Quando
Arthur Kirkland aveva visto per l'ultima volta l'America, da una di
quelle barche enormi che solcavano l'Atlantico, poi l'aveva ricordata
verde, sovrastata da un cielo limpido, qualche nuvola sparsa e anche
piuttosto sporadica e i gabbiani. Era tornato in Inghilterra nel 1923
aveva continuato con i suoi studi, piacevolmente sorpreso che,
nonostante avesse passato una decina di anni in un altro continente,
tutto fosse ancora al proprio posto – beh, a parte suo
fratello
Peter che si era praticamente impossessato della sua camera da letto,
quella più grande.
E alla fine tutto era andato come doveva
andare. La laurea, la famiglia... E si era perfino innamorato di una
canzone uscita nel '18 e chiamata “Over There”.
Proprio perché
la sua vita sembrava perfetta si era spinto di nuovo così
lontano,
fino a sfidare di nuovo il mare e a tornare nel nuovo continente,
convinto che i suoi sacrifici sarebbero stati premiati, in barba a chi
non aveva mai creduto il lui!
Eppure l'America non era affatto
come lui la ricordava. E al posto degli alberi, ad una distanza di
appena cinque anni, erano apparse le prime ciminiere, al posto dei
gabbiani c'erano aloni di fumo grigiastro e il mare sulle coste non
era più abbastanza limpido da distinguere con chiarezza ogni
singolo
sassolino – oppure era la sua vista che stava peggiorando,
alle
soglie dei trent'anni.
Nonostante ciò, Arthur Kirkland restava
convinto che ci fosse un angolo di America (il suo
angolo di
America) che non era cambiato di una virgola. Era riuscito a sentirlo
a pelle, quando aveva poggiato la testa sul finestrino del suo vagone
di seconda classe e aveva chiuso gli occhi, fingendo che stesse
attraversando per l'ennesima volta la sua bella Cornovaglia.
E in
effetti quando aveva varcato la porta di legno della locanda si era
reso conto che almeno lì nulla era cambiato. Che il bancone
era
ancora scheggiato sulla sinistra, vicino al muro, che i tavoli di
legno puzzavano un po' di muffa, il pavimento era scuro e qualche
asse scricchiolava e il proprietario non era cambiato di una virgola,
se si ignoravano i primi capelli bianchi.
Era nel cuore dell'Iowa
che Arthur aveva trovato la sua seconda casa, alla quale lentamente
si era affezionato e della quale inevitabilmente sentiva la mancanza
ogni qual volta tornava a Londra. Nel cuore dell'Iowa aveva trovato i
primi amici, erano nati i primi legati e era rimasto un pezzo della
sua vita. Tra i fiumi e i boschi che li costeggiavano, sulla riva del
lago e nella casetta di legno abbandonata, su quella barchetta
malmessa che usava per andare a pesca, per le strade, tra i
muri.
Poggiò la valigia su una delle panche che stavano addossate
al muro e si sedette lì accanto, inspirando a fondo un odore
familiare e chiudendo gli occhi. Tra qualche minuto avrebbe
assolutamente dovuto trovare un telefono pubblico – e quindi
elemosinare qualche monetina da uno sconosciuto – pur di
parlare
con sua madre, così ansiosa e con quel terrore che suo
figlio
finisse sul fondo dell'oceano durante uno dei suoi viaggi. E adesso
che ci pensava sarebbe stato un bene anche parlare con Peter e
chiedergli con esattezza quale stupido giocattolo americano voleva
che gli portasse, dato che l'ultima volta che era tornato a casa con
un regalo per suo fratello era stato ricoperto dagli insulti,
perché
i soldatini poteva benissimo comprarseli in Inghilterra.
Ah, e
ovviamente aveva bisogno di un posto in cui restare, e non era troppo
sicuro che la locanda, ormai, rispettasse almeno la metà
delle norme
igieniche. Con un po' di fortuna si sarebbe preso soltanto le
piattole. Visto lo strato di polvere che c'era su quel tavolo e la
sporcizia del pavimento, non osava immaginare in quali disumane
condizioni giacesse abbandonato il bagno. Non aveva nemmeno
intenzione di scoprirlo ora, quindi accavallò le gambe e
cercò di
imporre un minimo di autocontrollo perfino alla sua
vescica.
