†Memories Dust†

di Lady Chaos
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo di un'inaspettata regola ***
Capitolo 2: *** Crystal Prison ~ Bra ***
Capitolo 3: *** Hypnotic Poison ~ Marron ***
Capitolo 4: *** Naivety essence and bitter solitude ~ Goten e Chichi ***



Capitolo 1
*** Prologo di un'inaspettata regola ***


†Memories Dust†

[Prologo di un'inaspettata regola]



Un ultimo soffio di vento.
Sì, sarebbe ben presto finita, era questione di poco più di una settimana e finalmente, si poteva tornare a godere del delizioso tepore del Sole primaverile. Ebbene. E così era giunto il tanto atteso epilogo del gelido inverno. Si sarebbero presto sciolti i cristalli di ghiaccio, si sarebbe sgelata la neve candida che ricopriva i vasti prati tappezzati di foglie secche e le montagne rocciose, ricoperte di alti alberi dalle perfette chiome color smeraldo anche dopo le burrasche. La fine di quel freddo spietato che ogni volta, non poteva fare a meno di trapassarle la carne come fosse una lama affilata e pronta a dipingere la superficie d’argento di puro sangue, gocciolando sopra la terra fertile e facendo trasparire la luce assassina davanti al firmamento, del freddo spietato che penetrava avidamente tra le ossa mentre impallidiva e batteva i denti, tremava, mentre sentiva il passo felpato e pretenzioso dell’aria ghiacciata, renderla sua succube nel momento in cui contro ogni suo volere e potere, invadeva il calore del suo corpo inerte offerto al vento furioso, le smembrava le viscere, si tuffava nelle vene purpuree … dello stesso freddo spietato che la zittiva, che la faceva rimanere ferma lì dov’era prima, perché ingenua, era uscita dalle sue quattro mura, accalorate da un focolare giacente all‘angolo più solitario del muro, cercando di nutrire il fuoco avido, quasi stanco di emettere le nere fuliggini della combustione. Viveva in quel posto e se ne accorgeva.
Non proferiva alcuna parola. O meglio, voleva farlo proprio in quel momento, puntuale come sempre, sì, forse era quello giusto, di solito parlava anche troppo, ma quella volta che occorreva anche una parola detta si sfuggito,  non riusciva a pronunciare mezza lettera.
Non se l’aspettava.
La mano del silenzio l’aveva prima sfiorata, le aveva lasciato sulla pelle giovane, il morbido tratto del suo tocco sovrannaturale, disumano, superiore, potente: in poche parole: divino. Poi l’aveva  costretta a tacere. Serrava le labbra stupefatta.
Veloce, impalpabile, il suo tocco quasi tagliente non le aveva dato il tempo di realizzare cosa riusciva a vedere intorno a sé o meno, rifletté. Aspettò e poi tacque. Sorrise. Riaprì gli occhi.
Ed era lì, la piccola.
Davanti alla valle innevata, sola e al buio. La burrasca violenta e impetuosa aveva travolto i boschi dei suoi adorati monti con la stessa violenza di un esercito al fronte che scende sul campo di battaglia disposta ad ogni costo a difendere la propria patria dal temibile e pericoloso nemico: dopo che la tempesta aveva lasciato il villaggio in preda alle tenebre più funeste, prosciugando le energie delle piccole e pallide luci che illuminavano i sentieri dei colli, ne aveva osservato i simboli: i segni del suo passaggio.
Ora aveva tutto il suo mondo avanti a se.
Lo tracciava. Lo raffigurava. Lo dipingeva.
Si lasciava guidare dall‘ispirazione improvvisa e appena giunta, accalcata su di lei, sua amica, sua guida, sua compagna.
Riempiva di colore quella tela bianca, pallida e inespressiva.
Con soffici pennellate di passione, ritraeva i colori della vita.
« Mi serve dell’acqua … »
Scattò immediatamente in piedi dallo sgabello e percorse transiti pesanti e rapidi, alzando ritmicamente le braccia rizzate dai fianchi al capo e alternandole simultaneamente, in alto e in basso, incedendo come un soldato e cercando di mantenere stabilità persistente mettendosi alla prova con uno dei pesanti libri del padre sopra la testa.
Si diresse verso la porta dello scantinato, volta alle spalle della casa della nonna.
Una volta arrivata fu costretta a fermarsi davanti alla piccola cupola. Era chiusa a chiave.
Sorrise, provando dentro al cuore un grande senso di tenerezza.
Pensò che molto probabilmente, proprio sua nonna ci si fosse rinchiusa dentro apposta e che volesse rimanere da sola, quando ciò accadeva era perché sentiva incessante il bisogno di riflettere. Su cosa? Non lo aveva ancora capito nessuno. I suoi pensavano che fossero i primi segni di una crisi di mezza età. Fatto stava che la cosa più strana era il motivo che ne stava quasi  “prendendo egoisticamente possesso” per così dire, almeno.
Non permetteva più quasi a nessuno di entrarci. Poteva forse darsi che l’avesse presa come sua unica  “oasi di ricordi” : Là dentro erano conservati i più preziosi cimeli di famiglia, a partire dal costumino che la piccola Chichi indossava sempre da bambina, ai costumi del tutto originali dei suoi genitori, i due Great Sayaman di Satan City di cui lei stessa sin da piccola aveva sempre sentito parlare. Bussò lievemente.
Nessuna risposta.
Si armò di pazienza, ci riprovò.
Il silenzio più assoluto.
Iniziando a innervosirsi fece più pressione ai pugni mettendovi più forza, finchè l’anziana donna, non aprì e con fare alquanto seccato, la guardò in malo modo da capo a piedi.
« Scusami nonna, so che ti dà fastidio, ma mi servirebbe dell’acqua per diluire la tempera e papà aveva messo le botti d’acqua del fiume qui dentro, così … » cercò immediatamente di giustificarsi la ragazzina. Il solito cipiglio severo della donna sparì in un momento, lasciando spazio ad un sorriso appena accennato. «Mia piccola Pan, forse è arrivato il momento per noi di parlare.» Disse, afferrando una specie di libro dalla copertina nera sul pugno destro e richiudendo a chiave il suo scantinato.
La nipote di Goku spalancò gli occhi incredula di fronte a quel fulmineo e parecchio insolito cambiamento d’ umore della nonna. «Parlare? E di cosa?»
«Ognuno di noi ha i propri spazi e gli altri, volendolo o meno, sono tenuti a rispettare la volontà dei primi. » Così Chichi iniziò a discutere di un tema che si preannunciava di già piuttosto lungo, mentre circondando il collo della nipote di fianco a lei con il braccio sinistro in una specie di abbraccio l’accompagnava a casa propria per prepararle la merenda «Questa è ormai diventata una regola a casa nostra e i tuoi genitori ti hanno da sempre insegnato a rispettare le regole. Insomma, lì non puoi più entrare, né tu, né nessun altro, finchè non lo deciderò io. » rispose in tono fermo la nonna, non sembrava poter ammettere discussioni di alcun tipo.
« Nello scantinato? E perché mai? » chiese Pan sorpresa.
Chichi la fissò sorniona e aprì il portone di casa, portando con sé Pan che la seguì in cucina, nel quale tavolo, la più anziana appoggiò il libro nero, per poi dirigersi nella stanza.
« Il tempo è il guardiano delle anime … E’ un elemento fondamentale che vige su di un equilibrio costante sovrapponendolo ad un altro, creando così una catena di eventi che si riscontrano in successione e che finiscono per intrecciarsi a vicenda. Talvolta facendo riscontrare una terribile confusione oppure, possono incatenarsi a ritmo lento e ininterrotto che è quasi impercettibile, si fonde ai nostri sensi e alle nostre percezioni creando una simbiosi quasi mistica, favolosa e crea un potere dalle forze talmente immense da essere inimmaginabili. E’ un filo sottile, può essere più o meno intricato a seconda di come gestiamo i nostri pensieri, le nostre sensazioni o i nostri sentimenti, che regge l’intera storia di una persona, racchiudendone le diverse fasi tra i meandri più nascosti della nostra mente e custodendoli come fossero puro oro in una miniera scavata tra le fosse più profonde, buie, intricate e introvabili. Sono merce preziosissima, fanno parte di noi, sono i nostri ricordi. »
La donna osservò la nipote con la coda dell’occhio, non ci aveva capito nulla, così con lo sguardo le fece capire che quella storia c’entrava con quel libro nero.
«Perché mi stai parlando di questo? » chiese Pan con fare interrogativo e curioso, fu attratta dal libro posto li di fronte a lei.
La signora Son, gentile e premurosa le sorrise e una volta portato in casa propria la nipote, la fece sedere sul tavolo della cucina preparandole un tè.
« Come puoi aver osservato tu stessa, non serve studiare anni e anni per diventare un eccellente scienziato e per saper comprendere questo ciclo di cambiamenti che affrontiamo nella nostra vita, ci è arrivata persino una come me che non ha nemmeno frequentato le superiori. »
« Come … hai .. »
«Fa parte di quello che siamo, del nostro naturale essere, non occorre inventare macchine del tempo per guardare addietro e chiedersi se tutto quello che viviamo abbia un senso o meno, cosa siano il passato, il presente o il futuro … perché è soltanto la nostra forza di volontà a poterci rispondere a questo tipo di domande che spesso capita di porsi. Con ogni nostro gesto rendiamo al mondo quello che sentiamo. Quello che facciamo da bambini ad esempio, farà parte di quella che da adulti ricorderemo come la nostra infanzia. Come quando con tenerezza ricordiamo il nostro passato di bambini ingenui e spensierati e passavamo le notti abbracciati al nostro peluche.»
La ragazzina iniziò meccanicamente a ponderare sul significato di tutte quelle parole che aveva a mala pena recepito: segnali convulsi e trasmessi alla rinfusa. Forse ci aveva capito poco o niente. Ma a lei andava bene così.
« Pan, » le si avvicinò Chichi sedendosi vicino a lei e consegnandole il libro « hai mai tenuto un diario? »
Cose da ragazzine, così lei aveva sempre pensato.
Chichi la fissò seria. «D’ora in poi dovrai farlo. Per me, E’ un favore che vorrei tu mi facessi, consumalo fino alla fine, Voglio che tu scrivi tutto quello che senti, che pensi e che vedi. Credimi, è davvero importante. Ma soprattutto, non entrare mai nello scantinato senza il mio permesso. »
La rugosa fronte di Chichi si increspò, mentre le sopracciglia si piegarono improvvisamente.
Stava piangendo.



