†Memories Dust† di Lady Chaos (/viewuser.php?uid=74074)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo di un'inaspettata regola ***
Capitolo 2: *** Crystal Prison ~ Bra ***
Capitolo 3: *** Hypnotic Poison ~ Marron ***
Capitolo 4: *** Naivety essence and bitter solitude ~ Goten e Chichi ***
Capitolo 1 *** Prologo di un'inaspettata regola ***
†Memories Dust†
[Prologo di
un'inaspettata regola]
Un ultimo soffio di vento.
Sì, sarebbe ben presto finita, era questione di poco più di una
settimana e finalmente, si poteva tornare a godere del delizioso tepore
del Sole primaverile. Ebbene. E così era giunto il tanto atteso epilogo
del gelido inverno. Si sarebbero presto sciolti i cristalli di
ghiaccio, si sarebbe sgelata la neve candida che ricopriva i vasti
prati tappezzati di foglie secche e le montagne rocciose, ricoperte di
alti alberi dalle perfette chiome color smeraldo anche dopo le
burrasche. La fine di quel freddo spietato che ogni volta, non poteva
fare a meno di trapassarle la carne come fosse una lama affilata e
pronta a dipingere la superficie d’argento di puro sangue, gocciolando
sopra la terra fertile e facendo trasparire la luce assassina davanti
al firmamento, del freddo spietato che penetrava avidamente tra le ossa
mentre impallidiva e batteva i denti, tremava, mentre sentiva il passo
felpato e pretenzioso dell’aria ghiacciata, renderla sua succube nel
momento in cui contro ogni suo volere e potere, invadeva il calore del
suo corpo inerte offerto al vento furioso, le smembrava le viscere, si
tuffava nelle vene purpuree … dello stesso freddo spietato che la
zittiva, che la faceva rimanere ferma lì dov’era prima, perché ingenua,
era uscita dalle sue quattro mura, accalorate da un focolare giacente
all‘angolo più solitario del muro, cercando di nutrire il fuoco avido,
quasi stanco di emettere le nere fuliggini della combustione. Viveva in
quel posto e se ne accorgeva.
Non proferiva alcuna parola. O meglio, voleva farlo proprio in quel
momento, puntuale come sempre, sì, forse era quello giusto, di solito
parlava anche troppo, ma quella volta che occorreva anche una parola
detta si sfuggito, non riusciva a pronunciare mezza lettera.
Non se l’aspettava.
La mano del silenzio l’aveva prima sfiorata, le aveva lasciato sulla
pelle giovane, il morbido tratto del suo tocco sovrannaturale,
disumano, superiore, potente: in poche parole: divino. Poi
l’aveva costretta a tacere. Serrava le labbra stupefatta.
Veloce, impalpabile, il suo tocco quasi tagliente non le aveva dato il
tempo di realizzare cosa riusciva a vedere intorno a sé o meno,
rifletté. Aspettò e poi tacque. Sorrise. Riaprì gli occhi.
Ed era lì, la piccola.
Davanti alla valle innevata, sola e al buio. La burrasca violenta e
impetuosa aveva travolto i boschi dei suoi adorati monti con la stessa
violenza di un esercito al fronte che scende sul campo di battaglia
disposta ad ogni costo a difendere la propria patria dal temibile e
pericoloso nemico: dopo che la tempesta aveva lasciato il villaggio in
preda alle tenebre più funeste, prosciugando le energie delle piccole e pallide
luci che illuminavano i sentieri dei colli, ne aveva osservato i
simboli: i segni del suo passaggio.
Ora aveva tutto il suo mondo avanti a se.
Lo tracciava. Lo raffigurava. Lo dipingeva.
Si lasciava guidare dall‘ispirazione improvvisa e appena giunta,
accalcata su di lei, sua amica, sua guida, sua compagna.
Riempiva di colore quella tela bianca, pallida e inespressiva.
Con soffici pennellate di passione, ritraeva i colori della vita.
« Mi serve dell’acqua … »
Scattò immediatamente in piedi dallo sgabello e percorse transiti
pesanti e rapidi, alzando ritmicamente le braccia rizzate dai fianchi
al capo e alternandole simultaneamente, in alto e in basso, incedendo
come un soldato e cercando di mantenere stabilità persistente
mettendosi alla prova con uno dei pesanti libri del padre sopra la
testa.
Si diresse verso la porta dello scantinato, volta alle spalle della
casa della nonna.
Una volta arrivata fu costretta a fermarsi davanti alla piccola cupola.
Era chiusa a chiave.
Sorrise, provando dentro al cuore un grande senso di tenerezza.
Pensò che molto probabilmente, proprio sua nonna ci si fosse rinchiusa
dentro apposta e che volesse rimanere da sola, quando ciò accadeva era
perché sentiva incessante il bisogno di riflettere. Su cosa? Non lo
aveva ancora capito nessuno. I suoi pensavano che fossero i primi segni
di una crisi di mezza età. Fatto stava che la cosa più strana era il
motivo che ne stava quasi “prendendo egoisticamente possesso” per
così dire, almeno.
Non permetteva più quasi a nessuno di entrarci. Poteva forse darsi che
l’avesse presa come sua unica “oasi di ricordi” : Là dentro erano
conservati i più preziosi cimeli di famiglia, a partire dal costumino
che la piccola Chichi indossava sempre da bambina, ai costumi del tutto
originali dei suoi genitori, i due Great Sayaman di Satan City di cui
lei stessa sin da piccola aveva sempre sentito parlare. Bussò
lievemente.
Nessuna risposta.
Si armò di pazienza, ci riprovò.
Il silenzio più assoluto.
Iniziando a innervosirsi fece più pressione ai pugni mettendovi più
forza, finchè l’anziana donna, non aprì e con fare alquanto seccato, la
guardò in malo modo da capo a piedi.
« Scusami nonna, so che ti dà fastidio, ma mi servirebbe dell’acqua per
diluire la tempera e papà aveva messo le botti d’acqua del fiume qui
dentro, così … » cercò immediatamente di giustificarsi la ragazzina. Il
solito cipiglio severo della donna sparì in un momento, lasciando
spazio ad un sorriso appena accennato. «Mia piccola Pan, forse è
arrivato il momento per noi di parlare.» Disse, afferrando una specie
di libro dalla copertina nera sul pugno destro e richiudendo a chiave
il suo scantinato.
La nipote di Goku spalancò gli occhi incredula di fronte a quel
fulmineo e parecchio insolito cambiamento d’ umore della nonna.
«Parlare? E di cosa?»
«Ognuno di noi ha i propri spazi e gli altri, volendolo o meno, sono
tenuti a rispettare la volontà dei primi. » Così Chichi iniziò a
discutere di un tema che si preannunciava di già piuttosto lungo,
mentre circondando il collo della nipote di fianco a lei con il braccio
sinistro in una specie di abbraccio l’accompagnava a casa propria per
prepararle la merenda «Questa è ormai diventata una regola a casa
nostra e i tuoi genitori ti hanno da sempre insegnato a rispettare le
regole. Insomma, lì non puoi più entrare, né tu, né nessun altro,
finchè non lo deciderò io. » rispose in tono fermo la nonna, non
sembrava poter ammettere discussioni di alcun tipo.
« Nello scantinato? E perché mai? » chiese Pan sorpresa.
Chichi la fissò sorniona e aprì il portone di casa, portando con sé Pan
che la seguì in cucina, nel quale tavolo, la più anziana appoggiò il
libro nero, per poi dirigersi nella stanza.
« Il tempo è il guardiano delle anime … E’ un elemento fondamentale che
vige su di un equilibrio costante sovrapponendolo ad un altro, creando
così una catena di eventi che si riscontrano in successione e che
finiscono per intrecciarsi a vicenda. Talvolta facendo riscontrare una
terribile confusione oppure, possono incatenarsi a ritmo lento e
ininterrotto che è quasi impercettibile, si fonde ai nostri sensi e
alle nostre percezioni creando una simbiosi quasi mistica, favolosa e
crea un potere dalle forze talmente immense da essere inimmaginabili.
