Ella Amerà

di Mitsutsuki
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Clinica La Nicchia ***
Capitolo 2: *** Luna Nuova ***



Capitolo 1
*** Clinica La Nicchia ***


Serie: Original
Partecipante a: “La Nicchia... e la Luna” - Contest indetto da Eylis
Prompt: Come da titolo al Contest.
Capitolo: 1/2
Disclaimers: Tutto mio.

Moon I
Clinica La Nicchia

Allungò una manina verso la mamma.
Era bella. Anche col volto rigato di lacrime e lo sguardo concentrato sulla strada.

Pioveva.


Si strinse di più nella coperta. Non riusciva a toccare la mamma: la tosse la rendeva troppo distante.
Ma lei si era voltata lo stesso. Solo per poco, come per assicurarsi che fosse proprio la sua gola a bruciare così forte.
— Andrà tutto bene. — Mormorò tra i singhiozzi. La voce suonava strozzata, quasi acuta.
Anche a lei faceva male la gola?
— Su, copriti. — Gli portò la coperta fin sul naso.
Ridacchiò. Poi tossì.
La stoffa gli faceva il solletico, ma la gola gli faceva male.

Pioveva sempre.
L’acqua cadeva fitta, simile a un velo smosso dal vento.


A lui non piaceva la pioggia: non si vedeva bene con i finestrini bagnati.
Pensò che alle macchine avrebbero dovuto mettere i vetri degli acquari. Quand’era andato a vedere gli squali, il vetro era trasparente anche se era bagnato. Magari era fatto di un materiale speciale, che lo teneva pulito. O forse c’era qualcuno che li puliva con quelle strane bacchette che andavano su e giù, sul parabrezza della macchina.
Però c’erano solo sul vetro davanti.
Sbuffò, poggiando la fronte contro il finestrino. Avrebbero dovuto metterle anche agli altri, quelle cose.
— Sì, ecco. —
Sua madre parlava a scatti, agitata. Asciugava le lacrime con forza, passando una mano sotto gli occhi.
Si rattristò, vedendo la sua bella immagine riflessa sul vetro, così distrutta anche mentre accennava quello che voleva essere un sorriso, ma che si rivelò presto essere solo una smorfia.
— Così ti si abbasserà la febbre. —
Il bambino mormorò un “sì” a fil di voce, anche se con il suo gesto aveva pensato di scaldare il vetro per vedere fuori, sciogliendo l’acqua, piuttosto che per far scendere la febbre.

Giunsero al parcheggio della clinica verso le due del mattino.
Il mare che vi era di fronte si era ingrossato, allagando tutto il terreno fino alle porte d’ingresso. Le buche si erano quindi trasformate in pozzanghere di acqua e fango, in cui la macchina rischiò di impantanarsi più volte.
Era per questo, pensò il bambino, che la mamma gli aveva detto che l’ambulanza non sarebbe venuta a prenderli: i dottori non erano bravi come lei a guidare.
Le sorrise, mentre lei si toglieva di fretta la cintura e alzava il cappuccio tanto da coprirle la frangia davanti. Sua madre era fantastica.
— Aspettami qui, faccio subito. — Gli lanciò una rapida occhiata piena d’apprensione — Copriti. —
— Sono coperto. — Mormorò con voce rauca.
Ma la mamma gli volle comunque aggiustare la coperta.
Poi andò via e lui rimase solo.

C’era un cartello, davanti ai cancelli della clinica.
Tra le gocce di pioggia ancorate al finestrino, il bambino riuscì a leggere la scritta: “La Nicchia”.
Storse il naso. Non sapeva cosa volesse dire.
Si abbandonò sul sedile della macchina, sbuffando contro la sua ignoranza.