 





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Capitolo 2
*** Crystal Prison ~ Bra ***




†Memories Dust†

Capitolo I
$ Crystal Prison $

§Bra§


Nitido il riflesso dell’ombra fosca dipinta nell‘invisibile ritratto della Luna Nuova.
Il novilunio gioisce della notte oscura e priva noi esseri umani persino di un minimo bagliore dell’iridescenza cristallina, ricoprendo anche gli ultimi astri risplendenti nel cielo terso che brilla di pioggia.
Pioggia. Sfolgora lieve il luccichio dell’acqua, goccia dopo goccia, come se le sue lacrime pure fossero piccoli diamanti disseminati e sparpagliati lungo un interminabile velo di seta blu. Dalle grotte, inneggia lentamente il cominciar dell’avanzare della nebbia, favorito dagli imminenti temporali che ben presto dissimuleranno tutte le città sopra le punte dei monti alti. Piano. Piano. Piano. Risalgono ai pendii delle valli fresche e innevate.
Nubi d’argento fitte che si infiltrano insolenti nell’aria tiepida.
Una scossa. La terra si scuote. Il cielo si oscura. Le nuvole sono in fiamme. Spirali di fumi offuscati. Odori acidi che invadono e rinsecchiscono le narici.
Lei.
Come la conferma di un oracolo divino. Chi ci salverà?
Maestosa e statuaria, in mezzo alle brulicanti nebbie e alla volta celeste di porpora, tra i lampi fluorescenti che fiammeggiano spediti dal cielo, scatenati dall’ira degli dei divini, si innalza la figura imponente: i capelli aurei, lunghi e maestosi che si ramificano lungo la schiena sottile, la minigonna rossa e corta che con eleganza ripercorreva le forme perfette del suo allenato fisico da combattente.
Il fiocco rosso. La sfera arancione. Un simbolo. E’avvolta da un’aura d’oro. Già vista. Molto famigliare.
Si volta. Mi guarda.
Il viso aspro assume un espressione di dubbia interpretazione. Nei suoi occhi si leggono perplessità e paura. Si avvicina a me con fare rapido e ansioso.
Ansima.
«Avrei voluto fare di più, piccola. »
Mi afferra e mi prende in braccio. Libra in cielo leggera, lasciando dietro sé una scia di colori chiari e pallidi che si disperdono tra i venti, volando come una farfalla dalle ali variopinte, limpide come specchi di tanti colori diversi amalgamati tra loro solamente come può esserlo il tinteggiato quadro di un’opera d’arte che necessita d’essere tirata a lucido per l’ultima volta. Una farfalla pronta a spiccare il suo ultimo volo verso la morte sicura e imminente e già predestinata a versare sangue, come le acque di una cascata scosse da una violenta bava di vento che si diramano lungo un burrone quasi infinito prima di giacere a terra e trasformarsi in fango. Come un eterno cristallo di ghiaccio pronto a sciogliersi prima di incrinarsi e di cedere, di spezzarsi, per poi finire di rompersi. Se ci fosse stato più vento, le sue ali fragili avrebbero potuto spezzarsi in un fragore leggero, che l’orecchio umano non può udire, né percepire, come le foglie caduche che rosseggiano in autunno.
Sotto di noi levate in aria si dilunga il mare sulla terra fertile.
L’acqua brilla sotto il Sole Ardente di mezzogiorno: il rumore dei ruscelli che scorrono sui monti vicini risuonano ovunque: ne senti il suono anche a distanze imprecisate e ne senti chiaramente il fruscio delle onde rapide che si infrangono sugli scogli, l’acqua limpida del mare è infranta dai colori opachi e quasi trasparenti delle morbide vele di seta delle navi adagiate in acqua: le barche pronte a partire accanto ai porti. La ragazza atterra sul punto più vicino e sicuro, lì mi lascia sola.
«Addio. Prenditi cura di te. La vita è troppo breve per perderla in un soffio. Vivi appieno e fallo anche per me. Presto capirai.»
Come l’infausto presagio di un tifone pronto a colpire le acque attraversate dalle navi.
Se ne va e mi lascia in mezzo alle tempeste.

Strano sogno, vero mio caro Diario?

