La storia della casa sul lago di ballerinaclassica (/viewuser.php?uid=40547)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 1 *** Prologo - ***
Quando
Arthur Kirkland aveva visto per l'ultima volta l'America, da una di
quelle barche enormi che solcavano l'Atlantico, poi l'aveva ricordata
verde, sovrastata da un cielo limpido, qualche nuvola sparsa e anche
piuttosto sporadica e i gabbiani. Era tornato in Inghilterra nel 1923
aveva continuato con i suoi studi, piacevolmente sorpreso che,
nonostante avesse passato una decina di anni in un altro continente,
tutto fosse ancora al proprio posto – beh, a parte suo
fratello
Peter che si era praticamente impossessato della sua camera da letto,
quella più grande.
E alla fine tutto era andato come doveva
andare. La laurea, la famiglia... E si era perfino innamorato di una
canzone uscita nel '18 e chiamata “Over There”.
Proprio perché
la sua vita sembrava perfetta si era spinto di nuovo così
lontano,
fino a sfidare di nuovo il mare e a tornare nel nuovo continente,
convinto che i suoi sacrifici sarebbero stati premiati, in barba a chi
non aveva mai creduto il lui!
Eppure l'America non era affatto
come lui la ricordava. E al posto degli alberi, ad una distanza di
appena cinque anni, erano apparse le prime ciminiere, al posto dei
gabbiani c'erano aloni di fumo grigiastro e il mare sulle coste non
era più abbastanza limpido da distinguere con chiarezza ogni
singolo
sassolino – oppure era la sua vista che stava peggiorando,
alle
soglie dei trent'anni.
Nonostante ciò, Arthur Kirkland restava
convinto che ci fosse un angolo di America (il suo
angolo di
America) che non era cambiato di una virgola. Era riuscito a sentirlo
a pelle, quando aveva poggiato la testa sul finestrino del suo vagone
di seconda classe e aveva chiuso gli occhi, fingendo che stesse
attraversando per l'ennesima volta la sua bella Cornovaglia.
E in
effetti quando aveva varcato la porta di legno della locanda si era
reso conto che almeno lì nulla era cambiato. Che il bancone
era
ancora scheggiato sulla sinistra, vicino al muro, che i tavoli di
legno puzzavano un po' di muffa, il pavimento era scuro e qualche
asse scricchiolava e il proprietario non era cambiato di una virgola,
se si ignoravano i primi capelli bianchi.
Era nel cuore dell'Iowa
che Arthur aveva trovato la sua seconda casa, alla quale lentamente
si era affezionato e della quale inevitabilmente sentiva la mancanza
ogni qual volta tornava a Londra. Nel cuore dell'Iowa aveva trovato i
primi amici, erano nati i primi legati e era rimasto un pezzo della
sua vita. Tra i fiumi e i boschi che li costeggiavano, sulla riva del
lago e nella casetta di legno abbandonata, su quella barchetta
malmessa che usava per andare a pesca, per le strade, tra i
muri.
Poggiò la valigia su una delle panche che stavano addossate
al muro e si sedette lì accanto, inspirando a fondo un odore
familiare e chiudendo gli occhi. Tra qualche minuto avrebbe
assolutamente dovuto trovare un telefono pubblico – e quindi
elemosinare qualche monetina da uno sconosciuto – pur di
parlare
con sua madre, così ansiosa e con quel terrore che suo
figlio
finisse sul fondo dell'oceano durante uno dei suoi viaggi. E adesso
che ci pensava sarebbe stato un bene anche parlare con Peter e
chiedergli con esattezza quale stupido giocattolo americano voleva
che gli portasse, dato che l'ultima volta che era tornato a casa con
un regalo per suo fratello era stato ricoperto dagli insulti,
perché
i soldatini poteva benissimo comprarseli in Inghilterra.
Ah, e
ovviamente aveva bisogno di un posto in cui restare, e non era troppo
sicuro che la locanda, ormai, rispettasse almeno la metà
delle norme
igieniche. Con un po' di fortuna si sarebbe preso soltanto le
piattole. Visto lo strato di polvere che c'era su quel tavolo e la
sporcizia del pavimento, non osava immaginare in quali disumane
condizioni giacesse abbandonato il bagno. Non aveva nemmeno
intenzione di scoprirlo ora, quindi accavallò le gambe e
cercò di
imporre un minimo di autocontrollo perfino alla sua
vescica.
Nonostante ciò era veramente felice di trovarsi
lì, nel
posto in cui aveva scelto di continuare a vivere. Lui amava
l'Inghilterra, eppure c'era una parte del suo cuore che, quando
tornava sulla sua isola e riabbracciava i suoi cari, restava
oltreoceano, nel paesino più sperduto della contea
più sperduta
dell'Iowa. Insomma, uno di quei posti dove il numero di capi di
bestiame supera di almeno sei volte quello della popolazione, dove un
vero uomo indossa un capello da cowboy dall'età di cinque
anni –
se hai fortuna tua zia te ne regala uno addirittura quando ne hai
quattro - e dove tutti conoscono tutti e con ogni
probabilità mezzo
paese sapeva già che il ragazzo di Londra era tornato.
Magari
qualcuno era appena uscito con la sua vecchia e rumorosa automobile.
Lo aveva detto al ragazzo dei giornali, che lo aveva detto alla
signora all'angolo della strada, che lo aveva detto alla vicina. E
così, di casa in casa, la notizia si era sparsa come
succedeva a
tutte quante le altre.
Il nome di Arthur Kirkland era volato sulla
bocca di una dozzina di persone, magari qualcuno lo aveva storpiato,
qualcuno addirittura dimenticato. Ma in un modo o nell'altro, nel
giro di un paio d'ore tutti avrebbero saputo che lui era tornato in
America e che stava per ordinare una birra alla vecchia locanda che
c'era vicino la stazione.
«Ehi amico, hai intenzione di rimanere
lì impalato ancora a lungo?»
Arthur aprì un solo occhio e
rivolse uno sguardo al suo interlocutore. Davanti a lui c'era un
ragazzo che arrivava a malapena ai vent'anni, capelli biondi come il
grano agitato dal vento e occhi azzurri come l'oceano, un grembiule
nero e un po' sgualcito e una maglietta vagamente scolorita che
portava il nome di qualche squadra di baseball. Era alto almeno
quindici centimetri più di lui e largo almeno il doppio,
portava gli
occhiali da vista e Arthur si accorse che lo adesso però lo
stava
fissando.
