No, thank you

di Shichan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Promesse ***
Capitolo 2: *** Parole ***
Capitolo 3: *** Dicotomia ***



Capitolo 1
*** Promesse ***


Disclaimer: i personaggi appartengono ad Amano-sensei

Disclaimer: i personaggi appartengono ad Amano-sensei.

Prompt: 15.Desiring promises is an innocent, child-like frailty. I’ve already long since… graduated from that. (Tabella)

Note: mini raccolta che sarà formata da tre oneshot. Una G/Giotto, una Cavallone Primo/Alaude e una Mukuro/Tsuna. Se in quest'ordine o meno non lo so nemmeno io x°

Non sono certa di essere riuscita ad esprimere il messaggio che volevo far arrivare e che è al centro di questa shot, ossia la parte dei sentimenti di G e il motivo del suo gesto rivelato nelle ultime righe. Io ci spero *perplessa*

Dedica: mi rendo conto che non sia esattamente l'apoteosi della gioia natalizia x° in ogni caso, dedicata alle mie amanti delle varie coppie preferite <3 Yoko891, LitaChan, CriminalDanage, pralinedetective e Gioielle.

E a chiunque vorrà leggere, ovviamente <3

 

 

Promesse

 

 

Desiderare promesse,

è un'innocente fragilità da bambini.

È passato molto tempo da quando...

sono cresciuto per cose come questa.

 

 

Se c'era una cosa che Hayato si era ripromesso, era di diventare un uomo che avrebbe potuto non solo stare al fianco del Decimo con orgoglio, ma che con altrettanto orgoglio avrebbe potuto un giorno presentarsi a testa alta di fronte a quel Guardiano della Prima Generazione.

Gli avrebbe dimostrato che era in grado di diventare un braccio destro impeccabile e sì, persino migliore di lui. Non aveva completamente accettatto – questione di indole, probabilmente – le parole dell'altro durante il suo esame per ereditarne la posizione, o il potere, o quello che accidenti era.

E, sebbene la prova si fosse ormai conclusa con un giudizio positivo, Hayato non aveva dimenticato le parole che avevano preceduto quel verdetto.

Totale, completa inadeguatezza: ecco cosa ne era trasparso.

E per quello stesso motivo, di certo Hayato non si era aspettato che – aprendo la porta del suo appartamento dopo aver salutato il Decimo quella sera – si sarebbe ritrovato qualcun altro all'interno.

Se poi proprio avesse dovuto indovinare chi, di certo avere come ospite il Guardiano della Tempesta della Prima Generazione non era il suo desiderio più intimo.

Ma proprio no.

Si accigliò infatti non appena ne riconobbe la figura; fermo sulla soglia, entrò in un secondo momento con un impercettibile: «Tch.» scocciato, al quale – ma non poté vederlo – G sogghignò leggermente, divertito.

Senza una parola, si era mosso per entrare in casa come se l'altro non fosse nemmeno stato presente: si era diretto in cucina, aprendo un paio di sportelli per recuperare qualcosa di semplice e veloce da cucinare.

Ma Gokudera Hayato non era esattamente tipo da lasciarsi osservare senza dare di matto.

Non ci volle granché, quindi, perché si voltasse stizzito verso l'altro Guardiano che pareva essersi accomodato con tutta calma come se fosse casa sua, e non quella del suo successore.

«Che vuoi?» chiese brusco, senza tanti complimenti, guardandolo truce.

G non parve esserne particolarmente toccato, e si limitò inizialmente ad osservarlo, cosa che probabilmente ebbe l'effetto contrario su Hayato.

«Tch, fai un po' come ti pare, ma smettila di guardare da questa parte.»

«Cos'è, ansia da prestazione, moccioso?» ribatté maliziosamente sarcastico l'altro, fissandolo con gli occhi carmini; Gokudera si imbronciò, forse imbarazzato o forse – semplicemente – seccato.

«Cos'è, non hai di meglio da fare in quanto spirito? O nell'anello ti annoi?» lo sfotté neanche G fosse il genio della lampada magica di una di quelle favole che si leggono da bambini.

Nonostante le spalle, G non rispose né lo riprese e Hayato non trovò di certo nulla da dirgli, continuando a prepararsi la cena.

Quando ebbe finito, aveva già ampiamente deciso di ignorare la presenza dell'altro salvo complicazioni, o che G si degnasse di dirgli cosa diamine voleva da lui.

Aveva cenato sul divano, la televisione accesa su un canale casuale e tenuta non troppo alta, quanto bastava ad essere udibile.

Ogni tanto, però, lanciava al Guardiano più anziano qualche occhiata sfuggente, veloce; non aveva alcuna intenzione di fare conversazione con l'altro, ma a meno che non avessero dimenticato di dirgli che riconosciuta la successione il vecchio Guardiano ti invadeva casa, qualcosa decisamente non quadrava.

«Quando hai finito di vedere porcherie e perdere tempo sul divano, fammi un cenno, moccioso.» commentò G all'improvviso e solo allora Gokudera notò che aveva fra le mani un libro, preso chissà quando ma indiscutibilmente dalla sua libreria – Teoria della Fisica, dubitava che esistesse ai tempi dell'altro a dirla tutta.

«Non sono io ad essermi infilato in casa d'altri senza un perché, pseudo antenato.» rispose sarcastico, lo sguardo ancora sullo schermo senza però interessarsi davvero a cosa vedeva; fu il turno di G di osservarlo con la coda dell'occhio, non direttamente.

Sospirò quindi, lentamente e profondamente.

Hayato spense con un gesto secco la tv, voltandosi verso l'altro pur rimanendo seduto sul divano.

«Allora» sbottò: «cosa vuoi? Di nuovo una predica? Ci hai ripensato sulla successione? O stai per dirmi che avendo ereditato il diritto ad essere tuo successore ora sarai il mio mentore per i prossimi dieci anni?»

«Non sono arrivato a questo livello di masochismo, moccioso.»

«Credessi in Dio, lo starei ringraziando per avermi risparmiato dieci anni di convivenza con te, sappilo.» rimbeccò Hayato, senza mutare espressione o nascondere una sfumatura di ostilità nei confronti dell'altro.

«Ora che hai finito di agitarti come una ragazzina in crisi mestruale possiamo parlare?»

«In che cosa?!» sbottò Hayato alzando la voce e sporgendosi inconsciamente in avanti con fare attacca brighe.

«Cosa credi? Che ai miei tempi i bambini li coltivassimo nei campi, mocciosetto?» ironizzò l'altro, il ghigno strafottente ad incurvargli le labbra.

Hayato digrignò i denti, fissandolo truce, ma con un sospiro seccato assunse un'espressione che – a suo avviso – doveva essere ben disposta: non aveva alcuna intenzione di farsi riprendere nuovamente o di sentirsi dire che era un povero bamboccio immaturo.

Incrociò le braccia al petto, scettico, focalizzando l'attenzione completamente su G e rimanendo in attesa di questa fantomatica chiacchierata cui l'altro aveva accennato.

Il Guardiano della Prima Generazione parve cogliere quel cambiamento seppur minimo nel suo successore, perché lasciò sfumare il ghigno, mutando l'espressione in una particolarmente seria.

«C'è qualcosa riguardo l'eredità che ora hai fra le mani che dovresti sapere.» pronunciò, apparentemente senza girarci intorno.

Hayato si fece più attento: «C'è qualcosa che non hai detto alla fine della tua prova?» incalzò anche lui senza tergiversare.

«Non era una cosa che potessi dirti di fronte al Decimo.» spiegò brevemente l'altro, studiandone le reazioni in virtù dall'attenzione che stava rivolgendo alla gestualità e ai cambi di espressione del Guardiano più giovane.

Hayato tacque, un cenno leggero del capo come a dirgli di proseguire; il fatto, però, che fosse qualcosa di cui il Decimo dovesse presumibilmente rimanere all'oscuro non gli faceva esattamente assumere un atteggiamento ottimista. Non era stato proprio G, a parlare di un rapporto di completa fiducia indispensabile perché lui potesse davvero aspirare a divenire non solo il legittimo Guardiano della Tempesta ma anche il braccio destro del Boss?

La cosa non quadrava. Non quadrava per niente.

«Hai detto di voler diventare il suo braccio destro. Sai cosa significa?» domandò l'altro, nel tono una nota quasi di derisione, come se stesse dicendo qualcosa che reputava completamente insensata. Come se, a suo avviso, Gokudera si fosse riempito la bocca di parole di cui non conosceva davvero il significato, come un bambino che ripete quello che sente dagli adulti senza nemmeno porsi il problema di cosa stia effettivamente dicendo.

La cosa lo innervosì; se G era venuto per ribadirgli quanto lo reputasse attualmente un ragazzino inadatto, non era proprio aria.

«Qualsiasi risposta ti darò sarà comunque quella sbagliata, no?» sbottò irritato il più giovane.

G tacque, quasi si fosse aspettato qualcosa di diverso da quella domanda retorica da parte dell'altro. Tuttavia non fece né un commento sarcastico, né qualcosa del genere.

Ma nemmeno si alzò, dandogli le spalle e accusandolo di immaturità – di nuovo – usandola come scusa per andare via, e rimandare quello che ad Hayato dava sempre più la sensazione di un discorso scomodo.

Al contrario, G si lasciò sfuggire un sospiro leggero, ma percettibile.

«Tu potresti non riuscire ad essere fedele al tuo dovere fino alla fine.»

 

 

Era rientrato da una missione, e la prima cosa che aveva fatto – com'era suo dovere, d'altronde – era stato dirigersi nell'ufficio del Boss per fare rapporto il più presto possibile.

Aveva bussato alla porta, ricevendo quasi nell'immediato il permesso per entrare; aveva socchiuso la porta quanto bastava ad oltrepassare la soglia e, dopo essersela richiusa alle spalle, la prima cosa che era rientrata nel suo campo visivo era stata la figura di Giotto.

Seduto dietro la scrivania, i gomiti poggiati sopra di essa e le mani intrecciate fra loro a nascondere parte del volto, il biondo gli aveva rivolto il solito sguardo gentile con cui accoglieva ognuno dei suoi Guardiani.

G si mosse in avanti, raggiungendolo dall'altro lato della scrivania.

«Bentornato, G.» lo salutò, il sorriso affabile.

G annuì meccanicamente, rispondendo con un: «Grazie Boss.» molto professionale, al quale Giotto – complice l'assenza di altre persone nella stanza – sospirò con un sorriso leggero e rassegnato.

Tuttavia, il suo essere testardo e pignolo anche nelle cose che non richiedevano tanta importanza, lo portò ad aggiungere quello che ormai era divenuto un richiamo quasi di prassi con il Guardiano della Tempesta.

«Sei freddo come al solito, G.» gli fece notare, un po' canzonatorio e un po' per ripicca forse. G, sospirando a sua volta rassegnato – ormai se lo aspettava sempre, quella sorta di rimprovero da parte del suo presunto “capo” - poteva quasi scommettere che nascosto dalle mani ancora intrecciate fra loro, ci fosse un broncio appena accennato.

«È deformazione professionale.» ribatté in sua difesa, senza trattenere un incurvarsi di labbra divertito nel pronunciare quelle parole. Giotto non replicò oltre, visto che quando lo aveva fatto si era rivelato inutile, e lo incalzò invece a dare voce al rapporto che lo aveva condotto lì.

G riportò fedelmente le informazioni pervenute, parlando a ruota libera per dieci minuti buoni; alla fine, si limitò a tacere dopo un: «E questo è tutto.» a seguito del quale posò lo sguardo sul biondo, quasi in attesa.

Giotto aveva ascoltato con estrema attenzione ogni sua parola, senza assumere espressioni particolari per tutto il tempo e lo stesso fece anche quando G tacque.

Il Guardiano rispettò quel silenzio, almeno fino a quando non iniziò a pesare nella stanza: Giotto non era una persona frettolosa, al contrario ponderava sempre in maniera piuttosto seria su ogni questione che richiedesse il suo giudizio. Tuttavia, era stata proprio la sua precisa capacità di analisi che lo aveva contraddistinto al capo dei Vongola nonostante la sua giovane età.

Tra l'altro, in quel caso si trattava di una questione più logistica che non prettamente tattica o che richiedesse un'azione particolarmente articolata.