A volte consumo interminabili minuti, ore o secondi della mia tranquilla e noiosa esistenza chiedendomi quale possa essere quello strano motivo per cui spesso la gente che conosco, prende, e si inventa cose strane. Incomprensibile vero?
Mi spiego: solitamente si tratta di persone allegre, attive, solari, piene di vita e sempre sorridenti che tutto d’un tratto, in mancanza di nessun preavviso, come se nulla fosse, si rabbuia improvvisamente senza alcun pretesto convincente.
Come alla Capsule Corporation, per esempio, dove abita la famiglia più strana e bizzarra che conosca, l’ambiente più accogliente e caloroso dove sia mai stata.
Eppure ultimamente c’era qualcosa di diverso dal solito.
Le mura di quella casa sembravano essersi ingiallite, il soffitto della grande sala pian piano, assumeva sembianze sempre più consumate e ingrigite, tutto quanto attorno era quasi più stretto. I selciati puliti da cima a fondo e sempre brillanti mi parevano più ripidi e ponderosi da percorrere nel lungo via vai di stanza in stanza, gli ampi corridoi sembravano stringersi tra di loro sempre più, a tal punto da attorcigliarsi in un groviglio inestricabile, come in un lungo labirinto senza fine. L’aria era pesante e irrespirabile, quasi soffocante. Le finestre, solitamente decorate con tanto di tende e fiocchi erano chiuse, serrate e prive di qualsiasi forma d’arredo o di ornamento. I mobili in legno sempre lucenti, si ricoprivano di coltri di pulviscolo che si oscurava di giorno in giorno, senza che nessuno si curasse di concedere loro anche una sola e piccola spolverata per rimediare a quel disastro.
Il rumore dei passi di qualcuno, anche se minuscoli e insignificanti, riecheggiava lungo tutte le mura dell’edificio quasi sempre deserto. Ogni onda sonora, anche la più impercettibile, faceva in modo che i muri subissero l'impatto della propria aitante vibrazione.
Ovviamente a ciò una spiegazione c’è:
il divorzio di Bulma e Vegeta.
E’ stato un lungo e difficoltoso travaglio per l’intera famiglia Brief, che però, oramai era arrivata a condizioni impossibili da sopportare: litigi su litigi dopo altri litigi.
Lunghe processioni fatte per tentare di arrivare a dei compromessi, a dei chiarimenti, a degli accordi validi e duraturi ma a nulla sono servite.
Certo, non si può mica pensare che un’intera famiglia si sradichi così, per un non nulla.
Se vi dico che tra Bulma e Vegeta è realmente finita, nessuno mi potrà mai credere, per niente al mondo, non è forse così?
Una causa c’è stata e molto più che valida … credetemi … si chiama Bra Brief …

***

L a dimora alta e grande, quasi una fortezza protettiva e inespugnabile. Forse, le sbarre della peggiore delle prigioni.
La torre della principessa rinchiusa.
Ridicolo.
Voleva forse essere salvata da un giorno all’altro, aspettando secoli pur di veder arrivare il tanto rinomato principe azzurro dei sogni di ogni ragazza?
Assurdo. Lei non era una delle tante.
Né semplice, né poi così tanto complessa da capire.
«Papino, andiamo a fare shopping!», «Dai mamma, la prossima volta non lo faccio più, promesso!», «Trunks sta zitto, ho ragione io, punto!».
Sempre al centro dell’attenzione.
Chi aveva sempre la meglio, persino sul sanguinario principe dei Sayan.
La viziata rampolla dei Brief, la piccola di casa, prossima all’impiego di vice presidente dell’azienda di famiglia creata dal geniale nonno materno. Un destino già deciso, una sorte già prescelta per lei, senza il suo consenso. A nessuno era neppure lontanamente passato per l’anticamera del cervello di chiederle «Cosa ne pensi?» anche solamente per una questione di dovuta educazione, nessuno si era mai curato fino in fondo, in verità, di osservarla con occhi diversi. Sì, sembrava una normale adolescente come tutte le altre: piena di vitalità, entusiasmo e voglia di vita con la tipica arroganza di chi è maledettamente ribelle, vivace, dispettosa e amante della trasgressione.
Eppure la piccolina stava crescendo, proprio davanti ai loro occhi.
Aveva tutto. Non chiedeva più nulla.
Ma cercava qualcosa: una propria identità.
Non la tipica facciata della signora d’alta società, non quella della bambolina preferita di papà che per altro si era già costruita dietro alle spalle e per la quale era già diventata piuttosto famigerata, o quella della ragazza infelice a cui non basta avere tutto ciò che desidera, perché infondo ben sapeva già di per sé, che quelli erano tutti scontati stereotipi della più alta fascia della società: finti ritratti forgiati solamente da palazzi in grande stile, lusso sfrenato e soldi a palate. Non era stata la sua fatica a farle guadagnare tutto quello che possedeva. Non era stato il suo sudore a farle avere tutto ciò per cui piagnucolava da bambina, tutto quell’avere che le bastava procurarsi con un semplice movimento del labbro inferiore.
Voleva cambiare, essere un’altra, diventare diversa. E lì, dove viveva, non sarebbe stata mai aiutata, né capita. Almeno era questo che lei pensava.
Sapeva che le sarebbe bastato andarsene, allontanarsi da quella gabbia d’oro costruita per lei, era consapevole del fatto che fosse solo una muraglia di dolci illusioni cullate da rasserenanti falsità: il mondo là fuori è diverso da come gli e l’avevano fatto da sempre sembrare. Là fuori non esistono compromessi, o ci sei o non esisti per nessuno. Devi gridare forte, per farti sentire, tirare fuori la tua grinta per contare qualcosa. Tutte cose che per lei erano di poco conto, ma ora, aveva appena preso la decisione più importante della sua vita: cambiare per sempre. Contro tutti, non contava più nulla il parere di nessuno.
Aprì bruscamente l’interruttore della sua camera spegnendo repentinamente le enormi lava lamps glitterate, che circondavano il lussuoso letto a baldacchino ricoperto da trapunte di lino rosso.
Guarnito da lunghi nastri arricciati color d’oro, impreziosito da strass lucidi che incorniciavano il morbido tendaggio.
Afferrò la borsa di pelle nera e chiuse la cerniera della giacca jeans ricamata in pizzo che indossava sopra un vestito rosso fuoco lungo fin sopra alle ginocchia e che risaltava le forme acerbe da ragazzina che aveva; avviandosi verso la soglia dell’uscio della grande stanza, la sbatté dietro di sé con fare iroso. Si appoggiò alla porta e fece un respiro profondo per poi affondare la mano destra nella tasca della giacca nera e prendere un pacco di sigarette che custodiva gelosamente tra le braccia. Ne prese una e l’accese, lasciando che questa, prima di metterla in bocca, diffondesse l’amaro effluvio di nicotina nell’aria tiepida e poi la mise in bocca.
Uscì di casa e si trovò nell’immenso giardino ricoperto dalle aiuole dalle mille tinte.
Si avviò verso il retro della cupola color crema, nel garage. Lo aprì con le chiavi che aveva duplicato dopo aver rubato il paio di chiavi originale dalla tasca di uno dei tanti camici bianchi da laboratorio che indossava la madre Bulma. Già … quel laboratorio dove si chiudeva di continuo … senza che scambiasse qualche parola con la figlia o si degnasse di accompagnarla da qualche parte … era sempre sola …
La ragazza scosse il capo innervosita e si diede due sberle nel viso per non pensarci … infondo una soluzione l’aveva già trovata … la migliore, per quanto lei poteva capirne, non ne trovava altre.
Dischiuse le labbra scarlatte e ne emise i fumi velenosi e ardenti della cicca, inspirando con violenza. Non c’era alcun problema, sapeva già dove andare. Si riprese e agitandosi, afferrò i manici del motorino, accese il motore con stizza e si avviò velocemente, ma non prima di aver chiuso il garage … non voleva lasciare segni del suo passaggio …
… sì, non voleva più sentirsi un ostaggio … ostaggio in quella gabbia d’oro … ostaggio in quella prigione di cristallo

Continua …

Spazio “autrice” (xD Perché mi metto sempre a ridere quanto mi definisco così?)
Salve! Ok, so che la prima cosa da fare è prendere e andare a nascondermi per questo a dir poco pazzesco ritardo … ma d’altronde non è completamente colpa mia … non sto passando un bel periodo ultimamente … (Ultimamente? Da Gennaio!) beh, comunque sia, spero vogliate andare avanti a seguirmi!
[P.S: Nel primo pezzo, chi avrà letto la mia “Sailor Earth and Sailor Vegeta” avrà sicuramente intuito che si trattava di Sailor Vegeta. (Spero! XD) Don’t worry! Non intendo assolutamente confondere le due storie, ma il plot di SV&SE fa parte anche di questa storia e più avanti chiarirò il tutto!]
Vogliamo metterci dentro anche Halloween Competition Game Lovers??? Insomma, sarà un mix fra tre fanfiction.

