella vita di una
ventitreenne quando le sue amiche sono già sistemate da anni, magari con uomini
orrendi e totalmente privi d’intelligenza, tanto che una nocciolina apparirebbe
sicuramente più arguta di loro. Eppure a guardarli insieme, pensi a quanto la
tua vita sia maledettamente piatta e insulsa, mentre passi ore e ore davanti ad
un computer a chattare con sconosciuti, o perdi intere giornate a guardare
sitcom americane che credi ti possano risollevare il morale quando avverti le
risate di sfondo che le accompagnano, come se anche tu, interiormente dovessi
deridere con tutta l’anima quegli attori che magari nel retroscena sono sposati
e schifosamente ricchi. Quindi sei seduta là, su quel divano che oramai ha
preso la forma del tuo deretano, a masticare quintali di barrette energetiche,
che dopo dieci minuti divengono quasi gomma in bocca a chiederti perché ogni
pensiero che formuli equivarrà tra qualche mese ad un chilo in più sulla
bilancia.
L’immagine
di te è meravigliosa: e prontamente ti sorprendi quasi, nel vedere che il tuo
riflesso s’intravede dallo specchio, che nemmeno a farlo a posta, è piazzato
proprio alle tue spalle; pronto a suggerirti quanto, se un uomo si trovasse al
tuo fianco ora, desidererebbe essere da un’altra parte, piuttosto che accanto
ad un’informe massa umana avvolta in una mega coperta di pile, con indosso la
classica tuta casalinga, con un grosso paio di occhiali sul naso e i capelli
raccolti sulla nuca, e rigorosamente spettinati. Ti deridi, e se potessi,
punteresti il dito su quella figura per chiederti chi realmente sia quella
povera sciocca riflessa. Il problema è che dopo cinque secondi capisci di
essere proprio tu, privata della seduta estetica di due ore e mezzo dinanzi
allo specchio, come Dio t’ha fatta, semplicemente in fase ‘’rilassata’’. Kagome Higurashi, ventitré anni suonati, studentessa
di Letteratura alla facoltà di Waseda e assidua frequentatrice del suo
lavoretto part-time, che mi consente, fortuitamente, di pagare la tassa
universitaria che ogni anno sale alle stelle. Se credete che ventiduemila yen
siano niente, non vi accennerò alcun che per quanto riguarda il costo reale
della frequenza annuale.
La
mia vita pare concentrarsi nel mio piccolo globo d’insoddisfazione, che si
ramifica in tre parti fondamentali della giornata: mattina – studio –
pomeriggio, – lavoro – sera, di nuovo studio. Rimpiango le superiori, dove
almeno, tra esami d’ammissione e test d’ogni sorta e colore, avevo anche del
tempo per godere, effettivamente, della mia vita da studentessa. Vorrei proprio sapere chi dice che all’università
tutto diviene più semplice. Quando mai? O almeno, non quando professori che
nemmeno conoscono il tuo nome, hanno di te aspettative inimmaginabili, tanto
che a loro parere dovrei presto raggiungere la notorietà di Noboru Takeshita o
Yasuo Fukuda, di cui i volti impressi nel corridoio centrale della facoltà, mi
ricordano giornalmente quanto io, a loro confronto, sia ancora dannatamente
microscopica e invisibile.
Ore
diciassette e quarantacinque, l’orologio pare avercela con me. Il suo assurdo
ticchettio mi ricorda lo scandire lento, lentissimo, dei minuti che quando
studi non passano mai. Più cerco di concentrarmi sul testo di seicentoventicinque
pagine che dovrò aver imparato come un sutra buddhista entro mercoledì, più la
mia mente si ostina a staccarsi dalle sue pagine per volare altrove, magari al
karaoke giù in fondo alla strada, dove probabilmente ora le mie amiche staranno
bisbocciando con i rispettivi compagni.
Sollevo le mani dietro la nuca, per raccogliere i capelli in una coda e
trattenerli per qualche secondo uniti all’interno del pugno, stritolandone la
massa scura per evitare di sfogarmi su qualcos’altro.
Sono
ufficialmente frustrata. Mi ritroverò a cinquant’anni, in un monolocale di
Kyoto a sorseggiare tè verde assieme ai miei venti o trenta gatti, ai quali
leggerò qualche Aikido per tirarmi su di morale. Sbarro gli occhi, chiedendomi perché,
ogni qualvolta la mia depressione sale alle stelle, io mi ritrovi a immaginarmi
in questo modo. Ci potrebbe davvero essere una relazione tra quest’allucinazione
e il mio futuro? Preferisco non pensarci.