«Boss?» lo richiamò, quasi ad incalzarlo, lo sguardo che ora non si limitava ad osservarlo in attesa ma a studiarlo.

Giotto socchiuse gli occhi, poggiandosi allo schienale della sedia e rilassandovisi contro, senza rispondere nell'immediato; si prese anzi il suo tempo, fissando un punto casuale della stanza oltre la spalla di G.

Il Guardiano iniziava a credere di doversi preoccupare, quando il biondo prese parola.

«G, sono stanco. Ti andrebbe una tazza di the?» domandò, per nulla pertinente a tutto ciò cui il Guardiano si era riferito fino a poco prima. Questi, perplesso, alzò un sopracciglio nel rivolgergli un'occhiata confusa.

«Non stai bene?» chiese, lasciando cadere le formalità che con Giotto non erano certo necessarie, almeno quando erano soli – e in realtà tutti i Guardiani erano a conoscenza almeno del fatto che i due fossero amici d'infanzia.

Vide Giotto sorridere in quel modo gentile che utilizzava sempre per tranquillizzare le persone che gli stavano a cuore: «Solo stanchezza. Non sai che fatica, firmare documenti tutti il giorno.» scherzò su, alzandosi e aggirando la scrivania.

«Se vuoi del the posso prepararlo e portartelo.» gli fece notare G, ancora intento a studiarlo per capire cosa ci fosse a stonare questa volta – perché sì, c'era qualcosa e su quello non aveva alcun dubbio.

Il biondo tuttavia non fece altro se non allargare impercettibilmente quello stesso sorriso, muovendosi fino ad oltrepassare l'altro dirigendosi verso la porta; G si voltò, seguendolo con lo sguardo, mentre Giotto si limitò a guardarlo da sopra la spalla ormai nei pressi dell'uscita.

«Ho voglia di uscire un po'. È tanto che non lo facciamo, no?» suggerì.

 

G lo aveva assecondato – era già difficile non farlo prima, ma ultimamente la cosa era divenuta improponibile. Era ormai certo di stare viziando Giotto, e di doverla anche piantare, ma puntualmente i suoi buoni propositi andavano a farsi benedire.

Erano usciti, in pieno inverno e con tanto di neve, con quel tempo che ti fa venire voglia di fare tutto tranne che di mettere il naso fuori dalla porta.

Giotto camminava silenziosamente al suo fianco, com'erano soliti fare tempo addietro quando il gruppo di vigilanza non era ancora nemmeno vagamente nei loro pensieri.

Avevano percorso la strada a quel modo da quando erano usciti, ad eccezione di qualche commento di Giotto sulla presenza della neve, e qualche risposta di poco rilievo da parte di G.

Erano quindi andati in un locale come ce ne erano tanti, mezzo vuoto per motivi ovvi quali il tempo da lupi, e si erano accomodati ad un tavolo anonimo; avevano ordinato semplicemente del the, per entrambi.

Giotto si era concentrato, fino all'arrivo delle loro ordinazioni, su discussioni di poco conto: pensava principalmente a cosa poter regalare ai suoi Guardiani con l'avvicinarsi del Natale – che il suo Boss avesse di questi pensieri non era una novità, senza considerare che il suo attaccamento alla Famiglia lo portava naturalmente ad occuparsi di cose simili.

E G non aveva avuto cuore di fargli notare che qualsiasi regalo avesse fatto gli unici ad accettarlo decentemente sarebbero stati Knuckle, lui e Asari – quest'ultimo era effettivamente il più dotato di qualcosa simile all'educazione.

Per il resto, era quasi ovvio che Lampo avrebbe comunque avuto qualcosa da ridire viziato com'era – solo Giotto poteva trovarlo infantilmente divertente, come lo definiva lui. G non avrebbe mai capito: lui quando Lampo apriva bocca aveva semplicemente voglia di affondargli una mano fra i capelli sulla nuca e fargli colpire ripetutamente il tavolo o il muro con la fronte. Possibilmente fino a causare uno svenimento, così taceva per un po'.

E non voleva essere nemmeno così infame da far notare a Giotto che no, Alaude non era una persona capace di pronunciare parole di commozione per un regalo e che – gli si fosse incenerito l'arco se non era vero – Daemon era un povero cerebroleso che non avrebbe fatto altro che sottolineare quanto il regalo fosse “inadatto”, “infantile”, “inappropriato” e simili. Ma anche aggettivi che non iniziavano per “i” sarebbero stati utilizzati con la stessa delicatezza che poteva avere lui quando imprecava.

E no, G era consapevole di non essere affatto delicato in quei frangenti.

«...non la trovi una buona idea, vero?» fu distratto dalle sue elucubrazioni mentali dalla voce di Giotto, che lo osservava nonostante la mano fosse impegnata a girare il the appena zuccherato con il cucchiaino.

G sospirò, l'espressione a metà fra l'imbronciato e lo scorbutico che in casi come quello assumeva.

«No, stavo solo dicendo a me stesso di non infrangere i tuoi sogni natalizi in cui noi Guardiani facciamo l'equivalente di un presepe vivente.» lo sfotté, ma bonariamente.

Tant'è che l'altro ridacchiò: «Come sei pessimista, G.» lo canzonò a sua volta «Ti vedrei perfettamente come mulo. Tanto sbuffi sempre di tuo. Tu il mulo e Alaude il bue?»

«Mi stai dando dell'asino, mio amato Boss?» commentò ironico, suscitando un sorriso divertito nel biondo.

«No, commentavo con ammirazione le tue doti interpretative. Potrei prendere sul serio questa proposta del presepe vivente.» aggiunse, guadagnandosi un'occhiata allucinata di G.

«...Accetterò di fare una cosa del genere quando Daemon accetterà di fare la parte dell'angelo dell'Annunciazione. Il che è presumibilmente fra almeno venti delle mie teoriche vite future.» concluse, esclissandosi nella sua tazza di the mentre Giotto faticava a non ridere di gusto – avrebbe riso chiunque ad immaginare Daemon Spade in quelle vesti.

Ci fu un silenzio fra i due che durò qualche minuto, in cui entrambi si limitarono a bere il proprio the.

Fu G ad interromperlo questa volta.

«Tu cosa vuoi?» se ne uscì senza un apparente filo logico, che probabilmente anche Giotto non riuscì ad individuare.

«Cosa?»

«Per Natale. Se mi fai un regalo, si suppone ne faccia io uno a te.» gli fece notare, sottolineando l'ovvio.

Giotto sorrise, ma quell'incurvarsi di labbra risultò a G familiare e sconosciuto al tempo stesso; era un tipo di espressione che non ricordava di aver mai scorto sul visto dell'altro.

«Posso chiedere qualsiasi cosa, G?» domandò, quasi infantilmente forse. Tuttavia G non se ne stupì in questo caso: di Giotto conosceva molti lati, forse tutti – o pochi meno – e altrettanti ne amava, sebbene non stesse a dirlo ogni minuto della giornata.

«Qualsiasi cosa.» affermò, correggendosi subito dopo: «Purché non sia diventare il migliore amico di alcuni soggetti di nostra comune conoscenza. Voglio farti un regalo, sì, ma per i miracoli natalizi non sono io l'addetto a compierli.» gli fece notare, sarcastico, ma fondamentalmente serio.

Ci aveva provato – con un Guardiano della Nebbia a caso – ma era stato evidente che proprio non poteva funzionare. Non senza lui che cercava di spaccargli la faccia, almeno.

Giotto ridacchiò, spostando lo sguardo fuori dalla finestra vicino alla quale sedevano: il gomito poggiato sul tavolo e la mano a fare da sostegno al volto, si prese qualche istante per pensarci.

«Andiamo via.» fu la risposta, che certamente nemmeno G poteva aspettarsi.

«...Andiamo via?» ripeté infatti.

«Sì.» riprese Giotto senza spostare lo sguardo dalla neve fuori: «Andiamo da qualche parte. Va bene un posto qualsiasi, ma un giorno andiamoci senza avvisare nessuno. Io e te, G. Magari quando possiamo allontanarci dalla Famiglia, mh?» chiarì il biondo, lasciando G ancora più perplesso.

Non era da Giotto provare il desiderio di lasciarsi la Famiglia alle spalle o il volersi allontanare da essa. Né, tanto meno, di fare qualcosa in segretezza degli altri Guardiani.

Fu per G istintivo allungare la mano e andare a sfiorare quella di Giotto, un po' perché quel contatto in quel momento gli sembrava necessario, un po' per attirarne l'attenzione su di sé.

Gli rivolse un'espressione seria e sincera: non la preoccupazione data dal suo ruolo di Guardiano, ma da quella di G per Giotto, di un amico per un amico, e di un amante per la persona amata.

«Sei strano da quando sono arrivato in ufficio. Cosa c'è che non va?» chiese, diretto ma non brusco come suo solito.

Giotto sorrise, ma G lo riconobbe, differentemente da prima: quello era il sorriso di quando il Boss dissimulava, e fingeva che fosse tutto perfetto – in un mondo in cui si uccideva un po' per non essere uccisi, un po' perché era l'unico modo errato con cui avevano deciso di vivere. Un mondo con cui Giotto non aveva a che fare, ma che si era plasmato addosso alla perfezione.

Se per un lato di crudeltà che nessuno avrebbe mai sospettato, o se per non permettere a quella stessa crudeltà di consumarlo fin dentro l'anima, questo G non lo aveva ancora chiaro.

«Cosa c'è, non posso voler passare del tempo con te senza che ci sia dietro un motivo così serio da preoccupare il mio braccio destro?» chiese con dolcezza, come a smentire le sue preoccupazioni.

G capì che Giotto stava mentendo.

E quando Giotto mentiva, nulla di quel che avrebbe detto gli avrebbe fatto pronunciare la verità.

Sospirò, spostando lo sguardo fuori.

«Chissà. Magari per Natale ti svegli nella stanza di un albergo che non conosci perché ti ho rapito e portato via durante la notte.» cambiò completamente discorso il Guardiano della Tempesta.

Non era un tacito accordo nel mentirsi.

Era solo un modo di proteggersi a vicenda.

E a vicenda, inconsapevolmente, si ferivano.

 

G aveva sempre avuto problemi a rapportarsi con alcuni dei Guardiani: questo non significava che ci fosse necessariamente odio fra loro, semplicemente avevano sempre avuto caratteri diversi e spesso con alcuni era entrato in conflitto.

Lampo era stato uno di quei casi; sebbene in fondo l'uno rispettasse l'altro nel ruolo che aveva, guardarli discutere era sempre stato come vedere due fratelli litigare sulle cose più stupide e prive d'importanza.

È il più giovane, gli aveva sempre ripetuto Giotto.

Come se Giotto non lo fosse, giovane. Come se tutti loro non fossero stati dei ragazzini quando avevano iniziato tutto quello.

«Come va?» sentì chiedere, il tono pacato di Asari che aveva riempito il silenzio della stanza.

G non si voltò, lo sguardo verso la finestra; seduto sul divanetto nell'ufficio che era stato di Giotto, nella penombra, non dava neanche segno di aver sentito l'altro entrare.

Asari avanzò comunque in sua direzione, fino a raggiungerlo: «Il viso, intendo.» aggiunse.

Era stata una scena a dir poco surreale, vedere Lampo alzare le mani su G per picchiarlo in pieno volto – sporcandosi le suddette mani, tra le altre cose – e riuscirvi senza che il Guardiano della Tempesta muovesse un solo dito per impedirglielo.

«Lampo è un ragazzino, ed era solo un pugno.» commentò di rimando, il tono piatto e alto quanto bastava a farsi sentire dal compagno. Asari sospirò impercettibilmente, lo sguardo sull'altro che non gli rivolgeva il proprio.

Si sedette al suo fianco, senza chiedergli il permesso, guardando di fronte a sé anziché fuori dalla finestra come G: «Ci sono cose che lui non potrà mai vedere tramite i tuoi occhi, G.» gli fece notare, con la pacatezza che era tipica di lui persino in situazioni simili.

Eppure lo sapeva, G, che Asari era così; sembrava che nemmeno la tempesta più grande potesse smuoverlo, ma dentro era come tutti loro.

Lentamente, si lasciava scivolare giù.

Solo, più silenziosamente degli altri.

