Il dono

di Less_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - L'incontro ***
Capitolo 2: *** Il fulmine ***
Capitolo 3: *** Buco nero ***
Capitolo 4: *** Il dono ***
Capitolo 5: *** Pouvez vous me dire...? ***
Capitolo 6: *** La fine, l'inizio ***



Capitolo 1
*** Prologo - L'incontro ***


 

Alessia uscì di casa con la busta della spazzatura che la costringeva a bilanciare il suo peso inclinandosi leggermente.

I bidoni non erano troppo lontani, né troppo vicini all'“area contaminata”.

Alessia chiamava “area contaminata” tutto lo spazio che i ragazzi del suo paese erano soliti percorrere. Si avvicinò ai bidoni. Qualche rara macchina percorreva la strada. Il paese era piccolo, e già questo implicava l'assenza totale di traffico. Inoltre era giugno, mese in cui o nessuno lavorava più o i turni non si avvicinavano neanche a quell'ora.

Erano le tre del pomeriggio, il sole era scomparso da un pezzo. Faceva abbastanza fresco, sicuramente più piacevole del caldo e dell'afa, ma discordante con la stagione.

Era sabato. Alessia aveva concluso quella mattina l'esame di inglese, non l'ultimo né il primo della serie.

Non aveva intenzione di studiare per quello di matematica, del lunedì a venire. Come per il resto, non ne aveva bisogno, anche se doveva ripassare qualche materia in previsione degli esami orali di licenza media.

Alessia si avvicinò all'ultimo bidone della fila; oggi non c'era raccolta differenziata.

Gettata la busta, si voltò in direzione di casa sua, ma un richiamo la fermò.

«Ehi, aspetta!» era la voce di una donna di mezza età, veniva da un'auto anonima che aveva accostato poco dietro di lei.

Alessia si avvicinò al finestrino abbassato. La donna era amichevole, non sembrava volerla rapire, ma la ragazzina si tenne comunque a distanza di sicurezza.

«Per favore, sapresti indicarmi la casa di Danilo e Sara De Franceschi?» chiese la donna.

Sembrava avere una quarantina d'anni, aveva i capelli d'un biondo scuro legati in una coda disordinata, e non era truccata. Al posto del guidatore c'era un uomo, anch'egli sui quaranta, che guardava dall'altra parte.

Alessia soffocò una risata, al pensiero che sicuramente lui fosse contrario alla sosta per la richiesta di informazioni.

Poi rispose: «Sì, certo. Deve proseguire dritto fino al bivio, poi giri a sinistra. Incontrerà quasi subito una piccola chiesa, sulla sinistra, con un altro bivio con una casa gialla davanti, e una svolta a destra. I coniugi che cerca abitano nella prima casa a sinistra della svolta».

«Grazie mille» sorrise la donna.

Tirò una gomitata eloquente al guidatore, e Alessia sorrise. Fu solo allora che notò il ragazzo. Era seduto sul sedile posteriore, mezzo mimetizzato fra gli scatoloni di cartone che riempivano quella parte dell'abitacolo.

Doveva avere circa quattordici anni, proprio come lei, era vestito di nero e teneva uno scatolone in grembo.

Poco dietro la macchina giunsero due grossi camion dei traslochi, e si fermarono finché la macchina non ripartì, indicando la strada.

«Aspetti, signora» disse forte Alessia prima che la macchina fosse troppo lontana.

La macchina fermò di nuovo.

«Dove state andando le strade sono strette. Non sono sicura che i camion ci passino. Forse dovrebbe dire loro di fare attenzione...» suggerì.

La donna sorrise, e rispose qualcosa sul fatto che avrebbe provveduto e che la ringraziava moltissimo. Alessia però stava guardando il ragazzo. Anche lui la guardava, ma abbassò lo sguardo appena si accorse di essere fissato.

Alessia fece un cenno con la mano, e tornò a casa.

Solo quando era da un pezzo in camera sua si chiese quale famiglia desiderasse trasferirsi in quel paesino della malora, e perché. E si chiese cosa provasse quel ragazzo al riguardo.

Il pensiero durò un istante solo, e lei poté tornare a leggere il libro che aveva per le mani.

 

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Capitolo 2
*** Il fulmine ***


 

Qualche giorno più tardi, Alessia andò a trovare sua zia. Abitava nella “casa gialla” in mezzo al bivio oltre la chiesetta. Quando fu il momento di tornare a casa a piedi, Alessia si armò di tutto il proprio coraggio. Non che avesse paura di qualcuno dei contaminanti, semplicemente temeva di incontrarne uno e fingere di voler essere educata e gentile.

La possibilità che accadesse la riempiva di rimpianto per non essere rimasta a casa.

Poi però cambiò idea. Tutto sommato era stata un bella giornata con la zia, e non era detto che avrebbe incontrato uno dei contaminanti.

Scese le scale e imbocco la strada, talmente inutilizzata da non essere dotata nemmeno di segnaletica orizzontale. Alessia sbuffò.

Oltrepassò in fretta la chiesetta, felice di non essersi imbattuta nei contaminanti, quando si sentì chiamare. Accidenti! Proprio adesso che stava per passarla liscia!...

Ma chi l'aveva chiamata non era una voce conosciuta.

Alessia aggrottò leggermente le sopracciglia, alla vista del ragazzo che le si stava avvicinando.

«Ciao!» disse di nuovo il tipo.

«Ciao» rispose lei con la sua migliore voce “ho fretta e non voglio parlare”.

Il ragazzo sembrò stupito del suo tono, e dentro di sé Alessia sogghignò. Aveva riconosciuto il ragazzo. Era quello del sedile posteriore, quello che traslocava. Se era già un contaminante, Alessia col suo tono lo aveva freddato subito.

«Scusa, sai dirmi l'ora?» chiese il ragazzo dopo una piccola pausa di silenzio, con voce appena incerta.

«Sono le quattro meno dieci» rispose lei, e fece per andarsene.

Il ragazzo le prese il braccio, fermandola, ma a lei non piaceva essere toccata dagli sconosciuti. Si voltò e incenerì con gli occhi la mano del ragazzo.

«Scusa» rispose lui notandolo.

Era attento. Non era cosa che si potesse dire di chiunque.

Lasciò il suo braccio.

«Che c'è?» domandò Alessia seccata.

Il ragazzo esitò.

Di nuovo lei fece per andarsene, ma lui la fermò, stavolta chiamandola.

Alessia si limitò a fissarlo, interrogativa. «Volevo solo ringraziarti» disse il ragazzo.

«Per l'ora?» si stranì lei.

«No, no, non hai capito... mi riferivo all'altro giorno... grazie a te abbiamo trovato la coppia che ci ha venduto la casa» precisò lui.

«Be', prego. Per così poco» fece Alessia. Voleva davvero andarsene – stare lì, così a portata dei contaminanti, in piena area contaminata, le metteva una gran fretta addosso.

«Mi chiamo Federico» si presentò il ragazzo, e tese la mano.

«Tanto piacere. Adesso devo andare» rispose lapidaria Alessia, ignorando la mano.

Si incamminò in fretta, felice di starsi liberando di quel ragazzo.

Strano però, non assomigliava ai contaminanti. Non l'aveva guardata in modo strano – almeno non nel solito modo strano.

I contaminanti le riservavano uno speciale sguardo: un mix di insofferenza, pietà, incomprensione. Non era lo stesso sguardo del ragazzo, di Federico, che tuttavia non era comunque uno sguardo normale, almeno secondo lei.

Immersa in questi pensieri, non si accorse di essere seguita. Poi il ragazzo incespicò, non aveva tenuto il suo passo veloce, e Alessia si accorse di lui.

«Che fai?» chiese guardandolo come si guarda un cane troppo appiccicoso.

«Passeggio» rispose lui facendo spallucce.