- La prima, SV&SE, che si dilunga tra il romantico e la commedia;
- La seconda, “La quarta dimensione” è un mix fra demenziale, fantasy, (O.O) avventura e ovviamente, romantico;
- La terza, “Halloween Competition Game Lovers” è più comica, sentimentale e romantica.
La componente romantica non manca mai! Ma in questa storia, cercherò di sfiorare le sfumature dark!

Risposte alle recensioni:

Batuffolo: Beh, diciamo che i ricordi sono preziosi, proprio come ha detto Chichi. E in genere le nonne queste cose le sanno! Anche se secondo me, la nonna che regala alla nipote un diario per conservare i propri ricordi … non so, mi suona come un qualcosa di già visto… e in effetti non è quello il suo scopo … Ma andando avanti capirai … oh, ho visto che hai cambiato account, quindi ti chiamerò Luna Storta nei prox Capitoli e sì, spero di farmi sentire un po’ più presto la prossima volta … XD Un bacio anche a te!

FaNnY sOnNy: Sono contenta che la fic ti abbia incuriosita ^^ Bella davvero? Beh, non saprei … grazie comunque!! Però temo che per scoprire cosa c’è nello scantinato dovrai aspettare un bel po’ … mi auguro non ti stufi! Baci!

Neki: Che bello risentirti! Beh, se sono brava o meno questo davvero non lo so, cerco di fare il possibile! Sono contenta che tu abbia recepito proprio l’atmosfera che ho tentato di creare: sconosciuta e intrigante! Grazie! Kiss!!

E, naturalmente, ringrazio tutti gli altri lettori!









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Capitolo 3
*** Hypnotic Poison ~ Marron ***


Memories Dust

Capitolo II
# Hypnotic Poison #

Marron


Non sta affatto bene poter scrutare tutti quegli amari sbocchi di lacrime cerulee che le invadono spudoratamente le palpebre delicate, che le sommergono bramosamente gli abbaglianti zaffiri incastonati alle lucenti perle nere degli occhi grandi e limpidi.
Corrompono la sua tenera indole, ne bagnano il candido pallore naturale del viso rotondo; ricamato ad arte da due lunghi boccoli biondi ondulati che le incorniciano sapientemente i tagli sottili del profilo giovane ed ingenuo, alternandosi fra un ciuffo e l’altro, giocando con la luce, rischiarandola sensibilmente sopra il capo arricciato e scagliando le sagome scure a fiotti ondeggianti leggermente posati sulla pelle chiara e lucida.
La lunga chioma riccia e folta lascia che le tante e piccole ciocche d’oro le ricadano graziosamente lungo le spalle piccole, ne decorino le fattezze affusolate del corpo gracile.
Assomiglia tanto all’altra ragazza, quella che ho sognato l’altra notte, me la ricorda come se fosse una sua copia: ne possiede quasi tutte le sembianze. Che potrà significare?
Nemmeno l’ equo tempo di potermi concedere il giusto lusso di pormi questa domanda.
Senza che io possa mai avere la facoltà di aspettarmi una risposta degna di nota.
Di tempo non ne ho, ora. Non posso più averne. No.
Quando attendi pazientemente a lungo, inesorabilmente il tempo si trasforma in un sentiero lugubre e impervio, invivibile, inesplorabile, il tuo aspettare finisce poi per dilungarsi oltre ciò a cui ti eri dapprima preparato. A ciò a cui davvero credevi.

Sposto rapidamente la mia vista verso quest’ insolita apparizione, non ancora ben netta come avrei voluto che fosse.
O forse no.
La osservo meglio. Ne scruto accuratamente ogni più assoluto dettaglio, cerco di individuarne minuziosamente ogni segreto, di poter portare a galla i più reconditi misteri che le concernono, di portare in superficie dagli abissi più nascosti del suo animo indecifrabile ciò che dentro esso conserva così gelosamente, di analizzare ostinatamente ciò che mi ritrovo dinnanzi.
Chi è?
In lontananza potrei addirittura arrivare a sostenere che sia proprio lei, quella dell’altra notte, come in un miraggio quasi onirico, impossibile, improbabile, dove il confine fra sogno e realtà si assottiglia sempre più, senza che tu te ne possa nemmeno accorgere in tempo.
Dove tutto ciò che vedo, appare repentinamente ottenebrato da un lampo di oscurità, che d’un tratto dal nulla, colpisce la luce intromessa lungo il mio cammino tortuoso.
Lo incontro attorno a me in un botto, mi lascia al buio, senza lasciare che anche l’ultima effigie di luce mi rischiari il viottolo che ansiosamente percorro senza sosta.
Le mie gambe frenano senza che io sia in grado di prenderne il comando.
Inizio ad ansimare, ma non so dove mi trovo … so di esistere, di esserci, di appartenere a questo mondo, che non è come il mio, ma una stringa invisibile mi trattiene prigioniera di quest’illusione quasi infinita, che mi appanna fatalmente i sensi già svigoriti e logorati dall‘inquietudine che mi assale lentamente … che mi divora … che mi pervade … che mi confonde… Dove sono? 
Mi accosto. Decido di volerla incontrare, di guardarla da vicino, di fissarla negli occhi, in attesa di risposte, forse lei potrà aiutarmi a capire …
Eccola. Sembra proprio lei.
Poco a poco la raggiungo. Mi sbaglio, forse?
Le somiglia terribilmente. E’ identica a lei … O quasi …
Eppure c‘è qualcosa di diverso … sì,  da quella vestita di rosso … lo sguardo è più profondo, è rivolto verso l’orizzonte sinuoso dei cieli scompostamente riversi nell’imponente vespro sfumato d’arancio, che si leva sopra di noi impertinente; il dolce piglio è solcato da due occhiaie cave che le sterrano in spessore le iridi di tempesta, valicate da tenui tonalità rosee e vivaci rifratte verso il cielo levigato dalle piogge veementi …  ed è vestita di blu…
E piange. Non so perché pianga. La volta celeste lassù, si spalanca in una grossa voragine color notte che viola il tramonto verniciato da dorate cere immense.
Ma è già successo una volta e questo lo so. Non ho paura. Ho già visto in precedenza questa spirale di tenebra spezzare il firmamento. Ma questa volta sembra essere più erudito.
E tutto ciò che le circola attorno, tutto ciò che osa interrompere il suo ciclo di crescita, viene immediatamente risucchiato, viene simultaneamente spazzato via, senza che possa anche solamente pensare di poter imprimere sulle rocce fredde un’ultima traccia del suo vissuto in questo mondo.
Panico, agitazione, ansia, angoscia, spavento.
Ogni singolo sfugge all’imminente pericolo. Nei pensieri delle menti altrui qui intorno riesco a cogliere solamente questa specie di fervore: facce traboccanti di sgomento e impregnate di terrore, folle di gente strillante che si incrociano, che si mischiano, che si sfiorano, che si toccano.
Eppure nessuno pensa minimamente ad aiutare il prossimo suo che dovrebbe amare come se stesso, per come da sempre si predica, di generazione in generazione, sperando in un futuro migliore per tutti, non cambia nulla, non ci pensiamo un attimo, nemmeno uno soltanto a pensare a qualcun altro che non siamo noi, ma pensiamo piuttosto a disfarcene nel più semplice e celere dei modi. Tutti quanti noi, che ci consideriamo sempre fratelli, figli di una madre terra unica che ci ha dapprima generati e poi ci ha condannati a vita, ci respingiamo e pensiamo solo a noi stessi, come pensiamo sia giusto che accada.
E ora mi chiedo se la vita possa essere veramente un grande dono, o una pesante condanna impossibile da sostenere, peso insoffribile da tener sollevato sulle proprie spalle o un fardello di coscienze violate, un macigno di colpe e di indifferenze mai confessate.
Felici e sereni ci assaporiamo forse il diletto che il nostro vivere a noi concede?
Udiamo vibrazioni assordanti o musiche leggere, melodie armoniche, talvolta il rovinio di più tremiti accorpati al caos potente che devasta la nostra quiete e che possa avvolgere i nostri spazi più celati, o il più tacito dei silenzi, che in pace rintocca ricoprendoci di tranquillità finalmente concessa dopo tanto cercare.
Vediamo l’ abbagliante luce del Sole coprendoci gli occhi tramortiti dal riverbero lancinante e potente, le prime stelle della sera che colmano di piccole luci l’apatico progredire della sera, la smorta limpidità del chiarore della luna argentata, le grandi valli innevate che circondano i sempre verdi colli sperduti fra i monti.
Sentiamo i più speziati degli aromi, i tenui effluvi dei raccolti dei campi, le delicate esalazioni dei frutti degli alti boschi. Il soffocante olezzo dei fumi tossici.
Gustiamo le dolciastre sapidità del miele degli alveari, l’aspro sapore degli agrumi freschi, la salmastra saporosità dell’acqua del mare.
Lambiamo con carezzevole leggiadria la soffice tenerezza tracciata nel volto di persone che amiamo più di noi stessi, il piacevole tatto che ci permea quando tastiamo con leggerezza gli spazi che ci appartengono, che ci circondano.
O forse, subiamo in incognito la sofferenza dell’odio? Del rammarico, del rancore che si covano lentamente dentro di noi?
Invidiamo chi ci sembra star meglio, solo perché a noi pare che sia così. Anche se può essere l’esatto contrario di ciò che momentaneamente ci prende pensare, non ci interessa, badiamo solo alle apparenza circostanti, senza saper inoltrare il nostro sguardo aldilà di come si presentano le cose. E’ quello che noi vogliamo vedere, perché siamo convinti di aver ragione, sempre.
Cancelliamo dai nostri volti le nostre più intime insicurezze, ci mostriamo impavidi di fronte al mondo, siamo superiori. La nostra superbia annebbia quelle stesse percezioni che ci rendono vivi, anche le più invisibili. Ci rinforza di energie che ci servono solo per ferire gli altri, per ledere all’integrità altrui.
Rimaniamo passivi, accidiosi di fronte al male, rinunciamo ai buoni propositi e ci chiudiamo in noi stessi, ingabbiandoci in una corazza indistruttibile, impenetrabile.
Iracondi, leviamo le nostre frustrazioni impiegando ogni forza, vorremmo scaraventare tutto ciò che ci capita sotto mano, annientare con violenza i legacci che incatenano la nostra rabbia, non ci importa dei danni che potremmo arrecare.
E con l’acquolina in bocca, scrutiamo in modo quasi maniacale i cibi in tavola, li ingeriamo con foga, golosi di inghiottirne energicamente le pietanze, che ci tentano di continuo con i loro odori persistenti. Ci accontenteremo solamente dopo aver colmato i nostri malesseri con i resti dei nostri infelici banchetti.
Quando desideriamo ogni bene, l’impossibile, vogliamo appropriarcene senza riserbo, senza freno, lo vogliamo ottenere a tutti i costi, non ci basta più sognare solamente. Siamo accecati dal raggiungere i nostri obiettivi, la nostra avarizia rabbuia ogni senso, ogni ragionamento, ogni qualsiasi logica di dubbio.
Quando godiamo dei piaceri più ricercati, ce ne abituiamo pretendendone sempre più, assuefatti, continuiamo a ricercarlo, anche nei gesti più semplici e i sfarzi concessi non sono mai troppi, siamo avvolti dal desiderio più arcano, che non ci permette di accontentarci anche del più regale dei più ricchi doni: la lussuria.
Perché è così che siamo, vizi e virtù, percezioni e sentimenti. Chi nel bene e chi nel male.
E tu, ragazza dal vestito blu, lo sai?