E’ un filo sottile, può essere più o meno intricato a seconda di come
gestiamo i nostri pensieri, le nostre sensazioni o i nostri sentimenti,
che regge l’intera storia di una persona, racchiudendone le diverse
fasi tra i meandri più nascosti della nostra mente e custodendoli come
fossero puro oro in una miniera scavata tra le fosse più profonde,
buie, intricate e introvabili. Sono merce preziosissima, fanno parte di
noi, sono i nostri ricordi. »
La donna osservò la nipote con la coda dell’occhio, non ci aveva capito
nulla, così con lo sguardo le fece capire che quella storia c’entrava
con quel libro nero.
«Perché mi stai parlando di questo? » chiese Pan con fare interrogativo
e curioso, fu attratta dal libro posto li di fronte a lei.
La signora Son, gentile e premurosa le sorrise e una volta portato in
casa propria la nipote, la fece sedere sul tavolo della cucina
preparandole un tè.
« Come puoi aver osservato tu stessa, non serve studiare anni e anni
per diventare un eccellente scienziato e per saper comprendere questo
ciclo di cambiamenti che affrontiamo nella nostra vita, ci è arrivata
persino una come me che non ha nemmeno frequentato le superiori. »
« Come … hai .. »
«Fa parte di quello che siamo, del nostro naturale essere, non occorre
inventare macchine del tempo per guardare addietro e chiedersi se tutto
quello che viviamo abbia un senso o meno, cosa siano il passato, il
presente o il futuro … perché è soltanto la nostra forza di volontà a
poterci rispondere a questo tipo di domande che spesso capita di porsi.
Con ogni nostro gesto rendiamo al mondo quello che sentiamo. Quello che
facciamo da bambini ad esempio, farà parte di quella che da adulti
ricorderemo come la nostra infanzia. Come quando con tenerezza
ricordiamo il nostro passato di bambini ingenui e spensierati e
passavamo le notti abbracciati al nostro peluche.»
La ragazzina iniziò meccanicamente a ponderare sul significato di tutte
quelle parole che aveva a mala pena recepito: segnali convulsi e
trasmessi alla rinfusa. Forse ci aveva capito poco o niente. Ma a lei
andava bene così.
« Pan, » le si avvicinò Chichi sedendosi vicino a lei e consegnandole
il libro « hai mai tenuto un diario? »
Cose da ragazzine, così lei aveva sempre pensato.
Chichi la fissò seria. «D’ora in poi dovrai farlo. Per me, E’ un favore
che vorrei tu mi facessi, consumalo fino alla fine, Voglio che tu
scrivi tutto quello che senti, che pensi e che vedi. Credimi, è davvero
importante. Ma soprattutto, non entrare mai nello scantinato senza il
mio permesso. »
La rugosa fronte di Chichi si increspò, mentre le sopracciglia si
piegarono improvvisamente.
Stava piangendo.
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Capitolo 2 *** Crystal Prison ~ Bra ***
†Memories Dust†
Capitolo
I
$ Crystal Prison $
§Bra§
Nitido il
riflesso dell’ombra fosca dipinta nell‘invisibile ritratto della Luna
Nuova.
Il
novilunio gioisce della notte oscura e priva noi esseri umani persino
di un minimo bagliore dell’iridescenza cristallina, ricoprendo anche
gli ultimi astri risplendenti nel cielo terso che brilla di pioggia.
Pioggia.
Sfolgora lieve il luccichio dell’acqua, goccia dopo goccia, come se le
sue lacrime pure fossero piccoli diamanti disseminati e sparpagliati
lungo un interminabile velo di seta blu. Dalle grotte, inneggia
lentamente il cominciar dell’avanzare della nebbia, favorito dagli
imminenti temporali che ben presto dissimuleranno tutte le città sopra
le punte dei monti alti. Piano. Piano. Piano. Risalgono ai pendii delle
valli fresche e innevate.
Nubi
d’argento fitte che si infiltrano insolenti nell’aria tiepida.
Una
scossa. La terra si scuote. Il cielo si oscura. Le nuvole sono in
fiamme. Spirali di fumi offuscati. Odori acidi che invadono e
rinsecchiscono le narici.
Lei.
Come
la conferma di un oracolo divino. Chi ci salverà?
Maestosa
e statuaria, in mezzo alle brulicanti nebbie e alla volta celeste di
porpora, tra i lampi fluorescenti che fiammeggiano spediti dal cielo,
scatenati dall’ira degli dei divini, si innalza la figura imponente: i
capelli aurei, lunghi e maestosi che si ramificano lungo la schiena
sottile, la minigonna rossa e corta che con eleganza ripercorreva le
forme perfette del suo allenato fisico da combattente.
Il
fiocco rosso. La sfera arancione. Un simbolo. E’avvolta da un’aura
d’oro. Già vista. Molto famigliare.
Si
volta. Mi guarda.
Il
viso aspro assume un espressione di dubbia interpretazione. Nei suoi
occhi si leggono perplessità e paura. Si avvicina a me con fare rapido
e ansioso.
Ansima.
«Avrei
voluto fare di più, piccola. »
Mi
afferra e mi prende in braccio. Libra in cielo leggera, lasciando
dietro sé una scia di colori chiari e pallidi che si disperdono tra i
venti, volando come una farfalla dalle ali variopinte, limpide come
specchi di tanti colori diversi amalgamati tra loro solamente come può
esserlo il tinteggiato quadro di un’opera d’arte che necessita d’essere
tirata a lucido per l’ultima volta. Una farfalla pronta a spiccare il
suo ultimo volo verso la morte sicura e imminente e già predestinata a
versare sangue, come le acque di una cascata scosse da una violenta
bava di vento che si diramano lungo un burrone quasi infinito prima di
giacere a terra e trasformarsi in fango. Come un eterno cristallo di
ghiaccio pronto a sciogliersi prima di incrinarsi e di cedere, di
spezzarsi, per poi finire di rompersi. Se ci fosse stato più vento,
le sue ali fragili avrebbero potuto spezzarsi in un fragore leggero,
che l’orecchio umano non può udire, né percepire, come le foglie
caduche che rosseggiano in autunno.
Sotto
di noi levate in aria si dilunga il mare sulla terra fertile.
L’acqua
brilla sotto il Sole Ardente di mezzogiorno: il rumore dei ruscelli che
scorrono sui monti vicini risuonano ovunque: ne senti il suono anche
a distanze imprecisate e ne senti chiaramente il fruscio delle onde
rapide che si infrangono sugli scogli, l’acqua limpida del mare è
infranta dai colori opachi e quasi trasparenti delle morbide vele di
seta delle navi adagiate in acqua: le barche pronte a partire accanto
ai porti. La ragazza atterra sul punto più vicino e sicuro, lì mi
lascia sola.
«Addio.
Prenditi cura di te. La vita è troppo breve per perderla in un soffio.
Vivi appieno e fallo anche per me. Presto capirai.»
Come
l’infausto presagio di un tifone pronto a colpire le acque attraversate
dalle navi.
Se
ne va e mi lascia in mezzo alle tempeste.
Strano sogno, vero mio
caro Diario?
A volte consumo
interminabili minuti, ore o secondi della mia tranquilla e noiosa
esistenza chiedendomi quale possa essere quello strano motivo per cui
spesso la gente che conosco, prende, e si inventa cose strane.
Incomprensibile vero?
Mi spiego: solitamente
si tratta di persone allegre, attive, solari, piene di vita e sempre
sorridenti che tutto d’un tratto, in mancanza di nessun preavviso, come
se nulla
fosse, si rabbuia improvvisamente senza alcun pretesto convincente.
Come alla Capsule
Corporation, per esempio, dove abita la famiglia più strana e bizzarra
che conosca, l’ambiente più accogliente e caloroso dove sia mai stata.
Eppure ultimamente c’era
qualcosa di diverso dal solito.