«Non ero impalato, amico, stavo
aspettando un
cameriere», gli rispose, cercando di riunire in un'unica
frase tutta
l'acidità di cui fosse capace.
L'ultima volta che era stato lì
il cameriere era un uomo sulla sessantina, che oltretutto aveva
problemi di udito e questo ti costringeva a ripetere il tuo ordine
per almeno tre volte, se ti andava bene. E ogni volta dovevi usare un
tono di voce più alto e più acuto della volta
precedente. Arthur
non ricordava affatto quel ragazzone, invece. Molto probabilmente il
cameriere che gli stava davanti ora all'epoca era uno di quei ragazzi
che giocavano ad inseguirsi dietro la locanda, e che ogni tanto
potevi vedere correre oltre il vetro opaco della finestra.
«Sta
di fatto che ne stavi lì immobile... Che ne so, magari
già te lo
sei scordato. Com'è che si chiama? Ah, giusto, demenza
senile.»
I
muscoli della sua fronte si corrugarono quasi involontariamente,
Arthur non riuscì a spiegarsi per quale assurdo motivo un
totale
sconosciuto gli stesse dando del vecchio – tra l'altro senza
avere
un motivo preciso. Non sembrava abitudine di quel ragazzo chiedersi
se un uomo appena arrivato con una valigia pressapoco enorme fosse
stanco, probabilmente non aveva perso nemmeno tempo a far caso a quei
piccoli particolari.
Arthur lo squadrò di nuovo, sul suo petto
c'era appiccicato un pezzo di carta stropicciato e ingiallito e sopra
c'era scarabocchiato un “Alfred”, in cui la
“L” era veramente
troppo grande e in cui la “D” era stata storpiata
perché
evidentemente quel foglio minuscolo non era abbastanza grande nemmeno
per un nome così breve.
«Senti... Alfred, non so che
problemi tu abbia, ma mi piacerebbe ordinare e andarmene. Quindi
spicciati e fa' il tuo lavoro. E magari evita di aprire bocca se non
per darle aria.»
L'espressione di Alfred oscillava tra il confuso
e lo scioccato. Abbassò il mento, si guardò il
petto e poi la sua
attenzione tornò a concentrarsi su Arthur.
«Ehi inglesino, come
fai a sapere il mio nome? Sei un agente segreto o cosa?»
Più il
tempo passava, più si rendeva conto di quanto la popolazione
americana fosse tendenzialmente stupida. Per quanto amasse la loro
terra, Arthur non impazziva particolarmente per chi la popolava,
anzi. Preferiva le sue passeggiate solitarie o le conversazioni che
non si spingevano oltre il “ciao”.
«È scritto lì. Che c'è,
non sai leggere?»
Alfred analizzò per un attimo la targhetta che
aveva sul petto, dopo di che scoppiò in una risata forse un
po'
troppo acuta e forse un po' troppo rumorosa per i suoi
gusti.
«Ahahahah, giusto, me ne ero completamente dimenticato.
Alfred F. Jones!», disse, e mentre leggeva sottolineava con
il dito
ogni lettera del suo nome.
«Veramente io leggo solo Alfred.»
Il
cameriere sembrò rimanere spiazzato, ed effettivamente la
sua
posizione non era migliorata, ma peggiorata, se possibile. Era palese
che Alfred non sapesse leggere, e per quanto Arthur volesse provare a
farglielo pesare, sapeva esattamente che in quella zona dell'America
e in particolare in quella contea non poteva pretendere di poter
parlare con qualche intellettuale che coltivava granturco nel part
time.
Il ragazzo aveva poggiato i suoi occhiali da vista sul
tavolo, le lenti erano un po' appannate e la montatura non era
perfettamente dritta, e staccò il pezzo di carta dal petto.
Molto
probabilmente adesso avrebbe cercato di far credere ad Arthur che lui
sapeva leggere alla perfezione e che quella gaffe era stata dovuta
solo e soltanto ad un paio di vecchi occhiali mezzi rotti.
«Senti,
Alfred, non preoccuparti e portami una birra», lo
liquidò, prima
che lui potesse ribattere qualcosa.
Perfino il mulino che
c'era sulla sponda est del fiume non era cambiato, forse le pale
erano un po' consumate dal tempo e forse le ragnatele erano
aumentate. Però la struttura era ancora quella, con il suo
tetto
cigolante e le travi spezzate, i nidi degli uccelli nascosti in ogni
punto disponibile e le oche che poltrivano sulla riva. Era un quadro
pressoché magico e Arthur lo aveva sempre adorato quando,
qualche
anno prima, risaliva il fiume fino ad arrivare a quel lago che
ghiacciava d'inverno e che rimpiccioliva durante l'estate.
Lì c'era
una vecchia casa di legno abbandonata, di quelle che sembravano
abitate dal fantasma del lago o da qualche poltergeist, un vecchio
villino affiancato ad una stalla mezza diroccata.
La casa sul lago
era il posto che Arthur amava di più dopo il mulino e la
locanda,
era il posto in cui si rifugiava dal mondo esterno e dimenticava
perfino l'Inghilterra. Arthur risaliva il fiume col suo bastone da
passeggio e una borsa di pelle nera e lisa, andava a sedersi sui
gradini mangiati dai tarli della vecchia casa di legno, li sentiva
scricchiolare e parlargli, e lì scriveva i suoi racconti.
Erano
storie di principi, di maghi e streghe malvagie, storie che non
avevano mai un fine, perché inevitabilmente il giorno della
partenza
arrivava e Arthur si ritrovava costretto a chiudere i suoi quaderni e
a lasciarsi alle spalle quel posto segreto.
Quel giorno ricordò
di aver portato un sacco di quaderni, tonnellate di inchiostro
accuratamente sistemato in valigia e dentro sé l'intenzione
di
trovare qualcosa che lo costringesse a restare, perché per
quanto
l'Inghilterra potesse mancargli, Arthur era sicuro che in
realtà il
suo posto era lì. Magari avrebbe trovato un sentiero comodo
per
collegare la vecchia casa al mulino, magari sarebbe riuscito a farla
ristrutturare, avrebbe avuto un giardino e la stalla sarebbe stata
riparata, per vivere sulla sponda del lago che ghiacciava
d'inverno.