«Nessuno gli ha chiesto di vedere nulla.» ribatté aspro, nonostante il tono di voce non si alzasse.

«Ma Lampo ha comunque visto qualcosa che lo ha smosso. E lo ha visto nel giorno del funerale della persona che per lui è stata amico, fratello e quasi una guida, oltre che un Boss da seguire.» gli fece presente, con gentilezza.

G parlava a bassa voce, quanto necessario per districare le parole da un rumore qualsiasi che potesse renderle incomprensibili, e agli occhi di Asari significava solo che il Guardiano della Tempesta stava per spezzarsi prima di tutti loro.

 

 

«...Perché me lo stai raccontando?» domandò Hayato, confuso, lo sguardo chiaro sul suo predecessore.

G aveva parlato senza mai essere interrotto dal più giovane, raccontando di un passato lontano a tal punto che Hayato non poteva provare a fare nulla più che immaginarlo.

Alzò lo sguardo sul giovane italiano, tacendo qualche istante prima di dargli una risposta: «Arriverà il momento in cui non sarai più in grado di essere il suo braccio destro.» sentenziò forse brusco, forse crudo.

Hayato non era fatto per cose come quella: lui non era fatto per sentirsi sbriciolare di nuovo il mondo sotto i piedi senza reagire male a parole come quelle.

«Non dire stronzate! Ho giurato di rimanere al fianco del Decimo per il resto della mia vita, e se mi stai raccontando questa storiella per spaventarmi e mettermi alla prova di nuovo, allora stai perdendo tempo!» sbraitò Hayato, senza trovare reazione nell'altro. Incrociò le braccia al petto, con fare seccato e saccente insieme.

«Tch, non confondere i tuoi fallimenti con quelli degli altri, sparando sentenze su cose che non– »

Fu interrotto, la mano di G che aveva colpito la sua spalla all'improvviso, portandovi dietro il peso del corpo e costringendo l'altro – preso di sorpresa – a sbilanciarsi indietro.

Gokudera strinse gli occhi in una smorfia dolorante, la testa che nel movimento aveva urtato il bracciolo del divano su cui sedevano. Quando li riaprì, il suo sguardo trovò per primo G e l'espressione che aveva.

Hayato tacque, non riuscendo a distogliere l'attenzione da lui, riconoscendo con un fastidio misto quasi ad un senso di paura celato da qualche parte, quella stessa espressione che per lungo tempo lui stesso aveva avuto.

La sensazione di non appartenere più a nessun luogo, il senso di colpa per qualcosa che non avrebbe comunque potuto influenzare anche volendo, e il dolore di una perdita.

«Non parlare di cose che non capisci.» gli ringhiò contro: «Le parole di Asari non erano sbagliate... la reazione di Lampo non era sbagliata. Ma lasciare il posto al suo fianco lo è stato. So che lo è stato. Ma un braccio destro che lascia che il Boss venga ucciso, con quale diritto rimane al suo fianco a quel modo?» sibilò, il tono intriso di frustrazione.

«Dovrai crescere anche tu. Arriverà un momento in cui non potrai più permetterti di credere che nella Mafia va sempre tutto bene, o che ci sarà il lieto fine come nelle favole moccioso. Le favole non esistono, prima lo impari e meglio sarà. Perché il Decimo ha ereditato dal Primo una delle cose peggiori che potesse prendere.» pronunciò, allontanando infine la mano da lui.

Gokudera aggrottò le sopracciglia in un'espressione irritata; benché ci fosse qualcosa che gli impediva di aggredirlo come sarebbe stato tipico di lui – la sensazione che ci fosse qualcosa di vero, qualcosa che a lui ancora sfuggiva e che faceva paura proprio perché scivolava via senza lasciarsi intravedere – non avrebbe permesso comunque commenti irrispettosi sul Decimo. Non lo aveva mai fatto, dopotutto.

«Non conosci nemmeno il Decimo, e piantala di parlarne per mettermi ansia.» gli ringhiò contro di rimando, spazientendo G definitivamente.

Le labbra del Guardiano della Prima Generazione si incurvarono in un sorriso di scherno, di quelli che a Gokudera ricordavano l'espressione di chi sta deridendo una vittima che sta per uccidere.

«Sawada Tsunayoshi è esattamente come Giotto Vongola è stato al suo tempo. Qualcuno troppo buono per iniziare anche solo a rapportarsi con quel mondo che era per tutti, tranne che per lui. Se l'è cucito addosso perché non aveva scelta, perché “doveva essere lui”. Portava sulle spalle il peso di un'intera Famiglia e ha continuato a farlo lasciandosi piegare prima, e schiacciare poi. Giotto aveva fiducia in tutti, ma non abbastanza per ammettere con qualcuno di noi che non ce la faceva più. Fino all'ultimo ha sorriso come se tutto andasse bene, come se il giorno dopo fosse una cosa scontata e alla fine un giorno dopo non c'è stato affatto! Non è così, il tuo Decimo? Non è così che fa anche lui? Rimprovera tutti voi di non tenere alle vostre vite, e poi lui mette in gioco la sua continuamente. Parla di voler proteggere tutti, ma in quel “tutti” è compreso anche lui? Qualcuno glielo ha mai chiesto?» chiese, aspro, lo sguardo su di lui.

A Gokudera sembrò che G non stesse accusando loro, ma se stesso e chi con lui era implicato in qualcosa che il più giovane poteva solo immaginare.

L'immagine di Giotto, che aveva intravisto quando quelle prove per la successione erano cominciate, si sovrappose a quella del Decimo stesso.

Lui che lo aveva spronato a non gettare via la sua vita, che si era addossato la colpa di aver mostrato quel futuro inadatto a molti di loro nonostante non fosse colpa sua, che aveva detto di voler combattere per proteggere le persone importanti.

Se lo chiese, se il Decimo si considerasse importante per se stesso e si rispose che era ovvio, non si sarebbe mai lasciato morire.

Ma mentre lo pensava, G non riusciva a guardarlo, né riusciva a rendere quel suo pensiero una risposta sincera.

Intimamente... non ci credeva neanche lui, forse.

 

Aveva reputato inutile riunirsi attorno ad una bara.

Giotto aveva scelto di morire.

Lui non aveva saputo fermarlo, né accorgesene quando avrebbe dovuto.

 

Tornavano indietro, di nuovo sotto la neve.

«Vorrei che lo facessi in inverno.» disse Giotto.

«Mh? Cosa?» domandò alzando lo sguardo su di lui, la mano che non lasciava la sua, nascosta agli sguardi da stoffa e guanti.

«Rapirmi durante la notte senza dire nulla a nessuno. Lo hai promesso, no? Che un giorno mi porterai via.»

«...Vuoi andare via?»

«A volte penso di sì.»

 

Che senso aveva,

blaterare cose sull'essere il suo braccio destro?

Era stato un fallimento.

Era stato uno strazio che non trovava fine.

 

«Vado a tranquillizzare gli altri.» mormorò Asari, alzandosi per uscire da quell'ufficio che sarebbe rimasto vuoto, ad eccezione di G.

«Tranquillizzarli?»

«Sono preoccupati per te.»

«Me lo fai un favore, Asari?» chiese con tono stanco, lo sguardo che dalla finestra e dalla neve fuori di essa non si era mai spostato.

«Cosa, G?»

«Lasciatemi morire in pace un altro po'.»

 

I Guardiani del Primo Boss dei Vongola,

porgono il loro ultimo saluto.

Alla destra di una bara fredda, nessuno piange.

Il Guardiano della Tempesta, è accanto al Boss.

Alla sua sinistra.

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Capitolo 2
*** Parole ***


Disclaimer: i personaggi appartengono ad Amano-sensei

Disclaimer: i personaggi appartengono ad Amano-sensei.

Prompt: 29. Even though I don’t need eternity, why does it seem like they can't be lost…  (Tabella)

Note: seconda oneshot della raccolta, il capitolo Cavallone Primo/Alaude. È stata un maledetto parto.

Cavallone Primo è un personaggio nato dalla mente dei fan, per i fan. La Amano non ha rilasciato informazioni su questo personaggio (né si sa se lo disegnerà mai); fra i papabili nomi che gli vengono dati ci sono Oliviero, Ivan e un terzo che non ricordo. Ho optato per Oliviero. Per aver presente il personaggio graficamente, rimando a questa immagine.

Ringraziamenti, note ulteriori (ossia scleri dell'autrice), tutto in fondo <3

 

 

Parole

 

 

Anche se non ho bisogno dell'eternità,

perché sembra come se non potessero andare perdute...?

 

 

 

Alaude non era certamente quello che, tra i Guardiani del Primo, si potesse definire il più “legato” alla figura del Boss. Non che fosse un traditore, certo: sarebbe stato ben difficile appartenere alla stessa categoria di persone che tanto detestava – una delle tante, almeno.

Ma non aveva nemmeno quell'ammirazione che sfociava nella riverenza a legarlo, per così dire, al biondo; né quel qualcosa prettamente tipico unicamente di G, che sembrava un padre nel pieno del terrorismo psicologico ai danni di chiunque minacciasse di portargli via la sua figlioletta (Giotto).

Alaude, per assurdo che fosse, era esattamente a metà strada fra gli altri Guardiani e Daemon, che si dissociava con la stessa delicatezza e proprietà di linguaggio di un carrozziere analfabeta. Il Guardiano della Nuvola, come quello della Nebbia in un certo senso, era d'accordo sul fatto che alcune scelte di Giotto fossero discutibili.

E anche che fosse troppo buono, sebbene non in senso assoluto – era convinto che, preda di un raptus, anche il loro pacifico Boss sarebbe potuto risultare letale.

Alaude era indiscutibilmente parte della Famiglia per Giotto, ma lui non si era mai lasciato coinvolgere troppo dagli altri: ne conseguiva quindi un atteggiamento diverso. Non era lui ad agitarsi per ogni presunta mancanza di rispetto come G, o a fare a Giotto da mamma chioccia come Asari, o da presunto fratello come Knuckle.

Tranne in un caso.

C'era un solo, unico ed isolato caso in cui Alaude, il Guardiano della Nuvola dei Vongola si schierava in prima linea, ed era nelle discussioni con un'altra Famiglia in particolare. Ma non lo faceva per una questione di istinto di protezione verso Giotto, no.

Era qualcosa di molto più semplice.

Ossia che lui, Oliviero Cavallone, non lo poteva proprio soffrire.

Alaude non era esattamente il tipo che si lasciava particolarmente influenzare da terzi. Al contrario, era ben difficile che le azioni altrui rientrassero nella sua sfera di interessi, ad eccezione di rari casi e mai determinati dalla sua volontà.

In primis, che andasse contro il suo lavoro: Alaude vi era sempre stato dedito, anche prima di finire reclutato fra i Guardiani di Giotto. Non apprezzava gli ostacoli, né che i suoi piani – organizzati fin nel minimo dettaglio – andassero in malora per i comodi di terze persone.

Secondo: Alaude non amava quando qualcuno invadeva i suoi spazi. Il motivo principale per cui Giotto riusciva ad avere un rapporto quantomeno vagamente comunicativo con lui, era l'intrinseca capacità del biondo di rispettare i momenti di isolamento – peraltro piuttosto frequenti – del suo Guardiano della Nuvola.

Terzo ma drammatico motivo alla base del suo tracollo nervoso, odiava le persone stupide, e nello specifico quando la loro stupidità intaccava la sua persona e gli procurava problemi di qualsiasi genere.

Oliviero Cavallone concentrava nel proprio essere le tre cose che Alaude sopportava meno – era invadente, gli faceva perdere tempo ed era a suo avviso di una falsa stupidità ancor più irritante che se fosse stata reale idiozia.

Ed esse, insieme a fin troppi altri fattori, erano l'unico motivo per il quale Alaude prestava attenzione a quel capo mafioso più che ad altre persone che lo circondavano. Non che lo facesse per proprio volere comunque, anzi.

Possibilmente, avrebbe preferito ignorarlo; peccato che Cavallone glielo avesse impedito fin dal primo incontro – Alaude rimpiangeva ancora che G, in quell'occasione, non gli avesse lanciato il posacenere.