Le mura di quella casa
sembravano essersi ingiallite, il soffitto della grande sala pian
piano, assumeva sembianze sempre più consumate e ingrigite, tutto
quanto attorno era quasi più stretto. I selciati puliti da cima a fondo
e sempre brillanti mi parevano più ripidi e ponderosi da percorrere nel
lungo via vai di stanza in stanza, gli ampi corridoi sembravano
stringersi tra di loro sempre più, a tal punto da attorcigliarsi in un
groviglio inestricabile, come in un lungo labirinto senza fine. L’aria
era
pesante e irrespirabile, quasi soffocante. Le finestre, solitamente
decorate con tanto di tende e fiocchi erano chiuse, serrate e prive di
qualsiasi forma d’arredo o di ornamento. I mobili in legno sempre
lucenti, si ricoprivano di coltri di pulviscolo che si oscurava di
giorno in giorno, senza che nessuno si curasse di concedere loro
anche una sola e piccola spolverata per rimediare a quel disastro.
Il rumore dei passi di
qualcuno, anche se minuscoli e insignificanti, riecheggiava lungo tutte
le mura dell’edificio quasi sempre deserto. Ogni onda sonora, anche la
più impercettibile, faceva in modo che i muri subissero l'impatto della
propria aitante vibrazione.
Ovviamente a ciò una
spiegazione c’è:
il divorzio di Bulma e
Vegeta.
E’ stato un lungo e
difficoltoso travaglio per l’intera famiglia Brief, che però, oramai
era arrivata a condizioni impossibili da sopportare: litigi su litigi
dopo altri litigi.
Lunghe processioni fatte
per tentare di arrivare a dei compromessi, a dei chiarimenti, a degli
accordi validi e duraturi ma a nulla sono servite.
Certo, non si può mica
pensare che un’intera famiglia si sradichi così, per un non nulla.
Se vi dico che tra Bulma
e Vegeta è realmente finita, nessuno mi potrà mai credere, per niente
al mondo, non è forse così?
Una causa c’è stata e
molto più che valida … credetemi … si chiama Bra Brief …
***
L a dimora alta e grande,
quasi una fortezza protettiva e inespugnabile. Forse, le sbarre della
peggiore delle prigioni.
La torre della
principessa rinchiusa.
Ridicolo.
Voleva forse essere
salvata da un giorno all’altro, aspettando secoli pur di veder arrivare
il tanto rinomato principe azzurro dei sogni di ogni ragazza?
Assurdo. Lei non era una
delle tante.
Né semplice, né poi così
tanto complessa da capire.
«Papino, andiamo a fare
shopping!», «Dai mamma, la prossima volta non lo faccio più,
promesso!», «Trunks sta zitto, ho ragione io, punto!».
Sempre al centro
dell’attenzione.
Chi aveva sempre la
meglio, persino sul sanguinario principe dei Sayan.
La viziata rampolla dei
Brief, la piccola di casa, prossima all’impiego di vice presidente
dell’azienda di famiglia creata dal geniale nonno materno. Un destino
già deciso, una sorte già prescelta per lei, senza il suo consenso. A
nessuno era neppure lontanamente passato per l’anticamera del cervello
di chiederle «Cosa ne pensi?» anche solamente per una questione di
dovuta educazione, nessuno si era mai curato fino in fondo, in verità,
di osservarla con occhi diversi. Sì, sembrava una normale adolescente
come tutte le altre: piena di vitalità, entusiasmo e voglia di vita con
la tipica arroganza di chi è maledettamente ribelle, vivace, dispettosa
e amante della trasgressione.
Eppure la piccolina
stava crescendo, proprio davanti ai loro occhi.
Aveva tutto. Non
chiedeva più nulla.
Ma cercava qualcosa: una
propria identità.
Non la tipica facciata
della signora d’alta società, non quella della bambolina preferita di
papà che per altro si era già costruita dietro alle spalle e per la
quale era già diventata piuttosto famigerata, o quella della ragazza
infelice a cui non basta avere tutto ciò che desidera, perché infondo
ben sapeva già di per sé, che quelli erano tutti scontati stereotipi
della più alta fascia della società: finti ritratti forgiati solamente
da palazzi in grande stile, lusso sfrenato e soldi a palate. Non era
stata la sua fatica a farle guadagnare tutto quello che possedeva. Non
era stato il suo sudore a farle avere tutto ciò per cui piagnucolava da
bambina, tutto quell’avere che le bastava procurarsi con un semplice
movimento del labbro inferiore.
Voleva cambiare, essere
un’altra, diventare diversa. E lì, dove viveva, non sarebbe stata mai
aiutata, né capita. Almeno era questo che lei pensava.
Sapeva che le sarebbe
bastato andarsene, allontanarsi da quella gabbia d’oro costruita per
lei, era consapevole del fatto che fosse solo una muraglia di dolci
illusioni cullate da rasserenanti falsità: il mondo là fuori è diverso
da come gli e l’avevano fatto da sempre sembrare. Là fuori non esistono
compromessi, o ci sei o non esisti per nessuno. Devi gridare forte, per
farti sentire, tirare fuori la tua grinta per contare qualcosa. Tutte
cose che per lei erano di poco conto, ma ora, aveva appena preso la
decisione più importante della sua vita: cambiare per sempre. Contro
tutti, non contava più nulla il parere di nessuno.
Aprì bruscamente
l’interruttore della sua camera spegnendo repentinamente le enormi lava
lamps glitterate, che circondavano il lussuoso letto a baldacchino
ricoperto da trapunte di lino rosso.
Guarnito da lunghi
nastri arricciati color d’oro, impreziosito da strass lucidi che
incorniciavano il morbido tendaggio.
Afferrò la borsa di
pelle nera e chiuse la cerniera della giacca jeans ricamata in pizzo
che indossava sopra un vestito rosso fuoco lungo fin sopra alle
ginocchia e che risaltava le forme acerbe da ragazzina che aveva;
avviandosi verso la soglia dell’uscio della grande stanza, la sbatté
dietro di sé con fare iroso. Si appoggiò alla porta e fece un respiro
profondo per poi affondare la mano destra nella tasca della giacca nera
e prendere un pacco di sigarette che custodiva gelosamente tra le
braccia. Ne prese una e l’accese, lasciando che questa, prima di
metterla in bocca, diffondesse l’amaro effluvio di nicotina nell’aria
tiepida e poi la mise in bocca.
Uscì di casa e si trovò
nell’immenso giardino ricoperto dalle aiuole dalle mille tinte.
Si avviò verso il retro
della cupola color crema, nel garage. Lo aprì con le chiavi che aveva
duplicato dopo aver rubato il paio di chiavi originale dalla tasca di
uno dei tanti camici bianchi da laboratorio che indossava la madre
Bulma. Già … quel laboratorio dove si chiudeva di continuo … senza che
scambiasse qualche parola con la figlia o si degnasse di accompagnarla
da qualche parte … era sempre sola …
La ragazza scosse il
capo innervosita e si diede due sberle nel viso per non pensarci …
infondo una soluzione l’aveva già trovata … la migliore, per quanto lei
poteva capirne, non ne trovava altre.
Dischiuse le labbra
scarlatte e ne emise i fumi velenosi e ardenti della cicca, inspirando
con violenza. Non c’era alcun problema, sapeva già dove andare. Si
riprese e agitandosi, afferrò i manici del motorino, accese il motore
con stizza e si avviò velocemente, ma non prima di aver chiuso il
garage … non voleva lasciare segni del suo passaggio …
… sì, non voleva più
sentirsi un ostaggio … ostaggio in quella gabbia d’oro … ostaggio in
quella prigione di cristallo …
Continua …
Spazio
“autrice” (xD
Perché mi metto sempre a ridere quanto mi definisco così?)
Salve! Ok, so che la
prima cosa da fare è prendere e andare a nascondermi per questo a dir
poco pazzesco ritardo … ma d’altronde non è completamente colpa mia …
non sto passando un bel periodo ultimamente … (Ultimamente? Da
Gennaio!) beh, comunque sia, spero vogliate andare avanti a seguirmi!
[P.S: Nel primo pezzo,
chi avrà letto la mia “Sailor Earth and Sailor Vegeta” avrà sicuramente
intuito che si trattava di Sailor Vegeta. (Spero! XD) Don’t
worry! Non intendo assolutamente confondere le due storie, ma il plot
di SV&SE fa parte anche di questa storia e più avanti chiarirò il
tutto!]