«Mi stai seguendo» fece notare lei.

«Non mi hai ancora detto il tuo nome».

«Ma tu mi stai seguendo. Smettila».

Federico si spostò dall'altra parte della strada, e continuò a camminare.

Alessia era sempre più seccata.

«Insomma, che vuoi?» quasi gridò.

Non se n'era accorta, ma era spaventata. Era un maniaco quel ragazzo? Eppure non sembrava. Non sembrava affatto quegli stupratori che affascinavano le ignare ragazze nelle grandi città, e poi le aggredivano. Tanto più che era così gracile da non lasciar trasparire la minima forza. Probabilmente Alessia avrebbe potuto scappare facilmente.

Il ragazzo sorrise soddisfatto, e si avvicinò. Aveva già imparato come si comportava la ragazza.

«Sapere il tuo nome. E basta» rispose.

«Mi chiamo Lucilla. Adesso vattene» disse Alessia.

Riprese a camminare, e fu con leggera sorpresa che, voltandosi, vide Federico andarsene soddisfatto con le mani in tasca.

«Alessia» gli gridò dietro.

«Alessia, non Lucilla» precisò, e tornò a casa.

 

Si incontrarono di nuovo qualche giorno più tardi, ai bidoni della spazzatura.

Federico era fermo dietro al bidone giallo della plastica. Spuntò fuori all'improvviso, spaventandola.

«Ciao Ale!» la salutò ridendo come un buffone della sua faccia irritata.

Alessia si pentì di avergli detto il suo nome.

«Ciao, Fede!» lo scimmiottò, e aggiunse una risatina derisoria.

Finì di buttare le bottiglie di plastica.

«Che ci fai qui?» sputò la ragazza.

«Butto la spazzatura» rispose lui, estraendo una bottiglia di birra dalla busta che Alessia aveva in mano e gettandola nel contenitore verde.

«Che ci fai qui?» ripeté lei, ottenendo un'identica risposta, accompagnata dal tonfo di un paio di bottiglie contro il fondo del bidone del vetro.

«Seriamente, ci sono altri cassonetti, più vicini a casa tua» fece notare lei.

«Davvero?» domandò sorpreso lui. Ma non era un bravo attore. Si vedeva che lo sapeva già, e che non gli importava.

«Non hai nessun contaminante con cui bighellonare?» domandò Alessia.

«Cosa?» chiese Federico di rimando.

«Uno di quei ragazzi che abitano vicino casa tua, insomma» si spiegò lei.

«Perché li chiami così?» chiese Federico.

«Contaminanti? È quello che sono. Veramente non se lo meritano, poverini, ma io non li sopporto» osservò Alessia.

Finito di smistare i rifiuti, si mise le mani sui fianchi.

«Non hai nessuno con cui divertirti... altrove?» riformulò la domanda lei.

«Non proprio. E tu? Non hai nessuno?».

«Esatto. Non qui, almeno» rispose Alessia.

Federico si avvicinò.

«Perché?» chiese.

«Te l'ho detto, non sopporto i miei coetanei in questo paese. Sono così superficiali, hanno gruppi già formati in cui non voglio entrare... patetici, banali... forse mi sbaglio, ma io sono così. Sono diversa» spiegò.

Federico inclinò la testa.

«Non ti hanno ancora contaminato? Tu dovresti farti qualche amico, ce la puoi fare, sei nuovo. Ti accoglieranno e sarai subito dei loro» commentò Alessia.

«Non li voglio come amici» considerò lui.

«Non dovresti... va be', che importa? Fai come ti pare...».

«Non dovrei che cosa?» chiese Federico.

«Non dovresti ascoltarmi. Sono un'emarginata, una scema... diversa, asociale. Chiamami come ti pare. Fatti un'opinione tua. Conoscili. Potrebbero piacerti» sbottò lei.

Federico fece spallucce. «Forse. Come mai non ti ho visto in giro? A parte l'altro ieri, intendo. Ho controllato casa tua, ma non ti ho mai vista... sei come i vampiri, non torni a casa? E perché vieni qui a buttare la spazzatura?» chiese Federico.

Alessia sospirò.

«Numero uno, perché hai controllato “casa mia”? Numero due, non è casa mia. È casa di mia zia. Numero tre, non ho capito cosa c'entrino i vampiri. E numero quattro, vengo qui a buttare la spazzatura perché ovviamente è più vicino a casa mia...» enumerò.

Federico non rispose alla prima domanda.

«Dov'è casa tua, allora?» chiese.

«Mamma mia, ma non hai niente da fare?».

«No. Te l'ho detto, non voglio quelli come amici. Come te. Anche io sono diverso... sì, volendo potremmo anche metterla così» rispose Federico.

Per la prima volta da quando si erano incontrati, Alessia lo guardò come se non fosse stato contaminato. Come se fosse davvero “diverso”.

Lei si definiva diversa. Non le piaceva la compagnia dei suoi coetanei, era matura, intelligente, solitaria. Aveva pochi amici, nessuno che abitasse nel suo paese. Amava leggere e scrivere. Per questo si definiva diversa.

Ma credeva di essere sola nel suo genere. Cioè, non che credesse di essere l'unica secchiona emarginata del mondo... ma era sola qui. In questo paese.

«Perché ti definisci diverso?» chiese lei.

«Perché non sono a mio agio quando sto con gli altri. Non mi piace. Mi sento impacciato, fuori dalle loro chiacchiere. Dove abitavo prima ero emarginato, come te adesso. Ero quello strano, che preferiva passare il tempo a farsi una cultura piuttosto che fingere di essere figo e fare il teppista. Ti capisco, non è bello, ma è sempre meglio che essere come loro» disse Federico. Era serio, incredibilmente serio.

Alessia lo guardò di nuovo.

Era un bel ragazzo, aveva i capelli scuri e lunghi che gli ricadevano sul viso in ciocche disordinate. I suoi occhi marrone scuro erano profondi, si vedeva che nascondevano un animo particolare. I suoi tratti erano già aspri e marcati. Era abbastanza alto e magro, non particolarmente muscoloso.

Aveva un che di particolare. Magnetico.

Anche Federico guardava Alessia come se la vedesse per la prima volta.

Lei era bassina, gracile ma non esattamente magra. Aveva dei lunghi capelli marroni leggermente mossi che teneva raccolti in una coda, occhi grandi e profondi, tratti ancora morbidi, da bambina, le labbra piene e il piglio imbronciato che stonava con l'immagine d'insieme.

Alessia si sciolse i capelli, il vento fresco la faceva rabbrividire.

Iniziò a piovere.

Si voltò verso una casa bianca poco lontano.

«Andiamo» suggerì.

Federico la seguì senza esitazioni, ed entrò in casa dopo di lei.

«I miei non ci sono» disse lei quando Federico si guardò intorno.

«Così adesso so dove abiti» commentò lui.

«L'avresti scoperto, chiedendo in giro» disse lei. «Chissà, forse ti avrebbero detto che questa casa è infestata di spiriti e che uno mi ha posseduta...» sorrise Alessia, con un inconsueto buonumore.

Federico rimase in un insolito silenzio. Quando Alessia si girò, vide che era arrossito.

«Non proprio...» azzardò lui.

«Che c'è?» chiese Alessia.

Mentre parlava lo condusse in cucina e gli versò un bicchiere di tè freddo.

«Niente».

«Sei arrossito».

«No».

«Rispondi» ordinò perentoriamente Alessia.

Lui esitò. «La sera che siamo arrivati sono uscito un po', e ho incontrato i contaminanti... e mi hanno detto qualcosa su di te» disse.

Alessia lo incitò a continuare.

«Loro credono che tu... tu sia una strega... che rapisce i bambini... raccontano questa storia ai più piccoli per non farli uscire la sera... “non uscite o la strega vi rapirà”... e pensano che tu ti droghi e... e che li voglia uccidere tutti... quando ti vedono, i piccolini hanno paura» sputò Federico.