 

 

Quando Giotto aveva comunicato a tutti loro che il Boss dei Cavallone sarebbe venuto in visita per degli accordi con il capofamiglia dei Vongola, diverse cose erano state chiare ai Guardiani del biondo.

Innanzitutto, l'ultima volta che si erano “incontrati per degli accordi” era finita – come in tutte le occasioni precedenti – con G che aveva voglia di lanciare qualcosa contro Cavallone Primo, salvo poi non poterlo fare per ovvi motivi. Quell'uomo non apprezzava particolarmente Giotto e il suo modo di vedere le cose, e anche se non lo aveva mai detto a chiare lettere era evidente dagli atteggiamenti e dalla faccia da schiaffi che puntualmente metteva su – anche se più di qualcuno era convinto che quella fosse la sua faccia sempre.

Inoltre, avere Cavallone in visita significava che almeno un Guardiano avrebbe dovuto presenziare all'incontro, e non vi erano dubbi che questi sarebbe stato G; peccato che la cosa preoccupante fosse proprio quella.

Giotto, consapevole della cosa, aveva richiesto ad Alaude di presenziare insieme al Guardiano della Tempesta; non che quello della Nuvola saltasse di gioia all'idea, ma era indubbio che almeno Alaude non avrebbe lanciato oggetti contro Cavallone Primo.

Erano entrati nell'ufficio di Giotto, quando il moro era arrivato accompagnato da alcuni uomini – uno solo dei quali era entrato nella stanza con il proprio Boss.

Ed ora Asari entrava in quella in cui Daemon e Lampo – Knuckle non lo aveva ancora incrociato – aspettavano lo svolgersi dell’incontro. Dei due presenti, fu solo Lampo ad alzare lo sguardo su di lui e a rivolgergli un cenno del capo come saluto; Daemon, invece, sembrava preso dalla lettura del libro che aveva tra le mani.

«L'incontro sta procedendo bene?» chiese, rivolgendosi comunque ad entrambi.

Lampo, le braccia incrociate dietro la testa e l'aria annoiata, annuì appena: «Non si sente nulla di strano o preoccupante, quindi dovrebbe essere tutto a posto.» replicò sbadigliando.

Asari sorrise pacatamente, nonostante a seguire le parole del Guardiano del Fulmine ci fosse stata l'aggiunta -  non esattamente rassicurante – di Daemon, che ancora teneva gli occhi sul libro: «O magari si sono uccisi a vicenda, visto che con il Boss ci sono G e Alaude...»

«Loro e Cavallone Primo da soli?» chiese Asari, più perplesso che non esattamente preoccupato; Giotto era infatti nella stanza e, sebbene proprio questo potesse essere la causa scatenante dell'irritazione di G all’ennesima battuta di Cavallone, era certo che il biondo influenzasse il proprio braccio destro persino più di quanto necessario per evitare incidenti incresciosi.

«Mah, non c'è da preoccuparsi.» lo distrasse Lampo, che sembrava più che altro occupato a cercare una posizione comoda sul divanetto su cui aveva preso posto: «Abbiamo mandato Knuckle ad evitare spargimenti di sangue.» assicurò.

Questo, nello stesso momento in cui il suddetto Guardiano del Sole si ritrovava ad assistere ad uno scambio che sarebbe stato anche divertente, se solo non stesse rischiando di diventare una volgarissima e semplice rissa.

«G, calmati.» stava infatti dicendo Giotto in quel momento, leggermente proteso in avanti, verso il suo Guardiano. Ma G, certamente di indole più impulsiva rispetto ai colleghi, non sembrava proprio propenso a lasciar correre l'ennesima insinuazione di Cavallone Primo.

«Ma Boss, quello lì...!» obiettò infatti, completamente ignorato da Oliviero, che sembrava guardarsi intorno come se la discussione non lo riguardasse – e non fosse stata causata da lui, peraltro.

Seduto sulla comoda sedia sulla quale lo aveva fatto accomodare Giotto al suo arrivo, le braccia boriosamente incrociate vicino al petto, portò lo sguardo al proprio fianco, osservando con la coda dell'occhio un Alaude apparentemente impassibile.

«Primo, faccia la cortesia di non portare G a lanciarle qualche oggetto.» commentò atono rivolgendosi al moro. Oliviero spostò allora la sua attenzione direttamente sul biondo, il sorriso arrogante sulla faccia da schiaffi.

«La tua preoccupazione mi commuove, Guardiano della Nuvola.» pronunciò strafottente, come se fosse ovvio che Alaude non avesse altro da fare nella sua vita oltre che pensare all'incolumità del Boss dei Cavallone.

«Non fraintenda.» lo corresse infatti, abbassando lo sguardo ceruleo su di lui: «Lo dico perché nella direzione del bersaglio, ossia lei, ci sono anche io. E perché di insudiciarmi per pulire il suo sangue non ho voglia.» aggiunse lapidario.

Era stato chiaro, a quel punto, che tra Cavallone e Alaude sarebbe stata tacita guerra aperta.

O almeno avrebbe dovuto.

Peccato che Oliviero Cavallone avesse dimostrato di avere un istinto di autoconservazione ridicolo abbastanza da portarlo a considerare Alaude “carino e divertente”, con due ulteriori conseguenze: avvicinarlo più di quanto avrebbe fatto in condizioni normali, e non togliersi più di torno.

 

 

«Alaude, va tutto bene?» chiese Asari, osservando il Guardiano della Nuvola seduto di fronte a lui e che non sembrava esattamente in forma. Non era raro che, eccezion fatta per chi era in missione naturalmente, si ritrovassero a mangiare insieme. Era stata – com'era prevedibile – una richiesta di Giotto, particolarmente avvezzo a tutto ciò che rientrava nella categoria “usanze di famiglia”.

In quel momento erano quasi tutti lì; Lampo e Knuckle erano in missione entrambi, G sedeva alla destra di Giotto e di fronte a Daemon, mentre Asari stava ora prendendo posto al fianco del Guardiano della Tempesta.

Alaude aveva l'aria quasi più stanca di quando, a causa di alcuni pattugliamenti, rimaneva senza sonno per fin troppe ore.

Avendo ricevuto in risposta da lui nulla più di un “mh”, Asari spostò lo sguardo interrogativo sul Boss – ma Giotto si limitò ad un sorriso leggero un po' colpevole – ed in seguito G, che altro non fece se non grugnire.

Fu Daemon a chiarirgli la situazione, e per la verità sembrava anche l'unico divertito dalla stessa: «Alaude oggi è in missione privata, mh?» ironizzò bastardo.

E mentre Daemon imprecava sottovoce contro il vizio di Alaude di ammanettare le persone che lo infastidivano – o lo sfottevano, come in quel caso – qualcuno si prese la briga di spiegare ad Asari che, forte dell'alleanza esistente ora tra le Famiglie da diversi mesi, Oliviero Cavallone aveva espressamente richiesto a Giotto la collaborazione del suo Guardiano della Nuvola per una missione di grande importanza per la Famiglia del moro.

 

«Missione di grande importanza...?» ripeté fra sé e sé Alaude, camminando qualche passo dietro Cavallone, ma assicurandosi di risultare comunque udibile; infatti, Oliviero si voltò verso di lui, un sorrisetto divertito sulle labbra: «Assolutamente!» replicò convinto «Bighellonare per il centro quando devo fare degli acquisti è di importanza vitale.» assicurò senza ritegno.

Alaude portò una mano a massaggiare una tempia, discretamente vicino ad una nevrosi.

Quella mattina, come da accordi presi, Oliviero si era presentato da Giotto per recuperare Alaude; lo aveva trascinato in centro, e troppo presto – precisamente quando aveva congedato la sua scorta – era stato brutalmente ovvio che non c'era e non ci sarebbe stata alcuna missione.

Da lì fino a quel momento – era ormai pomeriggio inoltrato – era stato un continuo, inutile, stupido avanti e indietro di negozi, con l'unica pausa del ristorante dove avevano pranzato a spese del moro.

Se Alaude non lo aveva mollato in mezzo alla strada dopo la prima ora, era stato solo perché era ben cosciente del fatto che se lo avesse lasciato solo senza scorta e – disgraziatamente – fosse accaduto qualcosa, sarebbero stati i Vongola a finire di mezzo, essendo lui assegnato a fare da balia a quel tipo.

«Non ti sfiora l'idea che le persone abbiano di meglio da fare?» ironizzò, fissandone la nuca, minimamente intenzionato ad affiancarlo.

Oliviero si voltò per osservarlo da sopra la propria spalla, un sorrisetto beffardo ma bonario rivolto al biondo: «Nah, mai. Cosa c'è di più divertente di una giornata di riposo ogni tanto? Per giunta sei in ottima compagnia, Alaude. Non sarai mica uno stacanovista, ne?» commentò in maniera così arrogante che c'era da temere che scoppiasse da un momento all'altro come un palloncino, tanto era pieno di sé.

Alaude iniziava ad essere solidale nei confronti dell'istinto omicida di G ai tempi in cui quell'alleanza non esisteva.

«Riesco a pensare ad almeno dieci alternative più allettanti di questo inutile girovagare con il Boss dei Cavallone.» rimbeccò Alaude, incurvando leggermente le labbra in un sorriso pesantemente sarcastico.

«E non mi sto nemmeno impegnando a pensare.» aggiunse infame.

Cavallone parve accogliere la sfida nelle parole del Guardiano e rispose con un'espressione molto simile a quella dell'altro: «È un invito a convincerti del contrario?» provocò.

«È un invito a lasciarmi in pace, a smettere di venire al maniero senza un perché disturbando il mio lavoro, e ad adescarmi con delle bugie nelle tue inutili giornate di ozio.» rispose duramente Alaude, suscitando però in Oliviero niente più che un sorriso soddisfatto – finalmente riusciva a smuoverlo, il che nella sua testa equivaleva ad un grosso passo avanti.

Il moro portò entrambe le braccia dietro la testa, con fare quasi infantile mentre sfalsava il proprio passo per affiancare il biondo: «Ma sei tu che mi costringi ad adescarti con l'inganno.» fece innocentemente notare.

Alaude alzò un sopracciglio, dando voce ad un: «E di grazia, perché ora sarebbe colpa mia?» e pentendosene in tempo record.

«Perché se ti chiedo di uscire con me, ti rifiuti. Ma se anziché “appuntamento” lo chiamo “missione”, allora vieni sempre.» fece notare con naturalezza Oliviero.

«Ricevendo costantemente dei rifiuti, fossi in te mi porrei delle domande.» sottolineò privo di tatto il Guardiano.

Oliviero lo fissò con uno sguardo a metà fra quello divertito di qualcuno che ama essere provocato quando sa di avere comunque il controllo sulla situazione, e quello di chi sta macchinando qualcosa che non ti piacerà.

«Pormi delle domande? E perché?» chiese con falsa perplessità nel tono, chinandosi verso l'orecchio di Alaude: «So già di piacerti.» sussurrò.

 

Glielo ripeteva fino alla nausea.

Mi piaci, mi piaci, mi piaci.

In continuazione.

Anche se lui non rispondeva mai.

 

 

Alaude aveva perso il conto delle volte in cui si era lasciato “incastrare” o “mettere in mezzo” - l'espressione adatta sarebbe “lasciarsi sedurre, Alaude”, lo correggeva sfrontatamente Cavallone.

Il Guardiano della Nuvola, nei suoi momenti di autoanalisi sempre più frequenti, sosteneva che le cause erano molteplici, ma alla fin fine potevano forse essere tutte riassunte in una sola.

Ci era arrivato per sfinimento.

Stando a contatto con Oliviero Cavallone – perché no, quella “missione” purtroppo non era stata l'ultima, tanto che Alaude aveva iniziato a sospettare che Giotto provasse del sadico divertimento nell'accettare sempre le richieste di Oliviero – aveva imparato che il moro non conosceva la parola “arrendersi”.

… Per la verità, per i gusti di Alaude, Oliviero aveva un vocabolario assai limitato: gli erano infatti completamente sconosciuti i concetti di “arrendersi”, “lasciare in pace”, “vivi e lascia vivere”, “piantala di starmi appiccicato” e “no, non mi avrai nudo nel tuo letto ancora per un pezzo, per l'amor di Dio” - tacito e mai pronunciato, ma sempre piuttosto eloquente dai propri atteggiamenti, secondo Alaude.