Stava giocando con le frangette della coperta, quando un forte grido lo fece sobbalzare terrorizzato. Si accucciò svelto sotto il cruscotto.
Dov’è la mamma?” si domandò mordicchiandosi un labbro per non fare rumore.
Forse era un mostro.
O peggio, un malato dalla clinica.
Lacrime dispettose cominciarono a inumidirgli gli occhi, vedendo realizzarsi le sue paure: i dottori erano cattivi come i dentisti. Facevano male alle persone.
Dov’è la mamma?” si chiese ancora, questa volta con un moto di preoccupazione per lei, che da quel posto orrendo non era ancora uscita.
Al grido si sostituirono lamenti angosciati.
Sembrava la voce di una donna.
Nella sua mente balenò l’inquietante ipotesi che potesse trattarsi proprio della mamma.
Si mosse appena verso l’alto, in modo da portare gli occhi sopra il cruscotto.
Vide una persona in fondo alla spiaggia, ma aveva i capelli troppo disordinati per essere chi lui temeva che fosse. Vestiva in modo trasandato e girava in tondo, sulla sabbia, parlando da sola, piangendo, gridando.
Si abbassò di nuovo nel suo nascondiglio.
Poteva essere una di quelle signore che portavano via i bambini.
Offrivano loro delle caramelle, e gliene promettevano altre se avessero fatto i buoni e le avessero seguite in casa. Ma poi li chiudevano in cantina e l’ingrassavano finché non fossero stati abbastanza gustosi per essere mangiati. E facevano cadere loro tutti i denti, cibandoli di dolci, così da non farli più parlare o gridare.
— Kelvin. —
Gridò spaventato, nascondendosi sotto la coperta.
L’avrebbe portato via, lontano dalla mamma!
Pianse forte, mentre la coperta scivolava in basso e lui si copriva con le mani. La scongiurò di lasciarlo stare: disse che era un bambino cattivo e gridò con quanto fiato avesse in gola quanto fosse pessimo il suo sapore.
Ma le preghiere gli morirono in gola, divorate dalla tosse.
Sentì che l’aveva preso per le spalle, scuotendolo.
Allora si accorse che qualcosa non andava. Non sembrava un gesto violento, anzi, era quasi un tocco leggero, solo per farlo smettere di piangere.
— Kelvin, sono io! Sono la mamma! —
La sua voce fu come una dolce melodia per lui, che ancora tremava.
Aprì gli occhi sul volto della donna, incorniciato dalla plastica gialla della mantellina.
Sorrise rincuorato, poi ebbe paura di nuovo.
— Vuole portarmi via. — Disse, anche se le parole faticavano ad uscire, come se fossero troppo grandi e dovessero raschiare le pareti della gola prima di raggiungere la bocca.
— C’è una signora sulla spiaggia... —
La madre lo azzittì dolcemente, posando un indice sulle sue labbra screpolate.
— Non c’è più. —
— L’hai fatta andare via tu? —
Gli sorrise, avvolgendolo di nuovo nella coperta — Sì. Ma adesso vieni, ha smesso di piovere e tu devi riposare. —
Rispose con un debole cenno del capo, lasciandosi prendere in braccio.

Il rubinetto del bagno perdeva acqua.
Le gocce cadevano sulla ceramica con ritmica precisione.


— Mamma? — Chiamò Kelvin, mentre lei gli rimboccava ancora le coperte.
Le infermiere avevano dato loro una bella stanza: di quelle con la vista sulla spiaggia.
Fuori, le stelle cominciarono a fare capolinea tra le nuvole, forti dell’assenza della Luna che altrimenti le avrebbe oscurate.
Facevano un bell’effetto, riflesse nell’acqua del mare.
— Cosa vuol dire “nicchia”? —
La donna si sedette sul bordo del letto.
Accarezzò la guancia del bambino, cercando le parole adatte.
— Beh, una nicchia è un po’ come un buco. Di solito ci mettono le statue. —
Kelvin corrucciò la fronte perplesso.
Si schiarì la voce, poi replicò — Ma perché un ospedale dovrebbe chiamarsi “buco”? —
Rise.
Com’era bella la sua mamma quando rideva! Da quando aveva cominciato a tossire, gli aveva rivolto solo sguardi carichi di apprensione.
Una volta gli aveva raccontato che papà se n’era andato tossendo. Non aveva mai capito il perché. Forse perché anche lui non voleva vedere la mamma tanto triste.
Ma lei avrebbe dovuto sapere che era ancora troppo piccolo per viaggiare da solo!
— Beh, Kel, — Gli rispose infine, con un sorriso a fior di labbra — si chiama così per via della nicchia nella scogliera. Quando tuo nonno è stato ricoverato qui, mi raccontava che alcune pazienti si ritrovavano lì, ad aspettare il sorgere del Sole. —
— Posso andarci anch’io? —
Il sorriso scomparve dal volto della donna. Rivolse al bambino uno sguardo serio e combattuto, di chi non vorrebbe negare niente, ma è costretto a farlo.
— Scusa. — Si affrettò ad aggiungere, stringendo le coperte — Non voglio vederti triste. —
Sua madre gli sorrise di nuovo, passandogli una mano sul capo in un vano tentativo di aggiustargli i capelli. Erano ricci, come quelli del padre. Dei veri e propri ribelli.
— Quando starai meglio, d’accordo? —
Kelvin annuì, accomodandosi come per dormire.
Poi sgranò gli occhi, improvvisamente inquieto.
— Mamma. — Mormorò piano, mortificato — Ho dimenticato Dango. —
— Questo è un bel problema. —
Dango era un orsetto di pezza. Di quelli così vecchi da essere dimagriti col passare degli anni e aver perso la lucentezza del pelo.
Ma si sa, i bambini si affezionano ai loro giocattoli preferiti e niente e nessuno avrebbe potuto separare il piccolo Kelvin dal suo Dango, compagno di giochi e guardia notturna.
Prese la tracolla poggiata al suolo e ne fece scattare la chiusura.
— Però, lui non si è dimenticato di te. — Osservò, estraendo il piccolo peluche come se fosse stato lui a voler uscire dalla borsa. Ne mosse una zampetta in segno di saluto.
Il bambino esultò entusiasta, allargando le braccia.
La madre sorrise, facendo camminare Dango fino al figlio, che se lo strinse al petto. Quell’orsetto aveva la capacità di metterlo in pace con se stesso e con il mondo, in qualunque momento, in qualunque situazione.