C'era dell'altro (che Alessia era una psicopatica maniaca e schizofrenica), ma Federico non ne parlò. Voleva vedere la sua reazione.

Per un attimo Alessia riuscì a controllarsi, ma poi non ce la fece più, e scoppiò in una risata esilarata. Si teneva la pancia, e non riusciva quasi più a respirare.

Federico fu inizialmente stupito, poi prese a ridere con lei.

«Ma te lo immagini? Una drogata ladra di bambini!» esclamò, continuando a ridere.

Già, pensandoci Federico si mise a ridere ancora di più della fervida fantasia dei contaminanti. Alessia, quella ragazza fragile, innocua, che oltre al disagio per i contaminanti non nascondeva niente... non poteva nascondere niente.

Federico l'aveva capito quando lei aveva confessato di sentirsi diversa. Era in sintonia con lui, era impossibile che avesse qualcosa da nascondere.

Però del resto anche lui aveva un segreto.

Fu in quel momento che il fulmine si abbatté sul giardino oltre la porta sul retro.

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Capitolo 3
*** Buco nero ***


 

«Esco a vedere dove si è abbattuto il fulmine» decise Federico.

«Ma piove!» protestò Alessia.

«Già... piove!» ribadì Federico, come se fosse una scema.

Alessia lo guardò, seccata.

«Ti ammalerai» disse.

«Già... mi ammalerò».

«Questa storia mi sta stancando» disse Alessia.

Seguì Federico, che fece per uscire. La pioggia aveva già impregnato il terreno, rendendolo fangoso al di sotto dello strato d'erba.

Dove il fulmine era caduto c'era un chiazza nera d'erba bruciata, ma c'era anche un oggetto. Guardandolo meglio, i due ragazzi videro che si trattava di un ciondolo argentato, appeso a una catenina.

«Com'è finito qui?» chiese Federico.

«E questa, amico mio, è un'ottima domanda» disse Alessia.

Si accucciarono vicino alla catenina.

Alessia tese lentamente la mano verso il pendaglio.

Federico la guardò compiere quel gesto pieno di solenne lentezza – o forse era solo paura.

La sua mano si sciupò, divenne secca e raggrinzita. Alessia non sembrava accorgersi che la sua mano era invecchiata di settant'anni in meno di un secondo, e continuò a tendersi per raccogliere lo strano oggetto.

Federico guardò sempre più stupito la mano di Alessia. Quando questa cominciò a polverizzarsi, prese Alessia per le spalle e la tirò a sé, facendola rialzare.

Lei prese improvvisamente fiato, come qualcuno che esce da una troppo lunga apnea forzata. Tremava, e non faceva particolarmente freddo, adesso.

La sua mano era ancora al suo posto, intatta, ma aveva un segno nero, un ghirigoro floreale che non c'era mai stato prima.

«Cos'è successo?» chiese spaventata Alessia. Non sembrava ricordare niente.

«Puoi muovere la mano?» chiese Federico, ignorandola.

«Sì» fu la risposta. Alessia e Federico erano ormai completamente zuppi.

Federico si riavvicinò al ciondolo, intimando alla ragazza di rimanere ferma.

Poi, con un lembo della maglia intorno alla mano, raccolse il ciondolo. Insieme rientrarono in casa. Gocciolavano sul pavimento.

«Che disastro» commentò Alessia, guardando l'acqua a terra.

«No dico scherzi? Hai un tatuaggio sulla mano e ti preoccupi di un po' d'acqua?» chiese Federico, che iniziava a sembrare isterico.

«Va bene, ma dobbiamo asciugarci, o ci ammaleremo veramente» disse Alessia.

«No dico scherzi??? Potresti avere chissà quale malattia mortale e davvero hai paura di un po' di febbre? Io non ti capisco» si arrese Federico, disarmato.

Alessia fece spallucce.

«Ma io mi sento bene!» disse, con il tono più naturale del mondo, e corse a prendere degli asciugamani.

Si asciugarono approssimativamente. Poi Federico guardò Alessia.

«E adesso che cosa fai con quella mano tutta tatuata?» chiese.

«Ho un piano» disse Alessia.

Federico tirò un sospiro di sollievo. Non era bravo, coi piani.

«Andiamo da un adulto e gli diciamo tutta la verità» svelò allegramente lei.

Federico guardò Alessia come se avesse un serio problema.

«Oh, sì, mi immagino la scena. “Mamma, mamma, un fulmine ha colpito il giardino, e dove l'ha colpito c'era una catenina, ho provato a toccarla ma mi è venuto questo tatuaggio!” “AAAHHHHH! No aspetta che cosa che cosa che cosa?” “Sì, ti dico che ho toccato una catenina portata da un fulmine e mi sono fatta questo tatuaggio assurdo senza neanche volerlo!” “Ah sì va bene allora a posto”. Sicuro! Grande idea! Diciamolo a qualcuno! Cosa pensi che succederà?» chiese Federico, che veramente rasentava l'isteria.

Alessia chiuse gli occhi.

«Non voglio affrontare tutto questo da sola» due lacrime la scorsero lungo le guance. Non voleva piangere, non sapeva perché stesse piangendo. Di sicuro non era per quello che aveva detto. Forse stava solo pensando al suo segreto, se ne aveva uno.

Federico le si avvicinò.

«Stavolta dobbiamo assumerci le nostre responsabilità. Ci sarò anch'io con te, ma non possiamo affidarci agli adulti. Non è possibile. Non c'è modo» mormorò Federico, tentando timidamente di cingerla con un braccio.

Alessia rimase immobile, al centro della stanza.

Aprì gli occhi.

«Ho paura» disse in un soffio.

 

Il rumore dell'auto che faceva scricchiolare la ghiaia bagnata li distrasse.

«Merda merda merda! Sono i miei!» disse Alessia.

«Sbrigati, andiamocene» saltò su Federico. Alessia si attardò a scrivere un biglietto: “Sono da nonna. Ceno da lei. Chiama”, e a prendere il cellulare.

Lei e Federico uscirono velocemente dalla porta principale, mentre i suoi entravano dal retro.

«Dove andiamo?» chiese Alessia.

«Non lo so, ma non a casa mia, i miei sono lì!» disse Federico.

«Dobbiamo incamminarci, però, o ci vedranno» commentò lei.

Incominciarono a camminare.

«Ecco l'idea! Casa mia!» esclamò esultante Alessia qualche minuto dopo.

«Ci sei? Siamo appena andati via da casa tua... perché sono tornati i tuoi. Ti ricordi, vero?» di nuovo, Federico si comportava come se Alessia fosse pazza.

«Errore comprensibile, colpa mia. Non questa casa. Non abbiamo sempre vissuto qui. Mamma aveva una casa, e abbiamo vissuto lì finché ho avuto due anni, poi siamo venuti qui. In realtà adesso è affittata ma c'è un cortile con un capanno, e possiamo andare lì, per il momento» spiegò lei.

Mentre finiva di parlare, il telefono squillò.

«Doppia merda... pronto, ma?... sì... no, sono appena arrivata... no, voglio restare un pochino... no, scendo a piedi... sì, sono coperta! Dai, non ho due anni... uffa... va bene. Ciao» riattaccò.

«Abbiamo circa due nanosecondi di tempo per trovare una soluzione» disse Alessia accennando al tatuaggio.

«E se ti bruciassimo la mano?» suggerì Federico.

«Non sto a dirti tutte le cose che comporterebbe. Pensa solo che mamma mi ucciderebbe per non averle detto dell'ustione. E poi credo che le ustioni siano rosse... non risolve il problema tatuaggio» rispose Alessia.

Si bagnò la mano con dell'acqua depositata su un filo d'erba.