Nonostante ciò era veramente felice di trovarsi
lì, nel
posto in cui aveva scelto di continuare a vivere. Lui amava
l'Inghilterra, eppure c'era una parte del suo cuore che, quando
tornava sulla sua isola e riabbracciava i suoi cari, restava
oltreoceano, nel paesino più sperduto della contea
più sperduta
dell'Iowa. Insomma, uno di quei posti dove il numero di capi di
bestiame supera di almeno sei volte quello della popolazione, dove un
vero uomo indossa un capello da cowboy dall'età di cinque
anni –
se hai fortuna tua zia te ne regala uno addirittura quando ne hai
quattro - e dove tutti conoscono tutti e con ogni
probabilità mezzo
paese sapeva già che il ragazzo di Londra era tornato.
Magari
qualcuno era appena uscito con la sua vecchia e rumorosa automobile.
Lo aveva detto al ragazzo dei giornali, che lo aveva detto alla
signora all'angolo della strada, che lo aveva detto alla vicina. E
così, di casa in casa, la notizia si era sparsa come
succedeva a
tutte quante le altre.
Il nome di Arthur Kirkland era volato sulla
bocca di una dozzina di persone, magari qualcuno lo aveva storpiato,
qualcuno addirittura dimenticato. Ma in un modo o nell'altro, nel
giro di un paio d'ore tutti avrebbero saputo che lui era tornato in
America e che stava per ordinare una birra alla vecchia locanda che
c'era vicino la stazione.
«Ehi amico, hai intenzione di rimanere
lì impalato ancora a lungo?»
Arthur aprì un solo occhio e
rivolse uno sguardo al suo interlocutore. Davanti a lui c'era un
ragazzo che arrivava a malapena ai vent'anni, capelli biondi come il
grano agitato dal vento e occhi azzurri come l'oceano, un grembiule
nero e un po' sgualcito e una maglietta vagamente scolorita che
portava il nome di qualche squadra di baseball. Era alto almeno
quindici centimetri più di lui e largo almeno il doppio,
portava gli
occhiali da vista e Arthur si accorse che lo adesso però lo
stava
fissando.
«Non ero impalato, amico, stavo
aspettando un
cameriere», gli rispose, cercando di riunire in un'unica
frase tutta
l'acidità di cui fosse capace.
L'ultima volta che era stato lì
il cameriere era un uomo sulla sessantina, che oltretutto aveva
problemi di udito e questo ti costringeva a ripetere il tuo ordine
per almeno tre volte, se ti andava bene. E ogni volta dovevi usare un
tono di voce più alto e più acuto della volta
precedente. Arthur
non ricordava affatto quel ragazzone, invece. Molto probabilmente il
cameriere che gli stava davanti ora all'epoca era uno di quei ragazzi
che giocavano ad inseguirsi dietro la locanda, e che ogni tanto
potevi vedere correre oltre il vetro opaco della finestra.
«Sta
di fatto che ne stavi lì immobile... Che ne so, magari
già te lo
sei scordato. Com'è che si chiama? Ah, giusto, demenza
senile.»
I
muscoli della sua fronte si corrugarono quasi involontariamente,
Arthur non riuscì a spiegarsi per quale assurdo motivo un
totale
sconosciuto gli stesse dando del vecchio – tra l'altro senza
avere
un motivo preciso. Non sembrava abitudine di quel ragazzo chiedersi
se un uomo appena arrivato con una valigia pressapoco enorme fosse
stanco, probabilmente non aveva perso nemmeno tempo a far caso a quei
piccoli particolari.
Arthur lo squadrò di nuovo, sul suo petto
c'era appiccicato un pezzo di carta stropicciato e ingiallito e sopra
c'era scarabocchiato un “Alfred”, in cui la
“L” era veramente
troppo grande e in cui la “D” era stata storpiata
perché
evidentemente quel foglio minuscolo non era abbastanza grande nemmeno
per un nome così breve.
«Senti... Alfred, non so che
problemi tu abbia, ma mi piacerebbe ordinare e andarmene. Quindi
spicciati e fa' il tuo lavoro. E magari evita di aprire bocca se non
per darle aria.»
L'espressione di Alfred oscillava tra il confuso
e lo scioccato. Abbassò il mento, si guardò il
petto e poi la sua
attenzione tornò a concentrarsi su Arthur.