Verso le quattro, Kelvin dormiva beatamente abbracciato a Dango, mentre sua madre gli aggiustava le coperte in modo quasi automatico.
Non sarebbe riuscita a dormire nemmeno se le avessero detto che la tosse del figlio era dovuta ad una banale irritazione della gola: le gocce nel lavandino le martellavano le tempie con ritmica insistenza.
Aveva provato a chiedere ad un’infermiera, poi ad arrangiarsi da sola. Il risultato rimaneva immutato: le gocce cadevano.
Trattenne uno sbadiglio, volgendo lo sguardo oltre le vetrate della stanza.
Il cielo era ora completamente limpido e il mare calmo.
In lontananza, poté cogliere il baluginio di una nave che solcava l’orizzonte.
Inconsciamente, fece riaffiorare i ricordi della sua luna di miele, trascorsa in crociera con Jordan.
Le era sembrato tutto così perfetto allora!
Aveva creduto che il mondo avesse voluto sorriderle incoraggiante, permettendole di sfoggiare quella fede al dito. Come a dirle: “Andrà tutto bene”.
E dopo un figlio meraviglioso e anni permeati di gioia, il manto nero della malattia aveva coperto ogni cosa. Le aveva portato via la maggior parte dei suoi beni, non essendo mai stati troppo ricchi per le cure mediche che costavano.
Non paga, aveva ucciso l’unica persona che fosse stata in grado di regalarle della felicità senza volere nulla in cambio.
E anche adesso, tornava a pretendere di più.

Si abbandonò sulla sedia dopo aver lisciato ulteriormente le coperte.
Le mani in grembo le tremavano.
Alzò di nuovo gli occhi, ma non c’erano più navi che potessero ferirle il cuore. Piuttosto, notò una figura raggomitolata su sé stessa sulla spiaggia.
Si sollevò appena, per vedere meglio. Cosa ci faceva a quell’ora del mattino fuori dalla clinica?
La sentì gridare così improvvisamente, che portò le mani alle orecchie senza neanche riflettere. Gli occhi corsero a Kelvin, che, però, non diede segno di essere stato minimamente disturbato.
Sospirò, prendendo il giaccone.
Chiunque fosse, non gli avrebbe permesso di rovinare la notte del suo bambino.
Se si fosse rivelata la donna che aveva visto al loro arrivo, avrebbe chiamato i medici. Si chiese come potessero lasciare circolare così liberamente dei pazienti con evidenti problemi psichici. E dire che suo padre le aveva indicato la clinica come la migliore in zona!

Le orme che il suo passaggio calcava sulla spiaggia erano illuminate dalla debole luce dei lampioni del parcheggio.
Non si era sbagliata. Avvicinandosi, poté riconoscere distintamente la donna spettinata e trasandata di qualche ora prima.
Stava in ginocchio sul bagnasciuga, così che l’acqua le aveva inzuppato l’abito, partendo dalla gonna, fin sulla vita. Accanto a lei teneva un secchiello, di quelli che anche Kelvin aveva utilizzato per costruire castelli sulla sabbia con i suoi amici.
Alternando grida a lamenti sommessi, puntava un phon a batterie contro l’acqua contenuta nel secchiello, nell’evidente sforzo di farla evaporare.
Portò le braccia conserte al petto, fermandosi a poca distanza.
Tossì leggermente, per farsi notare, ma non riscosse grande successo.
L’idea di fare retro marcia e avvertire qualcuno del reparto psichiatrico non la stava allettando come avrebbe dovuto. Era curiosa di sapere cosa sperasse di ottenere, con quel suo strano comportamento.
— Signora? — Chiamò, ma lei non le rispose. Continuava a lamentarsi.
Decise d’insistere — Signora, cosa sta facendo? —
La vide sussultare, come se l’avesse notata solo in quel momento.
Alzò lo sguardo su di lei, regalandole un sorriso pieno di meraviglia — Come sei bella! —
L’altra portò meccanicamente una mano ad aggiustarsi una ciocca di capelli dietro l’orecchio, balbettando un ringraziamento a mezza voce.
Non le erano mai piaciuti i complimenti. La imbarazzavano e basta. Soprattutto quando sembravano sinceri come quello appena rivoltole.
— Asciugo il mare, bella signora. — Le rispose poi, perseguendo a lavorare col suo phon.
Non poté che sgranare gli occhi al sentire quelle parole, pronunciate con una tale fermezza da suonare quasi comiche.
Pretendeva di riuscire ad asciugare una così vasta distesa d’acqua? Con quel misero phon, per giunta?
— Posso chiederle perché? —
— Sì. —
Spense il phon. Prese il secchiello e lo immerse nell’acqua.
Riaccese il phon.
— Perché? —
— Oh, sembra solo una. In realtà sono due. Il loro è un amore morboso, che uccide le famiglie. — 