***

I suoi grandi occhi d’oceano si innalzarono verso l’alto di colpo, rispecchiando un eterno sogno senza fine dove potersi posare per l’eternità.
Si ricoprì di effimere chimere rintoccate da cristalline sinfonie che cullarono il suo animo in petto; il suono di ali di piuma che si spezzavano, portate via dal crudele vento che spirava senza fermarsi ad osservarla.
Lontano, distante, il soffice zeffiro delle vellutate brezze di primavera dalla dolce fragranza di ciliegio.
I pensieri fondi, le trepidazioni taciute, si agitavano in balia dell’aria che si muoveva a causa delle tenere armonie recitate dalla notte e l’incanto dell’argento lucido della Luna che si riprendeva dopo un lungo periodo di letargo, giaciuto dietro al novilunio buio, dove regnavano le onde oscure, colmavano i lenti passi di un’illusione che sprofondava fra i terreni ambrati della terra. L’eco maligno della sconfitta pulsava incessante in lei, senza lasciare che sottili impronte di serenità percorressero i suoi palpiti travagliati. Come un frutto maledetto da estirpare alla radice di una pianta malata, da non cogliere.
Un germe da debellare. Non si voleva arrendere.
«E’ un rischio. » ringhiò sottovoce. Abbassò la testa. Cinse la propria vita stando a braccia conserte. Si appoggiò al muro e iniziò a giocherellare con la cerniera della comoda felpa di cotone chiusa a metà, appena sotto il seno florido.
E rimase ferma.
Invidia. Iniziò a correrle lungo la pelle. Come un fibra di madreperla che scorre fra le dita.  Non sopportava la sensazione di essere imprigionata. Proprio al suo corpo. Non riusciva a muoversi minimamente. Lo sguardo altezzoso dell’individuo che le si protendeva innanzi le incuteva timore, era incapace di muoversi.
Non era come la sua migliore amica che non temeva nulla e nessuno: lei era diversa. Più taciturna, più turbata, più contorta. I suoi modi di essere erano intricati e disordinati. Confusi e allo stesso tempo confusionari. Mal celava il suo desiderio di emergere, di mostrare al mondo intero chi fosse, ma veniva sempre oscurata dall’abbagliante luce di Bra Brief.
Sempre lei, sempre al centro dell’attenzione, sempre al centro dei discorsi fra amici, soprattutto in sua assenza. E si era messa in testa l’idea di formare una banda di teppisti qualunque solo per far preoccupare i suoi. Che idea assurda. D’altra parte se era esplosa la crisi in casa Brief era solo tutta colpa sua, che voleva fare ora, rimescolare le carte in tavola, così, come se nulla fosse?
Proprio in quel momento lei, la bionda e dolce Marron, si trovava di fronte a uno dei candidati, scelti dal nonno Muten che aveva procurato per Bra un team di giovani ragazzi addestrati alle arti marziali proprio da lui stesso.
Lei sapeva che anche Goten, il giovane ragazzo di casa Son, si era stranamente immischiato nella faccenda.
Già, il suo migliore amico sin dagli ormai lontani tempi d’infanzia.
Incredibile pensare a tutto quel tempo che era passato, a tutti quegli istanti che li avevano separati, che avevano assopito i più teneri ricordi della loro fanciullezza passata assieme.
Lui era rimasto bocciato alla facoltà di ingegneria come studente fuoricorso mentre lei, aveva avanzato nella sua carriera scolastica come futuro giudice lavorando frattanto come infermiera al pronto soccorso.
Troppo tempo. E non se ne ricordava.
Strano lamentarsi del fatto che la sua migliore amica si fosse imboscata nel mondo delle masnade, se proprio lei fu l’origine di questo problema, la causa.
Ma che colpa ne aveva lei infondo, se si era perdutamente innamorata di un tizio di nome Steve, casualmente a capo di una delle bande più pericolose della città dell’Ovest?
E dire che lei nemmeno lo sapeva. Almeno all’inizio.
Eppure, l’irresistibile sensazione di goduria che sentiva ogni qualvolta violasse un divieto o un limite proibito da oltrepassare, era semplicemente meravigliosa.
Ne gradiva a poco a poco, prima di assaporarne le più gustose essenze.
Divenne una dolce ossessione da cui era impensabile separarsi, poiché per lei, ormai abituata, non bastava mai. Un’inebriante dipendenza, la sua.
Non ne voleva uscire. Non voleva che qualcuno la salvasse. Non voleva che qualcuno l’aiutasse a cambiare strada, pur ben sapendo che si trattava di quella sbagliata da transitare.
Trovava uno sfogo a tutti quelle emozioni represse che teneva dentro di sé, non essendo mai riuscita ad incanalarle per fare in modo che fossero condotte per la via giusta, per far in modo di espellerle.
Troppi dubbi, troppi interrogativi, troppi inghippi, troppe domande.
Nessuna risposta.
Cosa significa saper gestire la distinzione fra bene e male? Cos’è il bene? Cos’è il male?
Se ne ricordava proprio adesso lei, Marron, la dolce Marry, come la chiamavano gli amici.
E che amici.
Non era mai riuscita in tutta la sua vita ad esprimere le proprie opinioni, ad essere diretta, a reagire anche di fronte alle ingiustizie, a fare qualcosa per gli altri.
E tutto ciò che di più errato poteva commettere l’aveva fatto compiuto proprio in quel periodo.
Bandire il coltello. Aggredire, minacciare, rubare. Mentire.
Le aveva fatte tutte.
Ora voleva redimersi.
Ma non sembrava ce ne potesse essere la benché minima possibilità di farlo.
E una blanda lacrima le imperlò il tenue volto.
E cedette. Cadde. Si spezzò.
Non si intrometterà, no, non stavolta.
Voleva rimanere lontana dai guai.
Voleva avere il coraggio di dire ‘No’, almeno per una volta.
Non voleva più soffrire di gravi colpe inflitte dal destino o che la casualità le aveva inferto. Ciò non lo sapeva nemmeno lei.
Non si lascerà mai più frastornare dall’inevitabile spinta delle tentazioni.
«Nonno … io non ci sto. » Strinse fortemente i pugni. Fino a lasciare le impronta delle dita sui palmi delle mani sottili.
Muten si voltò.
Non si lascerà mai più soggiogare da quel torbido intruglio che la incatena alle sue emozioni, da quel veleno ipnotico