E probabilmente prima di fare programmi per l'avvenire,
Arthur avrebbe dovuto passare a dove pernottare –
perché non
voleva prendersi le piattole alla locanda, ma non voleva nemmeno
trascorrere la notte all'agghiaccio e rischiare di non arrivare vivo
alla mattina successiva.
Chiese informazioni ad un paio di
persone, di cui un uomo che non sembrò nemmeno capire la sua
domanda
e lo accusò di avere un accento inglese troppo forte. Gli
bastò
un'ora per trovare una specie di albergo dall'aria un po' vissuta, in
cui scoprì presto che la proprietaria, la cameriera, la
donna delle
pulizie e la portinaia fossero la stessa persona, una donna sulla
sessantina con i capelli che sfumavano dal bianco ad un rossiccio
chiaro, la circonferenza abbastanza estesa ed un sorriso cordiale,
oltre ad una stretta di mano che gli aveva quasi spezzato le ossa.
La
sua stanza affacciava sulla strada principale, proprio come a Londra,
ma il profondo abisso che c'era tra l'Iowa e la sua città
natale lo
fece sorridere. A Londra le auto erano arrivate già da
qualche anno,
i più ricchi della città ne avevano addirittura
due, suo padre ad
esempio aveva una Rolls Royce verde bottiglia, che usava per andare
ai suoi incontri di lavoro o per portarli al mare qualche fine
settimana. Sua madre adorava quell'auto, restare con il finestrino
aperto e respirare l'aria pura che c'era fuori città. Suo
fratello
invece la odiava, dato che non poteva muoversi liberamente o alzarsi
come poteva fare in treno. Nemmeno a lui quell'automobile piaceva
granché, aveva sempre preferito stare all'aria aperta, come
quando
andava a far visita a suo nonno e camminava in sua compagnia per ore
ed ore, ascoltando decine di storie sui corsari della regina
Elisabetta, le avventure di Francis Drake e della sua ciurma, oppure,
di sera, storie che parlavano di uova di drago, di terre incantate e
di antichi sortilegi.
Lì nell'Iowa le automobili non erano così
tante. Per l'esattezza, da quando era arrivato, ne aveva vista
soltanto una, parcheggiata (o forse abbandonata) fuori dalla locanda.
Una Bour Davis del 1921 che doveva aver avuto la sua storia e che ora
era ridotta ad un ammasso di rottami che avrebbe funzionato a
malapena.
Appena un'ora dopo qualcuno bussò alla sua porta.
Arthur salutò la padrona dell'albergo che reggeva tra le
mani un
vassoio di legno con il quale portava una tazzina traballante e
scheggiata sul manico. Ah, il suo accento inglese qualche volta aveva
un vantaggio, la donna doveva aver capito immediatamente da dove
provenisse e si era premurata di procurargli del tè. Non gli
servì
altro, la donna gli disse di lasciare la tazza sul comodino, ci
avrebbe pensato lei poi a prenderla e a lavarla e Arthur ne
approfittò per farsi una doccia e sistemare la sua roba. Era
arrivato più o meno poco dopo l'ora di pranzo, se aveva
fortuna e se
si dava una mossa forse sarebbero riuscito ad arrivare alla vecchia
casa di legno prima che facesse buio. Aveva voglia di salutare di
nuovo quei luoghi e vedere se fossero cambiati o meno, se la stalla
fosse già crollata o se fosse riuscita a superare con
discreto
successo tutti quegli inverni, se il lago, ora che la primavera
cominciava a farsi strada, fosse ancora mezzo gelato oppure
no.
L'acqua della doccia era talmente fredda da costringerlo a
saltare in continuazione e ad uscire con una velocità
fulminea per
avvolgersi nell'asciugamano bianco che stava poggiato su uno
sgabello, anche mentre lavava via la schiuma da barba dal viso
rischiò di congelarsi le mani e di restare con le dita
rigide e
serrate attorno alla manopola del lavandino.
Indossò un maglione
spesso e un paio di pantaloni scuri, prese la giacca ed il cappello e
scese velocemente le scale. Era impaziente di rivedere la vecchia
casa.
La strada era quasi deserta, fatta eccezione per un gruppo
di ragazzini che inseguivano un pallone rattoppato, riempiendo la via
di urla concitate e di risate allegre. Erano circa le cinque del
pomeriggio, e la donna dell'albergo gli aveva raccomandato di
ritornare entro un paio d'ore al massimo, se non voleva che la sua
cena si freddasse. Arthur non aveva fretta, in fin dei conti avrebbe
potuto mangiare fuori almeno per quella sera – aveva
abbastanza
soldi con sé, la maggior parte dei quali erano stati un
regalo di
uno zio scozzese, ed era comunque certo che mangiare in qualche
ristorante della zona (sempre se ce n'erano) non sarebbe stato un
problema.
Stava percorrendo la stessa strada di prima, ma ora che
la sua valigia era chiusa nella stanza, poteva concentrare la sua
attenzione sul paesaggio, sul sentiero che mano a mano che si
allontanava dal centro del paese diventava più stretto e
più
tortuoso, su come le salite fossero metro dopo metro leggermente
più
ripide, su come i raggi inclinati del sole colpissero in pieno la
vegetazione che c'era lì vicino, rendendola di una tinta
giallo
ambra.
Le pale del mulino erano immobili, soltanto qualche ramo
oscillava con il vento. Arthur ascoltava il rumore dell'acqua che
scorreva lentamente, le anatre che starnazzavano sopra la sua testa e
nel fiume.
Continuò a camminare per una buona mezz'ora, mentre i
piedi cominciavano a far male perché i suoi mocassini nuovi
di zecca
erano veramente inadatti a quel genere di passeggiate. Arthur
ignorò
completamente i lamenti dei suoi piedi che lo supplicavano di
fermarsi sotto la quercia, e sedersi sulle radici che sporgevano dal
terreno creando disegni fatti di nodi di legno, o su quel sasso
ricoperto in buona parte dal muschio umidiccio, altrimenti andava
bene anche il praticello verde, l'importante era riposarsi.