Parlava rimanendo china su se stessa, il capo basso che scattava prima a destra, poi a sinistra, come se volesse evitare orecchie indiscrete.
La donna si strinse nel giaccone, riparandosi da un’improvvisa folata di vento. Approfittò del silenzio per dare un fugace sguardo in giro. In qualche modo, quella signora e il suo strano atteggiamento l’avevano resa irrequieta. Si soffermò in particolare sulla finestra di Kelvin, pregando che non si svegliasse: se si fosse spaventato non trovandola, non se lo sarebbe mai perdonato.
— “Loro” chi? —
Lei emise una sequela di lamenti in risposta al rovesciamento del secchiello.
Lo riempì di nuovo.
— Nessuno crede a Helen. Helen è pazza. — Alzò lo sguardo su di lei e solo dopo molto tempo le porse la mano sinistra. Quella destra rimaneva impegnata a reggere il phon.
Benché le risultasse piuttosto innaturale, ricambiò la stretta mancina. Poté avvertire un leggero fastidio al sentire la sabbia tra le dita.
— Io sono Phoebe. —
— Phoebe è molto bella. — Osservò di nuovo la donna, ritirando presto la mano per verificare che il fondo del secchiello fosse effettivamente asciutto — Ma ha un brutto nome. Come Helen. Brutti nomi. —
Rimase interdetta. Non trovava ci fosse nulla di sbagliato nel suo nome. O in quello di lei.
Erano due appellativi come tanti, piuttosto comuni a dire il vero. Una delle migliaia di etichette che permettevano agli esseri umani di distinguersi tra loro, salvo omonimia.
Il secchiello venne riempito di nuovo.
Sospirò, facendo un leggero passo indietro.
— Beh, adesso dovrei andare. E’ stato un piacere conoscerla, Helen. —
Helen alzò di nuovo lo sguardo su di lei, indispettita.
— La bella signora va via? —
Annuì — Torno da mio figlio. —
Fece cenno d’aver compreso, come solo una madre avrebbe potuto fare.
— Anche lei ha figli? —
La domanda le era sorta così spontanea da uscirle ancor prima di formularsi correttamente nel cervello.
La donna gridò frustrata, poi raccolse le ginocchia al petto. Dondolandosi avanti e indietro, non sembrava intenzionata ad abbandonare il suo compito d’asciugare il mare.
— Nessuno crede ad Helen. — Ripeté — Helen è pazza. —
Il phon smise di funzionare, così che si mise a cercare nella tasca dell’abito delle batterie nuove, emettendo lamenti a sottofondo del proprio disappunto per quell’improvviso contrattempo.
Prima che Phoebe potesse dire qualsiasi cosa, continuò — Un figlio, sì. Douglas. Ma l’hanno portato via e nessuno lo ricorda più. —
Inserì le pile frettolosamente, tanto da metterle al contrario e dover ricominciare tutto da capo.
Phoebe notò che le mani le tremavano impazienti, così si offrì di aiutarla.
Inginocchiatasi davanti a lei, le mostrò come ricaricare correttamente il phon.
— Sei gentile, bella signora. —
— Lasci stare. — Le porse il phon, aggiustandosi con una mano un’altra ciocca di capelli ribelli, nuovamente in imbarazzo.
— Sembra solo una, ma in realtà sono due. Il loro è un amore morboso, che uccide le famiglie. —
— Questo... questo l’ha già detto. —
Ma di nuovo non volle spiegare chi fossero “loro” né tanto meno cosa intendesse per “amore morboso che uccide”.
Teneva gli occhi puntati su di lei. Erano marroni, screziati di giallo vero la pupilla. La fissavano terrorizzati.
— La bella signora è arrivata oggi? —
— Questa notte, sì. —
Scosse il capo contrariata, lasciando cadere il phon.
— Pioveva. — Osservò tremante.
Corrucciò la fronte. Era contro la pioggia che gridava quand’erano arrivati?
Helen le prese le spalle, senza staccarle gli occhi di dosso.
Provò a divincolarsi, ma aveva una stretta sorprendentemente forte, seppur fosse così magra e trascurata dal punto di vista fisico.
— Si è bagnato? —
— Mi lasci! —
Scosse il capo con veemenza, invitandola ad ascoltare. La stretta si fece, se possibile, più salda e ferma.
— Si è bagnato? — Ripeté.
— Sì, salendo in macchina, ma mi lasci! — Esclamò sbrigativa, riuscendo finalmente ad alzarsi in piedi e fare qualche passo lontano da quella pazza.
Portò inconsapevolmente le mani a coprire il petto, come a voler bloccare il cuore nel caso avesse avuto intenzione di uscirle dalla cassa toracica.
Le mani di Helen invece si erano abbandonate sulle ginocchia. L’espressione terrorizzata sul suo volto aveva lasciato il posto ad una maschera di tristezza e compassione. Sembrava che ogni fibra del suo essere si fosse afflosciata, svuotandosi di ogni voglia di fare.
— Te lo stanno portando via. — Mormorò mortificata.
Phoebe sbuffò irritata — Lei vuole dire tanto, ma non dice niente! Chi sono “loro”? E perché dovrebbero portarmelo via? —
Helen chinò il capo a studiarsi le mani piene di sabbia. Poi spostò lo sguardo sul phon abbandonato a terra. Lo prese, riaccendendolo contro il secchiello, ma si accorse che era vuoto e dovette riempirlo di nuovo.
— Non temere, bella signora — Disse sorridendole — Asciugherò il mare anche per te. —
Rimase ad osservarla qualche istante.
Aveva ripreso a lamentarsi e a lanciare gridi sommessi, quasi se ne fosse già andata via o non ci fosse mai stata.
Sospirò. Non c’era nulla di cui preoccuparsi: era solo un pazza che pretendeva di asciugare il mare.
Eppure, una parte di lei rimase a struggersi su chi fossero “loro” e a pregare vivamente che non fossero i medici della clinica.