«Niente. Non scompare. Posso dire che è un tatoo temporaneo...» disse Alessia.

«Troppo complicato per essere temporaneo, e in un posto troppo strano... e si noterebbe che non se ne va».

«Merda secca!».

In quel momento passò una donna. Guardò Alessia.

«Hai la mano sporca d'erba, cara, dovresti pulirti» disse.

«D'erba?» domandò Alessia.

«Sì, un pochino sulle nocche. Ecco, sei pulita. Completamente» disse la donna dopo averle strofinato un po' la mano.

«Ciao!».

Alessia e Federico quasi dimenticarono di salutare.

«Credo che non lo veda» disse lei.

«Forse lo vediamo solo noi due» ipotizzò Federico.

«Probabile. Abbiamo visto mentre succedeva... e il fulmine... e abbiamo la catenina con noi...» disse Alessia.

Tirò un profondo sospiro.

«Che assurdità. Questo... coso, lo devo levare lo stesso, in un modo o nell'altro» sussurrò.

«Pensi che ci sia qualcosa di grande, dietro? Intendo, qualche assurda storia fantasy...» chiese poi. «Non è possibile» rispose Federico con uno strano tono.

Camminarono in silenzio per un po', poi, al bivio, Federico prese a sinistra, e Alessia andò a destra.

«Vai da tua nonna» non sembrava una domanda.

«E tu vai a casa. Ci vediamo».

Alessia camminò ancora fino a raggiungere la casa di sua nonna.

Con uno scarto di pochi minuti, che nessuno avrebbe notato, Alessia cenò. Come previsto, nessuno dei suoi nonni si accorse del segno sulla mano.

Alessia tornò a casa a piedi. Faceva caldo, le nuvole erano andate via, ma le stelle, come sempre, erano poche. Non che la affascinassero. Tante masse di gas e chissà che altro, sparse per il cielo enorme e infinito, fredde e prive di magia come un ciocco di legno... solo che loro erano molto più spaventevoli di un banale rametto.

No, decisamente, le stelle la inquietavano. Specie se doveva osservarle senza niente sopra la testa, con la consapevolezza di essere immersa e sommersa dai loro sguardi glaciali.

Forse era una specie di paranoia...

Alessia accelerò il passo.

A casa, andò a dormire presto. In realtà avrebbe voluto guardare meglio la mano, ma era stanca e in quel momento provava un senso di rifiuto assoluto della realtà.

“Perché non può essere un sogno?”.

Il mattino seguente Alessia si dedicò a qualche ricerca su internet.

La parte più difficile fu la selezione delle parole da inserire nella ricerca. Fulmine trasporta catena?

Tatuaggio impresso da un fulmine (che non era proprio vero)? Ma comunque non aveva molto senso in nessun modo, per come la si mettesse. E non trovò niente con nessuna delle due formule.

C'era bisogno di un'altra mente di supporto, anche se in quel momento Alessia non sapeva dove avrebbe potuto trovarla.

Così si diresse ai bidoni della spazzatura, dove aveva incontrato Federico due volte su tre. Stette ferma lì ad aspettarlo per un quarto d'ora, poi si rese conto dell'assurdità delle sue azioni. Che senso aveva aspettare qualcuno che non sapeva nemmeno di dover arrivare?

Infatti Federico non si presentò.

La prossima volta che lo vedo, pensò Alessia, devo chiedergli il numero di cellulare.

 

Federico aspettava dall'altra parte della strada rispetto alla casa dell'amica.

Ma poteva veramente chiamarla amica? In fondo non si conoscevano poi tanto. Normalmente l'avrebbe chiamata, almeno con se stesso, anima affine, ma quello che sentiva verso di lei non poteva lasciare spazio a fraintendimenti. Si conoscevano appena. Non potevano essere affini, né amici, perché in realtà i suoi sentimenti non lo permettevano. In effetti, doveva ammetterlo almeno con se stesso, si era innamorato. Come una pera cotta. Se ci pensava moriva d'imbarazzo... insomma, non che gli dispiacesse, ma provava una strana stretta allo stomaco, e arrossiva quando ci pensava. Perciò... cercava più che poteva di non pensarci.

In realtà Federico aspettava che la macchina dei genitori di Alessia, parcheggiata davanti alla casa, sparisse, ma potevano correrci ore prima che succedesse.

Si avvicinò alla casa, e cominciò a girarci intorno. Sbirciava dalle finestre aperte. Una camera piena di ritagli di calcio... non poteva essere lei. Non aveva manifestato il benché minimo interesse per quello sport, anche se in realtà i loro incontri erano stati talmente surreali da non lasciare spazio ai convenevoli.

Decise che, se non avesse visto altre camere che potessero appartenerle, sarebbe entrato dalla finestra aperta di quella.

Sì, entrare dalla finestra non era mai stata la sua massima ambizione, ma non voleva incontrare i genitori di lei.

Bagno, camera matrimoniale, camera singola, con Alessia. E sua madre.

Mentre Federico aspettava che la donna affaccendata uscisse dalla stanza, osservò la cameretta.

Una serie di armadi, una scrivania con un computer portatile su cui lavorava Alessia, un letto, una scaffalatura con suppellettili e libri di scuola. Un paio di quadri sulle pareti bianche, ma in linea di massima, niente di troppo personale.

La donna uscì, e Federico richiamò l'attenzione di Alessia su di lui.

«Permesso» sussurrò.

«Dai, non fare lo scemo, entra dalla porta!» rispose lei, senza neanche curarsi di tenere bassa la voce.

«No, sul serio, non voglio incrociare i tuoi. Posso passare dalla finestra?» chiese Federico.

«Come ti pare» scrollò le spalle Alessia, aiutandolo a issarsi in camera.

«Che facevi?» chiese il ragazzo.

«Scrivevo» rispose lei chiudendo una finestra sul pc. «Ho provato a cercare su internet, ma niente di niente. Del resto non capita tutti i giorni quello che è successo a me... a noi» sembrava una specie di giustificazione.

Federico arrossì internamente, nel sentire quel “a noi”.

Però lei l'aveva detto senza intonazioni particolari, e non sembrava che contasse niente quella preposizione accoppiata a un pronome personale complemento per lei.

Federico quasi sospirò, ma si fermò in tempo.

Invece si sedette con aria consumata sulla sedia girevole di fronte alla scrivania, e prese il controllo del computer.

«Bingo» sussurrò una decina di minuti dopo.

Aveva trovato un sito.

Paranormal.

C'era un'ampia sezione dedicata ai fulmini. Alessia e Federico passarono venti minuti a scorrerne gli articoli... e poi ne trovarono uno. Uno solo.

Utente anonimo. Scorsero avidamente le frasi.

 

La catena del buco nero... compare raramente ed è la chiave per la porta dell'universo... mai dimostrato... tatuaggio nero... non ce ne si può liberare se non usandola e poi aspettando un altro fulmine.

 

«Fantastico! E noi cosa ci facciamo con questa fantomatica catena?» sbottò Alessia.

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Capitolo 4
*** Il dono ***


 

Alessia sospirò.

«Va bene, adesso devo stilare una lista di cose che dobbiamo sapere» disse. Federico la guardò, alzando le sopracciglia, come per dire che non era interessato.

Alessia se ne accorse, e fece un altro sospiro, stavolta perché aveva paura che per lui non avesse senso aiutarla a scoprire il mistero della catenina.

Federico prese a girare sulla sedia.

Pochi minuti dopo Alessia gli mostrò una lista.

 

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Contattarlo per scoprire nuove informazioni

Se possibile, incontrarlo

Scoprire come e dove ha ottenuto quelle informazioni

Fare ricerche sui metodi tradizionali di rimozione tatuaggi

 

Federico la guardò interrogativo nel leggere l'ultimo punto.