Ma se
non voleva tornare con la notte e rischiare di spezzarsi l'osso del
collo mentre percorreva nella direzione opposta quel sentiero ripido,
doveva darsi una mossa e sopportare. Arthur tirò il cappello
sulla
testa, cercando di coprirsi le orecchie, fortunatamente c'era ancora
abbastanza luce, e il sole emanava ancora abbastanza raggi da
concedergli almeno un po' del suo calore quando non si trovava
all'ombra di qualche albero.
Quando si rese conto che il paese
era ormai lontano, e che era passata circa un'ora da quando aveva
intravisto per l'ultima volta il mulino che spariva tra le fronde,
Arthur sorrise e pensò tra sé e sé che
c'era quasi, magari tra
trecento metri l'avrebbe vista, la vecchia casa di legno che era
stata costruita vicino al lago, che molto probabilmente era ancora
piena di rampicanti. Forse qualche muro aveva ceduto, oppure si erano
frantumati i vetri di un altro paio di finestre.
Mentre era a
Londra aveva pensato spesso su cosa potesse essere accaduto a quella
casa. Dal giorno in cui aveva sentito suo padre parlare della seconda
rivoluzione industriale, che Arthur non aveva vissuto di persona,
aveva cominciato a temere il peggio. Nel cuore delle città
inglesi
un paradiso simile a quello sarebbe stato presto trasformato in un
grande magazzino, nella migliore delle ipotesi sarebbe diventato la
pista di atterraggio per i voli mattutini della RAF. La stessa
così
si sarebbe verificata nel New England, ma magari l'Iowa era ancora al
sicuro – sempre che a quegli americani megalomani non fosse
saltata
in testa l'idea di costruire una specie di centrale segreta
nell'unico posto che valeva la pena vedere – e comunque
Arthur non
era mai stato fortunato, quindi temeva anche l'opzione che un
meteorite fosse caduto dritto sulla vecchia casa di legno, lasciando
illeso tutto il resto.
Arthur sollevò il mento, adesso poteva
guardare l'inizio della radura che costeggiava il lago.
Accelerò il
passo, rischiando di inciampare in qualche arbusto, tanta era la
voglia di trovarsi ancora al centro di quel luogo. Saltò un
sasso,
scavalcò un cespuglio verde, e poi lo vide.
Una
nuova long-fic, che posto mentre completo gli aggiornamenti delle
altre due.
Spero vi piaccia, perché ho avuto miliardi di dubbi
mentre la scrivevo. ;___;”
Vorrei dedicarlo a Vasino, dato che
mi sono resa conto di non averle mai dedicato nulla. ;_; E quindi
questa FanFiction è per lei, che è sempre troppo
gentile con me,
vagamente stronza, ma quella è un'altra storia.
Ti voglio bene,
caccapupù<3
Al prossimo aggiornamento<3
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Capitolo 2 *** Capitolo I ***
Sulla
riva del lago c'erano appollaiate una dozzina di anatre, nascoste da
arbusti rinsecchiti e dalle canne che stavano chine sull'acqua. Le
rocce che sporgevano lungo gli argini erano semi coperte dal muschio,
e tutto intorno c'era un odore di pioggia, misto a quello del
terriccio umido. E Arthur avrebbe riconosciuto l'odore di quel luogo
fantastico anche tra un milione di anni o giù di
lì.
Più avanti
la vecchia casa di legno era ancora intatta, notò con
piacere,
coperta dai rampicanti e dal muschio, ma intatta. Un uomo stava sulla
veranda mezza distrutta e da quello che Arthur riusciva a vedere,
aveva un chiodo tra due dita e stava usando il martello contro
qualche asse di legno un po' ribelle. La cosa non gli diede
particolarmente fastidio, sebbene Arthur avrebbe preferito trovare
quel posto vuoto, isolato e silenzioso come al solito, piuttosto che
vedere qualcuno che si affannava per tenerlo in piedi, riempiendo la
radura con il rumore ritmico del martello che batteva sulle tavole
del pavimento.
Mentre si avvicinava all'uomo, che gli dava le
spalle e stava chino sul suo lavoro, Arthur cercò qualche
scusa da
tirar fuori, magari avrebbe potuto dirgli che si sarebbe occupato lui
delle riparazioni (o di qualunque altra cosa si trattasse), facendo
venire da Londra i migliori architetti e la migliore equipe, o che
avrebbe addirittura potuto farlo di persona, se la prima opzione
poteva creare disturbo in qualche modo. In un certo senso era geloso
di un mucchio di assi di legno umidiccio e mangiato dai tarli, per
quanto la cosa potesse risultare ridicola. Arthur aveva coltivato
quel luogo nel cuore, rifugiandosi lì soltanto quando era
indispensabile, aveva sperato che fosse un posto magico ed
irraggiungibile, e vederlo così, con quello sconosciuto che
martellava da una parte e dell'altra, trasformò l'atmosfera
da
onirica a reale e la cosa lo turbò molto, forse anche troppo.
In
cuor suo Arthur sapeva bene che, se sperava che quella casa restasse
in piedi almeno altri due o tre inverni, allora doveva darsi da fare
con la manutenzione, perché altrimenti la prima ventata
l'avrebbe
buttata giù come se si fosse trattato di un castello di
carte.
Mano
a mano che però si avvicinava, notava con stupore quanto in
realtà
quel paradiso si stesse trasformando e provò un senso di
malinconia
e di inadeguatezza a rendersi conto che era soltanto migliorato, che
dal pavimento non sporgevano più le assi di legno sulle
quali prima
rischiava di inciampare, che le finestre rotte che prima erano chiuse
con dei pezzi di cartone ora non erano più rotte, che la
parte della
casa che stava rivolta verso il lago non era ricoperta da muschio o
da macchie di umidità, perché qualcuno si era
premurato di pulirla
o di sostituire il legno marcio con quello nuovo.
Non sapeva se il
merito fosse di quell'uomo o meno, ma era intenzionato a scoprilo al
più presto.
«Mi scusi», disse improvvisamente, spuntando alle
sue spalle, «Come mai sta riparando questa casa?»