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Capitolo 2
*** Luna Nuova ***


Serie: Original
Capitolo: 2/2
Disclaimers: Tutto mio.


Moon II
Luna Nuova

Non c’era.
Quella consapevolezza le martellava le pareti del cervello, mentre il cuore picchiava nel petto e il corpo veniva scosso da tremori che le impedivano il movimento.
Il letto sul quale Kelvin dormiva fino a poco tempo prima era disfatto e vuoto.
Suo figlio, il suo unico figlio, non c’era.
Eppure la sua mente preferiva soffermarsi sui futili dettagli della stanza, come se quell’improvvisa sparizione non la riguardasse.
Osservò i buchi sul battiscopa, le pieghe delle tende, le coperte stropicciate e bagnate.
Si concentrò su quella chiazza d’acqua che dal materasso gocciolava in terra, creando un rivolo che si biforcava in due diverse direzioni: una saliva le pareti del bagno, l’altra usciva in corridoio.
Seguì quell’ultima, sperando che Kelvin avesse fatto lo stesso. Anni prima sembrava essere stato il suo più grande passatempo: trascorreva interi pomeriggi percorrendo strade create da una fila di formiche o dal letto di un fiume.
Scese all’ingresso della clinica, dove non poté trattenersi dall’inveire contro una delle infermiere di turno. Una ragazza dall’aria piuttosto assonnata, che a malapena fece segno d’averla notata.
— Possibile che nessuno abbia fatto niente, vedendo un bambino di cinque anni in giro da solo?! — Gridò con quanto fiato aveva in gola, in modo isterico, con un tono che mai avrebbe immaginato potesse uscire proprio dalla sua bocca.
L’infermiera le rivolse uno sguardo disorientato.
— Quale bambino? —
— Il bambino che era con me! L’ha visto quando sono arrivata! —
L’altra corrucciò la fronte perplessa, probabilmente ricercando l’immagine di Kelvin tra i suoi ricordi.
Phoebe sbuffò irritata, proseguendo per la sua strada.
L’acqua continuava il proprio percorso lungo la spiaggia, verso la scogliera.
Si morse un labbro, velocizzando il passo. Era ovvio che fosse andato da quella parte!
Avrebbe dovuto capirlo fin da subito che non sarebbe riuscita a trattenerlo. Quando le aveva chiesto di poterci andare... cosa le aveva fatto ignorare lo sguardo carico di desiderio che le aveva rivolto?
Scosse il capo con forza, cercando di scacciare tutti quei pensieri che altro non avrebbero fatto se non annebbiarle la mente e rallentarla.

L’aria pregna di salsedine le pizzicò il naso, mentre la maestosa immagine della scogliera si faceva via via più grande ed imponente.
Proprio alla base della parete di roccia poté notare la nicchia di cui le aveva parlato suo padre: era grande, sovrastata da una calotta a mezza sfera. Le pietre al suo interno erano state levigate e facevano da sfondo ad altre due pietre, lavorate a mo’ di panchine.
Da quella distanza, le sembrarono entrambe occupate da due figure, una delle quali spiccava particolarmente come illuminata da una tenue luce bianca.
Ma prima che il suo percorso venisse interrotto dalla nicchia, la persona più in penombra si era alzata e si era diretta verso il mare.
Erano le cinque del mattino.