Gli riconosceva un unico pregio: nel suo essere pedante, non lo annoiava.

… Per quello si era fatto fregare.

Si sentì tirare piano una ciocca di capelli biondi, con fare quasi giocoso, e alzò gli occhi al cielo prima di portarli sulla figura di Cavallone e del suo insopportabile sorriso da imbecille con la sindrome di Peter Pan.

«Alaude, non sei per niente carino.» si lamentò infantilmente, suscitando nel biondo nulla più di un impersonale inarcarsi del sopracciglio.

Tuttavia, lì dove avrebbe dovuto formarsi un broncio o qualcosa del genere, ci fu il mutare dell'espressione falsamente offesa del moro finché non divenne un vero e proprio sorrisetto provocatorio; la mano giochicchiava con i capelli del Guardiano, e non sembrava intenzionata a smettere anche se il padrone era ben cosciente di quanto al momento il gesto potesse infastidire Alaude, per il quale rappresentava una distrazione dal discorso.

Oliviero avvicinò il proprio volto a quello dell'altro, mantenendo invariato quell'incurvarsi di labbra: «Non è carino pensare ad altro mentre siamo al letto insieme, nudi sotto le lenzuola e dopo un discreto divertimento.» gli fece presente, il massimo del candore nel tono di voce nonostante l'oggetto della discussione.

Alaude ricambiò il sorrisetto con una sorta di ghigno bastardo: «Se è stato discreto o disastrato, dovrei essere io a giudicarlo.» gli fece presente con altrettanta intenzione di provocarlo.

A Cavallone Primo venne istintivo – forse perché aveva una mente perversa e concentrata su pensieri poco casti al momento, o forse fu semplicemente uno di quei gesti meccanici che possiede ogni persona – leccarsi leggermente le labbra.

Il Guardiano della Nuvola lo aveva attratto semplicemente per l'aspetto all'inizio, e non si faceva problemi ad ammetterlo; Alaude, i capelli di quel biondo chiarissimo e gli occhi azzurro cielo, aveva l'aria del classico ragazzo con la faccia d'angelo. Forse era un po' freddino e fissato con il lavoro, ma Oliviero era stato convinto, nei suoi momenti di fantasia – quando avrebbe dovuto, tanto per fare un esempio, ascoltare gli altri boss mafiosi degli incontri a cui presenziava – che sarebbe stata una preda tutto sommato semplice da adescare.

Invece, era rimasto piacevolmente sorpreso da quel caratterino che lo aveva fronteggiato non solo senza farsi il minimo problema, ma anche senza un minimo riguardo al tatto dato spesso dalla soggezione che molti provavano in presenza del moro.

«Non sprecarti, Alaude. Alcuni versi che hai fatto hanno già parlato per-- ouch.» si lamentò, ridacchiando subito dopo – no, in tutto il tempo passato il suo istinto di autoconservazione non era aumentato – massaggiando il punto dell'addome in cui lo aveva appena colpito Alaude.

«Sei sempre violento.» lo riprese, falsamente offeso.

«E tu sempre imbecille. Parla di meno.» ribatté il biondo, forse con un picco di ingenuità involontario; Oliviero prese per buone le sue parole, e non impiegò molto ad essere nuovamente sopra di lui, osservandolo con quel senso di superiorità che – a volte bonariamente, a volte no – lo aveva sempre caratterizzato nel suo rapportarsi agli altri. Le mani avevano cercato quelle di Alaude, intrecciando prepotentemente le dita alle sue per fare in modo che non ci fossero colpi bassi.

«Se avevi di nuovo voglia, bastava dirlo.» lo prese in giro, ricevendo in risposta quel sorrisetto che il biondo sembrava mettere su appositamente per non dargli soddisfazione e ribattere: «Non confondermi con te e la tua incapacità di controllo sui tuoi istinti.»

Oliviero in altri momenti in cui il loro botta e risposta aveva raggiunto argomentazioni sul genere, aveva sempre trovato il modo di zittire fisicamente l'altro – non a caso, era più o meno la loro prassi nei cosiddetti preliminari: sfottersi, insinuare, non darla vinta e alla fine ritrovarsi come in quel momento.

Capitava anche, ma molto più raramente, che il moro si soffermasse ad osservare l'altro, anche se spesso la cosa avveniva mentre Alaude ancora dormiva; ora, allo stesso modo, lo sguardo era fermo sul viso del biondo in un'espressione indecifrabile, di quelle che il Guardiano della Nuvola trovava abbastanza snervanti. Persino più di quelle strafottenti di cui l'altro aveva un repertorio invidiabile.

Oliviero si chinò maggiormente su di lui, fino ad andare a sfiorargli il collo candido con la punta del naso prima e le labbra poi, sorridendo sulla pelle dell'altro: «Ne, Alaude?» ne richiamò l'attenzione.

Non attese risposta, conscio che l'altro a dispetto di quanto dicesse, lo ascoltava quando parlava.

«Ti amo.»

«Odio quando me lo dici.» ribatté secco il Guardiano, lo sguardo al soffitto senza muoversi o cambiare inflessione del tono; Oliviero alzò il viso quanto bastava ad osservarlo, ma non sembrava stupito dalla reazione, tutt'altro. Un sorriso – anch'esso indecifrabile – gli incurvava le labbra.

«Lo so, a me sta bene.» replicò, suscitando uno sbuffo seccato nel biondo che si voltò su un fianco, pur rimanendo sotto di lui.

Oliviero si chinò a baciargli la guancia, sussurrando nuovamente un: «Ti amo.» quasi per dispetto.

«Odio quando me lo dici.» ripeté l'altro, chiudendo gli occhi con l'intenzione di dormire ed ignorarlo, apparentemente.

«Continua pure ad odiarlo.»

 

Glielo ripeteva fino allo sfinimento.

Anche se gli diceva di non sopportarlo.

 

«Cavallone, sei masochista o cosa?» borbottò brusco.

«Dici che mi odi ogni volta. E tutte le volte, torni qui.»

 

 

Era vero che tra loro non c'era mai stato nulla di “ufficiale”, per così dire.

Né Oliviero né Alaude erano persone da estraniarlo al mondo: Alaude aveva a malapena fatto sapere ai compagni Guardiani la sua data di nascita, quindi era presto detto. Senza contare che non aveva mai dato – né avuto interesse nel darlo – un nome a quello che c'era fra lui e Cavallone Primo.

Anche se probabilmente era qualcosa che Giotto aveva certamente intuito, e con lui la maggior parte degli altri Guardiani, sebbene tacitamente fossero concordi nel non chiedere nulla.

Da parte di Oliviero, invece, c'era una motivazione molto più malsana per certi versi; non aveva mai parlato di “relazione” e se vi aveva accennato o l'aveva lasciato intendere, il nome della persona non aveva mai sfiorato le sue labbra.

Per il carattere possessivo, capriccioso e infantile che aveva – e di cui era ben consapevole e che, con arroganza, non si impegnava nemmeno vagamente a cambiare – non voleva che nulla di ciò che gli apparteneva fosse alla mercé di altri.

Alaude, prima di tutto.

Era vero che non avevano mai definito precisamente quello che facevano; Cavallone non se ne era preoccupato poi molto inizialmente e dopo aveva trovato semplicemente qualche difficoltà.

Ora forse era chiaro perché: era difficile dare a qualcosa un nome definitivo, quando quel qualcosa non era condiviso o aveva tanti nomi diversi quante le persone in essa coinvolte.

Mantenne lo sguardo su Alaude, intrappolato fra lui e il muro, il braccio di Oliviero che si trovava al lato del suo viso; era tipico di lui, soppesò il Guardiano: gli lasciava una via libera, ma non gli avrebbe mai permesso di sfuggirgli.

Gli concedeva l'illusione di poter decidere di allontanarsi, ma non gliene dava la reale possibilità; al contrario, quasi lo sfidava a provare. E quando Alaude non lo faceva – per motivi che Oliviero poteva più che altro provare ad indovinare – era come dire che di andare via, non aveva davvero voglia.

«Quindi?» lo incalzò in un mormorio, visto che da quella distanza non era necessario alzare particolarmente la voce.

«Quindi questa è l'ultima volta che vengo qui.» ripeté Alaude.

Non sapeva se Cavallone, con quella sua idiozia che non era ancora chiaro se fosse reale o una facciata assunta di tanto in tanto volontariamente, ne comprendesse il motivo o meno. O se lo immaginasse e basta, o avesse semplicemente provato ad indovinarlo.

Sapeva che aveva di nuovo quell'espressione indecifrabile che non permetteva ad Alaude di capirlo e darsi una risposta; fondamentalmente, però, non importava davvero.

Di spiegazioni non doveva né voleva darne.

Sentì Oliviero sospirare e chinarsi su di lui: senza preavvisi di alcun tipo, l'altro poggiò le labbra sulle sue.

Non era un bacio casto: prepotentemente si era intrufolato con la lingua nella sua bocca; Alaude non avrebbe saputo dire se fosse o meno tipico dell'altro. Cavallone era abbastanza lunatico a volte da alternare momenti di attenzioni per il partner, ad altri in cui sembrava che oltre il suo istinto e il suo bassoventre non ci fosse altro in grado di ragionare.

Non lo cacciò, cercando di capire cosa avrebbe dovuto cogliere da quel gesto – era abbastanza certo che spesso il moro usasse il suo modo di fare e il contatto fisico per spiegare più facilmente concetti che, a voce, sarebbero stati troppo lunghi e noiosi almeno secondo lui.

Lo sentiva, in quel bacio umido, avvicinare il corpo al suo come in cerca di qualcosa di specifico.

Alaude rispondeva al bacio, ma le mani non avevano nemmeno accennato a raggiungere il moro: sarebbe stato solo più lungo, più complicato, e non ci teneva.

Alaude preferiva le cose dirette e semplici: non sapeva avere abbastanza riguardo per gli altri, tanto da potersi districare con quelle che finivano irrimediabilmente per mettere di mezzo dei sentimenti.

Fu anche per quello che quando Oliviero si allontanò solo quanto bastava ad interrompere il bacio, lo sguardo di Alaude non era né desideroso di ripristinare quel contatto, né particolarmente seccato dal gesto, né colmo di un'emozione precisa.

Cavallone sospirò piano, poggiando la fronte contro la sua.

«Ti amo.» mormorò, con il tono di sempre – senza la disperazione di un innamorato che lascia andare la persona amata, né nulla del genere. Solo quella dolcezza che mascherava da arroganza.

«...forse non odio poi tanto sentirtelo dire.» mormorò in risposta.

 

Era sempre stato come un copione,

imparato a memoria e diligentemente recitato.

Ogni volta.

Tranne quella.

Perché lui non sarebbe più tornato lì.

 

 

Pronunciò un: «Avanti.» sentendo bussare alla porta del proprio ufficio.

Colse il movimento della porta che veniva aperta e chiusa, ma non si voltò a guardare chi fosse; seduto dietro la propria scrivania, il profilo della sua figura era visibile. Un gomito poggiato al bracciolo della poltrona su cui stava, il pugno sorreggeva pigramente il volto, totalmente rivolto alla finestra a cui normalmente dava le spalle.

Lo sguardo era rivolto fuori dalla stanza, senza guardare poi davvero un panorama che conosceva a memoria.

«Boss» pronunciò il sottoposto che aveva inizialmente indugiato: «ci sono notizie riguardo lo scontro intrapreso dalla Famiglia Vongola. Gli uomini vogliono sapere se... se dobbiamo intervenire, data la nostra alleanza.» riportò, un poco titubante.

Oliviero sospirò impercettibilmente, senza portare lo sguardo su di lui: «Che notizie ci sono?»

«La Famiglia è stata praticamente sconfitta, signore.» replicò, lo sguardo che faceva avanti e indietro dalla figura del Boss al fascicolo che aveva fra le mani.

«Sopravvissuti?» domandò.

Anche se non serviva davvero.

Anche se Giotto, nel loro ultimo colloquio, pur senza pronunciarlo aveva reso intuibile l’esito; quello lì era sempre stato troppo buono, e troppo trasparente.

«Alcuni, signore. Il Boss della Famiglia però è rimasto ucciso nello scontro, e con lui due Guardiani. Uno di loro ha disertato, e la situazione dei sopravvissuti è critica.» riportò quasi febbrilmente, quasi a contrapporsi alla calma apparente di cui Cavallone Primo sembrava preda.