Vogliamo metterci dentro anche Halloween Competition Game
Lovers??? Insomma, sarà un mix fra tre fanfiction.
- La prima, SV&SE,
che si dilunga tra il romantico e la commedia;
- La seconda, “La quarta
dimensione” è un mix fra demenziale, fantasy, (O.O) avventura e
ovviamente, romantico;
- La terza, “Halloween
Competition Game Lovers” è più comica, sentimentale e romantica.
La componente romantica
non manca mai! Ma in questa storia, cercherò di sfiorare le sfumature
dark!
Risposte alle recensioni:
Batuffolo: Beh, diciamo che i ricordi
sono preziosi, proprio come ha detto Chichi. E in genere le nonne
queste cose le sanno! Anche se secondo me, la nonna che regala alla
nipote un diario per conservare i propri ricordi … non so, mi suona
come
un qualcosa di già visto… e in effetti non è quello il suo scopo … Ma
andando avanti capirai … oh, ho visto che hai cambiato account, quindi
ti chiamerò Luna Storta nei prox Capitoli e sì, spero di farmi sentire
un po’ più presto la prossima volta … XD Un bacio anche a te!
FaNnY
sOnNy: Sono
contenta che la fic ti abbia incuriosita ^^ Bella davvero? Beh, non
saprei … grazie comunque!! Però temo che per scoprire cosa c’è nello
scantinato dovrai aspettare un bel po’ … mi auguro non ti stufi! Baci!
Neki: Che bello risentirti! Beh,
se sono brava o meno questo davvero non lo so, cerco di fare il
possibile! Sono contenta che tu abbia recepito proprio l’atmosfera che
ho tentato di creare: sconosciuta e intrigante! Grazie! Kiss!!
E,
naturalmente, ringrazio tutti gli altri lettori!
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Capitolo 3 *** Hypnotic Poison ~ Marron ***
†Memories Dust†
Capitolo
II
# Hypnotic Poison #
Marron
Non sta
affatto bene poter scrutare tutti quegli amari sbocchi di lacrime
cerulee che le invadono spudoratamente le palpebre delicate, che le
sommergono bramosamente gli abbaglianti zaffiri incastonati alle
lucenti perle nere degli occhi grandi e limpidi.
Corrompono
la sua tenera indole, ne bagnano il candido pallore naturale del viso
rotondo; ricamato ad arte da due lunghi boccoli biondi ondulati che le
incorniciano sapientemente i tagli sottili del profilo giovane ed
ingenuo, alternandosi fra un ciuffo e l’altro, giocando con la luce,
rischiarandola sensibilmente sopra il capo arricciato e scagliando le
sagome scure a fiotti ondeggianti leggermente posati sulla pelle chiara
e lucida.
La
lunga chioma riccia e folta lascia che le tante e piccole ciocche d’oro
le ricadano graziosamente lungo le spalle piccole, ne decorino le
fattezze affusolate del corpo gracile.
Assomiglia
tanto all’altra ragazza, quella che ho sognato l’altra notte, me la
ricorda come se fosse una sua copia: ne possiede quasi tutte le
sembianze. Che potrà significare?
Nemmeno
l’ equo tempo di potermi concedere il giusto lusso di pormi questa
domanda.
Senza
che io possa mai avere la facoltà di aspettarmi una risposta degna di
nota.
Di
tempo non ne ho, ora. Non posso più averne. No.
Quando
attendi pazientemente a lungo, inesorabilmente il tempo si trasforma in
un sentiero lugubre e impervio, invivibile, inesplorabile, il tuo
aspettare finisce poi per dilungarsi oltre ciò a cui ti eri dapprima
preparato. A ciò a cui davvero credevi.
Sposto
rapidamente la mia vista verso quest’ insolita apparizione, non ancora
ben netta come avrei voluto che fosse.
O
forse no.
La
osservo meglio. Ne scruto accuratamente ogni più assoluto dettaglio,
cerco di individuarne minuziosamente ogni segreto, di poter portare a
galla i più reconditi misteri che le concernono, di portare in
superficie dagli abissi più nascosti del suo animo indecifrabile ciò
che dentro esso conserva così gelosamente, di analizzare ostinatamente
ciò che mi ritrovo dinnanzi.
Chi
è?
In
lontananza potrei addirittura arrivare a sostenere che sia proprio lei,
quella dell’altra notte, come in un miraggio quasi onirico,
impossibile, improbabile, dove il confine fra sogno e realtà si
assottiglia sempre più, senza che tu te ne possa nemmeno accorgere in
tempo.
Dove
tutto ciò che vedo, appare repentinamente ottenebrato da un lampo di
oscurità, che d’un tratto dal nulla, colpisce la luce intromessa lungo
il mio cammino tortuoso.
Lo
incontro attorno a me in un botto, mi lascia al buio, senza lasciare
che anche l’ultima effigie di luce mi rischiari il viottolo che
ansiosamente percorro senza sosta.
Le
mie gambe frenano senza che io sia in grado di prenderne il comando.
Inizio
ad ansimare, ma non so dove mi trovo … so di esistere, di esserci, di
appartenere a questo mondo, che non è come il mio, ma una stringa
invisibile mi trattiene prigioniera di quest’illusione quasi infinita,
che mi appanna fatalmente i sensi già svigoriti e logorati
dall‘inquietudine che mi assale lentamente … che mi divora … che mi
pervade … che mi confonde… Dove sono?
Mi
accosto. Decido di volerla incontrare, di guardarla da vicino, di
fissarla negli occhi, in attesa di risposte, forse lei potrà aiutarmi a
capire …
Eccola.
Sembra proprio lei.
Poco
a poco la raggiungo. Mi sbaglio, forse?
Le
somiglia terribilmente. E’ identica a lei … O quasi …
Eppure
c‘è qualcosa di diverso … sì, da quella vestita di rosso … lo
sguardo è più profondo, è rivolto verso l’orizzonte sinuoso dei cieli
scompostamente riversi nell’imponente vespro sfumato d’arancio, che si
leva sopra di noi impertinente; il dolce piglio è solcato da due
occhiaie cave che le sterrano in spessore le iridi di tempesta,
valicate da tenui tonalità rosee e vivaci rifratte verso il cielo
levigato dalle piogge veementi … ed è vestita di blu…
E
piange. Non so perché pianga. La volta celeste lassù, si spalanca in
una grossa voragine color notte che viola il tramonto verniciato da
dorate cere immense.
Ma è
già successo una volta e questo lo so. Non ho paura. Ho già visto in
precedenza questa spirale di tenebra spezzare il firmamento. Ma questa
volta sembra essere più erudito.
E
tutto ciò che le circola attorno, tutto ciò che osa interrompere il suo
ciclo di crescita, viene immediatamente risucchiato, viene
simultaneamente spazzato via, senza che possa anche solamente pensare
di poter imprimere sulle rocce fredde un’ultima traccia del suo vissuto
in questo mondo.
Panico,
agitazione, ansia, angoscia, spavento.
Ogni
singolo sfugge all’imminente pericolo. Nei pensieri delle menti altrui
qui intorno riesco a cogliere solamente questa specie di fervore: facce
traboccanti di sgomento e impregnate di terrore, folle di gente
strillante che si incrociano, che si mischiano, che si sfiorano, che si
toccano.
Eppure
nessuno pensa minimamente ad aiutare il prossimo suo che dovrebbe amare
come se stesso, per come da sempre si predica, di generazione in
generazione, sperando in un futuro migliore per tutti, non cambia
nulla, non ci pensiamo un attimo, nemmeno uno soltanto a pensare a
qualcun altro che non siamo noi, ma pensiamo piuttosto a disfarcene nel
più semplice e celere dei modi. Tutti quanti noi, che ci consideriamo
sempre fratelli, figli di una madre terra unica che ci ha dapprima
generati e poi ci ha condannati a vita, ci respingiamo e pensiamo solo
a noi stessi, come pensiamo sia giusto che accada.