«Lo so... anche se gli altri non lo vedono, non posso rimanere per sempre con questo tatuaggio» mormorò lei per tutta risposta.

Poi prese una penna e sbarrò quel punto.

Mentre Federico cercava di spuntare tutti gli obiettivi, Alessia taceva, malinconica. Si chiedeva perché il ragazzo restasse ancora lì.

In fondo non ne aveva motivo.

«Dove hai messo la catenina?» chiese Alessia.

Federico estrasse un pacchetto dalla tasca, e lo gettò all'amica.

Bastò un secondo. La catenina non era avvolta bene, ed era per metà scoperta. Alessia aveva preso al volo l'involto, e aveva accidentalmente sfiorato la catenina.

Scomparve con uno sbuffo di fumo bianco.

Federico notò l'improvvisa strana sensazione e vide a terra solo la catenina. Il ciondolo era strano. Il giorno prima sembrava una specie di gorgo, ma piccolo quanto un'unghia. Adesso il gorgo era grande, nero e turbinante.

Senza pensare, raccolse la catenina prima che qualcuno entrasse nella stanza, uscì dalla finestra e si diresse correndo a casa sua.

 

Non ci aveva nemmeno pensato, ma lui aveva toccato la catenina a mani nude e non era scomparso, né era stato marchiato. Questo pensiero lo assalì posando la catenina sulla scrivania della sua camera.

Il ciondolo era ancora più grande del giorno precedente, ma non vorticava più come prima.

Federico sospirò.

Iniziò a fare il punto della situazione, che non era affatto rosea. Alessia era sparita (cosa che, oltre a creare problemi in casa sua, gli creava un vuoto dentro), non avevano trovato niente a proposito della catenina, e tutto era così immensamente complicato!

«Non ho speranze. Persino la consegna di un compito in tempo mi crea problemi, figurarsi tirare fuori qualcuno da un ciondolo come fanno i maghi con i conigli nei cappelli!» disse ad alta voce.

«Ah, quindi parli anche da solo?».

La voce era quella di Alessia. Si percepiva dal ciondolo, e si irradiava ovunque per la stanza.

Federico spalancò gli occhi. Un gridolino spaventato gli era morto in gola.

«Alessia?» chiese, con voce colma di stupore.

Magari, se si fossero conosciuti di più, Alessia avrebbe percepito il filo d'ansia amorevole nella sua voce; ma se fossero stati faccia a faccia, sarebbe stato facile vedere il volto dell'amico e leggervi tutto quello che la voce non diceva.

«No guarda, Lucilla» commentò lei.

Magari, se si fossero conosciuti di più, Federico avrebbe notato il grande sforzo nella voce dell'amica.

Risero entrambi, anche se stavolta la voce sforzata di Alessia si sentì più forte.

«Meno male, ci sei ancora!» Federico si lasciò andare a questa esclamazione con un sospiro di sollievo, neanche i loro problemi si fossero risolti.

«No, meno male che ci sei ancora tu!» esclamò Alessia. Federico non fece neanche in tempo a sperare... «Senza di te non posso uscire di qui. Temevo che mi avessi abbandonata» aggiunse, smorzando sul nascere la speranza dell'amico.

Sì, siamo affini, magari, pensò lui, ma non ci conosciamo abbastanza. Abbiamo bisogno di tempo, e...

«Non abbiamo tempo, però» disse Alessia proprio in quel momento.

«La smetti?».

«Di fare cosa?» chiese sorpresa Alessia.

Di non lasciarmi sperare... «Niente» disse secco Federico.

Sospirò. «Dove sei? Insomma, come ci sei finita?... cosa senti?» chiese poi.

Cosa senti. Adesso non poteva porre una semplice domanda senza che cercasse una risposta diversa.

«Quanto al “come ci sono finita”... non so dirti. Non so proprio dirti. Per il resto è come essere una formica sul tavolo. A proposito, bella camera» aggiunse Alessia.

Federico arrossì, ma dava le spalle al ciondolo.

«Ho toccato la catenina, e non è successo niente» disse poi per distrarre entrambi.

Alessia tacque. Era pensierosa, sicuramente. Federico immaginò la sua faccia corrucciata.

«Mettiti la catenina al collo» disse poi, ferma e decisa.

«Perché?» chiese Federico.

«Perché tu hai detto che non ti fa nessun effetto. Così potrò vedere quello che vedi tu» rispose lei.

Di nuovo. Stava succedendo di nuovo. Federico cercava in ogni modo di dare alle parole di Alessia il significato che lui avrebbe voluto, ma si tratteneva.

Era un istinto innato, ma che comunque lui trovava giustificato... cosa avrebbe fatto se solo lei avesse capito?

Scacciò quel pensiero dalla mente e si mise la catenina al collo.

Era calda, come la mano di una persona, come se Alessia fosse lì, viva e presente a sfiorarlo con l'anima.

«A casa tua non sanno dove sei. È un bel problema... come pensi che potremmo risolverlo?» disse Federico.

È un bel problema. Come pensi che potremmo risolverlo?

Accidenti, che nervi! Questa storia cominciava ad essere irritante.

«Non lo so. Ho bisogno di tempo per pensarci» rispose Alessia dopo una breve riflessione.

Non lo so. Ho bisogno...

«Hai internet qui?» alla domanda di Alessia, Federico rispose accendendo un computer fisso di ultima generazione.

Federico trovò l'articolo che stavano leggendo a casa di Alessia, milioni di anni prima.

«L'autore si chiama “No.time”. Lo cerco con Google».

Il risultato fu un solo sito.

«Nessun altro riscontro? Questo mi fa pensare che No.time sappia molto più che quelle poche righe» disse Alessia mentre il sito veniva caricato.

La pagina web era scarna, costituita da testo nero su sfondo bianco.

I due lessero avidamente.

 

La leggenda del Buco Nero è la meglio occultata nella storia di sempre. Probabilmente perché è piuttosto recente e ultimamente gli uomini hanno smesso di credere alle leggende. Ma quando ci sei dentro, non riesci a ignorarlo.

La prima traccia storica che si ebbe della Catenina fu registrata nel 1946. Un fulmine si abbatté nell'aia della fattoria della famiglia francese Drugard. La piccola contadinella Élise trovò la catenina e la sfiorò. Immediatamente un'infiorescenza nera si impresse sulla sua pelle e subito dopo Élise fu risucchiata nella catenina. Notò di avere poteri paranormali, fra i quali trovò particolarmente utili la capacità di creare un doppio virtuale del suo corpo, o anche di modificare la memoria, o di fermare il tempo. Riuscì ad uscire dalla catenina in una circostanza molto particolare: la fece battere varie volte nella forgia del piccolo paese in cui viveva in una notte di luna piena. Quando uscì si rivolse ad un eminente studioso di sovrannaturale, che si avvaleva di un aiuto più magico che scientifico. Il teorico ipotizzò che Élise fosse stata scaraventata in un buco nero e avesse attinto l'energia per compiere atti magici dalla supernova. Élise perse la catenina il giorno seguente. Pioveva, e un fulmine colpì l'aia dei Drugard esattamente nello stesso punto in cui aveva depositato la catenina.

Élise morì pochi mesi dopo a causa di un'infezione intestinale. Il secondo caso presenta caratteristiche analoghe e si verificò...

 

Il resto dell'articolo trattava vari casi simili, e Alessia non si sprecò neanche a leggerlo. La interessava soprattutto l'accenno alla magia e al modo per liberarsi dalla catenina.

Con il primo dono avrebbe potuto modificare la memoria dei suoi familiari, con il secondo sarebbe tornata a vivere la sua vita.

Il problema era trovare una forgia al più presto.

«Pensi quello che penso io?» chiese Alessia.

Se tu pensi che devi controllare i tuoi pensieri, sì, pensò Federico.

«Dipende. Ti riferisci alla storia di Élise?».