Lo vide voltarsi lentamente, l'espressione seria come poche volte era stata: «Riporta questo messaggio a G, il Guardiano della Tempesta.» esordì, le dita delle mani intrecciate tra loro e l'espressione che si faceva più grave.

«La Famiglia Cavallone e le sue risorse sono a vostra completa disposizione. Presenzierò certamente alla commemorazione dei caduti.» pronunciò.

L'uomo lo osservò, annuendo impercettibilmente: «Sì, signore. Riporto subito il messaggio.» replicò «Volete raggiungerli di persona?» azzardò quindi, incerto.

Cavallone Primo guardava nuovamente fuori dalla finestra.

 

 

Alaude aveva sempre rifiutato le sua parole.

Poco gentilmente, ma almeno senza falsa cortesia.

Quel “ti amo”, forse anche chi lo pronunciava

avrebbe preferito che non venisse mai accettato.

 

 

 

Note autrice

Innanzitutto un ringraziamento a chi segue la raccolta e chi l'ha commentata (Lita, Yoko, Gioielle, Alex, Eiko) <3

Di note a fondo fanfic ho solo che boh. Non so come posso aver reso Oliviero – che è un OC e in quanto tale è brutto e cattivo perché non ho una caratterizzazione su cui basarmi.

Ho tante perplessità anche su Alaude, francamente. Personalmente però, nonostante la sua somiglianza fisica ad Hibari, io lo vedo un po' meno monosillabico quando parla, dato forse dal fatto che – in questa shot compresa – è più grande di Kyoya quando appare. Ho supposto che potesse avere anche un tipo di maturità diversa.

Spero comunque che possa risultare una lettura gradita.

 

Riguardo il finale: è molto una supposizione, giacché io non ho ancora capito Giotto com'è che è morto. Vabbé. Ricordando però di uno scontro tra famiglie che – da quanto ho capito – i Vongola hanno perso, ho pensato che potesse essere una delle tante plausibili cause della morte del Primo.

Quanto al traditore dei Vongola, è chiaramente Daemon.

Dovrei aver detto tutto, perciò non vi tedio oltre <3

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Capitolo 3
*** Dicotomia ***


Disclaimer: i personaggi appartengono ad Amano-sensei

Disclaimer: i personaggi appartengono ad Amano-sensei.

Prompt: 11. Everytime you release words, they’ll turn into light  (Tabella)

Note: ultima (era ora, diranno giustamente alcuni) delle tre shot di questa raccolta.

E’ stata un parto: doveva esserci una scena in più ma, a metà della stesura ho deciso che non mi piaceva e ho ri-modificato tutto da lì in poi 8D

Alla fine non ho capito se Tsuna è OOC, se lo è Mukuro, o se non lo è nessuno dei due - …o tutti e due? ;D

Note di lettura: ambientata con personaggi 5!Years Later (ossia, avete uno Tsuna ventenne). Non ho preso in considerazione la saga Shimon attualmente in corso sul manga, pertanto ho considerato la successione ufficiale di Tsuna al Nono avvenuta a 18 anni.

 

 

Dicotomia

 

 

Ogni volta che pronuncerai delle parole,

esse diventeranno luce.

 

 

 

Tsuna sospirò, finalmente libero anche dall'ultimo documento rimasto, che ora stava posando sulla pila di quelli già visionati e firmati.

Ad essere proprio sincero non aveva ancora ben chiaro come fosse possibile che con il tempo così tanti documenti si fossero accumulati: considerando che la cerimonia di successione con annessa ufficializzazione del suo ruolo di Boss dei Vongola – non più erede, ma Boss effettivo – era avvenuta due anni prima e che ora era quindi già avviato all'attività quale visionare le scartoffie, non se ne capacitava.

Sospirò rassegnandosi: già immaginava Reborn o riprenderlo, o minacciarlo con la pistola se solo si fosse azzardato a lasciare da parte un solo foglio, fosse stata anche una semplice distrazione.

E non che non avesse provato a spiegargli che non serviva necessariamente firmare oggi documenti che non sarebbero serviti prima di un mese.

...Era inutile sottolineare il fatto che Reborn lo aveva totalmente ignorato in merito, vero?

«Avanti.» pronunciò quasi grato di essere interrotto, alzando lo sguardo e puntandolo verso la porta. Questa, una volta aperta, rivelò la figura di Gokudera: «Disturbo, Decimo?» domandò, l'espressione docile che sempre assumeva nei confronti del castano.

Tsuna lo accolse con un sorriso gentile dei suoi, facendogli cenno di entrare e accomodarsi; erano passati esattamente cinque anni da quando si erano conosciuti e insieme avevano affrontato scontri troppo duri per dei ragazzini. E, benché fossero stati “ufficializzati” come decima generazione dei Vongola solo due anni prima, Gokudera sembrava naturalmente a proprio agio in quel ruolo che sembrava calzargli perfettamente. In senso buono naturalmente, non che Tsuna ora considerasse la Mafia il bene del mondo.

Tuttavia spesso non poteva fare a meno di notare la profonda differenza di atteggiamenti fra lui e il Guardiano della Tempesta, specialmente in quelle occasioni ufficiali: Gokudera pareva sempre perfettamente a suo agio mentre Tsuna – ormai ai suoi vent'anni – a volte rischiava ancora di sentirsi in soggezione.

E dire che era il Boss della Famiglia più potente e temuta.

«Avevi bisogno di qualcosa, Gokudera-kun?» lo incalzò cortesemente dopo che l'altro si fu seduto di fronte a lui, la scrivania fra di loro.

«Ci sono alcune novità.» comunicò Gokudera, senza fargli perdere troppo tempo: «Dino-san ha mandato un messaggio per confermare la buona riuscita della missione affidata alla sua Famiglia. Ha allegato un fascicolo con il rapporto e tutte le informazioni del caso.» disse, lo sguardo chiaro su una cartelletta che probabilmente conteneva quanto appena citato.

«Assicura che non ci sono stati problemi di alcun genere.» aggiunse ancor prima che Tsuna potesse chiedere. Il castano si lasciò sfuggire un sorriso sollevato.

«Manda un messaggio in risposta a Dino-san ringraziandolo per l'aiuto, per favore.» fece eco a quella prima comunicazione – a Gokudera veniva sempre da sorridere quando, come in quell'occasione, il Decimo sembrava ancora incapace di dare un ordine, ma solo in grado di chiedere “per favore”. E non lo faceva solo con i suoi Guardiani, poi, ma con tutti i suoi subordinati.

«Lo farò subito.» assicurò Gokudera, posando una parte dei fascicoli – quelli riguardanti la missione di Dino – sulla scrivania.

«I Varia hanno inviato una specie di rapporto. Lascia a desiderare» sottolineò con una nota di stizza tipica di lui e della sua pignoleria riguardo una qualsiasi documentazione ormai «ma si è capito almeno che Chrome procede bene. Ha ormai recuperato del tutto.» assicurò incoraggiante, osservando il Decimo.

Tsuna ne fu enormemente sollevato: dall'effettiva successione al Nono e ai suoi Guardiani avevano dovuto aspettare che tutti gli aspetti burocratici e di maggiore importanza venissero confermati e ben organizzati prima di potersi occupare di alcune “questioni interne”.

Fra queste, vi era stata la ferma volontà di Tsuna di sistemare la situazione in cui versavano i suoi due Guardiani della Nebbia. Incoraggiato dall'aver visto, nel futuro, la possibilità di liberare il corpo di Mukuro dalla prigionia di Vindice, aveva insistito per far sì che essa si concretizzasse.

Aveva richiesto tempo, e Tsuna non aveva mai voluto sapere in che modo Reborn avesse strappato a Mammon la promessa di occuparsi di Chrome, affinché la ragazza potesse essere definitivamente in grado di provvedere da sola all'illusione che manteneva il suo corpo in salute. Nonostante questo, però, la parte veramente difficile era stata trattare proprio con la prigione: non avevano certo accettato di buon grado di liberare quel che era considerato un pericoloso criminale.

Al contrario, ci era voluto ben un anno e mezzo per ottenere la liberazione di Mukuro.

E più volte Gokudera e gli altri avevano chiesto a Tsuna come, alla fine, avesse ottenuto il consenso da Vindice; il castano aveva sempre sorriso, accennato ad uno “scambio di favori”, ma non aveva mai dato una vera risposta.

«È tutto?» domandò il Decimo, lo sguardo ancora sul Guardiano della Tempesta. Questi scosse appena la testa, mascherano la sfumatura di preoccupazione nello sguardo prima che l'altro potesse notarla.

«Reborn-san vuole che finiti i documenti lo raggiunga nel suo ufficio. Ha detto che... Mukuro ha ripreso conoscenza.» concluse.

 

 

«Ribadisco che io non sono un medico, Reborn.» ribatté infastidito, fissando di sottecchi il tutor che camminava al suo fianco e che sembrava del tutto intenzionato ad ignorarlo. Tsuna sbuffò, scuotendo la testa rassegnato: non capiva secondo quale logica dovesse essere lui ad occuparsi della riabilitazione di Rokudo Mukuro.

«Non ti sto parlando di riabilitazione fisio-muscolare, stupido allievo.» sottolineò gelido l'Arcobaleno: «Ma non sei stato tu a voler tirare fuori Mukuro da Vindice? E non eri sempre tu quello che diceva che “si sarebbe pienamente assunto la responsabilità dell'intera questione”?» gli fece notare, non senza un certo sarcasmo nel tono di voce.

Il castano sospirò, continuando ad avanzare, lo sguardo di fronte a sé: «Mi pare di averlo fatto.» rimbeccò stancamente. Reborn non aveva bisogno di chiedere a cosa si riferisse. Era l'unico a conoscenza di quale fosse stato il famoso favore in cambio del quale aveva ottenuto la libertà del Guardiano della Nebbia.

«...Non aspettarti che ti ringrazi.» gli fece notare il killer.

«Non ho intenzione di dirgli niente più di quanto io abbia rivelato agli altri.» chiarì Tsuna, concedendosi uno sbuffo divertito quasi: «E Mukuro non è proprio tipo da ringraziare, comunque.» aggiunse.

«Forse tenterà di ucciderti?» buttò lì ironico Reborn.

«Credo che abbia ancora bisogno di me per il suo progetto di distruzione della mafia.» osservò in modo falsamente casuale, con quel leggero nervosismo che aveva sempre caratterizzato il suo tono in caso di disagio per qualcosa.

Si fermarono entrambi a pochi passi dalla stanza del Guardiano.

«Probabilmente ti tradirà.» concluse Reborn passando oltre, diretto altrove.

«Potrebbe.» replicò Tsuna: «Ma spero di no. Sarebbe la prima volta in cui approfitterei di essere il Boss dei Vongola, temo.»

Reborn si fermò, voltandosi ad osservarlo da sopra la propria spalla, lo sguardo indecifrabile.

«D'altra parte» riprese il castano, ricambiando l'occhiata «se non fosse un ordine, tu non risparmieresti la vita ad un traditore.»

«Mpf. ImbranaTsuna.» fu la risposta seccata prima di dargli nuovamente le spalle.

«A dopo.» disse bussando alla porta, per poi aprire e varcarne la soglia.

 

Non era la prima volta che vedeva Mukuro steso su un letto, dal momento che era andato regolarmente ad informarsi del suo stato da quando era arrivato lì da Vindice; praticamente ogni giorno era passato almeno qualche minuto per parlare con la squadra medica che se ne stava occupando.

Per questo suppose che il disagio provato nello stesso istante in cui si era richiuso la porta alle spalle fosse dovuto al fatto che, diversamente dalle altre visite, ora Rokudo Mukuro era sveglio e cosciente della sua presenza lì.

Abbozzò comunque un sorriso gentile a mo' di saluto, al quale l'altro rispose con uno sbuffo leggero, voltando la testa e portando apparentemente lo sguardo verso la finestra.

Aspettandoselo, Tsuna si limitò a portare vicino al letto del Guardiano la sedia lasciata normalmente in un angolo e a prendervi posto.