L'uomo, che
poi capì essere un ragazzo, sussultò e la sua
reazione spaventò
Arthur, mentre assieme ad un movimento improvviso, aveva emesso un
urlo disumano e a lui sembrò di aver già sentito
quella voce da
qualche parte...
«Mh...Ti fa molto male?»
«Sì, tanto,
tantissimo! È tutta colpa tua, come ti salta in mente di
strillare
alle spalle della gente?»
«Non ho affatto strillato,
bugiardo!»
«Sì che hai strillato, proprio come stai facendo
ora, vecchio!»
«Smettila di dire che sono vecchio,
ragazzino!»
«E tu smettila di dire che sono un ragazzino,
vecchio!»
«Okay, la smetto.»
«Bene, smettila.»
«Benissimo,
ho smesso.»
«Meraviglioso.»
Alfred lo guardò con
un'espressione imbronciata, mentre rimaneva accovacciato sul
pavimento scricchiolante e si stringeva il dito leso tra le mani; a
pochi centimetri, il martello era rimasto abbandonato. Arthur si era
preso cura di lui soltanto per pochi secondi, perché poi
Alfred
aveva cominciato a lamentarsi ogni qualvolta lui lo sfiorasse anche
solo con la punta delle dita, quindi aveva preferito rinunciare ed
evitare che quella voce acuta gli perforasse i timpani.
«Che ci
facevi qui?», chiese Arthur all'improvviso.
«Cosa ci facevo io
qui?», Alfred inarcò un sopracciglio,
«Io qui voglio viverci, con
un po' di sforzi renderò questa casa una reggia.»
Per Arthur
quello fu un brutto colpo, ma riuscì ad incassarlo senza che
Alfred
si accorgesse che il suo cuore aveva quasi saltato un battito.
«Non
puoi», gli rispose all'improvviso, senza neanche rendersi
conto di
averlo detto.
Ed in effetti Alfred non aveva il diritto di
andarsene a vivere in un luogo che non gli apparteneva, specialmente
se Arthur ne era così geloso. Il solo fatto che Alfred fosse
lì
quel giorno stava a significare che la casa sul lago non era poi un
posto così segreto, e che sarebbe stato possibile per tutti
raggiungerlo. Doveva annotare questa cosa nei suoi diari e
ricordarsi, il giorno in cui sarebbe stato il legittimo proprietario
di quel terreno, di comprare dei cani da guardia.
«E perché
scusa?»
Alfred non sembrava intimorito dalle sue parole, ma
divertito, esattamente come quando si erano incontrati quello stesso
giorno alla locanda, e Arthur era sicuro che tutta quella spavalderia
sarebbe sparita presto, esattamente come quando si erano incontrati
quello stesso giorno alla locanda e lui gli aveva sbattuto in faccia
che era un analfabeta e che analfabeta sarebbe rimasto.
«Perché
io ho intenzione di comprare questo posto e di venirci ad
abitare.»
Alfred rise, e la sua risata era irrisoria e molto
acuta, nelle pareti della camera rimbombò fino a dargli la
nausea e
a fargli desiderare ardentemente di essere abbastanza grande e grosso
per poterlo strangolare con facilità.
«Questa è bella! Si dà
il caso che questo terreno fosse di mio padre, e che adesso che lui
non c'è più, è diventato tutto mio, amico.»
«Sono
disposto a comprarlo per cinque... Settecento sterline. È
una bella
cifra per una casa piena di tarli e un terreno incoltivabile.»
Suo
padre si sarebbe cavato gli occhi volentieri e strappato le orecchie,
se soltanto avesse saputo in che genere di acquisti suo figlio
spendeva i soldi che lui guadagnava duramente, sapeva bene che Arthur
non era portato per gli affari, che era un ragazzo capriccioso che
non si dava per vinto fino a che non aveva tutto quello che
desiderava e quando lo desiderava, era capace di rimanere in mutande
e di dare tutti i suoi averi ad un perfetto sconosciuto, di mandare
la compagnia in bancarotta e di lasciare la sua famiglia sul
lastrico.
Ma Arthur aveva sempre ascoltato le sue ramanzine (che
seguivano l'acquisto di qualche vecchio libro per trecentocinquanta
misere sterline o qualcosa del genere) annuendo senza capire
veramente, aveva imparato a memoria quando era il momento giusto per
abbassare la testa, quello per chiedere scusa, o per ripetergli fino
alla nausea “sì papà, non lo
farò più, papà”. E poi,
uscito
dallo studio, si ingegnava alla ricerca di qualche nuovo affare, un
pezzo di antiquariato, un libro pieno di formule di magia, un vecchio
cappello che si diceva essere appartenuto a Francis Drake, ma che in
realtà era stato trovato in qualche cantina ammuffita e poi
rivenduto come uno strabiliante oggetto degno di museo.
«Mi
spiace», disse Alfred dopo averci pensato un po',
«Ma ho bisogno di
un posto in cui vivere, e preferisco starmene qui e cavarmela da solo
piuttosto che continuare a lavorare alla locanda.»
In un certo
senso aveva ragione, perfino lui ogni volta si lamentava di dover
dipendere da suo padre, dato che si era sempre rifiutato di far
stampare i suoi libri e distribuirli in Inghilterra, convinto che non
avrebbero avuto successo e che quindi era soltanto una inutile
perdita di tempo.
«Ho capito», e questa volte dalle sue parole
trasparì un accenno di delusione, «Io me ne torno
in albergo,
comunque.»
Gli avevano rubato dalle mani l'unica cosa per cui
valeva la pena attraversare l'oceano in nave, se l'era visto
scivolare via dalle dita come sabbia e non poteva farci niente,
perché era sicuro che, anche offrendo di più,
Alfred avrebbe sempre
rifiutato.
Arthur si alzò in piedi e si sistemò il cappotto,
faceva freddo e da qualche spazio tra gli assi della casa entrava una
brezza gelida che gli aveva congelato le mani e il naso, era quasi
primavera, ma la sera il clima era ancora quello del pieno inverno.
Alfred si alzò subito dopo di lui, probabilmente se ne stava
per
andare tutto soddisfatto della sua mano ferma e dell'autocontrollo
che aveva avuto. Invece poggiò una mano sulla spalla di
Arthur e lo
fermò.