«Ovviamente. Sono interessata alla magia e al modo per uscire da questo coso» disse Alessia.

E io sono interessato a te, pensò di nuovo Federico, e subito dopo: E basta!

Roteò gli occhi al cielo.

Federico notò che l'amica aveva uno strano tono, intento a perseguire al meglio i propri obiettivi. In un certo senso gli fece tenerezza, era questo un lato del suo carattere che non aveva ancora visto, ma lo fece anche dispiacere; era un tono freddo e privava Alessia di qualsiasi umana dolcezza.

«Fede?».

Inutile descrivere l'effetto che quelle due sillabe ebbero su Federico.

«Che?» chiese.

«No, niente. Non parlavi...» mormorò Alessia.

Sì, sto migliorando. Non ho fatto neanche in tempo a pensarci, o forse è lei che è più veloce, pensò Federico.

«Pensavo una cosa... se riesco a gestire questa cosa della magia... e scopro come teletrasportarci... dov'è che sappiamo per certo che esiste una forgia?» considerò Alessia.

Federico sospirò, e per una volta non c'entrava niente con i suoi pensieri.

 

------------------------ resha: eh, non posso rivelare niente. però mi piace come sto continuando. sì, decisamente mi hai dato un buon consiglio. grazie per i complimenti, significa molto per me, specie perchè ho appena finito le medie e magari lo stile può sembrare immaturo... come noterete, do voce sempre e solo ai pensieri di Federico... i pensieri di Alessia emergeranno in seguito, forse, ma non adesso... le visite aumentano, vedo che ho fatto bene a non mollare... insomma, ho già in mente varie cose, spero belle, per il futuro... baci, lonelysoul

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Capitolo 5
*** Pouvez vous me dire...? ***


«A che punto sei?» chiese Federico.

«Ti ho appena cancellato la memoria facendoti dimenticare che ti ho già detto a che punto sono» disse Alessia. «No, non è vero. Non ci riesco» aggiunse poi.

Federico sospirò.

«Sì che ci riesci. Riprovaci» disse stancamente.

Erano ore che tentavano, ma sembrava che non fossero giunti a nessun risultato.

«È come cercare un oggetto che hai distrutto. Non esiste, semplicemente non esiste un modo per recuperarlo» si ostinò Alessia.

«Prova a fare leva sulle tue emozioni più forti» suggerì Federico senza convinzione.

«Okay... adesso ti rivelo la password del mio computer, poi provo a fartela dimenticare. Avere una motivazione potrebbe aiutarmi... Brindodondodandodà» decise Alessia.

«La tua password è Brindodondodandodà?».

«Forse».

Seguì un momento di silenzio profondo.

Federico s'immagino Alessia, col volto delicatamente corrucciato, i cui particolari

stavano lentamente svanendo nel dimenticatoio.

«Prova a fare leva sulle tue emozioni più forti» disse Federico.

Aveva veramente dimenticato gli ultimi istanti, per la prima volta dopo vari tentativi le ore sprecate davano un frutto.

«Già fatto. La mia password?» chiese Alessia.

«Se non la sai tu...» commentò Federico.

«Funziona! Devo solo allenarmi» fu l'ultima frase che Alessia pronunciò prima di sprofondare nel silenzio.

«Svegliati!» gridò Alessia.

Federico scattò. Era addormentato sulla scrivania, aveva perso la cognizione del tempo ed era stanchissimo.

«Ho pensato una cosa... posso anche cancellare la mente dei miei, ma se chiamano la polizia dovrò cancellare le memorie dei poliziotti... e poi quelle delle persone, e i giornalisti, e i giornali, e un sacco di altre cose... devi portarmi a casa» esclamò Alessia.

Federico mugugnò, dando uno sguardo all'orologio. Erano le sei del pomeriggio.

Si rimise la catenina, che aveva appoggiato al comodino, e uscì di casa.

Si fermò davanti alla porta di casa dell'amica.

«Cosa fai adesso?» chiese Federico, ancora assonnato.

«Prima scopro cosa hanno pensato i miei... poi cancello qualsiasi memoria che io sia sparita. La sostituisco con una copia di un giorno qualsiasi di qualche mese fa... e poi controllo anche le menti nel raggio di cento metri. Non si sa mai... se hanno urlato sapendo che non ero a casa per pranzo, potrebbe saperlo qualcun altro» disse Alessia.

Terminata la spiegazione, Federico sentì dell'umidità trasudare dal ciondolo. Sembrava che la concentrazione di Alessia stillasse a fiotti dalla piccola supernova.

«Fatto» disse alla fine lei con voce affannosa.

«È faticoso» aggiunse, quasi a giustificarsi.

«Sì» annuì Federico, e strinse forte il pendaglio nel palmo della mano.

«Adesso cosa facciamo?» chiese lui.

«Andiamo in Francia. A trovare i Drugard» fu la risposta.

Di nuovo quel tono così freddo, deciso, autoritario. Federico sospirò, conscio di essere incapace di contrastarlo.

«Almeno... cerchiamo altre forge, scopriamo se c'è qualche posto più a portata di mano, no?» propose con poca convinzione.

«Sai, ci ho pensato. Ma se quella del paese dei Drugard fosse l'unica forgia funzionante?» chiese Alessia.

A questo Federico non seppe rispondere.

«E come ci arriviamo, in Francia?» aggiunse poi.

«Potremmo usare i mezzi comuni. Aereo, o treno. Oppure posso teletrasportarci» suggerì Alessia.

«Non oso propendere per nessuna delle due scelte» commentò terrorizzato Federico.

Poi, successe l'impensabile.

Dalla catenina giunse un singhiozzo sommesso, e dei rumori simili a quelli di una persona che stesse piangendo.

Federico non aveva mai sentito Alessia piangere. Del resto si conoscevano da quanto? Tre giorni? E non c'era stata nemmeno una circostanza così stressante o funesta da far piangere l'amica.

Ma possibile che lei fosse scoppiata in lacrime solo per una frase? No, e infatti Federico intuì che dietro ci fosse molto di più.

«Scusa... mi dispiace, non volevo mettermi a piangere! Mi sento una stupida...» singhiozzò.

«Non devi chiedere scusa... e poi da una come te... mi aspettavo che sapessi che piangere non è sempre male... anzi è segno di sensibilità» sussurrò Federico.

«Ma non è comunque gratificante piangere, specie davanti a qualcun altro, non pensi?» le frasi di Alessia erano udibilmente smozzicate e sofferenti.

«Ma, Ale – inutile descrivere l'effetto che fece a Federico il pronunciare quelle due sillabe – come stai? Davvero... cosa senti?» chiese.

Per la prima volta si accorgeva di non averglielo mai chiesto, sempre così concentrato su quello che provava per lei.

Mille volte stupido, stupido, stupido.

«Io... ho paura. Fa freddo, ed è difficile stare qui. È come se mi... succhiasse tutte le forze. Ma non puoi capire. Fa così freddo qui» gemette Alessia, tirando su con il naso.

La forza nella sua voce andava scemando.

«Mi sento sempre più debole. Adesso ci porto in Francia... promettimi che... se dovessi perdere conoscenza... farai di tutto per farmi uscire» singhiozzò ancora.

«Prometto» la voce di Federico si perse a metà fra due nazioni diverse, mentre viaggiava nello spazio in un modo che nessuno avrebbe mai immaginato.


Federico stava sognando. Era un sogno abbastanza spiacevole, non fosse altro perché sembrava che vorticasse in un cielo pieno di stelle. Bello, ma pur sempre nauseante. Non aveva alcun punto di riferimento, finché non la vide.

Era vestita di bianco, e restava ferma nonostante tutto continuasse a turbinare. Ma erano le stelle o lui a girare così tanto?

Alessia gli si avvicinò.