E
ora mi chiedo se la vita possa essere veramente un grande dono, o una
pesante condanna impossibile da sostenere, peso insoffribile da tener
sollevato sulle proprie spalle o un fardello di coscienze violate, un
macigno di colpe e di indifferenze mai confessate.
Felici
e sereni ci assaporiamo forse il diletto che il nostro vivere a noi
concede?
Udiamo
vibrazioni assordanti o musiche leggere, melodie armoniche, talvolta il
rovinio di più tremiti accorpati al caos potente che devasta la nostra
quiete e che possa avvolgere i nostri spazi più celati, o il più tacito
dei silenzi, che in pace rintocca ricoprendoci di tranquillità
finalmente concessa dopo tanto cercare.
Vediamo
l’ abbagliante luce del Sole coprendoci gli occhi tramortiti dal
riverbero lancinante e potente, le prime stelle della sera che colmano
di piccole luci l’apatico progredire della sera, la smorta limpidità
del chiarore della luna argentata, le grandi valli innevate che
circondano i sempre verdi colli sperduti fra i monti.
Sentiamo
i più speziati degli aromi, i tenui effluvi dei raccolti dei campi, le
delicate esalazioni dei frutti degli alti boschi. Il soffocante olezzo
dei fumi tossici.
Gustiamo
le dolciastre sapidità del miele degli alveari, l’aspro sapore degli
agrumi freschi, la salmastra saporosità dell’acqua del mare.
Lambiamo
con carezzevole leggiadria la soffice tenerezza tracciata nel volto di
persone che amiamo più di noi stessi, il piacevole tatto che ci permea
quando tastiamo con leggerezza gli spazi che ci appartengono, che ci
circondano.
O
forse, subiamo in incognito la sofferenza dell’odio? Del rammarico, del
rancore che si covano lentamente dentro di noi?
Invidiamo
chi ci sembra star meglio, solo perché a noi pare che sia così. Anche
se può essere l’esatto contrario di ciò che momentaneamente ci prende
pensare, non ci interessa, badiamo solo alle apparenza circostanti,
senza saper inoltrare il nostro sguardo aldilà di come si presentano le
cose. E’ quello che noi vogliamo vedere, perché siamo convinti di aver
ragione, sempre.
Cancelliamo
dai nostri volti le nostre più intime insicurezze, ci mostriamo
impavidi di fronte al mondo, siamo superiori. La nostra superbia
annebbia quelle stesse percezioni che ci rendono vivi, anche le più
invisibili. Ci rinforza di energie che ci servono solo per ferire gli
altri, per ledere all’integrità altrui.
Rimaniamo
passivi, accidiosi di fronte al male, rinunciamo ai buoni propositi e
ci chiudiamo in noi stessi, ingabbiandoci in una corazza
indistruttibile, impenetrabile.
Iracondi,
leviamo le nostre frustrazioni impiegando ogni forza, vorremmo
scaraventare tutto ciò che ci capita sotto mano, annientare con
violenza i legacci che incatenano la nostra rabbia, non ci importa dei
danni che potremmo arrecare.
E
con l’acquolina in bocca, scrutiamo in modo quasi maniacale i cibi in
tavola, li ingeriamo con foga, golosi di inghiottirne energicamente le
pietanze, che ci tentano di continuo con i loro odori persistenti. Ci
accontenteremo solamente dopo aver colmato i nostri malesseri con i
resti dei nostri infelici banchetti.
Quando
desideriamo ogni bene, l’impossibile, vogliamo appropriarcene senza
riserbo, senza freno, lo vogliamo ottenere a tutti i costi, non ci
basta più sognare solamente. Siamo accecati dal raggiungere i nostri
obiettivi, la nostra avarizia rabbuia ogni senso, ogni ragionamento,
ogni qualsiasi logica di dubbio.
Quando
godiamo dei piaceri più ricercati, ce ne abituiamo pretendendone sempre
più, assuefatti, continuiamo a ricercarlo, anche nei gesti più semplici
e i sfarzi concessi non sono mai troppi, siamo avvolti dal desiderio
più arcano, che non ci permette di accontentarci anche del più regale
dei più ricchi doni: la lussuria.
Perché
è così che siamo, vizi e virtù, percezioni e sentimenti. Chi nel bene e
chi nel male.
E
tu, ragazza dal vestito blu, lo sai?
***
I suoi grandi occhi
d’oceano si innalzarono verso l’alto di colpo, rispecchiando un eterno
sogno senza fine dove potersi posare per l’eternità.
Si ricoprì di effimere
chimere rintoccate da cristalline sinfonie che cullarono il suo animo
in petto; il suono di ali di piuma che si spezzavano, portate via dal
crudele vento che spirava senza fermarsi ad osservarla.
Lontano, distante, il
soffice zeffiro delle vellutate brezze di primavera dalla dolce
fragranza di ciliegio.
I pensieri fondi, le
trepidazioni taciute, si agitavano in balia dell’aria che si muoveva a
causa delle tenere armonie recitate dalla notte e l’incanto
dell’argento lucido della Luna che si riprendeva dopo un lungo periodo
di letargo, giaciuto dietro al novilunio buio, dove regnavano le onde
oscure, colmavano i lenti passi di un’illusione che sprofondava fra i
terreni ambrati della terra. L’eco maligno della sconfitta pulsava
incessante in lei, senza lasciare che sottili impronte di serenità
percorressero i suoi palpiti travagliati. Come un frutto maledetto da
estirpare alla radice di una pianta malata, da non cogliere.
Un germe da debellare.
Non si voleva arrendere.
«E’ un rischio. »
ringhiò sottovoce. Abbassò la testa. Cinse la propria vita stando a
braccia conserte. Si appoggiò al muro e iniziò a giocherellare con la
cerniera della comoda felpa di cotone chiusa a metà, appena sotto il
seno florido.
E rimase ferma.
Invidia. Iniziò a
correrle lungo la pelle. Come un fibra di madreperla che scorre fra le
dita. Non sopportava la sensazione di essere imprigionata.
Proprio al suo corpo. Non riusciva a muoversi minimamente. Lo sguardo
altezzoso dell’individuo che le si protendeva innanzi le incuteva
timore, era incapace di muoversi.
Non era come la sua
migliore amica che non temeva nulla e nessuno: lei era diversa. Più
taciturna, più turbata, più contorta. I suoi modi di essere erano
intricati e disordinati. Confusi e allo stesso tempo confusionari. Mal
celava il suo desiderio di emergere, di mostrare al mondo intero chi
fosse, ma veniva sempre oscurata dall’abbagliante luce di Bra Brief.
Sempre lei, sempre al
centro dell’attenzione, sempre al centro dei discorsi fra amici,
soprattutto in sua assenza. E si era messa in testa l’idea di formare
una banda di teppisti qualunque solo per far preoccupare i suoi. Che
idea assurda. D’altra parte se era esplosa la crisi in casa Brief era
solo tutta colpa sua, che voleva fare ora, rimescolare le carte in
tavola, così, come se nulla fosse?
Proprio in quel momento
lei, la bionda e dolce Marron, si trovava di fronte a uno dei
candidati, scelti dal nonno Muten che aveva procurato per Bra un team
di giovani ragazzi addestrati alle arti marziali proprio da lui stesso.
Lei sapeva che anche
Goten, il giovane ragazzo di casa Son, si era stranamente immischiato
nella faccenda.
Già, il suo migliore
amico sin dagli ormai lontani tempi d’infanzia.
Incredibile pensare a
tutto quel tempo che era passato, a tutti quegli istanti che li avevano
separati, che avevano assopito i più teneri ricordi della loro
fanciullezza passata assieme.
Lui era rimasto bocciato
alla facoltà di ingegneria come studente fuoricorso mentre lei, aveva
avanzato nella sua carriera scolastica come futuro giudice lavorando
frattanto come infermiera al pronto soccorso.
Troppo tempo. E non se
ne ricordava.
Strano lamentarsi del
fatto che la sua migliore amica si fosse imboscata nel mondo delle
masnade, se proprio lei fu l’origine di questo problema, la causa.