Tsuna si chiese perché; la stanza era per lo più nella penombra, illuminata fiocamente quanto necessario affinché non si brancolasse totalmente nel buio. La finestra era chiusa – erano pur sempre in inverno -  e lo stesso le persiane.

Il motivo era scontato: dopo la lunga prigionia, il corpo di Mukuro non doveva solo riabituarsi ai movimenti, ma anche a cose meno evidenti esteriormente, ugualmente importanti.

Come la vista – gli occhi erano estremamente sensibili alla luce diurna e a quella artificiale se troppo forte – o i cibi. La sua alimentazione era stata opportunamente studiata, in modo da somministrare per i primi tempi cibi semplici e quindi facilmente assimilabili.

Per questo, considerando che non c'era un “esterno” da vedere oltre il vetro, Tsuna si chiese a che pro voltare lo sguardo in quella direzione.

… a parte per ignorare sfrontatamente la sua presenza, certo.

Sospirò. In presenza di Mukuro era sempre tutto molto complicato, non importava quanti anni passavano o se lui – Tsuna – fosse un boss mafioso o un normalissimo studente delle medie. C'erano sempre la stessa tensione, la stessa sensazione di disagio e l'impressione che in fondo la presenza dell'illusionista non fosse del tutto pericolosa – ma su quest'ultimo punto aveva avuto seri dubbi sul corretto funzionamento del proprio istinto di sopravvivenza.

C'erano sempre, sempre tanti sentimenti confusi: l'insicurezza, l'inadeguatezza; quel qualcosa di quando fingi di notare altro, mentendo spudoratamente a te stesso.

E, infine, un'inspiegabile nostalgia.

Forse, si era detto, era perché provare le stesse cose anche a distanza di anni dava la strana – e irreale – sensazione che il tempo non passasse mai.

Che restasse immobile, sempre fermo al medesimo istante; quello in cui c'erano parole troppo grandi per loro a riempire l'aria, e sentimenti troppo crudeli nel cuore di Mukuro e troppo codardi nel suo.

«...Bentornato.» pronunciò forse stupidamente.

A Mukuro sfuggì uno sbuffo divertito appena udibile, al quale Tsuna alzò lo sguardo stupito. Era stato davvero così buffo?

«Ah, come stai? Hai dolore da qualche parte?» domandò osservandolo. Mukuro voltò nuovamente il viso in sua direzione, senza poterlo realmente guardare data la benda che ne copriva gli occhi, senza rispondere.

Tsuna non capì subito, e assunse un'espressione contrariata – che tuttavia sembrava più un broncio che non uno sguardo propriamente arrabbiato: «Non ci sarebbe nulla di male a sentire dolore. Lo ha detto anche la squadra medica.» sottolineò, iniziando a nutrire il dubbio che fosse per quello che Reborn voleva  che si occupasse della “riabilitazione”. Perché nessun altro aveva altrettanta pazienza con i probabili picchi di infantilismo di Rokudo Mukuro.

Tuttavia, toccò a quest'ultimo sospirare a quella specie di insinuazione; allungò lentamente un braccio fino a sfiorare la mano di Tsuna per guidarla un po' a fatica verso di sé.

Posandola su un punto imprecisato del torace, ne avvertì il battito.

«...giusto. La voce impiegherà un po', mh?» mormorò Tsuna, sentendosi un po' sciocco a non averci pensato prima. Era ovvio, dopo anni nelle condizioni in cui era stato l'altro, proprio come per tutto il resto del corpo. Doveva abituarsi di nuovo.

«Comunque ti ho chiesto se hai dolore» riprese testardo, sciogliendosi poi in un sorriso spontaneo: «che sei vivo, riesco a vederlo.»

 

 

«Se soltanto ricordassi la mia, potrei giurare che sei più apprensivo di una madre, Sawada Tsunayoshi.»

Tsuna dovette ammettere con se stesso che il pensiero di aver preferito il Mukuro impossibilitato a parlare lo aveva sfiorato già più di una volta. Era passato del tempo da quando aveva lentamente ripreso a parlare, a muoversi – non ancora fluidamente o senza sforzi, ma migliorava giorno per giorno. Anche se la vista ora gli permetteva di poter tenere tranquillamente le persiane aperte, o la luce accesa.

«Evidentemente ti ricordo una madre perché qualcuno deve essere tenuto d'occhio alla stregua di un bambino.» rimbeccò.

«Oya, oya, siamo diventati anche abbastanza coraggiosi da rispondere senza tremare come foglie.» ironizzò bastardamente.

Tsuna sospirò rassegnato, dicendosi che non doveva dargli corda più di così: Mukuro era già capace di prenderlo vergognosamente in giro senza che lui gli servisse certe battute su un piatto d'argento.

Si alzò dalla sedia che ormai occupava regolarmente ad ogni visita, muovendo qualche passo verso la porta: «Ad ogni modo sono serio. Smettila di far impazzire la squadra medica sparendo di continuo. Se ti sentissi male nessuno saprebbe dove trovarti.» ripeté per l'ennesima volta. Recentemente erano infatti arrivate diverse lamentele riguardo quel fare di testa propria che Mukuro stava sfoggiando: spariva senza preavviso, andandosene in giro per la magione dei Vongola senza avvisare e riappariva a propria discrezione, quando più lo aggradava.

«Sei carino a preoccuparti per chi attenta al tuo corpo, Tsunayoshi-kun.» ironizzò nuovamente l'illusionista, rivolgendogli un'espressione degna di una faccia da schiaffi in piena regola, alla quale Tsuna diede le spalle uscendo dalla stanza con un: «Mi preoccupo della squadra medica, non di te!» davvero poco credibile.

Mukuro incurvò le labbra in un sorriso tipico di chi ha avuto esattamente la risposta e la reazione che si aspettava dall'altro.

Sawada Tsunayoshi era una di quelle persone che mutava continuamente e, al tempo stesso, non cambiava mai, non del tutto. Ai suoi occhi era ancora il ragazzino ingenuo che lo aveva accolto come un compagno nonostante le sue intenzioni – tutt'altro che amichevoli – fossero state ben chiare fin da subito.

Era di quelli che una volta che iniziavano a credere in qualcosa o qualcuno poi non smettevano più di farlo, anche se continuare li logorava dentro.

Era uno di quei tipi rari, che nel mondo ne incontravi pochi; figurarsi nel mondo della mafia, poi: restava in piedi chissà come. Restava in vita chissà come. Era forte, questo non si poteva negare – non dopo i Varia, e Byakuran, e tutti gli altri scontri di cui una volta era stato anche antagonista – ma per ironia della sorte, quella forza lo rendeva ai suoi occhi fin troppo fragile.

Di quella fragilità che per lui, Mukuro, era quasi subdola: faceva venir voglia di proteggerlo, e l'attimo dopo desiderava lui stesso di schiacciarlo completamente.

Il loro rapporto non si era mai basato – almeno da parte sua – su qualcosa di diverso da quella costante dicotomia.

Proteggerlo, ma ferirlo.

Possederlo, ma allontanarlo da sé.

Rispetto e derisione al tempo stesso.

Irritazione al solo guardarlo – insieme di tutto ciò che odiava: la mafia, i buonisti e gli sciocchi che credevano in un mondo buono e gentile, e nella perpetua “seconda possibilità” da concedere.

Eppure, non riuscire a distogliere lo sguardo da lui.

Odiava quell'indecisione, e odiava Tsunayoshi che ne era la causa; mal sopportava quella sensazione di debolezza che scaturiva dal vacillare riguardo i propri obiettivi; aveva la sensazione a volte, mentre lo guardava e lo ascoltava, che se non avesse fatto attenzione o non fosse rimasto sulla difensiva avrebbe potuto anche pensare di lasciare da parte la vendetta... almeno per un po'.

Ma non era stupido, Mukuro: “per un po'” si sarebbe certamente trasformato in “ancora un po'” fino a diventare – anche inconsapevolmente – un “per sempre”.

Lui, di “per sempre”, non ne voleva; nemmeno ci credeva per la verità.

Tutto, presto o tardi, spariva: tutte le persone che aveva ucciso, il dolore di un occhio rivelatosi più utile del previsto, il pensiero di un luogo a cui appartenere, la delusione di chi ti tradisce.

L'affetto per qualcuno, le debolezze, o la vita.

Alla fine non c'era nulla che durasse “per sempre”.

 

 

Si mosse verso la stanza dell'illusionista, una mano portata alla bocca per coprire uno sbadiglio, l'aria stanca. Nell'ultima settimana e mezzo non aveva avuto tregua tra missioni – ad una delle quali aveva anche dovuto prendere parte personalmente – documenti e incontri con Famiglie alleate. Si era naturalmente tenuto informato sulle condizioni dell'altro, quello sì, ma non aveva avuto modo di verificare personalmente.

Quando fu nei pressi della porta la vide aprirsi, ed istintivamente si fermò nel corridoio: quando riconobbe Hibari Kyouya uscire dalla stanza del Guardiano della Nebbia, per un attimo temette davvero che il troppo lavoro gli stesse causando una qualche allucinazione. Era vero che aveva chiesto a Gokudera di tenerlo informato sulle condizioni di Mukuro tramite gli altri Guardiani, ma non si sarebbe mai sognato di chiederlo ad Hibari. Certo, i due avevano – dopo anni – raggiunto livelli civili nel loro (minimo) rapporto: ma da lì al farsi visita l'un l'altro sperando che non tentassero di uccidersi a vicenda facendolo passare per un incidente...

Il Guardiano della Nuvola si voltò in sua direzione, ma non disse nulla, limitandosi a passargli affianco; fu Tsuna a rivolgersi a lui: «Hibari-san!» lo richiamò – certe cose non cambiavano proprio mai – aspettando che l'altro almeno si fermasse dando segno di essere in ascolto.

«Grazie per essere passato da Mukuro.» pronunciò, lasciando ad intendere che capiva perfettamente lo sforzo che doveva aver fatto.

Kyouya tuttavia si voltò appena verso di lui, un sorrisetto sarcastico ad incurvargli le labbra, l'espressione eloquente: «Non farti strane idee, Sawada. Non sono certo andato ad augurargli una pronta guarigione.» disse, riprendendo poi a camminare.

Tsuna sospirò rassegnato, un sorriso spontaneo a quell'uscita così tipica del Guardiano. Decise di non indugiare oltre, coprendo la poca distanza rimasta fra lui e la porta e bussandovi; anche se, come ogni volta, non ricevette risposta.

Aprì comunque, varcando la soglia della stanza e lasciando che l'uscio si richiudesse alle proprie spalle. Quando portò lo sguardo verso il punto in cui normalmente stava Mukuro, al letto, rimase a bocca aperta: fuori dalla finestra si stagliava un paesaggio a lui tanto familiare quanto pressoché sconosciuto per l'Italia.

Diversi alberi di ciliegio, completamente in fiore, offrivano uno spettacolo quasi nostalgico che per un attimo portò Tsuna a tacere, affascinato da quella vista. Ne fu così preso che non si accorse subito di Mukuro che aveva invece spostato lo sguardo verso di lui.

Tsunayoshi si sentì scioccamente emozionato come un bambino; in realtà in Italia c'era qualche albero di ciliegio, ma per un giapponese non era probabilmente paragonabile al sakura vero e proprio, sotto il quale ci si riuniva con la famiglia e che, sfiorendo, creava un tappeto di petali. C'erano troppe cose diverse, nonostante i fiori e gli alberi potessero – di fondo – essere gli stessi.

Si riscosse da quel momento di torpore, accorgendosi finalmente dello sguardo di Mukuro su di sé: sembrava guardare qualcosa di più nascosto della semplice figura del castano, come se stesse scrutando un'illusione per individuarne il punto debole, quello di rottura.

Si sentì fin troppo scoperto.

«Ehm... i fiori fuori sono un'illusione, giusto?» domandò, anche se non serviva davvero la conferma dell'altro.

«Mi sembra scontato. Dopotutto non è questo il periodo di fioritura.» fece eco. Tsuna annuì, riportando lo sguardo fuori dopo aver preso posto sulla sedia nella stanza; gli venne da sorridere, quasi affettuosamente.