Mi
alzo, passando in rassegna con lo sguardo ogni minuzia che compone l’appartamento
dove vivo al momento, con l’unico intento di far apparire più lungo il tragitto
dalla stanza alla cucina. Parete, tavolo con sopra poggiata una cornice della
festa del diploma, ancora una parete, cassettone stile settecento che mia madre
mi ha costretto a comprare da un antiquariato alla modica cifra di sessantamila
yen. Vaso di fiori vuoto, perché la pianta contenuta dentro qualche mese fa è
defunta per esaurimento e mancanza perenne d’acqua. Non ho tempo di badare a
me, figuriamoci alle piante!
Cucina.
Dio, sono già arrivata? Getto una sguardata all’orologio e scopro che non sono
passati più di cinque o sei minuti dall’ultima volta che l’ho guardato. Mi
sento svenire …
Raggiungo
il frigorifero trascinandomi come una mummia, che avrebbe sicuramente una cera
migliore di questa povera donna. Apro il frigorifero, perché lo stomaco ha già
cominciato a reclamare l’assenza di cibo perpetuata per almeno tre o quattro
ore. Un algido freddo m’investe il volto, e rimango costernata nel denotare che
l’interno dell’elettrodomestico è più vuoto della mia pancia. Sul primo ripiano
sosta uno yogurt solitario, che non ricordo nemmeno di aver comperato. Sul
secondo, una banana ed un limone mi osservano con tristezza, domandandomi perché
ho avuto la malsana idea di sistemarli vicino al decotto palustre – che emana
decisamente un odore nauseabondo – che mio nonno mi propina ogni mese contro l’influenza
stagionale. Ultimo, ma non in ordine d’importanza, ecco apparire, avvolto nella
carta stagnola, un dolce che risale al paleolitico probabilmente; che mi esimio
dallo scartare per paura di verificare lo stato avanzato di decomposizione del
cioccolato. Bene, dovrò uscire a fare la spesa. Sospiro, chiedendomi, forse per
l’ennesima volta, quanto vantaggio ci sia stato nel volermene andare di casa
alla “tenera” età di vent’anni. Avrei dovuto seguire l’esempio di Sango, alias
la mia migliore amica, che ha preferito fossilizzarsi a casa dei suoi per i
prossimi dieci anni.
Abbasso
le spalle in un moto d’arrendevolezza. Farò una doccia e poi mi precipiterò al
discount sotto casa. Dio! La mia vita somiglia a quella di una pensionata sui
settant’anni, la cui massima aspettativa è quella di giocare a canasta con le
amiche il sabato sera, o di godersi una telenovela brasiliana alle sette e mezzo
di mattina. Chiudo gli occhi, contando sino a venti prima di trattenere un
grido di disperazione e dirigermi a passo marziale verso il bagno.
Ah,
il profumo di vaniglia. L’ho sempre associato a qualcosa di rilassante in vita
mia, ed ha sempre accompagnato i momenti migliori di questa. Apro le ante della doccia, richiudendomele
dietro le spalle per far partire il getto d’acqua bollente che m’investe come
un treno in corsa. Il mio primo giorno di scuola elementare, la volta in cui ho
conosciuto Sango, il primo ballo in discoteca, il primo stipendio, la visita a
casa di mia nonna per il mio diciassettesimo compleanno, la prima gita
scolastica … il primo amore. Inarco le sopracciglia, girando la manopola per
intensificare il getto d’acqua sulla schiena. Ecco la parola più scomoda del
vocabolario dei ricordi, e anch’essa, purtroppo è collegata al piacevole odore
della vaniglia. Non doveva ricordarmi i momenti gradevoli della vita?
Se
il primo amore non si scorda mai, io ho tutta l’intenzione di farlo. Successe a
quindici anni, quando ancora la mia povera testolina bacata era convinta che l’amore,
nella vita reale, corrispondesse a quello delle favole. Disgraziata! Lui era
carino, non eccezionale ma piacente. Il solo fatto che fosse più intelligente
di me e che possedesse un vocabolario più che dignitoso per essere in terza
media, lo rendeva ai miei occhi, il ragazzino più interessante del
pianeta. Si chiamava Hiroshi, non troppo
basso, altezza giusta; il classico giapponese. Occhi scuri, con un delizioso
taglio a mandorla, contornati dalle ciglia scure e spesse. Un volto ovale, non rude, a tratti gentile
con un sorriso amabile, di cui adoravo le fossette che si formavano ai lati
delle labbra ogni qualvolta le incurvava. Eravamo una coppia nella media, anonimi
ai più e felici nel nostro piccolo. Allora il rapporto che s’instaurava tra un
ragazzo ed una ragazza non era come oggi, a quindici anni si è più timidi, e il
massimo che ci si può aspettare da un appuntamento è tenersi per mano al
cinema, o in un qualsiasi luogo appartato dove non si è visti. Credevo di
esserne innamorata. Ecco. Ipotizzare le cose è assolutamente sbagliato, e lo è
ancora di più cominciare a farsi film stupidi e poco probabili su di una
possibile vita insieme: per sempre.