«Non puoi andartene ora», disse, «Fuori
è troppo buio
e un eroe come me non può permettere che un povero
vecchietto cada e
si rompa la dentiera.»
«Tu non sei un eroe e io non sono un
povero vecchietto, né porto la dentiera», rispose
Arthur scostante,
e guardandolo male, «Quindi me ne vado.»
La presa di Alfred
sulla sua spalla si rafforzò per un attimo, mentre nei suoi
occhi
celesti Arthur vide un lampo di esitazione.
«E va bene, va' pure.
Ma non venire a piangere da me strillando come una donnetta che ti
sei sbucciato un ginocchio dopo essere scivolato.»
Arthur non
rispose nemmeno, né salutò, il che fu
preoccupante visto fino a che
punto lui tendesse a esasperare le sue buone maniere, e
uscì.
Fuori, come aveva immaginato dalla corrente di vento che
circolava per la casa, faceva molto freddo, sentiva il sottofondo dei
grilli e il rumore felpato dei suoi passi sull'erba umidiccia e sul
terreno fangoso. Arthur sollevò il colletto del cappotto per
coprirsi il mento e infilò le mani nelle tasche, sapendo
già che
tra poco, in quei sentieri ripidi tra le rocce, si sarebbe riscaldato
per bene... Oppure sarebbe morto. Il cielo era tranquillo, non
c'erano nuvole e sopra di lui si vedevano già le stelle.
Percorse
qualche metro con il mento rivolto all'insù, non riusciva
più a
distinguere i rami degli alberi dal cielo buio e non riusciva a
vedere oltre una decina di metri, infatti tutto gli sembrò
molto più
inquietante rispetto a quando era arrivato. Si voltò verso
la casa,
e vide la superficie della luna specchiarsi sul lago immobile, le
stelle scintillare anche nel loro riflesso e poi le due piccole
costruzioni ingombrare un pezzo di pianura. Nella casa c'era ancora
luce, segno che Alfred aveva intenzione di passare lì la
notte, e
adesso che Arthur si rendeva conto di quanto fosse buio e di quanto
fosse difficile evitare di inciampare nelle radici degli alberi non
lo biasimò. Arrivato all'inizio del pensiero
pensò che forse doveva
soltanto andare lentamente, e che non gli importava di arrivare in
albergo nel bel mezzo della notte o quando era già mattina,
perché
doveva badare ad arrivarci intero. Ma quando dopo appena un paio di
metri rischiò di scivolare o di spezzarsi il collo in una
caduta
magistrale che evitò soltanto con il supporto di un ramo
sporgente,
Arthur decise che non poteva fare altro che tornare indietro.
Girò
i tacchi e guardò di nuovo la casa, con in bocca la
consapevolezza
amara di doverla dar vinta ad Alfred, dato che era stato costretto ad
abbandonare i suoi buoni propositi di andarsene in albergo. E
oltretutto aveva davanti tutta la notte in una catapecchia che, per
quanto potesse essere bella in primavera, in quel mese era ancora
piena di spifferi di vento gelido, con le assi del pavimento
scricchiolanti e l'umidità praticamente su tutte le pareti.
Adesso
che doveva affrontare l'idea di passare una notte assieme a quello
zotico di Alfred, Arthur cominciava a vedere soltanto gli aspetti
negativi di quello che prima considerava un paradiso.
Sbuffò e
bussò un paio di volte, dall'altra parte della porta c'era
un
silenzio tombale. Alfred gli stava giocando un brutto scherzo, oppure
si era già addormentato, in entrambi i casi il suo
comportamento non
lo avrebbe stupito, dopo tutto Arthur sapeva perfettamente di dover
avere a che fare con un ragazzino impertinente e cocciuto, che per di
più non sapeva nemmeno leggere e scrivere. Un rumore di
passi, di
nuovo il silenzio e poi lo scricchiolio della porta che veniva
aperta, Arthur si ritrovò a fissare il viso chiaro di
Alfred, la sua
espressione leggermente spaventata che si trasformava in un ghigno
spavaldo.
«Sapevo che saresti tornato», disse dopo qualche
secondo di smarrimento totale, gonfiando il petto come se fosse fiero
delle sue previsioni che si avveravano, «nessuno sa restare
lontano
dall'eroe, quando fa buio.»
Arthur inarcò un sopracciglio, il
che gli costò molta fatica, visto quanto fosse stanco e
quanto
fossero pesanti le sue sopracciglia, e continuò a fissarlo
in
maniera piuttosto scettica. Fino a un attimo prima Alfred sembrava
aver visto un fantasma, quando aveva aperto la porta la sua
carnagione era pallida come un cencio, quasi inquietante sotto la
luce chiara e biancastra della luna. Lui invece, intrepido, aveva
affrontato la foresta di notte, e le uniche cose che lo avevano
spinto a tornare indietro, e quindi ad affrontare di nuovo quel
cataclisma americano che era ben peggiore di lupi o di bestie d'altro
genere, erano state il buon senso e il proposito di ritornare in
Inghilterra tutto intero, un giorno o l'altro.
Eppure una volta
aveva sentito di un tizio che in un terremoto era stato schiacciato
sotto le macerie della sua casa, e quando l'avevano tirato fuori
aveva tutte le ossa rotte e alcune che sporgevano sotto la pelle in
maniera inquietante, e strillava contro tutti i suoi dipendenti
affinché lo portassero in ospedale, perché lui
stava morendo dal
dolore, ma nessuno osava avvicinarsi, sia per paura di peggiorare la
situazione, sia perché il padrone era sempre stato piuttosto
violento nei loro confronti, e temevano che nonostante le varie
fratture lui trovasse la forza di brandire il suo bastone contro di
loro e lasciargli qualche livido impresso sulla pelle a memoria di
quel giorno. A un certo punto era arrivato un vecchio indiano che
lavorava nella sua tenuta, e senza dire una parola, dato che era
cieco e sordo e con ogni probabilità anche muto, si era
messo a
sistemare le ossa del padrone che nel frattempo urlava per il dolore
e malediceva a gran voce tutta la sua tribù a partire da
lui, per
finire ai lattanti ancora attaccati ai seni delle madri. Dopo tre
mesi, il padrone passeggiava a cavallo e già frustrava quei
mezzadri
che oziavano nei campi o li minacciava con colpi di fucile sparati in
aria.