Ma che colpa ne aveva
lei infondo, se si era perdutamente innamorata di un tizio di nome
Steve, casualmente a capo di una delle bande più pericolose della città
dell’Ovest?
E dire che lei nemmeno
lo sapeva. Almeno all’inizio.
Eppure, l’irresistibile
sensazione di goduria che sentiva ogni qualvolta violasse un divieto o
un limite proibito da oltrepassare, era semplicemente meravigliosa.
Ne gradiva a poco a
poco, prima di assaporarne le più gustose essenze.
Divenne una dolce
ossessione da cui era impensabile separarsi, poiché per lei, ormai
abituata, non bastava mai. Un’inebriante dipendenza, la sua.
Non ne voleva uscire.
Non voleva che qualcuno la salvasse. Non voleva che qualcuno l’aiutasse
a cambiare strada, pur ben sapendo che si trattava di quella sbagliata
da transitare.
Trovava uno sfogo a
tutti quelle emozioni represse che teneva dentro di sé, non essendo mai
riuscita ad incanalarle per fare in modo che fossero condotte per la
via giusta, per far in modo di espellerle.
Troppi dubbi, troppi
interrogativi, troppi inghippi, troppe domande.
Nessuna risposta.
Cosa significa saper
gestire la distinzione fra bene e male? Cos’è il bene? Cos’è il male?
Se ne ricordava proprio
adesso lei, Marron, la dolce Marry, come la chiamavano gli amici.
E che amici.
Non era mai riuscita in
tutta la sua vita ad esprimere le proprie opinioni, ad essere diretta, a
reagire anche di fronte alle ingiustizie, a fare qualcosa per gli altri.
E tutto ciò che di più
errato poteva commettere l’aveva fatto compiuto proprio in quel periodo.
Bandire il coltello.
Aggredire, minacciare, rubare. Mentire.
Le aveva fatte tutte.
Ora voleva redimersi.
Ma non sembrava ce ne
potesse essere la benché minima possibilità di farlo.
E una blanda lacrima le
imperlò il tenue volto.
E cedette. Cadde. Si
spezzò.
Non si intrometterà, no,
non stavolta.
Voleva rimanere lontana
dai guai.
Voleva avere il coraggio
di dire ‘No’, almeno per una volta.
Non voleva più soffrire
di gravi colpe inflitte dal destino o che la casualità le aveva
inferto. Ciò non lo sapeva nemmeno lei.
Non si lascerà mai più
frastornare dall’inevitabile spinta delle tentazioni.
«Nonno … io non ci sto.
» Strinse fortemente i pugni. Fino a lasciare le impronta delle dita
sui palmi delle mani sottili.
Muten si voltò.
Non si lascerà mai più
soggiogare da quel torbido intruglio che la incatena alle sue emozioni,
da quel veleno
ipnotico …
Continua …
Spazio
autrice (xD, perdonate i soliti scleri)
Ok, mi rendo conto che
la trama di questa storia possa essere difficilmente comprensibile, ma
abbiate la pazienza di aspettare ancora per altri tre capitoli e poi,
avrà finalmente inizio la vera storia ^^
Risposte
alle recensioni:
FaNnY
sOnNy: Io Bra la
adoro, invece ^^ Non so perché, ma ho una grandissima venerazione nei
suoi confronti, idem per Marron, insomma, si sarà capito che adoro i
Teens! *.* Ovviamente spero ti sia piaciuto anche questo capitolo!
Neki: Allora siamo contente tutte
e due xD Se Bra si sentiva rinchiusa, Marron sta anche peggio xD Baci!
Spero ti sia piaciuto anche questo capitolo!
Visto?! Mi sono fatta
attendere meno stavolta, vero? XD
Grazie
anche a tutti voi!
See you soon!
|
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Capitolo 4 *** Naivety essence and bitter solitude ~ Goten e Chichi ***
†Memories Dust†
Capitolo
IV
+Naivety essence and bitter solitude +
Goten e Chichi
Parte
I
L o
scudo delle tenebre lentamente avanza, per proteggere e vegliare
attentamente il cielo notturno, re delle brame e dei desideri
incantati, laddove, si innalzano in coro richiami rintoccati di
lampanti tuoni che atterrano ogni spirito, rincuorato dalla palpitante
essenza della vita che cinge ogni persona alla natura viva propria
esistenza.
Si nasce, si vive, si svanisce.
Come le arbusti di un’ ampia serra,
che man mano, col passare del tempo e degli anni crescono,
inesorabilmente legati alle radici dell’eternità: universale sovrana
degli animi.
Incontrastata regina del bene, ma
anche del male.
Dello stabile ed immenso equilibrio
che prudentemente regge le sorti dei destini viventi che sin ad ora e
fin da sempre dimoreranno nell’infinito regno della vita, innalzata
originariamente dall’alba di ogni tempo orsono, il sommo sovrano della
nascita ha adempito all’arduo compito della creazione con più potere
possibile concesso da ogni sua forza, l’eden del creato era il ritratto
stesso della propria perfezione, il riflesso di tutto il proprio essere
divino ed incancellabile, ma la distruzione del peccato gli ha
purtroppo impedito di riuscire a debellare del tutto l’immortale ombra
del male, perché incessante vivrà per sempre nel cuore degli uomini,
per sempre condannati alle tentazioni dei vizi.
Le nubi velate d’argento si spostano
seguite dal fioco e gelato vento che abilmente manovrandole le
trasporta da una sponda all’altra del cielo oscuro, quasi
sgretolandolo, facendo sparire del tutto qualsiasi traccia rimasta
anche della più piccola nuvola.
Stille d’acqua grigiastra si
accingono a ruzzolare verso terra una dopo l’altra, sempre più
rapidamente, secondo dopo secondo inumidiscono le sporgenti valli
innalzate alla luna che non c’è. Boati improvvisi interrompono
subitamente i silenzi che avvolgono i monti.
Le tormente spazzano via ogni residuo
degli alti alberi già decaduti.
Si riescono ad intravedere soltanto
le luci di una umile e piccina dimora nascosta tra i folti boschi
d’alta montagna, circondata da fosche ombre che la ricoprono avide.
Le lancinanti urla di una donna.
Il disarmante pianto di un neonato
che appena giunto al mondo, non può rivolgere il proprio saluto di
benvenuto.
«Chichi … ti senti meglio, ora?».
Chiede un uomo dall’aria apprensiva e preoccupata accanto alla donna
partoriente. Una donna dall’aspetto giovane ma profondamente consumata
dai solchi di un dolore profondo che forse, non avrebbe mai più
ritrovato il minimo barlume di sollievo, di un dolore profondo che
aveva segnato sul suo fragile aspetto le spietate tracce della propria
influenza.
«E me lo chiedi papà? Come potrei?-
grida presa dalla disperazione mentre stringe i pugni e si tortura le
braccia angosciata - Goku non c‘è! Non c‘è più! Non tornerà mai più! Tu
lo vedi, eh? Io no! E so di per certo che sì, ci ha abbandonati di
nuovo, eppure, ho la terribile sensazione che stavolta durerà per
sempre.» Alzò la voce, avvolgendo il piccolo nel proprio corpo tra le
braccia stanche e rannicchiando le spalle attorno a sé, mentre il
neonato pianse ancora più intensamente.
«Guarda, Chichi. Io non vedo Goku,
però, vedo una nuova e piccola creatura appena nata e che ha bisogno di
tutto l’amore del mondo per crescere, osserva … Lui ti infonderà pace e
serenità, speranza … guarda al futuro con occhi gioiosi, è il tuo
bambino.»
Cerca di confortarla il padre con gli
occhi lucidi, mentre il nipote stringe il bambino a sé e la madre lo
fissa con aria persa, quasi nel vuoto, come se per un momento non
volesse credere di essere rimasta di nuovo sola, senza più appigli a
cui potersi reggere.
Il figlio riconsegna docilmente il
neonato alla donna protendendo la testa verso il basso per evitare lo
sguardo amaro della madre, sentendosi un codardo e stringendo il
fratellino fra le braccia poggiandolo con delicatezza a quelle tremanti
della donna.