Continua …

Spazio autrice (xD, perdonate i soliti scleri)
Ok, mi rendo conto che la trama di questa storia possa essere difficilmente comprensibile, ma abbiate la pazienza di aspettare ancora per altri tre capitoli e poi, avrà finalmente inizio la vera storia ^^

Risposte alle recensioni:

FaNnY sOnNy: Io Bra la adoro, invece ^^ Non so perché, ma ho una grandissima venerazione nei suoi confronti, idem per Marron, insomma, si sarà capito che adoro i Teens! *.* Ovviamente spero ti sia piaciuto anche questo capitolo!

Neki: Allora siamo contente tutte e due xD Se Bra si sentiva rinchiusa, Marron sta anche peggio xD Baci! Spero ti sia piaciuto anche questo capitolo!

Visto?! Mi sono fatta attendere meno stavolta, vero? XD

Grazie anche a tutti voi!

See you soon!

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Capitolo 4
*** Naivety essence and bitter solitude ~ Goten e Chichi ***


Memories Dust

 Capitolo IV
+Naivety essence and bitter solitude +

Goten e Chichi
 Parte I

 L o scudo delle tenebre lentamente avanza, per proteggere e vegliare attentamente il cielo notturno, re delle brame e dei desideri incantati, laddove, si innalzano in coro richiami rintoccati di lampanti tuoni che atterrano ogni spirito, rincuorato dalla palpitante essenza della vita che cinge ogni persona alla natura viva propria esistenza.
Si nasce, si vive, si svanisce.
Come le arbusti di un’ ampia serra, che man mano, col passare del tempo e degli anni crescono, inesorabilmente legati alle radici dell’eternità: universale sovrana degli animi.
Incontrastata regina del bene, ma anche del male.
Dello stabile ed immenso equilibrio che prudentemente regge le sorti dei destini viventi che sin ad ora e fin da sempre dimoreranno nell’infinito regno della vita, innalzata originariamente dall’alba di ogni tempo orsono, il sommo sovrano della nascita ha adempito all’arduo compito della creazione con più potere possibile concesso da ogni sua forza, l’eden del creato era il ritratto stesso della propria perfezione, il riflesso di tutto il proprio essere divino ed incancellabile, ma la distruzione del peccato gli ha purtroppo impedito di riuscire a debellare del tutto l’immortale ombra del male, perché incessante vivrà per sempre nel cuore degli uomini, per sempre condannati alle tentazioni dei vizi.
Le nubi velate d’argento si spostano seguite dal fioco e gelato vento che abilmente manovrandole le trasporta da una sponda all’altra del cielo oscuro, quasi sgretolandolo, facendo sparire del tutto qualsiasi traccia rimasta anche della più piccola nuvola.
Stille d’acqua grigiastra si accingono a ruzzolare verso terra una dopo l’altra, sempre più rapidamente, secondo dopo secondo inumidiscono le sporgenti valli innalzate alla luna che non c’è. Boati improvvisi interrompono subitamente i silenzi che avvolgono i monti.
Le tormente spazzano via ogni residuo degli alti alberi già decaduti.
Si riescono ad intravedere soltanto le luci di una umile e piccina dimora nascosta tra i folti boschi d’alta montagna, circondata da fosche ombre che la ricoprono avide.
Le lancinanti urla di una donna.
Il disarmante pianto di un neonato che appena giunto al mondo, non può rivolgere il proprio saluto di benvenuto.
«Chichi … ti senti meglio, ora?». Chiede un uomo dall’aria apprensiva e preoccupata accanto alla donna partoriente. Una donna dall’aspetto giovane ma profondamente consumata dai solchi di un dolore profondo che forse, non avrebbe mai più ritrovato il minimo barlume di sollievo, di un dolore profondo che aveva segnato sul suo fragile aspetto le spietate tracce della propria influenza.
«E me lo chiedi papà? Come potrei?- grida presa dalla disperazione mentre stringe i pugni e si tortura le braccia angosciata - Goku non c‘è! Non c‘è più! Non tornerà mai più! Tu lo vedi, eh? Io no! E so di per certo che sì, ci ha abbandonati di nuovo, eppure, ho la terribile sensazione che stavolta durerà per sempre.» Alzò la voce, avvolgendo il piccolo nel proprio corpo tra le braccia stanche e rannicchiando le spalle attorno a sé, mentre il neonato pianse ancora più intensamente.
«Guarda, Chichi. Io non vedo Goku, però, vedo una nuova e piccola creatura appena nata e che ha bisogno di tutto l’amore del mondo per crescere, osserva … Lui ti infonderà pace e serenità, speranza … guarda al futuro con occhi gioiosi, è il tuo bambino.»
Cerca di confortarla il padre con gli occhi lucidi, mentre il nipote stringe il bambino a sé e la madre lo fissa con aria persa, quasi nel vuoto, come se per un momento non volesse credere di essere rimasta di nuovo sola, senza più appigli a cui potersi reggere.
Il figlio riconsegna docilmente il neonato alla donna protendendo la testa verso il basso per evitare lo sguardo amaro della madre, sentendosi un codardo e stringendo il fratellino fra le braccia poggiandolo con delicatezza a quelle tremanti della donna.
Il nonno e il nipote preferirono alleggerirle il peso del dolore, lasciando la donna sola con il suo bambino nella speranza che un miracolo li avesse potuto regalare anche brevi istanti di sollievo.
«Piccolo mio … io … io … forse non so se io ti meriti davvero, ma so che tu come ogni altro bambino hai bisogno di un padre … - gli accarezzò lentamente il capo calvo e morbido, mentre i suoi occhi furono imperlati dai riflessi vividi delle lacrime -  ti chiedo scusa già da ora, se in futuro non riuscirò a capirti, non riuscirò ad aiutarti o a consolarti nei momenti tristi, a rimanerti accanto negli istanti più felici, a rinvigorirti nei momenti più difficili, ad esserci sempre anche semplicemente, qui, per te. Ma oramai bambino mio, non ho più fiducia in nulla, non sono più sicura di niente …» disse, mentre la voce delicata prende piano piano a rompersi improvvisamente fra i singhiozzi, non riesce a tenerlo in braccio.
Il bambino succhia il latte della sua mamma calmandosi repentinamente dall’agitazione, confortato dalla presenza materna che si sforza di cingerlo cercando di proteggerlo da un qualcosa di molto più grande di loro.
E dorme.
  