Si fermò.
L’acqua che aveva seguito fino a quel momento raggiungeva la pietra vuota, all’interno della nicchia. Sull’altra, una ragazza la fissava con insistenza da quando l’aveva notata avvicinarsi.
Era pallida. E forse per stanchezza, forse per la sua miopia che andava peggiorando, ma sembrava che riflettesse la luce proveniente dal parcheggio. Come uno specchio.
— Buonasera. — La salutò.
Phoebe guardò verso il mare, poi volse il capo alla strada che portava sulla cima della scogliera. Di Kelvin neanche l’ombra.
Cercò di riprendere fiato. La sua resistenza fisica non era mai stata delle migliori.
— Hai visto un bambino più o meno alto così, con i capelli castani? —
Lei sembrò pensarci qualche istante. Il tempo sufficiente perché il suo cuore battesse fiducioso e la mente si riempisse d’aspettativa.
Si strinse nella spalle — No. —
Per un attimo, e per quello soltanto, perse contatto con il mondo circostante. Sentì il cielo precipitarle sulle spalle, scuro e pesante.
Aveva sbagliato.
Che fine aveva fatto il suo istinto materno? Era sempre stata in grado d’intuire dove fosse Kelvin, cosa stesse provando, quando avesse bisogno di lei o quando preferisse rimanere solo a giocare. E proprio ora che più ne aveva bisogno, lei non riconosceva più la sua maternità. Si era persa come la sabbia smossa dal vento.
Strinse i pugni, voltando le spalle alla scogliera. Doveva tornare indietro e ricominciare da capo. E, cosa che il suo cervello avrebbe dovuto suggerirle molto prima, avrebbe chiesto aiuto.
Qualcuno rise.
Si voltò di nuovo per incontrare il sorriso della ragazza albina.
— Non lo troverai. —
— Come fai a dirlo? Dici di non averlo visto. — Replicò acida.
Quella continuò a sorriderle, quasi a volerle fare intendere che avesse mentito e fosse disposta a farlo di nuovo.
— Chi sei? —
— Ho molti nomi. Tu sei inglese, giusto? —
— Americana. — Puntualizzò, mentre una parte di lei le gridava di riprendere a camminare e l’altra la invitava a restare. Kelvin era lì o no?
— Allora puoi chiamarmi Moon. Piacere. — Si alzò e le fece un breve inchino, chinando capo e schiena come i ragazzi — A dire il vero, mi piace di più Yue. Suona un po’ come un nome maschile. —
Phoebe annuì incerta.
— Tu invece? — Le domandò a sua volta. Solo allora notò che non solo era pallida, ma era completamente bianca: bianco l’abito, bianca la pelle, bianchi i capelli raccolti in una coda con un nastro bianco.
Nulla da ridire che si chiamasse Moon.
— Mi chiamo Phoebe e sto cercando mio figlio. —
— Phoebe è un bel nome. Ricorda il titano della Luna. — Tornò a sedersi, invitandola a fare altrettanto. Phoebe declinò l’offerta, cercando di riportare l’attenzione sul perché si aggirasse per la spiaggia a quell’ora del mattino.
Non le importava un accidenti di cosa significasse il suo nome!
Moon scosse il capo. Accavallò le gambe, poggiò i gomiti sulle ginocchia e abbandonò il volto nei palmi delle mani.
— Non lo troverai. —
— Questo è da vedere. E’ mio figlio, farei qualsiasi cosa per lui. —
— Ah sì. — Mormorò Moon annoiata — Dite tutti la stessa cosa. Mentite sapendo di mentire. —
Poi alzò lo sguardo verso la volta della nicchia, come a voler ricordare qualcosa.
— Essere disposti a fare qualsiasi cosa significa dover anche rinunciare, qualche volta. Lo sai questo, Phoebe? —
Scosse il capo contrariata.
Tra le righe, lesse qualcosa che non le piacque per niente.
L’angoscia le attanagliò la gola, tanto da lasciarla boccheggiare qualche istante.
— Dov’è Kelvin? — Scandì infine, marcando le parole con quanto tono le fu possibile — So per certo che ha seguito questo rivolo d’acqua, gliel’ho visto fare altre volte con le formiche o le linee bianche sulle strade. —
Moon la guardò al metà tra il disgustata e il divertita. La bocca era contratta in una smorfia, gli occhi ridevano.
— Come puoi paragonare Acqua alle vostre sporche strade e a quei minuscoli insetti?! —
La sua voce vibrò irritata, accompagnata da una serie di gesti in cui racchiuse tutto il suo sconcerto per quella che alle sue orecchie era suonata come un’eresia, una pessima scelta di termini di paragone.
— Acqua è splendida! — Ribatté nuovamente, alzandosi in piedi e avvicinandosi pericolosamente a Phoebe, che rimase congelata al suo posto — Non permetterti nemmeno di nominarla. —
Le lanciò uno sguardo carico di odio e risentimento.
Ma fu questione di un istante: un battito di ciglia e tutto sfumò. Si perse nell’aria come vapore al vento.
Rideva. Di nuovo.
— Guarda, sei pallida come me. — Osservò divertita.
Le prese una mano e la portò vicino alla sua.
Aveva ragione. A giudicare dai battiti del suo cuore, doveva essersi spaventata parecchio tanto da assumere la tipica tonalità dei cenci slavati.
Ritrasse la mano, a disagio. Moon era gelida.
Ma non era stata una sua impressione. Brillava.
L’aveva visto chiaramente, quando le loro mani si erano a malapena sfiorate. Attorno quelle di lei c’era un tenue bagliore, mentre le sue rimanevano all’ombra.
— Chi diavolo sei tu? — Chiese ancora.
Moon la guardò spaesata — Moon. — Ripeté, inclinando il capo su una spalla come a voler continuare e dirle “non te l’ho già detto?
Fece un passo indietro e scosse il capo.
— Hai capito cosa intendo. —
Di nuovo assunse un’espressione annoiata di chi deve sorbirsi la solita nenia monocorde.
Calciò via un po’ di sabbia, le mani dietro la schiena.
Prese a parlare come se fosse rimasta da sola.
— Mi chiedono tutti le stesse cose, usando perfino le stesse parole. Mai qualcuno che abbia una più vasta gamma di vocaboli. — Le lanciò un’occhiataccia carica di rimprovero — Siete monotoni! —
Si sedette, mentre nella mente di Phoebe si affollavano i più strani ed infelici pensieri che il suo cervello fosse mai stato in grado di formulare.
— Parliamo di qualcos’altro. — Le suggerì, tornando a sorriderle fiduciosa — Non parlate spesso del tempo? Oggi è una notte splendida, non trovi? L’aria è meravigliosa quand’è ancora bagnata dalla recente pioggia. —
Phoebe fece un altro passo indietro, portando le mani alla testa.
Perché? Perché nessuno rispondeva alle sue domande?
Dov’era Kelvin?
Non le interessava del resto, rivoleva solo il suo bambino. Era pretendere troppo questo?
— Tu non mi stai ascoltando! —
Moon si zittì all’istante.
— Non m’importa sapere chi sei o da dove vieni! Voglio Kelvin, il mio Kelvin. Ti prego, se sai dov’è... —
— Lo so. — La interruppe, senza lasciarle più il tempo di dire nulla — Per questo ti dico che non lo troverai. Non è più di questo mondo, ormai. — Tacque un istante — Credo possa definirsi “morto” anche se non suona bene. “Morte” è una parola che stride terribilmente. Ghiaccia gli animi rimanendo così elegante! Ella scivola lentamente, silenziosa, e ti dona un ultimo abbraccio, portando alle tue orecchie la ninna nanna dell’eterno oblio. —
Phoebe non la stava ascoltando.
Quella ragazza tergiversava su tutto e a lei non importava.
L’unica parola che riuscì a farsi strada fino ai meandri della sua umana comprensione fu “morto”. Il resto fu solo un mormorare vuoto privo di alcun significato.
Kelvin. Morto.