Mi
tradì dopo sei mesi e mezzo con una mezza americana trasferitasi nella nostra
stessa scuola proprio quell’anno. Quando dici, che la sfortuna ti vuole proprio
male. Di quella relazione cosa ricordo? Un bacio. Forse il più bello che
credevo d’aver mai ricevuto, l’unico di quell’epoca che sembra così lontana, ed
invece si trova proprio dietro l’angolo, a pochi anni di distanza. Cos’altro? Pianti, bollette chilometriche e
salatissime, conseguenza delle ore su ore spese al telefono con Sango, che
prontamente tentava di consolarmi come meglio poteva, e vagonate di fazzoletti
di carta sparpagliati in camera. Ecco, cosa ricordo del mio primo amore.
Il
secondo non è di certo stato più interessante, nemmeno il terzo e il quarto.
Scappatelle, come hanno la moda di chiamarle ora, la più lunga delle quali è
durata due mesi e mezzo. Lui si chiamava
Eichi, completamente differente dal mio primo fidanzatino. Era un “cantante”
visual key, che si destreggiava più o meno egregiamente in piccoli concerti
lungo la costa, e richiamava discreto successo col suo gruppo. Musiche che sono
rimaste nel comprensorio di Shibuya, e non sono mai andate più lontano. Lo
conobbi ad un concerto, al quale ero stata trascinata contro la mia stessa
volontà, dopo il compleanno di un’amica. Aveva appena rotto con la sua ex, e
quale modo migliore di sfogarsi se non abbordare la prima tipa che
compassionevole, viene a domandarti cosa c’è che non va? A ricordarlo ora, non
so proprio quale forza mi abbia permesso di uscire con un tipo del genere:
giapponese medio, tinto, con i capelli tendenti all’arancio. Orecchini e
piercing in qualsiasi porzione del corpo che potesse essere considerato un
lembo di pelle; lenti a contatto bi crome: rispettivamente una azzurra e una
verdastra. Cosa mi ha attratto di lui? Probabilmente la dolcezza che credevo, -
e ripeto CREDEVO - gli appartenesse. In
quel periodo frequentavo le superiori, e potevo permettermi, nei weekend, di
accompagnarlo nei suoi concerti, e all’occorrenza fare qualche viaggetto in
treno da Tokyo a Shibuya. Quell’uomo, è stato il primo essere che si è
impossessato della mia pura e onesta verginità. Gliela concessi perché ancora
una volta, avevo chiuso gli occhi del raziocinio e aperto quelli del cuore, che
proiettavano davanti a me, una sua immagine del tutto distorta. La nostra prima
volta fu da dimenticare! Anzi, la MIA prima volta. Eravamo in una spiaggia,
dopo un concerto. Quale posto più romantico dove immolare la propria genuinità?
Fu dolce, anche troppo forse, e sarebbe dovuto essere proprio dinanzi a quell’innaturale
grazia, che avrei dovuto accorgermi di quanto stronzo fosse nell’intimo. Mi
rubò l’unica cosa per la quale avrei ancora potuto combattere, che avrei dovuto
conservare per l’unico, non per uno qualsiasi. Probabilmente credevo che quell’unicità
potesse risiedere proprio in lui: come sempre mi sbagliavo.
Dopo
pochi giorni, ottenuta la festa, mi abbandonò. Non c’era un’altra nella sua
vita, si era solamente voluto divertire. Me lo disse proprio in faccia,
testuali parole: - “Perdonami Higurashi, ho bisogno di fare nuove esperienze
ora. Ci siamo divertiti …” - e sparì. Rimasi costernata, amareggiata, avrei
avuto voglia di dargli un bel calcio tra i gioielli. Non lo feci, perché per
quanto io soffrissi, il mio cuore era ancora suo. Accettai a testa bassa il
crudele destino che mi era stato imposto, non potevo ribellarmi, perché sarei
risultata semplicemente infantile.
Ebbene,
dopotutto questo è seguito, nella mia vita, un periodo di quiete assoluta, dove
non desideravo accanto nessun’altra presenza tranne quella delle mie amiche.