La mezzanotte irrompe nell’aria fredda, decanta il vivido folgore del nido dell’oscurità.
La pioggia violenta smette di imbattersi contro il terreno per qualche momento e regala calorosi attimi di pace.
Gli animi riposano nel silenzio, sui loro giacigli.
Le luci delle stelle riprendono ad imprimersi nel firmamento.
Un’ ombra avvolge la luce dell’abitazione.
Tra il fruscio del vento che agita le foglie delle verdi chiome dei boschi e i silenzi dei prati, luci e ombre come impazzite, vibrano attorno a una piccola cupola illuminata dalla luce di una candela.
La donna riposa con il suo piccolo, eppure strane presenze, iniziano a tormentare l’immagine di questo nuovo nascituro.
 


Un bambino.
Ha un’aria felice, spensierata e contenta, a cui sembra che basti davvero poco per gioire allegramente. Saltella, canticchia e ride nel suo piccolo lettino di legno alzando le due piccole braccia verso l’alto, intento ad afferrare le palline luccicanti sopra di lui, che accompagnate ad una dolce melodia continuano a girare. Riesce a prenderne una e tutto contento la scuote, sentendo il rintocco lieve dei due campanellini situate al suo interno e sorride, così togliendosi il ciuccio dalla boccuccia che scivola e cade per terra.
«Oh, Goten! Sei il solito pasticcione! Vieni qua dalla tua mamma!».
La donna lo stringe in braccio attentamente, avvolgendolo in un morbido fagotto azzurro e tenendolo ben pigiato al suo petto.
«Gohan puoi prendere tu il ciuccio e risciacquarlo, per favore?».
Chiede, rivolgendosi al figlio maggiore che annuisce obbedendo.
Lei si accascia alla poltrona, chiudendo con un gesto brusco la tenda bianca della finestra che ha davanti, per far sì che l’abbagliante luce del sole non filtri dentro casa e dia fastidio al piccolo.
Lo allatta e lui ghiotto, succhia il latte smanioso, volendone sempre di più.
«Goten, non così! Mi fai male!». Si lamenta la madre.
Il bambino si calma e guarda in viso la sua mamma. Gli occhietti si aprono, svelando il nero della notte, gli stessi occhi del fratello, gli stessi occhi del padre.
Nemmeno il vecchio stregone del toro riusciva a spiegarsi come la sua famiglia si fosse cacciata in quella situazione così pessima, fatto stava, che riusciva a percepire chiaramente l’enorme dolore che affliggeva la giovane figlia. Questa sarebbe stata una nuova e difficile prova a cui la vita l’avrebbe sottoposta: troppe volte il marito se ne era andato lasciandola sola, ma ora, era diverso. C’era un bambino di mezzo, che sarebbe cresciuto senza aver mai potuto conoscere  l’eroico padre. Lo stesso che mille altre volte aveva salvato la Terra, il suo pianeta, che altrettante volte in futuro, avrebbe ancora salvato, ma la maledizione che costantemente colpiva la sua famiglia era la solitudine, l’abbandono. Un amore che manca, che non c’è e che quella nuova creatura che aveva appena visto la luce del mondo non avrebbe mai conosciuto, senza averne alcuna colpa.
Era solo stata solo pura sfortuna la sua, essere nato in un momento completamente sbagliato, ma ciò non faceva di lui uno sbaglio, un incidente. Non era stato programmato, né previsto.
Nessuno dei due giovani genitori ne aveva idea.
Ma la sua nascita fu lo stesso un dono, una gioia che regalò conforto e speranza nel futuro.
Eppure non bastava del tutto, anche se tutti si ostinavano a non volerlo credere, perché fossero finalmente una famiglia completa, unita, mancava un solo elemento, che però pareva quasi non volerci essere. Nemmeno lo facesse apposta.
Aveva a cuore il bene dei suoi cari, fino al punto di sacrificare persino sé stesso, ma in questo modo procurava solo angosce e sofferenze ai più importanti di tutti, alla sua famiglia che lo aveva sempre appoggiato, che più di ogni altro aveva da sempre creduto in lui, gli aveva riposto ogni fiducia, lo aspettava e ci credeva ancora.
Ma lui non c’era, di nuovo.
E quella casa sembrava essere diventata sempre più desolata.
Disertava quella voce sempre scherzosa che colmava le stanze dell’ abitazione a cupola.
E più tacita progrediva ora la loro vita.
Il bambino si addormenta lentamente.
Lancia alla mamma qualche occhiata ancora, per alcune volte, sempre più brevi, fino a chiudere completamente gli occhi.
La donna stanca si accascia alla poltrona dopo aver riposto il piccolo nella sua culla.
Si cinge le spalle e copre il capo con le braccia.
«Bambino mio, perché? Perché è accaduto un’altra volta? Perché proprio ora? E’ forse una coincidenza che tu somigli così tanto al tuo papà? Può essere un segno. Questo più volte mi sono ritrovata a pensare. Ma io credevo che lui fosse rimasto di nuovo con noi, che non ci avrebbe mai più lasciati soli … Tu non puoi neanche immaginare com’era … Ma del resto non può nemmeno essere colpa tua, no, no che non lo è.».
Gli occhi le si cosparsero di lacrime che non poteva far altro che sgorgare, si concedeva il lusso di tornare ad essere umana, di togliersi le vesti da madre e moglie perfetta, per una volta. Anche lei commetteva i suoi sbagli, i suoi errori. Non l’avrebbero vista. Non c’era più nessuno.
«Ma che razza di madre sono? Prima prometto ai miei bambini di resistere, prometto loro di farcela, ma poi colgo la prima occasione per continuare a sfogare tutto il mio malessere nei momenti meno opportuni … per quanto ancora sarò costretta a sopportare tutto questo?».
Pensa frustrata.
Poggia il bambino sulla sua piccola culla.
Beve avidamente un ultimo sorso d’acqua.
Il viso è pallido, il corpo trema.
Il pugno stringe con forza il bicchiere fin quasi a spezzarlo del tutto ma poi non vuole accontentarsi, complice del proprio istinto, molla la presa per poi scaraventarlo a terra e frantumarlo in mille pezzi.
«Ti odio. Ti odio per il tuo altruismo insensato, ti odio per quello che sto subendo a causa tua! Ti odio!». Grida, afferra una scheggia di vetro graffiandosi il palmo della mano, lo passa attorno alle dita imprimendo sempre più forza. Una ferita che non nuoce, non graffia, non ferisce davvero. La peggior fine è la morte interiore.
La solitudine è un sentimento che tace il tuo animo, ti rende un estraneo, uno sconosciuto, un fantasma … Non ci sei e a volte rimani solo proprio per la paura di poterci essere, ti domandi come mai, come potrebbe essere accaduto, quale potrebbe esserne la ragione.
Nessuno ti riconosce, ne ti pensa, non ti considera, la solitudine è come un’esistenza fasulla, una dolorosa illusione che infligge terrore ad aprirsi con gli altri e ben presto finiamo per costruirci una barriera difensiva per proteggerci da quelli che pensiamo possano essere pericoli esterni eppure, il più delle volte, non ci accorgiamo che il vero male è dentro di noi.