Ma Arthur sapeva bene che, se fosse caduto e si fosse rotto
tutte le ossa, le possibilità che Alfred andasse a cercarlo
da solo
nella foresta (al buio) erano remote, e che, se anche Alfred fosse
riuscito a trovarlo, lui si sarebbe trovato davanti una sottospecie
di cowboy rincitrullito e non un vecchio e saggio indiano, quindi,
almeno quando ci fosse soltanto Alfred nelle vicinanze, doveva
evitare fratture o incidenti di quel genere, perché
conoscendolo non
avrebbe potuto fare altro che peggiorare la situazione.
Adesso
aveva davanti un sorrisetto un po' scemo, una ciocca di capelli che
sfidava la forza di gravità e che lui avrebbe voluto tirare
fino a
far sanguinare il cervello di quel cretino (sempre che ne avesse uno)
e i soliti occhiali mezzi storti.
«Non sono tornato di certo
perché avevo paura», rispose Arthur, spostando
Alfred in malo modo
pur di passare ed entrare in casa, «non volevo sentire le tue
urla
da femminuccia dopo aver fatto troppa strada, tornare indietro
sarebbe stato faticoso», e con questo ricambiò il
sorriso di
Alfred, che nel frattempo gonfiava le guance senza sapere che cosa
rispondere.
Arthur notò una coperta lisa in un angolo della
stanza, quello più lontano dalla finestra, e che Alfred
aveva
provato ad accendere il fuoco, consumando una dose spropositata di
cerini senza riuscirci. In effetti faceva freddo, e bastava chiudere
la porta perché nella camera ci fosse un buio quasi totale,
quindi
aveva buone probabilità di rompersi l'osso del collo anche
lì
dentro, se non trovavano un rimedio al più presto.
«Hai già
finito tutti i fiammiferi?», chiese, inginocchiandosi davanti
al
camino ridotto a uno stato pietoso, perché lo strato di
fuliggine
era ormai diventato così spesso che era letteralmente
impossibile
scrostarlo dalle pareti e la cenere vecchia di chissà quanti
anni
faceva da base ad una legna ancora troppo umida per poter essere
bruciata, probabilmente Alfred doveva averla tagliata quello stesso
giorno.
«No», mormorò Alfred alle sue spalle,
«me ne sono
rimasti due.»
Dalla tasca dei pantaloni estrasse una minuscola
scatola, in cui stavano sistemati due fiammiferi l'uno accanto
all'altro, come se avessero freddo anche loro e stessero quindi
cercando il calore reciproco. Alfred si inginocchiò accanto
ad
Arthur e glieli pose, fissandolo speranzoso. Dal suo atteggiamento,
da quei tentativi disperati di accendere una parvenza di fuoco, da
quella coperta gettata in quell'angolo, Arthur aveva capito presto
che Alfred avesse paura del buio, o di restare da solo in una casa
vecchia e desolata, o entrambe le cose. Alfred si fingeva forte, si
fingeva quello che non era, ma non riusciva ad ingannare tutti, non
lui almeno. In realtà in quel momento gli faceva quasi
tenerezza
(per quanto un bestione alto quasi due metri e con quella faccia da
schiaffi potesse fargli tenerezza), Arthur lo guardava con la coda
dell'occhio, mentre muoveva i fiammiferi e prendeva dalla sua vecchia
tracolla un pezzo di carta da bruciare. Alfred aveva la lingua tra i
denti e le mani serrate in due pugni che ogni tanto sbatteva contro
le cosce, sembrava sperare con tutto se stesso che Arthur riuscisse
ad accendere quel dannato fuoco, non per riscaldarsi, ma per avere
almeno un po' di luce. Non sembrò notare il foglio che
Arthur lasciò
cadere sul pavimento, interamente scritto con inchiostro blu e con
una calligrafia inclinata, elegante e ordinata. In effetti non se ne
accorse nemmeno Arthur.
Quando nel camino comparve una piccola
fiamma Alfred esultò di gioia, strillando qualcosa sui
metodi
obsoleti che usava Arthur, che era capace di accendere un fuoco in
quel modo soltanto perché data la sua età era
piuttosto vicino
all'età della pietra. Arthur lo ignorò
completamente e poggiò per
terra la sua borsa, e si alzò in piedi.
«Dovrebbe durare un paio
d'ore circa», disse, e la cosa fece deglutire Alfred e
ritirare
tutto il suo entusiasmo, «c'è poca legna, non si
può fare
altro.»
Alfred annuì.
«Va bene, Artie.
Ti posso chiamare Artie? Arthur non mi piace come nome, mi sa di
persona antipatica e altezzosa... Anche se, ora che ci penso, tu sei
piuttosto antipatico, Artie, e hai la puzza sotto il naso. Sicuro di
voler restare qui? Ricorda che non hai nulla da temere,
perché c'è
l'eroe al tuo fianco, Artie. Tu come vuoi chiamarmi invece? Direi che
Mister Jones possa andar bene, o Signor Jones, oppure Padrone, o
altrimenti puoi chiamarmi come-»
«Facciamo che scelgo io come
chiamarti, okay? Il tuo nuovo nome varierà da cerebroleso a
idiota,
oppure da svampito a cretino. Ogni tanto però potrei
confondermi e
chiamarti schifoso zotico, d'accordo? D'accordo.»
Alfred aprì la
bocca per ribattere, ma Arthur parlò di nuovo.
«E facciamo che
soltanto per questa notte io posso avere metà della
casa», disse,
prendendo un bastoncino di legno che era rimasto abbandonato accanto
al camino, «questa è la mia metà della
casa e quella è la tua
metà della casa.»
Mentre lo diceva, la punta del bastoncino
affondava nello strato di polvere, muffa e altri tipi di sporcizia
che affollavano il pavimento, fino a che non si spezzo, e Arthur lo
lanciò brutalmente nel fuoco.
«Buonanotte», concluse. E con
questo afferrò la coperta che Alfred aveva usato in
precedenza e la
sistemò alla meno peggio sul pavimento, sdraiandocisi sopra,
il più
vicino possibile al camino, e usando il suo cappotto come lenzuolo.