Almeno sino a quando non subentrarono loro; quelli che attualmente,
rispettivamente da otto mesi e tre anni, sono i rispettivi “consorti” delle mie
uniche ragioni di vita. Sono sola. Schifosamente, ironicamente, fottutamente
sola.
L’acqua
lentamente scivola via dal corpo, inebriandomi di ricordi e di vaniglia. Esco
dalla doccia, avvolgendo un asciugamano attorno al corpo per dirigermi in
camera e scegliere alla rinfusa quel che dovrò indossare per il mio
entusiasmante tragitto da casa al discount.
Ed
eccomi qua, splendidamente avvolta in un’altra tuta, con i capelli raccolti in
un semplice chignon, immancabilmente provvista di lenti a contatto,
rigorosamente usa e getta senza alcun filo di trucco, così come se mi stessi avviando semplicemente al supermercato, cosa che non sto assolutamente andando a fare eh! Le porte scorrevoli si aprono, prendo un
enorme respiro e mi avvio verso il reparto – cibi in scatola – perché se avessi
voglia di cucinare per una persona, sarei impazzita d’un tratto. Mi fermo,
osservo placidamente le pile di scatoline e scatolette disposte per etichetta e
prezzo sui ripiani; cogliendo col mio infallibile radar
“Oh,
oh, oh! Sei mio!” incurvo le labbra come la più spietata dei cecchini, come se
fossi pronta a far fuoco sul mio bersaglio, quando dall’altra parte della
corsia, appare il nemico. C’è qualcun altro che a quanto pare ha avuto la mia
stessa idea, e fissa, guarda caso, lo stesso innocente barattolino istantaneo.
Ancora quell’energumeno! Da un anno e mezzo è sempre la stessa storia,
qualsiasi cosa io adocchi, viene sempre prontamente riconosciuta dall’altro
occhio esperto del mio antagonista. Mh, questa volta non la spunterai. D’un
tratto la corsia dei prodotti istantanei diviene la stregua di una città
fantasma, dove io e lui ci squadriamo come nella famosa scena di mezzogiorno di
fuoco. Parte la musichetta, in modo quasi automatico nel mio cervello, che non
ha di meglio da fare se non propormi allettanti background musicali.
“Se
pensi che ti lascerò portare a casa il mio
trofeo ti sbagli di grosso” sorrido spavalda, piegando il busto in avanti,
pronta allo scatto.
“Keh!
Se io mi basassi su ciò che tu pensi, sarei proprio sfigato” ribatte, incrociando
le braccia al petto ad attendere la mia mossa, sicuro più che mai d’avere la
vittoria in pugno. Una scossa di pura rabbia mi attraversa la spina dorsale,
così forte che il braccio mi si solleva automatico a mezz’aria col chiaro
intento di indirizzare il pugno chiuso su quel sorrisetto saccente.
“Ah,
ah, ah. Peccato che tu lo sia già” non ho problemi a fronteggiare un
attaccabrighe di tale portata, noi donne abbiamo il dono della pazienza, cosa
che tu non possiederai nemmeno tra cent’anni razza di babbione con i capelli
scoloriti! Un vago pensiero che mi attraversa celere, prima di scattare in
avanti per tentare di accalappiare il prodotto per prima. Peccato che io non
abbia fatto i conti con qualcosa di naturalmente evidente anche a occhio nudo …
“Nana”
pronuncia vittorioso, limitandosi a compiere qualche passo in avanti e
afferrare la scatola con facilità, mentre io, saltellando come una scema;
rimango infine sconcertata a fissarlo dalla mia minuta posizione. Tu, razza di
gigante col cervello impiantato al posto dei genitali, cos’hai detto? Rossa,
percepisco di essere divenuta di un colore totalmente estraneo alla mia
naturale tonalità lattiginosa. Per l’ennesima volta sono stata gabbata a causa
della mia altezza, e dal fatto che i fottuti proprietari di questo posto si
ostinano a sistemare il ramen in scaffali irraggiungibili ad una povera,
piccola puffa come me.
“Dammelo!
L’ho visto prima io!” continuo a divincolarmi, mentre il palmo della sua mano,
posto ‘’gentilmente’’ a far da scudo contro la mia fronte, ad eventuali graffi,
mi mantiene a debita distanza da attacchi d’isteria acuti. E’ la mia cena
bastardo! Avevo voglia di ramen stasera, e tu hai lasciato sfumare anche l’ultima
speranza del mio stomaco.