Il nonno e il nipote preferirono
alleggerirle il peso del dolore, lasciando la donna sola con il suo
bambino nella speranza che un miracolo li avesse potuto regalare anche
brevi istanti di sollievo.
«Piccolo mio … io … io … forse non so
se io ti meriti davvero, ma so che tu come ogni altro bambino hai
bisogno di un padre … - gli accarezzò lentamente il capo calvo e
morbido, mentre i suoi occhi furono imperlati dai riflessi vividi delle
lacrime - ti chiedo scusa già da ora, se in futuro non riuscirò a
capirti, non riuscirò ad aiutarti o a consolarti nei momenti tristi, a
rimanerti accanto negli istanti più felici, a rinvigorirti nei momenti
più difficili, ad esserci sempre anche semplicemente, qui, per te. Ma
oramai bambino mio, non ho più fiducia in nulla, non sono più sicura di
niente …» disse, mentre la voce delicata prende piano piano a rompersi
improvvisamente fra i singhiozzi, non riesce a tenerlo in braccio.
Il bambino succhia il latte della sua
mamma calmandosi repentinamente dall’agitazione, confortato dalla
presenza materna che si sforza di cingerlo cercando di proteggerlo da
un qualcosa di molto più grande di loro.
E dorme.
La mezzanotte irrompe nell’aria
fredda, decanta il vivido folgore del nido dell’oscurità.
La pioggia violenta smette di
imbattersi contro il terreno per qualche momento e regala calorosi
attimi di pace.
Gli animi riposano nel silenzio, sui
loro giacigli.
Le luci delle stelle riprendono ad
imprimersi nel firmamento.
Un’ ombra avvolge la luce
dell’abitazione.
Tra il fruscio del vento che agita le
foglie delle verdi chiome dei boschi e i silenzi dei prati, luci e
ombre come impazzite, vibrano attorno a una piccola cupola illuminata
dalla luce di una candela.
La donna riposa con il suo piccolo,
eppure strane presenze, iniziano a tormentare l’immagine di questo
nuovo nascituro.
Un bambino.
Ha un’aria felice, spensierata e
contenta, a cui sembra che basti davvero poco per gioire allegramente.
Saltella, canticchia e ride nel suo piccolo lettino di legno alzando le
due piccole braccia verso l’alto, intento ad afferrare le palline
luccicanti sopra di lui, che accompagnate ad una dolce melodia
continuano a girare. Riesce a prenderne una e tutto contento la scuote,
sentendo il rintocco lieve dei due campanellini situate al suo interno
e sorride, così togliendosi il ciuccio dalla boccuccia che scivola e
cade per terra.
«Oh, Goten! Sei il solito
pasticcione! Vieni qua dalla tua mamma!».
La donna lo stringe in braccio
attentamente, avvolgendolo in un morbido fagotto azzurro e tenendolo
ben pigiato al suo petto.
«Gohan puoi prendere tu il ciuccio e
risciacquarlo, per favore?».
Chiede, rivolgendosi al figlio
maggiore che annuisce obbedendo.
Lei si accascia alla poltrona,
chiudendo con un gesto brusco la tenda bianca della finestra che ha
davanti, per far sì che l’abbagliante luce del sole non filtri dentro
casa e dia fastidio al piccolo.
Lo allatta e lui ghiotto, succhia il
latte smanioso, volendone sempre di più.
«Goten, non così! Mi fai male!». Si
lamenta la madre.
Il bambino si calma e guarda in viso
la sua mamma. Gli occhietti si aprono, svelando il nero della notte,
gli stessi occhi del fratello, gli stessi occhi del padre.
Nemmeno il vecchio stregone del toro
riusciva a spiegarsi come la sua famiglia si fosse cacciata in quella
situazione così pessima, fatto stava, che riusciva a percepire
chiaramente l’enorme dolore che affliggeva la giovane figlia. Questa
sarebbe stata una nuova e difficile prova a cui la vita l’avrebbe
sottoposta: troppe volte il marito se ne era andato lasciandola sola,
ma ora, era diverso. C’era un bambino di mezzo, che sarebbe cresciuto
senza aver mai potuto conoscere l’eroico padre. Lo stesso che
mille altre volte aveva salvato la Terra, il suo pianeta, che
altrettante volte in futuro, avrebbe ancora salvato, ma la maledizione
che costantemente colpiva la sua famiglia era la solitudine,
l’abbandono. Un amore che manca, che non c’è e che quella nuova
creatura che aveva appena visto la luce del mondo non avrebbe mai
conosciuto, senza averne alcuna colpa.
Era solo stata solo pura sfortuna la
sua, essere nato in un momento completamente sbagliato, ma ciò non
faceva di lui uno sbaglio, un incidente. Non era stato programmato, né
previsto.
Nessuno dei due giovani genitori ne
aveva idea.
Ma la sua nascita fu lo stesso un
dono, una gioia che regalò conforto e speranza nel futuro.
Eppure non bastava del tutto, anche
se tutti si ostinavano a non volerlo credere, perché fossero finalmente
una famiglia completa, unita, mancava un solo elemento, che però pareva
quasi non volerci essere. Nemmeno lo facesse apposta.
Aveva a cuore il bene dei suoi cari,
fino al punto di sacrificare persino sé stesso, ma in questo modo
procurava solo angosce e sofferenze ai più importanti di tutti, alla
sua famiglia che lo aveva sempre appoggiato, che più di ogni altro
aveva da sempre creduto in lui, gli aveva riposto ogni fiducia, lo
aspettava e ci credeva ancora.
Ma lui non c’era, di nuovo.
E quella casa sembrava essere
diventata sempre più desolata.
Disertava quella voce sempre
scherzosa che colmava le stanze dell’ abitazione a cupola.
E più tacita progrediva ora la loro
vita.
Il bambino si addormenta lentamente.
Lancia alla mamma qualche occhiata
ancora, per alcune volte, sempre più brevi, fino a chiudere
completamente gli occhi.
La donna stanca si accascia alla
poltrona dopo aver riposto il piccolo nella sua culla.
Si cinge le spalle e copre il capo
con le braccia.
«Bambino mio, perché? Perché è
accaduto un’altra volta? Perché proprio ora? E’ forse una coincidenza
che tu somigli così tanto al tuo papà? Può essere un segno. Questo più
volte mi sono ritrovata a pensare. Ma io credevo che lui fosse rimasto
di nuovo con noi, che non ci avrebbe mai più lasciati soli … Tu non
puoi neanche immaginare com’era … Ma del resto non può nemmeno essere
colpa tua, no, no che non lo è.».
Gli occhi le si cosparsero di lacrime
che non poteva far altro che sgorgare, si concedeva il lusso di tornare
ad essere umana, di togliersi le vesti da madre e moglie perfetta, per
una volta. Anche lei commetteva i suoi sbagli, i suoi errori. Non
l’avrebbero vista. Non c’era più nessuno.
«Ma che razza di madre sono? Prima
prometto ai miei bambini di resistere, prometto loro di farcela, ma poi
colgo la prima occasione per continuare a sfogare tutto il mio
malessere nei momenti meno opportuni … per quanto ancora sarò costretta
a sopportare tutto questo?».
Pensa frustrata.
Poggia il bambino sulla sua piccola
culla.
Beve avidamente un ultimo sorso
d’acqua.
Il viso è pallido, il corpo trema.
Il pugno stringe con forza il
bicchiere fin quasi a spezzarlo del tutto ma poi non vuole
accontentarsi, complice del proprio istinto, molla la presa per poi
scaraventarlo a terra e frantumarlo in mille pezzi.
«Ti odio. Ti odio per il tuo
altruismo insensato, ti odio per quello che sto subendo a causa tua! Ti
odio!». Grida, afferra una scheggia di vetro graffiandosi il palmo
della mano, lo passa attorno alle dita imprimendo sempre più forza. Una
ferita che non nuoce, non graffia, non ferisce davvero. La peggior fine
è la morte interiore.