L’abbandono non è un effimero addio dal quale si può fuggire, è una trappola che ti segnerà per sempre, una sofferenza atroce che ti corrode, non ti lascia il tempo per capire, ma che ti scalfisce alle spalle e tradisce la tua fiducia. E in quel momento cresce dentro di te una rabbia incontrollabile, ti stupisci anche tu stesso quando lo vedi e ti chiedi fin dove mai potresti arrivare, se queste sensazioni così negative e così represse non faranno in modo che tu ti possa autodistruggere. Alla fine a farci del male siamo proprio noi eppure diamo la colpa agli altri, forse siamo consapevoli di essere noi le vere persona imputabili ma per orgoglio o paura non vogliamo ammetterlo. Questi pensieri si annidano nella sua mente, ora nuda maschera d’acciaio, ruvida lastra di ghiaccio, sepolte nell’ombra più oscura soggiogata dall’esaltante effluvio del più dolce veleno offerto dalla tentazione, intorpidite dagli olezzi più amari nel giaciglio dell’Inferno. Era proprio così che si sentiva.
Giorni, settimane, mesi, anni passati in solitudine.
Ma lei non aveva mai rimpianto le proprie scelte. Si parla del passato, dell’inizio, della genesi di una leggenda che sarebbe diventata la stessa leggenda dell’umanità.
Certo, tempo fa erano entrambi giovani per decidere di sposarsi così in fretta, ma lo fecero per amore.
Un amore vero che scaturiva dai loro cuori fiduciosi di affidare il proprio destino, la fine del proprio lungo e tortuoso cammino insieme, al futuro.
Il felice adempimento di una fedele promessa fatta nei tanto cari e lontani tempi dell’infanzia. Sicuramente la dolce Chichi non si aspettava che sarebbe finita in quel modo. Costantemente abbandonata a sé stessa. O era solamente  vittimistico egoismo il suo? Non riusciva a comprenderlo nemmeno lei. Se era questa, a essere chiamata “amara sorte”.
A volte percepiva dentro di sé, una sensazione strana, inquietante, come se qualcosa o qualcuno cercasse di impedirle di ricordare tutti quegli anni trascorsi “quasi” insieme.
Come se infondo, ciò che stesse vivendo in quei momenti così bui della sua vita, non contassero nulla, non esistessero, come fossero labili illusioni di un terribile incubo, come sei le stessa fosse completamente lontana dalla realtà che la circondava. Come se non avesse mai conosciuto il suo Goku, come se i suoi figli non fossero mai esistiti. Tragica sensazione di abbandono, come se fosse lentamente tentata, a poco a poco, di lasciare tutto quanto alle spalle e di dimenticare tutto e tutti. E rimpiangeva di tutto ciò che le creava nell’anima questi sentimenti così dolorosi e prepotenti. Era vero che stava soffrendo, ma come poteva permettersi, in quel momento così difficile, di pensare solamente a sé stessa?
Che razza di madre stava diventando? Avrebbe dovuto trovare la forza di reagire un’altra volta, come faceva sempre, con i soliti sorrisi d’incoraggiamento è con un po’ di fiducia nelle proprie capacità … avrebbe permesso a chi ne avesse provato solamente una sadica gioia, di goderne appieno del suo stato di penosa sofferenza e di dolorosa devozione? Fino a quando avrebbe tirato avanti in questo modo? E i suoi figli come avrebbero vissuto le loro vite? Con il rimpianto e l’angoscia di non avere accanto il proprio padre?
E Gohan, che lo amava così tanto il suo papà, lo adorava come un dio, era tutto per lui: l’esempio da cui prendere importanti insegnamenti, il suo eroe, il suo idolo … semplicemente il suo papà …
Quanto poteva soffrirne ora che sembrava non potesse più rivederlo fino a data da destinarsi … ma non mostrava segni di cedimento e forse, perché vedeva ora la sua mamma in quello stato, che non permetteva a se stesso di sfogare il proprio dolore per una perdita così grande … come se gran parte di lui l’avesse abbandonato all’improvviso, lasciandolo solo ad occuparsi del resto. Sarebbe cresciuto soffrendo e tenendo dentro ogni ansia per sé stesso, tenendosi addosso tutto il peso di quella taciuta e malcelata agonia per non mostrarla davanti agli occhi di chi lo amava.
E il piccolo Goten, ora giunto al mondo … con quale coraggio potevano decidere di raccontargli le eroiche imprese di un leggendario figura paterna che per lui non sarà mai esistita?
Per lui sarebbe sempre rimasto un falso orgoglio di cui gioire, perso nella utopistica identità di un’ombra del passato. Ma che colpa ne aveva infondo?
Con quanta ipocrisia si sarebbe dovuto trovare il piccolo Goten, sì, poiché questa per Chichi sarebbe stata ipocrisia pura … parlar di lui con parole di lode …
Lei sa bene che il suo comportamento non è corretto nei loro confronti, ma puramente egoistico, che non avrebbe mai e poi mai dovuto permettere ai suoi figli di crescere nel vuoto.
Avrebbe annullato sé stessa, soffocato i propri bisogni pur di renderli felici.
Per il bene dei suoi figli, delle sue creature. Sarebbe stata addirittura disposta a vendere la propria anima al demonio, a nutrirsi di un liquore di eterna dannazione, di un nettare di nefandezze maledicendo la propria persona pur di pensare e di provvedere solo a loro.
Esisteva solo per i suoi cuccioli, sempre pronta a rimanere loro accanto, cercando di infondere loro sicurezza, stabilità, felicità … l’equilibrio giusto.
Sempre pronta ad aiutarli nel momento del bisogno, sempre pronta a confortarli negli istanti più tristi, rimanendo semplicemente vicino a loro. Non li avrebbe mai abbandonati, mai lasciati soli, mai e poi mai. Finché sarebbe rimasta in vita nulla doveva andare storto, sapeva bene di non potersi permettere una maledetta resa, che sarebbe costata cara a lei e alla sua famiglia.
Ora tutto quanto ruotava attorno alle proprie capacità di madre, di sopportazione, di resistenza.
Ce l’avrebbe fatta?
Sì, perché nulla e nessuno riuscirà mai  ad abbattere l’amore di una madre.
Nessuno avrebbe mai provato soddisfazione a vederla strisciare per terra.
Né a chiedere pietà.
Né a tacere nell’indifferenza.
Mai.
Perché lei non l’avrebbe mai permesso.
Non l’avrebbe fermata neanche l’amara solitudine


Continua…

Spazio autrice (xD)
Salve!
Come avrete capito questo capitolo è diviso in due parti, nelle quali la prima è incentrata sulla “Bitter Solitude”, cioè l’amara solitudine di Chichi, spero di non aver sortito l’effetto dell’esagerato ma ho sempre visto Chichi come un personaggio trascurato e ho così voluto dedicarle qualcosa. Non ho avuto il tempo di rivedere il capitolo e caso mai ci fossero degli errori o ripetizioni di troppo, provvederò a correggerli quando avrò più tempo.
Ho fatto veramente tanta fatica a stendere questo capitolo, davvero. Tempo fa ne ho pubblicato uno abbastanza simile ma non mi soddisfava appieno, beh neanche questo, ma trovi sia già migliore, il prossimo giudizio lo lascio a voi!
Ci risentiremo con la seconda parte …

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