«Come... cos'è che non ha funzionato?» chiese, ma a bassa voce, come se non stesse rivolgendo la domanda al suo confusissimo amico.

Improvvisamente Federico si accorse di due cose. Primo, era seduto nel bel mezzo del niente, anche se si sosteneva, e secondo, faceva immensamente freddo.

Alessia tese la mano e lui la afferrò per rialzarsi.

«È qui che stai?» chiese Federico.

Alessia fece un brusco cenno con il capo. Era davvero bella, e rivederla in quel momento disperato sembrava un miracolo. Ma in quel modo... Federico non riusciva a capire se stesse sognando o se stesse vivendo la realtà.

L'ho fatta troppo facile. È stato semplice essere solo preoccupato per lei mentre era qui, e io potevo solo pensare a misurare le parole. Questo è troppo più grande di noi. Ci credo che pianga. Tutto questo fa paura, pensò Federico.

Alessia rabbrividiva, e aveva il viso più pallido di come lui lo ricordava.

«Devi uscire. Io non ce la faccio, devi uscire da solo» disse Alessia.

In che senso uscire da solo.

«Volere è potere. Devi solo desiderare di uscire... anche se per me non funziona così» spiegò.

«Un attimo... hai un aspetto orribile... non c'entra il freddo, vero?».

«No. Il freddo è il minore dei mali. È che stare qui mi fa pensare cose brutte. Ricordi che non volevo venissero fuori. Adesso vattene».

«Non posso abbandonarti» frase stupida, stupida, stupida. Come al solito.

Alessia scosse il capo.

«Se resti, moriremo. Devi andare. Lo so che è complicato da capire, ma devi fidarti di me. Vai, e cerca di tirarmi fuori di qui».

Fidarsi di lei? Certo. Ovvio. Ma davvero, Federico non se ne voleva andare. L'avrebbe persa per sempre?

Un pensiero... stupido, stupido, stupido.

Ma anche così che poteva toccarla, sentire la sua mano che malgrado tutto gli sembrava calda, era effimera come un soffio di vento.

E sebbene Federico non sapesse molto di cotte adolescenziali, era abbastanza sveglio per capire che questo amore non rientrava nella categoria.

Guardò Alessia. Il suo volto era una maschera d'attesa.

E lui si arrese. Era già stanco. Si chiedeva come resistesse lei. Lo desiderò, in un istante, e tornò con i piedi per terra sul suolo francese.


Era in una città, senza dubbio francese. C'erano un sacco di scritte che non capiva. Lui aveva studiato spagnolo.

«Accidenti... e adesso che faccio?» si chiese a mezza voce.

«Parlo francese. Un po'. Insomma... mica tanto. Ma non moriremo» la voce di Alessia.

Federico era quasi sorpreso che ci fosse ancora.

Gli altri avventori del locale in cui erano non si erano accorti di niente. Perfetto.

«Chiedi al barista in che città siamo. Excuse-moi, pouvez vous me dire ou je me trouve? Je suis un touriste...» suggerì Alessia.

Federico ripeté, con accento stentato.

«Vous vous trouvez à Paris, certainement. Ça va bien?» fu la velocissima risposta.

«Siamo a Parigi, ci ha chiesto come stiamo... cioè, ti ha chiesto come stai. Rispondi: “ça va bien, merci”».

«Credo che dovremmo lavorarci su questa cosa del francese» mormorò Federico dopo aver ripetuto diligentemente.

«Guarda, siamo in un internet point. Credo che dovremmo cercare qui, non me la cavo bene con le indicazioni. Sono al passo con il programma, ma solo tre anni sono un po' pochi per me. Specie in una situazione come questa» si scusò Alessia.

Federico scosse la testa, divertito.

In breve riuscì ad ottenere le informazioni che gli interessavano. Schizzò una mappa non molto dettagliata, lasciò la tariffa per un quarto d'ora e corse fuori.

La fattoria dei Drugard era fuori città, vicino a un paese francese di nome Melun.

«Ci sono stata, una volta. Cinque anni fa. Dovevamo pernottare in un bed & breakfast, ma poi siamo arrivati tardi ed era chiuso, così siamo andati in un vero e proprio hotel. Ma non ricordo molto» disse Alessia.

Federico annuì.

«Ma come ci arriviamo a Melun?» chiese.

«Secondo te?» il sarcasmo marcato nella voce di Alessia era chiaramente percepibile anche attraverso la catenina.

Federico chiuse gli occhi.

Questa volta non entrò nello strano universo in cui stava Alessia. Bastò un secondo, e atterrò sul suolo caldissimo di fuori Melun.

Aprì gli occhi.

Era su un suolo arido, privo di sostentamento. Non c'erano alberi, e l'unico segno di civiltà fino all'orizzonte era un palo di legno, spuntato, tarmato, marcio, che chissà come aveva resistito.

Era tutto quello che rimaneva della fattoria dei Drugard, anche se non era passato poi molto tempo.

Il sole cocente arrostiva qualsiasi forma di vita. Nessun uomo o animale, nei paraggi.

«Dove siamo?» chiese.

«Nella... fattoria dei... Drugard... devi raggiungere la fo... forgia. Sempre dritto... fra un chilometro, o due, dovresti trovare un edificio fatiscente, con un vecchio. È la... forgia, appunto... stanotte... stanotte è l'ora» esalò Alessia.

Che ansia, che tarlo orribile.

Sarebbe stato meglio se fossero spariti insieme, in quell'universo della catenina?

No. Federico l'avrebbe tirata fuori, e poi avrebbero avuto una vita per stare insieme, ed era un dato di fatto. Perché rischiare di scomparire e perdersi?

...tutto questo, sempre che Alessia lo avesse ricambiato.

Cosa non esattamente semplice.

Federico s'incamminò. Quella notte. Quella notte sarebbe stata l'ora.

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Capitolo 6
*** La fine, l'inizio ***


 

Il vecchio alzò il capo, ma non smise di picchiare con il mazzuolo sul pezzo di ferro incandescente che aveva in mano.

Federico rimase immobile sulla soglia, valutando il posto.

La stanza era completamente spoglia, non c'era che un incudine, con sopra il pezzo di ferro che lentamente si raffreddava e il mazzuolo nella mano del vecchio.

«Sei tu?» chiese, in un italiano stentato.

Federico aggrottò la fronte, senza rispondere.

«Hai la catenina?» chiese di nuovo.

«Sì» per qualche motivo la voce di Federico era quasi scomparsa.

«Sì» ripeté più forte. Il vecchio annuì e diede l'ennesimo colpo di mazzuolo.

Il ferro freddo si spezzò, ma l'uomo non ci fece caso.

«È troppo presto. O troppo tardi. La prossima luna piena ci sarà fra mezzo mese» disse gettando in un angolo il ferro rotto.

Federico lasciò immutata la sua espressione.

Si era aspettato che Alessia avesse controllato, ma evidentemente non era così.

A meno che, pensò, in Francia la luna piena non sia diversa...

Sospirò.

«Ale?» tuffo al cuore.

«Ho sentito, e lo so. Ma lo sapevo anche prima. Solo che quindici, pardon, sedici giorni sono troppi per aspettare» disse lei.

«Ho ancora la magia» aggiunse poi.

Nella sua voce, improvvisamente bassa, c'era una nota di timore reverenziale. Il mugolio di Federico fu di mera constatazione.

Anche se lui non poté mai vederla, una lacrima scese lungo la guancia di Alessia.


Alessia si dibattè nel nero universo.

Aveva la nausea. Non sono tutto girava, e girava, e girava vorticosamente. C'erano anche un paio di altre cose che le provocavano il voltastomaco.

Per esempio, ogni volta che usava la magia ricordava un brutto episodio della sua vita. E, giusto per caso, era innamorata. E spaventata. Terribilmente spaventata.