La solitudine è un sentimento che
tace il tuo animo, ti rende un estraneo, uno sconosciuto, un fantasma …
Non ci sei e a volte rimani solo proprio per la paura di poterci
essere, ti domandi come mai, come potrebbe essere accaduto, quale
potrebbe esserne la ragione.
Nessuno ti riconosce, ne ti pensa,
non ti considera, la solitudine è come un’esistenza fasulla, una
dolorosa illusione che infligge terrore ad aprirsi con gli altri e ben
presto finiamo per costruirci una barriera difensiva per proteggerci da
quelli che pensiamo possano essere pericoli esterni eppure, il più
delle volte, non ci accorgiamo che il vero male è dentro di noi.
L’abbandono non è un effimero addio
dal quale si può fuggire, è una trappola che ti segnerà per sempre, una
sofferenza atroce che ti corrode, non ti lascia il tempo per capire, ma
che ti scalfisce alle spalle e tradisce la tua fiducia. E in quel
momento cresce dentro di te una rabbia incontrollabile, ti stupisci
anche tu stesso quando lo vedi e ti chiedi fin dove mai potresti
arrivare, se queste sensazioni così negative e così represse non
faranno in modo che tu ti possa autodistruggere. Alla fine a farci del
male siamo proprio noi eppure diamo la colpa agli altri, forse siamo
consapevoli di essere noi le vere persona imputabili ma per orgoglio o
paura non vogliamo ammetterlo. Questi pensieri si annidano nella sua
mente, ora nuda maschera d’acciaio, ruvida lastra di ghiaccio, sepolte
nell’ombra più oscura soggiogata dall’esaltante effluvio del più dolce
veleno offerto dalla tentazione, intorpidite dagli olezzi più amari nel
giaciglio dell’Inferno. Era proprio così che si sentiva.
Giorni, settimane, mesi, anni passati
in solitudine.
Ma lei non aveva mai rimpianto le
proprie scelte. Si parla del passato, dell’inizio, della genesi di una
leggenda che sarebbe diventata la stessa leggenda dell’umanità.
Certo, tempo fa erano entrambi
giovani per decidere di sposarsi così in fretta, ma lo fecero per amore.
Un amore vero che scaturiva dai loro
cuori fiduciosi di affidare il proprio destino, la fine del proprio
lungo e tortuoso cammino insieme, al futuro.
Il felice adempimento di una fedele
promessa fatta nei tanto cari e lontani tempi dell’infanzia.
Sicuramente la dolce Chichi non si aspettava che sarebbe finita in quel
modo. Costantemente abbandonata a sé stessa. O era solamente
vittimistico egoismo il suo? Non riusciva a comprenderlo nemmeno lei.
Se era questa, a essere chiamata “amara sorte”.
A volte percepiva dentro di sé, una
sensazione strana, inquietante, come se qualcosa o qualcuno cercasse di
impedirle di ricordare tutti quegli anni trascorsi “quasi” insieme.
Come se infondo, ciò che stesse
vivendo in quei momenti così bui della sua vita, non contassero nulla,
non esistessero, come fossero labili illusioni di un terribile incubo,
come sei le stessa fosse completamente lontana dalla realtà che la
circondava. Come se non avesse mai conosciuto il suo Goku, come se i
suoi figli non fossero mai esistiti. Tragica sensazione di abbandono,
come se fosse lentamente tentata, a poco a poco, di lasciare tutto
quanto alle spalle e di dimenticare tutto e tutti. E rimpiangeva di
tutto ciò che le creava nell’anima questi sentimenti così dolorosi e
prepotenti. Era vero che stava soffrendo, ma come poteva permettersi,
in quel momento così difficile, di pensare solamente a sé stessa?
Che razza di madre stava diventando?
Avrebbe dovuto trovare la forza di reagire un’altra volta, come faceva
sempre, con i soliti sorrisi d’incoraggiamento è con un po’ di fiducia
nelle proprie capacità … avrebbe permesso a chi ne avesse provato
solamente una sadica gioia, di goderne appieno del suo stato di penosa
sofferenza e di dolorosa devozione? Fino a quando avrebbe tirato avanti
in questo modo? E i suoi figli come avrebbero vissuto le loro vite? Con
il rimpianto e l’angoscia di non avere accanto il proprio padre?
E Gohan, che lo amava così tanto il
suo papà, lo adorava come un dio, era tutto per lui: l’esempio da cui
prendere importanti insegnamenti, il suo eroe, il suo idolo …
semplicemente il suo papà …
Quanto poteva soffrirne ora che
sembrava non potesse più rivederlo fino a data da destinarsi … ma non
mostrava segni di cedimento e forse, perché vedeva ora la sua mamma in
quello stato, che non permetteva a se stesso di sfogare il proprio
dolore per una perdita così grande … come se gran parte di lui l’avesse
abbandonato all’improvviso, lasciandolo solo ad occuparsi del resto.
Sarebbe cresciuto soffrendo e tenendo dentro ogni ansia per sé stesso,
tenendosi addosso tutto il peso di quella taciuta e malcelata agonia
per non mostrarla davanti agli occhi di chi lo amava.
E il piccolo Goten, ora giunto al
mondo … con quale coraggio potevano decidere di raccontargli le eroiche
imprese di un leggendario figura paterna che per lui non sarà mai
esistita?
Per lui sarebbe sempre rimasto un
falso orgoglio di cui gioire, perso nella utopistica identità di
un’ombra del passato. Ma che colpa ne aveva infondo?
Con quanta ipocrisia si sarebbe
dovuto trovare il piccolo Goten, sì, poiché questa per Chichi sarebbe
stata ipocrisia pura … parlar di lui con parole di lode …
Lei sa bene che il suo comportamento
non è corretto nei loro confronti, ma puramente egoistico, che non
avrebbe mai e poi mai dovuto permettere ai suoi figli di crescere nel
vuoto.
Avrebbe annullato sé stessa,
soffocato i propri bisogni pur di renderli felici.
Per il bene dei suoi figli, delle sue
creature. Sarebbe stata addirittura disposta a vendere la propria anima
al demonio, a nutrirsi di un liquore di eterna dannazione, di un
nettare di nefandezze maledicendo la propria persona pur di pensare e
di provvedere solo a loro.
Esisteva solo per i suoi cuccioli,
sempre pronta a rimanere loro accanto, cercando di infondere loro
sicurezza, stabilità, felicità … l’equilibrio giusto.
Sempre pronta ad aiutarli nel momento
del bisogno, sempre pronta a confortarli negli istanti più tristi,
rimanendo semplicemente vicino a loro. Non li avrebbe mai abbandonati,
mai lasciati soli, mai e poi mai. Finché sarebbe rimasta in vita nulla
doveva andare storto, sapeva bene di non potersi permettere una
maledetta resa, che sarebbe costata cara a lei e alla sua famiglia.
Ora tutto quanto ruotava attorno alle
proprie capacità di madre, di sopportazione, di resistenza.
Ce l’avrebbe fatta?
Sì, perché nulla e nessuno riuscirà
mai ad abbattere l’amore di una madre.
Nessuno avrebbe mai provato
soddisfazione a vederla strisciare per terra.
Né a chiedere pietà.
Né a tacere nell’indifferenza.
Mai.
Perché lei non l’avrebbe mai permesso.
Non l’avrebbe fermata neanche l’amara solitudine …
Continua…
Spazio
autrice (xD)
Salve!
Come
avrete capito questo capitolo è diviso in due parti, nelle quali la
prima è incentrata sulla “Bitter Solitude”, cioè l’amara solitudine di
Chichi, spero di non aver sortito l’effetto dell’esagerato ma ho sempre
visto Chichi come un personaggio trascurato e ho così voluto dedicarle
qualcosa. Non ho avuto il tempo di rivedere il capitolo e caso mai ci
fossero degli errori o ripetizioni di troppo, provvederò a correggerli
quando avrò più tempo.
Ho
fatto veramente tanta fatica a stendere questo capitolo, davvero. Tempo
fa ne ho pubblicato uno abbastanza simile ma non mi soddisfava appieno,
beh neanche questo, ma trovi sia già migliore, il prossimo giudizio lo
lascio a voi!
Ci
risentiremo con la seconda parte …
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