«Ehi inglesino, come
fai a sapere il mio nome? Sei un agente segreto o cosa?»
Più il
tempo passava, più si rendeva conto di quanto la popolazione
americana fosse tendenzialmente stupida. Per quanto amasse la loro
terra, Arthur non impazziva particolarmente per chi la popolava,
anzi. Preferiva le sue passeggiate solitarie o le conversazioni che
non si spingevano oltre il “ciao”.
«È scritto lì. Che c'è,
non sai leggere?»
Alfred analizzò per un attimo la targhetta che
aveva sul petto, dopo di che scoppiò in una risata forse un
po'
troppo acuta e forse un po' troppo rumorosa per i suoi
gusti.
«Ahahahah, giusto, me ne ero completamente dimenticato.
Alfred F. Jones!», disse, e mentre leggeva sottolineava con
il dito
ogni lettera del suo nome.
«Veramente io leggo solo Alfred.»
Il
cameriere sembrò rimanere spiazzato, ed effettivamente la
sua
posizione non era migliorata, ma peggiorata, se possibile. Era palese
che Alfred non sapesse leggere, e per quanto Arthur volesse provare a
farglielo pesare, sapeva esattamente che in quella zona dell'America
e in particolare in quella contea non poteva pretendere di poter
parlare con qualche intellettuale che coltivava granturco nel part
time.
Il ragazzo aveva poggiato i suoi occhiali da vista sul
tavolo, le lenti erano un po' appannate e la montatura non era
perfettamente dritta, e staccò il pezzo di carta dal petto.
Molto
probabilmente adesso avrebbe cercato di far credere ad Arthur che lui
sapeva leggere alla perfezione e che quella gaffe era stata dovuta
solo e soltanto ad un paio di vecchi occhiali mezzi rotti.
«Senti,
Alfred, non preoccuparti e portami una birra», lo
liquidò, prima
che lui potesse ribattere qualcosa.
Perfino il mulino che
c'era sulla sponda est del fiume non era cambiato, forse le pale
erano un po' consumate dal tempo e forse le ragnatele erano
aumentate. Però la struttura era ancora quella, con il suo
tetto
cigolante e le travi spezzate, i nidi degli uccelli nascosti in ogni
punto disponibile e le oche che poltrivano sulla riva. Era un quadro
pressoché magico e Arthur lo aveva sempre adorato quando,
qualche
anno prima, risaliva il fiume fino ad arrivare a quel lago che
ghiacciava d'inverno e che rimpiccioliva durante l'estate.
Lì c'era
una vecchia casa di legno abbandonata, di quelle che sembravano
abitate dal fantasma del lago o da qualche poltergeist, un vecchio
villino affiancato ad una stalla mezza diroccata.
La casa sul lago
era il posto che Arthur amava di più dopo il mulino e la
locanda,
era il posto in cui si rifugiava dal mondo esterno e dimenticava
perfino l'Inghilterra. Arthur risaliva il fiume col suo bastone da
passeggio e una borsa di pelle nera e lisa, andava a sedersi sui
gradini mangiati dai tarli della vecchia casa di legno, li sentiva
scricchiolare e parlargli, e lì scriveva i suoi racconti.
Erano
storie di principi, di maghi e streghe malvagie, storie che non
avevano mai un fine, perché inevitabilmente il giorno della
partenza
arrivava e Arthur si ritrovava costretto a chiudere i suoi quaderni e
a lasciarsi alle spalle quel posto segreto.
Quel giorno ricordò
di aver portato un sacco di quaderni, tonnellate di inchiostro
accuratamente sistemato in valigia e dentro sé l'intenzione
di
trovare qualcosa che lo costringesse a restare, perché per
quanto
l'Inghilterra potesse mancargli, Arthur era sicuro che in
realtà il
suo posto era lì. Magari avrebbe trovato un sentiero comodo
per
collegare la vecchia casa al mulino, magari sarebbe riuscito a farla
ristrutturare, avrebbe avuto un giardino e la stalla sarebbe stata
riparata, per vivere sulla sponda del lago che ghiacciava
d'inverno.
E probabilmente prima di fare programmi per l'avvenire,
Arthur avrebbe dovuto passare a dove pernottare –
perché non
voleva prendersi le piattole alla locanda, ma non voleva nemmeno
trascorrere la notte all'agghiaccio e rischiare di non arrivare vivo
alla mattina successiva.