Te lo stanno portando via”.

Si riscosse dopo quella che le parve un’eternità.
Non seppe spiegarsi come, ma le era letteralmente saltata addosso, scaraventandola a terra, le mani strette sul suo collo.
Ma Moon non sembrò accusare il minimo dolore fisico e la sua voce rimase tranquilla e pacata.
— Non puoi uccidermi. Se anche ci riuscissi, condanneresti il mondo. —
— Zitta! Sta’ zitta! —
— Non è colpa mia, Phoebe. Tuo figlio è venuto da solo. Vengono tutti da soli. —
— Non voglio ascoltarti! Perché lui? La clinica è piena di gente! —
Vide la sua espressione farsi perplessa.
Phoebe lasciò scivolare le mani a terra, ma rimase sopra di lei. Come se temesse di vederla sparire sotto i suoi occhi senza averle dato delle risposte.
— Dunque ritieni che uccidere qualcuno non sia sbagliato? Se avessi preso qualcun altro dalla clinica, a te non sarebbe importato? —
Scosse il capo. Era una cosa orrenda.
Ipocrita.
Ricacciò indietro le lacrime.
— Rivoglio il mio bambino. Farò qualsiasi cosa, ma ridammi il mio bambino. —
Moon sorrise, facendo leva sui gomiti per mettersi seduta.
Si mise a gambe incrociate davanti a lei.
— Ascoltami. E lo rivedrai. —

Non seppe mai dirsi quanto quella storia venne a durare.
Forse una manciata di respiri o un’eternità passata a fare cerchi nella sabbia.
Fu egualmente lunga e insopportabile.

Improvvisamente le parve d’impersonare un ispettore di polizia costretto a sorbirsi le giustificazioni di un pluri-omicida, che addossava le colpe dei suoi peccati ad una terza persona.
Perché ad ogni frase, ad ogni punto ed ad ogni virgola, Moon ripeteva che non fosse colpa sua.

— Mi chiamo Moon, sono il satellite che ruota attorno al pianeta Terra. —

D’istinto, le venne da alzare lo sguardo ad un cielo che tendeva sempre più all’azzurro del mattino, senza trovare ciò che cercava.
Doveva forse partire dal presupposto che quello che diceva fosse la verità?
Decise di non darsi risposta.
Non le importava.
Avrebbe dato ascolto anche al vaneggiare senza senso di Helen, se questo le avesse permesso di riabbracciare suo figlio.
Era disposta a qualunque cosa, checché ne dicesse Moon.
— Un giorno — Rise — O una notte, nell’altro emisfero, m’innamorai. Sai cos’è l’amore, Phoebe? —
— Non divagare. —
Moon s’imbronciò, ma fu questione di un attimo.
Dubitava fosse in grado di mantenere lo stesso umore per più di un paio di minuti.
Così le confidò del suo amore per una tale Acqua, che Phoebe ricollegò alla ragazza che le sembrava di aver intravisto al suo arrivo alla nicchia.
— Sai perché si formano le onde nel mare? —
Phoebe strinse i lembi del vestito, cercando di mantenersi calma.
A premiare i suoi sforzi, la sua bocca modulò un tono di voce poco amichevole, più gelido che altro — Ti ho già detto di non divagare. —
— Non sto divagando. Ci sono le onde perché, in questo modo, Acqua mi fa sapere che mi trova bella. —
Oh, naturalmente.
Se doveva dare retta a una che le diceva di essere un satellite, avrebbe dovuto anche credere che avesse una relazione con l’acqua del mare.
Scosse il capo.
Era assurdo.
— Adesso mi dirai che c’era qualcuno ad ostacolare il vostro amore, mh? — Continuò per lei, volendo sottolineare quanto la sua storia somigliasse a una qualche telenovela di dubbia fama.
Ancora si ripeté che era solo un piccolo prezzo da pagare per riavere Kelvin, bastava avere pazienza.
Moon si strinse nelle spalle — Già. Nettuno non ne fu proprio entusiasta. —
— Nettuno il dio del mare? —
— Nettuno il padre di Acqua. — La corresse — Sono due persone distinte. —