Sentiva Alfred camminare per la stanza e sbuffare, il rumore di un
mobile che veniva aperto e che cigolava per la mancanza di olio e poi
di nuovo silenzio. Doveva aver trovato qualche altra coperta da
qualche parte e aver imitato Arthur.
Per quanto fosse stanco i
rumori della notte non gli permisero di addormentarsi, ma Alfred
doveva aver chiuso gli occhi già da un pezzo,
perché riusciva a
sentire il suo respiro regolare anche se gli dava le spalle.
Guardò
l'orologio, che segnava appena mezzanotte e sospirò.
Pensava a
Peter e a sua madre, al suo vecchio college e alla storia che sognava
di scrivere. Era una storia d'amore che, per quanto lui rinnegasse
perché trattava un argomento così scontato, si
ostinava a voler
continuare. Parlava di una silfide, e del mago che viveva nella casa
sul lago, ma ogni volta che i due si incontravano e che qualcosa
doveva succedere, Arthur smetteva di scrivere. Quando le sue pagine
si incentravano sull'amore, lui preferiva cambiare discorso e
mettersi a scrivere un saggio sull'Iowa, o qualche racconto di magia
ambientato alle radici di un salice piangente. Non era mai riuscito a
scrivere sull'amore, forse perché non aveva mai provato in
prima
persona il privilegio di cui gli innamorati potevano godere. Aveva
conosciuto qualche ragazza in qualche pub londinese, le belle
ereditiere che gli presentava suo padre, aveva perfino provato a
frequentare un paio di uomini, ma alla fine ogni storia si era
conclusa allo stesso modo, e Arthur non ne aveva ricavato niente.
Probabilmente non era fatto per avere relazioni durature, oppure
era nella sua natura non averne affatto. Arthur se ne convinceva
sempre di più ogni giorno che passava, che lui non era
tagliato per
una vita reale, che la sua vera strada era quella dello scrittore,
non di un uomo sposato, che tornava dall'ufficio con la sua
automobile elegante e salutava la moglie sulla porta di casa con un
bacio sulle labbra, prima di sedersi a tavola.
Mentre ancora ci
pensava, e a questo punto si convinceva che non avrebbe mai scritto
una sola parola, dato che dal suo cuore non poteva cavarne alcuna
emozione, sentì il verso di qualche gufo che doveva essere
nascosto
proprio tra i rami degli alberi vicini alla casa. Era un rumore
piuttosto lugubre, con quella “u” allungava che
rimbombava tra le
pareti di legno vecchio. Alfred lo sentì come lui, e si
spaventò,
sussultando nel sonno e svegliandosi. Ritenendolo un'inutile palla al
piede già da sveglio, Arthur finse di dormire,
perché non aveva il
coraggio di intraprendere una conversazione con quello zotico a
quell'ora della notte. Ma a dispetto di ogni sua aspettativa (o
speranza) sentì il rumore dei passi di Alfred attraverso la
stanza,
veloci e concitati, era inciampato nella tracolla di Arthur e l'aveva
raccolta per portarla con sé. Infine, mentre Arthur
continuava a
tenere le palpebre abbassate e a rimanere vigile, Alfred si
sdraiò
alle sue spalle, usando la sua borsa come cuscino.
Se avesse avuto
un minimo di amor proprio, Arthur si sarebbe trattenuto dal
sussultare e dall'emettere un verso incomprensibile che
suscitò la
curiosità di Alfred.
«Scusa», sussurrò, «Non
volevo svegliarti...»
Arthur si schiarì la voce con un leggero
colpo di tosse, ma non si mosse. Sentiva il respiro di Alfred contro
la sua nuca, e andava lentamente calmandosi.
«Non mi hai
svegliato.»
Alfred annuì. Non era più molto stanco, i rumori
della notte era bastati a svegliarlo abbastanza da farlo rimanere con
gli occhi sbarrati a fissare la sagoma della testa di Arthur e della
sue spalle appuntite davanti a lui. Così da vicino la sua
figura
sembrava meno austera e antipatica di quanto in realtà non
fosse, o
forse era soltanto un'impressione dovuta al fatto che non lo stesse
guardando in faccia.
«Perché dormi qui se hai paura del
buio?»
C'erano tante cose che Alfred avrebbe potuto rispondergli,
sempre che avesse voluto rispondergli, poteva raccontargli che di
notte qualche ladro era solito entrare nelle abitazioni isolate, e
anche in quelle semi distrutte, in quel caso, e rubare quel poco che
trovava, che temeva che un temporale distruggesse quello che era
riuscito a riportare in vita a costo di tanto tempo, di tanto denaro
e fatica. Insomma, una bugia qualunque. E invece Alfred rimase in
silenzio, ed emise un sospiro caldo che però fece drizzare i
capelli
sulla nuca di Arthur, infine parlò.
«Se voglio essere
indipendente, devo essere forte», disse a bassa voce,
«E se voglio
essere forte devo affrontare quello che ho davanti e cercare di
andare incontro al mio destino. Non so se tu riesci a capirlo... Ma
ho bisogno della forza necessaria ad affrontare la mia strada e il
mio futuro.»
Probabilmente le parole di Alfred non furono proprio
le stesse, ma Arthur le registrò così. Senza
fronzoli, senza giri
di parole, era il suo pensiero sulla vita, un pensiero comune a molti
che però aveva dimostrato in un momento che Alfred era
qualcosa di
più di un cameriere analfabeta.
Chiuse gli occhi e tenne a mente
quella frase, e l'ingenuità con cui Alfred la
pronunciò. Arthur non
poteva mai immaginare che quelle stesse parole, un giorno, gli
avrebbero cambiato la vita.
Forse
aggiorno troppo lentamente, dovrei darmi una regolata!
Il problema
non è scrivere, ma riuscire ad aprire internet ^^;;;;
Infatti ho già
molti capitoli pronti, tra cui anche il primo di una nuova
long-fiction. :D
Beh, qui allora chiudo e ringrazio Frances,
smary, ichibanme_arisu, ran45, smoke_o, s_theinsanequeen, AlterNeko e
eithriadol__
per le loro
recensioni. <:
Ps: devo ancora ultimare la trama e sono
indecisa se inserire anche Francis. Voi che ne dite?
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