«Ho visto Hibari-san uscire poco fa.» commentò per rompere il silenzio che, altrimenti, si sarebbe sicuramente venuto a creare. Mukuro sbuffò leggermente: «Già. L'esempio di una visita inaspettata e poco gradita.» replicò. Aveva il tono di chi è particolarmente seccato da qualcosa e si sforza – senza risultati completamente soddisfacenti – di non darlo a vedere.

Tsuna si strinse appena nelle spalle: d'altra parte quella mal sopportazione c'era sempre stata, e non c'era nulla che si potesse dire per far cambiare idea a uno dei due. Il castano, quindi, non ci provò nemmeno.

Si soffermò per un attimo a pensare che forse l'illusione di quei ciliegi era stata una provocazione di Mukuro per Hibari; o forse – pensò in un secondo momento – erano semplicemente dei fiori con un significato particolare che l'altro desiderava rivedere.

Se c'era un Guardiano di cui sapeva davvero poco, oltre Hibari, era Mukuro: non aveva mai voluto indagare oltre quello che già sapeva né, d'altronde, aveva mai avuto occasione di farlo.

Si alzò dalla sedia, aggirando il letto e raggiungendo la finestra. Poggiò la spalla al muro, le braccia morbidamente incrociate al petto e lo sguardo che ancora non abbandonava i fiori di ciliegio: «Ne, Mukuro» ne richiamò l'attenzione «ti piacciono così tanto?» chiese, riferendosi chiaramente agli alberi.

Mukuro sogghignò: «Li odio, per essere sinceri.» commentò in maniera tanto immediata da stupire Tsuna più del contenuto stesso della risposta.

D'altra parte era difficile dargli torto per quello stupore: perché mai creare l'illusione di qualcosa che si odia obbligandosi ad averla davanti agli occhi?

«Mi ricordano qualcosa che mal sopporto e che vedo ogni giorno in questo posto.» proseguì il Guardiano, senza dar tempo a Tsuna di porsi domande in merito e, soprattutto, di darvi voce.

Almeno non subito.

Perché Mukuro lo sapeva, com'era fatto Sawada Tsunayoshi – o per lo meno lo aveva imparato col tempo: quel suo masochismo che lo portava a circondarsi anche di persone che asserivano di odiarlo, o che lo rendeva insopportabilmente testardo.

«...Ti ricordano qualcosa di doloroso?»

Odiava la perenne sensazione, che l'altro gli dava, di essere compatito.

Ma non solo: ogni volta che si era ritrovato ad una compagnia più o meno forzata con il Decimo dei Vongola c'era sempre, sempre quella nauseante sensazione... di essere accettato incondizionatamente.

Lo faceva sentire male.

«Kufufu... cos'è questo? Il momento in cui, da bravi amici di vecchia data, ci confidiamo su quello che ci turba? Cosa ti aspetti da me, Sawada Tsunayoshi-kun?» chiese derisorio, gli occhi dissimili fissi sulla figura dell'altro.

Tsuna aggrottò un sopracciglio, inizialmente confuso: non aveva preso quel discorso per andare a parare da qualche parte, in realtà. Gli era semplicemente scivolata quella domanda fra le labbra, senza pensarci troppo; certo, Mukuro non era tipo da confidenze e per lui – Tsuna – era ancora ben difficile dire di capire cosa gli passasse per la testa.

«Non mi aspetto nulla.» replicò quindi, accigliandosi però: «Vorrei capire cosa tu ti aspetti da me. Dopo anni non riesco ancora a capire come dovrei parlarti per non scatenare reazioni di questo tipo.» sottolineò, più audace di quanto non fosse mai stato con lui. Suscitò in Mukuro un'espressione indecifrabile, e il silenzio incalzante come unica risposta.

«Voglio dire» riprese, ma già il tono e la gestualità – il broncio leggero, lo sguardo sfuggente – suggerivano una sua ritirata: «ogni volta sembra che tu la prenda come un'accusa. Una domanda può anche significare... che ci si sta preoccupando per te.» concluse, ripristinando solo in quel momento il contatto visivo.

«Che tu sia incline a preoccuparti delle persone sbagliate è una prerogativa per la quale sei ben conosciuto, Tsunayoshi-kun.» rispose l'altro nell'immediato come se, leggendo un copione, non avesse nemmeno bisogno di pensare a cosa dire.

«Sei molto, molto più egoista di quanto tutti credano, però.» mormorò sibillino, quasi scrutandolo; non faticò, quindi, ad intravedere il lampo di incertezza che attraversò lo sguardo del castano.

«Perché sei qui, Tsunayoshi-kun?» proseguì quindi: «Perché continui a venire in questa stanza in cui non ci scambiamo che poche frasi di scarsa importanza? Arrivi ad intervalli di giorni più o meno regolari, salvo particolari eccezioni, solo per far visita ad un sottoposto che non ti ha nemmeno mai giurato fedeltà. Piuttosto il contrario, anzi.» fece notare per quella che, ormai, era l'ennesima volta.

Tsuna sospirò stanco ma – apparentemente – più rilassato: come se avesse temuto qualcosa, ma la situazione si fosse rivelata molto diversa da quel che lo aveva preoccupato.

«Non importa quante volte tu dica che intendi tradirmi.» gli fece presente, lo sguardo che riacquistava sicurezza: «Finora non ci hai mai traditi, al contrario ci hai anche aiutati. Forse controvoglia, magari per cause di forza maggiore, ma hai combattuto al nostro fianco. Non ti considererò un traditore o ti tratterò come tale solo perché sei convinto che un giorno lo sarai. Stai scommettendo su una possibilità, ed io... sto facendo lo stesso. Non mi sembra di essere sleale o egoista, non più di te.» concluse.

La reazione evidente, questa volta, fu quella sul viso di Mukuro: lo sguardo si indurì e si incupì, sebbene solo per una manciata di secondi.

«Sei a posto con la tua coscienza, ora?» ironizzò, cogliendolo di sorpresa con quella domanda a giudicare dall'occhiata che gli rivolse il castano.

«Hai un'indole talmente buonista che non fatico a credere tu abbia bisogno di sentirti perdonato, in un mondo come questo. Ma volere al tuo fianco persone che della realtà che temevi sono quasi l'emblema, non sarà quello ad aiutarti. O veramente questo gioco di una Famiglia i cui membri si proteggono a vicenda mossi da profondo affetto ti ha illuso che fosse davvero così? Per favore, Tsunayoshi-kun, non deludermi in maniera così brutale.» lo incalzò con sarcasmo.

Tsuna si morse il labbro inferiore: quella era esattamente la piega che sperava una discussione con Mukuro non prendesse mai.

Ma Reborn lo aveva in un certo senso messo in guardia, e lui non si sarebbe lasciato sconfiggere così facilmente. Colmò la distanza fra sé e l'altro: posò una mano contro la testiera del letto, in modo da essere vicino e ben udibile.

«Io non ti considero della Famiglia perché la prendo come un gioco o perché sono così buono, come dici tu, da provare compassione per te. Soprattutto,» sottolineò «non lo faccio di certo per ripulirmi la coscienza.» concluse, una sfumatura di quella che – incredibilmente – somigliava ad irritazione.

Ripulirsi la coscienza? Figurarsi.

...come se fosse possibile ormai.

Quello che incontrò non fu né uno sguardo sorpreso, né confuso; una derisione diversa dalla solita che ironicamente gli rivolgeva – più crudele, più disperata – trasfigurava ora il viso del Guardiano in un'espressione... quasi malata. Come se stesse fisicamente per sentirsi male, spossato da qualcosa che però era solo nella sua testa.

Tsunayoshi era così preso a cercare di capire quasi febbrilmente di cosa si trattasse, che non ebbe la prontezza di scostare il gesto della mano di Mukuro che lo avvicinò tanto da arrivare a posare le labbra sulle sue. La mano sulla sua nuca esercitava una pressione sufficiente ad impedirgli di allontanarsi subito, se Tsuna ci avesse provato.

Ma il contatto fu così breve – labbra morbide contro le proprie e, nel ritrarsi, uno sfiorare fugacemente quelle stesse labbra con la lingua – che non ebbe neanche il tempo di pensare di farlo.

Tuttavia, Mukuro non ripristinò la distanza che c'era prima di quel bacio, né la aumentò. Rimase vicino, come se dovesse accertarsi di non essere udito da altri che da lui.

«Io odio questo tuo modo di fare.» esordì: «Odio che tu possa cambiare così radicalmente. Odio il modo in cui risvegli il mio interesse ogni volta, o il modo in cui ti avvicini a me, incurante di tutto, come se io fossi innocuo, come se non fossi abbastanza da costituire una minaccia.» soffiò, direttamente sulle sue labbra in pratica.

Tsuna non riuscì a muoversi da quella posizione che di certo non aiutava, né a rispondergli; nonostante, nella sua mente, le parole quasi si accavallassero tra di loro.

«Io detesto quelli come te. Detesto il modo in cui tutti finiscono per rimanere affascinati da quel qualcosa che nemmeno loro capiscono e che tu non sei nemmeno consapevole di possedere. Rappresenti tutto ciò che odio e il desiderio di schiacciarti con le mie mani è quasi pressante... ma alla fine, per colpa tua, c'è sempre qualcosa che me lo impedisce.» sibilò, una nota di rabbia, di fastidio nel tono di voce tenuto volutamente basso.

L'espressione, lo sguardo finora rimasto di puro sarcasmo, mutò.

Tutto quel “detestare” di cui l'altro continuava a parlare sembrò insinuarsi sibillino dentro di lui, estendendosi non solo agli occhi, ma anche al tono di voce con cui parlò o alla mano che – stringendo il braccio di Tsuna ora – sembrava volerlo trattenere.

«Odio il modo in cui porti a galla questo... desiderio malato, che oscilla tra un'ossessione e il malsano ed ingiustificato volerti proteggere al tempo stesso.» rivelò, quasi frustrato.

«Ma più di qualsiasi altra cosa» sembrò giungere ad una conclusione: «detesto quel cielo che simbolicamente dovrebbe rappresentarti in questa idiozia degli anelli. Quella vastità accoglie chiunque, indistintamente. Lo accoglie, e gli dà la libertà abbracciandolo con lo stesso fare rassicurante che potrebbe avere una madre, o la cosiddetta persona amata.» disse, ma era chiaro che non fosse affatto un elogio, quello.

E fu ancora più ovvio quando la presa sul suo braccio si allentò, fino a lasciarlo per poi allontanarlo bruscamente, in un chiaro invito ad andarsene.

«Non c'è nulla di rassicurante. Mi soffoca, mi dà la nausea. Questo posto mi soffoca, la tua tanto amata famiglia e tutto ciò che ha a che fare con te mi dà la nausea al punto da renderti così detestabile per me.»

 

 

«Kyouya-kun che mi fa visita? Quanto mai raro.»

«Non chiamarmi per nome, mi viene da vomitare.»

Monotonia di offese pronunciate quasi per prassi.

«Venti.»

E cosa mai avrebbe dovuto significare, quel numero?

«I criminali uccisi da Sawada per conto dei Vindice.

Per tirarti fuori da lì.»

 

Lui odiava i fiori di ciliegio.

Erano fiori che, nonostante tutto, ogni anno fiorivano: nello stesso periodo, rispondendo ogni volta a delle tacite aspettative, sbocciavano nel pieno splendore senza aspettarsi ringraziamenti né nulla del genere.

E non potevi fare altro che osservarlo, finché non appassivano.

Finché non morivano.

Quei fiori così forti, e tanto fragili da vivere per un periodo brevissimo.

A cui bastava un niente – una folata di vento più forte di altre – per essere spezzati e cadere dal ramo di un albero fino a toccare il fondo, cadendo a terra; distrattamente calpestati dai passanti troppo di fretta per curarsi di fiori che giacevano ormai alle radici di un albero.

Erano fiori così delicati da non poter essere quasi sfiorati senza essere danneggiati.

 

«Se vuoi fare qualcosa per me, Sawada Tsunayoshi...

stammi lontano.»

 

Men che meno da uno come lui.

 

 

Ringraziamenti

A chi ha seguito la raccolta, e in special modo a chi l’ha commentata: Eiko, Alex, Gioielle, Yoko891,souseiseki e kaori_taishi <3

E a nacchan e acchan, che si sorbiscono la creazione in diretta con tanto di mie imprecazioni sul genere di: “Mukuro perché sei così complicato da muovere?!” :**

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