“Hai
perso” mi mostra di nuovo quello sfacciato, quanto soddisfatto sorrisetto ebete,
ed io non posso far altro che masticare e inghiottire la mia irritazione, da
brava perdente quale sono. Gli occhi mi pizzicano di frustrazione, tanto che
quando mi da le spalle vorrei saltargli addosso e martoriarlo di botte ed insulti
fino a ucciderlo e vederlo riverso nel suo sangue. Troppo violenta dite? Quando
si parla di cibo, posso divenire anche peggiore di così! No, questa volta non
te ne andrai con il mio ramen, ti seguirò sino all’inferno per riprendermi ciò
che mi spetta.
Prendo
la rincorsa, chinandomi in avanti come un ariete pronto a sfondare una porta,
dirigendo tutta la mia forza verso quel corpo che se ne cammina tranquillo di
fronte a me. “Ti ho detto che è mi…oooo” spalanco gli occhi al denotare che sto
correndo diritta verso una piramide di lattine di birra, disposte a regola d’arte
proprio sulla mia traiettoria. Dov’è andato? Come cavolo si è spostato, ed io,
come ho fatto a non accorgermene? “Dilettante” formula, con le spalle poggiate
ad uno scaffale, e il barattolino di ramen che gli saltella allegro all’interno
della mano.
No,
diamine! Il tentativo di frenare trova riscontro solamente quando il mio corpo
subisce un feroce schianto contro la palizzata di lattine, che rotolano tutte
addosso a me, una dietro l’altra. Oltre al danno la beffa! Io mi ritrovo
sommersa di scatolame, e lui che mi deride come se fossi il film più divertente
dell’anno. Maledetto! Ho un’ultima risorsa alla quale attingere. Mi chino,
appallottolandomi su me stessa come se fossi caduta in un pianto disperato, o
come se mi fossi rotta tutte le ossa del corpo.
“…
Quanto male faranno due o tre lattine? Sei fatta di carta?” si avvicina di
soppiatto, aggirandomi guardingo per costatare se io stia fingendo o meno, e
appurato che probabilmente il mio danno sia più grave del previsto, e
probabilmente pervaso da sensi di colpa, si china di fianco a me. Oh, oh, oh.
Quanto siete idioti voi uomini … bastano due lacrime ed una buona padronanza
della recitazione per farvi cadere in panico come baccalà!
“F
… fa male, non ho un corpo forte come il tuo, sono una ragazza, è … è normale
che faccia male!” sbotto, col volto immerso tra le mani. “Davvero?” formula
avvicinandosi, ecco, è il mio momento! La mia mano scatta, afferrando celere il
barattolo per strapparglielo dalle mani. “Blahhhh!” gli mostro la lingua,
sollevandomi d’impatto per fuggire via e conquistarmi così la libertà verso l’uscita.
Ingannato!
Il
suo volto si contrae in una smorfia, segno che non gli è piaciuto molto il mio
scherzetto, e, infatti, se ne rimane là, immobile, vicino alla montagna di
birre collassate ad osservarmi in silenzio. Ben ti sta, ben ti sta! Corro verso
la cassa, per pagare il prodotto e tornarmene a casa a gustare il sapore della
vittoria. “Bene signorina, fanno dodicimila yen” cosa? Com’è possibile che un
oggetto così piccolo abbia un prezzo così assurdo?
“Scusi,
ci deve essere un errore, le sembra che io abbia comprato così tanta roba? E’
un prodotto solo” il cassiere alza le spalle, indicando alla sua destra. “Assieme
a quello deve ripagare anche tutte le birre che ha rotto signorina, siamo stati
informati da quel ragazzo laggiù, non se la prenda con me” abbassa le palpebre,
porgendo il palmo aperto in attesa di ricevere soldi. Ribollisco di rabbia, le mie spalle si
stringono così tanto che ho quasi l’impressione che mi si stia per rompere
qualche osso. Lo odio! Bastardo! Schifoso stronzo!
Lui
mi osserva con un sorrisetto compiaciuto in volto, aggirando la cassa per pormi
una mano sul capo e carezzarla come si fa con i cani. “Volevi il tuo
ramen? Tutto tuo. Bye bye” e mi
abbandona così, come una carciofa, mentre le porte scorrevoli si
richiudono alle sue spalle. Fisso per qualche secondo la porta, allibita, per
poi sollevare lo sguardo al cielo, con le mani che formicolano di collera.
“SERIAMENTE,
PERCHE’ VOIALTRI LASSU’ CE L’AVETE CON ME? IO ODIO, DETESTO, ABORRISCO GLI
UOMINIIIII!”