Ricordare era doloroso. Essere spaventata la faceva sentire braccata. Ma essere innamorata, per quanto potesse essere considerato stupido, la irritava. Era in un universo alternativo, sola, spaventata, non aveva modo di uscire, riviveva i suoi più brutti ricordi, letteralmente, abitava in un incubo. Ed era innamorata! Era così irritante, sciogliersi a pensare a lui ogni volta che chiudeva gli occhi. Senza fare niente di concreto. Proprio lì, quando, se c'era una speranza, non si vedeva nemmeno...

«Che ore sono?» si sentiva sempre stupida quando parlava da sola, al vuoto. Sapere che da qualche parte... oltre... ci fosse lui pronto ad ascoltarla, le provocava emozioni contrastanti.

Fastidio, come sempre. Non poteva evitarlo. Ma anche una dolcezza incredibile, un amore in cui non si lasciava sguazzare, non dentro la catenina.

«Sono le nove. Dovresti mandare avanti il tempo, adesso» disse Fe... no, non poteva pensare quel nome, o si sarebbe squagliata proprio lì, in quel preciso istante, in un universo strano e irreale, senza tornare alla sua vita ma soprattutto senza di lui.

Alessia fece spallucce, dimentica di non poter essere vista, e si concentrò.

Aveva letto tantissimi libri. Volere è potere, dicevano tutti. Lei considerava facile, per esempio, concentrarsi per evocare la magia, come in “Eragon”. Anche se sapeva che ognuno ha i suoi blocchi, aveva ragione. Era proprio facile, nonostante la riluttanza che la bloccava. E la magia arrivò.

Riuscì a malapena ad imbrigliare la forza per ciò che voleva, perché i ricordi la avvolsero, e lei vi si abbandonò, con una sorprendente quantità di masochismo.


Un martello. Una, due, tre volte. Brezza sul viso. Da quanto tempo non la sentiva? Una voce. Una mano sulla sua. E la testa che girava, esattamente come prima...

Cercò di aprire gli occhi, ma l'emicrania l'assalì con forza. Senza curarsene, si tirò a sedere di botto.

«Oddio, calmati... come stai? Ti prego, dimmi che stai bene!» la sua voce la riportò alla realtà.

«Oddio, sono viva, sto bene!» esclamò Alessia con un sorprendente senso di liberazione.

Poi scoppiò a piangere. «Accidenti, scusami, io non volevo, lo so che dovrei essere felice, ma sono così felice, mamma mia, è così bello essere tornata, non ce la facevo più e...» l'unica cosa che fu capace di azzittirla fu l'abbraccio.

Federico l'aveva abbracciata, e questo fermò definitivamente le lacrime.

«Ho avuto paura di perderti!» le mormorò nell'orecchio.

«Anch'io! Anch'io...» sussurrò lei.

Federico si staccò da lei, avvampando.

«M... mi dispiace, scusami» balbettò.

Alessia chinò il capo, con espressione tormentata. Ecco, adesso era lì. Non poteva più nascondersi. Stava bene, ed era con lui, e lui era lì, così vero...

Niente scusanti.

Alessia lo guardò.

E tutto il coraggio evaporò come neve al sole. Stupida, stupida, stupida.

«Non importa»

«Ti amo» disse lui.

Alessia lo guardò. Poi scosse il capo, e chinò la testa.

«Grazie... per avermi salvato la vita» sussurrò.

Poi sentì una fitta al cuore, e un clic sommesso. Cuore spezzato? Sapeva cosa si provava. Era già successo. Ma quella volta non era stata colpa sua. E ora...? Era stata lei? Davvero, davvero era così scema?

E... in quanti pezzi doveva ancora rompersi il suo cuore?

Federico si alzò, con uno sguardo ferito.

Si mise a camminare in cerchio, con passi sempre più grandi, e rabbiosi.

Alessia lo guardò, confusa.

«Che cos'hai?» chiese.

«Niente» sputò. «No, invece no. Sto cercando un motivo per non arrabbiarmi con te» si corresse.

Si prese la testa fra le mani e le allontanò di scatto.

«Ma che cosa stai facendo? Io ti dico che ti amo, dannazione, e tu mi allontani, e mi dici grazie! Non hai nemmeno... non mi dici nemmeno di no! Mi chiedi che cos'ho! Ma davvero sei la persona che credevo che fossi?» gridò.

«Sai, sarà anche stupido. Ma tu non mi hai solo ferito quando mi hai detto “grazie per avermi salvato la vita”, e rifiutandomi. Tu hai tradito la mia fiducia. Pensavo che non fossi quel genere di persona!» disse più piano, trattenendo la rabbia.

Si allontanò di qualche metro, e tirò un calcio a vuoto.

«Dannazione! Me ne voglio andare di qui!» gridò.

Alessia si portò la mano sul petto.

Sentiva un continuo ticchettio... ancora, il suo cuore? Ma lei sapeva esattamente cosa stava facendo. Era colpa sua. Era così masochista?

«Aspetta» gridò, alzandosi.

«Io non ti ho risposto niente perché ho avuto paura» gridò ancora, alla figura immobile e voltata di Federico.

«Credi che io non ne avessi? Ho avuto paura, dicendotelo. Ma avevo più paura quando tu non c'eri!».

«Be', scusami se ho tradito la tua fiducia! Tu neanche mi conosci! Non sai niente di me, niente! Né di me, né del mio passato!» se prima il tono era sarcastico, si era avvelenato durante la frase, e si era riempito di dolore nelle ultime parole.

«Non mi importa non conoscere il tuo passato! Conosco te! Ti conosco da quando mi hai detto che ti sentivi diversa! Da quando ero davanti a casa tua, ieri, e ho capito che eravamo anime affini! Io non avrei fatto questo, a nessun'altra!» disse, furioso, Federico.

Alessia versò una lacrima.

«Li chiamo contaminanti, perché... una volta ero innamorata di uno di loro. Mi ha spezzato il cuore, mi ha illusa. Mi distribuiva “ti amo” come caramelle. L'anno scorso. Mi ha ferita. Non volevo che anche tu mi illudessi, perché stavolta la persona che amo la amo veramente! Credi che non stia soffrendo? Sei l'unica cosa per cui valeva la pena di tornare! Ma avevo paura! E non mi fidavo di me stessa, né del mio istinto che mi diceva di fidarmi di te!»

Federico guardò in basso.

«Che cosa hai detto?, non ho capito» chiese.

«Quale parte?».

«Quella in cui mi dicevi che mi ami veramente» rispose Federico, avvicinandosi ad Alessia.

E poi la baciò.

Da quanto tempo aspettava quel momento? Gli dispiacque che fosse molto, ma forse l'attesa lo aveva solo reso più bello.

Durò lunghi attimi. C'era solo l'euforia. Era come volare, come stare sulla montagna più alta, respirare aria rarefatta e vedere che quello che hai potrebbe durare un'istante solo, ma che è la cosa più bella che tu abbia mai avuto.

Incominciò a piovere.

Alessia si staccò dolcemente da Federico, e guardò stupita il cielo nero.

«Piove» sorrise divertita.

Anche Federico sorrise, e per la seconda volta in pochi giorni, un fulmine si abbatté vicino a loro. E non ricordarono più niente.


La prima a svegliarsi fu Alessia. Erano nel prato di casa sua. Svegliò Federico.

«Ehi, siamo a casa» sorrise.

«E... stiamo insieme?» chiese lui.

Alessia sorrise.

«Sì».



Ciao! Allora, vi è piaciuto il capitolo finale? Recensirete la fine della storia? Mi dispiace aver finito, ma allo stesso tempo sono contenta... potrò dedicarmi ad altre storie, e naturalmente spero mi seguirete anche lì! Be', che dire? Grazie per avermi seguita, recensita e sostenuta. Un abbraccio. Alessia

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