Chiese informazioni ad un paio di
persone, di cui un uomo che non sembrò nemmeno capire la sua
domanda
e lo accusò di avere un accento inglese troppo forte. Gli
bastò
un'ora per trovare una specie di albergo dall'aria un po' vissuta, in
cui scoprì presto che la proprietaria, la cameriera, la
donna delle
pulizie e la portinaia fossero la stessa persona, una donna sulla
sessantina con i capelli che sfumavano dal bianco ad un rossiccio
chiaro, la circonferenza abbastanza estesa ed un sorriso cordiale,
oltre ad una stretta di mano che gli aveva quasi spezzato le ossa.
La
sua stanza affacciava sulla strada principale, proprio come a Londra,
ma il profondo abisso che c'era tra l'Iowa e la sua città
natale lo
fece sorridere. A Londra le auto erano arrivate già da
qualche anno,
i più ricchi della città ne avevano addirittura
due, suo padre ad
esempio aveva una Rolls Royce verde bottiglia, che usava per andare
ai suoi incontri di lavoro o per portarli al mare qualche fine
settimana. Sua madre adorava quell'auto, restare con il finestrino
aperto e respirare l'aria pura che c'era fuori città. Suo
fratello
invece la odiava, dato che non poteva muoversi liberamente o alzarsi
come poteva fare in treno. Nemmeno a lui quell'automobile piaceva
granché, aveva sempre preferito stare all'aria aperta, come
quando
andava a far visita a suo nonno e camminava in sua compagnia per ore
ed ore, ascoltando decine di storie sui corsari della regina
Elisabetta, le avventure di Francis Drake e della sua ciurma, oppure,
di sera, storie che parlavano di uova di drago, di terre incantate e
di antichi sortilegi.
Lì nell'Iowa le automobili non erano così
tante. Per l'esattezza, da quando era arrivato, ne aveva vista
soltanto una, parcheggiata (o forse abbandonata) fuori dalla locanda.
Una Bour Davis del 1921 che doveva aver avuto la sua storia e che ora
era ridotta ad un ammasso di rottami che avrebbe funzionato a
malapena.
Appena un'ora dopo qualcuno bussò alla sua porta.
Arthur salutò la padrona dell'albergo che reggeva tra le
mani un
vassoio di legno con il quale portava una tazzina traballante e
scheggiata sul manico. Ah, il suo accento inglese qualche volta aveva
un vantaggio, la donna doveva aver capito immediatamente da dove
provenisse e si era premurata di procurargli del tè. Non gli
servì
altro, la donna gli disse di lasciare la tazza sul comodino, ci
avrebbe pensato lei poi a prenderla e a lavarla e Arthur ne
approfittò per farsi una doccia e sistemare la sua roba. Era
arrivato più o meno poco dopo l'ora di pranzo, se aveva
fortuna e se
si dava una mossa forse sarebbero riuscito ad arrivare alla vecchia
casa di legno prima che facesse buio. Aveva voglia di salutare di
nuovo quei luoghi e vedere se fossero cambiati o meno, se la stalla
fosse già crollata o se fosse riuscita a superare con
discreto
successo tutti quegli inverni, se il lago, ora che la primavera
cominciava a farsi strada, fosse ancora mezzo gelato oppure
no.
L'acqua della doccia era talmente fredda da costringerlo a
saltare in continuazione e ad uscire con una velocità
fulminea per
avvolgersi nell'asciugamano bianco che stava poggiato su uno
sgabello, anche mentre lavava via la schiuma da barba dal viso
rischiò di congelarsi le mani e di restare con le dita
rigide e
serrate attorno alla manopola del lavandino.
Indossò un maglione
spesso e un paio di pantaloni scuri, prese la giacca ed il cappello e
scese velocemente le scale. Era impaziente di rivedere la vecchia
casa.
La strada era quasi deserta, fatta eccezione per un gruppo
di ragazzini che inseguivano un pallone rattoppato, riempiendo la via
di urla concitate e di risate allegre. Erano circa le cinque del
pomeriggio, e la donna dell'albergo gli aveva raccomandato di
ritornare entro un paio d'ore al massimo, se non voleva che la sua
cena si freddasse. Arthur non aveva fretta, in fin dei conti avrebbe
potuto mangiare fuori almeno per quella sera – aveva
abbastanza
soldi con sé, la maggior parte dei quali erano stati un
regalo di
uno zio scozzese, ed era comunque certo che mangiare in qualche
ristorante della zona (sempre se ce n'erano) non sarebbe stato un
problema.