Chiunque fosse questo famigerato Nettuno, stando a quanto le venne raccontato più tardi, si rivelò essere il classico padre geloso della figlia.
— Non tanto perché nel nostro caso si possa parlare di omosessualità. — Continuò Moon, con un’alzata di spalle — Voglio dire, siete stati voi umani a darci nomi femminili. Anche se, da qualche parte nel mondo, parlano di me al maschile. —
Phoebe le lanciò un’occhiataccia, che bastò a farle intendere di tornare al nocciolo del discorso e, soprattutto, di stringere.
— Per farla breve, Nettuno ci sorprese una notte, qui alla nicchia. M’intimò di non vedere più sua figlia, già promessa in sposa a qualche oceano di cui non ricordo il nome. —
— Un classico. — Sbuffò.
Moon rise, facendo un cenno del capo — Non è una storia poi tanto interessante, vero? —
— Va’ avanti. —
— Mi disse che se non gli avessi dato ascolto, non sarei più potuta tornare alla mia forma originale, a meno che non uccidessi queste sembianze umane. Il che mi avrebbe portato a rinunciare alle mie notti di luna nuova con Acqua, non essendo in grado di tornare sulla Terra. —
Phoebe fece un rapido cenno del capo, vedendo delinearsi la fine della storia e i primi raggi di Sole all’orizzonte.
Ma Moon volle fermarsi comunque. Una pausa estenuante, che la penetrò come una lama.
Stava per invitarla a proseguire, quasi le interessasse davvero il finale, quando riprese, con la più triste espressione che Phoebe ebbe modo di vedere delineata su un volto, umano o meno che fosse.
— Così accadde perché rifiutai. Questo corpo deve morire, affinché torni alla mia forma di satellite. — Si alzò — Capisci che non è colpa mia. —
Phoebe scosse il capo.
Cosa c’entrava tutto questo con Kelvin?

Poi venne l’alba.
Il Sole cominciò a farsi spazio all’orizzonte, schiarendo definitamente gli ultimi resti di una notte senza Luna.
Moon si alzò e si spostò verso il bagnasciuga, fino a coprire il Sole.
La donna si mise in piedi a sua volta e la seguì con lo sguardo, ma dovette portare una mano a proteggere gli occhi dalla luce, che, forte, passava attraverso Moon e le feriva la vista.
— Hai mai visto un’eclissi come questa? —
Phoebe sgranò gli occhi.
Oltre al volto di Moon, poté chiaramente vedere quello di Kelvin, come se la ragazza fosse improvvisamente divenuta trasparente.
Il suo nome le morì in gola, come Moon sussurrò — Ti avevo detto che l’avresti rivisto. —
C’era qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui pronunciò quelle parole.
Qualcosa che non le piacque per niente.
Fece un passo verso di lei, ma inciampò e cadde in ginocchio.
Rimase, impotente, a guardare il suo bambino svanirle sotto gli occhi.
— Affinché io possa tornare in queste sembianze la prossima Luna nuova, qualcuno deve prendere il mio posto al loro interno. — Sorrise — Ma c’è un motivo se ho scelto Kelvin, se, dopo tanti anni, io e Acqua ci ritroviamo sempre alla clinica. —
Phoebe non l’ascoltava.
O forse sì, ma non le importava.
Le sue parole le scivolavano addosso, come la sabbia smossa appena dalla brezza del mattino.
— Se vengo qui è perché posso scegliere di prendere a chi Morte ha già negato l’alba. —

Quando scomparve, rimase a guardare la luce del Sole che si alzava in cielo.
L’avrebbe fissata fino a diventare cieca, così da imprimere per sempre nella sua mente l’ultima immagine di Kelvin che la salutava.
E mentre non trovava più lacrime da versare, decise che sarebbe divenuta sorda, pur di non sovrapporre altri rumori alla voce del suo bambino che la chiamava “mamma”.
Avrebbe annientato se stessa, su quella spiaggia, pur di averlo ancora accanto, fosse solo nel suo immaginario.

Qualcuno le si mise di fronte, facendole ombra.
Phoebe mormorò qualcosa che non giunse chiaro nemmeno alle sue orecchie, ma che implorava di lasciarla da sola, di non salvarla, di non toglierle quella luce che la stava uccidendo.
Lentamente, venne avvolta in un timido abbraccio.
— Dimentica, bella signora. —
— Non posso. —
Helen si allontanò un po’ da lei, tenendola per le spalle.
Aveva il viso imbrattato di sabbia.
— Allora asciugate il mare con me. —
— Finché amerà. —
La vide adombrarsi, corrucciando la fronte.
— Ma, bella signora, ella amerà fino all’ultimo essere umano. —
Phoebe si alzò, lo sguardo perennemente rivolto alla luce del Sole.
Si rese conto di essere disposta ad aspettare l’estinzione di tutte le generazioni avvenire, se questo le avesse permesso di essere l’ultima persona sulla faccia della Terra.
Perché Moon non avrebbe avuto altri da scegliere se non lei. E l’avrebbe ricongiunta a Kelvin, volente o nolente.

Perché una madre era disposta a tutto e gliel’avrebbe dimostrato.

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