Stava percorrendo la stessa strada di prima, ma ora che
la sua valigia era chiusa nella stanza, poteva concentrare la sua
attenzione sul paesaggio, sul sentiero che mano a mano che si
allontanava dal centro del paese diventava più stretto e
più
tortuoso, su come le salite fossero metro dopo metro leggermente
più
ripide, su come i raggi inclinati del sole colpissero in pieno la
vegetazione che c'era lì vicino, rendendola di una tinta
giallo
ambra.
Le pale del mulino erano immobili, soltanto qualche ramo
oscillava con il vento. Arthur ascoltava il rumore dell'acqua che
scorreva lentamente, le anatre che starnazzavano sopra la sua testa e
nel fiume.
Continuò a camminare per una buona mezz'ora, mentre i
piedi cominciavano a far male perché i suoi mocassini nuovi
di zecca
erano veramente inadatti a quel genere di passeggiate. Arthur
ignorò
completamente i lamenti dei suoi piedi che lo supplicavano di
fermarsi sotto la quercia, e sedersi sulle radici che sporgevano dal
terreno creando disegni fatti di nodi di legno, o su quel sasso
ricoperto in buona parte dal muschio umidiccio, altrimenti andava
bene anche il praticello verde, l'importante era riposarsi.
Ma se
non voleva tornare con la notte e rischiare di spezzarsi l'osso del
collo mentre percorreva nella direzione opposta quel sentiero ripido,
doveva darsi una mossa e sopportare. Arthur tirò il cappello
sulla
testa, cercando di coprirsi le orecchie, fortunatamente c'era ancora
abbastanza luce, e il sole emanava ancora abbastanza raggi da
concedergli almeno un po' del suo calore quando non si trovava
all'ombra di qualche albero.
Quando si rese conto che il paese
era ormai lontano, e che era passata circa un'ora da quando aveva
intravisto per l'ultima volta il mulino che spariva tra le fronde,
Arthur sorrise e pensò tra sé e sé che
c'era quasi, magari tra
trecento metri l'avrebbe vista, la vecchia casa di legno che era
stata costruita vicino al lago, che molto probabilmente era ancora
piena di rampicanti. Forse qualche muro aveva ceduto, oppure si erano
frantumati i vetri di un altro paio di finestre.
Mentre era a
Londra aveva pensato spesso su cosa potesse essere accaduto a quella
casa. Dal giorno in cui aveva sentito suo padre parlare della seconda
rivoluzione industriale, che Arthur non aveva vissuto di persona,
aveva cominciato a temere il peggio. Nel cuore delle città
inglesi
un paradiso simile a quello sarebbe stato presto trasformato in un
grande magazzino, nella migliore delle ipotesi sarebbe diventato la
pista di atterraggio per i voli mattutini della RAF. La stessa
così
si sarebbe verificata nel New England, ma magari l'Iowa era ancora al
sicuro – sempre che a quegli americani megalomani non fosse
saltata
in testa l'idea di costruire una specie di centrale segreta
nell'unico posto che valeva la pena vedere – e comunque
Arthur non
era mai stato fortunato, quindi temeva anche l'opzione che un
meteorite fosse caduto dritto sulla vecchia casa di legno, lasciando
illeso tutto il resto.
Arthur sollevò il mento, adesso poteva
guardare l'inizio della radura che costeggiava il lago.
Accelerò il
passo, rischiando di inciampare in qualche arbusto, tanta era la
voglia di trovarsi ancora al centro di quel luogo. Saltò un
sasso,
scavalcò un cespuglio verde, e poi lo vide.
Una
nuova long-fic, che posto mentre completo gli aggiornamenti delle
altre due.
Spero vi piaccia, perché ho avuto miliardi di dubbi
mentre la scrivevo. ;___;”
Vorrei dedicarlo a Vasino, dato che
mi sono resa conto di non averle mai dedicato nulla. ;_; E quindi
questa FanFiction è per lei, che è sempre troppo
gentile con me,
vagamente stronza, ma quella è un'altra storia.
Ti voglio bene,
caccapupù<3
Al prossimo aggiornamento<3